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Nuove forme di pagamento e la nascita delle banche

All’inizio del secondo millennio l’aumento della produzione agricola, lo sviluppo


dell’artigianato e il decollo del commercio marittimo suscitarono un maggior bisogno di
moneta e stimolarono la diffusione del credito. A trarne vantaggio furono innanzitutto i centri
urbani italiani.
Inizialmente Venezia e i porti dell’Italia meridionale che, rispetto ad altre aree della Penisola,
avevano mantenuto contatti più stretti con Bisanzio e il mondo islamico. Successivamente le
repubbliche marinare (Genova e Pisa su tutte) e le città interne del centro-nord (Roma, Siena,
Firenze, Piacenza, Asti). In queste realtà, che coniavano proprie monete e in cui operava un
agguerrito ceto mercantile, le pratiche creditizie assunsero forme differenziate e complesse.
Anche se non cessò mai del tutto l’attività dei prestatori occasionali, in queste realtà il credito
al consumo divenne sempre più appannaggio degli ebrei. Per quanto oggetto di riprovazione
popolare, in realtà essi erano ricercati per la funzione che svolgevano e la loro attività era
regolarizzata dalle autorità municipali attraverso specifici accordi, le cosiddette “condotte”.
Tuttavia i banchi ebraici non rappresentavano il livello più elevato del commercio di denaro.
Di ben altro spessore e raggio, per esempio, erano le attività di un gruppo assai caratteristico
di uomini d’affari italiani, i “lombardi”, che a dispetto del nome con cui erano conosciuti
provenivano soprattutto dalle città piemontesi (Asti, Chieri, Alba, Cuneo) e solo
marginalmente dai centri della Lombardia e della Toscana.
A partire dal XII secolo questi mercanti-prestatori invasero l’Europa transalpina, dalla
Provenza alle Fiandre, dalla Renania alla Borgogna, da Londra a Parigi, dove ancora oggi ne
resta il ricordo rispettivamente nella “Lombard street” e nella “rue des Lombards”. Oltre al
traffico delle merci più varie, comprese le sempre appetite spezie, praticavano le operazioni
di cambio monetario e quelle creditizie. Erano organizzati in piccole società che pagavano ai
governi locali una tassa annua di esercizio. Per i loro prestiti – concessi al massimo per pochi
mesi – chiedevano normalmente un tasso di interesse di 2 denari per lira a settimana, un po’
più del 40 per cento annuo: un valore che appare oggi insostenibile, ma che allora era
piuttosto comune.
Capaci di rendersi indispensabili al funzionamento dell’economia delle regioni in cui si erano
stanziati, i “lombardi” venivano al tempo stesso ammirati per la loro superiorità economica e
disprezzati per la loro spregiudicatezza. Come si legge in una protesta fiamminga della fine
del duecento, «i lombardi non portano nemmeno un ducato, ma solo un foglio di carta in una
mano e una penna nell’altra, e così tosano bene gli abitanti e gli fanno pagare dazio persino
sul loro denaro». Possiamo considerarli banchieri? Non proprio. Per quanto il prestito
tendesse con il tempo a prevalere sulle attività commerciali, le loro aziende, le casane, si
presentavano principalmente come banchi di pegno.
Non era così per un’altra categoria di uomini abituata a maneggiare il denaro: i cambiatori o
cambiavalute (campsores, cambiatores). Come mostrano alcuni documenti genovesi del tardo
XII secolo, essi non si limitavano a cambiare le monete o fare prestiti approfittando della
liquidità di cui disponevano, ma incrementavano la quantità di denaro a loro disposizione
accettando depositi, per i quali offrivano un interesse o una partecipazione agli utili. Proprio
la capacità di svolgere contemporaneamente funzioni diverse connota queste aziende come
prime, timide incarnazioni della banca.
Il duecento, secolo del massimo slancio dell’economia europea, fu testimone di una crescita
di scala dell’attività “bancaria” che ne determinò anche un mutamento qualitativo. Gli artefici
di queste evoluzioni, tuttavia, non furono i cambiatori, ma i mercanti. In particolare coloro
che più erano impegnati nei traffici sulle lunghe distanze e che frequentavano le grandi fiere
internazionali, prime fra tutte quelle della Champagne. Questi raduni permanenti
rappresentavano allora il tramite fondamentale degli scambi fra i prodotti dell’Europa
continentale (in gran parte panni di lana fiamminghi) e i beni di provenienza mediterranea
commerciati dagli italiani. Ma erano anche – e sempre più dalla metà del XIII secolo – vere e
proprie clearing houses, aree di compensazione di debiti e crediti pendenti tra uomini d’affari
di Paesi diversi. È qui che si costruirono le fortune dei mercanti di città come Roma, Siena,
Lucca, Pistoia, Firenze, Bologna, Piacenza e Milano. Essi agivano preferibilmente tramite un
nuovo tipo d’imprese, le compagnie, associazioni di durata pluriennale, rinnovabili, spesso
formate da soci inizialmente legati da vincoli di parentela e poi aperte alla partecipazione di
esterni. Il finanziamento di questi organismi avveniva tramite le quote di capitale immesse da
ciascun socio (il corpo), cui poteva però aggiungersi il denaro che gli stessi membri, secondo
una formula creditizia innovativa, prestavano alla compagnia ricevendone un interesse (il
sovraccorpo) o anche i depositi, sempre remunerati, effettuati da altri e documentati da
apposite ricevute.
Si trattava di aziende polivalenti, interessate alle operazioni creditizie e finanziarie, ma pronte
a investire non appena si presentassero opportunità di guadagno, anche nel settore
commerciale e in quello manifatturiero, nelle assicurazioni e nella produzione agricola.
In sostanza la banca cresceva all’interno di una struttura ampia e non specializzata, creata da
mercanti-imprenditori che erano anche mercanti-banchieri. E questo pure nei casi eclatanti
dei piacentini Scotti o dei senesi Bonsignori, che avevano interessi in tutta Europa e clienti
del calibro della Santa Sede (il più appetibile di tutti per il suo vastissimo apparato
finanziario).
Da <http://www.storicang.it/a/nascita-della-banca_15030>

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