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LINEE GUIDA PER LA VALUTAZIONE DEL DANNO ALLA PERSONA IN AMBITO CIVILISTICO
LINEE GUIDA
PER LA VALUTAZIONE
DEL DANNO
ALLA PERSONA
IN AMBITO CIVILISTICO
ISBN 978-88-14-21210-9
E 00,00
024193653 9 788814 212109
CURATORI
FABIO BUZZI RANIERI DOMENICI
COMITATO EDITORIALE
GIORGIO BOLINO PIERGIORGIO FEDELI LUIGI PAPI
SEGRETERIA SCIENTIFICA
GLORIA LUIGIA CASTELLANI
SENIOR CONSULTANTS
LUIGI PALMIERI GIANCARLO UMANI RONCHI
LINEE GUIDA
PER LA VALUTAZIONE
DEL DANNO
ALLA PERSONA
IN AMBITO CIVILISTICO
ISBN 9788814212109
PARTE GENERALE
PARTE SISTEMATICA
CAPITOLO 18 - NEOPLASIE
18.1. Premessa ...............................................................................................619
18.2. Metodologia valutativa .............................................................................619
APPENDICE
Tabella riepilogativa dei valori percentuali .............................................................633
Indice analitico ....................................................................................................679
GLI AUTORI
Prende la luce un’opera attesa, da quando nel Congresso nazionale della SIMLA che
si tenne a Riccione nel 2001 l’assemblea dei partecipanti formulò una complessa e nitida
definizione del danno biologico, nuovo genus di danno alla persona considerata nella sua
più ampia dimensione di socialità non più compressa nei soli aspetti di rendimento
lavorativo, e si impegnò ad elaborare un suo proprio strumento tabellare per
correttamente valutarlo, in coerenza con il suo ruolo istituzionale di promozione e tutela
della cultura medico legale a livello scientifico, legislativo, socio-sanitario e
professionale.
Erano gli anni di grande fervore concettuale (ed in parte ancora lo sono) per una
compiuta definizione della dottrina del danno biologico, che sul versante medico-legale
deve la sua paternità alla felice intuizione del Gerin ed in seguito si è arricchito di
contributi assai numerosi e qualificati, ma non sempre consonanti, di cultori del diritto e
di medicina legale.
In tale contesto, come ricordato da Buzzi, Domenici e Palmieri in queste prime
pagine, Marino Bargagna (cui va il mio personale grato ricordo) coordinò un ampio
gruppo di medici legali, non solo della sua scuola pisana, nella produzione, sotto l’egida
della Società, di una prima “Guida orientativa”, che fu poi rivista, ampliata ed affinata in
due successive edizioni.
Dopo una pausa di assestamento in cui la creatrice giurisprudenza di legittimità più
volte è intervenuta per rimodellare contenuti ontologici, collocazioni giuridiche, confini e
rapporti del danno biologico (non più, infine, identificato nel danno alla salute) rispetto
ad altre forme di danno alla persona, la Società maturò l’esigenza di un sostanziale
rinnovamento della “Guida orientativa per la valutazione del danno biologico” sicché si
rimise in moto un più ampio gruppo di lavoro per la realizzazione del progetto
pervenendo alla elaborazione del nuovo strumento valutativo, in continuità di rapporto
con la precedente “Guida” ma ancor più nitidamente e per molti versi originalmente
impostato nei nuovi termini di “Linee Guida per la valutazione del danno alla persona in
ambito civilistico” per le indicazioni di comportamento valutativo contenute.
Nell’ottobre del 2015, il Consiglio Direttivo della Società, che già in precedenti
sedute aveva discusso degli aspetti editoriali dell’opera, ne approvò definitivamente la
stampa, a cura della Casa editrice Giuffrè (storicamente vicina alla SIMLA per averne sin
dal 1979 pubblicato la rivista ufficiale).
Anche per questo aspetto si è trattato di un forte salto di qualità sostanziale in quanto
la Società, attraverso il suo Consiglio direttivo, ha recepito integralmente il lavoro
compiuto e lo propone come espressione del proprio pensiero scientifico, non più
semplicemente come opera patrocinata.
Come tale sono orgoglioso di presentarlo, a nome e con soddisfazione dell’intera
Società, consapevole di offrire a quanti hanno a cuore il prestigio e la dignità della
disciplina uno strumento estremamente valido e altamente qualificato nella realizzazione
della sua mission: applicare correttamente alle esigenze del diritto argomenti e
problematiche di natura biomedica.
L’aspetto più innovativo di questo prodotto culturale è la sua strutturazione in
“Linee Guida” e non semplicemente come tabella, vale a dire uno strumento di
suggerimento prioritariamente metodologico improntato ad aggiornate conoscenze per
poter pervenire ad una stima ragionata del danno alla persona, inteso quale menomata
efficienza psico-fisica comprensiva degli aspetti dinamico-relazionali comuni a tutti,
sganciata in consistente misura da personali soggettivismi privi o carenti di adeguati
supporti scientifici.
La finale espressione percentualistica del danno permanente costituisce una
ineludibile necessità (tanto più in un’epoca in cui gran parte della comunicazione dei dati
è strutturata su algoritmi numerici), ma sui tassi di danno non supportati da idonee
considerazioni relative a contesti etiopatogenetici, clinici e terapeutici grava fatalmente
l’alea della arbitrarietà che ne pone in discussione correttezza di formulazione ed
attendibilità. Le “Linee Guida” in oggetto ridimensionano questo pericolo perché la
finale espressione percentuale scaturisce da un percorso valutativo ragionato secondo la
forza della evidenza scientifica.
Le percentuali di danno biologico possono mutare nel tempo in riferimento a
sopraggiunte acquisizioni sul significato menomativo di una condizione morbosa o dei
suoi postumi ma se vi è una soggiacente criteriologia di inquadramento diagnostico di
una malattia o di suoi esiti tale rischio, nel complesso, si riduce assumendo maggiore
affidabilità la valutazione, sicché tanto è più valido uno strumento di stima del danno
quanto più consistente è il nucleo di considerazioni scientifiche che ha portato alle
specifiche espressioni percentuali.
La strutturazione delle “Linee Guida” è impostata per funzioni, sia per evitare
l’equivoco che la medicina legale valuti soltanto il danno biologico statico, sia per
conferire il dovuto risalto agli aspetti dinamico-relazionali, propri della definizione
normativa, oltre che dottrinale, di questo.
Vi compaiono interi capitoli di carattere metodologico generale ed altri dedicati a
nocumenti alla persona non percentualizzabili, ma comunque di attuale rilievo, specie per
la valutazione del danno iatrogeno.
La necessità di dar risalto agli aspetti dinamico-relazionali ha reso indispensabile
l’introduzione di modifiche ad alcuni tassi percentuali non più attuali (ad esempio, per i
danni di natura estetica, sensoriale, sessuale e riproduttiva), mentre altri parametri
vengono mantenuti identici o molto vicini a quelli tradizionalmente utilizzati,
segnatamente per quanto riguarda le c.d. piccole invalidità permanenti.
Alla medesima necessità va riferito l’inserimento di nuove indicazioni, ad esempio
per quanto riguarda le condizioni dolorose, i disturbi del sonno, la quantificazione del
danno nell’età evolutiva e in quella avanzata.
Va peraltro sgombrato il campo da un possibile equivoco: le “Linee Guida” non
intendono esprimere valori di danno biologico alternativi o sostitutivi di quelli già
indicati in tabelle il cui impiego, con attinenza al danno biologico, è previsto per legge
(ci si riferisce in particolare alla “tabella delle menomazioni” di cui al D.M. del 12 luglio
2000 e alla “tabella delle menomazioni alla integrità psicofisica comprese tra 1 e 9 punti
di invalidità” di cui al D.M. del 3 luglio 2003), ma si prefiggono il fine di portare la voce
ufficiale della massima assise scientifica medico-legale del nostro Paese nell’ambito del
danno alla persona, con indicazioni percentuali che possono esser impiegate, in adeguata
considerazione comparativa e proporzionale, laddove assenti in tali tabelle tenuto altresì
conto dell’ampio lasso di tempo ad oggi intercorso dalla loro emanazione che le rende
per alcuni aspetti inattuali e della circostanza più volte ricordata che il danno biologico
INAIL in quanto in qualche modo di estrazione lavorativa non è sempre del tutto
sovrapponibile a quello che occorre valutare in R.C.
Per non dire, poi, che esse possono rappresentare un valido stimolo di rinnovamento
delle suddette tabelle, che non hanno mai avuto una revisione dall’epoca della loro
emanazione, costituendo un autorevole riferimento per una loro auspicabile
riorganizzazione.
In ogni caso le odierne “Linee Guida” possono trovare adeguato impiego in quelle
occasioni valutative in cui mancano, allo stato, riferimenti anche tabellari, potendo esser
tenute presenti in via orientativa pure nella pensionistica previdenziale e in altri affini
settori valutativi del danno alla persona ove si provveda ad opportuna conversione del
danno biologico in altre forme di danno di rilievo giuridico secondo ben nota
metodologia ad hoc impiegabile.
La SIMLA le affida, dunque, agli specialisti in medicina legale e ai medici di
effettiva esperienza medico legale nella valutazione del danno alla persona
sottolineandone il carattere indicativo e di orientamento, perché siano di valido ausilio ad
un corretto giudizio valutativo finale derivante da una armonica sintesi di esperienza,
professionalità, solide conoscenze scientifiche, accuratezza metodologica, come deve
avvenire sempre in una qualificata stima del danno alla persona.
CLAUDIO BUCCELLI
INTRODUZIONE
Nel 2009 il consiglio direttivo della Società Italiana di Medicina Legale, allora
presieduto da Paolo Arbarello, condivise la proposta di molti colleghi di aggiornare
l’ormai storica guida pubblicata — sotto 1’egida della Società — da un gruppo di studio
coordinato dal compianto Marino Bargagna, costituito da Marcello Canale, Francesco
Consigliere, Giancarlo Umani Ronchi e il sottoscritto, e integrato dal giovanile apporto di
entusiasmo e efficienza di Giorgio Bolino, Piergiorgio Fedeli e Luigi Papi.
Raccogliemmo allora la proposta all’insegna del motto “una guida apre, una tabella
chiude”.
Dopo alcuni indispensabili preliminari esplorativi e programmatici, la
formalizzazione dell’impegno da parte del predetto direttivo avvenne nel febbraio 2012,
con alcune opportune variazioni tra i nominativi del gruppo, la cui composizione
definitiva figura nelle prime pagine di queste Linee Guida.
Avendo personalmente mantenuto l’onore, ma anche il sostanzioso onere, di
partecipare ai complessi e inevitabilmente lunghi lavori che hanno portato
all’elaborazione di queste Linee Guida, posso ben dire che il motto dianzi citato ha
trovato in esse concreta attualizzazione — sia per il respiro metodologico sia per
l’ampiezza delle voci censite, la cui dimensione percentualistica rappresenta il distillato
finale, non la sostanza, di un inquadramento criteriologico generale e diagnostico-clinico
senza i quali la quantificazione del danno alla persona non può avere, allo stato attuale,
alcuna fondatezza scientifica.
Consentitemi innanzitutto, da decano del gruppo, un doveroso ringraziamento a tutti
coloro che si sono impegnati nella stesura di questa innovativa opera: dai coordinatori ai
tanti giovani colleghi desiderosi di apportare quel contributo di entusiasmo che è proprio
della nuova generazione. È la loro fattiva presenza che mi riporta con la memoria ai
lontani anni ‘60, tempo in cui mi avvalevo delle francesi guide-barème: guide che
onoravano, sostantivandone il cognome, il matematico francese François Barrême (nato a
Lione nel 1638 e morto a Parigi nel 1703) — autore di scritti e calcoli matematici raccolti
sotto il titolo di “Les Comptes faits”, in cui trovavano spazio tavole che valutavano il danno
economico conseguente “la perdita delle diverse parti del corpo degli operai”. In altri
termini, per effetto di quelle che noi oggi definiamo menomazioni.
Ai lavori odierni ho partecipato con lo stesso entusiasmo che animava il primigenio
gruppo riunitosi intorno a Marino Bargagna, nel segno di una continuità sempre
contraddistinta da pulsioni innovative e del piacere di vedere ancora in campo Giancarlo
Umani Ronchi e i tre colleghi — allora giovanissimi, ma ancor’oggi giovani — Giorgio
Bolino, Piergiorgio Fedeli e Luigi Papi, che hanno trasfuso in queste Linee Guida le
precedenti, analoghe esperienze redazionali (maturate dai primi due anche col sottoscritto
all’epoca della guida valutativa pubblicata da Giuffrè nel 2006).
I1 merito di aver mantenuto viva 1’attenzione della SIMLA su questa impresa va
sicuramente a Fabio Buzzi e Ranieri Domenici, i quali — secondo diversi, ma sempre
ben integrati approcci operativi — si sono tenacemente adoperati per superare le iniziali
non poche difficoltà incontrate (anche da parte mia) nella preliminare opera di
reclutamento dei partecipanti al gruppo di lavoro e nel coordinamento dei contributi
conferiti dai numerosi colleghi — medici legali e clinici — che hanno consentito la
realizzazione di questa impresa.
Nel corso dei lavori (svoltisi attraverso numerosissime riunioni collegiali tenute in
tutta Italia), ho provato enorme soddisfazione nel constatare l’elevata partecipazione
operativa di colleghi giovani e non più giovani provenienti da numerose scuole medico-
legali — presupposto che ha consentito di dare all’impresa una dimensione
concretamente nazionale e largamente condivisa anche al di fuori dell’ambiente
strettamente universitario.
Un entusiasmante esempio di questa fattiva partecipazione ho potuto personalmente
constatarlo in occasione del recente congresso del GISDI-FAMLI (maggio 2015, Porto
San Giorgio, organizzato dall’Associazione Marchigiana di Medicina Legale),
nell’ambito del quale molti giovani hanno discusso con encomiabile competenza diversi
argomenti che compaiono in queste Linee Guida, dandomi la grande soddisfazione di
presenziare numerosi alla mia conferenza sul danno alla persona nell’anziano, che ha
ispirato uno specifico capitolo delle medesime.
Anche questi aspetti conferiscono a queste Linee Guida una coralità dottrinale che
ha sicuramente accresciuto quella che già caratterizzava l’edizione di Bargagna et al., nel
cui solco le stesse si sono innestate e sviluppate, anche grazie al ragguardevole contributo
operativo ancora una volta profuso dalla scuola medico-legale pisana.
Sul piano concettuale, mi piace sottolineare che si è finalmente dato corpo a una
effettiva valutazione del danno alla persona, attraverso la costante valorizzazione degli
aspetti dinamico-relazionali del danno biologico, tali appunto da superare quella
“staticità” nella quale tempo fa (ma forse ancor oggi) alcuni, specie di estrazione
giuridica, intendevano relegare il danno biologico valutato dal medico legale. Non devo
dilungarmi a sottolineare la differenza fra queste figure: l’una espressiva del bios, l’altra
del relazionale — vale a dire dell’uomo inserito nel contesto sociale in cui vive.
Questo sviluppo rappresenta un punto d’arrivo (almeno ad oggi) di un lungo
percorso dottrinale, che ha preso le mosse dalle elementari e schematiche dimensioni
meramente percentualistiche (nate nel contesto dell’infortunistica lavorativa con la L. n.
51 del 31 gennaio 1904), poi traslate sul finire degli anni ‘20 nell’ambito delle
assicurazioni private mercé l’opera di Cazzaniga, e quindi riprese negli anni 1967-68 nel
contesto dei famosi congressi di Como e Perugia — allorché prevaleva ancora la base
valutativa della capacità lavorativa generica.
Il sistema valutativo proposto in tali contesti ha rappresento, anche grazie alla
medicina legale, la base per adeguarsi ai numerosi mutamenti giurisprudenziali oltre che
normativi e dal primo riferimento all’invalidità permanente, si giungeva a riconoscere il
danno biologico.
La geniale idea maturata dal Gerin nei primi anni ‘50, di spostare la base valutativa
sulla validità psico-fisica disgiunta da valenze lavorative e lucrative, ha impiegato tre
decenni per affermarsi nel contesto giuridico e giurisprudenziale: ciò è essenzialmente
avvenuto con la famosa sentenza della Corte Costituzionale n. 184/1986 — preceduta da
importanti avvisaglie, rappresentate non soltanto da vivaci fermenti dottrinali medico-
legali, ma anche dalle note sentenze innovative dei Tribunali di Pisa e Genova degli anni
’70 e della Corte di Cassazione del 1981.
A tal proposito, un nuovo ricordo mi riporta al 1981, anno in cui ebbe luogo a
Camerino quel congresso medico-legale sul danno biologico, da me organizzato e
ricordato da tutti non solo per essere stato il primo congresso della disciplina svoltosi
sotto una tormenta di neve, quanto per l’impulso a quelle innovazioni concettuali —
ulteriore stimolo per i giuristi a affrontare anche sul piano dottrinario, e non solo
giurisprudenziale, un diverso unitario riferimento per il risarcimento del danno.
In quella occasione venne anche istituito un gruppo di studio: quel GISDAP
(Gruppo Italiano di Studio del Danno alla Persona) che, dopo un primo periodo di intensa
attività, da qualche tempo è in sonno, ma merita di risvegliarsi.
Ai predetti fermenti avevo peraltro contribuito, già nel 1965, con una monografia
dal titolo “Del danno biologico a distanza per infortunio stradale”, edita dall’Istituto
Italiano di Medicina Sociale.
In essa, ravvisando già allora la necessità di basare il risarcimento appunto sul danno
biologico, ancorché esso fosse ancora in fase di gestazione, optai per incentrarlo sul
concetto di bios — rappresentativo del valore dell’uomo nella sua interezza somatica e
psichica; così come sottolineai l’importanza del protrarsi sine die dei riflessi peggiorativi
sulla qualità di vita del danneggiato, spostando in tal modo 1’asse valutativo sul danno
alla persona secondo un criterio che, in buona sostanza, corrisponde a quello che i giuristi
definiscono “danno conseguenza”.
I1 danno biologico ha poi avuto la meglio anche nell’ambito assicurativo sociale
dell’INAIL, con la tabellazione varata dal decreto ministeriale il 12 luglio 2000 in base al
DLgs n. 38/2000. Essa ha avuto il merito di introdurre per via normativa la prima
definizione del danno biologico conforme alle indicazioni della dottrina medico-legale
(poi recepita pressoché alla lettera anche dal T.U. delle Assicurazioni Private del 2005).
La definizione fu adottata in ambito INAIL e maturò pressoché
contemporaneamente al decalogo operativo per la valutazione del danno biologico
elaborato dalla SIMLA nel congresso nazionale di Ferrara del 2001.
Purtroppo, negli ultimi anni il comparto della RCA ha denotato preoccupanti segnali
di scollamento dal generale contesto dei presupposti concettuali e della metodologia
operativa ormai consolidatisi in ambito medico legale, in particolare attraverso misure
(L. n. 57/2001 e L. n. 27/2012) che hanno frammentato l’armoniosa continuità della scala
proporzionalistica percentuale, enucleando alcune fattispecie menomative al solo scopo
di attribuir loro esigui corrispettivi economici — in tal modo assecondando interessi
trascuranti la buona tecnica valutativa medico-legale.
È da sperare che questa tendenza a creare un comparto risarcitorio settoriale per la
RCA (estesasi successivamente anche alla responsabilità sanitaria, a seguito della L.
189/2012 — c.d. “Balduzzi”) non abbia ulteriori sviluppi mercé interventi governativi
propensi a supportare i predetti interessi.
Comunque sia, i presupposti concettuali e la metodologia operativa della medicina
legale, doverosamente promossi dalla SIMLA, non possono e non devono soggiacere a
imposizioni atecniche, quando non contrarie alla buona pratica valutativa. Queste Linee
Guida — non soltanto perché espressione della predetta società scientifica, ma
soprattutto perché frutto dei molteplici apporti medico-legali di respiro nazionale e di
contributi clinici intensamente dibattuti e giunti a unanime condivisione — rappresentano
un preciso segnale di autonomia e di neutralità culturale, che ho l’onore e la personale,
grande soddisfazione di introdurre con questo mio breve excursus storico.
Le notazioni autobiografiche non sono spinte da un desiderio autoreferenziale, ma
servono a dare la misura, concretamente vissuta, di quanti di noi hanno dedicato la vita
alla medicina legale italiana adoperandosi — in particolare negli ultimi decenni — nel
promuovere un profilo valutativo del danno alla persona continuamente aggiornato
all’evoluzione delle esigenze della society e del diritto: un profilo che, a mio giudizio,
risulta senz’altro ben riconoscibile in queste Linee Guida.
Potrei, anzi dovrei, fermarmi qui, ma ho il dovere di fare una autocritica: quella di
essere dicotomico. Ho infatti dedicato molto del mio tempo allo studio del danno
biologico e dei suoi addentellati, attivandomi e partecipando a redigere numerose guide,
ma — convinto dell’unitarietà di questo danno — scrivevo nel 1990: “le diverse
valutazioni, non solo nel ruolo, ma anche negli ambiti diversi, costituiscono il
presupposto dell’irrazionale convincimento di dovere attribuire un numero ad una realtà
biologica; irrazionalità di una entità statica in una entità non solo dinamica ma sopratutto
individuale [...]”. E spesso mi domandavo se “le tabelle servono a far divenire “perito”
chi perito non è”. L’irruenza giovanile mi spingeva a rifiutare questa irrazionalità palese,
ma la mia convinzione nichilistica veniva attutita dall’esperienza che, in un sistema
compromissorio, quale quello valutativo del danno, era comunque un limite — fino a che
non iniziarono a comparire non più “tabelle, ma guide”; di qui lo slogan “Una tabella
chiude, una guida orientativa apre”; ed ora possiamo addirittura parlare di Linee Guida ...
Consentitemi, in chiusura, una divagazione.
Per Aristotele, “i numeri esistono, certo, ma come pure e semplici astrazioni”: egli
effettua una netta distinzione fra sostanza (ciò che per esistere non ha bisogno di
null’altro all’infuori di sé) e accidente (ciò che per esistere ha bisogno di una sostanza cui
riferirsi). Così il libro, un qualunque oggetto, saranno sostanze proprio perché dotati di
esistenza autonoma; il blu o il marrone saranno accidenti perchè potranno esistere solo se
abbinati ad una sostanza”. Gli accidenti si trovano dunque ad avere un’esistenza che
potremmo definire “parassitaria”, ossia totalmente legata a una sostanza cui riferirsi, e
così Aristotele non esita a collocare i numeri tra gli accidenti: se a due libri con
caratteristiche differenti elimino via via le caratteristiche fisiche (colore, dimensioni ...)
alla fine, quando li avrò spogliati di ogni aspetto che li caratterizza — resteranno solo i
due libri, ossia i libri e il numero, ma se tolgo i libri quel due non ha più motivo di
esistere.
Diverso, per Platone, il valore dei numeri. Egli sostiene l’esistenza dei numeri
sganciata dalle sostanze: il due o il tre esistono non solo nelle cose materiali (sostanze)
che ne partecipano (due case, tre gatti...), ma come entità a sé stanti.
Certo, oggi a noi la concezione di Platone sembra molto improbabile. Ci
avvicineremmo dunque alla concezione aristotelica. Tuttavia, sorge un dubbio che
rimette in gioco la teoria platonica: e se nessuno contasse più, i numeri continuerebbero a
esistere? Con la definizione aristotelica infatti essi esistono come processo di astrazione
della mente umana e, se vi fosse un improvviso annichilimento della realtà, sembrerebbe
che, non contando più, i numeri dovrebbero sparire; ma è evidentemente un assurdo: 2 +
2 = 4 è vero anche senza che io lo pensi, e quindi pare aver ragione Platone: i numeri
hanno esistenza autonoma.
Fra Aristotele e Platone, il danno alla persona ...
LUIGI PALMIERI
PREFAZIONE
Nella seduta del Direttivo della SIMLA del 29 febbraio 2012 si decise, su impulso di
una proposta scritta fatta pervenire da diversi medici legali appartenenti alla Società, di
dar corso ad una nuova Guida per la valutazione del danno biologico, ad aggiornamento
di quella pubblicata sotto l’egida della Società (autori Marino Bargagna, Marcello
Canale, Francesco Consigliere, Luigi Palmieri e Giancarlo Umani Ronchi) la cui terza ed
ultima edizione risaliva al 2001.
L’incarico di promuovere la nuova Guida fu affidato a Luigi Palmieri e Giancarlo
Umani Ronchi, così da mantenere una continuità di impostazione concettuale con le tre
edizioni precedenti. Agli stessi fu dato mandato di contattare tutte le scuole italiane di
medicina legale, per ottenere il maggior coinvolgimento possibile della nostra disciplina.
Luigi Palmieri e Giancarlo Umani Ronchi diramarono quindi l’invito di partecipare
su scala nazionale, fornendo in questa fase preliminare anche dei suggerimenti operativi
e di suddivisione della materia, individuando i potenziali contributori.
Inoltre, Luigi Palmieri suggerì di privilegiare il lemma “danno alla persona” — che
compare nel titolo di questo testo — in luogo di “danno biologico”.
Tra il settembre e il novembre 2012, pervenuti i primi contributi da parte di alcune
scuole interessate all’iniziativa, giunse il momento di costituire un gruppo di lavoro, per
il passaggio dalla fase propositiva a quella operativa.
Sempre in base al predetto criterio furono invitati a partecipare ai lavori Ranieri
Domenici, Luigi Papi, Piergiorgio Fedeli e Giorgio Bolino, che già avevano collaborato
alle precedenti edizioni coordinate da Marino Bargagna, nonché Fabio Buzzi, come
primo sollecitatore dell’iniziativa e coautore di una Guida per la valutazione del danno
biologico di natura psichica, il cui impianto poteva armonicamente integrarsi con quello
delle Guide precedenti.
Per incentivare la collaborazione dei medici legali su scala nazionale furono quindi
organizzati due incontri-convegni, rispettivamente da Giancarlo Umani Ronchi (Roma,
febbraio 2013) e da Luigi Palmieri (Ischia, aprile 2013).
Furono anche interpellati gli istituti delle assicurazioni sociali: l’INPS aderì alla
richiesta, mettendo a disposizione alcuni dei suoi medici legali. In ultimo, ma non per
importanza, fu accolto positivamente il contributo di medici legali aderenti alla FAMLI.
Seguirono una serie di incontri operativi del gruppo di lavoro, di volta in volta
allargati ai diversi contributori, che si svolsero a Ferrara (giugno 2013), a Bologna
(ottobre 2013), a Roma (gennaio e marzo 2014), a Napoli (giugno 2014), a Pisa (luglio
2014), a Bologna (ottobre 2014 e gennaio 2015), a Pavia (febbraio 2015) e ancora a
Bologna (aprile 2015), quindi a Porto San Giorgio (maggio 2015) e infine a Firenze
(giugno 2015) e Bologna nel luglio 2015.
La bozza del testo è stata approvata in data 21 ottobre 2015 dal Direttivo della
SIMLA, in una seduta cui hanno partecipato Claudio Buccelli, Presidente, Mauro Bacci,
Mariano Cingolani, Onofrio De Lucia — Vicepresidente — Alessandro Dell’Erba,
Natale Mario Di Luca, Lucio Di Mauro, Vittorio Fineschi, Paola Frati, Francesco
Introna, Luigi Palmieri, Daniele Rodriguez, Patrizio Rossi, Roberto Salvinelli, Ascanio
Sirignano.
Il lavoro è stato portato a termine anche mercè il contributo di numerosi specialisti
(oltre 50) delle diverse branche mediche di interesse per ogni singolo capitolo: e i
nominativi di tutti i co-autori di estrazione medico-legale e clinica figurano nell’elenco
alfabetico precedentemente riportato, dopo l’organigramma del coordinamento del
gruppo di studio che ha curato l’elaborazione delle Linee Guida.
Precisiamo che queste Linee Guida si riferiscono esclusivamente al danno alla
persona di natura non patrimoniale, in ordine al quale sono stati presi in considerazione i
profili che, allo stato, caratterizzano la categoria del danno biologico. Si è anche trattato
di alcune fattispecie particolarmente attuali (il danno differenziale, il danno da ritardi
diagnostico in oncologia, il danno nell’età evolutiva e il danno nell’età avanzata, nonché
la perdita di chance e la c.d. “sofferenza morale” o altrimenti aggettivata) le quali hanno
reso sempre più complessa l’attività valutativa medico-legale.
L’impostazione concettuale generale e la metodologia dell’accertamento e della
prova del danno sono trattate nei primi quattro capitoli della Parte Generale, mente il V
ed il VI capitolo di questa parte sono dedicati alle molteplici sfaccettature della
sofferenza e alle diversificate e spesso divergenti proposte valutative affacciate al
riguardo negli ultimi anni in alcuni ambienti accademici e professionali medico-legali.
Alla parte generale, che racchiude questi primi capitoli, segue la parte sistematica,
nella quale sono catalogate le condizioni menomative che sono sembrate di maggior
interesse per la pratica valutativa attuale, che da qualche tempo si esplica non soltanto su
condizioni post-traumatiche, ma, sempre più spesso, su molte altre condizioni
patologiche, spontanee e iatrogene, specie da che il contenzioso per responsabilità
sanitaria ha assunto la dimensione ben nota al nostro settore operativo.
La catalogazione e la percentualizzazione di tali condizioni può inoltre tornare utile
anche in ambiti valutativi diversi da quelli della R.C. (es.: polizze per invalidità da
malattia, malattie non tabellate in ambito INAIL, invalidità di diverse connotazioni
socio-previdenziali, etc.), nel cui contesto la parametrazione del danno biologico può
rappresentare un utile punto di riferimento sul quale modulare, in termini — come già
detto — più o meno indicativi e non tassativi, l’entità delle condizioni menomative da
modularsi consensualmente alle declinazioni categoriali dell’ambito
giuridico/assicurativo di specifico riferimento.
Dell’impostazione della catalogazione, strutturata prevalentemente per funzioni si
dirà nel capitolo I della Parte Generale. Qui pare sufficiente ricordare soltanto che anche
l’ultima Guida dell’American Medical Association (2009) è stata prevalentemente basata sul
concetto di funzione, prendendo anche ispirazione dall’ICF, poiché le precedenti versioni
presentavano delle criticità, con correlati difetti di validità, in parte dovuti ad “inadequate
attention to functional assessment”.
Ma la scelta di valorizzare la funzione perduta non è dipesa da un’esterofilia — che
potrebbe essere del tutto fuori luogo, almeno nella misura in cui gran parte dei
presupposti valutativi americani dell’impairment non collimano con il nostro sistema
valutativo del danno biologico — bensì dalla altrimenti ben fondata esigenza di
valorizzare quelli che sono definiti gli aspetti dinamico-relazionali del danno biologico.
Nella parte generale della Guida si affronta la contrapposizione danno statico/danno
dinamico, che risale ai primordi della dottrina del danno biologico. Secondo quelli che
furono già i primitivi orientamenti pisani — ed in accordo con i precetti del Decalogo
SIMLA e con le definizioni recepite anche sul piano normativo — il danno quantificato
in queste Linee Guida include gli aspetti dinamico-relazionali comuni a tutti. Del resto,
funzione e salute sono concetti strettamente correlati: la salute implica il “funzionamento
individuale” nelle attività della vita quotidiana ed all’interno dei comuni contesti sociali.
Molti dei particolari innovativi, rispetto alle precedenti guide, hanno proprio a che
fare con il preminente interesse riposto negli aspetti disfunzionali delle menomazioni
catalogate. Così, dove è stato possibile (ad esempio nelle patologie di natura neurologica,
demenze incluse), ci si è ispirati alle scale cliniche, come base per la percentualizzazione
del danno funzionale. Ad es. si è dedicata una particolare attenzione alle turbe sensoriali:
in particolare all’olfatto e al gusto, introducendo un sensibile incremento dei “classici”
valori tabellari. D’altra parte, diverse patologie (come disturbi del sonno, cefalee, obesità,
dolore, tatto, sindrome algodistrofica, connettivopatie e dermopatie) sono state inserite ex
novo. Ai disturbi psichici è stato dedicato uno spazio comparativamente assai più ampio
rispetto alle altre guide precedenti, non soltanto per la necessità di rimodellare il catalogo
secondo le indicazioni del DSM5, ma, soprattutto, con l’intendimento di riservare alle
alterazioni delle funzioni mentali l’attenzione che esse meritano nel contesto valutativo
del danno alla persona, anche in ossequio alla necessità di superare la dicotomia tra
danno biologico al soma ed alla psiche.
Tutto ciò ha portato a catalogare ben 928 voci, che sono state riassunte
schematicamente nell’ultima parte del testo strutturata secondo l’ordine dei capitoli e
realizzata mediante l’utilizzo di un apposito database, che ha inoltre consentito, in fase di
elaborazione del testo, la comparazione di tutte le menomazioni elencate e le relative
percentuali, allo scopo di ricercare il miglior equilibrio valutativo.
A differenza che in altre guide la trattazione è stata dedicata esclusivamente al
danno alla persona che l’attuale contesto normativo e giurisprudenziale colloca nell’area
della responsabilità civile per il danno non patrimoniale, con particolare riferimento per
quello di natura biologica, pertinente alle competenze accertative e valutative della
medicina legale.
Non sono state quindi prese in elettiva considerazione né le declinazioni connotate
in chiave patrimoniale, come la riduzione della capacità lavorativa (come
tradizionalmente intesa secondo una tralatizia — e comunque aggiornanda —
consuetudine medico-legale), in ragione della sua prevalente consistenza probatoria
economica (pretesa da ormai costante giurisprudenza di Cassazione), né quelle dominate
da vissuti soggettivi di insufficientemente definita configurazione giuridica e/o di
ambigua percepibilità clinica e, quindi, medico-legale, come ad esempio la sofferenza
(intima, morale, psico-fisica, etc.).
Né si è ritenuto di trattare dei criteri metodologici e dei parametri percentuali
utilizzati in alcuni settori assicurativi, pubblici (INAIL) o privati (polizze per invalidità
da infortuni o da malattia, o altri consimili prodotti del mercato assicurativo, nelle quali i
parametri percentuali di riferimento sono predeterminati contrattualmente in apposite
tabelle stipulate “per adesione”). Questa è essenzialmente l’impostazione con la quale si
confronterà chi utilizzerà le Linee Guida, magari sentendosi inizialmente un po’ a disagio
per alcune mutazioni “de novo” dei presupposti concettuali e numerici che era abituato ad
usare, in quanto da tempo profondamente introiettati nel proprio modus operandi.
Siamo comunque certi che in poco tempo si avrà modo di cogliere e (è nostro forte
auspicio) apprezzare il sotteso sforzo di adeguamento al profilo acquisito dal danno alla
persona in questi ultimi anni, attraverso il diritto vivente implementato dalla più attenta
ed equilibrata giurisprudenza e le più recenti proposte concettuali e pratiche formulate
dalla componente neutrale ed equanime dei medici legali che si riconosce nella SIMLA.
PARTE GENERALE
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Capitolo I
PRINCIPI ISPIRATORI E STRUTTURA DELLE LINEE GUIDA
I.a. La classificazione per funzioni. — I.b. Gli aspetti dinamico-relazionali del danno biologico. — I.c. Il
danno biologico “statico” e “dinamico”. — I.d. La prova e la percentualizzazione del danno biologico. — I.e.
Aggiornamento delle percentuali e ampliamento del catalogo delle menomazioni. — I.f. Indicazioni meto-
dologiche per la valutazione di peculiari fattispecie di danno. — I.g. Le tariffazioni percentuali di diversa
matrice. — I.h. La declinazione della compromissione della capacità lavorativa. — I.i. Conclusioni
di F. Buzzi
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4 PARTE GENERALE
Guida ai criteri valutativi propri di altri settori della medicina, in particolare quella
riabilitativa: un settore che utilizza diversi sistemi classificativi più o meno complessi
(dall’I.C.F. a score numerici basati su parametri di tipo eminentemente funzionale,
richiamati e utilizzati — ove utili — anche in questa sede) prendendo a riferimento le
attività quotidiane comuni a tutti (alimentarsi, espletare le funzioni fisiologiche e l’igiene
personale, deambulare, cambiare postura, comunicare e relazionarsi, etc.). Anche a
mente della sopra menzionata definizione del danno biologico, queste attività sono state
implicitamente, quando non esplicitamente, tenute in prioritaria considerazione nella
percentualizzazione del danno biologico corrispondente alle menomazioni qui catalo-
gate.
È il caso di ricordare che la classificazione per funzioni è stata adottata anche
nell’ultima edizione della Guida dell’American Medical Association (“Guides to the
Evaluation of Permanent Impairment”, AMA, 2009), nella cui parte introduttiva è stato
espressamente precisato l’intento di superare le criticità delle precedenti edizioni,
dovute ad “inadequate attention to functional assessment”, soggiungendo l’importanza
delle limitazioni nelle attività della vita quotidiana (ADL), del resto già evidenziata nella
precedente edizione del 2001.
Ad onor del vero, ancor molto prima, nel barème francese del Melennec risalente
agli anni ’80, oltre ai parametri percentuali, erano state previste cinque classi funzionali.
PRINCIPI ISPIRATORI 5
6 PARTE GENERALE
PRINCIPI ISPIRATORI 7
relazionali qui in discussione e di un potenziale passaggio dall’ “homo faber” all’ “homo
socius “.
Questo passaggio è stato autorevolmente vidimato dalla famosa sentenza n. 184/
1986 della Corte Costituzionale, per completarsi con la più volte ricordata definizione
del danno biologico, come comprensivo degli aspetti dinamico-relazionali.
8 PARTE GENERALE
PRINCIPI ISPIRATORI 9
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PRINCIPI ISPIRATORI 11
12 PARTE GENERALE
In questi casi sussiste per lo più una continuità causale fisiopatologica e fenome-
nologica (alias una tipica “sindrome a ponte”), che prende le mosse dalla lesione iniziale
e giunge fino alla menomazione complessiva finale, rendendo più che giustificato, per i
molteplici motivi biologici e giuridici precisati nello specifico capitolo, il risarcimento
integrale della predetta menomazione complessiva.
Antipodica è la problematica — anch’essa trattata nell’apposito capitolo della parte
generale — dei danni in individui molto giovani, tendenzialmente suscettibili di
evoluzioni migliorative nel tempo, ma talora comportanti anche effetti menomativi che
possono rimanere a lungo “sotto traccia” e non emergere nitidamente al momento della
valutazione medico-legale.
Per quanto riguarda le preesistenze e i concetti di concorso e concorrenza (negli
ultimi anni sovente messi in discussione in ambito medico-legale, a motivo del non
sempre ben individuabile confine fra queste due categorie), se ne tratta nel capitolo IV
della Parte Generale.
Qui ci limitiamo a precisare che si sono evitati riferimenti a formule matematiche
per commisurare menomazioni preesistenti e sopravvenute, soprattutto in ragione della
schematica rigidità che è propria della loro genesi in seno all’infortunistica del lavoro
(poi traslata all’infortunistica privata), governata da clausole indennitarie di tipo selet-
tivo e/o contrattuale, che sono ben lungi dal concetto di risarcimento integrale del
danno e dai criteri che lo presidiano.
In questi contesti, il tetto massimo dell’invalidità collocato al 100% si attaglia a ben
possibili annullamenti della capacità lavorativa, ma non si presta ad esprimere la
tendenziale inesauribilità del bene salute, secondo la teoria dei “diversi 100”, valida in
campo civilistico almeno fin tanto che la persona conserva un sufficiente grado di
autonomia somatica e psico-relazionale.
Non a caso, nel decalogo della Guida di Bargagna et al. si rimarcava che: “Le grandi
invalidità incidono generalmente in maniera molto più grave... di quanto non significhi
l’indicazione numerica... la validità residua non può certo essere commisurata alla
differenza tra un teorico valore ‘cento’ corrispondente alla validità preesistente e la quota
parte di invalidità perduta”.
PRINCIPI ISPIRATORI 13
invalidanti che, in tali settori, sono considerate fonti di “criticità” statistiche e/o
economiche, secondo un’impostazione proclive a difendere interessi, appunto settoriali
piuttosto che a salvaguardare i principi della corretta tecnica valutativa e dell’interdi-
pendenza proporzionalistica tra le diverse menomazioni. Questa interdipendenza non
tollera cesure tra piccole e grandi invalidità (non davvero “micro” man mano che ci si
avvicina al limite superiore del 9%, né davvero “macro” ove si tratti di danni biologici
di poco superiori al 9%).
Pertanto, pur rendendoci conto della “supremazia” della quale possono fregiarsi le
tabelle definibili “di legge”, si è doverosamente privilegiata un’impostazione medico-
legale modellata sulla sopra richiamata, armoniosa proporzionalità tra diverse, o ana-
loghe incidenze disfunzionali delle menomazioni.
A tal proposto, è il caso di soggiungere che l’impostazione concettuale e tecnica
totalmente neutrale di queste Linee Guida — assolutamente imprescindibile in ragione
del contesto scientifico nel quale sono maturate — non può trascinarci nell’ormai
annosa querelle suscitata dalle note misure legislative introdotte ad hoc per alleggerire gli
oneri risarcitori delle assicurazioni nei confronti delle c.d. “piccole invalidità perma-
nenti”: a partire dalla L. n. 57/2001, fino a giungere alla L. n. 27/2012 e alle successive
modifiche governative varate, o in fieri, per il settore della R.C.A. e della ormai collegata
R.C. sanitaria.
Tradiremmo il compito conferito dalla Società Italiana di Medicina Legale al
gruppo di studio che ha elaborato queste Linee Guida se sottomettessimo i classici
criteri anamnestico-clinici, semeiologici e di buona tecnica valutativa medico-legale ad
interessi e scopi diversi da quelli propri di una società scientifica, che deve perseguire
esclusivamente l’affermazione di razionali e neutrali regole tecniche e mantenere
un’assoluta equidistanza tra gli interessi di chi ha cagionato il danno e di chi l’ha subìto.
D’altra parte, alla medicina legale di cui si fa interprete la SIMLA non erano
necessarie né le sopra citate, né altre “disposizioni di legge”, per mantener fede all’ormai
consolidata validità dei criteri valutativi propugnati dalla precedente guida di Bargagna
et al.
In essa già spiccavano alcuni fondamentali moniti, che fanno parte integrante
dell’impostazione di fondo di queste Linee Guida.
Tra di essi è senz’altro il caso di menzionare la seguente criteriologia, predisposta
appunto con riferimento alle fattispecie scarsamente, o per nulla invalidanti: “... i danni
puramente anatomici, senza plausibili ripercussioni funzionali e/o soggettive, non debbono
essere considerati percentualmente esprimibili da parte del medico legale; le piccole
menomazioni, il minimo danno anatomico, od anatomo-funzionale, in assenza di perce-
pibili conseguenze negative dal punto di vista medicolegale deve essere ritenuto non
percentualmente esprimibile; una speciale attenzione va posta a quelle sequele che
mancano di un apprezzabile substrato anatomico e funzionale, ma che tuttavia vengono
considerate menomazioni dell’integrità psico-fisica in base alla personale propensione di
chi è chiamato a valutarle”.
Tali raccomandazioni, ispirate al massimo rigore operativo medico-legale — e non
a caso connotate da reiterati richiami alla funzione — connotano anche l’impostazione
metodologica di queste Linee Guida, elaborate in totale spirito di continuità rispetto al
lavoro compiuto dai curatori della predetta guida.
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14 PARTE GENERALE
PRINCIPI ISPIRATORI 15
I.i. Conclusioni
Da ultimo, ci limitiamo a sottolineare che queste Linee Guida sono frutto di molti
mesi di confronti dialettici tanto serrati, quanto costruttivi, tra i componenti il gruppo
di studio messo in campo dalla SIMLA e i numerosi co-autori di estrazione clinica e
medico-legale, nonché dell’analisi di tutte le analoghe proposte valutative comparse nel
contesto dottrinale della medicina legale negli ultimi decenni.
Esse non rappresentato un semplice aggiornamento/ampliamento bensì una radi-
cale rielaborazione della guida di Bargagna M. et al., che ha preceduto e, per molti versi
ispirato quest’opera: un’opera che è stata portata a termine con le modalità che devono
contraddistinguere la predisposizione di linee guida collegialmente condivise: in questo
caso non soltanto da molti medici legali di diversa estrazione sul piano nazionale, ma
anche da numerosi clinici con la medesima caratteristica
Del resto, la stessa Cassazione Civile (Sez. III, n. 17219 del 29/07/2014) ha
affermato che: “I barèmes medicolegali si dividono in due categorie: obbligatori e
facoltativi. I primi sono approvati con atti normativi e la loro adozione è ineludibile, da
parte sia del medico legale che del giudice. I secondi non hanno natura di fonte normativa
e sono liberamente elaborati dalla comunità scientifica e dalle varie scuole di pensiero che
la compongono... Pertanto, quando la scelta del barème da adottare non sia imposta da
alcuna norma, l’ausiliario tecnico prima e il giudice poi, restano liberi di scegliere il barème
che ritengono più autorevole, più moderno o più corretto, col solo obbligo di motivare la
propria scelta.”
In conclusione, queste Linee Guida si propongono di fornire al medico legale non
soltanto un ampio “tariffario tabellare”, bensì un’organica e articolata metodologia
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16 PARTE GENERALE
Capitolo II
PROFILI GIURIDICI DEL DANNO BIOLOGICO
DI INTERESSE PER L’ATTIVITÀ MEDICO-LEGALE
II.a. Genesi ed evoluzione del danno biologico nell’alveo non patrimoniale. — II.b. Le altre categorie del
danno alla persona di natura non patrimoniale. — II.c. La prova del danno biologico. — II.d. La nomina del
consulente tecnico d’ufficio. — II.e. La funzione deducente e percipiente della consulenza tecnica d’ufficio.
— II.f. Il significato e il valore dei giudizi formulati nella consulenza tecnica d’ufficio
18 PARTE GENERALE
moniale ed affermando che “il danno biologico deve essere considerato risarcibile
ancorché non incidente sulla capacità di produrre reddito e, anzi, indipendentemente da
questa”.
Perfettamente in linea con l’impostazione della Corte Costituzionale, la Corte di
Cassazione pose a fondamento della propria decisione il riconoscimento del diritto alla
salute come diritto primario e assoluto, tutelato ai sensi dell’art. 32 cost. e, pertanto, da
considerarsi pienamente operante anche nei rapporti interprivatistici.
Una volta definita la distinzione tra danno biologico e altre tipologie di danno non
patrimoniale, il passaggio successivo — compiuto dalla Cassazione Civile con la
sentenza n. 2396 del 1983 — è consistito nell’attribuire al primo un preciso profilo
concettuale, definendolo come “menomazione all’integrità psico-fisica che incide diretta-
mente sul valore uomo”, cioè sul complesso delle funzioni personali e relazionali di ogni
individuo.
Uno snodo fondamentale nell’elaborazione dell’attuale fisionomia civilistica del
danno biologico è rappresentato dalla già citata sentenza della Corte Costituzionale n.
184/1986, che gli ha conferito specifici connotati giuridici.
Nonostante si trattasse di una sentenza interpretativa di rigetto, tale pronuncia ha
offerto, alla giurisprudenza successiva, un vero e proprio paradigma concettuale,
delineando una precisa distinzione tra l’evento lesivo produttivo del danno biologico —
considerato all’un tempo l’elemento costitutivo e la conseguenza del comportamento
illecito — e i suoi effetti negativi — cioè i pregiudizi d’altra natura conseguenti al
medesimo — essenzialmente rappresentati dal danno morale e dal danno patrimoniale.
La Corte Costituzionale affermò inoltre che l’art. 2043 c.c. doveva essere interpre-
tato in modo “costituzionalmente orientato”, stante la piena operatività del diritto
costituzionale nei riguardi della salute, anche con riferimento ai rapporti tra privati:
donde la necessità di apprestargli forme effettive di tutela.
Nonostante questa netta presa di posizione, il dibattito interpretativo non cessò,
tanto che i giudici delle corti superiori e di merito, per motivarne la risarcibilità,
continuarono ad oscillare tra l’aggancio all’art. 2043 c.c. e quello all’ art. 2059 c.c..
Seguirono le c.d. “sentenze gemelle” n. 8827 e n. 8828 del 31 maggio 2003, grazie
alle quali l’interpretazione restrittiva dell’art. 2059 c.c., basata sul comma 2° dell’art. 185
c.p., venne definitivamente abbandonata, ritenendosi che tale articolo non tuteli sol-
tanto il danno morale derivante dal reato, ma copra anche ogni altra fattispecie lesiva di
un valore inerente alla persona cui la Costituzione, ex artt. 2 e 32, attribuisca valenza di
diritto inviolabile dell’uomo.
L’idea di fondo da cui partì la Cassazione nel 2003 consisteva nell’assunto che il
sistema della responsabilità civile è bipolare, collocandosi nell’art. 2043 c.c. la disciplina
del risarcimento dei danni patrimoniali e nell’art. 2059 c.c. la disciplina del risarcimento
dei danni non patrimoniali; inoltre, che a quest’ultima categoria deve essere riconosciuta
— secondo un’interpretazione dell’art. 2059 c.c. conforme a Costituzione e sempre che
la lesione riguardi valori della persona costituzionalmente garantiti — una latitudine
applicativa che sia comprensiva sia dei danni derivanti dalla lesione ai valori inerenti alla
persona sia del danno morale soggettivo.
Siffatta interpretazione fu in seguito confermata — seppure incidentalmente —
dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 233 del 2003, nella quale si affermò che il
risarcimento del danno ex art. 2059 c.c. è dovuto in tutte le ipotesi di ingiusta lesione
di interessi di rango costituzionale inerenti alla persona.
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20 PARTE GENERALE
Dalla sempre più attenta e ampia valorizzazione che l’attuale realtà sociale attri-
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buisce alle modalità attraverso le quali gli individui si percepiscono nel proprio vissuto
e si relazionano con altri individui, nell’intimità e nella comunità, è scaturita una
particolare attenzione per la tutela di prerogative individuali di tale specie; attenzione
che — come poco sopra accennato — ha dato origine alla categoria del danno
esistenziale. Una categoria che ha avuto un’alterna fortuna sia nella giurisprudenza sia
nella dottrina giuridica, essendosi formati due stenicamente opposti schieramenti:
quello degli “esistenzialisti” e quello degli “anti-esistenzialisti”.
Analogamente è accaduto in campo medico-legale, anche qui con forti contrappo-
sizioni tra i fautori di un’elettiva competenza del medico legale all’accertamento e alla
quantificazione di tale tipologia di danno e i sostenitori delle sue caratteristiche
prettamente giuridiche e, quindi, non sondabili né stimabili attraverso la metodologia di
matrice bio-clinica propria della medicina legale.
Sembrava che le perentorie affermazioni delle già citate S.U. civili dell’11 novembre
2008 (“di danno esistenziale non è più dato discorrere”) avessero definitivamente
destituito di ogni autonomia ontologica e categoriale il danno esistenziale. Senonchè
successive sentenze della terza sezione civile della Suprema Corte di Cassazione hanno
nuovamente e ripetutamente conferito a tale voce di danno una dignità risarcitoria
sostanzialmente autonoma.
In particolare, con la sentenza n. 23147 del 25 settembre 2013, la sezione terza ha
riportato in auge il danno esistenziale anche in chiave di autonomia ontologica, creando,
peraltro, un conflitto concettuale di non poco conto, in quanto ha attribuito al danno
esistenziale quelle valenze “dinamico-relazionali” che — non soltanto in base alle
definizioni dottrinali, ma anche a quelle normative prima richiamate — sono proprie del
danno biologico.
Nella sentenza ora richiamata si è, infatti, affermato che il danno biologico
rappresenta la “lesione alla salute”, il danno morale rappresenta la “sofferenza interiore”
e il danno esistenziale rappresenta il danno “dinamico-relazionale”, “altrimenti definibile
esistenziale”, consistente nel “peggioramento delle condizioni di vita quotidiane”, risar-
cibile nel caso in cui l’illecito abbia violato diritti fondamentali della persona. La
Cassazione ha soggiunto che ognuna delle fattispecie dianzi elencate costituisce un
pregiudizio non patrimoniale ontologicamente diverso e che sono tutte risarcibili.
Orbene, siffatta interpretazione determina una palese traslazione degli aspetti
dinamico-relazionali dall’ambito definitorio, anche normativo, del danno biologico a
quello, contingentemente giurisprudenziale, del danno esistenziale.
Non si tratta affatto di un particolare marginale, soprattutto perché la presa in
considerazione risarcitoria degli aspetti dinamico-relazionali all’un tempo nel contesto
del danno biologico e in quello del danno esistenziale, configura le duplicazioni
risarcitorie massimamente biasimate dalle S.U. del 2008 e pure perché le componenti
dinamico-relazionali del danno biologico — anche a prescindere dalle definizioni della
normativa e della dottrina medico-legale — sono essenziali per modularne, sul piano
valutativo medico-legale — al quale il danno biologico incontrovertibilmente appartiene
— l’appropriata dimensione qualitativa e quantitativa, rispetto alle caratteristiche
naturalistiche e socio-anagrafiche della persona del danneggiato.
È infatti del tutto evidente che le diverse menomazioni psico-fisiche meritino
diverse quantificazioni percentuali a seconda che, ad esempio, colpiscano un anziano
con autosufficienza già compromessa oppure un giovane, il quale esplica normalmente
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22 PARTE GENERALE
situazioni pur molto diverse tra loro, ma tutte risarcibili, sempre che l’illecito abbia
violato dei diritti costituzionalmente tutelati.
La terza sezione raggiunge il massimo scostamento rispetto ai principi affermati
dalle SS.UU. del 2008 con l’ancor più recente sentenza n. 1361 del 23 gennaio 2014, che
ha espressamente identificato il danno esistenziale nell’alterazione della personalità del
danneggiato e nello sconvolgimento delle sue abitudini di vita: condizioni che rendono
il danno esistenziale ben distinto sia dal danno morale sia dal danno biologico, giacché
— sempre secondo la Corte di Cassazione — pur nella sua unitarietà, l’area del danno
non patrimoniale comprende le componenti, ontologicamente diverse, del pregiudizio
morale, biologico ed esistenziale.
Il presente excursus, necessariamente breve, su una materia di per sé non partico-
larmente complessa, almeno sotto il profilo medico-legale, ma resa davvero tale dalle
variegate e alquanto mutevoli decisioni della Suprema Corte, è senz’altro tale da far
auspicare un ulteriore intervento delle SS.UU. civili, sia in ordine alla riaffiorata
autonomia ontologica del danno esistenziale sia in ordine alla collocazione degli aspetti
dinamico-relazionali, surrettiziamente trasposti dall’area del biologico a quella dell’esi-
stenziale.
Giova ribadire come sia quanto meno singolare che ai giudici di legittimità sia
sfuggito come non solo la dottrina, da tempo consolidata e uniforme, ma anche il T.U.
delle Assicurazioni Private (v. art. 139 del D.Lgs. n. 209/2005) hanno espressamente
precisato che il danno biologico è comprensivo dell’ “incidenza negativa sulle attività
quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita”, riservandone altrettanto espli-
citamente l’apprezzamento al medico legale, nella misura in cui uno dei presupposti
essenziali del danno biologico sia stato appunto individuato nel suo essere per defini-
zione “suscettibile di accertamento medico-legale”.
Di fatto, ci sono un “non poter più fare”, o un “non poter più essere” il cui
accertamento — in quanto biologicamente determinati — rientra a pieno titolo nelle
competenze mediche e medico-legali (ad esempio: la perdita della piacevolezza del-
l’ascoltare la musica o del suonare uno strumento per una sordità o per un deficit
motorio ovvero del gustare esperienze eno-gastronomiche per un’anosmia o, ancora, del
ricevere ed esprimere emozioni o messaggi affettivi verbali e gestuali a causa di
compromissioni neuro-psichiche o della sfera genitale, etc.), come pure esistono — in
maniera probabilmente maggioritaria — privazioni esistenziali del tutto estranee alla
sfera biologica individuale e di fronte alle quali il medico legale deve necessariamente
eccepire la propria incompetenza.
Per fare un esempio, il non poter più appartenere ai ranghi dirigenziali ministeriali
per provvedimenti della P.A. giudicati “ingiusti” dal Consiglio di Stato (Cass. Civ., Sez.
III, n. 906 del 25/02/2014, in Danno e Resp., 5, 555-556, 2014), o per “abiologiche
alterazioni degli assetti relazionali del soggetto, che lo inducano a scelte di vita diverse
quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno” (Cass. Civ.,
Sez. III, n. 1361 del 23/01/2014, in Resp. Civ. Prev., 2, 492, 2014).
Le esemplificazioni giurisprudenziali di condizioni personali del tutto “abiologiche”
rendono evidente la sostanziale estraneità del medico legale nel loro accertamento e
sottolineano, in ogni caso, la necessità — del resto quasi sempre pretesa dalla giuri-
sprudenza — che l’accreditamento delle componenti esistenziali del danno non patri-
moniale debba essere assoggettato alla produzione di prove fattuali e circostanziali, il
cui apprezzamento rientra palesemente e, anche per quanto si dirà in seguito, a fortiori
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24 PARTE GENERALE
nelle cognizioni comuni proprie di ogni giudice, non richiedendo evidentemente alcuna
particolare competenza scientifica.
Infatti, si tratta semplicemente di comprendere la portata delle scelte di vita
individuali negativamente condizionate dall’illecito altrui, e quella della variazione delle
modalità della propria realizzazione nel contesto familiare e sociale e di altri consimili
adattamenti circostanziali: fattispecie che, lapalissianamente, non ineriscono né al
sapere medico né al sapere psicologico o psichiatrico, ma rientrano scontatamente
nell’ambito delle prove ordinarie — sulle quali si tornerà in seguito — agevolmente
valutabili in base all’esperienza comune, senza la necessità dell’intervento e della
mediazione tecnica dei predetti saperi.
Questa — in definitiva — la differenza sul piano probatorio tra danno biologico e
danno esistenziale, nonché la ragione dell’intrasferibilità degli aspetti dinamico-
relazionali dall’area del biologico a quella dell’esistenziale, pena l’evidente realizzazione
di quelle già richiamate duplicazioni risarcitorie giustamente proscritte dalle S.U. del
novembre 2008.
Su questo e su altri aspetti critici dell’attuale tendenza della Corte di Cassazione
civile a pronunciarsi con interpretazioni “creative”, specie in ordine ai criteri di prova
del danno non patrimoniale della quale si dirà tra breve, si è recentemente espresso
Francesco Donato Busnelli, richiamando anche il “giudizio preoccupato di Michele
Taruffo, che ebbe a scrivere di decisioni senza prove”.
Da ultimo, ma non per ultimo in tema di “creatività” giurisprudenziale, merita un
rapido accenno la questione del danno biologico terminale, o danno catastrofale
(declinato dalla Cassazione anche sul versante morale: alias della sofferenza di tale
indole). Fermo restando che (come molto logicamente stabilito dalla terza sezione nella
sentenza n. 15491 del 08/07/2014), se il leso è deceduto in conseguenza di illecito altrui
dopo un più o meno lungo periodo do malattia/inabilità, tale periodo deve essergli
risarcito soltanto a titolo di danno biologico temporaneo — quantunque con massima
considerazione (anche economica) per le penose circostanze nelle quali tale danno si
consuma — il problema del risarcimento per la morte ulteriormente conseguente ha
trovato variegate interpretazioni da parte della Suprema Corte, fino ad approdare alla
nota sentenza n. 1361 del 23/01/2014).
In essa si è affermata la risarcibilità del danno da perdita della vita in sé e per sé
considerata, a prescindere dalla previa consapevolezza soggettiva dell’imminenza della
morte, come sottrazione del bene supremo della vita, diverso dal bene della salute e,
quindi, ex se rilevante, al di là dei concetti di danno (biologico, o morale) terminale/
catastrofale.
Da questo postulato si è necessariamente derivata la trasmissibilità del risarcimento
della perdita della vita agli eredi, a questa stregua scontatamente cumulabile con il
risarcimento delle perdita della serenità familiare secondo gli standard economici
correnti e del danno biologico di natura psichica eventualmente innescato dal lutto.
Nella complessità delle sue sfaccettature, detta questione sfiora l’area di compe-
tenza medico-legale soltanto per quanto attiene alla valutazione del predetto danno di
natura psichica. Per tutto il resto, essa è stata di recente risolta dalla sentenza delle S.U.
Civili n. 15350 del 22/07/2015, con una nitida e ampiamente argomentata pronuncia di
rigetto.
Per inciso, è il caso di ricordare che questa sentenza ha ribadito “... la portata
tendenzialmente onnicomprensiva del danno biologico, confermata dalla definizione
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normativa adottata del Dlgs. N. 209/2005. “e che “... in esso sono ricompresi i pregiudizi
attinenti agli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato.”
26 PARTE GENERALE
“scienza privata” (alias: scienza ufficiale), di cui all’art. 115 c.p.c. e non esigere alcuna
prova scientifica, essendo accessibile alla cultura dell’uomo medio: una cultura che
sarebbe comunque alquanto riduttivo (se non offensivo) far coincidere con quella
normalmente posseduta da qualunque giudice .
Questo passaggio comporta il rischio che il giudice minimizzi la specificità delle
conoscenze richieste da un adeguato espletamento del procedimento istruttorio e
decida di degradarle da nozioni scientifiche, strettamente appartenenti agli esperti in
materia, a conoscenze comuni, possedute dall’uomo medio e, quindi, da lui medesimo.
Ad esempio, a prescindere dalla prioritaria attribuzione, da parte di specifica
normativa precedentemente richiamata, della valutazione del danno biologico alle
competenze medico-legali, non vi è chi non veda come i presupposti concettuali di
questo danno pretendano tutti una solida formazione specialistica medico-legale, se non
altro in ragione della loro indiscutibile matrice dottrinale medico-legale (dalla primige-
nia formulazione del concetto di danno alla validità psico-fisica, proposti da Cesare
Gerin, sin dal lontano 1953) e dell’appartenenza alla medesima matrice delle metodiche
che presiedono al vaglio anamnestico-clinico, semeiologico e nessologico delle lesioni
attribuibili al fatto illecito e produttive di nocumenti somatopsichici suscettibili di
quantificazione.
Viceversa, l’apprezzamento della sofferenza morale e delle componenti esistenziali
del danno non patrimoniale è sicuramente alla portata delle conoscenze ordinarie e
diffuse, quali sono quelle riguardanti i comuni aspetti della vita personale e relazionale
nelle sue declinazioni, spesso negative e frustranti, da tutti più o meno frequentemente
sperimentate.
Ricollegandoci a quanto detto in precedenza, per l’accreditamento dei predetti
profili del danno non patrimoniale, non ha dunque ragion d’essere la richiesta di
“opinioni esperte”, talvolta ricercata nel novero dei cultori delle c.d. scienze sociali o nel
novero dei medici legali, sul coinvolgimento dei quali in questa fattispecie ci si è già
soffermati.
L’opinione esperta deve essere invece immancabilmente richiesta per quanto
attiene al danno biologico, perché pretesa dalla sua stessa definizione normativa
precedentemente richiamata, mentre può sicuramente non esserlo per i profili esisten-
ziale e morale del danno non patrimoniale, anche senza scomodare la perentoriamente
“tranciante” — e troppo genericamente onnivalente — petizione di principio delle S.U.
Civili del novembre 2008, circa la non necessarietà del contributo peritale per l’accer-
tamento del danno non patrimoniale genericamente inteso.
Si può, dunque, a buon motivo affermare che la prova scientifica costituisce, in
giudizio, la prova fondamentale per far accedere il danno biologico al risarcimento.
Non solo ex lege, ma anche in pratica, essa si concretizza nella consulenza tecnica
medico-legale, alla quale il giudice deve affidarsi in maniera prevalente, se non totale,
attese le peculiarità tecniche della materia e considerato che sul piano giuridico “la
prova scientifica si presenta, proprio per il suo peculiare carattere di validità conoscitiva,
come dotata di un grado particolarmente elevato di attendibilità e di affidabilità”,
assumendo, pertanto, “un peso ed un valore dimostrativo superiori a quelli che si
riconosce alle prove ordinarie”, di scontata accessibilità alle capacità valutative e discri-
minative del giudice.
In buona sostanza, nell’ordinamento processuale civile la prova scientifica del
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danno biologico coincide con i risultati della consulenza tecnica, come disciplinata dagli
artt. 61 ss. e 191 ss. c.p.c..
All’uopo il giudice, ma anche il suo consulente, devono tenere indubbiamente
conto “dei problemi che caratterizzano l’uso probatorio della scienza, in generale e nello
specifico contesto del processo civile e della povertà dei meccanismi con i quali il giudice
deve affrontare tali problematiche” realizzando un ottimale equilibrio tra i rispettivi
saperi.
Del resto, non a caso il legislatore ha attribuito al consulente tecnico compiti di
stretto collaboratore “a latere” del giudice, differenziando così il ruolo del consulente
tecnico nel processo civile da quello che ha invece nel processo penale il perito, cui sono
demandate funzioni limitate esclusivamente all’espletamento delle indagini attinenti alla
specificità dei quesiti formulati.
Inoltre, il codice di procedura civile colloca la disciplina della consulenza tecnica
in due sezioni separate e distinte, conferendole in tal guisa un assetto alquanto ibrido.
Da un lato, secondo gli artt. 61 ss. c.p.c., in quanto ausiliario del giudice, il
consulente tecnico d’ufficio può consigliare ed assistere il giudice nella fase istruttoria
anche in modo piuttosto autonomo, fornendogli le cognizioni tecniche delle quali
quest’ultimo sia sprovvisto e che siano utili per la decisione della controversia; dall’altro
lato, come istituto processuale, la consulenza tecnica d’ufficio è disciplinata dagli artt.
191 ss. c.p.c. nel contesto dell’istruzione probatoria, pur rimanendo da essa distinta.
Siffatte scelte legislative configurano la consulenza tecnica come mezzo istruttorio
in senso lato, escludendo, di converso, la sua catalogazione nel genus dei mezzi di prova
in senso proprio.
Su questo presupposto la dottrina e la giurisprudenza hanno evitato di creare
un’artificiosa categoria dogmatica fine a sé stessa, propendendo piuttosto per ricono-
scere nella consulenza un istituto finalizzato a fornire al giudice valenze probatorie, ad
integrare le conoscenze giuridiche con le conoscenze tecniche e scientifiche, che
possono consentire al giudice di sceverare le verità e le falsità nelle allegazioni delle
parti.
Dalla qualificazione della consulenza tecnica quale mezzo d’istruzione probatoria
derivano importanti conseguenze di ordine processuale.
Anzitutto, il giudice non ha l’obbligo giuridico di ammettere la consulenza tecnica,
neppure qualora sollecitata dalla parte ad essa dichiaratasi interessata, essendo libero di
decidere se e quando chiedere l’apporto di un ausiliario tecnico; a loro volta, le parti —
pur essendo legittimate a segnalare al giudice l’opportunità della nomina di un esperto
— non sono titolari di un preciso diritto processuale al riguardo.
Insomma, soltanto al giudice spetta decidere sull’opportunità, o meno, di ricorre
alla consulenza tecnica, coerentemente con le precisazioni sopra esposte relativamente
alla valutazione o all’accertamento di un fatto per il quale siano richieste nozioni che
esulano dal sapere comune.
In logica successione con quanto dianzi esposto, si deve precisare che la giurispru-
denza di legittimità interpreta in modo alquanto estensivo la disciplina codicistica,
concedendo al potere discrezionale del giudice di merito di non ricorrere all’ausilio del
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consulente tecnico, anche ove siano in discussione fatti non appartenenti alla comune
esperienza, ma che, comunque, il giudice ritenga a lui accessibili sul piano interpreta-
tivo.
Peraltro, ove una parte richieda la nomina di un consulente tecnico, il giudice è
tenuto a motivare il suo diniego, argomentando circa la superfluità del mezzo istruttorio
rispetto alle risultanze probatorie già acquisite. Tale decisione dovrà essere tanto più
motivata, quanto più tecniche e scientifiche sono le nozioni necessarie per la valutazione
degli elementi istruttori proposti dalle parti.
In conseguenza dell’esclusione della consulenza tecnica d’ufficio dalla categoria dei
mezzi di prova in senso stretto, la parte onerata di provare i fatti costitutivi del diritto
che vuol far valere in giudizio, ai sensi dell’art. 2697 c.c., non può pretendere di fornire
la prova di tali fatti ricorrendo alla consulenza tecnica d’ufficio.
Infatti, quest’ultima non può aprioristicamente supplire alle eventuali carenze
probatorie relativamente ai fatti per i quali l’onus probandi è a carico di una delle parti.
Del resto, la Cassazione Civile, si è da tempo dichiarata contraria (n. 212/2006 e n.
3130/2011) a disporre consulenze di natura esplorativa, finalizzate a “... cercare ele-
menti, fatti o circostanze non provati dal ricorrente”.
Inoltre, essendo la consulenza tecnica un mezzo istruttorio ed essendo essa rimessa
— come dianzi precisato — alla più ampia disponibilità del giudice, non operano nei
suoi confronti le preclusioni che la legge pone alla produzione e alla deduzione dei
mezzi di prova in senso stretto. In particolare non si applica la preclusione di cui all’art.
184 c.p.c., salvo il divieto per le parti di sottoporre al consulente tecnico i documenti
diversi da quelli fino a quel momento prodotti in giudizio.
È questo un aspetto di particolare di rilevanza pratica per il medico legale operante
in veste di consulente tecnico d’ufficio, essendo assai frequenti le richieste delle parti ad
operazioni peritali già in corso, intese a far valere irritualmente accertamenti clinici e
strumentali prima mai formalmente prodotti o, addirittura, formati o acquisiti in epoca
successiva all’udienza.
Ebbene, ferma restando per il consulente tecnico d’ufficio l’opportunità, se non la
doverosità, di interpellare formalmente il giudice prima di procedere in senso positivo
o negativo nei confronti di siffatte richieste, si può tuttavia prospettare che, qualora si
tratti di supporti tecnici materiali di indagini già allegati in atti (ad esempio, pellicole e
CD radiologici, videoregistrazioni di indagini invasive o di interventi chirurgici prodotti
come refertazioni scritte, fotografie eseguite in ambito di medicina e chirurgia estetica,
etc.) o di indagini complementari ed integrative rispetto a quelle prodotte, in ordine alle
quali nessuno dei consulenti delle parti eccepisca alcunché sulla neutralità della fonte
e/o sull’attendibilità del risultato, in tali casi dovrebbe prevalere il comune e superiore
interesse a disporre del più ampio novero di elementi per la formulazione delle
valutazioni peritali.
Del resto, il consulente tecnico d’ufficio è normalmente autorizzato, in sede di
conferimento dell’incarico, ad acquisire documentazioni integrative/complementari che
possano essere utili per la risposta ai quesiti formulati dal giudice.
Invero, si è già detto che sul piano processuale il consulente tecnico d’ufficio
dispone formalmente di un’ampia autonomia, per cui può acquisire, anche di sua
iniziativa, ogni elemento utile all’espletamento del proprio mandato, desumendolo da
fonti nuove, purché si tratti di materiale non avente ad oggetto fatti posti a fondamento
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della domanda, o delle eccezioni delle parti: fatti che devono essere provati dalla parte
onerata, ai sensi dell’art. 2697 c.c..
Quanto alla validità della consulenza d’ufficio nella fase di mediazione-
conciliazione,quantunque in assenza di talune delle parti, si ricorda incidentalmente che
in una recente ordinanza del Tribunale di Roma (in data 29.4.2015, emessa nell’ambito
della causa di responsabilità sanitaria n. 33187/2013 RG) il Giudice ha interpretato il
D.Lgs. n. 28/2010 nel senso che, pur nella predetta assenza scientemente esercitata,
mantiene validità la CTU, ancorché espletata in assenza del contraddittorio, ed essa può
essere legittimamente prodotta nella successiva causa, essendo il consulente d’ufficio
nominato dal mediatore e non da una parte, per cui non vi è ragione di ritenere che il
suo elaborato tecnico sia sfornito di terzietà e di equilibrio.
Per quanto riguarda gli apporti ricognitivi degli ausiliari specialisti cooptati dal
consulente tecnico d’ufficio, al fine di fornirgli nozioni e dati di esperienza estranei ed
ulteriori rispetto alle sue competenze, è fondamentale che egli eserciti su di essi lo stesso
tipo di vaglio critico che il giudice è tenuto ad esercitare nei confronti del suo operato.
In altre parole, egli deve analizzare attentamente la correttezza scientifica e la coerenza
logica dei loro contributi tecnici e accertarsi che anch’essi abbiano rispettato le regole
del contraddittorio peritale, senza nulla trascurare di quanto prospettato dai consulenti
delle parti in ordine alle questioni prettamente specialistiche di loro comune compe-
tenza.
Il rispetto per il contraddittorio presuppone, invero, una seria ed equilibrata
valutazione delle osservazioni delle parti alla bozza della consulenza tecnica d’ufficio,
purtroppo non molto frequente nell’esperienza peritale civilistica, ma indispensabile per
garantire giudizi peritali atti a fornire al giudice solidi elementi di prova, non ultimo in
materia di danno biologico, il cui substrato — come più volte richiamato anche in base
alla nuova normativa — è indagabile e commensurabile soltanto con strumenti culturali
e tecnici di pertinenza specialistica medico-legale.
Quanto appena detto e considerato rimanda all’annosa questione dell’affidamento
di incarichi consulenziali d’ufficio non soltanto ai medici, ma anche ai laureati in altre
discipline (in primis psicologia), in ragione dell’amplissima discrezionalità che il giudice
ha non soltanto sulla nomina o meno di un ausiliario tecnico, ma anche sulla scelta dell’
“esperto” a cui affidare l’incarico.
Gli artt. 61 c.p.c. e 13 ss. disp. att. c.p.c. prevedono, infatti, che il consulente
d’ufficio possieda una “speciale competenza tecnica”, ma la predetta discrezionalità
(molto raramente contrastata dagli avvocati, per scontate ragioni di “quieto vivere”) può
essere tale da far pretermettere questo requisito.
D’altronde l’iscrizione all’albo speciale di cui agli artt. 13 ss. disp. att. c.p.c. non
rappresenta di per sé una garanzia del possesso di speciali competenze nei confronti
delle variegate questioni civilistiche, che richiedono l’apporto di differenziate compe-
tenze professionali, anche nel perimetro che circoscrive gli accertamenti di natura
medico-legale. Basti a tal proposito ricordare le molteplici fattispecie dei danni biologici
di natura psichica, iatrogena, etc.
L’amplissima discrezionalità del giudice nella designazione del consulente tecnico
d’ufficio è interpretata dalla giurisprudenza in modo particolarmente estensivo, rite-
nendosi che anche la scelta della categoria professionale di appartenenza e della
qualificazione curriculare sia incensurabile in sede di legittimità.
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Guardando più nello specifico la tipologia dell’attività peritale svolta dal medico
legale, occorre fare una fondamentale distinzione tra attività percipiente e attività
deducente.
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32 PARTE GENERALE
Ogniqualvolta l’attività del consulente tecnico sia finalizzata alla valutazione tecnica
e scientifica di fatti oggettivi o di elementi di prova già acquisiti nel processo, si versa
nel campo ultimo detto, in quanto la consulenza tecnica funge da strumento di
deduzione per il giudice.
L’attività deducente rispetta appieno la definizione della consulenza tecnica come
mezzo istruttorio, non trattandosi, in tale prospettiva, di un mezzo di prova in senso
proprio, bensì di una valutazione di circostanze già formalmente provate dalle parti nei
loro elementi costitutivi e, pertanto, finalizzata a fornire al giudice soltanto argomenti,
non prove, utili per la sua decisione.
In effetti, stando allo standard statistico della valutazione del danno biologico, al
medico legale viene per lo più richiesto di valutare le lesioni e le relative menomazioni,
delle quali le parti abbiano già fornito la prova ontologica.
Nondimeno il contributo della consulenza medico-legale è essenziale non soltanto
sul più volte richiamato piano normativo, ma anche perché il medico legale deve fornire,
in aggiunta ad una mera descrizione delle lesioni e delle loro conseguenze invalidanti,
un accertamento ed un apprezzamento quali-quantitativo delle stesse sotto il profilo del
danno biologico, nonché asseverare la sussistenza di un nesso causale/concausale con
l’evento lesivo.
Accanto a queste funzioni, è ammesso dalla giurisprudenza e dalla prassi che il
consulente possa anche percepire e, conseguentemente individuare materialmente quei
fatti, principali o secondari, la cui dimostrazione è essenziale ai fini della decisione della
causa e che, senza il suo ausilio, non sarebbero esaustivamente apprezzabili da parte del
giudice.
In questo caso, la consulenza tecnica viene qualificata come percipiente e — così
come esplicitamente riconosciuto dalla Cassazione (Sez. II, n. 12695 del 30/03/2007) è
tale da costituire fonte oggettiva di prova, con sostanziale funzione probatoria.
È bene sottolineare che la funzione percipiente può espletarsi soltanto quando i
fatti, principali o secondari, da provare possano essere dimostrati esclusivamente
attraverso l’apporto conoscitivo di un esperto in un determinato settore.
Questa restrizione del campo di applicazione dell’attività percipiente del consu-
lente risulta pienamente giustificata, ancorché costituisca una deroga alla regola gene-
rale dell’onere della prova, di principio posto a carico delle parti.
Invero, la funzione percipiente della consulenza tecnica rappresenta uno strumento
processuale eccezionale, in quanto ammissibile soltanto qualora una parte si trovi nella
materiale impossibilità o nella notevole difficoltà pratica di provare dei fatti che, per
loro natura, sono apprezzabili e dimostrabili soltanto attraverso analisi scientifiche o
metodologie e strumentazioni tecniche specialistiche, tali per cui la parte può essere
sollevata dall’onere della prova, normalmente posto a suo carico dell’art. 2697 c.c..
In tal caso, il giudice ha il dovere di disporre la consulenza, avendo la Corte di
Cassazione civile (Sez. II, n. 321 del 14/01/1999) statuito che la sentenza di rigetto della
domanda per mancanza di prove del fatto sia viziata se quel fatto poteva essere accertato
soltanto tramite una consulenza tecnica e il giudice ha respinto la richiesta della parte
a procedervi.
Infatti, i poteri discrezionali del giudice sono sempre “poteri/doveri” e non
possono essere esercitati attraverso mere scelte arbitrarie, lesive dei diritti fondamentali
della parti.
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II.f. Il significato e il valore dei giudizi formulati nella consulenza tecnica d’ufficio
34 PARTE GENERALE
medico-legale, la cui articolazione deve essere tale da consentire ai consulenti delle parti
di argomentare contra punto per punto.
Invero, la giurisprudenza di legittimità è univoca nell’affermare che, allorquando il
giudice condivida le conclusioni a cui è giunto il consulente tecnico, non è tenuto a dar
conto delle ragioni di tale condivisione, ma può limitarsi a richiamare la relazione
tecnica nelle parti dalle quali sia desumibile che le contrarie deduzioni delle parti siano
state prese in considerazione e disattese con valide motivazioni.
Viceversa, quando il giudice si discosta dalle affermazioni del proprio ausiliario,
egli deve specificamente motivare il dissenso in maniera rigorosa e precisa.
La Cassazione ha inoltre stabilito che il convincimento personale — così del
giudice come pure del consulente d’ufficio — se basato su opinioni soggettive e
prettamente individuali non può sorreggere il costrutto né di una sentenza né di una
consulenza tecnica d’ufficio.
Infatti, tanto il giudice quanto il consulente tecnico d’ufficio sono tenuti ad
applicare criteri di rigorosa oggettività: il primo deve conformare il proprio giudizio ai
principi del diritto; il secondo deve applicare il massimo rigore scientifico e valutare in
tutta neutralità e secondo i correnti indirizzi giuridici quanto di sua competenza, nel
rispetto delle regole del settore scientifico di appartenenza e del contraddittorio
giudiziario.
Quanto appena detto è di particolare rilievo anche per l’apprezzamento e la
valutazione del danno biologico, tenuto conto del fatto che, per l’accertamento del
nesso causale tra comportamento illecito e lesioni alla persona e di quello tra tali lesioni
e la menomazione psico-fisica, in ambito civilistico deve applicarsi il criterio del “più
probabile che non” (v. S.U. civili nn. 576 e 581 dell’11 gennaio 2008), diversamente da
quanto accade in ambito penale, ove vigono i criteri della “certezza oltre ogni ragio-
nevole dubbio” e della “probabilità logica”.
In altre parole, il giudice civile (come pure, per attrazione logica, il suo consulente)
deve “scegliere tra le varie ipotesi di fatto quella che appare sorretta da un grado di
conferma logica relativamente prevalente rispetto alle altre”, potendo pragmaticamente
raggiungere un convincimento trasferibile in sentenza anche qualora non tutti i dubbi
e non ogni “possibilità del viceversa” siano escludibili.
È evidente che, pur trattandosi di uno standard probabilistico meno elevato di
quello preteso in ambito penale — sia per il giudice, come pure per il consulente
tecnico- esso deve rimanere comunque fondato su criteri di razionalità e su elementi
oggettivamente accertati, compiutamente descritti, razionalmente valutati e scevri di
ogni arbitrarietà, nonché, per il secondo, sulle regole scientifiche e metodologiche della
medicina legale, improntate ad un elevato grado di attendibilità e a criteri probabilistici
largamente condivisi dalla comunità scientifica dell’area bio-medica.
Quanto alla soggettività dell’attore — che si trova nella particolare situazione di
essere contemporaneamente oggetto della perizia e soggetto del processo — le dichia-
razioni da costui rese al giudice e, soprattutto, al consulente tecnico d’ufficio possono
ben esser prese in formale e sostanziale considerazione, sempre che siano oggettiva-
mente verificabili e corroborate ab extrinseco da elementi, anche di carattere indiziario,
ma comunque altamente suggestivi della loro attendibilità.
Sarebbe infatti inaccettabile che il consulente avvalorasse acriticamente quanto
riferito dal periziato, senza vagliarlo sul piano scientifico e controllarlo sul piano
circostanziale. In buona sostanza, nell’apprezzamento e nella valutazione del danno
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Capitolo III
METODOLOGIA VALUTATIVA
DEL DANNO BIOLOGICO TEMPORANEO
di Papi, N. Bisordi
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38 PARTE GENERALE
predeterminata somma di denaro per ogni giorno di durata dello stato di malattia in
funzione della gravità di quest’ultima.
Nella (razionalmente mai derogata) consuetudine valutativa dei turbamenti imposti
alla omeostasi derivata per la graduazione del ristoro del DBT si ricorre con pragmatica
semplificazione alla terminologia da sempre adottata nella prassi valutativa della capa-
cità lavorativa specifica.
Pertanto, il DBT è considerato totale o “assoluto” quando i predetti turbamenti
raggiungono il massimo e “parziale” quando lo stato patologico e le correlate terapie
incidono in minore e variabile misura sull’efficienza psico-fisica del soggetto.
Di conseguenza, adattandoci al lessico della prassi forense, occorre stabilire quali
siano gli stati di malattia meritevoli di risarcimento a titolo di “temporanea assoluta”, o
a titolo di “temporanea parziale”, esprimibile attraverso percentuali, o aggettivazioni,
atte a graduare l’incidenza sulla quotidianità del danneggiato.
Infatti, i criteri di valutazione devono basarsi sull’entità e sulla durata della malattia
e più ancora, prescindendo da schematismi indifferenziati, sul pregiudizio specifica-
mente derivato al singolo individuo sullo svolgimento degli atti ordinari della sua
esistenza, non trascurando componenti collaterali, quali preoccupazioni e/o la depres-
sione reattiva innescate dalla malattia e/o dalle relative cure mediche e/o chirurgiche,
dai disagi dovuti alle degenze e alle protratte condizioni di immobilizzazione, nonché
dal timore di postumi, capaci di impedire o di ostacolare la realizzazione delle
prospettive future cui il danneggiato aspirava.
È qui opportuno ribadire che, rispetto a quanto scritto nelle righe che precedono
su questo punto, ove il soggetto svolga un’attività lavorativa, si dovrà valutare separa-
tamente l’ulteriore danno temporaneo da incapacità lavorativa assoluta e parziale per
tutto il tempo in cui questi non sia stato in grado di svolgerla, totalmente, o solo in parte.
Riteniamo che il DBT “assoluto” o temporaneo biologico totale non sia da
ravvisare soltanto nelle malattie che compromettono sino ai gradi estremi l’esecuzione
degli atti ordinari dell’esistenza (come in caso di coma e situazioni consimili), e
nemmeno quando sussista un’incapacità globale allo svolgimento delle attività quoti-
diane: il criterio da adottare deve invece basarsi sull’identificazione di una effettiva e
grave compromissione della possibilità di svolgere gli atti ordinari dell’esistenza, non
dovendosi tener conto di possibili cascami di efficienza biologica.
Orientativamente la “temporanea assoluta” dovrà essere riconosciuta per tutta la
durata dei ricoveri ospedalieri, in caso di immobilizzazioni di importanti distretti
corporei che limitino sensibilmente la capacità di far fronte alle esigenze personali del
vivere quotidiano e nei casi di malattie coinvolgenti l’intero organismo, con necessità di
terapie che possano alterare notevolmente la cenestesi, non perdendo di vista i più rari
casi nei quali una malattia apparentemente circoscritta può incidere comunque profon-
damente proprio sullo svolgimento delle attività abituali.
A tal proposito, può trovare motivazione una peculiare enfatizzazione, sul piano
descrittivo, delle degenze ospedaliere, che sono generalmente caratterizzate da una
particolare intensità di ben attendibili sofferenze somato-psichiche; si deve inoltre
ragionevolmente ammettere che il ricovero ospedaliero configuri, indipendentemente
dal diverso grado di dette sofferenze ovvero dalla gravità ed entità delle lesioni, un
periodo peculiare — tra l’altro facilmente documentabile — di deprivazione relazionale
da valutarsi anche sotto il profilo della salute medicalmente intesa, qualora si tenda a
perseguire una migliore personalizzazione del danno sul piano medico-legale.
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40 PARTE GENERALE
42 PARTE GENERALE
che evidenziano il ruolo giocato dal danno biologico temporaneo nell’ambito della c.d.
“temporanea sopravvivenza”.
Nella sentenza della III Sezione n. 1361 del 23 gennaio 2014, si era affermato che
la perdita della vita va ristorata “anche in caso di morte c.d. immediata o istantanea, senza
che assumano pertanto rilievo né il presupposto della persistenza in vita per un apprezza-
bile lasso di tempo successivo al danno evento né il criterio dell’intensità della sofferenza
subita dalla vittima per la cosciente e lucida percezione dell’ineluttabile sopraggiungere
della propria fine”.
Ha fatto da ideale contr’altare la successiva sentenza della medesima sezione n.
25731, del 5 dicembre 014, ove si si è invece affermato che “quando all’estrema gravità
delle lesioni, segua, dopo un intervallo temporale brevissimo, la morte, non può essere
risarcito agli eredi il danno biologico “terminale” connesso alla perdita della vita della
vittima, come massima espressione del bene salute, ma esclusivamente il danno morale dal
primo ontologicamente distinto, fondato sull’intensa sofferenza d’animo conseguente alla
consapevolezza delle condizioni cliniche seguite al sinistro ».
Questa interpretazione, del resto allineata al precedente, preponderante orienta-
mento della Cassazione, è stata poi confermata dal recentissimo (ed assai atteso)
pronunciamento delle SS. UU. (n. 15350 del 22/07/2015), le quali hanno affermato che:
“Nel caso di morte immediata, o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni ...
non possa essere invocato un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis”, in quanto
il bene giuridico “vita” costituisce bene autonomo diverso dal bene “salute”.
In altri termini, le SS.UU. hanno argomentato che, per ragioni ontologiche e
giuridiche, la morte non può essere la massima offesa possibile della salute, essendo
quest’ultima un bene di natura diverso rispetto a quello della vita, e che il risarcimento
ha natura essenzialmente “reintegratoria e riparatoria” e non “sanzionatoria e di
deterrenza” (c.d. danni “punitivi”), confermando inoltre che nell’ambito della respon-
sabilità civile rilevano “solo le perdite derivanti dalla violazione del diritto alla salute che
si verificano a causa delle lesioni nel periodo intercorrente tra le stesse e la morte”.
Le SS.UU. hanno dunque concluso che il ristoro civilistico di tale pregiudizio deve
avvenire tramite la “liquidazione di una invalidità assoluta temporanea, sia utilizzando
il criterio equitativo puro, che le apposite tabelle, ma con il massimo di personalizza-
zione, in considerazione della entità ed intensità del danno”, rimandando al prudente
apprezzamento del giudice di merito le valutazioni inerenti la quantificazione del lasso
di tempo intercorrente tra morte e lesione.
Tutto ciò consente di ritenere che tale rimando non impedisca al giudice di
acquisire un parere tecnico inteso a definire di qual grado sia stato il DBT nel predetto
lasso di tempo.
Bibliografia
MANGILI E. et al., Il giudizio medico-legale di invalidità temporanea nel risarcimento del danno da
fatto illecito, Resp Civ Prev, 6: 1390-1397, 1999.
MORINI O., MANGILI E., In tema di danno biologico temporaneo, Arch Med Leg Ass, 16: 171-178,
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SAUCH V., CABONNIE C., Cotation des souffrances endurées: nécessité et justification d’un barème
opposable, Rev Franc Dommage Corp, 1: 59-70, 2000.
THIERRY M., NICOURT B., Réflexion sur les souffrances endurées, Gaz Pal, 3: 480 ss., 1981.
TOLOMEO A., BISORDI N., Il danno biologico temporaneo (DBT): considerazioni e criteri valutativi
medico-legali, in (a cura di) Bargagna M., Busnelli F.D., “La valutazione del danno alla
salute”, 4a ed., CEDAM, Padova, 2001.
ZOJA R., Inabilità temporanea, malattia e danno biologico: riflessioni sulla valutazione medico-legale,
Dir Prat Ass, 3: 394-401, 1991.
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NOMELAV: 15/21199 PAG: 45 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
Capitolo IV
METODOLOGIA VALUTATIVA
DEL DANNO BIOLOGICO PERMANENTE
IV.a. Introduzione. — IV.b. Lo stato anteriore. — IV.c. Le macromenomazioni e il 100% di danno biologico.
— IV.d. Altre “istruzioni” per l’uso delle Linee-Guida
IV.a. Introduzione
di R. Domenici
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46 PARTE GENERALE
culturale ed operativa dei principi e degli obiettivi” della materia della valutazione del
risarcimento del danno): istruzioni che saranno comunque riprese in seguito.
Anche per l’utente esperto non sembra inutile qualche precisazione terminologica.
La, ormai lunga, vicenda del danno biologico ha conosciuto diadi di nozioni contrap-
poste: danno biologico/danno alla salute, danno statico/danno dinamico, danno biolo-
gico di base/danno biologico personalizzato e, sul versante strettamente giuridico,
danno evento/danno conseguenza. Non è questa la sede per rievocare i connessi
svolgimenti dottrinali e giurisprudenziali. Basti dire che nel tempo, alquanto singolar-
mente, ha finito con il prevalere il contenuto coerente con la concezione del danno alla
salute, ma sotto il nomen di danno biologico.
Il danno biologico oggetto della presente tabellazione è quello che può definirsi
“standard”, in quanto riferito ad un ideale “uomo medio”, così come a suo tempo ad
un analogo modello di uomo medio fu ricondotta la capacità lavorativa generica. Il suo
nucleo c.d. statico “non è ... affatto statico, ma considera in un’ottica che è già dinamica
e funzionale le ricadute esistenziali negative della patologia ispirandosi al principio di
uguaglianza formale, cioè, all’istanza di considerare l’incidenza della disfunzione sul
benessere della vittima in una maniera che prescinde da ciò che in concreto la vittima fa
di specifico nel suo quotidiano” Navarretta, 2010). L’intrinseca dinamicità è implicita
nella consapevolezza che il danno biologico non consiste nell’alterazione dell’integrità
psico-fisica di per sè, ma nella compromissione del bene salute (per sua natura
“dinamico”) conseguente a tale alterazione. Laddove poi la menomazione incida “su
particolari aspetti dinamico-relazionali e personali [“danno biologico personalizzato”],
la valutazione [percentuale] è completata da indicazioni aggiuntive da esprimersi in
forma esclusivamente descrittiva”: così recita il Decalogo della SIMLA riportato in calce
al capitolo I della Parte Generale.
Per concludere l’argomento delle duplicità, è opportuno che l’utente sia consapevole
che la valutazione del danno biologico permanente passa attraverso due stadi, che stanno
tra loro in una particolare relazione matematica, in ragione della variabilità del valore
economico del punto di invalidità. In breve, a percentuali maggiori corrisponde un valore
del punto più alto. Non è il caso di discutere qui i fondamenti teorici di tale metodologia
risarcitoria, che nasce insieme alla dottrina del danno biologico. È facile però intenderne
la finalità pratica. La scala da 1% a 100%, ideata per il ristoro dell’avere, risulta troppo
coartata per il ristoro dell’essere: si è pur detto che il bene salute è inesauribile nel vivente,
laddove invece la capacità lavorativa può essere persa del tutto. Attribuendo al punto un
valore economico di 1 per menomazioni dell’1% e di 8 per quelle del 100% (queste sono
all’incirca le proporzioni delle tabelle monetarie del Tribunale di Milano, le più diffuse
tra le diverse che arricchiscono la nostra giurisprudenza “per cantoni”), la scala delle
invalidità si estende di fatto da 1 a 800: rimedio comunque non sufficiente ad ovviare a
tutti gli inconvenienti della “scala corta”. Di conseguenza l’utente avveduto e consapevole
della guida dovrebbe tener conto di questo meccanismo di valutazione “a due stadi” per
non cadere in errori di prospettiva nell’applicazione del criterio di proporzionalità lungo
quello che si è definito l’asse verticale.
48 PARTE GENERALE
(1) Se si fa pari ad 1 il valore tabellare del risarcimento di un danno biologico dell’1% (che in moneta
corrisponde a E 1460 ad un anno di età, per poi decrescere fino a E 738 all’età di 100 anni), allora in
proporzione il 6% vale 8,25, il 7% vale 10,50 e la differenza tra 86% (702,58) e 85% (693,39) vale 9,19.
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50 PARTE GENERALE
Proprio perchè si è convinti che queste linee guida possano essere utilizzate con
profitto solo da medici legali che abbiano familiarità con i “fondamentali” della
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valutazione del danno alla persona in materia civile, si ritiene superfluo addentrarsi in
dettagliate “istruzioni per l’uso”. Sono richiamati di seguito solo alcuni aspetti, che
sembrano meritevoli di precisazioni.
52 PARTE GENERALE
Micropermanenti
Le micropermanenti — da non intendersi quali sinonimo delle menomazioni di
“lieve entità”, di cui all’art 139 D.Lgs. n. 7/09/2005, n. 209 in quanto tutte le
micropermanenti sono menomazioni di “lieve entità”, ma non tutte le menomazioni di
“lieve entità” possono essere considerate micropermanenti — sono sempre state fonte
di fastidio per il medico legale.
Se si tratta di esiti con un fondamento anatomico obiettivamente verificabile, può
essere posta in dubbio l’esistenza di loro conseguenze negative da un punto di vista
funzionale. Se si tratta di esiti con un fondamento funzionale, può essere posta in
dubbio sia la loro reale ricorrenza, sia la loro permanenza.
Sugli uni e sugli altri si sono espressi, con limpida e saggia dottrina, M Bargagna et
al, nella loro Guida che ha rappresentato il modello principale di questo testo. Tuttavia
può essere utile qualche richiamo e qualche ulteriore considerazione in rapporto alle
novelle introdotte dalla L. n. 27/2012.
Riguardo ai minimi esiti anatomici, vale la pena di richiamare il principio fonda-
mentale secondo cui il medico legale accerta la menomazione dell’integrità psico-fisica
del leso, ma valuta (e percentualizza) il pregiudizio che detta menomazione arreca alla
salute di costui. Dunque, se l’esperto constata una minima alterazione anatomica (o
anatomo-funzionale) che, in base alle conoscenze mediche, non può determinare
apprezzabile nocumento, allora non assegna alcuna percentuale di danno biologico
permanente.
Per stabilire la “soglia di apprezzamento”, di nuovo, conviene ricorrere al criterio
di analogia proporzionale secondo “l’asse orizzontale”. Ogni barème reca un certo
numero di micropermanenti con rating 1%: l’esperto dovrebbe dichiarare non percen-
tualmente apprezzabili quei difetti che appaiono ancor meno incidenti sulla salute del
leso di codeste minime menomazioni.
Per la verità, la regola del “sotto l’1% nulla” trova la sua eccezione nella
tariffazione delle menomazioni dell’apparato masticatorio, ove, anche nelle c.d. tabelle
di legge, si rinvengono percentuali dello 0,50% e dello 0,75%.
Resta affidata alla discrezione del magistrato la scelta di stabilire in via equitativa un
risarcimento, anche nel caso di minimi esiti anatomici accertabili, ma non traducibili in
termini percentuali.
Riguardo alle micropermanenti di natura essenzialmente funzionale, ove ricadano
sotto la L. n. 27/2012, esse sono risarcibili solo se accertate mediante segni obiettivi
rilevati (a) mediante esame clinico e (b) indagini strumentali (secondo una interpreta-
zione caritatevole del testo di legge, incresciosamente atecnico). Di fatto, la dizione
“suscettibile di accertamento medico-legale” dell’art 139 del D.Lgs. n. 209/2005 viene
ad assumere — attraverso i due emendamenti introdotti dalla L. n. 27/2012 —
connotati che rimandano alla dizione “obiettivamente constatabile” propria dell’infor-
tunistica privata.
Ora, il metodo medico-legale è bensì contraddistinto da quel “rigorismo obiettivo”
propugnato dai nostri Maestri, ma si fonda pur sempre sulle conoscenze cliniche
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Bibliografia
BARGAGNA M, CANALE M, CONSIGLIERE F, PALMIERI L, UMANI-RONCHI G., Guida orientativa per la
valutazione del danno biologico, Giuffrè, 3a ed. rinn., Milano, p.: XLVII-LI, 2001.
BUZZI F, VANINI M., Guida alla valutazione psichiatrica e medicolegale del danno biologico di natura
psichica, Giuffrè ed., Milano 2014.
Criteri applicativi della tabella delle menomazioni all’integrità psicofisica da 10 a 100 punti di
invalidità (DM 26/05/2004), in Palmieri L., Umani Ronchi G.C., Bolino G., Fedeli P., “La
valutazione medico-legale del danno biologico in responsabilità civile”, Giuffrè ed., Milano,
p.: XXVII-XL, 2006.
NAVARRETTA E., Contenuto del danno e problema della liquidazione, in Navarretta E., “Il danno non
patrimoniale”, Giuffrè ed., Milano, p. 96-ss, 2010.
SOCIETÀ ROMANA DI MEDICINA LEGALE E DELLE ASSICURAZIONI, “Principi informatori e criteri generali
per la formulazione delle tabelle di invalidità. Dichiarazioni conclusive”, Zacchia, 31: 212-ss.,
1956.
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Capitolo V
DANNO MORALE E SOFFERENZA SOGGETTIVA
di R. Domenici
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56 PARTE GENERALE
DANNO MORALE 57
58 PARTE GENERALE
DANNO MORALE 59
trattato con terapia antiaggregante cronica, ma, probabilmente, meno di chi abbia
riportato una deformazione del viso. Ma, da questa logica presunzione alla costruzione
di un attendibile strumento di misura delle afflizioni dell’animo ce ne corre. Al medico
legale si addice la prudenza: se il decalogo SIMLA lo esorta ad avvalersi della
misurazione numerica per la stima del danno biologico standard, ma non di quello
personalizzato — per il quale sono richieste indicazioni espresse in forma esclusiva-
mente descrittiva — allora, a maggior ragione, l’approccio descrittivo dovrà valere nei
confronti dei presupposti biologici della sofferenza morale soggettiva. Qui termina il
compito dell’esperto. Il giudice in via presuntiva, se lo ritiene, può stabilire una
correlazione fra le suddette componenti del danno biologico e il grado di sofferenza
morale, avvalendosi anche di altre informazioni (come quelle ottenute per via testimo-
niale) e di altri parametri da cui trarre utili elementi per il suo equo e motivato
apprezzamento. Tra questi, secondo importanti orientamenti dottrinali e giurispruden-
ziali, dovrebbe assumere particolare rilievo la gravità della condotta del danneggiante,
che certamente si riflette sulla sfera emotiva e morale del leso. Argomento di grande
interesse, ma che è al di là dal dominio di pertinenza delle presenti linee guida.
Bibliografia
BARGAGNA M., BUSNELLI F.D., La valutazione del danno alla salute, 4a ed., CEDAM, Padova, 2001.
BARGAGNA M., CANALE M., CONSIGLIERE F., PALMIERI L., UMANI RONCHI G., Guida orientativa per la
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NAVARRETTA E., Il danno non patrimoniale, Giuffrè ed., Milano, 2010.
PEDOJA E., PRAVATO F., La sofferenza “psicofisica” nel danno alla persona, Maggioli ed., Rimini,
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RONCHI E., MASTROROBERTO L., GENOVESE U., Guida alla valutazione medico-legale dell’invalidità, 2a
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NOMELAV: 15/21199 PAG: 60 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
NOMELAV: 15/21199 PAG: 61 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
Capitolo VI
LA PERDITA DI CHANCE
di R. Domenici, C. Toni
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62 PARTE GENERALE
universali”, le quali descrivono i fenomeni che in ogni tempo e in ogni luogo avvengono
secondo quelle leggi). Più spesso, gli esiti delle scelte dell’agente sono caratterizzate da
un rilevante grado di aleatorietà, rispondendo a modelli probabilistici (“leggi statisti-
che”, secondo Hempel: ma va rimarcato che statistica e probabilità non sono sinonimi).
In generale, l’impiego di modelli probabilistici è reso necessario: (a) dalla nostra
ignoranza (non si hanno sufficienti informazioni sul complesso meccanismo che deter-
mina il fenomeno in esame), oppure (b) da limitazioni computazionali (non siamo in
grado di processare in modo ottimale le informazioni di cui pur disponiamo), o infine
(c) dalla intrinseca aleatorietà del fenomeno (come quelli in scala atomica e subatomica,
oggetto di studio della meccanica quantistica, le cui leggi — per inciso — non possono
essere considerate meno “universali” o “fondamentali” di quelle, deterministiche, della
meccanica classica). In medicina, l’incertezza deriva fondamentalmente da incomple-
tezza di conoscenze (caso a).
Sempre in generale, nell’ambito dei modelli probabilistici, si possono distinguere
situazioni in cui l’agente conosce l’esatta distribuzione di probabilità con cui si danno
gli esiti delle proprie scelte ed altre, in cui manca qualsiasi informazione a priori sulla
distribuzione della probabilità. Un esempio del primo caso è il gioco dei dadi o della
roulette: una volta stimata nulla la probabilità che il gioco sia truccato, lo scommettitore
può calcolare esattamente il rischio della sua puntata. Un esempio del secondo scenario
è quello delle corse dei cavalli: le quote di scommessa del totalizzatore derivano da una
stima della probabilità che esprime un ragionevole grado di credenza basato sulle
evidenze disponibili (solo in parte di natura statistica). Nel caso particolare della
medicina, in diverse circostanze si dispone di una certa quantità di informazioni ricavate
da studi statistico-epidemiologici (riferiti dunque ad una popolazione) che possono
servire come base razionale per stime probabilistiche (riferite ad un particolare indivi-
duo, che si ritiene arruolabile in quella statistica). Questa operazione è definita come
passaggio dalla causalità generale alla causalità individuale, è densa di criticità e non è
esente da obiezioni metodologiche.
Un’interessante differenza tra modelli deterministici e modelli probabilistici risiede
nell’importanza, ai fini della previsione, della conoscenza del meccanismo che dà ragione
del fenomeno di interesse. Quando ad un dato antecedente segue invariabilmente un
dato evento (modello deterministico), può essere stabilito con certezza un rapporto
causa-effetto, anche se non è noto il meccanismo attraverso il quale il primo produce il
secondo. La massaia, anche se ignora i fondamenti della termodinamica, sa che l’acqua
a 100°C bolle; gli astronomi caldei, anche se ignoravano il sistema copernicano e le leggi
di Newton, sapevano predire le eclissi. Nei modelli probabilistici, l’insieme dei fatti
osservati e delle informazioni disponibili porta all’enunciazione di ipotesi esplicatorie,
cui il termine meccanismo si riferisce. L’acquisizione di nuove conoscenze — che
riducono l’ignoranza riguardo al meccanismo e consentono la revisione del modello —
ha come conseguenza la formulazione di nuove stime probabilistiche. Ad esempio, la
scoperta di un dato recettore, che conferisce sensibilità ad un farmaco antiblastico,
permette la suddivisione dei pazienti affetti da una neoplasia in due sottoclassi con
differente probabilità di remissione, a seconda che siano o no dotati di quel tale
recettore.
L’apprezzamento della chance (in ipotesi) perduta richiede, lo si ripete, il rigore del
metodo medico-legale congiunto al rispetto della logica della probabilità. Per comin-
ciare, è opportuno considerare con attenzione le peculiarità proprie della perdita di
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LA PERDITA DI CHANCE 63
chance in ambito sanitario. Come è stato giustamente osservato, essa presenta aspetti
diversi rispetto alla perdita di chance in ambito lavorativo, da cui ha tratto origine nel
percorso giurisprudenziale. In quest’ultimo settore, il danneggiato viene privato — a
motivo di altrui illecito — dell’opportunità di avvalersi di capacità e di abilità sue proprie
per conseguire un risultato desiderato (la vittoria ad un concorso, la progressione di
carriera, etc). Il danneggiato disponeva di una potenzialità: gli è stato impedito di
(cercare di) trasformarla in attualità. Si parla in dottrina di chance pretensiva che viene
ad essere perduta (1). Nel settore sanitario, le capacità e le abilità in discussione sono
quelle del medico inadempiente, che non le pone a disposizione del malato, allo scopo
di contrastare (attraverso l’appropriata terapia) o di prevenire (attraverso la prudente
profilassi) una condizione patologica presente o temuta per il futuro. Si parla in dottrina
di chance oppositiva, talora definita anche chance omissiva, in quanto di norma (anche se
non obbligatoriamente) discende da una condotta omissiva del sanitario (2).
Un’altra differenza tra settore lavorativo e settore sanitario si può rinvenire nello
scenario temporale. Nel settore lavorativo, al momento della richiesta di risarcimento,
l’evento indesiderato è già accaduto: al candidato è stata impedita la partecipazione al
concorso, al lavoratore è stata negata la progressione di carriera, etc. Nel settore
sanitario si hanno, invece, due possibili scenari. Nel primo, come avviene per il lavoro,
il danno si è già realizzato: il paziente a cui non è stato diagnosticato per tempo il tetano
è deceduto; l’altro paziente cui non è stata somministrata la profilassi anticoagulante ha
sviluppato una trombo-embolia polmonare. Questo scenario è stato da taluno definito
“chiuso” (si parla anche di “casi chiusi”). Nel secondo, il danno non si è ancora
realizzato, ma potrebbe realizzarsi in futuro. Tipico il caso delle neoplasie, dove un
ritardo di diagnosi (e quindi di inizio terapia) può comportare una riduzione delle
chance di sopravvivenza. Si parla allora di “casi aperti”, che sono comuni nella pratica
medico-legale, ma non trovano corrispettivi in quella giuslavoristica. I casi nati come
aperti possono naturalmente trasformarsi in chiusi nelle more del giudizio: la causa
civile, intrapresa dal paziente neoplastico, può essere ripresa dai suoi eredi dopo
l’avvenuto decesso determinato dal tumore.
Più in generale, è opportuno porre l’attenzione sul fatto che, nei “casi aperti”, le
chance di sopravvivenza si modificano con il trascorrere del tempo. Per una più immediata
comprensione di questa (per il medico legale, fastidiosa) proprietà dei “casi aperti”, può
essere utile prendere a modello un particolare tipo di lotteria, immaginato ad hoc.
Quaranta giocatori hanno ciascuno un biglietto a numerazione progressiva; sono
previsti dieci premi di uguale importo per i dieci biglietti vincenti; si estraggono in tre
tornate trenta biglietti e i dieci residui sono dichiarati vincenti. Prima delle estrazioni
ciascun giocatore ha una chance di vincita pari a 1/4. Dopo l’estrazione dei primi 10
biglietti perdenti, per 30 giocatori la chance è salita a 1/3 e per 10 si è azzerata. Dopo
(1) In realtà, anche la valutazione della perdita di chance pretensive di natura strettamente patrimoniale
può richiedere l’apporto di competenze medico-legali. Per esempio, quando l’impossibilità a presentarsi alla
prova di ammissione di un concorso venga fatta dipendere dalla temporanea invalidità, conseguente a patita
lesione. O, altro esempio, quando per effetto di una lesione iatrogena alle corde vocali si lamenti l’impossi-
bilità di coltivare le aspirazioni ad una carriera di cantante.
(2) Ma talora, in ambito giuridico, le denominazioni si invertono: il termine pretensivo rimanda a
responsabilità contrattuale (come le chance perse per inadempimento da parte del sanitario) e il termine
oppositivo rimanda a responsabilità extracontrattuale (caso dell’automobilista che investa il candidato,
impedendogli di presentarsi ad un concorso).
NOMELAV: 15/21199 PAG: 64 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
64 PARTE GENERALE
l’estrazione dei secondi 10 biglietti perdenti, per 20 giocatori la chance è salita a 1/2 e
per altri 10 si è azzerata. Dopo l’estrazione degli ultimi 10 biglietti perdenti, la chance
è pari a 1 (100%) per i 10 giocatori che hanno vinto e a 0 per gli altri 30.
Allo stesso modo, poniamo che al “tempo zero” la probabilità di sopravvivenza a
15 anni di un determinato paziente, cui è stata diagnosticata una neoplasia, sia stimata
pari al 60%. Ciò significa, in altri termini, che il paziente può essere considerato
membro di una certa popolazione di 100 individui, solo 60 dei quali saranno ancora in
vita 15 anni dopo, ma che — per nostra ignoranza riguardo ai fattori genetici ed
ambientali che condizionano il decorso della malattia (il c.d. meccanismo) — non siamo
in grado di stabilire se egli sarà, o no, tra i sopravvissuti. Ammettiamo che la curva di
mortalità nel tempo non sia lineare e che in particolare si preveda che, dei 100 pazienti,
7 vengano a morte entro 1 anno, 23 entro 3 anni, 30 entro 5 anni, 38 entro 10 anni e
40 entro 15 anni. Se dopo cinque anni il paziente in questione fosse ancora in
remissione, verrebbe a far parte della ideale popolazione dei 70 sopravvissuti, 60 dei
quali si prevede sarebbero ancora in vita al quindicesimo anno (3). Dunque, la sua
probabilità di sopravvivenza sarebbe a quel tempo pari a 6/7 (circa l’86%). Ovviamente,
nell’ipotesi di diagnosi tardiva, le chance residue che rilevano sono quelle che possono
essere stimate all’epoca del giudizio: esse dovrebbero essere raffrontate con quelle che,
in pari epoca, sarebbero invece sussistite, se la diagnosi fosse stata tempestiva.
La conoscenza dei primi fondamenti delle regole della probabilità è indispensabile
all’esperto, ma costituisce pur sempre solo un punto di partenza. Compito del consu-
lente tecnico è di trasmettere al magistrato, nella forma più comprensibile, tutte le
evidenze disponibili per la formazione del giudizio da cui discende la decisione.
Responsabilità tanto maggiore, quella del consulente, in quanto il magistrato, per
assumere la decisione in tema di nesso di causa o di perdita di chance nell’ambito della
responsabilità sanitaria, non dispone di altri elementi di giudizio: né propri, derivati da
generalizzazioni di esperienza (“sapere esperienziale”), né pertinenti a saperi diversi da
quello medico, fornitigli da altri esperti. (Che poi vi siano sentenze dove non fondate e
personali opinioni del giudice vengano contrabbandate sotto l’ingannevole specie della
“probabilità logica”, per rimodellare il giudizio, è un’altra faccenda.)
Naturalmente, premessa indispensabile per il riconoscimento di una perdita di
chance è la dimostrazione di un censurabile errore nella condotta professionale del
sanitario. A questa segue una seconda dimostrazione: che l’adozione dell’appropriate
standard of care (per usare un’espressione della giurisprudenza di common law) avrebbe
concretamente aumentato la probabilità di evitare il danno (“casi chiusi”) o garantito
una migliore prognosi (“casi aperti”). Questa seconda dimostrazione passa attraverso
una realistica stima dei valori pertinenti di probabilità: le evidenze che consentono di
formulare tale stima sono costituite principalmente da dati statistico-epidemiologici. È,
dunque, circostanza sfortunata che non si abbiano a disposizione informazioni suffi-
cientemente attendibili riguardo a numerose malattie. Va detto, peraltro, che per alcune
patologie di frequente occorrenza nel contenzioso, e segnatamente per le più comuni di
(3) L’esempio è tratto da una simulazione eseguita con il software CancerMath (vedi poi) e si riferisce
ad una paziente 40enne affetta da melanoma in stadio T3a, M0, N0. Per semplicità di esposizione si è omesso
di considerare la mortalità attesa per cause diverse dalla neoplasia. In realtà, nella simulazione su 100 pazienti
in analoghe condizioni, 60 saranno ancora in vita 15 anni dopo, 38 saranno morte per il tumore e 2 per altre
cause.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 65 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
LA PERDITA DI CHANCE 65
quelle neoplastiche, la messe dei dati statistici è spesso adeguata per quantità e per
qualità. Tuttavia, la trasposizione di inferenze riguardanti la popolazione in inferenze
riguardanti il singolo individuo rimane critica. Non è questa la sede per una discussione
sulle obiezioni di carattere metodologico che vengono opposte alla legittimità del
passaggio dalla causalità generale a quella individuale. Però, una volta ammesso che tale
passaggio sia legittimo, occorre comunque tener ben presenti alcuni caveat. Le popo-
lazioni di malati da cui si ricavano le statistiche vengono assemblate negli studi sulla
base di criteri di omogeneità, ma il fatto stesso che queste popolazioni si ripartiscano in
due (o più) frazioni a seconda dell’evoluzione naturale della patologia in esame, o degli
esiti della terapia, dimostra che in realtà esistono fattori eziologici non considerati che
le rendono disomogenee, dando ragione del diverso destino dei pazienti. Nella misura
in cui tali fattori sono, allo stato, inconoscibili vale il rimando alla mera casualità (si è
detto che l’impiego di modelli probabilistici trova motivazione nell’incompletezza delle
conoscenze relative al “meccanismo”). Ma vi possono anche essere fattori eziologici
noti, che gli autori dello studio statistico non hanno potuto tenere in considerazione —
per esempio, per la necessità di assemblare un gruppo numericamente significativo di
pazienti — e che devono invece essere considerati nell’adattare i risultati della statistica
al singolo individuo. Nel caso particolare delle neoplasie (4), le statistiche possono
aggregare nello stesso raggruppamento pazienti con diversi istotipi di un determinato
tumore. In generale, un singolo paziente può presentare, in comorbidità, una o più
condizioni cliniche che, secondo accettate cognizioni scientifiche, sono in grado di
condizionare il decorso della malattia, non presenti (o non considerate) nella popola-
zione di riferimento. L’esperto (si usa il singolare, ma si auspica il ricorso ad un collegio
che comprenda, oltre a quelle medico legali, anche le altre appropriate competenze
specialistiche) dovrebbe tener conto di tutti codesti fattori eziologici addizionali per
meglio calibrare la valutazione probabilistica sul caso concreto (5).
Ancora, vanno tenuti nel dovuto conto altri elementi, talora insuperabili, di
incertezza. Ad esempio nelle patologie neoplastiche può qualche volta essere impossi-
bile stabilire in quale stadio della malattia versasse il malato all’epoca della mancata
diagnosi. Spesso, l’incompletezza delle informazioni a tale riguardo induce l’esperto ad
ipotizzare un ventaglio di ipotesi, da cui discende un range di probabilità di sopravvi-
venza compreso tra un minimo e un massimo. Nei casi che abbiamo definito “chiusi”
le difficoltà si arrestano a questo punto: un esito certo (la morte determinata dal tumore)
contro una stima incerta (probabilità di sopravvivenza se la diagnosi fosse stata
tempestiva). Nei casi “aperti”, quando il giudizio riguarda un paziente neoplastico in
fase di remissione, si introduce un ulteriore elemento di difficoltà: la stessa stima incerta
(la probabilità di sopravvivenza se la diagnosi fosse stata tempestiva) contro una stima
comunque, sebbene in minor grado, incerta (probabilità di sopravvivenza allo stato).
È vero che l’esperto può trar partito anche da alcuni software disponibili in rete,
che consentono di formulare — in pazienti affetti da determinate patologie neoplastiche
(4) Per la perdita di chance nelle malattie neoplastiche si rimanda in particolare al Cap. 18 di queste
Linee Guida.
(5) Questo percorso razionale è descritto, nella giurisprudenza, come passaggio dalla (insufficiente)
“probabilità statistica” alla (appagante) “probabilità logica” (le virgolette sono d’obbligo, perchè questi
termini assumono nel linguaggio dei giuristi un significato diverso da quello ordinariamente attribuito loro
dalla scienza della probabilità).
