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SANT’AGOSTINO - una vita, un ideale, una Regola -

E LE ADORATRICI PERPETUE DEL SS. SACRAMENTO

La vita di Agostino ci è abbastanza nota: egli stesso nelle sue Confessioni ce l’ha descritta
in modo incomparabile. Nacque in una famiglia modesta a Tagaste, nella Numidia dell’Africa
proconsolare (attuale Algeria), il 13 novembre del 354. Il padre, Patrizio, di professione “curiale”
(esattore delle tasse), di religione pagana e di costumi rilassati, si convertì al cristianesimo poco
prima della morte. La madre Monica, al contrario, era una donna piissima che gli inculcò le prime
verità cristiane e che con le sue preghiere molto influì per la conversione del figlio.
L’Africa settentrionale, in quei tempi, essendo stata conquistata dai romani, era terra latina,
e il latino non era solo la lingua ufficiale, ma anche la lingua che Agostino parlava in famiglia. Il
cristianesimo però, benché proclamato da Costantino religione di stato nel grande impero con
l’editto del 313, impiegò molto tempo a penetrare la cultura pagana.
Agostino, cittadino romano non di sangue ma di cultura e di educazione, fece i primi studi a
Tagaste, indi studi di grammatica a Madaura. Ma le cattive condizioni economiche lo costrinsero a
tornare in famiglia. Essendo però di un’intelligenza notevole, il padre cercò e trovò chi poteva
dargli aiuto per gli studi. A 17 anni poté così recarsi a Cartagine (allora grande città del Nord-
Africa), per frequentare il corso di retorica. In questo periodo perse il padre, e si diede ad una vita
piuttosto dissoluta e peccaminosa, come testimonia lui stesso affermando di aver proferito in
gioventù queste parole: “Signore, dammi la castità, ma non adesso” (1). Si legò, senza matrimonio
ma con fedeltà, alla donna con la quale convisse per quattordici anni, e che gli diede il figlio
Adeodato.
Frequentava da due anni il corso di retorica, quando conobbe come testo scolastico
l’Ortensio di Cicerone, che esercitò su di lui una profonda impressione: “Quel libro, devo
ammetterlo, mutò il mio modo di sentire, mutò le preghiere stesse che rivolgevo a te, Signore,
suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri, svilì d’un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e
mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore. Così cominciavo ad alzarmi
per ritornare a te”(2).
Scoperse così la vocazione dell’uomo: amare e possedere la sapienza, cioè Dio. Certo, non
aveva scoperto ancora la sua vocazione religiosa, non conosceva allora i consigli evangelici, la via
proposta da Cristo. Ma si scatenò in lui l’inquietudine che lo portò, inconsapevolmente, verso quella
meta: “Ci hai fatti per te Signore, e inquieto è il nostro cuore finché non riposi in te”(3).
I successi scolastici, la carriera, l’amore di una donna non lo appagavano più. Cominciò a
staccarsi, prima dal desiderio delle ricchezze, per possedere solo la sapienza. Tentò di cercarla nella
Bibbia, ma basandosi unicamente sulla ragione, senza l’aiuto della fede e senza alcuna guida, presto
l’abbandonò, quasi disgustato da certe oscurità e contraddizioni trovate nei Testi Sacri mal tradotti.
Invece di avvicinarsi alla Chiesa Cattolica, si lasciò sedurre dalle dottrine dei manichei, suscitando
la contrarietà della madre che non cessava di “inzuppare la terra con le sue lacrime, dovunque si
inginocchiasse a pregare”(4). Monica, cercando l’aiuto di persone pie e ragguardevoli per
convincere Agostino a tornare sulla retta via, fu assicurata da un vescovo con parole profetiche che
“il figlio di codeste lagrime non potrà andar perduto”(5).
Agostino rimase nel cerchio dei manichei per circa nove anni, ma come uditore
(l’equivalente del catecumeno cristiano), a differenza degli eletti, - i manichei perfetti. Il fondatore
di questa setta, Mani (sec.III), originario della Persia, si era presentato come apostolo di Cristo, ma
in realtà la sua dottrina era diretta a screditare la Chiesa Cattolica e a dimostrare le contraddizioni
della Sacra Scrittura. I suoi seguaci predicavano Cristo, ma negavano l’Incarnazione; insegnavano
_____________________
(1) - Confess. 8, 7.
(2) - Confess. 3, 4.
(3) - Confess. 1, 1.
(4) - Confess. 3, 11.
(5) - Confess. 3, 12.
1
la sapienza, ma senza cominciare dalla fede; professavano il moralismo, ma senza riconoscere la
responsabilità del peccato.
Non si riesce oggi a capire come Agostino, uno spirito così grande, abbia potuto provare
gusto ed ammirare la vita “casta e perfetta” che ostentavano. Tardi si accorse di quanto fosse falsa
questa immagine. Comunque, non divenne mai un seguace convinto di questa setta, ma rimase un
pensatore tormentato e un cercatore della verità, che non riusciva né a trovare la pace interiore né a
liberarsi dai lacci della sensualità, ignorando che ciò è dono di Dio.
