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Il 5 settembre 1972, un commando palestinese di Settembre Nero fa

irruzione nel villaggio olimpico di Monaco e sequestra alcuni atleti


israeliani. L’azione si concluderŕ con un bagno di sangue: moriranno undici
atleti, sette terroristi e un poliziotto tedesco.

Subito il Mossad organizza una rappresaglia: undici persone legate al


terrorismo palestinese e ai fatti di Monaco dovranno morire. Un agente e
altri quattro uomini vengono incaricati della missione. Il risultato sarŕ una
lunga scia di sangue. Nell’autunno del 1981, il giornalista George Jonas
incontra l’ex agente Avner, e lo convince a raccontare la sua storia.

Nasce cosě questo libro, pubblicato per la prima volta da Rizzoli nel 1985 e
ora riproposto in una nuova edizione aggiornata.
George Jonas

Vendetta

La storia vera di una missione

dell’antiterrorismo israeliano

Rizzoli

Un ex-agente

israeliano racconta, in prima

persona, la storia vera di cinque

uomini legati da una terribile missione da compiere:

uccidere gli autori e i mandanti

della strage delle Olimpiadi

di Monaco»

VENDETTA

La strage di Monaco del settembre

1972, nel corso della quale

furono assassinati undici atleti

israeliani partecipanti alle Olimpiadi,

suscitò profonda impressione

in tutto il mondo. Le autorità

di Israele, guidate dall’energico


primo ministro Golda Meir,

decisero in quei drammatici

giorni che era ormai giunto il

tempo di fare ciò che non era

mai stato fatto: compiere una

"biblica” vendetta, colpire al

cuore il terrorismo palestinese.

Venne formata una squadra speciale

di agenti segreti, con il

compito di rintracciare ed eliminare

i principali responsabili di

quella strage, e di altre avvenute

in precedenza. Vendetta racconta

la storia di questa terribile

missione: una missione che porta

alcuni uomini dell’antiterrorismo

ad adottare gli stessi metodi,

tattiche, comportamenti dei terroristi.

L’agente "Avner” aveva soltanto

ventisei anni, e svolgeva modesti


incarichi nel Mossad, il Servizio

segreto israeliano, quando venne

selezionato per guidare la squadra

speciale di Israele. Non aveva

capacità particolari, tranne il

fatto di possedere nervi d’acciaio

e una naturale attitudine al comando.

Il gruppo lasciò il paese

per trasferirsi in Europa, base

delle operazioni; ogni legame

venne troncato, con le famiglie e

con lo stesso Mossad, che ufficialmente

doveva ignorare l’esistenza

della squadra e il suo sinistro

compito. L’unico "cordone

ombelicale” era costituito dalla

possibilità di avere a disposizione

un flusso pressoché illimitato

di danaro, per le armi, gli informatori,

gli spostamenti, l'allestimento di covi .


George Jonas ha conosciuto

"Avner”, e in questo libro è praticamente

l’agente segreto stesso

a raccontare la storia vera della

sua unità, dalla costituzione alla

fine dell’incarico. Una testimonianza

quindi di prima mano,

che ci immerge nel mondo dei

vari servizi segreti, rivelandone

"dal vivo” l’ambiente in cui si

muovono, i metodi di reclutamento

e di addestramento, le minacce

e i ricatti che gli agenti subiscono

e che in seguito faranno

subire ad altri.

Al termine della missione, "Avner” si rifiuterà di tornare in

Israele. L’impresa che ha guidato

lo ha segnato per sempre, modificando

profondamente la sua vita.

Attualmente vive in una città


americana sotto falso nome, con

la sua famiglia. I terroristi e gli

uomini dell’antiterrorismo lo

cercano. Il suo anonimato deve

essere protetto a ogni costo, ma

la sua storia è così straordinaria

che non può restare sconosciuta.

George Jonas

è nato a Budapest nel 1935; nel

1956 ha lasciato il suo paese per

trasferirsi in Canada. Giornalista

e autore di commedie, ha lavorato

soprattutto per la Radio e la

Televisione. Ha pubblicato tre

libri di poesie e un romanzo.

Sovraccoperta di Kenneth Alcorn

George Jonas

Vendetta

La storia vera di una missione

dell’antiterrorismo israeliano
Traduzione di Adriana Dell’Orto

Rizzoli Editore

MILANO 1984

Proprietà letteraria riservata

© 1984 George Jonas

© 1984 Rizzoli Editore, Milano

ISBN 88-17-67460-5

Prima edizione: maggio 1984

Titolo originale dell'opera:

VENGEANCE - The True Story of

an Israeli Counter-terrorist Mission

DIGITALIZZAZIONE E CORREZIONE DI:

ANTONIO - 25 Settembre 2012

Vendetta

La storia vera di una missione

dell’antiterrorismo israeliano

Per Barbara Amiel,

e per Assi, David, Kathy, Kopi,

Milt, Tony, Smadare Yasir,

e per quelli che sono morti


da parte di quelli che sono ancora vivi.

RINGRAZIAMENTI

Sono grato per le osservazioni, il materiale e ogni altro tipo di aiuto

gentilmente fornitomi dal signor G. Antal, dal signor Yeshayahu Anug,

dal signor Frank Barbetta, dalla signora Brindusa Caragiu, dalla signora

Suzy Dahan, dal signor Edward L. Greenspan, consigliere della Corona,

dal dottor A.I. Malcolm, dal signor Michael Smith, dal signor A. Soos e

dal signor Marquis de Villiers.

Desidero anche ringraziare il professor Philip Anisman per il suo indiretto,

ma essenziale, contributo alle note che accompagnano questo libro.

Particolari ringraziamenti a Louise Dennys e Frances McFadyen, che

hanno pazientemente curato l’edizione di quest’opera. Le ricerche


fotografiche

sono state svolte da Yvonne R. Freund.

La mia gratitudine non implica necessariamente che coloro i quali mi

hanno aiutato condividano il mio punto di vista, o la mia responsabilità

per eventuali errori.

Così dice il Signore Iddio: dappoiché i Filistei hanno

agito per spirito di vendetta, e hanno tratto la loro

vendetta con cuore colmo di perfidia, per distruggere

Israele a cagione dell’antico odio:


Epperciò così dice il Signore Iddio: Ecco, io tenderò la

mia mano contro i Filistei;

Ed essi sapranno che io sono il Signore, allorché

abbatterò la mia vendetta su di loro.

Ezechiele, 25: 15-16-17

Non crederanno che il mondo

che non avevano conosciuto fosse così.

Graham Greene, Ways of Escape

Nota introduttiva

Nell’autunno del 1981 il mio editore mi domandò se ero disposto

a incontrarmi con un tale che aveva un’interessante storia da

raccontare. Dopo una serie di elaborati preparativi, venne fissato

un appuntamento in una città del Nord America. E là, in un ufficio,

m’incontrai con un individuo che mi fornì la sua versione di un importante

episodio della guerra clandestina condotta da Israele contro

il terrorismo: le attività di una squadra antiterroristica che era

stata organizzata a seguito del massacro degli atleti israeliani in occasione

dei giochi olimpici di Monaco del 1972.

Già prima di mettersi in contatto con me, il mio editore si era

preoccupato di accertare la bona fides dell’individuo in questione;


dopo l’incontro, ho svolto personalmente tutte le indagini che mi

sono state possibili, giungendo alla stessa conclusione: ci sembrava

evidente che eravamo in presenza di un agente dei servizi segreti

israeliani “venuto dal freddo”; il primo, a quanto ci constava.

Mi sono accinto a compiere ulteriori ricerche e a scrivere un libro

sulla storia dell’agente. Nel corso dell’anno successivo, mi sono

recato in vari paesi europei e del Medio Oriente. Ho soggiornato

per qualche tempo in due città al di là di quella che un tempo veniva

chiamata la Cortina di ferro. Il mio informatore e io abbiamo continuato

a incontrarci in varie parti del mondo per un certo periodo di

tempo. Seguendo le sue istruzioni, ho intervistato altre sei persone

in Germania, Francia, Israele e negli Stati Uniti. Ho anche intervistato

tutta una serie di miei contatti personali - esperti, funzionari,

semplici spettatori - in grado di far luce su questo o quell’aspetto

degli avvenimenti. Di questi ultimi, mi sento autorizzato a citarne

molti col loro vero nome. Nel caso di alcuni di loro, per ovvie ragioni,

non posso farlo.

Per le stesse ragioni, non posso rendere nota l’identità della mia

fonte principale. In effetti, il mio uomo ha preso non poche precauzioni

allo scopo di non dover confidare unicamente nella mia discrezione


per proteggersi da indebite ricerche sulla sua persona. E non

mi ha permesso di sapere su di lui più di quanto mi servisse per portare

a termine la stesura del libro.

Per una migliore comprensione, da parte mia, del canovaccio, i

miei contatti mi hanno posto in condizione di esser testimone di alcune

operazioni di minor conto. Accompagnato da agenti che operano

in Europa, ho appreso i rudimenti del normale servizio di sorveglianza,

l’acquisizione e l’uso di documenti illegali, l’organizzazione

di covi e i metodi impiegati per reperire e retribuire gli informatori.

Benché i miei risultati siano stati tutt’altro che esaurienti,

la ricerca mi ha comunque consentito di gettare uno sguardo

sull’ambiente che intendevo far oggetto del mio racconto.

Nella maggior parte dei casi, gli avvenimenti sui quali mi proponevo

di scrivere si erano meritati un paio di trafiletti nei quotidiani,

al tempo in cui avevano avuto luogo. Sebbene non siano mai stati

ufficialmente “risolti”, di alcuni episodi si è sospettato sin dall’inizio

che fossero opera di squadre antiterroristiche israeliane. In certi

casi, se ne fa cenno in vari libri editi di recente, che trattano l’argomento

del terrorismo e del controterrorismo su scala internazionale.

Le notizie di cronaca sono state parzialmente riportate in opere


di giornalismo documentario quali The Israeli Secret Service di Richard

Deacon, The Spymasters of Israel di Stewart Steven o The Hit

Team di David B. Tinnin e Dag Christensen. Edgar O’Ballance ha

descritto a grandi linee l’assassinio di vari terroristi palestinesi nel

suo eccellente Language of Violence. Avevo a mia disposizione le


informazioni

basilari, ma speravo di riuscire ad andare un po’ più a

fondo.

Sebbene non m’inventassi nulla, non potevo sperare di attingere

al rigore dello storico, e neppure ai canoni meno severi dell’investigazione

giornalistica. Inevitabilmente, per certe mie informazioni

dovevo fare affidamento su un’unica fonte che non mi era permesso

di nominare. Taluni particolari della sua storia non si potevano

verificare. Potevo accertare la veridicità di altri particolari, ma

avrei dovuto modificarne alcuni per proteggere il mio informatore

o le altre mie fonti. (nota 1). Quando un racconto si basa su informazioni di

carattere confidenziale, è buona prassi giornalistica disporre di due

fonti distinte che si confermino vicendevolmente: un requisito,

questo, che non sempre in questo libro ho potuto soddisfare. (nota 2). Del

pari, nel riferire dialoghi e colloqui di cui non esiste documentazione,

l’unica scelta che avevo consisteva nel ricostruirli sulla scorta


dei ricordi personali della mia fonte, malgrado il rischio che la memoria

umana potesse essere fragile o interessata.

Ho perciò deciso di narrare la storia dell’agente come se sbirciassi,

per così dire, da sopra la sua spalla, collegandola al filo doppio

del suo punto di vista e del mio. Lo stesso criterio ho seguito con

molti degli altri individui citati nel libro. A differenza di un racconto

in prima persona, ciò mi ha consentito di vedere gli avvenimenti

attraverso gli occhi delle mie fonti, a volte l’unica testimonianza in

mio possesso, senza costringermi ad accettarne acriticamente il

punto di vista. Al pari di un giurato, ho potuto così trarre le mie deduzioni

dai dati di cui disponevo.

Gran parte della storia, naturalmente, è collegata a un terzo filo:

le testimonianze fornite da fonti secondarie, che cito nel testo o

nelle note, come è d’uso in ogni libro in cui si descrivono avvenimenti

di attualità a beneficio del lettore. Laddove taluni fatti riportati

in precedenza sono in contrasto con la mia conoscenza degli

eventi, come avviene in certi casi, faccio notare la discrepanza per

coloro che possano esservi interessati.

Dal momento che questo libro solleva, senza commenti, questioni

in merito alle quali le opinioni non sempre coincidono, ritengo


sia giusto render nota al lettore la mia posizione personale.

Come la maggior parte della gente, disapprovo il terrorismo a

scopi politici. Inoltre, non credo nella cinica concezione secondo

cui chi per qualcuno è un terrorista, per altri è un combattente per

la libertà. I terroristi non si definiscono in base ai loro obiettivi politici,

ma ai mezzi che usano per conseguirli. (nota 3).

In pari tempo, non mi sento di sottoscrivere il diffuso errore secondo

cui il terrorismo è privo di qualsiasi efficacia. A mio parere,

un’ipotesi del genere è solo un pio desiderio. Se il terrorismo spesso

non riesce a conseguire gli obiettivi desiderati, lo stesso vale per la

guerra convenzionale, la diplomazia o qualsiasi altro evento politico.

Alla stessa stregua, si potrebbe ipotizzare che anche la guerra e

la diplomazia sono prive di efficacia. E mia opinione che il terrorismo

sia un male, che raggiunga o meno gli scopi prefissati.

Anche il controterrorismo, però, comporta spargimento di sangue.

Inevitabilmente, si presenta tutta una serie di problemi etici

raccontando la storia di una persona che, su richiesta del proprio

governo, finisce con l’uccidere di sua mano dodici esseri umani, di

cui sette deliberatamente, a sangue freddo. Non tenterò neppure di

affrontare e risolvere tali problemi in questa sede. Nei limiti in cui


possono trovare una qualsiasi soluzione, la trovano nel libro nel suo

complesso.

Tra Israele e i suoi nemici, personalmente sto dalla parte di

Israele. Lo faccio per due ragioni, oltre a quella di essere ebreo. Primo,

perché credo nei vantaggi della democrazia liberale su qualsiasi

altra forma di organizzazione sociale, e nel Medio Oriente Israele è

il paese che più si avvicina a una democrazia liberale. Secondo,

perché - nonostante il suo atteggiamento, soprattutto di recente,

da questo punto di vista non sia stato perfetto - nel corso del conflitto

nel Medio Oriente Israele si è attenuto a regole di comportamento

meno censurabili che non i suoi avversari. E sebbene personalmente

non neghi la mia simpatia alla causa palestinese, non ne

provo alcuna per chi l’appoggia mediante il terrore.

Toronto

Giugno 1983

George

Jonas

PROLOGO

MONACO.

Paragonato alla linea essenziale, elegante, che contraddistingue


le più moderne armi automatiche in dotazione alla fanteria, il

Kalashnikov appare tozzo e compatto. Si dice che questo fucile

d’assalto, designato ufficialmente con la sigla AK 47, sia stato inventato

da un contadino siberiano, almeno stando alla leggenda

che ormai circonda quello che è considerato lo strumento di morte

più diffuso nelle file del terrorismo internazionale. E un’arma semplice

e rozza. Il fucile, lungo 86,5 cm, ha il calcio e l’impugnatura

in legno biondo scuro, su cui sono fissate due strutture in metallo

grigio opaco. La sezione metallica centrale comprende l’otturatore

e il grilletto, col caricatore che ne sporge verso il basso e in avanti

con una leggera curva. Contiene 30 colpi: cartucce da 7,62 mm,

corti proiettili di piombo con un nucleo d’acciaio perforante. Si

calcola che il Kalashnikov, se regolato sul fuoco automatico, sia in

grado di sputarne un centinaio al minuto, e che ogni proiettile venga

espulso dalla corta canna a una velocità di circa 700 metri al secondo,

ovvero 2.520 chilometri all’ora. Il Kalashnikov viene fabbricato

in vari modelli nell’Unione Sovietica, oltre che in molti altri

paesi del blocco comunista. Usato a distanza ravvicinata, può

letteralmente segare un uomo in due.

Il 5 settembre 1972, parecchi di questi fucili furono tolti dalle


loro custodie debitamente ingrassati e consegnati agli otto terroristi

di Settembre Nero che si avviavano a raggiungere la palazzina

al numero 31 di Connollystrasse, dove alloggiavano gli atleti israeliani,

al villaggio olimpico di Monaco.

Sebbene non identificati come tali, i fedayin (in arabo, il termine

significa «uomini di sacrificio», e viene spesso impiegato dai

terroristi per indicare se stessi) furono avvistati per la prima volta

nell’atto di scavalcare la recinzione metallica, alta un paio di metri,

in corrispondenza del Kusoczinskidamm alle quattro del mattino

del 5 settembre 1972. Il punto in cui penetrarono nel villaggio

olimpico distava solo una cinquantina di metri dagli alloggi degli

atleti israeliani. Un tratto di cinquanta metri può essere coperto,

da un gruppo d’uomini che procede lentamente e con cautela, in

un paio di minuti. Tuttavia solo alle 4,25 i terroristi inserirono una

chiave universale nella serratura della porta che immetteva nel vestibolo

dell’Appartamento 1 della palazzina al numero 31 di Connollystrasse. E


tuttora

dibattuta la questione se in questo lasso di

tempo abbiano fruito dell’aiuto di qualcuno che si trovava alloggiato

all’interno del villaggio olimpico. (nota 1).

L’uomo che per primo li udì era Yossef Gutfreund, un colosso


di 125 chili, arbitro di lotta libera. Se, lì per lì, può darsi abbia creduto

che il rumore fosse provocato da un compagno di stanza, per

l’esattezza l’allenatore di lotta libera Moshe Weinberger, di cui

era previsto il rientro a tarda ora e che possedeva un duplicato della

chiave, ben presto le voci che bisbigliavano in arabo dietro la

porta lo persuasero del pericolo. Fu infatti questa la parola che urlò

in ebraico: «Pericolo!», per mettere in guardia un altro compagno

di stanza mentre si scagliava con tutto il suo peso contro la porta

che si socchiudeva lentamente.

Negli attimi che seguirono, otto arabi tentarono di spalancare

la porta, travolgendo la resistenza di Gutfreund. Gli sforzi compiuti

da ambo le parti furono tali da demolire lo stipite e storcere i

cardini. Consentirono altresì al collega di Gutfreund, l’allenatore

dei sollevatori di pesi Tuvia Sokolovsky, di guadagnar tempo e di

mettersi in salvo uscendo da una finestra.

Gli altri quattro occupanti dell’Appartamento 1 non furono altrettanto

fortunati. L’allenatore di atletica leggera Amitzur Shapira, il maestro di


scherma

Andrei Spitzer, l’allenatore di tiro Kehat

Shorr e il giudice del sollevamento pesi Yacov Springer si videro

puntare contro le armi, poi furono malmenati e minacciati dagli


arabi nel tentativo di costringerli a rivelare dove alloggiavano gli

altri israeliani. A ciascuno di loro venne offerta la libertà, a patto

che acconsentissero a bussare alla porta degli appartamenti che

ospitavano gli altri atleti israeliani, permettendo così ai fedayin di

entrare. Gli arabi non si presero neppure la briga di fare la stessa

proposta a Gutfreund: lo legarono invece saldamente, come i loro

biblici predecessori, i Filistei, potrebbero aver legato Sansone, dopo

averlo catturato.

Non ottenendo alcun aiuto dagli israeliani, i terroristi decisero

di esplorare il numero 31 di Connollystrasse, in cui erano alloggiate

anche le squadre olimpiche dell’Uruguay e di Hong Kong. Saltarono

gli Appartamenti 2, 4 e 5, con i loro otto inquilini israeliani, (nota 2).

ma catturarono i sei atleti alloggiati nell’Appartamento 3. Si trattava

dei lottatori Eliezer Halfin, Mark Slavin e Gad Zobari, e dei

sollevatori di pesi David Marc Berger, Zeev Friedman e Yossef

Romano. Prima che riuscissero a penetrare nell’Appartamento 3,

tuttavia, i terroristi dovettero vedersela con l’allenatore di lotta libera

Moshe Weinberger, che era rimasto fuori fino a tardi e proprio

in quel momento rientrava baldanzoso in Connollystrasse.

Weinberger era un individuo suppergiù della stazza di Gutfreund, e si rivelò


un
osso duro. Mise fuori combattimento un terrorista

e fu momentaneamente domato solo quando un altro gli

sparò al viso. Sebbene gravemente ferito, Weinberger non mollò.

Dopo che gli uomini alloggiati nell’Appartamento 3 furono catturati

e mentre venivano sospinti verso l’Appartamento 1, il lottatore

Gad Zobari, un peso leggero, decise di tentare la fuga. Benché i

fedayin gli sparassero contro parecchie raffiche, il piccolo lottatore,

zigzagando attraverso il terreno accidentato del recinto, riuscì a

mettersi in salvo. Weinberger sfruttò l’occasione per colpire un

terrorista alla mascella, fratturandogli la mandibola e spedendolo

nel mondo dei sogni. Ma un altro terrorista intervenne sparandogli

a bruciapelo alcuni colpi al petto. Weinberger stramazzò al suolo.

Fu la volta del sollevatore di pesi Yossef Romano di entrare in

azione. Assieme al compagno di squadra David Marc Berger, tentò

di fuggire attraverso la finestra della cucina dell’Appartamento 1,

prima che i terroristi potessero legarlo. Non riuscendoci, Romano

agguantò un coltello dalla credenza e lo piantò nella fronte di un

terrorista. Ferito troppo gravemente per usare l’arma che impugnava,

l’arabo indietreggiò, ma un compagno che sopravveniva alle

sue spalle scaricò un’intera raffica del Kalashnikov su Romano,


da distanza ravvicinata. Il sollevatore di pesi crollò. Quando gli

uomini della squadra di soccorso tentarono di sollevarlo da terra, il

giorno dopo, si dice che il corpo si sia letteralmente aperto in due

all’altezza della vita.

Weinberger, invece, non aveva ancora finito di battersi. Anziché

trascinarsi lontano dall’Appartamento 1, l’allenatore di lotta

libera s’insinuò a tentoni nell’edificio per affrontare ancora una

volta i terroristi. Colti di sorpresa dal gigante coperto di sangue

che avanzava barcollando verso di loro, i fedayin non fecero fuoco

all’istante. Weinberger ebbe il tempo di colpirne uno e, afferrato

un coltello da cucina, di squarciare il braccio a un altro prima che

gli sparassero mortalmente al capo.

A questo punto, erano circa le cinque del mattino. Nell’azione

di esordio, durata suppergiù venticinque minuti, i terroristi di Settembre

Nero avevano ucciso due atleti israeliani, catturandone altri

nove. Due israeliani erano scappati. I terroristi non riuscirono a

rintracciare altri otto israeliani alloggiati nell’edificio.

A quanto pare, durante i venticinque minuti di lotta le autorità

preposte alla sicurezza del villaggio olimpico ricevettero solo confuse

notizie in merito a “qualche guaio” dalle parti della palazzina


31 di Connollystrasse. La cosa non deve sorprendere. La maggior

parte degli atleti e dei funzionari dormiva. L’azione aveva avuto

un andamento sporadico: grida e spari, seguiti da pause di silenzio.

Chi era stato svegliato dal rumore, non era stato in grado di identificarne

immediatamente la causa. Dopo essere rimasto in ascolto

un momento, non udendo altro, magari si rimetteva a dormire

tranquillamente. Quei pochi che si alzarono per indagare, non videro

niente. Al villaggio, ben poche notti erano trascorse senza festeggiamenti

di qualche tipo: spesso c’erano stati lanci di petardi e

festicciole rumorose. Molti assonnati vicini degli israeliani devono

aver scambiato l’azione dei terroristi per qualcosa del genere.

In ogni caso, fu un agente dei servizi di sicurezza tedeschi solitario

e disarmato che venne a indagare alle 4,55 o poco dopo. Premette

il pulsante della ricetrasmittente portatile e borbottò: «Was

soli das heissen?», l’equivalente in tedesco della domanda di rito

dei poliziotti inglesi: «Che cosa sta succedendo?», all’indirizzo del

terrorista incappucciato ritto all’ingresso del numero 31 di ,Con-

nollystrasse. Senza rispondere, il palestinese sparì oltre la porta.

Intanto, però, i due israeliani postisi in salvo davano l’allarme:

l’uno dall’edificio che ospitava la squadra della Corea del Sud, l’altro
dagli alloggi della squadra italiana. Nella mezz’ora che seguì, le

autorità ricevettero le richieste dei terroristi, che erano state battute

a macchina in inglese in parecchie copie. Inoltre, i fedayin scaraventarono

in strada il corpo senza vita di Moshe Weinberger.

Le richieste di cui sopra riguardavano il rilascio di 234 persone

detenute in carcere dal «regime militare d’Israele», di cui erano

elencati i nomi sui fogli dattiloscritti. I terroristi facevano altresì il

nome di alcune persone detenute dal governo della Germania Federale,

tra cui i capi della banda Baader-Meinhof, Ulrike Meinhof

e Andreas Baader, che erano stati arrestati dalla polizia tedesca nel

giugno di quell’anno. I fedayin pretendevano anche tre aerei per

essere trasportati a una «destinazione sicura», dopo che fossero

state esaudite le altre loro richieste. Una volta giunti a destinazione,

promettevano di liberare gli atleti israeliani. Il comunicato

concedeva tempo alle autorità fino alle nove del mattino per esaudire

le richieste dei palestinesi. Dopodiché, i terroristi avrebbero

giustiziato gli ostaggi «tutti assieme o uno alla volta».

Seguirono le consuete trattative. Vi furono alti funzionari della

Germania Occidentale che si offrirono in cambio degli ostaggi:

un gesto coraggioso da parte di tali individui, e precisamente un


ministro federale e uno del Land bavarese, il sindaco del villaggio

olimpico, un ex sindaco e l’allora capo della polizia della città di

Monaco. Ma i fedayin non accettarono lo scambio. La scadenza

dell’ultimatum venne prorogata a mezzogiorno. Si dice che il Cancelliere

della Germania Occidentale, Willy Brandt, abbia conferito

direttamente col primo ministro israeliano, Golda Meir, durante

una conversazione telefonica durata dieci minuti. Con risultati

prevedibili. L’atteggiamento israeliano in fatto di terrorismo era

ben noto. Niente cedimenti. Niente cedimenti, mai, in nessuna

circostanza.

Anche se i tedeschi non tentarono di esercitare la minima pressione

ufficiale su Israele, si hanno le prove che giudicavano l’atteggiamento

del governo israeliano come eccessivamente e rischiosamente

inflessibile. Perché non rilasciare, magari, una dozzina di fedayin detenuti


nelle

loro carceri? Perché non permettere ai terroristi

di salvare almeno in parte la faccia, liberare gli ostaggi e allontanarsi

da Monaco? I tedeschi, dal canto loro, erano disposti a consegnare

Ulrike Meinhof e Andreas Baader, e non mancarono di dirlo

nella fase iniziale delle trattative.

I colloqui proseguirono. Via via, la scadenza dell’ultimatum


venne rinviata fino alle nove di sera. I terroristi avevano limitato

le loro pretese a un solo aereo, che avrebbe dovuto trasportarli, assieme

agli ostaggi, al Cairo. E al Cairo, sostenevano, a meno che il

governo israeliano non avesse consegnato loro i detenuti palestinesi,

avrebbero giustiziato gli atleti. Anche questa era pur sempre

una concessione, da parte dei terroristi, rispetto alla minaccia iniziale

di uccidere gli atleti sul posto se i fedayin loro compagni non

fossero stati liberati prima che lasciassero Monaco.

Alle otto di sera, venne portato da mangiare ai terroristi e ai loro

prigionieri. Il Cancelliere Brandt si presentò davanti alle telecamere

per deplorare l’incidente ed esprimere la speranza di una soluzione

soddisfacente, e anche per suggerire di non rinunciare al

proseguimento dei giochi olimpici, che era poi quanto aveva preteso

il governo israeliano per onorare la memoria dei due atleti trucidati.

Dal punto di vista del Cancelliere Brandt, ciò avrebbe significato

una vittoria per i terroristi. Si trattava certamente di un modo

come un altro di valutare la questione, anche se il fatto di continuare

a gareggiare, inteso come simbolo di fratellanza e di pace,

quasi che gli assassinii non avessero importanza alcuna, avrebbe

potuto del pari essere considerato come un trionfo del terrorismo.


Nel pomeriggio, venne comunque impartito l’ordine di ammainare

a mezz’asta le bandiere di tutti i paesi partecipanti. Questo, finché

una delegazione di rappresentanti di dieci paesi arabi non inoltrò

una protesta formale, e i tedeschi tornarono docilmente a issare le

bandiere in cima alle aste.

Verso le 10,20 di sera due elicotteri, diretti all’aeroporto militare

di Monaco - Fiirstenfeldbruck - decollarono da uno spiazzo

nei pressi del villaggio olimpico. I nove ostaggi e gli otto fedayin

avevano raggiunto gli elicotteri a bordo di un pullmino Volkswagen.

Sebbene le autorità della Germania Federale, col pieno appoggio

del governo israeliano, avessero già deciso che non avrebbero

consentito ai terroristi di decollare per Il Cairo assieme agli

ostaggi, non fu compiuto alcun tentativo di tendere un’imboscata

ai fedayin durante il trasferimento agli elicotteri. A posteriori, anche

se è sempre facile giudicare col senno di poi, ciò potrebbe aver

significato che ci si era lasciata sfuggire l’occasione più propizia.

All’aeroporto di Fiirstenfeldbruck, che dista circa venticinque

chilometri dal centro di Monaco, gli avvenimenti precipitarono.

Un quarto d’ora dopo il decollo, attorno alle 10,35, i due elicotteri

atterrarono, con a bordo l’uno quattro ostaggi israeliani, l’altro


cinque. Gli elicotteri toccarono terra a un centinaio di metri di distanza

da un Boeing 727, apparentemente in attesa di trasportare

al Cairo gli arabi e i loro prigionieri israeliani. Quattro dei fedayin

smontarono dagli elicotteri per ispezionare l’aereo. Nel giro di cinque

minuti, in pessime condizioni di visibilità e da grande distanza,

cinque tiratori scelti tedeschi aprirono il fuoco su di loro.

Alcuni terroristi furono colpiti; gli altri risposero al fuoco. I

quattro membri dell’equipaggio tedesco dei due elicotteri cercarono

di mettersi in salvo. Due ci riuscirono. Gli altri due vennero a

trovarsi nella linea di tiro incrociato e rimasero feriti gravemente.

Gli israeliani non potevano far nulla. Erano seduti, legati saldamente

e con gli occhi bendati, negli elicotteri in sosta sulla pista.

Particolare forse sorprendente, i fedayin non li uccisero subito.

Forse ritenevano che ciò li avrebbe privati dell’ultima carta. O può

anche darsi che fossero troppo impegnati a rispondere al fuoco dei

tiratori scelti e a evitarne i colpi. Può darsi addirittura che abbiano

avuto una certa riluttanza a uccidere nove uomini palesemente

inermi: un genere di inibizione animale che, si sa, ha altre volte

fermato la mano dei più incalliti assassini. I fedayin respinsero anche

varie intimazioni tedesche ad arrendersi, sebbene si rendessero


certamente conto che ciò avrebbe salvato loro la vita.

Lo scontro a fuoco durò circa un’ora e un quarto. Verso mezzanotte,

incapaci di sloggiare i terroristi da sotto gli elicotteri, e limitati

nella potenza di fuoco di cui potevano far uso dalla presenza

degli ostaggi, i tedeschi decisero di sferrare un attacco di fanteria,

con la copertura di sei carri armati. Non appena ebbe inizio l’attacco,

o quasi, uno dei terroristi scagliò una bomba a mano dentro

l’elicottero che ospitava cinque israeliani. L’elicottero saltò in aria,

trasformandosi in un globo di fuoco. Di lì a qualche attimo, altri

due terroristi spararono, uccidendo i restanti quattro ostaggi, a

bordo del secondo elicottero.

Ironia della sorte, se l’assalto corazzato fosse stato rinviato di

qualche minuto, Zeev Friedman, Yacov Springer, Eliezer Halfin e

il gigantesco Yossef Gutfreund avrebbero potuto sopravvivere. I

quattro atleti israeliani erano riusciti, bene o male, ad allentare i

legami - furono rilevati i segni lasciati dai denti sui nodi delle robuste

corde che li tenevano legati ai sedili - quanto sarebbe bastato

a permetter loro di liberarsi e cogliere di sorpresa i due terroristi

all’esterno dell’elicottero. Non c’è dubbio che gli israeliani avrebbero

tentato di disarmare i fedayin e riacquistare la libertà. Quanto


ad Amitzur Shapira, David Marc Berger, Andrei Spitzer, Mark

Slavin e Kehat Shorr, che si trovavano a bordo del primo elicottero,

fu impossibile stabilire che cosa potessero aver fatto: i loro corpi

erano carbonizzati e irriconoscibili.

Due dei cinque fedayin superstiti continuarono a battersi. La

polizia e le guardie di frontiera ne uccisero uno nel quarto d’ora

che seguì: si trattava dell’individuo a nome Essafadi o “Issa”, che

era stato visto scagliare la bomba a mano dentro il primo elicottero.

Suppergiù nello stesso momento, i tedeschi catturarono un terrorista

gravemente ferito, un certo Badran. Altri due, el-Denawi e

“Samir” Talafik, furono a loro volta catturati. Non erano stati colpiti,

ma si fingevano morti.

L’ultimo terrorista era un individuo segaligno, che fumava una

sigaretta dopo l’altra, a nome Tony, cui piaceva farsi anche chiamare

“Guevara”. Quali che fossero le qualità umane di cui era privo,

tra di esse non rientrava certo il coraggio fisico. Tony (nota 3). continuò

a battersi e a eludere i tedeschi per un’altra ora. Riuscì a colpire

al collo un’altra guardia di frontiera. Venne finalmente messo

alle strette e ucciso all’una e mezzo del mattino. Finalmente era

tutto finito.
Il giorno dopo, i giochi olimpici proseguirono. Quell’anno,

l’Unione Sovietica vinse 50 medaglie d’oro. Gli Stati Uniti terminarono

al

secondo

posto,

con
33.
Parte prima

Come si crea un agente

Capitolo 1

Avner.

Avner sapeva grosso modo che cosa gli avrebbe detto la lettera,

ancor prima di lacerare la busta marroncino. O almeno, sapeva chi

gliela scriveva e perché. Per cose del genere, poteva sempre far affidamento

sul suo sesto senso.

E meno male, perché i primi cinque rientravano appena nella

media. La sua vista, ottima per la vita di tutti i giorni, sarebbe stata

alquanto scarsa per le occupazioni davvero affascinanti che riempivano

i suoi sogni: pilota da caccia, campione di tiro al piattello. Il

suo udito non era eccezionale. E il tatto non avrebbe certamente

fatto di lui un abile meccanico. Ma il suo sesto senso era un altro

paio di maniche.

Le buste marroncino, come quella che aveva in mano, di regola

erano il modello usato dagli organi governativi israeliani. Una busta

di provenienza governativa, però, o persino dell’esercito, avrebbe


recato all’esterno qualche indicazione - diciamo, ministero di questo

o quest’altro - mentre quella busta particolare era priva di contrassegni.

La lettera vera e propria consisteva di cinque righe in tutto, battute

su una vecchia macchina per scrivere con i caratteri ebraici,

che pareva incepparsi al tasto del simbolo equivalente alla m. Il mittente

suggeriva che, se Avner era interessato a un certo tipo di lavoro,

«potresti aver voglia di incontrarmi a Tel Aviv, all’angolo tra

Frishman e Dizengoff». Fissava l’ora e indicava il nome di un caffè,

nonché un numero di telefono che Avner avrebbe potuto chiamare,

nel caso che la cosa non gli interessasse o l’ora non fosse di suo
gradimento.

La lettera concludeva: «Saluti, Moshe Yohanan», un nome

che ad Avner non diceva proprio niente.

Era l’inizio del maggio del 1969, e Avner era un giovanotto di

ventidue anni in ottima salute. Avner, che era un sabra, cioè nato in

Israele, aveva appena terminato il servizio militare in un’unità scelta.

Aveva combattuto nella guerra dei Sei Giorni, come tutti del resto,

e aveva il grado di capitano della riserva - come tutti coloro che

avevano prestato servizio in quella particolare unità. I commandos.

«Right on», si disse ora, e andò di sopra a farsi una doccia.

Quelle due cose, farsi una doccia nel bel mezzo della giornata e
dire «right on», cioè «avanti, coraggio», in inglese, erano tipiche di

Avner. Tanto per dirne una, quanti giovanotti dell’esercito si sarebbero

presi la briga di fabbricarsi una doccia portatile con una

cassetta d’arance vuota, qualche pezzo di spago e un vecchio secchio?

Di collegarla a un serbatoio, mentre tutti gli altri si sganasciavano

dalle risate, e di portarsela appresso alle manovre nel deserto?

Per non parlare di quell’altra cassetta di arance con un bel buco ritagliato

al centro che gli serviva da gabinetto d’emergenza. Nel deserto

del Negev. Ma per quanto lo riguardava, Avner non aveva la minima

intenzione di accovacciarsi lì sulla sabbia come una scimmia,

con certe bestioline che gli si arrampicavano lungo il didietro.

Non che la pulizia fosse poi tanto importante, però si dava il caso

che Avner fosse una persona pulita, e non se ne vergognava. Se

era l’unico soldato dell’esercito di Israele che, il giorno in cui era

stato smobilitato, aveva restituito la cassetta originale con le stoviglie

per il rancio nelle stesse identiche, immacolate condizioni in cui

gli era stata consegnata quattro anni prima, be’, e con ciò?

Era un tantino esagerato, senza dubbio, ma anche il fatto di esagerare

era tipico di Avner. Il che portava a un’altra cosa. Fino a quel

momento, Avner non era mai andato negli Stati Uniti, ma la madre
di Avner aveva sempre sostenuto che la prima parola che aveva imparato

a dire, e si trattava del 1947, quasi un anno prima che Israele

proclamasse l’indipendenza, non era stata mamma o papà, ma America.

Poteva darsi che fosse solo una frottola, però sembrava vero.

Certamente, sembrava tipico di Avner. Quando era stato abbastanza

grande per correre lungo le strade deserte, riarse dal sole, di Rehovot per
arrivare

al cinema in tempo per la proiezione pomeridiana,

l’America era ormai diventata tutta la sua vita interiore, l’oggetto

delle sue fantasticherie. Lana Turner, John Wayne, Rita Hayworth.

Era stato al cinema che Avner aveva imparato le prime parole

d’inglese, o piuttosto di americano, una lingua che continuava a

parlare, come molti israeliani, con grande entusiasmo, anche se in

modo non particolarmente corretto. E a differenza dell’inglese che

t’insegnavano a scuola, l’americano dei film era qualcosa che si poteva

assaporare e toccare con mano. Si poteva farlo proprio, e per

suo tramite diventare una persona diversa. Okay, mister, sono

dell’FBI.

Non che Avner pensasse più molto a queste cose. Chi poteva

permettersi di sprecare il tempo a curarsi delle fantasticherie

dell’infanzia, quando si trovava ad affrontare le importanti decisioni


che si impongono a un giovanotto? Adesso aveva lasciato l’esercito.

Gli avevano chiesto, lo avevano pregato, quasi implorato, di restare,

ma no. Quattro anni erano abbastanza. Okay, ma adesso?

Trovar lavoro? Sposare Shoshana? Iscriversi all’università, magari?

Avner uscì dalla doccia, fresco, pulito, abbronzato, e si diede

una rapida occhiata nello specchio prima di avvolgersi in una salvietta.

Somigliava a suo padre, anche se non era proprio come lui.

Per questo, avrebbe dovuto essere più grande e grosso. Più biondo,

anche se suo padre ne aveva passate tante da essere cambiato e invecchiato

in maniera incredibile. Ora aveva i capelli quasi bianchi, i

muscoli si erano tramutati in ciccia, e il morale... be’, c’erano giornate

sì e giornate no. Papà doveva aver avuto qualcosa a che fare

con la busta marroncino posata sullo sgabello del bagno. Non direttamente,

Avner di questo era convinto. Papà non avrebbe mai parlato

di lui a quelli. Al contrario, li avrebbe fermati, se fosse stato al

corrente della faccenda. «Mio figlio no, non l’avrete» avrebbe detto

loro. «Dovrete prima passare sul mio cadavere.»

Ma Avner non aveva la minima intenzione di parlargli della lettera.

Avrebbe risposto loro di no personalmente. Proprio come aveva

detto di no a quelli dell’Amari, (nota 1), un paio di mesi addietro. «Se


non vuoi restare in servizio attivo, benissimo», gli avevano detto,

«ma che ne diresti allora del servizio informazioni militari?» No.

No, grazie.

E avrebbe risposto di no a Moshe Vattelapesca della busta marroncino.

Sarebbe andato all’appuntamento, però. Lunedì avrebbe

comunque dovuto trovarsi a Tel Aviv, per incontrarsi con Shoshana. Perché
non

dar loro un’occhiata, sentire che cos’avevano da dirgli?

Che male c’era?

Avner aveva fatto domanda di entrare nell’EL AI, la compagnia

aerea nazionale, ormai da due mesi. Tutti avevano detto che era impossibile

entrarci, ma lui aveva presentato la sua brava domanda attraverso

una zia che conosceva qualcuno che aveva un amico carissimo

alla direzione. Non c’era la minima speranza di essere assunto

tra il personale di volo, naturalmente, Avner non avrebbe mai superato

tutte le prove attitudinali. E poi, i membri degli equipaggi provenivano

tutti dalle file dell’aviazione. Ma lavorare per l'EL Al era

pur sempre lavorare per una compagnia aerea. Persino lavorare come

steward o in uno degli uffici. Ci poteva essere la possibilità di

viaggiare, di allontanarsi per breve tempo da Israele ancora una volta,

di dare una sbirciatina al mondo meraviglioso oltre i suoi confini.


O magari, chissà, di ritrovare un paio di vecchi amici del corso di

addestramento di base che poi erano finiti in aviazione. Poteva darsi che ora

volassero con gli aerei dell’ElAl. Poteva darsi che un giorno

o l’altro permettessero ad Avner di tentare un atterraggio o almeno

un decollo.

Seduto sul coperchio del gabinetto, avvolto in una salvietta,

Avner eseguì un atterraggio perfetto con un Boeing 707. Andò tutto

liscio come l’olio. Le enormi ruote del grosso jet fluttuarono sulla

pista come un paio di piume. Non c’era da stupirsi. Avner si esercitava

negli atterraggi in bagno dall’età di dieci anni.

Avner fece rullare il Boeing fino all’hangar, si lavò i denti e s’infilò

la camicia. Mamma era fuori in visita da qualcuno. Shoshana a

Tel Aviv. Papà... be’, Avner supponeva che avrebbe potuto prendere

l’autobus per andare da Rehovot fino alla casa di suo padre, e

magari farsi prestare la vecchia Citroën. I soldi per l’autobus ce li

aveva. I soldi non servivano comunque a gran che, di sabato, in

Israele. L’intero paese chiudeva completamente bottega, per quanto

riguardava i divertimenti. A meno che non ci si accontentasse di

mangiare un panino imbottito in un ristorante.

Però sarebbe stato piacevole avere la Citroën per lunedì, anche


se era la macchina più decrepita del Medio Oriente. Se fosse andato

a prendere Shoshana con l’auto, non avrebbero dovuto fare l’autostop.

Non che a lei sarebbe importato molto. Shoshana, snella, pallida,

bionda come il miele, con i tratti sottili, aristocratici da scultura

egizia, aveva comunque l’aria di una regina. Dentro, pura sabra.

Niente di fragile, niente di viziato. Avner aveva usato la parola sbagliata,

quella volta che si era presentato a casa dei suoi genitori per il

loro primo appuntamento. Si erano conosciuti solo la sera prima in

casa di un comune amico, e non riusciva a ricordarsi come si chiamasse.

Gli era venuta ad aprire la porta la cuginetta di Shoshana.

«Sì?»

«Ooh, ehm... C’è la principessa?»

Non era il termine esatto per descrivere Shoshana, a parte

l’aspetto esteriore. La principessa? La ragazzina non aveva neppure

capito di che cosa stesse parlando Avner ed era stata sul punto di

sbattergli la porta sul muso, quando, per fortuna, era scesa Shoshana. Avner,

forse, non avrebbe avuto il coraggio di bussare un’altra

volta.

Shoshana si era aspettata che lui la portasse al cinema, ma Avner doveva


rientrare

al reparto in serata. Era stato appena accettato


e non aveva intenzione di cominciare col piede sbagliato, non c’era

principessa che tenesse.

«Devi proprio rientrare stasera?» gli aveva domandato lei.

«Tutti gli altri rientrano la domenica.»

«Be’, alla mia unità si rientra stasera.»

«D’accordo, facciamo quattro passi.»

E così era stato. Avevano fatto quattro passi. Shoshana non

aveva ancora compiuto diciott’anni allora, ma ne sapeva abbastanza

per non fare altre domande. In Israele, quando c’è di mezzo

l’esercito, la gente non fa domande. Shoshana, di sicuro, non ne fece.

Neppure una.

Era sempre andata così, dopo quel primo appuntamento, ogni

volta che Avner riusciva ad avere un paio di giorni di licenza. Quattro

passi, un film, in media una volta al mese. Dieci volte all’anno,

diciamo. In quattro anni, facevano quaranta appuntamenti. Venti

passeggiatine, venti film. L’autostop il venerdì per tornare alla casa

di sua madre a Rehovot, arrivo alle undici o a mezzanotte, ciao,

mamma, sono qui, dopodiché appoggiava l’Uzi alla parete e crollava

sul letto. Dopo aver appeso in perfetto ordine la divisa.

Ma adesso, quasi tre anni dopo, bisognava pensare al futuro.


C’era un modo semplice per risolvere il problema, un modo che sarebbe

parso del tutto naturale alla maggior parte dei loro amici.

Quel modo era lì, appena dietro l’angolo ardente e polveroso dove

si trovava Avner, in attesa del decrepito autobus sgangherato. Lo

zio di Shoshana avrebbe prestato loro il denaro sufficiente per costruirsi

una casa, su uno spiazzo incolto. Che cosa poteva esserci di

più semplice? L’amicizia di Avner e Shoshana aveva superato il collaudo

del tempo, o comunque il collaudo di venti passeggiate e venti

film. Quanto prima Shoshana avrebbe preso il diploma d’insegnante.

E lui? Perlomeno aveva alle spalle il servizio militare. Una quantità

di matrimoni felici era stata costruita su prospettive ancor più

fragili.

Ma quei matrimoni non dovevano portare il fardello di Francoforte.

La città prodigiosa.

Francoforte era un fardello che gravava soltanto sulle spalle di

Avner. Shoshana era una sabra incontaminata, sabra da quattro generazioni,

sebbene anche le sue origini fossero europee. Ma per lei,

la cosa non aveva alcun significato. Lei non aveva mai fiutato, in

ventun anni di vita, il profumo intenso di una fitta, cupa foresta da

favola dopo due giorni di pioggia. La neve era solo una parola per
lei, qualcosa in cui qualche bimbo fortunato può imbattersi per

qualche ora sulle alture intorno a Gerusalemme, in una giornata

d’inverno particolarmente fredda. Lei, però, non l’aveva mai vista,

né aveva mai neppure intravisto una città che avesse più di vent’anni.

Ammenoché, naturalmente, non ne avesse più di duemila.

Dopotutto, che importanza aveva se Avner era di origini europee?

Era un sabra, un figlio del Medio Oriente, il primo prezioso

frutto del copioso raccolto degli esuli provenienti dai quattro angoli

della terra. Perché non avrebbe dovuto trovarsi a suo agio in Palestina?

Anche se i suoi genitori nutrivano qualche brandello di nostalgia,

provavano un certo disagio per i sapori e gli odori del Medio

Oriente, conservavano fuggevoli ricordi di un diverso retaggio,

perché mai Avner avrebbe dovuto avere le stesse sensazioni? In effetti,

la maggior parte dei ragazzi nati in Israele ne era immune. Ma

Avner si rivelò diverso.

Ciò che accadde ad Avner nel 1959, quando aveva appena dodici

anni, fu così eccitante e inquietante che era difficile tradurlo in

parole. Essendo di gran lunga più reale, era qualcosa di più intenso

di John Wayne. Non lo si poteva liquidare come semplice frutto

della fantasia. Era altresì inspiegabile, qualcosa che suo padre e sua
madre non avrebbero assolutamente potuto prevedere quando avevano

deciso di portare lui e il suo fratellino Ber a trovare il nonno a

Francoforte.

Cominciò come una vacanza qualsiasi. Tutto veniva fatto per il

bene di Avner, anche se a lui non avrebbe potuto importare di meno,

tanto per cominciare. Un conto era l’America; la Germania, invece,

non eccitava minimamente la sua fantasia. Tutt’altro. La

Germania non era il posto dove i nazisti non facevano che ammazzare

gli ebrei? Perché dunque il nonno, che Avner non aveva mai visto

in vita sua, voleva che adesso loro ci andassero?

Ma con suo sommo stupore, durante quell’estate del 1959, Avner scoprì
tutto ciò

che amava della vita - comprese certe cose che

neppure sapeva di amare, perché non le aveva mai viste - riunito in

un’unica città, sciorinato al suo sguardo stupefatto come da un


prestigiatore!

Più tardi, tornato in Israele, avrebbe tentato di descrivere

Francoforte a qualcuno dei suoi amici, ma invano. Un sogno, un

prodigio. Le parole non erano in grado di trasmetterlo.

Non si sapeva bene dove cominciare. Immaginiamo una città,

molto più grande di Tel Aviv, dove tutto era pulito e la gente non si
sgomitava per le strade. Eppure, tutto era enorme e affollato, illuminato

dalle più brillanti luci al neon e con le strade intasate da milioni

di automobili. Avner non aveva mai visto tante automobili

tutte assieme. Proprio come in America. E niente costruzioni lasciate

a mezzo, né mucchi di detriti, né cumuli di terriccio, né fossati

aperti con qualche asse gettata sopra di traverso.

Si trovavano a Francoforte da neanche una settimana, quando

il nonno diede ad Avner un pacchetto. Conteneva una radiolina a

transistor. Una radiolina a transistor! Non che Avner non fosse al

corrente dell’esistenza di cose del genere, ricordava persino di averne

visto la fotografia in una rivista americana, ma vedersene consegnare

una come se si trattasse di una mela era una cosa del tutto

nuova. In Israele, sarebbe stato un dono degno di Ben Gurion!

Ma l’aspetto più importante del prodigio Francoforte era l’aria.

Era proprio questa la parola che Avner avrebbe usato, ancora

ad anni di distanza, per descriverlo. Non si trattava del clima. Avner amava
il

clima di Israele: il sole, il cielo azzurro; amava la spiaggia

di Ashdod, anche se aveva imparato a nuotare solo da militare.

Sicuramente preferiva stare al caldo che al freddo. Sicché non si

trattava del clima. Era l’aria.


Avner trovava che l’aria di Francoforte possedeva qualcosa di

speciale, qualcosa di frizzante, pulito, riposante, salubre. O forse le

mancava qualcosa, qualcosa di greve, umido, opprimente e minaccioso.

La cosa non riguardava solo l’aria di Francoforte, come

avrebbe scoperto anni dopo, ma anche l’aria di altre città dell’Europa

settentrionale, di Amsterdam, di Parigi. Era nell’aria di Londra

e dell’America.

«Be’, sei contento che siamo venuti?» gli aveva domandato suo

padre dopo una settimana o giù di lì di soggiorno a Francoforte. «Ti

piace, qui?»

«L’adoro.»

Papà si era limitato a ridere, ma la mamma dava l’impressione

di nutrire sentimenti contrastanti riguardo alla sua reazione.

«Ricorda», disse una volta ad Avner, senza preavviso e in tono

molto più tagliente di come fosse solita parlare, «che tutte queste

simpatiche persone che vedi per strada hanno tentato di sterminare

la famiglia di tuo padre, e anche la mia.»

«Lascia perdere» intervenne il padre.

«Sto solo cercando di rammentarglielo.»

Avner non aveva bisogno che qualcuno glielo rammentasse. A


Rehovot, non passava giorno senza che a scuola non si tenesse una

lezione sull’Olocausto, o almeno così sembrava. Avner, però, non

smise di amare Francoforte, così come avrebbe amato le altre città

europee che avrebbe conosciuto in seguito.

Il giorno in cui dovevano prendere l’aereo per tornare in Israele,

ci pensò il destino a dimostrare ad Avner come le cose più grosse

possano dipendere dalle più piccole. Non fosse stato per la bilancia

pesapersone del bagno, Avner non sarebbe rimasto a Francoforte

per altri dieci mesi. Non avrebbe imparato a parlare tedesco come

uno del posto. Non avrebbe fatto amicizia col ragazzo ricco, Andreas.

Tutta la sua vita avrebbe preso una piega diversa.

Sul momento, il fatto in sé si ridusse a un gran tonfo, e poi allo

spettacolo del nonno seduto sul pavimento, che scuoteva la testa e

sibilava come un serpente per il male e la sorpresa. Era caduto dalla

bilancia. Si trattava solo della frattura di una caviglia... però non

potevano andare all’aeroporto, lasciando che il vecchio signore se la

sbrigasse da solo. I genitori di Avner decisero di trattenersi.

Quell’anno i ragazzi potevano frequentare la scuola a Francoforte.

Sarebbero rimasti a prendersi cura del nonno finché non si fosse rimesso

in sesto.
Stranamente, benché il vecchio fosse suo padre, fu proprio la

madre di Avner a mostrarsi più ostile a una decisione del genere.

Papà pareva felicissimo di trattenersi a Francoforte. Avner, il quale

naturalmente era beato per ragioni sue personali, aveva l’impressione

che papà non avrebbe avuto niente in contrario a fermarsi a

Francoforte per sempre.

«Potremmo anche rimanere qui, sai» Avner lo aveva sentito dire

alla mamma, un giorno. Nel frattempo, avevano affittato un appartamento

appena dietro l’angolo della casa del nonno. E Avner

andava a scuola da più di un mese.

«Devi essere impazzito.»

«Perché?» domandò papà, in tono di genuina sorpresa. «Devo

viaggiare comunque, e tu e i ragazzi...»

«Non voglio neppure parlarne.»

E non ne parlò, né allora né mai. Per la mamma, l’idea di lasciare

Israele, anche solo per una vacanza, era un peccato mortale. Il

fatto di metter su casa e allevare i suoi figli fuori dai confini di Israele,

e in Germania, perdipiù, era semplicemente inconcepibile. Per

la mamma, che da ogni altro punto di vista era una signora gaia, non

priva di senso dell’umorismo - anzi addirittura incline allo scherzo,


una tendenza che Avner aveva ereditato da lei - sul patriottismo

non si scherzava. Bastava che l’argomento della conversazione vertesse

su Israele, e sul suo viso animato calava una gelida calma, una

certezza irremovibile. Israele era una rivelazione, una conoscenza

al di sopra del giusto e dell’ingiusto, una sicurezza al di là del bene e

del male.

Avner l’ammirava, per questo.

Il problema era che Avner ammirava anche suo padre, e papà

era stranamente diverso dalla mamma, sotto questo aspetto. Chi

poteva dire che fosse un vero patriota? Lui si limitava a scrollare le

spalle e a scherzare. Dovevano passare molti anni prima che Avner

scoprisse fino a che punto suo padre era disposto a spingersi per il

proprio paese.

Avner non aveva la più pallida idea di ciò che faceva suo padre

per guadagnarsi da vivere. Avrebbe dovuto occuparsi di export-import,

qualunque cosa significasse, ma non aveva orari. Era sempre

in viaggio, a volte per mesi e mesi di fila, per quanto riusciva a ricordare

Avner.

Il che era un altro punto a favore di Francoforte: per tutto l’anno che erano
rimasti

a Francoforte, papà non aveva dovuto mettersi


in viaggio. Doveva lavorare, naturalmente: incontrare gente in ristoranti e
caffè, o

a volte su un angolo di strada. Di tanto in tanto,

arrivava persino a permettere ad Avner di montare in macchina con

lui. Facevano una puntatina in centro dal tranquillo sobborgo di

Eschersheim, poi percorrevano piano piano la Kaiserstrasse o la

Goethe Platz, finché papà non intravedeva l’uomo con cui doveva

incontrarsi. Allora parcheggiava la macchina e, mentre Avner restava ad

aspettare, andava a scambiare qualche parola con quel tale. A

volte, papà consegnava una busta all’uomo, il quale, come Avner

non poteva fare a meno di notare, si guardava sempre nervosamente attorno


prima

di intascarla. Dopo tre volte, Avner arrivò ad

aspettarsi l’occhiata nervosa. Gli uomini cambiavano, ma l’occhiata era


sempre la

stessa. Era piuttosto buffo.

In un’occasione, decise di interrogare suo padre in proposito.

«Papà, chi era quell’uomo?»

«Lascia stare. Affari. Sono solo le tre, hai voglia di andare al cinema?»

E se ne andavano a vedere un film di Hitchcock, o magari un

western. Sempre un film americano comunque, erano i preferiti anche di


papà. Un
vero paradiso! Peccato che non accadesse abbastanza spesso.

La sola cosa strana che Avner rilevava nel fatto che suo padre

fosse un uomo d’affari, era che non fosse ricco. Gli uomini d’affari

avrebbero dovuto essere ricchi, no? A Rehovot, la cosa non era tanto
evidente,

dato che laggiù di ricchi non ce n’erano, o almeno Avner non ne conosceva.
Non

avevano un’automobile, per esempio,

ma non ce l’aveva nessun altro.

Lì a Francoforte, invece, avevano la macchina, ma ce l’avevano

quasi tutti i genitori degli altri ragazzini. Qualcuno, come i genitori

del suo più caro amico, Andreas, ne aveva addirittura tre. E fu solo

a Francoforte che Avner udì i suoi genitori parlare di soldi, o si sentì


rispondere

da suo padre, con una punta di irritazione nella voce,

dopo che gli aveva indicato un certo giocattolo o un regalo costoso

in una vetrina:

«Mi dispiace, caro, non posso permettermelo. Forse un giorno

guadagnerai abbastanza per comprartelo».

Ma erano soltanto minuscole nuvolette all’orizzonte peraltro

sereno della loro vita. Nonostante la disapprovazione della mamma, ben


presto
Avner decise di abbandonarsi completamente a

Francoforte. Era inverno, ormai, e dopo la scuola Avner se ne andava al


Siedlung

Hohenblick per una corsa in slitta o prendeva il tram

rosso che scendeva l’Eschensheimer Landstrasse fino allo spaccio

dell'American PX, sull’angolo dell’Adickesallee. Questa era l’altra

particolarità di Francoforte: il quartier generale della NATO la rendeva

quasi simile a una città americana, con tutti i militari americani

e le loro famiglie che vivevano lì, sull’altro lato di Hiigelstrasse,

nel sobborgo chiamato Ginnheim. Era tutto quanto americano, le

auto, i circoli, i programmi radio, i ristoranti e i film. Hot dogs e patatine

fritte! E molti dei loro figli frequentavano la stessa scuola di

Avner.

Fu così che si fece persino un’amichetta americana, Doris, che

era bionda e corteggiatissima, e molto più vecchia di lui: quasi quattordici

anni, mentre Avner ne aveva appena dodici. Il suo amico

Andreas aveva detto che Doris non avrebbe mai accettato di uscire

con lui, ma si era dimenticato la perseveranza, o cocciutaggine che

fosse, di Avner, il fatto che non si rassegnava mai a sentirsi rispondere

di no, neppure allora. Perseverava con una costante, decisa,

tranquilla tenacia, che faceva miracoli con certe ragazze. E, naturalmente,


Avner era bello e disinvolto, si comportava come se fosse

un po’ più grande della sua età, e inoltre parlava inglese meglio della

maggior parte dei ragazzi tedeschi. Così, alla fine, la bionda Doris

americana sedette dietro di lui sulla slitta, e Avner ne sentiva il seno

premere piano contro la sua schiena mentre scivolavano lungo il ripido

pendìo ai piedi della Ludwig-Tieckstrasse. Finendo a capofitto

in mezzo ai cespugli. Doris si fece tali graffi che non volle più saperne

di uscire con lui. Be’, in effetti, Avner correva certi rischi per far

colpo su di lei. Fu una lezione istruttiva. Se si corrono certi rischi e

si perde, non si riesce mai a far colpo sugli altri.

L’autobus di Tel Aviv arrivò, cigolando rumorosamente, sollevando

una grossa nube di polvere ardente. Avner montò. Dio,

dov’era mai finito quell’inverno di Francoforte? Che ne era stato

della bionda Doris? Oppure di Andreas, il suo migliore amico di allora,

il rampollo di famiglia ricca, il ragazzo di cui Avner aveva tanto

ammirato l’alta statura e il bell’aspetto e le maniere garbate?

Avevano perso i contatti. Un paio di lettere, qualche cartolina, poi

più niente. D’altronde, non sarebbe stato facile intrattenere rapporti

epistolari con qualcuno dal kibbutz.

Erano tornati in Israele nel 1961. Nel frattempo, papà era più o
meno uscito di scena. Tornò, sì, in patria con loro, si trattenne persino

con la famiglia per qualche mese, a Rehovot, ma poi gli impegni

dell’export-import lo riportarono lontano. E non, come prima,

per un mese o due, ma definitivamente.

Sul momento, Avner non sapeva che sarebbe stata una

separazione definitiva. Non lo sapevano neppure papà e la mamma.


Sapevano,

però, che la separazione sarebbe durata a lungo. «Non posso

evitarlo», aveva detto papà, «si tratta del mio lavoro. Dovrò rimanere

assente... oh... potrebbe darsi per un paio d’anni.»

«Dove?» aveva domandato Avner.

«Non domandarlo neppure. Un po’ dappertutto. Per lavoro.»

«Però», s’intromise la mamma, «ho una bella notizia da darti.

Tuo padre e io abbiamo mosso qualche pedina, parlato con certe

persone. C’è un grande kibbutz, non tanto lontano da qui. Ti prenderanno.»

«Cosa?» fece Avner, non credendo alle sue orecchie.

«Ti prenderanno. Ti permetteranno di andare a scuola là. Il mese

prossimo.»

«Se è ciò che desideri, beninteso» disse papà, adocchiando la

mamma. «Voglio dire, se vuoi andarci.»

«Oh, come puoi dire una cosa del genere», fece la mamma, prima
che Avner potesse aprir bocca. «Naturale, che vuole andarci. E

un kibbutz, la cosa più meravigliosa del mondo per un ragazzo. E

poi, non ce la farei da sola, con due figli.»

«Be’?» domandò papà.

Avner era annichilito. Non riusciva a credere che i suoi genitori

dicessero sul serio. Non si trattava tanto del kibbutz, quanto

dell’idea che volessero scacciarlo di casa. Per quanto gli sarebbe piaciuto

restare a Francoforte, non avrebbe comunque voluto restarci

da solo. Ma ora, come se non bastasse il fatto che erano tornati

all’appiccicosa desolazione di Rehovot, volevano addirittura scacciarlo.

Ma perché? La mamma lo odiava a tal punto?

Be’, non le avrebbe dato la soddisfazione di mostrarle quanto la

odiava lui, in quel momento.

«Sicuro» disse, fissando il pavimento. «Non ho niente in contrario.»

«Bene», disse la mamma, tutta soddisfatta, «allora è deciso.»

Rimase un conto in sospeso tra Avner e sua madre, per tutta la

vita. Anche se Avner si era ben presto reso conto, dopo la violenta

sorpresa iniziale all’idea di essere scacciato di casa, che la mamma

non aveva inteso ferirlo, era assolutamente convinta che il kibbutz

sarebbe stato un bene per lui. Col suo sesto senso, Avner aveva captato
la sincerità della sua passione. Aveva avvertito il suo entusiasmo

per l’idea del kibbutz. (nota 2). Ma com’era possibile che si sbagliasse a

tal punto su di lui?

Forse toccava ad Avner dimostrare a sua madre che si sbagliava.

Se faceva buon viso a cattivo gioco, no, non solo buon viso a cattivo

gioco, ma se ce la metteva davvero tutta, se sgobbava di più e per

più ore di tutti gli altri ragazzi, i veri kibbutznik! ecco la risposta, lo

avrebbero notato, sarebbero stati costretti a scrivere a sua madre

per dirle che ragazzo formidabile era suo figlio. Allora, lei avrebbe

dovuto venire da lui a scusarsi. Avrebbe dovuto chiedergli di tornare

a Rehovot.

Era stata una decisione assennata, ma in gran parte era svanita a

mezza strada lungo il cocente, polveroso tragitto in autobus per raggiungere

Gedera. Non che quella squallida cittadina fosse la destinazione

finale di Avner. Il kibbutz distava almeno un’altra ora di

viaggio lungo le strade sterrate che serpeggiavano tra le basse colline,

i campi di cotone e gli agrumeti, verso un orizzonte baluginante,

punteggiato di polverosi eucalipti. I trenta e passa gradi di caldo parevano

quasi visibili nell’aria. E il bestiame al pascolo sembrava così

scarno. Avrebbero dovuto essere vacche, quelle creature? Ma le


vacche erano gli animali grassi e mansueti che Avner aveva visto a

scuola, nei libri illustrati. O nelle ordinate, lussureggianti campagne

della Germania.

A peggiorare le cose, in un certo senso, era il fatto che al kibbutz

non si stava male. Avner dovette ammetterlo con se stesso.

Non c’era niente che non andasse, nelle amichevoli strette di mano,

nell’enorme refettorio, nei carrelli di cibo traboccanti di uova e verdura

fresca, nei dormitori immacolati, dove i bambini dormivano in

tre o quattro per stanza, maschi e femmine insieme. Andava tutto

benone, e tanto di cappello alla gente cui piaceva, che ci si trovava a

suo agio. Ma Avner si accorgeva che quello non era il posto suo, già

solo da come i kibbutznik guardavano i mocassini tedeschi che sua

madre gli aveva comprato a Francoforte. Tutti gli altri ragazzi calzavano

scarponi da fatica. E questo, sua madre avrebbe dovuto saperlo.

Ci sono tre cose che un individuo può fare, se si ritiene un estraneo

ma è costretto a stare in un posto che non considera il suo. Può

rinchiudersi in se stesso; può tentare di integrarsi nella comunità in

ogni modo possibile; può accentuare al massimo il proprio isolamento

e presentarsi nei panni di un fuorilegge.

Avner fece tutte e tre le scelte insieme, spesso nel giro di una
stessa giornata.

La più facile era quella di rinchiudersi in se stesso. Non si trattava

di una chiusura completa, non era visibile agli altri, ma piuttosto

di una sorta di intontimento interiore, come una bruma, in cui le

più ardite fantasie potevano metter radici nel sottile strato superficiale

della realtà. Alle sei del mattino, John Wayne si svegliava come

tutti gli altri all’urlo della sirena, residuo di una vecchia cannoniera

inglese, che strepitava fissata all’asta della bandiera. Si faceva

una rapida doccia, poi infilava la Colt 38 nella fondina e beveva un

succo di frutta nel vasto refettorio. Durante le due lezioni mattutine

in classe, prima dell’ora di colazione, scoccava occhiate bonarie

dalla finestra ai contadini al lavoro nei campi, in lontananza. Sono

al sicuro. Il tenente colonnello Wayne aveva pronto un piano di

emergenza, nel caso che i giordani attaccassero da est. A un suo comando,

i carri armati sarebbero sbucati dai magazzini sotterranei

dietro la stalla, ma invece di un attacco frontale, come si aspettavano

i giordani, avrebbero compiuto una manovra di aggiramento sul

fianco attraverso i campi di cotone. Là, i cespugli si sarebbero aperti,

premendo semplicemente un bottone, rivelando la recinzione di

acciaio di una pista provvisoria, lungo la quale gli enormi carri armati,
dopo aver messo ali da cacciabombardiere, si sarebbero alzati

maestosamente in volo, rombando.

L’eroe e difensore del suo popolo, la pistola più veloce del Medio

Oriente, entrava nel laboratorio di inscatolamento alle due del

pomeriggio per tagliare le zampe dei polli. Ne usciva alle quattro nei

panni di Avner il bandito, un ragazzo cattivissimo, che non faceva

mistero di come la pensasse sul regime dell’oppressore. Lui e la sua

banda - Itzig, Yochanan e Tuvia lo Yemenita - sabotavano tutto

quel che potevano.

Guarda lì, Moshe il Mugiko sta avvitando nuove lampadine nei

portalampade del cortile. Come farà ad arrivare là in alto? ’Sti immigrati

russi sono furbi, guarda un po’ quel Moshe. Non importa

che la scaletta sia troppo corta, lui ti attacca il vecchio ronzino al

carretto della spazzatura e ci piazza la scaletta sopra. E se il cavallo...

no, quel vecchio ronzino non farà un passo. Sì, invece, se arroventiamo

questo pezzo di fil di ferro e glielo infiliamo sotto la coda!

Fu un miracolo se Avner e la sua banda non uccisero nessuno.

In quattro anni, non provocarono neppure danni gravi a qualcuno.

Neppure quando Avner pretese di tenere una lezione di apicoltura

in classe, portandoci, “per sbaglio”, un alveare in piena attività.


Neppure quando rinchiusero Moshe nella cella frigorifera per mezza

giornata. Particolare ancor più miracoloso, non furono mai colti

sul fatto.

Ironia della sorte, la punizione era immancabile ogni volta che

Avner il bandito cedeva il passo alla terza incarnazione: Avner, il

kibbutznik esemplare, il chaver, il bravo compagno. Quando scriveva

il suo nome sulla lavagnetta del refettorio, offrendosi volontario

per fare lo straordinario di sabato, per aiutare nel raccolto, magari

quelli del kibbutz vicino, con l’unico risultato di vedersi respinto di

fronte a tutti gli altri ragazzi. Dai, signor Mocassino, che cosa combineresti,

ti taglieresti un dito con la falce? Dobbiamo salvaguardare la nostra


reputazione.

Se hai tanta voglia di lavorare, va a tagliare

le zampe dei polli.

Perché, mentre John Wayne riusciva a battere i giordani e Avner il bandito


non

veniva mai colto sul fatto, la verità era che Avner

il kibbutznik non divenne mai un personaggio degno di nota.


Semplicemente,

non era un contadino provetto. Non che fosse proprio

debole o lento, anche se quei ragazzini - i ragazzini che erano cresciuti


lungo i fossati d’irrigazione nel bel mezzo del nulla, i ragazzini

che Avner ammirava e disprezzava insieme - erano un po’ più robusti

e veloci di lui. E con ciò? Lui era più intelligente. Parlava le

lingue, il tedesco e l’inglese. Aveva visto un sacco di cose, frequentato

gli americani, viaggiato per mezzo mondo. Per quei kibbutznik

che lo respingevano, andare a Bnei Re’em su un carretto tirato

dall’asino era già un lungo viaggio.

Avrebbero dovuto rimanere colpiti da Avner - Avner non aveva

mai avuto difficoltà a far colpo sugli altri ragazzi, neppure in

Germania, o sulle ragazze, per la verità - e invece, chissà come, al

kibbutz la cosa non funzionava. Si era portato appresso la radiolina

a transistor e da principio tutti i ragazzi si erano radunati ad ascoltarla.

Ma qualcuno dell’ufficio scrisse immediatamente alla madre

di Avner di venire a riprendersi la radiolina, perché quello era un

kibbutz, e nessun bambino poteva possedere qualcosa che gli altri

non avevano. E la mamma era venuta la settimana dopo e se l’era

portata via. La radiolina del nonno!

I ragazzini cui Avner non piaceva troppo, lo chiamavano Yekke

potz. Il fatto di essere uno Yekke era un’altra delle cose nuove che

Avner aveva imparate al kibbutz, anche se l’avrebbe comunque appreso,


prima o poi. Da piccolo, a Rehovot, Avner pensava che tutti

gli israeliani fossero israeliani, e basta. Forse c’era un briciolo di

differenza tra i sabra, di origine locale come lui, o i coloni di prima

dell’indipendenza come i suoi genitori, e gli immigrati recenti che

non parlavano neppure l’ebraico. E sì, certo, c’erano degli israeliani,

magari non a Rehovot, che erano religiosi, che erano, e si comportavano,

come gli ebrei della Diaspora, gli ebrei dell’Olocausto,

anche se ormai risiedevano in Israele da molte generazioni. Portavano

caffettani neri, cappelli a larghe tese e i riccioli rituali. Ma il

fatto di essere uno Yekke, di appartenere a un sottogruppo anziché

essere semplicemente un israeliano, era un’idea che non aveva mai

sfiorato la mente di Avner.

Al kibbutz, invece, Avner imparò a fare distinzioni tra vari tipi

di israeliani, in base alle loro scelte personali. Nella maggior parte

dei casi, gli altri ragazzi del kibbutz erano galiziani, il che per Avner

equivaleva a un branco di ebrei dell’Europa Orientale, volgari,

aggressivi, ignoranti. Lui, d’altro canto, era uno Yekke - un colto, raffinato

sabra, originario dell’Europa Occidentale.

I due termini, almeno nel senso che finì con l’attribuir loro Avner, stavano a

indicare qualità connesse non solo con la geografia


ma anche con lo spirito. La Galizia, la provincia più orientale di

quello che era stato l’impero austroungarico, era il terreno di coltura

di tutto ciò che negli ebrei era tribale, corrotto, presuntuoso, infido

e di bassa lega. Innegabilmente, i galiziani erano anche svegli,

pieni di risorse e risoluti; questo, Avner non aveva niente in contrario

a riconoscerlo. Spesso possedevano un meraviglioso senso

dell’umorismo. Come individui, potevano essere molto coraggiosi e

devotissimi a Israele. Però erano sempre in agguato, pronti a sfruttare

la situazione. Non ne capivano niente, di certe sottigliezze. Baravano

e mentivano; erano materialisti fino all’incredibile. Inoltre,

se ne stavano sempre incollati tra loro. Usavano espressioni come le

'histader, cioè «badare a se stessi». O «spartire la torta». Magari non

venivano proprio tutti dalla Galizia, naturalmente. Ma se possedevano

queste qualità, erano comunque galiziani.

Gli Yekke erano emigrati in Israele principalmente dalla Germania

o da altri paesi occidentali, come i genitori di Avner; ma da

qualsiasi posto venissero, la principale qualità che li contraddistingueva

era il fatto di essere stati ebrei assimilati. Non erano vissuti

nei ghetti, negli shtetl. Possedevano in scarsa misura gli istinti di


sopravvivenza

da animali braccati, quel tipo di carattere sempre


all’erta che gli ebrei della Galizia avevano dovuto acquisire per rimanere

in vita. Gli Yekke erano educati, ordinati e puliti. Avevano

libri in casa loro, ascoltavano la musica classica. Particolare ancor

più importante, dato che anche qualche galiziano leggeva libri o

ascoltava la buona musica, gli Yekke avevano un’idea del tutto diversa

della civiltà europea. Speravano che Israele diventasse una

specie di Scandinavia per ebrei, con tante orchestre sinfoniche che

suonassero la musica di Beethoven e gallerie d’arte che esponessero

i quadri di Rembrandt.

Gli Yekke avevano altresì un’idea diversa delle virtù civiche. In

tempi di penuria, si aspettavano che fosse istituito il razionamento,

di dover poi far la fila ordinatamente per procurarsi il necessario.

Erano pronti a obbedire, o a comandare, ma non a trafficare, a

complottare, a manipolare. Erano puntuali, metodici, magari un

tantino pretenziosi. Costruivano le loro case in file ordinate, ben

distanziate, nella grande città yekke di Nahariya. Per molti versi,

erano più teutonici dei tedeschi.

Avner comprese che non c’era niente di personale nelle tendenze

tribali dei galiziani. Badavano ai fatti loro e, in pratica, per fatti

loro si doveva intendere gli altri ebrei dell’Europa Orientale, soprattutto


polacchi e magari russi. Costituivano il cerchio magico. I

posti migliori, le occasioni più propizie toccavano a loro. A loro

spettava la guida del kibbutz, in eredità perpetua a quanto pareva.

Prevalevano anche quando si trattava di decidere chi dovesse fare

medicina all’università, per esempio, scelta che avveniva


indipendentemente

dai risultati scolastici, indipendentemente dalle capacità

personali. E questo malgrado ci si attenesse a criteri altamente

democratici, naturalmente; l’intero kibbutz votava su problemi del

genere durante un’assemblea generale, però si poteva scommettere

fin l’ultimo shekel che il prescelto sarebbe stato un galiziano.

Che fosse esatta o no, quest’idea - o improvvisa scoperta come

l’avrebbe definita lui - si presentò ad Avner al kibbutz. E non fece

che rafforzarsi. Lo accompagnò per tutto il periodo del servizio militare

e oltre. In Israele, i galiziani tenevano saldamente il timone, e

gli altri ebrei - tedeschi, olandesi o americani - riuscivano ad avere

ben poco peso. Gli ebrei mediterranei, poi, non contavano praticamente

nulla, se dipendeva dai galiziani.

Il fatto che Avner fosse giunto a credere una cosa del genere

non significava che covasse risentimento, mettesse il broncio o si

sentisse trattato ingiustamente. Tutt’altro. Significava una cosa sola:


che sarebbe sceso in gara. Avrebbe battuto i galiziani al loro stesso

gioco. Si sarebbe mostrato così unico, così straordinario, così insuperabile

in qualcosa, che alla fine avrebbe avuto il sopravvento.

Su galiziani, kibbutznik, e chi più ne ha più ne metta. Per quanto

furbi, forti, decisi, privi di scrupoli potessero essere, alla fine avrebbe

vinto lui.

Magari seguendo le orme di suo padre.

Perché c’era un modo, per un emarginato, di farsi accettare da

tutti, in Israele. Persino per uno Yekkepotz, che in cuor suo si sentiva

più a suo agio a Francoforte. E il modo era quello di diventare un

eroe. Un vero eroe, un Har-Zion, (nota 3), un ragazzo sul ponte della nave

in fiamme. Un ragazzino olandese col dito infilato nella falla apertasi

nella diga.

Fu durante l’ultimo anno passato al kibbutz, un giorno del

1964, che Avner scoprì che suo padre era un agente segreto. In

realtà, non glielo disse nessuno. Se qualcuno glielo avesse detto,

non avrebbe usato la parola “agente”. Sua madre avrebbe potuto

dire, be’, tuo padre lavora per il governo. Più probabilmente, la

gente avrebbe detto, abbassando inconsapevolmente la voce, oh,

sai, fa qualcosa per il Mossad.


In ebraico, questa parola significava semplicemente «istituto».

Si poteva parlare di un mossad per la ricerca biochimica o di un mossad

per la sicurezza del traffico. Ma usata senza aggiunte, Mossad significava

una sola cosa: l’organizzazione, relativamente piccola, custodita

gelosamente, tenuta in altissima considerazione, segretissima,

che viene ritenuta d’importanza assolutamente vitale per la sicurezza

di Israele.

Nel dormitorio di Avner c’erano parecchi ragazzi i cui genitori

svolgevano questa o quella funzione al servizio della società israeliana.

Due o tre erano figli di alti ufficiali dell’esercito. Il padre di un

altro occupava un seggio alla Knesset, il parlamento d’Israele. E

c’era un ragazzo del cui padre si sapeva che “faceva qualcosa” per il

Mossad.

Un giorno che Avner per caso si trovava assieme a quest’ultimo

davanti all’entrata del kibbutz, il padre del ragazzo arrivò in macchina.

Era venuto a trovare il figlio, proprio come Avner aveva sperato

che suo padre, prima o poi, potesse venire a trovare lui. L’uomo

scese dall’auto e, a mo’ di saluto, scrollò il suo rampollo per le

spalle e gli batté più volte la mano sulla schiena. Poi gli cadde lo

sguardo su Avner.
«Ti presento Avner» disse suo figlio.

«Piacere di conoscerti» disse il visitatore, stritolando la mano di

Avner nella sua. «Sei nuovo? Come si chiama tuo padre?»

Avner glielo disse.

«Ah» fece l’uomo, fissando Avner con una scintilla d’interesse

negli occhi. «Così, sei suo figlio. Bene! Salutalo da parte mia quando

lo vedi.»

«Conosci mio padre?» domandò Avner, con una punta di sorpresa.

«Se lo conosco?» ribatté l’uomo, pilotando suo figlio oltre il cancello.

Tutto qui, nient’altro. Avner si sentiva girare la testa. Naturalmente,

il semplice fatto che un tale, di cui si diceva che faceva qualcosa

per il Mossad, conoscesse suo padre era ben lungi dal provare

che il padre di Avner era un agente. Ma c’era qualcosa, nel modo in

cui quell’uomo lo aveva fissato, quella luce d’interesse nel suo

sguardo, un’occhiata che voleva dire “uno di noi”. Il sesto senso di

Avner non lasciava dubbi di sorta in proposito. Bastava accostarlo

alla faccenda dell’“export-import”, al fatto che era sempre in viaggio,

e alle occhiate nervose di quegli uomini agli angoli della strada a

Francoforte, e non era difficile tirare una conclusione.

Per un’ulteriore conferma, Avner non dovette far altro che domandarlo
alla madre, come se niente fosse, la prima volta che si

trovò a tu per tu con lei.

«Mamma, papà è una spia?»

«Ti ha dato di volta il cervello?» rispose la mamma, saettando

occhiate attorno a sé.

«Dai, mamma, piantala. Mi prendi per un bambino di cinque

anni? Al kibbutz c’è qualcuno che conosce papà. Preferisci che mi

metta a far domande a tutti quanti?»

Sarebbe stata la peggior offesa all’etichetta, come Avner sapeva

anche troppo bene.

«Sta a sentire, mica è come al cinema» disse la mamma. «Non ci

sono spie, da noi. Tuo padre si occupa di esportazioni e importazioni

e qualche volta lavora per il governo. Capito?»

«Sicuro, mamma.»

«Molto bene» disse la mamma tutta compita.

Sicché era vero. Avner era così eccitato da avere il batticuore.

Adesso, non solo poteva scusare suo padre di aver permesso alla

mamma di scacciarlo di casa. Questo era importante, ma non era

tutto. C’era anche il fatto che Avner da quel momento si sentiva pari,

se non addirittura superiore, al kibbutznik più in vista. Uno Yekke potz


adibito al
taglio delle zampe dei polli, sullo stesso piano di

un pezzo grosso galiziano!

Ma Avner non poté mai parlarne con nessuno.

Magari avrebbe potuto parlarne con suo padre, se mai fosse venuto

a trovarlo. Durante quei quattro anni al kibbutz, prima del

servizio militare, Avner lo vide solo due volte, in entrambi i casi

quando fece ritorno a Rehovot per una breve vacanza e ci trovò anche

il padre. Giusto per un paio di giorni, perché poi papà dovette

involarsi di nuovo da Israele per lavoro. In quelle occasioni non riuscì

neppure a rimaner solo con lui, con la mamma che continuava a

gironzolare su e giù e il fratellino, fortunato seienne libero come

l’aria, che faceva i capricci.

Se invece papà fosse venuto al kibbutz, in modo che potessero

rimanere soli, Avner magari ne avrebbe parlato con lui. Peccato che

papà non venne mai.

Ora, nel 1969, Avner poteva incontrarsi con suo padre quando

voleva. O almeno con ciò che restava di suo padre: un uomo malato

e distrutto. Ora che Avner aveva ventidue anni, e i gradi di capitano

della riserva, con alle spalle quattro anni di servizio militare nelle

file di un’unità scelta. Ora che la cosa non aveva più importanza,
poteva vederlo. Ma di importanza ne aveva ancora.

Accaldato dal viaggio in autobus da Rehovot, con una gran voglia

di farsi un’altra doccia, Avner spalancò il cancello. Papà era lì,

allungato sulla sdraio nel giardino, che dormiva. C’erano un paio di

mosche sull’orlo del bicchiere di succo d’arancia che aveva accanto.

Faceva un caldo tremendo. Papà aveva messo su un altro po’ di ciccia

e respirava pesantemente nel sonno.

«Ciao papà.»

«Eh?» Suo padre aprì gli occhi, prima uno, poi l’altro. Era una

sua vecchia abitudine. Avner non l’aveva mai visto fare da qualcun

altro.

«Come stai?»

«Uhm.»

«Ti serve la Citroën per il fine settimana? Posso prenderla?»

«No, non mi serve, prendila pure.» Suo padre tossì, si schiarì la

gola e si raddrizzò sulla sedia. «Che ora è?»

Avner diede un’occhiata all’orologio. «Quasi le tre» disse.

«Wilma c’è?» domandò papà.

«Non lo so, sono appena arrivato. Non l’ho vista.»

Wilma era la seconda moglie, quella che papà aveva sposato


all’estero, dopo il divorzio dalla mamma. In un certo senso, la cosa

doveva aver avuto a che fare col suo lavoro, supponeva Avner, col

lavoro di “export-import”. Non ne parlavano mai. La versione ufficiale

era che papà l’aveva sposata e solo dopo le nozze Wilma aveva

collaborato con lui, però poteva darsi benissimo che le cose fossero

andate in maniera esattamente opposta. Comunque fosse, lo

avevano arrestato e mandato in galera.

Quando lo avevano rilasciato, da circa un anno e mezzo ormai,

appena finita la guerra dei Sei Giorni, papà si era portato Wilma in

Israele. Avner provava una certa simpatia e ammirazione per lei.

Una vera signora, e pensare che non era neppure ebrea.

«Come sta tua madre?» domandò papà.

«Benone.»

Avner cavò di tasca la lettera marroncino e la tese a suo padre.

Quale che fosse il suo parere in merito, Avner avrebbe comunque

preso una decisione per conto suo.

Papà inforcò gli occhiali per leggere la lettera. Erano solo quattro

righe, sicché dovette leggerla almeno due volte, dato che non

aprì bocca per un minuto buono. Persino il suo pesante respiro

cessò: l’unico rumore che si udiva nel giardino era il ronzìo delle
mosche attorno al succo d’arancia.

Poi papà ripiegò la lettera e gliela restituì.

«Non rispondere neppure» disse ad Avner.

Udendo suo padre parlare in quel tono, Avner raddrizzò le spalle.

«Perché?» domandò. «Non posso ignorarla.»

«Non essere stupido» replicò il padre. «Mi vuoi costringere a

chiamarli? Per averti, dovranno passare sul mio cadavere.»

Suo malgrado, Avner trattenne a stento un sorriso. Papà aveva

usato le stesse identiche parole che Avner avrebbe giurato di sentirgli

pronunciare. Be’, le cose stavano così, dunque.

«Chiamali», disse a suo padre, «e non ti rivolgerò mai più la parola.

Lascia che me la sbrighi da solo.»

«Dirai di no.»

«Sicuro che dirò di no» fece Avner. «Volevo solo fartela leggere,

tutto qui.»

«Non è uno scherzo» disse suo padre. «Puoi anche pensare che

lo sia, ma non lo è. Guardami.»

Avner guardò suo padre. «Dai, papà», disse, passando il braccio

attorno alle spalle del vecchio. «Non preoccuparti. Possono averlo

fatto a te, ma permettimi di dirti una cosa: a me non lo faranno


mai.»

Avner avrebbe ricordato per sempre quella conversazione, fin

nei minimi particolari. Il caldo, la sdraio, l’espressione del viso di

papà, le mosche che si tuffavano nel succo d’arancia. E avrebbe ricordato

la corsa al volante della vecchia Citroën, più tardi, e di essere

andato a prelevare Shoshana, di aver pomiciato, di averle tenuto

la mano, di essere andato al cinema con lei, senza far parola di tutta

la faccenda. E il giorno dopo, lunedì, di essere andato al caffè

sull’angolo di Frishman e Dizengoff. Alle dieci di mattina in punto.

Scoprì che Moshe Yohanan era un ometto sulla cinquantina in

camicia bianca. Leggeva un giornale, e invitò Avner a sedersi con

un gesto allegro, non appena lo vide. Si strinsero la mano con forza,

e Avner ordinò due palline di gelato, limone e vaniglia.

Il signor Yohanan venne subito al dunque. «Senti», fece, «che

cosa posso dirti? Non so neppure se sei l’uomo giusto, dovremo scoprirlo.

Però,

se

lo

sei,

il
tuo

paese

ha

bisogno

di

te.»

Capitolo 2

Andreas

Se l’amico di sua zia gli avesse offerto un lavoro qualsiasi all'El

Al, Avner non avrebbe mai suonato il campanello dell’Appartamento

n. 5, al secondo piano di una casa anonima di via Borochov.

Avrebbe detto a Moshe Yohanan: lasciamo perdere. Me ne torno a

casa mia. Di qualunque cosa si tratti, mi sa che somiglia troppo al

servizio militare.

Anche la ragazza che gli venne ad aprire aveva un’aria militaresca,

sebbene non fosse in divisa. C’era qualcosa di inequivocabile

nel modo asciutto, sbrigativo, privo di sorrisi con cui tese ad Avner

un fascio di fogli, chiedendogli di compilarli dopo averlo fatto sedere

davanti a un tavolo di legno. A eccezione di un paio di sedie, pure

in legno, non c’erano altri mobili, nella stanza.


Avner fissò i lunghi questionari a stampa dopo che la ragazza fu

sparita dietro una delle porte senza targhetta. Domanda n. 36: Avete

qualche parente che vive nell’Unione Sovietica? Certamente non

era ancora troppo tardi per alzarsi e andarsene. Non perché il fatto

di rispondere a una lunga lista di domande, alcune delle quali di carattere

molto personale, offendesse i suoi istinti libertari — un’idea

del genere non avrebbe neppure sfiorato la mente di Avner — ma

solo per il fastidio. E in particolare per i fastidi che lasciava presagire.

Altri moduli, ruolini di servizio, ordini, tabelle di marcia. Comandi.

Sono abolite tutte le licenze fino a nuovo ordine. Presentarsi

a rapporto alle ore sei. Non ne aveva avuto abbastanza negli ultimi

quattro anni?

Avner non aveva mai detestato il servizio militare per una delle

solite ragioni. Non aveva niente in contrario, per esempio, a marciare

di notte per l’intera lunghezza di Israele o quasi, con oltre venti

chili di equipaggiamento in spalla. Se per una buona metà gli altri

che speravano di ottenere le mostrine della stessa unità di commandos

cadevano svenuti e dovevano essere raccattati dai camion della

sanità, tanto meglio. Avner, infatti, non sveniva mai, anche se non

era il più grosso o il più robusto. Rimaneva saldamente in piedi, e


per di più risultò primo al corso di immersione subacquea, anche se

aveva imparato a nuotare solo sotto le armi. Alla fine, era stato lui a

diventare un commando. Uno dei quindici o giù di lì, su un centinaio

di aspiranti. Ottenne le seconde mostrine in ordine d’importanza

delle forze armate d’Israele. Dopo quelle di pilota da caccia.

Non gli dispiacque calarsi in acqua senza far rumore, recando

un carico di mine magnetiche, in una vera e propria azione di sabotaggio,

durante la guerra dei Sei Giorni. Aveva paura, naturalmente.

Solo uno sciocco non ne avrebbe avuta, e di sciocchi non ce

n’erano nei commandos.

Quel che Avner detestava erano le docce improvvisate che, per

quanto ti sforzassi, non tiravano mai via del tutto lo sporco. Il rancio

immangiabile: di sabato, oltre che immangiabile anche freddo,

per gentile concessione del rabbino militare. Detestava la burocrazia.

Il regolamento relativo a ogni e qualsiasi cosa, che non aveva

niente a che fare con la sicurezza dell’efficienza bellica. L’abolizione

delle licenze per nessuna ragione specifica — o almeno nessuna a

conoscenza di Avner. Gli incarichi assegnati non in base a ciò che

era meglio per l’unità, ma a mo’ di favori, ricompense o punizioni.

E poi odiava l’idea di dover fare l’autostop per rientrare a casa,


sforzandosi di andare e tornare in dodici ore. Sprecando tempo prezioso

in piedi sul ciglio dell’autostrada, in attesa che un borghese

qualsiasi gli desse un passaggio. Be’, forse questo era il destino di

tutti i soldati del mondo, anche degli eroi. Avner non lo metteva in

discussione. Semplicemente, non voleva averci a che fare, almeno

non a tempo indefinito. Morire per la patria, in qualsiasi momento.

Fare l’autostop, escluso.

Avner esitò, prima di compilare il modulo, anche per un’altra

ragione. Quel che aveva detto a suo padre in giardino - possono

averlo fatto a te, ma a me non lo faranno mai - erano soltanto parole,

dettate più dalla spavalderia che dalla convinzione. Avner non era

sicuro di ciò che quelli avrebbero potuto fargli. In effetti, non era

neppure sicuro di ciò che avevano combinato a suo padre.

Il fatto di dire poco era forse un’abitudine di tutta una vita,

però suo padre non aveva mai fornito una reale spiegazione ad Avner, dopo
che

era tornato in Israele con la seconda moglie. Sposarsi

una seconda volta non equivaleva a macchiarsi di bigamia, come

papà aveva fatto scherzosamente notare ad Avner, perché l’uomo

che un tempo era sposato con sua madre non era più lo stesso che

aveva sposato Wilma all’estero. Uno dei due non esisteva più legalmente.
Sì, era finito in carcere per avere svolto attività spionistiche

a favore di Israele. O almeno, erano queste le accuse. E la verità?

Be’, che ne pensi?

I rapporti tra il padre e la madre di Avner, apparentemente, erano

rimasti cordiali. Suo padre veniva quasi ogni settimana alla vecchia

casa di Rehovot e passava lunghe ore a chiacchierare con la

mamma in cucina. Quando Avner, una volta, aveva fatto notare a

sua madre: «Stai di più con lui adesso di quando vivevate assieme»,

lei si era limitata a scrollare le spalle.

«Credi che la cosa più importante siano i sentimenti?» aveva poi

ribattuto. «Lasciatelo dire, non lo sono.»

Avner interpretò il commento nel senso che, per sua madre, anche

il fatto di accettare senza rancore il fallimento di un matrimonio

rientrava nei doveri patriottici. Perché non avrebbe dovuto esser

capace di sacrificare la sua condizione di donna sposata, quando

altri avevano sacrificato la vita per Israele? Non avrebbe mai detto

una parola meno che rispettosa sul conto di papà, o persino di Wilma,

anche se preferiva non parlare di lei. Le rare volte che accennava

a Wilma, questa diventava una delle tante cose che «il tuo povero

papà ha dovuto sopportare», come l’arresto e la detenzione. Era


un atteggiamento che Avner comprendeva, però non poteva fare a

meno di provare una punta di disprezzo per lei. In un certo senso,

avrebbe preferito che strillasse e desse in escandescenze.

L’atteggiamento di papà era diverso. Non faceva mistero di essere

amareggiato, anche se non spiegava chiaramente il perché.

«Quando è finita, è finita» diceva. «Non ti lesinano niente finché

hanno bisogno di te. Sei un pezzo grosso. Quando è finita, ti sputano

in testa.»

E aggiungeva: «Ammesso che tu sia così fortunato da salvare la

pelle perché possano sputarti in testa.»

E Avner magari domandava: «A chi alludi? Di chi parli?». Ma

papà non rispondeva, si limitava a ripetere, dopo qualche istante di

silenzio: «Ti trattano come un’arancia. Ti spremono fino all’ultima

goccia e poi ti buttano via».

Anche se papà non scendeva in particolari, bene o male la faccenda

era chiara. Il vecchio - e per la verità non era neppure vecchio,

aveva passato da poco la cinquantina - era un uomo distrutto

da che era tornato in Israele. Distrutto da qualcosa di più degli interrogatori,

del carcere. «Se consideri la cosa da un certo punto di

vista, due, tre anni di prigione sono durissimi», come spiegò una
volta ad Avner, «ma se la consideri da un altro punto di vista, non

sono niente. Ce la farei a testa in giù.» E non si trattava semplicemente

delle sue cattive condizioni di salute, anche se continuava a

consultare medici, né delle preoccupazioni economiche, anche se

era al verde. Era disoccupato, viveva grazie a una misera pensione

non bene specificata. Aveva tentato di combinare un paio di affari,

dopo il ritorno in patria, ma gli era andata male entrambe le volte.

Il vero problema aveva radici più profonde.

«Ti lasciano raccattare i rubini» osservò un giorno, rivolto ad

Avner. «Te li lasciano tenere in mano, giocarci per un po’. Tutti

questi rubini saranno tuoi, dicono, se farai questo o quest’altro. Poi

ancora una cosa, poi un’altra. E poi, quando arriva il momento di

bussare alla porta, di ritirare i tuoi rubini, ti dicono: chiedo scusa?

Che rubini? Come hai detto che ti chiami?»

«Che cosa vuoi dire?» ricordava di aver domandato Avner, ma

per tutta risposta suo padre aveva scosso il capo.

Papà diceva la verità, su questo Avner non aveva dubbi. Ma

forse era una verità che valeva solo per lui. Non doveva essere
necessariamente

la verità anche per gli altri. Se fosse stata la verità per

tutti e per sempre, che cosa sarebbe rimasto al ragazzino olandese?


Un ragazzo che non era portato alla compravendita, e neppure alla

chimica e alla matematica? Avrebbe dovuto starsene per sempre al

di fuori del cerchio magico? Tagliare le zampe dei polli vita natural

durante? Non rivedere più Francoforte? Fare l’autostop con Shoshana per
andare

alla spiaggia di Ashdod una volta alla settimana?

Aspettare che l’amico di sua zia gli trovasse un lavoro all’El Al?

Continuare a essere un bravo Yekkepotz, nonostante gli anni passati

al kibbutz, le imprese compiute sotto le armi? Non far niente per

sé, o per il suo paese, mai, solo perché le cose erano andate male per

papà? Forse non era colpa loro, comunque, o almeno non completamente.
Forse

in qualche modo papà aveva impugnato il bastone dalla

parte sbagliata.

Avner completò i questionari al tavolo di legno e li restituì alla

ragazza. Di lì a qualche minuto, lei lo fece passare attraverso la porta

priva di targhetta, introducendolo in un’altra stanza, dove c’era

un uomo di mezz’età seduto dietro una scrivania di legno grezzo.

Nella stanza c’erano uno schedario e un’altra sedia scomoda, con le

rotelle, riservata ai visitatori. L’uomo guardò Avner negli occhi e

gli strinse con forza la mano prima di invitarlo a sedere.


«Come va?»

«Bene» rispose Avner, un po’ sorpreso.

«E tuo padre come sta?»

«Benissimo, grazie.»

«Bene, bene» disse l’uomo. «E come sta...» e qui fece il nome

del comandante dell’unità in cui aveva prestato servizio militare

Avner. I nomi degli ufficiali delle unità scelte, come quella di Avner, non
erano di

pubblico dominio. Avner non avrebbe saputo dire

perché l’uomo si fosse preso la briga di nominarlo: per instaurare

un rapporto, forse, o per verificare ulteriormente la posizione di

Avner, o magari per dimostrare la propria. Comunque fosse, Avner

decise di rispondergli sbrigativamente.

«Stava bene, l’ultima volta che l’ho visto.»

«E stato, vediamo un po’... in febbraio, vero?» fece l’altro con

noncuranza, tirandosi vicino una cartelletta sulla scrivania.

«In marzo» rispose Avner, senza lasciar trasparire dalla voce

che era irritato o particolarmente colpito. A dire il vero era entrambe

le cose, un tantino. Irritato dal giochetto e colpito dalla prudenza

dell’uomo. Dovevano averlo controllato e ricontrollato prima di

quel colloquio, eppure si guardavano bene dal correre rischi.


L’uomo gli offrì una sigaretta. Avner la rifiutò, notando che

neppure l’altro ne prendeva una da fumare. Chi non fuma di solito

non offre sigarette agli altri, per cui doveva trattarsi di un altro controllo

per vedere se Avner era proprio la persona che diceva di essere.

Un fumatore che avesse voluto farsi passare per lui, senza pensarci

avrebbe potuto accettare una sigaretta. Che furbacchione! La

tentazione era quasi irresistibile — tornava a galla Avner il bandito

— fingere di cambiar idea e chiedere una sigaretta, giusto per vedere

come avrebbe reagito l’altro. Ma non lo fece.

Se ne stette ad ascoltare, invece, mentre l’uomo spiegava che,

se Avner veniva accettato, il lavoro sarebbe stato molto interessante.

A questo punto, non poteva dire se avrebbero chiesto ad Avner

di sottoporsi alle prove di ammissione. Se poi le avesse superate,

avrebbe dovuto sottostare a un lungo periodo di addestramento.

Poteva darsi che fosse bocciato, come capitava a una metà circa dei

candidati. Però, se arrivava fino in fondo, il lavoro sarebbe stato


affascinante.

Il lavoro sarebbe stato affascinante e di grande importanza per

il paese. Avrebbe anche significato la sicurezza economica e una

pensione; avrebbe significato un’assicurazione sulla vita, l’assistenza

medica e persino odontoiatrica. Poteva comportare una quantità


di entusiasmanti viaggi all’estero. Avner avrebbe scoperto che
l’organizzazione

era come una piramide, disse l’uomo, con una quantità

di gente alla base e solo pochi, pochissimi, al vertice. Dipendeva

da lui, e da lui soltanto, quanta strada sarebbe riuscito a fare.

«Prendi me, per esempio» disse accalorandosi. «Ho cominciato

anch’io dal basso. Ho dovuto passarne un bel po’ prima di arrivare

dove sono adesso.»

Già, e dove sei adesso? pensò tra sé e sé Avner. Un cinquantenne

coglione, seduto a una scrivania di legno in una stanzetta soffocante,

a intervistare le reclute. Davvero entusiasmante.

Ma, e con ciò? Quello squallido appartamento di via Borochov

rappresentava chiaramente la base. Al vertice l’organizzazione poteva

ancora essere qualcosa di molto eccitante. Il vertice, al quale

puntava John Wayne, poteva essere un altro paio di maniche.

Dopo il colloquio, tuttavia, i personaggi affascinanti con tanto di

assistenza odontoiatrica non si fecero vivi. Niente telefonate, niente

lettere. Avner, però, era ben lungi dall’aver preso una decisione

definitiva, e il fatto di lasciar andare le cose per il loro verso assecondava

il suo umore, quell’estate del 1969.

«Non si è più fatto vivo quel tale dell’El Al?» gli aveva domandato
Shoshana dopo uno dei fine settimana passati insieme.

«Mmmm» Avner aveva scosso la testa.

«Se la prende comoda, eh?»

Personalmente, anche Shoshana se la prendeva abbastanza comoda,

ma la sua era qualcosa di più di una domanda oziosa. In autunno,

avrebbe ottenuto un incarico di insegnante. Non sprecavano

molte parole a parlare di matrimonio, ma molte cose erano sottintese.

Non appena Avner avesse trovato lavoro, si sarebbero messi

in cerca di un appartamento. Si amavano. Durante il servizio militare

di Avner, quattro anni, Shoshana non era uscita con nessun

altro. Se si fossero sposati, i genitori della ragazza li avrebbero aiutati

a sistemarsi. Dopotutto, non potevano continuare in eterno a

vedersi su una vecchia auto presa a prestito.

«Non c’è solo l'El Al» la tranquillizzò Avner. «Ho dell’altra carne

al fuoco.»

«Sul serio? E cosa?»

«Oh, un lavoro per il governo. Mica male, se la cosa va in porto.

Sto solo aspettando che mi chiamino.»

Non le disse nulla del lavoro, e Shoshana non fece domande.

Era una delle cose che ad Avner piacevano di lei, oltre ai capelli color
miele, ai lineamenti affilati da principessa, agli occhi azzurro

porcellana. Ma la cosa principale non era neppure tra queste. La cosa

principale era, come sempre, intraducibile in parole.

Il telegramma arrivò a casa di sua madre più di un mese dopo.

Avner, nel frattempo, si era quasi completamente dimenticato della

faccenda. Semmai, era ancora più ansioso di aver notizie dall'El Al.

Persino un posto di steward, di commissario di bordo, un lavoro

qualsiasi tra il personale di volo, avrebbe voluto dire viaggiare.

Quella gente di via Borochov, chi poteva mai sapere?

L’appartamento dove il telegramma gli ordinava di recarsi questa

volta non si trovava in via Borochov, anche se era altrettanto squallido.

Trovò un’altra ragazza troppo seria che gli chiese di aspettare,

prima di introdurlo in un’altra stanza interna attraverso un’altra

porta senza targhetta. La scrivania di legno sembrava la stessa, anche se


l’uomo

accigliato che ci sedeva dietro era anche lui un altro.

«Si tratta del lavoro di cui abbiamo già parlato con te» disse l’uomo.

«T’interessa sempre?»

«Sì.»

«Bene.» L’uomo prese un calendario che aveva davanti a sé,

tracciò un circoletto attorno a una data e la mostrò ad Avner. Poi


fece scivolare un foglietto di carta sul piano della scrivania.

«Alla data che ti ho mostrato, presentati a questo indirizzo.

Mandalo a mente adesso, poi ridammelo. Okay. Non farti accompagnare

in macchina da qualcun altro. Prendi i mezzi pubblici. In

quel posto, seguirai un breve corso. E mentre lo seguirai, dovrai superare

qualche prova. Alla fine del corso, farai un esame. Per il resto,

si vedrà.»

Avner esitò.

«Hai qualche domanda da fare?»

«Be’... sono assunto?» domandò Avner. «Mi spetta uno stipendio?»

«Sei ammesso al corso di addestramento» disse l’uomo. «E sì,

naturalmente sarai retribuito. Figurerai in prova presso un’azienda

pubblica, non so bene quale. Ti spediranno un assegno per posta

ogni settimana. Qualcos’altro?»

«No, basta così». Avner si alzò. «Grazie.»

«Buona fortuna.» L’uomo gli tese la mano, senza alzarsi da dietro

la scrivania. La ragazza che non sorrideva mai stava già aprendo

la porta. Di lì a un minuto, il nuovo agente del Mossad si ritrovò in

strada.

Quello stesso giorno, più tardi, mentre era al volante della Citroën
con Shoshana accanto, seguendo un impulso che non avrebbe

saputo spiegare, Avner le domandò se avrebbe preso in considerazione

l’idea di emigrare da Israele. La domanda fu come un fulmine

a ciel sereno, e persino Avner ne fu sorpreso. Non aveva la più pallida

idea di ciò che lo aveva indotto a farle una domanda del genere.

Shoshana lo guardò senza capire.

«Ma dove?» domandò.

«Non saprei. In Germania, in un posto qualsiasi. Magari in

America.»

«Vuoi dire per sempre?» v

«Ma certo, per sempre. È questo che significa emigrare.» Shoshana scoppiò
a

ridere, un tantino a disagio, forse.

«Non puoi parlare seriamente» disse. «In autunno comincio a

insegnare. I miei genitori... questa... questa è la nostra patria.»

Guardò Avner, poi soggiunse: «Non preoccuparti. Prima o poi troverai

un buon lavoro».

