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Presentazione

Per molti la filosofia è una disciplina astratta e inavvicinabile, che si


esprime con un linguaggio respingente e tratta argomenti lontanissimi dalla
concretezza della vita. Per altri è una materia affascinante; ma da dove
cominciare per affrontarla? La risposta è in questa Breve storia della
filosofia . Con uno straordinario talento di divulgatore, il giovane filosofo
Nigel Warburton racconta in quaranta capitoli semplici e chiari i
protagonisti della storia della filosofia e le domande fondamentali alle quali,
da Socrate a oggi, hanno cercato di rispondere. Domande che in realtà,
almeno una volta nella vita, si pone chiunque: Dio esiste? Come dobbiamo
comportarci nei confronti degli altri? Dobbiamo davvero avere paura della
morte? Meglio la libertà o l’uguaglianza? Domande anche scottanti e
attualissime: Fin dove può spingersi la scienza? E la libertà di pensiero e
di parola? Com’è possibile che la storia degli esseri umani sia tanto piena
di malvagità? Dalle risposte dei suoi protagonisti, la filosofia emerge non
come un vuoto esercizio del pensiero, ma come lo strumento che da sempre
guida l’umanità alla scoperta del mondo esterno e del mondo interiore,
ponendo le basi per la scienza, la politica, la fede e l’etica. Uno strumento
capace di rendere più ricca e interessante anche la vita quotidiana e di farlo
in modo semplice e stimolante, proprio come in questo libro.
Nigel Warburton è stato docente di filosofia presso la Open University di
Londra. È autore di diverse introduzioni alla filosofia di grande successo e
di una serie di trasmissioni, dal titolo Philosophy Bites , i cui podcast sono
scaricati da milioni di utenti in tutto il mondo: nessuno come lui è riuscito a
far uscire la filosofia dalle scuole e dalle università, mettendola alla portata
di tutti.
Per essere informato sulle novità
del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita:
www.illibraio.it
www.infinitestorie.it

ISBN 978-88-6715-636-8
Titolo dell’originale:
A LITTLE HISTORY OF PHILOSOPHY

Si ringrazia Pietro Emanuele per la gentile disponibilità.


Copertina e illustrazioni di Jeffrey Thompson

Copyright © 2011 Nigel Warburton


Copyright © 2013 Adriano Salani Editore s.u.r.l. dal 1862

Gruppo editoriale Mauri Spagnol


Milano

www.salani.it

Prima edizione digitale 2013


Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA

Viviamo in tempi interessanti. Internet ha rivoluzionato il mondo della


comunicazione e del commercio, le macchine da scrivere sono state
sostituite dai pc portatili e persino i libri sembrano minacciati dalle nuove
tecnologie. Nonostante i cambiamenti che avvengono dappertutto attorno a
noi, però, la filosofia sembra non perdere terreno. Chiunque rifletta sul
posto che occupa nel mondo, sui principi che dovrebbero guidare la nostra
vita è, sotto questo aspetto, un filosofo. Quasi tutti, chi più, chi meno, lo
siamo. Fa parte del nostro essere vivi. Ci interroghiamo sull’esistenza di
Dio, ci preoccupiamo di capire se abbiamo fatto la cosa giusta, discutiamo
su come debba essere strutturata la società, riflettiamo sulla natura dei
nostri ragionamenti. La filosofia è la storia lunga e affascinante di brillanti
personalità che hanno sviscerato questi temi.
In questo libro ho cercato di tratteggiare le figure e il pensiero di un certo
numero di pensatori chiave, da Socrate a Peter Singer, in uno stile che fosse
accessibile a tutti. Sono estremamente felice che sia stato tradotto in italiano
e che Pietro Emanuele abbia scritto un’appendice a questa edizione, in cui
tratta della filosofia dell’arte dal punto di vista dei pensatori italiani
Benedetto Croce e Galvano Della Volpe. Spero che questo libro vi piaccia.

Nigel Warburton
Oxford, 2013
CAPITOLO 1

L’uomo che faceva domande


SOCRATE e PLATONE

Circa 2400 anni fa, ad Atene, un uomo venne condannato a morte perché
faceva troppe domande: si chiamava Socrate. Prima di lui c’erano stati altri
filosofi, ma è a lui che dobbiamo il vero salto di qualità. Se la filosofia ha
un santo patrono, questo è sicuramente lui.
Basso e tarchiato, con il naso a patata, di aspetto trasandato e un po’
bizzarro, Socrate era un personaggio difficile da inquadrare. Benché fosse
tutt’altro che bello e non si lavasse molto spesso, aveva un grande carisma e
una mente brillante. I suoi concittadini concordavano sul fatto che uno
come lui non si era mai visto, e che probabilmente non si sarebbe più visto.
Era unico. Ma era anche parecchio scomodo. Lui stesso si descriveva come
un tafano, uno di quegli insetti fastidiosi che ti tormentano con le loro
punzecchiature: non fanno veramente male, ma risultano irritanti. Non tutti,
beninteso, la pensavano così; c’era chi lo adorava. Ma c’era anche chi
riteneva che esercitasse un’influenza negativa.
Da giovane era stato un soldato valoroso; aveva combattuto nella guerra
del Peloponneso, contro Sparta e i suoi alleati. In età matura trascorreva la
giornata al mercato, fermando le persone e facendo loro domande
imbarazzanti. Tutto qui? Tutto qui. Le domande di Socrate, però, erano
davvero acute, taglienti come rasoi. Sembravano semplici, ma non lo erano
affatto.
Prendiamo ad esempio la conversazione con Eutidemo. Socrate gli chiede
se essere disonesti equivale a essere immorali. Certo, risponde Eutidemo. È
una cosa ovvia. Ma che succede, replica Socrate, se un amico si sente
talmente giù da tentare il suicidio, e tu gli rubi il pugnale? Non si tratta
forse di un’azione disonesta? Lo è di sicuro. Ma in questo caso non si tratta
forse di un’azione morale, invece che immorale? Sarà pure disonesta, ma è
sicuramente un’azione buona, non certo cattiva. Sì, ammette Eutidemo,
costretto in un vicolo cieco. Usando un controesempio ben mirato, Socrate
dimostra che l’affermazione di Eutidemo secondo cui ingannare equivale a
commettere un atto immorale non è sempre valida. Fino a quel momento,
Eutidemo non se n’era reso conto.
Socrate dimostrava di continuo che la gente che incontrava al mercato non
sapeva veramente ciò che credeva di sapere. Un comandante dell’esercito
iniziava a conversarci, ben certo di cosa significasse la parola ‘coraggio’, e
dopo venti minuti in compagnia di Socrate aveva perso qualsiasi sicurezza.
Quell’esperienza doveva risultare davvero spiazzante. Socrate amava
svelare i limiti di ciò che le persone ingenuamente davano per scontato e
mettere in discussione i presupposti sui quali basavano la loro vita. Per lui,
una conversazione che terminava con l’ammissione di quanto poco
sapessero in realtà era un successo: molto meglio che continuare a credere
di sapere qualcosa che si ignora.
A quel tempo, ad Atene, i figli dei ricchi venivano mandati a studiare dai
sofisti. I sofisti erano abili docenti che insegnavano ai loro allievi l’arte di
tenere discorsi, e in cambio si facevano pagare molto bene. Socrate, invece,
non chiedeva niente in cambio di ciò che forniva. Di fatto – dichiarava – lui
non sapeva nulla: come avrebbe potuto pretendere di insegnare alcunché?
Nonostante ciò, era sempre circondato da allievi e in generale da gente che
ascoltava le sue conversazioni. Ciò non contribuiva certo a renderlo gradito
ai sofisti.
Un giorno il suo amico Cherofonte si recò dall’oracolo di Delfi. L’oracolo
era una saggia donna avanti negli anni, una sibilla, che rispondeva alle
domande di chi si recava da lei. Solitamente rispondeva per enigmi. «C’è
qualcuno più sapiente di Socrate?» chiese Cherofonte. «No» fu la risposta.
«Nessuno è più sapiente di Socrate».
Quando Cherofonte lo raccontò a Socrate, questi all’inizio non gli
credette. Era veramente perplesso. «Come posso essere la persona più
sapiente di Atene, se so così poco?» si domandava. Per anni continuò a
chiedere alla gente se trovasse qualcuno più sapiente di lui; poi comprese
cosa intendeva l’oracolo, e dette ragione alla sibilla. Tantissime persone
sono brave nelle cose che sanno fare – i carpentieri nella carpenteria, i
soldati nel combattere – ma nessuno era veramente sapiente, perché non
sapeva veramente di cosa stava parlando.
Il termine ‘filosofia’ deriva dall’unione di due parole greche e significa
‘amore per la sapienza’. La tradizione filosofica occidentale, quella di cui
parla questo libro, nacque nell’antica Grecia e si diffuse per buona parte del
mondo, a tratti contaminandosi con influenze provenienti dall’Oriente. La
sapienza in questione si basa sull’argomentazione, il ragionamento e la
messa in discussione delle cose, non sul semplice credere vero qualcosa
perché qualcuno di importante sostiene che lo sia. Per Socrate, la sapienza
non consisteva nel conoscere molte cose o sapere come farne molte altre,
ma nel comprendere la vera natura della nostra esistenza e i limiti delle
nostre conoscenze. Oggi i filosofi fanno più o meno la stessa cosa: pongono
domande importanti, cercano cause e dimostrazioni e si danno da fare per
rispondere ad alcune domande particolarmente importanti su cosa sia la
realtà e su come dovremmo condurre la nostra vita. A differenza di Socrate,
però, i filosofi contemporanei possono contare su un bagaglio di quasi
duemilacinquecento anni di pensiero filosofico. Questo libro prende in
esame le idee di alcuni tra i pensatori chiave della tradizione filosofica
occidentale, la tradizione che proprio da Socrate prese le mosse.
Ciò che rendeva Socrate tanto saggio era il suo continuare a fare domande
e a mettere in discussione le proprie idee. La vita, sosteneva, vale la pena di
essere vissuta solo se si pensa a ciò che si sta facendo. Vivere senza pensare
è roba per il bestiame, non per gli esseri umani.
Stranamente per un filosofo, Socrate si rifiutò di lasciare alcunché di
scritto. Per lui, parlare era molto meglio che scrivere. Le parole scritte non
possono risponderci; non possono darci spiegazioni se non le
comprendiamo. La conversazione diretta è molto meglio, insisteva.
Conversando, siamo in grado di calibrare la discussione sul nostro
interlocutore, adattando le nostre parole in modo da rendere
l’argomentazione più efficace. Dato che si rifiutava di scrivere, è
fondamentalmente grazie al suo allievo più famoso, Platone, che siamo
venuti a conoscenza delle idee e del modo di esporle di quest’uomo così
importante. Platone trascrisse un buon numero di conversazioni tra Socrate
e i suoi interlocutori: sono note come Dialoghi platonici , e sono eccellenti
opere letterarie, oltreché filosofiche – in un certo senso, Platone fu lo
Shakespeare del suo tempo. Leggendole, riusciamo a cogliere la personalità
di Socrate, la sua intelligenza e a comprendere perché potesse risultare tanto
scomodo.
Anche se, in verità, non ne siamo sicuri al cento per cento, perché non
possiamo affermare con certezza che ciò che Platone ha scritto sia ciò che
Socrate aveva detto, o se piuttosto non mettesse in bocca al personaggio che
chiamava «Socrate» idee che invece erano sue.
Una delle idee che si tende a ritenere più di Platone che di Socrate è
quella secondo la quale il mondo non è sempre ciò che appare. Vi è una
significativa differenza tra apparenza e realtà. La maggior parte di noi
prende l’una per l’altra. Pensiamo di comprendere la realtà, ma non è così.
Secondo Platone, solo i filosofi sono in grado di capire veramente la realtà;
essi arrivano a conoscerne la natura mediante il pensiero, non affidandosi ai
sensi.
Per spiegare questo concetto, Platone descrive una caverna, una caverna
immaginaria in cui si trovano delle persone, incatenate di fronte a un muro.
Sul muro le persone vedono delle ombre tremolanti, che credono reali ma
che non lo sono: si tratta invece delle ombre proiettate dagli oggetti, dietro
ai quali è acceso un fuoco. Per tutta la vita le persone incatenate nella
caverna credono che quelle ombre proiettate sul muro siano il mondo reale.
Poi, una di loro spezza le catene e si gira verso il fuoco. Inizialmente ha una
visione confusa, ma ecco che inizia a capire dove si trova, esce barcollando
dalla caverna e finalmente può guardare il sole. Quando rientra nella
caverna, nessuno crede a ciò che racconta del mondo là fuori. L’uomo che si
libera dalle catene è come il filosofo: egli vede al di là delle apparenze. La
gente in genere ha una scarsa conoscenza della realtà, perché preferisce
accontentarsi di ciò che ha di fronte piuttosto che andare a fondo delle cose
con il pensiero. Le apparenze ingannano, e ciò che questa gente vede non è
la realtà, ma la sua ombra.
La storia della caverna è collegata a quella che è nota come la teoria
platonica delle idee. Il modo più semplice per spiegarla è fare un esempio.
Pensiamo a tutti i cerchi che abbiamo visto nella nostra vita. Ce n’era uno
assolutamente perfetto? No. Nessuno di essi lo era. In un cerchio perfetto,
ogni punto della circonferenza è posto esattamente alla stessa distanza dal
centro. I cerchi che osserviamo nella realtà non soddisfano mai questo
criterio, ma voi comprendete perfettamente cosa intendo quando parlo di
«cerchio perfetto». Cos’è allora il cerchio perfetto? Platone direbbe che è
l’idea, o la forma, di cerchio. Se volete comprendere cosa sia un cerchio,
dovete concentrarvi sull’idea di cerchio, non sui cerchi che siete capaci di
disegnare o in cui vi imbattete grazie all’esperienza sensoriale della vista,
perché tutti questi sono, in un modo o nell’altro, imperfetti. Lo stesso,
secondo Platone, accade quando si cerca di comprendere cosa sia la bontà:
bisogna concentrarsi sull’idea di Bene, non sui singoli esempi di bontà che
ci capita di incontrare. I filosofi sono i più adatti a pensare alle idee in
questo modo astratto; le persone comuni sono fuorviate dalla realtà per
come la percepiscono attraverso i sensi.
I filosofi, dunque, hanno la capacità di pensare la realtà vera; quindi,
secondo Platone, dovrebbero essere investiti del potere politico. Nel dialogo
intitolato La Repubblica , la sua opera più famosa, egli descrive
un’immaginaria società perfetta al cui vertice stanno i filosofi. Essi
ricevono un’istruzione speciale, ma devono sacrificare il proprio piacere per
il bene dei loro concittadini. Ai loro ordini stanno i soldati, addestrati alla
difesa della nazione, e al gradino più basso gli ‘artigiani’, cioè le persone
che esercitano una professione. Queste tre classi di individui sono, secondo
Platone, in perfetto equilibrio, come in una mente dove la ragione controlla
le emozioni e i desideri. Spiace dirlo, ma questo modello di società è
profondamente antidemocratico; le persone vengono tenute sotto controllo
mediante una combinazione di menzogna e di forza. Nella società ideale di
Platone la maggior parte delle arti verrebbero bandite, con la motivazione
che esse producono rappresentazioni false della realtà: i pittori dipingono
apparenze, e le apparenze danno versioni fuorvianti delle idee. Così, ogni
aspetto della vita deve essere attentamente controllato dall’alto, in quello
che oggi definiremmo un regime totalitario. Platone pensava che dare alla
gente il diritto di voto equivalesse a lasciare che i passeggeri guidassero una
nave: molto meglio farlo fare a gente che sa come si fa.
La Atene del V secolo avanti Cristo era molto diversa dalla società
immaginata da Platone nella Repubblica . Era una democrazia, benché sui
generis , visto che solo il dieci per cento della popolazione aveva il diritto
di voto. Le donne e gli schiavi, ad esempio, ne erano completamente
esclusi. Ma i cittadini erano uguali di fronte alla legge, e vigeva un
complesso sistema di rappresentanza per assicurare che chiunque avesse la
possibilità di influenzare le decisioni politiche.
Atene non riconobbe l’importanza di Socrate come Platone, anzi. Molti
ateniesi pensavano che Socrate costituisse un pericolo e una minaccia per lo
stato. Nel 399 a.C., quando Socrate aveva settant’anni, un cittadino di nome
Meleto lo denunciò, accusandolo di empietà: secondo lui aveva trascurato le
divinità di Atene, tentando di introdurne di nuove. Sostenne anche che
Socrate insegnava ai giovani ateniesi a comportarsi male, incoraggiandoli a
ribellarsi alle autorità. Si trattava di accuse molto gravi, e non abbiamo
modo di verificare o dubitare della loro correttezza: forse era vero che
Socrate dissuadeva i propri allievi dal seguire la religione di stato, ed è
dimostrato che si divertiva a prendersi gioco del sistema democratico in
vigore ad Atene; sono due comportamenti coerenti con la sua figura. Ciò su
cui non vi è dubbio è che molti ateniesi ritennero che quelle accuse fossero
fondate.
La sua colpevolezza venne sottoposta a scrutinio; più di metà dei 501
cittadini che facevano parte della giuria ritennero che fosse colpevole e lo
condannarono a morte. Se avesse voluto, probabilmente avrebbe potuto
sostenere la propria causa e ottenere la grazia; ma, coerentemente con la sua
reputazione di personaggio scomodo, infastidì ulteriormente i suoi
concittadini sostenendo di non aver fatto nulla di male e che piuttosto
avrebbero dovuto ricompensarlo con cibo gratis invece di punirlo. Un
discorso che non risultò certo gradito.
Venne così condannato a darsi egli stesso la morte bevendo un veleno a
base di cicuta, una pianta che paralizza gradualmente il corpo. Socrate dette
l’addio a sua moglie e ai suoi tre figli e radunò attorno a sé i suoi allievi.
Anche se avesse potuto scegliere di trascorrere il resto della vita standosene
in disparte e smettendo di interrogare la gente, non l’avrebbe fatto; dunque,
meglio morire. Dentro di lui c’era una voce che gli intimava di continuare a
fare domande su tutto; non poteva tradirla. Quindi, bevve il veleno e di lì a
poco morì.
Socrate continua a vivere nei dialoghi di Platone. Quell’uomo
problematico, che faceva domande e preferì morire piuttosto che smettere di
pensare alla vera natura delle cose, sarebbe stato per sempre d’ispirazione
per i filosofi.
L’impatto immediato della filosofia socratica si esercitò sui suoi discepoli:
dopo la sua morte, Platone continuò a insegnare nello spirito del maestro. Il
suo allievo di gran lunga più influente si chiamava Aristotele, e fu un
pensatore molto diverso sia da Platone, sia da Socrate.
CAPITOLO 2

La vera felicità
ARISTOTELE

«Una rondine non fa primavera»: sapevate che questa frase, che usiamo con
tanta disinvoltura, viene da una delle opere più famose di un famoso
filosofo dell’antica Grecia? Si tratta dell’Etica nicomachea , chiamata così
perché il suo autore, Aristotele, la dedicò al figlio Nicomaco. Aristotele
sosteneva che come bisogna aspettare che di rondini se ne vedano in giro di
più, prima di affermare che la primavera è arrivata, così il piacere
passeggero non fa la vera felicità. Secondo lui la felicità non equivale a
qualche breve attimo di gioia. Sorprendentemente, pensava anche che i
bambini non potessero essere veramente felici: un’affermazione che
potrebbe sembrare assurda. Chi altro, se non i bambini, può provare la
felicità? Ecco, proprio in questo abbiamo l’esemplificazione di quanto
l’idea di felicità di Aristotele sia diversa dalla nostra. I bambini sono ancora
all’inizio della vita; non hanno ancora pienamente vissuto, in nessun senso.
La felicità richiede lunga vita.
Aristotele era allievo di Platone, e Platone lo era stato di Socrate. I tre
grandi pensatori formano una sorta di catena: Socrate-Platone-Aristotele.
Accade spesso: le menti geniali non spuntano dal nulla. Molte hanno avuto
un maestro ispiratore. Ma le idee di questi tre sono molto differenti tra loro;
nessuno scimmiottò il proprio maestro e ciascuno si distinse per un suo
approccio peculiare. In poche parole, Socrate era un gran conversatore,
Platone un eccellente scrittore, e Aristotele s’interessava di tutto. Socrate e
Platone giudicavano il mondo attorno a loro come il pallido riflesso della
vera realtà, che poteva essere conosciuta unicamente mediante il pensiero
astratto della filosofia; Aristotele, invece, era affascinato da ogni particolare
di tutto ciò che lo circondava.
Purtroppo, quasi tutti gli scritti di Aristotele ci sono giunti sotto forma di
appunti di lezioni. Ma queste testimonianze del suo pensiero hanno
esercitato enorme influsso sulla filosofia occidentale, anche se lo stile con
cui sono redatti è spesso assai scarno. Aristotele inoltre non fu solo filosofo:
si interessò di zoologia, astronomia, storia, politica e drammaturgia.
Nato in Macedonia nel 384 a.C., dopo aver studiato con Platone, aver
viaggiato e aver lavorato come insegnante privato di Alessandro Magno,
Aristotele fondò ad Atene la sua scuola, il Liceo, che divenne uno dei
maggiori poli di istruzione dell’Antichità, un po’ come le moderne
università. Di lì, il suo fondatore spediva in giro per il mondo i suoi
ricercatori, che tornavano carichi di nuove informazioni nelle più svariate
materie, dalla politica alla biologia. Fondò anche un’importante biblioteca.
Nel famoso dipinto di Raffaello intitolato La Scuola di Atene , Platone è
ritratto mentre indica in alto, il mondo delle idee, Aristotele mentre tende la
mano in avanti, verso il mondo che lo circonda.
Platone si sarebbe accontentato di filosofeggiare seduto in poltrona;
Aristotele voleva esplorare la realtà che sperimentiamo con i nostri sensi.
Quindi respinse la teoria delle idee formulata dal suo maestro, nella
convinzione che per comprendere qualsiasi categoria generale bisognasse
esaminarne gli esempi particolari: se si vuole sapere cos’è il gatto, si
devono guardare i gatti veri, non pensare in astratto all’idea di gatto.
Un’idea sulla quale Aristotele rimuginò fu: «Che tipo di vita dobbiamo
vivere?» Prima di lui, se l’erano chiesto anche Socrate e Platone. L’urgenza
di rispondere è fra le motivazioni principali che spingono le persone verso
la filosofia. La risposta di Aristotele può essere riassunta così: «Ricercando
la felicità».
Ma cosa significa «ricercare la felicità»? Oggi molti risponderebbero che
la felicità risiede nel piacere. Forse anche per voi ‘felicità’ significa vacanze
in luoghi esotici, andare ai concerti, alle feste o trascorrere del tempo con
gli amici. Potrebbe anche significare raggomitolarsi sul divano con un buon
libro o andare per mostre d’arte. Ma se è vero che tutto ciò potrebbe far
parte degli ingredienti di una buona vita anche secondo Aristotele, il nostro
filosofo non credeva che il modo migliore per vivere consistesse
nell’accumulare esperienze piacevoli: ciò, di per sé, non significa vivere
bene. La parola usata da Aristotele è eudaimonia , spesso tradotta, più che
con ‘felicità’, con ‘serenità’ o ‘successo’. Si tratta di qualcosa di più ampio
della sensazione piacevole che proviamo gustando un gelato al mango o
vedendo vincere la nostra squadra del cuore. Eudaimonia non ha a che fare
con fuggevoli attimi di beatitudine o con la sensazione di benessere; si tratta
di qualcosa di più oggettivo. È un concetto difficile da afferrare perché
siamo troppo abituati a pensare che la felicità sia una sensazione e nulla di
più.
Pensiamo a una pianta. Se le diamo luce, acqua, magari un po’ di
concime, crescerà e fiorirà. Se la trascuriamo, tenendola al buio e lasciando
che diventi preda dei parassiti, si seccherà e morirà, oppure diventerà brutta.
Anche gli esseri umani possono fiorire come le piante, solo che, a
differenza di loro, siamo noi stessi a scegliere, a decidere cosa vogliamo
fare ed essere.
Aristotele era convinto dell’esistenza di qualcosa chiamato natura umana;
che gli esseri umani, come sosteneva, avessero una funzione. C’è un modo
di vivere che si confà agli esseri umani; ciò che ci distingue dagli animali e
ci rende diversi in assoluto è che siamo in grado di pensare e quindi di
riflettere su come dovremmo comportarci. Di qui, Aristotele conclude che
la vita migliore per un essere umano è quella in cui usa al massimo grado la
ragione.
Sorprendentemente, Aristotele pensava che le cose di cui non abbiamo
conoscenza – persino gli eventi che accadono dopo la nostra morte –
possono contribuire alla nostra eudaimonia . Pare strano: partendo dalla
constatazione che non c’è vita dopo la morte, come è possibile che ciò che
accade quando non ci siamo più influenzi la nostra felicità? Bene,
immaginate di essere genitori, e che la vostra felicità risieda anche nelle
speranze che nutrite per il futuro di vostro figlio. Se questi
malauguratamente dovesse ammalarsi dopo la vostra morte, la vostra
eudaimonia ne sarebbe influenzata negativamente. Nella prospettiva di
Aristotele, la vostra vita peggiorerebbe anche se non sapreste mai della
malattia di vostro figlio, perché siete già morti. Da questo esempio potete
capire cosa intende quando sostiene che la felicità non dipende solo dalle
nostre sensazioni. La felicità ha a che fare con ciò che raggiungiamo nella
nostra vita, che può essere compromesso da quanto accade a coloro a cui
teniamo, dall’influsso degli eventi su cui non esercitiamo alcun controllo e
persino di cui non sappiamo nulla. L’essere felici o meno dipende anche
dalla buona sorte.
La questione centrale è: «Cosa dobbiamo fare per aumentare le nostra
probabilità di eudaimonia ?» Ecco la risposta di Aristotele: «Realizzare la
nostra essenza». Dobbiamo provare al momento giusto le emozioni giuste;
questo ci indurrà a comportarci nel modo migliore. Un ruolo lo gioca qui
anche l’educazione, perché il modo migliore per praticare le giuste abitudini
è iniziare a farlo da piccoli. Così, arriverà anche la fortuna. I modelli giusti
di comportamento sono virtù; quelli cattivi, vizio.
Proviamo a pensare alla virtù del coraggio in tempo di guerra. Poniamo
che un soldato debba rischiare la vita per salvare dei civili da un attacco
armato. Il temerario non si preoccupa minimamente per la propria
sicurezza: sarebbe capace di gettarsi a capofitto in una situazione pericolosa
anche se ciò non fosse necessario. Il suo non è vero coraggio, ma
avventatezza. All’altro estremo c’è il codardo : non è capace di tenere
sufficientemente a bada la paura per agire in modo efficace e nel momento
del bisogno rimane paralizzato dal terrore. Nella stessa situazione il soldato
veramente coraggioso, pur provando paura, è in grado di dominarsi e di
agire nel modo opportuno. Aristotele pensava che la virtù stesse sempre a
metà strada tra gli estremi: qui il coraggio sta a metà strada fra temerarietà e
codardia. È la teoria aristotelica nota come del giusto mezzo .
L’approccio di Aristotele all’etica non è di interesse puramente storico.
Numerosi filosofi moderni pensano che avesse ragione sull’importanza di
realizzare le virtù, e che la sua idea di felicità fosse corretta e stimolante. Al
posto di cercare di ottenere sempre più piaceri dalla vita, sostengono,
dovremmo cercare di essere persone migliori e di fare la cosa giusta. Questo
significa vivere bene.
Da quanto visto finora potrebbe sembrare che Aristotele fosse interessato
unicamente alla realizzazione individuale delle persone. Non è vero: gli
esseri umani sono animali politici, sosteneva; noi abbiamo bisogno di
vivere con gli altri, e per questo è necessario che vi sia un sistema
giudiziario che tenga a bada la parte oscura della nostra natura.
L’eudaimonia può essere conseguita solo nella vita di relazione, all’interno
di una società. Come esseri sociali, dobbiamo trovare la felicità interagendo
in modo positivo con coloro che ci circondano, in uno stato governato da un
ordine giusto.
La genialità di Aristotele aveva però anche uno spiacevole effetto
collaterale. Era talmente intelligente, e la sua ricerca era talmente metodica,
che molti dei suoi estimatori iniziarono a credere che avesse sempre ragione
su tutto. Questo non andava a vantaggio del progresso del pensiero, e quindi
della filosofia per come Socrate l’aveva battezzata. Per centinaia di anni, la
maggioranza degli studiosi prese le sue affermazioni come verità
indubitabili. Se potevano provare che una cosa l’aveva detta Aristotele, per
loro non c’era bisogno di dimostrarla. Questo è ciò che in ambito filosofico
si definisce ‘principio di autorità’: ritenere che una cosa debba essere vera
perché proviene da un’‘autorità’ importante.
Cosa credete che succeda se fate cadere dall’alto due oggetti delle stesse
dimensioni, ma uno è di legno e l’altro di metallo? Quale toccherà terra per
primo? Aristotele pensava che l’oggetto di metallo, il più pesante quindi,
sarebbe caduto più velocemente. Invece non è così: essi cadono alla stessa
velocità. Ma poiché così diceva Aristotele, per tutto il Medioevo si continuò
a pensare che fosse vero. Non c’era bisogno di ulteriori dimostrazioni. Nel
Sedicesimo secolo un certo Galileo Galilei fece cadere dalla Torre di Pisa
una sfera di legno e una palla di cannone, per sottoporre quell’affermazione
a una verifica sperimentale. Toccarono terra in contemporanea. Aristotele
aveva sbagliato, e il suo errore avrebbe potuto essere smascherato molto
prima.
Credere acriticamente all’autorità di qualcuno è un atteggiamento
contrario in primo luogo allo spirito stesso della ricerca di Aristotele, oltre
che allo spirito della filosofia in generale. In sé, l’autorità non prova nulla.
Il metodo aristotelico era fatto di ricerca, di indagine e di ragionamenti
chiari ed evidenti. La filosofia si alimenta con il dibattito, con la possibilità
di sbagliare, con i pensieri controcorrente e l’apertura verso idee alternative.
Fortunatamente, in quasi tutte le epoche hanno vissuto e operato filosofi
pronti a riflettere in modo critico su ciò che il resto della gente prendeva per
certo. Uno di loro lo faceva praticamente su tutto: si chiamava Pirrone, ed
era uno scettico.
CAPITOLO 3

Noi non sappiamo nulla


PIRRONE

Nessuno sa nulla – e neppure questo è certo. Non dovremmo fare


affidamento su ciò che crediamo vero, perché potremmo sbagliarci.
Qualsiasi cosa può essere messa in questione, di qualsiasi cosa bisogna
dubitare. Non ci resta quindi che avere una mente aperta. Se non
prenderemo posizione, non rimarremo delusi. Fu questo l’insegnamento
principale dello Scetticismo, una filosofia che riscosse successo per diversi
secoli in antica Grecia e a Roma. A differenza di Platone e Aristotele, gli
scettici più estremisti evitavano di farsi un’opinione stabile su alcunché. Il
greco Pirrone (circa 365-275 a.C.) fu il rappresentante più famoso e
probabilmente più estremista tra gli scettici di tutti i tempi. La sua fu anche
una vita decisamente bizzarra.
Possiamo credere di sapere ogni genere di cose. Ad esempio, voi sapete
che in questo momento state leggendo queste righe. Ebbene, gli scettici ne
dubiterebbero. Provate a pensarci: cos’è che vi fa credere di leggere
davvero queste righe? Non potreste invece solo immaginarvi di farlo?
Come potete essere sicuri di non sbagliarvi? A voi sembra di leggere: ecco
cosa credete. Magari invece state avendo un’allucinazione, oppure state
sognando (un concetto che René Descartes avrebbe ripreso diciotto secoli
dopo, come vedremo nel capitolo 11). Una posizione scettica era anche
quella di Socrate, quando insisteva nel sostenere che l’unica cosa che
sapeva era di non sapere. Ma Pirrone si spingeva molto oltre, forse un po’
troppo.
Se diamo credito alle notizie che ci sono giunte a proposito della sua vita
(ma forse in questo caso tocca a noi prenderle con un certo scetticismo),
Pirrone si costruì una carriera sulla convinzione di non dare nulla per certo.
Come Socrate, non lasciò niente di scritto; ciò che sappiamo di lui ci è
giunto attraverso le testimonianze di altri, perlopiù rilasciate a parecchi
secoli dalla sua morte. Fra queste, quella di di Diogene Laerzio riporta che
Pirrone divenne una celebrità, venne nominato sacerdote nella sua città,
Elide, e che in suo onore i filosofi non erano tenuti a pagare tasse. Non c’è
modo di controllare la veridicità di quest’ultima notizia; nondimeno, mi
pare decisamente una bella idea.
Sulla base di quanto è stato tramandato, possiamo dire che Pirrone ha
vissuto il proprio scetticismo esprimendolo in modi davvero fuori del
comune. Non sarebbe sopravvissuto a lungo se non avesse avuto degli
amici che lo proteggevano. Se sei uno scettico estremista, per vivere hai
bisogno di gente molto meno scettica di te, o di una gran buona fortuna.
Vediamo qual era il suo approccio alla vita. Prima di tutto, non possiamo
fare completo affidamento sui nostri sensi: a volte, essi ci ingannano. Ad
esempio, se ci affidiamo alla vista, al buio è facile prendere delle cantonate.
Quello che sembra una volpe potrebbe essere un normalissimo gatto.
L’udito? Crediamo che qualcuno ci stia chiamando, mentre è solo il suono
del vento tra gli alberi. Dato che i sensi ci ingannano spesso e volentieri,
Pirrone decise di non crederci mai . Pur non escludendo che potessero
anche dare informazioni esatte, lasciò la questione aperta.
Se quindi per la maggior parte della gente la vista di una roccia a
precipizio su un burrone è la prova evidente che sarebbe molto stupido
camminarci sopra come se niente fosse, per Pirrone non era così. Magari i
sensi lo stavano ingannando, quindi non dava loro credito. Persino la
sensazione delle dita dei piedi a cui manca la terra su cui poggiare, o quella
di cadere in avanti, non l’avrebbe convinto del fatto che sarebbe precipitato
sulle rocce sottostanti. Per lui non era scontato nemmeno che cadendo in un
burrone si sarebbe fatto così male. Cosa gliene dava la certezza? I suoi
amici, invece, che presumibilmente non erano scettici come lui, lo
fermavano prima che si cacciasse in situazioni del genere; se non l’avessero
fatto, sarebbe passato da un incidente all’altro.
Perché aver paura dei cani randagi se non sei certo che vogliano morderti?
Solo perché ti girano attorno abbaiando e mostrando i denti, non significa
che finiranno per assalirti. E anche se lo facessero, non necessariamente ti
faranno male. Perché preoccuparsi del traffico quando si attraversa la
strada? Non è detto che i carri ti investano. Chi può dirlo con certezza? E
poi, che differenza c’è, alla fine, tra essere vivi ed essere morti? Insomma,
Pirrone metteva in pratica la sua filosofia di indifferenza totale
sottoponendovi l’intero ventaglio delle naturali emozioni e dei normali
comportamenti degli esseri umani.
O perlomeno, questo è quanto ci è stato tramandato di lui. Probabilmente
alcune di queste storie sono invenzioni, messe in giro allo scopo di
prendersi gioco della sua filosofia. Ma è improbabile che lo siano tutte: ad
esempio, rimase famosa la calma assoluta che mantenne a bordo di una
nave, durante una delle tempeste più spaventose che si fossero mai viste. Il
vento aveva strappato le vele e onde possenti squassavano lo scafo. Mentre
tutti, a bordo, erano spaventati a morte, lui non sembrava minimamente
toccato dalla cosa. Spesso le apparenze ingannano: non v’era certezza che
quanto stava accadendo potesse procurargli dei danni. Così, mentre persino
i marinai più esperti si lasciavano prendere dal panico, lui se ne stava lì,
pacifico, dimostrando che è possibile rimanere indifferenti persino in
situazioni come quella. Questo è un episodio che risulta abbastanza
credibile.
Da giovane, Pirrone era stato in India. Forse fu questo a ispirargli quello
stile di vita così originale. L’India aveva già allora una grande tradizione di
maestri spirituali o guru che per raggiungere la calma interiore affrontavano
prove fisiche estreme, al limite dell’impensabile: si facevano seppellire vivi,
appendevano oggetti pesanti a parti delicate del corpo, digiunavano per
settimane. L’approccio di Pirrone alla filosofia è sicuramente vicino a
quello dei mistici. Quali che fossero le tecniche da lui adottate per
raggiungere il risultato, di certo egli metteva in pratica ciò che predicava.
La sua calma fece una grande impressione su coloro che lo circondavano.
Non si lasciava toccare da nulla, perché secondo lui tutto era questione di
punti di vista. Se non c’è modo di scoprire la verità, non c’è ragione di
agitarsi. Possiamo tenerci a distanza da qualsiasi convinzione, perché
qualsiasi convinzione implica inevitabilmente un’illusione.
Se l’aveste conosciuto di persona, probabilmente avreste pensato che
Pirrone era pazzo. Forse lo era, in un certo senso. Ma le sue idee e
l’atteggiamento che ne conseguiva avevano una loro coerenza. Delle vostre
certezze avrebbe pensato che erano semplicemente irragionevoli e che
avrebbero costituito un ostacolo al raggiungimento della calma interiore.
Dare troppe cose per scontate è come costruire una casa sulla sabbia. Le
fondamenta delle vostre convinzioni non sono solide come credete che
siano, e probabilmente non vi renderanno felici.
Pirrone riassumeva la filosofia in queste tre domande, che secondo lui
dovrebbe porsi chi vuole essere felice:
Come stanno realmente le cose?
Come dobbiamo rapportarci con esse?
Cosa succede a chi adotta questo atteggiamento?
Le sue risposte erano semplici e puntuali. Primo: non possiamo mai sapere
com’è veramente la realtà; ciò va oltre le nostre capacità. Nessuno
conoscerà mai la vera natura delle cose, perché questo sapere non è alla
portata degli esseri umani. Meglio lasciar perdere. Questa concezione è
esattamente all’opposto di quella platonica delle idee e della possibilità, per
i filosofi, di giungere alla loro conoscenza tramite il pensiero astratto
(l’abbiamo visto nel capitolo 1). In secondo luogo, ne consegue che non
dovremmo abbracciare nessuna convinzione. Non potendo sapere nulla per
certo, dovremmo sospendere qualsiasi giudizio e vivere la nostra vita
nell’indifferenza. Qualsiasi desiderio è l’espressione della convinzione che
qualcosa sia meglio di qualcos’altro. L’infelicità nasce proprio dal non
riuscire a ottenere ciò che si desidera, ma noi non possiamo essere certi che
una cosa sia meglio di un’altra. Quindi, per essere felici bisogna liberarsi
dei desideri e non preoccuparsi di come andrà a finire. Questo è il
comportamento giusto: riconoscere che nulla è importante. In questo modo,
nulla influenzerà la nostra condizione mentale, che sarà quella della pace
interiore. In terzo luogo, se si seguono questi insegnamenti, ecco cosa
accadrà: innanzitutto non si troverà più nulla da dire, presumibilmente
perché non si saprà più cosa dire di alcunché. Si finirà per liberarsi da
qualsiasi preoccupazione, che è la cosa migliore che si possa sperare nella
vita. È qualcosa che somiglia a un’esperienza religiosa.
Questa è la teoria, e a quanto pare per Pirrone funzionò; risulta difficile
credere che porti allo stesso risultato per la maggior parte delle persone.
Pochi di noi saprebbero raggiungere l’indifferenza che raccomandava, e non
tutti sarebbero tanto fortunati da poter contare su una squadra di amici che li
preservano dal commettere sciagurati errori. Se infatti tutti seguissimo
questi precetti, non resterebbe nessuno per proteggere un mondo di scettici
pirroniani da se stessi, e la corrente filosofica si estinguerebbe velocemente
a furia di cadute dai burroni, investimenti per strada e aggressioni da parte
di cani randagi assetati di sangue.
La debolezza intrinseca della concezione di Pirrone risiede nel far
discendere dalla constatazione «Non si può sapere nulla» la conclusione
«Quindi dobbiamo ignorare ciò che i nostri istinti e le nostre sensazioni ci
comunicano a proposito dei pericoli». I nostri istinti ci salvano
continuamente dai possibili pericoli. Magari non sono affidabili al cento per
cento, ma non per questo dobbiamo ignorarli del tutto. Si dice che Pirrone,
inseguito da un cane, si mise a correre a gambe levate: persino lui, per
quanti sforzi facesse, non riuscì a reprimere quella reazione automatica.
Mettere in pratica lo Scetticismo pirroniano è quindi una cosa priva di
senso. Inoltre, non vi è garanzia che una vita simile produca la pace
interiore, come sosteneva il filosofo. Si può essere scettici nei confronti
dello Scetticismo di Pirrone, e domandarsi se correre tutti quei pericoli
produca davvero uno stato di pace interiore. Forse lui ci riusciva, ma come
essere certi che riusciremmo anche noi? Magari non è sicuro al cento per
cento che quel cane inferocito ci morderà, ma sembra sensato non correre il
rischio che lo sia al novantanove per cento.
Non tutti gli scettici della storia della filosofia sono estremisti come lo fu
Pirrone: esiste anche una grande tradizione di Scetticismo moderato, che
mette in dubbio le certezze e analizza le modalità con cui le costruiamo,
senza per questo tentare di vivere come se si dovesse dubitare sempre e di
qualsiasi cosa. Il dubbio scettico di questo tipo è anzi uno dei fondamenti
della filosofia. Tutti i grandi filosofi, in questo senso, sono stati scettici; è
l’opposto del dogmatismo. Dogmatico è uno profondamente convinto di
conoscere la verità; i filosofi sfidano i dogmi, chiedono alla gente perché
crede in questo o in quello, e che prove ha per crederci. Questo facevano
Socrate e Aristotele ed è ciò che fanno i filosofi anche oggi. Ma non lo
fanno per fare i difficili. Lo scopo dello Scetticismo filosofico moderato è
avvicinarsi alla verità, o perlomeno scoprire quanto poco sappiamo o
possiamo sapere. Per essere scettici in questo modo non c’è bisogno di
rischiare di cadere da un precipizio, ma bisogna essere pronti a fare
domande scomode e a riflettere criticamente sulle risposte che si ricevono.
Pirrone predicava la liberazione da qualsiasi preoccupazione; la maggior
parte di noi non la raggiungerà mai. Una delle preoccupazioni più diffuse
riguarda il fatto che siamo destinati a morire. Un altro filosofo greco,
Epicuro, dette suggerimenti molto interessanti su come affrontarla.
CAPITOLO 4

La via del Giardino


EPICURO

Immaginatevi il vostro funerale. Come sarebbe? Chi vi prenderebbe parte?


Che cosa si direbbe di voi? Ciò che immaginate dev’essere per forza dal
vostro punto di vista, come se poteste ancora osservare gli eventi da un
luogo particolare, magari dall’alto, o da un posto fra i banchi della chiesa.
In effetti ci sono persone convinte che questa sia un’effettiva possibilità,
che dopo la morte si possa sopravvivere, fuori dal corpo, sotto forma di
spirito in grado persino di contemplare quanto accade in questo mondo.
Quest’idea risulta invece assai problematica per coloro che ritengono che
dopo la morte non vi sia più nulla. Ogni volta che cerchiamo di immaginare
di non esserci più, siamo costretti a immaginare di esserci ancora, e di
osservare cosa succede in nostra assenza.
Che siamo o meno in grado di immaginare la nostra morte, sembra
comunque piuttosto naturale avere una certa paura di non esserci più. Chi
non ha paura della morte? Se c’è una cosa di cui nutrire timore, è proprio
questa. Appare perfettamente ragionevole essere preoccupati di non esserci,
anche se questo accadrà fra molti anni. Si tratta di un fatto istintivo. Sono
davvero poche le persone che non ci hanno mai riflettuto a fondo.
Il filosofo greco Epicuro (341-271 a.C.) sosteneva che aver paura della
morte fosse una perdita di tempo basata su una logica errata, uno stato
mentale che doveva essere superato. Se vi si riflette attentamente, si scopre
che la morte non ha nulla di spaventoso, e una volta assimilato questo modo
di pensare si potrà godere molto di più della vita, cosa che Epicuro riteneva
estremamente importante. Egli pensava che scopo della filosofia fosse
rendere la vita migliore e aiutare a raggiungere la felicità. C’è chi pensa che
soffermarsi a meditare sulla propria morte sia morboso; per Epicuro si
trattava di un modo per vivere più intensamente.
Epicuro nacque nell’isola greca di Samo, nel mare Egeo, e trascorse la
maggior parte della vita ad Atene, dove divenne una specie di figura di
culto attorno a cui si riunì un gruppo di studenti che vivevano con lui in una
comunità. Del gruppo facevano parte anche donne e schiavi, una situazione
rara nell’Atene di quei tempi e che non lo rendeva popolare se non tra i suoi
seguaci, i quali nutrivano per lui una sorta di venerazione. La sua scuola di
filosofia aveva sede in una casa con un giardino, e fu così che prese il nome
di Giardino.
Come molti filosofi dell’Antichità (e molti filosofi moderni: vedi Peter
Singer al capitolo 40), Epicuro riteneva che la filosofia dovesse essere
pratica, servire a cambiare il nostro modo di vivere. Per questo era
importante che coloro che lo seguivano nel Giardino mettessero in pratica la
filosofia, oltre a impararla.
Per Epicuro la chiave della vita stava nel riconoscere che tutti ricerchiamo
il piacere. Cosa più importante, evitiamo il più possibile il dolore. Sono
queste le forze che ci guidano. Eliminare la sofferenza e accrescere la gioia
migliora la vita. Il modo migliore di vivere, quindi, consiste in uno stile di
vita semplice, nell’essere gentili con coloro che ci circondano, e nel
circondarsi di amici. In questo modo possiamo esaudire la maggior parte
dei nostri desideri; non ne rimarranno molti insoddisfatti. Non è bene
provare disperatamente il desiderio di possedere una casa lussuosa se non si
avrà mai abbastanza denaro per acquistarla, o lavorare tutta una vita per
avere qualcosa che non sarà mai alla nostra portata. Molto meglio vivere in
semplicità; se si desiderano cose semplici, sarà più semplice ottenerle, e ci
rimarranno il tempo e l’energia per goderci le cose davvero importanti. Era
questa la ricetta epicurea della felicità, ed è una ricetta sicuramente valida.
L’insegnamento di Epicuro era una specie di terapia. Il suo scopo era
curare i suoi allievi dalla sofferenza interiore, e mostrare che il dolore fisico
risulta più sopportabile nel ricordo del piacere provato. Epicuro faceva
notare che i piaceri si godono nel momento in cui accadono, ma anche
dopo, quando li richiamiamo alla mente, e quindi possiamo beneficiarne
molto a lungo. Quando stava per morire ed era in preda alla sofferenza,
scrisse a un amico di riuscire a trovare sollievo dalla malattia ricordando il
piacere provato conversando con lui.
Tutto ciò è molto diverso da ciò che oggi si intende comunemente quando
si usa il termine «epicureo»: anzi, praticamente è l’opposto. Un «epicureo»
è chi ama mangiare cibi raffinati e concedersi lussi e piaceri sensuali.
Epicuro aveva gusti molto più semplici: insegnava la moderazione, perché
abbandonarsi al piacere sfrenato non fa altro che creare ulteriore desiderio e
generare un senso di angoscia derivante dall’impossibilità di soddisfarlo.
Guai a chi vive in questo modo, desiderando sempre più di quello che ha.
Epicuro e i suoi seguaci preferivano pane e acqua ai cibi esotici. Se inizi a
bere vini costosi, finirai per volerne bere di sempre più costosi, e rimarrai
intrappolato nella tua brama di cose che non potrai mai avere. Nonostante
ciò, i suoi nemici sostenevano che nella comunità del Giardino gli epicurei
trascorressero la maggior parte del tempo mangiando, bevendo e facendo
sesso tra loro, in una specie di orgia continua; da qui nasce il significato
moderno della parola «epicureo». Se i seguaci di Epicuro si comportarono
veramente così, contraddissero gli insegnamenti del loro maestro; ma molto
probabilmente si trattava solo di maldicenze.
Di certo, Epicuro trascorreva parecchio del suo tempo scrivendo. Era
molto prolifico: le testimonianze parlano di qualcosa come trecento libri
scritti su rotoli di papiro. Peccato che nessuno di essi sia giunto fino a noi.
Ciò che conosciamo di lui si deve in grandissima parte ad appunti presi dai
suoi seguaci, che impararono a memoria le sue opere, ma mettevano anche
per iscritto i suoi insegnamenti orali. Di alcuni rotoli si sono conservati dei
frammenti, rimasti sepolti a Ercolano sotto le ceneri del Vesuvio durante la
spaventosa eruzione del 79 d.C. Un’altra importante fonte di informazioni
sull’insegnamento di Epicuro è il lungo poema De rerum natura del poeta e
filosofo romano Tito Lucrezio Caro: composto più di duecento anni dopo la
morte del filosofo greco, è una vera e propria sintesi del suo pensiero.
Ma torniamo alla domanda da cui siamo partiti: perché non dobbiamo
aver paura della morte? Un motivo è che noi non la sperimenteremo. La
morte non accade a colui che muore, perché quando lei arriva, lui cessa di
esistere. Nel Ventesimo secolo, il filosofo Ludwig Wittgenstein riprese
questo argomento nel suo Tractatus logico-philosophicus : «La morte non è
un avvenimento della vita». Gli avvenimenti sono qualcosa di cui facciamo
esperienza, mentre la nostra morte elimina la possibilità dell’esperienza;
l’esperienza non va oltre la morte, quindi della morte non possiamo avere
coscienza, né le possiamo in qualche modo sopravvivere.
Quando immagina la propria morte, sostiene Epicuro, la maggior parte
delle persone commette l’errore di pensare che dopo di essa qualcosa di noi
continuerà a esistere, e sarà in grado di percepire ciò che accade al nostro
corpo. Ma questo significa fraintendere ciò che noi siamo. Noi siamo legati
a questo corpo, a queste ossa e a questa carne. Epicuro pensava che noi
siamo costituiti da atomi (ciò che intendeva con quel termine è però
leggermente diverso da ciò che intendono gli scienziati moderni). Con la
morte questi atomi si disgregano, e noi smettiamo di esistere come individui
dotati di coscienza. Anche se qualcuno riuscisse a rimettere a posto tutti i
frammenti e a infondere di nuovo la vita in questo corpo ricostruito, esso
non avrebbe nulla a che fare con me . Quel nuovo corpo non sarebbe me,
nonostante l’apparenza. Io non proverei il dolore che prova, perché una
volta che un corpo ha smesso di funzionare, nulla può riportarlo alla vita: la
catena dell’identità si è interrotta per sempre.
Un altro metodo che, secondo Epicuro, poteva alleviare la paura della
morte dei suoi seguaci era mostrare la differenza tra la nostra percezione del
futuro e quella del passato. Noi ci preoccupiamo per il primo, ma non per il
secondo. Ma proviamo invece a pensare al tempo prima della nostra nascita,
a tutto quel tempo in cui non esistevamo; non limitiamoci ai nove mesi in
cui eravamo nel grembo di nostra madre, e in cui avremmo potuto nascere
in anticipo, ma ai miliardi di anni prima che fossimo concepiti. Ebbene, noi
non siamo minimamente preoccupati per il fatto che non esistevamo per
tutti quei millenni. Perché dovremmo? Non c’eravamo! Dunque non c’è
motivo di preoccuparsi così tanto per gli eoni di non-esistenza dopo la
morte. Il nostro pensiero è asimmetrico: abbiamo la tendenza a
preoccuparci del tempo dopo la nostra morte, mentre quello prima ci è
indifferente. Epicuro pensava che questo fosse un errore. Una volta
riconosciutolo, dovremmo cominciare a pensare al tempo dopo la morte
nella stessa maniera in cui pensiamo a quello prima: in questo modo, ci
interesserebbe molto meno.
La preoccupazione di molti si fonda sul timore di essere puniti una volta
nell’Aldilà. Epicuro smonta anche questa. Gli dèi, sosteneva con grande
sicurezza rivolgendosi ai suoi seguaci, non sono affatto interessati a ciò che
hanno creato; vivono per conto proprio, e non si mescolano con il nostro
mondo. Quindi, il problema non esiste. Ecco la via epicurea alla guarigione
dalla paura della morte, la combinazione di questi argomenti. Se funziona,
ci sentiremo molto più tranquilli sulla nostra futura non-esistenza. Il
filosofo riassumeva questa filosofia in un epitaffio:
Non c’ero; sono stato; non sono; non mi riguarda.
Se crediamo di essere fatti di sostanza esclusivamente materiale, composti
di materia, e che non vi sia il rischio di punizioni dopo la morte, il pensiero
di Epicuro riesce a convincerci che dalla morte non dobbiamo temere nulla.
Magari potremo avere paura di ciò che ci porta al momento del trapasso,
delle possibili sofferenze, che sono del tutto reali; ma se questo è vero, è
altrettanto irragionevole agitarsi per la morte in sé. Ricordiamo ancora che
Epicuro credeva nella capacità dei bei ricordi di alleviare le sofferenze:
aveva dunque una risposta anche a questo problema. Se invece pensiamo di
essere anime racchiuse in un corpo, e che l’anima può sopravvivere alla
morte fisica, la terapia epicurea non funzionerà, perché penseremo alla
nostra esistenza che continua anche dopo che il nostro cuore ha cessato di
battere.
Gli epicurei non erano gli unici a pensare alla filosofia come strumento
terapeutico: come loro lo faceva la maggior parte dei filosofi greci e di
Roma. Tra essi, gli stoici erano particolarmente famosi per i loro
insegnamenti su come irrobustirsi psicologicamente di fronte alle avversità.
CAPITOLO 5

Imparare a non preoccuparsi


EPITTETO , CICERONE , SENECA

Mentre state uscendo di casa inizia a piovere: che sfortuna! Però siete
obbligati a uscire; allora c’è ben poco che possiate fare oltre a indossare
l’impermeabile, munirvi di ombrello o cancellare l’appuntamento. Anche
con tutta la buona volontà, non potete far cessare la pioggia. Meglio
arrabbiarsi, o prenderla con filosofia? «Prenderla con filosofia» significa
proprio questo: accettare ciò che non è possibile cambiare. Pensiamo
all’inevitabile trascorrere degli anni e alla brevità della vita. Come
dovremmo sentirci di fronte a queste caratteristiche insite nella condizione
umana? Vale anche qui lo stesso principio?
Quando diciamo che «prendiamo con filosofia» qualcosa che ci accade,
usiamo questa formula nel senso usato dagli stoici. Il nome ‘stoici’ deriva
da Stoà , il portico ateniese ornato di affreschi dove questi filosofi erano
soliti incontrarsi. Uno dei primi fu Zenone di Cizio (336-263 a.C.). I primi
stoici greci si occuparono di una vasta gamma di argomenti: dalla fisica alla
logica, all’etica. Ma ciò che li rese famosi fu soprattutto la loro concezione
dell’autocontrollo. La loro idea di partenza era che dobbiamo preoccuparci
solo di ciò che possiamo cambiare; del resto non dovremmo neppure
interessarci. Come gli scettici, miravano all’ottenimento della pace dello
spirito. Anche di fronte a eventi tragici come la morte di una persona cara,
lo stoico deve rimanere impassibile. Spesso gli eventi sono al di fuori del
nostro controllo; possiamo però controllare il nostro atteggiamento nei loro
confronti.
Alla radice dello Stoicismo c’era l’idea che siamo responsabili di ciò che
proviamo e pensiamo. Possiamo scegliere come rispondere alla buona e alla
cattiva sorte. Certe persone pensano che le loro emozioni siano come il
tempo atmosferico; gli stoici invece ritenevano che il modo in cui ci si sente
in una situazione o di fronte a un evento sia una questione di scelta. Le
emozioni non sono qualcosa che capita e basta. Non dobbiamo sentirci tristi
quando le cose non vanno come vorremmo; non dobbiamo arrabbiarci
quando qualcuno ci inganna. Le emozioni annebbiano l’intelletto e
distorcono la capacità di giudicare. Perciò non andrebbero solo controllate,
ma, quando possibile, eliminate del tutto.
Epitteto (50-125 d.C.), uno degli esponenti più conosciuti del tardo
Stoicismo, era stato uno schiavo. Era sopravvissuto a molte avversità e
aveva conosciuto la sofferenza e la fame; camminava con il bastone perché
le percosse che aveva subìto lo avevano reso zoppo. Quando dichiarava che
la mente può restare libera nonostante il corpo sia schiavo, attingeva alla
propria esperienza; non si trattava di pura teoria. I suoi insegnamenti
comprendevano consigli pratici su come affrontare il dolore e la sofferenza.
Li riassumeva così: «I nostri pensieri dipendono da noi». Questa filosofia
ispirò James B. Stockade, un pilota da caccia dell’Aviazione degli Stati
Uniti durante la guerra in Vietnam. Abbattuto con il suo aereo, venne più
volte sottoposto a tortura e tenuto in cella d’isolamento per quattro anni.
Riuscì a sopravvivere mettendo in pratica ciò che ricordava dei precetti di
Epitteto appresi durante un corso universitario. Paracadutato in territorio
nemico, decise di rimanere indifferente a ciò che gli veniva fatto, per quanto
doloroso potesse essere. Se non poteva far nulla per cambiare le cose, non
se ne sarebbe lasciato influenzare. Lo stoicismo gli diede la forza di
sopravvivere al dolore e alla solitudine, che avrebbero distrutto la maggior
parte delle persone nelle sue condizioni.
Questa filosofia della resistenza nacque in Grecia, ma fu a Roma che
conobbe il maggiore sviluppo. Due autori di prima grandezza che
contribuirono alla sua diffusione furono Marco Tullio Cicerone (106-43
a.C.) e Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65 d.C.). Gli argomenti sui quali si
appuntò maggiormente il loro interesse furono la brevità della vita e
l’ineluttabilità della vecchiaia. Riconoscevano che invecchiare è naturale, e
che non si deve cercare di cambiare qualcosa che non può essere cambiato;
allo stesso tempo, però, erano convinti che nel breve lasso di tempo che ci è
concesso ognuno di noi debba fare del proprio meglio.
Cicerone in effetti si dava parecchio da fare: oltre che filosofo era
avvocato e politico. Nel suo De senectute (La vecchiaia ) individuava
quattro problemi connessi all’invecchiamento: lavorare è più faticoso, il
corpo s’indebolisce, si perde la capacità di godere dei piaceri materiali e la
morte si avvicina. Invecchiare è inevitabile ma, sostiene Cicerone,
possiamo decidere come reagirvi. Non necessariamente il declino rende la
vita insopportabile. In primo luogo, spesso gli anziani riescono a cavarsela
facendo di meno grazie alla loro esperienza: qualsiasi cosa facciano, la
fanno meglio. Poi, l’invecchiamento del corpo e della mente possono essere
combattuti mantenendosi in esercizio. E se è vero che godono meno dei
piaceri, gli anziani possono trascorrere più tempo frequentando amici e
intrattenendo conversazioni che sono in sé molto gratificanti. Infine,
Cicerone riteneva che l’anima fosse eterna: non c’era ragione di temere la
morte. La sua posizione era a un tempo di accettazione del naturale
processo di invecchiamento e di riconoscimento che il nostro atteggiamento
nei suoi confronti non dev’essere necessariamente pessimistico.
Nei suoi scritti sulla brevità della vita, Seneca, altro grande divulgatore
del pensiero stoico, si pone lungo questa stessa scia. Accade raramente di
sentire qualcuno lamentarsi che la sua vita è troppo lunga: la maggior parte
della gente pensa che sia il contrario, che ci siano tante cose da fare e
troppo poco tempo per farle. Per dirla con il greco Ippocrate, «La vita è
breve, l’arte è lunga». Spesso le persone che sentono la morte avvicinarsi
desidererebbero disporre di qualche anno ancora per portare a compimento
ciò che volevano davvero fare nella vita; ma ormai è troppo tardi, e si
macerano nel rimpianto. In questo, la natura è crudele: proprio quando
stiamo arrivando al culmine della vita, arriva la fine.
Seneca non era d’accordo su questo. Sempre impegnatissimo, come
Cicerone, trovava il tempo per fare il drammaturgo, il politico e l’uomo
d’affari di successo, oltre a scrivere di filosofia. Il problema, per come lo
vedeva lui, non era quanto breve sia la vita, ma quanto male la
impieghiamo. Ancora una volta, ciò che conta di più è il nostro
atteggiamento nei riguardi degli aspetti ineluttabili dell’esistenza. Non
dobbiamo arrabbiarci per la sua brevità, ma adoperarci per viverla al
meglio. Molti, sottolinea Seneca, riuscirebbero a sprecare anche una vita
lunga millenni, se potessero disporne; e probabilmente si lamenterebbero lo
stesso, perché secondo loro è troppo breve. In realtà la vita dura abbastanza
per trarne completamente profitto, a condizione che compiamo le scelte
giuste e non la sprechiamo in faccende di poco conto. Certe persone
cercano la ricchezza con tanta energia da non riuscire a fare altro; altre
cadono nel tranello di sprecare tutto il loro tempo libero bevendo e facendo
sesso.
Se aspettiamo la vecchiaia per accorgercene, sarà sempre troppo tardi,
pensava Seneca. I capelli bianchi e le rughe sul viso non sono di per sé
garanzia che una persona nella sua vita abbia portato a termine qualcosa di
valido. Anche se certi, mentendo a se stessi, si comportano come se fosse
così.
Non si può dire che uno che sale su una barca a vela e si lascia portare dai
venti stia facendo un viaggio: diremmo piuttosto che si fa sballottare qua e
là. Nella vita è lo stesso. Lasciarsi trasportare dagli eventi senza controllo,
senza trovare il tempo per esperienze sensate e meritevoli di essere vissute,
è molto diverso dal vivere.
Un vantaggio del vivere bene è che da vecchi non avremo timore dei
nostri ricordi. Se invece sprechiamo il nostro tempo, quando volgeremo lo
sguardo al passato probabilmente non vorremo pensare a come l’abbiamo
trascorso, perché rivedere tutte le opportunità che abbiamo perso sarebbe
troppo doloroso. Per questa ragione così tanta gente si lascia assorbire dalle
cose superficiali: è un modo per chiudere gli occhi davanti alla realtà del
proprio fallimento. Così, Seneca invitava i suoi lettori a distinguersi dalla
massa e a non nascondersi da se stessi tenendosi occupati in cose futili.
Come dovremmo occupare, dunque, il nostro tempo? L’ideale stoico era
la vita ritirata, lontana dalla gente. Il modo più proficuo per vivere,
sosteneva Seneca acutamente, è studiare filosofia. Così si è veramente vivi.
La vita dette a Seneca molte opportunità per mettere in pratica ciò che
predicava. Nel 41 d.C., ad esempio, venne accusato di avere una relazione
con la sorella di Caligola. Non è chiaro se fosse vero o meno, ma il risultato
fu che venne esiliato in Corsica per otto anni. La sua fortuna girò di nuovo e
tornò a Roma, dove venne nominato tutore di Nerone, allora dodicenne.
Quando questi divenne imperatore, Seneca ne divenne il consigliere, oltre a
scriverne i discorsi. Ma la cosa finì male: altro rovescio di fortuna, e Nerone
accusò Seneca di aver ordito un complotto contro di lui. Stavolta per Seneca
non c’era scampo: Nerone gli ordinò di suicidarsi. Impossibile opporsi:
sarebbe valso ugualmente una condanna capitale. Seneca si suicidò,
andando incontro alla morte tranquillo e in pace con se stesso, fedele al suo
Stoicismo.
Un modo per guardare ai precetti degli stoici è pensarli come una sorta di
psicoterapia, una serie di tecniche psicologiche capaci di farci prendere la
vita in modo più tranquillo. Dominare le fastidiose emozioni che
annebbiano il nostro giudizio rende indubbiamente tutto più semplice.
Sfortunatamente, però, se riusciamo a tenere a bada le emozioni potremmo
accorgerci che stiamo perdendo qualcosa di importante. La condizione di
indifferenza caldeggiata dagli stoici riduce l’infelicità provocata dagli
eventi che non possiamo controllare, ma il prezzo da pagare è che ci
trasformiamo in persone fredde, senza cuore, forse meno umane. Se è così,
forse è un prezzo troppo alto.
Benché fosse stato influenzato dalla filosofia greca, Agostino, il filosofo
cristiano di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo, era tutt’altro che uno
stoico: uomo di forti passioni, soffriva per il male che vedeva nel mondo, e
desiderava appassionatamente comprendere Dio e i suoi piani per
l’umanità.
CAPITOLO 6

Chi tira i miei fili?