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66 PARTE GENERALE
LA PERDITA DI CHANCE 67
(6) Per esempio le c.d. tavole di Hummel, per la stima della probabilità di paternità (HUMMEL K.,
Biostatistical opinion of parentage, Fischer, Stuttgart, 1971), recano i seguenti “predicati verbali”: >99,75%
“paternità praticamente provata”; tra 99,75% e 99% “paternità altamente probabile”; tra 99% e 95%
“paternità molto probabile”; tra 95 e 90% “paternità probabile”; tra 90% e 50% “valore indifferente”. La
scala numerica adottata dallo Statens Kriminaltekniska Laboratorium svedese, utilizzata per l’attribuzione a
un indagato di reperti biologici (come tracce di sangue) e non, si estende da +4 a -4. A +4 corrisponde una
probabilità uguale o maggiore di 99,9999% (“il risultato supporta in maniera ‘estremamente forte’ l’ipotesi
di attribuzione”); a +3 una probabilità compresa tra 99,9999% e 99,98% (“il risultato supporta in maniera
‘forte’ l’ipotesi di attribuzione”); a +2 una probabilità compresa tra 99,98% e 99% (“il risultato supporta
l’ipotesi di attribuzione”); a +1 una probabilità compresa tra 99% e 85% (“il risultato supporta ‘in qualche
misura’ l’ipotesi di attribuzione”); a 0 una probabilità compresa tra 85% e 15% (“risultato indifferente”); e
così via.
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68 PARTE GENERALE
sentenze della Corte di Cassazione, che distingue tra “probabilità” e “sola possibilità”
di conseguire un risultato vantaggioso (7).
Da ultimo, forse non è superfluo ricordare che, sia in presenza, sia in assenza di
perdita di chance, può comunque sussistere un separato danno biologico, suscettibile di
autonoma valutazione. Due sono i casi paradigmatici. Nel primo, il ritardo diagnostico
di una condizione neoplastica è stato troppo breve, in relazione allo stadio del tumore,
per ridurre l’aspettativa di sopravvivenza: non vi è dunque stata perdita di chance.
Tuttavia, deve essere preso in considerazione il riconoscimento di un periodo di
invalidità temporanea, pari alla durata del ritardo, tanto più se durante detto periodo vi
sono state manifestazioni sintomatiche riconducibili alla neoplasia. Il secondo caso
riguarda un ritardo diagnostico che abbia determinato una progressione di malattia
neoplastica tale da far prospettare l’eventualità di una riduzione dell’aspettativa di vita.
Se il ritardo ha anche condizionato un intervento terapeutico più invasivo o demolitivo
di quello che sarebbe stato necessario in caso di diagnosi tempestiva, allora, oltre alla
perdita di chance, dovrà essere riconosciuto anche un danno biologico permanente.
Va oltre le finalità di queste “linee-guida” la discussione di ulteriori aspetti della
perdita di chance, riferiti a beni non patrimoniali diversi dalla salute, come la sofferenza
morale cagionata dalla consapevolezza delle ridotte aspettative di sopravvivenza a
cagione dell’errore medico, o come il pregiudizio della possibilità di programmare
“l’agenda di vita” per la tardiva conoscenza di una prognosi infausta.
Bibliografia
APRILE A., FABRIS A., RODRIGUEZ D., Danno da perdita di chance nella responsabilità medica, Padova
University Press ed., 2014.
BILANCETTI M., BILANCETTI F., La responsabilità penale e civile del medico, 8a ed., CEDAM, Padova,
2013 (Cap III: “Il rapporto causale tra la condotta e il danno, una prospettiva nuova: la
perdita della chance di guarigione”, p.: 998-1041).
CHINDEMI D., Responsabilità del medico e della struttura sanitaria pubblica e privata, Altalex ed.,
Milano, 2014 (Cap VI-5: “Il danno da perdita di chance”, p.: 477-491).
DE FINETTI B., Filosofia della probabilità, in (a cura di) Mura A., “Il Saggiatore” ed., Milano, 1995.
FARNETI A., CUCCI M., LOCATELLI A., Il ritardo diagnostico in oncologia, Giuffrè ed., Milano, 2007,
FIORI A., MARCHETTI D., Medicina legale della responsabilità medica — Nuovi profili, vol. 3, Giuffrè
ed., Milano, 2009 (Cap VIII-9: “La perdita di chance come danno patrimoniale e non
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http://www.lifemath.net/cancer
http://www.skl.polisen.se/en/English
NORELLI A. ET AL., La “perdita di chance”: un’importante chance per la medicina legale, Riv It Med
Leg, 37: 389-400, 2015.
(7) Così, nella menzionata sentenza 21619/2007, giudici supremi usano il termine “probabilità
relativa” per designare quella superiore al 50% (ma che non raggiunge la “quasi certezza”) e di possibilità per
riferirsi a quella inferiore al 50%. Possibile, come gradazione quantitativamente inferiore di probabile, fa
parte del linguaggio comune o colloquiale ma non trova riscontro nel lessico scientifico, di cui — sembra a
chi scrive — dovrebbero servirsi anche gli uomini di legge, quando fanno riferimento a nozioni proprie delle
materie scientifiche, come quelle relative alla probabilità.
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LA PERDITA DI CHANCE 69
NOCCO L., Il “sincretismo causale” e la politica del diritto: spunti dalla responsabilità sanitaria,
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VIAZZI C., L’accertamento del nesso causale: ruolo della medicina legale e ricostruzione giuridica del
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Capitolo VII
METODOLOGIA VALUTATIVA NEI SOGGETTI IN ETÀ EVOLUTIVA
VII.a. Premessa e criteriologia generale. — VII.b. Danno somatico in età evolutiva. — VII.c. Danno psichico
in età evolutiva. — VII.c.1. La nozione di sviluppo psichico. — VII.c.2. Danno temporaneo e danno
permanente. — VII.c.3. Criteri diagnostici categoriali e dimensionali. — VII.c.4. Quadri psicopatologici. —
VII.c.5. Eventi patogenetici/condizioni in grado di produrre un danno risarcibile
72 PARTE GENERALE
medico-legale, disegnati dai due principali codici del nostro ordinamento e da alcune
leggi, al di là della risaputa acquisizione della capacità di agire e della possibilità di
essere ritenuti penalmente imputabili dopo il compimento dei 18 anni.
I 14 anni rappresentano l’età più ricorrente sia in ambito penale, che in ambito
civile. Al di sotto di essa un individuo non è imputabile, salvo che se ne dimostri la
capacità di intendere e volere. A questa età è riconosciuto il diritto di querela, anche in
caso di rinuncia da parte dei legali rappresentanti, come pure di remissione della
querela, in accordo con i predetti. Non è punibile il minore che compia atti sessuali con
un minore di 13 anni, se la differenza d’età non è superiore a 3 anni.
La donna minore può accedere a presidi contraccettivi a qualsiasi età, come pure
può ottenere l’interruzione volontaria della gravidanza anche a fronte del dissenso dei
genitori, su provvedimento motivato del giudice tutelare; in caso di urgenza medical-
mente certificata non è necessario neppure l’intervento del giudice.
Nel diritto di famiglia l’età maggiormente considerata è quella dei 16 anni,
compiuti i quali il minore, in caso di gravi motivi valutandi da parte del Tribunale, può
contrarre matrimonio; a tale età si può riconoscere un figlio nato fuori dal matrimonio
e si è richiesti di assentire al riconoscimento da parte del genitore naturale, nonché
essere ascoltati dal giudice in caso di nomina di un tutore, e, addirittura dall’età di 10
anni, per quanto riguarda le modalità di espletamento della tutela legale e di formazione
scolastica e professionale. Dai 15 anni il minore può essere avviato al lavoro.
In ambito clinico è ormai prassi consolidata coinvolgere nelle procedure di
informazione e consenso anche in minori ultra-dodicenni e, in determinate contingenze,
pure infra-dodicenni. A tal proposito sono noti al contesto peritale medico-legale casi
di rifiuto di cure oncologiche particolarmente “gravose” da parte di minori, nei
confronti dei quali si è proceduto a valutazione peritale — con esito positivo — della
maturità intellettiva e della adeguata consapevolezza decisionale in ambito giudiziario.
Ciò sinteticamente premesso sul piano normativo, per quanto qui elettivamente
interessa è opportuno un sintetico richiamo a quelle tappe dello sviluppo individuale
che la medicina dell’età evolutiva ha di massima individuato in questi ultimi anni,
secondo la seguente scansione quali-quantitativa (adeguata alle esigenze di questo
contesto):
— prima infanzia: dalla nascita a 2 anni;
— seconda infanzia: da 2 a 6 anni;
— fanciullezza: da 6 a 10 anni;
— pre-adolescenza: da 10 a 13 anni;
— adolescenza: da 13 a 16 anni;
— post-adolescenza: da 16 a 18 anni.
In linea di massima, fino ai 2 anni il bambino non ha ancora raggiunto la fase
concettuale, cioè del ragionamento deduttivo e interpretativo che prescinde dalla diretta
osservazione di un fenomeno, per poi acquisire gradualmente, dai 2 ai 6 anni, delle idee
sulla relazione causa-effetto e sulla possibilità di prevedere ciò che sta per accadere,
anche se in termini ancora alquanto “egocentrici”; dai 6 ai 10 anni acquisisce la capacità
di cogliere le relazioni spazio-temporali e il significato dei numeri, di compiere
ragionamenti logici e collegarli ad azioni concrete e individua sempre più correttamente
le caratteristiche di ciò che lo circonda; infine, dai 10 ai 13 anni, con piuttosto ampia
variabilità inter-individuale, si va progressivamente completando il pensiero logico e
astratto e la capacità di compiere operazioni mentali relativamente complesse.
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74 PARTE GENERALE
76 PARTE GENERALE
sostitutive, dipendentemente dalla precocità della loro instaurazione), nonché per altre
severe menomazioni (principalmente inerenti le funzioni neurologiche e muscolo-
scheletriche, foriere di importanti squilibri bio-meccanici produttivi di riverberi disfun-
zionali anche a carico di distretti non direttamente coinvolti dalla lesione primitiva),
oppure ancora per gravi sovvertimenti delle funzioni di strutture anatomiche uniche
non compensabili da adelfe, nell’età evolutiva il danno biologico ancora non compiu-
tamente assestato, ma suscettibile di miglioramento — secondo i criteri clinico-
prognostici e statistico-epidemiologi dianzi indicati — può essere per lo più parame-
trato - non come regola tassativa, ma soltanto come suggerimento di carattere pratico e
con valore indicativo — sui livelli percentuali inferiori delle fasce indicate in queste
Linee Guida.
Oltre ai sopra accennati casi di natura endocrinologica, maggiormente importanti
per quanto riguarda l’età evolutiva, esistono — non soltanto in questa età, ma qui con
maggior incidenza negativa — altre condizioni morbose, o post-traumatiche, che
richiedono l’adozione di misure farmaco-terapiche da protrarsi sine die. Ad esempio: la
somministrazione di anti-epilettici, di anti-trombotici, di analettici cardiaci o respiratori,
di anti-virali, etc. Come pure esistono casi per i quali sussistono rischi/condizionamenti
particolari, che impongono estemporanee misure di cure e profilassi farmacologiche,
quali, ad esempio: la fragilità immunologica in occasione di contagi batterici negli stati
splenoprivi, la propensione alle infezioni urinarie nelle compromissioni delle vie
escretrici, la necessità di pro-coagulanti nelle patologie a carattere emorragico, etc.
È evidente che i predetti condizionamenti terapeutici — che compromettono in
maniera variabile, ma comunque quasi mai trascurabile — la qualità della vita di coloro
che ne sono assoggettati, devono trovare adeguata considerazione valutativa. Pertanto,
per fattispecie non inscritte nel catalogo delle voci comprese in queste Linee Guida che
contemplano espressamente implicazioni di questa natura, si deve procedere sia mo-
dulando la percentualizzazione nei termini maggiorativi precedentemente indicati, sia
aggiungendo alla quantificazione numerica una sufficientemente dettagliata descrizione
delle specifiche ripercussioni negative determinate dalla “schiavitù” delle cure sulla vita
personale e socio-relazionale.
In questo contesto torna particolarmente utile la parametrazione in fasce percen-
tuali, in quanto essa consente — specie nelle situazioni nelle quali l’età comporta
tipicamente una significativa variabilità sul piano del recupero funzionale — quel già
raccomandato adattamento della quantificazione numerica che è particolarmente utile
specie nelle condizioni di maggior portata invalidante; infatti, ad esse corrispondono
fasce percentuali maggiormente ampie, all’interno delle quali può essere prescelto il
valore più adeguato alla potenziale evolutività, in peius, o in melius, delle menomazioni.
Esempi paradigmatici si trovano nelle peculiari quantificazioni delle più volte citate
compromissioni endocrine, ma anche di quelle sensoriali (in primis vista e udito) che
s’instaurano a sviluppo somatico non completato.
D’altra parte, è il caso di sottolineare che — quantunque su piano diverso rispetto
a quello sul quale si muove la valutazione medico-legale — nel vigente sistema
risarcitorio la traduzione economica del danno biologico privilegia — correttamente —
le fasce d’età giovanili, attraverso una capitalizzazione che contempla, ab intrinseco,
compensazioni più elevate proprio per coloro che appartengono all’età evolutiva.
A prescindere da questo presupposto di indole giuridica, nelle percentuali predi-
sposte in queste Linee Guida sono regolarmente richiamate e considerate, per ogni
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78 PARTE GENERALE
intendersi come condizioni patogene diverse fra loro che possono produrre esiti clinici
simili.
Qualora l’evento o gli eventi psicolesivi non abbiano determinato una compromis-
sione del processo di sviluppo, è possibile fornire alcune utili applicazioni valutative.
Sono da considerarsi le variazioni peggiorative relative ad alcune capacità tra le
quali in età evolutiva assumono particolare rilevanza le seguenti: capacità di relazione
sociale; espressione degli affetti; capacità di addormentamento, qualità e continuità del
sonno; comportamento alimentare; cura della persona; attività ludiche di gruppo; tono
dell’umore; funzionamento scolastico.
Le suddette manifestazioni sono spesso comprese all’interno di un disturbo
dell’adattamento non cronicizzato.
80 PARTE GENERALE
Sul piano clinico, le reazioni possono includere due principali quadri nosografici:
il Disturbo dell’adattamento (DA) ed il Disturbo da stress post-traumatico (DSPT).
Oltre a questi vanno considerati alcuni disturbi specifici dell’infanzia quali: il Disturbo
reattivo dell’attaccamento, il Disturbo da impegno sociale disinibito (più rari e legati a
condizioni di abuso e neglect nella prima infanzia) e il Disturbo d’ansia da separazione
(originato da esperienze di distacco forzato dalle figure di attaccamento).
I primi due disturbi sono stati trattati in forma generale e con dettagliati riferimenti
al DSM 5 nel capitolo dedicato alle menomazioni delle funzioni psichiche. Anche per
gli altri, specificamente inseriti in questo capitolo, si è tenuto debito conto delle
definizioni e dei criteri riportati nel DSM-5.
Tra gli eventi in grado di generare reazioni psichiche negative sono descritte alcune
condizioni del tutto peculiari per l’età evolutiva, rappresentate dall’orfanezza, dal
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82 PARTE GENERALE
A. Comportamento emotivamente inibito e ritirato nei confronti dei caregivers adulti, che si
manifesta attraverso rara, o minimale ricerca di conforto del bambino e altrettanto esigua risposta
agli atti consolatori nei momenti di disagio.
B. Persistenti turbe sociali ed emotive caratterizzate da almeno due delle seguenti condizioni:
— minima responsività sociale ed emotiva agli altri
— ridotte risposte affettive positive
— episodi di inspiegabile irritabilità, tristezza o paura nei confronti dei caregivers.
C. Il bambino è stato vittima di almeno uno dei seguenti fenomeni:
— trascuratezza, deprivazione sociale, con mancanza di soddisfazione dei fondamentali
bisogni da parte dei caregivers
— reiterati mutamenti delle persone di riferimento, con impossibilità a stringere legami
stabili
— permanenza in ambienti educativi inadeguati allo sviluppo di solidi e selettivi legami (es.
collegi, istituti).
D. Correlazione causale tra le condizioni di cui al criterio C e quelle di cui al criterio A.
E. Insussistenza dei criteri propri dei disturbi dello spettro autistico
F. Il disturbo esordisce prima dei 5 anni.
G. Il bambino ha un’età evolutiva di almeno 9 mesi.
Sul piano diagnostico differenziale deve essere distinto dai disturbi della sfera
autistica, dai disturbi dello sviluppo intellettivo e dai disturbi depressivi.
Possibili complicanze sono rappresentate da ritardo cognitivo e del linguaggio.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per la quantificazione del danno biologico permanente, dipendentemente dalla durata del neglect e dalla
numerosità dei sintomi precedentemente elencati, nonché in base alle menzionate aggravanti e ai criteri
prognostici derivati dall’esperienza clinica, può essere utilizzata la seguente scansione percentuale.
Forma lieve 11-15%
Forma lieve complicata o moderata 16-20%
Forma moderata complicata o grave 21-25%
Forma grave complicata 26-30%
A. L’interrelazione del bambino con adulti sconosciuti è caratterizzata da almeno due dei
seguenti comportamenti:
— ridotta o assente riservatezza nei contatti con adulti non familiari
— eccessiva confidenzialità nei comportamenti fisici e verbali
— scarso o assente controllo a distanza dei caregivers, anche in contesti non familiari
— propensione ad allontanarsi con un adulto sconosciuto senza alcuna esitazione.
B. I comportamenti del precedente criterio A non sono limitati all’impulsività (come nel
disturbo da deficit di attenzione/iperattività — DDAI), ma comprendono anche un comporta-
mento sociale disinibito.
C. Il bambino ha sperimentato situazioni di cure estreme o insufficienti, comprovate da
almeno una delle seguenti condizioni: neglect sul piano affettivo, consolatorio e stimolativo;
reiterati mutamenti delle figure di riferimento; inserimento in ambienti educativi inadeguati allo
sviluppo di solide e selettive affettività.
D. Presumibile correlazione causale tra le condizioni di cui al criterio C e quelle di cui al
criterio A.
E. Il bambino ha un’età evolutiva di almeno 9 mesi
84 PARTE GENERALE
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La sua portata invalidante è sostanzialmente simile a quella del disturbo reattivo dell’attaccamento, ma
mancano di solito le reazioni controtransferali dei caregivers, per cui dipendentemente dalla durata del
neglect e dalla numerosità dei sintomi precedentemente elencati, questo disturbo può essere quantificato su
livelli meno elevati del precedente, così delineabili.
Forma lieve 6-10%
Forma lieve complicata o moderata 11-15%
Forma moderata complicata o grave 16-20%
Forma grave complicata 21-25%
B. La paura, l’ansia o i comportamenti evitanti persistono per almeno quattro settimane nei
bambini e negli adolescenti e tipicamente per almeno sei mesi negli adulti.
C. I disturbi causano disagio clinicamente significativo o disabilità in ambito sociale,
scolastico e occupazionale, o in altre importanti aree del funzionamento.
D. Il disturbo non è meglio spiegato da altri quadri psicopatologici, come quelli dello spettro
autistico, i deliri e le allucinazione dei disturbi psicotici, il rifiuto di uscire senza una compagnia
tranquillizzante nell’agorafobia, le preoccupazioni di contrarre una malattia o di incorrere in gravi
rischi del disturbo d’ansia generalizzata, o il sospetto di essere malati nel disturbo d’ansia da
malattia.
Periodi più o meno brevi di incremento dell’ansia dovuto alla separazione dalle
figure di attaccamento fanno parte integrante del processo di crescita del bambino,
anche perché favoriscono la creazione di relazioni di attaccamento sicure; pertanto,
onde distinguere tali forme ansiose fisiologiche da quelle patologiche, è necessaria
un’accurata disamina dello sviluppo psicosociale del bambino.
Il disturbo d’ansia di separazione è il disturbo d’ansia più diffuso nei bambini con
meno di dodici anni ed è più frequente nel sesso femminile. L’esordio può verificarsi in
qualsiasi momento durante l’infanzia e l’andamento è tipicamente oscillante, con
alternanza di periodi di esacerbazione e di remissione.
La manifestazioni cliniche variano in base all’età del bambino (preoccupazioni
aspecifiche, paure, calo del rendimento scolastico); nei casi di maggiore gravità possono
verificarsi reazioni di rabbia e aggressività, rifiuto scolastico, isolamento sociale, fino al
completo blocco dell’evoluzione e della maturazione psichica e all’insorgenza di im-
portanti disturbi psicopatologici permanenti di tipo ansioso-depressivo.
Generalmente il disturbo recede nel corso degli anni, ma può talora persistere in
età adulta, causando limitazioni nelle attività socio-lavorative (riluttanza a lasciare la
casa dei genitori, a sposarsi, a viaggiare, a traslocare, etc.).
Il disturbo d’ansia di separazione mostra una significativa componente genetica
(l’ereditabilità è stata stimata al 73%), ma si sviluppa spesso anche a seguito di life
events stressanti, specialmente morte o malattie di persone care, divorzi e separazioni
dei genitori, emigrazioni, traslochi, cambiamenti di scuola, etc.
I comportamenti iperprotettivi e intrusivi dei genitori sembrano svolgere un ruolo
favorente.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Dipendentemente dall’entità e dalla numerosità dei sintomi elencati nei precitati criteri diagnostici e dal
possibile sbocco in disturbi d’ansia o depressivi, il danno biologico permanente può essere modulato
attraverso i seguenti parametri
Forma lieve 11-15%
Forma moderata 16-20%
Forma grave 21-25%
Forma grave complicata 26-30%
86 PARTE GENERALE
Traumatismi cranici
La valutazione degli esiti di un traumatismo cranico nel minore è assai complessa
poiché il trauma interviene su di un encefalo ancora in evoluzione e gli esiti dipende-
ranno da quando e quanto il trauma influenzerà lo sviluppo anatomo-funzionale, che,
a sua volta, comprometterà l’acquisizione di nuove abilità.
Sarà dunque molto importante distinguere fra le diverse aree che possono essere
colpite e tenere conto che, in base alla sede della lesione, si assisterà ad esiti sintoma-
tologici differenti.
Gli esiti neuropsicologici possono consistere un disfunzioni settoriali (disabilità
linguistiche e/o prattognosiche) ovvero in un deterioramento cognitivo di entità deri-
vante sia dalla sede e dall’entità della lesione, sia dallo stadio di sviluppo del bambino.
Per quanto riguarda gli esiti neurologici si rimanda al capitolo dedicato alle
funzioni neurologiche centrali.
Orfanezza
Si tratta di una condizione sulla quale vi è concordanza, in letteratura, circa il fatto
che la perdita di una persona di riferimento, specie di un genitore, è sicuramente atta
a pregiudicare l’armonioso sviluppo della persona, inducendo importanti distorsioni
nello sviluppo della personalità e delle relazioni inter-personali. La morte di un genitore
va ad incidere pesantemente sulla relazione affettiva, educativa e di accudimento,
facendo venire meno al bambino una base sicura capace di strutturare i processi di
attaccamento e di costruzione della propria identità personale.
Ne è prova sia la documentata prevalenza di molti disturbi psichici (dalla depres-
sione ad altre patologie, come il DSPT), sia l’elevata incidenza di suicidi nei soggetti che
hanno perso un genitore in età infantile.
Del resto, anche il DSM-5 riconosce la possibilità di sviluppare un disturbo da lutto
da parte di bambini di età superiore a 1 anno, appunto per la perdita di un genitore.
Pure secondo il PDM (2008) “la perdita di un genitore interferisce col normale
sviluppo” del bambino, anche se questi “non manifesta alcun sintomo specifico del lutto”,
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88 PARTE GENERALE
Sul piano descrittivo occorre distinguere gli stressors isolati o ripetuti. La maggior
parte delle condizioni di abuso/maltrattamento corrisponde a stress ripetuti, mentre le
reazioni tipo DSPT rappresentano una minoranza di casi che seguono per lo più ad
esperienze isolate accompagnate da coercizione e da un vissuto di minaccia e di pericolo
per la propria integrità fisica.
Vanno inoltre considerate le condizioni di “maltrattamento istituzionale”, ovvero
quegli interventi disposti dai Servizi sociali (in senso commissivo o omissivo) contra-
stanti con le linee guida vigenti e riconosciuti come lesivi in quanto interferenze
arbitrarie o illegali nella vita privata e familiare in violazione dell’art. 8 della Conven-
zione Europea dei Diritti dell’Uomo e/o dell’art. 16 della Convenzione ONU dei Diritti
del Fanciullo di New York.
Le esperienze di abuso/maltrattamento/trascuratezza sono riconducibili nella mag-
gior parte dei casi ad un trauma “complesso”. Il termine descrive l’esposizione di minori
ad eventi traumatici e gli effetti immediati ed a lungo termine causati da tale esposizione.
Il trauma complesso si riferisce all’esperienza relativa ad eventi traumatici multipli che
si verificano nel sistema di cure primario, ovvero in quello specifico ambiente sociale che
si presuppone essere la risorsa principale di stabilità e sicurezza per la vita del bambino.
Generalmente include le esperienze simultanee o sequenziali di carattere cronico e che
si verificano dai primi anni di vita.
Gli esiti sintomatici del trauma complesso sono multipli ed includono conseguenze
persistenti che coinvolgono ed indeboliscono molteplici funzioni, la regolazione del sé,
l’attaccamento, la modulazione dell’ansia e dell’aggressività, l’adattamento sociale, con
rischio di disordini psichici e somatici già a partire dai primi anni di vita. Tali condizioni
rientrano fra le cd. “modificazioni della personalità” per la cui quan-tificazione si
rimanda a quanto riportato nel capitolo 1.
Tali esiti possono configurare un Disturbo reattivo dell’attaccamento, un Disturbo
da impegno sociale disinibito o un Disturbo d’ansia da separazione.
Per quanto riguarda l’abuso sessuale, gli esiti sono variabili e si legano a diversi
fattori. Le Linee Guida in tema di abuso sul minore (SINPIA, 2007) così si esprimono:
“Il danno cagionato è tanto maggiore quanto più: il maltrattamento resta sommerso e non
viene individuato; il maltrattamento è ripetuto nel tempo ed effettuato con violenza e
coercizione; la risposta di protezione alla vittima nel suo contesto familiare o sociale
ritarda; il vissuto traumatico resta non espresso o non elaborato; la dipendenza fisica e/o
psicologica e/o sessuale tra la vittima e il soggetto maltrattante è forte; il legame tra la
vittima e il soggetto maltrattante è di tipo familiare; lo stadio di sviluppo ed i fattori di
rischio presenti nella vittima favoriscono una evoluzione negativa.
La letteratura psichiatrica segnala un aumento del rischio di gesti autolesivi nelle
età successive.
Anche la “seduzione infantile” fisicamente non violenta ha comunque effetti
patogenetici.
In analogia con quanto indicato a proposito dell’orfanezza, quantunque le reazioni
ad abuso sessuale possano essere apparentemente sfumate, o difficilmente percepibili
nel breve termine dopo le violenze, possono valere ad accreditare un danno biologico
permanente sotto-traccia, essendo assai improbabile che eventi del genere non lascino
“cicatrici” nella sfera psico-relazionale di un bambino.
Scontatamente, queste “cicatrici” possono risultare particolarmente grossolane nel
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Bullismo
Il bullismo può essere definito come una particolare forma di violenza costituita da
comportamenti violenti, pervasivi e spesso con conseguenze durature. È tipico delle
relazioni tra compagni di scuola e altre consimili forme di stretta convivenza e viene
caratterizzato da uno squilibrio di potere, di soggezione, o di forza tra il bullo e la
vittima. Si tratta di un fenomeno non circoscritto all’età evolutiva ma allargato anche
all’età giovanile, associandosi spesso a dinamiche di gruppo; si rimanda per la sua
trattazione al capitolo 1.
90 PARTE GENERALE
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Capitolo VIII
METODOLOGIA VALUTATIVA NEI SOGGETTI IN ETÀ AVANZATA
VIII.a. Premessa
94 PARTE GENERALE
— per la valutazione dello stato funzionale: ADL, IADL, Short Physical Perfor-
mance Battery (SPPB);
— per la valutazione cognitiva: MMSE, Mini-Cog e CDR (Clinical Dementia
Ratio);
— per l’assetto psicologico: Patient Health Questionnaire (PHQ9 o PHQ 2);
Geriatric Depression Scale (GDS);
— per la valutazione sociale ed economica (colloquio con l’interessato, raccolta di
informazioni presso terzi e ricognizione diretta sull’ambiente di vita).
Il nostro Ministero della Salute, nell’ambito degli strumenti di identificazione della
fragilità inseriti in una guida monografica del 2010 (Criteri di appropriatezza clinica,
tecnologica e strutturale nell’assistenza all’anziano), ha consigliato l’utilizzo di test di
performance fisica e, più in particolare, il sopra citato SPPB: esame che prevede tre
semplici e brevi test atti ad esplorare le performances fisiche dell’anziano (equilibrio,
marcia, etc.).
Le scale Multi-Dimensionali Quantitative misurano quanto clinicamente osservato,
inserendo i dati così acquisiti in una griglia di analisi quantitativa; prendono inoltre in
considerazione autovalutazioni raccolte con questionari e resoconti dei caregiver (indice
di Katz, di Barthel, etc.).
I principali indici di funzionalità sono i seguenti:
— Indice di Katz nelle ADL (Activity Daily Living): valuta il grado di difficoltà del
soggetto nell’attendere ad ognuna delle sei attività previste (fare il bagno, o la doccia
-vestirsi — usare toilette — trasferirsi dal letto, o da una sedia — mantenere la
continenza - alimentarsi). Il risultato per ogni attività spazia dall’autonomia pratica-
mente completa nell’eseguire ognuna delle suddette attività, fino alla dipendenza totale.
— Indice di Barthel nelle ADL: valuta l’autonomia del soggetto nelle attività del
vivere quotidiano, esaminando 10 items ad ognuno dei quali è attribuito un punteggio
intero 0, 5, 10, 15 (totale da 45 a 100); fornisce un giudizio complessivo sulla
funzionalità dell’anziano, sempre secondo un range che va dall’indipendenza alla
dipendenza. Per la descrizione completa del test si rimanda al capitolo dedicato alle
funzioni neurologiche centrali.
— Scala delle IADL (Instrumental Activity Daily Living): valuta la capacità di
compiere attività complesse considerate necessarie per il mantenimento dell’indipen-
denza attraverso l’analisi di 8 items, a ciascuno dei quali viene assegnato un punteggio
da 0 a 2; il risultato per ogni item analizzato va dall’assenza di compromissione alla grave
compromissione della autonomia del soggetto nel compiere tali attività.
Negli ultimi decenni la valutazione multidimensionale geriatrica ha avuto una
notevole evoluzione ed è attualmente focalizzata sull’utilizzo di strumenti di “terza
generazione” specifici e onnicomprensivi dei diversi setting assistenziali dove è inserito
l’anziano (ospedale per acuti, lungodegenza geriatrica, RSA, ADI, etc).
La valutazione delle funzioni psico-fisiche, cognitive, timiche e dello stato socio-
economico si avvale delle scale sopra indicate e deve essere integrata con le informazioni
tratte dalle specifiche caratteristiche del setting assistenziale, anche al fine di ottimizzare
gli obiettivi assistenziali.
La specificità dei succitati metodi e strumenti rende ragione della necessità di
adottare una altrettanto specifica metodologia anche in campo valutativo medico-legale,
convenientemente diversificata rispetto agli standard applicabili alla popolazione di età
adulta e giovanile. Infatti, quantunque il livello complessivo di salute e di autonomia dei
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96 PARTE GENERALE
soggetti anziani possa mantenersi a lungo buono, essi devono necessariamente confron-
tarsi con una alquanto variabile, ma inesorabilmente progressiva, maggior vulnerabilità
e con un minor grado di recuperabilità dopo il verificarsi di lesioni traumatiche, o di
eventi morbosi, viceversa agevolmente superabili/compensabili in età giovanile e adulta.
Questa particolare condizione dell’anziano — sulla quale si tornerà in seguito — è
definibile, non soltanto in chiave geriatrica, ma anche ai fini medico-legali, come
rientrante nella “norma statistica”, suffragata dai dati della letteratura della predetta
area medica e dal pressoché costante riscontro esperienziale.
Tuttavia, come dianzi accennato, essa non incide con la medesima intensità su ogni
anziano di pari fascia d’età, ciascuno dei quali possiede una sua propria “normalità”.
mente integro e sano”, dovendosi invece far riferimento al concetto di “normalità per
l’età individuale”.
D’altra parte, la persona anziana è sempre rimasta estranea all’attenzione degli
estensori delle tabelle valutative medico-legali, sicuramente anche per il retaggio che le
ha condizionate dalla loro origine, ma anche successivamente nell’alveo infortunistico
sociale, con conseguentemente elettivo riferimento all’ “homo faber”, cioè ad un
individuo abile al lavoro e implicitamente “integro e sano”.
In ambito civilistico, per la crescente importanza dei dati precedentemente richia-
mati circa l’incremento della popolazione anziana al di sopra della fascia di età per lo
più coincidente con il ritiro dal lavoro, nonché, soprattutto, in ragione delle ancor più
pregnanti motivazioni biologiche pur esse dianzi precisate, l’anziano deve essere invece
preso in una considerazione valutativa sui generis. In altre parole, è necessario tener
debito conto del suo minor grado di resilienza e di adattabilità rispetto alle variazioni
del suo stato psico-fisico, specie quando queste ultime siano repentine e drastiche, come
si constata nell’ordinaria esperienza peritale, che dimostra regolarmente quanto esse
siano foriere di prolungamenti delle cure e di amplificazioni, anche notevoli, delle
conseguenze menomative.
Questi presupposti richiedono un appropriato adattamento della criteriologia
valutativa, che non può limitarsi a quantificare gli esiti di lesioni/patologie che si
sarebbero mediamente verificati in un giovane, o in un adulto in buone condizioni
generali, attraverso l’applicazione di percentuali standard — appunto commisurate a
soggetti del genere — ma deve ricomprendere quanto pertinente all’effettiva e com-
plessiva variazione dello stato anteriore causalmente, o concausalmente ascrivibile
all’illecito: ove la concausalità consiste in maniera di gran lunga prevalente nella fragilità
normale per quel determinato soggetto anziano, tenendo debito conto che la vulnera-
bilità di persone intorno ai 70 anni è ben diversa da quella di persone intorno agli 80
anni, o ai 90 anni e oltre.
Ciò risulta particolarmente importante se sol si pensa — a titolo esemplificativo —
che sono sempre più frequenti i traumatismi della strada nella fascia di età 70-80 anni,
nella quale si conserva per lo più un buon grado di autonomia locomotoria (che
consente spesso anche l’uso della bicicletta, oltre che dell’auto), nonché quelli da caduta
nel contesto di residenze assistenziali geriatriche (spesso dalla carrozzina, o dal letto,
con implicazioni di responsabilità in capo alle residenze e ai loro operatori).
A tal fine risulta particolarmente utile il riferimento alla classificazione geriatrica
canadese della fragilità, che comprende nove categorie cliniche, partendo dal soggetto
cosiddetto “very fit” (il cosiddetto “fittest” fra gli anziani), passando a quello “vulne-
rable” (che sebbene autonomo spesso ha una attività motoria limitata e si affatica
precocemente), e giungendo quindi a quadri di progressiva perdita dell’autonomia nelle
IADL (mildly frail) e in parte delle ADL (moderate frail), per concludersi con le
categorie estreme, che includono individui totalmente dipendente da terzi.
L’utilizzo della scala canadese come riferimento geriatrico per la valutazione
medico-legale del danno nell’anziano può valere al duplice scopo di definire con un
linguaggio scientificamente accreditato le diverse condizioni di fragilità e può risultare
particolarmente utile per individuare lo stato anteriore e quello susseguente all’evento
di interesse valutativo.
All’uopo si ritiene opportuno semplificare la scala categoriale, restringendola a
quattro livelli:
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98 PARTE GENERALE
passaggio da una categoria inferiore ad una superiore, oppure se non vi è stata alcun
variazione in tal senso, essendosi mantenuto sostanzialmente inalterato il preesistente
livello di validità individuale.
È il caso di soggiungere che nelle quattro categorie sopra elencate si intravvedono,
in filigrana, le seguenti fasce percentuali, essendo per gli addetti ai lavori piuttosto
evidente che un anziano, stando alla definizione della quarta categoria versa in condi-
zioni di invalidità comprese dal 76 al 100%, in base alla definizione della terza categoria
tali condizioni sono comprese dal 51 al 75% e, secondo la definizione della seconda
categoria, dal 26 al 50%.
La prima categoria non è suscettibile di esser rapporta ad una pre-determinata
fascia di invalidità, atteso che le condizioni generali degli anziani che vi appartengono
rientrano sostanzialmente in condizioni di validità definibili normali rispetto all’età.
Tutto ciò precisato, se un soggetto appartenente a tale categoria incorre in un
evento traumatico, o patologico, dal quale derivano soltanto conseguenze menomative
circoscritte al distretto/organo vulnerato, senza nessun’altra ripercussione extra-
distrettuale, il danno biologico permanente può essere per lo più quantificato senza, o
con soltanto modici, correttivi di tipo maggiorativo.
Invece, se al danno distrettuale (che talora può anche essere enucleato per via
induttiva dal complessivo contesto menomativo) si sovrappongono ripercussioni inva-
lidanti più ampie, in comprovato nesso fisiopatologico (causale/concausale) con la
lesione/patologia inziale, la percentuale del danno complessivamente risarcibile può
essere individuata all’interno delle fasce delle tre categorie superiori, in maniera
proporzionata alla variazione complessiva dello stato anteriore. Ad es., nel caso in cui
un anziano abbia riportato fratture agli arti inferiori i cui esiti, una volta stabilizzatisi,
lo costringano ad usare in maniera continuativa una carrozzina — collocandolo così
nella quarta categoria — la quantificazione del danno complessivamente risarcibile deve
basarsi su una percentuale nell’ordine dell’80%, ovviamente comprensiva del danno
distrettuale. Qualora lo stesso anziano risultasse immobilizzato a letto, pur rientrando
nella medesima quarta categoria, il danno complessivamente risarcibile può basarsi su
percentuali comprese tra il 90 e il 100%, dipendentemente dalla residue funzioni
cognitive, relazionali e prassiche. E ancora, se un anziano ha riportato un importante
deficit funzionale dell’arto superiore non dominante e una frattura di arto inferiore, i cui
postumi gli consentono di deambulare soltanto con appoggio, è collocabile nella terza
categoria e la quantificazione del danno complessivamente risarcibile, ovviamente
comprensiva del danno distrettuale, potrà basarsi su una percentuale nell’ordine del
60%. Oppure, se un anziano ha subito la perdita anatomica delle dita di un piede,
all’esito del quale per la locomozione è necessario un deambulatore, o l’utilizzo di due
stampelle ascellari, è inquadrabile nella terza categoria e nella quantificazione del danno
complessivamente risarcibile si può far riferimento ad una percentuale compresa tra il
45 e il 50%.
Del resto — come da regola generale precedentemente richiamata — in ambito
civilistico deve essere risarcito il danno subìto dalla persona, non dal distretto funzio-
nale, per cui non è né razionale, né giusto, sul piano biologico, far tara dello svantaggio
naturalisticamente connaturato con l’età avanzata in ragione della fragilità e della
vulnerabilità proprie di tale età.
Sul piano prasseologico risarcitorio questa età è poi anche penalizzata dalla drastica
contrazione del valore economico del punto biologico stabilito per le ultime decadi della
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sul piano della concatenazione fisio-patologica con l’evento illecito il nesso causale/
concausale delle complessive conseguenze menomative — il peggioramento dello stato
anteriore deriva — in forma unitaria e decisamente determinante — da tale illecito,
andando ad incidere sullo stato di fragilità/vulnerabilità fisiologicamente connaturato
con l’età avanzata, ma lungi dal rappresentare di per sé una condizione morbosa,
rientrando invece in quella sua “normalità individuale” (appunto propria dell’età),
repentinamente messa a repentaglio dall’azione umana sostanziata dall’illecito.
Del resto, già nel 2011, la Cassazione Civile (Sez. III, n. 15991 del 21/07/2011)
ebbe modo di affermare che nessun correttivo del risarcimento può attuarsi qualora “...
il danneggiato, prima dell’evento, risulti portatore di una mera “predisposizione”, ovvero
di uno “stato di vulnerabilità” (stati preesistenti non necessariamente patologici, o
invalidanti...) ... e comunque appaia indimostrabile la circostanza che, a prescindere dalla
causa imputabile, la situazione pregressa sarebbe comunque, anche in assenza dell’evento
di danno, risultata modificativa in senso patologico invalidante della situazione del
soggetto... Il giudice non procederà pertanto ad alcuna diminuzione del quantum debeatur,
atteso che un’opposta soluzione condurrebbe ad affermare l’intollerabile principio per cui
persone che ... siano per natura e per vicissitudini di vita più vulnerabili di altre,
dovrebbero irragionevolmente appagarsi di una tutela risarcitoria minore rispetto a quella
riservata ad altri consociati ...”
Particolarmente meritevole di attenzione, in questa sentenza, è l’utilizzo — tra gli
altri lemmi, non meno chiari nel loro significato metodologico — dei termini ”vulne-
rabilità” e “stati preesistenti non necessariamente patologici, o invalidanti”, che suffraga
— ad alto livello di autorevolezza — la criteriologia poco sopra enunciata per escludere
l’applicabilità del danno differenziale, specie ove nell’anziano si sviluppino effetti
invalidanti più ampi e gravi a seguito di consimili eventi lesivi riportati da soggetti
giovani, o adulti.
Un esempio emblematico può essere rappresentato dagli effetti “meiopragizzanti”
innescati da esiti traumatici o vascolari encefalici, che, nelle età avanzate, molto
frequentemente si riverberano negativamente a livello sistemico, determinando com-
promissioni multiorgano, in ordine alle quali si è specificamente trattato nel capitolo 2.
Devono inoltre essere considerati gli effetti del protratto mantenimento del clinostati-
smo (a letto, o nella posizione assisa, su carrozzina, etc.), spesso susseguenti a “semplici”
fratture di arto inferiore, anch’essi sovente forieri di riverberi organici e neuro-psichici
“spropositati” rispetto alla lesività iniziale.
Un classico esempio è quello della sindrome da allettamento: condizione che
sovente prende le mosse da un evento clinico acuto localizzato, che talora può anche
subire una successiva stabilizzazione a livello distrettuale, al quale subentra però
deterioramento complessivo del funzionamento individuale, esorbitante rispetto alla
tipologia dell’acuzie iniziale innescata dall’illecito e dovuto a quelli che possiamo ben
definire i suoi “effetti collaterali”, di frequente accadimento appunto nelle persone
anziane.
Ciò premesso, oltre ad essere consonante ai principi della buona pratica valutativa
medico-legale, risponde anche ad una logica di giustificatezza risarcitoria procedere ad
una stima del danno biologico proporzionata all’effettiva e complessiva variazione
peggiorativa cagionata alla sfera somato-psichica dell’anziano.
Soccorre in proposito una recente pronuncia della Cassazione Civile (Sez. lavoro,
n. 26590 del 17/12/2014), la quale ha stabilito che: “Il risarcimento del danno deve essere
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personalizzato, al fine di offrire una risposta adeguata e satisfativa rispetto alla lesione di
beni giuridici preminenti, quali la vita e la salute, e nel raggiungere l’integrale riparazione
del danno può discostarsi dalle indicazioni contenute nella tabelle giudiziali nella legisla-
zione in materia”.
In conclusione, per la valutazione del danno in età avanzata è indispensabile
seguire un percorso valutativo ad hoc.
Una volta appurato il nesso causale tra evento e variazione complessiva dello stato
anteriore a mente del peculiare substrato fisio-patologico che caratterizza l’età avanzata,
ci si deve svincolare dal parametro dei postumi distrettuali catalogati secondo standard
tabellari e di per sé soli considerati (che, comunque, possono giustificare ogni indica-
zione ritenuta utile dall’esperto), per giungere — attraverso il rigoroso utilizzo dei criteri
metodologici dianzi descritti — a descrivere e motivare l’eventuale inserimento dell’an-
ziano in una delle categorie sopra elencate, onde esprimere conclusivamente percentuali
- anche di gran lunga maggiori rispetto allo standard tabellare utilizzabile per la stima
del danno distrettuale standard — attribuendo la dovuta preminenza alla compromis-
sione complessiva dell’autonomia individuale.
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Capitolo IX
SPESE PER CURE, MISURE FACILITATIVE, DEVICES E PROTESI
IX.a. Cure. — IX.b. Protesi. — IX.b.1. Protesi intra-corporee. — IX.b.2. Protesi extra-corporee
IX.a. Cure
In relazione alle fattispecie ultime citate, si aprono questioni di non facile risolvi-
bilità con riferimento ai trattamenti alternativi (dall’omeopatia all’agopuntura, dal-
l’osteopatia alla fitoterapia, etc.). Nel caso in cui il danneggiato ricorra a questi
trattamenti e pretenda il rimborso dei relativi costi, qualora la loro efficacia sia
largamente e motivatamente disconosciuta nell’attuale conteso medico-scientifico, sus-
sistendo inoltre rimedi correnti di viceversa comprovata validità nella corrente pratica
terapeutica, il rimborso potrà essere razionalmente negato. Possono fare eccezione
alcune pratiche, come l’osteopatia e la chiropratica, se esercitate da professionisti in
possesso del diploma in fisioterapia.
Una sintetica menzione meritano le spese che, in caso di paraplegia, o altre
consimili menomazioni neuromotorie, sono necessarie per compensare parzialmente la
compromissione della deambulazione.
È evidente che non si tratta di spese definibili stricto sensu di cura, o riabilitazione,
ma che sono di fondamentale importanza per attenuare l’incidenza del danno biologico
permanente sulle sue componenti dinamico-funzionali, che non possono neppure
classificarsi come speciali, in quanto inerenti alla vita quotidiana comune a tutti. Tra le
spese che devono essere rimborsate in questi casi figurano quelle concernenti gli ausili
alla locomozione necessari ai motulesi, come le carrozzine a movimentazione manuale
o motorizzata, nonché l’abbattimento delle barriere architettoniche e l’adeguamento
generale dell’ambiente domestico finalizzati a consentire gli spostamenti sia all’interno
di tale ambiente, sia all’esterno.
Tutti questi costi richiedono di essere vagliati in ambito medico-legale, ove si tratta
di formulare un giudizio di congruità e utilità rispetto alla menomazione risarcibile,
spettando ovviamente ad altre competenze la stima economica dei mezzi speciali di
locomozione (talora limitati ai necessari adattamenti dei comandi di vetture standard) e
delle ristrutturazioni edilizie.
È ovvio che non è materialmente possibile elencare esaustivamente le numerosis-
sime tipologie e i relativi costi di questo tipo di ausili, finalizzati a mitigare ab extrinseco
il danno biologico. Per queste spese, il ruolo del medico legale consiste essenzialmente
nel pronunciare un giudizio basato sulla sopra riportata classificazione, sceverando le
misure necessarie e utili, da quelle meramente opzionali o superflue.
IX.b. Protesi
Per quanto riguarda gli effetti di indole generale delle misure protesiche — siano
esse applicate a livello extra-corporeo, come pure a livello intra-corporeo — ove esse
rientrino in standard clinici adottati per menomazioni/patologie la cui gestione tera-
peutica si avvale routinariamente di queste misure (es.: in ambito cardio-vascolare,
ortopedico, audiologico, etc.), l’inquadramento valutativo formulato in queste Linee
Guida contiene regolarmente specifici richiami ai loro effetti mitiganti sulla menoma-
zione, nonché alla corrispettivamente diversa ponderazione percentuale. Tale ponde-
razione deve basarsi anche sulla funzionalità distrettuale post-protesica, con l’inevitabile
riserva che questa funzionalità non è comunque mai tale da corrispondere a quella
originaria.
A differenza dell’ambito penale, ove i rimedi artificiali apportati alle conseguenze
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menomative di lesioni personali non hanno rilevanza, nell’ambito civile il ristoro del
danno deve essere, almeno di principio e tendenzialmente, integrale, ma non oltre.
In questo capitolo saranno sinteticamente affrontati i peculiari aspetti di metodo-
logia valutativa che muovono dalla necessità di esprimere dei giudizi di indole quali-
quantitativa in ordine alla rimborsabilità delle principali tipologie di protesi.
funzionale riscontrabile con la protesi applicata, segnatamente per quelle protesi ad alta
tecnologia, di prezzo particolarmente elevato, che sono tali da consentire recuperi
anatomo-funzionali altrettanto elevati.
In questi casi la compensazione economica dei costi protesici può non di rado
superare quella del danno biologico permanente “tabellarmente tariffato” con l’ordi-
naria prevalenza della perdita anatomica, mentre, di fatto, la compromissione funzionale
del distretto anatomico protesizzato risulta molto attenuata. Va da sé che mai come in
questi casi la percentualizzazione del danno alla persona deve essere razionalmente
modulata caso per caso, appunto dipendentemente dalla predetta, effettiva compro-
missione funzionale.
Soltanto come riferimento indicativo generale, richiamiamo l’utilità della consul-
tazione del “Nomenclatore Tariffario delle Protesi” (agevolmente accessibile tramite
Internet), la cui matrice ministeriale conferisce al testo un indiscutibile valore ufficiale,
con l’avvertenza che l’ultima edizione (al momento della redazione di questo capitolo)
risale al 2013. In questo testo, decisamente ampio e dettagliato, il valutatore può
senz’altro trovare valide ispirazioni per dare attendibili risposte quali-quantitative ai
quesiti inerenti le spese derivanti da necessità protesiche. Altrettanto utile può risultare
la consultazione dell’amplissimo catalogo della ditta Otto Blok (Budrio — Bologna),
che produce protesi degli arti dotate di sofisticati sistemi articolari, tra i molti dei quali
ci limitiamo a menzionare il ginocchio a controllo elettronico Genium e la mano
“Michelangelo Hand”.
Va da sé che i costi contemplati in questi due cataloghi sono molto diversi (ma
questo aspetto vale per qualsivoglia tariffario più o meno ufficiale, di organismi pubblici
o privati) e che sul libero mercato la gamma dei prezzi è enormemente vasta, specie per
le protesi high tech, quali quelle di seguito descritte.
Ai fini valutativi medico-legali si deve sempre e comunque tenere in considerazione
il diritto “di base” del danneggiato di fruire della fornitura di matrice assicurativa, o
solidaristica socio-sanitaria pubblica (INAIL, INPS, SSN), che potrà essere integrato
con forniture di provenienza privata, ove le prime siano comprovatamente inadeguate,
insufficienti, ovvero ove il danneggiato dimostri l’indispensabilità di altri devices per
mantenere il profilo di vita quotidiana, di lavoro e relazionale in essere in epoca
antecedente all’instaurarsi della menomazione.
A questo proposito si deve ovviamente tener conto che taluni presidi protesici
speciali diventano inutilizzabili, o superflui, col progredire dell’età e con l’esaurimento
dell’attività lavorativa. Donde la necessità di soppesare accuratamente l’entità delle
relative spese future.
Si pone inoltre il problema — più generale e di non agevole soluzione — dei limiti
economici fino ai quali è razionale/ragionevole accreditare la rimborsabilità, allo stato e
futura, di protesi del genere e pure di come tener conto della corrispondente riduzione
dell’effettivo nocumento funzionale post-protesico. Non è invero rara la presentazione
non soltanto di fatture a consuntivo per protesi già fornite, ma anche di preventivi (per
lo più provenienti da operatori di officine protesiche, spesso “affiliate” all’INAIL, ma
esercitanti anche privatamente) concernenti spese future per rinnovi integrali o parziali
e sostituzione di parti assoggettate a più o meno rapida usura, il cui costo complessivo
supera di gran lunga il corrispettivo economico inerente la liquidazione del danno
biologico permanente.
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PARTE SISTEMATICA
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Capitolo 1
FUNZIONI PSICHICHE E RELAZIONALI
1.1. Premessa. — 1.2. Danno permanente e danno temporaneo. — 1.3. Preesistenze. — 1.4. Idoneità
psico-lesiva degli eventi e criterio di proporzionamento del danno psichico. — 1.5. Scala di rilevanza degli
eventi psico-traumatici e coefficienti di taratura del danno biologico. — 1.6. La simulazione. — 1.7. Reazioni
psichiche a determinati life events. — 1.8. Disturbi correlati a eventi traumatici stressanti. — 1.9. Disturbi
dissociativi. — 1.10. Disturbo da sintomi somatici e altri disturbi correlati. — 1.11. Disturbi d’ansia. —
1.12. Disturbi depressivi. — 1.13. Disturbo ossessivo-compulsivo e altri disturbi correlati. — 1.14. Disturbi
bipolari e altri disturbi correlati. — 1.15. Disturbi dello spettro schizofrenico e altri disturbi psicotici. —
1.16. Disturbi del neuro-sviluppo. — 1.17. Disturbo da lutto persistente complicato
1.1. Premessa
Certo non a caso, anche nella sua dimensione strettamente clinica, la Psichiatria ha
sempre considerato tutt’altro che marginale “the connection between the trauma and
ensuing emotional problems”, ovvero la questione di fondo per la valutazione medico-
legale consistente, appunto, nell’asseverazione o nella smentita della rapportabilità
eziologica di un determinato disturbo ad un determinato life event.
Le quantificazioni percentuali discendono dai presupposti storico-bibliografici
largamente noti mercè la capillare diffusione di tabelle e guide medico-legali edite negli
ultimi anni.
A questo proposito precisiamo che, quantunque il DSM-5 abbia omesso specifici
richiami alle scale di valutazione del funzionamento generale (VGF) e socio-lavorativo
(VFSL) riportate nel DSM-IV-TR (prevedendo comunque criteri quantificativi del
disfunzionamento personale e socio-lavorativo a carattere maggiormente descrittivo e
non “abiurando” espressamente la validità delle predette scale), poiché esse rappresen-
tano un importante trait d’union tra l’area psichiatrica e quella medico-legale, abbiamo
ritenuto di continuare ad utilizzarle come falsariga dell’impianto concettuale e numerico
sul quale poggia la metodologia valutativa qui presentata.
È nozione comune che la valutazione medico-legale del danno psichico deve essere
effettuata solo allorquando la reazione acuta — che può comunque integrare un danno
biologico temporaneo, tra l’altro talvolta di notevole durata e di entità spesso superiore
rispetto a quella corrispondente al danno permanente stabilizzato — si è risolta. A tal
proposito vi è, di massima, ampio consenso nel ritenere necessario per la stabilizzazione
un lasso di tempo compreso tra 1 e 2 anni, dipendentemente dalla tipologia e dalla
gravità dei sintomi, dalla risposta al trattamento e dalla compliance del soggetto nei
confronti dello stesso, nonché dagli apporti negativi di eventuali conflittualità risarci-
torie, non infrequentemente tali da radicalizzare ed accentuare il grado di “sofferenza”,
reale o presunto, del sedicente danneggiato.
Solitamente un lasso cronologico di tale entità è sufficiente per far apprezzare
un’evolutività in senso migliorativo, come pure (più raramente) peggiorativo, e per
consentire di tener conto anche dei giovamenti apportatati dagli eventuali trattamenti
terapeutici e dai sostegni sociali/famigliari se del caso presenti.
Ogni categoria di disturbi è stata rappresentata con il profilo sintomatologico e con
la criteriologia diagnostica adottate dal DSM-5, alle indicazioni del quale si sono ispirate
anche le graduazioni della gravità degli effetti invalidanti, che sono stati comunque
ponderati tenendo debito conto della criteriologia valutativa medico-legale corrente-
mente impiegata per la stima del danno biologico. Sono state inoltre analizzate, e molto
sinteticamente richiamate, le seguenti caratteristiche utili non soltanto ai fini dell’inqua-
dramento diagnostico dei disturbi, ma anche della graduazione della loro incidenza
invalidante: a) prevalenza statistica; b) rapporti con eventi psico-traumatici; c) essenziali
riferimenti alla popolazione infantile; d) prospettive catamnestiche e prognostiche.
Per quanto riguarda il danno temporaneo, si è utilizzata la corrente criteriologia
medico-legale, scandita attraverso i classici parametri del 100, 75, 50, 25% o altre
percentuali, ritenute eventualmente congrue rispetto all’estremamente variabile entità
dell’invalidazione personale e socio-lavorativa che può correlarsi ai disturbi psico-
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patologici: taluni confinati alla sfera intima e talora neppure percepibili sul piano
relazionale, altri comportanti una drastica compromissione della personalità, nei suoi
aspetti intimistici e relazionali.
A questo proposito v’è da tener conto che alcuni disturbi effettivamente esitano in
una risoluzione completa (ad es. in diversi casi di reazioni psico-patologiche a mobbing
o a lutto, con graduale e completa elaborazione), mentre per i c.d. “disturbi con
risoluzione” (ad es. il disturbo psicotico breve o l’episodio depressivo maggiore), che
possono sembrare estinti al momento della valutazione peritale, si deve invece tener
conto che il “raffreddamento” della sintomatologia psico-patologica non corrisponde
sempre e comunque ad una sufficientemente certa restitutio ad integrum. Ad es. un
episodio depressivo con risoluzione comporta un aumento di cinque volte del rischio
generale di incorrere in un secondo episodio di depressione. In questi casi si deve
pertanto tener debito conto di una peculiare forma di permanenza del disturbo in forma
sub-clinica (definibile anche “sotto-traccia”), in quanto i sintomi, pur rimanendo
sufficientemente inespressi/controllati, sono tuttavia suscettibili di riaffiorare non ap-
pena un’esperienza destabilizzante increspi la superficie dell’apparente normalità.
Tipiche, in tal senso, sono le reazioni differite a life events remoti, ai quali
conseguono, a gran distanza di tempo, repentini ed apparentemente inesplicabili
squilibri psico-comportamentali di tipo depressivo e ansioso, come ad es. può accadere
nei casi (espressamente menzionati nel DSM-5) di suicidi attuati molti anni dopo una
fase depressiva innestatasi su esperienze psico-stressanti, ad es. un lutto mai elaborato
o una violenza, specie se subita in età minorile.
In definitiva, permanenza e temporaneità hanno, nel danno psichico, connotazioni
sensibilmente difformi da quelle che si osservano nel danno somatico e, di conseguenza,
richiedono l’adozione di criteri valutativi consensuali alle peculiari modalità che carat-
terizzano l’evoluzione e la stabilizzazione dei disturbi psico-patologici, nonché i tratta-
menti terapeutici e l’adattamento personale e sociale di coloro che ne sono affetti.
1.3. Preesistenze
limitazioni che possono essere soltanto eccezionalmente superate per c.d. “ragioni di
giustizia”.
La notevole rilevanza delle preesistenze è ben sottolineata nel DSM-5, ove si
precisa che il tratto di personalità condiziona la tendenza a vivere, percepire, compor-
tarsi e pensare, in maniera duratura nel tempo e nelle varie situazioni, appunto secondo
le peculiari caratteristiche del medesimo. Ad es. persone con un alto livello di ansia nel
proprio tratto di personalità possono sperimentare rapidamente ansia anche in circo-
stanze in cui la maggior parte degli individui rimangono calmi e rilassati. Tali soggetti
evitano, di solito, situazioni che ritengono fonte di ansia e tendono a “pensare il mondo”
come complessivamente ansiogeno. Quantunque i tratti di personalità non siano
immutabili, essi dimostrano una relativa stabilità attraverso i consensualmente omologhi
e specifici comportamenti.
Il DSM-5 gradua su cinque livelli di gravità — da 0 (nessuna o poca compromis-
sione) a 4 (estrema compromissione) — l’incidenza negativa dei tratti/disturbi di
personalità sul funzionamento personale e sociale, a riprova dell’importanza di queste
caratteristiche nello sviluppo dei disturbi francamente psico-patologici ad omologa
connotazione sintomatologica.
In definitiva, il tratto di personalità rappresenta spesso non soltanto una tendenza/
predisposizione potenziale verso particolari comportamenti, ma un vero e proprio
fattore concausale.
Il DSM-5 contiene anche altre indicazioni sulla personalità, che possono avere
interesse per l’operatività medico-legale, quale ad es.: “... il funzionamento della
personalità è distribuito lungo un continuum. Un ruolo centrale nel funzionamento e
nell’adattamento è svolto dai modi soggettivi di concepire e capire sé stessi e le proprie
interazioni con gli altri. Un individuo con un funzionamento ottimale possiede un mondo
psicologico complesso, estremamente elaborato e ben integrato, che include un concetto di
sé solitamente positivo, volitivo e adattativo; una vita emotiva ricca, ampia e opportuna-
mente regolata; e la capacità di comportarsi come un membro produttivo della società con
relazioni interpersonali reciproche e appaganti. All’estremo opposto del continuum, un
individuo con una grave patologia di personalità possiede un mondo psicologico impove-
rito, disorganizzato e/o conflittuale, che include un concetto di sé labile, indefinito e
disadattativo; una propensione per emozioni negative e disregolate; e una scarsa capacità
di funzionamento interpersonale e comportamento sociale adattativo”. Ciò significa — in
maniera assolutamente chiara — che un evento può agire su un tratto di personalità che
già a priori rende il soggetto propenso a sviluppare disfunzionalità dello psichismo di
omologa tipologia, così come — a maggior ragione — può accadere qualora preesista
un vero e proprio disturbo di personalità che, dopo un life event, evolva in un franco
disturbo psico-patologico di analoga tipologia.
Va inoltre sottolineata la necessità — decisamente rilevante in sede medico-legale
— di stabilire se ed in quale misura un determinato evento abbia quantomeno
concausato il viraggio in peius del predetto continuum, oppure se tale evento abbia di
per sé causato de novo un disturbo psico-patologico, addirittura disomogeneo rispetto
al tratto di personalità.
A tal fine non si può in alcun modo trascurare l’applicazione del criterio di
proporzionalità e di coerenza sintomatologica sottesi al dianzi citato inquadramento
clinico del DSM, che ben valorizza le individuali propensioni a sviluppare reazioni
abnormi, in maniera particolarmente accentuata dopo esperienze di vita negative.
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(matrimonio, gravidanza, crescita del ruolo lavorativo, nascite, etc.), sono classificati
eventi sicuramente negativi, che interessano particolarmente in questa sede (violenze
subite, morte di persone care, lesioni e malattie gravi, problemi con la giustizia o di tipo
economico, espulsione dal lavoro o traversie in tale ambito, perdita dell’abitazione, etc.)
e che sono previsti anche nei codici Z dell’ICD-10, cui rimanda il DSM-5.
Abbiamo dunque modificato i contenuti di queste scale consensualmente alle
peculiari fattispecie che ricorrono in ambito medico-legale.
V’è da aggiungere che, poiché un life event può essere seguito nel tempo da
un’efficace metabolizzazione dell’esperienza psico-lesiva, talora con scomparsa pratica-
mente completa della susseguente alterazione della sfera psichica, altre volte con suoi
soltanto marginali residui ed altre ancora con “postumi permanenti”, prima di gra-
duarne gli effetti invalidanti è necessario graduare l’entità dell’esperienza negativa,
utilizzando un sistema di proporzionamento modellato sulle predette scale di matrice
psicologica. Diversamente si corre il rischio di ammettere la risarcibilità di alterazioni
mentali pur effettivamente in essere, ma totalmente, o parzialmente, estranee all’effi-
cienza psico-lesiva dell’illecito altrui, se non addirittura inesistenti, come nei casi di
amplificazione, di simulazione o di pretestazione.
1.5. Scala di rilevanza degli eventi psico-traumatici e coefficienti di taratura del danno
biologico
1.6. La simulazione
si può far riferimento alla parametrazione tabellare dei corrispettivi disturbi disadatta-
tivi o depressivi.
Con il varo della legge n. 38/2009 (successivamente integrata e modificata nel
2013), lo stalking ha avuto una definizione normativa molto precisa e — lo si deve
riconoscere — anche sufficientemente ampia e circostanziata sotto il profilo fattuale. La
norma sanziona infatti penalmente chiunque, con “condotte reiterate, minaccia o molesta
taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero da
ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di
persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare
le proprie abitudini di vita”.
L’esposizione a queste forme di violenza va ad intaccare non soltanto l’assetto
personale e il profilo socio-relazionale della vittima, ma ingenera ineluttabilmente anche
condotte di evitamento e reazioni psichiche che incidono significativamente su diversi
aspetti della funzionalità individuale, di carattere intimo e relazionale, oltre che sociale
e lavorativo, restringendo notevolmente la libertà di movimento e conculcando lo stile
di vita della vittima.
Quel che interessa qui evidenziare ai fini valutativi è che la norma prevede
esplicitamente la comparsa di un “perdurante e grave stato d’ansia”: uno stato che può
essere anche considerato come una reazione semplicemente emotiva (in buona sostanza
traducibile con il concetto di perturbamento dell’animo che, in altra dimensione,
connota il danno morale), ma che in ambito clinico — checché abbia inteso il legislatore
e ne pensi la giurisprudenza (v. Cass. Pen., Sez. V, n. 16864/2011) — ha un preciso
significato nosologico, rientrando spesso nei disturbi d’ansia.
Oltre alle reazioni di tipo ansioso e depressivo, la letteratura segnala anche lo
sviluppo di comportamenti a rischio per la salute (abuso di fumo e alcolici, etc.) e di
disturbi psico-somatici.
Nelle condizioni in cui viene ad essere fisicamente minacciata l’incolumità e, non
infrequentemente, la vita (sono invero numerosi i femminicidi come epilogo di questo
comportamento persecutorio), si delinea un vero e proprio disturbo da stress post-
traumatico. Si realizzano infatti quasi sempre un incremento dell’arousal, nel tentativo
di fronteggiare — anche col solo evitamento — la persecuzione, nonché alterazioni di
tipo distimico, essenzialmente dovute alle privazioni subite: perdita della serenità e della
sicurezza per la propria incolumità; detrimento dell’immagine sociale e della relaziona-
lità, anche per la necessità di adottare costanti limitazioni prudenziali della propria
autonomia; sconforto per la sfiducia di poter uscire dalla condizione di persecuzione,
vista anche l’usuale limitatezza dell’efficacia dei provvedimenti di pubblica sicurezza.
Da tutto ciò derivano, non infrequentemente (circa nel 10% dei casi), ideazioni
suicidarie, essendo questa considerata l’unica “via d’uscita”. Nel determinismo del-
l’eventuale cronicizzazione dei disturbi incide anche il noto fenomeno della “vittimiz-
zazione secondaria”, indotto da risposte sociali negative o stigmatizzanti nei confronti
della vittima e dalle provanti vicende processuali.
A questa condizione corrisponde pressoché costantemente un danno psichico
temporaneo e, nel caso in cui si verifichi quella cronicizzazione dei disturbi, o la loro
persistenza sotto traccia (già ricordata per le precedenti categorie), si dovrà riconoscere
anche un danno biologico permanente, consensualmente alla tipologia e alla portata dei
sintomi, facendo riferimento alla relativa tabellazione.
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In questa sede è poi opportuno un sintetico accenno alle conseguenze che può
avere una violenza sessuale, dipendentemente se essa è stata subita in età adulta, o in età
infantile. Poiché la violenza subita in età adulta ha una frequenza di gran lunga maggiore
ed è anche quella che ha gli effetti psico-traumatici più agevolmente constatabili e
proiettabili prognosticamente nel tempo, mentre nel bambino sussistono notorie diffi-
coltà di indagine e accertamento per entrambe queste interpretazioni cliniche, presen-
tiamo dapprima il paradigma sintomatologico degli effetti psico-reattivi della prima.
Essi consistono essenzialmente, all’atto della sua consumazione, nell’innesco di un
elevato livello di angoscia e paura per la violazione, in sé e per sé, della propria libertà
di autodeterminazione e della propria sfera intima, ma anche per l’incertezza degli
sviluppi dell’aggressione in ordine all’incolumità personale, specie se l’aggressione
avviene “a mano armata”, o con coercizione fisica che metta a repentaglio la sopravvi-
venza. Nel periodo immediatamente successivo la vittima denota sovente i tipici sintomi
del disturbo da stress post-traumatico, ai quali nei mesi seguenti possono residuare, in
circa la metà dei casi, sintomi mal-adattativi, con ansia e depressione, alla cui genesi
concorrono l’umiliazione e lo spregio per la propria libertà, connaturate con questo tipo
di prevaricazione, all’un tempo fisica e psicologica. In questo contesto sindromico la
componente depressiva è per lo più sostenuta da pensieri autosvalutativi, o addirittura
da sensi di colpa, motivati dalla sensazione di un’incauta esposizione e di una inefficace
capacità di sottrazione alla prevaricazione.
Ovviamente, oltre alla portata invalidante delle eventuali reazioni psico-patologiche
- essenzialmente ruotanti intorno al disturbo da stress post-traumatico (la violenza
sessuale di gruppo e singola è collocata ai due livelli più elevati della classificazione degli
eventi psico-traumatici) — nella valutazione medico-legale delle conseguenze dell’ag-
gressione devono essere annoverate anche quelle somatiche e psico-somatiche, che non
infrequentemente si manifestano con precipuo riferimento alla sfera genitale e all’atti-
vità sessuale. Richiamando il fenomeno dell’evitamento che è tipico del disturbo da
stress post-traumatico, è invero evidente che la predetta attività può subire una drastica
compromissione, specie se alla violenza si siano aggiunte serie preoccupazioni per
eventuali contagi infettivi o rischi di gravidanza.
Ove la violenza configuri un abuso sessuale nell’infanzia, la letteratura psichiatrica
segnala un aumento del rischio di suicidio nelle età successive. Anche per i minori il
danno psichico deve essere correlato al grado di violenza connesso all’abuso, col quale
si proporziona, a sua volta, l’entità del disturbo da stress post-traumatico. Soggiungiamo
che anche la “seduzione infantile” fisicamente non violenta ha effetti patogenetici.
In analogia con quanto indicato a proposito dell’orfanezza, quantunque le reazioni
ad abuso sessuale possano essere apparentemente sfumate, o difficilmente percepibili
nel breve termine dopo le violenze, possono valere ad accreditare un danno biologico
permanente sotto-traccia, essendo assai improbabile che eventi del genere non lascino
“cicatrici” nella sfera psico-relazionale di un bambino. Scontatamente, queste “cica-
trici” possono risultare particolarmente grossolane nel caso in cui la violenza sia
perpetrata da ascendenti, o familiari diretti o acquisiti, o da persone che hanno ruoli di
protezione e formazione nei confronti dei minori.
Infine, è importante una breve trattazione del bullismo, che può essere definito
come una particolare forma di violenza costituita da comportamenti violenti, pervasivi
e spesso con conseguenze durature, tipica delle relazioni tra compagni di scuola,
commilitoni e altre consimili forme di stretta convivenza. Questi comportamenti di
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altre volte la reazione può manifestarsi sotto forma di anedonia, disforia, rabbia e
aggressività, o addirittura sintomi dissociativi.
A causa della variabilità del quadro clinico non è infrequente trovare combinazioni
altrettanto variabili dei predetti sintomi, tutti sostanzialmente afferenti ad uno stato di
disadattamento.
A. Esposizione a morte reale o minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale in
uno, o più dei seguenti modi:
1) esperienza diretta degli eventi traumatici;
2) testimonianza personale di eventi traumatici subiti da altri;
3) aver appreso che l’evento traumatico ha coinvolto un congiunto, o un amico stretto. Nel
caso di morte o di minaccia di morte, l’evento deve essere stato caratterizzato da violenza dolosa
o accidentale
4) esperienza ripetuta, o estrema esposizione, a particolari raccapriccianti (rinvenimento/
recupero di resti umani, fronteggiamento di casi di abuso su minori, etc.); tale criterio non si
applica qualora l’esposizione avvenga attraverso media elettronici, televisione, film o immagini, a
meno che essa non sia legata al lavoro svolto.
B. Presenza di uno, o più dei seguenti sintomi intrusivi, esorditi dopo l’evento psico-
traumatico:
1) ricordi sgradevoli, ricorrenti e involontari dell’evento traumatico. Nei bambini maggiori
di 6 anni possono manifestarsi giochi ripetitivi in cui vengono espressi temi o aspetti riguardanti
l’esperienza psico-traumatica;
2) sogni sgradevoli e ricorrenti con contenuto correlato all’evento psico-traumatico. Nei
bambini possono comparire incubi spaventosi senza i predetti contenuti;
3) reazioni dissociative (es. flashback) nelle quali il soggetto sente, o agisce come se l’evento
traumatico si stesse ripresentando, sino alla completa perdita di consapevolezza dell’ambiente
circostante. Nei bambini la riattualizzazione può esprimersi nei giochi;
4) intenso o prolungato distress all’accidentale esposizione a situazioni, interne o esterne,
ricalcanti o simbolizzanti l’evento psico-traumatico;
5) marcate reazioni alle predette situazioni.
C. Evitamento persistente di stimoli associati all’evento psico-traumatico, dimostrato da uno,
o entrambi questi comportamenti:
1) evitamento, o tentativo di evitamento di ricordi, pensieri, o sensazioni sgradevoli associati
all’evento psico-traumatico;
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Si ritiene che il DSPT sia il risultato di una commistione fra componenti psicolo-
giche e neuro-biologiche e che queste ultime siano in grado di modificare il funziona-
mento del SNC, talora in forma stabile a lungo termine.
Gli indicatori prognostici sono i seguenti:
— favorevoli: rapido esordio dei sintomi, buon funzionamento pre-morboso, forte
sostegno sociale, assenza di altri disturbi psichiatrici, buona risposta ai trattamenti di
ricondizionamento psicologico (es. EMDR — Eyes Movement Desensitization and
Reprocessing), che in alcuni casi sembrano essere efficaci.
— sfavorevoli: intervento assistenziale tardivo (anche se gli interventi “sul posto”,
tipo debrifing, hanno efficacia quanto meno dubbia), sovrapposizione di ulteriori eventi
avversi, reiterata e inevitabile esposizione a stimoli sensoriali che evocano il ricordo del
trauma.
Le complicanze più frequenti sono rappresentate da disturbi depressivi, spesso con
sensi di colpa inerenti all’evento, o da abuso di sostanze.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per la quantificazione del danno biologico permanente si deve tener conto dell’entità e della numerosità dei
sintomi annoverati nei criteri diagnostici.
Forma lieve 11-15%
Forma lieve complicata o moderata 16-20%
Forma moderata complicata o grave 21-25%
Forma grave complicata 26-30%
A. L’esposizione a morte reale o minaccia di morte, lesioni gravi o violenza sessuale in forma
personalmente vissuta, o direttamente testimoniata, o attraverso l’apprendimento che eventi del
genere sono occorsi a parenti e amici stretti (per questi ultimi gli eventi connotati da morte, o
pericolo di morte devono avere matrici violente/accidentali); reiterate esperienze o esposizioni
estreme a dettagli avversivi di eventi traumatici come il recupero di resti umani, l’approccio
professionale continuativo a bambini abusati, etc.
La partecipazione a situazioni del genere non assume significato causale se avviene attraverso
mezzi mediatici, a meno che tali mezzi siano attivamente utilizzati come obbligo professionale
(work-related).
B. Presenza di nove o più dei seguenti sintomi, raggruppati in cinque categorie:
1) sintomi di intrusione (ricorrente affioramento alla memoria dell’evento traumatico, o
frequenti sogni/incubi attinenti ad esso, reazioni dissociative tipo flashbacks, intense reazioni a
fronte di rappresentazioni intrinseche, o estrinseche evocanti l’evento traumatico);
2) umore negativo (persistente incapacità di provare soddisfazione, gioia, o sentimenti
positivi);
3) sintomi dissociativi (alterazione del senso di realtà rispetto a sé stessi e/o all’ambiente
esterno e al fluire del tempo, sensazione di stordimento, incapacità di ricordare aspetti importanti
dell’evento traumatico, non dovuta a trauma cranico, alcool o sostanze);
4) sintomi di evitamento (tentativi di evitare ricordi disturbanti attinenti all’evento trauma-
tico e di evitare situazioni, persone, argomenti, attività e oggetti che lo ricordano);
5) sintomi di arousal (disturbi del sonno, ipervigilanza, esagerate risposte di allarme, deficit
della concentrazione, agiti di irritabilità e rabbia anche a fronte di situazioni non realmente
provocatorie).
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Disturbi dell’adattamento
Questo tipo di disturbi è stato inserito nel DSM-5 nell’area delle reazioni ad eventi
stressanti, mentre prima costituiva una categoria autonoma, definibile come “residuale”.
I criteri diagnostici di questo tipo di disturbi sono i seguenti:
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La quantificazione del danno biologico permanente corrispondente ai sopra illustrati profili sintomatologici
del disturbo può suddividersi nelle seguenti fasce percentuali.
Disturbo dell’adattamento non complicato 6-10%
Disturbo dell’adattamento complicato 11-15%
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Nei bambini i sintomi non sono attribuibili a normali attività ludiche fantastiche.
Il disturbo ha prevalenza praticamente sovrapponibile nei maschi e nelle femmine
e si può manifestare ad ogni età. Vi è spesso comorbidità con il disturbo dissociativo
dell’identità, il disturbo da stress post-traumatico e altri disturbi associati a traumi ed
eventi stressanti, nonché a carattere depressivo, di conversione e da sintomi somatici,
per elencare soltanto quelli di maggior interesse medico-legale.
Tra i soggetti affetti da questo disturbo, si riscontra una prevalenza anamnestica di
abusi fisici e sessuali nell’infanzia, che può raggiungere addirittura il 90%. Nella sua
genesi hanno importanza anche altre forme psico-traumatizzanti, quali pratiche medi-
che e chirurgiche nell’infanzia, esperienze di situazioni di guerra, di terrorismo e di
prostituzione minorile, etc.
Sono frequenti i comportamenti auto-aggressivi, fino al suicidio; al riguardo, il
DSM-5 segnala che l’aliquota di individui che pongono in essere tentativi di suicidio,
anche reiterati, può raggiungere il 70%.
La prognosi è sfavorevole quando l’abuso è protratto, se subentrano ri-
traumatizzazioni successive, altri disturbi mentali, o malattie gravi, o ancora se vi è un
ritardo di trattamento.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 135 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Qualora questa espressione psico-patologica non dovesse risolversi, per la quantificazione del danno
biologico permanente si deve tener conto dell’entità e della numerosità dei sintomi annoverati nei criteri
diagnostici, della risposta al trattamento e di eventuali tentativi di suicidio, nonché dell’interferenza del
disturbo con il funzionamento personale e socio-lavorativo del soggetto.
Sulla scorta di questi presupposti, è utilizzabile la seguente griglia di valori percentuali, il range più elevato
dei quali è assegnabile nel caso di comportamenti autolesionistici e di tentativi di suicidio.Nel caso in cui
il disturbo si manifesti nel contesto di altri disturbi (DSPT, DOC, DS) deve essere considerato come una
loro complicanza.
Forma lieve 6-10%
Forma moderata 11-15%
Forma grave 16-20%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per la quantificazione del danno biologico permanente si deve tener conto dell’entità e della numerosità dei
sintomi annoverati nei criteri diagnostici e della loro persistenza nel tempo, che è particolarmente
importante per questo tipo di disturbo, specie se si accompagna a comportamenti auto-aggressivi/suicidari.
Sulla scorta di queste caratteristiche, nel caso in cui questi disturbi dovessero persistere, è utilizzabile la
seguente griglia di valori percentuali di danno permanente.Nel caso in cui l’amnesia dissociativa si manifesti
nel contesto di altri disturbi psichici (DSPT, DAP, DS) deve essere considerata come una loro complicanza.
Forma lieve 11-15%
Forma moderata 16-20%
Forma grave 21-25%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Nei rari casi in cui il disturbo non rientri nel contesto di disturbi d’ansia, dell’umore o psicotici — dei quali
rappresenta per lo più una complicanza non particolarmente grave — la stima percentuale del danno
permanente può essere la seguente.
Forma lieve 11-15%
Forma moderata 16-20%
Forma grave 21-25%
A questa nuova categoria appartengono quei disturbi che nel DSM-IV-TR erano
denominati come disturbi somatoformi. Si tratta di condizioni psico-patologiche con-
notate da rilevanti sintomi somatici, associati a disagio e compromissione funzionale di
grado significativo, la cui caratteristica distintiva “non sono i sintomi somatici in quanto
tali, ma piuttosto il modo con cui gli individui li presentano e li interpretano”.
Diversi fattori possono contribuire allo sviluppo di questo tipo di disturbi: la
vulnerabilità genetica e biologica (es. accentuata sensibilità al dolore); precoci espe-
rienze psico-traumatizzanti (es. violenza, abuso, deprivazione di cure) e di apprendi-
mento (es. attenzione ottenuta per mezzo della malattia); norme sociali e culturali che
stigmatizzano la sofferenza psicologica come di minore importanza rispetto a quella
fisica
L’espressione sintomatologica può variare ampiamente, anche a seconda del
contesto ambientale e dell’interazione tra molteplici fattori culturali e medici, a loro
volta condizionanti le modalità con le quali gli individui percepiscono ed esprimono i
sintomi
Ai fini diagnostico-differenziali è importante ricordare che le alterazioni somatiche
possono rappresentare la prima manifestazione anche di disturbi psichici di altra natura
(quali ad es. il disturbo depressivo maggiore e il disturbo di panico), rispetto ai quali i
disturbi da sintomi somatici devono essere tenuti ben distinti.
possono assumere un ruolo centrale nella loro vita, diventando una caratteristica della
loro identità e dominando le relazioni interpersonali.
Nei bambini i sintomi più comuni sono rappresentati da: dolore addominale
ricorrente, nausea, cefalea e astenia; inoltre, la presentazione mono-sintomatica risulta
più frequente che negli adulti, mentre è generalmente assente la componente ansiosa di
preoccupazione per la propria “malattia”.
Il decorso è influenzato da alcune variabili individuali e ambientali, tra le quali le
esperienze di maltrattamenti, di abusi e di trascuratezze infantili, condizioni che si
associano per lo più a forme persistenti.
Il DSM-5 precisa che questo disturbo è più frequente in individui con basso livello
socio-economico e di scolarizzazione ed in quelli recentemente sottoposti ad eventi
stressanti.
I criteri diagnostici previsti dal DSM-5 sono i seguenti:
A. Uno o più sintomi somatici che causano disagio o alterano significativamente, fino a
sovvertirla, la vita quotidiana.
B. Pensieri, sentimenti, o comportamenti eccessivi connessi con i sintomi somatici o associati
a preoccupazioni relative alla salute, consistenti in almeno uno dei seguenti sintomi:
1) pensieri sproporzionati e persistenti sulla gravità dei propri sintomi;
2) persistente ed elevato livello di ansia per la propria salute;
3) elevata aliquota di tempo e di energia dedicati ai sintomi, o a quanto riguarda la salute.
C. Quantunque ognuno dei sintomi somatici possa non essere continuativamente presente,
la condizione di sintomaticità persiste tipicamente per più di 6 mesi.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Nel caso in cui il disturbo si manifesti in comorbilità con disturbi di tipo ansioso e/o depressivo, ai quali
conferisce particolare gravità, determinando maggiore compromissione funzionale e refrattarietà alle
terapie, la quantificazione del danno corrispondente ai rispettivi disturbi deve essere aumentata.
Forma lieve 11-15%
Forma moderata 16-20%
Forma grave 21-25%
Forma grave complicata 26-30%
Le espressioni sintomatologiche sono di due tipi: con ricerca di cure; con evita-
mento di cure.
Indicatori di prognosi favorevole sono: l’esordio acuto; l’assenza di disturbi di
personalità; l’elevata condizione socio-economica; la buona risposta al trattamento
farmacologico.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Dipendentemente dall’entità e dalla numerosità dei sintomi, dalla risposta al trattamento farmacologico e
dall’eventuale coesistenza di fobie, per la quantificazione della portata invalidante di questo disturbo ci si
può basare sulla seguente scansione percentuale.
Forma lieve 11-15%
Forma moderata 16-20%
Forma grave 21-25%
Forma grave complicata 26-30%
tanto, la disabilità può assumere livelli molto elevati, simili a quelli comportati dalle reali
alterazioni neuro-muscolari organiche.
Sul piano medico-legale il disturbo di conversione pone solitamente rilevanti
problematiche di tipo diagnostico-differenziale, specie ove i sintomi somatici vengano
— spesso apoditticamente — attribuiti ad eventi traumatici, o a sequele iatrogene, per
lo più imputate ad interventi chirurgici. L’incoerenza tra i deficit somatici e i riscontri
semeiologici e strumentali e tra i primi e le consolidate conoscenze eziopatogenetiche,
rappresenta il principale criterio per porre diagnosi di questo disturbo in ambito
medico-legale.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Tenendo debito conto dei risultati del trattamento e considerando l’eventuale compresenza di altri disturbi
(in primo piano quelli dissociativi precedentemente trattati) un disturbo di conversione persistente può
giustificare le seguenti fasce di danno biologico permanente.
Forma lieve 6-10%
Forma moderata 11-15%
Forma grave 16-20%
Forma grave complicata 21-25%
Fobia specifica
Nel DSM-5 questo disturbo è suddiviso per fattori causali, molti dei quali di
interesse medico-legale, con la seguente codificazione:
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A. Marcata paura o ansia con riferimento ad un oggetto o ad una situazione specifica, del
tipo di quelle precedentemente elencate.
Nei bambini questi sintomi possono essere espressi con pianto, scoppi d’ira, comportamenti
di immobilizzazione (freezing), o di aggrappamento (clinging).
B. L’oggetto o la situazione provocano le reazioni di ansia e paura quasi sempre in maniera
immediata.
C. L’oggetto o la situazione vengono attivamente e pervicacemente evitati, o sopportati con
intensa paura e ansia.
D. La paura o l’ansia sono sproporzionate rispetto al reale pericolo comportato dalla
situazione.
E. Queste reazioni perdurano per almeno 6 mesi, o più.
F. Esse cagionano disagio clinicamente significativo e compromissione del funzionamento
nelle aree sociali e lavorative, o in altre importanti aree del funzionamento.
G. Il disturbo non è meglio spiegato con i sintomi di un altro quadro psico-patologico.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Le percentuali di danno biologico permanente attribuibili al disturbo sono modulate tenendo conto del
numero di fobie, del livello di compromissione sociale e lavorativa, delle possibili complicanze, della portata
psico-lesiva dell’evento che l’ha innescato e, infine, della concreta eventualità che il soggetto ha di incappare,
nel proprio usuale ambiente di vita, in ri-esperienze analoghe. La valutazione deve inoltre tener conto
dell’eventuale messa in atto di condotte di evitamento.
Forma lieve 6-10%
Forma lieve complicata o moderata 11-15%
Forma moderata complicata o grave 16-20%
Forma grave complicata 21-25%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Forma lieve 6-10%
Forma moderata 11-15%
Forma grave 16-20%
Forma grave complicata 21-25%
1) palpitazioni e tachicardia;
2) sudorazione;
3) tremori fini o a grandi scosse;
4) dispnea e mancanza di aria;
5) sensazione di soffocamento;
6) peso o dolore toracico;
7) nausea o dolori addominali;
8) sensazione di vertigini, instabilità, “testa leggera”, svenimento;
9) brividi o vampate di calore;
10) parestesie o disestesie;
11) derealizzazione o depersonalizzazione;
12) paura di perdere il controllo o impazzire;
13) paura di morire.
B. Almeno in un’occasione l’attacco di panico è seguito da un periodo di un mese, o più,
caratterizzato dalla presenza di uno, o entrambi i seguenti sintomi:
1) intensa e persistente preoccupazione di essere vittima di un ulteriore attacco di panico, o
delle sue conseguenze;
2) significativo cambiamento disadattativo delle proprie abitudini di vita, con comporta-
menti finalizzati ad evitare situazioni che potrebbero indurre gli attacchi, quali le situazioni e le
attività poco familiari.
C. Il disturbo non è attribuibile ad effetti psicologici di sostanze, o ad altra condizione
medica.
D. Il disturbo non è meglio spiegabile con un altro quadro psico-patologico, in particolare
con le reazioni della fobia sociale, dell’ansia sociale, dei comportamenti ossessivo-compulsivi, dei
ricordi intrusivi di eventi traumatici, o della separazione da figure di attaccamento.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Sotto il profilo valutativo riteniamo di poter proporre le seguenti indicazioni percentuali, che devono essere
rapportate all’entità e alla numerosità dei sintomi e alla presenza complicante dell’ansia anticipatoria, o delle
altre manifestazioni psico-patologiche sopra elencate, eventualmente associate.
Forma lieve 11-15%
Forma moderata 16-20%
Forma grave 21-25%
Forma grave complicata 26-30%
A. Notevole ansia o paura con riferimento a due o più delle seguenti situazioni:
1) uso di mezzi di trasporto pubblici;
2) trovarsi in spazi aperti;
3) trovarsi in spazi chiusi;
4) stare in fila o in mezzo alla folla;
5) essere fuori casa da soli.
B. Il soggetto evita queste situazioni temendo di non poter sfuggir loro, o di non poter essere
soccorso nel caso in cui insorgano sintomi di panico, impotenza e disorientamento.
C. L’agorafobia produce quasi sempre paura e ansia.
D. Produce inoltre persistenti comportamenti di evitamento, o ricerca di compagnia.
E. La paura e l’ansia sono sproporzionate rispetto alle reali situazioni che innescano il
disturbo.
F. La durata del disturbo è di norma superiore a 6 mesi o più.
G. Tali sintomi causano disagio clinicamente significativo e disfunzionamento nell’area
sociale e occupazionale, o in altre importanti aree del funzionamento.
H. Se è compresente un’altra condizione medica, il disturbo aumenta la preoccupazione per
la stessa.
I. Il disturbo non è meglio spiegato con i sintomi di altri quadri psico-patologici della sfera
ansiosa, ossessivo-compulsiva e post-traumatica.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Forma lieve 6-10%
Forma moderata 11-15%
Forma grave 16-20%
Forma grave complicata, ovvero con materiale impossibilità di uscire di casa senza essere
21-25%
accompagnati
A. Ansia e preoccupazione eccessive, anche sotto forma di aspettative nutrite con appren-
sione, della durata di almeno 6 mesi e in relazione a un certo numero di eventi o attività.
B. Il soggetto ha difficoltà a controllare la preoccupazione.
C. Presenza, per la maggior parte del tempo, di almeno tre o più dei seguenti sintomi:
irrequietezza, tensione, facile affaticabilità, difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria, irritabi-
lità, tensione muscolare, alterazioni del sonno.
Nei bambini può essere presente anche uno solo dei predetti sintomi.
D. L’ansia, la preoccupazione e i sintomi fisici causano importante distress e compromis-
sione del funzionamento sociale e lavorativo.
E. Il disturbo non è attribuibile ad effetti di farmaci/sostanze, o a condizioni mediche.
F. Il disturbo non è meglio spiegato con un altro disturbo psico-patologico.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Forma lieve 11-15%
NOMELAV: 15/21199 PAG: 147 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Forma lieve complicata o moderata 16-20%
Forma moderata complicata o grave 21-25%
Forma grave complicata 26-30%
seconda della gravità e del decorso e prevedono ben sette fattispecie, rispettivamente
per gli episodi singoli e per quelli ricorrenti.
Il DSM-5 prevede i seguenti criteri diagnostici, precisando che quelli compresi da
A a C corrispondono ad una condizione definibile come “episodio depressivo mag-
giore”:
A. Presenza contemporanea di 5 o più dei seguenti sintomi per un periodo di almeno due
settimane, con variazione del funzionamento personale precedente; almeno uno dei sintomi è
rappresentato da (1) umore depresso, o (2) perdita di interessi o di piacere:
1) umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, con sensazione
soggettiva di sentirsi triste, svuotato, privo di speranza, oppure osservazione, da parte di altri di
facile tendenza al pianto; nei bambini e negli adolescenti vi può essere umore irritabile;
2) marcata riduzione di interesse, o di piacere in tutte o quasi tutte le attività per la maggior
parte del giorno e quasi ogni giorno, non soltanto riferita, ma anche percepibile dall’esterno;
3) significativa perdita o aumento di peso in assenza di misure dietetiche o di eccessi
alimentari, per diminuzione, o aumento dell’appetito quasi ogni giorno;
4) insonnia o ipersonnia quotidiana;
5) agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno, non soltanto soggettivamente
riferito, ma obiettivamente constatato;
6) perdita di energia e stanchezza quasi ogni giorno;
7) sensazione di inutilità e senso di colpa eccessivo o immotivato (talora delirante), quasi
ogni giorno;
8) riduzione della capacità di concentrazione e di concettualizzazione o indecisione quasi
ogni giorno;
9) pensieri ricorrenti di morte (non soltanto paura di morire), ricorrenti ideazioni suicidarie
o tentativi di suicidio.
B. I sintomi causano disagio clinicamente significativo e riduzione del funzionamento sociale
e lavorativo.
C. La condizione non è attribuibile agli effetti psicologici di sostanze o ad altra condizione
medica.
D. L’insorgenza di un episodio depressivo maggiore non è meglio spiegata da disturbi di tipo
schizo-affettivo, schizofrenico, schizofreniforme, delirante, o da altri disturbi dell’area psicotica.
E. Non si è mai verificato un episodio maniacale o ipomaniacale.
Il DSM-5 precisa che le reazioni ad una perdita significativa (ad es. lutto, tracollo
finanziario, perdite per disastri naturali, gravi malattie o disabilità) possono comportare
sentimenti di intensa tristezza, ruminazioni sulla perdita, insonnia, scarso appetito e calo
ponderale, ovvero condizioni che possono mimare un episodio depressivo senza
necessariamente assumere la valenza nosografica di tale disturbo. Il DSM-5 fornisce poi
ulteriori specificatori diagnostici, precisando che questo disturbo può presentarsi con
ansia, screzi melanconici o psicotici, catatonia, caratteristiche miste o atipiche, e che può
insorgere nel post-partum o con ricorrenza stagionale.
Nei bambini e negli adolescenti il disturbo può manifestarsi sotto forma di umore
irritabile o scontroso, piuttosto che triste. Sotto il profilo eziologico, il DSM-5 precisa
che il rischio di insorgenza è più elevato in caso di eventi avversi accaduti nell’infanzia
(specie se molteplici e reiterati) e che gli eventi stressanti rappresentano dei fattori
precipitanti gli episodi depressivi, benché la loro presenza non sembri condizionare
significativamente la prognosi o il trattamento.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 149 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Nel caso in cui l’evoluzione sia favorevole — al di là del danno temporaneo legato all’acuzie psico-
patologica è comunque accreditabile un danno biologico permanente nell’ordine del 2-5% a motivo della
persistenza di un locus minoris resistentiae, che si traduce in un incremento del rischio di andare incontro
a recidive dell’episodio depressivo.Se invece la condizione depressiva cronicizza, tenendo conto della dianzi
richiamata, amplissima gamma di incidenza invalidante che connota questo disturbo, che di principio incide
significativamente sul complessivo funzionamento individuale, compromettendolo seriamente — quantun-
que l’impiego degli psicofarmaci più recenti, sempre che il soggetto abbia una buona compliance, ne
consenta un buon controllo — la sua quantificazione medico-legale può essere articolata nell’altrettanto
ampia graduazione qui proposta.
Forma lieve 21-25%
Forma moderata o lieve con disturbi coesistenti 26-30%
Forma grave, ma senza melanconia e senza sintomi psicotici, oppure moderato con
31-35%
disturbi coesistenti
Forma grave, con disturbi coesistenti, ma senza melanconia e senza sintomi psicotici,
36-40%
oppure grave, con melanconia ma senza disturbi coesistenti e senza sintomi psicotici
Forma grave, con melanconia e con disturbi coesistenti, ma senza sintomi psicotici 41-45%
Forma grave, con melanconia e con sintomi psicotici 46-60%
Forma con melanconia, sintomi psicotici e agiti suicidiari 61-75%
A. Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi tutti i giorni, come riferito o
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osservato da altri, per almeno 2 anni. Nei bambini e negli adolescenti è sufficiente l’esistenza di
umore irritabile per almeno un anno.
B. Presenza, durante la fase depressiva, di due o più dei seguenti sintomi:
1) inappetenza o iperfagia;
2) insonnia o ipersonnia;
3) ipostenia o stanchezza;
4) bassa autostima;
5) scarsa concentrazione o difficoltà a prendere decisioni;
6) sentimenti di disperazione.
C. Durante il periodo di due anni (un anno per bambini e adolescenti) i sintomi dei criteri
A e B non scompaiono mai per più di due mesi di seguito.
D. I criteri per un disturbo depressivo maggiore possono essere continuativamente presenti
per due anni.
E. Non ci sono mai stati episodi maniacali o ipomaniacali e i criteri non sono mai stati
compatibili con un disturbo ciclotimico.
F. Il disturbo non è meglio spiegato con altri disturbi psicopatologici, quali quelli schizo-
frenici, schizo-affettivi, deliranti, o altri della sfera schizofrenica e psicotica.
G. I sintomi non sono attribuibili ad effetti psicologici di sostanze, o ad altra condizione
medica.
H. I sintomi causano disagio clinicamente significativo, o compromissione del funziona-
mento sociale, lavorativo o in altre aree importanti.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
In relazione all’entità ed alla numerosità dei sintomi descritti nel novero dei criteri diagnostici, la
quantificazione del danno biologico permanente può essere effettuata sulla scorta dei seguenti parametri
percentuali, che devono essere necessariamente inferiori rispetto a quelli previsti per il disturbo depressivo
maggiore.
Forma lieve 16-20%
Forma moderata o lieve con disturbi coesistenti 21-25%
Forma grave o moderata con disturbi coesistenti 26-30%
Forma grave con disturbi coesistenti 31-35%
Nel DSM-5 vengono raggruppati in questa categoria tutti quei disturbi caratteriz-
zati dalla presenza di ossessioni e/o compulsioni. Le prime si sostanziano nella
persistenza di pensieri ricorrenti, intrusivi e indesiderati; mentre le seconde si esplicano
attraverso la messa in atto di pensieri o comportamenti a carattere ripetitivo, espressi in
maniera coatta, secondo modelli applicativi molto rigidi.
Le preoccupazioni e/o i rituali comportamentali possono rientrare nell’ambito dei
fisiologici meccanismi dello sviluppo ed integrano un disturbo ossessivo-compulsivo
soltanto qualora siano eccessivi, o persistano oltre le fasi evolutive fisiologiche.
I contenuti delle ossessioni e delle compulsioni variano da individuo a individuo,
pur presentando denominatori comuni quali: pulizia e simmetria per il disturbo
ossessivo-compulsivo; necessità di conservare i propri averi, nel disturbo da accumulo;
focalizzazione su particolari aspetti del proprio corpo, nel disturbo di dismorfismo
corporeo, nella tricotillomania e nel disturbo da escoriazione.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per la quantificazione del danno biologico permanente ci si può basare sulle seguenti fasce percentuali,
utilizzabili proporzionalmente all’entità e alla numerosità dei disturbi elencati nei criteri diagnostici, al
livello di insight, nonché alla peculiare caratteristica, costituita dal dispendio di tempo e di energie psichiche
investite nell’espletamento compulsivo dei rituali.
Forma lieve 16-20%
Forma lieve complicata oppure moderata 21-25%
Forma moderata complicata o grave 26-30%
Forma grave complicata 31-35%
A. Preoccupazione per uno o più difetti o imperfezioni nell’aspetto fisico, che non sono
percepibili o appaiono lievi alle altre persone.
B. In una certa fase dell’evoluzione del disturbo l’individuo compie gesti ripetitivi (es.
controlli allo specchio, smorfie, pizzicamento della cute, ricerche di rassicurazione) o elaborazioni
mentali (es. paragone del proprio aspetto con quello degli altri) in risposta alle preoccupazioni
legate al proprio aspetto.
C. La preoccupazione causa disagio clinicamente significativo o riduzione del funziona-
mento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti.
D. La preoccupazione per il proprio aspetto non è riconducibile a un disturbo alimentare.
crede che il dismorfismo possa essere reale); con insight assente e credenze deliranti (il
soggetto è convinto che il dismorfismo sia reale).
Il manuale contempla anche una sotto-categoria specifica, quasi esclusiva del sesso
maschile, denominata “dismorfia muscolare”, caratterizzata dall’idea di avere un fisico
troppo esile.
Quanto ai fattori di rischio, il DSM-5 prospetta che nel novero di coloro che
soffrono di questo disturbo vi sia un elevato tasso di soggetti con pregresse esperienze
di trascuratezza e abuso nell’infanzia, soggiungendo, peraltro, che esiste una altrettanto
elevata aliquota di soggetti con familiarità per il disturbo ossessivo-compulsivo.
In ben due terzi dei casi l’esordio avviene prima dei 18 anni (raramente in età
superiore) ed il decorso è generalmente cronico, inducendo spesso a richiedere tratta-
menti estetici nel tentativo di migliorare i difetti soggettivamente percepiti. Ovviamente,
il disturbo risponde molto poco anche alla chirurgia estetica e — degno di nota per altre
implicazioni di natura medico-legale — questi individui intraprendono spesso azioni
legali, o esprimono comportamenti aggressivi nei confronti dei medici che li hanno
operati con loro insoddisfazione.
In generale i maschi denotano maggiormente preoccupazioni per i genitali (dimen-
sioni, funzionalità, etc.) o per la muscolatura, mentre le femmine presentano spesso
disturbi dell’appetito in comorbilità e ricorrono a diete, trattamenti estetici anche
impegnativi, eccessi di abbronzatura, etc. Non variano invece i comportamenti di
controllo e verifica in forma compulsiva.
Il DSM-5 sottolinea che la compromissione relazionale può variare da moderata
(evitamento di talune occasioni sociali) a molto grave e invalidante (soggetti costretti a
non uscire di casa). Circa il 20% dei giovani affetti da questo disturbo sviluppa
abbandono scolastico ed importante disfunzionamento sociale. Un’alta percentuale di
adulti e adolescenti giunge anche ad aver necessità di cure psichiatriche in ambito
nosocomiale. Le ideazioni suicidarie e i tentativi di suicidio non sono infrequenti, specie
ove sussista una comorbilità con il disturbo depressivo maggiore.
Sul piano medico-legale, risulta particolarmente importante la distinzione, espres-
samente prevista dal DSM-5, tra le normali preoccupazioni relative a difetti fisici
evidenti e le abnormi e sproporzionate preoccupazioni per situazioni fisiche viceversa
fisiologiche, che sono invece proprie del disturbo di dismorfismo corporeo.
Effettivamente, le reazioni psichiche ad esiti cicatriziali — specie se interessanti
distretti anatomici dotati di rilevante importanza fisonomica, come il volto, o di
particolare pregio sul piano relazionale e dell’appeal sessuale, o ancora se tali cicatrici
sono cheloidee e/o di notevole dimensione e difficilmente occultabili con l’abbiglia-
mento — appartengono per lo più alla sfera dei disturbi dell’adattamento, spesso con
componenti ansiose e depressive, ove la compromissione relazionale sia particolarmente
elevata.
Le complicanze possono essere rappresentate da altri disturbi di tipo ansioso o
depressivo, nonché dalle dianzi menzionate componenti deliranti.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Tenuto conto della scontata cronicità del disturbo e del suo impatto invalidante sul piano socio-relazionale,
trovano giustificazione le seguenti percentuali di danno biologico permanente, nel novero delle quali i valori
più elevati possono essere assegnati ai casi caratterizzati da contenuti deliranti, severi e continuativi.
Forma lieve 6 -10%
NOMELAV: 15/21199 PAG: 155 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Forma lieve complicata oppure moderata 11-15%
Forma moderata complicata o grave 16-25%
Forma grave complicata 26-35%
Poiché il DSM-5 attribuisce a questo gruppo di disturbi una base genetica, con
espressività eredo-familiare, essi non hanno interesse medico-legale, eccezion fatta per
l’episodio manicale, che può manifestarsi nel contesto dei predetti disturbi, o anche
isolatamente, in conseguenza di un evento stressante.
Episodio maniacale
Questa entità nosografica è appunto riportata dal DSM-5 nell’ambito dei disturbi
bipolari.
La letteratura psichiatrica contempla tale disturbo nell’ambito delle “reazioni
paradossali” (ad es. la mania “da lutto”, contraltare della “depressione da successo”) e
riporta una “una maggiore presenza di life events nel periodo precedente l’insorgenza”.
La criteriologia diagnostica del DSM-5 prevede:
presenti almeno tre dei seguenti sintomi (4 se vi è soltanto umore irritabile), i quali rappresentano
un mutamento significativo del comportamento abituale:
1) autostima ipertrofica o grandiosità;
2) diminuito bisogno di sonno;
3) maggiore loquacità;
4) fuga delle idee;
5) distraibilità;
6) aumento dell’attività finalizzata, o agitazione psico-motoria;
7) eccessivo coinvolgimento in attività che hanno un alto potenziale di conseguenze dannose.
C) Marcata compromissione del funzionamento socio-lavorativo (nell’episodio ipomaniacale
si verifica soltanto un cambiamento di tale funzionamento).
D) L’episodio non è attribuibile all’effetto di sostanze (es. antidepressivi) o ad altra
condizione medica.
Oltre il 90% degli individui che hanno un singolo episodio maniacale continuano ad
avere ricorrenti episodi di alterazione dell’umore, nelle due polarità del disturbo timico.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Unitamente alla compromissione dell’immagine sociale connessa alle peculiari esternazioni nel corso del-
l’episodio, pur in caso di sua risoluzione, dipendentemente dalla gravità e dalla durata dell’episodio e dalla
presenza di manifestazioni psicotiche, oltre all’accreditamento di un danno psichico temporaneo è prospet-
tabile anche un danno permanente.
Episodio maniacale 11-15%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Poiché, quanto a gravità, il DSM-5 colloca questi disturbi tra quelli di tipo depressivo e quelli dello spettro
schizofrenico, la quantificazione del danno biologico permanente può basarsi sulle ponderazioni assegnate
a queste due categorie, utilizzando i parametri percentuali inferiori della schizofrenia nel caso in cui il senso
di realtà sia alquanto compromesso e, invece, quelli della depressione ove questo aspetto sia sufficiente-
mente conservato.
tori di decorso, basati sul tipo di andamento (ad episodi singoli o multipli, oppure
continuo) e sulle caratteristiche di presentazione (acuto, in remissione parziale, in
remissione completa).
Nel disturbo delirante la compromissione del funzionamento è solitamente più
limitata rispetto a quanto si osserva negli altri disturbi di tipo psicotico, anche se in rari
casi si possono verificare isolamento sociale ed importanti riverberi sul piano lavorativo.
La caratteristica comune è l’apparente normalità del comportamento quando non
vengono in discussione i temi del delirio (c.d. funzionamento “a doppio binario”).
Sono indicatori di prognosi favorevole: l’esordio acuto, la presenza di fattori
precipitanti, alti livelli di funzionamento socio-lavorativo precedenti l’esordio del
delirio.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Considerando che nella scala VGF del DSM-IV TR al “comportamento considerevolmente influenzato da
deliri e allucinazioni” si fa corrispondere una rilevante compromissione del funzionamento globale, il danno
biologico è modulabile nei seguenti termini percentuali.
Forma lieve 26-35%
Forma moderata 36-45%
Forma grave 46-55%
Forma grave complicata 56-65%
A. Presenza di uno o più dei seguenti sintomi, almeno uno dei quali deve essere compreso
tra i primi tre: 1) deliri; 2) allucinazioni; 3) eloquio disorganizzato; 4) comportamenti grossola-
namente disorganizzati, o a catatonia.
B. La durata di un episodio è di almeno 1 giorno, ma inferiore a 1 mese, con successivo
ritorno al precedente livello di funzionamento.
C. Il disturbo non è meglio spiegato da altri disturbi psichici, o da un’altra condizione
medica.
precipitanti di elevata portata stressante; esordio acuto e breve durata dei sintomi;
confusione e scarso orientamento durante la fase attiva; scarso ottundimento dell’affet-
tività; gentilizio negativo per psicosi.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Disturbo psicotico breve con risoluzione 6-10%
Disturbo psicotico breve con recidive 11-20%
A. Due o più dei seguenti sintomi, almeno uno dei quali deve appartenere ai primi tre:
1) deliri;
2) allucinazioni;
3) eloquio disorganizzato;
4) comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico;
5) sintomi negativi, come diminuzione dell’espressività emotiva, o abulia. Tali sintomi
devono essere presenti per un periodo di tempo significativo nell’arco di un mese (meno in caso
di trattamento con esito positivo).
B. Un episodio del disturbo dura almeno 1 mese ma meno di 6 mesi.
C. Sono da escludersi il disturbo schizoaffettivo, depressivo, o bipolare con screzi psicotici
(le alterazioni dell’umore sono assenti, o comunque di marginale importanza, o breve durata
rispetto alle altre manifestazioni sintomatologiche).
D. Il disturbo non è attribuibile ad effetti psichici di sostanze o ad altra condizione medica.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Quantunque il DSM-5 non ravvisi per questo disturbo l’esistenza di fattori di rischio psico-traumatici, per
le ragioni di parametrazione precedentemente illustrate riteniamo utile proporre la seguente quantificazione
del danno biologico permanente.
Disturbo schizofreniforme 11-20%
Schizofrenia (295.90-F20.9)
Per questo disturbo paradigmatico del profilo categoriale della psicosi il DSM-5
richiede l’osservanza dei seguenti criteri diagnostici:
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A. Due o più dei seguenti sintomi, almeno uno dei quali deve appartenere ai primi tre della
seguente serie:
1) deliri;
2) allucinazioni;
3) eloquio disorganizzato;
4) comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico;
5) sintomi negativi, come diminuzione dell’espressività emotiva, o abulia. Tali sintomi
devono essere presenti per un periodo di tempo significativo nell’arco di un mese (meno in caso
di trattamento con esito positivo).
B. Per una significativa parte del tempo dall’esordio del disturbo, il livello di funzionamento
in una o più delle aree principali (lavoro, relazioni inter-personali, cura della propria persona) è
marcatamente compromesso o, nell’età infantile e nell’adolescenza, vi è l’incapacità di raggiungere
il livello di funzionamento atteso per quell’età.
C. I segni del disturbo persistono continuativamente per almeno 6 mesi (meno se trattati
efficacemente).
D. Sono da escludersi il disturbo schizo-affettivo, depressivo, o bipolare con screzi psicotici
(le alterazioni dell’umore sono assenti, o comunque di marginale importanza, o breve durata
rispetto alle altre manifestazioni sintomatologiche).
E. Il disturbo non è attribuibile a effetti psichici di sostanze o ad altra condizione medica.
F. In caso di anamnesi positiva per disturbi dello spettro autistico o della comunicazione, ad
insorgenza infantile, la diagnosi aggiuntiva di schizofrenia è prospettabile soltanto se sono
presenti deliri o allucinazioni, oltre ad altri sintomi schizofrenici la durata di almeno 1 mese (o
meno se trattati efficacemente).
Il DSM-5 distingue diverse forme, in base al tipo di decorso (ad episodi singoli o
multipli; continuo) ed alle caratteristiche di presentazione (acuto, in remissione parziale,
in remissione completa).
In ambito clinico si utilizza talvolta la categoria della “schizofrenia residuale” —
che nel DSM-5 corrisponde ai quadri definiti di parziale, o incompleta, remissione —
applicabile quando non è soddisfatto il criterio A, ma sono presenti soltanto sintomi
negativi, oppure soltanto due sintomi positivi in forma attenuata (ad es. convinzioni
strane anziché deliri; esperienze percettive inusuali, in luogo delle allucinazioni; lin-
guaggio fumoso anziché disorganizzazione dell’eloquio; atteggiamenti eccentrici in
luogo della disorganizzazione del comportamento).
Per quanto concerne i fattori di rischio coinvolti nel determinismo della schizo-
frenia, il DSM sottolinea l’importante contributo di fattori genetici e di condizioni
avverse pre/perinatali (parto distocico e ipossia, diabete materno, stress, infezioni,
malnutrizione, età paterna avanzata, etc.). V’è peraltro da sottolineare che la stragrande
maggioranza degli individui con queste caratteristiche non sviluppa schizofrenia.
L’esordio può essere insidioso o, più raramente, improvviso e si verifica tipica-
mente tra l’adolescenza e la quarta decade di vita; i sintomi caratteristici comprendono
una vasta gamma di disfunzioni cognitive, comportamentali ed emotive che inesorabil-
mente comportano una significativa compromissione del funzionamento sociale e
lavorativo dell’individuo. Spesso manca completamente la consapevolezza di malattia
(assenza di insight), con conseguenti ripercussioni negative sull’assunzione di terapia e
sulla prognosi.
Il decorso è altamente variabile e poco prevedibile; tuttavia, nella maggior parte dei
casi, la malattia ha andamento cronico, con esacerbazioni e remissioni, o con deterio-
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Tenuto conto della numerosità e della continuità dei sintomi previsti dai criteri diagnostici, nonché della
intrinseca portata invalidante della schizofrenia, essenzialmente dovuta alla grave compromissione del-
l’esame di realtà, per la quantificazione medico-legale di questo disturbo si possono utilizzare i seguenti
parametri.Poiché la schizofrenia residuale non raggiunge i massimali livelli invalidanti della schizofrenia ad
andamento continuativo, non risultano razionalmente utilizzabili le ultime due fasce percentuali.
Singolo episodio schizofrenico 21-30%
Episodi schizofrenici multipli in remissione completa 31-45%
Schizofrenia a decorso continuativo:
- con comportamento moderatamente influenzato da deliri e allucinazioni 46-60%
- con comportamento considerevolmente influenzato da deliri e allucinazioni 61-75%
- con elevata disorganizzazione ideativo-comportamentale 76-90%
- con perdita completa del funzionamento personale e condotte auto- ed etero-aggressive 91-100%
Possono essere distinte diverse forme in base al decorso (ad episodi singoli o
multipli; continuo) ed alle caratteristiche di presentazione (acuto, in remissione parziale,
in remissione completa).
Il funzionamento sociale e lavorativo è spesso compromesso, ma in misura minore
rispetto alla schizofrenia.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Poiché questo disturbo, pur comportando una significativa alterazione dell’esame di realtà, non implica quei
comportamenti auto- ed etero-aggressivi, o drasticamente inibiti, che contraddistinguono la schizofrenia ed
è spesso caratterizzato dalla prevalenza di sintomi depressivi e/o maniacali (il bipolarismo rappresenta una
delle caratteristiche salienti), il danno biologico permanente può essere graduato nei seguenti termini (senza
ovviamente raggiungere i valori massimali della schizofrenia).
Con moderata compromissione del funzionamento sociale e lavorativo 46-55%
Con grave compromissione del funzionamento sociale e lavorativo 56-65%
Con gravissima compromissione del funzionamento sociale e lavorativo 66-75%
Questi disturbi sono caratterizzati da deficit dello sviluppo di variabile entità, che
si manifestano tipicamente in età infantile e che determinano compromissione del
funzionamento personale, sociale, scolastico o lavorativo.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 165 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
Nel DSM-5 questo capitolo annovera numerosi disturbi, tra i quali soltanto la
balbuzie e i tic mostrano qualche interesse medico-legale.
Quantunque per la balbuzie (315.35 — F80.81) il DSM-5 non prospetti una
derivazione eziologica post-psicotraumatica, in letteratura sono presenti contributi che
avvalorano un’associazione con questo tipo di eventi, specie in caso di esordio tardivo.
Invero, il DSM-5 distingue tra disfluenza ad esordio in età infantile (nel periodo
precoce dello sviluppo) e quella ad esordio in età adulta (durante, o dopo l’adole-
scenza), trattando in maniera estesa, all’interno di questo capitolo, soltanto la prima.
Questa forma insorge prevalentemente tra i due e i sette anni di età, in maniera subdola,
o improvvisa e può essere talora associata a movimenti involontari, come ammicca-
mento, tremori, tic, etc.; può scomparire nella lettura ad alta voce, nel canto o in quelle
singolari modalità di comunicazione verbale che si adottano nei confronti di animali, o
di oggetti inanimati.
Ovviamente, per l’accreditamento in campo peritale è di fondamentale importanza
l’acquisizione della prova anamnestica che il disturbo non sussisteva prima dell’evento
psico-traumatico.
Si tratta di un disturbo non necessariamente permanente, anzi per lo più supera-
bile, sia spontaneamente, sia mediante diverse tecniche logopediche, che ottengono
spesso buoni risultati fino alla completa risoluzione. Pertanto, sul piano medico-legale
è opportuno valutare le ragioni per le quali questi trattamenti non siano stati coltivati,
o non abbiano avuto buon risultato, distinguendo tra ineluttabile cronicizzazione e
difetto assistenziale.
L’incidenza invalidante deve essere stimata proporzionalmente alla frequenza degli in-
ceppamenti verbali ed alla ricorrenza degli stessi in situazioni socio-relazionali particolarmente
importanti e, di conseguenza, rilevanti sotto il profilo della compromissione delle componenti
dinamico-relazionali che caratterizzano la categoria del danno biologico.
Non a caso, anche il DSM-5 sottolinea che la balbuzie scatena reazioni ansiose,
nella misura in cui limita significativamente la comunicatività personale e sociale.
Pertanto, essa deve essere tenuta in considerazione come fattore di aggravamento
del danno biologico permanente di un disturbo d’ansia a genesi psico-traumatica,
aggiungendovi una maggiorazione percentuale dell’ordine del 6-10%.
I tic sono movimenti o vocalizzazioni repentine, rapide e ricorrenti. L’esordio si
verifica entro i 18 anni di età (mediamente tra i 4 e i 6 anni); l’insorgenza nell’età adulta
è rara e secondaria a condizioni organiche (es. encefaliti post-virali), o ad assunzione di
sostanze.
Nella loro forma primaria — l’unica di interesse sotto il profilo del danno psichico
- i tic sono spesso associati ad altre condizioni psichiatriche, in particolare al disturbo
da deficit di attenzione/iperattività, al disturbo ossessivo-compulsivo ed al disturbo
d’ansia da separazione.
In questo caso devono essere considerati come complicanze del disturbo sotto-
stante e valutati globalmente. Generalmente i sintomi scompaiono, o si attenuano
notevolmente in età adulta; solo in una piccola percentuale di individui divengono
persistenti o, addirittura, si aggravano.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Sul piano valutativo medico-legale è necessario un lungo periodo di osservazione prima di riconoscerne il
rilievo sotto il profilo del danno biologico permanente.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Nel caso in cui i tic interessino il volto, siano particolarmente frequenti e tali da alterare/disturbare
notevolmente la mimica facciale — sempre che sia comprovata la loro derivazione causale da un evento
psico-traumatico sufficientemente intenso — possono essere meritevoli della quantificazione percentuale
del 6-10%.
