H E N RI K I B S E N
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Drammi moderni
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ISBN 978-88-58-64805-6
me. C’è una rete, che è quasi una trama musicale, che va colta e
restituita. Nora ripete 15 volte l’aggettivo vidunderlig («meravi-
glioso»). Ben 15 su 19 volte, e le 19 di Una casa di bambola sono
19 di 47, totale dei 26 drammi ibseniani. La matematica non è
un’opinione. È chiaro che vidunderlig è parola-chiave di Una ca-
sa di bambola, ed è, in particolare, parola-chiave del personaggio
di Nora. Sono conteggi che oggi riescono facili, grazie alle Con-
cordanze ibseniane pubblicate alla fine del Novecento, ma l’intel-
ligenza non è acqua, e fa anche a meno dell’aiuto del computer.
In epoca non sospetta, anno del Signore 1910, Georg Groddeck
ha rivoltato come un calzino l’interpretazione tradizionale di No-
ra quale figurino dell’agiografia proto-femminista, mostrando
che in realtà la protagonista è dominata da un’ansia affabulatri-
ce, da una ininterrotta brama di meraviglioso. Ma ogni intuizione
si spegne se i traduttori – come accade ai nostri italici – si diverto-
no (per sciatteria o per sadica colpevolezza, poco importa) a va-
riare, rendendo vidunderlig una volta con meraviglioso, un’altra
con splendido, stupendo, oppure con i sostantivi miracolo, prodi-
gio o formule ancora più libere quali che cosa magnifica!
(Sia detto a mo’ di ideale parentesi, en passant, per il lettore un
po’ inesperto di Concordanze: nelle molte note a piè di pagina
dei testi tradotti utilizziamo sostantivi diversi – concordanze, fre-
quenze, ricorrenze, occorrenze – ma vogliono dire tutti la stessa
cosa, cioè quante volte una singola parola – sostantivo, aggettivo,
verbo, ecc. – ritorna nel vocabolario ibseniano. Quando invece è
registrato una sola volta, impieghiamo il termine hapax, vocabolo
dotto della filologia.)
Peraltro Ibsen non limita il suo gioco di richiami e di corrispon-
denze alle sole grandi parole-chiave. Talvolta lavora di cesello an-
che su semplici dettagli secondari. In Una casa di bambola il ter-
mine lune, «luna» torna 3 volte, due in bocca a Nora e una in boc-
ca a Torvald. In un caso Nora dice che avrebbe voluto vedere l’a-
mico di famiglia Rank «di buona luna» (anziché intristito perché
sa di dover morire prestissimo). Nell’altro caso è Torvald a osser-
vare che durante il ballo mascherato Rank è apparso invece «di
una luna così buona». Un traduttore esperto troverà certamente
le frasi infelici, e correggerà i due casi rispettivamente con «di
buon umore» e «così di buon umore». Peccato che nel terzo caso
sentiamo Nora spiegare all’amica Kristine che Torvald considera-
va come suo dovere di marito (alle prese con una moglie-bambo-
la) «non essere compiacente con i miei capricci e le mie lune –
come credo che le chiamasse». È qui che casca l’asino, cioè che
8 HENRIK IBSEN
ra) tira fuori nel momento in cui sigilla, compiaciuto, la sua missi-
va inviata all’odiato rivale accademico.
Ibsen, si sa, è l’insuperato e geniale inventore del teatro del sa-
lotto borghese. Ma proprio per questo resta strategico lo sforzo di
individuare i vari tipi di impianto scenico. C’è un generico «salot-
to» (stue) per Una casa di bambola, un «salotto che dà sul giardi-
no» (havestue) per Spettri, La signora del mare e Il piccolo Eyolf,
una «sala che dà sul giardino» (havesal) per I sostegni della so-
cietà. In pochissimi casi Ibsen utilizza il termine francese salon
(dunque da noi lasciato in francese, evidenziato dal corsivo). Pra-
ticamente solo nella villa signorile di Hedda Gabler (dove è chia-
mato anche selskabsværelse, «sala di ricevimento»), mentre un
mindre salon, cioè un «piccolo salon», caratterizza uno degli in-
terni de Il costruttore Solness. C’è poi il dagligstue, che è il salotto
dei poveri, tradotto dunque giustamente con «stanza di soggior-
no» o «soggiorno». Compare non a caso negli ambienti più mo-
desti (Un nemico del popolo, L’anitra selvatica). Nella lussuosa
magione del John Gabriel Borkman sono presenti contempora-
neamente un havestue e un dagligstue (per non parlare di un «sa-
lone delle feste», pragtsal), ma si tratta di una grandezza passata
cui corrisponde una miseria presente. I coniugi vivono come sepa-
rati in casa: il marito nel piano di sopra, nel sontuoso «salone del-
le feste»; la moglie a piano terra, con l’avvertenza sparagnina di
stare rintanata nel «soggiorno», senza invadere il contiguo «salot-
to che dà sul giardino», che fa illuminare (e riscaldare) solo quan-
do arriva qualche ospite di riguardo. È una società borghese (pre-
consumistica) dove si mettono le fodere alle poltrone e ai sofà,
per risparmiosa previdenza. Di qui il commento scandalizzato
della zia Julle, stupita che Hedda Gabler tenga le poltrone della
«sala di ricevimento» senza fodere: «Fanno conto di stare qui den-
tro – in questo modo tutti i giorni [til daglig]?». Insomma, è evi-
dente che ci sono salotti e salotti. Salotti in cui poltrone e sofà so-
no messi in naftalina, e salotti dove – per quanto belli e preziosi –
si vive quotidianamente, tutti i giorni, e in cui quindi non è possi-
bile ricorrere alle benedette fodere. È il caso del salotto illustre
(ma austero) di Casa Rosmer, imponente con quella sfilza di ri-
tratti di antenati autorevoli – in uniforme – appesi alle pareti. Ma
Rosmer è un ex pastore luterano, intellettuale ombroso, poco
aperto alla socialità mondana, e dunque usa abitualmente del suo
salotto buono come fosse un modesto tinello, di cui disporre per
la quotidianità (sicché Ibsen lo definisce impassibilmente come
dagligstue, «stanza di soggiorno»).
PREFAZIONE 11
mente agli spazi chiusi, che sono però prevalenti. Verso la fine
della sua lunga stagione di teatro borghese, in verità, Ibsen sem-
bra avvertire la necessità di sfuggire alla scatola scenica ottocen-
tesca, ma – ad essere onesti – senza una effettiva modificazione
sostanziale dell’impianto drammaturgico. I personaggi continua-
no a dilaniarsi in furiosi dialoghi testa a testa, tirando fuori gli
scheletri che stanno nei metaforici armadi: stando seduti in giar-
dino o su per i monti, esattamente come quando stavano sprofon-
dati nelle comode poltrone del salotto borghese. Le piantine – ri-
prodotte ad apertura di testo – sono state realizzate da Luca Are-
se, del Laboratorio Multimediale “Guido Quazza” dell’Univer-
sità di Torino, che qui ringrazio. Destra e sinistra si intendono
sempre dal punto di vista dello spettatore, come chiarito dallo
stesso Ibsen in una sua lettera del 22 novembre 1884 raccolta nel
volume Henrik Ibsen. Vita dalle lettere, a cura di Franco Perrelli.
L’enfasi è una componente fondamentale della scrittura ibse-
niana, benché nasconda sempre il veleno nella coda, o si sforzi di
marcare una differenza, una contrapposizione, uno scontro fra gli
individui. Il povero Rank, innamorato respinto da Nora, destina-
to a morte imminente, entra per l’ultima volta nel salotto della
coppia coniugale: «Che ambiente caldo e accogliente avete voi in
questo vostro interno, voi due». Ibsen scrive proprio così, con la
virgola che isola il finale voi due, come uno schiaffo sugli egoisti
che continueranno a vivere e ad amarsi, anche dopo la sua scom-
parsa. E c’è tutta quella triplice insistenza sul pronome di secon-
da persona plurale (voi... vostro...voi), sebbene vada detto che
nella lingua dano-norvegese (così chiamata perché la Norvegia
era stata per secoli dominio danese, e il danese – più o meno – è
la lingua in cui scrive propriamente Ibsen) il pronome è obbliga-
torio con la forma verbale, come in francese o in inglese (ma non
in italiano). Anche in questo caso non ci siamo spaventati a intro-
durre qualche io e qualche tu che in italiano potranno sembrare
un po’ retorici. Sentiamo Nora che si dichiara pronta a suicidarsi
per salvare il marito dallo scandalo: «Quando io sarò scomparsa
dal mondo, allora tu sarai libero». Certo, può stare anche senza io
e senza tu, ma è un’altra cosa. C’è uno slancio altisonante, in que-
sta Nora, che però si deve veder tracimare dalla concretezza del-
le parole che fuoriescono dalle sue labbra.
Insomma, ci è sembrato giusto e urgente restituire un Ibsen
molto vicino all’originale. Compresi alcuni punti esclamativi che
l’occhio nostro avrebbe volentieri trasformato in punti interroga-
tivi. E comprese talune fluttuazioni di registro (come gli anni dei
PREFAZIONE 13
* Le note sono a cura di Roberto Alonge. Alcune note sono a cura del tra-
duttore e ne viene data indicazione.
1
In omaggio alla scelta della maggior coerenza possibile con il testo origina-
le abbiamo tradotto I sostegni della società, e non, come di consueto, Le co-
lonne della società. Questo perché, nel corso del dramma, Ibsen usa il sostan-
tivo støtter, «sostegni», e il relativo verbo støtte, «sostenere», che hanno, come
è evidente, radice comune. Da cui anche una serie di intrecci linguistici fra
støtter e støtte che non sarebbe stato possibile conservare con la scelta di co-
lonne. (Sandra Colella)
PERSONAGGI
IL CONSOLE BERNICK2
LA SIGNORA BERNICK, sua moglie
OLAF, lorofiglio, tredicenne
LA SIGNORINA BERNICK, sorella del console
JOHAN TØNNESEN, fratello minore della signora Bernick
LA SIGNORINA HESSEL,3 sorellastra maggiore della signora Bernick
HILMAR TØNNESEN, cugino della signora Bernick
IL PROFESSORE DI LICEO RØRLUND4
IL GROSSISTA RUMMEL
IL COMMERCIANTE VIGELAND
IL COMMERCIANTE SANDSTAD
DINA DORF, una ragazza in casa del console
L’AMMINISTRATORE KRAP5
2
«Console», titolo onorifico, «che si dà in provincia all’uomo più influente
del distretto: l’unico titolo, perché i nobiliari sono aboliti in Norvegia» (Sla-
taper 1916, p. 154). Nella particolarità del nostro testo è probabile un riferi-
mento ai viaggi giovanili all’estero – Parigi Londra – effettuati da Bernick,
per i quali è considerato da tutti un uomo di mondo, raffinato ed elegante.
Non essendo presumibilmente provvisto di una qualifica professionale cano-
nica (non è infatti né medico né avvocato né notaio, ma solo un generico uo-
mo d’affari), una volta divenuto potente, si compiace di un titolo altisonante,
sebbene vuoto. In coerenza con una società fondata sulle apparenze (e sulle
ipocrisie) come è quella in cui vive Bernick.
3
Si tratta di Lona, come è chiamato normalmente il personaggio.
4
Rørlund è definito adjunkt, un professore di liceo. Il personaggio – spesso
moraleggiante – viene chiamato da Lona per dileggio herr pastor, «signor pa-
store», ma la traduzione di Anita Rho (Einaudi) equivoca grossolanamente e
lo presenta, sin dalla tavola dei personaggi, come «il vicario» Rørlund, cioè
con una valenza chiaramente ecclesiastica.
5
Le traduzioni italiane più accreditate (Einaudi e Mursia) rendono con «pro-
curatore», ma fuldmaegtig etimologicamente rimanda a una persona che ha
«pieni poteri». Krap è l’uomo di fiducia, il delegato, il factotum del padrone.
Traduciamo con «amministratore».
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 25
L’azione si svolge in casa del console Bernick, in una città costiera minore
della Norvegia.
6
Le traduzioni di skibsbygger oscillano comicamente fra il livello basso di
«carpentiere» (Einaudi) e il livello alto di «ingegnere navale» (Mursia). Nel-
l’originale c’è un etimo che rinvia alla dimensione navale (skib), ma si tratta
di un capo-mastro, non già di un ingegnere. Rendiamo pertanto con «capo-
cantiere navale».
PRIMO ATTO
9
A partire dal 1850, cominciò in Norvegia un forte processo di industrializza-
zione, grazie all’introduzione di nuove tecnologie provenienti dalla vicina In-
ghilterra. I metodi di lavoro cambiarono e il numero degli operai diminuì
drasticamente, tanto che molti furono costretti a emigrare in America. (San-
dra Colella)
28 HENRIK IBSEN
12
Hilmar è un cugino della signora Bernick, ma Olaf lo chiama «zio» per la
consuetudine norvegese di chiamare «zio» o «zia» tutti gli adulti più o meno
imparentati con i propri genitori. Per la malattia di Hilmar cfr. n. 32.
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 33
14
Le compagnie teatrali di giro, per lo più danesi, si diffusero in Norvegia do-
po il 1830, quando si creò, come conseguenza del rafforzamento del potere
economico e politico della borghesia, un nuovo mercato per il teatro. Mentre
le associazioni drammatiche erano formate da amatori e dilettanti (cfr.
n. 13), nelle compagnie di giro, invece, c’erano attori professionisti. General-
mente ci fu sempre una grande diffidenza nei confronti dei membri delle
compagnie di giro. Andare a teatro era considerato piuttosto sconveniente e
gli attori erano spesso accusati di libertinaggio e alcoolismo (cfr. Lyche 1991,
pp. 49-54). (Sandra Colella)
15
La signora Rummel, dopo aver affermato che l’arrivo della compagnia tea-
trale di giro fu davvero «il peggio del peggio», fa improvvisamente marcia in-
dietro: si è resa conto che alla conversazione è presente Dina, orfana dell’at-
trice Dorf (che diede scandalo per una storia adulterina), ora accolta in casa
da Bernick. (Sandra Colella)
36 HENRIK IBSEN
17
Ibsen distingue tra due diverse connotazioni di «signora»: frue è la signora
borghese, protagonista largamente maggioritaria del suo teatro; madam è in-
vece la signora di livello sociale basso (governanti, ostesse, ostetriche, ecc.),
talvolta con connotazione misuratamente spregiativa (come in questo testo,
dove è riferito ad attrici o a donne eccentriche, considerate – a torto o a ra-
gione – di dubbia moralità). Abbiamo tradotto con il termine «madama», an-
che pensando alla celebre «Madama Pace» dei pirandelliani Sei personaggi
in cerca d’autore, di professione tenutaria di un bordello.
38 HENRIK IBSEN
18
I sostegni della società non è un capolavoro, ma è il prologo di molti capo-
lavori. Ibsen vi sperimenta, come in nuce, personaggi e situazioni che ritrove-
remo, più tardi, artisticamente realizzati. Questa Dina pronta a sposare un
professore che non ama, ma che le insegna delle cose, che soddisfa parzial-
mente la sua esigenza di emancipazione, prepara la Bolette de La signora del
mare.
42 HENRIK IBSEN
(Lei esce in direzione del tavolo del caffè. Nello stesso momento il
grossista Rummel, il commerciante Sandstad e il commerciante Vi-
geland escono dalla stanza anteriore a sinistra, seguiti dal console
Bernick, che ha un fascio di carte in mano.)
19
Famoso massiccio montuoso, nella regione a sud della città di Trondheim.
Qui viene localizzata da Ibsen la reggia del vecchio di Dovre, dove si riuni-
scono i trold e gli spiriti della montagna nel giovanile Peer Gynt. (Sandra Co-
lella)
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 43
20
Se fino all’anno precedente il console e i suoi amici erano stati d’accordo nel-
l’osteggiare la linea ferroviaria costiera, essendo i loro interessi economici lega-
ti allo sviluppo del trasporto marittimo, adesso, evidentemente, grazie alla tro-
vata della linea secondaria, sono tutti presi dal grande affare della ferrovia. Ne I
sostegni della società si trovano un po’ tutte le novità della società norvegese di
metà secolo: la linea ferroviaria; lo sviluppo delle città costiere grazie al com-
mercio marittimo con l’Inghilterra e il conseguente rafforzamento della classe
borghese imprenditoriale; l’arrivo dei nuovi macchinari industriali inglesi e le
conseguenti agitazioni politiche dei lavoratori (cfr n. 9); l’ideale degli Stati Uni-
ti d’America, terra di emigrazione ma anche di libertà. (Sandra Colella)
44 HENRIK IBSEN
(Escono a destra.)
21
Si allude, qui, alla questione delle coffin ships, «bare galleggianti», corri-
spondenti alle odierne carrette del mare. Contro le coffin ships Samuel Plim-
soll (1824-1898), uomo politico inglese, portò avanti una violenta battaglia
46 HENRIK IBSEN
22
Mustang, piccoli e resistenti cavalli selvatici di razza spagnola, importati in
Messico e nel sud-ovest degli Stati Uniti, dove venivano lasciati liberi di pa-
scolare autonomamente in inverno, salvo essere ricatturati in primavera. Il
termine è inglese, derivato da una parola messicana, calco, a sua volta, di una
parola spagnola. (Sandra Colella)
23
Fruentimmer, «femmina», solo 22 ricorrenze in tutto Ibsen, con un valore
sempre leggermente più negativo rispetto a kvinde, «donna», 511 frequenze.
Naturalmente i traduttori (italiani ma anche stranieri) nemmeno si accorgo-
no di questa differenza.
48 HENRIK IBSEN
26
Anche in Norvegia, come in tutto il mondo occidentale, il colore del lutto è
il nero. Unica eccezione è la morte dei bambini, circostanza in cui il colore
bianco assume tale triste connotazione. Si potrebbe spiegare, in tal modo,
l’associazione mentale che Lona Hessel fa nel vedere le signore intente a cu-
cire «qualcosa di bianco». (Sandra Colella)
27
Una delle tante associazioni di stampo religioso che si svilupparono intor-
no alla metà del secolo in Norvegia, a difesa della moralità e per venire in
aiuto agli indigenti e a coloro che, per vari motivi, erano emarginati dalla so-
cietà. (Sandra Colella)
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 51
sere piena luce qui, quando il ragazzo arriva. Sì, vedrete un ra-
gazzo che si è lavato –28
HILMAR TØNNESEN Uff!
SIGNORINA HESSEL (apre la porta e le finestre) – Sì, vale a dire
quando si sarà lavato – su in albergo; perché sul vapore si è
sporcato come un maiale.
HILMAR TØNNESEN Uff, uff!
SIGNORINA HESSEL Uff? Ma sì, non può essere vero –! (Indica
Hilmar e chiede agli altri.) Lui sta ancora qui ad oziare e a dire
uff?
HILMAR TØNNESEN Io non ozio; sto qui a causa della mia ma-
lattia.29
PROFESSOR RØRLUND Hm, mie signore, io non credo –
SIGNORINA HESSEL (che ha adocchiato Olaf) È tuo, Betty, que-
sto? – Dammi la zampa, ragazzo! Oppure hai forse paura della
tua vecchia brutta zia?
PROFESSOR RØRLUND (mentre prende il suo libro sotto il brac-
cio) Le mie dame, non credo che ci sia l’atmosfera per lavorare
oltre, oggi. Ma domani, certo, ci incontriamo?
SIGNORINA HESSEL (mentre le dame estranee alla famiglia si al-
zano per salutare) Sì, facciamolo. Sarò puntuale.
PROFESSOR RØRLUND Lei? Con permesso, signorina, cosa vuol
fare lei nella nostra associazione?
SIGNORINA HESSEL Voglio cambiare l’aria, signor pastore.
28
Ibsen allude qui all’antica usanza dei Vichinghi di sottoporre i bambini a
una prova di forza, consistente nel lavarsi in una pozza d’acqua fra i ghiacci.
Il suo superamento era indice di coraggio virile. (Sandra Colella)
29
Nel personaggio secondario di Hilmar Tønnesen, che si trascina la sua ma-
lattia, abbiamo un altro incunabolo de La signora del mare, la figura del gio-
vane scultore tisico Lyngstrand.
SECONDO ATTO
non va troppo bene; e lei ha ben accennato ieri che hanno do-
vuto viaggiare in seconda classe –
SIGNORA BERNICK Sì, purtroppo, deve proprio essere qualcosa
del genere. Ma che lei lo abbia seguito! Lei! Dopo quella bruta-
le offesa che ti ha fatto –!
CONSOLE BERNICK Ah, non pensare a queste vecchie storie.
SIGNORA BERNICK Come posso pensare ad altro in questo mo-
mento? Lui è pur sempre mio fratello; – sì, ma non è per lui;
piuttosto tutto il fastidio che potrebbe causare a te –. Karsten,
io sono così mortalmente angosciata dal fatto che –
CONSOLE BERNICK Per che cosa sei angosciata?
SIGNORA BERNICK E se a qualcuno venisse l’idea di metterlo in
prigione per quei soldi che sparirono a tua madre?
CONSOLE BERNICK Ah, che sciocchezze! Chi può dimostrare
che quei soldi sparirono?
SIGNORA BERNICK Oh, Dio mio, questo lo sa tutta la città, pur-
troppo; e tu stesso hai detto –
CONSOLE BERNICK Io non ho detto nulla. La città non ha alcuna
informazione su quelle vicende; erano tutte quante voci senza
fondamento.
SIGNORA BERNICK Oh, come sei magnanimo, Karsten!
CONSOLE BERNICK Lascia perdere questi ricordi, ti dico! Non
sai quanto mi tormenti nel rivangare tutto ciò. (Va su e giù per
la stanza; quindi getta via il bastone.) Che dovessero anche ve-
nire a casa proprio adesso, – adesso, quando ho bisogno di un
atteggiamento assolutamente positivo sia in città che sulla
stampa. Si invieranno corrispondenze ai giornali nelle città vi-
cine. Sia che io li accolga bene, o che li accolga male, comunque
si discuterà e si investigherà. Si scaverà in tutta questa vecchia
faccenda, – come fai tu. In una società come la nostra –. (Butta i
guanti sul piano del tavolo.) E non ho una persona, qui, con cui
poter parlare e in cui poter trovare un sostegno.
SIGNORA BERNICK Proprio nessuna, Karsten?
CONSOLE BERNICK No, chi dovrebbe essere costei? – Averli alla
gola proprio adesso! Non c’è dubbio che faranno scandalo in
un modo o in un altro, – soprattutto lei. Non è una sciagura an-
che questa, avere tali persone nella propria famiglia!
SIGNORA BERNICK Sì, capisco, io non posso far nulla per –
CONSOLE BERNICK Per che cosa tu non puoi far nulla? Per il fat-
to che sei in parentela con loro? No, questo è del tutto certo.
SIGNORA BERNICK E non li ho nemmeno pregati di tornare a
casa.
54 HENRIK IBSEN
Me, quando mio padre e mio nonno hanno lavorato per una vi-
ta intera nel cantiere navale, e io stesso come loro –
CONSOLE BERNICK Chi è che mi costringe a questo?
CAPOCANTIERE AUNE Lei pretende cose impossibili, signor con-
sole.
CONSOLE BERNICK Oh, una forte volontà non conosce nessuna
impossibilità. Sì o no; mi risponda senza esitazione, altrimenti
lei ha il suo licenziamento su due piedi.
CAPOCANTIERE AUNE (un passo più vicino) Signor console, lei
ha riflettuto bene su cosa significhi licenziare un vecchio ope-
raio. Intende dire che egli dovrà trovarsi qualcos’altro? Oh sì,
certo che può; ma è tutto qui? Lei dovrebbe essere presente in
casa di un operaio licenziato in tal modo la sera in cui ritorna al
focolare e posa la cassetta degli attrezzi sulla soglia.
CONSOLE BERNICK Pensa che io la licenzi a cuor leggero? Non
sono sempre stato un padrone ragionevole?
CAPOCANTIERE AUNE Ancora peggio, signor console. Appunto
per questo a casa mia non daranno a lei la colpa; non mi diran-
no niente, perché non osano; ma mi guarderanno senza che io
me ne accorga e penseranno così: se lo dev’essere proprio me-
ritato. Lei capisce bene, questo – questo non lo posso sopporta-
re. Per quanto modesto io sia, sono sempre stato abituato ad
essere considerato il primo tra i miei. Anche la mia umile fami-
glia è una piccola società, signor console. Questa piccola società
l’ho potuta sostenere e tenere in piedi perché mia moglie ha
creduto in me, e perché i miei figli hanno creduto in me. E ades-
so tutto questo crollerà.
CONSOLE BERNICK Sì, se non si può fare in altro modo, allora ciò
che è di minore importanza deve cedere a ciò che è di maggiore
importanza; il singolo deve essere sacrificato in nome di Dio per
la collettività. Altro non so risponderle, e diversamente non va
di certo qui nel mondo. Ma lei è un uomo ostinato, Aune! Lei è
contro di me non perché non può fare altro, ma perché non vuo-
le riconoscere la superiorità dei macchinari sul lavoro manuale.
