ISBN 978-88-6715-636-8
Titolo dell’originale:
A LITTLE HISTORY OF PHILOSOPHY
www.salani.it
Nigel Warburton
Oxford, 2013
CAPITOLO 1
Circa 2400 anni fa, ad Atene, un uomo venne condannato a morte perché
faceva troppe domande: si chiamava Socrate. Prima di lui c’erano stati altri
filosofi, ma è a lui che dobbiamo il vero salto di qualità. Se la filosofia ha
un santo patrono, questo è sicuramente lui.
Basso e tarchiato, con il naso a patata, di aspetto trasandato e un po’
bizzarro, Socrate era un personaggio difficile da inquadrare. Benché fosse
tutt’altro che bello e non si lavasse molto spesso, aveva un grande carisma e
una mente brillante. I suoi concittadini concordavano sul fatto che uno
come lui non si era mai visto, e che probabilmente non si sarebbe più visto.
Era unico. Ma era anche parecchio scomodo. Lui stesso si descriveva come
un tafano, uno di quegli insetti fastidiosi che ti tormentano con le loro
punzecchiature: non fanno veramente male, ma risultano irritanti. Non tutti,
beninteso, la pensavano così; c’era chi lo adorava. Ma c’era anche chi
riteneva che esercitasse un’influenza negativa.
Da giovane era stato un soldato valoroso; aveva combattuto nella guerra
del Peloponneso, contro Sparta e i suoi alleati. In età matura trascorreva la
giornata al mercato, fermando le persone e facendo loro domande
imbarazzanti. Tutto qui? Tutto qui. Le domande di Socrate, però, erano
davvero acute, taglienti come rasoi. Sembravano semplici, ma non lo erano
affatto.
Prendiamo ad esempio la conversazione con Eutidemo. Socrate gli chiede
se essere disonesti equivale a essere immorali. Certo, risponde Eutidemo. È
una cosa ovvia. Ma che succede, replica Socrate, se un amico si sente
talmente giù da tentare il suicidio, e tu gli rubi il pugnale? Non si tratta
forse di un’azione disonesta? Lo è di sicuro. Ma in questo caso non si tratta
forse di un’azione morale, invece che immorale? Sarà pure disonesta, ma è
sicuramente un’azione buona, non certo cattiva. Sì, ammette Eutidemo,
costretto in un vicolo cieco. Usando un controesempio ben mirato, Socrate
dimostra che l’affermazione di Eutidemo secondo cui ingannare equivale a
commettere un atto immorale non è sempre valida. Fino a quel momento,
Eutidemo non se n’era reso conto.
Socrate dimostrava di continuo che la gente che incontrava al mercato non
sapeva veramente ciò che credeva di sapere. Un comandante dell’esercito
iniziava a conversarci, ben certo di cosa significasse la parola ‘coraggio’, e
dopo venti minuti in compagnia di Socrate aveva perso qualsiasi sicurezza.
Quell’esperienza doveva risultare davvero spiazzante. Socrate amava
svelare i limiti di ciò che le persone ingenuamente davano per scontato e
mettere in discussione i presupposti sui quali basavano la loro vita. Per lui,
una conversazione che terminava con l’ammissione di quanto poco
sapessero in realtà era un successo: molto meglio che continuare a credere
di sapere qualcosa che si ignora.
A quel tempo, ad Atene, i figli dei ricchi venivano mandati a studiare dai
sofisti. I sofisti erano abili docenti che insegnavano ai loro allievi l’arte di
tenere discorsi, e in cambio si facevano pagare molto bene. Socrate, invece,
non chiedeva niente in cambio di ciò che forniva. Di fatto – dichiarava – lui
non sapeva nulla: come avrebbe potuto pretendere di insegnare alcunché?
Nonostante ciò, era sempre circondato da allievi e in generale da gente che
ascoltava le sue conversazioni. Ciò non contribuiva certo a renderlo gradito
ai sofisti.
Un giorno il suo amico Cherofonte si recò dall’oracolo di Delfi. L’oracolo
era una saggia donna avanti negli anni, una sibilla, che rispondeva alle
domande di chi si recava da lei. Solitamente rispondeva per enigmi. «C’è
qualcuno più sapiente di Socrate?» chiese Cherofonte. «No» fu la risposta.
«Nessuno è più sapiente di Socrate».
Quando Cherofonte lo raccontò a Socrate, questi all’inizio non gli
credette. Era veramente perplesso. «Come posso essere la persona più
sapiente di Atene, se so così poco?» si domandava. Per anni continuò a
chiedere alla gente se trovasse qualcuno più sapiente di lui; poi comprese
cosa intendeva l’oracolo, e dette ragione alla sibilla. Tantissime persone
sono brave nelle cose che sanno fare – i carpentieri nella carpenteria, i
soldati nel combattere – ma nessuno era veramente sapiente, perché non
sapeva veramente di cosa stava parlando.
Il termine ‘filosofia’ deriva dall’unione di due parole greche e significa
‘amore per la sapienza’. La tradizione filosofica occidentale, quella di cui
parla questo libro, nacque nell’antica Grecia e si diffuse per buona parte del
mondo, a tratti contaminandosi con influenze provenienti dall’Oriente. La
sapienza in questione si basa sull’argomentazione, il ragionamento e la
messa in discussione delle cose, non sul semplice credere vero qualcosa
perché qualcuno di importante sostiene che lo sia. Per Socrate, la sapienza
non consisteva nel conoscere molte cose o sapere come farne molte altre,
ma nel comprendere la vera natura della nostra esistenza e i limiti delle
nostre conoscenze. Oggi i filosofi fanno più o meno la stessa cosa: pongono
domande importanti, cercano cause e dimostrazioni e si danno da fare per
rispondere ad alcune domande particolarmente importanti su cosa sia la
realtà e su come dovremmo condurre la nostra vita. A differenza di Socrate,
però, i filosofi contemporanei possono contare su un bagaglio di quasi
duemilacinquecento anni di pensiero filosofico. Questo libro prende in
esame le idee di alcuni tra i pensatori chiave della tradizione filosofica
occidentale, la tradizione che proprio da Socrate prese le mosse.
Ciò che rendeva Socrate tanto saggio era il suo continuare a fare domande
e a mettere in discussione le proprie idee. La vita, sosteneva, vale la pena di
essere vissuta solo se si pensa a ciò che si sta facendo. Vivere senza pensare
è roba per il bestiame, non per gli esseri umani.
Stranamente per un filosofo, Socrate si rifiutò di lasciare alcunché di
scritto. Per lui, parlare era molto meglio che scrivere. Le parole scritte non
possono risponderci; non possono darci spiegazioni se non le
comprendiamo. La conversazione diretta è molto meglio, insisteva.
Conversando, siamo in grado di calibrare la discussione sul nostro
interlocutore, adattando le nostre parole in modo da rendere
l’argomentazione più efficace. Dato che si rifiutava di scrivere, è
fondamentalmente grazie al suo allievo più famoso, Platone, che siamo
venuti a conoscenza delle idee e del modo di esporle di quest’uomo così
importante. Platone trascrisse un buon numero di conversazioni tra Socrate
e i suoi interlocutori: sono note come Dialoghi platonici , e sono eccellenti
opere letterarie, oltreché filosofiche – in un certo senso, Platone fu lo
Shakespeare del suo tempo. Leggendole, riusciamo a cogliere la personalità
di Socrate, la sua intelligenza e a comprendere perché potesse risultare tanto
scomodo.
Anche se, in verità, non ne siamo sicuri al cento per cento, perché non
possiamo affermare con certezza che ciò che Platone ha scritto sia ciò che
Socrate aveva detto, o se piuttosto non mettesse in bocca al personaggio che
chiamava «Socrate» idee che invece erano sue.
Una delle idee che si tende a ritenere più di Platone che di Socrate è
quella secondo la quale il mondo non è sempre ciò che appare. Vi è una
significativa differenza tra apparenza e realtà. La maggior parte di noi
prende l’una per l’altra. Pensiamo di comprendere la realtà, ma non è così.
Secondo Platone, solo i filosofi sono in grado di capire veramente la realtà;
essi arrivano a conoscerne la natura mediante il pensiero, non affidandosi ai
sensi.
Per spiegare questo concetto, Platone descrive una caverna, una caverna
immaginaria in cui si trovano delle persone, incatenate di fronte a un muro.
Sul muro le persone vedono delle ombre tremolanti, che credono reali ma
che non lo sono: si tratta invece delle ombre proiettate dagli oggetti, dietro
ai quali è acceso un fuoco. Per tutta la vita le persone incatenate nella
caverna credono che quelle ombre proiettate sul muro siano il mondo reale.
Poi, una di loro spezza le catene e si gira verso il fuoco. Inizialmente ha una
visione confusa, ma ecco che inizia a capire dove si trova, esce barcollando
dalla caverna e finalmente può guardare il sole. Quando rientra nella
caverna, nessuno crede a ciò che racconta del mondo là fuori. L’uomo che si
libera dalle catene è come il filosofo: egli vede al di là delle apparenze. La
gente in genere ha una scarsa conoscenza della realtà, perché preferisce
accontentarsi di ciò che ha di fronte piuttosto che andare a fondo delle cose
con il pensiero. Le apparenze ingannano, e ciò che questa gente vede non è
la realtà, ma la sua ombra.
La storia della caverna è collegata a quella che è nota come la teoria
platonica delle idee. Il modo più semplice per spiegarla è fare un esempio.
Pensiamo a tutti i cerchi che abbiamo visto nella nostra vita. Ce n’era uno
assolutamente perfetto? No. Nessuno di essi lo era. In un cerchio perfetto,
ogni punto della circonferenza è posto esattamente alla stessa distanza dal
centro. I cerchi che osserviamo nella realtà non soddisfano mai questo
criterio, ma voi comprendete perfettamente cosa intendo quando parlo di
«cerchio perfetto». Cos’è allora il cerchio perfetto? Platone direbbe che è
l’idea, o la forma, di cerchio. Se volete comprendere cosa sia un cerchio,
dovete concentrarvi sull’idea di cerchio, non sui cerchi che siete capaci di
disegnare o in cui vi imbattete grazie all’esperienza sensoriale della vista,
perché tutti questi sono, in un modo o nell’altro, imperfetti. Lo stesso,
secondo Platone, accade quando si cerca di comprendere cosa sia la bontà:
bisogna concentrarsi sull’idea di Bene, non sui singoli esempi di bontà che
ci capita di incontrare. I filosofi sono i più adatti a pensare alle idee in
questo modo astratto; le persone comuni sono fuorviate dalla realtà per
come la percepiscono attraverso i sensi.
I filosofi, dunque, hanno la capacità di pensare la realtà vera; quindi,
secondo Platone, dovrebbero essere investiti del potere politico. Nel dialogo
intitolato La Repubblica , la sua opera più famosa, egli descrive
un’immaginaria società perfetta al cui vertice stanno i filosofi. Essi
ricevono un’istruzione speciale, ma devono sacrificare il proprio piacere per
il bene dei loro concittadini. Ai loro ordini stanno i soldati, addestrati alla
difesa della nazione, e al gradino più basso gli ‘artigiani’, cioè le persone
che esercitano una professione. Queste tre classi di individui sono, secondo
Platone, in perfetto equilibrio, come in una mente dove la ragione controlla
le emozioni e i desideri. Spiace dirlo, ma questo modello di società è
profondamente antidemocratico; le persone vengono tenute sotto controllo
mediante una combinazione di menzogna e di forza. Nella società ideale di
Platone la maggior parte delle arti verrebbero bandite, con la motivazione
che esse producono rappresentazioni false della realtà: i pittori dipingono
apparenze, e le apparenze danno versioni fuorvianti delle idee. Così, ogni
aspetto della vita deve essere attentamente controllato dall’alto, in quello
che oggi definiremmo un regime totalitario. Platone pensava che dare alla
gente il diritto di voto equivalesse a lasciare che i passeggeri guidassero una
nave: molto meglio farlo fare a gente che sa come si fa.
La Atene del V secolo avanti Cristo era molto diversa dalla società
immaginata da Platone nella Repubblica . Era una democrazia, benché sui
generis , visto che solo il dieci per cento della popolazione aveva il diritto
di voto. Le donne e gli schiavi, ad esempio, ne erano completamente
esclusi. Ma i cittadini erano uguali di fronte alla legge, e vigeva un
complesso sistema di rappresentanza per assicurare che chiunque avesse la
possibilità di influenzare le decisioni politiche.
Atene non riconobbe l’importanza di Socrate come Platone, anzi. Molti
ateniesi pensavano che Socrate costituisse un pericolo e una minaccia per lo
stato. Nel 399 a.C., quando Socrate aveva settant’anni, un cittadino di nome
Meleto lo denunciò, accusandolo di empietà: secondo lui aveva trascurato le
divinità di Atene, tentando di introdurne di nuove. Sostenne anche che
Socrate insegnava ai giovani ateniesi a comportarsi male, incoraggiandoli a
ribellarsi alle autorità. Si trattava di accuse molto gravi, e non abbiamo
modo di verificare o dubitare della loro correttezza: forse era vero che
Socrate dissuadeva i propri allievi dal seguire la religione di stato, ed è
dimostrato che si divertiva a prendersi gioco del sistema democratico in
vigore ad Atene; sono due comportamenti coerenti con la sua figura. Ciò su
cui non vi è dubbio è che molti ateniesi ritennero che quelle accuse fossero
fondate.
La sua colpevolezza venne sottoposta a scrutinio; più di metà dei 501
cittadini che facevano parte della giuria ritennero che fosse colpevole e lo
condannarono a morte. Se avesse voluto, probabilmente avrebbe potuto
sostenere la propria causa e ottenere la grazia; ma, coerentemente con la sua
reputazione di personaggio scomodo, infastidì ulteriormente i suoi
concittadini sostenendo di non aver fatto nulla di male e che piuttosto
avrebbero dovuto ricompensarlo con cibo gratis invece di punirlo. Un
discorso che non risultò certo gradito.
Venne così condannato a darsi egli stesso la morte bevendo un veleno a
base di cicuta, una pianta che paralizza gradualmente il corpo. Socrate dette
l’addio a sua moglie e ai suoi tre figli e radunò attorno a sé i suoi allievi.
Anche se avesse potuto scegliere di trascorrere il resto della vita standosene
in disparte e smettendo di interrogare la gente, non l’avrebbe fatto; dunque,
meglio morire. Dentro di lui c’era una voce che gli intimava di continuare a
fare domande su tutto; non poteva tradirla. Quindi, bevve il veleno e di lì a
poco morì.
Socrate continua a vivere nei dialoghi di Platone. Quell’uomo
problematico, che faceva domande e preferì morire piuttosto che smettere di
pensare alla vera natura delle cose, sarebbe stato per sempre d’ispirazione
per i filosofi.
L’impatto immediato della filosofia socratica si esercitò sui suoi discepoli:
dopo la sua morte, Platone continuò a insegnare nello spirito del maestro. Il
suo allievo di gran lunga più influente si chiamava Aristotele, e fu un
pensatore molto diverso sia da Platone, sia da Socrate.
CAPITOLO 2
La vera felicità
ARISTOTELE
«Una rondine non fa primavera»: sapevate che questa frase, che usiamo con
tanta disinvoltura, viene da una delle opere più famose di un famoso
filosofo dell’antica Grecia? Si tratta dell’Etica nicomachea , chiamata così
perché il suo autore, Aristotele, la dedicò al figlio Nicomaco. Aristotele
sosteneva che come bisogna aspettare che di rondini se ne vedano in giro di
più, prima di affermare che la primavera è arrivata, così il piacere
passeggero non fa la vera felicità. Secondo lui la felicità non equivale a
qualche breve attimo di gioia. Sorprendentemente, pensava anche che i
bambini non potessero essere veramente felici: un’affermazione che
potrebbe sembrare assurda. Chi altro, se non i bambini, può provare la
felicità? Ecco, proprio in questo abbiamo l’esemplificazione di quanto
l’idea di felicità di Aristotele sia diversa dalla nostra. I bambini sono ancora
all’inizio della vita; non hanno ancora pienamente vissuto, in nessun senso.
La felicità richiede lunga vita.
Aristotele era allievo di Platone, e Platone lo era stato di Socrate. I tre
grandi pensatori formano una sorta di catena: Socrate-Platone-Aristotele.
Accade spesso: le menti geniali non spuntano dal nulla. Molte hanno avuto
un maestro ispiratore. Ma le idee di questi tre sono molto differenti tra loro;
nessuno scimmiottò il proprio maestro e ciascuno si distinse per un suo
approccio peculiare. In poche parole, Socrate era un gran conversatore,
Platone un eccellente scrittore, e Aristotele s’interessava di tutto. Socrate e
Platone giudicavano il mondo attorno a loro come il pallido riflesso della
vera realtà, che poteva essere conosciuta unicamente mediante il pensiero
astratto della filosofia; Aristotele, invece, era affascinato da ogni particolare
di tutto ciò che lo circondava.
Purtroppo, quasi tutti gli scritti di Aristotele ci sono giunti sotto forma di
appunti di lezioni. Ma queste testimonianze del suo pensiero hanno
esercitato enorme influsso sulla filosofia occidentale, anche se lo stile con
cui sono redatti è spesso assai scarno. Aristotele inoltre non fu solo filosofo:
si interessò di zoologia, astronomia, storia, politica e drammaturgia.
Nato in Macedonia nel 384 a.C., dopo aver studiato con Platone, aver
viaggiato e aver lavorato come insegnante privato di Alessandro Magno,
Aristotele fondò ad Atene la sua scuola, il Liceo, che divenne uno dei
maggiori poli di istruzione dell’Antichità, un po’ come le moderne
università. Di lì, il suo fondatore spediva in giro per il mondo i suoi
ricercatori, che tornavano carichi di nuove informazioni nelle più svariate
materie, dalla politica alla biologia. Fondò anche un’importante biblioteca.
Nel famoso dipinto di Raffaello intitolato La Scuola di Atene , Platone è
ritratto mentre indica in alto, il mondo delle idee, Aristotele mentre tende la
mano in avanti, verso il mondo che lo circonda.
Platone si sarebbe accontentato di filosofeggiare seduto in poltrona;
Aristotele voleva esplorare la realtà che sperimentiamo con i nostri sensi.
Quindi respinse la teoria delle idee formulata dal suo maestro, nella
convinzione che per comprendere qualsiasi categoria generale bisognasse
esaminarne gli esempi particolari: se si vuole sapere cos’è il gatto, si
devono guardare i gatti veri, non pensare in astratto all’idea di gatto.
Un’idea sulla quale Aristotele rimuginò fu: «Che tipo di vita dobbiamo
vivere?» Prima di lui, se l’erano chiesto anche Socrate e Platone. L’urgenza
di rispondere è fra le motivazioni principali che spingono le persone verso
la filosofia. La risposta di Aristotele può essere riassunta così: «Ricercando
la felicità».
Ma cosa significa «ricercare la felicità»? Oggi molti risponderebbero che
la felicità risiede nel piacere. Forse anche per voi ‘felicità’ significa vacanze
in luoghi esotici, andare ai concerti, alle feste o trascorrere del tempo con
gli amici. Potrebbe anche significare raggomitolarsi sul divano con un buon
libro o andare per mostre d’arte. Ma se è vero che tutto ciò potrebbe far
parte degli ingredienti di una buona vita anche secondo Aristotele, il nostro
filosofo non credeva che il modo migliore per vivere consistesse
nell’accumulare esperienze piacevoli: ciò, di per sé, non significa vivere
bene. La parola usata da Aristotele è eudaimonia , spesso tradotta, più che
con ‘felicità’, con ‘serenità’ o ‘successo’. Si tratta di qualcosa di più ampio
della sensazione piacevole che proviamo gustando un gelato al mango o
vedendo vincere la nostra squadra del cuore. Eudaimonia non ha a che fare
con fuggevoli attimi di beatitudine o con la sensazione di benessere; si tratta
di qualcosa di più oggettivo. È un concetto difficile da afferrare perché
siamo troppo abituati a pensare che la felicità sia una sensazione e nulla di
più.