A. L’individuo ha sperimentato la morte di una persona con la quale aveva una relazione
stretta.
B. Dal momento di questa morte, l’individuo ha sviluppato almeno uno dei seguenti sintomi
di grado clinicamente significativo, per la maggior parte del tempo e per almeno 12 mesi dopo
l’evento (6 mesi nei bambini):
1) persistente e perdurante desiderio del defunto (nei bambini espresso attraverso giochi e
comportamenti, che riflettono situazioni di separazione e di ricongiungimento);
2) profonda tristezza e sofferenza emotiva;
3) preoccupazione per il defunto;
4) preoccupazione per le circostanze nelle quali si è verificata la morte (nei bambini questa
preoccupazione può essere espressa attraverso giochi e comportamenti).
C. Dal momento della morte della persona cara l’individuo ha sviluppato almeno 6 dei
seguenti sintomi, di entità clinicamente significativa, presenti per la maggior parte del tempo e per
almeno 12 mesi (6 per i bambini):
1) marcata difficoltà ad accettare la perdita (nei bambini essa dipende dalla capacità di
comprendere il significato e l’irreversibilità della perdita);
2) incredulità o ottundimento emotivo in ordine alla perdita;
3) difficoltà a ricordare positivamente il defunto;
4) amarezza o rabbia in relazione alla perdita;
5) valutazioni negative di sé stessi in relazione al defunto o alla morte (senso di colpa);
6) esasperato evitamento di ricordi inerenti la perdita (es. evitamento di persone, luoghi e
situazioni che ricordano il defunto; nei bambini questo comportamento include l’evitamento di
pensieri e sentimenti riguardanti il defunto);
7) desiderio di morire per rimanere accanto al defunto;
8) difficoltà a fidarsi di altre persone;
9) sensazione di solitudine o di distacco dal contesto relazionale;
10) sensazione che la propria vita sia vuota e priva di significato in mancanza della persona
perduta, o convinzione che non sia possibile continuare a vivere senza di essa;
11) confusione circa il proprio ruolo nella vita o compromissione della consapevolezza della
propria identità (es. sentire che una parte di sé stessi è morta con la persona cara);
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12) difficoltà o riluttanza a coltivare interessi, o a fare progetti per il futuro (es. amicizie,
attività).
D. Il disturbo causa disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento
sociale e occupazionale, o di altre aree importanti.
E. La reazione al lutto è sproporzionata, o incoerente con quanto normalmente ritenuto
appropriato rispetto all’età e all’ambiente culturale e religioso.
Il disturbo può verificarsi ad ogni età dopo il primo anno di vita ed è più frequente
nel sesso femminile.
I sintomi esordiscono generalmente entro un mese dalla perdita della persona cara,
anche se talvolta possono trascorrere mesi, o addirittura anni, affinchè il quadro
sindromico si manifesti nella sua completezza. Peraltro, anche nel caso in cui le reazioni
al lutto insorgano subito dopo l’evento, esse non possono essere prese in considerazione
sul piano diagnostico come un vero e proprio disturbo psico-patologico prima che siano
trascorsi almeno 12 mesi (6 mesi per i bambini).
Le modalità espressive della sofferenza da lutto sono quelle elencate nei predetti
criteri diagnostici. Alcuni individui possono manifestare addirittura allucinazioni visive
e/o uditive riguardanti la persona deceduta, percependone la presenza fisica, oppure
possono accusare disturbi fisici (ad es. spossatezza, dolori, etc.), tra cui sintomi
manifestati in vita dal defunto.
Nei bambini possono comparire regressioni dello sviluppo, comportamenti ansiosi
o rivendicativi nei momenti di separazione e riunione con i caregivers, con correlato
distress da separazione nei bambini più piccoli; negli adolescenti possono configurarsi
disturbi dell’identità personale e sociale e un maggior rischio di sviluppare disturbi
depressivi.
Questo disturbo può determinare importante compromissione del funzionamento
sociale e lavorativo e può indurre comportamenti dannosi per la salute, come abuso di
alcool e fumo. È inoltre associato a un marcato aumento del rischio per gravi condizioni
mediche, quali malattie cardio-vascolari, immuno-depressive e neoplastiche.
Il disturbo da lutto può manifestarsi in comorbilità con altri disturbi psichici, in
particolare quelli depressivo maggiore, da uso di sostanze e da stress post-traumatico.
Quest’ultima associazione risulta particolarmente frequente quando la morte si verifica
in circostanze traumatiche/violente; in questo caso il quadro psico-patologico può
assumere particolare gravità, anche per le angoscianti preoccupazioni circa gli ultimi
momenti di vita, le sofferenze patite e le lesioni subite dalla persona cara prima di
morire.
È molto importante — non soltanto dal punto di vista clinico, ma anche medico-
legale — differenziare il disturbo da lutto da altre condizioni ad esso affini, quali il lutto
fisiologico, la depressione ed il disturbo da stress post-traumatico: la diagnosi differen-
ziale deve basarsi sui parametri cronologici, anamnestici e sintomatologici sopra ripor-
tati.
Per la stima del danno biologico permanente comportato da questo disturbo,
poiché — come precisato anche dal DSM-5 — in esso prevalgono per lo più i sintomi
depressivi, possono conseguentemente utilizzarsi i parametri percentuali indicati per il
disturbo depressivo maggiore, con riferimento, in linea di massima, alle prime tre fasce,
cioè dal 21 al 35%, dipendentemente dal numero e dalla gravità dei sintomi elencati nei
criteri diagnostici del DSM.
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Capitolo 2
FUNZIONI NEUROLOGICHE CENTRALI E NERVI CRANICI
2.1. Sindromi a focolaio. — 2.1.a. Sindrome prefrontale. — 2.1.b. Sindrome precentrale. — 2.1.c. Sindrome
parietale. — 2.1.d. Sindrome temporale. — 2.1.e. Sindrome occipitale. — 2.2. Sindrome pseudo-bulbare. —
2.3. Sistema cerebellare. — 2.4 Sistema extrapiramidale. — 2.5. Idrocefalo. — 2.6. Disturbi neuro-cognitivi.
— 2.7. Funzioni comunicative. — 2.7.a. Afasie. — 2.7.b. Anartria e disartria. — 2.7.c. Afonia e disfonia. —
2.7.d. Dislalia e disfluenza verbale. — 2.8. Epilessie. — 2.9. Midollo spinale — 2.10. Traumi cranici. —
2.11. Malattie dei motoneuroni. — 2.12. Malattie demielinizzanti. — 2.13. Cefalee. — 2.13.a. Cefalee
primarie. — 2.13.b. Cefalee secondarie. — 2.14. Disturbi del sonno. — 2.14.a. Sindrome delle apnee
ostruttive del sonno. — 2.14.b. Narcolessia di tipo 1 e di tipo 2. — 2.14.c. Ipersonnia idiopatica. —
2.14.d. Ipersonnia ed altri disturbi del sonno di natura post-traumatica. — 2.14.e. Insonnia cronica. —
2.15. Nervi cranici. — 2.15.a. Nervo olfattivo (I). — 2.15.b. Nervo ottico (II). — 2.15.c. Nervo oculomotore
comune (III). — 2.15.d. Nervo trocleare (IV). — 2.15.e. Nervo trigemino (V). — 2.15.f. Nervo abducente
(VI). — 2.15.g. Nervo faciale (VII). — 2.15.h. Nervo acustico (VIII). — 2.15.i. Nervi glossofaringeo (IX),
vago (X), accessorio (XI), ipoglosso (XII)
Le lesioni totali del circolo anteriore, siano esse destre o sinistre, correlano con una
più elevata probabilità di disabilità residua grave, mentre non vi sono differenze
apprezzabili fra gli altri sottotipi in termini di esito funzionale. Lo stato di coma
all’esordio, la persistenza della perdita di controllo sfinterico e la lunga durata della
plegia rappresentano indicatori predittivi sfavorevoli per il recupero dell’autonomia,
mentre una persistente flaccidità od una grave spasticità influenzano negativamente il
recupero della motilità.
Nel caso di ictus emorragico la prognosi iniziale è molto grave, con incidenza di mortalità
acuta nettamente più alta rispetto alle forme ischemiche, ma il recupero è ottimale in relazione
alla risoluzione dell’ematoma, verosimilmente a causa della minor distruzione di neuroni.
L’emorragia cerebrale si può localizzare in sede tipica, ovvero a livello delle strutture profonde
(nucleo lenticolare, talamo, capsula interna), come avviene generalmente nei soggetti ipertesi,
o atipica, a livello di lobo frontale, temporale, parietale od occipitale, evento generalmente
secondario a rottura di aneurismi, malformazioni vascolari, sanguinamento di tumori cere-
brali, trasformazione emorragica di ictus ischemico.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Le indicazioni percentuali relative all’emiplegia e all’emiparesi sono riferite all’emisoma dominante ed alle
forme con interessamento brachio-crurale.
Nel caso in sia concomitante una paresi facciale la valutazione deve essere aumentata in relazione all’entità
del deficit associato.Per la consultazione della scala MRC si rimanda a quanto indicato nel paragrafo dedicato
alle lesioni midollari.
85% (d.)
Emiplegia flaccida
80% (n.d.)
Emiplegia spastica con possibilità di deambulare con appoggio ed arto superiore funzio- 75% (d.)
nalmente perduto 70% (n.d.)
Emiparesi con grave deficit di forza (Classi 1-2 della MRC), deambulazione possibile solo
51-65%
con appoggio, perdita o grave difficoltà ai movimenti fini della mano
Emiparesi con moderato deficit di forza (Classe 3 della MRC), deambulazione possibile
21-50%
senza appoggio, difficoltà ai movimenti fini della mano
Emiparesi con lieve deficit di forza (Classe 4 della MRC) e minimo impaccio ai movimenti
10-20%
fini della mano
60% (d.)
Monoplegia flaccida dell’arto superiore
55% (n.d.)
Monoparesi dell’arto superiore con moderato deficit di forza ed impossibilità ai movimenti
31-40%
fini della mano
Monoparesi dell’arto superiore con lieve deficit di forza e notevole compromissione dei
21-30%
movimenti fini della mano
Monoplegia flaccida arto inferiore L’utilizzo efficace di tutori giustifica una valutazione in-
55%
feriore al valore indicato.
Monoparesi dell’arto inferiore con moderato deficit di forza, andatura falciante e possibile
25-35%
solo con appoggio
Monoparesi dell’arto inferiore con lieve deficit di forza, andatura falciante ma possibile senza
15-25%
appoggio
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione è estremamente difficoltosa per la variabilità del quadro clinico, in quanto sono interessate
numerose abilità complesse e per il fatto che i deficit non sono agevolmente rilevabili con un esame clinico
standard. La maggiore disabilità concerne la capacità di giudizio critico e le alterazioni del comportamento,
con inevitabili riflessi sulle funzioni lavorative e socio-relazionali.Le forme gravissime sono equiparabili, dal
punto di vista valutativo, agli stadi di demenza avanzati, in relazione alle correlate alterazioni cognitive e
comportamentali, la cui entità può risultare tale da pregiudicare l’autonomia personale; in tal caso la
valutazione può superare anche il limite massimo del range.
Sindrome prefrontale — Forma lieve 10-20%
Sindrome prefrontale — Forma moderata 21-35%
Sindrome prefrontale — Forma grave 36-60%
Sindrome prefrontale — Forma gravissima 61-80%
comprendono più compiti per l’indicazione di parti corporee e devono essere effettuate
sia in forma verbale che non e con diversi gradi di difficoltà.
Nel caso di interessamento dell’emisfero non dominante, con lesione del giro
angolare di sinistra, si realizza la cosiddetta sindrome di Gerstmann, caratterizzata da
disorientamento destro-sinistro (difficoltà a orientarsi rispetto alle categorie destra-
sinistra), agnosia digitorum (incapacità di nominare le dita), agrafia (incapacità di
scrivere), acalculia (incapacità a fare i conti).
Infine, nel caso di interessamento lesionale profondo possono risultare compro-
messe le radiazioni ottiche, con emi- o quadrantopsia laterale omonima.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Le indicazioni valutative di questi complessi disturbi neurologici possono essere fornite solo mediante ampi
range, data la eterogeneità dei quadri clinici. Nell’ambito di tali range la gravità dei deficit motori
eventualmente presenti deve orientare la valutazione verso i valori più elevati.
Ipo-anestesia dell’emisoma — Forma lieve-moderata 10-25%
Ipo-anestesia dell’emisoma — Forma grave 26-40%
Emisomatoagnosia — Forma lieve 15-30%
Emisomatoagnosia — Forma moderata 31-45%
Emisomatoagnosia — Forma grave 46-60%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per la valutazione della sindrome temporale e della sindrome occipitale si rimanda a quanto indicato nei
capitoli inerenti gli specifici disturbi connessi a tali sindromi. Per quanto riguarda le agnosie e le
allucinazioni visive è proponibile un range percentuale tra il 15% ed il 30% attinente alla loro gravità sulle
funzioni dinamico-relazionali, con possibilità di superare il limite massimo ove la relazionalità del soggetto
sia drasticamente compromessa.
(che di solito compare quando il soggetto tenta di fissare oggetti posti lateralmente al
capo). Le lesioni a localizzazione emisferica comportano invece un quadro clinico più
complesso caratterizzato da movimenti atassici degli arti (intermittenti o a scatti), atassia
della marcia, dismetria, adioadococinesia (incapacità a compiere movimenti alternati ra-
pidi, passando, ad es., da un movimento di flessione ad uno di estensione), asinergia,
ipotonia muscolare, tremore (di tipo intenzionale), disartria (parola scandita).
Esistono numerose scale cliniche di valutazione funzionale del danno cerebellare
(ICARS: International Cooperative Ataxia Rating Scale; SARA: Scale for the Assessment
and Rating of Ataxia; BARS: Brief Ataxia Rating Scale; FARS: Friedrich Ataxia Rating
Scale; SCAFI: Spinocerebellar Ataxia Functional Index; CCFS: Composite Cerebellar
Functional Severity Score).
Tra di esse quella maggiormente fruibile per finalità medico-legali è la Rating Scale
for Friedrich’s Ataxia (FARS modificata), di seguito riportata.
SINTOMATOLOGIA STADIO
Normale 0
Minimi segni rilevabili durante un esame. Il soggetto può correre o saltare senza perdita di
1
equilibrio. Disabilità assente.
Il soggetto riferisce sintomi lievi. Non può correre o saltare senza perdere l’equilibrio ed è
fisicamente in grado di condurre una vita indipendente; può presentare qualche restrizione 2
nelle attività quotidiane.
Sintomi evidenti e significativi; necessità di regolare o periodico appoggio a muro o mobilio
3
o l’uso di un bastone per la stabilità e la deambulazione.
La deambulazione richiede deambulatore, canadesi o doppio bastone o altri ausili. Il
4
soggetto può svolgere molte attività della vita quotidiana. Disabilità moderata.
Il soggetto è obbligato su carrozzella che utilizza per gli spostamenti; può svolgere alcune
attività della vita quotidiana che non necessitano della stazione eretta o della deambulazione. 5
Grave disabilità.
Obbligato su carrozzella o a letto con totale dipendenza per tutte le attività della vita
6
quotidiana. Totale disabilità.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione deve essere effettuata in base al quadro clinico ed al grado di disabilità rilevabile dalla Scala
FARS, con particolare riferimento alla gravità dell’atassia, che rappresenta il sintomo principale dei soggetti
affetti da lesioni cerebellari. L’orientamento all’interno delle fasce deve tener conto anche dell’ulteriore
sintomatologia cerebellare associata e, per gli stadi 5 e 6, delle eventuali complicanze legate all’immobiliz-
zazione. Le indicazioni sono state formulate tenendo conto delle percentuali assegnate ai deficit motori
corrispondenti alla perdita funzionale segmentaria.
Stadio 1-2 della Scala FARS modificata 5-15%
Stadio 3 della Scala FARS modificata 16-35%
Stadio 4 della Scala FARS modificata 36-65%
Stadio 5 della Scala FARS modificata 66-90%
Stadio 6 della Scala FARS modificata 91-100%
integrate con altri livelli del SNC per il controllo dell’attività motoria funzionale (con il
fine di modulare il movimento volontario inibendo i movimenti che possono impedire
la precisione dello stesso) e delle funzioni integrative superiori. L’espressione più tipica
dell’interessamento del sistema extrapiramidale è rappresentata dalla malattia di Par-
kinson e dai c.d. parkinsonismi, che differiscono dalla vera e propria malattia di
Parkinson per le caratteristiche neuro-patologiche (sono secondari a noxae patogene
ben definite), per la minore risposta alla terapia con Levodopa e per la maggiore severità
della prognosi.
Si tratta di condizioni quasi sempre idiopatiche, anche se esistono parkinsonismi di
natura traumatica (la c.d. “sindrome acinetica della demenza pugilistica”) e iatrogena,
rispettivamente derivanti da compromissioni vascolari (lesioni lacunari sottocorticali a
localizzazione striatale) e da effetti collaterali di neurolettici e reserpina.
Il quadro clinico è caratterizzato da:
— ipertonia plastica: interessa simultaneamente i muscoli agonisti ed antagonisti e
si associa ad esagerazione dei riflessi di postura; tipicamente l’ipertono parkinsoniano è
caratterizzato da leggera flessione delle ginocchia, semiflessione degli arti superiori,
tendenza alla flessione generale del tronco e del capo (camptocormia);
— acinesia/bradicinesia: riduzione della mimica facciale e rarità dell’ammicca-
mento, perdita del movimento pendolare delle braccia nella marcia, impaccio nei
movimenti volontari (ritardo nell’inizio del movimento, svolgimento rallentato, impos-
sibilità ad eseguire movimenti rapidamente alternati);
— tremore a riposo, regolare e rapido, che cessa con l’esecuzione dei movimenti
volontari e durante il sonno, mentre si amplifica con l’emozione;
— ipercinesie/discinesie, quali conseguenza frequente dei trattamenti con Levo-
dopa.
La valutazione clinica di questi pazienti può essere effettuata mediante l’utilizzo di
scale clinico-funzionali, quali ad esempio la U.P.D.R.S. (Unified Parkinson Disease
Rating Scale) o la Scala di Hoehn e Yahr modificata. Quest’ultima, di seguito riportata,
è di più agevole applicazione in ambito valutativo.
BARTHEL INDEX
Alimentazione
0 = incapace
5 = necessità di assistenza (es. per tagliare il cibo)
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BARTHEL INDEX
10 = indipendente
Abbigliamento
0 = dipendente
5 = necessità di aiuto ma compie almeno metà del compito in tempo ragionevole
10 = indipendente, si lega le scarpe, usa le cerniere lampo, bottoni
Igiene personale
0 = necessità di aiuto
5= si lava la faccia, si pettina, si lava i denti, si rade
Fare il bagno
0 = dipendente
5 = indipendente
Controllo defecazione
0 = incontinente
5 = occasionali incidenti o necessità di aiuto
10 = continente
Controllo minzione
0= incontinente
5 = occasionali incidenti o necessità di aiuto
10 = continente
Trasferimenti sedia/letto
0 = incapace, no equilibrio da seduto
5 = in grado di sedersi, ma necessita della massima assistenza per trasferirsi
10 = minima assistenza e supervisione
15 = indipendente
Trasferimenti nel bagno
0 = dipendente
5 = necessità di qualche aiuto per l’equilibrio, vestirsi/svestirsi o usare carta igienica
10 = indipendente con l’uso del bagno o della padella
Deambulazione
0 = immobile
5 = indipendente con la carrozzina per più di 45 mt
10 = necessita di aiuto di una persona per più di 45 mt
15 = indipendente per più di 45 mt, può usare ausili (es. bastone) ad eccezione del deambulatore
Salire/scendere le scale
0 = incapace
5 = necessita di aiuto o supervisione
10 = indipendente, può usare ausili
Sulla base del punteggio ottenuto è possibile fornire un indice di gravità del deficit
funzionale globale del soggetto, in relazione al grado di dipendenza dello stesso nello
svolgimento delle attività quotidiane:
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La suddivisione in stadi di seguito indicata è stata effettuata sia sulla base del livello di compromissione
motoria (in riferimento alla Scala di Hoehn e Yahr modificata), sia in relazione al grado di autonomia nello
svolgimento delle attività della vita quotidiana (con riferimento all’indice di Barthel o alla scala di Schwab
and England).
Per lo stadio 3 e 4 ci si deve orientare all’interno del range anche in base all’entità dei sintomi
neuro-psichiatrici.Nello stadio 5 l’orientamento all’interno del range deve tener conto anche delle eventuali
complicanze legate all’immobilizzazione.
Stadio 1. Soggetto con coinvolgimento unilaterale o bilaterale lieve, in grado di svolgere le
5-20%
attività quotidiane autonomamente seppur in maniera rallentata
Stadio 2. Soggetto con coinvolgimento bilaterale moderato, lieve instabilità posturale,
21-35%
estremamente rallentato, in grado di svolgere le attività quotidiane ma con grande sforzo
Stadio 3. Soggetto con grave disabilità, che deambula autonomamente seppur con ausili, in
36-70%
grado di eseguire in autonomia solo poche attività
Stadio 4. Soggetto non in grado di deambulare autonomamente, con necessità di sostegno
71-90%
da parte di terzi, con minima autonomia residua
Stadio 5. Soggetto obbligato a letto o su carrozzina, sino alla totale dipendenza nelle
91-100%
ordinarie attività quotidiane
2.5. Idrocefalo
L’idrocefalo è una condizione caratterizzata da ampliamento delle dimensioni dei
ventricoli cerebrali conseguente all’accumulo di liquido cefalorachidiano al loro interno.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione deve essere graduata sulla base della tollerabilità degli esiti chirurgici. Nel caso in cui la
idrocefalia abbia determinato danni cerebrali irreversibili la valutazione deve tener conto dei conseguenti
deficit neuro-psichici.
Idrocefalo con derivazione a permanenza, normotensivo 15-20%
Idrocefalo con derivazione a permanenza con alterazioni cerebrali da incompleto com-
21-35%
penso
DNC maggiore:
A. Evidenza di un significativo declino cognitivo da un precedente livello di prestazioni in uno o
più domini cognitivi (attenzione complessa, funzione esecutiva, apprendimento e memoria, linguaggio,
funzione percettivo-motoria o cognizione sociale) basato su: 1. Preoccupazione dell’individuo, di un
informatore attendibile o del clinico che vi è stato un significativo declino delle funzioni cognitive; 2.
Significativa compromissione della performance cognitiva, preferibilmente documentata da test neu-
ropsicologici standardizzati o, in loro assenza, da un’altra valutazione clinica quantificata.
B. I deficit cognitivi interferiscono con l’indipendenza nelle attività quotidiane (per es., come
minimo, necessitano di assistenza nelle attività strumentali complesse della vita quotidiana, come
pagare le bollette o gestire i farmaci).
C. I deficit cognitivi non si verificano esclusivamente nel contesto di un delirium.
D. I deficit cognitivi non sono meglio spiegati da un altro disturbo mentale (per es., disturbo
depressivo maggiore, schizofrenia).
DNC lieve:
A. Evidenza di un modesto declino cognitivo da un precedente livello di prestazioni in uno
o più domini cognitivi (attenzione complessa, funzione esecutiva, apprendimento e memoria, lin-
guaggio, funzione percettivo-motoria o cognizione sociale) basato su: 1. Preoccupazione dell’in-
dividuo, di un informatore attendibile o del clinico che vi è stato un lieve declino delle funzioni
cognitive; e 2. Modesta compromissione della performance cognitiva, preferibilmente documentata
da test neuropsicologici standardizzati o, in loro assenza, da un’altra valutazione clinica quantificata.
B. I deficit cognitivi non interferiscono con l’indipendenza nelle attività quotidiane (per es.,
attività strumentali complesse della vita quotidiana, come pagare le bollette o gestire i farmaci,
sono conservate, ma richiedono uno sforzo maggiore, strategie compensatorie o adattamento).
C. I deficit cognitivi non si verificano esclusivamente nel contesto di un delirium.
D. I deficit cognitivi non sono meglio spiegati da un altro disturbo mentale (per es., disturbo
depressivo maggiore, schizofrenia).
La valutazione diagnostica dei soggetti affetti da DNC prevede l’analisi di vari aspetti volti
a ricercare non solo il deficit cognitivo, ma anche segni neurologici suggestivi di una patologia
neurologica sottostante o tratti depressivi associati; si tratta dunque di una valutazione mul-
tiassiale sulla base della quale è possibile effettuare una “graduazione” della gravità del quadro
patologico. L’inquadramento diagnostico deve comprendere le seguenti fasi: dettagliata rac-
colta anamnestica, spesso effettuata con l’ausilio di un familiare; esame obiettivo neurologico;
somministrazione di test neuro-psicologici; eventuale esecuzione di indagini ematochimiche
volte a confermare/escludere cause tossiche, metaboliche, infettive; effettuazione di indagini
strumentali quali TC cranio o RM encefalo, con o senza m.d.c. (al fine di individuare le aree
cerebrali compromesse e, eventualmente, confermare o escludere la genesi traumatica della
demenza) ed anche PET/SPECT; meno utile risulta invece l’EEG, poiché evidenzia gene-
ralmente solo anomalie aspecifiche quali un diffuso rallentamento del tracciato.
In merito ai test neuro-psicologici quelli maggiormente utilizzati, sia per o scree-
ning che per la stadiazione del livello di gravità dei DNC, sono il Mini Mental State
Examination (MMSE) e la Clinical Dementia Rating Scale (CDR).
L’MMSE è un questionario di rapida somministrazione che prevede 11 items, che
indagano orientamento temporo-spaziale, memoria immediata, attenzione e calcolo,
memoria di richiamo, linguaggio-denominazione, linguaggio-ripetizione, linguaggio-
comprensione orale, linguaggio/lettura/comprensione scritta, linguaggio/generazione di
frase scritta, prassia costruttiva. La somma dei vari items dà un punteggio totale
compreso tra 0 e 30 a cui devono essere applicati fattori di correzione relativi al livello
di scolarità ed all’età; punteggi superiori a 24 sono ritenuti nella norma. Poiché il
MMSE è uno strumento di screening i soggetti con punteggio normale dovrebbero
essere comunque indagati con una batteria di test volti a valutare l’esistenza di un DNC
sottostante o se si tratta di casi di “predemenza” (Mild Cognitive Impairment), cioè
quadri clinici borderline in cui il quadro cognitivo non ha nessuna interferenza con le
autonomie strumentali.
Per quanto riguarda l’interpretazione dei punteggi che si ottengono dal MMSE,
secondo la nota 85 AIFA la malattia di Alzheimer può essere suddivisa nei seguenti stadi
di gravità: lieve (MMSE 21-26), moderato (MMSE 10-20), moderatamente grave
(MMSE 10-14) e grave (MMSE inferiore a 10).
La valutazione dell’indipendenza nelle attività quotidiane è efficacemente descritta,
in forma quali-quantitativa, dalla scala di valutazione denominata Clinical Dementia
Rating Scale (CDR) proposta da Hughes e Coll. negli anni ’80 e successivamente
modificata (l’ultima revisione è quella effettuata da Morris nel 1993), che comprende gli
effetti menomativi sostanzialmente comuni a tutti i precitati disturbi. La CDR valuta i
seguenti aspetti: memoria, orientamento temporo-spaziale, giudizio ed astrazione, atti-
vità sociali e lavorative, vita domestica, interessi ed hobbies, cura della propria persona.
Si tratta dunque di uno strumento più completo sia ai fini della diagnosi che dell’ac-
certamento del livello di gravità dei DNC poiché indaga anche domini non cognitivi.
Il punteggio globale viene ricavato dai punteggi ottenuti in ognuna delle sei
funzioni indagate nel modo seguente:
1. Il punteggio globale della CDR equivale a quello della categoria della memoria
(CDR = M) quando in almeno tre categorie secondarie si ottiene un punteggio uguale
a quello della memoria in modo che quattro valutazioni si trovano sulla stessa colonna
verticale delle cinque di cui si compone la scala;
2. nel caso in cui in tre o più categorie secondarie si ottenga un punteggio differente
(superiore o inferiore) rispetto a quello della memoria, il punteggio CDR è uguale a
quello con il maggior numero di categorie secondarie, qualunque sia il risultato di M;
3. nel caso in cui il punteggio di tre categorie secondarie identifichi una colonna
posta da un lato di M e quello delle altre due colonne si trovi sul lato opposto, il
punteggio CDR sarà quello di M;
4. nel caso in cui M sia uguale a 0,5, il CDR sarà pari a 1 se almeno tre categorie
secondarie hanno un punteggio uguale o superiore a 1;
5. nel caso in cui M sia uguale a 0, il CDR sarà 0 a meno che non vi sia
compromissione uguale o superiore a 0,5 in due o più categorie secondarie.
Trattandosi di una condizione che prevede la compromissione di vari aspetti delle
funzioni mentali e relazionali, il giudizio medico-legale deve basarsi sui seguenti step:
anamnesi dettagliata, mirata soprattutto ad indagare l’entità del trauma subito (anche se
spesso, soprattutto nei soggetti anziani, non vi è una corrispondenza tra entità del
trauma e gravità del quadro clinico) e la continuità fenomenica tra trauma ed insorgenza
del quadro clinico (anche per questo aspetto è necessario comunque tener presente che
spesso intercorre un certo lasso di tempo tra il trauma e la comparsa delle manifestazioni
cliniche); personalità premorbosa; inquadramento clinico, volto ad indagare le varie
funzioni potenzialmente compromesse (valutando non solo l’aspetto cognitivo ma
anche quello motorio e sensitivo/sensoriale); valutazione del livello di gravità della
patologia, ovvero del grado di compromissione funzionale.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione del danno si basa sui punteggi della Clinical Dementia Rating Scale (CDR).
È prevista la possibilità di attribuire una valutazione percentuale minima anche a soggetti con CDR=0
poiché tale grading può non coincidere con una situazione di assoluta normalità potendo ricomprendere
anche soggetti ai quali è assegnato un punteggio pari a 0 nella categoria della memoria (categoria principale)
ma con compromissione di grado 0,5 in una delle altre categorie.In alternativa alla scala CDR la valutazione
può essere formulata sulla base del risultato del Mini Mental State Examination, di maggiore diffusione e
di più semplice e rapida somministrazione, che però misura soltanto la compromissione cognitiva, senza
tenere conto degli ulteriori deficit che caratterizzano il quadro clinico, specie nelle forme più avanzate.
DNC Stadio 1 — CDR 0-0,5 1-10%
DNC Stadio 2 — CDR 1 11-25%
DNC Stadio 3 — CDR 2 26-45%
DNC Stadio 4 — CDR 3 46-80%
DNC Stadio 5 — CDR 4-5 81-100%
per la vita di relazione. I gravi deficit di tale funzione risultano pertanto assai invalidanti,
anche nell’ambito delle attività di apprendimento, ludiche e lavorative.
Le alterazioni del linguaggio costituiscono un insieme estremamente variegato e
complesso, che può tuttavia essere scomposto nei seguenti quadri principali in base
all’eziologia:
1) afasia o disfasia: alterazioni cerebrali causative di grave deficit, fino alla perdita
completa, della produzione e/o della comprensione del linguaggio parlato e/o scritto
(afasia o disfasia), derivanti generalmente da lesioni in regioni cerebrali specifiche che,
di solito, sono localizzate nell’emisfero sinistro per i destrimani, mentre nei mancini le
lesioni possono trovarsi nell’uno o nell’altro emisfero;
2) anartria o disartria: difetti nella articolazione del linguaggio, con integrità delle
funzioni mentali e della comprensione e memorizzazione delle parole;
3) afonia o disfonia, per alterazioni della laringe o di altre strutture anatomiche
afferenti alle funzioni fonatorie (lingua, faringe, labbra, denti), ivi compresa la loro
innervazione;
4) dislalie e disfluenze: disturbi della parola o speech, in cui è compromessa la
capacità di realizzazione articolatoria del linguaggio verbale.
2.7.a. Afasie
1. Afasie fluenti: caratterizzate da copiosa produzione verbale, con frasi lunghe rese
imprecise dall’abbondanza di perifrasi che mascherano l’assenza della parola; il discorso
è indecifrabile dall’esaminatore ed è espresso in forma di logorrea, essendo il soggetto
inconsapevole del disturbo.
2. Afasie non fluenti: caratterizzate da scarsa produzione verbale, per cui il soggetto
riesce a produrre soltanto parole isolate o frasi molto brevi composte da due-tre
elementi, riducendo l’espressione in alcuni casi ad una stereotipia o ad una formula
verbale; la prosodia e l’intonazione della frase sono fortemente rallentate e anormali;
viene utilizzato uno stile telegrafico con strutture sintattiche molto semplici e pochi
verbi, a volte neanche coniugati.
Altra classificazione è quella derivante, seppur con diverse modifiche, dal modello
di Lichteim, che distingue le afasie sulla base di specifici compiti linguistici (descrizione,
denominazione, ripetizione, comprensione), a prescindere dai possibili meccanismi
danneggiati sottostanti, individuando le seguenti forme:
— Afasia globale: afasia non fluente, in genere causata da ampie lesioni dell’emi-
sfero sinistro che coinvolgono la corteccia perisilviana pre- e post-rolandica e le
strutture profonde sottostanti. Si caratterizza per grave deficit di produzione, compren-
sione ed elaborazione di messaggi linguistici; l’eloquio risulta limitato a frammenti
sillabici ricorrenti, la comprensione e la ripetizione sono gravemente alterate, la lettura
a voce alta e la scrittura sono impraticabili, la comprensione di parole scritte è possibile
solo per termini d’uso frequente.
— Afasia di Broca: afasia non fluente caratterizzata da una produzione verbale
scarsa e male articolata; i soggetti presentano un’alterazione dell’associazione dei fonemi
(discorso rallentato, interrotto, monotono) ed un disturbo elementare del grafismo;
nelle forme più gravi il soggetto ha perduto completamente la possibilità di comunicare
oralmente con gli altri, tranne la capacità, in alcuni casi, di pronunciare qualche parola
isolata e breve. Si associa spesso ad emiplegia destra, con o senza emi-anestesia, ad
aprassia bucco-facciale e talora ad aprassia ideo-motoria.
— Afasia di Wernicke (o post-rolandica): afasia caratterizzata da due difetti: grave
deficit della comprensione, consistente nella impossibilità di discernere parole o fonemi
sia verbali che scritti, dovuto ad un danno delle aree uditive associative; linguaggio
fluente ed appropriatamente intonato ma privo di significato. Vi è un’espressione
verbale quantitativamente normale o anche superiore alla norma ma in cui viene meno
la qualità del linguaggio, nel senso che le espressioni significative (verbi, sostantivi) sono
assai carenti rispetto a quelle non significative (congiunzioni, avverbi, preposizioni). Il
linguaggio tuttavia non mostra pause o, se queste sono presenti, sono dovute alla ricerca
di parole significative che sono rapidamente sostituite da neologismi, circonlocuzioni o
parole vaghe dal molteplice significato che contribuiscono a rendere il discorso assai
verboso ma privo di significato. L’afasico fluente non ha consapevolezza del proprio
deficit di espressione verbale e non ha preoccupazione di non riuscire a comunicare. La
comprensione verbale e la ripetizione verbale sono sempre notevolmente alterate, la
lettura ad alta voce è disturbata e vi è compromissione nella comprensione dello scritto;
anche la scrittura è gravemente compromessa.
— Afasia transcorticale sensoriale: afasia fluente determinata da lesioni localizzate
nelle zone adiacenti all’area di Wernicke, che determinano forte compromissione di
comprensione, elaborazione e produzione del linguaggio, fatta eccezione per la ripeti-
zione.
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di Broca di Wernicke
globale di conduzione
transcorticale motoria anomica
transcorticale mista. transcorticale sensoriale
La valutazione della gravità clinica può essere effettuata sulla base della Aphasia
Severity Rating Scale (ASRS modificata), che consente di individuare 6 classi funzionali
di gravità secondo il seguente schema:
CLASSE ASRS
DESCRIZIONE
MODIFICATA
Classe 0 Il linguaggio non è assolutamente informativo o non vi è alcuna comprensione della parola.
Il linguaggio è caratterizzato da espressioni frammentate; è necessario che l’interlocutore
Classe 1 intervenga con numerose domande o con deduzioni per realizzare uno scambio informativo
di limitate dimensioni.
È possibile una comunicazione su temi abituali per il soggetto con l’aiuto dell’interlocutore;
Classe 2 si osservano frequenti fallimenti nell’espressione delle idee con una sostanziale condivisione
del senso della comunicazione tra il soggetto e l’interlocutore.
Il soggetto può discutere su tematiche quotidiane con un piccolo aiuto; può essere difficile
Classe 3
o impossibile la comunicazione su temi non abituali.
È’ apprezzabile una perdita della fluenza verbale o della facilità della comprensione, senza
Classe 4
una significativa limitazione nelle possibilità comunicative o delle forme espressive.
Classe 5 Apprezzabili minime difficoltà nel linguaggio.
È noto come le caratteristiche del disturbo afasico e la sua gravità possano variare
nello stesso soggetto passando dalla fase acuta a quella cronica, per cui la valutazione del
disturbo e la sua classificazione devono avere riguardo alla fase di malattia (acuta, sub-
acuta, cronica), tenendo conto che in fase acuta eventuali deficit neuro-psicologici pos-
sono concorrere a limitare la comunicazione verbale nel soggetto agendo da fattori con-
fondenti rispetto alla detenzione di un effettivo disturbo afasico. Pertanto la definizione
delle caratteristiche qualitative del deficit deve essere effettuata nella fase post-acuta della
malattia (cioè almeno dopo 4-6 settimane dall’esordio). Il maggiore recupero spontaneo
dell’afasia si realizza entro i primi tre-sei mesi dall’esordio. Tra le possibili variabili che
influiscono sul recupero, hanno maggiore impatto quelle cliniche rispetto a quelle bio-
grafiche, che infatti non sono più considerate fattori prognostici rilevanti. Secondo le
Linee Guida della Federazione dei Logopedisti Italiani del 2009 non esistono indicazioni
al proseguimento del trattamento riabilitativo in caso di mancato raggiungimento di obiet-
tivi terapeutici in due valutazioni effettuate a distanza di 3-4 mesi una dall’altra.
Per la valutazione delle afasie vengono utilizzate batterie di test, quali il test di
Fluenza, l’Esame del Linguaggio II, la Western Aphasia Battery (WAB), Aachener
Aphasie Test (AAT), il Test dei Gettoni.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione va effettuata sulla base del tipo di afasia e del livello di gravità ricavata dalla scala ASRS
modificata.
Afasia fluente:
lieve (classe 4-5) 10-20%
moderata (classe 2-3) 21-40%
grave (classe 0-1) 41-60%
Afasia non fluente:
lieve (classe 4-5) 10-20%
moderata (classe 2-3) 21-35%
grave (classe 0-1) 36-45%
Afasia globale 61-75%
La dislalia viene definita come l’impossibilità ad articolare uno o più fonemi e può
manifestarsi sottoforma di omissioni, distorsioni, sostituzioni e/o trasposizione dei suoni
linguistici.
Le dislalie vengono distinte, in base alla sede ed alla zona articolatoria in cui
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione è riferita ai disturbi del linguaggio diversi dalle afasie.
I parametri utilizzati per la valutazione sono i seguenti: riduzione di intensità del volume della voce,
alterazioni qualitative della medesima, possibilità di una adeguata comunicazione orale (quest’ultimo
parametro, che di fatto rappresenta la sintesi dei due precedenti ed esprime l’effettiva entità della
menomazione funzionale, è quello che senz’altro deve preminentemente guidare nella valutazione). Per
stabilire la percentuale indicativa da attribuire ad una data menomazione non è necessaria la contemporanea
presenza dei tre deficit funzionali considerati; per collocarla preliminarmente nella giusta classe ci si può
riferire al più grave di essi.
La valutazione deve essere espressa dopo un periodo di almeno un anno dall’evento dannoso ed al termine
dei trattamenti rieducativi, che, nella maggior parte dei casi, rendono possibile un parziale recupero della
funzione.Per la valutazione della balbuzie si rimanda a quanto indicato nel capitolo 1.
Lievissime alterazioni della favellaLieve riduzione di intensità della voce. Rare disfonie o
esitazioni; può essere molto difficile la pronuncia di alcune unità fonetiche. Può essere
1-5%
utilizzato il linguaggio con minime difficoltà per le necessità personali, anche in ambienti
sfavorevoli.
Lievi alterazioni della favellaRiduzione apprezzabile e costante dell’intensità della voce che
tuttavia non inficia la comprensibilità. Disfonie ed inceppamenti piuttosto frequenti che
comunque non impediscono la intelligibilità del discorso; qualche unità fonetica è impos- 6-10%
sibile da pronunciare; voce bitonale. Utilizzata l’espressione orale, anche se con qualche
difficoltà negli ambienti sfavorevoli.
Moderate alterazioni della favellaIntensità della voce costantemente e considerevolmente
ridotta per cui il soggetto deve sforzarsi per conferire comprensibilità alle sue parole.
Eloquio lento, impacciato e difficoltoso con problemi di intelligibilità che spesso obbligano 11-20%
il soggetto a ripetere. Può essere utilizzato il linguaggio in ambienti favorevoli mentre ha
notevoli difficoltà e può talvolta risultare incomprensibile in ambienti rumorosi.
Gravi alterazioni della favellaIntensità notevolmente ridotta per cui solo con grande
impegno il soggetto riesce a rendere la sua voce appena udibile ad un attento ascolto.
Eloquio notevolmente stentato per cui il soggetto può essere compreso solo con grande 21-35%
difficoltà. La comunicazione orale è estremamente difficoltosa e possibile, nei limiti suddetti,
solo in ambienti particolarmente favorevoli.
Una valutazione a parte merita la dislessia (facente parte dei disturbi dell’appren-
dimento), che rappresenta una condizione di gravità minore rispetto alle precedenti ed
è caratterizzata da difficoltà a leggere e scrivere in modo corretto e fluente. Con il
termine alessia si indica invece la perdita della capacità di leggere in assenza di disturbi
visivi. In realtà i due termini sono utilizzati come sinonimi per indicare un deficit
provocato da lesioni a carico del giro angolare dell’emisfero dominante o delle connes-
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sioni di tale distretto con la corteccia visiva. La agrafia rappresenta la perdita della
capacità di scrittura.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Dislessia 5-15%
Alessia — agrafia 26-35%
2.8. Epilessie
Secondo la definizione della Task Force incaricata nel 2005 dalla International
League Against Epilepsy (ILAE) l’epilessia viene definita come un disturbo cerebrale
caratterizzato da una persistente predisposizione a sviluppare crisi epilettiche e dalle
conseguenze neuro-biologiche, cognitive, psicologiche e sociali di questa condizione. La
definizione di epilessia richiede il verificarsi di almeno una crisi epilettica, definita come
l’occorrenza transitoria di segni e/o sintomi dovuti a un’attività neuronale anomala,
eccessiva o sincronizzata a livello cerebrale.
L’epilessia post-traumatica si osserva con maggiore frequenza negli adolescenti e
nei giovani adulti, con una predominanza del sesso maschile.
L’analisi elettro-clinica delle crisi permette di distinguerle in generalizzate e
parziali, che a loro volta si suddividono nei seguenti sottotipi:
1. Crisi generalizzate:
— Crisi tonico-cloniche tipo “grande male”: caratterizzate da perdita di coscienza
immediata, con tre fasi che durano in tutto 5-10 minuti: fase tonica (contrazione intensa
e generalizzata con conseguente apnea e cianosi); fase clonica (contrazioni muscolari
brusche, generalizzate, sincrone, prima ravvicinate, poi distanziate); fase risolutiva
(coma post-critico con ipotonia generalizzata e ripresa del respiro).
— Crisi toniche, caratterizzate da perdita di coscienza e irrigidimento tonico degli
arti.
— Crisi cloniche, caratterizzate da perdita di coscienza e clonie degli arti.
— Crisi miocloniche: scosse muscolari brevi, bilaterali e sincrone.
— Assenze: tipiche, caratterizzate da breve sospensione della coscienza talora
associata a minime componenti motorie; atipiche, caratterizzate da sospensione prolun-
gata della coscienza, inizio e fine progressivi, componenti motorie più pronunciate.
2. Crisi parziali:
— Semplici (senza alterazioni della coscienza): possono manifestasi con segni
motori, somato-sensitivi o sensoriali, vegetativi, psichici.
— Complesse (con alterazione della coscienza): si distinguono in quelle ad inizio
parziale semplice, seguito da disturbi della coscienza e/o automatismi, ed in quelle con
disturbi della coscienza fin dall’inizio della crisi, accompagnato o meno da automatismi.
— Crisi parziali secondariamente generalizzate.
La diagnosi si basa su comprovata insorgenza di crisi epilettiche e su specifici
riscontri elettroencefalografici; è necessario innanzitutto appurare se si tratti realmente
di crisi epilettiche e non di fenomeni parossistici non epilettici, oltrechè stabilire la
genesi delle crisi. Un certo valore discriminativo può avere il riscontro elettroencefalo-
grafico di grafoelementi indicativi di alterazioni focali, soprattutto se osservate costan-
temente e in più esami in successione; comunque il solo criterio elettroencefalografico,
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Ai fini valutativi è necessario considerare l’andamento clinico della malattia, la frequenza e la tipologia delle
crisi, l’efficacia e gli eventuali effetti collaterali del trattamento farmacologico, nonchè l’interferenza sulle
attività quotidiane e sulla vita di relazione.
La percentuale minima di invalidità non può essere inferiore al 5%, poiché, pur in compenso terapeutico,
si deve tener conto della necessità di assunzione costante della terapia farmacologica.
Negli stadi funzionali 1-2 rientrano le forme ben controllate farmacologicamente, con sporadiche crisi e
modesta incidenza sulle normali attività del vivere quotidiano.
Nello stadio 3 il controllo farmacologico è scarso e sussistono importanti interferenze sulle attività
quotidiane, ma con mantenimento dell’autonomia personale, la cui perdita giustifica il passaggio allo stadio
4, caratterizzato anche dalla comparsa di alterazioni di tipo psichico e/o cognitivo. Nel caso in cui la
patologia si manifesti in età evolutiva la valutazione deve sempre orientarsi verso i valori massimi del range
indicato.
Stadio 1. Forme in completo controllo farmacologico, senza crisi da almeno due anni, a
5-10%
seconda della tipologia di trattamento necessario
Stadio 2. Forme controllate farmacologicamente, con sporadiche crisi; moderatamente
incidenti sulle normali attività quotidiane, ma con necessità di astenersi da attività
11-25%
potenzialmente pericolose per sé o per gli altri, anche in relazione ai dosaggi terapeutici
necessari
Stadio 3. Forme in scarso controllo farmacologico, con crisi a frequenza minima mensile
e massima settimanale, a seconda del tipo di crisi (semplici, complesse o generalizzate), 26-45%
con rilevante interferenza sullo svolgimento delle attività quotidiane
Stadio 4. Forme non controllate farmacologicamente, con crisi plurime settimanali, alte-
razioni di tipo psichico e/o cognitivo, grave interferenza sullo svolgimento delle attività
46-80%
quotidiane sino allo stato di male epilettico con grave compromissione dell’autonomia
personale
Una lesione midollare può prodursi come conseguenza di una flessione estrema
(che determina sublussazione o lussazione anteriore dei corpi vertebrali, con rottura dei
legamenti longitudinali posteriori ed erniazione dei dischi intervertebrali) o di una
iperestensione estrema (responsabile di fratture trasversali delle vertebre, rottura dei
legamenti longitudinali anteriori e lussazioni posteriori). Negli altri casi la modalità
traumatologica maggiormente lesiva per il midollo è rappresentata dall’associazione tra
rotazione e flessione, che determina la proiezione all’interno del canale vertebrale dei
frammenti ossei prodotti dalla frattura degli elementi vertebrali posteriori, analoga-
mente a quanto può avvenire nei traumi da compressione in senso assiale.
La valutazione del deficit neurologico può utilmente basarsi sui criteri elaborati
dall’American Spinal Injury Association (A.S.I.A.) e dall’International Medical Society of
Paraplegia (I.M.S.O.P), che hanno prodotto una versione modificata dei precedenti
standard internazionali, elaborando una scala di valutazione neurologica adottata da
molte organizzazioni cliniche, tra cui la So.M.I.Par. (Società Medica Italiana di Para-
plegia).
Secondo la classificazione A.S.I.A./I.M.SO.P. il livello neurologico di una lesione
mielica è identificato dal più caudale segmento del midollo spinale che presenti integre
le funzioni sensitive e motorie da entrambi i lati del corpo, secondo lo schema sotto
riportato.
C5 flessione gomito
C6 estensione polso
C7 estensione gomito
C8 flessione terza falange terzo dito
T1 abduzione quinto dito
L2 flessione anca
L3 estensione ginocchio
L4 flessione dorsale del piede
L5 estensione alluce
S1 flessione plantare caviglia
Per ogni gruppo muscolare deve essere attribuito un punteggio secondo una scala
da 0 a 5 punti (se qualche muscolo non è valutabile va registrato come NT, Not
Testable), così formulata:
Lesione completa: nessuna funzione motoria o sensitiva è conservata nei segmenti sacrali
GRADO A S4-S5 (nel fascio cortico-spinale e spino-talamico, gli assoni sacrali decorrono nella zona
più esterna e sono risparmiati nelle lesioni incomplete).
Lesione incompleta: è conservata la funzione sensitiva ma non quella motoria al di sotto
del livello neurologico e si estende ai segmenti sacrali S4-S5 (riflesso perineale).
GRADO B
Generalmente questo stadio è transitorio e se il paziente recupera la funzione motoria
passa nella categoria C o D della classificazione ASIA.
Lesione incompleta: la funzione motoria è conservata al di sotto del livello neurologico
GRADO C e più della metà dei muscoli chiave al di sotto della lesione hanno un grado di forza
inferiore a 3.
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La forza viene valutata con l‘esame manuale dei muscoli (MMT: Manuale Muscle
Testing) in base alla scala MRC che di seguito si riporta
VALUTAZIONE DESCRIZIONE
Assenza di movimento articolare con assenza di contrazione visibile o palpabile (’para-
FORZA 0
lisi’).
Assenza di movimento articolare con presenza di contrazione visibili o palpabile
FORZA 1
(paresi).
FORZA 2 - Presenza di movimento articolare incompleto in assenza di gravità.
Movimento articolare incompleto (al di sotto del 50% dell’arco di movimento) in
FORZA 2 +
presenza di gravità.
Movimento articolare quasi completo (al di sopra del 50% dell’arco di movimento) in
FORZA 3-
presenza di gravità.
FORZA 3 Movimento articolare completo per tutto l’arco di movimento in presenza di gravità.
FORZA 3 + Movimento articolare completo in presenza di gravità e contro lieve resistenza.
FORZA 4 Movimento articolare completo in presenza di gravità e contro moderata resistenza.
FORZA 5 Movimento articolare completo in presenza di gravità e contro massima resistenza.
Il livello motorio della lesione è definito come il più basso segmento in cui la forza
muscolare è in grado di sostenere movimenti attivi contro gravità, quello sensitivo come
il più basso dermatomero in cui le sensibilità superficiali e profonde sono normali.
Nella valutazione complessiva dei deficit neurologici conseguenti a lesioni midollari
si devono considerare i seguenti parametri:
1. Entità della lesione (sindrome midollare da sezione trasversa completa od
incompleta).
2. Livello di lesione.
3. Complicanze.
4. Risultati della riabilitazione.
Complicanze
a) Complicanze respiratorie: una lesione cervicale alta, C1-C3, compromette la
funzionalità del diaframma e dei muscoli respiratori toracici e addominali e, nonostante
la presenza dei muscoli respiratori accessori del collo, in genere non vi è la possibilità
di una valida ventilazione polmonare spontanea. Una lesione cervicale C4-C8 mantiene
integra la funzionalità del diaframma e dei muscoli accessori del collo e, a seconda del
livello, della porzione clavicolare del muscolo gran pettorale, permettendo un respiro
spontaneo valido, pur in assenza del contributo della muscolatura toracica e addominale
e qualora non sussistano patologie polmonari associate. Nelle lesioni midollari a livello
D6 è conservata parzialmente la funzionalità della muscolatura della gabbia toracica
mentre rimane compromessa quella della muscolatura addominale. Lesioni al di sotto di
D12 non coinvolgono i muscoli respiratori.
b) Complicanze cardio-vascolari: sono correlate alla riduzione della massa
muscolare funzionante, alla diminuzione del ritorno venoso, all’alterazione della fun-
zionalità respiratoria e dei meccanismi omeostatici di controllo. L’attività muscolare è
maggiormente ridotta nei soggetti con più alto livello lesionale: nelle lesioni localizzate
al di sopra di D6 è frequente l’ipotensione ortostatica (con valori pressori inferiori o
uguali a 100/60 mmHg), che si manifesta clinicamente con vertigini, cefalea, confusione
mentale sino alla perdita di coscienza ed insorge spesso nei cambiamenti posturali e nel
periodo post-prandiale. Nei tetraplegici possono inoltre verificarsi crisi neuro-vegetative
da disreflessia autonomica.
c) Complicanze trombotiche venose: hanno un’incidenza elevata, specie a livello
delle gambe, a causa di vari fattori tra cui: l’immobilizzazione forzata, il politraumatismo
soventemente associato, patologie venose preesistenti, infezioni intercorrenti del tratto
urinario, delle vie respiratorie e dei decubiti, perdita del tono vasale (vasoparalisi),
modificazione dell’endotelio con liberazione di fattori che favoriscono la trombogenesi,
perdita della contrazione muscolare attiva per ipotonia muscolare e deficit motorio
parziale o totale. La loro diagnosi non è agevole, specialmente nei paraplegici e
tetraplegici. Le manifestazioni cliniche più frequenti sono: edema dell’arto, senso di
tensione, crampi, calore, iperemia, disreflessia autonomica; talvolta si tratta di quadri
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neuro-muscolare (FNS); sistemi ibridi, costituiti dalla combinazione delle ortesi mec-
caniche con la FES.
L’alimentazione è dipendente per lesioni da C3 a C5, indipendente con ausili da C6
a C7, indipendente al di sotto di tale livello. L’abbigliamento e l’igiene personale sono
totalmente dipendenti per lesioni a livello di C3-C4, dipendenti con aiuto per la parte
superiore del corpo a livello di C5, indipendente per la parte superiore del corpo, con
ausili o con aiuto per la parte inferiore a livello di C6-C7, indipendente da C8 in poi.
Il mantenimento di una normale escursione articolare è molto importante nel para-
e nel tetraplegico per cui sono necessarie continue e precoci manovre di mobilizzazione
articolare e trattamenti di stretching muscolare onde prevenire gli effetti della spasticità
che si instaura dopo la prima fase di shock spinale, caratterizzata invece da flaccidità.
Per il miglioramento della qualità di vita sono molto importanti anche i provvedimenti
per l’accessibilità ambientale, nonché l’ausilio nella minzione (catetere endovescicale a
dimora della fase acuta, cateterismo ad intermittenza pulito (CIC, Clean Intermittent
Catheterization) con frequenza di 4-6/die.
Per quanto concerne le disfunzioni sessuali maschili la terapia del deficit dell’ere-
zione è rappresentata dalla farmacoprotesi intracavernosa (FIC) con papaverina e
inibitori della fosfodiesterasi 5 (sildenafil, tadalafil, vardenafìl); terapie alternative sono
rappresentate da vacuumterapia ed applicazione di protesi peniene.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Tetraplegia 100%
Tetraparesi, a seconda del deficit funzionale 60-90%
Paraplegia
80%
In caso di paraplegia che non consenta il controllo del tronco la valutazione è dell’85%.
Paraparesi con lieve deficit di forza e possibilità di deambulazione senza appoggio 20-40%
Paraparesi con deficit di forza moderato-grave e possibilità di deambulazione solo con
41-65%
appoggio
Sindrome dell’epicono con vescica neurologica — Forma completa 45%
Sindrome del cono terminale — Forma completa 55%
Sindrome della cauda equina 51-85%
Sindrome di Brown-Séquard 25-75%
La gravità del trauma cranico viene accertata in primis tramite la valutazione dello
stato di coscienza del soggetto, effettuata mediante la Glasgow Coma Scale (GCS), che
è in rapporto lineare con la mortalità e con gli esiti del trauma. In base al punteggio del
GCS si distinguono tre gradi di gravità, che nell’adulto sono definiti come segue:
1. Trauma cranico lieve: qualsiasi evento traumatico che interessa il distretto
cranio-encefalico in soggetti di età maggiore di 14 anni con punteggio GCS 15 e 14;
sono esclusi i soggetti con deficit neurologici focali, sospetto di frattura affondata o
segni clinici di frattura della base cranica.
2. Trauma cranico moderato: qualsiasi evento traumatico che interessa il distretto
cranio-encefalico in soggetti di età maggiore di 14 anni con punteggio GCS da 13 a 9;
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CLASSI DESCRIZIONE
Lesione diffusa I nessuna patologia intracranica visualizzabile alla TC
cisterne visibili con shift di 0-5 mm e/o: lesioni ad alta-media densità <25 cc
(compresi osso o corpi estranei)
Lesione diffusa II a) una sola lesione
b) due o più lesioni unilaterali
c) lesioni bilaterali
cisterne compresse od assenti
Lesione diffusa III (swelling) shift della linea mediana di 0-5 mm
lesioni ad alta-media densità <25 cc
shift della linea mediana > 5 mm
Lesione diffusa IV (shift)
lesioni ad alta-media densità <25 cc.
lesioni alta-media densità volume >25 cc.
a) Ematoma extradurale
Lesione con effetto massa b) Ematoma subdurale
c) Ematoma intraparenchimale
d) Lesioni multiple
Emorragia subaracnoidea presente/assente
Le sequele dei traumi cranici sono assai variabili in relazione alla tipologia ed
all’entità delle lesioni riportate. La prognosi è essenzialmente legata ai seguenti fattori:
primo punteggio e punteggio peggiore del GCS, durata dello stato di coma, durata e
gravità dell’amnesia post-traumatica, età (gli anziani presentano maggiore mortalità e
morbilità anche dopo trattamento riabilitativo). Nei bambini gli esiti più frequenti sono
rappresentati da: deficit cognitivi, scarsi risultati scolastici, disturbi comportamentali.
Gli esiti dei traumi cranici maggiormente rilevanti sul piano funzionale sono
rappresentati da:
1. Deficit neurologici da interessamento dell’encefalo o di nervi cranici.
2. Disturbi psico-patologici: il DSM-5 contiene un paragrafo specificamente dedi-
cato ai “disturbi neuro-cognitivi maggiori o lievi dovuti a lesioni traumatiche cerebrali”.
Si tratta di condizioni di natura prettamente organica centrale, la cui gravità deve essere
pertanto stimata in base a riscontri semeiologici (perdita di coscienza, amnesia po-
st-traumatica, disorientamento e confusione, GCS, etc.) e strumentali, per le cui
caratteristiche si rimanda al paragrafo inerente i DNC. Gli elementi principali sui quali
fondare la valutazione del nesso causale sono rappresentati da un lato dalle alterazioni
encefaliche all’imaging — quantunque non sempre conclamate — e, dall’altro, dall’as-
senza di quadri psicotici nel gentilizio e di antecedenti disturbi di personalità.
3. Epilessia post-traumatica: la comparsa di alcuni fattori di rischio orienta nel
senso di maggior probabilità di sviluppo di epilessia post-traumatica. Tali fattori
(ognuno dei quali possiede una diversa importanza prognostica) possono essere così
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Possono inoltre associarsi altri sintomi quali insonnia, disturbi del ritmo sonno-
veglia, turbe vasomotorie, iperidrosi, disturbi digestivi. L’esame obiettivo neurologico è
di solito silente, anche se sono stati descritti segni particolari, ma aspecifici, quali
tremori palpebrali e delle dita a mani protese, iperreflessia propriocettiva, iperestesia.
La diagnosi di sindrome soggettiva post cranio-traumatica si fonda su: anamnesi
positiva per trauma cranico di una certa entità; segni neurologici, anche minimi,
nell’immediatezza del trauma; indagini di neuroimaging; esame EEG (pur negativo nella
maggioranza dei casi) che evidenzi alterazioni aspecifiche (segni di irritazione o ridu-
zione di ampiezza), spesso tendenti a miglioramento progressivo; segni di alterazione
della funzione vestibolare. L’evoluzione è benigna, anche se la sindrome può perdurare
talora anche per alcuni anni, spesso proprio in correlazione con eventuali vertenze
medico-legali in corso.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per la valutazione degli esiti di un trauma cranico è fondamentale inquadrare la gravità del trauma e
documentare la sussistenza di eventuali lesioni cerebrali mediante l’esecuzione di accertamenti strumentali,
la cui negatività non esclude peraltro la ammissibilità di esiti permanenti.Le percentuali sotto indicate sono
riferite a soggetti con sintomatologia lieve o moderata. Nei casi in cui la sintomatologia somatica e/o
psichica assuma particolare gravità, la valutazione deve essere effettuata sulla base di quanto indicato nelle
specifiche sezioni.
Esiti di trauma cranico commotivo, con o senza frattura cranica lineare composta 2-4%
Esiti di trauma cranico con lievi-moderate lesioni meningo-encefaliche e/o esami strumen-
5-15%
tali positivi, in base al quadro clinico
con distribuzione asimmetrica. Il quadro clinico varia a seconda che prevalga l’interes-
samento del 1° o del 2° motoneurone o quello bulbare:
— sintomi bulbari: disartria, disfagia, scialorrea, atrofia e fascicolazioni della
lingua; generalmente la malattia rimane localizzata a tale livello (c.d. “paralisi bulbare
progressiva”).
— sintomi da interessamento del 1° motoneurone: iperreflessia, spasticità, segno di
Babinsky, incoordinazione, debolezza (che si differenzia da quella correlata ad interes-
samento del 2° motoneurone in quanto non necessariamente associata ad atrofia
muscolare). I soggetti lamentano rallentamento motorio, difficoltà nel controllo dei
movimenti o rigidità muscolare. In una piccola percentuale di casi non si sviluppa
interessamento del 2° motoneurone per cui si parla di “sclerosi laterale primaria”.
— sintomi da interessamento del 2° motoneurone: debolezza, più evidente alla
porzione distale dell’arto e con progressione asimmetrica, atrofia muscolare, fascicola-
zioni. Il 10% dei soggetti non presenta coinvolgimento del 1° motoneurone, per cui si
parla di “atrofia muscolare progressiva”.
Le funzioni sensitive, il controllo del tronco e quello sfinterico non sono compro-
messi; la motilità oculare, anche in caso di interessamento del tronco encefalico, è
risparmiata sino alle fasi terminali. In una piccola percentuale di casi (5-10%) si può
sviluppare una forma di demenza fronto-temporale. L’evoluzione del quadro è impre-
vedibile, anche se generalmente conduce alla morte in 3-5 anni.
Per la valutazione della gravità si utilizzano diverse scale che consentono di stadiare
la disabilità correlata alla malattia, nonché l’interferenza con lo svolgimento delle attività
quotidiane. Tra di esse la principale è la Scala di disabilità funzionale ALS — FRS
(Amyotrophic Lateral Sclerosis Functional Rating Scale — Revised), di seguito riportata.
CRITERI DI EL ESCORIAL
Presenza di: Assenza di:
- segni di degenerazione del 2° motoneurone (clinici, - evidenza neurofisiologica o neuropatologica di altri
neurofisiologici, neuropatologici) in una o più re- processi che possano spiegare i segni clinici.
gioni (bulbare, cervicale, toracica e lombosacrale). - evidenza neuroradiologica di altri processi patolo-
- segni di degenerazione del 1° motoneurone (anam- gici che possano spiegare i segni clinici e neurofisio-
nestica o clinica) in una o più regioni. logici osservati.
- segni e sintomi di progressione nella stessa o in altre
regioni.
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Ad oggi non esiste terapia per la SLA e l’unico farmaco autorizzato è il riluzolo
(molecola ad azione antiglutaminergica), impiegato al fine di ritardare il ricorso alla
ventilazione meccanica assistita; importante risulta anche la fisiochinesiterapia, al fine di
contrastare l’insorgenza della rigidità, ed il trattamento farmacologico sintomatico o di
supporto.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione si basa sulla tipologia e l’entità delle manifestazioni cliniche, sul numero di funzioni
compromesse e sul grado di progressione della malattia. Data la non curabilità della patologia e l’impre-
vedibilità della sua evoluzione, si ritiene che la sola formulazione diagnostica, anche in assenza di sintomi
apprezzabili, giustifichi il riconoscimento di una percentuale di invalidità sino al 15%. In presenza di
disabilità la valutazione deve basarsi sullo score ricavato dall’applicazione della scala ALS-FRS, utilizzando
la quale si propone una suddivisione in quattro ampie fasce. L’orientamento all’interno dei range deve tener
conto, oltre che del punteggio ottenuto, anche del tipo di categoria maggiormente compromessa, conside-
randone l’effettiva incidenza sull’autonomia del soggetto e sulla qualità di vita.
Stadio 1. Disabilità lieve (score 48-31) 16-30%
Stadio 2. Disabilità moderata (score 30-22) 31-60%
Stadio 3. Disabilità grave (score 21-11) 61-80%
Stadio 4. Disabilità gravissima sino alla totale dipendenza nello svolgimento delle ordinarie
81-100%
attività quotidiane (score 10-0)
EDSS
0 Obiettività neurologica normale.
1 Assenza di disabilità, segni minimi in un SF (escluso il SF neuropsichico di grado 1).
Non c’è disabilità, segni minimi in più di un SF (più SF di grado 1; eccetto il interessamento
1,5
di 1° e 2° di grado 1).
2 Disabilità minima in un SF (un SF di grado 2, gli altri di grado 0 o 1).
2,5 Disabilità minima in un SF (due SF di grado2, gli altri di grado 0 o 1).
Disabilità moderata in un SF (uno di grado 3, gli altri di grado 0 o 1), o disabilità lieve in
3 tre o quattro SF (tre o quattro di grado 2, gli altri di grado 0 o 1), il paziente è del tutto
autonomo.
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EDSS
Il paziente è del tutto autonomo ma ha una disabilità moderata in un SF (di grado 3) e uno
3,5 o due SF di grado 2; oppure due SF di grado 3; oppure cinque SF di grado 2 (altri di grado
0 o 1).
Il paziente è del tutto autonomo senza aiuto, autosufficiente, anche per 12 ore al giorno
nonostante una disabilità relativamente marcata consistente in un SF di grado 4 (altri di
4
grado 0 e 1), o combinazioni di gradi inferiori che superano i limiti precedenti; il paziente
è in grado di camminare senza aiuto o senza fermarsi per circa 500 metri.
Il paziente è del tutto autonomo senza aiuto, in grado di lavorare tutto il giorno, ma può
avere qualche limitazione per un’attività completa e richiedere un minimo di assistenza; si
4,5 caratterizza per una disabilità relativamente marcata consistente in un SF di grado 4 (altri
di grado 0 e 1) o combinazioni di gradi inferiori che superano i punteggi precedenti; è in
grado di camminare senza aiuto o senza fermarsi per circa 300 metri.
Il paziente è in grado di camminare senza aiuto e senza fermarsi per circa 200 metri; la
5 disabilità è sufficientemente marcata da intralciare una completa attività quotidiana (per
esempio lavorare tutto il giorno senza provvedimenti particolari).
Il paziente è in grado di camminare senza aiuto o senza fermarsi per circa 100 metri; la
5,5
disabilità è sufficientemente marcata da impedire una completa attività quotidiana.
Il paziente necessita di appoggio saltuario o costante da un lato (bastone, gruccia, cinghia)
6
per camminare per circa 100 metri con o senza fermarsi.
Il paziente necessita di appoggio bilaterale costante (bastoni, grucce, cinghie) per cammi-
6,5
nare per circa 20 metri senza fermarsi.
Il paziente è incapace di camminare per oltre 5 metri anche con aiuto, ed è essenzialmente
7 obbligato su una sedia a rotelle; è in grado di spostarsi da solo sulla sedia a rotelle e di
trasferirsi da essa ad altra sede (letto, poltrona); passa in carrozzella circa 12 ore al giorno.
Il paziente è incapace di fare più di qualche passo, è obbligato sulla sedia a rotelle; può aver
7,5 bisogno di aiuto per trasferirsi dalla sedia ad altra sede; si sposta da solo sulla carrozzella
standard per un giorno intero. Può aver bisogno di una carrozzella a motore.
Il paziente è essenzialmente obbligato a letto o su una sedia a rotelle o viene trasportato sulla
8 carrozzella, ma può stare fuori dal letto per gran parte del giorno; ha generalmente un uso
efficace degli arti superiori.
Il paziente è essenzialmente obbligato al letto per buona parte del giorno. Ha un qualche uso
8,5
efficace degli arti superiori.
9 Paziente obbligato a letto e dipendente. Può solo comunicare e mangiare (viene alimentato).
Paziente obbligato a letto, totalmente dipendente; incapace di comunicare efficacemente o
9,5
di mangiare/deglutire.
10 Decesso.
≥ 2 attacchi; evidenza clinica obiettiva di 1 lesione Disseminazione nello spazio, dimostrata da:≥ 1 le-
sione in T2 in almeno 2 delle 4 regioni del SNC
tipicamente colpite dalla SM (periventricolare, jux-
tacorticale, infratentoriale o midollo spinale); oppure
attendersi un ulteriore attacco clinico che coinvolge
un diverso sito del SNC.
1 attacco; evidenza clinica obiettiva di >2 lesioni Disseminazione nel tempo, dimostrata da: presenza
simultanea in qualsiasi momento di lesioni asintoma-
tiche captanti e non captanti gadolinio; oppure una
lesione in T2 nuova e/o captante gadolinio alla RM
di follow‐up, indipendentemente dal momento di
insorgenza rispetto alla scansione basale; oppure
attendersi un secondo attacco clinico.
1 attacco; evidenza clinica obiettiva di 1 lesione Disseminazione nello spazio e nel tempo, dimostrata
(sindrome clinicamente isolata) da:
per la DIS: ≥ 1 lesione in T2 in almeno 2 delle 4
regioni del SNC tipicamente colpite dalla SM (peri-
ventricolare, juxtacorticale, infratentoriale o midollo
spinale); oppure attendersi un secondo attacco cli-
nico che coinvolge un diverso sito del SNC;per la
DIT: presenza simultanea in qualsiasi momento di
lesioni asintomatiche captanti e non captanti gadoli-
nio; oppure una lesione in T2 nuova e/o captante
gadolinio alla RM di follow‐up, indipendentemente
dal momento di insorgenza rispetto alla scansione
basale; oppure attendersi un secondo attacco clinico.
Progressione neurologica insidiosa suggestiva di SM 1 anno di progressione di malattia (determinata re-
(sclerosi multipla primariamente progressiva) trospettivamente o prospetticamente) più 2 dei 3
criteri seguenti:
1.Evidenza di DIS cerebrale sulla base di ≥1 lesioni
in T2 nelle regioni tipicamente colpite dalla SM
(periventricolare, juxtacorticale o infratentoriale)
2.Evidenza di DIS nel midollo spinale sulla base di
≥2 lesioni al midollo in T23.Liquor positivo (localiz-
zazione isoelettrica di bande oligoclonali e/o indice
IgG elevato)
DIS: disseminazione nello spazio, DIT: disseminazione nel tempo.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Così come per le malattie del motoneurone, la non curabilità della patologia e l’imprevedibilità della sua
evoluzione, anche in assenza di sintomi apprezzabili, giustificano il riconoscimento di una percentuale di
invalidità non inferiore al 10% sulla base della sola della formulazione diagnostica
In presenza di segni clinici di malattia la valutazione si basa sul grado di compromissione funzionale
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
espresso in relazione al punteggio della scala EDSS.La distinzione in fasce è stata effettuata sulla base del
grado di compromissione della deambulazione e della compromissione dello svolgimento delle attività
quotidiane. I criteri per orientarsi all’interno delle fasce sotto indicate sono i seguenti: caratteristiche del
quadro clinico, forma di SM, frequenza e durata degli episodi di ricaduta, efficacia della terapia.
EDSS 1-3,5: deambulazione autonoma, soggetto autosufficiente 10-15%
EDSS 4-5,5: deambulazione autonoma, progressiva interferenza con le attività quotidiane 16-25%
EDSS 6: deambulazione con appoggio monolaterale 26-40%
EDSS 6,5: deambulazione con appoggio bilaterale 41-80%
EDSS 7-9,5: soggetto per lo più allettato o su carrozzina, con minima residua funzionalità
81-100%
degli arti superiori, sino alla totale dipendenza nelle ordinarie attività quotidiane
2.13. Cefalee
Emicrania
L’emicrania è un disturbo cefalalgico ricorrente con attacchi della durata di 4-72
ore, tipicamente caratterizzati da dolore pulsante a localizzazione unilaterale, di inten-
sità media o forte, comunque disabilitante, peggiorato dall’attività fisica di routine ed
associato ad altri sintomi tra cui nausea e/o foto-fonofobia. Circa 1/3 dei soggetti affetti
da emicrania prima dell’attacco può presentare sintomi neurologici focali transitori (la
c.d. “aura”), della durata variabile dai 5 ai 60 minuti, caratterizzati da disturbi visivi e/o
sensitivi e/o disfasici.
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Cefalea a grappolo
La cefalea a grappolo è caratterizzata da attacchi di dolore intenso, assai disabili-
tante, strettamente unilaterale ed a localizzazione orbitaria, sovraorbitaria, temporale o
in varie combinazioni di tali sedi, della durata di 15-180 minuti, che si manifestano con
una frequenza variabile da una volta ogni 2 giorni a 8 volte al giorno. Gli attacchi si
associano ad uno o più dei seguenti segni omolaterali al dolore: iniezione congiuntivale,
lacrimazione, congestione nasale, rinorrea, sudorazione del volto, miosi, ptosi, edema
palpebrale, agitazione.
La cefalea a grappolo ha una bassa prevalenza rispetto alle altre due forme,
colpendo circa lo 0,07% della popolazione e risultando più frequente nei maschi. Essa
si definisce cronica se gli attacchi sono presenti da più di un anno, senza remissioni o
con remissioni che durano meno di un mese. I soggetti che presentano la forma cronica
sono in percentuale minore (10-15%) rispetto a coloro che presentano la forma
episodica.
La risposta alla terapia sintomatica è generalmente buona (nell’80% dei casi si
ottengono buoni risultati con le terapie di prima linea: inalazione di ossigeno puro o
sumatriptan s.c.), mentre la risposta alla terapia preventiva è assai variabile.
Quando la cefalea esordisce in stretta relazione temporale con una patologia, locale
o sistemica, viene classificata come secondaria alla patologia stessa. Quando invece una
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variabile: può essere improvvisa o graduale ed evolvere nell’arco di ore o pochi giorni.
I sintomi associati sono rappresentati dalla sindrome di Bernard-Horner omolaterale al
dolore, acufeni e tinnito, paralisi dei nervi cranici inferiori e deficit neurologici focali da
ischemia cerebrale o disturbi del visus da ischemia retinica.
— Cefalea post endo-arteriectomia: si manifesta entro una settimana dall’inter-
vento; il dolore può coinvolgere anche il collo ed il volto e nel 60% dei casi è diffusa
e lieve ed ha decorso benigno auto-limitante. Nel 38% dei casi è unilaterale con attacchi
che si presentano 1-2 volte/die, durano 2-3 ore e si risolvono entro 2 settimane. Nei rari
casi restanti la cefalea è parte della sindrome da iperperfusione, con dolore unilaterale
pulsante e severo che insorge 3 giorni dopo il trattamento chirurgico e richiede un
reintervento urgente per il marcato rischio di sanguinamento.
— Cefalea attribuita ad angioplastica carotidea o vertebrale: insorge ipsilateral-
mente entro una settimana dall’angioplastica e tende a risolversi entro un mese
dall’intervento.
6. Cefalea attribuita a trombosi venosa cerebrale.
7. Cefalea attribuita ad altri disordini arteriosi acuti intra-cranici.
8. Cefalea attribuita a procedure endo-vascolari intra-craniche: forma di cefalea
severa, ipsilaterale rispetto alla sede ove è avvenuta la procedura; insorge entro pochi
secondi e si risolve entro 24 ore dalla fine dell’intervento. La cefalea post-angiografia è
una forma diffusa, urente e severa, che insorge durante la procedura angiografica e si
risolve entro 72 ore dal termine dell’operazione. Nei pazienti emicranici assume le
caratteristiche di un attacco emicranico (n.b. l’angiografia con contrasto è controindi-
cata in pazienti con emicrania emiplegica).
9. Cefalea attribuita a dissecazione di arterie intracraniche.
10. Cefalea attribuita a vasculopatia genetica.
11. Cefalea attribuita ad apoplessia pituitaria.
procedura che ha causato persistente perdita di liquor, il cui arresto porta alla
risoluzione della sintomatologia.
— Cefalea attribuita a ipotensione liquorale spontanea: può essere trattata con
buoni risultati con caffeina per os o ev.
3. Cefalea attribuita a malattie infiammatorie intracraniche non infettive.
4. Cefalea attribuita a neoplasie intracraniche.
5. Cefalea attribuita ad iniezioni intratecali: presente sia in posizione ortostatica che
supina, esordisce entro 4 giorni da un’iniezione intratecale e si risolve entro 14 giorni.
Possono essere presenti segni di irritazione meningea.
6. Cefalea attribuita a crisi epilettiche.
7. Cefalea attribuita a malformazione di Arnold Chiari tipo I.
soddisfa almeno una delle seguenti caratteristiche: presenza per più di 15 giorni al mese;
localizzazione bilaterale, di tipo pressante, non accompagnata da nausea, foto- o
fono-fobia; risoluzione nell’arco di 4 ore. L’insorgenza mattutina è tipica ma non
esclusiva, potendo verificarsi anche in altri tipi di disturbi correlati al sonno (es.
sindrome di Pickwick, malattie respiratorie ostruttive croniche, sindrome delle gambe
senza riposo, etc.). Il meccanismo ezio-patogenetico è sconosciuto.
2. Cefalea da dialisi: insorge durante trattamento emo-dialitico e si risolve sponta-
neamente entro 72 ore dal termine. Non presenta caratteristiche specifiche.
3. Cefalea attribuita ad ipertensione arteriosa: da feocromocitoma; da crisi iper-
tensiva senza encefalopatia ipertensiva; da encefalopatia ipertensiva; da pre-eclampsia o
eclampsia.
4. Cefalea attribuita a ipotiroidismo.
5. Cefalea attribuita al digiuno.
6. Cefalea cardiogena.
Cefalea o dolore facciale attribuito a patologie di: cranio, collo, occhi, orecchie, naso,
seni paranasali, denti, bocca o altre strutture di testa e collo.
La cefalea può essere secondaria ad un vasto numero di alterazioni e condizioni
patologiche a carico del distretto cranio-cervicale, di natura traumatica, infettiva,
degenerativa, etc. Si tratta per lo più di patologie a carattere infettivo o infiammatorio
in cui la cefalea rappresenta soltanto un sintomo accessorio e aspecifico, destinato a
scomparire completamente dopo la risoluzione della patologia di base. Tuttavia, molto
spesso, la correlazione tra le predette alterazioni e la cefalea è di difficile dimostrazione,
mancando solide evidenze scientifiche che possano supportarla con certezza.
Comprende i seguenti sottotipi:
1. Cefalea attribuita a patologia delle ossa craniche: generalmente localizzata nel
sito di lesione ed è esacerbata dalla pressione. La maggior parte delle patologie craniche
(anomalie congenite, fratture, tumori, metastasi) non si accompagna quasi mai a cefalea,
ad eccezione di osteomieliti, mieloma multiplo, morbo di Paget, petrositi e lesioni della
mastoide.
2. Cefalea attribuita a disturbi del collo:
— cefalea cervicogenica: secondaria a patologie (tumori, fratture, infezioni e artrite
reumatoide) a carico delle prime 3 vertebre cervicali e delle sue componenti ossee,
discali e mio-legamentose, evidenziate mediante riscontri clinici, laboratoristici e/o di
neuroimaging. Quando la causa è il dolore miofasciale cervicale, la cefalea dovrebbe
essere inquadrata come cefalea di tipo tensivo. È inoltre necessario che vi sia l’evidenza
del rapporto di causa-effetto dimostrato da almeno due dei seguenti criteri: la cefalea si
è sviluppata in stretta relazione temporale con l’esordio del disturbo o con la comparsa
della lesione cervicale; migliora o scompare parallelamente al miglioramento o alla
remissione del disturbo o della lesione cervicale; peggiora con movimenti del collo (che
risultano limitati), il mantenimento di posture del collo disagevoli, la pressione sul collo
o sulle zone occipitali; scompare dopo blocco diagnostico di un nervo che si distribuisce
alla muscolatura cervicale. Il dolore ha localizzazione strettamente unilaterale a partenza
occipito-nucale che può irradiarsi anteriormente, pattern temporale tendenzialmente
fluttuante, intensità moderata e solitamente non è di tipo pulsante.
— Cefalea attribuita a tendinite retro-faringea.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 218 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
FREQUENZA (F)
BASSA Fino a 2 giorni al mese 1
INTERMEDIA Da 3 a 5 giorni al mese 2
ALTA Da 6 a 15 giorni al mese 3
CRONICA Oltre 15 giorni al mese 4
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La suddivisione in stadi è stata effettuata valutando la gravità della cefalea sulla base della seguenti
caratteristiche: severità e durata dell’attacco, frequenza degli attacchi.
La modulazione dei valori all’interno dei range percentuali deve essere effettuata anche in base all’efficacia,
durata e tipologia di terapia, all’entità media degli effetti collaterali ed alla correlata necessità di farmaci
“protettivi” da tali effetti.
L’inquadramento all’interno di uno degli ultimi tre stadi prevede necessariamente che il soggetto sia seguito
presso un centro per le cefalee e che presenti certificazione specialistica attestante decorso clinico, risposta
e compliance alle terapie, tipo/intensità e frequenza degli attacchi cefalalgici.In ogni caso, per procedere alla
valutazione medico-legale dell’eventuale danno biologico permanente è necessario attendere almeno 6-12
mesi dal momento in cui è stata effettuata la diagnosi ed impostata la terapia.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 220 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Stadio 1 (SD x F=1) 1-2%
Stadio 2 (SD x F=2-3) 3-9%
Stadio 3 (SD x F=4-9) 10-25%
Stadio 4 (SD x F=10-16) 26-40%
conseguenza di lesioni simultanee a livello della muscolatura delle vie aeree superiori o
di condizioni sopravvenute all’evento traumatico (aumento di peso a seguito di protratta
immobilità, decubito supino obbligato durante il sonno, farmaci che riducono il tono
muscolare).
I bed partner sono i principali testimoni della sintomatologia notturna presentata
dai soggetti affetti da OSAS, vale a dire il russamento (molto rumoroso, causando
problemi di relazione) e le apnee (che possono essere molto angoscianti per il partner,
che sovente sveglia il soggetto affinché riprenda a respirare), spesso associati a sonno
agitato, nicturia e reflusso gastro-esofageo. Al risveglio il soggetto è tipicamente poco
ristorato dal sonno notturno, indipendentemente dalla durata dello stesso e può
lamentare anche sudorazione nucale, xerostomia e cefalea.
Il principale sintomo diurno dell’OSAS è l’ESD, che può sfociare in addormenta-
menti diurni non preavvertiti anche in situazioni inappropriate e attive come il
conversare, mangiare, o durante la guida, oppure determinare stanchezza o fatica
piuttosto che franca ESD, mentre alcuni soggetti sono poco consapevoli della propria
sonnolenza. Altri sintomi diurni sono i disturbi dell’umore (soprattutto depressione e
ansia), modificazioni del carattere (irritabilità, aggressività), cefalea, disfunzioni cogni-
tive (a carico di memoria, attenzione, concentrazione, tempi di reazione) e disturbi della
sfera sessuale (riduzione della libido, disfunzione erettile). Questi sintomi sono rara-
mente tutti presenti nello stesso soggetto anche se è stimato che in circa l’80% dei casi
di OSAS siano presenti sia ESD che disfunzioni cognitive e, nella metà dei casi, anche
modificazioni del carattere.
L’obesità è associata bidirezionalmente all’OSAS (comorbidità o complicanza) e si
ritiene che possa essere responsabile della sonnolenza residua, riferita da alcuni pazienti
in ottimale trattamento ventilatorio. L’OSAS si associa frequentemente anche ad
ipertensione arteriosa e vi è sostanziale evidenza di un ruolo indipendente dell’OSAS
nello sviluppo stesso di ipertensione; la forma severa rappresenta inoltre un significativo
fattore di rischio cardio-vascolare ad ampio spettro (ictus, infarto) se non adeguata-
mente trattata.
L’OSAS ha ripercussioni negative sulla qualità della vita e determina limitazioni in
ambito lavorativo. I soggetti non trattati hanno un rischio fino a quattro superiore alla
popolazione generale di incorrere in incidenti stradali da sonnolenza, che peraltro
risultano spesso molto gravi proprio per la intrinseca dinamica ascrivibile al “colpo di
sonno”.
La rilevanza di tale patologia per l’idoneità alla guida è stata recentemente
riconosciuta a livello dell’Unione Europea: la Direttiva Europea 2014/85/UE (che dovrà
essere recepita da tutti gli stati membri entro la fine del 2015) ha stabilito infatti che il
richiedente o il conducente in cui si sospetti un’OSAS moderata o grave (corrispondenti
rispettivamente a un indice di apnea-ipopnea tra 15 e 29 o ≥30 associati a ESD) “deve
essere sottoposto a un consulto medico approfondito prima dell’emissione o del rinnovo
della patente di guida”, che potrà essere rilasciata ai richiedenti o conducenti con OSAS
moderata o grave “che dimostrano un adeguato controllo della propria condizione, il
rispetto delle cure adeguate e il miglioramento della sonnolenza, se del caso, confermato
dal parere di un medico autorizzato”.
Per la diagnosi è indispensabile l’utilizzo di un monitoraggio strumentale per
l’intera durata della notte mediante strumenti di differente complessità (in ordine
crescente: monitoraggio cardio-respiratorio notturno ridotto, monitoraggio cardio-
NOMELAV: 15/21199 PAG: 223 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Il sintomo più invalidante dell’OSAS è l’EDS, che può essere stimata con la scala di Epworth, mentre non
esistono consistenti evidenze di una correlazione lineare tra indice di eventi respiratori in sonno e
sintomatologia, per cui nessun automatismo valutativo può essere effettuato in base a tale indice.
Ai fini valutativi si deve tener conto della tipologia, dell’efficacia e degli eventuali effetti collaterali del
trattamento (es.: la terapia ventilatoria richiede l’uso di apparecchiature che la persona deve sempre portare
con sé; il Sodio Ossibato deve essere assunto tramite duplice somministrazione notturna e un risveglio
notturno durante il periodo di azione del farmaco è sconsigliabile; l’effettuazione di sonnellini programmati
può essere problematica/incompatibile con le mansioni lavorative), di un’eventuale inidoneità della persona
alla guida e/o alla mansione specifica e della interferenza della sintomatologia sulle normali attività
quotidiane.
Nelle forme più gravi la valutazione deve tener conto anche della eventuale presenza di eventuali deficit
cognitivi, accertati tramite test neuro-psicologici, e di complicanze cardio-vascolari, nonché la compromis-
sione dell’autonomia personale; la compresenza di tali condizioni giustifica un’attribuzione percentuale
oltre il limite massimo prospettato, da graduarsi sulla base dell’entità di tali deficit. Nel caso in cui l’unica
opzione terapeutica sia la tracheostomia, il danno correlato a quest’ultima deve essere valutato a parte.
Stadio 1. Sindrome delle apnee ostruttive del sonno senza necessità di trattamento o in
efficace trattamento ventilatorio, a seconda degli effetti collaterali dello stesso (assente o 5-15%
lieve interferenza sulle normali attività quotidiane)
Stadio 2. Sindrome delle apnee ostruttive del sonno con residua sonnolenza diurna
nonostante il trattamento ventilatorio o Sindrome delle apnee ostruttive del sonno non
trattata, a seconda della sintomatologia e della necessità di astenersi da attività potenzial- 16-30%
mente pericolose per sé o per gli altri (moderata interferenza sulle normali attività
quotidiane)
Stadio 3. Sindrome delle apnee ostruttive del sonno non trattata con pluriquotidiani colpi
31-45%
di sonno non preavvertiti, con rilevante interferenza sulle normali attività quotidiane
NOMELAV: 15/21199 PAG: 224 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
profonde alterazioni dello sviluppo fino alla pubertà precoce), ipertensione arteriosa,
intolleranza glucidica o diabete, fino a una franca sindrome metabolica. Numerose sono
le ripercussioni della NT1 sull’ambito psicologico, sia in termini di tratti depressivi o
ansiosi, che di associazione con comorbidità psichiatriche propriamente dette quali
disturbi dell’umore e del comportamento alimentare, mentre nella NT2 è frequente il
riscontro di sovrappeso e depressione. I soggetti con narcolessia lamentano inoltre
difficoltà di memoria e di concentrazione che sembrano essere ascrivibili all’impatto
della ESD sulle funzioni esecutive frontali (attenzione sostenuta).
La narcolessia determina una rilevante compromissione della qualità della vita e
importanti difficoltà relazionali, scolastiche e lavorative (abbandono degli studi, perdita
o abbandono del lavoro). Inoltre, le persone affette da narcolessia non trattate hanno un
aumentato rischio di incidenti alla guida, sebbene con una considerevole variabilità
interindividuale ai test di guida simulata.
La diagnosi richiede un’approfondita valutazione dei sintomi clinici, unitamente a
conferma strumentale mediante polisonnografia (possibilmente preceduta da monito-
raggio del ciclo sonno veglia), MSLT e (qualora possibile) misurazione dei livelli
liquorali di ipocretina.
La terapia della narcolessia è, ad oggi, solo di tipo sintomatico e si basa sull’utilizzo
di approcci comportamentali, nonché di farmaci stimolanti, anticataplettici o farmaci
con effetto combinato. L’efficacia della terapia può essere variabile e fondamentale è la
presa di coscienza della malattia e il ricorso quanto più possibile ad approcci compor-
tamentali. La sonnolenza in particolare risponde all’esecuzione di sonnellini program-
mati di breve durata (anche 10-15 minuti), ripetuti a intervalli regolari, al fine di
anticipare il verificarsi di attacchi di sonno e comportamenti automatici. I farmaci (in
particolare il Modafinil e il Sodio Ossibato) possono avere importanti effetti collaterali,
soprattutto a carico del sistema psichico, che possono imporne la sospensione anche a
fronte di una buona efficacia sui sintomi della narcolessia. Alcuni studi indicano che la
diagnosi precoce è associata un miglior profilo psicosociale della malattia e che una
parte di pazienti sviluppa, con il tempo, un discreto adattamento alla stessa, probabil-
mente facendo ricorso a strategie di gestione della ESD e della cataplessia.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
I sintomi maggiormente invalidanti della narcolessia sono l’ESD, soprattutto se determina attacchi
incoercibili di sonno non preavvertiti e, nelle forme non controllate, la cataplessia.
Ai fini valutativi si deve tener conto della tipologia, dell’efficacia e degli eventuali effetti collaterali del
trattamento, di un’eventuale inidoneità della persona alla guida e/o alla mansione specifica e della
interferenza della sintomatologia sulle normali attività quotidiane.
La percentuale minima di invalidità non può essere inferiore al 10%, dal momento che pur in buon
controllo terapeutico, si deve tener conto della necessità di assumere la terapia farmacologica e/o di
effettuare la terapia comportamentale (sonnellini programmati e igiene del sonno, ivi incluso un ritmo
sonno-veglia regolare) e periodici controlli.Nelle forme più gravi si deve inoltre considerare il grado di
compromissione dell’autonomia personale.
Stadio 1. Narcolessia di tipo 1 o di tipo 2 in buon controllo grazie alla terapia comporta-
10-20%
mentale e/o farmacologica (assente o lieve interferenza sulle normali attività quotidiane)
Stadio 2. Narcolessia di tipo 1 o di tipo 2 parzialmente controllata dalla terapia compor-
tamentale e farmacologica o con impossibilità di trattamento farmacologico, a seconda
21-30%
della sintomatologia e della necessità di astenersi da attività potenzialmente pericolose per
sé o per gli altri (moderata interferenza sulle normali attività quotidiane)
Stadio 3. Narcolessia di tipo 1 farmacoresistente o con impossibilità di trattamento
NOMELAV: 15/21199 PAG: 226 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
farmacologico, con pluriquotidiani attacchi incoercibili o colpi di sonno e/o attacchi di
31-45%
cataplessia generalizzati, con rilevante interferenza sulle normali attività quotidiane
Fino ad un quarto dei soggetti che hanno subito un trauma cranico commotivo
presenta a distanza di tempo un aumentato bisogno di sonno (2 ore in più rispetto alle
abitudini precedenti al trauma) e/o una propensione patologica al sonno al test MSLT,
non sempre associati a un punteggio alla ESS indicativo di ESD. Questa condizione
sembra essere conseguente a una lesione neuronale ed essere correlata alla gravità del
trauma cranico, ma mancano studi longitudinali che descrivano la sua stabilità nel
tempo. In considerazione dell’alta prevalenza riportata, si raccomanda in tutti i casi di
trauma cranico di procedere con un’anamnesi ipnologica.
Altri disturbi del sonno frequentemente riportati a seguito di trauma cranico
commotivo, oltre all’OSAS e alla narcolessia, sono l’insonnia e i movimenti periodici
degli arti. Anche per questi disturbi valgono le precedenti raccomandazioni.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 227 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione deve basarsi sulla entità del disturbo, sulla eventuale necessità di trattamento farmacologico
e sulla effettiva ripercussione sulle attività quotidiane.
Nel caso in cui l’insonnia rappresenti una manifestazione di un disturbo di natura psichiatrica la sua
valutazione è compresa in quella della patologia di base, cui ci si deve rifare.
Insonnia cronica 5-15%
Il nervo olfattivo è deputato alla percezione degli stimoli olfattivi e pertanto la sua
lesione è produttiva di turbe della funzione olfattiva, per la cui trattazione si rimanda al
capitolo 3.
La lesione delle vie visive può comportare, in rapporto alla sede ed all’estensione
del danno, diminuzione dell’acuità visiva oppure compromissione del campo visivo. Per
la trattazione di tali deficit si rimanda alla sezione del capitolo 3 dedicata alle
menomazioni della funzione visiva.
si estende dalla mandibola al davanti dell’orecchio, fino al lato della testa. I principali
rami del trigemino deputati all’innervazione sensitivo-somatica delle strutture del cavo
orale sono il nervo alveolare inferiore e il nervo linguale, rami della branca mandibolare,
nonché il nervo infraorbitario, ramo terminale del mascellare.
I deficit motori, che si verificano in caso di interessamento del ramo mandibolare,
comportano alterazioni della masticazione (con deviazione della mandibola dal lato
leso), della fonazione e della deglutizione, soprattutto in caso di lesioni bilaterali.
I deficit sensitivi compaiono per lesioni di ogni branca e si caratterizzano per
disestesia ed ipo-anestesia dell’emivolto. Inoltre le lesioni del nervo alveolare inferiore
possono determinare morsicature del labbro inferiore, bruciature da caldo o freddo allo
stesso, perdita di saliva o liquidi dalle labbra, difficoltà nella masticazione, nell’assun-
zione di solidi o liquidi e nell’articolazione della parola.
Nelle lesioni del ganglio di Gasser o della branca oftalmica viene meno la sensibilità
corneale e può instaurarsi una cheratite neuroparalitica. Un’alterazione a livello nu-
cleare (del nucleo sensitivo o del nucleo motorio) comporta deficit totale della motilità
o della sensibilità del territorio corrispondente.
L’esame clinico è fondamentale: la valutazione della componente motoria viene
effettuata palpando la muscolatura masticatoria (muscoli temporale e massetere) e
chiedendo al soggetto di aprire/serrare la bocca alternativamente, mentre la valutazione
della componente sensitiva deve testare la sensibilità dell’emivolto. È possibile inoltre
indagare il riflesso di ammiccamento o blink reflex (poiché il ramo afferente di tale
riflesso è trigeminale) mediante studio neurofisiologico (registrazione del riflesso
trigemino-faciale) ed avvalersi di neuroimaging (RM e TC).
La nevralgia del trigemino costituisce la manifestazione patologica di maggior
interesse medico-legale. Gli attacchi nevralgici possono coinvolgere una o più branche,
interessando più comunemente la branca media o quella inferiore, sia da sole che in
combinazione con le altre (solo il 4% dei soggetti ha dolore alla branca superiore); in
rari casi sono coinvolte tutte le branche e la parte destra del viso è più frequentemente
colpita rispetto alla sinistra. La causa generalmente è rappresentata da una compres-
sione neuro-vascolare oppure da patologia demielinizzante o neoplastica. Dal punto di
vista clinico si possono distinguere due tipologie di nevralgia trigeminale, una forma
tipica ed una atipica. Nella prima il dolore è breve, con accessi acuti generalmente
descritti come una scossa elettrica o un dolore trafittivo, spesso scatenato da un lieve
tocco (spazzolatura dei denti, farsi la barba, leggero vento, dal parlare, etc.); l’attacco
tende ad iniziare ed esaurirsi con periodi di dolore intenso, talvolta fortemente
debilitante, seguiti da intervalli di remissione, completamente privi di dolore, che
possono durare settimane, mesi o anche anni. Nella forma atipica, che rappresenta
spesso l’evoluzione di quella tipica, il dolore è costante, spesso urente, ed a questo si
sovrappongono gli attacchi acuti; presenta maggiore resistenza al trattamento farmaco-
logico.
La diagnosi è pressoché clinica, giustificata dalla specificità della sintomatologia
che la distingue da altre forme di dolore facciale; il dato clinico può essere confermato
mediante RM ed angio-RM, che possono documentare la sussistenza della compressione
neuro-vascolare.
La terapia prevede sia la somministrazione di farmaci (ad es. carbamazepina), sia il
trattamento chirurgico (decompressione microvascolare), che nella forma tipica può
portare ad una definitiva risoluzione del dolore con un tasso di recidiva variabile dal 3
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al 30%; nella forma atipica invece la risoluzione si verifica in poco meno della metà dei
soggetti ed il tasso di recidiva è doppio, con risultati minori in caso di reintervento.
Per quantificare la gravità del dolore possono essere utilizzate le Scale di valuta-
zione del dolore, che si suddividono in unidimensionali (VAS, Scala Analogica Visuale;
VSN, Scala Numerico Verbale; VRS, Verbal Rate Scale), che registrano la presenza di
dolore e ne quantificano l’intensità, e multidimensionali (MPQ, McGill Pain Question-
naire; BPI, Brief Pain Inventory; Pained Scale, Pained Assessment in Advaced Dementia;
NOPPAIN, Non-communicative Patient’s Pain Assessment Instrument), che studiano la
componente sensoriale, emotiva, cognitiva e comportamentale dell’esperienza dolorosa.
Utilizzando le scale suddette il dolore viene suddiviso il lieve (punteggio da 1 a 4),
moderato (5 e 6) e severo (da 7 a 10).
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
I criteri per l’individuazione della corretta percentuale nell’ambito della fascia relativa alla nevralgia del
trigemino sono rappresentati da: risposta al trattamento; durata ed intensità degli episodi dolorosi;
frequenza delle crisi; interferenza sulle attività quotidiane. Per valutare l’intensità del dolore un utile
orientamento può derivare dall’utilizzo delle scale suddette.
La presenza di una forma atipica o di una recidiva post-chirurgica deve far orientare verso i limiti alti della
fascia.
Per i deficit sensitivi la valutazione viene effettuata a seconda dell’estensione del territorio interessato e del
grado di compromissione della sensibilità.
Per i deficit fonatori si rimanda a quanto indicato per la valutazione della anartria/disartria.
Nel caso di insorgenza di cheratite neuroparalitica, la valutazione degli esiti deve essere effettuata sulla base
delle ripercussioni sulla funzionalità visiva.
Nevralgia del trigemino, a seconda della risposta al trattamento
Forma lieve-moderata 10-20%
Forma grave 21-30%
Deficit sensitivi da interessamento della I o II branca
Il deficit della II branca deve far orientare verso il limite superiore del range in relazione alla 5-10%
maggior rilevanza della sintomatologia ipoestesica del distretto interessato
Deficit sensitivo-motori da interessamento della III branca 6-12%
della faccia, sia superiori che inferiori, con conseguente asimmetria del viso, alterazioni
della mimica del volto, della fonazione, dei movimenti delle palpebre (mancanza
dell’ammiccamento, epifora, lagoftalmo), della masticazione, oltrechè deficit sensitivi a
livello della superficie del condotto uditivo esterno e del padiglione auricolare e perdita
della sensibilità gustativa dei 2/3 anteriori della lingua.
La paralisi faciale monolaterale più frequente è rappresentata dalla paralisi “a
frigore” (o paralisi di Bell), che si caratterizza per l’insorgenza rapida di paralisi parziale
o completa unilaterale, spesso dopo esposizione a colpi di freddo; in rari casi (circa
l’1%) può verificarsi con interessamento bilaterale, con conseguente paralisi faciale
totale.
La diagnosi è prevalentemente clinica, ma può avvalersi anche di accertamenti
neurofisiologici (EMG, ENG, blink-reflex) e di neuroimaging. In caso di paralisi di Bell
la diagnosi può essere posta dopo aver escluso tutte le altre cause di paralisi del faciale.
La terapia è complessa e richiede un approccio multidisciplinare; attualmente si
basa sulla combinazione di terapia medica (corticosteroidi ed antivirali nella paralisi di
Bell), fisica e chirurgica. Molti soggetti mostrano regressione spontanea della sintoma-
tologia a distanza di 3-4 settimane dall’esordio dei sintomi, con completa regressione in
3-4 mesi; i risultati sono naturalmente migliori in caso di paralisi parziale.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione della paralisi totale tiene conto delle conseguenze sensitive, motorie e fisiognomiche e fa
riferimento alla sola forma periferica, dal momento che un interessamento centrale bilaterale comporte-
rebbe estese distruzioni del tronco con conseguenze neurologiche estremamente rilevanti sino alla morte.
Paralisi totale bilaterale 40%
Paralisi totale monolaterale periferica 30%
Paralisi totale monolaterale centrale 20%
Paralisi incompleta monolaterale 5-15%
4.1.i. Nervi glossofaringeo (IX), vago (X), accessorio (XI), ipoglosso (XII)
Clinicamente è simile alla nevralgia del trigemino (alla quale talora può associarsi) e
viene scatenata da tipiche attività trigger come deglutizione, tosse e starnuti. La lesione
del nervo può determinare anche ageusia del terzo posteriore della lingua, ipoestesia
della faringe della tonsilla e del velo, difficoltà nella deglutizione dei solidi. Secondo la
International Classification of Headache Disorders (ICHD) si distinguono due forme di
nevralgia: quella classica e quella sintomatica. Da un punto di vista clinico le due forme
sono pressochè sovrapponibili, ma in quella sintomatica il dolore può persistere anche
nei periodi intercritici, associandosi a deficit sensitivo nel territorio di distribuzione del
nervo glossofaringeo. Nella maggior parte dei casi l’eziologia della nevralgia è ricondu-
cibile a compressione neuro-vascolare; più raramente si correla a processi flogistico-
infettivi, malattie demielinizzanti, malformazioni artero-venose. La diagnosi si avvale di
un attento esame clinico con riconoscimento delle zone trigger in corrispondenza del
faringe, del pilastro palatino anteriore, della base della lingua, della cute del viso dietro
l’angolo mandibolare e del meato acustico esterno. Attualmente la RM, corredata
dall´angio-RM, rappresenta il principale strumento diagnostico. La diagnosi differen-
ziale con la nevralgia del trigemino può essere difficoltosa in quanto i due quadri hanno
molte caratteristiche in comune: attacchi dolorosi parossistici scatenati da attività
trigger, buona risposta iniziale alla carbamazepina ed associazione con compressione
neuro-vascolare. La terapia può essere farmacologica (con antiepilettici), oppure chi-
rurgica (riservata ai casi di conflitto vascolo-nervoso), ma i risultati sono inferiori
rispetto a quelli che si ottengono per la nevralgia trigeminale.
Il nervo vago è un nervo misto, composto da fibre sensitive (destinate alla cute del
condotto uditivo esterno, alla mucosa della parte inferiore della faringe e della laringe,
da cui partono i riflessi della tosse, ed alla mucosa dell’epiglottide) e motorie, deputate
alla regolazione della deglutizione e della fonazione. Sono presenti inoltre fibre neuro-
vegetative che si distribuiscono agli organi degli apparati digerente, respiratorio ed al
cuore, unendosi con le fibre del sistema simpatico. Le lesioni di questo nervo compor-
tano ipotonia ed abbassamento del palato molle dal lato leso, deviazione dell’ugola
verso il lato sano quando si pronuncia la vocale “a”, disturbi motori del faringe (con
deficit della deglutizione e rigurgito di liquidi dal naso) e della laringe (con immobilità
della corda vocale dal lato leso, voce bitonale in caso di lesione unilaterale della laringe
e/o voce nasale per interessamento del nervo ricorrente), disturbi respiratori con tosse,
dispnea e disturbi del ritmo cardiaco con tachicardia ed aritmie.
Per gli esiti di lesioni del nervo ricorrente si rimanda alla sezione dedicata alle
menomazioni della favella e della funzionalità respiratoria.
Il nervo accessorio è formato esclusivamente da fibre motrici somatiche deputate
all’innervazione del trapezio e dello sternocleidomastoideo; è costituito dall’unione di
due radici: bulbare, che raggiunge il vago, di cui costituisce una radice accessoria ed al
quale fornisce le fibre motorie destinate al nervo ricorrente ed ai muscoli intrinseci della
laringe, e midollare (nervo spinale propriamente detto), che si unisce per un breve tratto
a quello bulbare per poi formare la branca terminale esterna del nervo spinale, che
innerva lo sternocleidomastoideo e la parte superiore del trapezio. La possibilità di
lesioni del nervo accessorio (o di sue diramazioni) su base iatrogena è un’evenienza
ampiamente descritta in letteratura, anche se possono riconoscersi altre cause quali
traumi, infezioni e molto raramente tumori localizzati al forame giugulare. La lesione si
verifica più frequentemente a seguito di escissione linfonodale latero-cervicale (alcuni
autori segnalano un tasso dal 3 al 10% degli interventi chirurgici sul collo) ed è correlata
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alla localizzazione superficiale del nervo nel tratto posto in prossimità del muscolo
sternocleidomastoideo.
Le lesioni del nervo accessorio comportano paresi dello sternocleidomastoideo
(con conseguente deficit della rotazione della testa verso il lato sano), tendenza alla
scapola alata (per paralisi dei fasci superiori del trapezio), difficoltà nell’innalzamento
della spalla, che appare ptosica.
La diagnosi si pone mediante esame clinico e può essere completata con indagini
neurofisiologiche (EMG, ENG e stimolazione ripetitiva) ed accertamenti di neuroima-
ging.
Il nervo ipoglosso è composto esclusivamente da fibre motorie somatiche che
innervano i muscoli della lingua e delle regioni sopra e sottoioidea (muscolatura
intrinseca della lingua); è dunque l’unico nervo motorio che innerva la lingua e possiede
una grande importanza per la fonazione e la deglutizione. Le lesioni di tale nervo — che
possono derivare da tumori, metastasi, malattie infettive, lesioni vascolari e lesioni
traumatiche- si estrinsecano con atrofia linguale omolaterale e conseguenti alterazioni
della masticazione, della deglutizione e della fonazione.
La trattazione congiunta di questi nervi è motivata dal fatto che le lesioni singole,
isolate, sono piuttosto rare; più frequenti invece, stanti gli attigui decorsi, sono le lesioni
complesse con esito in quadri clinici caratteristici con menomazioni della funzione
fonatoria, della deglutizione e della respirazione.
Più specificatamente:
— per lesione a livello del foro lacero posteriore: disfagia per paralisi del muscolo
costrittore superiore della faringe, disfonia per paralisi del velo pendulo e dei muscoli
laringei, difficoltà all’elevazione della spalla ed alla rotazione del collo per paresi dei
muscoli sternocleidomastoideo e trapezio (sindrome di Vernet).
— per lesione a livello del foro lacero e del foro condiloideo posteriore: quadro
clinico sovrapponibile al precedente con la sola aggiunta di deviazione della lingua per
la paralisi dell’ipoglosso (sindrome di Sicard-Collet).
— per lesione a livello del collo: deviazione della lingua per paralisi dell’ipoglosso
e disfonia per paralisi delle corde vocali (sindrome di Tapia).
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Stante la complessità dei quadri clinici conseguenti a lesioni dei nervi IX, X, e XII appena delineati, una
valutazione congrua non può che risultare dalla ponderazione delle funzionalità lese (deglutitoria, fonatoria,
gustativa, respiratoria, motoria) riferendosi, per le indicazioni percentuali, alle apposite sezioni.
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Capitolo 3
FUNZIONI DEGLI ORGANI DI SENSO E DELL’EQUILIBRIO
3.1. Funzione visiva. — 3.1.a. Deficit dell’acuità visiva centrale. — 3.1.b. Afachia e pseudofachia. —
3.1.c. Deficit del campo visivo. — 3.1.d. Diplopia. — 3.1.e. Altri deficit della visione. — 3.1.f. Alterazioni degli
annessi oculari. — 3.1.g. Glaucoma. — 3.1.h. Distacco di retina. — 3.1.i. Cataratta. — 3.1.l. Esoftalmo. —
3.2. Funzione olfattiva. — 3.2.a. Alterazioni qualitative e quantitative. — 3.2.b. Diagnosi. — 3.3. Funzione
gustativa. — 3.3.a. Alterazioni qualitative e quantitative. — 3.3.b. Diagnosi. — 3.4. Funzione tattile. —
3.5. Funzione uditiva. — 3.6. Funzione vestibolare
Per il paragrafo “Funzione visiva”: L. Papi, P. Morelli, Gruppo di Studio della Società
Italiana Oftalmologia Legale (D. Spinelli, G. Calabria, F. Cruciani, V. De Vitto, L. Marino, A.
Molinelli, D. Rodriguez), F. Gori, S. Fornaro, L. Cestari.
Per i paragrafi “Funzione olfattiva” e “Funzione gustativa”: F. Buzzi, F. Randazzo, con
revisione specialistica di F. Ponterio.
Per il paragrafo “Funzione tattile”: F. Buzzi, F. Randazzo, con revisione specialistica di E.
Alfonsi.
Per il paragrafo “Funzione uditiva”: G. Marello, A. Nacci.
Per il paragrafo “Funzione vestibolare”: F. Buzzi, F. Randazzo, con revisione specialistica
di F. Ponterio, S. Colnaghi, M. Versino, A. Nacci
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Oltre alla acuità visiva per vicino merita adeguata considerazione anche la capacita
di lettura che, a parte eventuali problematiche neurologiche, è un’attività visiva dina-
mica, poiché comporta la necessità di esaminare e riconoscere lettere in sequenza per
poter leggere una parola e parole in sequenza per poter comprendere il significato di un
brano. Poiché la scrittura nei Paesi occidentali va da sinistra verso destra con a capo nel
rigo immediatamente inferiore, è necessario che il soggetto possa identificare, assieme
alla lettera osservata, quella immediatamente alla sua destra, per poter proseguire nella
lettura, nonchè il rigo inferiore per potere andare a capo. Ciò diviene estremamente
difficoltoso allorché vi siano scotomi centrali parafoveali, evidenziabili alla microperi-
metria, posti a destra e sotto il punto di fissazione. La capacità di lettura pertanto può
variare in modo anche sostanziale rispetto al visus da vicino statico e la sua valutazione
va rapportata, invece che a questa, a quella della alessia neurologica.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Nel caso in cui al deficit visivo si associ un pregiudizio estetico è opportuno procedere ad una valutazione
globale che tenga conto delle possibilità di correzione protesica, considerando che le protesi attuali e le
calotte oculari solitamente consentono una notevole riduzione del disestetismo.
Anoftalmia od altra patologia deformante del bulbo oculare (es. atrofia, leucoma, etc.)
responsabile di cecità monolaterale
- con possibilità di protesi estetica 30%
- senza possibilità di protesi estetica 31-35%
9/10 8/10 7/10 6/10 5/10 4/10 3/10 2/10 1/10 1/20 <1/20 CT
RESIDUO PER LONTANO IN OCCHIO MIGLIORE
10/10 1 1 3 5 7 9 14 18 22 24 26 28
9/10 3 3 5 7 9 11 16 20 24 26 28 30
8/10 3 5 7 9 11 16 20 24 26 28 30
7/10 9 11 13 15 20 24 28 30 32 34
6/10 15 17 19 24 28 32 34 36 38
5/10 21 23 28 32 36 38 40 42
4/10 27 32 36 40 42 44 46
3/10 42 46 50 52 54 56
2/10 54 58 60 62 64
1/10 67 69 71 73
VISUS
1/20 73 75 77
<1/20 79 81
CT 85
CT = cecità totale, intendendosi per essa anche la percezione luce e il moto mano in entrambi gli occhi
o nell’occhio migliore (art. 2 comma b. Legge 138/2001).
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1° C. 2° C. 3° C. 4° C. 5° C. 6° C. 7° C. 8° C. 9° C. 10° C.
1° C. 0 2 2 7 10 13 16 20 25 28
RESIDUO PER VICINO IN OCCHIO
2° C. 6 6 11 14 17 20 24 29 32
3° C. 6 11 14 17 20 24 29 32
4° C. 23 26 29 32 36 41 44
5° C. 34 37 40 44 49 52
6° C. 43 46 50 55 58
7° C. 51 55 60 63
MIGLIORE
8° C. 62 67 70
VISUS
9° C. 75 78
10° C. 85
Le percentuali si riferiscono al visus massimo ottenibile con correzione tollerata.
La necessità di ricorrere all’utilizzo di occhiali comporta di per sé una valutazione del 2-4% a seconda
del potere diottrico, mentre il ricorso a lenti a contatto deve essere valutato nella misura del 3%.
La afachia, ovvero la assenza del cristallino, provoca una enorme ipermetropia, pari
a 13-15 diottrie; con la correzione mediante lenti, in caso di afachia monolaterale nel
binocolo si verifica grave aniseiconia (ovvero ingrandimento delle immagini), effetto
prismatico e difficoltà alla deambulazione.
La pseudofachia (correzione con cristallino artificiale), con le attuali lenti intrao-
culari provoca disagi minimi, se non assenti, in quanto il risultato funzionale è
praticamente perfetto e l’occhio pseudofachico è solo teoricamente indebolito (si
ammette una maggiore esposizione a malattie retiniche).
In entrambi i casi però viene persa la capacità di accomodazione, con un conse-
guente danno funzionale che è tanto maggiore quanto più si verifica in giovane età,
mentre è nullo nel presbite ultrasessantenne.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La differenza contenuta tra mono- e bilateralità dell’afachia è motivata dal fatto che la bilateralità del difetto
non aggrava particolarmente il disagio.
La valutazione va differenziata in base all’età, poiché essa, provocando la perdita dell’accomodazione,
assume maggior rilevanza nel soggetto giovane, mentre è meno influente nel soggetto di età avanzata in
relazione all’insorgenza della fisiologica presbiopia. La percentuale indicata deve essere integrata con quella
del corrispondente deficit funzionale visivo totale ottenuto mediante correzione.
Bambino
Afachia monolaterale 15% bilaterale 20%
Pseudofachia monolaterale 7% bilaterale 10%
Adulto
Afachia monolaterale 7-10% bilaterale 15-20%
Pseudofachia monolaterale 2-5% bilaterale 5-10%
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Lo studio del campo visivo deve comprendere l’estensione, riferita sia ai limiti
periferici che alla presenza di scotomi, e la sensibilità, misurata in decibel, delle aree del
campo. Per eseguire l’indagine esistono due tipi di strumenti: il perimetro dinamico o
manuale, che presenta all’esaminato uno stimolo luminoso che si muove dalla periferia
verso il centro del campo, e il perimetro statico o computerizzato, che presenta una
sequenza randomizzata di punti a luminosità crescente. Il primo consente un preciso
rilievo dei limiti periferici del campo visivo, mentre il secondo permette un miglior
studio della sensibilità in area paracentrale, nonché l’accertamento della sensibilità dei
singoli punti esaminati.
L’ideale sarebbe quindi utilizzare entrambi i sistemi, ma nella pratica, conforme-
mente anche alle attuali normative, viene utilizzato soltanto il perimetro statico com-
puterizzato.
In primo luogo si deve utilizzare sempre un programma che studi il campo visivo
per un’estensione di almeno 70°, mentre quelli di comune uso clinico si limitano a 20°
o 30° centrali, misconoscendo quindi importanti deficit periferici. La valutazione delle
aree scotomatose è effettuata in base alla sensibilità luminosa, che è ridotta negli scotomi
relativi ed abolita in quelli assoluti, ma non viene definito il valore di cut-off.
Per l’esame del campo visivo a fini medico-legali si raccomandano i perimetri
computerizzati con i programmi Esterman monoculare e binoculare e Gandolfo 100%.