AGOSTINO

Agostino (354-430) voleva disperatamente conoscere la verità. Cristiano,


credeva in Dio. Ma la sua fede lasciava senza risposta alcune domande.
Cosa voleva Dio da lui? Come doveva comportarsi? In cosa doveva
credere? Egli trascorse gran parte della vita pensando e scrivendo di questi
argomenti. La posta in gioco era davvero alta: per coloro che credono nella
possibilità di finire all’inferno per l’eternità, commettere un errore
filosofico potrebbe avere conseguenze terribili. Agostino credeva che se si
fosse sbagliato sarebbe potuto bruciare per sempre nello zolfo. Una delle
domande che lo attanagliavano era perché Dio permettesse l’esistenza del
male. La risposta che si diede è ancora molto popolare fra i credenti.
Durante il Medioevo – grosso modo dal Quinto al Quindicesimo secolo –
filosofia e religione procedettero strettamente legate tra loro. I filosofi
medioevali studiavano i pensatori greci come Platone e Aristotele, ma poi
ne adattavano le idee alla loro fede religiosa. Molti erano cristiani, ma ci
furono anche importanti figure tra gli ebrei e gli arabi, come Maimonide e
Avicenna. Agostino, che in seguito fu fatto santo, è tra i più eminenti.
Nacque a Tagaste, nell’odierna Algeria, che al tempo faceva parte
dell’Impero romano. Il suo nome completo era Aurelio Agostino o
Agostino d’Ippona (dalla città dove a un certo punto si trasferì e visse).
Sua madre era cristiana, mentre suo padre era seguace di un culto locale.
Dopo un’infanzia e una giovinezza prive di regole – tra l’altro ebbe un
figlio da una donna con cui non era sposato –, giunto sulla trentina si
convertì al Cristianesimo, e alla fine fu nominato vescovo di Ippona. È
famosa la sua preghiera a Dio affinché lo liberasse del desiderio sessuale,
«ma non da subito», perché ne traeva un piacere troppo grande. In età
avanzata scrisse le Confessioni , La città di Dio e almeno un altro centinaio
di opere, attingendo al pensiero di Platone e sviluppandolo in senso
religioso.
La maggior parte dei cristiani pensano che Dio abbia qualità speciali: è
infinitamente buono, onnisciente e onnipotente. Tutto questo è implicito
nella definizione di ‘Dio’: Dio non sarebbe tale se non possedesse queste
qualità. Viene descritto in modo simile anche in molte altre religioni, ma ad
Agostino interessava solo quella cristiana.
Chiunque creda in questo Dio deve però anche ammettere che nel mondo
vi è grande sofferenza: negarlo sarebbe veramente arduo. In parte questa
sofferenza è il risultato di calamità naturali, come i terremoti o le malattie;
in parte è frutto del male, cioè è prodotta dalla malvagità degli esseri umani.
Omicidi e torture sono due chiari esempi di malvagità. Molto prima che
Agostino toccasse questo argomento, il filosofo greco Epicuro (vedi il
capitolo 4) aveva già riconosciuto l’esistenza del problema. Come può un
dio buono e onnipotente tollerare il male? Se non può impedirlo, significa
che non è veramente onnipotente, che c’è un limite alla sua azione. Se è
onnipotente ma non vuole impedirlo, allora non può essere infinitamente
buono. Ciò pareva insensato, e anche tuttora non può non lasciare perplessi.
Agostino rifletté profondamente sul problema del male, e ammise che l’idea
di un Dio che sa dell’esistenza del male e non fa nulla per impedirlo è
difficile da comprendere. La spiegazione secondo la quale Dio agisce per
vie misteriose, che vanno al di là della comprensione umana, non lo
soddisfaceva. Agostino voleva risposte.
Immaginiamo un assassino che sta per uccidere la sua vittima; è lì,
pugnale alla mano. Un atto veramente malvagio sta per essere commesso.
Ora, noi sappiamo che Dio è tanto potente da essere in grado di fermarlo;
basterebbe che alterasse minimamente i neuroni del cervello dell’assassino,
oppure che trasformasse in qualcosa di morbido e gommoso le lame dei
pugnali ogni volta che qualcuno sta per usarle come armi letali;
rimbalzerebbero addosso alla vittima e questa non si farebbe neppure un
graffio. Dio sa cosa sta accadendo, perché sa assolutamente tutto. Nulla gli
sfugge. E deve volere che il male non accada, perché ciò è implicito nel suo
essere infinitamente buono. Invece, l’assassino uccide la sua vittima. I
coltelli d’acciaio non si trasformano in coltelli di gomma. Niente lampo di
luce, niente rombo di tuono, l’arma non cade miracolosamente dalla mano
dell’assassino, né questi cambia improvvisamente idea. Ecco, questo è il
classico problema del male , il problema del perché Dio permette cose
come questa. Dobbiamo forse pensare che, visto che tutto è opera di Dio, lo
sia anche il male, pensare che sia Dio stesso a volere che le cose vadano
così?
In gioventù, Agostino era legittimato a escludere che Dio volesse anche il
male, perché era un manicheo. Il Manicheismo era una religione originaria
della Persia, l’odierno Iran. I manichei credevano che Dio non fosse
onnipotente, ma che fosse continuamente in atto una lotta tra le forze
equivalenti del bene e del male. Dio e Satana erano coinvolti in un conflitto
permanente per la supremazia. Erano entrambi immensamente forti,
nessuno dei due però lo era abbastanza da avere la meglio sull’altro. In certi
momenti e in certi luoghi il male riusciva a prevalere, ma non a lungo,
perché la bontà si ripresentava e trionfava ancora una volta. Così si
spiegava l’accadere di cose tanto terribili: il male era il prodotto delle forze
dell’oscurità, il bene di quelle della luce.
Nell’essere umano, secondo i manichei, la bontà viene dall’anima e la
malvagità dal corpo, con tutte le sue debolezze, i suoi desideri e la sua
tendenza a traviarci. Per questo capita che la gente commetta delle
malefatte. Il problema del male per i manichei non era particolarmente
cruciale, perché nella loro concezione Dio non era abbastanza potente da
controllare ogni aspetto della realtà. Se Dio non è onnipotente, non è
neppure responsabile dell’esistenza del male, e quindi non gli si può
rimproverare di non riuscire a impedirlo. I manichei avrebbero spiegato
l’azione dell’assassino come prodotto delle forze dell’oscurità, presenti
dentro di lui e che lo spingevano a commettere il male. Quelle forze erano
talmente potenti, che le forze della luce non riuscivano ad avere la meglio.
Agostino finì per rigettare la visione manichea. Non riusciva a capire
perché la lotta tra il bene e il male dovesse durare in eterno. Perché Dio non
vinceva? Perché le forze del male erano pari a quelle del bene? La dottrina
cristiana ammette l’esistenza del male, ma il potere del male non è grande
come il potere di Dio. Però, se Dio era veramente onnipotente, il problema
del male si ripresentava da un altro punto di vista. Perché Dio lo
permetteva? Perché al mondo ce n’era così tanto? Non era facile rispondere.
Agostino ci rifletté a lungo e intensamente. La soluzione che trovò si basava
sull’esistenza del libero arbitrio, cioè la facoltà umana di scegliere le
proprie azioni. È conosciuta come argomento del libero arbitrio , o teodicea
: il tentativo di spiegare e giustificare il fatto che Dio, nella sua bontà,
permetta la sofferenza.
Dio ci ha concesso il libero arbitrio. Voi potete, ad esempio, scegliere se
leggere o meno la frase che viene dopo questa: è una vostra scelta. Se
nessuno vi obbliga a continuare a leggere, siete liberi di fermarvi. Agostino
pensava che il libero arbitrio fosse un bene, perché ci permette di agire
moralmente. Possiamo decidere se essere buoni – cosa che per lui
significava seguire le leggi di Dio, in particolare i Comandamenti e il
precetto di Gesù «Ama il tuo prossimo». Ma fra le conseguenze del libero
arbitrio c’è il fatto che possiamo anche decidere di agire male. Possiamo
lasciarci traviare e commettere azioni cattive: mentire, rubare, infliggere
dolore alle persone o addirittura ucciderle. Spesso ciò accade quando
lasciamo che l’intelletto venga sopraffatto dalle emozioni: desideriamo con
tutte le nostre forze cose e denaro, ci abbandoniamo ai piaceri della carne e
ci allontaniamo da Dio e dai suoi Comandamenti. Come Platone, Agostino
pensava che il nostro lato razionale dovesse tenere sotto controllo le
passioni. Gli esseri umani, a differenza degli animali, hanno la forza della
ragione e devono usarla. Se Dio avesse fatto sì che noi scegliessimo sempre
il bene invece del male, non faremmo nulla che possa provocare danni, ma
in questo modo non saremmo veramente liberi, e non potremmo usare
l’intelletto per decidere come comportarci. Dio avrebbe potuto volere che
fossimo in quel modo, e invece ci ha dato la facoltà di scegliere; Agostino
pensava che fosse molto meglio così. Saremmo solo dei burattini, mossi da
Dio in tutto e per tutto. Non avremmo motivo di domandarci come agire,
perché sceglieremmo automaticamente l’opzione della bontà.
Dio, quindi, è abbastanza potente da impedire qualsiasi male; ma se
qualcosa di male accade, non se ne deve dare la colpa a Dio. La malvagità è
il risultato di una scelta. Agostino credeva che fosse anche il risultato delle
scelte di Adamo ed Eva. Come molti cristiani della sua epoca, era convinto
che nel giardino dell’Eden fosse accaduta una cosa irreparabile, quella
descritta nel I libro della Bibbia, la Genesi. Cibandosi all’Albero della
conoscenza, Eva e, dopo di lei, Adamo tradirono la fiducia di Dio, portando
il peccato nel mondo. Questo peccato, chiamato peccato originale , non
condizionò solamente le loro vite: qualsiasi essere umano, senza
distinzione, ne paga il prezzo. Secondo Agostino il peccato originale si
trasmette di generazione in generazione tramite l’atto sessuale. Persino un
neonato ne reca le tracce: il peccato originale accresce le nostre possibilità
di commettere peccato.
Per molti contemporanei quest’idea secondo cui dobbiamo in qualche
modo sentirci colpevoli ed essere puniti per azioni commesse da qualcun
altro è difficile da accettare: sembra decisamente ingiusto. Invece l’idea che
il male sia prodotto dalla nostra libera scelta e non addebitabile a Dio
appare tuttora convincente a molti credenti, perché permette loro di credere
in un Dio onnisciente, onnipotente e infinitamente buono.
Boezio, uno degli scrittori più influenti del Medioevo, credeva in un Dio
con quelle caratteristiche, ma si cimentò con un aspetto diverso del libero
arbitrio: com’è possibile decidere di fare alcunché, se Dio sa già cosa
faremo?
CAPITOLO 7

La consolazione della filosofia


BOEZIO

Siete in prigione, in attesa dell’esecuzione: trascorrete i vostri ultimi giorni


scrivendo un trattato di filosofia? Boezio (475-525) lo fece, e proprio quello
finì per essere il suo libro più famoso.
Anicio Manlio Severino Boezio – questo il suo nome per esteso – fu uno
degli ultimi filosofi di Roma. Morì vent’anni prima che la città cadesse
preda dei barbari al termine di un declino iniziato mentre Boezio era ancora
in vita. Al pari dei suoi colleghi Cicerone e Seneca, concepiva la filosofia
come mezzo che oggi chiameremmo di ‘self-help’, uno strumento pratico
per migliorare la vita, oltre che come materia di pensiero astratto. Ebbe
anche il merito di riprendere Platone e Aristotele, traducendone le opere in
latino e mantenendone vivo il pensiero in un periodo in cui avrebbe
rischiato di andare perduto per sempre. Era un filosofo cristiano, e questo lo
rese un punto di riferimento per i religiosi ferventi che ne lessero le opere
durante il Medioevo. La sua filosofia, dunque, costituì una sorta di ponte fra
i pensatori greci e romani e la filosofia cristiana che avrebbe stabilito la sua
egemonia in Occidente nei secoli successivi.
La vita di Boezio fu un misto di buona e cattiva sorte. Re Teodorico, il
sovrano dei Goti che allora governava su Roma, lo insignì dell’importante
titolo di magister officiorum e nominò consoli i suoi due figli, benché
fossero troppo giovani per guadagnarsi la carica per meriti personali.
Sembrava che tutto nella sua esistenza andasse a gonfie vele: era ricco, di
buona famiglia e godeva di unanime riconoscimento; trovava il tempo di
dedicarsi agli studi filosofici pur svolgendo un impegnativo incarico
pubblico, ed era un autore e traduttore prolifico. Insomma, era un uomo di
successo. A un certo punto, però, la sua sorte subì un brusco ribaltamento.
Accusato di aver ordito un complotto contro Teodorico, venne trasferito in
prigione a Pavia e lì fu sottoposto a tortura e infine condannato a morte,
condanna eseguita con una combinazione di strangolamento e percosse.
Sostenne sino alla fine la propria innocenza, ma i suoi accusatori non gli
credettero.
Mentre era in prigione, ben sapendo che presto sarebbe morto, Boezio
scrisse quello che nel Medioevo sarebbe diventato un bestseller, La
consolazione della filosofia . Il libro inizia descrivendo Boezio, nella cella
della prigione, intento ad autocommiserarsi. All’improvviso si rende conto
che accanto a lui è apparsa una donna. La sua statura è indefinibile: ora
sembra alta quanto una persona normale, ora pare toccare il cielo con la
testa. Indossa una veste su cui è ricamata una scala che, partendo in basso
con la lettera greca pi , arriva alla lettera theta . In una mano regge uno
scettro, nell’altra dei libri, ed è la Filosofia in persona. Si rivolge a Boezio,
dicendogli di essere arrabbiata perché sembra essersi dimenticato di lei; è lì
per ricordargli in che modo dovrebbe reagire a ciò che gli sta accadendo. Il
libro, scritto parte in versi e parte in prosa, prosegue con la loro
conversazione, incentrata sui temi del destino e di Dio.
Filosofia sostiene che il destino è mutevole e che Boezio non dovrebbe
stupirsene: è questa la natura della fortuna, la sua volatilità. La ruota della
Fortuna gira, e se in un dato momento ti capita di essere in cima, il
momento dopo ti troverai nel punto più basso. Basta un giorno perché un
ricco sovrano precipiti in miseria. Boezio dovrebbe accettare le cose come
stanno. La fortuna è mossa dal caso e non vi è nessuna garanzia che, se sei
fortunato oggi, lo sarai anche domani.
I mortali, spiega Filosofia, sono stupidi se permettono che la loro felicità
dipenda da un fattore tanto mutevole. La vera felicità può venire solo da noi
stessi, da ciò che possiamo padroneggiare, non da ciò che la fortuna può
distruggere. Ritroviamo qui l’atteggiamento degli stoici che abbiamo visto
nel capitolo 5, lo stesso di chi dice di «prendere con filosofia» gli eventi
negativi e non si lascia influenzare da ciò su cui non ha alcun controllo,
come gli eventi atmosferici o la propria famiglia di origine. Nulla, continua
Filosofia, è terribile in sé: tutto dipende da ciò che ne pensiamo. La felicità
è uno stato mentale, non qualcosa di oggettivo: un’idea che Epitteto
avrebbe riconosciuto come sua.
Filosofia desidera che Boezio ritorni a lei. Gli dice che può essere
autenticamente felice nonostante ora si trovi lì, in prigione, in attesa di
essere ucciso. Sarà lei a curare le sue sofferenze. Il messaggio è che
ricchezza, potere e onori non hanno valore, perché possono andare e venire.
Non bisogna costruire la felicità su fondamenta tanto fragili. La felicità
deve provenire da qualcosa di più solido, qualcosa che niente e nessuno può
portarci via. Poiché Boezio era convinto che avrebbe continuato a vivere
oltre la morte, ha sbagliato a cercare la felicità nelle cose bassamente
materiali: morendo, le avrebbe perdute in ogni caso.
Dove va cercata, allora, la vera felicità? La risposta di Filosofia è: in Dio
o nel Bene (che risultano essere la stessa cosa). Boezio era cristiano, ma
non ne fa menzione nella Consolazione della filosofia . Il Dio descritto da
Filosofia potrebbe essere lo stesso di Platone, la forma pura del Bene. Ma i
lettori successivi possono riconoscervi i precetti cristiani a proposito della
mancanza di valore di onori e ricchezze e dell’importanza di concentrarsi
sul far piacere a Dio.
Per tutto il libro, Filosofia ricorda a Boezio cose che egli sa già: anche
questa è un’eredita platonica, la convinzione secondo cui qualsiasi cosa
venga appresa è come la reminiscenza di idee innate, cioè che ci
appartengono da sempre. Non impariamo mai nulla di nuovo, si tratta solo
di rinfrescare la memoria; la vita è una lotta per richiamare alla mente cose
di cui eravamo già a conoscenza. Boezio quindi sapeva quanto fosse
sbagliato preoccuparsi di perdere la libertà e la rispettabilità, due cose
ampiamente fuori dal suo controllo. Ciò che importa è come si pone nei
confronti della situazione in cui si trova: questo, sì, è qualcosa che può
scegliere liberamente.
Boezio esprime a questo punto la sua perplessità su un argomento che
risulta assai problematico a moltissimi credenti. Dio, essere perfetto, sa
sicuramente tutto ciò che è accaduto in passato, e quindi anche tutto ciò che
accadrà in futuro: è questo che intendiamo quando lo chiamiamo
‘onnisciente’. Se Dio esiste, deve anche sapere chi vincerà la prossima
Coppa del Mondo e quali sono le parole che sto per scrivere; deve
possedere la preveggenza di qualsiasi cosa stia per succedere. Ciò che
prevede deve necessariamente accadere. In questo momento, quindi, Dio sa
come andrà a finire qualsiasi cosa.
Ne consegue che Dio deve sapere cosa farò io, anche se io stesso non ne
sono ancora certo. Nel momento in cui mi trovo a decidere cosa fare,
sembra che davanti a me si aprano diverse possibilità: se sono giunto a un
bivio posso decidere se andare a destra o a sinistra, o magari restare fermo
dove sono. Adesso posso smettere di scrivere e andare a prepararmi un
caffè, sempre che non decida di continuare a scrivere usando il portatile. La
sensazione è che sia io a decidere cosa fare o non fare. Nessuno mi
costringe a scegliere una cosa piuttosto che un’altra. Allo stesso modo, voi
lettori in questo momento potete scegliere di chiudere gli occhi se lo
desiderate. Come si concilia tutto questo con un Dio che sa tutto ciò che
finiremo per fare?
E poi, se Dio è già a conoscenza di ciò che faremo, le nostre possono
essere considerate vere scelte? O la libera scelta è solo un’illusione? Se Dio
è onnisciente, allora la mia volontà non è libera. Dieci minuti fa Dio
potrebbe aver scritto su un foglietto «Nigel continuerà a scrivere», cosa
vera, e io necessariamente dovevo continuare a scrivere, volente o nolente.
Ma se Dio può fare una cosa simile, allora io non ho mai avuto la facoltà di
scegliere cosa fare, anche se ho creduto di sì. Tutta la mia vita era già
segnata fin nei minimi particolari. E se noi non possiamo avere nessuna
possibilità di scelta, nessun libero arbitrio, è giusto punirci o premiarci per
le nostre azioni? Se non possiamo scegliere come comportarci, come può
Dio decidere se andremo in paradiso o all’inferno?
Si tratta di una questione sconcertante, del tipo che i filosofi chiamano
paradosso . Qualcuno sa in anticipo cosa farò, però io posso decidere se
farlo o meno: una cosa contraddice chiaramente l’altra, ma entrambe sono
plausibili se si crede nell’onniscienza di Dio.
Filosofia, la donna che si trova in cella con lui, risponde ai dubbi di
Boezio. Tutti, sostiene, possediamo il libero arbitrio: non si tratta di
un’illusione. Benché Dio sappia cosa faremo, non c’è predestinazione nelle
nostre vite. O, per dirla altrimenti, la conoscenza che Dio ha delle nostre
azioni è diversa dalla predestinazione. Predestinazione significa che non
abbiamo possibilità di scelta; invece, noi possiamo scegliere. L’errore
consiste nel pensare a Dio come se fosse un essere umano, che vede i fatti
svolgersi nel tempo. Dio, dice a Boezio Filosofia, è atemporale; sta al di
fuori del tempo.
Ciò significa che Dio abbraccia tutte le cose in uno stesso istante. Per lui
passato, presente e futuro sono una cosa sola. Noi mortali siamo vincolati al
succedersi, uno dopo l’altro, degli eventi: per Dio non è così. Dio sa tutto
ciò che accade, senza che questo pregiudichi il nostro libero arbitrio e senza
che noi veniamo trasformati in automi privi di volontà: questo perché il suo
sguardo su di noi è senza tempo, egli ci vede come un tutto atemporale. E
noi, continua Filosofia, non dobbiamo dimenticare che Dio, pur
conoscendole già, giudica gli esseri umani sulla base delle azioni e delle
scelte che compiono.
Se Filosofia ha ragione, e se Dio esiste, allora egli sa precisamente
quando terminerò di scrivere questa frase; ma terminarla, mettendo un
punto proprio lì , rimane una mia libera scelta.
Allo stesso modo, voi siete liberi di decidere se leggere o meno il
prossimo capitolo: tratta di due discussioni che vertono sulla fede
nell’esistenza di Dio.
CAPITOLO 8

L’isola perfetta
ANSELMO D’ A OSTA e TOMMASO D’ A QUINO

Abbiamo tutti un’idea di Dio. Sappiamo cosa significa questa parola,


indipendentemente dal fatto che ci crediamo o meno. Pensate alla vostra
idea di Dio: è molto diverso dal sostenere che Dio esiste. Per Anselmo
(circa 1033-1109), sacerdote italiano che sarebbe poi diventato arcivescovo
di Canterbury, non era così: con il suo cosiddetto argomento ontologico
sosteneva che, a rigor di logica, il fatto che abbiamo un’idea di Dio
dimostra la sua esistenza.
L’argomento di Anselmo, contenuto nel suo Proslogion , parte
dall’affermazione incontestabile che Dio è «ciò di cui non può essere
pensato nulla di maggiore»: il che equivale a dire che Dio è l’essere più
grande che si possa immaginare: più grande per potenza, bontà e sapienza.
Nulla di più grande può essere immaginato, perché se qualcuno o qualcosa
lo fosse, quello sarebbe Dio. Dio è l’essere supremo. Era una definizione di
Dio ampiamente condivisa: Boezio, ad esempio, ne dava una simile (vedi il
capitolo 7). È evidente che nelle nostre menti c’è un’idea di Dio: anche
questo è incontestabile. Anselmo, però, aggiunge che un Dio che esistesse
solo nelle nostre menti, ma non nella realtà, non potrebbe essere la cosa
maggiore di tutte, perché uno che esistesse realmente sarebbe maggiore di
lui. Questo Dio potrebbe essere concepito: persino gli atei tendono ad
accettarlo. Ma un Dio immaginato non può essere maggiore di un Dio reale.
Quindi, è la conclusione di Anselmo, Dio deve esistere: è la logica
conseguenza della definizione di Dio. Se Anselmo ha ragione, possiamo
essere certi che Dio esista in virtù del semplice fatto che abbiamo un’idea di
Dio. Questo viene definito argomento a priori , cioè che non si fonda
sull’osservazione della realtà per giungere alle conclusioni. Un argomento
logico che, partendo da una considerazione incontestabile, sembra
dimostrare che Dio esiste.
Anselmo faceva l’esempio di un pittore. Prima di dipingere una scena, il
pittore la immagina, poi dipinge ciò che ha immaginato. Il dipinto quindi
esiste sia nell’immaginazione del pittore, sia nella realtà. Per Dio è diverso:
secondo Anselmo, a rigor di logica sarebbe impossibile avere un’idea di
Dio se Dio non esistesse, mentre possiamo facilmente immaginare un
pittore che non ha mai dipinto il quadro che ha immaginato, cosicché il
quadro esiste solo nella sua mente ma non nel mondo reale. Il caso di Dio è
unico: tutto il resto possiamo immaginarlo senza che esista, senza entrare in
contraddizione. Se comprendiamo veramente cosa sia Dio, dobbiamo
ammettere che è impossibile che Dio non esista.
La maggior parte di coloro che hanno analizzato questa ‘prova’
dell’esistenza di Dio hanno rilevato qualcosa di poco convincente nel modo
in cui si giunge alla conclusione: non sembra del tutto corretto, e sono in
pochi a essere stati convinti a credere in Dio sulla base di questo argomento.
Anselmo risponde citando i Salmi, quando recitano che solo un folle
potrebbe negarne l’esistenza. Un suo contemporaneo, Gaunilone di
Marmoutier, criticò il ragionamento di Anselmo, proponendo un
esperimento mentale che avvalorava la posizione del folle.
Immaginiamo che da qualche parte nell’oceano ci sia un’isola che
nessuno può raggiungere. Quest’isola è straordinariamente lussureggiante, e
vi crescono frutta, piante e animali esotici di ogni genere. Non è abitata
dall’uomo, e ciò la rende ancora più perfetta: l’isola più perfetta che si
possa immaginare. Se qualcuno sostenesse che un’isola del genere non
esiste, non sarebbe difficile comprendere cosa intende: suona perfettamente
sensato. Supponiamo invece che qualcun altro sostenga che l’isola deve
esistere per forza, perché è più perfetta di qualunque altra isola. Cioè: noi
abbiamo un’idea di quest’isola, ma non sarebbe l’isola più perfetta di tutte
se esistesse solo nella nostra mente. Quindi, quest’isola deve esistere
realmente.
Gaunilone faceva notare che se si usasse un argomento del genere per
cercare di persuaderci dell’esistenza di un’isola che è la più perfetta di tutte,
lo prenderemmo per uno scherzo. Sostenere l’esistenza nella realtà di
un’isola perfetta in virtù del fatto che così ce la immaginiamo è qualcosa
che non sta in piedi, una perfetta assurdità. Ora, continua Gaunilone,
l’argomento usato da Anselmo per sostenere l’esistenza di Dio si presenta
esattamente come quello che sostiene l’esistenza dell’isola perfetta. Se non
possiamo credere che l’isola più perfetta che si può immaginare debba
esistere necessariamente, perché dovremmo crederlo nel caso dell’essere
più perfetto di tutti? Lo stesso genere di argomento potrebbe essere usato
per immaginare e quindi credere reale ogni sorta di cose: non solo l’isola
perfetta, ma la montagna perfetta, l’edificio perfetto, la foresta perfetta.
Gaunilone credeva in Dio, ma pensava che il ragionamento di Anselmo
fosse debole. Anselmo rispose che l’argomento valeva solo per Dio e non
per le isole, perché qualsiasi altra cosa può essere solo la più perfetta nel
suo genere, mentre Dio è la perfezione assoluta, l’essere più perfetto di tutti.
Anzi, proprio per questo Dio esiste necessariamente : è il solo che non può
non esistere.
Duecento anni più tardi, in un breve capitolo della sua monumentale
Summa Theologiae , un altro santo nato in Italia, Tommaso d’Aquino
(1225-1274), elencò cinque argomenti, le cinque vie per dimostrare
l’esistenza di Dio, che divennero la parte più famosa di tutta l’opera. Il
secondo argomento era quello della causa prima ed era basato, come molta
della filosofia di Tommaso, sul pensiero di Aristotele. Come per Anselmo,
anche per Tommaso la dimostrazione dell’esistenza di Dio doveva basarsi
sulla ragione. L’argomento della causa prima parte dall’esistenza del cosmo,
di tutte le cose esistenti. Guardatevi attorno, sosteneva. Da dove viene tutto
questo? La risposta, semplice, è che qualsiasi cosa ha una causa che l’ha
generata e le ha dato la forma che ha. Prendiamo ad esempio un pallone: è
l’effetto di molteplici cause, di chi l’ha progettato e costruito, delle cause
che hanno prodotto i materiali con cui è fatto, eccetera. Ma di quali cause
sono effetto quei materiali? E da cosa sono state causate a loro volta?
Possiamo andare a ritroso e le ricostruiremo tutte; questa catena di cause ed
effetti è forse destinata a proseguire all’infinito?
Tommaso era convinto che non poteva darsi una serie infinita di cause ed
effetti, un ‘regresso all’infinito’. Se così fosse, ciò significherebbe che non è
mai esistita una causa prima: qualcosa sarebbe stato la causa di qualunque
cosa pensiamo sia la prima causa di tutto, e qualcosa doveva aver causato
anche quella, e così all’infinito. Tommaso pensava che, a rigor di logica, a
un certo punto doveva esserci stato qualcosa che aveva dato inizio alla
catena delle cause e degli effetti. In quel caso, sarebbe dovuto essere
qualcosa che non era a sua volta l’effetto di qualcos’altro: qualcosa come
una prima causa. Questa, sostiene, è Dio. Dio è la causa prima di tutte le
cose.
Alcuni filosofi successivi sono intervenuti sull’argomento con copiose
argomentazioni. Certi hanno fatto notare che, anche se si può essere
d’accordo con Tommaso sulla necessità di una causa prima da cui si è
originato tutto, non c’è ragione di credere che questa sia Dio. La causa
prima dev’essere stata per forza molto potente, ma in questa
argomentazione nulla fa concludere che essa debba necessariamente
possedere le caratteristiche che le religioni sono solite attribuire a Dio; ad
esempio, non deve necessariamente essere supremamente buona, né
necessariamente onnisciente. Potrebbe essere stata una forma di energia, più
che un Dio con caratteristiche di persona.
Un’altra obiezione all’argomentazione di Tommaso è che non siamo
obbligati ad accettare la sua idea secondo la quale non è possibile un
regresso all’infinito dagli effetti alle cause. Come possiamo saperlo? Anche
della possibile causa prima del cosmo possiamo domandarci: «E di cosa è
l’effetto?» Tommaso dava per scontato che se continuassimo a chiedercelo,
a un certo punto finiremmo per rispondere «Di nulla. Questa è la causa
prima». Ma non è così scontato che questa risposta sia migliore rispetto al
pensare che vi sia un regresso infinito dagli effetti alle cause.
Santi come Anselmo e Tommaso, che si dedicarono con tanto impegno a
predicare e praticare la fede in Dio, non potevano essere più lontani da uno
come Niccolò Machiavelli, pensatore tutto rivolto alle cose del mondo, e
che qualcuno ha paragonato al Demonio.
CAPITOLO 9

La volpe e il leone
NICCOLÒ MACHIAVELLI

Immaginate di essere un principe che governa una città-stato come Firenze


o Napoli nel Sedicesimo secolo. Avete il potere assoluto: vi basta dare un
ordine, e questo viene eseguito. Se volete mandare in prigione qualcuno
perché ha parlato male di voi, o perché sospettate che stia tramando un
complotto per uccidervi, avete il potere di farlo. Un esercito è pronto a
obbedire ai vostri comandi. Però siete circondati da altre città-stato, guidate
da sovrani ambiziosi che vorrebbero conquistare il vostro territorio. Come
vi comportereste? In modo onesto, tenendo fede ai patti, agendo sempre con
lealtà, e pensando sempre bene della gente?
Niccolò Machiavelli (1469-1527) non sarebbe stato d’accordo: meglio
sembrare buoni e onesti, che esserlo. A volte, sosteneva, è meglio mentire,
rompere i patti e far uccidere i propri nemici. Un principe non deve
preoccuparsi di mantenere la parola; secondo Machiavelli, il principe che
agisce efficacemente deve «imparare a non essere buono». La cosa più
importante è mantenere il potere, e per ottenere questo scopo è ammesso
qualunque comportamento. Non sorprende che l’opera in cui egli espone
tutto questo, Il Principe , sia famosissima fin dai tempi della pubblicazione,
nel 1532. C’è chi l’ha definito un compendio di malvagità, chi un manuale
per malviventi, ma anche chi lo considera il ritratto più fedele mai tracciato
di quanto accade in politica. Dai politici di professione è letto ancora oggi,
anche se solo alcuni lo ammettono; forse perché farlo significherebbe
ammettere anche che vi si ispirano per la propria condotta.
Il Principe non ha l’ambizione di essere un testo per tutti i governanti, ma
solo per coloro che sono appena assurti al potere. Machiavelli lo scrisse in
un periodo in cui abitava nella sua proprietà a qualche chilometro di
distanza da Firenze.
L’Italia del Sedicesimo secolo non era un posto tranquillo. Machiavelli era
nato e cresciuto a Firenze, era stato poi un giovane diplomatico e nelle sue
missioni per tutta Europa aveva avuto occasione di incontrare diversi re, un
imperatore e il Papa. Di costoro non aveva grande stima; l’unico leader che
lo impressionò positivamente fu Cesare Borgia, un uomo spietato, figlio
illegittimo di papa Alessandro VI, che non si era fatto scrupolo di ingannare
e far assassinare i propri nemici per impadronirsi di una buona fetta di
territorio italiano. Cosa ne pensava Machiavelli? Che Borgia aveva fatto
tutto bene, se non fosse stato per la cattiva sorte: cadde malato proprio nel
momento in cui venne attaccato. La sfortuna giocò un ruolo importante
anche nella vita di Machiavelli, e rappresentò per lui un oggetto di profonde
riflessioni.
Quando i Medici, la ricchissima famiglia che in precedenza aveva
governato Firenze, tornarono al potere, fecero arrestare Machiavelli con
l’accusa di aver ordito un complotto contro di loro. Machiavelli resistette
alle torture e venne rilasciato. Alcuni suoi concittadini vennero condannati a
morte; lui non aveva confessato, ma fu completamente emarginato dalla
vita politica. Si trasferì in campagna, dove trascorreva le serate
immaginando di confrontarsi con i grandi pensatori del passato sul tema del
mantenimento del potere. Il Principe venne scritto probabilmente per
impressionare i potenti del tempo e cercare di ottenere un incarico di
consigliere politico, cosa che gli avrebbe permesso di tornare a Firenze e
alle emozioni e ai rischi della politica attiva, ma il tentativo non riuscì.
Machiavelli sarebbe rimasto per sempre un teorico. Oltre al Principe ,
scrisse molti altri trattati di politica e divenne pure un drammaturgo di
successo: la sua Mandragola viene messa in scena ancora oggi.
Ma cosa pensava veramente Machiavelli, e perché lascia così fortemente
impressionati i suoi lettori? La sua idea centrale era che un principe dovesse
possedere quella che chiamava virtù , intesa come virilità, valore, coraggio.
Cosa significava? Machiavelli riteneva che il successo di una persona
dipendesse in gran misura dalla buona sorte. Metà di ciò che ci accade è un
prodotto della sorte, e l’altra metà delle nostre scelte. Ma riteneva anche che
se si agisce con coraggio e tempestività possiamo aumentare le nostre
probabilità di successo. Il fatto che la fortuna giochi un ruolo tanto
importante nelle nostre vite non è una buona ragione per comportarsi da
vittime. Se un fiume straripa non possiamo farci nulla, ma se abbiamo
costruito degli argini grandi e solidi avremo maggiori probabilità di
sopravvivere. In altre parole, un leader ben preparato e capace di cogliere il
momento opportuno per agire ha maggiori probabilità di far bene di uno che
non lo è.
Machiavelli teneva molto che la sua filosofia restasse radicata nella realtà.
Mostrava ai suoi lettori ciò che intendeva mediante una serie di esempi
tratti dalla storia sua contemporanea, perlopiù riguardanti personaggi con
cui aveva avuto a che fare personalmente. Quando, ad esempio, Cesare
Borgia scoprì che la famiglia Orsini stava progettando di spodestarlo, fu
talmente abile da convincerli del fatto che lui non sospettasse nulla, quindi
tese un tranello ai loro rappresentanti, persuadendoli a recarsi a Senigallia
per parlare con lui, e facendoli uccidere. Machiavelli giudica positivamente
quell’inganno: gli sembrava un buon esempio di virtù .
Un altro episodio: quando Borgia conquistò la Romagna, vi pose a capo
Remirro de Orco, un suo luogotenente noto per la sua crudeltà. De Orco
terrorizzò la popolazione e la Romagna finì per assoggettarsi, ma quando la
situazione si stabilizzò, Borgia decise di prendere le distanze da de Orco. Lo
fece uccidere e fece esporre il suo corpo, tagliato in due, nella piazza di
Cesena, in modo che tutti potessero vederlo. Anche questo episodio orribile
riscuote l’approvazione di Machiavelli, perché in quel modo Borgia aveva
ottenuto ciò che voleva, cioè l’appoggio della popolazione della Romagna:
la popolazione era contenta che de Orco fosse morto, ma allo stesso tempo
sapeva che era stato Borgia a ordinarne l’uccisione, e questo la terrorizzava.
Se Borgia era capace di una violenza simile nei confronti di un suo
luogotenente, figuriamoci cosa poteva accadere a tutti gli altri. Il
comportamento di Borgia, agli occhi di Machiavelli, era virtuoso; si trattava
esattamente del genere di cose che un principe accorto deve fare.
Detto in questo modo, sembra che Machiavelli approvasse l’omicidio; in
certe circostanze, se il risultato lo giustificava, ovviamente sì. Ma non era
qui il punto: con questi due esempi egli intendeva spiegare che il modo in
cui Borgia aveva eliminato i propri nemici e, come nel caso del
luogotenente, il suo uso dell’omicidio a scopo esemplare erano
comportamenti efficaci, che producevano l’effetto desiderato e prevenivano
ulteriori spargimenti di sangue. Mediante le sue azioni tempestive e crudeli,
Borgia stabilizzava il proprio potere e dissuadeva le genti di Romagna dal
ribellarsi. Per Machiavelli, questo risultato era più importante del modo in
cui era stato raggiunto: Borgia era un buon principe perché non si faceva
scrupoli sui mezzi da usare per tenersi stretto il potere. Machiavelli non
avrebbe approvato uccisioni inutili o fini a se stesse; quelle descritte non lo
erano. Lasciarsi prendere dalla compassione in circostanze come quelle
avrebbe generato conseguenze disastrose, sia per Borgia, sia per lo stato.
Machiavelli insiste nel sostenere che per un leader è meglio essere temuto
piuttosto che amato. Idealmente, dovrebbe essere entrambe le cose, ma
questo è veramente difficile. Se il principe conta sull’amore del popolo,
rischia che in tempi difficili quello lo abbandoni; se invece il popolo lo
teme, sarà troppo intimorito per tradirlo. Emerge qui il cinismo di
Machiavelli, la sua visione pessimistica della natura umana. Egli pensava
che gli esseri umani fossero inaffidabili, avidi e disonesti, e che se si vuole
diventare governanti di successo bisogna rendersene conto. È rischioso
fidarsi delle promesse degli altri, a meno che questi non siano terrorizzati
dalle conseguenze che comporterebbe il non mantenerle.
Se siete in grado di ottenere i vostri scopi con le buone, di mantenere le
promesse e di essere amati, fatelo (o almeno fingete di farlo). Se invece non
lo siete, allora avete bisogno di mescolare queste qualità umane con delle
qualità animali. Mentre altri filosofi insistevano sul fatto che i leader
dovessero contare sulle proprie qualità umane, Machiavelli pensava che in
certi momenti il leader di successo dovesse comportarsi come un animale;
gli animali da cui prendere esempio erano la volpe e il leone. La prima è
astuta e sa individuare le trappole, il secondo è straordinariamente forte e
incute paura. Non è bene essere sempre come il leone, usare cioè sempre la
forza bruta, perché si incorre nel pericolo di cadere nelle trappole. E non è
bene neppure essere sempre come la scaltra volpe: per la propria sicurezza,
talvolta c’è bisogno della forza del leone. Di certo, se si fa conto solo sulla
bontà e sul senso di giustizia, non si durerà a lungo. Fortunatamente la
gente è credulona e si lascia abbindolare dalle apparenze: un leader
dev’essere bravo a dare a vedere di essere onesto e gentile, mentre sotto
sotto si fa beffe dei patti e commette crudeltà.
Leggendo cose del genere si è portati a credere che Machiavelli fosse un
individuo malvagio. Molti lo credono davvero, e l’aggettivo
‘machiavellico’ è usato perlopiù come insulto, riferito a chi ordisce
complotti e manipola gli altri per raggiungere i propri scopi. Altri filosofi,
al contrario, pensano che Machiavelli abbia dato un contributo importante
alla filosofia politica. Forse è vero che comportarsi in modo ‘normalmente
buono’, nel caso di un leader, non funziona. Un conto è mostrarsi gentili
nella vita di tutti i giorni, fidarsi della gente che ci fa promesse, un altro
trovarsi a guidare una nazione o uno stato e fare affidamento sulla lealtà
degli altri stati: in questo caso potrebbe essere molto rischioso. Nel 1938, il
primo ministro britannico Neville Chamberlain credette alla parola di Adolf
Hitler quando gli prometteva che non avrebbe cercato di conquistare nuovi
territori per il Reich tedesco. Oggi il comportamento di Chamberlain appare
ingenuo e stupido. Machiavelli avrebbe avvertito Chamberlain che Hitler
aveva tutte le ragioni per mentirgli, e che quindi non avrebbe dovuto fidarsi
di lui.
D’altro canto, non dobbiamo dimenticare che Machiavelli legittimava le
azioni più brutali contro i potenziali nemici. Anche se rapportato a un’epoca
sanguinosa come il Sedicesimo secolo, il suo appoggio smaccato a Cesare
Borgia appare scandaloso. Molti di noi ritengono che debbano esservi dei
limiti ben precisi a quanto un leader possa permettersi di fare persino ai suoi
più acerrimi nemici, e che questi limiti debbano essere fissati dalle leggi.
Diversamente, si finirebbe per legittimare la tirannide con le sue crudeltà.
Hitler, ma anche Pol Pot, Idi Amin, Saddam Hussein e Robert Mugabe si
comportarono come tanti Cesare Borgia per conquistare e mantenere il
potere. Non è certo una bella pubblicità per la filosofia di Machiavelli.
Per parte sua, egli si vedeva come un realista, uno che riconosce il
fondamentale egoismo dell’essere umano; idea condivisa da Thomas
Hobbes, e che sta alla base dell’intera concezione di questo filosofo a
proposito dei fondamenti e della struttura della società.
CAPITOLO 10

Cattiva, rozza, e breve


THOMAS HOBBES

Thomas Hobbes (1588-1679) è stato uno dei massimi pensatori politici


d’Inghilterra. Quello che quasi nessuno sa di lui è che fu anche un pioniere
del fitness : tutte le mattine usciva per una lunga passeggiata e s’inerpicava
su per le colline a perdifiato; per prendere nota di eventuali idee girava con
un bastone speciale, provvisto di calamaio nell’impugnatura. Quell’uomo
alto, allegro, dal viso rubicondo con tanto di baffi e pizzetto, da piccolo era
stato un bambino malaticcio; da adulto invece godeva di una salute
invidiabile e giocò fino a tarda età a quello che all’epoca era chiamato real
tennis . Mangiava molto pesce, beveva vino con moderazione, e cantava –
in privato, lontano da orecchi estranei – per tenere i polmoni in esercizio.
Infine, come la maggior parte dei filosofi, aveva una mente estremamente
vivace. Il risultato fu che visse fino a novantun anni, una vera eccezione per
il Sedicesimo secolo, quando l’aspettativa media di vita era di trentacinque.
A dispetto del suo carattere simpatico, Hobbes, come Machiavelli, aveva
una visione pessimistica del genere umano. Siamo tutti fondamentalmente
egoisti, preda della paura della morte e della ricerca del guadagno, pensava;
che ce ne rendiamo conto o meno, tutti cerchiamo di avere la meglio sugli
altri. Non lo accettate, questo bel ritratto dell’umanità dipinto da Hobbes? E
allora perché quando uscite di casa chiudete la porta a chiave? Forse perché
sapete bene che là fuori c’è un sacco di gente che verrebbe volentieri a
rubarvi tutto ciò che possedete? Be’, risponderete voi, non sono tutti così
egoisti. Su questo, Hobbes non era d’accordo. Pensava che in fondo lo
siamo proprio tutti e che a metterci dei limiti sono solo le regole fissate
dalle leggi e la paura della punizione.
La conseguenza di ciò, continuava, era che se la società si fosse disgregata
e fossimo ritornati a quello che chiamava lo ‘stato di natura’, senza leggi né
persone in grado di farle rispettare, tutti, noi compresi, avremmo rubato e
ucciso se necessario. O perlomeno, saremmo stati costretti a farlo per
sopravvivere. In un mondo in cui le risorse scarseggiano, se per ottenere
cibo e acqua fosse necessario battersi, sarebbe senza dubbio ragionevole
uccidere altri esseri umani prima che loro uccidano noi. Nella famosa
descrizione che Hobbes fa di questa prospettiva, la vita al di fuori delle
regole della società è «solitaria, misera, cattiva, rozza e breve».
Eliminate il potere dello stato di impedire alla gente di impadronirsi della
roba altrui e di uccidere chi vuole, e il risultato sarà la guerra permanente di
tutti contro tutti. Difficile immaginare una situazione peggiore: in un mondo
così, senza leggi, persino il più forte non sopravvivrebbe a lungo. Tutti
abbiamo bisogno di dormire, e quando dormiamo siamo vulnerabili. Persino
il più debole, se fosse abbastanza astuto, potrebbe avere la meglio.
Direte che per evitare di fare una brutta fine ci si può coalizzare con altre
persone. Il problema è come essere sicuri, poi, che tutti i membri del gruppo
siano degni di fiducia. Hanno promesso di aiutarci, ma a un certo punto
potrebbero ricavare un vantaggio dalla rottura del patto che hanno stipulato
con noi. Qualsiasi azione che implica cooperazione, come produrre alimenti
su larga scala o costruire edifici, sarebbe impossibile senza un minimo di
fiducia reciproca; ma quando ci accorgeremo che siamo caduti in un
tranello sarà troppo tardi, magari saremo già stati pugnalati alle spalle, e
nessuno punirà chi ci ha pugnalato. I nostri nemici possono essere ovunque,
e viviamo con una sensazione di pericolo permanente. Una prospettiva
tutt’altro che piacevole.
Secondo Hobbes, la soluzione sta nell’investire di potere un certo numero
di persone, oppure un organismo come un parlamento. Gli individui allo
stato di natura sottoscrivono un ‘contratto sociale’, un accordo in base al
quale rinunciano ad alcune delle loro pericolose libertà in cambio della
sicurezza. Senza ciò che Hobbes chiama un ‘sovrano’, la vita sarebbe un
inferno, e al sovrano dev’essere conferito il diritto di infliggere pene severe
a chiunque contravvenga alle regole. Hobbes era convinto dell’esistenza di
leggi naturali condivise, come quella secondo cui dovremmo trattare gli
altri come vorremmo essere trattati noi; ma le leggi non valgono niente se
non c’è nessuno dotato del potere di farle rispettare. Senza leggi e senza un
sovrano forte, la gente allo stato di natura rischia costantemente la morte
violenta. L’unica consolazione di una vita simile è che durerebbe poco.
Leviatano , l’opera più importante di Hobbes, spiega dettagliatamente i
passaggi necessari per giungere, partendo dallo stato di natura, a una società
sicura e a una vita sostenibile. Leviatano era un gigantesco mostro marino
descritto nella Bibbia. Per Hobbes era un riferimento al potere dello stato.
Sul frontespizio del libro è raffigurato un gigante che torreggia su una
collina, stringendo una spada in una mano e uno scettro nell’altra; la figura
del gigante è in realtà composta da una quantità di figure più piccole. Il
gigante rappresenta lo stato, capeggiato dal sovrano in tutto il suo potere.
Senza un sovrano, sosteneva Hobbes, lo stato si disgregherebbe, e la società
finirebbe per frantumarsi in una miriade di individui pronti a dilaniarsi l’un
l’altro per sopravvivere.
Nello stato di natura, dunque, gli individui hanno molte e ottime ragioni
per collaborare e cercare la pace. Sarebbe l’unico sistema per proteggersi;
diversamente, la loro vita sarebbe terribile. La sicurezza è molto più
importante della libertà. La paura della morte spinge gli individui a
coalizzarsi formando una società. Per Hobbes, essi rinunciano di buon
grado alla libertà in cambio del contratto sociale che li vincola gli uni agli
altri e al patto che attribuisce al sovrano il potere di imporre loro
l’osservanza delle leggi. Preferiscono sottomettersi a un’autorità forte,
piuttosto che combattere tra loro.
Hobbes viveva in tempi turbolenti, e ne aveva subito gli effetti già da
quando era nel grembo materno: sua madre lo aveva dato alla luce prima
del tempo perché le doglie erano iniziate quando aveva saputo che la
Invincible Armada era salpata dalla Spagna in direzione dell’Inghilterra con
l’intento di invaderla. Fortunatamente non accadde. Hobbes si sottrasse ai
pericoli della Guerra civile inglese trasferendosi a Parigi, ma il timore che
l’Inghilterra precipitasse in uno stato di anarchia pervase i suoi scritti. Fu a
Parigi che scrisse il Leviatano ; tornò però in Inghilterra poco dopo averlo
pubblicato, nel 1651.
Come molti pensatori della sua epoca, Hobbes non era solo un filosofo:
era ciò che si suol dire un ‘uomo del Rinascimento’. Si occupò con
successo di geometria e di scienze naturali, nonché di storia antica. Da
giovane amava la letteratura e si era dedicato alla scrittura e alla traduzione.
Come filosofo, cosa che divenne in età matura, era un materialista, credeva
cioè che gli esseri umani fossero fatti di materia e nulla più. L’anima non
esiste, noi siamo solo dei corpi, che sono a loro volta delle macchine
particolarmente complesse.
Nel Diciassettesimo secolo i meccanismi di orologeria rappresentavano la
punta più avanzata della tecnologia. Hobbes credeva che i muscoli e gli
organi di cui il corpo si compone fossero equivalenti a quei meccanismi:
parlava spesso delle ‘molle’ dell’azione e degli ‘ingranaggi’ che ci
muovono. Era convinto che qualsiasi aspetto dell’esistenza umana, pensiero
compreso, fosse un’attività fisica. Nella sua filosofia non c’era spazio per
l’anima. Oggi questa concezione è condivisa da molti scienziati, ma ai
tempi di Hobbes appariva estremamente radicale. Hobbes arrivò a dire che
persino Dio doveva essere una sorta di grande oggetto fisico, e ciò indusse
alcuni a concludere, erroneamente, che egli fosse ateo.
I critici di Hobbes ritengono che egli si sia spinto troppo in là nel
permettere al sovrano, che fosse re, regina o parlamento, di avere un potere
tanto grande sui membri della società. Lo stato che descrive è quello che
oggi definiremmo uno stato autoritario, in cui i governanti hanno un potere
praticamente illimitato sui cittadini. Per quanto la pace sia auspicabile, e il
timore di una morte violenta sia un potente incentivo a sottomettersi alla
legge, consegnare un potere tanto ampio nelle mani di un individuo o di un
gruppo di individui può risultare pericoloso. Hobbes non credeva nella
democrazia; non credeva nella capacità della gente di prendere decisioni per
conto proprio. Forse, se avesse saputo degli orrori commessi dai tiranni nel
Ventesimo secolo, avrebbe cambiato parere.
Hobbes era noto anche per il suo materialismo e per il rifiuto di credere
nell’esistenza dell’anima. Il suo contemporaneo René Descartes sosteneva
che mente e corpo fossero radicalmente separati l’una dall’altro.
Probabilmente era per questo che Hobbes considerava Descartes molto più
valido come studioso di geometria che come filosofo, e riteneva che
avrebbe dovuto limitarsi a studiare la geometria.
CAPITOLO 11

E se fosse tutto un sogno?