L’incontro tanto atteso con Fausto, vescovo manicheo reputatissimo, invece di dissipare i
suoi dubbi, gli provocò un’amara delusione che lo portò al distacco graduale dalla setta.
Deluso tanto dal manicheismo, quanto dal cristianesimo della madre, rozzo e irragionevole,
ancor meno lo soddisfaceva la sua attività di professore in eloquenza che esercitava a Cartagine. Nel
382 decise di trasferirsi a Roma, dove si diede alla filosofia scettica, arrivando alla conclusione di
sapere di non sapere (Socrate).
Continuò a insegnare, riscuotendo successo e attirando l’attenzione di Simmaco, prefetto
della città. Questi propose Agostino per un posto di professore di retorica a Milano e, con
l’appoggio di influenti manichei (sebbene si fosse già sganciato da tale religione), nel 384 arrivò a
Milano. Era giunto il tempo della grazia che doveva spingerlo verso la luce. Difatti, qui conobbe il
definitivo disincanto dal manicheismo e superò il suo scetticismo nella ricerca della verità. Attirato
dalla fama del Vescovo Ambrogio, diventò assiduo ascoltatore dei suoi discorsi: “Mentre aprivo la
mente ad apprezzare quanto bene parlasse, entrava anche nel cuore con quanta verità parlasse” (1).
Si convinse così della falsità delle accuse dei manichei contro la Chiesa Cattolica,
dell’importanza della fede per raggiungere la sapienza, e mutò radicalmente il suo giudizio sulla
Bibbia. Dopo circa tredici anni, quanti erano trascorsi dalla lettura dell’Ortensio, riconobbe la meta
delle sue ricerche: Gesù Cristo. Mancava fare il passo decisivo: donarsi tutto.
“Mi disgustava - scrive - la mia vita nel mondo. Era divenuta un grave fardello per me, ora
che non mi stimolavano più a sopportare un giogo così duro le passioni di un tempo, l’attesa degli
onori e del denaro. Ormai tutto ciò mi attraeva meno della tua dolcezza e della bellezza della tua
casa, che ho amato (Sal 25, 8). Ma ero stretto ancora da un legame tenace, la donna”(2).
Intanto Agostino, che aveva ripreso la lettura del Vangelo, si trovò davanti all’invito di Gesù
alla castità volontaria per il regno dei cieli. In più, un giorno sentì per caso la storia di Sant’Antonio
e dei suoi monaci, nonché dell’esistenza di un monastero a Milano, sotto la guida di Ambrogio,
cose che fin’allora aveva ignorato. Altri esempi lo trascinavano - due soldati a Treviri, avendo letto
la vita di Antonio, decisero improvvisamente di rinunciare al matrimonio - erano già fidanzati -, e di
consacrarsi al servizio di Dio.
Il dramma affettivo che viveva tra i due amori, tra lo spirito e la carne, è difficilmente
immaginabile. Colui che doveva conquistarlo definitivamente a Cristo fu San Paolo - dalle
Confessioni ci è nota la celebre scena del giardino, quando, raccolto in meditazione, udì una voce di
fanciullo che gli sembrò cantasse: “Tolle, lege! - Prendi, leggi!”(3). Prese le Lettere dell’Apostolo
che teneva sempre accanto a sé, aprì a caso e trovò: “Non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze,
non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e
non seguite la carne nei suoi desideri”(4).
Il cuore sbattuto di Agostino non seppe più resistere. Rinunciò al matrimonio e, adducendo
motivi di salute, abbandonò anche l’insegnamento. Si ritirò a Cassiciacum con alcuni cari e con la
madre che lo aveva raggiunto nel 385. Fece ancora ritorno a Milano, ma solo per iscriversi tra i
battezzandi della successiva Pasqua, e per ricevere il battesimo dal Vescovo Ambrogio insieme al
figlio e agli amici. Era l’anno 387, il trentaduesimo della sua vita.

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(1) - Confess. 5, 14.
(2) - Confess. 8, 1.
(3) - Confess. 8, 12.
(4) - Rom 13, 13-14.
2
“Tardi ti ho amato, o bellezza antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ecco, Tu eri dentro di
me, io stavo al di fuori: e qui ti cercavo, e deforme quale ero, mi buttavo su queste cose belle che Tu
hai creato. Tu eri meco, ed io non ero teco, tenuto lontano da te proprio da quelle creature che non
esisterebbero se non fossero in Te. Mi chiamasti, gridasti, e vincesti la mia sordità; folgorasti il tuo
splendore e mettesti in fuga la mia cecità; esalasti il tuo profumo, lo aspirai ed anelo a Te; ti
degustai, ed ora ho fame e sete; mi toccasti, ed ora brucio di desiderio per la tua pace”(1).
