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GLI INIZI DELLA SCRITTURA MUSICALE

Anteriormente alle più antiche fonti manoscritte (risalenti alla metà del IX secolo), contenenti i
primi accenti e punti rudimentali, il canto ha una propria esistenza unicamente nella memoria dei
cantori e viene diffuso e tramandato oralmente da una generazione all’altra, con conseguenti ampi
margini di improvvisazione.
Il vasto repertorio di canti che si va accumulando a partire dal secolo VIII (con la
romanizzazione e la codificazione della liturgia e il fiorire dei monasteri) richiede la messa a punto
di una impostazione didattica che offra una base più sicura per l’apprendimento e l’esecuzione e i
cantori delle scholae devono imparare le formule melodiche da applicare ai testi liturgici con
l’ausilio di segni grafici essenziali (inizialmente accenti grammaticali, in seguito graficamente
elaborati e detti neumi) che ne facilitino la memorizzazione.
Studi recenti hanno determinato in maniera convincente che la genesi della c. d. notazione
chironomica (da keir = mano e nòmos = legge), grafia musicale consistente in un insieme di segni
vergati su pergamena, derivati dall’accento acuto (/) e dall’accento grave (\) della grammatica greca
e latina, a indicare rispettivamente una nota più acuta o più grave della precedente, come guida per
il gesto delle mani di chi dirige l’esecuzione musicale, vada fatta risalire alla fine del secolo VIII.
Il più antico manoscritto liturgico pervenutoci contenente tali segni è comunque il Cantatorium
del Monastero di San Gallo, risalente a un anno compreso tra il 922 e il 926.
Provenendo dalle regioni franche, la scrittura chironomica è anche detta paleofranca (o
ecfonetica, da ekphṓnēsis = esclamazione, pronunzia)1.
A partire dalla fine del IX secolo, dai segni della notazione ecfonetica si sviluppa una scrittura
graficamente più evoluta, c. d. neumatica (neuma = segno), con segni grafici letti direttamente
anche dagli esecutori.
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Con la nascita della notazione ha inizio in Occidente un processo che porterà gradualmente, attraverso l’adattamento del medium grafico alla
crescente complessità della musica, a sua volta resa possibile dallo stesso medium grafico, alla configurazione, nel XV secolo, della nozione di res
facta, ossia – come attestato nel Liber de arte contrapuncti (1477) di Johannes Tinctoris – di composizione scritta, contrapposta al contrapunctus
vocalis, che stava a indicare l’antica pratica dell’elaborazione in tempo reale di linee melodiche polifoniche: “quella di cantus compositus o
compositio è un’unità culturale … un prodotto che assume … una consistenza oggettiva e incontrovertibile, una materialità che avvicina la creazione
musicale ai manufatti delle arti plastiche e figurative, sottraendola alla condizione di effimera volatilità e aleatorietà, al principio d’impermanenza
cui era destinata la pratica contrappuntistica ex tempora” (Vincenzo Caporaletti, “I processi improvvisativi della musica: un approccio globale”,
LIM, 2005).
In tale processo, si è passati da un sistema discontinuo, tipico delle tradizioni musicali orali (e del jazz), non basato sulla ripetibilità uniforme, ma
sull’organicità delle forme naturali e biologiche, difficilmente riconducibili alle strutture “pure” degli elementi geometrico-euclidei, a un sistema
basato sul principio di linearità sequenziale, che ha presieduto alla genesi delle caratteristiche cartesianamente omogenee degli elementi del codice (la
croma, ad es., una volta definita l’unità metrica, vale sempre un ottavo, in qualunque posizione si trovi in un brano, mentre basta trascrivere un
qualsiasi assolo di Dexter Gordon per rendersi conto di come nel jazz – e nelle musiche audiotattili in genere – non sia sempre necessariamente così).
Saranno le musiche afroamericane – e il jazz in special modo – a ricondurre la musica a quella ricchezza di suono e di ritmo che l’Occidente
aveva perduto nel corso della sua lunga storia.
Va precisato che, in senso ampio, la notazione neumatica è comprensiva della notazione
chironomica, di cui è genus.

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