RENÉ DESCARTES

Suona la sveglia; la spegnete, vi alzate, vi vestite, fate colazione e vi sentite


pronti ad affrontare la giornata. Ma ecco che succede qualcosa di
imprevisto: vi svegliate e realizzate che si trattava di un sogno. Un sogno in
cui eravate svegli e facevate la vostra vita, mentre in realtà stavate ancora
russando sotto le coperte. Se avete provato una cosa simile sapete di cosa si
sta parlando: dei cosiddetti ‘falsi risvegli’, che in effetti possono essere
molto verosimili. Il filosofo francese René Descartes (1596-1650) ne ebbe
uno, e la cosa gli diede da pensare. Come poteva essere certo che non stava
ancora sognando?
La filosofia era solo uno dei tanti interessi coltivati da Descartes. Era un
insigne matematico, noto soprattutto per l’invenzione degli ‘assi cartesiani’,
un’idea che gli venne, stando a quanto si racconta, guardando una mosca
che camminava sul soffitto e chiedendosi come avrebbe potuto indicare la
sua posizione da diversi punti di vista. Anche le scienze naturali lo
affascinavano; era astronomo e biologo. La sua reputazione come filosofo
riposa in gran parte sulle opere intitolate Meditazioni e Discorso sul metodo
, in cui indagò i limiti della nostra conoscenza.
Come alla maggior parte dei filosofi, a Descartes non piaceva credere a
qualcosa senza chiedersi perché ci credesse; amava anche fare domande
complesse, domande che alla gente non sarebbe mai saltato in mente di
fare. Naturalmente ammetteva che non era possibile passare la vita
facendosi domande su tutto; sarebbe molto difficile vivere se non si dessero
per scontate certe cose, come indubbiamente aveva scoperto persino Pirrone
(vedi il capitolo 3). Ma Descartes riteneva che sarebbe valsa la pena di
provare almeno una volta nella vita a verificare cosa è possibile sapere per
certo – sempre che questa cosa esista. Per farlo, elaborò un metodo, che è
noto come metodo del dubbio cartesiano .
Si tratta di un metodo molto semplice: non accettare per vero nulla, se vi è
anche la minima possibilità che non lo sia. Pensiamo ad esempio a un
grosso sacco pieno di mele. Sappiamo che nel sacco ci sono delle mele
marce, ma ignoriamo quali siano. Noi vorremmo avere un sacco che
contiene solo mele buone, e nessuna marcia. Come ottenere questo
risultato? Un sistema potrebbe essere rovesciare tutte le mele sul pavimento
ed esaminarle una per volta, rimettendo nel sacco solo quelle di cui siamo
assolutamente sicuri che siano buone, e buttare quelle che ci sembrano
marce. Il rischio è di buttarne anche di buone, perché abbiamo deciso che
all’interno sono marce senza aprirle; però almeno siamo certi che nel sacco
siano finite solo mele buone. Questo è, grosso modo, il metodo del dubbio
cartesiano. Si prende una cosa in cui si crede, come ad esempio «Sono
sveglio e sto leggendo questo libro», la si esamina, e la si accetta solo se si
è certi che non sia errata o fuorviante. Se c’è la minima traccia di dubbio, la
si rifiuta. Descartes esaminò così un gran numero di cose in cui credeva,
chiedendosi se fosse assolutamente certo che fossero realmente ciò che
sembravano. Il mondo era davvero quello che appariva ai suoi sensi? Era
sicuro che non si trattasse di un sogno?
Descartes voleva trovare qualcosa di cui essere assolutamente certo.
Sarebbe stato sufficiente dargli un punto di appoggio nella realtà, ma c’era
il rischio che cadesse nel vortice del dubbio e che finisse per concludere che
nulla era sicuro. Egli qui usava una tecnica scettica, ma il suo intento era
diverso da quello dello Scetticismo di Pirrone e dei suoi seguaci. Mentre
quelli volevano dimostrare che non si può sapere nulla per certo, lo scopo di
Descartes era individuare qualcosa che fosse immune da qualsiasi forma,
anche la più estrema, di Scetticismo.
Nella sua ricerca di certezze, Descartes prende in esame prima di tutto le
evidenze che ci giungono attraverso i sensi: vista, tatto, odorato, gusto e
udito. Possiamo fidarci di loro? Per nulla, concluse. Talvolta i sensi ci
ingannano. Pensiamo a quello che vediamo: possiamo considerare la nostra
vista affidabile in tutto e per tutto? Dobbiamo fidarci sempre dei nostri
occhi?
Immergiamo un bastoncino nell’acqua. Se lo guardiamo di lato, sembrerà
spezzato. Vista da lontano, una torre a base quadrata sembra a base
circolare. Accade con una certa frequenza di sbagliarsi a proposito di ciò
che vediamo, e – sostiene Descartes – sarebbe poco saggio fidarsi di
qualcosa che in passato ci ha tratto in inganno. Quindi, ricusa i sensi come
possibile fonte di certezza. Non si potrà mai essere sicuri che i sensi non ci
stiano ingannando. È probabile che ciò non accada sempre, ma basterebbe
anche che accadesse una sola volta per impedirci di farvi completo
affidamento. Dove ci porta questo ragionamento?
L’osservazione «Sono sveglio e sto leggendo questo libro» probabilmente
vi sembrerà abbastanza certa. Siete svegli, spero, e state leggendo. Come
dubitarne? Poco fa, però, abbiamo visto che può succedere di credere di
essere svegli, mentre in realtà stiamo sognando. Allora, come potete essere
sicuri che non stia accadendo anche adesso? Forse pensate che le esperienze
che state facendo siano troppo verosimili, troppo particolareggiate per
essere sogni; ma accade spesso di fare sogni molto verosimili. Siete sicuri
che non si tratti di uno di questi? Come potete saperlo? Magari vi siete
appena dati un pizzicotto per vedere se state dormendo. Se non l’avete fatto,
provateci. Cosa dimostra? Niente. Potreste aver sognato di darvi un
pizzicotto. Quindi anche questo potrebbe essere un sogno. Sappiamo che
non lo sembra e che la cosa è molto improbabile, ma ci dev’essere spazio
per un minuscolo dubbio sul fatto se siete svegli o meno. Ne consegue che
applicando il metodo del dubbio cartesiano dovete ricusare il pensiero
«sono sveglio e sto leggendo questo libro», in quanto non completamente
sicuro.
È quindi dimostrato che non possiamo fare pieno affidamento sui nostri
sensi. Non possiamo essere totalmente sicuri che non stiamo sognando.
Certamente però, continua Descartes, anche nei sogni 2+3=5. Descartes usa
qui un esperimento mentale, una storia immaginaria per arrivare al punto.
Egli spinge il dubbio fin dove è possibile, giungendo a sottoporre qualsiasi
affermazione a un test ancora più severo di quello del ‘se fosse un sogno’.
Immaginate, dice, che vi sia un genio maligno incredibilmente astuto e
potente. Se esistesse, tutte le volte che avete fatto 2+3 potrebbe aver fatto
sembrare che la somma sia 5, anche se in realtà è 6. Voi naturalmente non
sapete che è il genio maligno a giocarvi questo scherzo. Vi siete limitati a
sommare dei numeri, e apparentemente non è accaduto nulla di strano.
Non è semplice dimostrare che una cosa simile non stia accadendo anche
adesso. Forse questo astuto genio maligno mi sta dando l’illusione di stare
scrivendo queste parole sul mio portatile, mentre in realtà sono sdraiato a
prendere il sole su una spiaggia della Costa Azzurra. O forse io sono solo
un cervello immerso in un vaso pieno di liquido, posato sullo scaffale del
laboratorio dove il genio maligno fa i suoi esperimenti. Potrebbe avervi
collegato dei fili tramite i quali mi invia impulsi elettronici per darmi
l’impressione che faccio una cosa, mentre in realtà ne faccio tutt’altra.
Forse il genio maligno mi sta facendo credere che sto scrivendo cose
sensate, mentre in realtà continuo a battere sullo stesso tasto: non c’è modo
di saperlo con certezza. Per quanto sembri pazzesco, non posso dimostrare
che le cose non stiano così.
Mediante l’esperimento mentale del genio maligno, Descartes spinge il
dubbio al limite estremo. Sarebbe fantastico se potessimo fare qualcosa che
ci assicuri che il genio maligno non ci prende in giro, smentendo così chi
sostiene che non possiamo sapere nulla con certezza.
Il passo successivo porta Descartes a scrivere quella che è una delle frasi
più famose della storia della filosofia, benché coloro che sanno cosa
significhi siano molti meno di quelli che la conoscono. Era evidente che,
anche supponendo l’esistenza del genio maligno e dei suoi scherzi, doveva
esserci qualcosa a cui il genio maligno faceva gli scherzi. Dal momento che
stava pensando qualcosa, lui, Descartes, doveva esistere. Se non fosse
esistito, il genio maligno non avrebbe potuto fargli pensare di esistere,
perché qualcosa che non esiste non può certo pensare. La conclusione di
Descartes fu: «Penso, dunque sono» (in latino: Cogito, ergo sum ). Se sto
pensando, è perché esisto. Pensateci: se formulate dei pensieri o avete delle
sensazioni, è impossibile dubitare della vostra esistenza. Cosa siate è
un’altra questione; potete dubitare di possedere un corpo, o chiedervi se il
corpo che vedete e toccate vi appartenga davvero. Ma non potete dubitare di
esserci come cose pensanti, perché sarebbe un pensiero autocontraddittorio.
Nel momento in cui iniziate a dubitare della vostra esistenza, il fatto stesso
di dubitare è la prova della vostra esistenza come ‘cosa pensante’.
Questo potrebbe non essere un gran risultato, ma la certezza della propria
esistenza era molto importante per Descartes. Gli dimostrava che coloro che
dubitano di tutto – gli scettici alla Pirrone – si sbagliano. Era anche il
principio fondante di quello che viene chiamato dualismo cartesiano , ossia
dell’idea secondo la quale la mente è separata dal corpo e interagisce con
esso. Si chiama dualismo perché postula che ci sono due tipi di cose: la
mente e il corpo. Un filosofo del Ventesimo secolo, Gilbert Ryle, prese in
giro questa concezione definendola il mito del ‘ghost in the machine’, dove
il corpo è la macchina, e l’anima è il fantasma che la abita. Descartes
pensava che la mente fosse capace di produrre effetti sul corpo e viceversa
perché i due erano in grado di interagire in un preciso punto del cervello, la
ghiandola pineale. Ma il dualismo rendeva problematico spiegare come una
cosa non fisica, l’anima o la mente, potesse produrre dei cambiamenti in
una cosa fisica, il corpo.
Descartes era più certo dell’esistenza della sua mente che di quella del suo
corpo. Poteva immaginare di non avere un corpo, ma non poteva pensare di
non avere una mente. Se avesse immaginato di non avere una mente,
avrebbe comunque continuato a pensare, e questo avrebbe dimostrato che
aveva una mente perché senza di essa non avrebbe potuto produrre pensieri.
Quest’idea della separazione tra mente e corpo e di una mente o anima non
corporea, non fatta di sangue, carne e ossa, è molto comune tra le persone
religiose. Molti credenti sperano che la mente o anima sopravviverà dopo la
morte del corpo.
Dimostrare la propria esistenza in quanto essere pensante non era
sufficiente per confutare lo Scetticismo. Descartes aveva bisogno di altre
certezze per sottrarsi al vortice del dubbio che aveva scatenato con le sue
meditazioni filosofiche. Così sostenne l’esistenza di un dio buono.
Riprendendo l’argomento ontologico di sant’Anselmo (vedi il capitolo 8),
sostenne che l’idea di Dio ne dimostrava l’esistenza, perché Dio non
sarebbe perfetto se non fosse anche buono ed esistente, proprio come un
triangolo non sarebbe un triangolo senza angoli interni la cui somma è 180°.
Usando un altro argomento, detto del marchio dell’artefice , spiegò che noi
siamo certi dell’esistenza di Dio perché egli ha «impiantato» un’idea di sé
nelle nostre menti, e non potremmo avere quest’idea se egli non esistesse.
Una volta accertata l’esistenza di Dio, la parte costruttiva del pensiero di
Descartes diveniva molto più semplice. Un dio buono non può permettere
che l’umanità si sbagli sulle questioni fondamentali. Quindi, concludeva, il
mondo dev’essere effettivamente più o meno come lo sperimentiamo.
Quando le nostre percezioni sono chiare e distinte, possiamo dire che siano
affidabili. Il mondo esiste ed è più o meno come appare, anche se talvolta le
nostre percezioni possono essere ingannevoli. Alcuni filosofi, tuttavia,
pensano che si tratti di un’illusione, e che il genio maligno potrebbe
ingannarci a proposito dell’esistenza di Dio altrettanto bene quanto farebbe
a proposito del 2+3=5. Senza la certezza dell’esistenza di Dio, Descartes
non avrebbe potuto andare oltre la constatazione del suo essere una cosa
pensante. Pensava di essere riuscito a trovare un modo per sfuggire allo
Scetticismo radicale; i suoi critici, al riguardo, sono ancora scettici.
Come abbiamo visto, Descartes usò l’argomento ontologico e quello del
marchio dell’artefice come prove soddisfacenti per dimostrare l’esistenza di
Dio. Il suo compatriota Blaise Pascal affrontò la domanda sul perché
dovremmo credere in Dio con un approccio completamente diverso.
CAPITOLO 12

Scommettiamo?
BLAISE PASCAL

Se lanciamo la monetina, può uscire testa o croce. Entrambe hanno il 50%


di probabilità di uscire, a meno che la moneta non sia truccata. È quindi
indifferente su quale delle due scommettiamo: perché ogni volta che
lanciamo la monetina potrà comunque uscire solo o testa, o croce.
Prendiamo ora il tema dell’esistenza di Dio. Come dovremmo comportarci?
Anche in questo caso è come tirare la monetina? Dovremmo scommettere
che Dio non esiste, e vivere come ci garba? Non sarebbe più razionale
comportarci come se esistesse, anche se si tratta di una scommessa molto
azzardata? Sulla questione Blaise Pascal (1623-1662), che credeva in Dio,
rifletté in modo molto approfondito.
Pascal era un cattolico devoto ma, a differenza di molti cristiani di oggi,
aveva una visione assai pessimistica dell’umanità. Vedeva ovunque prove
del peccato originale; considerava i nostri difetti come prodotto del
tradimento della fiducia di Dio da parte di Adamo ed Eva, quando rubarono
il pomo dall’Albero della conoscenza. Come Agostino (vedi il capitolo 6),
pensava che gli esseri umani fossero spinti dal desiderio sessuale,
inaffidabili e facili prede della noia. Tutti, secondo lui, sono miserabili e
lacerati dall’angoscia e dalla disperazione. Dovremmo renderci conto di
quanto siamo insignificanti: il breve tempo in cui siamo al mondo è
praticamente nulla, se rapportato all’eternità prima e dopo di noi.
All’interno dell’infinito spazio dell’universo, quello occupato da noi è
minuscolo. Allo stesso tempo, però, Pascal riteneva che l’umanità ha un
potenziale, se non perde di vista Dio. Siamo qualcosa a metà strada tra le
bestie e gli angeli, anche se probabilmente, nella maggioranza dei casi e per
la gran parte del tempo, molto più vicini alle bestie.
L’opera più nota di Pascal, i Pensieri , raccoglie frammenti dei suoi scritti
e venne pubblicata nel 1670 dopo la sua prematura morte all’età di 39 anni:
si tratta di una serie di brevi paragrafi, elegantissimi nello stile. Non vi è
alcuna certezza di come l’autore intendesse assemblarne le diverse parti, ma
lo scopo principale del libro è chiaro: si tratta di una difesa della sua visione
del Cristianesimo. Morendo, Pascal lo lasciò incompiuto. L’ordine degli
argomenti segue quello dei fogli che Pascal aveva radunato in plichi legati
con lo spago; nell’opera data alle stampe, ogni plico forma una sezione del
libro.
Pascal era stato un bimbo malaticcio e non divenne un adulto forte. Nei
ritratti che ci sono giunti non ha mai un aspetto florido, e lo sguardo dei
suoi occhi gonfi appare sempre triste. Nella sua breve esistenza, però, fece
grandi cose. Da giovane, incoraggiato dal padre, si dedicò alla scienza e in
particolare allo studio del vuoto, e progettò barometri. Nel 1642, per aiutare
il padre nel suo lavoro, inventò una macchina calcolatrice con cui si
potevano eseguire somme e sottrazioni usando uno stilo per far girare dei
quadranti collegati a un sistema di ingranaggi. La Pascalina (questo il nome
della macchina) aveva le dimensioni di una scatola da scarpe e, anche se era
un po’ macchinosa, funzionava alla perfezione. L’unico problema era che
aveva degli alti costi di produzione.
Oltre che scienziato e inventore, Pascal era anche un eccellente
matematico; le sue scoperte più originali furono in ambito probabilistico. È
però ricordato soprattutto come filosofo della religione e come scrittore. Lui
non avrebbe voluto essere chiamato filosofo: nei suoi scritti abbondano le
considerazioni sull’ignoranza dei filosofi e sulla scarsa importanza delle
loro idee. Pensava a se stesso come a un teologo.
Passò dalla matematica e dalla scienza alla teologia in seguito all’adesione
a una controversa setta religiosa conosciuta come Giansenismo. I
giansenisti credevano nella predestinazione, l’idea secondo cui non
possediamo il libero arbitrio e solo poche persone sono state prescelte da
Dio per andare in paradiso. Praticavano anche una condotta molto rigorosa;
un giorno Pascal fece una ramanzina a sua sorella perché stava coccolando
il suo bambino: trovava infatti riprovevole la manifestazione di qualsiasi
emozione. Trascorse gli ultimi anni di vita come un monaco, continuando a
scrivere nonostante le sofferenze provocategli dalla malattia che lo avrebbe
condotto alla morte.
René Descartes (che abbiamo visto nel capitolo 11), cristiano fervente,
scienziato e matematico come Pascal, credeva che l’esistenza di Dio potesse
essere dimostrata per via logica. Pascal la pensava diversamente: per lui
credere in Dio aveva a che fare con il cuore e con la fede. Gli argomenti
solitamente addotti dai filosofi per dimostrare l’esistenza di Dio non lo
convincevano. Ad esempio, non riscontrava la prova della mano di Dio
nella natura. Per lui l’organo che ci guida a Dio era il cuore, non il cervello.
Nonostante ciò, nei Pensieri formulò un’argomentazione razionale per
persuadere coloro che sono incerti se credere o meno in Dio;
quest’argomentazione è passata alla storia come «la scommessa di Pascal»
ed è senza dubbio frutto delle sue frequentazioni del calcolo probabilistico.
Se siete dei giocatori razionali e non semplicemente delle vittime del vizio
del gioco, allora vorrete massimizzare le probabilità di vincita e
contemporaneamente minimizzare il più possibile le perdite. Gli
scommettitori fanno questo calcolo e, generalmente, puntano sulla base di
esso. Ora: come si applicherebbe questa condotta, se l’oggetto della
scommessa fosse l’esistenza di Dio?
Dato per scontato che non siamo certi se Dio esista o no, le opzioni in
gioco sono molte. Possiamo scegliere di vivere come se Dio non esistesse
proprio. Se abbiamo ragione, avremo vissuto senza farci alcuna illusione su
una possibile vita dopo la morte, evitando di tormentarci perché potremmo
risultare troppo peccatori per andare in paradiso. Non avremo neppure perso
tempo a pregare in chiesa, rivolgendoci a qualcuno che non esiste. Pur
comportando una serie di evidenti benefici, questa condotta comporta però
anche un grave rischio. Se non crediamo in Dio, e poi salta fuori che Dio
esiste, non solo avremo perso qualsiasi chance di essere ammessi alla
beatitudine del Cielo, ma guadagneremo la probabilità di finire all’inferno e
di trascorrere l’eternità fra i tormenti. Il peggior risultato possibile per
chiunque.
In alternativa, suggerisce Pascal, possiamo scegliere di vivere come se
fossimo certi dell’esistenza di Dio: pregare, frequentare la chiesa, leggere la
Bibbia. Se poi risulta che Dio esiste, vinciamo il premio più ambito: la
possibilità concreta di raggiungere la beatitudine eterna. Se invece ci
saremo sbagliati, non avremo fatto un sacrificio sostanziale (si presume che,
dopo morti, non saremo lì a constatare che avevamo torto e a dispiacerci per
aver sprecato tempo ed energie). Come scrisse Pascal, «Se vincete, vincete
tutto; se perdete, non perdete nulla». Certo, dovrete rinunciare ai ‘piaceri
effimeri’, cioè gloria e lussuria. Ma in cambio sarete leali, rispettabili,
umili, grati, generosi, sarete buoni amici e direte sempre la verità. Non tutti
la vedrebbero in questo modo: Pascal era probabilmente così immerso nella
propria religiosità da non rendersi conto che per tanti non credenti dedicare
la vita alla fede e basare la propria condotta su quella che ritenevano
un’illusione sarebbe stato un sacrificio. Nondimeno, come sottolinea, in un
caso c’è la possibilità dell’eterna beatitudine se avremo ragione e alcuni
svantaggi e qualche illusione se avremo torto; nell’altro caso rischiamo
l’inferno, e i vantaggi di cui godiamo in vita non sono paragonabili a quelli
della beatitudine eterna.
C’è anche una terza possibilità: quella di rimanere indecisi sull’esistenza o
meno di Dio. Dal punto di vista di Pascal, questo atteggiamento porta al
medesimo risultato della scelta di credere che non esista: si rischia l’inferno
o quantomeno di non andare in paradiso. In un modo o nell’altro, bisogna
prendere una decisione. Non sappiamo se Dio esiste; che fare?
Per Pascal la scelta era ovvia. Se sei un giocatore con la testa sulle spalle e
guardi alla scommessa con freddezza, deciderai di puntare sull’esistenza di
Dio, anche se, come quando si tira la monetina, ci fossero poche probabilità
di avere ragione. Il premio che potresti vincere ha un valore immenso,
l’eventuale perdita non è così rilevante. Nessuna persona razionale si
comporterebbe diversamente. Certo, c’è il rischio di scommettere su Dio e
perdere: può darsi che Dio non esista. Ma è un rischio da correre.
Viene da chiedersi: accettiamo pure questo come un comportamento
logico; ma se non sentiamo con il nostro cuore che Dio esiste? È davvero
difficile (e forse impossibile) convincersi di credere in qualcosa che sotto
sotto pensiamo non sia vera. Provate a credere che nel vostro armadio ci
siano le fate. Magari potete immaginarvele, ma è molto diverso dal pensare
che ci siano veramente. Tendiamo a credere alle cose che secondo noi sono
vere; è la base di ogni fede. Come chiedere a un non credente, che dubita
dell’esistenza di Dio, di avere fede in lui?
Pascal aveva la risposta. Una volta che ci siamo convinti che credere di
Dio è nel nostro interesse, dobbiamo trovare il modo per convincerci che
Dio esiste, e per credere in lui. Ciò che dobbiamo fare è imitare coloro che
credono; andare in chiesa, come loro, e fare ciò che loro fanno. Prendere
l’acqua benedetta, far dire messa, eccetera. Molto presto finiremo non solo
per imitare le loro azioni, ma anche per provare ciò che provano e per
credere a ciò in cui credono. Secondo Pascal, in questo modo si ha la più
alta probabilità di guadagnare la vita eterna e di evitare l’eterno tormento.
Non tutti trovano convincente l’argomento di Pascal. Una delle obiezioni
che sorgono spontanee è che Dio, se esiste, potrebbe non vedere molto di
buon occhio della gente che crede in lui solo perché farlo significa piazzare
una scommessa potenzialmente vincente: una cosa del genere ha l’aria di
essere piuttosto il genere sbagliato di motivo per credere in Dio, un modo
troppo basato sull’interesse, sul desiderio egoistico di salvare a tutti i costi
la propria anima. Il rischio è che Dio decida di escludere dal paradiso
proprio coloro che usano l’argomento della scommessa.
Un altro grosso problema della scommessa di Pascal è che non tiene conto
della possibilità di puntare sulla religione sbagliata e sul dio sbagliato.
L’alternativa prospettata da Pascal è tra la fede nel Dio cristiano e il non
credere in nessun dio, ma ci sono tante altre religioni che promettono ai loro
fedeli la beatitudine eterna. Se fosse una di queste a dimostrarsi vera, chi
scommette di aderire al Cristianesimo resterebbe altrettanto tagliato fuori
dalla possibilità della beatitudine eterna quanto coloro che rifiutano di
credere in un dio qualsivoglia. Se Pascal avesse contemplato questa
possibilità, sarebbe forse stato ancora più pessimista sulla condizione
umana.
Pascal credeva nel Dio descritto nella Bibbia; Baruch Spinoza aveva una
concezione assai diversa della divinità, al punto da far pensare che in realtà,
sotto sotto, fosse ateo.
CAPITOLO 13

Il tornitore di lenti
BARUCH SPINOZA

La maggior parte delle religioni sostengono che Dio esiste da qualche parte
al di là del mondo, magari in cielo. Non Baruch Spinoza (1632-1677), per il
quale Dio è il mondo. In proposito si esprimeva parlando di «Dio o la
natura», intendendo che i due termini designavano la stessa cosa. Per
Spinoza, Dio e natura sono due modi per descrivere un unico essere. Dio è
natura e la natura è Dio. Quest’idea, secondo cui Dio è tutte le cose, è detta
panteismo. Si tratta di un’idea radicale, che provocò a Spinoza non pochi
problemi.
Spinoza nacque ad Amsterdam, figlio di un ebreo portoghese. A quel
tempo la città accoglieva gli ebrei in fuga dalle persecuzioni, ma anche là
c’era un limite alla libertà di espressione. Benché educato alla religione
ebraica, nel 1656, all’età di 24 anni, Spinoza venne scomunicato e
maledetto dai rabbini della sua sinagoga, probabilmente a causa della non
ortodossia delle sue idee su Dio. Lasciò così Amsterdam, per approdare più
tardi all’Aja. Da quel momento abbandonò il nome ebraico Baruch a favore
di quello di Benedictus.
Sono molti i filosofi influenzati dalla geometria; le famose dimostrazioni
euclidee di diverse ipotesi geometriche partivano da pochi, semplici assiomi
o affermazioni preliminari per arrivare a conclusioni come quella secondo
la quale la somma degli angoli interni di un triangolo è pari a due angoli
retti. Ciò che i filosofi di solito ammirano della geometria è il modo in cui,
a partire da affermazioni universalmente condivise e attraverso precisi
passaggi logici, giunge a conclusioni sorprendenti. Se gli assiomi sono veri,
lo devono essere anche le conclusioni. Questo genere di ragionamento
geometrico ispirò sia René Descartes che Thomas Hobbes.
Spinoza non si limitò ad ammirare la geometria; egli fece filosofia come
se fosse essa stessa geometria. Le ‘dimostrazioni’ della sua Etica hanno
l’aspetto di dimostrazioni geometriche e comprendono assiomi e
definizioni; sono concepite per avere la stessa ferrea logica interna. Solo
che, al posto di argomenti come gli angoli del triangolo e la circonferenza
del cerchio, trattano di Dio, della natura, della libertà e dei sentimenti.
Secondo Spinoza, questi temi possono essere analizzati e descritti quasi
nello stesso modo in cui si ragiona di triangoli, cerchi e quadrati, e
concludeva i capitoli con la formula ‘QED’, cioè quod erat demonstrandum
, la frase latina che significa ‘cosa che si doveva dimostrare’ e che appariva
nei trattati di geometria. Era convinto che vi fosse una struttura logica
sottostante il mondo e il nostro ruolo in esso, struttura che poteva essere
svelata dalla ragione. Niente è per caso, tutto ha uno scopo e una regola.
Ogni cosa ha il proprio posto in un grande sistema, e la strada migliore per
comprenderlo è usare il pensiero. Questo approccio alla filosofia, che
poggia più sull’uso della ragione che sulla sperimentazione e
l’osservazione, viene spesso definito Razionalismo.
Spinoza amava la solitudine, perché era la condizione che gli permetteva
di portare avanti in tutta tranquillità i suoi studi. Probabilmente non far
parte di alcuna istituzione pubblica era anche più sicuro per lui, viste le sue
idee su Dio. Per questo motivo la sua opera più famosa, l’Etica , venne
pubblicata solo dopo la sua morte. Non che non fosse stimato anche in vita
come un pensatore altamente originale; gli venne offerta anche una cattedra
all’università di Heidelberg, che però preferì rifiutare. Era comunque felice
di confrontarsi con i filosofi che andavano a trovarlo: tra loro vi fu anche il
matematico e filosofo Gottfried Leibniz.
Spinoza conduceva una vita semplice; preferiva abitare in alloggi
provvisori e non acquistò mai una casa. Non aveva bisogno di molto
denaro; riusciva a mantenersi esercitando il mestiere di tornitore di lenti e
grazie a piccole donazioni di estimatori della sua opera filosofica. Le lenti
che fabbricava erano destinate a strumenti scientifici come microscopi e
telescopi, e se come fonte di guadagno gli permisero di continuare i suoi
studi, gli furono probabilmente anche fatali, perché Spinoza morì a soli 44
anni per un’infezione delle vie respiratorie dovuta, si pensa, ai danni
provocati ai polmoni dalle minuscole particelle di vetro che inalava durante
la lavorazione delle lenti.
Se Dio è infinito, pensava Spinoza, ne consegue che non vi può essere
nulla che non sia Dio. Se scopriamo che nell’universo vi è qualcosa che non
è Dio, allora Dio non può essere infinito, perché per esserlo dovrebbe essere
quella cosa proprio come è qualsiasi altra. Noi siamo tutti parte di Dio, ma
lo sono anche le pietre, le formiche, i fili d’erba e le finestre. Tutto è Dio e
tutto si armonizza in una totalità incredibilmente complessa, dove
sostanzialmente qualsiasi cosa esista è parte di una cosa sola: Dio.
Coloro che credono nelle religioni tradizionali sostengono che Dio ama
gli uomini e ascolta le preghiere che essi gli rivolgono. Questa è una forma
di antropomorfismo: si proiettano caratteristiche umane, come la
compassione, in un essere non umano, cioè Dio. La forma estremizzata di
questa posizione è l’idea di Dio come un benevolo signore dalla lunga
barba e dal sorriso gentile. Il Dio di Spinoza non poteva essere più lontano
da quest’immagine. Egli – ma sarebbe più corretto dire ‘esso’ – era
assolutamente impersonale, e non gli importava di nulla e di nessuno.
Secondo Spinoza possiamo e dobbiamo amare Dio, ma senza aspettarci di
essere ricambiati. Il Dio che descriveva era talmente indifferente agli esseri
umani e alle loro azioni che molti conclusero che non ci credesse affatto, e
che il suo panteismo fosse una copertura; così venne accusato di ateismo e
di essere contrario alla religione. Come poteva essere definito altrimenti
uno che credeva che a Dio non importasse nulla dell’umanità? Il punto di
vista di Spinoza, invece, era che Dio doveva essere amato di amore
intellettuale, basato su una profonda comprensione a cui si giungeva per
mezzo della ragione. Ma questa forma di religiosità risultava difficilmente
accettabile. La sinagoga aveva avuto delle buone ragioni per scomunicarlo.
Anche in materia di libero arbitrio, Spinoza sosteneva una posizione
scomoda. Era quello che si definisce un determinista, credeva cioè che
qualsiasi azione umana fosse il prodotto di una causa. Un sasso scagliato in
aria, se potesse dotarsi di una coscienza di sé come quella degli esseri
umani, immaginerebbe di muoversi in virtù della propria volontà, mentre in
realtà non è affatto così: a farlo muovere sono state la forza di ciò che lo ha
lanciato e la forza di gravità, anche se il sasso penserebbe di essere lui a
decidere dove cadere. Lo stesso vale per gli esseri umani: crediamo che le
nostre azioni siano il frutto della nostra libera scelta e di avere il controllo
della nostra vita, ma questo ci impedisce di riconoscere che le nostre scelte
e le nostre azioni sono in realtà provocate da cause esterne. Il libero arbitrio
è un’illusione; le azioni spontanee non esistono.
Benché determinista, Spinoza era però convinto che una forma, per
quanto minima, di libertà fosse possibile e auspicabile. Il modo peggiore di
vivere era quello che egli definiva schiavitù: l’essere preda delle proprie
emozioni. Quando ci accade qualcosa di male, ad esempio qualcuno si
comporta male con noi, e perdiamo il controllo e siamo pieni d’odio, il
nostro è un modo di vivere passivo: non facciamo altro che reagire agli
eventi. Ciò che accade fuori di noi ci irrita e non controlliamo più nulla. Il
sistema migliore per sottrarsi a questa schiavitù è acquisire una migliore
conoscenza delle cause che determinano i nostri comportamenti – in questo
caso, dei fatti che provocano la nostra rabbia. Per Spinoza i nostri stati
d’animo dovrebbero essere frutto di una scelta, non il prodotto di eventi
esterni. Anche se la nostra scelta non sarà mai completamente libera, è
sempre meglio essere soggetti attivi che passivi.
Spinoza era un tipico filosofo. Era preparato a essere contestato, a
sostenere idee che non tutti erano pronti ad accogliere, e a difenderle
mediante la discussione. Attraverso i suoi scritti, egli continua a influenzare
i lettori, anche quando questi non sono minimamente d’accordo con ciò che
sostiene. La sua idea di Dio come natura non trovò seguaci ai suoi tempi,
ma in seguitò annoverò alcuni insigni sostenitori: tra loro il romanziere
vittoriano George Eliot, autore di una traduzione dell’Etica , e il fisico
Albert Einstein che, se non arrivò a credere in un dio personificato, rivelò in
una lettera di credere nel Dio di Spinoza.
Quello di Spinoza era un Dio impersonale e privo di caratteristiche
umane, e quindi non avrebbe punito nessuno per i suoi peccati. John Locke,
che nacque lo stesso anno di Spinoza, la pensava in modo molto diverso. La
sua indagine sulla natura dell’Io fu influenzata anche dalla sua
preoccupazione su cosa potrebbe accadere il giorno del Giudizio.
CAPITOLO 14

Il principe e il ciabattino
JOHN LOCKE e THOMAS REID

Com’eravate da bambini? Osservate le vostre foto di allora. Cosa vedete?


Oggi probabilmente siete molto diversi. Ricordate com’eravate da piccoli?
La maggior parte della gente non ci riesce. Tutti cambiamo nel tempo, tutti
cresciamo, maturiamo, poi iniziamo a invecchiare e a dimenticare le cose.
In genere diventiamo rugosi, i nostri capelli ingrigiscono o cadono,
cambiamo opinioni, amici, gusti nell’abbigliamento, priorità. In che senso
allora da vecchi saremo le stesse persone che eravamo da bambini? La
domanda su cosa mantenga una persona la stessa nel corso del tempo è fra
quelle che dettero da pensare al filosofo inglese John Locke (1632-1704).
Come molti filosofi, Locke coltivava numerosi interessi. Era entusiasta
delle scoperte scientifiche dei suoi amici Robert Boyle e Isaac Newton,
s’impegnò in politica e scrisse anche di pedagogia. Nel periodo successivo
alla Guerra civile inglese fuggì nei Paesi Bassi, accusato di avere ordito un
complotto contro il nuovo sovrano Carlo II. Da lì si batté in favore della
tolleranza religiosa, sostenendo l’assurdità di obbligare la gente a
convertirsi usando la tortura. La sua idea del diritto alla vita, alla libertà,
alla felicità e alla proprietà, concesso da Dio agli uomini, influenzò i padri
fondatori che avrebbero redatto la Costituzione degli Stati Uniti d’America.
Non ci sono pervenuti ritratti di Locke da bambino, ma probabilmente egli
cambiò molto facendosi adulto. Il suo aspetto in età matura era quello di un
uomo magro ed energico, dai capelli lunghi e incolti. Da bambino
sicuramente era stato molto diverso. Una delle sue convinzioni era che la
mente di un neonato fosse come una lavagna vuota. Quando nasciamo non
sappiamo nulla, tutte le nostre conoscenze provengono dall’esperienza.
Crescendo, il bambino Locke divenne un giovane filosofo, acquisì nozioni
di tutti i tipi e divenne la persona alla quale pensiamo oggi come John
Locke. Ma in che senso questa persona era la stessa del bambino, e in che
senso il Locke di mezz’età era lo stesso Locke giovanotto?
Questo problema non riguarda solo gli esseri umani che si interrogano
sulla loro relazione con il proprio passato. Come Locke fece notare, poteva
sorgere anche a proposito di cose come, ad esempio, le calze. Avete una
calza con un buco, e lo rammendate, poi ne rammendate un altro e un altro
ancora; alla fine avrete una calza consistente in un insieme di rammendi,
dove non resta più nulla della materia prima originale. Questa calza è la
stessa che era all’inizio? In un certo senso sì, perché c’è una continuità delle
parti, dall’originale alla calza interamente rammendata. In un altro senso,
però, non lo è, perché non è rimasto più nulla del materiale originario.
Facciamo un altro esempio: pensiamo a una quercia. La quercia nasce da
una ghianda, ogni anno perde le foglie, diventa più grande, perde dei rami,
ma rimane la stessa quercia. La ghianda è la stessa pianta dell’alberello, e
l’alberello è la stessa pianta della grande quercia?
Un modo per affrontare la questione di cosa faccia di un essere umano la
stessa persona nel corso del tempo sarebbe rispondere che siamo esseri
viventi. Siamo gli stessi animali individuali di quando eravamo bambini.
Locke usava la parola ‘uomo’ (intendendo naturalmente sia ‘uomo’ che
‘donna’) riferendosi all’‘animale umano’. Pensava che fosse corretto
affermare che in ciascuno di noi rimane lo stesso ‘uomo’, inteso in quel
senso, per tutta la durata della vita. C’è una continuità dell’essere umano
vivente, che si svolge nel corso della sua vita. Ma per Locke essere lo stesso
‘uomo’ era molto diverso dall’essere la stessa persona .
Secondo Locke, posso essere anche lo stesso ‘uomo’, ma non la stessa
persona di prima. Cosa intende con questo? Locke rispondeva che a fare di
noi la stessa persona nel corso del tempo è la nostra coscienza, la
consapevolezza del nostro io. Ciò che non siamo in grado di ricordare non
fa parte di noi come persone. Per spiegarlo, Locke descrive un principe che
si sveglia una mattina con i ricordi di un ciabattino, e un ciabattino che si
sveglia con i ricordi di un principe. Al risveglio il principe ha attorno a sé il
suo palazzo, e in apparenza sembrerebbe la stessa persona che era quando si
è addormentato la sera prima. Ma poiché ha i ricordi del ciabattino invece
dei propri, sente di essere il ciabattino. La continuità fisica, cioè, non è
decisiva: se si parla di identità individuale, ciò che conta davvero è la
continuità psicologica. Se aveste i ricordi del principe, sareste principi. Se
aveste i ricordi del ciabattino, sareste il ciabattino, anche se il vostro corpo è
quello del principe. Se il ciabattino avesse commesso un crimine,
dovremmo ritenerne responsabile il tizio con il corpo del principe.
Naturalmente, nella vita di tutti i giorni i ricordi non vengono scambiati in
questo modo. Locke usò questo esperimento mentale per dimostrare la
propria teoria. Alcuni, tuttavia, sostengono la possibilità che lo stesso corpo
sia veramente abitato da più di una persona: si tratta della condizione nota
come disturbo da personalità multipla, e si manifesta come la presenza di
diverse personalità in uno stesso individuo. Locke anticipò questa
possibilità, immaginando che in un corpo solo risiedessero due persone
completamente indipendenti, una di giorno e una di notte. Se queste due
menti rimangono completamente separate, non comunicano, per Locke
siamo di fronte a due persone, non una.
Per Locke le questioni dell’identità individuale avevano strettamente a
che fare con la responsabilità morale. Egli credeva che Dio avrebbe punito
le persone solo se erano in grado di ricordare i crimini che avevano
commesso. Uno che non ricordava più di aver commesso un crimine non
doveva essere considerato la stessa persona che l’aveva commesso. Nella
vita di tutti i giorni, naturalmente, le persone mentono su ciò che ricordano,
e un giudice non assolve una persona solo perché dichiara di aver
dimenticato ciò che ha fatto. Dio però, che sa tutto, sarà in grado di sapere
chi merita la punizione e chi no. Una conseguenza di questa posizione
sarebbe che se i cacciatori di nazisti rintracciassero un uomo anziano il
quale in gioventù era stato sorvegliante in un campo di concentramento,
dovrebbero considerarlo responsabile solo per i fatti che riesce a ricordare,
e per nessun altro crimine. Dio lo punirebbe per le azioni di cui lui si è
dimenticato, mentre la giustizia umana gli concederebbe il beneficio del
dubbio.
L’atteggiamento di Locke nei confronti dell’identità individuale offriva
anche la risposta a una domanda che assillava molti suoi contemporanei,
preoccupati della necessità che per andare in paradiso il corpo dovesse
resuscitare dopo la morte. Cosa sarebbe accaduto se il corpo fosse stato
divorato dai cannibali o da una belva? Come ricostituirlo, rimettendone
insieme le parti, perché risorgesse dopo la morte? Se il cannibale ti aveva
mangiato, il tuo corpo diventava parte del suo. Come riunificare in un corpo
il cannibale e il suo pasto, cioè te? Locke chiarì che l’importante era che
uno dopo la morte fosse la stessa persona , non lo stesso corpo. Dal suo
punto di vista, potevi essere la stessa persona avendo gli stessi ricordi,
anche se questi erano associati a un corpo diverso.
Una delle conseguenze di questa prospettiva è che probabilmente non
siamo le stesse persone che eravamo da bambini. Siamo gli stessi individui,
ma, a meno che non riusciamo a ricordare l’essere bambini, non potremo
essere le stesse persone. La nostra identità personale arriva solo fin dove
arriva la nostra memoria; quindi in tarda età, quando i ricordi si
affievoliscono, si restringerà l’estensione di ciò che siamo come persone.
Alcuni filosofi ritengono che Locke si sia spinto un po’ troppo oltre con la
sua insistenza sul ricordo del sé come fondamento dell’identità individuale.
Nel Diciottesimo secolo il filosofo scozzese Thomas Reid dimostrò che nel
ragionamento di Locke sull’argomento vi era un punto debole. Un vecchio
soldato ricorda il coraggio dimostrato in battaglia quando era un giovane
ufficiale; quando era un giovane ufficiale ricordava di essersi fatto male da
bambino mentre rubava delle mele da un frutteto. Da anziano, il soldato non
ricorda più quell’episodio dell’infanzia. Chiaramente questo schema di
ricordi sovrapposti comporta che il vecchio soldato è ancora la stessa
persona del bambino. Reid pensava che fosse ovvio che il vecchio soldato
continuasse a essere la stessa persona del bambino.
Stando alla teoria di Locke, però, il vecchio soldato era la stessa persona
del giovane ufficiale coraggioso, ma non la stessa del bambino che si era
fatto male (poiché il vecchio soldato si era dimenticato quell’episodio).
Però, sempre stando alla stessa teoria, il giovane ufficiale coraggioso
doveva essere la stessa persona del bambino (poiché da giovane ricordava
quell’episodio). Il risultato è assurdo: il vecchio soldato è la stessa persona
del giovane ufficiale coraggioso, e il giovane ufficiale coraggioso è la stessa
persona del bambino; ma allo stesso tempo il vecchio soldato e il bambino
non sono la stessa persona. A rigor di logica, il ragionamento non funziona;
è come dire che A=B e B=C, ma A non è = C. L’identità individuale,
quindi, dipende dalla sovrapposizione dei ricordi, non dalla memoria totale,
come pensava Locke.
L’impatto di Locke sulla filosofia però non si limita alla questione
dell’identità individuale. Nel suo imponente trattato intitolato Saggio
sull’intelletto umano (1690) egli espone la teoria secondo la quale le idee
sono la rappresentazione del mondo, ma solo alcuni aspetti di quel mondo
sono ciò che sembrano. Ciò dette a George Berkeley lo spunto per
formulare la sua interessante teoria sulla realtà.
CAPITOLO 15

L’elefante nella stanza


GEORGE BERKELEY (E JOHN LOCKE )

Vi siete mai chiesti, quando chiudete lo sportello del frigorifero, se la luce


dentro si spegne davvero? Non potete averne la prova, visto che non siete
dentro a controllare. Certo, potreste installarci una telecamera; ma che
succede se la telecamera si spegne? E ancora: pensate a un albero che cade,
nel mezzo di una foresta dove non c’è nessuno ad ascoltare. Come essere
certi che, cadendo, fa rumore? Come sapete che la vostra camera da letto
continua a esistere quando siete in un’altra stanza? E se, tutte le volte che ve
ne andate, svanisse? Potreste chiedere a qualcun altro di controllare al
vostro posto, ma non riuscireste a risolvere il quesito più difficile: continua
a esistere, quando nessuno la sta osservando? Rispondere a tutte queste
domande non è semplice. La maggior parte di noi pensa che gli oggetti
continuino effettivamente a esistere anche quando non vengono osservati,
perché è la spiegazione più semplice. Le stesse persone credono che il
mondo che osserviamo debba per forza esistere da qualche parte; non esiste
solo nella nostra mente.
Secondo George Berkeley (1685-1753), filosofo irlandese che divenne
anche vescovo di Cloyne, ciò che cessa di essere osservato smette anche di
esistere. Se nessun intelletto ha coscienza del libro che state leggendo, il
libro non esiste. Quando guardate il libro potete vedere e toccare le pagine,
ma per Berkeley tutto ciò significa che ne avete esperienza, non che esista
al mondo qualcosa che generi la vostra esperienza. Il libro non è altro che
un insieme di concetti nella mente vostra e delle altre persone (e forse nella
mente di Dio), non qualcosa che va oltre la mente. Per Berkeley la nozione
stessa di mondo esterno non ha alcun significato.
Ciò sembra contravvenire all’elementare buon senso. Noi dobbiamo per
forza essere circondati da oggetti che continuano a esistere anche se
nessuno gli bada! Ma Berkeley non la pensava così. Comprensibilmente,
molti credettero che fosse impazzito quando iniziò a enunciare questa sua
teoria, e fu solo dopo la sua morte che altri filosofi iniziarono a prenderla
sul serio, riconoscendo cosa stava cercando di dimostrare. Quando venne a
sapere della teoria di Berkeley, il suo contemporaneo Samuel Johnson dette
un gran calcio a un sasso in mezzo alla strada e dichiarò: «Io la confuto
così», affermando con quel gesto di credere che le cose materiali esistano
veramente e non siano solo agglomerati di concetti; dandogli un calcio,
aveva percepito chiaramente il sasso contro il piede, quindi Berkeley
doveva avere torto. Ma Berkeley era più intelligente di quanto Johnson
credesse. Sentire la durezza di un sasso con un piede non prova l’esistenza
degli oggetti materiali, ma solo l’esistenza dell’idea di un sasso; ciò che
chiamiamo sasso non è niente di più delle sensazioni che fa scaturire. Non
c’è un ‘vero’, reale sasso dietro di esse, a causare il dolore al piede. Non c’è
alcuna realtà vera al di là delle idee che abbiamo di essa.
Berkeley viene definito idealista oppure immaterialista . Idealista perché
credeva che tutte le cose esistenti fossero idee; immaterialista perché
negava l’esistenza degli oggetti fisici, materiali. Come molti filosofi di cui
parliamo in questo libro, era affascinato dalla relazione tra apparenza e
realtà. Ma la maggioranza dei pensatori, a suo parere, si sbagliava riguardo
a quale tipo di relazione si trattasse. In particolare, criticava il modo in cui
John Locke riteneva che i nostri pensieri si rapportassero al mondo. Avremo
meno difficoltà a comprendere la visione di Berkeley se la raffrontiamo con
l’approccio di Locke.
Locke pensava che se si guarda un elefante, ciò che si vede non è il vero
elefante, l’elefante in sé; ciò che prendiamo per un elefante è invece una
rappresentazione, quella che Locke defniva immagine mentale: qualcosa di
simile alla raffigurazione di un elefante. Locke usava il termine ‘idea’
intendendo qualsiasi tipo di pensiero o di percezione. Se vediamo un
elefante grigio, l’essere grigio non può essere semplicemente qualcosa
nell’elefante, perché sotto una luce diversa apparirebbe come un colore
diverso. L’essere grigio è ciò che Locke definiva una ‘qualità secondaria’,
prodotta da una combinazione di fattori presenti nell’elefante e nel nostro
sistema percettivo, in questo caso nel nostro occhio. Il colore della pelle
dell’elefante, la sua consistenza al tatto, l’odore dei suoi escrementi sono
tutte qualità secondarie.
Le qualità primarie, come dimensioni e forma, sono secondo Locke le
peculiarità che caratterizzano gli oggetti materiali. Le immagini mentali
delle qualità primarie somigliano a quegli oggetti. Se vedete un oggetto
quadrato, l’oggetto reale che genera in voi quell’idea è anch’esso quadrato.
Ma se vedete un quadrato rosso, l’oggetto reale che provoca la vostra
percezione non è rosso. Gli oggetti reali sono privi di colore. Secondo
Locke la sensazione del colore era il prodotto dell’interazione tra le
strutture microscopiche degli oggetti e il nostro sistema visivo.
Questa concezione lascia però aperto un problema. Locke riteneva che il
mondo esterno, quello descritto dagli scienziati, esistesse , e che noi lo
conosciamo solo indirettamente. Era un realista, nel senso che credeva
nell’esistenza del mondo reale. Questo mondo reale continua a esistere
anche indipendentemente da noi. La difficoltà, per Locke, consiste nel
sapere come è questo mondo. Egli pensa che le nostre idee delle qualità
primarie come forma e dimensione siano delle buone immagini della realtà.
Ma su cosa si basava questa convinzione? Essendo un empirista – gli
empiristi sono coloro che credono nell’esperienza come fonte di tutte le
nostre conoscenze – avrebbe dovuto avere una dimostrazione valida per
sostenere l’affermazione che le idee di qualità primarie somigliano al
mondo reale. La sua teoria, invece, non spiegava in base a cosa potesse
sapere come fosse il mondo reale, visto che per sua stessa ammissione non
era possibile averne una conoscenza diretta. Da dove traeva tutta la sua
sicurezza che le idee di qualità primarie come forma e dimensione
somigliassero alle qualità del mondo reale?
Berkeley sosteneva di essere più coerente di lui. A differenza di Locke,
pensava che noi percepissimo direttamente il mondo: per questo il mondo
non consiste di altro che idee. Il mondo è fatto della totalità delle nostre
esperienze, e nulla di più. In altre parole, il mondo, e qualsiasi cosa esso
comprende, esistono solo nella mente delle persone.
Qualunque cosa di cui facciamo esperienza, qualunque cosa a cui
pensiamo – che sia una sedia o un tavolo, il numero 3 e così via –, secondo
Berkeley esiste solo nelle nostre menti. Un oggetto non è altro che l’insieme
di idee che noi abbiamo di esso; non possiede nessun altro tipo di realtà. Se
non c’è nessuno a vederli o sentirli, gli oggetti cessano semplicemente di
esistere, perché al di fuori delle idee che noi (e Dio) abbiamo di essi, non
sono nulla. Berkeley riassunse questa strana concezione con una frase che
in latino suona così: esse est percipi , cioè ‘essere equivale a essere
percepito’.
La luce dentro il frigorifero, dunque, non sarà accesa, e l’albero cadendo
non farà rumore, se nessuno sarà là a farne esperienza. Sembra questa
l’unica conclusione che si possa trarre dall’immaterialismo di Berkeley. Ma
il filosofo non pensava che gli oggetti passassero di continuo dall’esistenza
alla non esistenza. Persino lui riconosceva che sarebbe stato assurdo.
Berkeley credeva che fosse Dio a garantire l’esperienza permanente,
continua delle nostre idee. Dio percepisce costantemente le cose del mondo,
e per questo esse esistono.
Quest’idea è stata riassunta in un paio di poesiole umoristiche scritte
all’inizio del Ventesimo secolo. Ecco la prima, che sottolinea la stranezza
dell’idea secondo la quale un albero smette di esistere se nessuno lo
osserva:
C’era una volta un uomo che disse:
«Dio deve pensare in modo estremamente strano
Se pensa che quest’albero
Continui a esistere
Mentre nei giardini di Oxford non c’è nessuno in giro».
In effetti, la cosa più difficile da accettare della teoria di Berkeley è che un
albero non esista se non c’è nessuno a percepirlo. Ecco allora la soluzione:
un messaggio di Dio.
«Caro signore, è il suo stupore a suonare strano.
Io, nei giardini di Oxford, ci sono sempre.
Per questo l’albero
Continua a esistere:
Perché osservato dal
Sinceramente Vostro, Dio».
Un’ovvia difficoltà per Berkeley consiste però nello spiegare come
facciamo a non sbagliarci sulle cose. Se tutto ciò che abbiamo sono idee, e
non c’è un mondo al di fuori di esse, come facciamo a distinguere oggetti
reali e illusioni ottiche? La sua risposta è che la differenza tra l’esperienza
della cosiddetta realtà e l’esperienza di un’illusione è che quando
sperimentiamo la ‘realtà’ le nostre idee non si contraddicono a vicenda. Ad
esempio, se guardate un remo in acqua, avrete l’impressione che sia
spezzato nel punto in cui ne tocca la superficie. Per un realista come Locke,
la verità è che il remo in realtà è dritto; semplicemente sembra spezzato.
Per Berkeley noi abbiamo un’idea di remo spezzato, che contraddice le idee
che avremo se immergiamo la mano nell’acqua e lo tocchiamo: a quel punto
sentiremo che il remo non è spezzato.
Non che Berkeley trascorresse tutto il tempo difendendo la sua posizione
immaterialista: la sua vita era piena di tante altre cose. Era una persona
simpatica e gradevole e tra i suoi amici poteva contare l’autore dei Viaggi di
Gulliver , Jonathan Swift. In età avanzata escogitò un piano ambizioso per
fondare un’università sull’isola di Bermuda, e a questo scopo riuscì a
raccogliere fondi in abbondanza. Purtroppo il piano fallì, perché non si era
reso conto della reale distanza di Bermuda dal Continente e di quanto fosse
difficoltoso farvi pervenire gli approvvigionamenti. Però gli è stata dedicata
un’università che sorge sulla Costa ovest degli Stati Uniti: Berkeley, in
California. Lo si deve a una poesia che dedicò all’America e alla frase «La
rotta dell’impero guarda a Ovest», che piacque a uno dei fondatori di
quell’ateneo.
Ancor più strana del suo immaterialismo era forse la passione che Berkley
profuse in tarda età nel promuovere la tar water , un antico medicamento di
origine americana fatto mescolando resina di pino con acqua: si spinse al
punto di dedicarle un lungo poema in cui ne decantava le virtù. La tar water
conobbe un periodo di popolarità e probabilmente funziona nella cura di
malanni leggeri, viste le sue leggere proprietà antisettiche, ma oggi è
praticamente semisconosciuta. L’idealismo di Berkeley non ha avuto
miglior fortuna.
Berkeley fu un esempio di filosofo pronto a condurre un ragionamento
fino alle sue estreme conseguenze e al punto in cui sfida il senso comune.
Voltaire riteneva che non si dovesse perdere tempo con pensatori di questo
tipo, e forse addirittura con la maggior parte dei filosofi.
CAPITOLO 16

Il migliore dei mondi possibili?


VOLTAIRE E GOTTFRIED LEIBNIZ

Se vi toccasse progettare il mondo, lo progettereste così com’è?