CAPOCANTIERE AUNE E lei persiste nel suo intento, signor con-
sole, perché sa che, se mi caccia via, convincerà se non altro la
stampa della sua buona volontà.
CONSOLE BERNICK E se pure fosse? Ha sentito in quale situa-
zione mi trovo, – o avere addosso la stampa oppure renderla
ben disposta verso di me proprio nel momento in cui lavoro per
qualcosa di grande a favore del bene pubblico. E allora cosa?
Posso comportarmi diversamente da come faccio? Posso dirle
58 HENRIK IBSEN
32
La battuta è ellittica: vuol dire che, a causa della sua malattia, cioè per non
pensare alla sua malattia, ha bisogno di socializzare, di distrarsi.
60 HENRIK IBSEN
33
La signora Bernick non è stata affatto violenta, ma, in preda all’angoscia e
al senso di colpa nei confronti del marito, cui è totalmente sottomessa, ritie-
ne (a torto) di esserlo stata. (Sandra Colella)
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 61
OLAF (sulla porta che dà sul giardino) Zio Hilmar, lo sai, tu, che
cosa mi ha chiesto lo zio Johan? Mi ha chiesto se voglio andare
con lui in America.
HILMAR TØNNESEN Tu, allocco, che stai appeso alle gonne di tua
mamma –
OLAF Sì, ma non voglio più farlo. Vedrai quando divento grande –
HILMAR TØNNESEN Ah, tutte sciocchezze; tu non hai nessun se-
rio bisogno per quella fortificazione, che sta nel –
come avrebbe osato lasciare solo me, creatura sventata, me, che
alla tenera età di diciannove anni mi ero lasciato andare a –
CONSOLE BERNICK E allora?
JOHAN TØNNESEN Sì, Karsten, adesso arrivo alla confessione di
cui mi vergogno.
CONSOLE BERNICK Non le hai mica confidato la cosa?
JOHAN TØNNESEN Sì invece. È stato scorretto da parte mia; ma
non potevo fare altro. Non puoi proprio immaginare che cos’è
stata Lona per me. Tu non hai mai potuto soffrirla; ma per me è
stata come una madre. Nei primi anni, quando è stata così dura
per noi laggiù, – quali lavori non ha fatto? E quando sono stato
malato per un lungo periodo, e non ho potuto guadagnare nul-
la, e non potevo fare altrimenti, si è messa a cantare canzoni nei
caffè, – a tenere conferenze che la gente prendeva in giro; e ha
scritto perfino un libro, di cui poi lei stessa ha riso e pianto in-
sieme, – tutto questo per tenermi in vita. Potevo rimanere a
guardare che stesse a struggersi in quel modo in inverno, lei,
che aveva fatto tanti sacrifici per me? No, non potevo, Karsten.
E allora dissi: vai tu, Lona; non temere per me; io non sono così
sventato come pensi. E così – così finì per saperlo.
CONSOLE BERNICK E come l’ha presa?
JOHAN TØNNESEN Be’, disse che giacché sapevo di essere inno-
cente, come era vero, non poteva causarmi alcun danno fare un
viaggio con lei quassù. Ma stai tranquillo; Lona non parla, e io
saprò ben controllare la mia bocca un’altra volta.
CONSOLE BERNICK D’accordo, sì, conto su questo.
JOHAN TØNNESEN Qua la mano. E non parliamo più di quella
vecchia storia; fortunatamente è l’unica sciocchezza di cui uno
di noi si è reso colpevole, penso. Adesso voglio davvero goder-
mi quei pochi giorni in cui sto qui. Non puoi credere quale
splendido giro abbiamo fatto stamattina. Chi poteva pensare
che quella piccola monella che correva qui e faceva l’angelo a
teatro –!34 Ma dimmi, tu, – come andò poi con i suoi genitori?
CONSOLE BERNICK Oh, caro, io non ho null’altro da raccontare
se non ciò che ti scrissi subito dopo che partisti. Sì, ricevesti, in-
fatti, le due lettere?
34
È un altro tema che ritroveremo ne La signora del mare: l’uomo adulto che
rivede dopo molto tempo – ormai cresciuta – una antica bambinetta, con un
sentimento di turbamento erotico del tutto palese. Dalla battuta non è affat-
to evidente il riferimento a Dina, ma il commento sorge istintivamente sulla
bocca dell’adulto proprio perché turbato.
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 67
35
Marta è la sorella del console, chiamata normalmente «Signorina Bernick».
36
Almueskole, letteralmente «scuola per il popolo», vale a dire gratuita e
aperta a tutti gli strati sociali. (Sandra Colella)
68 HENRIK IBSEN
37
Ancora un passaggio non troppo chiaro: Bernick ha aiutato per un po’ la
madre nella gestione della ditta, a titolo gratuito; poi, in un secondo tempo,
ha preteso di essere coinvolto come socio nella ditta stessa; e in un terzo tem-
po ne è diventato proprietario unico. Nel calcolo dei soldi la povera sorella è
rimasta però senza un quattrino. Si osservino i tre saporosi naturligvis («na-
turalmente») che costellano il discorso un po’ canagliesco (e molto maschili-
sta) del personaggio. Un poco avanti un quarto naturligvis.
38
Un vero mostro questo prototipo dei grandi eroi ibseniani: lucidi, calcola-
tori, privi di sentimento, con le mogli, ma anche con i parenti stretti, sangue
del loro sangue. Quasi disgustoso il cinismo con cui rende conto che in una
grande casa c’è sempre bisogno di una sorella, anche squattrinata.
39
L’egoismo sconfinato del personaggio emerge perfettamente dalla ridon-
danza dei complementi oggetto: me, Betty, Olaf e me (con il me che apre e
chiude la serie).
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 69
40
Si osservi come la norvegese signora Bernick e la norvegese signorina Ber-
nick chiamino il personaggio «Johan», alla norvegese, mentre l’americana si-
gnorina Lona Hessel lo chiami, all’americana, «John». Da parte di Lona si
tratta di una voluta provocazione: più avanti lo chiamerà anche lei alla ma-
niera norvegese.
72 HENRIK IBSEN
41
Dunque Bernick lascia Lona, che pure ama, ma sposa la di lei sorellastra
Betty, perché la prima non ha un quattrino e la seconda eredita una grossa
fortuna. Ancora un tratto che anticipa il John Gabriel Borkman, dove il pro-
tagonista rinuncia a sposare Ella, pur amandola, e sposa la di lei sorella ge-
mella Gunhild, per pure questioni di interesse economico-carrieristico. Da
notare che i grandi eroi del ciclo finale (Il costruttore Solness, John Gabriel
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 75
42
Bernick anticipa i tratti dei protagonisti sopra ricordati, per i quali non esi-
ste il cuore, e nemmeno il sesso (se non come sfogo fisiologico), tutti proiet-
tati nella tensione del lavoro, della carriera, del successo. Questa pagina che
rende conto di come Betty abbia dovuto abituarsi a poco a poco a una pro-
spettiva di vita coniugale fondata sull’astinenza (o quasi) è splendidamente
crudele.
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 77
(Breve silenzio.)
(Il console Bernick, con in mano una canna d’India, esce in acces-
so di violenta collera dalla stanza posteriore a sinistra e lascia la
porta semi-aperta dietro di sé.)
45
Nel teatro di Ibsen della seconda fase (quella contemporanea, che inizia
appunto con I sostegni della società) si origlia molto, e questa è solo la prima
avvisaglia. La porta in questione comunica con le stanze dell’interno dell’a-
bitazione. Si noti la finezza del dettaglio verbale: il padrone di casa ha lascia-
to la porta «semi-aperta» (halvt åben), ma per il suo interlocutore – che la
vorrebbe chiusa – quella porta è «semi-chiusa» (på klem).
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 83
(Mentre vuole andare nella sua stanza entra da destra Hilmar Tøn-
nesen.)
48
Bernick ha scaricato strumentalmente su Johan sia la colpa della relazione
adulterina con l’attrice, sia le voci sugli ammanchi di cassa della ditta. La par-
tenza per gli Stati Uniti di Johan ha messo infatti Bernick in condizione di
«disporre» tanto di «un nome indifeso» (la reputazione di Johan) che «delle
voci» relative all’ammanco.
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 89
49
La maggior parte degli imprenditori, e degli artigiani, provenivano dalla
Danimarca e dal nord della Germania. (Sandra Colella)
50
Bernick può sembrare odioso, ma è solo il frutto del condizionamento di
un ambiente esteriore arretrato, che lo costringe a mentire, che gli dà l’aria
antipatica dell’ipocrita, del maneggione fariseo e farisaico. È la fatale distor-
sione indotta da questo milieu gretto, che finisce per attribuire un significato
meschino a quello che è legittimo profitto capitalistico, ricompensa di una in-
telligenza e di una energia, rischio d’impresa. Che Lona gli dia ragione con-
ferma la correttezza di questa immagine sostanzialmente positiva del perso-
naggio.
92 HENRIK IBSEN
51
Jeg kæmper for livet, «combatto per la vita». Emblema di quel personaggio
di grande combattente che è Bernick. Vedremo altri personaggi ibseniani
esprimersi con la stessa espressione (e la stessa determinazione psicologica):
cfr. ad esempio Una casa di bambola, n. 56.
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 93
(Breve silenzio.)
(Saluta ed esce.)
52
Samvittighedsfuld, letteralmente «pieno di coscienza», dunque «coscien-
zioso»: altra variazione sull’opposizione samvittighed/samvittighedsløs di cui
alla n. 46.
98 HENRIK IBSEN
53
Fordel, «profitto», termine che ritorna solo 9 volte nei magnifici 12, ma ben
6 di queste 9 volte proprio ne I sostegni della società: a conferma che si tratta
di un testo di fondazione della figura del capitano d’industria dell’epopea ca-
pitalistica.
100 HENRIK IBSEN
(Esce.)
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 101
(Esce a destra.)
OLAF Forse una volta potrò anche andare a caccia di bufali, zio.
HILMAR TØNNESEN Stupidaggini; un tale codardo, come tu –
OLAF Sì, aspetta solo; vedrai domani!
HILMAR TØNNESEN Allocco!
54
Olaf vuole scappare di casa, sottraendosi agli arresti domiciliari impostigli
dal padre; trovando la via sbarrata dall’arrivo di Krap, per il momento ritor-
na all’interno dell’abitazione, passando per la porta posteriore a sinistra (cfr.
la piantina di scena).
QUARTO ATTO
55
L’espressione død og pine ricorre in questo testo soltanto una volta ma è
molto frequente in altri drammi ibseniani. Letteralmente significa «morte e
supplizio», con riferimento implicito alla morte di Cristo e relativa connota-
zione blasfema. La traduzione «sangue di Cristo», utilizzata sistematicamen-
te in tutti i drammi, riflette l’intenzione di mantenere tale connotazione,
esplicitando il riferimento a Cristo. Una variazione dell’espressione è død og
plage, letteralmente «morte e tribolazione», altrettanto sistematicamente tra-
dotta come «Cristo morto». (Sandra Colella)
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 105
56
Samfundslag, «componenti sociali», e non «classi sociali» (Einaudi), che ha
una pregnanza troppo forte, da lotta di classe. Ibsen non ignora il termine
klasser, «classi» (che usa anche in questo testo, all’interno di una didascalia),
ma per il grossista Rummel (politicamente molto conservatore) non esisto-
no, ovviamente, attriti fra classi, e bisognerà, piuttosto, attenuare ogni sinto-
mo di lotta di classe, e parlare solo e sempre di «concordia» fra ceti, gruppi,
strati, ecc. della società.
106 HENRIK IBSEN
(Tutti gli uomini vanno nella stanza del console. La signorina Hes-
sel ha accostato le tende delle finestre e sta appunto per fare la stes-
sa cosa con la tenda della porta a vetri aperta, quando Olaf da so-
pra salta giù sulla scalinata del giardino; ha una coperta da viaggio
sulle spalle e un fagotto in mano.)
58
Abbiamo detto che Dina anticipa la Bolette de La signora del mare, che
sceglieva il matrimonio come soluzione per sfuggire alla chiusa comunità ori-
ginaria. Ma Dina ha in sé anche un po’ della Nora di Una casa di bambola,
che comprende, alla fine, che solo attraverso il lavoro la donna può emanci-
parsi dalla schiavitù al marito.
110 HENRIK IBSEN
CONSOLE BERNICK (agli uomini lì dentro) Sì, sì, gestite tutto co-
me volete. Quando verrà il momento, farò certo – (Chiude la
porta.) Ah, c’è qualcuno qui? Senti, Marta, ti devi abbigliare un
po’. E di’ a Betty che faccia lo stesso. Non desidero alcun lusso,
naturalmente; solo un grazioso abitino da casa. Ma dovete sbri-
garvi.
SIGNORINA HESSEL E un’aria felice, gioiosa, Marta; dovete met-
tere su facce allegre.
CONSOLE BERNICK Anche Olaf deve venire giù; voglio averlo
vicino a me.
SIGNORINA HESSEL Hm; Olaf –
SIGNORINA BERNICK Vado a dare istruzioni a Betty.
62
Tra le virtù di Bernick c’è anche quella del realismo. Ama gli States ma sa
bene che la Norvegia non è l’America. Adora Lona, ma solo finché lui sta a
Parigi; tornato in patria, si accorge che quella donna è troppo emancipata:
non per lui, ma per il paese. Lui vuole fare il capitalista ma è costretto a ope-
rare in quell’ambiente, e a quella latitudine non può cambiare la testa della
gente. Personalmente ha larghe vedute (va con un’attrice mentre sta per fi-
danzarsi con Betty, e forse non ha ancora rotto con Lona), ma la città è quel-
la che è, moralistica, bottegaia, ancora tutta pre-capitalistica. L’intero suo
contegno – pubblico e privato – è dettato da questa attenzione perspicace al-
la concreta realtà storico-sociale.
63
Fri og sand, «libera e vera». In queste parole si sintetizza l’ideale radicale
di Lona, che lo riprenderà in finale di dramma: sandhedens og frihedens ånd,
– det er samfundets støtter, «lo spirito di verità e di libertà, – questi sono i so-
stegni della società». (Sandra Colella)
114 HENRIK IBSEN
SIGNORINA HESSEL Karsten; hai detto che noi siamo venuti per
spezzarti. Allora lascia che ti dica di quale metallo è fatto que-
sto figliuol prodigo che la vostra morigerata società fugge come
se fosse un appestato. Lui può fare a meno di voi, perché ades-
so è partito.
64
Sarà il tormentone di Allmers de Il piccolo Eyolf: il protagonista rinuncia a
compiere la grande impresa che ha sognato, delegandola al figlio. È solo un
miserabile trucco, un escamotage per non confessare il proprio fallimento, ti-
pico di una figura ignobile quale è appunto Allmers. Per Bernick è la tenta-
zione momentanea di una battuta di arresto, quando gli sembra di non riusci-
re a sfondare, prima che Lona lo sferzi, costringendolo a dare il meglio di sé.
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 115
65
Uden nytte, «senza utilità». L’affondamento dell’«Indian Girl» è utile se an-
nega tra i flutti il pericoloso rivale. Bernick appartiene a una razza padrona,
spietata e feroce, pronta a tutto, anche all’omicidio, pur di realizzare il pro-
prio fine.
116 HENRIK IBSEN
(Le tende vengono scostate dalle finestre e dalla porta. Si vede tutta
la strada illuminata. Proprio sulla casa di fronte c’è una grande scrit-
ta luminosa: «Viva Karsten Bernick, sostegno della nostra società!».)
(La signora Bernick, con un grande scialle sulla testa, arriva attra-
verso la porta del giardino.)
66
Arne, sostantivo rarissimo, con 3 sole ricorrenze, di cui 2 in opere giovanili;
vale «focolare», ma utilizziamo il termine «nido» per non sovrapporlo al fon-
damentale hjem (cfr. n. 11).
67
Ikke første gang, «non la prima volta», dog første gang, «ma la prima vol-
ta», mangen gang, «molte volte» e, infine, dennegang, «questa volta»: lascia-
mo la ripetizione ibseniana del termine gang, «volta», adoperata probabil-
mente dal professor Rørlund per mettere in evidenza, scandendole, le nume-
rose circostanze in cui il console Bernick si è meritato l’omaggio dei cittadi-
ni. (Sandra Colella)
68
Timelig, un hapax. È Rørlund che sta parlando, sempre un po’ ecclesiastico
nel suo linguaggio, e dunque «mondano» – con la patina religiosa che ha – ci
sembra aggettivo adeguato.
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 121
69
Comincia il grande monologo finale davanti a una sorta di assemblea tu-
multuante, che tornerà come struttura portante nell’epilogo de Un nemico
del popolo: ma là a segnare la sconfitta del protagonista, qui la sua vittoria.
70
Magt è «forza», «violenza», in conclusione «potere»: ciò che inseguono sem-
pre gli eroi ibseniani, in primo luogo i self-made men, mai veramente interes-
sati al denaro, per i quali, piuttosto, il denaro è semplice contrassegno del po-
tere acquisito. Anche alcune eroine femminili sono ossessionate dal potere:
Hedda Gabler sogna di avere in mano – almeno una volta – il destino di un
uomo, e invidia molto l’amica Thea, che ha magt sul proprio uomo, Løvborg.
71
Interessato al potere, ma a buon diritto, perché capace. Le doti professiona-
li fondano e giustificano e legittimano la detenzione del potere. Il popolo è
talmente subalterno che risponde assentendo all’unisono. Questo primo con-
senso spinge Bernick all’attacco risolutivo.
124 HENRIK IBSEN
72
Straordinario capovolgimento dei ruoli. Bernick doveva essere l’accusato,
e diventa l’accusatore. La folla, da giudice, si trasforma in imputato (e in col-
pevole). Bernick ha acquistato personalmente i terreni della ferrovia, non
tanto per ricavarci una speculazione colossale, ma perché era l’unica manie-
ra di far funzionare il progetto, in un paese moralisticamente spaventato dal-
l’idea del guadagno capitalistico. La confessione diventa l’occasione di una
nuova investitura. Attraverso l’offerta all’azionariato popolare Bernick cede
quello che gli ha costantemente interessato meno, il valore economico del
I SOSTEGNI DELLA SOCIETÀ 125
(Grande movimento.)
(Parla a bassa voce con lui in fondo. Egli, quindi, esce attraverso la
porta del giardino. Durante il dialogo seguente si spengono gra-
dualmente tutte le scritte luminose e le luci nelle case.)
75
Betty anticipa il marito di Nora, che all’ultimo spera di riuscire a riconqui-
stare il coniuge.
76
Il realismo di Bernick è la sua virtù ma è anche, al tempo stesso, il suo limi-
te. Il personaggio è troppo realista, e quindi eccessivamente prudente. Non
ha mai osato spingere in avanti la situazione, incalzare la società arretrata in
cui si è trovato a vivere. Solo mezzo passo avanti; troppo poco per determi-
nare la modernizzazione di quella comunità. Però Bernick ha prontezza di ri-
flessi, sa sfruttare le occasioni che gli si offrono. Lona si è messa in testa di
operare un cambiamento nell’uomo che ha amato (anche lei, un po’ come
Hedda Gabler, ha bisogno di tenere fra le mani il destino di un uomo). E
Bernick ha l’intelligenza (e l’umiltà) di raccogliere quella provocazione,
quello stimolo che viene dall’esterno.
128 HENRIK IBSEN
(Esce a destra.)
77
Anche la doppia improvvisa notizia – che Olaf è sulla nave, e poi che non è
sulla nave; che Olaf è perduto e che Olaf è salvo – funziona un po’ per Ber-
nick come la provocazione esterna di Lona. È solo dopo questo shock che il
console decide di confessare. Sente di non poter ammodernare il contesto
sociale e immagina pertanto che la sua azione debba essere proseguita dal fi-
glio, in tempi futuri che saranno più aperti allo spirito del capitale. La morte-
risurrezione di Olaf è una frustata che aiuta Bernick a liberarsi del rapporto
strumentale con il figlio. Olaf non è più al servizio del padre; il figlio è il fi-
glio, e il padre è il padre. Bernick sente che la sua grande impresa la può con-
durre fino in fondo in prima persona. Si noti come tutto precipiti all’interno
di un’unica battuta: Bernick ha appena finito di esaurire le tenerezze paterne
(«Tu devi diventare te stesso, Olaf; il resto poi andrà come potrà. –»), e subi-
to, al di là della pausa rappresentata dal trattino, si volge alle sollecitudini
per lui più motivanti, quelle professionali, apostrofando il capocantiere na-
vale («E lei, Aune –»). Da padre a padrone. La vittoria di Bernick è totale,
schiacciante. I bigotti concittadini si accingono – dopo attento esame interio-
re – ad aprirsi alla nuova età, a una morale più tollerante; e la classe operaia
un po’ luddista (rappresentata da Aune) capitola, e si accinge ad accettare le
macchine. L’unica cosa che non è chiara e prevedibile, è ciò che farà Olaf
(sintomatico il sigillo «il resto poi andrà come potrà»). Il fatto è che il padro-
ne è più importante del padre, come sempre in Ibsen.
130 HENRIK IBSEN
78
«Palmetræet» har lykken med sig, «Il “Palma” ha la fortuna con sé», dice
la signorina Bernick. Og lykken ombord, «E la felicità a bordo», risponde la
signorina Hessel. Per la seconda volta (la prima qualche pagina indietro,
quando il console Bernick, saputo che l’«Indian Girl» non è partita più, di-
ce: O, hvilken usigelig lykke!, «Oh, che fortuna indicibile!», e poi aggiunge:
O, hvilket overmål af lykke, Betty!, «Oh, che sovrabbondanza di felicità,
Betty!») Ibsen usa 2 volte in modo ravvicinato il termine lykke, che nella
lingua norvegese ha una doppia accezione, di «fortuna» e di «felicità». (San-
dra Colella)
Giardino
Stanze interne
Sala Ingresso
che dà sul giardino dall’esterno
Stanza
console
Spettatori
I sostegni della società
UNA CASA DI BAMBOLA1
(1879)
Dramma in tre atti
Traduzione e note di Roberto Alonge
1
Et dukkehejm, «Una casa di bambola», con l’articolo indeterminativo (et),
una fra le tante: il dramma è l’exemplum di una vasta fenomenologia della vi-
ta familiare a fine Ottocento.
PERSONAGGI
L’AVVOCATO HELMER
NORA, sua moglie
IL DOTTOR RANK
LA SIGNORA LINDE
IL PROCURATORE LEGALE KROGSTAD
I TRE PICCOLI BAMBINI DEGLI HELMER
ANNE-MARIE, bambinaia presso gli Helmer
LA CAMERIERA presso gli stessi
UN FATTORINO
2
Lunga didascalia introduttiva, con la solita ossessione delle porte che carat-
terizza Ibsen: qui ne abbiamo ben quattro. Di due si precisa dove introduco-
no (nello studio di Helmer e nell’anticamera). Delle altre due non sappiamo,
secondo lo stile di Ibsen, che dice alcune cose, altre le nasconde, con voluta
perfidia. Come piantina riproduciamo il disegno (quasi perfetto) consultabi-
le in Chevrel 1989, p. 37, con la sola modifica dello studio di Helmer di cui al-
le nn. 44 e 55. Da notare che tutti i mobili sono addossati alle pareti, in modo
da lasciare libero il centro, come un ring in cui i personaggi si affrontano.
Certo, un teatro di parola, ma in cui sono decisivi i movimenti dei personaggi,
i loro spostamenti nello spazio, che velano/svelano i movimenti psicologici,
come mostrano le didascalie, spesso più importanti delle battute.
136 HENRIK IBSEN
4
C’è un tono biblico in Torvald, qui sul modello delle Tavole della Legge,
giocate sulla negazione ad incipit (Non uccidere, Non rubare, ecc.). Ma anche
nelle battute precedenti (la «sventatezza», l’insistenza sul verbo «dissipare»,
sætte over styr). Torvald ha qualcosa di luterano, è il portatore dei valori mo-
rali tradizionali; non è solo un marito sciocco e grigio, come spesso è inter-
pretato.
138 HENRIK IBSEN
7
C’è dunque un doppio accesso allo studio di Helmer, dal salotto ma anche
dall’anticamera. Ibsen – si è detto – lascia cadere in maniera un po’ clandesti-
na le informazioni sulla geografia della casa. Cfr. n. 2.
142 HENRIK IBSEN
NORA No, no, in questo puoi aver ragione. Sarà stato ricco, allora?
LA SIGNORA LINDE Era piuttosto benestante, credo. Ma affari
incerti, Nora. Quando lui morì, tutto è andato in fumo e non è
rimasto più niente.
NORA E così –?
LA SIGNORA LINDE Sì, così io ho dovuto darmi da fare con un
piccolo commercio e una piccola scuola e altro che potevo in-
ventarmi. Gli ultimi tre anni sono stati per me un unico, lungo
giorno di lavoro senza riposo. Ora è finita, Nora. La mia povera
madre non ha più bisogno di me, perché se n’è andata. E i ra-
gazzi nemmeno; ora si sono sistemati e possono prendersi cura
di loro stessi.