Avner non disse nulla. Non raccontò a Shoshana che aveva già

trovato un lavoro, magari persino un buon lavoro. Ma, pur senza

conoscere l’espressione déjà vu, fu sopraffatto dalla sensazione di

aver già vissuto quel momento. Era strano. Non riusciva proprio a
spiegarselo. Quella notte, però, prima di addormentarsi, il momento

gli tornò alla mente. Ma sicuro! Era stato quando suo padre aveva

domandato alla mamma se le sarebbe piaciuto rimanere a Francoforte,

e lei aveva risposto: «Devi essere impazzito».

Benché all’inizio del corso di addestramento mancassero ancora

due settimane, Avner non seppe resistere alla tentazione di prendere

nuovamente in prestito la Citroën, il giorno dopo, e di dirigersi,

solo naturalmente, verso il quartiere Hakirya di Tel Aviv. Da lì imboccò

la strada di Haifa in direzione nord.

Era perplesso. Conosceva la zona a menadito, ma non riusciva a

ricordarsi di un edificio che potesse ospitare un centro di addestramento

del Mossad. Percorse un paio di volte la strada nei due sensi,

vedendo soltanto giovani con l’aria di studenti, che passeggiavano o

sedevano a gruppi su gradini di cemento poroso. La strada finiva su

uno spiazzo aperto, circondato da una recinzione metallica, al centro

del quale, affondata nel terreno, sorgeva una cupola a forma di

fungo. Aveva l’aria di un generatore o magari della sommità di un

rifugio antiaereo. Avner cominciò a domandarsi se quella non fosse

già una prova. Chiaramente, non poteva mettersi a far domande,

eppure non poteva neppure tornare dall’uomo dietro la scrivania


per dirgli che non era riuscito a trovare il posto. In effetti, se anche

fosse tornato, probabilmente non avrebbe trovato nessuno ad

aspettarlo. Sia l’appartamento di via Borochov sia l’altro davano

l’impressione di essere stati affittati solo per un breve periodo.

Gli venne un’idea. Invertendo di nuovo il senso di marcia della

Citroën, guidò fin dove la strada incrociava un’arteria di grande

traffico, trovò uno spazio per parcheggiare e attese. Il traffico non

era troppo intenso, ma durante l’ora che seguì parecchie macchine

s’immisero sulla strada e ne uscirono. Avner le osservò, lasciandole

però passare. Aspettava un segnale del suo sesto senso, qualcosa che

gli consentisse di tirare una conclusione.

L’auto che aspettava sopraggiunse solo di lì a un’altra ora. Non

aveva nulla che la distinguesse da tutte le altre, e i due uomini a bordo

avrebbero potuto essere giovani insegnanti o assistenti universitari.

Avner, però, capì che non lo erano. Non avrebbe saputo dire

come lo avesse capito, solo che, come avrebbe spiegato in seguito,

un’auto governativa è un’auto governativa, persino in Israele.

Avner tenne la vecchia Citroën a rispettosa distanza dall’auto

governativa, mentre la seguiva lungo la tortuosa strada secondaria.

La macchina si dirigeva verso la recinzione metallica che delimitava


lo spiazzo ma, prima di arrivarci, improvvisamente svoltò a destra,

puntando direttamente, a quanto sembrava, verso il fianco dell’ultimo

edificio. Solo che, anziché andare a sbattere contro un muro di

cemento armato, proseguì la sua corsa attraverso quello che ora Avner
individuò

come uno stretto passaggio tra l’edificio e la recinzione.

Alla fine del viale c’era una porta scorrevole azionata elettricamente,

che si aprì lentamente per lasciar entrare l’auto. Oltre la

porta, la strada scendeva con una brusca pendenza. L’auto governativa

sparì nel sottosuolo dello spiazzo.

Avner non la seguì, ma due settimane dopo si presentò per iniziare

l’addestramento. C’erano altri dodici elementi nel suo gruppo,

tutti uomini, perlopiù dell’età di Avner, anche se due o tre erano

notevolmente più maturi. Uno poteva aver passato la quarantina.

Avner non ne conosceva nessuno, anche se gli sembrava di aver

già visto due o tre dei più giovani, forse sotto le armi, magari in occasione

delle manovre generali. Non c’era comunque nessuno del

suo reparto.

Una settimana più tardi ricevette per posta la prima busta paga.

Era stata spedita dall’acquedotto di Tel Aviv al suo domicilio, cioè

l’abitazione di sua madre a Rehovot, e l’assegno era di 120 lire


israeliane. Una somma modesta. Uno ci avrebbe pensato due volte

prima di metter su famiglia. Per il momento, comunque, la cosa non

aveva importanza. Il denaro come tale non era mai stato al centro

dei pensieri di Avner; a quei tempi, poi, ancor meno che in seguito.

L’unica cosa che gli interessava era la possibilità di condurre una vita

eccitante, di viaggiare, di fare quel che più gli piaceva, e magari

di fare anche bella figura.

Gli istruttori erano quasi tutti giovani, forse appena quattro o

cinque anni più di Avner. Faceva eccezione l’istruttore di tiro con

armi da fuoco, un tale di nome Dave. Aveva il viso di un sessantenne,

anche se il corpo era asciutto e scattante come quello di un atleta

venticinquenne. Avner ne aveva visti pochi, in vita sua, di uomini

così in forma.

Dave era americano, un ex marine che non aveva mai imparato

a parlare correttamente l’ebraico. Avner, al pari di qualcun altro del

corso, sarebbe stato ben lieto di parlare con lui in inglese, ma Dave

insisteva con l’ebraico. «Tu impara a usare ’ste fottute armi, che io

imparo ’sta maledetta lingua», disse ad Avner, cantilenando roco

Come Braccio di Ferro, quando si conobbero. Per qualche ragione,

quel birignao conferiva alla sua voce un tono di singolare autorevolezza.


«Impariamo bene tutti e due, eh?»

«Per me va bene» rispose Avner.

«Vieni dall’esercito, eh?» domandò l’anziano istruttore. «Ti

hanno insegnato a sparare nell’esercito?»

«Ci hanno messo in mano qualche fucile, comunque» ribatté

guardingo Avner.

«Fammi un grosso favore» disse Dave tutto serio. «Fa un grosso

favore a te stesso. Scordati di aver mai visto un fucile. Vedi un fucile

per la prima volta, qui.»

In un certo senso, era vero. Benché avesse imparato un bel po’

di cose sull’uso dell’arma bianca, da militare - aveva militato in un

reparto di commandos, dopotutto - Avner non aveva mai visto un

approccio alle armi da fuoco simile a quello del vecchio Braccio di

Ferro. Tanto per cominciare, era un fanatico della ginnastica. Niente

forza, solo coordinazione. «Credete che un sollevatore di pesi

sappia sparare come si deve?» domandava Dave. «I sollevatori di

pesi sono delle schiappe. Se volete prendere il nemico a sassate, praticate

pure il sollevamento pesi; ma se volete sparargli, saltate con

la corda. Come le ragazzine.»

E per almeno un’ora al giorno, era proprio quel che faceva tutto
il gruppo, nella palestra sotterranea. Una dozzina di aspiranti agenti

del servizio segreto, che saltavano con la corda come ragazzine di

dodici anni. Dave pareva nutrire una fede quasi mistica nello stretto

rapporto tra il salto con la corda e la capacità di usare efficacemente

un’arma da fuoco, una fede che condensava nella laconica

massima: «Chi non sa saltare con la corda, non sa sparare». Avner

non dubitò mai delle sue parole. Dave era in grado di conficcare un

chiodo nel muro da una distanza di sette o otto metri, sparando


indifferentemente

con la destra o la sinistra.

Ma il punto non era neppure questo. Com’era solito dire Dave:

«Se volete imparare il tiro al bersaglio, aggregatevi alla squadra

olimpica. Io v’insegno a sparare da soldati».

Sparare da soldati, nella concezione di Dave, significava anche

conoscere l’arma dell’avversario. «Credi che sia un bersaglio fermo,

che stia lì ad aspettare te?» domandava ad Avner. «Quello ti spara

per primo, e magari sa sparare meglio di te. Se impari a sparare, e

hai fortuna, vivrai a lungo. Ma se impari a schivare i colpi, vivrai più

a lungo.»

Il che non significava schivare una pallottola, naturalmente -

sarebbe stato impossibile - ma voleva dire ore e ore di studio in


classe, per imparare a riconoscere le varie armi dai disegni e dalle

diapositive a colori. Ogni tipo di arma che avrebbe potuto usare il

nemico. Perché, come spiegò Dave, ciascuna di esse possedeva una

certa caratteristica, e il fatto di sapere quale fosse poteva salvarti la

vita. «Una pallottola non è un fottuto tafano, non ti ronza attorno.

Una pallottola segue una traiettoria in linea retta.» Se si sapeva

qualcosa sull’arma dell’avversario, spesso si aveva una frazione di

secondo per decidere da quale direzione era più probabile che arrivasse

il proiettile, e gettarsi dalla parte opposta. «Ti accorgi che impugna

una rivoltella, magari. Ma tu la sai lunga, sai che tutte le rivoltelle

deviano, almeno un po’, a destra, anche se l’altro è un fottuto

campione. E allora, schivi sulla destra. Se non sei furbo, schivi sulla

sinistra, e quello ti becca. Proprio qui. Tombola!» A questo punto,

Dave appoggiava l’indice tra gli occhi di Avner.

L’altra cosa importante consisteva nel conoscere la propria arma,

naturalmente. Il giorno che il vecchio ex marine permise loro di

impugnare una pistola vera, Avner constatò con stupore che le armi

distribuite loro da Dave erano piccole semiautomatiche Beretta calibro

22. Be’, forse servivano solo per esercitarsi nel tiro al bersaglio.

«No. Nel vostro lavoro, l’arma che userete è questa. Definitivamente.»


Come spiegò Dave, nello speciale lavoro di un agente la portata

e la forza di penetrazione di un’arma da fuoco contavano meno della

sua precisione, silenziosità e facilità di occultamento. A quanto

pareva, questa filosofia, e in modo specifico l’adozione della Beretta, (nota


1),

calibro 22, rappresentavano il contributo originale di Dave

all’armamento degli agenti operativi del Mossad. Prima del suo avvento,

gli agenti israeliani usavano pistole in dotazione all’esercito

e alla polizia, di calibro assai maggiore, come il 32, il 38 e persino il

45. «Mi fanno: che roba è questa ventidue? Ci vuole un’arma più

grossa!» raccontò Dave. «E io faccio: fidatevi di me. Non ci vogliono

grossi calibri.»

Dave aveva persino insistito sull’opportunità di ridurre la carica,

cioè la quantità di esplosivo contenuto nelle cartucce. Ne conseguiva

che le piccole 22 avevano una rapidità di tiro e una portata

persino inferiori alla norma. D’altro canto, producevano solo un

leggero schiocco, una specie di sbuffo, quando sparavano. Non

c’era bisogno di silenziatore. Era anche possibile far fuoco nella cabina

pressurizzata degli aerei con minor rischio di perforare la parete

di alluminio e scatenare la reazione nota come decompressione

esplosiva, capace di mandare letteralmente in briciole un aereo, che


rendeva proibitivo l’uso di altre armi da fuoco all’interno di un moderno

jet.

«Siete preoccupati, è troppo piccola?» domandava Dave. «Volete

un’arma grossa? Il vostro nemico è forse un elefante? Il vostro

nemico è forse un carro armato? Se il vostro nemico è un carro armato,

non c’è pistola grossa abbastanza, ci vuole il bazooka. Ma se il

vostro nemico è un uomo, una piccola pistola basta.»

Né Dave aveva la pazienza di stare ad ascoltare l’obiezione secondo

cui la 22 non aveva una portata sufficiente, cosa che sembrava

preoccupare parecchi degli uomini provenienti dalle file

dell’esercito. I compiti dell’agente operativo erano diversi. Nel suo

mestiere, l’addestramento fornitogli dall’esercito era peggio che

una totale mancanza di addestramento, dal punto di vista di Dave.

Gli uomini addestrati dall’esercito a diventare tiratori scelti si


arrampicavano

su un albero e beccavano il nemico da un paio di chilometri

di distanza. L’esercito addestrava i soldati a sparare parecchie

raffiche ogni volta che tiravano il grilletto. «Accidentaccio,

mettiamo il caso che tu sia un bravissimo agente operante a Londra»

diceva sarcastico Dave «magari vorresti un bel mitra, un Heckler

e Koch, un’ottima arma, che spara un proiettile al secondo.


Qualcuno ti guarda male, e tu fai una strage nella metropolitana.»

L’esercito, o anche la polizia, insegnava agli uomini a infilare

una cartuccia nell’otturatore, mettere la sicura, e avanzare, arma in

pugno. Dave diceva lasciate perdere la sicura, non esiste. Non è in

grado di impedire a una pistola di sparare accidentalmente - se vi

cade di mano, ad esempio - però potrebbe impedirvi di tirare il grilletto,

il giorno che fosse necessario. Non mettete il proiettile in canna,

invece. Non impugnate l’arma, a meno che non abbiate intenzione

di sparare. Imparate a estrarre la pistola e a tirare indietro la

slitta in cima alla canna, che serve in pari tempo a mettere il colpo in

canna, usando tutt’e due le mani. Esercitatevi milioni e milioni di

volte. Esercitatevi finché non sarete in grado di farlo anche nel sonno,

con un solo movimento, fluido e spontaneo. E quando l'avrete

in pugno, sparate. Non estraete mai la pistola senza sparare. È a

questo che serve.

«Non sei un maledetto sbirro» faceva notare Dave. «Sei un

agente segreto. Quando tiri fuori la pistola, buono a nulla che non

sei altro, sei bruciato. Non tirar mai fuori la pistola a mo’ di avvertimento.

Per piacere, signore, faccia il bravo. No. Se tiri fuori la pistola,

devi sparare. E se spari, lo fai per uccidere.»


Era questa la lezione principale, ripetuta all'infinito. Tira fuori

la pistola per sparare, e spara solo per uccidere. Se un rapinatore

vuole portarti via il portafogli, daglielo. Dagli le scarpe, dagli la camicia.

Lascia che ti prenda a cazzotti, che ti insulti. Però, se per un

motivo qualsiasi, non puoi dargli quel che cerca... ammazzalo. Non

tirar mai fuori la pistola come semplice minaccia. Non sparare mai

alle gambe. Non sei un poliziotto: sei un agente segreto. Ti pagano

perché eviti di farti scoprire. È questo il tuo lavoro, prima di ogni

altra cosa.

E se tiri il grilletto, tiralo sempre due volte. Su questo, Dave era

addirittura fanatico. Era una cosa importante quanto il salto con la

corda. Era la pietra angolare dell’uso delle armi da fuoco, di qualsiasi

genere, ma soprattutto della 22. Come spiegava l’ex marine, non

si riesce a tenere la mano esattamente nella stessa posizione se si fa

una pausa dopo avere sparato. Questo, per quanto ci si eserciti.

Nessuno può fare a meno di spostare almeno un tantino la mano,

magari inconsciamente. Se la prima volta si colpisce il bersaglio, facendo

una pausa la seconda volta lo si manca.

Se invece si tira il grilletto due volte di seguito, in rapida successione,

comunque sia, se la prima volta la mira è giusta, si colpisce il


bersaglio anche la seconda. Se però la mira è sbagliata, non ha importanza

che si manchi il bersaglio due volte o una soltanto. Se si

manca il bersaglio, si può sempre correggere la mira e sparare altri

due proiettili. Sempreché se ne abbia il tempo. Due, però. Sempre

due. Ogni volta che tiri il grilletto, tiralo due volte.

«Ricordalo» diceva Dave. «Ricordalo anche dormendo. Sempre

pfum-pfum. Mai soltanto un dannato pfum. Non va bene. Devi fare

pfum-pfum anche nel sonno.»

Una volta, vari anni dopo aver terminato il corso di addestramento

di base, Avner s’imbatté in Dave in via Jabotinski, a Tel

Aviv. «Sei proprio tu?» fece allegramente il vecchio americano.

«Come ti va? Ricordi sempre di fare pfum-pfum? Bada a non scordartene!»

Avner non se ne scordò mai.

Non aveva una gran mira, ma continuò a esercitarsi, da bravo,

coscienzioso Yekke, finché non ottenne risultati soddisfacenti.

Non fu mai il migliore del gruppo - per questo ci voleva un occhio,

un senso del ritmo, che Avner proprio non possedeva, ma era risoluto

ad arrivare fin dove poteva portarlo la pura forza di volontà. E

ci arrivò. Imparò a non estrarre la pistola troppo presto durante le

esercitazioni - «Che ti credi, di lanciare un missile intercontinentale,


forse?» era il commento di Dave in un caso del genere - ma imparò

anche a superare la paura di trovarsi troppo lontano e mancare

il bersaglio. «Sicuro, se lo sfiori con la canna non puoi mancarlo, ma

il nemico ti tirerà un calcione, mandandoti a gambe all’aria», era la

reazione di Dave a un errore del genere, solo che non ebbe mai occasione

di dirlo ad Avner. O almeno, di ripeterglielo una seconda

volta.

Lo stesso valeva per le altre materie. Fotografia. Comunicazioni.

Esplosivi - nel caso specifico, ad Avner occorse un addestramento

minore che a certi altri, perché aveva già fatto pratica al suo

reparto. I commandos dovevano conoscere i fondamenti della demolizione,

rientrava nei loro compiti. Non che Avner fosse capace

di fabbricare o disinnescare una bomba - eccetto, forse, una di tipo

molto semplice. Tutto ciò che un normale agente operativo doveva

saper fare consisteva nel piazzare, armare e attivare un congegno

esplosivo. E fin qui, era una cosa semplicissima. Era tutto prefabbricato:

il detonatore, il trasmettitore, la carica al plastico. Ne bastava

una manciata per far saltare lo sportello di una cassaforte, ma

non occorreva neppure maneggiarlo con eccessiva prudenza. Si poteva

lasciarlo cadere, pestarlo, persino usarlo per spegnerci sopra la


sigaretta, era molto stabile. L’unica cosa che si doveva imparare era

il modo di plasmarlo, di dargli la forma voluta, e lo si poteva persino

dipingere con un qualsiasi colore, e poi ficcarlo nel detonatore e collegare

i fili. Il rosso col rosso, l’azzurro con l’azzurro. Semplicissimo:

impossibile sbagliare.

Molto più interessanti erano i documenti. Era la materia in cui

Avner eccelleva, forse perché aveva a che fare col sesto senso. Non

la fabbricazione di documenti falsi - perché questo era compito degli

esperti, e non si pretendeva che gli agenti operativi ne sapessero

gran che - ma il loro uso e il fatto di saperli individuare. Era una

scienza sottile, che richiedeva sempre la capacità di tirare le somme.

L’istruttore era un ebreo argentino che si chiamava Ortega. (nota 2). Come

faceva notare Ortega, la sua era una materia che si basava sulla psicologia

più che su ogni altra cosa. Bisognava capire qualcosina in

fatto di scartoffie, e moltissimo in fatto di persone.

Prima di imparare come si ottengono e si usano i documenti falsi,

suggerì Ortega, gli agenti operativi dovrebbero imparare a individuare

le falsificazioni. Sebbene il loro lavoro nelle file del Mossad

non avrebbe mai comportato compiti di controspionaggio all’interno

del paese - di questo si occupava un’altra organizzazione chiamata


Shin Bet, (nota 3), - nei compiti degli agenti segreti poteva rientrare

anche l’attività di controspionaggio fuori dai confini di Israele. Particolare

ancor più importante, il fatto di conoscere gli errori che

commettevano gli altri nell’uso dei documenti avrebbe insegnato

loro a evitare di commetterne di simili.

Ortega, per esempio, consegnava a ciascuno di loro un passaporto,

invitandoli ad apportare qualche piccola modifica a una pagina

qualsiasi, come cancellare delicatamente un’annotazione con una

lametta, sostituendovene un’altra. «Fatelo ciascuno su una pagina

diversa» ordinava loro «e quando mi ridarete il passaporto non ditemi

su quale pagina siete intervenuti.»

Lo fecero, e scoprirono che Ortega era subito in grado di dire

quale pagina avevano tentato di alterare, semplicemente lasciando

che i passaporti si aprissero da soli sul palmo delle mani. I passaporti

si tradivano, perché si aprivano invariabilmente in corrispondenza

della pagina sulla quale gli aspiranti falsari avevano lavorato di buona

lena durante l’ultima ora. Era logico che la rilegatura si piegasse

sempre in quel punto.

«Ma mentre lascio che il passaporto si apra» disse Ortega «non

lo guardo. Guardo voi.»


Questo perché qualsiasi passaporto, anche non alterato, con

tutta probabilità si sarebbe aperto in corrispondenza di quella pagina.

Il che, in sé, non avrebbe significato nulla, senza un battito di

ciglia della persona cui era intestato. E ciò era il massimo che ci si

potesse aspettare, un battito di ciglia, dal momento che quasi certamente

un agente nemico non sarebbe crollato, scoppiando in singhiozzi.

Ma anche un battito di ciglia poteva esser privo di significato,

o magari voler dire qualcosa che non aveva niente a che fare

con ciò che interessava all’altro. Magari quel tale tentava solo di

contrabbandare sigarette. Ed era qui che entrava in ballo il sesto

senso. Non si poteva essere un buon agente senza avere un sesto

senso, che si cercasse di individuare documenti falsi o di servirsene.

Per quanto riguardava Avner, era proprio in questo che consisteva

la bellezza del mestiere di agente operativo. Richiedeva esattamente

quelle doti di cui Avner abbondava. Vero, a volte era necessario

possedere capacità in materie temutissime come la matematica

e le scienze; parte dell’attrezzatura era incredibilmente sofisticata,

soprattutto nel campo delle comunicazioni. C’erano congegni

per mantenere la segretezza delle conversazioni radiotelefoniche

e dispositivi per decifrarle. Trasmettitori capaci di sparare un


messaggio di un’ora in un’unica raffica. Avner ebbe il suo da fare a

imparare anche solo i fondamenti della codificazione e decodificazione.

I tamponi da usarsi una sola volta sarebbero sempre rimasti

un mistero per lui. E i computer. La sua abilità mnemonica era scarsissima

e la capacità di coordinamento fisico appena passabile. Persino

il suo modo di guidare era più avventato che esperto, così come

la sua capacità di esprimersi in inglese e in tedesco. Era in grado di

afferrare il quadro generale abbastanza in fretta in ogni materia, ma

non aveva la pazienza di occuparsi dei particolari.

Ma, e questo era l’importante, nelle file del Mossad c’era spazio

anche per chi non possedeva doti specialistiche. Avevano a disposizione

una quantità di genii delle segnalazioni o di maghi della chimica,

ben felici di passar la vita tra le quattro mura di un laboratorio

a fabbricare inchiostro simpatico. E avevano bisogno anche di gente

che sapesse cogliere il quadro complessivo della situazione. Uomini

e donne come Avner, che magari non erano particolarmente

abili in un unico settore, ma sapevano tirare le somme.

E nel tirare le somme, Avner eccelleva. A volte, era come se una

voce interiore gli sussurrasse: lascia perdere questo, sta invece attento

a quest'altro. Che avesse a che fare con scartoffie o con persone,


era in grado di cogliere i più piccoli segni quasi inconsciamente.

Tanto per fare un esempio, il passaporto belga durante una delle lezioni

pratiche. Non avrebbe saputo dire, lì per lì, che cosa non andasse

nel documento - i visti sembravano autentici, i bolli non stingevano

a sfregarli, non si notava niente di strano nello spessore della

carta, osservandola controluce - però Avner sentiva trillare un

campanello d’allarme nella testa. Doveva decidere in meno di trenta

secondi, come accade in un aeroporto vero, se trattenere il passeggero

o fargli cenno di passare. Tornò a guardare il passaporto e,

ma sicuro... la foto! Le piccole graffette metalliche che la trattenevano

erano debitamente arrugginite, come è logico che fossero in

un passaporto vecchio di due anni, portato in tasca, a contatto col

sudore del corpo, ma le macchioline di ruggine sulla pagina a fronte

non combaciavano. Non succedeva mai nel caso che la foto fosse

stata sostituita; era impossibile rimettere le graffette esattamente

allo stesso posto di prima.

Avner era bravo anche nell’arte dell'esplorazione, come veniva

definita la necessità di stare all’erta per scoprire un qualsiasi particolare

insolito. Per questo non esisteva un corso a se stante, perché

la prontezza di riflessi fisici era considerata un requisito costante in


ogni agente. L’esplorazione consisteva semplicemente nell’usare gli

occhi, un po’ come il faro di un radar, per scrutare l’ambiente in cui

ci si trovava, a intervalli frequenti. Mai permettere alla propria attenzione

di fissarsi su un’unica cosa per più di qualche secondo.

Perché ciò diventasse un’abitudine radicata, ventiquattr’ore su

ventiquattro, gli istruttori tendevano impreviste trappole agli allievi,

nei momenti e nei luoghi più impensati, ivi comprese le'passeggiate

fuori servizio per le strade di Tel Aviv. Veniva insegnato loro

a servirsi di tutte le superfici riflettenti - vetrine di negozi, portiere

di automobili - a mo’ di specchi, in modo da essere continuamente

avvertiti di ciò che accadeva attorno a loro, ma senza lasciar capire

che avessero notato alcunché.

L’esplorazione diventava un’abitudine vita natural durante per

la maggior parte degli agenti, e, come risultato, Avner in breve notò

qualcos’altro: che poteva anche tradire chi la praticava. Gli agenti,

per esempio, sorridevano di rado. In effetti, nella maggior parte dei

casi avevano volti insolitamente inespressivi. Era molto difficile

esplorare di continuo con lo sguardo l’ambiente circostante senza

immobilizzare gli altri tratti del volto. Era un’ennesima piccola cognizione

che Avner immagazzinò nel suo subconscio e che gli sarebbe


tornata utile in futuro.

L’osservazione, non solo di ciò che poteva toccarlo subito da vicino,

ma anche di ogni elemento in cui s’imbattesse, era al centro

dell’addestramento di un agente operativo. Questa nozione fu ripetutamente

sottolineata, forse più di ogni altra cosa, durante i sei

mesi che Avner trascorse sotto la cupola a fungo. Le frequenti puntate

degli allievi nell’ambiente circostante riguardavano per l’appunto

l’osservazione dei fatti. Prendi l’autobus per Haifa, stattene

seduto nell’atrio di un albergo fino alle quattro del pomeriggio, poi

torna a raccontarci che cosa hai visto. Non trascurare niente. Non

operare scelte, non decidere tu che cosa fosse importante e che cosa

non lo fosse. Limitati a riferire tutto quel che ricordi - e ricorda tutto

quanto.

Ciò, naturalmente, richiedeva memoria e pazienza, che non

erano le doti peculiari di Avner, però gli insegnò moltissime cose

sulla natura umana. Spesso, all’insaputa dell’allievo, ce n’era un altro,

di un diverso gruppo, seduto nell’atrio dell’albergo di Haifa. Se

i due rapporti discordavano in misura notevole, l’istruttore diceva

loro: «Sentite un po’, ragazzi, perché non andate un momento nella

stanza accanto a mettervi d’accordo?».


Di regola, la soluzione era semplicissima: uno dei due allievi si

era stufato, o gli era venuta fame, durante il periodo di osservazione,

e se n’era andato in cerca di una tazza di caffè e di un panino.

Anche gli agenti erano esseri umani, finivano le sigarette, avevano

bisogno di andare al gabinetto, eppure questo fattore spesso non

veniva preso in considerazione dai colleghi di Avner. Taluni possedevano

una vivida immaginazione ed erano inclini a esagerare o

persino a inventarsi le cose. Le esercitazioni pratiche erano intese

non soltanto ad allenare e mettere alla prova le capacità di osservazione,

ma anche a scoprire certi particolari della natura umana degli

agenti. Tendevano a inventarsi o a infiorare le cose? Erano in grado

di distinguere tra osservazione e fantasia? E, se colti in fallo, erano

disposti ad ammetterlo o cercavano di tener duro?

Ciò era d’importanza vitale per un altro settore dell’addestramento,

un settore in cui Avner dava il meglio di sé. Si trattava della

programmazione, consistente nell’organizzare un’operazione per

finta, nello scegliere gli uomini più adatti, nel compilare la lista

dell’attrezzatura necessaria. Da una scelta esatta degli elementi del

gruppo più adatti a svolgere una certa funzione, a seconda della loro

forza, esperienza, personalità, poteva dipendere il successo


dell’operazione.

Come ben presto notarono gli istruttori, Avner prestava attenzione

alla natura e al carattere dei colleghi e distribuiva i vari incarichi

di conseguenza. Ma si spingeva ben al di là dell’ovvio. Se, per

esempio, l’immaginaria missione consisteva nell’introdursi furtivamente

nell’ambasciata di un paese arabo a Roma per metterne fuori

uso l’ufficio comunicazioni, Avner si preoccupava di richiedere

all’agente israeliano di stanza a Roma un rapporto minuto per minuto

delle attività di normale amministrazione dell’ambasciata, relativo

a ogni periodo di ventiquattr’ore, per un’intera settimana.

Tre giorni prima dell’operazione, spediva il suo agente meno brillante,

ma più fidato, a compilare un grafico del traffico in tutte le

strade dei dintorni. Se si presumeva che l’ambasciata fittizia avesse

sede in un appartamento di un palazzo adibito a uffici, Avner assegnava

a se stesso il compito di fingersi un uomo d’affari della Germania

Occidentale, interessato ad affittare un appartamento nello

stesso edificio, in modo da aver accesso alle piantine dei vari piani.

Si sforzava di impiegare il minor numero possibile di persone per

ogni fase dell’operazione. Non s’incaricava mai di istruire personalmente

tutti gli agenti ai suoi ordini, ma assegnava il compito di


istruire gli altri all’elemento più competente e meticoloso di ciascun

settore specifico.

Alla fine, apponeva al suo piano una firma decisa, chiaramente

leggibile. Era fiero del proprio lavoro, e si rendeva anche conto di

quanto fosse importante esserlo. Una volta, guardando i vari piani,

l’istruttore indicò un confuso, illeggibile scarabocchio e disse in tono

sarcastico:

«Guardate. Ecco la firma di un eroe».

Dal punto di vista di Avner, l’istruttore aveva perfettamente

ragione. Meno leggibile era la firma di un agente, e meno fiducia

mostrava nel suo piano. Avner decise di chiedere sempre di vedere

la firma apposta a ogni piano con cui lo avrebbero inviato a compiere

una missione vera. Se fosse riuscito a leggere senza difficoltà il

nome, avrebbe avuto maggiori probabilità di uscirne vivo.

Era tutta questione di psicologia. In ogni settore del suo addestramento,

ciò che più colpiva Avner era sempre ciò che recepiva

come l’aspetto psicologico nascosto dietro l’informazione. Magari

non tratteneva a lungo l’informazione, però ricordava il dato psicologico.

Quanto ai particolari tecnici, avrebbe sempre potuto rivolgersi

a qualcun altro o controllarli con cura; l’aspetto psicologico,


invece, era importante. Gli avrebbe consentito di procurarsi nuove

informazioni.

Avner, per esempio, non avrebbe mai dimenticato una cosa che

l’istruttore disse a proposito dei documenti, un’osservazione buttata

lì senza parere; però l’avrebbe ricordata per sempre.

Esistevano molti tipi di documenti falsi, a seconda della loro

qualità. La gamma andava da una carta d’identità permanente, che

un residente poteva usare per anni, a un documento valido per

un’ora soltanto, magari un passaporto sottratto a un turista nei gabinetti

di un aeroporto, che servisse a far passare il confine a un

agente una sola volta, in caso di emergenza. Ma, disse Ortega, ancor

più importante della qualità del documento è ciò per cui servono;

servono se li si sa usare. Se non si ha fiducia nei propri documenti,

o nella persona che ce li ha dati, si rischia di degradare un documento

d’identità permanente al livello di un passaporto valido

per una sola ora. D’altro canto, se si crede nella sua validità, si può

fare molta strada con una patente rubata.

La psicologia aveva un peso notevole in ogni settore dell’attività

di un agente operativo. Nel caso di un servizio di sorveglianza

da effettuare a Parigi o ad Amsterdam, una giovane coppia avrebbe


attirato meno l’attenzione, diciamo, di un signore tutto solo, con

l’impermeabile, seduto a leggere il giornale al tavolino di un caffè

all’aperto. In Sicilia o in Corsica, invece, poteva avere più probabilità

di successo un uomo solo. Sebbene nella maggior parte del mondo

le coppie anziane siano più credibili come inquilini dei covi, nei

dintorni della Sorbona avrebbe dato meno nell’occhio una giovane

coppia di studenti. E quando ad Avner fu ordinato per la prima volta

di pedinare in automobile un istruttore al volante di un’altra

macchina, si sarebbe aspettato da lui una guida basata su trucchetti

di ogni genere possibile e immaginabile, ma non certo che l’uomo

che stava tallonando da un capo all’altro di Tel Aviv guidasse come

una vecchia signorina, mettendo scrupolosamente la. freccia ogni

volta che doveva svoltare. Questo, almeno finché accennò quasi a

fermarsi a un semaforo col giallo, ma solo per schizzar via come un

proiettile attraverso l’incrocio nel momento in cui si accese il rosso.

Avner non aveva la possibilità di tenergli dietro senza provocare un

incidente. Era un giochetto facilissimo, ma Avner ne fu colpito.

Molti altri allievi si aspettavano di apprendere regole fisse, procedure

esatte. Di regole fisse ce n’erano, ma il fatto di attenersi pedissequamente

al manuale poteva essere l’errore più grave, per un


agente. Non si trattava di un lavoro di routine, ed era proprio per

questo che Avner lo giudicava particolarmente di suo gusto. Il segreto

stava nell’imparare le regole senza esserne vincolato. Era un

lavoro in cui la persona capace di improvvisare e agire sempre in

maniera imprevedibile aveva le maggiori probabilità di arrivare ai

vertici. A differenza dell’esercito, che in definitiva si confaceva ai

burocrati, quello in sostanza era un tipo di lavoro fatto su misura

per gli individualisti. O almeno così riteneva Avner.

Dopo i primi sei mesi, l’addestramento proseguì sul campo. Per

alcuni. Questa fase non fu preceduta da alcun esame ufficiale. Piuttosto,

l’impegno dell’addestramento, giorno per giorno, era stato

una continua prova in base alla quale gli istruttori avevano avuto

modo di valutare le prestazioni dell’aspirante agente. Avner non

aveva idea di chi, nel suo gruppo, fosse stato “promosso” o “bocciato”,

perché questa informazione non fu mai comunicata agli altri. Il

fatto di non rivedere più un collega di corso poteva significare soltanto

che gli era stato affidato un altro compito o che era stato indirizzato

a un settore speciale; ma naturalmente poteva anche significare

che era stato giudicato carente ed escluso dal corso. Gli addestrandi si

scambiavano sempre qualche pettegolezzo in merito, ma


nessuno faceva apertamente domande né otteneva risposte.

Prima di passare alla fase operativa dell’addestramento, Avner

fu invitato a presenziare a una serie di lezioni speciali, che avevano

a che fare con l’elaborazione e la documentazione delle procedure e

fornivano interessanti informazioni tecniche, pur senza riservare

sorprese. Una delle lezioni, tuttavia, fu davvero particolare. Avner

non sapeva se fosse il caso di liquidarla come cosa priva d’importanza

- in un certo senso, fu quasi ridicola - o considerarla una sorta di

fosco presagio per il futuro. Il suo sesto senso ci scorgeva certe somiglianze

con quegli oscuri problemi cui aveva accennato suo padre.

Alla fine, Avner decise di farci su una risata, anche se avvertiva

una punta di disagio.

L’individuo che tenne la lezione aveva un’aureola di capelli

bianchi che lo faceva somigliare a Ben Gurion, pur senza niente di

carismatico nei tratti del viso. Possedeva un viso astuto, da gnomo.

Anche il corpo era da nanerottolo, probabilmente al di sotto del

metro e mezzo di statura, visto che con i piedi non arrivava a sfiorare

il pavimento dalla poltroncina girevole di legno in cui sedeva,

dietro una scrivania incredibilmente ingombra. Aveva le dita macchiate

di nicotina. Gli occhi vivi sbirciarono Avner con espressione


incuriosita da sotto le sopracciglia cespugliose, una delle quali incarnata

fino a mezza fronte in un perenne punto interrogativo. La camicia

costellata di macchie probabilmente doveva essere stata bianca,

in origine. Non era un galiziano come tutti gli altri, decise Avner. Era il
nonno di

tutti i galiziani.

«Così, hai deciso di girare il mondo,» attaccò a dire il galiziano,

«è una splendida idea. Adesso siediti e stammi ad ascoltare. Ho da

dirti alcune cosette.

«Primo, non offenderti per ciò che ho intenzione di dirti. Non è

niente di personale; non ti ho mai visto prima in vita mia. Qual che

adesso ti dirò, lo dico anche a tutti gli altri.

«Vuoi sapere che cosa sono tutti questi libri che tengo sulla scrivania?

Sono libri contabili. Vuoi sapere che me ne faccio? Mi metto

qui a esaminarli perché voglio sapere quanto denaro spendete e

perché.

«Ti dico questo, perché alcuni di voi pensano che si tratti di una

vacanza di lusso, organizzata dallo stato di Israele a vostro uso e

consumo. Ora, io sono qui per ricordarvi che non lo è. Ve lo rammento

solo una volta; lo rammento solo una volta a ciascuno di voi.

Non ho intenzione di ripeterlo. Quel che voglio sono le pezze d’appoggio.


«Voglio le pezze d’appoggio per ogni soldino che spenderai in

servizio. Se devi prendere un tassì, benissimo, presentami la ricevuta.

Se devi noleggiare un’imbarcazione, benissimo, presentami la

ricevuta. Se devi respirare e ciò ti costa soldi, presentami la ricevuta.

Se non lo fai, ciò che avrai speso ti sarà trattenuto a suo tempo

sullo stipendio.

«E se prendi un tassì, sarà meglio che tu debba farlo per servizio.

Perché vorrò conoscere il motivo per cui l’hai preso. Quando ti

è possibile prendere la metropolitana, prendi la metropolitana.

Prendi l’autobus, come tutti gli altri. Va a piedi. Se spenderai soldi,

e a me parrà che non abbia dovuto farlo per servizio, te li detrarrò

dalla paga. Non fraintendermi: se ne hai bisogno per servizio, fa pure.

I tuoi compiti sono qualcosa di speciale; tu, no. Per me, tu non

sei un eroe, qualsiasi cosa tu faccia. Ci trascini qui Hitler ammanettato,

per esempio: dove sono le ricevute? E quell’interurbana era

personale, a chi l’hai fatta, alla tua ragazza? Perché, se è stato così,

te la trattengo sullo stipendio.

«Dico questo perché alcuni di voi credono di lavorare per il barone

Rothschild. Non sono mai contenti di niente. Che cosa posso

dirti? Non lavorate per il barone Rothschild. Lavorate per Israele.


E per quanto concerne il denaro, lavorate per me.»

Il galiziano s’interruppe e piegò la testa di lato, sbirciando il volto

di Avner.

«Per favore, non tenermi sulla corda» disse. «Se non mi sono

spiegato chiaramente, dimmelo.»

Avner si alzò.

«Ti sei spiegato chiaramente» rispose. Ma pensava: che cosa

pretendi? La gente giudica sempre in base ai propri metri di misura.

Quel vecchio ganef galiziano con tutta probabilità avrebbe rubato

tutto ciò che era asportabile. E logicamente supponeva che lo stesso

avrebbero fatto tutti gli altri.

Solo che, per quanto riguardava Avner, si sbagliava. E si sbagliava

non solo su Avner, ma anche sulla maggior parte degli altri. Il

tipo di gente che si riprometteva di rubare — lasciamo perdere rubare,

diciamo far soldi — non accettava un incarico dove c’era da

sgobbare ventiquattr’ore al giorno per 650 lire israeliane. Era

un’assurdità.

L’unica serie ufficiale di esami cui dovettero sottostare prima di

essere inviati in missione erano test psicologici. I capoccioni evidentemente

erano curiosi di sapere quale fosse la molla che li faceva


agire. Nonostante le continue battute di spirito - tipo: solo un matto

può fare una cosa del genere, e così via - era chiaro che quasi tutti

gli allievi del corso si consideravano persone perfettamente normali.

Gli altri... be’, ce n’era qualcuno un tantino eccentrico. Ma lo

scopo dei test psicologici pareva diverso. Avner aveva sempre l’impressione

che certe prove andassero un tantino aggirate per consentirgli

un esito soddisfacente.

Non gli esami di resistenza, che non presentavano trabocchetti.

A parere di Avner, avevano anche un significato preciso. Era interessante

scoprire se sarebbe stato in grado di risolvere un problema

matematico, cosa in cui non eccelleva neppure quand’era al meglio

delle sue forze, dopo ventiquattr’ore senza mangiare e senza dormire.

E il fatto di scoprire che non solo era in grado di farlo, ma anche

di farlo un po’ più rapidamente e un po’ meglio, lo affascinava e


gratificava.

C’erano altri tipi di prove, però, in cui bisognava andare a naso.

Avner doveva prima percepire che cosa volevano da lui e poi cercare

di darglielo, che coincidesse o meno con le sue opinioni personali.

La cosa principale, a quanto gli sembrava, era che il Mossad non vedeva

di buon occhio il fatto che un agente possedesse certe qualità.

Proprio quelle qualità senza le quali Avner non avrebbe potuto, e


probabilmente neppure desiderato, diventare un agente. Per quanto

folle ciò potesse sembrare.

Il suo sesto senso, per esempio, gli diceva che il Mossad non

avrebbe proprio saputo che farsene di John Wayne. E neppure del

ragazzino olandese. Per essere più esatti, avrebbe gradito di John

Wayne l’aspetto che lo rendeva capace di conquistare tutto da solo

una città popolata di gentaglia, ma non quello che lo aveva in primo

luogo indotto a cercare l’occasione per farlo. Il Mossad odiava gli

eroi. Se “odiare” era eccessivo, sicuramente non li aveva in simpatia

e non se ne fidava. Avner intuiva che il Mossad non voleva aver

a che fare con gente che si appassionasse al suo lavoro oltre certi limiti.

Pareva addirittura contrario all’idea che i suoi agenti nutrissero

sentimenti troppo intensi verso il nemico. Un allievo del corso, per

esempio, un ebreo di Alessandria d’Egitto, dava prova di un certo

fanatismo nei confronti degli arabi - e la cosa non era sorprendente,

dato che una loro banda aveva ucciso tutti i componenti della sua

famiglia, nel 1949. Ma Avner si accorgeva, a giudicare dalle occhiate

degli istruttori, che l’alessandrino non avrebbe fatto molta carriera

in seno all’organizzazione.

L’agente ideale, dal punto di vista del Mossad, doveva essere


preciso, fidato e silenzioso come una macchina perfettamente funzionante.

Su un certo piano, non doveva manifestare maggior entusiasmo

per il suo lavoro di quanto potesse manifestarne un circuito

integrato o una bussola. Le sue prestazioni non dovevano dipendere

dai “sentimenti” che provava per l’incarico affidatogli, anche se

non doveva essere affatto stupido o insensibile. In tal caso, non sarebbe

stato capace dell’inventiva né della lealtà necessaria in quel

lavoro. Doveva essere un fervido patriota, ma senza ombra di fanatismo.

Doveva essere una persona molto sveglia, ma senza un’idea

in testa. Doveva essere uno scavezzacollo e un ragioniere, accomunati

nella stessa persona. Per farla breve, doveva riunire in sé qualità

che ben di rado sono presenti nello stesso essere umano, anche

ammesso di trovarle.

Per quanto riguardava Avner, era un sogno a occhi aperti. Lui

non era certo fatto così. E a quanto poteva giudicare non lo erano

neppure gli altri allievi del corso di sua conoscenza. I quali erano...

be’, per essere sinceri, erano tutti diversi, proprio come i comuni

mortali che s’incontravano per le strade di Tel Aviv. Erano buoni

patrioti, certo, ma chi non lo era in Israele, soprattutto nel 1969? E

tuttavia, se gli psicologi del Mossad volevano che lui fosse una persona
del genere, be’, li avrebbe accontentati. Avrebbe trovato a fiuto

le risposte giuste. Non c’era test psicologico capace di intromettersi

fra lui e la vita colma di sfide di un agente segreto.

E poi, Avner sapeva che non si sarebbero mai pentiti di averlo

scelto, quali che fossero i loro sentimenti verso John Wayne. Sarebbe

diventato l’agente più in gamba che avessero mai avuto. Avrebbe

salvato Israele mille volte, e nessuno ne avrebbe mai saputo

niente. Quando, dopo molti anni di esemplare servizio, il primo ministro

gli avrebbe scritto una lettera personale di ringraziamento,

avrebbe potuto mostrarla a sua madre. «Che cos’hai fatto?» avrebbe

esclamato lei, e Avner si sarebbe limitato a rispondere: «Oh, non

posso proprio dirtelo. Ma è stata una cosa da nulla».

In definitiva, naturalmente, Avner non ebbe modo di sapere se

era riuscito a menare per il naso gli psicologi del Mossad oppure no.

Forse non avevano visto il ragazzino olandese che si nascondeva

dentro di lui, o magari sì, ma la cosa faceva loro comodo. Comunque

fosse, gli permisero di mettere le ali. Alla lettera. La sua prima

destinazione per l’addestramento sul campo fu sotto la copertura

dell’El Al, la compagnia aerea in cui avrebbe potuto entrare se

l’amico di sua zia gli avesse offerto un lavoro in tempo. Divenne


una specie di sceriffo dei cieli, cioè una delle guardie responsabili

della sicurezza a bordo degli aerei.

Altri avrebbero potuto giudicarlo un inizio dal gradino più basso.

Per Avner, a quel tempo, era un sogno che si avverava. Anche se

non faceva il pilota, gli era pur sempre permesso di volare. Sarebbe

stato meraviglioso, anche se il jet si fosse limitato a decollare e a fare

un giro sopra l’aeroporto. Ma il jet fece molto di più. Volò da un capo

all’altro del mondo. Nel giro di qualche mese, Avner visitò in aereo,

a spese del governo, molte delle principali città europee.

Sebbene lo addestrassero per fare di lui un agente segreto, in un

primo momento nei suoi compiti non rientrò la raccolta di informazioni.

O almeno non di informazioni segrete del genere che la gente

collega con le attività di spionaggio. A quanto Avner poteva constatare,

ce n’erano ben poche di spie infiltrate in posizioni governative

chiave o incaricate di fotografare segreti militari. Solo qualche vera

spia come il leggendario Eli Cohen, (nota 5). mentre la maggior parte degli

agenti sembrava fare esattamente ciò per cui Avner veniva addestrato.

Ciò che si chiedeva di fare ad Avner, a parte l’incarico di guardia

del corpo dei passeggeri e dell’equipaggio del volo El Al, consisteva

nella sorveglianza clandestina dei luoghi pubblici. Logicamente,


era tenuto a inoltrare rapporti particolareggiati su quanto

aveva osservato. A Parigi, per esempio, trascorreva l’intera giornata

all’aeroporto di Orly. Studiava l’aeroporto, prendendo nota di

chi entrava e di chi usciva. Descriveva minuziosamente il tipo di

veicoli di servizio che avevano accesso alle piste. Annotava la collocazione

delle telecamere a circuito chiuso, e se, a suo modo di vedere,

erano vere o fasulle. Fingendo di riprendere con la cinepresa

qualche hostess, filmava il cambio dei turni di servizio in vari punti

della dogana e del controllo passaporti.

A Roma, Londra o Atene, passava una mattinata o un pomeriggio

davanti a una certa ambasciata, sovietica o di un paese arabo.

Gli si chiedeva di non dare nell’occhio, anche se era affar suo trovare

la maniera di riuscirci. Nelle località turistiche, la cosa più giusta

da fare era starsene seduto a un tavolino di caffè - il sesto senso aveva

sempre messo in guardia Avner contro l’opportunità di adottare

complicati travestimenti - mentre a Londra appariva perfettamente

normale portare a spasso un cane nel parco di fronte a una delle

ambasciate. Una volta, a Roma, noleggiò un camion, piazzò un cartello

di deviazione stradale e prese a trafficare attorno a un tombino

in una traversa nei pressi dell’ambasciata libica.


A volte gli chiedevano semplicemente di riferire in merito alle

persone che entravano e uscivano dall’ambasciata e di prendere il

numero di targa delle automobili che arrivavano o parcheggiavano

nelle vicinanze. Più spesso, però, gli ordinavano di imprimersi nella

mente una faccia di cui gli veniva mostrata la fotografia e di riferire

se aveva visto o meno l’individuo in questione entrare o uscire

dall’ambasciata. Avner non era tenuto a pedinarlo, ma soltanto a

passargli vicino quanto bastava a identificarlo senza possibilità di

dubbio.

Ma c’erano volte in cui il mestiere al quale si stava addestrando

non differiva molto da una mansione di tipo impiegatizio. Sbrigare

commissioni, pagare gli informatori, o, come gli accadde in un secondo

tempo, affittare covi con una ragazza a Londra. Dovevano

assicurarsi che le abitazioni fossero situate in prossimità di almeno

due autostrade importanti, e sempre ben fornite di provviste. Si

fingevano una coppia di giovani sposi quando le affittavano, in vari

quartieri borghesi. La ragazza abitava in pianta stabile a Londra, a

un diverso indirizzo, dove teneva le chiavi degli appartamenti che

affittavano, come prescritto dal regolamento.

Avner svolgeva tutti i compiti affidatigli con scrupolo ed entusiasmo.


Sinceramente, li trovava interessanti. Quando veniva a sapere,

come gli capitava di tanto in tanto, che un collega seguiva corsi

specialistici di comunicazioni, fotografia o lingue, evidentemente

in vista di un’infiltrazione ad alto livello, di un soggiorno all’estero

a lungo termine o di una più complessa attività di raccolta delle


informazioni,

non gli passava neppure per la mente l’idea di provare

invidia. E chi aveva voglia di seguire corsi specialistici sulla falsificazione

dei documenti o la fabbricazione delle bombe, quando aveva

la possibilità di visitare ogni settimana una metropoli diversa? Se

glielo avessero ordinato, avrebbe fatto del suo meglio per ottenere

buoni risultati in un qualsiasi corso specialistico, però era contentissimo

che lo lasciassero in pace, seduto in un caffè di Roma o a consegnare

plichi a Parigi. Avner calcolava che, con la paga che gli davano,

gli ci sarebbe voluto un anno per metter da parte i soldi sufficienti

a pagarsi uno solo dei viaggi che faceva ogni settimana.

Ormai era diventato una specie di maniaco in fatto di ricevute.

Lo sarebbe stato comunque - dopotutto era uno Yekke, un tipo meticoloso

- ma l’incontro col progenitore di tutti i galiziani nelle viscere

del Mossad lo induceva a pensarci non due ma tre volte, prima

di spendere un centesimo del governo. E non perché avesse paura


del vecchio galiziano, ma perché non voleva dargli la soddisfazione

di coglierlo in fallo o di mettere in dubbio la legittimità di qualche

sua spesa. Piuttosto, Avner avrebbe preferito pagare di tasca sua

persino in servizio, e qualche volta lo fece. Poi ci fu una volta, a Parigi,

che per sbaglio lasciò cadere lo scontrino di cassa di un bicchiere

di succo di ananas e si mise a cercarlo tra i piedi dei turisti seduti

ai tavoli del caffè affollato, di fronte all’ambasciata di un paese arabo.

“Come un perfetto idiota” pensò tra sé e sé. “Meno male che il

nemico non sa che i galiziani mandano avanti il Mossad. Potrebbero

scoprire gli agenti israeliani semplicemente cercando di individuare

tutti quelli che tentano disperatamente di recuperare uno

scontrino da cinque franchi! ”

In un certo senso, era come rivivere l’esperienza del kibbutz.

Lui era uno Yekke in mezzo ai galiziani, anche se la cosa non lo

preoccupava più di tanto. In realtà, il fatto di essere uno Yekke


probabilmente

era un vantaggio nel Mossad. Al kibbutz, i galiziani non

avevano realmente bisogno di lui: sapevano fare tutto quanto meglio

da soli. Ma lì, soprattutto tra gli agenti operativi in missione in

Europa, il fatto di avere dalla propria uno Yekke in più non guastava.

Per quanto svegli e coraggiosi, i galiziani non si confondevano


facilmente con l’ambiente circostante. Con quei modi e quegli
atteggiamenti

tutti particolari, l’assimilazione era il loro punto debole.

E poi c’era il problema della lingua. Sebbene Israele fosse, nel

complesso, una società poliglotta, i giovani sabra figli o nipoti di

ebrei dell’Europa Orientale di rado parlavano correttamente le lingue

straniere. Gli Yekke avevano maggiori probabilità di masticare

il tedesco o il francese quanto bastava per farsi passare per gente del

posto, ed erano meno propensi a calzare scarpe da ginnastica con gli

abiti da passeggio. (nota 6)

Avner si sentiva sempre a suo agio in Europa, molto più di

quanto si fosse mai sentito a suo agio in Israele. Andare a far compere,

attraversare una strada, ordinare da mangiare al ristorante,

chiamare un tassì alla maniera europea, tutto si confaceva ai suoi

gusti. Il modo di vestire o di salutare della gente, il modo in cui le

donne ricambiavano i suoi sguardi, coincidevano con la sua idea di

come avrebbero dovuto essere o comportarsi gli esseri umani. Anche

se non imparò quasi niente dell’arte, dell’architettura o della

storia di Parigi o di Roma, sapeva tutto sugli alberghetti economici

ma puliti, sui negozi dove si comprava meglio e sui tragitti più brevi

per raggiungere gli aeroporti. Si fece una cultura sui caffè e i locali
notturni frequentati dai turisti. Divenne un esperto in fatto di orari

ferroviari, tariffe postali e ricordini a buon mercato. E soprattutto

era felicissimo di trovarsi in un’indaffarata, sofisticata città europea.

Gli piaceva l’aria.

Come se non bastasse, a differenza della maggior parte degli

ebrei nati in Israele, Avner aveva un contatto personale in Europa.

Il suo più caro amico d’infanzia, ai tempi della scuola a Francoforte.

Andreas.

A dire il vero, in occasione del suo primo viaggio a Francoforte

neppure pensò ad Andreas. La cosa non deve sorprendere: negli undici

anni trascorsi erano accadute talmente tante altre cose - il kibbutz,

la guerra dei Sei Giorni, il Mossad - che, a parte il ricordo del

nonno, Avner aveva pensato a Francoforte solo in termini geografici.

Ma durante il volo di ritorno a Tel Aviv si ricordò di Andreas, e

in occasione del viaggio successivo lo cercò nella guida del telefono.

Il nome di Andreas non figurava nell’elenco, ma quello dei suoi

genitori sì. Apparentemente non sapevano, o forse non volevano,

dire ad Avner dove potesse trovarlo, ma gli diedero il numero di

una ragazza, sua amica. La giovane donna si mostrò molto fredda al

telefono e negò addirittura di conoscere Andreas.


Avner, o il suo sesto senso, ribatté: «Senta, forse mi sono sbagliato,

ma sto all’Holiday Inn, camera 411. Mi tratterrò a Francoforte

ancora per un giorno».

Andreas lo chiamò verso mezzanotte. Era strabiliante: riuscivano

a discorrere come se fosse passato solo qualche giorno dall’ultima

volta che si erano parlati. Si diedero appuntamento per il giorno

dopo in un caffè all’aperto di Goethe Platz. Avner arrivò con dieci

minuti di anticipo. Era una precauzione del tutto normale, anche se

in fondo doveva incontrarsi solo con un amico d’infanzia. Sii sempre

in anticipo, per non avere brutte sorprese. Ma una sorpresa, e

grossa, l’ebbe.

Dal posto dove sedeva, Avner riconobbe Andreas non appena

girò l’angolo, una trentina di metri più in là. Non come l’amico

d’infanzia, però. Lo riconobbe come uno dei soggetti fotografici

che gli avevano mostrato perché se li imprimesse bene nella mente.

Un terrorista tedesco di secondo piano. Un ex studente, ora affiliato

alla banda Baader-Meinhof. Un piccolo ingranaggio, non certo

un personaggio di spicco.

Avner osservò Andreas fermarsi, esitare e mettersi a scrutare le

facce degli uomini seduti ai tavolini all’aperto. Lasciò che continuasse


a guardare per qualche istante ancora, mentre cercava di

metter ordine nei suoi pensieri.

Poi Andreas posò lo sguardo su di lui e si avvicinò.

«Avner?» domandò sottovoce.

Avner aveva deciso. Si alzò, abbozzò un largo sorriso e batté la

mano sulla spalla dell’amico come ai vecchi tempi. Era un colpo di

fortuna, e solo uno sciocco non se ne sarebbe reso conto.

Andreas lo conosceva solo col nome che portava da ragazzo, un

nome che Avner aveva cambiato sotto le armi, come tutti quelli del

suo reparto. (nota 7). In ogni caso, non avrebbe rivelato ad Andreas la sua

vera occupazione, e neppure gli avrebbe detto che lavorava come

sceriffo dei cieli per l'El Al. La cosa più semplice era non dire niente.

Lasciare che fosse Andreas a parlare. Chi poteva dire che genere

di contatti avrebbe potuto stabilire, un giorno o l’altro, tramite lui?

Fu un’idea profetica. Avner non poteva certamente sapere fino a

che punto. In meno di due anni, avrebbe cambiato da cima a fondo

la sua vita.

Ma quel pomeriggio, al caffè all’aperto di Goethe Platz, si limitarono

a bere birra e a rivangare i ricordi. Parlarono dei vecchi tempi,

e basta. Andreas non gli raccontò quasi niente di sé - aveva interrotto


gli studi universitari, disse, e aveva una mezza idea di fare

lo scrittore - e Avner fu altrettanto vago in merito al suo lavoro.

Veniva spessissimo in Europa, spiegò, per conto di una ditta israeliana

di articoli di pelletteria. Al momento di congedarsi, Andreas

gli diede un numero di telefono. Avner avrebbe sempre potuto mettersi

in contatto con lui a quel recapito, o lasciargli un messaggio.

D’allora in poi, Avner non mancò di cercare Andreas ogni volta

che gli capitava di passare per Francoforte. A volte s’incontravano

per bere una birra; altre volte si limitavano a parlarsi per telefono.

Argomento principale delle loro conversazioni erano sempre i vecchi

tempi, quasi fossero uomini di mezza età, non ragazzi di ventitré

anni. Avner intuiva che Andreas si sforzava cautamente di

riannodare.l’antica amicizia; senza forzargli la mano, lo lasciò fare.

Una volta, quando disse ad Andreas che doveva prendere l’aereo

per Zurigo, Andreas gli chiese di impostare una lettera per suo conto

in Svizzera. «È per una ragazza» spiegò ad Avner. «Le ho detto

che sarei andato fuori città.»

Avner prese la lettera e la impostò, senza indagare sul contenuto

o analizzare l’indirizzo. Si trattava di un favore: una specie di lettera

di credito che un giorno avrebbe potuto presentare all’incasso.


Aveva deciso, subito dopo il loro primo incontro, non senza una

certa esitazione, di non informare il Mossad di quel suo contatto.

Non si trattava tanto di un conflitto d’interessi, quanto di qualcosa

che aveva detto suo padre.

Suo padre aveva scoperto la verità sulla sua nuova occupazione

quando Avner aveva appena iniziato l’addestramento. Avner non

gli aveva domandato come fosse venuto a saperlo: poteva darsi che

glielo avessero detto i suoi vecchi-contatti all’interno del Mossad o

che avesse semplicemente tirato certe conclusioni. «Ti piace lavorare

per l’acquedotto?» domandò un giorno ad Avner. Poi soggiunse,

senza aspettare la risposta: «Sei uno stupido. Ma si tratta della tua

vita.»

«È questo il tuo parere?» domandò a sua volta Avner. Suo padre

scosse la testa.

«Non lo apprezzeresti comunque, il mio parere» rispose «sicché

è inutile che ti ripeta come la penso. Però voglio darti un consiglio:

una volta che ti affideranno un incarico, dacci dentro a più non posso.

Attento al regolamento. Cerca di far carriera il più possibile. Ma

non mettere tutte le tue carte in tavola. Tieni sempre un asso nella

manica.»
Così, Avner decise di non dir niente di Andreas. Era la cosa più

sicura. Se qualcuno li avesse visti assieme, e avesse riconosciuto Andreas,

era solo un amico d’infanzia che Avner non aveva collegato

con una foto un po’ nebulosa di un terrorista della banda Baader-Meinhof,

mostratagli dal Mossad. Una negligenza, forse, ma

nient’altro. Un piccolo rischio in cambio di un potenziale jolly da

tenere in serbo in tasca.

I successivi due anni della vita di Avner trascorsero in fretta e

senza eventi degni di nota. Il lavoro continuava a piacergli, e sembrava

che i suoi superiori fossero soddisfatti delle sue prestazioni.

Avner era ancora un agente alle prime armi, estraneo alla raccolta di

informazioni vitali, ma un po’ alla volta gli incarichi affidatigli andavano

crescendo d’importanza. Di tanto in tanto gli ordinavano di

recarsi, usando il passaporto di servizio, in una capitale europea -

Atene o Londra - dove il capo dell’ufficio locale del Mossad gli procurava

un altro passaporto con una diversa identità, magari quello

di un uomo d’affari della Germania Occidentale. Dopodiché, Avner si


serviva di

quel passaporto per raggiungere un’altra città, come

Zurigo o Francoforte. Qui s’incontrava con un agente israeliano

che svolgeva la sua attività in un paese arabo, di regola un ebreo del


Medio Oriente, e il compito di Avner consisteva nell’impartirgli

istruzioni od ottenerne informazioni. Di solito, gli agenti in missione

nei paesi arabi sotto falsa identità non erano tenuti a rientrare in

Israele per ricevere istruzioni. Questo per ridurre al minimo il rischio

che l’agente israeliano fosse visto da agenti arabi, vuoi in

Israele vuoi in Europa, nell’atto d’imbarcarsi su un aereo in partenza

per Israele. Quasi tutti i servizi segreti delle varie potenze mondiali

agivano in questo modo. Si scambiavano i tre quarti delle informazioni

segrete nelle grandi capitali, mete delle folle di turisti.

Avner si costruì in merito una sua teoria alquanto cinica. Per un

breve, furtivo incontro, Birmingham sarebbe stato un posto giusto

al pari di Londra, e Nancy al pari di Parigi, ma... anche le spie erano

esseri umani. Chi aveva voglia di passare una settimana a Nancy

quando poteva trascorrerla a Parigi? Avner non aveva niente da

obiettare in proposito. Era uno dei vantaggi del suo lavoro.

Molti degli incarichi affidati ad Avner in quel periodo erano

connessi, direttamente o indirettamente, con operazioni difensive

contro il terrorismo. Il ciclo terroristico internazionale, e in particolare

anti-israeliano, iniziatosi poco prima che Avner si arruolasse

nel Mossad nell’estate del 1969, si stava rapidamente trasformando


in un dato della vita di tutti i giorni, in molti paesi. Nell’autunno

del 1972 si contavano già più di venti incidenti di portata rilevante,

tutti connessi con le varie organizzazioni terroristiche palestinesi. (nota 8).

Prima dell’autunno del 1972, i terroristi palestinesi diressero

principalmente i loro attacchi contro impianti e trasporti aerei

israeliani, nonché di varie nazioni europee. Il 21 febbraio 1970


quarantasette

persone persero la vita quando il «Comando Generale»,

una fazione del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina,

fece saltare in aria un jet di linea della Stoissair al momento del decollo

da Zurigo. Lo stesso giorno, un’esplosione danneggiò un aereo

postale austriaco in volo per Tel Aviv. Questi attacchi ebbero luogo

solo pochi giorni dopo che un altro gruppo terroristico palestinese

aveva scagliato bombe a mano dentro un autobus dell’El Al all’aeroporto

di Monaco, uccidendo un passeggero e ferendone altri undici,

tra cui una famosa attrice israeliana, Hannah Marron, cui dovette

essere amputata una gamba. Poi, tra il 6 e il 9 settembre dello

stesso anno, cinque aerei furono dirottati dal Fronte Popolare per la

Liberazione della Palestina nel corso di una spettacolare operazione.

Solo un aereo, un Boeing 707 dell'El Al diretto ad Amsterdam,

scampò a tale sorte, quando gli sceriffi dei cieli uccisero un dirottatore
e catturarono la sua compagna, la terrorista Leila Khaled. I terroristi

dirottarono un altro velivolo al Cairo e lo distrussero, mentre

altri tre venivano trattenuti sulla vecchia pista di atterraggio di

Dawson’s Field, in Giordania, assieme a trecento ostaggi, che furono

in seguito rilasciati in cambio dei terroristi palestinesi catturati

precedentemente in Svizzera, Inghilterra e Germania Occidentale.

Per quanto fortunato fosse l’esito di questa operazione, ben

presto i palestinesi ebbero motivo per pentirsene. Nel giro di qualche

settimana, re Hussein di Giordania scacciò tutti i loro gruppi

terroristici dal suo paese, massacrandone un certo numero per ottenere

lo scopo. Ciò, a sua volta, portò alla creazione di Settembre

Nero, forse la più fanatica tra le organizzazioni terroristiche palestinesi.

Il terrorismo, però, non è stata un’invenzione dei palestinesi e

non ebbe certo origine alla fine degli Anni Sessanta. Può accadere

che l’arma del terrore politico sia trascurata per qualche decennio,

per essere riscoperta da una nuova generazione, e molte nazioni e

movimenti, peraltro rispettabili, vi hanno fatto ricorso in un periodo

o nell’altro della loro storia. L’unica nuova scoperta fatta dai

gruppi palestinesi sul finire degli Anni Sessanta è stato il fatto che

Israele, un osso duro se lo si affronta sul suo territorio in una guerra


di tipo convenzionale o con attacchi diretti di guerriglia, in realtà

aveva un punto debole in Occidente. Malgrado le smentite, uno degli

individui che condivisero tale scoperta fu un signore che aveva

studiato ingegneria all’università di Stoccarda, nella Germania Occidentale,

un certo Aba a-Raham (Yasser) Arafat. Benché ufficialmente

non sostenesse la legittimità delle azioni terroristiche fuori

dei territori occupati da Israele, Arafat ben presto iniziò a far ricorso

a tali azioni, prima tramite lo stesso Al Fatah, poi soprattutto impiegando

surrettiziamente Settembre Nero e nel contempo negando

pubblicamente qualsiasi complicità.

Nel 1971 si registrarono i primi attacchi da parte dell’Al Fatah

di Arafat, diretti in un’operazione sperimentale di sabotaggio contro

alcuni depositi di carburante a Rotterdam, poi, come rappresaglia

per il massacro dei palestinesi ordinato da re Hussein, contro

uffici governativi e della compagnia di linea della Giordania al Cairo,

a Parigi e a Roma. Imbaldanzito dai successi di Al Fatah, Settembre

Nero mise in atto la sua prima operazione nel corso di quello

stesso anno. In novembre, i terroristi assassinarono il primo ministro

della Giordania sui gradini dello Sheraton Hotel del Cairo.

Meno di tre settimane dopo, a Londra, spararono all’ambasciatore


giordano, Zaid Rifai, ferendolo.

I terroristi di Settembre Nero ebbero assai meno fortuna nel loro

primo attacco contro Israele. Nel maggio del 1972 tentarono di

dirottare un jet di linea belga a Tel Aviv al fine di negoziare il rilascio

di 317 guerriglieri palestinesi in carcere in Israele. Il numero

dei guerriglieri palestinesi prigionieri salì invece a 319 dopo che i

paracadutisti israeliani presero d’assalto l’aereo e catturarono due

dei dirottatori di Settembre Nero.

Quell’anno le operazioni contro Israele andate a buon fine continuarono

a essere attuate dal Fronte Popolare per la Liberazione della

Palestina, il più collaudato e più numeroso tra i gruppi palestinesi

dediti al terrorismo internazionale, fondato dal dottor George Habash, (nota


9), e

guidato a quel tempo nelle operazioni terroristiche dal dottor

Wadi Haddad. (nota 10). Fu proprio il dottor Haddad a stabilire per primo

legami internazionali in campo terroristico. Il 31 maggio 1971

inviò tre sicari kamikaze dell’Armata Rossa Giapponese all’aeroporto

di Lod, nei pressi di Tel Aviv, dove si misero ad ammazzare

sistematicamente i presenti con bombe a mano e raffiche di mitra

nell’affollato terminal. Il tributo di sangue di questa operazione fu

di ventisei morti e di settantasei feriti, perlopiù, ironia della sorte,


pellegrini cristiani provenienti da Portorico.

Alcuni degli incarichi affidati ad Avner consistevano, letteralmente,

nel bighellonare per gli aeroporti europei, tentando di individuare

eventuali terroristi prima che potessero imbarcarsi su un

aereo in partenza per Israele. Non si trattava di un lavoro di semplice

intuito, anche se poteva somigliargli molto. A volte qualche informatore

faceva una soffiata al Mossad su un’imminente operazione

terroristica, ma era alquanto vago in merito a particolari quali

l’esatto punto d’imbarco, la compagnia aerea presa di mira o il numero

e l’identità dei terroristi. Benché i terroristi fossero spesso

giovani arabi, in teoria avrebbero potuto avere un’età o una nazionalità

qualsiasi. Potevano essere di sesso maschile o femminile, o

costituire un gruppo misto. Potevano anche essere complici involontari.

Non tutte le operazioni terroristiche comportavano il sabotaggio

o il dirottamento dell’aereo. Alcuni terroristi si recavano in missioni

di vario genere entro i confini d’Israele; altri erano incaricati

di reclutare i palestinesi abitanti nei territori occupati per operazioni

di spionaggio o sabotaggio.

Il Mossad abbozzava un profilo di un probabile sospetto: ben

pochi terroristi corrispondevano in tutto e per tutto all’immaginario


ritratto, ma avevano pur sempre qualche tratto in comune.

Dall’interrogatorio dei terroristi catturati, per esempio, il Mossad

riusciva spesso a ricostruire il modo in cui un giovane guerrigliero

palestinese viveva le quarantott’ore immediatamente precedenti la

missione. Una tendenza abbastanza diffusa consisteva nel darsi alla

bella vita, alloggiare in alberghi di lusso e, di frequente, tenersi appena

il denaro sufficiente ad acquistare un biglietto di sola andata

per Israele. Perlopiù i terroristi non si preoccupavano di prenotare

una camera d’albergo nel paese in cui dovevano soggiornare e non

erano in grado di dare il nome di amici o parenti presso cui avevano

in animo di alloggiare. Di solito, poi, per recarsi in Israele facevano

sempre parecchie deviazioni. Di conseguenza, un biglietto di sola

andata per Tel Aviv via Parigi - Roma - Atene, acquistato da un

giovanotto che si proclamava studente ma alloggiava all’albergo più

caro di Ginevra e non era in grado di fornire un recapito per il suo

soggiorno in Israele, veniva guardato con un certo sospetto.

I terroristi potevano anche comportarsi in altri modi prevedibili,

come spesso capita a chi è sottoposto a una certa tensione. Di solito

viaggiavano con poco bagaglio, ma avevano la tendenza a tenersi

stretta la sacca di tela o valigetta che fosse, o a tenerla sulle ginocchia


anziché posarla su un sedile libero o per terra, nella sala d’attesa

dell’aeroporto. Capitava che fumassero molto e andassero al gabinetto

ripetutamente. Era improbabile che s’immergessero nella

lettura di un libro o di una rivista, anche se di regola ne sfogliavano

nervosamente le pagine. Mostravano difficoltà a concentrarsi. Se

preparavano un’azione di dirottamento, viaggiavano in gruppetti di

tre o quattro persone. In attesa della partenza non se ne stavano

mai assieme, però era probabile che si tenessero in contatto tra loro,

lanciandosi frequenti occhiate. (Un agente del Mossad che aveva


riconosciuto

un terrorista di cui gli era stata mostrata la fotografia,

all’aeroporto di Amsterdam-Schiphol, non faticò a identificarne altri

due semplicemente seguendo la direzione degli sguardi nervosi

del primo.) I terroristi parevano altresì avere una netta preferenza

per i posti accanto al finestrino, anche se sarebbe stato più logico

che sedessero vicino alla corsia, da un punto di vista operativo.

Tutto questo non aveva fondamenti sicuri, anche se gli psicologi

del Mossad lo nobilitavano definendolo «proiezione di profilo».

In realtà non aveva proprio niente di scientifico. In parte si basava

sul buon senso, ma sarebbe stato assai difficile attenercisi in mancanza

di quello speciale intuito, di quella particolare capacità che


hanno certe persone, di tirare le somme. Per quanto riguarda Avner, su una

dozzina di incarichi del genere diede l’allarme solo un

paio di volte. In un caso si riscontravano tutti i segni sospetti - ma

la giovane coppia in questione non aveva da nascondere niente di

più letale di una grossa quantità di keef, cioè di marijuana. Nel secondo

caso, la sua sorveglianza fu premiata: l’individuo sospetto si

rivelò un grosso reclutatore di terroristi sulla riva occidentale del

Giordano, sebbene avesse un biglietto di andata e ritorno, non fumasse,

non fosse andato una sola volta al gabinetto e non sbirciasse

proprio nessuno nella sala partenze. Avner non avrebbe saputo dire

che cosa lo avesse indotto a telefonare a Tel Aviv per suggerire di

fermare l’individuo in questione al suo sbarco per interrogarlo. Vero,

era un arabo - ma lo erano anche molti altri passeggeri del volo.

Non sarebbe però esatto dire che Avner divenne uno specialista

del lavoro antiterroristico. Per tutto quel periodo passava da un incarico

di scarsa importanza a un altro, a seconda delle necessità, e la

cosa gli faceva comodo. Tanto per cominciare, non considerava di

scarsa importanza gli incarichi assegnatigli; e poi, il suo lavoro


generalmente

si svolgeva all’estero, il che voleva dire viaggiare. Entro la

fine del 1971 lo spedirono persino a New York. Il viaggio per eccellenza,
un sogno che si avverava.

Avner ora non viaggiava più sotto le spoglie di sceriffo dei cieli,

anche se di tanto in tanto gli venivano ancora affidati compiti relativi

alla sicurezza. Una volta prese parte a un’operazione in cui si

doveva portar via dal settore occidentale di Berlino un fuggiasco

dalla Germania Orientale - non gli dissero mai di chi si trattava.

Era una missione complessa, ma in definitiva i compiti di Avner si

limitarono alla guida di un furgone di servizio dell’El Al a un’apertura

praticata nella rete di cinta dell’aeroporto a un Boeing 707 in

attesa sulla pista. Non ebbe modo di dare neppure un’occhiatina al

fuggiasco. In un’altra occasione funse da guardia del corpo di Golda

Meir durante un viaggio senza incidenti di sorta a Parigi.

Non c’era più motivo perché Avner e Shoshana non si sposassero.

Lo fecero nel 1971, mentre Avner era ancora impegnato nel suo

addestramento pratico. In qualità di nubile che aveva concluso gli

studi universitari, Shoshana rischiava di dover fare il servizio militare,

e ciò, se pure non fu la ragione che li fece decidere, influenzò

comunque la scelta della data. Avner, come capita a molti uomini,

sarebbe stato abbastanza soddisfatto di una relazione priva di legami

ufficiali.
Avner non aveva mai tradito Shoshana durante i suoi viaggi, ma

non perché non avesse occhi per le belle donne o perché il fatto di

avere qualche avventura fosse contro il regolamento del Mossad. In

genere era semplicemente troppo preoccupato e impegnato. E poi

c’era in lui una sorta di impalpabile resistenza, che forse aveva a che

fare con il padre. Non fare come papà; cerca di costruirti una normale

vita familiare. Tuttavia, la ragione principale per cui Avner resisteva

alla tentazione andava forse ricercata nella sua convinzione di

non possedere niente di speciale con cui far colpo sulle donne. Occorreva

far colpo su di loro, no? E ci sarebbe anche riuscito, se solo

le donne avessero saputo cosa faceva realmente Avner per guadagnarsi

da vivere. Ma era l’ultima cosa di cui avrebbe potuto parlare

con loro. Altri magari riuscivano a far colpo sulle donne parlando di

altre cose, ma Avner non ne è mai stato capace. A quei tempi, l’unica

cosa che riuscisse a fare quando incontrava una bella figliola era

starsene lì a guardarla come un cretino. Era frustrante: avere in mano

un asso e non poterlo calare.

A mo’ di difesa, Avner assunse un atteggiamento un tantino

acido nei confronti delle donne. Ogni volta che gli altri membri

dell’equipaggio davano i numeri per qualche bel pezzo di bionda,


Avner, anche se gli schizzavano gli occhi dalle orbite, si limitava a

scrollare le spalle e: «Oh, può andare,» diceva «in mancanza di meglio».

Shoshana era diversa. Era bella anche lei, magari non da perderci

dietro gli occhi ma bella in modo più tranquillo. E poi era una

sabra. Non c’era bisogno di far colpo su di lei. Capiva Avner senza

bisogno di parole. E benché non facesse mai domande, senza dubbio

qualche idea doveva averla sul motivo di tutto quel viaggiare di

Avner. Ma ogni volta che qualcuno glielo domandava, si limitava a

rispondere: «Oh, Avner fa qualcosa per il governo». In Israele, era

una spiegazione sufficiente.

Le nozze furono una cerimonia molto gioiosa. Le fotografie

scattate per l’occasione mostravano Avner con un largo sorriso sul

volto, abbronzatissimo, in giacca bianca. Shoshana appariva misteriosa

nella sua riservata compostezza, col lungo abito bianco. C’erano

vicini di casa, amici, persino tre o quattro commilitoni di Avner.

C’erano elaborate torte sul lungo tavolo e molte bottiglie di vino

dolce d’Israele, color del miele. C’era la mamma, naturalmente, e

anche papà, sempre così di compagnia. Era venuto con Wilma, la

seconda moglie. Erano tutti quanti molto cordiali. Mamma, papà e

Wilma apparivano persino tutti e tre assieme, in qualche fotografia,


accanto ai genitori di Shoshana - anche se la mamma e Wilma guardavano

sempre

in

direzioni

opposte.

Capitolo 3

Golda Meir

Al tempo del massacro di Monaco Avner si trovava a Parigi, incollato

al televisore come la maggior parte degli israeliani, dovunque

capitasse loro di trovarsi. Rientrò in volo in Israele proprio

mentre venivano sepolte le vittime. Sebbene si trattasse di una solenne

cerimonia ufficiale, il primo ministro Golda Meir non vi presenziò.

Poiché era appena morta sua sorella, la spiegazione ufficiale

della sua assenza fu il lutto di famiglia, anche se qualcuno in Israele

sospettava che avesse voluto evitare di farsi sputare addosso o prendere

a sassate alle esequie degli atleti. Sebbene non ci fossero motivi

di addossare a lei la colpa della tragedia, il dolore e lo scandalo dei

suoi compatrioti erano senza precedenti.

Avner si trattenne in Israele meno di ventiquattr’ore; fu inviato

quasi subito in missione a New York, in veste di corriere. Di regola,


avrebbe accolto con gioia l’idea di partire, ma questa volta si era lasciato

coinvolgere dall’atmosfera di lutto nazionale. (nota 1). Per una volta

si sentì a disagio a New York, attorniato dall’indaffarata indifferenza

degli americani. Il venerdì, due settimane dopo l’attacco terroristico

contro gli atleti della squadra olimpica, Avner fu ben lieto

di tornare in patria.

Come al solito, era carico di ricordini da poco prezzo: T-shirts

per Shoshana, portachiavi e saliere per la mamma e i suoceri. Persino

Charlie, il cucciolo di pastore tedesco, ricevette una scatola di

biscotti per cani da New York. Shoshana e Avner lo adoravano.

Charlie era stato un regalo di nozze da parte degli ex commilitoni di

Avner, i quali si erano ricordati di averlo sentito parlare tante volte

di Bobby, il cane che aveva avuto da bambino, un pastore tedesco

per l’appunto.

Era tardi quando l’aereo atterrò. Avner aveva sperato di portare

Shoshana a cena fuori, ma in Israele non si riesce a consumare un

pasto caldo il venerdì dopo il tramonto, per cui non fu troppo felice

di vedere il suo caposezione che lo aspettava all’aeroporto.

«Hai fatto buon viaggio?» domandò il caposezione.

«Sì, sì, ottimo» disse Avner. Di solito i suoi superiori non si scomodavano
a venire a prenderlo all’aeroporto, a meno che non si trovassero

già lì per altri motivi. «E successo qualcosa? Vorrei fare il

possibile per arrivare a casa prima che faccia buio.»

«Sicuro, benone» disse il caposezione. «Sono venuto solo a dirti

di non fare progetti per domani. Verrà qualcuno a prenderti a casa

alle nove.»

«Che cosa c’è?»

«Non saprei proprio» rispose l’altro. «Tieniti solo pronto per le

nove.»

Avner era tutt’altro che contento. «Oh, accidenti» disse. «Sono

stanco morto. Ho fatto dodici ore di aereo. Volevo proprio dormire

un po’.»

«E dormi, allora» disse il suo capo. «Chi te lo impedisce?» E tutto

finì lì.

Avner si era quasi dimenticato di quel colloquio e stava già ficcando

il costume da bagno in una borsa, la mattina dopo - a Tel

Aviv il sabato andavano tutti al mare - quando di colpo si ricordò.

«Lascia perdere» disse a Shoshana «non posso venire. Maledizione,

sono quasi le nove. Tra un paio di minuti viene qualcuno a prendermi.»

Al solito, Shoshana non fece domande. Non si mostrò neppure


delusa. Si limitò a starsene lì con la tazzina mentre Avner tentava di

bere il caffè e allacciarsi le stringhe delle scarpe contemporaneamente.

Il campanello alla porta di strada suonò alle nove meno un minuto.

Avner scese rumorosamente due rampe di scale dell’appartamento

al primo piano, terminando di abbottonarsi la camicia.

Sull’ingresso si fermò di scatto, riconoscendo l’uomo sul vialetto; si

conoscevano di vista. Era un agente dei servizi di sicurezza, come

Avner, solo in servizio permanente. Era l’autista del memune, il generale

Zvi Zamir, il capo del Mossad.

Il primo pensiero di Avner fu che doveva esserci un errore.

«Sei stato tu a suonare il campanello?» domandò, trafficando

ancora con l’ultimo bottone della camicia. L’autista fece segno di sì

e tenne la porta aperta per far passare Avner. Poi lo seguì in strada e

aprì la portiera dell’automobile in sosta accanto al marciapiede.

L’uomo sul sedile posteriore era Zamir.

Avner esitò.

«Su, monta» disse il generale, agitando la mano spazientito.

Avner si accomodò sul sedile posteriore, accanto al capo del

Mossad. Aveva la mente in subbuglio. Aveva già avuto occasione di

incontrare Zamir due volte: la prima quando gli era stato presentato di
sfuggita
durante una sessione di addestramento, assieme a numerosi

altri giovani agenti; e la seconda quando per puro caso si erano

trovati a volare sullo stesso aereo per Roma, Zamir come passeggero

e Avner in veste di sceriffo dei cieli. In quell’occasione avevano

persino scambiato qualche parola.

E adesso il generale Zamir era seduto accanto a lui in un’auto!

Proprio così.

D’altronde erano in Israele, un piccolo paese dove regnava

l’uguaglianza e non si facevano tante cerimonie. Per quanto sorpreso

potesse essere Avner, non lo era di certo quanto avrebbe potuto

esserlo un agente di basso rango dell’FBI se si fosse trovato seduto

al fianco di J. Edgar Hoover. Le distanze sociali e professionali tra

due individui non erano mai così profonde come nella maggior parte

degli altri paesi, in Israele. Erano tutti ebrei, imbarcati sulla stessa

scialuppa, per fare quel che andava fatto.

L’auto percorse Via Hamasger, poi, superata la Derekh Kibbutz

Galuyot, puntò a est, imboccando l’autostrada. «Andiamo a

Gerusalemme» disse Zamir. Avner annuì. Non valeva neppure la

pena di far domande. Quanto prima avrebbe scoperto che cosa

c’era sotto. Gli sfiorò la mente l’idea di aver potuto fare qualche errore,
ma avrebbe dovuto trattarsi di un errore madornale perché

Zamir si scomodasse di persona per lui. Avner non riusciva a immaginare

niente del genere, per cui si tranquillizzò.

L’autostrada per Gerusalemme era pressoché deserta, quel sabato

mattina. Il sole di fine settembre scottava ancora quando uscirono

da Tel Aviv, ma nel giro di mezz’ora, mentre la macchina iniziava

la lunga salita tra le alture che circondano Gerusalemme,

l’aria si fece parecchio più fresca. Avner percorreva sempre con piacere

la strada serpeggiante tra i radi boschi delle alture di Gerusalemme,

con gli speroni di roccia rugginosa, l’aria più dolce, più

asciutta: il suo profumo gli rammentava le frizzanti giornate estive

in Europa. L’autostrada era costellata di rottami di “panini imbottiti”,

camion protetti da improvvisate corazze di fabbricazione casalinga.

Erano i relitti dei convogli che avevano tenuto aperte le linee

di rifornimento tra Gerusalemme e il resto del paese durante la

guerra d’indipendenza, veicoli che spesso erano caduti nelle imboscate

dei guerriglieri mentre attraversavano lunghi tratti di territorio

arabo ostile. Molte zone del paese erano disseminate di ricordi

del genere. Di solito gli israeliani erano così abituati a vederli che

non li degnavano di una seconda occhiata, ma ad Avner facevano


sempre un grande effetto.

Zamir sembrava cordiale ma preoccupato. Non parlò molto durante

il tragitto, se non per domandare ad Avner notizie di suo padre. Avner ormai
ci

aveva fatto l’abitudine. Papà era diventato famoso

dopo l’arresto e il processo, quasi altrettanto famoso di Eli

Cohen. Erano stati scritti molti articoli sulle sue imprese nell’interesse

di Israele; era stato scritto persino un libro. Gli autori, naturalmente,

sapevano ben poco della sua vita privata, per non parlare

dei suoi sentimenti personali. Il nome con cui era noto al pubblico

non era lo stesso che portava quando viveva ancora a Rehovot; e comunque

anche Avner aveva cambiato il suo sotto le armi.

«Se la cava» rispose a Zamir. «In salute, così così.»

Il generale assentì col capo.

«Digli che ho chiesto di lui» disse ad Avner. «Digli che uno di

questi giorni farò un salto a trovarlo.»

«Ne sarebbe contento» disse Avner, educatamente. Non aveva

proprio idea se suo padre lo avrebbe apprezzato o no. Aveva piuttosto

il sospetto che Zvi Zamir potesse essere uno di quei misteriosi

“loro” di cui suo padre parlava in modo così oscuro e allusivo.

Percorsero il resto del tragitto in silenzio. La distanza tra Tel


Aviv e Gerusalemme, attraverso la stretta fascia centrale di Israele,

poteva essere coperta in un’ora circa di macchina a velocità sostenuta.

Quel sabato, ci misero meno di un’ora. Non erano ancora le

dieci, ricordava Avner, quando si fermarono di fronte a un edificio

alla periferia della città.

Avner pensava di sapere dove si trovavano, anche se non riusciva

a crederci. Prima il generale Zamir, e adesso questo. Guardò il

memune con aria interrogativa, ma il generale stava già smontando

e faceva cenno ad Avner di seguirlo. Un poliziotto di guardia al cancello

lo spalancò al loro avvicinarsi.

Avner seguì il generale in una sorta di torpore. L’appartamento,

il soggiorno erano molto accoglienti alla maniera di altri tempi, anche

se tutt’altro che fastosi. Avner non aveva il minimo dubbio circa

il luogo in cui si trovavano, e tuttavia si rifiutò di convincersene

finché non vide le fotografie alla parete. Fotografie di lei. Che tagliava

nastri. S’inchinava a Nehru. In piedi accanto a Ben Gurion.

Golda Meir fece il suo ingresso nel soggiorno. Quando aprì la

porta, Avner vide che arrivava dalla cucina. Un po’ curva, con indosso

una specie di veste da casa, facendo risonare seccamente sul

pavimento le solide scarpe nere. Tese la mano ad Avner.


«Come va?» disse il primo ministro di Israele. «E tuo padre come

sta?»

Avner non aveva la più pallida idea di ciò che borbottò per tutta

risposta.

«Bene, bene» disse Golda Meir. «Sono lieta di saperlo. Conosci

tutti

quanti?»

Avner notò solo allora che oltre alla guardia del corpo e al generale

Zamir c’era un altro individuo nella stanza. Era in uniforme,

con le insegne di Israele - una sottile spiga di grano incrociata con

un regolo da ingegnere - sulla spalla. Avner lo conosceva dai tempi

del servizio militare come il generale di brigata Ariel Sharon. (nota 2). Uno

dei suoi eroi fin da quando era fanciullo. Si strinsero la mano.

«Gradite una tazza di tè?» domandò Golda Meir. «Caffè? Magari

un po’ di frutta?»

Il generale Sharon e il memune si sedettero senza essere invitati.

Dopo un attimo di esitazione, Avner seguì il loro esempio. Non riusciva

assolutamente a immaginare che cosa ci stesse a fare nel soggiorno

di Golda Meir. Persino il suo sesto senso venne meno momentaneamente.

Se ne stette a guardare stupefatto mentre Golda


tornava in cucina, poi rientrava nel salotto reggendo un vassoio e si

metteva a disporre tazze e piattini sul tavolo. La guardia del corpo

era sparita. Il generale Zamir e il generale Sharon discorrevano sottovoce

tra loro, senza offrirsi di dare una mano. Avner si alzò, poi si

sedette di nuovo, vedendo che la signora Meir gli faceva segno di no

con la testa. Ne fissò imbambolato i capelli grigi ribelli, le dita forti,

un po’ tozze, l’antiquato orologio di forma quadrata, un orologio da

uomo, che portava al polso. Benché avesse già avuto occasione di

incontrarla in veste di agente di sicurezza durante il suo viaggio a

Parigi, non l’aveva mai osservata sul serio. Gli ricordava sua nonna,

ma del resto, suppose Avner, Golda Meir ricordava a chiunque la

propria nonna. Soprattutto quando si mise a tagliare una mela e a

distribuirne gli spicchi, a cominciare dal generale Zamir, come se

fossero dei bambini.

Poi il primo ministro cominciò a parlare.

Lì per lì, Avner non avrebbe saputo dire a chi rivolgesse le sue

osservazioni. Per un attimo pensò che parlasse a lui, ma non lo guardava

in faccia. Avner si avvide, comunque, che non guardava in

faccia neppure Ariel Sharon o il generale Zamir. Pareva tenere gli

occhi fissi a un punto del muro sopra le loro teste, come se parlasse a
qualcuno che stava fuori, a un invisibile pubblico oltre le pareti della

stanza. Forse parlava all’intera città di Gerusalemme, all’intero

paese, anche se non alzò mai il tono di voce. Forse parlava solo con

se stessa.

La perplessità di Avner crebbe a mano a mano che ascoltava

Golda Meir. Non per via di ciò che andava dicendo. Parlava con

semplicità, in maniera commovente, con forza, e Avner era perfettamente

d’accordo con ogni sua parola. Parlava di come, ancora una

volta, gli ebrei venissero proditoriamente attaccati e massacrati da

un capo all’altro del mondo, solo perché volevano avere una patria.

Parlava di innocenti passeggeri ed equipaggi di compagnie aeree,

assassinati ad Atene, a Zurigo, all’aeroporto di Lod. Esattamente

come trent’anni prima, disse, gli ebrei erano stati legati, bendati e

massacrati in terra tedesca, mentre il resto del mondo era occupato

a giocare a pallavolo. Fanfare, fiaccole olimpiche, mentre gli ebrei

riportavano in patria un carico di bare. Gli ebrei erano soli,

com’erano sempre stati. Gli altri, nella migliore delle ipotesi, elevavano

vibrate proteste. Nessuno era disposto a difenderli. Toccava

agli ebrei difendere se stessi.

Lo stato di Israele esisteva per difendere gli ebrei, disse Golda


Meir, per salvare gli ebrei dai loro nemici, per dar loro un rifugio

dove potessero vivere in pace. Ma pur combattendo, in passato

Israele aveva sempre cercato di non oltrepassare certi limiti. Non

voleva abbassarsi al livello dei suoi nemici. Cercava di osservare

una certa moderazione pur nella difesa dei suoi figli. Cercava di salvarli

senza sporcarsi le mani, di salvarli rispettando le regole di un

comportamento civile. Senza indebite crudeltà. Senza mettere a repentaglio

la vita di un singolo spettatore. Israele era un paese che

non comminava la pena di morte neppure ai terroristi, ai sabotatori

o alle spie. (nota 3). Dal canto suo, dichiarò Golda Meir, si era sempre
opposta

a chiunque avesse tentato di sviare Israele dal suo cammino.

Aveva posto il suo veto a qualsiasi progetto inteso a infrangere anche

un solo comandamento morale.

Per la prima volta il primo ministro guardò in faccia Avner.

«Desidero sappiate» disse «che ho preso una decisione. Me ne

addosso la completa responsabilità.»

Si alzò dal tavolo.

«La decisione è mia» ripeté. «Potete discuterne tra voi.»

Golda Meir lasciò la stanza.

Avner era sbalordito. Per quanto lo riguardava, tutto ciò che


aveva detto la signora Meir a proposito di Israele e della storia era la

pura verità. Ma perché aveva ritenuto necessario dirlo a lui? O ad

Ariel Sharon, o al generale Zvi Zamir? Perché il capo del Mossad

aveva portato Avner a Gerusalemme, di sabato, in modo che potesse

udire dalla bocca del primo ministro tutte le cose che lui, o la

maggioranza della popolazione israeliana, aveva sempre dato per

scontate? E quanto alla decisione, di che decisione si trattava? Che

cosa c’era da discutere tra loro, in ciò che aveva detto?

Il silenzio fu rotto dal generale Sharon.

«Come probabilmente avrai capito», disse asciutto, fissando

Avner, «ciò che sta accadendo è molto importante. Non c’è bisogno

che te lo dica io. Sai bene che non ti troveresti seduto qui, se non

fosse importante.»

Avner annuì, come chiaramente ci si aspettava che facesse.

«Il problema è», proseguì Sharon, «sei disposto a intraprendere

una missione? Una missione importante, non c’è bisogno che te lo

dica. Ti dirò però che si tratta di una missione pericolosa. Sconvolgerà

da cima a fondo la tua vita. Dovrai lasciare il paese. Non tornerai...

e chi lo sa? Magari per anni. »

Avner non aprì bocca.


Sharon lanciò un’occhiata a Zamir, poi riprese a parlare. «Non

dovrai parlarne con nessuno, naturalmente» disse. «Potremo combinare

le cose in modo che t’incontri di tanto in tanto con tua moglie,

in un altro paese. Ma non dovrai dirle cosa fai.»

Avner rimase zitto per qualche istante, e lo stesso fecero gli altri

due. Poi riprese la parola il generale Sharon.

«Vorrei solo» disse a voce bassa «che l’avessero chiesto a me, di

farlo.»

Avner si strappò dal torpore che lo invadeva. La sua mente era

ancora in gran parte vuota, ma alcuni pensieri cominciavano a prender

forma in maniera coerente. Una missione: ma certo, doveva per

forza trattarsi di una missione. Avrebbe dovuto indovinarlo. Quale

altro motivo avrebbero potuto avere per portare un agente di infimo

livello nell’alloggio di Golda Meir? E importante: sicuro che doveva

essere importante. Ma perché lui? E di che cosa poteva mai

trattarsi?

Doveva dire qualcosa, così fece la prima domanda che gli venne

in mente:

«Agirò da solo?».

Il memune aprì bocca per la prima volta. «No» disse. «Ma per il
momento, questo non è rilevante. Qual è la tua risposta? Ti offri di

farlo?»

«Dovrò...» prese a dire Avner «...dovrò pensarci su. Va bene se

vi dò una risposta tra una settimana?»

Non aveva idea della causa della sua esitazione. Forse era il suo

sesto senso. Sicuramente, non era il pericolo. Avner non se ne

preoccupava ancora, neppure a venticinque anni, neppure dopo

quattro anni di servizio militare, la guerra dei Sei Giorni, gli incarichi

all’estero. E allora, perché esitava? Shoshana: Shoshana, infatti,

era incinta, cosa che Avner sapeva da qualche mese. Era così esile

che quasi non si vedeva, anche se era già al quinto mese. Ma non

si trattava di Shoshana. Eccolo lì, nell’appartamento di Golda

Meir, col capo del Mossad che gli chiedeva di partire in missione...

e lui esitava!

Il generale Zamir scosse il capo.

«Hai un giorno di tempo» disse. «Pensaci sopra. Chiunque non

riesca a decidere in un solo giorno, non ci riuscirà mai.»

Il generale Sharon gli tese la mano.

«Con tutta probabilità non ci rivedremo» disse ad Avner «per

cui... permettimi di augurarti buona fortuna.» Fissò Avner dritto


negli occhi. «Buona fortuna, quale che sia la tua decisione.»

Se solo avesse potuto far loro qualche domanda! Ma sapeva che

non era possibile. Sarebbe stata una missione come quelle di Eli Cohen?

Come quelle di suo padre? Avrebbe comportato la necessità di

diventare una “talpa”, di assumere un’altra identità? Avrebbe...?

Golda Meir rientrò nella stanza. Nella mente di Avner tornò a

farsi il vuoto.

«Be’, come è andata?» domandò. «Tutto sistemato?»

«Sistemato» disse laconico Zamir. Poi soggiunse: «Lo sapremo

entro domani, ma... è sistemato».

Nonostante la sua confusione mentale, Avner colse un’occhiata

d’intesa tra il memune e il primo ministro, una scrollatina di testa da

parte di Golda Meir, come per dire: «Ve l’avevo detto che non era

facile» e l’occhiata del generale che replicava: «Non preoccuparti,

questo qui o un altro, ci riusciremo!». Però poteva anche darsi che

se lo fosse solo immaginato.

Golda Meir, e questo non era frutto della fantasia di Avner, si

avvicinò e gli passò un braccio attorno alle spalle, accompagnandolo

lentamente fuori dalla stanza, parlando mentre percorrevano il corridoio.

«Saluta tuo padre per me» disse Golda «e anche tua moglie...
come si chiama, già?... Shoshana... Ti auguro di cuore buona

fortuna.» E mentre gli stringeva la mano sulla porta, soggiunse:

«Ricordati di questo giorno. Ciò che stiamo facendo cambierà la

storia ebraica. Ricordalo, perché ne sei partecipe».

Avner non tentò neppure di replicare qualcosa. Era inebetito,

era stupefatto, era impressionato, ma aveva anche una voglia matta

di sapere di cosa stesse parlando Golda. Sperava che il sorriso fisso

sul suo volto non fosse troppo sciocco. Se ne stette a guardare mentre

Golda Meir stringeva la mano al memune e al generale Sharon,

per poi sparire dietro la porta.

La voce fredda del generale Zamir spezzò l’incantesimo. «Logicamente

ti rendi conto» disse «che non dovrai dir nulla di questo

incontro a tuo padre. O a tua moglie, o a chiunque altro. Qualsiasi

cosa tu decida di fare. Quel che è successo qui dentro riguarda

unicamente il primo ministro e noi tre.» Fece una pausa. «Va bene,

aspettami in macchina» disse. «Ho un paio di altre cosette di cui

discutere.»

Avner aspettò in macchina. Ancora non riusciva a credere a

quanto stava accadendo. Ai nostri tempi, gli agenti non si aspettano

di ricevere una richiesta direttamente da un capo di stato o di governo,


né in Israele né altrove. Nelle società di un tempo poteva accadere

che i sovrani si rivolgessero direttamente ai propri sudditi,

se la questione era di una certa importanza, ma simili contatti erano

quasi impensabili nelle complesse comunità dei nostri giorni, organizzate

su basi impersonali.

Con tutta probabilità - sebbene questa sia necessariamente una

pura illazione, e Avner a quel tempo non avesse modo di saperlo -

Golda Meir optò, o le fu consigliato di optare, per un approccio così

inconsueto allo scopo di mettere in risalto la misura in cui anche la

richiesta era inconsueta. Può darsi abbia avuto l’impressione, e certamente

riuscì a comunicarla ad Avner, che gli sarebbe stato chiesto

di fare qualcosa che non era mai stato chiesto di fare prima a nessun

soldato israeliano.

Una delle ragioni di ciò potrebbe essere stata l’ambivalenza che

gli israeliani hanno sempre provato nei confronti di ogni atto di violenza

clandestino. Vero, Israele si era impegnato in isolate operazioni

di controterrorismo, insidia e destabilizzazione assai prima

dei massacri di Lod e di Monaco. Nel 1956, per esempio, dopo che

l’Egitto aveva ispirato le prime incursioni di fedayin in Israele, pacchi

esplosivi avevano ucciso il tenente colonnello Hafez e il colonnello


Mustapha, due ufficiali dei servizi segreti egiziani responsabili

delle azioni terroristiche dei fedayin. Ma simili operazioni sono

sempre apparse di gran lunga più discutibili agli occhi di Israele che

a quelli di altre potenze. Le grandi potenze, non solo l’Unione Sovietica,

ma anche gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, hanno sempre

manifestato un certo consenso nei riguardi dell’uso della forza

nell’interesse nazionale: una tradizione che Israele non ha mai condiviso

pienamente. L’agente “con licenza di uccidere” non avrebbe

trovato cittadinanza nel folklore israeliano (o ebraico).

La seconda ragione della presenza di Golda Meir, anche se a

quel tempo Avner non era in grado di sapere neppure questo, potrebbe

essere ricercata negli equilibri interni del Mossad. Nell’autunno

del 1972, il generale Zamir si trovava in cattive acque per essersi

dimostrato incapace di prevenire attacchi terroristici come

quelli di Lod e di Monaco. Uno specialista dei Servizi informazioni

militari come il generale Aharon Yariv veniva nominato «Assistente

Speciale per gli Affari Terroristici», a quanto pare sottraendo al

memune parte del controllo sulla sua organizzazione. Correva voce

che Yariv fosse un favorito di Golda Meir. (nota 4). La presenza di Golda

all'incontro potrebbe essere stata consigliata da Yariv, o può anche


darsi che lo stesso generale Zamir abbia insistito in proposito, vuoi

per coinvolgere direttamente il primo ministro, vuoi per dimostrare

a Golda gli sforzi che stava facendo, come capo del Mossad, per

controbattere il terrorismo, una minaccia gravissima che perdipiù,

nell’autunno del 1972, andava minando il morale della nazione.

Dal finestrino dell’automobile Avner poteva scorgere Sharon e

Zamir in piedi davanti al cancello, intenti a discorrere sottovoce,

ma gesticolando animatamente. Aspirò a fondo e si sforzò di rilassarsi.

La cosa migliore da farsi gli parve quella di contare fino a cento.

Lentamente. Senza pensare a niente.

Era arrivato a ottantasette quando il generale Zamir montò in

macchina. Il generale Sharon era sparito. «Mi fermo per tutta la

giornata a Gerusalemme» disse il memune. «L’autista prima accompagna

me, poi ti riporterà a Tel Aviv. Domani...» diede un’occhiata

all’orologio, «... allora domani a mezzogiorno, presentati al mio ufficio.»

Avner guardò a sua volta l’orologio. Era mezzogiorno in punto.

Il generale Zamir gli concedeva esattamente ventiquattr’ore di

tempo.

In realtà, non ne aveva neppure più bisogno. Sapeva già che cosa

avrebbe risposto.
Eppure, mentre si fermavano accanto al marciapiede, a Tel

Aviv, non poté fare a meno di domandarsi se i passanti lo avrebbero

notato nell’atto di aprire la portiera della grossa Dodge con autista.

E se l’avessero notato, si sarebbero resi conto che smontava dall’auto

ufficiale del generale Zvi Zamir? Avrebbe potuto essere un pensiero

indegno di uno che stava per recitare una parte nel cambiamento

della storia ebraica, e tuttavia gli passò per la testa. Si dava il

caso che in quel momento fosse l’unico pensiero presente nella

mente

di

Avner.

Capitolo 4

Ephraim

Una decina di giorni più tardi, il pomeriggio del 25 settembre

1972, Avner era seduto sul letto di una modesta camera d’albergo,

a Ginevra. L’Hotel du Midi, rispettabile e discreto, aveva una facciata

bianca e rosa che dava sulla Place Chevelu, al centro dell’elegante

quartiere dei negozi. Dalla finestra, Avner intravedeva i cupi

edifici del centro direzionale, sull’altra riva del Rodano, la cui stretta

ansa si allargava a formare lo splendido lago di Ginevra appena


qualche centinaio di metri più a est.

La città svizzera era come una casa di vetro: la gente che ci abitava

badava a non tirare mai sassi. La regola dell’extraterritorialità

veniva violata di rado. Per un mutuo, tacito accordo, Ginevra era

diventata un luogo ordinato in cui le forze del disordine internazionale

potevano complottare, raggrupparsi e riprendere fiato.

Lasciando vagare lo sguardo per la stanza, Avner posò gli occhi

su quattro uomini che lo fissavano a loro volta con l’aria distesa, sicura

di sé. Aspettavano che fosse lui a parlare.

Appena una settimana prima, Avner neppure sapeva dell’esistenza

di quegli uomini. Adesso erano i suoi compagni, il suo gruppo

d’azione. Lui ne era il capo. Era il responsabile, sebbene ancora

quasi non riuscisse a crederci, della missione loro affidata.

Finché la missione non fosse stata portata a termine, quei quattro

estranei avrebbero dovuto essergli vicini più di quanto fosse mai

stato un altro essere umano. Più vicini di sua madre e suo padre. Più

vicini di Shoshana. Più vicini dei suoi più cari amici; più vicini persino

dei suoi chaverim, i commilitoni. Avrebbe affidato loro la sua

vita. E loro avrebbero affidato a lui la loro.

Nel giro di dieci giorni, nella vita di Avner si erano accumulati


più eventi che in tutti gli anni precedenti messi assieme. La sua vita

era cambiata da un momento all’altro, anche se non del tutto suo

malgrado. Dopotutto, si era messo in fila per ottenere qualcosa del

genere con ogni sua scelta, fin dai giorni del servizio militare nei

commandos. Eppure, dal momento in cui Golda Meir gli aveva

augurato buona fortuna, Avner si sentiva completamente spaesato.

Non che avesse paura. Semplicemente notava, con un distacco quasi

clinico, che finalmente ce l’aveva fatta. Era scivolato fuori bordo.

Era in acqua, e la marea lo stava trascinando al largo. Che gli piacesse

o no, non poteva farci niente. Nuotare controcorrente era chiaramente

vano.

Quando si era presentato a rapporto dal generale Zamir a Tel

Aviv, a mezzodì spaccato del giorno successivo all’incontro nell’alloggio

di Golda Meir, il memune aveva un atteggiamento freddo e

quasi privo d’interesse. «Sì?» domandò ad Avner, alzando gli occhi

dalla scrivania.

«Accetto l’incarico» disse Avner.