Pensiamo a una pianta. Se le diamo luce, acqua, magari un po’ di
concime, crescerà e fiorirà. Se la trascuriamo, tenendola al buio e lasciando
che diventi preda dei parassiti, si seccherà e morirà, oppure diventerà brutta.
Anche gli esseri umani possono fiorire come le piante, solo che, a
differenza di loro, siamo noi stessi a scegliere, a decidere cosa vogliamo
fare ed essere.
Aristotele era convinto dell’esistenza di qualcosa chiamato natura umana;
che gli esseri umani, come sosteneva, avessero una funzione. C’è un modo
di vivere che si confà agli esseri umani; ciò che ci distingue dagli animali e
ci rende diversi in assoluto è che siamo in grado di pensare e quindi di
riflettere su come dovremmo comportarci. Di qui, Aristotele conclude che
la vita migliore per un essere umano è quella in cui usa al massimo grado la
ragione.
Sorprendentemente, Aristotele pensava che le cose di cui non abbiamo
conoscenza – persino gli eventi che accadono dopo la nostra morte –
possono contribuire alla nostra eudaimonia . Pare strano: partendo dalla
constatazione che non c’è vita dopo la morte, come è possibile che ciò che
accade quando non ci siamo più influenzi la nostra felicità? Bene,
immaginate di essere genitori, e che la vostra felicità risieda anche nelle
speranze che nutrite per il futuro di vostro figlio. Se questi
malauguratamente dovesse ammalarsi dopo la vostra morte, la vostra
eudaimonia ne sarebbe influenzata negativamente. Nella prospettiva di
Aristotele, la vostra vita peggiorerebbe anche se non sapreste mai della
malattia di vostro figlio, perché siete già morti. Da questo esempio potete
capire cosa intende quando sostiene che la felicità non dipende solo dalle
nostre sensazioni. La felicità ha a che fare con ciò che raggiungiamo nella
nostra vita, che può essere compromesso da quanto accade a coloro a cui
teniamo, dall’influsso degli eventi su cui non esercitiamo alcun controllo e
persino di cui non sappiamo nulla. L’essere felici o meno dipende anche
dalla buona sorte.
La questione centrale è: «Cosa dobbiamo fare per aumentare le nostra
probabilità di eudaimonia ?» Ecco la risposta di Aristotele: «Realizzare la
nostra essenza». Dobbiamo provare al momento giusto le emozioni giuste;
questo ci indurrà a comportarci nel modo migliore. Un ruolo lo gioca qui
anche l’educazione, perché il modo migliore per praticare le giuste abitudini
è iniziare a farlo da piccoli. Così, arriverà anche la fortuna. I modelli giusti
di comportamento sono virtù; quelli cattivi, vizio.
Proviamo a pensare alla virtù del coraggio in tempo di guerra. Poniamo
che un soldato debba rischiare la vita per salvare dei civili da un attacco
armato. Il temerario non si preoccupa minimamente per la propria
sicurezza: sarebbe capace di gettarsi a capofitto in una situazione pericolosa
anche se ciò non fosse necessario. Il suo non è vero coraggio, ma
avventatezza. All’altro estremo c’è il codardo : non è capace di tenere
sufficientemente a bada la paura per agire in modo efficace e nel momento
del bisogno rimane paralizzato dal terrore. Nella stessa situazione il soldato
veramente coraggioso, pur provando paura, è in grado di dominarsi e di
agire nel modo opportuno. Aristotele pensava che la virtù stesse sempre a
metà strada tra gli estremi: qui il coraggio sta a metà strada fra temerarietà e
codardia. È la teoria aristotelica nota come del giusto mezzo .
L’approccio di Aristotele all’etica non è di interesse puramente storico.
Numerosi filosofi moderni pensano che avesse ragione sull’importanza di
realizzare le virtù, e che la sua idea di felicità fosse corretta e stimolante. Al
posto di cercare di ottenere sempre più piaceri dalla vita, sostengono,
dovremmo cercare di essere persone migliori e di fare la cosa giusta. Questo
significa vivere bene.
Da quanto visto finora potrebbe sembrare che Aristotele fosse interessato
unicamente alla realizzazione individuale delle persone. Non è vero: gli
esseri umani sono animali politici, sosteneva; noi abbiamo bisogno di
vivere con gli altri, e per questo è necessario che vi sia un sistema
giudiziario che tenga a bada la parte oscura della nostra natura.
L’eudaimonia può essere conseguita solo nella vita di relazione, all’interno
di una società. Come esseri sociali, dobbiamo trovare la felicità interagendo
in modo positivo con coloro che ci circondano, in uno stato governato da un
ordine giusto.
La genialità di Aristotele aveva però anche uno spiacevole effetto
collaterale. Era talmente intelligente, e la sua ricerca era talmente metodica,
che molti dei suoi estimatori iniziarono a credere che avesse sempre ragione
su tutto. Questo non andava a vantaggio del progresso del pensiero, e quindi
della filosofia per come Socrate l’aveva battezzata. Per centinaia di anni, la
maggioranza degli studiosi prese le sue affermazioni come verità
indubitabili. Se potevano provare che una cosa l’aveva detta Aristotele, per
loro non c’era bisogno di dimostrarla. Questo è ciò che in ambito filosofico
si definisce ‘principio di autorità’: ritenere che una cosa debba essere vera
perché proviene da un’‘autorità’ importante.
Cosa credete che succeda se fate cadere dall’alto due oggetti delle stesse
dimensioni, ma uno è di legno e l’altro di metallo? Quale toccherà terra per
primo? Aristotele pensava che l’oggetto di metallo, il più pesante quindi,
sarebbe caduto più velocemente. Invece non è così: essi cadono alla stessa
velocità. Ma poiché così diceva Aristotele, per tutto il Medioevo si continuò
a pensare che fosse vero. Non c’era bisogno di ulteriori dimostrazioni. Nel
Sedicesimo secolo un certo Galileo Galilei fece cadere dalla Torre di Pisa
una sfera di legno e una palla di cannone, per sottoporre quell’affermazione
a una verifica sperimentale. Toccarono terra in contemporanea. Aristotele
aveva sbagliato, e il suo errore avrebbe potuto essere smascherato molto
prima.
Credere acriticamente all’autorità di qualcuno è un atteggiamento
contrario in primo luogo allo spirito stesso della ricerca di Aristotele, oltre
che allo spirito della filosofia in generale. In sé, l’autorità non prova nulla.
Il metodo aristotelico era fatto di ricerca, di indagine e di ragionamenti
chiari ed evidenti. La filosofia si alimenta con il dibattito, con la possibilità
di sbagliare, con i pensieri controcorrente e l’apertura verso idee alternative.
Fortunatamente, in quasi tutte le epoche hanno vissuto e operato filosofi
pronti a riflettere in modo critico su ciò che il resto della gente prendeva per
certo. Uno di loro lo faceva praticamente su tutto: si chiamava Pirrone, ed
era uno scettico.
CAPITOLO 3
Mentre state uscendo di casa inizia a piovere: che sfortuna! Però siete
obbligati a uscire; allora c’è ben poco che possiate fare oltre a indossare
l’impermeabile, munirvi di ombrello o cancellare l’appuntamento. Anche
con tutta la buona volontà, non potete far cessare la pioggia. Meglio
arrabbiarsi, o prenderla con filosofia? «Prenderla con filosofia» significa
proprio questo: accettare ciò che non è possibile cambiare. Pensiamo
all’inevitabile trascorrere degli anni e alla brevità della vita. Come
dovremmo sentirci di fronte a queste caratteristiche insite nella condizione
umana? Vale anche qui lo stesso principio?
Quando diciamo che «prendiamo con filosofia» qualcosa che ci accade,
usiamo questa formula nel senso usato dagli stoici. Il nome ‘stoici’ deriva
da Stoà , il portico ateniese ornato di affreschi dove questi filosofi erano
soliti incontrarsi. Uno dei primi fu Zenone di Cizio (336-263 a.C.). I primi
stoici greci si occuparono di una vasta gamma di argomenti: dalla fisica alla
logica, all’etica. Ma ciò che li rese famosi fu soprattutto la loro concezione
dell’autocontrollo. La loro idea di partenza era che dobbiamo preoccuparci
solo di ciò che possiamo cambiare; del resto non dovremmo neppure
interessarci. Come gli scettici, miravano all’ottenimento della pace dello
spirito. Anche di fronte a eventi tragici come la morte di una persona cara,
lo stoico deve rimanere impassibile. Spesso gli eventi sono al di fuori del
nostro controllo; possiamo però controllare il nostro atteggiamento nei loro
confronti.
Alla radice dello Stoicismo c’era l’idea che siamo responsabili di ciò che
proviamo e pensiamo. Possiamo scegliere come rispondere alla buona e alla
cattiva sorte. Certe persone pensano che le loro emozioni siano come il
tempo atmosferico; gli stoici invece ritenevano che il modo in cui ci si sente
in una situazione o di fronte a un evento sia una questione di scelta. Le
emozioni non sono qualcosa che capita e basta. Non dobbiamo sentirci tristi
quando le cose non vanno come vorremmo; non dobbiamo arrabbiarci
quando qualcuno ci inganna. Le emozioni annebbiano l’intelletto e
distorcono la capacità di giudicare. Perciò non andrebbero solo controllate,
ma, quando possibile, eliminate del tutto.
Epitteto (50-125 d.C.), uno degli esponenti più conosciuti del tardo
Stoicismo, era stato uno schiavo. Era sopravvissuto a molte avversità e
aveva conosciuto la sofferenza e la fame; camminava con il bastone perché
le percosse che aveva subìto lo avevano reso zoppo. Quando dichiarava che
la mente può restare libera nonostante il corpo sia schiavo, attingeva alla
propria esperienza; non si trattava di pura teoria. I suoi insegnamenti
comprendevano consigli pratici su come affrontare il dolore e la sofferenza.
Li riassumeva così: «I nostri pensieri dipendono da noi». Questa filosofia
ispirò James B. Stockade, un pilota da caccia dell’Aviazione degli Stati
Uniti durante la guerra in Vietnam. Abbattuto con il suo aereo, venne più
volte sottoposto a tortura e tenuto in cella d’isolamento per quattro anni.
Riuscì a sopravvivere mettendo in pratica ciò che ricordava dei precetti di
Epitteto appresi durante un corso universitario. Paracadutato in territorio
nemico, decise di rimanere indifferente a ciò che gli veniva fatto, per quanto
doloroso potesse essere. Se non poteva far nulla per cambiare le cose, non
se ne sarebbe lasciato influenzare. Lo stoicismo gli diede la forza di
sopravvivere al dolore e alla solitudine, che avrebbero distrutto la maggior
parte delle persone nelle sue condizioni.
Questa filosofia della resistenza nacque in Grecia, ma fu a Roma che
conobbe il maggiore sviluppo. Due autori di prima grandezza che
contribuirono alla sua diffusione furono Marco Tullio Cicerone (106-43
a.C.) e Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65 d.C.). Gli argomenti sui quali si
appuntò maggiormente il loro interesse furono la brevità della vita e
l’ineluttabilità della vecchiaia. Riconoscevano che invecchiare è naturale, e
che non si deve cercare di cambiare qualcosa che non può essere cambiato;
allo stesso tempo, però, erano convinti che nel breve lasso di tempo che ci è
concesso ognuno di noi debba fare del proprio meglio.
Cicerone in effetti si dava parecchio da fare: oltre che filosofo era
avvocato e politico. Nel suo De senectute (La vecchiaia ) individuava
quattro problemi connessi all’invecchiamento: lavorare è più faticoso, il
corpo s’indebolisce, si perde la capacità di godere dei piaceri materiali e la
morte si avvicina. Invecchiare è inevitabile ma, sostiene Cicerone,
possiamo decidere come reagirvi. Non necessariamente il declino rende la
vita insopportabile. In primo luogo, spesso gli anziani riescono a cavarsela
facendo di meno grazie alla loro esperienza: qualsiasi cosa facciano, la
fanno meglio. Poi, l’invecchiamento del corpo e della mente possono essere
combattuti mantenendosi in esercizio. E se è vero che godono meno dei
piaceri, gli anziani possono trascorrere più tempo frequentando amici e
intrattenendo conversazioni che sono in sé molto gratificanti. Infine,
Cicerone riteneva che l’anima fosse eterna: non c’era ragione di temere la
morte. La sua posizione era a un tempo di accettazione del naturale
processo di invecchiamento e di riconoscimento che il nostro atteggiamento
nei suoi confronti non dev’essere necessariamente pessimistico.
Nei suoi scritti sulla brevità della vita, Seneca, altro grande divulgatore
del pensiero stoico, si pone lungo questa stessa scia. Accade raramente di
sentire qualcuno lamentarsi che la sua vita è troppo lunga: la maggior parte
della gente pensa che sia il contrario, che ci siano tante cose da fare e
troppo poco tempo per farle. Per dirla con il greco Ippocrate, «La vita è
breve, l’arte è lunga». Spesso le persone che sentono la morte avvicinarsi
desidererebbero disporre di qualche anno ancora per portare a compimento
ciò che volevano davvero fare nella vita; ma ormai è troppo tardi, e si
macerano nel rimpianto. In questo, la natura è crudele: proprio quando
stiamo arrivando al culmine della vita, arriva la fine.
Seneca non era d’accordo su questo. Sempre impegnatissimo, come
Cicerone, trovava il tempo per fare il drammaturgo, il politico e l’uomo
d’affari di successo, oltre a scrivere di filosofia. Il problema, per come lo
vedeva lui, non era quanto breve sia la vita, ma quanto male la
impieghiamo. Ancora una volta, ciò che conta di più è il nostro
atteggiamento nei riguardi degli aspetti ineluttabili dell’esistenza. Non
dobbiamo arrabbiarci per la sua brevità, ma adoperarci per viverla al
meglio. Molti, sottolinea Seneca, riuscirebbero a sprecare anche una vita
lunga millenni, se potessero disporne; e probabilmente si lamenterebbero lo
stesso, perché secondo loro è troppo breve. In realtà la vita dura abbastanza
per trarne completamente profitto, a condizione che compiamo le scelte
giuste e non la sprechiamo in faccende di poco conto. Certe persone
cercano la ricchezza con tanta energia da non riuscire a fare altro; altre
cadono nel tranello di sprecare tutto il loro tempo libero bevendo e facendo
sesso.
Se aspettiamo la vecchiaia per accorgercene, sarà sempre troppo tardi,
pensava Seneca. I capelli bianchi e le rughe sul viso non sono di per sé
garanzia che una persona nella sua vita abbia portato a termine qualcosa di
valido. Anche se certi, mentendo a se stessi, si comportano come se fosse
così.
Non si può dire che uno che sale su una barca a vela e si lascia portare dai
venti stia facendo un viaggio: diremmo piuttosto che si fa sballottare qua e
là. Nella vita è lo stesso. Lasciarsi trasportare dagli eventi senza controllo,
senza trovare il tempo per esperienze sensate e meritevoli di essere vissute,
è molto diverso dal vivere.
Un vantaggio del vivere bene è che da vecchi non avremo timore dei
nostri ricordi. Se invece sprechiamo il nostro tempo, quando volgeremo lo
sguardo al passato probabilmente non vorremo pensare a come l’abbiamo
trascorso, perché rivedere tutte le opportunità che abbiamo perso sarebbe
troppo doloroso. Per questa ragione così tanta gente si lascia assorbire dalle
cose superficiali: è un modo per chiudere gli occhi davanti alla realtà del
proprio fallimento. Così, Seneca invitava i suoi lettori a distinguersi dalla
massa e a non nascondersi da se stessi tenendosi occupati in cose futili.
Come dovremmo occupare, dunque, il nostro tempo? L’ideale stoico era
la vita ritirata, lontana dalla gente. Il modo più proficuo per vivere,
sosteneva Seneca acutamente, è studiare filosofia. Così si è veramente vivi.
La vita dette a Seneca molte opportunità per mettere in pratica ciò che
predicava. Nel 41 d.C., ad esempio, venne accusato di avere una relazione
con la sorella di Caligola. Non è chiaro se fosse vero o meno, ma il risultato
fu che venne esiliato in Corsica per otto anni. La sua fortuna girò di nuovo e
tornò a Roma, dove venne nominato tutore di Nerone, allora dodicenne.
Quando questi divenne imperatore, Seneca ne divenne il consigliere, oltre a
scriverne i discorsi. Ma la cosa finì male: altro rovescio di fortuna, e Nerone
accusò Seneca di aver ordito un complotto contro di lui. Stavolta per Seneca
non c’era scampo: Nerone gli ordinò di suicidarsi. Impossibile opporsi:
sarebbe valso ugualmente una condanna capitale. Seneca si suicidò,
andando incontro alla morte tranquillo e in pace con se stesso, fedele al suo
Stoicismo.
Un modo per guardare ai precetti degli stoici è pensarli come una sorta di
psicoterapia, una serie di tecniche psicologiche capaci di farci prendere la
vita in modo più tranquillo. Dominare le fastidiose emozioni che
annebbiano il nostro giudizio rende indubbiamente tutto più semplice.
Sfortunatamente, però, se riusciamo a tenere a bada le emozioni potremmo
accorgerci che stiamo perdendo qualcosa di importante. La condizione di
indifferenza caldeggiata dagli stoici riduce l’infelicità provocata dagli
eventi che non possiamo controllare, ma il prezzo da pagare è che ci
trasformiamo in persone fredde, senza cuore, forse meno umane. Se è così,
forse è un prezzo troppo alto.
Benché fosse stato influenzato dalla filosofia greca, Agostino, il filosofo
cristiano di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo, era tutt’altro che uno
stoico: uomo di forti passioni, soffriva per il male che vedeva nel mondo, e
desiderava appassionatamente comprendere Dio e i suoi piani per
l’umanità.
CAPITOLO 6
L’isola perfetta
ANSELMO D’ A OSTA e TOMMASO D’ A QUINO
La volpe e il leone
NICCOLÒ MACHIAVELLI
Scommettiamo?
BLAISE PASCAL
Il tornitore di lenti
BARUCH SPINOZA
La maggior parte delle religioni sostengono che Dio esiste da qualche parte
al di là del mondo, magari in cielo. Non Baruch Spinoza (1632-1677), per il
quale Dio è il mondo. In proposito si esprimeva parlando di «Dio o la
natura», intendendo che i due termini designavano la stessa cosa. Per
Spinoza, Dio e natura sono due modi per descrivere un unico essere. Dio è
natura e la natura è Dio. Quest’idea, secondo cui Dio è tutte le cose, è detta
panteismo. Si tratta di un’idea radicale, che provocò a Spinoza non pochi
problemi.
Spinoza nacque ad Amsterdam, figlio di un ebreo portoghese. A quel
tempo la città accoglieva gli ebrei in fuga dalle persecuzioni, ma anche là
c’era un limite alla libertà di espressione. Benché educato alla religione
ebraica, nel 1656, all’età di 24 anni, Spinoza venne scomunicato e
maledetto dai rabbini della sua sinagoga, probabilmente a causa della non
ortodossia delle sue idee su Dio. Lasciò così Amsterdam, per approdare più
tardi all’Aja. Da quel momento abbandonò il nome ebraico Baruch a favore
di quello di Benedictus.
Sono molti i filosofi influenzati dalla geometria; le famose dimostrazioni
euclidee di diverse ipotesi geometriche partivano da pochi, semplici assiomi
o affermazioni preliminari per arrivare a conclusioni come quella secondo
la quale la somma degli angoli interni di un triangolo è pari a due angoli
retti. Ciò che i filosofi di solito ammirano della geometria è il modo in cui,
a partire da affermazioni universalmente condivise e attraverso precisi
passaggi logici, giunge a conclusioni sorprendenti. Se gli assiomi sono veri,
lo devono essere anche le conclusioni. Questo genere di ragionamento
geometrico ispirò sia René Descartes che Thomas Hobbes.
Spinoza non si limitò ad ammirare la geometria; egli fece filosofia come
se fosse essa stessa geometria. Le ‘dimostrazioni’ della sua Etica hanno
l’aspetto di dimostrazioni geometriche e comprendono assiomi e
definizioni; sono concepite per avere la stessa ferrea logica interna. Solo
che, al posto di argomenti come gli angoli del triangolo e la circonferenza
del cerchio, trattano di Dio, della natura, della libertà e dei sentimenti.