Probabilmente no, ma nel Diciottesimo secolo vi fu chi sostenne che quello
era il migliore dei mondi possibili. «Qualunque cosa sia, è la cosa giusta»
dichiarava il poeta inglese Alexander Pope (1688-1744). Tutto ciò che
esiste è così per un buon motivo: è opera di Dio, e Dio è buono e
onnipotente. Anche se, quindi, sembra che le cose vadano male, in realtà
non è così. Malattie, inondazioni, terremoti, incendi, carestie sono tutti parte
del progetto di Dio. Siamo noi a sbagliare, concentrandoci sui singoli
dettagli e perdendo la visione globale. Se potessimo fare un passo indietro e
guardare l’universo dal punto in cui siede Dio ne riconosceremmo la
perfezione, il modo in cui ogni cosa ha il suo posto e come anche ciò che
appare cattivo ha invece una funzione nel progetto complessivo.
Pope non era solo nel suo ottimismo. Il filosofo tedesco Gottfried Leibniz
(1646-1716) elaborò il concetto di Principio di ragion sufficiente per
giungere alle medesime conclusioni. Pensava che ci dovesse essere una
spiegazione logica per qualsiasi cosa. Poiché Dio è perfetto sotto tutti gli
aspetti – e questa è la definizione standard di Dio – ne consegue che Dio
deve avere delle ottime ragioni per dare all’universo la forma che gli ha
dato. Niente è stato lasciato al caso. Dio non ha creato un mondo perfetto
sotto tutti gli aspetti, perché ciò avrebbe trasformato il mondo in Dio, dato
che Dio è la cosa più perfetta che c’è o che ci può essere, ma ha
necessariamente creato il migliore di tutti i mondi possibili, quello che
contiene la quantità minore di male possibile per ottenere quel risultato.
Non si poteva trovare un modo migliore per mettere insieme tutti i pezzi:
nessun progetto avrebbe potuto produrre più bene usando meno male.
François-Marie Arouet (1694-1778), più noto come Voltaire, non la
pensava affatto così. Questa specie di ‘dimostrazione’ che tutto va per il
meglio non lo soddisfaceva. Guardava con profondo sospetto a tutti i
sistemi filosofici e al genere di pensatori che sono convinti di avere una
risposta per ogni cosa. Questo commediografo, poeta satirico, romanziere e
pensatore era noto in tutta Europa per le sue prese di posizione franche e
dirette. C’è una famosa scultura che lo ritrae, opera dell’artista Jean-
Antoine Houdon: mostra un uomo dall’aria arguta e coraggiosa mentre
sorride a denti stretti, il viso solcato dalle rughe. Campione della libertà di
espressione e della tolleranza religiosa, Voltaire era un intellettuale di quelli
che fanno discutere. Tra le frasi che gli vengono attribuite ce n’è una che
recita: «Odio quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di
dirlo», una formulazione assai efficace del concetto secondo il quale anche
le opinioni di chi non la pensa come noi sono degne di rispetto. Nell’Europa
del Diciottesimo secolo, però, la Chiesa cattolica esercitava uno stretto
controllo su ciò che poteva essere pubblicato. Numerose opere di Voltaire
vennero censurate e bruciate sulla pubblica piazza, ed egli stesso trascorse
un periodo di detenzione nel carcere parigino della Bastiglia, perché aveva
offeso un potente esponente dell’aristocrazia. Nulla di tutto ciò, tuttavia,
riuscì a dissuaderlo dallo sfidare pregiudizi e affermazioni dogmatiche.
L’opera per cui è rimasto più famoso è un breve romanzo filosofico
intitolato Candide (1759). Nelle sue pagine, Voltaire demolisce il genere di
ottimismo sull’umanità e l’universo espresso da Pope e Leibniz, e lo fa in
un modo talmente divertente che il libro divenne subito un bestseller.
Saggiamente, Voltaire rinunciò a figurare come autore: diversamente, il
libro lo avrebbe portato dritto in prigione con l’accusa di essersi preso gioco
della religione.
Candide è il nome del protagonista principale, un nome che ne evoca
l’ingenuità e la purezza di cuore. All’inizio della storia, egli è un giovane
servitore che s’innamora perdutamente della figlia del padrone, Cunégonde;
sorpreso con lei in una situazione compromettente, viene cacciato dal
castello. Da questo punto in poi la storia si fa assai movimentata, e talvolta
anche un po’ magica: Candide viaggia per territori veri e immaginari con il
suo tutore-filosofo, il dottor Pangloss, sino a quando incontra l’innamorata
perduta, che però è diventata vecchia e brutta. Attraverso il succedersi di
episodi ricchi di comicità, Candide e Pangloss assistono a eventi terribili e
incontrano una serie di personaggi, tutti accomunati dall’essere stati vittima
di terribili disgrazie.
Voltaire usa il tutore Pangloss per tratteggiare una versione caricaturale
della filosofia di Leibniz e prendersi gioco di essa. Qualunque evento –
siano catastrofi naturali, torture, guerre, violenze, persecuzioni religiose o
schiavitù – viene considerato da Pangloss come un’ulteriore conferma che il
mondo in cui Candide e lui vivono è il migliore dei mondi possibili. Invece
di erodere le sue convinzioni, ogni disastro accresce puntualmente la sua
fiducia che tutto accada per il meglio e che sia così che le cose debbano
andare perché se ne produca la situazione più perfetta possibile. Voltaire
prende gusto a descrivere il rifiuto da parte di Pangloss di guardare davvero
in faccia ciò che gli succede, ironizzando così sull’ottimismo di Leibniz.
Per essere giusti con Leibniz, tuttavia, è doveroso precisare che egli non
sosteneva che il male non esistesse, ma che il male fosse condizione
necessaria per produrre il miglior mondo possibile. Ciò non toglie che di
male al mondo ce n’è talmente tanto che è difficile concordare con Leibniz
quando parla di ‘minimo male necessario’ per raggiungere il bene. C’è
troppa sofferenza, troppo dolore al mondo perché si possa dargli ragione.
Nel 1755 si verificò una delle peggiori catastrofi naturali del Diciottesimo
secolo: un terremoto colpì Lisbona, uccidendo più di ventimila persone. La
città venne devastata dal sisma, dal concomitante maremoto e da un
incendio che durò giorni e giorni. Quell’evento, e le immani sofferenze che
comportò, scossero la fede di Voltaire in Dio. Non riusciva a capire come
un fatto del genere potesse essere parte di un progetto più vasto; secondo lui
tutto quel dolore non aveva senso. Come poteva un dio buono permettere
cose simili? E perché proprio Lisbona? Perché lì e non altrove?
In un episodio di Candide , Voltaire usa questa tragedia realmente
accaduta nella sua polemica contro gli ottimisti. I protagonisti del libro
fanno naufragio vicino a Lisbona durante una tempesta che uccide quasi
tutti i passeggeri della nave. L’unico membro dell’equipaggio a
sopravvivere è un marinaio che ha provocato l’annegamento di uno dei suoi
amici. A dispetto di quest’evidente ingiustizia, Pangloss insiste nel guardare
a tutto ciò attraverso la lente del suo ottimismo filosofico. Quando i
naufraghi giungono a Lisbona, la città è stata appena devastata dal
terremoto, ci sono decine di migliaia di morti, e Pangloss continua
assurdamente a insistere che tutto ciò è bene. Nel prosieguo del libro gliene
succedono di tutti i colori – lo impiccano, lo vivisezionano, lo picchiano e
lo mettono a remare su una galea – ma lui persevera nel sostenere che
Leibniz aveva ragione a credere nell’armonia prestabilita di tutto ciò che
esiste. Nessuna disavventura riesce a scalfire le convinzioni del caparbio
insegnante di filosofia.
Gli eventi a cui assiste fanno invece cambiare gradualmente idea al
protagonista della storia. All’inizio del viaggio, Candide condivide le idee
del suo insegnante; alla fine, le esperienze lo renderanno scettico nei
confronti della filosofia in generale, ed egli opterà per una soluzione più
pratica ai problemi della vita.
Lui e Cunégonde si sono ritrovati e vivono, insieme a Pangloss e ad altri
personaggi del libro, in una piccola fattoria. Un personaggio, Martin,
suggerisce che l’unico modo per rendere sopportabile la vita sia smettere di
filosofeggiare e mettersi a lavorare. Per la prima volta iniziano a collaborare
e ciascuno si prende carico di fare ciò che gli riesce meglio. Quando
Pangloss prova a dire che tutto ciò che di male è capitato loro nella vita era
necessario per arrivare a quel lieto fine, Candide gli risponde che quella
frase suona bene, ma «dobbiamo coltivare il nostro giardino». La storia
termina con queste parole, che contengono un importante messaggio per il
lettore; sono la morale del libro, la battuta finale di questa lunga storia
esemplare. Candide invita tutti a darsi da fare con il lavoro nella fattoria, ma
a un livello più profondo, con le parole ‘coltivare il nostro giardino’
Voltaire intendeva metaforicamente «fare qualcosa di utile per l’umanità
invece di limitarsi a disquisire di questioni filosofiche astratte». Ecco cosa
devono fare i personaggi del libro per prosperare ed essere felici, e, in un
senso più vasto, cosa secondo Voltaire dovrebbero fare tutti gli esseri
umani, non solo Candide e i suoi amici.
A differenza della maggior parte dei filosofi, Voltaire era un uomo ricco.
Da giovane aveva fatto parte di un gruppo di persone che aveva scoperto un
difetto nella lotteria di stato e aveva acquistato migliaia di biglietti vincenti;
aveva investito oculatamente il denaro vinto, ed era diventato ancora più
ricco. Grazie a questa indipendenza economica poteva permettersi di
condurre le sue battaglie. Sradicare le ingiustizie era la sua passione. Una
delle sue imprese più memorabili fu la difesa di Jean Calas, un uomo
accusato di aver ucciso uno dei suoi figli e che finì per essere torturato e
condannato a morte. Calas era innocente senza ombra di dubbio, suo figlio
si era suicidato, ma il tribunale aveva ignorato le prove a suo discarico.
Voltaire riuscì a far ricusare la sentenza, e anche se ciò non servì al povero
Calas, che aveva protestato la propria innocenza fino all’ultimo respiro,
perlomeno fece sì che i suoi pretesi complici venissero assolti. Erano cose
del genere che Voltaire intendeva con le parole ‘coltivare il nostro giardino’.
Da come si prendeva gioco di Pangloss quando pretendeva di dimostrare
che Dio era artefice del migliore dei mondi possibili, si potrebbe dedurre
che l’autore di Candide fosse ateo. Sicuramente non aveva il tempo per
seguire una religione istituzionalizzata; era un deista, credeva cioè che la
prova dell’esistenza di Dio e di un progetto fosse visibile nella natura.
Secondo lui bastava contemplare il cielo notturno per dimostrare l’esistenza
del Creatore. David Hume guardava a quest’idea con grande scetticismo e
criticò aspramente questa maniera di ragionare.
CAPITOLO 17

L’orologiaio immaginario
DAVID HUME

Guardatevi allo specchio; osservate attentamente i vostri occhi. Sono


provvisti di una lente capace di mettere a fuoco le immagini, di un’iride che
si adatta alle variazioni della luce, e di palpebre e ciglia che li proteggono.
Se guardiamo da un lato, il bulbo oculare ruota all’interno dell’orbita. Oltre
a tutto ciò, è bello a vedersi. Insomma, è una stupefacente opera di
ingegneria. Come può una cosa del genere essersi prodotta per caso?
Immaginate di attraversare la giungla che ricopre un’isola selvaggia, e di
arrivare in una radura. Vi aggirate tra le rovine di un palazzo, con le sue
mura, le scale, i corridoi e i cortili. Sapete che non è lì per caso, che
qualcuno deve averlo progettato, forse un architetto. Se durante una
passeggiata trovate per terra un orologio, è decisamente ragionevole
pensare che sia stato fabbricato da un orologiaio, e progettato per uno
scopo: segnare il tempo. I suoi minuscoli ingranaggi non si sono assemblati
da soli, deve averci pensato qualcuno. Tutti questi esempi portano a
un’unica conclusione: le cose che sembrano essere frutto di un disegno
complessivo, quasi sicuramente lo sono.
Pensiamo allora alla natura: piante, fiori, mammiferi, uccelli, rettili,
insetti... persino le amebe. Tutti sembrano il risultato di un disegno
complessivo. Gli organismi viventi sono molto più complessi di qualsiasi
orologio. I mammiferi sono dotati di un articolato sistema nervoso, della
circolazione sanguigna che ne percorre tutto il corpo, e in genere sono
strutturati in modo da adattarsi molto bene al loro ambiente. Ne consegue
che devono essere opera di un creatore incredibilmente abile e intelligente.
Questo creatore – un orologiaio o un architetto divino – dev’essere Dio.
Così credevano in molti nel Diciottesimo secolo, quando Hume redigeva i
suoi scritti, e molti lo credono anche oggi.
Questa prova dell’esistenza di Dio è conosciuta come ‘prova teleologica’,
dal greco telos , cioè ‘volontà’: una volontà che deve per forza essere
all’origine di un universo tanto complesso e organizzato fin nei minimi
particolari. Le scoperte scientifiche del Sedicesimo e Diciassettesimo secolo
sembravano rafforzare questa spiegazione: i microscopi svelavano la
complessità dei minuscoli esseri che vivevano nell’acqua; i telescopi
rendevano visibile la bellezza ordinata del Sistema Solare e della Via
Lattea.
La prova teleologica non convinceva però il filosofo scozzese David
Hume (1711-1776). Influenzato da Locke, si prefiggeva di spiegare la
natura dell’Uomo e il posto che esso occupa nell’universo, esaminando le
modalità con cui acquisiamo le nostre conoscenze e i limiti di ciò che
possiamo apprendere mediante l’intelletto. Come Locke, riteneva che la
fonte della conoscenza fosse l’esperienza; era quindi particolarmente
interessato alle dimostrazioni dell’esistenza di Dio che partivano
dall’osservazione di certi aspetti della realtà.
La prova teleologica, secondo lui, si fondava su una logica errata. Il suo
trattato intitolato Ricerca sull’intelletto umano (1748) contiene un capitolo
in cui Hume attacca l’idea che l’esistenza di Dio possa essere dimostrata in
quel modo; questo, insieme al capitolo in cui sostiene che non è ragionevole
credere a coloro che dicono di aver assistito a un miracolo, fu
particolarmente dibattuto. A quel tempo in Inghilterra non era facile
schierarsi apertamente contro la fede religiosa; Hume non riuscì mai a
ottenere una cattedra universitaria, nonostante fosse uno dei pensatori più
brillanti della sua epoca. I suoi amici saggiamente lo consigliarono di non
pubblicare i Dialoghi sulla religione naturale (1779), in cui sferrava il suo
attacco più deciso contro gli argomenti allora in voga a favore dell’esistenza
di Dio.
La prova teleologica, secondo Hume, non dimostra l’esistenza di Dio; non
fornisce elementi sufficienti per concludere che deve necessariamente
esistere un essere onnipotente, onnisciente e infinitamente buono. Gran
parte del pensiero di Hume si concentra sul tipo di prova che possiamo
addurre alle nostre credenze; la prova teleologica si basa sul fatto che il
mondo appare come il prodotto di un progetto. Hume obiettava: dal
semplice fatto che appaia come il prodotto di un progetto non consegue
necessariamente che lo sia, né che l’artefice del progetto sia Dio. Vediamo
le sue argomentazioni.
Immaginiamo una bilancia, di quelle di vecchio tipo, a due piatti;
immaginiamo di riuscire a vedere solo uno dei due piatti, perché l’altro è
nascosto dietro un paravento. Il piatto visibile sale verso l’alto; ciò che
possiamo dedurre è che qualunque cosa sia stata messa sull’altro piatto,
dev’essere più pesante. Non possiamo sapere di che colore sia, se sia di
forma cubica o sferica, se ci sia scritto sopra qualcosa o se sia ricoperta di
pelliccia; non possiamo sapere nient’altro.
Questo esempio tratta di cause e di effetti. In risposta alla domanda:
«Cosa ha causato il fatto che il piatto si sia alzato?» possiamo solo
rispondere: «La causa è qualcosa di più pesante che si trova nell’altro
piatto». Noi abbiamo visto l’effetto – il piatto si è alzato – e abbiamo
cercato di dedurne la causa. Ma se non possiamo addurre altre prove, non
possiamo aggiungere nient’altro. Qualunque cosa aggiungiamo sarà una
pura supposizione, di cui non avremo mai la conferma se non rimuoviamo il
paravento. Hume riteneva che ci trovassimo in una condizione simile nei
riguardi del mondo che ci circonda. Assistiamo agli effetti di molte cause, e
cerchiamo di ricondurli alle spiegazioni più probabili. Vediamo un occhio
umano, un albero, una montagna: tutti sembrerebbero prodotti da un
progetto. Ma cosa possiamo dire di chi potrebbe averli progettati? L’occhio
sembrerebbe essere stato disegnato da un progettista di occhi che aveva in
mente il suo funzionamento ideale; da questo, però, non consegue che il
progettista sia Dio. Perché no?
A Dio vengono comunemente attribuite le tre caratteristiche che abbiamo
già visto in precedenza: egli è onnipotente, onnisciente e infinitamente
buono. Anche se ammettiamo che qualcuno o qualcosa di molto potente ha
creato l’occhio umano, non possiamo dire che sia onnipotente. L’occhio
infatti non è perfetto. C’è chi ha bisogno di occhiali per vedere bene, ad
esempio. Un essere onnipotente, onnisciente e infinitamente buono può aver
creato un occhio del genere? Magari sì. Ma le prove che traiamo se
osserviamo l’occhio non ne sono la dimostrazione. Possono dimostrare
tutt’al più che l’occhio è stato creato da qualcosa o qualcuno di molto
intelligente, potente e dotato.
O forse non è neppure così. Ci possono essere altre spiegazioni. Chi ci
dice che l’occhio non sia stato progettato in gruppo da una squadra di dèi
minori? È un dato di fatto che gruppi di persone riescono ad assemblare
macchine molto complesse. Perché non potrebbe essere accaduto lo stesso
nel caso dell’occhio umano e di altri oggetti naturali, sempre ammesso che
siano prodotti da qualcuno? Gli edifici sono costruiti da squadre di persone;
perché nel caso dell’occhio dovrebbe essere andata diversamente? Magari
l’occhio è stato creato da un dio molto vecchio, che poi è morto. O ancora,
potrebbe essere stato un dio molto giovane, che stava ancora imparando a
progettare l’occhio perfetto. Dato che non abbiamo modo di scegliere tra
queste possibilità mediante una dimostrazione, non possiamo avere la
certezza, guardando un occhio – e qualunque cosa che appaia frutto di un
progetto –, che sia stato creato da un unico dio vivente dotato degli attributi
tradizionali. Se si inizia a pensare distintamente in quest’ambito, secondo
Hume, le nostre possibili conclusioni presenteranno gravissimi limiti.
Hume sottopose alla sua critica anche un altro argomento, quello che si
basa sui miracoli. La maggior parte delle religioni sostengono l’esistenza
dei miracoli: persone resuscitate dalla morte, che camminano sulle acque o
guariscono inaspettatamente da malattie; statue che parlano o che versano
lacrime, e via discorrendo. Dobbiamo credere che i miracoli siano
effettivamente accaduti solo perché altre persone lo sostengono? Hume
pensava di no. Era assai scettico in proposito. Cosa significa che un uomo è
miracolosamente guarito da una malattia? Perché un fatto sia miracoloso,
pensava, deve sfidare una legge di natura. Le leggi di natura recitano così:
«Nessuno muore e poi ritorna in vita»; «Le statue non parlano» e «Nessuno
può camminare sulle acque». Queste leggi sono abbondantemente sostenute
da prove. Ma se qualcuno assiste a un miracolo, perché non dovremmo
credergli? Pensiamo a cosa diremmo se arrivasse un amico e ci dicesse che
ha visto una persona camminare sulle acque.
Hume riteneva che di un evento simile vi dovessero essere delle
spiegazioni più plausibili. Se il nostro amico ci dice che ha visto una
persona camminare sulle acque, è comunque e sempre più probabile che
stia tentando di ingannarci, o che si sia sbagliato, piuttosto che abbia
effettivamente assistito a un miracolo. Sappiamo bene che certe persone
provano piacere nel mettersi al centro dell’attenzione, e che pur di esserlo
sono in grado di mentire. Questa è una possibile spiegazione. Sappiamo
anche che tutti possiamo sbagliarci; tutti ci sbagliamo, a proposito di ciò
che vediamo e sentiamo. Spesso vogliamo credere di aver assistito a un
evento insolito, e preferiamo la spiegazione meno ovvia. Anche oggi ci
sono persone secondo le quali tutti i rumori udibili a notte fonda sono il
risultato di un’attività paranormale – di fantasmi che si aggirano qua e là –
invece di essere il prodotto di cause più normali, come potrebbero essere
dei topi o il vento.
Pur sottoponendo a critica stringente gli argomenti addotti dai credenti a
sostegno della religione, Hume non dichiarò mai apertamente di essere ateo,
e forse non lo era. Le sue opere possono essere lette come l’affermazione
che dietro tutto ciò che esiste c’è una mente divina, delle cui qualità, però,
non possiamo dire molto. Il potere del nostro intelletto, se usato con logica,
non ci dà molte informazioni sulle caratteristiche che questo ‘Dio’ deve
possedere. Sulla base di ciò, alcuni studiosi ritengono che Hume fosse
agnostico. Probabilmente fu ateo negli ultimi anni di vita, anche se prima
non lo era. Quando i suoi amici andarono a trovarlo a Edimburgo,
nell’estate del 1776, ed era in fin di vita, disse chiaramente che non aveva
intenzione di convertirsi sul letto di morte; anzi. James Boswell, che era
cristiano, gli chiese se avesse paura di ciò che sarebbe successo dopo la
morte. Hume rispose di non sperare minimamente in una vita oltre la morte,
e diede la risposta che avrebbe dato Epicuro (vedi il capitolo 4): non era più
preoccupato di ciò che sarebbe accaduto dopo la sua morte di quanto lo
fosse di ciò che era accaduto prima della sua nascita.
Fra i contemporanei di Hume vi furono molti brillanti pensatori, alcuni dei
quali lo conobbero di persona. Uno di loro, Jean-Jacques Rousseau, fu una
figura di primo piano della filosofia politica.
CAPITOLO 18

Nato libero
JEAN- JAQUES ROUSSEAU

Nel 1766, un uomo di bassa statura e dagli occhi neri, avvolto in un lungo
mantello di pelliccia, si recò a uno spettacolo al teatro londinese di Drury
Lane. La maggior parte degli spettatori, tra cui anche re Giorgio III, era più
interessata a quel visitatore straniero che alla commedia che stava andando
in scena. Lui sembrava a disagio ed era preoccupato per il suo cane, un
pastore alsaziano, che aveva lasciato chiuso nella sua camera. Quell’uomo
non provava piacere per le attenzioni che gli riservavano in teatro; avrebbe
preferito essere lontano, da solo, in campagna, a raccogliere fiori di campo.
Ma chi era? E perché lo trovavano tutti così interessante? La risposta è: il
grande pensatore e scrittore svizzero Jean-Jacques Rousseau (1712-1778).
Vero e proprio evento per il mondo letterario e filosofico, l’arrivo di
Rousseau a Londra su invito di David Hume provocò lo stesso tipo di
agitazione che oggi accompagnerebbe l’apparizione di una pop star.
A quel tempo la Chiesa cattolica aveva messo all’indice diversi suoi libri,
a causa delle idee religiose non convenzionali che contenevano. Rousseau
pensava che la vera fede provenisse dal cuore e non avesse bisogno di riti di
celebrazione. Ciò che provocava maggiore sensazione, però, erano le sue
idee politiche.
«L’uomo è nato libero e invece ovunque è in catene» scriveva all’inizio
del suo famoso Contratto sociale . Non c’è da sorprendersi che i
rivoluzionari avrebbero imparato a memoria quelle parole. A esse si ispirò
Maximilien de Robespierre, e con lui diversi altri esponenti di spicco della
Rivoluzione francese. I rivoluzionari volevano spezzare le catene imposte
dai ricchi ai poveri. Mentre tra questi ultimi vi era chi moriva di stenti, i
loro padroni vivevano circondati dal lusso. Come Rousseau, i rivoluzionari
erano infuriati dal contrasto tra lo stile di vita delle classi facoltose e la
condizione dei poveri, che faticavano a trovare da mangiare. Volevano
libertà, eguaglianza e fratellanza. È improbabile però che Rousseau, che era
morto una decina di anni prima, avrebbe approvato Robespierre quando, nel
periodo cosiddetto del ‘Terrore’, spediva alla ghigliottina i suoi nemici.
Tagliare la testa ai propri oppositori politici era un comportamento più
vicino al pensiero di Machiavelli che al suo.
Secondo Rousseau gli esseri umani sono buoni per natura. Se fossimo
lasciati a noi stessi nel mezzo di una foresta, non daremmo molti problemi.
Se però veniamo sottratti allo stato di natura e portati nelle città, le cose
prendono un’altra piega: iniziamo a desiderare di avere la meglio sugli altri
e di attrarre la loro attenzione. Questo atteggiamento competitivo ha effetti
psicologici terribili, e l’invenzione del denaro non può che peggiorare la
situazione. I risultati della vita nelle città sono l’avidità e l’invidia
reciproca. Nello stato di natura i solitari uomini selvaggi sarebbero sani,
forti e soprattutto liberi; la civiltà corrompe gli esseri umani. Nonostante
ciò, Rousseau pensava ottimisticamente che si potesse trovare una migliore
organizzazione sociale, in cui agli individui fosse permesso prosperare e
sentirsi appagati, ma in armonia, nel rispetto del prossimo e nella
collaborazione di tutti al bene comune.
L’argomento del Contratto sociale (1762) è proprio questo: come trovare
un sistema che permetta agli individui di vivere in società rimanendo
altrettanto liberi quanto lo sarebbero allo stato di natura, obbedendo allo
stesso tempo alle leggi dello stato. Un risultato che sembra impossibile, e
forse lo è. Se il prezzo da pagare in cambio dell’ingresso nella società era
una sorta di schiavitù, finisce con l’essere decisamente troppo alto. Libertà
individuale e regole rigorose imposte dalla società non vanno d’accordo,
perché le regole sono come catene, che impediscono alcuni tipi di azione.
Ma Rousseau era convinto che una soluzione fosse possibile; questa
soluzione si basava sulla sua idea della volontà generale .
La volontà generale è qualunque cosa sia la cosa migliore per la comunità,
lo stato nel suo insieme. Quando gli individui scelgono di consociarsi per
garantirsi maggiore sicurezza, sembra che debbano anche rinunciare a
molte delle loro libertà; è quanto avevano sostenuto Hobbes e Locke. Non è
facile pensare come sia possibile rimanere liberi vivendo in mezzo a una
moltitudine di persone; devono esserci per forza delle leggi in grado di
controllare tutti, e delle limitazioni nei comportamenti consentiti. Ebbene,
Rousseau riteneva che in quanto individuo che vive in uno stato, uno può
essere allo stesso tempo libero e rispettare l2 leggi di quello stato, e invece
di contrapporsi, queste idee di libertà e di obbedienza possono andare di
pari passo.
L’idea della volontà generale può essere facilmente fraintesa: ecco un
esempio contemporaneo. Se glielo domandate, la maggior parte delle
persone preferirebbe non pagare le tasse; e infatti uno dei sistemi più usati
dai politici per farsi eleggere è promettere di abbassare le tasse. Se si
chiedesse alla gente se vuole pagare il 20 o il 5 per cento dei suoi guadagni
in tasse, la maggioranza risponderebbe il 5 per cento. Questa, però, non è la
volontà generale; ciò che tutti dicono di volere se glielo si chiede è quello
che Rousseau chiamava la volontà di tutti . La volontà generale, invece, è
quello che tutti dovrebbero volere, ciò che sarebbe bene per la comunità nel
suo insieme, non per ciascuno dei suoi membri secondo il suo punto di vista
egoistico. Far prevalere la volontà generale significa passare sopra
l’interesse dei singoli e concentrarsi sul bene della società, il bene comune.
Se accettiamo che molti servizi – come ad esempio la manutenzione delle
strade – debbano essere finanziati con le tasse, per il bene della comunità le
tasse devono essere abbastanza alte da permetterlo. Se rimangono troppo
basse, la comunità avrà da soffrirne. Questa è dunque la volontà generale:
che le tasse siano abbastanza elevate da permettere un buon livello dei
servizi.
Quando le persone si radunano a formare una società, diventano come una
persona sola. Ciascuno è parte di un insieme più grande. Per Rousseau, se
obbediscono alle leggi che sono coerenti con la volontà generale, gli
individui possono essere veramente liberi nella società. Queste leggi
devono essere create da un legislatore intelligente, capace di realizzare un
sistema legislativo in cui gli individui sono incentivati a rimanere in
sintonia con la volontà generale, invece di perseguire i propri interessi
personali a spese altrui. La vera libertà, secondo Rousseau, consiste
nell’appartenere a un insieme di individui che agiscono nell’interesse
comune. I nostri desideri dovrebbero coincidere con ciò che è meglio per
tutti; le leggi dovrebbero indurci a evitare di comportarci in modo egoistico.
Cosa accade però se non siamo d’accordo su ciò che sarebbe bene per la
nostra città-stato? Potrebbe accadere che, dal mio punto di vista individuale,
io non voglia conformarmi alla volontà generale. Rousseau aveva una
risposta a questa domanda, ma non è quella che la maggioranza delle
persone vorrebbe sentire. Con un’espressione che è diventata famosa, e che
per la verità suona piuttosto inquietante, sostenne che se qualcuno avesse
negato che obbedire a una legge era nell’interesse della comunità, avrebbe
dovuto essere «obbligato a essere libero». Con questa frase intendeva che
chiunque si opponesse a quanto era nell’interesse della società pensando di
compiere una libera scelta non sarebbe stato veramente libero finché non si
fosse conformato alle leggi e alla volontà generale. Ma come si può
obbligare uno a essere libero? Se io vi obbligassi a continuare a leggere
questo libro, la vostra non sarebbe una libera scelta. Obbligare qualcuno a
fare qualcosa è l’esatto opposto di permettergli di scegliere liberamente.
Questa però, per Rousseau, non era una contraddizione. La persona che
non è in grado di individuare la cosa giusta da fare diventa più libera se
viene obbligata ad adeguarsi. Poiché tutti, in una società, sono parte di un
insieme più ampio, devono necessariamente riconoscere che ciò che
dovremmo fare è seguire la volontà generale, non le loro personali scelte
egoistiche. In questa prospettiva, solo quando seguiamo la volontà generale
siamo veramente liberi, anche se veniamo obbligati a farlo. Questo era il
pensiero di Rousseau; altri filosofi, come John Stuart Mill (vedi il capitolo
24) hanno invece ribadito che ‘libertà’, in politica, significa che l’individuo
è lasciato il più possibile libero di compiere le proprie scelte. In effetti c’è
qualcosa di leggermente sinistro nell’idea di Rousseau: dopo aver protestato
contro le catene in cui era ridotta l’umanità, sosteneva che costringere
qualcuno a fare qualcosa fosse una forma di libertà.
Rousseau trascorse gran parte della vita da perseguitato, fuggendo di
paese in paese. All’opposto, Immanuel Kant si spostò di rado dalla sua città
natale; l’impatto del suo pensiero, però, si fece sentire in tutta Europa.
CAPITOLO 19

La realtà tinta di rosa


IMMANUEL KANT (1)

Se indossate degli occhiali con lenti color rosa, ogni aspetto della vostra
esperienza visiva risulterà colorato di rosa. Magari vi scordate che li state
indossando, ma loro non smetteranno di influenzare la vostra visione.
Immanuel Kant (1724-1804) pensava che tutti ci aggiriamo per il mondo
comprendendolo attraverso un filtro di questo tipo. Il filtro è il nostro
intelletto. Esso determina il modo in cui facciamo esperienza di tutte le cose
e dà a quell’esperienza una determinata forma. Qualunque cosa percepiamo,
la percepiamo come situata nel tempo e nello spazio, e riconducendo ogni
fenomeno a una causa. Ma secondo Kant queste caratteristiche – tempo,
spazio, relazione di causa ed effetto – non appartengono alla realtà in sé:
sono un’aggiunta del nostro intelletto. Noi non abbiamo un accesso diretto
alla realtà in sé, e non possiamo neppure toglierci gli occhiali e guardare le
cose come sono veramente. Non possiamo liberarci di quel filtro; se ne
fossimo privi, saremmo totalmente incapaci di fare qualsiasi esperienza.
Dobbiamo riconoscerne la presenza e capire come esso influenzi e ‘colori’
le nostre esperienze.
Kant aveva una mente assai logica e ordinata. Anche la sua vita lo era.
Non prese moglie e si impose regole molto severe. Aveva ordinato alla
servitù di svegliarlo ogni giorno alle cinque del mattino, per impiegare al
massimo il suo tempo. Beveva un tè, fumava una pipa e iniziava a lavorare.
Era estremamente produttivo e scrisse numerosi libri e articoli. Poi andava
all’università, teneva lezione, tornava a casa e tutti i pomeriggi alle sedici e
trenta in punto usciva a fare una passeggiata, percorrendo la strada di casa
esattamente otto volte. I suoi concittadini di Königsberg (che oggi si chiama
Kaliningrad) regolavano gli orologi sull’inizio della sua passeggiata.
Come molti filosofi, dedicò la propria vita a cercare di capire il nostro
rapporto con la realtà. Essenzialmente è questo l’argomento della
metafisica, e Kant è stato uno dei più grandi metafisici della storia della
filosofia. Il suo interesse verteva in particolare sui limiti della nostra
conoscenza; per lui si trattava di una sorta di ossessione. Nella sua opera
più famosa, la Critica della ragion pura (1781), esplorò questi limiti,
spingendosi sino ai confini del comprensibile. Si tratta infatti di un’opera
non certo di facile lettura: Kant stesso, a ragione, la descrive come ‘arida’ e
‘oscura’. Sono davvero pochi coloro che possono sostenere di averla
pienamente compresa, perché molte delle argomentazioni risultano
complesse e criptiche. Leggendola si ha la sensazione di attraversare
faticosamente una fitta foresta di parole, intuendo appena la direzione in cui
ci si muove e beneficiando ogni tanto di qualche squarcio di luce. Ma
l’argomento centrale è abbastanza chiaro.
Com’è la realtà? Kant pensava che non possiamo mai avere un quadro
completo di come stanno le cose. Non conosceremo mai direttamente quello
che chiama il mondo dei noumeni (Kant riprende il termine platonico
derivato dal verbo greco ‘pensare’), delle cose come sono in sé, dietro le
apparenze. Talvolta usa il termine ‘noumeno’ al singolare, e altre volte
‘noumeni’ al plurale, ma non avrebbe dovuto farlo: noi non possiamo
sapere neppure se la realtà è una cosa o molte. A rigore, del mondo
noumenico non possiamo sapere nulla, o almeno non possiamo avere
conoscenza diretta. Possiamo invece conoscere il mondo fenomenico ,
quello di cui facciamo esperienza attraverso i nostri sensi. Guardiamo dalla
finestra: ciò che vediamo è il mondo dei fenomeni – erba, automobili, cielo,
edifici, e così via. Non possiamo vedere il mondo dei noumeni, solo quello
dei fenomeni; il mondo dei noumeni resta nascosto dietro tutte le nostre
esperienze. È la realtà a un livello più profondo.
Alcuni aspetti di questa realtà, quindi, ci sfuggiranno sempre. Possiamo
però, mediante il ragionamento rigoroso, raggiungere una comprensione di
grado superiore rispetto a quella che ci è consentita dall’approccio
puramente scientifico. La domanda principale a cui Kant intendeva
rispondere con la Critica della ragion pura era: «Come sono possibili i
giudizi sintetici a priori?» Questa domanda probabilmente non vi dice
niente. Proverò a spiegarvela; non è così difficile come sembra. La prima
parola da spiegare è ‘sintetici’. Nel linguaggio filosofico di Kant, ‘sintetico’
è l’opposto di ‘analitico’. ‘Analitico’ significa ‘vero per definizione’. Ad
esempio, una frase come ‘Tutti i maschi sono di sesso maschile’ è vera per
definizione; sappiamo che questa affermazione è vera senza dover fare
alcuna indagine sui maschi. Non abbiamo bisogno di controllare che siano
tutti di sesso maschile, perché se non fossero di sesso maschile, non
sarebbero maschi. Per arrivare a quella conclusione non c’è bisogno di
un’indagine scientifica, potreste stare seduti in poltrona e ci arrivereste lo
stesso. La parola ‘maschi’ ha in sé l’idea di ‘sesso maschile’; lo stesso vale
per l’affermazione ‘Tutti i mammiferi allattano i loro piccoli’. Anche in
questo caso, non avete bisogno di esaminare tutti i mammiferi per sapere
che tutti allattano i piccoli, perché questo fatto è implicito nella definizione
di ‘mammifero’. Se trovate un animale che sembra un mammifero, ma non
allatta i piccoli, saprete che quello non è un mammifero. Alla fine, i giudizi
analitici non sono altro che pure definizioni; non aggiungono nulla alle
nostre conoscenze, ma si limitano a esprimere ciò che è implicito nel modo
in cui abbiamo definito di una parola.
La conoscenza sintetica, invece, richiede l’esperienza o l’osservazione e
ci dà nuove informazioni, qualcosa che non è semplicemente contenuto nel
significato delle parole o dei simboli che usiamo. Ad esempio, noi
sappiamo che il gusto del limone è aspro, ma solo perché l’abbiamo
assaggiato (o perché qualcun altro ce l’ha detto dopo averlo assaggiato).
Non è vero per definizione che i limoni abbiano sapore aspro; è qualcosa
che si impara per esperienza. Un altro giudizio sintetico potrebbe essere
«Tutti i gatti hanno la coda». Si tratta di un’affermazione che ha bisogno di
essere sostenuta da una ricerca perché possa essere considerata vera; non
potrete dire che lo sia finché non ne avrete avuto la prova. E infatti certi
gatti, i gatti dell’isola di Man, non hanno la coda. Altri gatti la coda ce
l’avevano, poi l’hanno persa, e restano dei gatti. La domanda se tutti i gatti
abbiano la coda ha quindi a che fare con la realtà, non con la definizione di
gatto; è molto diversa dall’affermazione «Tutti i gatti sono mammiferi», che
avendo a che fare con la definizione di gatto è un giudizio analitico.
Come arriviamo alla conoscenza sintetica a priori? Abbiamo visto che una
conoscenza a priori è una conoscenza indipendente dall’esperienza.
Sappiamo una cosa a priori , cioè prima dell’esperienza, prima di averla
sperimentata. Nel Diciassettesimo e nel Diciottesimo secolo la questione se
fosse possibile o meno conoscere a priori era stata argomento di dibattito.
Grosso modo, gli empiristi (come Locke) sostenevano che non lo fosse; i
razionalisti (come Descartes) sostenevano di sì. Quando Locke diceva che
non esistono idee innate e che la mente del neonato è come una lavagna
vuota, intendeva che non esistono conoscenze a priori. Da ciò sembrerebbe
che ‘a priori’ e ‘analitico’ siano equivalenti (e infatti per alcuni filosofi sono
termini intercambiabili). Per Kant non è così. Egli pensava che fosse
possibile una conoscenza che svela verità sul mondo indipendentemente
dall’esperienza. Per descriverla introdusse la categoria speciale della
conoscenza sintetica a priori. Un esempio di conoscenza sintetica a priori,
che usò lo stesso Kant, è l’equazione matematica 7+5=12. Secondo alcuni
filosofi verità come queste sono analitiche, perché sono intrinseche alla
definizione dei simboli matematici. Kant pensava che siamo in grado di
sapere a priori che 7+5=12 (non abbiamo bisogno di mettere alla prova
l’equazione mediante oggetti o con l’osservazione del mondo reale). Nello
stesso tempo, però, essa ci fornisce nuova conoscenza: quindi è anche
sintetica.
Se Kant ha ragione, si tratta di una scoperta fondamentale. Prima di lui, i
filosofi che indagavano la natura della realtà la trattavano semplicemente
come qualcosa che sta ‘oltre’ noi e a partire dalla quale si genera la nostra
esperienza. La difficoltà era come potessimo avere accesso a quella realtà
per poter affermare su di essa qualcosa di significativo che fosse più di una
supposizione. La grande intuizione di Kant fu che noi possiamo, grazie alla
ragione, scoprire le caratteristiche della nostra mente che ‘colorano’ l’intera
nostra esperienza. Sedendo in poltrona e pensando intensamente, possiamo
sapere cose della realtà che devono essere per forza vere, ma non vere solo
per definizione: potrebbero contenere delle nuove conoscenze. Kant
pensava che, con la logica, aveva trovato l’equivalente della prova che il
mondo doveva necessariamente apparire rosa ai nostri occhi. Non solo
aveva dimostrato che indossiamo occhiali rosa, ma aveva fatto nuove
scoperte sulle diverse gradazioni di rosa che quegli occhiali aggiungono a
qualsiasi esperienza.
Dopo aver risposto in un modo che ritenne soddisfacente alla domanda sul
nostro rapporto con la realtà, Kant rivolse la propria attenzione alla filosofia
morale.
CAPITOLO 20

Se tutti facessero così?


IMMANUEL KANT (2)

Qualcuno bussa alla porta. Aprite. Di fronte a voi c’è un uomo che ha
inequivocabilmente bisogno di aiuto, perché è ferito e sta perdendo sangue.
Lo fate entrare e gli prestate soccorso, dicendogli di accomodarsi mentre
chiamate un’ambulanza. Questa è senza dubbio la cosa giusta da fare. Ma
se aiutate l’uomo solo perché provate pena per lui, secondo Immanuel Kant
la vostra non è un’azione morale . Il vostro coinvolgimento emotivo non
conta per fare della vostra azione un’azione moralmente rilevante; dipende
dalla vostra sensibilità, quindi non ha niente a che fare con il giusto e
l’ingiusto. Per Kant la moralità non ha a che fare solo con cosa si fa, ma col
perché lo si fa. Coloro che fanno la cosa giusta non la fanno solo perché
mossi dai propri sentimenti: la loro decisione deve essere basata sulla
ragione, quella ragione che ci dice cos’è nostro dovere fare e non fare,
indipendentemente da cosa proviamo.
Kant pensava che in materia di etica le emozioni dovessero essere lasciate
da parte. Provarle o non provarle è in larga misura una questione casuale;
certe persone provano compassione ed empatia, certe altre no. Certe sono
meschine e difficilmente provano il sentimento della generosità; altre
invece ricavano grande piacere dal donare denaro e beni per aiutare il
prossimo. Il fare del bene, però, dovrebbe essere frutto della scelta
compiuta da chiunque sia dotato di ragione. Per Kant, se aiutate il giovane
perché ritenete che sia vostro dovere, allora la vostra è un’azione morale; è
la cosa giusta da fare perché è ciò che chiunque dovrebbe fare se si trovasse
in quella situazione.
Forse questo ragionamento vi parrà strano. Probabilmente ritenete che uno
che prova compassione per l’uomo ferito e quindi lo aiuta abbia agito
moralmente; anzi, magari è una persona migliore proprio per il fatto di aver
provato quel tipo di sentimento. Anche Aristotele (vedi il capitolo 2) la
pensava così. Kant assolutamente no. Se uno fa qualcosa mosso solo dai
propri sentimenti, non compie un’azione buona. Immaginate ora uno che
prova disgusto guardando quell’uomo sanguinante, ma lo aiuta ugualmente
perché è suo dovere. Agli occhi di Kant, questa persona è ovviamente più
morale di chi lo farebbe mosso dalla compassione, poiché pur provando
disgusto agisce obbedendo al senso del dovere, mentre le sue emozioni lo
spingerebbero nella direzione esattamente opposta, cioè a rifiutarsi di
porgere aiuto al bisognoso.
Pensate alla parabola del buon samaritano, che aiuta un uomo bisognoso
trovato a lato della strada. Tutti gli altri passano oltre. Cosa rende buono il
buon samaritano? Secondo Kant, se avesse prestato soccorso al bisognoso
pensando che farlo lo avrebbe aiutato ad andare in paradiso, la sua non
sarebbe stata un’azione buona, perché equivaleva a trattare l’uomo alla
stregua di un mezzo per ottenere qualcosa. Anche se lo avesse aiutato solo
per compassione, come abbiamo visto, non si sarebbe trattato di un’azione
buona. Ma se l’ha aiutato perché si è reso conto che era suo dovere e che
era quella la cosa che chiunque avrebbe dovuto fare in quella situazione,
allora Kant avrebbe detto che il buon samaritano era buono.
La posizione di Kant riguardo le intenzioni risulta più facile da accettare
di quella riguardante le emozioni. La maggior parte di noi giudica gli altri
più per ciò che cercano di fare che per ciò che fanno effettivamente. Pensate
a come vi sentireste se veniste accidentalmente investiti da un genitore
mentre cerca di fermare il suo bambino che sta correndo per strada.
Paragonatelo a come vi sentireste se qualcun altro vi avesse deliberatamente
investito, per divertimento. Il genitore non aveva intenzione di farvi del
male; il teppista sì. Ma, come dimostra il prossimo esempio, le buone
intenzioni non sono sufficienti per rendere moralmente buona un’azione.
Suonano alla porta. Aprite. La vostra migliore amica, pallida, preoccupata
e ansimante, vi dice che qualcuno la sta inseguendo, qualcuno che vuole
ucciderla e che ha un coltello. La fate entrare e lei corre a nascondersi.
Passano pochi istanti e qualcun altro bussa alla porta: questa volta è il
sospetto assassino, con uno sguardo da pazzo negli occhi; chiede se la
vostra amica si trova lì, se si è nascosta in un armadio. Dov’è? Voi lo
sapete, è nascosta lì da voi, ma rispondete con una bugia: «È andata verso il
parco». Non c’è dubbio che abbiate fatto la cosa giusta suggerendo al
sospetto assassino di andarla a cercare dalla parte sbagliata. Probabilmente
le avete salvato la vita. Avete compiuto un’azione moralmente giusta.
Kant non è d’accordo. Secondo lui non avreste dovuto mentire; non
bisognerebbe farlo mai, neppure per proteggere un’amica da un sospetto
assassino. Si tratta comunque di un’azione moralmente sbagliata. Non ci
sono eccezioni, né scuse, e questo perché non possiamo permetterci che il
fatto di mentire tutte le volte che ci fa comodo divenga un principio
generale. In questo caso se aveste mentito e, a vostra insaputa, la vostra
amica fosse andata davvero verso il parco, avreste finito per aiutare il suo
assassino. In una certa misura, la sua morte sarebbe stata colpa vostra.
Questo esempio, che lo stesso Kant usò, mostra quanto estrema fosse la
sua posizione. Non ammetteva eccezioni al dire la verità o all’adempimento
del dovere morale. Tutti abbiamo il dovere assoluto di dire la verità o, come
lo chiamava Kant, un imperativo categorico a farlo. Un imperativo è un
ordine. Gli imperativi categorici sono diversi dagli imperativi ipotetici;
questi ultimi recitano: «Se vuoi x, allora fa’ y». «Se vuoi evitare la prigione,
non rubare» è un esempio di imperativo ipotetico. Gli imperativi categorici
sono differenti: impartiscono degli ordini. In questo caso l’imperativo
categorico sarebbe «Non rubare!», un ordine che ci dice qual è il nostro
dovere. Secondo Kant la morale era un sistema di imperativi categorici. Il
dovere morale è dovere morale indipendentemente dalle conseguenze e
dalle circostanze .
Kant pensava che ciò che ci rende umani, diversi da tutti gli altri animali,
sia esattamente la capacità di compiere razionalmente le nostre scelte. Se
non fossimo in grado di agire di proposito saremmo come macchine. Quasi
sempre chiedere a un essere umano «Perché lo fai?» è una domanda
sensata. Noi non agiamo solo spinti dall’istinto, ma sulla base della ragione.
Per Kant questo si traduce in una serie di ‘massime’ a cui ispirarsi. La
massima è proprio il principio che sta alla base dell’azione, la risposta alla
domanda «Perché lo fai?» Kant pensa che ciò che importa davvero sia la
massima alla base dell’azione, e sostiene che si dovrebbe agire solo sulla
base di massime universalizzabili, cioè applicabili a chiunque. Questo
significa che dovremmo compiere unicamente azioni che hanno senso per
chiunque si trovi nella medesima situazione. La domanda da farsi sempre è:
«Se facessero tutti così?» Non dobbiamo mai considerarci un caso a parte.
Per Kant ciò significa in pratica che il prossimo non deve essere usato ma
trattato con rispetto, riconoscendone l’autonomia, la capacità individuale a
prendere decisioni per proprio conto. Questo profondo rispetto nei confronti
della dignità e del valore degli individui è la base della moderna dottrina dei
diritti umani, ed è il grande contributo di Kant alla filosofia morale.
Possiamo comprenderlo più facilmente aiutandoci con un esempio.
Immaginate di essere i proprietari di un negozio che vende frutta. Quando i
clienti acquistano la frutta, siete sempre gentili e date sempre il resto esatto.
Magari agite così perché ritenete che sia utile per gli affari e che la gente
continuerà a venire volentieri a comprare da voi. Se è questa l’unica
ragione, il vostro è un modo per usare la gente ai vostri scopi. Non si può
sostenere razionalmente che tutti trattino gli altri come fate voi, quindi,
nella prospettiva proposta da Kant, il vostro non è un comportamento
morale. Se invece date il resto esatto perché ritenete che sia vostro dovere
non raggirare il prossimo, allora il vostro è un agire morale, perché si basa
sulla massima «Non raggirare il prossimo!», massima che secondo Kant
può essere applicata in qualsiasi caso. Ingannare il prossimo è un modo per
usarlo per i propri scopi; quindi non può essere un principio morale. Se tutti
ingannassero tutti, non potrebbe esistere alcuna forma di fiducia reciproca e
nessuno crederebbe più a nessuno.
Prendiamo un altro esempio. Immaginiamo di essere completamente in
rovina. Le banche non ci fanno prestiti, non abbiamo niente da vendere, e se
non paghiamo l’affitto di casa finiremo in mezzo alla strada. Non rimane
che una soluzione: andare da un amico e chiedergli che ci presti del denaro.
Gli promettiamo di restituirglielo, anche se sappiamo che non saremo in
grado di farlo. È la nostra unica risorsa; non abbiamo alternative, se
vogliamo pagare l’affitto. Si tratta di un comportamento accettabile? Kant
sostiene che chiedere in prestito del denaro a un amico sapendo che non lo
si restituirà è per forza immorale, e ce ne dà la dimostrazione razionale.
Sarebbe assurdo che tutti prendessero in prestito del denaro e promettessero
di restituirlo pur sapendo che non saranno in grado di farlo. Neppure questa
è una massima universalizzabile. Chiediamoci: «Se tutti facessero così?» Se
tutti facessero false promesse, qualsiasi promessa perderebbe valore. Se
un’azione non è giusta per tutti, non può essere giusta per voi. Quindi non
dovete compierla, perché sarebbe moralmente sbagliato.
Questo modo di pensare alla giustizia e all’ingiustizia, basato sul freddo
ragionamento invece che sui sentimenti, è molto diverso da quello di
Aristotele (vedi il capitolo 2). Per Aristotele la persona virtuosa ha sempre
un sentimento appropriato, e a partire da questo fa ciò che ritiene la cosa
giusta. Per Kant i sentimenti confondono, rendendo più difficile capire se
una persona stia compiendo l’azione giusta o se lo stia facendo solo
apparentemente. Oppure, se vogliamo vedere la cosa in un senso più
positivo: Kant rende la moralità accessibile a qualsiasi persona dotata di
intelletto, indipendentemente dal fatto che questa persona abbia o meno la
fortuna di provare un sentimento che la spinga ad agire bene.
La filosofia morale di Kant è profondamente diversa da quella di Jeremy
Bentham, che vedremo nel prossimo capitolo. Se Kant sosteneva che certe
azioni sono sbagliate indipendentemente dalle loro conseguenze, Bentham
pensava che fossero le conseguenze a contare, e solo quelle.
CAPITOLO 21

Praticamente felici
JEREMY BENTHAM

Se visitate lo University College, a Londra, potreste avere la sorpresa di


imbattervi in Jeremy Bentham (1748-1832), o meglio in quanto resta del
suo corpo, conservato in una teca di vetro. Sta seduto e vi guarda, tenendo
tra le ginocchia il suo bastone da passeggio preferito, che aveva
soprannominato «Macchia». La testa è di cera; quella vera, che un tempo
faceva mostra di sé insieme al resto, è mummificata e conservata in un
contenitore di legno. Bentham pensava che il suo vero corpo – che definiva
«auto-icona» – avrebbe funzionato meglio di una statua. Così, lasciò precise
istruzioni su cosa si sarebbe dovuto fare dei suoi resti dopo la morte. La sua
idea non ha mai preso molto piede, se si fa eccezione ad esempio per Lenin,
che è stato imbalsamato ed esposto in un apposito mausoleo.
Alcune idee di Bentham erano però decisamente più pratiche. Pensiamo al
suo progetto per una prigione in forma circolare, il Panopticon, che
descrisse come «macchina per la trasformazione dei malviventi in persone
oneste». Una torre al centro permette a un esiguo numero di guardie di
sorvegliare una moltitudine di detenuti senza che questi si rendano conto se
vengono osservati o meno. Questo principio architettonico sta alla base di
alcuni istituti di detenzione moderni e anche di diverse biblioteche. Era uno
dei suoi tanti progetti indirizzati a una riforma sociale.
Ma ben più importante e influente fu la teoria di Bentham a proposito di
come dovremmo comportarci nella nostra vita. Conosciuta come
Utilitarismo o principio della massima felicità , si tratta dell’idea secondo la
quale la cosa giusta da fare è quella che produce la massima felicità.
Bentham non fu il primo a proporre questo approccio alla filosofia morale
(prima di lui, per fare un nome, c’era stato Francis Hutcheson), ma fu il
primo a descrivere nei particolari come potesse essere messo in pratica. La
sua aspirazione era che le leggi inglesi venissero riformate in modo da
offrire agli individui maggiori possibilità di raggiungere una maggiore
felicità.
Ma cos’è la felicità? Ci sono diversi modi di intenderla. Per questa
domanda Bentham aveva una risposta molto diretta: ha a che fare con i
nostri sensi. La felicità è piacere e assenza di dolore. Maggiore è il piacere,
o comunque maggiore è la quantità di piacere rispetto a quella di dolore, e
maggiore è la felicità.
Per Bentham, gli esseri umani sono creature molto semplici. Dolore e
piacere sono dei perfetti indicatori di cui la natura ci ha dotato per orientarci
nella vita; andiamo alla ricerca delle esperienze piacevoli e rifuggiamo
quelle dolorose. Il piacere è l’unica cosa buona in sé; qualsiasi altra la
desideriamo perché pensiamo che ci darà piacere e ci eviterà il dolore. Se
ad esempio desideriamo un gelato, la cosa non è buona in sé, ma nella
misura in cui proviamo piacere nel gustarlo. Allo stesso modo cerchiamo ad
esempio di non scottarci con il fuoco, perché provocherebbe dolore.
Come si misura la felicità? Provate a pensare a un dato momento in cui vi
sentivate veramente felici. Cosa provavate? Potreste assegnare un voto a
quello stato di felicità – poniamo, sette o otto su una scala da zero a dieci?
Io ad esempio ricordo un tragitto in motoscafo a Venezia a cui assegnerei un
bel nove e mezzo – o addirittura un dieci nell’istante in cui il motoscafo ha
accelerato, il sole tramontava scaldando della sua luce quel panorama
meraviglioso e io sentivo la brezza della laguna sul viso e le risate eccitate
di mia moglie e dei miei figli. Assegnare una specie di voto a esperienze del
genere è tutt’altro che assurdo; Bentham riteneva che il piacere potesse
essere quantificato e che i diversi piaceri potessero essere messi a confronto
tramite un vero e proprio sistema di misurazione.
A questo metodo per calcolare la felicità diede il nome di «Felicific
Calculus». Prima di tutto bisogna sapere quanto piacere apporterà una
determinata azione. Tenete poi conto di quanto durerà il piacere, del suo
grado di intensità, di quanta probabilità c’è che generi ulteriori piaceri;
quindi sottraete le eventuali unità di dolore che la vostra azione potrebbe
generare. Il risultato dell’operazione è il valore dell’azione in termini di
felicità. Bentham lo definiva la sua «utilità», perché maggiore è il piacere
provocato da un’azione, maggiore è la sua utilità per la società. Per questo
la sua teoria è conosciuta come Utilitarismo. Mettete a confronto l’utilità di
una certa azione con i punteggi di altre possibili azioni, e scegliete quella
che genera più felicità. Semplice.
Ma quali sono le fonti di piacere? Sicuramente è meglio ricavare piacere
da qualcosa di nobile come leggere poesie che da giochi stupidi o
scorpacciate di gelato, no? Secondo Bentham, no. Non è importante da cosa
si ricava piacere. Per lui, sognare a occhi aperti può andare altrettanto bene
quanto assistere a una tragedia di Shakespeare, se entrambe le cose ci
rendono ugualmente felici. Per spiegarlo prese a esempio un gioco
stupidissimo in voga al suo tempo, chiamato ‘pushpin’, e la poesia. A
contare era solamente la quantità di piacere; se le due quantità si
equivalgono, i valori delle due attività saranno equivalenti. Dal punto di
vista utilitaristico, il pushpin è eticamente buono quanto leggere poesie.
Come abbiamo visto al capitolo 20, Immanuel Kant pensava che noi
avessimo dei doveri, come ad esempio «Non mentire», che sono validi in
qualunque circostanza. Bentham riteneva invece che la giustezza o meno
delle nostre azioni dipendesse dai loro risultati, che variano a seconda delle
circostanze. Mentire non è sempre necessariamente sbagliato; possono darsi
situazioni in cui affermare il falso è la cosa giusta da fare. Se un’amica vi
chiede come le stanno i jeans che indossa, da seguaci di Kant le direte la
verità, anche se sapete benissimo che non è quello che vorrebbe sentirsi
dire; da seguaci dell’Utilitarismo, valutereste se dirle solo una mezza verità
non la farà sicuramente più felice. In questo caso, mentire è la cosa giusta
da fare.
Alla fine del Diciottesimo secolo, l’Utilitarismo appariva come una teoria
‘scomoda’. Prima di tutto perché sostenendo il calcolo della felicità
presupponeva che la felicità di tutti avesse lo stesso valore; per dirla con
Bentham, «Tutti quanti contiamo per uno, nessuno conta per più di uno». A
nessuno era riservato un trattamento speciale; il piacere di un aristocratico
non contava più del piacere di un comune lavoratore, e questo non
rispecchiava affatto l’ordine sociale dell’Inghilterra di allora, quando
l’aristocrazia deteneva gran parte delle terre, sedeva alla Camera dei Lord
per diritto ereditario ed esercitava il potere legislativo. Non c’è da
sorprendersi che l’accento posto da Bentham sull’uguaglianza potesse dare
fastidio, e forse ancora più scandalosa per quell’epoca fu la sua convinzione
dell’importanza del benessere degli animali. Essendo capaci di provare
piacere e dolore, anche loro erano parte della sua equazione sulla felicità.
Non importava che non fossero in grado di compiere veri e propri
ragionamenti o di parlare (come invece sarebbe importato a Kant); non
erano queste le caratteristiche necessarie dal punto di vista etico, secondo
Bentham. La sua argomentazione è alla base di molte delle odierne prese di
posizione in favore del benessere animale, come ad esempio quelle di Peter
Singer (vedi il capitolo 40).
Purtroppo per Bentham, il suo approccio che vede tutte le possibili cause
di piacere come equivalenti è stato ed è ferocemente criticato. Robert
Nozick (1938-2002) propose in merito questo esperimento mentale.
Immaginate una macchina della realtà virtuale che vi dia l’illusione di
vivere ed elimini qualsiasi rischio di dolore e sofferenza. Se veniste
introdotti in questa macchina per un breve lasso di tempo, dimentichereste
che non vi trovate più nella realtà vera e verreste completamente
abbindolati dall’illusione. La macchina genera per voi un’intera gamma di
esperienze piacevoli; è come un generatore di sogni che può far sì che
immaginiate, ad esempio, che state segnando il gol vincente nella finale
della Coppa del Mondo di calcio, o che vi trovate in un meraviglioso luogo
di vacanza; insomma, ricevete il massimo di piacere che possa essere
simulato. Ora, dato che questa macchina massimizza i vostri stati mentali di
beatitudine, dovreste, se Bentham ha ragione, chiudervi dentro di essa per
tutta la vita; in questo modo massimizzereste il piacere e minimizzereste il
dolore. E invece molti, pur divertendosi a sperimentare un aggeggio del
genere di tanto in tanto, si rifiuterebbero di passarci dentro la vita, perché
ritengono che vi siano altre cose più meritevoli di essere vissute di una serie
di stati mentali di beatitudine. In altre parole, Bentham si sbagliava
asserendo l’equivalenza dei mezzi in grado di darci lo stesso grado di
piacere. Non tutti siamo guidati esclusivamente dal desiderio di
massimizzare la felicità e minimizzare il dolore. Questo tema venne ripreso
più avanti da un grande allievo di Bentham e suo critico postumo, John
Stuart Mill.
Bentham era profondamente immerso nel suo tempo, in cerca di soluzioni
ai problemi della società in cui viveva. Georg Wilhelm Friedrich Hegel
sostenne di essere in grado di porsi un gradino sopra e guardare dall’alto
l’intero corso della storia dell’umanità, intravvedendo al di sotto di essa un
disegno che poteva essere afferrato solo dalle menti più brillanti.
CAPITOLO 22