Il generale annuì. Annuì con aria distante, sbrigativa, come se

avesse udito l’unica risposta possibile. Avner non ne fu sorpreso -

in Israele, la gente non si metteva a saltare su e giù ogni volta che


qualcuno si offriva volontario per un’impresa insolita o rischiosa -

ciononostante ci restò un po’ male.

«Aspetta un momento fuori» disse il generale. «Vorrei farti conoscere

qualcuno.»

L’uomo al quale Avner venne presentato di lì a una mezz’ora

era alto, con l’aria un tantino professorale. Era un individuo di

mezz’età, con i capelli precocemente grigi e le spalle curve. La bocca

aveva una piega amara, anche se gli occhi erano vivaci. Era un tipo

simpatico. Perdipiù, dall’istante in cui si strinsero la mano, si mise

a parlare con Avner senza impaccio, come se si conoscessero da

anni. Non che ispirasse ad Avner un qualsiasi sentimento di affinità

- chiaramente, era anche lui un galiziano - però gli piaceva.

«Chiamami Ephraim» disse ad Avner. «Sarò il tuo controllo.

Ascolta, andiamo tutti quanti un po’ a tentoni in questa faccenda.

Devi avere un sacco di domande da fare, e può darsi che ancora io

non abbia tutte le risposte che desideri. Dovrai pazientare. Uhm...

hai già mangiato? Perché non cominciamo ad andare a pranzo?»

Andarono a pranzo, e dopo fecero una lunga passeggiata in riva

al mare. Ephraim parlava.

In seguito, ad Avner venne fatto di pensare che, sebbene Ephraim


gli avesse spiegato già nel giro dei primi cinque minuti in che

cosa sarebbe consistita la missione, lui aveva afferrato esattamente

la situazione solo un paio di giorni dopo. In un certo senso aveva capito

subito, ma in un senso più profondo, nella vera radice della

questione, no.

Quando Ephraim disse: «Abbiamo deciso di mettere assieme

una squadra per annientare i terroristi in Europa», Avner assentì

col capo, perfettamente d’accordo. Era anche ora. Avner era persino

un tantino sollevato all’idea che la missione per cui si era offerto

volontario non si fosse rivelata un incarico di spionaggio da svolgere

in solitudine, come quelli affidati a suo padre, che richiedevano

un interminabile lavoro di preparazione in fatto di lingue straniere

e crittografia. Una squadra: era una gran bella cosa. Un po’ come ai

tempi del servizio militare. In Europa: be’, anche questo era perfetto.

Quanto al termine «annientare» - rehashmid, in ebraico - era logico

che lo si usasse. Era un normale termine militare, un termine

usato mille volte nelle istruzioni. Poteva riferirsi a un’incursione, a

una ricognizione in forze, al sabotaggio di un’installazione radar, di

un deposito rifornimenti, di un centro comunicazioni. Era un termine

in voga presso i commandos. Poteva significare un attacco di


sorpresa, la cattura di qualche prigioniero. Non era termine tale da

stupire o spaventare un ex soldato di un reparto speciale.

«In ogni modo, prima di parlare di questo» gli disse Ephraim

«parliamo della procedura.»

Secondo la procedura, Avner dovette spiegare a Shoshana che

sarebbe stato assente per alcuni giorni, e poi presentarsi a un indirizzo

del centro di Tel Aviv. Qui, in un appartamento al pianterreno

- i piani superiori erano occupati da una ditta di abbigliamento -

rimase solo con Ephraim per quarantott’ore. Di tanto in tanto,

Ephraim si assentava per un’ora o due, e in quei frangenti veniva un

altro tizio a stare con Avner - per «tenerti compagnia», fu la spiegazione

di Ephraim. L’individuo in questione non era molto di compagnia,

però, visto che non apriva mai bocca: chiaramente, si trovava

lì per impedire ad Avner di uscire o di usare il telefono mentre riceveva

le istruzioni.

La prima missione importante di Avner per conto del Mossad

impose ad Avner l’obbligo di dare le dimissioni dal Mossad. Il primo

“contratto” che Ephraim gli chiese di sottoscrivere non faceva

menzione di alcun compito che le parti contraenti fossero tenute a

svolgere, ma si limitava a elencare tutte le cose che le due parti si


impegnavano a non fare. Il Mossad non avrebbe impiegato al suo

servizio l’altra parte contraente. Non le avrebbe corrisposto alcun

compenso, o pensione o assistenza legale. Non avrebbe in alcun modo

riconosciuto che lavorava al suo servizio. Non le avrebbe fornito

aiuto consolare o assistenza medica. Quanto ad Avner, s’impegnava

a non avanzare la minima pretesa nei confronti del primo contraente.

Non ne avrebbe richiesto l’aiuto né l’avrebbe ritenuto responsabile

di una qualsiasi sua azione o delle eventuali conseguenze.

Non avrebbe rivelato di essere al suo servizio, né che si era impegnato

a non rivelarlo.

«Capisci quel che c’è scritto?» domandava Ephraim ad Avner

ogni volta che gli metteva sotto il naso un nuovo foglio di carta.

«Leggilo. Non voglio che firmi qualcosa che non hai letto.»

Avner faceva segno di sì e firmava, anche se un paio di volte gli

sfiorò la mente l’idea che, contrariamente al consiglio datogli da suo

padre, si guardava bene dal tenere qualche asso nella manica. Ma

che cosa avrebbe dovuto fare, pretendere di consultare un avvocato?

Dopo che Golda Meir gli aveva messo un braccio attorno alle

spalle, dicendogli che era parte della storia ebraica?

E poi, checché si potesse dire dei galiziani, non avrebbero mai


lasciato un compagno nei guai. In questo senso Avner aveva completa

fiducia nei suoi compatrioti, persino in quelli di cui in altre occasioni

non si sarebbe fidato minimamente, se avesse potuto evitarlo.

E questo, malgrado le’histader, la tendenza a farsi gli affari loro.

Per quanto occupati potessero essere a dividersi la torta, se un compagno

era nei guai avrebbero mosso cielo e terra per trarlo in salvo.

Avrebbero barato, mentito, adulato, minacciato e in definitiva

avrebbero ucciso e dato la vita pur di non abbandonare un compagno

in mano al nemico. Contratto o non contratto. Prendiamo Eli

Cohen, quel che Israele fece per salvargli la vita quando altri paesi

lo avrebbero semplicemente rinnegato, come appunto accadeva

nella maggior parte dei casi una volta che un agente si fosse bruciato.

Israele, invece, aveva persino messo a repentaglio la vita di alcuni

commandos solo per riportare in patria il corpo di Cohen dalla Siria. (nota
1).

Era una delle poche cose di cui Avner riteneva di non doversi

preoccupare.

E lo disse a Ephraim, il quale fece un sorrisetto ironico.

«No, preoccupiamoci invece del tuo corpo finché è vivo, per il

momento» disse ad Avner. «Firma questo. Stai dicendo addio alle

cure del dentista.»


«Addio» fece Avner e firmò.

Esaurite tutte le scartoffie, Ephraim gli consegnò un assegno

per un importo leggermente inferiore alle duemila lire israeliane.

Rappresentava un rimborso dei contributi pensionistici versati da

Avner al governo durante i tre anni d’impiego. «Congratulazioni»

disse Ephraim. «Sei un uomo libero. Dico sul serio» soggiunse

«perché se in un qualsiasi momento dovessi cambiare idea mentre

parliamo della faccenda qua dentro, e mi dicessi che non hai voglia

di occupartene, benissimo. Finché resterai qua dentro, sei liberissimo

di cambiar idea.»

«E dopo che me ne sarò andato?» domandò Avner.

Ephraim lo guardò e rise. «Sono lieto di constatare che hai il

senso dell’umorismo» fu il suo commento.

L’idea che aveva ispirato la missione, come Ephraim iniziò a

spiegare, era quella di stroncare il terrorismo alla fonte. A differenza

degli eserciti, che erano estensioni dei rispettivi paesi nel loro

complesso, i movimenti terroristici, per quanto diffusi apparissero,

si potevano ridurre ad alcune fonti facilmente identificabili. Il fatto

precipuo che li contraddistingueva era che coinvolgevano un numero

relativamente limitato di individui, dipendenti in tutto e per tutto


da un pugno di organizzatori e capi. Erano clandestini. Dovevano

agire da basi mobili dietro le linee nemiche. La segretezza e l’invisibilità

potevano costituire la loro forza, ma erano altresì la loro

debolezza. Al contrario delle forze militari regolari, non possedevano

una vita o un potere proprio. Dovevano essere riforniti artificialmente

attraverso alcuni canali clandestini di tutto ciò che serviva

alla sopravvivenza: denaro, armi, documenti, nascondigli, addestramento,

nuove reclute. Bastava recidere una sola linea vitale, e

un’intera rete si sarebbe estinta.

«Il terrorismo è un mostro» disse Ephraim «ma per fortuna ha

solo una dozzina di teste. Dovremmo essere in grado di tagliarle,

una dopo l’altra.»

«Non è possibile che ricrescano?» domandò Avner.

Ephraim sorrise, fissandosi le unghie. «Sono sicuro che lo è»

disse «ma diciamo che ci vuole tempo. Un terrorista è un fanatico.

Un terrorista di primo piano è un fanatico abile e intelligente. Nella

maggior parte dei casi, gli individui non sono fanatici; e nella maggior

parte dei casi, i fanatici non sono né abili né intelligenti. Se si

elimina un terrorista di spicco, può darsi che ci voglia un paio d’anni

perché ne venga a galla un altro. Nel frattempo, la vecchia rete è


andata in pezzi; e può darsi che il nuovo terrorista ci metta un altro

anno per ricostruirla. Mentre lo fa, è costretto a mostrare le sue carte.

E noi dovremmo essere in grado di identificare ed eliminare anche

lui prima che possa fare molto danno.

«Intanto, si'saranno salvate centinaia di vite innocenti. Non ne

vale la pena? E poi, anche il terrorista più in gamba è solo un fiammifero.

Gli serve un barile di polvere prima di poter fare un gran

botto. Be’, in questo momento il mondo somiglia a un barile di polvere,

non occorre che te lo dica. Tra un paio d’anni, chissà?»

Ephraim smise di parlare. Alzò lo sguardo dalle unghie e tese la

mano per mostrarla ad Avner.

«Guarda» disse. «Guarda le mie unghie. Forse è ora di tagliarle.

E tu mi diresti: a che pro, tanto ricresceranno?»

«Hai ragione» disse Avner.

«Comunque sia» fece Ephraim «stiamo facendo della filosofia, e

non siamo qui per questo. Siamo qui per progettare un’operazione.

Non ti sto dicendo di non farmi domande. Se hai una domanda da

fare, falla. Ma per ora permettimi di parlare per qualche istante

dell’operazione.»

Parlarono dell’operazione. Il Mossad aveva studiato molto attentamente


la faccenda, disse Ephraim, e deciso che il modo migliore

di procedere era quello di affidarsi a un piccolo gruppo di persone,

che agissero autonomamente. Un gruppo capace di sopravvivere

da solo in Europa per mesi o magari anni. Una squadra che non

pretendesse assistenza di sorta da parte di Israele. Una squadra che

fosse composta da esperti nei vari campi - armi, esplosivi, logistica,

documenti - e di conseguenza non dovesse far affidamento su alcuna

delle consuete fonti del Mossad. Ciò, non solo per tenerne i componenti

a distanza - anche se non era da escludersi, come non ebbe

difficoltà ad ammettere Ephraim - ma anche per garantirne la sicurezza.

Di regola, gli agenti venivano smascherati nel momento in

cui dovevano mettersi in contatto con la centrale che li riforniva di

istruzioni, armi, documenti. Una squadra che fosse invece in grado

di fabbricarsi da sola i documenti necessari, di procurarsi le armi, di

crearsi una rete di informatori; una squadra i cui membri non avessero

mai necessità di avvicinarsi a un’ambasciata, a un agente in

pianta stabile, a una fonte di contatto usata per altre operazioni del

Mossad o magari al fermo posta; una squadra che non avesse mai

necessità di inviare una segnalazione o un dispaccio attraverso gli

abituali canali di comunicazione, una squadra del genere, dunque,


sarebbe stata pressoché invulnerabile. Sarebbe stata simile a un
gruppo terroristico, ma dotata di una forza infinitamente maggiore.

Avrebbe persino potuto infiltrare le reti dei terroristi per soddisfare

le proprie esigenze e procurarsi rifornimenti. In teoria, almeno.

Perché no? Sarebbe equivalso a prendere due piccioni con una fava.

C’erano molti gruppi terroristici che sapevano ben poco l’uno

dell’altro, ma necessitavano tutti quanti di covi, passaporti ed

esplosivi. Diventare simili a loro avrebbe costituito la copertura

ideale.

«Non abbiamo bisogno di un centro comunicazioni» disse Ephraim.

«Che cosa so quando i mechablim, i terroristi, fanno esplodere

un aereo? Lo leggo il giorno dopo su Le Monde o sul Corriere della Sera.

Magari anche sul New York Times, se c’era qualche americano a

bordo. Così ora, aprendo Le Monde, verrò a sapere che è saltato in

aria un mechabel. Che altro mi occorre sapere?»

Più Ephraim parlava, e più si risvegliavano l’interesse e l’entusiasmo

di Avner. Era una cosa grossa. Era una grande occasione. E

avrebbe dovuto occuparsene lui. Con una missione del genere, sarebbe

riuscito a dar prova del suo valore. Però si guardò bene dal rivelare il suo

entusiasmo a Ephraim. Faccia da poker. Rammenta i

test psicologici. Non sanno che farsene dei tipi che prendono il
mondo come viene, che si danno arie da eroi. Meglio mostrarsi pensieroso,

persino un po’ tetro.

Ma fu lo stesso. Perché, a questo punto, Avner ancora non aveva

capito bene in che cosa consistesse la missione. O meglio, lo capiva,

ma non del tutto. Lo capì esattamente solo quando, al termine

di un breve intervallo dopo il pranzo, Ephraim gli disse di attaccare

a fargli domande.

«Questa squadra,» chiese Avner «dovrò metterla assieme io?»

«No. Abbiamo già scelto i componenti.»

«Quando potrò conoscerli?»

Ephraim sorrise. «Shvoye,» disse in arabo, «pazienza, ogni cosa

a suo tempo. Non... non si trovano ancora nel paese.»

Per qualche ragione, il sesto senso disse ad Avner che Ephraim

non gli stava dicendo la verità, ma la cosa non gli parve importante.

«E va bene, in che cosa sono esperti? Uno è l’uomo degli esplosivi?»

«Giusto» disse Ephraim.

«Un altro, quello dei documenti?»

«Eh, eh.»

«Poi uno o due per l’operazione vera e propria» proseguì Avner,

notando che Ephraim aggrottava la fronte, sconcertato. «Be’... per


la botta finale, voglio dire. Premere il bottone.»

«Che cosa intendi dire: premere il bottone?»

Fu Avner, questa volta, a rimanere sconcertato. «Intendo dire

uno specialista in... sai, uno che tiri il grilletto. Un tizio addestrato

a... dare la botta decisiva.»

Ephraim guardò Avner con enorme stupore, parve.

«Uno specialista nel tirare un grilletto?» domandò lentamente.

«Vuoi dire... che non sai tirare un grilletto? In quattro anni di servizio

militare, non hai imparato a tirare un grilletto?»

Avner se ne stette zitto.

«Addestrato a dare una botta?» continuò Ephraim. «E chi mai

viene addestrato a fare una cosa del genere? Sai di un posto in Israele

dove addestrino la gente a farlo? E una novità, per me. E come si

fa ad addestrare la gente a dare una botta, comunque? Prima fai

pratica sui cani, ti dicono lo vedi quel vecchio che attraversa la Dizengoff,
adesso

sparagli?»

Avner non aprì bocca.

«Addestriamo la gente a usare le armi» disse Ephraim dopo una

pausa. «Addestriamo i soldati a compiere azioni di guerriglia, a

piazzare una bomba, a usare il coltello, e via discorrendo. Le cose


che sei stato addestrato a fare tu. Ma non addestriamo nessuno a

dare una botta. Non disponiamo di esperti in questo campo.»

Avner si schiarì la gola. «Capisco» disse, poi s’interruppe. «L’ho

domandato solo perché...» attaccò a dire, poi s’interruppe di nuovo.

Ephraim lo fissava, appoggiato allo schienale della sedia. Che

fingesse o meno, sembrava sconcertato al pari di Avner.

Il quale Avner ritrovò finalmente la parola. Non importava che

avesse peccato d’ingenuità; non importava che avrebbe dovuto

aspettarselo. Il fatto era che proprio non se lo era aspettato. Era per

quello che avevano scelto lui? Ma intendeva andare a fondo della

faccenda, una volta per tutte.

«Chiariamo subito una cosa» disse, indurendo la voce. «Perché

proprio io?»

«Perché proprio tu, cosa?» domandò Ephraim, in tono un po’

spazientito.

«Perché avete scelto me?»

«Be’, che cosa c’è che non va, in te?» domandò Ephraim.

«Non c’è niente che non vada, in me» disse Avner. «Conosco

l’Europa, sono un buon organizzatore, e... e ritengo di essere in grado

di portare a termine quanto ho cominciato. Ma perché io? Non


ho mai fatto cose del genere, prima d’ora.»

«E chi le ha fatte?» Ephraim si chinò in avanti, addolcendo il tono

di voce. «Non fraintendermi; se non te la senti, dillo. Nessuno ti

obbliga a farlo... Ma chi avremmo dovuto scegliere? Disponiamo

solo di tipi come te. Giovani, addestrati, in perfetta forma, con un

curriculum soddisfacente, conoscenza delle lingue... Se proprio

vuoi saperlo, tanto non è un segreto, forse nessuno ha scelto te. Forse

è stato il computer. Abbiamo inserito alcune domande, e lui ci ha

fornito alcuni nomi.

«Così, che cosa ti aspetti che chiediamo al computer? Che ci

fornisca i nomi di tutti i rapinatori di banche del paese, di tutti i

pazzi, i maniaci, i ganej, gli assassini psicopatici? Dovremmo chiedergli

che ci fornisca il nome dei criminali, per salvare Israele, solo

perché tutti i nostri bravi ragazzi si tirano indietro?»

Il computer. Poteva anche essere la verità. Pareva logico. A ben

pensarci lo era, in pieno. Eppure...

«Sta a sentire» disse Ephraim «so che non è facile. Non pensare

neppure per un attimo che non lo sappia... Adesso parliamone un

po’, in modo da non doverne riparlare mai più.

«Conoscevi Yossef Gutfreund, l’arbitro di lotta libera che hanno


ammazzato a Monaco? Un colosso... si dà il caso che io lo conoscessi.

Due figlie, aveva un negozietto a Gerusalemme. Nel Sinai,

aveva tratto in salvo una dozzina di soldati egiziani che stavano morendo

di sete... Non importa. Lo hanno legato come un pollo da fare arrosto. Da


capo a

piedi, così stretto che le corde gli tagliavano le

carni, prima di sparargli quattro volte. Benone.

«Ora, ti capita di vedere l’uomo che ha ordinato loro di fare una

cosa del genere a Yossef. L’uomo che ha fornito loro le armi, le

istruzioni. Lo vedi, diciamo, magari mentre beve un caffè ad Amsterdam.

Ha ammazzato Yossef. C’è una ragazza a Tel Aviv, una

bella ragazza, che si trascina con le stampelle, perché a Lod le hanno

quasi amputato la gamba... ed è stato quel tizio a ordinar loro di farlo.

Se ne sta seduto lì a bere il caffè, pensando a chi dovrà far saltare

in aria la prossima volta.

«E tu sei lì, e hai una pistola. Puoi anche dirmi che non te ne frega

niente, che non te la senti di tirare il grilletto. Ti capisco. Non te

ne faccio una colpa. Dico sul serio. Ci stringiamo la mano, e amici

come prima. Non per questo avrò meno stima di te. E molto difficile

sparare a qualcuno.

«Però non venirmi a parlare di addestramento. Non venirmi a


parlare di specialisti. Se non te la senti di farlo, non te la senti. Non

riuscirei ad addestrarti neppure da qui a cent’anni. E neanche vorrei

farlo. Mi guarderei bene dal cercare di convincerti a farlo.

Perché? Perché sarebbe inutile.

«Ma se te la senti, credimi, sei in grado di farlo. Hai tutto l’addestramento

possibile. Hai tutto l’addestramento che ti serve.»

«Non saprei» replicò Avner. «Forse posso farlo.» Rimase in silenzio

per quello che gli parve un lunghissimo istante, poi riprese a

parlare. «Hai ragione» aggiunse. «Posso farlo.»

«Lo so benissimo» disse Ephraim. «E vuoi sapere una cosa?

Non me ne preoccupavo minimamente. Non saresti qui, se non fossi

in grado di farlo.»

Era una gran bella cosa che Ephraim non ne fosse preoccupato,

pensò Avner, perché lui lo era. Molto preoccupato. Non era mai

stato tanto preoccupato per qualcosa in vita sua. Il cuore gli batteva

così forte, per tutta la conversazione, che era un miracolo che Ephraim

non lo udisse. Ma sembrava proprio di no. Cambiò discorso,

passando a parlare degli aspetti logistici. Quelli filosofici erano ormai

chiariti.

Il giorno dopo, 20 settembre, Avner fece il primo viaggio a Ginevra.


Prese alloggio all’hotel du Midi, poi attraversò con la macchina

dell’autonoleggio il Pont du Mont Blanc e percorse il Quai

Général Guisan. Trovò un’autorimessa dove parcheggiare dalle

parti di Rue du Commerce, nel centro direzionale, e si avviò a piedi

all’antiquato palazzo dell’Union des Banques Suisses. Aprì due

conti e affittò una cassetta di sicurezza. Su uno dei conti versò una

somma di scarsa importanza, ma sull’altro depositò una lettera di

credito per un quarto di milione di dollari. Poi prelevò subito cinquantamila

dollari in contanti e li chiuse nella cassetta di sicurezza.

Il primo conto era quello sul quale sarebbero stati versati di tanto

in tanto il suo stipendio e il rimborso spese, per un importo mensile

di quasi tremila dollari - non una somma principesca, forse, ma

più del doppio della paga precedente. Perdipiù non avrebbe avuto

necessità di attingervi. Avrebbe potuto dargli un’occhiata ogni volta

che gli capitava di passare per Ginevra - guardarlo crescere, per

usare le parole di Ephraim - perché i pasti, i conti dell’albergo, le

normali spese vive sarebbero rientrati nei costi operativi. Questo

era uno dei vantaggi di una missione in cui ci si aspettava da lui che

prestasse servizio sette giorni alla settimana, ventiquattr’ore su

ventiquattro. «Significa tutte le spese pagate» gli aveva detto Ephraim


«entro limiti ragionevoli, beninteso. Non paghiamo prostitute

o anelli di brillanti. Ma se ti occorrono una camicia, un paio di scarpe,

un impermeabile, comprali. Basta soltanto conservare le ricevute.»

I costi operativi erano illimitati. Dovevano esserlo, dal momento

che nessuno avrebbe potuto prevedere quanto sarebbe venuto a

costare un informatore, un viaggio, un documento, un automezzo,

un certo quantitativo di gelignite. Non si pretendeva una contabilità

precisa in fatto di spese operative - ed era abbastanza logico, visto

che non si poteva chiedere la ricevuta a uno che faceva una soffiata

o a un trafficante d’armi clandestino. La cosa non era sorprendente.

Avner aveva sempre trovato assai più singolare il fatto che lo

stesso agente al quale si affidavano, senza discutere, decine di migliaia

di dollari per i costi operativi, fosse poi tenuto a presentare

una ricevuta di due dollari per un piatto di spaghetti al ragù.

Sul conto bancario riservato ai costi operativi ci sarebbe stata

una somma costante, pari a un quarto di milione di dollari. A mano

a mano che il deposito si esauriva, altri fondi vi sarebbero stati versati

da varie altre banche a intervalli regolari. Avner non avrebbe

dovuto interessarsene. La faccenda sarebbe stata di competenza di

agenti regolari, i quali non avrebbero neppure saputo il motivo per


cui esisteva il conto in questione.

La cassetta di sicurezza ha tutta una serie di scopi. Primo, la

squadra vi avrebbe conservato una parte dei fondi operativi in contanti.

I pagamenti avrebbero dovuto spesso avvenire in contanti e

con un preavviso minimo, e sarebbe stato più facile prelevare di volta

in volta il denaro necessario da una cassetta di sicurezza che da

un conto bancario. In certi casi, conveniva usare i contanti piuttosto

che un assegno o un bonifico, per trasferire denaro su banche di

altre città. In tal modo, era più difficile risalire alla fonte.

Infine, la cassetta di sicurezza serviva per comunicare. Una delle

due chiavi l’avrebbe tenuta Ephraim. Avrebbe potuto lasciare un

messaggio per la squadra nella cassetta, o la squadra poteva lasciarvi

eventuali messaggi per lui, anche se era improbabile che ciò accadesse

nel corso della missione. In ogni caso, avrebbe dovuto essere

l’unico modo per mettersi in contatto con la centrale.

Dopo che ebbe finito di sbrigare le faccende delle banche, Avner lasciò
l’auto al

parcheggio e tornò a piedi all’albergo attraversando

il Pont de la Machine. Non che fosse imposto dal regolamento,

e d’altronde non riteneva di essere pedinato, ma le banche erano

i posti più ovvii per far la posta a qualcuno senza parere. In occasione
dei precedenti incarichi, anche Avner aveva bazzicato le banche,

dato che erano i posti giusti per individuare altri agenti. Aveva sempre

badato ad alternare tratti a piedi a tragitti in auto, se ne aveva il

tempo, o a entrare e a uscire dagli edifici da porte diverse. Ciò per

essere imprevedibile, per fare quel che gli altri non si aspettavano

da te, ogni volta che era possibile, finché non diventava un’abitudine.

Se ci fosse stato qualcuno che aspettava di seguirlo in macchina,

per esempio, adesso si sarebbe trovato in difficoltà: il Pont de la

Machine era riservato ai pedoni. Chiunque fosse interessato a scoprire

la destinazione di Avner, non avrebbe potuto attraversarlo in

macchina, né abbandonare l’auto in una strada di grande traffico

per seguirlo a piedi.

Ephraim gli propinava le sue informazioni a pezzi e bocconi, limitandosi

a ripetere shvoye, pazienza, ogni volta che non era disposto

a rispondere a una domanda. Chi saranno gli altri componenti

della squadra? Shvoye, li conoscerai al rientro in patria da Ginevra.

E se fossero male assortiti, se non potessimo lavorare assieme? Sta

tranquillo, in base ai nostri criteri di scelta dovreste cavarvela benissimo

assieme. E se non fossimo in grado di fabbricarci i documenti,

se non riuscissimo a procurarci le armi? Non ho mai comprato


armi, prima d’ora. Non preoccuparti. I ragazzi che avrai accanto

sanno come fare. Sono stati addestrati espressamente. Benissimo, e

allora che bisogno hanno di me?

«Hanno bisogno di te» aveva detto Ephraim. «Hanno bisogno

di te per capeggiare la squadra.»

Il giorno dopo, al suo ritorno a Tel Aviv, avrebbe conosciuto gli

altri componenti della squadra. E l’altra incognita? Evidentemente,

non li spedivano a caccia di semplici manovali del terrorismo, di

elementi di scarsa importanza, dei giovani fedayin reclutati nei campi

profughi, degli studenti di sinistra, delle ragazze un po’ svitate

che venivano sottoposte a pressioni o addirittura al lavaggio del cervello

per indurle ad ammazzare e a mettere a repentaglio la loro vita. Ma quali


erano

esattamente i bersagli? E quanti? Uno, magari

due, erano lampanti. Lo stesso Avner ne aveva fatto il nome a Ephraim,

ma il suo controllo si era limitato a scrollare le spalle e ad abbozzare

un gesto con la mano.

«Shvoye» aveva replicato. «Ogni cosa a suo tempo. Ti daremo

due cose, denaro e un elenco. Il denaro ce l’hai già. Va a depositarlo,

poi torna. Prima che tu riparta, non preoccuparti, avrai anche

l’elenco.»
Non preoccuparti. Facile a dirsi. E se becchiamo la persona sbagliata?

«Non dirla neppure, una cosa del genere» era stata la risposta di

Ephraim.

Il mattino seguente, Avner saldò il conto dell’Hotel du Midi,

dopo aver prenotato una camera per sé per il 25. Poi si avviò a piedi

all’hotel Ambassador e prenotò altre due stanze per la stessa data.

Ritirò la macchina presso l’autorimessa sull’altra sponda del fiume,

dove l’aveva lasciata il giorno prima, tornò indietro per il Pont du

Mont Blanc per assicurarsi di non essere seguito, poi restituì la macchina

a un’agenzia di autonoleggio e prese un tassì per recarsi all’aeroporto.

Circa quattro ore più tardi atterrava a Tel Aviv.

L’appartamento che raggiunse in automobile con Ephraim, verso

le cinque del pomeriggio, si trovava alla periferia della città. La

ragazza dall’aria seria che venne ad aprire ricordò ad Avner quella

del recapito di via Borochov, dove si era recato per il primo colloquio,

tre anni addietro. La ragazza li fece passare in un’altra stanza,

poi chiuse la porta alle loro spalle.

I quattro uomini presenti nella stanza alzarono gli occhi al loro

ingresso. Uno posò il libro che stava leggendo. Il secondo riunì le

gambe, che erano accavallate, e si protese in avanti, senza alzarsi. Il


terzo smise di battere il fornello della pipa sul posacenere di metallo.

Il quarto, che era in piedi, fece un passo avanti.

Seguì un silenzio che durò forse una frazione di secondo. I quattro

uomini e Avner si studiavano.

«Be’» disse Ephraim. Fece una pausa per schiarirsi la gola. «Ragazzi,

vi presento Avner... Avner, questo è Carl... questo è Robert...

Hans... e, naturalmente, Steve...»

Si scambiarono strette di mano. Decise, militaresche. Avner

non aveva la più pallida idea dei pensieri che passavano per la mente

dei quattro. Da parte sua, era sbalordito. Addirittura sconvolto.

Quegli individui erano vecchi. Quello che pareva il più giovane,

Steve, dimostrava una decina d’anni più di Avner. Carl, il più vecchio,

doveva aver passato la quarantina.

Non era-tanto il fatto che fossero troppo vecchi per quel lavoro

- Avner non aveva pregiudizi in proposito - quanto l’idea che il loro

capo sarebbe stato lui. Eppure dovevano avere tutti e quattro

molta più esperienza di lui. Dovevano aver combattuto tutti quanti

nella campagna del Sinai. Carl pareva abbastanza maturo per aver

fatto anche la guerra d’indipendenza. Avrebbe dovuto comandare

una squadra di cui qualche componente avrebbe potuto essere suo


padre?

E gli avrebbero permesso di guidarli?

«Coraggio, non abbiamo tempo da perdere» disse Ephraim.

«Sediamoci e passiamo in rassegna alcuni particolari. Questo sarà

l’unico nostro incontro. La prossima volta che vi vedrete sarà in

missione, a Ginevra.»

Avner era troppo teso per sedersi. Guardò Carl che si riempiva

la pipa, desiderando, per la prima volta in vita sua, di essere un fumatore.

Hans, Robert e Steve parevano perfettamente tranquilli.

Carl si batteva sulle tasche, preoccupato unicamente di trovare un

fiammifero. Avner respirò a fondo.

Benissimo. Sta calmo.

«Il programma è il seguente» disse Ephraim. «Altri due giorni di

ripasso per tutti, a eccezione di Carl e Avner. Questo ci porta al 24.

Avrete la giornata libera; mi aspetto che ciascuno di voi sistemi i

suoi affari personali. Il 25 ritirerete i passaporti di servizio e partirete

per Ginevra. Ciascuno scelga personalmente l’itinerario e

l’ora; ma trovatevi sul posto prima di sera. Avner vi ha già prenotato

le camere in albergo; vi darà i particolari necessari. Dopo che

avrete preso alloggio e riavuto i passaporti, depositateli in cassaforte.


Mentre sarete in missione, non usateli più.

«Mentre farete il ripasso» proseguì Ephraim «Avner e Carl daranno

un’occhiata alla lista dei bersagli che abbiamo preparato.

Quando vi incontrerete a Ginevra ne sapranno in merito quanto ne

sappiamo noi, e metteranno al corrente anche voi.

«Benissimo. Vi forniremo l’elenco dei mechablim in ordine

d’importanza per noi, a nostro giudizio, ma la sequenza in cui li colpirete

sarete voi a deciderla. Basterà che li scoviate e li becchiate.

Come capita capita.

«Mi pare di aver detto tutto. Dopo il 25, dovrete cavarvela da

soli. Se vi andrà bene, lo leggerò nel giornale. In caso contrario...

ma ve la caverete. Ho piena fiducia in voi.»

Ephraim era rimasto in piedi, ma ora scostò uno sgabello e vi si

calò un po’ goffamente, quasi afflosciandosi. Cavò di tasca un fazzoletto

di carta, come se dovesse soffiarsi il naso, ma poi si limitò a

fissarlo pensieroso, lo appallottolò e lo rimise via. Gli altri se ne stavano

in silenzio, con l’eccezione di Carl che sembrava avere qualche difficoltà a


far

tirare la pipa. Seguitava a emettere risucchi come

un bufalo d’acqua, poi alzò gli occhi e sorrise ai compagni con

l’aria di scusarsi.
Avner non aveva idee precise in merito agli altri tre, ma riguardo

a Carl sì. Era pronto a scommettere che con Carl sarebbe andato

d’accordo. Anche se era abbastanza vecchio per essergli padre.

Ephraim stava di nuovo parlando. «Ci sono due princìpi» disse

«che forse non abbiamo ancora considerato, o almeno non abbastanza.

Sono entrambi importanti. Permettetemi di parlarvene.

«Primo, conoscete il motto dei terroristi: castigare uno per spaventarne


cento. Be’,

come si fa a spaventare i terroristi? Se vi limitate

a sparare a uno di loro mentre si trova in un luogo all’aperto,

esposto, nell’atto di recarsi da A e B, potrebbe non essere sufficiente.

Gli altri potrebbero dire: “Oh, hanno beccato Ahmed perché ha

messo fuori la testa, ma io sarò più prudente”. Ne ammazzerete

uno, ma gli altri continueranno come prima, non si spaventeranno.

«Se però beccate un mechabel mentre è circondato dai suoi,

quando si sente perfettamente al sicuro, quando meno se l’aspetta...

è un altro paio di maniche. Se lo fate in modo ingegnoso, inatteso,

io... non saprei farvi un esempio, ma se lo fate in un momento

o in un luogo improbabile, o anche in maniera improbabile, allora...

allora gli altri prenderanno paura. “Oh, quei maledetti ebrei sono

furbi” diranno. “Gli ebrei arrivano dappertutto. Se sono riusciti a


beccare Ahmed là, in questo o quel modo, potrebbero beccare anche

me”.»

Avner notò che Carl guardava Robert, mentre Ephraim lo diceva.

Robert non gli restituiva l’occhiata, ma se ne stava a occhi chiusi,

col mento appoggiato alla mano, come se fosse immerso in profondi

pensieri. In fretta, quasi senza volerlo, la mente di Avner stava

tirando le somme. Non sapeva ancora niente della sua squadra...

ma Robert doveva essere lo specialista in armi insolite, probabilmente

esplosivi. Lui e Carl dovevano aver già lavorato assieme in

precedenza. Bene.

«Il secondo principio» proseguì Ephraim «è qualcosa che Avner

ha tirato in ballo in precedenza. E se beccate la persona sbagliata?

O anche, se beccate la persona giusta ma contemporaneamente ci

va di mezzo uno spettatore innocente?

«Desidero chiarire bene la faccenda. La risposta è: non deve accadere.

Tutto qui. Non deve accadere.

«Ora, c’è sempre una percentuale di rischio, ma tocca a voi ridurlo

ai minimi termini. Rischio zero: rientra nei vostri compiti.

Non siete terroristi, che lanciano bombe a mano contro gli autobus

o aprono il fuoco col mitra contro la gente nell’atrio di un teatro.


Non siete neppure come l’aviazione, che sgancia bombe su un

obiettivo... e peggio per loro, se ci vanno di mezzo un paio di civili.

«L’operazione che dovrete eseguire è la più pulita che ci sia: una

sola persona, un solo criminale omicida, e nessun altro. Se non siete

sicuri al cento per cento che si tratti di lui... lasciatelo andare. Tutto

qui. Identificatelo, come se si trattasse di vostro fratello. Fategli dire

chi è. Se non siete assolutamente certi, non fate niente. Lasciatelo andare.»

Ephraim si alzò.

«Voglio che ve ne ricordiate, perché è una delle poche cose che

potreste sbagliare in questa missione. La vostra lista comprenderà

undici nomi. Se ne beccherete solo tre, saremo delusi, ma non avrete

fatto niente di sbagliato.

«Se non ne beccate neanche uno, la missione sarà un fiasco completo,

e saremo molto insoddisfatti. Ma anche in questo caso non

avrete fatto niente di sbagliato. Se, d’altro canto, li beccate tutti,

ma colpite anche un solo innocente, agirete male. Ricordatelo.

«In ogni cosa è questione di priorità. In questa operazione si

tratta di una priorità assoluta. Se il vostro uomo è in compagnia della

sua ragazza, lasciatelo andare. Se in piedi, alle sue spalle, c’è il

tassista, lasciatelo andare. Non m’importa se sono mesi che lo pedinate,


e oggi è la prima occasione che vi si presenta. Lo beccherete

domani. Se non lo beccate, pazienza. Beccherete il successivo. State

calmi. Non lavorate a cottimo, siete regolarmente stipendiati.

Questa missione è stata autorizzata a certe condizioni. Non vogliamo

invischiarci in un altro affare Kanafani.»

Ghassan Kanafani era uno scrittore palestinese, portavoce del

Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Cinque settimane

dopo l’attacco sferrato dai kamikaze contro l’aeroporto di Lod,

l’automobile di Kanafani saltò in aria a Beirut. Stando a certe voci,

che Avner aveva raccolto a quel tempo, era possibile che nell’esplosione

avessero avuto una parte importante alcuni suoi ex commilitoni,

oltre al Mossad. Sussisteva qualche dubbio sul fatto che Kanafani fosse
stato

realmente implicato nel massacro di Lod, oltre ad

aver fatto l’apologia dell’organizzazione terroristica e dei suoi scopi.

Non c’erano invece dubbi di sorta sul fatto che sua nipote, una

ragazza a nome Lamees, perita nello scoppio assieme a Kanafani,

non c’entrava per niente.2 Era la prima volta, da allora, che Avner

udiva qualcuno in Israele alludere alla faccenda. La gente non amava

parlarne.

Chiaramente, neppure Ephraim amava parlarne.


«Non voglio sentire discussioni filosofiche su come certe faccende

tipo Kanafani si possano evitare o meno» disse, anche se nessuno

degli altri aveva accennato a parlare. «A questo punto, non mi

interessano le opinioni altrui su ciò che è giusto o sbagliato. Sto

semplicemente esponendovi le regole basilari per questa particolare

missione.»

Carl soffiò un enorme anello di fumo e guardò Avner. Gli altri

seguirono la direzione del suo sguardo. Avner si sentiva a disagio,

ma gli uomini avevano ragione. La domanda andava fatta, a causa

di ciò che Ephraim aveva detto. E dal momento che il capo era Avner,
toccava a

lui farla.

«E per quanto riguarda l’autodifesa?» fece. «E se uno spettatore

tira fuori la pistola? O qualcuno tenta di arrestarci?»

Ephraim abbozzò una smorfia.

«Se, se» disse, fulminandoli con lo sguardo. «Se programmate la

cosa a puntino, non dovrebbe accadere. Se accade, be’... che cosa

posso dirvi? Se uno dei presenti tira fuori la pistola, cessa di essere

uno spettatore, no?»

Si sedette di nuovo sullo sgabello e cavò di tasca il fazzoletto di

carta appallottolato. «Ascoltate» disse parlando a voce bassissima


«in questo... questo tipo di missione, chi mai può programmare

ogni cosa per filo e per segno? Chi non vorrebbe che non dovessimo

farvi ricorso? Sto solo stabilendo le priorità, vi sto dicendo ciò che

vogliamo da voi. Il resto?» Ephraim allargò le braccia. «Non dubito

minimamente che farete del vostro meglio. È tutto ciò che possiamo

pretendere.»

Aveva toccato il tasto giusto. Anche se Avner credeva di sapere

esattamente ciò che Ephraim andava facendo, vale a dire che passava

dal tono duro a quello più moderato, recitando con loro una sorta

di rituale del poliziotto un po’ spietato e un po’ tenero, tutto per

conto suo, lo ammirava per questo. Ephraim era in gamba. Era un

capo da cui c’era molto da imparare. Bastava osservare come gli uomini

si rilassavano, dimenticando la tensione, ansiosi di essere

all’altezza di tutto ciò che Ephraim poteva aspettarsi da loro.

Era un trucco, si rese conto Avner, un trucco che gli conveniva

far suo.

«Benissimo» disse Ephraim. «Ora, in base al criterio col quale

abbiamo formato la squadra, e di questo abbiamo già parlato, ciascuno

è tenuto a fare tutto quanto, a seconda delle necessità. Elasticità

totale. Non c’è nessuno che sia specializzato in un unico settore.


Tuttavia, un dato elemento ovviamente ne sa di più, su certe cose,

degli altri, così sarà bene passare rapidamente in rassegna le vostre

diverse specializzazioni, a beneficio di Avner. Sono certo che

gli interesserà.»

«Cominciamo da me» fu pronto a dire Avner, perché tradizionalmente

era così che si procedeva in Israele. Il capo era tenuto a

presentare per primo le sue credenziali. «Provengo dalle file

dell’esercito - un reparto d’assalto. Sono nato in Israele, ma per un

certo periodo sono andato a scuola in Germania. Sono sposato, senza

figli per il momento.»

Ephraim annuì in segno di approvazione. «Hans?» disse.

L’uomo che sembrava il più vecchio del gruppo dopo Carl, si

schiarì la gola. Era l’unico che portasse la cravatta. Era magro, con

radi capelli scuri e lunghe dita ossute. Se si fosse dovuto paragonarlo a un

oggetto, sarebbe stato una matita. Avner non provò la minima

sorpresa apprendendo quale fosse la sua specialità.

Hans sarebbe stato il responsabile dei documenti. Nato in Germania,

era emigrato in Israele da ragazzo, prima della guerra. Dopo

il servizio militare, si era dato agli affari per poi arruolarsi nel Mossad.

Il suo precedente incarico si era svolto in Francia, dove sua moglie,


un’israeliana, abitava assieme a lui. Non avevano figli.

«Avrò bisogno di denaro per il materiale» disse Hans «e preferibilmente

di un locale tutto per me. Dopodiché, potrò occuparmi dei

documenti. Il ritocco è più facile, naturalmente, ma con tutta probabilità

riuscirò a fabbricarli, previa cancellatura.

«Avrò bisogno di alcuni particolari da ciascuno di voi per attribuirvi

un’identità, ma penso che di questo potremo parlare più tardi.

Avremo tutto il tempo necessario.»

Questo era un punto importante. I nomi e un paio di altri particolari

erano abbastanza facili da imparare a memoria, ma generalmente

gli agenti optavano per un complesso di dati per le varie

identità che assumevano. Non si trattava solo di ricordare l’età,

l’indirizzo o l’occupazione di una persona presunta; tale persona

doveva anche provenire da un ambiente con cui l’intestatario del

documento avesse una certa dimestichezza. Sarebbe stata una follia,

per esempio, fabbricare per qualcuno documenti falsi da cui risultasse

che era di Bilbao, se la persona in questione non ci aveva

mai messo piede e non parlava né lo spagnolo né il basco. A seconda

dei loro ricordi, della conoscenza delle lingue e della cultura generale,

gli agenti più abili potevano assumere da tre a sei identità fisse,
anche se si sapeva che qualcuno di loro riusciva ad assumerne fino a

quindici. Per un rapido passaggio di frontiera, in caso di emergenza

naturalmente, poteva servire allo scopo quasi ogni passaporto “valido

ventiquattr’ore”, a patto che fosse intestato a una persona dello

stesso sesso e che la fotografia mostrasse almeno una somiglianza

superficiale con chi lo usava.

«Io parlo tedesco e inglese» disse Avner a Hans. «E tu?»

«Tedesco e francese.»

«Benissimo.» Ephraim puntò il dito contro l’uomo seduto accanto

a Hans. «Robert?»

Anche Robert era alto e magro, sebbene non quanto Hans. Poteva

avere poco meno di quarant’anni. Aveva tranquilli occhi grigi,

distanziati l’uno dall’altro, e ispidi capelli castano chiaro. Avner fu

stupito di udirlo parlare ebraico con un forte accento inglese. Per

quanto riguardava la specializzazione di Robert, aveva visto giusto.

Robert era l’esperto in esplosivi. Proveniva da una famiglia di

fabbricanti di giocattoli di origine inglese, e già un bel po’ di tempo

prima di entrare nel Mossad il suo hobby era stato quello di trafficare

con congegni insoliti, ingegnosi. Robert era sposato con un’ebrea

di origine francese, e la coppia aveva due figli.


«Se vuoi qualcosa che faccia bum! suppongo di essere in grado

di fabbricartelo» disse Robert. «So dove procurarmi tutto il necessario,

ma a seconda di ciò che occorre può darsi si debba studiare

l’aspetto logistico. E naturalmente ci vorranno soldi.»

«Lingue?» domandò Avner.

«Solo l’inglese, purtroppo» Robert sorrise. «E l’ebraico, se proprio

insisti.»

Avner sorrise, imitato da tutti gli altri. L’ebraico di Robert era,

in realtà, abbastanza buono. «Quand’è che sei venuto in Israele?»

gli domandò Avner.

«Solo quattro anni fa» rispose Robert. «Dopo che voialtri ve la

siete spassata.»

Avner non era sicuro che, personalmente, avrebbe definito in

quel modo la guerra dei Sei Giorni, ma sorrise assentendo col capo.

Ephraim si rivolse al più giovane degli uomini. «Steve?»

«Auto, amico» disse Steve. «E so come portarle da un posto

all’altro a tutta velocità.» Anche Steve aveva un leggero accento

straniero, ma Avner non riusciva a dargli una collocazione. Aveva

l’aria di un pilota, non molto alto, ma ben fatto e muscoloso. E spavaldo.

Non doveva avere meno di trentacinque anni, dieci più di


Avner, ma al suo confronto Avner si sentiva più vecchio. Era una

sensazione che non gli dispiaceva.

«Indovino, se penso che parli inglese?» gli domandò.

«Sì» disse Steve. «E tedesco. E anche un po’ di afrikaans, quantunque

suppongo che non sarà molto richiesto. Sono di origine sudafricana.»

«Adesso tocca a me, penso» disse Carl, dopo un’occhiata a Ephraim.

Si alzò in piedi e batté il fornello vuoto della pipa sul palmo

dalla mano. «Temo di non possedere capacità particolari. Ma... è da

un pezzo che faccio questo mestiere. Troverò la maniera di rendermi

utile. Mi offro come tuttofare.»

«Dragaggio?» domandò Avner, in tono rispettoso. Era forse la

parte più pericolosa, e certamente la più esposta di qualsiasi operazione.

L’uomo incaricato del dragaggio era sempre l’ultimo a lasciare

la scena. Preparava la via di fuga agli altri, ma non si metteva in

salvo finché non aveva ispezionato la scena, scoperto la direzione

delle prime indagini e asportato tutte le prove potenzialmente dannose.

Per questo, ci voleva un uomo col sangue di alcuni gradi più

freddo dell’aria liquida. Ci volevano anche la capacità di pensare in

fretta e moltissima esperienza.

Particolare non sorprendente, Carl era l’agente con maggior anzianità


di servizio del gruppo, un veterano del Mossad fin dagli

esordi dei servizi di sicurezza israeliani. Al pari di Hans, era nato in

Germania ed emigrato in Israele da ragazzo. Era sposato con

un’ebrea cecoslovacca e aveva una figlia adottiva; la moglie e la figlia

vivevano a Roma, dove Carl era stato di stanza prima di essere

aggregato alla missione.

«Parlo tedesco e italiano» disse Carl. «Il tedesco è la mia madrelingua.

Farò del mio meglio per raccattare i pezzi.»

«E noi faremo del nostro meglio» proseguì Avner «perché tu abbia

qualche pezzo da raccattare. Lieto di averti con noi.»

Avrebbe funzionato. Era proprio come sotto le armi. Erano

gente in gamba, di gran lunga meglio di quanto Avner avrebbe mai

potuto sperare, ma, mentre parlava con loro, di colpo comprese la

ragione per cui era stato scelto per guidare il gruppo.

Per una missione in Europa il Mossad, dando prova di molto

buon senso, sceglieva elementi di origine europea. Tutti Yekke,

perdio; neppure un galiziano tra loro. Cittadini israeliani, naturalmente,

ma... pareva che Avner fosse l’unico sabra. Il fatto di essere

di nascita locale non era certo la sola cosa che contasse, in Israele,

però costituiva un titolo preferenziale. Era una sorta di simbolo, in


ogni passo della vita. Aveva ancora un significato speciale per gli

ebrei, dopo millenni di diaspora ai quattro capi del mondo, la possibilità

di proclamare l’esistenza di individui autoctoni, al pari di

ogni altro paese. I sabra erano preziosi.

«Solo una parola a proposito delle gerarchie» disse Ephraim, come

se intuisse il corso dei pensieri di Avner. «In questo tipo di operazione,

ciascuno dipende da ciascun altro. Dovrete discutere di

ogni cosa tutti assieme, non occorre neppure dirlo. Il capo è solo

primo tra pari. E questi, come sapete, è Avner. Il secondo tra pari è

Carl.» Ephraim si decise finalmente a usare il fazzoletto di carta per

soffiarsi il naso. «Benissimo. Domande?»

Nessuno ne aveva, ma mentre uscivano dalla stanza Carl lanciò

un’occhiata ad Avner, poi si rivolse a Ephraim. Erano gli ultimi

rimasti; gli altri tre se n’erano già andati. «Solo a titolo di curiosità»

disse Carl. «Domani darai ad Avner e a me un elenco di undici nomi.

E un bel numero. Siamo l’unica squadra incaricata di occuparcene?»

Vi fu una breve pausa. «Non posso rispondere a questa domanda»

disse Ephraim. «Non conosco la risposta.» (nota 3).

Il giorno dopo, Avner e Carl ricevettero una lista corredata da

cenni biografici e altre informazioni riservate. Passarono l’intera


giornata a studiarsela a memoria, dal momento che non si sarebbero

portati il materiale scritto a Ginevra, anche se avrebbero preso le

fotografie disponibili da mostrare agli altri e successivamente distruggere.

«Spero che tu abbia più memoria di me» disse Avner a un

certo punto a Carl, che si limitò a scrollare le spalle e a sogghignare.

L’identità degli undici bersagli non era cosa sorprendente. Non

si trattava dei generali, come Arafat, Habash o Jibril, bensì dei primi

luogotenenti del terrorismo anti-israeliano. Il primo della lista

era Ali Hassan Salameh, un palestinese di bell’aspetto poco oltre la

trentina, che generalmente veniva considerato come il principale

artefice della strage di Monaco. Il secondo era Abu Daoud, l’esperto

in esplosivi di Settembre Nero. Il terzo era Mahmoud Hamshari,

un intellettuale, diplomatico e portavoce della causa palestinese, di

cui a quel tempo generalmente ancora non si sapeva che fosse anche

un capo terrorista. La stessa cosa valeva per il quarto della lista, il

poeta Wael Zwaiter. Il quinto, il professore di giurisprudenza Basii

al-Kubaisi, era uno degli incaricati dell’acquisto delle armi per conto

del Fronte Popolare del dottor Habash. Il sesto, Kamal Nasser,

un altro intellettuale, era il responsabile delle pubbliche relazioni di

Al Fatah e, nel 1972, portavoce ufficiale dell’OLP. A differenza di


Hamshari, Zwaiter e al-Kubaisi, Nasser non faceva mistero dei suoi

legami col terrorismo. E neppure ne faceva Kemal Adwan, il bersaglio

numero sette, che era il responsabile delle operazioni di sabotaggio

per conto di Al Fatah nei territori occupati da Israele. Il numero

otto, Mahmoud Yussuf Najjer, meglio noto come “Abu Yussuf”,

era uno dei più alti funzionari del movimento palestinese, incaricato

dei collegamenti tra Al Fatah e Settembre Nero. Il numero

nove, l’algerino Mohammed Boudia, era un attore, regista teatrale,

e personaggio mondano conosciutissimo a Parigi, anche se in generale

più come artista e donnaiolo che come figura di spicco del terrorismo

internazionale. Il numero dieci, Hussein Abad al-Chir, era

uno dei più importanti contatti tra l’OLP e il KGB. L’ultimo uomo

della lista, il dottor Wadi Haddad, era la mente universalmente riconosciuta

del terrorismo, secondo per importanza solo al suo amico

dottor George Habash.

Con l’eccezione di due o tre nomi, era un elenco con cui qualsiasi

agente del Mossad, e molti semplici cittadini israeliani, avevano

una certa dimestichezza.

Avner passò la giornata seguente con Shoshana.

Fu una cosa difficile. Mentre se ne stavano stesi sul letto, di pomeriggio


- la gravidanza aveva reso più piena la figura e più sodi i

seni di Shoshana, ma per il resto quasi ancora non si vedeva - Avner si


sorprese a

desiderare che sua moglie si mettesse a piangere.

Ma Shoshana era Shoshana, e non esaudì il suo desiderio. Gli faceva

scorrere le dita sul petto, guardandolo con gli occhi azzurro porcellana.

«Potrebbe essere solo per qualche mese» le disse Avner. «Potrebbe

essere per un anno. Semplicemente, non sono in grado di

dirti quando tornerò.»

«Non te l’ho domandato» fu la replica di Shoshana.

«Ti scriverò più spesso che potrò» riprese a dire Avner. «Non

dovrai preoccuparti per il denaro.»

«Non sono preoccupata.»

Meno obiezioni faceva Shoshana, e più Avner si sentiva sulla

difensiva con lei, ed era arrabbiatissimo con se stesso per il fatto di

esserlo. «Ti avevo detto che poteva succedere» fece. «Ne abbiamo

già parlato.»

«Lo so.»

«Be’, allora, se lo sai,» disse Avner, infuriandosi con lei in modo

del tutto illogico, «perché te la prendi con me? Non posso evitarlo.»

Shoshana rise e gli afferrò la testa fra le mani. I capelli color del
miele le ricaddero sulla fronte, e lei se li soffiò via dal volto. «Il

guaio con te» disse «è che proprio non capisci.» Lo baciò. «Cerca di

tornare a casa per la nascita di tuo figlio, d’accordo?»

«Te lo prometto» disse Avner con entusiasmo. «Ti do la mia parola.»

In verità, non aveva la più pallida idea se ci sarebbe riuscito o

no. Il mattino seguente, dopo che ebbe fatto la doccia e riempito la

valigia, entrò in punta di piedi nella camera da letto. Shoshana dormiva

ancora, o almeno così sembrava. Avner si chinò a darle un bacio.

Si erano sempre imposti che Shoshana non lo accompagnasse

all’aeroporto per dirgli addio.

Ora, nel tardo pomeriggio del 25 settembre, Avner se ne stava a

guardare fuori da una finestra sulla facciata bianca e rosa dell’Hotel

du Midi. Vedeva le prime luci accendersi lungo il Quai Général

Guisan, sull’altra sponda del Rodano. Le luci danzavano e sfavillavano, con


uno

strano riverbero sull’acqua increspata. Ginevra non

era mai parsa più simile a una casa di vetro.

Spostando lo sguardo, Avner posò gli occhi su Carl, poi su

Hans, Robert e Steve, che lo guardarono tutti a loro volta con

un’aria distesa, sicura di sé, speranzosa. Vedendoli lì seduti, Avner

ebbe di colpo la sensazione di non aver mai conosciuto altra gente


all’infuori di quei quattro; di non essersi mai sentito così vicino a

qualcuno come si sentiva vicino a quegli uomini, che vedeva soltanto

per la seconda volta in vita sua. Avvertiva sulla pelle la vibrazione

della loro presenza, ne intuiva ogni pensiero ed emozione.

Aspettavano che fosse lui a parlare.

E Avner parlò loro. Parlò con scioltezza, con noncuranza, scoccando

di tanto in tanto un’occhiata a Carl, che tirava boccate di fumo

dalla pipa, confermando ciò che Avner andava dicendo con un

cenno del capo o correggendolo con una parola o un gesto. Hans si

gingillava con un pezzo di carta, Robert se ne stava appoggiato allo

schienale della sedia a occhi chiusi e con le mani in tasca. Steve di

tanto in tanto si lasciava sfuggire un leggero, acuto fischio, come un

ragazzino di dodici anni.

Stette zitto, però, quando Avner iniziò a sciorinare i nomi degli

undici bersagli. Hans smise di giocherellare per un momento, e persino

Robert aprì gli occhi. Il silenzio si prolungò dopo che Avner

ebbe finito di parlare.

«Sì,» fu il primo commento di Hans, mentre riprendeva a gingillarsi

con la carta, «a quanto sembra non sappiamo gran che su di

loro. Le informazioni di base sono un po’ scarse.»


«Sappiamo quel che ci occorre sapere» disse Avner. «Non sono

sicuro di voler sapere se a qualcuno di loro piace giocare a scacchi.»

«Capisco che cosa vuoi dire» fece Hans, annuendo. «Be’... stando

a quanto ha detto Ephraim a proposito degli spettatori innocenti,

sembrerebbe che nella maggior parte dei casi si dovrà rinunciare

agli esplosivi.»

Robert alzò gli occhi. «Ti sbagli» disse. «Non si deve necessariamente

rinunciare proprio a niente. Bisognerà solo pensarci su un

po’ di più, tutto qui.»

«Domani» disse Avner. «Stasera pensiamo solo a sistemarci.»

Funzionava. Erano la sua squadra. Erano i suoi chaverim, i suoi

compagni.

Avner aveva prenotato le stanze per Carl, Hans e Robert

all’hotel Ambassador, ma Steve avrebbe alloggiato all’Hotel du

Midi. Dopo il colloquio andarono a fare una passeggiata insieme.

Accanto a loro fluiva ininterrotto il traffico; la folla del dopocena

dalle parti di Place Chevelu pareva gaia ed elegante. Quasi

istintivamente, Avner e Steve diressero i loro passi verso il fiume.

Giunti a metà del Pont de la Machine, Steve si fermò e si appoggiò

alla balaustra a losanghe del tranquillo ponte riservato ai pedoni.


Le luci della città, simili ai riflessi di una gigantesca ruota di luna

park, vorticavano ipnoticamente sulle onde. «Ho una sensazione,

amico,» disse Steve dopo che ebbe inspirato a fondo ed emesso un

lungo respiro, come se stesse sollevando un peso enorme, «ho la sensazione

che non tutti usciremo vivi da questa faccenda.»

Avner non fece alcun commento.

«Non preoccuparti, però» disse Steve. Fece una pausa, e un improvviso

fanciullesco sorriso gli illuminò il volto. «Si dà anche il caso

che

abbia

l’impressione

che

tu

io

ne

usciremo.»

Capitolo 5

Wael Zwaiter

Il Leonardo Da Vinci è un albergo di stile Holiday Inn, con tariffe


abbastanza contenute, sito in Via dei Gracchi, a Roma, non

lontano dalla Città del Vaticano. Come tale, rispondeva in pieno ai

gusti di Avner.

Dalle stanze dell’ultimo piano si godeva la vista di San Pietro e

si scorgeva Castel Sant’Angelo. Ancor più importante, dal punto di

vista di Avner, l’albergo era pulito, moderno e dotato di docce, nei

bagni, degne della categoria lusso. C’era anche un ristorante quasi

attiguo, chiamato Taberna de’ Gracchi, con un’enorme testa di

maiale in vetrina, che Avner aveva sempre trovato irresistibilmente

comica. Ci si mangiava benissimo.

Avner e Carl presero alloggio al Leonardo Da Vinci una domenica,

il 15 ottobre, quasi tre settimane dopo che la squadra era partita

da Israele alla volta di Ginevra. Nel frattempo, avevano passato

vari giorni nei dintorni della Città Eterna. Steve e Carl alloggiavano

all’Holiday Inn, nei pressi di Fiumicino, dal 10 ottobre, mentre

Hans, Robert e Avner si erano installati in un albergo di Ostia, la

popolare località di villeggiatura sul mare a pochi chilometri da Roma.

La stessa domenica, poco prima di lasciare l’albergo di Ostia

per trasferirsi a Roma, Robert s’incontrò con uno dei suoi contatti

in un parcheggio di fronte alla spiaggia. Il contatto gli consegnò una


robusta sporta che conteneva cinque Beretta calibro 22 con due caricatori

ciascuna.

Il giorno seguente, lunedì 16 ottobre, verso le otto e mezzo di

sera, un’auto con un giovane italiano al volante caricò Avner e Robert

a un paio di isolati di distanza dal loro albergo, nel punto in cui

Via dei Gracchi sfocia in uno slargo alberato detto Piazza della Libertà.

Procedendo abbastanza lentamente, rispetto alle abitudini

dei romani, l’auto attraversò il Tevere sul Ponte Margherita, girò

attorno a Piazza del Popolo, proseguì fiancheggiando gli splendidi

giardini di Villa Borghese, poi imboccò a tutta velocità Corso d’Italia,

finché raggiunse Via Nomentana. Due svolte a sinistra, la

seconda delle quali vietata, e l’auto fu in Corso Trieste, dove prese a

seguire il tragitto un po’ tortuoso del tranquillo viale residenziale in

direzione nord, verso Piazza Annibaliano.

Sebbene situata a meno di dieci minuti di macchina dall’animato

centro turistico di Via Veneto, Piazza Annibaliano è completamente al di


fuori

delle strade più battute ed è una delle molte piazze

romane prive di particolari caratteristici: a differenza di quelle più

degne di nota, non vantano antichi templi, fontane del Rinascimento

o palazzi storici. Piazza Annibaliano, in effetti, presenta soltanto


un’aiuola al centro, con una mezza dozzina di alberi stenti che

spuntano dal terreno orlato d’asfalto, attorniata quella sera da tutte

le piccole Fiat, Renault, Volkswagen e Lambrette che riuscivano a

stiparsi, alla romana, negli spazi di parcheggio, peraltro neppure segnati

sul fondo stradale.

Sei strade convergevano un po’ a caso sulla piazza. Le due in direzione

nord, quasi parallele tra loro, sono Via Massaciuccoli e Viale

Eritrea, che più avanti cambia nome in Viale Libia. Queste due

strade formano un cuneo, la cui punta sud fronteggia Piazza Annibaliano.

Il corpo del cuneo consiste in uno sconnesso, tetro blocco

di condomini di sette piani, abitati da romani di ceto medio. Vi si

può accedere da entrambi i lati, oltre che dalla punta del cuneo.

L’accesso su Piazza Annibaliano è l’ingresso C. Al pianterreno

dell’edificio tirano avanti stentatamente piccole imprese commerciali:

un negozio di barbiere, a sinistra dell’ingresso C, e un caffè di

quartiere, il Bar Trieste, sulla destra.

Avner toccò la spalla del giovane al volante, quando l’auto giunse

all’angolo di Via Bressanone. L’italiano accostò al marciapiede,

fece scendere Avner e Robert, poi girò attorno a Piazza Annibaliano

e filò via nella direzione da cui era venuto. Il suo lavoro era finito.
Erano le nove passate da qualche minuto.

Avner e Robert attraversarono a passo spedito la piazza, notando

che Hans era già seduto accanto al posto di guida di una macchina

in sosta tra l’ingresso C e il Bar Trieste. Anche Hans li notò, ma

non mostrò di riconoscerli. Disse invece qualcosa alla ragazza italiana

che sedeva al volante. Avner e Robert la osservarono mentre

scendeva dall’auto, raggiungeva lentamente l’angolo di Viale Eritrea,

si girava e tornava alla macchina.

Anche se la ragazza italiana non lo sapeva, era un segnale per indicare

che l’uomo che Avner e la sua squadra preferivano definire il

“bersaglio” e che abitava in uno degli appartamenti sopra l’ingresso

C era rientrato a casa, ma poi era uscito di nuovo. Se si fosse trovato

di sopra, nel suo appartamento, la ragazza sarebbe rimasta sull’auto.

Se Hans avesse notato qualche intoppo per cui, a suo modo di

vedere, la missione avrebbe dovuto essere interrotta a quel punto,

all’apparire di Avner e Robert avrebbe ordinato alla ragazza di rimettere

in moto e allontanarsi. In tal caso, i due avrebbero raggiunto

l’altro lato della piazza, circa venticinque metri più in là, dove

Steve aspettava a bordo di una 125 Fiat verde presa a nolo, targata

Milano. Anche Steve era in compagnia di una donna italiana, che


però non sedeva al volante. Se Hans avesse segnalato che non se ne

faceva più niente, Avner e Robert sarebbero saliti sull’auto di Steve

e si sarebbero allontanati.

Ma, a questo punto, pareva che la missione fosse in pieno svolgimento.

Avner e Robert continuarono a camminare attorno alla

piazza, chiacchierando sottovoce tra loro, senza perdere d’occhio

Steve e Hans. Sapevano che nel frattempo Carl avrebbe saldato il

conto per Avner e per sé al Leonardo da Vinci - gli altri avevano già

provveduto in merito presso i rispettivi alberghi - e avrebbe anche

depositato un’altra serie di passaporti, patenti di guida e denaro in

contanti per ciascuno di loro in vari luoghi prestabiliti di Roma, nel

caso dovessero separarsi e lasciare la città ciascuno per conto proprio.

In quel momento, probabilmente Carl stava sorseggiando in

pace un Campari in uno dei molti bar del quartiere, seduto presso

una vetrata a tener d’occhio le strade che convergevano sulla piazza.

La parte principale del suo lavoro sarebbe iniziata solo più tardi.

A quell’ora della sera, più o meno le nove e mezzo, le strade erano

ancora parecchio affollate, anche se il traffico era molto ridotto

rispetto a qualche ora prima. Durante il giorno, di solito le strade di

Roma erano intasate di automezzi che procedevano l’uno attaccato


all’altro. Di sera, invece, il traffico si diradava nei sobborghi residenziali.

A parte gli innumerevoli gatti romani, le strade si riempivano

principalmente di giovani di ambo i sessi che percorrevano

strombazzando i viali sul sellino delle loro Vespa. Però c’era gente

di ogni età che passeggiava o se ne stava agli angoli delle strade a

scambiare quattro chiacchiere, proprio come facevano Robert e

Avner, senza che i passanti li degnassero di uno sguardo. Roma era

tutt’altro che una città curiosa.

Era trascorsa un’altra mezz’ora, quando Avner vide Hans

smontare dall’auto in sosta davanti all’ingresso C. Hans diede

un’occhiata all’orologio, si portò dalla parte del guidatore, si chinò

accanto al finestrino e chiacchierò come se niente fosse per qualche

istante con la ragazza al volante. Poi la salutò con un cenno della

mano e si incamminò attraverso la piazza, in direzione di Corso

Trieste, senza guardare dalla parte di Robert e Avner. La ragazza si

allontanò in macchina. Steve era ancora seduto nella Fiat verde


parcheggiata

una decina di metri più in là.

Evidentemente, era ora di appostarsi nelle posizioni prestabilite.

Il bersaglio sembrava essere un tipo abitudinario. Se quella particolare

sera non avesse fatto eccezione alla regola, tra qualche minuto
sarebbe tornato a casa a piedi dall’appartamento della sua amichetta,

a qualche isolato di distanza. Prima di varcare l’ingresso C,

era probabile che facesse un salto al Bar Trieste per un paio di brevi

telefonate. Sebbene avesse il telefono in casa, dalle informazioni in

possesso della squadra risultava che gli era stato staccato per mancato

pagamento della bolletta.

Il fatto che Hans avesse mandato via la sua auto voleva dire che

aveva scorto non il bersaglio in persona, ma una giovane coppia di

italiani che si avvicinavano alla piazza, la ragazza appesa al braccio

del giovanotto con ambo le mani. Avevano il compito di precedere

il bersaglio di circa un minuto mentre tornava a casa. Anche se i due

ragazzi sapevano che la loro presenza in Piazza Annibaliano avrebbe

segnalato che l’uomo da loro spiato e pedinato negli ultimi tre

giorni si stava avvicinando, non sapevano però a chi lo segnalassero

o perché.

Individuata la coppia, Hans si sarebbe ora appostato accanto al

secondo automezzo predisposto per la fuga, un decrepito furgone

con un vecchio italiano in paziente attesa al volante, parcheggiato a

qualche centinaio di metri dalla piazza. Senza minimamente affrettare

il passo, Avner e Robert presero ad attraversare la piazza, avviandosi


all’ingresso C del condominio, tenendo d’occhio Steve sulla

Fiat verde. Sarebbe stato avventato indugiare nell’androne più a

lungo del necessario. Finché, o a meno che, la ragazza seduta accanto

a Steve non fosse scesa dalla macchina, Avner e Robert non sarebbero

entrati nell’atrio.

Se la ragazza fosse scesa dall’auto, ma solo per allontanarsi a

piedi, Avner e Robert non sarebbero entrati per niente. Sarebbe

stato il segnale definitivo di missione annullata. Poteva significare

che il bersaglio era in compagnia di un’altra persona, oppure che si

era diretto da un’altra parte. L’uomo sarebbe sbucato da dietro

l’angolo, invisibile ad Avner e a Robert. I due riuscivano solo a vedere

la ragazza sulla Fiat di Steve, la nuca della sua testa bionda.

Avner avvertì una specie di crampo allo stomaco.

Adocchiò di sfuggita Robert, ma il viso del compagno non tradiva

la minima tensione. Semmai, si leggeva un’espressione lievemente

annoiata nei muscoli flosci attorno alla bocca, nelle palpebre semiabbassate

sugli occhi grigi.

Era tempo che la ragazza bionda facesse una mossa, in un senso

o nell’altro.

La fece. Eccola che scendeva dall’auto. E non si allontanava,


ma correva, con l’incedere goffo delle ragazze con i tacchi alti, verso

la coppia che aveva appena girato l’angolo. Gridò: «Ciao!», appendendosi

con ambo le mani all’altro braccio del ragazzo. Ridendo,

chiacchierando, tenendosi stretti, i tre passarono davanti al Bar

Trieste.

Presumibilmente, un minuto prima del bersaglio.

Rapido, deciso, come se non avesse mai fatto nient’altro in vita

sua, Avner entrò nell’androne dell’ingresso C. Non segnalò a Robert

di seguirlo né con una parola né con un cenno. Non aveva il minimo

dubbio che Robert l’avrebbe tallonato da presso, ma sarebbe

entrato comunque nell’androne. Impartire ordini agli altri non

rientrava nella tradizione militare israeliana. I capi si limitavano ad

avanzare nella direzione in cui si aspettavano che gli altri li seguissero.

Ed era raro che qualcuno si slanciasse in avanti per poi ritrovarsi

tutto solo sul campo di battaglia.

Nell’atrio del palazzo, l’aria era fresca e un tantino umida. Era

buio pesto, secondo la tradizione europea dei casermoni popolari.

Le luci nei vestiboli, sulle scale o nei corridoi si spegnevano


automaticamente

un paio di minuti dopo che venivano accese. Non era il

caso di sprecare la corrente.


Avner e Robert erano venuti a dare un’occhiata all’atrio il giorno

prima, appena quanto bastava per farsi un’idea del posto dove

nascondersi. Le scale. La gabbia di ferro dell’antiquato ascensore,

con la porta che si apriva solo inserendo una moneta. Una specie di

vetro riflettente, simile a uno specchio, su una parete che ora fece

trasalire Avner, anche se avrebbe dovuto ricordarne la presenza.

Intravedendo la propria immagine, a mano a mano che gli occhi si

abituavano al buio, per poco il suo cuore non si fermò. Per un attimo

credette che ci fosse qualcuno in attesa nell’atrio. Merda! Spaventarsi

per la sua ombra. Meno male che Robert pareva non l’avesse

notato.

Girandosi a guardare verso l’ingresso, vedevano passare la gente;

sagome inquadrate per una frazione di secondo nello stretto vano

della porta. Una donna. Una coppia anziana. Un cane che si

fermò, si volse a guardare scodinzolando, poi zampettò via. E poi,

senza alcun dubbio, l’uomo che si apprestavano a uccidere.

Benché avesse superato l’ingresso in meno di un secondo - una

sagoma come le altre, che reggeva un sacchetto con la spesa - sia

Avner sia Robert furono certi che fosse lui, diretto, come avevano

previsto, all’adiacente Bar Trieste. In quel preciso istante giunse loro


all’orecchio un colpo prolungato di clacson, seguito da uno più

breve: il segnale di Steve dalla Fiat verde; ma non era necessario.

Sapevano già.

Adesso l’uomo stava facendo le sue telefonate. Quattro, cinque,

forse sei minuti. Dieci, se qualcun altro teneva impegnato il telefono.

O solo due. Impossibile prevedere il tempo esatto, ma non

era importante. Prima o poi, avrebbe varcato l’ingresso C per rientrare

a casa, solo.

Era possibile, naturalmente, che altre persone varcassero l’ingresso

C esattamente nello stesso momento. O scendessero le scale

per uscire. In tal caso, non se ne sarebbe fatto niente. Tutto annullato

per quel giorno. E magari definitivamente, se le circostanze

permettevano al bersaglio di dare un’occhiata alle loro facce.

Che cosa sarebbe accaduto, se qualcun altro fosse entrato dopo

che avessero già iniziato quella che, nel gergo della squadra, era definita

“l’azione”? L’idea migliore che Avner riuscì a farsi venire fu

quella di scartare una possibilità del genere. Rischio zero poteva solo
significare

rischio quasi zero, non zero assoluto. Persino Ephraim

aveva ammesso che in operazioni del genere era impossibile

programmare ogni cosa nei minimi particolari. Per non correre il


minimo rischio bisognava starsene a casa a guardare la televisione, e

anche così poteva sempre crollarti in testa il soffitto.

Il bersaglio stava varcando il portone.

Solo che, e Avner non riusciva a credere ai suoi occhi, gli tenevano

dietro un uomo e una donna. Una coppia di innocenti spettatori.

Li vide anche Robert. Stavano per varcare il portone, qualche

passo soltanto dietro l’uomo col sacchetto della spesa. Il quale si

frugava in tasca in cerca di qualcosa mentre veniva avanti, forse

della monetina per aprire la porta dell’ascensore.

A questo punto, Robert fece un movimento improvviso, forse

per via della coppia che camminava alle spalle dell’uomo. Più tardi,

non avrebbe saputo dire con certezza neppure lui perché si fosse

mosso; forse riteneva annullata la missione e si accingeva a uscire

dal palazzo. In ogni caso si mosse - e la coppia che seguiva il bersaglio

dovette notare il movimento, intravedere una sagoma vaga di

qualcuno che non conosceva nell’androne buio. O può darsi che i

due avessero cambiato idea, decidendo di non entrare. Fatto sta

che si fermarono.

Poi sembrò che l’uomo trascinasse via per mano la donna, ed

entrambi si allontanarono.
Davanti a loro, l’uomo col sacchetto della spesa non notò nulla.

Continuò a inoltrarsi nell’androne, in direzione dell’ascensore. A

passo deciso, di chi conosce la strada, senza far caso al buio. Con la

mano libera stava ancora frugando nella tasca della giacca. Un uomo

magro, snello, ignaro del pericolo. Avner vide sbucare dal sacchetto

della spesa il collo di quella che pareva una bottiglia di vino.

Robert allungò la mano ad accendere la luce.

Investito dal subitaneo bagliore, che non era poi così intenso,

l’uomo alzò gli occhi, ma non rallentò il passo né si fermò. Non aveva

l’espressione impaurita. Non appariva neppure stupito, solo un

tantino perplesso forse. Parve sul punto di superare Avner e Robert.

Il suo atteggiamento sembrava lasciar intendere che, qualsiasi

cosa stessero facendo quei due estranei nell’androne buio, non era

affar suo.

Robert gli rivolse la parola in inglese, mentre era ancora a un

paio di passi di distanza da loro.

«Sei Wael Zwaiter?»

La domanda era una semplice formalità. Nell’attimo in cui si

erano accese le luci, i due agenti avevano riconosciuto l’esile poeta

palestinese, che da anni era il rappresentante dell’OLP a Roma. Ne


avevano studiato le fotografie fin nei minimi particolari. Conoscevano

a memoria la sua biografia ufficiale: età, più vicina ai quaranta

che ai trenta; nato nella città di Tchem, sulla sponda occidentale del

Giordano. Uomo di lettere, notissimo nei circoli intellettuali di sinistra,

poverissimo, che passava da un modesto lavoro all’altro, da

un modesto appartamento all’altro. Attualmente impiegato in qualità

di interprete-traduttore presso l’ambasciata libica a Roma. Un

personaggio di secondo piano. Persino la sua amica era una donna

anziana, appesantita dagli anni, anche se molto elegante, che pareva

avere la passione di andare in vacanza nell’Unione Sovietica.

Non era un delitto, naturalmente. Come non lo era il fatto di avere

un fratello minore che era stato espulso dalla Germania dopo la

strage di Monaco. Non era un peccato capitale esprimere, come faceva

Zwaiter, sentimenti patriottici in articoli e libri, e neppure

propagandare le opere di altri scrittori arabi animati da sentimenti

patriottici, come il poeta siriano Nizar Qabbani, il quale celebrava

Al Fatah in versi quali: «Soltanto con le pallottole, non con la pazienza,

si apre la strada della libertà...». Si trattava di sentimenti

correnti, espressi persino da molti intellettuali occidentali della

Nuova Sinistra. O della Sinistra tradizionale. O anche, a dire il vero,


della Destra tradizionale. Non era un delitto.

Zwaiter era, in realtà, cugino di Yasser Arafat, anche se a quel

tempo neppure il Mossad ne era al corrente. Ma neanche questo era

un delitto.

Il motivo per cui il nome di Zwaiter compariva al quarto posto

nella lista di Ephraim era un altro. Il Mossad aveva ragione di ritenere

che Wael Zwaiter fosse uno dei principali organizzatori e coordinatori

del terrorismo in Europa. Secondo il parere del Mossad,

era il responsabile del dirottamento da parte dei palestinesi dell’aereo

El Al in volo da Roma all’Algeria, nel 1968: l’azione che aveva

inaugurato il decennio terroristico. Zwaiter era l’autore, o almeno

così riteneva il Mossad, non solo di una traduzione moderna delle

Mille e una notte, ma anche del tentativo, nell’agosto 1972, di far

saltare in aria un altro jet dell’El Al per mezzo di una bomba nascosta

in un registratore, portato a bordo da una donna inglese, alla

quale era stato regalato. (nota 1). Il comandante di quell’aereo era riuscito a

tornare indietro e ad atterrare senza danni a Roma, e due terroristi

palestinesi erano stati arrestati. Il comandante del prossimo aereo

forse non sarebbe stato così fortunato.

«Sei Wael Zwaiter?»


Robert parlò in tono noncurante, persino cortese. Può darsi che

per una frazione di secondo Zwaiter non abbia avuto sospetti. Robert

e Avner non impugnavano armi. «Tira fuori la pistola solo per

sparare», e nessuno avrebbe sparato finché non fosse stata accertata

l’identità del bersaglio. «Identificalo come se fosse tuo fratello»

aveva detto Ephraim. «Lascia che sia lui a dire chi è.»

Zwaiter iniziò a provare la sua identità. Con gli occhi, la testa

iniziò a descrivere il movimento di assenso in risposta alla domanda

di Robert. Ma qualcosa, un presentimento, un avvertimento, lo

bloccò. Non finì di inclinare il capo. Dopo, Avner si sarebbe spesso

domandato quale fosse stata la causa che gli aveva fatto intuire, in

quella frazione di secondo, il pericolo mortale.

«No!»

Avner e Robert si mossero contemporaneamente. Mezzo passo

indietro col piede destro, piegando le ginocchia in posizione d’attacco.

Mano destra accostata al corpo per scostare la giacca, dita incurvate,

pronte a impugnare la pistola. Palmo della mano sinistra

all’ingiù, a descrivere un breve semicerchio sopra la mano destra

che puntava la Beretta. La slitta che veniva tirata indietro e scattava

in avanti. Il percussore che si alzava, il primo proiettile che dal


caricatore saliva in canna.

Meno di un secondo. Proprio come Avner si era esercitato a fare

un milione di volte per il vecchio Braccio di Ferro.

Un solo secondo concesso al nemico per essere il primo a sparare.

Se, per esempio, avesse impugnato la pistola nella mano nascosta

dietro il sacchetto. Con un proiettile già in canna. Il secondo

concesso dal Mossad in cambio del rischio zero, per non aver mai

un’arma in pugno, per non aver mai una pallottola già in posizione

di tiro. A meno che non si intendesse farne uso. Poi nessun altro
avvertimento,

niente più indugi. «Tiri fuori la pistola e spari» come

aveva detto il vecchio ex marine.

«E se spari, lo fai per uccidere.»

Wael Zwaiter non era pronto. Se le informazioni sul suo conto

erano esatte, non aveva neppure una pistola con sé. Niente guardie

del corpo, niente armi. Per la sua sicurezza personale, Zwaiter faceva

affidamento soltanto su una copertura a prova di bomba. Un

poeta senza un soldo. Un innocuo intellettuale. Un profugo, un traduttore

senza patria, emigrato all’estero, magari con qualche logica

simpatia per la causa del suo popolo. Un uomo che non era neppure

in grado di pagare la bolletta del telefono. Che si portava a casa la


cena in un sacchetto di plastica.

E se fosse stato davvero così?

Un uomo disarmato che esclamava: «No!» tenendo stretto un

sacchetto con una bottiglia di vino. Un uomo che appariva esattamente

come sarebbe apparso chiunque altro, in un momento del genere:

raggelato dalla paura, con gli occhi che si spalancavano sempre

più. E se qualcuno, in Israele, si fosse sbagliato?

Non sarebbe esatto dire che questi pensieri passarono davvero

per la mente di Avner durante l’attimo che seguì. E Avner non aveva

la più pallida idea di ciò che poteva essere passato per la mente di

Robert. Dopo, non ne parlarono mai. Ma una cosa era certa: non

accadde nulla per un altro secondo.

Il primo secondo - gli accertamenti, prima di estrarre la pistola

- era imposto dal regolamento. Ma dopo che entrambi ebbero impugnato

le Beretta ci fu un altro secondo che non aveva niente a che

fare con l’addestramento. Una pausa non prevista. Un attimo di

clemente silenzio per onorare un comandamento che stava per essere

infranto. «Come si fa ad addestrare la gente» aveva domandato

Ephraim «a dare la botta decisiva?»

Più tardi Avner pensò che ciascuno di loro due doveva avere
sperato che l’altro sparasse per primo.

Zwaiter si mosse. Accennò ad allontanarsi.

Avner e Robert tirarono il grilletto contemporaneamente. Due

volte. Mirando come sempre al corpo, al bersaglio grosso. Ginocchia

flesse, mano sinistra protesa per mantenere l’equilibrio, come

schermidori, anche se le Beretta non avevano quasi rinculo. Due

volte, due volte, poi ancora due volte, seguendo con la mira il corpo

di Zwaiter mentre cadeva. Avner non avrebbe saputo dire se la bottiglia

nel sacchetto della spesa si fosse rotta o no, ma ricordava di

aver visto rotolare a terra alcuni panini.

Il loro ritmo non era perfettamente sincronizzato. Robert sparava

più in fretta, la qual cosa fece sì che Avner si trovasse a sparare

gli ultimi due colpi da solo. Seguì una breve pausa. Poi Robert fece

fuoco di nuovo due volte.

Zwaiter giaceva già immobile sul pavimento.

Se nessuno dei due aveva mancato un colpo, e a distanza di poco

più di un metro non era probabile che avessero fallito il bersaglio,

nel corpo di Zwaiter avrebbero dovuto esserci quattordici proiettili.

Il caricatore della Beretta era concepito per contenere otto colpi,

ma sia Avner sia Robert ne infilavano sempre due di più. Era perfettamente
sicuro, soprattutto se non si prevedeva di tenere la molla

premuta per vari giorni di fila. Avner aveva sparato sei volte, per

cui dovevano essere avanzati quattro colpi. Nel caricatore di Robert

dovevano essercene ancora due.

Avner vide Robert chinarsi per qualche inspiegabile motivo. Lì

per lì pensò che il compagno volesse dare un’occhiata al corpo di

Zwaiter, ma in realtà Robert si metteva a raccogliere i bossoli. Non

c’era motivo di farlo, come Robert avrebbe dovuto sapere. Anche

se si sentiva quasi intorpidito per la tensione, il fatto di constatare

in Robert quella che gli parve una certa confusione restituì immediatamente

ad Avner una relativa calma. «Lascia stare» sbottò,

mentre s’infilava la pistola nella cintola, avviandosi all’uscita a passo

spedito. Voltandosi a guardare, vide Robert che si rialzava e lo

seguiva. Robert sembrava imbambolato. Tentava di metter via la

pistola, ma alla fine riuscì soltanto a infilarla sotto la giacca.

Varcarono l’ingresso C, uscendo sulla piazza. Alle loro spalle,

nell’androne, erano ancora accese le luci. Dovevano essere trascorsi

meno di tre minuti dal momento in cui Zwaiter era entrato nel palazzo,

forse meno di due.

S’incamminarono verso la Fiat verde, affrettando via via il passo.


Tenendo gli occhi fissi sull’auto parcheggiata solo una ventina di

metri più in là, Avner neppure notò se sorpassavano o meno altre

persone sul marciapiede. Il muso della Fiat era puntato nella direzione

opposta, verso il flusso del traffico, ma Avner era certo che

Steve li stava guardando avvicinarsi nello specchietto retrovisore.

Più si avvicinavano alla macchina più affrettavano il passo, e negli

ultimi metri Avner si rese conto di correre. Senza volerlo. Spalancò

la portiera posteriore e lasciò che Robert ci s’infilasse a capofitto

prima di lui. Steve si girò.

«Che cos’è successo?» domandò ansioso, mentre Avner chiudeva

di scatto la portiera. «Perché non l’avete fatto?»

Era stupefacente. Dentro l’androne le detonazioni delle due

Beretta erano state così assordanti che Avner era convinto che le

avrebbero udite fino all’altro capo della terra. E si era preoccupato;

non riusciva a capire perché lo schiocco di regola attutito di una 22

facesse quel rumore infernale. E adesso pareva che Steve, da un’auto

parcheggiata a pochi metri di distanza e senza dubbio con le orecchie

tese, non avesse udito nulla.

«È fatta» rispose. «Andiamo.»

La Fiat scattò in avanti. S’infilò nella corrente del traffico che


girava attorno a Piazza Annibaliano, costringendo un’altra auto a

frenare e sterzare così bruscamente che per poco non fece un testacoda.

C’era mancato un pelo. Avner già s’immaginava il fragore

metallico, e fu sorpreso di non udirlo. Le poche centinaia di metri

lungo Corso Trieste furono solo una macchia confusa. (nota 2).

Per contro, Hans appariva perfettamente calmo, in attesa del

loro arrivo, quando si fermarono dietro il furgone, qualche isolato

più in là. Fece cenno all’autista italiano di avanzare un po’ per lasciare

spazio a Steve, poi aprì lo sportello laterale del furgone, senza

perdere d’occhio il traffico in arrivo da Piazza Annibaliano, mentre

Steve parcheggiava la Fiat. Niente stava a indicare che qualcuno si

era posto al loro inseguimento.

«Hai perso niente?» domandò Avner a Robert, mentre salivano

sul furgone. Robert indicò di sì, ma appariva un po’ dubbioso. Aveva

messo via la Beretta, ma continuava a battersi sulle tasche, come

se cercasse qualcosa. Avner decise di lasciar perdere. Qualsiasi cosa

Robert avesse perso, Carl, che più o meno in quel momento doveva

avvicinarsi alla scena dell’esecuzione, l’avrebbe trovata. Rientrava

nei suoi compiti. (nota 3).

Dopodiché, nessuno parlò. L’anziano autista italiano portava il


furgone a velocità moderata, incurante, come tutti gli altri italiani,

di chi aveva a bordo o del perché. Nel retro del furgone c’erano alcuni

attrezzi da giardinaggio che sferragliavano, e l’uomo teneva

una statuetta della Madonna sul cruscotto. Quando Avner, Steve e

Robert saltarono su, non li degnò di uno sguardo.

Dopo un tragitto di una ventina di minuti, il furgone entrò in

quello che sembrava il cortile di uno scalpellino, in qualche punto

dei quartieri meridionali di Roma. Avner fu ripreso dal nervosismo,

mentre il furgone si fermava. Sia lui sia Robert avevano infilato caricatori

nuovi nelle Beretta mentre erano ancora a bordo della Fiat

verde. Anche Hans e Steve erano armati. Comunque fosse, tutti e

quattro stavano per affrontare la fase più vulnerabile della missione,

completamente nelle mani di altri, di cui non sapevano nulla se

non che non erano dei loro.

Il furgone si allontanò, lasciandoli lì in piedi sul terreno soffice,

sabbioso, davanti ad alcune basse baracche stipate di lapidi funerarie

non ancora terminate. Poco più in là, allo scoperto, erano parcheggiate

due utilitarie Fiat, perpendicolari l’una all’altra. L’uomo

al volante di una delle due auto fumava. Avner vide nel buio la brace

della sigaretta accesa.


Istintivamente si disposero a ventaglio, avvicinandosi alle due

auto. Mentre camminava lentamente, distanziato di circa tre metri

da Hans, l’idea che balenò alla mente di Avner fu che il concetto di

“rischio zero” era in realtà uno scherzo di cattivo gusto. Certamente

nel senso in cui si applicava a loro, in quel momento.

D’altro canto, era la prima missione che portavano a termine insieme.

I motori delle due utilitarie si accesero. Steve e Robert stavano

già montando sulla prima. L’autista della seconda spense la sigaretta

e aprì la portiera per far salire Avner e Hans. Qualsiasi cosa potesse

ancora accadere, non sarebbe accaduta in quel luogo né in quel

momento.

Uscite di città, le due auto puntarono a sud, in direzione di Napoli.

Avner si avvide che non prendevano l’arteria più battuta,

l’Autostrada del Sole, bensì una strada secondaria che correva lungo

la costa. Intravide un cartello stradale. Si trovavano sulla strada

statale 148, e puntavano verso Latina.

Per un po’ né Hans né Avner aprirono bocca. Avner era occupato

a osservare le luci riflesse nello specchietto retrovisore, per accertarsi

che l’altra Fiat li seguisse. Alla fine, Hans ruppe il silenzio.

«Be’... e uno» disse, parlando in ebraico. «Solo a titolo di curiosità,


ti piacerebbe sapere quanto è costato?»

Ad Avner venne fatto di pensare che Hans non era mai stato

tanto simile a una matita.

«Centesimo più centesimo meno» continuò Hans «ci sono voluti

trecentocinquantamila

dollari.»

Capitolo 6

Le Group

La tranquilla casa di campagna alla periferia di Latina era il posto

ideale per starsene a meditare qualche giorno. Il cielo di fine ottobre

era quasi sgombro di nubi. Passeggiando tra gli stenti albicocchi

del cortile sul retro Avner avvertiva il sentore del mare. Se fosse

uscito per una breve passeggiata, sarebbe persino riuscito a scorgerlo,ma era
più

sicuro non allontanarsi dalla casa. Latina non era Roma.

In una località piccola i forestieri potevano attirare un’indebita

attenzione.

La cifra cui aveva fatto cenno Hans in macchina non aveva sorpreso

Avner. Ammazzare la gente si rivelava un affare dispendioso.

Avner si sforzò di ricordare dove fosse finito tutto quel denaro. Era

un esercizio che gli serviva per mettere a fuoco gli avvenimenti delle
ultime tre settimane.

Era facile ricordare che cosa ne era stato, dei primi cinquantamila

dollari. Erano finiti nelle tasche di Andreas. Tutti in una volta.

In cambio di niente di tangibile, fino a questo punto.

Durante i primi giorni a Ginevra, Avner e i suoi compagni non

avevano avuto neanche il barlume di un’idea su come dovessero affrontare

la missione. Per Ephraim era facile dire che sarebbero stati

completamente autonomi. E tutti loro avevano concordato che se

la sarebbero cavata da soli, in modo indipendente, senza essere spediti

a caccia di ombre a seconda delle fantasie di quelli di Tel Aviv.

Non avrebbero dovuto essere assillati dalla burocrazia, da istruzioni

contraddittorie. In teoria, andava tutto bene. In pratica, se

n’erano stati seduti con aria tetra per ore di fila in un caffè di Ginevra,

durante i primi due giorni, a imburrare i croccanti panini svizzeri,

a guardare la pioggia che scrosciava sui tetti ripidi. Per Avner,

il lato peggiore della cosa era che gli altri aspettavano che fosse lui, il

capo, a parlare. E lui non sapeva ancora esattamente da che parte

cominciare.

In conclusione, cominciò con la lista dei bersagli. Che cosa ne

sapevano, infatti, degli undici capi terroristi che rappresentavano le


teste del mostro di Ephraim? L’elenco era stato compilato in ordine

d’importanza decrescente per il Mossad, tanto che sia Avner sia

Carl si erano sorpresi constatando che il dottor Wadi Haddad occupava

l’ultimo posto. Haddad era il più famigerato tra i bersagli proposti.

La squadra, naturalmente, non aveva l’obbligo di colpire i

bersagli nello stesso ordine della lista. Sarebbe stato inutile sprecare

mesi di tempo a dare la caccia a un dato terrorista, perdendo l’occasione

di colpirne altri tre o quattro che si avevano proprio sotto il

naso.

Si poteva anche suddividere la lista in modo diverso. I numeri

uno, due, sei, sette, otto, dieci e undici erano quelli che Avner e i

suoi compagni definivano, nel gergo paramilitare di loro preferenza,

come bersagli “duri”. Salameh, Abu Daoud, Nasser, Adwan,

Najjer, al-Chir e il dottor Haddad erano capi e organizzatori rivoluzionari

confessi, inequivocabili, di cui si sapeva tutto — fuorché il

loro attuale nascondiglio. Giravano armati ed erano protetti, fisicamente,

da guardie del corpo, anche quando viaggiavano in incognito.

Ci si poteva aspettare che prendessero ogni precauzione possibile

per evitare di essere smascherati e sorpresi, non solo dai loro nemici

israeliani, ma anche dai loro compagni rivoluzionari, appartenenti


a una fazione rivale della “lotta armata”. Stavano sempre

all’erta, rinchiusi nelle loro cittadelle, e modificavano di continuo i

piani di viaggio. Capitava che qualcuno di loro non dormisse mai

per due notti di seguito nello stesso posto.

I numeri tre, quattro, cinque e nove erano bersagli “facili”. Come

Wael Zwaiter a Roma, anche Hamshari, al-Kubaisi e persino

Boudia potevano aspettarsi protezione principalmente o unicamente

dalla loro copertura. Non nascondevano le loro simpatie per la

causa palestinese, né temevano di essere scambiati per terroristi.

Vivendo allo scoperto in città dell’Europa Occidentale, davano

l’impressione di occuparsi solo dell’aspetto educativo, culturale o

diplomatico delle loro convinzioni politiche. Se conducevano

un’esistenza clandestina, questa impegnava solo una metà delle loro

vite. Se persino i normali corpi di polizia francesi, tedeschi o italiani

avrebbero perseguitato noti terroristi, trafficanti d’armi o contrabbandieri

di esplosivi, magari solo per espellerli dai rispettivi

paesi, il fatto di scrivere articoli o gestire centri di informazione a

sostegno di una qualsiasi causa non era considerato un reato, nelle

democrazie occidentali. In effetti un terrorista di questo tipo poteva

dormire sonni tranquilli, consapevole che anche gli israeliani non


avrebbero giudicato il mero sostegno politico fornito all’OLP

un’attività tale da esporre qualcuno a rappresaglie fisiche. A patto

che ritenessero che l’individuo in questione facesse solo questo.

«Non dovrete colpire qualcuno» come aveva spiegato Ephraim

ad Avner «solo perché pensa che i palestinesi dovrebbero avere una

patria. Diavolo, lo penso anch'io che i palestinesi dovrebbero avere

una patria. Lo dovrete colpire perché fa saltare in aria i bambini di

una scuola o gli atleti partecipanti a un’olimpiade.»

Per questo motivo, i bersagli “facili” prendevano minori precauzioni

in vista della propria sicurezza. L’attuale indirizzo parigino

di uno dei bersagli, infatti, figurava assieme agli altri suoi dati

biografici. Ciò non significava che la squadra potesse eliminarli facilmente

senza un’adeguata preparazione: era soprattutto la fuga a

presentare difficoltà, per quanto “facile” potesse essere la vittima

designata. I problemi logistici erano enormi.

E tuttavia, i bersagli “facili” presentavano minori complicazioni.

Perlomeno erano agevolmente rintracciabili. E una volta scovatone uno, la

squadra non avrebbe dovuto faticare per penetrare in

una fortezza e arrivare fino a lui.

C’erano altresì minori rischi di scambiare i bersagli “facili” per


qualcun altro. A differenza dei bersagli “duri”, i terroristi che operavano

sotto solide coperture permanenti non avevano motivo di

preoccuparsi di assumere camuffamenti o false identità. Si lasciavano

fotografare e mettevano persino la targhetta col loro nome sulla

porta. Se qualcuno glielo chiedeva, probabilmente erano disposti a

dire come si chiamavano. Con loro, non era possibile commettere

errori. A meno che l’errore non fosse già stato commesso alla centrale

del Mossad e loro non fossero esattamente ciò che pretendevano

di essere. (nota 1).

C’era un’altra ragione che consigliava di scegliere per primo un

bersaglio “facile”. Il tempo. La strage di Monaco aveva avuto luogo

ai primi di settembre. Poteva darsi che i bersagli “duri” non uscissero

dai loro nascondigli per vari mesi, per dar modo al mondo di dimenticarsi

del massacro degli atleti olimpici. Se la squadra mancava

il colpo con un terrorista, poteva persino succedere che un certo assassinio

apparisse immotivato. Avner non conosceva il detto di

Lord Byron secondo cui la vendetta è un piatto che va gustato freddo.

Ma se anche l’avesse conosciuto, non sarebbe stato d’accordo.

«All’inferno» aveva detto Avner ai compagni, a un certo punto

del secondo giorno di pioggia. «Lasciamo perdere Ginevra. È troppo


calmo qui, non abbiamo neppure contatti. Stabiliremo il nostro

quartier generale a Francoforte. Ma prima ci sparpagliamo. Apriamo

conti in banca, raccogliamo notizie, ciascuno nel posto che conosce

meglio.

«Steve, tu andrai ad Amsterdam. Carl ovviamente a Roma.

Hans a Parigi, Robert a Bruxelles. Ci troviamo tutti a Francoforte

fra cinque giorni.

«Beccheremo il primo mechabel tra un paio di settimane.»

Pareva una decisione impulsiva, però era logica. Chiaramente

avrebbero avuto bisogno di conti bancari, contatti, recapiti, covi

nelle principali città europee. I vari bersagli avrebbero potuto trovarsi

un giorno qui, il giorno dopo là, e gli uomini della squadra avevano

bisogno di vie di fuga e di nascondigli già predisposti, nel caso

ne beccassero uno. Idealmente, avrebbero dovuto trovare nuovi

passaporti, nuove identità ad aspettarli nelle diverse città europee;

certamente, dovevano disporre di denaro sufficiente per tirare

avanti un paio di settimane. Lasciando un paese dopo aver fatto un

colpo, non avrebbero mai usato la stessa identità che avevano usato

all’arrivo; non avrebbero mai portato armi su di sé al momento di

varcare una frontiera internazionale. O almeno non avrebbero dovuto


farlo, se tutto fosse stato predisposto a dovere. Non avrebbero

dovuto neppure assumere contemporaneamente due diversi tipi

d’identità.

Roma era una seconda casa per Carl; così come lo erano Parigi

per Hans e Amsterdam per Steve. I loro informatori di vecchia data

- e proprio come nel normale lavoro di polizia i quattro quinti delle

informazioni confidenziali si ricavano dalle soffiate di individui che

hanno bisogno di arrotondare o sono spinti dall’avidità di denaro -

potevano aver raccolto una voce in merito a questo o quello dei bersagli.

Quanto alla destinazione di Robert, Bruxelles era ancora uno

dei principali centri mondiali del traffico illegale di armi e di esplosivi.

Avner non ne sapeva molto, in fatto di particolari tecnici -

questa era la specialità di Robert - ma era di dominio pubblico che,

per chi avesse i contatti giusti e denaro da spendere, si poteva acquistare

un intero arsenale da un trafficante belga e farselo portare

a domicilio, addirittura, in un qualsiasi posto dell’Europa Occidentale.

E magari anche fuori dai confini europei. (nota 2).

Dopo che i suoi compagni se ne furono andati, Avner fece la telefonata

da cinquantamila dollari ad Andreas, da un telefono pubblico

davanti al caffè di Ginevra.


Fu il suo sesto senso a suggerirgli la telefonata. E fu anche qualcosa

che Ephraim aveva detto, qualcosa che si era impresso nella

mente di Avner, a proposito della possibilità di far entrare qualche

infiltrato nella rete dei terroristi. Prendere due piccioni con una fava.

Dopotutto, Avner e la sua squadra erano diventati una minuscola

cellula impermeabile, esattamente come molte altre del sottobosco

del terrorismo internazionale. Non avevano contatti ufficiali

con nessun governo. Non erano vincolati dalle regole procedurali di

un servizio segreto. Dovevano cavarsela da soli. Lavorando per un

paese, sì, ma non ufficialmente.

Non differivano granché, in questo, dalle bande apparentemente

spontanee di anarchici armati che erano spuntate, dall’Uruguay

alla Germania Occidentale, nella scia dei grandi movimenti ispirati

alla cultura della droga, all’opposizione alla guerra del Vietnam, alla

salvaguardia dell’ambiente, alla battaglia femminista, alla Nuova

Sinistra, nei turbolenti Anni Sessanta. Anche questi terroristi lavoravano

per un paese: l’Unione Sovietica. (nota 3).

Ma nel 1972 ben poche persone afferravano il nesso.

Numerose erano le ragioni per cui moltissimi commentatori e

uomini politici di tendenza progressista delle democrazie occidentali


si rifiutarono di indagare sulla possibilità di un collegamento sovietico

sino alla fine degli Anni Sessanta. In certi casi, non immeritata

simpatia per molte delle cause e idee abbracciate dai terroristi.

Sebbene la stragrande maggioranza del pubblico occidentale non

avesse simpatia per i metodi o le “tattiche” dei terroristi, comportanti

uccisioni, rapine, dirottamenti e sequestri, molta gente era incline

a considerare i fanatici violenti come individui in qualche modo

instabili, immaturi, portati spontaneamente a deplorevoli estremi

da un lodevole Zeitgeist.

Secondariamente, l’Unione Sovietica mostrava sempre la tendenza

a condannare, o perlomeno a non elogiare, la maggior parte

delle forme di terrorismo nelle sue manifestazioni ufficiali. Parlando

all’assemblea delle Nazioni Unite, il ministro degli Esteri sovietico

Gromyko dichiarò che era «impossibile perdonare gli atti di

terrorismo da parte di certi elementi palestinesi che hanno portato

ai tragici eventi di Monaco». (nota 4). Gli esperti in sovietologia potrebbero

far rilevare, con qualche giustificazione, il tradizionale divario tra

anarchici e comunisti ortodossi, in quanto questi ultimi considerano

i primi alla stregua di «romantici piccolo-borghesi», i quali

“obiettivamente” si limiterebbero a ostacolare la «vittoria del proletariato».


In effetti, alcuni gruppi terroristici di tanto in tanto si

sono spinti al punto di esprimere la loro opposizione sia all’«imperialismo

sovietico» sia al «colonialismo occidentale», anche se, per

quanto riguarda i loro sentimenti antisovietici, hanno sempre badato

a non confermare le parole con l’azione. (nota 5).

In terzo luogo, i gruppi terroristici che spuntavano come funghi

in Europa, nelle Americhe, nel Terzo Mondo e in Medio Oriente

presentavano un tale guazzabuglio caotico, incoerente, di filosofie

confuse, contraddittorie, che era difficile considerarli come le


manifestazioni

di un unico disegno politico. Alcuni erano improntati

al fanatismo religioso; altri ultranazionalisti; altri marxisti o para-marxisti di


tutte

le sfumature possibili e immaginabili; altri ancora

semplicemente «antiautoritari» o «antimperialisti», sebbene non si

opponessero mai concretamente al notevole autoritarismo o imperialismo

del blocco comunista.

Persino i gruppi che si definivano «comunisti» sottoscrivevano

idee che, entro i confini dell’Unione Sovietica, sarebbero state senza

fallo definite «deviazionismo di sinistra» e li avrebbero fatti finire

in un ospedale psichiatrico, o peggio. Inoltre, prendevano molto


sul serio le loro differenze ideologiche e dedicavano quasi altrettanto

tempo a intralciarsi, spararsi e farsi fuori vicendevolmente con

esplicite rivendicazioni, di quanto ne dedicassero a terrorizzare le

popolazioni e i governi dei paesi occidentali.

Il blocco sovietico e, agli esordi, le forze comuniste cinesi che

scatenavano, addestravano, armavano e in parte finanziavano i terroristi,

non avevano alcun interesse per i particolari delle loro attività,

giorno per giorno. Nessuno indagava in merito alle loro credenziali

di comunisti ortodossi. Erano immuni dal pericolo di oltrepassare

la linea fissata dal partito. La funzione dei terroristi, agli occhi

degli organi della sicurezza dello stato sovietico, consisteva nello


sconvolgere e

destabilizzare le democrazie occidentali, e poco importava

al Cremlino con quali mezzi e in base a quali idee ci riuscissero.

L’unica cosa che contasse era la loro militanza definitiva, e la

misura in cui riuscivano a indurre i governi democratici a reagire alle

loro provocazioni in modo altrettanto oltranzista. Loro compito

era quello di sollecitare, di instaurare effettivamente, la repressione,

contro la quale apparentemente si battevano; e che basassero i

loro atti di violenza su ideali religiosi, di liberazione nazionale, di

giustizia sociale o razziale, era del tutto privo di importanza per il


KGB. (nota 6). Era del pari privo d’importanza che le loro cause fossero

meramente bizzarre ovvero contenessero, effettivamente, una certa

misura di giustizia o un pizzico di verità.