Secondo Spinoza, questi temi possono essere analizzati e descritti quasi
nello stesso modo in cui si ragiona di triangoli, cerchi e quadrati, e
concludeva i capitoli con la formula ‘QED’, cioè quod erat demonstrandum
, la frase latina che significa ‘cosa che si doveva dimostrare’ e che appariva
nei trattati di geometria. Era convinto che vi fosse una struttura logica
sottostante il mondo e il nostro ruolo in esso, struttura che poteva essere
svelata dalla ragione. Niente è per caso, tutto ha uno scopo e una regola.
Ogni cosa ha il proprio posto in un grande sistema, e la strada migliore per
comprenderlo è usare il pensiero. Questo approccio alla filosofia, che
poggia più sull’uso della ragione che sulla sperimentazione e
l’osservazione, viene spesso definito Razionalismo.
Spinoza amava la solitudine, perché era la condizione che gli permetteva
di portare avanti in tutta tranquillità i suoi studi. Probabilmente non far
parte di alcuna istituzione pubblica era anche più sicuro per lui, viste le sue
idee su Dio. Per questo motivo la sua opera più famosa, l’Etica , venne
pubblicata solo dopo la sua morte. Non che non fosse stimato anche in vita
come un pensatore altamente originale; gli venne offerta anche una cattedra
all’università di Heidelberg, che però preferì rifiutare. Era comunque felice
di confrontarsi con i filosofi che andavano a trovarlo: tra loro vi fu anche il
matematico e filosofo Gottfried Leibniz.
Spinoza conduceva una vita semplice; preferiva abitare in alloggi
provvisori e non acquistò mai una casa. Non aveva bisogno di molto
denaro; riusciva a mantenersi esercitando il mestiere di tornitore di lenti e
grazie a piccole donazioni di estimatori della sua opera filosofica. Le lenti
che fabbricava erano destinate a strumenti scientifici come microscopi e
telescopi, e se come fonte di guadagno gli permisero di continuare i suoi
studi, gli furono probabilmente anche fatali, perché Spinoza morì a soli 44
anni per un’infezione delle vie respiratorie dovuta, si pensa, ai danni
provocati ai polmoni dalle minuscole particelle di vetro che inalava durante
la lavorazione delle lenti.
Se Dio è infinito, pensava Spinoza, ne consegue che non vi può essere
nulla che non sia Dio. Se scopriamo che nell’universo vi è qualcosa che non
è Dio, allora Dio non può essere infinito, perché per esserlo dovrebbe essere
quella cosa proprio come è qualsiasi altra. Noi siamo tutti parte di Dio, ma
lo sono anche le pietre, le formiche, i fili d’erba e le finestre. Tutto è Dio e
tutto si armonizza in una totalità incredibilmente complessa, dove
sostanzialmente qualsiasi cosa esista è parte di una cosa sola: Dio.
Coloro che credono nelle religioni tradizionali sostengono che Dio ama
gli uomini e ascolta le preghiere che essi gli rivolgono. Questa è una forma
di antropomorfismo: si proiettano caratteristiche umane, come la
compassione, in un essere non umano, cioè Dio. La forma estremizzata di
questa posizione è l’idea di Dio come un benevolo signore dalla lunga
barba e dal sorriso gentile. Il Dio di Spinoza non poteva essere più lontano
da quest’immagine. Egli – ma sarebbe più corretto dire ‘esso’ – era
assolutamente impersonale, e non gli importava di nulla e di nessuno.
Secondo Spinoza possiamo e dobbiamo amare Dio, ma senza aspettarci di
essere ricambiati. Il Dio che descriveva era talmente indifferente agli esseri
umani e alle loro azioni che molti conclusero che non ci credesse affatto, e
che il suo panteismo fosse una copertura; così venne accusato di ateismo e
di essere contrario alla religione. Come poteva essere definito altrimenti
uno che credeva che a Dio non importasse nulla dell’umanità? Il punto di
vista di Spinoza, invece, era che Dio doveva essere amato di amore
intellettuale, basato su una profonda comprensione a cui si giungeva per
mezzo della ragione. Ma questa forma di religiosità risultava difficilmente
accettabile. La sinagoga aveva avuto delle buone ragioni per scomunicarlo.
Anche in materia di libero arbitrio, Spinoza sosteneva una posizione
scomoda. Era quello che si definisce un determinista, credeva cioè che
qualsiasi azione umana fosse il prodotto di una causa. Un sasso scagliato in
aria, se potesse dotarsi di una coscienza di sé come quella degli esseri
umani, immaginerebbe di muoversi in virtù della propria volontà, mentre in
realtà non è affatto così: a farlo muovere sono state la forza di ciò che lo ha
lanciato e la forza di gravità, anche se il sasso penserebbe di essere lui a
decidere dove cadere. Lo stesso vale per gli esseri umani: crediamo che le
nostre azioni siano il frutto della nostra libera scelta e di avere il controllo
della nostra vita, ma questo ci impedisce di riconoscere che le nostre scelte
e le nostre azioni sono in realtà provocate da cause esterne. Il libero arbitrio
è un’illusione; le azioni spontanee non esistono.
Benché determinista, Spinoza era però convinto che una forma, per
quanto minima, di libertà fosse possibile e auspicabile. Il modo peggiore di
vivere era quello che egli definiva schiavitù: l’essere preda delle proprie
emozioni. Quando ci accade qualcosa di male, ad esempio qualcuno si
comporta male con noi, e perdiamo il controllo e siamo pieni d’odio, il
nostro è un modo di vivere passivo: non facciamo altro che reagire agli
eventi. Ciò che accade fuori di noi ci irrita e non controlliamo più nulla. Il
sistema migliore per sottrarsi a questa schiavitù è acquisire una migliore
conoscenza delle cause che determinano i nostri comportamenti – in questo
caso, dei fatti che provocano la nostra rabbia. Per Spinoza i nostri stati
d’animo dovrebbero essere frutto di una scelta, non il prodotto di eventi
esterni. Anche se la nostra scelta non sarà mai completamente libera, è
sempre meglio essere soggetti attivi che passivi.
Spinoza era un tipico filosofo. Era preparato a essere contestato, a
sostenere idee che non tutti erano pronti ad accogliere, e a difenderle
mediante la discussione. Attraverso i suoi scritti, egli continua a influenzare
i lettori, anche quando questi non sono minimamente d’accordo con ciò che
sostiene. La sua idea di Dio come natura non trovò seguaci ai suoi tempi,
ma in seguitò annoverò alcuni insigni sostenitori: tra loro il romanziere
vittoriano George Eliot, autore di una traduzione dell’Etica , e il fisico
Albert Einstein che, se non arrivò a credere in un dio personificato, rivelò in
una lettera di credere nel Dio di Spinoza.
Quello di Spinoza era un Dio impersonale e privo di caratteristiche
umane, e quindi non avrebbe punito nessuno per i suoi peccati. John Locke,
che nacque lo stesso anno di Spinoza, la pensava in modo molto diverso. La
sua indagine sulla natura dell’Io fu influenzata anche dalla sua
preoccupazione su cosa potrebbe accadere il giorno del Giudizio.
CAPITOLO 14
Il principe e il ciabattino
JOHN LOCKE e THOMAS REID
L’orologiaio immaginario
DAVID HUME
Nato libero
JEAN- JAQUES ROUSSEAU
Nel 1766, un uomo di bassa statura e dagli occhi neri, avvolto in un lungo
mantello di pelliccia, si recò a uno spettacolo al teatro londinese di Drury
Lane. La maggior parte degli spettatori, tra cui anche re Giorgio III, era più
interessata a quel visitatore straniero che alla commedia che stava andando
in scena. Lui sembrava a disagio ed era preoccupato per il suo cane, un
pastore alsaziano, che aveva lasciato chiuso nella sua camera. Quell’uomo
non provava piacere per le attenzioni che gli riservavano in teatro; avrebbe
preferito essere lontano, da solo, in campagna, a raccogliere fiori di campo.
Ma chi era? E perché lo trovavano tutti così interessante? La risposta è: il
grande pensatore e scrittore svizzero Jean-Jacques Rousseau (1712-1778).
Vero e proprio evento per il mondo letterario e filosofico, l’arrivo di
Rousseau a Londra su invito di David Hume provocò lo stesso tipo di
agitazione che oggi accompagnerebbe l’apparizione di una pop star.
A quel tempo la Chiesa cattolica aveva messo all’indice diversi suoi libri,
a causa delle idee religiose non convenzionali che contenevano. Rousseau
pensava che la vera fede provenisse dal cuore e non avesse bisogno di riti di
celebrazione. Ciò che provocava maggiore sensazione, però, erano le sue
idee politiche.
«L’uomo è nato libero e invece ovunque è in catene» scriveva all’inizio
del suo famoso Contratto sociale . Non c’è da sorprendersi che i
rivoluzionari avrebbero imparato a memoria quelle parole. A esse si ispirò
Maximilien de Robespierre, e con lui diversi altri esponenti di spicco della
Rivoluzione francese. I rivoluzionari volevano spezzare le catene imposte
dai ricchi ai poveri. Mentre tra questi ultimi vi era chi moriva di stenti, i
loro padroni vivevano circondati dal lusso. Come Rousseau, i rivoluzionari
erano infuriati dal contrasto tra lo stile di vita delle classi facoltose e la
condizione dei poveri, che faticavano a trovare da mangiare. Volevano
libertà, eguaglianza e fratellanza. È improbabile però che Rousseau, che era
morto una decina di anni prima, avrebbe approvato Robespierre quando, nel
periodo cosiddetto del ‘Terrore’, spediva alla ghigliottina i suoi nemici.
Tagliare la testa ai propri oppositori politici era un comportamento più
vicino al pensiero di Machiavelli che al suo.
Secondo Rousseau gli esseri umani sono buoni per natura. Se fossimo
lasciati a noi stessi nel mezzo di una foresta, non daremmo molti problemi.
Se però veniamo sottratti allo stato di natura e portati nelle città, le cose
prendono un’altra piega: iniziamo a desiderare di avere la meglio sugli altri
e di attrarre la loro attenzione. Questo atteggiamento competitivo ha effetti
psicologici terribili, e l’invenzione del denaro non può che peggiorare la
situazione. I risultati della vita nelle città sono l’avidità e l’invidia
reciproca. Nello stato di natura i solitari uomini selvaggi sarebbero sani,
forti e soprattutto liberi; la civiltà corrompe gli esseri umani. Nonostante
ciò, Rousseau pensava ottimisticamente che si potesse trovare una migliore
organizzazione sociale, in cui agli individui fosse permesso prosperare e
sentirsi appagati, ma in armonia, nel rispetto del prossimo e nella
collaborazione di tutti al bene comune.
L’argomento del Contratto sociale (1762) è proprio questo: come trovare
un sistema che permetta agli individui di vivere in società rimanendo
altrettanto liberi quanto lo sarebbero allo stato di natura, obbedendo allo
stesso tempo alle leggi dello stato. Un risultato che sembra impossibile, e
forse lo è. Se il prezzo da pagare in cambio dell’ingresso nella società era
una sorta di schiavitù, finisce con l’essere decisamente troppo alto. Libertà
individuale e regole rigorose imposte dalla società non vanno d’accordo,
perché le regole sono come catene, che impediscono alcuni tipi di azione.
Ma Rousseau era convinto che una soluzione fosse possibile; questa
soluzione si basava sulla sua idea della volontà generale .
La volontà generale è qualunque cosa sia la cosa migliore per la comunità,
lo stato nel suo insieme. Quando gli individui scelgono di consociarsi per
garantirsi maggiore sicurezza, sembra che debbano anche rinunciare a
molte delle loro libertà; è quanto avevano sostenuto Hobbes e Locke. Non è
facile pensare come sia possibile rimanere liberi vivendo in mezzo a una
moltitudine di persone; devono esserci per forza delle leggi in grado di
controllare tutti, e delle limitazioni nei comportamenti consentiti. Ebbene,
Rousseau riteneva che in quanto individuo che vive in uno stato, uno può
essere allo stesso tempo libero e rispettare l2 leggi di quello stato, e invece
di contrapporsi, queste idee di libertà e di obbedienza possono andare di
pari passo.
L’idea della volontà generale può essere facilmente fraintesa: ecco un
esempio contemporaneo. Se glielo domandate, la maggior parte delle
persone preferirebbe non pagare le tasse; e infatti uno dei sistemi più usati
dai politici per farsi eleggere è promettere di abbassare le tasse. Se si
chiedesse alla gente se vuole pagare il 20 o il 5 per cento dei suoi guadagni
in tasse, la maggioranza risponderebbe il 5 per cento. Questa, però, non è la
volontà generale; ciò che tutti dicono di volere se glielo si chiede è quello
che Rousseau chiamava la volontà di tutti . La volontà generale, invece, è
quello che tutti dovrebbero volere, ciò che sarebbe bene per la comunità nel
suo insieme, non per ciascuno dei suoi membri secondo il suo punto di vista
egoistico. Far prevalere la volontà generale significa passare sopra
l’interesse dei singoli e concentrarsi sul bene della società, il bene comune.
Se accettiamo che molti servizi – come ad esempio la manutenzione delle
strade – debbano essere finanziati con le tasse, per il bene della comunità le
tasse devono essere abbastanza alte da permetterlo. Se rimangono troppo
basse, la comunità avrà da soffrirne. Questa è dunque la volontà generale:
che le tasse siano abbastanza elevate da permettere un buon livello dei
servizi.
Quando le persone si radunano a formare una società, diventano come una
persona sola. Ciascuno è parte di un insieme più grande. Per Rousseau, se
obbediscono alle leggi che sono coerenti con la volontà generale, gli
individui possono essere veramente liberi nella società. Queste leggi
devono essere create da un legislatore intelligente, capace di realizzare un
sistema legislativo in cui gli individui sono incentivati a rimanere in
sintonia con la volontà generale, invece di perseguire i propri interessi
personali a spese altrui. La vera libertà, secondo Rousseau, consiste
nell’appartenere a un insieme di individui che agiscono nell’interesse
comune. I nostri desideri dovrebbero coincidere con ciò che è meglio per
tutti; le leggi dovrebbero indurci a evitare di comportarci in modo egoistico.
Cosa accade però se non siamo d’accordo su ciò che sarebbe bene per la
nostra città-stato? Potrebbe accadere che, dal mio punto di vista individuale,
io non voglia conformarmi alla volontà generale. Rousseau aveva una
risposta a questa domanda, ma non è quella che la maggioranza delle
persone vorrebbe sentire. Con un’espressione che è diventata famosa, e che
per la verità suona piuttosto inquietante, sostenne che se qualcuno avesse
negato che obbedire a una legge era nell’interesse della comunità, avrebbe
dovuto essere «obbligato a essere libero». Con questa frase intendeva che
chiunque si opponesse a quanto era nell’interesse della società pensando di
compiere una libera scelta non sarebbe stato veramente libero finché non si
fosse conformato alle leggi e alla volontà generale. Ma come si può
obbligare uno a essere libero? Se io vi obbligassi a continuare a leggere
questo libro, la vostra non sarebbe una libera scelta. Obbligare qualcuno a
fare qualcosa è l’esatto opposto di permettergli di scegliere liberamente.
Questa però, per Rousseau, non era una contraddizione. La persona che
non è in grado di individuare la cosa giusta da fare diventa più libera se
viene obbligata ad adeguarsi. Poiché tutti, in una società, sono parte di un
insieme più ampio, devono necessariamente riconoscere che ciò che
dovremmo fare è seguire la volontà generale, non le loro personali scelte
egoistiche. In questa prospettiva, solo quando seguiamo la volontà generale
siamo veramente liberi, anche se veniamo obbligati a farlo. Questo era il
pensiero di Rousseau; altri filosofi, come John Stuart Mill (vedi il capitolo
24) hanno invece ribadito che ‘libertà’, in politica, significa che l’individuo
è lasciato il più possibile libero di compiere le proprie scelte. In effetti c’è
qualcosa di leggermente sinistro nell’idea di Rousseau: dopo aver protestato
contro le catene in cui era ridotta l’umanità, sosteneva che costringere
qualcuno a fare qualcosa fosse una forma di libertà.
Rousseau trascorse gran parte della vita da perseguitato, fuggendo di
paese in paese. All’opposto, Immanuel Kant si spostò di rado dalla sua città
natale; l’impatto del suo pensiero, però, si fece sentire in tutta Europa.
CAPITOLO 19
Se indossate degli occhiali con lenti color rosa, ogni aspetto della vostra
esperienza visiva risulterà colorato di rosa. Magari vi scordate che li state
indossando, ma loro non smetteranno di influenzare la vostra visione.
Immanuel Kant (1724-1804) pensava che tutti ci aggiriamo per il mondo
comprendendolo attraverso un filtro di questo tipo. Il filtro è il nostro
intelletto. Esso determina il modo in cui facciamo esperienza di tutte le cose
e dà a quell’esperienza una determinata forma. Qualunque cosa percepiamo,
la percepiamo come situata nel tempo e nello spazio, e riconducendo ogni
fenomeno a una causa. Ma secondo Kant queste caratteristiche – tempo,
spazio, relazione di causa ed effetto – non appartengono alla realtà in sé:
sono un’aggiunta del nostro intelletto. Noi non abbiamo un accesso diretto
alla realtà in sé, e non possiamo neppure toglierci gli occhiali e guardare le
cose come sono veramente. Non possiamo liberarci di quel filtro; se ne
fossimo privi, saremmo totalmente incapaci di fare qualsiasi esperienza.
Dobbiamo riconoscerne la presenza e capire come esso influenzi e ‘colori’
le nostre esperienze.
Kant aveva una mente assai logica e ordinata. Anche la sua vita lo era.
Non prese moglie e si impose regole molto severe. Aveva ordinato alla
servitù di svegliarlo ogni giorno alle cinque del mattino, per impiegare al
massimo il suo tempo. Beveva un tè, fumava una pipa e iniziava a lavorare.
Era estremamente produttivo e scrisse numerosi libri e articoli. Poi andava
all’università, teneva lezione, tornava a casa e tutti i pomeriggi alle sedici e
trenta in punto usciva a fare una passeggiata, percorrendo la strada di casa
esattamente otto volte. I suoi concittadini di Königsberg (che oggi si chiama
Kaliningrad) regolavano gli orologi sull’inizio della sua passeggiata.
Come molti filosofi, dedicò la propria vita a cercare di capire il nostro
rapporto con la realtà. Essenzialmente è questo l’argomento della
metafisica, e Kant è stato uno dei più grandi metafisici della storia della
filosofia. Il suo interesse verteva in particolare sui limiti della nostra
conoscenza; per lui si trattava di una sorta di ossessione. Nella sua opera
più famosa, la Critica della ragion pura (1781), esplorò questi limiti,
spingendosi sino ai confini del comprensibile. Si tratta infatti di un’opera
non certo di facile lettura: Kant stesso, a ragione, la descrive come ‘arida’ e
‘oscura’. Sono davvero pochi coloro che possono sostenere di averla
pienamente compresa, perché molte delle argomentazioni risultano
complesse e criptiche. Leggendola si ha la sensazione di attraversare
faticosamente una fitta foresta di parole, intuendo appena la direzione in cui
ci si muove e beneficiando ogni tanto di qualche squarcio di luce. Ma
l’argomento centrale è abbastanza chiaro.
Com’è la realtà? Kant pensava che non possiamo mai avere un quadro
completo di come stanno le cose. Non conosceremo mai direttamente quello
che chiama il mondo dei noumeni (Kant riprende il termine platonico
derivato dal verbo greco ‘pensare’), delle cose come sono in sé, dietro le
apparenze. Talvolta usa il termine ‘noumeno’ al singolare, e altre volte
‘noumeni’ al plurale, ma non avrebbe dovuto farlo: noi non possiamo
sapere neppure se la realtà è una cosa o molte. A rigore, del mondo
noumenico non possiamo sapere nulla, o almeno non possiamo avere
conoscenza diretta. Possiamo invece conoscere il mondo fenomenico ,
quello di cui facciamo esperienza attraverso i nostri sensi. Guardiamo dalla
finestra: ciò che vediamo è il mondo dei fenomeni – erba, automobili, cielo,
edifici, e così via. Non possiamo vedere il mondo dei noumeni, solo quello
dei fenomeni; il mondo dei noumeni resta nascosto dietro tutte le nostre
esperienze. È la realtà a un livello più profondo.