La nottola di Minerva
GEORG W. F. HEGEL

«La nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo». Così
pensava Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831). Ma cosa significa
questa frase? In verità, la domanda «cosa significa?» sorge spesso in chi
legge le opere di Hegel. I suoi scritti risultano diabolicamente difficili,
anche perché, come nel caso di Kant, usano un linguaggio molto astratto e
spesso impiegano termini inventati dall’autore stesso. Nessuno può dire di
averli compresi totalmente, forse neppure lui. La frase della nottola è una
delle più semplici da decifrare: con queste parole Hegel intende dire che
nella storia dell’umanità la piena comprensione delle cose giunge solo in
uno stadio avanzato, quando si volge lo sguardo all’indietro su ciò che è
accaduto, come fa chi, quando scende la sera, ripensa agli eventi della
giornata.
Minerva era la dea romana della sapienza, e veniva associata alla saggia
nottola – una specie di civetta. Se Hegel fosse un gran saggio oppure un
matto è ancora materia di discussione, ma di certo fu un pensatore
determinante: la sua idea della storia ispirò Karl Marx (vedi il capitolo 27) e
ciò si rivelò determinante, vista la spinta rivoluzionaria esercitata dalle idee
di Marx nel Ventesimo secolo. Hegel suscitò però anche irritazione in certi
ambienti filosofici. Alcuni pensatori citano la sua opera come esempio del
rischio che si corre usando impropriamente certi termini. Bertrand Russell
(vedi il capitolo 31) lo trattò persino con disprezzo, e A. J. Ayer (vedi il
capitolo 32) ebbe a dichiarare che gran parte delle affermazioni di Hegel
non avevano alcun nesso con la realtà. Per Ayer, gli scritti di Hegel non
davano informazioni più di quante ne diano le filastrocche per bambini,
oltre a essere molto meno divertenti. Altri invece, tra cui Peter Singer (vedi
il capitolo 40), riconoscono al suo pensiero una grande profondità, e
sostengono che i suoi scritti risultano difficili da comprendere perché si
cimentano con idee originali e ardue da afferrare.
Hegel nacque a Stoccarda, nell’attuale Germania, nel 1770 e crebbe nel
periodo della Rivoluzione francese, quando la monarchia venne rovesciata e
rimpiazzata dalla repubblica. Egli definì quegli eventi ‘una splendida
aurora’ e con i suoi compagni dell’università di Tubinga piantò un albero
per commemorarli. Quel periodo di instabilità politica e di profonde
trasformazioni lo influenzò per il resto della sua vita; nell’aria era palpabile
la sensazione che quelli che fino a quel momento erano stati considerati
come pilastri insostituibili dell’ordine sociale e politico potessero essere
rovesciati, e che quanto era stato considerato immutabile non lo fosse
affatto. Ne conseguiva, tra le altre cose, un modo diverso di guardare
proprio alle idee: esse ora apparivano inseparabili dal loro tempo, non
pienamente comprensibili se estrapolate dal loro contesto storico. Hegel
pensava che proprio in quegli stessi anni che egli stava vivendo la storia
avesse raggiunto uno stadio cruciale. Per quanto riguarda la sua storia
personale fu effettivamente così, perché lui passò dall’oscurità alla fama;
iniziò a lavorare come insegnante privato presso una famiglia facoltosa, poi
passò a dirigere una scuola, e infine venne nominato professore
all’università di Berlino. Alcuni dei suoi libri nacquero dagli appunti delle
sue lezioni, redatti per aiutare gli studenti a comprendere la sua filosofia.
Quando passò a miglior vita era il filosofo più famoso e ammirato del suo
tempo: un fatto sorprendente, se si pensa alla difficoltà dei suoi scritti. Un
gruppo di studenti entusiasti si dedicarono anima e corpo a interpretare e
discutere il suo pensiero e a farne emergere le implicazioni politiche e
metafisiche.
Pur profondamente influenzato dalla metafisica di Kant (vedi il capitolo
19), Hegel finì però per rigettare l’idea kantiana dell’esistenza di una realtà
noumenica al di là del mondo dei fenomeni. Non esistono, secondo lui, dei
noumena oltre la percezione che è all’origine della nostra esperienza: la
mente stessa che dà forma alla realtà è la realtà, e non vi è nulla al di là di
essa. Questo, però, non significa che la realtà sia qualcosa di fissato una
volta per tutte; per Hegel, tutto è in perpetuo mutamento, e questo
mutamento prende la forma di un graduale incremento dell’autocoscienza;
la nostra, in particolare, viene determinata dal tempo in cui viviamo.
Si pensi alla storia come a una lunga striscia di carta arrotolata su se
stessa. Non potremo mai comprenderla pienamente finché non si sarà
srotolata completamente, né potremo mai sapere cosa c’è scritto sull’ultima
pagina finché non ce l’avremo davanti. Il suo svolgimento obbedisce a una
struttura sottostante: secondo Hegel la realtà è in costante movimento verso
la sua meta, che è l’autocoscienza.
La storia, quindi, non ha nulla di casuale; si muove in una direzione
precisa. Quando la ripercorriamo ci rendiamo conto che doveva andare così.
A un primo sguardo, quest’idea appare strana; è probabile che la maggior
parte delle persone non la condivida. Per la maggior parte di noi la storia è
più vicina alla descrizione che ne fece Henry Ford: «Nient’altro che una
maledetta cosa dopo l’altra», una serie di eventi che si succedono senza
alcun disegno complessivo. Possiamo studiarla, rinvenire le probabili cause
di un avvenimento e fare previsioni su quanto potrebbe accadere in futuro;
ma ciò non ha nulla da spartire con il disegno ineluttabile a cui pensava
Hegel: non significa che la storia vada in una direzione, e tantomeno che il
suo sia un percorso verso l’autocoscienza.
Lo studio hegeliano della storia non era un ambito separato dalla sua
filosofia, ma parte integrante di essa, anzi: la parte principale. Storia e
filosofia, nella sua concezione, erano strettamente intrecciate, e tutto
procedeva in direzione del meglio. Non si trattava certo di un’idea
originale; le religioni, tipicamente, spiegano che la storia tende verso un
punto finale, come il secondo avvento di Cristo. Hegel era cristiano, ma in
questo il suo punto di vista era tutt’altro che ortodosso. A suo parere, il
risultato finale della storia non era affatto il secondo avvento; la storia
aveva un obiettivo finale che fino a quel momento nessuno aveva
considerato nel suo valore: il progressivo e inevitabile raggiungimento
dell’autocoscienza dello spirito attraverso il cammino della ragione.
Ma cos’è lo spirito? E cosa significa che diventa autocosciente? Il termine
tedesco per ‘spirito’ è Geist. Gli studiosi sono in disaccordo sul suo
significato nel contesto del pensiero hegeliano; alcuni preferiscono tradurlo
con ‘mente’. Hegel sembra indicare, con quel termine, qualcosa come la
mente dell’intera umanità. Hegel era idealista; pensava che questo spirito o
mente fosse a fondamento delle cose, e trovasse espressione nel mondo
fisico (all’opposto dei materialisti, per i quali la realtà fisica è alla base di
tutto). Hegel vede la storia del mondo come una progressiva affermazione
della libertà. Dalla libertà individuale, attraverso la libertà di alcuni ma non
di altri, stiamo andando verso un mondo in cui tutti sono liberi all’interno di
uno stato che permette a ciascuno di dare il proprio contributo alla
collettività.
Hegel descrive il progresso del pensiero come un processo che deve
necessariamente passare attraverso il conflitto tra un’idea e il suo opposto.
L’avvicinamento alla verità segue il metodo dialettico. Un’idea – una tesi –
viene enunciata. A questa tesi si contrappone il suo opposto – l’antitesi.
Dallo scontro fra queste due posizioni ne emerge una terza, più complessa,
che tiene conto di entrambe: la sintesi. A sua volta questa, di regola, dà
inizio a un nuovo processo dello stesso tipo: la nuova sintesi diventa una
tesi, alla quale si contrappone un’antitesi. E avanti così, fino alla compiuta
autocoscienza dello spirito.
La spinta propulsiva che muove la storia è la comprensione, da parte dello
spirito, della propria libertà. Hegel ricostruisce questo percorso a partire da
coloro che vivevano sottoposti ai regimi tirannici dell’antica Cina e
dell’India, che non sapevano di essere liberi. Presso quei popoli orientali
solo colui che deteneva il potere supremo poteva dirsi libero. Gli antichi
Persiani erano leggermente più sofisticati nel modo di intendere la libertà,
ma vennero sconfitti dai Greci, e questo fu un progresso. I Greci e, più
tardi, i Romani erano più consapevoli della libertà rispetto ai loro
predecessori, ma tenevano i loro simili in schiavitù: segno che non
riconoscevano l’idea che l’intera umanità dovesse essere libera, non solo i
ricchi e i potenti. In un famoso passaggio della sua Fenomenologia dello
Spirito (1807), Hegel riflette sulla dialettica fra padrone e servo. Il padrone
vuole essere riconosciuto come soggetto dotato di coscienza di sé, e per
ottenere ciò ha bisogno dello schiavo; però non riconosce che anche lo
schiavo merita lo stesso riconoscimento. Questa relazione impari conduce a
una lotta in cui uno dei due soccombe, fatto in seguito al quale, però, il
vincitore si auto-sconfigge. Alla fine, servo e padrone riconoscono la
necessità l’uno dell’altro e di rispettare l’altrui libertà.
Hegel sostiene che solo con il Cristianesimo, che dà il via a una
consapevolezza del valore dello spirito, è possibile la vera libertà. Con
l’avvento del Cristianesimo la storia realizza il proprio obiettivo. Lo spirito
diviene consapevole della propria libertà e la società che ne risulta è
ordinata secondo i princìpi della ragione. Per Hegel, questo era un
presupposto molto importante: la vera libertà è possibile solo in una società
ben organizzata. Ciò che desta inquietudine in molti interpreti del pensiero
hegeliano è che, nella società ideale da lui immaginata, coloro che non si
adattano all’ideale sociale dei suoi potenti organizzatori verranno, proprio
in nome della libertà, obbligati ad accettare quel sistema ‘razionale’; per
dirla con l’espressione paradossale usata da Rousseau, verranno «obbligati
a essere liberi» (vedi il capitolo 18).
Il risultato finale di tutta la storia si rivelò essere il raggiungimento da
parte di Hegel stesso della consapevolezza della struttura della realtà.
Pensava di averlo raggiunto nelle pagine finali di uno dei suoi libri, nel
punto in cui lo spirito comprende se stesso per la prima volta. Come Platone
(vedi il capitolo 1), Hegel attribuiva ai filosofi un ruolo privilegiato. Platone
riteneva che i filosofi dovessero governare la sua repubblica ideale; Hegel
pensava che solo loro fossero in grado di raggiungere un tipo particolare di
autocoscienza che è al tempo stesso consapevolezza della realtà e della
storia, un altro modo di mettere in atto la frase scolpita sul tempio di Apollo
a Delfi: «Conosci te stesso». I filosofi, a suo parere, sono in grado di
cogliere lo scopo finale che dà forma agli eventi, poiché sanno riconoscere
il funzionamento della dialettica che conduce all’autocoscienza. Tutto,
allora, diventa chiaro ai loro occhi, e il senso dell’intera storia umana è
palese. Lo spirito inaugura una nuova fase di autocoscienza. O, almeno,
così è in teoria.
Hegel ebbe molti ammiratori; Arthur Schopenhauer non era uno di loro.
Anzi, pensava che Hegel non fosse neppure un filosofo, perché gli
mancavano, secondo lui, serietà e sincerità nell’approccio alla materia. Per
quanto lo riguardava, la filosofia di Hegel era una stupidaggine. Hegel, per
parte sua, definì Schopenhauer «ripugnante e ignorante».
CAPITOLO 23

Scorci di realtà
ARTHUR SCHOPENHAUER

La vita è sofferenza; sarebbe meglio non essere nati. Sono pochi a vedere le
cose in modo tanto pessimistico, ma Arthur Schopenhauer (1788-1860) la
pensava davvero così. Secondo lui, siamo tutti prigionieri di un circolo
vizioso fatto di volere cose, ottenerle, e poi volerne delle altre. Un circolo
che si ferma solo con la nostra morte. Ogni volta che ci sembra di aver
ottenuto ciò che volevamo, iniziamo a volere qualcos’altro. Pensate che vi
basterebbe essere milionari per sentirvi appagati? Non durerebbe a lungo. A
un certo punto iniziereste a volere qualcosa che non avete. È insito nella
natura umana: provare insoddisfazione e non smettere mai di desiderare
dell’altro. Deprimente, non c’è dubbio.
Ma la filosofia di Schopenhauer non è cupa come sembra. Egli pensava
che se solo potessimo riconoscere la vera natura della realtà ci
comporteremmo molto diversamente, ed eviteremmo di incorrere negli
aspetti più tristi della condizione umana. Il suo messaggio era molto simile
a quello buddhista: secondo Buddha la sofferenza è insita nella vita stessa,
ma a un livello più profondo non c’è qualcosa come l’‘Io’: se riusciamo ad
accettarlo possiamo raggiungere l’illuminazione. Questa similitudine non è
un caso: a differenza di molti filosofi occidentali, Schopenhauer aveva una
profonda conoscenza della filosofia orientale. Teneva persino una statua di
Buddha sulla scrivania, accanto a quella di un altro dei suoi ispiratori:
Immanuel Kant.
A differenza di Buddha e di Kant, Schopenhauer era un uomo triste,
complicato e vanitoso. Era talmente convinto del proprio genio che,
ottenuto un incarico di docente a Berlino, insistette perché le sue lezioni si
tenessero negli stessi orari di quelle di Hegel. Non fu un’idea brillante,
perché Hegel era molto popolare presso gli studenti. Alle lezioni di
Schopenhauer non andava praticamente nessuno, mentre quelle di Hegel
erano strapiene. Andò a finire che Schopenhauer lasciò l’università e per il
resto della vita si mantenne grazie a una rendita.
La sua opera più importante, Il mondo come volontà e rappresentazione ,
venne pubblicata per la prima volta nel 1819, ma lui continuò a
rimaneggiarla, mandandone alle stampe una versione molto più corposa nel
1844. L’idea centrale è semplice. La realtà si presenta sotto due aspetti:
come volontà e come rappresentazione. La prima è la cieca forza motrice
insita in qualsiasi essere o cosa: è l’energia che fa crescere le piante e
moltiplicare gli animali, ma anche quella che orienta i magneti verso il
Nord e i minerali a legarsi nei composti chimici; è presente in ogni aspetto
della natura. L’altro aspetto, il mondo come rappresentazione , è il mondo
come noi ne facciamo esperienza.
Il mondo come rappresentazione è la realtà per come è costruita nella
nostra mente, ciò che Kant chiamava mondo fenomenico . Guardatevi
attorno: forse dalla finestra vedete degli alberi, delle persone o delle
automobili, e davanti a voi vedete questo libro; forse potete sentire gli
uccelli cantare, o il rumore del traffico, o quello proveniente dalla stanza
vicina. Ciò che state percependo è il mondo come rappresentazione. È la
maniera che avete di dare un senso a tutto, e che ha come condizione
necessaria la vostra coscienza. La vostra mente organizza le esperienze in
modo sensato. Questo mondo come rappresentazione è quello in cui
viviamo; ma Schopenhauer, come Kant, ritiene che oltre i confini della
nostra esperienza, oltre il mondo delle apparenze, vi sia un’altra realtà. Kant
la chiamava mondo noumenico, e pensava che non potessimo avervi
accesso; per Schopenhauer, il mondo come volontà era un po’ come il
mondo noumenico, anche se con le debite differenze.
Kant parlava di noumena , plurale di noumenon . Pensava che le realtà
potessero essere più di una. C’e da chiedersi come potesse saperlo, visto
che aveva dichiarato che il mondo noumenico ci è inaccessibile.
Differentemente da lui, Schopenhauer riteneva che la realtà noumenica non
potesse essere divisibile, perché la divisibilità richiede spazio e tempo; e
questi, secondo Kant, sono prodotti della mente umana, non realtà dotate di
esistenza autonoma. Il mondo come volontà era invece, nella descrizione di
Schopenhauer, un’unica, indistinta forza priva di direzione e presente in
qualsiasi cosa. Del mondo come volontà possiamo cogliere solo degli scorci
nelle nostre azioni e nella nostra fruizione dell’arte.
Fermatevi un momento e mettetevi una mano sulla testa. Cosa è successo?
Se qualcuno vi vedesse, noterebbe la mano alzarsi e andare a posarsi sul
vostro cranio. La stessa cosa la vedreste anche voi se foste davanti a uno
specchio. Questa è una descrizione del mondo fenomenico, il mondo come
rappresentazione. Ma la vostra azione di muovere la mano ha, secondo
Schopenhauer, anche un aspetto intrinseco, che potremmo cogliere in modo
diverso rispetto all’esperienza del mondo fenomenico. Non possiamo
percepire direttamente il mondo come volontà, però possiamo arrivarci
molto vicino quando compiamo deliberatamente delle azioni, quando
vogliamo che abbia luogo una determinata azione. Per questo egli sceglie il
termine ‘volontà’ per descrivere la realtà, anche se è solo nella condizione
umana che questa energia ha una qualche forma di connessione con
un’azione compiuta deliberatamente – non è in seguito a una decisione che
le piante crescono e le reazioni chimiche accadono. Notate come l’uso della
parola ‘volontà’ sia diverso da quello ordinario.
Quando qualcuno ‘vuole’ qualcosa, ha in mente uno scopo: sta cercando
di fare qualcosa. Ma non è questo ciò che Schopenhauer intende quando
descrive la realtà al livello del mondo come volontà. Questa Volontà
(potremmo scriverla con la V maiuscola) non ha scopo, o, come a volte
scrive Schopenhauer, è ‘cieca’. Non ha nulla a che vedere con il
raggiungimento di un risultato, un fine o una meta; è solo una sorta di
grande ondata di energia, presente in qualsiasi fenomeno naturale come nel
nostro deliberato volere qualcosa. Per Schopenhauer non c’è un dio che
imprima una direzione alle cose, né la Volontà è Dio. La condizione umana
è così: anche noi, come qualsiasi altra cosa esistente, siamo parte di questa
forza priva di senso.
Ci sono però delle esperienze che rendono la vita degna di essere vissuta,
e perlopiù sono quelle che hanno a vedere con l’arte. L’arte è capace di
bloccare, fermare per qualche istante il circolo vizioso di lotta e desiderio, e
a questo scopo la forma di arte più efficace è la musica perché, sostiene
Schopenhauer, essa è un’imitazione della Volontà. Per questo è in grado di
toccarci tanto profondamente. Se si ascolta con la giusta disposizione di
spirito una sinfonia di Beethoven, non se ne ricava semplicemente uno
stimolo emotivo, ma anche uno scorcio della realtà per come essa è
veramente.
Nessun altro filosofo ha attribuito all’arte un ruolo tanto centrale: non
dobbiamo quindi sorprenderci che Schopenhauer riscuota tanto successo
presso le persone creative di qualsivoglia disciplina. Compositori e
musicisti lo adorano perché riteneva la musica la più importante fra tutte le
forme d’arte. Le sue idee hanno esercitato grande influenza anche su
scrittori quali Lev Tolstoj, Marcel Proust, Thomas Mann e Thomas Hardy.
Dylan Thomas ha addirittura scritto una poesia ispirata alla descrizione
schopenhaueriana del mondo come volontà: si intitola The force that
through the green fuse drives the flower , ‘La forza che attraverso il verde
stelo sospinge il fiore’.
Ma Schopenhauer non si è limitato a descrivere la realtà e il nostro
rapporto con essa: aveva anche idee precise su come dovremmo condurre le
nostre vite. Se accettiamo l’idea di fare tutti parte di un’unica forza
propulsiva, e che le persone intese come individui esistano solo al livello
del mondo come rappresentazione, dovremmo comportarci diversamente.
Per Schopenhauer, fare del male a un altro individuo è una sorta di auto-
ferita, e questa constatazione è alla base di tutta la sua visione dell’etica. Se
ti uccido, distruggo una parte della forza vitale che ci unisce tutti. Fare del
male a un’altra persona è come un serpente che si morde la coda senza
sapere che sta affondando i denti nella sua stessa carne. L’etica promossa da
Schopenhauer è quindi quella della compassione; se intesa correttamente,
significa che gli altri non sono entità estranee a noi, e che se abbiamo cura
di loro è perché essi sono parte del tutto di cui tutti siamo parte: del mondo
come volontà.
Questa era la posizione etica ufficialmente promossa da Schopenhauer.
Resta il dubbio se egli stesso l’abbia mai applicata alla propria condotta. Un
giorno, infastidito da una signora anziana che stava chiacchierando davanti
alla porta di casa sua, la spinse giù dalle scale. La donna rimase invalida e
Schopenhauer venne condannato dal tribunale a pagarle un risarcimento per
il resto dei suoi giorni. Quando la donna morì, lui non mostrò nessuna
compassione, anzi: annotò in latino sul certificato di morte il gioco di parole
«obit anus, abit onus », che potremmo tradurre con «Morta la vecchia,
scaricato di un peso».
Ma c’è un altro modo, più estremo, per averla vinta sul circolo vizioso del
desiderio. Per evitare di rimanervi invischiati, basta ritirarsi dal mondo e
diventare degli asceti, vivendo in povertà e in castità: ecco l’atteggiamento
ideale per affrontare l’esistenza. Molte religioni orientali indicano questa
via. Per parte sua, Schopenhauer non divenne mai un asceta, anche se in
tarda età rinunciò a una vita sociale. Fino a quel momento aveva tratto
piacere dalla compagnia, intrecciato storie d’amore e goduto dei piaceri
della tavola. Verrebbe da tacciarlo di ipocrisia; in effetti, il pessimismo che
percorre tutte le sue opere è talmente profondo che, secondo alcuni, se
Schopenhauer vi avesse creduto davvero, avrebbe dovuto suicidarsi.
Il grande filosofo vittoriano John Stuart Mill, invece, era un grande
ottimista. Sostenne che il rigore nel pensiero e nella discussione potesse
agire positivamente sulla società e rendere migliore il mondo, un mondo in
cui sempre più persone avrebbero potuto vivere felici e appagate.
CAPITOLO 24

Spazio per crescere


JOHN STUART MILL

Immaginate di aver trascorso la maggior parte della vostra infanzia lontano


dagli altri bambini. Al posto di giocare avete imparato il greco antico e
l’algebra da un precettore privato, e intrattenuto interessanti conversazioni
con adulti di intelligenza superiore. Che razza di individui siete diventati?
Più o meno fu ciò che accadde a John Stuart Mill (1806-1873): essere una
specie di cavia pedagogica. Suo padre, James Mill, amico di Jeremy
Bentham, condivideva la concezione di Locke secondo la quale la mente di
un bambino è un contenitore vuoto, una sorta di foglio bianco. James Mill
era convinto che se si educa un bambino nel modo giusto ci sono buone
probabilità che diventi un genio. Così, fece istruire John a domicilio, in
modo da essere sicuro che non perdesse tempo giocando con i coetanei o ne
apprendesse dei comportamenti errati. Non lo imbottì però di nozioni, né lo
obbligò a studiare tutto a memoria, ma usò il sistema socratico delle
domande-risposte, incoraggiando il bambino ad analizzare ciò che imparava
e a non assimilarlo in modo acritico.
Il risultato fu sbalorditivo: il piccolo John studiava il greco antico a tre
anni, a sei scrisse una storia di Roma, a sette riusciva a comprendere i
dialoghi platonici in lingua originale. A otto iniziò a imparare il latino.
Dodicenne, aveva nozioni approfondite di economia, storia e politica, era in
grado di risolvere equazioni matematiche complesse e mostrava una
passione tutt’altro che superficiale per le scienze. Era un ragazzino
prodigio. A vent’anni era già una delle menti più brillanti del suo tempo,
anche se non riuscì a superare quella sua infanzia così particolare e rimase
per tutta la vita un tipo solitario e per certi versi fuori dal mondo.
Non c’erano dubbi, però, che fosse diventato una sorta di genio;
l’esperimento di suo padre aveva funzionato. Si distinse come attivista
contro le ingiustizie, fu un anticipatore del femminismo (venne addirittura
tratto in arresto per aver promosso il controllo delle nascite), un politico, un
giornalista e un grande filosofo, forse il più grande del Diciannovesimo
secolo.
Mill ricevette un’impostazione utilitaristica, e l’influenza di Bentham su
di lui fu immensa. La famiglia Mill trascorreva l’estate a casa di Bentham,
nel Surrey. Ma per quanto concordasse con Bentham sull’idea che l’azione
giusta è quella che procura la maggiore felicità possibile, pervenne alla
convinzione che l’equivalenza felicità = piacere propugnata dal suo maestro
fosse troppo semplicistica, e costruì una sua versione della teoria
proponendo una gerarchia tra i piaceri.
Se ci fosse dato scegliere, preferiremmo essere dei porci, felici di rotolarci
nel fango e abbuffarci di ciò che troviamo nel truogolo, o degli esseri umani
infelici? Mill pensava che senza dubbio avremmo preferito la vita da esseri
umani infelici a quella da porci felici. Ciò contraddiceva il pensiero di
Bentham il quale, come ricorderete, sosteneva che l’unica cosa che conta
sono le esperienze piacevoli, indipendentemente da cosa le produca. Mill
non era d’accordo. Pensava che i piaceri potessero essere di tanti tipi e che
alcuni di essi fossero migliori di altri, al punto che la maggior quantità
possibile di piaceri di grado inferiore non risulta preferibile alla minor
quantità di piaceri di grado superiore. I piaceri di grado inferiore, come
quelli di cui può godere un animale, non possono competere con quelli di
grado superiore, come quello di leggere un libro o assistere a un concerto.
Mill si spinse ancora oltre, e sostenne che sarebbe stato meglio essere un
Socrate insoddisfatto piuttosto che uno scemo soddisfatto. Questo perché il
sottile piacere che il filosofo Socrate era in grado di ottenere dal proprio
pensiero era molto più soddisfacente di quello che uno scemo potrebbe mai
raggiungere in tutta la vita.
Perché? Mill rispondeva che chiunque avesse provato entrambi i tipi di
piaceri preferiva quelli di grado superiore. Il maiale non può leggere né
ascoltare musica classica, quindi la sua opinione non conta. Se un maiale
fosse in grado di leggere, preferirebbe fare quello piuttosto che rotolarsi nel
fango.
Questo era ciò che Mill pensava. Alcuni obiettarono che egli dava troppo
per scontato che chiunque fosse d’accordo con lui sulla gerarchia dei
piaceri. Inoltre, se si distingue tra diverse qualità di felicità (superiore e
inferiore), oltre che tra diverse quantità, diventa più difficile capire in base a
cosa una persona dovrebbe fare i propri calcoli per decidere come
comportarsi. Una delle grandi qualità dell’approccio di Bentham era la sua
semplicità; quale che fosse il tipo di piacere e di dolore, venivano tutti
misurati con lo stesso criterio. Mill invece non fornisce alcuno strumento
per calcolare il ‘tasso di cambio’ fra le diverse unità di piacere superiore e
inferiore.
Nondimeno, egli applicò il pensiero utilitaristico a tutti gli aspetti della
vita. Vedeva gli esseri umani come delle specie di alberi. Se a un albero non
si fornisce spazio sufficiente per crescere, sarà un albero contorto e fragile.
Piantato nella posizione giusta, crescerà al massimo delle sue possibilità,
alto e rigoglioso. Allo stesso modo, gli esseri umani che vivono nelle
condizioni adatte possono prosperare, e ciò ha conseguenze positive non
solo per loro stessi, ma per l’intera società: massimizza la felicità. Nel 1859
Mill pubblicò un breve ma illuminante saggio in cui sosteneva che fornire a
ogni individuo uno spazio per realizzarsi nel modo che riteneva più adatto
fosse il miglior sistema di organizzazione sociale. Il libro si intitola Sulla
libertà ed è letto moltissimo ancora oggi.
Con il termine ‘paternalismo’ s’intende l’obbligare qualcuno a fare
qualcosa ‘per il suo bene’ (si potrebbe anche dire ‘maternalismo’, qualora
lo si facesse derivare da mater , madre, invece che da pater , padre). Se da
bambini siete stati costretti a mangiare verdura, comprenderete subito
questo concetto. Le verdure non vi piacevano, ma i vostri genitori vi
costringevano a mangiarle per il vostro bene. Mill pensava che il
paternalismo fosse giusto quando veniva esercitato nei confronti dei
bambini, che devono essere protetti da loro stessi e i cui comportamenti
devono essere controllati per molti aspetti. Riteneva invece che fosse
inaccettabile se esercitato all’interno di una società civile nei confronti di
individui adulti. Poteva risultare giustificabile unicamente di fronte a un
adulto che rischiasse di fare del male a qualcun altro o che fosse affetto da
seri problemi psichici.
Il messaggio di Mill era semplice, ed è noto come principio del danno .
Qualunque individuo adulto dovrebbe essere libero di fare ciò che desidera,
a condizione che ciò non provochi danni ad altri. Si trattava di un’idea
decisamente ardita per l’Inghilterra vittoriana, in cui era convinzione
comune che il ruolo delle istituzioni fosse imporre regole morali alla gente.
Mill non era d’accordo. Pensava che una felicità maggiore sarebbe stata
raggiunta da persone a cui venisse lasciata maggior libertà. E non erano
solo le istituzioni a preoccupare Mill: egli odiava quella che chiamava ‘la
tirannia della maggioranza’, il modo in cui la pressione sociale impediva
agli individui di fare ciò che volevano o di diventare ciò che aspiravano a
essere.
Qualcuno potrebbe ritenere di sapere cosa può farvi felici; in genere, le
persone di questo tipo hanno torto. Voi ne sapete sicuramente di più su cosa
volete fare della vostra vita. E anche se non è così, pensava Mil, è meglio
lasciare che ciascuno compia i propri errori piuttosto che obbligarlo a
seguire un determinato modo di vivere. Quest’idea è assolutamente
coerente con il suo utilitarismo, perché egli era convinto che ampliare le
libertà individuali producesse una felicità generale maggiore di quanta ne
produca limitarle.
Secondo Mill, i geni (e lui lo sapeva bene, visto che era uno di loro) per
progredire hanno bisogno di ancor più libertà degli altri. Raramente
soddisfano le aspettative della società su come bisognerebbe comportarsi, e
spesso appaiono eccentrici. Tarparne lo sviluppo equivale a una perdita per
l’intera collettività, perché essi potrebbero non dare alla società il loro pieno
contributo. Se quindi si vuole ottenere il massimo della felicità, si deve
lasciare che gli individui facciano ciò che vogliono della loro vita, senza
interferire; a meno che, chiaramente, con le loro azioni essi non procurino
danni ad altri. Magari troviamo che agiscano in un modo che, ai nostri
occhi, risulta offensivo; ma questa non è una buona ragione per
impedirglielo. Mill era estremamente chiaro su questo punto: non si deve
confondere l’offesa con il danno.
L’approccio di Mill ha alcune conseguenze decisamente problematiche.
Immaginate un uomo che non ha una famiglia e che decide di bere due
bottiglie di vodka tutte le sere. Non vi è dubbio che questa decisione lo
porterà alla morte. La legge deve intervenire per impedirglielo? No,
risponde Mill, a meno che con il suo comportamento l’uomo non danneggi
altre persone. Magari possiamo discutere con lui, avvertirlo che si sta
autodistruggendo, ma non dobbiamo impedirglielo; non dovrebbero farlo
neppure le istituzioni, perché suicidarsi a forza di alcol è una sua libera
scelta. Sarebbe diverso, ad esempio, se dovesse occuparsi di un figlio
piccolo; ma se non c’è nessuno che dipenda da lui, può fare ciò che gli pare.
Mill riteneva anche che tutti dovessero essere lasciati liberi di pensare e di
esprimere ciò che volevano. La libertà di parola e di discussione è secondo
lui molto utile per la società, perché obbliga le persone a riflettere sulle
proprie convinzioni. Se nessuno mette in discussione le tue idee con idee
opposte, finirai probabilmente per darle per scontate come dogmi privi di
vita, pregiudizi che non sarai in grado di argomentare. L’unico freno alla
libertà di parola dovrebbe essere quando essa incita alla violenza. Ad
esempio, un giornalista deve essere libero di scrivere un editoriale in cui si
dice che i commercianti di grano affamano i poveri; se però trascrive quella
frase su un cartello e va ad agitarlo davanti all’abitazione di un
commerciante di grano in presenza di una folla inferocita, allora si tratta di
un incitamento alla violenza e, in base al principio del danno, gli dev’essere
impedito di farlo.
Molti non concordavano con Mill. Pensavano che il suo approccio alla
libertà fosse troppo centrato sull’idea che ciò che conta siano le scelte di
vita dei singoli (è molto più individualistico, ad esempio, del punto di vista
di Rousseau; vedi il capitolo 18). Altri lo ritenevano propugnatore di un
permissivismo che avrebbe minato la moralità della società, con
conseguenze catastrofiche. Un suo contemporaneo, un certo James
Fitzjames Stephen, sosteneva che la maggior parte delle persone dovesse
essere tenuta a freno, impedendo loro di scegliere più di tanto, perché molti,
una volta che gli si è data briglia sciolta, tendono a incattivirsi e a diventare
autodistruttivi.
Un argomento rispetto al quale Mill precorse i tempi fu la questione
femminile. Nel Diciannovesimo secolo in Inghilterra le donne sposate non
potevano essere proprietarie di alcunché, ed erano ben poco tutelate contro
le violenze, anche sessuali, inferte loro dai mariti. Nel suo L’asservimento
delle donne (1869) Mill sostiene la parità dei sessi sul piano giuridico e in
ogni altro risvolto sociale. A coloro che sostenevano la naturale inferiorità
delle donne rispetto agli uomini chiedeva come potessero esserne tanto
sicuri, visto che alle donne veniva perlopiù impedito di esprimersi al loro
meglio, tenendole lontane dall’istruzione superiore e da numerose
professioni. Soprattutto, Mill avrebbe voluto una maggiore uguaglianza; il
matrimonio, secondo lui, avrebbe dovuto essere un’amicizia tra pari. Il suo
stesso matrimonio con la vedova Harriet Taylor, che venne celebrato
quando essi erano già in età matura, era esattamente una relazione di questo
tipo, e procurò loro grande felicità. Erano stati amici intimi (e
probabilmente anche amanti) quando il marito di lei era ancora vivo, ma
Mill aveva dovuto attendere il 1851 per diventare il suo secondo consorte.
Harriet collaborò alla stesura sia del Saggio sulla libertà sia di
L’asservimento delle donn e ; purtroppo morì prima che venissero
pubblicati.
Il Saggio sulla libertà andò alle stampe nel 1859. Nello stesso anno
vedeva la luce un altro libro, ancora più importante: Sull’origine della
specie di Charles Darwin.
CAPITOLO 25

Il progetto ottuso
CHARLES DARWIN

«Lei è parente delle scimmie da parte di madre o di padre?» fu la maliziosa


domanda posta a Thomas Henry Huxley dal vescovo Samuel Wilberforce
durante un famoso dibattito tenutosi presso l’Oxford Museum of Natural
History nel 1860. L’intenzione del vescovo era prendere in giro e insultare
allo stesso tempo, ma la domanda gli si rivoltò contro. Huxley mormorò
sottovoce: «Grazie, Dio, per averlo consegnato nelle mie mani» e replicò
che avrebbe preferito essere parente di una scimmia piuttosto che di un
essere umano che si facesse beffe della scienza. Avrebbe potuto anche
spiegare che in tempi sicuramente assai remoti i suoi antenati discendevano
dai primati da entrambe le parti, di padre e di madre. Così sosteneva
Darwin, e la cosa valeva per chiunque.
Quest’idea provocò grande scalpore, fin dal momento in cui L’origine
delle specie venne pubblicato nel 1859. Da allora in poi non fu più possibile
pensare agli esseri umani come creature sostanzialmente diverse dal resto
del regno animale. Gli esseri umani non erano più qualcosa a sé, ma parte
della natura, come qualsiasi altro animale. Per noi questa idea è scontata,
ma in epoca vittoriana non lo era affatto.
Per riconoscere la nostra parentela con le scimmie basta trascorrere
qualche minuto osservando uno scimpanzé o un gorilla, o guardarsi bene
allo specchio, ma ai tempi di Darwin era opinione unanime che gli esseri
umani fossero radicalmente diversi dal resto degli animali, e l’idea che
condividessero con le scimmie dei lontani antenati suonava ridicola. Erano
in tantissimi a ritenere che le affermazioni di Darwin fossero quelle di un
pazzo e il prodotto del Demonio. Gran parte dei cristiani erano saldamente
aggrappati alla convinzione che il libro della Genesi raccontasse la vera
storia di come Dio avesse creato il mondo e tutto ciò che vi è in esso,
secondo un disegno preciso e immutabile. Credevano che tutte le specie
animali e vegetali fossero esattamente le stesse dai tempi della Creazione.
Ancora oggi c’è chi continua a rifiutarsi di credere che noi siamo il prodotto
di un’evoluzione.
Darwin era un biologo e un geologo, non un filosofo; vi chiederete allora
perché gli dedico un capitolo di questo libro. Il motivo è che la teoria
dell’evoluzione per selezione naturale e le sue revisioni moderne hanno
esercitato un profondo impatto su ciò che i filosofi – per non parlare degli
scienziati – pensano dell’umanità; in due parole, perché è la teoria
scientifica più importante di tutti i tempi. Il filosofo contemporaneo Daniel
Dennett l’ha definita «l’idea migliore che chiunque abbia mai avuto». La
teoria spiega come gli esseri umani e le piante e gli animali che li
circondano sono diventati ciò che sono, e come non smettono di cambiare.
Tra le conseguenze di questa teoria scientifica c’è il fatto che credere che
Dio non esista risulta più semplice di quanto non sia mai stato. Lo zoologo
Richard Dawkins scrisse: «Non potevo immaginare di essere ateo prima del
1859, quando venne pubblicato L’origine delle specie ». Certo, gli atei
esistevano anche prima del 1859 – David Hume, il protagonista del capitolo
17, era probabilmente uno di loro – ma dopo di allora ve ne furono molti di
più. Non c’è bisogno di essere atei per credere nella teoria dell’evoluzione:
molti credenti sono anche darwinisti. Ma non si può essere darwinisti e
credere allo stesso tempo che Dio abbia creato le specie come sono oggi.
Da giovane, Darwin compì un viaggio di cinque anni sulla nave Beagle ,
visitando il Sud America, l’Africa e l’Australia. Fu l’avventura che gli
cambiò la vita; lo sarebbe stata per chiunque. Prima di allora non si era
distinto particolarmente come studioso, e nessuno si sarebbe aspettato che
potesse dare un contributo tanto determinante al pensiero umano. Non era
uno studente geniale, suo padre era convinto che fosse un perditempo e una
disgrazia per la famiglia, perché da ragazzo passava gran parte del suo
tempo dando la caccia ai topi e sparando loro. Aveva iniziato a studiare
medicina a Edimburgo, ma con risultati deludenti; così si era iscritto a
teologia a Cambridge, con l’intenzione di diventare pastore anglicano. Nel
tempo libero era un naturalista entusiasta, che collezionava piante e insetti;
da questo però non si sarebbe potuto immaginare che sarebbe diventato il
più grande biologo di tutti i tempi. Non aveva le idee chiare su cosa avrebbe
fatto veramente nella vita; fu il viaggio a bordo del Beagle a trasformarlo.
Si trattava di una spedizione scientifica intorno al mondo; uno dei suoi
scopi era tracciare le mappe delle coste. Malgrado la mancanza di una
qualifica, Darwin si prese il ruolo di botanico della spedizione, ma redasse
relazioni approfondite anche su rocce, fossili e animali dei luoghi in cui la
nave attraccava. La piccola imbarcazione si riempì presto degli esemplari
da lui raccolti. Fortunatamente, riuscì a spedirne la maggior parte in
Inghilterra, dove vennero immagazzinati per le successive ricerche.
La parte di gran lunga più notevole del viaggio risultò essere quella alle
Galapagos, l’arcipelago vulcanico distante 1000 km circa dalla costa
occidentale del Sud America, nell’oceano Pacifico, che il Beagle toccò nel
1835. Le isole pullulavano di animali interessantissimi da esaminare; tra
loro, tartarughe giganti e iguana di terra. Benché a quel tempo non gli fosse
ancora chiaro, i più importanti per la sua futura teoria dell’evoluzione
sarebbero risultati dei piccoli uccelli grigiastri. Darwin ne uccise una gran
quantità e li spedì in patria; sottoposti a un esame attento, risultarono
appartenere a ben tredici specie diverse. Le differenze più notevoli tra esse
si riscontravano nella forma del becco.
Una volta rientrato, Darwin accantonò il progetto di carriera religiosa; i
suoi invii di materiali fossili, piante e carcasse di animali lo avevano reso
famoso nell’ambiente scientifico. Divenne naturalista a tempo pieno e
trascorse diversi anni lavorando alla teoria dell’evoluzione, affermandosi
come il maggior esperto del mondo di cirripedi, un tipo di crostacei che
proliferano sugli scogli e sugli scafi delle navi. Più ci pensava, e più Darwin
si convinceva che le specie si evolvessero secondo un processo naturale e
che, ben lungi dall’aver raggiunto uno stadio definitivo, continuavano a
cambiare. Alla fine giunse a ipotizzare che le piante e gli animali più adatti
al loro ambiente avevano maggiori possibilità di sopravvivere
sufficientemente a lungo da trasmettere alcune caratteristiche alle
generazioni successive; a lungo andare, questo modello produceva piante e
animali che sembravano essere stati progettati per vivere nell’ambiente in
cui si trovavano.
Le isole Galapagos fornivano dei casi esemplari dell’operato
dell’evoluzione delle specie. Ad esempio, a un certo punto gli uccelli erano
giunti là dalla terraferma, probabilmente trasportati dai forti venti. Nel
corso delle generazioni si erano gradualmente adattati alle condizioni delle
diverse isole.
All’interno di una stessa specie, gli uccelli non sono tutti identici; sono
presenti anche molte varietà. Un uccello, ad esempio, può avere il becco
meno appuntito di un altro. Se possedere quel tipo di becco lo aiuta a
sopravvivere più a lungo, questo uccello ha più possibilità di riprodursi. Un
uccello dotato di un becco adatto per cibarsi di semi è adatto a un’isola in
cui siano presenti molti semi; lo è molto meno per un’isola dove la fonte di
cibo più abbondante è costituita dalla frutta a guscio, che richiede di essere
spaccata per poter essere mangiata. Un uccello per il quale sarebbe
problematico trovare cibo a causa della forma del becco stenterebbe a
sopravvivere abbastanza a lungo da riuscire a riprodursi; ciò renderebbe
meno probabile che il suo tipo di becco venga trasmesso alle generazioni
successive. Uccelli dotati di becco utile per procurarsi il cibo, invece, hanno
maggiori possibilità di trasmettere quella caratteristica alla loro progenie.
Così, su un’isola ricca di semi finirà per prevalere la specie di uccelli dotata
di becco adatto a raccogliere i semi. Nel giro di migliaia di anni si evolverà
in una specie nuova, molto diversa da quella originariamente giunta
sull’isola, e gli uccelli dotati di becco inadatto finiranno per estinguersi. Su
un’isola con caratteristiche diverse, a evolversi sarebbe un’altra specie di
uccelli. Nel corso di un lungo lasso di tempo, i becchi degli uccelli si
adattano sempre meglio all’ambiente. La presenza di ambienti diversi da
isola a isola fa sì che gli uccelli che vi prosperano siano quelli più adatti a
ciascun ambiente.
Anche prima di Darwin qualcuno aveva sostenuto che animali e piante si
erano evoluti; tra questi c’era stato suo nonno, Erasmus Darwin. Charles
aggiunse a quella tesi la teoria dell’adattamento per selezione naturale, il
processo che porta i più adatti a sopravvivere per trasmettere le proprie
caratteristiche.
La lotta per la sopravvivenza spiega ogni cosa. Non si tratta solo di una
battaglia tra membri di specie diverse; anche i membri della stessa specie
lottano fra loro. Sono tutti in competizione per trasmettere le proprie
caratteristiche alla generazione successiva. Per questo le caratteristiche di
animali e piante possono sembrare la creazione di una mente dotata di
intelligenza.
E invece l’evoluzione è un processo privo di pensiero. Alla sua base non
vi è né una mente, né un dio – o, perlomeno, perché essa accada non c’è
bisogno di nulla del genere. Si tratta di un processo impersonale, come
quello meccanico di una macchina che funziona in base a un automatismo,
un processo cieco perché non sa dove sta andando e non pensa né si
preoccupa degli animali e delle piante che produce. Quando ne osserviamo i
prodotti – piante e animali – ci risulta difficile non immaginare che siano il
prodotto di un disegno intelligente, della mente di qualcuno. Ma pensarlo è
un errore. La teoria di Darwin fornisce una spiegazione molto più semplice
ed elegante. Spiega anche perché esistono così tante forme di vita, in virtù
dell’adattamento delle diverse specie alle diverse condizioni che
caratterizzano il loro ambiente.
Nel 1858 Darwin non aveva ancora avuto il tempo di pubblicare le sue
scoperte. Stava ancora lavorando al suo libro. Un altro naturalista, Alfred
Russel Wallace (1823-1913) gli scrisse, accennando a una teoria
dell’evoluzione molto simile a quella che Darwin stava elaborando. Questa
coincidenza spinse Darwin a pubblicare le sue idee, dapprima presentandole
presso la Linnean Society di Londra, e l’anno successivo, il 1959, dando
alle stampe L’origine delle specie . Aveva lavorato per una vita alla sua
teoria, e non voleva che Wallace la esponesse prima di lui. Il libro lo rese
immediatamente famoso.
Ma non convinse tutti. Ad esempio, il comandante della Beagle , Robert
FitzRoy, scienziato egli stesso e inventore di un sistema di previsioni
meteorologiche, era un credente devoto e convinto del racconto biblico
della Creazione. Costernato per aver indirettamente contribuito a minare la
fede, si pentì di aver imbarcato Darwin sulla sua nave. I creazionisti ci sono
ancora oggi, sempre convinti che la storia raccontata dalla Genesi sia la
verità, la descrizione fedele dell’origine della vita, ma tra gli scienziati ha
prevalso largamente la convinzione che la teoria darwiniana sia la
spiegazione corretta del processo che sta alla base dell’evoluzione. Da
Darwin in poi un’enorme quantità di osservazioni si è accumulata a
conferma della sua teoria, e ne sono state date ulteriori versioni. La
genetica, ad esempio, ha spiegato dettagliatamente come funzionano i
meccanismi dell’ereditarietà. Ora sappiamo molte cose sui geni, i
cromosomi e i processi chimici che sovrintendono alla trasmissione delle
caratteristiche da un individuo a un altro. Le prove fornite dai ritrovamenti
fossili sono ancora più convincenti rispetto a quelle dei tempi di Darwin.
Per tutte queste ragioni, la teoria dell’evoluzione per selezione naturale è
molto più di un’ipotesi: è un’ipotesi fornita del supporto di prove
sostanziali.
Il darwinismo ha sicuramente demolito un argomento tradizionalmente
addotto a sostegno dell’esistenza di Dio, e scosso alle radici la fede di molti.
Ma Darwin stesso era il primo a tenere aperta la questione dell’esistenza di
Dio. In una lettera indirizzata a un altro studioso scrisse che l’umanità era
ben lungi dall’essere arrivata a una conclusione certa: «Si tratta di un
argomento troppo profondo per l’intelletto umano» spiegò. «Sarebbe come
se un cane provasse a spiegare il pensiero di Newton».
Un pensatore che era pronto a riflettere sulla fede religiosa e che, a
differenza di Darwin, la prese ad argomento centrale della propria opera, fu
Søren Kierkegaard.
CAPITOLO 26

I sacrifici della vita


SØREN KIERKEGAARD

Abramo riceve un messaggio da Dio, un messaggio terribile: deve


sacrificare suo figlio Isacco. Abramo si sente straziare il cuore: ama suo
figlio, ma è anche un uomo devoto e sa che deve obbedire a Dio. In questa
storia appartenente al libro della Genesi, nell’Antico Testamento, Abramo
porta suo figlio in cima a una montagna, il monte Moria, lo lega a un altare
di pietra e, quando è sul punto di scannarlo con un coltello, come Dio gli ha
chiesto di fare, Dio gli invia un angelo che ferma il massacro. Al posto di
Isacco, Abramo sacrifica un ariete catturato lì vicino. Dio ricompensa
Abramo per la sua lealtà permettendo a suo figlio di vivere.
In questa storia c’è un messaggio. Di solito si pensa che la morale sia
«Abbi fede, fa’ ciò che Dio ti chiede di fare, e tutto andrà per il meglio». In
altre parole, non bisogna mettere in questione la parola di Dio. Ma per il
filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855) non è così semplice. Nel
suo libro Timore e tremore (1843) egli cercò di immaginare cosa fosse
accaduto nella mente di Abramo, le domande, le paure e l’angoscia che lo
tormentarono durante i tre giorni di cammino da casa alla montagna dove
credeva avrebbe ucciso Isacco.
Kierkegaard era una persona molto particolare, e non si sentiva molto a
suo agio a Kopenaghen, dove viveva. Di giorno questo uomo minuto veniva
spesso visto camminare per la città conversando fitto fitto con qualcuno; gli
piaceva pensare di essere il Socrate danese. Scriveva la sera, in piedi
davanti alla scrivania, circondato da candele. Una delle sue strane abitudini
era farsi vedere durante l’intervallo degli spettacoli teatrali, in modo che
tutti pensassero che era uscito a divertirsi, mentre in realtà non aveva affatto
assistito allo spettacolo, ma era rimasto a casa a scrivere tutto il tempo. Era
uno scrittore indefesso, e nella vita privata aveva dovuto compiere una
scelta straziante.
Era stato innamorato di una giovane donna, Regine Olsen, e le aveva
chiesto di sposarlo. Lei aveva accettato. Lui però cominciò ad avere paura
di essere una persona troppo cupa e religiosa per sposarsi. Forse pensava di
dover vivere nel modo suggerito dal cognome della sua famiglia: in danese,
infatti, Kierkegaard significa ‘cimitero’. Scrisse a Regine che non poteva
più sposarla, e le restituì l’anello di fidanzamento. Stette malissimo e pianse
per parecchie notti di seguito. Lei, comprensibilmente, era distrutta e lo
implorò di ripensarci, ma lui rifiutò. Non è un caso, quindi, che la maggior
parte dei suoi scritti sia incentrata su come si debba vivere e sulla difficoltà
di capire se le decisioni che si prendono sono giuste.
La decisione e la scelta sono il tema della sua opera più famosa, Aut-Aut.
Al lettore vengono prospettate due alternative: o una vita di piacere e di
ricerca della bellezza, o una basata su regole morali più convenzionali; una
scelta tra estetica ed etica. Ma centrale nel libro è il tema della fede in Dio,
e la storia di Abramo. Per Kierkegaard quell’episodio della Genesi non ha a
che fare solo con la fede in Dio, ma con quel salto nel buio, quella decisione
presa sulla sola base della fede che potrebbe anche andare contro le idee
comunemente accettate su cosa sia bene fare.
Se Abramo fosse andato fino in fondo, uccidendo il proprio figlio,
avrebbe commesso un’azione moralmente sbagliata. Dovere di un padre è
aver cura dei propri figli, non legarli a un altare e sgozzarli durante un rito
religioso. Dio chiede ad Abramo di ignorare la legge morale e di compiere
un atto di fede. Nella Bibbia, Abramo è additato come esempio perché
ignora le accezioni comuni di giusto e sbagliato ed è disposto a sacrificare
suo figlio. Ma se invece avesse commesso un terribile errore? Se il
messaggio che gli era giunto non fosse stato di Dio? Poteva trattarsi di
un’allucinazione, magari Abramo era pazzo e sentiva le voci. Come poteva
essere sicuro di quanto aveva udito? Se avesse saputo in anticipo che Dio
non gli avrebbe permesso di andare fino in fondo, sarebbe stato tutto molto
semplice per lui. Ma fino al momento in cui alza il coltello su suo figlio,
Abramo crede davvero di ucciderlo. Per come la scena viene descritta nella
Bibbia, è questo il punto. La fede di Abramo ci colpisce così tanto perché
egli si fida ciecamente di Dio, a dispetto di qualsivoglia convenzione etica.
Diversamente, la sua non sarebbe vera fede. La fede implica il rischio; ed è
anche irrazionale, non si basa sulla ragione.
Kierkegaard pensava che talvolta i normali doveri sociali, come quello di
un padre nei confronti di un figlio, non sono i valori più autentici. Il dovere
di obbedire a Dio ha il sopravvento sul dovere di essere un buon padre,
come su qualsiasi altro dovere. Da un punto di vista umano, Abramo
potrebbe sembrare crudele e immorale anche solo per il fatto di poter
pensare di sacrificare il proprio figlio. Ma dobbiamo considerare il volere di
Dio come un asso in un gioco di carte, un asso che batte qualsiasi altra
carta, quale che sia il volere di Dio. Non c’è carta più vincente nel mazzo, e
la morale umana non ha più nessuna importanza. Certo, la persona che
mette da parte la morale a favore della fede compie una scelta dolorosa,
rischiando tutto senza sapere cosa ci guadagnerà e se ci guadagnerà
qualcosa, anzi senza sapere cosa accadrà; senza sapere neppure se l’ordine
che ha ricevuto proveniva davvero da Dio. Coloro che scelgono questa
strada sono destinati a rimanere soli.
Kierkegaard era cristiano, ma detestava la Chiesa danese e non riusciva ad
accettare l’atteggiamento davvero poco rigoroso che tenevano i cristiani
attorno a lui. Per lui la religione era una scelta che straziava il cuore, non un
pretesto per ascoltare canti stando comodamente seduti in chiesa. Ai suoi
occhi la Chiesa danese travisava il Cristianesimo e non poteva neppure dirsi
cristiana. Non c’è da sorprendersi se queste convinzioni non lo resero
popolare. Come Socrate, era un personaggio scomodo, fastidioso per quelli
che non gradivano le sue critiche e i suoi rimproveri.
Finora ho esposto le idee di Kierkegaard con una certa sicurezza, ma
vorrei precisare che non è sempre facile comprendere fino in fondo i suoi
scritti, e non a caso: era un pensatore che invitava gli altri a pensare con la
propria testa. Raramente scriveva firmandosi con il proprio nome; preferiva
usare degli pseudonimi. Ad esempio, scrisse Timore e tremore come
Johannes de Silentio, ‘Giovanni del Silenzio’. Non era solo un modo per
celare la propria identità, anche se probabilmente era questa la sua
intenzione; gli autori immaginari dei suoi libri sono veri e propri
personaggi, con un loro modo di vedere le cose, perché Kierkegaard
desiderava che il lettore ne comprendesse la posizione e si sentisse
coinvolto da quanto leggeva, guardando il mondo dal punto di vista del
personaggio e potendosi così fare un’idea personale riguardo ai diversi
approcci nei confronti della vita. Leggere le opere di Kierkegaard è molto
simile a leggere romanzi, e spesso egli racconta storie romanzesche per
illustrare le proprie idee.
In Aut-Aut , l’immaginario curatore del libro, Victor Eremita, racconta di
aver trovato un manoscritto nascosto in un cassetto segreto di uno scrittoio
di seconda mano. Il manoscritto è la parte più importante del libro e si
spiega che potrebbe essere stato redatto da due persone distinte, che il
curatore chiama A e B. La prima persona è un edonista, che incentra la
propria vita sull’evitamento della noia, ricorrendo a emozioni sempre
nuove, e racconta, sotto forma di diario, la storia di come ha sedotto una
fanciulla; il racconto procede come una novella e rispecchia per alcuni versi
la storia di Kierkegaard e Regine, solo che l’edonista, a differenza di
Kierkegaard, è interessato unicamente ai propri sentimenti. La seconda
parte dell’opera è scritta come se l’autore fosse un giudice che perora la
causa per una condotta di vita ispirata alla moralità. Lo stile della prima
parte riflette gli interessi di A: consiste di brevi pezzi che hanno per oggetto
l’arte, l’opera lirica e la seduzione, come se il loro autore non riuscisse a
fermare abbastanza a lungo i propri pensieri sullo stesso argomento. La
seconda è scritta con uno stile più serio e prolisso, che riflette
l’atteggiamento del giudice nei confronti della vita.
Se avete provato compassione nei confronti della povera Regine Olsen,
sappiate che dopo la travagliata relazione con Kierkegaard sposò un
impiegato statale; pare abbia avuto una vita felice. Kierkegaard invece non
si sposò, né ebbe un’altra fidanzata. Quello per Regine era vero amore, e la
fine del loro rapporto fu la principale fonte d’ispirazione di ciò che scrisse
durante la sua breve e tormentata esistenza.
Come spesso accade ai filosofi, finché visse (morì a 42 anni) Kierkegaard
non venne molto apprezzato. Nel Ventesimo secolo, invece, i suoi libri
divennero famosi presso gli esistenzialisti come Jean-Paul Sartre (vedi il
capitolo 33), che ne condividevano in particolare la tematica dell’angoscia e
della scelta in assenza di indicazioni etiche preconfezionate.
Per Kierkegaard ciò che contava di più era il punto di vista soggettivo,
l’esperienza del singolo di fronte alla scelta. A interessare Karl Marx,
invece, era un punto di vista collettivo. Come Hegel, aveva una visione
grandiosa del corso della storia e delle forze che lo guidavano. A differenza
di Kierkegaard, pensava che la religione non offrisse nessuna speranza di
salvezza.
CAPITOLO 27

Lavoratori di tutto il mondo, unitevi


KARL MARX

Nell’Inghilterra del Diciannovesimo secolo c’erano migliaia di cotonifici.