NORA Come devi sentirti leggera –
LA SIGNORA LINDE No, vedi; soltanto così indicibilmente vuota.
Nessuno più per cui vivere. (Si alza inquieta.) Per questo non
ho potuto sopportare più a lungo di restare laggiù, in quel pic-
colo luogo remoto. Qui dev’essere comunque più facile trovare
qualcosa che possa tenerti assorbita e che occupi i tuoi pensie-
ri. Soltanto potessi essere così fortunata da ottenere un posto,
un qualche lavoro d’ufficio –
NORA Oh, ma, Kristine, è così terribilmente stancante; e tu hai
già adesso l’aria così stanca. Sarebbe molto meglio per te se po-
tessi andartene alle acque termali.
LA SIGNORA LINDE (va verso la finestra) Io non ho nessun papà,
che mi possa dare in regalo il denaro per il viaggio, Nora.
NORA (si alza) Oh, non essere arrabbiata con me!
LA SIGNORA LINDE (andando verso di lei) Cara Nora, non esse-
re tu arrabbiata con me. La cosa peggiore in una situazione co-
me la mia è che si deposita nell’animo tanta asprezza. Non si ha
nessuno per cui lavorare; e intanto si è costretti a trafficare da
tutte le parti. Bisogna pur vivere; e così si diventa egoisti. Quan-
do mi raccontavi del fortunato cambiamento della vostra situa-
zione – crederesti? – ero contenta più per me che per te.
NORA Come, questo? Oh, ti capisco. Vuoi dire che Torvald po-
trebbe forse fare qualcosa per te.
LA SIGNORA LINDE Sì, è questo che pensavo.
NORA Lo farà difatti, Kristine. Lascia solo fare a me; presenterò
la cosa così finemente, così finemente, – inventerò qualcosa di
amabile, in modo che gli vada assolutamente a genio. Oh, vor-
rei volentieri renderti servizio.
LA SIGNORA LINDE Com’è bello da parte tua, Nora, che tu sia
così premurosa per i miei problemi, – doppiamente bello da
146 HENRIK IBSEN
parte di una come te, che conosce così poco i fardelli e i fastidi
della vita.
NORA Io –? Io conosco così poco i –?
LA SIGNORA LINDE (sorridendo) Eh via, Signore Iddio, quel po-
chino di lavoro d’ago e cose di questo genere –. Tu sei una bam-
bina, Nora.
NORA (rovescia la nuca e cammina per la stanza) Non dovresti
parlarmi con quest’aria di superiorità.
LA SIGNORA LINDE Ah sì?
NORA Tu sei uguale agli altri. Tutti quanti voi credete che io non
sia in grado di fare nulla di veramente serio –
LA SIGNORA LINDE Eh, eh –
NORA – e che io non abbia subìto delle prove in questo difficile
mondo.
LA SIGNORA LINDE Cara Nora, tu stessa poco fa mi hai raccon-
tato tutte le tue avversità.
NORA Uff, – bazzecole! (A voce bassa.) Non ti ho raccontato la
cosa grande.
LA SIGNORA LINDE Quale, grande? Che cosa vuoi dire?
NORA Tu mi guardi proprio dall’alto in basso, Kristine; ma non
dovresti farlo. Tu sei fiera di aver lavorato così duramente e co-
sì a lungo per tua madre.
LA SIGNORA LINDE Io non guardo sicuramente nessuno dall’al-
to in basso. Ma questo è vero: sono e fiera e compiaciuta quan-
do penso che mi è stato possibile rendere sereni gli ultimi anni
di vita di mia madre.
NORA E sei anche fiera quando pensi a ciò che hai fatto per i
tuoi fratelli.
LA SIGNORA LINDE Sembra a me di averne il diritto.
NORA Sembra a me pure. Ma ora devi ascoltare una cosa, Kristi-
ne. Anch’io ho qualcosa di cui essere fiera e compiaciuta.
LA SIGNORA LINDE Non ne dubito. Ma cosa vuoi dire?
NORA Parla a voce bassa. Pensa, se Torvald ascoltasse questo!
Lui non deve, per nessun prezzo al mondo –; nessuno lo deve
sapere, Kristine; nessuno all’infuori di te.
LA SIGNORA LINDE Ma che cos’è mai?
NORA Vieni qui vicino. (L’attira sul sofà accanto a sé.) Sì, vedi –
anch’io ho qualcosa di cui essere fiera e compiaciuta. Sono io,
che ho salvato la vita di Torvald.
LA SIGNORA LINDE Salvato –? Come, salvato?
NORA Ti ho appena raccontato del viaggio in Italia. Torvald non
avrebbe potuto uscirne fuori, se non fosse andato laggiù –
UNA CASA DI BAMBOLA 147
8
Le didascalie pesano molto nella scrittura drammaturgica di Ibsen. «Ab-
bandonandosi sul sofà», Nora si abbandona a segreti compiaciuti vagheggia-
menti della propria capacità seduttiva. Quando finisce il momento della fan-
tasticheria, riconquista la posizione eretta sul divano, «sedendosi di nuovo
ritta». In questo teatro ibseniano fondato sulla parola, in realtà è il corpo che
parla, che dice le cose più coinvolgenti.
148 HENRIK IBSEN
9
Sulla distinzione fra hus e hjem, fra «casa» e «focolare» cfr. I sostegni della
società, n. 11.
10
Perché Kristine ride? Per il compiacimento vanitoso di Nora che si consi-
dera «bella», e che infatti attenua subito la sua dichiarazione. Ma si noti l’im-
UNA CASA DI BAMBOLA 149
magine di Torvald sposo-pascià di terra nordica, che vuole una moglie al suo
servizio: buona a danzare (la danza dei sette veli?), a travestirsi, a recitare. Il
verbo forklæde, «travestirsi», compare solo in Una casa di bambola (2 ricor-
renze). Il sostantivo forklædning, «travestimento», ha parimenti 2 sole ricor-
renze (una nel nostro testo). E un hapax è il sostantivo forklædningsscene,
«scena di travestimento» (detto da Torvald). Che questa triade di attività
(danzare travestirsi recitare) abbia complessivamente valenza erotica, risulta
chiaramente dal contesto, in cui si allude alla vecchiaia di Nora. Per quella
stagione occorrerà «avere qualcosa di riserva», cioè la rivelazione del segre-
to. La grande azione di Nora, sommandosi a giovinezza e bellezza, rischia di
schiacciare Torvald, di umiliare la sua presunzione maschilista. Se invece bi-
lanciata da un’età matura, senza il fascino della bellezza e della gioventù, po-
trà risultare accettabile a Torvald.
11
Dejlig e fin, «delizioso» e «fine», altri due aggettivi che appartengono pre-
valentemente a Nora, donna borghese di classe, un po’ bamboleggiante, per-
ché trattata come una bambola. Su 23 ricorrenze (nel testo) del primo, 17 so-
no di Nora; e 6 su 11 del secondo.
150 HENRIK IBSEN
12
Forse Nora è nata in una città di mare, sulla costa. Certo suo padre è morto
lontano da lei, e a lui avrebbe dovuto «spedire per posta» il documento per il
prestito di denaro. Nora come una sorta di Ellida de La signora del mare? Il
mare come fonte del gusto del meraviglioso di Nora, contrapposto alla terre-
streità del prosaico Torvald?
UNA CASA DI BAMBOLA 151
13
Bedærvet, «tarato». Il tema della «tara» è tipico della cultura del Positivi-
smo, e Ibsen la riprende con forza, per esempio in Spettri, in cui il giovane
Osvald muore per le tare ereditarie di suo padre. Proprio il dottor Rank anti-
cipa Osvald; anche lui muore giovane perché figlio di un padre dissoluto. Il
verbo ritorna solo 2 volte in Una casa di bambola, e sempre in bocca a Rank,
entrambe in questa scena: all’inizio ha chiesto alla signora Linde se faceva le
scale lentamente perché «un pochino tarata dentro»: espressione scherzosa
UNA CASA DI BAMBOLA 153
per indicare una qualche piccola patologia. Tare fisiche e tare morali, forse
un po’ troppo esibite per non sospettare che Ibsen faccia solo finta di credere
alla ereditarietà delle tare (ma su questo torneremo a proposito di Spettri).
14
Nora dice «noi» e poi si corregge, dicendo «Torvald». Nasconde a fatica il
compiacimento per l’ascesa sociale del marito. Prima aveva rimproverato la
cameriera, che aveva chiamato il padrone «avvocato» e non «direttore della
banca». Ma c’è anche il fantasma della donna che vuole tenere fra le mani il
destino degli altri, come sarà in Hedda Gabler. Ibsen opera continuamente
una serie di piccole variazioni rispetto a poche figure di base.
154 HENRIK IBSEN
RANK Guarda guarda; amaretti. Credevo che qui fosse una mer-
ce proibita.
NORA Sì, ma questi sono quelli che mi ha regalato Kristine.
LA SIGNORA LINDE Cosa? Io –?
NORA Eh, eh, eh; non spaventarti. In fondo non potevi sapere
che Torvald li avesse proibiti. Devo dirti che ha paura che mi
facciano i denti brutti. Ma, uff, – una volta tanto –! Non è vero,
dottor Rank? Prego! (Gli mette in bocca un amaretto.) E anche
tu, Kristine. E anch’io ne prenderò uno; solo uno piccolo – o al
massimo due. (Passeggia di nuovo.) Sì, ora sono veramente, im-
mensamente, felice. Ora c’è soltanto un’unica cosa al mondo di
cui avrei un’immensa voglia.
RANK Davvero? E che cos’è?
NORA È qualcosa, che avrei un’immensa voglia di dire in modo
che Torvald l’ascoltasse.
RANK E dunque perché non può dirla?
NORA No, non oso, perché è così brutto.
LA SIGNORA LINDE Brutto?
RANK Sì, allora non è raccomandabile. Ma a noi in fondo lei
senz’altro può – Cos’è, che ha tanta voglia di dire in modo che
Helmer l’ascolti?
NORA Io ho così tanta, immensa, voglia di dire: sangue di Cristo.15
RANK Lei è pazza!
LA SIGNORA LINDE Ma no, Nora –!
RANK Lo dica. Eccolo!
NORA (nascondendo il sacchetto di amaretti) Zitti, zitti, zitti!
15
Død og pine: per la traduzione «sangue di Cristo» cfr. I sostegni della so-
cietà, n. 55.
UNA CASA DI BAMBOLA 155
NORA E pensa, lei ora ha fatto questo lungo viaggio fin qua per
poter parlare con te.
HELMER Cosa vuoi dire?
LA SIGNORA LINDE Sì, non proprio –
NORA Kristine è infatti così immensamente in gamba nel lavoro
d’ufficio, e ha una così grande, enorme, voglia di mettersi sotto la
guida di un valentuomo per imparare più di quello che già sa –
HELMER Molto ragionevole, signora.
NORA E quando ha sentito dire che tu eri diventato direttore di
banca – là è arrivato un dispaccio a questo proposito – si è mes-
sa in viaggio per venire qua, non appena ha potuto e –. Non è
vero, Torvald, che tu, per me, potresti senz’altro fare qualcosina
per Kristine? Eh?
HELMER Sì, non è proprio impossibile. La signora presu-
mibilmente è vedova?16
LA SIGNORA LINDE Sì.
HELMER Ed ha pratica negli affari d’ufficio?
LA SIGNORA LINDE Sì, passabilmente.
HELMER Bene, allora è assai ragionevole che possa procurarle
un impiego –
NORA (batte le mani) Vedi, vedi!
HELMER Lei è arrivata in un momento felice, signora –
LA SIGNORA LINDE Oh, come potrò ringraziarla –?
HELMER Non ce n’è affatto bisogno. (S’infila il cappotto.) Ma
oggi deve scusarmi –
RANK Aspetta; vengo con te.
16
Formodentlig, «presumibilmente». Lo stesso avverbio poche righe prima,
in analogo contesto para-interrogativo («Presumibilmente un’amica d’infan-
zia di mia moglie?»). Solo 2 ricorrenze in questo testo, ed entrambe in bocca
a Torvald, a denotarne il carattere, di chi parla ponendo domande di cui co-
nosce già la risposta. Immagina facilmente che Kristine sia vedova perché in
cerca di lavoro. Nell’Ottocento una donna borghese sposata non cerca lavo-
ro. Caratteristico di Torvald anche l’aggettivo rimelig, «ragionevole», che tro-
viamo poche battute avanti («Bene, allora è assai ragionevole che possa pro-
curarle un impiego –»), anch’esso solo 2 volte in Una casa di bambola, en-
trambe in bocca a Torvald. La prima nella scena iniziale con Nora, quando
vuole farle un regalo («Dimmi qualcosa di ragionevole, di cui potresti aver
voglia»). Tic verbali di un noiosissimo ragioniere molto «ragionevole».
156 HENRIK IBSEN
NORA Entrate, entrate! (Si china a baciarli.) Oh, voi, dolci, be-
nedetti –! Li vedi, Kristine? Non sono deliziosi!
RANK Non chiaccherate qui, nella corrente d’aria!
HELMER Venga, signora Linde; ora qui è una noia per tutti tran-
ne che per le madri.
NORA Che aria fresca e baldanzosa che avete. No, che guance
rosse che avete fatto! Come delle mele e delle rose. (I bambini
le troncano le parole in bocca durante ciò che segue.) Vi siete di-
vertiti tanto? Questo, sì, è splendido. Sì, bene; tu hai tirato sullo
slittino sia Emmy che Bob? No, pensa, insieme! Sì, sei un ragaz-
zo in gamba, Ivar. Oh, lasciamela tenere un po’, Anne-Marie.
Mia dolce, piccola bambina-bambola! (Prende la più piccola al-
la bambinaia e danza con lei.) Sì, sì, mamma danzerà anche con
Bob. Cosa? Avete lanciato delle palle di neve? Oh, come avrei
voluto esserci! No, questo no; voglio svestirli io, Anne-Marie.
Oh, sì, lasciami fare; è così divertente. Va’ dentro nell’attesa; hai
l’aria così infreddolita. Là c’è del caffè caldo per te sulla stufa.
UNA CASA DI BAMBOLA 157
(La bambinaia entra nella stanza di sinistra. Nora toglie i mantelli dei
bambini e li getta all’intorno mentre li lascia raccontare tutti insieme.)
NORA Sì, bene? Così c’era un grande cane che vi è corso dietro?
Ma non mordeva? No, i cani non mordono i piccoli deliziosi
bambini-bamboli. Non guardare dentro i pacchetti, Ivar! Cosa
c’è? Sì, se soltanto sapeste. Oh, no, no; questo è qualcosa di
brutto. Ah sì? Vogliamo giocare? A cosa vogliamo giocare? A
nascondino. Sì, giochiamo a nascondino. Bob si nasconderà per
primo. Devo essere io? Sì, vado a nascondermi io per prima.
linguaggio infantile. Nel III atto – nel grande scontro con il marito – anche
Torvald diventerà per Nora en fremmed mand, «un uomo estraneo».
19
Kort og godt, «a farla corta», letteramente «breve e bene». Anche una doz-
zina di battute più avanti Krogstad userà la stessa espressione. Alterna ma-
niere formalmente deferenti a impuntature brusche, come si addice al perso-
naggio del cattivo, che deve spaventare l’eroina, terrorizzarla. Ma Nora è
molto dura. Si notino i di lei tre corsivi, quando gli rinfaccia di essere sempli-
cemente uno dei subordinati di suo marito, underordnede (participio passato
del verbo underordne, costruito su under, sotto, e ordne, ordinare, verbo ra-
rissimo in Ibsen, 4 sole frequenze, di cui 3 in Una casa di bambola, tutte in
questa sequenza).
UNA CASA DI BAMBOLA 159
20
Nu ved De det, «Ora lei lo sa»: frase canonica (e frequente) negli scontri
dialogici di Ibsen.
21
Nella sua perorazione Nora «va su e giù per la stanza»: la didascalia ibse-
niana sottolinea sempre l’importanza del passaggio dialogico. Gioca come il
gatto con il topo. Con finta umiltà dichiara di essere solo «una donna», ma
prosegue precisando che ha comunque una qualche «influenza» sul marito,
per quanto «piccola piccola». E passa quindi a ribadire con asprezza quasi
brutale la condizione di «subordinato» di Krogstad, con un corteggio di mi-
nacce reticenti, fatte di pause (che Ibsen traduce con un trattino, corrispon-
dente ai nostri tre puntini di sospensione) e di un mellifluo «hm». Krogstad,
per nulla ingenuo, capisce e risponde riprendendo lo stesso termine usato da
lei, indflydelse, «influenza», chiedendole di usarla a suo vantaggio. Così come
riprende («cambiando tono» avverte la puntuale didascalia) il termine unde-
rordnet, «subordinato», che Nora gli aveva gettato in faccia, come un guanto
di sfida. Anche il sostantivo indflydelse appartiene a Nora (4 ricorrenze su 8,
mentre le 3 di Krogstad sono semplici riprese del di lei linguaggio).
160 HENRIK IBSEN
22
Ubesindighed, «sconsideratezza»: 2 sole ricorrenze nel testo (la seconda
usata da Torvald, sempre a proposito delle firme false operate da Krogstad).
Affine l’aggettivo ubesindig, «sconsiderato», 3 ricorrenze, 2 di Kristine e 1 di
Nora (che si limita a ripetere il termine usato dall’amica). Kristine trova
«sconsiderato» quello che Nora ha fatto per salvare il marito, perché all’insa-
puta del marito. Ibsen fissa così, a livello di comuni scelte linguistiche, la
stretta analogia fra Krogstad e Nora, entrambi autori di sconsideratezze, en-
trambi in qualche modo criminali, eversori della legalità.
UNA CASA DI BAMBOLA 161
che suo padre doveva indicare lui stesso il giorno in cui avreb-
be firmato il documento. Si ricorda di questo, signora?
NORA Sì, credo, probabilmente –
KROGSTAD Io le consegnai poi la ricevuta debitoria, perché lei
doveva spedirla per posta a suo padre. Non è così?
NORA Sì.
KROGSTAD Ed è ciò che lei, naturalmente, fece anche subito;
perché già cinque-sei giorni dopo mi portò la ricevuta con la
firma di suo padre. Così dunque le fu sborsato l’ammontare.
NORA Sì, allora; non ho rimborsato a rate regolarmente?
KROGSTAD Più o meno, sì. Ma – per ritornare a ciò di cui stava-
mo parlando, – fu probabilmente un momento duro per lei,
quello, signora?
NORA Sì, lo fu.
KROGSTAD Suo padre era probabilmente molto malato, credo.
NORA Era all’estremo.
KROGSTAD Morì probabilmente23 poco dopo?
NORA Sì.
KROGSTAD Mi dica, signora Helmer, potrebbe ricordare per ca-
so il giorno della morte di suo padre? Quale giorno del mese,
voglio dire.
NORA Papà morì il 29 settembre.
KROGSTAD È del tutto esatto; ho preso delle informazioni. È per
questo che c’è una stranezza, (tira fuori un documento) che non
riesco affatto spiegarmi.
NORA Quale stranezza? Io non so –
KROGSTAD La stranezza, signora, è che suo padre firmò questa
ricevuta debitoria tre giorni dopo la sua morte.
NORA Come? Io non capisco –
KROGSTAD Suo padre morì il 29 settembre. Ma guardi qui. Qui
suo padre ha datato la sua firma il 2 ottobre. Non è una stranez-
za, signora?
NORA (tace)
KROGSTAD Lei può spiegarmelo?
NORA (tace ancora)
KROGSTAD Sorprendente è anche che la parola 2 ottobre e la
data dell’anno non siano scritte con la grafia di suo padre, ma
con una grafia che mi sembra di dover conoscere. Eh via, que-
23
Nok, «probabilmente»: Krogstad ne infila tre di seguito. Questa volta è lui
che gioca come il gatto con il topo, e il gioco si realizza a livello di iterazione
dell’avverbio.
UNA CASA DI BAMBOLA 163
24
Kaster hovedet tilbage, «rovescia la testa indietro». Stesso verbo, prima,
quando Kristine le dà della «bambina», e lei protesta, kaster på nakken, «ro-
vescia la nuca». Ibsen sottolinea con lo stesso verbo le reazioni forti di Nora.
Ma perché Nora confessa? Fra la sua parola e quella di Krogstad (con i pre-
cedenti che ha) potrebbe spuntarla la rispettata signora borghese di un ri-
spettato direttore di banca. Continuo a pensare che Nora sceglie che Torvald
venga a sapere, afferrando l’accidente offerto dal caso per modificare par-
zialmente il suo rapporto con Torvald, senza per questo contraddire quanto
indicato alla n. 10. La rivelazione non umilierà l’orgoglio maschile di Torvald
perché sarà bilanciata dalla contemporanea richiesta di aiuto contro il catti-
vo. Il progetto di Nora è rinnovamento nella continuità. Nora persiste nel ruo-
lo della moglie-bambina (che in questo caso ricorre al marito-eroe che deve
liberarla dall’orco-Krogstad), ma la rivelazione del passato glorioso renderà
Nora, agli occhi di Torvald, un po’ meno bambolina del solito. Cfr. Alonge
1984a, pp. 267-270.
164 HENRIK IBSEN
25
Nel teatro di Ibsen anche i bambini origliano e guardano dal buco della
serratura (o dalla finestra).
UNA CASA DI BAMBOLA 165
26
Si riconferma l’immagine della donna dell’harem (cfr. n. 10), ma qui emer-
ge un’altra abilità di Nora: quella del canto.
166 HENRIK IBSEN
va? Tu dovevi tacermi che lui era stato qui. Non ti ha pregato
anche di questo?
NORA Sì, Torvald; ma –
HELMER Nora, Nora, e tu hai potuto impegnarti per questo? In-
trattenere una conversazione con un individuo del genere, e
promettergli qualcosa! E per di più dirmi una menzogna!
NORA Una menzogna –?
HELMER Non mi hai detto, che qui non era venuto nessuno?
(Minacciandola con il dito.) Questo non lo deve fare mai più il
mio piccolo uccello canterino. Un uccello canterino deve avere
un becco pulito per cinguettare; mai note false. (La prende per
la vita.) Non è così che dev’essere? Sì, lo sapevo bene. (La la-
scia.) E adesso basta con questo. (Si siede davanti alla stufa.)
Ah, com’è caldo e accogliente qui.27 (Sfoglia un poco i suoi do-
cumenti.)
NORA (occupata all’albero di Natale, dopo una breve pausa) Tor-
vald!
HELMER Sì.
NORA Mi pregusto così immensamente il ballo in costume dagli
Stenborg, dopodomani.28
HELMER E io sono immensamente curioso di vedere con che co-
sa vorrai sorprendermi.
NORA Ah, che idea stupida.
HELMER Ebbene?
NORA Non riesco a trovare niente che vada bene; tutto quanto
così insulso, così banale.
HELMER La piccola Nora si è ridotta a confessare questo?
NORA (dietro la sua sedia, con le braccia sullo schienale della se-
dia) Sei molto occupato, Torvald?
HELMER Oh –
NORA Cosa sono quei documenti?
HELMER Problemi di banca.
27
Lunt og hyggeligt, letteralmente «riparato (o tiepido) e accogliente», ma in
italiano meglio «caldo», in senso letterale e metaforico. È una endiadi che ca-
ratterizza sempre il focolare dei bravi borghesi ibseniani.
28
Jeg glæder mig, «Mi pregusto»: formula con sole 3 ricorrenze nel testo, let-
teralmente «Io mi pregusto la gioia». Costrutto analogo in Torvald, prece-
dentemente, quando si pregusta i piaceri gastronomico-erotici della vigilia di
Natale (cfr. n. 5). Il maschio è soggetto di piacere; il piacere della donna è in-
vece di essere oggetto di piacere degli sguardi maschili, quando si esibirà du-
rante il ballo mascherato, nel fulgore della sua grazia femminile.
UNA CASA DI BAMBOLA 167
NORA Di già?
HELMER Mi sono fatto dare dalla direzione dimissionaria i pieni
poteri per intraprendere i cambiamenti necessari nel personale
e nel piano generale degli affari. Bisogna che utilizzi per questo
la settimana di Natale. Voglio avere tutto in ordine per il nuovo
anno.
NORA È per questo dunque che quel povero Krogstad –
HELMER Hm.
NORA (sempre appoggiandosi allo schienale della sedia, gli
scompiglia lentamente i capelli della nuca)29 Se tu non fossi sta-
to così occupato, io ti avrei pregato di un immenso grande ser-
vizio, Torvald.
HELMER Sentiamo. Di che si tratterebbe?
NORA Non c’è nessuno che abbia un gusto così fine come il
tuo. Ora vorrei proprio fare bella figura al ballo in costume.