Alcuni aspetti di questa realtà, quindi, ci sfuggiranno sempre. Possiamo
però, mediante il ragionamento rigoroso, raggiungere una comprensione di
grado superiore rispetto a quella che ci è consentita dall’approccio
puramente scientifico. La domanda principale a cui Kant intendeva
rispondere con la Critica della ragion pura era: «Come sono possibili i
giudizi sintetici a priori?» Questa domanda probabilmente non vi dice
niente. Proverò a spiegarvela; non è così difficile come sembra. La prima
parola da spiegare è ‘sintetici’. Nel linguaggio filosofico di Kant, ‘sintetico’
è l’opposto di ‘analitico’. ‘Analitico’ significa ‘vero per definizione’. Ad
esempio, una frase come ‘Tutti i maschi sono di sesso maschile’ è vera per
definizione; sappiamo che questa affermazione è vera senza dover fare
alcuna indagine sui maschi. Non abbiamo bisogno di controllare che siano
tutti di sesso maschile, perché se non fossero di sesso maschile, non
sarebbero maschi. Per arrivare a quella conclusione non c’è bisogno di
un’indagine scientifica, potreste stare seduti in poltrona e ci arrivereste lo
stesso. La parola ‘maschi’ ha in sé l’idea di ‘sesso maschile’; lo stesso vale
per l’affermazione ‘Tutti i mammiferi allattano i loro piccoli’. Anche in
questo caso, non avete bisogno di esaminare tutti i mammiferi per sapere
che tutti allattano i piccoli, perché questo fatto è implicito nella definizione
di ‘mammifero’. Se trovate un animale che sembra un mammifero, ma non
allatta i piccoli, saprete che quello non è un mammifero. Alla fine, i giudizi
analitici non sono altro che pure definizioni; non aggiungono nulla alle
nostre conoscenze, ma si limitano a esprimere ciò che è implicito nel modo
in cui abbiamo definito di una parola.
La conoscenza sintetica, invece, richiede l’esperienza o l’osservazione e
ci dà nuove informazioni, qualcosa che non è semplicemente contenuto nel
significato delle parole o dei simboli che usiamo. Ad esempio, noi
sappiamo che il gusto del limone è aspro, ma solo perché l’abbiamo
assaggiato (o perché qualcun altro ce l’ha detto dopo averlo assaggiato).
Non è vero per definizione che i limoni abbiano sapore aspro; è qualcosa
che si impara per esperienza. Un altro giudizio sintetico potrebbe essere
«Tutti i gatti hanno la coda». Si tratta di un’affermazione che ha bisogno di
essere sostenuta da una ricerca perché possa essere considerata vera; non
potrete dire che lo sia finché non ne avrete avuto la prova. E infatti certi
gatti, i gatti dell’isola di Man, non hanno la coda. Altri gatti la coda ce
l’avevano, poi l’hanno persa, e restano dei gatti. La domanda se tutti i gatti
abbiano la coda ha quindi a che fare con la realtà, non con la definizione di
gatto; è molto diversa dall’affermazione «Tutti i gatti sono mammiferi», che
avendo a che fare con la definizione di gatto è un giudizio analitico.
Come arriviamo alla conoscenza sintetica a priori? Abbiamo visto che una
conoscenza a priori è una conoscenza indipendente dall’esperienza.
Sappiamo una cosa a priori , cioè prima dell’esperienza, prima di averla
sperimentata. Nel Diciassettesimo e nel Diciottesimo secolo la questione se
fosse possibile o meno conoscere a priori era stata argomento di dibattito.
Grosso modo, gli empiristi (come Locke) sostenevano che non lo fosse; i
razionalisti (come Descartes) sostenevano di sì. Quando Locke diceva che
non esistono idee innate e che la mente del neonato è come una lavagna
vuota, intendeva che non esistono conoscenze a priori. Da ciò sembrerebbe
che ‘a priori’ e ‘analitico’ siano equivalenti (e infatti per alcuni filosofi sono
termini intercambiabili). Per Kant non è così. Egli pensava che fosse
possibile una conoscenza che svela verità sul mondo indipendentemente
dall’esperienza. Per descriverla introdusse la categoria speciale della
conoscenza sintetica a priori. Un esempio di conoscenza sintetica a priori,
che usò lo stesso Kant, è l’equazione matematica 7+5=12. Secondo alcuni
filosofi verità come queste sono analitiche, perché sono intrinseche alla
definizione dei simboli matematici. Kant pensava che siamo in grado di
sapere a priori che 7+5=12 (non abbiamo bisogno di mettere alla prova
l’equazione mediante oggetti o con l’osservazione del mondo reale). Nello
stesso tempo, però, essa ci fornisce nuova conoscenza: quindi è anche
sintetica.
Se Kant ha ragione, si tratta di una scoperta fondamentale. Prima di lui, i
filosofi che indagavano la natura della realtà la trattavano semplicemente
come qualcosa che sta ‘oltre’ noi e a partire dalla quale si genera la nostra
esperienza. La difficoltà era come potessimo avere accesso a quella realtà
per poter affermare su di essa qualcosa di significativo che fosse più di una
supposizione. La grande intuizione di Kant fu che noi possiamo, grazie alla
ragione, scoprire le caratteristiche della nostra mente che ‘colorano’ l’intera
nostra esperienza. Sedendo in poltrona e pensando intensamente, possiamo
sapere cose della realtà che devono essere per forza vere, ma non vere solo
per definizione: potrebbero contenere delle nuove conoscenze. Kant
pensava che, con la logica, aveva trovato l’equivalente della prova che il
mondo doveva necessariamente apparire rosa ai nostri occhi. Non solo
aveva dimostrato che indossiamo occhiali rosa, ma aveva fatto nuove
scoperte sulle diverse gradazioni di rosa che quegli occhiali aggiungono a
qualsiasi esperienza.
Dopo aver risposto in un modo che ritenne soddisfacente alla domanda sul
nostro rapporto con la realtà, Kant rivolse la propria attenzione alla filosofia
morale.
CAPITOLO 20
Qualcuno bussa alla porta. Aprite. Di fronte a voi c’è un uomo che ha
inequivocabilmente bisogno di aiuto, perché è ferito e sta perdendo sangue.
Lo fate entrare e gli prestate soccorso, dicendogli di accomodarsi mentre
chiamate un’ambulanza. Questa è senza dubbio la cosa giusta da fare. Ma
se aiutate l’uomo solo perché provate pena per lui, secondo Immanuel Kant
la vostra non è un’azione morale . Il vostro coinvolgimento emotivo non
conta per fare della vostra azione un’azione moralmente rilevante; dipende
dalla vostra sensibilità, quindi non ha niente a che fare con il giusto e
l’ingiusto. Per Kant la moralità non ha a che fare solo con cosa si fa, ma col
perché lo si fa. Coloro che fanno la cosa giusta non la fanno solo perché
mossi dai propri sentimenti: la loro decisione deve essere basata sulla
ragione, quella ragione che ci dice cos’è nostro dovere fare e non fare,
indipendentemente da cosa proviamo.
Kant pensava che in materia di etica le emozioni dovessero essere lasciate
da parte. Provarle o non provarle è in larga misura una questione casuale;
certe persone provano compassione ed empatia, certe altre no. Certe sono
meschine e difficilmente provano il sentimento della generosità; altre
invece ricavano grande piacere dal donare denaro e beni per aiutare il
prossimo. Il fare del bene, però, dovrebbe essere frutto della scelta
compiuta da chiunque sia dotato di ragione. Per Kant, se aiutate il giovane
perché ritenete che sia vostro dovere, allora la vostra è un’azione morale; è
la cosa giusta da fare perché è ciò che chiunque dovrebbe fare se si trovasse
in quella situazione.
Forse questo ragionamento vi parrà strano. Probabilmente ritenete che uno
che prova compassione per l’uomo ferito e quindi lo aiuta abbia agito
moralmente; anzi, magari è una persona migliore proprio per il fatto di aver
provato quel tipo di sentimento. Anche Aristotele (vedi il capitolo 2) la
pensava così. Kant assolutamente no. Se uno fa qualcosa mosso solo dai
propri sentimenti, non compie un’azione buona. Immaginate ora uno che
prova disgusto guardando quell’uomo sanguinante, ma lo aiuta ugualmente
perché è suo dovere. Agli occhi di Kant, questa persona è ovviamente più
morale di chi lo farebbe mosso dalla compassione, poiché pur provando
disgusto agisce obbedendo al senso del dovere, mentre le sue emozioni lo
spingerebbero nella direzione esattamente opposta, cioè a rifiutarsi di
porgere aiuto al bisognoso.
Pensate alla parabola del buon samaritano, che aiuta un uomo bisognoso
trovato a lato della strada. Tutti gli altri passano oltre. Cosa rende buono il
buon samaritano? Secondo Kant, se avesse prestato soccorso al bisognoso
pensando che farlo lo avrebbe aiutato ad andare in paradiso, la sua non
sarebbe stata un’azione buona, perché equivaleva a trattare l’uomo alla
stregua di un mezzo per ottenere qualcosa. Anche se lo avesse aiutato solo
per compassione, come abbiamo visto, non si sarebbe trattato di un’azione
buona. Ma se l’ha aiutato perché si è reso conto che era suo dovere e che
era quella la cosa che chiunque avrebbe dovuto fare in quella situazione,
allora Kant avrebbe detto che il buon samaritano era buono.
La posizione di Kant riguardo le intenzioni risulta più facile da accettare
di quella riguardante le emozioni. La maggior parte di noi giudica gli altri
più per ciò che cercano di fare che per ciò che fanno effettivamente. Pensate
a come vi sentireste se veniste accidentalmente investiti da un genitore
mentre cerca di fermare il suo bambino che sta correndo per strada.
Paragonatelo a come vi sentireste se qualcun altro vi avesse deliberatamente
investito, per divertimento. Il genitore non aveva intenzione di farvi del
male; il teppista sì. Ma, come dimostra il prossimo esempio, le buone
intenzioni non sono sufficienti per rendere moralmente buona un’azione.
Suonano alla porta. Aprite. La vostra migliore amica, pallida, preoccupata
e ansimante, vi dice che qualcuno la sta inseguendo, qualcuno che vuole
ucciderla e che ha un coltello. La fate entrare e lei corre a nascondersi.
Passano pochi istanti e qualcun altro bussa alla porta: questa volta è il
sospetto assassino, con uno sguardo da pazzo negli occhi; chiede se la
vostra amica si trova lì, se si è nascosta in un armadio. Dov’è? Voi lo
sapete, è nascosta lì da voi, ma rispondete con una bugia: «È andata verso il
parco». Non c’è dubbio che abbiate fatto la cosa giusta suggerendo al
sospetto assassino di andarla a cercare dalla parte sbagliata. Probabilmente
le avete salvato la vita. Avete compiuto un’azione moralmente giusta.
Kant non è d’accordo. Secondo lui non avreste dovuto mentire; non
bisognerebbe farlo mai, neppure per proteggere un’amica da un sospetto
assassino. Si tratta comunque di un’azione moralmente sbagliata. Non ci
sono eccezioni, né scuse, e questo perché non possiamo permetterci che il
fatto di mentire tutte le volte che ci fa comodo divenga un principio
generale. In questo caso se aveste mentito e, a vostra insaputa, la vostra
amica fosse andata davvero verso il parco, avreste finito per aiutare il suo
assassino. In una certa misura, la sua morte sarebbe stata colpa vostra.
Questo esempio, che lo stesso Kant usò, mostra quanto estrema fosse la
sua posizione. Non ammetteva eccezioni al dire la verità o all’adempimento
del dovere morale. Tutti abbiamo il dovere assoluto di dire la verità o, come
lo chiamava Kant, un imperativo categorico a farlo. Un imperativo è un
ordine. Gli imperativi categorici sono diversi dagli imperativi ipotetici;
questi ultimi recitano: «Se vuoi x, allora fa’ y». «Se vuoi evitare la prigione,
non rubare» è un esempio di imperativo ipotetico. Gli imperativi categorici
sono differenti: impartiscono degli ordini. In questo caso l’imperativo
categorico sarebbe «Non rubare!», un ordine che ci dice qual è il nostro
dovere. Secondo Kant la morale era un sistema di imperativi categorici. Il
dovere morale è dovere morale indipendentemente dalle conseguenze e
dalle circostanze .
Kant pensava che ciò che ci rende umani, diversi da tutti gli altri animali,
sia esattamente la capacità di compiere razionalmente le nostre scelte. Se
non fossimo in grado di agire di proposito saremmo come macchine. Quasi
sempre chiedere a un essere umano «Perché lo fai?» è una domanda
sensata. Noi non agiamo solo spinti dall’istinto, ma sulla base della ragione.
Per Kant questo si traduce in una serie di ‘massime’ a cui ispirarsi. La
massima è proprio il principio che sta alla base dell’azione, la risposta alla
domanda «Perché lo fai?» Kant pensa che ciò che importa davvero sia la
massima alla base dell’azione, e sostiene che si dovrebbe agire solo sulla
base di massime universalizzabili, cioè applicabili a chiunque. Questo
significa che dovremmo compiere unicamente azioni che hanno senso per
chiunque si trovi nella medesima situazione. La domanda da farsi sempre è:
«Se facessero tutti così?» Non dobbiamo mai considerarci un caso a parte.
Per Kant ciò significa in pratica che il prossimo non deve essere usato ma
trattato con rispetto, riconoscendone l’autonomia, la capacità individuale a
prendere decisioni per proprio conto. Questo profondo rispetto nei confronti
della dignità e del valore degli individui è la base della moderna dottrina dei
diritti umani, ed è il grande contributo di Kant alla filosofia morale.
Possiamo comprenderlo più facilmente aiutandoci con un esempio.
Immaginate di essere i proprietari di un negozio che vende frutta. Quando i
clienti acquistano la frutta, siete sempre gentili e date sempre il resto esatto.
Magari agite così perché ritenete che sia utile per gli affari e che la gente
continuerà a venire volentieri a comprare da voi. Se è questa l’unica
ragione, il vostro è un modo per usare la gente ai vostri scopi. Non si può
sostenere razionalmente che tutti trattino gli altri come fate voi, quindi,
nella prospettiva proposta da Kant, il vostro non è un comportamento
morale. Se invece date il resto esatto perché ritenete che sia vostro dovere
non raggirare il prossimo, allora il vostro è un agire morale, perché si basa
sulla massima «Non raggirare il prossimo!», massima che secondo Kant
può essere applicata in qualsiasi caso. Ingannare il prossimo è un modo per
usarlo per i propri scopi; quindi non può essere un principio morale. Se tutti
ingannassero tutti, non potrebbe esistere alcuna forma di fiducia reciproca e
nessuno crederebbe più a nessuno.
Prendiamo un altro esempio. Immaginiamo di essere completamente in
rovina. Le banche non ci fanno prestiti, non abbiamo niente da vendere, e se
non paghiamo l’affitto di casa finiremo in mezzo alla strada. Non rimane
che una soluzione: andare da un amico e chiedergli che ci presti del denaro.
Gli promettiamo di restituirglielo, anche se sappiamo che non saremo in
grado di farlo. È la nostra unica risorsa; non abbiamo alternative, se
vogliamo pagare l’affitto. Si tratta di un comportamento accettabile? Kant
sostiene che chiedere in prestito del denaro a un amico sapendo che non lo
si restituirà è per forza immorale, e ce ne dà la dimostrazione razionale.
Sarebbe assurdo che tutti prendessero in prestito del denaro e promettessero
di restituirlo pur sapendo che non saranno in grado di farlo. Neppure questa
è una massima universalizzabile. Chiediamoci: «Se tutti facessero così?» Se
tutti facessero false promesse, qualsiasi promessa perderebbe valore. Se
un’azione non è giusta per tutti, non può essere giusta per voi. Quindi non
dovete compierla, perché sarebbe moralmente sbagliato.
Questo modo di pensare alla giustizia e all’ingiustizia, basato sul freddo
ragionamento invece che sui sentimenti, è molto diverso da quello di
Aristotele (vedi il capitolo 2). Per Aristotele la persona virtuosa ha sempre
un sentimento appropriato, e a partire da questo fa ciò che ritiene la cosa
giusta. Per Kant i sentimenti confondono, rendendo più difficile capire se
una persona stia compiendo l’azione giusta o se lo stia facendo solo
apparentemente. Oppure, se vogliamo vedere la cosa in un senso più
positivo: Kant rende la moralità accessibile a qualsiasi persona dotata di
intelletto, indipendentemente dal fatto che questa persona abbia o meno la
fortuna di provare un sentimento che la spinga ad agire bene.
La filosofia morale di Kant è profondamente diversa da quella di Jeremy
Bentham, che vedremo nel prossimo capitolo. Se Kant sosteneva che certe
azioni sono sbagliate indipendentemente dalle loro conseguenze, Bentham
pensava che fossero le conseguenze a contare, e solo quelle.
CAPITOLO 21
Praticamente felici
JEREMY BENTHAM
La nottola di Minerva
GEORG W. F. HEGEL
«La nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo». Così
pensava Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831). Ma cosa significa
questa frase? In verità, la domanda «cosa significa?» sorge spesso in chi
legge le opere di Hegel. I suoi scritti risultano diabolicamente difficili,
anche perché, come nel caso di Kant, usano un linguaggio molto astratto e
spesso impiegano termini inventati dall’autore stesso. Nessuno può dire di
averli compresi totalmente, forse neppure lui. La frase della nottola è una
delle più semplici da decifrare: con queste parole Hegel intende dire che
nella storia dell’umanità la piena comprensione delle cose giunge solo in
uno stadio avanzato, quando si volge lo sguardo all’indietro su ciò che è
accaduto, come fa chi, quando scende la sera, ripensa agli eventi della
giornata.
Minerva era la dea romana della sapienza, e veniva associata alla saggia
nottola – una specie di civetta. Se Hegel fosse un gran saggio oppure un
matto è ancora materia di discussione, ma di certo fu un pensatore
determinante: la sua idea della storia ispirò Karl Marx (vedi il capitolo 27) e
ciò si rivelò determinante, vista la spinta rivoluzionaria esercitata dalle idee
di Marx nel Ventesimo secolo. Hegel suscitò però anche irritazione in certi
ambienti filosofici. Alcuni pensatori citano la sua opera come esempio del
rischio che si corre usando impropriamente certi termini. Bertrand Russell
(vedi il capitolo 31) lo trattò persino con disprezzo, e A. J. Ayer (vedi il
capitolo 32) ebbe a dichiarare che gran parte delle affermazioni di Hegel
non avevano alcun nesso con la realtà. Per Ayer, gli scritti di Hegel non
davano informazioni più di quante ne diano le filastrocche per bambini,
oltre a essere molto meno divertenti. Altri invece, tra cui Peter Singer (vedi
il capitolo 40), riconoscono al suo pensiero una grande profondità, e
sostengono che i suoi scritti risultano difficili da comprendere perché si
cimentano con idee originali e ardue da afferrare.
Hegel nacque a Stoccarda, nell’attuale Germania, nel 1770 e crebbe nel
periodo della Rivoluzione francese, quando la monarchia venne rovesciata e
rimpiazzata dalla repubblica. Egli definì quegli eventi ‘una splendida
aurora’ e con i suoi compagni dell’università di Tubinga piantò un albero
per commemorarli. Quel periodo di instabilità politica e di profonde
trasformazioni lo influenzò per il resto della sua vita; nell’aria era palpabile
la sensazione che quelli che fino a quel momento erano stati considerati
come pilastri insostituibili dell’ordine sociale e politico potessero essere
rovesciati, e che quanto era stato considerato immutabile non lo fosse
affatto. Ne conseguiva, tra le altre cose, un modo diverso di guardare
proprio alle idee: esse ora apparivano inseparabili dal loro tempo, non
pienamente comprensibili se estrapolate dal loro contesto storico. Hegel
pensava che proprio in quegli stessi anni che egli stava vivendo la storia
avesse raggiunto uno stadio cruciale. Per quanto riguarda la sua storia
personale fu effettivamente così, perché lui passò dall’oscurità alla fama;
iniziò a lavorare come insegnante privato presso una famiglia facoltosa, poi
passò a dirigere una scuola, e infine venne nominato professore
all’università di Berlino. Alcuni dei suoi libri nacquero dagli appunti delle
sue lezioni, redatti per aiutare gli studenti a comprendere la sua filosofia.