D’ora in poi, Agostino sarà servo di Dio (2).

Il monachesimo si andava diffondendo in Italia e nelle Gallie. Ma le sue origini si


perdono nei deserti lontani dell’Egitto, della Siria e della Palestina, dove fece la sua prima
apparizione verso la fine del III sec. Lo stesso termine “monaco” deriva dalla parola greca monos
che significa “solo”. Era uno stile di vita adottato da solitari, o anacoreti, che seguendo la chiamata
del deserto si erano ritirati dalla società per attendere alla preghiera, alla meditazione e alla
penitenza. Contribuirono a sviluppare questo movimento le stesse persecuzioni dei primi secoli
dell’era cristiana.
Nel corso del sec. IV apparvero in Egitto due diversi modelli di vita ascetica, ognuno dei
quali ispirò una distinta tradizione monastica: Il modello della vita eremitica dei solitari, che prese il
suo nome da eremos, la parola greca per “deserto”. Il suo capo fu Antonio (ca 251-356).
L’altro modello fu quello della vita cenobitica, che è la vita ascetica praticata all’interno di
una comunità organizzata o monastero, che i cristiani di lingua greca chiamano coenobium, dalla
parola koinos che significa “comune”. L’iniziatore del cenobio cristiano fu Pacomio (ca 292-346).
Per le sue comunità che contavano centinaia di monaci e di monache, scrisse la prima Regola
monastica dell’Oriente.
La vita cenobitica fu poi perfezionata da Basilio (329-330), che come vescovo di Cesarea
aiutò a portare il movimento monastico sotto la gerarchia della Chiesa, e dispose che i monaci
attendessero anche ad opere di carità. Sorsero così nella cerchia dei monasteri, ospizi, ospedali,
collegi. La raccolta di consigli lasciati da S. Basilio per l’organizzazione della comunità cenobitica
gli diede un grande prestigio nella Chiesa orientale, dove venne considerato il padre del
monachesimo ortodosso.
La conoscenza del movimento monastico, che si era diffusa attraverso le province orientali
dell’impero durante il IV secolo, venne trasmessa all’Europa occidentale tramite vari canali.
L’interesse fu risvegliato dalla diffusione di testi sui monaci del deserto, da migrazioni in Occidente
di vescovi rifugiati come Atanasio, di asceti come Cassiano e sostenitori come Girolamo, da
racconti portati da pellegrini e viaggiatori. La Vita di Antonio di Atanasio fu l’opera che più di ogni
altra provocò un’impressione profonda e duratura sui lettori occidentali, e che insieme ad altri testi
attirarono il primo flusso di seguaci. Così, nel 360 Martino di Tours fondò in Gallia il primo
monastero occidentale.
Agostino fu solo uno dei primi di una lunga schiera di cristiani occidentali che dovevano
rimanere affascinati dal deserto di Antonio. Dopo il battesimo decise di tornare in Africa, insieme
ad alcuni amici che condividevano le stesse aspirazioni: “Tu che fai abitare in una casa i cuori
unanimi, associasti alla nostra comitiva anche Evidio, un giovane nativo del nostro stesso
municipio. Agente nell’amministrazione imperiale, si era rivolto a te prima di noi, aveva ricevuto il
battesimo e quindi abbandonato il servizio del secolo per porsi al tuo. Stavamo sempre insieme ed
avevamo fatto il santo proposito di abitare insieme anche per l’avvenire. In cerca anzi di un luogo
dove meglio operare servendoti, prendemmo congiuntamente la via del ritorno verso l’Africa”(3).
Durante il tragitto, a Ostia, quando erano in procinto di imbarcarsi, avvenne la morte della
madre. Agostino differì la partenza e fece una sosta a Roma per circa un anno, onde studiò le
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(1) - Confess. 10, 27.
(2) - Cf. Rom 6, 22.
(3) - Confess. 9, 8.
3
consuetudini della Chiesa Cattolica e conobbe più da vicino la vita monastica. Visitò diversi
monasteri sia di uomini che di donne, ammirandone il modo di vivere, soprattutto l’esercizio della
carità, su cui la sua attenzione si fermò in modo particolare. “Ho visto io stesso - scrive - un
cenacolo di santi, e non erano pochi, a Milano, di cui era superiore un sacerdote, persona ottima e
dottissima. Pure a Roma ne ho visti parecchi, in ciascuno dei quali è preposto a quelli che vi
abitano, vivendo in cristiana carità, santità e libertà, uno che spicca su tutti per gravità, prudenza e
scienza divina… Soprattutto vi si custodisce la carità. Tutto viene ordinato ad essa: il vitto, i
discorsi, l’abito, il volto. Ognuno concorre e coopera per stabilire l’unità della carità. Violare la
carità si ritiene un delitto, come sarebbe violare Dio stesso; se c’è qualcosa che resiste alla carità
viene estirpato e gettato via, se qualcosa la offende non si permette che duri un solo giorno. Sanno
tutti che la carità è tanto raccomandata da Cristo e dagli Apostoli che dove essa manca tutto è
vacuità, dove è presente tutto è pienezza”(1).
