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LINEE GUIDA PER LA VALUTAZIONE DEL DANNO ALLA PERSONA IN AMBITO CIVILISTICO
LINEE GUIDA
PER LA VALUTAZIONE
DEL DANNO
ALLA PERSONA
IN AMBITO CIVILISTICO
ISBN 978-88-14-21210-9
E 00,00
024193653 9 788814 212109
CURATORI
FABIO BUZZI RANIERI DOMENICI
COMITATO EDITORIALE
GIORGIO BOLINO PIERGIORGIO FEDELI LUIGI PAPI
SEGRETERIA SCIENTIFICA
GLORIA LUIGIA CASTELLANI
SENIOR CONSULTANTS
LUIGI PALMIERI GIANCARLO UMANI RONCHI
LINEE GUIDA
PER LA VALUTAZIONE
DEL DANNO
ALLA PERSONA
IN AMBITO CIVILISTICO
ISBN 9788814212109
PARTE GENERALE
PARTE SISTEMATICA
CAPITOLO 18 - NEOPLASIE
18.1. Premessa ...............................................................................................619
18.2. Metodologia valutativa .............................................................................619
APPENDICE
Tabella riepilogativa dei valori percentuali .............................................................633
Indice analitico ....................................................................................................679
GLI AUTORI
Prende la luce un’opera attesa, da quando nel Congresso nazionale della SIMLA che
si tenne a Riccione nel 2001 l’assemblea dei partecipanti formulò una complessa e nitida
definizione del danno biologico, nuovo genus di danno alla persona considerata nella sua
più ampia dimensione di socialità non più compressa nei soli aspetti di rendimento
lavorativo, e si impegnò ad elaborare un suo proprio strumento tabellare per
correttamente valutarlo, in coerenza con il suo ruolo istituzionale di promozione e tutela
della cultura medico legale a livello scientifico, legislativo, socio-sanitario e
professionale.
Erano gli anni di grande fervore concettuale (ed in parte ancora lo sono) per una
compiuta definizione della dottrina del danno biologico, che sul versante medico-legale
deve la sua paternità alla felice intuizione del Gerin ed in seguito si è arricchito di
contributi assai numerosi e qualificati, ma non sempre consonanti, di cultori del diritto e
di medicina legale.
In tale contesto, come ricordato da Buzzi, Domenici e Palmieri in queste prime
pagine, Marino Bargagna (cui va il mio personale grato ricordo) coordinò un ampio
gruppo di medici legali, non solo della sua scuola pisana, nella produzione, sotto l’egida
della Società, di una prima “Guida orientativa”, che fu poi rivista, ampliata ed affinata in
due successive edizioni.
Dopo una pausa di assestamento in cui la creatrice giurisprudenza di legittimità più
volte è intervenuta per rimodellare contenuti ontologici, collocazioni giuridiche, confini e
rapporti del danno biologico (non più, infine, identificato nel danno alla salute) rispetto
ad altre forme di danno alla persona, la Società maturò l’esigenza di un sostanziale
rinnovamento della “Guida orientativa per la valutazione del danno biologico” sicché si
rimise in moto un più ampio gruppo di lavoro per la realizzazione del progetto
pervenendo alla elaborazione del nuovo strumento valutativo, in continuità di rapporto
con la precedente “Guida” ma ancor più nitidamente e per molti versi originalmente
impostato nei nuovi termini di “Linee Guida per la valutazione del danno alla persona in
ambito civilistico” per le indicazioni di comportamento valutativo contenute.
Nell’ottobre del 2015, il Consiglio Direttivo della Società, che già in precedenti
sedute aveva discusso degli aspetti editoriali dell’opera, ne approvò definitivamente la
stampa, a cura della Casa editrice Giuffrè (storicamente vicina alla SIMLA per averne sin
dal 1979 pubblicato la rivista ufficiale).
Anche per questo aspetto si è trattato di un forte salto di qualità sostanziale in quanto
la Società, attraverso il suo Consiglio direttivo, ha recepito integralmente il lavoro
compiuto e lo propone come espressione del proprio pensiero scientifico, non più
semplicemente come opera patrocinata.
Come tale sono orgoglioso di presentarlo, a nome e con soddisfazione dell’intera
Società, consapevole di offrire a quanti hanno a cuore il prestigio e la dignità della
disciplina uno strumento estremamente valido e altamente qualificato nella realizzazione
della sua mission: applicare correttamente alle esigenze del diritto argomenti e
problematiche di natura biomedica.
L’aspetto più innovativo di questo prodotto culturale è la sua strutturazione in
“Linee Guida” e non semplicemente come tabella, vale a dire uno strumento di
suggerimento prioritariamente metodologico improntato ad aggiornate conoscenze per
poter pervenire ad una stima ragionata del danno alla persona, inteso quale menomata
efficienza psico-fisica comprensiva degli aspetti dinamico-relazionali comuni a tutti,
sganciata in consistente misura da personali soggettivismi privi o carenti di adeguati
supporti scientifici.
La finale espressione percentualistica del danno permanente costituisce una
ineludibile necessità (tanto più in un’epoca in cui gran parte della comunicazione dei dati
è strutturata su algoritmi numerici), ma sui tassi di danno non supportati da idonee
considerazioni relative a contesti etiopatogenetici, clinici e terapeutici grava fatalmente
l’alea della arbitrarietà che ne pone in discussione correttezza di formulazione ed
attendibilità. Le “Linee Guida” in oggetto ridimensionano questo pericolo perché la
finale espressione percentuale scaturisce da un percorso valutativo ragionato secondo la
forza della evidenza scientifica.
Le percentuali di danno biologico possono mutare nel tempo in riferimento a
sopraggiunte acquisizioni sul significato menomativo di una condizione morbosa o dei
suoi postumi ma se vi è una soggiacente criteriologia di inquadramento diagnostico di
una malattia o di suoi esiti tale rischio, nel complesso, si riduce assumendo maggiore
affidabilità la valutazione, sicché tanto è più valido uno strumento di stima del danno
quanto più consistente è il nucleo di considerazioni scientifiche che ha portato alle
specifiche espressioni percentuali.
La strutturazione delle “Linee Guida” è impostata per funzioni, sia per evitare
l’equivoco che la medicina legale valuti soltanto il danno biologico statico, sia per
conferire il dovuto risalto agli aspetti dinamico-relazionali, propri della definizione
normativa, oltre che dottrinale, di questo.
Vi compaiono interi capitoli di carattere metodologico generale ed altri dedicati a
nocumenti alla persona non percentualizzabili, ma comunque di attuale rilievo, specie per
la valutazione del danno iatrogeno.
La necessità di dar risalto agli aspetti dinamico-relazionali ha reso indispensabile
l’introduzione di modifiche ad alcuni tassi percentuali non più attuali (ad esempio, per i
danni di natura estetica, sensoriale, sessuale e riproduttiva), mentre altri parametri
vengono mantenuti identici o molto vicini a quelli tradizionalmente utilizzati,
segnatamente per quanto riguarda le c.d. piccole invalidità permanenti.
Alla medesima necessità va riferito l’inserimento di nuove indicazioni, ad esempio
per quanto riguarda le condizioni dolorose, i disturbi del sonno, la quantificazione del
danno nell’età evolutiva e in quella avanzata.
Va peraltro sgombrato il campo da un possibile equivoco: le “Linee Guida” non
intendono esprimere valori di danno biologico alternativi o sostitutivi di quelli già
indicati in tabelle il cui impiego, con attinenza al danno biologico, è previsto per legge
(ci si riferisce in particolare alla “tabella delle menomazioni” di cui al D.M. del 12 luglio
2000 e alla “tabella delle menomazioni alla integrità psicofisica comprese tra 1 e 9 punti
di invalidità” di cui al D.M. del 3 luglio 2003), ma si prefiggono il fine di portare la voce
ufficiale della massima assise scientifica medico-legale del nostro Paese nell’ambito del
danno alla persona, con indicazioni percentuali che possono esser impiegate, in adeguata
considerazione comparativa e proporzionale, laddove assenti in tali tabelle tenuto altresì
conto dell’ampio lasso di tempo ad oggi intercorso dalla loro emanazione che le rende
per alcuni aspetti inattuali e della circostanza più volte ricordata che il danno biologico
INAIL in quanto in qualche modo di estrazione lavorativa non è sempre del tutto
sovrapponibile a quello che occorre valutare in R.C.
Per non dire, poi, che esse possono rappresentare un valido stimolo di rinnovamento
delle suddette tabelle, che non hanno mai avuto una revisione dall’epoca della loro
emanazione, costituendo un autorevole riferimento per una loro auspicabile
riorganizzazione.
In ogni caso le odierne “Linee Guida” possono trovare adeguato impiego in quelle
occasioni valutative in cui mancano, allo stato, riferimenti anche tabellari, potendo esser
tenute presenti in via orientativa pure nella pensionistica previdenziale e in altri affini
settori valutativi del danno alla persona ove si provveda ad opportuna conversione del
danno biologico in altre forme di danno di rilievo giuridico secondo ben nota
metodologia ad hoc impiegabile.
La SIMLA le affida, dunque, agli specialisti in medicina legale e ai medici di
effettiva esperienza medico legale nella valutazione del danno alla persona
sottolineandone il carattere indicativo e di orientamento, perché siano di valido ausilio ad
un corretto giudizio valutativo finale derivante da una armonica sintesi di esperienza,
professionalità, solide conoscenze scientifiche, accuratezza metodologica, come deve
avvenire sempre in una qualificata stima del danno alla persona.
CLAUDIO BUCCELLI
INTRODUZIONE
Nel 2009 il consiglio direttivo della Società Italiana di Medicina Legale, allora
presieduto da Paolo Arbarello, condivise la proposta di molti colleghi di aggiornare
l’ormai storica guida pubblicata — sotto 1’egida della Società — da un gruppo di studio
coordinato dal compianto Marino Bargagna, costituito da Marcello Canale, Francesco
Consigliere, Giancarlo Umani Ronchi e il sottoscritto, e integrato dal giovanile apporto di
entusiasmo e efficienza di Giorgio Bolino, Piergiorgio Fedeli e Luigi Papi.
Raccogliemmo allora la proposta all’insegna del motto “una guida apre, una tabella
chiude”.
Dopo alcuni indispensabili preliminari esplorativi e programmatici, la
formalizzazione dell’impegno da parte del predetto direttivo avvenne nel febbraio 2012,
con alcune opportune variazioni tra i nominativi del gruppo, la cui composizione
definitiva figura nelle prime pagine di queste Linee Guida.
Avendo personalmente mantenuto l’onore, ma anche il sostanzioso onere, di
partecipare ai complessi e inevitabilmente lunghi lavori che hanno portato
all’elaborazione di queste Linee Guida, posso ben dire che il motto dianzi citato ha
trovato in esse concreta attualizzazione — sia per il respiro metodologico sia per
l’ampiezza delle voci censite, la cui dimensione percentualistica rappresenta il distillato
finale, non la sostanza, di un inquadramento criteriologico generale e diagnostico-clinico
senza i quali la quantificazione del danno alla persona non può avere, allo stato attuale,
alcuna fondatezza scientifica.
Consentitemi innanzitutto, da decano del gruppo, un doveroso ringraziamento a tutti
coloro che si sono impegnati nella stesura di questa innovativa opera: dai coordinatori ai
tanti giovani colleghi desiderosi di apportare quel contributo di entusiasmo che è proprio
della nuova generazione. È la loro fattiva presenza che mi riporta con la memoria ai
lontani anni ‘60, tempo in cui mi avvalevo delle francesi guide-barème: guide che
onoravano, sostantivandone il cognome, il matematico francese François Barrême (nato a
Lione nel 1638 e morto a Parigi nel 1703) — autore di scritti e calcoli matematici raccolti
sotto il titolo di “Les Comptes faits”, in cui trovavano spazio tavole che valutavano il danno
economico conseguente “la perdita delle diverse parti del corpo degli operai”. In altri
termini, per effetto di quelle che noi oggi definiamo menomazioni.
Ai lavori odierni ho partecipato con lo stesso entusiasmo che animava il primigenio
gruppo riunitosi intorno a Marino Bargagna, nel segno di una continuità sempre
contraddistinta da pulsioni innovative e del piacere di vedere ancora in campo Giancarlo
Umani Ronchi e i tre colleghi — allora giovanissimi, ma ancor’oggi giovani — Giorgio
Bolino, Piergiorgio Fedeli e Luigi Papi, che hanno trasfuso in queste Linee Guida le
precedenti, analoghe esperienze redazionali (maturate dai primi due anche col sottoscritto
all’epoca della guida valutativa pubblicata da Giuffrè nel 2006).
I1 merito di aver mantenuto viva 1’attenzione della SIMLA su questa impresa va
sicuramente a Fabio Buzzi e Ranieri Domenici, i quali — secondo diversi, ma sempre
ben integrati approcci operativi — si sono tenacemente adoperati per superare le iniziali
non poche difficoltà incontrate (anche da parte mia) nella preliminare opera di
reclutamento dei partecipanti al gruppo di lavoro e nel coordinamento dei contributi
conferiti dai numerosi colleghi — medici legali e clinici — che hanno consentito la
realizzazione di questa impresa.
Nel corso dei lavori (svoltisi attraverso numerosissime riunioni collegiali tenute in
tutta Italia), ho provato enorme soddisfazione nel constatare l’elevata partecipazione
operativa di colleghi giovani e non più giovani provenienti da numerose scuole medico-
legali — presupposto che ha consentito di dare all’impresa una dimensione
concretamente nazionale e largamente condivisa anche al di fuori dell’ambiente
strettamente universitario.
Un entusiasmante esempio di questa fattiva partecipazione ho potuto personalmente
constatarlo in occasione del recente congresso del GISDI-FAMLI (maggio 2015, Porto
San Giorgio, organizzato dall’Associazione Marchigiana di Medicina Legale),
nell’ambito del quale molti giovani hanno discusso con encomiabile competenza diversi
argomenti che compaiono in queste Linee Guida, dandomi la grande soddisfazione di
presenziare numerosi alla mia conferenza sul danno alla persona nell’anziano, che ha
ispirato uno specifico capitolo delle medesime.
Anche questi aspetti conferiscono a queste Linee Guida una coralità dottrinale che
ha sicuramente accresciuto quella che già caratterizzava l’edizione di Bargagna et al., nel
cui solco le stesse si sono innestate e sviluppate, anche grazie al ragguardevole contributo
operativo ancora una volta profuso dalla scuola medico-legale pisana.
Sul piano concettuale, mi piace sottolineare che si è finalmente dato corpo a una
effettiva valutazione del danno alla persona, attraverso la costante valorizzazione degli
aspetti dinamico-relazionali del danno biologico, tali appunto da superare quella
“staticità” nella quale tempo fa (ma forse ancor oggi) alcuni, specie di estrazione
giuridica, intendevano relegare il danno biologico valutato dal medico legale. Non devo
dilungarmi a sottolineare la differenza fra queste figure: l’una espressiva del bios, l’altra
del relazionale — vale a dire dell’uomo inserito nel contesto sociale in cui vive.
Questo sviluppo rappresenta un punto d’arrivo (almeno ad oggi) di un lungo
percorso dottrinale, che ha preso le mosse dalle elementari e schematiche dimensioni
meramente percentualistiche (nate nel contesto dell’infortunistica lavorativa con la L. n.
51 del 31 gennaio 1904), poi traslate sul finire degli anni ‘20 nell’ambito delle
assicurazioni private mercé l’opera di Cazzaniga, e quindi riprese negli anni 1967-68 nel
contesto dei famosi congressi di Como e Perugia — allorché prevaleva ancora la base
valutativa della capacità lavorativa generica.
Il sistema valutativo proposto in tali contesti ha rappresento, anche grazie alla
medicina legale, la base per adeguarsi ai numerosi mutamenti giurisprudenziali oltre che
normativi e dal primo riferimento all’invalidità permanente, si giungeva a riconoscere il
danno biologico.
La geniale idea maturata dal Gerin nei primi anni ‘50, di spostare la base valutativa
sulla validità psico-fisica disgiunta da valenze lavorative e lucrative, ha impiegato tre
decenni per affermarsi nel contesto giuridico e giurisprudenziale: ciò è essenzialmente
avvenuto con la famosa sentenza della Corte Costituzionale n. 184/1986 — preceduta da
importanti avvisaglie, rappresentate non soltanto da vivaci fermenti dottrinali medico-
legali, ma anche dalle note sentenze innovative dei Tribunali di Pisa e Genova degli anni
’70 e della Corte di Cassazione del 1981.
A tal proposito, un nuovo ricordo mi riporta al 1981, anno in cui ebbe luogo a
Camerino quel congresso medico-legale sul danno biologico, da me organizzato e
ricordato da tutti non solo per essere stato il primo congresso della disciplina svoltosi
sotto una tormenta di neve, quanto per l’impulso a quelle innovazioni concettuali —
ulteriore stimolo per i giuristi a affrontare anche sul piano dottrinario, e non solo
giurisprudenziale, un diverso unitario riferimento per il risarcimento del danno.
In quella occasione venne anche istituito un gruppo di studio: quel GISDAP
(Gruppo Italiano di Studio del Danno alla Persona) che, dopo un primo periodo di intensa
attività, da qualche tempo è in sonno, ma merita di risvegliarsi.
Ai predetti fermenti avevo peraltro contribuito, già nel 1965, con una monografia
dal titolo “Del danno biologico a distanza per infortunio stradale”, edita dall’Istituto
Italiano di Medicina Sociale.
In essa, ravvisando già allora la necessità di basare il risarcimento appunto sul danno
biologico, ancorché esso fosse ancora in fase di gestazione, optai per incentrarlo sul
concetto di bios — rappresentativo del valore dell’uomo nella sua interezza somatica e
psichica; così come sottolineai l’importanza del protrarsi sine die dei riflessi peggiorativi
sulla qualità di vita del danneggiato, spostando in tal modo 1’asse valutativo sul danno
alla persona secondo un criterio che, in buona sostanza, corrisponde a quello che i giuristi
definiscono “danno conseguenza”.
I1 danno biologico ha poi avuto la meglio anche nell’ambito assicurativo sociale
dell’INAIL, con la tabellazione varata dal decreto ministeriale il 12 luglio 2000 in base al
DLgs n. 38/2000. Essa ha avuto il merito di introdurre per via normativa la prima
definizione del danno biologico conforme alle indicazioni della dottrina medico-legale
(poi recepita pressoché alla lettera anche dal T.U. delle Assicurazioni Private del 2005).
La definizione fu adottata in ambito INAIL e maturò pressoché
contemporaneamente al decalogo operativo per la valutazione del danno biologico
elaborato dalla SIMLA nel congresso nazionale di Ferrara del 2001.
Purtroppo, negli ultimi anni il comparto della RCA ha denotato preoccupanti segnali
di scollamento dal generale contesto dei presupposti concettuali e della metodologia
operativa ormai consolidatisi in ambito medico legale, in particolare attraverso misure
(L. n. 57/2001 e L. n. 27/2012) che hanno frammentato l’armoniosa continuità della scala
proporzionalistica percentuale, enucleando alcune fattispecie menomative al solo scopo
di attribuir loro esigui corrispettivi economici — in tal modo assecondando interessi
trascuranti la buona tecnica valutativa medico-legale.
È da sperare che questa tendenza a creare un comparto risarcitorio settoriale per la
RCA (estesasi successivamente anche alla responsabilità sanitaria, a seguito della L.
189/2012 — c.d. “Balduzzi”) non abbia ulteriori sviluppi mercé interventi governativi
propensi a supportare i predetti interessi.
Comunque sia, i presupposti concettuali e la metodologia operativa della medicina
legale, doverosamente promossi dalla SIMLA, non possono e non devono soggiacere a
imposizioni atecniche, quando non contrarie alla buona pratica valutativa. Queste Linee
Guida — non soltanto perché espressione della predetta società scientifica, ma
soprattutto perché frutto dei molteplici apporti medico-legali di respiro nazionale e di
contributi clinici intensamente dibattuti e giunti a unanime condivisione — rappresentano
un preciso segnale di autonomia e di neutralità culturale, che ho l’onore e la personale,
grande soddisfazione di introdurre con questo mio breve excursus storico.
Le notazioni autobiografiche non sono spinte da un desiderio autoreferenziale, ma
servono a dare la misura, concretamente vissuta, di quanti di noi hanno dedicato la vita
alla medicina legale italiana adoperandosi — in particolare negli ultimi decenni — nel
promuovere un profilo valutativo del danno alla persona continuamente aggiornato
all’evoluzione delle esigenze della society e del diritto: un profilo che, a mio giudizio,
risulta senz’altro ben riconoscibile in queste Linee Guida.
Potrei, anzi dovrei, fermarmi qui, ma ho il dovere di fare una autocritica: quella di
essere dicotomico. Ho infatti dedicato molto del mio tempo allo studio del danno
biologico e dei suoi addentellati, attivandomi e partecipando a redigere numerose guide,
ma — convinto dell’unitarietà di questo danno — scrivevo nel 1990: “le diverse
valutazioni, non solo nel ruolo, ma anche negli ambiti diversi, costituiscono il
presupposto dell’irrazionale convincimento di dovere attribuire un numero ad una realtà
biologica; irrazionalità di una entità statica in una entità non solo dinamica ma sopratutto
individuale [...]”. E spesso mi domandavo se “le tabelle servono a far divenire “perito”
chi perito non è”. L’irruenza giovanile mi spingeva a rifiutare questa irrazionalità palese,
ma la mia convinzione nichilistica veniva attutita dall’esperienza che, in un sistema
compromissorio, quale quello valutativo del danno, era comunque un limite — fino a che
non iniziarono a comparire non più “tabelle, ma guide”; di qui lo slogan “Una tabella
chiude, una guida orientativa apre”; ed ora possiamo addirittura parlare di Linee Guida ...
Consentitemi, in chiusura, una divagazione.
Per Aristotele, “i numeri esistono, certo, ma come pure e semplici astrazioni”: egli
effettua una netta distinzione fra sostanza (ciò che per esistere non ha bisogno di
null’altro all’infuori di sé) e accidente (ciò che per esistere ha bisogno di una sostanza cui
riferirsi). Così il libro, un qualunque oggetto, saranno sostanze proprio perché dotati di
esistenza autonoma; il blu o il marrone saranno accidenti perchè potranno esistere solo se
abbinati ad una sostanza”. Gli accidenti si trovano dunque ad avere un’esistenza che
potremmo definire “parassitaria”, ossia totalmente legata a una sostanza cui riferirsi, e
così Aristotele non esita a collocare i numeri tra gli accidenti: se a due libri con
caratteristiche differenti elimino via via le caratteristiche fisiche (colore, dimensioni ...)
alla fine, quando li avrò spogliati di ogni aspetto che li caratterizza — resteranno solo i
due libri, ossia i libri e il numero, ma se tolgo i libri quel due non ha più motivo di
esistere.
Diverso, per Platone, il valore dei numeri. Egli sostiene l’esistenza dei numeri
sganciata dalle sostanze: il due o il tre esistono non solo nelle cose materiali (sostanze)
che ne partecipano (due case, tre gatti...), ma come entità a sé stanti.
Certo, oggi a noi la concezione di Platone sembra molto improbabile. Ci
avvicineremmo dunque alla concezione aristotelica. Tuttavia, sorge un dubbio che
rimette in gioco la teoria platonica: e se nessuno contasse più, i numeri continuerebbero a
esistere? Con la definizione aristotelica infatti essi esistono come processo di astrazione
della mente umana e, se vi fosse un improvviso annichilimento della realtà, sembrerebbe
che, non contando più, i numeri dovrebbero sparire; ma è evidentemente un assurdo: 2 +
2 = 4 è vero anche senza che io lo pensi, e quindi pare aver ragione Platone: i numeri
hanno esistenza autonoma.
Fra Aristotele e Platone, il danno alla persona ...
LUIGI PALMIERI
PREFAZIONE
Nella seduta del Direttivo della SIMLA del 29 febbraio 2012 si decise, su impulso di
una proposta scritta fatta pervenire da diversi medici legali appartenenti alla Società, di
dar corso ad una nuova Guida per la valutazione del danno biologico, ad aggiornamento
di quella pubblicata sotto l’egida della Società (autori Marino Bargagna, Marcello
Canale, Francesco Consigliere, Luigi Palmieri e Giancarlo Umani Ronchi) la cui terza ed
ultima edizione risaliva al 2001.
L’incarico di promuovere la nuova Guida fu affidato a Luigi Palmieri e Giancarlo
Umani Ronchi, così da mantenere una continuità di impostazione concettuale con le tre
edizioni precedenti. Agli stessi fu dato mandato di contattare tutte le scuole italiane di
medicina legale, per ottenere il maggior coinvolgimento possibile della nostra disciplina.
Luigi Palmieri e Giancarlo Umani Ronchi diramarono quindi l’invito di partecipare
su scala nazionale, fornendo in questa fase preliminare anche dei suggerimenti operativi
e di suddivisione della materia, individuando i potenziali contributori.
Inoltre, Luigi Palmieri suggerì di privilegiare il lemma “danno alla persona” — che
compare nel titolo di questo testo — in luogo di “danno biologico”.
Tra il settembre e il novembre 2012, pervenuti i primi contributi da parte di alcune
scuole interessate all’iniziativa, giunse il momento di costituire un gruppo di lavoro, per
il passaggio dalla fase propositiva a quella operativa.
Sempre in base al predetto criterio furono invitati a partecipare ai lavori Ranieri
Domenici, Luigi Papi, Piergiorgio Fedeli e Giorgio Bolino, che già avevano collaborato
alle precedenti edizioni coordinate da Marino Bargagna, nonché Fabio Buzzi, come
primo sollecitatore dell’iniziativa e coautore di una Guida per la valutazione del danno
biologico di natura psichica, il cui impianto poteva armonicamente integrarsi con quello
delle Guide precedenti.
Per incentivare la collaborazione dei medici legali su scala nazionale furono quindi
organizzati due incontri-convegni, rispettivamente da Giancarlo Umani Ronchi (Roma,
febbraio 2013) e da Luigi Palmieri (Ischia, aprile 2013).
Furono anche interpellati gli istituti delle assicurazioni sociali: l’INPS aderì alla
richiesta, mettendo a disposizione alcuni dei suoi medici legali. In ultimo, ma non per
importanza, fu accolto positivamente il contributo di medici legali aderenti alla FAMLI.
Seguirono una serie di incontri operativi del gruppo di lavoro, di volta in volta
allargati ai diversi contributori, che si svolsero a Ferrara (giugno 2013), a Bologna
(ottobre 2013), a Roma (gennaio e marzo 2014), a Napoli (giugno 2014), a Pisa (luglio
2014), a Bologna (ottobre 2014 e gennaio 2015), a Pavia (febbraio 2015) e ancora a
Bologna (aprile 2015), quindi a Porto San Giorgio (maggio 2015) e infine a Firenze
(giugno 2015) e Bologna nel luglio 2015.
La bozza del testo è stata approvata in data 21 ottobre 2015 dal Direttivo della
SIMLA, in una seduta cui hanno partecipato Claudio Buccelli, Presidente, Mauro Bacci,
Mariano Cingolani, Onofrio De Lucia — Vicepresidente — Alessandro Dell’Erba,
Natale Mario Di Luca, Lucio Di Mauro, Vittorio Fineschi, Paola Frati, Francesco
Introna, Luigi Palmieri, Daniele Rodriguez, Patrizio Rossi, Roberto Salvinelli, Ascanio
Sirignano.
Il lavoro è stato portato a termine anche mercè il contributo di numerosi specialisti
(oltre 50) delle diverse branche mediche di interesse per ogni singolo capitolo: e i
nominativi di tutti i co-autori di estrazione medico-legale e clinica figurano nell’elenco
alfabetico precedentemente riportato, dopo l’organigramma del coordinamento del
gruppo di studio che ha curato l’elaborazione delle Linee Guida.
Precisiamo che queste Linee Guida si riferiscono esclusivamente al danno alla
persona di natura non patrimoniale, in ordine al quale sono stati presi in considerazione i
profili che, allo stato, caratterizzano la categoria del danno biologico. Si è anche trattato
di alcune fattispecie particolarmente attuali (il danno differenziale, il danno da ritardi
diagnostico in oncologia, il danno nell’età evolutiva e il danno nell’età avanzata, nonché
la perdita di chance e la c.d. “sofferenza morale” o altrimenti aggettivata) le quali hanno
reso sempre più complessa l’attività valutativa medico-legale.
L’impostazione concettuale generale e la metodologia dell’accertamento e della
prova del danno sono trattate nei primi quattro capitoli della Parte Generale, mente il V
ed il VI capitolo di questa parte sono dedicati alle molteplici sfaccettature della
sofferenza e alle diversificate e spesso divergenti proposte valutative affacciate al
riguardo negli ultimi anni in alcuni ambienti accademici e professionali medico-legali.
Alla parte generale, che racchiude questi primi capitoli, segue la parte sistematica,
nella quale sono catalogate le condizioni menomative che sono sembrate di maggior
interesse per la pratica valutativa attuale, che da qualche tempo si esplica non soltanto su
condizioni post-traumatiche, ma, sempre più spesso, su molte altre condizioni
patologiche, spontanee e iatrogene, specie da che il contenzioso per responsabilità
sanitaria ha assunto la dimensione ben nota al nostro settore operativo.
La catalogazione e la percentualizzazione di tali condizioni può inoltre tornare utile
anche in ambiti valutativi diversi da quelli della R.C. (es.: polizze per invalidità da
malattia, malattie non tabellate in ambito INAIL, invalidità di diverse connotazioni
socio-previdenziali, etc.), nel cui contesto la parametrazione del danno biologico può
rappresentare un utile punto di riferimento sul quale modulare, in termini — come già
detto — più o meno indicativi e non tassativi, l’entità delle condizioni menomative da
modularsi consensualmente alle declinazioni categoriali dell’ambito
giuridico/assicurativo di specifico riferimento.
Dell’impostazione della catalogazione, strutturata prevalentemente per funzioni si
dirà nel capitolo I della Parte Generale. Qui pare sufficiente ricordare soltanto che anche
l’ultima Guida dell’American Medical Association (2009) è stata prevalentemente basata sul
concetto di funzione, prendendo anche ispirazione dall’ICF, poiché le precedenti versioni
presentavano delle criticità, con correlati difetti di validità, in parte dovuti ad “inadequate
attention to functional assessment”.
Ma la scelta di valorizzare la funzione perduta non è dipesa da un’esterofilia — che
potrebbe essere del tutto fuori luogo, almeno nella misura in cui gran parte dei
presupposti valutativi americani dell’impairment non collimano con il nostro sistema
valutativo del danno biologico — bensì dalla altrimenti ben fondata esigenza di
valorizzare quelli che sono definiti gli aspetti dinamico-relazionali del danno biologico.
Nella parte generale della Guida si affronta la contrapposizione danno statico/danno
dinamico, che risale ai primordi della dottrina del danno biologico. Secondo quelli che
furono già i primitivi orientamenti pisani — ed in accordo con i precetti del Decalogo
SIMLA e con le definizioni recepite anche sul piano normativo — il danno quantificato
in queste Linee Guida include gli aspetti dinamico-relazionali comuni a tutti. Del resto,
funzione e salute sono concetti strettamente correlati: la salute implica il “funzionamento
individuale” nelle attività della vita quotidiana ed all’interno dei comuni contesti sociali.
Molti dei particolari innovativi, rispetto alle precedenti guide, hanno proprio a che
fare con il preminente interesse riposto negli aspetti disfunzionali delle menomazioni
catalogate. Così, dove è stato possibile (ad esempio nelle patologie di natura neurologica,
demenze incluse), ci si è ispirati alle scale cliniche, come base per la percentualizzazione
del danno funzionale. Ad es. si è dedicata una particolare attenzione alle turbe sensoriali:
in particolare all’olfatto e al gusto, introducendo un sensibile incremento dei “classici”
valori tabellari. D’altra parte, diverse patologie (come disturbi del sonno, cefalee, obesità,
dolore, tatto, sindrome algodistrofica, connettivopatie e dermopatie) sono state inserite ex
novo. Ai disturbi psichici è stato dedicato uno spazio comparativamente assai più ampio
rispetto alle altre guide precedenti, non soltanto per la necessità di rimodellare il catalogo
secondo le indicazioni del DSM5, ma, soprattutto, con l’intendimento di riservare alle
alterazioni delle funzioni mentali l’attenzione che esse meritano nel contesto valutativo
del danno alla persona, anche in ossequio alla necessità di superare la dicotomia tra
danno biologico al soma ed alla psiche.