Quest’ultimo è da preferire, in quanto esplora esattamente 100 punti, che però non sono
egualmente distribuiti, bensì più addensati nelle aree del campo di maggiore utilità e
quindi maggior pregio valutativo, come quelle centrali rispetto alle periferiche e quelle
inferiori rispetto alle superiori. Su 100 punti esplorati, infatti, 60 sono collocati
nell’emicampo visivo inferiore (più importante per la mobilità nell’ambiente e per la
lettura) e solo 40 in quello superiore; 64 punti, inoltre, sono collocati nel campo visivo
paracentrale (5-30°) e solo 36 in quello periferico (30-60°), meno importante per
l’autonomia personale. La valutazione quindi sarà pari ad 1 per ciascun punto di
scotoma assoluto e 0,5 per ogni punto di scotoma relativo, senza dover ricorrere a
differenziazione di punteggio tra l’emicampo superiore e l’inferiore, poiché scotomi
della stessa ampiezza posti nei due diversi emicampi avranno già valutazione diversa, dal
momento che quelli posto nell’emicampo inferiore interesseranno un numero maggiore
di punti, data la loro maggiore densità rispetto all’emicampo superiore.
Invero, per l’accertamento dei deficit campimetrici in ambito previdenziale sulla
base della Legge n. 138/2003 relativa alle condizioni di ipovisione, viene utilizzato il
campo visivo binoculare. Tale metodo però comporta la mancata valutazione di deficit
visivi monoculari, che sono invece i più frequenti in ambito valutativo: ciò avviene
poiché i campi visivi dei due occhi si sovrappongono, per cui lo scotoma presente in un
occhio viene mascherato dalla normalità della corrispondente zona del campo visivo
dell’occhio adelfo. Per porre rimedio a tale condizione e riconoscere anche i danni
campimetrici monoculari, attribuendo così al contempo una maggiore valutazione al
danno binoculare in aree corrispondenti (che genera pertanto uno scotoma anche nella
visione binoculare), devono essere effettuati tre campi visivi: i primi due monoculari, il
terzo binoculare, attribuendo a ciascuno il relativo punteggio; la somma dei tre punteggi
va divisa per tre e questa percentuale finale rapportata all’85%, valore corrispondente
alla perdita della vista.
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In pratica il danno biologico da deficit perimetrico è pari all’85% della media dei
punteggi attribuiti ai tre campi visivi
La formula da utilizzare è quindi la seguente:
DBC=[(COD+COS+COO)/3]%*85%
dove: DBC è il danno biologico relativo al deficit campimetrico; COD è la somma
dei punteggi attribuiti ai punti scotomatosi nell’esame effettuato sull’occhio destro;
COS è la somma dei punteggi attribuiti ai punti scotomatosi nell’esame effettuato
sull’occhio sinistro; COO è la somma dei punteggi attribuiti ai punti scotomatosi
nell’esame effettuato in visione binoculare.
Esempio: scotoma pari al 12% presente in entrambi gli occhi, ma in aree del campo visivo
non corrispondenti per cui in visione binoculare il deficit di un occhio viene compensato dalla
visione dell’occhio controlaterale, come gli scotomi binasali o bitemporali, oppure superiore in un
occhio e inferiore nell’altro, per cui non vengono rilevati in visione binoculare:
[(12+12+0)/3]%*85%=8%*85%=6,8%
Esempio: scotoma pari al 12% solo in occhio destro: nel campo visivo binoculare questo non
è rilevabile perché viene mascherato dalla normale funzione dell’area corrispondente dell’occhio
adelfo:
Campo visivo OD= 12%;
campo visivo OS= 0%;
campo visivo binoculare=0%.
Valutazione del danno: [(12+0+0)/3]%*85%=4%*85%=3,4%
Esempio: Scotoma pari al 12% in entrambi gli occhi, in aree corrispondenti, per cui viene
rilevato anche in visione binoculare.
[(12+12+12)/3]%*85%=12%*85%=10,2%
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Esempio: Scotoma pari al 3%, monoculare, ma temporale oltre i 40°, per cui è rilevabile
anche in visione binoculare, poiché cade oltre il limite del campo visivo nasale dell’occhio
controlaterale
[(3+0+3)/3]%*85%=2%*85%=1,7%
di ciascun occhio. Alla nuova mappa così ottenuta, relativa al campo visivo in visione
binoculare, sarà effettuato nuovamente lo stesso procedimento, ottenendo un terzo
valore, che, sommato ai due precedenti, darà la valutazione del danno campimetrico
binoculare.
La sovrapposizione dei due campi visivi è possibile perché entro i 30° il campo
visivo è percepito con entrambi gli occhi.
Qualora a questo terzo campo visivo, così ricostruito, si desse una valutazione di
24,25 o superiore, si valuterà il danno campimetrico direttamente in misura dell’85%,
come la cecità assoluta; a valori di questo terzo campo compresi tra 22,5 e 24,24, sarà
attribuita la valutazione della cecità parziale, tra 75 e 84%.
Per valori inferiori, si sommerà la valutazione a quella dei due campi monoculari,
ottenendo così la valutazione del danno campimetrico binoculare. In alternativa, in caso
di danni campimetrici non particolarmente rilevanti, si potrà utilizzare più semplice-
mente il metodo seguente.
Ottenuto il valore del danno dell’occhio destro, si potrà procedere allo stesso modo
anche con il sinistro, ma si raddoppierà il valore attribuito a scotomi assoluti presenti
nel secondo occhio e corrispondenti topograficamente a scotomi assoluti presenti nel
primo occhio (e quindi presenti anche nel campo visivo binoculare). Quindi a questi si
attribuirà il valore di 2 se posti nell’emicampo inferiore e 1 se posti nel superiore. Al
termine basterà semplicemente sommare i valori relativi ai due occhi.
Anche nel caso del danno campimetrico bilaterale la percentuale ottenuta non può
essere sommata, ma va integrata con l’eventuale deficit centrale mediante il calcolo
riduzionistico prendendo a riferimento il valore della cecità assoluta pari a 85%.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per la quantificazione medico-legale del campo visivo si può fare riferimento alla classificazione delle
minorazioni visive elaborate dal G.I.S.I. (Gruppo Italiano Studio Ipovisione) e dalla S.I.Pe (Società Italiana
Perimetria) secondo la suddivisione prevista nella legge 138/2001.
A titolo esemplificativo e per indicare voci paradigmatiche di riferimento si indicano i seguenti valori
percentuali.
Residuo campo visivo <3% 85%
Residuo campo visivo <11% >3% 75-84%
Emianopsia eteronima bitemporale 55%
Emianopsia eteronima binasale 25%
Emianopsia omonima dx o sx 40%
Emianopsia altitudinale superiore 30%
Emianopsia altitudinale inferiore 45%
Quadrantopsia omonima superiore 15%
Quadrantopsia omonima inferiore 20%
3.1.d. Diplopia
La diplopia risulta estremamente invalidante nello sguardo in basso perché rende difficile la deambulazione,
la lettura, l’alimentazione etc. Per una adeguata valutazione sarà quindi sufficiente verificare la presenza del
fenomeno e calcolare i settori ed i gradi di eccentricità a cui si verifica secondo quanto indicato nello schema
sopra riportato, tenendo presente che la possibilità di correzione della diplopia in posizione primaria con
lenti prismatiche consente una riduzione della percentuale di danno.
Nel caso in cui la diplopia si associ a strabismo la valutazione complessiva deve tenere conto anche del
danno estetico, generalmente inquadrabile nella relativa Classe I o II, salvo casi di particolare entità.
Esistono altre patologie oculari che non si riflettono direttamente sull’acuità visiva,
sul campo visivo binoculare o sulla motilità oculare, ma che comportano ugualmente un
apprezzabile peggioramento della qualità della visione.
Deficit dell’accomodazione
L’accomodazione è la capacità dell’occhio di mettere a fuoco oggetti posti a
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distanza finita. L’occhio emmetrope, oppure reso tale da correzione ottica, mette a
fuoco, per definizione, oggetti posti a distanza infinita. Per far cadere sulla retina
l’immagine di un oggetto posto a distanza finita si dovrà variare il potere del sistema
diottrico oculare (accomodazione fachica). Peraltro tale funzione fisiologicamente si
perde in modo graduale a partire dall’età di 40 anni circa e completamente all’incirca
a 60 anni. La valutazione della perdita della funzione (paralisi accomodativa) oppure
dell’organo (afachia e pseudofachia) dell’accomodazione sarà quindi in relazione all’età
del soggetto. Esiste però un altro meccanismo che collabora ad ottenere una buona
messa a fuoco di oggetti posti a distanza finita: il riflesso pupillare all’accomodazione-
convergenza. La miosi riflessa aumenta la profondità di campo, consentendo di avere
immagini nitide di oggetti posti in un ampio intervallo spaziale. Tale meccanismo non
fachico dell’accomodazione non solo non diminuisce con l’età, ma al contrario aumenta,
perché alla senilità si accompagna generalmente un ipertono parasimpatico e quindi una
minore apertura del diaframma irideo (miosi senile). La perdita traumatica di tale
meccanismo non fachico dell’accomodazione avviene per lesione dell’iride o dello
sfintere pupillare, oppure per formazione di sinechie iridee.
Deficit dell’adattamento
L’adattamento è la capacità di raggiungere la migliore acuità visiva possibile in
condizioni diverse di luminosità, nonché di recuperarla in breve tempo dopo sue
variazioni improvvise. Le alterazioni dell’adattamento sono rappresentate dall’emeralo-
pia, la fotofobia ed il ritardo nel recupero visivo dopo abbagliamento. I meccanismi che
consentono l’adattamento sono retinici e pupillari, pertanto lesioni dell’iride e della
dinamica pupillare determinano importanti deficit dell’adattamento alla luce, mentre
una miosi serrata, quale quella iatrogena pilocarpinica, può determinare riduzione della
sensibilità luminosa, piuttosto che vera emeralopia. Da considerare inoltre l’abbaglia-
mento da luce diurna dovuto a cicatrici corneali o a pupille non reagenti.
Miodesopsie
Le miodesopsie (le c.d. “mosche volanti”) sono corpi mobili filiformi o puntiformi
che compaiono all’interno del campo visivo. Esse sono dovute a fenomeni degenerativi
del corpo vitreo che ne riducono progressivamente la trasparenza, per cui possono
insorgere fisiologicamente (specie dopo i 50-60 anni) oppure essere conseguenti ad un
distacco traumatico del vitreo per traumi contusivi del bulbo; in alcuni casi sono
secondarie ad un distacco di retina o insorgono come sequele post-chirurgiche. In
questi casi si può associare la visione di lampi di luce (fosfeni) indotta dalle sollecitazioni
che il corpo vitreo distaccato esercita sulla retina.
Le miodesospie, di aspetto (ad es. tipo ragnatele, circolari o filamentose) e
dimensione (piccoli punti o macchie più grandi mobili) variabili, possono essere singole
o multiple e si evidenziano maggiormente quando viene fissata una superficie o uno
sfondo chiaro e luminoso (tipo una parete bianca o il cielo), oppure al monitor del
computer.
Sensibilità al contrasto
La sensibilità al contrasto misura la capacità del sistema visivo di apprezzare il
contrasto fotometrico, cioè la differenza di luminosità che presentano due zone
adiacenti necessaria per discriminare un oggetto; essa può essere valutata mediante test
psico-fisici (test di Snellen, tabella delle lettere di Pelli-Robinson) in grado di identifi-
care disfunzioni visive molto precoci, anche in presenza di un’acuità visiva nella norma.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Disturbi qualitativi della visione 1-5%
Deficit della accomodazione non fachica (generalmente monolaterale)
Per la valutazione della perdita della accomodazione fachica si deve fare riferimento alle 1-4%
condizioni di afachia o di pseudofachia.
Deficit dell’adattamento 1-5%
Discromatopsia lieve (standard A) 5-10%
Discromatopsia grave (standard B) fino alla acromatopsia 11-15%
Miodesopsie a seconda dell’entità del disturbo 2-4%
Deficit della sensibilità al contrasto 1-5%
Metamorfopsia, a seconda dell’entità e della mono- o bilateralità, oltre il deficit funzionale 7-15%
Gli annessi oculari sono organi oculari secondari con funzioni di supporto; si tratta
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Le alterazioni degli annessi oculari qui considerate sono quelle di più comune riscontro clinico e devono
essere valutate, nell’ambito delle percentuali indicative riportate, in funzione del danno estetico e/o
funzionale.
Epifora, a seconda dell’entità e della mono- o bilateralità 3-8%
Lagoftalmo senza danno corneale, a seconda dell’entità e della mono- o bilateralità 4-6%
Lagoftalmo con danno corneale, a seconda dell’entità e della mono- o bilateralità 8-15%
Entropion, ectropion, trichiasi (a seconda dell’entità e della mono- o bilateralità) 4-10%
Blefarospasmo 2-8%
Ptosi palpebrale mono- o bilaterale di 1° e 2° 5-8%
Ptosi palpebrale bilaterale di 3° 20%
Anchiloblefaron, simblefaron 5%
Simblefaron con esposizione corneale 15%
Occhio secco 3-8%
3.1.g. Glaucoma
alla cecità per atrofia ottica, si associa quindi il danno alla qualità della vita collegato alla
necessità di ripetute instillazioni, costanti controlli e agli effetti collaterali dei farmaci
utilizzati.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Le indicazioni percentuali sono riferite all’efficacia della terapia ed ai suoi effetti collaterali, mentre
l’eventuale deficit funzionale deve essere valutato separatamente.
Nelle forme congenite deve essere adeguatamente considerato il pregiudizio estetico.
Glaucoma responsivo al trattamento farmacologico 5-15%
Glaucoma non responsivo al trattamento farmacologico trattato chirurgicamente 10%
Glaucoma trattato chirurgicamente con necessità di terapia post-intervento 5-15%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Esito di intervento di parete o di vitrectomia per distacco retinico 5%
Esito di trattamento fotocoagulativo della retina periferica senza alterazioni della funzione
visiva
1-3%
Gli esiti dei trattamenti fotocoagulativi estesi, ad es. per retinopatia diabetica, vanno invece
valutati sulla base del deficit campimetrico provocato.
3.1.i. Cataratta
Un trauma bulbare, sia contusivo che perforante, può determinare, oltre ad opacità
che evolvono in cataratta, anche opacità stabili del cristallino, che non determinano
riduzione del visus, ma disturbi dell’adattamento, oltre a sub-lussazioni e lussazioni sia
in camera anteriore che in camera posteriore.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Opacità traumatiche localizzate e stabili del cristallino 1-3%
Sublussazione del cristallino trasparente 4%
In caso di menomazioni complesse della funzione visiva, la corretta percentuale di danno biologico deve
essere individuata sulla base del deficit delle singole funzioni compromesse, privilegiando le funzioni principali
(acutezza visiva, campo visivo, motilità oculare) e procedendo ad una valutazione complessiva che assume come
riferimento i valori assegnati per la cecità monolaterale e totale.
3.1.l. Esoftalmo
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Esoftalmo, a seconda dell’entità e della mono- o bilateralità 4-7%
Esoftalmo indiretto
1-4%
La valutazione deve essere integrata con quella derivante dalla diplopia.
La generica alterazione della sensibilità olfattiva viene definita disosmia, che può
essere fisiologica (ad es. durante il ciclo mestruale, la gravidanza e l’allattamento e con
l’invecchiamento) e patologica (acquisita e congenita).
Le modificazioni della funzione olfattiva possono essere distinte sotto il profilo
qualitativo e quantitativo o in base alla sede anatomica della lesione che le ha prodotte.
Secondo la classificazione quali-quantitativa si distinguono le seguenti forme:
1. Anosmia e iposmia: la soppressione completa o la diminuzione del senso
dell’olfatto dipendono da alterazioni di elementi neuro-sensoriali o dall’impossibilità
delle particelle odorifere di raggiungere la zona olfattoria. Le anosmie e le iposmie
congenite sono conseguenti ad alterazioni lesioni delle vie e/o dei centri nervosi
(anomalie nello sviluppo del corno d’Ammone, del bulbo olfattivo, della lamina
cribrosa) oppure a lesioni dell’organo periferico, specie nella prima infanzia, per
difterite. Le anosmie acquisite totali (riguardanti cioè tutti gli odori) o parziali (riguar-
danti cioè alcuni odori) possono essere dovute a molteplici cause: meccaniche (ad es.
difetti di pervietà nasale a causa di ipertrofia dei turbinati, deviazione del setto nasale,
poliposi nasale, sinechie, etc.); infettive (riniti croniche, sinusiti, meningiti purulente o
tubercolari, influenza, difterite), che provocano lesioni delle cellule neuro-epiteliali, sia
per un deficit di secrezione del muco, sia per un’azione diretta sulle fibre olfattive;
traumatiche (ad es. fratture dell’etmoide, traumi occipitali, o frontali produttivi di
strappo dei nervi olfattivi); tossiche (ad es. dopo esposizione a mercurio, piombo,
cadmio, argento, solfuro di carbonio, morfina, nicotina, cocaina, abuso di vasocostrittori
nasali); neoplastiche (ad es. epiteliomi olfattivi, processi espansivi della zona alta delle
fosse nasali e/o dell’etmoide posteriore, del bulbo olfattivo e meningioma della doccia
olfattoria); processi morbosi del sistema nervoso centrale (SNC) quali ad es. processi
neoplastici, emorragici e degenerativi come il Morbo di Alzheimer, Morbo di Parkinson
e Corea di Hungtinton; endocrinopatie (ad es. acromegalia e ipotiroidismo).
2. Iperosmia: l’aumentata capacità di percepire gli odori può essere totale o
parziale, a seconda che interessi uno o tutti gli odori. È considerata una patologia
sensoriale e si può riscontrare in soggetti con tumori dei centri e delle vie olfattive, in
soggetti ipertiroidei, in donne gravide, o in menopausa, o ovariectomizzate.
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provocare, accanto ad altri sintomi da irritazione delle vie respiratorie, anche ipo-
anosmia, di norma reversibili. L’esposizione prolungata a tossici specifici è causa di
anosmia con livelli di evidenza assai variabili: accanto a condizioni ormai note come
l’anosmia da cadmio, esistono segnalazioni di altri agenti olfatto-lesivi di pertinenza
ambientale lavorativa.
3.2.b. Diagnosi
poter visionare l’intera cavità nasale e, nel contempo, di ottenere la registrazione delle
immagini osservate, fornendo così una concreta prova di quanto constatato. Data la
frequentissima mancanza di segni significativi all’esame obiettivo, per cercare di iden-
tificare correttamente la sede della lesione olfattiva è necessario valutare attentamente lo
stato anatomo-funzionale dei vari livelli della funzione olfattiva. I test olfattometrici,
l’imaging radiologico e l’isto-patologia permettono, da soli o in associazione, di valutare:
integrità della mucosa olfattiva, dei filuzzi olfattori (nervo olfattorio) che attraversano la
lamina cribrosa etmoidale, dei bulbi olfattori e delle vie aeree e nervose centrali.
3. Test olfattometrici: necessitano di una buona collaborazione da parte dell’esa-
minato, trattandosi di test largamente soggettivi. L’unico dato oggettivo che se ne può
ricavare è rappresentato dal fatto che la mancanza completa di risposte per le sostanze
con componente trigeminale mista, o pura, depone per una simulazione di anosmia,
anche se è necessario tener presente la recente segnalazione di una significativa
riduzione della sensibilità trigeminale nei soggetti anosmici per trauma. Esistono test
psico-fisici che utilizzano la somministrazione dello stimolo olfattivo con metodica
standardizzata, come ad es. UPSIT e Sniffin’ Sticks Extended Test, e che attenuano il
limite della soggettività delle risposte. Per questo motivo i test che utilizzano sostanze
olfattive pure, olfatto-gustative, olfatto-trigeminali e trigeminali pure hanno valore
medico-legale analogo a quello di un test standardizzato. Nell’impiego di questi test,
anche di quelli più moderni, va tenuto presente che essi permettono di valutare il grado
di perdita della sensazione olfattiva, ma non consentono di identificare l’origine del
disturbo (deficit di origine neurosensoriale o di conduzione).
In ambito medico-legale questi test (associati sempre ad un test di funzionalità
nasale, come il test rino-igrometrico con specchio di Glatzel), per la loro praticità d’uso
e rapidità di esecuzione, rimangono comunque il basilare pilastro di ogni valutazione di
ipo-anosmia, prima di ricorrere, ove necessario, ad esami più complessi. I test di più
largo impiego e di maggior frubilità complessiva, in ambito medico-legale, sono i già
citati UPSIT (Sensonics, Inc.) e Sniffin’Sticks Extended Test (Elektro-Feinmechanik
GmbH Heinrich Burghart). Se questi esami vengono eseguiti con la dovuta accuratezza
e con completa cognizione dei meccanismi neuro-fisiologici coinvolti, i risultati sono
molto affidabili, nonostante la base di soggettività sulla quale necessariamente poggiano.
Un test utile per rilevare eventuali simulatori consiste nel far annusare dell’ammo-
niaca: un soggetto che si dichiara anosmico e che afferma di non percepire alcun odore
è con molta probabilità un simulatore, in quanto l’ammoniaca stimola le terminazioni
trigeminali.
È opportuno eseguire sempre una valutazione della funzionalità nasale prima di
procedere con la somministrazione di test olfattometrici, soprattutto quando si ipotizza
una disosmia di conduzione, onde escludere la presenza di alterazioni trasmissive
indipendenti dal fattore, che si suppone abbia causato disosmia.
4. Esami elettro-neurologici, radiologici ed istologici:
a) Elettro-olfattometria: i test elettro-fisiologici non sono di facile esecuzione, per
cui attualmente sono utilizzati prevalentemente a scopo di ricerca e con risultati di
difficoltosa interpretazione, anche nell’applicazione clinica. Essi comprendono l’elettro-
olfattogramma (EOG) e la registrazione dei potenziali evocati mediante elettrodi
posizionati sul cranio (olfactory event-related potential, OREP). L’olfatto-EEG è una
prova che risponde ai criteri di oggettività e può avere un buon significato medico-le-
gale: consiste nella registrazione dell’attività elettrica cerebrale in cui la reazione
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FIGURA 1. — Tavole di conversione per soggetti di sesso femminile (A) e maschile (B) dei punteggi ottenuti
dalla somministrazione dell’UPSIT, con adeguamento percentile per età (Doty R.L., The Smell
Identification TestTM Administration Manual. Haddon Heights, NJ: Sensonic, Inc., 2008).
d’arresto del ritmo α (rottura dell’alfa con comparsa del ritmo beta), attesta l’integrità
della percezione olfattiva; per contro, la mancata reattività del ritmo α suggerisce una
condizione di ipo-anosmia. Tale metodica richiede un’apparecchiatura costosa, non
valuta la soglia olfattiva ed il risultato è molto condizionato da artefatti.
b) Indagini radiologiche: la Rx standard del cranio è di scarsa utilità, mentre la
TC in scansione assiale (indicata soprattutto in caso di riscontri endoscopici di patologia
rino-sinusale e negli esiti di interventi chirurgici rino-sinusali e di fratture del basicranio
anteriore) e coronale permette una buona visualizzazione della struttura delle fosse
nasali, dei seni paranasali, della fossa cranica anteriore, della lamina cribrosa e di
eventuali atresia e stenosi delle coane, ma non è in grado di rilevare tutte le patologie
intracraniche a livello della regione olfattoria. La RM è particolarmente indicata nella
ricerca di lesioni parenchimali cerebrali, specie nelle forme di anosmia congenita
(evidenziando l’eventuale assenza del bulbo e/o del tratto olfattorio e/o la riduzione di
volume del lobo temporale o frontale) ma anche in caso di disfunzioni olfattive
post-traumatiche, in cui è in grado di evidenziare la presenza di anomalie in percentuale
molto elevata, soprattutto a livello dei tratti e dei bulbi olfattori e dei lobi frontali
inferiormente. Con la RM funzionale (fRM) è possibile visualizzare le aree cerebrali
attivate dagli odori somministrati e dalla memoria olfattiva (corteccia piriforme, cor-
teccia orbito-frontale e lobo temporale). La Tomografia ad Emissione di Positroni
(PET) mostra l’aumento del flusso ematico cerebrale nelle aree olfattorie dopo la
stimolazione odorosa, fornendo informazioni su metabolismo cellulare, consumo di O2,
flusso e volume ematico ma la sua esecuzione è piuttosto complessa e costosa. Anche la
Tomografia Computerizzata ad Emissione di Fotoni (SPECT) permette di valutare
l’incremento della perfusione cerebrale nelle aree olfattorie, in risposta ad uno stimolo
olfattorio, e consente di visualizzare anche l’attivazione del bulbo e del tratto olfattorio,
con la possibilità di differenziare lesioni bulbari e retro-bulbari. I principali vantaggi di
tale metodica sono il basso costo, la buona reperibilità nel contesto assistenziale e la
bassa quantità di radiazioni emesse.
c) Rinomanometria e rinometria acustica: consentono di effettuare uno studio
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Nei casi di franca anosmia, in presenza di lesioni delle vie olfattive dimostrate con esami strumentali, è
attribuibile la percentuale valutativa massima che tiene conto anche della conseguente drastica compro-
missione della funzione gustativa nel suo complesso. Nel caso in cui il deficit olfattivo si manifesti in età
avanzata (oltre 70 anni) ci si deve orientare sui valori minimi dei range indicati.
Disosmie fino alla cacosmia 3 — 6%
Iposmia da lieve a moderata 6 — 10%
Iposmia grave fino all’anosmia 11-15%
— vago: innerva i bottoni gustativi presenti sulla radice della lingua, sull’epiglot-
tide, sulla laringe e sull’esofago attraverso la branca laringea superiore.
Tutti e tre i predetti nervi inviano le loro proiezioni centrali al nucleo del tratto
solitario (c.d. “nucleo gustativo”) localizzato nel midollo dorsale; da qui gli assoni dei
neuroni gustativi inviano informazioni al nucleo ventro-postero-mediale del talamo ed
al sistema limbico ed infine i neuroni del nucleo ventro-postero-mediale del talamo
inviano le loro proiezioni alla corteccia gustativa primaria (area 43 di Brodmann)
localizzata a livello insulare ed agli opercoli e da qui alla corteccia gustativa secondaria,
situata a livello orbito-frontale.
Come avviene per l’olfatto, anche il sistema gustativo si indebolisce con gli anni.
particolare merita anche il nervo corda del timpano (che può lesionarsi sia a seguito di
fratture longitudinali dell’osso temporale sia, soprattutto, di interventi chirurgici sul-
l’orecchio medio e timpanoplastica) che, se lesionato, comporta ageusia localizzata
all’emi-lingua omolaterale, che può essere anche temporanea nel caso di interessamento
del nervo in corso di timpanoplastica. Disturbi temporanei della funzione gustativa
possono essere conseguenti anche al trattamento transtimpanico del tinnito tramite
ionoforesi, o per iniezione transtimpanica di lidocaina al 4%. È pertanto importante
attendere un congruo lasso di tempo prima di procedere alla valutazione medico-legale
di tale menomazione.
Altra causa di disturbi della funzione gustativa sono le lesioni della lingua anche se,
grazie alla sua ricca vascolarizzazione, anche gravi lacerazioni raramente comportano
una significativa perdita di tessuto ed in genere alla rigenerazione epiteliale e alla
risoluzione dell’edema consegue un miglioramento della disgeusia. Ciò nonostante,
lesioni particolarmente importanti o localizzate possono provocare disfunzioni gustative
permanenti.
3.3.b. Diagnosi
L’anamnesi e l’esame obiettivo ORL (esame del cavo orale comprendente lingua,
tonsille, palato e ad una attenta rinoscopia) sono essenziali nel tentativo di individuare
l’origine del deficit gustativo.
È possibile inoltre ricorrere ai seguenti test:
1. Colorazione della lingua con blu di metilene: permette di valutare l’integrità delle
vie d’innervazione dei calici gustativi. Dopo l’applicazione del colorante sulla lingua, i
pori gustativi rimangono colorati in blu solo se innervati.
2. Applicazione di un anestetico topico (lidocaina viscosa insapore al 2%, o
dyclonina all’1%) ai quattro quadranti della lingua in modo sequenziale, che permette
di distinguere una disgeusia da cause orali rispetto a forme aventi differente origine. Se
a seguito di tali applicazioni la disgeusia si riduce o scompare, la sua causa potrebbe
essere ricondotta ad una disfunzione delle terminazioni sensitive, viceversa, se peggiora,
la causa potrebbe avere origine dalle vie nervose centrali (es. fantageusia); se non ci sono
cambiamenti, la causa molto probabilmente non è orale.
3. Test del gusto (taste test, gustometria chimica): test impiegato per la valutazione
di perdite del gusto locali o gusto-specifiche. Per la sua realizzazione è richiesto
l’impiego di quattro tester standardizzati da applicare ai quattro quadranti della lingua
nella seguente sequenza: 2/3 anteriori di sinistra, 1/3 posteriore di sinistra, 2/3 anteriori
di destra e 1/3 posteriore di destra. Per ogni applicazione il soggetto deve essere in
grado di riconosce la sensazione gustativa che si intende evocare (salato, dolce, aspro e
amaro); il risultato finale del test è espresso dal numero di identificazioni corrette sul
numero totale di 16 applicazioni. Per valutare la soglia di percezione è invece possibile
somministrare 18 taste strips: anche in questo caso, per ogni applicazione il soggetto
deve essere in grado di riconosce la sensazione gustativa che si intende evocare (salato,
dolce, aspro e amaro) ed il risultato finale del test è espresso dal numero di identifica-
zioni corrette sul numero totale di applicazioni. Test analoghi sono stati sviluppati
anche per la somministrazione a bambini in età scolare.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione sotto indicata è riferita ai deficit del gusto, ove adeguatamente documentati, non associati a
quelli dell’olfatto.
Nella valutazione della funzione gustativa, oltre a determinare la capacità percettiva e discriminativa dei
cinque stimoli gustativi fondamentali (dolce, salato, amaro, aspro, umami), bisogna tenere presente che la
sensazione gustativa è il risultato dell’integrazione di diversi sistemi sensoriali quali la percezione tattile,
termica e dolorifica e olfattiva; un ruolo fondamentale è inoltre svolto dalla saliva. Pertanto, per formulare
un giudizio attendibile sulla compromissione delle funzione gustativa, si devono considerare sinotticamente
tutti questi elementi.
In caso di ageusia riferita in seguito ad evento traumatico, è inoltre importante valutare sempre anche la
funzione olfattiva, in quanto la quasi totalità dei casi di ageusia post-traumatica sono correlati ad anosmia;
l’ageusia pura è invece un fenomeno molto raro.
Nei casi in cui l’ipo-ageusia sia conseguenza di una lesione di un nervo coinvolto nella trasduzione della
sensazione gustativa, la sua compromissione deve essere valutata considerandola separatamente rispetto agli
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
altri deficit, con l’aggiunta di una percentuale proporzionata ai valori sotto indicati, in base all’estensione
dell’area innervata sulla mucosa della bocca.
Nel caso in cui l’ipo-ageusia sia invece conseguente alla perdita parziale o totale della lingua per la
valutazione si deve fare riferimento ai valori indicati nel capitolo 9.
Nel valutare i deficit del gusto va tenuto presente che anche questo senso, così come l’olfatto, è soggetto ad
un progressivo declino — legato soprattutto ad un aumento della soglia di percezione e di riconoscimento
— con l’avanzare dell’età e che inizia ad essere apprezzabile dopo i 60 anni. Pertanto una modesta ipogeusia
riscontrata in un soggetto anziano è difficilmente ascrivibile esclusivamente ad un fattore esterno.
Ipogeusia e disgeusia 1-7%
Ageusia 8%
via sensitiva trigeminale (rispettivamente per il corpo e il capo). Attraverso queste vie
vengono trasmessi anche gli stimoli termici e dolorifici che sono trattati nel capitolo 5.
La diagnosi si basa su indagini cliniche e strumentali.
L’esame obiettivo prevede la valutazione delle seguenti vie:
1. Via spino-talamica:
— la sensibilità tattile protopatica si valuta con soggetto ad occhi chiusi, passando lungo
la zona interessata un batuffolo di cotone e chiedendo di indicare se percepisce qualche stimolo
ed eventualmente quale. Generalmente si associa alla valutazione della sensibilità dolorifica
alternando al batuffolo di cotone la punta di uno spillo e chiedendo al soggetto se sente la stessa
intensità di puntura e se la sensazione è di tipo smusso o di tipo puntorio. In entrambi i casi
è utile confrontare l’area interessata con quella controlaterale.
Per la valutazione delle sensibilità dolorifica e termica si rimanda allo specifico
capitolo.
La localizzazione della lesione viene confermata valutando se la debolezza motoria
e le alterazioni dei riflessi seguono una distribuzione simile.
2. Via del lemnisco mediale
— la sensibilità tattile epicritica si valuta con soggetto ad occhi chiusi, toccando
con un dito e chiedendogli di discriminare la regione corporea in cui è stato applicato
lo stimolo pressorio; la valutazione deve essere effettuata anche applicando contempo-
raneamente due stimoli pressori a breve distanza e chiedendo al soggetto di indicare se
percepisce due distinti stimoli o solo uno. Se la sensibilità risulta alterata, si deve
stabilire se la distribuzione anatomica interessa i nervi periferici (a guanto), alcuni
particolari nervi (mononeurite multipla), le radici nervose (radiculopatia), il midollo
spinale (un metamero inferiore a quello dell’ipoestesia), il tronco encefalico (alterazioni
crociate volto-corpo della sensibilità) o l’encefalo (emianestesia).
— La grafestesia si valuta chiedendo al soggetto di riconoscere i numeri scritti con
un oggetto a punta smussa sul palmo della mano.
— La batiestesia si valuta con soggetto ad occhi chiusi, spostandone passivamente
i segmenti corporei e chiedendogli di riconoscere il movimento effettuato.
— La pallestesia si valuta applicando un dito sotto l’articolazione interfalangea
distale del soggetto e poggiandovi un diapason a 128 cicli colpito delicatamente.
L’esaminatore percepisce la vibrazione attraverso l’articolazione del soggetto e normal-
mente sentirà la cessazione della vibrazione nello stesso momento del soggetto.
— La stereognosia si valuta con soggetto ad occhi chiusi chiedendogli di ricono-
scere una moneta, una chiave o un altro oggetto posto nella mano.
— La cinestesia si valuta con il Test di Romberg: il test risulta positivo se la posizione
eretta non riesce ad essere mantenuta costantemente con la chiusura degli occhi
I disturbi della sensibilità tattile possono essere inoltre indagati mediante studio
elettro-neuro-fisiologico, pur essendo noto che i suoi risultati possono essere incostanti,
poco sensibili e poco specifici. È pertanto consigliabile una stretta integrazione opera-
tiva con un esperto del settore, anche per decidere, in via preliminare se sussistono
motivazioni sufficienti per intraprendere l’esame strumentale.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
I deficit sensitivi tattili assumono una particolare incidenza menomativa a livello di alcuni specifici distretti
anatomici quali la superficie palmare della mano, la pianta del piede, la lingua, le labbra, la regione genitale,
perineale e mammaria.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Ove i disturbi della sensibilità siano parte integrante degli esiti normalmente conseguenti a lesioni dei nervi
cranici o del sistema nervoso periferico, la valutazione deve essere formulata facendo riferimento alle
indicazioni riportate nei rispettivi capitoli.
Qualora invece i deficit sensitivi riscontrati non siano inquadrabili nei capitoli suddetti, ovvero riconoscano
altra genesi (ad es. esiti di ustioni o di scuoiamenti), la valutazione del danno deve essere espressa come
frazione — fino al valore intero, nel caso in cui le menomazioni siano totalmente sovrapponibili — del
valore attribuito alla/e lesione/i nervosa/e responsabile/i dell’innervazione sensitiva del distretto interessato,
integrando il dato ottenuto con quello relativo alla eventuale menomazione funzionale distrettuale. Nella
scelta della frazione da attribuire si deve tener conto dell’entità del deficit (anestesia, ipoestesia grave/
moderata/lieve, parestesia), della sua estensione e dell’importanza funzionale dell’area interessata.
Per le alterazioni della sensibilità della superficie palmare delle dita della mano la valutazione è espressa in
riferimento alla percentuale indicata per la perdita anatomica del dito interessato, tenendo conto dell’esten-
sione e della gravità del deficit.
Per le alterazioni della sensibilità della superficie plantare del piede la valutazione è espressa in riferimento
alla percentuale indicata per la lesione del nervo sciatico popliteo interno, responsabile dell’innervazione di
tale distretto anatomico, tenendo conto delle effettive ripercussioni sulla deambulazione.
Per l’apparato genitale si deve far riferimento a quanto indicato circa i disturbi della funzione sessuale, ed
in particolare a quelli inerenti la funzione copulatoria e alle mutilazioni genitali.
La valutazione dei disturbi sensitivi a livello della lingua e delle labbra deve essere effettuata proporzio-
nalmente rispetto a quanto indicato per i deficit dei nervi cranici afferenti a tali strutture.
Grave ipoestesia fino all’anestesia della superficie palmare delle dita della mano da 1/2 a 2/3
Grave ipoestesia fin all’anestesia della pianta del piede da 1/2 a 2/3
La riduzione della funzione uditiva si può realizzare per lesione nervosa (n.
cocleare), per difetto della trasmissione del suono a livello timpano ossiculare ovvero
per una combinazione delle precedenti.
La diagnosi viene effettuata, previa otoscopia (per evidenziare e rimuovere even-
tuali tappi ceruminosi, per valutare la presenza di stenosi del condotto e soprattutto per
visualizzare lo stato della membrana timpanica) mediante l’utilizzo di apparecchiature
(audiometri) che permettono di rilevare la soglia tonale o vocale e che necessitano in
genere della collaborazione del soggetto. È possibile ottenere soglie più oggettive con
metodi più sofisticati (potenziali acustici corticali e potenziali acustici tronco-encefalici).
Utili inoltre possono essere la timpanometria e la riflessologia del muscolo stapediale.
Per procedere alla costruzione di un sistema valutativo del danno uditivo, stante la
complessità dell’organo e l’interrelazione funzionale fra le due coclee, occorre identi-
ficare precisi punti di riferimento per valutare il rapporto intercorrente fra il danno
monolaterale e quello bilaterale.
Mentre la soglia uditiva normale viene universalmente riconosciuta nella misura di
25 dB, la perdita uditiva completa, tale da essere considerata preclusiva della vita sociale
e di molte attività ricreative, può invece essere fissata nella misura di 90 dB (in relazione
alla soglia di disagio). Si deve inoltre ricordare che la variabilità della soglia uditiva è
dovuta a fattori legati al soggetto esaminato, alla strumentazione audiometrica, all’esa-
minatore ed a variabili procedurali.
Le frequenze che partecipano alla funzione uditiva devono essere considerate in
rapporto al loro diverso peso: a tal proposito basti ricordare che le vocali hanno una
frequenza più bassa rispetto alle consonanti e che mentre le vocali creano il “volume”
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione della sordità completa è distinta da quella del sordomutismo in quanto la perdita uditiva
congenita o sviluppata nel corso dell’accrescimento determina l’impossibilità ad acquisire un linguaggio
adeguato. Pertanto la metodologia valutativa del sordomutismo deve comprendere l’accertamento di:
esistenza di una sordità o di una grave ipoacusia quale elemento eziologico del mancato apprendimento del
linguaggio; insorgenza del difetto uditivo alla nascita o comunque nell’età in cui si apprende e si organizza
il linguaggio verbale (3 e 5 anni) e comunque non oltre i 12 anni (sordità pre-linguale); integrità
dell’apparato fonatorio.
Nel caso in cui si associno deficit di natura cognitiva questi devono essere valutati autonomamente.
Sordità completa monolaterale 10%
Sordità completa bilaterale 50%
Sordomutismo, in assenza di validi risultati del trattamento riabilitativo 80%
Sordomutismo, con validi risultati dopo trattamento riabilitativo 60%
Deficit uditivi intermedi v. tabella
Perdita uditiva
500 Hz 1000 Hz 2000 Hz 3000 Hz 4000 Hz
dB
Percentuali di deficit uditivo
25 0 0 0 0 0
30 1,25 1,5 1,75 0,4 0,1
35 2,50 3 3,50 0,8 0,2
40 5 6 7 1,6 0,4
45 7,50 9 10,50 2,4 0,6
50 11,25 13,50 15,75 3,6 0,9
55 15 18 21 4,8 1,2
60 17,25 21 24,50 5,6 1,4
65 18,75 22,50 26,25 6 1,5
70 20 24 28 6,4 1,6
75 21,25 25,5 29,75 6,8 1,7
80 22,50 27 31,50 7,2 1,8
85 23,75 28,50 33,25 7,6 1,9
90 25 30 35 8 2
Nel caso di deficit uditivo unilaterale si sommano i valori corrispondenti alla perdita
in dB per ciascuna frequenza. Per determinare la corrispondente percentuale di
riduzione dell’integrità psicofisica si dovrà operare una semplice proporzione. Tenendo
presente che la sordità monolaterale è valutata con il 10% avremo:
Du: 100 = Ip: 10
dove Du è il danno uditivo ricavabile dalla lettura in tabella e Ip indica la
percentuale di riduzione dell’integrità psicofisica conseguente a tale deficit sensoriale.
In caso di deficit bilaterale la percentuale della riduzione dell’integrità psicofisica si
ricava calcolando la perdita di funzionalità uditiva per ciascun orecchio e quindi,
considerando che il rapporto fra orecchio migliore e orecchio peggiore è di 5 a 1 e che
la sordità bilaterale è valutata con il 50%, applicando la seguente formula:
lari superiore ed inferiori); idrope endolinfatica; lesioni traumatiche (traumi della rocca
di tipo fratturativo o commotivo con distruzione labirintica); lesioni baro-traumatiche
(fistola perilinfatica); agenti ad azione ototossica (es. aminoglucosidi); malattie autoim-
muni (sindrome di Cogan); neoplasie (neurinoma dell’acustico, meningioma e, più in
generale, tumori dell’angolo-ponto-cerebellare); malformazioni (sindrome da deiscenza
del canale superiore).
Relativamente alla vestibolopatia centrale, le malattie del SNC che più frequente-
mente ne sono responsabili sono quelle cerebro-vascolari, comportanti alterazioni del
circolo vertebro-basilare, l’emicrania, la sclerosi multipla, i tumori della fossa cranica
posteriore e le malattie neuro-degenerative (atassie ereditarie): altre cause meno fre-
quenti sono i tumori (specialmente cranio-cervicali) e le sindromi paraneoplastiche, le
malattie infettivo/infiammatorie (encefaliti, cerebelliti), gli agenti ototossici e le malfor-
mazioni (S. di Arnold-Chiari). In merito agli agenti lesivi di natura traumatica, dal 30 al
65% dei soggetti colpiti da trauma cranico durante la convalescenza manifesta sinto-
matologia di tipo vestibolare, le cui caratteristiche variano in base al tipo di lesione ed
alla sua estensione alle strutture vestibolari periferiche e centrali. Un’altra quota dei
deficit vestibolari insorge spontaneamente, in associazione casuale con il trauma, o in
associazione a infezioni virali o deficit vascolari.
In caso di trauma cranico, anche in assenza di fratture, le lesioni del sistema
vestibolare possono essere conseguenti a: concussioni o commozioni labirintiche,
rottura del labirinto membranoso, macro- o micro-emorragie delle strutture dell’orec-
chio interno. Le fratture dell’osso temporale possono danneggiare il labirinto osseo, il
labirinto membranoso ed il nervo vestibolare, mentre contusioni ed emorragie possono
ledere il tronco encefalico, il cervelletto o gli emisferi cerebrali. Inoltre alcuni particolari
disturbi psichici (disturbo d’ansia generalizzato, DAP, alterazioni dell’umore) possono
accentuare la sensazione di instabilità e contribuire all’inabilità complessiva della
persona. L’80% delle fratture sono longitudinali e conseguono a trauma parieto-
temporale, interessando primariamente le strutture dell’orecchio medio e determinando
per lo più anche ipoacusia trasmissiva. Nei restanti casi si tratta di fratture trasverse,
spesso conseguenti ad un trauma occipitale, che producono una lesione unilaterale della
funzione vestibolare, parziale o completa. In assenza di fratture della rocca petrosa sono
poco probabili, anche se possibili, lacerazioni ed emorragie del labirinto membranoso,
che si manifestano attraverso una perdita acuta ed unilaterale della funzione vestibolare
e/o cocleare. Non è infrequente però osservare transitori segni di deficit labirintico in
caso di trauma cranico in assenza di frattura, probabilmente correlati a fenomeni di
concussione, commozione e micro-emorragie del labirinto membranoso.
La sequela più frequente nelle concussioni dell’orecchio interno è la vertigine
posizionale parossistica benigna (VPPB), dovuta al distacco di materiale otoconiale che
dalla macula viene dislocato all’interno dei canali semicircolari e caratterizzata da brevi
(circa 1 minuto), ma intensi, episodi di vertigine rotatoria oggettiva, innescati dai
cambiamenti di posizione (ruotare la testa, alzarsi dal letto o coricarsi nel letto,
movimenti di flesso-estensione del capo), che si risolvono temporaneamente anche se la
posizione viene mantenuta (quindi è una vertigine da posizionamento e non di
posizione); si associa spesso a sensazione di instabilità anche al di fuori dei brevi episodi
vertiginosi scatenati dai cambiamenti di posizione. La VPPB, se non trattata con la
terapia fisica vestibolare (manovre liberatorie, di riposizionamento o di dispersione),
può perdurare per mesi; la risoluzione spontanea è possibile ma in genere avviene dopo
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È utile valutare l’effetto della mancanza di fissazione (ad es. coprendo un occhio del
soggetto ed “accecando” l’altro per mezzo di una piccola torcia portatile) che incre-
menta, o rende manifesto, il nistagmo periferico ma non quello centrale.
La valutazione dinamica si basa sul test di Halmagyi, sull’ Head Shaking Test, sulla
Dynamic Visual Acuity e sulle manovre di posizionamento rapido.
Il test di Halmagyi è molto specifico per la valutazione del VOR ma poco sensibile:
il soggetto mantiene il capo ruotato mentre fissa un bersaglio postogli di fronte e
l’operatore gli ruota rapidamente la testa fino a riportarla in posizione diritta. In caso di
risposta normale alla fine della rotazione non si osservano movimenti saccadici di
correzione, in caso di VOR ipoattivo si evidenzia un movimento saccadico di correzione
nella direzione opposta a quella di rotazione (segno di lesione vestibolare periferica),
mentre in caso di VOR iperattivo si evidenzia un movimento saccadico nella stessa
direzione a quella di rotazione (lesione vestibolo-cerebellare).
Per l’esecuzione dell’Head Shaking Test (HST) il soggetto indossa le lenti di
Frenzel, tiene la testa inclinata di 30° ad occhi chiusi, mentre l’operatore la ruota sul
piano orizzontale con movimenti di ampiezza di 90° e frequenza di 2 Hz. Al termine
della rotazione il soggetto spalanca gli occhi: in caso di risposta normale il nistagmo è
assente (caricamento simmetrico da parte dei due emi-sistemi vestibolari); in caso di
lesione periferica si verifica un nistagmo che in genere è diretto verso il lato sano; in caso
di lesione centrale si può verificare un nistagmo verticale. È un test sensibile, ma non
specifico per possibili errori nell’identificazione del lato leso. Inoltre un nistagmo
orizzontale all’HST è più probabile che sia di origine periferica piuttosto che centrale.
Per la diagnosi di VPPB è necessario eseguire manovre di posizionamento rapido
come quella di Dix-Hallpike per il canale posteriore e quella di McClure per il canale
laterale, mentre l’incidenza del disturbo sullo svolgimento delle ordinarie attività
quotidiane può essere stimata mediante la Berg Balance Scale, che assegna un punteggio
da 0 (non può essere eseguito) a 4 (eseguito in modo normale) a 14 compiti funzionali
che includono l’abilità di sedersi, alzarsi, stare in piedi, abbassarsi, girarsi e camminare
autonomamente ed in sicurezza.
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Va inoltre tenuto presente che alterazioni del sistema otolitico possono dar luogo
ad una Ocular Tilt Reaction (OTR), che consiste nell’associazione di inclinazione del
capo, skew deviation (strabismo verticale acquisito non paralitico, in cui l’occhio più
basso è ipsilaterale alla inclinazione laterale del capo), ciclotorsione oculare (il polo
superiore degli occhi è ruotato verso il lato dell’inclinazione del capo, valutabile per
mezzo di una fotografia del fondo oculare) ed alterazione della verticale visiva sogget-
tiva.
c. Prove vestibolari strumentali:
— Prove termiche: valutano la funzione canalare e si basano sull’erogazione di uno
stimolo termico caldo (44°C) o freddo (30°C), rispettivamente in grado di attivare o
inibire il sistema vestibolare; valutano prevalentemente la funzionalità del canale
semicircolare laterale (la stimolazione calda dell’orecchio destro induce un nistagmo
diretto a destra). Si registrano il numero di scosse (o la frequenza in Hz) e la durata del
nistagmo, oppure la velocità della fase lenta del nistagmo attraverso videonistagmogra-
fia, alla culmination. La risposta allo stimolo termico ha una notevole variabilità
inter-individuale, ma una bassa variabilità intra-individuale, per cui le risposte non sono
valutate in assoluto, ma come differenza delle risposte dei due lati in rapporto alla
somma della risposta dei due lati che corrisponde alla preponderanza labirintica. Le
stimolazioni termiche standard sono invece poco adeguate per valutare il deficit
vestibolare bilaterale, che prevede un test calorico con acqua a zero gradi (Ice Water
Test). Inoltre le prove con acqua calda e fredda possono aiutare nella diagnosi di una
vestibolopatia centrale (calcolo della preponderanza labirintica e direzionale) e valutare
i livelli del compenso. Devono essere ritenute inadeguate le valutazioni effettuate senza
il calcolo della preponderanza labirintica o sulla valutazione puramente qualitativa
(disritmia, ampiezza delle scosse, etc).
— Prove rotatorie: valutano la funzione canalare e si basano sulla rotazione del
soggetto per mezzo di una sedia motorizzata, effettuata utilizzando diversi profili di
accelerazioni ed in diverse condizioni. Le risposte richiedono la registrazione dei
movimenti oculari e si basano sulla valutazione dei seguenti parametri: il guadagno, vale
a dire il rapporto tra velocità degli occhi e velocità della testa, e la fase o la costante di
tempo della risposta. Questi parametri possono essere valutati in termini assoluti per le
due direzioni di rotazione (orario, antiorario) e per confronto di entrambi. È un test che
valuta la risposta alla stimolazione dei canali semicircolari orizzontali e la porzione
superiore del nervo vestibolare. Rispetto alle prove termiche richiede apparecchiature
più costose ed una fase di analisi più complessa e, a causa dei fenomeni di compenso,
può essere meno idoneo a evidenziare un deficit vestibolare unilaterale in fase stabiliz-
zata. Le prove rotatorie permettono però di effettuare valutazioni più precise nel caso
di deficit vestibolari centrali, di vestibolopatie bilaterali e per il compenso vestibolare.
— Potenziali evocati vestibolari (VEMPs): valutano la funzione otolitica il cui
stimolo fisiologico è l’accelerazione lineare mediante utilizzo di apparecchiature molto
costose e poco diffuse al di fuori degli ambiti di ricerca. La macula otolitica può essere
però stimolata anche utilizzando dei suoni di intensità elevata trasmessi per via aerea
(con una cuffia) o per via ossea (con un vibratore), oppure per mezzo di uno stimolo
galvanico. Le risposte possono essere registrate a livello muscolare dallo sterno-cleido-
mastoideo (Vestibular Evoked Myogenic Potentials — c-VEMPs), dalla regione perio-
culare (o-VEMPs) o come potenziali neurogeni tronco-encefalici “far-field” (potenziale
N3). Tutti questi potenziali permettono una valutazione separata dei due emisistemi
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sotto della quale sono posti alcuni trasduttori che rilevano gli spostamenti del centro di
pressione (o del baricentro) del corpo ad occhi aperti, ad occhi chiusi, occhi chiusi con
il capo retroflesso, occhi chiusi in svincolo occlusale. Un software dedicato effettua
l’analisi e la registrazione dei diversi parametri (lunghezza, superficie, velocità e
frequenza di oscillazione, etc.) di tali spostamenti, i cui valori vengono confrontati con
i parametri di normalità per obiettivare l’eventuale presenza di disturbi dell’equilibrio
nella stazione eretta e in quale misura questi siano influenzati dalla visione o dall’alterata
propriocezione cervicale. Il test può essere ripetuto nel tempo per monitorare il
recupero funzionale e la risposta al trattamento riabilitativo.
— Posturografia dinamica computerizzata: consente di quantificare il contributo
di possibili deficit sensoriali, motori e neurologici centrali al controllo dell’equilibrio. Il
soggetto viene posto su una piattaforma mobile che induce delle perturbazioni a livello
della base di appoggio (traslando o inclinandosi, così da produrre una flessione plantare
o dorsale del piede), le quali innescano delle risposte posturali automatiche. Al soggetto
viene chiesto di rimanere in piedi in posizione rilassata in 6 differenti contesti sensoriali,
che combinano le condizioni di: occhi aperti, occhi chiusi, occhi aperti con scena visiva
in movimento e piattaforma orizzontale o in movimento. Le reazioni posturali vengono
quantificate nelle diverse condizioni. I soggetti con deficit vestibolare possono denotare
un aumento delle oscillazioni maggiore nelle condizioni in cui le informazioni visiva e
propriocettiva sono alterate. Le pedane posturografiche che consentono l’esecuzione di
test di posturografia dinamica (Equitest e similari) sono costose e poco diffuse. Il test
può essere ripetuto nel tempo per monitorare il recupero funzionale e la risposta al
trattamento riabilitativo.
Il trattamento sintomatico prevede l’uso di farmaci antivertiginosi ed antiemetici
(antistaminici, anticolinergici, antidopaminergici e benzodiazepine), che hanno un
effetto sedativo sul sistema vestibolare, grazie al quale ostacolano e ritardano l’instau-
rarsi del compenso. Tali farmaci sono efficaci dopo circa 30 minuti (con acme dopo
diverse ore) dall’assunzione, quindi non sono indicati per episodi di breve durata (quali
ad es. la VPPB), ed hanno importanti effetti collaterali quali sedazione, depressione,
sintomi extrapiramidali, dipendenza. È possibile effettuare anche trattamenti riabilita-
tivi, i cui obiettivi sono: ridurre il disequilibrio e l’oscillopsia; migliorare la stabilità dello
sguardo durante i movimenti della testa; migliorare l’equilibrio in condizioni dinamiche,
in particolare durante la deambulazione; migliorare le condizioni fisiche generali ed il
grado di attività; consentire la ripresa della guida, del lavoro e delle attività ricreative.
Il trattamento riabilitativo è indicato soprattutto nei deficit vestibolari unilaterali
periferici con difficoltà di compenso o compenso incostante o incompleto, nelle
areflessie vestibolari bilaterali, nelle vestibolopatie centrali e nel disequilibrio per cause
non vestibolari. Alcune caratteristiche eziologiche sono importanti in quanto influen-
zano le possibilità di compenso (ad es. il deficit vestibolare bilaterale, per il quale il
compenso può basarsi solo su meccanismi di sostituzione dell’input vestibolare con altre
informazioni sensoriali), l’andamento recidivante (ad es. l’idrope endolinfatica, l’emi-
crania vestibolare) o perché molto frequentemente si associano a lesioni di altre
strutture nervose, come nel caso di vertigini centrali. Al contrario, malattie monofasiche
ed unilaterali hanno prognosi migliore. I principali e più frequenti fattori extra-
vestibolari che possono agire in maniera sinergica negativa nel recupero funzionale
sono: età, riduzione dell’acuità visiva, oftalmoparesi, polineuropatia, disfunzione cere-
bellare, distimia, basofobia.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Affinché la valutazione del soggetto con deficit vestibolare sia effettuata in condizioni stabilizzate dovreb-
bero essere trascorsi almeno 6 mesi dall’evento acuto. Qualora il compenso sia incompleto, per presenza dei
fattori prognostici negativi o perché la disfunzione non è stata adeguatamente trattata, è opportuno iniziare
un trattamento di riabilitazione vestibolare e rivalutare il soggetto dopo altri 6 mesi.
Il danno biologico da deficit vestibolare non è quantificabile soltanto in base alla sua entità iniziale, ma
anche in base all’eziologia ed all’entità del compenso instauratosi.
La quantificazione deve essere sempre preceduta dagli accertamenti clinici e strumentali precedentemente
richiamati e proporzionata all’utilità della loro significatività. In assenza di riscontri oggettivi di segni di
disturbi vestibolari non è possibile esprimere una quantificazione del danno.
La gravità del quadro clinico, indipendentemente dal fatto che il deficit abbia un’origine centrale o
periferica, dipende dal grado di instabilità, dal numero delle crisi di vertigine oggettiva, dalla presenza o
meno di nistagmo spontaneo.
Per ascrivere il soggetto allo stadio III è necessario valutare la documentazione specialistica relativa al
decorso clinico, la risposta e la compliance alle terapie, il tipo/intensità/frequenza dei sintomi. Si possono
prendere in considerazione valutazioni superiori al 30% soltanto nei rarissimi casi nei quali la compromis-
sione vestibolare sia tale da inficiare notevolmente la deambulazione, con rilevanti ripercussioni sul piano
dinamico-relazionale.
Stadio I
Sintomi e/o segni di entità tale da non interferire con lo svolgimento delle attività della vita
quotidiana.
Ci si può orientare verso i limiti superiori del range in presenza di:
— instabilità che limita parzialmente le attività non indispensabili per la conduzione della
vita quotidiana
— oscillopsia o nistagmo spontaneo che rendono difficile la lettura
— vertigine oggettiva con durata inferiore a 2-3 giorni e con cadute a terra
Rientrano in questa classe i casi di:
— sindrome vertiginosa periferica con iporeflessia/areflessia monolaterale compensata,
1-10%
anche in presenza di compenso incompleto, elemento che deve far orientare verso il limite
alto del range;
— sindrome vertiginosa centrale con presenza di nistagmo spontaneo (che giustifica
l’attribuzione della percentuale massima) o evocato; in questi casi ci si deve orientare sempre
verso il limite alto del range;
— alterazione dei riflessi visuo-oculomotori (saccadi, pursuit);
— nistagmo isolato da scuotimento del capo (HSNy);
— nistagmo di posizione isolato geotropo o apogeotropo;
— vertigine parossistica posizionale benigna in assenza di altri segni vestibolari patologici;
— iporeflessia o iperreflessia vestibolare bilaterale o preponderanza direzionale isolata.
Stadio II
Sintomi o segni di instabilità, che limitano moderatamente le attività non indispensabili per 11-20%
la conduzione dell’ordinaria vita quotidiana.
Stadio III
Sintomi o segni di instabilità che limitano significativamente le attività più complesse della
vita quotidiana (es. andare in bicicletta, guidare, etc.) con necessità di saltuaria assistenza.
Rientrano in questo stadio i casi di: 21-30%
— areflessia monolaterale senza compenso associata a canalolitiasi;
— sindromi vestibolari centrali con segni multipli;
— sindrome vestibolare mista: questa condizione giustifica il ricorso ai limiti alti del range.
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Capitolo 4
FUNZIONI NEUROLOGICHE PERIFERICHE
4.1. Premessa. — 4.2. Arto superiore. — 4.2.a. Plesso brachiale. — 4.2.b. Sindromi radicolari. — 4.2.c. Nervo
circonflesso. — 4.2.d. Nervo radiale. — 4.2.e. Nervo mediano. — 4.2.f. Nervo ulnare. — 4.2.g. Sindromi
canalicolari. — 4.2.h. Nervo muscolo-cutaneo. — 4.2.i. Nervo toracico lungo. — 4.3. Arto inferiore. —
4.3.a. Plesso lombare. — 4.3.b. Nervo femorale. — 4.3.c. Nervo otturatorio. — 4.3.d. Plesso sacrale. —
4.3.e. Nervi glutei superiore ed inferiore. — 4.3.f. Nervo sciatico. — 4.3.g. Nervo sciatico popliteo interno.
— 4.3.h. Nervo sciatico popliteo esterno. — 4.3.i. Plesso coccigeo. — 4.3.l. Nervo pudendo
4.1. Premessa
mostrare discontinuità del nervo, presenza di callo osseo, frammenti ossei, corpi
estranei, stravaso emorragico.
Il trattamento chirurgico di questo tipo di lesioni, nonostante gli enormi progressi
conseguiti in tempi recenti, rappresenta ancora oggi una delle maggiori sfide della
chirurgia ricostruttiva. Nei casi in cui non sia possibile procedere alla riparazione del
nervo mediante sutura diretta dei monconi si ricorre all’innesto (che rappresenta il gold
standard della riparazione nervosa) o alla tubulizzazione con materiali naturali o
artificiali (alternativa cui si ricorre per la riparazione di piccoli difetti del nervo).
I fattori che condizionano il successivo recupero funzionale sono rappresentati da:
età del soggetto, livello della lesione, necessità di ricorrere ad innesti e lunghezza degli
stessi (riduce la qualità del recupero), tipo di nervo interessato (un nervo misto con
prevalenza di fibre sensitive ha minore possibilità di guarigione), eventuali lesioni
associate.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione non deve essere effettuata prima che sia trascorso un arco di tempo sufficiente — almeno
un anno — a far ritenere stabilizzato l’esito della lesione nervosa, in funzione della stazionarietà del reperto
clinico ed elettromiografico/elettroneurografico. I trattamenti ricostruttivi, anche a mezzo di innesti,
allungano notevolmente il tempo di attesa necessario per la valutazione (indicativamente è necessario
attendere almeno due anni).
Qualora siano interessati più nervi di uno stesso arto (o segmento d’arto), la valutazione globale non può
superare quella complessiva prevista per la perdita della funzione dell’arto o del segmento di arto
interessato.
In assenza di diverse specificazioni, le valutazioni proposte sono riferite alle paralisi complete; spesso il
deficit è parziale, per cui la stima deve essere adeguatamente modulata in difetto.
Per la valutazione si deve primariamente tenere conto del quadro clinico (deficit motorio, sensitivo, misto
ed eventualmente autonomico), integrato dal risultato degli accertamenti elettrofisiologici.
Il plesso brachiale (radici C5, C6, C7, C8, D1) si estende trasversalmente dai lati
della colonna sino al cavo ascellare e, a causa della sua collocazione topografica, risulta
essere più esposto ai traumatismi rispetto a quello lombare e sacrale.
Dal plesso brachiale originano sia rami terminali che collaterali: tra i primi
rientrano i nervi radiale, ascellare, muscolo-cutaneo, mediano, ulnare, cutaneo mediale
del braccio e cutaneo mediale dell’avambraccio; i secondi comprendono i nervi per i
muscoli del cingolo scapolare, del dorso e del torace.
Nella gran parte dei casi le lesioni del plesso brachiale si producono nel corso di
traumi occorsi a conducenti di motocicli, anche se meritano menzione quelle da parto
per distocia di spalla. La lesione può essere determinata da un trauma diretto sulle
strutture nervose (es. ferite da taglio), oppure associarsi a fratture o lussazioni, ovvero
conseguire a meccanismo di trazione dell’arto superiore; in quest’ultimo caso possono
generarsi lesioni che vanno dallo stiramento (assonotmesi) sino alla avulsione della
radice nervosa dal midollo. In ambito sportivo la lesione del plesso brachiale si osserva
negli atleti che praticano sport di contatto fisico, spesso nei giocatori di football
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americano e nei wrestler, nei quali cagiona la c.d. burner and stinger syndrome,
caratterizzata dalla comparsa di dolore urente severo e di parestesie che si irradiano dal
collo all’arto superiore sino al braccio ed alle dita, eventualmente associate a paralisi
dell’arto; la maggior parte delle volte si risolve spontaneamente ma talora può dar luogo
ad esiti permanenti.
La riparazione chirurgica del plesso permette un certo grado di recupero funzio-
nale dell’arto, mirando principalmente al ripristino della flessione del gomito, che
rappresenta il movimento più importante nell’economia funzionale dell’arto; da consi-
derare che le lesioni intra-foraminali risultano sempre di più difficile trattamento con
conseguenti minori risultati. Fondamentale risulta comunque la tempestività del trat-
tamento: ad es. nei soggetti in cui sono state lesionate le radici C5-C6 o C5-C6-C7 se
l’intervento chirurgico non viene effettuato entro i primi 3-4 mesi dal trauma il deficit
funzionale diviene permanente. Il tempo del recupero post-chirurgico può superare
anche i 2 anni.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione proposta, relativa alla paralisi di tutti i muscoli ed alla perdita della sensibilità dell’arto
superiore, è equiparata alla perdita anatomica.
Nel caso in cui la lesione del plesso non sia completa, la valutazione viene formulata, oltrechè sulla base
quadro clinico, in funzione dell’entità del deficit e del numero delle radici interessate; trattandosi comunque
di lesioni estremamente rilevanti da un punto di vista funzionale, anche in caso di lesione parziale, la
valutazione, in assenza di trattamento chirurgico, difficilmente si può collocare al di sotto del 45%.
Paralisi completa del plesso brachiale 60% (d.) 55% (n.d.)
Manifestazioni cliniche di tipo motorio: paralisi dei muscoli intrinseci della mano
(muscoli dell’eminenza tenar ed ipotenar, lombricali, interossei) e dei flessori delle dita,
con conseguente quadro di “mano ad artiglio” per il prevalere degli estensori e dei
flessori lunghi.
Manifestazioni cliniche di tipo sensitivo: ipo-anestesia della superficie mediale del
braccio e dell’avambraccio, margine mediale della mano e delle ultime due dita.
Nel caso in cui la lesione sia determinata da un’avulsione radicolare si associa la
sindrome di Claude-Bernard-Horner (miosi, enoftalmo, blefaroptosi).
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione deve essere modulata principalmente sulla base del quadro clinico, tenendo conto anche dei
risultati degli accertamenti strumentali (in particolare dell’esame elettromiografico/elettroneurografico).
L’utilizzo della scala di Dumitru — Wilbourn sopra ricordata può fornire indicazioni oggettive sul grado
di gravità della lesione, consentendo così di orientarsi verso i limiti alti o bassi del range valutativo.
Sindrome radicolare superiore 45% (d.) — 41% (n.d.)
Sindrome radicolare media 25% (d.) — 23% (n.d.)
Sindrome radicolare inferiore 45% (d.) — 41% (n.d.)
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Paralisi completa del nervo circonflesso 18% (d.) — 16% (n.d.)
Il nervo radiale è un ramo terminale del plesso brachiale formato dalle radici C5,
C6, C7 e C8, rappresentando la continuazione del tronco secondario posteriore del
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Paralisi alta del nervo radiale 35% (d.) — 33% (n.d.)
Paralisi bassa del nervo radiale 25% (d.) — 23% (n.d.)
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Paralisi alta del nervo mediano 40% (d.) — 37% (n.d.)
Paralisi bassa del nervo mediano (per lesione a livello della metà distale) 30% (d.) — 28% (n.d.)
dell’avambraccio)
Paralisi distale del nervo mediano (per lesione a livello del polso) 20% (d.) — 18% (n.d.)
Il nervo ulnare origina da fibre provenienti dalle radici C8-T1, convogliate attra-
verso il tronco primario inferiore del plesso brachiale. È un nervo misto che fornisce
fibre motorie per alcuni muscoli dell’avambraccio e per la gran parte dei muscoli della
mano, nonché fibre sensitive per alcune aree della superficie dorsale e palmare della
mano, delle ultime due dita e del lato ulnare del medio.
Le lesioni del nervo ulnare possono prodursi per traumatismi diretti a livello del
gomito o del polso, ovvero come conseguenza dei loro esiti riparativi (frattura dell’e-
pitroclea consolidata in posizione viziosa, gomito valgo post-traumatico, fenomeni
artrosici, etc.), oltrechè con meccanismi iatrogeni quali la compressione del nervo dopo
intervento di osteosintesi delle fratture del radio distale.
Manifestazioni cliniche di tipo motorio: in caso di paralisi alta (prossimale rispetto
al terzo inferiore della diafisi omerale) si ha ipovalidità della flessione palmare e della
inclinazione ulnare della mano (paralisi del flessore ulnare del carpo); impossibilità ad
addurre il pollice (paralisi dell’adduttore del pollice); notevole deficit nella flessione
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delle ultime due dita (a livello distale per paralisi del flessore profondo e a livello
metacarpo-falangeo per compromissione degli ultimi due lombricali), grave deficit dei
movimenti di abduzione ed adduzione delle dita (apertura e chiusura a ventaglio) per
paralisi degli interossei dorsali e palmari (in parte vicariati rispettivamente dall’estensore
e dal flessore delle dita), che comporta una ridotta validità di forza nelle prese; perdita
pressoché totale dei movimenti autonomi del mignolo (paralisi dell’abduttore, flessore
breve ed opponente del mignolo); si associa atrofia dei muscoli dell’eminenza ipotenar
ed escavazione degli spazi interossei, nonchè atteggiamento della mano “ad artiglio”. In
caso di paralisi bassa (ovvero distale rispetto al terzo inferiore della diafisi omerale) si
ha la conservazione dei movimenti del polso.
Manifestazioni cliniche di tipo sensitivo: ipo-anestesia del versante ulnare della
mano, del mignolo e della metà palmare dell’anulare, della superficie dorsale delle prime
falangi dell’anulare e della metà ulnare di quelle del medio.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Paralisi alta del nervo ulnare 25% (d.) — 23% (n.d.)
Paralisi bassa del nervo ulnare 20% (d.) — 18% (n.d.)
Nel caso in cui i nervi mediano ed ulnare subiscano fenomeni compressivi ripetuti
lungo il loro decorso possono instaurarsi le c.d. “sindromi canalicolari”.
La compressione del nervo mediano può realizzarsi nel tratto che attraversa il
canale del carpo dando luogo alla sindrome del tunnel carpale. Le cause sono rappre-
sentate essenzialmente da microtraumi ripetuti, alterazioni dei tendini dei muscoli
flessori che scorrono attraverso il tunnel carpale o modificazioni della componente ossea
(conseguente a traumi o infiammazione).
Il quadro clinico si caratterizza inizialmente per comparsa di parestesie, specie
notturne, localizzate alle prime tre dita della mano, che si estendono successivamente
anche all’avambraccio; col progredire della compressione si manifesta ipoestesia a
carico del territorio di innervazione del mediano alla mano, ipotrofia della parte esterna
dell’eminenza tenar e deficit dell’opposizione e dell’abduzione del I dito. Caratteristica
la positività del segno di Phalen (comparsa di parestesie alle prime tre dita dopo il
mantenimento per un minuto dei dorsi delle mani affrontati, con polsi e gomiti flessi a
90°) e del segno di Tinel (comparsa di scossa elettrica alla compressione del nervo).
La diagnosi si fonda sull’obiettività clinica, eventualmente confermata da accerta-
menti strumentali, rappresentati essenzialmente dall’elettromiografia/ elettroneurogra-
fia, sulla scorta dei quali i criteri diagnostici sono: latenza distale motoria > 4,5 m/sec
su una distanza di 8 cm, latenza distale sensitiva > 4 m/sec su una distanza di 14 cm,
picco di latenza del potenziale nervoso > 2,4 m/sec su una distanza trans-carpale o
medio-palmare di 8 cm, differenza > 0,5 m/sec tra latenza sensitiva del mediano e
latenza sensitiva del nervo ulnare su una distanza di 8 cm.
Le sindromi compressive a carico del nervo ulnare sono rappresentate dalla
sindrome del tunnel cubitale e dalla sindrome del canale di Guyon.
La sindrome del tunnel cubitale (sensitivo-motoria) può conseguire a fratture o
lussazioni del gomito, artrosi e microtraumi ripetuti (spesso di origine professionale),
che determinano fenomeni infiammatori o degenerativi con conseguente intrappola-
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mento del nervo. I sintomi iniziali sono costituiti da parestesie al IV e V dito della mano,
spesso scatenate dalla flessione del gomito; successivamente si manifesta atrofia del-
l’eminenza ipotenar e deficit di adduzione/abduzione delle dita, di flessione del IV e V
dito, di adduzione ed opposizione del V dito, di adduzione del I dito; tipico l’aspetto
della “mano ad artiglio”. La diagnosi, oltrechè del dato clinico, può avvalersi di indagini
elettrofisiologiche, i cui elementi caratteristici sono rappresentati da: velocità di condu-
zione motoria inferiore ai 50m/sec su un tratto di 8-10 cm sopra e sotto al gomito;
rallentamento di almeno 10m/sec in un tratto di 8-10 cm sopra e sotto al gomito rispetto
alla velocità di conduzione del nervo nel tratto compreso tra il gomito e il polso.
La sindrome del canale di Guyon (motoria) è una sindrome da intrappolamento del
nervo ulnare a livello del polso, determinata nella gran parte dei casi da un’azione
meccanica diretta che si realizza a livello dell’osso pisiforme. È molto più rara della
sindrome del tunnel carpale e si manifesta con ipostenia dell’abduzione delle dita. I
parametri elettromiografici/elettroneurografici utili alla diagnosi sono i seguenti: latenza
distale motoria maggiore di 4,5 m/sec su un tratto trans-carpale o medio-palmare di 8
cm, latenza distale sensitiva > 4 m/sec su un tratto di 14 cm, potenziale d’azione nervoso
di durata maggiore ai 2,4 m/sec su un tratto trans-carpale o medio-palmare di 8 cm.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione deve essere effettuata sulla base del quadro clinico e strumentale e sull’efficacia dell’even-
tuale trattamento chirurgico.
Sindrome del tunnel carpale
Sindrome del tunnel cubitale 5-10% (d.) 4-9% (n.d.)
Sindrome del canale di Guyon
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Paralisi completa del nervo muscolo-cutaneo 15% (d.) — 13% (n.d.)
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Paralisi completa del nervo toracico lungo 8% (d.) — 7% (n.d.)
Il plesso lombare è costituito dalle radici nervose (D12, L1, L2, L3 ed L4) emergenti
dalla colonna lombare e sacrale che si riuniscono a livello del bacino formando un
plesso da cui originano i tronchi nervosi periferici che regolano i movimenti della coscia,
della gamba e del piede, nonché la funzionalità degli sfinteri vescicale e anale. Dal plesso
originano sia rami terminali (nervo otturatorio e femorale) che collaterali (nervo
ileo-ipogastrico, ileo-inguinale, genito-femorale e cutaneo laterale del femore).
All’origine dei quadri clinici conseguenti a lesione del plesso lombare vi sono
tipicamente gravi traumi del bacino caratterizzati da fratture multiple (spesso con
dislocazioni sia anteriori che posteriori) e generalmente con duplice frattura verticale, di
solito conseguenti a sinistri stradali o a traumi da schiacciamento occorsi in ambito
lavorativo. Esistono anche neuropatie su base iatrogena, tra cui la paralisi del nervo
femorale o dello sciatico a seguito di intervento chirurgico di artroprotesi di anca.
La lesione completa del plesso lombare determina deficit motori marcati per la
paralisi del nervo femorale (di seguito trattata), che ne rappresenta la componente
menomativa più importante, e turbe sensitive dei territori innervati dal nervo genito-
femorale e femoro-cutaneo.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Paralisi completa del plesso lombare 35%
Il nervo femorale (o crurale) è un nervo misto che contiene fibre motorie, deputate
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ai muscoli della loggia anteriore della coscia, e sensitive, che raccolgono la sensibilità
dalla regione anteriore della coscia e, attraverso il nervo safeno (ramo sensitivo
terminale), dalla superficie mediale del ginocchio e della gamba.
La lesione può essere sia traumatica che iatrogena (da chirurgia addominale,
pelvica ma anche ortopedica, spesso da intervento di artroprotesi d’anca).
Manifestazioni cliniche di tipo motorio: perdita del movimento di estensione della
gamba sulla coscia (per paralisi del quadricipite femorale) e della flessione della coscia
sul bacino (per paralisi dell’ileo-psoas), cosicché la deambulazione è possibile soltanto
con ginocchio in estensione; assenza del riflesso rotuleo.
Manifestazioni cliniche di tipo sensitivo: ipo-anestesia della superficie anteriore
della coscia e della superficie mediale della gamba e del piede.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Paralisi completa del nervo femorale 30%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Paralisi completa del nervo otturatorio 5%
Il plesso sacrale (L4, L5, S1, parte di S2, S3, S4) è formato dall’unione del tronco
lombo-sacrale e dei rami anteriori di S1, S2, S3; è localizzato in cavità pelvica, addossato
alla superficie anteriore del muscolo piriforme, e contrae rapporti con il retto tramite la
fascia pelvica.
Gli esiti delle lesioni del plesso sacrale, ai fini valutativi, si possono considerare
espressione delle lesioni del nervo sciatico a cui si rimanda.
I nervi glutei, superiore ed inferiore, sono nervi motori che forniscono fibre per il
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piccolo ed il medio gluteo, il tensore della fascia lata (gluteo superiore) ed il grande
gluteo (gluteo inferiore).
La loro lesione comporta rispettivamente la perdita dell’abduzione e della rota-
zione interna dell’anca (muscoli tensore della fascia lata, medio e piccolo gluteo) e
quella dell’estensione e della rotazione esterna della coscia sul bacino (grande gluteo);
ne deriva la caratteristica andatura “anserina”.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Paralisi completa del nervo gluteo superiore 8%
Paralisi completa del nervo gluteo inferiore 15%
Il nervo sciatico (o ischiatico) trae origine dai rami anteriori di L4, L5 e S1, S2, S3;
i suoi rami principali sono rappresentati dal nervo tibiale o sciatico popliteo interno
(SPI) e dal nervo peroniero comune o sciatico popliteo esterno (SPE).
La lesione del nervo sciatico è generalmente iatrogena, potendosi produrre a
seguito di iniezione di farmaci, interventi chirurgici (tipicamente artroprotesi d’anca) o
gravi fratture del cotile.
Manifestazioni cliniche di tipo motorio: in caso di paralisi alta (cioè a livello del
tronco comune, nel tratto compreso tra l’uscita dal forame ischiatico e l’emergenza del
ramo per il muscolo semitendinoso), oltre alla paralisi dei muscoli innervati dalle sue
diramazioni terminali (SPE e SPI), si verifica anche quella dei muscoli posteriori della
coscia (semitendinoso, semimembranoso e bicipite femorale), con conseguente aboli-
zione del movimento di flessione della gamba sulla coscia e riduzione della estensione
di questa sulla pelvi. Il quadro si caratterizza quindi per la perdita di tutti i movimenti
della gamba e del piede, dell’estensione della coscia e della flessione della gamba sulla
coscia, con conseguente netta difficoltà alla deambulazione. In caso di paralisi bassa
(localizzata dopo la diramazione per il semitendinoso, il semimembranoso e il bicipite,
ma prima della biforcazione tra SPE e SPI) è conservata la flessione della gamba sulla
coscia e l’estensione di questa sulla pelvi (poiché è integro il ramo deputato al muscolo
semitendinoso), mentre permangono i deficit relativi alla paralisi dello SPE e dello SPI.
Manifestazioni cliniche di tipo sensitivo: ipo-anestesia della superficie antero-
laterale della gamba e di tutto il piede; frequenti le turbe trofiche (sino all’ulcera) e
l’insorgenza di causalgie ed edema.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Paralisi alta del nervo sciatico 45%
Paralisi bassa del nervo sciatico 35%
Il nervo sciatico popliteo interno (o tibiale) è posto sulla diretta continuazione del
nervo sciatico ed innerva i muscoli della loggia posteriore della gamba, della superficie
plantare del piede e parte della cute posteriore della gamba, plantare del piede e dorsale
delle falangi distali.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per le paralisi dello SPE, il punteggio può essere ridotto in relazione all’efficacia dell’utilizzo della molla di
Codivilla.
Paralisi completa del nervo sciatico popliteo interno 22%
Paralisi completa del nervo sciatico popliteo esterno 20%
Il plesso coccigeo è formato dalla radice di S5 e dal nervo coccigeo, che creano
un’ansa anastomotica al davanti del muscolo ischio-coccigeo.
Dal punto di vista clinico i deficit motori (a carico del grande gluteo, ischio-
coccigeo e sacro-coccigeo) sono assai contenuti per la concorrente innervazione di altri
rami nervosi; rilevano invece i deficit sensitivi localizzati alla cute della regione ano-
coccigea.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Paralisi completa del plesso coccigeo 5%
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Le lesioni del nervo pudendo possono derivare da traumi diretti (spesso da parto),
da compressioni prolungate (sella di bicicletta) o possono avere genesi iatrogena;
comportano alterato controllo dello sfintere esterno dell’ano e, soprattutto, turbe
sensitive della cute anale, del perineo, dello scroto e del pene nel maschio e del clitoride
e delle grandi e piccole labbra nella femmina. Il nervo è dotato inoltre di fibre
parasimpatiche vasodilatatrici destinate ai corpi cavernosi.
Le indicazioni valutative sono identificabili in quelle relative alle alterazioni della
funzione sessuale e in quelle concernenti l’incontinenza anale, per le quali si rimanda
rispettivamente ai capitoli 12 e 10.
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Capitolo 5
DOLORE E SINDROME ALGODISTROFICA
5.1. Dolore somatico cronico. — 5.1.a. La sensibilizzazione. — 5.1.b. Sindrome dell’arto fantasma. —
5.1.c. La valutazione clinica bedside. — 5.2. Sindrome algodistrofica
dorsali, ove prendono contatto con neuroni di secondo ordine. Gli assoni dei neuroni
di secondo ordine si incrociano nelle corna dorsali del midollo spinale a livello del piano
mediano e salgono fino ad arrivare al tronco encefalico ed al talamo nel quadrante
antero-laterale (detto anche ventro-laterale) della metà contro-laterale del midollo
spinale. Per questa ragione, la via neuronale che convoglia le informazioni relative alla
sensibilità dolorifica e termica ai centri più alti viene spesso detta “sistema antero-
laterale”, per distinguerla dal sistema della colonna dorsale-lemnisco mediale che
trasporta le informazioni meccano-sensoriali.
I siti dove gli assoni convogliano le informazioni riguardanti questi due sistemi, che
si incrociano a livello del piano mediano, sono alquanto diversi; questa differenza ha
un’importanza clinica poiché è utile per definire la collocazione di una lesione a carico
del midollo spinale.
Il differente punto di decussazione della via somato-sensoriale tattile (a livello del
bulbo) rispetto a quello della via somato-sensoriale nocicettiva (a livello del midollo
spinale) è alla base del fenomeno di “perdita dissociata della sensibilità”: una lesione
spinale unilaterale causa sintomi quali perdita di sensibilità al tatto, alla pressione, alla
vibrazione ed alla propriocezione nella parte del corpo omolaterale rispetto alla lesione,
mentre i deficit di sensibilità dolorifica e termica si manifestano nella parte del corpo
contro-laterale; i deficit generalmente includono tutte le regioni del corpo innervate dai
segmenti sottostanti il livello della lesione. Assieme ad informazioni locali riferite ai
dermatomeri questo fenomeno può essere usato per definire il livello della lesione.
5.1.a. La sensibilizzazione
In seguito ad uno stimolo dolorifico associato a danno tissutale (ad es. ferite da
taglio, escoriazioni e contusioni), gli stimoli nell’area della lesione ed in quella adiacente
ad essa vengono percepiti come molto più dolorosi di quanto lo siano realmente: tale
fenomeno è chiamato iperalgesia ed è correlato a cambiamenti della sensibilità neuro-
nale sia a livello dei recettori periferici sia dei loro bersagli centrali.
La sensazione dolorosa indotta da uno stimolo normalmente innocuo è detta invece
allodinia.
Appena il tessuto danneggiato guarisce, la sensibilizzazione indotta dai meccanismi
periferici e centrali di solito si riduce e la soglia del dolore torna ai livelli antecedenti il
danno. Tuttavia, quando sono danneggiate le fibre afferenti o le vie centrali (compli-
canza frequente di varie patologie come diabete, fuoco di Sant’Antonio, AIDS, sclerosi
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multipla e infarto), questi processi possono persistere dando origine al c.d. dolore
neuropatico, ovvero un’esperienza di dolore cronico e intenso che è di difficile tratta-
mento. Il dolore neuropatico può insorgere spontaneamente (senza alcuno stimolo) o
può essere prodotto da stimoli lievi comuni alla vita di tutti i giorni (es. il tocco leggero
e la pressione dei vestiti, o temperature calde o fredde); viene spesso descritto come una
sensazione costante di bruciore alternata a momenti di dolore lancinante, acuto o scosse
elettriche. L’invalidità e lo stress fisiologico associati al dolore cronico neuropatico
possono essere gravi e costituire una vera e propria malattia debilitante.
Gli studi di neurofisiologia hanno dimostrato che la presenza di scariche afferenti
di tipo nocicettivo (quali quelle che nascono da danni a carico di tessuti somatici,
viscerali o neurologici) è in grado di sviluppare a livello spinale e sovra-spinale
modificazioni neuronali capaci di aumentare il dolore, renderlo più esteso nel corpo, e
ridurre l’efficacia del trattamento analgesico. Tali modifiche sono definite “neuropla-
sticità” e sono strettamente collegate all’arrivo degli impulsi nocicettivi. Non è noto se
questi eventi continuino dopo la fine degli impulsi afferenti, ovvero dopo la guarigione
della causa del dolore. D’altra parte nella pratica clinica quotidiana la maggior parte dei
soggetti, adeguatamente trattati con farmaci o interventi indicati e appropriati, cessano
di avvertire qualsiasi dolore.
Gli aspetti semantici del dolore (ovvero i termini utilizzati dal soggetto per
descrivere il dolore) e la sua intensità percepita hanno rappresentato per molti anni gli
elementi fondamentali per la diagnosi, la definizione del tipo di dolore (nocicettivo o
neuropatico) e la scelta terapeutica. I “Questionari di valutazione del dolore neuropa-
tico” si basano sui termini soggettivi utilizzati per descrivere il dolore. Solo in alcuni
compaiono anche sintomi evocati (anch’essi soggettivi, ma più evidenziabili) come
l’allodinia dinamica meccanica. La pratica clinica quotidiana ha però nel tempo
dimostrato che la qualità del dolore percepito dal soggetto e la sua intensità non sono
così determinanti per la diagnosi. L’intensità può invece costituire un criterio valido per
la scelta del farmaco, o meglio, per stabilirne il dosaggio. Poiché la scelta di un
trattamento è oggi sempre più mirata rispetto al tipo di dolore ed al meccanismo
patogenetico che lo genera, diviene sempre più importante disporre di criteri diagno-
stici sempre più confrontabili e facilmente applicabili.
Nasce pertanto la necessità di impostare la valutazione clinica del soggetto in
maniera diversa, passando dai descrittori del dolore ai sintomi (negativi e positivi, alcuni
di questi ultimi correlati al danno tissutale, altri al coinvolgimento dei neuroni spinali)
ed ai segni da ricercare in corso di esame obiettivo. Il percorso diagnostico tende ad una
progressiva identificazione dei tipi di dolore e dei meccanismi patogenetici sottostanti.
Nell’approcciarsi alla sindrome dell’arto fantasma si deve anzitutto fare una chiara
distinzione tra i disturbi dolorosi riferiti ad una regione anatomica amputata, cioè il
“dolore fantasma”, e la percezione della persistenza di una sola parte o di tutta una
regione anatomica amputata, che si definisce “sensazione fantasma”. Entrambe tali
sensazioni sono state associate non solo agli arti, ma anche ad altre parti del corpo
asportate a seguito di un trauma o di un atto chirurgico (es. denti, mammelle, naso, etc.).
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causare una sufficiente lesione delle fibre capace di generare deficit sensitivi) il dolore,
avvertito in forma di scarica o di dolore sordo, è localizzato profondamente nel
territorio di innervazione, ma non è mai superficiale e distribuito nell’intera area
dermatomerica; assenti i segni di deficit sensoriale. Molta attenzione deve essere posta
alla diagnosi differenziale con il dolore riferito, assai più frequente e collegato a
sofferenza infiammatoria. Nel metodo è compresa anche l’ispezione dell’area per
escludere la presenza di cicatrici, ustioni o altre tipologie di lesioni che possono di per
sé spiegare il dolore, o indicare un danno pregresso. Nelle distrofie simpatico-riflesse
questa parte di ispezione è importante per raccogliere gli aspetti cutanei e distrofici
presenti.
2. Seconda manovra: si esegue ricercando nell’area di dolore la presenza di un
deficit del sistema somato-sensoriale, con l’obiettivo di approfondire l’ipotesi di dolore
neuropatico sulla base del danno di fibra. Secondo quanto indicato nelle linee guida
internazionali, una volta stabilito che l’estensione del dolore è compatibile con un
territorio neurologico, è necessario valutare la presenza di un deficit del sistema
somato-sensoriale. Nelle linee guida di valutazione del dolore neuropatico della Euro-
pean Federation of Neurological Societies (EFNS-2010) vengono specificate le tre fibre
del sistema somato-sensoriale, A beta, A delta e C, e gli stimoli utili per la loro
identificazione. Si consiglia pertanto di applicare, nell’area di dolore disegnata, i tre
stimoli in successione (tattile, puntiforme e caldo), annotando gli eventuali ed evidenti
deficit presenti e si raccomanda di ripetere sempre l’esame per le difficoltà che possono
insorgere nella relazione con il soggetto e nelle sue capacità di collaborazione. Il
significato patologico va dato alle evidenti perdite delle sensibilità e non alle forme
sfumate o a macchia di leopardo. Ricordiamo che nella pratica clinica quotidiana
troviamo casi in cui non è facile identificare il danno di fibra pur essendo evidente la
presenza di un dolore connesso a patologia neurologica e ad origine ectopica dell’im-
pulso. Il danno delle fibre non è sufficiente a interrompere la conduzione dell’impulso
ma genera un sito ectopico a bassa soglia di stimolazione. Ne sono esempio: la nevralgia
essenziale del trigemino, le radicolopatie in fase acuta e alcune sindromi infiammatorie
dei nervi periferici (ad es. mediano), le plessopatie secondarie da interessamento
neoplastico o da altro processo estrinseco (es. endometriosi) in fase iniziale. In questi
casi si sottolinea l’importanza di una distinzione tra dolore neuropatico e dolore riferito
nocicettivo. La presenza di sintomi positivi e l’assenza di segni negativi non esclude la
possibilità di un’origine ectopica dell’impulso, ma richiede una attenta valutazione e
diagnosi differenziale.
3. Terza manovra: si basa sulla applicazione di stimoli non dolorosi, come quello
tattile (sfioramento della cute con un batuffolo di cotone o pennello) o quello ottenuto
con altri stimoli meccanici lievi (pinprick, pressione, movimento attivo e passivo).
L’obiettivo è quello di identificare nel territorio di dolore la presenza di sintomi
“positivi” o “allodinie”, indicanti processi di sensibilizzazione dei nocicettori periferici,
dei neuroni spinali, dei siti ectopici. In base alla sede in cui gli stimoli vengono applicati,
si distinguono le seguenti fattispecie:
a) Presenza di lesioni cutanee (ferite, ustioni, etc.): lo stimolo meccanico (lieve
tocco-pressione — allodinia statica) e lo stimolo caldo (circa 40°C) nel territorio
lesionato evocano dolore per il meccanismo della sensibilizzazione del nocicettore
periferico. Gli stimoli tattili (sfioramento — allodinia dinamica meccanica), o punti-
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formi, evocano dolore nell’area circostante per il meccanismo della sensibilizzazione dei
neuroni spinali.
b) Presenza di sofferenza neurologica (evidenziata dall’esame precedentemente
effettuato e dal territorio di dolore): gli stimoli tattili nel territorio neurologico possono
suscitare una sensazione disestesica di diversa intensità da interpretare come un
meccanismo patogenetico connesso alla sofferenza delle fibre tattili (moltiplicazione
d’impulsi). Questo fenomeno può talvolta rendere difficile la valutazione dei deficit
delle sensibilità e si riduce significativamente con l’applicazione di una pressione sul
nervo a monte della lesione (tourniquet). Gli stimoli tattili presenti sia all’interno che
all’esterno del territorio neurologico possono invece essere correlati al fenomeno della
sensibilizzazione spinale. Il sito ectopico è sensibile alla stimolazione da parte di fattori
estrinseci come la pressione (entrapment), l’ischemia, le variazioni del pH, sostanze
infiammatorie, etc. Alcune manovre in grado di stimolare il nervo possono essere
utilizzate per identificare la possibile presenza del sito ectopico. La manovra di Laségue,
ad es., può essere utilizzata per una stimolazione radicolare, ma deve essere prestata
molta attenzione alla risposta del soggetto. Il dolore così evocato può originare dal sito
ectopico e ricordare al soggetto il suo abituale dolore sia sordo e profondo, sia
superficiale e disestesico, ma può essere assimilabile al dolore riferito da patologia
miofasciale o vertebrale.
c) Presenza di processo patologico di tipo somatico o viscerale nei tessuti
sottostanti: gli stimoli tattili nel territorio cutaneo sovrastante la lesione (e indenne da
lesione) possono suscitare dolore per il fenomeno della sensibilizzazione spinale. Tale
sintomo è evocabile anche con stimoli meccanici pressori lievi ma non con lo stimolo
caldo. L’area di allodinia dinamica meccanica non è necessariamente sovrastante il
danno tissutale. Gli stimoli pressori di diversa intensità possono evidenziare il mecca-
nismo della sensibilizzazione dei nocicettori tissutali profondi (miofasciali, viscerali,
etc.) sia per l’insorgenza di fenomeni secondari (contrazioni muscolari riflesse del dolore
viscerale), sia per la presenza di processi infiammatori tissutali primitivi. Le patologie
articolari possono essere valutate mediante induzione di movimenti attivi e passivi.
4. Quarta manovra: lo scopo è quello di valutare la presenza di un dolore riferito
o di un dolore ectopico da infiammazione nervosa (radicular pain, etc.). Nei casi in cui
nell’area di dolore non si sia evidenziata la presenza di deficit neurologici o di dolore
evocato profondo o non vi siano lesioni in grado di giustificare il dolore, si può
ipotizzare un dolore riferito (frequente nelle patologie miofasciali, articolari e viscerali)
o un dolore ectopico (poco frequente nelle forme infiammatorie di un nervo o di una
radice). La distinzione tra un dolore ectopico ed uno riferito può essere complicata
dall’interessamento dei nerva nervorum della zona nervosa coinvolta.
Tali manovre consentono di ipotizzare il tipo di dolore, nocicettivo (normotopico)
o neuropatico (ectopico), fanno sorgere il sospetto di una sensibilizzazione dei neuroni
spinali e ci informano che nel territorio lesionato la soglia del nocicettore è diminuita.
Sulla base di queste informazioni è possibile impostare una terapia più mirata e
sicuramente evitare inutili prescrizioni farmacologiche o terapia invasive.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
L’indeterminatezza dei risultati ottenuti con tutti gli strumenti di valutazione, fisica e psicologica, rende
estremamente difficoltosa la quantificazione del danno correlato a fenomeni algici, se non altro per la
ricorrente incertezza che il dolore riferito dall’individuo sia realmente in essere, sia effettivamente in nesso
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
causale con l’evento lesivo, oppure sia frutto, in parte o in toto, di un’anomala elaborazione mentale della
propria condizione personale, così come “soggettivisticamente” vissuta, rispetto alla quale la lesione
somatica può essere razionalmente estranea, o solo molto marginalmente o indirettamente interconnessa.
Poiché l’entità del dolore è difficilmente stimabile con criteri oggettivi e la sua valutazione si basa
prevalentemente sulle dichiarazioni individuali, o sulle autoreferenziali compilazioni di scale o questionari,
la sua espressione percentuale deve essere limitata ai casi caratterizzati da patologie/menomazioni ogget-
tivabili che causano notoriamente dolore, sviluppatosi in questo caso in maniera abnorme, tanto da rendere
necessario un prolungato (mesi/anni) trattamento algologico effettuato presso centri specialistici, risultato
solo parzialmente risolutivo.
La valutazione clinica del dolore — quantunque inevitabilmente basata su riferimenti soggettivi fatti
all’interno di note scale di intensità — specie se attuata in contesti terapeutici e non medico-legali, può
tornare utile a livello descrittivo riportando caratteristiche fondamentali quali la sede, l’irradiazione, le
caratteristiche (es. dolore urente, gravativo, etc.), l’intensità e la risposta alla terapia. Nel fare ricorso a tali
strumenti è opportuno riferirsi sempre a test scientificamente validati e approvati dalle competenti società
scientifiche.
Nella valutazione medico-legale del dolore, oltre ai parametri clinici, devono essere considerati: l’impatto
sulla qualità della vita, l’aderenza alle cure, lo stato emotivo-psicologico e le condizioni socio-ambientali, ivi
compresa l’etnia e il livello di inserimento sociale del soggetto.
Va infine ricordato che il dolore, quando manifestato in condizioni di difficile/impossibile spiegabilità sul
piano fisiopatologico, può sottendere alcuni disturbi psico-patologici quali il disturbo di somatizzazione, il
disturbo da sintomi somatici, il disturbo di conversione e il disturbo fittizio, per la valutazione dei quali si
rimanda al capitolo 1.
Relativamente alla sindrome dell’arto fantasma, si riporta di seguito la valutazione delle sole “sensazioni
fantasma”, in quanto per la valutazione del “dolore fantasma” si deve fare riferimento ai criteri valutativi
generali relativi al dolore somatico. Poiché il “dolore fantasma” può causare problemi nella protesizzazione
del distretto anatomico amputato, tale aspetto deve essere sempre vagliato e, nel caso di comprovata
intolleranza totale o parziale dei mezzi protesici, deve essere valutato secondo i criteri indicati nello specifico
capitolo.
Dolore lieveIl dolore risponde al trattamento e non interfe- Maggiorazione di 1/5 rispetto al limite supe-
risce significativamente con lo svolgimento delle attività riore della fascia percentuale corrispondente
quotidiane. alla disfunzionalità distrettuale.
Dolore moderatoIl dolore, in parziale o incostante risposta Maggiorazione di 1/4 rispetto al limite supe-
al trattamento con conseguente scarso adattamento del sog- riore della fascia percentuale corrispondente
getto, interferisce con lo svolgimento delle attività quoti- alla disfunzionalità distrettuale.
diane, imponendo cambiamenti nello stile di vita.
Dolore graveIl dolore è scarsamente rispondente al tratta- Maggiorazione di 1/3 rispetto al limite supe-
mento ed il soggetto non raggiunge un sufficiente adatta- riore della fascia percentuale corrispondente
mento; la sintomatologia è tale da ostacolare/impedire lo alla disfunzionalità distrettuale.
svolgimento di numerose attività quotidiane.
Sindrome dell’arto fantasma — limitatamente alla “sensa- Maggiorazione da 1/5 a 1/4 rispetto alla
zione fantasma” non dolorosa percentuale corrispondente alla perdita del
distretto anatomico interessato.
smo cutaneo e annessiale) e di sintomi, tra i quali dominano il dolore spontaneo e/o
evocato, ovvero l’allodinia e l’iperalgesia, primarie e secondarie. Il dolore è regionale e
non localizzato allo specifico territorio di un solo nervo o dermatomero, appare
sproporzionato nel tempo o rispetto al decorso normalmente susseguente a lesioni,
traumatiche e non, che fungono da innesco ed è generalmente caratterizzato da una
predominanza distale di alterazioni sensitive, motorie, sudomotorie, vasomotorie e/o
trofiche.
La CPRS si può presentare in varie forme che vanno da manifestazioni relativa-
mente lievi ed auto-limitanti a forme croniche, con un forte impatto sulla qualità della
vita.
Prima di essere definita CRPS, essa era indicata con numerosi nomi i più diffusi dei
quali erano: “reflex sympathetic dystrophy”, “sindrome algodistrofica” e “causalgia”.
La revisione tassonomica è avvenuta durante una consensus conference della IASP
(International Association for the Study of Pain) tenutasi nel 1993. Da allora la Reflex
Sympathetic Dystrophy” (RSD) fu definita Complex Regional Pain Syndrome I (CRPS I),
e la “causalgia” fu definita Complex Regional Pain Syndrome II (CRPS II).
La differenza tra le due forme risiede rispettivamente nell’assenza o nella presenza
di una comprovabile lesione nervosa, in quanto studi recenti hanno suggerito che anche
il tipo I è associato a lesioni nervose, dovute ad una mono- o oligo-neuropatia a
predominanza di piccole fibre. In entrambi i casi si tratta pertanto di disturbi di origine
neurologica e le due forme sono clinicamente identiche, in quanto la presenza, o meno,
di un’evidente lesione nervosa non modifica il quadro algo-distrofico di fondo.
L’incidenza di questa sindrome è ancora dibattuta. Ad oggi sono stati condotti
solamente due studi, che la collocano tra 5,4 e 26,2 per 100.000, con un picco di
presentazione tra 50 e 70 anni. Le fratture sono le principali cause, responsabili del 44%
dei casi. Le estremità superiori sono più colpite delle inferiori, senza distinzione di lato.
Il sesso femminile è più rappresentato di quello maschile (3,5:1).
Tra i fattori eziologici si annoverano, oltre alle fratture, anche traumi di minore
entità, immobilizzazione protratta, emiplegia, interventi chirurgici, affezioni pleuro-
polmonari, affezioni cardiache (infarto), ipertiroidismo, neoplasie, farmaci (antituber-
colari, anticonvulsivanti), elettrocuzione, manovre intra-articolari (artrocentesi, artro-
scopia, infiltrazioni). Nel 3-11% può insorgere anche spontaneamente dei casi, mentre
il ruolo causale attribuito in passato ai fattori psicologici è stato escluso dagli studi più
recenti.
Vi sono numerose ipotesi sull’origine patogenetica di questa sindrome, supportate
da altrettante evidenze scientifiche, che in parte hanno sostituito quelle del passato ed
in parte si integrano ad esse. L’ipotesi iniziale di un’iperattivazione del sistema nervoso
simpatico non ha per ora ottenuto convincenti conferme dagli studi neurofisiologici. Le
più recenti acquisizioni hanno invece attribuito il ruolo causale ai processi di neuro-
flogosi locale: il rilascio locale di neuropeptidi pro-infiammatori e di alcune citokine
potrebbe costituire l’innesco e il fattore di mantenimento dei segni delle prime fasi della
malattia (edema, eritrosi, aumento della temperatura locale e della sudorazione), mentre
nelle fasi successive le alterazioni del microcircolo ed il danno micro-vascolare sem-
brano essere i meccanismi patogenetici responsabili dell’evoluzione della maggior parte
dei casi verso lo stadio che un tempo veniva definito “distrofico” o “freddo” (caratte-
rizzato da scomparsa dell’edema, subcianosi, termotatto diminuito), il quale rappresen-
terebbe la fine della fase attiva. La fase fredda è frequente nelle lesioni neurologiche, per
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In circa un terzo dei casi la malattia insorge con esordio “freddo”, senza cioè i
classici segni ascrivibili alle fasi iniziali di malattia, ma evolve con una prognosi peggiore
in termini di durata di malattia e di disabilità permanente.
La diagnosi non è agevole per molte ragioni: la grande variabilità nella presenza e
nella severità dei sintomi e/o segni specifici; l’ampio spettro di forme cliniche, che
differiscono per sintomatologia, modalità di trattamento e prognosi; la differenza
sostanziale tra forme acute e croniche, le prime caratterizzate da dolore, edema, eritrosi,
aumento della temperatura e riduzione antalgica dei movimenti, le seconde da dolore,
ipotermia, iperidrosi e rigidità delle dita.
Per le forme classiche non vi sono solitamente dubbi diagnostici, specie quando è
possibile individuare un evento predisponente. A tale scopo l’indagine clinica, condotta
secondo i c.d. criteri di Budapest (adottati dalla International Association for the Study
of Pain — IASP — nella seconda versione della “Classification of Chronic Pain”, in
sostituzione di quelli precedentemente proposti nel 1994, per la maggiore specificità a
fronte di una sensibilità rimasta, almeno nella versione clinica, quasi invariata), garan-
tisce un buon grado di accuratezza diagnostica, con l’avvertenza di impiegarli solo dopo
aver atteso alcune settimane, al fine di evitare di incorrere in false positività.
L’imaging (Rx, scintigrafia ossea, TC e RM) ha un ruolo limitato nella formulazione
diagnostica, ma può essere impiegato (più o meno utilmente) nello studio delle forme
“incomplete”, tenendo conto che la comparsa dei segni radiologici richiede una latenza
di qualche settimana rispetto all’esordio clinico. Il quadro più tipico è costituito da
un’osteoporosi “maculata”, d’aspetto cioè disomogeneo per la presenza di aree dove il
riassorbimento osseo (e quindi l’ipertrasparenza) è più evidente. Tali alterazioni sono
più facilmente apprezzabili a livello dell’osso subcondrale e delle epifisi, dove, in alcuni
casi il disegno del tessuto osseo scompare totalmente, evidenziando in maniera anomala
la linea corrispondente alla lamina subcondrale o immagini evocative delle alterazioni
osservabili in corso di malattie “artritiche” erroneamente descritte come erosive.
Quando vi sia un interessamento delle diafisi delle ossa lunghe, anche il tessuto osseo
corticale appare assottigliato e con segni di riassorbimento periostale, endostale ed
intracorticale. Al progredire del quadro clinico diviene più frequente il riscontro di
osteoporosi omogenea con una riduzione della densità ossea, che tende a risolversi più
lentamente rispetto al quadro clinico e che persiste anche dopo l’avvenuta guarigione.
La scintigrafia ossea con bifosfonati marcati con Tecnezio costituisce a tutt’oggi la
metodica diagnostica in grado di fornire con maggior precocità le informazioni utili alla
diagnosi. La diagnosi di CRPS può essere considerata con pattern di fase I e II ridotti
e quello di fase III ridotto, aumentato o simmetrico. Una captazione del radio-tracciante
normale (o più frequentemente un deficit di captazione) appartiene il più delle volte a
casi inveterati (stadio atrofico) o a pazienti in età pediatrica. Il valore di questa metodica
come test di screening, o diagnostico, è però considerato piuttosto basso specialmente
per la sua limitata sensibilità. Limitatamente alle fasi precoci di malattia, la RM consente
di osservare quadri riferibili ad un aumento del contenuto idrico midollare pur con il
limite tecnico che tali alterazioni sono presenti a carico di segmenti ossei di limitate
dimensioni, quali quelle della mano e del piede. I dati di laboratorio non offrono
solitamente informazioni utili alla diagnosi e gli indici di flogosi sono generalmente nella
norma. Non esiste comunque un singolo test in grado di escludere o confermare
concretamente la CRPS.
I criteri diagnostici di Budapest, nella versione clinica, sono i seguenti:
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alla ridotta funzionalità dell’arto e il loro funzionamento nella vita quotidiana può
arrivare ad essere sufficiente.
Lo schema “guida” al giudizio di gravità della CRPS prevede la valutazione e
l’attribuzione di un punteggio ai seguenti segni clinici e radiologici:
— segni rilevati all’esame obiettivo: iperpatia al pinprik test; allodinia (sfioramento,
freddo/caldo, vibrazioni); asimmetria della temperatura al termografia (>1°C); asimme-
tria del colorito cutaneo; asimmetria della sudorazione; edema; modificazioni del
trofismo/segni di distrofia (cute, unghie e annessi piliferi); alterazioni motorie (tremori,
distonia, debolezza); limitazione dei movimenti attivi (ROM). Per ciascuna voce viene
attribuito un punteggio a seconda che i segni siano assenti (0), modesti (1), marcati (2).
Per una maggiore accuratezza nell’attribuzione del punteggio 1 (modesti) o 2 (marcati)
dei segni osservati e relativi al dolore, alle variazioni di temperatura e di volume e alle
limitazioni dei movimenti attivi, è possibile fare riferimento alle tabelle proposte da
Oerlmans H.M. et al. (1998) e da Perez R.S. (2003), per la valutazione del grado di
invalidità conseguente alla CRPS a carico rispettivamente degli arti superiori e inferiori,
attribuendo il punteggio 1 per score da 1 a 5 e di 2 per score da 6 a 10.
— Segni radiologici: osteoporosi (rilevabili all’Rx), geodi (rilevabili all’Rx o alla
TC), edema subcrondrale (rilevabili all’eco e/o RM). Per ciascuna voce viene attribuito
un punteggio a seconda che i segni siano assenti (0), localizzati (1), diffusi (2).
Il grado di severità è dato dalla somma dei due punteggi totali ottenuti rispettiva-
mente nella scala dei “segni osservati all’esame obiettivo” e in quella dei “segni
radiologici”:
— CRPS di I grado: punteggio 4 — 14.
— CRPS di II grado: punteggio 15 — 24.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
L’elevata probabilità di avere falsi positivi con una diagnosi troppo precoce, richiede di attendere almeno
sei mesi dall’esordio dei sintomi (specie se non esattamente e completamente rispondenti alla forma di
presentazione classica della sindrome) prima di procedere ad una valutazione medico-legale, che è
opportuno sia corredata da una relazione specialistica rilasciata da un centro di terapia del dolore, in cui
sia riportata una dettagliata rappresentazione dell’evoluzione del quadro clinico e della risposta ai
trattamenti.È necessario porre attenzione alle forme recidivanti in quanto vi sono soggetti che guariscono,
ma che possono ripresentare il quadro dopo eventi stressanti.
CRPS Tipo I di I grado Dipendentemente dall’entità delle componenti algiche e di-
strofiche, maggiorazione da 1/4 a 1/3 della percentuale
attribuibile agli effetti invalidanti dovuti alla limitazione
funzionale
CRPS Tipo II di I grado Dipendentemente dall’entità delle componenti algiche e di-
strofiche, maggiorazione da 1/4 a 1/3 della percentuale
attribuibile agli effetti invalidanti diretti della lesione nervosa
CRPS Tipo I di II grado Dipendentemente dall’entità delle componenti algiche e di-
strofiche, maggiorazione da 1/2 a 2/3 della percentuale
attribuibile agli effetti invalidanti dovuti alla limitazione
funzionale
CRPS Tipo II di II grado Dipendentemente dall’entità delle componenti algiche e di-
strofiche, maggiorazione da 1/2 a 2/3 della percentuale
attribuibile agli effetti invalidanti diretti della lesione nervosa
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Capitolo 6
FUNZIONE MUSCOLO-SCHELETRICA
6.1. Premessa. — 6.2. Cranio. — 6.2.a. Fratture della volta e brecce craniche. — 6.2.b. Fratture della base.
— 6.2.c. Fratture del massiccio facciale. — 6.3. Rachide. — 6.3.a. Distorsione. — 6.3.b. Fratture vertebrali.
— 6.3.c. Vertebroplastica e cifoplastica. — 6.3.d. Patologia disco-artrosica. — 6.3.e. Stenosi vertebrale. —
6.4. Gabbia toracica. — 6.5. Parete addominale. — 6.5.a. Ernie. — 6.5.b. Diastasi dei muscoli retti
addominali. — 6.5.c. Altre menomazioni della parete addominale. — 6.6. Bacino. — 6.7. Arto superiore. —
6.7.a. Spalla e braccio. — 6.7.b. Gomito e avambraccio. — 6.7.c. Polso e mano. — 6.8. Arto inferiore. —
6.8.a. Anca e coscia. — 6.8.b. Ginocchio e gamba. — 6.8.c. Caviglia e piede. — 6.9. Lesioni muscolari. —
6.10. Lesioni cartilaginee. — 6.11. Osteomieliti
6.1. Premessa
6.2. Cranio
Le lesioni che si possono produrre a carico della struttura ossea cranica sono
rappresentate da fratture della volta, della base e del massiccio facciale. Per quanto
concerne le indagini strumentali, per le prime può essere sufficiente limitarsi all’esame
radiografico, preferibilmente in duplice proiezione, mentre per le altre si impone il
ricorso alla TC.
Le fratture della volta possono essere lineari o affossate: le prime possono guarire
senza apprezzabili reliquati di natura anatomo-funzionale, al più residuando una
sfumata sintomatologia dolorosa; invece quelle infossate interessano spesso le meningi,
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
In caso di fratture della volta la valutazione deve essere effettuata sulla base delle dimensioni, dell’eventuale
affossamento e della sede dello stesso, onde considerare il possibile stimolo irritativo sulle strutture
encefaliche e l’eventuale danno estetico correlato.
Per le fratture della volta si rimanda a quanto indicato nel capitolo 2.
Per le brecce craniche la valutazione deve tener conto di molteplici fattori quali, principalmente, sede
(quella frontale ha maggior incidenza dal punto di vista estetico), morfologia ed estensione (anche per il
possibile coinvolgimento delle meningi e delle strutture encefaliche sottostanti).
La valutazione sotto indicata ricomprende sia il deficit della funzione contenitivo-protettiva del tavolato
cranico sia la lieve compromissione estetica, salvo casi ove questa sia di particolare rilevanza.
Nell’età infantile la valutazione deve essere incrementata in relazione al maggior rischio di coinvolgimento
delle strutture intracraniche e alle possibili deformazioni che si potranno realizzare con lo sviluppo.
Breccia cranica di dimensioni minime (orientativamente 5 cm2) 2-5%
L’interruzione della continuità del tavolato cranico, seppur di dimensioni contenute,
giustifica il persistere di algie locali. Ove le dimensioni eccedano 1 cm2 possono essere
necessarie limitazioni in attività ludico-sportive a rischio di traumi cranici.
Breccia cranica di dimensioni > 5 cm2 6-15%
Le dimensioni della breccia sono tali da condizionare negativamente, per ovvie ragioni
cautelari, l’espletamento di diverse attività della vita, per cui sono da adottare valutazioni
progressivamente crescenti, nell’ambito del range prospettato, sulla base delle dimensioni e
della sede.
Esiti di riposizionamento di opercolo osseo o di cranioplastica ricostruttiva 2-7%
Il quadro clinico associato a queste fratture varia a seconda della sede interessata,
con manifestazioni tipiche in caso di interessamento dell’etmoide, dello sfenoide e della
rocca petrosa: le fratture etmoidali si associano molto frequentemente a deficit olfattivi
e rinoliquorrea; quelle sfenoidali possono interessare la sella turcica, comportando
alterazioni endocrine acute o tardive (in particolare diabete insipido) e la formazione di
fistole carotido-cavernose; infine l’interessamento dei forami di uscita dei nervi cranici
può indurre deficit degli stessi.
Nel caso di interessamento della fossa cranica anteriore si può avere la rottura del
tetto dell’orbita, con correlati deficit visivi.
Le fratture della fossa cranica media possono interessare la piramide del temporale,
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con possibile deficit del VII n.c. (immediato nel caso di sezione traumatica, general-
mente conseguente a frattura della rocca petrosa, ovvero tardivo, nel caso di compres-
sione nel canale facciale per protratto edema infiammatorio, o per ematoma) e dell’VIII
n.c.. Esse sono di due tipi: longitudinale, che si estende dalla squama del temporale, e
trasversale, per estensione di una frattura basi-occipitale (spesso immediatamente
mortale).
In caso di coinvolgimento del pavimento della fossa cranica anteriore, o media,
aumenta il rischio di infezioni e di fistole liquorali, stante il venir meno del diaframma
osseo con i seni del massiccio facciale.
Le fratture della fossa cranica posteriore sono molto più rare delle precedenti; dal
punto di vista clinico esse vanno sempre considerate con particolare cautela per il
rischio di interessamento dei grossi seni della base con possibile formazione di ematomi
extra-durali, che possono compromettere il tronco encefalico. Altra grave evenienza è il
coinvolgimento del forame occipitale, con rischio di disarticolazione atlanto-occipitale.
Fratture dell’orbita
Le fratture delle pareti orbitarie possono essere isolate o, più frequentemente,
coinvolgere altre strutture (zigomo, naso, etmoide). In rapporto alla sede, esse si
suddividono in fratture del pavimento, della parete mediale, di quella laterale e del tetto;
in base al meccanismo produttivo possono essere distinte in fratture da violenta
pressione esercitata sul bulbo oculare a palpebre chiuse, e fratture conseguenti a traumi
in regione zigomatica, con sollevamento del pavimento (tipo blow-in), con cedimento
del pavimento orbitario (tipo blow-out), spesso complicate da incarceramento del
muscolo retto inferiore, con conseguente difficoltà nella visione verso l’alto.
In generale le fratture dell’orbita incidono sul sinergismo dei movimenti oculari,
generando diplopia e strabismo, che sono complicanze più frequenti dei traumi orbitari
e, soprattutto nell’infanzia, possono produrre importanti alterazioni del visus. Gli esiti
più frequenti sono rappresentati da: enoftalmo, diplopia ed ipoestesia da interessamento
della II branca trigeminale. L’eventuale incarceramento della muscolatura estrinseca
dell’occhio nella rima fratturativa può determinare deficit della motilità oculare, che
può assumere carattere permanente per susseguente fibrosi cicatriziale. Il principale
esame diagnostico da eseguire è la TC in scansioni assiali e coronali, con ricostruzione
3D delle orbite.
Le fratture del tetto dell’orbita coinvolgono spesso il seno frontale, con conseguenti
epistassi, rinoliquorrea ed enfisema sottocutaneo, il nervo sopraorbitario, con anestesia
loco-regionale, ma soprattutto, il nervo ottico, per propagazione dell’energia del trauma
verso l’apice orbitario; raramente compare esoftalmo pulsante con gravi conseguenze
neurologiche, precoci e tardive.
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Le fratture della parete mediale dell’orbita, di solito associate a quelle delle ossa
nasali, possono determinare appiattimento di queste ultime (dish-face), allargamento
dell’orbita, dislocamento del bulbo, limitazione dei movimenti oculari ed alterazioni dei
margini palpebrali e delle vie lacrimali.
Le fratture della parete laterale, limitate al solo pilastro esterno, sono piuttosto rare,
ma facilmente diagnosticabili anche con la sola palpazione; spesso risultano asintoma-
tiche.
Le fratture laterali infero-esterne sono frequentemente fratture complesse, che
necessitano di interventi chirurgici correttivi, determinando dislocazione della regione
malare, appiattimento dello zigomo (specie nelle fratture tripartite), dislocazione della
palpebra inferiore e del canto esterno.
Le fratture isolate del pavimento dell’orbita e del bordo orbitario inferiore, talora
misconosciute, possono determinare enoftalmo e, in qualche caso, diplopia verticale ed
ipoestesia dell’emivolto corrispondente per lesione del nervo infraorbitario.