Quando passò a miglior vita era il filosofo più famoso e ammirato del suo
tempo: un fatto sorprendente, se si pensa alla difficoltà dei suoi scritti. Un
gruppo di studenti entusiasti si dedicarono anima e corpo a interpretare e
discutere il suo pensiero e a farne emergere le implicazioni politiche e
metafisiche.
Pur profondamente influenzato dalla metafisica di Kant (vedi il capitolo
19), Hegel finì però per rigettare l’idea kantiana dell’esistenza di una realtà
noumenica al di là del mondo dei fenomeni. Non esistono, secondo lui, dei
noumena oltre la percezione che è all’origine della nostra esperienza: la
mente stessa che dà forma alla realtà è la realtà, e non vi è nulla al di là di
essa. Questo, però, non significa che la realtà sia qualcosa di fissato una
volta per tutte; per Hegel, tutto è in perpetuo mutamento, e questo
mutamento prende la forma di un graduale incremento dell’autocoscienza;
la nostra, in particolare, viene determinata dal tempo in cui viviamo.
Si pensi alla storia come a una lunga striscia di carta arrotolata su se
stessa. Non potremo mai comprenderla pienamente finché non si sarà
srotolata completamente, né potremo mai sapere cosa c’è scritto sull’ultima
pagina finché non ce l’avremo davanti. Il suo svolgimento obbedisce a una
struttura sottostante: secondo Hegel la realtà è in costante movimento verso
la sua meta, che è l’autocoscienza.
La storia, quindi, non ha nulla di casuale; si muove in una direzione
precisa. Quando la ripercorriamo ci rendiamo conto che doveva andare così.
A un primo sguardo, quest’idea appare strana; è probabile che la maggior
parte delle persone non la condivida. Per la maggior parte di noi la storia è
più vicina alla descrizione che ne fece Henry Ford: «Nient’altro che una
maledetta cosa dopo l’altra», una serie di eventi che si succedono senza
alcun disegno complessivo. Possiamo studiarla, rinvenire le probabili cause
di un avvenimento e fare previsioni su quanto potrebbe accadere in futuro;
ma ciò non ha nulla da spartire con il disegno ineluttabile a cui pensava
Hegel: non significa che la storia vada in una direzione, e tantomeno che il
suo sia un percorso verso l’autocoscienza.
Lo studio hegeliano della storia non era un ambito separato dalla sua
filosofia, ma parte integrante di essa, anzi: la parte principale. Storia e
filosofia, nella sua concezione, erano strettamente intrecciate, e tutto
procedeva in direzione del meglio. Non si trattava certo di un’idea
originale; le religioni, tipicamente, spiegano che la storia tende verso un
punto finale, come il secondo avvento di Cristo. Hegel era cristiano, ma in
questo il suo punto di vista era tutt’altro che ortodosso. A suo parere, il
risultato finale della storia non era affatto il secondo avvento; la storia
aveva un obiettivo finale che fino a quel momento nessuno aveva
considerato nel suo valore: il progressivo e inevitabile raggiungimento
dell’autocoscienza dello spirito attraverso il cammino della ragione.
Ma cos’è lo spirito? E cosa significa che diventa autocosciente? Il termine
tedesco per ‘spirito’ è Geist. Gli studiosi sono in disaccordo sul suo
significato nel contesto del pensiero hegeliano; alcuni preferiscono tradurlo
con ‘mente’. Hegel sembra indicare, con quel termine, qualcosa come la
mente dell’intera umanità. Hegel era idealista; pensava che questo spirito o
mente fosse a fondamento delle cose, e trovasse espressione nel mondo
fisico (all’opposto dei materialisti, per i quali la realtà fisica è alla base di
tutto). Hegel vede la storia del mondo come una progressiva affermazione
della libertà. Dalla libertà individuale, attraverso la libertà di alcuni ma non
di altri, stiamo andando verso un mondo in cui tutti sono liberi all’interno di
uno stato che permette a ciascuno di dare il proprio contributo alla
collettività.
Hegel descrive il progresso del pensiero come un processo che deve
necessariamente passare attraverso il conflitto tra un’idea e il suo opposto.
L’avvicinamento alla verità segue il metodo dialettico. Un’idea – una tesi –
viene enunciata. A questa tesi si contrappone il suo opposto – l’antitesi.
Dallo scontro fra queste due posizioni ne emerge una terza, più complessa,
che tiene conto di entrambe: la sintesi. A sua volta questa, di regola, dà
inizio a un nuovo processo dello stesso tipo: la nuova sintesi diventa una
tesi, alla quale si contrappone un’antitesi. E avanti così, fino alla compiuta
autocoscienza dello spirito.
La spinta propulsiva che muove la storia è la comprensione, da parte dello
spirito, della propria libertà. Hegel ricostruisce questo percorso a partire da
coloro che vivevano sottoposti ai regimi tirannici dell’antica Cina e
dell’India, che non sapevano di essere liberi. Presso quei popoli orientali
solo colui che deteneva il potere supremo poteva dirsi libero. Gli antichi
Persiani erano leggermente più sofisticati nel modo di intendere la libertà,
ma vennero sconfitti dai Greci, e questo fu un progresso. I Greci e, più
tardi, i Romani erano più consapevoli della libertà rispetto ai loro
predecessori, ma tenevano i loro simili in schiavitù: segno che non
riconoscevano l’idea che l’intera umanità dovesse essere libera, non solo i
ricchi e i potenti. In un famoso passaggio della sua Fenomenologia dello
Spirito (1807), Hegel riflette sulla dialettica fra padrone e servo. Il padrone
vuole essere riconosciuto come soggetto dotato di coscienza di sé, e per
ottenere ciò ha bisogno dello schiavo; però non riconosce che anche lo
schiavo merita lo stesso riconoscimento. Questa relazione impari conduce a
una lotta in cui uno dei due soccombe, fatto in seguito al quale, però, il
vincitore si auto-sconfigge. Alla fine, servo e padrone riconoscono la
necessità l’uno dell’altro e di rispettare l’altrui libertà.
Hegel sostiene che solo con il Cristianesimo, che dà il via a una
consapevolezza del valore dello spirito, è possibile la vera libertà. Con
l’avvento del Cristianesimo la storia realizza il proprio obiettivo. Lo spirito
diviene consapevole della propria libertà e la società che ne risulta è
ordinata secondo i princìpi della ragione. Per Hegel, questo era un
presupposto molto importante: la vera libertà è possibile solo in una società
ben organizzata. Ciò che desta inquietudine in molti interpreti del pensiero
hegeliano è che, nella società ideale da lui immaginata, coloro che non si
adattano all’ideale sociale dei suoi potenti organizzatori verranno, proprio
in nome della libertà, obbligati ad accettare quel sistema ‘razionale’; per
dirla con l’espressione paradossale usata da Rousseau, verranno «obbligati
a essere liberi» (vedi il capitolo 18).
Il risultato finale di tutta la storia si rivelò essere il raggiungimento da
parte di Hegel stesso della consapevolezza della struttura della realtà.
Pensava di averlo raggiunto nelle pagine finali di uno dei suoi libri, nel
punto in cui lo spirito comprende se stesso per la prima volta. Come Platone
(vedi il capitolo 1), Hegel attribuiva ai filosofi un ruolo privilegiato. Platone
riteneva che i filosofi dovessero governare la sua repubblica ideale; Hegel
pensava che solo loro fossero in grado di raggiungere un tipo particolare di
autocoscienza che è al tempo stesso consapevolezza della realtà e della
storia, un altro modo di mettere in atto la frase scolpita sul tempio di Apollo
a Delfi: «Conosci te stesso». I filosofi, a suo parere, sono in grado di
cogliere lo scopo finale che dà forma agli eventi, poiché sanno riconoscere
il funzionamento della dialettica che conduce all’autocoscienza. Tutto,
allora, diventa chiaro ai loro occhi, e il senso dell’intera storia umana è
palese. Lo spirito inaugura una nuova fase di autocoscienza. O, almeno,
così è in teoria.
Hegel ebbe molti ammiratori; Arthur Schopenhauer non era uno di loro.
Anzi, pensava che Hegel non fosse neppure un filosofo, perché gli
mancavano, secondo lui, serietà e sincerità nell’approccio alla materia. Per
quanto lo riguardava, la filosofia di Hegel era una stupidaggine. Hegel, per
parte sua, definì Schopenhauer «ripugnante e ignorante».
CAPITOLO 23
Scorci di realtà
ARTHUR SCHOPENHAUER
La vita è sofferenza; sarebbe meglio non essere nati. Sono pochi a vedere le
cose in modo tanto pessimistico, ma Arthur Schopenhauer (1788-1860) la
pensava davvero così. Secondo lui, siamo tutti prigionieri di un circolo
vizioso fatto di volere cose, ottenerle, e poi volerne delle altre. Un circolo
che si ferma solo con la nostra morte. Ogni volta che ci sembra di aver
ottenuto ciò che volevamo, iniziamo a volere qualcos’altro. Pensate che vi
basterebbe essere milionari per sentirvi appagati? Non durerebbe a lungo. A
un certo punto iniziereste a volere qualcosa che non avete. È insito nella
natura umana: provare insoddisfazione e non smettere mai di desiderare
dell’altro. Deprimente, non c’è dubbio.
Ma la filosofia di Schopenhauer non è cupa come sembra. Egli pensava
che se solo potessimo riconoscere la vera natura della realtà ci
comporteremmo molto diversamente, ed eviteremmo di incorrere negli
aspetti più tristi della condizione umana. Il suo messaggio era molto simile
a quello buddhista: secondo Buddha la sofferenza è insita nella vita stessa,
ma a un livello più profondo non c’è qualcosa come l’‘Io’: se riusciamo ad
accettarlo possiamo raggiungere l’illuminazione. Questa similitudine non è
un caso: a differenza di molti filosofi occidentali, Schopenhauer aveva una
profonda conoscenza della filosofia orientale. Teneva persino una statua di
Buddha sulla scrivania, accanto a quella di un altro dei suoi ispiratori:
Immanuel Kant.
A differenza di Buddha e di Kant, Schopenhauer era un uomo triste,
complicato e vanitoso. Era talmente convinto del proprio genio che,
ottenuto un incarico di docente a Berlino, insistette perché le sue lezioni si
tenessero negli stessi orari di quelle di Hegel. Non fu un’idea brillante,
perché Hegel era molto popolare presso gli studenti. Alle lezioni di
Schopenhauer non andava praticamente nessuno, mentre quelle di Hegel
erano strapiene. Andò a finire che Schopenhauer lasciò l’università e per il
resto della vita si mantenne grazie a una rendita.
La sua opera più importante, Il mondo come volontà e rappresentazione ,
venne pubblicata per la prima volta nel 1819, ma lui continuò a
rimaneggiarla, mandandone alle stampe una versione molto più corposa nel
1844. L’idea centrale è semplice. La realtà si presenta sotto due aspetti:
come volontà e come rappresentazione. La prima è la cieca forza motrice
insita in qualsiasi essere o cosa: è l’energia che fa crescere le piante e
moltiplicare gli animali, ma anche quella che orienta i magneti verso il
Nord e i minerali a legarsi nei composti chimici; è presente in ogni aspetto
della natura. L’altro aspetto, il mondo come rappresentazione , è il mondo
come noi ne facciamo esperienza.
Il mondo come rappresentazione è la realtà per come è costruita nella
nostra mente, ciò che Kant chiamava mondo fenomenico . Guardatevi
attorno: forse dalla finestra vedete degli alberi, delle persone o delle
automobili, e davanti a voi vedete questo libro; forse potete sentire gli
uccelli cantare, o il rumore del traffico, o quello proveniente dalla stanza
vicina. Ciò che state percependo è il mondo come rappresentazione. È la
maniera che avete di dare un senso a tutto, e che ha come condizione
necessaria la vostra coscienza. La vostra mente organizza le esperienze in
modo sensato. Questo mondo come rappresentazione è quello in cui
viviamo; ma Schopenhauer, come Kant, ritiene che oltre i confini della
nostra esperienza, oltre il mondo delle apparenze, vi sia un’altra realtà. Kant
la chiamava mondo noumenico, e pensava che non potessimo avervi
accesso; per Schopenhauer, il mondo come volontà era un po’ come il
mondo noumenico, anche se con le debite differenze.
Kant parlava di noumena , plurale di noumenon . Pensava che le realtà
potessero essere più di una. C’e da chiedersi come potesse saperlo, visto
che aveva dichiarato che il mondo noumenico ci è inaccessibile.
Differentemente da lui, Schopenhauer riteneva che la realtà noumenica non
potesse essere divisibile, perché la divisibilità richiede spazio e tempo; e
questi, secondo Kant, sono prodotti della mente umana, non realtà dotate di
esistenza autonoma. Il mondo come volontà era invece, nella descrizione di
Schopenhauer, un’unica, indistinta forza priva di direzione e presente in
qualsiasi cosa. Del mondo come volontà possiamo cogliere solo degli scorci
nelle nostre azioni e nella nostra fruizione dell’arte.
Fermatevi un momento e mettetevi una mano sulla testa. Cosa è successo?
Se qualcuno vi vedesse, noterebbe la mano alzarsi e andare a posarsi sul
vostro cranio. La stessa cosa la vedreste anche voi se foste davanti a uno
specchio. Questa è una descrizione del mondo fenomenico, il mondo come
rappresentazione. Ma la vostra azione di muovere la mano ha, secondo
Schopenhauer, anche un aspetto intrinseco, che potremmo cogliere in modo
diverso rispetto all’esperienza del mondo fenomenico. Non possiamo
percepire direttamente il mondo come volontà, però possiamo arrivarci
molto vicino quando compiamo deliberatamente delle azioni, quando
vogliamo che abbia luogo una determinata azione. Per questo egli sceglie il
termine ‘volontà’ per descrivere la realtà, anche se è solo nella condizione
umana che questa energia ha una qualche forma di connessione con
un’azione compiuta deliberatamente – non è in seguito a una decisione che
le piante crescono e le reazioni chimiche accadono. Notate come l’uso della
parola ‘volontà’ sia diverso da quello ordinario.
Quando qualcuno ‘vuole’ qualcosa, ha in mente uno scopo: sta cercando
di fare qualcosa. Ma non è questo ciò che Schopenhauer intende quando
descrive la realtà al livello del mondo come volontà. Questa Volontà
(potremmo scriverla con la V maiuscola) non ha scopo, o, come a volte
scrive Schopenhauer, è ‘cieca’. Non ha nulla a che vedere con il
raggiungimento di un risultato, un fine o una meta; è solo una sorta di
grande ondata di energia, presente in qualsiasi fenomeno naturale come nel
nostro deliberato volere qualcosa. Per Schopenhauer non c’è un dio che
imprima una direzione alle cose, né la Volontà è Dio. La condizione umana
è così: anche noi, come qualsiasi altra cosa esistente, siamo parte di questa
forza priva di senso.
Ci sono però delle esperienze che rendono la vita degna di essere vissuta,
e perlopiù sono quelle che hanno a vedere con l’arte. L’arte è capace di
bloccare, fermare per qualche istante il circolo vizioso di lotta e desiderio, e
a questo scopo la forma di arte più efficace è la musica perché, sostiene
Schopenhauer, essa è un’imitazione della Volontà. Per questo è in grado di
toccarci tanto profondamente. Se si ascolta con la giusta disposizione di
spirito una sinfonia di Beethoven, non se ne ricava semplicemente uno
stimolo emotivo, ma anche uno scorcio della realtà per come essa è
veramente.
Nessun altro filosofo ha attribuito all’arte un ruolo tanto centrale: non
dobbiamo quindi sorprenderci che Schopenhauer riscuota tanto successo
presso le persone creative di qualsivoglia disciplina. Compositori e
musicisti lo adorano perché riteneva la musica la più importante fra tutte le
forme d’arte. Le sue idee hanno esercitato grande influenza anche su
scrittori quali Lev Tolstoj, Marcel Proust, Thomas Mann e Thomas Hardy.
Dylan Thomas ha addirittura scritto una poesia ispirata alla descrizione
schopenhaueriana del mondo come volontà: si intitola The force that
through the green fuse drives the flower , ‘La forza che attraverso il verde
stelo sospinge il fiore’.
Ma Schopenhauer non si è limitato a descrivere la realtà e il nostro
rapporto con essa: aveva anche idee precise su come dovremmo condurre le
nostre vite. Se accettiamo l’idea di fare tutti parte di un’unica forza
propulsiva, e che le persone intese come individui esistano solo al livello
del mondo come rappresentazione, dovremmo comportarci diversamente.
Per Schopenhauer, fare del male a un altro individuo è una sorta di auto-
ferita, e questa constatazione è alla base di tutta la sua visione dell’etica. Se
ti uccido, distruggo una parte della forza vitale che ci unisce tutti. Fare del
male a un’altra persona è come un serpente che si morde la coda senza
sapere che sta affondando i denti nella sua stessa carne. L’etica promossa da
Schopenhauer è quindi quella della compassione; se intesa correttamente,
significa che gli altri non sono entità estranee a noi, e che se abbiamo cura
di loro è perché essi sono parte del tutto di cui tutti siamo parte: del mondo
come volontà.
Questa era la posizione etica ufficialmente promossa da Schopenhauer.
Resta il dubbio se egli stesso l’abbia mai applicata alla propria condotta. Un
giorno, infastidito da una signora anziana che stava chiacchierando davanti
alla porta di casa sua, la spinse giù dalle scale. La donna rimase invalida e
Schopenhauer venne condannato dal tribunale a pagarle un risarcimento per
il resto dei suoi giorni. Quando la donna morì, lui non mostrò nessuna
compassione, anzi: annotò in latino sul certificato di morte il gioco di parole
«obit anus, abit onus », che potremmo tradurre con «Morta la vecchia,
scaricato di un peso».
Ma c’è un altro modo, più estremo, per averla vinta sul circolo vizioso del
desiderio. Per evitare di rimanervi invischiati, basta ritirarsi dal mondo e
diventare degli asceti, vivendo in povertà e in castità: ecco l’atteggiamento
ideale per affrontare l’esistenza. Molte religioni orientali indicano questa
via. Per parte sua, Schopenhauer non divenne mai un asceta, anche se in
tarda età rinunciò a una vita sociale. Fino a quel momento aveva tratto
piacere dalla compagnia, intrecciato storie d’amore e goduto dei piaceri
della tavola. Verrebbe da tacciarlo di ipocrisia; in effetti, il pessimismo che
percorre tutte le sue opere è talmente profondo che, secondo alcuni, se
Schopenhauer vi avesse creduto davvero, avrebbe dovuto suicidarsi.
Il grande filosofo vittoriano John Stuart Mill, invece, era un grande
ottimista. Sostenne che il rigore nel pensiero e nella discussione potesse
agire positivamente sulla società e rendere migliore il mondo, un mondo in
cui sempre più persone avrebbero potuto vivere felici e appagate.
CAPITOLO 24
Il progetto ottuso
CHARLES DARWIN
E allora?
C.S. PEIRCE E WILLIAM JAMES
La morte di Dio
FRIEDRICH NIETZSCHE
«Dio è morto». Sono queste le parole più famose scritte dal filosofo tedesco
Friedrich Nietzsche (1844-1900). Ma come può essere morto Dio? Per sua
stessa natura Dio è immortale, e gli esseri immortali non muoiono, vivono
in eterno. In un certo senso, però, è proprio qui il problema. La morte di Dio
suona strana proprio per questo. Nietzsche gioca proprio sull’idea che Dio
non può morire. Egli non sosteneva veramente che Dio fino a un certo
punto fosse vissuto e che poi avesse smesso di vivere; Nietzsche intendeva
dire che non era più ragionevole credere in Dio in quel modo. Nel suo La
gaia scienza (1882), egli fa pronunciare la frase «Dio è morto» a un
personaggio che si aggira cercando Dio, reggendo una lanterna, ma non
riesce a trovarlo. Gli abitanti lo credono pazzo.