Tutto ciò ha portato a catalogare ben 928 voci, che sono state riassunte
schematicamente nell’ultima parte del testo strutturata secondo l’ordine dei capitoli e
realizzata mediante l’utilizzo di un apposito database, che ha inoltre consentito, in fase di
elaborazione del testo, la comparazione di tutte le menomazioni elencate e le relative
percentuali, allo scopo di ricercare il miglior equilibrio valutativo.
A differenza che in altre guide la trattazione è stata dedicata esclusivamente al
danno alla persona che l’attuale contesto normativo e giurisprudenziale colloca nell’area
della responsabilità civile per il danno non patrimoniale, con particolare riferimento per
quello di natura biologica, pertinente alle competenze accertative e valutative della
medicina legale.
Non sono state quindi prese in elettiva considerazione né le declinazioni connotate
in chiave patrimoniale, come la riduzione della capacità lavorativa (come
tradizionalmente intesa secondo una tralatizia — e comunque aggiornanda —
consuetudine medico-legale), in ragione della sua prevalente consistenza probatoria
economica (pretesa da ormai costante giurisprudenza di Cassazione), né quelle dominate
da vissuti soggettivi di insufficientemente definita configurazione giuridica e/o di
ambigua percepibilità clinica e, quindi, medico-legale, come ad esempio la sofferenza
(intima, morale, psico-fisica, etc.).
Né si è ritenuto di trattare dei criteri metodologici e dei parametri percentuali
utilizzati in alcuni settori assicurativi, pubblici (INAIL) o privati (polizze per invalidità
da infortuni o da malattia, o altri consimili prodotti del mercato assicurativo, nelle quali i
parametri percentuali di riferimento sono predeterminati contrattualmente in apposite
tabelle stipulate “per adesione”). Questa è essenzialmente l’impostazione con la quale si
confronterà chi utilizzerà le Linee Guida, magari sentendosi inizialmente un po’ a disagio
per alcune mutazioni “de novo” dei presupposti concettuali e numerici che era abituato ad
usare, in quanto da tempo profondamente introiettati nel proprio modus operandi.
Siamo comunque certi che in poco tempo si avrà modo di cogliere e (è nostro forte
auspicio) apprezzare il sotteso sforzo di adeguamento al profilo acquisito dal danno alla
persona in questi ultimi anni, attraverso il diritto vivente implementato dalla più attenta
ed equilibrata giurisprudenza e le più recenti proposte concettuali e pratiche formulate
dalla componente neutrale ed equanime dei medici legali che si riconosce nella SIMLA.
PARTE GENERALE
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Capitolo I
PRINCIPI ISPIRATORI E STRUTTURA DELLE LINEE GUIDA
I.a. La classificazione per funzioni. — I.b. Gli aspetti dinamico-relazionali del danno biologico. — I.c. Il
danno biologico “statico” e “dinamico”. — I.d. La prova e la percentualizzazione del danno biologico. — I.e.
Aggiornamento delle percentuali e ampliamento del catalogo delle menomazioni. — I.f. Indicazioni meto-
dologiche per la valutazione di peculiari fattispecie di danno. — I.g. Le tariffazioni percentuali di diversa
matrice. — I.h. La declinazione della compromissione della capacità lavorativa. — I.i. Conclusioni
di F. Buzzi
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4 PARTE GENERALE
Guida ai criteri valutativi propri di altri settori della medicina, in particolare quella
riabilitativa: un settore che utilizza diversi sistemi classificativi più o meno complessi
(dall’I.C.F. a score numerici basati su parametri di tipo eminentemente funzionale,
richiamati e utilizzati — ove utili — anche in questa sede) prendendo a riferimento le
attività quotidiane comuni a tutti (alimentarsi, espletare le funzioni fisiologiche e l’igiene
personale, deambulare, cambiare postura, comunicare e relazionarsi, etc.). Anche a
mente della sopra menzionata definizione del danno biologico, queste attività sono state
implicitamente, quando non esplicitamente, tenute in prioritaria considerazione nella
percentualizzazione del danno biologico corrispondente alle menomazioni qui catalo-
gate.
È il caso di ricordare che la classificazione per funzioni è stata adottata anche
nell’ultima edizione della Guida dell’American Medical Association (“Guides to the
Evaluation of Permanent Impairment”, AMA, 2009), nella cui parte introduttiva è stato
espressamente precisato l’intento di superare le criticità delle precedenti edizioni,
dovute ad “inadequate attention to functional assessment”, soggiungendo l’importanza
delle limitazioni nelle attività della vita quotidiana (ADL), del resto già evidenziata nella
precedente edizione del 2001.
Ad onor del vero, ancor molto prima, nel barème francese del Melennec risalente
agli anni ’80, oltre ai parametri percentuali, erano state previste cinque classi funzionali.
PRINCIPI ISPIRATORI 5
6 PARTE GENERALE
PRINCIPI ISPIRATORI 7
relazionali qui in discussione e di un potenziale passaggio dall’ “homo faber” all’ “homo
socius “.
Questo passaggio è stato autorevolmente vidimato dalla famosa sentenza n. 184/
1986 della Corte Costituzionale, per completarsi con la più volte ricordata definizione
del danno biologico, come comprensivo degli aspetti dinamico-relazionali.
8 PARTE GENERALE
PRINCIPI ISPIRATORI 9
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PRINCIPI ISPIRATORI 11
12 PARTE GENERALE
In questi casi sussiste per lo più una continuità causale fisiopatologica e fenome-
nologica (alias una tipica “sindrome a ponte”), che prende le mosse dalla lesione iniziale
e giunge fino alla menomazione complessiva finale, rendendo più che giustificato, per i
molteplici motivi biologici e giuridici precisati nello specifico capitolo, il risarcimento
integrale della predetta menomazione complessiva.
Antipodica è la problematica — anch’essa trattata nell’apposito capitolo della parte
generale — dei danni in individui molto giovani, tendenzialmente suscettibili di
evoluzioni migliorative nel tempo, ma talora comportanti anche effetti menomativi che
possono rimanere a lungo “sotto traccia” e non emergere nitidamente al momento della
valutazione medico-legale.
Per quanto riguarda le preesistenze e i concetti di concorso e concorrenza (negli
ultimi anni sovente messi in discussione in ambito medico-legale, a motivo del non
sempre ben individuabile confine fra queste due categorie), se ne tratta nel capitolo IV
della Parte Generale.
Qui ci limitiamo a precisare che si sono evitati riferimenti a formule matematiche
per commisurare menomazioni preesistenti e sopravvenute, soprattutto in ragione della
schematica rigidità che è propria della loro genesi in seno all’infortunistica del lavoro
(poi traslata all’infortunistica privata), governata da clausole indennitarie di tipo selet-
tivo e/o contrattuale, che sono ben lungi dal concetto di risarcimento integrale del
danno e dai criteri che lo presidiano.
In questi contesti, il tetto massimo dell’invalidità collocato al 100% si attaglia a ben
possibili annullamenti della capacità lavorativa, ma non si presta ad esprimere la
tendenziale inesauribilità del bene salute, secondo la teoria dei “diversi 100”, valida in
campo civilistico almeno fin tanto che la persona conserva un sufficiente grado di
autonomia somatica e psico-relazionale.
Non a caso, nel decalogo della Guida di Bargagna et al. si rimarcava che: “Le grandi
invalidità incidono generalmente in maniera molto più grave... di quanto non significhi
l’indicazione numerica... la validità residua non può certo essere commisurata alla
differenza tra un teorico valore ‘cento’ corrispondente alla validità preesistente e la quota
parte di invalidità perduta”.
PRINCIPI ISPIRATORI 13
invalidanti che, in tali settori, sono considerate fonti di “criticità” statistiche e/o
economiche, secondo un’impostazione proclive a difendere interessi, appunto settoriali
piuttosto che a salvaguardare i principi della corretta tecnica valutativa e dell’interdi-
pendenza proporzionalistica tra le diverse menomazioni. Questa interdipendenza non
tollera cesure tra piccole e grandi invalidità (non davvero “micro” man mano che ci si
avvicina al limite superiore del 9%, né davvero “macro” ove si tratti di danni biologici
di poco superiori al 9%).
Pertanto, pur rendendoci conto della “supremazia” della quale possono fregiarsi le
tabelle definibili “di legge”, si è doverosamente privilegiata un’impostazione medico-
legale modellata sulla sopra richiamata, armoniosa proporzionalità tra diverse, o ana-
loghe incidenze disfunzionali delle menomazioni.
A tal proposto, è il caso di soggiungere che l’impostazione concettuale e tecnica
totalmente neutrale di queste Linee Guida — assolutamente imprescindibile in ragione
del contesto scientifico nel quale sono maturate — non può trascinarci nell’ormai
annosa querelle suscitata dalle note misure legislative introdotte ad hoc per alleggerire gli
oneri risarcitori delle assicurazioni nei confronti delle c.d. “piccole invalidità perma-
nenti”: a partire dalla L. n. 57/2001, fino a giungere alla L. n. 27/2012 e alle successive
modifiche governative varate, o in fieri, per il settore della R.C.A. e della ormai collegata
R.C. sanitaria.
Tradiremmo il compito conferito dalla Società Italiana di Medicina Legale al
gruppo di studio che ha elaborato queste Linee Guida se sottomettessimo i classici
criteri anamnestico-clinici, semeiologici e di buona tecnica valutativa medico-legale ad
interessi e scopi diversi da quelli propri di una società scientifica, che deve perseguire
esclusivamente l’affermazione di razionali e neutrali regole tecniche e mantenere
un’assoluta equidistanza tra gli interessi di chi ha cagionato il danno e di chi l’ha subìto.
D’altra parte, alla medicina legale di cui si fa interprete la SIMLA non erano
necessarie né le sopra citate, né altre “disposizioni di legge”, per mantener fede all’ormai
consolidata validità dei criteri valutativi propugnati dalla precedente guida di Bargagna
et al.
In essa già spiccavano alcuni fondamentali moniti, che fanno parte integrante
dell’impostazione di fondo di queste Linee Guida.
Tra di essi è senz’altro il caso di menzionare la seguente criteriologia, predisposta
appunto con riferimento alle fattispecie scarsamente, o per nulla invalidanti: “... i danni
puramente anatomici, senza plausibili ripercussioni funzionali e/o soggettive, non debbono
essere considerati percentualmente esprimibili da parte del medico legale; le piccole
menomazioni, il minimo danno anatomico, od anatomo-funzionale, in assenza di perce-
pibili conseguenze negative dal punto di vista medicolegale deve essere ritenuto non
percentualmente esprimibile; una speciale attenzione va posta a quelle sequele che
mancano di un apprezzabile substrato anatomico e funzionale, ma che tuttavia vengono
considerate menomazioni dell’integrità psico-fisica in base alla personale propensione di
chi è chiamato a valutarle”.
Tali raccomandazioni, ispirate al massimo rigore operativo medico-legale — e non
a caso connotate da reiterati richiami alla funzione — connotano anche l’impostazione
metodologica di queste Linee Guida, elaborate in totale spirito di continuità rispetto al
lavoro compiuto dai curatori della predetta guida.
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14 PARTE GENERALE
PRINCIPI ISPIRATORI 15
I.i. Conclusioni
Da ultimo, ci limitiamo a sottolineare che queste Linee Guida sono frutto di molti
mesi di confronti dialettici tanto serrati, quanto costruttivi, tra i componenti il gruppo
di studio messo in campo dalla SIMLA e i numerosi co-autori di estrazione clinica e
medico-legale, nonché dell’analisi di tutte le analoghe proposte valutative comparse nel
contesto dottrinale della medicina legale negli ultimi decenni.
Esse non rappresentato un semplice aggiornamento/ampliamento bensì una radi-
cale rielaborazione della guida di Bargagna M. et al., che ha preceduto e, per molti versi
ispirato quest’opera: un’opera che è stata portata a termine con le modalità che devono
contraddistinguere la predisposizione di linee guida collegialmente condivise: in questo
caso non soltanto da molti medici legali di diversa estrazione sul piano nazionale, ma
anche da numerosi clinici con la medesima caratteristica
Del resto, la stessa Cassazione Civile (Sez. III, n. 17219 del 29/07/2014) ha
affermato che: “I barèmes medicolegali si dividono in due categorie: obbligatori e
facoltativi. I primi sono approvati con atti normativi e la loro adozione è ineludibile, da
parte sia del medico legale che del giudice. I secondi non hanno natura di fonte normativa
e sono liberamente elaborati dalla comunità scientifica e dalle varie scuole di pensiero che
la compongono... Pertanto, quando la scelta del barème da adottare non sia imposta da
alcuna norma, l’ausiliario tecnico prima e il giudice poi, restano liberi di scegliere il barème
che ritengono più autorevole, più moderno o più corretto, col solo obbligo di motivare la
propria scelta.”
In conclusione, queste Linee Guida si propongono di fornire al medico legale non
soltanto un ampio “tariffario tabellare”, bensì un’organica e articolata metodologia
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16 PARTE GENERALE
Capitolo II
PROFILI GIURIDICI DEL DANNO BIOLOGICO
DI INTERESSE PER L’ATTIVITÀ MEDICO-LEGALE
II.a. Genesi ed evoluzione del danno biologico nell’alveo non patrimoniale. — II.b. Le altre categorie del
danno alla persona di natura non patrimoniale. — II.c. La prova del danno biologico. — II.d. La nomina del
consulente tecnico d’ufficio. — II.e. La funzione deducente e percipiente della consulenza tecnica d’ufficio.
— II.f. Il significato e il valore dei giudizi formulati nella consulenza tecnica d’ufficio
18 PARTE GENERALE
moniale ed affermando che “il danno biologico deve essere considerato risarcibile
ancorché non incidente sulla capacità di produrre reddito e, anzi, indipendentemente da
questa”.
Perfettamente in linea con l’impostazione della Corte Costituzionale, la Corte di
Cassazione pose a fondamento della propria decisione il riconoscimento del diritto alla
salute come diritto primario e assoluto, tutelato ai sensi dell’art. 32 cost. e, pertanto, da
considerarsi pienamente operante anche nei rapporti interprivatistici.
Una volta definita la distinzione tra danno biologico e altre tipologie di danno non
patrimoniale, il passaggio successivo — compiuto dalla Cassazione Civile con la
sentenza n. 2396 del 1983 — è consistito nell’attribuire al primo un preciso profilo
concettuale, definendolo come “menomazione all’integrità psico-fisica che incide diretta-
mente sul valore uomo”, cioè sul complesso delle funzioni personali e relazionali di ogni
individuo.
Uno snodo fondamentale nell’elaborazione dell’attuale fisionomia civilistica del
danno biologico è rappresentato dalla già citata sentenza della Corte Costituzionale n.
184/1986, che gli ha conferito specifici connotati giuridici.
Nonostante si trattasse di una sentenza interpretativa di rigetto, tale pronuncia ha
offerto, alla giurisprudenza successiva, un vero e proprio paradigma concettuale,
delineando una precisa distinzione tra l’evento lesivo produttivo del danno biologico —
considerato all’un tempo l’elemento costitutivo e la conseguenza del comportamento
illecito — e i suoi effetti negativi — cioè i pregiudizi d’altra natura conseguenti al
medesimo — essenzialmente rappresentati dal danno morale e dal danno patrimoniale.
La Corte Costituzionale affermò inoltre che l’art. 2043 c.c. doveva essere interpre-
tato in modo “costituzionalmente orientato”, stante la piena operatività del diritto
costituzionale nei riguardi della salute, anche con riferimento ai rapporti tra privati:
donde la necessità di apprestargli forme effettive di tutela.
Nonostante questa netta presa di posizione, il dibattito interpretativo non cessò,
tanto che i giudici delle corti superiori e di merito, per motivarne la risarcibilità,
continuarono ad oscillare tra l’aggancio all’art. 2043 c.c. e quello all’ art. 2059 c.c..
Seguirono le c.d. “sentenze gemelle” n. 8827 e n. 8828 del 31 maggio 2003, grazie
alle quali l’interpretazione restrittiva dell’art. 2059 c.c., basata sul comma 2° dell’art. 185
c.p., venne definitivamente abbandonata, ritenendosi che tale articolo non tuteli sol-
tanto il danno morale derivante dal reato, ma copra anche ogni altra fattispecie lesiva di
un valore inerente alla persona cui la Costituzione, ex artt. 2 e 32, attribuisca valenza di
diritto inviolabile dell’uomo.
L’idea di fondo da cui partì la Cassazione nel 2003 consisteva nell’assunto che il
sistema della responsabilità civile è bipolare, collocandosi nell’art. 2043 c.c. la disciplina
del risarcimento dei danni patrimoniali e nell’art. 2059 c.c. la disciplina del risarcimento
dei danni non patrimoniali; inoltre, che a quest’ultima categoria deve essere riconosciuta
— secondo un’interpretazione dell’art. 2059 c.c. conforme a Costituzione e sempre che
la lesione riguardi valori della persona costituzionalmente garantiti — una latitudine
applicativa che sia comprensiva sia dei danni derivanti dalla lesione ai valori inerenti alla
persona sia del danno morale soggettivo.
Siffatta interpretazione fu in seguito confermata — seppure incidentalmente —
dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 233 del 2003, nella quale si affermò che il
risarcimento del danno ex art. 2059 c.c. è dovuto in tutte le ipotesi di ingiusta lesione
di interessi di rango costituzionale inerenti alla persona.
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20 PARTE GENERALE
Dalla sempre più attenta e ampia valorizzazione che l’attuale realtà sociale attri-
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buisce alle modalità attraverso le quali gli individui si percepiscono nel proprio vissuto
e si relazionano con altri individui, nell’intimità e nella comunità, è scaturita una
particolare attenzione per la tutela di prerogative individuali di tale specie; attenzione
che — come poco sopra accennato — ha dato origine alla categoria del danno
esistenziale. Una categoria che ha avuto un’alterna fortuna sia nella giurisprudenza sia
nella dottrina giuridica, essendosi formati due stenicamente opposti schieramenti:
quello degli “esistenzialisti” e quello degli “anti-esistenzialisti”.
Analogamente è accaduto in campo medico-legale, anche qui con forti contrappo-
sizioni tra i fautori di un’elettiva competenza del medico legale all’accertamento e alla
quantificazione di tale tipologia di danno e i sostenitori delle sue caratteristiche
prettamente giuridiche e, quindi, non sondabili né stimabili attraverso la metodologia di
matrice bio-clinica propria della medicina legale.
Sembrava che le perentorie affermazioni delle già citate S.U. civili dell’11 novembre
2008 (“di danno esistenziale non è più dato discorrere”) avessero definitivamente
destituito di ogni autonomia ontologica e categoriale il danno esistenziale. Senonchè
successive sentenze della terza sezione civile della Suprema Corte di Cassazione hanno
nuovamente e ripetutamente conferito a tale voce di danno una dignità risarcitoria
sostanzialmente autonoma.
In particolare, con la sentenza n. 23147 del 25 settembre 2013, la sezione terza ha
riportato in auge il danno esistenziale anche in chiave di autonomia ontologica, creando,
peraltro, un conflitto concettuale di non poco conto, in quanto ha attribuito al danno
esistenziale quelle valenze “dinamico-relazionali” che — non soltanto in base alle
definizioni dottrinali, ma anche a quelle normative prima richiamate — sono proprie del
danno biologico.
Nella sentenza ora richiamata si è, infatti, affermato che il danno biologico
rappresenta la “lesione alla salute”, il danno morale rappresenta la “sofferenza interiore”
e il danno esistenziale rappresenta il danno “dinamico-relazionale”, “altrimenti definibile
esistenziale”, consistente nel “peggioramento delle condizioni di vita quotidiane”, risar-
cibile nel caso in cui l’illecito abbia violato diritti fondamentali della persona. La
Cassazione ha soggiunto che ognuna delle fattispecie dianzi elencate costituisce un
pregiudizio non patrimoniale ontologicamente diverso e che sono tutte risarcibili.
Orbene, siffatta interpretazione determina una palese traslazione degli aspetti
dinamico-relazionali dall’ambito definitorio, anche normativo, del danno biologico a
quello, contingentemente giurisprudenziale, del danno esistenziale.
Non si tratta affatto di un particolare marginale, soprattutto perché la presa in
considerazione risarcitoria degli aspetti dinamico-relazionali all’un tempo nel contesto
del danno biologico e in quello del danno esistenziale, configura le duplicazioni
risarcitorie massimamente biasimate dalle S.U. del 2008 e pure perché le componenti
dinamico-relazionali del danno biologico — anche a prescindere dalle definizioni della
normativa e della dottrina medico-legale — sono essenziali per modularne, sul piano
valutativo medico-legale — al quale il danno biologico incontrovertibilmente appartiene
— l’appropriata dimensione qualitativa e quantitativa, rispetto alle caratteristiche
naturalistiche e socio-anagrafiche della persona del danneggiato.
È infatti del tutto evidente che le diverse menomazioni psico-fisiche meritino
diverse quantificazioni percentuali a seconda che, ad esempio, colpiscano un anziano
con autosufficienza già compromessa oppure un giovane, il quale esplica normalmente
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22 PARTE GENERALE
situazioni pur molto diverse tra loro, ma tutte risarcibili, sempre che l’illecito abbia
violato dei diritti costituzionalmente tutelati.
La terza sezione raggiunge il massimo scostamento rispetto ai principi affermati
dalle SS.UU. del 2008 con l’ancor più recente sentenza n. 1361 del 23 gennaio 2014, che
ha espressamente identificato il danno esistenziale nell’alterazione della personalità del
danneggiato e nello sconvolgimento delle sue abitudini di vita: condizioni che rendono
il danno esistenziale ben distinto sia dal danno morale sia dal danno biologico, giacché
— sempre secondo la Corte di Cassazione — pur nella sua unitarietà, l’area del danno
non patrimoniale comprende le componenti, ontologicamente diverse, del pregiudizio
morale, biologico ed esistenziale.
Il presente excursus, necessariamente breve, su una materia di per sé non partico-
larmente complessa, almeno sotto il profilo medico-legale, ma resa davvero tale dalle
variegate e alquanto mutevoli decisioni della Suprema Corte, è senz’altro tale da far
auspicare un ulteriore intervento delle SS.UU. civili, sia in ordine alla riaffiorata
autonomia ontologica del danno esistenziale sia in ordine alla collocazione degli aspetti
dinamico-relazionali, surrettiziamente trasposti dall’area del biologico a quella dell’esi-
stenziale.
Giova ribadire come sia quanto meno singolare che ai giudici di legittimità sia
sfuggito come non solo la dottrina, da tempo consolidata e uniforme, ma anche il T.U.
delle Assicurazioni Private (v. art. 139 del D.Lgs. n. 209/2005) hanno espressamente
precisato che il danno biologico è comprensivo dell’ “incidenza negativa sulle attività
quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita”, riservandone altrettanto espli-
citamente l’apprezzamento al medico legale, nella misura in cui uno dei presupposti
essenziali del danno biologico sia stato appunto individuato nel suo essere per defini-
zione “suscettibile di accertamento medico-legale”.
Di fatto, ci sono un “non poter più fare”, o un “non poter più essere” il cui
accertamento — in quanto biologicamente determinati — rientra a pieno titolo nelle
competenze mediche e medico-legali (ad esempio: la perdita della piacevolezza del-
l’ascoltare la musica o del suonare uno strumento per una sordità o per un deficit
motorio ovvero del gustare esperienze eno-gastronomiche per un’anosmia o, ancora, del
ricevere ed esprimere emozioni o messaggi affettivi verbali e gestuali a causa di
compromissioni neuro-psichiche o della sfera genitale, etc.), come pure esistono — in
maniera probabilmente maggioritaria — privazioni esistenziali del tutto estranee alla
sfera biologica individuale e di fronte alle quali il medico legale deve necessariamente
eccepire la propria incompetenza.
Per fare un esempio, il non poter più appartenere ai ranghi dirigenziali ministeriali
per provvedimenti della P.A. giudicati “ingiusti” dal Consiglio di Stato (Cass. Civ., Sez.
III, n. 906 del 25/02/2014, in Danno e Resp., 5, 555-556, 2014), o per “abiologiche
alterazioni degli assetti relazionali del soggetto, che lo inducano a scelte di vita diverse
quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno” (Cass. Civ.,
Sez. III, n. 1361 del 23/01/2014, in Resp. Civ. Prev., 2, 492, 2014).
Le esemplificazioni giurisprudenziali di condizioni personali del tutto “abiologiche”
rendono evidente la sostanziale estraneità del medico legale nel loro accertamento e
sottolineano, in ogni caso, la necessità — del resto quasi sempre pretesa dalla giuri-
sprudenza — che l’accreditamento delle componenti esistenziali del danno non patri-
moniale debba essere assoggettato alla produzione di prove fattuali e circostanziali, il
cui apprezzamento rientra palesemente e, anche per quanto si dirà in seguito, a fortiori
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24 PARTE GENERALE
nelle cognizioni comuni proprie di ogni giudice, non richiedendo evidentemente alcuna
particolare competenza scientifica.
Infatti, si tratta semplicemente di comprendere la portata delle scelte di vita
individuali negativamente condizionate dall’illecito altrui, e quella della variazione delle
modalità della propria realizzazione nel contesto familiare e sociale e di altri consimili
adattamenti circostanziali: fattispecie che, lapalissianamente, non ineriscono né al
sapere medico né al sapere psicologico o psichiatrico, ma rientrano scontatamente
nell’ambito delle prove ordinarie — sulle quali si tornerà in seguito — agevolmente
valutabili in base all’esperienza comune, senza la necessità dell’intervento e della
mediazione tecnica dei predetti saperi.
Questa — in definitiva — la differenza sul piano probatorio tra danno biologico e
danno esistenziale, nonché la ragione dell’intrasferibilità degli aspetti dinamico-
relazionali dall’area del biologico a quella dell’esistenziale, pena l’evidente realizzazione
di quelle già richiamate duplicazioni risarcitorie giustamente proscritte dalle S.U. del
novembre 2008.
Su questo e su altri aspetti critici dell’attuale tendenza della Corte di Cassazione
civile a pronunciarsi con interpretazioni “creative”, specie in ordine ai criteri di prova
del danno non patrimoniale della quale si dirà tra breve, si è recentemente espresso
Francesco Donato Busnelli, richiamando anche il “giudizio preoccupato di Michele
Taruffo, che ebbe a scrivere di decisioni senza prove”.
Da ultimo, ma non per ultimo in tema di “creatività” giurisprudenziale, merita un
rapido accenno la questione del danno biologico terminale, o danno catastrofale
(declinato dalla Cassazione anche sul versante morale: alias della sofferenza di tale
indole). Fermo restando che (come molto logicamente stabilito dalla terza sezione nella
sentenza n. 15491 del 08/07/2014), se il leso è deceduto in conseguenza di illecito altrui
dopo un più o meno lungo periodo do malattia/inabilità, tale periodo deve essergli
risarcito soltanto a titolo di danno biologico temporaneo — quantunque con massima
considerazione (anche economica) per le penose circostanze nelle quali tale danno si
consuma — il problema del risarcimento per la morte ulteriormente conseguente ha
trovato variegate interpretazioni da parte della Suprema Corte, fino ad approdare alla
nota sentenza n. 1361 del 23/01/2014).
In essa si è affermata la risarcibilità del danno da perdita della vita in sé e per sé
considerata, a prescindere dalla previa consapevolezza soggettiva dell’imminenza della
morte, come sottrazione del bene supremo della vita, diverso dal bene della salute e,
quindi, ex se rilevante, al di là dei concetti di danno (biologico, o morale) terminale/
catastrofale.
Da questo postulato si è necessariamente derivata la trasmissibilità del risarcimento
della perdita della vita agli eredi, a questa stregua scontatamente cumulabile con il
risarcimento delle perdita della serenità familiare secondo gli standard economici
correnti e del danno biologico di natura psichica eventualmente innescato dal lutto.
Nella complessità delle sue sfaccettature, detta questione sfiora l’area di compe-
tenza medico-legale soltanto per quanto attiene alla valutazione del predetto danno di
natura psichica. Per tutto il resto, essa è stata di recente risolta dalla sentenza delle S.U.
Civili n. 15350 del 22/07/2015, con una nitida e ampiamente argomentata pronuncia di
rigetto.
Per inciso, è il caso di ricordare che questa sentenza ha ribadito “... la portata
tendenzialmente onnicomprensiva del danno biologico, confermata dalla definizione
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normativa adottata del Dlgs. N. 209/2005. “e che “... in esso sono ricompresi i pregiudizi
attinenti agli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato.”
26 PARTE GENERALE
“scienza privata” (alias: scienza ufficiale), di cui all’art. 115 c.p.c. e non esigere alcuna
prova scientifica, essendo accessibile alla cultura dell’uomo medio: una cultura che
sarebbe comunque alquanto riduttivo (se non offensivo) far coincidere con quella
normalmente posseduta da qualunque giudice .
Questo passaggio comporta il rischio che il giudice minimizzi la specificità delle
conoscenze richieste da un adeguato espletamento del procedimento istruttorio e
decida di degradarle da nozioni scientifiche, strettamente appartenenti agli esperti in
materia, a conoscenze comuni, possedute dall’uomo medio e, quindi, da lui medesimo.
Ad esempio, a prescindere dalla prioritaria attribuzione, da parte di specifica
normativa precedentemente richiamata, della valutazione del danno biologico alle
competenze medico-legali, non vi è chi non veda come i presupposti concettuali di
questo danno pretendano tutti una solida formazione specialistica medico-legale, se non
altro in ragione della loro indiscutibile matrice dottrinale medico-legale (dalla primige-
nia formulazione del concetto di danno alla validità psico-fisica, proposti da Cesare
Gerin, sin dal lontano 1953) e dell’appartenenza alla medesima matrice delle metodiche
che presiedono al vaglio anamnestico-clinico, semeiologico e nessologico delle lesioni
attribuibili al fatto illecito e produttive di nocumenti somatopsichici suscettibili di
quantificazione.
Viceversa, l’apprezzamento della sofferenza morale e delle componenti esistenziali
del danno non patrimoniale è sicuramente alla portata delle conoscenze ordinarie e
diffuse, quali sono quelle riguardanti i comuni aspetti della vita personale e relazionale
nelle sue declinazioni, spesso negative e frustranti, da tutti più o meno frequentemente
sperimentate.
Ricollegandoci a quanto detto in precedenza, per l’accreditamento dei predetti
profili del danno non patrimoniale, non ha dunque ragion d’essere la richiesta di
“opinioni esperte”, talvolta ricercata nel novero dei cultori delle c.d. scienze sociali o nel
novero dei medici legali, sul coinvolgimento dei quali in questa fattispecie ci si è già
soffermati.
L’opinione esperta deve essere invece immancabilmente richiesta per quanto
attiene al danno biologico, perché pretesa dalla sua stessa definizione normativa
precedentemente richiamata, mentre può sicuramente non esserlo per i profili esisten-
ziale e morale del danno non patrimoniale, anche senza scomodare la perentoriamente
“tranciante” — e troppo genericamente onnivalente — petizione di principio delle S.U.
Civili del novembre 2008, circa la non necessarietà del contributo peritale per l’accer-
tamento del danno non patrimoniale genericamente inteso.
Si può, dunque, a buon motivo affermare che la prova scientifica costituisce, in
giudizio, la prova fondamentale per far accedere il danno biologico al risarcimento.
Non solo ex lege, ma anche in pratica, essa si concretizza nella consulenza tecnica
medico-legale, alla quale il giudice deve affidarsi in maniera prevalente, se non totale,
attese le peculiarità tecniche della materia e considerato che sul piano giuridico “la
prova scientifica si presenta, proprio per il suo peculiare carattere di validità conoscitiva,
come dotata di un grado particolarmente elevato di attendibilità e di affidabilità”,
assumendo, pertanto, “un peso ed un valore dimostrativo superiori a quelli che si
riconosce alle prove ordinarie”, di scontata accessibilità alle capacità valutative e discri-
minative del giudice.
In buona sostanza, nell’ordinamento processuale civile la prova scientifica del
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danno biologico coincide con i risultati della consulenza tecnica, come disciplinata dagli
artt. 61 ss. e 191 ss. c.p.c..