Le fratture dell’apice dell’orbita si associano per lo più a midriasi, marcata riduzione
del visus e ad alterazioni del fondo oculare.
Fratture di Le Fort
Le fratture di Le Fort si differenziano in tre classi a seconda delle direzione delle
linee di frattura e delle strutture interessate:
1. Frattura di Le Fort I (bassa o orizzontale): si estende dal setto nasale ai bordi
laterali dell’apertura piriforme, si dirige orizzontalmente al di sopra degli apici dentari,
incrocia sotto la sutura zigomatico-mascellare e attraversa la sutura sfeno-mascellare,
fino ad interrompere i processi pterigoidei dello sfenoide.
2. Frattura di Le Fort II (media o piramidale): origina dalla radice del naso, appena
al di sotto della sutura naso-frontale, attraversa i processi frontali dell’osso mascellare e
si dirige lateralmente e verso il basso attraverso le ossa lacrimali e il pavimento inferiore
dell’orbita, per riaffiorare in vicinanza del forame infraorbitario e, inferiormente,
attraverso la parete anteriore del seno mascellare; procede poi al di sotto dello zigomo,
attraverso la fessura pterigo-mascellare, per terminare sui processi pterigoidei dello
sfenoide.
3. Frattura di Le Fort III (alta, trasversale, o disgiunzione cranio-facciale): coin-
volge solitamente l’arco zigomatico ed è dovuta ad un trauma diretto sulla radice del
naso o sulla parte superiore dell’osso mascellare. Origina in prossimità delle suture
fronto-mascellare e naso-frontale, si estende posteriormente lungo la parete mediale
dell’orbita attraverso il solco naso-lacrimale e l’etmoide, prosegue lungo il pavimento
dell’orbita, la fessura orbitaria inferiore e continua superiormente e lateralmente
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
I valori sotto indicati sono relativi alla sola componente scheletrica con attendibile sintomatologia dolorosa
associata. Eventuali deficit correlati di altra natura devono essere valutati autonomamente.
Esiti di frattura del frontale con complicanza sinusitica 2-6%
Esiti di frattura dell’orbita
In caso di interessamento del pavimento o del tetto dell’orbita ci si orienta verso il valore 2-7%
massimo del range.
Esiti di frattura dell’arco zigomatico 2-5%
Esiti di frattura tipo Le Fort 6-15%
6.3. Rachide
6.3.a. Distorsione
(in alcuni casi dinamica) e una RM. Secondo Fielding-Hawkins (1977) queste fratture
sono di quattro tipi:
— tipo I: stabili, da trattare con collare per 6 settimane;
— tipo II: potenzialmente instabili, da immobilizzare con Halo per 6 settimane;
— tipo III e IV: molto instabili, da trattare chirurgicamente con riduzione e
fusione posteriore C1-C2.
Le fratture dell’atlante rappresentano il 10% delle lesioni scheletriche del rachide
cervicale e nel 50% dei casi si associano a fratture del dente dell’epistrofeo. Derivano
solitamente da una sollecitazione assiale sul vertice e causano raramente lesioni neuro-
logiche in ragione delle ampie dimensioni del canale a questo livello; la loro stabilità
dipende dall’integrità del legamento trasverso, la cui lacerazione può rendere necessaria
la stabilizzazione chirurgica.
La classificazione più utilizzata è quella di Jefferson, che distingue 6 tipi: 1) frattura
dell’arco posteriore; 2) frattura da scoppio, o di Jefferson; 3) frattura del massiccio
laterale; 4) frattura dell’arco anteriore; 5) frattura del tubercolo anteriore; 6) frattura dei
processi trasversi.
Le fratture isolate degli archi anteriore e posteriore, della massa laterale e del
processo trasverso dell’atlante sono generalmente stabili e possono essere trattate in
maniera conservativa mediante immobilizzazione esterna per 6-12 settimane.
Anche le fratture da scoppio coinvolgenti gli archi anteriore e posteriore, con
legamento trasverso intatto (masse laterali con sporgenza laterale combinata inferiore a
7 mm), sono considerate lesioni stabili e possono essere trattate mediante sistemi
d’immobilizzazione esterna; diversamente una traslazione combinata della massa late-
rale superiore a 7 mm è indicativa di una lesione del legamento traverso e, pertanto, di
una condizione di instabilità che necessita di trattamento chirurgico, consistente in
inserimento di viti nelle masse laterali (che consente la saldatura diretta delle fratture
senza sacrificare la motilità), o mediante fusione occipito-cervicale (che garantisce una
maggiore stabilità, ma con conseguente sacrificio delle escursioni articolari).
Le fratture del dente dell’epistrofeo si classificano in base al livello anatomico come:
— stabili: Tipo I — III, secondo Anderson-D’Alonzo, OBAV e Roy Camille;
— instabili: Tipo II, secondo Anderson-D’Alonzo, OBAR e HTAL e Roy Camille.
Il tipo I è raro e consiste in una piccola avulsione obliqua del terzo superiore
dell’odontoide; secondo alcuni Autori si tratterebbe, in realtà, di una dissociazione
atlanto-occipitale occulta di C1, anziché di una frattura; il trattamento è di tipo
conservativo mediante ortesi.
Le fatture di tipo II interessano il corpo del processo odontoide ed il loro
trattamento dipende dall’età del soggetto e dalle caratteristiche della frattura. Nei
soggetti anziani, l’immobilizzazione con Halo è scarsamente tollerata ed i risultati sono
di solito insoddisfacenti, per cui generalmente si opta per l’intervento di artrodesi
C1-C2; nei giovani con fratture non scomposte è indicato il trattamento incruento
(immobilizzazione con Halo), mentre in caso di fratture comminute, o quando non sia
possibile ottenere, o mantenere la riduzione, nonché in soggetti di età superiore a 50
anni deve essere presa in considerazione la sintesi mediante posizionamento di una vite
nella parte anteriore del dente per le fratture di tipo 2 minimamente comminute; negli
altri casi si ricorre alla stabilizzazione posteriore di C1-C2.
Le fratture di tipo III, cioè quelle che si estendono al corpo vertebrale, sono
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Frattura senza scomposizione di una faccetta articolare (frammento < 1 cm, massa laterale <
F1
40%)
F2 Frattura di una faccetta potenzialmente instabile (frammento > 1 cm, massa laterale > 40%)
Frattura della lamina e del peduncolo con dislocazione delle faccette articolari superiore ed
F3
inferiore
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Rachide dorso-lombare
Secondo la classificazione di Denis le lesioni fratturative del rachide dorso-lombare
si distinguono, sulla base dell’imaging, in lesioni minori e maggiori, a seconda che esse
si associno o meno ad instabilità.
Secondo Denis il rachide dorso-lombare è suddiviso in tre colonne:
— anteriore: comprende la metà anteriore del disco intervertebrale, del corpo della
vertebra, dell’anulus fibroso ed il legamento longitudinale anteriore;
— media: include la metà posteriore del disco, del corpo vertebrale compreso il
muro posteriore, dell’anulus fibroso ed il legamento longitudinale posteriore;
— posteriore: comprende l’arco posteriore con le interposte strutture legamentose
(legamenti sovraspinoso, interspinoso, le faccette articolari con le rispettive capsule e il
legamento giallo).
Le lesioni minori, che rappresentano circa il 15% del totale, non si associano ad
instabilità in fase acuta e comprendono le fratture dei processi trasverso e spinoso, della
lamina e della pars interarticularis.
Le lesioni maggiori si dividono in fratture da compressione, da scoppio, da
flessione-distrazione e fratture-lussazioni, con diversificato interessamento delle sud-
dette colonne.
Le lesioni da compressione sono definite come fratture della colonna anteriore, con
colonna centrale intatta mentre la colonna posteriore può risultare interrotta in ten-
sione, a seconda del grado di riduzione dell’altezza vertebrale anteriore (superiore al
50%).
Le fratture da scoppio si verificano come conseguenza di un carico assiale sulla
colonna anteriore e su quella centrale, portando alla divergenza dei peduncoli e alla
retropulsione dell’osso nel canale spinale.
La lesione da flessione-distrazione è definita come “lesione da cintura di sicurezza”,
con interessamento della colonna centrale e di quella posteriore, e, talvolta, con lesione
di quella anteriore, mediante meccanismo di tipo compressivo.
Le fratture-lussazioni che coinvolgono tutte le tre colonne con meccanismo com-
binato di compressione, tensione, rotazione e sollecitazioni trasversali si associano alla
massima incidenza di deficit neurologici e sono sempre instabili.
Altro sistema di classificazione correntemente utilizzato è la classificazione AO, che
individua tre gruppi principali sulla base del meccanismo lesionale:
— fratture di tipo A (da compressione);
— fratture di tipo B (da distrazione);
— fratture di tipo C (da torsione).
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Questi principali sono a loro volta suddivisi in 9 sottotipi sulla base della loro
morfologia, del danno osseo piuttosto che ligamentoso e della direzione della lussa-
zione:
faccette articolari e/o fratture delle lamine e dei processi spinosi. Quando è interessata
soltanto la colonna anteriore, come accade solitamente nell’anziano e se il grado di
compressione del corpo vertebrale è inferiore al 50%, le fratture sono stabili e
richiedono trattamento semplicemente sintomatico, mediante ortesi in iperestensione.
Il trattamento chirurgico è riservato alle fratture instabili, con riduzione di oltre il
50% dell’altezza anteriore della vertebra e con documentata progressione della defor-
mità nonostante il trattamento incruento.
In questo raggruppamento una menzione a parte meritano le fratture da scoppio,
caratterizzate da cedimento assiale di tipo compressivo delle colonne anteriore e media
e di tipo compressivo o distrattivo della colonna posteriore. Tali lesioni sono più comuni
al passaggio dorso-lombare in ragione della particolare mobilità di tale distretto.
Fratture senza deficit neurologico e con impegno del canale inferiore al 45%, possono
essere trattate con riposo e ortesi per 3 mesi; nei casi con maggiore impegno del canale
e pur in assenza di sintomi neurologici, è indicata la stabilizzazione chirurgica onde
prevenire una progressione della deformità. Fratture da scoppio con lesioni neurologi-
che necessitano di decompressione e stabilizzazione chirurgica, che possono risultare
utili per il recupero neurologico, ma se la lesione neurologica è completa (più frequen-
temente al tratto toracico), la decompressione non dà risultati migliori rispetto alla sola
stabilizzazione.
L’intervento deve essere effettuato in urgenza, possibilmente entro poche ore
dall’evento traumatico, anche se è impossibile prevedere con certezza quale sarà l’esito
neurologico.
Una compressione applicata lateralmente alla colonna può causare una lesione
simile a quella da flessione pura: il corpo vertebrale subisce un collasso asimmetrico sul
lato della flessione forzata ed un cedimento da trazione sul lato opposto; si tratta di
fratture tendenzialmente instabili per deformità sul piano coronale.
In caso di flessione — distrazione (lesione da cintura di sicurezza) la colonna
posteriore cede sotto l’azione distrattiva, con conseguenti riverberi sullo spazio discale
e/o il corpo vertebrale. Questa variante di sollecitazione in flessione può causare effetti
più gravi di una frattura a cuneo anteriore e ha maggiore probabilità di essere instabile.
Quando è interessato anche il piano osseo (frattura di Chance), ma senza coinvol-
gimento del disco, le possibilità di recupero sono discrete con immobilizzazione per 3
mesi. Qualora vi sia lacerazione legamentosa posteriore, o la lesione si estenda al disco,
la prognosi è sfavorevole ed è necessaria la stabilizzazione chirurgica.
Il meccanismo di flessione-rotazione porta al cedimento di tutte e tre le colonne e
genera fratture marcatamente instabili, con scompaginamento posteriore di faccette
articolari, capsule e strutture legamentose, fino alla lussazione del segmento vertebrale.
Nella maggior parte dei casi si associano lesioni neurologiche, per cui è necessaria la
stabilizzazione chirurgica.
La lesioni in estensione comportano il cedimento del legamento longitudinale e
anteriore e della porzione anteriore del disco; sono di solito stabili e si manifestano
spesso con fratture da strappamento del corpo vertebrale.
Sacro
Le fratture sacrali derivano per lo più da traumi ad alta energia e raramente si
verificano in maniera isolata. In base alla morfologia esse possono essere distinte in
verticali (le più comuni), trasverse od oblique; sono spesso associate a deficit radicolari,
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dal momento che le radici sacrali sono legate e vincolate all’interno dei tunnel ossei che
ne limitano la mobilità, per cui l’andamento della linea di frattura condiziona la
probabilità di un danno neurologico.
La classificazione di Denis divide il sacro in 3 zone:
— zona 1: si estende dall’ala sacrale al margine laterale del forame neurale. Le
fratture a questo livello rappresentano la tipologia più comune, hanno andamento
verticale od obliquo e determinano deficit neurologici nel 6% dei soggetti;
— zona 2: riguarda il neuroforame. Le fratture ivi localizzate rappresentano il 36%
delle fratture sacrali, sono verticali od oblique e determinano deficit neurologici nel
30% circa dei soggetti, pur con funzionalità intestinale e vescicale nella norma in quanto
monolaterali;
— zona 3: interessa la parte centrale del sacro e il canale. Le fratture a questo
livello sono le più rare, hanno decorso orizzontale o verticale e si associano a una
probabilità di deficit neurologico del 60% per coinvolgimento delle radici sacrali
bilaterali, con conseguenti disfunzioni intestinali, vescicali e sessuali.
Il trattamento delle fratture sacrali dipende dalla sede e dal tipo di frattura, dalla
presenza di inclusione delle strutture neurologiche, dall’integrità delle faccette L5-S1,
dall’associazione di fratture pelviche. In caso di frattura sacrale senza spostamento
verticale e dismetria degli arti è ragionevole il trattamento incruento, essendovi suffi-
ciente stabilità della frattura e dell’anello pelvico. In caso di fratture scomposte della
zona 1 e 2 è indicato l’intervento di fissazione, talvolta con necessità di decompressione
posteriore. Nelle lesioni fortemente instabili con importante comminuzione o lussa-
zione, o in quelle con compromissione dell’articolazione L5-S1, deve essere presa in
considerazione una fissazione spino-pelvica. Le lesioni della zona 3 implicano general-
mente una frattura pelvica a libro aperto, con diastasi anteriore e ampie fluttuazioni
posteriori della frattura sacrale, per cui il trattamento iniziale deve essere rivolto alla
ricomposizione dell’anello pelvico, se necessario mediante fissazione posteriore con viti.
Coccige
Il coccige ha morfologie estremamente difformi soprattutto per l’angolo di curva-
tura; si differenziano infatti quattro tipi proprio in base all’angolo di curvatura e alla
posizione del segmento cervicale (in basso o rivolto verso l’interno). Le lesioni del
coccige determinano una sintomatologia dolorosa di varia intensità, e possono compor-
tare anche stipsi e/o dispareunia nella donna, oltrechè squilibrio della postura, agevo-
lando fenomeni artropatici. Nei casi più gravi vi è la disarticolazione con sublussazione
dal sacro. L’individuazione radiografica può essere talvolta estremamente difficoltosa,
date le particolari caratteristiche morfologiche di questo segmento del rachide.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione delle menomazioni a carico del rachide tiene conto dell’entità del quadro clinico-
strumentale, nonché del livello interessato, riservando valutazioni più elevate per il distretto cervicale e per
quello lombare, in quanto di maggiore rilevanza funzionale.
Altro elemento di giudizio è rappresentato dalla tipologia e dell’efficacia dell’eventuale trattamento chirurgico.
Per quanto riguarda l’artrodesi, questa può essere effettuata da un minimo di 2 sino a 8-10 o più livelli, come
si verifica nelle correzioni delle gravi scoliosi dorso-lombari. A prescindere dal distretto anatomico
interessato, altri parametri valutativi sono rappresentati dalla presenza di deformità assiali o sagittali e da
eventuale interessamento radicolare accertato strumentalmente.
Le valutazioni più elevate devono essere riservate alle artrodesi interessanti le cerniere di passaggio fra i
distretti rachidei (occipito-cervicale, cervico-dorsale, dorso-lombare e lombo-sacrale) in quanto il loro
blocco limita maggiormente l’articolarità del tronco. Per il rachide dorsale la presenza di cifosi e di
sofferenza nervosa giustifica un aumento delle percentuali tabellari.
RACHIDE CERVICALE
Gli esiti di distorsione di Grado I WAD (soggettività dolorosa, in assenza di apprezzabile limitazione
funzionale) non sono percentualizzabili, pur essendo possibile il riconoscimento di un periodo di danno
biologico temporaneo nella fase di acuzie sintomatologica.
Esiti di distorsione di Grado II WAD: limitazione di almeno due escursioni articolari da
1-3%
1/4 a 1/3 e due o più trigger points positivi (muscoli lunghi e/o trapezio e/o SCM).
Esiti di distorsione di Grado III-IV WAD: limitazione di più di due escursioni articolari di
4-6%
oltre 1/2 e disturbi trofico-sensitivi radicolari strumentalmente accertati.
Esiti di frattura dell’atlante o del corpo dell’epistrofeo, senza necessità di stabilizzazione
5-12%
chirurgica, a seconda della sintomatologia dolorosa e della limitazione funzionale associata
Esiti di frattura del dente dell’epistrofeo
La valutazione deve essere effettuata sulla base della tipologia di frattura, della sintomato-
logia dolorosa e della limitazione della escursione articolare associata, nonché del tratta-
12-25%
mento chirurgico spesso necessario. Nel caso in cui la lesione non sia trattabile chirurgica-
mente, rendendo necessario l’utilizzo di un tutore esterno a permanenza, è attribuibile il
valore massimo del range indicato.
Esiti di frattura di una o più apofisi cervicali 2-6%
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Esiti di frattura vertebrale — Classe II: frattura di uno o più corpi vertebrali, con
compressione compresa tra il 50 e il 25%, con o senza retropulsione dell’osso, con o senza
9-15%
frattura peduncolare e/o dell’elemento posteriore e con rilevante sintomatologia dolorosa,
senza indicazione chirurgica.
Esiti di frattura vertebrale — Classe III: esiti di frattura di più corpi vertebrali, con
compressione superiore > 50%, con grave sintomatologia dolorosa, a seconda dei deficit 16-25%
trofico-sensitivi strumentalmente accertati, senza indicazione chirurgica.
Artrodesi dorso-lombare 15%
Artrodesi di 2-4 corpi vertebrali 12-20%
Artrodesi della colonna lombare in toto 25%
Artrodesi lombo-sacrale 15%
Patologia discale — Classe I: protrusione discale o esiti di erniectomia ad un livello con
2-5%
lieve deficit funzionale.
Patologia discale — Classe II: ernia discale o esiti di erniectomia a uno o più livelli, con
moderato quadro clinico disfunzionale, radicolopatia strumentalmente accertata e sintoma- 6-12%
tologia algica recidivante al distretto interessato.
Patologia discale — Classe III: ernia discale o esiti di erniectomia a uno o più livelli, con
grave quadro clinico disfunzionale, mielopatia sfumata o radicolopatia strumentalmente
13-20%
accertata e sintomatologia algica recidivante o continua al distretto interessato, scarsamente
responsiva alla terapia.
RACHIDE SACRALE
Esiti di frattura di uno o più corpi vertebrali, con evidente dismorfismo osseo, non trattata
3-5%
chirurgicamente
Esiti di frattura di uno o più corpi vertebrali, trattata chirurgicamente, o con lievi disturbi
6-10%
neurologici distrettuali
COCCIGE
Esiti di frattura con evidente dismorfismo osseo, o esiti di asportazione chirurgica, con
4-6%
persistente sintomatologia dolorosa
limitazioni del movimento della spalla. In molti casi queste fratture guariscono comun-
que con soddisfacente recupero funzionale, dopo un’immobilizzazione di circa 3
settimane.
Le fratture dello sterno possono consolidarsi con modalità ottimali, poco ininfluenti
sul piano funzionale, mentre in alcuni casi si può formare un callo deforme e dolente,
che può recare pregiudizio anche sul piano estetico. A seguito di sternotomia lo sterno
può assumere forma carenata con possibili riflessi negativi sulla espansibilità toracica e
marcato pregiudizio estetico. Il dolore è contenuto e più ricorre frequentemente nelle
fratture dell’appendice xifoidea.
Le fratture costali, allorché singole e non scomposte, il più delle volte guariscono
senza apprezzabili reliquati disfunzionali, ma solo con modiche algie incostanti. In caso
di interessamento costale multiplo, oltre alla sintomatologia dolorosa, possono coesi-
stere difficoltà respiratorie, correlate all’ipoespansibilità toracica su base antalgica.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Le valutazioni sono generalmente riferite agli esiti caratterizzati da attendibile sintomatologia dolorosa e
sfumata limitazione funzionale; laddove quest’ultima assuma maggior rilievo è necessaria una maggiorazione
del danno, così come per il pregiudizio estetico legato agli eventuali esiti cicatriziali chirurgici per la
stabilizzazione di fratture claveari.
Eventuali lesioni vascolari e/o nervose associate a fratture della clavicola devono essere valutate a parte,
facendo riferimento a quanto indicato nei relativi capitoli; per la pseudoartrosi si deve tener conto della
residua motilità preternaturale e della possibile evoluzione ulteriormente peggiorativa.
La valutazione degli esiti di una singola frattura costale è giustificata dall’evidenza radiologica di dismor-
fismo del profilo scheletrico.
Esiti di frattura della clavicola, consolidata con buon allineamento dei monconi e con
2-3%
moderata disfunzionalità antalgica
Esiti di frattura della clavicola, consolidata con callo dismorfico e/o sovrapposizione dei
4-5%
monconi, con moderata limitazione articolare, eventualmente osteosintetizzata
Esiti di frattura della clavicola evoluta in pseudoartrosi
La giustificazione prospettata va riservata a casi con moderata limitazione articolare della
spalla e sintomatologia algica. Ove il deficit articolare sia di notevole entità, come non 6% (d.)
raramente accade per la pseudoartrosi dell’estremo laterale, si deve superare il valore 5% (n.d.)
indicato tenendo conto anche delle indicazioni previste per le limitazioni funzionali di
questa articolazione.
Esiti di sublussazione/lussazione acromion-claveare
La diastasi dei capi articolari, con positività del segno del “tasto del pianoforte”, interrompe 1-5% (d.)
la continuità del cingolo scapolare determinando per lo più persistenti algie. In caso di 1-4% (n.d.)
“lussazione completa” ci si deve orientare verso il limite massimo del range.
Esiti di frattura composta extra-articolare della scapola, con moderata disfunzionalità
2%
antalgica dell’emicingolo
Esiti di lussazione sterno-claveare con moderata disfunzionalità antalgica 1-3%
Esiti di frattura dello sterno, con callo lievemente dismorfico e moderata disfunzionalità
antalgica
2-4%
In caso di deformazioni marcate la valutazione deve essere integrata sulla base del correlato
pregiudizio estetico.
Esiti di frattura dello sterno evoluta in pseudoartrosi 5-8%
Esiti di sternotomia o toracotomia, a seconda del deficit funzionale e del dismorfismo
5-8%
scheletrico
Esiti di frattura di una costa, con callo dismorfico e/o plausibile sintomatologia dolorosa
1-2%
distrettuale
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Esiti di fratture costali multiple (eventualmente protesizzabili) in relazione all’entità della
sintomatologia dolorosa distrettuale
La valutazione deve basarsi sul numero delle coste interessate, sull’intensità della sintoma- 3-10%
tologia algica e sulla eventuale deformazione della gabbia toracica. L’eventuale difficoltà
respiratoria deve essere valutata autonomamente.
6.5.a. Ernie
Ernie primarie
Si distinguono forme congenite, da deficitario completamento embrionario di una
parte della parete addominale, e acquisite, che insorgono in aree di debolezza della
stessa o spontaneamente, o in seguito a sforzi che aumentano la pressione endo-
addominale.
Per le forme acquisite, tra i fattori di rischio si annoverano: obesità; diabete; fumo;
assunzione di steroidi; gravidanza; patologie anche di natura genetica che determinano
indebolimento della parete addominale; età superiore a 65 anni; insufficienza respira-
toria cronica; rapido dimagrimento; malnutrizione; sforzi che determinano un aumento
della pressione intra-addominale (tosse, defecazione, sollevamento pesi, etc.); traumi
della parete addominale.
Per quanto riguarda le ernie addominali la European Hernia Society (EHS) ha
proposto una classificazione basata sui seguenti parametri:
— sede: mediale (ernie epigastriche e ombelicali); laterale (ernia di Spigelio e ernie
lombari);
— dimensione: piccola (< 2 cm); media (≥ 2 e < 4 cm); grande (≥ 4 cm); come
riferimento dimensionale, essendo solitamente l’ernia pressoché sferica si misura il
diametro, mentre nel caso di forme irregolari si misura l’asse maggiore.
Le ernie inguinali rappresentano la forma più frequente tra quelle primarie e
presentano i medesimi fattori di rischio indicati per le ernie della parete addominale; in
particolare sono più frequenti nei soggetti dediti ad intensa attività sportiva.
Sempre in base alla classificazione della EHS, le ernie inguinali si distinguono per:
— sede: laterale o indiretta; mediale o diretta; femorale o crurale;
— dimensioni dell’ernia a livello dell’orificio: piccola (≤ 2 cm); media (2-4 cm);
grande (≥ 4 cm);
— forma: primaria o ricorrente.
Qualora l’ernia inguinale assuma, nel maschio, dimensioni considerevoli arrivando
ad occupare tutto lo scroto e spingendolo verso il basso, viene definita “permagna”.
Tale definizione viene utilizzata anche per la sede addominale, qualora le dimensioni
dell’ernia siano imponenti.
Ernie secondarie
Ernie addominali post-incisionali (laparocele)
Le ernie post-incisionali (dette anche post-laparotomiche) hanno un’incidenza che
giunge approssimativamente fino al 20% nei soggetti che hanno subito una laparotomia.
L’incidenza aumenta in modo sensibile dopo una prima riparazione del laparocele e, in
maniera ancora maggiore, dopo ulteriori interventi chirurgici.
I fattori di rischio sono rappresentati da: sesso maschile, obesità, diabete mellito,
età superiore a 65 anni; utilizzo di steroidi; malnutrizione (albumina < 30 g/dl). Le
infezioni della ferita chirurgica, nonché le incisioni lungo la linea mediana (che sono
ortogonali rispetto alle linee di forza dell’attività contrattile dei muscoli addominali),
suturate con punti staccati rapidamente riassorbibili, sono anch’esse descritte come
rilevanti fattori di rischio di per sé o anche in associazione con quelli precedentemente
elencati. Non c’è invece evidenza che il posizionamento di drenaggio riduca lo sviluppo
di laparocele.
La classificazione proposta dalla EHS suddivide le ernie addominali post-
incisionali in base alla sede in mediali e laterali, tramite reperi anatomici.
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Ernie parastomali
Le ernie para-stomali sono rappresentate da un’anomala protrusione del contenuto
della cavità addominale attraverso uno iato della parete addominale, creato durante il
posizionamento di una colostomia, un’ileostomia o altri tipi di stomia.
La classificazione della EHS le suddivide in base ai seguenti parametri:
— dimensione: piccola (≤ 5 cm) o grande (> 5 cm), in base al diametro maggiore
dell’ernia a livello dell’orificio, misurato indifferentemente come altezza, larghezza o
diagonale;
— concomitante presenza di ernia incisionale;
— forma: primaria o ricorrente.
Ernie complicate
Sempre secondo la classificazione EHS, le caratteristiche che definiscono un’ernia
complicata sono:
a) Sede e dimensioni: è consigliabile l’esecuzione di una TC per definire forma
e localizzazione ed è raccomandata la misurazione intra-operatoria);
— larghezza superiore a 10 cm: aumenta il rischio di recidive;
— localizzazione prossima a strutture ossee: rende più difficile l’ancoraggio del
mesh, comportando un maggior rischio di recidiva;
— ernie para-stomali: sono considerate complicate per l’incertezza circa il migliore
trattamento, la morbidità associata e il rischio di recidiva;
— localizzazione lombare, laterale, sottocostale;
— perdita di domicilio: volume dell’ernia/volume della cavità peritoneale ≥ 20%
b) contaminazione della ferita operatoria e condizione dei tessuti molli:
— ferita chirurgica contaminata, o sporca/infetta (classe III e IV della U.S.
National Research Council Group);
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— alterate condizioni dei tessuti molli per: difetto di parete a tutto spessore;
perdita di sostanza dei tessuti mio-fasciali (es. per tumori, traumi, debridement);
sovvertimento anatomico (es. dopo interventi ripetuti); denervazione della muscolatura;
presenza di innesti cutanei; ulcerazione/non guarigione della ferita chirurgica; addome
aperto (burst); altre condizioni legate all’ernia che influiscono sui tessuti molli (onfalo-
cele, fascite necrotizzante); presenza di fistola entero-cutanea;
— storia clinica e fattori di rischio: recidiva dell’ernia dopo riparazione con mesh;
precedente infezione del mesh; precedente deiscenza della ferita chirurgica;
comorbidità/fattori di rischio legati al soggetto che influiscono sulla guarigione della
ferita o che determinano aumento della pressione intra-addominale (obesità, BPCO);
— situazione clinica: intervento chirurgico in emergenza, con necessità di rese-
zione intestinale; necessità di rimuovere il mesh intra-peritoneale precedentemente
posizionato (spesso vi sono aderenze, necessità di tempi operatori lunghi, rischio di
formazione di fistole e infezioni); difetti erniari multipli; impossibilità di eseguire una
chiusura primaria per sutura diretta.
Ognuna di queste caratteristiche ha un valore predittivo sull’insorgenza delle
complicanze, che varia al modificarsi di fattori, come di seguito descritto:
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Le ernie giungono solitamente all’attenzione medico-legale dopo essere state trattate chirurgicamente. Allo
stato attuale i risultati sono generalmente soddisfacenti e le recidive sporadiche, specie da che si utilizzano
mesh di ultima generazione ed accurati ancoraggi alla parete addominale.
Qualora ci si trovi a dover valutare un’ernia che non sia stata operata, o che sia recidivata, è necessario
tenere in considerazione la possibilità, o meno, di trattarla chirurgicamente.
In caso di “ernia non operabile” il giudizio di “non operabilità” — indicato da uno specialista — deve essere
espresso in riferimento alle condizioni anatomiche locali (dimensioni dell’ernia, localizzazione della stessa)
e cliniche generali, che devono essere tali da controindicare l’intervento chirurgico. Si tratta di situazioni
eccezionali, nelle quali la valutazione del danno deve essere necessariamente effettuata in maniera
individualizzata, sulla scorta dei parametri percentuali sotto riportati, incrementati proporzionalmente al
volume, alle complicanze in atto e/o prevedibili, alla funzionalità intestinale e ai disagi/disturbi specifica-
mente arrecati all’individuo nella quotidianità o nelle attività di maggiore impegno fisico, dipendentemente
dall’età.
La dizione “ernia operabile” invece indica i casi in cui il trattamento chirurgico è praticabile, ma il soggetto
non è intenzionato a sottoporvisi. Essendo le ernie per definizione fenomeni in evoluzione, vanno
considerate convenzionalmente stabilizzate nel momento in cui giungono all’attenzione medico-legale. La
valutazione deve essere effettuata tenendo conto dell’eventuale presenza di fattori che rendono l’ernia
“complicata”, utilizzando i parametri riportati alla voce “ernia non trattata”.
La valutazione delle ernie parastomali deve essere integrata con quella della stomia, per la cui quantifica-
zione si rimanda al capitolo 10.
Per quanto riguarda la valutazione del laparocele, le percentuali di seguito indicate devono essere integrate
con quelle derivanti dal pregiudizio estetico.
Esiti di ernioplastica in assenza di complicanze 2-3%
La valutazione deve essere effettuata sulla base del potenziale indebolimento della parete
addominale dovuto alla natura artificiale del ripristino della sua continuità. Se l’intervento
ha comportato la resezione di segmenti intestinali, o se persiste dolore locale da intrappo-
lamento di nervi nella cicatrice chirurgica, tali esiti devono essere valutati aggiuntivamente,
secondo quanto indicato nei relativi capitoli; ciò vale anche per il pregiudizio estetico
cicatriziale.
Ernia non trattata: la valutazione va espressa tenendo conto della sintomatologia e dell’in-
cidenza sulle attività della vita quotidiana, in particolare su quelle che comportano impegno
fisico, potendosi osservare condizioni che vanno da una frequente sensazione di discomfort
a livello del sito erniario, fino a condizioni in cui, per le grandi dimensioni dell’ernia, per la
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
sua irriducibilità, o per la presenza di altre complicanze, si verificano alterazioni delle
funzioni fisiologiche (transito intestinale e funzionalità respiratoria) ed i soggetti presentano
difficoltà nello svolgimento di atti che richiedono atti di forza, o sforzi fisici.
In caso di ernia “non operabile”, secondo la definizione illustrata in premessa, ci si deve
orientare sui livelli più elevati del range percentuale.
Forma lieve: presenza di lievi disturbi/disagi soggettivi, con moderata incidenza sulle 4-6%
funzioni intestinali e con limitazione delle attività che comportano maggiore impegno fisico.
Forma moderata: presenza di uno dei seguenti elementi: ernia ≥ 10 cm in larghezza; 7-10%
impossibilità di chiusura primaria; perdita di domicilio ≥ 20%; ernia para-stomale, lombare,
laterale o sub-costale; difetto di parete a tutto spessore; perdita di sostanza dei tessuti
mio-fasciali; sovvertimento anatomico; difetti erniari multipli; innesti cutanei; ferita opera-
toria ulcerata o che non guarisce; onfalocele; aumento della pressione addominale per
BPCO o obesità; storia di deiscenza della ferita/infezione del mesh; necessità di rimuovere
il mesh intra-peritoneale; intervento in emergenza di resezione intestinale, da valutare
aggiuntivamente.
Laparocele di dimensioni contenute, senza indicazione chirurgica 3-5%
Laparocele voluminoso non trattabile chirurgicamente:
— dimensione massima < 10 cm 6-10%
— dimensione massima > 10 cm 11-15%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per una diastasi dei muscoli retti di entità lieve (IRD < 3 cm) e non necessitante di trattamento chirurgico,
la valutazione deve essere effettuata essenzialmente sulla base dell’eventuale pregiudizio estetico, essendo
quello funzionale praticamente trascurabile.
Diastasi dei muscoli retti trattata chirurgicamente, a seconda dell’entità degli effetti 2-3%
disfunzionali
Il pregiudizio estetico cicatriziale è da valutarsi aggiuntivamente.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per le soluzione di continuo e gli ematomi della parete addominale, trattati chirurgicamente con successo,
la valutazione può essere effettuata in analogia con quanto indicato per gli esiti di ernioplastica.
In caso di ematoma della parete addominale non trattato la valutazione deve essere effettuata tenendo
conto delle dimensioni dello stesso e dell’eventuale presenza di segni di irritazione peritoneale. Nel caso di
ematomi di piccole dimensioni, trattati conservativamente ed esitati in un completo riassorbimento senza
influenza sull’integrità della parete, gli esiti non sono di norma suscettibili di quantificazione medico-legale.
6.6. Bacino
a sella dei genitali, della faccia posteriore della coscia e della gamba, del malleolo esterno
e della pianta del piede.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione è espressa in base alle ripercussioni sulla statica e sulla deambulazione, oltre che alla
sintomatologica algica ed alle modifiche dei diametri e delle coniugate.
I deficit di altre funzioni eventualmente concomitanti devono essere valutati aggiuntivamente.
Esiti di frattura extra-articolare del bacino, consolidata con buon allineamento dei mon- 3-5%
coni ma con plausibile sintomatologia dolorosa
Il riferimento è alla triade ileo-ischio-pube, con esclusione quindi del sacro e del coccige, per
i quali si rimanda a quanto indicato nel paragrafo dedicato al rachide.
L’orientamento all’interno del range deve essere effettuato basandosi sull’entità del callo
riparativo e sulle eventuali ripercussioni funzionali, di solito sfumate e incidenti sulla
protratta stazione eretta, sui passaggi posturali e sui movimenti complessi quali l’accovac-
ciamento, la deambulazione e la corsa.
La valutazione degli esiti di frattura del cotile ischiatico deve essere commisurata alla
limitazione funzionale della coxo-femorale.
Esiti di frattura extra-articolare del bacino, consolidata con residuo dismorfismo (disalli- 6-12%
neamento, accavallamento, dismetria)
Nel caso in cui si verifichi impotenza parturiendi si rimanda a quanto indicato nel capitolo
12.
Esiti di fratture/diastasi complesse, trattate chirurgicamente, con moderata disfunzionalità 15-20%
residua
In caso di fratture non suscettibili di trattamento chirurgico si fa riferimento al valore
massimo del range.
Diastasi della sinfisi pubica < 4 cm 3-8%
La valutazione deve essere formulata sulla base dell’entità della diastasi e dell’eventuale
compresenza di una diastasi, sia pur lieve, delle sacro-iliache.
Diastasi delle sacro-iliache 3-10%
La valutazione deve essere formulata sulla base della mono- o bilateralità, dell’entità e delle
ripercussioni disfunzionali.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per quanto riguarda condizioni peculiari del moncone di amputazione si rimanda al capitolo 5.
Perdita anatomica di entrambi gli arti superiori 85%
Perdita anatomica di entrambe le mani 80%
Perdita anatomica di un arto superiore, in rapporto alla possibilità di applicazione di 60-65% (d.)
protesi efficace 55-60%
Il riferimento proposto attiene alle amputazioni prossimali rispetto al gomito; per orientarsi (n.d.)
all’interno del range si deve tener conto del livello dell’amputazione e della tipologia del
moncone, nonché delle possibilità di posizionamento di protesi articolabile al gomito e,
quindi, di un qualche recupero, seppur parziale, delle funzioni dell’arto. Per le disartico-
lazioni di spalla è — per lo più — applicabile la percentuale massima.
Perdita anatomica dell’avambraccio, a livello compreso fra terzo prossimale e terzo distale, 50-55% (d.)
o perdita totale della mano, in rapporto alla possibilità di applicazione di protesi efficace 45-50%
La possibilità di applicare protesi funzionali cinematiche o ad energia esterna, solitamente (n.d.)
condizionata dalla tipologia del moncone, può consentire parziali recuperi della funzione
prensile.
Il gap tra il limite inferiore previsto per le amputazioni dell’intero arto (60 d.) e quello
superiore prospettato per le amputazioni di avambraccio (55 d.) sono confacenti a quei casi
in cui l’articolarità del gomito è notevolmente ridotta, con conseguente limitazione della
mobilità del dispositivo protesico, comportando condizioni di poco difforme rispetto alle
amputazioni dell’arto.
coinvolto sia in caso di patologia degenerativa, sia a seguito di traumi. Una lesione
parziale di tale tendine può determinare quadri clinici particolarmente dolorosi, a causa
dell’instaurazione di processi infiammatori, che lo rendono più sensibile alle forze di
trazione, specie in caso di conflitto sub-acromiale. D’altro canto, va considerato che la
lesione completa di tale tendine compromette la stabilizzazione della testa dell’omero
nell’elevazione-abduzione, esponendo così l’articolazione a progressivi fenomeni dege-
nerativi, sino all’omoartrosi, ed accompagnandosi a deficit articolari, specie in abdu-
zione, dipendentemente dal grado di compromissione della funzione stabilizzatrice.
Nei casi di patologia da conflitto, con degenerazione della cuffia ma in assenza di
lesioni apprezzabili all’esame clinico e strumentale, la chirurgia è volta al trattamento
delle cause dell’impingement e all’artrolisi; in questi casi si effettuano interventi mini-
invasivi di plastica acromiale, associati o meno a bursectomia ed a debridement della
cuffia, oppure ad acromion-plastica associata a resezione di minima dell’estremo
prossimale della clavicola.
Se la cuffia presenta una lesione l’intervento chirurgico è finalizzato alla correzione
della soluzione di continuo, con approcci diversi a seconda della sede, della profondità,
dell’estensione, e del grado dell’eventuale ipotrofia, o sostituzione adiposa del rispettivo
ventre muscolare: in altri termini la tecnica chirurgica, a differenza che nelle sindromi
dolorose da impingement senza lesioni tendinee, deve rimuovere all’un tempo le
condizioni di conflitto e riparare la cuffia. Sono disponibili attualmente diverse tecniche
chirurgiche prevalentemente per via artroscopica per la riparazione delle lesioni della
cuffia dei rotatori. Il risultato deve essere valutato ad una distanza temporale di almeno
3-6 mesi dall’intervento.
Nel caso di lesioni parziali della cuffia, per lo più del sovraspinoso, a seconda
dell’estensione e dello stato del tendine si potrà procedere o con un intervento di
“minima” (debridement e/o sutura della lesione), oppure, nel caso di lesioni coinvol-
genti più del 50% del tendine, con tenotomia e ancoraggio del moncone sul trochite,
previo confezionamento di trincea ossea, con fissazione a mezzo di punti di sutura, o
ancorette metalliche. Quest’ultimo intervento è quasi sempre accompagnato da rese-
zioni più o meno importanti dell’acromion e da bursectomia. Si tratta di una tecnica più
demolitiva e soggetta ad un certo tasso di complicanze (capsuliti adesive secondarie),
con rischio di recidiva della rottura, in ragione del ripristino necessariamente artificiale
dell’inserzione, oltre che dello stato del tendine. In presenza di lesioni massive della
cuffia, non riparabili con ricostruzione e sutura trans-ossea, in casi selezionati si può
effettuare un intervento di trasposizione muscolare, utilizzando il muscolo gran dorsale,
che comporta peraltro il sovvertimento della configurazione anatomica. Quando le
lesioni massive della cuffia, cronicizzando, portano ad una risalita della testa omerale e
allo sviluppo di artrosi gleno-omerale, con severa limitazione funzionale della spalla, si
parla di “artropatia da cuffia”, per la quale l’unica soluzione è l’impianto di una protesi
inversa; infatti, per il suo funzionamento tale protesi prescinde totalmente dalle funzioni
della cuffia dei rotatori, basandosi alla validità del deltoide. Si tratta di un intervento di
naturale rilevanza, perchè non prevede ulteriori possibilità terapeutiche.
Le instabilità post-traumatiche della spalla possono conseguire a lesioni delle
strutture capsulo-legamentose, o ad episodi lussativi. La diagnostica strumentale (eco-
grafia, TC, RM) consente di definire esattamente la realtà anatomo-patologica. Dopo il
primo episodio di lussazione il trattamento è conservativo e si avvale di riduzione ed
immobilizzazione in bendaggio per circa 4 settimane; nel caso in cui l’instabilità persista,
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione deve basarsi sulla tipologia e sulla gravità della lesione, sul grado di tono-trofismo muscolare
e sull’entità della limitazione funzionale.
In caso di trattamento chirurgico la valutazione degli esiti deve tener conto del tipo di trattamento eseguito
e dell’entità del deficit articolare residuato, riservando percentuali minori agli interventi mini-invasivi di
plastica acromiale, associati o meno a bursectomia e a debridement della cuffia (indicati per patologia da
conflitto in assenza di franche lesioni tendinee), poiché in tali casi l’anatomia articolare gleno-omerale non
viene interessata e la capsula non viene incisa.
I parametri di riferimento per la valutazione degli esiti del trattamento protesico sono i seguenti:
caratteristiche della protesi (cementata, non cementata, inversa), dolore, grado di stabilità protesica, motilità
articolare attiva e forza, valutata in base alla scala MRC (per la cui consultazione si rimanda al capitolo 2).
Altri elementi da considerare sono rappresentati dall’eventuale sacrificio del tendine del capo lungo del
bicipite brachiale, dall’escursione dei movimenti passivi e dalle caratteristiche del loro arresto (elastico o
rigido), dallo stato della cuffia dei rotatori, dalla mio-ipotonotrofia e dalle ipoestesie regionali. Basilare
supporto alla valutazione è l’imaging, che fornisce dati molto utili per la definizione della situazione
anatomica e delle possibili evoluzioni del quadro sulla base della presenza, o meno, di calcificazioni
periarticolari, di scollamenti periprotesici, di eventuali incongruenze articolari.
Per la valutazione degli esiti delle protesi di spalla si deve inoltre tener conto che la protesi inversa, imponendo
un’ampia demolizione delle strutture osteo-articolari, merita percentuali piuttosto elevate, anche in considerazione
del fatto che, ove si prospettasse la necessità di un reimpianto, l’intervento sarebbe più difficoltoso e con minor
possibilità di esito positivo, stante la demolizione anatomica precedentemente attuata.
Anchilosi della scapolo-omerale in posizione favorevole (arto addotto al fianco ed 30% (d.)
elevato fra 20° e 40°) con associata perdita del movimento della scapolo-toracica 28% (n.d.)
Vi è l’impossibilità della presa di oggetti in posizione elevata, con preclusione o drastica
compromissione di molti atti della vita quotidiana.
Anchilosi della scapolo-omerale in posizione favorevole (arto abdotto fra 20° e 50°), 25% (d.)
senza limitazione della scapolo-toracica 23% (n.d.)
La possibilità di mobilizzare la scapolo-toracica consente una maggiore mobilità del-
l’arto nello spazio rispetto a quadro precedente.
Limitazione del movimento di abduzione-elevazione della scapolo-omerale con escur- 20% (d.)
sione possibile sino a 45° 18% (n.d.)
Limitazione del movimento di abduzione-elevazione della scapolo-omerale con escur- 12% (d.)
sione possibile sino a 90° 10% (n.d.)
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Perdita del solo movimento di rotazione della scapolo-omerale 8% (d.)
7% (n.d.)
Escursione articolare della scapolo-omerale limitata globalmente di circa la metà 15% (d.)
(elevazione ed abduzione possibili sino a 90°, rotazioni possibili per metà, senza 13% (n.d.)
limitazione della scapolo-toracica)
Tale condizione consente un discreto utilizzo dell’arto nella quotidianità, essendo l’articolarità
praticata con un’elevazione intorno ai 90° e con un’abduzione intorno ai 45°.
Escursione articolare della scapolo-omerale limitata globalmente di circa un terzo 9% (d.)
(elevazione possibile per 110°, abduzione per 90° e rotazioni per due terzi). 8% (n.d.)
I disagi nella quotidianità sono connessi con i movimenti compensatori cui sono
sottoposte le articolazioni vicine, che, con funzione vicaria, consentono il compimento
di gran parte degli atti della vita quotidiana.
Instabilità di spalla di grado lieve, accertata clinicamente e strumentalmente 5-9%(d.)
4-8%(n.d.)
Instabilità di spalla di grado moderato-grave, accertata clinicamente e strumentalmente 10 — 15%(d.)
9-13%(n.d.)
Esiti di lussazione scapolo-omerale, con moderata disfunzionalità antalgica 1-4% (d.)
1-3% (n.d.)
Esiti di lesione isolata del tendine sovraspinoso, non trattata chirurgicamente 2-5% (d.)
La percentuale minima del range è assegnabile alle lesioni parcellari ben cicatrizzate. 1-4% (n.d.)
Esiti di lesione isolata del tendine sottoscapolare non trattata chirurgicamente 1-3% (d.)
La lesione comporta essenzialmente un deficit nella intrarotazione, di minor incidenza 1-2% (n.d.)
invalidante rispetto al quadro precedente.
Esiti di lesione di due o più tendini, tra i quali il sovraspinoso, non trattate chirurgi- 4-8% (d.)
camente 3-7% (n.d.)
La percentuale massima deve essere attribuita in caso di lesioni complesse. Vi si deve
aggiungere la percentuale relativa alla limitazione articolare, sino al valore previsto per
l’anchilosi, in caso di abolizione della articolarità.
Esiti di bursectomia semplice 2%
Esiti di acromionplastica avanzata; sezione del legamento coraco — omerale 3-4% (d.)
2-3% (n.d.)
Esiti di lesioni tendinee della cuffia dei rotatori trattate chirurgicamente 7-10% (d.)
Le percentuali sono prospettate in caso di lieve deficit articolare e fanno riferimento agli 6-9% (n.d.)
esiti di acromionplastica e bursectomia.
Qualora l’intervento chirurgico abbia comportato la tenotomia del capo lungo del
bicipite, variante chirurgica volta a stabilizzare il tendine spesso degenerato e fonte di
dolore, in assenza di importanti deficit flessori dell’avambraccio, la valutazione può
giungere al valore massimo del range. Nel caso di esiti di interventi di trasposizione
muscolare per lesioni massive della cuffia dei rotatori, non riparabili con ricostruzione
standard e sutura trans-ossea, la valutazione deve essere almeno del 10% da integrarsi
con la percentualizzazione del deficit articolare residuo.
Esiti di lesione di uno dei tendini del muscolo bicipite brachiale non trattata chirur- 7-12% (d.)
gicamente 6-10% (n.d.)
Le percentuali maggiori vanno riservate ai casi di lesione totale del tendine distale.
Esiti di lesione del tendine distale del muscolo bicipite brachiale trattata chirurgica- 5-10% (d.)
mente 4-9%(n.d.)
Questo tipo di lesione altera gravemente la flessione del gomito, per cui si impone
solitamente il trattamento chirurgico.
Esiti di lesione di uno dei tendini prossimali del muscolo bicipite brachiale trattata 4-7% (d.)
chirurgicamente 3-6% (n.d.)
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La rottura del tendine del capo lungo determina, oltre ad una minore stabilità della
spalla, ipostenia nel movimento d’elevazione del braccio e di flessione del gomito e
deformazione del ventre muscolare, con conseguente inestetismo.
Esiti di frattura diafisaria dell’omero, con lievissima limitazione funzionale, callo osseo 4-6% (d.)
esuberante, moderato accorciamento e deviazione dell’asse 3-5% (n.d.)
Esiti di frattura diafisaria dell’omero trattata chirurgicamente, con persistenza dei 6-8% (d.)
mezzi di sintesi e moderata limitazione funzionale 5-7% (n.d.)
Esiti di frattura diafisaria dell’omero evoluta pseudoartrosi 12-15%(d.)
La valutazione va graduata in base alla gravità del quadro clinico, del substrato 10-13% (n.d.)
anatomo-patologico e dell’efficacia del tutore ortopedico ove utilizzabile.
Protesi di spalla — Classe I 15-20% (d.)
Elevazione > 100°, abduzione > 90°, rotazione esterna ad arto addotto > 30°, movi- 13-18% (n.d.)
mento combinato di rotazione interna e adduzione con mano che raggiunge il passaggio
dorso-lombare. Dolore assente o saltuario, ben controllato con terapia medica. Movi-
mento completo contro gravità e contro massima resistenza (F 5-normale). All’esame
radiografico: protesi ben posizionata, assenza di calcificazioni.
Protesi di spalla — Classe II 21-25% (d.)
Elevazione possibile sino a 100°, abduzione sino a 90°, rotazione esterna ad arto addotto 19-23% (n.d.)
sino a 30°, movimento combinato di rotazione interna e adduzione con mano che
raggiunge il passaggio lombosacrale. Dolore frequente, con discreta risposta farmaco-
logica. Movimento completo contro gravità e contro lieve resistenza (F4-buona).
All’esame radiografico: presenza di modeste calcificazioni dei tessuti molli ed eventuale
incongruità articolare.
Protesi di spalla — Classe III 26-30% (d.)
Elevazione < 100° ma > 30°, abduzione fra i 30° e 90°, rotazione esterna ad arto addotto 24-28% (n.d.)
compresa fra i 5° ed i 30°, rotazione interna solo accennata. Dolore pressoché costante
con scarsa risposta al trattamento farmacologico. Movimento completo contro gravità
(F3-modesta). All’esame radiografico: protesi mal posizionata, scollamenti periprotesici,
calcificazioni dei tessuti molli.
frequente impiego al fine di evitare la valgizzazione del gomito, ottenere una buona
stabilità articolare e un soddisfacente recupero funzionale.
Le anchilosi del gomito in posizione sfavorevole sono estremamente rare, essendo
limitate ai casi in cui vi sia impossibilità ad intervenire chirurgicamente per bloccare
l’articolazione in una posizione favorevole, ovvero per applicare una protesi.
Anche le pseudoartrosi delle ossa dell’avambraccio sono evenienze ormai rare,
potendo essere trattate con osteosintesi, salvo i rari casi in cui condizioni cliniche
sistemiche e/o locali controindichino l’intervento chirurgico.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Le valutazioni prospettate per le anchilosi di gomito in massima estensione o flessione trovano motivazione
pressoché esclusivamente quali parametri di riferimento valutativo, in quanto, salvo eccezionali casi di
inoperabilità, si tende quanto meno a fissare chirurgicamente l’articolazione in posizione favorevole.
Anchilosi del gomito in massima flessione con prono-supinazione libera 28% (d.)
26% (n.d.)
Anchilosi del gomito in massima estensione con prono-supinazione libera 24% (d.)
22% (n.d.)
Anchilosi del gomito in posizione favorevole (80-100° di flessione) con prono- 18% (d.)
supinazione libera 16% (n.d.)
Anchilosi della prono-supinazione in posizione sfavorevole (massima supinazione) 14% (d.)
Comporta una notevole compromissione della funzione prensile, per la difficoltà di 12% (n.d.)
posizionare correttamente la mano nello spazio.
Anchilosi della prono-supinazione in posizione favorevole (20° di pronazione) 10% (d.)
Compromette l’esecuzione di numerosi movimenti che richiedono le rotazioni del- 9% (n.d.)
l’avambraccio.
Limitazione del movimento di flesso-estensione con escursione possibile per 40° con 12-16% (d.)
prono-supinazione libera 10-14% (n.d.)
Il valore massimo è attribuibile alle condizioni in cui il movimento è consentito in range
non favorevole (160°-120°).
Limitazione del movimento di flesso-estensione con escursione possibile per 90° (da 8% (d.)
180° a 90°) con prono-supinazione libera 7% (n.d.)
I 90° di escursione flessoria consentono una sufficiente funzionalità dell’arto.
Limitazione del movimento di flesso-estensione con escursione possibile per 120° in 4% (d.)
range favorevole (170°-50°) con prono-supinazione libera 3% (n.d.)
Esiti di frattura diafisaria del radio o dell’ulna, a seconda del dismorfismo del callo 2-4% (d.)
osseo, in assenza o con lieve limitazione funzionale delle contigue articolazioni 1-3% (n.d.)
Esiti di frattura diafisaria biossea dell’avambraccio, a seconda del dismorfismo del 5-7% (d.)
callo osseo, in assenza o con lieve limitazione funzionale delle contigue articolazioni 4-6% (n.d.)
Esiti di frattura diafisaria del radio e/o dell’ulna, trattata chirurgicamente, con persi- 6-8% (d.)
stenza dei mezzi di sintesi e lieve limitazione funzionale delle contigue articolazioni 5-7%(n.d.)
Esiti in pseudoartrosi di frattura del radio o dell’ulna, a seconda del dismorfismo osseo 7-12% (d.)
residuo e dell’efficacia del tutore ortopedico, ove utilizzabile 6-10% (n.d.)
Esiti in pseudoartrosi di frattura diafisaria biossea dell’avambraccio, a seconda del 12-15% (d.)
dismorfismo osseo residuo e dell’efficacia del tutore ortopedico, ove utilizzabile 10-13% (n.d.)
Esiti di capitellectomia 7% (d.)
6% (n.d.)
Protesi di capitello radiale 4-7% (d.)
La valutazione deve tener conto della completezza dell’osteo-integrazione, della con- 3-6% (n.d.)
servazione dell’asse e dell’eventuale presenza di calcificazioni satelliti.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 354 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
specie nel sollevamento e nella presa di oggetti, e che comporta deformità e riduzione
articolare del polso.
Le fratture isolate del semilunare sono spesso associate ad altre fratture e lussazioni
e coinvolgendo non raramente le arterie nutritizie palmari; in caso di frattura trans-
articolare verticale del corpo può comparire la malattia di Kienböck che, come noto,
non presuppone necessariamente un evento traumatico a monte, ma può essere l’esito
di poli-micro-traumatismi, oppure avere origine idiopatica (es.: la condizione di “ulna
minus”, nella quale vi è una dismetria dell’ulna rispetto al radio). L’osteonecrosi
favorisce la frammentazione ossea, che non deve essere confusa con una frattura. La
lesione più frequente che riguarda il semilunare è la lussazione, che può essere
facilmente ridotta manualmente nelle prime ore dal trauma, mentre con il passare del
tempo si rende spesso necessaria la riduzione chirurgica, che comporta un maggior
rischio di crisi vascolare con conseguente m. di Kienböck: questo tipo di osteonecrosi
può verificarsi comunque anche dopo trattamento incruento.
Le fratture del trapezio guariscono con risultati piuttosto insoddisfacenti nel 60%
dei casi, per la possibile rottura del legamento trasverso del carpo.
La frattura isolata del trapezoide rappresenta un’evenienza molto rara, come pure la
lussazione pura, essendo quest’osso più frequentemente coinvolto nelle fratture com-
plesse del carpo. Solitamente si ha una stabilizzazione in pseudoartrosi, o con incon-
gruità articolare e conseguente dolore e riduzione della forza di torsione contrastata.
La frattura del capitato deriva per lo più da caduta sul palmo della mano e si associa
solitamente a frattura dello scafoide; rimane spesso misconosciuta e frequentemente
arriva a guarigione spontanea.
La frattura dell’uncinato è di difficile diagnosi (perché spesso composta) ed è per lo
più associata a frattura della base del IV o del V metacarpo. Può provocare, sia pur di
rado, anche una paralisi del nervo ulnare e pure lesioni tendinee, talora secondarie a
pseudoartrosi.
La frattura del piramidale è spesso associata a fratture lussazioni perilunari del
carpo.
Il pisiforme è un osso sesamoide incluso nel tendine del flessore ulnare del carpo;
di conseguenza non può essere ricompreso esattamente tra le ossa della filiera carpale
prossimale. La frattura, conseguente ad una compressione in regione ipotenare, se
responsabile di sindrome algica può rendere necessaria la sua asportazione: tale
condizione espone maggiormente a traumi l’arteria e il nervo ulnare, che qualora
ipersollecitati nel tempo, possono sviluppare neuropatie o danni arteriosi, configurando
così la hypotenar hammer syndrome.
L’instabilità della radio-ulnare distale consegue generalmente ad una frattura della
diafisi radiale, con concomitante lussazione dell’epifisi distale dell’ulna e rottura del
legamento triangolare.
L’instabilità della radio-carpica deriva dall’interessamento dei legamenti estrinseci
del polso (radio-scafoideo e radio-ulno-piramidale).
L’instabilità carpale da lesione dei legamenti intrinseci scafo-lunato e luno-
piramidale, anche isolate e non sempre associate a lesioni dei legamenti estrinseci, deriva
da traumi per caduta con polso in estensione, o da flogosi, tumori o lassità congenite.
Il deficit funzionale si associa ad artralgia e riduzione della, forza prensile con difficoltà
nel sollevamento di oggetti pesanti, o nell’effettuazione di prese contrastate.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 357 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
L’attribuzione di una minor percentuale alla perdita bilaterale degli arti inferiori rispetto a quella assegnata
agli arti superiori e, correlativamente, alle altre menomazioni comportate dalle perdite anatomiche a vari
livelli, trova la sua ragione d’essere oltre che nella maggiore valenza della funzione prensile, anche nel fatto
che la protesizzazione degli arti inferiori, spesso efficace, garantisce un recupero funzionale migliore rispetto
a quello che può essere ottenuto per gli arti superiori, sia pure tenuto conto dell’efficacia delle protesi di
ultima generazione, che riescono comunque a cavalcare le molteplici funzioni proprie dell’arto superiore.
Per maggiori particolari sulle protesi si veda il capitolo IX della Parte Generale.
Il limite superiore del range deve essere riconosciuto allorché la conformazione del moncone o l’altezza
dell’amputazione non consentano il posizionamento di una protesi funzionalmente utile.
Per quanto riguarda condizioni peculiari del moncone di amputazione si rimanda al capitolo 5.
Perdita anatomica di entrambi gli arti inferiori a qualsiasi livello di coscia, in rapporto alla 65-80%
possibilità di applicazione di protesi efficace
NOMELAV: 15/21199 PAG: 362 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Nonostante la possibilità di utilizzo di protesi sempre più efficaci, questa menomazione
rende necessario il ricorso ad appoggio sia nei cambi posturali che nella deambulazione.
Perdita anatomica di un arto inferiore a qualsiasi livello di coscia, in rapporto alla 45-60%
possibilità di applicazione di protesi efficace
Perdita anatomica di entrambe le gambe a qualsiasi livello, in rapporto alla possibilità di 50-60%
applicazione di protesi efficace
Perdita anatomica di una gamba a qualsiasi livello, in rapporto alla possibilità di applica- 35-50%
zione di protesi efficace
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Anchilosi dell’anca in posizione sfavorevole (flessione < 25° o > 40°) 35-40%
Nell’ambito di tali range l’anchilosi è considerata in posizione sfavorevole, in quanto l’anca
in estensione pressoché completa (tra 0° e 25°) impone un movimento di rotazione-
elevazione dell’emibacino nella deambulazione; in flessione > 40° non è invece possibile
caricare congruamente sull’arto inferiore.
Nelle femmine in età fertile le percentuali devono essere maggiorate per l’impossibilità di
partorire per via naturale, condizione per la quale si rimanda al Capitolo 12.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 363 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Anchilosi dell’anca in posizione favorevole (flessione fra 25° e 40°) 30%
Limitazione del movimento di flessione dell’anca con escursione articolare possibile fino 11-20%
a 90°, associata a deficit degli altri movimenti
Limitazione del movimento di flessione dell’anca con escursione articolare possibile oltre 5-15%
90°, associata a deficit degli altri movimenti
Limitazione del movimento di flessione dell’anca con escursione articolare possibile fino 10%
a 90°, senza deficit degli altri movimenti
Esiti di frattura diafisaria del femore, con dolore e limitazione funzionale di grado lieve 4%
Esiti di frattura diafisaria del femore, trattata chirurgicamente, con persistenza dei mezzi 5-7%
di sintesi
Esiti in pseudoartrosi di frattura diafisaria del femore 15-20%
La valutazione deve essere graduata in base all’entità del substrato anatomo-patologico ed
alla possibilità di avvalersi di tutore ortopedico per deambulare in maniera sufficientemente
utile.
Protesi d’anca
Per la valutazione degli esiti di artroprotesi si deve tener conto soprattutto dell’età in cui
viene applicato il dispositivo, oltre che del recupero funzionale ottenuto, della prevedibile
durata del materiale, nonché delle eventuali dismetrie e del possibile dolore sotto carico.
La riprotesizzazione è gravata da maggiori tassi di insuccesso e da una minore durata della
vita della protesi, giustificando quindi un aumento della percentualizzazione.
Protesi d’anca — Classe I 15-18%
Pressoché completo recupero dell’ampiezza dei movimenti, in assenza di dolore e di
dismetria, con tono-trofismo muscolare conservato.
Protesi d’anca — Classe II 19-25%
Dolore sensibile ai farmaci, moderati deficit articolari con limitazione dell’autonomia
deambulatoria, lieve ipotrofia muscolare, eterometria < 3 cm, osteoporosi ed artrosi
controlaterale.
Protesi d’anca — Classe III 26-30%
Dolore costante e relativamente sensibile ai farmaci, articolarità alquanto ridotta; limitazione
marcata dell’autonomia, eterometria > 3 cm, ipotrofia muscolare marcata, osteoporosi,
artrosi controlaterale.
Protesi d’anca — Classe IV 31-45%
Grave coxalgia, malposizionamento/instabilità della protesi con impossibilità di protesizza-
zione, articolarità altamente limitata, eterometria > 5 cm, anomala rotazione dell’arto, grave
sofferenza scheletrica.
collaborazione da parte dell’esaminato; con essi si può avvertire un punto d’arresto, che
corrisponde ad una possibile lesione parziale, mentre con la “scomparsa” del legamento
il punto d’arresto è meno definito ed è più morbido.
Tutto ciò premesso, al termine dell’esame obiettivo, dovendo quantificare l’entità
della compromissione anatomo-funzionale, gli elementi basilari di giudizio sono: l’iden-
tificazione dell’entità della lesione anatomica osteo-cartilaginea e/o capsulo-legamentosa
isolata o combinata, sulla base degli accertamenti strumentali (esame radiografico
standard, preferibilmente in carico, con comparativa, ecografia, TC, RM); il rilievo
clinico dell’ampiezza dei movimenti e della lassità, che si può qualificare, in relazione
alla positività dei test, in 1+, 2+, 3+ (tale quantificazione ha natura intrinsecamente
soggettiva, derivando da una percezione semeiotica propria dell’esaminatore), definita
in comparazione con l’arto controlaterale.
Per le lesioni legamentose, l’analisi dei dati strumentali (lesione parziale, subtotale
e totale) e il rilievo clinico (1+, 2+, 3+) sono atti a condurre all’inquadramento delle
lesioni come singole o come associate, secondo il seguente score: lievi (1°grado), medie
(2°grado) e gravi (3°grado).
Le lesioni legamentose possono essere isolate o combinate.
Le rotture isolate del legamento crociato anteriore (LCA) possono essere distinte in
parziali, subtotali e totali e determinano generalmente sensazione anche soggettiva di
instabilità. Alcuni individui, di solito quelli con ridotte richieste funzionali e con lesioni
isolate, non avvertono tale sensazione e ritornano alle normali attività, anche fisiche,
senza bisogno di ricostruzione; altri invece, specie con elevate esigenze fisiche, neces-
sitano di intervento di ricostruzione.
Diverse casistiche dimostrano come la lesione del LCA non trattata chirurgica-
mente comporti, dopo 35 anni circa, un’artrosi radiologicamente evidente nella quasi
totalità dei soggetti, con un rischio complessivo maggiore di protesizzazione totale di
ginocchio, specie nei casi in cui siano associate altre lesioni legamentose, meniscali,
cartilaginee, oppure un disallineamento, con ginocchio varo, o valgo. Argomento
dibattuto e controverso è il potenziale artrosico delle ricostruzioni legamentose: invero
tale intervento è per sua natura artrogeno, specie se associato a meniscectomia. Va
inoltre sottolineato che la ricostruzione del LCA avviene solitamente con l’utilizzo di
strutture anatomiche para-articolari (tendine rotuleo o tendini prelevati dalla zampa
d’oca); anche in caso di buon compenso, ciò comporta sempre un indebolimento
anatomo-strutturale dei predetti tendini.
La rottura del legamento crociato posteriore (LCP) ha senza dubbio minor fre-
quenza rispetto a quella del LCA; inoltre, l’instabilità posteriore che ne deriva viene
meglio tollerata rispetto a quella anteriore.
Nella valutazione dei legamenti collaterali, più che in altri distretti anatomici,
bisogna tener conto del morfotipo del ginocchio (varo/valgo), ed effettuare sempre la
comparazione con il controlaterale. Il legamento collaterale mediale è un legamento di
tipo nastriforme con alta potenzialità riparativa; la sua rottura completa è rara e, quando
si verifica, genera una lassità in valgo mal tollerata. In caso di rottura del legamento
collaterale laterale si determina una lassità in varo, anch’essa mal tollerata in caso di
lesione totale.
È nota l’importanza dei menischi nel ridurre l’attrito tra le superfici articolari, nel
nutrimento della cartilagine e nella stabilizzazione del ginocchio. Dopo meniscectomia
vi è un alto il rischio di sviluppare artrosi nel corso degli anni, pertanto la preservazione
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dei menischi è diventata comune nella pratica ortopedica almeno quando il quadro
anatomo-patologico lo permette.
Le fratture di ginocchio possono compromettere due elementi essenziali per la sua
corretta funzionalità: l’allineamento e la congruenza articolare. Quando entrambi sono
alterati il rischio di sviluppare un’artrosi post-traumatica, con necessità di successivo
impianto protesico, è almeno 5 volte maggiore rispetto alla popolazione generale e
l’incidenza è da rapportarsi all’entità della deviazione e dell’incongruenza articolare.
Le fratture articolari possono compromettere entrambi gli elementi, mentre quelle
extra-articolari comportano prevalentemente un alterato allineamento dell’arto infe-
riore.
Un’annotazione particolare meritano le protesi totali di ginocchio (PTG), che
rappresentano spesso l’ultima soluzione per il trattamento dell’artrosi terminale e di
complesse realtà patologiche post-traumatiche, o degenerative. Allo stato, i risultati
sono buoni nell’80% dei casi, tuttavia nel 20% dei casi persiste il dolore, la cui
individuazione e mitigazione farmacologica e chirurgica non è sempre possibile. La
molteplicità delle possibili tecniche di protesizzazione porta a “neorealtà” anatomo-
funzionali tra loro difformi per entità del tessuto asportato, recupero funzionale,
possibilità di reintervento.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
I parametri per la valutazione del danno sono rappresentati dall’entità delle lesioni meniscale e/o
osteo-cartilaginea e/o capsulo-legamentosa isolate o combinate, dall’ampiezza dei movimenti articolari e dal
grado di lassità.
Nel caso in cui la valutazione sia effettuata dopo trattamento chirurgico, oltre i predetti elementi desumibili
dai riscontri strumentali e clinici, il giudizio deve essere formulato anche in riferimento a descrizione
dell’atto operatorio, rimaneggiamento anatomico dovuto all’utilizzo di tendini e mezzi di sintesi, esiti
cicatriziali, potenziale artrosico dell’assetto anatomico post-operatorio.
Anchilosi del ginocchio tra 175° e 180° 25%
Limitazione del movimento di flessione con escursione articolare possibile tra 180° e 135° 21-24%
Limitazione del movimento di flessione con arresto tra 135° e 90° ed estensione completa 10-20%
Limitazione del movimento di flessione con escursione articolare possibile oltre i 90° ed 2-9%
estensione completa
Limitazione del movimento di estensione con escursione articolare possibile fino a 175° e 3%
flessione completa
Limitazione del movimento di estensione con arresto tra 175° e 160° e flessione completa 4-10%
Limitazioni dell’estensione superiori a 5° e fino a 20° comportano zoppia, impraticabilità da
ultima fase del passo e notevole difficoltà alla corsa. Limitazioni dell’estensione superiori ai
25° richiedono quasi sempre provvedimenti chirurgici e devono essere valutati con percen-
tuali progressivamente maggiori.
Lassità articolare da lesione del LCA non trattata chirurgicamente, con residua instabilità:
1° grado-lieve 6%
2° grado-moderato 8%
3° grado-grave 10%
Lassità articolare da lesione del LCP non trattata chirurgicamente, con residua instabilità:
1°grado-lieve 4%
2° grado-moderato 6%
3° grado-grave 8%
Esiti di lesione del LCA trattata chirurgicamente, con lieve disfunzionalità 4-6%
Lassità articolare da lesione di uno dei due legamenti collaterali, non trattata chirurgica-
mente, con residua instabilità:
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
1° grado-lieve 3%
2° grado- moderato 5%
3° grado-grave 9%
Nella valutazione dell’instabilità in varo-valgo si deve tener conto di eventuali deviazioni
dell’asse del ginocchio, che possono aggravare il danno.
Lassità antero-mediale o antero-laterale da rottura di più legamenti, non trattata chirurgi-
camente, con residuata instabilità:
1° grado-lieve 8-10%
2° grado- moderato 11-15%
3° grado-grave 16-20%
La percentuale massima va riservata ai casi in cui sia necessario l’utilizzo costante del tutore.
A parità di lassità articolare, devono essere riconosciute percentuali maggiori allorché
coesistano esiti di ricostruzione legamentosa con utilizzo di strutture anatomiche autologhe
e deviazione dell’asse femoro-tibiale
Ginocchio valgo > 5° 2%
Ginocchio valgo > 10° 4%
Ginocchio valgo > 15° 6%
Ginocchio varo o recurvato > 5° 3%
Ginocchio varo o recurvato > 10° 5%
Ginocchio varo o recurvato > 15° 7%
Esiti di lesione meniscale monocompartimentale non trattata chirurgicamente, a seconda 2-5%
del tipo di lesione (fissurazione, fratture stabili o instabili)
Esiti di meniscectomia parziale monocompartimentale, con dolore e limitazione funzionale 2%
di grado lieve
Esiti di meniscectomia totale monocompartimentale, con dolore e limitazione funzionale 4%
di grado moderato
Qualora alla completa ampiezza dei movimenti si contrapponga la persistenza di flogosi
articolare dolorosa, comprovata anche da ipotrofia muscolare, si possono assegnare percen-
tuali superiori.
Protesi di ginocchio
Oltre alla valutazione della tolleranza e dell’osteointegrazione delle protesi, è fondamentale
considerare l’età in cui il soggetto è stato protesizzato, stante la non remota necessità di
dover procedere a re-impianti, da effettuarsi su un substrato osseo meno recettivo, che
riduce la durata della protesi di circa il 20% a 10 anni.
Protesi di ginocchio — Classe I 15%
Pressoché completa assenza di dolore, lievi deficit articolari in flessione, lieve ipotrofia
muscolare.
Protesi di ginocchio — Classe II 16-20%
Dolore sensibile ai farmaci, moderato deficit articolare, deambulazione cautelata, ipotrofia
muscolare.
Protesi di ginocchio — Classe III 21-25%
Dolore costante e non completamente sensibile ai farmaci, rilevante deficit articolare,
deambulazione molto limitata e possibile soltanto con bastone, marcata ipotrofia muscolare,
osteoporosi.
In caso di malposizionamento o di mobilità della protesi il valore massimo del range deve
essere maggiorato fino al 35-40%, specie nel caso in cui non sia praticabile la riprotesizza-
zione.
Esiti di frattura della rotula trattata incruentemente 2-5%
La percentuale massima deve essere attribuita in caso di marcate alterazioni della superficie
articolare.
Perdite di parte della struttura ossea e/o gravi dismorfismi giustificano percentuali maggiori
del limite massimo indicato.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Esiti di frattura della rotula trattata chirurgicamente, con persistenza dei mezzi di sintesi 6%
Esiti di patellectomia, parziale o totale 5-8%
Tale condizione determina alterazione dei rapporti articolari femoro-tibiali e deficit di forza,
soprattutto nell’ estensione della gamba.
Nel caso in cui sussistano deficit articolari o alterazioni strutturali a livello del tendine
quadricipitale e/o del tendine rotuleo la percentuale può superare il valore prospettato.
Esiti di frattura diafisaria della tibia, con dolore e limitazione funzionale di grado lieve 4%
Esiti di frattura diafisaria della tibia, trattata chirurgicamente e con persistenza dei mezzi 5-7%
di sintesi
Esiti di frattura diafisaria del perone con dolore e limitazione funzionale di grado lieve 2-3%
Esiti di frattura biossea della gamba, non trattata chirurgicamente 5%
Esiti di frattura biossea della gamba, trattata chirurgicamente e con persistenza dei mezzi 6-8%
di sintesi
Esiti in pseudoartrosi di frattura della tibia 10-15%
Esiti in pseudoartrosi di frattura biossea della gamba 15-20%
La valutazione va graduata in base alla gravità del quadro anatomo-patologico funzionale ed
alla possibilità di compensazione con tutori ortopedici.
Accorciamento di arto inferiore tra 2 e 8 cm 3-15%
L’eterometria, quale conseguenza di fratture delle ossa lunghe dell’arto inferiore, ha
apprezzabili ripercussioni negative sulla funzione deambulatoria allorché sia > 2 cm;
eterometrie di minor entità non sono del tutto trascurabili, ma sono sufficientemente
compensabili con plantari.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Perdita anatomica di entrambi i piedi a livello della tibio-tarsica, in rapporto alla possibilità 45-60%
di applicazione di protesi efficace
Perdita anatomica del piede a livello malleolare (tipo Syme), in rapporto alla possibilità di 35-45%
applicazione di protesi efficace
Tale menomazione è paragonabile alla perdita del terzo inferiore della gamba; in alcune
circostanze può essere addirittura più sfavorevole di quella sopra indicata per la difficoltà ad
un’efficace protesizzazione.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Perdita anatomica del retropiede alla Chopart o alla Innominata 35-40%
Tale menomazione configura una residua funzione paragonabile ad un moncone calcaneale.
Perdita anatomica del mesopiede alla Lisfranc 25-30%
La valutazione deve essere effettuata tenendo conto della difficoltà della protesizzazione
meso-avampodalica e della necessità dell’utilizzo di calzature ortopediche su misura.
Perdita anatomica dell’avampiede a livello delle basi metatarsali 20-25%
Perdita anatomica dell’avampiede a livello delle teste metatarsali 18-20%
Perdita anatomica dell’avampiede a livello metatarso-falangeo 16-18%
Perdita anatomica dell’alluce e del primo metatarso 14%
La valutazione tiene conto della perdita dell’elemento anatomico fondamentale per la fase
propulsiva del passo e della parte mediale di appoggio del piede.
Perdita anatomica dell’alluce, con disarticolazione a livello della metatarso-falangea 10%
Perdita anatomica delle dita esterne del piede, a seconda del numero 1-8%
La valutazione massima va riservata ai casi di perdita di tutte le dita con integrità
anatomo-funzionale dell’alluce, mentre quella minima attiene alla perdita di un solo dito,
per la quale il deficit funzionale è molto lieve, ma occorre nondimeno considerare il
possibile “disordine digitale”.
Anchilosi della tibio-tarsica in posizione favorevole, con blocco della sotto-astragalica 18%
La contemporanea presenza dell’anchilosi della tibio-tarsica e di quella della sotto-astragalica,
ancorché in posizione favorevole, altera notevolmente la funzione deambulatoria.
Anchilosi della tibio-tarsica in posizione favorevole 12%
La posizione favorevole è quella a 90°, senza apprezzabili alterazioni dell’atteggiamento del
retro-piede. L’anchilosi, pur consentendo un buon mantenimento della posizione eretta,
non consente la fisiologica effettuazione del passo, per la mancanza della fase di spinta.
Anchilosi della sotto-astragalica in posizione favorevole 6%
L’anchilosi in posizione favorevole è quella con lieve valgismo di retropiede. La perdita del
movimento della sotto-astragalica riduce l’adattabilità del piede al suolo a causa della
limitazione della prono-supinazione.
Limitazione del movimento di flesso-estensione della tibio-tarsica con escursione artico- 5-7%
lare possibile per metà
Il range valutativo è motivato dalla maggiore incidenza della limitazione articolare allorché
sia interessato prevalentemente il movimento di dorsiflessione.
Limitazione del movimento di flesso-estensione della tibio-tarsica con escursione artico- 3-5%
lare possibile per 1/3
Limitazione del movimento della sotto-astragalica con escursione articolare possibile per 3%
metà
L’escursione articolare sino alla metà del range fisiologico limita la possibilità di posizionare
correttamente il piede nella deambulazione su terreni sconnessi; limitazioni inferiori sono
meglio tollerate.
Anchilosi delle articolazioni tibio-tarsica, sotto-astragalica e medio-tarsica in posizione 20-22%
favorevole
Trattasi della c.d. “anchilosi triplice”, nella quale risulta favorevole l’atteggiamento del retropiede
in valgo di 5°, con mesopiede in posizione neutra in riferimento alla prono-supinazione.
Anchilosi della sotto-astragalica e della medio-tarsica in posizione favorevole 16%
Trattasi della c.d. “anchilosi duplice” per la quale la posizione favorevole è in valgismo di
5° con rotazione, adduzione e abduzione neutre.
Anchilosi della medio-tarsica 10%
L’anchilosi astragalo-scafoidea causa una compromissione pressoché totale del movimento
della sotto-astragalica e della calcaneo-cuboidea.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Limitazione del movimento della astragalo-scafoidea con escursione articolare possibile 6%
per metà
La limitazione assume rilevanza in relazione alla sua influenza sull’articolazione sotto-
astragalica e calcaneo-cuboidea.
Esiti di lesione del tendine d’Achille, non trattata chirurgicamente, con cedimento del 7-9%
retropiede e tendenza al talismo
La mancata riparazione chirurgica determina per lo più instabilità in dorsiflessione del piede,
con necessità di appoggio calcaneare e conseguente deficit della funzione deambulatoria.
Esiti di lesione del tendine d’Achille trattata chirurgicamente 2-5%
I principali esiti possono essere: tendinopatia conseguente alla riparazione, con fibrosi e
ridotta estensibilità tendinea, sino a condizioni di vera e propria retrazione, con equinismo
e/o limitazione della dorsiflessione della tibio-tarsica.In queste evenienze la percentualizza-
zione prospettata costituisce il punteggio base, che deve essere aumentato in relazione alla
limitazione dell’ampiezza dei movimenti del piede.
Lassità capsulo-ligamentosa della caviglia:
1° grado — Lieve - 3%
2° grado — Moderato 4-6%
3° grado — Grave 7-10%
Protesi di caviglia — Classe I 15%
Protesi ben posizionata, saltuario dolore sensibile ai farmaci, moderata limitazione della
sotto-astragalica.
Protesi di caviglia — Classe II 16-20%
Dolore relativamente e frequentemente, ma sensibile ai farmaci, rilevante limitazione della
sotto-astragalica con zoppia.
Protesi di caviglia — Classe III 21-25%
Protesi non efficace, dolore costante e soltanto parzialmente controllabile in farmaci, grave
limitazione della sotto-astragalica con zoppia.
Esiti di frattura dell’astragalo, con dolore e limitazione funzionale di grado moderato 6-8%
Esiti di frattura del calcagno, con dolore e limitazione funzionale di grado moderato 8-10%
Esiti di frattura dello scafoide, o del cuboide, o del I, o del II, o del III cuneiforme, con 2-4%
dolore e limitazione funzionale di grado moderato
Anchilosi della tarso-metatarsale (Lisfranc) in posizione favorevole 8%
L’anchilosi in posizione favorevole consente il mantenimento di un assetto sostanzialmente
corretto del meso-avampiede in abduzione/abduzione e dorsiflessione/plantarflessione.
Anchilosi della prima metatarso-falangea in posizione favorevole 5%
Per posizione favorevole si intende un atteggiamento in lieve dorsiflessione, con normoal-
lineamento metatarso-falangeo in varo-valgo e rotazione neutra.
Anchilosi dell’interfalangea del primo dito in posizione favorevole 3%
Anchilosi delle altre metatarso-falangee in posizione favorevole, senza protrusione plan- 1-5%
tare delle teste metatarsali o impennamento digitale
La valutazione va rapportata al numero di raggi coinvolti.
Limitazione del movimento della flessione dorsale della prima metatarso-falangea con 2%
escursione articolare possibile per metà
Nella dinamica deambulatoria risulta compromessa la fase propulsiva del passo.
Esiti di frattura del I o del V metatarso, con dolore e limitazione funzionale di grado 2-4%
moderato
Esiti di frattura del II o del III o del IV metatarso, con dolore e limitazione funzionale di 1-2%
grado moderato
La valutazione va rapportata alla sede della frattura (base, diafisi, testa), all’eventuale
interessamento articolare, alla morfologia del callo osseo e ad eventuali dismorfismi diafisari
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
comportanti alterazioni del carico. In caso di fratture di più metatarsi la valutazione deve
essere espressa sulla base della complessiva funzionalità del piede.
Esiti di frattura delle falangi delle dita del piede 1%
Trattasi di fratture che spesso guariscono senza esiti disfunzionali apprezzabili, o molto lievi,
che devono essere valutati in relazione all’ eventuale coinvolgimento articolare e alla
deformità residua.
Piede piatto post-traumatico 5-10%
Contusion
B. Direct muscle injury
Laceration
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Le valutazioni sotto prospettate sono riferite al mero danno della struttura muscolare, che deve essere
integrato con quello derivante da eventuali deficit funzionali e/o da lesioni da compressione su altre
strutture contigue (nervi o/o vasi).
Esiti di lesione muscolare di dimensioni comprese tra 2 e 4 cm, con formazione di tessuto 1-2%
fibrotico-cicatriziale ed eventuale presenza di piccole formazioni calcifiche
Esiti di lesione muscolare di dimensioni comprese tra 4 e 8 cm, con diffuse aree 3-5%
fibro-cicatriziali e con presenza di ematoma cistico o miosite ossificante
Esiti di lesione muscolare di dimensioni > 8 cm, con sostituzione del tessuto muscolare ad 6-7%
opera di tessuto ossi-calcifico e/o fibrotico, con deficit di forza
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Le valutazioni sotto prospettate sono riferite al mero danno cartilagineo o osteo-cartilagineo e alla
corrispettiva sintomatologia dolorosa e devono essere integrate con quelle degli eventuali deficit funzionali
dell’articolazione interessata anche con riferimento dell’importanza anatomica delle stesse.
Esiti di lesione cartilaginea di piccola estensione (Grado 1 ICRS) 1-2%
Esiti di lesione cartilaginea estesa fino alla metà del suo spessore (Grado 2 ICRS) 3-4%
Esiti di lesione cartilaginea estesa oltre la metà del suo spessore, con flogosi articolare
5-6%
(Grado 3-4 ICRS)
6.11. Osteomielite
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione si basa essenzialmente sulle componenti cliniche e disfunzionali, oltre che sull’estensione
delle alterazioni a carico dell’osso e dei tessuti molli e sull’eventuale cronicizzazione del processo; essa deve
essere effettuata a distanza di tempo dall’insorgenza dell’infezione, allorché si può presumere che l’evolu-
zione della stessa sia giunta a sufficiente “raffreddamento”.
Esiti di osteomielite sub-clinica
3-5%
Apprezzabile soltanto agli accertamenti strumentali e colturali su campioni bioptici.
Esiti di osteomielite di grado lieve
6-8%
Presenza di infiammazione di grado moderato, estesa anche ai tessuti molli.
Esiti di osteomielite di grado moderato
Presenza di franca infiammazione persistente, estesa anche ai tessuti molli, con fistolizza- 9-12%
zione e secrezione purulenta.
Esiti di osteomielite di grado grave
Persistenza di fistolizzazione secernente, con compromissione distrofica dei tessuti molli 13-15%
peri-lesionali e presenza di sequestro osseo.
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Capitolo 7
FUNZIONE CARDIO-VASCOLARE
7.1. Premessa. — 7.2. La classificazione NYHA. — 7.3. Cardiopatie congenite. — 7.3.a. Difetti del setto
interatriale. — 7.3.b. Difetti del setto interventricolare. — 7.3.c. Difetti del canale atrio-ventricolare. —
7.4. Cardiomiopatie. — 7.4.a. Cardiomiopatia dilatativa. — 7.4.b. Cardiomiopatia ipertrofica. — 7.4.c. Car-
diomiopatia restrittiva. — 7.4.d. Cardiomiopatia aritmogena. — 7.5. Valvulopatie. — 7.5.a. Stenosi mitralica.
— 7.5.b. Insufficienza mitralica. — 7.5.c. Prolasso mitralico. — 7.5.d. Stenosi aortica. — 7.5.e. Insufficienza
aortica. — 7.5.f. Stenosi tricuspidale. — 7.5.g. Insufficienza tricuspidale. — 7.5.h. Stenosi polmonare. —
7.6. Aritmie. — 7.6.a. Fibrillazione atriale cronica. — 7.6.b. Pacemaker. — 7.7. Cardiopatia ischemica. —
7.8. Ipertensione arteriosa. — 7.9. Trapianto cardiaco. — 7.10. Traumi cardiaci. — 7.11. Vasculopatie. —
7.11.a. Aneurisma dell’aorta. — 7.11.b. Arteriopatie degli arti inferiori. — 7.11.c. Arteriopatie degli arti
superiori. — 7.11.d. Fenomeno di Raynaud. — 7.11.e. Flebolinfopatie. — 7.11.f. Lesioni vascolari arteriose,
venose e linfatiche
7.1. Premessa
eiettata) dalla camera ventricolare sinistra del cuore a ciascun battito cardiaco ed è
indicativa della efficacia di pompa del cuore (performance cardiaca), rappresentando il
rapporto tra sangue espulso a ogni sistole rispetto a quello che riempie in diastole il
ventricolo, secondo il rapporto:
FE = (VTD-VTS)/VTD
Il valore fisiologico della frazione di eiezione è pari a 50%-70%. La frazione di
eiezione rappresenta il parametro al contempo più attendibile e di più facile acquisi-
zione; inoltre non solo è di indispensabile ausilio per la valutazione della funzionalità
cardiaca ma anche ai fini prognostici, giacché la disfunzione ventricolare sinistra è il
fattore maggiormente predittivo dello scompenso cardiaco congestizio e della morte
improvvisa. Nella seguente tabella viene riportata la graduazione del deficit di pompa
conseguente ai diversi valori di riduzione della FE:
e quindi un marcato deficit della riserva coronarica. L’entità della stenosi viene valutata
con la coronarografia o con metodiche di imaging che, tuttavia, forniscono un dato
anatomico più che funzionale. Lo studio delle coronarie può essere effettuato mediante
RM (in genere utilizzata per meglio inquadrare le anomalie coronariche e le cardiopatie
congenite) e ancor più grazie alla TC, che rappresenta il gold standard anche per la
valutazione di eventuali restenosi post-rivascolarizzazione mediante stent o by-pass. Per
valutare il reale significato fisiopatologico è indispensabile associare un’altra metodica in
grado di analizzare la riserva coronarica e, quindi, di valutare le relative implicazioni
diagnostiche e terapeutiche oltre che prognostiche. La valutazione della riserva coro-
narica può essere ottenuta: in sala di emodinamica con il Doppler Flow Wire (misura-
zione accurata e precisa ma non facilmente ripetibile e altamente invasiva); con la
tomografia ad emissione di positroni (PET), costosa e non facilmente disponibile (oltre
che invasiva per l’esposizione alle radiazioni). La scintigrafia miocardica fornisce
informazioni sull’anatomia cardiaca, sulla funzione cardiaca, sulla perfusione e sul
metabolismo del miocardio. Le immagini realizzate mediante PET dimostrano il flusso
miocardico distrettuale assoluto o il metabolismo miocardico mentre la perfusione
miocardica viene ben visualizzata mediante la tomografia computerizzata ad emissione
di fotone singolo (SPECT).
La modalità meno invasiva e costosa, ripetibile e documentabile, oltre che adegua-
tamente sensibile e specifica, per studiare la riserva coronarica è rappresentata dall’e-
cocardiografia, che può indagarla sia indirettamente, utilizzando i test provocativi di
ischemia e valutando gli effetti dell’ischemia miocardica sulla cinetica parietale, che
direttamente, studiando il flusso nelle coronarie in condizioni basali o durante vasodi-
latazione coronarica indotta farmacologicamente. Le coronarie sono visualizzabili con
l’ecocardiografia trans-esofagea (coronaria sinistra: tronco comune, primo tratto della
discendente anteriore, primo tratto della circonflessa; coronaria destra: emergenza dal
seno di Valsalva); specifiche sonde transtoraciche e peculiari proiezioni rendono
possibile l’esplorazione di molti tratti della discendente anteriore e, in parte, della
coronaria destra. L’uso di mezzi di contrasto venosi, che attraversano il circolo
polmonare e sono rilevabili nelle sezioni di sinistra e nelle coronarie, permette un
ottimale approfondimento con il colordoppler, consentendo in particolare di studiare le
variazioni di flusso durante vasodilatazione. Pertanto, la riserva del flusso coronarico
(CFR = coronary flow reserve) è indicata dal rapporto fra la velocità di flusso diastolica
massima durante iperemia farmaco indotta e la velocità di flusso diastolica massima in
condizioni basali:
studio della riserva coronarica assume assoluto rilievo prognostico non solo nelle
patologie del microcircolo, ma anche nella cardiopatia ischemica, soprattutto se asso-
ciato a valutazione della motilità segmentaria e globale del ventricolo sinistro sotto
stress. La valutazione delle modificazioni geometrico-morfologiche ventricolari indotte
dal processo ischemico-necrotico, le anomalie funzionali regionali/complessive e di
perfusione basale e sotto stress, l’apprezzamento delle complicanze post-ischemiche
croniche (aneurisma cordis, trombosi intraventricolare, insufficienza valvolare mitra-
lica), oltrechè acute (rottura delle pareti o dei muscoli papillari), rappresentano ulteriori
elementi di imprescindibile rilievo valutativo forniti dell’ecocardiografia soprattutto nel
post-infarto. Soggetti infartuati a basso rischio sono caratterizzati da: FE >50%;
ischemia miocardica inducibile <20% del miocardio vitale residuo; alterato rilascia-
mento diastolico e rigurgito funzionale mitralico minimo o lieve. Soggetti infartuati ad
alto rischio sono caratterizzati da: FE <35%; ischemia miocardica inducibile >50% del
miocardio vitale residuo; pattern diastolico di tipo restrittivo; rigurgito funzionale
mitralico moderato specie se associato a disfunzione sistolica significativa.
La capacita` funzionale del soggetto si valuta in base alla capacita` di svolgere
alcune attività quotidiane di tipo ricreativo, rappresentando quindi un indice di
tolleranza allo sforzo, e viene espressa in livelli di equivalente metabolico (METs). Il
consumo di ossigeno (VO2) in un uomo di 70 Kg e di 40 anni, a riposo, e` pari a 3.5
ml/Kg/min e corrisponde ad 1 MET. Il VO2 delle varie attività può essere espresso in
multipli di MET. A tal fine la capacita` funzionale e` stata classificata come eccellente (se
> 10 METs), buona (7-10 METs), moderata (4-7 METs), scadente (< 4 METs).
I test da sforzo cardiologici vengono utilizzati correntemente per la valutazione
della riserva cardiaca e della risposta del sistema cardio-vascolare alla tolleranza allo
stress fisico. Numerose sono le indicazioni: cardiopatia ischemica, cardiopatie conge-
nite, valvulopatie, cardiomiopatie, anamnesi positiva per sindromi coronariche acute,
nonché stima della prognosi e organizzazione di programmi riabilitativi. La prova da
sforzo si basa sull’attuazione di sforzi di tipo dinamico, nei quali si compiono in modo
ritmico contrazioni isotoniche con concomitante aumento simultaneo della frequenza
cardiaca e della pressione arteriosa sistolica. Il cicloergometro ed il tappeto rotante sono
gli strumenti più comunemente utilizzati per l’esercizio dinamico. Durante l’esercizio
viene registrato un ECG a 12 derivazioni e si misura la pressione arteriosa. La risposta
ischemica all’ECG durante o dopo lo sforzo è caratterizzata da un sottoslivellamento
orizzontale o discendente del tratto ST di 0,1 millivolt (1 mm all’ECG se si utilizza la
calibrazione standard) della durata di 0,08 s. Il test da sforzo è massimamente predittivo
di coronaropatia nei soggetti di sesso maschile con “fastidio” toracico suggestivo per
angina (specificità, 70%, sensibilità, 90%). In soggetti con sintomi atipici un test
ergometrico negativo permette generalmente di escludere l’angina pectoris e la coro-
naropatia. In base al valore di MET è possibile valutare la presenza o meno di sintomi
o segni ad alto carico di lavoro (> 7 METs), a carico intermedio di lavoro (5-7 METs)
ed a basso carico di lavoro (3-5 METs). Nella seguente tabella è riportata l’equivalenza
fra le unità di misura MET e WATT.
Basso ≥5 97%
Medio tra -10 e ≤4 91%
NOMELAV: 15/21199 PAG: 390 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
rischio perché sono segno evidente di alterazioni patologiche che tali fattori hanno
indotto sugli organi bersaglio. Si può quindi identificare il rischio cardio-vascolare del
singolo soggetto utilizzando la seguente tabella.
Sulla base di ciò, la stratificazione del rischio a 10 anni viene quindi valutata come
segue:
— CLASSE NYHA IV: “il paziente ha una malattia cardiaca che dà luogo ad
un’incapacità di svolgere qualsiasi attività fisica. Sintomi di angina, congestione polmo-
nare e congestione sistemica possono essere presenti anche a riposo”.
Detta classificazione, seppur di largo impiego in ambito clinico, è tuttavia basata sui
sintomi riferiti in condizioni di riposo o di attività fisica, risultando quindi il suo impiego
medico-legale limitato dalla soggettività del soggetto ma anche del medico che raccoglie
l’anamnesi, dalla scarsa riproducibilità, da una correlazione non sempre adeguata con
l’obiettività cardio-vascolare e dalla limitata concordanza con le misure di tolleranza
all’esercizio fisico. Pertanto, per avere una giusta valenza ed utilità in ambito medico-
legale, la classificazione NYHA deve essere considerata, anche nel suo eventuale
dinamismo evolutivo, valutando caso per caso la coerenza tra la classe attribuita e
l’insieme delle risultanze dell’obiettività clinico-strumentale. Ovviamente non vi può, né
vi deve essere, linearità fra aumento della classe NYHA ed incremento della percentuale
invalidante, trattandosi di parametri che sono, invece, fra loro in un rapporto di
proporzionalità crescente e graficamente riproducibile secondo una curva sigmoide.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Cardiopatia riconducibile alla I classe NYHA 5-10%
Trattasi, evidentemente, di patologie scarsamente incidenti sulla complessiva funzione di
pompa del cuore. Al test da sforzo il soggetto si può esprimere attraverso una potenza pari
o superiore a 125 Watt (7 o più METs) con consumo di ossigeno (VO2) al cardiopulmonary
exercise test (CPET — o ergospirometria) >24.5 ml\kg\min. La valutazione all’interno della
fascia valutativa deve essere effettuata sulla base dei riscontri delle varie indagini strumentali
(ad es., sono tutti fattori che devono condurre verso l’attribuzione della percentuale
maggiore: frazione di eiezione solo di poco >50; rigurgito o riduzione dell’area valvolare di
poco <10-15%; presenza di aritmie benigne o lievi disturbi della conduzione necessitanti di
terapia farmacologica; ispessimento pericardico di particolare estensione e relativa riduzione
del lume virtuale; esiti di ampia o totale pericardiectomia) e sulla necessità di effettuare, in
via continuativa o meno, un trattamento terapeutico per quanto modesto (in genere la
terapia è assunta sporadicamente ed a bassi dosaggi).
In questa fascia possono essere generalmente compresi gli esiti di lesioni del pericardio o di
pericardite.
Cardiopatia riconducibile alla II classe NYHA con F.E. fra 50% e 40% 11-30%
Al test da sforzo il soggetto si esprime solitamente attraverso una potenza compresa tra i 75
e <125 Watt (5-6 METs), con consumo di ossigeno (VO2) al cardiopulmonary exercise test
(CPET — o ergospirometria) <24.5 e >17.5 ml\kg\min.
Per quanto concerne le patologie valvolari ascrivibili alla II classe NYHA si tengano presenti
i seguenti ulteriori parametri orientativi di riferimento: la riduzione dell’area valvolare varia
dal 15 al 60%; il rigurgito è pari a circa il 10-30%; il trattamento terapeutico è continuativo
ed efficace nel controllare la sintomatologia. Per gli specifici difetti valvolari si deve far
riferimento ai successivi paragrafi.
In questa fascia possono essere collocate alcune aritmie o disturbi della conduzione non ben
controllabili mediante pace-maker e con rilevante persistente sintomatologia.
Cardiopatia riconducibile alla III classe NYHA con F.E. fra 39% e 30% 31-60%
Il soggetto può tollerare sforzi compresi fra <75 e 50 Watt (4 METs), con consumo di
ossigeno (VO2) al cardiopulmonary exercise test (CPET — o ergospirometria) <17.5 e >7
ml/kg/min. I parametri che consentono l’attribuzione di una specifica percentuale nell’am-
bito dell’ampia fascia valutativa sono quelli espressi precedentemente.
Per quanto concerne le patologie valvolari ascrivibili alla III classe NYHA, oltre a quanto
già segnalato, si tengano presenti i seguenti ulteriori parametri di riferimento: la riduzione
dell’area valvolare è di circa il 60-75%; il rigurgito è pari a circa il 30-50%; il trattamento
terapeutico, sebbene continuativo, non riesce a controllare pienamente la sintomatologia.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 395 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
In questa fascia possono essere collocate alcune aritmie o disturbi della conduzione non
controllabili mediante pace-maker e con rilevante persistente sintomatologia.
Cardiopatia riconducibile alla III classe NYHA con frequenti passaggi alla IV classe 61-80%
Si tratta dei casi più gravi di cardiopatia riconducibile alla III classe NYHA con frequenti
passaggi alla IV classe, in cui la frazione di eiezione è <30% ed il soggetto può tollerare
sforzi compresi fra <50 e 25 Watt (3 METs).
Cardiopatie riconducibili alla classe IV NYHA 81-90%
Si tratta chiaramente di invalidità grave al punto da comportare una rilevante restrizione
dell’autonomia personale: non a caso in proposito si parla di cardiopatici bed and chair, a
sottolineare le ridotte possibilità di tollerare qualsiasi sforzo (inferiore a 25 Watt — 2
METs), con consumo di ossigeno (VO2) al cardiopulmonary exercise test (CPET — o
ergospirometria) <7 ml\kg\min.
Per quanto concerne le patologie valvolari ascrivibili alla IV classe NYHA, oltre a quanto
espresso in precedenza, si tengano presenti i seguenti ulteriori parametri di riferimento: la
riduzione dell’area valvolare è superiore al 75%; il rigurgito è maggiore del 50%; la terapia,
pur se necessaria, è sostanzialmente inefficace.
Paziente in classe NYHA I: Funzione ventricolare nei limiti della norma o solo
lievemente modificata in seguito all’intervento; sequele emodinamiche post-
intervento assenti o di scarso significato funzionale; tolleranza allo sforzo e/o
Condizioni ottimali
capacità funzionale >80% degli standard di riferimento con consumo massimo
di ossigeno (VO2 max) >24.5 ml/kg/min; assenza di aritmie, siano esse spontanee
o inducibili con sforzo.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 396 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
Pazienti in classe NYHA I-II: funzione ventricolare nei limiti della norma;
sequele emodinamiche post-intervento di lieve significato funzionale; tolleranza
allo sforzo e/o capacità funzionale compresa tra 70 e 80% degli standard di
Condizioni buone riferimento con consumo massimo di ossigeno (VO2 max) compreso tra 24.5 e 20
ml/kg/min; non aritmie ripetitive spontanee e inducibili con lo sforzo in pazienti
in pazienti eventualmente in trattamento anti-aritmico; eventuale pacemaker ben
funzionante.
Pazienti in classe funzionale NYHA II: sequele emodinamiche post-intervento
di moderato significato funzionale (shunt, insufficienze valvolari, ipertensione
polmonare, ecc.); funzione ventricolare ridotta, con o senza dilatazione a carico
del ventricolo interessato dalla cardiopatia congenita; tolleranza allo sforzo e/o
capacità funzionale compresa tra 60 e 70% degli standard di riferimento con
consumo massimo di ossigeno (VO2 max) compreso tra <20 e 17.5 ml/kg/min;
Condizioni mediocri
presenza di aritmie con uno o più dei seguenti caratteri: ripetitive spontanee e
inducibili con lo sforzo; parziale efficacia del trattamento anti-aritmico; presenza
di blocchi atrio-ventricolari di II grado stabili o episodici tipo Mobitz 2;
disfunzione sinusale moderata, con pause < 3.5 s durante la veglia, non ripetitive
e frequenza cardiaca minima > 30 b/min; eventuale pacemaker non ben
funzionante.
Pazienti in classe funzionale NYHA III-IV: sequele emodinamiche post-
intervento di grave significato funzionale; Marcata riduzione delle funzioni
ventricolari; scarsa o nulla tolleranza allo sforzo (capacità funzionale <60% dello
standard e consumo massimo di ossigeno (VO2 max) compreso tra <17.5 e 7
Condizioni scadenti ml/kg/min); aritmie severe, ripetitive spontanee e inducibili con lo sforzo in
soggetti con terapia anti-aritmica inefficace; presenza di defibrillatore impianta-
bile; blocco atrio-ventricolare di alto grado, disfunzione sinusale severa (pause
>3.5 s, frequenza cardiaca minima <30 b/min); malfunzionamento di pacema-
ker.
I difetti del setto interatriale (DIA) sono cardiopatie congenite non cianogene
caratterizzate da una soluzione di continuità del setto interatriale con passaggio di
sangue (shunt) dall’atrio sinistro all’atrio destro e iperafflusso polmonare.
Un difetto piccolo (diametro <1 cm) produce uno shunt non emodinamicamente
significativo, mentre un difetto moderato (diametro >1 cm) corrisponde ad uno shunt
significativo con sequele emodinamiche, così come uno considerevole (diametro >2 cm)
produce un ampio shunt con notevoli conseguenze emodinamiche. Si distinguono
quattro tipi di DIA: tipo ostium secundum, a livello della fossa ovale (circa il 75% dei
casi), tipo ostium primum, in corrispondenza della giunzione atrio-ventricolare (fre-
quenza 15%); tipo seno venoso, vicino allo sbocco cavale superiore (10% dei casi) e
tipo seno coronarico (<1%), vicino allo sbocco del seno coronarico.
La malattia si manifesta clinicamente, in genere, dopo i 2-3 anni di vita. La chiusura
chirurgica del difetto è indicata intorno ai 3-4 anni, o prima se è presente grave
dilatazione delle cavità destre. Diversi i risultati osservabili in base all’epoca in cui si
effettua la correzione: se eseguita precocemente si ottiene una guarigione anatomica e
funzionale, con sopravvivenza sovrapponibile a quella della popolazione generale di
corrispondente età e sesso; la capacità funzionale (CF) nei soggetti operati precoce-
mente rimane nella norma. Analoghi risultati si ottengono in soggetti operati di età
inferiore a 40 anni e con pressione sistolica polmonare <40 mmHg. Se la correzione è
eseguita a maggiore distanza di tempo i risultati chirurgici sono meno brillanti; ciò si
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Tutte le voci considerate, di concerto anche con la sopravvivenza media statistica e l’età del soggetto,
consentono di modulare e personalizzare la percentualizzazione del danno, ricordando comunque che
nessuno di questi parametri preso singolarmente ha valore assoluto. La stima complessiva del danno non
può infatti prescindere dall’integrazione di ulteriori parametri cardiologici quali: la velocità di aggravamento
del quadro clinico, la presenza contemporanea di altre valvulopatie o di coronaropatia, una durata nel
tempo già considerevole di un difetto severo.
Stadio I. Soggetti in condizioni buone 5-10%
Soggetti inquadrabili in I classe NYHA, con DIA di dimensioni piccole (<1 cm) o moderate
(≥1 cm ma <2 cm), assenza di dilatazione delle sezioni cardiache destre, funzionalità
ventricolare destra conservata, rapporto circolazione polmonare/circolazione sistemica
<1.5, pressione polmonare sistolica normale, assenza di segni di scompenso cardiaco destro,
non necessità di correzione chirurgica, asintomaticità e tolleranza allo sforzo conservata.
Nei soggetti in condizioni ottimali o buone, con DIA anche ampio, valutato durante 11-20%
l’infanzia, l’adolescenza e per la prima parte dell’età giovanile (in cui vi è asintomaticità, con
dimensioni e funzionalità delle sezioni destre nei limiti della norma, fisiologico rapporto
circolazione polmonare/circolazione sistemica, pressione polmonare sistolica nei limiti
fisiologici) ci si deve orientare nella fascia maggiore.
Stadio II. Soggetti in condizioni discrete o tendenti al mediocreSoggetti in II classe NYHA 21-50%
(o in passaggio verso la III), con DIA di dimensioni moderate (≥1 cm ma <2 cm) o ampie
(>2), lieve dilatazione delle sezioni cardiache destre, funzionalità ventricolare destra con-
servata, rapporto circolazione polmonare/circolazione sistemica >1.5, pressione polmonare
sistolica >30 e <50 mmHg, assenza di segni di scompenso cardiaco destro, necessità di
correzione chirurgica, sintomaticità e intolleranza allo sforzo ad alto-medio carico lavora-
tivo, lieve-moderata riduzione della capacità funzionale.
Stadio III. Soggetti in condizioni mediocriSoggetti inquadrabili in una III classe NYHA (o 51-80%
in passaggio dalla III alla IV), con DIA di dimensioni moderate (≥1 cm ma <2 cm) o ampie
(>2), moderata dilatazione delle sezioni cardiache destre, funzionalità ventricolare destra
conservata o lievemente ridotta, rapporto circolazione polmonare/circolazione sistemica
>1.5, pressione polmonare sistolica pari a 50-70 mmHg, assenza di segni di scompenso
cardiaco destro, necessità di correzione chirurgica, sintomaticità e intolleranza allo sforzo a
basso carico lavorativo, moderata o severa riduzione della capacità funzionale.
Stadio IV. Soggetti in condizioni scaduteSoggetti in IV classe NYHA, con DIA di 81-90%
dimensioni ampie (>2), marcata dilatazione delle sezioni cardiache destre, ridotta funzio-
nalità ventricolare destra (escursione sistolica del piano valvolare tricuspidale [TAPSE]
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
<1.5), rapporto circolazione polmonare/sistemica di molto >1.5, pressione polmonare
sistolica >70 mmHg, presenza di segni di scompenso cardiaco destro, necessità di correzione
chirurgica (ove possibile), sintomaticità grave conclamata a riposo o al bassissimo carico e
capacità funzionale severamente ridotta.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Stadio I. Soggetti in condizioni buone 5-10%
Soggetti ascrivibili alla I classe NYHA, dimensioni e funzionalità ventricolare destra e
sinistra conservate, rapporto circolazione polmonare/circolazione sistemica <1.5, pressione
polmonare sistolica normale, asintomaticità e tolleranza allo sforzo conservata, assenza di
aritmie.
Stadio II. Soggetti in condizioni discrete 11-25%
Soggetti in I o II classe NYHA, con lieve dilatazione delle sezioni cardiache ma funzionalità
ventricolare destra e sinistra conservate, lieve insufficienza aortica o lieve shunt residuo,
tolleranza allo sforzo e/o CF >70% degli standard di riferimento (VO2 max 20-24.5
ml/kg/min), possibili aritmie sopraventricolari (extrasistolie) e/o ventricolari non ripetitive,
possibile impianto di pacemaker.
Stadio III. Soggetti in condizioni tendenti al mediocre, paucisintomatici 26-50%
Soggetti in II-III classe NYHA, con ipertensione polmonare lieve, insufficienza aortica
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
moderata e shunt residuo moderato, dimensioni del ventricolo destro e sinistro moderata-
mente aumentate e funzionalità ridotta, tolleranza allo sforzo e/o CF 60-70% degli standard
di riferimento (VO2 max <20 — >17.5 ml/kg/min), aritmie presenti (sopraventricolari e
ventricolari).
Stadio IV. Soggetti in condizioni mediocri-scadenti 51-80%
Soggetti sintomatici, ascrivibili alla III classe NYHA o con frequenti passaggi alla IV, con
ipertensione polmonare, insufficienza aortica e DIV residuo, dimensioni del ventricolo
destro e sinistro molto aumentate e funzionalità severamente ridotta, tolleranza allo sforzo
e/o CF <60% degli standard di riferimento (VO2 max <17.5 — >7 ml/kg/min), aritmie
presenti e frequenti (sopraventricolari e ventricolari ripetitive).
Stadio V. Soggetti in condizioni scadute 81-90%
Soggetti in IV classe NYHA, con sintomaticità grave conclamata a riposo o al bassissimo
carico e capacità funzionale severamente ridotta.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Stadio I. Soggetti in condizioni buone 5-10%
Soggetti in I classe NYHA, asintomatici, con dimensioni, morfologia e funzionalità ventri-
colare destra e sinistra conservate, insufficienza delle valvole atrio-ventricolari assente o
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
lieve, tolleranza allo sforzo conservata e/o CF >80% degli standard di riferimento (VO2 max
>24.5 ml/kg/min), assenza di aritmie.
Stadio II. Soggetti in condizioni discrete 11-30%
Soggetti ascrivibili alla II classe NYHA, lieve shunt residuo, lieve insufficienza delle valvole
atrio-ventricolari, dimensioni ventricolari lievemente aumentate ma funzionalità nella
norma, tolleranza allo sforzo e/o CF >70% degli standard di riferimento (VO2 max 20-24.5
ml/kg/min), possibili aritmie sopraventricolari e/o ventricolari non ripetitive.
Stadio III. Soggetti in condizioni mediocri 31-60%
Soggetti in III classe NYHA, con moderato shunt residuo, moderata insufficienza delle
valvole atrio-ventricolari, dimensioni dei ventricoli molto aumentate e funzionalità ridotta,
ipertensione polmonare lieve, tolleranza allo sforzo e/o CF 60-70% degli standard di
riferimento (VO2 max <20 — >17.5 ml/kg/min), aritmie sopraventricolari e/o ventricolari
non ripetitive presenti.
Stadio IV. Soggetti in condizioni scadenti o scadute 61-90 %
Soggetti ascrivibili alla III-IV o IV classe NYHA, grave insufficienza mitralica, dimensioni
dei ventricoli significativamente aumentate e funzionalità ridotta, ipertensione polmonare
grave (pressione sistolica >50 mmHg), ostruzione all’efflusso destro o sinistro di grave
entità, tolleranza allo sforzo e/o CF <60% degli standard di riferimento (VO2 max <17.5 —
>7 ml/kg/min), aritmie sopraventricolari e/o ventricolari ripetitive presenti e frequenti.
7.4. Cardiomiopatie
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Stadio I. Soggetti asintomatici ma con lieve disfunzione ventricolare sinistra 11-30%
Test ergometrico positivo per gli alti carichi, capacità funzionale 7 o più METs, frazione di
eiezione <45% e disfunzione diastolica di I grado.
Stadio II. Soggetti con insufficienza cardiaca paucisintomatica 31-50%
Test ergometrico positivo per i carichi moderati, capacità funzionale 5-6 METs, frazione di
eiezione <40% e disfunzione diastolica di I grado.
Stadio III. Soggetti con insufficienza cardiaca sintomatica e severa 51-80%
Test ergometrico positivo per i bassi carichi di lavoro e capacità funzionale 3-4 METs, con
frazione di eiezione <35%, disfunzione diastolica grave e disturbi del ritmo severi non
controllabili con terapia.
Stadio IV. Soggetti con insufficienza cardiaca grave 81-90%
Ridotta possibilità di tollerare qualsiasi sforzo e capacità funzionale 2 METs, con frazione
di eiezione <30%, disfunzione diastolica grave e disturbi del ritmo severi non controllabili
con terapia.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Stadio I. Forma lieve 11-20%
Soggetti in classe I o II NYHA, con positività ai test ergometrici ad alto carico di lavoro
(VO2 max >24.5 ml/kg/min, >7 METS), lieve dispnea, frazione di eiezione nei limiti
inferiori della norma e lieve disfunzione diastolica del ventricolo sinistro. Possibili eventi
aritmici non gravi e controllabili con terapia medica.
Stadio II. Forma moderata 21-50%
Soggetti in II o III classe NYHA, con positività ai test ergometrici al medio carico di lavoro
(VO2 max >20 e <24.5 ml/kg/min, >5-6 METS) oppure al basso carico di lavoro (VO2 max
>17.5 e <20 ml/kg/min, 4 METS), frazione di eiezione compresa tra 40-50%, lieve
disfunzione diastolica del ventricolo sinistro. Eventi aritmici presenti controllabili o poco
controllabili con terapia medica.
Stadio III. Forma grave 51-80%
Soggetti in classe III NYHA, con positività ai test ergometrici al basso carico di lavoro (VO2
max >7 e <17.5 ml/kg/min, 3 METS), frazione di eiezione <40%, disfunzione diastolica del
ventricolo sinistro di secondo grado, lieve disfunzione sistolica del ventricolo sinistro,
sintomatologia presente dopo minimi sforzi ed iniziali segni di scompenso cardiaco. Eventi
aritmici presenti non controllabili con terapia medica.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Stadio I. Forma lieve 11-30%
Disfunzione diastolica di I grado, con alterato rilasciamento, in soggetti di età <50 anni
rapporto E/A<1 (onda E/A del flusso trans-mitralico) ed in soggetti di età >50 anni
rapporto E/A <0.75. La sintomatologia è assente o molto sfumata. Non sono presenti
disturbi del ritmo di tipo ipo-ipercinetico.
Stadio II. Forma moderata 31-60%
Disfunzione diastolica di II grado, con rapporto E/A compreso fra 0.75 e 2, la cui variazione
deve guidare l’attribuzione numerica all’interno dell’ampia fascia proposta. Sintomatologia
da insufficienza cardiaca presente, con variabile dilatazione atriale sinistra. Disturbi del
ritmo di tipo ipo-ipercinetico non controllabili con terapia.
Stadio III. Forma grave 61-90%
Disfunzione diastolica di III grado, con rapporto E/A>2, grave compromissione cardiaca,
irreversibile o poco reversibile, refrattaria al trattamento medico e chirurgico, presenza di
dilatazione della vena cava inferiore con ridotte o assenti escursioni respiratorie, segni
Doppler di aumentata pressione atriale, presenza all’ECG secondo Holter di fibrillazione
atriale cronica oppure di altre aritmie ipercinetiche gravi refrattarie al trattamento farma-
cologico. Rientrano inoltre in tale classe tutti i soggetti affetti da cardiomiopatie restrittive
secondarie (amiloidosi, sarcoidosi, emocromatosi) che provocano una fibrosi miocardica
diffusa e non suscettibile di guarigione clinica.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Stadio I. Forma lieve 5-10%
Soggetti asintomatici con alterazioni circoscritte a carico del ventricolo destro, in assenza di
segni di scompenso destro, in assenza di interessamento del ventricolo sinistro, con rari e
non pericolosi disturbi del ritmo (basso rischio aritmico).
Stadio II. Forma moderata 11-30%
Soggetti paucisintomatici con alterazioni circoscritte a carico del ventricolo destro, con lievi
segni di scompenso destro, in assenza di interessamento del ventricolo sinistro, con disturbi
del ritmo lievi e non pericolosi (basso rischio aritmico).
Stadio III. Forma grave 31-70%
Soggetti sintomatici con alterazioni diffuse a carico del ventricolo destro, eventuale interes-
samento biventricolare e segni di scompenso cardiaco destro, con presenza di aritmie
ventricolari ad alto rischio, complesse e potenzialmente maligne (secondo Bigger).