Nietzsche era un personaggio fuori del comune. Nominato professore
all’università di Basilea ad appena 24 anni, pareva avviato a una
promettente carriera accademica. Ma questo pensatore eccentrico e
originale non sembrava tagliato per quel tipo di normalità, e anzi pareva
provare piacere a rendersi la vita difficile. Nel 1879 lasciò l’università,
anche per motivi di salute, e viaggiò in Italia, Francia e Svizzera, scrivendo
libri che a quei tempi vennero letti da un’esigua minoranza ma che sono
divenuti famosi per il loro valore sia filosofico, sia letterario. La sua salute
psichica andò sempre peggiorando, ed egli trascorse buona parte degli
ultimi anni di vita in manicomio.
In totale contrasto con l’ordinata esposizione di Kant, quella di Nietzsche
procedeva da prospettive diverse. Numerosi suoi scritti si presentano sotto
forma di paragrafi brevi e frammentari e di stringate considerazioni
composte da una sola frase, ora ironiche, ora schiette, spesso arroganti e
provocatorie. Talvolta è come se Nietzsche ci gridasse in faccia ciò che
pensa, talaltra è come se ce lo sussurrasse all’orecchio. Spesso cerca la
complicità del lettore, come se gli stesse dicendo: «Tu e io sappiamo come
stanno le cose, mentre tutti quegli altri stupidi là fuori sono intrappolati
nelle loro illusioni». Un tema che tocca in modo ricorrente è quello della
morale.
Dio è morto; cosa ne consegue? Questo si chiede Nietzsche. E si risponde
che senza Dio siamo rimasti senza i fondamenti della morale. Le nostre idee
di giusto e sbagliato, bene e male hanno senso in un mondo in cui Dio c’è, e
ne sono prive in un mondo rimasto senza. Togli Dio, e toglierai tutti i punti
di riferimento su come si debba vivere e quali siano i valori a cui obbedire.
Si trattava di un messaggio duro, un messaggio che nessuno dei suoi
contemporanei voleva ascoltare. Nietzsche descrisse se stesso come un
‘immoralista’, cioè una persona che non fa deliberatamente il male, ma
crede che si debba andare oltre la morale: per dirla con il titolo di una delle
sue opere, «al di là del bene e del male».
Per Nietzsche la morte di Dio apriva nuove possibilità all’umanità,
possibilità che erano a un tempo terrificanti ed esaltanti. Il rovescio della
medaglia era la mancanza di una rete di salvataggio, di regole che la gente
accettava per capire come comportarsi. Se un tempo la religione aveva
fornito senso e limite dell’azione morale, l’assenza di Dio rendeva tutto
possibile e cancellava ogni limite. Il lato positivo, almeno secondo
Nietzsche, era che le persone finalmente potevano creare da sé i propri
valori; potevano trasformare la propria vita nell’equivalente di un’opera
d’arte, improntandola al proprio stile personale.
Una volta accettata l’idea che Dio non esiste, sostiene Nietzsche, non ci si
può più appoggiare al sistema di valori cristiano: sarebbe una forma di
autoinganno. I valori ereditati dalla cultura cristiana, quelli di compassione,
bontà d’animo e rispetto per gli altri, possono essere messi in discussione. Il
suo modo per farlo fu indagarne le origini.
Secondo Nietzsche, la virtù cristiana della compassione verso i deboli e
gli indifesi aveva un’origine sorprendente. Potremmo pensare che
compassione e bontà d’animo siano valori intrinsecamente buoni;
probabilmente siamo stati cresciuti nell’idea che la bontà d’animo sia
lodevole, e l’egoismo deplorevole. Nietzsche sosteneva che il nostro modo
di pensare e di provare sentimenti ha una storia, e che, una volta venuti a
conoscenza della storia o della ‘genealogia’ delle nostre idee e dei nostri
princìpi, troveremo difficile continuare a considerarli validi in senso
assoluto, come realtà oggettive che ci dettano le regole di condotta.
Nel suo Genealogia della morale descrive la situazione dell’antica Grecia,
in cui i potenti eroi dell’aristocrazia improntavano la propria vita agli ideali
di onore, disonore ed eroismo in battaglia invece che a quelli di gentilezza,
generosità e colpa per aver commesso azioni sbagliate. Era questo il mondo
descritto da Omero nell’Odissea e nell’Iliade . In quel mondo di eroi,
coloro che non avevano potere, gli schiavi e i deboli, provavano invidia nei
riguardi dei potenti. Gli schiavi indirizzavano l’invidia e il risentimento
contro i potenti, e dai loro sentimenti negativi nacque un nuovo sistema di
valori; ribaltando i valori dell’eroismo propri degli aristocratici, al posto di
lodare forza e potenza, come facevano quelli, gli schiavi trasformarono in
virtù la generosità e il prendersi cura dei deboli. Questa morale degli
schiavi, come la chiama Nietzsche, considerava malvagie le gesta dei
potenti, e buone quelle dei propri compagni di sventura.
L’idea che la morale della gentilezza traesse le proprie origini dal
sentimento dell’invidia era decisamente provocatoria. Nietzsche mostrava
di preferire di gran lunga i valori degli aristocratici, l’esaltazione degli eroi
forti e bellicosi, rispetto alla morale cristiana incentrata sulla compassione
per i deboli. Il Cristianesimo e la morale che ne deriva trattano tutti gli
individui come equivalenti; Nietzsche riteneva che questo fosse un grave
errore. I suoi eroi artistici, come Beethoven e Shakespeare, erano di gran
lunga superiori al gregge, e i valori cristiani, nati essenzialmente
dall’invidia, avevano fatto fare un passo indietro all’umanità. Se il prezzo
da pagare in cambio della gloria e del successo dei forti era che i deboli
venissero calpestati, ne valeva la pena.
In Così parlò Zarathustra (1883-1892), Nietzsche introduce la figura del
Superuomo. Si tratta di una figura immaginaria, di là da venire, che non si
lascia imbrigliare dalla morale convenzionale ma va ‘oltre’, creando nuovi
valori. Forse influenzato dalla lettura della teoria dell’evoluzione di Darwin,
Nietzsche vedeva nel Superuomo il gradino successivo dello sviluppo
umano. L’aspetto preoccupante è che sembrava appoggiare coloro che si
ritengono eroi e che vogliono raggiungere i propri scopi senza tenere conto
delle esigenze altrui. Per di più, la parola Superuomo (in tedesco
Übermensch ) venne adottata dal nazismo per corroborare la propria
perversa idea della razza, benché la maggior parte degli studiosi concordi
sul fatto che si trattava di una distorsione di quanto Nietzsche aveva
effettivamente scritto.
Disgraziatamente per Nietzsche, chi esercitò il controllo sui suoi scritti
negli anni della sua infermità mentale e per i trentacinque successivi alla
sua morte fu sua sorella Elisabeth, che era nazionalista nel senso peggiore
del termine e antisemita. Elisabeth usò gli appunti inediti del fratello
scegliendo ciò che le faceva comodo e scartando ciò che poteva suonare
critico nei confronti della Germania o non supportasse le sue idee razziste.
La sua versione ‘taglia e incolla’ del pensiero di Nietzsche, pubblicata con
il titolo La volontà di potenza , fece passare l’opera di Nietzsche per
propaganda nazista, e lui stesso come uno degli autori approvati dal Terzo
Reich. È altamente improbabile che, se fosse vissuto abbastanza a lungo,
Nietzsche si sarebbe anche lontanamente immischiato con esso; è anche
innegabile, però, che nella sua opera si legga più di un’affermazione a
favore del diritto del forte di distruggere il debole. Non c’è da sorprendersi,
sostiene Nietzsche, che gli agnelli temano i rapaci. Ciò non significa che si
debbano odiare i rapaci perché ghermiscono gli agnelli per divorarli.
A differenza di Immanuel Kant, che celebrava la ragione, Nietzsche mise
in rilievo il ruolo fondamentale esercitato nella formazione dei valori dalle
emozioni e dalle forze irrazionali. È molto probabile che ciò abbia
influenzato Sigmund Freud e la sua indagine sulla natura e sul raggio di
azione dei desideri inconsci.
CAPITOLO 30
Pensieri nascosti
SIGMUND FFREUD
Abbasso! Evviva!
ALFRED JULES AYER
Nel 1666 un giovane scienziato era seduto in un giardino, quando vide una
mela cadere da un albero. Lo scienziato si domandò perché le mele cadono
dritte verso terra, invece di cadere di lato o salire verso l’alto. Quello
scienziato era Isaac Newton e l’accaduto gli ispirò la teoria della gravità,
una teoria che spiegava i moti dei corpi celesti come quelli delle mele. Ma
cosa successe dopo? Pensate che Newton raccogliesse le prove che
dimostrassero al di là di ogni dubbio la validità della sua teoria? Non
secondo Karl Popper (1902-1994).
Gli scienziati, come noi del resto, imparano dai propri errori. La scienza
progredisce quando ci rendiamo conto che un certo modo di pensare la
realtà è falso. Si può riassumere così il modo in cui, secondo Popper,
l’umanità fa progressi nella conoscenza della realtà. Prima che egli
formulasse la sua teoria era opinione diffusa che gli scienziati, partendo da
intuizioni, raccogliessero poi le prove per dimostrarne la validità.
Ciò che fanno veramente gli scienziati, secondo Popper, è cercare di
provare che le loro teorie sono false . Sottoporre una teoria a verifica
significa verificare se può essere confutata , cioè se si può dimostrare che è
falsa. Lo scienziato degno di questo nome parte da un’ipotesi, da un’ardita
congettura, che poi prova a demolire mediante esperimenti o osservazioni.
La scienza è un’impresa creativa e avventurosa, ma non dimostra nessuna
verità; ciò che fa è spazzar via le credenze false e, se tutto va bene,
avvicinarsi progressivamente alla verità.
Popper nacque a Vienna nel 1902. Benché la sua famiglia si fosse
convertita al Cristianesimo, era di origine ebraica, e quando Hitler salì al
potere, saggiamente, lasciò il paese, emigrando prima in Nuova Zelanda e
poi in Inghilterra, dove si stabilì e iniziò a insegnare alla London School of
Economics. Da giovane aveva mostrato interesse per diverse discipline:
scienze, psicologia, politica e musica; ma il suo grande amore era la
filosofia. Finì per dare importanti contributi sia alla filosofia della scienza,
sia alla filosofia della politica.
Prima che Popper iniziasse a scrivere a proposito del metodo scientifico,
molti scienziati e filosofi erano convinti che fare scienza significasse
cercare prove che corroborassero le proprie ipotesi. Se volevi provare che
tutti i cigni sono bianchi, avresti dovuto accumulare osservazioni di cigni
bianchi. Se tutti i cigni che avevi visto erano bianchi, allora era ragionevole
dedurre che la tua ipotesi «Tutti i cigni sono bianchi» fosse vera. Questo
tipo di ragionamento parte da «Tutti i cigni che ho visto sono bianchi» per
arrivare alla conclusione che «Tutti i cigni sono bianchi». Però potrebbe
esserci un cigno che tu non hai visto, e che è nero. In Australia, ad esempio,
come in molti zoo nel mondo, ci sono cigni neri. Quindi, l’affermazione
«Tutti i cigni sono bianchi» non deriva logicamente dall’evidenza. Anche se
avete osservato migliaia di cigni, ed erano tutti bianchi, potrebbe comunque
essere falsa. L’unico modo per dimostrare in modo conclusivo che tutti sono
bianchi sarebbe osservarli tutti. Se ne esiste solo uno nero, la vostra
conclusione «Tutti i cigni sono bianchi» verrà falsificata.
Questa è una versione del problema dell’induzione , un problema che
David Hume aveva già descritto nel Diciottesimo secolo. L’induzione è
molto diversa dalla deduzione, ed è all’origine del problema. La deduzione
è l’argomentazione logica nella quale se le premesse (gli assunti di
partenza) sono vere, ne consegue che sono vere anche le conclusioni.
Prendiamo un esempio famoso: «Tutti gli uomini sono mortali» e «Socrate
è un uomo» sono due premesse cui segue la logica conclusione «Socrate è
mortale». Se, una volta accettato che «Tutti gli uomini sono mortali» e che
«Socrate è un uomo», negassimo la verità di «Socrate è mortale»,
cadremmo in contraddizione; sarebbe come dire che «Socrate è e non è
mortale». Possiamo anche dire che nel ragionamento deduttivo la verità
della conclusione è in un certo senso contenuta nelle sue premesse, e la
logica non fa che renderla esplicita. Ecco un altro esempio di deduzione:
Premessa uno: Tutti i pesci hanno le branchie.
Premessa due: John è un pesce.
Conclusione: John ha le branchie.
Sarebbe assurdo dire che la premessa uno e la premessa due sono vere e la
conclusione è falsa. Sarebbe completamente illogico.
L’induzione è molto diversa. In genere inizia con un certo numero di
osservazioni particolari e giunge a una conclusione generale. Se avete
notato che per quattro martedì consecutivi ha sempre piovuto, potreste
trarne la conclusione generale che di martedì piove sempre. Questo è un
ragionamento induttivo. Basta un solo martedì senza pioggia per smentire
l’affermazione che di martedì piove sempre. Quattro martedì consecutivi
sono un campione decisamente piccolo per tutti i possibili martedì. Ma
anche se siamo in grado di fare numerose osservazioni, come con i cigni
bianchi, potremmo essere sempre smentiti dall’esistenza di un solo caso che
non si accorda con la nostra generalizzazione: un martedì senza pioggia o
un cigno nero, ad esempio. Questo è il problema dell’induzione, il problema
di giustificare il ricorso al metodo induttivo che sembra davvero poco
affidabile. Come sappiamo che il prossimo bicchier d’acqua che berremo
non contiene veleno? Risposta: finora, tutti i bicchieri d’acqua che abbiamo
bevuto non ne contenevano, quindi riteniamo che ciò valga anche per
questo. Noi usiamo continuamente questo modo di ragionare, ma è evidente
che non abbiamo completamente ragione a fidarcene tanto ciecamente.
Diamo per esistenti in natura dei modelli che potrebbero esistere ma anche
non esistere affatto.
Se ritenete, come hanno fatto molti filosofi, che la scienza faccia i suoi
progressi per induzione, dovete affrontare il problema dell’induzione. Come
può la scienza basarsi su un tipo di ragionamento così poco affidabile? La
concezione popperiana del progresso scientifico supera elegantemente il
problema. Secondo Popper, infatti, la scienza non si basa sull’induzione. Gli
scienziati iniziano formulando un’ipotesi, una congettura dotata di
fondamento sulla natura della realtà. Un esempio potrebbe essere «Tutti i
gas, scaldati, aumentano di volume». Si tratta di una mera ipotesi, ma a
questo stadio la scienza della realtà implica un massiccio impiego di
creatività e immaginazione. Gli scienziati trovano le loro idee da molte
parti: il chimico August Kekulé, ad esempio, sognò di un serpente che si
mordeva la coda, e ciò gli dette lo spunto per formulare l’ipotesi che la
struttura della molecola di benzene fosse ad anello esagonale, un’ipotesi che
finora ha resistito a tutti i tentativi scientifici di dimostrarne la falsità.
Gli scienziati quindi trovano un modo per sottoporre la loro ipotesi al
controllo sperimentale; in questo caso, prendendo una gran quantità di gas e
riscaldandoli. Ma ‘controllo sperimentale’ non significa trovare prove per
confermare l’ipotesi; significa cercare di dimostrare che l’ipotesi può
sopravvivere ai tentativi di falsificarla . Idealmente, lo scienziato va in
cerca di un gas che si comporti diversamente da quanto ipotizzato.
Ricordate che nel caso dei cigni bastava un solo cigno nero per smentire la
generalizzazione secondo cui tutti i cigni sono bianchi? Allo stesso modo,
basterebbe un solo gas che, scaldato, non aumentasse di volume per
smentire l’ipotesi secondo la quale «Tutti i gas, scaldati, aumentano di
volume».
Se uno scienziato rigetta un’ipotesi – cioè dimostra che è falsa –, ecco che
ne consegue un piccolo passo in avanti nella conoscenza: il sapere che
quell’ipotesi è falsa. L’umanità progredisce perché impariamo delle cose.
Osservare molti gas che, scaldati, aumentano di volume non ci darà
conoscenza, eccetto forse per un pizzico di fiducia in più nella nostra
ipotesi. Una controprova, invece, ci insegna moltissimo. Per Popper, il
requisito fondamentale di un’ipotesi scientifica è di essere falsificabile. Egli
usava quest’idea per spiegare la differenza tra la scienza e quella che
chiamava ‘pseudoscienza’. Un’ipotesi è scientifica se se ne può dimostrare
la falsità: fa previsioni che possono essere smentite. Se affermo «Sono delle
fate invisibili e impercettibili che mi costringono a scrivere questa frase»,
non esiste osservazione alcuna in grado di provare che la mia affermazione
è falsa. Se le fate sono invisibili e non lasciano alcuna traccia, non c’è modo
di dimostrare che la mia affermazione sulla loro invisibilità è falsa. Essa è
non falsificabile, e quindi non è un’affermazione scientifica.
Popper pensava che molti postulati della psicoanalisi (vedi il capitolo 30)
fossero non falsificabili, perché non potevano essere sottoposti a verifica
sperimentale. Ad esempio, l’affermazione secondo la quale chiunque agisce
sulla spinta di desideri inconsci non è dimostrabile, perché qualsiasi
controprova, compresa quella fornita da coloro che negano recisamente di
essere mossi da desideri inconsci, può, secondo Popper, essere addotta
come ulteriore conferma che la psicoanalisi è valida. Di queste persone lo
psicoanalista potrebbe dire: «Il fatto stesso che neghino l’inconscio
dimostra che hanno un forte desiderio inconscio di sfidare la figura
paterna». Neppure quest’affermazione può essere sottoposta a verifica
sperimentale, perché non si riesce a immaginare una prova che ne dimostri
la falsità. La conclusione di Popper è che la psicoanalisi non è una scienza;
non può fornirci delle conoscenze nel senso in cui lo fanno le scienze. Con
gli stessi criteri, Popper attaccò anche la lettura marxiana della storia,
sostenendo che ogni possibile risultato potrebbe essere addotto per
corroborare la visione secondo la quale la storia dell’umanità è una storia di
lotta di classe. Anch’essa si basava su un’ipotesi non falsificabile.
Diversamente, la teoria formulata da Albert Einstein secondo la quale la
luce delle stelle è attratta dal Sole era falsificabile, e ciò la rendeva una
teoria scientifica. L’osservazione della posizione delle stelle durante
un’eclisse di Sole, nel 1919, non riuscì a confutarla ma avrebbe potuto
farlo. Normalmente la luce stellare non è visibile, ma nella rara circostanza
di un’eclisse gli scienziati poterono constatare che la posizione delle stelle
corrispondeva a dove la teoria di Einstein sosteneva dovessero essere. Se
così non fosse stato, si sarebbe trovata la smentita alla teoria einsteiniana
per cui la luce è attratta dai corpi molto pesanti. Popper non pensava che
queste osservazioni dimostrassero la verità della teoria di Einstein; ma la
verificabilità della teoria e il fatto che gli scienziati non fossero stati in
grado di confutarla giocavano a suo favore. Einstein aveva fatto un’ipotesi
che poteva essere errata, ma non lo era.
Molti scienziati e filosofi sono rimasti profondamente colpiti dalla
descrizione popperiana del metodo scientifico. Il Premio Nobel per la
medicina Peter Medawar, ad esempio, dichiarò: «Credo che Karl Popper sia
di gran lunga il più grande filosofo della scienza mai esistito». In
particolare, gli scienziati si riconoscevano nella sua descrizione della loro
attività come creativa e mossa dall’immaginazione; Popper mostrava di
aver compreso l’essenza del loro lavoro. I filosofi apprezzarono moltissimo
il modo in cui Popper aveva aggirato il difficile ostacolo costituito dal
problema dell’induzione. Nel 1962, però, lo storico della scienza e fisico
americano Thomas Kuhn pubblicò un saggio dal titolo La struttura delle
rivoluzioni scientifiche in cui il progresso della scienza veniva descritto in
modo diverso, suggerendo così che la descrizione data da Popper fosse
errata. Kuhn era convinto che Popper non fosse entrato abbastanza in
profondità nella storia della scienza. Se lo avesse fatto, vi avrebbe
riconosciuto un meccanismo ricorrente.