All’uopo il giudice, ma anche il suo consulente, devono tenere indubbiamente
conto “dei problemi che caratterizzano l’uso probatorio della scienza, in generale e nello
specifico contesto del processo civile e della povertà dei meccanismi con i quali il giudice
deve affrontare tali problematiche” realizzando un ottimale equilibrio tra i rispettivi
saperi.
Del resto, non a caso il legislatore ha attribuito al consulente tecnico compiti di
stretto collaboratore “a latere” del giudice, differenziando così il ruolo del consulente
tecnico nel processo civile da quello che ha invece nel processo penale il perito, cui sono
demandate funzioni limitate esclusivamente all’espletamento delle indagini attinenti alla
specificità dei quesiti formulati.
Inoltre, il codice di procedura civile colloca la disciplina della consulenza tecnica
in due sezioni separate e distinte, conferendole in tal guisa un assetto alquanto ibrido.
Da un lato, secondo gli artt. 61 ss. c.p.c., in quanto ausiliario del giudice, il
consulente tecnico d’ufficio può consigliare ed assistere il giudice nella fase istruttoria
anche in modo piuttosto autonomo, fornendogli le cognizioni tecniche delle quali
quest’ultimo sia sprovvisto e che siano utili per la decisione della controversia; dall’altro
lato, come istituto processuale, la consulenza tecnica d’ufficio è disciplinata dagli artt.
191 ss. c.p.c. nel contesto dell’istruzione probatoria, pur rimanendo da essa distinta.
Siffatte scelte legislative configurano la consulenza tecnica come mezzo istruttorio
in senso lato, escludendo, di converso, la sua catalogazione nel genus dei mezzi di prova
in senso proprio.
Su questo presupposto la dottrina e la giurisprudenza hanno evitato di creare
un’artificiosa categoria dogmatica fine a sé stessa, propendendo piuttosto per ricono-
scere nella consulenza un istituto finalizzato a fornire al giudice valenze probatorie, ad
integrare le conoscenze giuridiche con le conoscenze tecniche e scientifiche, che
possono consentire al giudice di sceverare le verità e le falsità nelle allegazioni delle
parti.
Dalla qualificazione della consulenza tecnica quale mezzo d’istruzione probatoria
derivano importanti conseguenze di ordine processuale.
Anzitutto, il giudice non ha l’obbligo giuridico di ammettere la consulenza tecnica,
neppure qualora sollecitata dalla parte ad essa dichiaratasi interessata, essendo libero di
decidere se e quando chiedere l’apporto di un ausiliario tecnico; a loro volta, le parti —
pur essendo legittimate a segnalare al giudice l’opportunità della nomina di un esperto
— non sono titolari di un preciso diritto processuale al riguardo.
Insomma, soltanto al giudice spetta decidere sull’opportunità, o meno, di ricorre
alla consulenza tecnica, coerentemente con le precisazioni sopra esposte relativamente
alla valutazione o all’accertamento di un fatto per il quale siano richieste nozioni che
esulano dal sapere comune.
In logica successione con quanto dianzi esposto, si deve precisare che la giurispru-
denza di legittimità interpreta in modo alquanto estensivo la disciplina codicistica,
concedendo al potere discrezionale del giudice di merito di non ricorrere all’ausilio del
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consulente tecnico, anche ove siano in discussione fatti non appartenenti alla comune
esperienza, ma che, comunque, il giudice ritenga a lui accessibili sul piano interpreta-
tivo.
Peraltro, ove una parte richieda la nomina di un consulente tecnico, il giudice è
tenuto a motivare il suo diniego, argomentando circa la superfluità del mezzo istruttorio
rispetto alle risultanze probatorie già acquisite. Tale decisione dovrà essere tanto più
motivata, quanto più tecniche e scientifiche sono le nozioni necessarie per la valutazione
degli elementi istruttori proposti dalle parti.
In conseguenza dell’esclusione della consulenza tecnica d’ufficio dalla categoria dei
mezzi di prova in senso stretto, la parte onerata di provare i fatti costitutivi del diritto
che vuol far valere in giudizio, ai sensi dell’art. 2697 c.c., non può pretendere di fornire
la prova di tali fatti ricorrendo alla consulenza tecnica d’ufficio.
Infatti, quest’ultima non può aprioristicamente supplire alle eventuali carenze
probatorie relativamente ai fatti per i quali l’onus probandi è a carico di una delle parti.
Del resto, la Cassazione Civile, si è da tempo dichiarata contraria (n. 212/2006 e n.
3130/2011) a disporre consulenze di natura esplorativa, finalizzate a “... cercare ele-
menti, fatti o circostanze non provati dal ricorrente”.
Inoltre, essendo la consulenza tecnica un mezzo istruttorio ed essendo essa rimessa
— come dianzi precisato — alla più ampia disponibilità del giudice, non operano nei
suoi confronti le preclusioni che la legge pone alla produzione e alla deduzione dei
mezzi di prova in senso stretto. In particolare non si applica la preclusione di cui all’art.
184 c.p.c., salvo il divieto per le parti di sottoporre al consulente tecnico i documenti
diversi da quelli fino a quel momento prodotti in giudizio.
È questo un aspetto di particolare di rilevanza pratica per il medico legale operante
in veste di consulente tecnico d’ufficio, essendo assai frequenti le richieste delle parti ad
operazioni peritali già in corso, intese a far valere irritualmente accertamenti clinici e
strumentali prima mai formalmente prodotti o, addirittura, formati o acquisiti in epoca
successiva all’udienza.
Ebbene, ferma restando per il consulente tecnico d’ufficio l’opportunità, se non la
doverosità, di interpellare formalmente il giudice prima di procedere in senso positivo
o negativo nei confronti di siffatte richieste, si può tuttavia prospettare che, qualora si
tratti di supporti tecnici materiali di indagini già allegati in atti (ad esempio, pellicole e
CD radiologici, videoregistrazioni di indagini invasive o di interventi chirurgici prodotti
come refertazioni scritte, fotografie eseguite in ambito di medicina e chirurgia estetica,
etc.) o di indagini complementari ed integrative rispetto a quelle prodotte, in ordine alle
quali nessuno dei consulenti delle parti eccepisca alcunché sulla neutralità della fonte
e/o sull’attendibilità del risultato, in tali casi dovrebbe prevalere il comune e superiore
interesse a disporre del più ampio novero di elementi per la formulazione delle
valutazioni peritali.
Del resto, il consulente tecnico d’ufficio è normalmente autorizzato, in sede di
conferimento dell’incarico, ad acquisire documentazioni integrative/complementari che
possano essere utili per la risposta ai quesiti formulati dal giudice.
Invero, si è già detto che sul piano processuale il consulente tecnico d’ufficio
dispone formalmente di un’ampia autonomia, per cui può acquisire, anche di sua
iniziativa, ogni elemento utile all’espletamento del proprio mandato, desumendolo da
fonti nuove, purché si tratti di materiale non avente ad oggetto fatti posti a fondamento
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della domanda, o delle eccezioni delle parti: fatti che devono essere provati dalla parte
onerata, ai sensi dell’art. 2697 c.c..
Quanto alla validità della consulenza d’ufficio nella fase di mediazione-
conciliazione,quantunque in assenza di talune delle parti, si ricorda incidentalmente che
in una recente ordinanza del Tribunale di Roma (in data 29.4.2015, emessa nell’ambito
della causa di responsabilità sanitaria n. 33187/2013 RG) il Giudice ha interpretato il
D.Lgs. n. 28/2010 nel senso che, pur nella predetta assenza scientemente esercitata,
mantiene validità la CTU, ancorché espletata in assenza del contraddittorio, ed essa può
essere legittimamente prodotta nella successiva causa, essendo il consulente d’ufficio
nominato dal mediatore e non da una parte, per cui non vi è ragione di ritenere che il
suo elaborato tecnico sia sfornito di terzietà e di equilibrio.
Per quanto riguarda gli apporti ricognitivi degli ausiliari specialisti cooptati dal
consulente tecnico d’ufficio, al fine di fornirgli nozioni e dati di esperienza estranei ed
ulteriori rispetto alle sue competenze, è fondamentale che egli eserciti su di essi lo stesso
tipo di vaglio critico che il giudice è tenuto ad esercitare nei confronti del suo operato.
In altre parole, egli deve analizzare attentamente la correttezza scientifica e la coerenza
logica dei loro contributi tecnici e accertarsi che anch’essi abbiano rispettato le regole
del contraddittorio peritale, senza nulla trascurare di quanto prospettato dai consulenti
delle parti in ordine alle questioni prettamente specialistiche di loro comune compe-
tenza.
Il rispetto per il contraddittorio presuppone, invero, una seria ed equilibrata
valutazione delle osservazioni delle parti alla bozza della consulenza tecnica d’ufficio,
purtroppo non molto frequente nell’esperienza peritale civilistica, ma indispensabile per
garantire giudizi peritali atti a fornire al giudice solidi elementi di prova, non ultimo in
materia di danno biologico, il cui substrato — come più volte richiamato anche in base
alla nuova normativa — è indagabile e commensurabile soltanto con strumenti culturali
e tecnici di pertinenza specialistica medico-legale.
Quanto appena detto e considerato rimanda all’annosa questione dell’affidamento
di incarichi consulenziali d’ufficio non soltanto ai medici, ma anche ai laureati in altre
discipline (in primis psicologia), in ragione dell’amplissima discrezionalità che il giudice
ha non soltanto sulla nomina o meno di un ausiliario tecnico, ma anche sulla scelta dell’
“esperto” a cui affidare l’incarico.
Gli artt. 61 c.p.c. e 13 ss. disp. att. c.p.c. prevedono, infatti, che il consulente
d’ufficio possieda una “speciale competenza tecnica”, ma la predetta discrezionalità
(molto raramente contrastata dagli avvocati, per scontate ragioni di “quieto vivere”) può
essere tale da far pretermettere questo requisito.
D’altronde l’iscrizione all’albo speciale di cui agli artt. 13 ss. disp. att. c.p.c. non
rappresenta di per sé una garanzia del possesso di speciali competenze nei confronti
delle variegate questioni civilistiche, che richiedono l’apporto di differenziate compe-
tenze professionali, anche nel perimetro che circoscrive gli accertamenti di natura
medico-legale. Basti a tal proposito ricordare le molteplici fattispecie dei danni biologici
di natura psichica, iatrogena, etc.
L’amplissima discrezionalità del giudice nella designazione del consulente tecnico
d’ufficio è interpretata dalla giurisprudenza in modo particolarmente estensivo, rite-
nendosi che anche la scelta della categoria professionale di appartenenza e della
qualificazione curriculare sia incensurabile in sede di legittimità.
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Guardando più nello specifico la tipologia dell’attività peritale svolta dal medico
legale, occorre fare una fondamentale distinzione tra attività percipiente e attività
deducente.
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32 PARTE GENERALE
Ogniqualvolta l’attività del consulente tecnico sia finalizzata alla valutazione tecnica
e scientifica di fatti oggettivi o di elementi di prova già acquisiti nel processo, si versa
nel campo ultimo detto, in quanto la consulenza tecnica funge da strumento di
deduzione per il giudice.
L’attività deducente rispetta appieno la definizione della consulenza tecnica come
mezzo istruttorio, non trattandosi, in tale prospettiva, di un mezzo di prova in senso
proprio, bensì di una valutazione di circostanze già formalmente provate dalle parti nei
loro elementi costitutivi e, pertanto, finalizzata a fornire al giudice soltanto argomenti,
non prove, utili per la sua decisione.
In effetti, stando allo standard statistico della valutazione del danno biologico, al
medico legale viene per lo più richiesto di valutare le lesioni e le relative menomazioni,
delle quali le parti abbiano già fornito la prova ontologica.
Nondimeno il contributo della consulenza medico-legale è essenziale non soltanto
sul più volte richiamato piano normativo, ma anche perché il medico legale deve fornire,
in aggiunta ad una mera descrizione delle lesioni e delle loro conseguenze invalidanti,
un accertamento ed un apprezzamento quali-quantitativo delle stesse sotto il profilo del
danno biologico, nonché asseverare la sussistenza di un nesso causale/concausale con
l’evento lesivo.
Accanto a queste funzioni, è ammesso dalla giurisprudenza e dalla prassi che il
consulente possa anche percepire e, conseguentemente individuare materialmente quei
fatti, principali o secondari, la cui dimostrazione è essenziale ai fini della decisione della
causa e che, senza il suo ausilio, non sarebbero esaustivamente apprezzabili da parte del
giudice.
In questo caso, la consulenza tecnica viene qualificata come percipiente e — così
come esplicitamente riconosciuto dalla Cassazione (Sez. II, n. 12695 del 30/03/2007) è
tale da costituire fonte oggettiva di prova, con sostanziale funzione probatoria.
È bene sottolineare che la funzione percipiente può espletarsi soltanto quando i
fatti, principali o secondari, da provare possano essere dimostrati esclusivamente
attraverso l’apporto conoscitivo di un esperto in un determinato settore.
Questa restrizione del campo di applicazione dell’attività percipiente del consu-
lente risulta pienamente giustificata, ancorché costituisca una deroga alla regola gene-
rale dell’onere della prova, di principio posto a carico delle parti.
Invero, la funzione percipiente della consulenza tecnica rappresenta uno strumento
processuale eccezionale, in quanto ammissibile soltanto qualora una parte si trovi nella
materiale impossibilità o nella notevole difficoltà pratica di provare dei fatti che, per
loro natura, sono apprezzabili e dimostrabili soltanto attraverso analisi scientifiche o
metodologie e strumentazioni tecniche specialistiche, tali per cui la parte può essere
sollevata dall’onere della prova, normalmente posto a suo carico dell’art. 2697 c.c..
In tal caso, il giudice ha il dovere di disporre la consulenza, avendo la Corte di
Cassazione civile (Sez. II, n. 321 del 14/01/1999) statuito che la sentenza di rigetto della
domanda per mancanza di prove del fatto sia viziata se quel fatto poteva essere accertato
soltanto tramite una consulenza tecnica e il giudice ha respinto la richiesta della parte
a procedervi.
Infatti, i poteri discrezionali del giudice sono sempre “poteri/doveri” e non
possono essere esercitati attraverso mere scelte arbitrarie, lesive dei diritti fondamentali
della parti.
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II.f. Il significato e il valore dei giudizi formulati nella consulenza tecnica d’ufficio
34 PARTE GENERALE
medico-legale, la cui articolazione deve essere tale da consentire ai consulenti delle parti
di argomentare contra punto per punto.
Invero, la giurisprudenza di legittimità è univoca nell’affermare che, allorquando il
giudice condivida le conclusioni a cui è giunto il consulente tecnico, non è tenuto a dar
conto delle ragioni di tale condivisione, ma può limitarsi a richiamare la relazione
tecnica nelle parti dalle quali sia desumibile che le contrarie deduzioni delle parti siano
state prese in considerazione e disattese con valide motivazioni.
Viceversa, quando il giudice si discosta dalle affermazioni del proprio ausiliario,
egli deve specificamente motivare il dissenso in maniera rigorosa e precisa.
La Cassazione ha inoltre stabilito che il convincimento personale — così del
giudice come pure del consulente d’ufficio — se basato su opinioni soggettive e
prettamente individuali non può sorreggere il costrutto né di una sentenza né di una
consulenza tecnica d’ufficio.
Infatti, tanto il giudice quanto il consulente tecnico d’ufficio sono tenuti ad
applicare criteri di rigorosa oggettività: il primo deve conformare il proprio giudizio ai
principi del diritto; il secondo deve applicare il massimo rigore scientifico e valutare in
tutta neutralità e secondo i correnti indirizzi giuridici quanto di sua competenza, nel
rispetto delle regole del settore scientifico di appartenenza e del contraddittorio
giudiziario.
Quanto appena detto è di particolare rilievo anche per l’apprezzamento e la
valutazione del danno biologico, tenuto conto del fatto che, per l’accertamento del
nesso causale tra comportamento illecito e lesioni alla persona e di quello tra tali lesioni
e la menomazione psico-fisica, in ambito civilistico deve applicarsi il criterio del “più
probabile che non” (v. S.U. civili nn. 576 e 581 dell’11 gennaio 2008), diversamente da
quanto accade in ambito penale, ove vigono i criteri della “certezza oltre ogni ragio-
nevole dubbio” e della “probabilità logica”.
In altre parole, il giudice civile (come pure, per attrazione logica, il suo consulente)
deve “scegliere tra le varie ipotesi di fatto quella che appare sorretta da un grado di
conferma logica relativamente prevalente rispetto alle altre”, potendo pragmaticamente
raggiungere un convincimento trasferibile in sentenza anche qualora non tutti i dubbi
e non ogni “possibilità del viceversa” siano escludibili.
È evidente che, pur trattandosi di uno standard probabilistico meno elevato di
quello preteso in ambito penale — sia per il giudice, come pure per il consulente
tecnico- esso deve rimanere comunque fondato su criteri di razionalità e su elementi
oggettivamente accertati, compiutamente descritti, razionalmente valutati e scevri di
ogni arbitrarietà, nonché, per il secondo, sulle regole scientifiche e metodologiche della
medicina legale, improntate ad un elevato grado di attendibilità e a criteri probabilistici
largamente condivisi dalla comunità scientifica dell’area bio-medica.
Quanto alla soggettività dell’attore — che si trova nella particolare situazione di
essere contemporaneamente oggetto della perizia e soggetto del processo — le dichia-
razioni da costui rese al giudice e, soprattutto, al consulente tecnico d’ufficio possono
ben esser prese in formale e sostanziale considerazione, sempre che siano oggettiva-
mente verificabili e corroborate ab extrinseco da elementi, anche di carattere indiziario,
ma comunque altamente suggestivi della loro attendibilità.
Sarebbe infatti inaccettabile che il consulente avvalorasse acriticamente quanto
riferito dal periziato, senza vagliarlo sul piano scientifico e controllarlo sul piano
circostanziale. In buona sostanza, nell’apprezzamento e nella valutazione del danno
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Capitolo III
METODOLOGIA VALUTATIVA
DEL DANNO BIOLOGICO TEMPORANEO
di Papi, N. Bisordi
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38 PARTE GENERALE
predeterminata somma di denaro per ogni giorno di durata dello stato di malattia in
funzione della gravità di quest’ultima.
Nella (razionalmente mai derogata) consuetudine valutativa dei turbamenti imposti
alla omeostasi derivata per la graduazione del ristoro del DBT si ricorre con pragmatica
semplificazione alla terminologia da sempre adottata nella prassi valutativa della capa-
cità lavorativa specifica.
Pertanto, il DBT è considerato totale o “assoluto” quando i predetti turbamenti
raggiungono il massimo e “parziale” quando lo stato patologico e le correlate terapie
incidono in minore e variabile misura sull’efficienza psico-fisica del soggetto.
Di conseguenza, adattandoci al lessico della prassi forense, occorre stabilire quali
siano gli stati di malattia meritevoli di risarcimento a titolo di “temporanea assoluta”, o
a titolo di “temporanea parziale”, esprimibile attraverso percentuali, o aggettivazioni,
atte a graduare l’incidenza sulla quotidianità del danneggiato.
Infatti, i criteri di valutazione devono basarsi sull’entità e sulla durata della malattia
e più ancora, prescindendo da schematismi indifferenziati, sul pregiudizio specifica-
mente derivato al singolo individuo sullo svolgimento degli atti ordinari della sua
esistenza, non trascurando componenti collaterali, quali preoccupazioni e/o la depres-
sione reattiva innescate dalla malattia e/o dalle relative cure mediche e/o chirurgiche,
dai disagi dovuti alle degenze e alle protratte condizioni di immobilizzazione, nonché
dal timore di postumi, capaci di impedire o di ostacolare la realizzazione delle
prospettive future cui il danneggiato aspirava.
È qui opportuno ribadire che, rispetto a quanto scritto nelle righe che precedono
su questo punto, ove il soggetto svolga un’attività lavorativa, si dovrà valutare separa-
tamente l’ulteriore danno temporaneo da incapacità lavorativa assoluta e parziale per
tutto il tempo in cui questi non sia stato in grado di svolgerla, totalmente, o solo in parte.
Riteniamo che il DBT “assoluto” o temporaneo biologico totale non sia da
ravvisare soltanto nelle malattie che compromettono sino ai gradi estremi l’esecuzione
degli atti ordinari dell’esistenza (come in caso di coma e situazioni consimili), e
nemmeno quando sussista un’incapacità globale allo svolgimento delle attività quoti-
diane: il criterio da adottare deve invece basarsi sull’identificazione di una effettiva e
grave compromissione della possibilità di svolgere gli atti ordinari dell’esistenza, non
dovendosi tener conto di possibili cascami di efficienza biologica.
Orientativamente la “temporanea assoluta” dovrà essere riconosciuta per tutta la
durata dei ricoveri ospedalieri, in caso di immobilizzazioni di importanti distretti
corporei che limitino sensibilmente la capacità di far fronte alle esigenze personali del
vivere quotidiano e nei casi di malattie coinvolgenti l’intero organismo, con necessità di
terapie che possano alterare notevolmente la cenestesi, non perdendo di vista i più rari
casi nei quali una malattia apparentemente circoscritta può incidere comunque profon-
damente proprio sullo svolgimento delle attività abituali.
A tal proposito, può trovare motivazione una peculiare enfatizzazione, sul piano
descrittivo, delle degenze ospedaliere, che sono generalmente caratterizzate da una
particolare intensità di ben attendibili sofferenze somato-psichiche; si deve inoltre
ragionevolmente ammettere che il ricovero ospedaliero configuri, indipendentemente
dal diverso grado di dette sofferenze ovvero dalla gravità ed entità delle lesioni, un
periodo peculiare — tra l’altro facilmente documentabile — di deprivazione relazionale
da valutarsi anche sotto il profilo della salute medicalmente intesa, qualora si tenda a
perseguire una migliore personalizzazione del danno sul piano medico-legale.
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40 PARTE GENERALE
42 PARTE GENERALE
che evidenziano il ruolo giocato dal danno biologico temporaneo nell’ambito della c.d.
“temporanea sopravvivenza”.
Nella sentenza della III Sezione n. 1361 del 23 gennaio 2014, si era affermato che
la perdita della vita va ristorata “anche in caso di morte c.d. immediata o istantanea, senza
che assumano pertanto rilievo né il presupposto della persistenza in vita per un apprezza-
bile lasso di tempo successivo al danno evento né il criterio dell’intensità della sofferenza
subita dalla vittima per la cosciente e lucida percezione dell’ineluttabile sopraggiungere
della propria fine”.
Ha fatto da ideale contr’altare la successiva sentenza della medesima sezione n.
25731, del 5 dicembre 014, ove si si è invece affermato che “quando all’estrema gravità
delle lesioni, segua, dopo un intervallo temporale brevissimo, la morte, non può essere
risarcito agli eredi il danno biologico “terminale” connesso alla perdita della vita della
vittima, come massima espressione del bene salute, ma esclusivamente il danno morale dal
primo ontologicamente distinto, fondato sull’intensa sofferenza d’animo conseguente alla
consapevolezza delle condizioni cliniche seguite al sinistro ».
Questa interpretazione, del resto allineata al precedente, preponderante orienta-
mento della Cassazione, è stata poi confermata dal recentissimo (ed assai atteso)
pronunciamento delle SS. UU. (n. 15350 del 22/07/2015), le quali hanno affermato che:
“Nel caso di morte immediata, o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni ...
non possa essere invocato un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis”, in quanto
il bene giuridico “vita” costituisce bene autonomo diverso dal bene “salute”.
In altri termini, le SS.UU. hanno argomentato che, per ragioni ontologiche e
giuridiche, la morte non può essere la massima offesa possibile della salute, essendo
quest’ultima un bene di natura diverso rispetto a quello della vita, e che il risarcimento
ha natura essenzialmente “reintegratoria e riparatoria” e non “sanzionatoria e di
deterrenza” (c.d. danni “punitivi”), confermando inoltre che nell’ambito della respon-
sabilità civile rilevano “solo le perdite derivanti dalla violazione del diritto alla salute che
si verificano a causa delle lesioni nel periodo intercorrente tra le stesse e la morte”.
Le SS.UU. hanno dunque concluso che il ristoro civilistico di tale pregiudizio deve
avvenire tramite la “liquidazione di una invalidità assoluta temporanea, sia utilizzando
il criterio equitativo puro, che le apposite tabelle, ma con il massimo di personalizza-
zione, in considerazione della entità ed intensità del danno”, rimandando al prudente
apprezzamento del giudice di merito le valutazioni inerenti la quantificazione del lasso
di tempo intercorrente tra morte e lesione.
Tutto ciò consente di ritenere che tale rimando non impedisca al giudice di
acquisire un parere tecnico inteso a definire di qual grado sia stato il DBT nel predetto
lasso di tempo.
Bibliografia
MANGILI E. et al., Il giudizio medico-legale di invalidità temporanea nel risarcimento del danno da
fatto illecito, Resp Civ Prev, 6: 1390-1397, 1999.
MORINI O., MANGILI E., In tema di danno biologico temporaneo, Arch Med Leg Ass, 16: 171-178,
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SAUCH V., CABONNIE C., Cotation des souffrances endurées: nécessité et justification d’un barème
opposable, Rev Franc Dommage Corp, 1: 59-70, 2000.
THIERRY M., NICOURT B., Réflexion sur les souffrances endurées, Gaz Pal, 3: 480 ss., 1981.
TOLOMEO A., BISORDI N., Il danno biologico temporaneo (DBT): considerazioni e criteri valutativi
medico-legali, in (a cura di) Bargagna M., Busnelli F.D., “La valutazione del danno alla
salute”, 4a ed., CEDAM, Padova, 2001.
ZOJA R., Inabilità temporanea, malattia e danno biologico: riflessioni sulla valutazione medico-legale,
Dir Prat Ass, 3: 394-401, 1991.
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NOMELAV: 15/21199 PAG: 45 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
Capitolo IV
METODOLOGIA VALUTATIVA
DEL DANNO BIOLOGICO PERMANENTE
IV.a. Introduzione. — IV.b. Lo stato anteriore. — IV.c. Le macromenomazioni e il 100% di danno biologico.
— IV.d. Altre “istruzioni” per l’uso delle Linee-Guida
IV.a. Introduzione
di R. Domenici
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46 PARTE GENERALE
culturale ed operativa dei principi e degli obiettivi” della materia della valutazione del
risarcimento del danno): istruzioni che saranno comunque riprese in seguito.
Anche per l’utente esperto non sembra inutile qualche precisazione terminologica.
La, ormai lunga, vicenda del danno biologico ha conosciuto diadi di nozioni contrap-
poste: danno biologico/danno alla salute, danno statico/danno dinamico, danno biolo-
gico di base/danno biologico personalizzato e, sul versante strettamente giuridico,
danno evento/danno conseguenza. Non è questa la sede per rievocare i connessi
svolgimenti dottrinali e giurisprudenziali. Basti dire che nel tempo, alquanto singolar-
mente, ha finito con il prevalere il contenuto coerente con la concezione del danno alla
salute, ma sotto il nomen di danno biologico.
Il danno biologico oggetto della presente tabellazione è quello che può definirsi
“standard”, in quanto riferito ad un ideale “uomo medio”, così come a suo tempo ad
un analogo modello di uomo medio fu ricondotta la capacità lavorativa generica. Il suo
nucleo c.d. statico “non è ... affatto statico, ma considera in un’ottica che è già dinamica
e funzionale le ricadute esistenziali negative della patologia ispirandosi al principio di
uguaglianza formale, cioè, all’istanza di considerare l’incidenza della disfunzione sul
benessere della vittima in una maniera che prescinde da ciò che in concreto la vittima fa
di specifico nel suo quotidiano” Navarretta, 2010). L’intrinseca dinamicità è implicita
nella consapevolezza che il danno biologico non consiste nell’alterazione dell’integrità
psico-fisica di per sè, ma nella compromissione del bene salute (per sua natura
“dinamico”) conseguente a tale alterazione. Laddove poi la menomazione incida “su
particolari aspetti dinamico-relazionali e personali [“danno biologico personalizzato”],
la valutazione [percentuale] è completata da indicazioni aggiuntive da esprimersi in
forma esclusivamente descrittiva”: così recita il Decalogo della SIMLA riportato in calce
al capitolo I della Parte Generale.
Per concludere l’argomento delle duplicità, è opportuno che l’utente sia consapevole
che la valutazione del danno biologico permanente passa attraverso due stadi, che stanno
tra loro in una particolare relazione matematica, in ragione della variabilità del valore
economico del punto di invalidità. In breve, a percentuali maggiori corrisponde un valore
del punto più alto. Non è il caso di discutere qui i fondamenti teorici di tale metodologia
risarcitoria, che nasce insieme alla dottrina del danno biologico. È facile però intenderne
la finalità pratica. La scala da 1% a 100%, ideata per il ristoro dell’avere, risulta troppo
coartata per il ristoro dell’essere: si è pur detto che il bene salute è inesauribile nel vivente,
laddove invece la capacità lavorativa può essere persa del tutto. Attribuendo al punto un
valore economico di 1 per menomazioni dell’1% e di 8 per quelle del 100% (queste sono
all’incirca le proporzioni delle tabelle monetarie del Tribunale di Milano, le più diffuse
tra le diverse che arricchiscono la nostra giurisprudenza “per cantoni”), la scala delle
invalidità si estende di fatto da 1 a 800: rimedio comunque non sufficiente ad ovviare a
tutti gli inconvenienti della “scala corta”. Di conseguenza l’utente avveduto e consapevole
della guida dovrebbe tener conto di questo meccanismo di valutazione “a due stadi” per
non cadere in errori di prospettiva nell’applicazione del criterio di proporzionalità lungo
quello che si è definito l’asse verticale.
48 PARTE GENERALE
(1) Se si fa pari ad 1 il valore tabellare del risarcimento di un danno biologico dell’1% (che in moneta
corrisponde a E 1460 ad un anno di età, per poi decrescere fino a E 738 all’età di 100 anni), allora in
proporzione il 6% vale 8,25, il 7% vale 10,50 e la differenza tra 86% (702,58) e 85% (693,39) vale 9,19.
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50 PARTE GENERALE
Proprio perchè si è convinti che queste linee guida possano essere utilizzate con
profitto solo da medici legali che abbiano familiarità con i “fondamentali” della
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valutazione del danno alla persona in materia civile, si ritiene superfluo addentrarsi in
dettagliate “istruzioni per l’uso”. Sono richiamati di seguito solo alcuni aspetti, che
sembrano meritevoli di precisazioni.
52 PARTE GENERALE
Micropermanenti
Le micropermanenti — da non intendersi quali sinonimo delle menomazioni di
“lieve entità”, di cui all’art 139 D.Lgs. n. 7/09/2005, n. 209 in quanto tutte le
micropermanenti sono menomazioni di “lieve entità”, ma non tutte le menomazioni di
“lieve entità” possono essere considerate micropermanenti — sono sempre state fonte
di fastidio per il medico legale.
Se si tratta di esiti con un fondamento anatomico obiettivamente verificabile, può
essere posta in dubbio l’esistenza di loro conseguenze negative da un punto di vista
funzionale. Se si tratta di esiti con un fondamento funzionale, può essere posta in
dubbio sia la loro reale ricorrenza, sia la loro permanenza.
Sugli uni e sugli altri si sono espressi, con limpida e saggia dottrina, M Bargagna et
al, nella loro Guida che ha rappresentato il modello principale di questo testo. Tuttavia
può essere utile qualche richiamo e qualche ulteriore considerazione in rapporto alle
novelle introdotte dalla L. n. 27/2012.
Riguardo ai minimi esiti anatomici, vale la pena di richiamare il principio fonda-
mentale secondo cui il medico legale accerta la menomazione dell’integrità psico-fisica
del leso, ma valuta (e percentualizza) il pregiudizio che detta menomazione arreca alla
salute di costui. Dunque, se l’esperto constata una minima alterazione anatomica (o
anatomo-funzionale) che, in base alle conoscenze mediche, non può determinare
apprezzabile nocumento, allora non assegna alcuna percentuale di danno biologico
permanente.
Per stabilire la “soglia di apprezzamento”, di nuovo, conviene ricorrere al criterio
di analogia proporzionale secondo “l’asse orizzontale”. Ogni barème reca un certo
numero di micropermanenti con rating 1%: l’esperto dovrebbe dichiarare non percen-
tualmente apprezzabili quei difetti che appaiono ancor meno incidenti sulla salute del
leso di codeste minime menomazioni.