Ormai tutte le altre vie possibili, per Agostino si erano unificate in una sola. Tornava quindi
a Tagaste, da dove era partito dodici anni prima come “fanciullo sballottato dalle onde e portato qua
e là da qualsiasi vento di dottrina” (2). Come per San Paolo, anche per lui la via verso Damasco,
verso la luce, era stata lunga, molto lunga. Con il battesimo aveva ricuperato la vista (3) e ora
vedeva chiaro. Vedeva Cristo, ed intravvedeva anche un modo di amare lui ed il prossimo, prima di
ogni altra cosa, insieme ad altri, “vivendo concordi nella medesima casa, ed avendo un’anima sola
ed un sol cuore protesi verso Dio”(4) - è ciò che noi chiamiamo oggi l’ideale monastico di Agostino,
e di cui stava per mettere la prima pietra. E lo fece vendendo tutto, una volta tornato alla casa
paterna, e distribuendone il ricavato ai poveri, in tutto fedele al suo modello di Gerusalemme: “Tutti
coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva
proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno”(5).
Poi, stabilendosi fuori della città,“vi dimorò circa tre anni e insieme con quelli che s’erano a
lui uniti viveva per Iddio nei digiuni, nelle preghiere e nelle buone opere, meditando giorno e notte
la legge del Signore, e delle verità che Dio rivelava alla sua intelligenza nella meditazione e
nell’orazione egli faceva parte ai presenti e agli assenti, ammaestrandoli con discorsi e con libri”(6).
Del piccolo gruppo faceva parte anche il figlio Adeodato, ma per breve tempo, poiché
presto morì. Questo loro vivere lontano dal mondo, in una solitudine che sapeva di monachesimo,
esercitandosi nella virtù per rendersi simili a Dio, viene reso da Agostino con l’espressione
“deificarsi…nell’ozio”(7). Amava questo genere di vita, vi coinvolgeva altri e, nella paura di
venirne distolto - racconta lui stesso - si asteneva dal visitare città prive di vescovi per evitare che
venisse proposta la nomina della sua persona (8). Ma siccome a Tagaste i suoi concittadini, con
continue richieste che lui non sapeva rifiutare, disturbavano molto il raccoglimento e l’intensa
contemplazione tanto desiderata, pensò di cercare altrove un luogo più adatto dove potesse fondare
un monastero e, sul principio del 391 si recò ad Ippona. Entrato nella Chiesa udì il vescovo Valerio,
ormai vecchio, che proponeva al suo popolo la scelta di un sacerdote capace di accontentarli,
soprattutto per la predicazione. L’arrivo di Agostino non era passato inosservato. I fedeli, che ben
sapevano chi fosse, lo afferrarono e lo costrinsero ad accettare l’ordinazione sacerdotale. In lacrime,
accettò. “Il servo, dirà più tardi, non deve contraddire il suo padrone”(9).
Accettò di essere mandato, inviato, ma non rinunciò di rimanere con il Signore (10). Divenne
apostolo, ma volle rimanere monaco. Conoscendo il suo desiderio, il vescovo Valerio gli donò un
orto e, “fatto dunque presbitero, non tardò ad istituire presso la chiesa un monastero e prese a vivere
con i servi di Dio secondo la maniera e la regola stabilita ai tempi dei santi Apostoli…; ciò che egli
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(1) - De mor. Eccl. cath. 1, 33, 70-73.
(2) - Ef 4, 14.
(3) - Cf. Atti 9, 18.
(4) - Cf. Reg. 1; 3.
(5) - Atti 2, 44-45.
(6) - POSSIDIO, Vita di S. Agostino, 3° ed. M. Pellegrino, Alba 1955, pp. 48-49.
(7) - Cf. Ep. 10.
(8) - Serm. 355, 2.
(9) - Serm. 355, 2; POSSIDIO, Vita, 3-4, pp. 48-53.
(10) - Cf. Mc 3, 14-15.
4
aveva fatto già prima ritornando d’oltre mare al suo paese”(1).
Questo monastero di laici in cui unì per la prima volta la vita religiosa al sacerdozio, resterà
la miglior espressione del suo ideale di vita monastica. Quando nel 397 dovette succedere
nell’episcopato a Valerio, per non disturbare la vita del monastero e poter disporre di una maggiore
ospitalità soprattutto a favore dei vescovi di passaggio, si ritiro nell’episcopio che trasformò in un
monastero di chierici.
Il contemplativo Agostino guarderà sempre con nostalgia al suo monastero, mentre il
vescovo Agostino saprà aggiungere all’otium sanctum di Tagaste un forte sensus Ecclesiae, che farà
di questa comunità episcopale il seminario della chiesa d’Africa a cui diede numerosi chierici e
vescovi. Essendo ispirati dallo stesso ideale e istituendo a loro volta dei monasteri, contribuirono
molto all’unità della Chiesa, come ci racconta il primo biografo di Agostino, Possidio, anche lui
proveniente da questo monastero prima di diventare vescovo di Guelma.