Torvald, non potresti prenderti cura di me e decidere co-
sa devo essere, e come dev’essere sistemato il mio abbiglia-
mento?30
HELMER Aha, la piccola ostinata va in cerca di un salvatore?
NORA Sì, Torvald, io non posso arrivare da nessuna parte senza
il tuo aiuto.
HELMER Bene, bene; penserò al problema; troveremo senza
dubbio un ripiego.
NORA Oh, com’è gentile da parte tua. (Va di nuovo all’albero di
29
È sempre Torvald che va verso Nora (che si avvicina, le passa un braccio
intorno alla vita, ecc.), mentre i movimenti di lei sono di allontanamento da
lui (verso la stufa, verso il tavolo, ecc.). Normale, perché lui desidera lei, ma
lei non desidera lui, eroticamente parlando. Ma, allora, sono molto interes-
santi le poche eccezioni a questa regola generale, che evidenziano l’arte della
seduzione di Nora, ogni volta che lei ha bisogno di farsi perdonare qualcosa
o di ottenere qualcosa. Quando gli chiede soldi (quale suo personale regalo
di Natale) la vediamo palpare i bottoni della sua giacca, «senza guardarlo»:
straordinario ritratto di malizioso pudore. Nel nostro brano c’è invece tutto
un graduato processo di avvicinamento, che culmina nel gesto sottilmente
sensuale di scompigliargli lentamente i capelli.
30
Torvald deve «decidere», bestemme, non solo i particolari del costume, ma
anche propriamente il tipo di costume, cioè chi dovrà essere Nora, abituale
statua di carne nelle mani di un Torvald-Pigmalione, il quale apprezza che la
mogliettina-odalisca si travesta per lui. Con astuzia volpina, Nora utilizza il
verbo bestemme (2 sole ricorrenze nel testo), che Torvald ama molto, attra-
verso il quale esibisce il suo potere. Nel II atto lo userà quando Nora tornerà
alla carica per salvare il posto a Krogstad: «Mia cara Nora, io ho deciso che il
suo posto sia per la signora Linde».
168 HENRIK IBSEN
31
Il «Be’, be’, cosa c’è?» ci fa capire che Nora non ha steso la mano per sigil-
lare la promessa di non perorare più la causa di Krogstad. Torvald è assai
sorpreso da questa insolita insubordinazione della sua moglie-bambola.
SECONDO ATTO
(Nora, sola nel salotto, si aggira all’intorno inquieta; alla fine si fer-
ma vicino al sofà e prende la sua cappa.)
35
Ibsen è anche questo, un impietoso notaio della situazione di classe nella
fase imperialistica dello sviluppo capitalistico: qui è una impassibile pennel-
lata sulla dura vita delle ragazze-madri del proletariato.
172 HENRIK IBSEN
NORA Oh, sei tu, Kristine. Non c’è proprio nessun altro là fuori?
– Com’è bello che tu sia venuta.
LA SIGNORA LINDE Ho saputo che tu eri venuta su a chiedere di
me.
NORA Sì, passavo precisamente lì davanti. C’è una cosa, se in-
somma tu potessi aiutarmi. Sediamoci qui, sul sofà. Guarda qui.
Domani sera ci sarà un ballo in costume, sopra, presso il conso-
le Stenborg, e ora Torvald vuole che io sia una pescivendola na-
poletana e che danzi la tarantella, perché l’ho imparata a Capri.
LA SIGNORA LINDE Guarda, guarda; darai un vero spettacolo?
NORA Sì, Torvald dice che dovrei farlo. Guarda, qui ho l’abbi-
gliamento; Torvald me lo fece fare laggiù; ma ora è tutto quanto
così strappato, e non so proprio –
LA SIGNORA LINDE Oh, faremo presto a metterlo in buono sta-
to; in fondo c’è solo la guarnizione che si è un po’ staccata qua
e là. Ago e filo? Bene, qui abbiamo proprio ciò che ci serve.
NORA Oh, com’è gentile da parte tua.
36
Chi arriva? Passaggio enigmatico. Nora ha un attacco di panico, scatenato
dal rumore reale che sente, di qualcuno che è entrato (ma si tratta di Kristi-
ne), e forse pensa che siano arrivati i poliziotti per arrestarla.
UNA CASA DI BAMBOLA 173
37
Nora impiega una espressione medicalmente impropria. La localizzazione
della tubercolosi (di cui la parola «tisi» è sinonimo) è propria della colonna
vertebrale, e non del midollo spinale. Invece la localizzazione al midollo spi-
nale è caratteristica della sifilide terziaria (detta in tal caso tabe dorsale).
(Sandra Colella)
174 HENRIK IBSEN
38
Han vil gerne høre, «lui ha tendenza ad ascoltare volentieri», è la risposta
sottilmente polemica di Nora a Kristine, che aveva usato poche battute pri-
ma la stessa espressione, vil han ikke gerne sige behageligheder, letteralmente
«lui non ha tendenza a dire volentieri complimenti», cioè a «fare complimen-
ti». Kristine insinua forse che Rank sia un seduttore, ma Nora – contrappo-
nendo «ascoltare» a «dire» – fa subito capire che per lei Rank è importante,
semmai, nella misura in cui, a differenza del marito, sa ascoltarla (ma vedre-
mo meglio più avanti).
UNA CASA DI BAMBOLA 175
LA SIGNORA LINDE Bene, credo che è stata una fortuna per te,
mia cara Nora.
NORA No, non mi sarebbe mai potuto venire in mente di prega-
re il dottor Rank –. Del resto sono assolutamente certa che, ca-
so mai glielo domandassi –
LA SIGNORA LINDE Ma naturalmente non lo farai.39
NORA No, naturalmente. Non mi sembra di poter pensare che
questo debba essere necessario. Ma sono assolutamente sicura
che, caso mai parlassi al dottor Rank –
LA SIGNORA LINDE Dietro le spalle di tuo marito?
NORA Io devo uscire da quell’altra faccenda là; anche quella è
stata fatta dietro le sue spalle. Io devo uscire da questa faccen-
da qui.
LA SIGNORA LINDE Sì, sì, è anche quello che dicevo io ieri, ma –
NORA (va su e giù) Un uomo, in cose di questo genere, può sbri-
garsela molto meglio di una femmina –
LA SIGNORA LINDE Il proprio uomo, sì.40
NORA Fandonie. (Si ferma.) Quando uno paga tutto ciò che do-
veva, allora si recupera la ricevuta debitoria?
LA SIGNORA LINDE Sì, s’intende.
NORA E si può ridurlo in centomila pezzi e bruciarlo, – quel di-
sgustoso sudicio documento!
LA SIGNORA LINDE (la guarda fissa, depone il lavoro di cucito e
si alza lentamente) Nora, tu mi nascondi qualcosa.
NORA Tu puoi leggermi in faccia questo?
LA SIGNORA LINDE Ti è capitato qualcosa dopo ieri mattina.
Nora, cosa c’è?
NORA (andando verso di lei) Kristine! (Origlia.) Zitta! Torvald è
arrivato ora a casa. Guarda qua; va di là dai bambini nel frat-
tempo. Torvald non sopporta di vedere lavori di sartoria. La-
sciati aiutare da Anne-Marie.
LA SIGNORA LINDE (raccoglie una parte delle robe) Sì, sì, ma io
non andrò via di qui prima di aver parlato con te sinceramente.
39
Kristine pensa alla sua storia personale, a lei che si è venduta a un uomo
che non amava, sposandolo, per risolvere dei problemi materiali. Ibsen – in
Kristine – non ha costruito una semplice spalla di Nora, ma un personaggio
autonomo, che, anzi, nel III atto entrerà in conflitto con Nora.
40
En mand, «un uomo» dice Nora, e Kristine replica ens egen mand, letteral-
mente «il suo proprio uomo», ma mand vale sia «uomo» che «marito». Kri-
stine vorrebbe che Nora mettesse di mezzo il proprio marito, non un generi-
co «uomo», cioè Rank.
176 HENRIK IBSEN
NORA Torvald.
HELMER (si ferma) Sì.
NORA Se ora il tuo piccolo scoiattolo ti pregasse molto ardente-
mente, gentilmente, di una cosa –?
HELMER Che cosa, dunque?
NORA Allora la faresti?
HELMER Prima naturalmente devo sapere che cos’è.
NORA Lo scoiattolo correrebbe da ogni parte e farebbe buf-
fonerie, se tu volessi essere gentile e compiacente.
HELMER Parla allora.
NORA L’allodola cinguetterebbe per tutte le stanze, in tutte le
tonalità –
HELMER Oh, in fondo questo l’allodola lo fa lo stesso.
41
L’apparenza bonaria di Torvald nasconde un fondo brutale, da maschio pa-
drone. Con odiosa condiscendenza afferra Nora per il mento, ricordandole
che compiacere al marito non è un merito bensì un dovere. Vedremo nel III
atto come Torvald sia molto puntiglioso a rivendicare i suoi diritti maritali.
Cfr. n. 78.
UNA CASA DI BAMBOLA 177
(Entra la cameriera.)
44
Inde kontor, letteralmente «l’ufficio interno», probabilmente un angolo in-
terno allo stesso ufficio, una stanzina dentro la stanza (si veda la piantina di
scena), sicché Torvald, chiudendosi due porte alle spalle (quella che dal sa-
lotto conduce nello studio; e quella – chiamata mellemdøren, «porta in mez-
180 HENRIK IBSEN
zo» – che dallo studio conduce nell’ufficetto interno), non sentirà nulla del
rumore che farà Nora. La ragione di questa insolita dislocazione emergerà
più avanti (cfr. n. 55).
45
La grande scena di seduzione che qui comincia, fra Nora e Rank, si svolge
opportunamente in una luce decrescente.
46
Il marito aveva detto di mandargli subito Rank nello studio, ma Nora se ne
guarda bene. E chiude la porta dietro di lui a evitare origliamenti dei domestici.
UNA CASA DI BAMBOLA 181
RANK (si siede vicino alla stufa) Le mie forze precipitano. Non
c’è niente da fare.
NORA (respira sollevata) Si tratta di lei –?
RANK Di chi altrimenti? Non può servire mentire a sé stessi. So-
no il più miserabile di tutti i miei pazienti, signora Helmer. In
questi giorni ho fatto una resa dei conti generale del mio stato
interno. Bancarotta. Entro un mese mi troverò forse a marcire
al cimitero.
NORA Oh, puah, com’è brutto ciò che dice.
RANK La cosa in sé, anche, è maledettamente brutta. Ma il peg-
gio sono le molte altre brutture che la precederanno. Mi rima-
ne ora giusto un unico esame; quando sarà pronto, allora saprò
all’incirca, in che momento incomincerà il disfacimento. C’è
una cosa che voglio dirle. Helmer, con il suo temperamento fi-
ne, ha una così spiccata repulsione per tutto ciò che è laido. Non
voglio averlo nella mia stanza di malato –
NORA Oh, ma, dottor Rank –
RANK Non voglio averlo lì. In nessuna maniera. Sprangherò la
mia porta per lui. – Appena avrò acquisito la certezza piena del
peggio, le invierò il mio biglietto da visita con una croce nera
sopra, e allora lei saprà che l’abominio della distruzione è in-
cominciato.
NORA No, oggi è completamente assurdo. E io che così vo-
lentieri l’avrei voluta di buona luna.
RANK Con la morte tra le mani? – Ed espiare in questo modo la
colpa di un altro. C’è giustizia in questo? E in ogni singola fa-
miglia regna, in una maniera o nell’altra, un simile inesorabile
contrappasso –
NORA (si tura le orecchie) Fandonie! Allegri, allegri!
RANK Sì, per l’anima mia, non c’è altro da fare che riderne, di
tutta questa cosa. La mia povera, incolpevole, spina dorsale de-
ve soffrire per gli allegri giorni da tenente di mio padre.
NORA (vicino al tavolo a sinistra) Era uno che si abbandonava
ad asparagi e a pasticci di fegato d’oca. Non era così?
RANK Sì; e ai tartufi.
NORA Sì, tartufi, sì. E poi alle ostriche, credo?
RANK Sì, ostriche, ostriche, s’intende.
NORA E poi a tutto quel porto e champagne. È triste che tutte
quelle cose gustose debbano colpire le ossa.
RANK Specialmente che debbano colpire delle ossa infelici che
non ne hanno ricevuto il minimo vantaggio.
NORA Ah sì, questa è la cosa più triste.
182 HENRIK IBSEN
47
Solita estrema finezza di Ibsen, che distingue fra «sorriso» e «riso», fra
smile e le: per il linguaggio di una donna di classe solo la levità di un sorri-
so, per un uomo anche la misura più fragorosa del riso. Ma perché Nora
sorride e poi nega? Di cosa ha sorriso? Del paradosso che le cose buone
rovinano la spina dorsale, e soprattutto quella di un innocente, che non ha
goduto della vita. Forse c’è anche la consapevolezza dell’amore segreto
(questo pure insoddisfatto) che Rank nutre per Nora. Sorriso di tristezza
ma anche ambiguo, come se Nora volesse lusingare il maschio infelice che
ha di fronte a sé.
48
Nora lo guarda «con paura», ma in realtà pensa a sé, e non già a Rank. Ha
in mente di suicidarsi, ma non vorrebbe essere dimenticata. C’è un fondo
egoistico molto forte in Nora, che dialoga con un uomo sull’orlo dell’abisso,
ma pensa essenzialmente a sé.
49
Ancora fruentimmer (cfr. I sostegni della società, n. 23), solo 2 ricorrenze
nel presente testo, e questa è la seconda. Che il termine abbia un senso un
po’ peggiorativo è confermato dalla reazione di Nora, che zittisce Rank.
UNA CASA DI BAMBOLA 183
51
Elske mig, «mi ami». Il verbo elske non è raro in Ibsen, 214 frequenze, ma
è meno della metà della più tenue espressione holde af ham, «tenere a qual-
cuno», «voler bene». Qui è la prima volta che Nora usa questo verbo impe-
gnativo, ma per dichiarare che Torvald ama Nora, e non già che Nora ama
Torvald.
UNA CASA DI BAMBOLA 185
52
Era stata Nora a chiedere a Rank di sedersi sul sofà accanto a lei, ed è lei a
rompere una vicinanza diventata troppo pericolosa. Si comporta come fa so-
litamente con Torvald, mette della distanza, e chiede inoltre alla cameriera di
portare la lampada, svelando così di conoscere bene il valore erotico della
penombra (e più avanti domanderà scopertamente a Rank se non si vergo-
gna, «ora che la lampada è arrivata»). Rank oppone però una sottile resisten-
za, la fa passare ma resta seduto. Spera che la partita non sia finita, e che lei
torni a sedersi accanto a lui. Rimane da capire il perché di questa seduzione
interrotta. Certo non vuole soldi da Rank, anche perché Krogstad non punta
al denaro. Forse intende rivelargli il suo segreto, per chiedergli consiglio (a
Kristine aveva detto che in queste cose un uomo «può sbrigarsela molto me-
glio di una femmina»), forse per averlo testimone se la tentazione del suici-
dio andrà avanti. In ogni caso si interrompe quando Rank si dichiara inna-
morato. Naturalmente Nora ha sempre saputo dell’amore di Rank, ma è im-
barazzata a ricorrere a Rank nel momento in cui lui dichiara esplicitamente
di avere delle aspettative nei suoi confronti. Nora appartiene alla borghesia
seria che è di Ibsen, che non è quella frivola del teatro francese ottocentesco
e dei suoi imitatori: l’adulterio è una rêverie, al massimo una tentazione, ma
non si passa mai all’atto. La seduzione è solo un gioco, ma delicato, senza ci-
nismo e senza brutalità.
186 HENRIK IBSEN
55
Anche se Ibsen non lo specifica, è chiaro che Nora chiude non già la prima
porta (che dal salotto conduce nello studio) bensì la seconda che isola l’an-
golo segreto dello studio (cfr. la piantina di scena e n. 44). Diversamente Tor-
vald potrebbe comunque uscire, perché il suo studio comunica sia con il sa-
lotto, sia con l’anticamera (cfr. n. 7). L’invenzione del curioso studio dentro lo
studio nasce da questa esigenza di artificio drammaturgico (per evitare cioè
che Nora sia costretta a chiudere a chiave ben due porte).
56
Nora usa il verbo kæmpe, «combattere», che aveva usato proprio Krogstad
nel I atto («Se necessario, io arriverò a combattere come per la vita, pur di
conservare il mio piccolo posto alla banca»). Solo 4 concordanze nel testo,
divise a metà fra Nora e Krogstad. È il modo di Nora di essere subalterna al
mondo maschile: ripete le espressioni del marito ma anche quelle di Krog-
stad. Ma è anche vero che sono loro due, Krogstad e Nora, i due grandi per-
sonaggi combattenti.
UNA CASA DI BAMBOLA 189
57
Slig en dårlig jurist som jeg, «Un cattivo giurista come me»: è la risposta a
quanto gli aveva detto Nora nel I atto, De må være en dårlig jurist, «Lei
dev’essere un cattivo giurista». I dialoghi di Ibsen sono sempre fatti di queste
riprese, anche a venticinque pagine di distanza.
190 HENRIK IBSEN
58
Dichiarazione solenne di Nora, convinta che suo marito sia un eroe. Ibsen
impreziosisce il linguaggio con un altro chiasmo: Det gør han aldrig! / Han
gør det, «Questo non farà mai lui! / Lui farà questo».
UNA CASA DI BAMBOLA 191
(Una lettera cade nella cassetta delle lettere; poi si sente il passo di
Krogstad che si perde al fondo degli scalini.)
59
Nora trova a questo punto («Ora» precisa infatti) il coraggio di suicidarsi,
che prima confessava di non avere. Si è inventata che il marito è un eroe, ed è
pronta a sacrificarsi per non vederlo umiliato (nell’inconscio sa che il marito
non è affatto tutto d’un pezzo: inviato dal Ministero come inquisitore, ha sal-
vato il padre di Nora, per amore di lei, come già accertato).
60
Tre battute prima Krogstad aveva detto De skræmmer mig ikke, «Lei non
mi spaventa», e Nora ripete ora la stessa medesima battuta. Altro esempio
dei tic imitativi di Nora (cfr. n. 56).
192 HENRIK IBSEN
61
Tage alt på sig, «prendere tutto su di sé». Nora pensa a Torvald, che a metà
del II atto aveva assicurato: jeg er mand for at tage alt på mig, «io sono uomo
da prendere tutto su di me». Nora ripete la stessa frase del marito, che – po-
veruomo – dice le frasi che Nora vuole sentirsi dire. È chiaro che è Nora che
ha inventato il gioco degli eroi, perché, lei, il suo gesto eroico lo ha effettiva-
mente realizzato, salvando la vita del marito. Il guaio è che Torvald è stato
plagiato da Nora, parla come un eroe, pur non avendone la stoffa. Peraltro
Nora ha plagiato anche i pubblici di tutti i tempi, che non vedono mai questa
violenza che Nora ha fatto al buon Torvald. Con la sola eccezione di Grod-
deck, si è detto.
UNA CASA DI BAMBOLA 193
62
Dunque Nora è pronta a suicidarsi, per salvare il marito, che però sarà pron-
tissimo ad assumersi, lui, tutte le colpe di lei, anche post mortem (di lei); e per
questo è essenziale che Kristine testimoni della verità (che è poi probabilmente
ciò che Nora intendeva chiedere a Rank, prima che lui si dichiarasse innamora-
to). Tutto questo rappresenta det vidunderlige, «il meraviglioso», un doppio me-
raviglioso: quello di lei che si uccide, ma anche quello di lui. Quest’ultimo è il
«terribile», che «non deve accadere, no, per nessun prezzo al mondo», for nogen
pris i verden. Linguaggio alato, come sempre nei momenti sublimi. Nora aveva
già usato la stessa formula, svelando a Kristine il suo segreto nel primo atto:
«Parla a voce bassa. Pensa, se Torvald ascoltasse questo! Lui non deve, per nes-
sun prezzo al mondo [for nogen pris i verden] –». Nora ripete le parole degli al-
tri personaggi – abbiamo detto –, ma anche Nora ripete Nora. Si è inventata un
mondo fantasmatico (fatto di una moglie-eroina e di un marito-eroe), il quale
vive grazie a un linguaggio rituale che lo ri-anima continuamente.
63
Nora ha «un grido di paura» quando Torvald picchia e urla; è terrorizzata
dalla lettera infilata da Krogstad nella buca, ma, in mezzo a tanta agitazione,
trova la freddezza per dire una battuta di una straordinaria levità: «Sarò così
bella, Torvald». Conosce il suo uomo, e sa come prenderlo.
194 HENRIK IBSEN
64
Beundre mig, letteralmente «ammirare me». A Kristine diceva nel I atto
che i soldi forse glieli aveva dati «qualche ammiratore», beundrer. È il lessico
di Nora.
65
Jeg kan ingen vej komme uden din hjælp, «io non posso arrivare da nessuna
parte senza il tuo aiuto». E alla fine del I atto aveva detto similmente al ma-
rito Jeg kan ikke komme nogen vej uden din hjælp.
UNA CASA DI BAMBOLA 195
NORA Non so; credo di sì; ma tu non devi leggere niente di nien-
te, ora; niente di brutto deve intervenire fra di noi prima che
tutto sia finito.
RANK (a voce bassa a Helmer) Non devi contraddirla.
HELMER (passa le braccia intorno a lei) La bambina vedrà soddi-
sfatta la sua volontà. Ma domani notte, quando avrai danzato –
NORA Allora sarai libero.
LA CAMERIERA (sulla porta di destra) Signora, la tavola è
apparecchiata.
NORA Vogliamo dello champagne, Helene.
LA CAMERIERA Bene, signora. (Esce.)
HELMER Eh, eh, – festa grande dunque?
NORA Festa allo champagne fino alla luce del mattino. (Grida.)
E un po’ di amaretti, Helene, molti, – una volta tanto.
HELMER (le prende le mani) Su, su, su; non questa frenesia
spaventata. Sii ora la mia piccola allodola, come sei solita.
NORA Oh sì, senza dubbio. Ma entra intanto; e lei pure, dottor
Rank. Kristine, devi aiutarmi a tirarmi su i capelli.68
RANK (a bassa voce mentre se ne vanno) C’è mica qualcosa –
qualcosa da aspettare?
HELMER Oh, neanche lontanamente, caro; non è niente altro
che quella infantile paura di cui ti ho raccontato. (Essi entrano
a destra.)
NORA Allora!?
LA SIGNORA LINDE Partito per la campagna.69
NORA Te l’ho letto in faccia.
LA SIGNORA LINDE Tornerà domani sera. Gli ho scritto un bi-
glietto.
NORA Avresti dovuto lasciar stare. Tu non impedirai nulla. Co-
munque, tutto sommato, è una gioia, questo aspettare il meravi-
glioso.
68
I capelli sciolti sulle spalle hanno una evidente valenza erotica, e tutta la
sequenza è un po’ trasgressiva rispetto alla chiusa moralità vittoriana. Ben vi-
sibile è anche l’eccitazione di Rank, che suona freneticamente, a stento re-
presso da Torvald, il quale deve richiamarlo due volte per fermarlo. Nora è
consapevole, e chiede subito a Kristine di aiutarla a rimettere i capelli com-
me il faut.
69
All’incontro con Nora, non per nulla, Krogstad è arrivato «vestito in pellic-
cia da viaggio» e «stivaloni»: già pronto per andare in campagna. Ibsen è
sempre straordinario per la cura di questi minuti dettagli, sempre allusivi, in-
diretti, mai troppo brutalmente espliciti.
198 HENRIK IBSEN
70
Insistenza sul verbo vente, «aspettare», da parte di Nora che «aspetta» il
meraviglioso e Kristine che non capisce. Ma poco prima Rank (che ha scam-
biato l’eccitazione psichica di Nora per un sintomo di gravidanza) ha chiesto
a Torvald se c’era qualcosa ivente (avverbio con la stessa radice del verbo
vente: abbiamo tradotto «qualcosa da aspettare»). La lingua di Ibsen gioca
anche su questi richiami interni, su queste sovrapposizioni ironiche: Rank
crede che Nora stia aspettando un bambino, ma in realtà Nora aspetta il me-
raviglioso.
TERZO ATTO
71
Sempre piccoli cambiamenti scenografici fra un atto e l’altro. Abbiamo vi-
sto l’albero di Natale spostato in un angolo, a significare che la festa è finita
(cfr. n. 32). Adesso il tavolo spostato in centro: un modo di preparare la scena
finale, la resa dei conti fra i coniugi, seduti al tavolo uno di fronte all’altra, in
posizione centrale per il pubblico.
200 HENRIK IBSEN
scende; gli dico che deve ridarmi la mia lettera, – che si tratta
semplicemente del mio licenziamento, – che non deve leggerla –
LA SIGNORA LINDE No, Krogstad, lei non deve riprendersi la let-
tera.
KROGSTAD Ma mi dica, non era proprio per questo che lei mi ha
dato appuntamento qui?