Dal canto loro, i terroristi, certamente ai gradini più bassi ma a

volte anche al vertice, spesso non si rendevano conto della misura

in cui venivano strumentalizzati dalla politica sovietica. O magari,

e il fatto è alquanto ironico, arrivavano a cullarsi nell’illusione che

fossero loro a servirsi dell’Unione Sovietica per i propri fini. La genialità

di questo comportamento risiede nel fatto che i sovietici potevano

arrecare danni concreti alle democrazie liberali - in paesi come

la Turchia e la Spagna post-franchista, per esempio, impedire o

ritardare la crescita di un regime democratico - pur lavandosene


ufficialmente

le mani. Le stesse mani con cui tendevano il ramo d’ulivo

della distensione.

È proprio in questo, forse, va ricercata la ragione di fondo che si

nasconde dietro il rifiuto occidentale di riconoscere la parte avuta

dall’Unione Sovietica nel terrorismo internazionale negli Anni Sessanta,

anche dopo che molti dei fatti relativi erano diventati di pubblico

dominio. (nota 7). In un’era di armi nucleari, a molti statisti pareva

più saggio non intorbidire le acque per questioni di poco conto. Il


terrorismo non era un problema così grave, in realtà; un diplomatico,

un uomo d’affari, un giornalista o passeggero di linea aerea che

ci lasciavano le penne sembravano un prezzo non troppo alto da pagare

per evitare di mettere a repentaglio il disgelo nei rapporti est-

ovest o gli accordi di Helsinki. Soprattutto dal momento che

l’Unione Sovietica sembrava così gentile e diplomatica da fornire il

suo appoggio al terrorismo per procura: molti istruttori erano cubani

o palestinesi; molti campi di addestramento si trovavano in Cecoslovacchia

o nello Yemen del Sud; molte armi erano fabbricate

nella Germania Orientale e da qui spedite; molte istruzioni venivano

impartite a Sofia, la capitale della Bulgaria, anziché a Mosca. La

ragione non era solo, come ritengono molte persone peraltro bene

informate, quella di tenere l’Unione Sovietica al di fuori della losca

faccenda degli attentati cruenti. Il Cremlino non intendeva tanto

trarre in inganno l’opinione pubblica, e ancora meno i capi di governo

o i servizi segreti dell’Occidente - il terrore non è terrore se non

se ne conosce con esattezza la fonte - quanto permettere loro di

chiudere gli occhi, se così decidevano di fare. Era un ottimo collaudo

della loro volontà, il modo perfetto per aggiungere l’insulto

all’offesa, di demoralizzare e umiliare i governanti occidentali, di


costringere un ambasciatore a leccare la mano che aveva sparato a

un altro, fino a che le grandi democrazie non avessero perso ogni fiducia

nei loro valori e nella loro forza.

I mali e le tensioni del mondo non furono, naturalmente, un’invenzione

sovietica. (nota 8). I sovietici si limitarono a individuarli e a sfruttarli.

Rigiravano il coltello nella piaga. Non permettevano alle ferite

di rimarginarsi, se appena potevano farle suppurare. Se esisteva una

situazione di conflitto, la trasformavano in una guerra; se si profilava

una causa, legittima o meno, attendevano che venisse alla ribalta

un fanatico e assumesse una posizione estremistica, dopodiché lo


rifornivano

di armi. Se il fanatico non veniva alla ribalta, provvedevano

a crearne uno. Il KGB calcolava, e il calcolo era abbastanza

esatto, che rifornendo e addestrando un numero sufficiente di

estremisti violenti fosse poi possibile scatenarli senza impartir loro

istruzioni particolareggiate o assumerne il controllo. Sicuramente

ne sarebbe seguito il caos.

Nel 1972, tuttavia, questo fatto non era ancora noto a tutti. Chi

aveva accesso ai dati segreti nutriva forti sospetti in proposito e andava

raccogliendo le prove, a volte screditandosi per il solo fatto di

comunicarle prematuramente. (nota 9). Altri, come Avner, in possesso di


scarse informazioni confidenziali, ma di una certa esperienza e di

molto buon senso, lo sospettavano comunque. Pur senza conoscere

l’espressione cui bono, Avner ben presto si pose questo interrogativo.

A beneficio di chi? In quel mare burrascoso, doveva pur esserci

qualcuno che faceva buona pesca.

E se era così, anche Avner avrebbe potuto pescare qualcosa. In

quelle stesse acque. Con tutta probabilità, c’era pesce sufficiente

per tutti.

A Francoforte, il telefono fu alzato da Yvonne, la ragazza di Andreas.

Si trattava della donna sospettosa con cui Avner aveva parlato

la prima volta che aveva chiamato Andreas, qualche anno prima.

Yvonne aveva smesso da un pezzo di essere sospettosa. Una volta

aveva persino invitato a cena Avner. Era una splendida bruna - Avner, a dire
il

vero, a causa sua era un po’ invidioso di Andreas - dai

grandi occhi verdi. Qualche centimetro più alta di loro due.

Avner decise di recitare a soggetto.

«Sta a sentire Yvonne» disse. «Chiamo dalla Svizzera. C’è Andreas?

Sono... nelle grane».

All’altro capo del filo vi fu una breve pausa.

«Un attimo» replicò Yvonne. «Resta in linea. Lo vado a chiamare


subito».

Andreas venne al telefono di lì a un minuto, un po’ sfiatato.

«Scusa» disse «stavo uscendo. Che cos’è successo?»

«Può darsi che sia nei guai» rispose Avner. Poi attese. Il suo sesto

senso lo avvertì che meno diceva, meglio era.

«Vuoi venire qui?»

«È questo, il punto» disse Avner «venir lì vuol dire andare in un

altro paese.» Prese fiato come se stesse per dire qualcos’altro, aspettando

che l’amico lo interrompesse.

Cosa che Andreas fece.

«D’accordo, non occorre che ne parli al telefono» disse Andreas.

«Denaro ne hai?»

«Sì, sì» fece Avner. Funzionava. «Il denaro è l’unica cosa che ho.

In abbondanza.»

«Ti trovi a Zurigo?» domandò Andreas. «Lascia perdere, va a

Zurigo dovunque ti trovi. Telefona a un tale che si chiama Lenzlinger.»


(nota ).10

Sillabò il nome e diede il numero di telefono ad Avner. «Digli

che ti ho consigliato io di chiamarlo. Ti aiuterà.» Andreas fece

un’altra pausa, poi domandò: «Quando dici che hai denaro in abbondanza,

intendi proprio dire in abbondanza?».


«A profusione» disse Avner. «Non preoccuparti di questo. E

grazie. Mi farò vivo.» Riappese prima che Andreas potesse fargli altre

domande.

Quello stesso pomeriggio, Avner fece il numero che gli aveva

dato Andreas, poi prese il treno per Zurigo. Un autista in divisa lo

aspettava alla stazione e, una ventina di minuti più tardi, Avner

varcava il cancello di una bella villa in un tranquillo sobborgo di lusso.

La casa era circondata da un basso muro di pietra, interrotto da

un cancello di ferro battuto e con due enormi salici piangenti che ne

drappeggiavano la sommità con i rami penduli.

Lenzlinger teneva in casa un ocelot. Avner seppe che cos’era solo perché lo

domandò a Lenzlinger, non appena si riprese dallo stupore

alla vista di quello che aveva scambiato per un cucciolo di leopardo

che sollevava la testa dal tappeto dello studio.

«È innocua» aggiunse Lenzlinger, sorridendo. Era un uomo di

bassa statura, con occhi piccoli e le mani minute. Una parete del suo

tetro studio rivestito di legno era tappezzata, dal pavimento al soffitto,

di maschere e armi africane. Poteva anche darsi che la piccola

ocelot fosse innocua, ma Avner intuì che Lenzlinger non lo era.

Pretendeva mille dollari per ogni Beretta calibro 22 più tre caricatori,
e da due a tremila dollari per passaporto, a seconda del paese di

emissione, consegna entro due giorni. Nel 1972 erano somme assai

rilevanti, anche alle tariffe del mercato nero. Avner le sborsò senza

batter ciglio.

Non gli occorrevano le sette pistole e i cinque passaporti che

aveva acquistato, però non avrebbero fatto del male a nessuno,

chiusi al sicuro in una cassaforte di Ginevra. La cosa importante era

che aveva allacciato il primo contatto. Aveva acquistato documenti

e armi a poche ore di distanza dalla prima telefonata, e con la stessa

facilità con cui si comprano le uova al supermercato. Da una delle

fonti dei terroristi.

Aveva fatto l’acquisto, versando metà del denaro in contanti e

fissando un appuntamento per la consegna in una pasticceria dalle

parti di Place Kléberg, a Ginevra, quarantott’ore più tardi, perché

voleva che Lenzlinger ne informasse Andreas. Per infiltrarsi in

quell’ambiente non bastavano contatti, rapporti di amicizia o storielle

inventate di sana pianta. Il fatto di aver combinato un affare

costituiva il primo passo indispensabile, al quale avrebbero fatto seguito

tutti gli altri.

Avner decise di non inventare una spiegazione plausibile in anticipo


quando, tre giorni dopo, telefonò ad Andreas dall’aeroporto

di Francoforte. Era sempre in grado di pensare più in fretta se sapeva

esattamente come stavano le cose. Nel frattempo Lenzlinger doveva

aver informato Andreas che il suo amico aveva avuto bisogno

di certe cose e aveva sborsato senza fiatare quasi ventimila dollari in

contanti, il che senza dubbio avrebbe indotto Andreas a trovare per

conto suo una spiegazione per quello che Avner stava facendo; se la

spiegazione fosse risultata utile ai suoi fini, Avner non l’avrebbe

smentita.

«Lenzlinger mi ha informato» disse Andreas più tardi, rigirandosi

tra le dita la tazza di caffè, «che hai intenzione di mettere in

piedi un piccolo esercito.»

Avner scoppiò a ridere. Yvonne aveva cucinato un’altra cena -

una cenetta con i fiocchi in quattro e quattr’otto, per usare le sue

parole - e stava sparecchiando la tavola. Statuaria, con gli occhi

verdi, appariva fuori luogo in quel modesto monolocale arredato

con pochi mobili in stile scandinavo. C’erano due valigie accanto alla

porta, e Avner aveva tentato di spostarne una col piede quando

era entrato; palesemente, la valigia era piena, già pronta per una rapida

fuga. L’alloggio era in contrasto non solo con Yvonne, la quale


sarebbe parsa più a suo agio in una villa come quella di Lenzlinger,

ma anche con l’abitazione di quando Andreas era ragazzo, che Avner


ricordava

così bene.

«No, non un esercito» disse ad Andreas, che scoppiò a ridere

anche lui, continuando però a studiare Avner. Dopodiché, scoccò

un’occhiata a Yvonne per indicare che voleva restar solo col suo

vecchio amico.

«E, a quanto pare, hai anche dato una mancia generosa al corriere»

proseguì Andreas.

Avner annuì. Le cose si risapevano in fretta. Aveva dato cinque

banconote da cento dollari al giovanotto che era venuto a consegnargli

la valigia di Lenzlinger a Ginevra. Non era al corrente delle

tariffe in vigore, però sapeva che i corrieri correvano sempre moltissimi

rischi.

«Se hai una macchina per stampare i soldi» disse Andreas «non

avrei niente in contrario a farmela prestare per qualche ora.»

«Se l’avessi» ribatté Avner «te la darei per un’intera giornata.»

Risero tutti e due.

«Dimmi un po’, vecchio mio,» domandò Andreas, «sei ricercato

dalla legge?»
«Più o meno» rispose Avner.

«Hai rapinato una banca?» domandò Andreas, questa volta senza

sorridere.

Anche la risposta di Avner fu data in tono serio: «No».

«Sei scappato con la cassa?» Chiaramente, Andreas si era fatto

una sua idea, e Avner avrebbe dato chissà che per sapere esattamente

quale fosse.

«Be’, alcuni altri tizi e io» rispose «abbiamo tutti... dovuto lasciare

i posti dove lavoravamo e... non so se la cosa finirà sui giornali.E... è


qualcosa di

molto grosso.»

«Non dirmelo» fece Andreas, e negli occhi gli guizzò un lampo.

«Figlio di puttana. Si tratta del Liechtenstein.»

Avner emise un profondo sospiro, ostentatamente. Sicché era

questo che pensava Andreas! In quel momento, i giornali traboccavano

di articoli circa alcune operazioni alquanto oscure in cui era

implicato un grosso istituto finanziario del minuscolo principato

del Liechtenstein. C’erano banche che minacciavano di fallire da

un capo all’altro della Francia, e si diceva che nella faccenda fossero

coinvolti alcuni israeliani. Era un grosso scandalo.

Avner non perse tempo a dichiararsi colpevole. Era evidente;


non ebbe neppure bisogno di ricorrere al suo sesto senso. Andreas

aveva bisogno di soldi.

«Ascolta, vecchio mio,» disse Andreas, arrotolandosi un sottile

spinello, «ci siamo visti qualche volta in questi ultimi anni, ma...

non abbiamo mai parlato seriamente. Tu facevi gli affari tuoi, e io...

be’, Yvonne e io facevamo i nostri. Devi aver intuito qualcosa. Oppure

non l’hai semplicemente intuito, non saprei... fatto sta che mi

hai telefonato. Devi pur aver avuto un motivo, giusto?»

«Avevo bisogno d’aiuto» disse Avner. «Non credere che non ti

sia riconoscente.»

«Lascia perdere, sono stato ben lieto di farlo.»

Andreas accese lo spinello e inspirò a fondo. «Ma forse anche tu

puoi aiutare me... Tu hai qualcosa di cui ho bisogno. Correggimi se

mi sbaglio, perché se non l’hai amici come prima, e cercherò comunque

di darti una mano... però tu sei a grana, secondo me, e io

ho bisogno di un po’ di soldi.»

Avner finse di pensarci su.

«Quale cifra ti servirebbe?» domandò.

«Vuoi dire sull’unghia?» Andreas tirò un’altra profonda boccata

di fumo. «Mi occorrono dai cinquanta ai centomila dollari.»


«Posso fartene avere centomila» rispose prontamente Avner

guardando dritto negli occhi dell’amico. Lasciamo che si penta di

non averne chiesti di più. Lasciamogli credere che potrà farlo, in futuro.

Se continuava a mostrarsi servizievole. «Posso dartene cinquantamila

subito.»

Avner provò una punta di divertimento, quando Andreas gli

batté la mano sulla spalla, e persino gli offrì, distrattamente, un tiro

dello spinello, anche se sapeva che Avner non fumava ed era astemio,

a eccezione di un paio di bicchieri di birra. Andreas era eccitato,

e non c’era da meravigliarsi. Gli affiliati alla banda Baader-Meinhof, come


la

maggior parte dei gruppi terroristici, erano sempre

a caccia di fondi. Se i prezzi praticati da Lenzlinger erano in

qualche modo indicativi, dovevano affrontare spese enormi. Anche

il loro tenore di vita doveva essere costosissimo. La sicurezza costava

cara. Altrettanto dicasi dei viaggi. La necessità di mantenere in

funzione covi, di pagare gli informatori, di acquistare le attrezzature

per le comunicazioni, di comprare o noleggiare automezzi, tutto

ciò probabilmente costava una montagna di denaro. (nota 11).

Erano tutte cose che Avner aveva appreso, in linea generale, dai
profili operativi dei gruppi terroristici. Facevano parte del suo
addestramento

come agente. Ma per quanto riguardava il suo amico

Andreas, il sesto senso gli suggeriva qualcos’altro.

Ecco lì un ragazzo ricco, amante dell’avventura, viziato, e tuttavia

abbastanza sensibile, che era stato trascinato in un ambiente

che in realtà non era il suo. Andreas era di bell’aspetto e in perfetta

forma fisica, ma in pari tempo un po’ troppo impegnato, troppo facilmente

eccitabile. Aveva una specie di “tic”, si puliva un po’ troppo

spesso gli occhialini con un fazzoletto bianco di batista. Avner li

ricordava bene quei fazzoletti; la madre di Andreas doveva avergliene

comprati a dozzine, quando andava ancora alle medie. La

Frazione Armata Rossa della banda Baader-Meinhof non doveva

essere disposta ad accogliere automaticamente nelle sue file un giovane

del suo tipo. Senza dubbio, il prezzo per l’ammissione era il

denaro, o certe cose che col denaro si potevano comprare.

Per un certo periodo, poteva darsi che Andreas avesse soddisfatto

le esigenze del suo ruolo col proprio spillatico, attingendo a

qualche fondo fiduciario intestato a suo nome, o magari estorcendo

o facendosi prestare denaro dai genitori o da parenti. Ma a un certo

punto le fonti si erano prosciugate, e Andreas era atterrito all’idea


che il gruppo lo respingesse.

O anche peggio.

Se Avner aveva visto giusto, Andreas non avrebbe mai indagato

troppo a fondo nelle ragioni che lo inducevano a rifornirlo di fondi

e a chiedergli in cambio favori, contatti o informazioni. Anche se

sospettava che Avner potesse non essere semplicemente un fuggiasco,

un contrabbandiere, un malversatore; persino se gli fosse passato

per la mente che Avner, un israeliano, potesse esercitare le

stesse attività che esercitava lui, anche se da un’altra parte, con tutta

probabilità avrebbe chiuso un occhio sui propri sospetti. Se Avner aveva


visto

giusto, sarebbe diventato la zattera che avrebbe

permesso ad Andreas di cavalcare le rapide della rivoluzione ancora

per un po’. Non avrebbe fatto nulla per ribaltare la situazione.

«Certi miei amici arriveranno nei prossimi giorni» disse ad

Andreas. «Mi serviranno tre appartamenti, più o meno come il tuo.

Pensi che Yvonne potrebbe scovarne qualcuno, in modo che ci dia

un’occhiata? Non voglio che li affitti subito, solo che mi dia gli indirizzi.

Posticini molto tranquilli... tu capisci.»

«Sicuro» disse Andreas.

«Domani, diciamo» disse Avner, alzandosi. «Dopo che ci saremo


visti a pranzo e ti avrò dato il denaro.»

Entro la sera del giorno dopo, Yvonne aveva trovato ad Avner

sette covi tra cui scegliere. Gliene servivano solo tre: uno per Steve

e Robert, un altro per Carl e lui, un terzo per Hans, da solo. C’erano

varie ragioni a consigliare che loro cinque si suddividessero in

quel particolare modo, alcune operative, altre personali.

Avner aveva capito fin dalla prima occhiata a Steve, e soprattutto

a Robert, che non avrebbe mai potuto dividere un alloggio

con uno di loro senza impazzire in capo a una giornata. Vivere con

Steve avrebbe significato posacenere traboccanti e calzini nel frigorifero,

mentre Robert aveva un vezzo ancor più sconcertante: faceva

collezione di giocattoli meccanici e ci si gingillava per ore e ore di

fila. Lui, però, non l’avrebbe definito “gingillarsi”, perché per Robert

giocattoli e balocchi vari erano una cosa seria. I suoi possedevano

una fabbrica di giocattoli a Birmingham, e Robert aveva progettato

e fabbricato i loro prodotti più complessi e ingegnosi, prima

di emigrare in Israele. I giocattoli erano ancora il suo hobby principale,

e Robert non si stancava di raccoglierli e studiarli.

Carl, invece, aveva le stesse abitudini tranquille, di pulizia e ordine,

tipiche di Avner. Sebbene fumasse di continuo la pipa, non


c’era mai traccia di cenere attorno a lui e neppure il fumo sembrava

indugiare nell’aria. Carl continuava ad aprire le finestre e a sistemare

i cuscini in simmetria. Era una fortuna che Carl e Avner potessero

alloggiare assieme, dal momento che erano incaricati di elaborare

i piani e studiare gli aspetti logistici della missione.

Hans doveva starsene da solo per motivi di sicurezza. La sua

abitazione sarebbe stata l’unica a contenere qualche prova incriminante.

D’altra parte, aveva anche espresso la sua preferenza per un

posto tranquillo tutto per sé, quando doveva occuparsi dei documenti.

I compagni di Avner sarebbero giunti a Francoforte solo di lì a

due giorni. Nel frattempo, Avner andò con Yvonne a dare un’occhiata

ai covi. Chiaramente, la ragazza sapeva il fatto suo, perché

gli appartamenti erano tutti adatti alla bisogna, situati in rispettabili quartieri

residenziali, in prossimità delle principali arterie. Il giorno

seguente, Avner tornò da solo ad affittarne tre, anche se disse a

Yvonne che ne aveva affittato solo uno, per sé e un amico, dato che

gli altri amici avevano cambiato idea e deciso di non venire più a

Francoforte. Era inutile render noto l’indirizzo di tutti i loro covi.

Quello che scelse per Carl e per sé si trovava in un condominio di

medie dimensioni in Hugelstrasse, appena girato l’angolo dal luogo


dove era vissuto da ragazzo con i genitori. Era necessario un certo

intuito psicologico per comprendere i motivi per cui Avner aveva

scelto proprio quello come covo.

Gli appartamenti che affittò per Hans, Robert e Steve si trovavano

dalle parti di una strada chiamata Ròderbergweg, a una ventina

di minuti di auto da Hugelstrasse, e in un quartiere suppergiù

uguale. I due appartamenti erano vicini a un immenso parco cittadino,

curatissimo e teutonicamente organizzato. Steve nutriva una

specie di culto feticistico per la forma fisica e faceva sette od otto

chilometri di corsa ogni giorno, mentre Hans, il quale, a sentir lui,

avrebbe corso solo se qualcuno lo inseguiva con un coltellaccio da

macellaio, era un patito delle passeggiate solitarie. In questa fase,

Avner non aveva la più pallida idea di quanto tempo avrebbero passato

nei loro “quartieri generali” durante la missione. Pochissimo,

magari. Comunque, tanto valeva scegliere posti che si confacessero

ai loro gusti e alle loro abitudini personali.

L’ultima sera prima dell’arrivo dei suoi compagni a Francoforte,

Avner permise ad Andreas di portarlo a una riunione. Andreas

pareva già ansioso di guadagnarsi il denaro che Avner gli aveva dato,

oltre che la sua benevolenza.


L’appartamentino saturo di fumo sembrava servire di luogo di

ritrovo per una cellula di simpatizzanti della banda Baader-

Meinhof, e a giudicare da come furono accolti lui e Andreas Avner

avrebbe detto che l’amico fosse il personaggio più importante tra i

presenti. La cosa fece sì che tutti gli altri, e la serata in se stessa, risultassero

privi d’interesse, agli occhi di Avner. Anche se i cinque

uomini e le due donne che si trovavano nell’appartamento erano

suppergiù suoi coetanei, Avner al loro confronto si sentiva un vecchio

di sessant’anni. Riuscì a stento a tenere gli occhi aperti durante

le interminabili discussioni politiche. Sicché, quelli erano alcuni dei

tanto temuti terroristi dell’Europa Occidentale - almeno allo stadio

iniziale. A guardarli e a sentirli parlare davano l’impressione di

studentelli intenti a discutere di libri e di idee che Avner aveva solo

vagamente sentito nominare, ma che gli sembravano un miscuglio

di vieto comuniSmo e di banali sciocchezze. E chi erano i loro guru?

Frantz Fanon e Herbert Marcuse, sì, Avner di questi due aveva

sentito parlare, ma chi diavolo erano Paul Goodman e Regis Debray? E quei

loquaci giovanotti e ragazze erano davvero capaci di

sparare o collocare una bomba? Ma poi Avner ricordò, con una fitta

di apprensione, quanto sia facile piazzare una carica di esplosivo. Il


filo rosso col rosso, l’azzurro con l’azzurro.

In ogni caso, quella sera la discussione non vertè su alcuna operazione

terroristica, passata o presente, né sulla questione palestinese,

neppure in teoria. Avner si limitava ad annuire e a sorridere,

quando gli altri cercavano di coinvolgerlo nella conversazione, e si

sforzava di imprimersi i loro volti nella memoria.

«Pensavo che sarebbe venuto qualcun altro» disse Andreas

mentre tornavano a casa, quasi per scusarsi. «Questa gente a margine

fa un sacco di chiacchiere, sai,» aggiunse, «ma basta non far caso

a tutte le sciocchezze che dice. E gente che va bene per portare una

borsa da un posto all’altro, per noleggiare una macchina, affittare

una casetta. Personalmente, non mi considero neppure marxista.

Ma non ha importanza. Ci sarà tutto il tempo necessario per eliminare

i parolai, dopo la vittoria.»

Avner assentì col capo. Non era necessario esprimere un’opinione

su chi avrebbe eliminato chi, e dopo la vittoria di chi.

Né Carl, né Robert, né Steve, né Hans avevano da riferire alcunché

d’incoraggiante, quando si trovarono tutti assieme il giorno

dopo. Avevano eseguito il lavoro preliminare, come aveva fatto Avner -


c’erano

casseforti, denaro, documenti e covi a loro disposizione


a Parigi, Amsterdam e Roma, e sarebbe bastata una telefonata di

Robert perché venisse loro recapitato nel giro di quarantott’ore tutto

il materiale necessario per un’eventuale operazione. In una qualsiasi

città europea. «Eccezion fatta per un pezzo di artiglieria,» come

disse Robert ad Avner, «ma di questo non ci sarà bisogno, no?»

«Non ci sarà bisogno» replicò Avner «di ricorrere a un cannoneggiamento,

a questo punto. Nessuno di voi ha saputo qualcosa di

nuovo?»

Scossero tutti la testa. Non solo i loro consueti informatori non

erano in grado di fornire la minima indicazione sull’attuale domicilio

di uno dei bersagli “duri”, ma neppure avrebbero saputo dire

con certezza se gli organizzatori - i bersagli “facili” - regolarmente

elencati nella guida del telefono si trovassero all’indirizzo indicato.

I compagni di Avner non erano riusciti a sapere alcunché sugli orari

o le abitudini di uno solo degli uomini della lista. «Da come stanno

le cose ora, amico,» buttò lì Steve, «ci siamo agghindati per andare a

una festa, ma non sappiamo a che festa andare.»

Era più o meno la loro situazione, nel pomeriggio del 2 ottobre

1972. Il giorno dopo, Avner portò Andreas a fare una passeggiata.

«Ti ho detto che ti avrei dato centomila dollari» disse «e potrò


darti la seconda metà tra qualche giorno. Però ho bisogno anch’io di

qualcosa.»

«Qualsiasi cosa» rispose Andreas. «Ti serve un altro tizio come

Lenzlinger, magari qui in Germania? Posso...»

Avner fece segno di no con la testa. Era un momento di grande

pericolo, il momento della prova per capire se con Andreas aveva

usato la “chiave di lettura” giusta.

«No» disse in tono quasi sommesso. «Mi serve qualcuno che sia

in contatto con i palestinesi. Qualcuno che li conosca, che sappia

qualcosa di loro. Capisci?»

Andreas continuò a camminare in silenzio accanto ad Avner per

qualche minuto. «Non so se ho poi davvero tanto bisogno di altri

cinquantamila dollari» finì col dire.

«Non si tratta solo di questo» disse Avner. «Quando mi metterai

in contatto con questo tizio, chiunque sia, non sarò io a pagarlo.

Darò a te anche il denaro destinato a lui. Lo pagherai tu, qualsiasi

somma pretenda.»

Andreas fece udire una risatina. Avner si avvide che l’altro aveva

compreso che gli veniva offerta la parte da intermediario, con la

possibilità di fare la cresta su qualsiasi somma chiedessero altri informatori,


e di rafforzare la sua posizione nella clandestinità. Sarebbe

diventato l’uomo che disponeva di fondi, la cosa cioè che faceva

girare il mondo del terrorismo, e il mondo in senso lato.

«Guarda la cosa nel modo giusto,» proseguì Avner, un po’ più in

fretta ora, «e vedrai che, così facendo, riusciresti a recuperarti un

po’ dei tuoi soldi. Forse che i palestinesi non pretendono di essere

pagati per l’addestramento, per le armi? E li pagate salati. Combattete

per la stessa rivoluzione, ma quelli si fanno pagare comunque.

Ora un po’ di quei soldi rientrano per la vostra causa. Non è come

se te li tenessi per te. Yvonne non ha bisogno di pellicce.»

L’accenno a Yvonne era un tocco da maestro. Sicuramente la

ragazza non stava con Andreas per ragioni venali. Nessuno sarebbe

riuscito a far colpo su di lei con gioielli o pellicce. Però doveva pur

esserci qualcosa con cui un uomo poteva far colpo su di lei - bisognava

sempre far colpo sulle donne, secondo Avner - e probabilmente

Yvonne si lasciava sedurre dall’idea del rivoluzionario, del

romantico guerrigliero urbano. Ma si rendeva conto della quantità

di denaro che un uomo come Andreas avrebbe dovuto raggranellare

per assumere una posizione del genere? E di dove poteva finire, una

volta che i fondi si fossero prosciugati?


Andreas lo sapeva. Smise di ridere.

«Tu non sei un libero professionista, vecchio mio» disse. «Tu

non traffichi col Liechtenstein.»

«Sono un libero professionista» ribatté Avner. «Traffico in informazioni,

qualche

volta.

Le

informazioni

rendono

bene.

Sarai

pagato.

E io, rivendendole, ci guadagnerò su, tutto qui.»

Sembrava del tutto plausibile. «E senti» riprese a dire Avner

«ricordati che siamo vecchi amici, come seguiti a ripetere. Non farei

mai niente che potesse danneggiarti. Però qualcosina la so già.»

Anche questo era plausibile. E conteneva una minaccia.

«Credimi, anche se volessi farlo» disse Andreas «a Francoforte

non c’è nessuno... non conosco nessuno.» Si mise a pulire gli occhialetti.

«Ti occorre uno come Tony. Ma si trova a Roma.»


«A Roma, dici?» domandò Avner. Il gatto era nel sacco. Ci si

era infilato nell’attimo in cui Andreas si era messo a pulire gli occhiali.

«Combinami un incontro.»

La mattina del 3 ottobre presero assieme un volo della Lufthansa

per Roma. Non appena atterrati noleggiarono un’auto, ma

Andreas guidò soltanto fino a Fiumicino, a breve distanza dall’aeroporto.

Entrarono in una piccola trattoria a pochi metri da Via

Molo di Levante. Dalla finestra, Avner osservava uno stormo di rumorosi

gabbiani che roteavano e si tuffavano a pescare i rifiuti galleggianti

sull’acqua del mare.

Avevano appena finito di bere il primo bicchiere di birra quando

un giovane piccoletto si avvicinò al loro tavolo. Portava un vestito

stazzonato di tessuto leggero, con giacca e cravatta, e un impermeabile

gettato sulla spalla. Aveva i capelli e gli occhi scuri ma la

pelle era chiarissima, quasi cerea. Aveva l’aria di un capufficio di

una fabbrica di scarpe, sulla trentina, anche se ne dimostrava di più.

«Salve, Tony» disse Andreas, in inglese.

Tony sorrise, fece un cenno col capo, scostò una sedia e si accomodò.

Adocchiò di sfuggita Avner, un’occhiata neutrale, né ostile

né amichevole. Ma già prima che parlasse, Avner intuì che Tony


non era l’ultimo arrivato. Che si rivelasse utile o meno, Tony era

fatto di un’altra stoffa. «Avete già ordinato?» domandò, in inglese

spedito con un forte accento italiano. «Ho una fame da lupo.» Diede

una scorsa alla lista e passò l’ordinazione al cameriere, scegliendo

con gran cura il vino. Avner si avvide che aveva un principio di

pancetta. Gli occhi erano intelligenti, sardonici. Tony non recitava

né impersonava alcuna parte.

«Avner è l’amico di cui ti ho parlato per telefono» disse Andreas,

quando il cameriere ebbe finito di servire il pranzo. «È dei

nostri, naturalmente, e... ha qualche domanda da farti.»

«Sì» disse Tony. Attaccò a mangiare, senza fretta, palesemente

gustando il cibo. «In questo momento c’è un gran movimento nella

comunità araba. Grande opera di reclutamento, e così via. Soprattutto

da parte di una persona.»

Avner si sentì letteralmente rizzare i capelli. Tony lo guardò per

un attimo, piegando leggermente la testa di lato, come per domandare:

«Non era questo che volevi sapere?».

Lo era. E sarebbe stato perfettamente inutile non replicare in

modo altrettanto diretto. «Come si chiama questa persona?» domandò

Avner.
Tony si forbì la bocca, dandosi solo qualche colpetto agli angoli,

poi posò il tovagliolo. «Prima veniamo al dunque» disse.

Seguì una breve pausa. Andreas guardò Avner, poi si rivolse a

Tony. «Ascolta, per il denaro garantisco io» disse. «Di questo non

devi preoccuparti. Però ti rendi conto che Avner deve sapere se

quel che sai gli interessa o no. Giusto?»

Tony continuò a fissare Avner, mentre Andreas parlava. Poi fece

segno di sì con la testa. «Zwaiter» disse ad Avner, senza esitazioni.

«Quella persona si chiama Zwaiter.» Parlò molto in fretta. Il nome

sarebbe certamente sfuggito a chiunque già non lo conoscesse.

«Wael Zwaiter» disse immediatamente Avner, e altrettanto in

fretta, in modo che Andreas non lo afferrasse, quasi si trattasse di

una parola d’ordine. In un certo senso, lo era. Un bersaglio “facile”,

proprio lì a Roma. Il numero quattro della lista di Ephraim. Tony

era chiaramente l’uomo che ci voleva.

Doveva averlo pensato anche Tony, perché bevve un sorso di

vino, poi disse ad Avner: «Be’... vuoi che faccia qualcos’altro?».

Avner ci stette a pensare qualche istante. «Nei prossimi cinque

giorni» disse «potresti scoprire i suoi orari, le sue abitudini? Dove

abita; dove va e quando; con chi si vede? E tutto quel che c’interessa
sapere.»

A questo punto, una richiesta di informazioni del genere non

scopriva il loro gioco. Potevano esserci moltissime ragioni per chiederle.

Andreas aveva presentato Avner come uno “dei nostri”, cioè

della banda Baader-Meinhof. Capitava spesso che i vari gruppi tenessero

d’occhio le rispettive attività. Poteva accadere che i terroristi

volessero accertarsi che un’altra organizzazione non fosse infiltrata,

prima di una missione congiunta; o sospettassero che un organizzatore

chiave come Zwaiter, dal quale magari erano stati avvicinati,

facesse il doppio gioco. Nella clandestinità, la sorveglianza era

cosa di ordinaria amministrazione.

«Sì» rispose Tony. «Cinque giorni vanno bene. Hai parlato di

cinquantamila dollari.»

Avner si alzò. «Andreas verrà qui a incontrarti, fra cinque giorni,»

disse, «col denaro.»

Andreas rimase al colmo dell’entusiasmo durante il volo di ritorno

a Francoforte. «Che impressione ti ha fatto Tony?» continuava a


domandare. «Lo

conosco da un pezzo. È un tipo molto deciso.

Milanese, di origine. Però non parla mai di politica. E una fase che

ha superato da anni.»
Avner era perfettamente d’accordo sul fatto che Tony aveva superato

da un pezzo quella fase.

Incontrandosi con i compagni, quella sera stessa, Avner propose

di formulare un piano operativo particolareggiato. Al momento

opportuno, avrebbero spostato Zwaiter al primo posto della lista.

Entro l’8 ottobre si sarebbero trasferiti tutti a Roma, con l’eccezione

di Steve, il quale si sarebbe recato a Berlino Ovest a controllare

una pista che portava al bersaglio numero uno, Ali Hassan Salameli.
(L’indizio

era stato fornito a Carl da uno dei suoi vecchi informatori

arabi; uno dei numerosi contatti regolari di cui si serviva il

Mossad.) Se la pista si fosse rivelata consistente, avrebbero abbandonato

per il momento Zwaiter. In caso contrario, Steve li avrebbe

raggiunti a Roma.

La seconda mossa sarebbe consistita nel successivo incontro di

Avner con Tony, incontro al quale avrebbe fatto presenziare anche

Andreas. Non c’era ragione, però, perché Andreas dovesse conoscere

anche gli altri. Se le informazioni di Tony avessero portato alla

terza fase dell’operazione, Avner avrebbe escluso Andreas, limitandosi

a dirgli che ormai, almeno per il momento, disponeva di

tutto ciò che gli serviva, e che si sarebbe rifatto vivo in seguito.
Durante la terza fase, gli uomini del gruppo di sorveglianza di

Tony avrebbero dovuto affiancarli in un attacco simulato per almeno

due volte, senza tuttavia sapere che cosa realmente facessero.

Ciò significava, per gli uomini di Tony, la necessità di accompagnare

la squadra di Avner, escluso Carl, fin sulla scena dell’attacco, per

poi allontanarsene, attraverso tutta una serie di segnali convenuti,

come se l’unico scopo dell’esercitazione fosse la sorveglianza. (Nella

sorveglianza di un elemento sospetto, che sapeva il fatto suo, a

volte rientrava nella prassi normale servirsi anche di una dozzina di

persone diverse, che si passavano a vicenda il sorvegliato, come in

una staffetta ci si passa il testimone.) Gli osservatori di Tony sarebbero

stati allontanati dalla scena prima che iniziasse l’azione, mentre

gli elementi preposti alla fuga sarebbero stati scaglionati lungo il

percorso, collocando il più vicino a vari isolati di distanza dalla scena.

Nessun estraneo sarebbe stato presente al colpo effettivo, e ne

sarebbe venuto a conoscenza solo dai giornali o dai notiziari radiotelevisivi.

A quel punto, si sarebbero ritenuti implicati nella faccenda,

e tutt’altro che ansiosi di parlarne a qualcuno; del resto, anche

se avessero parlato non avrebbero avuto gran che da dire.

L’unica fase in cui gli uomini di Avner avrebbero dovuto


cavarsela da soli era quella riguardante la prima automobile destinata a

garantire la fuga, trasportando chiunque avesse fatto il colpo fin dove

era in attesa la seconda macchina. Dopodiché, Carl avrebbe

“spazzato” la scena per conto suo, unendosi agli altri solo in un secondo

tempo.

Ammesso che arrivassero alla quarta fase, beninteso, cioè al colpo

vero e proprio.

In effetti, il piano funzionò così bene che non dovettero quasi

apportare modifiche. Il rapporto di Tony era meticoloso, e Avner

disse ad Andreas di consegnargli cinquanta dei cinquantacinquemila

dollari che aveva avuto in fruscianti banconote americane da cento.

Poi lasciò che Andreas prendesse il volo per Francoforte e combinò

un altro incontro con Tony per conto suo.

Senza far domande, l’italiano accettò di proseguire la sorveglianza

di Zwaiter, questa volta con la partecipazione degli uomini

di Avner. Accettò anche di predisporre loro un covo nei dintorni di

Roma. Per questo incarico Tony pretese altri centomila dollari, una

cifra abbastanza ragionevole. In questo modo, gli uomini della

squadra di Avner inscenarono un finto attacco contro Zwaiter, ancora

prima che Steve li raggiungesse.


L’informazione di Steve su Salameh si rivelò priva di fondamento

- un canard, come la definì Hans, con Avner che fece entusiasticamente

sua l’espressione giornalistica francese che sta per notizia

fasulla - sicché la squadra riprovò il copione dell’assassinio di

Zwaiter, questa volta con Steve. Tony mise a disposizione autisti

diversi per ogni prova generale, anche se gli osservatori restavano

gli stessi. Quanto a Zwaiter, si rivelò un bersaglio disposto a collaborare,

per così dire; le sue abitudini, che sembravano non variare

mai, neppure nei particolari, erano il più grosso aiuto che una vittima

potesse fornire ai suoi aggressori.

Gli uomini della squadra decisero personalmente dove alloggiare

a Roma, nel periodo precedente il colpo. Fu Carl a insistere su

questo punto, per ragioni di sicurezza; Tony non avrebbe saputo

dove scovarli, e i suoi uomini si sarebbero limitati a prelevare Avner e i suoi

compagni in un punto convenuto, in strada, riaccompagnandoli poi in posti


diversi

dopo ogni prova generale. (In seguito,

Avner finì col convincersi che Tony avrebbe potuto rintracciarli nel

giro di qualche ora, a Roma, malgrado tutte queste precauzioni: pareva

tenere sotto controllo l’intera città.)

L’unico che Tony e i suoi non avrebbero mai visto, per il momento,
era Carl. Carl si sarebbe sempre tenuto sullo sfondo per tener

d’occhio chiunque potesse pedinare la squadra di sorveglianza

di Tony, per osservare gli osservatori, approntare vie di fuga alternative,

altri covi e documenti. Doveva insomma fungere da valvola

di sicurezza: se una cosa qualsiasi avesse minacciato di non andare

come doveva avrebbe avuto la possibilità di scoprirlo e avvertire

tempestivamente gli altri.

Dopo il colpo, Carl sarebbe stato il primo a giungere sul posto,

prima della polizia. Avrebbe fatto sparire qualsiasi indizio, magari

predisponendone di falsi. Avrebbe potuto spostare l’automobile

destinata a garantire la fuga e parcheggiarla in un posto diverso.

Avrebbe cercato di scoprire quali idee si fossero fatte le autorità

competenti, o in quale direzione si sarebbero mosse le prime indagini

o un eventuale tentativo di inseguimento.

Tutto ciò avrebbe fatto di Carl l’uomo più impegnato, oltre che

più esposto, della squadra.

Il 13 ottobre, l’unico problema ancora da risolvere era quello

della prima automobile per la fuga, che sarebbe stata condotta per

un breve tratto soltanto da uno di loro, probabilmente Steve; l’automobile

che sarebbe stata abbandonata a poca distanza dalla scena


del delitto. Chiaramente, una macchina del genere non poteva essere

intestata a uno degli uomini di Tony. Avrebbe potuto essere un

automezzo di provenienza furtiva, ma sembrava un rischio superfluo,

e il fatto di noleggiare un’auto avrebbe portato al sacrificio di

una serie di documenti, oltre che al riconoscimento di uno dei membri

della squadra di Tony, o di Avner, da parte dell’agenzia di autonoleggio.

«Ci occorre un’altra macchina» disse Avner a Tony. «Una macchina

che si possa abbandonare.»

Tony esaudì la richiesta senza difficoltà, com’era già accaduto

con tutte le richieste precedenti. Continuò tutto serio a mangiare il

suo gelato nel piccolo caffè con i tavolini all’aperto dove si trovavano,

non lontano da Piazza Navona. «Si può combinare» rispose ad

Avner, facendo il nome di una grossa agenzia americana di autonoleggio

e dando l’indirizzo di una delle sue filiali. «Ti noleggeranno

una macchina con la targa di un’altra città, e non dovrai preoccuparti

dei documenti. Se mai la polizia dovesse interrogare quelli

dell’agenzia, daranno la descrizione di un texano di alta statura con

una carta di credito del Diner’s Club, che l’ha noleggiata a Milano.

Ti costerà diecimila dollari.»

E qui arrivò la sorpresa.


«Ma non li dovrai a me» proseguì Tony. «Ti darò un numero di

Parigi. La prima volta che ci andrai, chiama il numero e chiedi di

Louis. Digli che ti ho detto io che gli devi qualcosa, e pagalo. Non

c’è fretta, ma vedi di farlo entro un mese o giù di lì.»

Era interessante. Tony aveva un capo? O un socio che pretendeva

una tangente su tutte le sue operazioni romane? Oppure, semplicemente,

doveva a “Louis” diecimila dollari e trovava più comodo

mandarglieli tramite Avner che andare apposta a Parigi?

O ancora, come rimuginò Carl quando l’ebbe saputo, poteva

trattarsi di una trappola? Ma Avner scartò questa possibilità. Il suo

sesto senso non segnalava alcun pericolo.

I trafficanti d’armi, gli informatori e altri cani sciolti sono sempre

esistiti nell’ambiente internazionale dello spionaggio, del contrabbando,

del crimine e del terrorismo. A volte, costituiscono organizzazioni

alquanto elastiche, più una rete di contatti che una ferrea

gerarchia, nel cui ambito si scambiano i clienti, nel caso di servizi

che non siano in grado di fornire personalmente. Alcuni sono

mossi da motivazioni politiche, altri sono del tutto apolitici, ma in

ogni caso il loro interesse precipuo è il lucro. Schierarsi da una sola

parte, soprattutto considerando i rapidi spostamenti delle alleanze


nel sottobosco del terrorismo e della malavita, generalmente è contrario

ai loro interessi. Sebbene a volte questo o quel trafficante rifiuti

recisamente un certo tipo di attività o mercanzia - alcuni, per

esempio, non tratterebbero mai droga o esplosivi; altri sono specializzati

esclusivamente nello spionaggio industriale; altri ancora non

lavorerebbero mai e poi mai, scientemente, per un dato paese - di

regola sono disposti a vendere informazioni e servizi a ogni buon

cliente. Non sono tuttavia disposti, almeno a breve scadenza, a

vendere un cliente a un altro, non più di quanto facciano gli investigatori

privati o altri normali uomini d’affari. «Checché Tony pensi

o sospetti» replicò tranquillo Avner a Carl «sa che lo paghiamo con

denaro pulito.»

C’era ancora solo un problema da risolvere, quello che in gergo

operativo veniva formulato come segue: «Chi, che cosa?». Riguardava

soltanto quattro di loro, dal momento che i compiti di Carl sarebbero

sempre stati gli stessi. Chiaramente, Steve era il guidatore

più provetto, per cui era logico che si mettesse lui al volante della

prima automobile per la fuga. Essendo il capo, nella più pura tradizione

militare israeliana, sarebbe stato impensabile che Avner non

si attribuisse una delle parti di attentatore, soprattutto in occasione


della loro prima azione. In effetti, gli altri lo davano per scontato.

Ma l’altro attentatore doveva essere Robert o Hans?

«Non sto cercando di imporre la mia candidatura,» disse Robert

quando attaccarono a parlare dei rispettivi incarichi, in tono alquanto

inglese anche se parlava in ebraico, «però ho dimestichezza

con le armi e...»

Hans sorrise. Nessuno metteva in dubbio la preminenza di Robert

in fatto di esplosivi, ma tutti loro avevano dimestichezza con le

pistole di piccolo calibro. «Accomodati,» disse il compagno più maturo,

prendendo in mano una rivista e inforcando gli occhiali da

presbite, «puoi prendere il mio posto ogni volta che vorrai. Solo

dammi un colpetto sulla spalla quando tutto sarà finito.»

Era una tattica per trovarsi in vantaggio rispetto agli altri, solo

applicata alla rovescia, un po’ come accadeva un tempo al reparto di

Avner, sotto le armi: consisteva nel proclamare che l’ultima cosa

che si aveva voglia di fare era affrontare il fuoco nemico, facendo

però in modo che nessuno ci credesse, da come lo si diceva. Anche

se, nel caso specifico, chi poteva dirlo? Forse Hans era davvero felice

di non dover assumere l’incarico. E forse lo sarebbero stati tutti

quanti.
Ciononostante, di lì a un paio di giorni, l’incarico era assolto:

Zwaiter era morto.

E ora Avner passeggiava tra gli stenti albicocchi sul retro di una

casa di campagna, fuori Latina, fiutando il sentore del mare, riscaldandosi

al sole di fine ottobre e sentendosi... be’, non proprio felice

ma certamente non infelice. Sentendosi... sentendosi né una cosa

né l’altra, esattamente. Non c’era motivo di mentire sulla faccenda.

Avevano dimostrato di sapercela fare, cominciando dal niente, in

tre settimane circa. Cinque Yekke abbandonati a se stessi. D’altra

parte, anche se Avner non avrebbe saputo dire che cosa passasse

per la mente di Robert o di un altro qualsiasi dei compagni, a lui,

personalmente, non aveva fatto piacere dover sparare in un androne

a un uomo che reggeva un sacchetto di panini. E non avrebbe ripetuto

l’impresa, se solo non avesse dovuto. Però... non era poi così

male come aveva temuto che potesse essere. Non era neppure così

male com’era stato il doverci pensare, prima che accadesse. Non

aveva perso l’appetito; non aveva perso il sonno. Niente incubi, e la

mattina divorava un’abbondante colazione. Ma ricavarne piacere?

Nessun essere normale avrebbe potuto.

La faccenda non costituì, comunque, argomento di conversazione


tra i membri della squadra. Né prima né dopo la prima azione,

e neppure in seguito, nel proseguimento della missione. In verità, a

mano a mano che il tempo passava avrebbero “filosofato” sempre

più spesso, mai però direttamente, dei sentimenti che provavano. E

dato che erano costretti a parlare di continuo delle varie azioni, parlavano

quasi esclusivamente di esse, ma non in quei termini. Può

darsi ritenessero tacitamente che era già abbastanza difficile dover

fare cose del genere, e che il fatto di parlarne avrebbe solo contribuito

a peggiorare la situazione.

Forse l’unica indicazione di un certo senso di colpa per ciò che

stavano facendo era che nella vita di tutti i giorni si facevano in

quattro per mostrarsi insolitamente cortesi e servizievoli nei confronti

delle persone con cui avevano rapporti di qualche tipo. Qualsiasi

fattorino d’albergo, cameriere, tassista, cassiere di banca

avrebbe potuto attestare che i loro discorsi erano infarciti di “prego”

e “grazie”. Non c’era vecchia signora che potesse attraversare

la strada senza che Steve bloccasse l’auto, saltando giù ad aiutarla.

Non c’era sconosciuto che potesse lasciar cadere qualcosa senza che

Hans si chinasse a raccattarla. Da bravi boy-scout. Avner e Carl

compravano ricordini e scrivevano cartoline a casa ogni volta che


potevano, proprio come mariti affettuosi in viaggio per affari. A

Roma, qualche giorno prima del colpo, Avner vide Robert regalare

un giocattolo meccanico nuovo di zecca a un monello di strada che

si era fermato accanto al loro tavolo, facendo tanto d’occhi. Robert

era un ragazzo di cuore tenero, certamente, pensò Avner, ma forse

adesso esagerava un tantino.

Carl arrivò a Latina nelle prime ore del pomeriggio del 17 ottobre,

a bordo della macchina di Tony. Come concordato, Carl si era

messo in contatto con Tony per la prima volta dopo l’operazione.

Tony aveva accompagnato personalmente Carl al covo, e gli accordi

erano che se Carl avesse avuto l’impressione che tutto era in ordine

avrebbe eseguito l’ultimo versamento. La cosa non sollevò alcuna

obiezione da parte di Tony.

Quando smontò dalla sua auto a Latina, Tony doveva ormai sapere

non solo che cos’era accaduto all’individuo che i suoi uomini

avevano tenuto sotto sorveglianza, ma anche che Avner e i suoi

amici dovevano averci avuto mano. E tuttavia Tony non fece commenti.

L’argomento non venne neppure abbordato. L’italiano presentò

il conto e ricevette il denaro in contanti. Prima di andarsene,

rammentò ad Avner di recapitare i diecimila dollari del noleggio


dell’auto a Louis, a Parigi, non appena ne avesse avuto l’occasione.

Fu così che Avner ebbe modo di conoscere Louis, il primogenito

di Papà, il numero due dei tre uomini del Group, anche se Avner ancora

per un certo tempo non avrebbe saputo nulla di Papà o dei suoi

figli. La cosa si svolse per gradi.

L’incontro, del resto, ebbe luogo solo un mese dopo. La squadra

si trattenne a Latina ancora per qualche giorno, per dar tempo a

Carl di radunare tutte le armi, i documenti e persino gli indumenti e

sbarazzarsene, per poi consegnar loro, in cambio, documenti e vestiti

nuovi. Carl riferì che la polizia italiana era giunta sul luogo del

delitto nel giro di alcuni minuti, probabilmente nel momento in cui

loro si stavano trasferendo dalla Fiat verde al furgone, qualche isolato

più in là. Carl disse di avere sbirciato all’interno della macchina

servita per la fuga prima che la polizia la ritrovasse, ma di non avervi

scoperto alcun indizio che valesse la pena di fare sparire. (Robert

riteneva possibile che avesse lasciato cadere qualcosa mentre sostituiva

il caricatore nella pistola.) Carl aveva udito alcuni testimoni

parlare con i poliziotti sulla scena del delitto - non era difficile origliare,

durante le indagini della polizia italiana, almeno nelle fasi

iniziali - però gli era sembrato che non fossero in grado di fornire
indicazioni tali da ledere la sicurezza della squadra.

Quando fosse giunto il momento di lasciare Latina, Carl avrebbe

dovuto andare a Roma a far piazza pulita di tutte le armi, il denaro

e i documenti che avevano abbandonato in vari nascondigli.

Avrebbe cominciato a farlo, comunque, solo quando avesse saputo

che gli altri erano giunti sani e salvi a Francoforte.

Robert e Steve presero l’aereo per Zurigo, da dove avrebbero

proseguito in treno per Francoforte. Avner e Hans partirono il giorno

dopo, raggiungendo Francoforte in aereo direttamente da Roma.

Al controllo passaporti i loro documenti furono degnati a malapena

di un’occhiata. Il primo atto di rappresaglia, ivi compresa la

parte più difficile, ossia la fuga, era compiuto.

Nelle due settimane che seguirono, non riuscirono a raccogliere

informazioni di sorta sul luogo in cui poteva trovarsi uno qualsiasi

dei terroristi della lista. Poteva darsi che alcuni di loro fossero in

Europa, ma era anche possibile che non mettessero il naso fuori dai

loro nascondigli del Medio Oriente - dove ad Avner e alla sua squadra

non era consentito intervenire - per mesi o magari anni. Qualcuno

poteva trovarsi nell’Europa Orientale o a Cuba, del pari escluse

dalla zona di operazioni della squadra.


Con ciò, rimanevano solo i bersagli “facili”, i numeri tre, cinque

e nove della lista di Ephraim. In realtà, rimaneva unicamente il

numero tre, Mahmoud Hamshari, perché per il momento risultavano

irreperibili anche i numeri cinque e nove, cioè il professore di

giurisprudenza, al-Kubaisi, e il regista teatrale Boudia. Mahmoud

Hamshari, invece, si trovava a Parigi.

Dopo averne discusso un po’, convennero che la mossa più indicata

era che Avner si recasse a Parigi. Benché Hans fosse, dei cinque,

quello che aveva una conoscenza più approfondita della capitale

francese e della lingua - il francese di Avner era pressoché nullo -

avrebbe avuto di meglio da fare, approntando i documenti nel piccolo

“laboratorio” che stava attrezzando nel suo covo di Francoforte.

Avner era in grado di muoversi abbastanza a suo agio a Parigi, e

chiunque fosse Louis, era ora di pagarlo. Sarebbe stato un errore

grossolano non tener fede ai patti stipulati tramite Tony. In un’attività

in cui i debiti non si potevano esigere legalmente, si aveva la

tendenza a farli pagare per vie traverse, in maniera intransigente. E

comunque, poteva darsi che Louis si rivelasse utile a Parigi come

Tony lo era stato a Roma.

Avner decise di portarsi appresso Andreas e Yvonne. Benché


non credesse che Louis potesse essere un tranello, conveniva con

Carl - Carl il Prudente, come lo aveva già soprannominato - che sarebbe

stato più sicuro lasciare che fosse Andreas a stabilire i primi

contatti. A quanto sembrava, Andreas aveva già trattato con Louis

un paio di volte in relazione all’attività della banda Baader-Meinhof,

e disse ad Avner che era «un po’ come Tony». Vale a dire

un giovanotto dalle idee molto chiare, che aveva «superato la fase»

delle chiacchiere politiche. Da parte sua, Andreas non aveva niente

in contrario a fare un altro favore al suo vecchio amico - nel frattempo

si era già recato un’altra volta a Roma col denaro destinato a

Tony - perché la commissione per la cellula di Francoforte della

Frazione Armata Rossa sarebbe stata generosa. In effetti, come bofonchiò

Hans: «Stiamo mantenendo nel lusso metà dei terroristi

esistenti in Europa. Tra poco pianteranno in asso i russi e verranno

a lavorare per noi».

Avner comprendeva il punto di vista di Hans, naturalmente.

Era tutto da ridere: Israele stava contribuendo al finanziamento

della banda Baader-Meinhof che aveva spesso aiutato i fedayin a

spargere il terrore in Israele. Un circolo vizioso, insensato. Ma che

altro potevano fare? Erano stati incaricati di beccare i mechablim.


«Infiltratevi nella rete dei terroristi» aveva detto Ephraim. Doveva

pur sapere che il solo modo per farlo consisteva nel dar denaro ai

terroristi.

Gli altri erano d’accordo con Avner. «Non tocca a noi trovare i

perché, amico» disse Steve. «Lasciamolo fare ai grossi calibri. E

poi» soggiunse «è un’arma a doppio taglio. Prendiamo quell’Andreas.

A quest’ora deve aver capito che ci sta dando una mano a far

fuori i suoi amici.»

Di questo Avner non era tanto sicuro. Andreas aveva lasciato

Roma prima del colpo, e non aveva neppure afferrato il nome

dell’uomo che Avner aveva chiesto a Tony di sorvegliare. La morte

di Zwaiter non aveva avuto gli onori delle prime pagine dei giornali,

in Italia, e in Germania vi si era accennato appena di sfuggita.

Poteva darsi che Andreas non ne avesse avuto notizia, o se anche

l’aveva saputo che non avesse intuito subito un nesso logico. Capitava

spesso che esponenti dei vari gruppi palestinesi si assassinassero

a vicenda.

Anche ammesso che avesse scorto il nesso logico, Andreas poteva

comunque aver preso per buona la spiegazione di Avner secondo

cui lui era una specie di mercenario, il quale andava raccogliendo


informazioni
sui terroristi con l’intento di rivenderle a qualcun altro,

e magari supponeva che Avner le rivendesse a gruppi terroristi rivali.

Non doveva neppure essergli passata per la testa l’idea che l’amico

d’infanzia progettasse a sua volta qualche impresa, e non era probabile

che Tony glielo dicesse. Tony non era uno stupido.

Hans, però, aveva ragione. La faccenda nel suo complesso a volte

sembrava una follia. Probabilmente era opportuno non soffermarcisi

troppo. Loro erano solo agenti. Forse, se fossero stati a conoscenza

delle informazioni cui avevano accesso il memune e anche

Ephraim, tutto sarebbe diventato chiaro. Forse, a un gradino più

alto, tutto era perfettamente logico.

A Parigi, Avner fece chiamare da Andreas il numero che Tony

gli aveva dato per mettersi in contatto con Louis, che corrispondeva

a quello di un bistro della Riva Sinistra. Andreas lasciò un messaggio

per Louis a suo nome, indicando diversi orari in cui avrebbe

potuto richiamarlo al suo albergo.

Louis chiamò a sua volta la sera dopo, poco dopo le sei. Avner si

trovava nella camera di Andreas quando arrivò la telefonata, e

ascoltò da una derivazione.

«Comment ça va, Louis?» domandò Andreas, passando subito


dopo all’inglese, per maggior comodità di Avner. «Un amico mio si

trova a Parigi con un messaggio per te da parte di Tony.»

«Sì, aspettavo qualcosa da Tony» rispose Louis. Aveva una voce

squillante ma molto mascolina, quasi come un annunciatore della

televisione, e parlava un inglese con un lieve accento straniero. «Digli

di venire da me stasera alle nove. Se è di suo comodo.»

Andreas sbirciò Avner. «Sono certo che per le nove va bene»

disse «però credo che preferirebbe incontrarti davanti all’Hôtel

Royal Monceau. Sai, in Avenue Hoche.»

«Certo che lo so» replicò Louis, con un pizzico di sarcasmo. Il

Royal Monceau era uno dei più famosi alberghi di Parigi, tutt’altro

che caro, perdipiù. «E sceso là?»

Avner fece segno di no ad Andreas.

«No, non credo,» rispose Andreas, «ma è là che vorrebbe incontrarti.»

«Benone» replicò seccamente Louis. «Digli che sarò là alle nove.

Mi fermerò proprio davanti, su una... ehm, una Citroën nera. Porterò

con me Fifi.»

«È il suo cane» spiegò Andreas dopo che Louis ebbe riagganciato.

«Se lo porta spesso dietro agli appuntamenti. Be’, almeno non

avrai difficoltà a riconoscerlo.»


Avner capiva benissimo un’abitudine del genere; personalmente,

non avrebbe avuto niente in contrario a portarsi appresso Charlie,

magari per tutta la durata della missione. A dire il vero, era sceso

al Royal Monceau, ma per il momento non era il caso di farlo sapere

a Louis. Neppure Andreas lo sapeva; Avner gli aveva detto che

avrebbe alloggiato in casa di amici. A questo punto, meno la gente

ne sapeva e più sicuro era, anche se il termine “sicuro” era davvero

tutto da ridere. Rischio zero! Navigavano in acque sconosciute.

Però non c’era senso a facilitare le cose ai signori del Kalashnikov.

L’uomo che aprì la portiera di una Citroën nera dalla parte del

passeggero, alle nove in punto, aveva passato da poco la trentina.

Vestiva con un’eleganza disinvolta, ed era anche un bel ragazzo: un

po’ grassoccio, come Tony, ma con lineamenti molto più decisi.

«Piantala, Fifi,» disse al ringhioso alsaziano sul sedile posteriore,

«questo signore non ha intenzione di rapinarci. Tutt’altro, no?»

soggiunse, rivolto ad Avner, ancora ritto sul marciapiede.

«Spero che il tuo cane capisca l’inglese» rispose Avner, cavando

di tasca una busta gonfia.

Louis scoppiò a ridere e allungò la mano sulla busta. Vi guardò

dentro, ma neppure accennò a contare il plico di banconote da cento


dollari prima di farlo scivolare nella valigetta. «Grazie» disse.

«Sei venuto solo per consegnarmi la busta, o ti piacerebbe anche bere

qualcosa?»

«Se ti va di mangiare un boccone» disse Avner «hai trovato

compagnia.»

«Aggiudicato» ribatté il francese. «Hai qualche preferenza in

fatto di locali, a Parigi?»

Pareva tutto regolare. Se avesse avuto intenzione di tendergli

un’imboscata, Louis avrebbe suggerito il nome di un locale, e chiaramente

sapeva che Avner se ne rendeva conto. «C’è un ristorantino

un po’ più in là» disse Avner a Louis. «Mi sembra proprio il posto

giusto.»

Louis guardò nella direzione indicata da Avner, poi annuì. «Ti

raggiungo tra venti minuti» disse, poi sbattè la portiera e si allontanò.

Avner avrebbe voluto che non l’avesse fatto, però capiva perfettamente

che a Louis non andasse l’idea di sedersi a un tavolo di

ristorante tenendosi stretta una borsa con dentro diecimila dollari.

La piccola birreria chiamata Le Tabac Hoche si trovava appena

a un paio di isolati da Place Charles de Gaulle. Dai tavolini all’aperto

si godeva la vista dell’Arc de Triomphe, il che si confaceva ai criteri


un po’ banali con cui Avner si accostava alle grandi città. Quella

sera di novembre, comunque, optò per un tavolo al coperto.

Louis arrivò di lì a venti minuti esatti, senza valigetta e senza

cane. Se non si poteva dire magro, era però alto, molto più alto di

quanto fosse sembrato seduto al volante della macchina. Di faccia,

somigliava a Yves Montand: un viso disincantato, un tantino annoiato,

ma molto simpatico. Avner provò per lui un’immediata simpatia.

Per qualche ragione, sentiva che Louis poteva essere l’uomo

che faceva al caso suo, più di Tony e molto più di Andreas.

Anche Louis parve legare subito con Avner. La loro prima conversazione,

anche se non affrontò argomenti concreti, durò ore. Finito

che ebbero di cenare, raggiunsero a piedi l’Arc de Triomphe,

poi discesero gli Champs-Elysées fino a Place de la Concorde e tornarono

indietro. Perlopiù fu Louis a parlare.

Solo molto più tardi, ricordando la conversazione, Avner comprese

ciò di cui il francese poteva aver parlato. Sul momento, ne rimase

affascinato, senza capirne gran che. Louis sembrava piuttosto

colto, e di tanto in tanto accennava ad avvenimenti, scrittori o idee

che Avner non aveva mai sentito nominare. Il succo di quanto andava

dicendo sembrava essere che il mondo era un posto orrendo,


pieno di guerre, di sofferenze e di infelicità. Moltissima gente sembrava

credere che il mondo era ridotto in pessime condizioni per

questa o quella ragione; e che soltanto se l’umanità si convertiva alla

religione, o al comunismo o alla democrazia, sarebbe migliorato.

C’era chi riteneva che dipendesse unicamente dalla liberazione

dell’Algeria, o dal conseguimento della parità di diritti da parte delle

donne, o dal fatto che i canadesi la piantassero di sterminare i piccoli

delle foche. Ma erano tutte cretinate.

Il mondo, secondo Louis, non sarebbe migliorato finché tutte le

istituzioni in esso esistenti non fossero state spazzate via - tabula

rasa, diceva lui - e la gente non potesse cominciare a ricostruirlo dal

niente. Di conseguenza, sosteneva, per il gruppo di persone che ne

era consapevole non importava che altri si battessero per questa o

quella causa; che facessero esplodere bombe in nome di un futuro

socialista o a maggior gloria della chiesa. Finché avessero fatto

esplodere bombe, spiegò Louis, avrebbero aiutato l’umanità. Il piccolo

gruppo che ne era consapevole, un gruppo molto ristretto, Le

Group, qualcosa di simile a una famiglia, era disposto a dare una

mano a quella gente, che parteggiasse o meno per la sua causa. Per

essere più precisi, disse Louis, Le Group parteggiava per tutte le


cause. A ben pensarci, non esistevano cause ingiuste, al mondo.

Non che Le Group si rallegrasse all’idea di distruggere e trucidare,

naturalmente - solo i pazzi si sarebbero rallegrati di una cosa del

genere - però si rendeva conto che più in fretta e più completamente

si faceva saltare in aria ogni cosa, prima sarebbe stato possibile

far cessare le distruzioni. Tutto qui.

Avner non si lasciò minimamente impressionare da una qualsiasi

delle cose che andava dicendo Louis. Se avesse parlato in tono

ampolloso e con grande fervore, Avner le avrebbe giudicate sciocchezze

ancor più grosse di quelle con cui gli studentelli della banda

Baader-Meinhof, amici di Andreas, si erano riempiti la bocca a

Francoforte. Ma Louis aveva un suo modo ironico di dire le cose,

stringendosi nelle spalle quasi a scusarsi, un tono aneddotico: prendere

o lasciare. Spesso riusciva a strappare una risata ad Avner, come

un comico che raccontasse una barzelletta. E anche quando era

serio, non parlava con troppa foga. «Prendiamo le cosiddette grandi

potenze» diceva. «Prendiamo la CIA, che si dà sempre la zappa sui

piedi, o quei fessi del KGB, con le brache senza piega. Sono dei barbari.

E poi prendiamo Parigi, guardati un po’ attorno: mille anni di

storia. Perché dovremmo consegnarci nelle loro mani?


«Se mi è consentito dirlo, noi siamo più intelligenti di quanto

loro riusciranno mai a diventare. Abbiamo persino un po’ più di

buon gusto in fatto di donne.»

Ci sarebbe voluto ancora un anno prima che Avner comprendesse

appieno ciò che Louis gli andava dicendo durante quella prima

camminata per le strade di Parigi, o il motivo per cui glielo diceva.

Il sesto senso di Avner gli dava via libera, ma avrebbe capito sul

serio solo dopo altre due eliminazioni e parecchie migliaia di dollari.

Avrebbe capito solo dopo aver conosciuto Papà, il padre di Louis,

l’ex maquis con i capelli grigi e la faccia rubiconda, che somigliava

un po’ al padre di Avner se si escludevano il completo nero fuori

moda e la pesante catena d’oro che gli penzolava dal taschino del

panciotto. Papà, il patriota francese che a suo tempo aveva fatto

saltare in aria un bel po’ di camion e treni dei boches nella Francia

occupata - al punto, come spiegò con una strizzatina d’occhio, di

prenderci gusto. Papà, che da astuto e raziocinante francese, da

quel semplice contadino che si definiva, dopo la guerra si era reso

conto della quantità di denaro che si poteva raggranellare sfruttando

le inguaribili passioni del mondo. Papà, che aveva mandato

Louis e i suoi due fratelli minori alla Sorbona, non perché si lasciassero
conquistare da tutti quei libri che avrebbero dovuto leggere alla

celebre università - i libri, merde! - ma per imparare a tenere gli

occhi aperti e conoscere altri giovani, maschi e femmine, appassionati

e audaci, che in un modo o nell’altro potessero risultare di qualche

utilità per Le Group.

Può darsi che Avner non abbia mai compreso tutto di ciò che riguardava

Papà e la sua famiglia: tre figli, tra cui Louis, un vecchio

zio e due o tre cugini, i quali gestivano una così brillante organizzazione

di appoggio ai terroristi in Europa. Per esempio, non comprese mai


realmente la

posizione politica di Papà. Tale posizione, in effetti,

non sembrava aver molto a che fare con le idee vagamente

anarchiche espresse da Louis durante la loro prima passeggiata sugli

Champs Elysées. Vero, Papà sembrava nutrire solo disprezzo per

tutti i governi, non escluso quello francese, e diceva di non aver mai

lavorato o permesso a qualcuno del Group di lavorare per loro.

Scrollava le spalle e faceva una smorfia, sputava persino sul pavimento,

quando la conversazione verteva sui servizi segreti americani,

sovietici o britannici. Eh, merde! Il Mossad, merde! Sales arabes,

merde!

Riservava però un’antipatia speciale a tutti gli anglosassoni di


questo mondo, che a suo modo di vedere erano impegnati in una gigantesca

congiura contro gli abitanti dell’Europa continentale. I

russi, che pure non gli andavano a genio, non sembravano preoccupare

tanto Papà. Non odiava neppure i tedeschi quanto odiava gli

anglosassoni. In realtà, pareva dare agli inglesi la colpa di tutto

quanto: i tedeschi, i russi, le due guerre mondiali, i disordini in

Africa, il Medio Oriente. Difficile dire se Papà incolpasse di più gli

inglesi per avere costruito un impero, per averlo fatto a spese dei

francesi, o per averlo smantellato con tanta fretta nel dopoguerra.

Da buon patriota europeo, magari da cattolico, forse anche da contadino,

da uomo della strada che si considerava un erede della gloriosa

Rivoluzione francese, Papà pareva impegnato a combattere

una guerra assai più antica di qualsiasi conflitto in atto nel mondo.

Una guerra le cui origini si perdevano nelle brume della storia europea,

oltre che in quelle della sua mente; una guerra contro quell’antipatica

della regina d’Inghilterra e contro la perfida aristocrazia

britannica che aveva messo l’arsenico nella minestra di Napoleone

Bonaparte in esilio sull’isola di Sant’Elena.

Ma se Papà stentava a vedere il bosco - almeno per quanto riguardava

Avner - scorgeva chiaramente gli alberi. Anzi, lui e i suoi


figli sembravano conoscere per nome ogni albero della fitta foresta

dell’attività clandestina degli Anni Settanta. Sicuramente in Francia,

probabilmente in Europa, e forse anche nel resto del mondo.

Sarebbe stato esagerato dire che Le Group era a conoscenza del recapito

di ogni agente, terrorista, reclutatore, organizzatore o spione

implicato nella vasta e incredibilmente complessa rete dei rivoluzionari

anarchici di questo mondo, ma non era esagerato affermare

che possedevano informazioni su buona parte di loro, informazioni

che non avevano niente in contrario a vendere a chiunque fosse disposto

e in grado di pagare. Anche se mai - almeno, mai scientemente

- a un qualsiasi governo, come sia Louis sia Papà fecero osservare

tutti fieri ad Avner, dopo che ebbero capito che potevano

fidarsi di lui. Tanto per cominciare, trattare con i governi era contro

i loro princìpi. E poi lo giudicavano troppo pericoloso. Governi

e servizi segreti erano troppo infidi e privi di scrupoli, oltre a essere

inefficienti e intralciati dalla politica. Non sapevano neppure che

cosa volesse dire un certo code d’honneur, il codice d’onore tra ladri.

Oltre a vendere informazioni, Papà vendeva anche servizi. Una

delle prime cose che aveva imparato negli anni trascorsi nel maquis,

cioè la resistenza francese durante la seconda guerra mondiale, era


che i guerriglieri avevano bisogno di covi, di mezzi di trasporto sicuri,

di vettovaglie, vestiti e armi, di documenti e di gente che facesse

sparire tutto quanto, una volta conclusa l’operazione. Ivi

compresi, a volte, i cadaveri. Generalmente lavoretti del genere, oltre

all’opera di sorveglianza, erano svolti meglio e più agevolmente

da uomini e donne comuni, nativi del paese in cui aveva luogo l’operazione

clandestina - persone che magari si erano specializzate in

quel lavoro nell’esercizio delle loro legittime occupazioni. Era solo

questione di denaro. «Che ne sai tu, di serrature?» domandava magari

Papà ad Avner, una volta che ebbero imparato a conoscersi meglio.

«Insomma... te lo procuro io un fabbro. Perché vuoi metterti a

scavare una fossa? Ti mando io un becchino. Per un piccolo compenso,

n'est-ce pas?»

La grande scoperta del genio contadino di Papà era che per un

piccolo compenso c’era gente disposta a fare qualsiasi cosa, molta

gente disposta a fare molte cose, e che quasi tutti erano disposti a

fare qualcosa. Per esempio, quasi tutti erano disposti a fare ciò che

già facevano abitualmente per guadagnarsi da vivere. Un autista era

disposto a guidare la macchina, un armaiolo a fabbricare o modificare

un’arma. Per un “piccolo” compenso, l’unica cosa in più che si


pretendeva da loro era che non ne parlassero con le autorità competenti,

cosa che, fuori dai confini degli infidi paesi anglosassoni, la

maggior parte della gente detestava comunque fare. Ciò equivaleva

ad avere sul libro paga una quantità di gente diversa in una quantità

di paesi diversi, ma i guadagni del Group erano abbastanza cospicui

da coprire le spese.

Un’altra delle grosse scoperte di Papà era che gli agenti, come

tutti gli altri forestieri, generalmente entravano o uscivano da un

dato paese con regolari aerei di linea, treni o navi, o talvolta a bordo

di auto private. Pochissimi agenti si prendevano la briga di aprirsi

un varco nella boscaglia o scalare montagne nelle zone di frontiera

non presidiate, in tempo di pace, o di decollare da campi di aviazione

isolati, su aerei privati. Una volta entrati in un paese davano la

preferenza a certe città, e in quelle città a certi alberghi, banche,

agenzie di autonoleggio e ristoranti. Di conseguenza il fatto di avere


qualcuno al

proprio servizio per pochi soldi in quei luoghi, in certi

punti chiave, il cui unico compito consistesse nel riferire in merito

all’arrivo di un forestiero conosciuto, o magari sconosciuto ma

sospetto, con tutta probabilità contribuiva a inserire nel raggio radar

di Papà un buon numero di terroristi e agenti. Non tutti, certo,


ma un buon numero sì. Abbastanza per consentirgli di proseguire

nella sua attività.

I particolari di tutto ciò, tuttavia, Avner li avrebbe scoperti solo

in seguito. Non era stato fatto il minimo accenno a Papà, al momento

in cui Avner si congedò da Louis sotto l’Arc de Triomphe verso

l’una di notte, promettendo di rifarsi vivo. «La mia macchina è da

quella parte», disse Louis, facendo segno in direzione di Avenue

Victor Hugo, «a meno che tu non preferisca che ti riaccompagni a

piedi all’albergo.»

Avner sorrise. «Non sto all’albergo dove ci siamo incontrati»

disse. «Prenderò un tassì.»

Sorrise anche Louis. «Che stupido sono stato» fece. «Sicuro che

non stai al Royal Monceau, camera 317. Me n’ero scordato.»

Avner inarcò le sopracciglia e annuì. Quel che è giusto, è giusto.

Louis era molto in gamba. Anche sicuro, per il momento. Non

avrebbe rivelato di conoscere il numero della stanza di Avner, se

avesse avuto in animo di combinargli qualche scherzo.

«E stato un piacere conoscerti» riprese a dire Louis. «Tony mi

ha detto che è stato un piacere fare affari con te. Ricordati, se ti occorre

qualcosa fammelo sapere, di qualunque cosa si tratti. Non


posso prometterti che avrò sempre ciò che ti serve, ma è possibile.

Tienilo a mente.»

«Lo farò» rispose Avner. Si strinsero la mano. Poi, mentre

Louis accennava ad allontanarsi, Avner disse: «Oh, Louis, ancora

una cosa».

Louis si girò.

«Conosci per caso» domandò Avner «un tale che si chiama

Hamshari?»

Louis si avvicinò di un passo ad Avner.

«Conosco Mahmoud Hamshari» disse. «Abita a Parigi, ma non

credo che sia in città in questo momento.»

«Tra qualche giorno ti chiamo al solito numero» disse Avner.

«Mi farai sapere se Hamshari è tornato in città?»

Louis assentì col capo. «Lascia però che ti dia un numero più sicuro»

disse ad Avner. «Potrebbe darsi che non ci fossi, ma se chiami

alle sei e un quarto di sera, ora di Parigi, non dovrai neppure lasciar

detto chi sei; capirò che sei tu. Solo, dammi un numero dove possa

richiamarti.»

Avner imparò a memoria il numero, sperando di non dimenticarlo

prima di poterlo dare a Hans. La capacità di ricordare i numeri


di telefono non era uno dei suoi punti forti, anche se se la cavava

meglio con i numeri che con i nomi. Era ossessionato dall’incubo

che un giorno gli capitasse di registrarsi in un albergo con una nuova

identità, senza poi ricordare più chi doveva fingere di essere.

Stando alle leggende che circolavano nell’ambiente del Mossad,

una volta una cosa del genere era successa a un agente alle prime armi.

Avner invidiava i tipi come Hans o Carl che riuscivano sempre

a ricordarsi tutto quanto.

Però era felicissimo di aver fatto la conoscenza di Louis. Così

felice, in effetti, che si abbandonò a uno stato d’animo un tantino

malizioso mentre percorreva il corridoio deserto del Royal Monceau.

Aveva voglia di fare qualcosa, combinare qualche scherzo,

per pura esuberanza. Ad Avner erano sempre piaciuti gli scherzi:

era una caratteristica che doveva aver ereditato dalla madre. Alla fine,

però, si ricompose e non ne fece nulla. Sarebbe stato il colmo

della follia mettere a repentaglio la missione per uno scherzo.

Un fatto singolare degli uomini della squadra era che avevano in

comune la voglia di scherzare, la passione per i tiri mancini, per resistere

alla quale spesso dovevano fare un certo sforzo. Steve, per

esempio, aveva una moneta che recava la “testa” su entrambe le


facce, e sapendo che Robert sceglieva invariabilmente “croce” se ne

serviva ogni volta che tiravano a sorte per decidere a chi toccasse

sbrigare certe faccende, come fare la spesa o cucinare. Robert, nonostante

la sua predisposizione per i meccanismi, ci mise mesi a scoprire

il trucco, e anche allora solo perché gli altri scoppiarono a ridere.

Avner, però, era il peggiore di tutti, e quando in un momento di

distrazione disse agli altri che da piccolo lo avevano soprannominato

shovav, cioè “diavoletto”, si guadagnò immediatamente il nomignolo

di “Mamma Diavoletto” da parte di Steve, nomignolo in cui

si combinavano la sua passione per gli scherzi e la tendenza a preoccuparsi

per la pulizia o il modo di vestire degli altri componenti del

gruppo.

La mattina dopo, Avner lasciò l’albergo e dopo aver fatto una

telefonata ad Andreas e a Yvonne, che avevano progetti per conto

loro a Parigi, tornò in aereo a Francoforte. La stessa sera riferì ai

compagni in merito all’incontro con Louis.

«Be’?» domandò Hans, guardando Carl.

Carl si accese la pipa. «Sembra in gamba come Tony, comunque»

disse. Robert e Steve annuirono.

Era una delle cose della squadra che piacevano ad Avner. Per
quanto diversi potessero essere da lui, o tra loro, avevano in comune

un’importante caratteristica: niente confusione. Niente interminabili

“se” e “ma”, niente chiacchiere a non finire. Una programmazione

accurata, sì; ma niente inutili mal di pancia su tutti i pro e i

contro che le fertili menti umane riuscivano a escogitare, soprattutto

se alimentate da quel genere di cautela che in sostanza altro non

era se non codardia. Non erano fatti così, loro, nessuno di loro. Sapevano

valutare perfettamente quando le probabilità sembravano a

loro favore... ed era tempo di entrare in azione! Forse non era


l’atteggiamento

che quelli della Diaspora, i vecchi ebrei destinati

all’Olocausto, avrebbero definito “ebraico”, ma era l’atteggiamento

senza il quale Israele non sarebbe mai esistito. Almeno per quanto

riguardava Avner.

Sicché, il prossimo sarebbe stato Mahmoud Hamshari. Il bersaglio

numero

tre

della

lista

di

Ephraim.
Capitolo 7

Mahmoud Hamshari

Se l’OLP fosse stato un paese riconosciuto dagli organismi internazionali,

Mahmoud Hamshari, o meglio il dottor Hamshari, come

veniva a volte chiamato per via di una laurea in economia ottenuta

all’università di Algeri, avrebbe avuto la dignità di ambasciatore.

Stante la situazione, era invece il rappresentante ufficiale

dell’OLP a Parigi. Aveva un ufficio alla sede della Lega Araba.

Pubblicava un bollettino intitolato Faht-Information e manteneva i

collegamenti con i delegati di vari paesi arabi all’UNESCO nella capitale

francese. Chi lo conosceva superficialmente l’avrebbe definito

un uomo colto, di buone maniere, che aveva la tendenza a vestirsi

e a comportarsi come un diplomatico. In un certo senso, Mahmoud

Hamshari era più francese di un francese, conduceva un’esistenza

improntata a criteri alquanto conservatori, addirittura borghesi,

in un modesto quartiere borghese, rispettando orari da

piccolo-borghese in un appartamento piccolo-borghese, dove viveva

con la moglie francese, Marie-Claude, e una figlioletta di nome

Amina.

Un bersaglio “facile”.
Ciò che i conoscenti superficiali non sapevano, di Mahmoud

Hamshari, era che, almeno stando al Mossad, era anche uno dei

principali organizzatori del terrorismo in Europa. Si diceva che,


nascondendosi

dietro la facciata della sua attività di diplomatico, di

legittimo addetto alle pubbliche relazioni a favore della causa palestinese,

avesse coordinato gli artefici di clamorose azioni terroristiche

come l’attentato a Ben Gurion, a Copenaghen, e l’esplosione in

volo del jet della Swissair.

Nonché il massacro degli atleti olimpici a Monaco.

Secondo le informazioni in possesso della squadra di Avner, il

dottor Hamshari non aveva la minima intenzione di rinunciare a tali

attività. Tutt’altro. Assieme ad altri due bersagli “facili” della lista

di Avner stava organizzando una rete terroristica in cui erano

implicati molti rivoluzionari francesi di nascita e di altri paesi non

arabi, che spesso veniva indicata col nome di Fatah-France. Si diceva

che Hamshari fosse uno dei capi di Settembre Nero, l’organizzazione

terroristica con cui a quel tempo l’Al Fatah di Yasser Arafat

negava di avere qualsiasi contatto. La posizione ufficiale di Al Fatah

agli inizi degli Anni Settanta contemplava una recisa opposizione


all’attività di guerriglia fuori dai territori occupati da Israele.
Ufficiosamente,

però, Settembre Nero divenne il “braccio armato” di

Al Fatah, responsabile di atti di indiscriminata brutalità da parte

degli estremisti da un capo all’altro del Medio Oriente e dell’Europa.

Una simile dicotomia rientrava nella più collaudata tradizione

dei movimenti rivoluzionari del tipo anarchico-nichilista, che affondava

le sue radici negli Ishutiniti russi del XIX secolo, il cui movimento

si suddivideva in una cerchia esterna di rispettabili teorici,

attivisti e sostenitori, designata come “L’organizzazione”, e una

cerchia interna di assassini, detta semplicemente “Inferno”. (nota 2).

«Che ne direste di una mano che gli sparasse sbucando da una

doccia?» domandò Avner, il quale non aveva mai sentito parlare di

Ishutin e dei suoi seguaci, ma si preoccupava molto delle docce.

Gli altri si strinsero nelle spalle, ma non risero. Avner, infatti,

non scherzava. Erano tutti d’accordo che, a differenza di Zwaiter,

Hamshari dovesse essere ucciso con un’azione spettacolare. La rapidità

non era essenziale com’era stata la prima volta. Sarebbero

potute passare settimane prima che Hamshari tornasse a Parigi, e

per allora avrebbero dovuto aver pronto un piano che nessuno potesse

scambiare per un’uccisione casuale. La sua morte non solo


avrebbe dovuto essere un atto di vendetta, ma anche servire di monito

agli altri terroristi facendo capire che «gli ebrei arrivavano dappertutto»,

come aveva detto Ephraim, e che non c’era copertura, né

facciata di rispettabilità, capace di garantire l’incolumità personale.

In pari tempo, era imperativo che nessun danno derivasse alla

moglie o alla figlioletta di Hamshari, o a chiunque altro si trovasse

in casa sua, sulla sua auto o nel suo ufficio. Anche se l’eventuale altra

vittima fosse risultata un terrorista o un simpatizzante, la cosa

non avrebbe sollevato la squadra dalla responsabilità di aver commesso

un errore. Senza parlare poi dell’eventualità che ne fosse rimasto

coinvolto uno spettatore del tutto innocente. Non dovevano

esserci vittime all’infuori degli undici della lista di Ephraim.

In cuor suo, Avner si domandava spesso se fosse possibile garantire

una cosa del genere. Certamente era possibile tentare, ma

ciò avrebbe significato, con tutta probabilità, l’impossibilità di utilizzare

esplosivi.

«Non so proprio perché voialtri continuiate a ripeterlo» commentò

Robert con una punta d’irritazione. «Gli esplosivi si possono

tenere sotto controllo. Possono essere focalizzati e limitati nella potenza,

come un proiettile. Non c’è bisogno che la deflagrazione colpisca


qualcun altro, oltre al bersaglio designato, purché se ne studi

la collocazione con un po’ d’intelligenza.»

«E va bene» replicò Avner. «Non scaldarti. Ti ascoltiamo.»

«Finora non mi è ancora toccato fare niente» disse Robert.

«Non vorrei rimanere escluso fin dall’inizio.»

«Oh, non c’è pericolo, amico» ribatté Steve. «Che ne diresti di

piazzare una bomba nel cesso? Presumibilmente, in quel posto ci va

da solo.»

«Per piacere, non essere disgustoso» fece Hans, con una smorfia,

palesemente scandalizzato.

Tutto questo non li aveva ancora aiutati a elaborare un piano

quando, verso il 20 novembre, Louis riferì ad Avner che, stando alle

sue informazioni, Hamshari era tornato a Parigi. Ma, proseguì,

Le Group era in possesso di qualche altra informazione che poteva

interessare ad Avner. A quanto risultava a Louis, nei prossimi giorni

ci sarebbe stato un incontro a Ginevra fra tre persone implicate

nel movimento palestinese. Ad Avner interessava forse conoscere i

nomi?

«Sì, certamente» rispose Avner.

Louis tossicchiò discretamente. «Devo dedurne» disse «che


stiamo parlando d’affari?»

«Naturalmente» rispose Avner, aspettando che Louis indicasse

una cifra, cosa che non fece. A quanto sembrava, era soddisfatto

del chiarimento e avrebbe presentato i conti solo in seguito, proprio

come un avvocato, un medico o un altro professionista. «Hai mai

sentito nominare un certo Fakhri al-Umari?»

«Uhm» fece Avner elusivo. In realtà, non ne aveva mai sentito

parlare. (nota 3).

«S’incontrerà, credo, con Ali Hassan Salameh e Abu Daoud»

disse l’altro.

Per un attimo il cuore di Avner si fermò. Bersagli “duri”. I numeri

uno e due della lista. Gli uomini responsabili di Monaco, soprattutto

Salameh. Le teste più proterve del mostro di Ephraim.

«A Ginevra, eh?» domandò a Louis, sforzandosi di controllare

la propria voce.

«Così mi risulta» disse Louis.

«Ginevra ci interessa» disse Avner. Tentava di pensare in fretta.

«Ci interessa anche Parigi. Puoi occuparti di entrambe le situazioni,

a pagamento s’intende, e aspettare che ti richiami io alla stessa

ora, domani?»
«Lo farò» rispose Louis.

Il giorno dopo, Avner prese l’aereo per Ginevra assieme a Carl e

a Steve. Hans e Robert li raggiunsero due giorni più tardi. Decisero

di tenersi alla larga dal centro della città e presero alloggio in un albergo

sulla Route des Romèles, non lontano dal Palais des Nations.

Ginevra non era mai stata un luogo molto comodo per operazioni

del genere. Soprattutto per il Mossad. Era difficile affittare dei covi,

e gli alberghi non erano certo adatti a fungere da basi per gli

agenti. I servizi segreti svizzeri erano, a dir poco, tutt’altro che disposti

a collaborare. I forestieri erano i benvenuti, ma solo finché si

limitavano a tenere conferenze, a fare spese e a trafficare con le

banche, e a patto che si comportassero bene e se ne andassero al più

presto possibile. Gli svizzeri non avevano nulla da obiettare alla

presenza di trafficanti senza scrupoli sul loro territorio, ma molto

da obiettare ai traffici da essi svolti.

Ali Hassan Salameh e Abu Daoud, (nota 4), però, erano un rischio che

valeva la candela. Se la squadra fosse riuscita a beccare anche solo

quei due, la missione sarebbe stata coronata da successo. Tutti e

cinque avevano convenuto sin dall’inizio che non appena avessero

scoperto una pista sicura per stanare Salameh, avrebbero mollato


tutto il resto e si sarebbero occupati di lui. Salameh era l’individuo

che il Mossad considerava come il principale responsabile della

morte degli undici atleti israeliani.

Ma anche l’incontro di Ginevra tra Salameh e Abu Daoud si rivelò

un altro canard. (nota 5). In realtà, Louis usò un’espressione inglese

quando parlò con Avner al telefono, due giorni dopo. «Spiacente»

disse «ti ho spedito a caccia di ombre.»

Hamshari, d’altro canto, si trovava a Parigi. Il 25 novembre,

quando Avner si mise di nuovo in contatto con lui da Ginevra,

Louis fu in grado di riferire sulle abitudini di Hamshari, più o meno

come Tony aveva riferito su quelle di Wael Zwaiter. E proprio come

a Roma non vi furono discussioni in merito al motivo della sorveglianza.

Anche se era possibile che Louis avesse intuito le intenzioni

di Avner fin dall’inizio, parlarne sarebbe equivalso a una grave

mancanza di tatto, avrebbe potuto addirittura provocare la rinuncia,

da parte di Louis, all’operazione. Era un comportamento

alquanto ipocrita, ma inevitabile. Avner era certo che se avesse

chiesto a Louis di procurargli una pistola e poi, di lì a un’ora, di scavare

una fossa, Louis avrebbe acconsentito; se però gli avesse chiesto

di aiutarlo ad ammazzare qualcuno Louis avrebbe detto di no.


Compito di Louis era unicamente quello di fornire informazioni e

servizi. L’uso che se ne potesse fare non riguardava più Le Group.

Hans lo definì il fattore Ponzio Pilato.

Parlando tra loro di questo o quell’assassinio, Avner e i suoi

compagni lo facevano sempre in termini meramente tecnici. E questa

volta fu Robert a presentare il piano che meglio pareva soddisfare

i requisiti sia di audacia sia di sicurezza. La cosa ebbe origine da

una discussione in merito al metodo peculiare usato da Hamshari

per reclutare e organizzare i terroristi e i relativi progetti.

«Non sta di continuo al telefono?» domandò Robert. «Casa sua

dev’essere una specie di centralino, da cui partono chiamate per

tutte le località d’Europa e del Medio Oriente. Bene! Facciamolo

morire per mezzo del telefono.»

Il giorno dopo, Avner, Carl e Steve partirono da Ginevra, diretti

a Parigi. Hans tornò in treno al suo laboratorio di Francoforte ad

approntare altri documenti. Robert prese l’aereo per Bruxelles.

Per qualche ragione, tra l’ultimo scorcio del XIX secolo e la seconda

guerra mondiale una florida industria degli armamenti si era

sviluppata in Belgio, un paese piccolo e relativamente pacifico. Ciò

valeva soprattutto per la regione a nord-est di Liegi, l’altopiano di


Herve, dove, durante tale periodo, pistole, armi automatiche ed

esplosivi venivano fabbricati non solo in industrie, ma spesso anche

in piccoli laboratori sorti attorno ai villaggi e addirittura a domicilio.

L’arte di produrre armi e macchine infernali era di frequente

tramandata di padre in figlio, cosa che faceva dei belgi, assieme forse

agli artigiani di Spagna, dove si era verificato uno sviluppo similare,

i maestri universalmente riconosciuti nella creazione di strumenti

di morte facilmente dissimulabili. Particolare abbastanza curioso,

fu l’avvento del nazismo e del fascismo a por fine, in Belgio e

in Spagna, a questa industria casalinga, perché le armate vittoriose

di Hitler e di Franco logicamente pretesero di porre sotto il proprio

controllo la fabbricazione degli armamenti. Entro la fine della seconda

guerra mondiale, l’industria belga di armi di piccolo calibro

era stata completamente spazzata via, mentre in Spagna il Generalissimo

Franco permetteva la produzione di pistole solo a tre fabbriche,

una delle quali autorizzata anche a produrre revolver. (nota 6).

In Belgio, solo una manciata di persone esercitava l’arte tradizionale,

operando in isolate case di campagna. Tali artigiani, comunque,

riuscivano ancora a rifornire una porzione tutt’ altro che

insignificante del mercato clandestino delle armi in Europa. Alcuni


dei loro prodotti erano tra i più sofisticati del mondo, e Robert sapeva

di poter contare su di loro.

Nella sua veste di rappresentante dell’OLP a Parigi, Mahmoud

Hamshari aveva frequenti contatti con la stampa. Non deve aver

giudicato insolito, durante la prima settimana del dicembre 1972, il

fatto di ricevere una telefonata al suo appartamento di Rue

d’Alésia, numero 175, da un giornalista italiano che desiderava


intervistarlo.

Ciò che potrebbe averlo stupito, incontrando il giornalista

il giorno dopo in un piccolo caffè del quartiere, era il fatto che,

persino per un italiano, l’uomo sembrava stranamente poco informato

sugli affari palestinesi. Il giornalista continuava a gingillarsi

con la pipa, e alla fine suggerì ad Hamshari che magari sarebbe stato

più preparato a intervistarlo se avesse letto i ritagli stampa che il


diplomatico

si era portato appresso. Rimasero d’accordo che l’italiano

avrebbe ritelefonato ad Hamshari in capo a due o tre giorni.

Carl riteneva che la sua interpretazione del giornalista italiano

fosse stata, se non impeccabile, almeno abbastanza convincente da

non suscitare i sospetti del bersaglio. L’incontro gli offrì anche l’occasione

per familiarizzarsi con la voce di Hamshari. Nel frattempo,


Avner e Steve avevano meticolosamente esplorato l’animato, popoloso,

cosmopolita, ma rispettabile, quartiere del XIV arrondissement

di Parigi in cui abitava Hamshari. A bordo di una piccola Renault

fornita loro da Louis, si impratichirono sulle vie d’accesso e di

fuga per un paio di giorni, prendendo le mosse dalla chiesa di Saint-

Pierre de Montrouge sulla Place Victor Basch, suppergiù a metà

della Rue d’Alésia e a circa quattro isolati di distanza dal numero civico

175. Immessi nel traffico mattutino percorsero le strade dai

Jardins du Luxembourg fino all’Hospital Saint-Joseph, e dalla Gare

Montparnasse all’Hospital Cochin, decidendo che la via di fuga più

sicura dopo il colpo era quella che li avrebbe portati lungo Rue
Vercingétorix fino

al Boulevard Léfèbvre, passando davanti al Palais

des Sports, attraverso il Pont du Garigliano, poi lungo il Boulevard

Exelmans fino al covo sulla Riva Destra. Visto com’era stata progettata

l’operazione, non avrebbero neppure avuto bisogno di abbandonare

le macchine.

Intanto, gli uomini della squadra di sorveglianza di Louis avevano

riferito in merito alle abitudini di Hamshari, che risultarono abbastanza

prevedibili. Sebbene passasse molto tempo in compagnia

di altri arabi, alcuni dei quali potevano benissimo aver qualcosa a


che fare con la “lotta armata”, Hamshari, contrariamente a quanto

risultava dai precedenti rapporti, non si serviva di guardie del corpo. (nota
7).

Era la prima parte delle sue giornate, in particolare, che tendeva

a seguire gli stessi schemi. Sua moglie e la bambina lasciavano

l’appartamento poco dopo le otto, e Madame Hamshari accompagnava

Amina a un Kindergarten, poi generalmente proseguiva nelle

sue attività per tutto il resto della giornata. Di solito non rientrava

al numero 175 di Rue d’Alésia prima di essere andata a riprendere

Amina nel tardo pomeriggio.

Quanto ad Hamshari, rimaneva solo nell’appartamento fin verso

le nove o poco prima, ora in cui riceveva una telefonata da una

donna di nome Nanette, che poteva darsi fosse la sua amante e che

abitava in un appartamento situato nel più elegante XVII arrondissement,

sulla Riva Destra, dalle parti di Avenue Niel, non lontano

da uno dei covi parigini della squadra. Nanette faceva la sua telefonata

mattutina ad Hamshari da un ufficio postale all’angolo di Rue

d’Alésia con Rue des Plantes, a qualche isolato di distanza dal numero
175. Presumibilmente, controllava se Hamshari
era pronto o
se sua moglie e sua figlia avevano lasciato l’appartamento. Ottenuta

una risposta affermativa, risaliva sulla sua Renault e andava a prendere

Hamshari, che scendeva ad attenderla in strada. Era sempre

un’impresa trovare un posto per parcheggiare dalle parti di Rue

d’Alésia, dove c’era una caserma dei pompieri oltre a vari banchi

coperti di venditori ambulanti.

Avner e Carl convennero che l’ora migliore per attuare il colpo

era il lasso di tempo tra le otto e le nove di mattina, dopo che la moglie

e la figlia di Hamshari avevano lasciato l’appartamento e prima

dell’arrivo di Nanette. Non solo Hamshari sarebbe stato solo, ma,

dal momento che aspettava la chiamata di Nanette, si poteva star

certi che avrebbe sollevato il ricevitore anziché lasciar trillare a

vuoto l’apparecchio. La data esatta dell’azione dipendeva dal tempo

che sarebbe occorso a Robert per progettare, fabbricare e introdurre

clandestinamente in Francia il congegno esplosivo, e poi collocarlo

all’interno del telefono di Hamshari.

La fabbricazione di bombe in cui la sicurezza e la precisione non


fossero fattori determinanti, era cosa relativamente semplice.

L’esplosivo usato consisteva in una sostanza piuttosto stabile, spesso

smerciata liberamente, come la dinamite o il plastico, da collegare

a un piccolo detonatore, cioè un minuscolo quantitativo di esplosivo

molto instabile, perlopiù della famiglia dell’acido nitrico o solforico,

che si potesse far deflagrare con vari mezzi, dalla percussione

a una piccola scarica elettrica a basso potenziale. Per attivarlo, si

poteva ricorrere a un meccanismo come, per esempio, una sveglia o

un temporizzatore per le uova, o magari a un segnale emesso da un

telecomando, di quelli usati per cambiare canale a un televisore.

Il problema insito nell’uso di un attivatore meccanico, come la

chiavetta dell’accensione o la leva del cambio di un’automobile, era

che avrebbe reagito automaticamente e non lo si poteva disattivare

se, inaspettatamente, il bersaglio fosse stato in compagnia di altre

persone. Il problema si faceva ancora più grave nel caso dei dispositivi

a tempo, che ovviamente avrebbero fatto esplodere la bomba

indipendentemente dal fatto che il bersaglio, o chiunque altri, si

trovasse

meno
nei

paraggi.

Se ciò poteva risultare del tutto indifferente ai terroristi, i quali,

in ogni caso, spesso non miravano a colpire bersagli specifici, escludeva

invece l’impiego di attivatori automatici da parte della squadra

di Avner.

Gli attivatori posti in funzione manualmente, da un individuo

in grado di stabilire a occhio che il bersaglio, e soltanto il bersaglio,

sarebbe stato colpito dall’esplosione, rappresentavano l’unica soluzione,

ma perlopiù in zone urbane era pericoloso oltre ogni limite

collegare mediante fili il punto in cui era collocata la bomba con

quello dove l’attentatore si teneva in attesa. Si sarebbe potuto risolvere

il problema con un segnale radio, creando nel contempo, però,

una situazione altrettanto rischiosa: chiunque nei paraggi sintonizzasse

un apparecchio radio sulla stessa frequenza d’onda avrebbe

potuto causare l’esplosione in qualsiasi momento.

Vista la proliferazione di potenti ricetrasmittenti tascabili, di

apparecchi per radioamatori e altri dispositivi di telecomando, il pericolo

di una detonazione accidentale diventava così acuto che gli

esperti in esplosivi più prudenti, come Robert, non si sarebbero


neppure sognati di installare una ricevente, a meno che la bomba

non fosse disattivata per mezzo di un altro pulsante, nel timore che

potesse esplodere loro in mano. L’unica soluzione, in effetti, era

l’applicazione del suddetto pulsante. Un pulsante che avrebbe armato

la bomba, perlopiù a opera della vittima prestabilita, che la

metteva in azione involontariamente. Allora, e solo allora, la bomba

avrebbe potuto essere fatta esplodere da un osservatore per mezzo

di un segnale radio.

Come spiegò Robert, il piano consisteva nel piazzare la bomba

sul fondo dell’apparecchio telefonico di Hamshari. Sarebbe stata

del tutto innocua finché il ricevitore non venisse sollevato dalla forcella,

ma una volta che Hamshari avesse sollevato il ricevitore la

bomba sarebbe stata armata. A quel punto si sarebbe potuto inviare

un segnale radio atto a provocare l’esplosione.

Avner riteneva che il dispositivo, così com’era stato descritto,

fosse quasi a prova di incidenti. Quasi. Dal momento che, evidentemente,

avrebbe dovuto essere collocato almeno mezza giornata prima

del colpo, che cosa sarebbe successo se Madame Hamshari proprio

quella sera avesse deciso di fare una lunga chiacchierata al telefono

con una delle sue amiche? Poteva accadere che proprio alla
stessa ora un radioamatore del vicinato decidesse di mettersi a trasmettere

sulla stessa lunghezza d’onda della ricevente collegata con

la bomba. Che cosa sarebbe accaduto in tal caso?

Robert scrollò le spalle. Ciò che sarebbe accaduto era chiaro.

Non esisteva la possibilità di rischio zero assoluto. Il suo congegno

avrebbe ridotto il rischio quanto più possibile vicino allo zero; ma

se, anche così, per Avner era un rischio eccessivo, avrebbero dovuto

escogitare un sistema completamente diverso. Sul fondo di un telefono

non c’era spazio sufficiente per due riceventi, sintonizzate

ciascuna su una diversa frequenza d’onda, una per armare la bomba

e l’altra per farla esplodere.

«Va bene» disse Avner, dopo un attimo di esitazione. «Bada solo a non

fabbricarla così grossa da ammazzare tutti gli inquilini del

palazzo.»

«Il mio problema è un altro» disse Robert. «Dovrò badare a

metterci esplosivo sufficiente a far saltare in aria il mechabel che ci

starà vicino. Non c’è molto spazio in un telefono.»

La bomba fu introdotta clandestinamente in Francia dal Belgio

il 6 dicembre, un mercoledì. Parve piccolissima e molto leggera ad

Avner, quando la prese in mano. Quasi troppo per causare qualche


danno a un uomo, solo che Avner ricordava di aver constatato di

persona i danni che poteva provocare una lettera esplosiva contenente

un’oncia e mezzo di plastico: uno dei congegni preferiti dai

terroristi. Era accaduto meno di tre mesi addietro, appena qualche

giorno dopo la strage di Monaco, quando una lettera esplosiva di

Settembre Nero aveva ucciso un diplomatico israeliano a Londra. (nota 8).

«Speriamo che funzioni» commentò Avner, restituendo la scatola a

Robert.

Lo stesso giorno, la squadra si divise, prendendo alloggio in due

nuovi covi approntati da Louis, il quale aveva trovato loro anche il

covo in cui avevano abitato in precedenza.

Il giovedì, 7 dicembre, vi fu un intoppo imprevisto. Il piano

prevedeva che aspettassero, la mattina, che Madame Hamshari si

fosse allontanata con Amina, e Nanette fosse venuta a prendere

Hamshari con la sua Renault. Poi, poco dopo le nove, Robert e

Hans, camuffati da operai della società dei telefoni con le divise

fornite da Louis, avrebbero dovuto penetrare nell’appartamento a

collocare la bomba. Robert calcolava che l’operazione potesse richiedere

da venti minuti a mezz’ora al massimo. Avner, Steve e

Carl sarebbero rimasti in attesa all’esterno del palazzo - Carl, che


aveva impersonato la parte del giornalista italiano, tenendosi prudentemente

in disparte - per avvertire del pericolo Robert e Hans

nel caso che un componente della famiglia Hamshari dovesse tornare.

In vista di una simile eventualità, Louis mise a disposizione una

giovane coppia francese, il cui unico compito sarebbe stato quello di

attaccar bottone con Madame Hamshari per consentire ad Avner o

a Steve di far allontanare gli altri due dall’appartamento.

Nanette, tuttavia, quel giovedì non si fece vedere, e Madame

Hamshari fece addirittura ritorno all’appartamento di lì a poco.

Hamshari, poi, non uscì neppure di casa.

Avner, Carl, Hans e Robert si allontanarono subito dalla zona.

Non valeva la pena di starsene ad aspettare di fronte al numero 175

di Rue d’Alésia quando sapevano che, per qualche ragione, la consueta

trafila aveva subito un intralcio. Avrebbe persino potuto essere

pericoloso. Soltanto Steve e la coppia di Louis si trattennero nei

paraggi. Ma fu solo poco dopo le sei di sera che Steve chiamò, per riferire

che Hamshari si stava allontanando a piedi e che lui si accingeva

a pedinarlo.

I compagni montarono in macchina e tornarono immediatamente

al XIV arrondissement. Ora che Hamshari era uscito, c’erano


buone probabilità che lo facesse anche Madame Hamshari per andare

a prendere la bambina al Kindergarten, a meno che non fosse

proprio quello il motivo per cui Hamshari era uscito di casa. Robert

e Hans, ancora travestiti, parcheggiarono il loro furgone nello spazio

libero più vicino, sul lato opposto della strada. Avner si appostò

nell’ufficio postale all’angolo di Rue d’Alésia con Rue des Plantes,

lo stesso da cui telefonava sempre Nanette, e attese. Carl si tenne

alla larga.

Steve telefonò quasi subito dopo che Avner aveva preso posizione.

A quanto sembrava, Hamshari si era recato in un «palazzo

tipo Lega Araba» (Steve, il cui francese non era migliore di quello di Avner,
non

era in grado di specificare quale) sul Boulevard

Haussmann. Se tra poco anche Madame Hamshari fosse uscita, la

squadra avrebbe avuto almeno tre quarti d’ora di tempo prima che

uno dei due tornasse.