Col tempo fondò anche monasteri di vita religiosa femminile, tra i quali quello di Ippona
dove fu superiora sua sorella. “Sono solito godere di voi - scrive loro -, e fra tanti scandali, di cui
abbonda questo mondo, trovo in voi di che consolarmi: pensando al vostro grande numero, e alla
vostra unione, al casto amore… il mio cuore, scosso da molte tempeste, prodotte da tanti mali, trova
un qualche riposo”(2).
Il monachesimo agostiniano si diffuse rapidamente in Africa, contando alla morte del suo
Fondatore circa 46 monasteri. A questi anni, dopo il 396, appartiene la maggiore attività di
Agostino sia come vescovo che come scrittore, che durò sino alla fine della vita, e per cui la Chiesa
lo riconosce come il maggiore dei padri e il primo dei quattro grandi dottori dell’Occidente. Per
quasi quarant’anni combatte contro tutti gli avversari della Chiesa e gli vinse - manicheismo,
donatismo, pelagianesimo, arianesimo -, affidando il suo desiderio di unità alle comunità che fondò,
affinché la vivessero profondamente.
Ci lasciò moltissimi scritti dei quali l’opera più ampia e profonda è il trattato De Trinitate,
scritto fra il 399 e il 419. Agostino ha sviscerato questo mistero per quanto è possibile ad
intelligenza umana, e dopo di lui niente di nuovo è stato aggiunto. Ma le due opere più note sono le
Confessiones, terminate verso il 400 - più che un’autobiografia, un lungo colloquio con Dio, scritto
da un santo -, e De civitate Dei, finita nel 426, che è una teologia della storia temporale ed eterna
dell’umanità (le due città).
Verso la fine della sua vita, Agostino fu contristato dai mali che si erano abbattuti sulla sua
patria - i vandali invasero l’Africa e assediarono Ippona - e visse profondamente quel dramma: “Nel
terzo mese dell’assedio, oppresso dal dolore più che dagli anni, morì il 28 agosto del 430, tenendo
fisso lo sguardo in quella città celeste di cui aveva scritto la storia meravigliosa”(3).
Il suo corpo riposa nella chiesa agostiniana di San Pietro in Ciel d’oro, a Pavia.
“Quanto vi sarà grande quella felicità in cui non vi sarà nessun male, non mancherà nessun
bene e si loderà Dio, che sarà tutto in tutti… Là riposeremo e vedremo, vedremo ed ameremo,
ameremo e loderemo. Ecco ciò che sarà, nella fine senza fine”(4).

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(1) - POSSIDIO, Vita, 5, pp. 52-53.
(2) - Ep. 211, 2-3.
(3) - P.G. FRANCESCHINI, Manuale di Patrologia, Milano 1919, pp. 414.
(4) - De civ. Dei 22, 30, n.1 e 5.
5
La Regola di Agostino è ritenuta la più antica dell’Occidente. In Africa, dopo un primo
periodo in cui fiorì la vita eremitica, sorsero nel IV sec. i primi cenobi di uomini e di donne, che pur
seguendo certe norme, non avevano però una vera e propria Regola. Fu Agostino il primo a
prepararla, esercitando così non poca influenza sullo sviluppo del monachesimo occidentale.
Si è molto discusso sull’autenticità della sua Regola, sulla data di composizione e su chi
fossero i suoi primi destinatari. Oggi i pareri sono unanimi nell’ammettere la sua autenticità,
collocandone la data di composizione attorno al 397-400. Riguardo ai primi destinatari, cioè al testo
originale, si dà la priorità alla Regola diretta ai monaci (Regula ad servos Dei), e non alla variante
femminile della medesima contenuta nella Lettera 211 rivolta da Agostino alle monache di Ippona.
Secondo il Van Bavel (1), la Regola da l’impressione di essere come il sommario di
conferenze orali tenute da Agostino ai suoi monaci, offrendo alcuni principi essenziali cui ispirare
tutta la vita religiosa, senza particolari spiegazioni e senza fissare un regolamento della giornata.
Un altro punto che ha suscitato divergenze di pareri è un documento antichissimo chiamato
Ordo (o disciplina) monasteri. La tradizione manoscritta lo fa precedere la Regola che di per sé
suppone ma non contiene un regolamento monastico. L’Ordo unito così alla Regola è un
complemento necessario in quanto contiene brevi disposizioni liturgiche per la recita del divino
ufficio, l’orario per la lettura e il lavoro e altri vari precetti intorno alla vita comune.