LA SIGNORA LINDE Sì, in quel primo spavento; ma ora sono in-
tercorse ventiquattro ore, e, in questo tempo, sono stata te-
stimone, qui in casa, di cose incredibili. Helmer deve sapere tut-
to quanto; questo sciagurato segreto deve venire alla luce; si de-
ve arrivare ad una piena spiegazione fra loro due; è impossibile
continuare con tutte queste dissimulazioni e sotterfugi.73
KROGSTAD Orbene; se lei dunque osa questo –. Ma una cosa po-
trei fare in ogni caso, e sarà fatta subito –
LA SIGNORA LINDE (origlia) Faccia in fretta! Vada, vada! La
danza è finita; da questo momento non siamo più al sicuro.
KROGSTAD L’aspetto giù.
LA SIGNORA LINDE Sì, d’accordo; mi accompagnerà fino al por-
tone.74
73
Curioso: Kristine doveva salvare Nora, e invece la affonda. Un cambia-
mento repentino, che ha cause lontane e una vicina. Il casus belli è dato dal
sospetto di Krogstad che lei voglia «salvare la sua amica a ogni prezzo». Solo
scaricando immediatamente Nora, Kristine può essere credibile agli occhi di
Krogstad. Peraltro, vendersi per la madre e i fratelli ha un senso, vendersi per
un’amica, e per di più socialmente superiore a lei, ha un altro senso. Scatta
così un risentimento finora represso e celato ma di lunga durata nei confron-
ti di Nora, l’amica fortunata, che ha sposato uno che è diventato direttore di
banca, e che ha una condizione familiare invidiabile. Per non dire dei piccoli
avvilimenti che Nora le ha inflitto, sia pure involontariamente, nei tre giorni:
usata come sarta, ma anche cacciata all’arrivo di Torvald che non sopporta di
vedere lavori di sartoria; spedita a nascondersi nella camera dei bimbi; poi
usata come postina, portatrice di messaggi da Krogstad; infine lasciata su una
sedia per tutta una serata, in attesa che i coniugi Helmer ritornassero dal bal-
lo. Insomma, c’è una resa dei conti anche fra le due antiche compagne di
scuola. D’altra parte Una casa di bambola è anche la storia di due coppie in-
crociate: gli infelici, gli emarginati, che però si ritrovano, si rimettono insieme
e si salvano; e i felici, gli agiati, che sono travolti dalle prove della vita e si di-
sperdono. I separati si uniscono, e gli uniti si separano.
74
Grande amore, quello di Kristine, ma prudentemente controllato. Krog-
stad l’accompagnerà a casa, ma non salirà in casa, si fermerà davanti al por-
tone. Solita moralità vittoriana. Nella battuta precedente anche Krogstad ha
usato il verbo vente, per dire che «l’aspetta» in strada. Rank crede che Nora
aspetti un figlio, e Nora aspetta il meraviglioso (cfr. n. 70), e Krogstad, più ba-
204 HENRIK IBSEN
76
C’è un risvolto brutale (quasi da stupratore) in Torvald, che vedremo me-
glio più avanti, ma già palese nella didascalia con cui introduce Nora in casa,
strappandola al ballo, næsten med magt, «quasi con forza». E confesserà sco-
pertamente a Kristine: «Si figuri, ho dovuto quasi usare la forza [magt] per
portarla via». Ma il gusto della violenza si accompagna sempre, in ogni buon
stupratore, a un certo gusto di vedere e di far vedere. Qui Torvald spoglia la
moglie, le toglie lo scialle, per esibirla agli occhi di Kristine.
206 HENRIK IBSEN
77
Torvald ha bevuto molto champagne (come risulterà chiaro più avanti, dal
dialogo a tre con Rank), e questo spiega l’emergere in Torvald di aspetti fi-
nora segreti, perché tenuti sotto controllo: l’impazienza brutale di liberarsi
della presenza di Kristine, accoppiata bruscamente a una cortesia scoperta-
UNA CASA DI BAMBOLA 207
mente ipocrita. Ma anche una certa vena ironico-buffonesca (si pensi allo
sproloquio sulla differenza fra ricamo e lavoro a maglia, o al gioco di parole
sulla «capricciosa piccola ragazza di Capri», capriciøse lille Capripige), non-
ché la dimensione estroversa del piccolo regista domestico della performance
danzante di Nora, con il senso tutto teatrale della opportunità dei colpi di
scena.
208 HENRIK IBSEN
78
Eccezionale pagina di erotismo, con note anche morbose. Torvald, per en-
trare in contatto con Nora, ha bisogno di inserirla in un triangolo malsano, in
cui il terzo vertice è rappresentato dallo sguardo dell’altro (di Rank o – nella
scena del ballo mascherato – di tutti i maschi che guardano eccitati la danza
troppo realistica di Nora). È come dire che in fondo Torvald si eccita osser-
vando l’eccitazione degli altri maschi per sua moglie. Gode narcisisticamente
di essere invidiato per il suo monopolio delle grazie di Nora. Il movimento
di avvicinamento (segnalato dalla didascalia) è quello del predatore verso la
sua vittima. Un occhio concupiscente, questo di Torvald, di vecchio laido (o
diciamo di uomo maturo), che apprezza compiaciuto il corpo «giovane» (un-
ge) di Nora. Torvald è ossessionato dalla dimensione della giovinezza: l’ag-
gettivo ung ha 7 ricorrenze nel testo, ma 5 sono di Torvald, e 4 delle 5 di Tor-
vald in questa sequenza capitale, oltre a un hapax, ungdomsfuld, «piene di
giovinezza» (detto delle «fini spalle» di Nora). C’è una violenza dello sguar-
do che Nora percepisce e cui tenta di ribellarsi («Non mi guardare così, Tor-
vald!»). E c’è una violenza della parola, che di nuovo suscita la resistenza di
Nora («Tu non devi parlarmi così questa notte»), colta in movimento di fu-
ga, di allontanamento (didascalia: «va dall’altro lato del tavolo»), inseguita
però prontamente dal marito sempre più voglioso (didascalia riferita a Tor-
vald: «seguendola»). In Ibsen le didascalie pesano come macigni: compren-
diamo a questo punto perché era importante spostare nel centro del palco-
scenico il tavolo, luogo geometrico delle brame e dei terrori (cfr. n. 71). Ma
si osservi che la cupidigia sessuale di Torvald si radica nella esaltazione bor-
ghese della proprietà privata, del possesso. Nora è il suo ejendom, che vale
UNA CASA DI BAMBOLA 209
79
L’intervento di Rank è stato spesso frainteso, còlto come la malinconica e
romantica passerella finale del gentile che perde sempre. Non è così. Rank ha
fatto gli ultimi esami medici e sa che deve morire. Alla festa ha bevuto, e dun-
que anche lui è un po’ ubriaco, forse anche più di Torvald. I freni inibitori si
sono rilassati, e il personaggio rivela dunque il fondo brutale che è anche in
lui. Non esita a turbare l’intimità domestica a un’ora avanzata della notte. È
stato lui pure (come Torvald, e come tutti) ammaliato dalla tarantella di No-
ra. Bussa alla porta per vedere un’ultima volta l’amata, ma anche per una
piccola estrema vendetta contro l’amico più fortunato, per impedirgli la not-
te d’amore tanto desiderata. Lascia infatti nella cassetta delle lettere l’an-
nuncio della sua morte come una spada destinata a vanificare la prevedibile
gioia notturna della coppia. Soffermiamoci sulla prima battuta di Rank: «Che
ambiente caldo e accogliente avete voi in questo vostro interno, voi due»
(corsivi nostri). Triplice insistenza sul voi, cui si contrappone la solitudine
dell’io morituro di Rank. Canonica la formula per indicare il focolare, lunt og
hyggeligt, già usata da Torvald (cfr. n. 27). Rank parla come Torvald, perché
vorrebbe essere al posto di Torvald, godere del suo focolare, e della padrona
del focolare. Torvald legge nel pensiero di Rank, ne percepisce la carica ag-
gressiva, e si difende con gli artigli: «Sembrava che tu ti sentissi bene accolto
[hygged] anche di sopra». Usa il verbo hygge, con la stessa radice dell’agget-
tivo hyggeligt. Se voleva qualcosa di «accogliente», non aveva che da conti-
nuare a stare a casa degli Stenborg, senza invadere casa Helmer, a quell’ora
inopportuna e in quel momento inopportuno. Altre volte Torvald alterna
(come già con Kristine, cfr. n. 77), ipocrisia e brutalità. A voce bassa, «secca-
to», dice a Nora «Oh, cosa vuole quello, adesso?», ma subito dopo, aperta la
212 HENRIK IBSEN
porta: «Eh via, è ben gentile che tu ti sia fermato alla nostra porta». Insom-
ma, una scena dura, al di là delle apparenze, cui partecipa attivamente anche
Nora, che accende il sigaro chiesto da Rank a Torvald. Nora si propone al po-
sto del marito: Lad mig gi’e Dem ild, letteralmente «Mi lasci darle fuoco»
(tradotto «Lasci che io le accenda»). Nora è consapevole di avere messo il
fuoco addosso a Rank (i francesi direbbero che Nora è une allumeuse, una
donna che accende i sensi). E Rank replica sulla stessa lunghezza d’onda: an-
dandosene, non ringrazia Torvald del «sigaro», ma solo Nora del «fuoco». E
nella buca delle lettere getterà due biglietti da visita: non uno solo, per la
coppia Helmer, ma due, come amico di Torvald e come innamorato di Nora.
Ma già Nora, nel II atto, non aveva definito Rank a Kristine come un generi-
co amico di famiglia, bensì con una frase più impegnativa: «Lui è il miglior
amico di gioventù di Torvald, ed è anche mio buon amico» (corsivo, assai si-
gnificativo, tutto di Ibsen).
UNA CASA DI BAMBOLA 213
80
Nemmeno la notizia della morte dell’amico spegne la libidine di Torvald.
D’altra parte è terribile la teorizzazione – cinica e spietata – del terzo esclu-
so. Le sofferenze di Rank fornivano «come uno sfondo nuvoloso alla nostra
felicità soleggiata». Rank svolge la funzione del perfetto cavalier servente,
copre i buchi che Torvald lascia aperti nel ménage, perché troppo occupato
del suo lavoro e del proprio egoismo (parla con Nora, sa ascoltarla, ecc.).
214 HENRIK IBSEN
(Egli entra nella sua stanza con il pacchetto e chiude la porta die-
tro di sé.)
HELMER Nora!
NORA (grida forte) Ah –!
HELMER Cos’è? Sai cosa c’è in questa lettera?
NORA Sì, lo so. Lasciami andare! Lasciami uscir fuori!
HELMER (la trattiene) Dove vuoi andare?
NORA (tenta di staccarsi) Tu non devi salvarmi, Torvald!
HELMER (vacilla all’indietro) Vero! È vero ciò che scrive? Terri-
bile! No, no; è proprio impossibile che possa essere vero.
NORA È vero. Io ti ho amato sopra ogni altra cosa del creato.
84
Ci sono alcune controscene in questa sequenza. Nora si fa avanti per pren-
dere la lettera (indirizzata a lei), ma Torvald la reprime.
218 HENRIK IBSEN
te diverso; ben presto tutto sarà come prima; io non avrò biso-
gno per molto di ripeterti che ti ho perdonata; tu stessa senti-
rai con sicurezza che l’ho fatto. Come puoi pensare che mi fos-
se potuto venire in mente di volerti ripudiare, oppure sempli-
cemente di rimproverarti qualcosa? Oh, tu non conosci il buon
cuore di un vero uomo, Nora. C’è per un uomo qualcosa di in-
descrivibilmente dolce e appagante in questo, nella consape-
volezza che ha perdonato sua moglie, – che lui l’ha perdonata
con cuore colmo e sincero. Lei diventa per questo sua pro-
prietà quasi in doppio senso; lui l’ha quasi messa al mondo di
bel nuovo; lei è diventata in qualche modo e sua moglie e sua
figlia nello stesso tempo.87 Così sarai tu per me d’ora in poi, tu,
piccolo essere confuso, senza aiuto. Non inquietarti per nulla,
Nora; sii semplicemente di cuore aperto con me, così sarò e la
tua volontà e la tua coscienza. – Cos’è questo? Non vai a letto?
Hai cambiato abito?
NORA (nel suo abito di tutti i giorni) Sì, Torvald, ora ho cambiato
abito.88
HELMER Ma, come, ora, così tardi –?
NORA Questa notte non dormirò.
HELMER Ma, cara Nora –
NORA (guarda il suo orologio) Non è ancora troppo tardi. Siedi-
ti qui, Torvald; noi due dobbiamo parlare molto insieme.
89
Opgør, «resa dei conti», termine raro, solo 6 concordanze nei magnifici 12.
A distanza di cinque pagine, Nora replica a Torvald, che, dopo la prima let-
tera di Krogstad, aveva dichiarato minacciosamente: «Tu resterai qui e farai
i conti con me». Il sostantivo regnskab, «conto», è un unicum in Una casa di
bambola, ma in tutte le 12 opere registra soltanto un totale di 7 frequenze.
Analogamente per il verbo regne, «contare», «calcolare»: 20 ricorrenze nei
12 testi, 1 in Una casa di bambola. Possono stupire questi numeri bassi pro-
prio nei testi contemporanei, quelli più consoni alla capitalistica arte del cal-
colo, del dare e dell’avere. Ma Ibsen è un perfetto borghese ottocentesco: di
soldi e di sesso non si parla apertamente. Si osservi, nel dettaglio, che Tor-
vald aveva iniziato mimando il direttore di banca che apre un’inchiesta sul-
la ragioniera infedele, e Nora ribatte adesso mimando la ragioniera che
chiede ragione al direttore di banca dei suoi misfatti. Il linguaggio di Nora
riecheggia quello di Torvald, ma anche quello del dottor Rank che informa-
va di avere intrapreso un generalopgør (un hapax), «resa dei conti genera-
le», del suo stato di salute.
UNA CASA DI BAMBOLA 221
HELMER Ma, carissima Nora, sarebbe stata una cosa per te?
NORA Eccoci al problema. Tu non mi hai mai capita. – È stato
fatto un grande torto contro di me, Torvald. Prima da parte di
papà e dopo da parte tua.
HELMER Come! Da parte di noi due, – da parte di noi due, che ti
abbiamo amata più fortemente di ogni altra persona?
NORA (scuote la testa) Voi non mi avete mai amata. Vi è sempli-
cemente sembrato, che fosse piacevole innamorarvi di me.
HELMER Ma, Nora, che cos’è questo parlare?
NORA Sì, è così ora, Torvald. Quand’ero da papà, lui mi raccon-
tava tutte le sue opinioni, e così io avevo le stesse opinioni; e se
ne avevo altre, le nascondevo; perché lui non avrebbe apprez-
zato. Lui mi chiamava la sua bambina-bambola, e giocava con
me, come io giocavo con le mie bambole. Quindi sono arrivata
in questa casa, da te –90
HELMER Cos’è questa espressione che usi per il nostro matri-
monio?
NORA (imperturbabile) Voglio dire, che dalle mani di papà sono
passata nelle tue. Tu sistemasti tutto secondo il tuo gusto, e così
io ebbi lo stesso gusto che avevi tu; ovvero lasciavo soltanto
credere; non so esattamente –; penso che ci fossero entrambe le
cose; ora l’una e ora l’altra. Quando mi guardo indietro, ora, mi
sembra di aver vissuto qui come una poveraccia, – giusto alla
giornata. Ho vissuto per i giochi di destrezza che facevo per te,
Torvald.91 Ma è proprio questo che tu volevi avere. Tu e papà
avete commesso un grande peccato contro di me. La colpa è vo-
stra, se di me non ho fatto nulla.
HELMER Nora, come sei assurda e ingrata! Non sei stata felice
qui?
90
Nora distingue puntigliosamente (suscitando non per nulla la protesta di Tor-
vald) fra hjemme hos pappa, letteralmente «al focolare presso papà», e i huset til
dig, letteralmente «nella casa da te». Per la differenza hjem/hus cfr. I sostegni
della società, n. 11. Il sostantivo dukkebarn, «bambina-bambola», compare nel
vocabolario ibseniano solo in questo testo, 4 ricorrenze, tutte di Nora, come è
giusto: 2 in questa scena, in cui ricorda che il papà giocava con lei quale sua
bambina-bambola; e 2 nel I atto, quando era lei a giocare con i figli, chiamando-
li in modo identico, per corrispondenza perfetta e significativa.Anche dukkehu-
stru, «moglie-bambola», è termine esclusivo del testo, anzi è un hapax.
91
Gøre kunster, «fare giochi di destrezza», ma la radice kunst vale «arte».
Nora insiste sempre sulla sua professionalità di artista polivalente (attrice,
danzatrice, cantante, ecc.). Anche quando Kristine pensa che abbia salvato il
marito con dei soldi vinti al lotto, lei ribatte: «Che arte [kunst] sarebbe stata,
allora?».
222 HENRIK IBSEN
NORA No, non lo sono mai stata. L’ho creduto; ma non lo sono
mai stata.
HELMER Non – non felice!
NORA No; soltanto allegra. E tu sei sempre stato così gentile con
me. Ma la nostra casa non è stata altro che una stanza dei gio-
chi. Qui io sono stata la tua moglie-bambola, come a casa di
papà ero la sua bambina-bambola. E i bambini, a loro volta, so-
no stati le mie bambole. Mi sembrava piacevole, quando comin-
ciavi a giocare con me, così come a loro sembrava piacevole
quando prendevo a giocare con loro. Questo è stato il nostro
matrimonio, Torvald.
HELMER C’è qualcosa di vero, in ciò che dici, – per quanto esa-
gerato ed esaltato. Ma d’ora in poi sarà diversamente. Il tempo
del gioco è finito; ora arriva quello dell’educazione.92
NORA L’educazione di chi? Mia, oppure dei bambini?
HELMER Sia tua che dei bambini, mia amata Nora.
NORA Ah, Torvald, tu non sei uomo da educarmi a diventare la
moglie giusta per te.
HELMER E tu dici questo?
NORA E io, – come sono preparata a educare i bambini?
HELMER Nora!
NORA L’hai detto tu stesso un momento fa, – non oseresti affi-
darmi questo compito.
HELMER In un attimo di irritazione! Come puoi dare importan-
za a questo?
NORA Sì; è stato detto molto giustamente da parte tua. Io non
ho la forza per questo compito. C’è un altro compito, che deve
essere disimpegnato, prima. Io devo cercare di educare me stes-
sa. In questo non sei l’uomo che possa aiutarmi. In questo devo
essere sola. E perciò ora ti lascio.
92
Leg, «gioco», sostantivo con 2 ricorrenze nel testo, che insieme alle 14 del
verbo lege (di cui 10 in bocca a Nora) e all’hapax legestue, «stanza dei giochi»,
evoca il grande tema fantastico della pièce. Tutti giocano in casa Helmer: i fi-
gli, ma soprattutto i genitori. Bisogna evitare però di colpevolizzare solo Tor-
vald, come Nora tenta di fare in questa sua arringa. Infatti, nell’inventare e
portare avanti il loro sistema ludico (o romanzesco, come anche l’ho defini-
to), c’è stata una complicità solidale dei coniugi. Certo, in questo dichiarare
solennemente, in maniera così ridicolmente pomposa, che «il tempo del gioco
è finito; ora arriva quello dell’educazione», è chiaro che Torvald non fa altro
che tentare di avviare un nuovo gioco, appunto il gioco dell’educazione. Ma
resta da vedere se anche Nora, andandosene di casa, non attivi anche lei un
diverso nuovo gioco, il gioco della protofemminista. Cfr. Groddeck 1910.
UNA CASA DI BAMBOLA 223
95
La confermazione è la cresima, sacramento che conferma il cristiano nella
propria fede. L’età della confermazione – in ambiente luterano – è sui sedici-
diciassette anni, più tardi di quanto avvenga in area cattolica.
UNA CASA DI BAMBOLA 225
96
Dopo aver imperversato contro il marito, contro il padre, contro la religio-
ne, contro le leggi, contro la società intera, Nora è ancora qui che rimpiange
il suo romanzo mancato, la bella fiaba del marito che avrebbe dovuto arriva-
re al galoppo, lancia in resta, bello come un San Giorgio, a liberarla dal Dra-
go-Krogstad. Per ben 4 volte in poche righe ritorna la parola magica vidun-
derlig, «il meraviglioso». E ritorna il tage alt på dig, «prendere tutto su di te»,
che abbiamo già visto (cfr. n. 81). Tutto questo c’entra visibilmente poco
(quasi nulla) con la nuova coscienza protofemminista che la critica ibseniana
riconosce a questo punto al personaggio. D’altra parte Nora non può forgiar-
si una sensibilità nuova, da donna emancipata, nei dieci minuti in cui resta
fuori scena a cambiarsi d’abito. Più semplice pensare a una nuova invenzione
romanzesca, quella della protofemminista. Qualche informazione ce l’ha;
Nora sa molte più cose di quanto possiamo sospettare. Sa tutto sulle malattie
veneree trasmissibili per via ereditaria. Ricordiamoci dello stupore di Kristi-
ne, e della spiegazione di Nora: «Uff, – quando si hanno tre bambini, si riceve
talvolta la visita di – di signore che sono a metà esperte in medicina; e queste
raccontano ora una cosa ora un’altra». Chissà quante strane «signore» parla-
no con Nora, e quante strane idee le comunicano. Insomma, la grande allocu-
zione di Nora non è altro che un abilissimo montaggio di spezzoni di discorsi
altrui, più o meno felicemente assimilati. Ma intrecciandosi (e confondendo-
si) con il rimpianto del vecchio mondo fiabesco incentrato sul «meraviglio-
so». Certo, Nora lavora spesso di ricalco: fa il verso, imita, parafrasa (il mari-
to, Rank, Krogstad, ecc.).
UNA CASA DI BAMBOLA 227
qui insieme con un estraneo e avevo fatto tre bambini –. Oh, non
sopporto di pensarlo! Vorrei ridurmi in mille pezzi.
HELMER (triste) Lo vedo; lo vedo. Certamente un abisso si è spa-
lancato fra di noi. – Oh, ma, Nora, non potrebbe essere riem-
pito?
NORA Così, come sono ora, non sono la moglie per te.
HELMER Io ho la forza per diventare un altro.97
NORA Può darsi, – se ti viene tolta la bambola.
HELMER Separarmi – separarmi da te! No, no, Nora, io non pos-
so concepire questo pensiero.
NORA (entra a destra) A maggior ragione bisogna che accada.
(Lei ritorna con il suo mantello e una piccola valigia, che posa su
una sedia vicino al tavolo.)
97
«Io ho la forza [kraft ] per diventare un altro». Solito linguaggio di Torvald,
che già all’inizio del II atto aveva proclamato: «In una situazione veramente
critica, credi pure, io ho sia coraggio che forza [kræfter]». Il sostantivo kraft
ha 2 sole occorrenze nel testo, queste, appunto, di cui si riempie la bocca Tor-
vald nei momenti sbagliati, prima o dopo la battaglia.
228 HENRIK IBSEN
98
Også dette? / Dette også, «Anche questo? // Questo anche». Preziosa forma
di chiasmo, a nobilitare l’implacabilità del parlare sentenzioso di Nora.
99
Nora vuole le cose che sono di sua proprietà, min ejendom hjemmefra, let-
teralmente «di mia proprietà dal focolare», cioè dal suo focolare d’origine,
della casa paterna (ho tradotto «da quando ero ragazza»). Nora distingue
puntigliosamente in questa battuta hjem e hus, il focolare (paterno) e la casa
(maritale). Il sostantivo ejendom ha solo 3 occorrenze nel testo, e le prime
due erano in bocca a Torvald, precedentemente, in questo stesso III atto («Io
non dovrei guardare la mia più cara proprietà?», «lui l’ha perdonata con cuo-
re colmo e sincero. Lei diventa per questo sua proprietà quasi in doppio sen-
so»). Nora ritrova sé stessa (sottraendosi come proprietà di Torvald) ritrovan-
do le proprie radici, gli oggetti della casa paterna che si è portata nella casa
maritale (come la protagonista eponima di Hedda Gabler che ha condotto
nella casa del marito alcuni segni della sua vita precedente: un pianoforte, il
ritratto e le pistole del padre).
100
Det får du ikke lov til, «Per questo tu non otterrai il permesso». Alla prima
notizia che Nora andava via di casa, Torvald aveva ingiunto: Du får ikke lov!,
«Tu non otterrai il permesso!». Nora gli replica a distanza. Forse gli fa il ver-
so, irridente.
UNA CASA DI BAMBOLA 229
101
Vidunderlig ha 19 ricorrenze nel testo, ma ben 4 riunite in questa pagina
ultima della pièce. Inoltre in 16 l’aggettivo ha il grado positivo, e in 3 ha il
grado superlativo (vidunderligste, tutt’e tre qui). Un’insistenza eccessiva su
una parola-chiave; un modo di suggerire che la diabolica coppia Helmer sta
ricominciando a tessere la sua ragnatela romanzesca. Dopo il gioco degli eroi
(finito malamente), e dopo la sceneggiata della donna emancipata (che du-
rerà quindici giorni, come ipotizza Groddeck), ci sarà il meraviglioso realiz-
zato. Ed è sempre Nora a menare la danza. È lei a imporre per prima non so-
lo l’aggettivo fatale, ma anche il grado superlativo del medesimo: «Ah, Tor-
vald, dovrebbe accadere allora la cosa più meravigliosa [vidunderligste] –».