Quando Avner ebbe percorso i tre isolati dall’ufficio postale al

furgone di Robert parcheggiato di fronte al numero 175 di Rue

d’Alésia, vide la moglie di Hamshari uscire dall’imponente portone

illuminato del palazzo. Quasi certamente stava andando a prendere

Amina al Kindergarten. Era l’occasione che aspettavano. Forse era


un’ora un po’ tarda per eseguire una riparazione, ma si poteva sempre

supporre che le Postes, Télégraphes et Téléphones rispondessero

a una chiamata di emergenza. E poi Avner confidava nella fenomenale

indifferenza degli abitanti delle metropoli. I portinai non

stavano più tanto in guardia, neppure a Parigi, e i vicini di casa non

si sarebbero di certo presi la briga di far domande. Comunque fosse,

non avevano altra scelta. La bomba non si sarebbe infilata

nell’apparecchio da sola.

Robert e Hans sparirono nell’androne del palazzo, reggendo le

cassette degli attrezzi.

Per circa un quarto d’ora Avner rimase in piedi da solo accanto

al furgone in sosta in Rue d’Alésia. Almeno avesse avuto un pezzo

di gomma da masticare. A un certo punto, gli parve di intravedere

Carl che attraversava la strada a un isolato o giù di lì di distanza, ma

al buio non poteva esserne sicuro. Avner si domandò se sarebbe riuscito

a scorgere Hamshari o sua moglie in tempo per dare l’allarme a

Robert e Hans, nel caso che tornassero prima che i suoi compagni

avessero finito.

Poi, quasi prima che potessero avere avuto il tempo di forzare la

serratura, Robert e Hans riattraversarono la strada a passo spedito.


«Volete scherzare» fece Avner. «Già fatto?»

«Be’, non so» rispose Robert. «Suppongo che lo scopriremo domattina.»

L’8 dicembre, un venerdì, si appostarono in strada, di fronte al

palazzo in cui abitava Hamshari, poco prima delle otto. Robert,

Avner e Carl nel furgone, parcheggiato un paio di centinaia di metri

più in là; Steve e Hans a bordo di un’auto, parcheggiata un po’ più

vicino al portone del palazzo. Gli ultimi due montavano la guardia,

ed erano anche incaricati di impedire a Madame Hamshari o alla

bambina di rientrare in casa al momento sbagliato. Quel mattino

non c’erano uomini di Louis sul posto.

Erano quasi le otto e mezzo, quando la moglie e la figlioletta di

Hamshari sbucarono dal palazzo. Si avviavano alla fermata dell’autobus,

non molto distante. Dato che Nanette poteva telefonare da

un momento all’altro, era importante agire in fretta.

Carl scese dal furgone e si diresse a un telefono pubblico in un

vicino bistro, una cinquantina di metri più in là, voltandosi a controllare

che dalla finestra la visuale fosse libera, tra lui e Avner. Poi

alzò il ricevitore e prese a comporre il numero.

Avner adocchiò Robert che gli sedeva accanto nel furgone. Anche

Robert teneva la testa girata nella direzione di Carl. Aveva in


mano una scatoletta, un dito appoggiato alla levetta di un interruttore.

Carl era ancora in piedi al telefono, col ricevitore premuto contro

l’orecchio. Sembrava che le sue labbra si muovessero, ma da

quella distanza era impossibile udirlo o persino essere certi che stesse

davvero parlando. Non migliorava la situazione il fatto che persino

in quel momento stringesse il cannello della pipa tra i denti. Ma

Avner non osservava la bocca di Carl; osservava la sua mano destra.

Lentamente, deliberatamente, con un movimento appena un tantino

innaturale, Carl sollevava la mano destra e se la portava al capo,

agitando leggermente le dita. Era il segnale convenuto.

Avner sentì Robert irrigidirsi accanto a lui. Doveva aver visto

anche lui Carl che faceva il segnale, però si sarebbe mosso solo al comando
di

Avner. «Via!» intimò Avner, saettando istintivamente lo

sguardo su per la facciata del numero 175.

Non udì lo scatto dell’interruttore al suo fianco. Non udì alcuno

scoppio. Però vide l’aria tremolare repentinamente davanti al muro

di fronte, come se un lieve brivido avesse percorso l’intero edificio.

E vide anche una ragnatela di crepe formarsi su una delle grandi vetrate

che lo spostamento d’aria aveva frantumato.

Alcuni passanti si fermarono col naso all’insù.


Qualcuno stava aprendo le porte-finestre di un balcone del secondo

piano, usciva e prima lanciava un’occhiata nella strada sottostante,

poi allungava il collo, tentando di alzare lo sguardo alle finestre

sopra di lui.

Carl stava tornando e puntava deciso verso il furgone.

Ce l’avevano fatta.

Ce l’avevano fatta di nuovo.

La sera non furono più tanto sicuri, seduti in uno dei covi a

guardare il telegiornale, a sfogliare le ultime edizioni dei giornali.

Hamshari era ancora vivo. Gravemente ferito, senza dubbio, ma a

giudicare dalle notizie era impossibile dire se sarebbe sopravvissuto

o meno. Lo avevano trasportato all’Hospital Cochin, in Rue du

Faubourg Saint-Jacques - l’altro ospedale, il Sant-Joseph, era un

po’ più vicino, ma probabilmente l’ambulanza era girata nella direzione

opposta - e nel frattempo poteva persino darsi che avesse parlato

alla polizia del giornalista italiano che gli aveva telefonato poco

prima dell’esplosione.

Hamshari gli era parso un po’ strano al telefono, disse Carl agli

altri, un po’ rauco, come se si fosse appena svegliato. Carl non era

stato neppure sicuro che fosse davvero la sua voce, tanto che, una
volta spiegato che era il giornalista italiano che telefonava per l’intervista,

gli aveva domandato se fosse effettivamente il dottor

Hamshari. Carl si era grattato la testa solo quando aveva udito la risposta

- sì, sono io - all’altro capo del filo.

Robert appariva particolarmente scombussolato, addirittura

sulla difensiva. Avrebbe potuto rafforzare la carica di esplosivo,

spiegò, ma avevano tutti quanti così insistito sul fatto che nessun altro

doveva subire danni che lui aveva cercato di essere doppiamente

certo che l’esplosione non oltrepassasse i muri della stanza in cui

aveva luogo. Stando alle prime notizie giornalistiche, le autorità

erano incerte circa la fonte dell’esplosione e parlavano di “sabotaggio”

solo come di una remota possibilità, una delle tante. Avner

non era eccessivamente preoccupato; anche se Hamshari fosse


sopravvissuto,

l’avevano comunque tolto di mezzo per un bel po’, forse

per sempre, e non gli sembrava importante ciò che avrebbe potuto

dire alla polizia circa il “giornalista italiano”. Le autorità avrebbero

potuto col tempo stabilire un nesso tra il giornalista e la bomba

- alla fine, con tutta probabilità avrebbero scoperto che si era trattato

di una bomba collocata nel telefono, anche se l’esplosione fosse

stata molto più forte - ma nel frattempo Carl se ne sarebbe andato


da un pezzo e, comunque, la squadra non avrebbe più usato lo stesso

sistema.

Passarono altre due notti nei covi parigini. Restituirono a Louis

il furgone e l’auto, oltre ad alcune pistole. Saldarono il conto - circa

duecentomila dollari, di cui ne avevano già dati a Louis circa


centocinquantamila

nelle settimane precedenti - poi, ciascuno con un volo diverso e con


passaporti

diversi da quelli usati per entrare in

Francia, tornarono a Francoforte il 10 dicembre. Era una domenica.

Pareva che la polizia brulicasse letteralmente negli aeroporti parigini,

ma nessuno li aveva molestati. A questo punto, a quanto ne

sapevano, Hamshari era ancora vivo. (nota 9).

Avner non tornò a Francoforte. Volò a New York.

La ragione apparente del viaggio era una voce, raccolta questa

volta non da Louis ma da uno dei vecchi informatori parigini di

Hans, secondo cui Ali Hassan Salameh o qualche altro terrorista

d’alto bordo dell’OLP avrebbe potuto recarcisi quanto prima per

coordinare una scorreria, assieme alle Pantere Nere, ai danni di un

aereo dell’El Al, all’aeroporto Kennedy. Era una voce che valeva la

pena di controllare, anche se Avner non ci credeva troppo. Era improbabile


che Salameh, un terrorista a suo modo piuttosto aristocratico,

avesse molto in comune con le Pantere Nere.

In ogni caso, Avner aveva anche una ragione personale per recarsi

a New York: voleva trovare un appartamento per Shoshana.

In cuor suo, passava in rassegna i motivi. Primo, Shoshana gli

mancava - in effetti, gli mancava più di quanto avesse immaginato.

Durante la missione, che avrebbe potuto protrarsi per anni, probabilmente

non avrebbe avuto modo di andarla a trovare in Israele.

Non doveva far ritorno in Israele per tutto quel periodo, fuorché in

caso di gravissima emergenza, dopodiché era dubbio che gli avrebbero

consentito di ripartire per continuare la missione. Gli altri, a

eccezione di Steve, che era scapolo, avevano già le famiglie fuori da

Israele ed erano già andati a trovarle un paio di volte.

Secondo, Avner aveva la vaga sensazione, una sorta di avvertimento

da parte del suo sesto senso, che magari non avrebbe più potuto

tornare a vivere in Israele, neppure a missione conclusa. Poteva

esserci una ragione, magari operativa, magari no, che gli impedisse

di tornare. Be’, in tal caso, perché non scegliere New York?

Dopotutto Avner aveva sempre desiderato di andare a vivere in

America (desiderato di essere americano, avrebbe detto sua madre)


e le poche volte che aveva avuto modo di visitare New York non gli

avevano certamente fatto cambiare idea. Quanto a Shoshana, se

l’avesse convinta a trasferirsi a New York - una sistemazione temporanea,

per la durata della missione, in modo che potessero vedersi

di tanto in tanto - magari avrebbe finito col piacerle. Magari Shoshana non

avrebbe insistito per tornare a vivere in Israele.

C’era anche un terzo motivo: Avner aveva bisogno di Shoshana.

Aveva venticinque anni, e da settembre non andava più a letto con

una donna. Non che non le guardasse, le donne, però non faceva

mai niente. Forse voleva restare fedele a sua moglie; forse dipendeva

semplicemente dall’eccesso di tensione. Gli altri, a eccezione di

Steve, neppure pensavano al sesso, a quanto constava ad Avner.

Ma loro, naturalmente, potevano andare a trovare le mogli di tanto

in tanto, o forse non ne avvertivano il bisogno - l’argomento non

era mai affiorato nei loro discorsi. Avner, però, ne aveva certamente

bisogno; ne aveva un bisogno disperato. Così, si accordò sull’affitto

di un monolocale a Brooklyn, in un palazzo dov’era permesso

tenere animali domestici, in modo che Shoshana potesse portare

anche Charlie. Versò una caparra, fissando l’inizio della locazione

per il mese di aprile. Ad aprile, il bambino avrebbe dovuto già avere


tre mesi.

Il 20 dicembre, e Avner non avrebbe mai dimenticato quella data,

quando era già tornato a Francoforte, telefonò a Shoshana. Era

incredibile: Shoshana gli disse qualcosa al telefono, qualcosa che

Avner non si sarebbe mai aspettato di udire dalle sue labbra. Non

dalle labbra di una sabra, di una moglie israeliana, che avesse il marito

in missione. «Il bambino dovrebbe nascere il 25» disse Shoshana «e vorrei


che ci

fossi anche tu.»

Per un attimo, Avner non seppe che cosa rispondere. Poi disse:

«Verrò».

«No, non puoi» fece Shoshana, palesemente sconvolta dalla

propria richiesta più che dalla risposta di Avner. «Non essere sciocco.

Non parlavo sul serio. Ho tutto quel che mi serve, qui. Entrerò

in clinica il 25; è già tutto combinato... stavo solo scherzando, non

c’è niente di cui tu debba preoccuparti.»

«Verrò» ripeté Avner. Poi soggiunse: «Però non parlarne con

nessuno».

Due giorni dopo, usando un passaporto tedesco falso, senza dire

una parola ai compagni, contravvenendo in pieno alle istruzioni

operative, Avner sgattaiolò a Tel Aviv. Sapeva che quanto stava facendo
era imperdonabile e che, se fosse stato visto da qualcuno dei

suoi, Dio sa che cosa sarebbe potuto accadere. La cosa migliore che

potesse sperare sarebbe stata l’ignominia. Se quelli dell’altra parte

lo avessero individuato avrebbe potuto mettere a repentaglio la

missione, la propria vita e anche quella dei suoi compagni. Non aveva

mai avuto tanta paura ad attraversare illegalmente una frontiera,

in parte per via della posta in gioco ma anche perché, come la maggior

parte dei suoi compatrioti, Avner aveva un’idea un tantino esagerata

dei servizi di sicurezza di Israele. Non era un’idea priva di

fondamento, essendo il controspionaggio israeliano di altissimo livello,

ma Avner, al pari di molti altri, li riteneva ancor più efficienti

di quanto fossero in realtà. Ora, credendoli pressoché infallibili, come

pensava Avner, bisognava essere proprio disperati per rischiare

di infrangere le regole. E Avner lo era.

Avner passò quattro giorni a Tel Aviv, senza vedere nessuno

all’infuori di sua madre e Shoshana. Non osò neppure andare a trovare

suo padre, o accompagnare Shoshana in ospedale. Dopo la nascita

del bambino, tuttavia, a tarda sera, fingendosi uno zio, chiese

all’infermiera del turno di notte di lasciargli dare un’occhiata. Il

bambino, così gli assicurò l’infermiera, era una bambina. Ed era la


cosa più brutta che Avner avesse mai visto.

Shoshana lo stupì un’altra volta. Avner si aspettava una specie

di litigio, e invece pareva che Shoshana adesso fosse disposta a trasferirsi

negli Stati Uniti. «Non mi importa se dovrò restar sola quasi

sempre» disse. «Non m’importa se ti vedrò un paio di volte all’anno.

Non voglio che nostra figlia venga allevata dai nonni.»

Si

diedero

appuntamento

New

York

per

aprile.

Capitolo 8

Abad al-Chir

L’organizzatore di operazioni terroristiche Hussein Abad al-Chir

passava moltissimo tempo a Damasco, fuori dalla zona di operazioni

della squadra. Questa era la ragione principale per cui Avner e Carl lo

designarono come un bersaglio “duro”; di al-Chir, peraltro,


si sapeva che non girava armato o protetto da guardie del

corpo. Di professione faceva l’insegnante, specializzato in lingue

orientali. I suoi compiti nell’ambito della “lotta armata” erano

quelli di ufficiale di collegamento tra l’OLP e la base operativa del

KGB a Cipro. Era il numero dieci della lista di Ephraim.

Al-Chir divenne oggetto delle attenzioni di Avner a Parigi, durante

un colloquio con Louis. Gli uomini che lavoravano per Le

Group a Nicosia avevano raccolto certe voci in merito a una possibile

azione di guerriglia progettata dai palestinesi: alcuni terroristi si

sarebbero imbarcati su una nave greca che avrebbe fatto scalo nel

porto cipriota di Kyrenia, presso Nicosia, per poi proseguire la sua

rotta per il porto israeliano di Haifa. A Kyrenia sarebbero state caricate

clandestinamente armi automatiche, e forse esplosivo, destinate

ai terroristi. Una volta a Haifa, i terroristi si sarebbero impadroniti

della nave, seminando lo scompiglio quanto più avessero potuto,

alla maniera dell’attacco kamikaze all’aeroporto di Lod.

«Questa informazione, tra parentesi,» disse Louis, «è offerta dalla

casa.»

«Potresti dirmi qualcosa di più» domandò Avner «a pagamento?»

«Posso tentare di scoprire dell’altro» disse Louis. «Per il momento


l’unica cosa che ho saputo è che gli uomini incaricati di eseguire

l’attacco viaggeranno con passaporti afghani. A quanto pare, il tizio

che coordina le operazioni a Cipro si chiama al-Chir.»

Questo accadeva alcuni giorni prima dell’attentato ad Hamshari.

Avner ne discusse con gli altri. Se l’informazione passatagli da

Louis era esatta, quanto prima al-Chir avrebbe dovuto farsi vivo a

Nicosia. Cipro non esulava dalla zona d’operazioni della squadra.

Prima di partire per Israele, Avner aveva dato a Carl il numero di

telefono per chiamare Louis. (Fino a quel momento, Avner era stato l’unico
a

mantenere contatti diretti con Louis, anche se gli altri

avevano conosciuto alcuni degli uomini di Louis.) Ora Avner si accordò

con Louis, dicendogli che Carl gli avrebbe telefonato tutti i

giorni. Se si fosse scoperto qualcosa di nuovo riguardo alla presenza

di al-Chir a Cipro, Carl avrebbe dovuto chiamare Avner dopo il 27

dicembre a un numero di Atene.

In quella data, congedandosi da Shoshana, Avner s’imbarcò a

Tel Aviv su un aereo in partenza per la capitale greca.

Avner conosceva Atene a menadito, anche se i ricordi che aveva

di questa culla della civiltà occidentale erano tutt’altro che piacevoli.

Era stato ad Atene che, durante l’addestramento pratico, si era


imbattuto per la prima volta in un accenno di quel cupo, misterioso

aspetto del suo lavoro di cui borbottava suo padre. Era stato sempre

ad Atene che si era reso conto di come i ragazzini olandesi fossero

anche impiegati statali, i quali lavorano nell’ambito di una burocrazia,

piena come tutte le altre burocrazie del mondo di connivenze

personali, di inimicizie, di intrighi e interessi di ufficio.

L’episodio in sé era stato cosa da poco. Quasi insignificante, in

realtà. L’anziano agente del Mossad che a quel tempo era il responsabile

della sede di Atene, una sera si era ubriacato. Si era ubriacato

in pubblico, in un ristorante, in compagnia della moglie, di parecchio

più giovane di lui, di Avner e di un altro giovane agente del

Mossad. Il responsabile della sede locale, superfluo dirlo, non era

conosciuto come agente israeliano; usava la copertura di uomo d’affari

ateniese, e come tale non costituiva necessariamente una grave

infrazione alla sicurezza il fatto che si ubriacasse in un ristorante. Si

dava il caso, però, che da ubriaco diventasse particolarmente sgradevole

e molesto: al colmo dell’ebbrezza era montato sul tavolo, si

era slacciato i calzoni e, se Avner e l’altro giovane agente non glielo

avessero impedito, avrebbe pisciato in testa ad alcuni altri clienti.

Sua moglie, che a quanto sembrava era avvezza alle occasionali esibizioni
di volgare cocciutaggine del marito, si era limitata ad alzarsi

e a uscire dal ristorante, lasciando i due giovani agenti a cavarsela

da soli col loro capo ubriaco.

Lo avevano fatto senza ulteriori contrattempi, ma Avner era rimasto

piuttosto turbato dalla faccenda. Era ancora un pivellino che

nutriva certe illusioni; era arrivato da poco ad Atene, e dava per

scontato che il capo della sede locale fosse un uomo degno di ogni rispetto.

Perdipiù gli ebrei possono avere gli stessi vizi di qualsiasi altro

gruppo etnico, ma è tuttavia rarissimo che si ubriachino e si

comportino in modo sconsiderato. Avner non ricordava di aver mai

assistito a un episodio del genere, e pensare che quell’individuo

avrebbe dovuto essere il responsabile di una sede del Mossad. Era

imperdonabile.

Aveva deciso di scrivere un rapporto in merito all’incidente,

dopo averne discusso con l’altro giovane agente, il quale aveva detto

che ne avrebbe parlato anche lui nel suo rapporto. Dopotutto,

era loro dovere farlo: poteva darsi che il loro capo avesse bisogno di

assistenza psichiatrica. Ad Avner era persino venuto in mente che

tutta la faccenda potesse essere stata una prova, una commedia inscenata

a suo beneficio, in quanto ancora in fase di addestramento,


tanto per vedere se avrebbe messo a tacere la cosa per un malinteso

senso di lealtà verso il collega più anziano. Be’, non l’avrebbero preso

in castagna!

Con sommo stupore di Avner, tuttavia, quando ebbe fatto ritorno

a Tel Aviv circa un mese dopo, gli venne ordinato di presentarsi

a quello che era l’equivalente dell’ufficio personale del Mossad.

E qui, seduti in una stanza, aveva trovato tre uomini che lo

aspettavano. Con l’aria ingrugnata. Tre tipici galiziani, a quanto

aveva potuto capire Avner.

«Hai fatto alcune gravissime allusioni in questo pezzo di carta»

aveva detto il primo, allungando verso Avner il rapporto spedito da

Atene. «Ti consigliamo di ritirarle.»

Avner era strabiliato. «Di che cosa stai parlando?» aveva domandato.

«E solo quanto è accaduto. Dà un’occhiata al rapporto

dell’altro tizio che era presente assieme a me.»

«Lo abbiamo letto» aveva detto il galiziano con aria di sufficienza.

«Non c’è traccia di questo presunto incidente. Forse è stato solo

frutto della tua immaginazione.»

«Anche se non lo è stato,» aveva detto il secondo dei tre, «considera

la cosa da questo punto di vista: l’uomo di cui scrivi ha fatto


cose importanti per Israele, quando tu te la facevi ancora addosso.

Adesso gli manca solo un anno per andare in pensione. Una cosa del

genere potrebbe avere gravi ripercussioni. E poi... neppure tu sei

perfetto. Potrei mostrarti il suo rapporto su di te.»

«Ma» aveva detto il terzo galiziano «forse non è necessario. Forse

si tratta soltanto di un conflitto di personalità. Ci dimenticheremo

del suo rapporto; ci dimenticheremo del tuo rapporto. Così saranno

tutti felici e contenti.»

Si dava il caso che per Avner quella fosse una nota stonata; gli

ricordava qualcuno che aveva conosciuto al kibbutz. I galiziani che

si facevano gli affari loro. Così, si era alzato in piedi. «Avete in mano

il mio rapporto» aveva detto. «Non m’importa che cos’altro abbiate

in mano. Quel che dimenticate e quel che ricordate è affar vostro.

C’è dell’altro?»

I galiziani non avevano risposto, e Avner era uscito dall’ufficio.

Era su tutte le furie. Nessuno gli aveva più detto niente sull’episodio,

ma gliene era rimasto l’amaro in bocca. Quando gli era stato affidato

un altro incarico ad Atene, circa otto mesi dopo, il capo della

sede del Mossad in Grecia era cambiato.

Il particolare interessante in proposito era che ora, a distanza di


due anni, arrivando ad Atene dal soggiorno contro il regolamento a

Tel Aviv, Avner avrebbe avuto maggiore comprensione nei riguardi

del responsabile locale. Oggi magari non avrebbe neppure scritto

un rapporto.

In ogni caso, era acqua passata.

Quando Carl gli aveva telefonato dopo che Avner era partito

per Israele, Louis aveva comunicato che al-Chir era comparso a Cipro.

In assenza di Avner, Carl decise di raggiungere gli uomini di

Louis a Nicosia assieme a Hans, spedendo Robert in Belgio a conferire

col suo amico che progettava le bombe. (Steve era in Spagna a

controllare un’altra pista.) Robert voleva comunque recarsi in Belgio

per un consuntivo, dato che era molto insoddisfatto degli effetti

del telefono esplosivo.

Nel giro di poche ore, Avner raggiunse i compagni a Nicosia.

Alloggiavano in un covo approntato da Louis, tenendo sotto sorveglianza

al-Chir. Riferirono tutti allegri che al-Chir si era incontrato

con l’individuo di cui si sapeva che era il residente del KGB a Cipro.

Purtroppo, decisero anche di festeggiare l’arrivo di Avner

pranzando con lui e affidando l’organizzatore delle azioni terroristiche

alle cure del gruppo di sorveglianza di Louis a Nicosia.


Quand’ebbero finito di pranzare, al-Chir aveva già lasciato il suo albergo

ed era decollato dall’aeroporto per una destinazione sconosciuta.

Non restava altro da fare che tornare a Francoforte; rimanendo

a Cipro, non avrebbero combinato niente. Prima o poi, al-Chir

avrebbe fatto ritorno sulla piccola isola del Mediterraneo che

l’Unione Sovietica aveva scelto come una delle basi da cui far tremare

il mondo. La collocazione geografica dell’isola ne faceva un

luogo ideale dal quale attizzare l’incendio del Medio Oriente, per

non parlare del conflitto ormai cronico tra greci e turchi. (nota 1).
Comunque

fosse, Avner non si sentiva a suo agio a Cipro; era un posto

troppo mediterraneo, dove si combinavano gli elementi climatici e

ambientali di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Che ci pensassero

gli uomini di Louis a tener d’occhio al-Chir a Nicosia.

Nel frattempo, la pista spagnola di Steve era andata in fumo,

per cui tornò anche lui a Francoforte. Lo stesso fece Robert. «Senti» disse
Robert

ad Avner non appena lo vide «dovrai lasciarmi fare

un altro tentativo, se faremo quel colpo a Cipro. Il mio amico e io

abbiamo studiato un nuovo sistema.»

«Sì, sì, lo so,» disse Steve un po’ sprezzante, rivolto al compagno


di stanza, «una bomba invisibile che gli farà venire il mal di fegato

e gli accorcerà la vita di dieci anni... Perché non ci limitiamo a

sparare, a quel bastardo?»

«Sei geloso» intervenne Carl rivolto a Steve «perché non vuol

lasciarti giocare con la sua ochetta di gomma.»

Scoppiarono tutti a ridere, ivi compreso Steve. Anche se Robert

non arrivava al punto di riempire di ochette di gomma la vasca

da bagno, il covo che quei due si dividevano era disseminato di

strambi balocchi che Steve non aveva il permesso di toccare. La cosa

era motivo di qualche attrito fra i due. Una volta che, rientrando

all’improvviso, aveva sorpreso Steve nell’atto di gingillarsi con

un’automobilina telecomandata, Robert era proprio andato su tutte

le furie.

Steve si prese la rivincita servendosi della moneta truccata per

far perdere Robert, quando tirarono a sorte per decidere chi dei due

dovesse farsi bucare il lobo dell’orecchio in modo da potersi travestire

da hippie per infiltrarsi in un covo e prender contatto con un

informatore arabo. Robert non gliela perdonò mai.

«Oh, piantatela» disse Avner. «Ovviamente, il modo in cui lo

faremo dipenderà dal luogo e dalle abitudini del bersaglio. Finora è


sempre sceso all’Olympic Hotel di Nicosia. Supponendo che lo faccia

anche la prossima volta,» e Avner si rivolse a Robert, «tu che cosa

consiglieresti?»

«Sei piccole bombe» rispose pronto Robert «sotto il letto.»

«Perché sei?»

«Per essere sicuri di beccarlo» precisò Robert «senza che ci vada

di mezzo qualcun altro.»

Questo tirava in ballo un argomento delicato. Avner dava per

scontata la perizia di Robert e del suo contatto belga - e la bomba

collocata nel telefono era stata un’idea ingegnosa - però restava il

fatto che il bersaglio non era morto, almeno non sul colpo. L’ultima

volta che Avner aveva parlato per telefono con Louis, il francese,

con molto tatto, gli aveva raccomandato un esperto in esplosivi che

era in grado di fornirgli materiale a pagamento, se Avner avesse ritenuto

di averne bisogno. Avner ne fece cenno agli altri. Robert

non volle neppure sentirne parlare. Non avrebbe mai toccato un dispositivo

che non avesse contribuito a fabbricare.

«Ma se Louis ti è così simpatico» disse Robert «ti dico io che cosa

potremmo fare. Potrebbe portare la roba dal Belgio a Cipro per

conto nostro.»
Era una buona idea. In un certo senso, la parte più rischiosa di

un’operazione consisteva nell’attraversare un confine di stato con

materiale non consentito, come armi o esplosivi. Molti terroristi risolvevano

il problema, almeno per quanto riguardava i pacchi meno

voluminosi, servendosi dei corrieri diplomatici di paesi arabi o del

blocco orientale, le cui valigie non dovevano sottostare ai normali

controlli doganali. Dal momento che gli uomini di Avner non potevano

ricorrere a metodi del genere, Le Group era chiaramente meglio

attrezzato per le azioni di contrabbando.

Per più di due settimane non si ebbero notizie di al-Chir o di

qualche altro bersaglio. Hans ne approfittò per dedicarsi a un progetto

che accarezzava da tempo: l’apertura di un negozio di mobili

antichi a Francoforte. Hans amava l’antiquariato e ne capiva parecchio.

Era anche portato agli affari, a differenza di Avner o Steve.

Gli piaceva sul serio la compravendita.

Carl - Carl il Prudente - approvò in pieno l’idea. Un negozio di

antiquariato poteva fornire a tutta la squadra, in viaggio di continuo

e praticamente senza orari, una copertura almeno rudimentale,

nonché la possibilità di spedire oltre frontiera oggetti di notevoli


dimensioni,

in caso di necessità. Avner trovò apprezzabile l’idea, anche


se l’unica copertura che avesse escogitato per sé consisteva nel

giocare alle lotterie tedesche e al totocalcio inglese. Cominciò persino

a far pratica; era un ottimo sistema per dare una spiegazione

plausibile del fatto che teneva in tasca vari foglietti di carta con i

numeri in codice per le comunicazioni, numeri che non riusciva mai

a mandare a memoria o a ricordarsi.

Avner approfittò di quel periodo di attesa per volare a Ginevra

a lasciare due messaggi per Ephraim, ricorrendo per la prima volta

al sistema di comunicazione prestabilito, per mezzo della cassetta di

sicurezza. Uno dei messaggi riguardava la possibilità della scorreria

terroristica a Haifa. Il secondo era un messaggio di carattere personale,

in cui chiedeva al suo controllo di facilitare il viaggio di Shoshana a New


York, in

aprile. Era stato convenuto fin dall’inizio che

Ephraim avrebbe aiutato Avner a incontrarsi con la moglie all’estero

durante la missione, e Avner non ritenne necessario specificare

che Shoshana non sarebbe tornata in Israele.

Dal momento che già si trovava nella banca di Ginevra, Avner

fece un’altra cosa. Diede un’occhiata al suo conto personale, quello

sul quale gli veniva versato lo stipendio mensile mentre era in missione.

La cifra era ancora modesta, però aumentava regolarmente.


Lo divertiva l’idea di avere già più denaro depositato in una banca

svizzera di quanto fosse mai riuscito a metterne da parte in precedenza.

La telefonata di Louis giunse lunedì 22 gennaio. Abad al-Chir

sarebbe arrivato a Cipro entro un paio di giorni. Impossibile sapere

quanto avesse in animo di trattenersi.

Quella notte, gli uomini della squadra atterrarono a Nicosia.

Avner e Robert si recarono in un covo, mentre Carl, Hans e Steve

presero alloggio all’Olympic Hotel. Era stata un’idea di Carl che alcuni

di loro alloggiassero nello stesso albergo dove prevedevano che

sarebbe sceso il bersaglio. Tanto per cominciare, così sarebbe stato

più facile identificarlo con sicurezza. Inoltre, avrebbero avuto modo

di studiare la disposizione dell’edificio. Infine, anche se era previsto

che se ne sarebbero andati non appena fosse arrivato al-Chir,

in seguito la loro presenza all’albergo non avrebbe destato sospetti

nel personale di servizio o nelle guardie adibite alla sicurezza

dell’albergo. Sarebbero stati riconosciuti come ospiti già visti in

precedenza.

Martedì, per l’ora di pranzo, gli uomini di Louis avevano recapitato

un pacco per Robert, proveniente dal Belgio.

Più tardi, quello stesso giorno, Abad al-Chir prese alloggio


all’Olympic Hotel. (nota 2).

Steve e Carl riferirono, il primo con una punta di divertimento

e il secondo con una certa preoccupazione, che apparentemente il

bersaglio occupava una camera attigua a quella di una coppia di sposini

israeliani che erano venuti a Cipro per sposarsi, dato che la ragazza

non era ebrea. La cosa era abbastanza diffusa, visto che le autorità

religiose di Israele non erano disposte a celebrare matrimoni

misti.

«Be’,» commentò Steve, con grande costernazione di Hans, «a

quanto pare ci sarà un bel po’ di rumore in tutte e due le stanze.»

«Devo dedurne che non ci sarà pericolo che capiti loro qualche

guaio?» domandò Avner a Robert.

«Nessun pericolo» rispose Robert deciso. Poi, un tantino più incerto,

soggiunse: «Naturalmente, non posso darti una garanzia

scritta. Se hai bisogno di una garanzia scritta, rinunciamo».

«E se li avvertissimo, magari?» domandò Hans, poi scosse la testa,

rispondendosi da solo. In un’operazione di quel tipo, non si poteva

avvertire nessuno. La squadra o si assumeva tutti i rischi o non

ne faceva niente. Toccava ad Avner decidere.

«Correremo il rischio» disse Avner.


«Vuoi dire che lo faremo correre a loro, il rischio» osservò Hans

inaspettatamente. «A te piacerebbe trovarti nella stanza accanto

quando scoppieranno le sei piccole bombe di Robert?» Era sorprendente

che un uomo della squadra dicesse una cosa del genere dopo

che Avner aveva parlato, ma la preoccupazione di Hans era sincera,

e se ne rendevano conto tutti. Dopo una breve pausa Robert disse:

«Oh, per l’amor del cielo! Vuol dire che te la darò, allora, la garanzia

scritta».

E questo pose fine alle discussioni.

In sostanza, questa volta la macchina infernale di Robert era

una bomba a pressione, consistente in sei piccole cariche di esplosivo

collegate a una doppia intelaiatura. Le due intelaiature erano tenute

separate da quattro possenti molle con una vite metallica inserita

al centro di ciascuna. Piazzate sotto il sedile di un’auto o un materasso,

le molle impedivano alle viti inserite nell’intelaiatura superiore

di toccare i quattro punti di contatto sul fondo. Il peso di un

corpo umano, però, esercitava sulle molle una pressione sufficiente

a provocare il contatto. In una semplice bomba a pressione, a questo

punto l’esplosivo veniva fatto detonare.

Nel dispositivo di Robert, tuttavia, il peso del corpo sarebbe


servito soltanto ad armare la bomba. Una volta armata, poteva esser

fatta esplodere manualmente per mezzo di un segnale radio. Se

il segnale non veniva trasmesso, il congegno restava inattivo. Del

pari, nessun segnale casuale poteva farlo esplodere accidentalmente

o prematuramente, finché il bersaglio non avesse gravato col suo

peso sull’oggetto sotto il quale era nascosta la bomba. Il dispositivo

di sicurezza della bomba era inteso a far sì che il letto saltasse in aria

solo quando la squadra fosse certa che ci si fosse sdraiato al-Chir.

La mattina del 24 gennaio, un mercoledì, il bersaglio numero

dieci della lista di Ephraim lasciò la sua camera verso le otto. Vennero

a prelevarlo in macchina il residente del KGB e un altro individuo,

che sembrava anch’egli russo, o almeno non aveva l’aria di essere

un arabo o un cipriota. L’auto era seguita da alcuni automezzi

di vario tipo della squadra di sorveglianza di Louis - in tutto sei persone,

che avevano ordine di chiamare immediatamente Carl se i

russi appena accennavano a riaccompagnare al-Chir all’albergo. In

realtà, l’organizzatore delle operazioni terroristiche si trattenne

tutto il giorno in una casa di Nicosia, di cui si sapeva che era stata

affittata dai russi.

Poco dopo mezzogiorno, quando il personale addetto alle pulizie


ebbe finito il suo lavoro, Robert e Hans si insinuarono nella camera

di al-Chir con l’aiuto di un altro degli uomini di Louis. Piazzarono

la bomba sulla rete metallica del letto, sotto il materasso. Misero

anche fuori uso l’interruttore che accendeva le luci centrali della

stanza, lasciando in funzione soltanto la lampada sul comodino.

Quando quella luce si fosse spenta, di sera, si poteva essere pressoché

sicuri che al-Chir era andato a letto.

I russi riportarono al-Chir all’Olympic Hotel poco dopo le dieci

di sera. Lo accompagnarono a piedi fino all’ingresso principale dove,

prima che entrasse, uno di loro gli consegnò una busta. (nota 3). Uno degli

agenti di Louis salì in ascensore assieme all’uomo del tutto ignaro

che sarebbe morto di lì a poco, per accertarsi che nessun altro entrasse

nella camera di al-Chir.

Nessun altro entrò. Dopo una ventina di minuti la luce si spense

dietro la sua finestra. (La finestra degli sposini israeliani della stanza

accanto era buia già da qualche tempo.) Fuori, Avner e Robert

erano seduti in un’auto; Hans e Steve in un’altra. Carl, al solito, se

ne stava per i fatti suoi.

Avner attese un paio di minuti dopo che le luci di al-Chir si erano

spente, prima di impartire l’ordine a Robert. Questo, nel caso


che l’arabo avesse spento la luce prima di andare a letto. In effetti,

Avner aveva aspettato ancora troppo poco. Quando Robert premette

il pulsante del telecomando, non accadde nulla. Poteva darsi

che al-Chir si fosse seduto sul bordo del letto per togliersi i calzini, e

il peso esercitato sul materasso non fosse sufficiente ad abbassare le

molle.

Robert premette il pulsante una seconda volta dopo aver contato

fino a dieci. Lo premette digrignando i denti, con forza enorme,

rischiando di frantumare la fragile scatoletta di bachelite. Tutta

quella forza era superflua, dal momento che non avrebbe portato

differenza alcuna se al-Chir non si fosse ancora steso sul letto. Ma lo

aveva fatto.

L’esplosione fu tremenda. Proiettò nella strada una lingua di

fuoco assieme a una pioggia di schegge di vetro e di calcinacci.

Chiaramente, Robert aveva inteso rifarsi della bomba più debole

che non aveva ucciso sul colpo Hamshari. Dopo un’esplosione del

genere, Avner non ebbe il minimo dubbio in merito alla sorte di

Abad al-Chir.

Mentre si allontanavano, si andavano accendendo le luci a tutte

le finestre dell’albergo e nelle altre case lungo la strada. In quella


sventurata isola, i greci devono aver pensato a un attacco dei turchi,

mentre i turchi sicuramente nutrirono lo stesso sospetto nei riguardi

dei

greci.

Capitolo 9

Basii al-Kubaisi

Il 17 marzo 1973, Carl e Avner se ne stavano nella camera di

Avner all’Hotel du Midi di Ginevra. C’era una terza persona seduta

in poltrona di fronte a loro, con le lunghe gambe appoggiate sul

letto.

Ephraim. La sua visita inaspettata era il risultato di certi conflitti

d’interesse, in versione servizio segreto.

Dopo l’attentato ad al-Chir, i cinque compagni si erano ritrovati

a Francoforte. Avevano lasciato Cipro uno alla volta, seguendo

itinerari diversi, con Avner che era rientrato via New York allo scopo

di perfezionare il contratto di affitto, in vista dell’ormai prossimo

soggiorno di Shoshana.

Dopo l’esplosione si era recato all’albergo per accertarsi che

l’attentato avesse avuto esito positivo, senza coinvolgere altre persone.

Con suo grande sollievo constatò che, a eccezione del bersaglio


designato, all’albergo tutti se l’erano cavata senza un graffio,

ivi compresi gli sposini israeliani. Dall’altra parte della sottile parete

della loro stanza, però, il corpo e il letto di al-Chir erano andati

letteralmente in briciole.

Tornati a Francoforte, gli uomini della squadra rimasero senza

indizi per circa tre settimane. Il 25 febbraio, tuttavia, Louis lasciò

detto ad Avner di andare a incontrarlo all’aeroporto di Francoforte,

dove si sarebbe trattenuto in transito per un’ora.

Durante l’incontro, Louis fornì ad Avner precise informazioni

su altri quattro bersagli. (Dopo Zwaiter e Hamshari, Avner aveva

giudicato inutile continuare nella finzione della banda Baader-Meinhof

di cui inizialmente si era servito con Tony, e aveva detto a

Louis, già prima dell’assassinio di al-Chir, di essere a caccia di


informazioni

sui capi del terrorismo palestinese. Non ne specificò i nomi

- suo compito era quello di raccogliere informazioni, non di fornirne

- e non disse nulla sui suoi legami col Mossad. Il francese, come

sempre, accolse la richiesta di Avner senza far domande.)

Ora Louis gli disse che un certo capo terrorista sarebbe arrivato

a Parigi ai primi di marzo. Quanto agli altri tre, ne conosceva l’attuale

indirizzo: un condominio di Beirut.


Il terrorista di Parigi era un bersaglio “facile”, il numero nove

della lista di Ephraim: il dottor Basii al-Kubaisi. Quelli di Beirut

erano bersagli “duri”; capi terroristi notissimi che non sarebbero

mai venuti in Europa sotto il loro vero nome. Si trattava di Kamal

Nasser, portavoce ufficiale dell’OLP; di Mahmoud Yussuf Najjer,

altrimenti noto come “Abu Yussuf”, il responsabile in seno ad Al

Fatah delle attività di Settembre Nero; e di Kemal Adwan, allora

incaricato delle attività terroristiche nei territori occupati da Israele.

Sulla lista consegnata alla squadra, occupavano il sesto, il settimo

e l’ottavo posto.

Erano informazioni di importanza vitale. Avner non aveva modo

di sapere se il Mossad fosse a sua volta a conoscenza o meno

dell’indirizzo di Beirut. Ritenne suo dovere farlo sapere a Ephraim,

chiedendo in pari tempo l’autorizzazione per la squadra a recarsi in

Libano per tentare di “colpire” i bersagli. Senza un permesso speciale

non avrebbero dovuto operare in alcuno degli «stati dello

scontro frontale», come venivano definiti i paesi confinanti con

Israele.

Con una certa sorpresa di Avner, Carl si mostrò decisamente

contrario a informare Ephraim in merito alla pista di Beirut. Carl il


Prudente, con molti anni di esperienza “aziendale” alle spalle, riteneva

che qualcun altro del Mossad avrebbe subito colto l’occasione

per sbrigare la faccenda. La squadra era un’entità indipendente, sostenne

Carl, che non era minimamente tenuta a passare informazioni

a Tel Aviv. In base alle clausole della loro missione, non “lavoravano”

più per il Mossad. Dal canto suo, disse Carl, il Mossad non

avrebbe mai permesso loro di estendere la propria zona d’operazioni

fino a Beirut, ma si sarebbe limitato a servirsi delle informazioni

raccolte dalla squadra per mettere in piedi una normale operazione

tipo Mossad e attribuirsene tutto il merito. Dividere con altri le


informazioni

non era il sistema giusto per fare strada.

Era anche superfluo. La squadra se la cavava benissimo. Se riuscivano

a far fuori un numero sufficiente di agenti palestinesi in Europa,

gli uomini del quartier generale di Beirut prima o poi sarebbero

stati costretti a uscire allo scoperto. Il terrorismo non si organizzava

da solo; eliminati Zwaiter, Hamshari, al-Chir e magari un altro

paio di capi, presto o tardi Adwan, Najjer e Nasser sarebbero

stati costretti a venire in Europa.

Avner era strabiliato. Anche se non ebbe un vero e proprio litigio

con Carl, fece osservare al compagno più anziano che stava facendo
esattamente ciò che sospettava avrebbe fatto Tel Aviv con le

loro informazioni: un gioco politico, tentando di accaparrarsene la

gloria. Chi se ne fregava della “gloria”? Chi se ne fregava di “fare

strada”? Loro non erano impiegati statali che cercassero di arrampicarsi

lungo la scala della burocrazia; erano soldati impegnati in una

battaglia per la vita e per la morte. Come potevano tener nascoste

certe informazioni a Israele?

Carl scrollò le spalle. Conveniva sempre tenere qualche asso nella

manica. Soprattutto quando si aveva a che fare con quel branco di

le' histader di Tel Aviv, quelli che erano impegnati a spartirsi la torta.

A questa uscita, Avner parve un tantino confuso, forse perché

Carl aveva usato un’espressione di papà: tenere un asso nella manica.

Forse era la pura verità. E poi, chi era Avner per avere il diritto

di far lezione di patriottismo a Carl? E come poteva lui, il ragazzino

olandese, dichiarare a muso duro che se ne fregava della gloria? (nota 1).

In ogni caso, si scoprì che Carl aveva ragione. Ragione almeno

al novantacinque per cento, comunque.

Avner volò a Ginevra a lasciare il messaggio, e una decina di

giorni dopo vi tornò a ritirare la risposta di Ephraim dalla cassetta

di sicurezza. Il messaggio di Ephraim in sostanza diceva: non fatene


niente. State tranquilli. Sarebbe venuto lui a Ginevra per incontrarsi

con Avner e Carl, il 17 marzo.

E adesso, seduti nella stanza dell’hotel du Midi, passarono i

primi minuti a scambiarsi convenevoli e congratulazioni, anche se

ad Avner parve che il loro controllo non si sprecasse in elogi per ciò

che avevano fatto finora. Tutto benissimo, diceva Ephraim, però

va un po’ per le lunghe, no? E sicuramente costa un bel po’ di soldi.

Certo, ha molto contribuito a tenere alto il morale in Israele la notizia

che i mechablim non possono più andarsene attorno per il mondo

ad ammazzare impunemente viaggiatori, bambini, atleti; che a

questo punto anche loro devono guardarsi alle spalle. Molto bene.

Ma... sarebbe difficile stabilire se la cosa sta avendo o meno l’effetto

di sradicare il terrorismo. A giudicare da certi episodi recenti,

potrebbe darsi che ottenga proprio il risultato opposto. (nota 2).

«Comunque sia,» proseguì Ephraim, «a questo punto non è cosa

che vi riguardi. Sosteniamo ancora al cento per cento l’operazione,

ma abbiamo un altro problema.

«Può darsi che voi non ve ne rendiate conto, ma la vostra esistenza

è un grosso mistero. Non solo per il nemico - almeno rimanesse

un mistero per sempre - ma anche per la nostra gente. Le persone


che sanno di voi si possono contare sulle dita di una mano.

«Ora comincerà a esserci un bel po’ di pressione. All’interno,

mi capite. La gente comincia a domandarsi: che cosa sta succedendo?

I terroristi vengono fatti fuori da un capo all’altro d’Europa, e

noi non ne sappiamo niente? Pensate ai vari capi-dipartimento alle

riunioni del giovedì. (nota 3). Dobbiamo apprendere certe notizie dalla

stampa, dicono, non vi fidate più di noi?»

«Oh, andiamo» disse Carl stizzito. «Sono sicuro che riuscite a

cavarvela.»

«Per ora ce la caviamo, non dovete preoccuparvi» rispose Ephraim.

«Però cerchiamo di pensare in prospettiva. Come vi ho detto,

si avverte una certa tensione. C’è altra gente che ha le sue idee su

come affrontare il terrorismo, e magari quelle idee non sono neanche

da buttar via. Non possiamo dir loro “statevene fuori” in eterno.

Non possiamo dire “le nostre grandi stelle segrete in Europa

hanno bisogno ancora di un po’ di tempo”.»

«Be’,» domandò Avner, «dove vuoi andare a parare?»

«Ecco,» disse Ephraim, «quell’informazione che avete su Beirut,

ne siamo già al corrente. Ne siamo al corrente da un pezzo. Sono

stati fatti progetti. Non solo da parte nostra, ma anche dell’esercito


e così via. Può darsi si decida di intervenire in maniera molto

più massiccia. Non il Mossad da solo, ma con un’operazione combinata.

Mi capite? Così, quei tre mechablim cancellateli dalla lista.

Non abbiamo bisogno di voi per loro.»

Avner guardò Carl. Carl gli restituì lo sguardo. Si strinsero tutti

e due nelle spalle, poi Avner disse: «Benone. Non avete bisogno di

noi... non avete bisogno di noi».

Ephraim aggiunse: «Allora, fatemi un resoconto completo. Non

solo l’indirizzo, quello lo conosciamo già. Tutto quel che sapete.

L’intero quadro».

«Oh, andiamo» reagì Avner, cominciando a scocciarsi. Tornò a

guardare Carl, ma il compagno più anziano sorrise e abbozzò un gesto

con la mano, come per dire è proprio quello contro cui ti ho messo

in guardia, adesso sbrigatela da solo. Avner si rivolse a Ephraim.

«Che cosa vuol dire, l’intero quadro? Dobbiamo scoprire i loro movimenti,

le loro abitudini, tutto quanto, usare tutte le nostre fonti,

ma non fare il colpo?»

«Il colpo lo facciamo noi, non capisci?» disse Ephraim. «Voialtri

neppure lavorate per noi, ricordi?»

«Benone, non lavoriamo per voi» ribatté Avner. «Sei stato tu a


dirlo. Allora le informazioni procuratele da solo.»

Fu stupito di sentirsi pronunciare quelle parole, e anche Ephraim

appariva un po’ sorpreso. Ma poi scoppiò in una risata. «Ma

che è,» fece, «siamo all’asilo? Non posso crederci! Non ha importanza

per chi lavorate, siete ufficiali della riserva, siete cittadini

israeliani: vi sto chiedendo certe informazioni. Vi dimenticate con

che cosa abbiamo a che fare?»

Discussioni del genere risvegliavano sempre in Avner una vena

di testardaggine. Forse era la stessa dote che gli aveva permesso di

marciare da un capo all’altro di Israele con oltre venti chili di roba

in spalla, mentre i ragazzi più atletici di lui crollavano esausti. «Non

ce ne dimentichiamo» disse. «Forse sei tu che te ne dimentichi, con

tutte queste chiacchiere sulle pressioni e sul fatto che altri hanno le

loro idee. Comunque sia, voialtri non avete già abbastanza da fare?

C’è proprio bisogno che vi occupiate anche del nostro lavoro? Se vi

servono le nostre informazioni, perché allora il colpo non possiamo

farlo noi?»

«Sta a sentire, forse questa faccenda vi sta un po’ logorando»

disse Ephraim mantenendo un tono conciliante. «Forse avete bisogno

di riposarvi un po’. Perché non potete fare il colpo? Perché è


così che abbiamo deciso. D’ora in poi volete che vi informiamo di

tutte le nostre decisioni, per poterci dire se sono ragionevoli o no?»

E proseguì: «E che storia è questa, a proposito delle vostre informazioni?

Credi forse che i vostri informatori si siano innamorati di

voi? Avete ottenuto le informazioni perché avete sborsato un sacco

di soldi. Vuoi proprio che ti dica di chi erano quei soldi?».

Ephraim aveva segnato un punto a suo favore. Ma si trattava

pur sempre di un attacco frontale, e come tale non faceva che spingere

Avner ad andare più a fondo.

«Perdonami, me n’ero scordato,» disse, «erano soldi vostri. Be’,

ce n’è ancora un mucchio in banca. Perché non vai a prelevarli? Così

vedrai quante informazioni riuscirai a procurarti.»

A questo punto intervenne Carl, come chiaramente speravano

che facesse sia Avner sia Ephraim. «Senti, tu sai benissimo come

vanno le cose. In questo mestiere moltissime cose dipendono dai

rapporti personali. I nostri informatori non sanno esattamente chi

siamo. Forse non vogliono saperlo, in parte per via del denaro, in

parte per altre ragioni, sicché neanche lo domandano. Se dicessimo

loro semplicemente: adesso dovete lavorare per il Mossad, dovete

affiancare l’azione dei nostri paracadutisti in Libano, probabilmente


la maggior parte di loro direbbe di no. Non ci starebbero, per

nessuna cifra al mondo.»

«E per di più» soggiunse Avner «potrebbero persino cambiare

idea su di noi. Non me la sento di correre questo rischio.»

Ebbe voglia di aggiungere: «E magari consiglierei loro di non lavorare

per voi in ogni caso, perché di voi non c’è da fidarsi». Ma ci

rinunciò subito.

Ephraim rimase in silenzio per qualche istante. Si alzò, andò alla

finestra, rimase per un po’ a guardare i cupi edifici sull’altra sponda

del Rodano, poi tornò a lasciarsi cadere nella poltrona. «Voialtri

restate qui a Ginevra,» disse, «mi metterò in contatto con voi tra un

paio di giorni, e ne riparleremo.»

Carl e Avner non rimasero a Ginevra ad aspettare il ritorno di

Ephraim. Presero l’aereo per Parigi, dove Robert, Hans e Steve

avevano già provveduto a organizzare la sorveglianza di Basii al-

Kubaisi. Riguardo al problema di Beirut, giunsero tutti e cinque

molto rapidamente a un accordo. Qualunque fosse la proposta che

Ephraim avrebbe fatto al suo ritorno non avrebbero passato al

Mossad i servizi del Group. In seguito, Avner avrebbe confessato a

se stesso che, almeno in parte, la ragione di fondo di questa decisione


era un po’ puerile. Amor proprio. La stizza all’idea di essere

esclusi.

Ma principalmente si trattava di ragioni di sicurezza, la loro oltre

a quella degli uomini di Louis a Beirut. Avner e i suoi compagni

non potevano garantire che non ci sarebbero stati malintesi, infiltrazioni,

agenti che facevano il doppio gioco attorno a un’operazione

di cui non si occupassero personalmente. Il rischio sarebbe stato

davvero troppo grande.

Ephraim tornò a Ginevra il 23 marzo. Suggerì un compromesso.

Gli uomini della squadra si sarebbero recati a Beirut a preparare

il colpo, usando i loro contatti e le loro risorse e agendo in modo del

tutto autonomo, senza ricevere istruzioni dirette o dover subire il

controllo di qualcun altro. Poi, quando ogni cosa fosse stata predisposta

fin nei dettagli, sarebbero subentrate speciali unità d’assalto

a compiere effettivamente gli attentati. Si sarebbe trattato di

un’operazione congiunta tra il Mossad e l’esercito israeliano. La sua

portata effettiva sarebbe andata ben al di là dell’uccisione di tre capi

terroristi.

Quando Ephraim espose i particolari del piano, persino Avner e

Carl dovettero convenire che un’operazione del genere non poteva


essere compiuta da cinque uomini, con l’appoggio di una squadra di

cani sciolti francesi. Era una cosa grossa.

Era anche incredibilmente audace.

Ephraim li avrebbe informati non appena possibile della data

precisa dell’attentato. Il tempo era un fattore essenziale, dal momento

che non potevano sapere per quanto tempo i capi fedayin sarebbero

rimasti nella loro roccaforte di Beirut. Con tutta probabilità,

l’operazione avrebbe avuto luogo prima della metà di aprile. Il

che, però, poneva un altro problema.

I tempi avrebbero potuto interferire nel piano della squadra per

attuare il colpo contro al-Kubaisi a Parigi.

Avner propose una soluzione.

«Non appena conosceremo la data,» disse, «Carl e Steve potranno

recarsi a Beirut. Di al-Kubaisi, qui a Parigi, ci occuperemo Robert,

Hans e io. Non appena avremo finito vi raggiungeremo a

Beirut. Avremo un paio di settimane piuttosto intense, in aprile.

Che ne dite?»

Avner, a questo punto, non aveva idea di quanto intenso sarebbe

stato il programma.

Il 1° aprile, Ephraim si fece vivo. La data prevista per l’attentato


di Beirut era il 9 aprile. Carl e Steve si prepararono subito all’appuntamento

con alcuni membri del Group nella capitale libanese.

Lo stesso giorno, Louis ricevette qualche altra informazione per

Avner. L’uomo che teneva attualmente i contatti tra Settembre

Nero e il KGB sarebbe giunto ad Atene per un incontro, probabilmente

attorno all’11 aprile. Il successore del defunto al-Chir era un

palestinese a nome Zaid Muchassi, altrimenti noto come “Abu

Zeid”. La squadra sapeva pochissimo di lui, solo che era un organizzatore

di azioni terroristiche, il quale fino a poco prima aveva avuto

la sua base operativa in Libia. Carl riteneva che un “Abu Zeid” potesse

esser rimasto vittima di una lettera esplosiva, un giorno imprecisato

dell’ottobre 1972, a Tripoli. Se questo Muchassi era la stessa

persona, voleva dire che si era ripreso dalle ferite. Su una cosa non

sussistevano dubbi: Muchassi era il nuovo ufficiale di collegamento

dei fedayin con i sovietici. Le Group lo aveva individuato qualche

tempo addietro, tenendo sotto sorveglianza colui che era stato il

contatto del KGB con al-Chir.

Muchassi, naturalmente, non figurava nella lista di Ephraim.

Per Carl, questo semplificava le cose. «Non figura nella lista,

per cui non lo si tocca» disse. «E puramente accademico sapere chi è


e che cosa fa. Comunque sia, tra al-Kubaisi e Beirut, che cos’altro

vuoi fare? Non siamo già abbastanza occupati?»

Avner la vedeva diversamente.

«Non figura nella lista, questo è vero» disse a Carl. «Credimi,

sono l’ultimo che si metta a cercare altra gente, giusto nel caso che

si resti con le mani in mano. Sarebbe pazzesco.»

«E sarebbe anche uno sbaglio» disse Hans.

«Ne convengo» fece Avner. «Però pensateci un momento:

perché al-Chir figurava nella lista? Forse perché a Ephraim non piaceva

il colore dei suoi occhi? Figurava nella lista per una ragione

precisa. Per un’unica ragione. Perché era il contatto con i sovietici

nella loro zona di allestimento più importante: Cipro. Giusto?

Adesso gli è subentrato Muchassi. E allora che cosa diciamo?

«Diciamo forse: se al-Chir organizza una grossa incursione a

Haifa lo fermiamo, ma se la stessa cosa la fa Muchassi, giù le mani?

Ad al-Chir non è permesso farlo, ma Muchassi si accomodi pure?

«La lista è solo un pezzo di carta. I nomi vi figuravano per una

buona ragione. Ci atteniamo alla carta o ragioniamo col nostro cervello?

Pensateci.»

Avner non aveva torto, non solo in astratto, ma anche sulla


scorta della tradizione israeliana. Dovunque, al kibbutz, nelle file

dell’esercito, al Mossad, si insisteva sempre sul fatto che ciascuno

doveva pensare con la sua testa. Non attenetevi pedissequamente al

regolamento. Date prova di iniziativa personale. Pensate. Ciò non

significava trasgredire allegramente agli ordini o infischiarsene delle

istruzioni. Però equivaleva a dire: le istruzioni non sono tutto. Le

istruzioni esistono per una ragione precisa. Badate alla ragione che

sta dietro i comandi. Se esiste conflitto tra la lettera e lo spirito di

una legge - se siete certi che di conflitto si tratta - attenetevi allo

spirito. Agite da uomini, non come macchine.

In pratica, però, non era così semplice.

«Prima di decidere,» disse Carl, «consideriamo la cosa in questo

modo. Se fai fuori Muchassi, e non ci sono obiezioni, sei un eroe. Se

lo lasci in pace, continui a essere un eroe. Se lo fai fuori, e c’è qualche

obiezione, sei un balordo.»

«Se non se ne fa niente,» soggiunse Hans, «ci sono due probabilità

contro una di essere un eroe.»

Questa osservazione irritò Steve al punto da fargli prendere le

parti di Avner nella discussione. «A sentirvi parlare, ragazzi,» disse

rivolto a Hans e a Carl, «mi viene da vomitare. Succede sempre così,


quando si arriva ai quarant’anni? L’unica cosa cui si pensa è a

non farsi fottere?»

Non ci volle altro per convincere Carl e Hans. In verità aspettavano

solo di essere convinti, comunque. Carl avrebbe magari proposto

una soluzione di compromesso, consistente nel consultarsi

prima con Ephraim - agire al di fuori della lista, anche per la più valida

delle ragioni, era sempre una grave infrazione - ma ovviamente

non ce n’era il tempo. Avrebbe comportato due viaggi a Ginevra,

alla cassetta di sicurezza, intervallati da un’attesa di cinque o sei

giorni.

«Faremo così» decise Avner. «Carl e Steve partono per Beirut

domani, Hans, Robert e io facciamo in modo di sbrigare la faccenda

di al-Kubaisi entro il 6. Poi io raggiungerò immediatamente Carl e

Steve, mentre Robert e Hans andranno ad Atene a preparare l’operazione

Muchassi. Per questo non avranno bisogno, diciamo, di più

di un giorno. Dopodiché ci raggiungeranno a Beirut. Conclusa la

faccenda di Beirut, cioè il 9, si va ad Atene. Quelli di noi che saranno

necessari per portare a termine l’impresa.»

In seguito, ripensando agli avvenimenti dell’aprile 1973, Avner

avrebbe ammesso di aver avuto anche un’altra ragione per insistere


sull’idea di compiere tre importanti operazioni, in tre diverse città,

a distanza di pochi giorni l’una dall’altra. La verità era che la reazione

di Ephraim a Ginevra a ciò che la squadra aveva fatto fino a quel

momento lo preoccupava. Ephraim non aveva detto esattamente:

perché ci mettete tanto, ragazzi? Non aveva detto: credete di fare

una crociera di lusso? Non mostrava sufficiente entusiasmo. Non

che il loro controllo avrebbe dovuto trattare Avner e Carl come eroi

- nessun israeliano poteva aspettarsi di essere trattato come un eroe

per il semplice fatto di svolgere un compito rischioso; in un certo

senso, già il fatto di essere israeliano era un compito rischioso - però

l’atteggiamento di Ephraim pareva così ambiguo, così fiacco, da far

temere ad Avner che fosse l’indizio di un cambiamento d’idea da

parte di Tel Aviv riguardo alla missione nel suo complesso. Poteva

darsi che qualcuno nelle file della burocrazia, del Mossad, del governo,

chissà dove, si domandasse perché? Perché facciamo una cosa

del genere, mandiamo cinque uomini a spasso per il mondo per

sei mesi, spendendo milioni di dollari, solo per sbarazzarci di tre

terroristi? E stupido!

E se le cose stavano così, Avner non sarebbe mai diventato il ragazzino

olandese. Al contrario, il suo nome sarebbe stato per sempre


collegato con una missione che era stata annullata perché era

stupida. «Oh» avrebbe detto la gente «alludi a quel tale che era andato

a caccia di ombre e che abbiamo dovuto fermare perché un pugno

di commandos era in grado di cavarsela meglio, a Beirut, in cinque

ore, per metà spesa? E metà del casino che faceva lui?»

Forse quel che Ephraim aveva voluto far capire a Ginevra, pur

senza dirlo apertamente, era: dateci dentro. Fate di meglio. Se non

ci riuscite, potremmo essere costretti a lasciar perdere l’intera faccenda.

Carl doveva aver intuito quel che passava per la mente di Avner, perché,
una volta

presa la decisione di tentare tutte e tre le operazioni,

gli disse a tu per tu: «Senti, forse hai ragione, e lo faremo.

Non farti prendere dalla tensione, però. Ricordati, se fai fiasco nessuno

ammetterà mai di averti messo fretta. Diranno: cosa, noi?

Non gli abbiamo mai detto niente».

Il compito di coordinare le azioni della squadra d’appoggio messa

a disposizione da Louis per la sorveglianza di al-Kubaisi era affidato

a una giovane donna suppergiù dell’età di Avner. Era la prima

volta che Avner vedeva una donna assolvere un incarico più importante

di quello di osservatrice, massaia o semplice esca. Sapeva, naturalmente,

che
c’erano

molte

donne

impegnate

ogni

livello

della

raccolta di informazioni, e che i mechablim si servivano abbastanza

spesso di donne in qualità di manovali del terrorismo. Alcune, come

Leila Khaled, Rima Aissa Tannous o Therèse Halesh, avevano conseguito

grande notorietà. (nota 4). Però stava di fatto che Avner non aveva

mai lavorato prima d’allora con una donna in posizione di responsabilità.

“Kathy” era molto in gamba nel suo lavoro. Snella, occhi scuri e

corti capelli bruni, Kathy sarebbe stata una bella ragazza se non

avesse fatto tutto il possibile per sembrare sciatta. Era chiaramente

una donna istruita, parlava il francese e l’inglese come se fossero entrambi

la sua madrelingua - fatto non insolito per una ragazza di

origine borghese del Québec, quale Avner riteneva che fosse. Al pari

di una consistente minoranza di studenti universitari franco-canadesi,


probabilmente Kathy aveva militato nel FLQ - il Front de

la Libération du Québec - negli Anni Sessanta, in un primo tempo

forse solo come simpatizzante. Era da tale militanza che Kathy


gradualmente

aveva raggiunto la posizione in cui, al pari di Tony o di

Louis, aveva ormai “superato la fase” dei discorsi politici.

A titolo di curiosità, Avner prese a domandarsi quali potessero

essere le idee politiche di Kathy, ammesso che ne avesse ancora

qualcuna. Perché una donna arrivava a desiderare di fare ciò che

Kathy stava facendo? Una domanda del genere Avner non se la sarebbe

mai posta, se si fosse trattato di un uomo. La necessità di guadagnarsi

da vivere, di fare qualcosa, poteva portare un uomo a esercitare

le professioni più strane (lo stesso Avner aveva sempre pensato

di essere “capitato” per puro caso nel mestiere di agente). Ma se

una donna faceva un mestiere insolito, era più probabile che avesse

fatto violenza a se stessa, scegliendolo. In tal caso, perché Kathy

aveva operato quella scelta?

Lei non forniva ad Avner la possibilità di scoprirlo. Era svelta,

fidata e cortese, facile al riso, e spesso manifestava un calore cameratesco

un po’ all’antica nei confronti dei compagni di clandestinità.

Aveva il vezzo di abbozzare un piccolo inchino rigido, quasi


come un ufficiale prussiano di vecchia scuola, quando dava la mano.

Kathy condivideva con Papà le opinioni ostili sugli inglesi. La

sua antipatia si manifestava in piccoli commenti tra sé e sé e in osservazioni

buttate lì con noncuranza. E non c’era da sbagliarsi sul

sorriso che le illuminava il volto quando, per esempio, il discorso cadeva

su Geoffrey Jackson, l’ambasciatore britannico in Uruguay,

che era stato tenuto prigioniero per otto mesi in un “carcere del popolo”

dai Tupamaros.

Può darsi che Kathy nutrisse una certa simpatia per i “patrioti”

in generale, termine che per lei stava a indicare tutti coloro che erano
impegnati in

una battaglia fisica per i loro paesi, anche se accadeva

che si combattessero a vicenda, come i palestinesi e gli israeliani.

Questo, perlomeno, fu tutto ciò che Avner riuscì mai a scoprire dei

suoi sentimenti. Per tutti gli altri, sembrava che Kathy nutrisse solo

disprezzo. Aveva l’abitudine di definirli “asini”.

«Non è difficile pedinarlo,» aveva detto ad Avner, alludendo a

Basii al-Kubaisi, «perché risale sempre Rue Royale verso le dieci.

Non ci sono troppi asini in circolazione.»

In effetti, trattandosi di un uomo abitudinario, non era difficile

pedinare il dottor Basii al-Kubaisi. Il professore di diritto iracheno,


un tempo lettore presso l’American University di Beirut e, stando

al Mossad, nella primavera del 1973 efficiente organizzatore degli

aspetti logistici e della fornitura di armi per conto del Fronte

Popolare, (nota 5), aveva notevolmente facilitato le cose al Group. Lo aveva

fatto grazie a una sfortunata conversazione con una graziosa hostess

di terra all’aeroporto, la prima volta che era atterrato a Parigi,

il 9 marzo. «Vede, io non sono un riccone arabo» sembrava che al-

Kubaisi avesse detto alla ragazza. «Sono solo un turista, un semplice

turista. Quel che mi serve è un albergo a buon mercato.» La hostess

di terra, che arrotondava i suoi modesti introiti lavorando per

Papà, gli consigliò alcuni alberghetti a basso prezzo nel cuore di Parigi,

poi, non avendo la più pallida idea di chi fosse al-Kubaisi, fece

un minuzioso rapporto sull’episodio al suo contatto nelle file del

Group. In base a ciò, un semplice controllo nei tre o quattro alberghi

che la ragazza aveva menzionato portò alla localizzazione di al-

Kubaisi da parte della squadra di sorveglianza di Kathy.

L’albergo per cui aveva optato al-Kubaisi è sito in Rue de l’Arcade,

una viuzza dell’VIII arrondissement. A un isolato appena di distanza

delle splendide colonne neoclassiche della Madeleine, Rue

de l’Arcade corre tra il Boulevard Malesherbes e il Boulevard Haussmann,


a meno di un minuto a piedi dall’inizio di Rue Royale dove

la Madeleine, una delle chiese più spettacolari di Parigi, si trova al

centro di un incrocio a forma di Y. Rue Royale, che è il gambo della

Y, sbocca in Place de la Concorde. Il braccio sinistro della Y, che è

il Boulevard Malesherbes, porta alla chiesa quasi altrettanto celebre

di Saint-Augustin. Il braccio destro, che è il Boulevard de la Madeleine,

porta all’Opéra.

Al-Kubaisi divideva il suo tempo tra i bistros e i caffè con i tavolini

all’aperto della Riva Sinistra e della Destra, spesso incontrandosi

con i suoi contatti mattutini dalle parti del Boulevard Saint-Germain,

e dando invece la preferenza a Rue du Faubourg Montmartre

o agli Champs-Elysées per gli appuntamenti serali. Se gli incontri

della sera lo portavano a Rue du Faubourg Montmartre, percorreva il


Boulevard

des Italiens e il Boulevard des Capucines, passando

accanto all’Opéra, per rientrare in albergo. (La passeggiata,

ironia della sorte, lo faceva passare proprio davanti al portone del

covo usato in quel periodo da Hans, Robert e Avner.) Se l’ultimo

appuntamento della giornata lo portava sugli Champs Elysées, al-

Kubaisi tornava a piedi all’albergo, vuoi prendendo per Avenue de

Marigny, oltrepassando il Palais de l’Elysée e svoltando a destra in


Rue du Faubourg Saint-Honoré, vuoi percorrendo Avenue Gabriel,

passando davanti all’ambasciata americana e all’elegante Hotel

de Crillon, fino in Place de la Concorde. Entrambi i tragitti finivano

per portarlo in Rue Royale, appena prima o appena dopo Chez

Maxim, il ristorante famoso in tutto il mondo, da dove altri cinque

minuti di cammino oltre la grande chiesa della Madeleine lo facevano

arrivare sano e salvo a destinazione.

La sera del 6 aprile, il dottor Basii al-Kubaisi scelse il secondo

tragitto.

Essendo un uomo prudente o, forse, avvertendo il pericolo, al-

Kubaisi di tanto in tanto si girava come per controllare se qualcuno

lo seguisse. Era tuttavia improbabile che riuscisse a notare due diverse

automobili che gli passavano e ripassavano accanto nel flusso

del traffico parigino, mentre camminava lungo gli Champs Elysées.

Sull’Avenue Gabriel, gli osservatori di Kathy lo lasciarono perdere.

Non era proprio il caso di mettere in allarme un bersaglio, il cui itinerario,

ormai, era comunque noto.

Avner, Robert e Hans erano in attesa di una telefonata nel loro

covo, non lontano dal Boulevard des Capucines, nei pressi dell’inizio

del braccio destro del grande incrocio a Y: la telefonata doveva


confermare che il bersaglio si stava avvicinando a Rue Royale. Il loro

piano prevedeva di subentrare nel pedinamento di al-Kubaisi nei

pressi della Madeleine, al centro della Y, dopodiché lo avrebbero

seguito a piedi mentre percorreva il viale di sinistra in direzione del

suo albergo.

La telefonata giunse qualche minuto dopo le dieci.

In quel preciso istante, al-Kubaisi, che percorreva la tranquilla

Avenue Gabriel, non era osservato da nessuno, con l’eccezione forse

dei poliziotti parigini di guardia all’ambasciata americana. Può

darsi che al-Kubaisi avesse scelto quella strada deserta proprio per

questo motivo: era improbabile che qualcuno lo aggredisse sotto gli

occhi vigili della gendarmérie armata fino ai denti. Un po’ prima e un

po’ più avanti, strada facendo, dev’essersi sentito sufficientemente

protetto dalla presenza assai più fitta dei pedoni. Si sarebbe trovato

isolato solo lungo il breve tragitto dall’inizio di Rue Royale fino

all’albergo.

Dopo che ebbe aggirato l’obelisco di Place de la Concorde, la

prima auto della squadra di sorveglianza di Kathy tenne d’occhio

al-Kubaisi che stava già risalendo Rue Royale. Questa macchina

non si fermò né rallentò. Giunta all'inizio dell’ampia strada, con i


suoi eleganti negozi, svoltò a destra imboccando il Boulevard de la

Madeleine, lampeggiando con i fari per avvertire Avner e i suoi

compagni che avanzavano a passo spedito dalla direzione opposta.

La seconda auto, con Kathy in persona seduta accanto al guidatore,

tallonò al-Kubaisi a velocità ridotta, sorpassandolo quando

aveva quasi raggiunto l’inizio di Rue Royale. Questa macchina non

svoltò a destra. Girò invece intorno alla chiesa, fermandosi dall’altro

lato della Madeleine, all’angolo di una strada secondaria chiamata

Rue Chauveau Lagarde. Attese accostata al marciapiede, di

fronte ai grandi “Parkings Garages de Paris”, a luci spente e col motore

al minimo.

Avner e Hans, seguiti a una cinquantina di passi da Robert, attraversavano

l’inizio di Rue Royale, dal braccio destro dell’incrocio

a Y verso il sinistro, proprio mentre al-Kubaisi attraversava il Boulevard

Malesherbes, forse un centinaio di metri più avanti. Dato

che l’arabo camminava di buon passo, non era facile coprire quella

distanza nello spazio dei prossimi due isolati senza tradire l’intenzione

di raggiungerlo. Ma arrivargli a tiro anche solo un poco più

avanti sarebbe stato troppo tardi. Tra il terzo e il quarto isolato, al-

Kubaisi sarebbe già arrivato al suo albergo.


In quel punto, non c’erano quasi pedoni sull’ampio boulevard e

anche il traffico si era diradato. Da come al-Kubaisi si girava a guardarsi

attorno da sopra la spalla mentre si portava sul lato opposto

della strada, si sarebbe detto che fosse assai facile .spaventarlo. Se

avesse deciso di spiccare la corsa, pensò Avner, poteva darsi che

non riuscissero a raggiungerlo. Ancora un breve isolato, e sarebbe

arrivato all’altezza di Rue de l'Arcade, dove avrebbe svoltato a destra;

poi c’era un isolato ancora più breve fino al passaggio della

Madeleine. Da lì gli restava da percorrere ancora soltanto un isolato

e un pezzetto di strada. Una volta che al-Kubaisi avesse superato il

semaforo di Rue Chauveau Lagarde, con tutta probabilità lo avrebbero

perso.

Avner e Hans cercarono di affrettare il passo senza dare l’impressione

di farlo, il che non era facile. Se al-Kubaisi non si metteva

a correre prima che avessero dimezzato la distanza che li separava,

per lui sarebbe stato troppo tardi. A questo punto, l’organizzatore

del Fronte Popolare chiaramente non era più ignaro del fatto di essere

pedinato. Anche lui aveva affrettato il passo e si era messo a

scoccare occhiate in direzione di Avner e di Hans. Ancora, però,

non correva. Avner si scoprì a sperare che il suo bersaglio fosse un


individuo coraggioso, dai nervi saldi.

Per sua sfortuna, di coraggio al-Kubaisi ne aveva da vendere.

Non spiccò la corsa mentre svoltava in Rue de l’Arcade. Non spiccò

la corsa mentre passava davanti al fiorista, all’elegante tabaccaio

Au Lotus e al piccolo Hotel Peiffer, sull’angolo del passaggio della

Madeleine. Si limitò a camminare sempre più in fretta, voltandosi

ancora una volta a guardare da sopra la spalla. Avner e Hans, che

avevano ormai smesso di fingere di passeggiare come se niente fosse,

si trovavano ora a meno di trenta metri di distanza. Robert li seguiva

un po’ più lentamente sull’altro lato della stradina. Avner e

Hans avrebbero così potuto concentrarsi unicamente sul bersaglio,

sapendo che Robert avrebbe provveduto a coprir loro le spalle.

Sebbene al-Kubaisi non corresse, era ancora possibile che Avner e Hans
non

riuscissero a raggiungerlo in tempo, se non avesse

deciso di fermarsi al semaforo rosso sull’angolo di Rue Chauveau

Lagarde. Era un comportamento strano, da parte di uno che sapeva

di essere inseguito. Non c’era assolutamente traffico nella strada,

eppure al-Kubaisi si fermò sul marciapiede, tenendo d’occhio il semaforo,

esitando di fronte alla grande Pharmacie de la Madeleine.

Avner e Hans lo superarono, ciascuno da un lato, scendendo dal


marciapiede sulla carreggiata. La ragione che fornirono a se stessi

per questo gesto fu che volevano aver di fronte al-Kubaisi per essere

assolutamente certi che fosse l’uomo giusto. Inoltre provavano entrambi

un’avversione a sparare a qualcuno alle spalle. (Nota 6).

Alcuni attimi prima, Avner aveva alzato gli occhi per vedere se

per caso non ci fosse qualcuno che osservava la scena da una finestra,

e notò con soddisfazione che in quel momento passavano sotto

certe tende a baldacchino che impedivano la visuale dalle finestre

immediatamente sovrastanti. Rimanevano comunque le finestre

sull’altro lato di Rue de l’Arcade, ma il rischio che qualcuno li vedesse

era già ridotto della metà. Tutt’altro che rischio zero, ma sempre

meglio che niente. Il rischio zero non esisteva, quando si sparava

a un uomo per strada.

«Adesso» disse Hans in ebraico, e nell’attimo che seguì si girarono

entrambi, affrontando al-Kubaisi, sollevando ad arco la mano

sinistra, pronti a tirare indietro le slitte delle Beretta. Al-Kubaisi li

fissava con gli occhi sgranati, dicendo: «La! La! La!» poi ripetendo

il monosillabo arabo in inglese: «No! No!». Mentre Avner e Hans lo

sorpassavano, anche al-Kubaisi doveva essere sceso dal marciapiede.

Ora, quando tentò di indietreggiare, inciampò con i tacchi nel


cordolo e accennò a cadere all’indietro, mulinando follemente le

braccia. Per qualche attimo, il pensiero che attraversò la mente di

Avner fu che, se lo mancavano, i loro proiettili avrebbero perforato

la grande vetrata della Pharmacie de la Madeleine. Non voleva danneggiare

la vetrina. Aggiustando lievemente la mira, prese a seguire

il corpo di al-Kubaisi mentre cadeva all’indietro, facendo partire i

primi due colpi prima che toccasse terra. Tirò il grilletto altre due

volte, poi due volte ancora. Quasi non si rese conto dello schiocco

della pistola di Hans che sparava con lo stesso ritmo accanto a lui,

ma con la coda dell’occhio intravide Robert sull’altro lato della strada:

era ritto dietro una macchina in sosta, in attesa.

Il corpo di al-Kubaisi giaceva sul marciapiede com’era caduto,

con la testa che quasi sfiorava la colonnina del semaforo, i piedi ancora

penzolanti dal cordolo. Non emetteva alcun suono, solo le

spalle sussultavano lievemente, poi, come se tentasse di sollevarsi,

piegò le ginocchia e si girò sul fianco. Avner fu sul punto di sparare

di nuovo, ma in quel momento al-Kubaisi emise una serie di brevi,

secchi rantoli come se volesse schiarirsi la gola, e di lì a un istante

Avner vide il suo corpo afflosciarsi. L’uomo che la stampa parigina

il giorno dopo avrebbe definito come l’ambasciatore itinerante del


dottor George Habash era morto. (nota 7).

Alzando gli occhi, la prima cosa che Avner vide fu la brace di

una sigaretta accesa nel buio. In un androne, dall’altro lato della

strada. Pareva che là, in piedi, ci fosse un uomo, o forse due, con

una ragazza. Testimoni oculari.

Senza una parola, Avner si incamminò lungo Rue Chauveau Lagarde,

tornando verso Place de la Madeleine. Intanto Robert aveva

fatto dietro-front, e Avner sapeva che si stava avviando alla Madeleine

per la stessa strada da cui erano venuti, senza passare per il

punto in cui giaceva il corpo di al-Kubaisi. Hans seguiva Avner. Potevano

solo sperare che la stessa cosa non venisse in mente anche ai

testimoni oculari. (nota 8).

Le auto di Kathy li raccolsero tutti e tre in Place de la Madeleine,

di fronte all’elegante Caviar Kaspia. Tornarono al covo, poi si

recarono direttamente all’aeroporto. Il giorno seguente, Hans e Robert

erano ad Atene.

Avner era a Beirut.

La rapidità con cui si svolgevano gli eventi a questo punto non

lasciava il tempo di pensare. In seguito, ripensandoci, Avner avrebbe

avuto l’impressione che, se solo avesse avuto un attimo di tempo


per riflettere, non avrebbe fatto molte delle cose che fece tra il 1° e

il 15 aprile 1973. O almeno le avrebbe fatte in modo diverso. Sarebbe

stato di gran lunga più prudente. Tanto per cominciare, non

avrebbe organizzato un colpo nel cuore di Parigi, in piena strada,

con tre uomini soli più un paio di automobili predisposte per la fuga,

in sosta a un isolato di distanza. Certamente non avrebbe costretto

la squadra a partire da Parigi la stessa notte. Facendosi temerariamente

strada in un aeroporto brulicante di poliziotti.

Eppure, se fosse stato più prudente, forse sarebbero stati tutti

catturati.

Forse il segreto stava proprio nel fare così, senza pensarci su

troppo. E se la cosa funzionava, era un’operazione brillante, portata

termine

con

professionismo.

Capitolo 10

Beirut e Atene

L’azione di Beirut fu certamente giudicata brillante e condotta

con professionismo. Almeno dopo la conclusione. La cosa non sembrava


così sicura l'8 aprile, una domenica.

Carl e Steve si trovavano a Beirut già da un paio di giorni, quanto

Avner arrivò. Carl alloggiava all’Atlanta Hotel, dove si era registrato

presentando un passaporto britannico intestato a Andrew

Macy. Fortunatamente Avner non faticò a ricordarselo. Se non se

lo fosse ricordato, avrebbe dovuto starsene ad aspettare per mezza

giornata nell’atrio del Sands Hotel, finché non fosse entrato Steve.

Questo perché ad Avner era completamente sfuggito di mente il nome

di cui si serviva Steve, anche se Hans aveva provveduto a che

facesse rima: Gilbert Rimbert, un belga, dal momento che Steve

poteva far passare per fiammingo il suo afrikaans, perlomeno in Libano.

Avner non aveva invece alcuna difficoltà a ricordare la propria

identità. Era Helmuth Deistrich, un uomo d’affari tedesco. Non

prese alloggio in albergo, ma si recò direttamente in un covo predisposto

da Louis.

Robert e Hans arrivarono da Atene, via Roma, un giorno più

tardi. Anche Robert aveva assunto un’identità belga, col nome di

Charles Boussart. Hans preferiva viaggiare con un nome tedesco,

quello di Dieter von Altnoder. Raggiunsero entrambi Steve al

Sands Hotel. (nota 1).


Nel 1973, Beirut non era ancora quel cumulo di rovine devastate,

incendiate, dilaniate che sarebbe diventata due anni dopo,

quando scoppiò la guerra civile del Libano tra mussulmani e cristiani.

Nell’aprile 1973 Beirut era ancora una città di grattacieli, di casinò

e locali notturni, di negozi di lusso e di belle donne eleganti.

Come tale, era forse l’unica città in tutto il bacino mediterraneo che

si confacesse ai gusti di Avner. Il quale pensava con piacere alle

splendide spiagge popolate di ragazze in bikini o all’Aden Rock

Club nei quartieri occidentali di Beirut, dove con una carta di credito

dell’American Express a chiunque era permesso entrare in un

mondo di modesti piaceri personali - modesti, dal momento che

Avner non beveva e non giocava d’azzardo. Gli sarebbe però piaciuto

starsene disteso in riva al mare su una sedia a sdraio, ad arrostirsi

al sole, a guardare le ragazze, a bere di tanto in tanto da un alto

bicchiere un sorso di Coca e ghiaccio tritato.

Invece, Avner e i suoi compagni si servirono delle carte di credito

per noleggiare un piccolo parco macchine: tre Buick bianche, una

giardinetta Plymouth, una Valiant e una Renault 16. Con i contatti

locali del Group che fungevano da autisti, passarono la domenica e

parte del lunedì a esplorare sei località ben precise. Due si trovavano
a Beirut, tre alla periferia della città, e la sesta una cinquantina di

chilometri a sud di Beirut, nei pressi della città costiera di Sidone.

Quest’ultima località, e le tre appena fuori Beirut, erano campi di

addestramento e basi logistiche palestinesi nelle quali si provvedeva

alla manutenzione di armi, veicoli, imbarcazioni, scartoffie e documenti.

Dei due siti in città, uno era il quartier generale dell’OLP.

L’altro era il palazzo di quattro piani dove abitavano Kamal

Nasser, Mahmoud Yussuf Najjer e Kemal Adwan.

Dato che parte della programmazione, preparazione e sorveglianza

era già stata effettuata dagli agenti locali del Mossad che si

sarebbero trattenuti a Beirut anche dopo l’operazione, alla squadra

di Avner era stato chiesto di svolgere solo quella parte del lavoro

che gli agenti locali non avrebbero potuto compiere senza bruciarsi.

In tali compiti rientravano il noleggio degli automezzi che sarebbero

stati abbandonati dopo l’azione, e il condurre a destinazione parte

degli uomini impegnati nell’assalto. Vi sarebbero stati implicati

anche alcuni collaboratori locali del Group, sebbene questa fosse

una grossa, e “salata”, concessione da parte di Louis, il quale si mostrò

assai recalcitrante in proposito. Dal momento però che Avner

promise solennemente a Louis che i suoi uomini non sarebbero venuti


in contatto con agenti del Mossad o commandos dell’esercito

israeliano, e che l’unico loro compito consisteva nel consentire a un

piccolo corteo di auto civili di seguire i loro automezzi mentre passavano

davanti a certi siti, Louis accettò. A tali condizioni il rischio

per la sua organizzazione sarebbe stato minimo. (nota 2).

Le otto automobili furono parcheggiate nei pressi della spiaggia

di Ramlet-el-Beida, poco dopo la mezzanotte. Sebbene la zona fosse

completamente deserta, alcune macchine americane in sosta lungo

la spiaggia non avrebbero attirato granché l’attenzione. A Beirut

la popolazione locale, come la maggior parte della gente in Medio

Oriente, andava a letto di buon’ora, ma tutti erano abituati all’idea

che i turisti tirassero tardi.

Era una notte senza luna. Il mare era nero. All’una, Steve vide

il bagliore di una torcia elettrica nel buio e accese i fari della sua auto,

un paio di volte. La torcia si spense. Di lì a qualche minuto,

emergendo neri dalle onde come la pece, alcuni uomini rana raggiunsero

silenziosamente la riva. Portavano le armi e i vestiti da

borghesi in sacche impermeabili.

I quaranta commandos si pigiarono nelle otto automobili - in

seguito, Steve commentò che si era trattato del più difficile problema
tecnico dell’intera missione - e, dividendosi in due gruppi, si diressero

verso il centro di Beirut. Carl e Robert accompagnarono i

loro passeggeri al quartier generale dell’OLP; Avner, Steve e Hans

indicarono la strada per il palazzo in cui abitavano i capi terroristi.

Gli assalti agli altri quattro obiettivi furono organizzati da punti di

partenza diversi.

Tre palestinesi, armati ma del tutto privi di sospetti, che montavano

la guardia davanti al palazzo di Rue el-Khartoum, furono uccisi

dai commandos non appena le auto si fermarono. Gli israeliani si

servirono di pistole con silenziatore e coltelli per non mettere in allarme

gli inquilini del palazzo. Avner, Hans e Steve rimasero vicino

alle auto mentre i commandos si precipitavano di sopra. La loro


partecipazione

non era necessaria. Anzi, avrebbe potuto intralciare

l’operazione.

Kamal Nasser, un cristiano palestinese di quarantaquattro anni,

occupava l’appartamento al terzo piano. Era scapolo. Nasser, un


intellettuale

che aveva conseguito la libera docenza in scienze politiche

presso l’università di Beirut, era diventato il responsabile delle

pubbliche relazioni per conto di Al Fatah nel 1969, e il portavoce


ufficiale dell’OLP un anno dopo. Un incarico che era riuscito a conservare

malgrado una disputa, nel 1971, con Yasser Arafat, il quale

giudicava troppo militante la posizione di Nasser. Quando i commandos

fecero irruzione nel suo appartamento, era seduto a tavola

a cenare, con accanto la macchina per scrivere. Un divano alle sue

spalle s’incendiò quando le pallottole al fosforo crivellarono il suo

corpo.

Al secondo piano, anche Kemal Adwan stava lavorando, seduto

alla scrivania. A differenza dell’inerme Nasser, teneva a portata di

mano un Kalashnikov. Adwan, di professione ingegnere, era uno

dei membri fondatori della sezione del Kuwait di Al Fatah; nel

1973 era il responsabile di tutte le operazioni di sabotaggio nei territori

occupati da Israele. Era in gamba nel suo lavoro, e può darsi

che il successo di alcune sue operazioni abbia affrettato l’assalto di

Beirut. Era sposato, con due figli in tenera età. Riuscì a sparare una

raffica prima che i commandos lo abbattessero.

Mahmoud Yussuf Najjer, noto come “Abu Yussuf”, era il responsabile

di Settembre Nero all’interno di Al Fatah; e come capo

degli affari politico-militari dell’OLP, a quel tempo era probabilmente

terzo per importanza nella gerarchia in costante mutamento


del movimento palestinese. (nota 3). Abitava al quarto piano del palazzo
assieme

alla moglie e al figlio quindicenne. Dopo, i commandos dissero

ad Avner che il figlio di Najjer era rimasto incolume - anche se,

stando ad altri rapporti, morì anche lui nella sparatoria. Quanto alla

moglie di Najjer, non c’erano dubbi: nel tentativo di fare scudo al

marito col proprio corpo, era perita assieme a lui, crivellata di colpi.

Una donna che occupava un appartamento vicino ebbe la sventura

di aprire la porta. Anche lei fu immediatamente uccisa. A

quanto pare, la donna in questione era del tutto estranea alla faccenda

in quanto, né allora né in seguito, si è mai ipotizzato che fosse

in qualche modo implicata nelle attività dei terroristi palestinesi.

Al quartier generale dell’ OLP e negli altri quattro siti si svilupparono

brevi scontri a fuoco tra i palestinesi e gli attaccanti. Benché

in svantaggio numerico, i commandos israeliani avevano dalla loro

il fattore sorpresa. Erano altresì di gran lunga meglio addestrati.

Dato che questi due elementi in generale sono decisivi in qualsiasi

combattimento, a eccezione di quelli più prolungati, gli scontri a

fuoco in tutti i punti presi di mira si conclusero con la completa vittoria

degli israeliani.

Sembra che nelle due ore successive abbiano perso la vita più di
cento guerriglieri palestinesi. (nota 4). Le perdite degli israeliani furono di

un morto e di due o tre feriti, che in seguito vennero evacuati in elicottero.

Le autorità libanesi, lungi dall’essere tenute all’oscuro sulla

battaglia, furono immediatamente avvertite dagli israeliani, da vari

telefoni pubblici, che a quanto sembrava si andavano accendendo

scontri a fuoco tra fazioni palestinesi rivali, in diversi punti di Beirut.

A tale notizia, la polizia libanese si tenne puntigliosamente in

disparte, proprio come gli israeliani si erano aspettati che facesse. (nota 5).

Verso le tre e mezzo della mattina era tutto finito. Le automobili

noleggiate, nessuna delle quali, a dire di Steve, aveva la minima •

ammaccatura, vennero nuovamente parcheggiate in bell.’ordine sulla

spiaggia. I commandos vennero evacuati via mare, al pari di Avner e dei


suoi

compagni. L’unica differenza fu che non salirono sul

mezzo da sbarco israeliano. Una barca li trasportò, assieme a due

degli uomini di Louis, fino a un peschereccio ancorato al largo, a

circa un quarto di miglio della riva. Il peschereccio, messo a disposizione

dal Group, attraccò a Cipro poco dopo l’alba. (nota 6).

A Cipro, non tutto era tranquillo. Per pura coincidenza, i fedayin avevano in

programma

a
Nicosia

un

assalto

alla

residenza

dell’ambasciatore israeliano e a un aereo dell'El Al per quello stesso

giorno, il 9 aprile. L’azione dei commandos palestinesi, però, ebbe

esito tutt’altro che felice. A casa dell’ambasciatore, i tre guerriglieri

riuscirono a ferire un poliziotto cipriota, mentre all’aeroporto uno

sceriffo dei cieli israeliano uccise uno dei sei attaccanti, appartenente

alla frazione della Gioventù Nazionale Araba di Abu Nidal, e ne

ferì altri due. Questi terroristi avevano tentato di raggiungere il Viscount


dell’El

Al avventurandosi lungo la pista a bordo di una Land

Rover e di un’utilitaria di fabbricazione giapponese, senza però arrecare

danni ai passeggeri o all’aereo.

Come ebbe a osservare Carl, tuttavia, non è che non tentarono.

Si dava il caso che l’ambasciatore israeliano Rahamin Timor, assieme

ai suoi familiari, avesse lasciato l’abitazione appena qualche

minuto prima dell’attacco dei fedayin. Così, una volta messo fuori

combattimento il poliziotto cipriota, i terroristi imbottirono il


pianterreno della casa di una quantità di esplosivi sufficiente a spaccare

i vetri in Florinis Street, nel centro di Nicosia, a ottocento metri

di distanza. (nota 7). Se Timor e i suoi si fossero trovati al primo piano

della casa, come ritenevano i commandos, con tutta probabilità sarebbero

rimasti uccisi nell’esplosione. L’attacco palestinese a Cipro

non fece che rafforzare la decisione di Avner di porre in atto il piano

della squadra per assassinare Zaid Muchassi ad Atene, facesse

parte o meno della lista originale di undici nomi.

Fu un tentativo che per poco non si concluse con un disastro.

Ripensandoci a posteriori, Avner si domandò se il primo errore

non fosse stato quello di dividere ancora una volta la squadra, come

a Parigi. Ma in tre soltanto erano riusciti a cavarsela così brillantemente

nell’affare al-Kubaisi che non sembrava avventato tentare di

ripetere la prestazione ad Atene. Come in precedenza, Avner, Robert

e Hans erano in grado di portare a termine l’operazione. Nel

frattempo, Steve avrebbe potuto seguire eventuali nuove piste che

si fossero scoperte, soprattutto in relazione al bersaglio numero

uno, Ali Hassan Salameh. Quanto a Carl, avrebbe avuto di meglio

da fare, occupandosi dei vari covi e della contabilità. Ciò avrebbe

consentito alla squadra di muoversi in fretta ancora una volta qualora


uno, o più d’uno, degli altri bersagli si fosse fatto vivo in Europa.

Alla rapidità con cui lavoravano, era persino possibile che riuscissero

a beccare tutti gli undici mechablim della lista. «Sarebbe

davvero una bella impresa!» commentò Avner, e gli altri ne convennero.

Non era trascurabile il fatto che fino a quel momento i mercenari

del Group si fossero comportati in modo impeccabile. A Roma, a

Nicosia, a Beirut, e due volte a Parigi. Con la sola eccezione di Ginevra,

le informazioni di Louis si erano sempre rivelate esatte, il

che era un primato che batteva quello di qualsiasi altro informatore

del Mossad. Le squadre di sorveglianza di Louis erano formate da

professionisti, e altrettanto professionale era la scelta dei covi.

Hans preferiva non fare affidamento sui documenti forniti da

Louis, ma in precedenza si erano già serviti due volte dei suoi uomini

per farsi recapitare armi o esplosivi, e per far sparire le loro pistole

dopo un’operazione. E tutto aveva funzionato senza intoppi.

Non c’era da stupirsi che, con l’appoggio di un’organizzazione di

quel livello, i vari gruppi terroristici europei si fossero dimostrati

tanto efficienti negli ultimi tre o quattro anni. Semmai, era sorprendente

che non avessero ottenuto risultati persino migliori.

Ad Atene, non avrebbero dovuto far altro che affidarsi a Louis


in misura un tantino superiore a quanto fosse stato necessario in

passato. Dato che Robert non aveva il tempo di andare in Belgio a

farsi preparare gli esplosivi dal solito fornitore, avrebbero usato ciò

che era in grado di mettere a loro disposizione l’uomo di Louis ad

Atene. Equivaleva a correre un certo rischio — come ebbe a dire

Robert, i terroristi saltavano in aria, maneggiando gli esplosivi, con

monotona regolarità — però si trattava di un rischio non eccessivo.

I terroristi riuscivano anche a far saltare in aria i bersagli prestabiliti,

abbastanza spesso; e, a sentire Louis, il suo uomo di Atene aveva

fornito esplosivi ai guerriglieri urbani della banda Baader-Meinhof

in varie occasioni.

Come in passato, Avner, Robert e Hans avevano in animo di

servirsi anche dei covi e delle squadre di sorveglianza di Louis.

Arrivarono ad Atene l’il aprile, un mercoledì, e trovarono il

covo in cui passarono quella prima notte gremito di terroristi arabi.

Credendo che Avner e i suoi compagni appartenessero alla Frazione

Armata Rossa della clandestinità tedesca, gli arabi parlavano apertamente

in loro presenza, non solo per via della presunta affinità

ideologica ma anche perché non sospettavano che i compagni tedeschi

capissero l’arabo. L’argomento della conversazione era la recente


azione israeliana a Beirut, e gli arabi, con grande soddisfazione

di Avner e dei suoi, apparivano seriamente spaventati mentre

parlavano di rifugiarsi, per il momento, al Cairo o a Bagdad. Sebbene

Avner non avesse dubbi in merito all’efficacia del controterrorismo,

i discorsi degli arabi contribuirono a rafforzare la sua convinzione

che la squadra ai suoi ordini stava facendo la cosa giusta. Grazie,

almeno in parte, ai loro sforzi, i mechablim erano in rotta.

Il giorno seguente si trasferirono in un altro covo, gestito da una

ragazza greca che conosceva solo qualche parola d’inglese. La ragazza

aveva preparato un’ottima cena per Avner e Hans - al momento,

Robert si trovava in compagnia dell’esperto in esplosivi - ed erano

ancora a tavola quando, poco dopo le sei, arrivò una telefonata

dall’uomo di Louis che stava di vedetta all’Hotel Aristides, in Via

Sokratous. A quanto sembrava, Zaid Muchassi aveva appena lasciato

l’albergo; era venuta a prelevarlo la Mercedes nera dell’uomo

del KGB. (nota 8).

Il loro piano consisteva nel salire sull’auto della ragazza greca e

passare a prendere Robert, assieme agli esplosivi. Un altro dei contatti

di Louis era venuto a portare le pistole - Beretta calibro 22, come

specificato - e Avner e Hans ne scelsero rapidamente una per


ciascuno e una per Robert. Poi montarono sulla Chevrolet Impala

verde della padrona di casa e si diressero verso il luogo dell’appuntamento.

Era un lungo tragitto dal covo, che si trovava dalle parti

dell’Imitou, fin quasi all’altro capo della città, per l’esattezza l’angolo

di Trius Septembriou con Piazza Omonia, dove fecero salire

Robert con la sua sacca da viaggio. (Il secondo covo era nei pressi di

un cimitero, e Hans ebbe a commentare: «Bene, almeno non ci sarà

molto da camminare».) A Omonia la ragazza greca, che aveva guidato

l’auto fino a quel momento, si congedò e prese Yelectrikos, la

sotterranea, per tornare a casa. Avner si mise al volante e fece del

suo meglio per cavarsela nel traffico di Piazza Omonia - una specie

di Piccadilly Circus ateniese - che rivaleggiava con quello di Roma.

Un greco di mezz’età alle dipendenze del Group, che aveva accompagnato

Robert con la sua auto, si scambiò di posto con Hans e sedette

accanto ad Avner. Il greco e Avner su un’auto, seguiti da

Hans e Robert sull’altra, coprirono la breve distanza che li separava

da Via Sokratous in pochi minuti.

Giunsero di fronte all’albergo di Muchassi poco dopo le otto. Il

greco di Louis accompagnò Robert e Hans nell’atrio, Avner rimase

fuori. Mentre si trovava da solo con Hans sulla seconda automobile,


Robert aveva trasferito parte del contenuto della sacca da viaggio

in una valigetta. Logicamente, non aveva voluto farlo in presenza

del loro compagno greco. Una regola severa imponeva di non

svelare mai in anticipo la natura dell’operazione a un qualsiasi

membro della squadra d’appoggio. Ciò, in primo luogo, per proteggere

se stessi, ma anche per proteggere chi li aiutava dal rischio di

complicità in omicidio se qualcosa fosse andato storto. Con l’unica

eccezione dell’individuo che fornì gli esplosivi ad Atene, tutti gli altri,

nella capitale greca come altrove, dovevano credere, e forse lo

credevano sul serio almeno all’inizio, di dare una mano ad Avner e

ai suoi compagni a tenere qualcuno sotto sorveglianza o, a volte, a

installare una microspia in una camera d’albergo o in un appartamento.

All’Hotel Aristides, il greco di Louis corruppe con una modesta

somma un facchino perché portasse una valigetta al quinto piano su

un carrello del servizio in camera e, usando la chiave universale, facesse

entrare due estranei - Hans e Robert - nella stanza di un certo

ospite. Quel che avrebbero potuto fare nella stanza, era affar loro.

Nessuno dei due complici avrebbe fatto domande.

Ciò che Robert e Hans fecero, fu piazzare otto bombe incendiarie

nella camera di Muchassi. Queste bombe, riempite di una sostanza


infiammabile simile al magnesio, non erano concepite per

esplodere con violenta forza dirompente. Fatte detonare, un po’ come

fuochi artificiali, sarebbero scoppiate con una sorta di fruscio e

avrebbero immediatamente risucchiato tutto l’ossigeno disponibile.

Pertanto avrebbero quasi certamente ucciso chiunque si trovasse

nella stanza, perché il loro effetto si sarebbe limitato a una vampata,

destinata a estinguersi spontaneamente dopo un paio di secondi.

Si trattava di congegni studiati in origine per essere scagliati a mo’

di bombe a mano, e Robert li detestava. Ma erano l’unico tipo di

esplosivo disponibile.

Le bombe non contemplavano dispositivi di sicurezza. Se qualcuno

avesse per puro caso inviato un segnale radio sulla stessa frequenza

d’onda, sarebbero esplose in quel momento. Ma la cosa che

più preoccupava Robert, nelle bombe, era il materiale incendiario,

che giudicava antiquato, instabile e di scarso affidamento. Era

preoccupato all’idea che potesse esplodere spontaneamente, o magari

non esplodere per niente. Aveva comprato una dozzina di bombe

del genere dal fornitore greco, ma aveva usato soltanto le otto

che giudicava nelle migliori condizioni per essere collegate con una

radioricevente, lasciando le altre quattro intatte nella sacca da viaggio.


Se le bombe incendiarie funzionavano, otto sarebbero bastate.

Erano passate da poco le nove quando Robert e Hans lasciarono

l’albergo. A differenza delle assai più sofisticate macchine infernali

di Parigi e di Cipro, quelle bombe incendiarie di fabbricazione casalinga

erano molto difficili da piazzare e nascondere. Il tempo non

costituiva un problema reale, tuttavia, perché gli agenti del KGB

amavano lavorare fino a tardi. Come aveva riferito la squadra di

sorveglianza, in tutte le occasioni precedenti la Mercedes nera non

aveva riaccompagnato Muchassi in albergo prima di mezzanotte.

La cosa, comunque, non aveva molta importanza. Le auto in sosta

della squadra non avrebbero attirato l’attenzione. Atene è una

città notturna, dove ci sono ristoranti — soprattutto nel quartiere

di Plaka, una specie di Soho locale — che cominciano a servire la cena

solo dopo le dieci.

Passavano però le ore, e Muchassi ancora non tornava. Verso le

tre del mattino, Avner, Robert e Hans si allontanarono un tantino

giù per la strada a consultarsi brevemente tra loro. Tra un paio

d’ore sarebbe spuntata l’alba. L’uomo che lavorava per Louis all’interno

— lo stesso che li aveva fatti entrare nella camera di Muchassi

— sicuramente sarebbe smontato. Avevano bisogno che salisse in


ascensore assieme a Muchassi, e poi scendesse e segnalasse loro che

l’arabo era entrato in camera sua, da solo. (C’erano altri arabi ospitati

dall’albergo, e anche se era improbabile che Muchassi andasse

in camera loro o li invitasse nella sua a quell’ora della notte Avner

non voleva correre rischi.) Tra poco avrebbero dovuto decidere se

annullare o meno la missione.

Se decidevano di annullarla, che cosa dovevano fare dell’esplosivo

piazzato nella stanza di Muchassi?

Lasciarlo dov’era, neanche a parlarne.

Tornare a smontare le bombe era pericoloso, non solo perché

Muchassi avrebbe potuto sorprenderli sul fatto, ma anche perché

c’era il rischio di saltare in aria.

L’unica alternativa consisteva nel provocare un’esplosione in

una stanza vuota.

Un’idea che Avner detestava, perché sarebbe equivalso a dichiarare

fallimento, e perdipiù nel caso dell’unico bersaglio che non

figurava nella lista originale. Conseguire un successo non autorizzato

era un conto; fallire in un’impresa non autorizzata, tutt’altro

paio di maniche. Era il genere di cosa che avrebbero fatto i palestinesi:

causare uno scoppio in una stanza vuota per un difetto di programmazione.


Avrebbe potuto passare per un avvertimento lanciato

a Muchassi, ma in realtà i terroristi, o il KGB, non si lasciavano

convincere con gli “avvertimenti” a desistere dai loro piani; li si poteva

solo costringere a rinunciarvi. Avrebbero fatto la pace solo se

fossero stati costretti a rendersi conto che far la pace rendeva di più

che fare la guerra. Questo concetto stava alla base della filosofia e

dell’esperienza israeliane. Con qualche colpo di avvertimento sparato

a prua non si sarebbe ottenuto niente. Anzi, Muchassi e i suoi

padroni avrebbero giudicato la cosa come una vittoria per la loro

parte, e si sarebbero vieppiù imbaldanziti all’idea di aver dato scacco

agli ebrei.

Hans e Robert erano d’accordo: avrebbero aspettato ancora

un’ora. Dopodiché, avrebbero dovuto agire.

Di lì a un’ora, alle quattro cioè, decisero che potevano aspettare

un’altra mezz’ora. Era il massimo, Se Muchassi non tornava per le

quattro e mezzo, avrebbero dovuto fare qualcosa.

La Mercedes nera discese lungo Via Sokratous alle 4,25.

Ma non si fermò davanti all’ingresso principale dell’albergo.

Rallentando, accostò al marciapiede una trentina di metri più in là.

Avner non riuscì a capire se l’autista avesse spento il motore, però


vide spegnersi i fari.