Oggi non ha più valore pratico, pur rimanendo un documento venerando. Non sappiamo con
precisione se è stato scritto da Agostino e nemmeno se egli l’abbia conosciuto ed approvato. Certo è
che le prime parole dell’Ordo che sono restate nel testo della Regola esprimono lo spirito e il
pensiero di Agostino, e ci dicono quale posto occupa per lui la carità nella vita monastica: “Prima di
ogni altra cosa, fratelli carissimi, amiamo Dio e amiamo il prossimo, perché sono questi i principali
comandamenti datici dal Signore”(2).
La Regola è breve, ma vuole sostenere un grande ideale, frutto di una lunga esperienza di
vita. Il bisogno di trovare la bellezza, la sapienza, vivendo in amicizia vera e profonda, portò
Agostino lungo gli anni a riconoscere nella vita religiosa la via delle sue ricerche, liberandosi da ciò
che è terreno per potersi dedicare allo studio, alla contemplazione, alla lode di quella “bellezza tanto
antica e tanto nuova”(3), che fu “la passione più profonda e più costante dell’animo agostiniano,
perdutamente invaghito in essa fin dall’età di diciannove anni”(4).
Questo amò e propose ai suoi di amare, attraverso una vita contemplativa cenobitica (o
comune) piuttosto che in un’altra forma di vita religiosa, e vediamo perché: “Ma ti domando perché
desideri che gli uomini che tu ami vivano insieme a te? - Per cercare insieme le anime nostre e Dio.
Così sarà facile, a chi ha trovato per primo la verità, condurvi gli altri senza fatica… Io non amo per
se stessa se non la sapienza: tutto il resto - la vita, la quiete, gli amici - voglio averlo o non averlo in
relazione alla sapienza. Ma quale misura mai potrà avere l’amore di questa bellezza, del cui
possesso non sono affatto geloso, ma anzi cerco molti che assieme a me la desiderino, la bramino, la
posseggano e insieme a me ne godano, certo che mi saranno tanto più amici quanto più l’amata ci
diventerà comune?”(5).
“L’amore di questa bellezza” necessitava però una Regola di vita, e nel scriverla Agostino si
è basato sulle conoscenze attinte nei monasteri di Roma e di Milano, sull’esperienza di circa dieci
anni di vita monastica, sulla meditazione delle Scritture che alimentarono il suo mondo spirituale e i
suoi desideri. Soprattutto però lo ispirò quel passo degli Atti degli Apostoli che ci descrive la prima
comunità cristiana di Gerusalemme (6), e da cui prese tre principi: l’unione dei cuori, la comunione
delle cose e la distribuzione dei beni a ciascuno secondo il proprio bisogno.
Non sappiamo quando cominciò a fissare lo sguardo su questo passo, ma è ben chiaro che
esso diventò il fondamento della vita monastica agostiniana e della Regola che comanda fin
_______________
(1) - Cf. The Rule of St. Augustine – with Introduction and Comm. by T.J. VAN BAVEL, O.S.A. –
Darton, Longman & Todd, London, 1984.
(2) - Reg. 1.
(3) - Cofess. 10, 27.
(4) - Cf. TRAPE’, La Regola - Ed. Ancora, 1971.
(5) - Solil. 1, 12,20 - 13,22.
(6) - Atti 4, 32.

6
dall’inizio: “La prima cosa per la quale vi siete insieme riuniti è che viviate unanimi nella medesima
casa e che abbiate un’anima sola ed un sol cuore protesi verso Dio”(1). Questo primo precetto
contiene in sé tutte le prescrizioni che seguono, poiché Agostino “sapeva molto bene che il
proposito di abitare insieme in santa concordia ha per sorgente la carità, per fine la carità, per
esercizio quotidiano la carità”(2).
Il Dottore della carità così assume la sua Regola: “Ti viene imposto un breve precetto: Ama
e fa quel che vuoi. Se conservi il silenzio, conservalo per amore; se gridi, alza la voce per amore; se
correggi qualcuno, correggilo per amore; se perdoni, perdona per amore. Abbi nel cuore la radice
dell’amore, e da questa radice non potrà procedere se non il bene”(3).
E’ sempre nel nome della carità che ha voluto chiudere la Regola, unificando moderazione e
rigore, interiorità e fraternità, autorità e amicizia sotto l’arco di questa virtù che diventa così la
prima e l’ultima parola del suo ideale di bellezza: “Il Signore vi conceda di osservare questa regola
con amore, quali innamorate della bellezza spirituale, esalanti il buon profumo di Cristo”(4).
Agostino voleva che questo profumo riempisse tutta la casa (5) diventando profezia, Corpo
mistico, Chiesa, e così fu, poiché la sua spiritualità fece sorgere in ogni tempo delle forme di vita
religiosa che si richiamano a lui, e unificò sotto la stessa Regola centinaia di Ordini e
Congregazioni. Ancor oggi, oltre agli Agostiniani, forse un 20.000 religiosi seguono
fondamentalmente la sua Regola, e molte più sono le istituzioni femminili che si rifanno a lui come
a padre.