Per la verità, la regola del “sotto l’1% nulla” trova la sua eccezione nella
tariffazione delle menomazioni dell’apparato masticatorio, ove, anche nelle c.d. tabelle
di legge, si rinvengono percentuali dello 0,50% e dello 0,75%.
Resta affidata alla discrezione del magistrato la scelta di stabilire in via equitativa un
risarcimento, anche nel caso di minimi esiti anatomici accertabili, ma non traducibili in
termini percentuali.
Riguardo alle micropermanenti di natura essenzialmente funzionale, ove ricadano
sotto la L. n. 27/2012, esse sono risarcibili solo se accertate mediante segni obiettivi
rilevati (a) mediante esame clinico e (b) indagini strumentali (secondo una interpreta-
zione caritatevole del testo di legge, incresciosamente atecnico). Di fatto, la dizione
“suscettibile di accertamento medico-legale” dell’art 139 del D.Lgs. n. 209/2005 viene
ad assumere — attraverso i due emendamenti introdotti dalla L. n. 27/2012 —
connotati che rimandano alla dizione “obiettivamente constatabile” propria dell’infor-
tunistica privata.
Ora, il metodo medico-legale è bensì contraddistinto da quel “rigorismo obiettivo”
propugnato dai nostri Maestri, ma si fonda pur sempre sulle conoscenze cliniche
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Bibliografia
BARGAGNA M, CANALE M, CONSIGLIERE F, PALMIERI L, UMANI-RONCHI G., Guida orientativa per la
valutazione del danno biologico, Giuffrè, 3a ed. rinn., Milano, p.: XLVII-LI, 2001.
BUZZI F, VANINI M., Guida alla valutazione psichiatrica e medicolegale del danno biologico di natura
psichica, Giuffrè ed., Milano 2014.
Criteri applicativi della tabella delle menomazioni all’integrità psicofisica da 10 a 100 punti di
invalidità (DM 26/05/2004), in Palmieri L., Umani Ronchi G.C., Bolino G., Fedeli P., “La
valutazione medico-legale del danno biologico in responsabilità civile”, Giuffrè ed., Milano,
p.: XXVII-XL, 2006.
NAVARRETTA E., Contenuto del danno e problema della liquidazione, in Navarretta E., “Il danno non
patrimoniale”, Giuffrè ed., Milano, p. 96-ss, 2010.
SOCIETÀ ROMANA DI MEDICINA LEGALE E DELLE ASSICURAZIONI, “Principi informatori e criteri generali
per la formulazione delle tabelle di invalidità. Dichiarazioni conclusive”, Zacchia, 31: 212-ss.,
1956.
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Capitolo V
DANNO MORALE E SOFFERENZA SOGGETTIVA
di R. Domenici
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56 PARTE GENERALE
DANNO MORALE 57
58 PARTE GENERALE
DANNO MORALE 59
trattato con terapia antiaggregante cronica, ma, probabilmente, meno di chi abbia
riportato una deformazione del viso. Ma, da questa logica presunzione alla costruzione
di un attendibile strumento di misura delle afflizioni dell’animo ce ne corre. Al medico
legale si addice la prudenza: se il decalogo SIMLA lo esorta ad avvalersi della
misurazione numerica per la stima del danno biologico standard, ma non di quello
personalizzato — per il quale sono richieste indicazioni espresse in forma esclusiva-
mente descrittiva — allora, a maggior ragione, l’approccio descrittivo dovrà valere nei
confronti dei presupposti biologici della sofferenza morale soggettiva. Qui termina il
compito dell’esperto. Il giudice in via presuntiva, se lo ritiene, può stabilire una
correlazione fra le suddette componenti del danno biologico e il grado di sofferenza
morale, avvalendosi anche di altre informazioni (come quelle ottenute per via testimo-
niale) e di altri parametri da cui trarre utili elementi per il suo equo e motivato
apprezzamento. Tra questi, secondo importanti orientamenti dottrinali e giurispruden-
ziali, dovrebbe assumere particolare rilievo la gravità della condotta del danneggiante,
che certamente si riflette sulla sfera emotiva e morale del leso. Argomento di grande
interesse, ma che è al di là dal dominio di pertinenza delle presenti linee guida.
Bibliografia
BARGAGNA M., BUSNELLI F.D., La valutazione del danno alla salute, 4a ed., CEDAM, Padova, 2001.
BARGAGNA M., CANALE M., CONSIGLIERE F., PALMIERI L., UMANI RONCHI G., Guida orientativa per la
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NAVARRETTA E., Il danno non patrimoniale, Giuffrè ed., Milano, 2010.
PEDOJA E., PRAVATO F., La sofferenza “psicofisica” nel danno alla persona, Maggioli ed., Rimini,
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RONCHI E., MASTROROBERTO L., GENOVESE U., Guida alla valutazione medico-legale dell’invalidità, 2a
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NOMELAV: 15/21199 PAG: 60 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
NOMELAV: 15/21199 PAG: 61 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
Capitolo VI
LA PERDITA DI CHANCE
di R. Domenici, C. Toni
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62 PARTE GENERALE
universali”, le quali descrivono i fenomeni che in ogni tempo e in ogni luogo avvengono
secondo quelle leggi). Più spesso, gli esiti delle scelte dell’agente sono caratterizzate da
un rilevante grado di aleatorietà, rispondendo a modelli probabilistici (“leggi statisti-
che”, secondo Hempel: ma va rimarcato che statistica e probabilità non sono sinonimi).
In generale, l’impiego di modelli probabilistici è reso necessario: (a) dalla nostra
ignoranza (non si hanno sufficienti informazioni sul complesso meccanismo che deter-
mina il fenomeno in esame), oppure (b) da limitazioni computazionali (non siamo in
grado di processare in modo ottimale le informazioni di cui pur disponiamo), o infine
(c) dalla intrinseca aleatorietà del fenomeno (come quelli in scala atomica e subatomica,
oggetto di studio della meccanica quantistica, le cui leggi — per inciso — non possono
essere considerate meno “universali” o “fondamentali” di quelle, deterministiche, della
meccanica classica). In medicina, l’incertezza deriva fondamentalmente da incomple-
tezza di conoscenze (caso a).
Sempre in generale, nell’ambito dei modelli probabilistici, si possono distinguere
situazioni in cui l’agente conosce l’esatta distribuzione di probabilità con cui si danno
gli esiti delle proprie scelte ed altre, in cui manca qualsiasi informazione a priori sulla
distribuzione della probabilità. Un esempio del primo caso è il gioco dei dadi o della
roulette: una volta stimata nulla la probabilità che il gioco sia truccato, lo scommettitore
può calcolare esattamente il rischio della sua puntata. Un esempio del secondo scenario
è quello delle corse dei cavalli: le quote di scommessa del totalizzatore derivano da una
stima della probabilità che esprime un ragionevole grado di credenza basato sulle
evidenze disponibili (solo in parte di natura statistica). Nel caso particolare della
medicina, in diverse circostanze si dispone di una certa quantità di informazioni ricavate
da studi statistico-epidemiologici (riferiti dunque ad una popolazione) che possono
servire come base razionale per stime probabilistiche (riferite ad un particolare indivi-
duo, che si ritiene arruolabile in quella statistica). Questa operazione è definita come
passaggio dalla causalità generale alla causalità individuale, è densa di criticità e non è
esente da obiezioni metodologiche.
Un’interessante differenza tra modelli deterministici e modelli probabilistici risiede
nell’importanza, ai fini della previsione, della conoscenza del meccanismo che dà ragione
del fenomeno di interesse. Quando ad un dato antecedente segue invariabilmente un
dato evento (modello deterministico), può essere stabilito con certezza un rapporto
causa-effetto, anche se non è noto il meccanismo attraverso il quale il primo produce il
secondo. La massaia, anche se ignora i fondamenti della termodinamica, sa che l’acqua
a 100°C bolle; gli astronomi caldei, anche se ignoravano il sistema copernicano e le leggi
di Newton, sapevano predire le eclissi. Nei modelli probabilistici, l’insieme dei fatti
osservati e delle informazioni disponibili porta all’enunciazione di ipotesi esplicatorie,
cui il termine meccanismo si riferisce. L’acquisizione di nuove conoscenze — che
riducono l’ignoranza riguardo al meccanismo e consentono la revisione del modello —
ha come conseguenza la formulazione di nuove stime probabilistiche. Ad esempio, la
scoperta di un dato recettore, che conferisce sensibilità ad un farmaco antiblastico,
permette la suddivisione dei pazienti affetti da una neoplasia in due sottoclassi con
differente probabilità di remissione, a seconda che siano o no dotati di quel tale
recettore.
L’apprezzamento della chance (in ipotesi) perduta richiede, lo si ripete, il rigore del
metodo medico-legale congiunto al rispetto della logica della probabilità. Per comin-
ciare, è opportuno considerare con attenzione le peculiarità proprie della perdita di
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LA PERDITA DI CHANCE 63
chance in ambito sanitario. Come è stato giustamente osservato, essa presenta aspetti
diversi rispetto alla perdita di chance in ambito lavorativo, da cui ha tratto origine nel
percorso giurisprudenziale. In quest’ultimo settore, il danneggiato viene privato — a
motivo di altrui illecito — dell’opportunità di avvalersi di capacità e di abilità sue proprie
per conseguire un risultato desiderato (la vittoria ad un concorso, la progressione di
carriera, etc). Il danneggiato disponeva di una potenzialità: gli è stato impedito di
(cercare di) trasformarla in attualità. Si parla in dottrina di chance pretensiva che viene
ad essere perduta (1). Nel settore sanitario, le capacità e le abilità in discussione sono
quelle del medico inadempiente, che non le pone a disposizione del malato, allo scopo
di contrastare (attraverso l’appropriata terapia) o di prevenire (attraverso la prudente
profilassi) una condizione patologica presente o temuta per il futuro. Si parla in dottrina
di chance oppositiva, talora definita anche chance omissiva, in quanto di norma (anche se
non obbligatoriamente) discende da una condotta omissiva del sanitario (2).
Un’altra differenza tra settore lavorativo e settore sanitario si può rinvenire nello
scenario temporale. Nel settore lavorativo, al momento della richiesta di risarcimento,
l’evento indesiderato è già accaduto: al candidato è stata impedita la partecipazione al
concorso, al lavoratore è stata negata la progressione di carriera, etc. Nel settore
sanitario si hanno, invece, due possibili scenari. Nel primo, come avviene per il lavoro,
il danno si è già realizzato: il paziente a cui non è stato diagnosticato per tempo il tetano
è deceduto; l’altro paziente cui non è stata somministrata la profilassi anticoagulante ha
sviluppato una trombo-embolia polmonare. Questo scenario è stato da taluno definito
“chiuso” (si parla anche di “casi chiusi”). Nel secondo, il danno non si è ancora
realizzato, ma potrebbe realizzarsi in futuro. Tipico il caso delle neoplasie, dove un
ritardo di diagnosi (e quindi di inizio terapia) può comportare una riduzione delle
chance di sopravvivenza. Si parla allora di “casi aperti”, che sono comuni nella pratica
medico-legale, ma non trovano corrispettivi in quella giuslavoristica. I casi nati come
aperti possono naturalmente trasformarsi in chiusi nelle more del giudizio: la causa
civile, intrapresa dal paziente neoplastico, può essere ripresa dai suoi eredi dopo
l’avvenuto decesso determinato dal tumore.
Più in generale, è opportuno porre l’attenzione sul fatto che, nei “casi aperti”, le
chance di sopravvivenza si modificano con il trascorrere del tempo. Per una più immediata
comprensione di questa (per il medico legale, fastidiosa) proprietà dei “casi aperti”, può
essere utile prendere a modello un particolare tipo di lotteria, immaginato ad hoc.
Quaranta giocatori hanno ciascuno un biglietto a numerazione progressiva; sono
previsti dieci premi di uguale importo per i dieci biglietti vincenti; si estraggono in tre
tornate trenta biglietti e i dieci residui sono dichiarati vincenti. Prima delle estrazioni
ciascun giocatore ha una chance di vincita pari a 1/4. Dopo l’estrazione dei primi 10
biglietti perdenti, per 30 giocatori la chance è salita a 1/3 e per 10 si è azzerata. Dopo
(1) In realtà, anche la valutazione della perdita di chance pretensive di natura strettamente patrimoniale
può richiedere l’apporto di competenze medico-legali. Per esempio, quando l’impossibilità a presentarsi alla
prova di ammissione di un concorso venga fatta dipendere dalla temporanea invalidità, conseguente a patita
lesione. O, altro esempio, quando per effetto di una lesione iatrogena alle corde vocali si lamenti l’impossi-
bilità di coltivare le aspirazioni ad una carriera di cantante.
(2) Ma talora, in ambito giuridico, le denominazioni si invertono: il termine pretensivo rimanda a
responsabilità contrattuale (come le chance perse per inadempimento da parte del sanitario) e il termine
oppositivo rimanda a responsabilità extracontrattuale (caso dell’automobilista che investa il candidato,
impedendogli di presentarsi ad un concorso).
NOMELAV: 15/21199 PAG: 64 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
64 PARTE GENERALE
l’estrazione dei secondi 10 biglietti perdenti, per 20 giocatori la chance è salita a 1/2 e
per altri 10 si è azzerata. Dopo l’estrazione degli ultimi 10 biglietti perdenti, la chance
è pari a 1 (100%) per i 10 giocatori che hanno vinto e a 0 per gli altri 30.
Allo stesso modo, poniamo che al “tempo zero” la probabilità di sopravvivenza a
15 anni di un determinato paziente, cui è stata diagnosticata una neoplasia, sia stimata
pari al 60%. Ciò significa, in altri termini, che il paziente può essere considerato
membro di una certa popolazione di 100 individui, solo 60 dei quali saranno ancora in
vita 15 anni dopo, ma che — per nostra ignoranza riguardo ai fattori genetici ed
ambientali che condizionano il decorso della malattia (il c.d. meccanismo) — non siamo
in grado di stabilire se egli sarà, o no, tra i sopravvissuti. Ammettiamo che la curva di
mortalità nel tempo non sia lineare e che in particolare si preveda che, dei 100 pazienti,
7 vengano a morte entro 1 anno, 23 entro 3 anni, 30 entro 5 anni, 38 entro 10 anni e
40 entro 15 anni. Se dopo cinque anni il paziente in questione fosse ancora in
remissione, verrebbe a far parte della ideale popolazione dei 70 sopravvissuti, 60 dei
quali si prevede sarebbero ancora in vita al quindicesimo anno (3). Dunque, la sua
probabilità di sopravvivenza sarebbe a quel tempo pari a 6/7 (circa l’86%). Ovviamente,
nell’ipotesi di diagnosi tardiva, le chance residue che rilevano sono quelle che possono
essere stimate all’epoca del giudizio: esse dovrebbero essere raffrontate con quelle che,
in pari epoca, sarebbero invece sussistite, se la diagnosi fosse stata tempestiva.
La conoscenza dei primi fondamenti delle regole della probabilità è indispensabile
all’esperto, ma costituisce pur sempre solo un punto di partenza. Compito del consu-
lente tecnico è di trasmettere al magistrato, nella forma più comprensibile, tutte le
evidenze disponibili per la formazione del giudizio da cui discende la decisione.
Responsabilità tanto maggiore, quella del consulente, in quanto il magistrato, per
assumere la decisione in tema di nesso di causa o di perdita di chance nell’ambito della
responsabilità sanitaria, non dispone di altri elementi di giudizio: né propri, derivati da
generalizzazioni di esperienza (“sapere esperienziale”), né pertinenti a saperi diversi da
quello medico, fornitigli da altri esperti. (Che poi vi siano sentenze dove non fondate e
personali opinioni del giudice vengano contrabbandate sotto l’ingannevole specie della
“probabilità logica”, per rimodellare il giudizio, è un’altra faccenda.)
Naturalmente, premessa indispensabile per il riconoscimento di una perdita di
chance è la dimostrazione di un censurabile errore nella condotta professionale del
sanitario. A questa segue una seconda dimostrazione: che l’adozione dell’appropriate
standard of care (per usare un’espressione della giurisprudenza di common law) avrebbe
concretamente aumentato la probabilità di evitare il danno (“casi chiusi”) o garantito
una migliore prognosi (“casi aperti”). Questa seconda dimostrazione passa attraverso
una realistica stima dei valori pertinenti di probabilità: le evidenze che consentono di
formulare tale stima sono costituite principalmente da dati statistico-epidemiologici. È,
dunque, circostanza sfortunata che non si abbiano a disposizione informazioni suffi-
cientemente attendibili riguardo a numerose malattie. Va detto, peraltro, che per alcune
patologie di frequente occorrenza nel contenzioso, e segnatamente per le più comuni di
(3) L’esempio è tratto da una simulazione eseguita con il software CancerMath (vedi poi) e si riferisce
ad una paziente 40enne affetta da melanoma in stadio T3a, M0, N0. Per semplicità di esposizione si è omesso
di considerare la mortalità attesa per cause diverse dalla neoplasia. In realtà, nella simulazione su 100 pazienti
in analoghe condizioni, 60 saranno ancora in vita 15 anni dopo, 38 saranno morte per il tumore e 2 per altre
cause.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 65 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
LA PERDITA DI CHANCE 65
quelle neoplastiche, la messe dei dati statistici è spesso adeguata per quantità e per
qualità. Tuttavia, la trasposizione di inferenze riguardanti la popolazione in inferenze
riguardanti il singolo individuo rimane critica. Non è questa la sede per una discussione
sulle obiezioni di carattere metodologico che vengono opposte alla legittimità del
passaggio dalla causalità generale a quella individuale. Però, una volta ammesso che tale
passaggio sia legittimo, occorre comunque tener ben presenti alcuni caveat. Le popo-
lazioni di malati da cui si ricavano le statistiche vengono assemblate negli studi sulla
base di criteri di omogeneità, ma il fatto stesso che queste popolazioni si ripartiscano in
due (o più) frazioni a seconda dell’evoluzione naturale della patologia in esame, o degli
esiti della terapia, dimostra che in realtà esistono fattori eziologici non considerati che
le rendono disomogenee, dando ragione del diverso destino dei pazienti. Nella misura
in cui tali fattori sono, allo stato, inconoscibili vale il rimando alla mera casualità (si è
detto che l’impiego di modelli probabilistici trova motivazione nell’incompletezza delle
conoscenze relative al “meccanismo”). Ma vi possono anche essere fattori eziologici
noti, che gli autori dello studio statistico non hanno potuto tenere in considerazione —
per esempio, per la necessità di assemblare un gruppo numericamente significativo di
pazienti — e che devono invece essere considerati nell’adattare i risultati della statistica
al singolo individuo. Nel caso particolare delle neoplasie (4), le statistiche possono
aggregare nello stesso raggruppamento pazienti con diversi istotipi di un determinato
tumore. In generale, un singolo paziente può presentare, in comorbidità, una o più
condizioni cliniche che, secondo accettate cognizioni scientifiche, sono in grado di
condizionare il decorso della malattia, non presenti (o non considerate) nella popola-
zione di riferimento. L’esperto (si usa il singolare, ma si auspica il ricorso ad un collegio
che comprenda, oltre a quelle medico legali, anche le altre appropriate competenze
specialistiche) dovrebbe tener conto di tutti codesti fattori eziologici addizionali per
meglio calibrare la valutazione probabilistica sul caso concreto (5).
Ancora, vanno tenuti nel dovuto conto altri elementi, talora insuperabili, di
incertezza. Ad esempio nelle patologie neoplastiche può qualche volta essere impossi-
bile stabilire in quale stadio della malattia versasse il malato all’epoca della mancata
diagnosi. Spesso, l’incompletezza delle informazioni a tale riguardo induce l’esperto ad
ipotizzare un ventaglio di ipotesi, da cui discende un range di probabilità di sopravvi-
venza compreso tra un minimo e un massimo. Nei casi che abbiamo definito “chiusi”
le difficoltà si arrestano a questo punto: un esito certo (la morte determinata dal tumore)
contro una stima incerta (probabilità di sopravvivenza se la diagnosi fosse stata
tempestiva). Nei casi “aperti”, quando il giudizio riguarda un paziente neoplastico in
fase di remissione, si introduce un ulteriore elemento di difficoltà: la stessa stima incerta
(la probabilità di sopravvivenza se la diagnosi fosse stata tempestiva) contro una stima
comunque, sebbene in minor grado, incerta (probabilità di sopravvivenza allo stato).
È vero che l’esperto può trar partito anche da alcuni software disponibili in rete,
che consentono di formulare — in pazienti affetti da determinate patologie neoplastiche
(4) Per la perdita di chance nelle malattie neoplastiche si rimanda in particolare al Cap. 18 di queste
Linee Guida.
(5) Questo percorso razionale è descritto, nella giurisprudenza, come passaggio dalla (insufficiente)
“probabilità statistica” alla (appagante) “probabilità logica” (le virgolette sono d’obbligo, perchè questi
termini assumono nel linguaggio dei giuristi un significato diverso da quello ordinariamente attribuito loro
dalla scienza della probabilità).
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66 PARTE GENERALE
LA PERDITA DI CHANCE 67
(6) Per esempio le c.d. tavole di Hummel, per la stima della probabilità di paternità (HUMMEL K.,
Biostatistical opinion of parentage, Fischer, Stuttgart, 1971), recano i seguenti “predicati verbali”: >99,75%
“paternità praticamente provata”; tra 99,75% e 99% “paternità altamente probabile”; tra 99% e 95%
“paternità molto probabile”; tra 95 e 90% “paternità probabile”; tra 90% e 50% “valore indifferente”. La
scala numerica adottata dallo Statens Kriminaltekniska Laboratorium svedese, utilizzata per l’attribuzione a
un indagato di reperti biologici (come tracce di sangue) e non, si estende da +4 a -4. A +4 corrisponde una
probabilità uguale o maggiore di 99,9999% (“il risultato supporta in maniera ‘estremamente forte’ l’ipotesi
di attribuzione”); a +3 una probabilità compresa tra 99,9999% e 99,98% (“il risultato supporta in maniera
‘forte’ l’ipotesi di attribuzione”); a +2 una probabilità compresa tra 99,98% e 99% (“il risultato supporta
l’ipotesi di attribuzione”); a +1 una probabilità compresa tra 99% e 85% (“il risultato supporta ‘in qualche
misura’ l’ipotesi di attribuzione”); a 0 una probabilità compresa tra 85% e 15% (“risultato indifferente”); e
così via.
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68 PARTE GENERALE
sentenze della Corte di Cassazione, che distingue tra “probabilità” e “sola possibilità”
di conseguire un risultato vantaggioso (7).
Da ultimo, forse non è superfluo ricordare che, sia in presenza, sia in assenza di
perdita di chance, può comunque sussistere un separato danno biologico, suscettibile di
autonoma valutazione. Due sono i casi paradigmatici. Nel primo, il ritardo diagnostico
di una condizione neoplastica è stato troppo breve, in relazione allo stadio del tumore,
per ridurre l’aspettativa di sopravvivenza: non vi è dunque stata perdita di chance.
Tuttavia, deve essere preso in considerazione il riconoscimento di un periodo di
invalidità temporanea, pari alla durata del ritardo, tanto più se durante detto periodo vi
sono state manifestazioni sintomatiche riconducibili alla neoplasia. Il secondo caso
riguarda un ritardo diagnostico che abbia determinato una progressione di malattia
neoplastica tale da far prospettare l’eventualità di una riduzione dell’aspettativa di vita.
Se il ritardo ha anche condizionato un intervento terapeutico più invasivo o demolitivo
di quello che sarebbe stato necessario in caso di diagnosi tempestiva, allora, oltre alla
perdita di chance, dovrà essere riconosciuto anche un danno biologico permanente.
Va oltre le finalità di queste “linee-guida” la discussione di ulteriori aspetti della
perdita di chance, riferiti a beni non patrimoniali diversi dalla salute, come la sofferenza
morale cagionata dalla consapevolezza delle ridotte aspettative di sopravvivenza a
cagione dell’errore medico, o come il pregiudizio della possibilità di programmare
“l’agenda di vita” per la tardiva conoscenza di una prognosi infausta.
Bibliografia
APRILE A., FABRIS A., RODRIGUEZ D., Danno da perdita di chance nella responsabilità medica, Padova
University Press ed., 2014.
BILANCETTI M., BILANCETTI F., La responsabilità penale e civile del medico, 8a ed., CEDAM, Padova,
2013 (Cap III: “Il rapporto causale tra la condotta e il danno, una prospettiva nuova: la
perdita della chance di guarigione”, p.: 998-1041).
CHINDEMI D., Responsabilità del medico e della struttura sanitaria pubblica e privata, Altalex ed.,
Milano, 2014 (Cap VI-5: “Il danno da perdita di chance”, p.: 477-491).
DE FINETTI B., Filosofia della probabilità, in (a cura di) Mura A., “Il Saggiatore” ed., Milano, 1995.
FARNETI A., CUCCI M., LOCATELLI A., Il ritardo diagnostico in oncologia, Giuffrè ed., Milano, 2007,
FIORI A., MARCHETTI D., Medicina legale della responsabilità medica — Nuovi profili, vol. 3, Giuffrè
ed., Milano, 2009 (Cap VIII-9: “La perdita di chance come danno patrimoniale e non
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http://www.lifemath.net/cancer
http://www.skl.polisen.se/en/English
NORELLI A. ET AL., La “perdita di chance”: un’importante chance per la medicina legale, Riv It Med
Leg, 37: 389-400, 2015.
(7) Così, nella menzionata sentenza 21619/2007, giudici supremi usano il termine “probabilità
relativa” per designare quella superiore al 50% (ma che non raggiunge la “quasi certezza”) e di possibilità per
riferirsi a quella inferiore al 50%. Possibile, come gradazione quantitativamente inferiore di probabile, fa
parte del linguaggio comune o colloquiale ma non trova riscontro nel lessico scientifico, di cui — sembra a
chi scrive — dovrebbero servirsi anche gli uomini di legge, quando fanno riferimento a nozioni proprie delle
materie scientifiche, come quelle relative alla probabilità.
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LA PERDITA DI CHANCE 69
NOCCO L., Il “sincretismo causale” e la politica del diritto: spunti dalla responsabilità sanitaria,
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VIAZZI C., L’accertamento del nesso causale: ruolo della medicina legale e ricostruzione giuridica del
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Capitolo VII
METODOLOGIA VALUTATIVA NEI SOGGETTI IN ETÀ EVOLUTIVA
VII.a. Premessa e criteriologia generale. — VII.b. Danno somatico in età evolutiva. — VII.c. Danno psichico
in età evolutiva. — VII.c.1. La nozione di sviluppo psichico. — VII.c.2. Danno temporaneo e danno
permanente. — VII.c.3. Criteri diagnostici categoriali e dimensionali. — VII.c.4. Quadri psicopatologici. —
VII.c.5. Eventi patogenetici/condizioni in grado di produrre un danno risarcibile
72 PARTE GENERALE
medico-legale, disegnati dai due principali codici del nostro ordinamento e da alcune
leggi, al di là della risaputa acquisizione della capacità di agire e della possibilità di
essere ritenuti penalmente imputabili dopo il compimento dei 18 anni.
I 14 anni rappresentano l’età più ricorrente sia in ambito penale, che in ambito
civile. Al di sotto di essa un individuo non è imputabile, salvo che se ne dimostri la
capacità di intendere e volere. A questa età è riconosciuto il diritto di querela, anche in
caso di rinuncia da parte dei legali rappresentanti, come pure di remissione della
querela, in accordo con i predetti. Non è punibile il minore che compia atti sessuali con
un minore di 13 anni, se la differenza d’età non è superiore a 3 anni.
La donna minore può accedere a presidi contraccettivi a qualsiasi età, come pure
può ottenere l’interruzione volontaria della gravidanza anche a fronte del dissenso dei
genitori, su provvedimento motivato del giudice tutelare; in caso di urgenza medical-
mente certificata non è necessario neppure l’intervento del giudice.
Nel diritto di famiglia l’età maggiormente considerata è quella dei 16 anni,
compiuti i quali il minore, in caso di gravi motivi valutandi da parte del Tribunale, può
contrarre matrimonio; a tale età si può riconoscere un figlio nato fuori dal matrimonio
e si è richiesti di assentire al riconoscimento da parte del genitore naturale, nonché
essere ascoltati dal giudice in caso di nomina di un tutore, e, addirittura dall’età di 10
anni, per quanto riguarda le modalità di espletamento della tutela legale e di formazione
scolastica e professionale. Dai 15 anni il minore può essere avviato al lavoro.
In ambito clinico è ormai prassi consolidata coinvolgere nelle procedure di
informazione e consenso anche in minori ultra-dodicenni e, in determinate contingenze,
pure infra-dodicenni. A tal proposito sono noti al contesto peritale medico-legale casi
di rifiuto di cure oncologiche particolarmente “gravose” da parte di minori, nei
confronti dei quali si è proceduto a valutazione peritale — con esito positivo — della
maturità intellettiva e della adeguata consapevolezza decisionale in ambito giudiziario.
Ciò sinteticamente premesso sul piano normativo, per quanto qui elettivamente
interessa è opportuno un sintetico richiamo a quelle tappe dello sviluppo individuale
che la medicina dell’età evolutiva ha di massima individuato in questi ultimi anni,
secondo la seguente scansione quali-quantitativa (adeguata alle esigenze di questo
contesto):
— prima infanzia: dalla nascita a 2 anni;
— seconda infanzia: da 2 a 6 anni;
— fanciullezza: da 6 a 10 anni;
— pre-adolescenza: da 10 a 13 anni;
— adolescenza: da 13 a 16 anni;
— post-adolescenza: da 16 a 18 anni.
In linea di massima, fino ai 2 anni il bambino non ha ancora raggiunto la fase
concettuale, cioè del ragionamento deduttivo e interpretativo che prescinde dalla diretta
osservazione di un fenomeno, per poi acquisire gradualmente, dai 2 ai 6 anni, delle idee
sulla relazione causa-effetto e sulla possibilità di prevedere ciò che sta per accadere,
anche se in termini ancora alquanto “egocentrici”; dai 6 ai 10 anni acquisisce la capacità
di cogliere le relazioni spazio-temporali e il significato dei numeri, di compiere
ragionamenti logici e collegarli ad azioni concrete e individua sempre più correttamente
le caratteristiche di ciò che lo circonda; infine, dai 10 ai 13 anni, con piuttosto ampia
variabilità inter-individuale, si va progressivamente completando il pensiero logico e
astratto e la capacità di compiere operazioni mentali relativamente complesse.
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74 PARTE GENERALE
76 PARTE GENERALE
sostitutive, dipendentemente dalla precocità della loro instaurazione), nonché per altre
severe menomazioni (principalmente inerenti le funzioni neurologiche e muscolo-
scheletriche, foriere di importanti squilibri bio-meccanici produttivi di riverberi disfun-
zionali anche a carico di distretti non direttamente coinvolti dalla lesione primitiva),
oppure ancora per gravi sovvertimenti delle funzioni di strutture anatomiche uniche
non compensabili da adelfe, nell’età evolutiva il danno biologico ancora non compiu-
tamente assestato, ma suscettibile di miglioramento — secondo i criteri clinico-
prognostici e statistico-epidemiologi dianzi indicati — può essere per lo più parame-
trato - non come regola tassativa, ma soltanto come suggerimento di carattere pratico e
con valore indicativo — sui livelli percentuali inferiori delle fasce indicate in queste
Linee Guida.
Oltre ai sopra accennati casi di natura endocrinologica, maggiormente importanti
per quanto riguarda l’età evolutiva, esistono — non soltanto in questa età, ma qui con
maggior incidenza negativa — altre condizioni morbose, o post-traumatiche, che
richiedono l’adozione di misure farmaco-terapiche da protrarsi sine die. Ad esempio: la
somministrazione di anti-epilettici, di anti-trombotici, di analettici cardiaci o respiratori,
di anti-virali, etc. Come pure esistono casi per i quali sussistono rischi/condizionamenti
particolari, che impongono estemporanee misure di cure e profilassi farmacologiche,
quali, ad esempio: la fragilità immunologica in occasione di contagi batterici negli stati
splenoprivi, la propensione alle infezioni urinarie nelle compromissioni delle vie
escretrici, la necessità di pro-coagulanti nelle patologie a carattere emorragico, etc.