Per circa un minuto, nessuno smontò dalla Mercedes. Era troppo

buio persino per scorgere le persone che sedevano in macchina;

troppo buio persino per essere certi che fossero due o più. Quando

però la portiera finalmente si aprì, le luci di cortesia si accesero per

un paio di secondi. Non c’erano dubbi: l’uomo che scendeva

dall’auto era Zaid Muchassi. Un altro rimase seduto dietro. Un terzo,

al volante, portava un berretto da autista. Le luci di cortesia si

spensero quando Muchassi sbattè la portiera, ma i fari non si riaccesero.

E non si erano ancora riaccesi neppure mentre Muchassi varcava

l’ingresso dell’albergo.

Evidentemente, i russi aspettavano. Perché? Aspettavano che

Muchassi tornasse? Era possibile.

Poteva darsi che Muchassi salisse in camera sua a prendere qualcosa

da consegnare al suo contatto col KGB. Poteva addirittura

darsi che salisse a fare i bagagli con l’intenzione di lasciare l’albergo.

Magari i russi aspettavano per accompagnarlo in un covo o

all’aeroporto a prendere un volo in partenza di buon’ora.

Tra qualche istante, l’uomo di Louis in servizio all’albergo si sarebbe

affacciato a segnalare se Muchassi era entrato da solo in camera


sua. Sarebbe stato il segnale per Robert di far esplodere le

bombe. Il tal caso, Avner sapeva che Robert non avrebbe atteso un

altro segnale da parte sua. Se Avner decideva di annullare la missione,

avrebbe dovuto comunicarlo a Robert prima che il greco uscisse

dall’albergo.

Avner impugnò la maniglia della portiera. Doveva fermare Robert?

I russi in attesa poco più in là rappresentavano una complicazione

imprevista. Ma faceva poi molta differenza? E se fermava

Robert ora, che ne avrebbero fatto delle bombe piazzate in camera

di Muchassi? Chiaramente, non potevano asportarle, ma se le avessero

lasciate dove si trovavano poteva accadere che l’esplosivo causasse

la morte di qualche innocente. Oppure, se le bombe fossero

state scoperte intatte, le autorità competenti avrebbero avuto modo

di risalire alla fonte assai più facilmente. Con tutte le complicazioni

che ne potevano derivare. L’uomo che le aveva vendute, aveva

visto in faccia Robert. Avrebbe potuto essere arrestato e...

Avner non aveva più scelta, ormai: il dipendente dell’albergo

stava uscendo dall’ingresso principale, stiracchiandosi, sbadigliando,

cavandosi il berretto e grattandosi la testa. Poi si girò e rientrò

nell’albergo.
Istintivamente, Avner alzò gli occhi al muro, fino alla fila di finestre

del quinto piano per chamza, per scaramanzia. Avner non

avrebbe saputo dire con sicurezza quale fosse la sua finestra, ma

sebbene questa volta non ci fosse stato bisogno di piazzare l’esplosivo

con la precisione che era occorsa a Robert per le sei piccole bombe

di Cipro, l’improvvisa vampata sarebbe stata inequivocabile.

Anche se non avesse fissato la finestra giusta, l’avrebbe vista.

Non vide nulla. Nulla, benché fosse trascorso un minuto da che

il greco era rientrato nell’albergo.

Ancora nulla.

Avner tentò di vedere che cosa stavano facendo Robert e Hans

nella loro auto, ma era impossibile. Che Robert avesse frainteso?

Che aspettasse un segnale di Avner? Era improbabile.

La Mercedes dei russi non si era mossa. Sagoma nera di cattivo

auspicio, se ne stava accostata al marciapiede, a motore spento, una

cinquantina di metri più in là.

Di colpo, la portiera dell’auto di Robert si aprì e Robert... no,

era Hans!... ne scese, reggendo la sacca da viaggio usata da Robert

per trasportare gli esplosivi. Con sommo stupore di Avner, Hans si

avviava all’ingresso principale. Con la sacca in mano. Puntava diritto


sull’albergo. Quale ragione poteva mai avere per fare una cosa

del genere? Pareva quasi che a Hans avesse dato di volta il cervello,

persino a giudicare dal suo modo di camminare. Di solito si muoveva

a passo un po’ rigido, guardingo, come se fosse molto più anziano.

Ora procedeva a lunghi balzi decisi, quasi fluidi, tenendo il

mento sollevato. Avner fu colto così di sorpresa, che esitò ancora

qualche istante. Hans non aveva neppure sbirciato nella sua direzione,

quando entrò nell’albergo. Chiaramente, non segnalava ad

Avner di prendere una qualsiasi iniziativa, ma date le circostanze

Avner non poteva starsene fermo in macchina.

«Metti in moto» disse al greco, che lo stava guardando, a disagio.

«Capito? Non fare niente, accendi solo il motore.»

Poi saltò giù dall’impala e attraversò deciso la strada.

Nell’atrio dell’albergo, regnava la quiete più assoluta. Dietro al

banco della portineria non c’era nessuno. Di Hans, neppure l’ombra,

lo stesso dicasi del loro contatto greco. Guardando l’ascensore,

Avner vide che la spia luminosa indicava il quinto piano. Per un

paio di secondi ancora, Avner lasciò vagare lo sguardo per l’atrio

deserto, sforzandosi di ricordarne la disposizione. C’era una porta

che dava sull’ingresso di servizio. Un’altra porta dava sulle scale,


sull’uscita di sicurezza. Se l’ascensore era al quinto piano, doveva

averlo preso Hans. Se era così, poteva essere pericoloso richiamarlo.Avner


si

avviò alle scale.

A questo punto, udì un’esplosione. Non fu molto forte, ma inequivocabile.

Un tonfo basso, attutito, senza echi. Un fremito a bassa

frequenza del pavimento, che avvertì chiaramente attraverso la

pianta dei piedi.

L’ascensore stava scendendo. Avner vedeva la spia accendersi e

spegnersi sopra la porta. Si appiattì contro la parete, portandosi la

mano al fianco.

Le porte automatiche dell’ascensore si aprirono. Hans ne stava

uscendo, pallido, il volto impietrito. Il greco alle sue spalle era fuori

di sé. Agitava il pugno all’indirizzo di Hans, gli blaterava qualcosa

in greco. Portava la sacca da viaggio.

«Accidenti a Robert col suo fottuto telecomando» disse Hans,

alla vista di Avner. «Ho dovuto farlo io.»

«Andiamo» ribatté Avner, indicando la porta che dava sull’ingresso

di servizio. «Per di là.»

Agguantò il greco per le spalle, sospingendolo dietro Hans.

Varcato l’uscio che portava all’ingresso di servizio bisognava attraversare


un seminterrato, scendere mezza rampa di scale e percorrere

un corridoio in penombra prima di sbucare sulla strada. Hans

procedeva in testa, seguito dal greco che continuava a blaterare e a

gesticolare. Avner chiudeva la fila. Per raggiungere l’uscita, gli

mancavano ancora alcuni passi. Mentre Hans apriva la porta, Avner scorse
il

marciapiede da un’angolazione bassa. E qualcos’altro.

La Mercedes nera. Parcheggiata proprio davanti alla porta. Stavano

uscendo dall’albergo nel punto esatto in cui se ne stavano in

attesa i russi. Avner questo proprio non lo aveva previsto. Avrebbero

potuto lasciare l’albergo dalla porta principale, per cui erano entrati.

Ma no, aveva dovuto fare il furbo. Mai uscire dalla stessa porta

per cui entri. Confondere il nemico. Giocare d’astuzia.

Un po’ troppo, questa volta.

Anche Hans vide l’auto dei russi, e si fermò. L’uomo del KGB

seduto dietro aveva già socchiuso la portiera, e accennava a scendere

dall’auto. Doveva aver udito l’esplosione, doveva aver visto una

vampata. Probabilmente, scendeva a indagare. Ora, alcuni uomini

uscivano a precipizio da una porta di servizio proprio di fronte a lui,

qualche istante dopo lo scoppio. Il russo avrebbe sicuramente collegato

le due cose.
E lo fece. Mentre ancora stava al riparo della portiera socchiusa,

prese a muovere la mano destra verso l’ascella sinistra. L’uomo

del KGB stava per estrarre la pistola.

In seguito, ripensandoci, Avner si disse che poteva anche essersi

sbagliato. Forse il russo, che dopotutto era un agente, con una copertura

da tenere in considerazione, non aveva intenzione di impugnare

un’arma. Dal momento che non era assolutamente implicato

nella faccenda, perché avrebbe dovuto pensare di immischiarsi? Per

quanto astutamente avesse tirato a indovinare, il russo non poteva

sapere con certezza se ciò che stava accadendo all’albergo lo riguardasse

in qualche modo. Non avrebbe avuto alcun motivo per cercare

di bloccare tre sconosciuti che gli passavano davanti di corsa. Tirar

fuori la pistola avrebbe potuto essere un gesto completamente

avventato, irriflessivo anche da parte sua. Al pari di Hans o di Avner, anche


il

russo doveva essere stato addestrato ad avere reazioni

immediate. A differenza di un testimone privo di sospetti, di un innocente

passante, doveva essere stato all’erta mentre aspettava, seduto

in macchina. Forse era questo, l’unico inconveniente dell’addestramento

professionale. Poteva rendere un po’ troppo attenti,

condizionare gli individui ad agire troppo in fretta. Il tempo di reazione


ne risultava un tantino troppo accentuato. L’individuo perdeva

la normale capacità umana di raggelarsi per la sorpresa, di esitare,

di non far niente. Quel breve indugio, quell’attimo di ritardo

che, fatto abbastanza curioso, poteva aggiungere un margine di sicurezza

alla vita di ogni giorno.

Se Avner si era sbagliato pensando che il russo intendesse

estrarre la pistola, si sbagliò anche Hans, perché suppose la stessa

cosa vedendo muoversi la mano destra dell’uomo del KGB.

Hans sparò per primo. Come gli era stato insegnato: due volte.

Poi fece fuoco due volte Avner, mentre il russo si aggrappava

con la sinistra al telaio della portiera, cercando ancora a tentoni la

fondina con la destra. Avner sparava dai piedi della scala, di sbieco,

tentando di colpire il bersaglio attraverso il finestrino aperto

dell’auto, perché sapeva che i proiettili a bassa velocità non avrebbero

perforato la portiera d’acciaio della Mercedes. Vide i colpi di

Hans giungere a segno, ma dei suoi non era certo. Anzi, pensava di

aver mancato il bersaglio. In ogni caso, il russo si afflosciò all’indietro

sul sedile e il suo compagno al volante allungò il braccio in modo

da agguantarlo per la spalla e a tirarlo dentro. L’autista doveva essere

un individuo particolarmente forzuto perché, bene o male, riuscì


a strattonare il ferito dentro l’auto con una sola mano, poi chiuse la

portiera di scatto. Subito dopo si udirono stridere le gomme della

Mercedes nera, e l’auto del KGB si avventò zigzagando giù per la

strada.

Avner stava rimettendo via la pistola, e con la mano libera tratteneva

per il colletto il dipendente dell’albergo. Non era necessario,

perché il greco era piombato in una specie di torpore. Un po’ più

avanti, l’auto di Robert si avviava rombando, e di lì a un istante

compiva un’inversione di marcia di fronte a loro. Avner strappò di

mano al greco la sacca da viaggio che teneva ancora stretta e sospinse

l’uomo sulla macchina di Robert, dietro a Hans. Poi attraversò di

corsa la strada, raggiungendo l’impala verde, di cui l’anziano autista

greco aveva già acceso i fari. «Va,» gli disse Avner quando

montò, «ma non troppo in fretta. Capito? Nicht sehr schnell.»

Il greco annuì. A differenza del suo compatriota, era calmissimo.

Ma d’altronde, rifletté Avner, lui non si era visto esplodere sotto

il naso una serie di bombe incendiarie. Anche se aveva assistito

alla sparatoria.

Tornati al covo, si misero a passare in rassegna la situazione,

ciascuno facendo uno sforzo tremendo per stare calmo. Per prima
cosa, dovettero tranquillizzare il dipendente dell’albergo, che parlava

solo il greco. L’uomo era scombussolato. Non faceva che sedersi,

con lo sguardo fisso nel vuoto, borbottando: «Bomba, bomba» e

alzarsi, agitando il dito all’indirizzo di Hans, rovesciandogli addosso

quella che presumibilmente era una caterva di invettive in greco.

Avner decise di prenderlo da parte, con l’aiuto del greco più anziano,

ficcandogli in mano qualche banconota da cento dollari. La cosa

parve avere sull’uomo lo stesso effetto di un getto d’acqua su un

principio d’incendio. A un certo punto, innaffiato dal quinto o sesto

biglietto di banca, il fuoco si spense. Dopodiché Avner diede la

stessa cifra al più anziano.

Appena i due greci si furono allontanati, Robert disse: «Sentite,

ragazzi, so benissimo quel che provate. Come pensate che mi senta,

io? Credetemi, ho controllato la trasmittente, e funzionava... Non

potevo proprio fare di più. Quella robaccia che ci hanno venduto

non valeva niente».

Robert avrebbe dovuto starsene zitto, perché le sue parole diedero

la stura a una violenta discussione, la prima che avessero avuto

da quando la missione era iniziata. Hans era inflessibile sul fatto

che se Robert avesse avuto fondati dubbi sul materiale esplosivo,


avrebbe dovuto consigliare un rinvio dell’operazione. Se poi loro

avessero ignorato le sue raccomandazioni, Robert non ne avrebbe

avuto colpa. Visto come stavano le cose, invece, ce l’aveva. Limitarsi

a borbottare sottovoce «Secondo me, questa roba non vale

granché», cosa che comunque, fece notare Hans, Robert diceva

sempre, non equivaleva a consigliare di rinunciare all’operazione.

Hans aveva ragione, ma Avner ebbe un litigio ancor più violento

con lui. Esisteva, dopotutto, una gerarchia; ma anche solo il

buon senso avrebbe preteso che Hans si consultasse con gli altri,

prima di trascinarli in un piano d’azione nuovo di zecca. Era questo,

infatti, ciò che aveva fatto Hans, afferrando la sacca da viaggio

con le quattro bombe che contenevano ancora le spolette originali,

e precipitandosi su in camera di Muchassi. A quanto pareva, Hans

aveva persuaso l’ignaro greco a salire con lui in ascensore e a far venire

alla porta Muchassi. Poi, facendo segno al greco di tirarsi da

parte mentre l’arabo trafficava con la serratura, aveva estratto dalla

sacca una delle bombe. Quando Muchassi aveva aperto l’uscio,

Hans lo aveva spalancato con un calcio, lanciando la carica incendiaria

nella stanza a mo’ di bomba a mano. Il tutto, senza avvertire

Robert o Avner di ciò che aveva intenzione di fare.


«Be’, se lo avessi fatto» fece Hans imbronciato «avreste detto di

no. Almeno in un primo momento. Poi sono sicuro che avreste detto

di sì, perché era l’unica soluzione, ma intanto avremmo perso

dell’altro tempo prezioso. Ho preso una scorciatoia.»

«Perché l’unica soluzione?» domandò Robert. «E comunque,

dopo che l’hai fatto chiamare da quel greco avresti anche potuto

sparargli.»

«Sparargli?» disse Hans, scandalizzato. Dopodiché si rivolse ad

Avner: «Vedi? Questo proprio non pensa!».

Avner dovette dar ragione a Hans. Sparare a Muchassi non

avrebbe risolto il problema delle bombe inesplose nella stanza. Dopo

che il telecomando di Robert aveva fatto cilecca, poteva anche

darsi che l’unica soluzione possibile fosse quella di Hans, il quale

comunque non avrebbe dovuto agire di sua iniziativa. Perlomeno

avrebbe dovuto avvertirli. «E se fossi rimasto ferito nello scoppio?»

gli domandò Avner. «Che cosa avremmo dovuto fare, piantarti lì o

starcene a ciondolare tentando di scoprire che cos’era successo

finché non ci avessero beccati tutti quanti? Ti sei comportato da


irresponsabile.

E poi, perché hai deciso di sparare a quel russo?»

«Perché stava tirando fuori la pistola» rispose Hans indignato.


«Avrei dovuto aspettare che mi sparasse lui per primo? E tu, perché

gli hai sparato? Gli hai sparato per la stessa ragione!»

«Gli ho sparato perché ho visto te che gli sparavi» ribatté Avner, ma senza
troppa

convinzione. Stava diventando un battibecco

puerile. «Comunque sia,» soggiunse Avner, «probabilmente l’ho

mancato.» Una cosa era certa: sperava di aver mancato il russo.

L’ultima cosa che voleva era di invischiarsi col KGB - o di avere a

che dire con Ephraim e gli altri galiziani per aver ucciso un agente

sovietico. Eppure, se il russo stava per estrarre una pistola, che altro

avrebbe potuto fare?

Era anche molto stupito dal comportamento di Hans. Hans,

con i suoi occhiali da presbite; Hans, che somigliava tanto a una matita.

Il calmo, metodico Hans, che diceva: «Puoi sempre prendere il

mio posto, se vuoi». Sarebbe stato un altro paio di maniche, se ad

avventarsi con una borsa piena di bombe fosse stato Steve, o

Robert. Magari persino Avner. Ma Hans? Scagliarsi in avanti


impulsivamente,

spalancare le porte a calci, sparare ai russi? Non si poteva

proprio prevedere come avrebbe agito la gente.

E tuttavia, Avner aveva la sgradevole sensazione che, per quanto


folle potesse apparire il gesto di Hans, probabilmente, date le circostanze,

era stato la cosa giusta. Hans aveva semplicemente avuto

il coraggio di affrontarla. Se non era possibile far esplodere la trappola

tesa a Muchassi, e neppure asportare le bombe, che cos’altro

rimaneva da fare se non provocare un’esplosione, scagliando un’altra

bomba a mano nella stanza mentre ci si trovava ancora il mechabet? Né


Hans

aveva torto quando diceva che se avessero indugiato a

consultarsi sulla faccenda magari sarebbe stato troppo tardi.

«E va bene,» disse Avner alla fine, «non parliamone più. Questa

storia ci sta dando sui nervi, a tutti quanti. Quando saremo tornati

a Francoforte, sottoporremo la questione a Carl.»

Gli altri acconsentirono. Anche se il capo era Avner, Carl era

diventato sin dall’inizio, in parte per via dell’età e dell’esperienza,

ma soprattutto per la sua personalità, il Salomone, il rabbino itinerante,

la coscienza del gruppo. E dato che questa volta Carl non era

direttamente coinvolto, sarebbe stato anche imparziale e obiettivo.

Se avessero dovuto agire in un qualsiasi altro modo, Carl lo avrebbe

detto loro apertamente.

Si trattennero ad Atene ancora per una settimana, poi partirono

in aereo, uno alla volta. L’esplosione all’albergo, standoci giornali,


doveva essere stata qualcosa di simile al 4 luglio, la Festa dell’indipendenza

americana. Aveva causato un principio d’incendio, ma

l’unica vittima era stata Muchassi. In alcuni articoli si parlava di un

turista tedesco che era rimasto ferito leggermente. La stampa non

accennò minimamente alla sparatoria contro il russo. (nota 9).

A Francoforte, sottoposero il caso a Carl. Il quale se ne stette

zitto per un po’, limitandosi a tirare boccate di fumo dalla pipa, a

inarcare le sopracciglia e ad alzare gli occhi al soffitto. La reazione

di Steve fu esattamente l’opposto: li fissò al colmo dello stupore, ma

solo perché apparivano sconvolti per ciò che avevano fatto. «E allora?»

disse Steve, rivolto ad Avner. «Lo abbiamo beccato. E abbiamo

beccato anche quel fottuto di un russo. Che cosa succede, amico,

hai paura?»

«Oh, piantala, Steve» disse alla fine Carl. «Sentite, io non ero

presente, per cui non sono in grado di giudicare. La cosa più importante

è che siete tutti qui. Pensiamo al futuro.»

Chiaramente, era l’unica cosa da fare. Ma Avner era preoccupato.

Non avrebbe saputo dire perché. Finora tutto era andato liscio.

Avevano fatto vendetta per l’uccisione degli undici atleti israeliani

su Zwaiter, al-Chir, al-Kubaisi, nonché su Najjer, Nasser e Adwan,


a Beirut. E anche su Muchassi e sull’uomo del KGB. In ultima analisi,

era stato facilissimo.

Forse troppo facile. Per la prima volta da che era iniziata la missione,

Avner

avvertiva

un

crampo

alla

bocca

dello

stomaco.

Capitolo 11

Mohammed Boudia

La verità era che, per la prima volta da quando avevano preso le

mosse dall’Hotel du Midi di Ginevra alla fine di settembre dell’anno

precedente, forse per la prima volta in tutta la sua vita, Avner

aveva paura. Avner non ricordava di aver mai provato un sentimento

del genere, in precedenza. Né sotto le armi, né durante la guerra

dei Sei Giorni, né mentre seguiva il corso di addestramento, né

mentre svolgeva compiti di agente ordinario. Neppure durante la


missione, fino alla metà di aprile. Aveva sempre saputo, naturalmente,

che cosa volesse dire essere tesi o allarmati. O spaventati.

Ma i sentimenti che cominciò a provare in aprile erano completamente


diversi.

Non si trattava di una subitanea scarica di adrenalina,

della sensazione che il cuore ti balzasse in gola per qualche secondo,

di un’improvvisa fitta che non durava mai più della causa

immediata che l’aveva provocata. Il sentimento nuovo era una

quieta ansia strisciante, importuna, che a volte lo accompagnava

per giorni e giorni, indipendentemente da ciò che faceva. Magari se

ne stava a mangiare le costolette d’agnello in un ristorante, o al cinema

ad ammirare il suo attore preferito, Louis de Funès - Avner

doveva aver visto tutti i film interpretati dal comico francese - e

quel sentimento non se ne andava. A volte era simile a un dolore

sordo, a volte come un peso allo stomaco. Paura.

Dapprima Avner pensò che potesse dipendere da qualcosa che

mangiava.

Quando si rese conto che era paura, e per la verità non ci mise

molto, provò risentimento e vergogna. Per qualche tempo fu mortificato

all’idea che gli altri, Carl, Steve, Hans o Robert, potessero


scoprirlo e per quanto riguardava Avner sarebbe stata la cosa peggiore.

Per neutralizzare tale pericolo, si sorprese a dire: «Ragazzi,

sono spaventato» e: «Ragazzi, sono preoccupato» a ogni piè sospinto.

Il che, naturalmente, rientrava nella tradizione di spavalderia da

caserma, l’unica maniera possibile per proclamare il proprio coraggio

pretendendo con troppa insistenza il contrario. Ma dovette

strafare, perché un giorno Carl gli disse, calmissimo, mentre si trovavano

a tu per tu:

«Lo so. Sono abbastanza preoccupato anch’io».

Lo disse in un tono che consigliò ad Avner di smettere la finzione.

«Oh, merda» fece. «Anche tu? Mi domando perché.»

Ma Carl si limitò a scuotere la testa. Non tornarono mai più

sull’argomento.

Di lì a poco, Avner trovò in un lampo la risposta. In quel momento

tornava in aereo da New York, dove aveva appena trascorso

una settimana con Shoshana, e poteva darsi che questo avesse qualcosa

a che fare con la sua improvvisa scoperta. Non direttamente,

magari in modo un po’ tortuoso.

La loro riunione non era stata del tutto felice. Nella prima settimana

di aprile, Shoshana si era sistemata nell’appartamento di


Brooklyn che Avner aveva affittato per lei. Mentre Avner si trovava

ancora a Beirut, Shoshana vi si era trasferita con Geula, la bambina,

e Charlie, il cane. Tutto da sola. Senza essere mai vissuta prima

fuori dai confini di Israele. Senza avere idea di dove potesse essere

Avner o tra quanto tempo si sarebbe fatto vivo in America.

Quando lui arrivò, circa tre settimane più tardi, Shoshana gli si aggrappò

al collo con tanto impeto e disperazione da fargli addirittura

male. Se Avner avesse mai creduto che il modo in cui erano costretti

a vivere per Shoshana non avrebbe fatto differenza, il suo abbraccio

sarebbe stato sufficiente a fargli cambiare idea.

Passarono i primi due giorni a letto. La mattina del terzo giorno,

Avner si svegliò da un sogno in cui gli era sembrato di essere

spiato. Aprì gli occhi e vide Shoshana seduta sul letto che gli osservava

attentamente il viso.

«Che c’è?» domandò Avner sonnacchioso.

«Non so» rispose lei. Il suo tono era grave. «Voglio dire, i capelli

non ti diventano grigi o cose del genere, ma... non so. Sembri invecchiato

di una decina d’anni.»

A questa uscita Avner si sentì colpire allo stomaco, come da un

pugno, dalla paura che negli ultimi due giorni era quasi sparita. Non
disse niente, ma più tardi, mentre si faceva la barba, seguitò a esaminarsi

la faccia nello specchio. Shoshana aveva ragione. Era invecchiato

parecchio negli ultimi sette mesi. Dimostrava almeno trentacinque

anni, mentre ne aveva solo ventisei.

«Be’,» disse alla sua immagine riflessa nello specchio parlando

ad alta voce, cosa che non rientrava nelle sue abitudini, «a quanto

sembra riesci a ingannare più facilmente il tuo cervello di quanto

riesca a fare col tuo corpo.»

«Che hai detto?» domandò Shoshana oltre la porta del bagno.

«Niente.»

Occupò il resto della settimana a portare Shoshana in giro per

New York con un’auto a nolo, in modo che potesse familiarizzare

un po’ con la città e non sentirsi più così spaesata. Prima del suo arrivo,

Shoshana non era mai andata più in là del negozio di alimentari

all’angolo. Avner la presentò anche a una coppia di conoscenti.

Shoshana non conosceva nessuno e non stringeva amicizia facilmente.

Come al solito, non si lamentò, ma un pomeriggio Avner,

mentre la guardava allattare la bambina nel monolocale un po’ tetro,

notò in lei qualcosa che tradiva una tale solitudine, una tale vulnerabilità,

da farlo sentire incredibilmente in colpa. «Non sarà per


molto» le disse. «Te lo prometto.»

Lei lo guardò e sorrise. Il che peggiorò di gran lunga la situazione.

Ma non c’era molto che Avner potesse fare. Perlomeno Shoshana sembrava

ricavare una gran gioia da Geula, la quale, secondo il

parere di Avner, era ancora bruttina, però andava un tantino migliorando

con l’età.

Poi, durante il volo di ritorno in Europa, gli balenò alla mente la

ragione della sua paura. Sua, di Carl, e forse anche degli altri.

Perché li aggredisse proprio ora, dopo sette mesi, dopo cinque attentati

andati a buon fine, senza contare Beirut. Era una ragione

del tutto logica, semplicissima.

Ora che l’avevano fatto, cominciavano a rendersi conto che non

ci voleva quasi niente a organizzare un colpo del genere. Che era


facilissimo,

per un pugno di uomini, grazie a un po’ di denaro e a un

pizzico di determinazione, scovare e uccidere un uomo. Impunemente.

Proprio come avrebbe potuto farla franca un gruppo di terroristi.

Non per sempre - mai per sempre - ma per un breve periodo,

sì. Quanto bastava per eliminare quattro o cinque esseri umani.

E se era così facile per loro, sarebbe stato altrettanto facile per

altri. Se riuscivano a uccidere con tanta facilità, altrettanto facilmente


avrebbero potuto essere uccisi. Se riuscivano a procurarsi informazioni

a pagamento sui mechablim, perché i mechablim, i quali

disponevano almeno di altrettanto denaro, e avevano meno scrupoli,

non avrebbero dovuto scoprire tutto su di loro? Entrambe le parti

erano costrette a lasciare qualche traccia per eseguire i loro compiti.

Entrambe le parti erano costrette a prendere contatto con certi

individui, uno o l’altro dei quali, prima o poi, avrebbe potuto rivelarsi

un informatore. E un solo informatore sarebbe bastato. Gli

uomini della squadra di Avner avrebbero potuto vedersi puntare

contro una pistola a un angolo di strada in qualsiasi momento; poteva

accadere che una sera spegnessero la luce, e che i loro letti venissero
scagliati

contro il soffitto da un’esplosione.

Senza il minimo dubbio, già ora poteva esserci qualcuno pronto

a sparare addosso ad Avner e ai suoi compagni. Era più che logico

che avessero paura.

Non migliorò la situazione il fatto che proprio allora si verificassero

tre episodi i quali, per quanto del tutto insignificanti, scossero i

nervi dei cinque compagni un po’ di più ogni volta. Una sera, a

Francoforte, decisero di andare a cena in un ristorante tutti e cinque

assieme. (A Francoforte, di solito, mangiavano a casa di uno o


dell’altro, dandosi il cambio a fare la spesa e a cucinare.) Stavano

rientrando, tutti pigiati su una macchina, quando Avner, che era al

volante, decise di prendere una scorciatoia attraverso un cantiere

edile. D’un tratto, furono abbagliati da riflettori e qualcuno intimò

loro di fermarsi, urlando. Un attimo dopo erano circondati dalla polizia

di Francoforte che stava eseguendo una retata antidroga, figurarsi.

A quanto pareva, si prevedeva che certi spacciatori facessero

una capatina al cantiere, e gli uomini della squadra erano caduti

nell’agguato della polizia. Anche se furono rilasciati dopo qualche

minuto con tanto di scuse - i loro documenti erano in ordine, non

erano ubriachi e non avevano niente di illegale sull’auto - i pochi

istanti durante i quali furono costretti a stare in piedi sotto il tiro

delle pistole, a braccia tese, con le mani appoggiate sul tettuccio della

Opel di Avner, parvero segnare la fine per tutti e cinque. Lì per lì,

furono assolutamente certi di essere stati catturati dai servizi di sicurezza

tedeschi. In realtà fu la prima volta, e anche l’ultima nel

corso della missione, che ebbero a che fare con le autorità di un paese

occidentale.

Gli altri due incidenti coinvolsero soltanto Avener e Carl. Si verificarono

due domeniche di seguito, nel loro covo di Francoforte,


tutt’e due le volte verso le dieci di mattina, proprio mentre sedevano

a tavola davanti ai resti della colazione. Nel primo caso udirono

bussare alla porta - cosa insolita, dato che i visitatori avrebbero dovuto

suonare il campanello dall’atrio - e avvicinandosi in punta di

piedi allo spioncino Avner scorse due sconosciuti ben vestiti, in attesa

nel corridoio. Mentre Carl gli copriva le spalle dalla porta della

camera da letto, Avner girò la chiave nella toppa, appoggiando la

pianta del piede contro lo stipite, in basso.

Gli sconosciuti si presentarono come ispettori postali che indagavano

su certi furti di corrispondenza. A quanto pareva, era stato

il custode dello stabile a farli entrare nel palazzo, e ora andavano di

porta in porta a domandare agli inquilini se avessero da denunciare

la sparizione di qualche lettera. «Che mestiere pericoloso» disse

Carl ironico, dopo aver messo via la Beretta.

L’episodio della domenica seguente fu assai più repentino e

violento. Mentre Avner e Carl stavano leggendo i giornali, il vetro della

finestra al secondo piano andò in frantumi con un sonoro scroscio

e un oggetto volò nella stanza. I due si appiattirono immediatamente

sul pavimento, proteggendosi la testa con le braccia in attesa che

esplodesse la bomba a mano. Dopo alcuni istanti, sollevarono cautamente


la testa. Il pavimento era disseminato di vetri, ma non riuscirono

a scorgere il proiettile che era penetrato dalla finestra.

Avner strisciò fino alla parete opposta, si rialzò tenendosi addossato

contro il muro e si spostò lentamente in modo da lanciare

un’occhiata attraverso il vetro infranto. Ciò che vide fu un ragazzino

nero, senza dubbio uscito dagli alloggi degli americani dall’altra

parte della strada, che se ne stava con gli occhi alzati verso la loro finestra.

Impugnava una mazza da baseball. «Mi scusi, signore,» urlò

in inglese alla vista di Avner, «non l’ho fatto apposta. Potrei riavere

la mia palla, per favore?»

Dopodiché, per due notti, Avner fece una gran fatica ad addormentarsi.

Nello stesso tempo, il carattere di Avner era tale che tutte le cose

capaci di scoraggiare gli altri - paura, contrasti, difficoltà, disapprovazione

- contribuivano solo a spronarlo. Senza saperlo, senza

neppure sognarsi di analizzare in qualche modo la cosa, Avner apparteneva

a quella esile minoranza di essersi umani che trova stimolo nelle avversità.
Era

quasi come se, per qualche capriccio della natura,

i fili nel suo cervello fossero stati invertiti. Funzionava come

un’automobile in cui qualche burlone avesse scambiato l’acceleratore

col freno. In un certo senso, la paura era probabilmente l’ultima


cosa capace di fermarlo.

E nonostante i molti aspetti in cui i suoi compagni potevano essere

diversi da Avner, o l’uno dall’altro, questo era chiaramente

l’unico tratto che avevano in comune.

Forse gli psicologi del Mossad sapevano davvero il fatto loro.

Avevano scelto cinque uomini che istintivamente avrebbero cercato

di sbarazzarsi di tutto ciò che li terrorizzava, non acquattandosi

ma partendo all’attacco. Un’abitudine mentale che non si poteva

insegnare, e che probabilmente per qualcuno era del tutto naturale

quanto era estranea alla maggior parte della gente.

In maggio, degli undici bersagli iniziali ne erano rimasti solo

quattro. Gli uomini della squadra non riuscivano a scovare indizi

relativi all’attuale domicilio di Ali Hassan Salameh. Abu Daoud, il

numero due della lista, era temporaneamente rinchiuso in un carcere

giordano. Il numero undici, il dottor Wadi Haddad, capo militare

del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, sembrava

evitare accuratamente di allontanarsi dai paesi del Medio Oriente e


dell'Europa

Orientale che esulavano dalla zona d'operazioni della

squadra.

Rimaneva il numero cinque, un pittoresco, attraente algerino


che rispondeva al nome di Mohammed Boudia. Era ben noto alle

autorità francesi per il fatto di essere stato in prigione nel 1959 sotto

l’accusa di sabotaggio ai danni di depositi di benzina per conto

del Fronte di Liberazione Algerino. In un certo senso Boudia era un

bersaglio facile, perché non ostentava i suoi legami col terrorismo

palestinese, e nel 1973 solo il Mossad e forse un altro paio di servizi

segreti sospettavano che la sua organizzazione, chiamata Parisienne

Orientale, fosse una copertura per il Fronte Popolare. Boudia, regista

del Teatro Nazionale Algerino dopo l’indipendenza, era attivo

nei circoli teatrali e negli ambienti alla moda della Parigi radical-

chic, e metteva in scena spettacoli a sfondo politico al Théâtre de

l’Ouest Parisien di Boulogne-Billancourt, alcuni dei quali con notevole

successo. Solo una minima parte delle persone che lo conoscevano

a Parigi era al corrente della sua partecipazione alle attività

terroristiche, e un numero ancora minore vi era effettivamente implicato

assieme a lui. Quest’ultimo gruppo di persone comprendeva

alcune donne che stravedevano per il bell’algerino

In pari tempo, a differenza del suo predecessore e, stando ad alcune

fonti, suo subalterno, cioè il dottor Hamshari, Boudia non faceva

affidamento unicamente sulla sua copertura per proteggersi. Si


sapeva che evitava di rispettare orari prestabiliti, non presentandosi

quasi mai nello stesso posto alla stessa ora due volte di seguito, e

preferiva passare la notte nei vari appartamenti delle sue numerose

amichette. Anche se, come Steve si sentì in dovere di osservare, poteva

darsi che quest’ultima preferenza non avesse niente a che fare

con la sicurezza personale. Spesso, quando appariva in pubblico, si

faceva anche accompagnare da una guardia del corpo.

Siccome viaggiava molto, era difficile stabilire le date esatte e la

durata dei suoi soggiorni parigini. Stando ad alcune versioni, avrebbe

dovuto trovarsi al quartier generale dell’OLP, a Beirut, in coincidenza

con l’azione dei commandos, ma o l’informazione non era

esatta o Boudia era riuscito a scappare. Altre fonti lo davano a Madrid

il giorno della morte dell’agente del Mossad Baruch Cohen, nel

gennaio 1973. Almeno una persona sospettata di aver tentato di

scoprire qualcosa su Boudia o la sua organizzazione - lo sventurato

giornalista siriano Hani Kuda, il quale secondo alcuni avrebbe lavorato

per il Mossad - era andata incontro a morte violenta. (nota 1).

Per tutto il mese di maggio Avner e i suoi compagni avevano

tentato, invano, di rintracciare lo sfuggente capo terrorista. A Parigi

neppure Le Group aveva sue notizie, e Avner decise di rimettere


alla prova Tony, a Roma. (Una delle operazioni di Boudia consistette

nel sabotaggio dell’Oleodotto Transalpino di Trieste, in Italia,

che costò diciotto feriti e causò danni per milioni di dollari. Si diceva

che Boudia avesse eseguito l’attentato personalmente, con la collaborazione

di due sue amiche, una francese e una ragazza rhodesiana.

A sentire Louis, il fornitore di esplosivi di Boudia era lo stesso

greco che aveva procurato le bombe incendiarie per l’assassinio di

Muchassi ad Atene.) In ogni caso, per via dei collegamenti italiani

di Boudia, Avner riteneva che la ramificazione del Group facente

capo a Tony potesse sapere sull’algerino più di quanto ne sapessero

gli uomini di Louis a Parigi.

Ma Tony non era in grado di aiutarlo. Dopo qualche giorno trascorso

a Roma, Avner decise di richiamare Louis.

«Novità?» domandò al francese che ormai aveva cominciato a

considerare suo amico.

«No,» rispose Louis, «ma perché non torni qui, comunque? C’è

qualcuno che avrebbe piacere di conoscerti.»

«Quando?» domandò Avner.

«Per il fine settimana» rispose Louis «se ti è comodo.»

Era solo mercoledì. Avner decise di noleggiare un’auto e far ritorno


a Parigi in macchina. Per quanto amasse viaggiare in aereo,

gli piaceva anche guidare, e ormai era sua abitudine variare la trafila

quotidiana. E poi un paio di giorni al volante lo avrebbero aiutato a

riposarsi la mente. La strada lungo la costa italiana e francese era

bellissima, soprattutto in maggio, e se. avesse attraversato la Svizzera

avrebbe potuto fare un salto alla banca di Ginevra. Poteva andare

a dare un’occhiata al suo conto personale per constatare di quanto

fosse aumentato nel frattempo. Sebbene il denaro come tale significasse

poco per lui, negli ultimi mesi il pensiero di Avner era

corso sempre a Shoshana. Aveva cominciato a indulgere a fantasie,

alla maniera tradizionale di tutti i mariti che si sentono in colpa, sulle

cose che avrebbe acquistato. A Parigi, per esempio, passava ore a

esaminare una cucina modello esposta nelle vetrine de La Boutique

Danoise, dalle parti di Avenue Hoche. Erano una meraviglia, quel

grande frigo con la macchina per fare il ghiaccio e quel forno autopulente.

Shoshana non avrebbe dovuto vergognarsi di una cucina

del genere, neppure in America.

Durante il lungo viaggio in macchina si sforzò di non pensare

per niente alla missione. Meditò invece sui suoi viaggi, su tutti i

paesi che aveva visitato negli ultimi anni. Bastava paragonare le autostrade
italiane e francesi per capire un bel po’ di cose sui due paesi.

I francesi giravano attorno alle loro montagne con belle reti di

strade serpeggianti, mentre gli italiani vi si aprivano la strada perforando

e percuotendo. Con un brutale sistema di gallerie. Avner ne

contò una cinquantina lungo l’autostrada tra Genova e la frontiera

francese.

C’era anche una differenza, pensò Avner, nel modo in cui le varie

nazionalità di adattavano alle rispettive città, al paesaggio,

all’architettura. I francesi, per esempio, sembravano a casa loro a

Roma. Non che Avner avesse qualcosa contro gli italiani, tutt’altro,

però era colpito dal contrasto tra gli splendidi edifici e il modo in

cui la gente per le strade si muoveva e si comportava. Gli tornava alla

mente un libro che aveva letto da bambino, su un certo posto

dell’india, dove le rovine di una bellissima città costruita nella

giungla da una civiltà antica era ora abitata da una razza di scimmie.

Solo che, in quel libro, le scimmie non andavano in motoretta.

E gli ebrei? Be’, questa sì che era una domanda. Naturalmente

era solo un’opinione di Avner, che non aveva niente a che fare col

suo amore per Israele o i suoi sentimenti patriottici, ma fin dall’infanzia

non era mai riuscito neppure a fingere di sentirsi a suo agio in


quel paesaggio mediorientale. E per Avner gli ebrei, che fossero

Yekke o galiziani, non sembravano adattarvisi. Che se ne rendessero

conto o no. Gli unici che vi si adattavano erano gli ebrei provenienti

dai paesi arabi, come il Marocco e lo Yemen. Almeno dal

punto di vista di Avner. Questo non aveva niente a che fare con la

storia antica o con ciò che gli ebrei europei avevano costruito e compiuto

in Israele, che era qualcosa di meraviglioso; né dava agli arabi

alcun diritto di tentare di ributtarli a mare. Se qualcuno voleva respingere

gli ebrei in un posto qualsiasi, avrebbe dovuto passare sul

cadavere di Avner. Ma avrebbe comunque detto che per qualche

strano motivo non si adattavano al paesaggio. Questa era la sua opinione,

e come sabra aveva tutto il diritto di esprimerla.

Probabilmente, però, non faceva molta differenza dove gli

ebrei fossero finiti, una volta che i cosacchi e i nazisti e tutti gli altri

li avevano cacciati dall’Europa. L’Europa, dove avrebbero potuto

trovarsi perfettamente a loro agio ma non potevano vivere senza

venir massacrati un paio di volte ogni secolo; e l’ultima volta c’era

mancato un pelo che fossero sterminati definitivamente. Così, se

adesso agli europei non andava a genio che gli israeliani e gli arabi

trasformassero le loro metropoli in campi di battaglia, tanto peggio


per loro. Avrebbero dovuto preoccuparsene prima.

E con questo pensiero in mente, Avner si trovò a guatare con

aria di sfida il povero funzionario francese che studiava il suo passaporto

alla frontiera.

Appena arrivato a Parigi, telefonò a Louis.

«Vengo a prenderti domattina alle nove» disse il francese.

«Vestiti in modo adatto alla campagna. Andiamo a conoscere Papà.»

Avner era eccitato, ma non del tutto sorpreso. Considerando la

quantità di soldi che avevano sborsato al Group negli ultimi sei mesi

o giù di lì, era logico che il Vecchio in persona potesse essersi incuriosito.

Anche se i vari terroristi di sinistra e di destra e gli altri

gruppi clandestini che potevano aver fatto parte della precedente

clientela di Papà erano tutt’altro che poveri - l’OAS anti-gollista

che si batteva contro l’indipendenza algerina, per esempio, era finanziata

da alcuni individui di enorme ricchezza, mentre centinaia

di migliaia di palestinesi che lavoravano nei paesi arabi produttori

di petrolio erano costretti a “donare” dal cinque al dieci per cento

dei loro guadagni all’OLP - era probabile che non esistesse un singolo

gruppo il quale avesse sborsato più denaro per i servizi di Papà,

nel giro di alcuni mesi, della squadra di Avner. Chiaramente, il vecchio


maquis trasformatosi in libero imprenditore desiderava dargli

un’occhiata da vicino.

Da parte sua, Avner era certamente molto interessato alla faccenda.

La casa di campagna era situata da qualche parte a sud di Parigi.

Ci misero un paio d’ore per arrivarci, anche se poteva darsi che in

altre circostanze sarebbe bastata un’ora di macchina. Una volta che

la Citroën nera ebbe imboccato l’autostrada, Louis allungò ad Avner un


paio di

occhiali da cieco, dicendo: «Non ti spiace infilarteli,

vero?». Gli occhiali scuri bloccarono completamente la visuale di

Avner. Magari Carl il Prudente si sarebbe rifiutato di inforcarli, ma

Avner pensava che, una volta salito in macchina da solo con Louis,

questi avrebbe potuto comunque tendergli un’imboscata. Il suo sesto

senso, di cui Avner era giunto a fidarsi totalmente, non segnalava

alcun pericolo.

Quando le morbide sospensioni della Citroën presero a molleggiare

su strade secondarie, Louis invitò Avner a togliersi gli occhiali.La placida,

sonnolenta campagna francese, orlata da montagne

azzurrine al lontano orizzonte, avrebbe potuto essere un luogo

qualsiasi. Non c’era nessuno di guardia al cancello, all’imbocco del

viale che saliva alla grande casa di campagna un po’ cadente. Mentre
scendevano dall’auto, un irsuto cane da pastore dal carattere oltremodo

socievole spiccò un balzo a leccare la faccia di Louis, poi ripeté

l’esibizione con Avner.

Papà li accolse sotto il portico. Calzava un paio di ciabatte e indossava

un maglione blu sopra una camicia senza colletto. (In un’altra

occasione, in seguito, a Parigi, Avner lo avrebbe visto con indosso

un antiquato vestito nero con tanto di panciotto.) Papà era un

uomo sulla sessantina o poco più, con i capelli grigio ferro e un naso

prominente. La stretta della grossa mano lentigginosa era salda.

C’era qualcosa in lui che ricordò ad Avner non solo suo padre, ma

anche Dave, l’ex marine americano che era stato suo istruttore di tiro

con armi da fuoco, anche se non si somigliavano per niente. Forse

dipendeva dalla loro palese fede nell’astuzia e nella forza, una fede

che Avner avvertiva chiaramente.

Forse dipendeva anche dal modo di parlare di Papà. Il suo inglese

era approssimativo, proprio come l’ebraico di Dave. Avner,

esprimendo il suo rammarico per non saper parlare francese, propose

il tedesco, ma il vecchio rifiutò.

«Mais non, monsieur, mais non. Parlo inglese. Pourquoi pas? Faccio

un po’ d’esercizio. Tra poco tutto il mondo parlerà inglese,


hein.»

Oh, be’, pensò Avner. Almeno Papà non faceva mistero di ciò

che lo preoccupava.

Ma l’antipatia di Papà per gli inglesi era solo la crosta superficiale.

Di strati ce n’erano molti altri, e Avner non riuscì mai a stabilire

- né allora né durante una visita successiva - quali potessero essere.

Pareva che Papà non avesse antipatia per le singole persone, eccezion

fatta forse per i politicanti. Ogni volta che la conversazione

verteva su una certa persona, era probabile che papà facesse un cenno

di approvazione e dicesse: «Quello lo conosco, è un brav’uomo».

Ma quanto ai gruppi o ai governi, lasciamo perdere. Erano tutti

quanti merde, per Papà.

Presentò Avner a sua moglie, presumibilmente la madre di

Louis, anche se Avner non colse la minima traccia di affetto tra i

due. La donna pareva più anziana di Papà; in realtà, probabilmente

aveva qualche anno di meno. Entrando e uscendo dalla stanza, senza

far rumore, servì loro dei rinfreschi, ma senza prender parte alla

conversazione e senza sedersi con loro. L’unica persona che rimase

nella stanza con Avner e Papà, oltre a Louis, fu un vecchio zio. Parlava

pochissimo e solo in francese. Ben presto, però, Avner scoprì


una cosa sorprendente in lui: a quanto sembrava, il vecchio veniva

usato da papà e da Louis come un computer ambulante, capace di

snocciolare dati e cifre con una monotona cantilena ogni volta che

glieli chiedevano. Avner decise di metterlo alla prova e interrogò

Louis sulla somma che ancora dovevano al loro contatto greco per

un certo lavoro di sorveglianza. Louis si rivolse allo zio, traducendo

la domanda.

E il vecchio, senza la minima esitazione, fornì quella che Avner

riteneva fosse la cifra esatta.

Certamente era un sistema più sicuro che non quello di tenere

una documentazione scritta. Avner era impressionato. Si domandava, però,


che

cosa avrebbe fatto Le Group dopo che lo zio, il quale

pareva aver superato da un po’ la settantina, avesse tirato le cuoia.

In tutta la conversazione, Papà si limitò a fare solo una domanda

a bruciapelo ad Avner.

«Lei lavora per Israele, no?»

Avner ripeté ciò che aveva già detto a Louis, e cioè che raccoglieva

informazioni sui terroristi palestinesi. «Una volta lavoravo

per il Mossad,» soggiunse, «ma ora non più.» Il che, tecnicamente

parlando, era la verità. «I miei compagni e io ora lavoriamo per


un’organizzazione ebraica privata che ha sede in America.»

Benché non fosse che una bugia, era abbastanza plausibile e corrispondeva

all’idea che Papà si era fatta del mondo. A quanto poté

constatare Avner, sembrava essere opinione del vecchio francese

che, dietro a tutto ciò che funzionava a dovere nelle operazioni


internazionali

di sabotaggio o raccolta d’informazioni, ci fossero certi

interessi privati. Dio solo sapeva come Papà fosse giunto a una tale

conclusione, che era molto simile ai punti di vista espressi da Kathy,

la sua organizzatrice originaria del Québec, ma forse dipendeva

dal fatto che ciascuno giudica le cose col proprio metro.

Avner non era per niente d’accordo. Esistevano, senza dubbio,

alcuni uomini forti, sceicchi del petrolio, facoltosi neonazisti, o qua

e là un playboy malato di romanticismo con velleità rivoluzionarie,

che si mettevano in testa di fondare un gruppo terroristico e di organizzare

un’operazione terroristica. Come il ricco editore e uomo

d’affari italiano Giangiacomo Feltrinelli, che era riuscito a farsi saltare

in aria nei pressi di Milano circa un anno prima, nella primavera

del 1972, mentre tentava di sabotare un traliccio dell’alta tensione

con indosso una giubba da guerrigliero castrista. Ma Avner

avrebbe detto che tali bizzarri personaggi rappresentavano solo una


goccia nel mare del terrorismo o controterrorismo internazionale,

non più significativi del pazzoide isolato che decideva di tentare di

assassinare un uomo di governo o un’altra personalità del suo paese

per conto suo. Potevano esserci taluni gruppi studenteschi spontanei

di rivoluzionari o nazionalisti che spuntavano per un breve periodo

in questo o quel luogo, senza appoggi di alcun genere. Ma i

gruppi più importanti erano sempre finanziati, a quanto ne sapeva

Avner, da uno stato o schieramento di stati. Perlopiù stati comunisti,

i cui legami, in definitiva, risalivano all’Unione Sovietica o, più

raramente, alla Cina. Persino i personaggi isolati come Feltrinelli

bene o male finivano col beneficiare dei loro aiuti, se non in denaro

almeno sotto forma di addestramento, documenti o armi. (nota 2).

Palesemente, però, Papà non condivideva questa idea. Avner

era sconcertato, constatando che un francese così scaltro, che sapeva tante
cose

sul funzionamento dei movimenti clandestini europei,

sembrava giungere alle stesse conclusioni cui arrivavano gli autori

di fumetti, di film hollywoodiani o di romanzi ad altissima tiratura,

i quali non avevano la minima conoscenza di prima mano della


clandestinità.

Perché mai Papà pensava che fosse tutto quanto opera di


alcuni misteriosi individui - uomini d’affari o aristocratici di vecchio

stampo o chissà che altro - i quali tramavano nei loro castelli

svizzeri per impadronirsi del mondo? Papà, infatti, ammesso che

davvero credesse in qualcosa, sembrava credere in una faccenda del

genere. Il suo sorriso un po’ saccente lasciava intendere la stessa cosa

dell’espressione favorita di Kathy, e cioè che qualsiasi altra spiegazione

era destinata solo agli asini.

Nel qual caso, pensò Avner, anche lui e i suoi compagni erano

asini. Ma se a Papà piaceva l’idea di un gruppo ebraico privato con

sede in America, Avner non aveva certo intenzione di contraddirlo.

E in ultima analisi chi poteva mai dire, comunque? Avner, no, di sicuro.

Se Avner non rimase impressionato dalla visione del mondo

che aveva Papà, lo fu però più o meno da ogni altra sua caratteristica.

Il vecchio combattente della resistenza chiaramente sapeva il

fatto suo. I suoi commenti erano intelligenti su qualsiasi problema

d’ordine pratico e, particolare ancora più importante, sembrava essere

davvero una persona che conta. Avner si sarebbe guardato bene

dal contrariarlo, ma a incontro concluso aveva l’impressione che,

fin quando avesse avuto Papà dalla sua, sarebbe stato al sicuro.

L’impressione fu accentuata dal gesto che il vecchio fece quando


li accompagnò alla macchina. Mentre Avner allungava la mano

agli occhiali scuri che aveva appoggiato sul cruscotto, Papà glieli

sottrasse. «Eh, merde\» esclamò, e tese gli occhiali al figlio, che

scoppiò in una risata e se li ficcò in tasca.

Sulla via del ritorno, Louis osservò, rivolto ad Avner: «Be’,

sembra che tu abbia trovato favore presso il vecchio».

Avner sorrise e borbottò qualcosa a proposito del fatto che ne

era contento. Ciò che avrebbe voluto dire era: «Bene, vuol dire che

camperò un po’ più a lungo», ma preferì non mettere alla prova il

senso dell’umorismo del Group.

La verità era che, da quando si era immischiato col Group, Avner aveva
sempre la

sgradevole sensazione di tirare, lui e i suoi compagni,

una tigre per la coda. Per il resto della missione continuò a

nutrire una sorta non tanto di amore-odio quanto di fiducia-paura

nei confronti di Papà e dei suoi figli. Rimane tuttora dubbio - dal

momento che Avner non apprese molto di più in occasione di quello

o del successivo incontro con Papà - se Le Group fosse spinto da un

qualche

impulso

politico
preciso

oppure

vendesse

informazioni

servizi d’appoggio unicamente a fini di lucro. È del pari difficile

stabilire se tra i clienti del Group figurasse anche l’OLP, sebbene

Avner non avesse il minimo dubbio che vi figurasse la Frazione Armata

Rossa della banda Baader-Meinhof, per il fatto che Andreas

conosceva Louis. E possibile che perlopiù i clienti politici del Group

fossero cospiratori anti-gaullisti e altri militanti del terrorismo “nero”,

cioè di destra. Ciò spiegherebbe l’evidente convinzione di

Papà che la forza motrice alla base degli intrighi internazionali fosse

rappresentata da potenti interessi privati e da antiche famiglie aristocratiche;

ne trovava conferma nella propria esperienza personale

in quel particolare campo. Spiegherebbe altresì la sua antipatia per

gli inglesi, che avevano turbato l’ordine costituito del mondo rinunciando

all’impero senza colpo ferire, e tuttavia avevano mantenuto

il primato mondiale dello spirito e delle istituzioni anglosassoni,

trasferendolo ai pacchiani, ricchi e assolutamente imprevedibili


americani. Ammesso che Papà condividesse qualcuna delle idee politiche

dei suoi clienti anti-gaullisti, certamente doveva avere qualche

opinione del genere.

Di regola, però, le motivazioni dei cani sciolti come i membri

del Group non sono ideologiche, ma finanziarie; e spesso personali.

In teoria, potrebbero vendere altrettanto facilmente un terrorista a

un controterrorista o un palestinese a un israeliano o viceversa, ma

possono dare la loro protezione a un individuo di uno dei due schieramenti

perché rappresenta un buon affare o perché l’hanno in simpatia.

Il sesto senso suggeriva ad Avner che fin quando Papà lo

avesse avuto in simpatia e si fosse fidato di lui - o lo avesse avuto in

simpatia e si fosse fidato dei loro rapporti d’affari - tutto sarebbe

andato liscio. E in fatto di informazioni e servizi, Le Group valeva

tant’oro quanto pesava - il che, com’ebbe a osservare Hans, era

esattamente quanto pretendevano Papà e Louis. Però erano in gamba:

assai meglio, assai più fidati, di tutti i contatti del Mossad e di

tutti i loro informatori arabi. Che gli uomini di Avner fossero comunque

in grado di rintracciare qualcuno dei mechablim senza

l’aiuto del Group, oppure no, sta di fatto che, fino all’estate del

1973, non ci erano riusciti. A parte Nasser, Adwan e Najjer a Beirut,


le fonti del Mossad avevano scoperto unicamente l’indirizzo di

Hamshari, già allegato al materiale che Ephraim aveva fornito alla

squadra all’inizio della missione, e il fatto che Zwaiter era rintracciabile

a Roma. Tutto il resto era venuto dal Group.

In effetti Carl aveva soprannominato Louis Deus ex machina,

espressione che Avner non riusciva mai a ricordarsi, per cui la cambiò

in «Mosè la macchina». Diceva: «Chiamo Mosè la macchina»

ogni volta che stava per telefonare a Louis.

Una settimana più tardi, Louis riferì che Mohammed Boudia si

trovava a Parigi. La stessa sera, Robert prese l’aereo per Bruxelles.

Di lì a una settimana esatta, verso le 10,25 del mattino, Steve parcheggiò

uno dei furgoni di Papà sull’altro lato della strada, di fronte

a un piccolo caffè chiamato L’Etoile d’Or all’angolo di Rue Jussieu

con Rue des Fossés Saint-Bernard sulla Riva Sinistra. Era il 28 giugno,

un giovedì.

Era stato difficilissimo inchiodare Boudia. A differenza di qualsiasi

altro bersaglio precedente, poteva passare la notte dove più gli

pareva, ed era impossibile prevedere dove si sarebbe fatto vivo durante

il giorno. O a che ora. L’unica soluzione consisteva nel tenerlo sotto


costante

sorveglianza e, in qualunque momento capitasse


loro di sorprenderlo da solo, di giorno o di notte, se l’ora, il luogo e

le altre circostanze sembravano propizie, nell’eliminarlo seduta

stante.

Sempre a patto che il cauto ed esperto algerino non si accorgesse

di essere seguito e riuscisse a svignarsela.

Per ridurre al minimo tale rischio, Avner autorizzò Louis a condurre

la sorveglianza su scala vastissima, impiegando tutti gli elementi

di cui disponeva. Fermo restando tutto il resto, uno dei sistemi

migliori per assicurarsi che un bersaglio non si rendesse conto di

essere pedinato consisteva nell’evitare di servirsi delle stesse persone

o degli stessi automezzi per due volte di seguito. Entro certi limiti,

era solo questione di denaro. A Parigi, Le Group poteva contare

su una dozzina o anche più di agenti addestrati.

Dato che Boudia si spostava spesso in automobile, guidando di

persona, Avner e Carl decisero di far preparare da Robert una bomba

adatta a essere piazzata su un’auto, pur senza escludere altre possibilità.

Uno dei sistemi più sicuri per eliminare qualcuno consisteva

sempre nello sparargli, in quanto ciò richiedeva un minimo di

preparativi, però era anche quello che rendeva più difficile la fuga, e

non comportava l’“astuzia” cui aveva fatto allusione Ephraim. Per


parlar chiaro, provocava meno terrore. Ad Avner, inoltre, non andava

l’idea di sparare direttamente a qualcuno, a causa del fardello

emotivo che ne sarebbe derivato alla squadra. Benché non se ne

parlasse mai, era un fattore essenziale. Per dirlo chiaro e tondo, premere

il pulsante di un telecomando era più facile che affrontare un

uomo da mezzo metro di distanza e ficcargli in corpo una serie di

pallottole.

La bomba che Robert e il suo contatto belga approntarono era

suppergiù dello stesso tipo di quella usata per eliminare al-Chir, ma

più piccola e un tantino più semplice. Anziché sei piccole bombe,

prevedeva l’impiego di un’unica carica di esplosivo del tipo usato

per la frantumazione dei minerali. Il sistema di detonazione era lo

stesso. La bomba sarebbe stata piazzata sotto il sedile dell’auto e attivata

a pressione, dopodiché si sarebbe provocata l’esplosione per

mezzo di un segnale radio. Il semplice ricorso alla pressione sarebbe

stato rischioso, dal momento che avrebbe potuto rimaner ferito

qualche passante o chiunque montasse in macchina assieme a Boudia;

un dispositivo semplicemente radiocomandato avrebbe potuto

esplodere accidentalmente a causa di un segnale casuale, mentre veniva

trasportato o collocato nell’auto di Boudia.


A un certo punto, mentre formulavano il piano, Steve d’un tratto

disse: «Sapete, siamo pazzi. Questa è una guerra, no? Perché me

ne sto qui seduto a studiare le vie di fuga? Perché Robert sta trafficando

con la sua radio?

«Lo sapete che cosa farebbe quel Boudia, se volesse uccidere

uno di noi? Ve lo dico io. Alle otto di sera collegherebbe una bomba

con l’accensione della nostra macchina, o lo farebbe fare da una delle

sue amichette, e alle undici se ne starebbe già a bere il tè ad Algeri.

Se ne infischierebbe altamente di chi potrebbe lasciarci le penne

con noi la mattina dopo, quando avvieremo quel maledetto motore.

C’est la sporca guerre, direbbe lui.

«E noi, invece, che cosa facciamo? Cerchiamo di parcheggiare

un furgone in modo da avere la visuale sgombra. Ci assicuriamo che

non ci si venga a trovare a più di trenta metri dal punto in cui salta

in aria. Vi dico una cosa, siamo suonati. In definitiva, è proprio per

questo che finiranno col vincere loro.»

«Hai finito?» domandò Carl dopo una breve pausa. «Sicuro? Sì?

Allora, per favore, torna a fare quel che stavi facendo.»

La favorita del momento di Boudia era una stenografa che abitava

in Rue Boinod, nel XVIII arrondissement. Sebbene la Renault


16 che usava l’algerino fosse rimasta in sosta davanti alla casa della

ragazza per tutta la notte di mercoledì 27, Avner temeva che al mattino

Boudia desse un passaggio alla ragazza, per cui non se la sentì

di rischiare, collocando la bomba. In realtà, la ragazza lasciò l’appartamento

da sola, quasi un’ora e mezza dopo Boudia, che era

uscito di casa alle sei di mattina.

Particolare abbastanza interessante, Boudia si recò con la Renault

a meno di un isolato di distanza da dove la sua amichetta, più

tardi, sarebbe andata a lavorare, nel V arrondissement, sulla Riva Sinistra.

Era un lungo tragitto, da Rue Boinod a Rue des Fossés

Saint-Bernard, all’inizio del Boulevard Saint-Germain, e Boudia ci

mise quasi tre quarti d’ora, anche se si era messo per strada prima

dell’ora di punta. Erano circa le 6,45 quando entrò a retromarcia in

uno degli spazi liberi del parcheggio proprio di fronte al moderno

edificio Pierre et Marie Curie dell’Università di Parigi.

Boudia scese e chiuse a chiave l’auto. Un elemento della squadra

di sorveglianza del Group lo seguì a piedi; l’altro portò la macchina

con la quale avevano pedinato la Renault di Boudia fino al più

vicino telefono. A quanto sembrava, Boudia si stava dirigendo verso

l’abitazione di un’altra sua amica, un isolato più in là.


Di lì a una mezz’ora, Steve e Robert arrivarono a bordo di un

furgone e parcheggiarono in doppia fila davanti alla macchina

dell’algerino. Indossavano tute da meccanici. Benché vi fossero parecchi

negozi sull’altro lato di Rue des Fossés Saint-Bernard, il traffico

pedonale era scarso a quell’ora del mattino, e in ogni caso l’alto

furgone in sosta davanti all’auto li avrebbe nascosti alla vista dei

passanti. Era impossibile dire tra quanto Boudia sarebbe tornato,

ma lo avrebbe preceduto l’uomo di Papà, che lo aveva seguito a piedi,

e ciò avrebbe concesso a Steve e a Robert il tempo necessario per

eclissarsi.

Il tipo di bomba che usavano poteva essere collocato sotto il sedile

di guida in men che non si dica. Si trattava di una carica compatta,

simile a un pacchetto, priva di temporizzatore da sistemare e

di fili da collegare. Steve ci mise meno di trenta secondi per forzare

la portiera della Renault, e Robert terminò il suo lavoro in meno di

un minuto. Poi Steve impiegò ancora qualche secondo per richiudere

la portiera.

Il congegno esplosivo era piazzato. Non erano ancora le otto di

mattina. Steve e Robert risalirono sul furgone e lo portarono all’angolo

di Rue Jussieu con Rue des Fossés Saint-Bernard, dove nel


frattempo Avner e Hans erano riusciti a occupare due spazi di parcheggio

con una sola macchina. Ora si spostarono in avanti, consentendo

al furgone di inserirsi accanto al marciapiede alle loro spalle.

Carl si trovava da qualche parte nei paraggi, per conto suo.

Trascorsero quasi tre ore. Erano le 10,45. Dell’uomo di Papà o

di Boudia neppure l’ombra. Poi un grosso camion parcheggiò in

doppia fila nel punto esatto in cui in precedenza Steve e Robert

avevano fermato il furgone, proprio di fronte alla Renault imbottita

di esplosivo, bloccando loro la visuale. Non c’era proprio niente da

fare - anche se Avner prese in considerazione l’idea di percorrere

quel tratto a piedi e chiedere al camionista, con qualche pretesto, di

spostarsi una decina di metri più avanti. Se Boudia saliva in macchina

proprio in quel momento, poteva succedere che neppure lo vedessero

finché non fosse uscito dallo spazio di parcheggio. E seguirlo e poi


provocare

l’esplosione in un altro posto sarebbe stato molto

rischioso. Se invece il camion si spostava, tutto sarebbe stato molto

più semplice.

Di lì a qualche minuto il camion si spostò.

Ma quasi nello stesso istante un ragazzo e una ragazza, studenti

universitari a giudicare dai libri che portavano sotto il braccio, decisero


di mettersi a chiacchierare proprio vicino alla Renault. La ragazza

addirittura si appoggiò al parafango posteriore. Se ne sarebbero

andati, naturalmente, se Boudia fosse montato in macchina,

ma forse non si sarebbero allontanati abbastanza. Un momento prima

Avner sperava che l’algerino si facesse vivo al più presto, adesso

sperava che tardasse almeno finché gli studenti non avessero finito

di chiacchierare. «Dai, bambola,» si sforzò di suggerire telepaticamente

alla ragazza, «qualunque cosa voglia, digli di sì. Muovi le

chiappe.» Funzionò, perché i due studenti si incamminarono.

Le undici.

Ecco l’uomo di Papà che veniva a passo spedito lungo la strada.

Avner guardò Robert seduto accanto a Steve nel furgone, tanto

per accertarsi che avesse visto l’uomo. Robert fece segno di sì con la

testa. Avner accese il motore della sua auto, sapendo che Steve

avrebbe seguito il suo esempio.

Boudia stava aprendo la portiera della Renault. Montò e sbattè

la portiera. Non doveva aver avuto ancora il tempo di accendere il

motore. Avner pensava addirittura che non avesse avuto il tempo

sufficiente per inserire la chiavetta dell’accensione. E invece doveva

averlo avuto, perché l’auto accennò ad avviarsi. L’esplosione


scardinò la portiera della Renault. Accartocciò il tettuccio. Per le

sue caratteristiche - dimensioni ridotte e assoluta efficacia - si trattava

della bomba più perfetta che Robert avesse approntato fino a

quel momento. Con tutta probabilità, non avrebbe arrecato danni a

nessuno, a solo tre metri di distanza dall’auto. Era anche improbabile

che chiunque si trovasse a bordo potesse essere sopravvissuto.

Provocò un fortissimo fragore. Nel giro di qualche istante, la

strada era affollata di gente. A quanto sembra l’amica di Boudia,

che lavorava nel suo ufficio nei paraggi, udì l’esplosione, anche se

non capì di che cosa di trattava. L’algerino quarantunenne rimase

ucciso sul colpo. Conoscendo il suo passato, e dal momento che

l’edificio Pierre et Marie Curie, vicino al quale si era verificata

l’esplosione, era frequentato anche da studenti di sinistra che bazzicavano

i laboratori di chimica, i giornali parigini, il giorno dopo,

ipotizzarono che Boudia poteva essere stato vittima di esplosivi che

si era procurato poco prima. Dato che l’auto non presentava traccia

di fili di collegamento, fu anche la teoria iniziale della polizia. (nota 3).

Avner e i suoi compagni si trattennero a Parigi fino alla prima

settimana di luglio. Partirono, come al solito, uno alla volta. Benché

i crampi alla bocca dello stomaco non fossero cessati, Avner era
soddisfatto. Persino Carl il Prudente ammise che la missione stava

dando buoni risultati. In nove mesi avevano ucciso per rappresaglia

nove capi terroristi. Ne rimanevano ancora tre sulla lista. Se ne

avessero uccisi altri due, avrebbero pareggiato il conto per gli undici

israeliani di Monaco: occhio per occhio.

Ciò che né Avner né Carl, e neppure Robert, che era molto fiero

del suo lavoro, avevano modo di sapere era che, con l’eliminazione

di Mohammed Boudia, avevano creato uno spazio al vertice della

rete terroristica palestinese in Europa. Avevano spianato la strada

per una nomina ad alto livello. Avevano aperto la porta al terrorista

forse più famigerato del decennio degli “anni di piombo”. Di lì

a qualche settimana, un altro avrebbe preso il posto dell’algerino

trucidato, ribattezzando Commando-Boudia la Parisienne Orientale.

Si trattava di un tozzo venezuelano, il cui vero nome era Ilich

Ramirez Sanchez.

Quanto prima destinato a esser meglio conosciuto col nome di

Carlos

lo

Sciacallo.

Capitolo 12
La guerra dello Yom Kippur

Il pomeriggio del 6 ottobre 1973, Avner si trovava a bordo di

un aereo della TWA in volo da Francoforte a New York. Dalle due

del pomeriggio di quel giorno, ora di Tel Aviv, Israele era di nuovo

impegnata in un conflitto armato con la Siria e l’Egitto.

Nei dodici mesi durante i quali Avner e i suoi uomini avevano

tentato di scovare e uccidere undici capi terroristi in Europa, nel

Medio Oriente si erano registrati sviluppi diplomatici e militari che

avrebbero reso in gran parte puramente accademico il successo o il

fallimento della loro missione. Nel primo pomeriggio dell’importantissima

ricorrenza religiosa ebraica del Giorno dell’Espiazione, i

preparativi arabi culminarono in un massiccio attacco su due fronti

contro Israele. A sud entrarono in azione la Seconda e la Terza Armata

egiziane, per un totale di cinque divisioni, in un assalto contro

il Sinai occupato, dall’altra parte del canale di Suez. A nord cinque

divisioni dell’esercito siriano attaccarono la cosiddetta Linea Viola,

ossia la linea del cessate-il-fuoco al termine della guerra dei Sei

Giorni, che si estendeva dal monte Hermon alla confluenza del torrente

Ruqqad col fiume Yarmuk, presso la frontiera giordana. L’attacco

arabo a tenaglia scagliò contro le difese ebraiche suppergiù


l’equivalente delle forze NATO di stanza in Europa. Fu chiaro fin

dall’inizio che se la guerra dello Yom Kippur si fosse conclusa con

una vittoria militare araba, avrebbe quasi certamente significato la

distruzione dello stato di Israele .e, a meno di un rapido intervento

da parte delle grandi potenze, l’eventuale massacro della popolazione

ebraica in misura tale da rivaleggiare con quello della seconda

guerra mondiale.

Date le circostanze, Avner non vedeva l’opportunità di continuare

a starsene a Francoforte o a Ginevra, a cercare di tirare le fila

su Salameh o sul dottor Haddad. In realtà gli sarebbe stato impossibile,

da un punto di vista emotivo. Lo scoppio della guerra colse gli

uomini della squadra quasi impreparati come il resto di Israele -

quasi, ma non del tutto, dal momento che voci di movimenti e preparativi

delle truppe egiziane erano giunte al loro orecchio, come a

quello di altri agenti del Mossad, già nella primavera del 1973, tramite

i loro informatori abituali. Ai primi di maggio, avevano persino

lasciato un messaggio sull’argomento per Ephraim, a Ginevra,

come sia Avner sia Carl convennero che era il caso di fare, benché a

rigor di termini non rientrasse nei loro compiti. Ma, come apparve

chiaro dopo la guerra dello Yom Kippur, dati segreti raccolti da fonti
assai più importanti della squadra di Avner erano giunti regolarmente

a Gerusalemme durante l’anno dei preparativi arabi.

Ma tutto ciò era ormai acqua passata, il pomeriggio del 6 ottobre.

Né c’era più il tempo di andare ad attendere istruzioni a Ginevra.

La situazione imponeva una decisione, che in sostanza Avner

prese a nome di tutta la squadra. «Raggiungo il mio reparto» disse.

«Voglio che Carl e Hans rimangano in Europa e badino agli affari.

Steve e Robert sono liberi di decidere da soli. Domande?»

Come previsto, l’unico a sollevare obiezioni fu Hans, il quale riteneva

che Carl fosse in grado di badare da solo a tutto il resto; ma

Avner fu inflessibile sulla decisione di non lasciare Carl da solo.

Credeva che ciò sarebbe equivalso ad annullare la missione, cosa

che nessuno di loro era pronto a fare; e grazie a questa argomentazione,

in definitiva non dovette neppure richiamare all’ordine

Hans. Per motivi di sicurezza, Steve e Robert decisero di raggiungere

Israele passando per il Sudafrica. Avner optò per New York.

In circostanze del genere, Avner e i suoi compagni avrebbero

con tutta probabilità interrotto la caccia ai due capi terroristi superstiti

anche se in quel momento li avessero tallonati da presso. Dopo

l’eliminazione di Boudia, in giugno, non avevano raccolto neppure


una voce plausibile su Ali Hassan Salameh, mentre tutte le informazioni

davano Wadi Haddad rintanato ad Aden, nello Yemen del

Sud. E non era tutto.

La verità era che dopo giugno Avner, e anche Carl, gli sembrava,

avevano cominciato ad avere qualche ripensamento sulla missione

nel suo complesso. Non solo sulla missione, ma su tutta la filosofia

che ne stava alla base. Non ne parlarono mai, ma Avner non

poteva fare a meno di pensarci, e il suo sesto senso gli diceva che anche

qualcuno degli altri ci pensava, forse tutti quanti, con l’eccezione

di Steve. Il guaio era, come Avner si rendeva perfettamente conto,

che pensare a cose del genere non era solo un’eresia, era anche

pericoloso. Molto pericoloso. La loro missione era qualcosa di molto

simile a un ideale: chi nutrisse dubbi in proposito non avrebbe

neppure dovuto tentare di portarla a termine.

Eppure diventava sempre più difficile non avere dubbi. Non si

trattava di una questione di rimorsi, almeno non nel senso comune

della parola. Avner non provava alcun rimorso per la morte dei mechablim,
e

riteneva che Carl e gli altri la pensassero come lui. Parlando

per sé, anche se non lo divertiva per niente l’idea di uccidere,

sarebbe stato comunque disposto a uccidere di nuovo i terroristi,


dal primo all’ultimo. Il problema non era questo. Si trattava, più

che altro, di un’impressione di futilità.

In un certo senso, naturalmente, l’eliminazione dei capi fedayin

era un atto di mera vendetta e come tale andava intesa. Una bomba

per Yossef Gutfreund, un’altra per Moshe Weinberger. Una dozzina

di proiettili per la gamba amputata a Hannah Marron. Come

aveva detto Golda Meir in persona alla Knesset, se il governo non

era in grado di garantire agli israeliani che sarebbe riuscito a stroncare

il terrorismo, sicuramente avrebbe tagliato una mano per ogni

mano che li feriva.1 Avrebbe fatto pagar caro il proposito di massacrare

gli ebrei, uomini, donne e bambini, per la prima volta da millenni.

Avner non ci vedeva niente di sbagliato. Semmai, continuava

a sentirsi fiero di essere una delle spade incaricate di tagliare le mani

ai nemici di Israele.

Ma, al di là della vendetta, la loro missione avrebbe dovuto anche

indebolire e diminuire il terrorismo anti-israeliano nel mondo.

Non stroncarlo completamente - questo sarebbe stato un obiettivo

poco realistico - ma almeno rallentarlo. La decapitazione del mostro

di Ephraim, cosa che si era verificata in quei mesi, avrebbe dovuto

avere qualche effetto sul mostro nel suo complesso.


A patto che Ephraim avesse ragione.

Ma Ephraim aveva ragione? Questo era il vero problema, e la risposta

pareva essere negativa. Al mostro andavano spuntando altre

teste, quasi come se il fatto di averle tagliate avesse stimolato la

nuova crescita. Da quando era iniziata la loro missione, i mechablim

avevano assassinato Baruch Cohen a Madrid, avevano spedito una

caterva di lettere esplosive, alcune delle quali andate a segno, e avevano

occupato l’ambasciata israeliana a Bangkok. In marzo, avevano

ucciso un uomo d’affari israeliano a Cipro; in aprile, un dipendente

italiano dell’El Al a Roma. Lo stesso giorno dell’operazione

dei commandos a Beirut, per un pelo i palestinesi non avevano spazzato

via l’ambasciatore israeliano a Cipro e i suoi familiari, ed erano

stati fermati appena in tempo da uno sceriffo dei cieli, prima che facessero

saltare in aria un jet dell’El Al. Tre giorni dopo la morte di

Boudia, avevano sparato e ucciso - a mo’ di rappresaglia per la morte

di Boudia, come avevano proclamato in una trasmissione della

Voce della Palestina - Yosef Alon, addetto militare di Israele a Washington,

D.C. (nota 2). Circa tre settimane più tardi, un gruppo misto del

Fronte Popolare e dell’Armata Rossa Giapponese aveva dirottato

un Boeing 747 delle Japan Air Lines in volo per Amsterdam. Benché
il capo del gruppo, una donna, fosse riuscito a farsi saltare in aria en

route con una bomba a mano, i terroristi avevano costretto l’aereo a

volare da un capo all’altro del Medio Oriente per quattro giorni,

dopodiché lo avevano distrutto a Bengasi, non prima, comunque,

di aver liberato i passeggeri. Il 5 agosto due sicari della Gioventù

Nazionale Araba per la Liberazione della Palestina avevano attaccato

ad Atene un aereo della TWA, appena atterrato da un volo

proveniente da Tel Aviv. Prezzo: cinque morti tra i passeggeri e

cinquantacinque feriti. Un mese dopo, a Roma, cinque terroristi di

Settembre Nero avevano tentato di mettere in funzione due missili

terra-aria sovietici del tipo SAM 7 per abbattere un jet di linea

dell’El Al. Infine, appena una settimana prima, il 28 settembre,

due fedayin della Saiqa, la fazione terroristica appoggiata dalla Siria,

si erano impadroniti in Austria di un treno carico di profughi israeliti

russi, strappando al Cancelliere austriaco, Bruno Kreisky, la

promessa di chiudere il campo di transito per gli ebrei che intendevano

emigrare in Israele del castello di Schònau, in cambio della liberazione

degli ostaggi. Questa azione, Avner ne era convinto,

rientrava in un piano di operazioni della Siria inteso a distrarre l’attenzione

del governo israeliano dall’imminente attacco arabo, e poteva


darsi che, entro certi limiti, avesse sortito l’effetto desiderato.

Golda Meir fu così scandalizzata dalla mancanza di spina dorsale

del Cancelliere Kreisky che, quasi alla vigilia della guerra, e contro

il parere di alcuni membri del suo gabinetto, volò a Vienna, nel

vano tentativo di far cambiare idea al capo di governo austriaco. I

terroristi avevano scelto il luogo dell’operazione con molta astuzia,

dato che Kreisky, socialista e, per inciso, anch’egli ebreo, era, a

giudicare dai precedenti, l’esponente politico europeo che aveva

maggiori probabilità di cedere a una minaccia.

Questi furono solo gli episodi più eclatanti del terrorismo,

quell’anno: c’erano stati molti altri incidenti di minore portata e

dall’esito meno clamoroso. Ripensandoci, sarebbe stato difficile

stabilire se l’operato della squadra avesse comportato la minima differenza

per la minaccia del terrorismo - anche se, come Avner dovette

ammettere, sarebbe stato impossibile stabilire che cosa avrebbe

potuto riservare quello stesso periodo se i nove mechablim non

fossero stati eliminati. Supponendo che gli arabi, nel complesso,

fossero gente che sapeva il fatto suo - e si trattava di una supposizione

realistica, a proposito di uomini come Najjer, Adwan, Boudia

e Hamshari - probabilmente avrebbero organizzato in quel lasso di


tempo alcuni atti di terrorismo, se non fossero stati messi fuori gioco.

Ma la questione di fondo non cambiava.

Il mostro di Ephraim era ancora vivo e vegeto. E gli spuntava

una nuova testa dopo l’altra. A volte più letale di quella di cui prendeva

il posto, come nel caso di Carlos. (nota 3).

C’era anche un altro fattore che contribuiva ad accrescere la delusione

di Avner. Gli avvenimenti dell’estate 1973 lo avevano chiarito

in maniera assoluta. Si trattava di qualcosa che avevano sempre

sospettato - in effetti, Carl aveva interrogato Ephraim in merito,

subito dopo la prima riunione - ma non l’avevano saputo per certo

fino a giugno.

La loro non era l’unica squadra in azione.

Nel giugno 1973, una bomba collocata su un’automobile aveva

ucciso due terroristi arabi a Roma. (nota 4). Si dà il caso che Avner e gli
altri

non ne avessero saputo niente finché non ricevettero un’esplicita

richiesta di chiarimenti da parte di Tony, il quale si domandava se

per caso Avner non fosse stato soddisfatto dei suoi servigi, visto che

in quell’occasione non erano stati richiesti. Sembrava che persino

Tony, per quanto di solito così ben informato, attribuisse l’attentato

alla squadra di Avner, che invece non c’entrava per niente. C’era
la possibilità che i due arabi, in realtà, fossero stati uccisi da un

gruppo terroristico rivale, ma sia Avner sia Carl ne dubitavano. Venendo

a sapere la notizia, si erano scambiati un’occhiata, Avner

scrollando le spalle e Carl accigliandosi.

Un enorme fiasco, che ebbe luogo il 21 luglio, non lasciò più alcun

dubbio in merito. Quel giorno, nella piccola località di villeggiatura

norvegese di Lillehammer, una squadra israeliana sparò e

uccise un arabo, scambiandolo per Ali Hassan Salameh. Vari membri

della squadra furono immediatamente catturati dalla polizia

norvegese. La cosa era già abbastanza grave in sé, ma a peggiorare la

situazione era il fatto che la vittima non era Salameh. Si trattava invece

di un cameriere marocchino a nome Ahmed Bouchiki, imbottito

di pallottole mentre se ne andava tranquillo a spasso in compagnia

della moglie norvegese, perdipiù incinta. Un giovane arabo

che, con ogni probabilità, non aveva assolutamente niente a che fare

col terrorismo. Uno spettatore del tutto innocente. (nota 5).

Avner e i suoi compagni furono molto turbati dalla notizia

quando l’appresero, e per tre ragioni diverse. Prima ragione, uccidendo

la persona sbagliata e facendosi catturare i loro colleghi operanti

in Norvegia avevano commesso, in un colpo solo, due dei peccati


più gravi che si possano imputare agli agenti. Erano due errori

disastrosi da ogni punto di vista, ma Avner e i suoi uomini erano addirittura

imbevuti di un senso del tabù, in proposito. Si trattava dei

due errori che al corso di addestramento si insegnava, prima di ogni

altra cosa, a non commettere mai.

La seconda ragione del loro turbamento era che quanto era accaduto

a Lillehammer mostrò loro chiaramente per la prima volta

quanto fosse facile combinare qualche pasticcio davvero grave.

Leggendo i giornali, avevano l’impressione di essere corridori


automobilistici

esordienti che assistessero al loro primo incidente. Se

era potuto accadere a quei ragazzi, i quali senza dubbio erano stati

addestrati e scelti con la stessa cura riservata ad Avner e ai suoi

compagni, sarebbe potuto accadere anche a loro. Non si trattava

tanto del fatto di dover passare qualche anno in un carcere norvegese:

la cosa era ancora relativamente accettabile. Ma, per usare le parole

di Carl, trasformarsi da eroe in balordo nel giro di dieci minuti,

questo sì che sarebbe stato spaventoso.

Poi c’era la terza ragione.

Altre squadre. A ben pensarci, non c’era motivo per cui non dovessero

esserci altre squadre. Loro non avevano il monopolio dei


mechablim; nessuno aveva promesso loro una licenza di caccia in

esclusiva. Certamente non Ephraim: si era limitato a dire a Carl che

non era in grado di rispondere a quella domanda, quando Carl glielo

aveva domandato. Era una guerra: non un safari con privilegi speciali,

per gli ospiti del generale Zvi Zamir, di infilare nel carniere

una quota personale di mostri. Se Avner avesse optato per la carriera

militare si sarebbe trovato a combattere spalla a spalla con altri

reparti, e non si sarebbe neppure sognato di sollevare obiezioni se il

reparto vicino si fosse messo a sparare sullo stesso bersaglio; anzi,

gliene sarebbe stato grato.

Eppure c’era qualcosa nella loro operazione, qualcosa di così

speciale, che erano profondamente irritati dall’idea che altre squadre

facessero il loro stesso lavoro. Chi poteva dire perché? Non riuscivano

neppure a tradurlo in parole. Comunque fosse, probabilmente

avevano torto. Ma, saputa la faccenda di Lillehammer, Avner non poté fare
a

meno di domandarsi quanti altri fossero stati accompagnati

all’abitazione di Golda Meir. A quanti altri il primo ministro

poteva aver passato il braccio attorno alle spalle, dicendo loro

di ricordarsi di quel momento, dicendo loro che ormai erano entrati

a far parte della storia ebraica. Quanti altri Yekkepotz potevano andarsene
attorno per il mondo, ricordando la voce di Golda, la sua

stretta di mano, per poi uscire a rischiare la pelle persuasi di fare

qualcosa di straordinario, quando invece erano semplici fantaccini

come tutti gli altri, come uno dei tanti schmuck, dei tanti coglioni,

che sudavano sangue dentro un carro armato sulle alture del Golan.

Ma loro erano soldati. Non era vergognoso che si preoccupassero

per una cosa del genere? Hans parlò a nome di tutti quando commentò:

«Andiamo, ragazzi. Ricordatevi che non siamo divi del cinema».

Vero, ma...

Perché mai i galiziani dovevano assegnare proprio gli stessi bersagli

a quella squadra che operava in Norvegia? Non c’erano sufficienti

terroristi in circolazione? Dovevano proprio mandarli a caccia

di Salameh? Forse avevano consegnato a tutte le squadre la stessa

lista! Possibile - e Avner avverti una fitta di risentimento, quando

l’idea gli balenò alla mente - che quelli di Tel Aviv neppure sapessero

quale squadra aveva eliminato un dato capo terrorista? «Lo

verrò a sapere dai giornali» aveva detto Ephraim. Possibile che, ancora

adesso, il merito del loro lavoro a Roma, a Parigi, a Nicosia fosse

attribuito a qualche altra squadra?

No, non poteva essere; dopotutto, si erano incontrati con Ephraim


a Ginevra prima dell’operazione di Beirut. Allora gli avevano

detto tutto ciò che avevano fatto fino a quel momento, per cui Ephraim

sapeva. Ma probabilmente per lui non faceva differenza. Questo

era il problema.

Ma poi, perché avrebbe dovuto fare qualche differenza per

Ephraim? E non si trattava per caso di un problema che Avner si

era creato da sé?

Visto che avrebbe dovuto limitarsi a essere un buon soldato,

tutta quell’quell’angoscia, non era solo un pretesto per potersi

sentire “deluso”, dato che cominciava ad aver paura? Non era

questa la pura, orribile verità? Tutte quelle idee che gli passavano

per la mente sulla futilità, sul fatto che non cambiava proprio niente,

che non gliene veniva sufficiente merito, che dovevano dividere

con altri la gloria, servivano solo a nascondere la tensione alla bocca

dello stomaco. Stava solo cercando dei motivi per non dover ammettere

con se stesso che aveva paura. In fondo, non si trattava proprio

di questo, di un vigliacco che tentava di darsi una ragione delle

proprie paure?

Questa idea fece rabbrividire Avner. Eppure, poteva darsi che

fosse la verità. Nel qual caso la cosa migliore da farsi era andare al
fronte. Andare a raggiungere il suo reparto, dove tutto sarebbe stato

molto più semplice. Un soldato come tutti gli altri, ora che il paese

aveva bisogno di comuni soldati più di ogni altra cosa. Battaglia

in campo aperto, con i fucili che sparavano, l’uno contro l’altro. Essere

il primo a scalare un’altura, essere il primo a scagliare una bomba

a mano dentro un bunker nemico. Azione. Partecipando

all’azione, avrebbe potuto dimostrare a se stesso che non aveva

paura. Partecipando all’azione, avrebbe guarito tutto ciò che non

funzionava nel suo stomaco.

A New York, la gente era in subbuglio. Era giunta notizia che la

guerra in Israele andava malissimo, e letteralmente migliaia di persone

- israeliani emigrati negli Stati Uniti, ebrei americani, persino

americani non ebrei - tentavano di salire sugli aerei in partenza per

Tel Aviv per andare a dare una mano a combattere. Era un problema

grave, in quanto le persone che non sarebbero state di grande

utilità nella lotta usurpavano, animate dalle migliori intenzioni beninteso,

lo spazio necessario per altri che avrebbero potuto essere

davvero utili. I funzionari aeroportuali facevano del loro meglio per

mettere un po’ d’ordine nel caos, ma era difficile. La notizia che le

armate egiziane stavano attraversando il canale di Suez, stabilendo


teste di ponte, e che in qualche punto erano riuscite a penetrare fino

al Lexikon, l’importante strada nord-sud che correva lungo il canale

dalla parte occupata dagli israeliani, sottolineava l’urgenza della situazione.

Avner decise di rinunciare a ogni trucco e di usare il suo vero

passaporto in veste di maggiore della riserva di un reparto scelto.

Ciò gli avrebbe garantito un posto sul primo volo dell’El Al in partenza,

e alle eventuali ripercussioni avrebbe potuto pensare più tardi.

In realtà, riteneva che non ce ne sarebbero state. Diversamente

dalla sua ultima visita a Tel Aviv, in occasione della nascita di Geula, questa
volta

si trattava chiaramente del tipo di emergenza per

cui nessuno lo avrebbe rimproverato per essere tornato in Israele

senza ordini specifici. Il paese era così piccolo, il margine tra vittoria

e sconfitta nei termini della guerra moderna così esiguo, che per

tutti gli israeliani ciò che dovevano fare subito e di loro spontanea

volontà, in tempo di guerra, era sottinteso. Anche se in seguito

qualcuno lo avesse rimproverato per essere tornato, Avner poteva

contare sul fatto che gli sarebbe stato perdonato.

Non uscì dall’aeroporto, ma chiamò Shoshana perché venisse a

incontrarlo lì. Lei si portò appresso Geula che, a dieci mesi, cominciava

a somigliare non solo a un piccolo essere umano, ma addirittura


a una femminuccia. Era la prima volta che Avner riusciva a provare

per lei qualcosa che non fosse solo una remota curiosità. Quella

era sua figlia! La baciò, baciò Shoshana, chiedendole di cercare di

mettersi in contatto per telefono con uno dei suoi amici di Tel Aviv

- era pressoché impossibile ottenere la linea con Israele - per pregarlo di


venire a

prenderlo in macchina all’aeroporto. La base del suo

reparto si trovava appena a sud di Haifa, a poco più di un’ora di auto

da Lod, dove sarebbe atterrato. Al pari di molti israeliani, Avner

aveva in animo di andare in guerra al volante della sua macchina.

Il caso volle che fosse proprio quell’idea di andarsene in guerra

in automobile a mettere nei guai Avner. L’aereo arrivò a Lod dopo

un volo del tutto tranquillo, e Avner trovò l’amico ad attenderlo

con la macchina. Avner abbracciò l’amico, prese le chiavi, gettò la

valigia sul sedile posteriore e di lì a qualche minuto correva lungo

l’autostrada per Haifa. Percorso poco più di un chilometro, fu fermato

con la paletta alzata da una bella ragazza serissima, in divisa

da poliziotta.

«Che cosa succede?» domandò Avner, sconcertato. Non aveva

di certo superato il limite di velocità.

«Non lo sai che giorno della settimana è, oggi?» gli domandò


la sabra.

Per un attimo, Avner neanche capì di che cosa stesse parlando.

Poi ricordò. Ma sicuro! Nella fretta di procurarsi un’auto, sia Avner sia il
suo

amico s’erano scordati di qualcosa. In Israele, a causa

della scarsità di benzina, vigeva un sistema basato sugli adesivi, e le

automobili che recavano un certo tipo di adesivo potevano circolare

solo a giorni alterni. La macchina di Avner non recava l’adesivo giusto

per quella particolare domenica.

In tempo di guerra, in Israele veniva considerato un reato grave.

A nulla gli valse protestare: la poliziotta gli intimò di seguirla seduta

stante alla corte del magistrato preposto al traffico. E là, seduto

dietro una scrivania in tutto il suo splendore ufficiale, c’era un

vecchio galiziano con un paio di baffi bianchi curatissimi.

Avner fece del suo meglio per scusarsi. Spiegò che era stato

all’estero e, come ufficiale della riserva, stava solo cercando di raggiungere

al più presto il suo reparto per prender parte alla guerra.

Gli dispiaceva per l’infrazione, ma essendo stato lontano dal paese

non gli era neppure passato per la testa, e via discorrendo. E ora,

per favore, poteva rimettersi in viaggio?

Il magistrato si mostrò comprensivo. «Va, va pure a raggiungere


il tuo reparto» disse. «Date le circostanze, te la caverai con un’ammenda.»

Fissò la multa in duecento lire israeliane, che non era molto.

Avner, però, non aveva valuta israeliana con sé.

«Potrebbe concedermi un po’ di tempo per pagarla?» domandò.

Il galiziano lo guardò.

«Vorresti che ti concedessi un po’ di tempo?» domandò. «Devi

essere matto. Stai andando in guerra, no? Se ci lasci la pelle, chi è

che pagherà la multa?»

Avner emise un profondo sospiro. Oh, be’, pensò. Che bello,

tornare in patria.

Quello che fu un giorno tragico per Israele, fu invece un giorno

di giubilo per i patrioti del mondo arabo. In un quarto di secolo,

cioè dalla fondazione dello stato di Israele, le forze arabe non avevano

vinto una battaglia, e tanto meno una guerra. Il successo conseguito

dall’esercito egiziano nell’attraversare il canale di Suez, il 6

e il 7 ottobre 1973, divenne l’occasione per celebrare non una pura

e semplice vittoria militare, ma addirittura la riconquista dell’onore

perduto. E persino della virilità. Non solo come fantasiosa metafora,

ma anche come una questione di profondo e sincero sentimento.

In una poesia pubblicata un anno dopo la guerra dello Yom Kippur,


per esempio, il bardo siriano Nizar Qabbani descriveva l’amplesso

erotico alla notizia che i guerrieri arabi avevano attraversato il canale:

Hai notato

Come io sia straripato da tutti i miei argini

Come io ti abbia inondata quasi fossi l’acqua dei fiumi

Hai notato come mi sia abbandonato a te

Quasi fosse la prima volta che ti vedevo

Hai notato come ci siamo fusi l’uno nell’altra

Come abbiamo ansimato, come abbiamo sudato

Come siamo diventati cenere, come siamo resuscitati

Quasi fosse la prima volta

Che facevamo all’amore.

La poesia, infinitamente più importante nella cultura araba del

XX secolo che in Occidente quale strumento di misura, oltre che

come guida del pensiero e dell’azione politica, registrava, e in misura

notevole contribuiva a creare, le onde d’urto del nazionalismo

militante che si diffondevano in tutto il mondo arabo. Anche se la

ritrovata potenza virile di Nizar Qabbani deve essere stata di breve

durata - già il 14 ottobre le forze israeliane si erano assestate, ed entro

il 16 iniziarono a respingere la marea dell’attacco egiziano nel


Sinai - le emozioni ispirate dalla sua poesia non furono intaccate

dal fatto che la divisione del generale di brigata Ariel Sharon riattraversò

il canale di Suez. La spada di Israele che si affondava nel

molle tessuto connettivo tra la Seconda e la Terza Armata egiziane

poteva aver tagliato in due le forze lanciate all’attacco, ma probabilmente

aveva arrecato pochi danni allo spirito di resistenza degli arabi.

Di tale spirito, alimentato dagli scacchi non meno che dai successi,

si era perfettamente consapevoli, in Israele. Durante i primi

disastrosi giorni della guerra dello Yom Kippur, per esempio, si

creò la convinzione popolare che gli americani non premevano per

un cessate-il-fuoco perché il Segretario di stato, Henry Kissinger,

riteneva che gli arabi avessero bisogno di una sonante vittoria militare

per ritrovare il rispetto di sé e presentarsi al tavolo dei negoziati

di

umore

più

conciliante.

In un modo alquanto singolare, i sentimenti degli arabi rispecchiavano

- proprio come i sentimenti dei cinesi o dei russi nei confronti

dei giapponesi, in un periodo precedente del secolo - l’umiliazione


tutta particolare di un Golia sconfitto da David. Se molto

si è scritto circa le sofferenze dei deboli per mano dei forti, di rado

si è fatto caso ai gravi danni psicologici subiti dai forti allorché vengono

ripetutamente sconfitti da forze più deboli, sebbene si sappia

che scatenano inconsueti furori. Per citare le parole di Nizar Qabbani, sono

certamente capaci di trasformare un patriota:

Da un poeta d’amore e di passione

In uno che scrive col coltello.

Molti altri intellettuali passarono dalle semplici invocazioni alla

lotta armata alla partecipazione attiva, e Tawfiq Zayyad non si peritò

di additare chiaramente la terra del progresso e dei diritti umani

che gli serviva di esempio:

Amici miei nelle fertili piantagioni di zucchero

Amici miei nelle raffinerie di petrolio dell’orgogliosa Cuba

Dal mio villaggio, dalla mia cara patria

Vi invio il mio saluto:

Amici miei che avete colmato il mondo col profumo della lotta

Continuate a premere sugli imperialisti

Tenete duro - le ali dell’aquila sono più forti

Degli uragani
Gli imperialisti non afferrano

Il linguaggio dell’umiltà e delle lacrime

Comprendono soltanto l’impeto del popolo

Nell’agone della battaglia. (nota 6).

Da tali poesie risulta evidente che molti intellettuali della resistenza

palestinese avevano deciso, verso la fine degli Anni Sessanta,

di far causa comune col comunismo internazionale. In certi casi

poteva essere il risultato di una sincera convinzione; in altri, di un

senso di opportunismo. Indubbiamente, così come l’Unione Sovietica

non disdegnava di servirsi del nazionalismo arabo per i suoi fini,

c’erano dei palestinesi che sarebbero stati disposti a servirsi dei

sovietici per conseguire i loro obiettivi nazionali, pur senza impegnarsi

a fondo negli ideali del comunismo e non condividendo assolutamente

gli interessi di politica estera dell’Unione Sovietica. Ciò

che contava, per loro, era quella che consideravano come la liberazione

della Palestina, e nel 1968 per moltissimi fedayin neppure un

patto col diavolo sarebbe sembrato un prezzo troppo alto da sborsare

per ottenerla.

In questo senso, “un patto col diavolo” comportava assai di più

di una semplice alleanza con gli interessi sovietici. Nel passaggio


dalla resistenza nazionale al terrorismo internazionale, certi palestinesi

- al pari di molti altri prima di loro, ivi comprese le fazioni sioniste

come l’Irgun - avevano finito col convincersi che il fine giustifica

sempre i mezzi, e che nessun atto di brutalità indiscriminata ai

danni di non combattenti e civili poteva dar adito a obiezioni morali,

a patto che fosse inteso all’instaurazione di uno stato nazionale. (nota 7).

Fu così che i fedayin varcarono la linea tra lotta per la libertà e terrorismo.

Furono però i loro metodi, non già la loro causa e neppure i

loro obiettivi, a scavar loro la fossa sotto i piedi, per quanto ciò possa

averli aiutati a pubblicizzare la loro lotta.

Una lotta che fu vieppiù complicata dall’esito della guerra dello

Yom Kippur. In definitiva, un’altra vittoria militare per Israele,

che però rivelò anche per la prima volta come lo stato ebraico non

fosse invincibile. Può darsi che questo sia stato più una sorpresa per

i loro nemici che per gli israeliani. Comunque sia, pose un dilemma

ideologico e tattico ai palestinesi. Non determinò tanto una nuova

spaccatura quanto l’allargamento di quella già esistente tra le due

grandi fazioni della “lotta armata”, rappresentate dall’Al Fatah di

Yasser Arafat da un lato, e dal Fronte Popolare di George Habash

dall’altro.
Benché entrambe le parti puntassero alla distruzione dello stato

di Israele quale fine ultimo della lotta, e credessero anche in una

qualche forma di socialismo all’araba per tutto il Medio Oriente,

Arafat e Habash non sono mai stati d’accordo su questioni di enorme

importanza, concernenti sia gli aspetti tattici sia le priorità. Per

il dottor Habash, il quale è in primo luogo un marxista-leninista militante

e solo secondariamente un nazionalista arabo, la lotta palestinese

è unicamente un aspetto di una più vasta campagna in favore

di una supremazia marxista pan-araba e contro 1’“imperialismo”.

Per Arafat, che è prima di ogni altra cosa un patriota palestinese, il

diritto di priorità spetta alla “liberazione della Palestina”, seguita

da quella che definirebbe la “liberazione dell’uomo”, intendendo

con ciò una sorta di socialismo arabo.

Entrambi professano la violenza, persino la violenza terroristica,

ma mentre Arafat si è pronunciato a favore della “palestinizzazione” delle

operazioni di guerriglia, intendendo con ciò l’attuazione

da parte dei fedayin palestinesi di scorrerie armate solo entro i

confini di Israele e nei territori occupati da Israele, Habash sostiene

la necessità di attentati internazionali, spesso in collaborazione con

altri gruppi terroristici. Fu per questa ragione che Settembre Nero,


la squadra di terroristi internazionali di Al Fatah incaricata delle

azioni “più sporche”, non venne mai riconosciuta ufficialmente da

Arafat, anche se nelle file dell’OLP la sua esistenza non fu mai un

mistero. Ciò permise ad Arafat di conservare una facciata di relativa

moderazione al cospetto del mondo esterno.

In un certo senso, era qualcosa di più di una facciata. Dopo la

guerra dello Yom Kippur, la creazione di uno stato palestinese che

scaturisse da un negoziato attorno al tavolo delle trattative di Ginevra

divenne almeno una remota possibilità. Dal momento che era

improbabile che Israele accettasse di negoziare la propria sparizione,

l’OLP avrebbe dovuto moderare le sue posizioni se sperava di

partecipare alle trattative. Pur senza spingersi fino a riconoscere il

diritto di Israele a esistere, Arafat credeva che, se non altro a fini

strategici, l’OLP dovesse astenersi dal richiederne la distruzione

incondizionata.

Il dottor Habash e il Fronte Popolare respinsero questo approccio.

Per loro, lo stato sionista-imperialista non aveva alcun diritto

di esistere. Nacque così il Fronte del Rifiuto, appoggiato dagli Stati

del Rifiuto, come la Siria, l’Iraq, lo Yemen del Sud e la Libia. Le

molte fazioni minori all’interno dell’OLP presero partito per Al Fatah


o per il Fronte del Rifiuto, anche se Arafat mantenne la guida

generale del movimento.

Israele, dal canto suo, giudicava Arafat con sentimenti di grande

ambivalenza. Ufficialmente non riconosceva l’OLP, neppure

nella sua veste più moderata, più di quanto l’OLP riconoscesse

Israele. Ma una parte degli israeliani riteneva che un accomodamento

negoziato fosse magari possibile con un capo palestinese sul

tipo di Arafat. Altri erano persuasi che il capo di Al Fatah non fosse

più “moderato” dei più famigerati mechablim. E sebbene Avner e i

suoi compagni parlassero raramente di politica, su tale questione

erano divisi persino loro. Steve, Robert e Hans non si sarebbero

neppure degnati di dire ad Arafat che ora era, mentre Carl non aveva

un punto di vista così drastico. Avner stava nel mezzo. Ma di

una cosa era certo, e cioè che Salameh, lo stratega di Settembre Nero

di Arafat, andava assassinato.

Noto col nome di “Abu Hassan” nelle file della resistenza palestinese,

Salameh era ricco e aveva studiato alla Sorbona. A differenza

di Yasser Arafat, del quale era lontano parente, Salameh veniva

descritto come un uomo «bellissimo e irresistibile con le donne». (nota 8).

Era un palestinese di ceto elevato, il cui padre, lo sceicco Sala-


meh, era stato un grande combattente della resistenza araba assai

prima della creazione di Israele. Salameh padre aveva attuato scorrerie

contro gli insediamenti ebraici in Palestina prima della nascita

di Ali Hassan, e alla fine fu ucciso da una bomba della Haganah nel

1948. (nota 9).

Seguendo le tradizioni di famiglia, Salameh arrivò alla “lotta armata”

nel modo più naturale. A causa della sua estrazione sociale,

però, era meno attratto dalle fazioni marxiste in seno al movimento

palestinese di quanto lo fossero altri capi terroristi. Ciò non significava

che non fosse disposto a collaborare con loro a favore della

causa palestinese. Uno dei suoi più stretti collaboratori a Parigi, per

esempio, era il marxista Mohammed Boudia, che si diceva fosse

membro del partito comunista sin dagli Anni Cinquanta. Ma Sala-

meh era anche disposto a collaborare con esponenti dell’estrema destra,

come il fondatore del movimento neo-nazista in Svizzera, un

uomo che notoriamente si occupava di questioni finanziarie per

conto dei palestinesi in Europa, così come aveva fatto per i nazisti

durante la guerra. (nota 10).

Per qualche ragione, Avner e i suoi compagni erano ossessionati

dall’idea di “beccare” Salameh più di quanto lo fossero stati nei


confronti di qualsiasi altro capo terrorista. Non solo Salameh era il

numero uno della loro lista, ma generalmente era anche considerato

in Israele come il responsabile dell’assassinio degli atleti olimpici a

Monaco. Benché nessuno potesse esser certo che l’idea di attaccare

la squadra israeliana al villaggio olimpico fosse stata ispirata da Salameh, il

Mossad riteneva di possedere fondate prove che fosse stato

lui il responsabile della programmazione e del coordinamento

dell’azione. Salameh era così diventato il simbolo dei mechablim.

Nel controterrorismo, così come nel terrorismo, gli obiettivi militari

spesso passano in secondo piano rispetto ai gesti simbolici. In un

certo senso, l’eliminazione di Salameh equivaleva a catturare la

bandiera del nemico.

Era proprio questa ossessione che contribuiva a spiegare il fiasco

del Mossad a Lillehammer, un’operazione che altrimenti sarebbe

apparsa ingiustificata quanto improvvisata. Per un numero insolitamente

alto di agenti, insediarsi in una remota, minuscola località

di villeggiatura, dove un gruppo di forestieri avrebbe automaticamente

attirato considerevole attenzione, in cui non c’era un posto

dove nascondersi e da cui era impossibile fuggire se non per due

lunghe e facilmente controllabili autostrade, era come volersi far


catturare a tutti i costi, anche ammesso che non ci fosse stato un errore

di bersaglio. E se taluni aspetti dell’operazione che in seguito

avrebbero lasciato di stucco gli estranei - come il fatto che due

agenti furono arrestati mentre restituivano un’auto presa a nolo

all’aeroporto di Oslo per risparmiare un giorno di noleggio - non

sorpresero troppo Avner, che aveva dimestichezza col progenitore

di tutti i galiziani intento a controllare le note spese nelle viscere del

Mossad, non v’era dubbio che l’operazione fosse stata programmata

in modo imprudente. La cosa si poteva solo spiegare, se non giustificare,

con l’ossessione del Mossad di eliminare l’uomo che era

diventato, per Israele, la personificazione del terrorismo internazionale.