Stadio IV. Forma gravissima 71-90%
Soggetti sintomatici con gravi alterazioni diffuse a carico del ventricolo destro, severo
interessamento biventricolare e segni di scompenso cardiaco destro e globale, con presenza
di aritmie ventricolari complesse e maligne (secondo Bigger), ad alto rischio di morte
improvvisa.
7.5. Valvulopatie
La stenosi mitralica (SM) è una malattia cronica della valvola mitrale caratterizzata
da restringimento dell’orifizio che crea ostacolo al flusso ematico dall’atrio durante il
riempimento diastolico del ventricolo e comporta graduale aumento della pressione e
del volume atriale, della pressione vascolare polmonare ed infine disfunzione del
ventricolo destro. Per una corretta definizione della gravità della stenosi è necessaria la
misura del gradiente valvolare mitralico ed il calcolo dell’area valvolare mitralica.
Sono considerate normali un’area valvolare mitralica (AVM) >3 cm2 ed una pressione
atriale sinistra compresa tra 6 e 10 mmHg. Se l’AVM si riduce a circa 1,5 cm2 la pressione
atriale e, dunque, capillare polmonare, può raggiungere valori appena inferiori a 20
mmHg, per arrivare a 25 mmHg ed oltre nei casi in cui l’ostio mitralico misuri meno di
1 cm2. Per valori di pressione atriale di 25-30 mmHg si determina trasudazione di liquido
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nell’interstizio polmonare fino a quadri di edema polmonare acuto per valori superiori
a 30-35 mmHg. La diminuzione dell’AVM fino a 2,5 cm2 (corrispondenti a quelli di una
stenosi minima) risulta emodinamicamente non significativa ed il soggetto è asintomatico,
mentre valori inferiori a 2,5 e fino a 1,5 cmq (SM lieve) determinano solamente un lieve
aumento della resistenza valvolare al riempimento ventricolare con comparsa di dispnea
solo per sforzi intensi. Quando l’AVM scende a valori inferiori a 1,5 e fino a 1 cm2 (SM
moderata), l’emodinamica è compromessa in modo più significativo, per cui, in assenza
di terapia, il soggetto comincia ad accusare una sintomatologia più importante rappre-
sentata da dispnea per sforzi ordinari/leggeri (anche se in alcuni casi può manifestarsi
ortopnea, dispnea parossistica notturna ed episodi di edema polmonare acuto). Infine,
quando l’AVM è <1 cm2 (SM severa, critica) la resistenza valvolare è elevatissima e l’e-
modinamica risulta notevolmente alterata con comparsa di grave sintomatologia già a
riposo. L’aumento pressorio nel circolo polmonare arterioso (definibile di gravità severa
se >70 mmHg), inizialmente passivo, induce alla lunga un’ipertensione polmonare c.d.
“reattiva” da vasocostrizione e, quindi, un’obliterazione arteriolare irreversibile; a ciò fa
seguito una reazione compensatoria ipertrofico-dilatativa del ventricolo destro che, però,
nel corso del tempo rappresenta una condizione predisponente all’insufficienza tricu-
spidalica secondaria (c.d “tricuspidalizzazione della malattia mitralica”) ed allo scom-
penso cardiaco congestizio. In effetti, sono considerati indici prognostici negativi: volumi
del ventricolo destro aumentati (sistolico >80 ml, diastolico >130 ml), ipertensione pol-
monare, insufficienza tricuspidalica. Una delle più frequenti complicanze della SM è
rappresentata dalla fibrillazione atriale — determinata dall’ipertrofia, dilatazione e fibrosi
della parete dell’atrio conseguenti all’ipertensione endocavitaria — la cui insorgenza de-
termina un peggioramento della condizione patologica per aumento ulteriore delle pres-
sioni atriale-polmonare, riduzione del flusso trans-valvolare e della gittata cardiaca, trom-
bosi atriale e tromboembolismo sistemico (soprattutto del circolo encefalico).
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione nell’ambito dei range indicati deve tenere conto dei parametri valutativi generali per le val-
vulopatie sopra indicati.
Stadio I. Stenosi mitralica lievissima 5-10%
Il soggetto è in I classe NYHA, l’area valvolare mitralica è <3-2.5 cm2, il gradiente transval-
volare medio è compreso fra >2 e <5 mmHg, la pressione polmonare è normale. Score di
Wilkins s mobilità: valvola molto mobile con riduzione delle escursioni solo delle estremità
dei lembi; ispessimento valvolare: minimo ispessimento sotto i lembi della valvola che sono
comunque normali; calcificazione: nessuna o al massimo una singola zona iperecogena. Cli-
nicamente vi è sostanziale asintomaticità e la capacità funzionale è conservata per cui gene-
ralmente ci si dovrà orientare verso i valori inferiori della fascia.
Stadio II. Stenosi mitralica lieve 11-30%
L’area valvolare mitralica è >1.5 cm2, il gradiente transvalvolare medio è <5 mmHg e la
pressione sistolica polmonare è <30 mmHg. Score di Wilkins s mobilità: le porzioni medie
e basali dei lembi hanno normale struttura e mobilità; ispessimento sottovalvolare: ispessi-
mento delle corde esteso fino a un terzo della loro lunghezza; ispessimento: lembi quasi normali
(4-5 mm); calcificazione: singole o multiple aree iperecogene limitate a margini dei lembi.
Clinicamente vi è oligosintomaticità o dispnea solo per sforzi intensi. La capacità funzionale
è discretamente ridotta, con ascrivibilità alla II classe NYHA.
Stadio III. Stenosi mitralica moderata o medio-serrata 31-60%
L’area valvolare mitralica è 1.0-1.5 cm2, il gradiente transvalvolare medio è 5-10 mmHg e la
pressione sistolica polmonare è 30-50 mmHg. Score di Wilkins s mobilità: la valvola continua
a muoversi in avanti durante la diastole principalmente alla sua base; ispessimento sottoval-
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
volare: ispessimento che si estende fino al terzo distale delle corde; ispessimento: ispessimento
che si estende attraverso l’intero lembo (5-8 mm); calcificazione: iperecogenicità che si estende
nella porzione mediale dei lembi. Clinicamente vi è dispnea per sforzi ordinari/leggeri (a volte
ortopnea, dispnea parossistica notturna, episodi di edema polmonare acuto) con ascrivibilità
alla III classe NYHA.
Stadio IV. Stenosi mitralica serrata compensata 61-80%
L’area valvolare mitralica è >1.0 cm2, il gradiente transvalvolare medio è >10 mmHg e la
pressione sistolica polmonare è >50 mmHg. Score di Wilkins s mobilità: nessuno o minimo
movimento in avanti dei lembi in diastole; ispessimento sottovalvolare: massiccio ispessimento
e accorciamento delle corde che si estende in basso ai muscoli papillari; ispessimento: notevole
ispessimento di tutto il tessuto dei lembi (>8-10 mm); calcificazione: intensa iperecogenicità
che si estende in gran parte del tessuto dei lembi. Soggetti in III classe NYHA avanzata con
frequenti passaggi alla IV.
Stadio V. Stenosi mitralica gravissima scompensata 81-90%
Area valvolare <1 cm2, gradiente mitralico medio è >10 mmHg, la pressione sistolica pol-
monare è >60 mmHg e vi sono segni di scompenso cardiaco destro ma controindicazione
all’intervento di valvuloplastica o sostituzione valvolare. La valvola mostra marcato ispessi-
mento di tutto il tessuto del lembo (>8 mm), non vi è alcun movimento oppure vi è movimento
minimo in avanti in diastole dei lembi valvolari, con ecorifrangenza estesa alla maggior parte
del tessuto del lembo ed esteso ispessimento ed accorciamento di tutte le corde fino al muscolo
papillare. La sintomatologia è conclamata e grave già a riposo, con segni di insufficienza
cardiaca congestizia (possibile presenza di fibrillazione atriale, trombosi endocavitaria, pos-
sibili esiti di episodi trombo-embolici sistemici). Vi è piena attribuzione alla IV classe NYHA.
ficienza valvolare di grave entità, mentre un’area 4 cm2 o un’area relativa maggiore del
20% identificano un’insufficienza valvolare di lieve entità.
La sintomatologia dell’IM cronica è rappresentata sostanzialmente da facile affa-
ticamento e talora lieve dispnea, che possono persistere per anni. Successivamente può
comparire dispnea da sforzo, indice di disfunzione del ventricolo sinistro. In circa il
10% dei casi l’eccessiva dilatazione atriale può comportare fibrillazione atriale anche
persistente.
Dal punto di vista prognostico particolare importanza negativa rivestono la pre-
senza di fibrillazione atriale (FA), specie se persistente, nonché la grave atriomegalia con
dimensioni >50mm. La stima dell’entità dell’IM si avvale principalmente della tecnica
ecocardiografica che implica l’integrazione di molteplici parametri, tra cui alcuni
derivati dal jet di rigurgito — raggio PISA: Proximal Isovelocity Surface Area, area
dell’orifizio rigurgitante (ERO), volume di rigurgito (RV), vena contracta (VC), rap-
porto tra estensione del jet e atrio sinistro ed altri indipendenti dal jet — frazione di
rigurgito, flusso venoso polmonare (PVF), flusso diastolico trans-mitralico.
Il prolasso della valvola mitrale è determinato dalla ridondanza dei lembi mitralici
con protrusione oltre il piano atrio-ventricolare durante la fase di chiusura sistolica
(floppy valve) o sbandieramento verso l’atrio sinistro (flail). I lembi, a causa di fenomeni
di degenerazione, risultano “troppo grandi e flaccidi” per il ventricolo; conseguente-
mente, quando in sistole quest’ultimo si riduce, si inarcano e cominciano a prolassare al
di sopra dell’anello valvolare in atrio sinistro sotto la spinta pressoria intraventricolare,
anche per l’allungamento delle corde tendinee. La progressione delle alterazioni della
valvola e delle corde può determinare la mancata coaptazione dei margini valvolari con
conseguente rigurgito mitralico, accentuato dalla rottura cordale e dalla dilatazione
dell’anello.
La patologia è nella maggior parte dei casi asintomatica, con riscontro incidentale
di prolasso mitralico con lembi valvolari che si presentano ridondanti ed ispessiti (a
rischio di complicanze). La presenza di click mesosistolico seguito da un soffio
frusciante mesotelesistolico all’auscultazione è indice precoce di progressione verso
l’esordio sintomatologico. Col passare del tempo, infatti, può verificarsi una condizione
di insufficienza mitralica, con il corteo sintomatologico e clinico precedentemente
descritto ed al quale ci si dovrà riferire per le relative valutazioni percentuali utili, nei
punteggi minimi del I stadio.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione medico-legale dell’insufficienza mitralica è possibile solo per la malattia cronica, in quanto
le forme acute provocano un quadro clinico devastante, poiché il ventricolo non ha il tempo di adattarsi alle
modificazioni di volume, con conseguente rapida evoluzione sfavorevole. Una precisa stadiazione medico-
legale dovrà essere incentrata sui determinanti clinico-prognostici di usuale considerazione nella storia
naturale della malattia, rammentando che il volume del rigurgito e, soprattutto, la graduazione della
disfunzione ventricolare sinistra costituiscono i parametri di maggiore significatività. La valutazione
nell’ambito dei range indicati deve tenere conto dei parametri valutativi generali per le valvulopatie sopra
indicati.
Stadio I. Insufficienza mitralica lieve. 5-10%
Raggio PISA variabile, ERO <0.20 cm2, RV < 30 ml, VC < 3 mm, estensione del jet/atrio
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
sn <20%, frazione di rigurgito <30, PVF normale, flusso diastolico trans-mitralico E/A<1,
penetrazione del jet rigurgitante in atrio sinistro fino ad 1/3; area del jet rigurgitante <4 cm2;
volume telediastolico del ventricolo sinistro <110 ml/m2 e volume telesistolico del ventricolo
sinistro <45 ml/m2; diametro telediastolico del ventricolo sinistro <63 mm e diametro
telesistolico del ventricolo sinistro <42 mm; rapporto massa/volume >1; rapporto raggio/
spessore <3.7; frazione di eiezione >50%. Clinicamente in tale categoria rientrano i soggetti
asintomatici e con capacità funzionale conservata, riconducili alla I classe NYHA.
Stadio II. Insufficienza mitralica moderata 11-30%
Raggio PISA variabile, ERO <0.20-0.29 cm2, RV 30-44 ml, VC variabile (comunque
compresa tra 3 e 7 mm), estensione del jet/atrio sn variabile (comunque compreso tra 20%
e 40%), frazione di rigurgito 30-39, PVF normale, penetrazione del jet rigurgitante in atrio
sinistro fino a 2/3; area del jet rigurgitante 4-8 cm2; volume telediastolico ventricolo sinistro
<110 ml/m2 e volume telesistolico <45 ml/m2; diametro telediastolico del ventricolo sinistro
<63mm e diametro telesistolico <42 mm; rapporto massa/volume >1; frazione di eiezione
<50%. In tale categoria rientrano i soggetti oligosintomatici e con capacità funzionale
discretamente conservata, riconducibili alla II classe NYHA.
Stadio IIIa. Insufficienza mitralica media 31-40%
Raggio PISA variabile, ERO <0.30-0.39 cm2, RV 45-59 ml, VC variabile (comunque
compresa tra 3 e 7 mm), estensione del jet/atrio sn variabile (comunque compreso tra 20%
e 40%), frazione di rigurgito 40-49, PVF inversione sistolica monolaterale (consensuale al
jet). I soggetti sono riconducibili alla II-III classe NYHA.
Stadio IIIb. Insufficienza mitralica medio-grave 41-60%
Raggio PISA >1 cm, ERO >0.40 cm2, (20 mm2 in caso di insufficienza mitralica ad eziologia
ischemica), RV >60 ml (30 ml in caso di insufficienza mitralica ad eziologia ischemica), VC
> 7 mm, estensione del jet/atrio sn variabile > 40% “swirling” del jet, frazione di rigurgito
>50, PVF normale, flusso diastolico transmitralico E/A> 2, PVF inversione sistolica
bilaterale; penetrazione del jet rigurgitante in atrio sinistro fino a 2/3; area del jet rigurgi-
tante >8 cm2 e rapporto tra area del jet e area dell’atrio sinistro >40%; volume telediastolico
del ventricolo sinistro >120 ml/m2 e volume telesistolico >50 ml/m2; diametro telediastolico
del ventricolo sinistro >65 mm e diametro telesistolico >44 mm; rapporto massa/volume
<1->0.8; rapporto raggio/spessore >3.7-<4; frazione di eiezione <40%. La sintomatologia è
conclamata anche a riposo, con capacità funzionale nettamente ridotta, segni di congestione
polmonare, riconducibilità alla III classe NYHA.
Stadio IV. Insufficienza mitralica grave transizionale 61-80%
Il volume telediastolico del ventricolo sinistro è >200 ml/m2 ed il volume telesistolico è >60
ml/m2; il diametro telediastolico del ventricolo sinistro è >70 mm ed il diametro telesistolico
è >50mm; rapporto massa/volume <0.8; rapporto raggio/spessore >4; stress sistolico/
volume telesistolico <2.5; frazione di eiezione <30%. Clinicamente in tale categoria rien-
trano i soggetti con sintomatologia grave caratterizzata da segni e sintomi di congestione
sistemica e con capacità di esercizio notevolmente ridotta (intolleranza allo sforzo a basso
carico: 3 METs, VO2 max 7-17.5 ml/kg/min), segni di moderata-severa congestione
polmonare riconoscibili all’esame radiografico del torace, pienamente riconducili alla III
classe NYHA o con frequente passaggio alla IV.
Stadio V. Insufficienza mitralica scompensata grave 81-90%
L’intervento chirurgico è indicato ma vi è controindicazione generale o elevata probabilità
di evoluzione sfavorevole post-chirurgica. Soggetti pienamente ascrivibili alla IV classe
NYHA con intolleranza assoluta allo sforzo a bassissimo carico: 2 METs, VO2 max <7
ml/kg/min).
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione nell’ambito dei range indicati deve tenere conto dei parametri valutativi generali per le
valvulopatie sopra indicati.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione nell’ambito dei range indicati deve tenere conto dei parametri valutativi generali per le
valvulopatie sopra indicati.
Stadio I. Insufficienza aortica lieve 5-10%
Soggetti asintomatici con normale funzione ventricolare sinistra, normale capacità funzio-
nale e tolleranza allo sforzo fisico agli alti carichi di lavoro. All’esame ecocardiografico si
riscontrano i seguenti parametri: diametri e volumi del ventricolo sinistro normali, morfo-
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
logia valvolare normale/alterata, ampiezza della VC <3.0 mm, ampiezza del jet/diametro del
TEVS <25%, inversione del flusso in aorta discendente prossimale breve (solo in proto-
diastole) o assente, intensità del segnale incompleta o debole, PHT >500 msec, area jet/area
TEVS <5%, VR <30 ml/b, FR < 30%, EROA < 10 mm2.
Stadio II. Insufficienza aortica moderata 11-25%
Soggetti asintomatici con normale funzione ventricolare sinistra, normale capacità funzio-
nale e tolleranza allo sforzo fisico agli alti carichi di lavoro. All’esame ecocardiografico si
riscontrano i seguenti parametri: diametri e volumi del ventricolo sinistro normali o
lievemente aumentati, morfologia valvolare normale/alterata, ampiezza della VC 3.0-6.0
mm, ampiezza del jet/diametro del TEVS 25-64%, inversione del flusso in aorta discendente
prossimale intermedia o olodiastolica con v. telediastolica < 20cm/sec, intensità del segnale
densa, PHT 500-200 msec, area jet/area TEVS 5-59%, VR 30-59 ml/b, FR 30-49%, EROA
10-29 mm2.
Stadio III. Insufficienza aortica grave con ipertrofia adeguata (compenso) 26-50%
Soggetti asintomatici o oligosintomatici con F.E. prossima a 50% ed ipertrofia “adeguata”
(rapporto raggio ventricolare sinistro/volume ventricolare sinistro >1, diametro telesistolico
del ventricolo sinistro <40 mm). La valutazione ecocardiografica mostra parametri intermedi
tra la classe moderata e la classe grave sintomatica.
Stadio IV. Insufficienza aortica grave sintomatica con ipertrofia inadeguata 51-80%
Soggetti sintomatici con netta riduzione della F.E., dilatazione telesistolica ventricolare
sinistra e/o marcata dilatazione telediastolica ventricolare sinistra; ascrivibilità alla III classe
NYHA o frequenti passaggi verso la IV. All’ecocardiografia sono presenti i seguenti
parametri: diametri e volumi del ventricolo aumentati (diametro telesistolico del ventricolo
sinistro >40 e <50 mm e/o diametro telediastolico del ventricolo sinistro >70 mm, rapporto
raggio/spessore >3.6 e <4, rapporto massa/volume <1 e >0.8), morfologia valvolare alterata,
ampiezza della VC >6.0 mm, ampiezza del jet/diametro del TEVS >65%, inversione del
flusso in aorta discendente prossimale olodiastolica con v. telediastolica > 20cm/sec,
intensità del segnale densa, PHT <200 msec, area jet/area TEVS >60%, VR >60 ml/b, FR
>50%, EROA >30 mm2.
Stadio V. Insufficienza aortica severa gravemente sintomatica (insufficienza ventricolare 81-90%
sinistra)
Soggetti gravemente sintomatici con riduzione marcata e irreversibile della F.E., con
marcatissima dilatazione telediastolica ventricolare sinistra, attribuibili alla IV classe
NYHA, con assoluta intolleranza allo sforzo al bassissimo carico e ischemia a bassissimo
carico di lavoro o a riposo. All’ecocardiografia si denota un aggravamento di tutti i parametri
precedenti descritti, con particolare riferimento alle condizioni morfologiche e funzionali
del ventricolo sinistro (diametro telesistolico del ventricolo sinistro >50 mm e/o diametro
telediastolico del ventricolo sinistro >80 mm, rapporto raggio/spessore >4, rapporto
massa/volume <0.8). Sono presenti aritmie potenzialmente maligne e disfunzione diastolica
di III grado irreversibile.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione nell’ambito dei range indicati deve tenere conto dei parametri valutativi generali per le val-
vulopatie sopra indicati.
Stadio I. Stenosi tricuspidale lieve 5-10%
Soggetti asintomatici, area valvolare <2 — >1,5 cm2, dimensione dell’atrio destro nella norma,
TAPSE (Tricuspid Annular Plane Systolic Excursion) >14mm, gradiente di pressione medio
<2 mmHg.
Stadio II. Stenosi tricuspidale moderata 11-20%
Soggetti asintomatici, area valvolare <1,5 — >1 cm2, lieve dilatazione dell’atrio destro, TAPSE
>14mm, gradiente di pressione medio 2-4 mmHg.
Stadio III. Stenosi tricuspidale severa 21-30%
Soggetti paucisintomatici, area valvolare <1 — >0,6 cm2, dilatazione dell’atrio destro, TAPSE
>14mm, gradiente di pressione medio >5 mmHg
Stadio IV. Stenosi tricuspidale serrata 31-50%
Soggetti sintomatici, area valvolare <0,5 cm2, marcata dilatazione dell’atrio destro, TAPSE <
14mm, gradiente di pressione medio >10 mmHg.
In caso di controindicazione all’intervento chirurgico, in considerazione della gravità e della
rapida progressione fisiopatologica, la percentuale dovrà essere sensibilmente innalzata e
rapportata orientativamente al 70%. Specifica attenzione deve essere rivolta all’eventuale
concomitante presenza di un associato vizio valvolare mitralico.
soggetti presenta sintomi intermedi fra le due classi, caratterizzati da cianosi, intolle-
ranza allo sforzo, cardiopalmo; nelle forme severe l’evoluzione è verso lo scompenso
cardiaco congestizio.
Il vizio valvolare da insufficienza tricuspidalica è, inizialmente, ben tollerato per
l’elevata compliance della camera ventricolare destra. Allorché quest’ultima diventi
disfunzionante, prevale il quadro di ipertensione venosa sistemica, con epatomegalia,
ascite, stato anasarcatico. Spesso è associata a vizio mitralico. La sintomatologia insorge
in genere lentamente e progressivamente ed è riconducibile allo stato congestizio del
circolo venoso sistemico.
Con le tecniche ecocardiografiche doppler e color-doppler è possibile valutare la
presenza e l’entità del reflusso. La tecnica color doppler valuta l’area del jet rigurgitante,
nonché la presenza di una eventuale dilatazione atriale. Un’area del jet di rigurgito che
interessi >40% dell’atrio destro è compatibile con insufficienza grave. Particolarmente
utile nella valutazione della gravità del rigurgito è la valutazione delle zone di conver-
genza del flusso prossimale all’orifizio (PISA). Tale metodo si basa sul principio che in
detta zona il flusso segue un comportamento ben preciso, accelerando e convergendo
verso l’orifizio, riconoscendo esattamente la velocita` a livello del punto di aliesing del
colore (punto nel quale vi e` il cambiamento del colore). Si ottiene così la misura della
velocita` a livello di un orifizio del tutto virtuale, corrispondente alla c.d. emisfera del
PISA, e dell’area di tale orifizio virtuale, misurando il raggio dell’emisfera del PISA.
Conoscendo entrambi i parametri si potrà calcolare la velocità del flusso.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione nell’ambito dei range indicati deve tenere conto dei parametri valutativi generali per le
valvulopatie sopra indicati.
Stadio I. Insufficienza tricuspidale lieve 5-10%
Soggetti asintomatici, con atrio destro, ventricolo destro e vena cava di dimensioni nella
norma, lembi tricuspidali morfologicamente normali, con ampiezza dell’area del jet <5cm2
(con limite di Nyquist 50-60 cm/sec), raggio PISA ≤ 5mm (con limite di Nyquist 28 cm/sec),
densità del Jet-CW incompleto, poco visibile, contorno del getto parabolico, flusso alle vene
sovraepatiche a dominanza sistolica, ampiezza della vena contracta non determinata.
Stadio II. Insufficienza tricuspidale moderata 11-20%
Soggetti sostanzialmente asintomatici, con atrio destro, ventricolo destro e vena cava di
dimensioni nella norma o lievemente dilatati, lembi tricuspidali morfologicamente normali
o lievemente anormali, con ampiezza dell’area del jet 5-10 cm2 (con limite di Nyquist 50-60
cm/sec), raggio PISA 6-9 mm (con limite di Nyquist 28 cm/sec), Jet-CW denso, contorno
del getto parabolico, flusso alle vene sovraepatiche intermedio, ampiezza della vena con-
tracta ≤ 7 mm, area effettiva dell’orifizio rigurgitante (EROA) non definita.
Stadio III. Insufficienza tricuspidale grave 21-30%
Soggetti paucisintomatici, con atrio destro, ventricolo destro e vena cava molto dilatati, con
lembi tricuspidali morfologicamente anormali e/o con ampio difetto di coaptazione, con
ampiezza dell’area del jet >10 cm2 (con limite di Nyquist 50-60 cm/sec), raggio PISA >9 mm
(con limite di Nyquist 28 cm/sec), Jet-CW denso, contorno del getto triangolare con picco
precoce, flusso alle vene sovraepatiche con rigurgito sistolico e inversione del flusso,
ampiezza della vena contracta ≥7 mm, volume rigurgitante ≥45 ml/battito, area effettiva
dell’orifizio rigurgitante (EROA) ≥40 mm2.
Stadio IV. Insufficienza tricuspidale grave con FE del ventricolo destro 20% 31-50%
In questo caso specifica attenzione deve essere rivolta all’eventuale concomitante presenza
di un associato vizio valvolare mitralico; la percentuale dovrà essere innalzata (anche fino al
70%) in caso di controindicazione all’intervento chirurgico.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per i soggetti affetti da stenosi polmonare si deve fare riferimento alla tabella generale di valutazione delle
cardiopatie congenite, integrando i dati ivi presenti con la presenza o meno di insufficienza valvolare, il
gradiente transvalvolare e le condizioni di parete del ventricolo destro.
Stadio I. Soggetto con stenosi polmonare in condizioni buone 5-10%
Soggetto asintomatico (I classe NYHA), in assenza di insufficienza valvolare, ovvero
insufficienza polmonare lieve o gradiente massimo <20 mmHg, dimensioni del ventricolo
destro nella norma, funzione ventricolare normale, tolleranza allo sforzo, CF >80% degli
standard di riferimento (VO2 ≥24,5 ml/kg/min), aritmie assenti.
Stadio II. Soggetto con stenosi polmonare in condizioni discrete 11-35%
Soggetto paucisintomatico ed ascrivibile alla II classe NYHA, con gradiente massimo
residuo trans-valvolare <40 mmHg, insufficienza polmonare lieve-moderata, dimensioni del
ventricolo destro lievemente ingrandite, lieve ipertrofia residua, funzione del ventricolo
destro nella norma, tolleranza allo sforzo e CF 70-80% degli standard di riferimento (VO2
max 24,5-20 ml/kg/min), possibile sviluppo di aritmie (extrasistolie).
Stadio III. Soggetto con stenosi polmonare in condizioni mediocri 36-50%
Soggetto sintomatico e ascrivibile alla III classe NYHA, stenosi polmonare con gradiente
massimo <60 mmHg e/o insufficienza polmonare moderata-severa e/o insufficienza tricu-
spidale moderata, con dimensioni del ventricolo destro aumentate e pareti ipertrofiche,
funzione del ventricolo destro ridotta, tolleranza allo sforzo e/o CF 60-70% degli standard
di riferimento (VO2 max 20-17,5 ml/kg/min o anche inferiore), possibile sviluppo di aritmie
sopraventricolari o ventricolari ripetitive.
Stadio IV. Soggetto con stenosi polmonare in condizioni scadenti 51-80%
Soggetto sintomatico, con presenza di dispnea ai piccoli sforzi e segni di scompenso
congestizio e cianosi, attribuibile alla III classe funzionale NYHA con frequenti passaggi alla
IV, con insufficienza polmonare e/o tricuspidale e/o ostruzione all’efflusso destro impor-
tanti, dimensioni del ventricolo destro molto aumentate, ipertrofia importante e grave deficit
diastolico ventricolare destro, ingrandimento atrio destro, funzione ventricolare destra
ridotta, tolleranza allo sforzo e/o CF <60-50% degli standard di riferimento (VO2 max
<17,5 ml/kg/min o anche inferiore), frequenti aritmie, anche potenzialmente maligne.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 416 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
7.6. Aritmie
Per aritmia si considera ogni situazione non classificabile come ritmo cardiaco
normale, inteso come ritmo avente origine dal nodo del seno e con normale frequenza
e conduzione. Un ritmo cardiaco regolare presenta variazioni inferiori a 0.16 secondi tra
cicli consecutivi. Nell’adulto a riposo si definisce normale una frequenza compresa fra
60 e 100 battiti al minuto (sebbene recentemente si preferisca considerare una fre-
quenza più bassa, tra i 50 e gli 80 bpm), mentre si definisce normale conduzione la
presenza all’ECG di un’onda P sinusale di durata <120 ms, un intervallo PR di durata
≤100 ms.
Le aritmie rappresentano quadri clinici complessi e tra loro molto diversificati, che
hanno spesso come risultato una più o meno grave disfunzione della pompa cardiaca,
caratterizzata da un’attivazione anormale del miocardio che causa contrazione ventri-
colare squilibrata con una zona che si contrae in anticipo e l’altra in ritardo.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
In termini generali, stante la estrema complessità e variegatura dei disturbi del ritmo cardiaco, non è
possibile stabilire una valutazione assoluta univoca per tutte le entità aritmiche. Tuttavia, si propone una
valutazione basata essenzialmente sulla gravità del quadro clinico e sul grado di menomazione che l’evento
aritmico determina a carico della funzionalità cardiaca.
Disturbi del ritmo benigni o disturbi della conduzione isolati, rilevati all’indagine stru- 5%
mentale ma clinicamente silenti e non necessitanti di terapia medica
Rientrano in tale categoria anche le extrasistolie, siano sopraventricolari che ventricolari,
purché adeguatamente controllabili con terapia medica.
Disturbi del ritmo benigni o disturbi della conduzione frequenti e lievemente sintomatici, 6-10%
comunque ben controllabili mediante terapia farmacologica
Disturbi del ritmo potenzialmente maligni o disturbi della conduzione frequenti e sinto- 11-20%
matici, ma controllabili mediante terapia farmacologica
Disturbi del ritmo potenzialmente maligni, sintomatici e refrattari al trattamento, che 21-30%
necessitano di impianto di pacemaker
Disturbi del ritmo sintomatici nonostante l’impianto di pacemaker 31-40%
trombi in atrio e/o in auricola sinistra e di valutarne l’evoluzione a seguito della terapia
anticoagulante. La graduazione della menomazione non può prescindere dall’analisi dei
parametri prognostici negativi, ossia: età superiore a 65 anni, sesso maschile, frequenza
ventricolare media elevata (compresa tra 100-120 bpm o, peggio, >120 bpm); irregolarità
marcata R-R (responsabile di ulteriore deficit emodinamico); disfunzione diastolica del
ventricolo sinistro; atrio sinistro >50 mm; refrattarietà alla politerapia; eziologia valvolare
o extravalvolare con rischio embolico (quest’ultimo può essere stratificato a sua volta sulla
base di diversi parametri: pregresso episodio, ipertensione arteriosa, diabete mellito, età
>65 anni, disfunzione ventricolare sinistra, lunga durata della fibrillazione atriale, trombo
mobile in atrio sinistro con diametro >1,5 cm).
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione complessiva del danno deve essere impostata sulla stima della patologia cardiaca di base
integrata con la percentuale relativa alla FAC.
Fibrillazione atriale cronica (FAC) 15-30%
7.6.b. Pacemaker
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
In linea generale, deve essere attribuita una percentuale invalidante sulla base della mera presenza del
pacemaker; ovviamente, se impiantato con esito totalmente positivo, la risoluzione del disturbo deve indurre
NOMELAV: 15/21199 PAG: 418 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
ad un abbattimento della valutazione relativa alle aritmie. Tuttavia, una valutazione più accurata può essere
posta anche in base al tipo di pacemaker utilizzato. La scelta del tipo di pacemaker da impiantare oltre ad
essere condizionata dall’analisi di una serie di variabili (fisiopatologiche, sociali, economiche, tecniche), è
subordinata alla previsione dei risultati clinici che si vogliono ottenere.
Stimolatore monocamerale a frequenza fissa (VVI) o variabile (VVIR) 5-15%
Determina la perdita del contributo atriale al riempimento ventricolare, della sincronizza-
zione AV e dell’adeguamento della frequenza cardiaca alle richieste del sistema cardiova-
scolare; trova prevalente indicazione nei soggetti in cui la risoluzione del disturbo elettrico
determina un recupero funzionale compatibile con uno stile di vita pur sempre a basso
consumo energetico e che non richieda un costante adeguamento allo sforzo fisico.
Stimolatore bicamerale a frequenza variabile (DDDR) 16-25%
Presuppone un fisiologico funzionamento del nodo seno-atriale; permette di conservare la
contrazione atrio-ventricolare sequenziale in condizioni di riposo ed in condizioni di stress,
sia se è presente ritmo spontaneo che durante le fasi di stimolazione artificiale; trova
prevalente indicazione nei giovani, anche se impegnati in attività protratte ed intense.
Stimolatore bicamerale a frequenza fissa (DDD) 26-40%
Il pacemaker è regolato dal nodo seno-atriale; prerequisito fondamentale è, quindi, la
presenza di un ritmo sinusale costante con normale risposta alle influenze neurovegetative
ed all’esercizio; tale stimolatore attiva l’atrio e poi il ventricolo con un ritardo prestabilito e
modifica automaticamente la frequenza in base al ritmo spontaneo presente in quel
momento.
Defibrillatori cardiaci impiantabili (ICD) 11-15%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La presenza di dilatazione aneurismatica ventricolare deve essere attentamente considerata nell’ambito
dell’attribuzione della percentuale invalidante all’interno delle varie fasce valutative (soprattutto in relazione
al rischio trombotico e/o aritmico); lo stesso dicasi per la sussistenza di una franca insufficienza mitralica:
entrambe devono, quindi, condurre ad un incremento percentuale che orientativamente potrà essere
considerato fino al 10%.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 419 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Stadio I. Coronaropatia lieve 11-30%
Al test ergometrico capacità funzionale 5-6 METs, Duke Treadmill Score ≥5, Doppio
Prodotto tra 25000 e 20000; alla scintigrafia GATED SPECT ischemia lieve (SSS 4-7 —
SDS 3-5) oppure difetto di perfusione <10% del volume del VS; all’eco-stress cinesi
normale o alterata a carico di un singolo segmento; FE 40-50% e funzione diastolica
normale o disfunzione di I grado; riserva coronarica ≥2.5 o compresa fra 2 e 2,5; nel
post-infarto ischemia miocardica inducibile <20% del miocardio vitale residuo; alterato
rilasciamento diastolico e rigurgito funzionale mitralico minimo o lieve.
Stadio II. Coronaropatia moderata 31-60%
Al test ergometrico capacità funzionale 4 METs, Duke Treadmill Score compreso tra -10 e
4, Doppio Prodotto <20000; alla scintigrafia GATED SPECT ischemia di grado medio (SSS
8-13 — SDS 6-7) oppure difetto di perfusione 10-20 % del volume del VS; all’eco-stress
alterata cinesi a carico di due segmenti; FE 30-40% e disfunzione diastolica di II grado,
riserva coronarica compresa fra <2; nel post-infarto ischemia miocardica inducibile >50%
del miocardio vitale residuo; pattern diastolico di tipo restrittivo; rigurgito funzionale
mitralico moderato specie se associato a disfunzione sistolica significativa.
Stadio III. Coronaropatia grave 61-80%
Al test ergometrico capacità funzionale 3 METs, Duke Treadmill Score < a -11, Doppio
Prodotto <10000; alla scintigrafia GATED SPECT ischemia di grado severo (SSS >13. SDS
>7) o difetto di perfusione 20-40% del volume del VS; all’eco-stress alterata cinesi a carico
di tre o più segmenti; FE<30% e disfunzione diastolica di III grado, riserva coronarica <1,8.
Stadio IV. Coronaropatia gravissima 81-90%
Al test ergometrico capacità funzionale <3; alla scintigrafia GATED SPECT difetto di
perfusione >40% del volume del VS; all’eco-stress FE <20% e disfunzione diastolica di III
grado irreversibile (in questi casi la rivascolarizzazione miocardica è controindicata o non
indicata), riserva coronarica <1. In conseguenza dell’infarto miocardico acuto (IMA) si può
determinare il fenomeno del “rimodellamento ventricolare” (con espansione e dilatazione)
consistente in una serie di processi patologici, regolati da fattori emodinamici, neuro-
umorali e genetici, responsabili delle variazioni dimensionali, geometriche, strutturali e
funzionali del ventricolo che seguono l’evento acuto. A lungo andare questo processo di
rimodellamento ventricolare con assottigliamento parietale, fino all’aneurisma, degenera
nell’insufficienza ventricolare, con conseguente e progressiva riduzione della contrattilità
globale ed ulteriore dilatazione ventricolare fino allo scompenso cardiaco.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Stadio I 5-10%
Soggetti con ipertensione arteriosa paucisintomatica, ben controllabile grazie ad adeguato
regime dietetico e riduzione dei fattori di rischio modificabili, non necessitante di farma-
coterapia, con rischio di eventi cardio-vascolari ridotto.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 420 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Stadio II 11-25%
Soggetti a basso rischio di sviluppo di eventi cardio-vascolari, che presentano pressione
normale-elevata o ipertensione di I grado, non controllabile con la dieta ma con adeguata
risposta al trattamento farmacologico, in assenza di danno d’organo obiettivabile ovvero con
iniziali alterazioni strutturali a carico del cuore (ipertrofia ventricolare sinistra lieve).
Stadio III 26-40%
Soggetti a moderato rischio di sviluppo di eventi cardio-vascolari, con ipertensione di II
grado controllabile con monoterapia o polifarmacoterapia, con evidenza strumentale di
ipertrofia ventricolare sinistra moderata e lieve deficit della funzionalità cardiaca, positività
ecografica per placche aterosclerotiche aortiche e/o carotidee, iniziale riduzione del filtrato
glomerulare a 60-90 ml/min.
Stadio IV 41-60%
Soggetti con elevato rischio di sviluppo di eventi cardio-vascolari, con ipertensione di III
grado necessitante di polifarmacoterapia, con evidenza strumentale di ipertrofia ventricolare
sinistra severa con riduzione della FE pari a 30-40% e sintomatologia anginosa sotto sforzo,
assottigliamento delle arterie retiniche, riduzione del filtrato glomerulare a 30-60 ml/min e
comparsa di proteinuria <2 mg/dl.
Stadio V 61-80%
Soggetti a rischio molto elevato di sviluppo di eventi cardio-vascolari, con ipertensione di III
grado poco rispondente al trattamento farmacologico, con severa riduzione della funziona-
lità cardiaca (FE <30%) e comparsa di sintomatologia francamente ischemica (infarto
miocardico, sindromi coronariche acute), insufficienza renale e proteinuria non selettiva,
eventi ischemici cerebro-vascolari, comparsa di danni vascolari a carico dei principali
distretti arteriosi (aneurismi dissecanti, arteriopatie ostruttive), essudati ed emorragie reti-
niche con papilledema.
Sempre in tale contesto valutativo, con particolare riferimento alla IV e V classe, possono
essere inseriti i rari, ma gravi, casi di ipertensione maligna, intesa come abnorme e rapido
aumento della pressione arteriosa sistemica di molto superiore ai valori fisiologici, refrattaria
al trattamento anche polifarmacologico. In tale categoria rientrano soggetti che mostrano
pressione diastolica generalmente >130 mmHg, pressione sistolica >200 mmHg, con
encefalopatia ipertensiva (cefalea, vomito, ansia, emorragia cerebrale, nausea, annebbia-
mento della vista, fino a convulsioni, stupore, coma), danni retinici (edema papillare,
emorragia ed essudazione retinica), danni renali (ematuria, proteinuria con progressiva
oliguria e tendenza all’evoluzione in insufficienza renale), segni ECG da sovraccarico
funzionale del ventricolo sinistro, scompenso cardiaco, dolore toracico, dispnea.
Il trapianto cardiaco può essere di due tipi: ortotopico, che consiste nella rimozione
del cuore malato e nella sua sostituzione con il cuore del donatore che viene posizionato
in sede anatomica nel mediastino anteriore; eterotopico, che comporta la collocazione
del cuore del donatore in sede diversa da quella anatomica e, precisamente, nel cavo
pleurico destro in parallelo o piggy-back (‘a cavalluccio’) rispetto al cuore del ricevente
con cui viene collegato (entrambi i cuori funzionano in parallelo pur contraendosi con
un ritmo indipendente).
L’indicazione clinica è rappresentata dalla cardiopatia scompensata allo stadio
terminale con scadente qualità di vita, limitata sopravvivenza e refrattarietà alla terapia
medica massimale ed alla chirurgia conservativa.
I cardio-trapiantati sottoposti a prove ergometriche raggiungono carichi di lavoro
ridotti, evidenziando una diminuita tolleranza allo sforzo rispetto ai soggetti normali,
NOMELAV: 15/21199 PAG: 421 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
pur a fronte di normale frazione di eiezione. Ciò è dovuto all’impossibilità di fornire una
portata cardiaca adatta alle aumentate richieste metaboliche dei tessuti determinata, in
particolare, da inadeguata modificazione della frequenza cardiaca causata da denerva-
zione, da asincronia di contrazione atriale e da abnorme incremento della gittata
sistolica verosimilmente secondario a disfunzione del ventricolo destro. Inoltre, reperto
comune è l’ipertensione arteriosa a riposo, che trova giustificazione in una risposta
persistente ad una condizione pre-operatoria di scompenso cardiaco congestizio ed alla
risultante elevazione cronica di noradrenalina plasmatica, oltre che nella somministra-
zione di immunosoppressori e di corticosteroidi che provocano un considerevole
aumento della pressione arteriosa diastolica oltre a danno renale.
Per quanto concerne le complicanze, la più grave in assoluto è rappresentata dal
rigetto, che può essere iperacuto (entro poche ore dal trapianto; è legato alla presenza
nel sangue del ricevente di anticorpi che riconoscono gli antigeni del donatore), acuto
(si manifesta da pochi giorni e fino ad un anno dal trapianto: generalmente nei primi tre
mesi; è il risultato di una risposta immunitaria specifica cellulomediata diretta contro
l’organo trapiantato, a volte favorita dalla mancata assunzione dei farmaci antirigetto;
trattasi di un processo più lento rispetto all’iperacuto poiché legato alla reazione
cellulomediata) e cronico (si può manifestare già a partire dal sesto mese ma spesso
insorge ad un anno di distanza dal trapianto; contribuiscono alla sua eziopatogenesi,
oltre ai fattori immunologici, la coesistenza di infezione da citomegalovirus, l’iperlipi-
demia, l’età del donatore, l’ischemia miocardica e patologie cardiache del cuore donato;
nella sua genesi particolare importanza assume lo sviluppo di una peculiare forma di
coronaropatia che si differenzia da quella aterosclerotica per un interessamento distale
e plurimo di vasi coronarici periferici, specialmente di piccoli vasi intramiocardici, su
base immunologica, non associata a sviluppo di un adeguato circolo collaterale né a
calcificazioni.
Secondo la stadiazione internazionale, eseguendo delle biopsie endomiocardiche
seriate, il rigetto viene classificato e così suddiviso:
— rigetto lieve: è quasi costantemente presente e non prevede trattamento; si
manifesta con presenza di infiltrati infiammatori mononucleari perivascolari ed inter-
stiziali (linfociti e macrofagi) senza danno miocitario o con al massimo un focolaio di
danno;
— rigetto moderato: si manifesta con due o più infiltrati (linfociti e macrofagi,
occasionalmente eosinofili) con associato danno dei miociti;
— rigetto severo: si ha ampio infiltrato infiammatorio (polimorfo sebbene con
predominanza di linfociti e macrofagi) con danno diffuso dei miociti ± edema intersti-
ziale ± emorragia da rottura dei vasi del microcircolo ± vasculite.
Ulteriori complicanze sono di tipo neoplastico ed infettivo (come conseguenza
della terapia immunosoppressiva), emodinamico (vasculopatia polmonare con scom-
penso cardiaco), renale (possibile insufficienza renale) ed endocrinologico (possibile
diabete mellito).
La sopravvivenza del cardio-trapiantato in Italia è stimata nel 2011 in misura pari
a 83,9% a 1 anno e 75% a 5 anni; nell’89,3% dei casi i soggetti sottoposti a trapianto
di cuore lavorano o sono nelle condizioni di farlo e quindi sono pienamente reinseribili
nella normale attività sociale.
Il trapianto di cuore è a tutt’oggi il gold standard per l´insufficienza cardiaca
avanzata refrattaria alla terapia medica ed elettrica. Tuttavia, a causa della notevole
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disparità tra i soggetti con grave insufficienza cardiaca e la disponibilità di organi per il
trapianto, nei casi più critici l’unica soluzione di trattamento è l’utilizzo dell’assistenza
meccanica al circolo. Questa può rappresentare una soluzione “ponte” (bridge to
transplant) in soggetti in lista d’attesa, prima che le condizioni cliniche siano troppo
scadenti per affrontare il trapianto, o essere utilizzata in soggetti non eleggibili a
trapianto cardiaco per controindicazioni legate all’età o a specifiche comorbidità (anche
di ordine psichico). Nei casi in cui la controindicazione al trapianto sia permanente, la
terapia con assistenza ventricolare può essere considerata definitiva (destination the-
rapy). Esistono diversi sistemi di assistenza meccanica, quelli più frequentemente
utilizzati sono il VAD e l’ECMO.
Un VAD (ventricular assist device) è un sistema di pompe meccaniche che
sostituiscono la funzione propulsiva di uno o di entrambi i ventricoli sfruttandone, in
molti casi, la funzione di camere di raccolta del sangue. Nel modello di più frequente
utilizzo la pompa meccanica è collegata all’apice del ventricolo sinistro da cui aspira il
sangue e lo pompa nell’aorta ascendente. Il VAD costituisce un ponte al trapianto di
cuore e pertanto le indicazioni all’impianto sono le stesse del trapianto di cuore; esso
viene posizionato all’interno del torace e dalla parete addominale fuoriesce un cavo
sottile che collega la pompa meccanica a delle batterie elettriche, necessarie per farla
funzionare. In rapporto alla loro finalità terapeutica si identificano diversi sottogruppi
di VAD: BTT (bridge to transplant); BTR (bridge to recovery): si utilizza il VAD in attesa
di un recupero della funzione cardiaca; BTB (bridge to bridge): il VAD è utilizzato come
“ponte” per un altro VAD; ATT (alternative to transplant): il VAD diventa il tratta-
mento definitivo (destination therapy).
Tra le complicanze più frequenti, l’infezione del device rappresenta pressoché la
regola. Inoltre, in una discreta quantità di casi (27% circa) è necessaria la sostituzione
del device per malfunzionamenti.
Relativamente all’impiego del VAD come destination therapy ne esistono diversi
modelli, tutti accomunati dalla possibilità di modulare (mediante apposito sistema
computerizzato) la frequenza funzionale della pompa artificiale in relazione all’attività
fisica che si intende svolgere. Ne deriva un notevole miglioramento della sintomatologia
correlata all’insufficienza cardiaca, con possibile passaggio da una III/IV classe NYHA
conclamata sino ad una I/II classe NYHA. Tale circostanza è altresì confermata
dall’evidenza che a seguito dell’impianto del VAD, solo il 10% circa dei soggetti
sopravvissuti ad un anno ha necessità di recarsi nuovamente in ospedale. Inoltre, si
raggiungono livelli di MET tali da consentire attività fisiche o sport leggeri (giardinag-
gio, passeggiate, golf), impossibili prima dell’operazione.
L’ECMO (ExtraCorporeal Membrane Oxygenation) è un’assistenza meccanica ex-
tracorporea, attraverso la quale non solo si vicaria per intero la funzione biventricolare
ma si provvede altresì al controllo degli scambi gassosi. Consiste nell’instaurare una
circolazione extra-corporea utilizzando circuiti biocompatibili e un particolare ossige-
natore la cui durata è di circa due settimane. In questo modo si permette un periodo di
osservazione durante il quale il cuore e i polmoni sono sostituiti nella loro funzione dal
dispositivo per valutare se il cuore danneggiato recupera parte della sua funzionalità. Se
questo recupero non dovesse avvenire, si procederà con altre strategie di trattamento
(trapianto, impianto di VAD). Da un’approfondita meta-analisi della letteratura è
emerso che tra le principali complicanze che sopraggiungono a seguito dell’utilizzo di
ECMO, in ordine di frequenza, si annoverano: insufficienza renale che necessita di
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Stadio I. Esiti di trapianto cardiaco in assenza di complicanze o con complicanze di grado 35-50%
lieve
Obiettività clinica, esami laboratoristici relativi alla crasi ematica, alla funzionalità renale,
epatica, al bilancio elettrolitico e mineralometria ossea computerizzata generalmente nei
limiti; biopsia endomiocardica sostanzialmente nei limiti, assenza di gravi alterazioni all’e-
cocardiogramma e all’elettrocardiogramma dinamico secondo Holter, tolleranza allo sforzo
pari o superiore a 5 METs, valutazione psichiatrica nella norma; anche nel migliore dei casi
vi è comunque una condizione funzionale ridotta rilevabile da una inadeguata risposta allo
sforzo con aumento della frequenza cardiaca e dell’inotropismo solo dopo 3-5 minuti
dall’inizio dello sforzo ed un recupero rallentato, aumento della pressione di riempimento
ventricolare durante sforzo e capacità di sforzo ridotta del 25% rispetto ai soggetti sani di
pari età, sesso, condotta di vita (sedentaria o attiva).
Stadio II. Esiti di trapianto cardiaco con complicanze di grado moderato 51-70%
Riscontro strumentale di ipertrofia ventricolare sinistra, ancora adeguata, e/o insufficienza
renale di grado moderato, coronaropatia e rigetto di grado moderato, elettrocardiogramma
dinamico secondo Holter negativo per severa ischemia miocardica o aritmie gravi, infezioni
saltuarie.
Stadio III. Esiti di trapianto cardiaco con complicanze di grado grave 71-90%
Cardiopatia ipertensiva di grado medio-severo con riscontro strumentale di ipertrofia
inadeguata, rigetto cronico da moderato a severo, infezioni ricorrenti, coronaropatia avan-
zata e/o insufficienza renale grave e/o neoplasie maligne e/o epatopatia grave e/o diabete
mellito in labile controllo farmacologico ovvero scompensato e/o grave osteoporosi.
Per la valutazione degli esiti del trapianto combinato cuore-polmone si rimanda al capitolo
8.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Nella pratica valutativa medico-legale, fra le possibili sequele delle cardiopatie post-traumatiche, vanno
soprattutto considerati: gli esiti cicatriziali della parete miocardica con la relativa sintomatologia associata;
le turbe del ritmo e/o anomalie della conduzione (immediate e/o a distanza); la presenza di dilatazioni o di
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
falsi aneurismi della parete; la pervietà del setto a diversa incidenza funzionale; le lesioni valvolari, causate
da un brusco aumento di pressione endoventricolare che, in diastole, può causare la lacerazione dei muscoli
papillari, delle corde tendinee e, più raramente, delle cuspidi valvolari.
La quantificazione di tali menomazioni può essere effettuata con criterio analogico prendendo a riferimento
i parametri percentuali indicati negli altri paragrafi di questo capitolo.
7.11. Vasculopatie
l’aneurisma si estende dalla porzione prossimale dell’aorta discendente fino alle arterie
Tipo 1
addominali, non oltre le arterie renali.
l’aneurisma si estende dalla porzione prossimale dell’aorta discendente fino alla porzione
Tipo 2
sottorenale.
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l’aneurisma si estende dalla porzione distale (al di sotto della 6ª costa) dell’aorta discendente
Tipo 3
alla porzione sottorenale.
Tipo 4 l’aneurisma si estende dallo iato diaframmatico alla porzione sottorenale.
L’AAA è considerato piccolo se il diametro è compreso fra 3.0 e 4.4 cm, medio fra
4.5 e 5.4 cm, ampio se superiore a 5.5 cm. Il rischio assoluto di rottura di un AAA di
5-6 cm è di circa il 20%, del 40% per quelli da 6 a 7 cm e superiore al 50% per quelli
maggiori di 7 cm, essendo la frequenza annuale di rottura, rispettivamente, il 4.1%, il
6.6% ed il 19%, mentre è estremamente bassa (0.3%) per aneurismi di dimensioni
inferiori a 4 cm e dell’1.5% per quelli tra 4 e 4.9 cm.
Fattori di rischio per la rottura sono: presenza di sintomatologia, BPCO, disseca-
zione, diametro massimo e tasso di espansione.
L’intervento chirurgico è altamente raccomandato o necessario se l’aneurisma è:
sintomatico, ha diametro maggiore di 5.5 cm (ma qui entrano in gioco anche altri fattori
quali sesso, età, comorbidità), è fissurato/rotto, presenta tasso di espansione maggiore
di 1 cm/anno. I fattori di rischio operatorio sono rappresentati da: età e status clinico,
diabete mellito, estensione della patologia, funzionalità cardiaca, respiratoria e renale.
Complicanze dell’intervento di endoprotesi sono soprattutto gli endoleak (persistente
rifornimento di sangue dell’aneurisma), che vengono suddivisi, specie per la protesiz-
zazione dell’aorta lombare, in:
— tipo I: mancata o incompleta espansione degli stent di ancoraggio, prossima-
mente e/o distalmente;
— tipo II: rifornimento della sacca ad opera di vasi collaterali, con inversione di
flusso;
— tipo III: perdita di coesione delle componenti strutturali dell’endoprotesi;
— tipo IV: permeabilizzazione o rottura della parete dell’endoprotesi;
— tipo V: endoleak non visibile alla diagnostica per immagini ma persiste l’espan-
sione dell’aneurisma.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Sulla base dei seguenti parametri clinico-strumentali, in presenza di controindicazioni relative o assolute
all’intervento chirurgico, è possibile proporre la seguente valutazione che, ovviamente, nella stragrande
maggioranza dei casi lascerà il passo alla valutazione degli esiti dell’intervento chirurgico (vedi infra). Al di
fuori dei casi sotto specificati inerenti la patologia aneurismatica, è ragionevole esprimere una percentuale
di danno biologico <40%.
Relativamente alle sequele chirurgiche, si propongono i seguente riferimenti valutativi che comprendono
anche le fattispecie relative alla riparazione delle lesioni traumatiche. La percentuale proposta tiene conto
del solo esito chirurgico, in relazione alle caratteristiche del mezzo impiantato e della ripresa funzionale.
La valutazione dovrà ovviamente essere integrata con apprezzamenti legati alle caratteristiche anatomopa-
tologiche del vaso riparato, degli esiti legati all’accesso chirurgico nonché delle eventuali complicanze legate
all’ipoafflusso locale o sistemico.
Soggetti con AAT ascendente >6 cm oppure AAT discendente >7 cm, oppure diametro 41-65%
dell’AAT >5.0 e <5.5 cm in caso di rapido accrescimento annuo (>1 cm/anno), oppure
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
soggetti con AAA di diametro >5.5 cm o >5.0 e <5.5 cm in caso di rapido accrescimento
annuo (>1 cm/anno), in tutti i casi con comparsa di sintomatologia aneurisma-correlata,
familiarità, malattia di Marfan
Soggetti con diametro AAT >8 cm con elevato rischio di rottura o dissecazione, oppure 66-80%
AAA del diametro >7 cm con rischio assoluto di rottura >50%
Esiti di lesioni di modesta entità (ematomi intramurali, flap intimali di piccole dimen- 1-5%
sioni), trattati in maniera conservativa farmacologica, in relazione alle caratteristiche
anatomo-patologiche del vaso interessato ed alla necessità di controlli specialistici
Esiti di lesioni trattate chirurgicamente con endoprotesi, con necessità di accertamenti e 10-20%
trattamenti farmacologici permanenti di prevenzione e/o trattamento delle complicanze
Esiti di lesioni trattate chirurgicamente con protesi vascolare totale 21-30%
Esiti di lesioni trattate chirurgicamente con tubo valvolato aortico 31-40%
Fontaine-Leriche Rutherford
Grado-
Stadio Clinica Clinica
Categoria
Asintomatico.
I Riscontro occasionale nel corso di in- 0 Asintomatico
dagini strumentali.
Claudicatio lieve: presenza di claudica-
IIa I-1 Claudicatio Lieve
tio intermittens sopra i 200 metri.
Claudicatio moderata: presenza di
claudicatio intermittens sotto i 200 me- I-2 Claudicatio moderata
IIb tri.
Claudicatio severa: presenza di claudi- I-3 Claudicatio severa
catio intermittens sotto i 100-80 metri.
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Fontaine-Leriche Rutherford
Grado-
Stadio Clinica Clinica
Categoria
Dolore ischemico a riposo. Riscontro
IIIa di un indice pressorio alla caviglia > 50
mmHg.
II-4 Dolore ischemico a riposo
Dolore ischemico a riposo. Riscontro
IIIb di un indice pressorio alla caviglia < 50
mmHg.
Comparsa di alterazioni trofiche di na-
Iva tura ischemica (ulcere e/o gangrena) III-5 Perdita minore di tessuto
limitate.
Comparsa di alterazioni trofiche di na-
IVb tura ischemica (ulcere e/o gangrena) III-6 Perdita maggior di tessuto
estese.
Per quanto concerne gli arti inferiori, sede più frequente di disturbi vascolari anche
di origine traumatica, ricordiamo che sotto il profilo diagnostico sono importanti due
dati: l’intervallo di marcia libero senza dolore (IML) ed il successivo tempo di recupero
(TR) dalla sintomatologia dolorosa ischemica. Questi devono trovare adeguati correlati
obiettivi oltrechè anamnestici: discromie-distrofie cutanee e degli annessi, ipotermia,
iposfigmia, reperto di soffi vascolari. Importante quindi la verifica (sebbene non si possa
in assoluto eliminare la soggettività) mediante test da sforzo su tappeto rotante.
Di assoluto rilievo l’esame eco-doppler, in tutte le sue applicazioni, che è in grado
di fornire numerose informazioni tra le quali la sede ed entità della stenosi e l’Indice di
Winsor (IW), rappresentato dal rapporto della pressione arteriosa sistolica rilevata a
livello dell’arteria tibiale posteriore e dell’arteria omerale. L’IW è normale per valori
compresi fra 1 e 1,2 (valori superiori indicano sclerosi parietale, valori inferiori stenosi
del lume). All’esame eco-color-Doppler l’entità della stenosi si misura sulla base dei
diametri a livello della stenosi ed a monte di essa, dell’entità della velocità dell’onda
Doppler, della morfologia dell’onda. Le caratteristiche di una normale onda velocime-
trica sono rappresentate da una velocità di picco sistolico (PSV) <120 cm/s nonché da
una morfologia trifasica dell’onda: branca ascendente = accelerazione, branca discen-
dente = decelerazione, reverse o back flow = piccola onda negativa telediastolica.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Secondo le predette classificazioni di Fontaine-Leriche e di Rutherford e tenuto conto del fatto che
all’amputazione di un arto inferiore si attribuisce il valore massimo del 60% (80% se bilaterale), le
arteriopatie obliteranti degli arti inferiori possono essere suddivise e valutate così come segue.
Nella valutazione percentuale sono compresi gli esiti di amputazioni distali (falangi delle dita o dita), che
indicano (specie nella bilateralità) una particolare severità del quadro clinico e depongono per livelli di
invalidità elevati all’interno delle varie fasce proposte. Ove siano presenti amputazioni più estese (es. piede,
gamba, coscia) si deve esprimere una valutazione complessiva che tenga conto della globale rilevante
invalidità del soggetto.
Nel caso si sia proceduto ad intervento chirurgico volto al ripristino del flusso vascolare mediante by-pass
(nel tratto sottoinguinale preferibilmente protesi autologhe: vena safena interna; nel tratto aorto-iliaco
protesi sintetiche) o endoprotesi si deve valutare l’entità del recupero funzionale ottenuto, procedendosi ad
eventuale riduzione dell’entità del danno biologico sulla scorta di quanto in precedenza espresso. In
proposito si rileva che il materiale utilizzato ha durata assai protratta (generalmente superiore al ciclo vitale)
e bassa trombogenicità o suscettibilità alle infezioni (il materiale sintetico presenta a tale riguardo maggior
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
rischi). Il recupero funzionale è in genere buono ma la percentuale attribuibile alla classe di invalidità
residua va maggiorata all’incirca del 10-15% in relazione a diversi parametri specifici del singolo caso: sede,
natura ed estensione della protesizzazione, terapia anticoagulante, necessità e frequenza dei controlli
clinico-strumentali. Anche il recupero successivo a disostruzione vascolare (angioplastica, trombo-
endoarteriectomia) è generalmente buono ma in tal caso si deve tener conto della patologia di base, delle
necessità terapeutiche e della frequenza di recidiva (oltre che, eventualmente, delle conseguenze sistemiche
di una possibile sindrome da rivascolarizzazione).
Stadio IIa Fontaine-Leriche (claudicatio lieve: presenza di claudicatio intermittens sopra i 6-20%
200 metri) o Grado-Categoria I-1 Rutherford (claudicatio lieve)
IML ≥200 m; tempo di recupero <2 min; stenosi del lume vasale 50-79%; IW = 0,9-0,6;
pressione alla caviglia a riposo tra 50-80 mmHg ma dopo sforzo riduzione >20% con tempo
di recupero >3 min; eco-color-Doppler: PSV 120-150 cm/s, rapporto PSV stenosi/PSV
prossimale >2, reverse flow assente, turbolenza post-stenotica, allargamento dello spettro,
onda monofasica immediatamente dopo la stenosi con ridotta PSV, possibile normalizza-
zione delle onde distalmente alla stenosi.
Stadio IIb Fontaine-Leriche (claudicatio severa: presenza di claudicatio intermittens sotto 36-50%
i 100-80 metri) o Grado-Categoria I-3 Rutherford (claudicatio severa)
IML ≤100 m; tempo di recupero 5-15 min; stenosi del lume vasale 50-79%; indice
caviglia-braccio tra 0.5-0.9; pressione alla caviglia a riposo tra 50-80 mmHg; dopo sforzo
riduzione >20% con tempo di recupero >3 min; eco-color-Doppler: PSV 120-150 cm/s;
rapporto PSV stenosi/PSV prossimale >2; reverse flow assente; turbolenza post-stenotica;
allargamento dello spettro; onda monofasica immediatamente dopo la stenosi con ridotta
PSV, possibile normalizzazione delle onde distalmente alla stenosi.
Stadio IIIa Fontaine-Leriche (dolore ischemico a riposo, indice pressorio alla caviglia >50 51-65%
mmHg) o Grado-Categoria II-4 Rutherford (dolore ischemico a riposo) o Stadio IIIb
Fontaine-Leriche (dolore ischemico a riposo; indice pressorio alla caviglia <50 mmHg) o
Grado-Categoria III-5 Rutherford (perdita minore di tessuto)
Ischemia critica; severo e costante dolore a riposo con IML assente o di pochi passi; tempo
di recupero >15 min; stenosi del lume vasale >80%; IW <0.5; pressione sistolica a riposo
alla caviglia <50 mmHg; lesioni cutanee ischemiche; eco-color-Doppler: PSV >250 cm/s;
rapporto PSV stenosi/PSV prossimale >2; reverse flow assente; turbolenza post-stenotica;
ampio allargamento dello spettro; onda monofasica immediatamente dopo la stenosi.
Stadio IVa Fontaine-Leriche (alterazioni trofiche di natura ischemica quali ulcere e/o 66-75%
gangrena limitate) o Grado-Categoria III-6 Rutherford (perdita maggiore di tessuto) o
Stadio IVb Fontaine-Leriche (alterazioni trofiche di natura ischemica quali ulcere e/o
gangrena estese)
Occlusione arteriosa; gangrena con perdita di tessuto; gli esami strumentali evidenziano
stenosi del lume vascolare; IW <0,2 ma spesso il flusso non è rilevabile; eco-color-Doppler:
assenza di flusso nell’arteria visualizzata, onda monofasica, colpo preocclusivo prossimale
all’occlusione, onda monofasica distale con velocita` ridotta.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Sulla scorta di quanto espresso a proposito degli arti inferiori e tenuto conto del fatto che all’amputazione
di un arto superiore si attribuisce il valore massimo del 65% (85% se bilaterale), è proponibile una
suddivisione nelle seguenti classi di danno.
Stadio I 1-5%
Assenza di sintomatologia dolorosa sotto sforzo e a riposo, non riferiti deficit dell’attività
fisica; riduzione dei polsi e minimo assottigliamento del sottocutaneo a livello della punta
delle dita; gli esami strumentali rilevano sclerosi parietale, più o meno estesa; assenza di
indicazioni alla terapia.
Stadio II 6-30%
Sintomatologia dolorosa su base ischemica solitamente dopo severo impegno fisico degli
arti; sono spesso presenti distrofie, disturbi vasomotori e/o neurologici, parestesie o edema
dell’arto, eziopatogeneticamente riconducibili a sindrome dello stretto toracico superiore
ovvero a sindrome o fenomeno di Raynaud o, ancora, ad esiti di trombo-embolie o a stenosi
della succlavia in sede prevertebrale.
Stadio III 31-50%
Sintomatologia dolorosa anche a seguito di moderato impegno fisico; segni clinici più gravi,
espressione di importante danno vascolare, quali ulcerazioni più o meno cicatrizzate o
amputazione di un dito o più dita amputate a livello delle falangi distali; strumentalmente
è evidente una compromissione medio-grave del circolo arterioso, suscettibile di un almeno
parzialmente efficace trattamento terapeutico.
Stadio IV 51-75%
Sintomatologia dolorosa a seguito di lieve impegno fisico o anche a riposo; segni clinici gravi
fino alla gangrena od all’amputazione di una mano o bilaterale delle dita; strumentalmente
è evidente una compromissione assai grave del circolo arterioso non passibile di efficace
trattamento chirurgico.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Nella forma paucisintomatica il soggetto ha una iper-reattività vascolare sotto forma di protratto angio-
spasmo che determina parestesie ed intorpidimento delle dita; al cold test vi è assenza del recupero della
temperatura cutanea e del polso sino a 40 minuti, mentre la risposta alla trinitrina è pronta. Ove sussista
sintomatologia più spiccata, si deve esprimere una valutazione maggiore per le forme clinicamente più
rilevanti, frequenti ed interessanti più dita, con associati disturbi trofici cutanei (assente è la risposta alla
trinitrina), riferendo il valore inferiore ai casi caratterizzati da crisi ischemiche localizzate ed a comparsa non
particolarmente frequente (pronta è la risposta alla trinitrina). Nei casi più gravi, a fronte di gravi disturbi
trofici cutanei, si verserà nelle più ampie previsioni di cui alla classe II delle arteriopatie degli arti superiori.
Fenomeno di Raynaud — Forma paucisintomatica 1-5%
Fenomeno di Raynaud — Forma con segni e sintomi manifesti 6-15%
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7.11.e. Flebolinfopatie
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Stadio I. Forma lievissima 1-5%
Il soggetto presenta scarsa sintomatologia (senso di pesantezza agli arti, edema declive
soprattutto serale ovvero a seguito di protratta stazione eretta, suscettibile di regressione con
il riposo, prevenibile e regredibile mediante elastocompressione graduata); obiettivamente
può essere presente sfumata discromia cutanea quale segno di iniziale emosiderosi da stasi
e si possono riscontrare varicosità non accentuate lungo il decorso delle safene.
Stadio II. Forma lieve 6-15%
Sono presenti varici primitive e/o secondarie più o meno estese ma con chiari segni di stasi,
solo parzialmente controllabili mediante elastocompressione graduata; presenza di lievi
alterazioni del trofismo cutaneo e degli annessi con tendenza nel quotidiano o durante il
lavoro a ridurre la stazione eretta.
Stadio III. Forma moderata 16-35%
Vi è sindrome post-flebitica totalmente o parzialmente ricanalizzata con iperestesia, impor-
tanti segni di stasi e/o turbe trofiche; rilevanti varici complicate da varicoflebiti con stasi
rilevante ed importanti disturbi trofici fino all’ulcerazione superficiale bilaterale o profonda
monolaterale; in ambedue le fattispecie possono essere presenti retrazioni cicatriziali.
Stadio IV. Forma grave 36-60%
Insufficienza venosa e linfatica con notevole edema, turbe trofiche e manifestazioni cliniche
rilevanti al punto da limitare sensibilmente la stazione eretta e/o la deambulazione; vi può
essere trombosi venosa profonda ovvero sindrome post-flebitica con ostruzione dei collet-
tori profondi; la stasi rilevante e gli importanti disturbi trofici si correlano con ulcerazioni
profonde plurime e bilaterali; frequenti le varicorragie.
Stadio V. Forma gravissima 61-75%
La stazione eretta e la deambulazione sono assai gravemente limitate da imponente
linfedema (elefantiasi) e/o da notevolissimi disturbi trofici, fino alla gangrena.
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Capitolo 8
FUNZIONE RESPIRATORIA
8.1. Insufficienza respiratoria. — 8.2. Pneumopatie. — 8.2.a. Pneumopatie ostruttive. — 8.2.b. Pneumopatie
restrittive. — 8.3. Vie aeree superiori. — 8.3.a. Naso. — 8.3.b. Seni paranasali. — 8.3.c. Faringe e laringe. —
8.3.d. Trachea. — 8.4. Resezioni polmonari. — 8.5. Trapianto polmonare. — 8.6. Pleura. — 8.7. Diaframma
L’insufficienza respiratoria (IR), secondo quanto indicato nelle Linee Guida della
Regione Toscana del 2010, è definita come una condizione caratterizzata da un’alterata
pressione parziale dei gas (O2 e CO2) nel sangue arterioso. Il criterio necessario per
porre diagnosi di IR è il riscontro di una pressione parziale arteriosa di ossigeno (PaO2)
<55-60 mmHg durante la respirazione in aria ambiente, accompagnata o meno da
ipercapnia (pressione parziale arteriosa di anidride carbonica, PaCO2, >45 mmHg). La
diagnosi di IR quindi non è solo clinica, ma si fonda anche sui dati emogasanalitici, in
base ai quali si possono distinguere due forme di IR:
— insufficienza respiratoria di tipo 1, o parziale (o ipossiemica), caratterizzata da
riduzione della tensione e del contenuto di O2;
— insufficienza respiratoria di tipo 2, o globale (ipossiemica e ipercapnica),
caratterizzata dalla riduzione della tensione e del contenuto di O2 e dall’aumento della
tensione e del contenuto di CO2, cioè da ipossiemia e ipercapnia.
Sul piano clinico si distinguono una forma acuta, che insorge rapidamente in un
apparato respiratorio talvolta apparentemente integro fino al momento dell’episodio
acuto, una forma cronica, progressiva e tardiva evoluzione naturale di una determinata
patologia respiratoria, ed una forma cronica riacutizzata.
Una distinzione in due ulteriori tipologie può essere effettuata sulla base del
meccanismo fisiopatologico responsabile dell’insufficienza respiratoria:
— insufficienza polmonare o parenchimale, causata da malattie delle vie aeree
(asma acuto) o del parenchima polmonare (edema polmonare, polmonite, etc.) e
caratterizzata da grave ipossiemia e da normo/ipocapnia;
— insufficienza ventilatoria, che si realizza quando la pompa ventilatoria (centri
respiratori, muscoli respiratori e parete toracica) non è in grado di mantenere una
sufficiente ventilazione alveolare, potendosi così instaurare una progressiva acidosi
respiratoria.
8.2. Pneumopatie
GRADO DESCRIZIONE
MRC 0: mancanza di fiato solo per sforzi intensi
MRC 1: mancanza di fiato solo se il soggetto corre in piano o fa una salita leggera
soggetto che cammina più lentamente dei soggetti della stessa età quando va in piano,
MRC 2:
oppure che deve fermarsi per respirare quando cammina al loro passo
soggetto che deve fermarsi per respirare dopo che ha camminato in piano per circa 100
MRC 3:
metri o pochi minuti
MRC 4: soggetto a cui manca il fiato per uscire di casa o quando si veste o si spoglia
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Facendo riferimento alla scala MRC la gradazione di gravità della BPCO può essere
così rappresentata:
STADIO CARATTERISTICHE
1= LIEVE Dispnea durante il cammino a passo svelto in leggera salita (MRC 1)
Dispnea che costringe il paziente a fermarsi durante il cammino sul piano dopo 100
2= MODERATA
mt o pochi minuti (MRC 2,3)
Dispnea che non consente al paziente di uscire di casa, vestirsi e svestirsi (MRC 4)
3 = GRAVE
e/o segni clinici di scompenso cardiaco destro
CARATTERI-
STADIO TERAPIA
STICHE
VEMS/CV <
70%; VEMS ≥
1= LIEVE
80% del teo-
rico
VEMS/CV <
2= MODE-
70%; 50% ≤
RATA Cessazione del
VEMS < 80%
fumo e/o ridu-
VEMS/CV < zione degli altri
3= GRAVE 70%; 30% ≤ fattori di ri-
VEMS < 50% schio, bronco-
VEMS/CVF < dilatatore a Broncodilata-
70%; VEMS < breve durata tore a lunga
30% del teo- d’azione se ne- durata d’azione Assunzione di
rico o VEMS < cessario glucocorticoidi
4= MOLTO 50% del teo- inalatori
O2 terapia
GRAVE rico in presenza
di insufficienza
respiratoria
cronica (PaO2
< 60 mmHg)
Asma
Secondo le definizioni standard internazionali l’asma è una malattia infiammatoria
cronica delle vie aeree, che determina iperreattività bronchiale, a sua volta causa di
episodi ricorrenti di dispnea, respiro sibilante, senso di costrizione toracica e tosse,
specialmente di notte e/o al mattino presto ed in risposta a stimoli aspecifici tra cui
soprattutto lo sforzo fisico. È caratterizzata da un’ostruzione del flusso aereo espiratorio
completamente reversibile, pur potendo presentare, in una minoranza dei casi, lo
sviluppo di un’ostruzione irreversibile come avviene nella BPCO.
La malattia deriva dall’interazione dei seguenti fattori: iperreattività bronchiale,
bronco-ostruzione reversibile, infiammazione cronica delle vie aeree. A tali fattori
contribuiscono cause genetiche (primo tra tutti l’atopia) ed ambientali (allergeni, virus,
fumo, etc).
Esistono molteplici forme di asma: allergico (estrinseco), non allergico (intrinseco,
NOMELAV: 15/21199 PAG: 439 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per le pneumopatie ostruttive e restrittive la gradazione del danno si fonda sulla suddivisione in quattro stadi
effettuata sulla base della classificazione spirometrica della gravità dell’insufficienza ventilatoria. L’orienta-
mento all’interno delle fasce di valutazione deve inoltre tener conto del livello di dispnea, misurato secondo
la scala MRC, oltrechè della frequenza delle riacutizzazioni e delle risultanze degli accertamenti di imaging.
Per l’asma la valutazione deve tener conto anche del livello di controllo della sintomatologia, distinguendosi,
secondo le definizioni delle Linee Guida GINA, tra soggetto controllato, parzialmente controllato e non
controllato.
Nell’ultima fascia di danno l’orientamento verso il limite superiore del range (90%) è giustificato da
condizioni di estrema gravità con necessità di ossigenoterapia a permanenza e sostanziale perdita dell’au-
tonomia personale.
INSUFFICIENZA RESPIRATORIA LIEVE 5-10%
BPCO: Stadio 1 (lieve): VEMS/CVF è <0,7; VEMS è ≥80%; in fase iniziale spesso non sono
presenti sintomi (tranne la tosse e l’espettorato abituale dei soggetti con il fenotipo
“bronchite cronica”); la dispnea è apprezzabile solo per sforzi intensi, tenendo conto che i
soggetti mostrano spesso un buon adattamento ventilatorio allo sforzo massimale. Il
trattamento è basato unicamente sulla presenza di sintomi riferiti dal soggetto, di solito
presenti solo in occasione di sforzi intensi o di infezioni delle vie aeree superiori.
Asma intermittente: sintomi presenti meno di una volta a settimana e sintomi notturni meno
di 2 volte al mese; valori di VEMS > 80% del teorico; variabilità PEF (picco flusso
espiratorio) < 20%; non richiede assunzione costante di terapia.
Pneumopatie restrittive: riduzione dell’FVC compresa tra il 25% ed il 40%.
INSUFFICIENZA RESPIRATORIA MODERATA 11-25%
BPCO: Stadio 2 (moderata): VEMS/CVF è <0,7; VEMS è ≥50%, <80%. Sintomi moderati
con modica ripercussione sullo svolgimento delle ordinarie attività quotidiane. Oltre all’uso
del broncodilatatore a breve durata d’azione all’occorrenza, è raccomandato il trattamento
farmacologico regolare, che comprende un broncodilatatore inalatorio a lunga durata
d’azione.
Asma lieve persistente: sintomi presenti più di una volta a settimana, ma meno di una volta
al giorno; sintomi notturni presenti più di 2 volte al mese; riacutizzazioni occasionali che
disturbano il sonno o la vita quotidiana; valori di VEMS > 80% del teorico, variabilità PEF
20-30%.
Pneumopatie restrittive: riduzione dell’FVC compresa tra il 40% ed il 50%.
INSUFFICIENZA RESPIRATORIA GRAVE 26-50%
BPCO: Stadio 3 (grave): VEMS/CVF è <0,7; VEMS è ≥30% o <50% con PaO2 < 60
mmHg). Sintomi presenti costantemente con frequenti e severe riacutizzazioni e gravi
limitazioni delle attività quotidiane con compromissione della qualità di vita. Il trattamento
prevede tutte le opzioni terapeutiche disponibili, iniziando dalle più efficaci e aggiungendo
progressivamente i farmaci meno efficaci, talvolta in associazione a riabilitazione respirato-
ria.
Asma moderata persistente: sintomi quotidiani con riacutizzazioni frequenti che disturbano
il sonno o la vita quotidiana; moderate limitazioni della vita quotidiana; sintomi notturni più
di una volta alla settimana; VEMS 60-80% del teorico, variabilità PEF >30%%.
Pneumopatie restrittive: FVC ridotto a meno del 50%, con contestuale compromissione
anche degli altri indici; complicanze extra-polmonari in parziale compenso; ipossiemia con
PaO2 intorno al 55% del valore normale di riferimento.
INSUFFICIENZA RESPIRATORIA GRAVISSIMA 51-90%
BPCO: Stadio 4 (molto grave): VEMS/CVF è <0,7; VEMS è < 30% o <50%. Il soggetto
manifesta spesso le complicanze della malattia avanzata (insufficienza respiratoria cronica
ipossiemica o anche ipercapnica, cuore polmonare cronico, gravi conseguenze sistemiche
della BPCO) con gravissima limitazione delle attività quotidiane, sino alla quasi totale
dipendenza da terzi. La terapia farmacologica comprende tutte le categorie di farmaci
disponibili, oltrechè riabilitazione respiratoria ambulatoriale ed ossigenoterapia domiciliare
(in presenza di insufficienza respiratoria), eventualmente anche NPPV (ventilazione mec-
canica non invasiva).
NOMELAV: 15/21199 PAG: 443 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Asma grave persistente: sintomi continui ed importanti con riacutizzazioni molto frequenti,
attività fisica limitata; sintomi notturni frequenti, VEMS < 60% del teorico, variabilità PEF
>30%.
Pneumopatie restrittive: FVC ridotto a meno di 1/3, con contestuale compromissione anche
degli altri indici; dispnea stadio MRC IV; complicanze extrapolmonari, a seconda della
gravità; ipossiemia con PaO2 ridotta per oltre il 55% rispetto al valore normale di
riferimento; ipercapnia (> 50 mmHg); ossigenoterapia a permanenza.
8.3.a. Naso
Ostruzione nasale
L’ostruzione nasale dipende principalmente da alterazioni delle strutture che
costituiscono il naso e le cavità nasali (il vestibolo nasale comprendente la c.d. “valvola
nasale“, le strutture che costituiscono la parete settale e la parete laterale con i turbinati)
oppure da modificazioni a carico delle mucose nasali, comprendendo così tutte quelle
situazioni che non permettono un adeguato flusso di aria attraverso le vie respiratorie
nasali. Numerose patologie e traumi possono creare ostacoli anatomici o alterazioni
funzionali responsabili della c.d. “ostruzione nasale”; le cause più comuni sono devia-
zioni settali, creste o speroni osteo-cartilaginei ed ipertrofia dei turbinati medi ed
inferiori.
Da un punto di vista clinico l’ostruzione nasale corrisponde ad una sensazione
soggettiva di fastidio durante il flusso dell’aria nelle cavità nasali, ma nessun esame
obiettivo permette di valutarne l’entità.
Da un punto di vista medico-legale invece possiamo distinguere tre forme di
ostruzione nasale: stenosi unilaterale, stenosi bilaterale e stenosi assoluta.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 444 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
pressione per ciascuna fossa nasale in funzione del tempo. In particolare la curva
sigmoidale risulta tanto più spostata verso l’asse delle ascisse quanto peggiore è la
funzione respiratoria, mentre in presenza di flusso nella norma la sigmoide decorre in
prossimità dell’asse delle ordinate. Secondo i criteri dell’ICSR la funzione respiratoria
viene quantificata in termini di resistenza (pressione/flusso) espressa in Pascal per
cc3/sec e calcolata ad una pressione prefissata a 150 Pascal. Nell’adulto i valori di
resistenza parziale sono inferiori a 0,50 Pa/cc3/sec e quelli di resistenza totale sono
inferiori a 0,25 Pa/ cc3/sec.
Altra metodica diffusa è la rinomanometria acustica, basata sul principio della
riflessione acustica per misurare le superfici traverse ed i volumi in funzione della
distanza; l’esecuzione dell’esame risulta semplice, rapida e non impegnativa per il
soggetto. Il parametro più significativo è la Minimal Cross Sectional Area (MCA), perchè
rappresenta il segmento più ristretto e pertanto più resistivo delle camere nasali, di cui
viene misurata sia l’area in cm2 sia la posizione all’interno della via aerea nasale. È anche
possibile calcolare la somma delle MCA dei due lati (TMCA, Total Minimal Cross
Sectional Area) e si può ottenere il valore del volume del tratto di cavità nasale compreso
tra i due punti del tracciato preventivamente marcati.
La rinomanometria è un esame utile per quantificare il flusso nasale e le zone di
restringimento che l’aria incontra durante il passaggio all’interno cavità nasale, ma
fornisce dati relativi al momento in cui viene effettuato l’esame. In altre parole, se stiamo
valutando una deviazione post-traumatica del setto nasale, il risultato della rinomano-
metria risentirà anche dello stato della mucosa nasale ed in particolare della eventuale
ipertrofia dei turbinati medi ed inferiori correlata ad una rinopatia cronica o acuta
allergica o aspecifica.
Per quanto riguarda la patologia traumatica del naso una frattura delle ossa proprie
del naso può determinare, se non adeguatamente trattata o non perfettamente ridotta,
oltre ad una deformità estetica, anche una concomitante deviazione del setto nasale che,
peraltro, può residuare ad trauma facciale anche in assenza di frattura delle ossa nasali
(per frattura della cartilagine del setto o per lussazione della cartilagine quadrangolare);
talora le fratture delle ossa nasali e le deviazioni del setto possono richiedere trattamento
chirurgico mediante innesti cartilaginei o ossei prelevati dal padiglione auricolare, dalle
cartilagini costali o dalla cresta iliaca.
Rinite allergica
La rinite allergica è una patologia infiammatoria acuta e ricorrente a carico della
mucosa nasale, secondaria ad una reazione acquisita ad un antigene esogeno (allergene).
I sintomi sono rappresentati da: secrezione (rinorrea) e prurito nasale, salve di starnuti,
congestione e sensazione di ostruzione nasale, iperemia congiuntivale e lacrimazione (se
concomita una congiuntivite allergica); nella gran parte dei casi regrediscono mediante
somministrazione di terapia locale o, nei casi più gravi, sistemica. Se persistente, la rinite
determina disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione, senso di stordimento con
conseguente peggioramento della qualità di vita e predispone alla sinusopatia cronica.
Per la valutazione clinica della gravità della rinite allergica si può far riferimento
alla classificazione A.R.I.A. (Allergic Rhinitis and its Impact on Asthma), basata sulla
durata dei sintomi e sulla loro gravità in rapporto alle ripercussioni sulla qualità di vita;
è prevista la seguente suddivisione:
— rinite intermittente: durata dei sintomi < 4 giorni/settimana o < 4 settimane;
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per le fratture delle ossa nasali la valutazione fa riferimento ai casi con minimo pregiudizio estetico e
funzionale; in caso di deficit respiratorio più marcato si deve far riferimento alle voci relative alle stenosi
nasali; la percentuale sotto indicata deve essere aumentata nel caso si renda necessario un trattamento
chirurgico.
Per quanto riguarda la rinite, l’orientamento all’interno del range percentuale deve essere effettuato
distinguendo le forme intermittenti da quelle persistenti; nel caso si associ una componente asmatica la
valutazione del danno deve essere aumentata sulla base dei criteri indicati per l’asma.
In aggiunta alle indicazioni percentuali di seguito riportate si deve valutare anche l’eventuale deficit
olfattivo, spesso presente.
Esiti di frattura del setto cartilagineo del naso, con modiche ripercussioni disfunzionali 1-3%
Esiti delle fratture delle ossa del naso 1-5%
Stenosi nasale serrata/assoluta monolaterale 5-8%
Stenosi nasale serrata/assoluta bilaterale 9-15%
Rinite allergica lieve 5%
Rinite allergica moderata-grave 6-15%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione deve essere effettuata sulla base dell’entità della sintomatologia, della necessità o meno di
trattamento e della efficacia dello stesso.
Nel caso in cui sia presente iposmia di un certo rilievo la valutazione deve essere integrata secondo quanto
indicato nel capitolo 3; lo stesso dicasi in caso di forme in cui si verifichi una complicanza, i cui esiti devono
essere valutati autonomamente.
Nel caso di trattamento chirurgico gli esiti cicatriziali devono essere valutati a parte.
Sinusite etmoidale, mascellare, sfenoidale 3-5%
Traumi esterni
I traumi esterni rappresentano un’evenienza piuttosto rara, ma potenzialmente
grave, per l’elevato rischio di mortalità in acuto e di morbidità residua. Esistono diversi
sistemi classificativi basati su parametri di varia natura: modalità dell’evento traumatico
(traumi aperti e chiusi); sede del danno (sopraglottica, glottica, sottoglottica, mista),
struttura anatomica coinvolta (osso ioide, cartilagine tiroide, cricoide, aritenoide,
legamenti, etc.); gravità del trauma.
La classificazione più utile è quella che distingue i traumi aperti da quelli chiusi.
I traumi esterni chiusi sono quelli più frequenti (in relazione a traumi della strada
o sportivi, compressione meccanica sul collo da aggressione o tentativi di suicidio per
impiccamento) e possono presentarsi con o senza danno scheletrico.
I traumi chiusi senza danno scheletrico comprendono: commozione laringea,
caratterizzata da manifestazioni funzionali di natura riflessa a partenza laringea; contu-
sione laringea, con cui si intende un quadro anatomo-clinico caratterizzato da lesioni
delle parti molli laringee e/o pre-laringee, localizzate preferenzialmente a livello delle
aree di scollabilità della mucosa (false corde, regione sottoglottica, regione marginale
laterale e posteriore); rotture legamentose e/o muscolari, più frequenti a carico dei
legamenti e/o dei muscoli tiroaritenoidei. I danni anatomici che caratterizzano la
contusione laringea, se non riconosciuti e adeguatamente trattati in tempi brevi,
possono evolvere verso un’organizzazione cicatriziale, responsabile di alterazioni fun-
zionali, soprattutto fonatorie, anche gravi.
I traumi chiusi con danno scheletrico comprendono: fratture, lussazioni, disinser-
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Traumi iatrogeni
I traumi iatrogeni possono essere correlati a procedure di assistenza ventilatoria e/o
nutrizionale per patologie extra-laringee o a trattamenti di patologie laringo-tracheali. Si
localizzano elettivamente in tre regioni: commissura posteriore (particolarmente sog-
NOMELAV: 15/21199 PAG: 449 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
getta a traumi da intubazione, sia nella fase di introduzione dello strumento, sia per il
decubito dello stesso), regione sottoglottica e primi anelli tracheali (particolarmente
esposti a danni ischemici). L’intubazione tracheale è la procedura che espone maggior-
mente al rischio di lesioni laringee (ematomi, ulcere, lacerazioni), che si realizzano per
lo più a livello sopra-glottico, glottico e, soprattutto, aritenoideo (lussazioni aritenoi-
dee).
Le lesioni interaritenoidee sono legate al decubito del tubo e sono aggravate dai
movimenti adduttori delle corde vocali. Le lesioni ischemiche che ne derivano possono
avere diversa gravità in base all’estensione ed alla profondità; l’elemento anatomo-
patologico fondamentale è costituito dall’interruzione della barriera epiteliale, che
predispone a processi di sovrainfezione ed alle conseguenti reazioni granulomatose.
L’evoluzione finale delle lesioni laringo-tracheali iatrogene è fondamentalmente
rappresentata da fenomeni cicatriziali che conducono a stenosi in maniera lenta e
progressiva, spesso attraverso una fase intermedia caratterizzata dalla formazione di
granulomi. Il quadro più semplice è costituito dal granuloma del processo vocale delle
aritenoidi, che, dopo un periodo variabile da qualche giorno a qualche mese, determina
disfonia e, solo raramente, dispnea. L’evoluzione spontanea è in genere favorevole,
soprattutto a seguito di idoneo trattamento riabilitativo.
Altre lesioni laringee croniche di maggiore gravità sono costituite da lesioni
articolari (ad es. anchilosi) o muscolari a carico delle unità crico-aritenoidee e dai danni
a carico del cono ipoglottico.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione degli esiti delle lesioni laringee deve tener conto della compromissione funzionale,
rappresentata dal deficit respiratorio e dai disturbi della fonazione, e del danno anatomico.
Per i deficit funzionali deve farsi riferimento a quanto indicato nei relativi capitoli procedendo ad una
valutazione complessiva, tenendo presente che una stenosi moderata non comporta, in genere, rilevanti
deficit della funzione respiratoria, mentre la stenosi serrata richiede la laringectomia, intervento che
determina turbe della meccanica ventilatoria legate alla soppressione della ventilazione nasale, con
conseguente ridotta tolleranza allo sforzo, predisposizione alle infezioni, ripercussioni sulla funzione
fonatoria (spesso peraltro in buona parte emendabili) e fisiognomica.
Per la laringectomia si deve tener conto del grado di recupero della capacità fonatoria, anche con devices
medicali, modulando conseguentemente i valori percentuali.
Esiti di traumi minori della laringe (Classe I-II di Schaefer) senza rilevanti deficit 2-8%
funzionali
Laringectomia 30-40%
8.3.d. Trachea
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La percentuale sotto indicata attiene alla sola presenza del presidio medico.
La valutazione di un eventuale deficit funzionale associato deve integrare tale percentuale e deve essere
espressa sulla base di quanto indicato per gli stadi dell’insufficienza respiratoria.
Tracheotomia con cannula a permanenza 15%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione di questo tipo di menomazioni deve incentrarsi principalmente sull’entità del deficit
funzionale correlato alla resezione chirurgica, tenendo però adeguatamente conto dell’entità del danno
anatomico e considerando che, in alcuni casi, una buona attività compensatoria riduce il deficit funzionale
clinicamente e strumentalmente accertabile. In effetti le resezioni anatomiche parziali intaccano la riserva
funzionale rendendosi clinicamente evidenti, nella maggior parte dei casi, solo in occasione di effettuazione
di sforzi fisici, per cui tali esiti saranno maggiormente invalidanti nel giovane che più frequentemente
rispetto all’anziano attinge alla propria riserva funzionale.
La valutazione deve essere formulata inquadrando preliminarmente il soggetto in uno degli stadi relativi
all’insufficienza respiratoria sulla base della gravità della dispnea e dei risultati delle prove spirometriche,
orientandosi all’interno delle suddette fasce sulla base dell’età e dell’entità e tipologia della resezione. Per
condizioni clinico-funzionali che prevedono una valutazione ai limiti superiori della fascia percentuale di
spettanza, la concomitanza con un’estesa resezione di parenchima giustifica il passaggio allo stadio
superiore.
Esiti di exeresi polmonare segmentaria atipica, in assenza o con sfumata ripercussione 3-8%
funzionale
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Perdita di un polmone, con deficit respiratorio da lieve a moderato, in assenza di 25-40%
complicanze cardiache
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione non può essere formulata prima di 12 mesi dal trapianto, tempo necessario affinché il
soggetto possa essere definito stabilizzato. Se il trapianto ha esito favorevole si ottiene il ripristino della
funzione d’organo e il soggetto può mantenere una buona qualità di vita.
Ai fini della valutazione si deve tener conto dei seguenti fattori: età; eventuali deficit residui della
funzionalità respiratoria (trattandosi di un organo trapiantato la presenza di tali deficit assume particolare
rilevanza); percentuale di sopravvivenza prevista in casi consimili; eventuale presenza di fattori di rischio per
lo sviluppo di complicanze; eventuale coesistenza di patologie che possono influenzare la “durata”
dell’organo trapiantato; effetti collaterali della terapia immunosoppressiva.
L’esito chirurgico a livello cutaneo e della gabbia toracica rimane da valutare autonomamente, caso per
caso, in relazione alle indicazioni formulate nelle altre sezioni del testo.
Esiti di trapianto polmonare con soddisfacente ripristino della funzionalità respiratoria, 35-50%
con complicanze assenti o lievi
Esiti di trapianto polmonare con complicanze da moderate a gravi e/o insufficienza 51-90%
respiratoria da grave a gravissima
Esiti di trapianto combinato cuore-polmone anche in relazione ai deficit funzionali residui 60-90%
8.6. Pleura
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione di seguito indicata fa riferimento ai casi in cui gli esiti anatomici evidenziabili agli esami
radiologici si associno a lievissimo e saltuario deficit respiratorio.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Nel caso in cui il deficit funzionale assuma maggior rilievo si deve far riferimento a quanto indicato per gli
stadi di insufficienza respiratoria.
Per la valutazione del mesotelioma si rimanda al capitolo 18.
Ispessimenti pleurici basali con obliterazione del seno ed ipomobilità monolaterale, o 2-5%
placche pleuriche fibro-calcifiche
Ispessimenti pleurici basali con obliterazione del seno ed ipomobilità bilaterale, o placche 4-8%
pleuriche fibro-calcifiche
Esiti di pleurectomia mono- o bilaterale 5-10%
8.7. Diaframma
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
In caso di paralisi del diaframma la valutazione deve essere effettuata sulla base della conseguente
insufficienza respiratoria.
Paralisi di un emidiaframma, in assenza o con lievissima disfunzione respiratoria 1-5%
Paralisi totale del diaframma con moderato deficit respiratorio 15-20%
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Capitolo 9
FUNZIONE STOMATOGNATICA
9.1. Profilo eziologico delle lesioni dento-alveolari. — 9.2. Fratture, lussazioni e avulsioni degli elementi
dentari permanenti. — 9.3. Fratture, lussazioni e avulsioni degli elementi dentari decidui. — 9.4. Alterazioni
anatomo-funzionali della lingua, delle labbra e delle ghiandole salivari. — 9.5. Disordini temporo-
mandibolari. — 9.6. Fratture mandibolari. — 9.7. Malocclusione
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
L’espressione percentuale attribuibile alla perdita di singoli elementi dentari deve tener conto del tipo di
dente perso (e, quindi, della funzione svolta), dell’età del leso, dello stato anteriore e della possibilità di una
efficace riabilitazione. Tra gli elementi caratterizzanti lo stato anteriore particolare valore assume la linea del
sorriso (margine inferiore del labbro superiore che limita la visibilità dei denti), la cui conformazione è
individuale e risente della perdita di tonicità dei tessuti facciali (registrandosi un suo abbassamento con
l’invecchiamento).
Si deve inoltre considerare che la perdita dell’elemento dentario si associa sempre alla perdita del parodonto
profondo di supporto (cemento radicolare, legamento parodontale, Bundel Bone) con conseguente riassor-
bimento della componente vestibolare della cresta ossea edentula, la cui entità (e, quindi, tipologia di
trattamento riabilitativo da praticare) è condizionata dalla tipologia di parodonto presente (sottile e
festonato oppure spesso e piatto).
Nell’ipotesi di perdite dentarie plurime le percentuali di invalidità per avulsione di singoli elementi dentari
di seguito prospettate rappresentano il necessario substrato per pervenire, mediante l’impiego di parametri
integrativi di giudizio, ad una stima globale del danno dentario, potendo la stessa strutturarsi sulla
considerazione del tipo e della quantità di denti perduti, della topografia della zona edentula, dell’età del
leso, della possibilità di riabilitazione protesica e dello stato anteriore.
Alla perdita di tutti gli elementi dentari dell’arcata superiore o, in alternativa, di quelli dell’arcata inferiore,
con presenza in arcata degli omologhi opponenti, va riconosciuto un valore menomativo solo prossimo a
quello attribuito alla perdita di tutti gli elementi dentari, in considerazione che alla perdita della fisiologica
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
capacità masticatoria si contrappone la possibilità di un trattamento riabilitativo più efficace rispetto a
quello praticabile nell’ipotesi di edentulia totale. Analoghe considerazioni possono valere per perdite
dentarie di emiarcate monolaterali contrapposte con presenza in arcata degli omologhi opponenti.
Per la perdita di tutti gli elementi dentari dell’arcata superiore è previsto un valore menomativo lievemente
superiore rispetto a quello previsto per analoga condizione invalidante dell’arcata inferiore, in relazione al
maggior riverbero sulla funzione estetica della prima condizione rispetto alla seconda e di un più difficoltoso
trattamento riabilitativo in caso di edentulia del mascellare.
In ragione della diversa funzione svolta dagli elementi dentari appare recepibile differenziare il valore
menomativo da perdita degli incisivi e del canino dell’arcata superiore rispetto agli omologhi dell’arcata
inferiore, stante la maggiore valenza estetica dei primi sui secondi. Difatti è ben noto come l’assenza del
canino sull’arcata superiore comporti la perdita della bozza canina conferendo al volto un’alterazione
dell’efficienza fisionomica configurando un aspetto vecchieggiante noto come “viso alla Pierrot”.
Il valore invalidante da attribuire alla perdita del terzo molare è correlabile non tanto alla perdita anatomica
in sé e per sé considerata, quanto piuttosto alla presenza o meno in arcata del primo e del secondo molare:
la presenza del sesto e del settimo elemento dentario contrae fortemente il valore biologico da perdita del
terzo molare in quanto la sua funzione di pilastro protesico è ben vicariata dagli elementi dentari ad esso
contigui. Peraltro, venendo considerata completa, efficiente e sana una dentatura che presenta i primi sette
elementi dentari in arcata e di un terzo molare frequentemente in disodontiasi, si ritiene che non debba
essere attribuito un diverso valore menomativo alla perdita del terzo molare dell’arcata superiore rispetto
a quello dell’arcata inferiore.
Merita di essere sottolineato che, sebbene la fattura radicolare con perdita della corona di un dente può,
di fatto, essere equiparata funzionalmente alla avulsione dello stesso dente, il suo valore menomativo sarà
comunque più contenuto rispetto a quello attribuito alla perdita dentale completa in quanto la radice
presente nella cavità alveolare può essere utilizzata come sito di applicazione di un perno moncone,
evitando in tal modo il ricorso ad un trattamento implanto-protesico o il confezionamento di una protesi
fissa di almeno tre elementi.
Nel caso di fratture coronali dello smalto e smalto-dentinale il valore menomativo da attribuire rispetto alla
perdita totale dello stesso dente è in rapporto proporzionale alla maggiore o minore possibilità di procedere
ad una ricostruzione o ad una protesizzazione in funzione della estensione del tessuto dentario perduto.
La possibilità di correzione protesica riduce, schematicamente, il danno dei 3/4 mediante implantoprotesi,
dei 2/3 mediate protesi fissa e di 1/3 mediante protesi rimovibile. Aggiustamenti a tali valori di riduzione
del danno possono procedersi, altresì, in funzione di: tipologia di lesione, topografia ed estensione della
zona edentula, età del leso, condizioni cliniche dell’articolato dentario.
Il danno da lussazione (intrusiva, estrusiva e laterale) deve prevedere una percentuale minima di invalidità
dello 0,25%, fino a giungere a quella prevista per la perdita dell’elemento dentario in caso di avulsione dello
stesso.
Perdita di un incisivo centrale superiore (11,21) 2%
Perdita un incisivo laterale superiore o centrale inferiore (12,22,31,41) 1,5%
Perdita un incisivo laterale inferiore (32,42) 1,25%
Perdita di un canino superiore (13,23) 2,5%
Perdita di un canino inferiore (33,43) 2%
Perdita del primo premolare (14,24,34,44) 1,25%
Perdita del secondo premolare (15,25,35,45) 1,25%
Perdita del primo molare (16,26,36,46) 2%
Perdita del secondo molare (17,27,37,47) 1,5%
Perdita del terzo molare (18,28,38,48) 0,5%
Perdita di tutti i denti 35%
Perdita di tutti i denti dell’arcata superiore 28%
Perdita di tutti i denti dell’arcata inferiore 23%
Tipologia Trattamento
Fratture coronali del solo smalto Ricostruzione, con rinnovi (mediamente ogni 5 anni), fino al 75°
anno di età
Fratture coronali smalto-dentinali Ricostruzione, con 3 o 4 rinnovi (mediamente ogni 5 anni), seguita
senza esposizione pulpare da protesizzazione (corone in oro-porcellana), con rinnovi (media-
mente ogni 10 anni, fino al 75° anno di età)
Fratture coronali smalto-dentinali Apicogenesi o apicificazione + terapia canalare con ricostruzione +
con esposizione pulpare applicazione (dopo il 18° anno di età) di perno-moncone o di perno
in fibra di carbonio e protesizzazione con corona in oro-porcellana
(da rinnovarsi mediamente ogni 10 anni, fino al 75° anno di età)
Avulsioni Applicazione di protesi provvisoria del tipo Maryland-bridge (da
rinnovarsi mediamente ogni 3 anni, fino al 18° anno di età) +
successiva protesizzazione, al raggiungimento della maturità schele-
trica, con corone in oro-porcellana, per almeno tre elementi dentari
(da rinnovarsi mediamente ogni 10 anni e fino al 75° anno di età) o
applicazione di impianto osteointegrato (da rinnovarsi due volte)
con applicazione di corona in oro-porcellana (da rinnovarsi media-
mente ogni 10 anni e fino al 75° anno di età)
Tipologia Trattamento
Fratture coronali del solo smalto Ricostruzione, con rinnovi (mediamente ogni 5 anni), fino al 75°
anno di età
Fratture coronali smalto-dentinali Ricostruzione, con 3 o 4 rinnovi (mediamente ogni 5 anni), seguita
senza esposizione pulpare da protesizzazione (corone in oro-porcellana), con rinnovi (media-
mente ogni 10 anni, fino al 75° anno di età)
Fratture coronali smalto-dentinali Terapia canalare + applicazione di perno-moncone o di perno in
con esposizione pulpare fibra di carbonio e protesizzazione con corona in oro-porcellana (da
rinnovarsi mediamente ogni 10 anni, fino al 75° anno di età)
Avulsioni Protesizzazione con corone in oro-porcellana, per almeno tre ele-
menti dentari (da rinnovarsi mediamente ogni 10 anni e fino al 75°
anno di età) o applicazione di impianto osteointegrato (da rinnovarsi
una volta se in soggetto giovane) con applicazione di corona in
oro-porcellana (da rinnovarsi mediamente ogni 10 anni e fino al 75°
anno di età)
NOMELAV: 15/21199 PAG: 461 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
PIANO TERAPEUTICO ORTODONTICO, CON RELATIVA DURATA PROSPETTABILE IN PRESENZA DI FRATTURE CORONALI
DIFFERENZIATE PER TIPOLOGIA (LAINO ET. AL., 2002 — MODIFICATA)
PIANO TERAPEUTICO ORTODONTICO, CON RELATIVA DURATA PROSPETTABILE IN PRESENZA DI FRATTURE RADICOLARI
(LAINO ET. AL., 2002 — MODIFICATA)
Terapia canalare
É
Eventuale apicectomia
NOMELAV: 15/21199 PAG: 462 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
PIANO TERAPEUTICO ORTODONTICO, CON RELATIVA DURATA E TERAPIE RIABILITATIVE ALTERNATIVE PROSPETTABILI
IN PRESENZA DI FRATTURE ALVEOLARE CON CONCOMITANTE INTERESSAMENTO DENTARIO
(LAINO ET. AL., 2002 — MODIFICATA)
PIANO TERAPEUTICO ORTODONTICO, CON RELATIVA DURATA PROSPETTABILE IN PRESENZA DI AVULSIONE DENTARIA,
DIFFERENZIATO IN BASE AL TEMPO TRASCORSO DAL TRAUMA, ALLA DISPONIBILITÀ DELL’ELEMENTO O AL FALLIMENTO
DEL REIMPIANTO (LAINO ET. AL., 2002 — MODIFICATA)
Riposizionamento + contenzione
3 — 24 ore mediante splintaggio adesivo o 4-8 settimane
meccanico
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
I fattori che condizionano l’entità del danno del dente permanente da dilacerazione di quello deciduo
sovrastante sono i seguenti: età del piccolo al momento del trauma, risultando più grave la lesione nei
soggetti traumatizzati con età inferiore ai due anni; tragitto percorso dal dente incluso, laddove un ingresso
sul versante palatino può comportare un contatto diretto o un’invasione dell’apice del dente deciduo nel
germe del permanente; entità della penetrazione, che si associa ad una elevata probabilità di danno a carico
dell’elemento dentario permanente qualora si abbia la scomparsa, per infossamento, di poco più del 50%
della corona del deciduo; coesistenza di lesioni scheletriche alveolari, la cui presenza deve far propendere
per alterazioni morfologiche o di mineralizzazione del permanente.
L’estrema variabilità del tipo di danno (attuale e/o futuro) che può realizzarsi a seguito di un trauma sugli
elementi dentari decidui rende arduo prospettare specifiche ipotesi menomative per un tal genere di
menomazione. I parametri su cui poter strutturare la valutazione del danno dentario nei soggetti in fase di
crescita sono i seguenti: tipologia di lesione; tipo struttura coinvolta; epoca dello sviluppo dentario e
cranio-facciale; numero di denti perduti o lesi; topografia della zona lesa; stato anteriore; possibilità di
intervento ortodontico e/o protesico.
In tesi generale, laddove il trauma determini la sola perdita del dente deciduo a consistente distanza di
tempo dall’eruzione del permanente, il danno risarcibile si concretizza in quello dell’impiego del mante-
nitore di spazio. Si rende comunque necessario procedere alla valutazione radiografica della regione
traumatizzata, nonché prevedere un monitoraggio radiografico per stabilire l’evoluzione dell’originaria
lesione.
che insieme al solco sottolinguale (cui è unita mediante il frenulo linguale) forma il
pavimento della cavità buccale.
È possibile distinguere una parte buccale (o corpo) estesa per i 2/3 dell’organo e
una parte faringea (o radice), tra loro separate da un solco (solco terminale) a forma di
V con apice rivolto posteriormente ed in corrispondenza del quale v’è una piccola
fossetta (foro cieco).
Alla irrorazione della lingua provvedono le arterie linguali, rami dell’arteria caro-
tide esterna, che si sfioccano nella arterie renine tra loro riccamente anastomizzate; il
deflusso vascolare è assicurato dalle vene linguali, tributarie della vena giugulare interna.
Sinteticamente, l’innervazione motoria è a carico quasi esclusivo del nervo ipo-
glosso (XII nervo cranico), con l’eccezione del muscolo glossopalatino innervato
dall’accessorio, nervo derivante dal plesso faringeo.
Di seguito è riportata schematicamente la funzione cui sono deputati i principali
muscoli linguali, distinti in estrinseci ed intrinseci a seconda se la loro origine sia al di
fuori della lingua o nella compagine della stessa:
— genioglosso (muscolo estrinseco): retrae e protrude la lingua mediante contra-
zione delle fibre, rispettivamente, anteriori e posteriori; abbassa la lingua schiacciandola
contro il pavimento buccale e la faccia posteriore della mandibola con la contrazione di
tutte le sue fibre;
— ioglosso (muscolo estrinseco): retrae e deprime la lingua;
— condroglosso (muscolo estrinseco): porta la lingua in basso e in dietro;
— stiloglosso (muscolo estrinseco): porta la lingua in alto e dorsalmente;
— glossopalatino (muscolo estrinseco): costringe gli archi glossopalatini;
— faringoglosso (muscolo estrinseco): contribuisce ad elevare la parete posteriore
della faringe e a costringere il rinofaringe;
— amigdaloglosso (muscolo estrinseco): solleva la base della lingua portandola
conto il velo pendulo;
— longitudinale superiore (muscolo intrinseco): accorcia la lingua accentuando la
concavità superiore;
— longitudinale inferiore (muscolo intrinseco): accorcia in senso sagittale la lingua
e la ruota in basso;
— trasverso (muscolo intrinseco): allunga la lingua e la restringe in senso trasver-
sale;
— verticale (muscolo intrinseco): schiaccia ed allarga la lingua.
L’innervazione sensitiva realizza una sensibilità generale (tattile, termica e dolori-
fica) ed una gustativa specifica: a quella generale del corpo della lingua provvede il ramo
linguale del nervo mandibolare (ramo del trigemino), mentre quella gustativa specifica
è garantita dalla corda del timpano (ramo del nervo faciale), che innerva i calici gustativi
presenti nel corpo linguale. La sensibilità generale e gustativa della base della lingua è
raccolta dal nervo glossofaringeo e dal laringeo superiore (ramo del nervo vago).
Sulla superficie superiore (o palatina) del corpo della lingua sono presenti nume-
rosissime papille, distinte in filiformi (o corolliformi), fungiformi, circumvallate (o
caliciformi) e foliate; le papille circumvallate e foliate sono sede delle formazioni
gustative, che nelle papille fungiformi sono presenti solo nei primi anni di vita.
La lingua è il principale organo del gusto, e svolge, inoltre, un ruolo importante
nella masticazione e formazione del bolo alimentare, nonché nel primo tempo (volon-
tario) della fase deglutitoria (contribuendo a direzionare il bolo alimentare verso l’istmo
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delle fauci nel faringe); è inoltre provvista di squisita sensibilità tattile, partecipando alla
fonazione ed in particolare alla emissione del linguaggio articolato e dei fonemi. A
labbra chiuse, retraendosi posteriormente, provoca il vuoto necessario per la suzione,
movimento riflesso che permette al lattante l’assunzione del latte. Può, infine, essere
riconosciuta anche una funzione estetico-erogena in riferimento ad una fascia di epoca
di vita (dall’adolescenza alla terza età) e al contesto socio-culturale.
Sede ed entità della lesione della lingua, unitamente alla tipologia di trattamento
praticato (ancoraggio al pavimento buccale, ricostruzione, ricostruzione con rotazione
della lingua nelle lesioni del 1/3 dell’emilingua, guarigione per seconda intenzione)
comportano una diversa compromissione quali-quantitativa delle funzioni svolte dalla
stessa, così come prospettato in tabella, in cui la individuata percentuale di riduzione
della funzione menomata è strutturata su dati desunti dall’esperienza clinica.
In merito alle labbra, queste rappresentano due pieghe, superiore ed inferiore, che
costituiscono la parte anteriore della parete esterna del vestibolo della bocca, delimi-
tando la rima buccale. Svolgono una funzione nell’assunzione dei cibi, nella fonazione
e, così come la lingua, assumono anche funzione estetico-erogena.
Le labbra sono rivestite esternamente da cute ed internamente da mucosa, com-
prendono un insieme di muscoli striati, che conferiscono estrema motilità alle labbra, e
sono innervate da rami del faciale, per la componente motoria, e da rami del trigemino
(infraorbitarrio, mentale e buccinatorio) per quella sensitiva.
In merito alle alterazioni a carico delle ghiandole salivari, la riduzione della normale
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produzione di saliva determina un aumento del rischio di patologie a carico del cavo
orale (es. carie, infiammazioni, candidosi etc.), ed altera funzioni gustativa, masticatoria,
deglutitoria, riducendo inoltre la tollerabilità alle protesi dentarie. Si definisce xerosto-
mia la sensazione soggettiva di secchezza del cavo orale (solitamente presente quando
la riduzione della produzione salivare supera il 50%) mentre l’ìposcialia è la riduzione
effettiva della salivazione per compromissione reversibile o irreversibile della funzione
ghiandolare.
La cause più frequenti di riduzione della salivazione sono rappresentate da
assunzione di determinati farmaci (es. antidepressivi triciclici, antipsicotici, benzodia-
zepine, antiparkinsoniani atropinici, antipertensivi, diuretici, antistaminici, antidiar-
roici, analgesici, antinfiammatori non steroidei), la sindrome di Sjogren, la radioterapia
oncologica che coinvolge le aree in cui sono presenti ghiandole salivari; altre condizioni
e malattie in cui si può manifestare secchezza della bocca sono le infezioni da virus HIV
e HCV, alcune malattie virali, i disturbi neuropsichiatrici, il diabete, la respirazione
orale da ostruzione cronica delle vie aeree superiori.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per le lesioni della lingua, i valori all’interno della fascia fanno riferimento alla sede/entità della compro-
missione anatomica, alla tipologia di trattamento praticato ed agli aspetti quali-quantitativi dei correlati
deficit diverse funzioni coinvolte (fonatoria, masticatoria, deglutitoria ed estetico-erogena).
In merito alle lesioni a carico delle labbra la valutazione tiene conto principalmente del danno di natura
estetica, dovendosi superare i valori indicati nel caso di gravi compromissioni della funzione fonatoria.
Stadio 1. Amputazione parziale di minima entità della lingua con alterata sensibilità senza 1-5%
apprezzabili o, al più, con lievi disturbi funzionali
Stadio 2. Amputazione parziali della lingua con moderati disturbi funzionali, nonché 6-20%
significativi riflessi sulla componente estetica
Stadio 3. Amputazione parziali della lingua con gravi disturbi funzionali, nonché rilevanti 21-50%
riflessi sulla componente estetica
Stadio 4. Amputazione da sub-totale a totale della lingua 51-65%
Perdita del labbro superiore 15%
Perdita del labbro inferiore 20%
Perdita dell’emi-labbro superiore 9%
Perdita dell’emi-labbro inferiore 12%
Xerostomia/iposcialia 3-5%
tensione e/o spasmo muscolare (alle spalle, alla nuca, al collo), sintomi auricolari
(ipoacusia, acufeni e ronzii), odontalgia e cefalea.
La ricorrenza di tali disordini si è accresciuta negli ultimi decenni in relazione al
notevole incremento della traumatologia scheletrica facciale di cui le fratture mandibo-
lari rappresentano parte predominante (70-80%). Il coinvolgimento lesivo dell’artico-
lazione temporo-mandibolare risulta essere ammesso anche a seguito di eventi trauma-
tici coinvolgenti regioni corporee esterne al distretto corporeo maxillo-faciale, tra cui,
principalmente il rachide cervicale, con trasmissione a distanza della vis lesiva sull’ATM.
In letteratura specialistica le metodiche utilizzate per lo studio dell’ATM sono
suddivise in due grossi gruppi: standard (OPT, telecranio L-L, stratigrafia ATM
bilaterale in massima intercuspidazione e massima apertura della bocca, RX cranio in
submento-vertice) e sussidiarie (TC, RM, elettrognatomiosonografia, artroscopia). Il
primo gruppo è costituito da un insieme di indagini di primo livello necessarie per
formulare una corretta diagnosi di patologia; il secondo comprende metodiche che sono
volte alla caratterizzazione delle componenti ossee, fibrocartilaginee capsulari e musco-
lari, anche in fase dinamica, il cui ricorso è previsto in presenza di un dubbio
diagnostico.
L’accuratezza dell’accertamento diagnostico delle discinesie mandibolari si riflette
in misura proporzionale sulla precisione della valutazione medico-legale.
Parametri statici di classico impiego per la determinazione del deficit funzionale
dell’ATM sono rappresentati dal rilievo della escursione mandibolare in verticalità,
lateralità e protrusione.
Vari studi hanno evidenziato che la distanza interincisiva (espressione del movi-
mento di verticalità della mandibola) è influenzata dall’overbyte (OVB) e dall’overjet
(OVJ), per cui in presenza di alterati valori di tali indici tale distanza non rappresenta
un reale indicatore di funzionalità del’ATM. V’è, poi, da considerare la sussistenza di un
rapporto inverso delle aperture interdentarie con l’età, che nelle donne risulta essere,
unitamente all’OVB, mediamente più basso che nell’uomo.
Per superare ciò si ritiene opportuno che venga fatto riferimento alle distanze
interpremolari e segnatamente a quella tra i primi premolari (v.n. = 40.3 mm +/- 5.5)
che sono indipendenti da OVB ed OVJ e meno soggette a variabili individuali (tra cui
sesso ed età).
Il parametro dell’escursione mandibolare laterale, inteso come massima escursione
eccentrica della linea mediana della mandibola legata a contrazione controlaterale dello
pterigoideo esterno, si quantizza mediamente sui 13 mm per lato. Va tenuto presente
che tale parametro può essere selettivamente ridotto dal lato opposto a quello dell’ATM
lesa. Nel range escursorio laterale assumono, peraltro, prevalente rilievo i primi 5 mm
per lato, in relazione ai quali si realizza un fisiologico ciclo masticatorio. Conseguente-
mente può dirsi che un range di escursioni laterali di 13-10 mm per lato, risultando di
fatto ininfluente su un normale ciclo masticatorio, non assume sensibile valore patolo-
gico; un range di 10-5 mm per lato esprime una turba lieve della cinetica masticatoria;
valori inferiori a 5 mm per lato sottolineano una concreta compromissione cinetica
mandibolare impedendo nel ciclo masticatorio la fisiologica ed utile circumduzione.