È evidente che i predetti condizionamenti terapeutici — che compromettono in
maniera variabile, ma comunque quasi mai trascurabile — la qualità della vita di coloro
che ne sono assoggettati, devono trovare adeguata considerazione valutativa. Pertanto,
per fattispecie non inscritte nel catalogo delle voci comprese in queste Linee Guida che
contemplano espressamente implicazioni di questa natura, si deve procedere sia mo-
dulando la percentualizzazione nei termini maggiorativi precedentemente indicati, sia
aggiungendo alla quantificazione numerica una sufficientemente dettagliata descrizione
delle specifiche ripercussioni negative determinate dalla “schiavitù” delle cure sulla vita
personale e socio-relazionale.
In questo contesto torna particolarmente utile la parametrazione in fasce percen-
tuali, in quanto essa consente — specie nelle situazioni nelle quali l’età comporta
tipicamente una significativa variabilità sul piano del recupero funzionale — quel già
raccomandato adattamento della quantificazione numerica che è particolarmente utile
specie nelle condizioni di maggior portata invalidante; infatti, ad esse corrispondono
fasce percentuali maggiormente ampie, all’interno delle quali può essere prescelto il
valore più adeguato alla potenziale evolutività, in peius, o in melius, delle menomazioni.
Esempi paradigmatici si trovano nelle peculiari quantificazioni delle più volte citate
compromissioni endocrine, ma anche di quelle sensoriali (in primis vista e udito) che
s’instaurano a sviluppo somatico non completato.
D’altra parte, è il caso di sottolineare che — quantunque su piano diverso rispetto
a quello sul quale si muove la valutazione medico-legale — nel vigente sistema
risarcitorio la traduzione economica del danno biologico privilegia — correttamente —
le fasce d’età giovanili, attraverso una capitalizzazione che contempla, ab intrinseco,
compensazioni più elevate proprio per coloro che appartengono all’età evolutiva.
A prescindere da questo presupposto di indole giuridica, nelle percentuali predi-
sposte in queste Linee Guida sono regolarmente richiamate e considerate, per ogni
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78 PARTE GENERALE
intendersi come condizioni patogene diverse fra loro che possono produrre esiti clinici
simili.
Qualora l’evento o gli eventi psicolesivi non abbiano determinato una compromis-
sione del processo di sviluppo, è possibile fornire alcune utili applicazioni valutative.
Sono da considerarsi le variazioni peggiorative relative ad alcune capacità tra le
quali in età evolutiva assumono particolare rilevanza le seguenti: capacità di relazione
sociale; espressione degli affetti; capacità di addormentamento, qualità e continuità del
sonno; comportamento alimentare; cura della persona; attività ludiche di gruppo; tono
dell’umore; funzionamento scolastico.
Le suddette manifestazioni sono spesso comprese all’interno di un disturbo
dell’adattamento non cronicizzato.
80 PARTE GENERALE
Sul piano clinico, le reazioni possono includere due principali quadri nosografici:
il Disturbo dell’adattamento (DA) ed il Disturbo da stress post-traumatico (DSPT).
Oltre a questi vanno considerati alcuni disturbi specifici dell’infanzia quali: il Disturbo
reattivo dell’attaccamento, il Disturbo da impegno sociale disinibito (più rari e legati a
condizioni di abuso e neglect nella prima infanzia) e il Disturbo d’ansia da separazione
(originato da esperienze di distacco forzato dalle figure di attaccamento).
I primi due disturbi sono stati trattati in forma generale e con dettagliati riferimenti
al DSM 5 nel capitolo dedicato alle menomazioni delle funzioni psichiche. Anche per
gli altri, specificamente inseriti in questo capitolo, si è tenuto debito conto delle
definizioni e dei criteri riportati nel DSM-5.
Tra gli eventi in grado di generare reazioni psichiche negative sono descritte alcune
condizioni del tutto peculiari per l’età evolutiva, rappresentate dall’orfanezza, dal
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82 PARTE GENERALE
A. Comportamento emotivamente inibito e ritirato nei confronti dei caregivers adulti, che si
manifesta attraverso rara, o minimale ricerca di conforto del bambino e altrettanto esigua risposta
agli atti consolatori nei momenti di disagio.
B. Persistenti turbe sociali ed emotive caratterizzate da almeno due delle seguenti condizioni:
— minima responsività sociale ed emotiva agli altri
— ridotte risposte affettive positive
— episodi di inspiegabile irritabilità, tristezza o paura nei confronti dei caregivers.
C. Il bambino è stato vittima di almeno uno dei seguenti fenomeni:
— trascuratezza, deprivazione sociale, con mancanza di soddisfazione dei fondamentali
bisogni da parte dei caregivers
— reiterati mutamenti delle persone di riferimento, con impossibilità a stringere legami
stabili
— permanenza in ambienti educativi inadeguati allo sviluppo di solidi e selettivi legami (es.
collegi, istituti).
D. Correlazione causale tra le condizioni di cui al criterio C e quelle di cui al criterio A.
E. Insussistenza dei criteri propri dei disturbi dello spettro autistico
F. Il disturbo esordisce prima dei 5 anni.
G. Il bambino ha un’età evolutiva di almeno 9 mesi.
Sul piano diagnostico differenziale deve essere distinto dai disturbi della sfera
autistica, dai disturbi dello sviluppo intellettivo e dai disturbi depressivi.
Possibili complicanze sono rappresentate da ritardo cognitivo e del linguaggio.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per la quantificazione del danno biologico permanente, dipendentemente dalla durata del neglect e dalla
numerosità dei sintomi precedentemente elencati, nonché in base alle menzionate aggravanti e ai criteri
prognostici derivati dall’esperienza clinica, può essere utilizzata la seguente scansione percentuale.
Forma lieve 11-15%
Forma lieve complicata o moderata 16-20%
Forma moderata complicata o grave 21-25%
Forma grave complicata 26-30%
A. L’interrelazione del bambino con adulti sconosciuti è caratterizzata da almeno due dei
seguenti comportamenti:
— ridotta o assente riservatezza nei contatti con adulti non familiari
— eccessiva confidenzialità nei comportamenti fisici e verbali
— scarso o assente controllo a distanza dei caregivers, anche in contesti non familiari
— propensione ad allontanarsi con un adulto sconosciuto senza alcuna esitazione.
B. I comportamenti del precedente criterio A non sono limitati all’impulsività (come nel
disturbo da deficit di attenzione/iperattività — DDAI), ma comprendono anche un comporta-
mento sociale disinibito.
C. Il bambino ha sperimentato situazioni di cure estreme o insufficienti, comprovate da
almeno una delle seguenti condizioni: neglect sul piano affettivo, consolatorio e stimolativo;
reiterati mutamenti delle figure di riferimento; inserimento in ambienti educativi inadeguati allo
sviluppo di solide e selettive affettività.
D. Presumibile correlazione causale tra le condizioni di cui al criterio C e quelle di cui al
criterio A.
E. Il bambino ha un’età evolutiva di almeno 9 mesi
84 PARTE GENERALE
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La sua portata invalidante è sostanzialmente simile a quella del disturbo reattivo dell’attaccamento, ma
mancano di solito le reazioni controtransferali dei caregivers, per cui dipendentemente dalla durata del
neglect e dalla numerosità dei sintomi precedentemente elencati, questo disturbo può essere quantificato su
livelli meno elevati del precedente, così delineabili.
Forma lieve 6-10%
Forma lieve complicata o moderata 11-15%
Forma moderata complicata o grave 16-20%
Forma grave complicata 21-25%
B. La paura, l’ansia o i comportamenti evitanti persistono per almeno quattro settimane nei
bambini e negli adolescenti e tipicamente per almeno sei mesi negli adulti.
C. I disturbi causano disagio clinicamente significativo o disabilità in ambito sociale,
scolastico e occupazionale, o in altre importanti aree del funzionamento.
D. Il disturbo non è meglio spiegato da altri quadri psicopatologici, come quelli dello spettro
autistico, i deliri e le allucinazione dei disturbi psicotici, il rifiuto di uscire senza una compagnia
tranquillizzante nell’agorafobia, le preoccupazioni di contrarre una malattia o di incorrere in gravi
rischi del disturbo d’ansia generalizzata, o il sospetto di essere malati nel disturbo d’ansia da
malattia.
Periodi più o meno brevi di incremento dell’ansia dovuto alla separazione dalle
figure di attaccamento fanno parte integrante del processo di crescita del bambino,
anche perché favoriscono la creazione di relazioni di attaccamento sicure; pertanto,
onde distinguere tali forme ansiose fisiologiche da quelle patologiche, è necessaria
un’accurata disamina dello sviluppo psicosociale del bambino.
Il disturbo d’ansia di separazione è il disturbo d’ansia più diffuso nei bambini con
meno di dodici anni ed è più frequente nel sesso femminile. L’esordio può verificarsi in
qualsiasi momento durante l’infanzia e l’andamento è tipicamente oscillante, con
alternanza di periodi di esacerbazione e di remissione.
La manifestazioni cliniche variano in base all’età del bambino (preoccupazioni
aspecifiche, paure, calo del rendimento scolastico); nei casi di maggiore gravità possono
verificarsi reazioni di rabbia e aggressività, rifiuto scolastico, isolamento sociale, fino al
completo blocco dell’evoluzione e della maturazione psichica e all’insorgenza di im-
portanti disturbi psicopatologici permanenti di tipo ansioso-depressivo.
Generalmente il disturbo recede nel corso degli anni, ma può talora persistere in
età adulta, causando limitazioni nelle attività socio-lavorative (riluttanza a lasciare la
casa dei genitori, a sposarsi, a viaggiare, a traslocare, etc.).
Il disturbo d’ansia di separazione mostra una significativa componente genetica
(l’ereditabilità è stata stimata al 73%), ma si sviluppa spesso anche a seguito di life
events stressanti, specialmente morte o malattie di persone care, divorzi e separazioni
dei genitori, emigrazioni, traslochi, cambiamenti di scuola, etc.
I comportamenti iperprotettivi e intrusivi dei genitori sembrano svolgere un ruolo
favorente.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Dipendentemente dall’entità e dalla numerosità dei sintomi elencati nei precitati criteri diagnostici e dal
possibile sbocco in disturbi d’ansia o depressivi, il danno biologico permanente può essere modulato
attraverso i seguenti parametri
Forma lieve 11-15%
Forma moderata 16-20%
Forma grave 21-25%
Forma grave complicata 26-30%
86 PARTE GENERALE
Traumatismi cranici
La valutazione degli esiti di un traumatismo cranico nel minore è assai complessa
poiché il trauma interviene su di un encefalo ancora in evoluzione e gli esiti dipende-
ranno da quando e quanto il trauma influenzerà lo sviluppo anatomo-funzionale, che,
a sua volta, comprometterà l’acquisizione di nuove abilità.
Sarà dunque molto importante distinguere fra le diverse aree che possono essere
colpite e tenere conto che, in base alla sede della lesione, si assisterà ad esiti sintoma-
tologici differenti.
Gli esiti neuropsicologici possono consistere un disfunzioni settoriali (disabilità
linguistiche e/o prattognosiche) ovvero in un deterioramento cognitivo di entità deri-
vante sia dalla sede e dall’entità della lesione, sia dallo stadio di sviluppo del bambino.
Per quanto riguarda gli esiti neurologici si rimanda al capitolo dedicato alle
funzioni neurologiche centrali.
Orfanezza
Si tratta di una condizione sulla quale vi è concordanza, in letteratura, circa il fatto
che la perdita di una persona di riferimento, specie di un genitore, è sicuramente atta
a pregiudicare l’armonioso sviluppo della persona, inducendo importanti distorsioni
nello sviluppo della personalità e delle relazioni inter-personali. La morte di un genitore
va ad incidere pesantemente sulla relazione affettiva, educativa e di accudimento,
facendo venire meno al bambino una base sicura capace di strutturare i processi di
attaccamento e di costruzione della propria identità personale.
Ne è prova sia la documentata prevalenza di molti disturbi psichici (dalla depres-
sione ad altre patologie, come il DSPT), sia l’elevata incidenza di suicidi nei soggetti che
hanno perso un genitore in età infantile.
Del resto, anche il DSM-5 riconosce la possibilità di sviluppare un disturbo da lutto
da parte di bambini di età superiore a 1 anno, appunto per la perdita di un genitore.
Pure secondo il PDM (2008) “la perdita di un genitore interferisce col normale
sviluppo” del bambino, anche se questi “non manifesta alcun sintomo specifico del lutto”,
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88 PARTE GENERALE
Sul piano descrittivo occorre distinguere gli stressors isolati o ripetuti. La maggior
parte delle condizioni di abuso/maltrattamento corrisponde a stress ripetuti, mentre le
reazioni tipo DSPT rappresentano una minoranza di casi che seguono per lo più ad
esperienze isolate accompagnate da coercizione e da un vissuto di minaccia e di pericolo
per la propria integrità fisica.
Vanno inoltre considerate le condizioni di “maltrattamento istituzionale”, ovvero
quegli interventi disposti dai Servizi sociali (in senso commissivo o omissivo) contra-
stanti con le linee guida vigenti e riconosciuti come lesivi in quanto interferenze
arbitrarie o illegali nella vita privata e familiare in violazione dell’art. 8 della Conven-
zione Europea dei Diritti dell’Uomo e/o dell’art. 16 della Convenzione ONU dei Diritti
del Fanciullo di New York.
Le esperienze di abuso/maltrattamento/trascuratezza sono riconducibili nella mag-
gior parte dei casi ad un trauma “complesso”. Il termine descrive l’esposizione di minori
ad eventi traumatici e gli effetti immediati ed a lungo termine causati da tale esposizione.
Il trauma complesso si riferisce all’esperienza relativa ad eventi traumatici multipli che
si verificano nel sistema di cure primario, ovvero in quello specifico ambiente sociale che
si presuppone essere la risorsa principale di stabilità e sicurezza per la vita del bambino.
Generalmente include le esperienze simultanee o sequenziali di carattere cronico e che
si verificano dai primi anni di vita.
Gli esiti sintomatici del trauma complesso sono multipli ed includono conseguenze
persistenti che coinvolgono ed indeboliscono molteplici funzioni, la regolazione del sé,
l’attaccamento, la modulazione dell’ansia e dell’aggressività, l’adattamento sociale, con
rischio di disordini psichici e somatici già a partire dai primi anni di vita. Tali condizioni
rientrano fra le cd. “modificazioni della personalità” per la cui quan-tificazione si
rimanda a quanto riportato nel capitolo 1.
Tali esiti possono configurare un Disturbo reattivo dell’attaccamento, un Disturbo
da impegno sociale disinibito o un Disturbo d’ansia da separazione.
Per quanto riguarda l’abuso sessuale, gli esiti sono variabili e si legano a diversi
fattori. Le Linee Guida in tema di abuso sul minore (SINPIA, 2007) così si esprimono:
“Il danno cagionato è tanto maggiore quanto più: il maltrattamento resta sommerso e non
viene individuato; il maltrattamento è ripetuto nel tempo ed effettuato con violenza e
coercizione; la risposta di protezione alla vittima nel suo contesto familiare o sociale
ritarda; il vissuto traumatico resta non espresso o non elaborato; la dipendenza fisica e/o
psicologica e/o sessuale tra la vittima e il soggetto maltrattante è forte; il legame tra la
vittima e il soggetto maltrattante è di tipo familiare; lo stadio di sviluppo ed i fattori di
rischio presenti nella vittima favoriscono una evoluzione negativa.
La letteratura psichiatrica segnala un aumento del rischio di gesti autolesivi nelle
età successive.
Anche la “seduzione infantile” fisicamente non violenta ha comunque effetti
patogenetici.
In analogia con quanto indicato a proposito dell’orfanezza, quantunque le reazioni
ad abuso sessuale possano essere apparentemente sfumate, o difficilmente percepibili
nel breve termine dopo le violenze, possono valere ad accreditare un danno biologico
permanente sotto-traccia, essendo assai improbabile che eventi del genere non lascino
“cicatrici” nella sfera psico-relazionale di un bambino.
Scontatamente, queste “cicatrici” possono risultare particolarmente grossolane nel
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Bullismo
Il bullismo può essere definito come una particolare forma di violenza costituita da
comportamenti violenti, pervasivi e spesso con conseguenze durature. È tipico delle
relazioni tra compagni di scuola e altre consimili forme di stretta convivenza e viene
caratterizzato da uno squilibrio di potere, di soggezione, o di forza tra il bullo e la
vittima. Si tratta di un fenomeno non circoscritto all’età evolutiva ma allargato anche
all’età giovanile, associandosi spesso a dinamiche di gruppo; si rimanda per la sua
trattazione al capitolo 1.
90 PARTE GENERALE
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Capitolo VIII
METODOLOGIA VALUTATIVA NEI SOGGETTI IN ETÀ AVANZATA
VIII.a. Premessa
94 PARTE GENERALE
— per la valutazione dello stato funzionale: ADL, IADL, Short Physical Perfor-
mance Battery (SPPB);
— per la valutazione cognitiva: MMSE, Mini-Cog e CDR (Clinical Dementia
Ratio);
— per l’assetto psicologico: Patient Health Questionnaire (PHQ9 o PHQ 2);
Geriatric Depression Scale (GDS);
— per la valutazione sociale ed economica (colloquio con l’interessato, raccolta di
informazioni presso terzi e ricognizione diretta sull’ambiente di vita).
Il nostro Ministero della Salute, nell’ambito degli strumenti di identificazione della
fragilità inseriti in una guida monografica del 2010 (Criteri di appropriatezza clinica,
tecnologica e strutturale nell’assistenza all’anziano), ha consigliato l’utilizzo di test di
performance fisica e, più in particolare, il sopra citato SPPB: esame che prevede tre
semplici e brevi test atti ad esplorare le performances fisiche dell’anziano (equilibrio,
marcia, etc.).
Le scale Multi-Dimensionali Quantitative misurano quanto clinicamente osservato,
inserendo i dati così acquisiti in una griglia di analisi quantitativa; prendono inoltre in
considerazione autovalutazioni raccolte con questionari e resoconti dei caregiver (indice
di Katz, di Barthel, etc.).
I principali indici di funzionalità sono i seguenti:
— Indice di Katz nelle ADL (Activity Daily Living): valuta il grado di difficoltà del
soggetto nell’attendere ad ognuna delle sei attività previste (fare il bagno, o la doccia
-vestirsi — usare toilette — trasferirsi dal letto, o da una sedia — mantenere la
continenza - alimentarsi). Il risultato per ogni attività spazia dall’autonomia pratica-
mente completa nell’eseguire ognuna delle suddette attività, fino alla dipendenza totale.
— Indice di Barthel nelle ADL: valuta l’autonomia del soggetto nelle attività del
vivere quotidiano, esaminando 10 items ad ognuno dei quali è attribuito un punteggio
intero 0, 5, 10, 15 (totale da 45 a 100); fornisce un giudizio complessivo sulla
funzionalità dell’anziano, sempre secondo un range che va dall’indipendenza alla
dipendenza. Per la descrizione completa del test si rimanda al capitolo dedicato alle
funzioni neurologiche centrali.
— Scala delle IADL (Instrumental Activity Daily Living): valuta la capacità di
compiere attività complesse considerate necessarie per il mantenimento dell’indipen-
denza attraverso l’analisi di 8 items, a ciascuno dei quali viene assegnato un punteggio
da 0 a 2; il risultato per ogni item analizzato va dall’assenza di compromissione alla grave
compromissione della autonomia del soggetto nel compiere tali attività.
Negli ultimi decenni la valutazione multidimensionale geriatrica ha avuto una
notevole evoluzione ed è attualmente focalizzata sull’utilizzo di strumenti di “terza
generazione” specifici e onnicomprensivi dei diversi setting assistenziali dove è inserito
l’anziano (ospedale per acuti, lungodegenza geriatrica, RSA, ADI, etc).
La valutazione delle funzioni psico-fisiche, cognitive, timiche e dello stato socio-
economico si avvale delle scale sopra indicate e deve essere integrata con le informazioni
tratte dalle specifiche caratteristiche del setting assistenziale, anche al fine di ottimizzare
gli obiettivi assistenziali.
La specificità dei succitati metodi e strumenti rende ragione della necessità di
adottare una altrettanto specifica metodologia anche in campo valutativo medico-legale,
convenientemente diversificata rispetto agli standard applicabili alla popolazione di età
adulta e giovanile. Infatti, quantunque il livello complessivo di salute e di autonomia dei
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96 PARTE GENERALE
soggetti anziani possa mantenersi a lungo buono, essi devono necessariamente confron-
tarsi con una alquanto variabile, ma inesorabilmente progressiva, maggior vulnerabilità
e con un minor grado di recuperabilità dopo il verificarsi di lesioni traumatiche, o di
eventi morbosi, viceversa agevolmente superabili/compensabili in età giovanile e adulta.
Questa particolare condizione dell’anziano — sulla quale si tornerà in seguito — è
definibile, non soltanto in chiave geriatrica, ma anche ai fini medico-legali, come
rientrante nella “norma statistica”, suffragata dai dati della letteratura della predetta
area medica e dal pressoché costante riscontro esperienziale.
Tuttavia, come dianzi accennato, essa non incide con la medesima intensità su ogni
anziano di pari fascia d’età, ciascuno dei quali possiede una sua propria “normalità”.
mente integro e sano”, dovendosi invece far riferimento al concetto di “normalità per
l’età individuale”.
D’altra parte, la persona anziana è sempre rimasta estranea all’attenzione degli
estensori delle tabelle valutative medico-legali, sicuramente anche per il retaggio che le
ha condizionate dalla loro origine, ma anche successivamente nell’alveo infortunistico
sociale, con conseguentemente elettivo riferimento all’ “homo faber”, cioè ad un
individuo abile al lavoro e implicitamente “integro e sano”.
In ambito civilistico, per la crescente importanza dei dati precedentemente richia-
mati circa l’incremento della popolazione anziana al di sopra della fascia di età per lo
più coincidente con il ritiro dal lavoro, nonché, soprattutto, in ragione delle ancor più
pregnanti motivazioni biologiche pur esse dianzi precisate, l’anziano deve essere invece
preso in una considerazione valutativa sui generis. In altre parole, è necessario tener
debito conto del suo minor grado di resilienza e di adattabilità rispetto alle variazioni
del suo stato psico-fisico, specie quando queste ultime siano repentine e drastiche, come
si constata nell’ordinaria esperienza peritale, che dimostra regolarmente quanto esse
siano foriere di prolungamenti delle cure e di amplificazioni, anche notevoli, delle
conseguenze menomative.
Questi presupposti richiedono un appropriato adattamento della criteriologia
valutativa, che non può limitarsi a quantificare gli esiti di lesioni/patologie che si
sarebbero mediamente verificati in un giovane, o in un adulto in buone condizioni
generali, attraverso l’applicazione di percentuali standard — appunto commisurate a
soggetti del genere — ma deve ricomprendere quanto pertinente all’effettiva e com-
plessiva variazione dello stato anteriore causalmente, o concausalmente ascrivibile
all’illecito: ove la concausalità consiste in maniera di gran lunga prevalente nella fragilità
normale per quel determinato soggetto anziano, tenendo debito conto che la vulnera-
bilità di persone intorno ai 70 anni è ben diversa da quella di persone intorno agli 80
anni, o ai 90 anni e oltre.
Ciò risulta particolarmente importante se sol si pensa — a titolo esemplificativo —
che sono sempre più frequenti i traumatismi della strada nella fascia di età 70-80 anni,
nella quale si conserva per lo più un buon grado di autonomia locomotoria (che
consente spesso anche l’uso della bicicletta, oltre che dell’auto), nonché quelli da caduta
nel contesto di residenze assistenziali geriatriche (spesso dalla carrozzina, o dal letto,
con implicazioni di responsabilità in capo alle residenze e ai loro operatori).
A tal fine risulta particolarmente utile il riferimento alla classificazione geriatrica
canadese della fragilità, che comprende nove categorie cliniche, partendo dal soggetto
cosiddetto “very fit” (il cosiddetto “fittest” fra gli anziani), passando a quello “vulne-
rable” (che sebbene autonomo spesso ha una attività motoria limitata e si affatica
precocemente), e giungendo quindi a quadri di progressiva perdita dell’autonomia nelle
IADL (mildly frail) e in parte delle ADL (moderate frail), per concludersi con le
categorie estreme, che includono individui totalmente dipendente da terzi.
L’utilizzo della scala canadese come riferimento geriatrico per la valutazione
medico-legale del danno nell’anziano può valere al duplice scopo di definire con un
linguaggio scientificamente accreditato le diverse condizioni di fragilità e può risultare
particolarmente utile per individuare lo stato anteriore e quello susseguente all’evento
di interesse valutativo.
All’uopo si ritiene opportuno semplificare la scala categoriale, restringendola a
quattro livelli:
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98 PARTE GENERALE
passaggio da una categoria inferiore ad una superiore, oppure se non vi è stata alcun
variazione in tal senso, essendosi mantenuto sostanzialmente inalterato il preesistente
livello di validità individuale.
È il caso di soggiungere che nelle quattro categorie sopra elencate si intravvedono,
in filigrana, le seguenti fasce percentuali, essendo per gli addetti ai lavori piuttosto
evidente che un anziano, stando alla definizione della quarta categoria versa in condi-
zioni di invalidità comprese dal 76 al 100%, in base alla definizione della terza categoria
tali condizioni sono comprese dal 51 al 75% e, secondo la definizione della seconda
categoria, dal 26 al 50%.
La prima categoria non è suscettibile di esser rapporta ad una pre-determinata
fascia di invalidità, atteso che le condizioni generali degli anziani che vi appartengono
rientrano sostanzialmente in condizioni di validità definibili normali rispetto all’età.
Tutto ciò precisato, se un soggetto appartenente a tale categoria incorre in un
evento traumatico, o patologico, dal quale derivano soltanto conseguenze menomative
circoscritte al distretto/organo vulnerato, senza nessun’altra ripercussione extra-
distrettuale, il danno biologico permanente può essere per lo più quantificato senza, o
con soltanto modici, correttivi di tipo maggiorativo.
Invece, se al danno distrettuale (che talora può anche essere enucleato per via
induttiva dal complessivo contesto menomativo) si sovrappongono ripercussioni inva-
lidanti più ampie, in comprovato nesso fisiopatologico (causale/concausale) con la
lesione/patologia inziale, la percentuale del danno complessivamente risarcibile può
essere individuata all’interno delle fasce delle tre categorie superiori, in maniera
proporzionata alla variazione complessiva dello stato anteriore. Ad es., nel caso in cui
un anziano abbia riportato fratture agli arti inferiori i cui esiti, una volta stabilizzatisi,
lo costringano ad usare in maniera continuativa una carrozzina — collocandolo così
nella quarta categoria — la quantificazione del danno complessivamente risarcibile deve
basarsi su una percentuale nell’ordine dell’80%, ovviamente comprensiva del danno
distrettuale. Qualora lo stesso anziano risultasse immobilizzato a letto, pur rientrando
nella medesima quarta categoria, il danno complessivamente risarcibile può basarsi su
percentuali comprese tra il 90 e il 100%, dipendentemente dalla residue funzioni
cognitive, relazionali e prassiche. E ancora, se un anziano ha riportato un importante
deficit funzionale dell’arto superiore non dominante e una frattura di arto inferiore, i cui
postumi gli consentono di deambulare soltanto con appoggio, è collocabile nella terza
categoria e la quantificazione del danno complessivamente risarcibile, ovviamente
comprensiva del danno distrettuale, potrà basarsi su una percentuale nell’ordine del
60%. Oppure, se un anziano ha subito la perdita anatomica delle dita di un piede,
all’esito del quale per la locomozione è necessario un deambulatore, o l’utilizzo di due
stampelle ascellari, è inquadrabile nella terza categoria e nella quantificazione del danno
complessivamente risarcibile si può far riferimento ad una percentuale compresa tra il
45 e il 50%.
Del resto — come da regola generale precedentemente richiamata — in ambito
civilistico deve essere risarcito il danno subìto dalla persona, non dal distretto funzio-
nale, per cui non è né razionale, né giusto, sul piano biologico, far tara dello svantaggio
naturalisticamente connaturato con l’età avanzata in ragione della fragilità e della
vulnerabilità proprie di tale età.
Sul piano prasseologico risarcitorio questa età è poi anche penalizzata dalla drastica
contrazione del valore economico del punto biologico stabilito per le ultime decadi della
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sul piano della concatenazione fisio-patologica con l’evento illecito il nesso causale/
concausale delle complessive conseguenze menomative — il peggioramento dello stato
anteriore deriva — in forma unitaria e decisamente determinante — da tale illecito,
andando ad incidere sullo stato di fragilità/vulnerabilità fisiologicamente connaturato
con l’età avanzata, ma lungi dal rappresentare di per sé una condizione morbosa,
rientrando invece in quella sua “normalità individuale” (appunto propria dell’età),
repentinamente messa a repentaglio dall’azione umana sostanziata dall’illecito.
Del resto, già nel 2011, la Cassazione Civile (Sez. III, n. 15991 del 21/07/2011)
ebbe modo di affermare che nessun correttivo del risarcimento può attuarsi qualora “...
il danneggiato, prima dell’evento, risulti portatore di una mera “predisposizione”, ovvero
di uno “stato di vulnerabilità” (stati preesistenti non necessariamente patologici, o
invalidanti...) ... e comunque appaia indimostrabile la circostanza che, a prescindere dalla
causa imputabile, la situazione pregressa sarebbe comunque, anche in assenza dell’evento
di danno, risultata modificativa in senso patologico invalidante della situazione del
soggetto... Il giudice non procederà pertanto ad alcuna diminuzione del quantum debeatur,
atteso che un’opposta soluzione condurrebbe ad affermare l’intollerabile principio per cui
persone che ... siano per natura e per vicissitudini di vita più vulnerabili di altre,
dovrebbero irragionevolmente appagarsi di una tutela risarcitoria minore rispetto a quella
riservata ad altri consociati ...”
Particolarmente meritevole di attenzione, in questa sentenza, è l’utilizzo — tra gli
altri lemmi, non meno chiari nel loro significato metodologico — dei termini ”vulne-
rabilità” e “stati preesistenti non necessariamente patologici, o invalidanti”, che suffraga
— ad alto livello di autorevolezza — la criteriologia poco sopra enunciata per escludere
l’applicabilità del danno differenziale, specie ove nell’anziano si sviluppino effetti
invalidanti più ampi e gravi a seguito di consimili eventi lesivi riportati da soggetti
giovani, o adulti.
Un esempio emblematico può essere rappresentato dagli effetti “meiopragizzanti”
innescati da esiti traumatici o vascolari encefalici, che, nelle età avanzate, molto
frequentemente si riverberano negativamente a livello sistemico, determinando com-
promissioni multiorgano, in ordine alle quali si è specificamente trattato nel capitolo 2.
Devono inoltre essere considerati gli effetti del protratto mantenimento del clinostati-
smo (a letto, o nella posizione assisa, su carrozzina, etc.), spesso susseguenti a “semplici”
fratture di arto inferiore, anch’essi sovente forieri di riverberi organici e neuro-psichici
“spropositati” rispetto alla lesività iniziale.
Un classico esempio è quello della sindrome da allettamento: condizione che
sovente prende le mosse da un evento clinico acuto localizzato, che talora può anche
subire una successiva stabilizzazione a livello distrettuale, al quale subentra però
deterioramento complessivo del funzionamento individuale, esorbitante rispetto alla
tipologia dell’acuzie iniziale innescata dall’illecito e dovuto a quelli che possiamo ben
definire i suoi “effetti collaterali”, di frequente accadimento appunto nelle persone
anziane.
Ciò premesso, oltre ad essere consonante ai principi della buona pratica valutativa
medico-legale, risponde anche ad una logica di giustificatezza risarcitoria procedere ad
una stima del danno biologico proporzionata all’effettiva e complessiva variazione
peggiorativa cagionata alla sfera somato-psichica dell’anziano.
Soccorre in proposito una recente pronuncia della Cassazione Civile (Sez. lavoro,
n. 26590 del 17/12/2014), la quale ha stabilito che: “Il risarcimento del danno deve essere
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personalizzato, al fine di offrire una risposta adeguata e satisfativa rispetto alla lesione di
beni giuridici preminenti, quali la vita e la salute, e nel raggiungere l’integrale riparazione
del danno può discostarsi dalle indicazioni contenute nella tabelle giudiziali nella legisla-
zione in materia”.
In conclusione, per la valutazione del danno in età avanzata è indispensabile
seguire un percorso valutativo ad hoc.
