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Elezioni presidenti Camera e Senato, l’articolo 1

viene prima del 92: anche questa scelta ‘appartiene


al popolo’
Politica | 23 marzo 2018 di Emiliano Romeo

Un evento ricorrente nella storia della della Seconda Repubblica è la cosiddetta regola dell’alternanza,
ovvero il fatto che nessun partito è riuscito nel tempo a farsi riconfermare dagli elettori dopo aver governato.
Si sono trovate, e in effetti ci sono, molteplici risposte che spiegano questa fattualità storica, e una di
queste è sicuramente relativa alla crisi della rappresentanza, che ha coinvolto la politica a diversi livelli e
settori.

Il fatto è, però, che la crisi della rappresentanza nell’epoca della politica pubblicitaria, la stessa che rende
oggi così simile la macrostruttura delle campagne elettorali – con il sistema “critica, promessa, proposizione
di un nuovo scenario” – deve invece una volta di più risvegliare la nostra attenzione, perché è incredibile
vedere come un consenso basato non più esclusivamente sulla presenza sul territorio, ma soprattutto sulla
comunicazione diretta ed empatica con masse di elettori, ottenga dei consensi così poco durevoli, destinati
ad erodersi ben prima del momento fatidico dello scioglimento delle Camere.

Un esempio concreto del problema è rappresentato dai prossimi decisivi passaggi cui la politica italiana sarà
chiamata in questi giorni: l’elezione del presidente della Camera, del Senato e la formazione di un
governo. A proposito del governo, per esempio, sarebbe una scommessa facile dire che di qui a qualche
settimana assisteremo a un coro più o meno compatto che ci ricorderà dell’articolo 92 della nostra
Costituzione, quello secondo il quale “Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei
ministri e, su proposta di questo, i ministri’. Sta di fatto che la nostra Costituzione, che probabilmente è
davvero, e non per retorica, una delle migliori del mondo, non a caso pone l’articolo 92 ben novantuno
articoli dopo l’articolo 1, quello della sovranità che “appartiene al popolo”. Pertanto sarà nella decisiva
proposta che in questi giorni faranno partiti e movimenti, una proposta composta di nomi e di facce, centrali
nell’ottica del consenso popolare, che si giocherà una partita decisiva.

Del resto, questo è un concetto che le grandi aziende oggi non solo conoscono, ma sul quale basano gran
parte del loro successo: si tratta della cosiddetta brandizzazione, il legame che il cliente crea con un
marchio fino a sentirlo quasi come una parte di sé. Per lo stesso principio, quando un elettore vota un
rappresentante, o porta attraverso le elezioni in Parlamento un progetto politico, è perché si identifica con
quest’ultimo. Così, quando il nome del rappresentante, o la proposta di legge, sono gli stessi che l’elettore ha
accompagnato durante la campagna elettorale con il suo convincimento, i suoi sogni e le sue speranze,
l’elettore li avverte in qualche modo come parte di sé, ed è disposto ad accompagnare tali rappresentanze e
proposte per più tempo rispetto a quanto siamo disposti a concedere a ciò che avvertiamo come estraneo, sia
esso un politico rimasto in ombra durante le elezioni, o una proposta differente dal programma annunciato
dal partito. E ciò, anche nel concreto, finisce con il rendere ogni azione governativa più efficace.

In questo senso, si è talmente mancato nel formare questo rapporto, che più che ad una politica estranea,
abbiamo assistito negli ultimi anni ad una politica aliena. Il problema che le politiche passate non siano
piaciute all’elettorato, infatti, è un problema che sta a valle e non a monte del risultato elettorale: si sa che
prevenire è meglio che curare, ed in effetti una più diretta correlazione tra le politiche fatte e quelle proposte,
avrebbe scremato a monte, durante il vaglio elettorale, tanti progetti che si sono rivelati
fallimentari. Camera, Senato, governo: è questo il momento della svolta o della continuazione di una crisi
che rischia di acuirsi sempre di più, creando un elettorato sempre più nomade d’idee e bisognoso di
cambiamento. Per dirla con Aristotele, tertium non datur. Perché, a volte, 1 è maggiore di 92.
ANTONIO GRAMSCI: Odio gli indifferenti

“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere
cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli
indifferenti.

L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera
passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che
rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza.

Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà,
lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un
ammutinamento potrà rovesciare.

Tra l’assenteismo e l’indifferenza, poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita
collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e
tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del
quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato
attivo e chi indifferente.

Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se


avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è
successo?

Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo
conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di
ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover
sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia
parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è
dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla
finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non
parteggia, odio gli indifferenti”.

11 febbraio

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