Dalle loro alte ciminiere usciva un fumo nero che riempiva le strade e
copriva ogni cosa con una coltre di fuliggine. Negli opifici uomini, donne e
bambini lavoravano anche quattordici ore al giorno per far funzionare i
macchinari. Non erano schiavi nel senso stretto della parola, ma venivano
pagati con salari bassissimi e le condizioni di lavoro erano dure e spesso
pericolose. Se perdevano la concentrazione potevano rimanere incastrati
negli ingranaggi e rimanere mutilati o uccisi. Le cure mediche erano ridotte
al minimo. Avevano poca scelta, però: se non avessero lavorato sarebbero
morti di fame. Se si licenziavano rischiavano di restare senza lavoro.
Continuando a lavorare in quelle condizioni, peraltro, non vivevano a
lungo, e solo pochi momenti della loro vita potevano dirsi veramente
vissuti.
Dall’altra parte, i proprietari delle fabbriche prosperavano. La loro
preoccupazione principale era incrementare i profitti. Possedevano del
capitale (il denaro che investivano per accumulare altro denaro); erano
proprietari degli edifici e dei macchinari; e si può dire che fossero
proprietari anche dei lavoratori. Questi ultimi, invece, non possedevano
praticamente nulla. Potevano solo vendere la loro capacità di lavorare e così
contribuire ad arricchire i loro padroni. Con il loro lavoro aumentavano il
valore delle materie prime acquistate dagli industriali. Quando il cotone
arrivava alla fabbrica valeva molto meno di quando ne usciva, ma quel
valore aggiunto andava per la maggior parte ai proprietari al momento della
vendita dei prodotti. I lavoratori venivano pagati il meno possibile, spesso
appena il necessario per sopravvivere. Non esisteva una previdenza sociale.
Se la domanda dei prodotti che fabbricavano calava, venivano cacciati e, se
non riuscivano a trovare un altro lavoro, lasciati morire di fame.
Quando il filosofo tedesco Karl Marx (1818-1883) iniziò a scrivere, negli
anni Trenta dell’Ottocento, erano queste le terribili condizioni prodotte
dalla Rivoluzione industriale, non solo in Inghilterra ma in tutta Europa.
Ciò lo faceva infuriare.
Marx era un egualitario: pensava che gli esseri umani dovessero essere
trattati tutti al medesimo modo. Ma nel sistema capitalistico chi possedeva
il capitale (spesso ereditandolo dalla famiglia) diventava sempre più ricco.
Contemporaneamente, coloro che non avevano nulla da vendere eccetto il
proprio lavoro vivevano in condizioni miserevoli ed erano sfruttati. Per
Marx, l’intera storia dell’umanità può essere spiegata come lotta di classe:
la lotta fra la ricca classe dei capitalisti (la borghesia) e la classe dei
lavoratori o proletariato. Questa situazione impedisce agli esseri umani di
realizzare le proprie potenzialità e trasforma il lavoro in sofferenza anziché
in un’attività soddisfacente.
Uomo di immensa energia e dalla reputazione di guastafeste, Marx visse
in povertà la maggior parte della sua esistenza, spostandosi dalla Germania
a Parigi e poi, in seguito a un decreto di espulsione dalla Francia, a
Bruxelles. Alla fine prese residenza a Londra, dove visse con i suoi sette
figli, la moglie Jenny e la domestica Helene Demuth, da cui aveva avuto un
figlio illegittimo. Il suo amico Friedrich Engels lo aiutò a trovare lavoro
come giornalista e arrivò ad adottarne il figlio illegittimo per
salvaguardarne la reputazione. Ma di denaro la famiglia Marx non ne aveva
mai abbastanza. Spesso erano malati; soffrivano la fame e il freddo.
Tragicamente, tre dei suoi figli morirono prima di raggiungere l’età adulta.
Da anziano, Marx trascorreva la maggior parte del tempo nella sala di
lettura del British Museum di Londra, scrivendo e leggendo, oppure restava
in casa, nel suo affollato appartamento nel quartiere di Soho, dettando alla
moglie perché la sua grafia era talmente brutta che talvolta lui stesso non
riusciva a rileggersi. In queste condizioni, riuscì a produrre un cospicuo
numero di libri e di articoli: oltre cinquanta volumi. Le sue idee hanno
cambiato le vite di milioni di persone: anche in meglio ma perlopiù in
peggio. A quel tempo, tuttavia, doveva sembrare un personaggio eccentrico,
persino un po’ matto. Pochi avrebbero potuto immaginare quanto sarebbe
divenuto importante.
Marx si identificava con i lavoratori. Il modo in cui la società era
strutturata li sfruttava e li costringeva a vivere in condizioni disumane. I
proprietari delle fabbriche si resero ben presto conto che potevano produrre
di più se spezzavano il processo produttivo in mansioni parcellizzate.
Ciascun lavoratore si poteva specializzare in una particolare fase della linea
di produzione. Ciò però rendeva la vita degli operai ancora più alienante,
perché li costringeva a compiere ininterrottamente gesti noiosamente
ripetitivi. Non avevano una visione complessiva del processo di produzione
e a stento guadagnavano abbastanza per sopravvivere. Invece di essere
creativi, venivano logorati e finivano per trasformarsi negli ingranaggi di
una grande macchina il cui unico scopo era arricchire sempre di più
proprietari delle industrie. Praticamente non erano esseri umani, ma stomaci
che necessitavano di essere nutriti per far funzionare la linea di produzione
e trarre maggior profitto da essa a beneficio dei capitalisti: quello che Marx
chiamava plusvalore creato dal lavoro degli operai.
L’effetto che tutto ciò produceva sui lavoratori venne definito da Marx
alienazione . Con questo termine egli intendeva diverse cose. I lavoratori
erano alienati o separati dalla loro natura di esseri umani; anche i prodotti li
alienavano. Più duramente lavoravano, più producevano, e maggiore era il
profitto realizzato dai capitalisti. Persino gli oggetti sembravano vendicarsi
sui lavoratori.
Marx era convinto che, nonostante le vite miserevoli a cui il sistema
economico sembrava averli predestinati, per loro vi fosse una speranza: il
capitalismo avrebbe finito per autodistruggersi e il proletariato era destinato
a prendere il potere mediante una rivoluzione violenta. Alla fine, da tutto
quello spargimento di sangue sarebbe sorto un mondo migliore, un mondo
in cui gli uomini non sarebbero più stati sfruttati, ma avrebbero avuto la
possibilità di esercitare la propria creatività e di cooperare tra loro.
Ciascuno avrebbe dato il proprio contributo alla società nella misura in cui
poteva, e la società in cambio avrebbe provveduto per tutti: «Da ciascuno
secondo le sue abilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni» scriveva Marx.
Prendendo il controllo delle fabbriche, i lavoratori avrebbero fatto sì che
chiunque potesse disporre di quanto aveva bisogno. Nessuno più avrebbe
sofferto la fame, a nessuno sarebbe più mancato di che vestirsi o una casa in
cui abitare. Questa società futura si chiamava comunismo, e si sarebbe
basata sulla condivisione dei profitti della cooperazione.
Marx pensava che questa evoluzione della società fosse inevitabile,
perché era inscritta nell’essenza stessa della storia, ma che la storia dovesse
essere aiutata a muoversi in quella direzione. Così, nel Manifesto del
Partito Comunista , scritto a quattro mani con Engels, chiamò i lavoratori di
tutto il mondo a unirsi per rovesciare il capitalismo. Riecheggiando le righe
iniziali del Contratto Sociale di Rousseau (vedi il capitolo 18), Marx ed
Engels proclamavano che i lavoratori non avevano altro da perdere che le
loro catene.
L’idea marxiana della storia era influenzata da quella di Hegel (vedi il
capitolo 22). Come abbiamo visto, Hegel sosteneva l’esistenza di una
struttura immanente a tutte le cose, e che il mondo procedesse gradualmente
verso l’obiettivo della propria autocoscienza. Da Hegel, Marx prese la
concezione del progresso ineluttabile e della storia guidata da un disegno,
non come mera successione di fatti. Ma nella visione di Marx, a muovere la
storia sono le forze economiche che sono alla base della società.
Al posto del conflitto tra le classi, Marx ed Engels promettevano un
mondo in cui nessuno avrebbe posseduto della terra, nessuno avrebbe
ereditato ricchezze, in cui l’istruzione sarebbe stata libera e le industrie,
divenute pubbliche, avrebbero provveduto ai bisogni di tutti. Non ci sarebbe
stato bisogno di religione né di precetti morali. Con un’espressione rimasta
famosa, sostenne che la religione fosse ‘l’oppio dei popoli’: come una
droga che li teneva addormentati, così che non si accorgessero della loro
vera condizione reale di oppressi. Nel nuovo ordine sociale sorto dalla
rivoluzione gli esseri umani avrebbero potuto realizzare la propria natura di
individui. Il loro lavoro avrebbe acquistato un senso e avrebbero cooperato
insieme in modo che tutti ne traessero beneficio. Per raggiungere questo
risultato era necessaria la rivoluzione, cioè l’uso della violenza, perché i
ricchi non avrebbero certo ceduto i propri privilegi senza lottare.
Marx sosteneva che se i filosofi fino a quel momento si erano limitati a
descrivere il mondo, lui invece voleva cambiarlo. Non era del tutto corretto
nei confronti dei pensatori che lo avevano preceduto, molti dei quali si
erano distinti sul fronte delle riforme in campo morale e politico. Le sue
idee, però, furono quelle che sortirono gli effetti più sconvolgenti. Erano
idee contagiose, che ispirarono la Rivoluzione russa del 1917 e molte altre
rivoluzioni. Purtroppo, l’Unione Sovietica – cioè il grande stato che ne
nacque, comprendente la Russia e alcune nazioni vicine – e la maggioranza
degli stati comunisti del Ventesimo secolo che si ispiravano al marxismo si
dimostrarono oppressivi, inefficienti e corrotti. L’organizzazione statale
della produzione risultò molto più difficoltosa di quanto si potesse
immaginare. I marxisti sostengono che ciò non compromette la validità in
sé delle idee di Marx, e continuano a condividerne le posizioni a proposito
della società; secondo loro, quelli che governavano gli stati comunisti non li
governavano seguendo le idee comuniste. Altri ricordano che la
competitività e l’avidità sono intrinseci alla natura umana in misura molto
maggiore di quanto Marx volesse ammettere, e ritengono che non sia
possibile che le persone cooperino totalmente in uno stato comunista:
semplicemente, questo non è fattibile.
Quando Marx morì di tubercolosi, nel 1883, pochi avrebbero immaginato
la grandezza dell’impatto che avrebbe esercitato sulla storia a venire;
sembrava che le sue idee sarebbero state sepolte insieme a lui. La frase che
Engels fece incidere sulla sua lapide al cimitero londinese di Highgate
sembrava solo una pia speranza: «Il suo nome sarà famoso per secoli, così
come la sua opera!»
Un’opera che si era focalizzata perlopiù sugli aspetti economici della
realtà, perché Marx era convinto che fossero quelli che determinavano ciò
che siamo e che diventiamo. William James era un filosofo pragmatista e
intendeva qualcosa di profondamente diverso dal concetto marxiano di
‘valore’ quando scriveva a proposito del ‘valore’ di un’idea: per lui, si
trattava semplicemente dell’azione a cui portava quell’idea, della differenza
che essa poteva fare nella pratica.
CAPITOLO 28

E allora?
C.S. PEIRCE E WILLIAM JAMES

Uno scoiattolo sta aggrappato al tronco di un grosso albero. Dalla parte


opposta del tronco, vicinissimo a esso, c’è un uomo. Ogni volta che l’uomo
si sposta a sinistra, lo scoiattolo fa rapidamente lo stesso, muovendosi lungo
il tronco e restandovi aggrappato con le unghie. L’uomo insiste, cercando di
prenderlo, ma non riesce neppure a vederlo. La scena va avanti per ore.
Come potrebbe essere descritta? Sarebbe corretto dire che l’uomo gira
attorno allo scoiattolo? Pensateci bene. L’uomo gira attorno alla sua preda?
Potreste anche chiedermi: «Perché vuoi saperlo?» Il filosofo e psicologo
americano William James (1842-1910) incontrò un giorno un gruppo di
amici che stavano discutendo di questo argomento, e avrebbe pienamente
compreso la vostra reazione. I suoi amici discutevano animatamente, come
se la risposta a quella domanda fosse questione di verità assoluta. Certi
dicevano che sì, l’uomo girava attorno allo scoiattolo; altri che no, non era
affatto così. Pensarono che James potesse aiutarli a rispondere in un modo o
in un altro. Lui basò la propria risposta sulla sua filosofia pragmatista.
Ecco cosa disse. Se con ‘girare attorno’intendiamo che l’uomo va prima a
nord, poi a est, poi a sud e infine a ovest dello scoiattolo, che è uno dei
significati del verbo ‘girare attorno’, allora è vero che il cacciatore gli gira
attorno. Certo, in questo senso lui gira attorno allo scoiattolo. Ma se
intendiamo che il cacciatore prima è di fronte allo scoiattolo, poi alla sua
destra, quindi dietro di lui e poi alla sua sinistra – altro significato del verbo
‘girare attorno’ – allora la risposta è no. Dato che il ventre dello scoiattolo è
sempre di fronte all’uomo, questi non gli gira attorno. I due sono sempre
l’uno di fronte all’altro, con l’albero in mezzo, come se danzassero in tondo
senza vedersi.
Questo esempio serve per far capire che il pragmatismo ha a che fare con
le conseguenze pratiche, con il ‘valore in soldoni’ del pensiero. Se dalla
risposta non dipende nulla, la vostra decisione non ha importanza. Dipende
tutto dal perché lo volete sapere e da cosa cambia se lo sapete o meno. Qui
non esiste una verità al di là del coinvolgimento umano con la domanda e
con il modo preciso in cui usiamo il verbo ‘girare attorno’ nei diversi
contesti. Se non c’è una differenza pratica, non c’è verità; la verità non è
qualcosa che sta ‘lassù’, aspettando che la si scopra. Per James, vero è ciò
che funziona, che ha un impatto positivo sulla nostra vita.
Il Pragmatismo è un approccio filosofico che divenne famoso negli Stati
Uniti nel tardo Ottocento. Il suo iniziatore fu il filosofo e scienziato
americano C.S. Peirce, che voleva rendere la filosofia più scientifica di
quanto non fosse mai stata. Secondo Peirce (1839-1914), un’affermazione
può essere definita vera unicamente se è supportata da un esperimento o
un’osservazione diretta. Se diciamo «Il vetro è fragile» intendiamo che se lo
si colpisce con un’ascia va in mille pezzi. Ciò fa dell’affermazione «Il vetro
è fragile» un’affermazione vera. Non esiste una invisibile caratteristica di
‘fragilità’ di cui il vetro è dotato, qualcosa che va ‘oltre’ ciò che accade
quando lo si colpisce. «Il vetro è fragile» è un’affermazione vera in virtù
delle sue conseguenze pratiche. L’affermazione «Il vetro è trasparente» è
vera perché noi possiamo vedere attraverso il vetro, non perché il vetro sia
dotato di una misteriosa caratteristica di nome ‘trasparenza’. Peirce
detestava le teorie astratte che non facevano differenza nella pratica;
pensava fossero solo stupidaggini. Per lui la verità è ciò a cui giungiamo
quando possiamo fare tutti gli esperimenti e le ricerche che idealmente
vorremmo: un pensiero molto vicino al positivismo logico di A.J. Ayer, di
cui parleremo nel capitolo 32.
L’opera di Peirce non ebbe grande diffusione, a differenza di quella di
William James, che era un eccellente scrittore, quanto se non più del suo
famoso fratello, il romanziere Henry James. William discusse parecchio del
pragmatismo con Peirce mentre entrambi erano professori all’università di
Harvard. James ne elaborò una sua versione, cui diede diffusione mediante
scritti e lezioni. Per lui, il pragmatismo può essere sintetizzato con questa
frase: vero è ciò che funziona. C’è da dire che rimase un po’ sul vago a
proposito di cosa intendesse per ‘funzionare’. Benché fosse anche uno dei
primi a praticare la professione di psicologo, i suoi interessi non si
limitavano alla scienza, ma toccavano anche l’etica e la religione. Di
quest’ultimo argomento tratta il suo scritto più discusso e controverso.
L’approccio di James è molto diverso dall’idea tradizionale di verità, per
la quale ‘verità’ significa corrispondenza con i fatti. Ciò che rende vera
un’affermazione secondo la teoria della corrispondenza è che essa descrive
precisamente la realtà. «Il gatto è sul tappeto» è vero quando il gatto è
effettivamente seduto sul tappeto, ed è falso quando non lo è; quando, ad
esempio, è fuori, in giardino, a caccia di topi. Stando alla concezione
pragmatista della verità formulata da James, a rendere vera l’affermazione
«Il gatto è sul tappeto» è il fatto che crederci produce un risultato pratico
che ci risulta utile; che ‘funziona’ per noi. Così, ad esempio, credere che «Il
gatto è sul tappeto» produce il risultato che sappiamo di non poter giocare
con il criceto di casa su quello stesso tappeto finché il gatto non se n’è
andato da qualche altra parte.
Ora, quando usiamo un esempio come «Il gatto è sul tappeto», il risultato
di questa teoria pragmatica della verità non appare particolarmente
sconvolgente né determinante. Proviamo invece con l’affermazione «Dio
esiste». Cosa direbbe James di questa?
È vero che Dio esiste? Cosa ne pensate? Essenzialmente, le risposte
possibili sono: «Sì, è vero che Dio esiste», «No, non è vero che Dio esiste»
e «Non so». Presumibilmente, prima di leggere questo libro avreste dato
una delle tre. Ora sapete che queste posizioni hanno tre nomi: teismo,
ateismo e agnosticismo. Coloro che dicono «Sì, è vero che Dio esiste»
intendono in genere che da qualche parte c’è un Essere supremo e che
l’affermazione «Dio esiste» sarebbe vera anche qualora gli esseri umani non
esistessero né fossero mai esistiti. «Dio esiste» e «Dio non esiste» sono
affermazioni che possono essere entrambe o vere, o false. Ma a renderle
vere o false non è ciò che noi pensiamo di esse; sono vere o false
indipendentemente da ciò che ne pensiamo. Ci limitiamo a sperare di avere
ragione quando ci pensiamo.
James analizzava la questione «Dio esiste» in modo completamente
diverso. Pensava che l’affermazione fosse vera, e che a renderla vera fosse
il fatto che secondo lui si trattava di una cosa in cui è utile credere; giunse a
questa conclusione dopo aver riflettuto attentamente sui vantaggi del
credere che Dio esista. Per lui si trattava di un argomento importante e ci
scrisse sopra un libro, La varietà dell’esperienza religiosa (1902), in cui
prendeva in esame un ampio spettro di effetti possibili della fede. Per
James, sostenere che «Dio esiste» è un’affermazione vera equivale a dire
che credere sia, in un certo modo, un bene per il credente. Una posizione
indubbiamente sorprendente, abbastanza simile all’argomento di Pascal
(che abbiamo visto nel capitolo 12), secondo il quale per un agnostico è
vantaggioso credere nell’esistenza di Dio. Pascal però sosteneva che
l’affermazione «Dio esiste» fosse vera in virtù della reale esistenza di Dio,
non in virtù del fatto che gli esseri umani stanno meglio quando credono in
Dio, o che grazie alla fede diventano persone migliori. La sua famosa
scommessa era solo un modo per indurre gli agnostici a credere in ciò che
egli credeva vero. Per James, invece, è la supposizione che la fede in Dio
«funzioni in modo soddisfacente» a rendere vera l’affermazione «Dio
esiste».
Mi spiego ancora meglio. Prendiamo l’affermazione «Babbo Natale
esiste». È vero? Esiste un signore allegro e grasso dalla faccia rubizza che
la notte di Natale si cala giù dal nostro camino con un sacco pieno di doni?
Se ci credete, non leggete il resto di questo paragrafo; ma ho buone ragioni
per pensare che non ci crediate affatto, anche se magari vi piacerebbe tanto
che fosse così. Il filosofo inglese Bertrand Russell (vedi il capitolo 31) si
prendeva gioco della teoria pragmatista di James sulla verità dicendo che
James doveva per forza credere che l’affermazione «Babbo Natale esiste»
fosse vera: questo perché James pensava che l’unica cosa che rendesse vera
un’affermazione fosse l’effetto che il credervi faceva su colui che ci crede.
Ora, per la maggior parte dei bambini credere in Babbo Natale è una cosa
bellissima, che rende il Natale un giorno davvero speciale; li induce a
comportarsi bene e riempie di attesa i giorni che precedono la festa.
Insomma: per loro, ‘funziona’. Allora, visto che crederci funziona,
sembrerebbe – se dessimo retta alla teoria di James – che Babbo Natale
esista. Il problema è che c’è differenza tra ciò che sarebbe bello se fosse
vero, e ciò che vero lo è. James avrebbe potuto replicare che se credere a
Babbo Natale funziona per i bambini, non è così per tutti gli altri. Se i
genitori credessero nel fatto che sia Babbo Natale a portare i regali ai loro
bambini, non li comprerebbero loro stessi: gli basterebbe aspettare la
mattina di Natale per constatare che c’è qualcosa di non convincente nel
credere che «Babbo Natale esiste». Questo significa che per i bambini è
vero che Babbo Natale esiste, ed è falso per la maggior parte degli adulti?
La verità, dunque, è soggettiva, dipende da come prendiamo le cose noi,
invece di dirci come stanno in realtà?
Facciamo un altro esempio. Come posso sapere che gli altri abbiano una
mente? Dalla mia esperienza soggettiva io so di non essere una specie di
zombie privo di una vita propria. Penso, agisco eccetera. Ma come posso
affermare che sia lo stesso per tutti quelli che mi circondano? Magari non
hanno coscienza di sé. Non potrebbero forse essere, loro, degli zombie privi
di volontà e di pensiero, delle specie di automi? Questo è il Problema delle
altre menti che da sempre dà del filo da torcere ai filosofi; si tratta di un
dilemma di ardua soluzione. La risposta di James è che dev’essere vero che
le altre persone hanno una mente, perché altrimenti non sapremmo come
soddisfare il nostro bisogno di essere riconosciuti e ammirati da altri.
Questa sembra un’argomentazione bizzarra, che assimila il suo
pragmatismo a una sorta di pio desiderio: si crede a ciò che vorremmo fosse
vero, indipendentemente dal fatto se sia vero o meno. Ma solo perché
credere che uno che ci loda sia una persona dotata di una mente, e non un
robot, ci fa star bene, non significa che lo sia davvero. Potrebbe sempre
essere un qualcosa non dotato di una vita autonoma.
Nel Ventesimo secolo, il rappresentante di spicco del pensiero pragmatista
fu il filosofo americano Richard Rorty (1931-2007). Come James, riteneva
che le parole fossero strumenti con i quali facciamo cose, non simboli che
rispecchiano in qualche modo la realtà del mondo. Le parole ci permettono
di avere a che fare con il mondo, non di riprodurlo. Affermò che la verità è
ciò che viene accettato da una determinata comunità, e che non vi è un
periodo storico che si avvicini più di un altro alla realtà. Quando gli
individui descrivono il mondo, sono come critici letterari che danno la loro
interpretazione di un’opera di Shakespeare: non c’è un solo modo ‘corretto’
di leggerla, sul quale dovremmo essere tutti d’accordo. Persone diverse in
tempi diversi interpretano il testo ciascuna a suo modo. Rorty rifiuta del
tutto l’idea che un modo di vedere le cose sia valido per sempre. O almeno,
questa è la mia interpretazione della sua opera... Ho buone ragioni per
ritenere che Rorty credesse che non ve ne sia una sola di interpretazione
corretta, allo stesso modo in cui non c’è una risposta ‘esatta’ alla domanda
se quel famoso uomo, correndo attorno all’albero, stesse girando attorno
allo scoiattolo o meno.
E un’altra domanda interessante potrebbe essere se vi sia o meno
un’interpretazione ‘esatta’ degli scritti di Friedrich Nietzsche.
CAPITOLO 29

La morte di Dio
FRIEDRICH NIETZSCHE

«Dio è morto». Sono queste le parole più famose scritte dal filosofo tedesco
Friedrich Nietzsche (1844-1900). Ma come può essere morto Dio? Per sua
stessa natura Dio è immortale, e gli esseri immortali non muoiono, vivono
in eterno. In un certo senso, però, è proprio qui il problema. La morte di Dio
suona strana proprio per questo. Nietzsche gioca proprio sull’idea che Dio
non può morire. Egli non sosteneva veramente che Dio fino a un certo
punto fosse vissuto e che poi avesse smesso di vivere; Nietzsche intendeva
dire che non era più ragionevole credere in Dio in quel modo. Nel suo La
gaia scienza (1882), egli fa pronunciare la frase «Dio è morto» a un
personaggio che si aggira cercando Dio, reggendo una lanterna, ma non
riesce a trovarlo. Gli abitanti lo credono pazzo.
Nietzsche era un personaggio fuori del comune. Nominato professore
all’università di Basilea ad appena 24 anni, pareva avviato a una
promettente carriera accademica. Ma questo pensatore eccentrico e
originale non sembrava tagliato per quel tipo di normalità, e anzi pareva
provare piacere a rendersi la vita difficile. Nel 1879 lasciò l’università,
anche per motivi di salute, e viaggiò in Italia, Francia e Svizzera, scrivendo
libri che a quei tempi vennero letti da un’esigua minoranza ma che sono
divenuti famosi per il loro valore sia filosofico, sia letterario. La sua salute
psichica andò sempre peggiorando, ed egli trascorse buona parte degli
ultimi anni di vita in manicomio.
In totale contrasto con l’ordinata esposizione di Kant, quella di Nietzsche
procedeva da prospettive diverse. Numerosi suoi scritti si presentano sotto
forma di paragrafi brevi e frammentari e di stringate considerazioni
composte da una sola frase, ora ironiche, ora schiette, spesso arroganti e
provocatorie. Talvolta è come se Nietzsche ci gridasse in faccia ciò che
pensa, talaltra è come se ce lo sussurrasse all’orecchio. Spesso cerca la
complicità del lettore, come se gli stesse dicendo: «Tu e io sappiamo come
stanno le cose, mentre tutti quegli altri stupidi là fuori sono intrappolati
nelle loro illusioni». Un tema che tocca in modo ricorrente è quello della
morale.
Dio è morto; cosa ne consegue? Questo si chiede Nietzsche. E si risponde
che senza Dio siamo rimasti senza i fondamenti della morale. Le nostre idee
di giusto e sbagliato, bene e male hanno senso in un mondo in cui Dio c’è, e
ne sono prive in un mondo rimasto senza. Togli Dio, e toglierai tutti i punti
di riferimento su come si debba vivere e quali siano i valori a cui obbedire.
Si trattava di un messaggio duro, un messaggio che nessuno dei suoi
contemporanei voleva ascoltare. Nietzsche descrisse se stesso come un
‘immoralista’, cioè una persona che non fa deliberatamente il male, ma
crede che si debba andare oltre la morale: per dirla con il titolo di una delle
sue opere, «al di là del bene e del male».
Per Nietzsche la morte di Dio apriva nuove possibilità all’umanità,
possibilità che erano a un tempo terrificanti ed esaltanti. Il rovescio della
medaglia era la mancanza di una rete di salvataggio, di regole che la gente
accettava per capire come comportarsi. Se un tempo la religione aveva
fornito senso e limite dell’azione morale, l’assenza di Dio rendeva tutto
possibile e cancellava ogni limite. Il lato positivo, almeno secondo
Nietzsche, era che le persone finalmente potevano creare da sé i propri
valori; potevano trasformare la propria vita nell’equivalente di un’opera
d’arte, improntandola al proprio stile personale.
Una volta accettata l’idea che Dio non esiste, sostiene Nietzsche, non ci si
può più appoggiare al sistema di valori cristiano: sarebbe una forma di
autoinganno. I valori ereditati dalla cultura cristiana, quelli di compassione,
bontà d’animo e rispetto per gli altri, possono essere messi in discussione. Il
suo modo per farlo fu indagarne le origini.
Secondo Nietzsche, la virtù cristiana della compassione verso i deboli e
gli indifesi aveva un’origine sorprendente. Potremmo pensare che
compassione e bontà d’animo siano valori intrinsecamente buoni;
probabilmente siamo stati cresciuti nell’idea che la bontà d’animo sia
lodevole, e l’egoismo deplorevole. Nietzsche sosteneva che il nostro modo
di pensare e di provare sentimenti ha una storia, e che, una volta venuti a
conoscenza della storia o della ‘genealogia’ delle nostre idee e dei nostri
princìpi, troveremo difficile continuare a considerarli validi in senso
assoluto, come realtà oggettive che ci dettano le regole di condotta.
Nel suo Genealogia della morale descrive la situazione dell’antica Grecia,
in cui i potenti eroi dell’aristocrazia improntavano la propria vita agli ideali
di onore, disonore ed eroismo in battaglia invece che a quelli di gentilezza,
generosità e colpa per aver commesso azioni sbagliate. Era questo il mondo
descritto da Omero nell’Odissea e nell’Iliade . In quel mondo di eroi,
coloro che non avevano potere, gli schiavi e i deboli, provavano invidia nei
riguardi dei potenti. Gli schiavi indirizzavano l’invidia e il risentimento
contro i potenti, e dai loro sentimenti negativi nacque un nuovo sistema di
valori; ribaltando i valori dell’eroismo propri degli aristocratici, al posto di
lodare forza e potenza, come facevano quelli, gli schiavi trasformarono in
virtù la generosità e il prendersi cura dei deboli. Questa morale degli
schiavi, come la chiama Nietzsche, considerava malvagie le gesta dei
potenti, e buone quelle dei propri compagni di sventura.
L’idea che la morale della gentilezza traesse le proprie origini dal
sentimento dell’invidia era decisamente provocatoria. Nietzsche mostrava
di preferire di gran lunga i valori degli aristocratici, l’esaltazione degli eroi
forti e bellicosi, rispetto alla morale cristiana incentrata sulla compassione
per i deboli. Il Cristianesimo e la morale che ne deriva trattano tutti gli
individui come equivalenti; Nietzsche riteneva che questo fosse un grave
errore. I suoi eroi artistici, come Beethoven e Shakespeare, erano di gran
lunga superiori al gregge, e i valori cristiani, nati essenzialmente
dall’invidia, avevano fatto fare un passo indietro all’umanità. Se il prezzo
da pagare in cambio della gloria e del successo dei forti era che i deboli
venissero calpestati, ne valeva la pena.
In Così parlò Zarathustra (1883-1892), Nietzsche introduce la figura del
Superuomo. Si tratta di una figura immaginaria, di là da venire, che non si
lascia imbrigliare dalla morale convenzionale ma va ‘oltre’, creando nuovi
valori. Forse influenzato dalla lettura della teoria dell’evoluzione di Darwin,
Nietzsche vedeva nel Superuomo il gradino successivo dello sviluppo
umano. L’aspetto preoccupante è che sembrava appoggiare coloro che si
ritengono eroi e che vogliono raggiungere i propri scopi senza tenere conto
delle esigenze altrui. Per di più, la parola Superuomo (in tedesco
Übermensch ) venne adottata dal nazismo per corroborare la propria
perversa idea della razza, benché la maggior parte degli studiosi concordi
sul fatto che si trattava di una distorsione di quanto Nietzsche aveva
effettivamente scritto.
Disgraziatamente per Nietzsche, chi esercitò il controllo sui suoi scritti
negli anni della sua infermità mentale e per i trentacinque successivi alla
sua morte fu sua sorella Elisabeth, che era nazionalista nel senso peggiore
del termine e antisemita. Elisabeth usò gli appunti inediti del fratello
scegliendo ciò che le faceva comodo e scartando ciò che poteva suonare
critico nei confronti della Germania o non supportasse le sue idee razziste.
La sua versione ‘taglia e incolla’ del pensiero di Nietzsche, pubblicata con
il titolo La volontà di potenza , fece passare l’opera di Nietzsche per
propaganda nazista, e lui stesso come uno degli autori approvati dal Terzo
Reich. È altamente improbabile che, se fosse vissuto abbastanza a lungo,
Nietzsche si sarebbe anche lontanamente immischiato con esso; è anche
innegabile, però, che nella sua opera si legga più di un’affermazione a
favore del diritto del forte di distruggere il debole. Non c’è da sorprendersi,
sostiene Nietzsche, che gli agnelli temano i rapaci. Ciò non significa che si
debbano odiare i rapaci perché ghermiscono gli agnelli per divorarli.
A differenza di Immanuel Kant, che celebrava la ragione, Nietzsche mise
in rilievo il ruolo fondamentale esercitato nella formazione dei valori dalle
emozioni e dalle forze irrazionali. È molto probabile che ciò abbia
influenzato Sigmund Freud e la sua indagine sulla natura e sul raggio di
azione dei desideri inconsci.
CAPITOLO 30

Pensieri nascosti
SIGMUND FFREUD

Conosci te stesso? I filosofi antichi pensavano che fosse possibile. Ma come


essere certi che non si sbagliassero? E se nella nostra mente ci fossero zone
che non siamo in grado di conoscere direttamente, come stanze che restano
sempre chiuse, nelle quali non ci è mai dato di entrare?
Le apparenze possono ingannare. Quando guardiamo il sole la mattina
presto, sembra proprio che sorga dall’orizzonte. Durante il giorno si muove
in cielo e infine tramonta. Verrebbe facile pensare che sia lui a girare
attorno alla Terra, e per molti secoli l’umanità ha pensato che fosse così.
Invece no; nel Sedicesimo secolo, l’astronomo Niccolò Copernico
comprese come stessero in realtà le cose, benché altri astronomi lo avessero
sospettato prima di lui. La rivoluzione copernicana, l’idea che il nostro
pianeta non fosse al centro del Sistema Solare, fu come uno shock.
Come abbiamo visto, a metà del Diciannovesimo secolo arrivò un
secondo shock (capitolo 25): sino ad allora era stata convinzione comune
che gli esseri umani fossero completamente differenti dagli animali e che
fossero creature di Dio. Invece la teoria dell’evoluzione di Charles Darwin
dimostrava che gli esseri umani condividono le proprie origini con quelle
delle scimmie e che non c’è bisogno di fare ricorso a Dio per spiegare la
nostra esistenza, che è in realtà il prodotto di un processo impersonale. La
teoria di Darwin spiegava come discendessimo da creature simili alle
scimmie e quanto simili fossimo a quelle; gli effetti della rivoluzione
darwiniana si sentono ancora.
Secondo Sigmund Freud (1856-1939), la terza grande rivoluzione nel
pensiero umano è arrivata con la sua scoperta dell’inconscio. Freud
dimostrò che molta parte delle nostre azioni è guidata da desideri che
rimangono nascosti. Noi non possiamo controllarli, ma questo non
impedisce loro di influenzarci. Ci sono cose che vogliamo fare e che non ci
rendiamo conto di voler fare. Questi desideri inconsci esercitano un influsso
profondo su tutti gli aspetti della nostra vita e addirittura sulla struttura della
società, e sono all’origine delle caratteristiche migliori e peggiori della
civiltà umana. Se Freud fu il vero scopritore di questo principio, va detto
che un’idea simile è presente in alcuni scritti di Friedrich Nietzsche.
Freud era uno psichiatra che aveva iniziato la carriera come neurologo;
viveva a Vienna, quando l’Austria era parte dell’Impero Austroungarico.
Figlio di un rappresentante della borghesia ebraica, era uno dei molti
giovani istruiti e ‘in carriera’ che vivevano in quella grande capitale
cosmopolita alla fine dell’Ottocento. Lavorando con i suoi giovani pazienti,
però, diresse sempre più la propria attenzione a quelle zone della psiche che
pensava ne indirizzassero i comportamenti, creando loro dei problemi in
virtù di meccanismi di cui essi non avevano il controllo cosciente. Era
affascinato dall’isteria e dalle altre manifestazioni nevrotiche. Le pazienti
isteriche (erano infatti in grande maggioranza donne) spesso camminavano
nel sonno, soffrivano di allucinazioni e sviluppavano persino delle forme di
paralisi; i medici non riuscivano a trovare l’origine fisica di quei sintomi.
Esaminando attentamente le descrizioni che le pazienti facevano dei loro
problemi, e interessandosi delle loro storie personali, Freud giunse all’idea
che la vera origine del loro malessere fosse qualche tipo di ricordo o
desiderio inquietante, che rimaneva inconscio e che non si rendevano
minimamente conto di provare.
Freud chiedeva ai suoi pazienti di sdraiarsi su un lettino e di parlare di
qualsiasi cosa venisse loro in mente, e spesso già solo questo li faceva
sentire molto meglio, perché permetteva ai loro pensieri di liberarsi e venire
a galla. Questo metodo delle ‘libere associazioni’, lasciando scorrere i
pensieri, produceva risultati sorprendenti, portando alla coscienza ciò che
prima era nascosto nell’inconscio. Freud domandava anche ai pazienti di
raccontargli i loro sogni; in un modo o nell’altro, questa ‘terapia della
parola’ sbloccava i pensieri che li turbavano e rimuoveva alcuni sintomi.
Era come se l’azione di parlare allentasse la pressione esercitata dalle idee
con le quali le persone sofferenti non volevano confrontarsi. Così nacque la
psicoanalisi.
Ma non sono solo i pazienti nevrotici e isterici ad avere desideri e ricordi
inconsci. Secondo Freud questo vale per tutti, ed è ciò che rende possibile
vivere nella società. Noi nascondiamo a noi stessi le nostre emozioni e i
nostri desideri; alcuni di questi sono violenti e molti sono a sfondo sessuale,
e risultano troppo pericolosi perché possano essere lasciati venire allo
scoperto. La mente li reprime , li tiene nascosti nell’inconscio. Molti si
formano durante la prima infanzia; avvenimenti accaduti quando eravamo
piccolissimi possono riemergere durante l’età adulta. Ad esempio, Freud
pensava che tutti i maschi provassero l’inconscio desiderio di uccidere il
proprio padre e di avere rapporti sessuali con la propria madre; si tratta del
famoso complesso di Edipo , detto così dal personaggio della mitologia
greca che compì la profezia secondo cui avrebbe ucciso suo padre e sposato
sua madre (senza sapere che si trattava di loro). Questo primitivo, scomodo
desiderio impronta l’intera vita di alcune persone senza che esse se ne
rendano conto. Qualcosa nella mente vieta a quei pensieri oscuri di
prendere una forma riconoscibile, ma ciò che impedisce a loro, e ad altri
desideri inconsci, di diventare consci, non vi riesce completamente. I
pensieri riescono comunque a sfuggire, anche se nascosti; ad esempio,
emergono sotto forma di sogni.
Per Freud, i sogni sono «la strada maestra dell’inconscio», uno dei modi
migliori per portare a galla i pensieri nascosti. Le cose che vediamo e che
proviamo nei sogni non sono ciò che sembrano. I sogni hanno un contenuto
manifesto, superficiale, e un contenuto latente , che ne è il vero significato.
La psicoanalisi cerca appunto di arrivare a quello. Ciò che vediamo nei
sogni sono simboli, dietro ai quali si celano i desideri del nostro inconscio.
Ad esempio, un sogno che presenta un serpente o un ombrello o una spada è
un sogno sessuale sotto mentite spoglie. Serpente, ombrello e spada sono
classici ‘simboli fallici’, sinonimi del pene. Allo stesso modo, l’immagine
di una borsetta o di una grotta simbolizza la vagina. Se trovate queste idee
scioccanti o assurde, sappiate che Freud probabilmente vi direbbe che la
vostra mente vi sta proteggendo dal pensiero di riconoscere quegli stessi
pensieri sessuali anche in voi.
Un altro modo per ‘intravedere’ i desideri inconsci è attraverso i lapsus,
chiamati appunto ‘lapsus freudiani’, in cui ci capita di rivelare desideri che
non ci rendiamo conto di provare. Molti giornalisti televisivi ci cascano,
quando nel dire un nome o una frase pronunciano una parola o una frase
oscena. Un freudiano direbbe che accade troppo spesso perché si tratti di un
caso.
Non tutti i desideri inconsci sono sessuali o violenti; alcuni svelano una
situazione conflittuale. A livello inconscio potremmo volere una cosa che
non vogliamo a livello cosciente. Immaginate di dover passare un esame
per essere ammessi all’università. A livello conscio fate di tutto per
prepararvi; ripassate tutte le materie richieste, preparate le possibili risposte
alle domande e vi assicurate di puntare la sveglia sull’ora che vi permetterà
di presentarvi in tempo per l’esame. Tutto sembra a posto; vi svegliate
all’ora giusta, fate colazione, prendete l’autobus, e scoprite che riuscirete ad
arrivare addirittura in anticipo. Così vi rilassate e vi appisolate. Quando vi
svegliate, scoprite con orrore che avete letto male il numero dell’autobus e
che ora siete dalla parte opposta della città e non arriverete mai in tempo
per l’esame. La paura inconscia delle conseguenze di passarlo è stata più
forte dei vostri sforzi consci; nel profondo della vostra mente, non volevate
affatto passare l’esame. Ammetterlo con voi stessi sarebbe stato troppo
spaventoso, e a rivelarvelo è stato il vostro inconscio.
Freud applicò questa teoria non solo agli individui che manifestavano
delle nevrosi, ma anche alle normali abitudini mentali collettive. In
particolare, dette un’interpretazione psicoanalitica del perché le persone
siano tanto attratte dalle religioni. Voi magari credete in Dio e forse ne
avvertite la presenza nella vostra vita; Freud dette una spiegazione
dell’origine della fede in Dio. Voi pensate di credere in Dio perché Dio
esiste; Freud pensava che credete in Dio perché provate lo stesso bisogno di
protezione che avvertivate da bambini. Secondo Freud, intere civiltà si sono
basate su questa illusione – l’illusione che da qualche parte ci sia una forte
figura paterna che soddisfa il bisogno di protezione delle persone. Il vostro
quindi è tutt’al più un pio desiderio: credete che un Dio simile esista
davvero perché lo desiderate con tutto il vostro cuore. Tutto nasce dal
desiderio inconscio di protezione e di amore che è proprio di qualunque
bambino. L’idea di Dio è confortante per tutti coloro che provano quel
desiderio dall’infanzia, anche se ora sono adulti, che non si rendono conto
della sua vera natura e reprimono con tutte le loro forze l’idea che la fede
possa essere solo la risposta a un bisogno psicologico tanto profondo quanto
insoddisfatto, e non la prova dell’esistenza di Dio.
Da un punto di vista filosofico, l’opera di Freud mise in dubbio un gran
numero di postulati riguardo all’intelletto che pensatori come René
Descartes davano per indubitabili. Descartes pensava che l’intelletto fosse
trasparente a se stesso, che l’avere dei pensieri implicasse l’essere coscienti
di quegli stessi pensieri. Dopo Freud, bisognava riconoscere l’esistenza di
un’attività mentale inconscia.
Ma le basi del pensiero freudiano non sono unanimemente accettate dai
filosofi, anche se molti concordano sulla possibilità dell’esistenza del
pensiero inconscio. Secondo alcuni, le teorie freudiane non sono
scientifiche. Con un’argomentazione divenuta molto nota, Karl Popper (che
vedremo nel capitolo 36) ha definito molti dei postulati della psicoanalisi
‘non falsificabili’. Non si tratta di un complimento, ma di una critica.
Secondo Popper, l’essenza della ricerca scientifica sta nella
sperimentazione; il che significa che si potrebbero dare dei casi in cui un
esperimento dia esito negativo, mostrando che un’ipotesi è falsa. L’esempio
che Popper propone è questo: l’azione di un uomo che getta un bambino in
un fiume e quella di un altro uomo che si getta in un fiume per salvare un
bambino sono entrambe spiegabili – come qualsiasi azione umana – con la
teoria freudiana. Che uno cerchi di annegare o di salvare un bambino, la
teoria freudiana è in grado di spiegarcene il motivo: probabilmente Freud
sosterrebbe che il primo uomo stava reprimendo un lato del proprio
conflitto edipico e che ciò lo ha spinto a compiere quell’atto violento,
mentre il secondo uomo ha ‘sublimato’ i propri desideri inconsci, riuscendo
a incanalarli in azioni socialmente utili. Secondo Popper, se è possibile
addurre qualsivoglia giustificazione a riprova che una teoria è vera, mentre
non si riesce a immaginare una sola prova che dimostri che è falsa, quella
teoria non può essere definita scientifica. Freud, dal canto suo, avrebbe
potuto ribattere che Popper covava un desiderio represso, che lo rendeva
particolarmente aggressivo nei confronti della psicoanalisi.
Bertrand Russell, un pensatore assai diverso da Freud, ne condivideva
però l’avversione nei confronti della religione: riteneva infatti che essa
fosse una delle cause principali dell’umana infelicità.
CAPITOLO 31

L’attuale re di Francia è calvo?


BERTRAND RUSSEL

Da adolescente, Bertrand Russell si interessava principalmente a tre cose: il


sesso, la religione e la matematica; tutti e tre sul piano teorico. Nella sua
lunga vita (morì nel 1970, a 97 anni) finì per diventare un personaggio
scomodo in merito al primo, attaccò la seconda e dette un importante
contributo alla terza.
La sua opinione in materia di costumi sessuali lo mise in cattiva luce. Nel
1929 pubblicò un saggio intitolato Matrimonio e morale , in cui metteva in
discussione la concezione cristiana in materia di fedeltà nei confronti del
coniuge. Russell pensava che non si dovesse essere per forza fedeli, e
questo gli inimicò parecchie persone. Non che la cosa lo disturbasse; aveva
già scontato sei mesi nella prigione di Brixton perché nel 1916 si era
schierato contro la Prima guerra mondiale. Anni dopo avrebbe partecipato
alla raccolta di fondi a favore della campagna per il disarmo nucleare, un
movimento internazionale che si opponeva alle armi di distruzione di
massa. Quel vecchietto vivace sarebbe stato in prima linea a tutte le
manifestazioni pacifiste degli anni Sessanta, così come aveva fatto in
gioventù. Come usava dire, «O l’uomo abolisce la guerra, o la guerra
abolirà l’uomo». Finora nessuna delle due condizioni si è avverata.
In materia di religione, si dimostrò altrettanto schietto e provocatorio. Per
Russell non c’era alcuna probabilità che Dio intervenisse per salvare
l’umanità: la nostra unica possibilità consisteva nell’usare il potere della
ragione. L’attrazione della gente nei confronti delle religioni nasceva,
secondo lui, dalla paura della morte. La religione confortava, rassicurava,
come la fede nell’esistenza di un dio che avrebbe punito i cattivi
nell’Aldilà, anche se questi continuavano a uccidere e a fare ancora peggio
sulla Terra. E invece no, non era vero: Dio non esiste, e la religione quasi
sempre genera più infelicità che felicità. Russell ammetteva la diversità del
Buddhismo rispetto alla maggior parte delle religioni, mentre il
Cristianesimo, come l’Islam, il Giudaismo e l’Induismo, avevano molto da
farsi perdonare. Nel corso della loro storia erano state motivo di guerra,
sofferenza e odio. Per causa loro erano morte milioni di persone.
Da tutto ciò avrebbe dovuto risultare chiaro che, pur essendo un pacifista,
Russell era pronto a combattere (perlomeno a colpi di idee) per ciò che
credeva giusto. E comunque anche in qualità di pacifista pensava che in rari
casi, come la Seconda guerra mondiale, combattere diventava la scelta
migliore da fare.
Per nascita era membro dell’aristocrazia inglese: la sua era una famiglia di
alto rango e il suo titolo ufficiale era ‘terzo conte Russell’. Si sarebbe detto
che era un aristocratico anche solo a guardarlo: di aspetto particolarmente
altero, sfoggiava un sorriso malizioso e uno sguardo ammiccante. Si capiva
anche dal suo modo di parlare: dalle registrazioni che sono rimaste, pare
venire da un altro secolo – cosa peraltro vera: essendo nato nel 1872, era un
vittoriano a tutti gli effetti. Suo nonno da parte di padre, Lord John Russell,
era stato Primo ministro.
Il ‘padrino’ non religioso di Bertrand era il filosofo John Stuart Mill
(protagonista del capitolo 24). Purtroppo non lo conobbe mai di persona,
perché Mill morì quando Russell era piccolissimo, ma il suo pensiero
esercitò una forte influenza sulla sua formazione. Fu leggendo
l’Autobiografia di Mill che Russell si convinse a rifiutare la religione. In
precedenza era stato un adepto dell’argomento della causa prima: usato tra
gli altri da Tommaso d’Aquino, questo argomento sosteneva che ogni cosa
deve avere una causa, e che la causa di tutte, la causa prima nella catena
delle cause e degli effetti, doveva essere Dio. Mill si domandava: «Chi ha
causato Dio?» e Russell comprese qual era il problema logico insito
nell’argomento della causa prima. Se esiste qualcosa che non ha una causa,
allora non può essere vero che «ogni cosa deve avere una causa». Per
Russell aveva più senso pensare che anche Dio avesse una causa, che
ritenere che qualcosa potesse esistere senza essere causato da nient’altro.
Come Mill, anche Russell aveva avuto un’infanzia particolare e non molto
felice. I suoi genitori erano morti quando era piccolo, e sua nonna, che si
era fatta carico di lui, era molto severa e un po’ distaccata. Istruito in casa
da insegnanti privati, si gettò a capofitto nello studio e divenne un brillante
matematico, ottenendo presto una cattedra all’università di Cambridge. Ciò
che lo affascinava nella matematica era l’aspetto della verità. Perché
diciamo che 2+2=4 è vero? Sappiamo che lo è, ma perché lo è? Di qui, il
passo verso la filosofia era breve.
Come filosofo, il suo grande amore era la logica, la disciplina che sta a
cavallo tra filosofia e matematica. I logici studiano la struttura del
ragionamento, e in genere per spiegarsi usano dei simboli. Russell rimase
affascinato dalla branca della matematica e della logica chiamata ‘teoria
degli insiemi’. La teoria degli insiemi sembrava promettere un modo per
descrivere la struttura di qualsiasi nostro ragionamento, ma Russell
dimostrò che si incontrava un grosso problema: portava alla contraddizione.
Per dimostrarlo, usò un paradosso diventato poi famoso proprio con il suo
nome.
Ecco un esempio del paradosso di Russell. Immaginiamo un villaggio in
cui c’è un barbiere, il cui mestiere è radere tutti e solo quelli che non si
radono da soli. Se io vivessi là, probabilmente mi raderei da solo, perché
non penso che riuscirei a organizzarmi in modo da andare tutti i giorni dal
barbiere, e inoltre sono perfettamente in grado di farlo da solo. Oltre a ciò,
mi costerebbe probabilmente troppo caro. Se decidessi di fare il contrario,
sarebbe quel barbiere a radermi. Ma dove si colloca il barbiere in tutto ciò?
Gli è permesso radere solo coloro che non si radono da soli. Stando a questa
regola, non può radere se stesso , perché può radere solo quelli che non si
radono da soli. Il barbiere si trova in una posizione scomoda: di solito, se in
questo villaggio qualcuno non può radersi da solo, è il barbiere a farlo per
lui. Ma questa regola non permette al barbiere di farlo, perché lo
trasformerebbe immediatamente in uno che si rade da solo – e il barbiere
rade solo quelli che non si radono da soli.
Questa situazione sembra condurre a un’antinomia : affermando una cosa,
dico allo stesso tempo il vero e il falso. Si tratta di un paradosso, e
decisamente spiazzante. Russell aveva scoperto che quando un insieme si
riferisce a se stesso, si presenta questo tipo di paradosso. Prendiamo un
altro famoso esempio: «Questa affermazione è falsa». Anche questo è un
paradosso. Se le parole «Questa affermazione è falsa» significano ciò che
sembra (e sono vere), allora l’affermazione è falsa – il che significa che ciò
che afferma è vero! L’affermazione, quindi, sembra essere sia vera, sia
falsa. Questa è logica elementare; ed ecco il paradosso.
Ai nostri occhi questi sono dei veri rompicapi, per i quali non vi è facile
soluzione; per Russell erano molto di più: rivelavano che alcuni postulati
fondamentali che i logici di tutto il mondo avevano formulato nell’ambito
della teoria degli insiemi erano errati. Bisognava ricominciare da capo.
A Russell interessava anche il modo in cui ciò che affermiamo si
relaziona con la realtà. Egli sentiva che se avesse potuto stabilire cosa rende
un’affermazione vera piuttosto che falsa avrebbe dato un contributo
fondamentale alla conoscenza umana. Anche in questo caso, il suo interesse
si concentrò sulle questioni astratte che stanno dietro ogni nostro pensiero;
dedicò una parte consistente della sua opera alla spiegazione della struttura
logica delle nostre affermazioni. Era convinto che il nostro linguaggio fosse
molto meno preciso della logica. Il linguaggio ordinario aveva bisogno di
essere analizzato – cioè ‘smontato’ – per farne emergere la struttura logica
sottostante. Russell era convinto che il nodo fondamentale per progredire in
qualsiasi campo della filosofia fosse proprio quest’analisi logica del
linguaggio, che implicava una sua traduzione in termini più precisi.
Prendiamo ad esempio la frase «La montagna d’oro non esiste».
Probabilmente tutti concorderanno nel giudicarla vera; questo perché nel
mondo non c’è nessuna montagna fatta d’oro. La frase sembra affermare
qualcosa a proposito di una cosa che non esiste. L’espressione ‘La
montagna d’oro’ sembra riferirsi a qualcosa di reale, ma noi sappiamo che
non è così. Per i logici, questo è un rompicapo; come possiamo parlare in
modo sensato di cose che non esistono? Perché questa espressione non è
completamente priva di senso? Una risposta, quella del logico austriaco
Alexius Meinong, era che qualsiasi cosa a cui possiamo pensare e di cui
possiamo parlare in modo sensato esiste . Dal suo punto di vista, la
montagna d’oro deve esistere, ma in un modo speciale, che egli chiamò
‘consistenza’. Così, pensava che gli unicorni e il numero 27, in un certo
senso, fossero ‘consistenti’.
Russell non condivideva il modo di intendere la logica di Meinong.
Significava che il mondo era pieno di cose che esistono in un certo senso e
non in un altro. Così, ideò un altro modo per spiegare come ciò che
affermiamo si relaziona con la realtà: quella conosciuta come la sua Teoria
delle descrizioni . Prendiamo la frase, abbastanza strana (e una delle
preferite di Russell): «L’attuale re di Francia è calvo». Già all’inizio del
Ventesimo secolo, quando Russell scriveva, in Francia non c’era più nessun
re. La Francia si era liberata di re e regine da un po’. Allora, come poteva
avere senso quell’affermazione? La risposta di Russell era che, come molte
frasi appartenenti al linguaggio ordinario, non era affatto ciò che sembrava.
Ecco il punto: se vogliamo dire che la frase «L’attuale re di Francia è
calvo» è falsa, siamo in qualche modo obbligati a dire che in Francia
attualmente c’è un re e che non è calvo; cosa che in realtà non intendiamo
dire affatto. Non crediamo che attualmente ci sia alcun re, in Francia. Ecco
come Russell analizza la frase. Un’affermazione come «L’attuale re di
Francia è calvo» è di fatto una sorta di descrizione nascosta. Quando
parliamo di ‘attuale re di Francia’, la forma logica sottostante alla nostra
idea è questa:
(a) Esiste qualcosa che è l’attuale re di Francia.
(b) C’è solo una cosa che è l’attuale re di Francia.
(c) Qualunque cosa sia l’attuale re di Francia, è calvo.
Questa articolazione così dettagliata consentiva a Russell di mostrare che
«L’attuale re di Francia è calvo» poteva avere un senso anche se in Francia
non c’era nessun re. La frase aveva senso, ma era falsa. A differenza di
Meinong, non aveva bisogno di immaginare che l’attuale re di Francia
dovesse esistere (o consistere) in qualche modo, perché se ne parlasse e ci si
pensasse. Per Russell, la frase «L’attuale re di Francia è calvo» è falsa
perché l’attuale re di Francia non esiste. La frase sostiene che esiste; quindi
la frase è falsa, non vera. Per la stessa ragione, è falsa anche la frase
«L’attuale re di Francia non è calvo».
Russell dette il via alla cosiddetta ‘svolta linguistica’ della filosofia, una
corrente in cui i filosofi iniziarono a riflettere attentamente sul linguaggio e
sulla sua struttura logica. Di questa corrente faceva parte anche A.J. Ayer.
CAPITOLO 32