Una volta appurato il nesso causale tra evento e variazione complessiva dello stato
anteriore a mente del peculiare substrato fisio-patologico che caratterizza l’età avanzata,
ci si deve svincolare dal parametro dei postumi distrettuali catalogati secondo standard
tabellari e di per sé soli considerati (che, comunque, possono giustificare ogni indica-
zione ritenuta utile dall’esperto), per giungere — attraverso il rigoroso utilizzo dei criteri
metodologici dianzi descritti — a descrivere e motivare l’eventuale inserimento dell’an-
ziano in una delle categorie sopra elencate, onde esprimere conclusivamente percentuali
- anche di gran lunga maggiori rispetto allo standard tabellare utilizzabile per la stima
del danno distrettuale standard — attribuendo la dovuta preminenza alla compromis-
sione complessiva dell’autonomia individuale.
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Capitolo IX
SPESE PER CURE, MISURE FACILITATIVE, DEVICES E PROTESI
IX.a. Cure. — IX.b. Protesi. — IX.b.1. Protesi intra-corporee. — IX.b.2. Protesi extra-corporee
IX.a. Cure
In relazione alle fattispecie ultime citate, si aprono questioni di non facile risolvi-
bilità con riferimento ai trattamenti alternativi (dall’omeopatia all’agopuntura, dal-
l’osteopatia alla fitoterapia, etc.). Nel caso in cui il danneggiato ricorra a questi
trattamenti e pretenda il rimborso dei relativi costi, qualora la loro efficacia sia
largamente e motivatamente disconosciuta nell’attuale conteso medico-scientifico, sus-
sistendo inoltre rimedi correnti di viceversa comprovata validità nella corrente pratica
terapeutica, il rimborso potrà essere razionalmente negato. Possono fare eccezione
alcune pratiche, come l’osteopatia e la chiropratica, se esercitate da professionisti in
possesso del diploma in fisioterapia.
Una sintetica menzione meritano le spese che, in caso di paraplegia, o altre
consimili menomazioni neuromotorie, sono necessarie per compensare parzialmente la
compromissione della deambulazione.
È evidente che non si tratta di spese definibili stricto sensu di cura, o riabilitazione,
ma che sono di fondamentale importanza per attenuare l’incidenza del danno biologico
permanente sulle sue componenti dinamico-funzionali, che non possono neppure
classificarsi come speciali, in quanto inerenti alla vita quotidiana comune a tutti. Tra le
spese che devono essere rimborsate in questi casi figurano quelle concernenti gli ausili
alla locomozione necessari ai motulesi, come le carrozzine a movimentazione manuale
o motorizzata, nonché l’abbattimento delle barriere architettoniche e l’adeguamento
generale dell’ambiente domestico finalizzati a consentire gli spostamenti sia all’interno
di tale ambiente, sia all’esterno.
Tutti questi costi richiedono di essere vagliati in ambito medico-legale, ove si tratta
di formulare un giudizio di congruità e utilità rispetto alla menomazione risarcibile,
spettando ovviamente ad altre competenze la stima economica dei mezzi speciali di
locomozione (talora limitati ai necessari adattamenti dei comandi di vetture standard) e
delle ristrutturazioni edilizie.
È ovvio che non è materialmente possibile elencare esaustivamente le numerosis-
sime tipologie e i relativi costi di questo tipo di ausili, finalizzati a mitigare ab extrinseco
il danno biologico. Per queste spese, il ruolo del medico legale consiste essenzialmente
nel pronunciare un giudizio basato sulla sopra riportata classificazione, sceverando le
misure necessarie e utili, da quelle meramente opzionali o superflue.
IX.b. Protesi
Per quanto riguarda gli effetti di indole generale delle misure protesiche — siano
esse applicate a livello extra-corporeo, come pure a livello intra-corporeo — ove esse
rientrino in standard clinici adottati per menomazioni/patologie la cui gestione tera-
peutica si avvale routinariamente di queste misure (es.: in ambito cardio-vascolare,
ortopedico, audiologico, etc.), l’inquadramento valutativo formulato in queste Linee
Guida contiene regolarmente specifici richiami ai loro effetti mitiganti sulla menoma-
zione, nonché alla corrispettivamente diversa ponderazione percentuale. Tale ponde-
razione deve basarsi anche sulla funzionalità distrettuale post-protesica, con l’inevitabile
riserva che questa funzionalità non è comunque mai tale da corrispondere a quella
originaria.
A differenza dell’ambito penale, ove i rimedi artificiali apportati alle conseguenze
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menomative di lesioni personali non hanno rilevanza, nell’ambito civile il ristoro del
danno deve essere, almeno di principio e tendenzialmente, integrale, ma non oltre.
In questo capitolo saranno sinteticamente affrontati i peculiari aspetti di metodo-
logia valutativa che muovono dalla necessità di esprimere dei giudizi di indole quali-
quantitativa in ordine alla rimborsabilità delle principali tipologie di protesi.
funzionale riscontrabile con la protesi applicata, segnatamente per quelle protesi ad alta
tecnologia, di prezzo particolarmente elevato, che sono tali da consentire recuperi
anatomo-funzionali altrettanto elevati.
In questi casi la compensazione economica dei costi protesici può non di rado
superare quella del danno biologico permanente “tabellarmente tariffato” con l’ordi-
naria prevalenza della perdita anatomica, mentre, di fatto, la compromissione funzionale
del distretto anatomico protesizzato risulta molto attenuata. Va da sé che mai come in
questi casi la percentualizzazione del danno alla persona deve essere razionalmente
modulata caso per caso, appunto dipendentemente dalla predetta, effettiva compro-
missione funzionale.
Soltanto come riferimento indicativo generale, richiamiamo l’utilità della consul-
tazione del “Nomenclatore Tariffario delle Protesi” (agevolmente accessibile tramite
Internet), la cui matrice ministeriale conferisce al testo un indiscutibile valore ufficiale,
con l’avvertenza che l’ultima edizione (al momento della redazione di questo capitolo)
risale al 2013. In questo testo, decisamente ampio e dettagliato, il valutatore può
senz’altro trovare valide ispirazioni per dare attendibili risposte quali-quantitative ai
quesiti inerenti le spese derivanti da necessità protesiche. Altrettanto utile può risultare
la consultazione dell’amplissimo catalogo della ditta Otto Blok (Budrio — Bologna),
che produce protesi degli arti dotate di sofisticati sistemi articolari, tra i molti dei quali
ci limitiamo a menzionare il ginocchio a controllo elettronico Genium e la mano
“Michelangelo Hand”.
Va da sé che i costi contemplati in questi due cataloghi sono molto diversi (ma
questo aspetto vale per qualsivoglia tariffario più o meno ufficiale, di organismi pubblici
o privati) e che sul libero mercato la gamma dei prezzi è enormemente vasta, specie per
le protesi high tech, quali quelle di seguito descritte.
Ai fini valutativi medico-legali si deve sempre e comunque tenere in considerazione
il diritto “di base” del danneggiato di fruire della fornitura di matrice assicurativa, o
solidaristica socio-sanitaria pubblica (INAIL, INPS, SSN), che potrà essere integrato
con forniture di provenienza privata, ove le prime siano comprovatamente inadeguate,
insufficienti, ovvero ove il danneggiato dimostri l’indispensabilità di altri devices per
mantenere il profilo di vita quotidiana, di lavoro e relazionale in essere in epoca
antecedente all’instaurarsi della menomazione.
A questo proposito si deve ovviamente tener conto che taluni presidi protesici
speciali diventano inutilizzabili, o superflui, col progredire dell’età e con l’esaurimento
dell’attività lavorativa. Donde la necessità di soppesare accuratamente l’entità delle
relative spese future.
Si pone inoltre il problema — più generale e di non agevole soluzione — dei limiti
economici fino ai quali è razionale/ragionevole accreditare la rimborsabilità, allo stato e
futura, di protesi del genere e pure di come tener conto della corrispondente riduzione
dell’effettivo nocumento funzionale post-protesico. Non è invero rara la presentazione
non soltanto di fatture a consuntivo per protesi già fornite, ma anche di preventivi (per
lo più provenienti da operatori di officine protesiche, spesso “affiliate” all’INAIL, ma
esercitanti anche privatamente) concernenti spese future per rinnovi integrali o parziali
e sostituzione di parti assoggettate a più o meno rapida usura, il cui costo complessivo
supera di gran lunga il corrispettivo economico inerente la liquidazione del danno
biologico permanente.
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PARTE SISTEMATICA
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Capitolo 1
FUNZIONI PSICHICHE E RELAZIONALI
1.1. Premessa. — 1.2. Danno permanente e danno temporaneo. — 1.3. Preesistenze. — 1.4. Idoneità
psico-lesiva degli eventi e criterio di proporzionamento del danno psichico. — 1.5. Scala di rilevanza degli
eventi psico-traumatici e coefficienti di taratura del danno biologico. — 1.6. La simulazione. — 1.7. Reazioni
psichiche a determinati life events. — 1.8. Disturbi correlati a eventi traumatici stressanti. — 1.9. Disturbi
dissociativi. — 1.10. Disturbo da sintomi somatici e altri disturbi correlati. — 1.11. Disturbi d’ansia. —
1.12. Disturbi depressivi. — 1.13. Disturbo ossessivo-compulsivo e altri disturbi correlati. — 1.14. Disturbi
bipolari e altri disturbi correlati. — 1.15. Disturbi dello spettro schizofrenico e altri disturbi psicotici. —
1.16. Disturbi del neuro-sviluppo. — 1.17. Disturbo da lutto persistente complicato
1.1. Premessa
Certo non a caso, anche nella sua dimensione strettamente clinica, la Psichiatria ha
sempre considerato tutt’altro che marginale “the connection between the trauma and
ensuing emotional problems”, ovvero la questione di fondo per la valutazione medico-
legale consistente, appunto, nell’asseverazione o nella smentita della rapportabilità
eziologica di un determinato disturbo ad un determinato life event.
Le quantificazioni percentuali discendono dai presupposti storico-bibliografici
largamente noti mercè la capillare diffusione di tabelle e guide medico-legali edite negli
ultimi anni.
A questo proposito precisiamo che, quantunque il DSM-5 abbia omesso specifici
richiami alle scale di valutazione del funzionamento generale (VGF) e socio-lavorativo
(VFSL) riportate nel DSM-IV-TR (prevedendo comunque criteri quantificativi del
disfunzionamento personale e socio-lavorativo a carattere maggiormente descrittivo e
non “abiurando” espressamente la validità delle predette scale), poiché esse rappresen-
tano un importante trait d’union tra l’area psichiatrica e quella medico-legale, abbiamo
ritenuto di continuare ad utilizzarle come falsariga dell’impianto concettuale e numerico
sul quale poggia la metodologia valutativa qui presentata.
È nozione comune che la valutazione medico-legale del danno psichico deve essere
effettuata solo allorquando la reazione acuta — che può comunque integrare un danno
biologico temporaneo, tra l’altro talvolta di notevole durata e di entità spesso superiore
rispetto a quella corrispondente al danno permanente stabilizzato — si è risolta. A tal
proposito vi è, di massima, ampio consenso nel ritenere necessario per la stabilizzazione
un lasso di tempo compreso tra 1 e 2 anni, dipendentemente dalla tipologia e dalla
gravità dei sintomi, dalla risposta al trattamento e dalla compliance del soggetto nei
confronti dello stesso, nonché dagli apporti negativi di eventuali conflittualità risarci-
torie, non infrequentemente tali da radicalizzare ed accentuare il grado di “sofferenza”,
reale o presunto, del sedicente danneggiato.
Solitamente un lasso cronologico di tale entità è sufficiente per far apprezzare
un’evolutività in senso migliorativo, come pure (più raramente) peggiorativo, e per
consentire di tener conto anche dei giovamenti apportatati dagli eventuali trattamenti
terapeutici e dai sostegni sociali/famigliari se del caso presenti.
Ogni categoria di disturbi è stata rappresentata con il profilo sintomatologico e con
la criteriologia diagnostica adottate dal DSM-5, alle indicazioni del quale si sono ispirate
anche le graduazioni della gravità degli effetti invalidanti, che sono stati comunque
ponderati tenendo debito conto della criteriologia valutativa medico-legale corrente-
mente impiegata per la stima del danno biologico. Sono state inoltre analizzate, e molto
sinteticamente richiamate, le seguenti caratteristiche utili non soltanto ai fini dell’inqua-
dramento diagnostico dei disturbi, ma anche della graduazione della loro incidenza
invalidante: a) prevalenza statistica; b) rapporti con eventi psico-traumatici; c) essenziali
riferimenti alla popolazione infantile; d) prospettive catamnestiche e prognostiche.
Per quanto riguarda il danno temporaneo, si è utilizzata la corrente criteriologia
medico-legale, scandita attraverso i classici parametri del 100, 75, 50, 25% o altre
percentuali, ritenute eventualmente congrue rispetto all’estremamente variabile entità
dell’invalidazione personale e socio-lavorativa che può correlarsi ai disturbi psico-
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patologici: taluni confinati alla sfera intima e talora neppure percepibili sul piano
relazionale, altri comportanti una drastica compromissione della personalità, nei suoi
aspetti intimistici e relazionali.
A questo proposito v’è da tener conto che alcuni disturbi effettivamente esitano in
una risoluzione completa (ad es. in diversi casi di reazioni psico-patologiche a mobbing
o a lutto, con graduale e completa elaborazione), mentre per i c.d. “disturbi con
risoluzione” (ad es. il disturbo psicotico breve o l’episodio depressivo maggiore), che
possono sembrare estinti al momento della valutazione peritale, si deve invece tener
conto che il “raffreddamento” della sintomatologia psico-patologica non corrisponde
sempre e comunque ad una sufficientemente certa restitutio ad integrum. Ad es. un
episodio depressivo con risoluzione comporta un aumento di cinque volte del rischio
generale di incorrere in un secondo episodio di depressione. In questi casi si deve
pertanto tener debito conto di una peculiare forma di permanenza del disturbo in forma
sub-clinica (definibile anche “sotto-traccia”), in quanto i sintomi, pur rimanendo
sufficientemente inespressi/controllati, sono tuttavia suscettibili di riaffiorare non ap-
pena un’esperienza destabilizzante increspi la superficie dell’apparente normalità.
Tipiche, in tal senso, sono le reazioni differite a life events remoti, ai quali
conseguono, a gran distanza di tempo, repentini ed apparentemente inesplicabili
squilibri psico-comportamentali di tipo depressivo e ansioso, come ad es. può accadere
nei casi (espressamente menzionati nel DSM-5) di suicidi attuati molti anni dopo una
fase depressiva innestatasi su esperienze psico-stressanti, ad es. un lutto mai elaborato
o una violenza, specie se subita in età minorile.
In definitiva, permanenza e temporaneità hanno, nel danno psichico, connotazioni
sensibilmente difformi da quelle che si osservano nel danno somatico e, di conseguenza,
richiedono l’adozione di criteri valutativi consensuali alle peculiari modalità che carat-
terizzano l’evoluzione e la stabilizzazione dei disturbi psico-patologici, nonché i tratta-
menti terapeutici e l’adattamento personale e sociale di coloro che ne sono affetti.
1.3. Preesistenze
limitazioni che possono essere soltanto eccezionalmente superate per c.d. “ragioni di
giustizia”.
La notevole rilevanza delle preesistenze è ben sottolineata nel DSM-5, ove si
precisa che il tratto di personalità condiziona la tendenza a vivere, percepire, compor-
tarsi e pensare, in maniera duratura nel tempo e nelle varie situazioni, appunto secondo
le peculiari caratteristiche del medesimo. Ad es. persone con un alto livello di ansia nel
proprio tratto di personalità possono sperimentare rapidamente ansia anche in circo-
stanze in cui la maggior parte degli individui rimangono calmi e rilassati. Tali soggetti
evitano, di solito, situazioni che ritengono fonte di ansia e tendono a “pensare il mondo”
come complessivamente ansiogeno. Quantunque i tratti di personalità non siano
immutabili, essi dimostrano una relativa stabilità attraverso i consensualmente omologhi
e specifici comportamenti.
Il DSM-5 gradua su cinque livelli di gravità — da 0 (nessuna o poca compromis-
sione) a 4 (estrema compromissione) — l’incidenza negativa dei tratti/disturbi di
personalità sul funzionamento personale e sociale, a riprova dell’importanza di queste
caratteristiche nello sviluppo dei disturbi francamente psico-patologici ad omologa
connotazione sintomatologica.
In definitiva, il tratto di personalità rappresenta spesso non soltanto una tendenza/
predisposizione potenziale verso particolari comportamenti, ma un vero e proprio
fattore concausale.
Il DSM-5 contiene anche altre indicazioni sulla personalità, che possono avere
interesse per l’operatività medico-legale, quale ad es.: “... il funzionamento della
personalità è distribuito lungo un continuum. Un ruolo centrale nel funzionamento e
nell’adattamento è svolto dai modi soggettivi di concepire e capire sé stessi e le proprie
interazioni con gli altri. Un individuo con un funzionamento ottimale possiede un mondo
psicologico complesso, estremamente elaborato e ben integrato, che include un concetto di
sé solitamente positivo, volitivo e adattativo; una vita emotiva ricca, ampia e opportuna-
mente regolata; e la capacità di comportarsi come un membro produttivo della società con
relazioni interpersonali reciproche e appaganti. All’estremo opposto del continuum, un
individuo con una grave patologia di personalità possiede un mondo psicologico impove-
rito, disorganizzato e/o conflittuale, che include un concetto di sé labile, indefinito e
disadattativo; una propensione per emozioni negative e disregolate; e una scarsa capacità
di funzionamento interpersonale e comportamento sociale adattativo”. Ciò significa — in
maniera assolutamente chiara — che un evento può agire su un tratto di personalità che
già a priori rende il soggetto propenso a sviluppare disfunzionalità dello psichismo di
omologa tipologia, così come — a maggior ragione — può accadere qualora preesista
un vero e proprio disturbo di personalità che, dopo un life event, evolva in un franco
disturbo psico-patologico di analoga tipologia.
Va inoltre sottolineata la necessità — decisamente rilevante in sede medico-legale
— di stabilire se ed in quale misura un determinato evento abbia quantomeno
concausato il viraggio in peius del predetto continuum, oppure se tale evento abbia di
per sé causato de novo un disturbo psico-patologico, addirittura disomogeneo rispetto
al tratto di personalità.
A tal fine non si può in alcun modo trascurare l’applicazione del criterio di
proporzionalità e di coerenza sintomatologica sottesi al dianzi citato inquadramento
clinico del DSM, che ben valorizza le individuali propensioni a sviluppare reazioni
abnormi, in maniera particolarmente accentuata dopo esperienze di vita negative.
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(matrimonio, gravidanza, crescita del ruolo lavorativo, nascite, etc.), sono classificati
eventi sicuramente negativi, che interessano particolarmente in questa sede (violenze
subite, morte di persone care, lesioni e malattie gravi, problemi con la giustizia o di tipo
economico, espulsione dal lavoro o traversie in tale ambito, perdita dell’abitazione, etc.)
e che sono previsti anche nei codici Z dell’ICD-10, cui rimanda il DSM-5.
Abbiamo dunque modificato i contenuti di queste scale consensualmente alle
peculiari fattispecie che ricorrono in ambito medico-legale.
V’è da aggiungere che, poiché un life event può essere seguito nel tempo da
un’efficace metabolizzazione dell’esperienza psico-lesiva, talora con scomparsa pratica-
mente completa della susseguente alterazione della sfera psichica, altre volte con suoi
soltanto marginali residui ed altre ancora con “postumi permanenti”, prima di gra-
duarne gli effetti invalidanti è necessario graduare l’entità dell’esperienza negativa,
utilizzando un sistema di proporzionamento modellato sulle predette scale di matrice
psicologica. Diversamente si corre il rischio di ammettere la risarcibilità di alterazioni
mentali pur effettivamente in essere, ma totalmente, o parzialmente, estranee all’effi-
cienza psico-lesiva dell’illecito altrui, se non addirittura inesistenti, come nei casi di
amplificazione, di simulazione o di pretestazione.
1.5. Scala di rilevanza degli eventi psico-traumatici e coefficienti di taratura del danno
biologico
1.6. La simulazione
si può far riferimento alla parametrazione tabellare dei corrispettivi disturbi disadatta-
tivi o depressivi.
Con il varo della legge n. 38/2009 (successivamente integrata e modificata nel
2013), lo stalking ha avuto una definizione normativa molto precisa e — lo si deve
riconoscere — anche sufficientemente ampia e circostanziata sotto il profilo fattuale. La
norma sanziona infatti penalmente chiunque, con “condotte reiterate, minaccia o molesta
taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero da
ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di
persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare
le proprie abitudini di vita”.
L’esposizione a queste forme di violenza va ad intaccare non soltanto l’assetto
personale e il profilo socio-relazionale della vittima, ma ingenera ineluttabilmente anche
condotte di evitamento e reazioni psichiche che incidono significativamente su diversi
aspetti della funzionalità individuale, di carattere intimo e relazionale, oltre che sociale
e lavorativo, restringendo notevolmente la libertà di movimento e conculcando lo stile
di vita della vittima.
Quel che interessa qui evidenziare ai fini valutativi è che la norma prevede
esplicitamente la comparsa di un “perdurante e grave stato d’ansia”: uno stato che può
essere anche considerato come una reazione semplicemente emotiva (in buona sostanza
traducibile con il concetto di perturbamento dell’animo che, in altra dimensione,
connota il danno morale), ma che in ambito clinico — checché abbia inteso il legislatore
e ne pensi la giurisprudenza (v. Cass. Pen., Sez. V, n. 16864/2011) — ha un preciso
significato nosologico, rientrando spesso nei disturbi d’ansia.
Oltre alle reazioni di tipo ansioso e depressivo, la letteratura segnala anche lo
sviluppo di comportamenti a rischio per la salute (abuso di fumo e alcolici, etc.) e di
disturbi psico-somatici.
Nelle condizioni in cui viene ad essere fisicamente minacciata l’incolumità e, non
infrequentemente, la vita (sono invero numerosi i femminicidi come epilogo di questo
comportamento persecutorio), si delinea un vero e proprio disturbo da stress post-
traumatico. Si realizzano infatti quasi sempre un incremento dell’arousal, nel tentativo
di fronteggiare — anche col solo evitamento — la persecuzione, nonché alterazioni di
tipo distimico, essenzialmente dovute alle privazioni subite: perdita della serenità e della
sicurezza per la propria incolumità; detrimento dell’immagine sociale e della relaziona-
lità, anche per la necessità di adottare costanti limitazioni prudenziali della propria
autonomia; sconforto per la sfiducia di poter uscire dalla condizione di persecuzione,
vista anche l’usuale limitatezza dell’efficacia dei provvedimenti di pubblica sicurezza.
Da tutto ciò derivano, non infrequentemente (circa nel 10% dei casi), ideazioni
suicidarie, essendo questa considerata l’unica “via d’uscita”. Nel determinismo del-
l’eventuale cronicizzazione dei disturbi incide anche il noto fenomeno della “vittimiz-
zazione secondaria”, indotto da risposte sociali negative o stigmatizzanti nei confronti
della vittima e dalle provanti vicende processuali.
A questa condizione corrisponde pressoché costantemente un danno psichico
temporaneo e, nel caso in cui si verifichi quella cronicizzazione dei disturbi, o la loro
persistenza sotto traccia (già ricordata per le precedenti categorie), si dovrà riconoscere
anche un danno biologico permanente, consensualmente alla tipologia e alla portata dei
sintomi, facendo riferimento alla relativa tabellazione.
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In questa sede è poi opportuno un sintetico accenno alle conseguenze che può
avere una violenza sessuale, dipendentemente se essa è stata subita in età adulta, o in età
infantile. Poiché la violenza subita in età adulta ha una frequenza di gran lunga maggiore
ed è anche quella che ha gli effetti psico-traumatici più agevolmente constatabili e
proiettabili prognosticamente nel tempo, mentre nel bambino sussistono notorie diffi-
coltà di indagine e accertamento per entrambe queste interpretazioni cliniche, presen-
tiamo dapprima il paradigma sintomatologico degli effetti psico-reattivi della prima.
Essi consistono essenzialmente, all’atto della sua consumazione, nell’innesco di un
elevato livello di angoscia e paura per la violazione, in sé e per sé, della propria libertà
di autodeterminazione e della propria sfera intima, ma anche per l’incertezza degli
sviluppi dell’aggressione in ordine all’incolumità personale, specie se l’aggressione
avviene “a mano armata”, o con coercizione fisica che metta a repentaglio la sopravvi-
venza. Nel periodo immediatamente successivo la vittima denota sovente i tipici sintomi
del disturbo da stress post-traumatico, ai quali nei mesi seguenti possono residuare, in
circa la metà dei casi, sintomi mal-adattativi, con ansia e depressione, alla cui genesi
concorrono l’umiliazione e lo spregio per la propria libertà, connaturate con questo tipo
di prevaricazione, all’un tempo fisica e psicologica. In questo contesto sindromico la
componente depressiva è per lo più sostenuta da pensieri autosvalutativi, o addirittura
da sensi di colpa, motivati dalla sensazione di un’incauta esposizione e di una inefficace
capacità di sottrazione alla prevaricazione.
Ovviamente, oltre alla portata invalidante delle eventuali reazioni psico-patologiche
- essenzialmente ruotanti intorno al disturbo da stress post-traumatico (la violenza
sessuale di gruppo e singola è collocata ai due livelli più elevati della classificazione degli
eventi psico-traumatici) — nella valutazione medico-legale delle conseguenze dell’ag-
gressione devono essere annoverate anche quelle somatiche e psico-somatiche, che non
infrequentemente si manifestano con precipuo riferimento alla sfera genitale e all’atti-
vità sessuale. Richiamando il fenomeno dell’evitamento che è tipico del disturbo da
stress post-traumatico, è invero evidente che la predetta attività può subire una drastica
compromissione, specie se alla violenza si siano aggiunte serie preoccupazioni per
eventuali contagi infettivi o rischi di gravidanza.
Ove la violenza configuri un abuso sessuale nell’infanzia, la letteratura psichiatrica
segnala un aumento del rischio di suicidio nelle età successive. Anche per i minori il
danno psichico deve essere correlato al grado di violenza connesso all’abuso, col quale
si proporziona, a sua volta, l’entità del disturbo da stress post-traumatico. Soggiungiamo
che anche la “seduzione infantile” fisicamente non violenta ha effetti patogenetici.
In analogia con quanto indicato a proposito dell’orfanezza, quantunque le reazioni
ad abuso sessuale possano essere apparentemente sfumate, o difficilmente percepibili
nel breve termine dopo le violenze, possono valere ad accreditare un danno biologico
permanente sotto-traccia, essendo assai improbabile che eventi del genere non lascino
“cicatrici” nella sfera psico-relazionale di un bambino. Scontatamente, queste “cica-
trici” possono risultare particolarmente grossolane nel caso in cui la violenza sia
perpetrata da ascendenti, o familiari diretti o acquisiti, o da persone che hanno ruoli di
protezione e formazione nei confronti dei minori.
Infine, è importante una breve trattazione del bullismo, che può essere definito
come una particolare forma di violenza costituita da comportamenti violenti, pervasivi
e spesso con conseguenze durature, tipica delle relazioni tra compagni di scuola,
commilitoni e altre consimili forme di stretta convivenza. Questi comportamenti di
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altre volte la reazione può manifestarsi sotto forma di anedonia, disforia, rabbia e
aggressività, o addirittura sintomi dissociativi.
A causa della variabilità del quadro clinico non è infrequente trovare combinazioni
altrettanto variabili dei predetti sintomi, tutti sostanzialmente afferenti ad uno stato di
disadattamento.
A. Esposizione a morte reale o minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale in
uno, o più dei seguenti modi:
1) esperienza diretta degli eventi traumatici;
2) testimonianza personale di eventi traumatici subiti da altri;
3) aver appreso che l’evento traumatico ha coinvolto un congiunto, o un amico stretto. Nel
caso di morte o di minaccia di morte, l’evento deve essere stato caratterizzato da violenza dolosa
o accidentale
4) esperienza ripetuta, o estrema esposizione, a particolari raccapriccianti (rinvenimento/
recupero di resti umani, fronteggiamento di casi di abuso su minori, etc.); tale criterio non si
applica qualora l’esposizione avvenga attraverso media elettronici, televisione, film o immagini, a
meno che essa non sia legata al lavoro svolto.
B. Presenza di uno, o più dei seguenti sintomi intrusivi, esorditi dopo l’evento psico-
traumatico:
1) ricordi sgradevoli, ricorrenti e involontari dell’evento traumatico. Nei bambini maggiori
di 6 anni possono manifestarsi giochi ripetitivi in cui vengono espressi temi o aspetti riguardanti
l’esperienza psico-traumatica;
2) sogni sgradevoli e ricorrenti con contenuto correlato all’evento psico-traumatico. Nei
bambini possono comparire incubi spaventosi senza i predetti contenuti;
3) reazioni dissociative (es. flashback) nelle quali il soggetto sente, o agisce come se l’evento
traumatico si stesse ripresentando, sino alla completa perdita di consapevolezza dell’ambiente
circostante. Nei bambini la riattualizzazione può esprimersi nei giochi;
4) intenso o prolungato distress all’accidentale esposizione a situazioni, interne o esterne,
ricalcanti o simbolizzanti l’evento psico-traumatico;
5) marcate reazioni alle predette situazioni.
C. Evitamento persistente di stimoli associati all’evento psico-traumatico, dimostrato da uno,
o entrambi questi comportamenti:
1) evitamento, o tentativo di evitamento di ricordi, pensieri, o sensazioni sgradevoli associati
all’evento psico-traumatico;
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Si ritiene che il DSPT sia il risultato di una commistione fra componenti psicolo-
giche e neuro-biologiche e che queste ultime siano in grado di modificare il funziona-
mento del SNC, talora in forma stabile a lungo termine.
Gli indicatori prognostici sono i seguenti:
— favorevoli: rapido esordio dei sintomi, buon funzionamento pre-morboso, forte
sostegno sociale, assenza di altri disturbi psichiatrici, buona risposta ai trattamenti di
ricondizionamento psicologico (es. EMDR — Eyes Movement Desensitization and
Reprocessing), che in alcuni casi sembrano essere efficaci.
— sfavorevoli: intervento assistenziale tardivo (anche se gli interventi “sul posto”,
tipo debrifing, hanno efficacia quanto meno dubbia), sovrapposizione di ulteriori eventi
avversi, reiterata e inevitabile esposizione a stimoli sensoriali che evocano il ricordo del
trauma.
Le complicanze più frequenti sono rappresentate da disturbi depressivi, spesso con
sensi di colpa inerenti all’evento, o da abuso di sostanze.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per la quantificazione del danno biologico permanente si deve tener conto dell’entità e della numerosità dei
sintomi annoverati nei criteri diagnostici.
Forma lieve 11-15%
Forma lieve complicata o moderata 16-20%
Forma moderata complicata o grave 21-25%
Forma grave complicata 26-30%
A. L’esposizione a morte reale o minaccia di morte, lesioni gravi o violenza sessuale in forma
personalmente vissuta, o direttamente testimoniata, o attraverso l’apprendimento che eventi del
genere sono occorsi a parenti e amici stretti (per questi ultimi gli eventi connotati da morte, o
pericolo di morte devono avere matrici violente/accidentali); reiterate esperienze o esposizioni
estreme a dettagli avversivi di eventi traumatici come il recupero di resti umani, l’approccio
professionale continuativo a bambini abusati, etc.
La partecipazione a situazioni del genere non assume significato causale se avviene attraverso
mezzi mediatici, a meno che tali mezzi siano attivamente utilizzati come obbligo professionale
(work-related).
B. Presenza di nove o più dei seguenti sintomi, raggruppati in cinque categorie:
1) sintomi di intrusione (ricorrente affioramento alla memoria dell’evento traumatico, o
frequenti sogni/incubi attinenti ad esso, reazioni dissociative tipo flashbacks, intense reazioni a
fronte di rappresentazioni intrinseche, o estrinseche evocanti l’evento traumatico);
2) umore negativo (persistente incapacità di provare soddisfazione, gioia, o sentimenti
positivi);
3) sintomi dissociativi (alterazione del senso di realtà rispetto a sé stessi e/o all’ambiente
esterno e al fluire del tempo, sensazione di stordimento, incapacità di ricordare aspetti importanti
dell’evento traumatico, non dovuta a trauma cranico, alcool o sostanze);
4) sintomi di evitamento (tentativi di evitare ricordi disturbanti attinenti all’evento trauma-
tico e di evitare situazioni, persone, argomenti, attività e oggetti che lo ricordano);
5) sintomi di arousal (disturbi del sonno, ipervigilanza, esagerate risposte di allarme, deficit
della concentrazione, agiti di irritabilità e rabbia anche a fronte di situazioni non realmente
provocatorie).