Il parametro sagittale (protrusivo), inteso come movimento di protrusione mandi-
bolare, realizza un’escursione media di circa 9 mm, i cui soli primi 5 rivestono effettivo
significato ai fini di una corretta attività incisoria del cibo. Si ritiene pertanto giustificato
valutare prevalentemente l’eventuale perdita di tale iniziale excursus.
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Accanto alla stima dei parametri statici dell’escursione mandibolare, può utilmente
procedersi anche alla valutazione del ciclo masticatorio attraverso il ricorso a metodiche
non invasive (chinesiografia ed elettromiografia) esploranti la fase dinamica dello stesso,
capaci peraltro di evidenziare eventuali atteggiamenti simulatori. Mentre il ciclo masti-
catorio presenta, oltre al controllo corticale (volontario), anche una regolazione tronco-
encefalica responsabile di una ritmicità ed una coordinazione indipendenti dalla
volontà, il movimento che porta alla massima apertura mandibolare è sotto l’esclusivo
controllo corticale.
Elemento utile per una diagnosi differenziale tra simulazione e reale deficit del ciclo
masticatorio, può essere rappresentato dall’intensità della registrata attività elettrica dei
muscoli digastrici anteriori (abbassatori della mandibola): nel simulatore, in cui è
richiesto un impegno volontario nella massima apertura della bocca, tale attività
elettrica risulta essere molto bassa, mentre quando la volontà del soggetto è filtrata dalla
regolazione automatica tronco-encefalica, come avviene durante i cicli masticatori,
l’impegno funzionale dei digastrici anteriori è apprezzabilmente maggiore.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La percentuale attribuita alla completa anchilosi dell’ATM deriva dalla sua notevole gravità sul piano clinico
funzionale in relazione alle indubbie ripercussioni su tutte le funzioni (estetica, masticatoria e fonatoria)
oltre che sulla componente respiratoria, ed in rapporto alle possibili varianti dell’anchilosi stessa, sia essa
serrata o con morso aperto.
La progressione di tipo esponenziale dei valori di danno in riferimento all’incremento del deficit di funzione
trova fondamento nel progressivo netto decadimento della validità masticatoria, dello stato di nutrizione e
della funzione fisionomica del soggetto con analoghe ingravescenti interferenze sulla sua efficienza
psico-fisica.
Il rilievo metrico sul piano verticale è prospettato in riferimento alla distanza interprimo premolare.
Per deficit bilaterali si dovrà considerare una percentuale doppia di quella indicata.
Stadio 1. Distanza interprimo premolare sul piano verticale 35-25 mm 1-5%
Stadio 2. Distanza interprimo premolare sul piano verticale 25-15 mm 6-15%
Stadio 3. Distanza interprimo premolare sul piano verticale 15-5 mm 16-35%
Stadio 1. Distanza sul piano orizzontale 10-5 mm 1%
Stadio 2. Distanza sul piano orizzontale <5 mm 3%
Stadio 1. Distanza sul piano frontale 0-5 mm 2%
Anchilosi completa della ATM, in relazione ai riflessi sulla funzione estetica, masticatoria, 40-50%
fonatoria e respiratoria
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per la valutazione degli esiti di fratture del condilo mandibolare ci si deve riferire alle percentuali di
invalidità prospettate per le limitazioni dell’escursione mandibolare.
Nel caso in cui la frattura ossea sia stata trattata mediante osteosintesi metallica, con persistenza in situ della
stessa, la valutazione deve essere incrementata dell’1-2%.
La valutazione del danno da osteonecrosi asettica del mascellare è complessa per i profondi riverberi che
essa, in fase avanzata, può avere sull’efficienza estetica, sulla capacità masticatoria e fonatoria, nonché per
i riflessi sulla sfera psichica. Elementi su cui strutturare tale giudizio sono costituiti da: effettivo deficit
funzionale dell’apparato stomatognatico e grado di emendabilità dello stesso; riflessi sulla sfera psichica e
sull’efficienza estetica.
Un’estesa lacuna ossea con perdita di numerosi elementi dentari associata ad importanti riflessi di natura
neuro-psichica e riverberi sulla fisionomia del soggetto rende ragione di un tasso di invalidità permanente
fino al 35%. Non trascurabili sono, poi, le difficoltà che spesso insorgono nella riabilitazione del danno
dell’apparato stomatognatico in presenza di una estesa osteonecrosi del mascellare.
Per le fratture del mascellare (Le Fort) si rimanda al capitolo 6.
9.7. Malocclusione
misura lineare dello spazio compreso tra il margine incisale degli incisivi inferiori ed il
punto di proiezione del margine incisale degli incisivi superiori sulla superficie vesti-
bolare di quelli inferiori. Un’eccessiva sovrapposizione verticale degli incisivi superiori
sugli incisivi inferiori viene definita “morso profondo”. Nel caso in cui i margini incisali
degli incisivi superiori ed inferiori si trovino allo stesso livello è individuabile una
condizione di testa a testa o di overbite zero. L’assenza di contatto occlusale, in presenza
di una beanza tra incisivi superiori ed inferiori, viene definita morso aperto; tale quadro
clinico può essere altresì riscontrato anche nei settori latero-posteriori.
L’overjet (v.n. 2 mm) è la misura lineare dello spazio compreso tra il margine
incisale dell’incisivo superiore e la sua proiezione orizzontale sulla superficie vestibolare
dell’incisivo inferiore. In presenza di elementi dell’arcata superiore più lingualizzati
rispetto agli inferiori (ovj negativo) si parla di morso crociato, quadro clinico che può
interessare un singolo elemento dentale o un intero settore dell’arcata e può localizzarsi
a livello del settore frontale (morso crociato anteriore) o dei settori latero-posteriori
(morso crociato posteriore); quest’ultimo caso può essere mono o bilaterale. In presenza
della vestibolarizzazione di uno o più elementi dentali dei settori latero-posteriore
dell’arcata superiore rispetto agli antagonisti inferiori (ovj aumentato) si parla di morso
a forbice.
Le conseguenze causalmente riferibili alla malocclusione possono essere di ordine
psico-sociale, correlate all’estetica dento-facciale od anche funzionale, con maggiore
suscettibilità ai traumi, alle problematiche parodontali ed alle lesioni cariose.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
I parametri su cui strutturare la valutazione sono rappresentati da: grado di asimmetria dento-facciale; classe
scheletrica; entità ovj — ovb; classe dentaria.
Malocclusione 5-15%
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Capitolo 10
FUNZIONE DIGERENTE
10.1. Esofago. — 10.2. Stomaco e duodeno. — 10.3. Intestino tenue. — 10.4. Colon. — 10.5. Retto e ano. —
10.6. Pancreas. — 10.7. Fegato e vie biliari
10.1. Esofago
L’esofago svolge funzione di transito del bolo alimentare verso lo stomaco, il cui flusso
retrogrado è impedito dalla contrazione negli intervalli tra gli atti deglutitori di due strut-
ture sfinteriali, lo sfintere esofageo superiore (SES) e quello inferiore (pseudo-sfintere,
SEI), che si rilasciano in caso di vomito, con reflusso incoercibile del contenuto gastrico.
Di seguito una tabella riepilogativa degli elementi più significativi di inquadra-
mento della patologia esofagea.
PATOLOGIE SINTOMI DIAGNOSI
Infiammazioni (esofagiti)/ Disfagia
ulcerazioni Pirosi retrosternale
EGDS con o senza biopsia
Varici Esofagee Dolore
Rx (con o senza mdc)
Presenza di corpi estranei Rigurgito/vomito
TC con mdc
Lesioni da caustici Sanguinamento
Lacerazioni Perforazioni Perdita di peso
Infiammazioni (esofagiti)/ulcerazioni
I quadri di esofagite possono essere sostenuti da vari fattori (chimici in caso di
reflusso gastro-esofageo, infettivi nelle micosi, etc). La flogosi cronica può associarsi a
forme di ulcerazione anche circonferenziale (che possono esitare nel tempo in sub-
stenosi o stenosi del lume) o degenerazione in metaplasia-displasia-cancro (es. meta-
plasia della giunzione gastro-esofagea nell’esofago di Barrett).
La diagnosi viene posta attraverso EGDS con eventuale biopsia.
Per la valutazione della gravità del quadro anatomo-clinico sono utilizzate diverse
classificazioni:
1) Classificazione di Los Angeles (che ha sostituito la precedente classificazione di
Savary-Miller) per esofagiti da reflusso, che correla bene con i risultati della pH-metria
esofagea delle 24 ore, con la severità della pirosi, con la guarigione endoscopica dopo
un ciclo di terapia con omeprazolo 10 mg/die per 4 settimane e con il rischio di recidiva
sintomatica entro 6 mesi dalla sospensione della terapia:
— Erosioni estese ad una sola plica: < 5 mm (grado A); >5 mm (grado B).
— Erosioni estese a più pliche: < 75% della circonferenza (grado C); > 75% della
circonferenza (grado D).
2) Classificazione di Praga per Esofago di Barrett.
3) Classificazione endoscopica dell’emorragia da ulcera peptica di Forrest, che
distingue tre gradi di gravità e di rischio di risanguinamento, in ordine decrescente:
— Grado I: sanguinamento attivo (tipo Ia: a getto; tipo Ib: a nappo).
— Grado II: segni di sanguinamento recente (tipo IIa: vaso visibile; tipo IIb:
coagulo adeso alla lesione; tipo IIc: chiazza ematinica sul fondo dell’ulcera).
— Grado III: assenza di segni di sanguinamento e presenza di ulcera a fondo
deterso.
Varici Esofagee
Le varici esofagee sono espressione di un quadro di ipertensione portale (ad es. in
corso di cirrosi epatica) e vengono diagnosticate attraverso EGDS. Tra le molte
classificazioni proposte per codificare le dimensioni delle varici esofagee, la più utiliz-
zata quella della Japanese Research Society for Portal Hypertension che distingue:
— varici F1: piccole e lineari;
— varici F2: dilatate e tortuose;
— varici F3: larghe e nodulari.
Questa classificazione prevede anche la descrizione della sede, del colore e della
presenza di segni rossi ed esprime l’entità ed il rischio di sanguinamento che può rivelarsi
con ematemesi o melena, talvolta manifeste in maniera cataclismatica con alta mortalità.
Il soggetto, se possibile, viene sottoposto a profilassi e/o terapia farmacologica
(assunzione di β-bloccanti, se tollerati) o endoscopica (legatura o sclerosi). In corso di
sanguinamento il trattamento è endoscopico o, se non risolutorio, temporaneo con
sonda di Sengstaken-Blakemore. Nei casi di ipertensione portale grave con varici
esofagee, ascite non responsiva a trattamento farmacologico (ed in assenza di encefa-
lopatia porto-sistemica), il posizionamento di TIPS (shunt portosistemico intraepatico
transgiugulare) può migliorare il quadro.
Perforazioni e lacerazioni
La perforazione rappresenta la rottura a tutto spessore della parete esofagea, le cui
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cause possono essere numerose: nella gran parte dei casi sono di origine iatrogena, negli
altri casi sono di natura spontanea. La lacerazione senza perforazione dell’esofago
riconosce invece prevalentemente una genesi spontanea (sindrome di Mallory-Weiss,
lacerazione dell’esofago distale e/o della parte prossimale dello stomaco).
Vi sono alcune zone preferenziali di perforazione, che corrispondono alle sedi di
restringimento fisiologico dell’esofago: il cricofaringe è la sede più frequentemente
interessata in corso di endoscopia; la zona posta a livello dell’arco dell’aorta e del
bronco di sinistra è generalmente interessata da perforazioni prodotte da corpi estranei;
infine la giunzione esofago-gastrica può perforarsi durante le manovre di dilatazione o
nell’esecuzione di procedure endoscopiche.
Il quadro clinico della perforazione varia in base alla sede; spesso è caratterizzato da
violento dolore improvviso, disfagia, dispnea, febbre, enfisema sottocutaneo e infine
shock settico.
La diagnosi è clinica e strumentale: l’Rx può mostrare la presenza di enfisema
sottocutaneo nelle forme a localizzazione cervicale e pneumomediastino nelle forme
toraciche; la TC con mdc documenta in maniera più dettagliata il quadro morfologico.
La prognosi dipende essenzialmente dalla tempestività della diagnosi e dal tratta-
mento instaurato in prima istanza. Il trattamento conservativo (terapia antibiotica con
supporto nutrizionale endovena) può talora essere sufficiente ma nella maggioranza si
deve associare quello chirurgico, che è finalizzato alla detersione dell’area contaminata
e, se possibile, alla riparazione diretta del danno. La sutura semplice evolve spesso verso
l’insuccesso, soprattutto in caso di diagnosi tardiva, per cui sono state proposte molte
alternative quali i lembi di rinforzo delle suture o la fistolizzazione diretta. Nel caso in
cui la perforazione sia sostenuta da patologia esofagea è indicata la resezione con
contestuale confezionamento di esofagostomia. Nei casi gravi, o in caso di perforazione
post-intervento, il ricorso all’esclusione esofagea resta talvolta l’unico metodo per
controllare l’infezione pleurica o mediastinica persistente.
Il quadro clinico della lacerazione esofagea (sindrome di Mallory-Weiss, che
prevale nei pazienti alcolisti e nella ostruzione pilorica) si presenta con tosse, vomito e
sanguinamento. L’EGDS, da eseguire con cautela, è indicata per la diagnosi. Per la
quasi totalità degli individui il sanguinamento si arresta spontaneamente. Fra le terapie
utilizzate il trattamento endoscopico o, in alternativa, l’embolizzazione trans-catetere e
l’infusione intra-arteriosa di farmaci rappresentano possibili opzioni mentre è raramente
necessaria la sutura della lacerazione.
Lesioni da caustici
Dal punto di vista strettamente chimico gli agenti caustici possono essere distinti in
tre fondamentali categorie:
— acidi forti: spesso impiegati come elementi di batterie, detergenti per WC e
sanitari, per metalli, antiruggine (es. acido muriatico);
— basi forti: impiegati come detersivi per lavastoviglie o per uso domestico (es.
soda caustica), idrossido di potassio, idrossido di ammonio;
— agenti ossidanti: candeggina.
L’azione lesiva dipende dal tipo di caustico, dalla concentrazione e dalla quantità,
dalla modalità di ingestione (intenzionale o accidentale) e dal tempo di contatto; in
relazione a tali fattori si possono realizzare quadri di esofagite fino alla perforazione vera
e propria. La diagnosi è clinica e strumentale (in questo caso la flow-chart diagnostico-
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strumentale dipende dai parametri sopradescritti e dalle indicazioni del Centro Anti-
veleni di riferimento), potendo avvalersi di EGDS, Rx, TC con mdc.
Gli esiti a lungo termine delle suddette lesioni possono essere di varia natura anche
se la stenosi è l’evenienza più frequente.
In rapporto allo stadio della lesione, la terapia varia dalla semplice osservazione
clinica al trattamento (endoscopico o chirurgico). Nei casi in cui la lesione abbia
inizialmente imposto l’esofagectomia con esofagostomia, si può considerare la ricostru-
zione dell’esofago (es. esofagocolonplastica) in un secondo tempo.
Corpo estraneo
L’impossibilità di un corpo estraneo a progredire verso lo stomaco dipende sia
dalle dimensioni (più facilmente la ritenzione si realizza nell’esofago toracico e prefe-
ribilmente a livello dei restringimenti fisiologici), sia dalla presenza di punte che ne
favoriscono l’ancoraggio alla parete.
Il quadro clinico è caratterizzato da dolore, scialorrea e disfagia; può complicarsi
talvolta con perforazione esofagea.
La diagnosi prevede l’esecuzione di Rx standard (nel sospetto di ingestione di
corpo estraneo radio-opaco) o TC con mdc. A seguito della conferma radiologica, ma
anche nel solo sospetto clinico, della presenza di un corpo estraneo è possibile tentare
di intervenire per via endoscopica, indipendentemente dalla sede (a meno che l’ingesto
sia piccolo e sia progredito nel tratto intestinale), dalla dimensione e dalla potenzialità
lesiva. L’asportazione chirurgica — per via cervicotomica o toracotomica — è limitata
ai casi in cui l’endoscopia fallisca.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Patologie dell’esofago. Stadio I 5-10%
Flogosi cronica della mucosa, malattia da reflusso gastro-esofageo (MRGE) con sintomato-
logia lieve, lesioni esofagee suturate senza disturbi, stenosi esofagea con lieve difficoltà alla
deglutizione dei cibi solidi.
Per i primi tre quadri ci si orienta verso il valore minimo del range.
Patologie dell’esofago. Stadio II 11-25%
Flogosi cronica della mucosa con frequente odinofagia e dolore toracico; MRGE di grado
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
moderato con pirosi ed eruttazioni frequenti; stenosi esofagea di media entità, con moderata
ma pressoché costante difficoltà a deglutire; anomalie motorie di medio grado con disfagia
frequente.
Patologie dell’esofago. Stadio III 26-40%
Flogosi ed erosione della mucosa con sintomatologia rilevante; MRGE di grado severo;
stenosi esofagea con rilevante difficoltà a deglutire cibi solidi e/o semiliquidi e con necessità
di modifiche del regime dietetico; anomalie motorie rilevanti; perdita di peso con moderate
ripercussioni sullo stato generale.
Patologie dell’esofago. Stadio IV 41-60%
Esofagite ulcerativa con dolore toracico intenso e costante, notevoli difficoltà di alimenta-
zione; stenosi esofagea con disfagia pressoché completa, scialorrea persistente, necessità di
dieta liquida e dilatazioni; anomalie motorie gravi con notevole difficoltà di alimentazione
per os; evoluzione verso complicanze maggiori (dolicomegaesofago, anemia e patologia
respiratoria). Rilevante perdita di peso e notevoli ripercussioni sullo stato generale. Rien-
trano in questo Stadio gli esiti di esofagectomia parziale o totale con conseguente ricostru-
zione chirurgica.
Patologie dell’esofago. Stadio V 61-75%
Stenosi esofagea serrata che richiede applicazione di protesi o confezionamento di gastro-
stomia; impossibilità di alimentazione per os con necessità di nutrizione parenterale; grave
ripercussione sullo stato generale.
Gastrite
La forma acuta può essere causata da vari agenti eziologici (farmaci, alcol, caffè,
fumo di sigaretta, ustioni, sepsi, traumi, interventi chirurgici, shock, etc). Si può
manifestare con ampio spettro sintomatologico, che varia da forme asintomatiche sino
ad epigastralgie importanti con vomito ed emorragia (ematemesi e/o melena), come
nella gastrite erosiva o emorragica (caratterizzata da flogosi acuta con erosione della
mucosa), fino a shock emorragico. Nella maggior parte dei casi tuttavia i sintomi
principali sono la dispepsia e l’epigastralgia. La diagnosi è endoscopica. La terapia è
sintomatica, mediante somministrazione di antiacidi, antistaminici H2 o inibitori di
pompa protonica (IPP).
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Ulcera Peptica
L’ulcera peptica è caratterizzata da perdita di sostanza che si approfonda oltre la
muscolaris mucosae e raggiunge la tonaca muscolare.
Si distingue una forma acuta (da stress o di Curling, ulcere acute neurogene o di
Cushing) ed una forma cronica (per anomala interazione tra la mucosa gastrica e la
secrezione cloridro-peptica). L’eziologia riconosce fattori ambientali (fumo di sigaretta,
alcol, caffè, farmaci, stress), fattori genetici, infezione da Helicobacter pylori, malattie
sistemiche e fattori psico-somatici.
Le manifestazioni cliniche sono rappresentate da dolore epigastrico crampiforme,
che può essere accompagnato da disturbi dispeptici.
Tra le complicanze vi sono: emorragia acuta massiva con shock o, in alternativa,
stillicidio cronico (con eventuale anemia sideropenica), perforazione e conseguente
peritonite acuta. Le complicanze a lungo termine sono la stenosi (soprattutto a livello
pilorico) e la degenerazione carcinomatosa (nel caso di ulcera gastrica).
La diagnosi si basa sull’effettuazione di EGDS con eventuale biopsia. La terapia è
solitamente dietetica e medica sintomatica (antiacidi, inibitori di pompa protonica),
salvo il verificarsi di complicanze. In caso di emorragia è indicato il trattamento
endoscopico per effettuare una sclerosi o angiografico per l’embolizzazione; talora è
necessario l’intervento chirurgico. La microperforazione tamponata può avvalersi di un
tentativo di trattamento conservativo, mentre in caso di perforazione vera e propria è
necessario il trattamento chirurgico. Infine, in caso di ulcera peptica in sede gastrica è
necessario, quando non controindicato per altri motivi, il campionamento bioptico per
escludere l’evoluzione neoplastica. Soprattutto nei casi in cui non vi sia stata la
possibilità di una caratterizzazione istologica (es. dopo sclerosi per sanguinamento) è
previsto un follow-up endoscopico a breve termine.
Lesioni Traumatiche
Le lesioni traumatiche derivano da traumi chiusi dell’addome (che possono
determinare lacerazione, lesioni da scoppio, ematoma, disinserzione dei mesi ed emor-
ragie parietali) e da lesioni perforanti (da proiettile, da punta e taglienti, anche
iatrogene). La sintomatologia è quella delle perforazioni, associata ad eventuale emor-
ragia fino allo shock. L’intervento chirurgico è necessario per l’esplorazione della cavità
addominale, la verifica e la riparazione del danno.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Patologie dello stomaco-duodeno. Stadio I 5-10%
Malattia peptico-flogistica cronica con lievi e saltuarie turbe dispeptiche; ulcera gastro-
duodenale con saltuaria sintomatologia dolorosa.
Patologie dello stomaco-duodeno. Stadio II 11-25%
Malattia peptico-flogistica con apprezzabili turbe dispeptiche e dolore epigastrico ad anda-
mento remittente; ulcera gastro-duodenale con rilevante dolore epigastrico spesso associata
a nausea e vomito.
Patologie dello stomaco-duodeno. Stadio III 26-40%
Malattia peptico-flogistica con rilevanti turbe dispeptiche e dolore epigastrico scarsamente
sensibile alle comuni terapie; ulcera gastro-duodenale refrattaria, resistente, recidivante;
gastro-resezione parziale o anastomosi con buona ripresa funzionale e disturbi moderati;
perdita di peso con moderate ripercussioni sullo stato generale.
Patologie dello stomaco-duodeno. Stadio IV 41-60%
Malattia peptico-flogistica grave, con emorragie recidivanti e necessità di trattamento chi-
rurgico con eventuale gastroresezione.
Patologie dello stomaco-duodeno. Stadio V 61-75%
Gastrectomia totale con gravi sequele post-operatorie, difficoltà di alimentazione e grave
compromissione dello stato generale.
Occlusione
L’occlusione può essere sia di natura dinamica (ileo paralitico) che meccanica (ileo
meccanico). La genesi può riconoscere un meccanismo estrinseco (aderenze, briglie ed
ernie) o intrinseco (neoplasie, ileo biliare, strangolamento, invaginazioni e volvoli).
Il quadro clinico è caratterizzato da dolore addominale, peristalsi aumentata in fase
iniziale con rumori di tipo metallico all’auscultazione, distensione addominale (gene-
ralmente più tardiva) con segno del “guazzo”, chiusura dell’alvo a feci e gas (che in fase
iniziale può essere assente), nausea e vomito enterico; in fase tardiva si manifestano
dolore diffuso, assenza della peristalsi ed alterazioni idro-elettrolitiche.
La diagnosi si basa sull’esecuzione di Rx diretta dell’addome (sia in ortostatismo
che in posizione prona) per la ricerca di livelli idro-aerei e di eventuale aria libera
sottodiaframmatica (indicativa di perforazione). L’ecografia, pur non essendo il gold
standard, ha comunque specificità diagnostica per evidenziare la dilatazione delle anse
intestinali con eventuale inspessimento. La TC con mdc e la RM o entero-RM (utile ed
eseguibile in elezione) sono in grado di confermare la presenza e la sede dell’ostruzione
e la sussistenza di eventuali complicanze (perforazioni, fistole). Quando non sia
sufficiente un trattamento conservativo con digiuno ed idratazione endovenosa, vi è
indicazione all’intervento chirurgico (ad es. occlusioni meccaniche con sospetto di
sofferenza d’ansa, stenosi eteroplasica, perforazione, etc.).
Malassorbimento
Le sindromi da malassorbimento sono caratterizzate da un insufficiente assorbi-
mento di lipidi, vitamine, proteine, carboidrati, elettroliti, sali minerali ed acqua. Il
sintomo più comune è la diarrea cronica con steatorrea. Tra le cause più frequenti vi sono
pancreatiti, sindrome di Zollinger Ellison, celiachia, malattie infiammatorie croniche,
ma esistono anche cause iatrogene, tra cui la sindrome da intestino corto, conseguenza
di ampie resezioni, ed alcune tipologie di interventi di chirurgia bariatrica. La sua
manifestazione è da mettersi in relazione alla sede (digiuno piuttosto che ileo) ed
all’estensione della resezione (solitamente oltre il 50% della lunghezza complessiva
dell’intestino), alla presenza o meno della valvola ileo-cecale, al grado iniziale di
funzionalità epatica, pancreatica e del residuo tratto digerente, alla capacità di adatta-
mento dell’intestino residuo, alla patologia primitiva ed all’eventuale malattia residua.
In relazione a ciò le resezioni digiunali, responsabili di episodi diarroici di minima
entità, non comportano malassorbimento per la funzione sostitutiva svolta in parte dal
duodeno (ferro e calcio) e, soprattutto, dall’ileo per la quasi totalità delle altre sostanze.
Le resezioni ileali intermedie limitate (meno di 1 m) determinano alterazioni minime,
mentre resezioni maggiori, soprattutto con coinvolgimento del tratto terminale (ultimi
50 cm), provocano malassorbimento della vitamina B12 e passaggio di materiale
isotonico e sali biliari nel colon, con conseguente ostacolo al riassorbimento idro-
elettrolitico (diarrea grave), alterato assorbimento dei grassi con steatorrea e maggiore
incidenza di calcolosi biliare. Le resezioni dell’80% o più del tenue hanno effetti
estremamente severi e generalmente necessitano di supporto nutrizionale marziale ed
eventuale valutazione per trapianto di intestino o multi-viscerale.
II trapianto intestinale/multiviscerale è la tipologia meno comune di trapianto e
rappresenta un’opzione terapeutica alternativa al trattamento protratto con Nutrizione
Parenterale Totale (NPT) nei soggetti affetti da insufficienza intestinale terminale e
irreversibile, che vanno incontro alle complicanze della NPT stessa. In particolare le
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Patologie del tenue. Stadio I 5-10%
Resezione non estesa con lievi alterazioni funzionali senza variazioni di peso.
Patologie del tenue. Stadio II 11-25%
Resezione od esclusione funzionale segmentaria fino al 50% del tenue con conservazione
della valvola ileo-cecale; sindrome da malassorbimento con sintomi moderati, medicazione
quotidiana, restrizioni dietetiche, perdita di peso non superiore al 10% del BMI.
Il coinvolgimento della porzione prossimale o distale del tenue comporta una valutazione
attorno al limite alto del range in virtù della maggior importanza funzionale di tali segmenti.
Patologie del tenue. Stadio III 26-40%
Resezione od esclusione funzionale estesa del tenue (oltre il 50%); sindrome da malassor-
bimento con sintomi da moderati a rilevanti, medicazione quotidiana, restrizioni dietetiche,
perdita del peso dal 10% al 20% del BMI. Il coinvolgimento della valvola ileo-cecale
comporta una valutazione vicina al limite alto della fascia.
Patologie del tenue. Stadio IV 41-60%
Resezione od esclusione funzionale di oltre il 50% del tenue difficilmente compensabile, con
rilevante compromissione dello stato generale; sindrome da malassorbimento con sintomi
gravi, medicazione quotidiana, restrizioni dietetiche, perdita del peso superiore al 20% del
BMI normale.
Patologie del tenue. Stadio V 61-75%
Perdita anatomica o funzionale completa o gravissima sindrome da malassorbimento fino
alla cachessia, con grave compromissione dello stato generale.
Esiti di trapianto di intestino tenue, con sufficiente recupero funzionale 30-50%
Ai fini della valutazione si deve tener conto dei seguenti fattori: età; eventuali deficit residui
della funzionalità (trattandosi di un organo trapiantato la presenza di tali deficit assume
particolare rilevanza); percentuale di sopravvivenza prevista in casi consimili; eventuale
presenza di fattori di rischio per lo sviluppo di complicanze; eventuale coesistenza di
patologie che possono influenzare la “durata” dell’organo trapiantato; effetti collaterali della
terapia immunosoppressiva.
10.4. Colon
Occlusione intestinale
L’occlusione intestinale può essere sia di natura dinamica che meccanica, causata
da meccanismo estrinseco (aderenze, briglie ed ernie) o intrinseco (neoplasie, ileo
biliare, strangolamento, invaginazioni e volvoli).
Il quadro clinico è generalmente analogo a quello descritto per il tenue.
La diagnosi viene posta mediante Rx diretta dell’addome, eventualmente associata
a TC con mdc.
Perforazione
La perforazione può conseguire a patologia primitiva del colon (neoplasia, diver-
ticolo, etc.) o essere di natura iatrogena, generalmente da errate manovre endoscopiche
(sia in corso di endoscopia diagnostica o, più, frequentemente di endoscopia chirur-
gica). Dal punto di vista clinico si manifesta con un quadro di addome acuto da
peritonite localizzata o diffusa (stercoracea), che esordisce con dolore acuto seguito
dalla comparsa di contrattura parietale e peritonite franca. La diagnosi prevede la Rx
diretta dell’addome o la TC (anche senza mdc), che dimostrano la presenza di aria libera
(falce d’aria sottodiaframmatica). Nella quasi totalità dei casi è indicato l’intervento
chirurgico esplorativo, con resezione del tratto coinvolto. Si può tentare un trattamento
conservativo in caso di microperforazione tamponata (senza peritonite stercoracea).
Ascesso
L’ascesso è una raccolta saccata purulenta che può manifestarsi sia come compli-
canza di un evento flogistico con sovrapposizione infettiva (es. perforazione, anche
microscopica, di un diverticolo, appendicite, etc), sia a seguito di intervento chirurgico
addominale (ad es. quale espressione della formazione di piccola deiscenza anastomo-
tica). Clinicamente si caratterizza per la presenza di febbre e, spesso, di dolore
circoscritto, quasi sempre speculare ai quadranti corrispondenti alla sede di raccolta; si
associa innalzamento degli indici di flogosi. La diagnosi è solitamente basata sullo studio
imaging (ecografia o TC con mdc). Il trattamento può prevedere il drenaggio percuta-
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neo della raccolta o, per lo più, l’intervento chirurgico con bonifica della stessa e
trattamento della causa che sostiene il fenomeno infettivo.
Fistolizzazione
La fistola è il risultato del drenaggio spontaneo di un ascesso che può creare un
tramite negli organi cavi circostanti (fistole colo-vescicali, colo-coliche, etc.) o verso
l’esterno, nella parete addominale (fistole colo-cutanee); può anche essere espressione di
una deiscenza anastomotica dopo resezione intestinale. Le manifestazioni cliniche sono
dipendenti dalle strutture coinvolte nel tratto fistoloso (cistiti, fecaluria, pneumaturia,
perdite fecali dalla vagina, etc.) ed è quasi sempre presente iperpiressia. La diagnosi può
essere effettuata mediante TC con mdc o Rx con mdc (fistolografia). Il trattamento è per
lo più chirurgico, con drenaggio delle eventuali raccolte e risoluzione del tratto fistoloso.
Nel caso di deiscenze anastomotiche dopo resezione colica, se piccole e ben drenate con
basso out-put, può essere considerato in prima istanza un trattamento conservativo in
attesa della progressiva chiusura del tratto deiscente.
Lesioni ischemiche
La colite ischemica, a distribuzione segmentaria, con prevalente coinvolgimento
della flessura splenica e del colon discendente, è caratteristica dei soggetti anziani (90%
ultrasessantenni) e riconosce come causa frequente l’arteriosclerosi dei piccoli rami
vascolari pericolici. La riduzione del flusso ematico comporta sofferenza ischemica
dell’organo che può tradursi in modeste emorragie sottomucose o intramurali, del tutto
o in parte reversibili, ma anche in ulcerazioni o stenosi cicatriziali. Eventi acuti da
trombosi venosa o trombo-embolici arteriosi, ad es. di origine cardiogena (fibrillazione
atriale), possono essere causa, nelle forme più gravi, di necrosi trans-murale (infarto
intestinale) con successiva perforazione e peritonite secondaria. A seguito della diagnosi
di infarto intestinale è necessario procedere all’intervento chirurgico, ove possibile, con
resezione del tratto coinvolto, la cui estensione condiziona la prognosi.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Patologie del colon. Stadio I 5-10%
Patologia stenotica lieve e/o da resezione non estesa; sintomi e segni clinici lievi, opportunità
di trattamento dietetico/farmacologico.
Patologie del colon. Stadio II 11-25%
Patologia stenotica e/o da resezione estesa; sintomi sub-occlusivi e necessità di trattamento
medico e dietetico. Moderato calo ponderale (<20%) e lievi ripercussioni sullo stato
generale.
Patologie del colon. Stadio III 26-40%
Patologia stenotica e/o da resezione estesa oltre i 2/3; sintomi moderati ma continui e
necessità di trattamento medico e dietetico, moderate ripercussioni sullo stato generale e
calo ponderale del 20%. La presenza di stomia a permanenza giustifica il riconoscimento di
una valutazione orientativa del 35-40% in dipendenza della localizzazione e dei disturbi
secondari.
Patologie del colon. Stadio IV 41-60%
Patologia stenotica e/o da resezione subtotale; sintomi rilevanti e costanti, inefficacia del
trattamento medico e dietetico. Calo ponderale >20% e rilevanti ripercussioni sullo stato
generale.
Patologie del colon. Stadio V 61-75%
Patologia stenotica e/o da resezione totale con presenza di ileostomia; sintomi gravi e
costanti non responsivi al trattamento. Ripercussioni gravi sullo stato generale, calo pon-
derale inarrestabile.
Prolasso rettale
Il prolasso rettale è un’invaginazione del retto che porta alla sua esteriorizzazione
attraverso l’ano; è completo quando è rappresentato da tutto lo spessore della parete
rettale, in contrasto con il prolasso puramente mucoso, solitamente ad origine emor-
roidaria.
L’alterazione del pavimento pelvico e del retto si può esprimere in una “sindrome
del prolasso rettale”, che comporta allo stesso modo il prolasso interno non esterioriz-
zato ed il rettocele.
La finalità del trattamento chirurgico di rettopessi (quando indicato) è la corre-
zione del prolasso, ma anche il ripristino della funzione ano-rettale.
Ascessi e fistole
L’infezione delle ghiandole anali (strutture dello spazio intersfinterico che si
aprono nelle cripte del Morgagni a livello della linea pettinea) è considerata all’origine
degli ascessi e delle fistole ano-rettali, eventi che rappresentano due momenti diversi di
un’unica iniziale patologia. L’infezione delle ghiandole può dare luogo alla formazione
di un ascesso primario inter-sfinterico, che può propagarsi in varie direzioni con
conseguente formazione di: ascesso inter-sfinterico, ascesso ischio-rettale, ascesso pelvi-
rettale, ascesso perianale, ascesso post-anale, ascesso retro-rettale, ascesso a ferro di
cavallo. La formazione di un tramite a partenza dalla raccolta ascessuale dà invece
origine alla fistola, che secondo la classificazione di Parks può essere di tipo inter-
sfinterico, trans-sfinterico, sopra-sfinterico, extra-sfinterico.
La sintomatologia è solitamente caratterizzata da dolore, eventuale iperpiressia,
tumefazione della zona coinvolta e perdita di sostanza purulenta attraverso il tramite
fistoloso.
La diagnosi si avvale di fistolografia, TC con mdc, RM, endoscopia ed eco-
endoscopia.
Il trattamento è per lo più chirurgico e prevede il drenaggio dell’ascesso, la
fistulotomia o la fistulectomia. Il razionale del trattamento di tali patologie consiste nella
risoluzione del problema mantenendo intatta la funzionalità sfinteriale del soggetto.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 489 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Patologia ano-rettale su base organica (emorroidi, ragadi, fistole, prolasso) con correlata 5-15%
sintomatologia algico-disfunzionale
In caso di fistole, il danno correlato al quadro clinico-disfunzionale determinato dal
coinvolgimento delle strutture anatomiche adiacenti deve essere valutato autonomamente.
Patologia ano-rettale su base funzionale (defecazione ostruita), a seconda dell’entità del 10-20%
disturbo, del tipo e dell’efficacia del presidio terapeutico
Incontinenza dello sfintere anale con incontrollabile perdita di gas 15%
Incontinenza dello sfintere anale con incontrollabile perdita di gas e feci 21-40%
La valutazione all’interno del range deve essere effettuata in base alla gravità del disturbo,
riservando la valutazione massima ai casi di incontinenza totale non trattabile, ed ai risultati
dell’applicazione del neuromodulatore, la cui presenza giustifica comunque una valutazione
non inferiore al 30%.
10.6. Pancreas
Trapianto pancreatico
La maggior parte dei trapianti di pancreas viene effettuata simultaneamente ad un
trapianto di rene in soggetti diabetici con nefropatia avanzata o già in trattamento
dialitico. Negli ultimi anni è aumentata comunque la percentuale dei trapianti di
pancreas isolato ed è stato effettuato anche il trapianto di insule.
Le indicazione alle varie tipologia di trapianto di pancreas sono le seguenti:
1. Trapianto di pancreas isolato (PTA, pancreas transplant alone):
a) Diabete di tipo I documentato con associata buona funzionalità renale (CrCl
≥ 70 ml/min), anamnesi positiva per complicanze gravi, acute e frequenti della malattia
diabetica (es.: ipoglicemia, iperglicemia e chetoacidosi) o impedimenti sociali o clinici
alla terapia insulinica talmente gravi da non consentire una qualità di vita accettabile.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 490 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Patologie del pancreas. Stadio I 5-10%
Pancreatite acuta o cronica ricorrente, anche in assenza di segni clinici ma con alterazione
degli esami laboratoristici e necessità di terapia dietetica.
Patologie del pancreas. Stadio II 11-25%
Pancreatite cronica che richiede restrizioni dietetiche e terapie continuative; crisi dolorose
ricorrenti; alterazioni laboratoristiche indicative di insufficienza pancreatica e perdita di
peso compresa tra il 10 ed il 20%.
Patologie del pancreas. Stadio III 26-45%
Pancreatite cronica che richiede restrizioni dietetiche e terapie continuative; crisi dolorose
ricorrenti e particolarmente intense con necessità di terapia antalgica continua; perdita di
peso > 20%; alterazioni laboratoristiche indicative di insufficienza pancreatica. Diabete
mellito non insulino-dipendente.
Patologie del pancreas. Stadio IV 46-65%
Pancreatite cronica che richiede restrizioni dietetiche e terapie continuative; grave insuffi-
cienza pancreatica esocrina, con marcato malassorbimento e perdita di peso > 20%; crisi
dolorose ricorrenti e particolarmente intense con necessità di terapia antalgica maggiore
continua; rilevanti ripercussioni sullo stato generale. Diabete mellito insulino-dipendente.
Patologie del pancreas. Stadio V 66-80%
Grave insufficienza pancreatica con diabete mellito insulino-dipendente scompensato e
complicato. Gravi ripercussioni sullo stato generale.
Esiti di trapianto pancreatico 45-65%
Nei casi in cui si configurino quadri clinici di grave insufficienza pancreatica rapportabili
allo stadio V si deve far riferimento alla corrispondente fascia percentuale.
In caso di trapianto combinato pancreas-rene gli esiti devono essere valutati dipendente-
mente dalla funzionalità dei due rispettivi organi.
L’esito chirurgico è da valutare autonomamente, caso per caso, in relazione alle indicazioni
formulate nel capitolo 15.
necrosi epatocellulare. Lo studio delle forme acute o croniche virali prevede anche
l’indagine sierologica. Possono inoltre essere effettuati esami strumentali (ecografia,
RM, angioTC, ERCP) ed istologici, gold standard per identificare la severità della
malattia epatica in esame.
piastrinica, ALT, AST con l’età; indice APRI = rapporto tra GOT e piastrine), che
hanno dimostrato elevata attendibilità comparabile a quella del Fibroscan. Tali meto-
diche hanno confermato una buona predittività per gli estremi della curva, cioè quando
si valutano soggetti con lieve o grave fibrosi, mentre meno significativa è risultata la
valutazione nei casi di fibrosi intermedia (F2-F3), per i quali bisogna ricorrere alla
biopsia. In caso di cirrosi occorre far riferimento alla tabella del punteggio Child-Pugh.
Sul piano bio-umorale, nel soggetto HCV-RNA positivo alterazioni isolate degli
indici di laboratorio non sono di per sé significative, sebbene la presenza di transaminasi
persistentemente elevate si correli ad un più rapido danno istologico, che necessita delle
sopra descritte metodiche di definizione. Viceversa, soggetti con transaminasi persisten-
temente normali possono in circa il 25% dei casi presentare rilevante danno istologico,
pertanto anche in questa situazione è necessario ricorrere alla valutazione della fibrosi.
La presenza di crioglobulinemia, riscontrabile in qualsiasi stadio istologico, rappresenta,
per le sue implicazioni cliniche, una aggravante significativa del danno.
Altro elemento rilevante è rappresentato dagli aspetti soggettivi e neuro-cognitivi,
in quanto è noto che l’HCV, oltre ad essere un virus epatotropo, possiede una notevole
capacità di influire sul sistema nervoso centrale: studi con metodiche diagnostiche
radiologiche di ultima generazione hanno dimostrato che soggetti affetti da epatopatia
cronica HCV-correlata presentano alterazioni metaboliche a livello del sistema nervoso
centrale che, sul piano clinico, si traducono in deficit neuro-cognitivi (selettivi sull’at-
tenzione e capacità di concentrazione e memoria operativa) e modificazioni del tono
dell’umore, anche prima dell’insorgenza di un quadro di franca cirrosi.
La classificazione di Child-Pugh (indicata nella tabella sottostante) consente di
definire un punteggio a seconda del grado e della presenza o assenza di alcuni parametri
clinici e di laboratorio.
PARAMETRI PUNTI
1 2 3
Encefalopatia (grado) Assente 1-2 (leggero/medio) 3-4 (grave/gravissimo)
Leggera (controllata da diu- Grave (nonostante terapia
Ascite Assente
retici) diuretica)
PT (INR) < 1,7 1,7 — 2,3 > 2,3
Albumina (g/dL) > 3,5 2,8 — 3,5 < 2,8
Bilirubina (mg/dL) <2 2—3 <3
Più alta è la somma totale dei punti e maggiore è il livello di gravità della malattia;
sulla base di ciò la valutazione del danno dovrà essere modificata come segue:
Infine, in merito alla prognosi ed alla terapia, nel corso dell’ultimo decennio la
terapia dell’epatite C ha significativamente migliorato la prognosi dei soggetti infetti. Il
trattamento combinato con interferone e ribavirina consente di ottenere risposte
virologiche sostenute (SVR = sustained virological response) in caso di genotipo “facile”
NOMELAV: 15/21199 PAG: 496 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
Trapianto epatico
Le indicazioni al trapianto di fegato in casi non urgenti sono rappresentate da:
1. Malattia colestatica cronica su base autoimmune (epatiti autoimmuni, sindrome
da overlap, cirrosi biliare primitiva, colangite sclerosante primitiva) in stadio terminale,
che non risponde più alla terapia medica convenzionale; la sopravvivenza post-trapianto
allo stato attuale varia rispettivamente dal 74% a 5 anni, al 61% a 10 anni dall’inter-
vento; i migliori risultati sono riportati nei soggetti con cirrosi biliare primitiva. Il rischio
di recidiva di malattia autoimmune del fegato, anche a breve termine dal trapianto, pur
considerando la difficile diagnosi differenziale con le forme di rigetto acuto o cronico,
è di circa il 20% con quadri clinici a volte molto aggressivi e rapida evoluzione verso la
cirrosi e l’insufficienza funzionale del graft.
2. Cirrosi epatica alcolica: la sopravvivenza del soggetto con cirrosi alcolica è
risultata del 82% a 1 anno, del 72% a 5 anni, comparabile con i risultati ottenuti per
altre indicazioni all’intervento. La recidiva di epatopatia alcolica rappresenta la causa
più frequente di morte dopo trapianto di fegato.
3. Cirrosi HBV ed HDV correlata: in caso di trapianto in soggetto con cirrosi
epatica HBV correlata (sia HBeAg positiva che HBeAg negativa) la sopravvivenza a 5
e 10 anni è risultata rispettivamente del 74% e 69%. È fondamentale prevenire la
recidiva di malattia dopo il trapianto, grazie alla terapia mediante immunoglobuline
specifiche e nuovi farmaci antivirali (analoghi nucleosidici). È tuttavia indispensabile
che l’indicazione alla terapia antivirale pre-trapianto sia posta in accordo con il Centro
trapianto di riferimento, soprattutto in relazione alla prevedibile tempistica del tra-
pianto stesso ed al rischio di insorgenza di mutanti virali farmaco-resistenti.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 497 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
spesso sequele permanenti come disturbi del movimento e del linguaggio; encefalopatia
ipossico-ischemica; complicanze a carico del sistema nervoso periferico, soprattutto
mononeuropatie, generalmente dovute a compressione o particolari posture durante
l’intervento per posizionare gli accessi vascolari), altre volte sono dovute alla neuro-
tossicità dei farmaci (in questo caso si manifestano precocemente). Si possono inoltre
verificare eventi cerebrovascolari acuti, infezioni del SNC, neoplasie cerebrali.
8. Neoplastica: i soggetti trapiantati, a causa della prolungata terapia immunosop-
pressiva, hanno un rischio aumentato di sviluppare neoplasie.
9. Chirurgica: biliari, vascolari, emorragie (sia precoci che tardive).
10. Rigetto: la terapia immunosoppressiva nell’immediato periodo post-operatorio
è fondamentale per la sopravvivenza del soggetto e del graft dopo trapianto di fegato ed
il suo scopo fondamentale è quello di prevenire gli episodi di rigetto. Il rigetto può
essere: acuto e cronico; quello acuto (infiammazione dell’organo indotta da un’incom-
patibilità antigenica tra donatore e ricevente che interessa primariamente i dotti biliari
e l’endotelio vascolare, incluse le vene portali, le venule epatiche e occasionalmente
l’arteria epatica ed i suoi rami) si manifesta generalmente dopo i 5 giorni dal trapianto
e, se clinicamente rilevante, si caratterizza per la concomitanza di evidenza istologica di
rigetto e di segni biochimici di danno epatobiliare e, talvolta, di manifestazioni cliniche
e come tale richiede terapia immunosoppressiva addizionale; quello cronico (danno del
fegato trapiantato su base immunologica) comporta un danno irreversibile dei dotti
biliari, delle arterie e delle vene epatiche e può talora rappresentare l’evoluzione di un
rigetto acuto grave o persistente, oppure esordire spontaneamente; può manifestarsi sin
dalle fasi relativamente precoci post-trapianto (in un arco variabile dai 60 ai 90 giorni)
e portare alla perdita dell’organo entro 4-12 mesi, ovvero comparire più tardivamente.
11. Recidiva di epatopatia.
Secondo i dati indicati dal Centro Nazionale Trapianti la sopravvivenza dei soggetti
sottoposti a trapianto di fegato dal 2000 al 2012 è dell’85,9% ad un anno dal trapianto
ed al 73,7% a 5 anni, dell’organo è dell’81% a un anno e del 69,1% a 5 anni.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Esiti di lobectomia con funzionalità normale o lievi alterazioni laboratoristiche 5%
Esiti di epatectomia fino a 1/3 dell’organo con alterazioni bioumorali lievi 6-15%
Esiti di epatectomia fino a 1/3 dell’organo con alterazioni bioumorali moderate e comparsa 16-25%
di sintomatologia
Esiti di trapianto epatico 30-50%
Ai fini della valutazione si deve tener conto dei seguenti fattori: età; eventuali deficit residui
della funzionalità epatica (trattandosi di un organo trapiantato la presenza di tali deficit
assume particolare rilevanza); percentuale di sopravvivenza prevista in casi consimili;
eventuale presenza di fattori di rischio per lo sviluppo di complicanze; eventuale coesistenza
di patologie che possono influenzare la “durata” dell’organo trapiantato; effetti collaterali
della terapia immunosoppressiva.
Nei casi in cui l’esito del trapianto sia sfavorevole e si instauri una condizione di franca
insufficienza epatica la valutazione può superare il limite massimo indicato, rientrando nello
stadio V delle epatopatie.
L’esito cicatriziale chirurgico è da valutare autonomamente, caso per caso, in relazione alle
indicazioni formulate nel capitolo 15.
Esiti di colecistectomia asintomatica. Lieve discinesia vie biliari 3-5%
Sindrome post-colecistectomia (dispeptico-dolorosa) 6-10%
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Capitolo 11
FUNZIONE NEFRO-UROLOGICA
11.1. Reni. — 11.1.a. Anomalie di quantità del parenchima renale (agenesia, ipoplasia, rene soprannumerario).
— 11.1.b. Anomalie di sede (malrotazione, ectopia e ptosi), forma e fusione. — 11.1.c. Anomalie di
differenziazione (malattia policistica dell’adulto e del bambino, malattia cistica midollare, rene a spugna, cisti
semplici). — 11.1.d. Insufficienza renale. — 11.1.e. Trapianto di rene. — 11.1.f. Sindrome nefrosica. —
11.2. Vie urinarie e vescica. — 11.2.a. Ureteri. — 11.2.b. Uretra. — 11.2.c. Ritenzione cronica di urine e
cistite. — 11.2.d. Incontinenza urinaria. — 11.2.e. Patologia litiasica
11.1. Reni
glomerulare. Come alternativa alla raccolta urinaria il calcolo della clearance della
creatinina può essere effettuato mediante la formula di Cockroft-Gault (non corretta
per la superficie corporea), dai valori di creatininemia, età, peso e sesso:
clearance creatinina = (140-età) x (peso in Kg) / (72 x creatininemia)
Il valore ottenuto va poi moltiplicato per 0,85 per le donne. Bisogna inoltre tener
presente che il valore ottenuto per mezzo di tale formula sovrastima il filtrato glome-
rulare di circa il 16%.
Il volume filtrato glomerulare (VFG) di un adulto normale è in media 125 ml/min,
con variabilità espressa da specifici nomogrammi in rapporto a sesso e peso (circa
80-125 ml/min nelle donne e 90-139 ml/min negli uomini).
Sulla base dell’entità della riduzione di tale parametro viene inquadrata la malattia
renale cronica che, secondo la classificazione attualmente utilizzata — proposta nel
2002 dalla National Kidney Foundation ed espressa nelle linee guida K/DOQI (Kidney
Disease Outcome Quality Initiative) — può essere suddivisa come segue:
— Stadio 1: segni di danno renale con VFG normale o aumentato (VFG > 90
ml/min).
— Stadio 2: segni di danno renale con lieve riduzione del VFG (VFG tra 60 e 89
ml/min).
— Stadio 3: riduzione moderata del VFG (VFG tra 59 e 30 ml/min).
— Stadio 4: grave riduzione del VFG (VFG tra 29 e 15 ml/min).
— Stadio 5: insufficienza renale terminale o uremia (VFG < 15 ml/min o paziente
in terapia sostitutiva).
Tale classificazione è stata modificata nel 2004 dalla KDIGO (Kidney Disease:
Improving Global Outcomes), aggiungendo un riferimento all’eventuale terapia sostitu-
tiva in corso con l’aggiunta di una lettera T per tra pianto, D per dialisi.
Solitamente, al ridursi della clearance della creatinina si correlano progressivi
incrementi della creatininemia (v.n. 0,6-1,2 mg/dl) e dell’azotemia (v.n. 20-45 mg/dl),
anch’essi utili ai fini della graduazione del danno funzionale. L’azotemia risulta essere
meno sensibile della creatininemia, permanendo costante o di poco alterata anche a
fronte di un sensibile calo del VFG ed essendo influenzata anche da fattori extrarenali
e dietetici.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Nel caso di monorene, ove concomiti anche un deficit funzionale del rene superstite, si deve far riferimento
a quanto di seguito indicato per la riduzione della funzionalità renale complessiva.
Ove la menomazione consegua ad ablazione chirurgica, il danno estetico che ne deriva deve essere valutato
a parte come indicato nel capitolo 15.
Esiti di perdita anatomica o funzionale di un rene, con adelfo normofunzionante 15%
La perdita anatomica o funzionale di un rene determina la privazione della funzione di
riserva affidata alla duplicità dell’organo (anatomicamente inteso). È del tutto pacifico che
il monorene debba adottare particolari cautele e limitazioni al fine di evitare rischi relativi
ad un’eccessiva sollecitazione della funzione renale superstite.
Ci si deve riferire alla presente voce, secondo criterio di proporzionalità, anche per la
valutazione degli esiti di lesione renale e/o di nefrectomia parziale e/o di infarto renale con
funzionalità residua normale.
Esiti di perdita anatomica o funzionale di un rene in presenza di patologie sistemiche 16-25%
comportanti concreti aumenti del rischio per la funzionalità renale residua (es: iperten-
sione arteriosa, diabete mellito, diverse endocrinopatie e malattie metaboliche)
Adeguata e personalizzata integrazione valutativa deve essere effettuata ove la condizione di
monorene si verifichi in soggetto affetto da patologie sistemiche comportanti un concreto
aumento del rischio per la funzionalità renale residua.
Rene a ferro di cavallo e rene policistico dell’adulto 5-15%
Tali patologie congenite devono essere oggetto di adeguata valutazione nella misura in cui
inducano un danno funzionale apprezzabile secondo i parametri di seguito espressi soprat-
tutto il rene policistico dove l’aumento del numero e delle dimensioni delle cisti causa la
perdita totale di funzionalità renale nella metà dei casi). In ogni caso, si tratta di condizioni
patologiche che nella migliore delle ipotesi condizionano comunque una maggiore tendenza
allo sviluppo di calcoli, di infezioni, di ritenzione urinaria, con necessità di adottare
particolari precauzioni o terapie, e conseguente correlata attribuzione di un’adeguata
percentuale invalidante.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Stadio I. Insufficienza renale iniziale 16-25%
Stadio II. Insufficienza renale moderata e clinicamente significativa 26-40%
Stadio III. Insufficienza renale grave 41-70%
Stadio IV. Insufficienza renale terminale con uremia e necessità di trattamento dialitico, a 71-90%
seconda del quadro clinico
La voce comprende anche la perdita anatomica di entrambi i reni.
La tipologia del trattamento terapeutico condiziona ulteriormente l’espressione della per-
centuale di danno biologico. È un dato ormai acquisito la notevole variabilità individuale di
risposta e tolleranza clinica al trattamento dialitico, qualunque sia la sua tipologia (dialisi
peritoneale, emodialisi, etc.), per cui la valutazione medico-legale deve tenere in adeguata
considerazione le effettive condizioni cliniche del dializzato, anche in relazione ai danni
eventualmente indotti dall’uremia prima della dialisi (es. osteodistrofia uremica, iperpara-
tiroidismo secondario, ecc.), di alcune conseguenze negative del trattamento dialitico (ad es.
l’anemia, sebbene la stessa risenta favorevolmente della somministrazione di eritropoietina
soprattutto se sintetica), ovvero della concorrenza di patologie sistemiche quale il diabete
mellito. Ovviamente anche la frequenza e la tipologia del trattamento dialitico possono
comportare un diverso apprezzamento del danno biologico nel dializzato e della sua qualità
di vita, così come eventuali complicanze della dialisi stessa.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Il trapianto di rene implica una valutazione assai variabile in relazione alle possibili complicanze, all’effettiva
funzione emuntoria ed alle alterazioni della qualità della vita del trapiantato. La valutazione deve inoltre
tener conto dei fattori di rischio pre-trapianto, delle necessità terapeutiche post-trapianto ed i loro effetti
collaterali, dell’obbligo dei controlli clinici, dell’entità degli eventuali persistenti disturbi della funzione
uropoietica, oltrechè del rischio di recidiva della patologia di base. La fascia valutativa è necessariamente
ampia in quanto deve ricomprendere le molteplici variabili che si possono riscontrare nel singolo caso, pur
in relazione ai lusinghieri traguardi raggiunti in questo campo tradizionale della trapiantologia.
I reliquati cicatriziali sono da valutare autonomamente, caso per caso, in relazione alle indicazioni formulate
nel capitolo 15.
Esiti di trapianto renale, con valido ripristino della funzionalità, in assenza o con lievi 25-40%
complicanze
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Esiti di trapianto renale, con insufficiente ripristino della funzionalità e complicanze di 41-70%
grado moderato-grave
Nel caso di necessità di terapia dialitica si fa riferimento alla valutazione indicata per
l’insufficienza renale terminale.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione del danno deve essere espressa a seconda delle ripercussioni funzionali e della risposta alla
terapia (dietetica, diuretica, ipocolesterolemizzante, steroidea ed immunosoppressiva).
Sindrome nefrosica 20-40%
11.2.a. Ureteri
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Ostruzioni e stenosi ureterali severe
L’ostruzione severa dell’uretere comporta inevitabilmente idronefrosi e si rende quindi indispensabile
l’intervento chirurgico, a maggior ragione se l’interessamento è bilaterale.
Nelle forme monolaterali la valutazione massima corrisponde ovviamente al valore previsto per la perdita
anatomica o funzionale del rene, mentre in quelle bilaterali, ove sia presente insufficienza renale cronica, si
deve fare riferimento alle specifiche voci precedentemente elencate.
Lo stesso dicasi ove la stenosi, mono o bilaterale, sia indotta da varianti anatomiche funzionalmente
significative (ptosi renale, anomalie della pelvi, duplicità o ectopia o inginocchiamenti dell’uretere).
Stenosi ureterali monolaterali di grado lieve-moderato, eventualmente anche meritevoli di 6-8%
applicazione di stent, ma senza idronefrosi
Nefrostomie e uretero(ileo)cutaneo-stomie definitive o comunque diversioni ureterali 15-40%
L’attribuzione di un variabile grado di invalidità permanente è correlata alla condizione di
mono o bilateralità (associata a cistectomia definitiva), ai rischi di infezione, di idronefrosi
o comunque di compromissione della funzionalità renale, alla presenza di sistemi esterni di
raccolta urinaria, all’antifisiologicità o assenza della minzione.
Analoghe le indicazioni per la cistectomia seguita da confezionamento di neovescica 30-40%
intestinale (continente o meno).
11.2.b. Uretra
sebbene non significativo (<1/3 del volume urinario), infezioni episodiche delle basse
vie urinarie o litiasi vescicole con buona risposta al trattamento terapeutico.
La stenosi uretrale deve essere documentata dalle comuni metodiche strumentali
quali cistouretroscopia e uroflussimetria; quest’ultima fornisce parametri quantitativi
della variazione del flusso uretrale. L’ecografia vescicale è effettuata dopo la uroflussi-
metria e serve per valutare se il soggetto è riuscito a svuotare completamente la vescica
con la minzione. Il gold standard per sensibilità e specificità nello studio delle stenosi
dell’uretra è costituito dalla uretrografia retrograda e minzionale e nessun intervento
chirurgico sull’uretra può essere programmato senza prima avere effettuato questo
esame.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Stenosi uretrale apprezzabile strumentalmente, con flusso pressoché normale o stenosi 5-10%
uretrale con complicanze di grado moderato
La valutazione deve tenere conto dell’entità della stenosi e dei disturbi ad essa correlati:
residuo vescicale (significativo se superiore ad 1/3 del volume urinario), infezioni ricorrenti
(delle basse vie urinarie), litiasi vescicale.
La fascia proposta tiene conto dei valori attribuiti al più lieve quadro di ritenzione cronica
di urine.
I predetti parametri valutativi possono essere presi in considerazione anche nei casi di
ipertrofia (o iperplasia) prostatica benigna (IPB) o di prostatite cronica (batterica o
abatterica — CPPS) incidenti sul flusso urinario e/o caratterizzati da apprezzabile sinto-
matologia.
Stenosi uretrale con associate rilevanti complicanze 11-30%
La contemporanea presenza di tutte le suddette complicanze (flusso patologico, residuo
vescicale superiore ad 1/3, infezioni ricorrenti, calcolosi vescicale) e la variabile risposta al
trattamento terapeutico, anche mediante periodiche dilatazioni ovvero la necessitata cate-
terizzazione permanente, inducono l’attribuzione di valori più elevati di invalidità perma-
nente rispetto alla voce precedente, in analogia con quanto previsto per i più gravi quadri
di ritenzione cronica di urine.
Sulla base di quanto specificato per la voce precedente, la valutazione è analoga anche per
le stenosi derivanti da patologia prostatica.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
In caso di ritenzione cronica di urine con necessità di cateterismi periodici la valutazione della singola fat-
tispecie va ricavata all’interno della fascia proposta sulla base della documentata frequenza dei necessari
cateterismi, di eventuali ricorrenti infezioni urinarie e/o litiasi, attribuendo il valore massimo ai casi di ca-
teterismo permanente.
Per quanto concerne la cistite cronica, a seconda della sintomatologia e della necessità e tipologia di cure,
ci si deve orientare sulla base dei valori percentuali indicati per la ritenzione cronica di urine.
La valutazione del danno relativo alla cistite interstiziale deve essere effettuata sulla base della espressività della
sintomatologia.
Ritenzione cronica di urine con accertato residuo vescicale, senza necessità di cateterismo 5-9%
Ritenzione cronica di urine con necessità di cateterismi periodici, a seconda della frequenza, 10-30%
fino alla necessità di catetere a dimora
Cistite interstiziale 5-20%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La perdita assoluta della capacità a contenere le urine (incontinenza urinaria totale) è da equiparare alla
ritenzione cronica urinaria assoluta: in entrambi i casi si realizza, infatti, la perdita della funzione vescicale,
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
con ovvi e pesanti riflessi sulla complessiva validità del soggetto, nonostante la possibile adozione di mezzi
di assorbimento, di un collettore meccanico o di uno sfintere artificiale.
Il valore attribuito all’incontinenza urinaria assoluta può costituire parametro di riferimento per le forme
parziali, differenziabili sulla base dei parametri forniti dalle indagini urodinamiche.
Le forme lievi e comunque documentate di incontinenza urinaria da sforzo, da urgenza o da iperafflusso
possono essere valutate con percentuali minori poiché si tratta di fattispecie caratterizzate da modesta
incontinenza o anche da associati disturbi isolati della minzione quali pollachiuria e/o nicturia (nelle forme
più importanti possono essere pure presenti disuria e/o stranguria); l’entità e l’associarsi dei disturbi
consente l’attribuzione percentuale all’interno della fascia proposta.
Forme lievi e strumentalmente documentate di incontinenza urinaria da sforzo, da urgenza 6-15%
o da iperafflusso
Incontinenza urinaria totale 30%
In tutti i casi in cui il quadro clinico ed anamnestico depone per una sospetta
calcolosi è necessario eseguire innanzitutto l’esame delle urine con valutazione del
sedimento urinario, urinocoltura ed esami ematici. Le indagini strumentali di primo
livello comprendono, in ordine di comune esecuzione, l’ecografia renale e vescicale e la
Rx diretta addome (oltre che al fine di inquadrare la patologia, per escludere eventuali
urgenze chirurgiche). La diagnostica di secondo livello prevede, invece, l’urografia, la
pielografia ascendente e la TC senza mdc. Infine, per un corretto inquadramento
etiopatogenetico, è opportuno eseguire l’analisi fisico-chimica del calcolo e lo studio
metabolico.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La calcolosi urinaria difficilmente può dar luogo ad un danno biologico a carattere permanente essendo
trattabile, anche chirurgicamente, nella stragrande maggioranza di casi. Ove il trattamento non sia possibile
in relazione a patologie sistemiche, caratterizzate da sintomatologia ad elevata ricorrenza e di apprezzabile
incidenza sulla funzionalità urinaria e l’omeostasi dell’organismo (es.: nefrolitiasi a stampo, litiasi su
diverticolo vescicale) è prospettabile il seguente range di riferimento orientativo.
Calcolosi urinaria 5-10%
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Capitolo 12
FUNZIONE SESSUALE E RIPRODUTTIVA
12.1. Premessa. — 12.2. Apparato genitale maschile. — 12.2.a. Genitali esterni. — 12.2.b. Patologie
andrologiche. — 12.2.c. Prostata. — 12.3. Apparato genitale femminile. — 12.3.a. Menomazioni dell’apparato
riproduttivo prima della maturazione sessuale. — 12.3.b. Menomazioni dell’apparato riproduttivo dopo la
maturazione sessuale. — 12.3.c. Endometriosi. — 12.3.d. Mutilazioni genitali femminili. — 12.4. Mammella
12.1. Premessa
secondarie è importante anche lo studio funzionale di vari apparati ed organi per mezzo
di esami ematochimici: esame emocromocitometrico; assetto lipidico; profilo glicemico;
valutazione della funzionalità epatica e renale; valutazione assetto ormonale (testosterone
libero, testosterone totale, LH, FSH, PRL, estradiolo). Per quello che riguarda gli esami
strumentali in prima istanza è sempre buona norma richiedere il test della tumescenza/
rigidità peniena notturna (NPT), che consente di registrare le fisiologiche erezioni che
avvengono durante le fasi REM del sonno; si tratta di un esame scevro da ogni invasività
e fondamentale per la diagnosi differenziale tra DE psicogena ed organica. Le indagini
di secondo livello risultano invece essere gravate da maggiore invasività e sono costituite
dal test di farmaco-erezione (in cui si valuta la risposta erettile successiva alla sommini-
strazione intracavernosa di un farmaco vasoattivo — Alprostadil PGE1) e dall’eco-
colordoppler penieno, eseguito sia in condizioni basali sia in stato di erezione indotta da
farmaci vasoattivi (doppler dinamico), quest’ultimo dirimente per la diagnosi di DE di
natura vasculogenica. Altri test sono rappresentati dallo studio dei potenziali sacrali evo-
cati e della sensibilità cutanea peniena (utile per valutare eventuali neuropatie). La ca-
vernosometria e la cavernosografia sono esami molto specialistici e discretamente invasivi,
mirati allo studio della disfunzione veno-occlusiva.
Infertilità
Il parametro cardine per la diagnosi di infertilità maschile è l’esame del liquido
seminale, da effettuarsi dopo un periodo di astinenza sessuale di 3-5 giorni. Gli esami
successivi comprendono: dosaggi ormonali (livelli sierici basali di testosterone, LH,
FSH, prolattina); eco-colordoppler scrotale, fondamentale per lo studio del varicocele;
deferento-vesciculografia, per confermare un’ostruzione delle vie seminali; biopsia
testicolare (trattandosi di una metodica invasiva, da eseguirsi soltanto nei casi di
azoospermia per valutarne le cause e dimostrare la presenza di una spermatogenesi nei
tubuli seminiferi).
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
In linea generale si tenga conto che la percentuale proposta deve essere modulata in base all’età e
generalmente ricomprende le ordinarie ripercussioni psichiche. Occorre inoltre sottolineare la maggiore
importanza che riveste la perdita anatomica rispetto a quella funzionale, anche nei casi in cui sia possibile
la relativa emendabilità.
La circoncisione maschile non è presa in considerazione a fini valutativi in quanto non produttiva di
apprezzabile menomazione e solitamente praticata per motivazioni religiose e culturali o con finalità
“igieniche”.
La perdita anatomica del prepuzio, ove terapeutica e resa necessaria da patologie locali (fimosi, balano-
postite cronica, etc.), può essere suscettibile di minima indicazione risarcitoria.
Per quanto concerne le lesioni dello scroto, queste sono solitamente associate a diffuse patologie genitali
ovvero ad estese alterazioni cutanee (ustioni, radiodermiti) per cui vanno considerate nel contesto della
complessiva menomazione di specifico oggetto valutativo; nei rari casi di lesione scrotale isolata — previo
accertamento dell’integrità anatomo-funzionale testicolare e quindi della conservata funzione protettiva
dello scroto — si deve valutare la menomazione residua all’interno delle indicazioni fornite per il danno
estetico, unitamente a specifiche eventuali considerazioni relative alla ridotta o perduta componente
sensitiva.
Le voci relative alle menomazioni di massima gravità, pur rappresentando situazioni di rara ricorrenza
clinica, sono riportate al fine di fornire parametri di riferimento la graduazione decrescente di quelle di
minore entità.
Perdita del pene e dei testicoli prima della maturazione sessuale, a seconda delle turbe 41-60%
endocrino-metaboliche e delle relative disarmonie di sviluppo
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Il tetto massimo indicato, esprime la più grave menomazione dell’apparato genitale maschile
(emasculazione) prima della pubertà con le correlate turbe endocrino-metaboliche, disar-
monie di sviluppo ed impotenza coeundi e generandi. Pertanto, nell’ambito della fascia
proposta ci si deve orientare generalmente sul valore massimo, attribuendo invece il valore
minimo ai soli casi in cui la menomazione si sia verificata a pubertà pressoché raggiunta ed
in caso di sola perdita funzionale del pene e dei testicoli, data la mancanza della componente
estetica del danno.
Perdita del pene e dei testicoli dopo la maturazione sessuale, a seconda dell’età 20-40%
La valutazione deve basarsi su quanto espresso in precedenza ed a premessa generale. In
relazione all’incidenza che la menomazione ha sul complessivo modo di essere dell’indivi-
duo, si dovrà tendere sempre verso l’attribuzione del valore massimo, riservando valutazioni
minori (fino al limite inferiore della fascia o anche oltre) solo in età particolarmente avanzate
ed a fronte di scarse ripercussioni sulla sfera psichica.
Perdita anatomica o funzionale dei testicoli prima della maturazione sessuale 26-35%
La voce è relativa alla condizione di sterilità con associate turbe endocrine ed eventualmente
estetiche. La scelta della percentuale nell’ambito del range deve essere basata sull’età in cui
avviene la perdita e sul grado di sviluppo raggiunto dall’individuo, nonché sull’efficacia della
terapia ormonale sostitutiva e tenendo conto che la componente estetica è ordinariamente
emendabile con protesi.
Perdita anatomica o funzionale dei testicoli dopo la maturazione sessuale 5-25%
La scelta della percentuale nell’ambito del range deve essere basata sull’età e dell’efficacia
della terapia ormonale sostitutiva e tenendo conto che la componente estetica è ordinaria-
mente emendabile con protesi.
Nel caso in cui la condizione di sterilità (impotenza generandi funzionale senza impotenza
coeundi) derivi da cause diverse (ad es. vasectomia) la percentuale deve essere ridotta: non
vi è infatti compromissione della funzione endocrina né di quella estetica; ovviamente anche
in questa fattispecie l’età rappresenta parametro di assoluto rilievo.
Perdita anatomica o funzionale di un testicolo con funzionalità normale del controlaterale, 3-11%
a seconda dell’età
La percentuale maggiore va riservata alle fasce di età giovanili con perdita anatomica (non
protesizzata) del testicolo, non tanto in relazione alla funzione riproduttiva, a pubertà
raggiunta vicariata dal testicolo controlaterale (“con funzionalità normale”), quanto per un
deficit della “funzione di riserva” riproduttiva (ed endocrina) e per una maggiore impor-
tanza che la normalità anatomica ha sull’auto-percezione dell’io nel giovane maschio
piuttosto che nell’anziano.
La percentuale inferiore, invece, va attribuita alla perdita funzionale del testicolo in età
avanzata (>65 anni).
Similmente alle voci precedenti, anche qui sono da intendersi comprese le ripercussioni
ordinarie sulla sfera psichica e, per quanto già espresso, occorre sottolineare la maggiore
importanza che riveste la perdita anatomica rispetto a quella funzionale, anche nei casi in cui
sia possibile la relativa emendabilità.
Perdita anatomica del pene, non trattabile chirurgicamente, a seconda dell’età 25-35%
In età particolarmente avanzate ci si deve orientare su valori inferiori a quelli indicati, così
come delineato nelle precedenti voci.
Disfunzionalità erettile, a seconda dell’età e dell’efficacia dei trattamenti farmacologici o 15-30%
protesici
Il valore minimo del range va attribuito ai casi in cui il deficit risulti emendabile mediante
terapia farmacologica per os. In caso di applicazione di protesi o di necessità di terapia locale
(es. iniezione intracavernosa di farmaci vasoattivi o terapia per via uretrale), nonostante la
risoluzione del deficit si deve tener conto del disagio e dell’invasività della procedura.
Difficoltà su base organica nel rapporto sessuale (nell’erezione o nell’eiaculazione, cicatrici 5-15%
retraenti e deformanti dell’asta, perdite localizzate di sensibilità soprattutto del glande, etc.)
o difficoltà al coito psicogena
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12.2.c. Prostata
Lo screening per l’ipertrofia prostatica ed il carcinoma della prostata è sempre più
diffuso e necessario negli ultracinquantenni ed è effettuato mediante esplorazione
rettale (ER), dosaggio del PSA (totale e libero) ed ecografia transrettale (in grado di
evidenziare alterazioni non ancora rilevabili con l’ER) qualora vi siano elementi di
sospetto. La sensibilità diagnostica complessiva delle tre metodiche raggiunge l’82%,
pur tuttavia questi test forniscono soltanto sospetti clinici, da confermare con la biopsia
prostatica (sotto controllo ecografico transrettale/perineale).
La prostatite cronica batterica è una rara condizione patologica, spesso dovuta ad
Escherichia Coli, solitamente asintomatica a meno che non ricorrano frequenti cistiti,
diagnosticabile con colture sulle urine, lo sperma ed il liquido prostatico.
La prostatite cronica abatterica o sindrome dolorosa pelvica cronica (Chronic Pelvic
Pain Syndrome, CPPS) è caratterizzata da dolore pelvico da causa ignota, che dura da
almeno 6 mesi ininterrottamente, di intensità lieve o debilitante; ulteriori possibili
sintomi sono rappresentati da disuria, bruciore costante all’interno del pene, pollachiu-
ria ed urgenza minzionale. L’eiaculazione può essere fastidiosa o dolorosa a causa della
contrazione della prostata durante l’emissione del liquido seminale, potendone derivare
calo della libido, disfunzioni sessuali ed erettili. Il dolore post-eiaculatorio è un sintomo
che permette di distinguere i soggetti affetti da CPPS da quelli affetti da IPB.
Per prostatectomia radicale si deve intendere l’asportazione completa di tutta la
prostata e delle vescicole seminali con interruzione completa e definitiva dei dotti
deferenti e conseguente scomparsa dell’eiaculazione. Trattasi di intervento di solito
riservato al trattamento della patologia neoplastica prostatica. La potenza sessuale,
nonostante tecniche di nerve sparing, è preservata solo in circa il 50-60% dei casi e
dipende dall’estensione del tumore e dall’età. La continenza è conservata, tranne che
per una piccola percentuale di casi (2-10%).
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Prostatite cronica batterica 5-10%
Prostatite cronica abatterica o sindrome dolorosa pelvica cronica 5-15%
La valutazione del danno deve essere effettuata a seconda dell’espressività della sintomato-
logia.
Esiti di prostatectomia radicale 10-20%
La valutazione degli esiti della prostatectomia radicale deve tener conto di eventuali sequele
dell’intervento (quali disturbi sessuali o incontinenza). La fascia percentuale indicata è
riferita ai casi di soddisfacente esito post-chirurgico e nel suo interno ci si deve muovere
tenendo conto dell’età del soggetto, analogamente a quanto espresso per la sterilità.
Eventuali complicanze di natura sessuale o urinaria devono essere valutate autonomamente.
La valutazione del danno correlato ad ipertrofia prostatica benigna va effettuata sulla base
di quanto indicato nei criteri valutativi relativi alle stenosi uretrali.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Le voci relative alle menomazioni di massima gravità, pur rappresentando situazioni di rara ricorrenza, sono
riportate al fine di fornire parametri di riferimento per la graduazione decrescente di quelle di minore entità.
Per la perdita anatomica o funzionale dell’utero i valori percentuali sono uguali a quelli considerati dopo
la pubertà.
I valori percentuali leggermente inferiori rispetto alla perdita del pene e dei testicoli sono motivati dalla
mancanza della componente estetica. Nell’ambito della fascia proposta per la menomazione più grave ci si
deve orientare generalmente sul valore massimo, mentre la valutazione inferiore va riservata ai soli casi in
cui le conseguenze somato-psichiche secondarie al deficit ormonale siano contenute.
In tutti i casi si raccomanda comunque un’attenta personalizzazione della percentuale di invalidità in base
all’età e, soprattutto, in relazione all’espressività della disfunzione endocrina.
Perdita anatomica o funzionale dell’utero e degli annessi e impossibilità al coito prima 36-55%
della maturazione sessuale, a seconda delle turbe endocrino-metaboliche e delle relative
disarmonie di sviluppo
Perdita dell’utero e degli annessi prima della maturazione sessuale 31-45%
Perdita anatomica o funzionale delle ovaie prima della maturazione sessuale 26-30%
La valutazione del danno deve basarsi su quanto sopra espresso nella premessa
generale (cfr. anche quanto riportato a proposito dell’apparato genitale maschile). Circa
la perdita anatomica o funzionale di utero e annessi con impossibilità al coito dopo la
maturazione sessuale, in relazione alla gravità della menomazione ed all’incidenza che
viene ad avere sul complessivo modo di essere dell’individuo, si deve tendere sempre
verso l’attribuzione del valore massimo, riservando valutazioni minori all’epoca post-
menopausale, ovvero fino ai limiti inferiori della fascia o anche oltre in relazione ad età
molto avanzata ed a fronte di contenute ripercussioni sulla sfera psichica. Trattasi di
fattispecie menomativa di certo poco frequente ma pur sempre possibile ove si
considerino gli esiti chirurgici e chemio-radioterapici ampiamente demolitivi necessitati,
ad esempio, da quadri neoplastici avanzati della portio uterina (con interventi chirurgici
secondo Piver III o IV).
Stante quanto in precedenza espresso, appare opportuno prospettare ulteriori
indicazioni relativamente a menomazioni più circoscritte dell’apparato genitale femmi-
nile in epoca post-pubere.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La percentuale proposta, anche se fissa, è passibile di oscillazioni (spesso in minus) in base all’età ed alle
effettive ripercussioni psichiche; inoltre, tutte le situazioni menomative sotto indicate vanno debitamente
correlate all’età ovvero all’effettiva capacità procreativa (<20 anni; 20-40 anni; 40-50 anni; oltre i 50 anni e
post-menopausa) ed alle aspirazioni familiari. Quanto sopra può comportare una drastica diminuzione delle
relative espressioni percentuali, soprattutto dopo la menopausa, quando la funzione procreativa viene
meno, assumendo quindi unico valore la funzione sessuale che tende ad affievolirsi in età avanzata.
In merito alla impossibilità al coito (derivata, ad es., da rilevanti stenosi della vulva e/o della vagina) ove si
concretizzi un evidente danno estetico oltre a quello funzionale (ad es. esiti di vulvectomia o gravi
deformazioni) si può procedere anche oltre il valore proposto; ovviamente risulta conservata la funzione
riproduttiva, sebbene sia necessario porre in essere tecniche di fecondazione artificiale e, quindi, procedere
al parto cesareo.
La perdita dell’integrità dell’imene non è presa in considerazione a fini valutativi in quanto non produttiva
di apprezzabile menomazione funzionale.
Perdita dell’utero e degli annessi con impossibilità al coito dopo la maturazione sessuale, 15-35%
a seconda dell’età
Perdita dell’utero e degli annessi dopo la maturazione sessuale (impotenza generandi e 10-30%
menopausa iatrogena)
La donna conserva la capacità al coito ma non può procreare nemmeno con tecniche
artificiali, inoltre presenta i correlati clinici della perdita funzionale ovarica bilaterale.
Perdita anatomica o funzionale delle ovaie (menopausa iatrogena), dopo la maturazione 5-25%
sessuale, a seconda dell’età
La donna conserva la capacità al coito e può condurre una gravidanza da fecondazione
artificiale; inoltre presenta i correlati clinici della perdita funzionale ovarica bilaterale.
Cessata l’età fertile, che nella donna non è notoriamente illimitata come può esserlo
nell’uomo, viene meno la funzionalità, soprattutto riproduttiva, dell’ovaio (la produzione
ovarica di androgeni viene compensata dalle ghiandole surrenali), per cui, in caso di perdita
anatomica o funzionale oltre l’età fertile, va espressa una minima indicazione percentuale
Perdita anatomica o funzionale dell’utero (impotenza gestandi), dopo la maturazione 5-25%
sessuale
La donna conserva la capacità al coito e di produrre i suoi gameti che possono anche essere
artificialmente fecondati ma non possono ovviamente essere impiantati; non vi sono
comunque i correlati clinici della ovariectomia bilaterale.
Ricordiamo inoltre che un’isterectomia effettuata a regola d’arte non comporta alcun
disturbo; se invece l’intervento non viene correttamente eseguito — nel senso che la fascia
pubo-vaginale e quella retto-vaginale non vengono suturate insieme ai legamenti utero-
sacrali — si può determinare un mancato sostegno della volta o cupola vaginale con prolasso
della stessa, della vescica ed anche del retto ovvero qualsivoglia altra condizione di esito
cicatriziale pelvico, condizioni menomative queste che ovviamente devono essere prese in
considerazioni nel computo del complessivo stato invalidante.
Perdita anatomica o funzionale delle salpingi in età prepubere o fertile 5-15%
La donna conserva la capacità al coito, può procreare e portare avanti una gravidanza con
tecniche artificiali che consentano la fecondazione dei propri ovociti ed il successivo
impianto; non presenta inoltre i correlati clinici della perdita funzionale ovarica bilaterale.
Per la salpingectomia bilaterale post-menopausale si rinvia a quanto di seguito indicato
circa la perdita dell’ovaio oltre l’età fertile.
Difficoltà al coito su base organica o psicogena fino all’impotenza coeundi 15-30%
L’attribuzione percentuale è ovviamente dipendente dalla natura, entità e possibilità di
trattamento della specifica difficoltà al coito; la valutazione deve tenere conto della
preservata o meno sensibilità clitoridea così come dalla preservata funzione neuro-sensitiva
Impraticabilità del parto per via naturale in età fertile 5-10%
L’impotenza parturiendi, indipendentemente dalla causa, vede conservate la potenza
coeundi, quella generandi e la gestandi necessitando, tuttavia, del taglio cesareo per dare alla
luce il prodotto del concepimento. La causa dell’impossibilità al parto naturale va valutata
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
a parte (ad es.: notevoli asimmetrie del bacino, esiti fratturativi, etc.); tale impotenza è bene
sia debitamente correlata all’età, all’effettiva fertilità, alla presenza o meno di precedenti
parti vaginali ed al loro numero; deve essere ridotta fino all’annullamento in presenza di altre
comprovate indicazioni al parto cesareo (es.: precedenti parti cesarei).
Perdita anatomica o funzionale di un ovaio in età fertile, con funzionalità normale del 3-10%
controlaterale, a seconda dell’età
La perdita della gonade in età pre-pubere condiziona, a pubertà raggiunta, il medesimo tipo
di danno che si concretizza dopo la pubertà. La perdita “anatomica” o “funzionale”
dell’ovaio sottintende sia l’exeresi che la atrofia gonadica ma nel sesso femminile vi è
sostanziale equiparazione fra perdita anatomica e funzionale, a differenza di quanto espresso
per il sesso maschile, non essendovi ripercussioni estetiche evidenti (a parte gli eventuali esiti
cicatriziali post-chirurgici e la sindrome aderenziale da valutarsi a parte). L’età “fertile” va
individuata evidentemente con riferimento allo specifico caso, non essendo proponibili
limiti tassativi.
La percentuale maggiore va pertanto riservata ai soggetti più giovani mentre il limite
inferiore spetta all’età avanzata e prossima alla menopausa: ciò non tanto in relazione alla
funzione riproduttiva, garantita nella sua normalità anche se in misura statisticamente
ridotta dall’ovaio controlaterale (“con funzionalità normale”), quanto per un deficit della
funzione di riserva riproduttiva (ed endocrina).
In caso di perdita anatomica o funzionale oltre l’età fertile si rinvia a quanto espresso in
precedenza circa la perdita delle ovaie e quindi va espressa solo una minima indicazione
percentuale.
Perdita anatomica o funzionale di una salpinge in età prepubere o fertile 4-8%
La sola perdita di una tuba, non coinvolgendo l’aspetto endocrino ma solo quello ripro-
duttivo (peraltro non inficiante la formazione degli ovociti), deve essere valutata in misura
leggermente inferiore rispetto alla voce precedente.
Per la salpingectomia monolaterale post-menopausale si rinvia a quanto in precedenza
indicato circa la perdita delle ovaie oltre l’età fertile.
12.3.c. Endometriosi
Sottili 1 2 4
Ovaio destro
Spesse 4 8 16
Sottili 1 2 4
Ovaio sinistro
Spesse 4 8 16
Sottili 1 2 4
Tuba destra
Spesse 4* 8* 16*
Sottili 1 2 4
Tuba sinistra
Spesse 4* 8* 16*
* Se la terminazione fimbriata delle tube è completamente occlusa maggiorare il punteggio a 16
Score AFS Minima (1-5) Lieve(6-15) Moderata(16-40) Grave (>40)
Stadio Stadio I Stadio II Stadio III Stadio IV
I quattro diversi stadi, dal più lieve al più grave, sono quindi individuati in base
soprattutto all’estensione e alla localizzazione della malattia:
— stadio I: malattia minima, endometriosi superficiale peritoneale di 1-3 cm,
ovarica monolaterale <1 cm ed aderenze sottili;
— stadio II: malattia lieve, endometriosi superficiale ovarica bilaterale <1 cm,
profonda peritoneale >3 cm ed aderenze sottili;
— stadio III: malattia moderata, endometriosi superficiale e profonda peritoneale
>3 cm ed ovarica di 1-3 cm con aderenze sottili e tenaci;
— stadio IV: malattia severa, endometriosi superficiale e profonda peritoneale ed
ovarica >3 cm ciascuna ed aderenze tenaci.
Tale classificazione prescinde dal sintomo dolore e, seppur ideata per stabilire una
prognosi riproduttiva, non è necessariamente correlata alla infertilità, considerando che
questa può insorgere anche in casi di endometriosi lieve.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La notevole eterogeneità dei quadri clinici, pertanto, suggerisce di fornire solo late stime di invalidità da
adattare e personalizzare (anche oltre i limiti prospettati) in base al singolo caso.
Endometriosi in stadio I e II 5-10%
Endometriosi in stadio III e IV 11-15%
Endometriosi in fasi avanzate (stadi III e IV) con accertata infertilità, rilevante sintoma- 16-25%
tologia dolorosa pelvica, altre complicanze urinarie o gastro-enteriche o di altro distretto
organo-funzionale
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La circoncisione femminile va presa in considerazione a fini valutativi solo in quanto produttiva di
apprezzabile menomazione funzionale. Pertanto, l’asportazione del solo prepuzio potrà essere suscettibile
di una minima e meramente indicativa espressione percentuale. Per gli altri quadri menomativi, ci si può
rifare alle indicazioni in precedenza riportate circa le difficoltà o l’impossibilità al coito ed al parto per via
naturale, tenendo conto della seguente ed orientativa graduazione percentuale.
L’orientamento valutativo all’interno della fascia deve tenere conto dei riverberi negativi sul piano
psico-relazionale, trattandosi di procedure ad elevato potenziale psico-traumatizzante. Qualora questi ultimi
comprendano veri e propri psichici di rilevanza nosografica, essi dovranno essere quantificati aggiuntiva-
mente.
Mutilazioni genitali femminili. Tipo I. Escissione del prepuzio con asportazione parziale 10-15%
o totale del clitoride
Mutilazioni genitali femminili. Tipo II. Asportazione totale del clitoride con escissione 16-20%
delle piccole labbra
Mutilazioni genitali femminili. Tipo III. Asportazione totale del clitoride con escissione 21-30%
delle piccole labbra e della superficie interna delle grandi labbra e chiusura dei margini con
minimale pervietà residua atta a consentire la minzione ed il flusso mestruale
Mutilazioni genitali femminili. Tipo IV. Diverse pratiche di gravità variabile che includono
il pricking, il piercing o l’incisione del clitoride e/o delle labbra; stiramento del clitoride e/o
delle labbra; cauterizzazione mediante bruciatura del clitoride e del tessuto circostante;
raschiamento del tessuto che circonda l’orifizio vaginale (angurya cuts) o incisioni della
vagina (gishiri cuts: incisioni posteriori dalla vagina nel perineo come tentativo di aumentare
lo sbocco vaginale per rimuovere l’ostacolo al parto); introduzione di sostanze corrosive o
erbe nella vagina allo scopo di provocare sanguinamento o restringimento; e qualsiasi altra
procedura che rientri nella definizione della mutilazione genitale femminile sopraindicata.
La valutazione di questo gruppo eterogeneo di mutilazioni deve essere formulata sulla base
degli specifici esiti anatomo-funzionali.
12.4. Mammella
nante rispetto all’effettivo pregiudizio estetico e per la cui definizione si rinvia a quanto
espresso a proposito dei disturbi della funzione psichica.
Il percorso valutativo si completa con l’indicazione sulle possibilità di attenuazione
del danno per mezzo di trattamenti chirurgici o accorgimenti cosmetici per cui si
devono prospettare gli atti terapeutici in concreto praticabili, specificandone la tipolo-
gia, il numero, il livello del rischio di complicanze (locali e/o generali), con mirato
riferimento al substrato anatomo-patologico locale ed allo stato generale di salute,
prospettando la percentuale di possibilità di riduzione del disestetismo, sino alla sua
potenziale completa emendabilità. Da ultimo è importante fornire indicazioni sulle
spese necessarie per attenuare l’entità del danno estetico a mezzo di atti chirurgici
(eventualmente anche di “simmetrizzazione” controlaterale), presidi cosmetici o protesi.
La mastectomia rappresenta un atto chirurgico demolitivo particolarmente rile-
vante, soprattutto per la donna in età fertile, dove, oltre all’indubbia valenza estetica e
sessuale, la mammella riveste anche l’importante funzione dell’allattamento.
Al fine di meglio compendiare tutti gli aspetti valutativi delineati, occorre ricordare
che in senologia si riconoscono interventi radicali ed interventi conservativi. I così detti
interventi “radicali” tradizionalmente sono le mastectomie secondo Halsted, Patey e
Madden, che si differenziano tipicamente per la diversa asportazione dei muscoli
pettorali, rispettivamente entrambi, solo il piccolo o nessuno dei due (la tecnica più
diffusa è quella secondo Madden che risparmia entrambi i muscoli).
La mastectomia può essere bilaterale o, più spesso, monolaterale, ed è ulterior-
mente suddivisa in:
— mastectomia classica (con incisione cutanea a losanga, tipo Stewart, alla base
della mammella);
— mastectomia con risparmio di cute (skin sparing mastectomy, la losanga di cute
comprende più spesso solo il complesso areola capezzolo);
— mastectomia con risparmio del complesso areola capezzolo (nipple sparing
mastectomy ovvero mastectomia sottocutanea).
Alla mastectomia può seguire la correzione plastica che può essere suddivisa in:
— ricostruzione protesica immediata definitiva (annullamento dei tempi di assenza
estetica dell’organo, possibile simmetrizzazione della mammella controlaterale);
— ricostruzione protesica immediata con espansore (tempo più o meno lungo per
la definizione del volume finale, necessità eventuale di un secondo intervento per
posizionamento di protesi definitiva);
— ricostruzione protesica differita (è presente un più o meno lungo periodo di
mancanza d’organo).
Gli interventi conservativi sono la quadrantectomia e la tumorectomia (o lumpec-
tomy) e consistono nella asportazione parziale, più o meno allargata in tessuto sano
ghiandolare perilesionale. Chirurgicamente possono essere effettuati con asportazione
di cute (losanga sulla verticale della lesione) e senza asportazione di cute (incisione
cutanea estetica più spesso periareolare); ancora, nella valutazione degli interventi
chirurgici conservativi oncologici deve essere considerata la doverosa radioterapia
complementare che a sua volta può essere effettuata: sia sulla mammella sia sull’ascella,
solo sulla mammella o solo su parte della mammella in corso di intervento (IORT
radioterapia intraoperatoria).
La chirurgia conservativa prevede rimodellamenti, immediati o differiti, atti al
recupero del residuo mammario al fine di minimizzare, quando eccessivi, gli esiti
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chirurgici; in linea generale risultano più difficilmente emendabili gli interventi nel
quadrante supero-interno e nei quadranti inferiori della mammella.
Infine deve essere ricordata la fase chirurgica ascellare, comune nei vari tipi di
intervento, che può essere gravata da complicanze specifiche ed esiti a distanza
(linfocele, parestesie locali, linfedema), ed è classificabile in:
— linfoadenectomia ascellare completa (dei cosiddetti 3 livelli chirurgici),
— linfoadenectomia del I livello (o sampling linfonodale),
— asportazione del solo linfonodo sentinella opportunamente marcato.
Alcune specificazioni aggiuntive meritano le lesioni traumatiche e quelle post-
chirugiche.
Il trauma della mammella è un evento poco frequente anche se, con l’introduzione
delle cinture di sicurezza, la sua incidenza risulta in aumento. Nella sindrome da cintura
di sicurezza (seat-belt syndrome) sono da considerare anche le lesioni dei tessuti molli
del torace, in particolarmente della mammella nelle donne. In letteratura sono pochi i
dati sull’incidenza del trauma mammario e non sono delineate precise linee guida di
trattamento. La diagnosi è affidata all’ecografia mammaria ed eventualmente alla
mammografia complementare o alla TC torace (specie nel trauma più grave o polidi-
strettuale).
Sotto il profilo terapeutico l’ematoma mammario semplice (senza segni di sangui-
namento attivo) va trattato in maniera conservativa (osservazione clinica, ghiaccio,
elasto-compressione, riposo, analgesici ed impacchi caldi in un secondo tempo), mentre
un ematoma in espansione richiede una TC toracica e, in caso di riscontro di segni di
spandimento attivo, necessita di una procedura angiografica con eventuale embolizza-
zione. Per soggetti emodinamicamente instabili con ematoma mammario complesso,
senza altre cause di sanguinamento, è necessario il trattamento chirurgico urgente della
fonte emorragica.
Le ferite della mammella possono essere il risultato di eventi accidentali o di
autolesionismo o, più di frequente, sono ferite lacero-contuse associate a lesioni
contusive che colpiscono il torace in toto. I traumi aperti della ghiandola mammaria
raramente determinano gravi emorragie; più elevato è invece il rischio di lesioni
secondarie, a seguito dell’infezione della ferita. In caso di ferita penetrante in corso di
allattamento può verificarsi una fistola lattea, che può guarire al termine del periodo di
allattamento.
Le lesioni da morso (umano o di animali) determinano ferite lacero-contuse con
elevato rischio di infezioni secondarie e di rilevante danno cicatriziale.
Le lesioni da ustione sono difficilmente circoscritte alla mammella e rientrano
sovente nell’ambito delle ustioni che interessano la parete toracica. Per contro, luce
solare, raggi x ed onde radar possono produrre più spesso ustioni di breve durata
oppure ustioni profonde e necrotizzanti in rapporto alla qualità, all’intensità, alla durata
della radiazione ed alla reattività individuale.
Possibili, infine, anche lesioni da infiltrazione sottocutanea di paraffina o silicone a
scopo estetico, che determinano un’intensa reazione flogistica, con formazione di
granulomi da corpo estraneo, talora associati a linfoadenopatia satellite ascellare
reattiva.
Le lesioni post-chirurgiche della mammella comprendono gli esiti di tipo neuro-
logico, muscolare, articolare, vascolare ed i processi flogistici ricorrenti; in senso lato
possono essere annoverate anche le reazioni psicopatologiche.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 524 SESS: 41 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
I valori proposti dovranno essere necessariamente modulati rispetto ai punti distintivi sopra ricordati.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Ovviamente con il progredire dell’età, dalla post-menopausa stabilizzata, il valore delle funzioni attribuibili
alla mammella viene progressivamente meno per cui i valori percentuali vanno correlati a quelli inferiori
delle fasce.
Per il sesso maschile la sola componente estetica derivante dalla mastectomia, mono o bilaterale, appare
inquadrabile nei seguenti valori, ancor più contenuti in relazione ad età particolarmente avanzate.
Analoghe indicazioni possono essere seguite ove ci si trovi a valutare malformazioni congenite quali
l’amastia, mentre la polimastia è solitamente suscettibile di emendabilità chirurgica per cui va valutato solo
l’esito cicatriziale residuo.
Ai predetti valori, secondo criterio proporzionale, ci si può utilmente riferire anche nei casi di asportazione
parziale della ghiandola mammaria, ricordando quanto in precedenza espresso circa le differenti modalità
di approccio chirurgico ed i possibili trattamenti correttivi anche per il complesso areola-capezzolo, con
ampie possibilità di simmetrizzazione sulla mammella controlaterale (tatuaggio della regione areolare o
innesto cutaneo dalla regione inguinale, ricostruzione del capezzolo mediante lembo cutaneo). L’esecuzione
di protesi o comunque di interventi di chirurgia plastica ricostruttiva può portare a ridurre i valori
percentuali rispetto alle soglie indicate fino al 50%.
Ovviamente per gli esiti cicatriziali i riferimenti valutativi devono essere estrapolati soprattutto dalle
indicazioni per il danno alla funzione fisiognomica, con particolare riferimento alla II classe ma, nei soggetti
giovani e nella bilateralità, anche con riferimento alla III classe del pregiudizio estetico.
Sempre alla valutazione del danno alla funzione fisiognomica si rinvia per la stima degli esiti delle lesioni
post-traumatiche, con precipuo riferimento alle cicatrici mammarie (anche cheloidee) e/o alle alterazioni
morfologiche mono o bilaterali.
Maschio: esiti di mastectomia monolaterale 5%
Maschio: mastectomia bilaterale non protesizzata 10%
Femmina: esiti di mastectomia monolaterale non protesizzata 11-20%
Femmina: esiti di mastectomia bilaterale non protesizzata 21-35%
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1066-69, 2011.
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Capitolo 13
FUNZIONE EMOMIELOLINFATICA E IMMUNITARIA
13.1. Sistema emopoietico. — 13.1.a. Malattie emorragiche. — 13.1.b. Trombofilia. — 13.1.c. Malattie dei
globuli bianchi. — 13.1.d. Aplasia midollare. — 13.1.e. Trapianto di cellule staminali emopoietiche. —
13.1.f. Anemie. — 13.2. Milza. — 13.3. Sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS)
gengiviti, etc. Nelle forme acute si hanno spesso bolle emorragiche al cavo orale;
caratteristici sono i sanguinamenti secondari a estrazioni dentarie, tonsillectomia, banali
ferite superficiali. Frequenti anche le emorragie oculari sottocongiuntivali e retiniche.
Le emorragie uterine, per lo più menometrorragie, possono costituire talvolta l’unico
segno. Altre volte la malattia esordisce in concomitanza del menarca. Le emorragie
gastro-intestinali si manifestano soprattutto attraverso melena, meno di frequente con
ematemesi. Gli episodi di ematuria derivano dal bacinetto, uretere o vescica, raramente
provengono dal parenchima renale. Infine, le emorragie a carico del sistema nervoso
centrale (SNC) sono piuttosto rare (1% dei soggetti) e in genere subaracnoidee.
Gli esami di screening si suddividono tra quelli che esplorano la c.d. fase vascu-
lopiastrinica (valutazione della funzione emostatica primaria, tempo di emorragia, conta
piastrinica) e quelli più espressamente rivolti ad indagare la c.d. fase coagulativa (tempo
di tromboplastina parziale attivato, tempo di protrombina, determinazione del fibrino-
geno).
Piastrinopenie
La piastrinopenia (o trombocitopenia) è definita dalla presenza di un numero di
piastrine circolanti inferiore a 150.000/mm3.
Solitamente deriva da uno dei seguenti quattro principali meccanismi patogenetici:
— difetto di produzione: di comune riscontro in corso di anemia aplastica, di
emoglobinuria parossistica notturna, di mieloftisi (sostituzione del midollo da parte di
tessuto neoplastico);
— difetto di maturazione: caratteristico di alcune anemie megaloblastiche (carenza
di vitamina B12) e di alcune alterazioni piastriniche ereditarie, accompagnate o meno da
piastrinopenia, caratterizzate da piastrine più grandi (sindrome di May-Hegglin) o più
piccole (sindrome di Wiskott-Aldrich) rispetto alla norma e spesso da megacariocito-
poiesi inefficace.
— alterata distribuzione del pool piastrinico: frequentemente associata all’iper-
splenismo, in cui la produzione di piastrine è normale ma la gran parte di esse viene
sequestrata nella polpa rossa.
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Piastrinopatie
Si tratta di un gruppo di malattie emorragiche, congenite o acquisite, caratterizzate
da un numero normale di piastrine, ma dall’alterazione di uno o più dei meccanismi
deputati alla funzionalità piastrinica.
Le risposte delle piastrine allo stimolo meccanico e/o chimico sono: l’adesività, le
modificazioni di forma, la secrezione di sostanze dai granuli intracellulari, l’aggrega-
zione. A seconda del livello in cui interviene l’alterazione funzionale le piastrinopatie
possono essere distinte in tre gruppi: da difetto dell’adesione piastrinica, da difetto
dell’aggregazione piastrinica primaria (Malattia di Glanzmann) e da difetto della
reazione di liberazione.
La sintomatologia emorragica, la stadiazione e la valutazione sono analoghe a
quanto indicato per le piastrinopenie.
Emofilia
Nell’emofilia rientrano le sindromi emorragiche geneticamente condizionate. La
più importante e la più grave è la forma dovuta a deficit dell’attività coagulante del
fattore VIII, denominata emofilia A; l’emofilia B è dovuta a deficit di fattore IX.
Per quanto riguarda l’emofilia A, gli esami di laboratorio permettono di identificare
un’alterazione della via di attivazione intrinseca del fattore VIII: i test di emostasi ed il
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione delle malattie emorragiche deve basarsi sulla gravità e sulla frequenza delle manifestazioni
emorragiche e si riferisce esclusivamente alla patologia emorragica e non alle complicanze alle quali si
applicano i criteri tabellari propri dei relativi quadri menomativi. Per quanto attiene la malattia di Von
Willebrand, la valutazione del tipo I e del tipo II, tenendo presente la sintomatologia clinica, risulta analoga
a quella dell’emofilia lieve e moderata, mentre la valutazione del tipo III, può essere assimilata alla
percentuale espressa per l’emofilia grave.
La valutazione delle piastrinopatie è analoga a quella delle piastrinopenie.
La valutazione dell’emofilia B è analoga a quanto indicato per l’emofilia A.
Teleangectasia Emorragica Ereditaria forma lieve: con epistassi frequenti ma in assenza di 1-5%
complicanze d’organo e di trattamento trasfusionale
Teleangectasia Emorragica Ereditaria forma moderata: con emorragie ricorrenti e neces- 6-10%
sità di trasfusioni (< 5/anno) ma senza complicanze d’organo
Teleangectasia Emorragica Ereditaria forma grave: con emorragie ricorrenti e necessità di 11-25%
trasfusioni (> 5/anno) e con complicanze a livello di uno o più organi
Piastrinopenia lieve, in assenza di fenomeni emorragici spontanei 1-5%
Piastrinopenia moderata, con fenomeni emorragici spontanei (<5/anno) 6-10%
Piastrinopenia moderata o grave, con fenomeni emorragici spontanei (<5/anno) ed in 11-25%
assenza di complicanze
Piastrinopenia grave o gravissima, con gravi e ricorrenti fenomeni emorragici spontanei e 26-45%
con complicanze a livello di uno o più organi
Emofilia A lieve 5-10%
Emofilia A moderata 11-25%
Emofilia A grave 26-45%
13.1.b. Trombofilia
Trombofilia congenita
La trombofilia congenita è caratterizzata da insorgenza di trombosi, in genere
interessante il circolo venoso in giovane età (<45 anni); frequente è la possibilità di
recidiva ed un’anamnesi familiare positiva per trombosi. Nell’ambito della trombofilia
congenita vengono studiati gli inibitori fisiologici della coagulazione (antitrombina,
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Iperomocisteinemie e omocistinuria
Le iperomocisteinemie derivano da difetti enzimatici, geneticamente determinati,
che alterano la conversione dell’omocisteina in cisteina e in metionina, aumentandone
così la concentrazione nel sangue. Le forme omozigoti sono accompagnate da elevata
omocistinuria e da importanti alterazioni tissutali dipendenti dal suo significativo
accumulo nel sangue. L’interferenza dell’omocisteina con il metabolismo della sostanza
fondamentale del connettivo comporta alterazioni delle pareti vasali, con aumentato
rischio di trombosi venose e arteriose. Negli eterozigoti mancano le alterazioni tissutali
ed i soggetti, apparentemente normali, non sviluppano omocistinuria; tuttavia, i livelli
ematici di omocisteina sono più elevati del normale ed esiste un aumentato rischio di
trombosi, a livello venoso o delle arterie coronariche e di quelle cerebrali.
L’omocistinuria è causata da un deficit enzimatico della cistationina β-sintetasi. Dal
punto di vista clinico in più dell’80% dei soggetti omozigoti avviene la dislocazione del
cristallino (di solito inferiormente e medialmente), che conduce a glaucoma e diminuita
acuità visiva. Gli eventi più gravi sono le trombosi ripetute che interessano le arterie
periferiche, coronarie e cerebrali e che portano a morte circa 1/4 dei soggetti prima dei
30 anni. Gli esami di laboratorio documentano omocistinuria ed aumento dei livelli
ematici di omocisteina e metionina. Gli eterozigoti presentano un’ipercoagulabilità, con
aumentato rischio di occlusione coronarica o di trombosi delle arterie cerebrali.
ripetuti ed estesi di trombosi venosa profonda, occlusioni arteriose (ad es., infarto
miocardico o cerebrale), embolia polmonare, trombosi a livello del circolo renale,
manifestazioni neurologiche. In gravidanza possono verificarsi aborti precoci e ripetuti
per trombosi dei vasi placentari, o morte intrauterina del feto al 2° o 3° trimestre di
gravidanza.
Trombocitosi
Con il termine di trombocitosi si indica un aumento del numero delle piastrine al
di sopra delle 500×109/l, che può arrivare anche a valori superiori a 1000-2000×109/l.
Le trombocitosi sono primitive (trombocitemia essenziale) o secondarie; queste ultime
possono comparire in condizioni fisiologiche (parto, sforzo fisico prolungato) oppure in
corso di malattie infiammatorie e infettive, di neoplasie, a seguito di intense emorragie,
dopo assunzione di farmaci o nel decorso post-operatorio (ad es. la splenectomia spesso
causa intensa piastrinosi). Di regola le trombocitosi sono asintomatiche, ma qualora il
valore delle piastrine superi 1000×109/l si possono avere manifestazioni trombotiche ed
emorragiche. Le prime sono causate da aggregazione piastrinica spontanea; le seconde,
presenti esclusivamente nelle forme primitive, non riconoscono una patogenesi univoca
e certa e tra i fattori responsabili si suppone una coagulopatia da consumo conseguente
a fenomeni di trombosi nel microcircolo e/o un’alterazione piastrinica funzionale.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione della trombofilia si basa sulla gravità del quadro clinico, sulla frequenza e sulla sede delle
manifestazioni trombotiche e sul tipo di trattamento (farmacologico e/o filtro cavale).
La valutazione si riferisce esclusivamente alla patologia trombotica e non alle complicanze della stessa, che
devono essere valutate secondo i criteri tabellari propri dei singoli quadri clinici.
A fini valutativi, nei soggetti affetti da trombofilie ereditarie la stratificazione del rischio può essere distinta
in: rischio elevato (carenza di AT, mutazione in omozigosi del Fattore V di Leiden), rischio intermedio
(carenza PC e PS) e rischio lieve (mutazione in eterozigosi del fattore V di Leiden, della Protrombina e
iperomocisteinemia).
Trombofilia lieve: con singolo episodio trombotico, in trattamento anticoagulante ed in 5-10%
assenza di complicanze
Trombofilia moderata: due o tre episodi trombotici, in trattamento anticoagulante ed 11-25%
eventuale impianto di filtro cavale, in assenza di complicanze
Trombofilia grave: più di quattro episodi trombotici, in trattamento anticoagulante ed 26-45%
eventuale impianto di filtro cavale, in presenza di complicanze (ad es. esiti di embolia
polmonare)
Trombocitosi lieve: singolo episodio (emorragico o trombotico), con eventuale tratta- 5-10%
mento farmacologico ed in assenza di complicanze
Trombocitosi moderata: due o tre episodi (emorragici o trombotici), in trattamento 11-25%
farmacologico ma in assenza di complicanze
Trombocitosi grave: più di quattro episodi (emorragici o trombotici), in trattamento 26-45%
farmacologico e in presenza di complicanze
Agranulocitosi e granulocitopenia
Per granulocitopenia (o neutropenia) si intende una riduzione del numero assoluto
dei neutrofili circolanti <1.500/mm3. Il termine agranulocitosi si riserva alle forme più
gravi di granulocitopenia in cui il numero dei granulociti è <500/mm3.
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Le forme congenite sono dovute a difetti delle cellule staminali che possono
determinare una granulocitopenia costante (neutropenia cronica familiare o agranulo-
citosi genetica infantile) o ciclica (neutropenia ciclica). Le granulocitopenie acquisite
possono essere dovute ai seguenti meccanismi: ridotta produzione di granulociti
(neoplasia del midollo, agenti citotossici, reazioni immune); aumentata distruzione dei
granulociti; marginazione e sequestro dei granulociti (splenomegalia, malattie croniche
del fegato).
La riduzione del numero dei granulociti neutrofili comporta, in linea di principio,
maggiori probabilità di contrarre infezioni (da batteri o miceti). In realtà questo avviene
solo quando la riduzione dei granulociti è marcata (<500/mm3) e prolungata, per cui la
maggior parte delle neutropenie è asintomatica. La prognosi a breve termine dipende
dalla gravità e dalla durata delle neutropenia, mentre quella a medio e lungo termine ed
il decorso dipendono dalla malattia di base da cui deriva la granulocitopenia.
Granulocitopatie
Le granulocitopatie sono condizioni clinico-ematologiche caratterizzate da altera-
zioni morfologiche e/o funzionali dei granulociti. Si tratta di patologie rare, congenite,
divisibili in due gruppi: il primo caratterizzato da alterazioni prevalentemente morfo-
logiche dei leucociti (anomalia di Pelger-Huet, anomalia di Alder-Reilly, anomalia di
May-Hegglin e malattia di Chediak-Higashi), il secondo da disordini funzionali dei
leucociti senza alterazioni morfologiche evidenti (malattia granulomatosa cronica e
deficit di mieloperossidasi).
Il quadro clinico è caratterizzato da infezioni che si succedono con diversa gravità,
disegnando un quadro simile a quello delle sindromi da immunodeficienza severa,
prevalentemente a carico di cute (dermatiti piogeniche, ascessi sottocutanei, etc.) e
polmoni. Nelle fasi più avanzate vengono interessati anche i linfonodi, il fegato e il
tessuto osteo-midollare. La prognosi è migliorata negli ultimi due decenni, grazie all’uso
di antibiotici e di IFN-γ associati ad una terapia aggressiva delle infezioni acute. Il
trapianto di cellule emopoietiche è l’unico approccio curativo.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione medico-legale della granulocitopenia si basa sul numero assoluto dei neutrofili circolanti e
sul numero-gravità di episodi infettivi annuali (da valutarsi con riferimento al singolo caso concreto).
La valutazione delle granulocitopatie ricalca i valori numerici sopra indicati ma tiene conto esclusivamente
del numero e della gravità degli episodi infettivi annuali.
Granulocitopenia lieve: neutrofili >1000/mm3 1-5%
3
Granulocitopenia moderata: neutrofili >500/mm 6-10%
Granulocitopenia grave: neutrofili 200-500/mm3 11-25%
Granulocitopenia gravissima: neutrofili < 200/mm3 26-45%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Aplasia midollare lieve: granulociti neutrofili >1500/µL, piastrine >100.000/µL, cellule 6-15%
midollari totali ridotte rispetto al normale
Aplasia midollare grave: granulociti neutrofili 200-500/µL, piastrine <20.000/µL, cellule 31-45%
midollari totali inferiori a 20% del normale
Aplasia midollare gravissima: granulociti neutrofili <200/µL, piastrine <20.000/µL, cellule 46-70%
midollari totali inferiori a 10% del normale
Trapianto autologo
Il trapianto autologo è indicato nei soggetti con neoplasie ematologiche e con
alcune neoplasie solide. È da considerarsi attualmente una procedura sicura, a basso
rischio di mortalità (<5%). Le principali complicanze sono rappresentate dalle infezioni
batteriche o fungine che possono manifestarsi durante la fase di citopenia.
Trapianto allogenico
Convenzionalmente il trapianto allogenico viene eseguito da: gemello monocoriale,
fratello, sorella o familiare compatibile, donatore volontario non familiare. Gli eventi
immunologici avversi più importanti in questo tipo di trapianto sono rappresentati da:
1) Rigetto: il sistema immuno-competente residuo del ricevente è attivato contro le
cellule emopoietiche del donatore; può manifestarsi come mancanza di attecchimento
fin dall’inizio (“graft failure”) o come rigetto in fase successiva. Nel primo caso lo stato
di aplasia midollare causata dalla terapia di condizionamento diventa irreversibile; nel
secondo si sviluppa una pancitopenia poche settimane dopo l’attecchimento, ovvero
dopo una ripresa parziale dell’emopoiesi.
2) GVHD (Graft Versus Host Disease): è una reazione immunitaria mediata dai
linfociti T e NK del donatore contro i tessuti e le cellule del ricevente. I fattori
predisponenti sono in ordine decrescente di importanza: grado di disparità HLA tra
donatore e ricevente; scarsa profilassi immunosoppressiva e assenza di T-deplezione;
stesso sesso donatore/ricevente; età adulta; regime di condizionamento meno intenso;
concomitante infezione da Cytomegalovirus. Clinicamente si distinguono una forma
acuta, che esordisce entro i primi 100 giorni, e una forma cronica, che insorge dopo tale
lasso di tempo. Gli organi e i tessuti più colpiti, soprattutto nella forma acuta, sono la
cute, l’intestino e il fegato. Nella forma cronica le lesioni si estendono a numerosi altri
organi e tessuti, dando origine a quadri simili alle malattie autoimmuni (collagenopatie,
sclerodermia e una grave forma di immunodeficienza).
3) Ricostituzione immunitaria: all’attecchimento segue un periodo di immuno-
incompetenza della durata di diversi mesi, nel corso del quale il soggetto è a rischio di
infezioni batteriche, fungine e virali.
La tossicità del trapianto di cellule staminali emopoietiche dipende dalla radio-
chemioterapia di condizionamento e dai fenomeni immunitari innescati dalla intera-
zione di sistemi immunocompetenti del donatore e del ricevente. Gli episodi di tossicità
possono essere immediati, se avvengono durante i primi 30-40 giorni dal trapianto, o
ritardati. Le complicanze precoci sono dovute principalmente all’aplasia midollare
secondaria al condizionamento (infezioni, emorragie); a queste si aggiungono le lesioni
da radio-chemioterapia e la GVHD acuta. Le complicanze tardive sono dovute all’ef-
fetto combinato della radio-chemioterapia ad alte dosi e, nel caso dell’allotrapianto,
dalla GVHD cronica e dalla terapia immunosoppressiva. Le complicanze infettive
costituiscono le cause più importanti di morbilità e mortalità sia precoce, sia tardiva.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Gli esiti del trapianto con CSE devono essere stimati dopo un adeguato lasso di tempo (di norma non
inferiore a 3 anni) in quanto, fatta eccezione per il rigetto e il GVHD che si manifestano nell’arco di pochi
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
mesi, le complicanze secondarie alla radio-chemioterapia si possono manifestare anche a distanza di alcuni
anni. Inoltre i casi con buon esito non hanno più necessità di ulteriore assistenza medica soltanto dopo 3-4
anni.
Ogni caso rappresenta una fattispecie unica e non riferibile a rigidi schematismi valutativi e pertanto non
è possibile esprimere una sequenza di precise percentuali di riferimento. In definitiva la valutazione
medico-legale deve essere effettuata tenendo presente l’età, la tempistica del trapianto, le modalità e la
presenza di precedenti rigetti o di GVHD, oltre, ovviamente, la patologia di base e la sua espressività. In
linea di massima per la frequente aleatorietà e la necessità di assidue prestazioni terapeutiche e di
sorveglianza clinica, il danno biologico è mediamente indicabile nell’ordine del 50% sempre che a tre anni
non siano insorti eventi avversi a contenuto prognostico sfavorevole.
13.1.f. Anemie
Per anemia si intende una riduzione della quantità totale di emoglobina (Hb)
circolante nel sangue periferico e all’interno degli eritrociti. Il sintomo più comune è
l’astenia, soprattutto sotto sforzo. L’esaltata funzione di compenso cardio-respiratorio
induce, come sintomi aggiuntivi, la dispnea da sforzo e le palpitazioni. L’esame obiettivo
rileva polso debole e frequente, ipotensione arteriosa, tachicardia, soffi funzionali a
livello cardiaco e dei grossi vasi del collo, secondari all’aumentata velocità di circolo e
alla ridotta viscosità del sangue. L’anemia severa comporta una situazione di scompenso
di circolo ad alta gittata, con ortopnea e dispnea a riposo, cardiomegalia, edemi
importanti e talvolta ascite. Le manifestazioni cliniche sono direttamente correlate alla
concentrazione di Hb, che consente di distinguere forme gravi, quando l’Hb è <5 g/dl,
forme moderate quando l’Hb è compresa tra 5-9 g/dl e forme lievi quando l’Hb è >9
g/dl.