Benché condividesse tale ossessione, Avner decise che lui e i

suoi compagni non avrebbero mai condiviso l’imprudenza. Non

avrebbero commesso simili errori.

Ma a giudicare da come andarono poi le cose, ci mancò poco.

Ali Hassan Salameh

Il Mossad, che evidentemente aveva cose più importanti di cui

preoccuparsi, ci mise fino al 22 ottobre prima di scoprire la presenza

non autorizzata di Avner, Steve e Robert in Israele. I tre avevano

raggiunto i rispettivi reparti subito dopo l’arrivo, come qualsiasi


altro ufficiale che rientrasse in Israele dall’estero. I loro comandanti

non avevano la più pallida idea di ciò che avevano fatto da quando

avevano abbandonato il servizio attivo, e nel bel mezzo di una

guerra non era certamente il caso di indagare. Al reparto di Avner,

quando questi giunse alla base, persino i cuochi erano stati inviati al

fronte. Gli venne immediatamente affidato un incarico operativo,

e combattè sul fronte settentrionale contro i siriani e nel Sinai contro

la Terza Armata egiziana. Ancora una volta fu tanto fortunato

da cavarsela senza un graffio, così come Steve e Robert nelle loro rispettive
unità.

I computer non li scovarono finché le ostilità non si furono concluse.

A nord era stato riconquistato il monte Hermon, e a sud la divisione

del generale Sharon aveva già circondato gli egiziani. Fu nel

settore sud, sulla riva occidentale del canale di Suez, che un ufficiale

a bordo di una jeep agguantò Avner e lo caricò su un elicottero

con l’ordine di presentarsi al quartier generale del Mossad a Tel

Aviv.

Lungo il tragitto, Avner si domandò se Steve e Robert lo stessero

già aspettando, ma non era così. Lo aspettava Ephraim.

«Ma siete tutti impazziti, voialtri?» disse appena Avner fu introdotto

nel suo ufficio. «Credete di essere dei tali eroi che senza di
voi non siamo capaci di vincere la guerra? Dovrei deferirvi tutti alla

corte marziale!» Malgrado le parole di Ephraim, Avner comprese

dal tono della voce che, come aveva previsto, non ci sarebbero state

reali ripercussioni.

«Voglio che lasciate Israele oggi stesso» proseguì Ephraim.

«Tornate in Europa a finire quel che state facendo. Se avremo bisogno

che torniate qui, vi chiameremo. A meno che non vi sia ordinato

di tornare, non voglio che uno qualsiasi di voi si faccia rivedere in

Israele. Mi sono spiegato?»

Sebbene Avner supponesse che Ephraim avesse tutto il diritto

di parlargli in quel tono, c’era qualcosa nella sua voce che lo accarezzava

contropelo. Erano tornati perché il paese correva un pericolo

mortale, erano tornati come migliaia di altri israeliani ed ebrei. Era

anche vero che, così facendo, avevano violato la procedura operativa.

Ma accidenti! Ad Avner sembrava che ogni volta che rischiava

la vita per Israele, ogni volta che faceva qualcosa che esulava dai

suoi precisi doveri, ci fosse qualche galiziano che gli saltava addosso

e lo rimproverava. O gli appioppava una multa, come il magistrato

di Tel Aviv la sera del suo arrivo. Ma non sarebbe mai finita?

L’unica cosa che Avner non riusciva a fare, ogni volta che era di
quell’umore, era tenere la bocca chiusa.

«Lascia che ti dica una cosa» replicò a Ephraim. «Non lavoro

neppure per voi. Ricordi? Non accetto ordini da te!»

Ma il suo sfogo ebbe come unico effetto quello di far ridere

Ephraim. «Oh, togliti dai piedi» disse «prima che ti tiri dietro qualcosa.

Togliti dai... o meglio aspetta un momento. Mi hai fatto venire

in mente una cosa. Voglio che tu firmi questo.»

Avner prese in mano il lungo foglio di carta fittamente dattiloscritto.

«Che roba è?» domandò.

«Be’, leggilo» disse Ephraim. «Sai leggere, no?»

Avner si mise a guardare il foglio, ma in quel momento non riusciva

neppure a preoccuparsi di cercare di scorrerlo da cima a fondo.

Prese una penna sulla scrivania di Ephraim e firmò. Probabilmente

si trattava di qualche altro programma di cure dentistiche o

roba del genere.

Già che si trovava a Tel Aviv, Avner colse l’occasione di andare

a trovare i suoi genitori prima di recarsi all’aeroporto. Prima sua

madre, poi suo padre. Nessuna delle due visite ebbe esito troppo

positivo.

Sua madre, al solito, dopo un paio di superficiali commenti personali


- grazie a Dio, perlomeno stai bene - portò subito il discorso

su Israele e sul tradimento del mondo che aveva permesso lo scoppio

di quella guerra. Parve ad Avner che, ancora una volta, sua madre

fosse di gran lunga più preoccupata per il destino di Israele che

per la sua sorte; e che le difficoltà in cui si trovava il paese la colpissero

assai più profondamente di qualsiasi avversità Avner potesse

avere sperimentato combattendo per Israele. Israele questo e Israele

quest’altro - e continuava anche a esprimere la speranza che

quando il fratello minore di Avner, Ber, avesse avuto l’età per andare

sotto le armi, di lì a un paio d’anni, ci sarebbe stata la pace.

Avner si disse, forse ingiustamente, che come sempre la mamma

si preoccupava della pace per amore di Ber, e pareva infischiarsene

del fatto che lui potesse nel frattempo rimanere ucciso in battaglia.

Sembrava che niente, di Avner, la interessasse. Se non poteva

assolutamente dirle che cosa stava facendo in Europa - lei doveva

aver intuito che faceva “qualcosa per il governo” - lo feriva

l’idea che non glielo avesse nemmeno chiesto. Neppure in modo generico.

Gli chiese di Geula e di Shoshana, ma oltre a ciò parlò solo

di Ber e di Israele. Ad Avner pareva che nulla fosse cambiato dal

giorno che la mamma lo aveva spedito al kibbutz.


La visita a suo padre andò male per motivi diversi.

Papà era diventato ancora più vecchio, più malandato in salute

e più abbattuto. In pari tempo, loro due erano così simili, non

nell’aspetto esteriore ma nel modo in cui funzionavano la loro mente

e le loro emozioni, che alla vista di suo padre Avner ebbe l’impressione

di guardarsi in uno specchio di lì a venti o trent’anni. Era

inquietante. Papà doveva aver provato la stessa impressione,

perché continuava a ripetere cose come: «Aspetta, tra qualche anno

te ne starai seduto qui ad aspettare che quelli ti chiamino. Ti avranno

spremuto come un limone, ti avranno sottratto i rubini già da un

pezzo, ma tu continuerai ad aspettare. Anche se allora avrai capito

come vanno le cose. Non mi credi, ma vedrai». Il guaio era che Avner
cominciava

a credere a suo padre.

Non vedeva l’ora di andare all’aeroporto. Senza neppure dare la

possibilità a Steve e a Robert di raggiungerlo, tornò in aereo in Europa.

Ma in Europa passò novembre, e poi dicembre, senza che accadesse

nulla, anche se il periodo di stasi fu comunque colmo di attività.

In effetti, come ebbe a osservare Carl, non avevano mai lavorato

di più ottenendo di meno durante la missione. Quasi ogni giorno

uno di loro raccoglieva una nuova voce sull’uno o sull’altro dei


loro bersagli. Su Salameh soprattutto, di cui veniva di continuo annunciata

l’imminente visita a Parigi oggi, o in Spagna o in Scandinavia

il giorno dopo.

Correvano anche molte voci su Abu Daoud, il bersaglio numero

due, l’unico che fosse sparito completamente dalla circolazione tra

il febbraio e il settembre di quell’anno. Abu Daoud aveva trascorso

quei sette mesi in un carcere giordano, in seguito al fallimento di

un’operazione che aveva per scopo il rapimento di alcuni membri

del gabinetto di re Hussein. Era stato catturato in Giordania il 13

febbraio e aveva reso una confessione pubblica davanti alle telecamere,

svelando per la prima volta i legami tra Al Fatah e Settembre

Nero (anche se non era una novità per il Mossad). Due giorni dopo,

assieme a tutto il suo gruppo di compagni di Settembre Nero, era

stato condannato a morte. Re Hussein, tuttavia, aveva commutato

le sentenze di morte, e nel settembre 1973, meno di tre settimane

prima dell’invasione del Sinai e delle alture del Golan in coincidenza

con lo Yom Kippur, Abu Daoud, assieme a circa un migliaio di

fedayin che le truppe reali avevano catturati negli anni precedenti,

era stato rilasciato dai giordani. Da allora, se si doveva prestar fede

agli informatori, Abu Daoud era stato avvistato in ogni capitale europea.
L’incapacità della squadra a scoprire una vera pista che portasse

a Salameh cominciava a logorare i nervi degli uomini. Avner lo avvertiva.

I suoi compagni erano ancora in gamba; in grado di agire

con perfetta efficienza. Ma ogni giorno che passava si avvicinavano

sempre più ai limiti della sopportazione. Erano in missione da più

di un anno, e la cosa faceva sentire il suo peso. Per Avner, come

aveva esattamente previsto, era stato un sollievo combattere nelle

file del suo reparto, ma ora gli erano tornati i crampi allo stomaco.

Più dolorosi di prima.

Quanto agli altri, che lo confessassero o meno, Avner non aveva

dubbi che avvertissero anch’essi la tensione. Hans passava sempre

più tempo nel suo negozio di mobili antichi, magari fingendo con se

stesso che fosse quella la ragione prima del fatto che si trovava a

Francoforte, come Steve aveva commentato piuttosto seccamente

in un’occasione. Hans riusciva persino a guadagnarci. Robert, rintanato

in camera da letto, stava fabbricando un complicato giocattolo;

ci lavorava da settimane in ogni minuto libero. Avner, una

volta, ebbe modo di intravederlo, e gli parve una gigantesca ruota

da luna park, fatta completamente di stuzzicadenti.

Carl sembrava il più strano di tutti. In realtà, non faceva niente


di straordinario. Se ne stava seduto sul divano a leggere, a succhiarsi

la pipa spenta come era sempre stata sua abitudine. Ma in quei

giorni, di tanto in tanto, alzava gli occhi e faceva le domande più

strane che si potessero immaginare. Una volta, rivolto ad Avner,

disse:

«Tu credi nella metempsicosi?».

«Chiedo scusa?» replicò Avner, stupito.

Carl non ripeté la domanda. Scosse il capo e tornò al suo libro.

Avner ricordava quell’occasione soprattutto perché quella sera toccava

a Carl cucinare la cena: un evento traumatico, nella migliore

delle ipotesi. Per quanto Carl fosse versatile, le arti culinarie non

rientravano nelle sue capacità. Avner, nella sua veste di “Mamma

Diavoletto”, sempre preoccupato che ciascuno mangiasse abbastanza

e che il cibo fosse nutriente, invariabilmente si offriva di

prendere il posto di Carl senza dirlo agli altri, ma il filosofo della

squadra non voleva assolutamente saperne. «Quando tocca a me,

tocca a me» diceva. «Che cosa c’è che non va nel mio pollo alla
cacciatora?»

Quel che non andava nel pollo, in quella particolare occasione,

era che Carl, tutto preso dalla trasmigrazione delle anime, lo servì

senza neppure notare che si era completamente dimenticato di accendere


il fornello.

Il 7 gennaio 1974 qualche notizia fondata giunse finalmente alla

squadra. Proveniva da Papà e riguardava sia Ali Hassan Salameh

sia Abu Daoud. I due avrebbero dovuto incontrarsi nella cittadina

svizzera di Sargans, presso la frontiera col Liechtenstein. In una

chiesa cattolica.

«Dannazione» disse Carl, guardando la cartina. «Un paesotto,

con tre strade di montagna, in pieno inverno. Si ripete la storia di

Lillehammer, solo che è peggio. »

«Non necessariamente» disse Avner. «E una cittadina di frontiera,

per cui dopo il colpo tutti si aspetterebbero che passassimo

nel Liechtenstein e poi filassimo in Austria. Troveremo un comitato

per le accoglienze a riceverci a Feldkirch. E invece noi potremmo

tornare semplicemente a Zurigo. Ancora meglio, potremmo caricare

gli sci sulle macchine e scendere difilato a St. Moritz. O a Davos,

che è ancor più vicina. Confonderci nella grande folla degli sciatori.

Prenotiamo subito le camere a Davos per cinque uomini d’affari tedeschi.»

«Le strade rimangono comunque solo tre» ribatté Carl, scuotendo

la testa.

In realtà, finirono per scoprire che le strade erano meno di tre.


Il giorno dopo che Avner e Carl se n’erano andati attorno per Sargans - loro
due

soltanto perché, ricordando quanto era accaduto a

Lillehammer, non volevano mostrarsi in forze nel paese svizzero -

Louis tornò a farsi vivo. Una piccola precisazione. I capi terroristi

dovevano, sì, incontrarsi in una chiesa di una località svizzera, ma

non a Sargans. Dovevano incontrarsi nei pressi di una cittadina vicina,

sull’altra sponda del Walensee, un lago alpino, alcuni chilometri

più vicino a Zurigo. La località era forse un po’ più popolosa di

Sargans, ma ancor più tagliata fuori dalle strade più battute. Si

chiamava Glarona ed era attraversata solo da un’autostrada, la A

17: l’autostrada proseguiva verso nord fino a Zurigo, e verso sud,

piegando a occidente, attraverso Altdorf e attorno allo splendido

lago dei Quattro Cantoni, fino alla città di Lucerna.

Glarona. Nel cuore della Svizzera, dove il quarantasettesimo

parallelo di latitudine nord incrocia il nono grado di longitudine

est. In una regione a vegetazione mista, di alberi caduchi a foglia

larga e di abeti sempreverdi, con una media di precipitazioni oscillanti

tra i cento e i centocinquanta centimetri annui. Ciò voleva dire,

in gennaio, una gran quantità di neve.

L’incontro in chiesa tra Salameh e Abu Daoud era previsto per


sabato 12 gennaio; Avner, Steve e Hans, a bordo di due automobili,

andarono a esplorare la cittadina venerdì 11, lasciando Robert e

Carl nei covi di Zurigo.

Robert aveva scelto proprio quel momento per ammalarsi di

una fastidiosa affezione gastrica. Non riusciva a tener giù il cibo, e

chiaramente stava da cani. Avner prese in considerazione la possibilità

di escluderlo dall’impresa, a meno che non si fosse rimesso in

sesto per sabato, anche se Robert non voleva sentirne parlare. Arrivarono

a un compromesso, stabilendo che si sarebbe messo lui al

volante dell’auto destinata a coprire la fuga, al posto di Steve. Steve

e Hans avrebbero partecipato direttamente all’azione assieme ad

Avner. Non era la soluzione ideale, in quanto Steve era un guidatore

più esperto di Robert, e le strade della regione erano insolitamente

infide. Date le circostanze, comunque, pareva l’unica scelta possibile.

Venerdì era una giornata umida e fredda. La chiesa si trovava

quasi alla periferia della cittadina, e il suo portale si apriva su una

piazzetta con una fontanella al centro. Sul retro della chiesa c’era

un cimitero. Alcuni gradini salivano dalla piazza al grande portale a

due battenti, con una porticina intagliata in uno dei due che, a differenza

dei grandi battenti, pareva rimanesse sempre aperta. All’interno


la lunga, stretta navata portava direttamente all’altare. Avner, che non
sapeva

niente di chiese, e neppure di sinagoghe peraltro,

sia come edifici sia come luoghi di culto, metteva piede in un

luogo del genere per la prima volta. Rimase colpito dalla luce rifratta

che filtrava dalle vetrate multicolori.

Sulla destra dell’ingresso si apriva una porta, che dalla navata

della chiesa immetteva in uno stanzone che sembrava fungere da biblioteca

e insieme da sala di ricevimento. Un grande tavolo di legno

al centro della stanza era ingombro di libri e di pubblicazioni a carattere

religioso. Le pareti erano letteralmente tappezzate di altri libri.

Un’altra porta, in fondo alla stanza, si apriva su una scala. Salendola,

si giungeva a una galleria e all’organo. Scendendola, si arrivava

a varie altre stanze, nello scantinato della chiesa.

A sentire Hans, quello era l’unico posto adatto a un incontro.

La sacrestia sul retro della chiesa sarebbe stata inadeguata, e sembrava

non ci fosse una canonica attigua alla chiesa ma solo alcuni capanni. Il prete

doveva abitare in una casa del vicinato o in una specie

di appartamento ricavato nello scantinato. Per tale motivo,

Hans giudicò rischioso dare un’occhiata in tutte le stanze che si

aprivano ai piedi della scala. Il giorno dopo, avrebbero potuto irrompervi


nel giro di qualche istante. Dentro e fuori. Sorpresa. I mechablim si
sarebbero

trovati in trappola. Con uno della squadra appostato

in cima alla scala, non avrebbero potuto scappare da nessuna

parte.

Ripensandoci, a posteriori, può darsi non sia stato il piano più

accurato che si potesse escogitare, ma certamente era audace. E

avrebbero agito di sorpresa. Inoltre il tempo incalzava. Era da più

di un anno che davano la caccia a Salameh: chi poteva dire quanto

avrebbero dovuto aspettare prima di avere un’altra occasione?

Di passare la notte in città, neanche a parlarne; c’erano alcuni

alberghetti tipo pensione, ma nient’altro. Cinque uomini che prendessero

alloggio la sera prima per andarsene il giorno stesso dell’attentato,

avrebbero attirato un’indebita attenzione, e poi Zurigo distava

solo una settantina di chilometri. La distanza da Lucerna era

circa il doppio, più altri sessanta o settanta chilometri per tornare

a Zurigo, ma Avner decise di esplorare anche quel tragitto come via

di fuga alternativa, una volta portata a termine l’impresa alla chiesa.

Poteva darsi che dopo il colpo fosse necessario dividere le forze,

che un’automobile si dirigesse verso Lucerna e l’altra verso Zurigo.

In serata Avner chiamò Louis, chiedendogli di approntare un covo


supplementare a Lucerna, nel caso ne avessero bisogno.

Il giorno dopo, sabato 12, la temperatura era un tantino più mite.

Il cielo era coperto, e di tanto in tanto cadeva un leggero nevischio.

L’autostrada da Zurigo era sgombra, ma la strada che portava

a Glarona era infida a causa di varie chiazze di neve gelata.

Avner, Steve, Robert e Hans viaggiavano su un’auto, mentre

Carl li seguiva su un’altra. Erano armati ciascuno con una delle Beretta

del primissimo contingente che Avner aveva acquistato dal

fornitore svizzero di Andreas, Lenzlinger. A quel tempo Avner

aveva lasciato le armi in Svizzera, assieme ai passaporti, ed era stato

Hans a suggerire che tanto valeva servirsi di quelle pistole.

Avner e Steve decisero altresì di portare una bomba fumogena a

testa. I candelotti, smerciati liberamente, stavano comodamente

nelle tasche dei giacconi, anche se risultavano un po’ scomodi. Ma,

come Carl convenne con Avner, per un assalto a uno scantinato era

quanto di meglio si potesse trovare. Gli uomini presenti non avrebbero

potuto saltare dalla finestra, e se decidevano di asserragliarsi

nella stanza, dopo trenta secondi sarebbero stati neutralizzati. Con

tutta probabilità, però, non si sarebbero asserragliati nella stanza.

Sarebbero usciti dalla porta, uno alla volta. Bersagli facili. Una
bomba fumogena poteva altresì coprire una frettolosa ritirata su per

una scala, meglio di qualsiasi altra cosa. A differenza di una bomba

a mano non faceva rumore, per cui non avrebbe messo in allarme

nessuno. Prima che qualcuno scoprisse che cos’era accaduto nella

chiesa, la squadra avrebbe già percorso circa metà del tragitto per

Lucerna.

Forse. «I Lloyd’s di Londra non accetterebbero mai di assicurarci»

fu il commento di Robert, quando fu messo al corrente del

piano.

Anche Avner aveva qualche dubbio in proposito, ma né lui né

Carl riuscirono a escogitare qualcosa di meglio di un assalto all’interno

della chiesa. Salameh e Abu Daoud non si sarebbero portati

appresso un intero esercito per incontrarsi furtivamente in una cittadina

svizzera. Al massimo, avrebbero avuto con sé due o tre guardie

del corpo. Un conto era cogliere di sorpresa quattro o cinque uomini

privi di sospetti all’interno di un edificio; tutt’altro paio di maniche

tender loro un’imboscata allo scoperto, lungo una strada. Per

tentare questa seconda possibilità, Avner e i suoi quattro uomini

avrebbero dovuto dividersi in due gruppetti e piazzare due blocchi

stradali per coprire entrambe le vie d’uscita da Glarona, rinunciando


in ogni caso all’impiego di metà delle loro forze. Avrebbero dovuto

tentare di eclissarsi a bordo di quella che nel frattempo avrebbe

potuto diventare una macchina gravemente danneggiata, dopo

un attentato compiuto allo scoperto, di cui si avrebbe avuto sentore

in meno di dieci minuti. La strada principale per Glarona era

tutt’altro che deserta. E poi se Salameh avesse deciso di passare la

notte in città che cos’avrebbero fatto? Rischiato l’assideramento

sull’autostrada mentre lo aspettavano?

No. Il piano migliore era ancora quello della chiesa.

Era persino possibile, sebbene non potessero farci conto, che

un assalto all’interno della chiesa, avesse o meno esito positivo, non

venisse notificato alle autorità svizzere. Nel corso degli anni uomini

di chiesa di ogni confessione sono stati persuasi dagli estremisti sia

di sinistra sia di destra a dar loro asilo e assistenza nelle loro “lotte

di coscienza”, spesso senza che le alte gerarchie ecclesiastiche ne

fossero a conoscenza o ne approvassero l’operato. A volte capitava

che anche ai vertici qualcuno fosse direttamente coinvolto (di lì a

poco, il patriarca della chiesa ortodossa sarebbe stato arrestato

mentre tentava di contrabbandare armi destinate all’OLP dal Libano

a Gerusalemme), ma più spesso l’aiuto era fornito da un singolo


sacerdote, la cui mente e la cui coscienza aveva subito l’influenza di

una certa causa terroristica. Per qualche oscura ragione psicologica,

una minoranza degli uomini di chiesa era suscettibile all’estremismo

nazionalista, fascista o marxista.1 Se Salameh si serviva della

chiesa di un sacerdote rinnegato di quel tipo, il prete in questione

avrebbe avuto le sue buone ragioni per mettere a tacere tutto ciò

che vi poteva accadere. Se l’attentato fosse fallito, gli stessi mechablim


avrebbero

fatto tutto il possibile affinché la polizia svizzera

non ne venisse a conoscenza, almeno fintanto che non si fossero allontanati

sani e salvi dalla Svizzera.

Quando gli uomini della squadra arrivarono davanti alla chiesa,

fermando le automobili sui due lati della piazza, stava già per imbrunire.

Avner, Steve e Hans scesero dall’auto, e Robert si mise al

volante. Tenne il motore acceso, e lo stesso fece Carl, la cui macchina

era parcheggiata a un centinaio di metri di distanza.

Hans entrò in chiesa da solo. Avner e Steve rimasero fuori, fingendosi

semplici turisti che approfittavano dell’ultima luce del giorno

per scattare fotografie. Stando all’orario delle funzioni appeso al

portale, gli ultimi fedeli sarebbero usciti di lì a poco, anche se la porticina

non veniva chiusa a chiave. Poi, all’infuori dei terroristi, la


chiesa sarebbe stata deserta. Presumibilmente.

Finora, il calcolo dei tempi sembrava esatto. Neanche venti minuti

dopo un gruppo misto di fedeli e turisti, meno di una trentina

di persone in tutto, uscì alla spicciolata dalla chiesa. Seguito da

Hans, il quale fu l’ultimo a uscire. Rivolse un cenno cordiale col capo

al sacrestano che si accingeva a sprangare il portale, poi si incamminò

verso Avner e Steve.

«Ho visto due arabi» disse laconico. «Giovani, in maglione nero.

Probabilmente guardie del corpo, ma disarmati, a quanto ho potuto

constatare. Risalivano la navata, poi sono entrati nella stanza

sulla destra. Uno dei due portava un vassoio coperto da un tovagliolo


bianco.»

«Sei sicuro che fossero arabi?» domandò Avner, anche se era

molto improbabile che Hans si fosse sbagliato.

Hans si strinse nelle spalle. «Be’, parlavano in arabo» disse. «Ad

alta voce anche, come se fossero loro i padroni.»

«Andiamo» disse Avner, porgendo l’apparecchio fotografico a

Robert attraverso il finestrino aperto dell’auto.

Salì a passo spedito i pochi gradini che montavano al portale

della chiesa, con Steve alle calcagna. Hans li seguiva più lentamente.

Il piano prevedeva che Avner e Steve portassero a compimento


l’attentato, mentre Hans si sarebbe appostato appena oltre il portale

per impedire che entrasse altra gente e coprire la fuga. Non era

previsto che Hans usasse la sua Beretta, a meno che non fosse strettamente

necessario.

Nella chiesa era quasi buio. Sarebbe stato difficile camminare

senza far rumore sull’echeggiante pavimento di pietra, e Avner

neppure ci provò. La porta della stanza sulla destra della navata distava

solo una decina di passi. Avner e Steve coprirono la distanza

in meno di quattro secondi, estraendo le pistole contemporaneamente

e tirando indietro le slitte. Quando Avner spalancò la porta

con un calcio, le pistole erano in posizione di tiro.

Gli arabi nella stanza alzarono gli occhi.

Erano in tre, non due, seduti al grande tavolo, e stavano mangiando.

Anche il vassoio visto da Hans era sul tavolo, con bicchieri

di latte, formaggio, panini e frutta.

I libri e le pubblicazioni religiose erano stati accatastati da un lato.

L’unica altra cosa sul tavolo era un Kalashnikov.

E sul tavolo, di fronte all’arabo che sedeva più vicino alla porta,

da sotto la tovaglia bianca sbucava il calcio di una pistola. Una Tokarev,

inequivocabilmente, con un piccolo gancio, simile a un fermaglio


per tenere insieme i fogli di carta, all’estremità del caricatore.

Probabilmente il modello Tokagypt da 9 mm, molto diffuso nei

paesi arabi. E subito dopo, Avner vide, pur senza staccare gli occhi

dalla pistola, una mano che scivolava a impugnare l’arma. Il giovane

arabo stava per far fuoco.

Doveva essersene accorto anche Steve, perché stava già sparando.

Due volte, poi di nuovo due volte. Avner, che teneva la pistola

puntata sul giovanotto all’altro capo del tavolo, fece fuoco una frazione

di secondo più tardi. La verità era che non aveva la più pallida

idea di ciò che l’uomo stesse facendo nel preciso istante in cui tirò il

grilletto, perché la sua attenzione era ancora concentrata sul bersaglio

di Steve, il quale aveva tentato di impugnare la sua arma. Ma

da come si erano messe le cose, sarebbe stato impossibile per lui non

sparare. Il secondo arabo si trovava un po’ sulla destra, rispetto ad

Avner. Se anche lui avesse deciso di impugnare un’arma, quando

Avner avesse girato la testa per accertarsene avrebbe potuto essere

troppo tardi. Il rischio era eccessivo. Il riflesso, troppo automatico.

Avner fece fuoco due volte, ed ecco che il secondo arabo si accasciò,

scivolando tra il tavolo e la sedia.

Forse non sarebbe stato necessario uccidere il terzo arabo, se


solo ci fosse stato un po’ più di tempo.

Il giovane, che dei tre era quello seduto più vicino al Kalashnikov,

era balzato in piedi nell’attimo in cui Avner e Steve avevano

fatto irruzione nella stanza. Ma poi aveva alzato le mani sopra la testa.

Sia Avner sia Steve lo avevano visto fare quel gesto, ed era stato

per questo che avevano immediatamente spostato la loro attenzione

sugli altri due.

Vedendo prendere di mira i suoi compagni, il terzo arabo doveva

aver concluso che sarebbe stato ucciso anche lui, qualsiasi cosa

facesse. Questa era una possibilità. L’altra possibilità era che si fosse

confuso. La terza, che si fosse infuriato. Oppure poteva aver

pensato che, dopo la veloce sparatoria, Avner e Steve fossero rimasti

privi di munizioni. Quali che fossero le ragioni, abbassò di scatto

le mani e balzò verso il Kalashnikov.

Avner e Steve fecero fuoco assieme contro di lui. Due volte. Il

giovane era in piedi, e le quattro pallottole, raggruppate in un angusto

spazio, lo presero allo stomaco. Si piegò in due e continuò a contorcersi

sul pavimento. Gli altri due erano già immobili. Potevano

essere trascorsi dieci secondi da quando Avner e Steve erano entrati

nella stanza.
Avevano ucciso o gravemente ferito tre arabi che non figuravano

nella lista.

Sebbene questa idea balenasse per un attimo alla mente di Avner, non c’era
tempo

per preoccuparsene, ora. Infilò un caricatore

nuovo nella Beretta e, facendo cenno a Steve di coprirlo, tentò la

maniglia della porta che dava sulla scala. Era aperta. Levò lo sguardo

in direzione della galleria, pur senza aspettarsi di vedere qualcuno.

Poi scese di corsa una rampa, verso la cantina. Steve rimase in

cima alle scale a coprire Avner, ma anche scoccando di tanto in tanto

un’occhiata ai corpi dei tre arabi nella stanza. Sebbene fossero

stati colpiti almeno due volte ciascuno, era impossibile dire se erano

definitivamente fuori combattimento.

Avner aprì con un calcio la porta ai piedi del pianerottolo. Si

aspettava che fosse sprangata, ma non lo era. Non era neppure chiusa

a dovere. Mentre la porta si spalancava con impeto, si preparò a

vedere la faccia di Salameh e, forse, di Abu Daoud. Due facce che si

era impresse accuratamente nella memoria. O magari, la stanza era

deserta. In tal caso, sarebbe corso più avanti lungo il corridoio, dove

si aprivano altre due porte. Ciò che proprio non si aspettava fu

quel che vide.


Tre preti.

Tre semplici preti seduti a un tavolo, con tanto di collarino. Tre

preti sbalorditi alla vista di Avner che si avventava oltre l’uscio con

una pistola in pugno. Non Salameh e Abu Daoud travestiti da preti.

Tre normali preti svizzeri, due più giovani e uno anziano, con i capelli

bianchi e un volto rubicondo, che lo fissavano come se fosse un

matto.

Tre preti terrorizzati. Avner era certo che dovevano aver udito

almeno l’eco della sparatoria e il tonfo dei corpi che cadevano a terra

sopra le loro teste.

I capi terroristi, naturalmente, potevano trovarsi in una delle

due stanze più avanti sul corridoio. Era possibile. Ma Avner doveva

assolutamente fare qualcosa con quei tre, prima di occuparsi degli

altri.

Prenderli a pistolettate era impensabile.

Doveva chiamare Steve che scendesse a tenerli sotto tiro? No.

Così facendo, i preti avrebbero visto anche lui, ed era già abbastanza

grave che avessero visto Avner. Avrebbe altresì significato ridurre

le forze d’attacco di un altro cinquanta per cento. Più tardi, Avner avrebbe

ricordato che l’idea gli venne, in quel momento, in questi


precisi termini militari: bisognava prendere una decisione di comando.

Avner non poteva occuparsi di due capi terroristi da solo,

con Steve impegnato a tenere sotto tiro tre prigionieri e Hans inutilizzato

sul portale della chiesa. Ma che cosa sarebbe accaduto, se i

preti avessero deciso di spingerlo da parte e di imboccare la porta?

Non sarebbe riuscito a trattenerli da solo, e neppure Steve, senza ricorrere

alla pistola. E tuttavia, il ricorso alla pistola era da escludere

in qualsiasi caso. Agenti israeliani sparano a tre sacerdoti in una chiesa

svizzera -, poteva arrecare più danni al paese di quanti ne avessero arrecati

i mechablim in cinque anni.

Avner prese a indietreggiare, descrivendo nell’aria un minaccioso

semicerchio con la canna della pistola.

La decisione di comando era quella di annullare la missione.

Si avvide che i preti erano troppo raggelati dallo stupore e dalla

paura per poter fare una mossa qualsiasi ancora per qualche secondo.

Forse di più. Ciò avrebbe dato a lui e agli altri il tempo necessario

per scappare.

Uscì indietreggiando dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle

con la sinistra. Corse alle scale, chiamando Steve affinché non

sparasse per sbaglio, poi salì di corsa i gradini, facendo segno al


compagno di seguirlo. Steve lo fissava con gli occhi sgranati, ma

non fece domande. I tre arabi giacevano nella stanza in una pozza di

sangue e latte. Uno dei tre era palesemente ancora in vita, perché si

lamentava, e Avner non poteva esser certo degli altri due. Hans era

accovacciato al riparo di un pilastro nel vestibolo, pistola in pugno.

«Che cos’è successo?»

«Niente» rispose Avner, mettendo via la pistola. «Non c’era

nessuno, solo tre galut.» Per qualche ragione, usò il termine yiddish

per indicare i sacerdoti gentili, anche se l’yiddish non lo parlava

mai. «Forza, filiamo.»

In un paio di secondi erano alle macchine. Non era ancora del

tutto buio. Non dovevano essere rimasti dentro la chiesa più di sette

od otto minuti. «Lucerna» disse Avner a Robert, facendo segno

verso ovest. Il suo sesto senso gli suggeriva che non dovevano tornare

a Zurigo. Aprì la portiera per far salire Hans e Steve, poi attese

che Carl si avvicinasse con la seconda auto.

Percorsero la tortuosa strada di montagna coperta di neve a velocità

moderata. Avner era tentato di gettare tutte le pistole dal finestrino

della macchina, assieme ai candelotti fumogeni, ma poi

cambiò idea. Se fossero incappati in un blocco stradale nei successivi


quaranta minuti, avrebbe voluto dire che i tre preti avevano chiamato

la polizia, e in tal caso gli agenti sarebbero stati in grado di

identificarlo comunque. La soluzione più astuta consisteva nel tenere

con sé tutte le armi su una sola auto, e far salire i compagni sulla

macchina di Carl. Così non ci sarebbe stata la possibilità che

qualcuno collegasse i suoi compagni con la sparatoria nella chiesa.

Era perfettamente inutile che si facessero beccare tutti.

Mentre si fermavano sul ciglio della strada per qualche attimo a

effettuare il trasbordo, Robert disse: «Be’, abbiamo combinato anche

noi una Lillehammer, eh?».

«Che cosa vuol dire: una Lillehammer?» fece Steve, furibondo.

«Mica abbiamo sparato a un cameriere, noi. Abbiamo sparato a tre

terroristi armati di Kalashnikov! Credi forse che quei tizi frequentino

le chiese svizzere per puro divertimento?»

«Va bene, rimandiamo a più tardi» disse Carl. «Per il momento

rimontiamo in macchina.»

Avner decise di dire che proveniva dal Lago di Como, appena al

di là del confine italiano, se fosse stato fermato. Conosceva abbastanza

bene quei luoghi per saperli descrivere, e il passaporto tedesco

con cui viaggiava non doveva necessariamente recare il timbro


del passaggio di frontiera. A meno che non perquisissero la macchina

e non trovassero le pistole, un «Lago di Como» buttato là con

noncuranza avrebbe potuto ottenere lo scopo.

Ma non c’erano posti di blocco lungo la strada per Lucerna.

A Lucerna, si sistemarono nel covo. Avner fece una telefonata

urbana da una vicina cabina pubblica per ordinare a un tale di venire

a prelevare le armi. Poi chiamò il contatto di Papà a Zurigo.

«Non c’erano» disse alla persona che alzò il ricevitore.

«Sì, che c’erano» rispose la persona.

Con questo ebbe termine la conversazione; non c’era altro da

dire. Chi poteva dire se Salameh e Abu Daoud si trovavano a Glarona o no?
Un

cosa era certa, e cioè che dopo quanto era accaduto

nella chiesa non ci si sarebbero fermati a lungo. Steve aveva ragione

riguardo a una sola cosa, senza dubbio alcuno: tre arabi armati in

maglione nero non se ne stavano là per puro divertimento.

«E c’è un altro motivo per cui qui la faccenda non è andata come

a Lillehammer» disse Avner a Robert, una volta al sicuro nel covo.

«E sarebbe?»

«Che noialtri non ci siamo fatti beccare, cazzo!» disse Avner «O

Capitolo 14
Londra

Il mese di maggio del 1974 vide Avner, Carl e Hans a Londra.

Era soltanto la seconda volta che Avner visitava la capitale britannica

dopo i mesi che vi aveva trascorso durante l’addestramento

sul campo. La sua rete personale di informatori si trovava perlopiù

in Germania, con l’eccezione degli uomini di Papà, naturalmente,

così come gli informatori di Hans erano a Parigi e quelli di Carl a

Roma. Londra e Amsterdam erano territorio di caccia di Robert e

di Steve. In pari tempo, i cinque compagni si erano sempre mostrati

alquanto elastici sullo scambio dei rispettivi contatti. Ogni volta

che arrivava al loro orecchio una voce plausibile, veniva spedito a

controllarla chiunque fosse disponibile in quel momento. Erano solo in


cinque,

dopotutto. Benché gli informatori, tutti gli informatori,

non solo gli arabi, fossero più a loro agio quando trattavano sempre

con la stessa persona, generalmente vendevano l’informazione

anche agli altri, se ritenevano così facendo di non correre rischi.

Ora l’informazione era giunta da Londra, ma Robert era impegnato

in Belgio, e si dava il caso che Steve si fosse preso una delle

sue rare licenze di tre giorni per far visita ai genitori in Sudafrica.

Rimanevano Avner, Carl e Hans per controllare la fondatezza della


voce secondo cui Ali Hassan Salameh, di cui si sapeva che soffriva

di una non precisata affezione oftalmica, sarebbe arrivato a Londra

verso la fine di maggio per consultare uno specialista.

Quando i tre sbarcarono nella capitale britannica, il 9 maggio,

un giovedì, Hans si recò in un covo, mentre Avner e Carl presero alloggio

all’Europa Hotel, sull’angolo di Duke Street con Grosvenor

Square. In quel momento non avevano in animo di compiere l’attentato.

Volevano soltanto fare quattro chiacchiere con l’informatore

e condurre qualche ricerca preliminare sull’ambiente. Dove

avrebbe alloggiato Salameh? Dove si trovava lo studio dell’oculista?

Corrispondeva a verità un’altra voce secondo cui Salameh si sarebbe

incontrato con certi suoi contatti in un negozio di elettrodomestici

nel cuore di Londra? Se così era, qual era l’indirizzo esatto del

negozio? Ossessionato dallo spettro di Glarona, Avner voleva essere

sicuro.

Forse Glarona non era stata un’altra Lillehammer, ma era pur

sempre un fiasco, il loro primo fallimento totale. Non solo Salameh

e Abu Daoud se l’erano cavata, ammesso che ci fossero stati davvero,

ma Avner e Steve avevano anche sparato e forse ucciso altre tre

persone. Magari non tre “spettatori innocenti” nel senso rigoroso


del termine - i commandos israeliani provavano di rado grossi scrupoli

di coscienza per il fatto di sparare ad arabi armati di Tokarev e

Kalashnikov - ma comunque persone che non figuravano nella lista.

Era sbagliato. Era un errore. Al di là di qualsiasi argomentazione,

si trattava del genere di sbaglio grossolano che si erano vantati

di non commettere mai.

Ciò che era accaduto a Lillehammer, e in misura minore a Glarona, poneva


in

risalto la validità delle riserve che molti avanzavano

nei confronti delle operazioni di contro terrorismo di qualsiasi tipo.

Quella parte degli israeliani la quale sosteneva la vanità di ipotizzare

che non si sarebbe mai commesso un errore, aveva visto giusto.

Si trattava, dopotutto, della posizione un tempo condivisa anche da

Golda Meir. «Come si può essere sicuri» si diceva ribattesse ogni

volta che veniva tirato in ballo l’argomento «che non ci andrà di

mezzo qualche innocente?»1 La risposta era che proprio non si poteva

essere sicuri.

Ma era anche vero - e poteva essere stata proprio questa l’argomentazione

che alla fine aveva fatto cambiar idea al primo ministro

- che di tutte le misure possibili che comportavano l’uso della forza,

le operazioni selettive di controterrorismo fossero quelle con le


maggiori probabilità di causare in definitiva il minor numero di vittime
innocenti.

«Diavolo, ne abbiamo beccati nove» diceva Steve, ogni volta

che il discorso cadeva sulla faccenda di Glarona. «Nove capi. Quanti

civili avrebbe polverizzato l’aviazione, prima di far fuori nove

terroristi di alto bordo?»

Era abbastanza vero.

Questa argomentazione, però, non teneva conto di un fattore

psicopolitico che aveva un peso notevole nel controterrorismo, come

lo aveva nel terrorismo. L’incidente di Glarona non era finito

sulle prime pagine dei giornali - doveva essere stato messo a tacere

- ma il fatto di sparare a bruciapelo a uno spettatore innocente in

una città dell’Occidente poteva arrecare all’immagine di Israele più

danni di dieci missili terra-aria che causassero decine di vittime tra i

civili durante una scaramuccia in Medio Oriente.

«I piloti dei bombardieri possono agire indiscriminatamente»

commentò Carl. «L’artiglieria può agire indiscriminatamente. Loro

possono persino commettere degli errori. Noi, no.»

Avner e Hans riuscivano a cogliere il significato preciso di questa

argomentazione, mentre Steve e Robert ne erano solo esasperati.

«Per l’amor del cielo,» diceva Robert, «ogni volta che i mechablim
fanno saltare in aria un autobus carico di ragazzini ebrei, gongolano.

Se mitragliano qualche donna ebrea incinta, ne menano vanto.

E non lo fanno per sbaglio: se la prendono di proposito con le donne

e i bambini. Di proposito, per l’amor del cielo! Di cosa stiamo blaterando,


tutti

quanti?»

Era vero anche questo. Il 17 dicembre, appena qualche settimana

prima dell’attento di Glarona, un gruppo di terroristi palestinesi

aveva scagliato bombe incendiarie contro un aereo di linea della

Pan Am, a Roma, bruciando vivi trentadue passeggeri e ferendone

altri quaranta. Poi, l’11 aprile, nella cittadina di Qiryat Sh’mona,

nel nord di Israele, i fedayin avevano dato l’assalto a un edificio


residenziale,

uccidendo diciotto persone e ferendone sedici, tra cui

molte donne e bambini. Quello stesso mese di maggio del 1974 ventidue

bambini avrebbero perso la vita, quando alcuni terroristi del

Fronte Democratico Popolare li presero in ostaggio nella cittadina

di Maàlot, nella Galilea settentrionale. Per i terroristi, il fatto di uccidere

dei civili non era uno sbaglio. Era anzi lo scopo preciso della

maggior parte delle loro operazioni.

«E allora?» replicava Carl a simili argomentazioni. «È proprio


questa la differenza. Vi secca che vi sia una differenza tra i mechablim e
noi? A

me, no.»

Carl sembrava preoccupato per lo scacco di Glarona più di

chiunque altro. Non se ne stava seduto a rimuginare, però appariva

ancor più pensieroso, succhiando la pipa più a lungo del solito prima

di esprimere il suo parere su un piano. Carl il Prudente era diventato

doppiamente prudente, dopo l’episodio svizzero. Avner, dal canto

suo, era d’accordo con lui. Non aveva molta pazienza per le argomentazioni

astratte, ma intuiva che Carl aveva ragione. «Ragazzi,

lasciamo perdere la filosofia, d’accordo?» diceva alla fine di una


discussione.

«Se conoscessimo a fondo la filosofia, insegneremmo

all’università di Gerusalemme per il doppio della paga che prendiamo.

Limitiamoci a parlare di operazioni. È il nostro mestiere.»

A Londra, comunque, non vi fu l’occasione di parlare. Avner

voleva sbrigare il maggior numero di faccende possibile in tre o

quattro giorni, poi rientrare a Francoforte per conferire con Robert

e Steve. Se scoprivano che Salameh sarebbe davvero arrivato alla

fine di maggio, e le circostanze sembravano offrire la possibilità di

usare l’esplosivo, Robert avrebbe dovuto tornare immediatamente


in Belgio a provvedere in merito. Non c’era molto tempo.

Gli accordi erano che si sarebbero incontrati con l’informatore

nell’atrio del Grosvenor House Hotel in Park Lane. Non era stato

fissato un appuntamento preciso; l’uno o l’altro dei tre se ne sarebbe

stato seduto nell’atrio per un paio d’ore, dopodiché qualcun altro

gli avrebbe dato il cambio. Se l’informatore arrivava, chiunque

fosse seduto nell’atrio lo avrebbe adocchiato, poi avrebbe telefonato

agli altri prima di avviarsi tranquillamente al Brook Gate di Hyde

Park. Qui si sarebbe incontrato con l’informatore, il quale lo

avrebbe raggiunto per conto suo. Gli altri due avrebbero fatto da

copertura all’incontro senza avvicinarsi ai due, tanto per esser certi

che l’informatore non fosse pedinato e che non ci fosse il rischio di

cadere in un’imboscata. Era la normale procedura. Stando a quanto

Avner aveva saputo a quel tempo, poteva darsi che l’agente del

Mossad Baruch Cohen fosse morto a Madrid perché per qualche ragione

non era stata seguita la procedura, quando si era recato all’incontro

con uno dei suoi informatori.

L’incontro avrebbe dovuto aver luogo il 9, il 10 o l’11 maggio,

tra le dieci del mattino e le quattro del pomeriggio. Simili accordi

elastici erano tutt’altro che insoliti, benché fossero una spina nel
fianco. Avner cominciava a trovare sempre più tedioso il compito,

spesso insito nel suo lavoro, di starsene di continuo seduto da qualche

parte a “scrutare” l’ambiente. In un primo tempo gli era piaciuto,

perché gli pareva romantico ed eccitante, ma adesso stava diventando

una noia. Forse era solo troppo teso, o stava invecchiando.

Il primo giorno l’informatore non si fece vivo.

Il secondo giorno, un venerdì, dopo che Hans gli aveva dato il

cambio e già stava tornando a piedi all’albergo, Avner ebbe all’improvviso

la sensazione di essere pedinato. Era uscito dalla porta di

servizio del Grosvenor House, si era incamminato lungo Reeves

Mews, poi aveva svoltato a destra in South Audley Street per il breve

tratto fino all’ambasciata degli Stati Uniti. Stava per tagliare

diagonalmente attraverso Grosvenor Square, quando cominciò ad

avvertire la presenza di qualcuno che camminava alle sue spalle.

Non era cosa insolita, a Londra, ma Avner si sentiva gli occhi di

quella persona fissi sulla nuca. Era una sensazione fisica, come di

solletico, e lì per lì cercò di scacciarla con le dita; un istante più tardi,

si rese conto di ciò che doveva essere.

Avner aveva sempre preso molto sul serio gli avvertimenti del

suo sesto senso. Di regola, non erano mai falsi allarmi. Quando il sesto
senso lo metteva in guardia il pericolo esisteva realmente. Una

volta, quando era ancora un agente senza importanza incaricato di

consegnare del denaro a certi informatori, aveva lasciato un covo di

Monaco nel cuor della notte senza una ragione precisa. Era appena

entrato, con l’idea di andare a letto, quando d’un tratto il suo sesto

senso gli aveva detto di far fagotto immediatamente e andarsene da

lì. Lo aveva fatto e, appena girato l’angolo, aveva visto alcune auto

della polizia tedesca fermarsi davanti alla casa. Stavano facendo

una retata.

Avner non aveva mai pensato che ci fosse qualcosa di misterioso

nel suo sesto senso; lo riteneva semplicemente più sensibile del normale

a certi lievi segnali. Poteva darsi che altri non li percepissero,

ma lui riusciva a captare i segnali, quasi inconsciamente, dopodiché

metteva al lavoro il cervello per decifrarli in qualche modo. A Monaco,

per esempio, poteva essersi trattato dell’occhiata che gli aveva

lanciato la donna che gestiva il covo quando era entrato in casa.

Se prevedeva l’eventualità di una retata, poteva esserci stato qualcosa

nel suo sguardo che di lì a qualche secondo aveva fatto scattare

l’allarme nella mente di Avner, senza che lui sapesse esattamente

perché.
Ora, non si girò. Anziché tagliare per il parco - un tragitto a piedi

di neppure cinque minuti per raggiungere l’Europa Hotel - proseguì

lungo North Audley Street. Non aveva il minimo dubbio di

essere ancora seguito, ma per quanto tentasse di sbirciare la persona

che lo tallonava nelle vetrine dei negozi e nei parabrezza delle auto

di passaggio, non ci riusciva. Non credeva che lo avrebbero assalito

in pieno giorno. E certamente non all’angolo di North Audley con

Oxford Street. Però non si poteva mai sapere. Avner avrebbe voluto

avere un’arma con sé e sperava che chiunque lo pedinasse lo credesse

armato.

A meno che a pedinarlo non fosse il controspionaggio britannico.

Era una possibilità. Nel qual caso, se il loro informatore non si

fosse fatto vivo quel giorno, sarebbe stato più saggio, da parte loro,

lasciare l’Inghilterra il mattino seguente. Avrebbe sempre potuto

occuparsi Robert della faccenda, quando fosse tornato dal Belgio.

Avner svoltò a destra in Oxford Street e si diresse verso Oxford

Circus. Se c’era ancora qualcuno che lo seguiva, quando fosse arrivato

alla stazione della metropolitana di Bond Street, vi si sarebbe

infilato e magari avrebbe raggiunto con la sotterranea Finsbury

Park. Avevano un covo in Crouch End. Prima o poi, avrebbe seminato


chiunque lo stesse pedinando.

Già prima che arrivasse all’altezza di Duke Street, tuttavia, la

sensazione di solletico era sparita. Svanì all’improvviso, così

com’era venuta. Per precauzione, comunque, Avner non rientrò

all’Europa, ma entrò in un ristorante dove potesse sedere presso la

finestra. Ordinò una tazza di tè e continuò a tener d’occhio per

un’oretta la gente che era venuta a far compere in Oxford Street.

Niente. A quanto gli risultava, niente.

Era strano. Non aveva ancora fatto una mossa per seminare

chiunque lo stesse seguendo, quando la sorveglianza si era interrotta.

Tanto per cominciare, avrebbe anche potuto sbagliarsi ritenendo

che qualcuno lo pedinasse, ma Avner non lo credeva.

C’era qualcosa che non andava, di qualunque cosa si trattasse.

L’informatore continuò a non farsi vivo, e Avner andò a cena di

buon’ora con Hans e Carl in un localino la cui specialità era il curry,

scoperto da Carl in Marylebone Lane. Avner non andava matto per

il curry, ma Carl ultimamente si era scoperto una vera passione per

la cucina indiana e pakistana. Forse c’entrava in qualche modo la

metempsicosi.

Anche se quel particolare argomento non venne tirato in ballo


durante la cena, la conversazione toccò argomenti affini, anch’essi

di carattere mistico. Carl appariva di umore strano, e persino Hans

ne fu contagiato. Per esempio, quando Avner accennò alla sensazione

di essere pedinato da qualcuno che aveva avvertita in precedenza,

quel pomeriggio, nel giro di qualche istante il discorso, chissà

come, cadde sulle “sensazioni”. Era una conversazione quasi frivola.

Pur senza voler liquidare le implicazioni pratiche dell’esperienza

di Avner, Hans, e soprattutto Carl, la tradussero in una parte di un

discorso più generale che quella sera sembrava preoccuparli. Qualcosa

di trascendentale.

«Le sensazioni possono essere qualcosa di molto potente» disse

Carl. «Prendiamo la levitazione, per esempio. Credi che riuscirei a

levitare, se mi ci concentrassi sul serio con la mente?»

«Non ne ho proprio idea, Carl» rispose Avner un po’ spazientito.

«Dovresti provare, una volta o l’altra. Potrebbe essere spassoso.

Che ne diresti di farlo a missione compiuta?»

Carl scoppiò a ridere, e Hans disse: «Magari era Carlos, quello

che ti seguiva oggi pomeriggio. Magari ha fatto un salto qui a Londra

a trovare sua madre». L’ipotesi non era del tutto da scartare,

perché si sapeva che la donna, la signora Sanchez, era proprietaria


di una boutique in una delle più eleganti strade londinesi dei paraggi.

Anche se era improbabile che Carlos venisse a trovarla in quella

fase della sua carriera, certamente si era fatto vivo di persona a Londra,

poco più di quattro mesi addietro, per portare a termine due

operazioni terroristiche: in dicembre l’attentato a Sir Edward

Sieff, presidente della Marks & Spencer ed esponente sionista britannico;

in gennaio un attentato con una bomba ai danni della sede

londinese della banca israeliana Hapoalim, in cui era rimasta ferita

una

donna.

«Sentite,» disse Avner, «Carlos o no, non mi va l’aria che tira

qui. Sono due giorni ormai che bazzichiamo quell’albergo. Il nostro

uomo non si è fatto vivo, ma qualcuno potrebbe averci notato. Suggerisco

di andarcene domattina. Tra qualche giorno possiamo spedire

qui Robert e Steve a fare un altro tentativo.»

Avner aveva ragione; se nel frattempo erano stati individuati

sarebbe stata una pazzia insistere. Avrebbe potuto persino mettere

in pericolo l’informatore. Conveniva affidare a'qualcun altro l’incarico

di tentare di stabilire il contatto, di lì a qualche giorno. Carl e

Hans non sollevarono obiezioni, ma Hans disse: «Senti, io sto in un


covo e so per certo di non essere stato seguito da nessuno. Avevamo
stabilito di incontrarci con quel tizio il 9, il 10 o l’11. L’11 è domani.

Perché tu e Carl non partite in mattinata, mentre io mi trattengo

fino al pomeriggio?».

«Per incontrarlo da solo?» Avner scosse la testa. «Troppo pericoloso.»

«Fidati di me» disse Hans. «Sarò prudente. Non ci resta molto

tempo.» Avner acconsentì, sia pure con riluttanza.

Carl e Avner dividevano un appartamento d’angolo all’Europa

Hotel: due camere separate, con un salottino in comune. Dal corridoio

si accedeva direttamente al salottino per una porta a due battenti.

Sulla parete di fronte all’ingresso, un’altra porta che si poteva

chiudere a chiave dava nella stanza di Avner, mentre sulla sinistra

una terza porta immetteva nella camera di Carl. Le due stanze


comunicavano

solo per mezzo del salottino.

Nel 1974, l’Europa Hotel non aveva ancora subito i restauri

che ne avrebbero trasformato l'Etruscan Bar. A quel tempo i divani

e le poltrone del bar erano rivestiti di finta pelle scura, e alla parete

era appeso un grande quadro il cui soggetto era 11 ratto di Europa.

Carl, che non era un gran bevitore, amava comunque sorseggiare

tranquillamente un bicchiere di birra, alla sera, e a volte se ne stava


seduto al bar per un quarto d’ora o una ventina di minuti prima di

andare a letto.

Quella sera, dopo cena, Avner lasciò Carl e Hans al ristorante

per andare in cerca di qualche ricordino per Shoshana. Rientrò

all’albergo verso le dieci. Prima di salire in camera sua, diede un’occhiata

all’Etruscan Bar per vedere se c’era Carl. A dire il vero, dopo

il curry Avner aveva voglia anche lui di un bicchiere di birra.

Carl non era seduto al bar, ma c’erano alcuni sgabelli liberi accanto

a quello su cui era appollaiata una bionda snella. Una giovane

donna che doveva aver passato da poco la trentina, con i capelli lisci

lunghi fino alle spalle e tranquilli occhi azzurri. Una donna che faceva

colpo, proprio il tipo di Avner.

Avner sedette sullo sgabello accanto a lei e ordinò un bicchiere

di birra.

La prima cosa che lo colpì, ancor prima di attaccar discorso con

lei, fu che la ragazza posò la borsetta dall’altra parte del banco, dopo

che Avner le si era seduto accanto, e poi gli girò a mezzo le spalle

quando vi frugò dentro in cerca di un pacchetto di sigarette. Non

era certamente un gesto sospetto, solo qualcosa che Avner registrò

casualmente nei recessi della mente.


La seconda cosa che lo colpì fu il suo profumo. Era una fragranza

singolare, muschiata. Abbastanza gradevole, in realtà, ma piuttosto

insolita.

La loro conversazione si tenne sul vago, i soliti discorsi tra sconosciuti

che parlano del più e del meno, seduti al banco di un bar.

Avner l’aprì con un commento sul tipo di bicchiere in cui il barista

decise di servire la birra. La ragazza bionda lanciò una risata sommessa;

e aggiunse qualcosa di vagamente ironico. Parlava inglese

con un leggero accento straniero, che avrebbe potuto essere tedesco

o scandinavo. Offrì una sigaretta ad Avner, che rifiutò. Era tutt’altro

che aggressiva, però sembrava in vena di chiacchierare. Per

qualche minuto parlarono di moda femminile. Avner non era

granché interessato all’argomento, ma aveva scoperto qualche tempo

addietro che era un sistema facile per tener viva la conversazione

con molte donne.

E lui voleva tener viva la conversazione. La ragazza aveva una

carnagione molto chiara, con una spruzzatina di efelidi attorno al

naso. Portava la camicetta di seta verde con due bottoni aperti sulla

gola, ancora troppo in alto per lasciar intravedere il solco del seno;

ma mentre si girava un tantino sullo sgabello, la linea del seno minuto


parve salda e ben modellata. Una bella biondina. Inutile negarlo.

Avner sarebbe stato felicissimo di portarsela a letto. Shoshana era

lontanissima, e in quel momento Avner riuscì persino a convincersi

di soffrire di solitudine.

Magari le avrebbe chiesto di salire in camera sua, se non l’avesse

suggerito lei per prima.

«E un piacere parlare con lei» disse la ragazza. «Perché non saliamo

in camera sua a bere qualcos’altro?»

Avner era quasi certo che la ragazza non era una squillo. Riusciva

sempre a riconoscere una prostituta a cento metri di distanza,

sottovento, anche se era di alto bordo; e le prostitute non gli interessavano.

Si era messo a chiacchierare con quella ragazza proprio

perché si capiva che non era una prostituta. Naturalmente, poteva

trattarsi di una di quelle ragazze scandinave moderne, senza peli

sulla lingua, di cui Avner aveva sentito parlare più di quanto avesse

avuto occasione di conoscerne. Era una possibilità. Però c’erano altre

possibilità. Avner era ancora un po’ nervoso per via del sospetto,

avuto ore prima, di essere seguito.

«Eh, sarebbe bello» le disse. «Ma non posso, Devo alzarmi prestissimo

domattina. Mi creda, dispiace più a me che a lei.»


Effettivamente gli dispiaceva, e come. Si diede del cretino,

mentre scendeva dallo sgabello e posava il denaro sul banco. La ragazza

bionda neppure tentò di fargli cambiare idea, si limitò a scrollare

le spalle, sorridendo. Avner si portò il suo profumo nelle narici

fino all’ascensore.

Proprio mentre stava per premere il pulsante di chiamata, le

porte dell’ascensore si aprirono, e ne uscì Carl. «Sali di già?» domandò

ad Avner. «Stavo giusto andando al bar a bere un bicchiere

di birra.»

«Magari ci vediamo più tardi» disse Avner, tenendo la porta

aperta. «Vorrei scrivere un paio di cartoline.» Entrò nell’ascensore,

lasciando chiudere le antine scorrevoli.

Avner rimase in camera sua una mezz’ora a scrivere una cartolina

a Shoshana poi, per un’abitudine ormai inveterata, a fare la valigia

in modo da non doversene preoccupare al mattino. Accese il televisore

e rimase a guardarlo per qualche minuto, ma era troppo irrequieto

per mettersi tranquillo. Allora decise di scendere di nuovo,

a impostare la cartolina per Shoshana. Non c’era tanta fretta in

realtà, ma forse intendeva espiare per aver pensato alla ragazza

bionda del bar. E poi se ne sarebbero andati il mattino seguente, e


c’era il rischio che se ne scordasse. Gli piaceva spedire una cartolina

a Shoshana da ogni città che gli capitava di visitare. In un certo senso

era ancora motivo d’orgoglio, per lui, il fatto di viaggiare tanto:

un kibbutznik adibito al taglio delle zampe dei polli nel Deserto di

Giuda che spediva cartoline da tutte le grandi capitali del mondo.

Avner preferiva non consegnare la sua corrispondenza all’impiegato

della portineria, sicché attraversò la strada per raggiungere

il punto in cui ricordava di aver visto una cassetta postale. Era una

bella notte, e una volta infilata la cartolina nella fessura ristette

sull’angolo per qualche istante a guardare gli alberi scuri sulla piazza,

a riempirsi d’aria i polmoni. Poi riattraversò la strada in direzione

dell’albergo, salì i pochi gradini per dare un’occhiata all’Etruscan Bar.


Poteva

darsi che Carl fosse ancora là.

Ma non era seduto al bar, al posto dove si metteva di solito, e

neppure a uno dei tavolini.

Non c’era neppure la ragazza bionda.

Avner tornò ad avviarsi all’ascensore. Nell’attimo in cui vi mise

piede, fiutò il sentore muschiato del profumo della ragazza bionda.

Oh, be’. Doveva essere salita in camera sua; poteva darsi benissimo

che alloggiasse anche lei all’albergo. Poteva persino darsi che avesse
una stanza sullo stesso piano, pensò Avner, dato che avvertì ancora

il suo profumo nel corridoio che portava al loro appartamento d’angolo.

Quando aprì la porta per cui dal corridoio si accedeva al salottino

che divideva con Carl, la fragranza muschiata lo investì con violenza.

Era più intensa che nell’ascensore. Era inequivocabile.

Poteva voler dire solo una cosa.

Carl si era portato su la ragazza, in camera sua. Doveva averlo

fatto. Probabilmente solo da qualche minuto, mentre Avner era

uscito a imbucare la cartolina.

Avner entrò nel salottino e tese l’orecchio, ma l’unico rumore

che riuscì a cogliere fu il lieve ronzìo del televisore che non aveva

spento. Per un attimo gli parve anche di udire una risata di donna

nella stanza di Carl, ma non poteva esserne certo. Be’, non faceva

alcuna differenza comunque. Se Carl aveva invitato in camera la ragazza

bionda, non c’era niente di strano. Aveva tutto il diritto di

farlo, per quanto riguardava Avner. Non era di certo affar suo.

Avner aprì la porta della sua camera ed entrò.

Figurarsi, Carl che invitava la ragazza bionda. Carl il Prudente.

Carl il marito perfetto; Carl, che comprava ricordini per sua moglie

e la bambina persino più di quanti ne comprasse Avner per Shoshana. Carl,


che
aveva passato la quarantina, che sembrava non guardasse

mai una ragazza, che nel tempo libero non faceva altro che

leggere i suoi libri e fumare la sua pipa. Se si fosse trattato di Steve,

o di Robert, o persino di Avner, non ci sarebbe stato da stupirsi.

Per certi uomini era una tortura dover rinunciare alle donne.

Ma Carl?

E che dire della ragazza bionda, riguardo alla quale Avner nutriva

sentimenti tanto ambigui? La ragazza che non era una prostituta,

eppure aveva proposto ad Avner di bere un bicchiere assieme

meno di un’ora prima di salire in camera con Carl - Carl che era stato

di umore strano, vulnerabile per tutto il giorno. Vero, Carl aveva

un sesto senso acuto al pari di quello di Avner, ma quella sera poteva

darsi che avesse abbassato la guardia. Forse, pensò Avner, dopotutto

avrebbe dovuto intervenire. Era lui, il capo.

Sarebbe bastato alzare il ricevitore del telefono sul comodino e

fare il numero della camera di Carl. «Ehi, Carl? Mandala via. Si

parte presto, domattina. Spiacente, ma è un ordine.» Tutto qui.

Solo che Avner non lo fece.

Non riuscì a costringersi a farlo. Carl avrebbe obbedito, ma forse

mandandolo a quel paese. Magari avrebbe pensato che Avner era


geloso, o che avesse i nervi logori.Non esistevano regole severe in

fatto di donne, di sesso. Il consiglio più ovvio era di non farlo, ma

tutti sapevano che non sempre il consiglio veniva seguito. Gli esseri

umani avevano certe esigenze; c’era persino chi sosteneva che sarebbe

stato troppo pericoloso per gli agenti soffocare completamente

i loro bisogni. Sarebbe servito solo a distrarli al punto di renderli

inutilizzabili.

E poi, che cosa c’era di male?

Avner si spogliò e guardò un po’ la televisione. Non si udiva alcun

rumore dall’altra stanza, attraverso la parete comunicante.

Quando spense il televisore, continuò a non udire nulla. A un certo

punto spense la luce e si addormentò. Dormì sodo come al solito.

Riaprì gli occhi verso le sette e mezzo. Era ora di fare la doccia e

vestirsi. La valigia era già pronta, e Avner dovette solo infilarci lo

spazzolino da denti e l’astuccio con l’occorrente per farsi la barba

prima di chiudere la cerniera lampo. Generalmente preferiva scendere

a far colazione al ristorante anziché farsela servire in camera, e

prima di uscire bussò alla porta di Carl per sentire se intendeva


raggiungerlo.

Non ebbe risposta. Nel salottino, Avner poté ancora avvertire

un lieve scia del profumo muschiato della ragazza bionda.


Dopo colazione, risalì in camera. Aveva indugiato davanti al

caffè aspettandosi che Carl scendesse, ma così non era stato. Si stava

facendo tardi. Che la ragazza fosse ancora in camera sua o meno,

era ora che Carl si muovesse. Avner prese a bussare con insistenza

alla porta.

Non ebbe risposta.

Avner si sforzò di conservare la calma. Chiaramente, c’era qualcosa

che non andava. Carl non era un dormiglione, in nessun caso, e

non avrebbe mai perso un aereo rimanendo a letto più del solito.

Nessuno di loro lo avrebbe fatto. Avner aspirò a fondo e andò a

chiudere la porta a due battenti tra il salotto e il corridoio. Chinandosi,

infilò una carta di credito tra il nottolino della serratura e lo

stipite della porta di Carl. Non sarebbe stato sufficiente, se la porta

era chiusa a chiave dall’interno.

La porta non era chiusa a chiave.

Avner entrò. Carl giaceva supino sul letto, sotto le coperte.

Aveva gli occhi chiusi. Quando Avner tirò indietro la coperta, vide

immediatamente il forellino stellato di un proiettile sparato a distanza

ravvicinata. Attorno alla ferita c’era del sangue raggrumato,

e un alone bruciacchiato di polvere nera. Carl era stato colpito in


pieno

petto

ed

era

chiaramente

morto.

Capitolo 15

Hoorn

Avner se ne stette a guardare il cadavere del compagno per qualche

attimo, poi rimise a posto la coperta. Le cose che fece subito dopo

furono del tutto automatiche. Eseguì una veloce perquisizione

dell’appartamentino, senza aspettarsi di trovare qualcosa o qualcuno.

Controllò che le imposte e le tende fossero ben chiuse. Prese la

chiave della camera di Carl dal cassettone e staccò il cartello con la

scritta «Non disturbare» dalla maniglia della porta. Uscì dalla stanza,

chiudendo la porta a doppia mandata dall’esterno. Poi chiuse la

seconda porta, quella che dava sul corridoio, e appese il cartello di

fuori. Erano solo le nove. Il cartello avrebbe tenuto lontane le donne

delle pulizie almeno per un altro paio d’ore.

Lasciò l’albergo per la porta di servizio, senza passare dalla portineria.


Dal più vicino telefono pubblico chiamò due numeri. Il primo

era quello del covo di Hans. «Spiacente, Hans» disse, appena il

compagno alzò il ricevitore. «Il cinema è chiuso stasera. Ne parliamo

più tardi.» Interruppe subito la comunicazione. Era un messaggio

prestabilito di estremo pericolo, e Avner sapeva che quando

l’avesse ricevuto Hans avrebbe lasciato il paese al più presto e sarebbe

tornato a Francoforte.

Il secondo numero che chiamò era quello di Louis, a Parigi.

Per fortuna il francese c’era. «Ho monetine sufficienti solo per

tre minuti» disse Avner «per cui mi domando se non potresti richiamarmi

tu. Uno dei miei compagni è morto.» Diede a Louis il numero

della cabina telefonica, e attese. Il telefono squillò di lì a un quarto d’ora.

Era Papà in persona.

«Torna in albergo e aspetta» disse il vecchio dopo che Avner gli

ebbe spiegato quanto era accaduto. «Metti via tutto. La tua valigia,

la sua. Aspetta. Verrà uno dei miei, busserà tre volte. Non far niente,

tu piges?»

«Capisco» disse Avner. «Grazie.»

Tornò all’albergo, sgattaiolando di nuovo per la porta di servizio.

Risalì nell’appartamento, lasciando il cartello con la scritta


«Non disturbare» appeso alla maniglia. Si guardò attorno per accertarsi

che non fosse entrato nessuno nelle camere dopo che se n’era

andato. Poi, lentamente, metodicamente, sgombrando il cervello

da ogni altro pensiero, raccolse e mise via gli effetti personali di

Carl. Portò le valigie in camera sua e le depose accanto alle sue.

Tornò nella camera di Carl, chiuse a chiave la porta dall’interno

e sedette accanto al letto a osservare l’amico. D’impulso, tornò a

scostare le coperte e si costrinse a fare scorrere lo sguardo sul corpo

nudo di Carl. Un bell’uomo, Quarant’anni suonati, ma saldo, ben

fatto, senza un filo di grasso superfluo. Aveva un portamento un

po’ ingobbito, ma ora non si vedeva.

Che cosa poteva essere successo? L’aveva già scopata (l’espressione

“fare all’amore” proprio non si adattava alle circostanze)

quando gli avevano sparato? Avner non se la sentì di esaminare più

attentamente i genitali di Carl e, in ogni caso, non era sicuro di riuscire

a stabilirlo. Gli guardò le mani, le unghie. Carl era disarmato,

ma probabilmente avrebbe opposto una feroce resistenza se si fosse

accorto di essere aggredito. Era scattante e perfettamente addestrato

a battersi a mani nude.

Ma ciò con avrebbe contato, se fosse stato preso alla sprovvista


o gli avessero sparato nel sonno. Sembrava che le mani non recassero

segni di sorta. Né ferite né graffi a indicare che si era difeso. Né

capelli né filamenti di pelle sotto le unghie. Perché era stato ucciso?

Era stata la bionda a sparargli? Avner non aveva il minimo dubbio

che la ragazza fosse passata per la camera di Carl; ne avvertiva ancora

il profumo muschiato. Però Carl poteva essere stato ucciso da

qualcun altro, dopo che lei se n’era andata.

La donna era salita nella sua camera per ucciderlo o per metterlo

in condizione di essere ucciso? O voleva soltanto farsi scopare? Ma

Carl era prudente e osservatore: che avesse notato qualcosa, in lei,

che la ragazza non voleva far sapere a nessuno? Era possibile, per

esempio, che Carl avesse frugato nella sua borsetta mentre lei era in

bagno, e che lei lo avesse visto farlo? Se Carl aveva scoperto qualcosa

di sospetto - una pistola, uno strano passaporto - poteva darsi

che non ne avesse fatto parola con lei. E lei, giocando a sua volta

d’astuzia, poteva aver fatto finta di non aver notato che lui lo aveva

notato... e poi, bang! Mentre se ne stava disteso nel letto, a luci

spente. Le sarebbe bastata una frazione di secondo.

Pure e semplici illazioni. Chi poteva dire?

E se fosse stato Avner a portarsi in camera la bionda? Ora se ne


sarebbe stato disteso sul suo letto, come Carl, con un foro di proiettile

nel petto?

Era più che possibile.

Ma perché mai Carl - proprio Carl - aveva fatto una cosa del genere?

Carl il Prudente, e anche Carl il Radar, come lo aveva soprannominato

Steve, perché capitava che alzasse gli occhi dal suo libro e

dicesse: «Ragazzi, qualcuno sta per suonare il campanello» e, sicuro

come l’oro, un minuto dopo qualcuno suonava. Carl, che poneva

come regola inderogabile quella di non portare mai nessuno in un

covo o in una camera d’albergo mentre si era in missione. Una volta

che Robert, imbattutosi per strada in un vecchio amico, se l’era

portato a casa, a Francoforte, Carl si era talmente infuriato, venendolo

a sapere, che non aveva rivolto la parola a Robert per una settimana.

Allora, Avner aveva difeso Robert perché riteneva che, date

le circostanze, sarebbe stato più sospetto da parte di Robert non invitare

il caro, vecchio amico a fare un salto a casa sua. Ma Carl si era

mostrato inflessibile in proposito, e probabilmente aveva ragione.

Eppure era toccato proprio a Carl di cadere nella trappola del

sesso, il trucco più vecchio e più ignobile del mondo.

Magari conosceva la bionda? Carl aveva un gran numero di contatti,


più di tutti gli altri, dato che faceva quel mestiere da più tempo.

Che la bionda fosse persona che conosceva e di cui si fidava?

Quanto ne sapeva realmente, di Carl, prese a domandarsi Avner, osservando


i

tratti del compagno, un tempo così familiari e ora

congelati nel chiuso, impenetrabile, misterioso stampo di chi è morto

da poco. Probabilmente, più di quanto sapesse degli altri, perché

erano stati compagni di stanza e avevano condiviso il peso della


programmazione,

la responsabilità del gruppo. Ma anche così, Avner

non ne sapeva molto. Carl era nato ad Amburgo, se Avner ricordava

bene, ed era stato mandato in Israele dai genitori sul finire degli

Anni Trenta, quando aveva appena sei o sette anni. Era cresciuto in

casa di una zia e di uno zio, a Nahariya. Aveva frequentato un istituto

agricolo non meglio specificato, dopodiché aveva fatto il servizio

militare. Era rimasto sotto le armi in qualità di istruttore finché

non era stato pescato dal Mossad. Suonava il violino. Leggeva una

quantità di libri. Divorziato dalla prima moglie, una tedesca non

ebrea la quale - Avner ricordava quando Carl gliene aveva parlato -

odiava i nazisti ed era emigrata in Israele dopo la guerra, ma a un

certo punto aveva avuto un esaurimento nervoso e aveva dovuto essere


ricoverata. In seguito, aveva sposato una ragazza cecoslovacca

che aveva già una figlia da un precedente matrimonio. Avner sapeva

che Carl adorava la figlia adottiva perché, ogni volta che ne aveva

il tempo, le scriveva lunghe favole illustrate da disegni tracciati

con sottili tratti di matita. Almeno una volta al mese le spediva una

favola a Roma, dove la bambina viveva con la madre.

Era tutto ciò che Avner sapeva. Oltre al fatto che ora Carl giaceva

morto sul letto di una camera d’albergo di Londra.

Per un attimo Avner s’infuriò con lui a tal punto da serrare


involontariamente

i pugni. Avrebbe voluto scuoterlo, urlargli qualcosa,

tirargli un cazzotto in faccia. Povero onesto prudente coraggioso

Carl. Carl il Radar. Carl il Credulone. Carl, che si domandava se sarebbe

riuscito a levitare.

Carl che dopo l’attentato a Zwaiter, quando tutti gli altri si congratulavano

a vicenda nel covo di Latina, aveva detto loro: «Ragazzi,

fossi in voi non farei salti di gioia. Abbiamo appena ucciso un uomo.

Non c’è proprio niente da festeggiare».

Nessuno di loro avrebbe avuto una sortita del genere, solo Carl.

E nessuno di loro avrebbe accettato il rimbrotto da altri che non

fosse Carl. Lui aveva tutto il diritto di dirlo. Carl aveva il diritto di
dire qualsiasi cosa.

Ora Carl era morto. Ma la missione sarebbe continuata. E

chiunque avesse ucciso Carl, avrebbe pagato.

L’uomo di Papà, anzi gli uomini, tre per la precisione, arrivarono

una mezz’ora più tardi. Bussarono alla porta tre volte, e Avner li

fece entrare. Parlavano in inglese con Avner, ma in italiano tra loro.

Si erano procurati un grande carrello portabagagli e un sacco di plastica

nera.

«Adesso puoi andartene» disse ad Avner quello che sembrava il

capo. «Dammi le chiavi, della sua stanza e della tua. Non passare

per la portineria e non preoccuparti del bagaglio.» Diede ad Avner

un indirizzo di Londra. «Aspettaci qui. Pagheremo noi il tuo conto

e ti consegneremo le valigie stasera.»

Il più vecchio degli italiani era vestito di nero e parlava col timbro di voce
cupo di

un impresario di pompe funebri. Magari era proprio

quella la sua vera occupazione. Avner ricordò quanto gli aveva

detto Papà in occasione di uno dei loro incontri: «Perché vuoi scavare

una fossa? Te lo mando io un becchino. Per un piccolo compenso,

n’est-ce-pas?». Chi poteva dire dove sarebbe finito il corpo di

Carl? Ma era l’unica soluzione. Non si potevano metter di mezzo le


autorità britanniche: avrebbe significato la fine della missione. Peggio

ancora, avrebbe potuto compromettere Israele nella maniera

più imbarazzante.

«Dovrebbe esserci un bossolo, da qualche parte» disse Avner.

«E macchie di sangue sulle lenzuola.»

«Non preoccuparti» replicò l’uomo di Papà. «Ci occuperemo

noi di tutto.»

Avner non aveva dubbi che lo avrebbero fatto. Corrompendo

qualcuno o ricorrendo al furto, o con tutte e due le cose insieme. Il

denaro poteva tutto, anche a Londra, e sicuramente non mancavano

i dipendenti d’albergo che si lasciavano convincere a chiudere

un occhio. Entro domani l’appartamento d’angolo sarebbe stato

immacolato, pronto ad accogliere altri ospiti.

D’altro canto, niente avrebbe potuto riportare in vita Carl.

Incontrando i compagni a Francoforte, tre giorni dopo, Avner

era persuaso che avrebbero dato a lui la colpa della morte di Carl.

Certamente, Avner incolpava se stesso. Dopotutto aveva avuto

qualche cattivo presentimento riguardo alla ragazza. Altrimenti se

la sarebbe portata lui in camera. Non era suo dovere mettere in

guardia Carl, senza preoccuparsi di ciò che Carl avrebbe potuto


pensare di lui? Non partecipava a un concorso per il titolo di personaggio

più amato dal pubblico. Essere il capo di una missione voleva

dire avere il coraggio di prendere decisioni che potevano anche

non andare a genio agli altri. Un tipo di coraggio diverso da quello

richiesto per affrontare il fuoco nemico, ma pur sempre coraggio.

Avner non lo aveva avuto, sicché la morte di Carl era colpa sua.

Ma i suoi compagni non sembravano pensarla così.

Erano sconvolti, rattristati e rabbiosi, anche se ciascuno in modo

diverso. Hans borbottò qualcosa a proposito del fatto che chi di

spada ferisce di spada perisce, ma subito Steve gli si scagliò contro

infuriato:

«Non voglio sentire questo genere di ipocrisie di merda» urlò.

«Di quale spada hanno ferito i bambini di Qiryat Sh’mona? La maggior

parte della gente ammazzata dai tnechablim non ha mai impugnato

un’arma. Lo sai benissimo come lo so io.» Poi, calmandosi un

po’, disse: «Il povero Carl avrebbe dovuto andare un po’ più a donne.

Così non si sarebbe lasciato accalappiare dalla prima maledetta

sgualdrina che gli faceva l’occhiolino».

«Sei sicuro» domandò Robert ad Avner «che gli abbia sparato

lei? O che lo abbia messo in condizioni di farsi sparare?»


«Credo di sì,» rispose Avner, «ma no, non sono sicuro. Sarò sicuro,

appena scoprirò chi è e che cosa fa per guadagnarsi da vivere.»

«E la missione?» domandò Hans. «È sospesa?»

Era la domanda più importante per il loro futuro immediato.

Avner la soppesò attentamente.

«Per quanto mi riguarda, no» finì col rispondere. «Comunicheremo

la morte di Carl, naturalmente. Se non avremo, e finché non

avremo, ordini in merito, continueremo. Nel frattempo, però, voglio

anche scoprire qualcosa sulla ragazza. D’accordo?»

Fecero segno di sì con la testa, rendendosi conto, senza che Avner dovesse
dirlo

apertamente, che la decisione di «scoprire qualcosa

sulla ragazza» non sarebbe stata comunicata a Tel Aviv. In un

certo senso, era una faccenda privata. Non aveva niente a che fare

con la missione.

Il giorno dopo, volarono tutti e quattro a Ginevra. Avner lasciò

un messaggio per Ephraim in una delle cassette di sicurezza, poi, attingendo

per la prima volta al suo conto personale, prelevò diecimila

dollari in contanti. Gli altri prelevarono la stessa cifra dai loro

conti personali. Anche se, logicamente, non potevano toccare il

conto di Carl, Ephraim avrebbe fatto in modo che a tempo debito


la vedova ricevesse il denaro che vi era depositato. Nel frattempo, i

quattro volevano farle pervenire quarantamila dollari di tasca loro,

assieme agli effetti personali di Carl. La stessa sera, Hans e Steve

volarono a Roma a farle visita. Sebbene ad Avner fosse venuto in

mente che, come capo, avrebbe dovuto essere lui a darle la notizia,

vi rinunciò. Ammesso che cose del genere si potessero sbrigare in

qualche modo, Hans era sicuramente in grado di sbrigarle meglio.

Avner decise allora di recarsi in aereo a Parigi.

Cominciò con l’incontrarsi con Louis per saldare le spese di

Londra. Poi gli fornì una descrizione della bionda. Neanche una

settimana dopo Louis si mise in contatto con Avner, dicendo che

aveva quattro fotografie da mostrargli. Erano normali stampe in

bianco e nero, una delle quali chiaramente scattata col consenso del

soggetto, mentre le altre tre avevano più l’aria di essere state scattate

col teleobiettivo da qualcuno che svolgeva un servizio di sorveglianza.

Avner scartò subito una di queste tre, perché palesemente

non ritraeva la donna di Londra. Esaminò molto attentamente le altre.

I connotati delle donne ritratte in tutte e tre le foto corrispondevano

alla descrizione che aveva dato a Louis, almeno in via generale.

Il fatto che le fotografie fossero in bianco e nero non aveva


molta importanza, perché la cosa più aleatoria, in molte donne, è il

colore dei capelli o, in un’era di lenti a contatto, persino il colore degli

occhi. Avner si scoprì a desiderare che le fotografie avessero una

dimensione olfattiva: sapeva che sarebbe stato ancora in grado di

riconoscere quel profumo. Stante la situazione, gli ci volle qualche

minuto per additare una delle foto. Ritraeva una giovane donna che

usciva da una drogheria di Parigi.

«Questa» disse a Louis. «Chi è questa ragazza?»

«Sono contento che tu abbia individuato questa» disse il francese,

invece di rispondere direttamente alla domanda di Avner.

«Perché?»

«Una delle altre si trova in una prigione svizzera da sei mesi»

disse Louis «e la terza è morta. Questa che esce dalla drogheria si

chiama Jeanette. E una ragazza olandese.»

«Che tipo è? Che mestiere fa?»

«Ammazza la gente,» rispose Louis, «se la si paga abbastanza.»

L’informazione non era sorprendente. Sebbene la maggior parte

dei sicari del terrorismo internazionale fosse di sesso maschile,

nelle loro file c’erano anche dozzine di donne. Oltre, beninteso, alle

molte dozzine che militavano nelle file del terrorismo, o della criminalità
comune,
in via ausiliaria. Alcune terroriste, come Leila

Khaled, Rima Aissa Tannous, Thérèse Halesh, le tedesche Ulrike

Meinhof e Gabriele Kròcher Tiedemann o le americane Bernardine

Dohrn e Kathy Boudin, erano diventate notissime. Non si limitavano

a gestire covi, a svolgere servizio di sorveglianza o ad accompagnare

altre persone in macchina da un luogo all’altro. Parecchie di

loro piazzavano bombe, usavano le armi da fuoco, dirottavano aerei

o avevano compiti di comando nel mondo del terrorismo internazionale;

per altre si trattava di un tentativo di dimostrare che le

donne “valevano” come gli uomini, apparentemente ignare del fatto

che le loro azioni dimostravano semplicemente che le donne potevano

essere egualmente sconsiderate e crudeli.

Certamente, ad Avner era stato insegnato a non sottovalutare

le terroriste, indipendentemente da ciò che era accaduto a Carl. Il

Mossad considerava sempre le donne non soltanto pari, ma forse

addirittura superiori agli uomini per capacità organizzativa, abilità

nella simulazione, dedizione a una causa e per il fatto di possedere

una mentalità spietatamente unilaterale. Gli unici settori in cui

avrebbero potuto essere leggermente inferiori erano l’efficienza

meccanica e la prevedibilità negli scontri a fuoco. Avevano qualche


piccola probabilità in più di mancare il bersaglio, di farsi saltare

in aria con le loro stesse bombe o di arrendersi in situazioni disperate,

anche se quest’ultima cosa stava solo a indicare che le donne erano

dotate di un senso dell’autoconservazione superiore a quello degli

uomini. In certe circostanze, tale dote contribuiva unicamente a

renderle ancor più pericolose. (nota 1).

«Chi ricorre ai suoi servigi?» domandò Avner.

Louis scrollò le spalle.

«Chiunque sia in grado di pagare le sue tariffe, suppongo» disse.

«Mi risulta che un sacco di gente si è servita di lei in Sudamerica.»

«Dov’è ora? Puoi rintracciarla?»

«Tra un lavoro e l’altro, abita in una cittadina sulla costa olandese»

rispose Louis. «La località si chiama Hoorn e si trova a una

trentina di chilometri da Amsterdam.»

Avner annuì. Sapeva bene dove si trovava Hoorn. «Abita in

una casa, in un appartamento?» domandò.

«Che tu ci creda o no, in una casa galleggiante.» Louis rise.

«Non sono sicuro se sia lesbica o ambidestra, però ci vive con una

ragazza. Perlomeno quando ci sta. Adesso, però, non c’è.»

«Puoi scoprire quando ci sarà,» chiese Avner, «a pagamento,


beninteso?»

«Sta certo che tenterò,» rispose Louis, «e se ci riesco te lo farò

sapere. E, a parte le spese, offre la casa.»

«Te ne sono grato» disse Avner. «Chiamami, quando saprai

qualcosa.»

Fatto ciò, tornò a Francoforte. Anche gli altri erano già tornati.

Dare la notizia alla vedova di Carl era stata un’esperienza traumatica,

per Hans come per Steve, i quali si limitarono a stringersi nelle

spalle quando Avner li interrogò in merito. «Che cosa ha detto?»

esclamò Hans, facendo eco alla domanda di Avner. «Se l’ha presa

male? Be’, come ti aspettavi che la prendesse?»

«La cosa più importante» fece Steve «è fra quanto riusciremo a

scovare quella troia che l’ha ucciso?»

«Calma» disse Avner. «Ne parliamo subito, ma stiamo calmi.»

Riferì loro l’informazione di Louis, poi disse: «Per prima cosa

supponiamo che non mi sia sbagliato quando ho identificato la


fotografia...».

«Be’, ti sei sbagliato o no?» lo interruppe Hans.

«No» rispose Avner senza un attimo di esitazione «ma nessuno

di voi ha modo di saperlo con sicurezza. E va bene. Diciamo che si

tratta della donna che è salita in camera con Carl. Diciamo anche
che l’informazione di Louis è esatta. Diciamo che è una sicaria, sotto

contratto con l’OLP. Loro ci individuano mentre ciondoliamo al

Grosvenor House di Londra e la spediscono a far fuori uno di noi.

Lei esegue. D’accordo, la scoviamo a Hoorn. Che cosa si fa?»

«L’ammazziamo» disse prontamente Steve. «Ci sono dubbi in

proposito?»

«Capisco dove vuole arrivare Avner» disse Robert. «Abbiamo a

che fare con due incognite. Primo, e se Avner si sbagliasse? Secondo,

se si sbagliasse Louis? Non è come con i mechablìm. Con lei non

abbiamo altri dati di riferimento per controllare l’informazione. E

se... oh, non so, e se fosse solo una puttana che ha sparato a Carl

perché si era rifiutato di pagarla?»

«Cazzate» fece Steve. «È di Carl che stai parlando. Credi per

caso che avrebbe messo a repentaglio la missione per litigare con

una puttana? L’avrebbe pagata il triplo, qualsiasi cifra, pur di togliersela

di torno. La tua teoria non sta in piedi.»

In questo Steve aveva ragione. Però, c’era un ma. «E se non si

fosse trattato di un litigio?» domandò Hans. «Era una puttana e gli

ha sparato per rubargli il portafogli.»

«Già, solo che non mancava niente» disse Avner. «Il portafogli
era ancora lì, nella tasca della giacca. Con dentro più di cento sterline,

in contanti.»

«Che cosa ti dicevo?» fece Steve. «Comunque, che differenza

fa? Se gli ha sparato per prendersi il portafogli, gliela facciamo passare

liscia?»

«Una differenza c’è» disse Robert. «Siamo in missione. Non

possiamo perder tempo a dare la caccia alle puttane come se si trattasse

di Jack lo Squartatore. Il punto, però, è che non era una prostituta.

Se avesse sparato a Carl per denaro, ha ragione Avner: lo

avrebbe derubato.

«Ma se fosse stata solo una donna che aveva voglia di farsi scopare?

Si è fatta scopare, e tanti saluti. Carl è stato ucciso da una

persona completamente diversa. E se fosse andata così?»

«E Carl sarebbe stato ucciso da un’altra persona» intervenne

Avner «mentre se ne stava a letto nudo? Carl non dormiva mai nudo.

Abitavo con lui. Lo so.

«E poi, non sarebbero un po’ troppe le coincidenze? Carl che

viene ucciso da una persona completamente diversa, dopo che ha

scopato una donna in cui Louis riconosce un’assassina a pagamento?

Che poco prima cerca di adescare me? Dopo che qualcuno mi ha


pedinato per le strade di Londra? Spiacente, ma non la bevo. Se

non gli ha sparato lei, perlomeno lo ha messo in condizione di farsi

sparare da qualcun altro.»

«Giusto» disse Robert «solo che siamo tornati al punto di partenza.

Se Louis ha ragione sulla sua identità, credo che non vi siano

molti dubbi. Ha ammazzato lei Carl - da sola o con la complicità di

qualcun altro, non ha importanza. Se Louis ha ragione. E, naturalmente,

se Avner ha ragione quando dice che la donna della fotografia

è la stessa ragazza.»

Hans si rivolse ad Avner. «Be’ » disse, «sei sicuro?»

«Sì» confermò Avner.

«E sei sicuro riguardo a Louis?»

«Sono disposto a credergli sulla parola» rispose deciso Avner.

«E voialtri?»

Si scambiarono un’occhiata. Finora Louis non aveva mai dato

loro un’informazione sbagliata. Persino a Glarona, che Salameh e

Abu Daoud si fossero o meno incontrati, c’erano tre arabi armati

nella chiesa.

Consultarsi con Ephraim sarebbe stato inutile. Il Mossad non li

avrebbe mai autorizzati a uccidere chicchessia in Olanda, che la


persona in questione avesse assassinato o meno il loro compagno.

Chiedere conferma sarebbe equivalso a mettersi in una posizione in

cui sarebbero stati costretti a contravvenire in modo palese a un ordine

preciso. Steve si alzò. «Ragazzi» disse «che cosa stiamo aspettando?»

Aspettavano, si constatò poi, solo che Louis annunciasse il rientro

della bionda in Olanda. L’informazione si fece alquanto desiderare

ma non per questo trascurarono la missione, mentre l’aspettavano.

Durante l’estate vi furono parecchi falsi allarmi, sia riguardo

alla ragazza sia riguardo a Salameh e ad Abu Daoud, ma fu solo verso

la metà di agosto che Louis poté finalmente dar loro una notizia

sicura: “Jeanette” sarebbe arrivata a Hoorn entro i prossimi sette

od otto giorni.

La sera stessa Robert partì un’altra volta per il Belgio.

Questa volta non ci andò per studiare qualche nuovo tipo di

bomba. Esistevano vari fattori che sconsigliavano il ricorso agli

esplosivi, a Hoorn: il principale era il fatto che non avrebbero ricavato

sufficiente soddisfazione dal piazzare una bomba nella casa

galleggiante della bionda. Volevano vederla morire.

La verità era che nutrivano tutti un odio speciale verso di lei,

contrariamente ai sentimenti impersonali che nutrivano nei confronti


degli altri bersagli, ivi compreso Ali Hassan Salameh. Avner

non tentò mai di tradurlo in parole, se non molto più tardi, ma non

aveva difficoltà ad avvertire la differenza. Per quanto l’uccisione

dei mechablim fosse un gesto di rappresaglia, di pura e semplice

vendetta, o addirittura di vendetta per le undici vittime israeliane

di Monaco, era comunque privo di animosità personale. Era come

se riuscissero in qualche modo a capire le motivazioni dei terroristi

compresi nella lista, magari persino a provare un certo rispetto per

loro, allo stesso modo in cui i cacciatori provano rispetto per una

selvaggina astuta, risoluta. Ma per la bionda, no.

Aveva ucciso uno dei loro amici personali - un fratello, un commilitone

- il che era assai più dell’astrazione rappresentata da un

“nemico” che assassinasse i loro compatrioti. Ma non era ancora

tutto. Avner dubitava che avrebbero odiato fino a quel punto uno

dei tanti terroristi palestinesi il quale avesse sparato a Carl per strada.

Il nocciolo della questione, con la bionda, era che aveva assassinato

a tradimento, defraudando Carl persino della dignità di morire

per mano di un avversario degno di questo nome. Una femmina

che si era servita di un’arma biologica, sfruttando un momento di

debolezza maschile, di solitudine, per togliergli la vita. Un asilo che


si era tramutato in una trappola. La cosa aveva il risultato di stravolgere

completamente nelle loro menti tutte le consuete riserve

maschili circa l’opportunità di far del male alle donne. Anzi. A causa

di ciò che aveva fatto, provavano meno inibizioni all’idea di ucciderla

di quante ne avrebbero provate all’idea di uccidere un uomo.

Erano disposti a strapparle il cuore dal petto.

Il piano di Robert consisteva nel trasformare una sezione di tubo

di bicicletta in una pistola a un solo colpo, capace di sparare un

proiettile calibro 22. Era estate - un’estate piuttosto torrida, in verità

- e la cittadina costiera olandese pullulava di giovanotti e ragazze

in bicicletta. Usando quel dispositivo, non avrebbero dovuto

contrabbandare armi attraverso la frontiera. E l’amico belga di Robert

era in grado di fabbricare le pistole improvvisate per una frazione

del costo necessario ad acquistare quattro Beretta dai contatti

olandesi di Papà. Avrebbero potuto raggiungere in bicicletta la casa

galleggiante, in calzoncini corti e magliette, senza destare il minimo

sospetto. Dopo l’attentato, avrebbero rimesso al loro posto i pezzi

di tubo e pedalato fino a un furgone parcheggiato a meno di un chilometro

di distanza. Tutti quanti disarmati. A nessuno sarebbe venuto

in mente di esaminare il telaio delle biciclette. Era un piano a


prova di bomba.

«Quegli aggeggi saranno abbastanza precisi?» domandò Avner.

«A distanza di un metro, un metro e mezzo?» fece Robert. «Te

lo garantisco.»

«Chi se ne frega, comunque?» soggiunse Steve. «Lasciate che mi

trovi a un metro di distanza da lei, e le torco il collo. Sbrighiamoci

solo a farlo.»

Il 21 agosto era un caldo mercoledì d’estate, con folle di studenti

in vacanza che passeggiavano, a piedi e in bicicletta, sul lungomare.

La squadra teneva sotto sorveglianza la casa galleggiante ormai

da due giorni, quando “Jeanette” arrivò. Scese da un tassì, a qualche

distanza dall’imbarcazione, e Avner la riconobbe immediatamente.

«È quella là» disse deciso a Steve. «Adesso sale a bordo. Sta

a vedere.»

Così fu. La ragazza indossava gonna e camicetta di colore chiaro.

Reggeva una piccola ventiquattr’ore. Ed era più carina che mai.

Il problema era che a bordo c’era anche la sua amica - una ragazza

sulla ventina, dalla carnagione molto chiara, i capelli bruni tagliati

cortissimi, di cui gli uomini della squadra avevano tenuto

d’occhio l’andirivieni negli ultimi due giorni, invariabilmente in


blue jeans, e con uno zainetto rosso in spalla. Poteva darsi che prima

o poi si allontanasse, magari solo per recarsi in bicicletta in paese

a fare una commissione. O magari sarebbe rimasta sulla casa galleggiante.

Dato che erano solo le tre del pomeriggio, decisero che era

meglio aspettare.

La ragazza con lo zainetto rosso se ne andò solo verso le nove di

sera. Il sole stava tramontando, ma c’era ancora luce e Avner decise

che la cosa migliore da fare era passare subito all’azione. Non potevano

sapere se la più giovane delle due ragazze sarebbe rimasta fuori

solo una ventina di minuti o tutta notte. Negli ultimi due giorni

non avevano potuto tracciare uno schema fisso dei suoi movimenti,

però inforcava la bicicletta, sicché c’erano buone probabilità che

desse loro almeno venti minuti di tempo. Erano più che sufficienti.

Robert aspettava a bordo di un furgone parcheggiato a circa ottocento

metri dall’ormeggio della casa galleggiante. Due contatti

olandesi del Group, anch’essi a bordo di un furgone, erano appostati

una cinquantina di metri più in là. Erano incaricati di fare sparire

ogni traccia. Avner non voleva che il cadavere della donna venisse

ritrovato, se la cosa si poteva evitare. Se fosse semplicemente scomparsa,

data l’imprevedibilità dei suoi spostamenti, sarebbero trascorse


settimane, o anche mesi, prima che qualcuno ne denunciasse

la sparizione. Nel frattempo, con un pizzico di fortuna, loro avrebbero

persino potuto portare a termine la missione. I quattro compagni

preferivano una soluzione del genere per via del Mossad. Se

Ephraim avesse avuto sentore della loro vendetta personale a

Hoorn prima che la missione si concludesse, avrebbe potuto reagire

in una quantità di modi, nessuno dei quali piacevole. Avrebbe potuto

persino decidere che la squadra era sfuggita al suo controllo e annullare

tutto quanto.

Avner si era preparato una risposta, nel caso che Ephraim fosse

venuto a conoscenza dell’operazione. «Abbiamo dovuto farlo»

avrebbe detto «per motivi di sicurezza. Mi aveva visto a Londra in

compagnia di Carl. Può persino darsi che abbia visto anche Hans.

Avrebbe potuto identificarci.» Nella migliore delle ipotesi, era una

mezza verità.

Ora, impugnando la corta sezione di tubo metallico cui era stato

applicato un rozzo grilletto, Avner mise piede sulla passerella di legno

che portava all’imbarcazione. Erano le nove passate da qualche

minuto. Steve, armato di un aggeggio similare, gli stava alle calcagna.

Hans rimase sul ponte, appoggiato alla spalletta. L’accordo era


che non sarebbe salito a bordo, a meno che Avner e Steve non avessero

bisogno del suo aiuto.

Le due donne tenevano a bordo un gattino, che lanciò incredibili

miagolii di protesta non appena vide Avner avvicinarsi alla cabina.

Era accoccolato sul parapetto della barca, agitando la coda e

miagolando, malgrado tutti i tentativi di Steve di calmarlo. L’aria

era ancora caldissima e carica di umidità. La porta della cabina era

socchiusa, e Avner era certo che la bionda, la quale sedeva a un piccolo

scrittoio, in veste da casa azzurra, dando le spalle alla porta,

quanto prima sarebbe stata messa in allarme dai lamenti del gatto.

Ma doveva esserci abituata. Neppure alzò gli occhi, finché Avner

non spalancò del tutto la porta.

Portava lo stesso profumo. Il sentore che aleggiava nella cabina

era inequivocabile. Se Avner aveva avuto ancora qualche residuo di

dubbio circa la sua identità, in quell’attimo svanì. Era la donna che

era salita in camera con Carl.

Lei girò la testa e levò lo sguardo su Avner senza traccia di paura

negli occhi. Lui era ritto sulla soglia, col disco rosso del sole al tramonto

proprio alle spalle, e poteva darsi che la ragazza non fosse in

grado di distinguerlo chiaramente. Avner, però, la vide spostare la


mano destra verso il cassetto dello scrittoio.

«Se fossi in te, non lo farei» le disse in inglese, avvicinandosi.

Steve entrò nella cabina, seguito dal gatto. Il quale saltò immediatamente

sullo scrittoio, senza smettere di miagolare con veemenza.

Era un suono irreale, che li innervosiva, anche se si sforzavano

di non farci caso.

«Be’, e lei chi è?» disse la donna, spostando lo sguardo da Avner

a Steve. Avner vide ancora la sua mano avvicinarsi di un altro po’ al

cassetto della scrivania, mentre la sinistra saliva all’altezza del petto

a scostare i lembi della vestaglia azzurra, accennando a mettere in

mostra il solco del seno. Difficile stabilire se il gesto fosse voluto o

involontario. In ogni caso, date le circostanze, era una difesa sbagliata.

Sia Avner sia Steve lo notarono, e servì solo a riempirli di gelido

furore.

«Attento, è armata» disse Steve in ebraico, e Avner annuì, senza

staccare gli occhi dalla mano destra della ragazza.

«Lo so» rispose. Poi, parlando in inglese, le disse: «Ti ricordi di

Londra?».

Avner la vide posare gli occhi sul pezzo di tubo che impugnava.

Ovviamente, non si era resa conto di ciò che realmente era, ma poteva
aver pensato che si proponessero di usarlo per darle una botta

in testa. Arricciò le labbra in una smorfia sprezzante, di sfida. Rinunciando

a ogni finzione, aprì il cassetto dello scrittoio.

Avner tirò il grilletto. E anche Steve. Quasi simultaneamente.

Il gatto fece un balzo in aria.

La bionda rimase seduta, ma si stava piegando lentamente in

avanti. Rantolava. Sollevò il capo ancora una volta, e da un angolo

della bocca le colava un filo di sangue.

Le pistole ricavate dai pezzi di tubo erano armi a colpo unico.

Avner si frugò in tasca in cerca di un altro proiettile.

Prima che potesse ricaricare, la donna si era già afflosciata sul

pavimento. Alle loro spalle la porta si spalancò, e Hans fece irruzione,

camminando suppergiù come Avner lo aveva visto fare ad Atene

quando aveva scagliato le bombe incendiarie nella camera di

Muchassi. «Lasciatela a me, questa troia» disse Hans, spingendoli

da parte. Si chinò a spararle alla nuca con la pistola improvvisata.

Ma ormai la bionda probabilmente era già morta.

«Andiamo, Hans.» Avner fece cenno a Steve di aiutarlo a strappare

il compagno dal corpo della donna. Hans pareva sul punto di

dilaniare il cadavere con le dita. Seguì Avner e Steve sulla terraferma,


senza smettere di imprecare sottovoce.

Fuori, era quasi completamente buio. Avner fece segno agli uomini

di Papà di indietreggiare col furgone fino alla passerella e di rimuovere

il cadavere dall’imbarcazione. C’era tutto il tempo necessario.

Avner aveva dato un’occhiata all’orologio prima di salire a

bordo, e ora vide che erano rimasti sulla barca esattamente tre minuti

e trenta secondi. Era improbabile che la ragazza con lo zainetto

rosso fosse di ritorno prima di un altro quarto d’ora, almeno.

Rimisero a posto i pezzi di tubo, montarono in sella e pedalarono

fin dove Robert li stava aspettando a bordo del furgone. «Abbiamo

fatto fuori la troia» lo informò Hans mentre caricavano le biciclette

in fondo al furgone.

Avner comprendeva perfettamente Hans. Non si trattava semplicemente

di vendicare Carl. Avner aveva già avuto modo di sparare

a due uomini a distanza ravvicinata, Wael Zwaiter e Basii al-

Kubaisi, e aveva trovato molto più difficile sparare a loro che a

quella donna. Nel breve intervallo di tempo concesso ai due capi

terroristi, tra il momento in cui avevano scorto Avner e quello in

cui erano stati uccisi, entrambi avevano implorato di essere risparmiati.

Avevano continuato a dire: «No, no» in arabo e in inglese.


Avner li aveva uccisi, ma quei due in quel momento gli avevano negato

la possibilità di considerarli come nemici. Erano solo due esseri

umani giunti all’estremo, all’ultimo, vulnerabile istante delle loro

esistenze.

Con quella donna era stato diverso. Non aveva implorato. Aveva

seguitato a fissarli con un gelido odio negli occhi. Il suo viso aveva

rispecchiato nient’altro che disprezzo e sfida. Se si fosse sforzata

di farlo deliberatamente, non avrebbe potuto facilitare maggiormente

ad

Avner

il

compito

di

ucciderla.

Capitolo 16

Tarifa

Il 14 settembre, circa tre settimane dopo la morte della ragazza

olandese, la vita di Robert si spense nel campo di un contadino nei

pressi della cittadina belga di Battice.

A Robert capitò ciò che aveva sempre detto che capitava ai terroristi
con monotona regolarità: si fece saltare in aria maneggiando

una delle sue bombe.

I particolari erano scarsi. Robert si era recato in Belgio al volante

del furgone per restituire le biciclette, il giorno successivo all’episodio

di Hoorn. Era previsto che vi si trattenesse per dare una mano

al suo amico a fabbricare certe nuove armi che stavano progettando.

Avner non aveva idea di che genere d’armi si trattasse, e sul

momento non era particolarmente interessato alla faccenda. Robert

aveva spiegato qualcosa a Steve - che era più attratto di Avner dagli

aggeggi di morte - a proposito di un nuovo tipo di prodotto chimico

che sperava di sperimentare. A quanto sembrava, il prodotto aveva

funzionato anche troppo bene.

Robert si faceva vivo telefonando a Francoforte ogni giorno.

Avner non aveva la possibilità di mettersi in contatto con lui in Belgio.

L’accordo era che Robert telefonasse tra le sei e le sette, ovvero

tra le dieci e le undici se non avesse ottenuto risposta prima, per

sentire se c’era bisogno di lui. Il resto della squadra si era dato un

gran da fare, seguendo ogni possibile pista relativa ai tre terroristi

superstiti della lista. Dopo Hoorn, si erano trovati tutti d’accordo

sul fatto che la missione andava portata a termine il più rapidamente


possibile.