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Disturbi dell’adattamento
Questo tipo di disturbi è stato inserito nel DSM-5 nell’area delle reazioni ad eventi
stressanti, mentre prima costituiva una categoria autonoma, definibile come “residuale”.
I criteri diagnostici di questo tipo di disturbi sono i seguenti:
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La quantificazione del danno biologico permanente corrispondente ai sopra illustrati profili sintomatologici
del disturbo può suddividersi nelle seguenti fasce percentuali.
Disturbo dell’adattamento non complicato 6-10%
Disturbo dell’adattamento complicato 11-15%
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Nei bambini i sintomi non sono attribuibili a normali attività ludiche fantastiche.
Il disturbo ha prevalenza praticamente sovrapponibile nei maschi e nelle femmine
e si può manifestare ad ogni età. Vi è spesso comorbidità con il disturbo dissociativo
dell’identità, il disturbo da stress post-traumatico e altri disturbi associati a traumi ed
eventi stressanti, nonché a carattere depressivo, di conversione e da sintomi somatici,
per elencare soltanto quelli di maggior interesse medico-legale.
Tra i soggetti affetti da questo disturbo, si riscontra una prevalenza anamnestica di
abusi fisici e sessuali nell’infanzia, che può raggiungere addirittura il 90%. Nella sua
genesi hanno importanza anche altre forme psico-traumatizzanti, quali pratiche medi-
che e chirurgiche nell’infanzia, esperienze di situazioni di guerra, di terrorismo e di
prostituzione minorile, etc.
Sono frequenti i comportamenti auto-aggressivi, fino al suicidio; al riguardo, il
DSM-5 segnala che l’aliquota di individui che pongono in essere tentativi di suicidio,
anche reiterati, può raggiungere il 70%.
La prognosi è sfavorevole quando l’abuso è protratto, se subentrano ri-
traumatizzazioni successive, altri disturbi mentali, o malattie gravi, o ancora se vi è un
ritardo di trattamento.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 135 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Qualora questa espressione psico-patologica non dovesse risolversi, per la quantificazione del danno
biologico permanente si deve tener conto dell’entità e della numerosità dei sintomi annoverati nei criteri
diagnostici, della risposta al trattamento e di eventuali tentativi di suicidio, nonché dell’interferenza del
disturbo con il funzionamento personale e socio-lavorativo del soggetto.
Sulla scorta di questi presupposti, è utilizzabile la seguente griglia di valori percentuali, il range più elevato
dei quali è assegnabile nel caso di comportamenti autolesionistici e di tentativi di suicidio.Nel caso in cui
il disturbo si manifesti nel contesto di altri disturbi (DSPT, DOC, DS) deve essere considerato come una
loro complicanza.
Forma lieve 6-10%
Forma moderata 11-15%
Forma grave 16-20%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per la quantificazione del danno biologico permanente si deve tener conto dell’entità e della numerosità dei
sintomi annoverati nei criteri diagnostici e della loro persistenza nel tempo, che è particolarmente
importante per questo tipo di disturbo, specie se si accompagna a comportamenti auto-aggressivi/suicidari.
Sulla scorta di queste caratteristiche, nel caso in cui questi disturbi dovessero persistere, è utilizzabile la
seguente griglia di valori percentuali di danno permanente.Nel caso in cui l’amnesia dissociativa si manifesti
nel contesto di altri disturbi psichici (DSPT, DAP, DS) deve essere considerata come una loro complicanza.
Forma lieve 11-15%
Forma moderata 16-20%
Forma grave 21-25%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Nei rari casi in cui il disturbo non rientri nel contesto di disturbi d’ansia, dell’umore o psicotici — dei quali
rappresenta per lo più una complicanza non particolarmente grave — la stima percentuale del danno
permanente può essere la seguente.
Forma lieve 11-15%
Forma moderata 16-20%
Forma grave 21-25%
A questa nuova categoria appartengono quei disturbi che nel DSM-IV-TR erano
denominati come disturbi somatoformi. Si tratta di condizioni psico-patologiche con-
notate da rilevanti sintomi somatici, associati a disagio e compromissione funzionale di
grado significativo, la cui caratteristica distintiva “non sono i sintomi somatici in quanto
tali, ma piuttosto il modo con cui gli individui li presentano e li interpretano”.
Diversi fattori possono contribuire allo sviluppo di questo tipo di disturbi: la
vulnerabilità genetica e biologica (es. accentuata sensibilità al dolore); precoci espe-
rienze psico-traumatizzanti (es. violenza, abuso, deprivazione di cure) e di apprendi-
mento (es. attenzione ottenuta per mezzo della malattia); norme sociali e culturali che
stigmatizzano la sofferenza psicologica come di minore importanza rispetto a quella
fisica
L’espressione sintomatologica può variare ampiamente, anche a seconda del
contesto ambientale e dell’interazione tra molteplici fattori culturali e medici, a loro
volta condizionanti le modalità con le quali gli individui percepiscono ed esprimono i
sintomi
Ai fini diagnostico-differenziali è importante ricordare che le alterazioni somatiche
possono rappresentare la prima manifestazione anche di disturbi psichici di altra natura
(quali ad es. il disturbo depressivo maggiore e il disturbo di panico), rispetto ai quali i
disturbi da sintomi somatici devono essere tenuti ben distinti.
possono assumere un ruolo centrale nella loro vita, diventando una caratteristica della
loro identità e dominando le relazioni interpersonali.
Nei bambini i sintomi più comuni sono rappresentati da: dolore addominale
ricorrente, nausea, cefalea e astenia; inoltre, la presentazione mono-sintomatica risulta
più frequente che negli adulti, mentre è generalmente assente la componente ansiosa di
preoccupazione per la propria “malattia”.
Il decorso è influenzato da alcune variabili individuali e ambientali, tra le quali le
esperienze di maltrattamenti, di abusi e di trascuratezze infantili, condizioni che si
associano per lo più a forme persistenti.
Il DSM-5 precisa che questo disturbo è più frequente in individui con basso livello
socio-economico e di scolarizzazione ed in quelli recentemente sottoposti ad eventi
stressanti.
I criteri diagnostici previsti dal DSM-5 sono i seguenti:
A. Uno o più sintomi somatici che causano disagio o alterano significativamente, fino a
sovvertirla, la vita quotidiana.
B. Pensieri, sentimenti, o comportamenti eccessivi connessi con i sintomi somatici o associati
a preoccupazioni relative alla salute, consistenti in almeno uno dei seguenti sintomi:
1) pensieri sproporzionati e persistenti sulla gravità dei propri sintomi;
2) persistente ed elevato livello di ansia per la propria salute;
3) elevata aliquota di tempo e di energia dedicati ai sintomi, o a quanto riguarda la salute.
C. Quantunque ognuno dei sintomi somatici possa non essere continuativamente presente,
la condizione di sintomaticità persiste tipicamente per più di 6 mesi.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Nel caso in cui il disturbo si manifesti in comorbilità con disturbi di tipo ansioso e/o depressivo, ai quali
conferisce particolare gravità, determinando maggiore compromissione funzionale e refrattarietà alle
terapie, la quantificazione del danno corrispondente ai rispettivi disturbi deve essere aumentata.
Forma lieve 11-15%
Forma moderata 16-20%
Forma grave 21-25%
Forma grave complicata 26-30%
Le espressioni sintomatologiche sono di due tipi: con ricerca di cure; con evita-
mento di cure.
Indicatori di prognosi favorevole sono: l’esordio acuto; l’assenza di disturbi di
personalità; l’elevata condizione socio-economica; la buona risposta al trattamento
farmacologico.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Dipendentemente dall’entità e dalla numerosità dei sintomi, dalla risposta al trattamento farmacologico e
dall’eventuale coesistenza di fobie, per la quantificazione della portata invalidante di questo disturbo ci si
può basare sulla seguente scansione percentuale.
Forma lieve 11-15%
Forma moderata 16-20%
Forma grave 21-25%
Forma grave complicata 26-30%
tanto, la disabilità può assumere livelli molto elevati, simili a quelli comportati dalle reali
alterazioni neuro-muscolari organiche.
Sul piano medico-legale il disturbo di conversione pone solitamente rilevanti
problematiche di tipo diagnostico-differenziale, specie ove i sintomi somatici vengano
— spesso apoditticamente — attribuiti ad eventi traumatici, o a sequele iatrogene, per
lo più imputate ad interventi chirurgici. L’incoerenza tra i deficit somatici e i riscontri
semeiologici e strumentali e tra i primi e le consolidate conoscenze eziopatogenetiche,
rappresenta il principale criterio per porre diagnosi di questo disturbo in ambito
medico-legale.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Tenendo debito conto dei risultati del trattamento e considerando l’eventuale compresenza di altri disturbi
(in primo piano quelli dissociativi precedentemente trattati) un disturbo di conversione persistente può
giustificare le seguenti fasce di danno biologico permanente.
Forma lieve 6-10%
Forma moderata 11-15%
Forma grave 16-20%
Forma grave complicata 21-25%
Fobia specifica
Nel DSM-5 questo disturbo è suddiviso per fattori causali, molti dei quali di
interesse medico-legale, con la seguente codificazione:
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A. Marcata paura o ansia con riferimento ad un oggetto o ad una situazione specifica, del
tipo di quelle precedentemente elencate.
Nei bambini questi sintomi possono essere espressi con pianto, scoppi d’ira, comportamenti
di immobilizzazione (freezing), o di aggrappamento (clinging).
B. L’oggetto o la situazione provocano le reazioni di ansia e paura quasi sempre in maniera
immediata.
C. L’oggetto o la situazione vengono attivamente e pervicacemente evitati, o sopportati con
intensa paura e ansia.
D. La paura o l’ansia sono sproporzionate rispetto al reale pericolo comportato dalla
situazione.
E. Queste reazioni perdurano per almeno 6 mesi, o più.
F. Esse cagionano disagio clinicamente significativo e compromissione del funzionamento
nelle aree sociali e lavorative, o in altre importanti aree del funzionamento.
G. Il disturbo non è meglio spiegato con i sintomi di un altro quadro psico-patologico.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Le percentuali di danno biologico permanente attribuibili al disturbo sono modulate tenendo conto del
numero di fobie, del livello di compromissione sociale e lavorativa, delle possibili complicanze, della portata
psico-lesiva dell’evento che l’ha innescato e, infine, della concreta eventualità che il soggetto ha di incappare,
nel proprio usuale ambiente di vita, in ri-esperienze analoghe. La valutazione deve inoltre tener conto
dell’eventuale messa in atto di condotte di evitamento.
Forma lieve 6-10%
Forma lieve complicata o moderata 11-15%
Forma moderata complicata o grave 16-20%
Forma grave complicata 21-25%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Forma lieve 6-10%
Forma moderata 11-15%
Forma grave 16-20%
Forma grave complicata 21-25%
1) palpitazioni e tachicardia;
2) sudorazione;
3) tremori fini o a grandi scosse;
4) dispnea e mancanza di aria;
5) sensazione di soffocamento;
6) peso o dolore toracico;
7) nausea o dolori addominali;
8) sensazione di vertigini, instabilità, “testa leggera”, svenimento;
9) brividi o vampate di calore;
10) parestesie o disestesie;
11) derealizzazione o depersonalizzazione;
12) paura di perdere il controllo o impazzire;
13) paura di morire.
B. Almeno in un’occasione l’attacco di panico è seguito da un periodo di un mese, o più,
caratterizzato dalla presenza di uno, o entrambi i seguenti sintomi:
1) intensa e persistente preoccupazione di essere vittima di un ulteriore attacco di panico, o
delle sue conseguenze;
2) significativo cambiamento disadattativo delle proprie abitudini di vita, con comporta-
menti finalizzati ad evitare situazioni che potrebbero indurre gli attacchi, quali le situazioni e le
attività poco familiari.
C. Il disturbo non è attribuibile ad effetti psicologici di sostanze, o ad altra condizione
medica.
D. Il disturbo non è meglio spiegabile con un altro quadro psico-patologico, in particolare
con le reazioni della fobia sociale, dell’ansia sociale, dei comportamenti ossessivo-compulsivi, dei
ricordi intrusivi di eventi traumatici, o della separazione da figure di attaccamento.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Sotto il profilo valutativo riteniamo di poter proporre le seguenti indicazioni percentuali, che devono essere
rapportate all’entità e alla numerosità dei sintomi e alla presenza complicante dell’ansia anticipatoria, o delle
altre manifestazioni psico-patologiche sopra elencate, eventualmente associate.
Forma lieve 11-15%
Forma moderata 16-20%
Forma grave 21-25%
Forma grave complicata 26-30%
A. Notevole ansia o paura con riferimento a due o più delle seguenti situazioni:
1) uso di mezzi di trasporto pubblici;
2) trovarsi in spazi aperti;
3) trovarsi in spazi chiusi;
4) stare in fila o in mezzo alla folla;
5) essere fuori casa da soli.
B. Il soggetto evita queste situazioni temendo di non poter sfuggir loro, o di non poter essere
soccorso nel caso in cui insorgano sintomi di panico, impotenza e disorientamento.
C. L’agorafobia produce quasi sempre paura e ansia.
D. Produce inoltre persistenti comportamenti di evitamento, o ricerca di compagnia.
E. La paura e l’ansia sono sproporzionate rispetto alle reali situazioni che innescano il
disturbo.
F. La durata del disturbo è di norma superiore a 6 mesi o più.
G. Tali sintomi causano disagio clinicamente significativo e disfunzionamento nell’area
sociale e occupazionale, o in altre importanti aree del funzionamento.
H. Se è compresente un’altra condizione medica, il disturbo aumenta la preoccupazione per
la stessa.
I. Il disturbo non è meglio spiegato con i sintomi di altri quadri psico-patologici della sfera
ansiosa, ossessivo-compulsiva e post-traumatica.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Forma lieve 6-10%
Forma moderata 11-15%
Forma grave 16-20%
Forma grave complicata, ovvero con materiale impossibilità di uscire di casa senza essere
21-25%
accompagnati
A. Ansia e preoccupazione eccessive, anche sotto forma di aspettative nutrite con appren-
sione, della durata di almeno 6 mesi e in relazione a un certo numero di eventi o attività.
B. Il soggetto ha difficoltà a controllare la preoccupazione.
C. Presenza, per la maggior parte del tempo, di almeno tre o più dei seguenti sintomi:
irrequietezza, tensione, facile affaticabilità, difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria, irritabi-
lità, tensione muscolare, alterazioni del sonno.
Nei bambini può essere presente anche uno solo dei predetti sintomi.
D. L’ansia, la preoccupazione e i sintomi fisici causano importante distress e compromis-
sione del funzionamento sociale e lavorativo.
E. Il disturbo non è attribuibile ad effetti di farmaci/sostanze, o a condizioni mediche.
F. Il disturbo non è meglio spiegato con un altro disturbo psico-patologico.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Forma lieve 11-15%
NOMELAV: 15/21199 PAG: 147 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Forma lieve complicata o moderata 16-20%
Forma moderata complicata o grave 21-25%
Forma grave complicata 26-30%
seconda della gravità e del decorso e prevedono ben sette fattispecie, rispettivamente
per gli episodi singoli e per quelli ricorrenti.
Il DSM-5 prevede i seguenti criteri diagnostici, precisando che quelli compresi da
A a C corrispondono ad una condizione definibile come “episodio depressivo mag-
giore”:
A. Presenza contemporanea di 5 o più dei seguenti sintomi per un periodo di almeno due
settimane, con variazione del funzionamento personale precedente; almeno uno dei sintomi è
rappresentato da (1) umore depresso, o (2) perdita di interessi o di piacere:
1) umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, con sensazione
soggettiva di sentirsi triste, svuotato, privo di speranza, oppure osservazione, da parte di altri di
facile tendenza al pianto; nei bambini e negli adolescenti vi può essere umore irritabile;
2) marcata riduzione di interesse, o di piacere in tutte o quasi tutte le attività per la maggior
parte del giorno e quasi ogni giorno, non soltanto riferita, ma anche percepibile dall’esterno;
3) significativa perdita o aumento di peso in assenza di misure dietetiche o di eccessi
alimentari, per diminuzione, o aumento dell’appetito quasi ogni giorno;
4) insonnia o ipersonnia quotidiana;
5) agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno, non soltanto soggettivamente
riferito, ma obiettivamente constatato;
6) perdita di energia e stanchezza quasi ogni giorno;
7) sensazione di inutilità e senso di colpa eccessivo o immotivato (talora delirante), quasi
ogni giorno;
8) riduzione della capacità di concentrazione e di concettualizzazione o indecisione quasi
ogni giorno;
9) pensieri ricorrenti di morte (non soltanto paura di morire), ricorrenti ideazioni suicidarie
o tentativi di suicidio.
B. I sintomi causano disagio clinicamente significativo e riduzione del funzionamento sociale
e lavorativo.
C. La condizione non è attribuibile agli effetti psicologici di sostanze o ad altra condizione
medica.
D. L’insorgenza di un episodio depressivo maggiore non è meglio spiegata da disturbi di tipo
schizo-affettivo, schizofrenico, schizofreniforme, delirante, o da altri disturbi dell’area psicotica.
E. Non si è mai verificato un episodio maniacale o ipomaniacale.
Il DSM-5 precisa che le reazioni ad una perdita significativa (ad es. lutto, tracollo
finanziario, perdite per disastri naturali, gravi malattie o disabilità) possono comportare
sentimenti di intensa tristezza, ruminazioni sulla perdita, insonnia, scarso appetito e calo
ponderale, ovvero condizioni che possono mimare un episodio depressivo senza
necessariamente assumere la valenza nosografica di tale disturbo. Il DSM-5 fornisce poi
ulteriori specificatori diagnostici, precisando che questo disturbo può presentarsi con
ansia, screzi melanconici o psicotici, catatonia, caratteristiche miste o atipiche, e che può
insorgere nel post-partum o con ricorrenza stagionale.
Nei bambini e negli adolescenti il disturbo può manifestarsi sotto forma di umore
irritabile o scontroso, piuttosto che triste. Sotto il profilo eziologico, il DSM-5 precisa
che il rischio di insorgenza è più elevato in caso di eventi avversi accaduti nell’infanzia
(specie se molteplici e reiterati) e che gli eventi stressanti rappresentano dei fattori
precipitanti gli episodi depressivi, benché la loro presenza non sembri condizionare
significativamente la prognosi o il trattamento.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 149 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Nel caso in cui l’evoluzione sia favorevole — al di là del danno temporaneo legato all’acuzie psico-
patologica è comunque accreditabile un danno biologico permanente nell’ordine del 2-5% a motivo della
persistenza di un locus minoris resistentiae, che si traduce in un incremento del rischio di andare incontro
a recidive dell’episodio depressivo.Se invece la condizione depressiva cronicizza, tenendo conto della dianzi
richiamata, amplissima gamma di incidenza invalidante che connota questo disturbo, che di principio incide
significativamente sul complessivo funzionamento individuale, compromettendolo seriamente — quantun-
que l’impiego degli psicofarmaci più recenti, sempre che il soggetto abbia una buona compliance, ne
consenta un buon controllo — la sua quantificazione medico-legale può essere articolata nell’altrettanto
ampia graduazione qui proposta.
Forma lieve 21-25%
Forma moderata o lieve con disturbi coesistenti 26-30%
Forma grave, ma senza melanconia e senza sintomi psicotici, oppure moderato con
31-35%
disturbi coesistenti
Forma grave, con disturbi coesistenti, ma senza melanconia e senza sintomi psicotici,
36-40%
oppure grave, con melanconia ma senza disturbi coesistenti e senza sintomi psicotici
Forma grave, con melanconia e con disturbi coesistenti, ma senza sintomi psicotici 41-45%
Forma grave, con melanconia e con sintomi psicotici 46-60%
Forma con melanconia, sintomi psicotici e agiti suicidiari 61-75%
A. Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi tutti i giorni, come riferito o
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osservato da altri, per almeno 2 anni. Nei bambini e negli adolescenti è sufficiente l’esistenza di
umore irritabile per almeno un anno.
B. Presenza, durante la fase depressiva, di due o più dei seguenti sintomi:
1) inappetenza o iperfagia;
2) insonnia o ipersonnia;
3) ipostenia o stanchezza;
4) bassa autostima;
5) scarsa concentrazione o difficoltà a prendere decisioni;
6) sentimenti di disperazione.
C. Durante il periodo di due anni (un anno per bambini e adolescenti) i sintomi dei criteri
A e B non scompaiono mai per più di due mesi di seguito.
D. I criteri per un disturbo depressivo maggiore possono essere continuativamente presenti
per due anni.
E. Non ci sono mai stati episodi maniacali o ipomaniacali e i criteri non sono mai stati
compatibili con un disturbo ciclotimico.
F. Il disturbo non è meglio spiegato con altri disturbi psicopatologici, quali quelli schizo-
frenici, schizo-affettivi, deliranti, o altri della sfera schizofrenica e psicotica.
G. I sintomi non sono attribuibili ad effetti psicologici di sostanze, o ad altra condizione
medica.
H. I sintomi causano disagio clinicamente significativo, o compromissione del funziona-
mento sociale, lavorativo o in altre aree importanti.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
In relazione all’entità ed alla numerosità dei sintomi descritti nel novero dei criteri diagnostici, la
quantificazione del danno biologico permanente può essere effettuata sulla scorta dei seguenti parametri
percentuali, che devono essere necessariamente inferiori rispetto a quelli previsti per il disturbo depressivo
maggiore.
Forma lieve 16-20%
Forma moderata o lieve con disturbi coesistenti 21-25%
Forma grave o moderata con disturbi coesistenti 26-30%
Forma grave con disturbi coesistenti 31-35%
Nel DSM-5 vengono raggruppati in questa categoria tutti quei disturbi caratteriz-
zati dalla presenza di ossessioni e/o compulsioni. Le prime si sostanziano nella
persistenza di pensieri ricorrenti, intrusivi e indesiderati; mentre le seconde si esplicano
attraverso la messa in atto di pensieri o comportamenti a carattere ripetitivo, espressi in
maniera coatta, secondo modelli applicativi molto rigidi.
Le preoccupazioni e/o i rituali comportamentali possono rientrare nell’ambito dei
fisiologici meccanismi dello sviluppo ed integrano un disturbo ossessivo-compulsivo
soltanto qualora siano eccessivi, o persistano oltre le fasi evolutive fisiologiche.
I contenuti delle ossessioni e delle compulsioni variano da individuo a individuo,
pur presentando denominatori comuni quali: pulizia e simmetria per il disturbo
ossessivo-compulsivo; necessità di conservare i propri averi, nel disturbo da accumulo;
focalizzazione su particolari aspetti del proprio corpo, nel disturbo di dismorfismo
corporeo, nella tricotillomania e nel disturbo da escoriazione.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per la quantificazione del danno biologico permanente ci si può basare sulle seguenti fasce percentuali,
utilizzabili proporzionalmente all’entità e alla numerosità dei disturbi elencati nei criteri diagnostici, al
livello di insight, nonché alla peculiare caratteristica, costituita dal dispendio di tempo e di energie psichiche
investite nell’espletamento compulsivo dei rituali.
Forma lieve 16-20%
Forma lieve complicata oppure moderata 21-25%
Forma moderata complicata o grave 26-30%
Forma grave complicata 31-35%
A. Preoccupazione per uno o più difetti o imperfezioni nell’aspetto fisico, che non sono
percepibili o appaiono lievi alle altre persone.
B. In una certa fase dell’evoluzione del disturbo l’individuo compie gesti ripetitivi (es.
controlli allo specchio, smorfie, pizzicamento della cute, ricerche di rassicurazione) o elaborazioni
mentali (es. paragone del proprio aspetto con quello degli altri) in risposta alle preoccupazioni
legate al proprio aspetto.
C. La preoccupazione causa disagio clinicamente significativo o riduzione del funziona-
mento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti.
D. La preoccupazione per il proprio aspetto non è riconducibile a un disturbo alimentare.
crede che il dismorfismo possa essere reale); con insight assente e credenze deliranti (il
soggetto è convinto che il dismorfismo sia reale).
Il manuale contempla anche una sotto-categoria specifica, quasi esclusiva del sesso
maschile, denominata “dismorfia muscolare”, caratterizzata dall’idea di avere un fisico
troppo esile.
Quanto ai fattori di rischio, il DSM-5 prospetta che nel novero di coloro che
soffrono di questo disturbo vi sia un elevato tasso di soggetti con pregresse esperienze
di trascuratezza e abuso nell’infanzia, soggiungendo, peraltro, che esiste una altrettanto
elevata aliquota di soggetti con familiarità per il disturbo ossessivo-compulsivo.
In ben due terzi dei casi l’esordio avviene prima dei 18 anni (raramente in età
superiore) ed il decorso è generalmente cronico, inducendo spesso a richiedere tratta-
menti estetici nel tentativo di migliorare i difetti soggettivamente percepiti. Ovviamente,
il disturbo risponde molto poco anche alla chirurgia estetica e — degno di nota per altre
implicazioni di natura medico-legale — questi individui intraprendono spesso azioni
legali, o esprimono comportamenti aggressivi nei confronti dei medici che li hanno
operati con loro insoddisfazione.
In generale i maschi denotano maggiormente preoccupazioni per i genitali (dimen-
sioni, funzionalità, etc.) o per la muscolatura, mentre le femmine presentano spesso
disturbi dell’appetito in comorbilità e ricorrono a diete, trattamenti estetici anche
impegnativi, eccessi di abbronzatura, etc. Non variano invece i comportamenti di
controllo e verifica in forma compulsiva.
Il DSM-5 sottolinea che la compromissione relazionale può variare da moderata
(evitamento di talune occasioni sociali) a molto grave e invalidante (soggetti costretti a
non uscire di casa). Circa il 20% dei giovani affetti da questo disturbo sviluppa
abbandono scolastico ed importante disfunzionamento sociale. Un’alta percentuale di
adulti e adolescenti giunge anche ad aver necessità di cure psichiatriche in ambito
nosocomiale. Le ideazioni suicidarie e i tentativi di suicidio non sono infrequenti, specie
ove sussista una comorbilità con il disturbo depressivo maggiore.
Sul piano medico-legale, risulta particolarmente importante la distinzione, espres-
samente prevista dal DSM-5, tra le normali preoccupazioni relative a difetti fisici
evidenti e le abnormi e sproporzionate preoccupazioni per situazioni fisiche viceversa
fisiologiche, che sono invece proprie del disturbo di dismorfismo corporeo.
Effettivamente, le reazioni psichiche ad esiti cicatriziali — specie se interessanti
distretti anatomici dotati di rilevante importanza fisonomica, come il volto, o di
particolare pregio sul piano relazionale e dell’appeal sessuale, o ancora se tali cicatrici
sono cheloidee e/o di notevole dimensione e difficilmente occultabili con l’abbiglia-
mento — appartengono per lo più alla sfera dei disturbi dell’adattamento, spesso con
componenti ansiose e depressive, ove la compromissione relazionale sia particolarmente
elevata.
Le complicanze possono essere rappresentate da altri disturbi di tipo ansioso o
depressivo, nonché dalle dianzi menzionate componenti deliranti.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Tenuto conto della scontata cronicità del disturbo e del suo impatto invalidante sul piano socio-relazionale,
trovano giustificazione le seguenti percentuali di danno biologico permanente, nel novero delle quali i valori
più elevati possono essere assegnati ai casi caratterizzati da contenuti deliranti, severi e continuativi.
Forma lieve 6 -10%
NOMELAV: 15/21199 PAG: 155 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Forma lieve complicata oppure moderata 11-15%
Forma moderata complicata o grave 16-25%
Forma grave complicata 26-35%
Poiché il DSM-5 attribuisce a questo gruppo di disturbi una base genetica, con
espressività eredo-familiare, essi non hanno interesse medico-legale, eccezion fatta per
l’episodio manicale, che può manifestarsi nel contesto dei predetti disturbi, o anche
isolatamente, in conseguenza di un evento stressante.
Episodio maniacale
Questa entità nosografica è appunto riportata dal DSM-5 nell’ambito dei disturbi
bipolari.
La letteratura psichiatrica contempla tale disturbo nell’ambito delle “reazioni
paradossali” (ad es. la mania “da lutto”, contraltare della “depressione da successo”) e
riporta una “una maggiore presenza di life events nel periodo precedente l’insorgenza”.
La criteriologia diagnostica del DSM-5 prevede:
presenti almeno tre dei seguenti sintomi (4 se vi è soltanto umore irritabile), i quali rappresentano
un mutamento significativo del comportamento abituale:
1) autostima ipertrofica o grandiosità;
2) diminuito bisogno di sonno;
3) maggiore loquacità;
4) fuga delle idee;
5) distraibilità;
6) aumento dell’attività finalizzata, o agitazione psico-motoria;
7) eccessivo coinvolgimento in attività che hanno un alto potenziale di conseguenze dannose.
C) Marcata compromissione del funzionamento socio-lavorativo (nell’episodio ipomaniacale
si verifica soltanto un cambiamento di tale funzionamento).
D) L’episodio non è attribuibile all’effetto di sostanze (es. antidepressivi) o ad altra
condizione medica.
Oltre il 90% degli individui che hanno un singolo episodio maniacale continuano ad
avere ricorrenti episodi di alterazione dell’umore, nelle due polarità del disturbo timico.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Unitamente alla compromissione dell’immagine sociale connessa alle peculiari esternazioni nel corso del-
l’episodio, pur in caso di sua risoluzione, dipendentemente dalla gravità e dalla durata dell’episodio e dalla
presenza di manifestazioni psicotiche, oltre all’accreditamento di un danno psichico temporaneo è prospet-
tabile anche un danno permanente.
Episodio maniacale 11-15%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Poiché, quanto a gravità, il DSM-5 colloca questi disturbi tra quelli di tipo depressivo e quelli dello spettro
schizofrenico, la quantificazione del danno biologico permanente può basarsi sulle ponderazioni assegnate
a queste due categorie, utilizzando i parametri percentuali inferiori della schizofrenia nel caso in cui il senso
di realtà sia alquanto compromesso e, invece, quelli della depressione ove questo aspetto sia sufficiente-
mente conservato.
tori di decorso, basati sul tipo di andamento (ad episodi singoli o multipli, oppure
continuo) e sulle caratteristiche di presentazione (acuto, in remissione parziale, in
remissione completa).
Nel disturbo delirante la compromissione del funzionamento è solitamente più
limitata rispetto a quanto si osserva negli altri disturbi di tipo psicotico, anche se in rari
casi si possono verificare isolamento sociale ed importanti riverberi sul piano lavorativo.
La caratteristica comune è l’apparente normalità del comportamento quando non
vengono in discussione i temi del delirio (c.d. funzionamento “a doppio binario”).
Sono indicatori di prognosi favorevole: l’esordio acuto, la presenza di fattori
precipitanti, alti livelli di funzionamento socio-lavorativo precedenti l’esordio del
delirio.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Considerando che nella scala VGF del DSM-IV TR al “comportamento considerevolmente influenzato da
deliri e allucinazioni” si fa corrispondere una rilevante compromissione del funzionamento globale, il danno
biologico è modulabile nei seguenti termini percentuali.
Forma lieve 26-35%
Forma moderata 36-45%
Forma grave 46-55%
Forma grave complicata 56-65%
A. Presenza di uno o più dei seguenti sintomi, almeno uno dei quali deve essere compreso
tra i primi tre: 1) deliri; 2) allucinazioni; 3) eloquio disorganizzato; 4) comportamenti grossola-
namente disorganizzati, o a catatonia.
B. La durata di un episodio è di almeno 1 giorno, ma inferiore a 1 mese, con successivo
ritorno al precedente livello di funzionamento.
C. Il disturbo non è meglio spiegato da altri disturbi psichici, o da un’altra condizione
medica.
precipitanti di elevata portata stressante; esordio acuto e breve durata dei sintomi;
confusione e scarso orientamento durante la fase attiva; scarso ottundimento dell’affet-
tività; gentilizio negativo per psicosi.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Disturbo psicotico breve con risoluzione 6-10%
Disturbo psicotico breve con recidive 11-20%
A. Due o più dei seguenti sintomi, almeno uno dei quali deve appartenere ai primi tre:
1) deliri;
2) allucinazioni;
3) eloquio disorganizzato;
4) comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico;
5) sintomi negativi, come diminuzione dell’espressività emotiva, o abulia. Tali sintomi
devono essere presenti per un periodo di tempo significativo nell’arco di un mese (meno in caso
di trattamento con esito positivo).