Abbasso! Evviva!
ALFRED JULES AYER

Non sarebbe fantastico se fossimo in grado di sapere quando qualcuno dice


delle stupidaggini? Non perderemmo più tempo e potremmo suddividere
tutto ciò che sentiamo o leggiamo in enunciati che hanno un significato e
frasi senza senso sulle quali non vale la pena di soffermarsi. A.J. Ayer
(1910-1989) pensava di aver scoperto come fare, e chiamò questo suo
sistema Principio di verificazione .
Al termine di alcuni mesi trascorsi in Austria all’inizio degli anni Trenta
del Novecento, in cui aveva frequentato le riunioni di un gruppo di brillanti
scienziati e filosofi noti come Circolo di Vienna, Ayer fece ritorno a
Oxford, dove aveva un incarico come professore. Ad appena 24 anni,
scrisse un libro in cui sosteneva che la maggior parte della storia della
filosofia era un mucchio di farneticazioni, stupide e perlopiù inutili. Il libro,
che venne pubblicato nel 1926, si intitola Linguaggio, verità e logica. Era
parte di quel movimento chiamato positivismo logico che considerava la
scienza come la più alta conquista dell’umanità.
‘Metafisica’ è un termine usato per descrivere lo studio di qualsiasi realtà
che si collochi oltre i nostri sensi, il tipo di realtà in cui credevano Kant,
Schopenhauer e Hegel. Per Ayer, invece, ‘metafisica’ era una parolaccia;
era ciò contro cui si batteva. A lui interessava solo ciò che si poteva
conoscere con la logica o con i sensi. Invece la metafisica va oltre l’una e
gli altri e descrive realtà che non possono essere indagate con gli strumenti
della scienza o della logica. Dal punto di vista di Ayer, ciò significava che
non serviva a niente e che la si doveva lasciar perdere.
Non c’è da stupirsi che Linguaggio, verità e logica alzasse un polverone.
Suscitò l’avversione di un buon numero degli anziani filosofi di Oxford,
che misero i bastoni fra le ruote alla carriera accademica di Ayer. È vero che
alzare polveroni è una cosa che i filosofi fanno da millenni, da Socrate in
poi, però scrivere un libro in cui si attaccavano le opere di alcuni dei più
illustri filosofi del passato richiedeva un certo coraggio.
Ecco il sistema proposto da Ayer per distinguere le proposizioni dotate di
senso da quelle che ne sono prive. Prendete una proposizione qualsiasi e
ponete due domande:
È vero per definizione?
È verificabile empiricamente?
Se le risposte sono entrambe negative, la proposizione non ha senso; questo
è il suo test in due domande per giudicare se un’affermazione fosse
significativa. Solo le proposizioni vere per definizione o verificabili
empiricamente sono utili ai filosofi. Vediamo perché. Esempi di
proposizioni vere per definizione sono «Tutti gli struzzi sono uccelli» o
«Tutti i fratelli sono maschi»; si tratta di proposizioni analitiche , secondo
la definizione data da Kant (vedi il capitolo 19). Non abbiamo bisogno di
andare a vedere tutti gli struzzi per sapere che sono uccelli, perché il loro
essere uccelli fa parte della definizione di struzzo. E ovviamente non è
possibile avere un fratello femmina, non se ne troverebbero da nessuna
parte, stiamone certi, a meno che non decidano a un certo punto di cambiare
sesso. Le proposizioni vere per definizione affermano qualcosa che è
implicito nei termini che usiamo.
Le proposizioni verificabili empiricamente (sintetiche , secondo la
definizione kantiana), invece, ci forniscono delle conoscenze vere e proprie.
Perché una proposizione sia verificabile empiricamente deve darsi qualche
tipo di esperimento o di osservazione, che ne dimostri la verità o la falsità.
Ad esempio, se uno afferma «Tutti i delfini mangiano pesce» andremo a
verificare sul campo, offrendo pesce a dei delfini per vedere se lo
mangiano. Se trovassimo un solo delfino che non ha mai mangiato pesce,
concluderemmo che la proposizione è falsa. Rimarrebbe, secondo Ayer, una
proposizione verificabile, perché egli usa il termine ‘verificabile’ con il
doppio significato di verificabile e falsificabile. Le proposizioni verificabili
empiricamente sono tutte oggettive, essendo riferite al mondo reale.
Devono poter essere confermate o smentite dall’osservazione empirica, e la
scienza è lo strumento principe per farlo.
Se la proposizione non è né vera per definizione, né verificabile (o
falsificabile) empiricamente, allora secondo Ayer è priva di significato.
Tutto qui. Questo pezzettino della filosofia di Ayer è stato preso a prestito
dall’opera di David Hume. Hume aveva suggerito, in modo semiserio, che
dovremmo bruciare tutti i libri di filosofia che non superano questo test,
perché non contengono altro che ‘sofisticherie e illusioni’. Ayer rielabora
quest’idea di Hume per il Ventesimo secolo.
Allora, se prendiamo la proposizione «Alcuni filosofi hanno la barba», ne
consegue chiaramente che ciò non è vero per definizione, perché l’avere la
barba non è implicito nel fatto di essere filosofi, ma è verificabile
empiricamente, perché possiamo sottoporla a verifica diretta. Non abbiamo
che da esaminare una schiera di filosofi. Se scopriamo che alcuni hanno la
barba, concluderemo che la frase è vera. Oppure, se dopo aver passato in
rassegna centinaia di filosofi, non ne salta fuori nessuno che abbia la barba,
concluderemo che la frase «Alcuni filosofi hanno la barba» è probabilmente
falsa, ‘probabilmente’ perché non ne siamo sicuri se non esaminiamo tutti i
filosofi viventi. In un modo o nell’altro, comunque, la frase ha un
significato.
Paragoniamola ora alla proposizione «La mia stanza è piena di angeli
invisibili che non lasciano traccia». Anche questa non è vera per
definizione. Ma è verificabile empiricamente? Direi di no. Non siamo in
grado di sapere in che modo si possa appurare se questi angeli invisibili
davvero non lascino traccia. Non possiamo né toccarli, né sentirne l’odore.
Non lasciano impronte e non fanno rumore. La proposizione, quindi, è priva
di significato, anche se si presenta in un modo tale da far sembrare che ne
abbia. Pur essendo grammaticalmente corretta, in quanto affermazione sulla
realtà non è né vera, né falsa; è priva di senso.
Questo concetto può sembrare difficile da assimilare. La frase «La mia
stanza è piena di angeli invisibili che non lasciano traccia» sembra
significare qualcosa. Ayer però insiste sul fatto che essa non fornisce alcun
contributo alla conoscenza umana, per quanto suoni poetica o possa tornare
utile come suggerimento per un romanzo.
Ayer non si limitò ad attaccare la metafisica: altri suoi bersagli furono la
religione e la filosofia morale. Ad esempio, una delle sue conclusioni più
provocatorie fu che i giudizi morali erano in quanto tali privi di senso.
Questa posizione poteva sembrare scandalosa, ma era la logica conseguenza
dell’uso del suo principio di verificabilità ai precetti morali. Se diciamo «La
tortura è sbagliata», per Ayer è come se dicessimo «Abbasso la tortura!»
Dicendolo esterniamo cioè i sentimenti che proviamo, e non affermiamo
alcunché che possa essere vero o falso. Questo perché «La tortura è
sbagliata» non è vero per definizione. Non è neppure qualcosa che possa
essere provato o smentito sperimentalmente: non è possibile eseguire degli
esperimenti utili a determinarlo. Su questo, gli utilitaristi come Jeremy
Bentham e John Stuart Mill non si sarebbero trovati d’accordo con Ayer,
perché ne avrebbero calcolato il risultato in termini di felicità.
È dunque completamente privo di significato affermare «La tortura è
sbagliata», perché si tratta del tipo di proposizione che non può essere
dimostrata né vera, né falsa. Alla stessa stregua, quando diciamo «La
compassione è giusta», esterniamo un sentimento: è come se dicessimo
«Evviva la compassione!» La teoria etica di Ayer, non a caso, è chiamata
‘emotivismo’. Secondo alcuni, per lui l’etica non conta nulla, e quindi è
permesso compiere qualsiasi azione; ma il punto non è questo. Ayer
intendeva dire che non possiamo discutere di questi argomenti in modo
sensato se parliamo di valori astratti; era però convinto che nella maggior
parte delle discussioni sulla morale si potesse discutere di fatti, e che questi
fatti fossero verificabili empiricamente.
In un altro punto di Linguaggio, verità e logica egli criticava l’idea che si
potesse parlare sensatamente di Dio, sostenendo che la proposizione «Dio
esiste» non era né vera, né falsa; anche in questo caso, secondo lui, si
trattava di un’affermazione completamente priva di senso. Ciò perché non è
vera per definizione (ma sappiamo che i seguaci dell’argomento ontologico
di sant’Anselmo sostengono che Dio esiste necessariamente), e perché non
esiste alcun esperimento mediante il quale possiamo stabilire se sia vera o
falsa, in quanto egli respingeva l’argomento teleologico. Ayer quindi non
era né teista (uno che crede nell’esistenza di Dio), né ateo (uno che crede
che Dio non esista); pensava che «Dio esiste» fosse una fra le tante
affermazioni prive di significato. Questa posizione è chiamata
‘ignosticismo’. Ayer era dunque un ignostico, apparteneva alla particolare
categoria di persone secondo le quali discutere se Dio esista o meno è
completamente privo di senso.
Nonostante ciò, da anziano rimase molto turbato da un’esperienza pre-
morte: dopo aver ingoiato un boccone di salmone rischiò di soffocare, perse
i sensi e il suo cuore si fermò per quattro minuti. In quegli istanti ebbe la
visione distinta di una luce rossa e di due ‘Signori dell’Universo’ che
parlavano tra loro. Quella visione non lo indusse a credere in Dio, anzi; gli
fece però mettere in discussione le sue certezze a proposito dell’esistenza
della mente dopo la morte.
Il positivismo logico di Ayer, sfortunatamente per lui, fornì esso stesso
l’arma per la propria distruzione. La teoria non riuscì a superare il proprio
test. Prima di tutto, non è ovvio che essa sia vera per definizione; in
secondo luogo, non vi è osservazione sperimentale che possa provarla o
smentirla. Quindi, stando ai suoi stessi parametri, è priva di significato.
Per coloro che si rivolgevano alla filosofia cercando delle risposte su
come impostare la propria vita, la filosofia di Ayer era di scarsissima utilità.
Per molti versi sembrava più promettente l’esistenzialismo, il movimento
che sorse in Europa durante e immediatamente dopo la Seconda guerra
mondiale.
CAPITOLO 33

L’angoscia di essere liberi


JEAN- PAUL SARTRE , SIMONE DE BEAUVOIR E ALBERT
CAMUS

Se poteste viaggiare all’indietro nel tempo fino al 1945 e vi sedeste a un


tavolino del caffè ‘Les deux magots’ (‘I due saggi’), a Parigi, potreste
capitare vicino a un ometto con gli occhialini rotondi che fuma la pipa e
prende appunti su un quaderno. Quest’uomo è Jean-Paul Sartre (1905-
1980), il più famoso tra i filosofi esistenzialisti, ma anche romanziere,
autore di opere teatrali e di biografie. Egli trascorse gran parte della sua vita
risiedendo in albergo e scrisse la maggior parte delle sue opere seduto nei
caffè. Allora non aveva l’aria del personaggio di culto, ma nel giro di
qualche anno lo sarebbe diventato.
Presto gli si sarebbe accompagnata una donna bellissima e molto
intelligente, Simone de Beauvoir (1908-1986). Si erano incontrati
all’università e lei divenne la sua partner, benché non fossero sposati e non
vivessero neppure insieme. Entrambi ebbero anche degli amanti, ma quella
tra loro fu la relazione più duratura, che definivano ‘essenziale’ mentre le
altre erano considerate ‘contingenti’ (nel senso di ‘non necessarie’). Come
Sartre, anche lei era una filosofa e autrice di romanzi. Scrisse tra l’altro un
importante saggio precursore del femminismo, Il secondo sesso (1949).
Durante buona parte della Seconda guerra mondiale, Parigi era stata
occupata dalle truppe della Germania nazista, e per i francesi si era trattato
di un periodo molto difficile. Alcuni si erano schierati con la Resistenza e
avevano combattuto i tedeschi; altri avevano collaborato con gli invasori e
tradito i propri amici per salvarsi. Il cibo scarseggiava, e nelle strade si
combatteva. Le persone sparivano e non se ne sapeva più nulla. Gli ebrei
parigini erano stati deportati nei campi di concentramento, dove la maggior
parte di loro veniva sterminata.
Con la sconfitta della Germania ad opera degli Alleati, era venuto il
momento di ricominciare a vivere. La gente provava sollievo per la fine
della guerra e nello stesso tempo sentiva il bisogno di lasciarsi il passato
dietro le spalle. Era tempo di pensare a come dovesse essere la società del
futuro. Dopo i terribili eventi della guerra chiunque si faceva le domande
che in genere si pongono i filosofi: «Qual è il senso della vita?» «Dio
esiste?» oppure «Devo sempre fare ciò che gli altri si aspettano da me?»
Sartre aveva già scritto un libro lungo e difficile dal titolo L’Essere e il
Nulla (1943), che era stato pubblicato durante la guerra. Il tema centrale era
la libertà. Gli esseri umani sono liberi – un messaggio che suonava strano
nella Francia occupata, quando la maggioranza dei francesi si sentiva, o
effettivamente era, prigioniera nella sua stessa patria. Ma ciò che Sartre
intendeva era che a differenza, ad esempio, di un coltellino tascabile, un
essere umano non è stato progettato per fare una determinata cosa. Sartre
non credeva in un dio creatore dell’umanità, e rifiutava l’idea che un dio
potesse avere un progetto per essa. Il coltellino tascabile è progettato per
tagliare: è quella la sua essenza, ciò che ne fa quello che è; ma per cosa è
stato progettato l’essere umano? Gli esseri umani non hanno un’essenza.
Secondo lui, non siamo nati per uno scopo. Non c’è un modo in particolare
in cui dobbiamo essere, per essere umani. Un essere umano può scegliere
cosa fare, cosa diventare. Siamo tutti liberi, nessuno tranne noi può decidere
cosa fare della propria vita. Possiamo lasciare che siano altri a decidere per
noi, ma anche questa, in un certo senso, è una scelta. Sarebbe una scelta
anche essere il tipo di persona che gli altri si aspettano che siamo.
Naturalmente, se si sceglie di fare qualcosa, si può anche non riuscire a
farla, e il motivo per cui non si riesce può anche essere indipendente dalla
nostra volontà. Nondimeno, noi rimaniamo responsabili per aver voluto fare
quella cosa, per aver cercato di farla e per il modo in cui reagiamo al fatto
di non esserci riusciti.
La libertà non è facile da gestire, e molti di noi la rifuggono. Uno dei
modi per farlo è fingere di non essere veramente liberi. A rigore, ciò
significa che non abbiamo scuse: siamo responsabili in tutto e per tutto di
ciò che facciamo ogni giorno e del modo in cui ci sentiamo, fino alla più
piccola emozione che proviamo. Secondo Sartre è una tua scelta se ora sei
triste. Non devi essere triste; se lo sei, devi assumertene la responsabilità.
Questo spaventa la gente, e alcuni non lo ammettono perché è doloroso.
Sartre usa la definizione «Condannati a essere liberi». Che ci piaccia o no,
siamo prigionieri di questo stato di libertà.
Sartre descrive il cameriere in un caffè. Si muove in modo molto
stereotipato, da burattino. Tutto in lui fa pensare che egli pensi a se stesso
come a qualcuno che si esaurisce completamente nel ruolo di cameriere,
come se non avesse alcuna possibilità di scelta. Il modo in cui regge il
vassoio, come si muove fra i tavolini, tutto fa parte di una sorta di danza –
una danza la cui coreografia è costituita dal suo lavoro di cameriere, non
dall’essere umano che la sta eseguendo. Sartre dice che quest’uomo è «in
malafede». La malafede è di chi sfugge alla propria libertà, è come mentire
a se stessi fin quasi a credere di non essere liberi di scegliere la propria vita,
mentre, secondo lui, che ci piaccia o no lo siamo tutti.
Durante una conferenza che tenne appena dopo la guerra dal titolo
L’esistenzialismo è un umanismo , Sartre descrisse la vita umana come
piena di angoscia. L’angoscia nasce dalla coscienza del fatto che non
abbiamo scuse, che siamo responsabili di qualsiasi cosa facciamo. A
renderla ancora più straziante è la consapevolezza che, secondo Sartre,
qualunque cosa io faccia nella vita è una sorta di modello per ciò che
chiunque altro dovrebbe fare nella vita. Se decido di sposarmi, suggerisco
che chiunque dovrebbe sposarsi; se decido di essere pigro, è così che
dovrebbe fare chiunque, nella mia concezione dell’esistenza. Facendo delle
scelte, io indico come, secondo me, dovrebbe essere un essere umano. Se lo
faccio in piena buona fede, si tratta di una grande responsabilità.
Sartre spiega cosa intenda per angoscia della scelta raccontando la storia
vera dello studente che durante la guerra era andato a chiedergli un
consiglio. Questo giovane doveva prendere una decisione estremamente
ardua: restare a casa per curare sua madre, oppure entrare in clandestinità e
unirsi alla Resistenza francese, combattendo contro i tedeschi per salvare il
suo paese. Era la scelta più difficile della sua vita, e non sapeva cosa fare.
Se avesse abbandonato sua madre, lei, senza di lui, sarebbe stata in
pericolo. Inoltre avrebbe potuto cadere nelle mani dei tedeschi prima di
riuscire a unirsi alla Resistenza: il suo tentativo di compiere un nobile gesto
sarebbe risultato uno spreco di energie e avrebbe perso la vita inutilmente.
Se però fosse rimasto a casa con sua madre, avrebbe lasciato che fossero
altri a combattere al suo posto. Cosa doveva fare? Cosa avreste fatto voi?
Che cosa gli avreste consigliato?
Il consiglio di Sartre fu un po’ frustrante. Disse allo studente che era
libero e che doveva decidere da solo. Se gli avesse dato un consiglio pratico
su cosa fare, lo studente avrebbe dovuto ancora decidere se seguirlo o
meno. Non c’era modo di sfuggire al peso della responsabilità che è
intrinseco al nostro essere umani.
‘Esistenzialismo’ è il termine con cui viene designata la filosofia di
Sartre; deriva dal concetto secondo il quale noi ci troviamo prima di tutto a
esistere in questo mondo, e poi dobbiamo decidere cosa fare delle nostre
vite. Avrebbe potuto essere esattamente l’opposto: avremmo potuto essere
come dei coltellini tascabili, progettati per uno scopo preciso. Ma, pensava
Sartre, così non è. Nella sua concezione, la nostra esistenza è anteriore alla
nostra essenza, mentre per gli oggetti progettati l’essenza precede
l’esistenza.
Nel Secondo sesso , Simone de Beauvoir imprimeva una svolta diversa
alla filosofia esistenzialista, sostenendo che le donne non sono nate donne,
ma lo diventano: con questo intendeva dire che le donne tendono ad
adeguarsi all’ideale che gli uomini hanno della donna. Essere ciò che un
uomo si aspetta da te è una scelta, ma le donne, essendo libere, possono
decidere da sole ciò che vogliono essere. Non esiste un’essenza, un modo
naturale di essere donna a cui devono adeguarsi.
Un altro tema centrale dell’Esistenzialismo era l’assurdità della nostra
esistenza. La vita non ha alcun significato finché non siamo noi a darglielo
con le nostre scelte; non passa molto tempo e giunge la morte, cancellando
qualunque significato. Sartre descriveva tutto ciò definendo l’essere umano
come una ‘passione inutile’: la nostra esistenza non ha alcun senso; l’unico
significato che possiamo darle è quello delle nostre scelte.
Per descrivere l’assurdità della vita umana, Albert Camus (1913-1960),
romanziere e filosofo vicino all’Esistenzialismo, usava il mito di Sisifo. La
punizione inflitta dagli dèi a Sisifo, colpevole di averli sfidati, consiste nel
portare un’enorme pietra in cima a una montagna; quando raggiunge la
cima, la pietra rotola giù, e Sisifo deve ricominciare da capo, ancora e
ancora, per l’eternità. La vita umana è come il compito di Sisifo: senza
senso. Non ha scopo, né spiegazione; è assurda. Camus, però, non pensava
che dovessimo cadere nella disperazione. Non dovremmo suicidarci, ma
riconoscere che Sisifo è felice. Perché lo è? Perché nella sua assurda
impresa di insistere a portare quella pietra enorme in cima alla montagna
c’è qualcosa che rende la sua vita degna di essere vissuta, e comunque
preferibile alla morte.
L’Esistenzialismo divenne come una setta religiosa. Migliaia di giovani ne
rimasero affascinati e discutevano appassionatamente fino a tarda notte
dell’assurdità dell’esistenza umana. Ispirò romanzi, spettacoli teatrali e
film. Era una filosofia che la gente poteva seguire e applicare nel prendere
delle decisioni. Lo stesso Sartre, invecchiando, si impegnò sempre più in
politica, sempre più a sinistra, cercando di conciliare gli ideali del
marxismo con quelli dei propri esordi: un compito difficile. Negli anni
Quaranta al centro del suo esistenzialismo c’erano il singolo e le sue scelte
individuali; nella sua elaborazione successiva, Sartre estese la sua
riflessione al nostro essere parte di un insieme più ampio e al ruolo che i
fattori socioeconomici giocano nella nostra vita. Purtroppo i suoi scritti si
fecero sempre più difficili da comprendere, forse anche perché buona parte
di essi veniva redatta sotto l’effetto delle anfetamine.
Sartre è stato il filosofo forse più noto del Ventesimo secolo. Ma se
chiedete ai filosofi chi sia stato il pensatore più importante del secolo
scorso, molti di loro vi faranno il nome di Ludwig Wittgenstein.
CAPITOLO 34

Stregati dal linguaggio


LUDWIG WITTGENSTEIN

Se vi foste trovati ad assistere a uno dei seminari che Ludwig Wittgenstein


(1889-1951) teneva presso l’università di Cambridge negli anni Quaranta
del secolo scorso, vi saresti subito accorti che si trattava di una persona
davvero particolare. La maggior parte di coloro che lo incontravano
pensavano che fosse un genio. Bertrand Russell lo descrisse come
«appassionato, profondo, intenso e dominante». Questo viennese
mingherlino, dai luminosi occhi azzurri e dall’espressione severa, teneva le
lezioni camminando su e giù, interrogando i suoi studenti e fermandosi ogni
tanto per qualche istante, perso nei propri pensieri. Nessuno osava
interromperlo. Le sue lezioni non erano mai preparate in anticipo; rifletteva
sulle cose al momento, di fronte al suo pubblico, usando una serie di esempi
per spiegare di cosa stava trattando. Consigliava ai suoi studenti di non
perdere tempo leggendo libri di filosofia; se li avessero presi sul serio,
diceva, avrebbero dovuto gettarli in mezzo alla stanza e attaccare a
sviscerare i dilemmi che suscitavano.
Il suo primo libro, il Tractatus logico-philosophicus (1922), consisteva in
una successione di brevi paragrafi numerati, molti dei quali somigliavano
più alla poesia che alla filosofia. Il suo messaggio principale era che le
questioni fondamentali dell’etica e della religione stanno su un piano che
oltrepassa i limiti della nostra comprensione, e che se non possiamo
parlarne in modo sensato è meglio che non ne parliamo del tutto.
Un tema centrale del suo lavoro successivo fu il nostro essere ‘stregati dal
linguaggio’. Il linguaggio porta i filosofi a fare ogni tipo di confusione; essi
cadono prigionieri del suo incantesimo. Wittgenstein si considerava in un
certo senso un terapista, che avrebbe dissipato gran parte di questa
confusione. Pensava che, seguendo la logica dei suoi esempi attentamente
scelti, i problemi filosofici si sarebbero dileguati. Ciò che sembrava
terribilmente importante non sarebbe più stato un problema.
Una delle cause generatrici di confusione in campo filosofico era il
postulato secondo cui la funzione del linguaggio è una e sempre la stessa:
designare la realtà. Wittgenstein cerca di dimostrare ai suoi lettori che
usando le parole possiamo compiere tanti tipi diversi di attività; accanto alla
descrizione della realtà esistono infiniti altri ‘giochi linguistici’. Non vi è
un’‘essenza’ del linguaggio, né una caratteristica comune che spieghi tutta
la gamma dei suoi utilizzi.
Se notate un gruppo di persone che sono in relazione le une con le altre,
ad esempio a un matrimonio, probabilmente, grazie alle somiglianze
nell’aspetto fisico, riconoscerete i membri di una stessa famiglia. Questo è
ciò che Wittgenstein chiamava ‘somiglianza di famiglia’. Voi somigliate un
po’ a vostra madre – magari nel colore degli occhi e dei capelli – e un po’ a
vostro nonno, perché siete alti e magri. Potreste anche condividere con
vostra sorella la forma degli occhi e il colore dei capelli, ma il colore dei
suoi occhi potrebbe essere diverso da quello dei vostri e quindi da quello di
vostra madre. Non c’è un’unica caratteristica, condivisa da tutti i membri
della famiglia, che ne indichi inequivocabilmente l’appartenenza alla stessa
famiglia genetica; piuttosto, c’è un intreccio di somiglianze che si
sovrappongono tra loro: certi ne condividono alcune, certi altre. È questo
intreccio di somiglianze sovrapposte che interessa Wittgenstein. Egli usa
questa metafora delle similitudini di famiglia per spiegare un aspetto
fondamentale del funzionamento del linguaggio.
Pensiamo alla parola ‘gioco’. Con questa parola indichiamo tanti tipi di
cose: giochi da tavolo come gli scacchi, giochi con le carte come il bridge e
il solitario, sport come il calcio, e via dicendo. Ci sono anche altre cose che
chiamiamo così, come il nascondino o i giochi in cui si finge di essere dei
personaggi immaginari. La maggior parte delle persone crede che per il
fatto che si usa la stessa parola – ‘gioco’ – per designare tutti quanti, esista
una caratteristica che li accomuna, l’‘essenza’ del concetto di ‘gioco’.
Wittgenstein ci invita a non dare per scontata l’esistenza di questo comune
denominatore; proviamo a individuarlo. Possiamo ipotizzare che tutti i
giochi abbiano un vincente e un perdente; ma allora cosa dire del solitario o
del gioco di tirare la palla contro il muro per riprenderla? Anche questi sono
giochi, ma chiaramente non c’è nessun perdente. Pensiamo allora all’idea
che il comune denominatore sia un insieme di regole, ma certi giochi, come
quelli che fanno i bambini fingendosi re o principesse, non hanno regole
fisse. A ogni proposta che si potrebbe avanzare per trovare una
caratteristica comune a tutti i giochi, Wittgenstein risponde con un
controesempio, il caso di qualcosa che è un gioco ma non sembra
condividere con altri quella supposta ‘essenza’ dei giochi. Invece di dare
per scontato che ci debba essere una caratteristica in comune a tutti i giochi,
dovremmo considerare le parole come ‘gioco’ come termini che indicano
delle ‘somiglianze di famiglia’.
Descrivendolo come serie di ‘giochi linguistici’, Wittgenstein spiega che
il linguaggio viene usato per diversi scopi, e che i filosofi hanno fatto
confusione dando per scontato che tutti i tipi di linguaggio facessero la
stessa cosa. In una delle sue famose descrizioni del suo ruolo di filosofo,
egli dichiarò che voleva far uscire la mosca dalla bottiglia. Un tipico
filosofo svolazza sbattendo da tutte le parti come una mosca intrappolata in
una bottiglia. Il modo per ‘risolvere’ un problema filosofico è togliere il
tappo e far uscire la mosca, intendendo con questo il mostrare al filosofo
che si sta facendo le domande sbagliate o è fuorviato dal linguaggio.
Prendiamo la descrizione fatta da sant’Agostino su come aveva imparato a
parlare. Nelle sue Confessioni , Agostino aveva ricordato che gli adulti gli
indicavano le cose, nominandole. Vedeva una mela, qualcuno gliela
indicava e poi diceva ‘mela’. Gradualmente, Agostino aveva compreso il
significato delle parole e imparato a usarle per dire agli altri ciò che voleva.
Wittgenstein prende questo racconto a esempio di come si dia per scontato
che qualsiasi linguaggio ha un’essenza, una sola funzione: in questo caso, la
funzione di designare gli oggetti; per Agostino ogni parola aveva un suo
corrispondente nelle cose. Smettiamo di pensare che il linguaggio sia solo
questo e osserviamone l’uso: scopriremo che si tratta di una serie di attività
legate alla vita pratica delle persone. Dovremmo pensare al linguaggio più
come a una cassetta degli attrezzi che contiene utensili di tanti tipi diversi,
che non come, ad esempio, a qualcosa che serve solo e unicamente come
apribottiglie.
Forse vi pare ovvio che quando state soffrendo per qualcosa, e ne parlate,
usiate parole che designano quella particolare sensazione dolorosa. Ebbene,
Wittgenstein contesta questa idea del linguaggio delle sensazioni. Ciò non
significa che voi non stiate effettivamente provando quella sensazione, ma
che, dal punto di vista logico, le vostre parole non possono essere i nomi
delle vostre sensazioni. Se tutti hanno una scatola con dentro un insetto che
non mostrano a nessuno, quando parlano tra loro del loro ‘coleottero’ non
importa davvero cosa ci sia in quella scatola. Il linguaggio è pubblico, e
richiede dei modi con i quali tutti possano controllare che ciò che diciamo
ha un senso. Quando un bambino impara a ‘descrivere’ il proprio dolore,
sostiene Wittgenstein, il genitore lo incoraggia a fare varie cose, come dire
«mi fa male», cioè l’equivalente dell’espressione spontanea «Ahi!» Non
dobbiamo pensare alle parole «sto male» come a un modo per nominare una
sensazione personale. Se il dolore e altre sensazioni fossero veramente
personali, avremmo bisogno di un particolare linguaggio personale per
descriverle. Wittgenstein però pensava che quest’idea non avesse senso. Un
altro dei suoi esempi può aiutarci a comprendere perché.
Un uomo decide di tenere un diario in cui annota tutte le volte che prova
un certo tipo di sensazione per cui non c’è un nome; ad esempio, un certo
tipo di pizzicore. Nel diario scrive ‘S’ ogni volta che prova quel particolare
pizzicore. Nel suo linguaggio personale, ‘S’ è una parola, e nessun altro sa
cosa significhi per lui. Ciò sembra verosimile; non abbiamo difficoltà a
immaginare che una persona possa farlo. Pensiamoci bene, però. Come può
sapere quest’uomo che quando prova un pizzicore è esattamente il tipo di
pizzicore che ha deciso di registrare nel diario, e non un pizzicore di genere
diverso? L’uomo non può averne la controprova se non nella propria
memoria, nelle sue precedenti esperienze di pizzicore di tipo ‘S’. Ma ciò
non è sufficiente, perché potrebbe sbagliarsi e confondersi. Questo non è un
sistema affidabile per dire che state usando la parola nello stesso modo.
Con l’esempio del diario, Wittgenstein cerca di dimostrare che il modo in
cui usiamo le parole per descrivere le nostre esperienze non si può basare su
un nesso personale tra un’esperienza e una parola. Dev’esserci una
dimensione pubblica; non possiamo avere il nostro linguaggio privato. E se
questo è vero, l’idea che la mente è un teatro chiuso nel quale nessuno può
entrare è fuorviante. Per Wittgenstein, quindi, l’idea di un linguaggio
privato delle sensazioni non ha senso. Questo è importante – anche se
difficile da comprendere – perché molti filosofi prima di lui pensavano che
la sfera mentale degli individui fosse completamente privata.
Benché fosse di religione cristiana, dai nazisti la famiglia Wittgenstein era
considerata ebrea. Ludwig trascorse parte della Seconda guerra mondiale
lavorando come inserviente in un ospedale di Londra, mentre la sua vasta
famiglia fu abbastanza fortunata da riuscire a fuggire da Vienna. Se non ci
fossero riusciti, Adolf Eichmann avrebbe potuto sovrintendere alla loro
deportazione nei campi di sterminio. Il coinvolgimento di Eichmann
nell’Olocausto e il processo per crimini contro l’umanità a cui venne
sottoposto furono al centro delle riflessioni di Hannah Arendt sulla natura
del male.
CAPITOLO 35

L’uomo che non si faceva domande


HANNH ARENDT

Il nazista Adolf Eichmann era un funzionario molto efficiente. Dal 1942


venne incaricato del trasferimento degli ebrei d’Europa nei campi di
concentramento in Polonia, campi tra cui c’era Auschwitz. L’operazione era
parte della ‘soluzione finale’ voluta da Hitler: il suo piano di eliminazione
di tutti gli ebrei dei territori occupati dalla Germania. Eichmann non era
responsabile di quel piano di sterminio sistematico, ma venne coinvolto in
prima persona nell’organizzazione del sistema di trasporto ferroviario che
lo rese possibile.
Negli anni Trenta i nazisti introdussero delle leggi che privavano gli ebrei
dei diritti civili. Hitler imputava loro praticamente tutti i mali della
Germania e li aveva scelti come bersaglio della sua folle volontà di riscatto.
Queste leggi impedivano agli ebrei di frequentare le scuole pubbliche, di
possedere denaro e proprietà e li obbligava a girare indossando un distintivo
giallo a forma di stella di David. Erano stati obbligati a vivere nei ghetti,
zone sovraffollate delle città che per loro divennero come prigioni. Il cibo
scarseggiava e la vita era difficile. Ma la soluzione finale fu un ulteriore
salto di qualità nel male. La decisione di Hitler di eliminare milioni di
persone semplicemente a causa della loro razza comportava la necessità di
istituire un sistema di trasporto degli ebrei dalle città ai luoghi in cui
sarebbero stati sterminati. I campi di concentramento già esistenti vennero
convertiti in impianti in grado di somministrare gas letali e poi cremare
centinaia di persone al giorno. Poiché alcuni di questi campi si trovavano in
Polonia, c’era bisogno di qualcuno che organizzasse i convogli che
avrebbero trasportato gli ebrei verso la morte.
Mentre Eichmann, seduto alla scrivania, scartabellava i suoi documenti e
faceva telefonate, milioni di persone morivano come conseguenza delle sue
azioni. Certi morivano di fame o a causa del tifo, altri erano costretti a
lavorare fino alla morte, ma la maggior parte venne uccisa con il gas. Nella
Germania nazista i treni erano sempre in orario: Eichmann e la gente come
lui si adoperavano perché fosse così. Grazie alla loro efficienza i vagoni
bestiame erano sempre stracolmi. Dentro c’erano uomini, donne e bambini,
e quello era il loro viaggio verso la morte, il più delle volte senza cibo né
acqua, spesso al gelo o nel caldo infernale. Molti morivano durante quel
viaggio, specialmente gli anziani e i malati.
I sopravvissuti arrivavano deboli e terrorizzati, solo per essere spogliati e
ammassati in stanzoni mascherati da docce. Le porte si chiudevano, e i
nazisti li uccidevano con un gas chiamato Zyklon. I loro corpi venivano
bruciati, e tutto ciò che avevano addosso veniva spartito tra i loro aguzzini.
Se non venivano immediatamente selezionati per morire in questo modo, i
più forti di loro erano costretti a lavorare in condizioni atroci, mantenuti in
uno stato di denutrizione. Le guardie naziste li picchiavano, quando
addirittura non li uccidevano per divertimento.
Eichmann svolse un ruolo decisivo in questi crimini, ma alla fine della
Seconda guerra mondiale riuscì a sfuggire alle truppe degli Alleati e a
rifugiarsi in Argentina, dove visse per un certo periodo sotto falso nome.
Nel 1960, tuttavia, alcuni agenti del Mossad, il servizio segreto israeliano,
lo individuarono a Buenos Aires e lo catturarono, lo narcotizzarono e lo
portarono con loro in Israele per processarlo.
Eichmann doveva essere una specie di bestia feroce, un sadico che godeva
di fronte alla sofferenza altrui: era questo che la maggior parte della gente
credeva quando il processo ebbe inizio. Come poteva essere diversamente,
visto il ruolo che aveva svolto nell’Olocausto? Per anni il suo lavoro era
consistito nel trovare il sistema più efficace per mandare a morte la gente.
Solo un mostro poteva essere capace di dormire la notte dopo aver fatto
cose simili per tutto il giorno.
La filosofa Hannah Arendt (1906-1975), un’ebrea tedesca emigrata negli
Stati Uniti, fece il resoconto del processo intentato a Eichmann per la rivista
New Yorker . Voleva trovarsi faccia a faccia con un prodotto dello stato
totalitario nazista, una società in cui vi era stato ben poco spazio per la
libertà di pensiero; voleva capire com’era davvero quell’uomo, e come
avesse potuto commettere quei crimini.
Eichmann era molto diverso dal primo nazista in cui Arendt si era
imbattuta. Ai tempi del nazismo era fuggita in Francia e da lì in America,
dove aveva preso la cittadinanza statunitense; ma prima, quando era
studentessa all’università di Marburgo, era stata allieva del filosofo Martin
Heidegger, e per un breve periodo i due erano stati amanti, benché lei
avesse solo diciotto anni e lui fosse sposato. Heidegger stava scrivendo
Essere e tempo , un’opera incredibilmente difficile che alcuni ritengono sia
un contributo fondamentale alla storia della filosofia e altri un esercizio di
scrittura volutamente oscuro. Più tardi sarebbe diventato un membro attivo
del Partito Nazista e ne avrebbe appoggiato la politica antisemita. Arrivò a
far togliere il nome del suo ex amico, il filosofo Edmund Husserl, dalla
pagina della dedica di Essere e tempo , perché Husserl era ebreo.
Ora, a Gerusalemme, Arendt stava per incontrare un nazista di genere
completamente diverso. Quello che aveva davanti era un uomo
normalissimo, che aveva scelto di non stare troppo a pensare a ciò che stava
facendo. La sua rinuncia a pensare aveva avuto conseguenze disastrose, ma
lui non era il sadico malvagio che lei si sarebbe aspettata; era qualcosa di
molto più comune, ma altrettanto pericoloso: un uomo che non pensa. In
una Germania in cui le peggiori manifestazioni di razzismo erano diventate
legge, per lui era stato semplice convincersi che ciò che stava facendo era la
cosa giusta. Le circostanze gli avevano aperto la strada verso una carriera di
successo, e lui quell’opportunità l’aveva colta. Per Eichmann, la soluzione
finale di Hitler significava la possibilità di fare bene, di dimostrare che era
davvero una persona capace. Si trattava di un concetto difficile da accettare,
e molti criticarono Arendt per queste affermazioni, ma lei aveva la
sensazione che Eichmann fosse sincero quando protestava di aver solo fatto
il proprio dovere.
A differenza di molti nazisti, Eichmann non sembrava spinto dall’odio nei
confronti degli ebrei. In lui non c’era traccia dell’astio di Hitler. Moltissimi
nazisti avrebbero ammazzato volentieri di botte un ebreo per strada al grido
di «Heil Hitler!»; lui non era uno di loro. Però aveva ugualmente
abbracciato l’ideologia nazista e – ancor peggio – aveva contribuito a
mandare a morte milioni di persone. Persino mentre ascoltava le
testimonianze contro di lui, sembrava faticare a capire cosa avesse fatto di
sbagliato. Dal suo punto di vista, non aveva trasgredito alcuna legge, né
aveva ucciso nessuno di propria mano o chiesto a qualcuno di farlo per lui:
quindi si era comportato in modo ragionevole. Era stato educato a obbedire
alle leggi e a eseguire gli ordini, e tutti coloro che lo circondavano stavano
facendo lo stesso. Prendere ordini da altri gli aveva risparmiato di sentirsi
responsabile delle conseguenze del suo lavoro di tutti i giorni.
Per fare il proprio lavoro, Eichmann non aveva bisogno di vedere quando
la gente veniva ammassata nei carri bestiame o di visitare i campi della
morte; e lui non lo fece. Era stato capace di dire ai giudici che non avrebbe
mai potuto fare il medico, perché aveva paura della vista del sangue. Le sue
mani, però, grondavano sangue; era il prodotto di un sistema che gli aveva
impedito di riflettere con la propria testa sulle sue azioni e su cosa esse
significassero per delle persone in carne e ossa. Era come se non riuscisse a
mettersi nei panni degli altri. Per tutto il processo continuò a illudersi che
avrebbero creduto alla sua innocenza. O forse aveva deciso che la sua linea
di difesa migliore era ripetere che stava solo obbedendo a degli ordini; se
era in malafede, allora riuscì a ingannare Arendt.
Per descrivere cosa vedeva in lui, Arendt usò l’espressione ‘la banalità del
male’. Se qualcosa è banale, è anche comune, noioso e non originale. Il
male che c’era in Eichmann era, secondo lei, banale nel senso che era il
male di un burocrate, di un funzionario, non quello di un demonio. Erano
quelli come lui, le persone normali, che avevano permesso al nazismo di
fare quello che aveva fatto.
La filosofia di Arendt traeva ispirazione dagli eventi che si svolgevano
attorno a lei. Non era il tipo di filosofo che trascorre la vita seduto in
poltrona, a riflettere su idee puramente astratte, o a discutere all’infinito sul
significato di una parola. La sua filosofia aveva a che fare con la storia
recente e l’esperienza vissuta. Ciò che scrisse nel suo La banalità del male
si basava sulle sue osservazioni a proposito di un uomo, di ciò che diceva e
di come si era giustificato. A partire da ciò che vide, Arendt sviluppò una
riflessione più ampia sul male nei regimi totalitari e sui suoi effetti su
coloro che non seppero resistere all’ideologia su cui si basavano.
Come molti nazisti all’epoca, anche Eichmann non riusciva a vedere le
cose dalla prospettiva di qualcun altro. Non era abbastanza coraggioso da
mettere in discussione gli ordini che gli venivano dati, e semplicemente
faceva in modo di eseguirli al meglio. Non aveva immaginazione. Arendt lo
descrisse come superficiale e stupido, benché la sua avrebbe potuto essere
una messinscena. Se fosse stato un mostro, sarebbe stato terrificante. Ma
perlomeno i mostri sono rari, e in genere si notano subito. Forse ancora più
terrificante era il fatto che sembrasse tanto normale. Un uomo normale che,
senza farsi domande su ciò che stava facendo, aveva preso parte a uno degli
episodi più atroci della storia dell’umanità. Probabilmente, se non fosse
vissuto nella Germania nazista, non sarebbe diventato un uomo malvagio.
Le circostanze avevano giocato contro di lui. Questo, però, non lo
discolpava. Aveva obbedito a degli ordini aberranti, e obbedire agli ordini
dei nazisti era, secondo Arendt, equivalente ad appoggiare la soluzione
finale. Non porsi domande su ciò che gli veniva detto di fare ed eseguendo
quegli ordini, egli aveva di fatto preso parte a quello sterminio di massa,
anche se dal suo punto di vista non aveva fatto altro che far partire dei treni
in orario. A un certo punto del processo, Eichmann arrivò a sostenere di
aver agito seguendo le teorie kantiane sul dovere morale, come se eseguire
gli ordini equivalesse a fare la cosa giusta. Non aveva capito che uno dei
capisaldi della morale kantiana è proprio il rispetto nei confronti degli esseri
umani e della loro dignità.
Karl Popper era un intellettuale viennese che fortunatamente riuscì a
sfuggire all’Olocausto e ai puntualissimi treni di Eichmann.
CAPITOLO 36

Imparare dagli errori


KARL POPPER E THOMAS KUHN

Nel 1666 un giovane scienziato era seduto in un giardino, quando vide una
mela cadere da un albero. Lo scienziato si domandò perché le mele cadono
dritte verso terra, invece di cadere di lato o salire verso l’alto. Quello
scienziato era Isaac Newton e l’accaduto gli ispirò la teoria della gravità,
una teoria che spiegava i moti dei corpi celesti come quelli delle mele. Ma
cosa successe dopo? Pensate che Newton raccogliesse le prove che
dimostrassero al di là di ogni dubbio la validità della sua teoria? Non
secondo Karl Popper (1902-1994).
Gli scienziati, come noi del resto, imparano dai propri errori. La scienza
progredisce quando ci rendiamo conto che un certo modo di pensare la
realtà è falso. Si può riassumere così il modo in cui, secondo Popper,
l’umanità fa progressi nella conoscenza della realtà. Prima che egli
formulasse la sua teoria era opinione diffusa che gli scienziati, partendo da
intuizioni, raccogliessero poi le prove per dimostrarne la validità.
Ciò che fanno veramente gli scienziati, secondo Popper, è cercare di
provare che le loro teorie sono false . Sottoporre una teoria a verifica
significa verificare se può essere confutata , cioè se si può dimostrare che è
falsa. Lo scienziato degno di questo nome parte da un’ipotesi, da un’ardita
congettura, che poi prova a demolire mediante esperimenti o osservazioni.
La scienza è un’impresa creativa e avventurosa, ma non dimostra nessuna
verità; ciò che fa è spazzar via le credenze false e, se tutto va bene,
avvicinarsi progressivamente alla verità.
Popper nacque a Vienna nel 1902. Benché la sua famiglia si fosse
convertita al Cristianesimo, era di origine ebraica, e quando Hitler salì al
potere, saggiamente, lasciò il paese, emigrando prima in Nuova Zelanda e
poi in Inghilterra, dove si stabilì e iniziò a insegnare alla London School of
Economics. Da giovane aveva mostrato interesse per diverse discipline:
scienze, psicologia, politica e musica; ma il suo grande amore era la
filosofia. Finì per dare importanti contributi sia alla filosofia della scienza,
sia alla filosofia della politica.
Prima che Popper iniziasse a scrivere a proposito del metodo scientifico,
molti scienziati e filosofi erano convinti che fare scienza significasse
cercare prove che corroborassero le proprie ipotesi. Se volevi provare che
tutti i cigni sono bianchi, avresti dovuto accumulare osservazioni di cigni
bianchi. Se tutti i cigni che avevi visto erano bianchi, allora era ragionevole
dedurre che la tua ipotesi «Tutti i cigni sono bianchi» fosse vera. Questo
tipo di ragionamento parte da «Tutti i cigni che ho visto sono bianchi» per
arrivare alla conclusione che «Tutti i cigni sono bianchi». Però potrebbe
esserci un cigno che tu non hai visto, e che è nero. In Australia, ad esempio,
come in molti zoo nel mondo, ci sono cigni neri. Quindi, l’affermazione
«Tutti i cigni sono bianchi» non deriva logicamente dall’evidenza. Anche se
avete osservato migliaia di cigni, ed erano tutti bianchi, potrebbe comunque
essere falsa. L’unico modo per dimostrare in modo conclusivo che tutti sono
bianchi sarebbe osservarli tutti. Se ne esiste solo uno nero, la vostra
conclusione «Tutti i cigni sono bianchi» verrà falsificata.
Questa è una versione del problema dell’induzione , un problema che
David Hume aveva già descritto nel Diciottesimo secolo. L’induzione è
molto diversa dalla deduzione, ed è all’origine del problema. La deduzione
è l’argomentazione logica nella quale se le premesse (gli assunti di
partenza) sono vere, ne consegue che sono vere anche le conclusioni.
Prendiamo un esempio famoso: «Tutti gli uomini sono mortali» e «Socrate
è un uomo» sono due premesse cui segue la logica conclusione «Socrate è
mortale». Se, una volta accettato che «Tutti gli uomini sono mortali» e che
«Socrate è un uomo», negassimo la verità di «Socrate è mortale»,
cadremmo in contraddizione; sarebbe come dire che «Socrate è e non è
mortale». Possiamo anche dire che nel ragionamento deduttivo la verità
della conclusione è in un certo senso contenuta nelle sue premesse, e la
logica non fa che renderla esplicita. Ecco un altro esempio di deduzione:
Premessa uno: Tutti i pesci hanno le branchie.
Premessa due: John è un pesce.
Conclusione: John ha le branchie.
Sarebbe assurdo dire che la premessa uno e la premessa due sono vere e la
conclusione è falsa. Sarebbe completamente illogico.
L’induzione è molto diversa. In genere inizia con un certo numero di
osservazioni particolari e giunge a una conclusione generale. Se avete
notato che per quattro martedì consecutivi ha sempre piovuto, potreste
trarne la conclusione generale che di martedì piove sempre. Questo è un
ragionamento induttivo. Basta un solo martedì senza pioggia per smentire
l’affermazione che di martedì piove sempre. Quattro martedì consecutivi
sono un campione decisamente piccolo per tutti i possibili martedì. Ma
anche se siamo in grado di fare numerose osservazioni, come con i cigni
bianchi, potremmo essere sempre smentiti dall’esistenza di un solo caso che
non si accorda con la nostra generalizzazione: un martedì senza pioggia o
un cigno nero, ad esempio. Questo è il problema dell’induzione, il problema
di giustificare il ricorso al metodo induttivo che sembra davvero poco
affidabile. Come sappiamo che il prossimo bicchier d’acqua che berremo
non contiene veleno? Risposta: finora, tutti i bicchieri d’acqua che abbiamo
bevuto non ne contenevano, quindi riteniamo che ciò valga anche per
questo. Noi usiamo continuamente questo modo di ragionare, ma è evidente
che non abbiamo completamente ragione a fidarcene tanto ciecamente.
Diamo per esistenti in natura dei modelli che potrebbero esistere ma anche
non esistere affatto.
Se ritenete, come hanno fatto molti filosofi, che la scienza faccia i suoi
progressi per induzione, dovete affrontare il problema dell’induzione. Come
può la scienza basarsi su un tipo di ragionamento così poco affidabile? La
concezione popperiana del progresso scientifico supera elegantemente il
problema. Secondo Popper, infatti, la scienza non si basa sull’induzione. Gli
scienziati iniziano formulando un’ipotesi, una congettura dotata di
fondamento sulla natura della realtà. Un esempio potrebbe essere «Tutti i
gas, scaldati, aumentano di volume». Si tratta di una mera ipotesi, ma a
questo stadio la scienza della realtà implica un massiccio impiego di
creatività e immaginazione. Gli scienziati trovano le loro idee da molte
parti: il chimico August Kekulé, ad esempio, sognò di un serpente che si
mordeva la coda, e ciò gli dette lo spunto per formulare l’ipotesi che la
struttura della molecola di benzene fosse ad anello esagonale, un’ipotesi che
finora ha resistito a tutti i tentativi scientifici di dimostrarne la falsità.
Gli scienziati quindi trovano un modo per sottoporre la loro ipotesi al
controllo sperimentale; in questo caso, prendendo una gran quantità di gas e
riscaldandoli. Ma ‘controllo sperimentale’ non significa trovare prove per
confermare l’ipotesi; significa cercare di dimostrare che l’ipotesi può
sopravvivere ai tentativi di falsificarla . Idealmente, lo scienziato va in
cerca di un gas che si comporti diversamente da quanto ipotizzato.
Ricordate che nel caso dei cigni bastava un solo cigno nero per smentire la
generalizzazione secondo cui tutti i cigni sono bianchi? Allo stesso modo,
basterebbe un solo gas che, scaldato, non aumentasse di volume per
smentire l’ipotesi secondo la quale «Tutti i gas, scaldati, aumentano di
volume».
Se uno scienziato rigetta un’ipotesi – cioè dimostra che è falsa –, ecco che
ne consegue un piccolo passo in avanti nella conoscenza: il sapere che
quell’ipotesi è falsa. L’umanità progredisce perché impariamo delle cose.
Osservare molti gas che, scaldati, aumentano di volume non ci darà
conoscenza, eccetto forse per un pizzico di fiducia in più nella nostra
ipotesi. Una controprova, invece, ci insegna moltissimo. Per Popper, il
requisito fondamentale di un’ipotesi scientifica è di essere falsificabile. Egli
usava quest’idea per spiegare la differenza tra la scienza e quella che
chiamava ‘pseudoscienza’. Un’ipotesi è scientifica se se ne può dimostrare
la falsità: fa previsioni che possono essere smentite. Se affermo «Sono delle
fate invisibili e impercettibili che mi costringono a scrivere questa frase»,
non esiste osservazione alcuna in grado di provare che la mia affermazione
è falsa. Se le fate sono invisibili e non lasciano alcuna traccia, non c’è modo
di dimostrare che la mia affermazione sulla loro invisibilità è falsa. Essa è
non falsificabile, e quindi non è un’affermazione scientifica.
Popper pensava che molti postulati della psicoanalisi (vedi il capitolo 30)
fossero non falsificabili, perché non potevano essere sottoposti a verifica
sperimentale. Ad esempio, l’affermazione secondo la quale chiunque agisce
sulla spinta di desideri inconsci non è dimostrabile, perché qualsiasi
controprova, compresa quella fornita da coloro che negano recisamente di
essere mossi da desideri inconsci, può, secondo Popper, essere addotta
come ulteriore conferma che la psicoanalisi è valida. Di queste persone lo
psicoanalista potrebbe dire: «Il fatto stesso che neghino l’inconscio
dimostra che hanno un forte desiderio inconscio di sfidare la figura
paterna». Neppure quest’affermazione può essere sottoposta a verifica
sperimentale, perché non si riesce a immaginare una prova che ne dimostri
la falsità. La conclusione di Popper è che la psicoanalisi non è una scienza;
non può fornirci delle conoscenze nel senso in cui lo fanno le scienze. Con
gli stessi criteri, Popper attaccò anche la lettura marxiana della storia,
sostenendo che ogni possibile risultato potrebbe essere addotto per
corroborare la visione secondo la quale la storia dell’umanità è una storia di
lotta di classe. Anch’essa si basava su un’ipotesi non falsificabile.
Diversamente, la teoria formulata da Albert Einstein secondo la quale la
luce delle stelle è attratta dal Sole era falsificabile, e ciò la rendeva una
teoria scientifica. L’osservazione della posizione delle stelle durante
un’eclisse di Sole, nel 1919, non riuscì a confutarla ma avrebbe potuto
farlo. Normalmente la luce stellare non è visibile, ma nella rara circostanza
di un’eclisse gli scienziati poterono constatare che la posizione delle stelle
corrispondeva a dove la teoria di Einstein sosteneva dovessero essere. Se
così non fosse stato, si sarebbe trovata la smentita alla teoria einsteiniana
per cui la luce è attratta dai corpi molto pesanti. Popper non pensava che
queste osservazioni dimostrassero la verità della teoria di Einstein; ma la
verificabilità della teoria e il fatto che gli scienziati non fossero stati in
grado di confutarla giocavano a suo favore. Einstein aveva fatto un’ipotesi
che poteva essere errata, ma non lo era.
Molti scienziati e filosofi sono rimasti profondamente colpiti dalla
descrizione popperiana del metodo scientifico. Il Premio Nobel per la
medicina Peter Medawar, ad esempio, dichiarò: «Credo che Karl Popper sia
di gran lunga il più grande filosofo della scienza mai esistito». In
particolare, gli scienziati si riconoscevano nella sua descrizione della loro
attività come creativa e mossa dall’immaginazione; Popper mostrava di
aver compreso l’essenza del loro lavoro. I filosofi apprezzarono moltissimo
il modo in cui Popper aveva aggirato il difficile ostacolo costituito dal
problema dell’induzione. Nel 1962, però, lo storico della scienza e fisico
americano Thomas Kuhn pubblicò un saggio dal titolo La struttura delle
rivoluzioni scientifiche in cui il progresso della scienza veniva descritto in
modo diverso, suggerendo così che la descrizione data da Popper fosse
errata. Kuhn era convinto che Popper non fosse entrato abbastanza in
profondità nella storia della scienza. Se lo avesse fatto, vi avrebbe
riconosciuto un meccanismo ricorrente.
Per la maggior parte del tempo vige ciò che egli definisce scienza normale
. Gli scienziati lavorano all’interno di una struttura di pensiero, o
paradigma , condiviso da tutti i contemporanei. Ad esempio, prima che la
gente si rendesse conto che la Terra gira attorno al Sole, il paradigma
consisteva nell’idea che il Sole girasse attorno alla Terra. Gli astronomi
conducevano le loro indagini all’interno di quel paradigma, e non avrebbero
potuto spiegare eventuali fatti che non sembrassero rientrarvi. All’interno di
questo paradigma, di uno scienziato come Copernico, che avesse avanzato
l’idea che la Terra gira attorno al Sole, si sarebbe pensato che aveva
sbagliato i suoi calcoli. Secondo Kuhn non ci sono fatti che aspettano di
essere scoperti: piuttosto è la struttura di pensiero il paradigma che fino a un
certo punto stabilisce cosa è possibile pensarne.
Le cose si fanno interessanti quando avviene ciò che Kuhn chiama
slittamento di paradigma . Uno slittamento di paradigma avviene quando
un’intera modalità di comprensione della realtà viene rovesciata. Ciò
accade quando gli scienziati scoprono qualcosa che non quadra secondo il
paradigma dominante – come le osservazioni che si rivelavano senza senso
all’interno del paradigma secondo il quale il Sole girava attorno alla Terra.
Ma anche in quel caso può essere necessario molto tempo prima che si
abbandoni il vecchio modo di pensare. Gli scienziati che hanno trascorso la
vita lavorando all’interno di un paradigma sono in genere poco propensi ad
accettare un modo diverso di vedere le cose. Quando alla fine passano al
nuovo paradigma, ecco che ricomincia la fase della scienza normale,
stavolta all’interno di una nuova cornice. Questo ciclo si ripete
continuamente, così com’era accaduto quando era stata ribaltata la visione
in cui la Terra era il centro dell’universo. Una volta che la gente ebbe
cominciato a pensare in quel modo al Sistema Solare, si spalancò davanti
agli scienziati una lunga strada di ricerche sulle traiettorie dei pianeti
attorno al Sole.
Popper, com’era da aspettarsi, non concordava con questa lettura della
storia della scienza, benché fosse d’accordo sull’utilità del concetto di
scienza normale. Sarebbe interessante capire se anche lui era uno scienziato
rimasto legato a un paradigma superato, o se invece fosse arrivato più
vicino alla verità di quanto avesse fatto Kuhn.
Gli scienziati si avvalgono di esperimenti nel campo delle cose concrete; i
filosofi, per parte loro, tendono a inventare esperimenti mentali per rendere
plausibili le proprie affermazioni. Le filosofe Philippa Foot e Judith Jarvis
Thomson hanno creato una quantità di esperimenti mentali appositamente
congegnati per esplorare alcuni punti cardine del nostro modo di pensare in
materia di etica.
CAPITOLO 37