Dopo che avevano inoltrato il rapporto sulla morte di Carl, non

avevano ricevuto nuove istruzioni da Tel Aviv; l’unico messaggio

era stato un laconico «Ricevuto» nella cassetta di sicurezza di Ginevra.

Eppure, Avner e i suoi compagni erano certi che il Mossad

avrebbe posto fine alla missione, se non avesse ottenuto altri risultati

utili entro la fine dell’anno. Il fatto era che dopo l’eliminazione

di Mohammed Boudia, il 28 giugno 1973, cioè ormai più di un anno

prima, il controterrorismo israeliano non aveva più portato a termine

con successo un’operazione. C’erano stati solo disastri come

quello di Lillehammer, fiaschi come quello di Glarona e tragiche

perdite come quella di Carl. Se non riuscivano a stanare Ali Hassan

Salameh, Abu Daoud o il dottor Haddad al più presto era improbabile

che sarebbe stato permesso loro di proseguire.

E tuttavia il fatto di essere richiamati in patria senza aver ultimato

la missione, anche se nessuno li avrebbe rimproverati, equivaleva

a un fallimento. Su questo erano tutti quanti d’accordo: non ci

fu neppure bisogno di discuterne. Esser costretti a lasciare un incarico

a mezzo, e soprattutto dover tornare senza aver beccato Salameh, per tutti
loro

equivaleva a una sconfitta. Non rientrava nelle


tradizioni di Israele. Era preferibile la morte, o persino disobbedire

a un preciso ordine di ripiegamento, anche se disobbedire sarebbe

stato difficile se il Mossad tagliava loro i viveri. (Discussero di questa

possibilità, e Hans suggerì che per un po’ avrebbero potuto usare

il denaro depositato sui loro conti personali in Svizzera, se i fondi

operativi fossero stati congelati.) In seguito, Avner avrebbe ammesso

che, almeno in questo senso, erano in tutto e per tutto fanatici

come i mechablim.

Questa sensazione di urgenza era una delle ragioni per cui Robert

ci teneva tanto a fare esperimenti col suo nuovo prodotto chimico,

mentre Avner rimaneva di guardia a Francoforte e gli altri

due mettevano alla frusta gli informatori in altre località europee.

Il 13 settembre Avner aveva parlato con Robert per telefono alla solita

ora. «Fra due o tre giorni avrò finito, qui» aveva detto Robert.

«Benissimo. Qui non ci sono novità» aveva risposto Avner prima

di riagganciare.

Il giorno dopo, quando il telefono non squillò tra le sei e le sette,

Avner non si preoccupò troppo. I due diversi orari prestabiliti per il

contatto consentivano a entrambi una certa elasticità. Il telefono,

invece, squillò nel covo di Avner, a Francoforte, alle dieci e cinque.


Era Louis.

«Mi dispiace» disse subito il francese. «Ho una brutta notizia da

darti.»

«Riguarda Robert?» domandò Avner. Non era un presentimento;

Avner semplicemente sapeva che Le Group era al corrente del

contatto belga di Robert. Era dai tempi dell’attentato ad al-Chir, a

Cipro, che si servivano dei corrieri di Papà per contrabbandare

esplosivo dal Belgio.

«È stata una disgrazia» disse Louis. «Nessuno ne ha colpa, e non

puoi farci niente.»

Ad

Avner

si

seccò

la

gola.

«Capisco» disse.

«Possiamo provvedere noi a tutto, se vuoi. Sai, come a Londra.

Probabilmente è la soluzione più semplice.»

«Sì.» Avner stentava a farsi uscire le parole di bocca. «Sì. La soluzione più
semplice. Fate pure. Sì... Grazie per avermi chiamato.»

«Senti,» cercò di consolarlo Louis, «sono cose che capitano»

«Ah, certo» replicò Avner. La sua voce era del tutto inespressiva.

«Cose che capitano, eh?»

Seguì un attimo di pausa.

«Be’,» disse alla fine Louis, «chiamami se c’è qualcos’altro che

io possa fare.»

Non c’era altro da dire. Avner riabbassò il ricevitore, lo stette a

fissare per qualche istante, poi montò in macchina e si recò al covo

che Robert aveva diviso con Steve. Avner entrò, servendosi di un

duplicato della chiave, e si mise a riporre in una valigia quelli che


riconobbe

come effetti personali di Robert. Nell’alloggio regnava un

caos indescrivibile: Steve era molto disordinato e Robert se n’era

sempre infischiato, in un senso o nell’altro; ma Avner non faticò a

separare la roba di Robert, disseminata per terra e dietro il divano,

da quella di Steve. Aveva poca memoria per i nomi o i numeri, ma

non dimenticava mai i particolari fisici. Le cravatte e i calzini di Robert

erano del tutto diversi da quelli di Steve, e non c’erano dubbi a

quale dei due appartenessero i libri e i giocattoli. Quand’ebbe finito

di riporre la roba, la valigia non era neppure piena. Robert doveva


essersi portato appresso in Belgio la maggior parte degli indumenti.

In una busta, c’erano alcune lettere della moglie di Robert, spedite

a un indirizzo in Inghilterra. C’erano anche un paio di fotografie.

Avner infilò la busta dietro gli indumenti, prima di chiudere la

valigia. Gli venne da pensare che, con tutta probabilità, la valigia di Robert
non

era mai stata fatta con tanto ordine come ora.

L’unica cosa di cui non sapeva che fare era la gigantesca ruota

da luna park costruita con gli stuzzicadenti. Era l’ultimo giocattolo

fabbricato da Robert; ci aveva lavorato per mesi. Il balocco era collocato

al centro del massiccio tavolo da lavoro nella camera da letto

di Robert, e misurava poco meno di un metro di diametro, fragile e

tuttavia intricata e complessa struttura. Avner sfiorò esitante la

ruota con l’indice, e quella si mise subito a girare, facendo roteare

attorno al proprio asse sei piccole gondole. Senza pensarci, Avner

prese a far girare la ruota sempre più rapidamente, finché tutti i

suoi elementi non si confusero in un’unica nebulosa macchia roteante.

Alla fine, quando la ruota acquistò quella che Avner riteneva

la massima velocità possibile, la lasciò andare. Voltando le spalle

alla ruota turbinante, diede un’altra occhiata alla stanza per

controllare se avesse dimenticato qualcosa, ma non vide nulla. I guanciali


se ne stavano cincischiati sul letto sfatto, come Robert doveva

averli lasciati l’ultima volta che si era alzato. In quel momento, Avner udì
un

rumore improvviso, simile al fruscio e al frullo d’ali di un

uccello che volasse attraverso la camera, e si girò di scatto.

La ruota da luna park era sparita. Rimaneva soltanto un grosso

mucchio di stuzzicadenti che dal tavolo piovevano sul pavimento.

Avner raccolse la valigia e la portò giù alla sua auto, poi si recò

alla stazione degli autobus e la depositò in un armadietto.

Hans e Steve tornarono a Francoforte un giorno più tardi.

I tre compagni andarono a fare una passeggiata per il vasto parco

municipale, nei pressi del covo dove abitava da solo Hans. Camminarono

per quasi tre ore, tentando di decidere sul da farsi. Avner

notò con interesse distaccato, quasi clinico, che i persistenti, dolorosi

crampi alla bocca dello stomaco erano pressoché scomparsi.

L’unica cosa che avvertiva era fredda rabbia, accompagnata da una

cocciuta, accecante determinazione di portare a termine la missione.

Come minimo, di far fuori Salameh. Se non ci fossero riusciti,

Carl e Robert erano morti invano.

Hans e Steve la pensavano esattamente come lui.

«Dobbiamo andare a Ginevra a lasciare un messaggio sulla fine


di Robert» disse Avner «però non staremo ad aspettare una risposta.

Si va avanti, e basta.»

«Qualcuno dovrà informare la moglie di Robert» disse Hans.

«Preferirei essere escluso dalla chevrat kadisha questa volta.»

Era un’allusione alle pompe funebri statali israeliane. Quando

Hans e Steve erano andati a trovare la vedova di Carl a Roma, si

erano autodefiniti la squadra della chevrat kadisha. Hans era rimasto

piuttosto traumatizzato dall’esperienza, sebbene la vedova di

Carl si fosse comportata con grande dignità. Era probabile che questa

volta le cose andassero peggio: la moglie di Robert, una bellissima

ebrea francese, soprannominata Pepe, che Avner aveva avuto

modo di incontrare una sola volta, aveva fama di essere una signora

con un caratterino piuttosto difficile. In effetti, si dava arie da principessa.

A differenza degli altri, le cui mogli erano rassegnate ad

aspettare che i rispettivi mariti si facessero vivi, Robert era costretto

non solo a dare a Pepe un indirizzo in Inghilterra al quale lei potesse

scrivergli (obbligandolo con ciò a recarcisi periodicamente a

ritirare le sue lettere), ma persino a darle numeri di telefono e a precisare

gli orari in cui poteva chiamarlo. Anche se Robert era felicissimo

di avere notizie della moglie, la cosa lo costringeva a programmare


i suoi spostamenti in modo da rendersi reperibile. E in missione

ciò risultava spesso difficile. Benché Pepe fosse sotto ogni punto

di vista una donna fedele e innamorata, la sua personalità la rendeva

poco adatta a essere la moglie di un agente.1 Esercitava, infatti,

un’influenza negativa su Robert, e quindi, tramite lui, sull’intera

squadra.

Avevano due figli. Quando Robert aveva trasferito all’estero la

famiglia, all’inizio della missione, in un primo tempo aveva installato

i suoi a Bruxelles. Sapeva che avrebbe dovuto recarsi abbastanza

spesso in Belgio, per cui il fatto di avere sul posto Pepe e i bambini

sembrava del tutto logico. Avrebbero potuto passare almeno qualche

ora assieme ogni volta che gli fosse capitato di passare per Bruxelles

per lavoro. Quelle brevi visite, tuttavia, non sortirono l’effetto

desiderato. Contribuivano solo a turbare e preoccupare sia Robert

sia Pepe, e così alla fine Robert aveva spedito la famiglia a Washington,

DC, per la durata della missione. Pepe aveva uno zio cui

era molto affezionata, a Washington - un diplomatico accreditato

presso l’ambasciata di un paese europeo - il quale fu ben lieto di

ospitare in casa sua lei e i bambini.

Avner capiva perfettamente perché Hans non se la sentisse di


andare a comunicarle la notizia.

«Prima andremo a Ginevra» disse Avner. «Poi andrò io a Washington.

Se Steve vorrà venire con me, benissimo. Al nostro ritorno,

riprenderemo il lavoro. Beccheremo i mechablim. Niente e nessuno

potranno impedircelo. Niente piani elaborati, niente esplosivi,

niente di niente. Siamo rimasti solo in tre, ma va bene lo stesso

perché useremo un altro sistema. Hans, mentre noi saremo via,

mettiti in contatto con Louis. Digli di procurarsi tre Uzi.»

«Bravo, amico» fece Steve.

C'era, infatti, un altro sistema per organizzare un attentato. Era

infinitamente più pericoloso dei complicati sistemi accuratamente

studiati e programmati che avevano usato in precedenza. Non lasciava

alla squadra quasi nessuna probabilità di scamparla. Se non

proprio suicida, era comunque un sistema alquanto disperato. Ma

era possibile.

Un attacco frontale. Affidandosi pressoché soltanto alla sorpresa

e alla potenza di fuoco.

Anziché pedinare un bersaglio finché non si sapesse tutto dei

suoi orari e delle sue abitudini; anziché programmare accuratamente

la fuga; anziché allontanarsi dalla scena dell’attentato facendo ricorso


all’esplosivo, si poteva procedere basandosi unicamente su

due informazioni essenziali. Cioè: dove e quando. Il luogo e l’ora

del bersaglio. Nient’altro.

Se, per esempio, riuscivano a scoprire che Salameh si sarebbe

trovato in un dato posto a una data ora, era possibile, per tre uomini

risoluti armati di mitra, ucciderlo. Senza tener conto del tipo di posto

in cui si trovava o delle forze da cui poteva essere protetto, e ancor

meno delle probabilità che aveva la squadra di mettersi in salvo

a operazione compiuta. Magari senza neppure tener conto dell’incolumità

dei presenti all’azione, o del rischio di far sapere che l’attentato

era opera di un commando israeliano. Si trattava semplicemente

di un altro sistema. Era possibile eliminare chiunque, se gli

assassini avevano poco o nessuno riguardo per le conseguenze. Tutto

ciò che dovevano fare era portarsi a sessanta o settanta metri dal

loro bersaglio.

Una squadra composta da tre elementi soltanto era quasi costretta

a prendere in considerazione l’idea di compiere un attentato

di questo tipo, col sistema dei kamikaze.

«Non sto dicendo, naturalmente, che questa sia la nostra prima

scelta» soggiunse Avner. «Siamo solo in tre, ma possiamo contare


sull’appoggio di Louis e dei suoi. Potremmo aver fortuna; e certamente

continueremo a studiare sistemi più astuti. Sto solo dicendo

che non dobbiamo escludere niente. In ultima istanza, sfrutteremo

ogni occasione possibile. Non ci atterremo alla regola del rischio zero.

Siete d’accordo?»

«Io, sì» fu pronto a rispondere Steve. Poi si girò verso Hans.

«Be’,» disse Hans, «francamente non si tratta di una decisione

di routine. A rigor di termini, non credo che abbiamo il diritto di

farlo. Ciò che Avner suggerisce rappresenta una modifica degli

obiettivi della missione, o almeno un rovesciamento delle priorità.

Per questo genere di cose dovremmo chiedere il parere della base.

«Ma» proseguì Hans dopo una pausa «in sostanza sono d’accordo

anch’io. Voglio soltanto che si abbiano le idee chiare su quel che

facciamo.»

Senza alcun dubbio Hans aveva ragione. Stavano effettivamente

capovolgendo le priorità. Solo che, al pari di Avner e di Steve,

anche Hans non era tipo da darsi per vinto. Lo aveva lasciato intendere

piuttosto chiaramente ad Atene con la faccenda di Muchassi.

L’idea di lasciar perdere era completamente estranea a Hans, come

agli altri. Ciò poteva costituire un problema inevitabile nell’optare


per missioni di quel tipo: poteva accadere che uomini abbastanza risoluti

da imbarcarsi in imprese del genere fossero troppo risoluti

per arrestarsi entro limiti ragionevoli o politicamente opportuni.

Anzi, arrivassero a esercitare una pressione psicologica reciproca,

nel senso di proseguire qualunque cosa accadesse. Come in seguito

Avner ebbe a dire a Steve: «Non ero preoccupato per Hans. Se dicevamo

di sì non c’era pericolo che si tirasse indietro».

Ma

Hans

sollevò

anche

un’altra

obiezione.

«Hai parlato dell’appoggio di Louis e dei suoi uomini» disse.

«Secondo me, dovremmo parlare anche di qualcos’altro. E una cosa

che ho in mente fin da Londra. A parte noialtri cinque, chi sapeva

che andavamo a Londra? Soltanto Louis. Chi sapeva della presenza

di Robert in Belgio? Ancora Louis. Ora Carl è morto, e anche Robert.

E se Papà avesse fatto il doppio gioco? Ci vende i mechablim-,

perché non dovrebbe vendere noi ai mechablimì Ci avete pensato?»


In realtà, Avner ci aveva pensato. Ci aveva pensato a lungo e

con insistenza; ci aveva pensato per tutta l’estate. Da un lato, sarebbe

stato logico che gente come Papà, Louis, Tony, per non parlare

di Andreas, li tradisse. Se ciò che Louis diceva delle idee del Group

rispondeva a verità, sarebbero stati ben lieti nel vedere le varie parti

in causa annientarsi a vicenda. Prima accadeva e meglio era per la

tabula rasa di Louis, la distruzione totale necessaria per costruire un

mondo nuovo e migliore, qualunque potesse essere. Sarebbe stato

logico anche dal punto di vista economico. Dopotutto, Papà poteva

ricavar denaro dai mechalim per l’eliminazione di Carl, e poi da Avner per
fare

sparire il suo cadavere. E ancora dell’altro denaro per

scovare la sicaria olandese e per fare sparire anche il suo cadavere. E

poi forse altro denaro ancora dagli arabi per fare in modo che Robert

rimanesse ucciso - accidentalmente o altrimenti. Dell’altro denaro

ancora per farne sparire il cadavere a beneficio di Avner, e così

via di seguito.

Era possibile. Una partita che, giocata astutamente, poteva addirittura

consentire a Papà di fare in modo che tutte le parti in causa

lo considerassero un amico e ciascuna gli fornisse gratis informazioni

che poi avrebbe potuto vendere alla parte avversaria. Poteva


essere una fonte sicura, inesauribile di profitti.

Alla fine, Avner scartò la possibilità semplicemente perché non

ci credeva.

«Papà avrebbe potuto venderci da un pezzo» disse. «Quando

eravamo tutti assieme. Perché non ci ha venduto a Cipro?»

«Forse perché nessuno si è offerto di comprarci» disse Hans «o

forse perché non voleva uccidere l’oca che stava per deporre l’uovo

d’oro.»

«È questo che credi?» domandò Avner.

«Non so che cosa credere» rispose Hans. «Mi sto solo domandando

se non ci fidiamo un po’ troppo dei suoi uomini. Dopotutto,

sono solo un branco di mercenari. Senza di loro, o di gruppi come il

loro, i terroristi non potrebbero neppure agire. Non lavorano solo

per noi. Lavorano per metà delle Armate Rosse d’Europa. A quanto

ne

sappiamo,

lavorano

anche

per

la
mafia.»

Era vero. Avner poté solo scrollare le spalle.

«È persino possibile» proseguì Hans «che siano organizzati e finanziati

dai russi. Ci hai mai pensato? Il KGB potrebbe aver messo

in piedi un gruppo privato come quello per appoggiare i terroristi.

Non sarebbe poi un’idea tanto stupida. Magari, neppure loro sanno

esattamente chi hanno alle spalle, o forse lo sa solo Papà. Che ne

pensi?»

Ora Hans esagerava. In realtà, pensò Avner, cominciava a parlare

un po’ come Papà. Di colpo si rese conto di ciò che stava succedendo:

le prime avvisaglie della paranoia degli agenti, risultato

dell’esser vissuti troppo a lungo in clandestinità. Poteva indurre gli

agenti operativi stremati a sospettare congiure a ogni piè sospinto.

E sebbene non fosse del tutto distaccata dalla realtà come la paranoia

clinica, esagerava timori e sospetti ragionevoli in maniera spropositata

o li rivolgeva verso i bersagli sbagliati. Poteva darsi che anche

Papà ne fosse affetto, in qualche modo. (nota 2).

«Sì, potrebbe esserci stata una fuga di notizie tramite Papà o

qualcuno del suo gruppo,» disse Avner a Hans, «e potrebbe esserci

stata una fuga di notizie tramite uno dei nostri informatori. Abbiamo
un Ahmed o un Yassir in una città sì e una no, e a volte anche loro

sanno dove trovarci. Uno di loro sicuramente sapeva dove ci saremmo

trovati a Londra, al momento in cui Carl è stato ucciso. Ma

sì, potrebbe essere stato Papà. Per guadagnare di più, per essere

amico di tutti, per non correre rischi, chissà? Ma il punto è che Papà

qualcosa ci dà. Non ci siamo posti tutte queste domande mentre seguitava

a servirci su un piatto d’argento un mechabel dopo l’altro.

«Così, forse la cosa è compresa nel prezzo. Dà a noi e dà ad altri.

È possibile. Allora voi direste di rinunciare a prendere da lui?


Personalmente

direi di no. Continuiamo a prendere tutto ciò che ha da

darci. Solo teniamo gli occhi bene aperti, tutto qui. Cerchiamo di

essere ancora più guardinghi. Se vuole venderci, prima dovrà darci

qualcosa. Già, è un rischio. Ma ne vale la pena, no?»

Hans ci pensò su. «Un rischio tremendo» finì col dire. «È questo,

ciò che credi?»

«No» rispose deciso Avner. «Non è ciò che credo. Forse sono

matto, ma mi fido di Papà. Mi fido di Louis e di Tony. Però non sono

in grado di provarlo. Hai fatto bene a porre la questione. È sempre

meglio avere sospetti. Ma che scelta abbiamo? Mollarli perché

sospettiamo di loro vorrebbe dire rinunciare alla nostra fonte migliore.


Per quanto riguarda le informazioni, l’appoggio, ogni cosa.

Quanti terroristi avremmo eliminato senza di loro?

«Però dobbiamo tener conto che potrebbero venderci a qualcuno.

Benissimo. Allora continuiamo pure a servirci di loro, ma

raddoppiamo le precauzioni. Cerchiamo di sviarli un po’. Cambiamo

ogni mossa all’ultimo momento. Non ti pare il sistema più intelligente?»

Hans si mise a ridere. «Sei proprio matto, lo sai» disse ad Avner. «Voglio
dire,

matti lo siamo tutti, ma può darsi che tu sia il più

matto fra noi.»

«Però ha ragione,» disse Steve, «è l’unico modo possibile di agire

per noi.»

Così fu deciso. Il punto fermo nel pensiero di Avner, però, era

che si fidava del Group. Se davvero non se ne fosse fidato, con tutta

probabilità avrebbe interrotto ogni contatto con loro nonostante

ciò che aveva detto a Hans. Non era poi così matto. Faceva affidamento

solo sul suo sesto senso.

E forse si sbagliava. (nota 3).

La faccenda di Washington si rivelò ancor più difficoltosa di

quanto Avner avesse previsto. Pepe ebbe una crisi isterica. Per

qualche ragione se la prese in particolare con Steve, mettendosi a


tempestargli il petto di pugni, strillando che era stato lui a uccidere

Robert. Steve si limitò a indietreggiare tenendo gli occhi fissi a terra,

finché Avner non agguantò Pepe da dietro e la strinse tra le braccia.

Allora lei si mise a piangere. Suo zio aveva almeno avuto il buon

senso di allontanare i bambini da casa prima dell’arrivo di Steve e

Avner.

Avevano prelevato una certa somma dai loro conti personali da

destinare a Pepe, proprio come avevano contribuito a risarcire la

vedova di Carl, anche se questa volta versarono solo cinquemila

dollari a testa, per un totale di quindicimila. Provavano tutti un po’

di vergogna per quella che consideravano una mancanza di generosità,

ma, anche se non ne parlarono apertamente, era chiaro che cominciavano

a pensare alle rispettive famiglie. Se fossero stati fatti

fuori l’uno dopo l’altro, e avessero voluto risarcire con quarantamila

dollari ciascuna delle vedove, all’ultimo superstite non sarebbe

letteralmente rimasto un soldo per sua moglie e i suoi figli. Sebbene

i familiari avessero diritto a una pensione, non sarebbe stato

granché.

Avner si fermò a New York per un paio di giorni prima di tornare

in Europa. Dopo un anno e mezzo, Shoshana cominciava ad abituarsi


a vivere in America. Era addirittura rifiorita, pensò Avner, e

appariva chiaramente fiera di come fosse riuscita a conquistare, tutta

da sola, quella strana, spaventosa metropoli, così diversa dalle

città israeliane che aveva conosciuto. Quanto a Geula, si era trasformata

da

una

bruttissima

neonata

nella

più

bella

trottolina

che

si

potesse immaginare. E poi c’era Charlie, il quale si eccitò a tal punto,

alla vista di Avner, che saltò su a dare un morso al naso del padrone.

Cosa di cui si vergognò tanto che per ore non fu possibile,

con tutte le moine, stanarlo da dietro il divano.

Alla mente di Avner balenò l’idea che sarebbe stato meraviglioso

mollare tutto quanto, lasciar perdere la missione, l’Europa, i mechablim,


magari
persino Israele. Scrivere una lettera di dimissioni,

imbucarla in una cassetta postale, poi sistemarsi a Brooklyn con

Shoshana, la piccola e il cane e iniziare una vita pacifica, e forse anche

prospera, in America. Perché no? Aveva combattuto due guerre

e contribuito a eliminare nove terroristi di spicco, con notevoli rischi

personali. Che altro poteva pretendere da un uomo un qualsiasi

paese? Forse persino sua madre avrebbe convenuto che ormai aveva

fatto il suo dovere nei confronti di Israele.

Ma il giorno dopo era all’aeroporto Kennedy a prendere l’aereo

della TWA per Francoforte. Come al solito, non permise a Shoshana di

accompagnarlo. «Non posso promettertelo» le disse al momento

del congedo «ma forse la prossima volta che verrò sarà per

fermarmi.»

Ciò accadeva durante l’ultima settimana di settembre, a quasi

due anni di distanza dal giorno in cui avevano iniziato la missione

nel 1972. Avner aveva l’impressione di essere maturato, in quel periodo,

trasformandosi da un ragazzo di venticinque anni in un uomo

di mezz’età di ventisette. Se non avessero concluso quanto prima

la missione, si domandava se sarebbe mai diventato un vecchio

di ventotto. Si era sempre saputo che ciò accadeva agli agenti, ma


Avner finora non ci aveva creduto.

Dopo la morte di Carl, Avner aveva cominciato a trovare sempre

più difficile dormire nel suo letto, la notte. Non era mai stato un

problema, prima, ma ora gli capitava soprattutto quando era solo

nel covo di Francoforte, o in viaggio, e doveva passare la notte in

una camera d’albergo. Steso sul letto, non riusciva proprio ad


addormentarsi.

Dopo un po’, risolse il problema dormendo nell’armadio.

Sistemava i guanciali e le coperte sul fondo, chiudeva l’anta

dall’interno e si addormentava. Da un punto di vista della sicurezza,

era perfettamente logico: un letto poteva essere imbottito di

esplosivo, e di notte eventuali intrusi per prima cosa lo avrebbero

cercato nel letto - ma nel frattempo Avner, che aveva il sonno molto

leggero, probabilmente si sarebbe svegliato e sarebbe stato in

grado di affrontarli. Anche se riusciva a giustificare in quei termini

il fatto di dormire nell’armadio, il motivo di fondo era chiaramente

da ricercarsi nei suoi nervi. L’avrebbero pensata così anche i suoi

compagni, indipendentemente da ogni senso logico. Il risultato fu

che Avner continuò a dormire nell’armadio ogni volta che era solo,

ma non ne fece parola con gli altri. Quando Avner e Steve rientrarono

a Francoforte, Hans era già andato a controllare la cassetta di


sicurezza a Ginevra. Ci aveva trovato un messaggio di Ephraim. Il

messaggio dava riscontro della notizia della morte di Robert, poi

proseguiva con un ordine laconico:

Concludere immediatamente.

I depositi sul conto operativo, però, non erano stati congelati o

estinti. Hans lo sapeva, perché era stata la prima cosa che aveva

controllato, una volta letto il messaggio di Ephraim. Non era sorprendente;

Ephraim certo si aspettava che concludessero i loro affari

cautamente, saldassero i debiti in sospeso con gli informatori, e

così via. Anche se probabilmente non ci sarebbero stati più versamenti

sul conto - a meno che non facessero richiesta di altri fondi,

fornendo ragioni plausibili - ci sarebbe stato un periodo di proroga

durante il quale avrebbero ancora avuto a disposizione più di un

quarto di milione di dollari. Per non correre rischi, Hans aveva


immediatamente

provveduto a trasferire la maggior parte del denaro

sugli altri conti che Carl aveva aperto per la squadra in varie capitali

europee all’inizio della missione.

«Del messaggio di Ephraim, che ne hai fatto?» domandò Avner

a Hans.

«L’ho lasciato nella cassetta di sicurezza» rispose Hans.


Era anche quella una precauzione; finché il messaggio fosse rimasto

nella cassetta di sicurezza, il Mossad avrebbe potuto dedurne

che la squadra non l’aveva ancora ritirato. Non c’erano periodi prestabiliti

per controllare se esistevano messaggi per loro a Ginevra, e

neppure altri modi per la base di mettersi in contatto con loro. Se

Ephraim si fosse realmente messo in testa di controllare, avrebbe

presto scoperto che avevano guardato dentro la cassetta di sicurezza:

ogni volta che l’aprivano, bisognava firmare un foglio datato;

però l’idea di lasciare il messaggio dove si trovava poteva far guadagnare

loro un po’ di tempo.

E il tempo era importante, perché Avner e i suoi compagni erano

fermamente decisi a non obbedire all’ordine del Mossad di concludere

la missione. O almeno, non immediatamente. Non prima

che il denaro fosse finito. Non prima che avessero avuto l’occasione

di eliminare i terroristi superstiti della lista.

Non consideravano la loro disobbedienza come mera vanità,


insubordinazione

o fanatismo. In cuor loro, la giustificavano definendola

una valida decisione operativa. Verso la fine del 1973 potevano

constatare lo sgomento in cui erano cadute le forze del terrorismo

a causa dell’eliminazione di nove dei loro capi. Potevano


rendersene conto di prima mano già solo per la difficoltà di ottenere

una qualsiasi informazione dalle loro consuete fonti arabe. Le perdite

subite dovevano necessariamente costringere i capi superstiti

ad abbandonare i nascondigli del Medio Oriente e dell’Europa

Orientale per venire in Europa a riorganizzare le loro reti. (nota 4).

Prima o poi, nel giro di qualche settimana o al massimo di alcuni mesi,


Salameh,

Abu Daoud o il dottor Haddad in persona sarebbero venuti in Europa. La


squadra,

per il fatto di trovarsi sul posto, era in grado di

rendersene conto più chiaramente di chiunque operasse dal quartier

generale di Tel Aviv. Rientrava perfettamente nella tradizione

israeliana che un comandante operativo non interrompesse un’azione

offensiva o non abbandonasse un inseguimento se gli sembrava

che le file nemiche si stessero sgretolando. Era quasi un dovere per

Avner non obbedire ciecamente agli ordini del quartier generale, se

gli appariva chiaro che erano stati emanati ignorando le condizioni

locali effettive.

A rigor di termini, era la verità. Che lo fosse o meno in quella

particolare occasione, era un altro paio di maniche. In ogni caso,

Avner e i suoi compagni non ebbero alcuna difficoltà a convincersi


che lo era.

«Supponiamo» fu così che la mise Avner «che avessimo approntato

per stasera un’operazione perfetta in tutti i sensi. Ci rinunceremmo

solo per via del messaggio di Ephraim?»

Era un’argomentazione valida. Solo che in quel momento non

avevano approntato alcuna operazione, perfetta o meno che fosse,

per nessuna sera.

Durante il mese di ottobre continuarono a seguire le piste indicate

dagli informatori locali. Correvano di continuo voci su imminenti

incontri ad alto livello riguardanti Ali Hassan Salameh, Abu

Daoud o entrambi. In due occasioni, una a Milano e un’altra a Berlino

Ovest, Avner e Steve, con Hans che fungeva da copertura, avevano

fatto la posta a due edifici residenziali nei quali avrebbero dovuto

arrivare i capi terroristi. In entrambi i casi, tenevano pronti i

mitra nel bagagliaio dell’auto per sferrare un attacco frontale non

appena avessero avvistato uno dei loro bersagli. In entrambe le occasioni

videro alcuni arabi entrare e uscire dagli edifici, ma, al ricordo

di Glarona, non fecero alcuna mossa. Né l’avrebbero fatta senza

prima vedere effettivamente Salameh, Abu Daoud o il dottor Haddad,

senza essere assolutamente certi di averli identificati.


Cosa che non furono in grado di fare né a Milano né a Berlino

Ovest.

Poi, al primi di novembre, giunse notizia da Louis che Ali Hassan

Salameh sarebbe dovuto arrivare nella cittadina spagnola di

Tarifa, sulla costa atlantica, tra Gibilterra e la frontiera del Portogallo.

Presumibilmente da Algeri.

I tre compagni volarono a Madrid, giungendovi l’8 novembre.

Esaminarono le armi che il contatto locale di Papà aveva loro procurato:

tre Beretta calibro 22 e tre mitra Uzi, del tipo europeo, fabbricato

per concessione di Israele, con un caricatore un po’ più capiente

e una canna un po’ più lunga dell’originale; poi si diressero verso

sud, in direzione della costa, a bordo di un’automobile presa a nolo.

A mo’ di precauzione non si portarono appresso le armi, ma incaricarono

il contatto di Papà di recapitarle loro a Tarifa con un furgoncino.

Tarifa, sul promontorio più meridionale dell’Andalusia, separata

dal Marocco solo dalle otto miglia di mare dello Stretto di Gibilterra, si
trova da

un punto di vista geografico in Europa. Ha però

tutta l’aria di una cittadina araba del Nordafrica. Il carattere della

sua architettura è ancor oggi totalmente moresco, sovrastato in certi

punti da anfiteatri e acquedotti romani.


Avner e i suoi compagni presero alloggio in un albergo appena

fuori città e attesero l’arrivo dell’uomo di Papà. Ne avevano bisogno

non soltanto per via delle armi, ma anche perché indicasse loro

con precisione la villa dove avrebbe dovuto aver luogo l’incontro

fra i terroristi arabi. Si trattava, a quanto sembrava, di una grande

casa, piuttosto isolata, in cima a una bassa scogliera in riva al mare.

Ne era proprietaria una ricca famiglia spagnola che la usava assai di

rado. A quanto sembrava, si doveva alla figlia degli spagnoli, una

studentessa in scienze politiche che si era invischiata con certi rivoluzionari

marxisti presso un’università francese, l’idea di prestarla

ai palestinesi.

Il piano di Avner consisteva nell’introdursi nella proprietà con

un’operazione furtiva in tipico stile commandos. Probabilmente la

casa sarebbe stata sorvegliata, ma forse non troppo rigorosamente.

In ogni caso sarebbe stato possibile scoprirlo con una ricognizione,

e scoprire anche se nella casa alloggiasse qualcuno dei mechablim

d’alto bordo. La squadra avrebbe sferrato l’attacco solo se avesse

avuto conferma, attraverso l’osservazione diretta, della presenza

dei terroristi. Se la casa fosse sembrata troppo rigorosamente sorvegliata

per consentire la riuscita di un attacco da parte di tre uomini,


Avner non escludeva la possibilità di mettersi in contatto col Mossad

tramite canali di emergenza per chiedere rinforzi o istruzioni.

Intendeva agire in modo molto responsabile. Non avrebbe dovuto

esserci un assalto suicida, anche se Salameh o Abu Daoud si fosse

trovato nella casa. La squadra aveva deciso di non intervenire se

non

ci

fosse

stata

una

ragionevole

probabilità

di

successo.

L’uomo di Papà arrivò a Tarifa il 10 novembre. Consegnò le armi,

poi accompagnò in auto gli uomini della squadra fino ai piedi di

una strada col fondo di ghiaia, lunga circa un chilometro e mezzo,

che s’inerpicava serpeggiando lungo la scogliera dalla strada statale

costiera. Non si trattava di un viale privato, però c’erano soltanto

tre case, circondate da vasti appezzamenti privati. L’uomo di Papà


spiegò che la casa sospetta era l’ultima, quella dove la strada finiva

davanti a un grande cancello di ferro. Non potevano sbagliarsi.

Avner, Steve e Hans risalirono la strada in macchina per circa

ottocento metri verso le dieci della sera seguente. La sera dell’11

novembre era umida e ventosa. Il vento soffiava dalla direzione

dello Stretto di Gibilterra, cioè da sud-est, sollevando le foglie morte

da terra e facendole turbinare nell’aria. In una notte del genere,

lo scalpiccio dei passi non sarebbe stato facilmente percepibile. La

luna quasi piena era completamente nascosta dalle nubi. Gli alberi e

i cespugli crescevano in fitte, scure, contorte forme su ambo i lati

della strada. Erano il terreno e la notte ideali per andare in ricognizione.

Steve fermò la macchina prima di una curva della strada, a circa

quattrocento metri di distanza dal cancello. Eseguì un’inversione

di marcia quasi completa, lasciando l’automezzo in sosta col muso

nella direzione da cui erano venuti, sul ciglio della via, quasi in un basso
fossato,

dov’era seminascosto dalla curva oltre che dai cespugli

che crescevano a lato della strada. Per precauzione spense le luci

di posizione e staccò gli “stop”: se qualcuno li avesse seguiti, non

era proprio il caso di farsi notare ogni volta che il guidatore toccava

il freno; poi seguì Avner che s’inoltrava nei cespugli dal lato della
strada verso il mare. Hans rimase accanto all’auto, armato con uno

degli Uzi.

Avner e Steve avevano lasciato i loro mitra nel bagagliaio. Per il

momento intendevano solo eseguire una ricognizione, non sferrare

un attacco. Se avessero visto Salameh o Abu Daoud, e avessero deciso

che c’era la possibilità per loro tre di effettuare un assalto,

avrebbero avuto tutto il tempo di tornare a prendere gli Uzi. Ora,

armati solo delle piccole Beretta, si proponevano di varcare i confini

della proprietà aggirando l’ingresso principale per avvicinarsi alla

casa dal retro aprendosi un varco tra i cespugli. La villa dava le spalle

al mare per cui, seguendo la linea della scogliera, sarebbero arrivati al


giardino

retrostante.

I cespugli, per quanto fitti, non erano impenetrabili. In calzoni

scuri e maglioni neri, procedendo guardinghi e fermandosi di tanto

in tanto a osservare e ascoltare, Avner e Steve ci misero una ventina

di minuti a coprire il tragitto. La casa e le sue immediate vicinanze

si scorgevano agevolmente, dato che pioveva luce quasi da tutte le

finestre. Non videro guardie pattugliare il giardino. Conoscendo

abbastanza i palestinesi, Avner e Steve dubitavano che le guardie

fossero appostate lontano dalla casa. Gli arabi, al pari degli africani
in generale, non amano combattere di notte e tendono a sfuggire il

buio. Le guardie, ammesso che ce ne fossero, certamente avrebbero

preferito starsene appostate il più vicino possibile alle finestre illuminate.

Dipendeva dall’addestramento. I guerriglieri arabi addestrati

dai russi o dai cubani senza dubbio avrebbero combattuto al

buio esattamente come qualsiasi altro soldato, come le truppe giordane

di re Hussein addestrate dagli inglesi.

Sbucando vicino all’angolo della casa, Avner e Steve udirono

voci che parlavano in arabo. Le voci non provenivano dall’interno

della casa, ma piuttosto da un porticato di pietra appena oltre le

porte-finestre che davano su una piscina, contenente in quel momento

solo foglie morte e qualche dito d’acqua stagnante raccolta

nella parte più profonda. Avner e Steve si appiattirono contro il

muro appena dietro l’angolo della casa, ma non riuscirono a vedere

chi parlava. Riuscirono, tuttavia, a cogliere qualche parola.

«Perché non dirgli che ci serve dell’altro denaro?» disse un uomo.

«Hai paura a dirlo?»

«Abbiamo bisogno di una manciata di frutta, tutto qui» ribatté

un’altra voce.

Non c’erano dubbi in proposito. Che dentro casa ci fosse o meno


qualche capo terrorista, gli uomini sotto il portico erano arabi.

Ancora una volta l’informazione di Papà era almeno in parte esatta.

Il rumore che subito dopo giunse al loro orecchio fu lo scatto di

una vetrata che si chiudeva. Non si udivano più le voci. Con estrema

cautela, Avner si affacciò a sbirciare da dietro l’angolo.

Sì. Il portico era deserto.

Senza voltarsi a guardare se Steve lo seguiva, Avner avanzò in

punta di piedi in direzione delle porte-finestre. Era quasi certo che

nessuno lo avrebbe visto dall'interno, ritto nel patio buio. D’altra

parte, lui poteva scorgere facilmente chiunque si fosse trovato nella

stanza illuminata. C’erano sette o otto arabi in piedi accanto a un

lungo tavolo carico di frutta, che parlavano tra loro. Due degli arabi

portavano le keffiyeh a scacchi.

«Mechablìm.» Avner udì la voce di Steve bisbigliare accanto a

lui. Fece segno di sì con la testa. Sebbene non riuscisse a scorgere

armi, probabilmente si trattava di terroristi. Però i fedayin non erano

gli unici a portare le keffiyeh. Quegli arabi, almeno in teoria,

avrebbero potuto trovarsi in Spagna per motivi perfettamente legittimi.

Turisti, studenti o uomini d’affari. L’unico modo per essere certi che fossero

terroristi consisteva nel riconoscerne uno. Salameh o Abu Daoud. O il


dottor
Haddad. O George Habash o Ahmed

Jibril. O uno qualsiasi degli altri.

Ma Avner e Steve non riconobbero nessuno nella stanza.

C’erano molte altre stanze nella villa, naturalmente. Avrebbero

potuto facilmente trovarcisi almeno una dozzina di altre persone. E

inoltre, stando all’uomo di Papà, gli arabi non sarebbero arrivati

tutti insieme. Forse ne erano attesi altri nei giorni successivi. Forse

la riunione, ammesso che ce ne sarebbe stata una, non era ancora

iniziata, e gli arabi nella stanza erano solo fantaccini mandati in

avanscoperta.

Avner e Steve erano ancora ritti nel patio a guardare attraverso

le porte-finestre quando udirono alle loro spalle un rumore inequivocabile,

un fruscio e crepitìo dei cespugli. Qualcuno si stava aprendo

un varco nella vegetazione. Qualcuno del tutto privo di sospetti,

a giudicare dal rumore che faceva, stava risalendo il sentiero dietro

a loro.

Si girarono. Sapevano che le loro sagome in controluce sarebbero

apparse nettamente profilate a chiunque si avvicinasse dal giardino.

Questi non avrebbe distinto immediatamente i loro volti. Però

ben presto si sarebbe reso conto che erano due intrusi. Due agenti
israeliani, circondati da arabi presumibilmente ostili in un isolato

giardino spagnolo. Non potevano correre rischi. Già mentre si giravano,

piegarono le ginocchia in posizione di combattimento. La loro

mano destra si sollevava impugnando la Beretta, e la sinistra descriveva

un arco nell’aria per tirare indietro la slitta.

Guardarono l’uomo che era sbucato dai cespugli. Un giovane

arabo che portava la kejfiyeh. Ritto a circa tre metri di distanza da

loro, guardava senza capire le pistole che impugnavano. Anche se li

aveva notati dai cespugli già prima che loro due lo udissero arrivare,

chiaramente non si aspettava che fossero ostili. Probabilmente li

aveva scambiati per due suoi compagni.

Un giovane arabo. La mano destra all’altezza dei calzoni, come

se se li fosse appena chiusi. Nella sinistra, un Kalashnikov.

Accennò a sollevarlo.

Avner e Steve fecero fuoco contemporaneamente. Due volte,

poi due volte ancora. Il vento di novembre, che faceva turbinare le

foglie morte, si portò via lo schiocco-sibilo delle loro pistole. Pffm-

pffm, pffm-pffm. Pffm-pffm, pffm-pffm. Il ragazzo arabo tentava di


ritrovare

l’equilibrio mentre loro si avvicinavano. Poi si piegò in due

e cadde a terra di lato, contorcendosi, sforzandosi di respirare. Cadendo,


non mollò il Kalashnikov. Lo teneva nell’incavo del braccio

sinistro, stretto al corpo, e alzava lo sguardo su Avner e Steve.

Dentro casa, nessuno parve udire o notare qualcosa. Gli uomini

erano ancora in piedi accanto al lungo tavolo, e mangiavano, parlavano

e gesticolavano. Avner udì persino uno scroscio di risa. Senza

rimetter via la pistola, si volse e s’incamminò, per uscire dal giardino.

Non nella direzione da cui erano venuti, ma per la via più breve,

verso il cancello. Steve lo seguì. Camminavano in fretta, voltandosi

a guardare di tanto in tanto. Nessuno li seguiva. Varcato il cancello,

spiccarono la corsa. In discesa, con l’umido vento di novembre che

li spingeva alle spalle. Inseguiti solo dalle foglie morte. Correndo

sempre più velocemente.

Correndo. Avner se ne sarebbe sempre ricordato. Conclusero la

loro grande, storica missione, correndo giù per una tortuosa strada

coperta di ghiaia, in Spagna, come un paio di scolaretti che avessero

combinato qualche imperdonabile marachella e tentassero di sottrarsi

alla giusta punizione.

Capitolo 17

Francoforte

Al pari di molte altre città andaluse, Tarifa ha una storia violenta.


Anche se Avner non lo sapeva, a qualche centinaio di metri appena

dal punto in cui giaceva il giovane guerrigliero arabo, un uomo

che era passato alla storia col nome di Guzman il Buono aveva sacrificato

il figlioletto di nove anni piuttosto di cedere Yalcazaba, una

fortezza moresca, le cui rovine costituivano ancora una modesta attrazione

turistica, agli assedianti. A Niebla, circa 185 chilometri a

nord-ovest, lungo la Costa de la Luz, gli scienziati militari arabi

avevano introdotto la polvere da sparo per la prima volta nella storia

delle vicende belliche europee. Nel periodo intercorso tra il XIII

secolo, quando avevano avuto luogo tali eventi, e il tempo di Avner, la


natura dei

conflitti umani era mutata di poco.

L’idea di istituire raffronti storici, tuttavia, neppure sfiorava la

mente di Avner, o di Steve, mentre correvano a perdifiato verso il

punto in cui Hans li aspettava accanto all’auto. Steve guidò come

un pazzo, a fari spenti, finché Avner non gli urlò di fermare. Non

erano inseguiti. Inutile attirare su di loro l’attenzione, trasformando

la litoranea in una pista di Formula 1. Calmatosi un tantino, Steve

ricollegò le luci di posizione. Hans aveva rimesso il suo mitra nel

bagagliaio, però non mollarono le calibro 22 finché non rientrarono

sani e salvi all’albergo.


Seduti nella camera di Avner, cercarono di ricomporsi e di valutare

la situazione. Non correvano pericolo immediato. Siccome era

improbabile che dei semplici turisti o uomini d’affari se ne andassero

attorno armati di Kalashnikov, gli arabi della villa erano senza

dubbio dei terroristi. Come tali, quasi certamente non avrebbero

chiamato la polizia. Né avrebbero iniziato una perlustrazione casa

per casa della zona per scovare un paio di aggressori che neppure

avevano visto. L’unica persona che avrebbe potuto fornire la loro

descrizione, il ragazzo arabo armato di fucile d’assalto, probabilmente

era morto. E anche se gli arabi chiamavano la polizia, non

c’era indizio che potesse collegare Avner e i suoi compagni con l’attacco

alla villa. Erano tre turisti della Germania Occidentale, come

migliaia d’altri, con passaporti impeccabili. A parte le armi, l’unico

indizio che forse avrebbe potuto collegarli con la sparatoria erano le

tracce lasciate dalle gomme dell’auto sul viale coperto di ghiaia.

Avner telefonò all’uomo di Papà per dirgli di venire a prenderli

in mattinata con un altro automezzo, in pari tempo ritirando anche

le armi. Sarebbero stati abbastanza al sicuro all’albergo per quella

notte, pensava. Il giorno dopo, sarebbero tornati a Madrid con una

macchina diversa, senza armi e senza doversi preoccupare di ricerche


e blocchi stradali.

Fu ciò che fecero. Il tragitto era lungo, e i tre sedevano in macchina

senza parlare molto, con Avner che di tanto in tanto si alternava

al volante con Steve. Avner sapeva che pensavano tutti e tre

alla stessa cosa, anche quando parlavano di qualcos’altro. Avevano

commesso un errore? Avrebbero potuto fare altrimenti? Avevano

perso la testa? Avrebbero dovuto tentare di ritirarsi senza sparare al

ragazzo arabo? Lo avevano davvero ucciso per legittima difesa?

Ma l’avevano poi ucciso? Era ormai il quarto palestinese sconosciuto

che avevano ucciso. Quattro uomini che, seppure non spettatori

innocenti come il cameriere di Lillehammer, non figuravano

comunque sulla lista. Cinque, contando anche Muchassi, ad Atene.

Sei, contando l’agente del KGB. Sette, contando la ragazza bionda

di Hoorn.

E senza beccare Salameh, Abu Daoud o il dottor Haddad.

Si trattava della conseguenza inevitabile di missioni come quella?

Oppure si stavano comportando in modo sbagliato? L’impresa

cominciava a far sentire i suoi effetti? Stavano forse perdendo la

calma? In ultima analisi, avevano fallito?

Certo che dopo l’eliminazione di Boudia, quasi un anno e mezzo


addietro, non avevano più stanato uno solo dei bersagli superstiti.

Però avevano ucciso quattro manovali del terrorismo arabo e una

donna olandese - e nel contempo perso Carl e Robert. Due agenti

in gambissima in cambio di nessuna vittoria militare nella guerra

contro il terrorismo. Era un fallimento. Era una sconfitta. Non

c’era altro modo di definire la cosa.

Peggio ancora, ormai agivano in aperta sfida agli ordini ricevuti.

Senza l’autorizzazione della base. Se ne andavano a zonzo per

giardini spagnoli ad ammazzare arabi. Come dilettanti.

Come terroristi.

Fu ciò che disse Hans poco prima che uscissero dall’autostrada

N4, alla periferia di Madrid. «Sapete,» disse, «ci siamo comportati

esattamente come i mechablim.»

Né Avner né Steve lo contraddissero. (nota 1).

Nella settimana che seguì, lasciarono Madrid uno alla volta e fecero

ritorno a Francoforte. Come già in occasione della sparatoria

di Glarona, non trovarono il minimo accenno a quanto era accaduto

a Tarifa in nessun giornale. Era impossibile che fosse loro sfuggito

qualche articolo con la notizia, sia in Spagna sia in Svizzera, ma era

più probabile che le due sparatorie fossero passate sotto silenzio. (nota 2).
Sicuramente i terroristi non desideravano attirare l’attenzione su di

sé, se appena potevano evitarlo.

Il timore di essere scoperti era perciò minimo. Dopo i primi

giorni, e sicuramente nell’attimo in cui avevano lasciato la Spagna,

Avner e i suoi compagni non dovettero più preoccuparsi.

A preoccuparli era qualcosa di totalmente diverso. Qualcosa

che era difficilissimo tradurre in parole. Il termine “fallimento” o

“disonore” non lo esprimeva adeguatamente. E neppure “colpa”,

nel senso più comune della parola. Non si trattava nemmeno di un

senso di futilità.

Si sentivano perseguitati dalla sfortuna. Come tutti i soldati,

non erano immuni da una certa superstizione. Inoltre, si ha sempre

l’impressione di un’ingiustizia quando si è traditi da qualcuno o

qualcosa che prima ci era amico: il successo, una donna, la vittoria,

le fortune della guerra. La cosa comporta un senso di amor proprio

ferito e di umiliazione, un’improvvisa insicurezza riguardo a ogni

valore e convinzione.

Avner aveva sperimentato in parte tale sensazione dopo la morte

di Carl, e ancor più dopo Tarifa. L’aveva provata anche Steve,

entro certi limiti. Ma ora aggrediva Hans con violenza.


Hans si fece meditabondo. Già poco ciarliero per natura, adesso

passava intere giornate senza aprir bocca. Faceva il suo lavoro

metodicamente, come prima, ma così chiuso in se stesso, con un


atteggiamento

così distaccato, tradendo una tale apprensione che Avner cominciò a


preoccuparsi

sul serio per lui. In pari tempo, non voleva

sentir parlare di rinunce. In realtà, l’argomento non venne mai

affrontato apertamente - avevano convenuto tutti e tre che non

avrebbero mollato la presa finché non si fosse esaurito il denaro -

ma una volta che Avner gli domandò se si sentiva bene, Hans rispose

a denti stretti: «Senti, non è proprio il caso di smettere adesso,

per cui non parliamone proprio. Facciamolo, e basta. Non c’è altro

di cui parlare».

Così, non ne parlarono. Cercarono di farlo. Cercarono di farlo

per altre sette settimane.

Senza il minimo successo. Senza neppure scoprire un indizio

per cui valesse la pena di spendere le loro risorse in costante esaurimento.

Hans era particolarmente inflessibile sulla necessità di usare

con parsimonia il denaro rimasto, per non correre il rischio di trovarsi

al verde se si fosse presentata una buona possibilità operativa.


Aveva ragione, perché sarebbe stata davvero una beffa atroce individuare

Salameh per poi scoprire, all’ultimo momento, che non avevano

più il denaro per occuparsi di lui. Ma non si arrivò mai a quel

punto.

Semplicemente, non riuscivano a instaurare contatti. Né attraverso

alcuno dei loro informatori consueti, né attraverso Louis o

Tony. E neppure attraverso Papà. Se avessero dato la caccia ad altri

terroristi ci sarebbero magari riusciti: il 1974 era stato un anno di

grande attività per i mechablim in Europa, soprattutto per un gruppo

appoggiato dal colonnello libico Gheddafi, chiamato Gioventù

Nazionale Araba per la Liberazione della Palestina. Diretto dapprima

da un certo Ahmed al-Ghaffour, e poi da Abu Nidal, il gruppo

era composto da terroristi che non consideravano più abbastanza

estremista e militante Settembre Nero o il Fonte Popolare (al-

Ghaffour venne a un certo punto catturato e probabilmente giustiziato

dalle forze del capo di Settembre Nero, Abu Iyad). Nel 1974

la Gioventù Nazionale Araba attaccò con successo tre aerei di linea.

L’8 ottobre i terroristi ne fecero esplodere uno, per l’esattezza un

jet della TWA in volo da Tel Aviv ad Atene, nel cielo del mar Egeo,

causando la perdita di ottantotto vite umane.3 Tre settimane prima,


il 15 settembre, i terroristi avevano lanciato una bomba a mano

all’interno del Drugstore di Parigi, sugli Champs-Elysées, uccidendo

due persone e ferendone dodici, in un’operazione congiunta con

uomini del Fronte Popolare e dell’Armata Rossa Giapponese. Sotto

la guida di Carlos lo Sciacallo.

Carlos, di cui i tre della squadra si sentivano particolarmente responsabili;

Carlos, al quale avevano spianato la strada al vertice uccidendo

Boudia. Ma non faceva differenza. Non figurava sulla loro

lista. Neppure Abu Nidal figurava sulla loro lista. E non potevano

certamente mettersi in contatto con Ephraim per chiedere una modifica

dell’incarico, quando persino la loro missione originale era

stata annullata. Era ormai da escludersi qualsiasi azione unilaterale;

non avrebbero potuto giustificarla. Potevano solo tentare di stanare

i terroristi superstiti della lista. Soprattutto Ali Hassan Salameh.

Le cose sarebbero cambiate completamente, se avessero beccato

Salameh.

Ma a quanto risultava loro, Salameh non aveva nessuna intenzione

di venire in Europa.

Passarono Natale e l’ultimo dell’anno a Francoforte. La città

era in vena di festeggiamenti; Avner, Steve e Hans certamente no.


Hans, in effetti, era in preda a un miscuglio di umori che in teoria

avrebbero dovuto escludersi vicendevolmente. Era abbattuto e


meditabondo,

ma in pari tempo diventava sempre più paranoico e persino

bellicoso. Prese l’abitudine di portarsi appresso una pistola. In

precedenza, non se n’erano mai andati in giro armati se non dovevano

affrontare un’operazione, ma la paranoia di Hans era contagiosa.

Ora persino Avner e Steve cominciarono a portare un’arma

su di sé, giusto nel caso che il loro compagno avesse ragione di ritenere

che qualcuno li pedinava - magari per via di una fuga di notizie

attraverso le maglie dell’organizzazione di Papà. Hans arrivava addirittura

a pensare che Tarifa potesse essere stata una trappola, anche

se Avner era convinto che su questo si sbagliasse; se fosse stata

una trappola, si sarebbero trovati esposti al fuoco incrociato degli

avversari, non alle prese con un terrorista isolato nell’atto di abbottonarsi

i calzoni. Ma dopo le morti misteriose di Carl e di Robert,

sospetti del genere non si potevano scartare a priori. Forse i terroristi

di Tarifa avevano effettivamente ricevuto una soffiata, ma si

aspettavano l’arrivo degli israeliani solo più tardi. Avner, infatti,

aveva detto all’uomo di Papà, per semplici motivi di precauzione,

che avrebbero aspettato a Tarifa certi loro amici prima di intraprendere


una qualsiasi azione.

In ogni caso a Francoforte giravano armati, malgrado ciò comportasse

un rischio supplementare. E Avner notò i segnacci neri sulla

parte inferiore della porta del covo di Hans: evidentemente, ormai

non l’apriva più senza prima appoggiarci contro la pianta del

piede. Era una cosa che veniva consigliata a tutti gli agenti, e poteva

segnare la differenza tra la vita e la morte in caso di inaspettata aggressione,

ma Hans non aveva mai avuto l’abitudine di farlo. Nessuno

di loro lo faceva di frequente. Al pari dei bersagli “facili”, finora

perlopiù avevano fatto affidamento sulle loro coperture.

D’altro canto, Hans usciva a fare lunghe passeggiate, da solo, a

tarda sera, nell’immenso parco nei pressi del covo. Gli era sempre

piaciuto camminare, ma in passato per farlo sceglieva ore relativamente

ragionevoli, condizioni atmosferiche permettendo. Ora invece

camminava per ore nella neve, esposto al vento tagliente di dicembre,

magari fino a mezzanotte, lungo i viali completamente deserti

dell’Ostpark, a nord della stazione ferroviaria orientale di

Francoforte. Arrivava a starsene seduto per un paio d’ore su una

panchina nel suo posto preferito, un punto isolato del parco presso

un laghetto artificiale, che d’estate era popolato di anatre selvatiche


ma in quella stagione era coperto da una crosta di ghiaccio.

«Le anatre dimostrano molto più buon senso di te» Steve disse a

Hans, una volta che aveva dovuto arrivare fino allo stagno per farsi

dire una certa cosa.

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«Be’, non posso starmene sempre rintanato dentro casa» aveva

ribattuto Hans.

Avner capiva benissimo. Certamente, in quella fase della missione,

neppure a lui piaceva molto vivere da solo. Dopo la morte di

Robert, aveva invitato Steve a trasferirsi nel covo che prima aveva

diviso con Carl, perché era preferibile persino dover sopportare le

abitudini da scapolo disordinato di Steve al fatto di vivere da solo.

Ma quando aveva suggerito a Hans che avrebbero dovuto cercare

un covo in cui vivere tutti assieme, Hans aveva rifiutato. «Non

preoccuparti per me» aveva detto. «Sto benissimo così.»

Il che non era assolutamente vero.

La sera del 6 gennaio 1975 Hans uscì dal covo a un’ora imprecisata,

dopo le nove. Dovevano essere passate le nove, perché Avner

a quell’ora gli aveva telefonato. Parlarono per qualche istante - non

avevano niente di importante da dirsi - poi riagganciarono, con la


promessa di farsi vivi a vicenda più tardi. Era la normale procedura.

Non avendo Hans telefonato entro mezzanotte, Avner fece il suo

numero. Non ebbe risposta. E non ebbe risposta neppure all’una.

Era strano. Hans usciva, sì, a fare lunghe passeggiate in serata,

ma non era mai rimasto fuori fin dopo la mezzanotte. Era sempre

possibile che un informatore si facesse vivo per chiedere un incontro

imprevisto, ma in casi del genere avevano stabilito di avvertirsi

a vicenda. Soprattutto negli ultimi tempi. Se si fosse recato a un


appuntamento

di quel tipo, Hans avrebbe telefonato. Sapeva che Avner e Steve a quell’ora

sarebbero stati a casa. Avner cominciò a

preoccuparsi.

«Voglio andare a vedere» disse a Steve. «Non mi va l’idea che

sia ancora fuori.»

Steve scrollò le spalle. «Probabilmente se ne sta seduto su quella

maledetta panchina vicino allo stagno,» disse, «ma andiamo pure.»

Ci misero meno di venti minuti a coprire il tragitto dalle vicinanze

di Hugelstrasse, nel quartiere Eschersheim, dove si trovava il

loro covo, fin quasi a Ròderbergweg, dove abitava Hans. Nel covo,

Hans non c’era. Avner aprì la porta con un duplicato della chiave,

ma non notò niente fuori posto. Evidentemente Hans era uscito


per qualche ragione e non era ancora rientrato.

Era una notte freddissima, e ormai si erano fatte quasi le due.

Era improbabile che Hans, malgrado l’umore di quei giorni, se ne

stesse ancora a passeggiare o seduto nel parco, eppure era l’unica

spiegazione plausibile. Qualsiasi altra ipotesi poteva solo significare

che c’era qualcosa che non andava.

«Se è rimasto allo stagno» disse Steve «dovrà trovare una scusa

valida perché non gli spacchi il grugno.»

Conoscevano la strada che faceva di solito Hans per recarsi al

parco. Percorreva un breve tratto della Ròderbergweg, poi imboccava

un pittoresco vialetto sopraelevato che si chiamava Lili-

Schònemann-Steige (dal nome di un’amica d’infanzia del poeta

Goethe) fino a una strada a quattro corsie, sul fondo dell’avvallamento.

Attraversata Ostparkstrasse, arrivava all’Ostpark e di regola

vi entrava qualche centinaio di metri a nord-est del punto in cui

aveva attraversato la strada, prendendo un sentiero chiaramente segnato.

E il sentiero, dopo qualche curva e controcurva, lo portava

allo stagno.

Avner e Steve si aspettavano di incontrare Hans che tornava a

passo spedito, ma non fu così. Nel parco era buio pesto, e non c’era
anima viva. Mentre si avvicinavano al laghetto artificiale, tuttavia,

il riverbero del ghiaccio fu sufficiente a consentir loro di scorgere la

figura di un uomo seduto sulla panchina. Era proprio Hans.

Ma Steve non gli spaccò il grugno. Hans aveva una scusa più che

valida: era morto.

Alla vista di Hans morto nel parco, la prima cosa che venne in

mente ad Avner non fu che fosse stato assassinato. La prima cosa

che gli venne in mente fu che si era ucciso.

La vegetazione formava un piccolo pergolato ai bordi dello stagno.

La riva era sopraelevata di un metro o poco più rispetto alla superficie

ghiacciata del laghetto, e separata da un muretto di pietra e

da una balaustra di legno. Il corpo era piegato in avanti contro la balaustra,

la testa ciondolante da un lato, gli occhi sbarrati in un volto

inespressivo. Hans aveva il cappotto sbottonato. Lì per lì Avner

non vide traccia di ferite, né alla testa né al corpo.

Era molto buio. Non avevano pensato di portare una torcia

elettrica, e non avevano fiammiferi. «Attento» disse sottovoce Avner a


Steve.

Malgrado il freddo intenso, il corpo di Hans non era

ancora raggelato. Con tutta probabilità era morto da un’ora appena,

forse meno. Chiunque l’avesse ucciso, poteva essere ancora nei


paraggi. Perché era stato ucciso, in effetti. La prima cosa che Avner

controllò fu la pistola di Hans. La portava ancora infilata nella cintola,

appena dietro il fianco. Non aveva sparato. Hans non si era ucciso.

Né era morto per cause naturali. Sebbene Avner ancora non

riuscisse a vedere ferite di sorta, avvertì la presenza di una sostanza

appiccicosa, vischiosa, come pece seccata a mezzo, mentre afferrava

la pistola di Hans. Doveva trattarsi di sangue colato da un ferita

al corpo. Una ferita che non si era inferta da solo.

«Lo hanno ucciso» disse Avner, tendendo a Steve la pistola di

Hans.

Per qualche istante nessuno dei due parlò. Erano attoniti, ma

anche spaventati. Il parco era immenso e silenzioso; ovunque girassero

lo sguardo, si vedevano solo cespugli intirizziti dal gelo e alberi

scuri. Era una notte senza vento. In lontananza si udiva il ronzìo

monotono della città, interrotto di tanto in tanto dal fragore metallico

di un carro merci sugli scambi della stazione ferroviaria. Steve

tirò indietro di scatto la sicura della pistola di Hans. «Dà un’occhiata

al portafogli» disse ad Avner. «Io sto di guardia.»

Ironia della sorte, l’assassino avrebbe potuto essere un rapinatore.

Francoforte non era una città con un livello particolarmente


alto di criminalità, però era una metropoli industriale, piena di lavoratori

stranieri provenienti da tutti i paesi dell’Europa meridionale.

C’era un quartiere notturno; c’erano ruffiani, ladri, drogati,

prostitute, come in qualsiasi altra metropoli. L’Ostpark era un pacifico

quartiere borghese, ma non c’è parco deserto che la notte sia

del tutto sicuro. A Francoforte, probabilmente si registravano almeno

una dozzina di omicidi all’anno a scopo di rapina. Hans non

sarebbe sembrato un bersaglio potenziale troppo difficile da rapinare;

un uomo di mezza età, tutto solo, seduto su una panchina, poteva

apparire come una vittima naturale. I rapinatori avrebbero potuto

persino scambiarlo per un ubriaco. Anche se Hans con tutta probabilità

avrebbe deciso di non opporre resistenza per una manciata

di Deutschmark, anzi avrebbe consegnato prontamente il portafogli,

persino l'orologio, un ladruncolo nervoso avrebbe potuto sparargli

comunque. Era una delle spiegazioni possibili.

Ma Hans aveva ancora al polso l’orologio. E il portafogli nella

tasca, intatto.

Che Hans fosse stato tradito da un informatore? Era improbabile

che avesse preso appuntamento per incontrarsi con qualcuno in

quel particolare posto. Non solo il parco di notte era deserto e un


luogo tutt’altro che consigliabile per un incontro con eventuali informatori,

ma il laghetto era anche un posto molto personale per

Hans, il nascondiglio privato dove andava a riposarsi e a meditare,

un luogo dove starsene in santa pace.

Era, tra parentesi, anche un posto difficilissimo in cui seguire

qualcuno senza farsi notare. Hans non sarebbe andato allo stagno a

tarda ora se fosse stato seguito da qualcuno. Naturalmente, chi si

fosse trovato a passare in macchina per Ostparkstrasse avrebbe potuto


vederlo

entrare nel parco e, se conosceva le sue abitudini, intuire

dove poteva sorprenderlo. Ma solo Avner e Steve erano a conoscenza

del laghetto artificiale. Il parco era vastissimo, e Hans

avrebbe potuto recarsi in un punto qualsiasi. Sorprendetelo per

puro caso sarebbe stato molto difficile. Un terrorista deciso ad

eliminarlo avrebbe potuto aggirarsi nel parco fino ad assiderarsi prima di

imbattersi in Hans sotto quel piccolo pergolato isolato.

Eppure, visto che non era stato rapinato, chi altri poteva averlo

ucciso se non un sicario terrorista?

Avner sfilò dalla tasca il portafogli di Hans, che conteneva una

patente di guida tedesca e alcuni tesserini della previdenza sociale.

Hans non portava altri documenti su di sé. Osservando più attentamente,


ad Avner parve che la maggior parte del sangue coagulato si

trovasse al centro del petto di Hans, ne tastò anche una lunga goccia

nel maglione. Era impossibile dirlo con sicurezza, ma aveva tutta

l’aria di essere una ferita di coltello, il che rendeva la faccenda ancor

più misteriosa. Com’era possibile che qualcuno si fosse avvicinato

tanto a Hans da accoltellarlo, senza che lui almeno cercasse di

estrarre la pistola? Avrebbe dovuto essere del tutto privo di sospetti,

oppure doveva esserci stata una seconda persona che gli puntava

contro un’arma. Ma anche così, era inconcepibile che Hans se ne

fosse stato lì placidamente a farsi accoltellare. Magari solo per un riflesso

automatico, avrebbe alzato le mani per scansare il coltello, e

invece Avner non riuscì a scoprire tracce di ferite da taglio o di sangue

sui suoi guanti o sulle maniche. Se era stato accoltellato, pareva

quasi che lo fosse stato nel sonno.

Il che era impensabile.

Allora, ad Avner venne fatto di pensare che non sapeva nulla

delle abitudini sessuali di Hans. Era sposato, ma ciò non significava

granché. Anche se in Hans non c’era niente che potesse far sospettare

ad Avner eventuali tendenze omosessuali - già solo l’idea era

un tantino ridicola - era anche vero che Avner non sapeva niente in
proposito. Dubitava che l’Ostpark, in gennaio, fosse un luogo di ritrovo

per omosessuali, ma in realtà non sapeva davvero molto in

proposito. Se Hans avesse fatto proposte omosessuali non gradite a

qualcuno, la cosa poteva spiegare le circostanze della sua morte.

Ma era un’ipotesi talmente campata in aria che Avner non ebbe

neppure il coraggio di parlarne a Steve. Né allora, né in seguito.

Probabilmente, Steve lo avrebbe preso in giro se solo lo avesse suggerito.

«Vado a fare una telefonata» disse Avner a Steve. «Aspettami

all’ingresso del parco.»

La cabina telefonica più vicina di Ostparkstrasse distava solo

una decina di minuti a piedi. Avner chiamò Louis a Parigi. «Ci troviamo

in una situazione come quella di Londra» gli disse. «Adesso ti

spiego dove mi trovo.»

Louis ascoltò in silenzio mentre Avner gli spiegava accuratamente

dove avrebbe aspettato gli uomini del Papà in compagnia di

Steve. Il francese non volle sapere altri particolari, e Avner non

gliene fornì. Prima di interrompere la comunicazione, Louis domandò:

«Non c’è altro che io possa fare?».

«Per il momento no, grazie» rispose Avner.

Non lo sapeva, ma quella sarebbe stata la loro ultima conversazione.


Avner non avrebbe più parlato con Louis.

Attese con Steve all’ingresso principale del parco gli uomini incaricati

di portar via il cadavere di Hans. Aspettarono per quasi

un’ora e mezza. Più tardi, Avner avrebbe ricordato con un certo

stupore che non avevano neppure patito il freddo. Fu una veglia

trascorsa in un silenzio pressoché assoluto. In realtà, si scambiarono

qualche parola solo due volte. La prima fu quando Steve commentò:

«Hai chiamato Papà. Non credi che c’entrino in qualche

modo?».

«No» rispose Avner.

Era la verità. Ma anche se si fosse sbagliato Avner riteneva che,

arrivati a quel punto, non poteva fare proprio più niente. Se fosse

stato rinvenuto il cadavere di Hans, avrebbe potuto scatenarsi

un’inchiesta da parte delle autorità tedesche. Un rischio che non

potevano assolutamente correre. Se erano stati quelli del Group a

far uccidere Hans, che provvedessero anche a fare sparire il cadavere.

Non avrebbero più potuto fargli del male.

La seconda volta che Steve aprì bocca, fu per dire: «Per un bel

po’ ho pensato che fossimo molto furbi. Ma forse abbiamo solo avuto

fortuna. E poi, forse, la fortuna ci ha abbandonato».


Non c’era niente che Avner potesse rispondere, per cui non disse

niente. Può darsi che il commento fatto da Steve quella notte, in

quel momento di tristezza, abbia sintetizzato l’intera missione meglio

di qualsiasi altra cosa.

Gli uomini di Papà arrivarono poco prima delle quattro, a bordo

di un camioncino dei lavori pubblici. Era il tipo di automezzo la

cui presenza non avrebbe attirato la minima attenzione in un parco.

Avner e Steve guidarono gli uomini allo stagno e aspettarono finché

il corpo di Hans non fu infilato in un sacco di tela grezza e poi caricato

sul cassone del camion. I due uomini erano tedeschi, e probabilmente

lavoravano a Francoforte in qualità di inservienti di ambulanza

o di becchini. L’intera operazione non richiese più di sette

od otto minuti. Dopodiché uscirono dal parco a retromarcia, seguendo

lo stretto viottolo serpeggiante.

Avner riuscì a vedere ancora per qualche minuto i fari del camion

che sparivano e riapparivano tra i neri alberi spogli. Poi non

vide più nulla. Hans se n’era andato. Come se n’erano andati Carl e

Robert. Come se non fossero mai esistiti.

Avner e Steve passarono le settimane seguenti a cercare di decidere

il da farsi. Per essere più esatti, a cercare di rimandare una decisione,


occupandosi di questioni di normale amministrazione.

Chiusero il covo di Hans e cambiarono il loro. Servendosi di una

delega che Hans aveva dato ad Avner qualche tempo prima, vendettero

il negozio di antiquariato. Volarono a Parigi e pagarono a

Kathy quanto ancora dovevano al Group - Louis era fuori città -

poi si recarono in macchina nella cittadina francese dove abitava la

moglie di Hans.

Era un’israeliana, molto diversa dalla moglie di Robert. «C’è

anche Hans?» domandò ad Avner quando le telefonò.

«Be’... no.»

«Capisco» rispose, dopo un attimo di silenzio. Evidentemente

aveva capito. Non ci fu bisogno di dirle altro.

Quando giunsero alla casa, la donna prese la valigia che conteneva

gli effetti personali di Hans e invitò Avner e Steve ad accomodarsi

nel soggiorno. Offrì loro il tè, e dopo qualche minuto di compita

conversazione chiese loro di raccontarle tutti i particolari che

ritenevano di poterle rivelare. Poterono dirle molto poco. Lei volle

saperedov’era stato sepolto Hans.

Avner guardò Steve. «Mi dispiace» disse alla fine. «Non posso

dirtelo. Io... nessuno lo sa.»


«Capisco» rispose lei, ancora perfettamente padrona di sé. «Volete

scusarmi un momento?»

Andò in un’altra stanza e vi rimase per circa un quarto d’ora.

Quando tornò aveva gli occhi asciutti, anche se un po’ arrossati,

forse. «Vi prego di perdonarmi» disse la moglie di Hans. «So bene

che dovrei farmi coraggio. Gradite un’altra tazza di tè?»

Quando Avner cercò di consegnarle una busta contenente un

po’ di denaro, la rifiutò. Dopo qualche altro minuto lasciarono la

casa, sentendosi non solo abbattuti - questo se lo aspettavano - ma

provando anche un po’ di vergogna e un certo senso di colpa. Avevano

come l’impressione che fosse stata colpa loro. O, peggio ancora,

come se avessero giocato avventatamente con qualcosa e lo avessero

mandato in pezzi. Qualcosa che aveva un valore inestimabile

per qualcun altro.

Forse fu l’incontro con la vedova di Hans a suggellare definitivamente

la loro decisione. Non ne parlarono neppure, almeno non

usando troppe parole, ma ciascuno dei due capì d’istinto che l’altro

aveva ormai deciso. Chiusero un conto bancario dopo l’altro, ad

Amsterdam, a Zurigo, a Parigi. Stavano concludendo la missione.

Erano rimasti solo in due. Non avevano modo di proseguire.


Alla fine, presero l’aereo per Ginevra. Tolsero dalla cassetta di

sicurezza, dove Hans lo aveva lasciato dopo la morte di Robert, il

messaggio di Ephraim: Concludere immediatamente. Nel frattempo

vi era stato lasciato un altro messaggio che diceva: dare riscontro al

più presto.

Avner scrisse una risposta in codice e la mise nella cassetta di sicurezza.

Diceva solo: Messaggio ricevuto. Perso Hans. Non trovò

nient’altro da aggiungere.

Usciti dalla banca, Avner e Steve attraversarono il Pont de la

Machine, dove si erano fermati a parlare dopo la prima riunione a

Ginevra nel settembre del 1972. «Avevi ragione almeno su un punto,

comunque» disse Avner a Steve. «Noi due siamo ancora vivi.»

La missione era finita.

PARTE QUARTA

L’agente

venuto

dal

freddo

Capitolo 18

America
Hans era morto in gennaio; quando Avner e Steve ebbero sistemato

i loro affari alla banca di Ginevra e tornarono a piedi all’Hotel

du Midi era il pomeriggio del primo giorno di primavera, il 21 marzo

1975. Avevano ancora alcune faccende da sbrigare in Europa;

c’erano covi da chiudere, informatori di secondo piano da pagare.

Avner e Steve non avevano prelevato denaro dai loro conti personali,

a Ginevra, e ciascuno dei due notò che, malgrado i versamenti

alle vedove dei compagni, possedevano ancora quasi centomila dollari

a testa. Era una soddisfazione un po’ amara, e lo rilevarono con

una scrollata di spalle e, forse, un pizzico di senso di colpa. Comunque,

almeno da quel punto di vista, non avrebbero avuto di che

preoccuparsi. Sebbene Avner si fosse abituato a spendere grosse

somme nel corso della missione, centomila dollari depositati in banca

gli sembravano pur sempre una cifra astronomica. Avrebbe potuto

comprare a Shoshana la fantastica cucina scandinava esposta nel

negozio di Avenue Hoche, senza stare a pensarci su. Gliene avrebbe

potuto comprare due, di cucine, se avesse voluto.

Ora che avevano deciso di mollare, si sentivano depressi e sollevati

allo stesso tempo. Anche se pareva che Settembre Nero non

fosse più attivo, il Comando-Boudia del Fronte Popolare, agli ordini


di Carlos, continuava a sferrare audaci (anche se vani) attacchi

contro gli aerei dell’El Al con lanciarazzi, a Parigi. Altrettanto audace

si mostrava in Germania la banda Baader-Meinhof, e anche

più fortunata, nel rapire industriali e nel tenerli prigionieri finché

un arrendevole governo federale non pagava il riscatto. Leggendo i

giornali, Avner e Steve si domandavano se la loro missione, per cui

Carl, Robert e Hans avevano dato la vita, avesse almeno intaccato

le strutture del terrorismo internazionale. Il mostro dalle molte teste

di Ephraim non accennava a placarsi. E persino nei casi in cui

sembrava placarsi, per esempio quello di Settembre Nero, probabilmente

ciò era dovuto in larga misura a una decisione politica da parte

della fazione dell’OLP di Arafat, in seguito alla guerra dello Yom Kippur.
Era

possibile che ora taluni mechablim considerassero le

Nazioni Unite e i tavoli della conferenza di Ginevra quali punti di

partenza più convenienti da cui ributtare a mare gli ebrei.

Non che ciò avesse importanza. Quel che avevano fatto doveva

comunque esser fatto, per come la vedevano Avner e Steve. Israele

non poteva permettere che i suoi figli e le sue figlie venissero assassinati

impunemente. A Ginevra, nella primavera del 1975, persino

nei momenti di umore più nero, Avner e Steve avrebbero difeso la


missione a spada tratta.

Si spartirono equamente le faccende che ancora restavano da

sbrigare. Poi si abbracciarono con qualche impaccio, vergognandosi

un tantino della commozione che provavano, prima di andare ognuno

per la sua strada.

Avner arrivò a New York il 10 aprile, senza aver preso una decisione

riguardo al futuro. In effetti, si sentiva troppo svuotato persino

per pensarci. Tecnicamente non era più alle dipendenze del

Mossad dal 1972, e ora che la missione era stata annullata sentiva di

non avere obblighi immediati verso nessuno. A un certo punto,


logicamente,

avrebbe dovuto tornare a Tel Aviv a farsi, per così dire,

congedare, ma in quel momento Avner non avrebbe potuto parlare

della missione con nessuno. Desiderava solo una cosa: passare un

paio di settimane con Shoshana.

Andò a finire che rimase a New York quasi un mese. Fu una

specie di vacanza, colma del piacere un po’ colpevole che prova un

ragazzino a marinare la scuola. Forse non c’era una ragione precisa

per cui Avner dovesse provare quella sensazione, sta però di fatto

che la provava. Faceva all’amore con Shoshana due o tre volte al

giorno, la portava al ristorante, al cinema. Giocava con Geula. Tentava


di insegnare a Charlie ad andare a prendere il giornale lasciato

fuori dalla porta. Shoshana gli fece solo una domanda, dopo che

Avner era a New York da circa tre settimane. «Questa volta, quando

te ne andrai,» gli domandò, «per quanto starai via?»

«Mica ho parlato di andarmene» rispose Avner.

«No, però te ne andrai» disse Shoshana in tono sbrigativo.

«Uno di questi giorni, mi dirai che te ne vai. Quel che vorrei sapere

è: starai via per molto?»

«Sai una cosa?» fece Avner. «Forse questa volta sarà solo per un

paio di settimane. E dopo che sarò tornato magari faremo un viaggetto

assieme. Noleggeremo una macchina e ce ne andremo un po’

in giro... non so, attraverseremo tutta l’America. Ti piacerebbe?»

Shoshana scoppiò a ridere. «E dove li troviamo i soldi per farlo?»

domandò.

«Non te l’ho ancora detto,» fece Avner, «ma ci arriveranno dei

soldi ora. Una specie di gratifica. Non preoccuparti, possiamo fare

un viaggio senza difficoltà.»

«Davvero?» domandò Shoshana. «Dici sul serio? Non abbiamo

mai fatto una vacanza assieme.»

«Te lo prometto» disse Avner. «Vedrai. Andremo in vacanza:


solo tu, Geula e io. E Charlie, naturalmente.»

Qualche giorno dopo questa conversazione, Avner ricevette

una telefonata da un agente del Mossad a New York. «Bene, bene»

disse l’uomo, udendo la voce di Avner. «Avrei dovuto indovinarlo.

Tutti quanti ti stanno cercando, e tu te ne stai qui in panciolle, come

se non avessi la minima preoccupazione al mondo.»

«C’è qualcosa per cui dovrei preoccuparmi?» domandò Avner.

«E lo domandi a me?» ribatté l’uomo. «Se non lo sai tu. Io so

soltanto che c’è qualcuno che aspetta il tuo ritorno, in patria. Adesso

che ti ho pescato, dirò loro che t’imbarcherai domani sul primo

aereo in partenza. Saranno contenti di saperlo.»

«Di' loro quel che ti pare» replicò Avner, e posò il ricevitore.

Ma il giorno dopo era all’aeroporto Kennedy, con una valigetta

in mano. Si sentiva ancora svuotato. L’ultima cosa che aveva voglia

di fare era riepilogare in ordine cronologico i fatti accaduti da due

anni e mezzo a quella parte. Ma non c’era senso a rimandare. Sapeva

che prima o poi avrebbe dovuto sottoporsi al colloquio di congedo.

Era la normale procedura. Ciò che realmente lo preoccupava

era qualcos’altro.

Il colloquio di congedo sarebbe stato solo un preludio a una decisione.


Una decisione che avrebbe dovuto prendere. Una decisione

che non avrebbe potuto rimandare oltre.

Dieci ore più tardi metteva piede sulla pista rovente dell’aeroporto

di Lod. Il disco rosso del sole mediterraneo al tramonto andava

scivolando rapidamente in mare. L’aria greve intasò i polmoni di

Avner come bambagia umida. Era una sensazione così familiare che

quasi lo fece sorridere. Era come quando era tornato in Israele da

Francoforte, da piccolo.

Ephraim lo aspettava alla cabina a vetri della dogana, in compagnia

di due uomini che Avner non conosceva. «Bene, bene,» disse

Ephraim, stringendolo tra le braccia, «è davvero un piacere rivederti.

Ecco, ragazzi, questo è Avner. Non so dirti quanto siamo tutti

fieri di te».

«Bentornato. Bentornato in patria.»

Per una settimana, in maggio, Avner fu un eroe.

I tre giorni del colloquio di congedo, in un appartamento privato,


sebbene intensi furono amichevoli. Ephraim ciondolava per la

stanza, rannicchiandosi e stiracchiandosi, tentando di sistemare gli

arti dinoccolati come una gigantesca marionetta. Gli altri due uomini

si sforzavano di avere un’aria rispettosa, persino deferente, nei

limiti in cui due sabra israeliani si potevano definire deferenti. Con

grande stupore di Avner, la missione veniva considerata un grande

successo.

L’atmosfera era completamente diversa da quella dell’incontro

tra Ephraim e Avner e Carl a Ginevra, prima dell’incursione di Beirut.

O da quella del loro incontro in Israele, dopo la guerra dello

Yom Kippur, un anno e mezzo addietro. Allora Ephraim aveva tutta

l’aria di un domatore di leoni, mancava solo che sollevasse una sedia

di fronte a lui e si mettesse a fare schioccare una frusta mentre

gli parlava. Ora, invece, tutto filava liscio. Chi poteva dire perché?

Avner si diceva che i risultati positivi della missione si erano registrati

all’inizio, certamente durante il periodo antecedente la

guerra del 1973. Allora, sì, che si sarebbero meritati una medaglia,

se mai. Allora, sì, che lui si sarebbe aspettato un «Bravo!» da Ephraim,

al posto degli acidi commenti sul troppo tempo che ci mettevano,

sul denaro che costava l’impresa, per non parlare della lavata
di capo che si erano presa tutti quanti per essere tornati a combattere

in patria. Da quel momento in poi, la squadra aveva registrato solo perdite e

scacchi, o quasi. Disastri completi o almeno a metà.

Carl. Robert. Hans. I tre anonimi palestinesi in Svizzera, e quello

in Spagna. E invece adesso Ephraim gli batteva amichevolmente e

con aria soddisfatta sulla spalla.

Avner non riusciva a capire. Forse erano tutti sollevati che fosse

finita. Forse si erano aspettati qualcosa di peggio, un’altra Lillehammer.


Forse

Ephraim, che dopotutto era solo un burocrate qualsiasi,

aveva ricevuto segni di approvazione dalle alte sfere. Segni di

approvazione che prima non aveva captato. In seno a una burocrazia

- e ogni servizio segreto lo è - l’approvazione da parte dei

pezzi grossi in definitiva è l’unica cosa che conta. Se a Ephraim erano

pervenute parole di approvazione, era logico che si mettesse a

scodinzolare.

E ora scodinzolava all’indirizzo di Avner, lui e anche gli altri

kibbutznik. Al punto che, durante i tre giorni in quell’appartamento

del Mossad, Avner divenne non solo il ragazzino olandese, ma

anche il tenente colonnello John Wayne della cavalleria degli Stati

Uniti. Un uomo rispettato persino dal più duro dei kibbutznik. Tutto
ciò che aveva mai sognato da bambino. Tutte le sue fantasie dei

tempi del kibbutz si stavano avverando. A quando sembrava, aveva

mostrato loro quanto valeva. Un vero, genuino eroe. Per la prima

volta in vita sua.

Ephraim prendeva appunti mentre Avner gli faceva un resoconto

accurato, particolareggiato, sforzandosi di non omettere niente.

Forse registravano su nastro la conversazione, anche; Avner non lo

sapeva, e non voleva neanche domandarlo. Però sembrava che plaudissero

ai successi e minimizzassero i fiaschi. Salameh... be’, peccato,

ma avete fatto del vostro meglio. Muchassi... è stata una lodevole

decisione, anche se non figurava nella lista. L’uomo del KGB...

non ne abbiamo saputo niente. Forse, dopotutto, lo hai mancato,

ma anche se non è stato così che altro potevi fare? I russi avevano le

loro buone ragioni per tenere la bocca chiusa. I giovani terroristi in

Svizzera e in Spagna... non spetta a noi giudicare. Erano mechablim. Hai


fatto

solo quanto ritenevi di dover fare. Carl, Robert e

Hans: una tragedia, ma che cosa pretendi? Non si può fare la guerra

senza subire qualche perdita. Sì, avresti dovuto mollare quando ti è

stato ordinato di farlo, ma possiamo capire perché tu non l’abbia

fatto. Non parliamone più.


L’unica cosa per cui Ephraim scosse la testa, contrariato, fu

l’uccisione della donna, a Hoorn. «È stato uno sbaglio» disse. «In

quell’occasione avete semplicemente trasgredito gli ordini. Me ne

frego delle ragioni che avevate per farlo. Che avesse ucciso Carl o

no - e non dubito che l’abbia ucciso lei - spararle è stato un omicidio.

Non vi avremmo mai autorizzati a farlo.»

«Be’, voi non c’entravate» disse Avner. «Lo abbiamo fatto di

nostra iniziativa. Consideralo come se ci fossimo presi una licenza.»

«Non dire idiozie» ribatté Ephraim seccamente. «Questo succede

solo nei film.» Fu l’unica volta che fece udire una nota di biasimo,

ma anche allora non insistette. «Comunque sia, quel che è fatto

è fatto» disse. «Ormai non abbiamo scelta. Ma ricorda, non scherziamo

sulle azioni non autorizzate. Di norma, ciò significa l’espulsione.»

Avner non aprì bocca. L’espulsione da cosa, pensò. Non lavoro

per voi, comunque. Ma era più semplice stare zitto.

L’unico aspetto della missione in merito al quale non fornì a

Ephraim informazioni particolareggiate fu Le Group. Non disse

nulla di Louis o di Papà. Accennò soltanto a «un contatto all’interno

della rete terroristica» o usò un nome in codice che si era inventato

a beneficio di Ephraim. «Allora abbiamo chiamato Paul» diceva,


oppure: «Allora abbiamo chiamato Haled». Questo, non solo

per via del monito di suo padre a tenere sempre un asso nella manica,

ma anche perché Avner continuava a ritenere che fornendo certi

particolari al Mossad avrebbe tradito la fiducia di Papà. A suo parere

- e forse era la sua unica speranza - Papà non aveva mai tradito

la sua, di fiducia. Malgrado ciò che era accaduto a Carl, a Robert e a

Hans. In definitiva, Avner non avrebbe comunque potuto dire

granché a Ephraim. Tutto ciò di cui disponeva erano alcuni numeri

di telefono per mettersi in contatto col Group o lasciare messaggi. E

forse la capacità di ritrovare una casa in qualche punto della campagna

francese, dove era più o meno possibile che Papà avesse installato

il suo quartier generale.

Ephraim non fece pressioni su di lui. Tutti gli agenti preferiscono

tenere per sé i nomi dei loro informatori personali. In parte per

motivi di sicurezza, e in parte perché il fatto di avere dei contatti dà

loro un certo lustro. Garantisce a un agente la possibilità di non essere

sostituito da un computer.

Dopo settantadue ore, Ephraim tornò ad abbracciare Avner e

gli permise di lasciare l’appartamento.

Avner aveva conosciuto altri agenti che venivano considerati


come eroi; agenti di grande fama; agenti verso i quali tutti mostravano

molto rispetto, anche se, in realtà, quasi nessuno sapeva che

cos’avevano fatto. Ora, palesemente, anche lui era diventato uno di

quelli. Lo comprese da come gli altri gli battevano sulla spalla quando

mise piede al quartier generale, dopo il colloquio di congedo, per

sistemare certe pendenze amministrative. Nei vari uffici, persone

che neppure conosceva non facevano che stringergli calorosamente

la mano mentre lui restituiva blocchetti di assegni, documenti,

chiavi delle cassette di sicurezza e altri ammennicoli relativi alla

missione. Il nonno di tutti i galiziani fece udire un grugnito di approvazione

quando Avner gli consegnò certe note spese e alcune

migliaia di dollari in contanti dei fondi operativi che aveva ancora

con sé. In occasione di una riunione informativa, persino il nuovo

memune, il generale Yitzak Hofi,1 gli strinse la mano, abbozzando

un’espressione quasi simile a un sorriso.

Tuttavia, come Avner avrebbe detto più tardi a suo padre, questa

volta nessuno si offrì di accompagnarlo in macchina dal primo

ministro.

Qualche voce doveva esser giunta persino all’orecchio di papà

nel suo tranquillo ritiro, anche se non era al corrente dei particolari.
«Ho sentito dire che te la sei cavata bene» disse, quando Avner mise

piede nel giardino. «Ho saputo che ti considerano una specie di

eroe.»

«Sì,» assentì Avner, «è proprio così.»

Suo padre lo fissò intento. «E tu, no?» domandò.

Avner scosse la testa: «Non saprei» rispose.

«Non ha importanza» disse suo padre, dopo una pausa. «Non

importa quel che pensi tu; non importa quel che hai fatto. Oggi sei

sugli scudi. Prendi. Prendi adesso. Oggi sono disposti a darti. Domani, puoi

scordartelo. Domani non sarai più nessuno.»

«Non voglio niente di quel che hanno loro» rispose Avner.

«Non c’è proprio niente che possano darmi.»

Suo padre si sollevò sulla sedia. «Stammi a sentire» disse. «Non

mi hai dato retta prima, ma dammi retta adesso. Quel che è fatto è

fatto. Avrebbe potuto andar peggio, ma hai avuto fortuna. Oggi hai

un’occasione a portata di mano. Ma è la tua unica occasione. E vale

solo per oggi. Domani rimetteranno sotto chiave i rubini. Non saranno

neppure disposti a dirti che ora è. Te ne starai qui seduto ad

aspettare una telefonata, ma la telefonata non arriverà mai.»

«E se io non li volessi, i loro rubini?» domandò Avner. «E se


non m’interessasse ricevere una telefonata?»

Suo padre lo guardò, tirò un profondo sospiro, poi di colpo parve

perdere ogni interesse all’argomento. «Non capisci» disse, non

tanto ad Avner quanto a se stesso. «Dovrai andare fino in fondo,

come tutti. Allora capirai, ma sarà troppo tardi.»

Anche se suo padre non aggiunse altro, Avner credeva di essere

in grado di ricostruire le ragioni della sua persistente amarezza. La

sua seconda moglie, Wilma, era morta da un anno. Era morta dopo

una lunga malattia dovuta, a sentire il padre di Avner, a un malanno

che l’aveva colpita mentre lui era in carcere, accusato di essere una

spia di Israele. Wilma, tuttavia, non era israeliana - non era neppure

ebrea - e perciò non aveva diritto alla mutua che le avrebbe assicurato

l’assistenza medica gratuita. Papà aveva dovuto pagarle le

cure di tasca sua. E si trattava, a quanto pareva, di cure molto costose,

che avevano assorbito gran parte dell’indennità versatagli al

termine della sua famosa missione. Malgrado tutto ciò che papà

aveva fatto per il paese, “loro” non avevano sborsato un soldo.

Avner non apprese nulla di tutto questo dalla bocca di suo padre.

Al solito, a parte i vaghi, amari commenti generali, non ne aveva

fatto parola con Avner. Era stata la madre di Avner a parlargliene,


quando andò a trovarla. Lei aveva presenziato ai funerali di

Wilma. A parte qualche kibbutznik e papà, era l’unica persona presente

quando avevano calato la bara di Wilma nella terra. Era più

che una beffa, pensò Avner. Era addirittura bizzarro.

La mamma comprendeva l’amarezza di papà nei “loro” riguardi,

ma non la condivideva. In quel minuscolo paese assediato, ciascuno

agiva a suo rischio e pericolo; molte famiglie avevano perso

padri, madri, figli e figlie nel corso delle varie guerre; e se si fosse

dovuto tributare speciali riconoscimenti a tutti quelli che avevano

fatto qualche speciale sacrificio, si sarebbe dovuto tributarli almeno

a metà della popolazione israeliana. Qual era la differenza tra servigi

“comuni” e “straordinari”? Si poteva perdere la vita con la stessa

facilità guidando un carro armato che impegnandosi in una missione

segreta. Anzi, forse ancor più facilmente. Se si facevano eccezioni

per tutti quanti, il paese sarebbe andato in fallimento. «Sei un

israeliano, devi fare il tuo dovere» disse la madre di Avner. «Non

devi pretendere una ricompensa. Gli ebrei hanno finalmente una

patria: è questa la tua ricompensa.»

«Be’, Wilma non era israeliana» commentò Avner.

«Ha fatto quel che doveva fare» ribatté freddamente la mamma.


«E io ho fatto quel che dovevo fare. Credi che sia stato facile?

Quale ricompensa me n’è venuta? Bada, non che la pretendessi.»

«Mamma, tu sei una santa» disse Avner senza un briciolo di

simpatia.

«Che cosa intendi dire, una santa? Che razza di discorsi sono,

questi? Solo perché non sono d’accordo con tuo padre?»

«Be’, sicuramente papà non è un santo» disse Avner. «È l’unica

cosa che non va, in lui. Tu invece lo sei, ed è l’unica cosa che non va

in te.»

Ma il fatto di mostrarsi irriverente nei confronti di sua madre

non modificava la situazione. La verità era che in cuor suo Avner

ancora non riusciva a scacciare la sensazione che sua madre aveva

ragione. Seguiva i criteri giusti, lei. Il fatto che Avner, o suo padre,

non potesse vivere in base a tali criteri, non era certo colpa della

mamma.

O, per traslato, di Israele.

Avner tornò a New York prima della fine di maggio. In cuor

suo, nel frattempo, aveva preso una decisione, ma non ne fece parola

a Ephraim in occasione del loro ultimo breve incontro, poche ore

prima del decollo dell’aereo di Avner. «Prenditi una vacanza, riposati,


fa quel che ti pare» gli disse Ephraim. «Parleremo del tuo prossimo

incarico quando tornerai.»

«D’accordo» rispose Avner, evasivo. «Avremo modo di riparlarne.»

In realtà, la persona con cui intendeva parlarne non era Ephraim,

ma Shoshana. Parlò con lei già la prima notte, appena tornato

a New York. «Ormai sono due anni che vivi in America» le disse

Avner. «Ti piace?»

«Sì» fece Shoshana. «Mi piace.»

«Hai nostalgia di Israele?»

«Sì» rispose Shoshana. «Tu no?»

«Sì e no» disse Avner. «Ma non credo di voler tornare a vivere

in Israele. Vorrei che vivessimo... be’, magari in America. Che ne

dici?»

«Intendi dire, emigrare? Stabilirci qui definitivamente?»

«Sì» rispose Avner «intendo dire proprio questo.»

Già mentre lo diceva, fu colpito dall’enormità di quell’idea, così

come doveva esserne stata colpita Shoshana. Erano entrambi israeliani.

Erano due sabra. Per loro emigrare non era la stessa cosa che

per uno svedese o un italiano. Se cambiare paese, rinunciare a una

cittadinanza per una diversa, poteva essere una decisione di grossa


portata per chiunque, per un israeliano era una decisione ancor più

importante. Non si trattava semplicemente di inchinarsi a un’altra

bandiera, di scegliere di parlare un’altra lingua, o di optare per il pagamento

delle tasse a un’altra burocrazia; per un israeliano significava

tornare nella Diaspora. Significava rifiutare il focolare ebraico,

l’idea per cui decine di migliaia di ebrei erano morti, centinaia

di migliaia ancora affrontavano la morte ogni giorno. Significava

quasi disertare di fronte al nemico.

Eppure, alla fine di maggio del 1975, Avner aveva preso la decisione

di emigrare.

E a quel punto, soltanto Shoshana avrebbe potuto fargli cambiare

idea.

«Vuol dire che non saremo più israeliani?» domandò lei.

«No» rispose Avner, scuotendo la testa. «Siamo israeliani. Come

potremmo smettere di essere ciò che siamo? Se ci sarà una guerra

o qualcosa del genere, salto subito sul primo aereo in partenza.

Credimi.»

Shoshana scrollò le spalle. «Questo lo so» disse «ma non è ciò

che intendevo dire. Parliamo di qualcos’altro.»

Aveva ragione. Avner si rendeva conto che aveva ragione. In


caso di guerra, una quantità di gente sarebbe saltata sul primo aereo

in partenza, persone che non erano neppure israeliane. Emigrare significava

qualcosa di diverso. Aveva poco a che fare con ciò che uno

avrebbe o non avrebbe fatto per Israele in una situazione di emergenza.

«Lo so» le disse. «Solo, non voglio tornare a viverci. Non saprei

spiegartelo. Non ha niente a che fare col paese o... con l’idea o qualcosa

del genere.»

Shoshana lo guardò. «Ha a che fare col tuo lavoro?» domandò.

«Forse.»

«Non ti faccio domande» disse Shoshana. «Ma se dobbiamo decidere,

decidiamo subito.» Guardò la bambina che dormiva nel suo

lettino. «Ancora prima che Geula vada all’asilo. Non voglio che cresca

in due posti diversi. Facciamo almeno in modo che sia o una cosa

o l’altra.»

Fu quando Shoshana disse questo che Avner si rese conto di

quanto dovesse essere difficile per lei quella decisione.

«Non siamo obbligati a rimanere qui» le disse. «Dico sul serio.

Se vuoi che torniamo, si torna»

«No» disse Shoshana. «Credo sia meglio che restiamo qui.»

In realtà, la decisione fu presa già la prima notte dopo il ritorno


di Avner da Tel Aviv, anche se continuarono a parlarne nelle settimane

che seguirono. Avner non aveva ancora intenzione di fare

qualcosa per renderla ufficiale, almeno non nel senso di recarsi

all’ufficio immigrazione o di scrivere una lettera di dimissioni a

Ephraim. Per quanto lo riguardava, non c’era proprio niente da cui

dare le dimissioni, comunque. Le aveva già date due anni e mezzo

addietro. Versò tuttavia due mesi di affitto anticipato per un appartamento

più grande, a Brooklyn. Facendo una sorpresa a Shoshana,

comprò anche alcuni modernissimi mobili scandinavi, del tipo che,

lo sapeva, lei aveva sempre sognato di piazzare nel soggiorno. Per

comprarglieli, spese quasi fino all’ultimo soldo che aveva.

«Come possiamo permetterci questa roba?» domandò Shoshana, sgranando


gli

occhi per la gioia, quando Avner l’accompagnò al

negozio a vedere il tavolino e il divano che aveva scelto.

«Non preoccuparti» rispose Avner. «Possiamo permettercelo.»

La telefonata di Ephraim arrivò prima che Avner avesse avuto

il tempo di traslocare nell’appartamento più grande e di farsi recapitare

il mobilio nuovo. «Come va la vacanza?» domandò Ephraim in

ebraico. Avner riconobbe immediatamente la sua voce.

«Da dove chiami?» domandò.


«Sono a New York» disse Ephraim. «Vorrei vederti.»

«Sicuro» rispose Avner. «Perché non vieni da me?»

«No, no,» fece Ephraim, «non vorrei disturbarti a casa. Perché

non vieni tu al mio albergo?»

Stabilirono di incontrarsi nell’atrio il mattino seguente, per cui

Avner non dovette neppure domandare a Ephraim che nome usava.

Anche se era improbabile che il telefono di Shoshana fosse controllato,

e senza dubbio Ephraim chiamava da un telefono pubblico, si

trattava di una precauzione del tutto normale.

«Mi fa piacere vederti» disse Ephraim il giorno dopo, mentre se

ne stavano seduti nella sua modesta camera d’albergo. «Hai l’aria

riposata. Be’... c’è un altro incarico che vorremmo affidarti.»

Non era una sorpresa. Avner ci aveva pensato tutta la notte

giungendo alla conclusione che era il motivo più probabile per cui

Ephraim era venuto a parlargli a New York.

Aveva anche deciso in anticipo la risposta che gli avrebbe data.

Però non riusciva a trovare il coraggio di farlo seduta stante. In verità,

cercava un pretesto.

«Quest’altro incarico, in che cosa consisterebbe?» domandò. «È

simile a quello precedente?»


«No» disse Ephraim «non gli somiglia per niente.» Non aveva

perso il vezzo esasperante, che Avner ricordava fin dal loro primo

incontro, di portarsi al viso un fazzolettino di carta, come se stesse

per soffiarsi il naso, senza però decidersi a usarlo. «È completamente

diverso. Tanto per cominciare, si svolgerebbe in un altro continente.

In Sudamerica.»

Avner non disse nulla.

«L’unica cosa che sarebbe eguale» proseguì Ephraim «è che,

neppure questa volta, potresti portarti appresso la famiglia. Questa

è l’unica cosa. Però potremmo fare in modo che tu tornassi a casa,

ehm, per due o tre settimane, magari ogni sette mesi. Un paio di

volte all’anno, diciamo.»

«No» disse Avner. Disse proprio così: no, in tono reciso.

Ephraim alzò gli occhi, palesemente stupito. Fece persino udire

una risatina poco convinta. «Be’» disse. «Magari ti occorre pensarci

un po’ su.»

«Non c’è niente da pensare. Non voglio farlo.»

Ephraim non aprì bocca per qualche istante. Poi posò la mano

sulla spalla di Avner. «Senti, siamo amici» disse. «Qual è il problema?»

Avner aveva parlato in tono più aspro di quanto intendesse fare,


forse perché si vergognava un po’ di se stesso. Che cosa stava facendo?

Non c’era da meravigliarsi che Ephraim fosse stupito: non

capitava tutti i giorni che un agente israeliano si rifiutasse di andare

in missione. «E va bene, siamo amici,» rispose, «ed è proprio per

questo che te lo dico. I miei rapporti familiari non reggerebbero a

un altro viaggio del genere. E... be’, non m’interessa più farlo.»

Ephraim si stiracchiò e andò alla finestra. Vi ristette a guardar

fuori per qualche attimo, poi si girò verso Avner. «Be’, se la risposta

è no,» disse, «e sono davvero dispiaciuto di apprendere che è no...»

S’interruppe, cambiando tono. «Senti, forse è colpa mia. Ti ho

chiamato troppo presto. Hai solo bisogno di un altro po’ di tempo

per pensarci.»

«Non ho bisogno di tempo» rispose Avner. «Sono contento che

tu mi abbia chiamato, in modo da potertelo dire. Non voglio farlo.

D’accordo? Mi dispiace.»

Ephraim si sedette. «Capisco» disse sottovoce. «Forse tu pensi

che non capisca, ma non è vero. Credimi.» Nella sua voce si avvertiva

un tono di genuina simpatia, il che peggiorava di gran lunga la situazione.

Ciò che sottintendeva il suo tono, secondo Avner, era:

Capisco benissimo che sei stanco di combattere. Capisco che ti sei perso
di coraggio. Capisco che a lungo andare hai ottenuto meno di quanto tu

abbia dato. E non con sarcasmo, non in tono di sfida, ma nel modo

in cui un medico potrebbe rivolgersi a un paziente. Un paziente affetto

da un male incurabile, di cui non aveva colpa, ma per cui il medico

non poteva far nulla. Fu il momento peggiore della vita di Avner. Da eroe a

balordo, come avrebbe detto Carl, nel giro di dieci

secondi.

E ciò che disse Ephraim subito dopo fu ancora più devastante,

soprattutto per la cordialità fasulla della sua voce:

«Ascolta, non preoccuparti,» disse, «non aver quell’aria tetra.

Va tutto bene. Rimpatrieremo in Israele te e la tua famiglia. In

Israele, non manca di certo il lavoro adatto a te. Lavoro altrettanto

importante».

«Non voglio tornare in Israele» disse Avner.

Ephraim lo fissò sgranando gli occhi.

«Voglio restare a New York per un po’» ripeté Avner, parlando

lentamente.

«Che cosa intendi dire?» domandò Ephraim «Non puoi.»

«Che cosa intendi dire tu: non posso?» fece Avner, levando lo

sguardo a incontrare quello del suo controllo. «Voglio restare a New


York.»

«Ma non puoi restare a New York» disse Ephraim, quasi come

se parlasse a un bimbetto. «Non hai documenti, sei senza lavoro,

non hai niente di niente. Che cos’hai intenzione di fare qui?» Allargò

le braccia, agitando il fazzolettino di carta. «Di che cosa diavolo

stai parlando?»

«Sto parlando di restare qui» disse Avner in tono ragionevole.

«Non so ancora che cosa farò, e non m’importa di saperlo. Voglio

restarci con la mia famiglia, tutto qui. Non voglio proprio sapere

nient’altro.»

Ephraim si strinse nelle spalle e abbozzò una smorfia. «Be’» disse

«forse ti ho colto in un brutto momento. Non riesco neppure a

capire di che cosa tu stia parlando - o almeno, spero di non capire.

Mi stai dicendo che sarai uno dei tanti immigrati? Mi stai incaricando

di andare a dirlo a tua madre e a tuo padre? Tu,