B. Un episodio del disturbo dura almeno 1 mese ma meno di 6 mesi.
C. Sono da escludersi il disturbo schizoaffettivo, depressivo, o bipolare con screzi psicotici
(le alterazioni dell’umore sono assenti, o comunque di marginale importanza, o breve durata
rispetto alle altre manifestazioni sintomatologiche).
D. Il disturbo non è attribuibile ad effetti psichici di sostanze o ad altra condizione medica.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Quantunque il DSM-5 non ravvisi per questo disturbo l’esistenza di fattori di rischio psico-traumatici, per
le ragioni di parametrazione precedentemente illustrate riteniamo utile proporre la seguente quantificazione
del danno biologico permanente.
Disturbo schizofreniforme 11-20%
Schizofrenia (295.90-F20.9)
Per questo disturbo paradigmatico del profilo categoriale della psicosi il DSM-5
richiede l’osservanza dei seguenti criteri diagnostici:
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A. Due o più dei seguenti sintomi, almeno uno dei quali deve appartenere ai primi tre della
seguente serie:
1) deliri;
2) allucinazioni;
3) eloquio disorganizzato;
4) comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico;
5) sintomi negativi, come diminuzione dell’espressività emotiva, o abulia. Tali sintomi
devono essere presenti per un periodo di tempo significativo nell’arco di un mese (meno in caso
di trattamento con esito positivo).
B. Per una significativa parte del tempo dall’esordio del disturbo, il livello di funzionamento
in una o più delle aree principali (lavoro, relazioni inter-personali, cura della propria persona) è
marcatamente compromesso o, nell’età infantile e nell’adolescenza, vi è l’incapacità di raggiungere
il livello di funzionamento atteso per quell’età.
C. I segni del disturbo persistono continuativamente per almeno 6 mesi (meno se trattati
efficacemente).
D. Sono da escludersi il disturbo schizo-affettivo, depressivo, o bipolare con screzi psicotici
(le alterazioni dell’umore sono assenti, o comunque di marginale importanza, o breve durata
rispetto alle altre manifestazioni sintomatologiche).
E. Il disturbo non è attribuibile a effetti psichici di sostanze o ad altra condizione medica.
F. In caso di anamnesi positiva per disturbi dello spettro autistico o della comunicazione, ad
insorgenza infantile, la diagnosi aggiuntiva di schizofrenia è prospettabile soltanto se sono
presenti deliri o allucinazioni, oltre ad altri sintomi schizofrenici la durata di almeno 1 mese (o
meno se trattati efficacemente).
Il DSM-5 distingue diverse forme, in base al tipo di decorso (ad episodi singoli o
multipli; continuo) ed alle caratteristiche di presentazione (acuto, in remissione parziale,
in remissione completa).
In ambito clinico si utilizza talvolta la categoria della “schizofrenia residuale” —
che nel DSM-5 corrisponde ai quadri definiti di parziale, o incompleta, remissione —
applicabile quando non è soddisfatto il criterio A, ma sono presenti soltanto sintomi
negativi, oppure soltanto due sintomi positivi in forma attenuata (ad es. convinzioni
strane anziché deliri; esperienze percettive inusuali, in luogo delle allucinazioni; lin-
guaggio fumoso anziché disorganizzazione dell’eloquio; atteggiamenti eccentrici in
luogo della disorganizzazione del comportamento).
Per quanto concerne i fattori di rischio coinvolti nel determinismo della schizo-
frenia, il DSM sottolinea l’importante contributo di fattori genetici e di condizioni
avverse pre/perinatali (parto distocico e ipossia, diabete materno, stress, infezioni,
malnutrizione, età paterna avanzata, etc.). V’è peraltro da sottolineare che la stragrande
maggioranza degli individui con queste caratteristiche non sviluppa schizofrenia.
L’esordio può essere insidioso o, più raramente, improvviso e si verifica tipica-
mente tra l’adolescenza e la quarta decade di vita; i sintomi caratteristici comprendono
una vasta gamma di disfunzioni cognitive, comportamentali ed emotive che inesorabil-
mente comportano una significativa compromissione del funzionamento sociale e
lavorativo dell’individuo. Spesso manca completamente la consapevolezza di malattia
(assenza di insight), con conseguenti ripercussioni negative sull’assunzione di terapia e
sulla prognosi.
Il decorso è altamente variabile e poco prevedibile; tuttavia, nella maggior parte dei
casi, la malattia ha andamento cronico, con esacerbazioni e remissioni, o con deterio-
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Tenuto conto della numerosità e della continuità dei sintomi previsti dai criteri diagnostici, nonché della
intrinseca portata invalidante della schizofrenia, essenzialmente dovuta alla grave compromissione del-
l’esame di realtà, per la quantificazione medico-legale di questo disturbo si possono utilizzare i seguenti
parametri.Poiché la schizofrenia residuale non raggiunge i massimali livelli invalidanti della schizofrenia ad
andamento continuativo, non risultano razionalmente utilizzabili le ultime due fasce percentuali.
Singolo episodio schizofrenico 21-30%
Episodi schizofrenici multipli in remissione completa 31-45%
Schizofrenia a decorso continuativo:
- con comportamento moderatamente influenzato da deliri e allucinazioni 46-60%
- con comportamento considerevolmente influenzato da deliri e allucinazioni 61-75%
- con elevata disorganizzazione ideativo-comportamentale 76-90%
- con perdita completa del funzionamento personale e condotte auto- ed etero-aggressive 91-100%
Possono essere distinte diverse forme in base al decorso (ad episodi singoli o
multipli; continuo) ed alle caratteristiche di presentazione (acuto, in remissione parziale,
in remissione completa).
Il funzionamento sociale e lavorativo è spesso compromesso, ma in misura minore
rispetto alla schizofrenia.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Poiché questo disturbo, pur comportando una significativa alterazione dell’esame di realtà, non implica quei
comportamenti auto- ed etero-aggressivi, o drasticamente inibiti, che contraddistinguono la schizofrenia ed
è spesso caratterizzato dalla prevalenza di sintomi depressivi e/o maniacali (il bipolarismo rappresenta una
delle caratteristiche salienti), il danno biologico permanente può essere graduato nei seguenti termini (senza
ovviamente raggiungere i valori massimali della schizofrenia).
Con moderata compromissione del funzionamento sociale e lavorativo 46-55%
Con grave compromissione del funzionamento sociale e lavorativo 56-65%
Con gravissima compromissione del funzionamento sociale e lavorativo 66-75%
Questi disturbi sono caratterizzati da deficit dello sviluppo di variabile entità, che
si manifestano tipicamente in età infantile e che determinano compromissione del
funzionamento personale, sociale, scolastico o lavorativo.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 165 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
Nel DSM-5 questo capitolo annovera numerosi disturbi, tra i quali soltanto la
balbuzie e i tic mostrano qualche interesse medico-legale.
Quantunque per la balbuzie (315.35 — F80.81) il DSM-5 non prospetti una
derivazione eziologica post-psicotraumatica, in letteratura sono presenti contributi che
avvalorano un’associazione con questo tipo di eventi, specie in caso di esordio tardivo.
Invero, il DSM-5 distingue tra disfluenza ad esordio in età infantile (nel periodo
precoce dello sviluppo) e quella ad esordio in età adulta (durante, o dopo l’adole-
scenza), trattando in maniera estesa, all’interno di questo capitolo, soltanto la prima.
Questa forma insorge prevalentemente tra i due e i sette anni di età, in maniera subdola,
o improvvisa e può essere talora associata a movimenti involontari, come ammicca-
mento, tremori, tic, etc.; può scomparire nella lettura ad alta voce, nel canto o in quelle
singolari modalità di comunicazione verbale che si adottano nei confronti di animali, o
di oggetti inanimati.
Ovviamente, per l’accreditamento in campo peritale è di fondamentale importanza
l’acquisizione della prova anamnestica che il disturbo non sussisteva prima dell’evento
psico-traumatico.
Si tratta di un disturbo non necessariamente permanente, anzi per lo più supera-
bile, sia spontaneamente, sia mediante diverse tecniche logopediche, che ottengono
spesso buoni risultati fino alla completa risoluzione. Pertanto, sul piano medico-legale
è opportuno valutare le ragioni per le quali questi trattamenti non siano stati coltivati,
o non abbiano avuto buon risultato, distinguendo tra ineluttabile cronicizzazione e
difetto assistenziale.
L’incidenza invalidante deve essere stimata proporzionalmente alla frequenza degli in-
ceppamenti verbali ed alla ricorrenza degli stessi in situazioni socio-relazionali particolarmente
importanti e, di conseguenza, rilevanti sotto il profilo della compromissione delle componenti
dinamico-relazionali che caratterizzano la categoria del danno biologico.
Non a caso, anche il DSM-5 sottolinea che la balbuzie scatena reazioni ansiose,
nella misura in cui limita significativamente la comunicatività personale e sociale.
Pertanto, essa deve essere tenuta in considerazione come fattore di aggravamento
del danno biologico permanente di un disturbo d’ansia a genesi psico-traumatica,
aggiungendovi una maggiorazione percentuale dell’ordine del 6-10%.
I tic sono movimenti o vocalizzazioni repentine, rapide e ricorrenti. L’esordio si
verifica entro i 18 anni di età (mediamente tra i 4 e i 6 anni); l’insorgenza nell’età adulta
è rara e secondaria a condizioni organiche (es. encefaliti post-virali), o ad assunzione di
sostanze.
Nella loro forma primaria — l’unica di interesse sotto il profilo del danno psichico
- i tic sono spesso associati ad altre condizioni psichiatriche, in particolare al disturbo
da deficit di attenzione/iperattività, al disturbo ossessivo-compulsivo ed al disturbo
d’ansia da separazione.
In questo caso devono essere considerati come complicanze del disturbo sotto-
stante e valutati globalmente. Generalmente i sintomi scompaiono, o si attenuano
notevolmente in età adulta; solo in una piccola percentuale di individui divengono
persistenti o, addirittura, si aggravano.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Sul piano valutativo medico-legale è necessario un lungo periodo di osservazione prima di riconoscerne il
rilievo sotto il profilo del danno biologico permanente.
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VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Nel caso in cui i tic interessino il volto, siano particolarmente frequenti e tali da alterare/disturbare
notevolmente la mimica facciale — sempre che sia comprovata la loro derivazione causale da un evento
psico-traumatico sufficientemente intenso — possono essere meritevoli della quantificazione percentuale
del 6-10%.
A. L’individuo ha sperimentato la morte di una persona con la quale aveva una relazione
stretta.
B. Dal momento di questa morte, l’individuo ha sviluppato almeno uno dei seguenti sintomi
di grado clinicamente significativo, per la maggior parte del tempo e per almeno 12 mesi dopo
l’evento (6 mesi nei bambini):
1) persistente e perdurante desiderio del defunto (nei bambini espresso attraverso giochi e
comportamenti, che riflettono situazioni di separazione e di ricongiungimento);
2) profonda tristezza e sofferenza emotiva;
3) preoccupazione per il defunto;
4) preoccupazione per le circostanze nelle quali si è verificata la morte (nei bambini questa
preoccupazione può essere espressa attraverso giochi e comportamenti).
C. Dal momento della morte della persona cara l’individuo ha sviluppato almeno 6 dei
seguenti sintomi, di entità clinicamente significativa, presenti per la maggior parte del tempo e per
almeno 12 mesi (6 per i bambini):
1) marcata difficoltà ad accettare la perdita (nei bambini essa dipende dalla capacità di
comprendere il significato e l’irreversibilità della perdita);
2) incredulità o ottundimento emotivo in ordine alla perdita;
3) difficoltà a ricordare positivamente il defunto;
4) amarezza o rabbia in relazione alla perdita;
5) valutazioni negative di sé stessi in relazione al defunto o alla morte (senso di colpa);
6) esasperato evitamento di ricordi inerenti la perdita (es. evitamento di persone, luoghi e
situazioni che ricordano il defunto; nei bambini questo comportamento include l’evitamento di
pensieri e sentimenti riguardanti il defunto);
7) desiderio di morire per rimanere accanto al defunto;
8) difficoltà a fidarsi di altre persone;
9) sensazione di solitudine o di distacco dal contesto relazionale;
10) sensazione che la propria vita sia vuota e priva di significato in mancanza della persona
perduta, o convinzione che non sia possibile continuare a vivere senza di essa;
11) confusione circa il proprio ruolo nella vita o compromissione della consapevolezza della
propria identità (es. sentire che una parte di sé stessi è morta con la persona cara);
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12) difficoltà o riluttanza a coltivare interessi, o a fare progetti per il futuro (es. amicizie,
attività).
D. Il disturbo causa disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento
sociale e occupazionale, o di altre aree importanti.
E. La reazione al lutto è sproporzionata, o incoerente con quanto normalmente ritenuto
appropriato rispetto all’età e all’ambiente culturale e religioso.
Il disturbo può verificarsi ad ogni età dopo il primo anno di vita ed è più frequente
nel sesso femminile.
I sintomi esordiscono generalmente entro un mese dalla perdita della persona cara,
anche se talvolta possono trascorrere mesi, o addirittura anni, affinchè il quadro
sindromico si manifesti nella sua completezza. Peraltro, anche nel caso in cui le reazioni
al lutto insorgano subito dopo l’evento, esse non possono essere prese in considerazione
sul piano diagnostico come un vero e proprio disturbo psico-patologico prima che siano
trascorsi almeno 12 mesi (6 mesi per i bambini).
Le modalità espressive della sofferenza da lutto sono quelle elencate nei predetti
criteri diagnostici. Alcuni individui possono manifestare addirittura allucinazioni visive
e/o uditive riguardanti la persona deceduta, percependone la presenza fisica, oppure
possono accusare disturbi fisici (ad es. spossatezza, dolori, etc.), tra cui sintomi
manifestati in vita dal defunto.
Nei bambini possono comparire regressioni dello sviluppo, comportamenti ansiosi
o rivendicativi nei momenti di separazione e riunione con i caregivers, con correlato
distress da separazione nei bambini più piccoli; negli adolescenti possono configurarsi
disturbi dell’identità personale e sociale e un maggior rischio di sviluppare disturbi
depressivi.
Questo disturbo può determinare importante compromissione del funzionamento
sociale e lavorativo e può indurre comportamenti dannosi per la salute, come abuso di
alcool e fumo. È inoltre associato a un marcato aumento del rischio per gravi condizioni
mediche, quali malattie cardio-vascolari, immuno-depressive e neoplastiche.
Il disturbo da lutto può manifestarsi in comorbilità con altri disturbi psichici, in
particolare quelli depressivo maggiore, da uso di sostanze e da stress post-traumatico.
Quest’ultima associazione risulta particolarmente frequente quando la morte si verifica
in circostanze traumatiche/violente; in questo caso il quadro psico-patologico può
assumere particolare gravità, anche per le angoscianti preoccupazioni circa gli ultimi
momenti di vita, le sofferenze patite e le lesioni subite dalla persona cara prima di
morire.
È molto importante — non soltanto dal punto di vista clinico, ma anche medico-
legale — differenziare il disturbo da lutto da altre condizioni ad esso affini, quali il lutto
fisiologico, la depressione ed il disturbo da stress post-traumatico: la diagnosi differen-
ziale deve basarsi sui parametri cronologici, anamnestici e sintomatologici sopra ripor-
tati.
Per la stima del danno biologico permanente comportato da questo disturbo,
poiché — come precisato anche dal DSM-5 — in esso prevalgono per lo più i sintomi
depressivi, possono conseguentemente utilizzarsi i parametri percentuali indicati per il
disturbo depressivo maggiore, con riferimento, in linea di massima, alle prime tre fasce,
cioè dal 21 al 35%, dipendentemente dal numero e dalla gravità dei sintomi elencati nei
criteri diagnostici del DSM.
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Capitolo 2
FUNZIONI NEUROLOGICHE CENTRALI E NERVI CRANICI
2.1. Sindromi a focolaio. — 2.1.a. Sindrome prefrontale. — 2.1.b. Sindrome precentrale. — 2.1.c. Sindrome
parietale. — 2.1.d. Sindrome temporale. — 2.1.e. Sindrome occipitale. — 2.2. Sindrome pseudo-bulbare. —
2.3. Sistema cerebellare. — 2.4 Sistema extrapiramidale. — 2.5. Idrocefalo. — 2.6. Disturbi neuro-cognitivi.
— 2.7. Funzioni comunicative. — 2.7.a. Afasie. — 2.7.b. Anartria e disartria. — 2.7.c. Afonia e disfonia. —
2.7.d. Dislalia e disfluenza verbale. — 2.8. Epilessie. — 2.9. Midollo spinale — 2.10. Traumi cranici. —
2.11. Malattie dei motoneuroni. — 2.12. Malattie demielinizzanti. — 2.13. Cefalee. — 2.13.a. Cefalee
primarie. — 2.13.b. Cefalee secondarie. — 2.14. Disturbi del sonno. — 2.14.a. Sindrome delle apnee
ostruttive del sonno. — 2.14.b. Narcolessia di tipo 1 e di tipo 2. — 2.14.c. Ipersonnia idiopatica. —
2.14.d. Ipersonnia ed altri disturbi del sonno di natura post-traumatica. — 2.14.e. Insonnia cronica. —
2.15. Nervi cranici. — 2.15.a. Nervo olfattivo (I). — 2.15.b. Nervo ottico (II). — 2.15.c. Nervo oculomotore
comune (III). — 2.15.d. Nervo trocleare (IV). — 2.15.e. Nervo trigemino (V). — 2.15.f. Nervo abducente
(VI). — 2.15.g. Nervo faciale (VII). — 2.15.h. Nervo acustico (VIII). — 2.15.i. Nervi glossofaringeo (IX),
vago (X), accessorio (XI), ipoglosso (XII)
Le lesioni totali del circolo anteriore, siano esse destre o sinistre, correlano con una
più elevata probabilità di disabilità residua grave, mentre non vi sono differenze
apprezzabili fra gli altri sottotipi in termini di esito funzionale. Lo stato di coma
all’esordio, la persistenza della perdita di controllo sfinterico e la lunga durata della
plegia rappresentano indicatori predittivi sfavorevoli per il recupero dell’autonomia,
mentre una persistente flaccidità od una grave spasticità influenzano negativamente il
recupero della motilità.
Nel caso di ictus emorragico la prognosi iniziale è molto grave, con incidenza di mortalità
acuta nettamente più alta rispetto alle forme ischemiche, ma il recupero è ottimale in relazione
alla risoluzione dell’ematoma, verosimilmente a causa della minor distruzione di neuroni.
L’emorragia cerebrale si può localizzare in sede tipica, ovvero a livello delle strutture profonde
(nucleo lenticolare, talamo, capsula interna), come avviene generalmente nei soggetti ipertesi,
o atipica, a livello di lobo frontale, temporale, parietale od occipitale, evento generalmente
secondario a rottura di aneurismi, malformazioni vascolari, sanguinamento di tumori cere-
brali, trasformazione emorragica di ictus ischemico.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Le indicazioni percentuali relative all’emiplegia e all’emiparesi sono riferite all’emisoma dominante ed alle
forme con interessamento brachio-crurale.
Nel caso in sia concomitante una paresi facciale la valutazione deve essere aumentata in relazione all’entità
del deficit associato.Per la consultazione della scala MRC si rimanda a quanto indicato nel paragrafo dedicato
alle lesioni midollari.
85% (d.)
Emiplegia flaccida
80% (n.d.)
Emiplegia spastica con possibilità di deambulare con appoggio ed arto superiore funzio- 75% (d.)
nalmente perduto 70% (n.d.)
Emiparesi con grave deficit di forza (Classi 1-2 della MRC), deambulazione possibile solo
51-65%
con appoggio, perdita o grave difficoltà ai movimenti fini della mano
Emiparesi con moderato deficit di forza (Classe 3 della MRC), deambulazione possibile
21-50%
senza appoggio, difficoltà ai movimenti fini della mano
Emiparesi con lieve deficit di forza (Classe 4 della MRC) e minimo impaccio ai movimenti
10-20%
fini della mano
60% (d.)
Monoplegia flaccida dell’arto superiore
55% (n.d.)
Monoparesi dell’arto superiore con moderato deficit di forza ed impossibilità ai movimenti
31-40%
fini della mano
Monoparesi dell’arto superiore con lieve deficit di forza e notevole compromissione dei
21-30%
movimenti fini della mano
Monoplegia flaccida arto inferiore L’utilizzo efficace di tutori giustifica una valutazione in-
55%
feriore al valore indicato.
Monoparesi dell’arto inferiore con moderato deficit di forza, andatura falciante e possibile
25-35%
solo con appoggio
Monoparesi dell’arto inferiore con lieve deficit di forza, andatura falciante ma possibile senza
15-25%
appoggio
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione è estremamente difficoltosa per la variabilità del quadro clinico, in quanto sono interessate
numerose abilità complesse e per il fatto che i deficit non sono agevolmente rilevabili con un esame clinico
standard. La maggiore disabilità concerne la capacità di giudizio critico e le alterazioni del comportamento,
con inevitabili riflessi sulle funzioni lavorative e socio-relazionali.Le forme gravissime sono equiparabili, dal
punto di vista valutativo, agli stadi di demenza avanzati, in relazione alle correlate alterazioni cognitive e
comportamentali, la cui entità può risultare tale da pregiudicare l’autonomia personale; in tal caso la
valutazione può superare anche il limite massimo del range.
Sindrome prefrontale — Forma lieve 10-20%
Sindrome prefrontale — Forma moderata 21-35%
Sindrome prefrontale — Forma grave 36-60%
Sindrome prefrontale — Forma gravissima 61-80%
comprendono più compiti per l’indicazione di parti corporee e devono essere effettuate
sia in forma verbale che non e con diversi gradi di difficoltà.
Nel caso di interessamento dell’emisfero non dominante, con lesione del giro
angolare di sinistra, si realizza la cosiddetta sindrome di Gerstmann, caratterizzata da
disorientamento destro-sinistro (difficoltà a orientarsi rispetto alle categorie destra-
sinistra), agnosia digitorum (incapacità di nominare le dita), agrafia (incapacità di
scrivere), acalculia (incapacità a fare i conti).
Infine, nel caso di interessamento lesionale profondo possono risultare compro-
messe le radiazioni ottiche, con emi- o quadrantopsia laterale omonima.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Le indicazioni valutative di questi complessi disturbi neurologici possono essere fornite solo mediante ampi
range, data la eterogeneità dei quadri clinici. Nell’ambito di tali range la gravità dei deficit motori
eventualmente presenti deve orientare la valutazione verso i valori più elevati.
Ipo-anestesia dell’emisoma — Forma lieve-moderata 10-25%
Ipo-anestesia dell’emisoma — Forma grave 26-40%
Emisomatoagnosia — Forma lieve 15-30%
Emisomatoagnosia — Forma moderata 31-45%
Emisomatoagnosia — Forma grave 46-60%
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
Per la valutazione della sindrome temporale e della sindrome occipitale si rimanda a quanto indicato nei
capitoli inerenti gli specifici disturbi connessi a tali sindromi. Per quanto riguarda le agnosie e le
allucinazioni visive è proponibile un range percentuale tra il 15% ed il 30% attinente alla loro gravità sulle
funzioni dinamico-relazionali, con possibilità di superare il limite massimo ove la relazionalità del soggetto
sia drasticamente compromessa.
(che di solito compare quando il soggetto tenta di fissare oggetti posti lateralmente al
capo). Le lesioni a localizzazione emisferica comportano invece un quadro clinico più
complesso caratterizzato da movimenti atassici degli arti (intermittenti o a scatti), atassia
della marcia, dismetria, adioadococinesia (incapacità a compiere movimenti alternati ra-
pidi, passando, ad es., da un movimento di flessione ad uno di estensione), asinergia,
ipotonia muscolare, tremore (di tipo intenzionale), disartria (parola scandita).
Esistono numerose scale cliniche di valutazione funzionale del danno cerebellare
(ICARS: International Cooperative Ataxia Rating Scale; SARA: Scale for the Assessment
and Rating of Ataxia; BARS: Brief Ataxia Rating Scale; FARS: Friedrich Ataxia Rating
Scale; SCAFI: Spinocerebellar Ataxia Functional Index; CCFS: Composite Cerebellar
Functional Severity Score).
Tra di esse quella maggiormente fruibile per finalità medico-legali è la Rating Scale
for Friedrich’s Ataxia (FARS modificata), di seguito riportata.
SINTOMATOLOGIA STADIO
Normale 0
Minimi segni rilevabili durante un esame. Il soggetto può correre o saltare senza perdita di
1
equilibrio. Disabilità assente.
Il soggetto riferisce sintomi lievi. Non può correre o saltare senza perdere l’equilibrio ed è
fisicamente in grado di condurre una vita indipendente; può presentare qualche restrizione 2
nelle attività quotidiane.
Sintomi evidenti e significativi; necessità di regolare o periodico appoggio a muro o mobilio
3
o l’uso di un bastone per la stabilità e la deambulazione.
La deambulazione richiede deambulatore, canadesi o doppio bastone o altri ausili. Il
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soggetto può svolgere molte attività della vita quotidiana. Disabilità moderata.
Il soggetto è obbligato su carrozzella che utilizza per gli spostamenti; può svolgere alcune
attività della vita quotidiana che non necessitano della stazione eretta o della deambulazione. 5
Grave disabilità.
Obbligato su carrozzella o a letto con totale dipendenza per tutte le attività della vita
6
quotidiana. Totale disabilità.
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La valutazione deve essere effettuata in base al quadro clinico ed al grado di disabilità rilevabile dalla Scala
FARS, con particolare riferimento alla gravità dell’atassia, che rappresenta il sintomo principale dei soggetti
affetti da lesioni cerebellari. L’orientamento all’interno delle fasce deve tener conto anche dell’ulteriore
sintomatologia cerebellare associata e, per gli stadi 5 e 6, delle eventuali complicanze legate all’immobiliz-
zazione. Le indicazioni sono state formulate tenendo conto delle percentuali assegnate ai deficit motori
corrispondenti alla perdita funzionale segmentaria.
Stadio 1-2 della Scala FARS modificata 5-15%
Stadio 3 della Scala FARS modificata 16-35%
Stadio 4 della Scala FARS modificata 36-65%
Stadio 5 della Scala FARS modificata 66-90%
Stadio 6 della Scala FARS modificata 91-100%
integrate con altri livelli del SNC per il controllo dell’attività motoria funzionale (con il
fine di modulare il movimento volontario inibendo i movimenti che possono impedire
la precisione dello stesso) e delle funzioni integrative superiori. L’espressione più tipica
dell’interessamento del sistema extrapiramidale è rappresentata dalla malattia di Par-
kinson e dai c.d. parkinsonismi, che differiscono dalla vera e propria malattia di
Parkinson per le caratteristiche neuro-patologiche (sono secondari a noxae patogene
ben definite), per la minore risposta alla terapia con Levodopa e per la maggiore severità
della prognosi.
Si tratta di condizioni quasi sempre idiopatiche, anche se esistono parkinsonismi di
natura traumatica (la c.d. “sindrome acinetica della demenza pugilistica”) e iatrogena,
rispettivamente derivanti da compromissioni vascolari (lesioni lacunari sottocorticali a
localizzazione striatale) e da effetti collaterali di neurolettici e reserpina.
Il quadro clinico è caratterizzato da:
— ipertonia plastica: interessa simultaneamente i muscoli agonisti ed antagonisti e
si associa ad esagerazione dei riflessi di postura; tipicamente l’ipertono parkinsoniano è
caratterizzato da leggera flessione delle ginocchia, semiflessione degli arti superiori,
tendenza alla flessione generale del tronco e del capo (camptocormia);
— acinesia/bradicinesia: riduzione della mimica facciale e rarità dell’ammicca-
mento, perdita del movimento pendolare delle braccia nella marcia, impaccio nei
movimenti volontari (ritardo nell’inizio del movimento, svolgimento rallentato, impos-
sibilità ad eseguire movimenti rapidamente alternati);
— tremore a riposo, regolare e rapido, che cessa con l’esecuzione dei movimenti
volontari e durante il sonno, mentre si amplifica con l’emozione;
— ipercinesie/discinesie, quali conseguenza frequente dei trattamenti con Levo-
dopa.
La valutazione clinica di questi pazienti può essere effettuata mediante l’utilizzo di
scale clinico-funzionali, quali ad esempio la U.P.D.R.S. (Unified Parkinson Disease
Rating Scale) o la Scala di Hoehn e Yahr modificata. Quest’ultima, di seguito riportata,
è di più agevole applicazione in ambito valutativo.
BARTHEL INDEX
Alimentazione
0 = incapace
5 = necessità di assistenza (es. per tagliare il cibo)
NOMELAV: 15/21199 PAG: 178 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016
BARTHEL INDEX
10 = indipendente
Abbigliamento
0 = dipendente
5 = necessità di aiuto ma compie almeno metà del compito in tempo ragionevole
10 = indipendente, si lega le scarpe, usa le cerniere lampo, bottoni
Igiene personale
0 = necessità di aiuto
5= si lava la faccia, si pettina, si lava i denti, si rade
Fare il bagno
0 = dipendente
5 = indipendente
Controllo defecazione
0 = incontinente
5 = occasionali incidenti o necessità di aiuto
10 = continente
Controllo minzione
0= incontinente
5 = occasionali incidenti o necessità di aiuto
10 = continente
Trasferimenti sedia/letto
0 = incapace, no equilibrio da seduto
5 = in grado di sedersi, ma necessita della massima assistenza per trasferirsi
10 = minima assistenza e supervisione
15 = indipendente
Trasferimenti nel bagno
0 = dipendente
5 = necessità di qualche aiuto per l’equilibrio, vestirsi/svestirsi o usare carta igienica
10 = indipendente con l’uso del bagno o della padella
Deambulazione
0 = immobile
5 = indipendente con la carrozzina per più di 45 mt
10 = necessita di aiuto di una persona per più di 45 mt
15 = indipendente per più di 45 mt, può usare ausili (es. bastone) ad eccezione del deambulatore
Salire/scendere le scale
0 = incapace
5 = necessita di aiuto o supervisione
10 = indipendente, può usare ausili
Sulla base del punteggio ottenuto è possibile fornire un indice di gravità del deficit
funzionale globale del soggetto, in relazione al grado di dipendenza dello stesso nello
svolgimento delle attività quotidiane:
VALUTAZIONE MEDICO-LEGALE
La suddivisione in stadi di seguito indicata è stata effettuata sia sulla base del livello di compromissione
motoria (in riferimento alla Scala di Hoehn e Yahr modificata), sia in relazione al grado di autonomia nello
svolgimento delle attività della vita quotidiana (con riferimento all’indice di Barthel o alla scala di Schwab
and England).
Per lo stadio 3 e 4 ci si deve orientare all’interno del range anche in base all’entità dei sintomi
neuro-psichiatrici.Nello stadio 5 l’orientamento all’interno del range deve tener conto anche delle eventuali
complicanze legate all’immobilizzazione.
Stadio 1. Soggetto con coinvolgimento unilaterale o bilaterale lieve, in grado di svolgere le
5-20%
attività quotidiane autonomamente seppur in maniera rallentata
Stadio 2. Soggetto con coinvolgimento bilaterale moderato, lieve instabilità posturale,
21-35%
estremamente rallentato, in grado di svolgere le attività quotidiane ma con grande sforzo
Stadio 3. Soggetto con grave disabilità, che deambula autonomamente seppur con ausili, in
36-70%
grado di eseguire in autonomia solo poche attività
Stadio 4. Soggetto non in grado di deambulare autonomamente, con necessità di sostegno
71-90%
da parte di terzi, con minima autonomia residua
Stadio 5. Soggetto obbligato a letto o su carrozzina, sino alla totale dipendenza nelle
91-100%
ordinarie attività quotidiane
2.5. Idrocefalo
L’idrocefalo è una condizione caratterizzata da ampliamento delle dimensioni dei
ventricoli cerebrali conseguente all’accumulo di liquido cefalorachidiano al loro interno.
NOMELAV: 15/21199 PAG: 180 SESS: 40 USCITA: Fri Jan 8 09:24:12 2016