Per la maggior parte del tempo vige ciò che egli definisce scienza normale
. Gli scienziati lavorano all’interno di una struttura di pensiero, o
paradigma , condiviso da tutti i contemporanei. Ad esempio, prima che la
gente si rendesse conto che la Terra gira attorno al Sole, il paradigma
consisteva nell’idea che il Sole girasse attorno alla Terra. Gli astronomi
conducevano le loro indagini all’interno di quel paradigma, e non avrebbero
potuto spiegare eventuali fatti che non sembrassero rientrarvi. All’interno di
questo paradigma, di uno scienziato come Copernico, che avesse avanzato
l’idea che la Terra gira attorno al Sole, si sarebbe pensato che aveva
sbagliato i suoi calcoli. Secondo Kuhn non ci sono fatti che aspettano di
essere scoperti: piuttosto è la struttura di pensiero il paradigma che fino a un
certo punto stabilisce cosa è possibile pensarne.
Le cose si fanno interessanti quando avviene ciò che Kuhn chiama
slittamento di paradigma . Uno slittamento di paradigma avviene quando
un’intera modalità di comprensione della realtà viene rovesciata. Ciò
accade quando gli scienziati scoprono qualcosa che non quadra secondo il
paradigma dominante – come le osservazioni che si rivelavano senza senso
all’interno del paradigma secondo il quale il Sole girava attorno alla Terra.
Ma anche in quel caso può essere necessario molto tempo prima che si
abbandoni il vecchio modo di pensare. Gli scienziati che hanno trascorso la
vita lavorando all’interno di un paradigma sono in genere poco propensi ad
accettare un modo diverso di vedere le cose. Quando alla fine passano al
nuovo paradigma, ecco che ricomincia la fase della scienza normale,
stavolta all’interno di una nuova cornice. Questo ciclo si ripete
continuamente, così com’era accaduto quando era stata ribaltata la visione
in cui la Terra era il centro dell’universo. Una volta che la gente ebbe
cominciato a pensare in quel modo al Sistema Solare, si spalancò davanti
agli scienziati una lunga strada di ricerche sulle traiettorie dei pianeti
attorno al Sole.
Popper, com’era da aspettarsi, non concordava con questa lettura della
storia della scienza, benché fosse d’accordo sull’utilità del concetto di
scienza normale. Sarebbe interessante capire se anche lui era uno scienziato
rimasto legato a un paradigma superato, o se invece fosse arrivato più
vicino alla verità di quanto avesse fatto Kuhn.
Gli scienziati si avvalgono di esperimenti nel campo delle cose concrete; i
filosofi, per parte loro, tendono a inventare esperimenti mentali per rendere
plausibili le proprie affermazioni. Le filosofe Philippa Foot e Judith Jarvis
Thomson hanno creato una quantità di esperimenti mentali appositamente
congegnati per esplorare alcuni punti cardine del nostro modo di pensare in
materia di etica.
CAPITOLO 37
Siete seduti in una stanza. Nella stanza c’è una porta con una buca per le
lettere. Ogni tanto, un pezzo di carta scarabocchiato passa per questa buca e
atterra sullo zerbino. Il vostro compito è controllare lo scarabocchio,
prendendo a riferimento un libro che si trova nella stanza. Sul libro, ogni
scarabocchio è abbinato a un altro. Il vostro compito è individuare lo
scarabocchio sul libro, guardare quello con cui si abbina, quindi prendere da
un pacco che si trova nella stanza un pezzo di carta con lo scarabocchio che
va abbinato al primo e rispedirlo fuori dalla stanza attraverso la buca delle
lettere. Fatelo per un po’, e provate a pensare di cosa si tratta.
Questo è l’esperimento mentale della stanza cinese, escogitato dal filosofo
americano John Searle (1932). Si tratta di una situazione immaginaria il cui
scopo è mostrare che un computer non pensa veramente, anche se sembra in
grado di farlo. Per capire bene di cosa stiamo parlando, dobbiamo sapere
cos’è il test di Turing.
Alan Turing (1912-1954) era un brillante matematico di Cambridge, che
contribuì alla nascita dei moderni computer. Le sue macchine per la
crittoanalisi, costruite durante la Seconda guerra mondiale a Bletchley Park
in Inghilterra, decifrarono i codici ‘Enigma’ usati dai comandanti dei
sottomarini tedeschi. Gli Alleati riuscirono così a intercettarne i messaggi e
a conoscere le intenzioni dei nazisti.
Incuriosito dall’idea che un giorno i computer avrebbero potuto fare molto
più che decifrare codici, e magari possedere un’intelligenza propria, nel
1950 Turing suggerì il test che qualsiasi computer avrebbe dovuto superare.
Questo test è passato alla storia come ‘test di Turing per l’intelligenza
artificiale’, ma il nome che il suo ideatore gli aveva dato in origine era
‘gioco dell’imitazione’. All’origine c’è la convinzione che ciò che vi è di
interessante nel cervello non è il fatto che abbia la consistenza di un budino;
la sua funzione è più importante del modo in cui tremola quando viene
rimosso dalla scatola cranica, e o del fatto che sia grigio. I computer sono
duri e fatti di componenti elettronici, ma possono fare molte delle cose che
fanno i cervelli. Quando giudichiamo se una persona sia intelligente o
meno, lo facciamo basandoci sulle risposte che dà alle domande, più che
sulla base dell’osservazione del comportamento dei neuroni all’interno del
suo cervello. Quando giudichiamo i computer, allora, dobbiamo
concentrarci sulle loro prestazioni, più che su come sono costruiti; quello
che ci interessa sono input e output, non sangue e nervi piuttosto che cavi e
transistor.
Ecco cosa suggeriva Turing. Uno sperimentatore è in una stanza e sta
trascrivendo una conversazione che appare su un monitor. Lo
sperimentatore non sa se attraverso quel monitor sta comunicando con
un’altra persona in un’altra stanza, oppure con un computer che genera da
solo le risposte. Se durante la conversazione lo sperimentatore non è in
grado di dire se chi sta rispondendo è una persona, il computer passa il test
di Turing. Se un computer lo passa, è ragionevole sostenere che sia
intelligente: non solo in senso metaforico, ma nel senso in cui lo può essere
un essere umano.
Lo scopo dell’esempio della stanza cinese di Searle, quello degli
scarabocchi sui pezzetti di carta, è mostrare che anche se un computer passa
il test di Turing dell’intelligenza artificiale, ciò non prova che sia davvero in
grado di capire alcunché. Ricorderete che siete in questa stanza con degli
strani simboli che provengono dalla buca delle lettere, che fate passare altri
simboli attraverso la stessa buca delle lettere, e per farlo siete guidati da un
libro. Per quanto vi riguarda, il vostro è un compito privo di scopo; non
avete idea del perché lo stiate svolgendo. In realtà, a vostra insaputa, state
rispondendo a delle domande in cinese. Non conoscete il cinese, conoscete
l’italiano, ma i segni che entrano nella stanza sono domande in cinese, e i
segni che fate uscire dalla stanza sono risposte in cinese a quelle domande.
La stanza cinese con voi dentro sconfigge il gioco dell’imitazione. Le
vostre risposte indurrebbero chi sta fuori dalla stanza a pensare che voi
capiate davvero quello di cui state parlando. Quindi, sostiene Searle, un
computer che passa il test di Turing non è necessariamente intelligente,
perché dall’interno della stanza voi in realtà non avete la minima idea di
quale sia l’argomento delle domande e delle risposte.
Searle ritiene che i computer siano come uno che si trova nella stanza
cinese: non hanno una vera intelligenza e non possono pensare davvero. Ciò
che si limitano a fare è elaborare simboli seguendo regole programmate per
loro dai costruttori; i procedimenti che usano sono quelli del software. Ma
tutto questo è molto diverso dal comprendere veramente qualcosa, e dal
possedere una vera e propria intelligenza. In altre parole, le persone che
programmano i computer danno loro una sintassi , cioè le regole che
dettano il giusto ordine in cui i simboli vengono elaborati. Quello che non
danno è una semantica , cioè non danno i significati dei simboli. Gli esseri
umani danno un significato alle cose quando parlano; le loro parole si
relazionano in diversi modi con la realtà. I computer che sembrano
intendere i significati delle cose, in realtà, non fanno che imitare il pensiero
umano, un po’ come fanno i pappagalli. Un pappagallo può imitare un
discorso, ma non capisce veramente ciò che sta dicendo. Allo stesso modo,
secondo Searle i computer non capiscono davvero e non pensano proprio
nulla: la sintassi non genera la semantica.
All’esperimento mentale di Searle si può obiettare che è un errore
domandarsi se la persona nella stanza capisca o meno ciò che accade,
perché la persona è solo una parte del sistema. Anche se la persona non
capisce cosa accade, forse l’intero sistema (che comprende la stanza, il libro
dei simboli, i simboli eccetera) lo capisce. La risposta di Searle a questa
obiezione fu cambiare l’esperimento mentale. Invece di immaginare una
stanza con dentro una persona che scorre dei simboli, immaginiamo che
questa persona abbia memorizzato l’intero libro delle regole e ora sia fuori,
in mezzo a un prato, a rispedire indietro i pezzi di carta con i simboli
correttamente abbinati. La persona continua a non capire le domande, anche
se dà le risposte giuste. Comprendere implica molto più che dare le risposte
giuste.
Alcuni filosofi continuano nondimeno a pensare che la mente umana sia
proprio come un programma per computer. Ritengono che i computer
possano pensare, e che già lo facciano. Se hanno ragione, forse un giorno
sarà possibile trasferire le menti umane dai cervelli ai computer. Se la vostra
mente è un programma, il fatto che adesso sta funzionando nella massa
molliccia del vostro cervello non significa che un domani non possa
funzionare in un computer particolarmente performante. Se, grazie all’aiuto
di computer super-intelligenti, qualcuno sarà in grado di ricostruire i
miliardi di connessioni funzionali che costituiscono la nostra mente, forse
un giorno sarà possibile sopravvivere alla morte. La nostra mente potrà
essere caricata in un computer e potrà continuare a funzionare dopo che il
nostro corpo sarà stato sepolto o cremato. Se si tratti di una vita che vale la
pena di essere vissuta, questa è un’altra questione. Ma se Searle ha ragione,
nessuno ci garantisce che la mente caricata su computer avrà una coscienza
come quella che abbiamo ora, anche se darà risposte che faranno pensare di
sì.
Più di sessant’anni fa Turing sostenne che i computer pensassero. Se
aveva ragione, potrebbe non passare molto tempo prima che si mettano a
fare filosofia; è un’ipotesi più probabile rispetto a quella che possano
permettere alle nostre menti di sopravvivere alla morte. Forse un giorno i
computer avranno anche qualcosa di interessante da dirci a proposito delle
domande etiche e metafisiche fondamentali, le questioni con cui i filosofi si
sono confrontati per migliaia di anni. Nel frattempo, però, sono i filosofi in
carne e ossa quelli che ci aiutano a esplorarle. Uno dei più interessanti e
controversi tra loro è Peter Singer.
CAPITOLO 40
Un moderno tafano
PETER SINGER
Vi trovate in un parco; sapete che nel parco c’è uno stagno. Sentite un
rumore e poi delle grida. Capite che un bambino è caduto nello stagno e
rischia di annegare. Cosa fate? Accorrete in quella direzione? Anche se
avete un appuntamento con un amico e sapete che arriverete in ritardo,
ritenete senza dubbio più importante la vita del bambino. Lo stagno non è
profondo ma è molto fangoso. Se vi ci butterete, rovinerete per sempre le
vostre scarpe. Non aspettatevi che la gente vi capisca, se non lo fate: qui è
questione di umanità, di valore della vita; la vita di un bambino ha un valore
incommensurabilmente maggiore di quello di qualsiasi paio di scarpe,
anche delle più costose, e chiunque la pensi diversamente è un mostro.
Allora, vi buttate nell’acqua, vero? Certo che sì. Dunque, probabilmente
siete anche abbastanza ricchi da impedire che in Africa un bambino muoia
di fame o di una malattia tropicale curabile. Probabilmente non vi
costerebbe molto più delle vostre scarpe, quelle che siete pronti a buttar via
per salvare la vita del bambino caduto nello stagno. Perché allora non
aiutate quell’altro bambino (sempre che non lo stiate già facendo)?
Donando una modesta somma di denaro all’organizzazione umanitaria
giusta, salvereste almeno una vita. Ci sono tante malattie infantili che
possono essere prevenute facilmente donando una cifra relativamente
piccola per la vaccinazione e le altre medicine! Perché allora non ci
sentiamo nello stesso modo nei confronti di un bambino che muore in
Africa come di uno che rischia la vita davanti ai nostri occhi? Se vi sentite
nello stesso modo, siete davvero speciali. Non è così per la maggioranza
delle persone, anche se la cosa può sembrare piuttosto imbarazzante.
Il filosofo australiano Peter Singer (nato nel 1946) sostiene che il bambino
che sta annegando di fronte a voi e quello che sta morendo di fame in
Africa non sono così diversi. Dovremmo aver cura di tutti coloro che
possiamo salvare, ovunque essi siano, più di quanto non facciamo. Se non
facciamo nulla, dei bambini che potrebbero vivere moriranno invece
prematuramente. Non è una supposizione; sappiamo che è vero. Sappiamo
che molte migliaia di bambini muoiono ogni giorno per cause che hanno a
che fare con la povertà. Alcuni muoiono di denutrizione, mentre noi, nei
paesi ricchi, gettiamo via il cibo andato a male nei frigoriferi. Altri non
hanno neppure l’acqua potabile. Dovremmo rinunciare a uno o due tra i
beni di lusso di cui non abbiamo veramente bisogno per aiutare le persone
che hanno avuto la sfortuna di nascere in quei paesi. Si tratta di una
filosofia difficile da praticare, ma Singer ha ragione: avremmo il dovere di
farlo.
Potreste rispondere che se non siete voi a donare denaro alle
organizzazioni di beneficenza, probabilmente sarà qualcun altro a farlo. Il
rischio è che decidiamo tutti di fare gli spettatori, ciascuno pensando che
qualcun altro farà il necessario. Così molti nel mondo vivono in condizioni
di povertà estrema e vanno a dormire tutte le sere a bocca asciutta, perché la
beneficenza di pochi non basta. Nel caso del bambino che sta annegando di
fronte a voi è molto facile verificare se arriva qualcun altro ad aiutarlo, ma
se i bisognosi si trovano in terre lontane, risulta più difficile conoscere gli
effetti delle azioni nostre e di chiunque altro. Ciò non significa però che la
soluzione migliore sia non fare nulla.
A questo argomento si aggiunge il timore che donare denaro per la
beneficenza in terre lontane finisca per rendere i poveri dipendenti dai
ricchi e faccia sì che smettano di cercare il modo per produrre da sé generi
alimentari, mezzi di sostentamento e abitazioni. Alla lunga, cioè, il fare del
bene si trasformerebbe in fare del male, e facendolo si finirebbe per far
peggio di non far nulla. In effetti, ci sono casi di interi paesi che dipendono
dagli aiuti esterni. Ciò non significa, però, che non si dovrebbe contribuire
alla beneficenza; piuttosto, bisogna fare molta attenzione al tipo di aiuti che
la beneficenza offre. Non ne consegue quindi che non dovremmo cercare di
dare il nostro aiuto. Certi tipi di assistenza medica possono offrire alle
popolazioni povere buone possibilità di diventare indipendenti dagli aiuti
stranieri. Alcune organizzazioni di beneficenza sono molto efficaci
nell’insegnare alle popolazioni povere come aiutarsi da sole, costruire
impianti per la fornitura di acqua potabile o migliorare le proprie condizioni
igienico-sanitarie. Singer sostiene che dovremmo aiutare gli altri donando
denaro, ma finanziando le organizzazioni che hanno maggiori probabilità di
aiutare i più poveri del mondo a vivere senza più bisogno di aiuti. Il suo
messaggio è chiaro: quasi certamente potreste avere un’autentica influenza
sulla vita altrui. Anzi, dovreste .
Singer è uno dei più noti filosofi viventi, anche perché ha sfidato alcune
opinioni largamente condivise e sostenuto posizioni controcorrente su
questioni scottanti. Molti credono nell’assoluta sacralità della vita umana, e
pensano che uccidere un altro essere umano sia sempre e comunque
sbagliato. Singer no. Se una persona si trova in uno stato vegetativo
irreversibile, ad esempio, se cioè è tenuta in vita nella condizione di un
corpo completamente privo di coscienza e di una qualsiasi possibilità di
recupero o di speranza per il futuro, allora Singer sostiene che per questa
persona l’eutanasia potrebbe essere una scelta appropriata. Non ha molto
senso tenere in vita persone in quello stato, perché non hanno più la
capacità di provare piacere o di dire se quella loro condizione va loro bene
o no. Non hanno il desiderio di continuare a vivere, perché ormai sono
incapaci di provare qualsiasi desiderio.
Queste idee lo hanno reso impopolare in alcuni ambienti; nonostante i
suoi genitori fossero degli ebrei viennesi sfuggiti ai nazisti, è stato definito
nazista per la sua difesa dell’eutanasia in circostanze particolari.
Quell’accusa deriva dal fatto che i nazisti uccisero molte migliaia di
persone malate o fisicamente e mentalmente disabili, sostenendo che le vite
di quelle persone non valevano la pena di essere vissute. Sarebbe stato però
sbagliato chiamare il programma nazista ‘eutanasia’ o ‘morte
misericordiosa’, perché il suo intento non era di evitare le sofferenze non
necessarie, ma di disfarsi di coloro che i nazisti consideravano esseri inutili
in quanto incapaci di lavorare e perché rischiavano di contaminare la razza
ariana. Non c’era nessuna misericordia nel loro modo di agire. Singer,
invece, sostiene le sue posizioni in nome della qualità della vita delle
persone coinvolte, e non avrebbe mai appoggiato in nessun modo le azioni
dei nazisti, benché tra i suoi detrattori ci sia chi descrive le sue idee
deformandole per farle sembrare simili alle loro.
A rendere Singer famoso sono stati prima di tutto i suoi libri
sull’atteggiamento umano verso gli animali, in particolare Liberazione
animale , pubblicato nel 1975. All’inizio dell’Ottocento, Jeremy Bentham
aveva sostenuto la necessità di prendere sul serio la sofferenza degli
animali, ma negli anni Settanta del Novecento, quando Singer iniziò a
scrivere sull’argomento, pochi filosofi la pensavano in questo modo. Singer,
come Bentham e Mill (vedi i Capitoli 21 e 24), era un consequenzialista.
Ciò significa che credeva che l’azione migliore sia quella che produce il
risultato migliore. E per ottenere il risultato migliore abbiamo bisogno di
tenere conto di ciò che è nell’interesse di tutti coloro che vi sono implicati,
animali compresi. Come Bentham, Singer crede che la caratteristica
fondamentale della maggior parte degli animali sia la loro capacità di
provare sofferenza. Come esseri umani, noi talvolta nelle stesse situazioni
sperimentiamo una sofferenza maggiore rispetto agli animali, perché siamo
dotati della ragione e della capacità di capire cosa ci sta succedendo. Anche
di questo bisogna tenere conto.
Singer chiama l’atteggiamento di coloro che non danno abbastanza peso
agli interessi degli animali ‘specismo’, imparentandolo al razzismo e al
sessismo. I razzisti hanno una considerazione diversa per i membri della
propria razza e riservano loro un trattamento speciale, mentre non
riconoscono ai membri di altre razze gli stessi diritti. Un razzista bianco, ad
esempio, preferisce offrire un impiego a un altro bianco, anche se per la
stessa mansione sarebbe disponibile un’altra persona più qualificata, ma di
colore. Ciò è chiaramente iniquo e sbagliato. Lo specismo è come il
razzismo; deriva dal fatto di vedere le cose esclusivamente dalla prospettiva
della propria specie, o dall’essere molto di parte in suo favore. Come esseri
umani, molti di noi pensano solo agli altri esseri umani quando prendono
delle decisioni. Questo è sbagliato. Gli animali possono soffrire, e della loro
sofferenza noi dobbiamo tenere conto.