“Monos - da dove proviene l’appellativo di “monaco”- vuol dire uno, ma non uno in
qualsiasi modo; poiché anche nella massa uno è uno, ma, essendo egli insieme a molti, si può dire
che è uno, ma non si può dire che è solo, cioè monos : monos infatti significa uno solo. Dunque
coloro che vivono insieme in modo da formare un solo uomo, in modo che di loro si possa dire ciò
che è scritto: avevano un’anima sola e un cuore solo; che sono cioè molti corpi, ma non molte
anime, molti corpi, ma non molti cuori, giustamente si possono dire monos, cioè uno solo… Ecce
quam bonum et quam iucundum, habitare fratres in unum (Sal 132, 1)... Queste parole del salterio,
questo dolce suono, questa soave melodia - è soave nel canto ed è soave nell’intelligenza - ha
generato anche i monasteri. Risuonò per tutta la terra, e quelli che erano divisi si sono riuniti… Per
primi abitarono insieme quelli che (a Gerusalemme) vendevano tutto ciò che avevano e ne davano il
prezzo agli Apostoli, come si legge negli Atti degli Apostoli… Dunque loro furono i primi ad
ascoltare (queste parole): Ecco com’è bello, come giocondo, il convivere di tanti fratelli insieme: i
primi ma non i soli. Infatti non giunse solo a loro quest’amore e questa unità dei fratelli: questa
carità esultante giunse anche ai posteri…”(6).

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(1) - Reg. 3.
(2) - Cf. TRAPE’, Regola.
(3) - Commento alla prima lettera di Gv, 7, 8.
(4) - Reg. 48.
(5) - Cf. Gv 12, 3.
(6) - Enarr. in ps. 132, 2.6.

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Le Adoratrici Perpetue del Ss. Sacramento, come numerosi altri Ordini, hanno
adottato la Regola di Agostino. La forma in cui essa si presenta oggi aveva subito lungo i secoli
varie aggiunte, venendole man mano sovrapposte altre norme scaturite da varie regole monastiche
che sorgevano in gran numero, creando anche confusioni. Nel 1215 la Chiesa mise fine a questa
creatività, stabilendo quattro Regole fondamentali, e cioè le Regole di Basilio (per l’Oriente),
Agostino, Benedetto e Francesco. Dopo questo primo ricupero, la Regola di Agostino riacquistò
definitivamente il suo vigore nel 1256, quando sotto di essa si unirono diversi nuclei di eremiti
formendo così un unico grande Ordine detto Agostiniano.
La Madre Maria Maddalena dell’Incarnazione scelse la stessa Regola per le Adoratrici,
scelta non facile. Da Isabella Baldeschi, una delle giovani che avevano seguito la Madre a Roma per
la fondazione dell’Ordine, sappiamo che le suore confondatrici, provenendo dalle francescane,
desideravano la Regola di Francesco, mentre per suggerimento di Papa Pio VII, benedettino, fu
proposta invece la Regola di Benedetto. La Madre però le escluse tutte e due, a motivo delle molte
penitenze prescritte, che avrebbero aggravato di troppo una vita di adorazione diurna e notturna.
Difatti, nelle Costituzioni del 1818 troviamo: “Non vi sono in questo Istituto aspre e rigorose
penitenze, né pratiche di particolare austerità. Si persuadano però le religiose Adoratrici che una
penitenza assai gradita a Dio e molto giovevole per le anime loro sarà la prontezza ed esattezza
nell’adempiere tutto ciò che viene prescritto nel Santo Istituto”.
Per le Adoratrici del Sacramento dell’Amore, la Madre preferì invece la Regola di Agostino,
perché basata non tanto sugli sforzi ascetici del corpo, quanto sull’ascetica dell’amore di Dio e del
prossimo: “…(le Adoratrici) - scrive lei - devono unicamente bramare di piacere a Gesù Cristo loro
Sposo, amandolo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, ed il prossimo come loro
stesse”(1).
Tale preferenza fu favorita anche dal fatto che il vescovo Bartolomeo Menochio, Sagrista e
Confessore del Papa e Superiore immediato delle Adoratrici quasi dagli inizi della fondazione, era
agostiniano. Così, nel 1808 venivano stampate le prime Costituzioni sotto questo titolo: “La Regola
di Sant’Agostino e le Costituzioni delle Religiose del Ss. Sacramento sotto la protezione di Maria
Santissima Addolorata - Composte dalla Rev.da Madre Maria Maddalena dell’Incarnazione loro
Fondatrice”.
Infatti, ad un esame attento della Regola in confronto con le Costituzioni e gli altri scritti
della Madre (2), si nota che quanto dice Agostino sugli aspetti principali della vita monastica, e cioè
vita comune, povertà, castità, obbedienza, è anche il pensiero della Madre, che con espressioni
proprie a lei e alla sua cultura è arrivata a presentare le stesse conclusioni. Per esempio, se ci
riferiamo ad un solo tema tanto caro ad Agostino, come quello dell’unità del Corpo Mistico, unità
che va al di là dello spazio, del tempo e della stessa morte, ecco quanto leggiamo nel Direttorio del
1814 (pp. 30,32): “In questo S. Istituto ciascuna Religiosa venga a fare in qualche maniera una
perpetua Adorazione a Gesù nel Ss. Sacramento, benché sia fuori del suo Turno, mentre a dire di S.