La valutazione del numero di globuli rossi, del livello dell’emoglobina e dell’ema-
tocrito e la conta dei reticolociti, integrate dall’osservazione al microscopio delle
caratteristiche morfologiche degli eritrociti, sono il presupposto fondamentale per
l’inquadramento diagnostico di un’anemia. La mielobiopsia viene effettuata quando vi
è la necessità di valutare la cellularità del midollo osseo. Lo striscio di sangue periferico,
invece, permette di apprezzare la morfologia ertitrocitaria e la presenza di possibili
anomalie (schistocitosi, acantosi, sferocitosi). Ulteriori esami sono rappresentati dal-
l’elettroforesi e/o dalla cromatografia dell’emoglobina che permettono di verificarne
alterazioni strutturali.
Le anemie si distinguono in quattro gruppi a seconda dei meccanismi patogenetici
responsabili.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione medico-legale delle anemie si basa fondamentalmente su: concentrazione dell’emoglobina,
manifestazioni cliniche e frequenza del trattamento trasfusionale.
Per l’emoglobinuria parossistica notturna, dato che il decorso è contrassegnato oltre che dal ripetersi di crisi
emolitiche, con conseguente anemia, anche dalla possibilità di uno o più eventi trombotici, si ritiene di
dover proporre una valutazione distinta.
Per la valutazione dei correlati neurologici si rinvia al capitolo 2.
Anemia di grado lieve (Hb >9 g/dl) con sintomatologia sfumata e in assenza di trattamento 1-5%
trasfusionale
Anemia di grado moderato (Hb 5-9 g/dl) con sintomatologia rilevante e necessità di uno 6-25%
o due trattamenti trasfusionali al mese
Anemia grave (Hb <5 g/dl) con grave sintomatologia clinica e necessità di più di tre 26-45%
trattamenti trasfusionali al mese.
Emoglobinuria parossistica notturna con episodi annuali pari o inferiori a 3 5-10%
Emoglobinuria parossistica notturna con episodi annuali superiori a 3 11-30%
Emoglobinuria parossistica notturna complicata da episodi trombotici 31-50%
13.2. Milza
decresce gradualmente; può tuttavia persistere per mesi od alcuni anni; può decorrere
asintomatica o essere causa di eventi trombotici;
— infezioni e sepsi: generalmente sostenute da batteri provvisti di capsula come
Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae e alcuni microrganismi Gram-
negativi enterici (la vaccinazione anti-pneumococcica, antihaemofilus influentiae e
antimeningococco viene comunemente consigliata). La sepsi post splenectomia (Over-
whelming post-splectonomy sepsis syndrome — OPSS) ha un’incidenza pari a circa
1/300/anno nei bambini e 1/800/anno negli adulti con una letalità elevata. L’indica-
zione alla splenectomia influenza la comparsa di sepsi post-operatoria, che è del 1.5%
circa nei casi di splenectomia post-traumatica, sino a giungere al 7-11.6% nel Morbo di
Hodgkin.
In conclusione l’effettiva conseguenza a lungo termine e clinicamente rilevante
della splenectomia è rappresentata soprattutto dal contenuto incremento della suscet-
tibilità alle infezioni, che deriva da una ridotta capacità di rimuovere batteri opsonizzati
dal torrente sanguigno e da un difetto di produzione di anticorpi.
RISCHIO DI SIEROCONVERSIONE PER SINGOLA ESPOSIZIONE NON OCCUPAZIONALE CON FONTE INFETTA
Se il conteggio e la percentuale dei CD4 indicano differenti categorie, il bambino deve essere classificato
nella categoria più grave; per il bambino con incerto stato di infezione da HIV deve essere aggiunto il
prefisso E (esposizione perinatale), le categorie N ed A possono aiutare a differenziare quei bambini che
possono più facilmente essere infetti dall’HIV (es: bambini in categoria EA possono più facilmente risultare
infetti rispetto a quelli in categoria EN).
dipendenti, una mortalità paragonabile a quella dei soggetti non-infetti. Inoltre elevati
livelli di HIV-DNA si correlano ad un maggior rischio di progressione verso l’AIDS o
la morte. Contrariamente all’HIV-RNA, indice di recente replicazione virale, l’HIV-
DNA rappresenta il virus archiviato e può essere considerato come la forza motrice che
porterebbe a differenti livelli di linfociti T-CD4 e di HIV-RNA.
Nel corso degli ultimi anni, un ruolo importante è stato attribuito all’immuno-attivazione
e all’immuno-senescenza dei linfociti T-CD4 e CD8 e si è appurato come l’infezione da HIV
comporti un’attivazione cronica del sistema immune e un’infiammazione cronica, con con-
seguente sviluppo di condizioni non-AIDS correlate (malattie cardio-vascolari, osteoporosi,
problemi renali) che possono influenzare la progressione della malattia. Pertanto sono stati
proposti marcatori non-AIDS correlati come emoglobina, piastrine, AST, ALT, filtrazione
glomerulare e markers di epatite B e C, che sembrerebbero essere predittori di progressione
di malattia in aggiunta a marcatori convenzionali.
L’introduzione della terapia di associazione HAART (Highly Active Anti-Retroviral
Therapy) nel trattamento dell’infezione da HIV ha radicalmente modificato la storia
naturale dell’infezione, riducendo non solo i casi di progressione verso l’AIDS ma anche
l’incidenza delle malattie infettive e neoplastiche ad essa associate. I farmaci antiretro-
virali rappresentano il principale fattore del miglioramento prognostico. Uno studio
prospettico multicentrico su 62.760 soggetti HIV positivi naive rispetto alla terapia
antiretrovirale e seguiti per una media di 3,3 anni ha dimostrato come la terapia
antiretrovirale riduca l’incidenza globale della mortalità di individui affetti da HIV del
50%. In termini assoluti, la riduzione della mortalità è stata tradotta in un aumento del
5% nella sopravvivenza a 5 anni nei soggetti che iniziavano la HAART rispetto a quelli
che non la iniziavano, dipendentemente dal numero dei linfociti T-CD4 al momento
dell’inizio della terapia. L’obiettivo principale della terapia antiretrovirale di combina-
zione consiste nel ridurre la concentrazione di HIV-RNA nel plasma a valori non
determinabili per il maggiore tempo possibile, consentendo un efficace recupero del
sistema immunitario. Per ottenere una soppressione virologica duratura è necessario che
la terapia antiretrovirale venga protratta per tutta la vita senza interruzioni, onde evitare
lo sviluppo di resistenze che precluderebbero le scelte terapeutiche future.
Se da una parte la terapia antiretrovirale riduce mortalità e morbidità, dall’altra
comporta effetti collaterali a breve, medio e lungo termine che possono influenzarne il
successo. Tra i disturbi a breve termine di più frequente segnalazione sono da ricordare
le neuropatie correlate all’uso degli analoghi nucleosidici, le reazioni da ipersensibilità
per l’abacavir, le reazioni allergiche e l’epatotossicità per la nevirapina, i disturbi a
carico del SNC per l’efavirenz o l’iperbilirubinemia per l’atazanavir. Generalmente
prevalgono gli effetti collaterali a lungo termine, i cui esempi più eclatanti sono
rappresentati dalle alterazioni del metabolismo osseo, culminanti nella comparsa di
osteopenia e di osteoporosi e, nei casi più gravi, dall’osteonecrosi dell’anca, dalla
tossicità renale da tenofovir, che può portare a insufficienza renale acuta, sindrome di
Fanconi, proteinuria o necrosi tubulare, dalla lipodistrofia e dalle anomalie a carico del
metabolismo lipidico e glucidico. Le alterazioni del metabolismo lipidico sono alla base
della ben nota “sindrome lipodistrofica” che si manifesta a livello morfologico come una
ridistribuzione del grasso corporeo (aumento di grasso a livello dell’addome, delle
mammelle e della colonna cervico-dorsale, con aspetto a “gobba di bufalo”, comparsa
di lipomi e riduzione del grasso a livello del volto, degli arti e dei glutei) ed a livello
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Trattandosi di una sindrome estremamente complessa e polimorfa, nella quale i diversi stadi di malattia non
sono sempre nettamente individuabili e presentano una notevole evolutività, l’apprezzamento medico-legale
deve essere necessariamente molto duttile, facendo riferimento alle specifiche caratteristiche cliniche e
laboratoristiche del singolo caso.
La stadiazione della malattia da HIV ed i criteri di definizione delle varie categorie cliniche, ivi compresi quelli
indicativi di AIDS, proposti dai CDC ed accolti uniformemente nel mondo scientifico, hanno un valore
prettamente clinico-prognostico ed epidemiologico piuttosto che medico-legale. In effetti, i diversi stadi non
solo ricomprendono quadri clinici proteiformi ed assai variabili — sia in termini di espressività nosologica
che di gravità clinica — ma risultano altresì correlati a parametri di laboratorio (conta o percentuale dei linfociti
T-CD4) che, per quanto rilevanti ai fini prognostici, non esauriscono certo gli elementi cui riferirsi ai fini di
una stima complessiva del danno nel singolo caso. Tuttavia non si può prescindere dalla stadiazione CDC
universalmente adottata perché, se utilizzata in maniera flessibile, se non altro rappresenta un utile strumento
di supporto alla graduazione del danno, nonostante la mancanza di un’effettiva stabilizzazione della malattia
in una menomazione a carattere permanente, anche nella fase di latenza clinica.
Più che valori percentuali, quindi, è necessario offrire a chi è chiamato ad esprimere una valutazione
medico-legale un’accurata descrizione non solo del quadro menomativo individuato al momento dell’ac-
certamento medico-legale ma soprattutto della sua prevedibile evolutività a breve o lungo termine. A tal fine
si sottolinea la necessità di valutazioni consensuali ad un costante riferimento bibliografico ed aggiorna-
mento della letteratura più accreditata. I più recenti farmaci antiretrovirali usati fra loro in combinazione
(Highly Active Anti-Retroviral Therapy — HAART) hanno reso possibile una soppressione prolungata e
pressoché completa dei livelli rilevabili di attività virale plasmatica modificando sostanzialmente la storia
naturale della malattia. Di ciò deve tener conto il medico legale, anche relativamente agli effetti tossici, al
fine di personalizzare il più possibile l’approccio valutativo al di là dei riscontri di laboratorio e delle
manifestazioni cliniche dell’infezione da HIV. Si deve al proposito considerare che la stadiazione CDC non
fornisce tout court una graduazione di gravità delle manifestazioni cliniche, assai eterogenee in termini di
incidenza sulla validità biologica dell’individuo e di aspettativa di vita. Quindi, il criterio clinico assume in
non pochi casi maggiore rilievo rispetto a quello meramente laboratoristico. Le percentuali qui indicate non
possono pertanto essere considerate in progressione obbligata rispetto alla stadiazione CDC: ad esempio,
lo stadio B3 può presentare parametri di maggiore gravità rispetto a C1 ovvero lo stadio B1 può trovare un
apprezzamento percentuale inferiore rispetto ad uno stadio A3.
Per i bambini (<13 anni) la stadiazione clinica è simile a quella degli adulti e degli adolescenti ad eccezione
della categoria N (non sintomatici) che dai CDC è stata distinta rispetto a quella A (lievemente sintomatici)
in relazione al significativo periodo di tempo intercorrente rispetto all’insorgenza dei segni o sintomi
indicativi della categoria B (moderatamente sintomatici) con conseguenti maggiori possibilità di ottenere
informazioni cliniche più dettagliate circa lo sviluppo della malattia in queste fasi iniziali; sotto il profilo
medico-legale si può esprimere una sostanziale sovrapponibilità valutativa fra lo stadio N e quello A,
soprattutto per quanto concerne i gradi di immunodepressione moderato e grave; inoltre è opportuno
attendere l’effettiva chiarificazione diagnostica tenendo conto che i moderni accertamenti virologici sono in
grado di individuare non tutti i bambini infetti alla nascita ma quasi il 100% entro i 3-6 mesi di vita; dopo
i 6 mesi di età sono considerati non infetti (sieronegativizzati) i bambini nati da madri con infezione da HIV
che soddisfino i seguenti criteri: mancato sviluppo di anticorpi specifici, negatività delle indagini di
laboratorio ed assenza di segni/sintomi indicativi di caso di AIDS.
Stadio A1: si deve escludere dalla valutazione l’infezione o sindrome retrovirale acuta in 20-45%
quanto espressione di un quadro clinico in rapida evoluzione; per quanto concerne
l’infezione cronica (malattia asintomatica da HIV o LAS/PGL) la valutazione deve essere
basata soprattutto sulla carica virale plasmatica e sul cofattore età.
L’insieme degli accertamenti clinici ed immunologici consente di individuare i soggetti
cosiddetti long-term non progressors (con durata della fase asintomatica della malattia
superiore ai 20 anni) per i quali, con precipuo riferimento alle diverse tipologie (LTNP-EC,
VC, NC), è anche possibile scendere al di sotto del range proposto arrivando a percentuali
del 10-15%.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Stadio A2: la malattia è ancora in fase asintomatica, pur essendo la prognosi peggiore in
relazione al livello dei linfociti T-CD4 che, unitamente alla carica virale plasmatica, deve
guidare l’attribuzione percentuale.
Stadio A3: pur facendo parte lo stadio A3 della categoria dell’infezione asintomatica o con
LAS/PGL, il livello immunitario è così basso da costituire fattore prognostico nettamente
sfavorevole (negli USA, a fini clinico-epidemiologici, viene incluso nella definizione di
AIDS).
Stadi B1, B2 e B3: per lo stadio B la candidosi orale e la hairy leukoplakia sono considerati 46-65%
marcatori prognostici sfavorevoli; la percentuale deve essere espressa sulla base della
tipologia ed entità delle manifestazioni cliniche, con particolare riguardo ai sintomi costi-
tuzionali e all’entità della deplezione dei linfociti T CD4 (anche lo stadio B3 negli USA, a
fini clinico-epidemiologici, viene incluso nella definizione di AIDS).
Stadi C1, C2 e C3: configurano l’AIDS conclamata, per cui la percentuale deve essere 66-90%
espressa in relazione all’entità della deplezione dei linfociti T-CD4 ed al tipo e gravità delle
infezioni opportunistiche maggiori, delle neoplasie inusuali e dell’encefalopatia da HIV
(AIDS-dementia complex); lo stadio C3 configura la malattia sintomatica tardiva, con
presenza delle infezioni opportunistiche maggiori e delle neoplasie correlate, tutte poten-
zialmente letali e tali da giustificare anche l’attribuzione dei valori percentuali massimi così
come nella malattia da HIV avanzata.
Malattia da HIV avanzata (CDC gruppo C; linfociti T CD4+ inferiori a 50/µl): è 91-100%
caratterizzata da un aumentato rischio di morte a breve termine con mediana di sopravvi-
venza che in genere non supera i 12 mesi.
Bibliografia
Per il paragrafo “Sistema emopoietico”
AMADORI G., Ematologia — Le basi fisiopatologiche molecolari e cliniche, Piccin ed., Padova, 2010.
BOYIADZIS M.M. et al., Hematology — Oncology Therapy, McGraw-Hill ed., Milano, 2012.
DAN LONGO L., Harrison’s Hematology and Oncology, 2nd ed., McGraw-Hill, Milano, 2013.
HOFFMAN R. et al., Hematology — Basic Principles and Practice, 4th ed., Elsevier — Churchill
Livingstone, 2013.
RODGERS G.P. et al., The Bethesda Handbook of Clinical Hematology, 3th ed., Lippincott Williams,
2013.
Capitolo 14
FUNZIONI ENDOCRINO-METABOLICHE
14.1. Ipofisi. — 14.1.a. Ipopituitarismo anteriore. — 14.1.b. Acromegalia e gigantismo. — 14.1.c. Patologie
da variazione della prolattina. — 14.1.d. Neuroipofisi. — 14.2. Tiroide. — 14.2.a. Ipotiroidismo. —
14.2.b. Ipertiroidismo. — 14.3. Paratiroidi. — 14.3.a. Ipoparatiroidismo. — 14.3.b. Iperparatiroidismo. —
14.4. Surrene. — 14.4.a. Corticale surrenalica. — 14.4.b. Midollare surrenalica. — 14.5. Sistema APUD. —
14.6. Diabete mellito. — 14.7. Obesità
14.1. Ipofisi
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione è strettamente connessa ai risultati della terapia sostitutiva; a causa della complessità del
trattamento terapeutico è necessario attendere da sei mesi ad un anno dopo la messa a punto della terapia
stessa prima di formulazione la valutazione.
Le indicazioni percentuali sotto indicate sono da riferirsi esclusivamente all’adulto, in quanto nell’età della
crescita e dello sviluppo deve essere considerata anche la compromissione dell’armonia dello sviluppo psi-
co-fisico nel singolo soggetto, tenendo presente che, in genere, la tempestività del trattamento consente un
miglior ripristino della crescita.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Trattandosi di patologia complessa e con deficit ormonali multipli è indispensabile indicare ampie fasce di
valutazione, all’interno delle quali si può far riferimento a quanto indicato nei paragrafi seguenti per i singoli
deficit ormonali.
Ipopituitarismo ben controllato con trattamento sostitutivo e senza rilevanti effetti sull’ac- 10-30%
crescimento e lo sviluppo
Ipopituitarismo parzialmente controllato con trattamento sostitutivo 31-60%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione deve tener conto della risposta terapeutica, della necessità di terapie di associazione e della
compliance del soggetto alle stesse, della comparsa di effetti collaterali iatrogeni (per es. ipopituitarismo),
della presenza di manifestazioni cliniche acromegaliche non suscettibili di significativo miglioramento (per
es. artropatia degenerativa avanzata), della prognosi e della necessità di un accurato monitoraggio clinico e
laboratoristico.
Quando sono presenti gravi manifestazioni cliniche non suscettibili di miglioramento si deve procedere a
valutazioni caso per caso, facendo riferimento alla compromissione dei singoli organi ed apparati interessati
(artropatie degenerative avanzate, deficit del visus irreversibile, cardiopatia etc.).
In caso di adenoma, la valutazione deli sintomi da effetto massa deve essere valutata autonomamente.
Acromegalia nell’adulto
Forme trattate chirurgicamente con successo nelle fasi iniziali di malattia 15-30%
Forme trattate chirurgicamente con successo, ma con manifestazioni già conclamate di 31-50%
malattia
Forme con rilevante estrinsecazione clinica, inoperabili, trattate con irradiazione e terapia 51-60%
medica
Gigantismo ad elevata espressività clinica nonostante terapia 51-75%
Iperprolattinemia
Si riconoscono due grandi gruppi di cause di iperprolattinemia patologica: da
farmaci (antagonisti dei recettori dopaminergici, depletori di dopamina, estrogeni,
oppiacei) e da patologie dell’ipofisi (prolattinomi, adenomi non funzionanti), dell’ipo-
talamo e del peduncolo ipofisario (sarcoidosi, craniofaringiomi, radioterapia, sezione
del peduncolo, sella vuota, anomalie vascolari, carcinoma metastatico, ipotiroidismo
primitivo, insufficienza renale cronica, cirrosi, traumi convulsioni).
Tra le manifestazioni cliniche si segnala in primo luogo l’ipogonadismo, con
associata amenorrea o dismenorrea e/o galattorrea; nel maschio si instaurano impotenza
e infertilità, raramente galattorrea e ginecomastia. Ove l’iperprolattinemia sia conse-
guente a neoformazione ipofisaria si possono associare anche sintomi legati all’effetto
massa. Nelle donne la diagnosi si formula mediante test di gravidanza e dosaggio della
prolattinemia basale. Sono inoltre indicate TC e RM per studiare l’ipofisi e l’ipotalamo.
I farmaci dopaminergici (bromocriptina e cabergolina) rappresentano la terapia
elettiva in caso di adenoma prolattino-secernente e determinano miglioramento dei
sintomi legati all’effetto massa, la cui persistenza pone l’indicazione chirurgica.
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Ipoprolattinemia
Si manifesta come incapacità all’allattamento e, spesso, il primo sintomo è l’assenza
della montata lattea. Una possibile causa è rappresentata dall’emorragia post-partum
che, determinando uno stato ipotensivo, può portare a necrosi ipofisaria ischemica
(sindrome di Sheenan) con panipopituitarismo e distruzione delle cellule galattotrope.
La mancanza della montata lattea e l’amenorrea post-gravidica (per il coinvolgimento
ischemico dei gonadotropi con mancata secrezione di LH ed FSH) devono far
sospettare una condizione di panipopituitarismo.
14.1.d. Neuroipofisi
Diabete insipido
Il diabete insipido è un disordine endocrino caratterizzato dall’escrezione di una
abnorme quantità di urine diluite (poliuria), con conseguente necessità di aumentare
l’introito di liquidi (polidipsia).
Sulla base del fattore eziologico e della necessità terapeutica si riconoscono le
seguenti tipologie: forma centrale, correlata a deficit della produzione dell’ADH, il cui
trattamento prevede la somministrazione di ADH o suoi analoghi; forma nefrogenica, da
ridotta sensibilità dei tubuli renali all’ADH (da insufficienza renale cronica, disordini
metabolici quali ipercalcemia e ipopotassiemia, assunzione di litio), refrattaria al
trattamento con ADH e per la quale l’unica terapia è la riduzione dell’introito di sodio
associata a terapia medica; diabete insipido gestazionale, correlato all’incremento del
metabolismo dell’ADH da enzimi prodotti dalla placenta; polidipsia primaria, causata da
eccessivo introito di liquidi.
Per il primo ed il secondo tipo esistono sia forme idiopatiche (familiari e non) che
secondarie, post-chirurgiche e post-traumatiche, queste ultime conseguenti a traumi
cranici di notevole entità, generalmente produttivi di fratture della base cranica.
I sintomi sono rappresentati da poliuria (escrezione di 5-20 litri di urina al giorno),
polidipsia (caratterizzata da incontrollabile assunzione di bevande, specie fredde),
urgenza minzionale, enuresi e/o nicturia con attendibili conseguenti disturbi del sonno
e stanchezza diurna, sintomi correlati allo stato di disidratazione (astenia, cefalea,
mialgie, nervosismo, etc.); possono inoltre associarsi insufficienza adeno-ipofisaria e
sintomatologia neurologica (cefalea, astenia, alterazioni visive e del fondo oculare).
Le indagini diagnostiche fondamentali consistono in: determinazione del volume
urinario delle 24 ore, del peso specifico e dell’osmolarità urinaria, dell’osmolarità
plasmatica e del sodio ematico; test di restrizione idrica (assetamento); test alla
desmopressina (per differenziare la forma centrale da quella nefrogenica); TC e/o RM
dell’encefalo.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione si basa sull’efficacia del controllo del sintomo principale rappresentato dalla poliuria-
polidipsia.
Diabete insipido ben controllato dalla terapia, con sintomatologia lieve o moderata 5-10%
Diabete insipido in controllo terapeutico incompleto 11-20%
14.2. Tiroide
14.2.a Ipotiroidismo
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione, riferita al soggetto adulto, si basa essenzialmente sul grado di compenso ormonale raggiunto
con il trattamento sostitutivo e sulla eventuale persistenza di sintomi e patologie correlate all’ipotiroidismo.
Nel caso di forme insorte nell’età dell’accrescimento, che possono determinare gravi disarmonie dello
sviluppo psico-fisico, ci si deve orientare su percentuali ben superiori al limite massimo facendo riferimento
a quanto indicato a proposito dell’ipopituitarismo.
Nel caso in cui l’ipotiroidismo consegua a tiroidectomia, la valutazione deve essere integrata da quella
relativa agli esiti cicatriziali.
Ipotiroidismo in buon controllo farmacologico (tenendo conto del residuo di parenchima 5-15%
funzionante)
Ipotiroidismo in parziale controllo farmacologico 16-25%
14.2.b. Ipertiroidismo
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione (da effettuarsi dopo almeno 8-12 mesi di terapia continuativa) si basa sul grado di controllo
clinico e laboratoristico ottenuto con la terapia, tenendo presente che allo stato attuale non esistono prov-
vedimenti farmacologici definitivi e che il decorso clinico dell’ipertiroidismo, specie basedowiano, può essere
caratterizzato da fasi spontanee di remissione e di esacerbazione improvvisa di durata non prevedibile.
È inoltre opportuno considerare l’entità della oftalmopatia infiltrativa eventualmente associata, integrando
la valutazione con quella dovuta alla compromissione della funzionalità visiva in caso di oftalmopatia di
grado elevato
Ipertiroidismo lieve. Sintomi e segni ben controllati dalla terapia, oftalmopatia di grado 5-15%
0-II, senza diplopia
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Ipertiroidismo moderato. Sintomi e segni parzialmente controllati dalla terapia in presenza 16-25%
di oftalmopatia di grado III (con o senza diplopia) e IV
Ipertiroidismo grave. Sintomi e segni scarsamente controllati dalla terapia in presenza di 26-40%
oftalmopatia di grado V — VI
14.3. Paratiroidi
14.3.a. Ipoparatiroidismo
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione tiene conto della frequenza delle crisi di tetania e del monitoraggio della calcemia.
In caso di deficit totale di PTH, anche quando il controllo possa definirsi discreto (crisi tetaniche rare,
compenso neuro-psichico, etc.) è necessario considerare che esistono sempre difficoltà terapeutiche con fasi
intermittenti di ipo-ipercalcemia e necessità di continuo monitoraggio.
Nel caso di forme gravi in cui si manifestino franchi disturbi di natura psichica stabili nel tempo la
valutazione può superare la soglia massima indicata.
Ipoparatiroidismo parziale in buon controllo endocrino-metabolico con necessità di tera- 5-15%
pia limitata alla somministrazione di Calcio per os, eventualmente associato a presidi
dietetici
Ipoparatiroidismo da difetto totale di PTH con insufficiente controllo terapeutico 16-30%
14.3.b. Iperparatiroidismo
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione si basa sull’entità delle manifestazioni cliniche e sul controllo dei parametri ematochimici,
tenendo presente che la normalizzazione della calcemia si realizza, generalmente, ad alcuni mesi di distanza
dall’intervento chirurgico. Le eventuali alterazioni ossee sono spesso completamente reversibili nel tempo,
con la risoluzione dell’iperparatiroidismo. Nella valutazione è opportuno inoltre tenere conto della presenza
di recidiva post-chirurgica, che solitamente è di più difficile trattamento, dovendo quindi far orientare verso
i limiti alti dei range indicati.
Gli esiti cicatriziali correlati al trattamento chirurgico devono essere valutati autonomamente.
Iperparatiroidismo asintomatico o trattato chirurgicamente con successo 5%
Iperparatiroidismo paucisintomatico 6-15%
Iperparatiroidismo sintomatico 16-30%
14.4. Surrene
Iposurrenalismo
L’iposurrenalismo si distingue in primitivo, in cui risulta compromessa la produ-
zione di tutte le tipologie di ormoni, e centrale, causato da deficit di ACTH, in cui
prevale il deficit di glucocorticoidi.
L’iposurrenalismo primitivo (malattia di Addison) è una patologia rara e può
riconoscere molteplici cause: distruzione della ghiandola surrenalica (autoimmune,
tubercolare, adrenoleucodistrofia, tumori primitivi o metastatici, emorragie o infarti
surrenalici, AIDS), difetti enzimatici della steroidogenesi, disgenesia surrenalica, difetti
recettoriali o post-recettoriali (resistenza all’ACTH, resistenza ai glucocorticoidi), fattori
iatrogeni (sospensione acuta della terapia steroidea, exeresi chirurgica, farmaci inibitori
della steroidogenesi, antimicotici che interferiscono con la steroidogenesi; terapia di
seconda e terza linea del carcinoma mammario e del carcinoma endometriale). La causa
più comune è l’adrenalite su base autoimmune, determinata dalla presenza in circolo di
anticorpi anti 21-idrossilasi, enzima chiave della steroidogenesi.
L’evoluzione ed il quadro clinico differiscono a seconda dell’eziologia: nelle forme
croniche la progressione è lenta e graduale, mentre in caso di rapida distruzione della
ghiandola si ha un improvviso e drammatico quadro di insufficienza surrenalica acuta
che determina la tipica crisi addisoniana, scatenata solitamente da traumi, interventi
chirurgici, infezioni od altri eventi stressanti e che si manifesta con sintomi gastro-
intestinali simili ad un quadro di addome acuto, disidratazione, ipotensione, febbre,
coma. La gran parte della sintomatologia dell’iposurrenalismo (astenia, debolezza
muscolare, anoressia, vomito, ipotensione, ipoglicemia) è dovuta alla carenza di gluco-
corticoidi; il deficit degli ormoni mineralattivi produce invece disidratazione, ipoten-
NOMELAV: 15/21199 PAG: 564 SESS: 42 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione si basa sull’equilibrio idro-elettrolitico raggiunto, sul monitoraggio della pressione arteriosa,
sulla frequenza delle crisi addisoniane, sulla compliance del soggetto alla terapia sostitutiva (orale e/o
parenterale e di associazione).
Iposurrenalismo ben controllato clinicamente, con necessità di aggiustamenti terapeutici 5-15%
soprattutto durante le crisi acute e le variazioni climatico-stagionali
In caso di exeresi monolaterale ben compensata dal surrene adelfo ci si deve orientare verso
i valori minimi del range
Iposurrenalismo in parziale controllo, specie durante affezioni intercorrenti (crisi addiso- 16-35%
niane più o meno frequenti)
L’ampio range dei valori è necessario per consentire valutazioni individualizzate, sulla base
della spontaneità, della frequenza e della gravità delle crisi.
Iposurrenalismo grave con persistenti squilibri idro-elettrolitici e crisi addisoniane molto 36-60%
frequenti
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Ipersurrenalismo
Le forme primitive di ipersurrenalismo sono sostenute da neoplasie (adenoma
surrenalico, iperplasia surrenalica bilaterale macronodulare o micronodulare, carci-
noma corticosurrelico), mentre le forme centrali (secondarie e terziarie) sono determi-
nate da iperproduzione di ACTH o di CRH (frequente è la forma iatrogena da uso
prolungato di steroidi o di ACTH).
Il quadro clinico realizza la c.d. sindrome di Cushing, patologia a sviluppo
relativamente lento in cui si osservano tipicamente obesità tronculare, con facies lunare
ed accumulo di adipe in sede sovraclaveare e cervico-dorsale, strie rosso violacee
all’addome (indice di fragilità vascolare), ai glutei ed alle cosce, difficoltà di guarigione
delle ferite, atrofia muscolare agli arti, ipogonadismo, alterata tolleranza glucidica,
irsutismo, osteoporosi, ipertensione arteriosa, predisposizione alle infezioni; in circa la
metà dei soggetti può essere presente sintomatologia psichiatrica.
Per l’ipercortisolismo endogeno il test di screening è costituito dal dosaggio del
cortisolo libero urinario o dal test di soppressione con basse dosi di desametasone.
La terapia dell’ipercortisolismo ACTH-indipendente dovuto ad adenoma surrena-
lico consiste nella exeresi monolaterale; nelle forme da iperplasia surrenalica bilaterale
l’approccio prevalente è quello di surrenectomia monolaterale, raramente bilaterale. La
terapia d’elezione dell’adenoma ipofisario ACTH-secernente è la resezione transfenoi-
dale, anche se la recidiva è frequente; l’alternativa è la terapia radiante. Nei casi in cui
il tumore ACTH-secernente non sia reperibile o in presenza di recidiva biochimica si
può ricorrere alla surrenectomia chirurgica. L’efficacia della terapia chirurgica è gravata
da recidive nel caso di microadenomi ipofisari e da scarso successo nel caso di
macroadenoma (30-40% di risoluzione della patologia); i soggetti con sindrome di
Cushing hanno un’aumentata incidenza di complicanze e di decessi legati a malattia
tromboembolica. La prognosi dell’adenoma surrenalico asportato è buona, mentre
quella del carcinoma rimane infausta: la mortalità è molto elevata entro tre anni dalla
diagnosi e la sopravvivenza a 5 anni è inferiore al 20-30%.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Nel caso di iperplasia surrenalica trattata con surrenectomia, ci si può riferire alla percentuale prevista per
l’iposurrenalismo.
Per la valutazione dell’adenoma ipofisario trattato tempestivamente con risultati soddisfacenti si fa
riferimento sia agli eventuali esiti chirurgici che alle manifestazioni iniziali di malattia (es. modificazioni
dell’aspetto corporeo).
Le eventuali complicanze della terapia chirurgica e/o radiante (danni neurologici, ipopituitarismo, etc.)
devono essere valutate a parte, così come gli esiti cicatriziali chirurgici e gli eventuali segni/sintomi dovuti
all’effetto massa.
Adenoma surrenalico operato, con buon esito funzionale, dipendentemente dalla fase 5-10%
clinica in cui viene attuato l’intervento
Adenoma ipofisario operato o radiotrattato tempestivamente con mediocre esito funzio- 11-25%
nale
Adenoma ipofisario inoperabile oppure operato o radiotrattato con insuccesso, richiedente 26-60%
terapia medica di tipo sostanzialmente palliativo
Feocromocitoma
Il feocromocitoma è un raro tumore caratterizzato da ipersecrezione di catecola-
mine la cui importanza deriva dalla curabilità, a sua volta correlata alla tempestività
della diagnosi e del trattamento; la neoplasia è benigna nel 90-95% dei casi.
Nel 10% dei casi la patologia ha una trasmissione familiare e può far parte di una
sindrome neoplastica endocrina multipla (M.E.N.) o essere espressione di patologie
genetiche come la neurofibromatosi di tipo 1 e la malattia di Von Hippel-Lindau.
Le manifestazioni cliniche sono costituite da ipertensione arteriosa stabile oppure
parossistica (30-40% dei casi), ipotensione ortostatica, aritmie cardiache, angina ed
infarto miocardico, cardiomiopatia ipertrofica, moderata perdita di peso, sudorazione
profusa. La triade sintomatologica tipica dell’attacco parossistico è rappresentata da
cefalea, sudorazione e palpitazioni, stato ansioso e tremori. Gli attacchi si manifestano
con frequenza variabile (più volte alla settimana o anche più volte al giorno) della durata
di pochi minuti sino ad alcune ore) e possono essere scatenati da stimoli emotivi o
ansiosi oppure da attività che determinino liberazione di catecolamine per compres-
sione della massa tumorale (esercizio fisico, cambiamenti di posizione). Si tratta di
un’emergenza endocrinologica associata ad una significativa mortalità. L’ipertensione
arteriosa può determinare retinopatia, nefropatia, cardiomiopatia ipertrofica, scom-
penso cardiaco.
Lo screening iniziale deve includere la determinazione urinaria e plasmatica della
normetanefrina e della metanefrina (cataboliti dell’adrenalina e della noradrenalina).
Gli esami strumentali (TC, ma preferibilmente RM) consentono la localizzazione della
neoplasia. La scintigrafia surrenalica con 131-meta-iodobenzilguanidina (MIBG) per-
mette di visualizzare feocromocitomi surrenalici talora non individuabili con le altre
metodiche.
L’unica terapia risolutiva, se attuabile, è quella chirurgica (attualmente anche
mediante approccio laparoscopico), pur associata ad un rischio operatorio non trascu-
rabile. Il tasso di recidiva, di solito attorno al 14%) può arrivare addirittura al 30% in
caso di malattia extrasurrenalica ed è raccomandato il follow-up per tutta la vita. La
terapia medica si avvale di alfa e beta-bloccanti e di trattamento sostitutivo per
feocromocitomi bilaterali. I soggetti con tumori maligni non asportabili o metastatizzati
possono essere trattati farmacologicamente ma la prognosi in questi casi è infausta. I
soggetti trattati chirurgicamente hanno una remissione dell’ipertensione in circa il 75%
dei casi; nel rimanente 25% si instaurano forme di ipertensione essenziale o si verificano
complicanze dovute al danno d’organo già instauratosi.
La prognosi è assai severa se la patologia non viene trattata, mentre se il tumore
viene asportato prima che si determinino danni vascolari irreversibili a livello renale,
cerebrale, retinico e cardiaco, ottenendo anche normalizzazione pressoria, la sopravvi-
venza è sovrapponibile a quella della popolazione generale (prognosi a 5 anni dopo
trattamento chirurgico superiore al 95%).
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione deve riferirsi alle conseguenze dell’exeresi del surrene. L’eventuale persistenza di iperten-
sione arteriosa e di danni cardio-vascolari irreversibili deve essere valutata facendo riferimento al capitolo
7.
Feocromocitoma operato con successo in assenza o con minime alterazioni cardio- 5-15%
vascolari irreversibili e residua ipertensione ben controllata farmacologicamente
NOMELAV: 15/21199 PAG: 567 SESS: 42 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
Insulinoma
L’insulinoma è un tumore delle cellule beta del pancreas, appartenente al gruppo
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione di seguito indicata è riferita alle forme scarsamente aggressive e comportanti solo lievi-
moderate turbe endocrine.
Per le forme aggressive la valutazione deve essere espressa secondo la metodologia indicata per le neoplasie.
L’esito cicatriziale chirurgico deve essere valutato autonomamente.
Neoplasie APUD trattate chirurgicamente con successo 5-10%
Neoplasie APUD trattate farmacologicamente, con buon controllo endocrino 11-25%
Il diabete mellito di tipo I (DMT1) è causato da distruzione delle cellule beta del
pancreas, su base autoimmune o idiopatica, ed è caratterizzato da una carenza insulinica
assoluta. La variante LADA (Latent Autoimmune Diabetes in Adult) ha decorso lento e
compare nell’adulto dopo un apparente esordio come diabete mellito tipo 2 (DMT2),
rendendo necessaria la terapia insulinica dopo 2-6 anni dall’esordio.
Il diabete mellito tipo II (DMT2) deriva da un deficit relativo di secrezione
insulinica, che, in genere, progredisce nel tempo (pur non portando mai ad una carenza
assoluta di ormone) e si instaura spesso su una condizione, più o meno severa, di
insulino-resistenza su base multifattoriale.
Esistono poi ulteriori forme cliniche a varia eziologia: diabete gestazionale (causato
da difetti funzionali analoghi a quelli del DMT2, viene diagnosticato per la prima volta
durante la gravidanza e in genere regredisce dopo il parto, per poi ripresentarsi spesso
a distanza di anni con le caratteristiche del DMT2); diabete monogenico (causato da
difetti genetici singoli che alterano secrezione e/o azione insulinica; tra questi il MODY
- Maturity Onset Diabetes of the Young — relativamente raro e caratterizzato da
trasmissione autosomica dominante); diabete secondario a patologie che alterano la
secrezione (pancreatite cronica o pancreasectomia) o l’azione insulinica (es. acromegalia
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5. Piede diabetico: si valuta sulla base dell’Indice ABI che dà una stima della gravità
dell’arteriopatia obliterante.
Indice ABI
0,91 — 1,30 Normale
0,70 — 0,90 AOP lieve
0,40 -0,69 AOP moderata
< 0,40 AOP severa
> 1,30 Non attendibile per calcificazioni
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione deve basarsi sui seguenti parametri: tipo di terapia necessaria e compliance alla stessa, grado
di controllo metabolico raggiunto, età del soggetto, presenza o meno di complicanze e loro gravità.
L’insorgenza della malattia in giovane età e la scarsa compliance alla terapia devono far orientare verso i
valori più alti del range, in relazione al maggior rischio di insorgenza di complicanze.
D.M. non insulino-dipendente in buon controllo metabolico, con lieve sintomatologia, con 5-10%
lieve o assente incidenza sulla qualità di vita
D.M. non insulino-dipendente in scarso controllo glicemico, con moderata sintomatologia 11-25%
ed apprezzabile incidenza sulla qualità di vita ma senza complicanze sistemiche
D.M. insulino-dipendente in buon controllo metabolico, con sintomatologia lieve- 10-15%
moderata, in assenza di complicanze sistemiche
D.M. insulino-dipendente in scarso controllo glicemico con apprezzabile incidenza sulla 16-30%
qualità di vita ma senza complicanze sistemiche
D.M. con complicanze lievi 31-40%
- danno renale stadio II
- AOP lieve (indice ABI 0,70-0,90)
- NPD lieve — moderata
- disfunzione erettile: lieve punteggio 17-25
D.M. con complicanze moderate 41-50%
- danno renale stadio III
- AOP moderata (indice ABI 0,40-0,69)
- NPRD grave o PR lieve-moderata
- disfunzione erettile: moderata punteggio 11-16
D.M. con complicanze gravi 51-60%
- danno renale stadio IV
- AOP severa (indice ABI < 0,40)
- PDR proliferante grave
- disfunzione erettile: grave punteggio 6-10
14.7. Obesità
BMI Terapia
25-29.9 dieta ipocalorica ed esercizio fisico
25-29.9 associato a comorbilità dieta ipocalorica, esercizio fisico e possibile terapia farmacologica
dieta ipocalorica, esercizio fisico, terapia farmacologica e terapia
30-34.5
comportamentale
precedenti interventi terapeutici eventualmente associati a tratta-
35-39.9 associata a comorbilità
mento chirurgico
BMI > 40 precedenti interventi terapeutici integrati da terapia chirurgica
Chirurgia bariatrica
I criteri attestanti le indicazioni per la chirurgia bariatrica sono stati stabiliti nella
Consensus Conference of the American National Institutes of Health del 1991 e,
successivamente, dallo Statement on Patient’s Selection for Bariatric Surgery dell’Inter-
national Federation for the Surgery of Obesity del 1998 e ancora dalla Consensus
Conference on Management of Obesity del 2002.
L’indicazione all’intervento viene posta nei seguenti casi:
— BMI superiore a 40;
— BMI tra 35 e 40 con comorbidità (sleep apnea syndrome, sindrome di Pickwick,
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stanze. Dopo l’intervento i soggetti non devono seguire un particolare regime dietetico,
dovendo limitare soltanto l’assunzione di zuccheri semplici, il cui assorbimento non è
modificato dalla diversione bilio-pancreatica. L’intervento è particolarmente indicato
nei soggetti obesi affetti da DMT2 e/o ipercolesterolemia (in cui si è dimostrato molto
efficace nella riduzione del peso corporeo) mentre è controindicato nei soggetti affetti
da epatopatia severa e sindrome nefrosica, in cui aggrava la disprotidemia. Nel
post-operatorio è fondamentale, oltre ad una corretta alimentazione, procedere ad
un’adeguata integrazione sia di tipo vitaminico che di microelementi, nonché uno
stretto follow-up, al fine di ridurre le complicanze legate al malassorbimento.
Interventi combinati: il bypass gastrico su ansa alla Roux consiste nella creazione
— per via laparoscopica — di una “piccola tasca gastrica” (volume di 30 ml o meno),
comprensiva del cardias ma non del fondo gastrico, alla quale viene “abboccata”
un’ansa intestinale ottenendo così una tasca gastrica che “salta” (by-passa) lo stomaco,
il duodeno ed il primo tratto dell’intestino tenue (tra 70 e 120 cm); la restante parte
di stomaco viene lasciata in situ; la ricanalizzazione del tratto escluso avviene sull’ansa
c.d. alimentare abboccata alla tasca gastrica ad una distanza variabile tra 100 e 200 cm.
Rappresenta l’intervento di chirurgia bariatrica maggiormente effettuato nel mondo
con una riduzione dal 60 al 70% dell’eccesso di peso corporeo, che si mantiene per
almeno 10 anni. La procedura è indicata nei seguenti casi: soggetti con BMI > 50;
soggetti in cui precedenti procedure restrittive hanno fallito; soggetti con disordini
metabolici o disturbi alimentari; sweet eaters. È controindicato in caso di patologia
severa dello stomaco ed epilessia (in relazione a modifiche dell’assorbimento della
Carbamazepina).
È stato ormai ampiamente dimostrato che i soggetti obesi hanno una minore
aspettativa di vita, con incremento esponenziale del rischio di mortalità direttamente
correlato al BMI, ed una riduzione della qualità della vita mentre è evidente che la
riduzione di peso determina molteplici effetti positivi: diminuisce il rischio di sviluppare
diabete mellito e malattie cardio-vascolari; riduce i livelli di pressione arteriosa sia in
soggetti normotesi che ipertesi; riduce i livelli di trigliceridi, colesterolo e colesterolo-
LDL, aumentando invece il colesterolo-HDL; riduce i livelli di glicemia e di emoglobina
glicata in soggetti con DMT2.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione deve basarsi sui seguenti parametri: BMI, età di insorgenza dell’obesità (nei soggetti giovani
la valutazione deve essere maggiore a causa della più elevata predisposizione alle complicanze); compliance
alla terapia (sia medica che chirurgica); possibilità di correzione chirurgica; tipologia di intervento effettuato
e risultati dell’intervento stesso; modificazioni delle abitudini di vita post-intervento.
La distinzione tra obesità moderata e obesità severa è legata al fatto che, anche in assenza di complicanze,
la disabilità — e di conseguenza le ripercussioni sulla qualità di vita — legata ad un quadro di obesità severa
è senz’altro maggiore.
Nel caso di posizionamento di pallone endogastrico la valutazione deve essere rimandata alla rimozione
dello stesso, che avviene generalmente a distanza di alcuni mesi dal posizionamento; la presenza del pallone
endogastrico non costituisce pertanto danno biologico permanente, mentre devono essere considerate per
tutte le tipologie di intervento le eventuali complicanze legate alla procedura chirurgica.
L’esito cicatriziale chirurgico deve essere valutato autonomamente.
Obesità moderata non trattata chirurgicamente 10-15%
Obesità severa non trattata chirurgicamente 16-35%
Obesità patologica non trattata chirurgicamente 36-75%
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Obesità patologica trattata con intervento chirurgico restrittivo 26-40%
Obesità patologica trattata con intervento chirurgico malassorbitivo o misto 26-50%
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Capitolo 15
FUNZIONE ESTETICA
15.1. Premessa
15.2. Generalità
avvalendosi delle opportune competenze settoriali, può e deve dar atto delle tipologia
delle misure correttive praticabili e dei risultati ordinariamente attendibili.
A questo proposito, se le misure correttive sono state già attuate al momento della
valutazione del danno, le relative spese — ponderatamente vagliate quanto a ragione-
volezza e ad appropriatezza dell’indicazione e dell’esecuzione, nonché quanto a rispon-
denza con i tariffari correnti nei diversi settori (chirurgia e medicina estetica, cosmesi
generica e speciale, ecc.) — sono di norma rimborsabili. In tali casi la quantificazione
del danno deve essere effettuata nella misura in cui obiettivabile, appunto all’esito dei
trattamenti correttivi.
Invece, nel caso di richiesta di rimborso di ipotetiche spese future, a copertura di
misure correttive soltanto preventivate ma non attuate, è evidente come non si possa far
luogo ad una loro “pre-compensazione” economica, specie se aggiuntiva rispetto al
risarcimento della menomazione estetica in essere. Infatti, ciò darebbe luogo ad una
indebita duplicazione risarcitoria, oltretutto basata su un’assoluta incertezza in ordine al
risultato migliorativo eventualmente conseguibile: risultato, tra l’altro, condizionato da
profili di aleatorietà decisamente diversi rispetto a quanto si verifica, ad es., in campo
odontoiatrico, col rimborso anticipato delle spese future per i rinnovi protesici. In
definitiva, in questi casi la quantificazione del danno deve essere effettuata prendendo
in considerazione soltanto la menomazione estetica in essere ed escludendo altre poste
economiche aggiuntive, anche perché non comprovate sotto il profilo patrimoniale del
danno emergente effettivamente subìto.
In queste Linee Guida la valutazione della perdita traumatica, o chirurgica, di arti
o parte di essi è ordinariamente comprensiva del pregiudizio estetico, salvo i casi di
grossolanamente anomali processi di cicatrizzazione.
Invece, per quanto concerne altre tipologie menomative e, segnatamente gli esiti
traumatici e chirurgici a carico dei visceri interni, è bene precisare che se nella voce
catalogata non compare alcuna specificazione aggiuntiva circa l’inestetismo lasciato in
essere dall’accesso chirurgico, quest’ultimo deve ritenersi non compreso nella percen-
tuale indicata.
Si assiste ormai infatti ad un’estrema variabilità degli accessi chirurgici, e dei
correlati esiti cicatriziali, per cui la valutazione medico-legale deve essere di volta in
volta commisurata alle peculiari caratteristiche dei predetti esiti. Si pensi, ad esempio,
ai minimi reliquati cicatriziali derivanti da un intervento di splenectomia eseguito in
elezione per via laparoscopica, rispetto ad una splenectomia eseguita in urgenza per via
laparotomica, a causa di una peritonite e di un emoperitoneo: nel primo caso gli esiti
cicatriziali sono di norma modestissimi, mentre nel secondo possono essere non solo di
cospicue dimensioni, ma anche ipertrofici e francamente cheloidei.
Paradossalmente, quantunque in casi sporadici, gli esiti cicatriziali potrebbero
addirittura assumere un rilievo maggiormente menomativo rispetto al nocumento
viscerale: ad es. in una toracotomia eseguita secondo tecnica classica per una segmen-
tectomia polmonare, produttiva di esigui reliquati disfunzionali o, ancora, in una
isterectomia eseguita per via laparatomica in età non fertile.
La buona tecnica valutativa impone dunque di valutare caso per caso e distinta-
mente dalla menomazione viscerale il danno estetico da cicatrice, residuato all’accesso
chirurgico.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per la valutazione del danno alla funzione estetica sono state individuate 6 classi di crescente gravità,
all’interno delle quali la quantificazione deve essere modulata in base alle caratteristiche intrinseche
(dimensione, rapportata all’estensione della cicatrice rispetto al distretto interessato e al pregio estetico del
predetto, rilevatezza o infossamento, discromia e distrofia ed effetti retraenti) ed estrinseche (sesso ed età).
Gli eventuali concomitanti deficit funzionali che non fanno parte integrante della menomazione estetica
devono essere valutati aggiuntivamente, così come le conseguenze psico-reattive di carattere francamente
patologico, che devono essere suffragate da accertamenti psichiatrici. Sono invece di norma comprese nella
percentualizzazione “tabellare” le componenti psico-adattative che non sconfinano nel patologico, frequen-
temente osservabili, specie nelle persone giovani e di sesso femminile.
Per le menomazioni estetiche connesse ad amputazioni parziali o totali di arti, a talune lesioni neurologiche
di tipo paretico, alla perdita del bulbo oculare, di elementi dentari, del pene e dei testicoli e per le
mutilazioni genitali femminili, si rinvia ai relativi capitoli.
Qualora si sia proceduto a correzione della menomazione (ad es. dopo applicazione di protesi oculari o
dentarie), la valutazione del danno deve esser modulata sulla base del risultato estetico ottenuto.
In caso di perdita totale, o particolarmente ampia del padiglione auricolare è possibile procedere alla sua
ricostruzione mediante l’inserimento di cartilagini costali rimodellate, o di materiali sintetici inseriti in
tasche sottocutanee ricavate per espansione dei tessuti retroauricolari; questo tipo di ricostruzione dà spesso
buoni risultati, ma può soggetta a complicanze sia nel sito di prelievo che in quello d’impianto; l’inserimento
sottocutaneo di materiali sintetici è a sua volta inficiato da un alto rischio di rigetto. Recentemente è stato
proposto l’utilizzo di epitesi in silicone, fissate all’osso temporale per mezzo di impianti osteointegrati in
titanio: procedura che trova indicazione soprattutto nel caso di amputazioni per neoplasie, in presenza di
esiti cicatriziali che sconsigliano l’espansione cutanea. Ove queste correzioni abbiano successo, la percen-
tuale del danno è da ridursi proporzionalmente al miglioramento estetico ottenuto. Le ricostruzioni cutanee
complesse, eseguite come con omoinnesti o sistemi di espansione, nonché il trapianto di capelli richiedono
valutazioni ad hoc, dipendentemente dai miglioramenti estetici conseguiti.
Per gli esiti delle mastectomie si rimanda al capitolo 12.
Classe I: il pregiudizio estetico è lievissimo 1-5%
L’anormalità è limitata ad alterazioni anatomiche molto circoscritte, ma comunque perce-
pibili ad un’attenta osservazione, pur non alterando le fattezze e l’espressività del soggetto.
In linea di massima si tratta di cicatrici di assai modesta estensione e normocromiche
interessanti il volto, o la regione anteriore del collo, o di esiti relativamente più estesi,
interessanti altre regioni corporee. Rientrano in questa classe:
Cicatrici: lineari, piane, non discromiche, di piccola estensione (nell’ordine di 1-2 cm) al
volto e alla regione anteriore del collo; cicatrici lineari e/o nastriformi, piane e/o modica-
mente rilevate e lievemente discromiche, di estensione compresa tra 3 e 5 cm alle mani e fino
a 10 cm al tronco o agli arti (mani escluse).
Deformità e altre anormalità: conseguenti a fratture del massiccio facciale, modiche gibbosità
del naso, modico deficit delle motilità palpebrale.
Perdite anatomiche: parcellari di un padiglione auricolare o di piccola estensione al tronco
e agli arti (mani escluse).
Classe II: il pregiudizio estetico è da lieve a moderato 6-15%
L’anormalità risulta evidente anche ad un’osservazione superficiale ed è oggetto di auto-percezione
negativa, amplificata dalla constatazione di un’attenzione particolare da parte di terzi.
In linea di massima si tratta di cicatrici relativamente estese al volto, o alla regione anteriore
del collo, o maggiormente estese ad altre regioni corporee. Rientrano in questa classe:
Cicatrici: lineari o irregolari, piane, di media estensione (nell’ordine di 3-5 cm) oppure di
minor estensione ma ipertrofiche e discromiche al volto e alla regione anteriore del collo ed
alle mani; cicatrici lineari e/o nastriformi estese (nell’ordine di 10-15 cm), ipertrofiche o
discromiche, al tronco o agli arti (mani escluse).
Deformità e altre anormalità: infossamenti o bozzature di media estensione sulla regione
fronto-orbito-zigomatica e mascellare e dismorfismi della regione mandibolare, comportanti
asimmetria del volto; marcata deformazione della piramide nasale; vaste aree di alopecia.
Perdite anatomiche: perdita sub-totale o molto ampia di un padiglione auricolare; perdita
circoscritta o marcata deformazione della piramide nasale; perdita parziale di un labbro.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Classe VI: il pregiudizio estetico è gravissimo con ripercussioni su funzioni diverse da 51-65%
quella estetica
L’intero ambito somatico risulta drasticamente e ubiquitariamente sovvertito da grossolani
ed estesissimi reliquati cicatriziali e da perdite di tessuti molli, o di appendici corporee,
rendendo le fattezze praticamente “mostruose” e tali da suscitare sgomento e ripugnanza
nell’osservatore, nonché da innescare reazioni di evitamento dei contatti del soggetto con
terzi e, reciprocamente, dei terzi con il soggetto, fino a determinare quella tipica condizione
di “ritiro sociale”, quasi sempre congiunta ad importanti disturbi psico-patologici, spesso
osservabili in queste fattispecie.
Le ripercussioni su funzioni diverse da quella estetica devono essere valutate aggiuntiva-
mente.
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Capitolo 16
FUNZIONE DEL CONNETTIVO
16.1. Lupus eritematoso sistemico. — 16.2. Sclerodermia. — 16.3. Dermatomiosite. — 16.4. Vasculiti. —
16.5. Artrite reumatoide
CRITERI CLINICI
1) Lupus cutaneo acuto: Rash malare, Lupus bolloso, Variante di LES con necrolisi epidermica tossica,
Eruzione cutanea di lupus maculo papulare, Eruzione cutanea di lupus fotosensibile in assenza di
dermatomiosite; oppure Lupus cutaneo subacuto.
2) Lupus cronico cutaneo: Rash discoide classico (localizzato sopra il collo e generalizzato), Lupus
ipertrofico (verrucoso), Panniculite lupica (profonda), Lupus delle mucose, Lupus eritematoso tumido,
Lupus con geloni, Lupus discoide con sovrapposizione di lichen planus.
3) Ulcere orali (bocca, lingua) oppure ulcere nasali in assenza di altre cause, come vasculiti, malattia di
Behçet, infezione (herpes), malattie infiammatorie intestinali, artrite reattiva e cibi acidi.
4) Alopecia non cicatriziale (diffuso assottigliamento o fragilità dei capelli che si presentano visibil-
mente spezzati) in assenza di altre cause come alopecia aerata, farmaci, sideropenia e alopecia andro-
gena.
5) Sinovite che coinvolga due o più articolazioni caratterizzata da gonfiore o versamento oppure indolen-
zimento di due o più articolazioni e almeno 30 minuti di rigidità al mattino.
6) Sierosite: tipica pleurite per più di un giorno oppure versamenti pleurici oppure sfregamento pleurico;
tipico dolore pericardico (dolore ridotto tramite seduta in avanti) per più di un giorno oppure versamento
pericardico oppure sfregamento pericardico oppure pericardite valutata elettrocardiograficamente in
assenza di altre cause come infezioni, uremia e pericardite di Dressler.
7) Renale: rapporto proteine urinarie/creatinina in 8-24 ore assimilabile a 500 mg di proteine/24 ore oppure
residui di globuli rossi.
8) Neurologico: convulsioni, psicosi, mononeurite multipla in assenza di altre cause come vasculite primaria,
infezioni e diabete mellito; mielite, neuropatia craniale o periferica in assenza di altre cause conosciute come
CRITERI CLINICI
vasculite primaria, infezioni e diabete mellito; stato confusionale acuto in assenza di altre cause incluse
tossiche/metaboliche, uremia, farmaci.
9) Anemia emolitica.
10) Leucopenia (almeno una volta <4.000/mm3) in assenza di altre cause conosciute come la sindrome di
Felty, farmaci e ipertensione portale oppure linfopenia <1.000/mm3 almeno una volta in assenza di altre
cause conosciute come corticosteroidi, farmaci e infezioni.
11) Trombocitopenia (almeno una volta <100.000/mm3) in assenza di altre cause conosciute come farmaci,
ipertensione portale e porpora trombocitopenia.
CRITERI IMMUNOLOGICI
1) Livello degli ANA superiore al riferimento di laboratorio.
2) Livello di anticorpi anti-dsDNA superiore all’intervallo di riferimento di laboratorio (o >2 volte il range
di riferimento in caso di test con ELISA).
3) Anti-Sm: presenza di anticorpi per l’antigene Sm.
4) Positività agli anticorpi antifosfolipidi evidenziata mediante il risultato di uno dei seguenti test:
• risultato positivo del test per il lupus anticoagulante
• risultato falso positivo del test per il recupero rapido del plasma
• livello medio-alto di anticorpi anticardiolipina (IgA, IgG o IgM)
• risultato positivo del test per gli anti-B2-glicoproteina I (IgA, IgG o IgM)
5) Basso complemento
• basso C3
• basso C4
• basso CH50
6) Test di Coombs diretto in assenza di anemia emolitica.
III (C) Lesioni inattive croniche con cicatrici glomerulari: sclerosi focale.
Classe IV Glomerulonefrite proliferativa diffusa
Può essere attiva o inattiva, segmentale o globale, di tipo endo- o extracapillare. Coinvolge ≥50% di tutti
i glomeruli, tipicamente con immunodepositi subendoteliali, con o senza alterazioni mesangiali. Questa
classe è divisa in:
IV-S: diffusa segmentale, quando le lesioni coinvolgono meno del 50% del glomerulo
IV-G: diffusa globale (IV-G) quando le lesioni coinvolgono più del 50% del glomerulo.
IV-S (A) Lesioni attive: glomerulonefrite proliferativa diffusa segmentale.
IV-G (A) Lesioni attive: glomerulonefrite proliferativa diffusa globale.
IV-S (A/C) Lesioni attive e croniche: glomerulonefrite proliferativa diffusa segmentale con associate lesioni
sclerotiche.
IV-S (C) Lesioni inattive croniche con cicatrici: glomerulonefrite diffusa segmentale con lesioni sclerotiche.
IV-G (C) Lesioni inattive croniche con cicatrici: glomerulonefrite diffusa globale con lesioni sclerotiche.
Classe V Glomerulonefrite membranosa
Depositi immuni subepiteliali globali o segmentali o esiti evidenti al microscopio ottico e all’immunofluo-
rescenza o al microscopio elettronico, con o senza alterazioni mesangiali.
La classe V può presentarsi in combinazione con la classe III o IV.
La classe V può mostrare sclerosi avanzata.
Classe VI Glomerulonefrite con sclerosi avanzata
90% dei glomeruli globali sono sclerotici senza attività residua.
del LES, accertato da una valutazione clinica e presente da almeno 6 mesi), quali lo
SLICC Damage Index (ideato nel 1996 dalla SLICC in accordo con la ACR). L’indice
comprende 42 item che testano 12 organi/apparati (visivo, neuro-psichico, polmonare,
cardio-vascolare, vascolare periferico, renale, gastro-intestinale, muscolo-scheletrico,
cutaneo, sessuale, tumori, diabete mellito), ad ognuno dei quali viene assegnato un
punteggio. Il punteggio di 2 o 3 viene assegnato in caso di danno d’organo importante;
più è elevato il punteggio in fase iniziale più la prognosi è sfavorevole e la mortalità
elevata.
La terapia varia in base al grado di attività della malattia ed alla severità delle
manifestazioni cliniche: i FANS sono impiegati per il trattamento dei sintomi muscolo-
scheletrici, della sierosite (se modesta) e dei sintomi costituzionali; gli anti-malarici sono
estremamente efficaci per i rash acuti e cronici. La maggior parte delle manifestazioni
cliniche rispondono prontamente ai corticosteroidi (correlati però ad elevata morbilità);
gli immunosoppressori, particolarmente la ciclofosfamide per via endovenosa, sono utili
in soggetti con coinvolgimento di organi vitali, come nel caso della nefropatia lupica.
Negli ultimi decenni la sopravvivenza dei soggetti affetti da LES è notevolmente
aumentata anche se la mortalità rimane tre volte superiore a quella della popolazione
generale. I fattori intrinseci alla malattia che influenzano negativamente la prognosi
sono: coinvolgimento del SNC, lesioni renali avanzate (come il quadro di glomerulo-
nefrite proliferativa diffusa), anemia e piastrinopenia.
16.2. Sclerodermia
La presenza del solo criterio maggiore oppure di almeno due criteri minori
permette di classificare la condizione come sclerosi sistemica con una sensibilità del
97% ed una specificità del 98%.
Non esiste terapia farmacologica realmente efficace; tuttavia sono utilizzati corti-
sonici, vasodilatatori, taluni antibiotici (la D-penicillamina, la griseofulvina), azatio-
prina, ciclofosfamide e colchicina.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per le forme esclusivamente cutanee la valutazione può basarsi sull’estensione e sulla localizzazione delle
lesioni, prevedendo una stima massima del 10% se vi è impegno cutaneo caratterizzato solo da edema,
mentre deve essere ovviamente maggiore nei casi in cui vi sia stata evoluzione in sclerosi e/o atrofia.
In presenza di compromissione sistemica la valutazione deve basarsi sul quadro clinico e sull’entità del
danno d’organo, per la cui stima si può tener conto di quanto indicato nei capitoli relativi alla funzione lesa,
oltreché dell’entità degli effetti collaterali della terapia farmacologica.
16.3. Dermatomiosite
edema, che può precedere di anni o mesi i sintomi muscolari. Tipica inoltre è la
presenza di placche o papule eritematose/violacee, più frequenti a livello della superficie
estensoria delle dita delle mani, ginocchia, gomiti e caviglie. Si associano manifestazioni
muscolari caratterizzate da astenia, che interessa simmetricamente la muscolatura
prossimale degli arti e delle spalle, per aumentare progressivamente e lentamente di
intensità e divenire ubiquitaria; meno frequenti le mialgie.
I segni obiettivi più importanti sono rappresentati da riduzione di forza, dolora-
bilità alla compressione muscolare, contrattura ed atrofia muscolare; frequenti le
artralgie. Si può verificare anche interessamento a livello polmonare (di tipo intersti-
ziale), cardiaco (miocardite) e renale.
La storia naturale prevede remissioni spontanee anche di lunga durata ed i primi
due anni risultano cruciali per la valutazione prognostica; di fatto, dopo tale periodo, le
possibilità di remissione sono buone, soprattutto nei bambini.
La diagnosi si basa sia su dati clinici che di laboratorio (aumento degli indici
aspecifici di flogosi e di necrosi muscolare quali CPK, LDH, mioglobina, SGPT,
aldolasi, e della creatinuria). L’enzima più rappresentativo, importante anche per
monitorare il decorso della malattia, è la CPK. Ulteriori accertamenti da eseguire sono
l’EMG (consente di registrare aspetti tipici di danno muscolare) e la biopsia muscolare;
l’attività di malattia può essere inoltre valutata mediante RM muscolare (nelle fasi di
attività è presente edema).
I criteri diagnostici utilizzati sono quelli di Bohan e Peter in base ai quali la diagnosi
di PM è definita “probabile” o “possibile” quando sono soddisfatti rispettivamente i
criteri 4, 3, 2, mentre quella di DM è definita, “probabile” o “possibile” quando sono
soddisfatti i criteri 3, 2, 1.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione deve essere espressa sulla base dell’estensione dell’interessamento cutaneo, riferendosi a
quanto indicato nel capitolo 17, oltrechè sul grado di compromissione muscolare, quando presente.
Nel caso di impegno d’organo la valutazione deve comprendere anche il deficit funzionale di ciascun
organo, secondo quanto indicato nei capitoli specifici.
16.4. Vasculiti
Arterite di Takayasu
L’arterite di Takayasu è una vasculite a carattere granulomatoso dell’aorta e dei
suoi rami principali, che colpisce soggetti di età compresa fra i 20 e i 30 anni,
prediligendo il sesso femminile e la razza orientale.
Il quadro clinico è generalmente caratterizzato da sintomi sistemici (febbre, astenia,
malessere generale, calo ponderale, artralgie, mialgie, poliartrite simmetrica) e vascolari.
Questi ultimi dominano la fase tardiva od occlusiva (detta “senza polso”) e variano a
seconda dei distretti arteriosi colpiti (arco aortico e suoi rami principali, aorta toracica
e/o addominale, arterie polmonari), potendo dar luogo ai seguenti quadri: claudicatio
intermittens degli arti superiori o inferiori, claudicatio masticatoria, fenomeno di
Raynaud, disturbi visivi (diplopia, amaurosi), sincopi, lesioni cerebrali di tipo ischemico,
ipertensione arteriosa (nefro-vascolare), ipertensione polmonare, insufficienza aortica,
angina pectoris, infarto del miocardio, dolori addominali; frequenti sono inoltre la
cefalea e le vertigini posturali (dovute a severa malattia occlusiva delle carotidi e/o del
circolo vertebro-basilare).
Obiettivamente il reperto caratteristico è costituito dalla riduzione/assenza dei
polsi arteriosi periferici; si possono rilevare inoltre soffi a livello di una o di entrambe
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Granulomatosi di Wegener
La granulomatosi di Wegener è una vasculite necrotizzante che colpisce la parete
delle arterie di medio e piccolo calibro, dei capillari e delle venule.
Nella sua forma completa la malattia è clinicamente caratterizzata da: manifesta-
zioni a carico di orecchio, naso e gola (ostruzione nasale persistente, sinusite, rinite
emorragica e/o crostosa, otite media sierosa, perdita dell’udito e/o deformità della sella
del naso), presenti in oltre il 70% dei casi; coinvolgimento polmonare (noduli,
emorragia alveolare e da infiltrazione); malattia renale (tipicamente glomerulonefrite
necrotizzante extracapillare); sintomi generali (astenia, febbre, artralgia, mialgia e/o
perdita di peso). Possono inoltre essere presenti sintomi correlati a neuropatia periferica
(multineurite) o ad interessamento del SNC (cefalea, deficit sensitivo-motorio, emiple-
gia e epilessia), lesioni cutanee (porpora, papule e ulcere) ed anomalie oculari. (14-60%
dei casi).
I criteri diagnostici stabiliti dall’American College of Rheumathology (ACR) nel
1990 sono i seguenti:
Flogosi nasale ed orale: sviluppo di ulcere del cavo orale, dolorose o non dolorose o secrezione nasale
purulenta e sanguinolenta.
Emottisi: nel corso della malattia.
Alterazioni radiologiche polmonari: presenza di noduli, infiltrati fissi o lesioni cavitarie.
Alterazioni del sedimento urinario: microematuria (> 5 emazie per campo a forte ingrandimento) o cilindri
ematici.
Alterazioni bioptiche di tipo granulomatoso: flogosi granulomatosa nelle pareti di un’arteria o arteriola o in
sede perivascolare o extravascolare.
La diagnosi viene posta quando sono presenti almeno 2 criteri su 5, non conside-
rando il criterio 2. Al dato clinico deve associarsi la rilevazione degli anticorpi
citoplasmatici antineutrofili (ANCA) nel siero, in particolare cANCA anti-PR3. La
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biopsia della cute o dei tessuti del naso, dei polmoni e dei reni dovrebbe permettere la
conferma della diagnosi.
La terapia prevede la somministrazione di corticosteroidi in associazione ad
immunosoppressori (ciclofosfamide).
Sindrome di Churg-Strauss
La sindrome di Churg-Strauss è una vasculite sistemica che colpisce i piccoli vasi
del polmone, dei nervi periferici, della cute e, meno frequentemente, del cuore e del
tratto gastro-intestinale.
Il quadro clinico è caratterizzato da una sindrome allergica (tipo asma, rinite,
sinusite), associata ad eosinofilia ematica e tissutale ed a lesioni granulomatose e
necrotizzanti extravascolari. Si sviluppa caratteristicamente in tre fasi parzialmente
sovrapposte, che possono non seguire necessariamente quest’ordine: fase prodromica,
caratterizzata da asma allergico-rinite ad esordio in età adulta (può precedere la
vasculite di qualche anno), con sintomi inizialmente lievi ma progressivamente ingra-
vescenti e talora resistenti alla terapia; fase caratterizzata dall’insorgenza di eosinofilia
ematica (la conta degli eosinofili è di solito superiore al 10% della conta leucocitaria
differenziale o > 1500/mm3) e tissutale, polmonite eosinofila cronica o gastroenterite
eosinofila, cui possono associarsi sintomi costituzionali come perdita di peso e febbre;
fase in cui compaiono segni e sintomi di vasculite sistemica, con frequente coinvolgi-
mento neurologico, rappresentato tipicamente da una mononeurite, mentre il coinvol-
gimento gastro-intestinale può progredire in addome acuto, colecistite, emorragia e
perforazione intestinale; un coinvolgimento cutaneo, rappresentato da porpora palpa-
bile, petecchie e noduli sottocutanei, è presente nel 40% dei casi e può talora
rappresentare il sintomo di esordio della malattia.
I criteri diagnostici stabiliti dall’American College of Rheumathology (ACR) nel
1990 sono i seguenti:
Asma.
Eosinofilia > 10%.
Mono-polineuropatia.
Infiltrati polmonari non fissi.
Anomalie dei seni paranasali.
Riscontro bioptico di eosinofili extra-vascolari.
Morbo di Behçet
Il morbo di Behçet è una patologia multisistemica causata da un processo flogistico
cronico che può coinvolgere vasi arteriosi e venosi di qualsiasi calibro.
Il quadro clinico è tipicamente caratterizzato da impegno muco-cutaneo ed oculare
con comparsa dei seguenti segni/sintomi: ulcere orali (generalmente rappresentano il
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primo segno della malattia e possono precedere di molti anni l’esordio delle altre
manifestazioni), singole o multiple, più frequentemente localizzate a livello della lingua,
delle labbra, della mucosa gengivale e vestibolare; ulcere genitali, solitamente molto
dolenti, tipicamente recidivanti e spesso seguite da esiti cicatriziali; fenomeno della
patergia, che rappresenta una ipereattività cutanea a semplici traumi, quali, ad es. la
puntura con un ago; alterazioni oculari (uveite anteriore/posteriore, vasculite retinica,
neuropatia ottica, infiltrati retinici e vitreite), con carattere recidivante, che nel 15% dei
casi possono portare a cecità completa; coinvolgimento neurologico, che rappresenta
una delle complicanze più temibili del MB, tanto da costituire, se non precocemente
riconosciuto, una delle principali cause di morbidità e mortalità.
I criteri classificativi sono quelli stabiliti dalla International Study Group for Behçet’s
Disease, di seguito indicati:
Classe I Soggetto in grado di svolgere le normali attività quotidiane (cura di sé, attività di svago e
professionali).
Classe II Soggetto in grado di svolgere le normali attività di cura di sé e di svago ma con limitazione
nelle attività professionali.
Classe III Soggetto in grado di svolgere le normali attività di cura di sé ma con limitazione nelle attività
di svago e professionali.
Classe IV Soggetto con limitazione nelle attività di cura di sé, di svago e professionali.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
In presenza di lieve sintomatologia caratteristica (dolore e sfumata rigidità articolare), ma in assenza di
alterazioni radiografiche, la valutazione massima si attesta intorno al 10%. In tutti gli altri casi la valutazione
deve essere espressa sulla base del grado di interessamento articolare (clinico e radiografico) e della correlata
limitazione funzionale dei distretti interessati.
In caso di gravi deformità si deve tener conto anche del relativo danno estetico.
Devono inoltre essere considerati gli eventuali effetti collaterali della terapia medica nonché gli esiti del
trattamento chirurgico.
Nel caso di complicanze pleuro-polmonari, neurologiche, oculari, etc. la valutazione va integrata con il
danno d’organo.
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Capitolo 17
FUNZIONE TEGUMENTARIA
17.1. Dermatiti da contatto. — 17.2. Psoriasi. — 17.3. Ustioni. — 17.4. Lesioni da decubito. — 17.5. Me-
todologia valutativa
luppo di una reazione indesiderata a sostanze esogene (apteni) in individui già sensi-
bilizzati.
Tra i fattori eziologici si annoverano: metalli (nichel, cromo, cobalto, etc.), che
rappresentano la causa più frequente, essendo contenuti in prodotti alimentari, in
oggetti di bigiotteria o in materiali professionali; essenze profumate (non solo profumi
e cosmetici ma anche detergenti impiegati per l’igiene domestica e medicamenti per uso
topico); conservanti, emollienti, emulsificanti; farmaci, specie se impiegati sulla cute lesa
(cloramfenicolo, neomicina, antistaminici topici, anestetici locali); gomma (per la sua
costituzione in sostanze quali mercaptobenzotiazoli, tiurami e carbammati); coloranti
organici.
Solitamente la malattia insorge a livello dell’area cutanea in cui si è realizzato il
contatto con l’agente patogeno, sebbene la distribuzione delle lesioni possa successiva-
mente diffondersi ad altri distretti.
Il quadro clinico si caratterizza per intenso prurito e manifestazioni sia di tipo
eruttivo che evolutivo. Il decorso può essere acuto, subacuto o cronico: nel primo caso
la manifestazione cutanea è rappresentata da lesioni eritemato-edemato-vescicolo-
crostose in ordine temporale di presentazione, interessanti prevalentemente labbra,
palpebre, arti e genitali; se il decorso è subacuto si verificano lesioni squamo-crostose
associate ad eritema ed essudazione meno intensi; infine nelle forme a decorso cronico
si hanno ipercheratosi, placche infiltrate e lesioni ragadiformi.
La diagnosi si fonda sull’esecuzione di test epicutanei. La prognosi è variabile: le
manifestazioni possono risolversi spontaneamente (come nella maggior parte dei casi in
cui è sufficiente interrompere l’esposizione all’agente sensibilizzante), recidivare o
cronicizzare; laddove l’allontanamento dalla sostanza coinvolta non sia sufficiente, si
può ricorrere all’impiego di soluzioni disinfettati topiche e di creme o unguenti a base
di cortisone e di farmaci antistaminici per ridurre la sintomatologia pruriginosa.
La dermatite irritativa da contatto consiste in una reazione infiammatoria della cute
nei confronti di una sostanza irritante non mediata dal sistema immunitario, coinvol-
gente sia fattori esogeni che endogeni capaci di attivare la cascata infiammatoria. Il
potenziale irritante di ciascuna sostanza è legato al suo potere di penetrazione epider-
mica, che a sua volta dipende da caratteristiche chimico-fisiche quali il peso molecolare,
lo stato di ionizzazione e la lipofilicità; anche alcuni fattori endogeni quali sesso, età,
dermatite atopica e distretto anatomico interessato possono influenzare il grado delle
reazioni di tipo irritativo.
Tra gli irritanti chimici più comuni si annoverano acqua, sali e ossidi in essa
contenuti, detergenti cutanei, detergenti industriali, alcali, acidi, oli, oli da taglio e loro
additivi, medicamenti topici, cosmetici, solventi organici, agenti riducenti ed ossidanti,
derivati animali (secrezioni), sostanze prodotte da piante e animali trasmesse per
contatto o punture.
I quadri clinici variano da lesioni eritematose a vescicolo-bollose, desquamazioni,
ragadi, sino a vere e proprie ustioni nel sito di contatto con l’agente irritante.
Esistono quattro forme principali di dermatite da contatto irritante:
— la forma acuta, causata da esposizione a sostanze fortemente irritanti come acidi
o alcali forti, in cui si ha l’immediata comparsa dei segni clinici quali eritema, edema e/o
necrosi (tranne nel caso della forma acuta di tipo ritardato che insorge dopo circa 8-24
ore); la prognosi varia ed è condizionata dalla possibile evoluzione in esiti cicatriziali o
discromici;
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17.2. Psoriasi
biancastre che si staccano facilmente. La presentazione clinica, in ogni caso, varia molto
da soggetto a soggetto poiché, oltre alla forma comune a placche, se ne possono
identificare altre quali quella eruttiva, la circinata, la geografica, la figurata, la serpigi-
nosa, la lineare, etc.; analogamente, anche il decorso può essere variabile, anche se
tendenzialmente esso ha andamento cronico recidivante.
Il quadro clinico tipico è rappresentato dalla forma a placche (la c.d. psoriasi
volgare), in cui le lesioni sono costituite da chiazze eritematose ricoperte da squame
argentee, con localizzazione elettiva a capo e regione sacrale e, simmetricamente, ai
gomiti ed alle ginocchia (ovvero nelle sedi dove è abituale lo sfregamento involontario
della cute, cioè i punti di appoggio). Dalla confluenza di più placche se ne possono
formare di molto estese che creano disegni irregolari a mo’ di carta geografica. Se le
lesioni si estendono a tutta o a gran parte della superficie cutanea, si parla di “psoriasi
eritrodermica”. Al capo, in genere, le lesioni si estendono appena oltre il capillizio, ove
è frequente il riscontro di squame, mentre è più complesso il riconoscimento del
sottostante eritema. Nelle forme inveterate si può arrivare alla formazione di una vera
e propria calotta compatta che riveste l’intero cuoio capelluto, mentre in altri casi si
osservano squame bianco-argentee secche su una diffusa desquamazione pitiriasiforme
simil-furfuracea talora con evidenza follicolare. In alcune forme, specialmente pediatri-
che, laddove la psoriasi si presenti associata a una pseudotigna amiantacea, piccole
squame aderenti biancastre conglutinano la parte prossimale dei capelli che, sottoposti
a trazione, si estraggono con facilità lasciando aree di alopecia.
Il prurito nella psoriasi è di intensità molto diversa da soggetto a soggetto e varia
da una totale assenza a livelli che compromettono significativamente la qualità di vita;
tale compromissione è accentuata dal fatto che il soggetto ha una cattiva percezione
della propria immagine, al di là dalla severità obiettiva del quadro individuale.
Le varianti cliniche principali sono le seguenti:
— Psoriasi pustolosa: si presenta sotto forma di eruzione diffusa di pustole sterili
su una superficie epidermica intensamente eritematosa (psoriasi pustolosa di Von
Zumbush), accompagnata d malessere, febbre, leucocitosi; può presentarsi sia come
forma di esordio della malattia sia come evoluzione della forma classica (in genere per
infezioni, interruzione improvvisa di terapia steroidea, gravidanza o impiego di farmaci).
Questa variante è estesa ed invalidante, poiché l’evoluzione subentrante delle gittate
pustolose porta allo sviluppo di uno stato suberitrodermico che può compromettere le
condizioni generali del soggetto sino ad uno squilibrio idro-elettrolitico con ipoalbu-
minemia. Esiste inoltre una sottovariante meno impegnativa ed a prognosi più favore-
vole (psoriasi pustolosa generalizzata anulare di Milian-Katchoura) in cui piccole
pustole si localizzano alla periferia delle chiazze psoriasiche assumendo aspetto festo-
nato anulare.
— Psoriasi palmo-plantare: esistono due forme, quella di Barber e l’acrodermatite
di Hallopeau. Nella prima le lesioni sono rosse, simmetriche, a margini netti con squame
molto aderenti e sono più marcate al centro della superficie palmare della mano
dominante; all’inizio le lesioni compaiono come pustole diffuse con un diametro di
pochi mm su placche cutanee eritematose; col tempo le pustole si essiccano, divengono
scure e desquamano. Tale quadro può risultare molto invalidante, potendo dar luogo a
fissurazioni di piante dei piedi e del palmo delle mani che compromettono la deambu-
lazione e la manipolazione degli oggetti. Nell’altra forma la psoriasi si presenta come
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dattilite distale con eritema, pustole e perionissi, soprattutto a carico delle dita più
sollecitate, potendo determinare un certo grado di impotenza funzionale.
— Psoriasi artropatica: in questa forma l’artrite psoriasica può seguire (nel 75%
dei casi) o precedere i segni cutanei. Si presenta con dolore e rigidità articolare, in
genere di mani e piedi (dattilite), ma può coinvolgere anche le grandi articolazioni. Sul
piano clinico si descrivono cinque varietà: oligo-articolare, asimmetrica, simmetrica
simil-reumatoide, dattilite, mutilante e spondilitica. Se non trattata può dar luogo a
danni anatomici permanenti.
— Psoriasi ungueale: generalmente interessa più unghie a livello di tutte le sue
componenti anatomiche (matrice, letto ungueale e paronichio); il segno più tipico è il
pitting, ovvero depressioni puntiformi che interessano la lamina, ma altrettanto fre-
quenti sono le c.d. “macchie d’olio”, cioè aree di color giallastro sotto il margine libero
della lamina che appare ispessito e friabile; è frequente lo sviluppo di un’artrite
interfalangea distale.
— Psoriasi minima: le lesioni sono numericamente limitate e poco evidenti e si
osserva prevalentemente in età pediatrica.
La psoriasi si presenta spesso in comorbidità con disturbi neuro-psichici, artrite e
malattie infiammatorie intestinali, meno frequentemente con diabete mellito di tipo II,
ipertensione arteriosa, iperlipidemia, malattie cardio-vascolari ed obesità, ovvero con-
dizioni rientranti nel quadro della c.d. “sindrome metabolica”.
Il decorso è estremamente variabile, anche se nella maggior parte dei casi tende ad
essere cronico con alternanza di fasi di riacutizzazione e remissione (ad eccezione della
variante guttata eruttiva, che, una volta risolta, può rimanere silente anche per anni).
La valutazione clinica della gravità della malattia si fonda sull’indice di PASI
(Psoriasis Area and Severity Index), che prevede l’attribuzione di un punteggio alle aree
di eritema, infiltrazione e desquamazione in funzione del distretto anatomico interes-
sato: capo, braccia, tronco e gambe. Il punteggio massimo è pari a 72, che rappresenta
un’eritrodermia grave. Tale indice consente una valutazione complessiva della malattia
ed è particolarmente utile per il follow-up dei soggetti ospedalizzati e per gli studi sulle
terapie.
Il trattamento è in funzione della gravità della malattia: per le forme lievi è
sufficiente l’impiego una terapia topica (emollienti, cherotolitici, derivati della vitamina
D, derivati della vitamina A, ditranolo, inibitori topici della calcineurina e cortisonici)
e l’evitamento di traumi; nelle forme moderate può rendersi necessaria la fototerapia
(UVB a banda stretta, balneo-fototerapia) o la terapia sistemica a base di methotrexate,
acitretina o ciclosporina; infine, nelle forme più severe potrà esserci indicazione
all’impiego di farmaci biologici, quali gli anticorpi monoclonali, e talora all’ospedaliz-
zazione.
17.3. Ustioni
a quelli con una percentuale di lesioni profonde superiore al 10%, oltreché a quei casi
di ustioni di estensione minore che si verificano a carico di bambini di età inferiore ai
18 mesi o di anziani, poiché in questi soggetti l’omeostasi risulta — in termini generali
— molto più fragile. Ne consegue, pertanto, che un’ustione di estensione tale da
produrre in un soggetto adulto solo effetti di tipo locale, nel bambino o nell’anziano può
scatenare una sintomatologia generalizzata cui è connesso un proporzionale aggrava-
mento della prognosi. In questo gruppo di soggetti i danni di tipo ischemico raggiun-
gono una gravità tale da configurare il quadro della “malattia da ustione”, che si
concretizza quando l’ustione cessa di essere un fatto esclusivamente locale e diviene
invece un vero e proprio insulto sistemico che coinvolge tutto l’organismo.
Il danno termico provoca, a livello cutaneo, una risposta flogistica sostenuta da
amine e polipeptidi vasoattivi che, attraverso la dilatazione dei piccoli vasi e l’aumento
della permeabilità capillare, provocano il passaggio di liquidi, elettroliti e proteine dallo
spazio intravascolare a quello extracellulare, con conseguente formazione di flittene e
del c.d. “edema da ustione”. In caso di ustioni estese l’aumento della permeabilità
capillare non è un fenomeno localizzato solo all’area lesa, ma coinvolge l’intero
organismo; la perdita di plasma da parte del letto vascolare viene compensata fino a certi
limiti, superati i quali si instaura una sindrome francamente ipovolemica con presen-
tazione clinica simile a quella dello shock emorragico.
La valutazione della gravità di un’ustione tiene conto di diversi fattori, tra cui
fondamentali risultano l’estensione e la profondità delle lesioni.
L’estensione viene solitamente calcolata con la cosiddetta “regola del 9” (vedi
schema di seguito), secondo la quale ogni distinto segmento corporeo corrisponde al
9% della superficie cutanea o ad un multiplo di esso: viene dunque assegnato il valore
del 9% ad ogni arto superiore ed alla testa; 18% ad ogni arto inferiore e alla superficie
anteriore o posteriore del tronco; alla regione genitale viene assegnato l’1%. La formula
viene leggermente modificata nel bambino per il maggior volume del capo ed il minor
sviluppo degli arti inferiori.
Dopo la primissima fase di ospedalizzazione, solitamente si passa all’utilizzo di
tabelle più complesse che tengono conto delle percentuali esatte rappresentate da ogni
segmento corporeo a seconda dell’età. Nei Centri specializzati Grandi Ustionati, il
riferimento attualmente più utilizzato è quello proposto da Lund e Browder, di seguito
indicato.
L’altro fattore fondamentale per stabilire la gravità di un’ustione è la profondità
delle lesioni, in base alla quale le ustioni possono essere suddivise in:
a) epidermiche o di I grado: interessano solo l’epidermide; macroscopicamente
sono caratterizzate da edema ed eritema diffuso, mentre a livello microscopico si
osservano picnosi cellulare e congestione del derma, che tendono a scomparire in pochi
giorni, dando desquamazione dell’epidermide;
b) dermiche o di II grado: interessano l’epidermide e il derma e sono caratte-
rizzate dalla formazione di flittene. Si suddividono a loro volta in:
— superficiali, se interessano la parte superficiale del derma; sono dolorose, e
guariscono senza esiti cicatriziali;
— profonde, quando interessano la zona profonda del derma che contiene i
follicoli piliferi e le ghiandole sudoripare; non sono dolorose e guariscono spesso con
cicatrici ipertrofiche.
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dall’evento, è uno dei più critici per il soggetto ustionato e la qualità della prognosi a
breve e lungo termine dipende molto dal trattamento a cui il soggetto è stato sottoposto
proprio in questa prima fase del decorso. Il ritardo nella correzione dell’ipovolemia, da
attuarsi mediante adeguata terapia infusionale reidratante, può dare luogo a lesioni di
organi vitali con drastico peggioramento prognostico.
2. Fase subacuta o tossinfettiva: inizia all’incirca dopo 48 ore dall’ustione ed è
dovuta al riassorbimento di sostanze tossiche dai tessuti necrotici, con conseguente
danno a livello epatico e di altri parenchimi. Al tempo stesso la compromissione del
sistema immunitario favorisce le complicanze infettive a carico delle aree ustionate.
3. Fase cronica o distrofico-dismetabolica: si manifesta con calo ponderale (dovuto
ad iperattività metabolica) ed aggravamento dell’ipoproteinemia, che possono portare a
scompenso funzionale dei principali organi vitali, manifestandosi con il quadro della
disfunzione multiorgano (MOF).
Per quanto riguarda il trattamento locale delle zone ustionate, le procedure
immediate consistono nella pulizia delle superfici con soluzioni detergenti e disinfet-
tanti. I primi provvedimenti terapeutici si concludono con l’immunoprofilassi antiteta-
nica ed una eventuale terapia analgesica e sedativa.
Le ustioni a tutto spessore circonferenziali o a 3/4 di cerchio degli arti, torace e
collo creano una cotenna spessa poco espansibile; l’edema che si forma nei tessuti
sottostanti causa un aumento di pressione che blocca dapprima il deflusso venoso e
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quindi l’afflusso arterioso, con conseguente necrosi ischemica dell’arto o di una sua
porzione. In altre sedi, collo e torace, le ustioni profonde circonferenziali provocano,
oltre alla compressione vascolare, anche pressione sulla trachea ed ipomobilità della
cassa toracica con gravissimi disturbi respiratori. In tutti questi casi è indispensabile —
già nelle primissime ore — eseguire delle incisioni a tutto spessore della cotenna
necrotica con bisturi — le c.d. “escarotomie di decompressione” — fino al tessuto sano,
creando così lo spazio necessario alla espansione progressiva del tessuto sottostante.
A livello locale due tipi di trattamento si sono alternati con maggiore o minore
successo nei vari decenni: il trattamento esposto e quello occlusivo. Se si dispone di
ambienti appositi nei quali è possibile sterilizzare, riscaldare, umidificare l’aria, è
indicato il trattamento esposto di queste lesioni, che vengono cioè lasciate scoperte e
deterse mediante lavaggi o balneazioni in soluzioni medicate. Ciò ha diversi vantaggi:
evitare il trauma conseguente alle ripetute medicazioni, consentire una precoce mobi-
lizzazione delle articolazioni, favorire il disseccamento delle escare facilitando la loro
demarcazione e limitando le perdite idriche delle piaghe. Il trattamento alternativo a
quello esposto consiste nel separare dall’ambiente esterno le superfici ustionate, e viene
effettuato mediante copertura e bendaggio, coadiuvato da impacchi in soluzioni disin-
fettanti.
Mentre le ustioni superficiali evolvono verso la guarigione per riepitelizzazione, le
lesioni profonde necessitano di un approccio terapeutico di tipo chirurgico, che può
essere di due tipologie: il primo, ormai quasi esclusivamente riservato a soggetti non in
grado di sopportare l’ulteriore stress di un intervento chirurgico precoce, è costituito
dall’attesa della demarcazione spontanea delle zone necrotiche e della apposizione
successiva di innesti sulle superfici granuleggianti; il secondo, impiegato nella maggior
parte dei soggetti, è quello della escissione precoce dei tessuti necrotici seguita dalla
copertura con innesti.
supina o seduta e che non vengano mobilizzati per lungo tempo, tenendo presente che
anche il grado di tolleranza individuale è fondamentale nell’insorgenza e nell’aggrava-
mento di tali lesioni. Fattori favorenti sono le sollecitazioni di taglio, la frizione,
l’umidità della cute, la disidratazione cutanea e la riduzione del tessuto sottocutaneo; a
ciò si aggiungono le condizioni che ostacolano l’efficienza del trasporto di ossigeno o
rendono difficile la cicatrizzazione. Per tali motivi i fattori di rischio per lo sviluppo
delle ulcere da decubito, oltre all’immobilizzazione, comprendono l’incontinenza uro-
fecale, la malnutrizione, la disidratazione, l’anemia, i disturbi cognitivi e la riduzione
della sensibilità periferica, il decadimento delle condizioni generali (i soggetti cachettici
sono particolarmente a rischio) e la ridotta percezione del dolore. Inoltre patologie
cardio-vascolari croniche e difetti nutrizionali possono incrementare il rischio in quanto
causano un ridotto apporto di ossigeno e sostanze nutrienti per i tessuti.
L’ipoperfusione persistente e il danno correlato all’applicazione di una pressione
esterna a carico dello strato più superficiale della cute esitano in un’area circoscritta di
eritema e tumefazione. In questa fase il danno può essere ancora reversibile rimuovendo
la causa dell’eccessiva compressione cutanea.
Più schematicamente, le lesioni da decubito vengono classificate in base alla
profondità dell’interessamento cutaneo e dei suoi annessi come segue:
— Grado I: eritema persistente a cute intatta, che non recede alla digitopressione
locale; talora depigmentazione, calore, edema e tumefazione possono essere indicatori
precoci di lesione.
— Grado II: perdita parziale di spessore cutaneo che coinvolge epidermide o
derma; la lesione è superficiale e si presenta come un’abrasione, una vescicola o un
cratere superficiale.
— Grado III: perdita di cute a tutto spessore, con danno o necrosi del tessuto
sottocutaneo, che si estende fino alla fascia sottostante senza però attraversarla e senza
coinvolgere la fascia muscolare. La lesione si presenta sottoforma di cratere profondo
associato o meno a tessuto adiacente sottominato.
— Grado IV: perdita di cute a tutto spessore con estesa distruzione della stessa,
necrosi tissutale, danno al tessuto muscolare, al tessuto osseo o alle strutture di sostegno
sottostanti (tendini, capsula articolare, etc.).
Il trattamento delle lesioni da decubito dipende ovviamente dal grado della lesione
ed il suo obiettivo talvolta dovrà limitarsi ad un miglioramento della qualità di vita e non
necessariamente alla guarigione. Oltre alla valutazione clinica del soggetto e dello stato
dell’ulcera, è necessario porre l’attenzione all’identificazione delle complicanze even-
tualmente presenti (batteriemie/sepsi, osteomielite, fistole perineo-uretrali, tratti cavi o
ascessi, infestazioni da larve di mosca, carcinoma epidermoide delle lesioni, effetti
sistemici da trattamento e amiloidosi).
L’obiettivo principale della terapia di una ulcera da decubito è lo scarico della
pressione stessa, per cui è necessario il posizionamento del paziente su superfici
antidecubito adeguate, oltrechè il miglioramento della nutrizione e dell’igiene rappre-
sentano provvedimenti di solito di per sé sufficienti.
Il trattamento topico di questo tipo di lesioni prevede lo sbrigliamento del tessuto
devitalizzato, se presente sul fondo della lesione, la gestione della carica batterica
mediante l’uso di medicazioni avanzate antisettiche ed eventuali antibiotici sistemici in
caso di segni clinici di infezione. Obiettivo fondamentale della terapia è il mantenimento
di un ambiento umido a livello dell’interfaccia tra medicazione e letto della ferita, il
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Per una adeguata valutazione del danno si devono tener presenti le varie funzioni che
la cute ed i suoi annessi esercitano: funzioni di protezione, intesa in senso fisico, chimico
e biologico (copertura del corpo, protezione dai traumi, barriera di difesa dalle perdite
di liquidi, difesa immunobiologica), di regolazione termica, di controllo idrosalino e di
sensibilità superficiale. Si dovrà inoltre tenere conto del coesistente pregiudizio estetico.
La possibilità di identificare le dermatopatie sulla base delle differenti lesioni
elementari primitive non esclude che lesioni apparentemente identiche sottendano in
realtà patologie di natura completamente diversa, da qui la essenzialità di accertamenti
istologici per dirimere una diagnostica differenziale altrimenti impossibile o comunque
ingannevole se impostata su un piano squisitamente clinico.
Ai fini valutativi dovranno essere considerati principalmente i seguenti fattori:
1. Caratteristiche fisiopatologiche specifiche della dermopatia: devono essere con-
siderate attentamente l’eziopatogenesi (estremamente importante, ad es., per le derma-
topatie eczematose da contatto e/o costituzionali), la presenza o meno di disturbi
funzionali (locali o sistemici) e la naturale storia evolutiva, compresa, ovviamente,
l’eventuale prognosi infausta. È necessario tenere ben presente che molteplici patologie
dermatologiche sono caratterizzate da un cronicità biologica “intrinseca”, con una
risposta alla terapia estremamente soggettiva ed una periodicità clinica quasi fuori da
ogni controllo. Ciò comporta altresì una attenta valutazione della qualità della vita nelle
sue differenti componenti esistenziali.
2. Necessità o meno della terapia, dalla sua efficacia, intesa sia come procedimento
già in essere e quindi valutabile, sia come possibilità, secondo le attuali conoscenze, di
controllare la sintomatologia, modificare il decorso naturale della malattia ovvero
incidere sulla prognosi.
3. Pregiudizio estetico: i caratteri morfologici delle dermatopatie, assumendo di
volta in volta aspetti diversi, dovranno essere accuratamente descritti, tenendo conto,
come già detto, del naturale evolversi delle lesioni e di quanto le stesse possano trovare
beneficio dalla terapia.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La percentuale di danno derivante dagli esiti delle lesioni che caratterizzano le dermopatie viene espressa
sulla base di quattro parametri fondamentali: estensione della affezione cutanea e relativo pregiudizio
estetico che ne deriva; eventuale sintomatologia associata; necessità o meno del trattamento e sua efficacia;
ripercussioni sullo stato generale del soggetto, anche in relazione ad una eventuale patologia sistemica
associata, onde evitare possibili duplicazioni valutative; limitazione delle attività quotidiane.
L’eventuale patologia sistemica associata (artropatie, nefropatie, collagenopatie, etc.) deve essere valutata
indipendente dalla menomazione dovuta alle sole manifestazioni cutanee.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Le dermopatie che producono menomazione dell’integrità psico-fisica al di sopra della percentuale
indicativa del 50% sono relativamente rare. Esse confluiscono in quadri clinici di gravissima compromis-
sione dello stato generale, vale a dire in patologia sistemica la cui valutazione va oltre quella propria della
patologia cutanea.
Dermopatie. Stadio I 5-20%
Alterazioni cutanee circoscritte con compromissione dell’efficienza estetica che non vada
oltre quella prevista nella II Classe di danno della funzione estetica; sintomatologia assente
o molto lieve e saltuaria (prurito, desquamazione, bruciore); trattamento farmacologico o
topico moderato e necessario solo in fase di acuzie; nessuna compromissione dello stato
generale del soggetto né limitazione delle attività quotidiane.
Possono rientrare in questo stadio: dermopatie neoplastiche benigne (nevi giganti, cheratosi
seborroica, adenomi sebacei), modesto eczema atopico o allergico da contatto, genoderma-
tosi circoscritte, psoriasi volgare circoscritta, vitiligine, lichen ruber planus.
Dermopatie. Stadio II 21-30%
Alterazioni cutanee circoscritte con compromissione dell’efficienza estetica che raggiunga
quella prevista nella III Classe di danno alla funzione estetica; sintomatologia associata
frequente e rilevante (notevole prurito, desquamazione, bruciore, saltuarie superinfezioni
e/o ulcerazioni); moderata compromissione dello stato generale del soggetto; patologia
sistemica associata assente o, se presente, di moderata entità; trattamento farmacologico o
topico necessario pressochè costantemente ma con risultati positivi; apprezzabile interfe-
renza sulle attività quotidiane.
Possono rientrare in questo stadio: dermatopatie neoplastiche maligne a basso grado di
malignità (linfomi cutanei); severo e diffuso eczema atopico o allergico da contatto,
genodermatosi diffuse (ittiosi), pemfigoide, psoriasi volgare estesa.
Dermopatie. Stadio III 31-40%
Alterazioni cutanee estese con rilevante compromissione dell’efficienza estetica; sintomato-
logia associata rilevante e pressochè costante (prurito incoercibile, gravi e frequenti supe-
rinfezioni, ulcerazioni, anidrosi); trattamento farmacologico e/o topico costantemente ne-
cessario pressochè e con risultati modesti; grave compromissione dello stato generale del
soggetto; patologia sistemica associata presente e di significativa entità; rilevante interferenza
sulle attività quotidiane.
Possono rientrare in questo stadio: pemfigo sotto controllo terapeutico, genodermatosi
estese con compromissione sistemica (s. di Recklinghausen, s. di Pringle-Bourneville);
psoriasi eritrodermica.
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Capitolo 18
NEOPLASIE
18.1. Premessa
terapeutici, che rende ogni giudizio contingente rispetto al tempo di accadimento dei
fatti di interesse medico-legale.
Tutto ciò rende indispensabile una stretta collaborazione tra medico legale e
oncologo.
Negli ultimi 30 anni l’oncologia ha potuto usufruire di notevoli progressi nella
comprensione delle basi molecolari del cancro, anche se non in tutti i casi queste
conoscenze si sono tradotte in significativi benefici clinici. I risultati della ricerca clinica
applicata hanno inoltre consentito di determinare profili prognostici e di predizione di
risposta terapeutica, nonché di tossicità ai trattamenti antitumorali anche all’interno
della medesima tipologia tumorale, andando verso l’individualizzazione delle cure.
Queste acquisizioni, trasferite nell’ambito della Medicina Legale, possono consen-
tire di inquadrare correttamente il danno biologico e la perdita di chance, valutando i
casi nella loro singolarità, come delineata dai diversi profili biologici del singolo tumore
in quello specifico individuo, evitando inappropriate generalizzazioni.
Ad esempio, uno stesso stadio di carcinoma mammario in un soggetto con età e
comorbidità sovrapponibili ad un altro non riflette la stessa probabilità di sopravvivenza
se vi è diversità nelle caratteristiche biologiche molecolari delle cellule tumorali. Così,
un carcinoma mammario stadio I, di tipo luminal A, ha una prognosi più favorevole di
un carcinoma sempre in stadio I ma basal like.
Naturalmente la stadiazione (staging) della malattia secondo il sistema TNM
(attualmente alla VII edizione e prossimo ad un aggiornamento nell’autunno del 2015),
rappresenta il riferimento fondamentale per la definizione della estensione del tumore
e la base per la maggior parte dei tumori, della pianificazione dei trattamenti antitu-
morali, nonché per stabilirne la prognosi.
È opportuno distinguere se la stadiazione è riferita alla fase pre-trattamento, cioè
alla stadiazione clinica (cTNM), che si basa sul risultato dell’esame obiettivo, degli
esami strumentali, bioptici e di laboratorio, oppure se è riferita alla stadiazione
patologica (pTNM), ottenuta dall’esame istologico definitivo sul campione chirurgica-
mente asportato.
La classificazione post-trattamento è indicata come yTNM e documenta l’esten-
sione della malattia valutata durante, o dopo, un trattamento neoadiuvante chemiote-
rapico e/o radioterapico o multimodale; essa è ulteriormente definita con i suffissi “c”
o “p” (ycTNM o ypTNM), dipendentemente dall’effettuazione della stadiazione prima
o dopo l’ottenimento dell’istologia definitiva. Tale stadiazione rappresenta un indicatore
fondamentale per guidare la successiva strategia terapeutica e per formulare utili
indicazioni prognostiche.
Il parametro pT può essere accompagnato dal suffisso “m”, esempio pT(m), ad
indicare la presenza di tumori primari multipli in un singolo sito.
Il parametro R identifica l’assenza, o la presenza, di tumore residuo dopo il
trattamento chirurgico. In alcuni casi trattati con chirurgia e/o terapia neoadiuvante è
possibile che vi sia tumore residuo nel sito primario per incompleta resezione o per
l’estensione della malattia oltre la materiale possibilità di asportazione chirurgica. In
dettaglio, R0 indica l’assenza di tumore residuo; R1 la presenza di residuo tumorale
microscopico e R2 la presenza di residuo tumorale macroscopico. Soltanto R0 corri-
sponde ad una resezione con buon successo terapeutico, mentre per le categorie R1-R2
la prognosi è da considerarsi sfavorevole.
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NEOPLASIE 621
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non corrisponde ad una diagnosi precoce e ad una prognosi favorevole, a motivo delle
già richiamate influenze della cinetica tumorale, alle caratteristiche genetico-molecolari
della cellula neoplastica e del microambiente nel quale il tumore si è sviluppato (3).
Si deve a tal proposito sottolineare che la mancata conoscenza della cinetica
tumorale può portare a conclusioni errate laddove si debba definire l’importanza di un
ritardo diagnostico in un contesto peritale medico-legale.
Per taluni tumori caratterizzati da alta probabilità di disseminazione ab-initio, come
ad es. quelli del testicolo, o perché ad esordio sistemico come le leucemie, le possibilità
di cura non sempre sono invariabilmente proporzionate alla precocità della diagnosi, ma
piuttosto alla sensibilità delle cellule tumorali ai trattamenti oncologici.
Esistono almeno tre tumori nei quali la precocità della diagnosi si traduce invece in
un consistente successo terapeutico: il melanoma, il carcinoma della cervice uterina e il
carcinoma mammario. In questi tumori si sommano due specifici requisiti: il primo è
quello di un lungo periodo di latenza nella fase di lesione pre-invasiva (nevi displasici,
carcinoma in situ della cervice ed intra-duttale della mammella) e il secondo è la
possibilità di diagnosi relativamente agevole in tale fase.
Va inoltre precisato che l’importanza di un ritardo diagnostico è anche legata al sito
tumorale e allo stadio nei quali il cancro si manifesta: ad es., un ritardo diagnostico di
tre mesi per un carcinoma mammario sintomatico è correlabile ad un impatto progno-
stico negativo sulla sopravvivenza a 5 anni del 12% (4); la sopravvivenza per il
carcinoma del colon varia dal 90% al 15%, a seconda dello stadio (da iniziale a
metastatico), ipoteticamente in relazione ad un errore o a un ritardo diagnostico (5). Di
conseguenza, è affermabile una perdita di chance, che deve essere peraltro quantitati-
vamente definita in base ai criteri precedentemente esposti per le variabili intrinseche di
ogni tipologia tumorale.
Di converso, un ritardo diagnostico in un carcinoma ovarico sintomatico ha minor
rilevanza in termini prognostici (6) e un’anticipazione di recidiva di carcinoma ovarico
in pazienti asintomatiche non impatta sulla prognosi (7).
È noto che la prognosi oncologica è valutata per la maggior parte dei tumori a 5
anni. Tale indice ha però delle limitazioni e non sempre può essere assunto come soglia
superata la quale, se il paziente vi è giunto indenne, possa ritenersi statisticamente fuori
pericolo di recidiva. La soglia di 5 anni è con maggior attendibilità assimilabile ad un
buon esito terapeutico per alcuni tumori ematologici o per il tumore non-seminomatoso
del testicolo, che rappresentano neoplasie ad alta frazione di crescita; lo è invece molto
meno per il carcinoma della prostata, della mammella o del colon. Si tratta di una soglia
che deve essere correttamente intesa, soprattutto in ambito medico-legale, soltanto
(3) MINN A.J., MASSAGUE J., Invasion and Metastasis, in DE VITA V.T., LAWRENCE T.S., ROSEMBERG S.A.
Principle & Practice of Oncology, 9th ed., Lippincott & Wilkins, Philadelphia, 2011.
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Infine, per i tumori solidi si deve far riferimento agli esiti chirurgici dell’asporta-
zione o alla compromissione anatomo-funzionale dell’organo interessato, condizioni che
sono commisurabili in base ai classici criteri valutativi medico-legali.
Per quanto riguarda le patologie neoplastiche ematologiche, si ritiene utile deli-
nearne sinteticamente gli aspetti clinici e prognostici più attuali di quelle principali, con
specifico riguardo per una razionale definizione dei relativi indicatori prognostici.
(12) https://www.adjuvantonline.com/online.jsp
(13) http://www.predict.nhs.uk/predict.html
(14) KARNOFSKY D.A. et al., The Clinical Evaluation of Chemotherapeutic Agents in Cancer, in MacLeod
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La leucemia acuta linfoblastica rappresenta circa il 75-80% delle leucemie acute nel
bambino e approssimativamente il 20% di quelle dell’adulto. Le cause più importanti
sono quelle legate all’esposizione a chemioterapici o a radiazioni, all’età avanzata (>70
anni) e ai disordini genetici, come la sindrome di Down. Le potenzialità di cura sono
notevolmente migliorate negli ultimi anni soprattutto nei bambini, nei quali la soprav-
vivenza globale a 5 anni è dell’88-89%. Negli adulti, invece, la prognosi è più severa,
essendo state stimate sopravvivenze a 5 anni di circa il 24% nei soggetti con età
compresa tra 40-59 anni, ma ancora più ridotta, fino al 17,7%, nei soggetti di età
compresa tra 60 e 69 anni (22), (23).
La classificazione di queste emopatie fa riferimento alla WHO 2008 (24).
Il mieloma multiplo è una neoplasia maligna delle plasmacellule che si accumulano
nel midollo osseo, comportando un’insufficienza midollare e la distruzione del tessuto
osseo. È prevalentemente una malattia dell’anziano (75% > 70 anni d’età), che non è
considerata, a tutt’oggi, guaribile, nonostante i progressi terapeutici stiano dando
promettenti risultati. È una malattia eterogenea, il cui trattamento deve essere adattato
ad ogni singola situazione. La malattia è inizialmente classificata come asintomatica
(smoldering myeloma) o sintomatica attiva in base a precisi criteri laboratoristici e clinici
internazionalmente definiti “CRAB” da: C-calcio elevato; R-disfunzione renale; A-
anemia; B-lesioni dell’osso. I pazienti con malattia attiva sono ulteriormente stratificati
in base allo stadio secondo Durie & Salomon, o secondo il più attuale International
Staging System (ISS).
Anche nel caso del mieloma multiplo la presenza di alterazioni cromosomiche
permette di definire delle classi di rischio citogenetico: la delezione del cromosoma 13
e del cromosoma 17 configurano una condizione di alto rischio, che si correla ad una
breve durata della sopravvivenza (25). Nei pazienti più giovani (<65 anni) candidabili al
trapianto di cellule staminali, che incorpora nei protocolli anche nuovi farmaci, si
ottengono sopravvivenze a 7 anni variabili dal 25% al 43% (26).
Un capitolo importante delle emopatie è quello dei linfomi Hodgkin (LH) e
Non-Hodgkin (LNH).
Per il LH si adotta il sistema classificativo WHO già menzionato24, relativamente
più semplice di quello utilizzato per i LNH. Esso distingue il LH a seconda delle
caratteristiche cellulari in 2 tipi principali: il LH-classico e il LH a predominanza
linfocitaria nodulare; la prevalenza del primo è nettamente superiore (95% versus 5%).
A sua volta, la forma classica è suddivisa in base ad ulteriori caratteristiche cellulari ed
architetturali in quattro sottotipi: a sclerosi nodulare, a cellularità mista, a deplezione
linfocitaria e ricco in linfociti. L’elemento distintivo è la presenza di cellule di Reed-
Stemberg in un substrato infiammatorio. Nella varietà di LH a predominanza linfoci-
(22) MA H. et al., Survival improvement by decade of patients aged 0-14 years with acute lymphoblastic
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NEOPLASIE 629
tamente insieme con i segni radiologici; tuttavia, possono residuare danni neurologici
irreversibili.
La regola fondamentale cui attenersi quando si debba valutare in sede medico-le-
gale un caso oncologico nell’ipotesi di un danno biologico o di una perdita di chance,
consiste nel tener conto dello stato dell’arte in essere all’epoca del fatto di rilevanza
giuridica; si deve poi vagliare accuratamente se il caso in esame sia caratterizzato da
aspetti istologici e profili biologici cellulari affidabilmente assimilabili alla casistica che
si assume come riferimento. Per fare alcuni esempi, nel valutare un caso di carcinoma
tiroideo papillare, per lo più caratterizzato da ottima prognosi, occorre ricercare anche
la presenza, o l’assenza, di analogie cellulari dei vari sottotipi meno frequenti rispetto
alla casistica di riferimento. Se lo stadio è iniziale la sopravvivenza è mediamente di oltre
il 99% a 5 anni; tuttavia, se è presente la variante ad alte cellule, si vanifica il confronto
con la casistica di riferimento. Questo sottotipo istologico identifica infatti una neopla-
sia particolarmente rara e connotata da elevata aggressività, in ordine alla quale sono
disponibili, in letteratura, dati molto scarsi e, pertanto, difficilmente trasferibili al caso
in esame. Vi è inoltre da tener conto che le strategie diagnostico-terapeutiche si
modificano talora rapidamente nel volgere di pochi anni (32). Un altro esempio è
rinvenibile nel carcinoma mammario invasivo definito “triplo negativo” (negatività per
i recettori di estrogeni e di progesterone e per l’oncogene cerb-B2), nel quale la presenza
della variante a cellule “pleomorfe” definisce una particolare rarità (0,1% dei carcinomi
mammari), che si correla ad una connotazione prognostica ancor più negativa di quella
posseduta dall’ istotipo “triplo negativo” (33). Anche in questo caso le casistiche in
letteratura sono estremamente rare ed è arduo predire attendibilmente l’andamento
prognostico.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Come già precisato nella premessa, la valutazione medico-legale deve conformarsi a due criteri principali:
la percentualizzazione nei casi di danni anatomo-funzionali tumore-correlati, ove il tumore sia derivato da
responsabilità di terzi; la perdita di chance in caso di ritardo diagnostico, eventualmente integrata da
percentualizzazione, se il ritardo ha comportato anche danni anatomo-funzionali altrimenti evitabili.
La stima del danno da neoplasia deve essenzialmente basarsi sui presupposti clinici precedentemente
richiamati, prendendo nella dovuta considerazione lo stadio in cui essa è stata diagnosticata, la sua
intrinseca aggressività, il risultato e la tossicità correlati trattamento, la qualità di vita, commisurata ai deficit
funzionali, nonché le prospettive quoad vitam.
Alterazioni pre-cancerose efficacemente trattate, in assenza o con lievi ripercussioni 1-10%
clinico-funzionali
Es.: biopsia escissionale di nevo displastico, conizzazione neoplasia pre-invasiva della cervice
uterina, escissione endoscopica di polipo adenomatoso del colon di grossa dimensione, etc.
Neoplasie maligne efficacemente trattate mediante chemio-, radio- ormonoterapia e/o 11-20%
chirurgia radicale, con prognosi favorevole a 5 anni, con moderate ripercussioni anatomo-
funzionali
Soggetti in grado di svolgere la maggior parte delle attività abituali, comprese quelle proprie
dell’ambito relazionale e lavorativo.
Es: tumorectomia per carcinoma mammario intraduttale o invasivo al I stadio, trattato con
(32) JALISI S. et al., Prognostic Outcome of tall cell variant papillary thyroid cancer: a meta-analysis,
Journal of Thyroid Research, 2010
(33) SILVER S.A., TAVASSOLI F.A., Pleomorphic carcinoma of the breast: clinicopathological analysis of 26
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
chirurgia conservativa, resezione intestinale per carcinoma del grosso intestino al I stadio,
melanoma maligno al IA stadio, etc.
Neoplasie maligne non metastatizzate con prognosi sfavorevole a 5 anni nonostante il 21-35%
trattamento medico e/o chirurgico già espletato, con rilevanti ripercussioni anatomo-
funzionali
Soggetti in grado di svolgere efficacemente le ordinarie attività quotidiane, ma con moderata
limitazione per quelle proiettate nel contesto relazionale e lavorativo, con necessità di
controlli e cure, sostanzialmente ben tollerate.
Es.: carcinoma mammario sottoposto a chirurgia demolitiva radicale ± complicato da
linfedema, carcinoma mammario al III stadio o istologia sfavorevole, carcinoma del grosso
intestino al III stadio con colostomia, carcinoma del polmone al I-II stadio, etc.
Neoplasie maligne non metastatizzate con prognosi sfavorevole a 5 anni in attualità di 36-55%
trattamento con gravi ripercussioni anatomo-funzionali, anche in relazione agli effetti
collaterali delle terapie
Soggetti in grado di svolgere parzialmente le ordinarie attività quotidiane con rilevante
limitazione nel contesto relazionale e lavorativo.
Es.: carcinoma dell’esofago T2-T3N0, carcinoma della vescica con diversione esterna
urinaria al III-IV stadio, non metastatizzato, epatocarcinoma allo stadio C (Barcellona),
carcinomi della laringe loco-regionali in stadio avanzato sottoposti a laringectomia, etc.
Neoplasie maligne metastatizzate, o recidivate a distanza, scarsamente controllabili me- 56-80%
diante terapia medica e/o chirurgia, con prognosi infausta e sopravvivenza limitata a
mesi-anni
Trattasi di soggetti non in grado di svolgere gran parte delle attività inerenti l’auto-
accudimento e quelle proiettate nel contesto relazionale e lavorativo, in ragione sia del
progredito deterioramento psico-fisico, sia della necessità continua di controlli e cure fino
alla ospedalizzazione.
Es.: mieloma multiplo refrattario alle cure, carcinoma del colon al IV stadio con metastasi
epatiche o polmonari non operabili, melanoma maligno metastatico a livello viscerale,
carcinoma mammario metastatico a livello viscerale pluritrattato, etc.
Neoplasie maligne diffusamente metastatizzate, o recidivate, non più suscettibili di trat- 81-100%
tamenti antitumorali, ma soltanto di supporto e palliativi
Trattasi di soggetto non in grado di svolgere né le attività inerenti l’auto-accudimento, né
quelle proiettate nel contesto relazionale e lavorativo, in ragione sia del severo deteriora-
mento psico-fisico, sia della necessità di controlli e cure continue comprendenti cure in
regime di ricovero o comunque di degenza a letto.
Es.: carcinoma del pancreas metastatizzato, carcinoma polmonare pluritrattato metastatiz-
zato, linfoma maligno a grandi cellule plurirecidvato e pluritrattato, anche con chemio-
immunoterapia ad alte dosi, etc.
BIBLIOGRAFIA
Si riporta di seguito la bibliografia di pertinenza medico-legale, mentre quella di natura specialistica
è indicata nel testo.
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