Dopo tante dichiarazioni laiche e raziocinanti, ecco insinuarsi la consueta ci-
fra dell’irrazionale e del fantastico. E Torvald scende subito in campo: Nævn
mig dette vidunderligste!, letteralmente «Nominami questa cosa più meravi-
gliosa!». Esattamente come nel mondo magico, basta dire il nome perché la
cosa sia. S’intende che il ritorno di Nora è solo adombrato, ma la didascalia
concernente Torvald («Una speranza sorge in lui») significa pur qualcosa;
non avrebbe senso, se davvero Torvald fosse sconfitto per sempre.
Studio di Helmer Anticamera Ingresso dall’esterno Cucina
pianoforte
verso
la Sala
Camera Salotto pranzo
bambini e
Camere
da
letto
Spettatori
Una casa di bambola
SPETTRI
(1881)
Un dramma familiare in tre atti1
Traduzione di Roberto Alonge e Franco Perrelli*
*
Le note sono a cura di Roberto Alonge.
1
Et familjedrama, «un dramma familiare», con l’articolo indeterminativo, co-
me già nel titolo di Una casa di bambola: anche qui a sottolineare un singolo
esempio, fra tanti possibili, della generale fenomenologia della famiglia otto-
centesca.
PERSONAGGI
2
Ciambellano è Kammerherre, letteralmente «signore della camera», in ori-
gine dignitario di corte, addetto agli appartamenti del sovrano. Al tempo di
Ibsen indica genericamente un titolo onorifico.
PRIMO ATTO
(Un ampio salotto che dà sul giardino3 con una porta sulla parete
sinistra e due porte sulla parete di destra. In mezzo al salotto un
tavolo rotondo con delle sedie intorno; sul tavolo, libri, riviste e
giornali. Verso il proscenio a sinistra una finestra e vicino ad essa
un piccolo sofà con davanti un tavolino per il cucito. In fondo il
salotto si prolunga in un vano-serra4 aperto e un po’ più stretto,
chiuso all’esterno da vetrate a grossi riquadri. Nel vano-serra, sul-
la parete di destra, c’è una porta che dà sul giardino. Attraverso le
vetrate si scorge un tetro paesaggio di fiordo, velato da una piog-
gia insistente.)
3
«Salotto che dà sul giardino», havestue, non molto diverso da havesal de I
sostegni della società, di cui cfr. n. 7.
4
Blomsterværelse è, letteralmente, «stanza dei fiori», ma abbiamo tradotto –
con l’eccezione di cui si dirà alla n. 33 – con «vano-serra», perché si tratta
della parte estrema del salotto, che apre sul giardino, e che è caratterizzata
dalla presenza di piante e di fiori.
5
Havedør, «porta del giardino», è quella collocata nella parete destra del va-
no-serra, che conduce al giardino attraverso una serie di gradini. Di qui, il ri-
cordo della signora Alving, che sentì la serva che «veniva su [kom op] dal
giardino con l’acqua per i fiori», mentre sentì semplicemente «venire [kom]
anche Alving», che dunque proveniva dall’interno della casa.
234 HENRIK IBSEN
REGINE Non battere così con quel piede, uomo! Il giovane si-
gnore sopra sta dormendo.
ENGSTRAND Dorme ancora? In pieno giorno?
REGINE Questo non ti riguarda.
ENGSTRAND Io sono stato a far baldoria ieri sera –
REGINE Questo lo credo senza difficoltà.
ENGSTRAND Sì, perché noi uomini siamo deboli, bambina mia –
REGINE Sì, che lo siamo.
ENGSTRAND – e le tentazioni sono svariate a questo mondo, sai –;
e tuttavia stamattina presto alle cinque e mezzo, sì per Dio, ero al
lavoro.
REGINE Sì, sì, ma adesso vattene. Qui rendez-vous con te non
voglio averne.
ENGSTRAND Che cos’è che non vuoi?
REGINE Non voglio che qualcuno t’incontri qui. E dai; vattene
via.
ENGSTRAND (avvicinandosi di qualche passo) No per Dio prima
devo farmi una chiacchierata con te. Oggi pomeriggio finisco il
lavoro giù alla scuola, e stasera me ne ritorno in città con il bat-
tello.
REGINE (mormora) Buon viaggio!
ENGSTRAND Grazie, bambina mia. Domani s’inaugura il convit-
to,6 e qui c’è da aspettarsi una bella sbornia generale, capisci. E
nessuno dovrà dire di Jakob Engstrand, che non sa dominarsi,
quando la tentazione si presenta.
REGINE Oh!
ENGSTRAND Già, perché domani qui ci sarà tanta gente fine. Si
aspetta dalla città anche il reverendo Manders.
REGINE Arriva proprio oggi.
ENGSTRAND Lo vedi. E diavolo, non voglio che abbia da ridire
sul mio conto, comprendi.
REGINE Oho, è così!
ENGSTRAND Che cosa è così?
REGINE (lo guarda fisso) In quale trappola, vuoi di nuovo attira-
re il reverendo Manders?
ENGSTRAND Zitta, zitta; sei matta? Io attirare il reverendo Man-
ders in una trappola? Oh, il reverendo Manders è stato troppo
buono con me per quella cosa. Ma era quello, su cui volevo fare
due chiacchiere, vedi, io stasera me ne ritorno a casa.
6
Asyl, che abbiamo tradotto sistematicamente con «convitto», per le ragioni
esposte alla n. 18.
SPETTRI 235
7
Tøs, solo 8 ricorrenze nel teatro ibseniano, che abbiamo tradotto (quasi) si-
stematicamente con «ragazzetta», per differenziare da «fruentimmer», «fem-
mina» (cfr. I sostegni della società, n. 23). In Spettri 3 frequenze, tutte di Eng-
strand, con una sfumatura spesso un po’ picaresca (con qualche forzatura
avremmo potuto tradurre anche con «squinzia»). Ne I sostegni della società c’è
un tøsunge (riferito a Dina bambina) che abbiamo tradotto con «monella».
8
Interiezione che vale vergogna! Regine usa spesso espressioni francesi per-
ché studia la lingua nella speranza di andare a Parigi con Osvald: cfr. n. 29.
236 HENRIK IBSEN
9
Il realismo di Ibsen ci regala, nella figura di Engstrand, l’immagine di un
proletario ubriacone, senza scrupoli, e persino un poco criminale. Come ri-
sulta dal finale, è lui che mette a fuoco il convitto, per dare la colpa a Man-
ders, salvo, immediatamente dopo, assumersene la colpa e ricattare così Man-
ders, che lo aiuterà finanziariamente nel suo progetto originario: mettere su
un locale-bordello per marinai di alto bordo (capitani e timonieri). Da perso-
naggio diabolico quale è, non può non avere una zoppia alla gamba sinistra
(quella del maligno appunto). Regine gli grida Pied de mouton, cogliendo co-
sì involontariamente la natura animalesca di lui, caprina, e cioè diabolica, se-
condo una nota iconografia del diavolo, mezzo uomo e mezzo caprone. In
questo quadro, non stupisce che nomini continuamente il diavolo e che be-
stemmi. Il suo linguaggio è però un impasto gustosissimo di accenti canaglie-
sco-infernali saporosamente mescolati con cadenze scritturali, sì da risultare
una splendida figura di «Tartufo operaio», come è stato detto. S’intende che,
anche quando nomina Dio, è come se bestemmiasse. I suoi insistenti Jøss
(letteramente «Gesù») hanno l’ambiguità dei nostri «Cristo!», che sono cioè
un po’ invocazione e un po’ bestemmia.
SPETTRI 237
10
Regine – che è una proletaria spregiudicata, non meno di Engstrand – va-
gheggia di poter sposare il padroncino Osvald, secondo una progettualità
che risale a due anni prima (cfr. n. 29).
238 HENRIK IBSEN
REGINE Uff, per questo posso fare con le mie mani, se ne ho voglia.
ENGSTRAND No, con la mano guida di un padre, è meglio, Regi-
ne. Ora posso comprare una casetta al Vicolo del Porto. Non
serviranno molti contanti; e lì potrebbe sorgere una specie di
casa del marinaio, comprendi.
REGINE Ma io non voglio stare con te! Io non ho niente a che fa-
re con te. Vattene!
ENGSTRAND Diavolo non ci staresti a lungo con me, bambina
mia. Mica tanto. Se capisci come ti devi muovere. Bella ragaz-
zetta, come ti sei fatta negli ultimi due anni –
REGINE Be’ –?
ENGSTRAND Non passa molto che si presenta un timoniere, – sì,
magari un capitano –
REGINE Non vorrei sposarmi con nessuno di questi. I marinai
non hanno savoir vivre.
ENGSTRAND Cos’è che non hanno?
REGINE Li conosco i marinai, ti dico. E non è gente da sposare.
ENGSTRAND E non sposarteli. Ci si può guadagnare lo stesso. (Più
confidenziale.) Lui – l’inglese – quello con la barca da diporto –
diede trecento talleri, quello; – e lei non era più bella, lei, di te.
REGINE (contro di lui) Fuori!
ENGSTRAND (indietreggia) Be’, be’; non vorrai mica picchiarmi, no.
REGINE Sì! Se fai chiacchiere su mamma, ti picchio. Fuori, t’ho
detto! (Lo spinge verso la porta del giardino.) E non sbattere le
porte; il giovane signor Alving –
ENGSTRAND Quello dorme, sì. Strano quanto ti preoccupi del
giovane signor Alving. – (Più piano.) Ohoh; sarebbe mai possi-
bile che lui –?
REGINE Fuori, e alla svelta! Sei uno stordito, uomo! No, non per
di là. Sta arrivando il pastore Manders. Scendi per la scala della
cucina.
ENGSTRAND (verso destra) Sì, sì, scendo. Ma scambiale due
chiacchiere con quello, che sta arrivando là. Lui è la persona
che ti può spiegare quel che una figlia deve al proprio padre.
Perché io resto comunque tuo padre, sai. E te lo posso dimo-
strare con il registro della chiesa. (Esce dalla seconda porta che
Regine ha aperto e gli richiude dietro.)
REGINE (si guarda velocemente allo specchio, si sventola con il
fazzoletto e si aggiusta il cravattino; quindi si dedica ai fiori)11
11
Formidabile il cinismo della nostra graziosa arrampicatrice sociale, che gioca
su due tavoli, Osvald ma anche Manders. Si noti come controlli la sua grazia
SPETTRI 239
(Esce con quelle cose dalla seconda porta a destra. Il pastore Man-
ders prende la borsa da viaggio e la depone con il cappello su una
sedia. Intanto rientra Regine.)
personale allo specchio e si metta poi a lavorare, facendo finta di essere sorpre-
sa dall’ingresso del pastore (che invece ha visto arrivare dalla vetrata del vano-
serra): piccola sceneggiata per far colpo su Manders, esibendogli un profilo di
lavoratrice zelante e inappuntabile (ma anche femminilmente seducente).
12
Regine realizza uno spregiudicato rovesciamento sul tema della pioggia ri-
spetto a quanto aveva detto a Engstrand, ad apertura di sipario. Per il falegna-
me si trattava della «pioggia di Nostro Signore», ma per Regine era «la pioggia
del demonio» (in giusta coerenza con la natura demoniaca di Engstrand).
Adesso, con Manders, assume improvvisamente il punto di vista tartufesco del
patrigno, mettendo in imbarazzo il pastore che ha detto che la pioggia è fasti-
diosa («È un tempo benedetto per i contadini, signor pastore»). Regine ha im-
parato bene, da Engstrand, come si raggirano gli uomini di chiesa.
240 HENRIK IBSEN
13
Non è una frase di circostanza, come sembra credere la critica ibseniana. Il
buon senso del severo e lungimirante pastore luterano sa bene che Parigi è
luogo peccaminoso, da cui non è facile uscire «sano e salvo», spiritualmente e
fisicamente.
14
Dopo le minute espressioni di sollecitudine (gli prende il soprabito, apre
l’ombrello perché asciughi, sistema lo sgabello sotto i piedi) e di compita pro-
fessionalità servile (sul molto lavoro che c’è in casa, sulla opportunità di par-
lare sottovoce per non disturbare il padroncino che dorme), Regine non
manca, al momento opportuno, di schiudere sotto gli occhi del reverendo la
sua esplosa bellezza di fanciulla in fiore e bene in carne, che «ha preso un po’
di forme». Manders dice pudicamente che è «cresciuta» da quando l’aveva
vista l’ultima volta, in occasione della cresima, cioè che si è sviluppata. L’età
della cresima – in ambiente luterano – è sui sedici-diciassette anni. Cfr. anche
n. 41. Per l’abituale congruità aritmetica dei calcoli ibseniani cfr. n. 29.
SPETTRI 241
17
Il raddoppiamento del «lui» è della lingua di Ibsen, e ha un valore allusivo:
lui, il figlio, vuole bene a Helene Alving, a differenza dell’altro lui, il pastore
Manders, che non accetta nemmeno ora – in vecchiaia – di dormire sotto lo
stesso tetto della donna.
244 HENRIK IBSEN
18
Il testo parla di asyl, destinato a una generica «assistenza ai poveri». Forse
non propriamente un «orfanotrofio», ma nemmeno un «asilo» (che farebbe
pensare all’«asilo elementare»). Abbiamo reso con «convitto», tenendo con-
to che si parla di «locali scolastici» e di «alloggio per gli insegnanti». In
quanto al tormentone sulla assicurazione, è uno degli elementi più datati
del testo ibseniano, a sottolineare le ipocrisie di un chiuso cosmo di religio-
sità tartufesca.
SPETTRI 247
19
Sul «figliuol prodigo» cfr. I sostegni della società, n. 16.
SPETTRI 249
20
Manders non condanna «in maniera assoluta» (ubetinget), ma in maniera
relativa sì, e in relazione al caso specifico di Osvald, ha alcuni dubbi. I pittori
moralmente integri sono «molti», mange, ma Manders lo suppone soltanto
(Jeg antager, «Io suppongo»), non ne è affatto certo. Manders si è fermamen-
te opposto, a suo tempo, alla scelta pittorico-parigina di Osvald, come ricor-
da la signora Alving. Sacrosanta diffidenza, vorremmo dire.
21
Piccola divertente schermaglia. La madre si compiace che il figlio ami il ci-
bo; il pastore osserva che ama anche il tabacco.
250 HENRIK IBSEN
23
Tra i ricordi infantili di Osvald, questo fermo-immagine un po’ laido di un
padre molto laido. Solita tecnica di Ibsen, che anticipa via via piccoli partico-
lari, in attesa di arrivare all’affondo decisivo, alla rivelazione, allo svelamento
dello scheletro che sta dentro l’armadio.
24
Forse Osvald non ha ereditato la sifilide dal padre; forse se l’è procurata
per colpa sua, nella gioiosa vita parigina, ma gli tocca comunque qualche
attenuante. Ha fatto del male, ma in qualche modo del male è stato fatto a
lui. Si è sentito allontanato dalla famiglia, spedito a vivere lontano, in una
città straniera, in collegio. Per vent’anni ha vissuto lontano dalla sua casa, e
conserva paradossalmente una patetica nostalgia del focolare domestico,
consuonando in questo con il pastore, e contrapponendosi velatamente alla
madre.
252 HENRIK IBSEN
25
La stesura originaria del dramma insisteva maggiormente, a questo punto,
sulle scandalose modelle parigine che posano nude per i giovani artisti: cfr. Per-
relli 2008, p. 13. Certo, rimane sintomatico che la tavola dei personaggi si preoc-
cupi di definire la professione del nostro: «Osvald Alving, suo figlio, pittore».
254 HENRIK IBSEN
dovere era rimanere con l’uomo, che aveva scelto e con il quale
aveva stretto il sacro vincolo.
SIGNORA ALVING Lei sa bene che genere di vita menasse Alving
all’epoca; di quali disordini si rendesse colpevole.
PASTORE MANDERS Conosco molto bene le voci che correvano
sul suo conto; ed io, meno d’ogni altro approverei la sua con-
dotta negli anni giovanili, se le voci avessero un fondamento.
Ma una moglie non deve ergersi a giudice del proprio capofa-
miglia. Con spirito di sottomissione lei avrebbe avuto l’obbligo
di portare quella croce, che una volontà superiore aveva consi-
derato adatta a lei. E invece lei quella croce la rigetta in un im-
peto di rivolta, abbandona quell’uomo vacillante, che avrebbe
dovuto sorreggere, mette a repentaglio il suo buon nome e la
reputazione, e – quasi quasi stava persino per rovinare la repu-
tazione di altri.
SIGNORA ALVING Di altri? Di un altro, intende forse?
PASTORE MANDERS Fu una cosa oltremodo senza riguardi da
parte sua cercare rifugio da me.26
SIGNORA ALVING Dal nostro sacerdote? Dal nostro amico di
casa?
26
Una scelta «senza riguardi», hensynsløst, quella di Helene di abbandonare
la casa del marito per andare a gettarsi fra le braccia dell’amato pastore. Sen-
za riguardi per l’onorabilità del pastore – uomo di chiesa e uomo di potere –,
che sarebbe stata travolta dallo scandalo. Solo 3 ricorrenze dell’aggettivo nel
testo, ma la seconda è ancora di Manders che, qualche riga più avanti, conti-
nua a martellare: «Tutto, ciò che la disturbava nella vita, lei l’ha rigettato sen-
za riguardi e senza scrupoli». Resta da precisare che Manders non è una cari-
catura di religioso. È un conservatore, uomo delle gerarchie, del principio di
autorità, che parla con un linguaggio severo non privo di charme. Semmai so-
no le traduzioni correnti che gli fanno torto, perché Manders è un uomo in-
trepido, che ha il coraggio delle proprie affermazioni risolute, reazionarie.
Quando decide di fare la morale alla signora Alving, non dice – come si tra-
duce solitamente – «Ma ora voglio parlarle seriamente», sibbene, appunto,
«Ma ora io voglio farle la morale» (tale et alvorsord, espressione idiomatica
che vale fare la lezione, fare la morale). E quando dice che Helene, come mo-
glie, non aveva diritto di giudicare il marito, dice, propriamente, sin husbond,
«il suo capofamiglia», termine più forte di «marito» (perché implica, nel com-
portamento di Helene, una insubordinazione anche sociale, un rinnegamento
della disciplina gerarchica). Manders è un personaggio unico, nel teatro ibse-
niano, che dunque non a caso utilizza spesso termini unici, hapax: oprør-
skhed, «impeto di rivolta»; selvrådighed, «spirito di ostinazione»; tvangløs,
«senza costrizione»; lovløs, «senza legge»; ungdomsvildfarelse, «traviamenti
di gioventù»; fritænkersk, «libero pensatore»; lovlighed, «legalità».
256 HENRIK IBSEN
27
Hensynsløse fruentimmer, «femmine senza riguardi». Helene replica a cor-
ta distanza, riprendendo l’aggettivo hensynsløs che abbiamo visto usato per
due volte da Manders. Ma Helene riprende per sé, in via autoironica, anche
lo stesso termine spregiativo (fruentimmer, «femmina») che il diabolico Eng-
strad utilizzava parlando del suo locale-bordello, ovviamente bisognoso di
fruentimmer, per attirare i clienti danarosi. Sono le due uniche ricorrenze del
sostantivo in Spettri. È la consueta tecnica di Ibsen, che opera richiami a di-
stanza, per suggerire accostamenti inaspettati (e sempre polemici). Per la
chiusa moralità di Manders, il comportamento di Helene – che ha abbando-
nato il marito ed è venuta a cercare rifugio nelle braccia del pastore – è quel-
lo di una donnaccia, di una fruentimmer.
258 HENRIK IBSEN
dire, che quando lei giudica la mia relazione coniugale, lei si ba-
sa soltanto su un’opinione che circola.
PASTORE MANDERS Certo; e con ciò?
SIGNORA ALVING Adesso però, Manders, adesso voglio dirle la
verità. Io ho giurato a me stessa che un giorno lei l’avrebbe sa-
puta. Lei solo!
PASTORE MANDERS E quale sarebbe la verità?
SIGNORA ALVING La verità è questa, che mio marito morì da de-
pravato, come aveva vissuto tutti i suoi giorni.
PASTORE MANDERS (cerca a tentoni una sedia) Ma che dice?
SIGNORA ALVING Dopo diciannove anni di matrimonio, un de-
pravato, – almeno nelle sue voglie, – come prima che lei ci spo-
sasse.
PASTORE MANDERS E quei traviamenti di gioventù, – quelle sre-
golatezze, – disordini, se vuole, lei li chiama condotta di vita de-
pravata!
SIGNORA ALVING Il nostro medico di famiglia usava quel termine.
PASTORE MANDERS Ora non la capisco.
SIGNORA ALVING Neanche serve.
PASTORE MANDERS Quasi mi gira la testa. Tutto il suo matrimo-
nio, – tutta la vita in comune di anni con suo marito non sareb-
be stata altro che un abisso coperto!
SIGNORA ALVING Null’altro. Ora lei lo sa.28
PASTORE MANDERS In questo – io non mi ci ritrovo. Non posso
capacitarmi! Non afferro! Ma com’era possibile che –? Com’è
potuta una roba del genere restare nascosta?
SIGNORA ALVING È stato anche il mio combattimento senza tre-
gua giorno dopo giorno. Quando nacque Osvald, mi sembrò
che andasse un po’ meglio con Alving. Ma non durò a lungo. E
allora dovetti combattere doppiamente, combattere per la vita
e la morte perché a nessuno trasparisse che uomo fosse il padre
di mio figlio. E poi lei lo sa, come Alving sapesse conquistarsi i
cuori. Sembrava che di lui non si potesse pensare altro che be-
ne. Apparteneva a quel genere di persone la cui condotta di vi-
ta non intacca la reputazione. Ma dopo, Manders, – anche que-
sto deve sapere, – dopo capitò la cosa più abominevole di tutte.
PASTORE MANDERS Più abominevole di questo!
SIGNORA ALVING Lo sopportavo, pur sapendo bene che cosa
combinava in segreto fuori casa. Ma quando lo scandalo s’insi-
nuò all’interno delle nostre quattro mura –
28
Nu ved De det, «Ora lei lo sa». Frase canonica.
SPETTRI 259
32
Osvald da! Er du gal? Slip mig!, «Osvald dài! Sei pazzo? Lasciami!». È la
ripetizione puntuale di una scena del passato, evocata da Helene, quella del
padre di Osvald in procinto di fare le sue avances alla madre di Regine: Slip
mig, herr kammerherre! Lad mig være!, «Mi lasci, signor ciambellano! Mi
lasci stare!». Gli spazi sono invertiti: adesso Helene, in salotto, origlia i due
che stanno in sala da pranzo; nel passato Helene, in sala da pranzo, origlia-
va i due che stavano in salotto. Per il resto, stessi verbi, stessi costrutti lessi-
cali, che mettono però in rilievo la differenza capitale: Regine dà del tu (du)
a Osvald, la madre dava del lei. La scena antica fotografa una situazione
iniziale. Ciò che il ciambellano «sussurra» (hviske, stesso verbo che ritro-
viamo nella didascalia della scena finale del I atto) alla cameriera sono ap-
punto delle prime avances. Osvald pretende invece di rinnovare con la do-
mestica manifestazioni di intimità già sperimentata. Il figlio è più avanti del
padre. Forse Osvald non ha molto tempo, perché sa di dover morire presto,
ma certo è uno che non perde tempo. Dopo un giorno che è arrivato, si è già
portato a letto la servetta, e il secondo giorno non può neanche aspettare
che cali la tenebra propiziatrice per avere la sua soddisfazione. O, forse, ciò
che lo eccita maggiormente è appunto l’idea di ottenere il proprio piacere
hic et nunc, con la mamma e il pastore nella stanza accanto. Un doppio sfre-
gio ai valori familiari e spirituali. Non per nulla il sottotitolo di Spettri suo-
na propriamente et familjedrama i tre akter, «un dramma familiare in tre at-
ti». Da aggiungere ancora che il finale di questo I atto è straordinariamen-
te sarcastico: Helene ha appena detto che, con la costruzione del convitto,
si è liberata della presenza ossessiva del marito, che da dopodomani in
quella casa non ci saranno che lei e suo figlio, e immediatamente si scopre
che il duetto è un triangolo, per la presenza invasiva di un’altra serva, a con-
tendere l’uomo della povera padrona di casa (non più il marito, questa vol-
ta, bensì il figlio).