Giovanni Crisostomo, la carità, ch’è una virtù unitiva, di molte persone che amano, ne forma una
persona sola; cosicché, essendosi tutte unite insieme per una santa mozione, e pio affetto, che le
trasporta verso questo mistero, di adorare il Signore senza intermissione, esse non altro sono, che un
corpo mistico, ed una sola persona ai piedi del Sacro Altare, di maniera che in qualunque degli
uffizi si trovino le Consorelle Religiose, elle possono stare pur contente sul riflesso che una di loro
sta davanti al Signore, che lo adora, lo ama, e che sta pregandolo per loro, e che esse stesse in
qualche modo stanno a pregarlo insieme con lei, ad adorarlo, e ad amarlo…
Siccome poi la Carità è quella che ci unisce fra noi, e non potendosi essa togliere colla
morte, che anzi si perfeziona in Cielo, così avendo le Spose del Ss. Sacramento adorato nella loro
Chiesa Gesù Cristo ricoperto agli occhi loro, lo adoreranno poi svelatamente in Paradiso… né
mancheranno di pregare per le loro Consorelle Adoratrici, che sono qui in terra, e di domandare in
grazia a Cristo Gesù, che come elle, così anche le altre abbiano la stessa sorte di goderlo nella sua
gloria.”
_________________________
(1) - Cf. Costit. 1818, pp. 39.
(2) - Cf. serie Oro n. 3, pp. 47-95.

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Ma c’è anche un piano superiore della storia, dove queste coincidenze non sono più
premeditate e le scelte non sono più umane. Agostino mostra nella Città di Dio il continuo
intervento della Provvidenza divina nella storia dell’umanità, che dopo la caduta di Adamo è stata
divisa in due città scaturite da due amori diversi e contrapposti. Su questo sfondo di continuo
conflitto, solo la Provvidenza è capace di trovare in tutti i tempi i cinquanta giusti (1) che hanno per
regola di vita l’amore di Dio che giunge fino al disprezzo di sé. Di questo loro amore si compiace
Dio per salvare la città quando avvengono quelle grandi ribellioni dell’uomo che hanno tutte un
solo nome: peccato originale, cioè amore di sé che giunge fino al disprezzo di Dio.
Così fu ai tempi di Agostino, quando le eresie minacciavano di frantumare l’unità della
Chiesa e del suo insegnamento, l’impero romano si andava sfaldando sotto la pressione dei vicini
popoli invasori, scompigliando razze, istituzioni, leggi e costumi; quando i goti saccheggiavano
Roma nel 410 e Girolamo si chiedeva: “Se Roma può perire, che cosa può esservi di sicuro?”. E
così fu anche ai tempi della Madre quando il suo Ordine sorgeva quasi tra i piedi dei rivoluzionari
francesi che nel 1808 invadevano Roma, diretti contro la Chiesa.
Ora, per tornare al piano superiore (2), c’è qualcosa nella storia più grande della storia, con
cui Dio la salva, e per cui i cinquanta giusti rimangono solo un pretesto.
Molti hanno cercato un punto d’appoggio per il mondo. Tra altri, Galileo cercava una volta
per mezzo della sapienza umana un punto d’appoggio per reggere la terra. A loro però non è stato
dato di trovarlo.”Ma a noi Dio lo ha rivelato per mezzo dello Spirito” (3), perché in realtà un punto
d’appoggio c’è, nel cuore della città, custodito giorno e notte da cinquanta Adoratrici: è l’Eucaristia
l’Amore con cui Dio salva la storia. E questo non è un amore platonico, né idilliaco, ma un amore
pasquale. E non viene né dalla Regola di Agostino, né dal carisma della Madre, perché nessuno
possa vantarsene (4). Invece ”in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che
ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati”(5).
I cinquanta giusti non salveranno mai la città terrena, non rifaranno mai la pace con la città
eterna, ma il Giusto - “egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo,
abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia.”(6).
Questa è la testimonianza delle Adoratrici (7), e la loro testimonianza è vera, affinché ”tutti
gli uomini conoscano Te, Via, Verità e Vita, e diventino un solo popolo adunato nell’unità del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, amandosi gli uni gli altri come Tu ci ami, o Signore. Amen” (8).

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(1) - Cf. Gen 18, 26.
(2) - Cf. Lc 22, 12.
(3) - Cf. 1 Cor 2, 10.
(4) - Cf. Ef 2, 8-9.
(5) - 1 Gv 4, 10.
(6) - Ef 2, 14.
(7) - Cf. Gv 1, 19ss.
(8) - Dalla Preghiera all’inizio dell’Adorazione.
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