Trattarle con lo stesso rispetto non significa trattare tutte le specie animali
allo stesso modo. Non avrebbe alcun senso. Se diamo una manata sul sedere
a un cavallo, probabilmente non gli faremo un granché male, perché i
cavalli hanno la pelle spessa. Se lo facciamo a un bambino, gli faremo
molto male. Se però picchiamo un cavallo fino a infliggergli la stessa
quantità di sofferenza che proverebbe un bambino se gli dessimo un
ceffone, ecco che commettiamo un’azione moralmente altrettanto
riprovevole che se dessimo un ceffone a un bambino. Naturalmente, non
dovremmo fare né l’una, né l’altra cosa.
Singer sostiene che dovremmo essere tutti vegetariani, poiché
riusciremmo a vivere bene anche senza mangiare gli animali. Gli animali
impiegati in gran parte del sistema di produzione di generi alimentari
vengono sottoposti a maltrattamenti, e certi sistemi di allevamento sono
talmente crudeli da provocare loro continue sofferenze. I polli di
allevamento, ad esempio, vengono tenuti in gabbie minuscole, i maiali in
recinti talmente piccoli da non poter neppure girarsi, e il processo di
macellazione del bestiame è spesso estremamente disagevole e doloroso.
Per Singer, è immorale continuare ad allevare le bestie in questo modo, ma
anche sistemi più umani di allevamento non sono necessari, perché
potremmo vivere benissimo senza mangiare carne. Coerentemente con i
propri princìpi, in uno dei suoi libri ha persino pubblicato la ricetta di un
piatto a base di legumi, per incoraggiare i lettori ad assumere alimenti
alternativi alla carne.
Gli animali degli allevamenti non sono i soli a soffrire a causa dell’uomo.
Per i loro esperimenti, gli scienziati usano gli animali. Nei laboratori non ci
sono solo topi o porcellini d’India, ma gatti, cani, scimmie e persino
scimpanzé, e molti di loro vengono sottoposti a sofferenza e angoscia,
costretti ad assumere medicinali o scosse elettriche. Il test che Singer
propone per decidere se una ricerca scientifica sia moralmente accettabile è
questo: saremmo pronti a somministrare lo stesso esperimento a un essere
umano cerebroleso? Se la risposta è no, non è giusto somministrarlo su un
animale dotato dello stesso livello di presenza mentale. Si tratta di un test
severo, e non molti esperimenti lo supererebbero. In pratica, quindi, Singer
è fortemente contrario all’uso degli animali nella ricerca.
Nel complesso, l’approccio di Singer alle questioni etiche è basato
sull’idea di coerenza. Coerenza significa trattare casi simili in modo simile.
È quindi logico che se consideriamo sbagliato fare del male agli esseri
umani, anche la sofferenza di altri animali dovrebbe influenzare il nostro
comportamento. Se fare del male a un animale crea quasi più sofferenza che
fare del male a un essere umano, allora, se dobbiamo fare del male a uno
dei due, è meglio fare del male all’essere umano.
Come Socrate parecchi secoli prima di lui, Singer prende posizioni
scomode. Alcune sue conferenze sono state aspramente contestate; ha
addirittura ricevuto minacce di morte. Il suo atteggiamento, in realtà, ne fa
un rappresentante a tutti gli effetti della migliore tradizione filosofica,
perché la sua è una sfida continua alle idee consolidate. La sua filosofia
influenza il suo modo di vivere, e quando si trova in disaccordo con
qualcuno è sempre pronto a discuterci apertamente, faccia a faccia.
Cosa ancora più importante, Singer sostiene le proprie convinzioni con
argomentazioni ben motivate, e adducendo fatti ben documentati. Non c’è
bisogno di essere d’accordo con lui per ammettere che è un filosofo in
buona fede. La filosofia, dopotutto, vive di discussioni, di persone che
prendono posizione l’una contro l’altra e dibattono, usando la logica e
adducendo prove. Se ad esempio siete in disaccordo con Singer sullo status
morale degli animali o sulle circostanze in cui l’eutanasia deve essere
ritenuta moralmente accettabile, c’è sempre una buona possibilità che la
lettura dei suoi libri vi faccia riflettere sulle vostre convinzioni e su ciò in
cui si radicano, che siano fatti, ragionamenti o princìpi.
La filosofia è nata ponendo domande imbarazzanti e lanciando ardue
sfide; finché ci saranno filosofi-tafano come Peter Singer, ci sono buone
possibilità che lo spirito di Socrate continui ad accompagnarla nel suo
cammino.
APPENDICE
PIETRO EMANUELE
L’enigma dell’arte
BENEDETTO CROCE E GALVANO DELLA VOLPE
L’estetica è la scienza che studia quegli oggetti che vanno sotto il nome di
‘opere d’arte’. Nel corso dei secoli essa ha ricevuto più volte impulso dal
pensiero italiano, a partire da Giambattista Vico, nel Settecento, sino
all’affermazione internazionale di Benedetto Croce (1866-1952).
Maggiore esponente dell’estetica italiana, Croce ha impersonato spesso la
supremazia internazionale dell’Italia in campo estetico. Ma non meno
importante è stata la figura di colui che fu considerato un suo contraltare,
Galvano Della Volpe (1895-1968). A differenza di Croce, idealista in
campo filosofico e liberale in quello politico, Della Volpe aveva abbracciato
il materialismo di Marx. E se Croce aveva impersonato l’ideologia
romantica dell’arte, Della Volpe è stato il massimo esponente di un’estetica
antiromantica e razionalistica.
Grazie all’indipendenza economica che, in quanto benestante, gli permise
di non adattarsi a nessun impiego statale o privato, Croce fu un brillante
autodidatta costantemente in polemica contro la cultura universitaria («Ci
sono persone colte persino tra i professori!» soleva dire). Della Volpe,
proveniente da uno dei più antichi rami della nobiltà emiliana, fu invece
lanciato soprattutto dalla politica, essendo per parecchi anni l’unico filosofo
marxista italiano di notorietà internazionale. Questa connotazione
contraddittoria gli procurò il gustoso epiteto di ‘conte rosso’.
Il successo presto riscosso dalla teoria estetica di Croce fu dovuto in parte
al suo ricollegarsi al pensiero idealistico, che per tutto l’Ottocento
monopolizzò la cultura italiana. A sua volta il successo di Della Volpe fu
dovuto in buona parte al fatto che dette al marxismo italiano una ‘sua’
teoria estetica. Chi ha frequentato questo aristocratico snob racconta che,
tardando la pubblicazione della sua estetica, i compagni del Partito
Comunista lo sollecitavano a sbrigarsi, perché erano impazienti di sapere
cosa dovessero pensare intorno all’arte. Ecco, dunque, i due protagonisti
dell’estetica italiana del Novecento: un self-made man della cultura, Croce,
e un Masaniello dai nobili lombi, Della Volpe.
È spesso causa di successo saper concentrare il proprio pensiero in una
formula pressoché magica. Nella sua Estetica del 1902 Croce ne proclamò
una tanto fortunata da fare il giro del mondo: l’arte è intuizione .
L’intuizione produce immagini, non concetti, i quali sono invece produzioni
dell’intelletto: ad esempio, un fiume, un lago sono immagini, mentre
l’acqua è un concetto. L’artista produce un’immagine destinata a essere
condivisa da chi ne fruisce.
Ma attenzione: un’intuizione coincide con la sua espressione. Chi dice di
avere un’idea originale in mente, ma di non saperla esprimere, in realtà, per
Croce, non ha alcuna idea. Nel caso dell’arte letteraria questa espressione
consiste nel veicolo verbale, cioè nella combinazione di parole che
rappresenta le immagini. Analogamente, nel caso della pittura l’espressione
coincide con il mezzo figurativo dei colori.
Le opere d’arte, una volta espresse, sono dunque oggetti fisici? No. Per
Croce le vere opere d’arte non sono appese ai muri né vengono suonate da
un’orchestra. Se vi trovate al Museo del Louvre ad ammirare la Gioconda,
quello che vedete è solo un mezzo fisico occasionale. La vera Gioconda
esiste solo nella mente di Leonardo e di coloro che la sanno apprezzare
davvero. Un’opera d’arte appartiene all’immaginazione, non
all’accidentalità della materia. Il sentimento che esprime è più importante
del genere artistico in cui prende corpo.
L’equazione crociana arte = intuizione era facilmente comprensibile e
ripetibile anche da un intellettuale di media cultura, che poteva spiegare la
bellezza di un verso o di un dipinto dicendo che quel verso o quel dipinto
erano belli perché fornivano l’intuizione di una immagine, senza addossarsi
la fatica di analizzarli. Dopo che per più di un secolo il romanticismo aveva
identificato l’arte con la forma del bello, ora essa veniva caratterizzata da
qualcosa di più intimo e nello stesso tempo psicologicamente universale:
l’intuizione.
L’aspetto debole di questa teoria, peraltro coronata da grande successo,
risiedeva nell’indeterminatezza del concetto di intuizione e nel dare per
scontata la differenza tra intuizione e intelletto. Croce sfruttò il vantaggio di
fondare l’identificazione dell’arte su un ambito particolarmente gradito alla
cultura italiana, cioè l’ambito letterario, e la rivista La critica , organo
filosofico del suo pensiero, riscosse un eccezionale successo non solo in
Italia, ma nel mondo.
Proprio quella apparente ovvietà forniva però il maggior argomento di
condanna o addirittura di derisione da parte degli avversari della teoria
crociana, ai quali sembrava facile dimostrare che l’intuizione era un
fenomeno tanto vago da non permettere alcun criterio di distinzione fra ciò
che è arte e ciò che non lo è. Di qui l’irriverente caricatura della teoria
crociana, chiamata, alla maniera dell’evocazione di un fantasma, ‘l’estetica
del se ci sei batti un colpo ’.
Il punto di partenza di Della Volpe fu quello di sfatare il mito
dell’intuizione pura, una posizione troppo vaga per poter fornire un sicuro
criterio di valutazione dell’arte. Il motivo essenziale della sua rottura è la
convinzione che la creatività umana tragga le sue radici da quel mondo
materiale, socio-economico, che l’idealismo e il romanticismo avevano
disprezzato. Il realismo socio-economico e il razionalismo sono appunto i
due ingredienti essenziali con cui Della Volpe conduce questa polemica.
Prima di lui le esigenze realistiche erano considerate antifilosofiche, in
particolare l’estetica si faceva vanto di celebrare soltanto la spiritualità e
l’emotività. Ma la vita immediata e cruda, obietta Della Volpe, sarebbe per
questo priva di bellezza? Nella sua opera fondamentale, la Critica del gusto
del 1960, egli afferma un’estetica che tenga presente la componente
intellettuale della razionalità artistica e insieme faccia i conti con il mondo
materiale degli interessi concreti. Per lui il poeta, quando vuole dare forma
alle sue immagini, ragiona e fa i conti con la realtà delle cose. Siamo agli
antipodi dell’estetica crociana, ostile a ogni poesia costruita con la
macchina dell’intelletto.
Con la sua posizione Della Volpe impersonò la rivolta contro l’estetica
intuizionistica di Croce che aveva ottenuto un enorme successo nel mondo
dei letterati. Per Della Volpe, alla base dell’estetica crociana stava una
contraddizione: concepire l’esperienza artistica come intuizione individuale,
e tuttavia riconoscerle un valore universale.
Per evitare questa contraddizione, Della Volpe sfruttò la nozione
aristotelica di ‘verosimile’. Il verosimile (in greco eikós ) coincideva per
Aristotele con la stessa arte, definita in contrapposizione alla storia. Per
Aristotele la storia tratta di fatti veramente accaduti, l’arte di fatti ‘come
potrebbero accadere’, cioè simili a quelli veramente accaduti.
Questa attenzione di Della Volpe verso il mondo antico era in contrasto
con la convinzione di Croce, per il quale l’estetica era una disciplina nata
con la filosofia moderna, in quanto secondo lui nell’antichità non era
riconosciuta l’autonomia del concetto di bello – e quindi dell’arte – e la sua
indipendenza dal concetto di buono, cioè dall’etica. Invece Della Volpe
recupera il pensiero della Poetica aristotelica, e non solo la categoria
estetica del verosimile, ma anche la valorizzazione estetica della figura
retorica della metafora. Inoltre, per Della Volpe l’arte riflette sempre la
realtà sociale, anche quando appare sganciata da essa in virtù dei ‘liberi voli
della fantasia’.
Della Volpe riprende l’interpretazione aristotelica della metafora non
come di una similitudine meramente immaginifica, ma di una connessione
intellettuale. Secondo la definizione fornita da Aristotele nella Poetica ,
infatti, «la metafora è il trasferimento a una cosa di un nome proprio di
un’altra, o dal genere alla specie o dalla specie al genere o da specie a
specie o per analogia». È evidente che si tratta di rapporti logici e non
puramente emotivi. Nel III libro della Retorica , poi, Aristotele si sofferma
in particolare sulla più bella forma di metafora, quella per analogia.
L’esempio di Aristotele è che il poeta dica «la coppa di Ares» intendendo lo
scudo, oppure dica «lo scudo di Dioniso» intendendo la coppa. In questa
metafora il carattere di relazione logica è ancor più evidente.
Della Volpe evidenzia questa struttura logica della metafora come
esempio del carattere logico-razionale della poesia: una concezione che
avrebbe fatto inorridire l’antintellettualismo estetico di Croce. Per Croce,
un’opera d’arte è un’unità non scomponibile: se la analizziamo, se ne
facciamo un esame dettagliato, uccidiamo la sua vitalità. È pur vero,
riconosce, che i critici sono soliti dividere un’opera d’arte nelle sue parti,
cioè nei suoi episodi, quando si tratti di opere letterarie, o nelle sue singole
figure, quando si tratti di opere pittoriche. Ma una tale divisione fa a pezzi
l’unità dell’opera, «come il dividere l’organismo in cuore, cervello, nervi e
muscoli muta il vivente in cadavere».
Della Volpe è di diverso avviso. La creazione artistica è una costruzione di
carattere sia sensibile che intellettuale, che trova, tra l’altro, una specifica
applicazione nel problema della sua traducibilità. Per Croce la vera poesia è
intraducibile; al contrario, per Della Volpe «la poesia degna del nome è
sempre traducibile». Infatti quel che è impossibile a tradursi, il cosiddetto
elemento ineffabile della poesia, è soltanto la sua eufonia , il suono delle
parole, che non può avere un doppione in un’altra lingua proprio per la sua
inessenzialità, dovuta al carattere arbitrario e accidentale delle parole,
mutevoli da una lingua all’altra. La cosiddetta musicalità del verso, che è
quel che va perduto nella traduzione da una lingua all’altra, è qualcosa, per
Della Volpe, di inessenziale, se non extra-artistico. In questo egli esasperava
la teoria del Laocoonte dell’illuminista tedesco Gotthold Lessing: i generi
artistici sono diversi l’uno dall’altro, per cui un dato genere non può
esprimersi con i mezzi di un altro. In questo caso, la poesia, coi mezzi della
musicalità.
Quanto al problema più fondamentale di che cosa sia il linguaggio
poetico, Della Volpe trova la soluzione in due caratteristiche essenziali: il
polisenso semantico e l’organicità. In base alla prima, in poesia una sola
parola riassume in sé più di un significato. La seconda caratteristica
comporta l’insostituibilità dei termini poetici. Ad esempio, il verso
leopardiano «Dolce e chiara è la notte e senza vento » non potrebbe essere
parafrasato, cioè tradotto in un’ordinaria osservazione meteorologica.
La vivacità di queste contrapposizioni tra Croce e Della Volpe non impedì
però che l’estetica risultasse tra le discipline più colpite dalla fine degli anni
’40. Finì spesso preda del dilettantismo, prestandosi agli attacchi dei nemici
della filosofia. Tra essi, i più feroci furono i cosiddetti ‘neopositivisti’, cioè
i pensatori maggiormente ostili alle astrattezze filosofiche. Essi giunsero a
paragonare l’estetica alla signora Harris, un personaggio fittizio di un
romanzo di Charles Dickens, cui un personaggio reale fa continuamente
appello per confermare le sciocchezze che dice.
In effetti, spesso l’arte è stata considerata un oggetto di lusso perché
inutile alla vita concreta, per cui l’estetica, in quanto riflessione sull’arte,
sarebbe addirittura una sorta di inutilità al quadrato, e si potrebbe pensare
che se scomparisse del tutto, nessuno ne sentirebbe la mancanza. Ma non è
così. A testimoniarlo è la cultura non superficiale, per la quale le discipline
apparentemente più inutili, quali la filosofia e la stessa estetica, continuano
a giocare un ruolo ineliminabile nella vita degli uomini.
SOMMARIO
Presentazione
Frontespizio
Pagina di Copyright
Prefazione all’edizione italiana
Capitolo 1 L’uomo che faceva domande. Socrate e Platone
Capitolo 2 La vera felicità. Aristotele
Capitolo 3 Noi non sappiamo nulla. Pirrone
Capitolo 4 La via del Giardino. Epicuro
Capitolo 5 Imparare a non preoccuparsi. Epitteto, Cicerone, Seneca
Capitolo 6 Chi tira i miei fili? Agostino
Capitolo 7 La consolazione della filosofia. Boezio
Capitolo 8 L’isola perfetta. Anselmo d’Aosta e Tommaso d’Aquino
Capitolo 9 La volpe e il leone. Niccolò Machiavelli
Capitolo 10 Cattiva, rozza, e breve. Thomas Hobbes
Capitolo 11 E se fosse tutto un sogno? René Descartes
Capitolo 12 Scommettiamo? Blaise Pascal
Capitolo 13 Il tornitore di lenti. Baruch Spinoza
Capitolo 14 Il principe e il ciabattino. John Locke e Thomas Reid
Capitolo 15 L’elefante nella stanza. George Berkeley (e John Locke)
Capitolo 16 Il migliore dei mondi possibili? Voltaire e Gottfried Leibniz
Capitolo 17 L’orologiaio immaginario. David Hume
Capitolo 18 Nato libero. Jean-Jacques Rousseau
Capitolo 19 La realtà tinta di rosa. Immanuel Kant (1)
Capitolo 20 Se tutti facessero così? Immanuel Kant (2)
Capitolo 21 Praticamente felici. Jeremy Bentham
Capitolo 22 La nottola di Minerva. Georg W. F. Hegel
Capitolo 23 Scorci di realtà. Arthur Schopenhauer
Capitolo 24 Spazio per crescere. John Stuart Mill
Capitolo 25 Il progetto ottuso. Charles Darwin
Capitolo 26 I sacrifici della vita. Søren Kierkegaard
Capitolo 27 Lavoratori di tutto il mondo, unitevi. Karl Marx
Capitolo 28 E allora? C.S. Peirce e William James
Capitolo 29 La morte di Dio. Friedrich Nietzsche
Capitolo 30 Pensieri nascosti. Sigmund Freud
Capitolo 31 L’attuale re di Francia è calvo? Bertrand Russell
Capitolo 32 Abbasso! Evviva! Alfred Jules Ayer
Capitolo 33 L’angoscia di essere liberi. Jean-Paul Sartre, Simone de
Beauvoir e Albert Camus
Capitolo 34 Stregati dal linguaggio. Ludwig Wittgenstein
Capitolo 35 L’uomo che non si faceva domande. Hannah Arendt
Capitolo 36 Imparare dagli errori. Karl Popper e Thomas Kuhn
Capitolo 37 Il treno fuori controllo e il violinista indesiderato. Philippa Foot
e Judith Jarvis Thomson
Capitolo 38 L’equità attraverso l’ignoranza. John Rawls
Capitolo 39 I computer sono in grado di pensare? Alan Turing e John Searle
Capitolo 40 Un moderno tafano. Peter Singer
Appendice L’enigma dell’arte. Benedetto Croce e Galvano Della Volpe