SPETTRI 263
33
Avremmo dovuto tradurre, per coerenza, con «la coppia del vano-serra»
(cfr. n. 4), ma ci è sembrato assai poco poetico e dunque, per una volta, ab-
biamo reso con «la coppia della serra». In ogni caso la serra è soltanto un
dettaglio, ma Luca Ronconi, allestendo Spettri nel 1982, dilata il particolare a
struttura portante di tutto lo spettacolo, costruendo una gigantesca serra che
ingloba scena e platea, attori e spettatori. Cfr. Alonge 1984b, pp. 61-66.
SECONDO ATTO
34
Usømmeligt forhold, «sconcia relazione». Ci sono solo 2 ricorrenze dell’ag-
gettivo usømmelig (presente solo in Spettri di tutti i magnifici 12), usate sem-
SPETTRI 265
35
Manders ospite abituale nella casa dei coniugi Alving, esattamente come
Rank nella casa dei coniugi Helmer. Ibsen recepisce perfettamente la tenta-
zione del triangolo adulterino, ma lo lascia nel sottotesto, non ne fa mai argo-
mento delle sue trame drammaturgiche, a differenza del restante teatro eu-
ropeo, egemonizzato dagli autori francesi, decisamente ossessionati da simile
problematica.
SPETTRI 267
per questo ho mentito al mio ragazzo anno dopo anno. Oh, tan-
to vile, – tanto vile sono stata!
PASTORE MANDERS Lei ha consolidato una felice illusione in
suo figlio, signora Alving, – e non deve reputarla davvero cosa
da poco.
SIGNORA ALVING Hm; chi sa, se questo adesso sia proprio un be-
ne. – Ma di tresche con Regine non voglio assolutamente sa-
perne. Non deve rendere infelice quella povera ragazza.
PASTORE MANDERS No, buon Dio, sarebbe tremendo!
SIGNORA ALVING Se sapessi che lui ha intenzioni serie e se ciò
fosse per la sua felicità –
PASTORE MANDERS Come? Che?
SIGNORA ALVING Ma così non è; purtroppo Regine non è quella
giusta.
PASTORE MANDERS Allora, che cosa? Cosa vuol dire?
SIGNORA ALVING Se non fossi cosi pietosamente vile, come so-
no, gli direi: sposatela, o mettetevi d’accordo fra di voi; niente
menzogne però.
PASTORE MANDERS Ma per misericordia –! Un matrimonio
in forma legale per di più! È spaventoso –! Qualcosa d’inau-
dito –!
SIGNORA ALVING Sì, dice inaudito lei? Mano sul cuore, pastore
Manders; ma crede che in giro nel paese non ci siano diverse
coppie di sposi, imparentate altrettanto strettamente?36
PASTORE MANDERS Io non la capisco affatto.
SIGNORA ALVING Oh sì che mi capisce.
PASTORE MANDERS Be’, lei pensa all’eventualità che –. Sì, di-
sgraziatamente, la vita familiare non è certo sempre pura, come
dovrebbe essere. Ma quello, cui si riferisce lei, non lo si può mai
sapere, – almeno non con sicurezza. Qui invece –; che lei, una
madre, possa voler accettare che suo –!
SIGNORA ALVING Ma io non lo voglio. Non vorrei accettarlo per
nessun prezzo al mondo; è proprio quello che sto dicendo.
PASTORE MANDERS No, perché è vile, secondo la sua espressio-
ne. Ma se vile non fosse –! Oh mio Creatore – una unione così
rivoltante!
SIGNORA ALVING Sì, del resto discendiamo tutti da unioni del
36
Il teatro di Ibsen è un grande scandaglio sui vizi privati e le pubbliche virtù
della borghesia capitalistica di fine Ottocento, una messa a fuoco implacabile
delle pulsioni più inconfessate e inconfessabili che allignano all’interno del
nucleo familiare: e il tema dell’incesto resta centrale.
SPETTRI 269
37
Allusione ai vari punti del Vecchio Testamento in cui compaiono storie di
incesto, per esempio le figlie di Lot che si uniscono al padre perché credono
di dover garantire la continuità della specie.
38
Il cucito fatto a macchina presenta la caratteristica di essere fermato alla
fine da un unico nodo. Sciolto il quale, tirando un capo, si sfila tutto.
270 HENRIK IBSEN
39
C’è una dimensione passionale, nel passato della signora Alving. La tradi-
zione scenica ha teso però, sin dall’inizio, a rimuovere questo aspetto, privile-
giando piuttosto il dramma della madre (anziché quello della donna innamo-
rata). A cominciare da Antoine, che portò al successo Spettri in Francia, e
quindi praticamente in tutta Europa, nel 1890. Sui tagli di Antoine su questo
punto cfr. Alonge 2006, pp. 58-65.
40
Manders non è affatto quel pesce bollito che la tradizione scenica ci ha con-
segnato (personaggio ipocrita, reazionario, sciocco, a seconda delle varie ac-
centuazioni, ma comunque figura secondaria, trascurabile): cfr. n. 26. Se è
stato amato da una donna sensibile e intelligente come Helene Alving, in
realtà non può essere né uno stolido né un uomo privo di fascino. Poiché i
parenti di Helene l’hanno spinta a sposare, senza amore, Alving, è evidente
che Manders non era un partito altrettanto buono. La carriera ecclesiastica è
stata per Manders il risarcimento di un’origine sociale probabilmente mode-
sta. Di qui il compiacimento di Manders per il peso che è riuscito a conqui-
starsi nella comunità, la soddisfazione di stare in molteplici «commissioni e
comitati di gestione». C’è, insomma, un risvolto manageriale di Manders che
va sottolineato, e che costituisce un altro lato del suo charme.
SPETTRI 271
Dopo tutto quello che con spavento ho sentito da lei oggi, non
posso consentire in coscienza che una giovane ragazza indifesa
resti in casa sua.
SIGNORA ALVING Non crede che sarebbe meglio se potessimo
trovarle una sistemazione? Voglio dire – un buon matrimonio.
PASTORE MANDERS Senz’altro. Ritengo che sotto ogni aspetto
sarebbe augurabile per la ragazza. Regine è appunto in quel-
l’età, in cui –; già, io non me ne intendo, ma –
SIGNORA ALVING Regine si è sviluppata precocemente.
PASTORE MANDERS Sì, non è vero? Credo di rammentare che il
suo fisico fosse sorprendentemente sviluppato, quando la pre-
paravo per la confermazione.41 Comunque per ora deve ritor-
narsene a casa: sotto la sorveglianza di suo padre –. No, ma
Engstrand non è –. Che lui – che lui abbia potuto nascondermi
così la verità!
42
Ogni tanto il blasfemo Engstrand perde il controllo, rispetto alla sua più
prudente dimensione tartufesca.
274 HENRIK IBSEN
43
Esempio fulgido del linguaggio tartufesco di Engstrand, denso di caden-
ze scritturali. «Pianto e stridor di denti» è una espressione che ritorna fre-
quentemente in Matteo, 8, 12; 13, 42; 13, 50; 22, 13; 24, 51; 25, 30. Ibsen ri-
prende la traduzione della Bibbia danese, Graad og Tænders Gnidsel, e
rende con tårer og tænders gnidsel, «pianto e stridor di denti». Cfr. Biblia
1842, ad locum.
SPETTRI 275
44
«Mammona», demone tentatore della ricchezza, citato da Cristo (Matteo, 6,
24). Engstrand si compiace di espressioni attinte al linguaggio religioso: syn-
dens sold, «la paga del peccato», la «mercede del peccato». E qualche battuta
prima, non meno gustosamente: du har begåt et syndefald og er en falden skab-
ning, «tu hai fatto una caduta nel peccato e sei una creatura caduta», con una
precisa assonanza fra «caduta nel peccato» (syndefald) e «caduta» (falden).
45
Cfr. Paolo, Lettera agli Efesini, 6, 4, in cui i padri sono invitati ad allevare i fi-
gli «nella disciplina e negli ammonimenti del Signore». Anche in questo caso
il drammaturgo utilizza parzialmente la Bibbia danese, che parla di Tugt («di-
sciplina»), che Ibsen rende con hustugt («disciplina sulla casa»), hapax. Cfr.
Biblia 1842, ad locum. Sono i soliti piccoli trucchi di Engstrand per mettersi in
tasca il pastore luterano. Da notare l’aggettivo usato avverbialmente kærligt,
«amorevolmente», 2 sole ricorrenze: qui Engstrand dice di essere vissuto
«amorevolmente» con Johanne; e nel I atto Manders diceva similmente che
Helene aveva vissuto «amorevolmente» con il ciambellano Alving. La sottile
ironia smaschera l’ipocrisia di due coppie coniugali assai sbrindellate, mesco-
lando l’alto e il basso, gli agiati borghesi e i miserabili proletari.
276 HENRIK IBSEN
46
La donna Helene (anziché la madre) non rinuncia a prendere a pretesto
l’ingenuità di Manders per tentare di buttargli le braccia al collo: ma anche
questa volta è repressa nel suo slancio dal severo uomo di chiesa.
47
Perché mai una «esclamazione soffocata»? Cosa c’è di così drammatico
nel fatto che Osvald non sia andato a passeggio, e sia rimasto in sala da pran-
zo, a finire il suo liquore e a fumare il suo sigaro? Dobbiamo ritornare all’i-
nizio del II atto, osservando l’insistenza delle didascalie, che registrano per
ben 2 volte che la signora Alving lukker døren, «chiude la porta» (prima
quella che dal salotto conduce in sala da pranzo, e poi quella che dal salotto
conduce in anticamera). Manders capisce subito che l’ospite sta predispo-
nendo perché Osvald non possa origliare il discorso importante che si va ad
aprire, e chiede non casualmente: Han kan dog ikke høre noget derinde?,
«Lui non può ascoltare da là dentro?». La risposta della signora Alving è
appoggiata a due condizioni: Ikke når døren er lukket. Desuden så går han jo
ud, «No quando la porta è chiusa. E poi sta per uscire». In realtà Osvald non
è uscito a passeggio. Ma è assai probabile che anche la prima condizione
non si sia realizzata. La porta è stata chiusa dalla signora Alving, ma è stata
segretamente aperta da Osvald, che ha dunque origliato tutto il tenebroso e
inquietante dialogo fra la madre e il pastore. Curiosamente Ibsen, in questo
snodo che stiamo esaminando (dopo l’uscita di scena di Engstrand), prima
dimentica di precisare che la signora Alving apre la porta, e, poi, registra – in
una didascalia stupefacente – che la signora Alving «lascia la porta aperta»
(lar døren stå åben), senza però dirci chi l’ha aperta. Si tratta comunque – a
essere onesti – di una ipotesi interpretativa, non di una certezza, ma è una
ipotesi fondata sull’esame contestuale di tutto Ibsen. In Casa Rosmer l’ori-
gliamento di Rebekka dietro la porta è assolutamente esplicito e confessa-
278 HENRIK IBSEN
(Entra nel salotto con il sigaro e chiude la porta dietro di sé. Breve
silenzio.)
to; e così pure avviene ne Il nemico del popolo. Nella tradizione scenica ita-
liana qualche regista ha accolto questa ipotesi, mostrando Osvald che ori-
glia: Franco Branciaroli in un suo spettacolo del 1987, e, più recentemente,
Massimo Castri in un suo allestimento del 2004 (su quest’ultima realizzazio-
ne cfr. Alonge 2007, pp. 71-75).
48
Osvald chiede una cosa che ha già chiesto poche battute prima e alla quale
la madre ha già risposto: è il primo segno concreto dell’affievolimento della
lucidità mentale di Osvald sotto l’effetto congiunto della malattia e del molto
alcol ingollato fin qui. Quando dunque Ermete Zacconi, attore di cultura po-
sitivista, costruiva il suo spettacolo sul progressivo decadimento fisico del per-
sonaggio di Osvald, in fondo non era per nulla arbitrario (come è sembrato
alla critica idealistica e spiritualistica) e non faceva altro che leggere attenta-
mente dei particolari del testo come questo. Cfr. Alonge 1995b, pp. 89-92.
SPETTRI 279
me, che sono tornato a casa, star seduto alla tavola della mam-
ma, nella sala della mamma, a mangiare il delizioso cibo della
mamma.
SIGNORA ALVING Mio caro, caro ragazzo!
OSVALD (un po’ insofferente, passeggia e fuma) E che altro po-
trei fare qui? Non riesco a combinare niente –
SIGNORA ALVING Già, come niente?
OSVALD Con questo tempo plumbeo? Senza che cada un raggio
di sole in tutta la giornata? (Camminando.) Oh, ecco, non riu-
scire a lavorare –!
SIGNORA ALVING Forse non è stata proprio una buona idea, da
parte tua, questo ritorno a casa.
OSVALD No, mamma; dovevo farlo.
SIGNORA ALVING Sì, perché dieci volte rinuncerei alla felicità di
averti qui con me, se tu dovessi –
OSVALD (si ferma vicino al tavolo) Ma ora dimmi, mamma, – per
te è davvero una felicità tanto grande avermi a casa?
SIGNORA ALVING Se questa è una felicità per me!
OSVALD (sgualcisce un giornale) Credo che per te debba essere
la stessa cosa, che io ci sia o meno.
SIGNORA ALVING E hai cuore di dire questo a tua madre,
Osvald?
OSVALD Ma tu finora hai potuto vivere bene senza di me.49
SIGNORA ALVING Sì; ho vissuto senza di te; – questo è vero.
49
È la conferma che c’è una sofferenza in Osvald, il quale si è sentito abban-
donato dalla famiglia, in sostanza dalla madre (essendo il padre morto pre-
cocemente): cfr. n. 24. Sebbene sia chiaro che Osvald usa strumentalmente la
cosa per colpevolizzare la madre ed estorcere il suo consenso al di lui matri-
monio (o concubinaggio) con la domestica.
280 HENRIK IBSEN
(Regine esce.)
OSVALD Mamma!
SIGNORA ALVING Credi che anche qui in campagna non sappia-
mo vivere?
OSVALD Non è splendida da vedere?50 Così, com’è ben fatta! E
così sana fino al midollo.
SIGNORA ALVING (si siede vicino al tavolo) Siediti, Osvald, e
parliamo un po’ tranquillamente.
OSVALD (si siede) Tu non sai, mamma, che ho un torto da ripara-
re nei confronti di Regine.
SIGNORA ALVING Tu!
OSVALD O una piccola piccola leggerezza – se vuoi chiamarla così.
Del resto molto innocente. L’ultima volta che sono stato a casa –
SIGNORA ALVING Sì?
OSVALD – mi domandava molto spesso di Parigi, e io allora le
raccontavo ora una cosa ora l’altra. E mi ricordo che un giorno
mi spinsi a chiederle: non le piacerebbe venirci?
SIGNORA ALVING Dunque?
OSVALD Notai che si fece rossa come il fuoco, e disse: sì, mi pia-
cerebbe proprio. Sì sì, risposi io, faremo in modo che accada – o
qualcosa del genere.
SIGNORA ALVING E dunque?
OSVALD Naturalmente io avevo dimenticato tutto; ma quando
l’altro ieri le ho chiesto se era contenta che mi fermassi così a
lungo a casa –
SIGNORA ALVING Sì?
OSVALD – mi ha guardato in modo strano, e poi mi ha risposto:
ma che ne sarà del mio viaggio a Parigi?
SIGNORA ALVING Il suo viaggio!
OSVALD E allora mi è stato chiaro che aveva preso la cosa sul
serio, e che qui aveva continuato a pensare sempre a me, e che
s’era messa a imparare il francese –
50
Prægtig, «splendida»: aggettivo con 6 ricorrenze nel testo, tutte in bocca a
Osvald, e tutte con accezione molto carnale (5 riferite a Regine, e la sesta di
compiacimento per il fatto che è pronto in tavola).
286 HENRIK IBSEN
51
Livsglæde, «la gioia di vivere»: espressione presente soltanto in Spettri, con
12 frequenze, e questa inaugura la serie. L’elogio della parigina «gioia di vi-
vere» è una delle trovate più mistificanti di quel solenne mistificatore che è
Osvald: ciò che a Parigi è sana felicità esistenziale, alla latitudine della Nor-
vegia degenera – chissà perché – in «laidezza». Osvald tira fuori l’espressione
proprio mentre è al culmine del suo elogio fisico di una Regine che gli appa-
re – come sempre – prægtige (cfr. n. 50), ma soprattutto smukke, «formosa»,
pronta ad accoglierlo «a braccia aperte». Al solito, solo il geniale Castri met-
te in chiaro come stanno veramente le cose. Il regista accelera il processo di
ubriacatura di Osvald: dopo Porto bianco e Porto rosso servito a pranzo, e il
molto liquore bevuto dopo pranzo (come gli rinfaccia la madre), giunto al
termine della prima mezza bottiglia di champagne (che si è scolato peraltro
tutto da solo), l’Osvald di Castri è ormai già completamente brillo: parla con
la voce impastata degli ebbri e si muove barcollando. La storia della gioia di
vivere, che tira fuori a questo punto, è dunque una vistosissima bufala, un
modo subdolo di nascondere la propria invereconda pulsione alla dissipazio-
ne erotico-viziosa. In ogni caso è assai dubbio che Helene creda davvero alle
contorte affermazioni di Osvald, ma certo fa finta di crederci, e assume pron-
tamente come suo quel discorso, soltanto per usarlo contro il figlio stesso. È
infatti a questo punto, e a questo punto unicamente, che decide di parlare, di
confessare la verità sul padre. Sa bene che la rivelazione creerà una barriera
insormontabile fra i due giovani. Per il momento la cosa risulta però bloccata
dall’arrivo del pastore.
SPETTRI 287
atto, abbandonando casa Alving, dirà con qualche ragione: «Ne avrò anco-
ra occasioni di bere champagne con gente di alta condizione, io». La critica
non ha saputo cogliere l’ambiguità della signora Alving, donna evoluta, ma
anche donna pienamente inserita nel proprio contesto sociale, ben ferma
nei suoi pregiudizi di casta: disposta forse ad accettare che il figlio si porti a
letto la sorellastra, ma disgustata e sconvolta all’idea di ritrovarsi per nuo-
ra una proletaria, volgare, ignorante (e anche un po’ sgualdrina). Solo Ca-
stri ha colto i limiti di classe della signora Alving: Regine, per Castri, non
bagna delicatamente i fiori (come propone solitamente la tradizione sceni-
ca), ma pulisce i vetri e spazza per terra. Helene si è tenuta in casa la ba-
stardella del marito, ma per farle fare la serva, e non già come dama di com-
pagnia.
SPETTRI 289
55
Spesso in Ibsen una nota comica si mescola agli accenti più drammatici,
quasi tragici: come in questo rammarico del pastore di non aver provveduto
all’assicurazione. Brucia il convitto, brucia il corpo malato di Osvald, ma il
pastore pensa all’assicurazione, e il sipario del II atto si chiude su una franca
risata del pubblico.
TERZO ATTO
(La Signora Alving, con un grande scialle sul capo, sta in piedi nel
vano-serra e guarda fuori. Regine, pure avvolta in uno scialle, sta
un po’ dietro di lei.)
57
Il testo dice propriamente gøk, il «cùculo», ma abbiamo preferito tradur-
re con «merlo», che rende meglio l’allusione sprezzante nei confronti di
Manders.
SPETTRI 293
58
In prima approssimazione Engstrand si riferisce a sé stesso che, in passato,
accettò di prendersi la responsabilità della gravidanza della madre di Regi-
ne, Johanne, sposandola. Adesso ripete la stessa buona azione, assumendosi
la colpa dell’incendio. Entrambe le buone azioni, peraltro, in cambio di dena-
ro. Da un punto di vista grammaticale il testo è comunque chiarissimo, for
andre, «di altri», al plurale, e non già «di un altro». In effetti Engstrand allu-
de, in seconda approssimazione, a Cristo, venuto in terra per farsi carico del-
le colpe dell’umanità. Ovviamente il falegname risulta, come sempre, empio
e blasfemo. Non si può peraltro negare una carica iconoclasta in Ibsen che
sceglie per Engstrand – padre putativo – la stessa qualifica professionale di S.
Giuseppe (rimandando poi, in maniera ancora più sulfurea, a una Johanne-
Madonna e a un Alving senior-Dio Padre).
SPETTRI 295
61
In realtà, in privato (o quando crede di non essere sentita da altri, come in
finale di I atto), Regine dà del tu a Osvald (cfr. n. 32). Ma non di fronte alla
SPETTRI 297
signora Alving, che percepisce come la vera autorità, come il vero padrone
della casa. Si ricordino – in finale di II atto – le sue esitazioni a sedersi con i
padroni e a bere champagne con loro, nonostante gli incitamenti di Osvald
(ogni volta era la signora Alving a dover riconfermare l’ordine del figlio).
62
«Ieri sera»: il dramma si svolge in meno di ventiquattro ore, ma il III atto è
ambientato di notte.
298 HENRIK IBSEN
SIGNORA ALVING Il tuo povero papà non trovò mai uno sfogo
per quella esuberante gioia di vivere, che c’era in lui. Neanch’io
ho portato un’aria di festa in casa sua.
OSVALD Neanche tu?
SIGNORA ALVING Mi avevano impartito certi insegnamenti sul
dovere e cose simili, nei quali ho continuato a credere a lungo.
Tutto finiva in dovere, – nei miei doveri e nei suoi doveri e –.
Ho paura, di aver reso questa casa insopportabile al tuo povero
papà, Osvald.63
OSVALD Perché non mi hai mai scritto di questo?
SIGNORA ALVING Prima le cose non le avevo mai viste in modo
che potessi parlarne con te, che eri suo figlio.
OSVALD E come le vedevi invece?
SIGNORA ALVING (lentamente) Vedevo solo una cosa, che tuo
padre era un uomo distrutto prima che tu nascessi.
OSVALD (con voce soffocata) Ah –! (Si alza e si avvicina alla fi-
nestra.)
SIGNORA ALVING E poi pensavo giorno dopo giorno a una cosa
sola, che in fondo Regine apparteneva a questa casa – come il
mio ragazzo.
OSVALD (si volta di scatto) Regine –!
REGINE (sussulta raddrizzandosi e chiede con voce soffocata) Io –!
SIGNORA ALVING Sì, ora lo sapete tutt’e due.
OSVALD Regine!
REGINE (a se stessa) Allora mia madre era una di quelle.
SIGNORA ALVING Tua madre era brava per molti aspetti, Regine.
REGINE Sì, ma intanto era una di quelle. Sì, io l’ho pensato qual-
che volta; ma –. Sì, signora, potrei avere il permesso di partire
immediatamente?
63
Finalmente Helene riesce a esternare la rivelazione, che è stata per ben
due volte impedita in finale di II atto: cfr. nn. 51, 54. Recupera interamente il
mistificante discorso sulla «gioia di vivere» introdotto precedentemente da
Osvald. Assistiamo così a una incredibile redenzione del ciambellano, pre-
sentato quale improbabilissima vittima di una moglie repressiva. In realtà
Helene mente sapendo di mentire, perché vuole salvare l’idea positiva che il
figlio ha del proprio padre (così almeno pensa la donna). In effetti Helene
non è per nulla immagine di donna frigida, bensì passionale (per esempio
nella sua relazione con Manders). Ma anche con il marito non esita a giocare
il ruolo di compagna di bagordi domestici, pur di trattenerlo in casa, di limi-
tarne le devastanti scappatelle fuori casa. Ricordiamo come rievoca al pasto-
re: «Per tenerlo qui la sera – e la notte ho dovuto farmi compagna dei suoi
reconditi festini su in camera».
SPETTRI 299
64
Si tratta del denaro frutto dell’eredità del ciambellano, destinato dalla si-
gnora Alving alle spese di gestione del convitto, e che in parte finirà per fi-
nanziare il locale-bordello dell’orrendo falegname. Regine rivendica giusta-
mente una quota sui soldi del suo padre naturale.
300 HENRIK IBSEN
68
Stol, letteralmente «sedia», che però difficilmente può contenere due per-
sone. È da intendere quale forma contratta di lænestol, «poltrona», come ri-
sulta chiaro dall’incrocio di due didascalie: una, precedente, in cui si dice che
Helene «avvicina una poltrona [lænestol] al sofà e si siede accanto a lui»; e
una, posteriore, in cui si dice che Osvald «si siede sulla poltrona [lænestol],
che la signora Alving aveva accostato al sofà».
69
Abbiamo tradotto sistematicamente con «mano» le 9 ricorrenze di hånd-
srækning, che vale «mano» ma anche, metaforicamente, «aiuto», conservan-
do invece l’accezione «aiuto» per il verbo hjælpe, in un punto di questo stes-
so III atto in cui le due valenze risultano accostate: «avrei implorato da lei
quest’ultima mano [håndsrækning]. Lei mi avrebbe aiutato [Hun havde hjul-
pet mig]; ne sono sicuro».
SPETTRI 305
Anticamera
Stanze interne
Uscita
esterna
Salotto
che dà sul giardino
Sala
da
pranzo
Spettatori
Spettri
UN NEMICO DEL POPOLO
(1882)
Dramma in cinque atti
Traduzione di Sandra Colella*
* Le note sono a cura di Roberto Alonge. Alcune note sono a cura del tra-
duttore e ne viene data indicazione.