Il treno fuori controllo


e il violinista indesiderato
PHILIPPA FOOT E JUDITH JARVIS THOMSON

State facendo una passeggiata. A un certo punto vedete un treno che


procede a tutta velocità, evidentemente fuori controllo, verso cinque operai
che sono al lavoro sui binari. Il macchinista ha perso i sensi a causa di un
attacco di cuore e, se nessuno fa niente, quegli uomini moriranno: il treno li
schiaccerà, viaggia troppo veloce perché riescano a scansarsi. C’è una sola
speranza: giusto prima del punto dove si trovano i cinque operai c’è uno
scambio; lungo i binari dell’altra linea c’è un solo operaio. Siete abbastanza
vicini allo scambio da poterlo azionare, in modo che il treno venga deviato
e risparmi i cinque operai, uccidendo solo quell’altro. Uccidere questo
innocente è la cosa giusta da fare? Dal punto di vista numerico,
sicuramente: salvate cinque persone e ne uccidete solo una. Ciò massimizza
i vantaggi. Per la maggior parte delle persone si tratterebbe della soluzione
migliore. Nella vita reale sarebbe molto difficile azionare quello scambio e
vedere, come risultato, morire una persona, ma sarebbe ancora peggio
trattenersi dal farlo e vederlo succedere moltiplicato per cinque.
Questa è una versione di un esperimento mentale formulato dalla filosofa
britannica Philippa Foot (1920-2010). La Foot si chiedeva perché in questo
caso venga considerato accettabile salvare le cinque persone, mentre in altri
casi sacrificarne una sola invece di molte non lo è. Immaginiamo che una
persona in piena salute cammini in un reparto d’ospedale. In quel reparto ci
sono cinque pazienti che hanno disperatamente bisogno di un trapianto
d’organo. Se uno non trova un cuore nuovo, morirà sicuramente. Un altro
ha bisogno di un nuovo fegato, uno di un rene, e così via. Possiamo
considerare accettabile uccidere l’uomo sano e fare a pezzi il suo corpo per
fornire gli organi agli altri pazienti? Direi proprio di no. Nessuno pensa che
sarebbe accettabile uccidere la persona sana, espiantarle il cuore, i polmoni,
il fegato, i reni e trapiantarli negli altri cinque. Ma anche questo è un caso in
cui se ne sacrifica uno per salvarne cinque. Che differenza c’è rispetto al
caso del treno fuori controllo?
Un esperimento mentale è una situazione immaginaria escogitata per farci
esternare i nostri modi di sentire, ciò che i filosofi chiamano ‘intuizioni’,
riguardo a un particolare argomento. I filosofi li usano spessissimo. Gli
esperimenti mentali ci permettono di focalizzare meglio ciò di cui si sta
trattando. In questo caso, la domanda filosofica è: «Quando è accettabile
sacrificare una vita per salvarne un numero maggiore?» La storia del treno
fuori controllo serve per rifletterci meglio, isolandone gli elementi
principali e facendo emergere la nostra posizione nei confronti del quesito
se un’azione siffatta sia giusta o sbagliata.
Alcuni sostengono che non dovremmo azionare lo scambio, perché
facendolo ‘giocheremmo a essere Dio’, decidendo chi deve morire e chi
sopravvivere. La maggior parte delle persone, tuttavia, pensa che lo
dovremmo fare.
Immaginiamo però un caso correlato. La filosofa americana Judith Jarvis
Thomson ha elaborato una versione particolare del problema originale.
Stavolta il treno fuori controllo corre lungo un binario dritto, verso i cinque
sfortunati operai che moriranno sicuramente a meno che voi non facciate
qualcosa. Voi siete su un ponte, e al vostro fianco c’è un uomo molto
corpulento. Se lo spingerete giù dal ponte, lui, con la sua mole, sarà in
grado di rallentare il treno e fermarlo prima che colpisca i cinque laggiù.
Dando per scontato che siate abbastanza forti da spingere giù quell’uomo,
lo fareste?
Molti pensano che questo caso sia più arduo da affrontare, e sono più
inclini a rispondere di no, nonostante il fatto che sia in questo caso, sia in
quello precedente dello scambio, la vostra azione comporterebbe la morte di
una sola persona al posto di cinque. Di fatto, però, spingere l’uomo giù dal
ponte sembra proprio un omicidio. Ma se le conseguenze sono le stesse in
entrambi i casi, la cosa non dovrebbe costituire un problema. Se è giusto
azionare lo scambio nel primo esempio, sarà giusto anche spingere l’uomo
giù dal ponte, sotto il treno.
Se immaginate che spingere qualcuno giù da un ponte comporterebbe
delle difficoltà pratiche, o che non riuscireste a usare la violenza se doveste
lottare con l’uomo per spingerlo giù, l’esperimento mentale può essere
modificato inserendo una botola sul ponte. Usando lo stesso tipo di leva
presente nello scambio, potreste far cadere l’uomo corpulento davanti al
treno con il minimo sforzo. Ma per molti questa soluzione è comunque
eticamente molto diversa da quella dello scambio. Perché?
Il cosiddetto principio del doppio effetto può spiegare perché pensiamo
che il caso dello scambio e quello dell’uomo corpulento siano diversi. Si
tratta della convinzione che non c’è problema, per esempio, a colpire
qualcuno tanto forte da ucciderlo, ma solo ed esclusivamente se lo facciamo
per difenderci (e sappiamo che un semplice pugno non sarebbe sufficiente
per fermare il nostro aggressore). Gli effetti collaterali negativi di una
determinata azione compiuta con buone intenzioni (in questo caso la
legittima difesa) possono essere accettabili, mentre non è accettabile
commettere deliberatamente una violenza. Non è giusto avvelenare
qualcuno che sta progettando di ucciderci. Nel primo caso, quello della
colluttazione, la nostra è un’intenzione accettabile che, portata alle sue
estreme conseguenze, provoca la morte di una persona. Nel secondo caso la
nostra intenzione è uccidere una persona, e questo non è accettabile. Per
alcuni, questa distinzione risolve il dilemma morale; altri ritengono che il
principio del doppio effetto sia sbagliato.
Questi casi potrebbero sembrarci improbabili e non aver niente a che fare
con la nostra vita di tutti i giorni. In un certo senso è vero; non devono
essere presi come casi reali, ma come esperimenti mentali il cui scopo è
rendere più chiari i nostri modi di pensare. Di tanto in tanto, però, nella vita
reale accadono situazioni in cui veniamo messi di fronte a decisioni di
questo tipo. Ad esempio, durante la Seconda guerra mondiale i nazisti
bombardarono massicciamente alcune zone di Londra. In seguito al
tradimento di una spia tedesca, che aveva iniziato a fare il doppio gioco, i
britannici avevano la possibilità di far pervenire ai tedeschi dei messaggi
fuorvianti, facendo loro credere che le bombe stavano cadendo molto più a
nord degli obiettivi che volevano colpire. Ciò avrebbe sortito l’effetto di far
cambiare rotta agli aerei tedeschi; le loro bombe sarebbero cadute, invece
che sui quartieri più popolosi di Londra, più a sud, sulla gente del Kent e
del Surrey. In altre parole, c’era l’occasione di fornire delle informazioni
che avrebbero ridotto il numero delle vittime dei bombardamenti. In quel
caso, i britannici decisero di non «giocare a essere Dio».
In un altro caso realmente accaduto, invece, si decise di farlo. Durante il
disastro di Zeebrugge nel 1987, quando un traghetto affondò e decine di
passeggeri lottavano per salvarsi dalle acque gelide del mare, un giovane
uomo che si stava arrampicando lungo una scala a pioli rimase paralizzato
dalla paura e non riuscì più a salire. Restò lì per dieci minuti almeno,
impedendo a chiunque altro di servirsi di quella scala per uscire dall’acqua
e mettersi in salvo. Se coloro che si trovavano in acqua in quel momento
non fossero riusciti a salire lungo quella scala sarebbero annegati o morti di
freddo. Alla fine, lo spinsero via dalla scala e riuscirono a salvarsi. Il
giovane cadde in acqua e annegò. La decisione di spingere via il giovane
dalla scala dev’essere stata veramente ardua da prendere, ma in situazioni
tanto estreme, come in quella del treno fuori controllo, sacrificare una
persona per salvarne molte era probabilmente la cosa giusta da fare.
I filosofi stanno ancora discutendo dell’esempio del treno e di come
dovrebbe essere risolto. Stanno anche discutendo di un altro esperimento
mentale proposto da Judith Jarvis Thomson (nata nel 1929). Una donna ha
usato la contraccezione ma è rimasta ugualmente incinta; ha il dovere
morale di portare avanti la gravidanza? Secondo Thomson, se abortisse non
farebbe nulla di moralmente sbagliato; avere il bambino in quelle
circostanze sarebbe un atto di beneficenza, non un dovere.
Tradizionalmente le discussioni circa la moralità dell’aborto si sono
concentrate sul punto di vista del feto, mentre l’intervento della Thomson è
importante perché dà molto peso al punto di vista della donna. Ecco
l’esperimento mentale che propone.
C’è un famoso violinista che ha un problema ai reni; l’unica sua speranza
di sopravvivenza è se viene ‘attaccato’ a una persona che abbia il suo stesso
– rarissimo – gruppo sanguigno. Questa persona siete voi. Una mattina vi
svegliate e scoprite che mentre dormivate i medici vi hanno attaccato ai
suoi reni. La Thomson sostiene che in una situazione simile non avete il
dovere di restare attaccati a lui, anche se sapete che, se vi fate staccare, lui
morirà. Allo stesso modo, suggerisce, se una donna rimane incinta pur
avendo praticato la contraccezione, il feto che porta dentro di sé non ha
automaticamente il diritto di usare il suo corpo. Il feto è assimilato al
violinista.
Prima che la Thomson facesse questo esempio, molti pensavano che la
domanda cruciale fosse se il feto fosse o meno una persona. In caso di
risposta positiva, pensavano che l’aborto sarebbe stato comunque immorale.
L’esperimento mentale della Thomson suggeriva che il fatto che il feto sia
una persona non è un argomento conclusivo.
Naturalmente non tutti concordano con questa posizione. Alcuni
continuano a pensare che non dobbiamo «giocare a fare Dio», anche se ci
svegliamo con un violinista attaccato ai reni. La nostra sarebbe una vita
difficile, a meno di non amare svisceratamente la musica per violino, ma
sarebbe comunque sbagliato uccidere il violinista, anche se non abbiamo
scelto liberamente di aiutarlo. Alla stessa stregua, un gran numero di
persone pensa che non si debba a nessun costo interrompere una gravidanza
normale, anche se non si aveva nessuna intenzione di avere bambini e se si
è presa ogni precauzione per evitare la gravidanza. L’esperimento mentale,
tuttavia, si dimostra molto efficace nell’individuare e mettere in evidenza i
princìpi che sostengono le due diverse posizioni.
Anche il filosofo della politica John Rawls usò un esperimento mentale,
ma nel suo caso lo scopo era indagare sulla natura della giustizia e
individuare i princìpi migliori per organizzare la società.
CAPITOLO 38

L’equità attraverso l’ignoranza


JOHN RAWLS

Forse voi siete ricchi, magari super-ricchi. Ma la maggior parte delle


persone non lo sono, anzi: certe sono poverissime, talmente povere che
trascorrono gran parte della loro breve vita soffrendo per la fame e le
malattie. Questo non sembra né equo, né giusto, e certamente non lo è. Se
esistesse la vera giustizia, nel mondo non ci sarebbero bambini che soffrono
la fame, mentre c’è gente che possiede talmente tanto denaro da non sapere
cosa farne. Chiunque sia malato vorrebbe avere accesso a delle buone cure.
I poveri in Africa non dovrebbero stare tanto peggio rispetto ai poveri di
paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. I ricchi dell’Occidente non
dovrebbero essere migliaia di volte più ricchi di coloro che, non certo per
colpa loro, sono nati svantaggiati. Il tema della giustizia è l’equità. Attorno
a noi ci sono persone le cui vite sono zeppe di cose buone, e altre che, non
certo per colpa loro, hanno appena di che sopravvivere: non possono
scegliere quale lavoro fare, né dove vivere. Di fronte a tutto questo, alcuni
liquidano la questione con un’alzata di spalle, dicendo: «Be’, la giustizia
non è di questo mondo». In genere sono quelli che sono stati
particolarmente fortunati. Altri invece impiegano il loro tempo pensando
come migliorare l’organizzazione della società, e magari come cercare di
cambiarla per renderla più giusta.
John Rawls (1921-2002), un tranquillo insegnante di Harvard, scrisse un
libro che cambiò il modo di guardare a questi argomenti: si intitola Una
teoria della giustizia (1971), ed è il risultato di quasi vent’anni di
riflessioni. Il taglio è quello di un testo scritto da un professore per altri
professori, con uno stile asciutto e accademico. A differenza di altri saggi di
questo genere, però, non restò sugli scaffali a impolverarsi, anzi: divenne un
bestseller. Un successo per certi versi stupefacente, ma d’altronde le idee
che contiene sono talmente interessanti che è stato definito uno dei testi più
decisivi del Ventesimo secolo, letto da filosofi, uomini di legge, politici e
anche da tanti altri: qualcosa che Rawls stesso non avrebbe mai creduto
possibile.
Durante la Seconda guerra mondiale Rawls prestò servizio nell’Esercito
degli Stati Uniti. Si trovava nel Pacifico il 6 agosto 1945, quando la bomba
atomica venne lanciata sulla città giapponese di Hiroshima. Le esperienze
della guerra lo impressionarono profondamente; era convinto che l’uso
delle armi nucleari fosse stato un errore. Come molte persone che vissero
durante quel periodo voleva un mondo migliore, una società migliore, ma il
suo contributo al cambiamento lo dette con il pensiero e gli scritti, invece
che con la militanza politica e le dimostrazioni. Mentre Rawls scriveva Una
teoria della giustizia si combatteva la guerra del Vietnam, e in tutti gli Stati
Uniti si susseguivano le dimostrazioni contrarie al conflitto, non sempre
pacifiche. Rawls decise di scrivere di astratte questioni generali di giustizia
invece di farsi coinvolgere da ciò che stava accadendo. Al centro dei suoi
studi vi era la necessità di pensare con chiarezza alle regole di convivenza
tra gli individui e al modo in cui le istituzioni sociali influenzano la nostra
vita. La cooperazione è un requisito indispensabile per la nostra esistenza.
In che senso?
Immaginiamo di dover progettare dall’inizio una società migliore; non la
progetteremo tutti nello stesso modo. Se viviamo in una splendida dimora
dotata di piscina coperta e di servitù, e fuori c’è sempre un jet privato
pronto a portarci su un’isola tropicale, probabilmente penseremo a una
società in cui alcuni sono molto ricchi, magari quelli che lavorano più
duramente, e altri molto più poveri. Se invece siamo poveri, probabilmente
progetteremo una società in cui a nessuno è concesso essere super-ricco e
tutti hanno uguali diritti di accesso ai beni: niente jet privati, ma più
opportunità per coloro che si trovano in condizioni svantaggiate. Quando
proviamo a descrivere un mondo migliore, che ce ne rendiamo conto o
meno, tendiamo a pensare a noi stessi e alla nostra situazione; così è la
natura umana. E questa parzialità condiziona il pensiero politico.
Il colpo di genio di Rawls è stato l’elaborazione di un esperimento
mentale – quello che egli chiamò posizione originaria – che minimizza
alcuni dei nostri pregiudizi egoistici. L’idea centrale è molto semplice:
progettiamo una società migliore, ma facciamolo senza pensare alla
posizione che noi occuperemo in quella società. Non sappiamo, cioè, se
saremo ricchi o poveri, se avremo una disabilità, se saremo di bell’aspetto,
maschi o femmine, brutti, intelligenti o sciocchi, talentuosi o del tutto privi
di qualsiasi dote particolare, omosessuali, bisessuali o eterosessuali. Rawls
pensa che da dietro questo ‘velo di ignoranza’ sceglieremo princìpi più
equi, perché ignoriamo dove finiremo e che tipo di persone saremo in
quell’ipotetica società. Partendo da questo semplice trucco della scelta al
buio, ignorando la propria posizione, Rawls sviluppa la sua teoria della
giustizia. Una teoria che si basa su due princìpi che riteneva sarebbero stati
accettati da qualunque persona ragionevole: libertà ed equità.
Il principio della libertà stabilisce che tutti devono avere diritto a una serie
di libertà fondamentali e inalienabili, come la libertà di fede, la libertà di
votare i propri rappresentanti e in generale la libertà di espressione. È vero
che restringendo alcune di queste libertà le condizioni di vita della
maggioranza delle persone migliorerebbero, pensava Rawls, ma esse sono
talmente importanti che devono essere preservate a ogni costo. Come tutti i
liberali, Rawls attribuisce un grandissimo valore alle libertà fondamentali;
tutti hanno diritto di esercitarle e nessuno può limitarle per nessun motivo.
Il secondo principio è quello della differenza e ha al centro il concetto di
equità. Il sistema sociale dovrebbe essere costituito in modo da distribuire
più equamente ricchezza e opportunità ai più svantaggiati. La
diseguaglianza nella distribuzione delle ricchezze deve essere permessa
solo se aiuta direttamente i più poveri. Un banchiere deve poter percepire
10.000 volte di più del lavoratore peggio pagato solo se il lavoratore peggio
pagato ne ricava un beneficio, ricevendo una quantità di denaro maggiore di
quella che percepirebbe se il banchiere venisse pagato di meno. Se
dipendesse da Rawls, nessuno guadagnerebbe enormi bonus, a meno che
ciò non comporti un beneficio di guadagno anche per i più poveri. Rawls
pensa che sia questo il tipo di società che la gente ragionevole sceglierebbe
nella condizione di ignoranza, senza cioè conoscere la propria posizione
nella gerarchia sociale.
Prima di Rawls, filosofi e politici che avevano riflettuto sul tema ‘chi
deve avere cosa’ avevano perlopiù caldeggiato una situazione che
producesse la ricchezza media più alta. Ciò significava che alcuni potevano
essere super-ricchi, molti moderatamente ricchi e pochi molto poveri. Per
Rawls, invece, una situazione del genere è peggiore di una in cui non ci
sono super-ricchi, ma tutti hanno una ricchezza più equa, anche se la
ricchezza media è minore.
Si tratta di un’idea piuttosto scomoda, in particolare per coloro che oggi
come oggi riescono a guadagnare stipendi favolosi. Robert Nozick (1938-
2002), altro importante pensatore politico americano e politicamente rivolto
a destra rispetto a Rawls, la contestò con questa argomentazione: i tifosi che
vanno a vedere un grande giocatore di basket dovrebbero essere liberi di
dare a lui una piccola percentuale sul prezzo del biglietto. Spendere i soldi
in quel modo è un loro diritto. Se ad andarlo a vedere sono milioni di
persone, quello sportivo guadagnerebbe – giustamente, secondo Nozick –
milioni di dollari. Rawls era in totale disaccordo su questo modo di pensare.
A meno che il più povero non diventi più ricco grazie a questo affare,
sosteneva, non si dovrebbe permettere che i guadagni del giocatore lievitino
fino a quel punto. L’opinione di Rawls era che essere un atleta di enorme
talento o una persona straordinariamente intelligente non dà
automaticamente diritto a guadagnare di più; pensava che doti come la
bravura nello sport e l’intelligenza fossero frutto della fortuna. Non si è
automaticamente meritevoli solo per il fatto di avere avuto la fortuna di
saper correre più veloce degli altri o di saper maneggiare bene una palla, o
perché si ha una mente particolarmente brillante. Avere doti atletiche o di
intelligenza è il premio per aver vinto la ‘lotteria della natura’. Molti sono
in disaccordo con questa idea di Rawls, e pensano che l’eccellenza debba
essere retribuita. Rawls riteneva che non vi fosse un nesso automatico tra
l’essere bravi in qualcosa e il guadagnare di più.
E se invece, pur da dietro il velo dell’ignoranza, la gente preferisse correre
il rischio? Se pensasse alla vita come a una lotteria, e preferisse una società
in cui ci fossero delle posizioni molto attraenti da occupare?
Presumibilmente, questi scommettitori si prenderebbero il rischio di finire
poveri se avessero una chance di diventare ricchi. Quindi preferirebbero una
società caratterizzata da un’ampia gamma di possibilità economiche a
quella prospettata da Rawls. Rawls era convinto che le persone ragionevoli
non avrebbero voluto giocare d’azzardo con la propria vita. E forse aveva
torto.
Per gran parte del Ventesimo secolo, i filosofi avevano perso il contatto
con i grandi pensatori del passato. La Teoria della giustizia di Rawls fu uno
dei pochi saggi di filosofia politica scritti in quel secolo che possedesse
l’ampio respiro delle opere scritte sullo stesso argomento da Aristotele,
Hobbes, Locke, Rousseau, Hume e Kant.
Rawls era troppo modesto per pensarlo, ma il suo esempio ha ispirato
un’intera generazione di filosofi contemporanei, tra cui Michael Sandel,
Thomas Pogge, Martha Nussbaum e Will Kymlicka: tutti ritengono che la
filosofia debba cimentarsi con le questioni profonde e difficili del vivere
nella società. A differenza di alcuni filosofi della generazione precedente,
essi non hanno paura di provare a rispondere a queste domande e a
stimolare il cambiamento. Credono che la filosofia debba davvero cambiare
le nostre vite, non solo il ‘come’ ne parliamo.
Un altro filosofo che condivide questo modo di vedere è Peter Singer. Ma
prima di passare in rassegna le sue idee, esploreremo un’altra questione,
una questione particolarmente attuale: i computer sono in grado di pensare?
CAPITOLO 39

I computer sono in grado di pensare?


ALAN TURING E JOHN SEARLE

Siete seduti in una stanza. Nella stanza c’è una porta con una buca per le
lettere. Ogni tanto, un pezzo di carta scarabocchiato passa per questa buca e
atterra sullo zerbino. Il vostro compito è controllare lo scarabocchio,
prendendo a riferimento un libro che si trova nella stanza. Sul libro, ogni
scarabocchio è abbinato a un altro. Il vostro compito è individuare lo
scarabocchio sul libro, guardare quello con cui si abbina, quindi prendere da
un pacco che si trova nella stanza un pezzo di carta con lo scarabocchio che
va abbinato al primo e rispedirlo fuori dalla stanza attraverso la buca delle
lettere. Fatelo per un po’, e provate a pensare di cosa si tratta.
Questo è l’esperimento mentale della stanza cinese, escogitato dal filosofo
americano John Searle (1932). Si tratta di una situazione immaginaria il cui
scopo è mostrare che un computer non pensa veramente, anche se sembra in
grado di farlo. Per capire bene di cosa stiamo parlando, dobbiamo sapere
cos’è il test di Turing.
Alan Turing (1912-1954) era un brillante matematico di Cambridge, che
contribuì alla nascita dei moderni computer. Le sue macchine per la
crittoanalisi, costruite durante la Seconda guerra mondiale a Bletchley Park
in Inghilterra, decifrarono i codici ‘Enigma’ usati dai comandanti dei
sottomarini tedeschi. Gli Alleati riuscirono così a intercettarne i messaggi e
a conoscere le intenzioni dei nazisti.
Incuriosito dall’idea che un giorno i computer avrebbero potuto fare molto
più che decifrare codici, e magari possedere un’intelligenza propria, nel
1950 Turing suggerì il test che qualsiasi computer avrebbe dovuto superare.
Questo test è passato alla storia come ‘test di Turing per l’intelligenza
artificiale’, ma il nome che il suo ideatore gli aveva dato in origine era
‘gioco dell’imitazione’. All’origine c’è la convinzione che ciò che vi è di
interessante nel cervello non è il fatto che abbia la consistenza di un budino;
la sua funzione è più importante del modo in cui tremola quando viene
rimosso dalla scatola cranica, e o del fatto che sia grigio. I computer sono
duri e fatti di componenti elettronici, ma possono fare molte delle cose che
fanno i cervelli. Quando giudichiamo se una persona sia intelligente o
meno, lo facciamo basandoci sulle risposte che dà alle domande, più che
sulla base dell’osservazione del comportamento dei neuroni all’interno del
suo cervello. Quando giudichiamo i computer, allora, dobbiamo
concentrarci sulle loro prestazioni, più che su come sono costruiti; quello
che ci interessa sono input e output, non sangue e nervi piuttosto che cavi e
transistor.
Ecco cosa suggeriva Turing. Uno sperimentatore è in una stanza e sta
trascrivendo una conversazione che appare su un monitor. Lo
sperimentatore non sa se attraverso quel monitor sta comunicando con
un’altra persona in un’altra stanza, oppure con un computer che genera da
solo le risposte. Se durante la conversazione lo sperimentatore non è in
grado di dire se chi sta rispondendo è una persona, il computer passa il test
di Turing. Se un computer lo passa, è ragionevole sostenere che sia
intelligente: non solo in senso metaforico, ma nel senso in cui lo può essere
un essere umano.
Lo scopo dell’esempio della stanza cinese di Searle, quello degli
scarabocchi sui pezzetti di carta, è mostrare che anche se un computer passa
il test di Turing dell’intelligenza artificiale, ciò non prova che sia davvero in
grado di capire alcunché. Ricorderete che siete in questa stanza con degli
strani simboli che provengono dalla buca delle lettere, che fate passare altri
simboli attraverso la stessa buca delle lettere, e per farlo siete guidati da un
libro. Per quanto vi riguarda, il vostro è un compito privo di scopo; non
avete idea del perché lo stiate svolgendo. In realtà, a vostra insaputa, state
rispondendo a delle domande in cinese. Non conoscete il cinese, conoscete
l’italiano, ma i segni che entrano nella stanza sono domande in cinese, e i
segni che fate uscire dalla stanza sono risposte in cinese a quelle domande.
La stanza cinese con voi dentro sconfigge il gioco dell’imitazione. Le
vostre risposte indurrebbero chi sta fuori dalla stanza a pensare che voi
capiate davvero quello di cui state parlando. Quindi, sostiene Searle, un
computer che passa il test di Turing non è necessariamente intelligente,
perché dall’interno della stanza voi in realtà non avete la minima idea di
quale sia l’argomento delle domande e delle risposte.
Searle ritiene che i computer siano come uno che si trova nella stanza
cinese: non hanno una vera intelligenza e non possono pensare davvero. Ciò
che si limitano a fare è elaborare simboli seguendo regole programmate per
loro dai costruttori; i procedimenti che usano sono quelli del software. Ma
tutto questo è molto diverso dal comprendere veramente qualcosa, e dal
possedere una vera e propria intelligenza. In altre parole, le persone che
programmano i computer danno loro una sintassi , cioè le regole che
dettano il giusto ordine in cui i simboli vengono elaborati. Quello che non
danno è una semantica , cioè non danno i significati dei simboli. Gli esseri
umani danno un significato alle cose quando parlano; le loro parole si
relazionano in diversi modi con la realtà. I computer che sembrano
intendere i significati delle cose, in realtà, non fanno che imitare il pensiero
umano, un po’ come fanno i pappagalli. Un pappagallo può imitare un
discorso, ma non capisce veramente ciò che sta dicendo. Allo stesso modo,
secondo Searle i computer non capiscono davvero e non pensano proprio
nulla: la sintassi non genera la semantica.
All’esperimento mentale di Searle si può obiettare che è un errore
domandarsi se la persona nella stanza capisca o meno ciò che accade,
perché la persona è solo una parte del sistema. Anche se la persona non
capisce cosa accade, forse l’intero sistema (che comprende la stanza, il libro
dei simboli, i simboli eccetera) lo capisce. La risposta di Searle a questa
obiezione fu cambiare l’esperimento mentale. Invece di immaginare una
stanza con dentro una persona che scorre dei simboli, immaginiamo che
questa persona abbia memorizzato l’intero libro delle regole e ora sia fuori,
in mezzo a un prato, a rispedire indietro i pezzi di carta con i simboli
correttamente abbinati. La persona continua a non capire le domande, anche
se dà le risposte giuste. Comprendere implica molto più che dare le risposte
giuste.
Alcuni filosofi continuano nondimeno a pensare che la mente umana sia
proprio come un programma per computer. Ritengono che i computer
possano pensare, e che già lo facciano. Se hanno ragione, forse un giorno
sarà possibile trasferire le menti umane dai cervelli ai computer. Se la vostra
mente è un programma, il fatto che adesso sta funzionando nella massa
molliccia del vostro cervello non significa che un domani non possa
funzionare in un computer particolarmente performante. Se, grazie all’aiuto
di computer super-intelligenti, qualcuno sarà in grado di ricostruire i
miliardi di connessioni funzionali che costituiscono la nostra mente, forse
un giorno sarà possibile sopravvivere alla morte. La nostra mente potrà
essere caricata in un computer e potrà continuare a funzionare dopo che il
nostro corpo sarà stato sepolto o cremato. Se si tratti di una vita che vale la
pena di essere vissuta, questa è un’altra questione. Ma se Searle ha ragione,
nessuno ci garantisce che la mente caricata su computer avrà una coscienza
come quella che abbiamo ora, anche se darà risposte che faranno pensare di
sì.
Più di sessant’anni fa Turing sostenne che i computer pensassero. Se
aveva ragione, potrebbe non passare molto tempo prima che si mettano a
fare filosofia; è un’ipotesi più probabile rispetto a quella che possano
permettere alle nostre menti di sopravvivere alla morte. Forse un giorno i
computer avranno anche qualcosa di interessante da dirci a proposito delle
domande etiche e metafisiche fondamentali, le questioni con cui i filosofi si
sono confrontati per migliaia di anni. Nel frattempo, però, sono i filosofi in
carne e ossa quelli che ci aiutano a esplorarle. Uno dei più interessanti e
controversi tra loro è Peter Singer.
CAPITOLO 40

Un moderno tafano
PETER SINGER

Vi trovate in un parco; sapete che nel parco c’è uno stagno. Sentite un
rumore e poi delle grida. Capite che un bambino è caduto nello stagno e
rischia di annegare. Cosa fate? Accorrete in quella direzione? Anche se
avete un appuntamento con un amico e sapete che arriverete in ritardo,
ritenete senza dubbio più importante la vita del bambino. Lo stagno non è
profondo ma è molto fangoso. Se vi ci butterete, rovinerete per sempre le
vostre scarpe. Non aspettatevi che la gente vi capisca, se non lo fate: qui è
questione di umanità, di valore della vita; la vita di un bambino ha un valore
incommensurabilmente maggiore di quello di qualsiasi paio di scarpe,
anche delle più costose, e chiunque la pensi diversamente è un mostro.
Allora, vi buttate nell’acqua, vero? Certo che sì. Dunque, probabilmente
siete anche abbastanza ricchi da impedire che in Africa un bambino muoia
di fame o di una malattia tropicale curabile. Probabilmente non vi
costerebbe molto più delle vostre scarpe, quelle che siete pronti a buttar via
per salvare la vita del bambino caduto nello stagno. Perché allora non
aiutate quell’altro bambino (sempre che non lo stiate già facendo)?
Donando una modesta somma di denaro all’organizzazione umanitaria
giusta, salvereste almeno una vita. Ci sono tante malattie infantili che
possono essere prevenute facilmente donando una cifra relativamente
piccola per la vaccinazione e le altre medicine! Perché allora non ci
sentiamo nello stesso modo nei confronti di un bambino che muore in
Africa come di uno che rischia la vita davanti ai nostri occhi? Se vi sentite
nello stesso modo, siete davvero speciali. Non è così per la maggioranza
delle persone, anche se la cosa può sembrare piuttosto imbarazzante.
Il filosofo australiano Peter Singer (nato nel 1946) sostiene che il bambino
che sta annegando di fronte a voi e quello che sta morendo di fame in
Africa non sono così diversi. Dovremmo aver cura di tutti coloro che
possiamo salvare, ovunque essi siano, più di quanto non facciamo. Se non
facciamo nulla, dei bambini che potrebbero vivere moriranno invece
prematuramente. Non è una supposizione; sappiamo che è vero. Sappiamo
che molte migliaia di bambini muoiono ogni giorno per cause che hanno a
che fare con la povertà. Alcuni muoiono di denutrizione, mentre noi, nei
paesi ricchi, gettiamo via il cibo andato a male nei frigoriferi. Altri non
hanno neppure l’acqua potabile. Dovremmo rinunciare a uno o due tra i
beni di lusso di cui non abbiamo veramente bisogno per aiutare le persone
che hanno avuto la sfortuna di nascere in quei paesi. Si tratta di una
filosofia difficile da praticare, ma Singer ha ragione: avremmo il dovere di
farlo.
Potreste rispondere che se non siete voi a donare denaro alle
organizzazioni di beneficenza, probabilmente sarà qualcun altro a farlo. Il
rischio è che decidiamo tutti di fare gli spettatori, ciascuno pensando che
qualcun altro farà il necessario. Così molti nel mondo vivono in condizioni
di povertà estrema e vanno a dormire tutte le sere a bocca asciutta, perché la
beneficenza di pochi non basta. Nel caso del bambino che sta annegando di
fronte a voi è molto facile verificare se arriva qualcun altro ad aiutarlo, ma
se i bisognosi si trovano in terre lontane, risulta più difficile conoscere gli
effetti delle azioni nostre e di chiunque altro. Ciò non significa però che la
soluzione migliore sia non fare nulla.
A questo argomento si aggiunge il timore che donare denaro per la
beneficenza in terre lontane finisca per rendere i poveri dipendenti dai
ricchi e faccia sì che smettano di cercare il modo per produrre da sé generi
alimentari, mezzi di sostentamento e abitazioni. Alla lunga, cioè, il fare del
bene si trasformerebbe in fare del male, e facendolo si finirebbe per far
peggio di non far nulla. In effetti, ci sono casi di interi paesi che dipendono
dagli aiuti esterni. Ciò non significa, però, che non si dovrebbe contribuire
alla beneficenza; piuttosto, bisogna fare molta attenzione al tipo di aiuti che
la beneficenza offre. Non ne consegue quindi che non dovremmo cercare di
dare il nostro aiuto. Certi tipi di assistenza medica possono offrire alle
popolazioni povere buone possibilità di diventare indipendenti dagli aiuti
stranieri. Alcune organizzazioni di beneficenza sono molto efficaci
nell’insegnare alle popolazioni povere come aiutarsi da sole, costruire
impianti per la fornitura di acqua potabile o migliorare le proprie condizioni
igienico-sanitarie. Singer sostiene che dovremmo aiutare gli altri donando
denaro, ma finanziando le organizzazioni che hanno maggiori probabilità di
aiutare i più poveri del mondo a vivere senza più bisogno di aiuti. Il suo
messaggio è chiaro: quasi certamente potreste avere un’autentica influenza
sulla vita altrui. Anzi, dovreste .
Singer è uno dei più noti filosofi viventi, anche perché ha sfidato alcune
opinioni largamente condivise e sostenuto posizioni controcorrente su
questioni scottanti. Molti credono nell’assoluta sacralità della vita umana, e
pensano che uccidere un altro essere umano sia sempre e comunque
sbagliato. Singer no. Se una persona si trova in uno stato vegetativo
irreversibile, ad esempio, se cioè è tenuta in vita nella condizione di un
corpo completamente privo di coscienza e di una qualsiasi possibilità di
recupero o di speranza per il futuro, allora Singer sostiene che per questa
persona l’eutanasia potrebbe essere una scelta appropriata. Non ha molto
senso tenere in vita persone in quello stato, perché non hanno più la
capacità di provare piacere o di dire se quella loro condizione va loro bene
o no. Non hanno il desiderio di continuare a vivere, perché ormai sono
incapaci di provare qualsiasi desiderio.
Queste idee lo hanno reso impopolare in alcuni ambienti; nonostante i
suoi genitori fossero degli ebrei viennesi sfuggiti ai nazisti, è stato definito
nazista per la sua difesa dell’eutanasia in circostanze particolari.
Quell’accusa deriva dal fatto che i nazisti uccisero molte migliaia di
persone malate o fisicamente e mentalmente disabili, sostenendo che le vite
di quelle persone non valevano la pena di essere vissute. Sarebbe stato però
sbagliato chiamare il programma nazista ‘eutanasia’ o ‘morte
misericordiosa’, perché il suo intento non era di evitare le sofferenze non
necessarie, ma di disfarsi di coloro che i nazisti consideravano esseri inutili
in quanto incapaci di lavorare e perché rischiavano di contaminare la razza
ariana. Non c’era nessuna misericordia nel loro modo di agire. Singer,
invece, sostiene le sue posizioni in nome della qualità della vita delle
persone coinvolte, e non avrebbe mai appoggiato in nessun modo le azioni
dei nazisti, benché tra i suoi detrattori ci sia chi descrive le sue idee
deformandole per farle sembrare simili alle loro.
A rendere Singer famoso sono stati prima di tutto i suoi libri
sull’atteggiamento umano verso gli animali, in particolare Liberazione
animale , pubblicato nel 1975. All’inizio dell’Ottocento, Jeremy Bentham
aveva sostenuto la necessità di prendere sul serio la sofferenza degli
animali, ma negli anni Settanta del Novecento, quando Singer iniziò a
scrivere sull’argomento, pochi filosofi la pensavano in questo modo. Singer,
come Bentham e Mill (vedi i Capitoli 21 e 24), era un consequenzialista.
Ciò significa che credeva che l’azione migliore sia quella che produce il
risultato migliore. E per ottenere il risultato migliore abbiamo bisogno di
tenere conto di ciò che è nell’interesse di tutti coloro che vi sono implicati,
animali compresi. Come Bentham, Singer crede che la caratteristica
fondamentale della maggior parte degli animali sia la loro capacità di
provare sofferenza. Come esseri umani, noi talvolta nelle stesse situazioni
sperimentiamo una sofferenza maggiore rispetto agli animali, perché siamo
dotati della ragione e della capacità di capire cosa ci sta succedendo. Anche
di questo bisogna tenere conto.
Singer chiama l’atteggiamento di coloro che non danno abbastanza peso
agli interessi degli animali ‘specismo’, imparentandolo al razzismo e al
sessismo. I razzisti hanno una considerazione diversa per i membri della
propria razza e riservano loro un trattamento speciale, mentre non
riconoscono ai membri di altre razze gli stessi diritti. Un razzista bianco, ad
esempio, preferisce offrire un impiego a un altro bianco, anche se per la
stessa mansione sarebbe disponibile un’altra persona più qualificata, ma di
colore. Ciò è chiaramente iniquo e sbagliato. Lo specismo è come il
razzismo; deriva dal fatto di vedere le cose esclusivamente dalla prospettiva
della propria specie, o dall’essere molto di parte in suo favore. Come esseri
umani, molti di noi pensano solo agli altri esseri umani quando prendono
delle decisioni. Questo è sbagliato. Gli animali possono soffrire, e della loro
sofferenza noi dobbiamo tenere conto.
Trattarle con lo stesso rispetto non significa trattare tutte le specie animali
allo stesso modo. Non avrebbe alcun senso. Se diamo una manata sul sedere
a un cavallo, probabilmente non gli faremo un granché male, perché i
cavalli hanno la pelle spessa. Se lo facciamo a un bambino, gli faremo
molto male. Se però picchiamo un cavallo fino a infliggergli la stessa
quantità di sofferenza che proverebbe un bambino se gli dessimo un
ceffone, ecco che commettiamo un’azione moralmente altrettanto
riprovevole che se dessimo un ceffone a un bambino. Naturalmente, non
dovremmo fare né l’una, né l’altra cosa.
Singer sostiene che dovremmo essere tutti vegetariani, poiché
riusciremmo a vivere bene anche senza mangiare gli animali. Gli animali
impiegati in gran parte del sistema di produzione di generi alimentari
vengono sottoposti a maltrattamenti, e certi sistemi di allevamento sono
talmente crudeli da provocare loro continue sofferenze. I polli di
allevamento, ad esempio, vengono tenuti in gabbie minuscole, i maiali in
recinti talmente piccoli da non poter neppure girarsi, e il processo di
macellazione del bestiame è spesso estremamente disagevole e doloroso.
Per Singer, è immorale continuare ad allevare le bestie in questo modo, ma
anche sistemi più umani di allevamento non sono necessari, perché
potremmo vivere benissimo senza mangiare carne. Coerentemente con i
propri princìpi, in uno dei suoi libri ha persino pubblicato la ricetta di un
piatto a base di legumi, per incoraggiare i lettori ad assumere alimenti
alternativi alla carne.
Gli animali degli allevamenti non sono i soli a soffrire a causa dell’uomo.
Per i loro esperimenti, gli scienziati usano gli animali. Nei laboratori non ci
sono solo topi o porcellini d’India, ma gatti, cani, scimmie e persino
scimpanzé, e molti di loro vengono sottoposti a sofferenza e angoscia,
costretti ad assumere medicinali o scosse elettriche. Il test che Singer
propone per decidere se una ricerca scientifica sia moralmente accettabile è
questo: saremmo pronti a somministrare lo stesso esperimento a un essere
umano cerebroleso? Se la risposta è no, non è giusto somministrarlo su un
animale dotato dello stesso livello di presenza mentale. Si tratta di un test
severo, e non molti esperimenti lo supererebbero. In pratica, quindi, Singer
è fortemente contrario all’uso degli animali nella ricerca.
Nel complesso, l’approccio di Singer alle questioni etiche è basato
sull’idea di coerenza. Coerenza significa trattare casi simili in modo simile.
È quindi logico che se consideriamo sbagliato fare del male agli esseri
umani, anche la sofferenza di altri animali dovrebbe influenzare il nostro
comportamento. Se fare del male a un animale crea quasi più sofferenza che
fare del male a un essere umano, allora, se dobbiamo fare del male a uno
dei due, è meglio fare del male all’essere umano.
Come Socrate parecchi secoli prima di lui, Singer prende posizioni
scomode. Alcune sue conferenze sono state aspramente contestate; ha
addirittura ricevuto minacce di morte. Il suo atteggiamento, in realtà, ne fa
un rappresentante a tutti gli effetti della migliore tradizione filosofica,
perché la sua è una sfida continua alle idee consolidate. La sua filosofia
influenza il suo modo di vivere, e quando si trova in disaccordo con
qualcuno è sempre pronto a discuterci apertamente, faccia a faccia.
Cosa ancora più importante, Singer sostiene le proprie convinzioni con
argomentazioni ben motivate, e adducendo fatti ben documentati. Non c’è
bisogno di essere d’accordo con lui per ammettere che è un filosofo in
buona fede. La filosofia, dopotutto, vive di discussioni, di persone che
prendono posizione l’una contro l’altra e dibattono, usando la logica e
adducendo prove. Se ad esempio siete in disaccordo con Singer sullo status
morale degli animali o sulle circostanze in cui l’eutanasia deve essere
ritenuta moralmente accettabile, c’è sempre una buona possibilità che la
lettura dei suoi libri vi faccia riflettere sulle vostre convinzioni e su ciò in
cui si radicano, che siano fatti, ragionamenti o princìpi.
La filosofia è nata ponendo domande imbarazzanti e lanciando ardue
sfide; finché ci saranno filosofi-tafano come Peter Singer, ci sono buone
possibilità che lo spirito di Socrate continui ad accompagnarla nel suo
cammino.
APPENDICE
PIETRO EMANUELE

L’enigma dell’arte
BENEDETTO CROCE E GALVANO DELLA VOLPE

L’estetica è la scienza che studia quegli oggetti che vanno sotto il nome di
‘opere d’arte’. Nel corso dei secoli essa ha ricevuto più volte impulso dal
pensiero italiano, a partire da Giambattista Vico, nel Settecento, sino
all’affermazione internazionale di Benedetto Croce (1866-1952).
Maggiore esponente dell’estetica italiana, Croce ha impersonato spesso la
supremazia internazionale dell’Italia in campo estetico. Ma non meno
importante è stata la figura di colui che fu considerato un suo contraltare,
Galvano Della Volpe (1895-1968). A differenza di Croce, idealista in
campo filosofico e liberale in quello politico, Della Volpe aveva abbracciato
il materialismo di Marx. E se Croce aveva impersonato l’ideologia
romantica dell’arte, Della Volpe è stato il massimo esponente di un’estetica
antiromantica e razionalistica.
Grazie all’indipendenza economica che, in quanto benestante, gli permise
di non adattarsi a nessun impiego statale o privato, Croce fu un brillante
autodidatta costantemente in polemica contro la cultura universitaria («Ci
sono persone colte persino tra i professori!» soleva dire). Della Volpe,
proveniente da uno dei più antichi rami della nobiltà emiliana, fu invece
lanciato soprattutto dalla politica, essendo per parecchi anni l’unico filosofo
marxista italiano di notorietà internazionale. Questa connotazione
contraddittoria gli procurò il gustoso epiteto di ‘conte rosso’.
Il successo presto riscosso dalla teoria estetica di Croce fu dovuto in parte
al suo ricollegarsi al pensiero idealistico, che per tutto l’Ottocento
monopolizzò la cultura italiana. A sua volta il successo di Della Volpe fu
dovuto in buona parte al fatto che dette al marxismo italiano una ‘sua’
teoria estetica. Chi ha frequentato questo aristocratico snob racconta che,
tardando la pubblicazione della sua estetica, i compagni del Partito
Comunista lo sollecitavano a sbrigarsi, perché erano impazienti di sapere
cosa dovessero pensare intorno all’arte. Ecco, dunque, i due protagonisti
dell’estetica italiana del Novecento: un self-made man della cultura, Croce,
e un Masaniello dai nobili lombi, Della Volpe.
È spesso causa di successo saper concentrare il proprio pensiero in una
formula pressoché magica. Nella sua Estetica del 1902 Croce ne proclamò
una tanto fortunata da fare il giro del mondo: l’arte è intuizione .
L’intuizione produce immagini, non concetti, i quali sono invece produzioni
dell’intelletto: ad esempio, un fiume, un lago sono immagini, mentre
l’acqua è un concetto. L’artista produce un’immagine destinata a essere
condivisa da chi ne fruisce.
Ma attenzione: un’intuizione coincide con la sua espressione. Chi dice di
avere un’idea originale in mente, ma di non saperla esprimere, in realtà, per
Croce, non ha alcuna idea. Nel caso dell’arte letteraria questa espressione
consiste nel veicolo verbale, cioè nella combinazione di parole che
rappresenta le immagini. Analogamente, nel caso della pittura l’espressione
coincide con il mezzo figurativo dei colori.
Le opere d’arte, una volta espresse, sono dunque oggetti fisici? No. Per
Croce le vere opere d’arte non sono appese ai muri né vengono suonate da
un’orchestra. Se vi trovate al Museo del Louvre ad ammirare la Gioconda,
quello che vedete è solo un mezzo fisico occasionale. La vera Gioconda
esiste solo nella mente di Leonardo e di coloro che la sanno apprezzare
davvero. Un’opera d’arte appartiene all’immaginazione, non
all’accidentalità della materia. Il sentimento che esprime è più importante
del genere artistico in cui prende corpo.
L’equazione crociana arte = intuizione era facilmente comprensibile e
ripetibile anche da un intellettuale di media cultura, che poteva spiegare la
bellezza di un verso o di un dipinto dicendo che quel verso o quel dipinto
erano belli perché fornivano l’intuizione di una immagine, senza addossarsi
la fatica di analizzarli. Dopo che per più di un secolo il romanticismo aveva
identificato l’arte con la forma del bello, ora essa veniva caratterizzata da
qualcosa di più intimo e nello stesso tempo psicologicamente universale:
l’intuizione.
L’aspetto debole di questa teoria, peraltro coronata da grande successo,
risiedeva nell’indeterminatezza del concetto di intuizione e nel dare per
scontata la differenza tra intuizione e intelletto. Croce sfruttò il vantaggio di
fondare l’identificazione dell’arte su un ambito particolarmente gradito alla
cultura italiana, cioè l’ambito letterario, e la rivista La critica , organo
filosofico del suo pensiero, riscosse un eccezionale successo non solo in
Italia, ma nel mondo.
Proprio quella apparente ovvietà forniva però il maggior argomento di
condanna o addirittura di derisione da parte degli avversari della teoria
crociana, ai quali sembrava facile dimostrare che l’intuizione era un
fenomeno tanto vago da non permettere alcun criterio di distinzione fra ciò
che è arte e ciò che non lo è. Di qui l’irriverente caricatura della teoria
crociana, chiamata, alla maniera dell’evocazione di un fantasma, ‘l’estetica
del se ci sei batti un colpo ’.
Il punto di partenza di Della Volpe fu quello di sfatare il mito
dell’intuizione pura, una posizione troppo vaga per poter fornire un sicuro
criterio di valutazione dell’arte. Il motivo essenziale della sua rottura è la
convinzione che la creatività umana tragga le sue radici da quel mondo
materiale, socio-economico, che l’idealismo e il romanticismo avevano
disprezzato. Il realismo socio-economico e il razionalismo sono appunto i
due ingredienti essenziali con cui Della Volpe conduce questa polemica.
Prima di lui le esigenze realistiche erano considerate antifilosofiche, in
particolare l’estetica si faceva vanto di celebrare soltanto la spiritualità e
l’emotività. Ma la vita immediata e cruda, obietta Della Volpe, sarebbe per
questo priva di bellezza? Nella sua opera fondamentale, la Critica del gusto
del 1960, egli afferma un’estetica che tenga presente la componente
intellettuale della razionalità artistica e insieme faccia i conti con il mondo
materiale degli interessi concreti. Per lui il poeta, quando vuole dare forma
alle sue immagini, ragiona e fa i conti con la realtà delle cose. Siamo agli
antipodi dell’estetica crociana, ostile a ogni poesia costruita con la
macchina dell’intelletto.
Con la sua posizione Della Volpe impersonò la rivolta contro l’estetica
intuizionistica di Croce che aveva ottenuto un enorme successo nel mondo
dei letterati. Per Della Volpe, alla base dell’estetica crociana stava una
contraddizione: concepire l’esperienza artistica come intuizione individuale,
e tuttavia riconoscerle un valore universale.
Per evitare questa contraddizione, Della Volpe sfruttò la nozione
aristotelica di ‘verosimile’. Il verosimile (in greco eikós ) coincideva per
Aristotele con la stessa arte, definita in contrapposizione alla storia. Per
Aristotele la storia tratta di fatti veramente accaduti, l’arte di fatti ‘come
potrebbero accadere’, cioè simili a quelli veramente accaduti.
Questa attenzione di Della Volpe verso il mondo antico era in contrasto
con la convinzione di Croce, per il quale l’estetica era una disciplina nata
con la filosofia moderna, in quanto secondo lui nell’antichità non era
riconosciuta l’autonomia del concetto di bello – e quindi dell’arte – e la sua
indipendenza dal concetto di buono, cioè dall’etica. Invece Della Volpe
recupera il pensiero della Poetica aristotelica, e non solo la categoria
estetica del verosimile, ma anche la valorizzazione estetica della figura
retorica della metafora. Inoltre, per Della Volpe l’arte riflette sempre la
realtà sociale, anche quando appare sganciata da essa in virtù dei ‘liberi voli
della fantasia’.
Della Volpe riprende l’interpretazione aristotelica della metafora non
come di una similitudine meramente immaginifica, ma di una connessione
intellettuale. Secondo la definizione fornita da Aristotele nella Poetica ,
infatti, «la metafora è il trasferimento a una cosa di un nome proprio di
un’altra, o dal genere alla specie o dalla specie al genere o da specie a
specie o per analogia». È evidente che si tratta di rapporti logici e non
puramente emotivi. Nel III libro della Retorica , poi, Aristotele si sofferma
in particolare sulla più bella forma di metafora, quella per analogia.
L’esempio di Aristotele è che il poeta dica «la coppa di Ares» intendendo lo
scudo, oppure dica «lo scudo di Dioniso» intendendo la coppa. In questa
metafora il carattere di relazione logica è ancor più evidente.
Della Volpe evidenzia questa struttura logica della metafora come
esempio del carattere logico-razionale della poesia: una concezione che
avrebbe fatto inorridire l’antintellettualismo estetico di Croce. Per Croce,
un’opera d’arte è un’unità non scomponibile: se la analizziamo, se ne
facciamo un esame dettagliato, uccidiamo la sua vitalità. È pur vero,
riconosce, che i critici sono soliti dividere un’opera d’arte nelle sue parti,
cioè nei suoi episodi, quando si tratti di opere letterarie, o nelle sue singole
figure, quando si tratti di opere pittoriche. Ma una tale divisione fa a pezzi
l’unità dell’opera, «come il dividere l’organismo in cuore, cervello, nervi e
muscoli muta il vivente in cadavere».
Della Volpe è di diverso avviso. La creazione artistica è una costruzione di
carattere sia sensibile che intellettuale, che trova, tra l’altro, una specifica
applicazione nel problema della sua traducibilità. Per Croce la vera poesia è
intraducibile; al contrario, per Della Volpe «la poesia degna del nome è
sempre traducibile». Infatti quel che è impossibile a tradursi, il cosiddetto
elemento ineffabile della poesia, è soltanto la sua eufonia , il suono delle
parole, che non può avere un doppione in un’altra lingua proprio per la sua
inessenzialità, dovuta al carattere arbitrario e accidentale delle parole,
mutevoli da una lingua all’altra. La cosiddetta musicalità del verso, che è
quel che va perduto nella traduzione da una lingua all’altra, è qualcosa, per
Della Volpe, di inessenziale, se non extra-artistico. In questo egli esasperava
la teoria del Laocoonte dell’illuminista tedesco Gotthold Lessing: i generi
artistici sono diversi l’uno dall’altro, per cui un dato genere non può
esprimersi con i mezzi di un altro. In questo caso, la poesia, coi mezzi della
musicalità.
Quanto al problema più fondamentale di che cosa sia il linguaggio
poetico, Della Volpe trova la soluzione in due caratteristiche essenziali: il
polisenso semantico e l’organicità. In base alla prima, in poesia una sola
parola riassume in sé più di un significato. La seconda caratteristica
comporta l’insostituibilità dei termini poetici. Ad esempio, il verso
leopardiano «Dolce e chiara è la notte e senza vento » non potrebbe essere
parafrasato, cioè tradotto in un’ordinaria osservazione meteorologica.
La vivacità di queste contrapposizioni tra Croce e Della Volpe non impedì
però che l’estetica risultasse tra le discipline più colpite dalla fine degli anni
’40. Finì spesso preda del dilettantismo, prestandosi agli attacchi dei nemici
della filosofia. Tra essi, i più feroci furono i cosiddetti ‘neopositivisti’, cioè
i pensatori maggiormente ostili alle astrattezze filosofiche. Essi giunsero a
paragonare l’estetica alla signora Harris, un personaggio fittizio di un
romanzo di Charles Dickens, cui un personaggio reale fa continuamente
appello per confermare le sciocchezze che dice.
In effetti, spesso l’arte è stata considerata un oggetto di lusso perché
inutile alla vita concreta, per cui l’estetica, in quanto riflessione sull’arte,
sarebbe addirittura una sorta di inutilità al quadrato, e si potrebbe pensare
che se scomparisse del tutto, nessuno ne sentirebbe la mancanza. Ma non è
così. A testimoniarlo è la cultura non superficiale, per la quale le discipline
apparentemente più inutili, quali la filosofia e la stessa estetica, continuano
a giocare un ruolo ineliminabile nella vita degli uomini.
SOMMARIO

Presentazione
Frontespizio
Pagina di Copyright
Prefazione all’edizione italiana
Capitolo 1 L’uomo che faceva domande. Socrate e Platone
Capitolo 2 La vera felicità. Aristotele
Capitolo 3 Noi non sappiamo nulla. Pirrone
Capitolo 4 La via del Giardino. Epicuro
Capitolo 5 Imparare a non preoccuparsi. Epitteto, Cicerone, Seneca
Capitolo 6 Chi tira i miei fili? Agostino
Capitolo 7 La consolazione della filosofia. Boezio
Capitolo 8 L’isola perfetta. Anselmo d’Aosta e Tommaso d’Aquino
Capitolo 9 La volpe e il leone. Niccolò Machiavelli
Capitolo 10 Cattiva, rozza, e breve. Thomas Hobbes
Capitolo 11 E se fosse tutto un sogno? René Descartes
Capitolo 12 Scommettiamo? Blaise Pascal
Capitolo 13 Il tornitore di lenti. Baruch Spinoza
Capitolo 14 Il principe e il ciabattino. John Locke e Thomas Reid
Capitolo 15 L’elefante nella stanza. George Berkeley (e John Locke)
Capitolo 16 Il migliore dei mondi possibili? Voltaire e Gottfried Leibniz
Capitolo 17 L’orologiaio immaginario. David Hume
Capitolo 18 Nato libero. Jean-Jacques Rousseau
Capitolo 19 La realtà tinta di rosa. Immanuel Kant (1)
Capitolo 20 Se tutti facessero così? Immanuel Kant (2)
Capitolo 21 Praticamente felici. Jeremy Bentham
Capitolo 22 La nottola di Minerva. Georg W. F. Hegel
Capitolo 23 Scorci di realtà. Arthur Schopenhauer
Capitolo 24 Spazio per crescere. John Stuart Mill
Capitolo 25 Il progetto ottuso. Charles Darwin
Capitolo 26 I sacrifici della vita. Søren Kierkegaard
Capitolo 27 Lavoratori di tutto il mondo, unitevi. Karl Marx
Capitolo 28 E allora? C.S. Peirce e William James
Capitolo 29 La morte di Dio. Friedrich Nietzsche
Capitolo 30 Pensieri nascosti. Sigmund Freud
Capitolo 31 L’attuale re di Francia è calvo? Bertrand Russell
Capitolo 32 Abbasso! Evviva! Alfred Jules Ayer
Capitolo 33 L’angoscia di essere liberi. Jean-Paul Sartre, Simone de
Beauvoir e Albert Camus
Capitolo 34 Stregati dal linguaggio. Ludwig Wittgenstein
Capitolo 35 L’uomo che non si faceva domande. Hannah Arendt
Capitolo 36 Imparare dagli errori. Karl Popper e Thomas Kuhn
Capitolo 37 Il treno fuori controllo e il violinista indesiderato. Philippa Foot
e Judith Jarvis Thomson
Capitolo 38 L’equità attraverso l’ignoranza. John Rawls
Capitolo 39 I computer sono in grado di pensare? Alan Turing e John Searle
Capitolo 40 Un moderno tafano. Peter Singer
Appendice L’enigma dell’arte. Benedetto Croce e Galvano Della Volpe

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