PERSONAGGI
(Se ne va.)
4
Anche in questo caso (come già prima: cfr. n. 1) è la moglie – con il suo niti-
do «ancora» – a svelare il lato notturno di Tomas, che ha consuetudine a fare
provocazioni contro il fratello. Il sindaco sarà pure una canaglia, ma il fratel-
lo minore non è uno stinco di santo.
320 HENRIK IBSEN
BILLING (stira le braccia) Ah, dopo una cena del genere, che Dio
mi danni, uno si sente come nuovo.
HOVSTAD Il sindaco non era dell’umore migliore, stasera.
DOTTOR STOCKMANN Dipende dallo stomaco; ha una cattiva di-
gestione.
HOVSTAD Era soprattutto noi dell’«Araldo del Popolo» che non
poteva digerire.
SIGNORA STOCKMANN Mi sembra, comunque, che se la sia cava-
ta discretamente con lui.
HOVSTAD Oh sì; ma non è altro che una specie di tregua armata.
BILLING Eccola qui! Questa parola descrive perfettamente la si-
tuazione.
DOTTOR STOCKMANN Dobbiamo ricordarci che Peter è un uo-
mo solo, poverino. Non ha una famiglia che lo accolga a casa;
solo affari, affari. E poi, quel maledetto tè annacquato, che non
finisce mai di ingollarsi. Be’, forza ragazzi, mettete le sedie in-
torno al tavolo! Katrine, non ce lo porti il grog?
SIGNORA STOCKMANN (mentre va verso la stanza da pranzo)
Adesso lo porto.
DOTTOR STOCKMANN E lei si sieda sul sofà, qui, vicino a me, ca-
pitano Horster. Un raro ospite, come lei –. Prego; sedetevi pu-
re, amici miei.
7
Per l’espressione død og plage, che ricorre frequentemente in questo come
in altri drammi ibseniani, cfr. I sostegni della società, n. 55. (Sandra Colella)
UN NEMICO DEL POPOLO 323
8
Rørlund è probabilmente l’insegnante di Morten. Ne I sostegni della società
compare un professor Rørlund, conservatore e bigotto. (Sandra Colella)
324 HENRIK IBSEN
(Il dottor Stockmann viene dalla sua stanza con la lettera aperta in
mano.)
10
Fand, «demonio»: il termine ricorre massicciamente nel corso del dramma,
31 volte (il secondo testo per frequenza, L’anitra selvatica, ne conta 11), a
conferma del carattere apertamente blasfemo di non poche delle esaltate de-
clamazioni del dottor Stockmann. Abbiamo però quasi sempre dovuto tra-
durre con «diavolo» (che per Ibsen invece è piuttosto dævel), perché in con-
testi che in italiano risultano nettamente connotati a «diavolo» (per il diavo-
lo, che il diavolo mi porti, cosa diavolo, dove diavolo, ecc.). Cfr. Il costruttore
Solness, n. 30. (Sandra Colella)
11
Mølle significa letteralmente «mulino» e Mølledal corrisponde quindi a
«valle dei mulini». Nella regione dell’Akershus, dove è situata anche Oslo,
capitale della Norvegia, c’è un luogo geografico denominato Mølledal, nei
pressi della cittadina di Eidsvold, ma non possiamo sapere se Ibsen si riferi-
sca precisamente a esso. (Sandra Colella)
UN NEMICO DEL POPOLO 327
12
Solo falsa modestia, che rende più ridicolo il personaggio di Tomas, il qua-
le ci tiene moltissimo sia agli onori che agli aumenti salariali. Da notare che
Tomas è così compiaciuto della propria scoperta («Una grande scoperta, Ka-
trine!»), da non rendersi conto che per la città sarà una tegola. Capisce che
«sono da rifare tutte le condutture dell’acqua», ma non si preoccupa di pre-
parare un preventivo dei costi e della tempistica. È un po’ un corvo della
sconfitta e della catastrofe universale, pronto a sguazzare sui cadaveri dei
propri concittadini se questo gli può dare finalmente gloria e successo.
SECONDO ATTO
(Gliela porge.)
13
Poi chiamato sempre e solo MORTEN KIIL. Nel presentarlo per la prima vol-
ta, Ibsen vuole forse distinguerlo dal nipote, cui è stato dato il suo stesso no-
me. Si noterà – poco avanti – un tratto di avarizia vistoso nel personaggio:
prima promette cento corone («all’istante»), ma subito dopo le dimezza a
cinquanta («a Natale»).
332 HENRIK IBSEN
14
La cerchia di «vecchi anchilosati e presuntuosi» cui si riferisce Hovstad è
quella degli embetsmenn, gli alti funzionari pubblici che detenevano il potere
in Norvegia fin dal 1814. A partire dalla metà del secolo, con l’industrializza-
zione e la nascita della classe borghese, il loro potere divenne sempre più ac-
centratore e conservatore, e, parallelamente, si intensificò il conflitto con le
nuove forze liberali e democratiche. Nel 1884 il governo degli embetsmenn
cadde e tale cambiamento coincise con la nascita del moderno stato partitico
parlamentare (cfr. Seip 2002, pp. 239-254). (Sandra Colella)
UN NEMICO DEL POPOLO 335
15
Verso la metà dell’Ottocento, in Norvegia si svilupparono moltissime asso-
ciazioni in ogni campo, da quello economico a quello culturale e religioso. In
quest’ultimo va collocata molto probabilmente l’associazione per la tempe-
ranza, così come l’associazione per i moralmente corrotti, oggetto delle battu-
te sarcastiche di Lona Hessel ne I sostegni della società. (Sandra Colella)
338 HENRIK IBSEN
(Esce.)
(Entra dentro.)
(Il direttore Hovstad siede alla scrivania e scrive. Dopo poco entra
Billing da destra, con il manoscritto del dottore in mano.)
(Bussano.)
19
La nave viene varata grazie a un binario che la conduce in mare. È un per-
corso inevitabile. Tomas pensa che anche il sovvertimento politico della sua
città sarà un processo inarrestabile, fatalmente necessario.
354 HENRIK IBSEN
20
Lo stiftsamtmand, « prefetto diocesano», era una figura di vertice di una
diocesi, corrispondente al vescovo. (Sandra Colella)
356 HENRIK IBSEN
HOVSTAD (sfoglia le carte) Oh, a che può servire? Lui non pos-
siede nulla.
BILLING No; ma ha un uomo solido dietro di sé, il vecchio Mor-
ten Kiil, – il “tasso”, come lo chiamano.
HOVSTAD (mentre scrive) È proprio sicuro che lui possieda qual-
cosa?
BILLING Sì, che Dio mi danni, certo che è così! E una parte do-
vrà pur toccare alla famiglia di Stockmann. Dovrà pur pensare
a provvedere – almeno ai ragazzi.
HOVSTAD (si gira a metà) Lei conta su questo?
BILLING Se ci conto? Io non conto su nulla, è ovvio.
HOVSTAD Fa bene. E non dovrebbe nemmeno contare su quel
posto nell’amministrazione comunale; perché le posso assicura-
re, – non lo avrà.
BILLING Certo, crede che io non lo sappia molto bene? Ma a me
fa proprio piacere che non lo avrò. Una mortificazione del ge-
nere infiamma chi ha voglia di combattere; – uno riceve, per co-
sì dire, un’affluenza di sana bile, di cui in effetti può esserci bi-
sogno in un buco come questo, dove così raramente succede
qualcosa di veramente eccitante.
HOVSTAD (scrivendo) Eh già; eh già.
BILLING Be’, – avranno presto mie notizie! – Ora vado dentro a
scrivere un appello all’associazione dei proprietari di case.
PETRA Sì, ma allora non l’avevo letto. E nemmeno lei l’ha letto,
è così?
HOVSTAD È così; lei lo sa, non capisco l’inglese; ma –
PETRA Ecco, appunto; perciò volevo dirle che deve cercare
qualcos’altro. (Mette il libro sul tavolo.) Questo non si può pro-
prio utilizzare per l’«Araldo del Popolo».
HOVSTAD Perché no?
PETRA Perché è del tutto in contrasto con le sue opinioni.
HOVSTAD Ah, è per questo motivo –
PETRA Lei non ha capito. Tratta di un potere soprannaturale che
si prende cura dei cosiddetti uomini buoni qui nel mondo e
conduce ogni cosa a buon fine per loro, – e tutti i cosiddetti uo-
mini cattivi ricevono la loro punizione.
HOVSTAD Sì, ma allora è perfetto. È proprio roba del genere che
il popolo vuole avere.
PETRA E vuole essere proprio lei, dunque, a dare roba del gene-
re al popolo? Lei, che non crede a una parola di tutto ciò. Sa
benissimo che non va così nella realtà.
HOVSTAD Ha pienamente ragione; ma un direttore di un giorna-
le non può sempre agire come vorrebbe. Occorre spesso pie-
garsi all’opinione comune nelle cose meno importanti. Sicura-
mente la politica è ciò che conta di più nella vita – o almeno per
un giornale; e se voglio condurre il popolo con me verso la li-
bertà e il progresso, allora non devo spaventarlo proprio io.
Quando trovano un racconto morale del genere giù nella canti-
na del giornale, accettano poi più volentieri quello che stampia-
mo ai piani alti; – diventano, per così dire, più sicuri.
PETRA Vergogna; lei non è così subdolo da tendere lacci ai suoi
lettori; lei non è un ragno.
HOVSTAD (sorride) Grazie, lei pensa così bene di me. No, que-
sto, in verità, è il modo di pensare di Billing e non il mio.
PETRA Di Billing!
HOVSTAD Sì, almeno così si è espresso uno di questi giorni. È
Billing, d’altra parte, che è tanto desideroso di pubblicare il rac-
conto; io, infatti, non conosco il libro.
PETRA Ma come può, Billing, con le sue vedute anticonformiste –?
HOVSTAD Oh, Billing è un essere multiforme. Adesso aspira an-
che al posto di segretario nell’amministrazione comunale, ho
sentito.
PETRA Non le credo, Hovstad. Come potrebbe accettare una co-
sa del genere?
HOVSTAD Be’, lo chieda a lui.
358 HENRIK IBSEN
21
Si intuisce un corteggiamento di Hovstad nei confronti di Petra, ma si in-
tuisce soltanto, e con molta fatica. Ibsen solitamente è molto attento a non
UN NEMICO DEL POPOLO 359
(Esce.)
lasciare nei suoi testi degli spunti che non siano poi ripresi e sviluppati orga-
nicamente.
360 HENRIK IBSEN
22
Tomas è davvero un pallone gonfiato, e insiste nei suoi sogni di gloria,
quando ormai è già stato scaricato da tutti.
UN NEMICO DEL POPOLO 365
(Il sindaco entra, rosso per la collera. Dietro di lui arriva Billing.)
23
Il ridicolo balletto delle insegne del potere mostra bene quanto sia stretta-
mente collegato il piano pubblico con il piano privato. Tomas dà corpo al suo
sogno di essere la massima autorità cittadina ma, al tempo stesso, gioisce
profondamente di aver rubato qualcosa al fratello maggiore.
368 HENRIK IBSEN
24
Il lur corrisponde precisamente al corno alpino, utilizzato dai pastori per
attirare e tranquillizzare il bestiame o per la comunicazione. Se il modo di
suonarlo, nel corso dei secoli, è cambiato, è invece rimasta immutata la sua
forma, costituita da un lungo tubo conico, tradizionalmente in legno di abete,
ricurvo verso la fine, con la tradizionale «campana» che ricorda un corno di
mucca. (Sandra Colella)
UN NEMICO DEL POPOLO 371
25
Il discorso del sindaco resta misurato. Parlando con Tomas, in privato, ave-
va ipotizzato una spesa di duecentomila corone; qui dimezza l’importo. An-
che Aslaksen e Hovstad tentano di sdrammatizzare lo scontro con Tomas, di
ridurre tutto a un suo errore tecnico, rendendo onore ai suoi buoni intendi-
menti. Ma Tomas non accetta compromessi e va fino in fondo.
UN NEMICO DEL POPOLO 375
(La folla si stringe intorno a lui. Morten Kiil è visibile tra quelli
che gli sono accanto.)
(Mormorio in sala.)
(Applausi e proteste.)
(Agitazione in sala.)
26
È possibile ipotizzare che Ibsen faccia qui una perfida allusione al critico
letterario C. Petersen, la cui recensione negativa del Peer Gynt suscitò le ire
di Ibsen, come si legge nelle lettere del 9 e del 10 dicembre 1867 a B. Bjørn-
son (cfr. ISV, XVI, pp. 197-200). Va ricordato che un personaggio di nome
Pettersen si ritrova, nel ruolo di cameriere del grossista Werle, ne L’anitra
selvatica. (Sandra Colella)
380 HENRIK IBSEN
(Chiasso e urla.)
si fanno strada, per così dire, tra gli avamposti, in posizione così
avanzata che la compatta maggioranza ancora non è riuscita a
raggiungerli, – e lì combattono per le verità che ancora sono
troppo recenti nel mondo della conoscenza per avere dalla loro
parte alcuna maggioranza.
HOVSTAD Bene, adesso il dottore è diventato un rivoluzionario!
DOTTOR STOCKMANN Sì, sangue di Cristo, lo sono, signor Hov-
stad! Sono pronto a fare la rivoluzione contro la menzogna che
la maggioranza possieda la verità. Quali sono le verità intorno
alle quali la maggioranza di solito si raduna? Sono le verità che
hanno un’età talmente avanzata che stanno per diventare ob-
solete. Ma quando una verità diventa così vecchia, è anche
prossima a diventare una menzogna, miei signori.
(Risate e zittio.)
(Risate nell’assemblea.)
(Chiasso e interruzioni.)
(Esce.)
27
L’Uomo grasso e il Grossista sono la medesima persona. Si tratta dello
stesso uso drammaturgico un po’ antiquato di cui a I sostegni della società,
n. 25. L’anonimo Uomo grasso viene identificato dalla battuta del Capitano
come Grossista, cioè commerciante all’ingrosso (che investe anche nelle na-
vi, come armatore): e solo da quel momento in avanti cambia la denomina-
zione del personaggio.
UN NEMICO DEL POPOLO 389
(Scende.)
28
Evidente allusione a Cristo (Luca, 23, 34), che giustamente viene percepita
come «un paragone blasfemo». Peraltro Ibsen ne ha inventati di più terribili
(cfr. Spettri, n. 58). L’immagine di scuotere la polvere dai piedi discende da
Matteo, 10, 14.
390 HENRIK IBSEN
avrebbe osato per via dei vicini. (Parla nel soggiorno.) Ma che
c’è, Randine? Sì, eccomi. (Va dentro e ritorna immediatamente.)
Qui c’è una lettera per te, Tomas.
DOTTOR STOCKMANN Fammi vedere. (La apre e la legge.) Ah,
bene.
SIGNORA STOCKMANN Di chi è?
DOTTOR STOCKMANN Del padrone di casa. Ci sfratta.
SIGNORA STOCKMANN Stai dicendo davvero? Lui, una persona
così perbene –
DOTTOR STOCKMANN (guarda nella lettera) Non osa fare altro.
Lo fa perché costretto; ma non osa fare altro – per colpa dei
suoi concittadini – per riguardo all’opinione pubblica – è dipen-
dente – non osa scontrarsi31 con certe persone potenti –
SIGNORA STOCKMANN Ecco, Tomas, lo vedi.
DOTTOR STOCKMANN Certo, certo, lo vedo bene; sono vigliacchi,
tutti quanti, qui in città; nessuno osa fare alcunché per riguardo
agli altri. (Getta la lettera sul tavolo.) Ma per noi fa proprio lo
stesso, Katrine. Noi partiamo per il nuovo mondo,32 e allora –
SIGNORA STOCKMANN Sì, ma, Tomas, hai davvero riflettuto be-
ne su quest’idea di partire?
DOTTOR STOCKMANN Dovrei forse rimanere qui, dove mi han-
no messo alla berlina come un nemico del popolo, mi hanno
marchiato a fuoco, mi hanno fracassato le finestre! Guarda qui,
Katrine; mi hanno anche strappato i miei pantaloni neri.
SIGNORA STOCKMANN Oh no; sono i migliori che hai!
DOTTOR STOCKMANN Uno non dovrebbe mai avere i suoi mi-
gliori pantaloni quando sta fuori a combattere per la libertà e la
verità. Be’, non m’importa tanto dei pantaloni, capisci; perché tu
me li puoi sempre rattoppare. Ma è questo, che la plebaglia e la
massa hanno l’ardire di minacciare la mia vita, come se fossero
miei pari, – è questo, che non posso digerire, sulla vita mia!
31
Da questo momento in poi il verbo turde, «osare», viene adoperato da Ibsen
volutamente in maniera ripetitiva, quasi ossessiva (ben 29 volte nel V atto – su
un totale di 44 ricorrenze in tutto il testo – e talora il termine è perfino in corsivo
nel testo originale), per mettere in evidenza la codardia della massa, della «com-
patta maggioranza» così disprezzata dal dottor Stockmann. Nella traduzione si
è lasciato ovviamente lo stesso verbo «osare» in tutte le sue ricorrenze, anche e
proprio per rispettare la scelta enfatica del drammaturgo. (Sandra Colella)
32
Il «nuovo mondo» rappresentava un ideale di vita libera, una possibilità,
per chi non aveva mezzi, di riscatto sociale e di realizzazione dei propri so-
gni. Già ne I sostegni della società Ibsen si riferisce a esso in contrapposizione
all’ambiente soffocante e chiuso della Norvegia. (Sandra Colella)
UN NEMICO DEL POPOLO 393
33
Skidt significa letteralmente «merda» e compare 2 sole volta nell’opera ib-
seniana. Per la seconda volta cfr. Il costruttore Solness, n. 27. Sono gli unici
due casi di un tono sopra le righe di un scrittore controllatissimo come è Ib-
sen, ma entrambi perfettamente giustificati: là sarà l’irruenza di una fanciulla
un po’ alternativa; qui è l’umana reazione di un individuo stressato, in guerra
con il mondo. (Sandra Colella)
394 HENRIK IBSEN
(Se ne va.)
37
Se Tomas vuole far saltare Hovstad «fuori dalla finestra» è perché lo stu-
dio è situato a piano terra.
406 HENRIK IBSEN
38
Consueto dispotismo maschile di Tomas (cfr. n. 5). Poco prima, parlando
con il suocero, aveva detto che avrebbe parlato della cosa con la moglie, che
si sarebbe consigliato con lei, ma poi, in definitiva, decide tutto da solo per la
soluzione intransigente, che pure coinvolge pesantemente l’intera famiglia.
UN NEMICO DEL POPOLO 407
(Ritorna Petra.)
39
I tide og i utide, «a tempo opportuno e non opportuno». Altro riferimento
blasfemo di Stockmann alle Scritture (S. Paolo, Seconda Lettera a Timoteo, 4,
2). (Sandra Colella)
408 HENRIK IBSEN
42
La frase den stærkeste mand i verden, det er han, som står mest alene, «l’uo-
mo più forte al mondo, è quello, che sta più solo», riecheggia una frase che si
trova nella lettera che Ibsen spedisce a G. Brandes il 4 aprile 1872: den ensom-
me er den stærkeste, «il più solo è il più forte». Nella lettera Ibsen si schiera a
favore della battaglia culturale condotta dal critico danese per l’affermazione
di una letteratura moderna, osteggiata sia dalla stampa liberale che dagli am-
bienti accademici del tempo (cfr. ISV, XVII, pp. 30-33). (Sandra Colella)
43
La megalomania del personaggio sfiora la pazzia, ma il sigillo finale con-
trappone una moglie sempre più distante a una figlia appassionata (fanta-
smaticamente incestuosa: cfr. n. 18). Ma è solo uno spunto, che non riscatta
un testo confuso, che procede per accumulo di materiali. Il V atto è del tutto
appiccicato dall’esterno, posticcio. La vicenda è finita con la grande scena-
madre del IV, dello scontro nel corso dell’assemblea popolare. Ibsen ha re-
plicato l’invenzione fantastica de I sostegni della società, ma con esiti diversi:
là il contrasto con la folla è il trampolino di lancio per il trionfo del protago-
nista; qui è l’occasione della sua sconfitta. Ma Ibsen sembra incapace di chiu-
dere la vicenda sullo scacco finale, e aggiunge un V atto – appunto posticcio,
artificioso – in cui ricomincia da capo. Con un nuovo colpo di scena, il quasi
suocero Morten Kiil ha comperato le azioni delle Terme a prezzi stracciati.
Tomas è stato messo nell’angolo ma le sue critiche hanno comunque convin-
to il mercato azionario, che si è disfato rapidamente dei titoli. In questo mo-
do Tomas è sottoposto a una seconda prova (di cui drammaturgicamente non
c’era bisogno). Se Tomas rinnega le sue critiche, quelle azioni riacquistano
valore, e diventano sue (meglio, dei suoi figli); se tiene duro, di fatto condan-
na alla miseria l’intera famiglia. Tomas resta fedele a sé stesso, ma, così fa-
cendo, il nemico del popolo risulta anche il nemico della propria famiglia.
Andranno ad abitare nella casa di proprietà del Capitano, ma non è chiaro
come vivranno. Per di più Tomas vuole anche prendersi cura dei bambini de-
relitti, come avverrà similmente ai coniugi Allmers de Il piccolo Eyolf. Ma
quelli sono agiati possidenti, mentre il dottor Stockmann è povero in canna.
Sala da pranzo
Anticamera
Stanza
di
Stanze interne soggiorno
Stanza
da
lavoro
Spettatori
Un nemico del popolo - I°, II° atto
Porta a vetri
Redazione Ufficio
Billing
del
giornale
Spettatori
Un nemico del popolo - III° atto
Anticamera
Uscita esterna
Grande sala
Uscita
secondaria
Spettatori
Un nemico del popolo - IV° atto
Anticamera
Stanza
Stanza
di
da
soggiorno lavoro
Spettatori
Un nemico del popolo - V° atto
L’ANITRA SELVATICA
(1884)
Dramma in cinque atti
Traduzione di Giuliano D’Amico*
* Le note sono a cura di Roberto Alonge. Alcune note sono a cura del tra-
duttore e ne viene data indicazione.
PERSONAGGI
Il primo atto si svolge in casa del grossista Werle, i quattro successivi in ca-
sa del fotografo Ekdal.
PRIMO ATTO
1
Per «mobili» sono qui da intendersi essenzialmente poltrone e sofà.
2
Ibsen distingue tra fløjdør, «porta a due battenti», ovviamente più lussuosa,
che apre sul grande salotto, e la dobbeltdør, letteralmente «doppia porta»,
cioè «controporta», porta aggiunta a riparo dal freddo e dai rumori, che met-
te in comunicazione con la sala da pranzo. Il termine è raro perché indica un
livello di magnificenza che è solo di questo ambiente (3 frequenze, una quar-
ta ne Il piccolo Eyolf). Una sorta di doppia porta è presente però anche nello
spazio mansardato di Hjalmar, a proteggere dal freddo del contiguo solaio
dove abita l’anitra.
3
«In nero», in abito nero, cioè in marsina.
416 HENRIK IBSEN
4
I due camerieri storpiano diverse parole, soprattutto verbi di origine stra-
niera, e parlano con inflessione dialettale. In questo caso il verbo proponere,
cioè «proporre (un brindisi)» è pronunciato come proppenere. Si tratta di
uno spostamento di accento sulla prima sillaba delle parole (legato, in questo
caso, al raddoppiamento della p), tipico del dialetto urbano di Oslo e in ge-
nerale della Norvegia sud-orientale. Più tardi i due personaggi utilizzeranno
il participio passato contratto vær’t invece di været («stato»), la variante dia-
lettale kantor invece di kontor («ufficio»), la variante popolare spandere per
spendere («offrire») e lo storpiamento dell’aggettivo gentil («gentile»), la cui
grafia imita la parlata delle classi basse del luogo: sjangtil. (Cfr. Henrik Ibsens
Ordskatt 1987, p. 33.) Abbiamo cercato di trovare un equivalente italiano uti-
lizzando diverse scorrettezze grammaticali. (Giuliano D’Amico)
5
Metafora norvegese per «libertino». D’altra parte a partire dal’immagina-
rio della mitologia greca il caprone è animale dalla intensa vita sessuale, con-
nesso con i satiri stupratori di ninfe, e poi – in era cristiana – anche personifi-
cazione del Diavolo.
6
Si tratta del middag nordico, solitamente l’unico pasto caldo della giornata
che si consuma nel pomeriggio. (Giuliano D’Amico)
7
Højdal: regione immaginaria, montagnosa e boscosa (Boyer 2006, p. 1830),
del solito mitico Nord della Norvegia che abbiamo già visto ne Un nemico
del popolo. Gregers, il figlio dell’industriale Werle, vi vive come in una sorta
di esilio, non troppo diversamente da Tomas Stockmann.
L’ANITRA SELVATICA 417