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Farbut.

L’avevo conosciuto tre anni prima, il giorno stesso in cui ci eravamo trasferiti nel
nuovo appartamento: centocinquanta metri quadrati all’Eur, che, a detta della mamma, erano
l’unica alternativa accettabile all’incubo dell’idroscalo. Hanno ammazzato Pasolini proprio
davanti al portone di casa!, era il mantra con cui tormentava papà di continuo. Nessuno di noi
raggiunse un cazzo di nirvana, però. In realtà la mamma stava esagerando, come al suo solito,
perché il cadavere l’avevano ritrovato almeno un chilometro più in là, ma lei non dava tregua lo
stesso. Ho paura, strillava, ho paura a vivere qui, hai capito? Alla fine mio padre si era arreso,
nella speranza che la nuova sistemazione desse un po’ di pace non solo alla mamma: ma una
casa nuova porta con sé problemi nuovi, e questo lui non lo sapeva. Dobbiamo cambiare i
mobili, tutti, aveva ricominciato, non appena si era asciugato l’inchiostro sul contratto di
compravendita: la cucina è piccola, il salotto è passato di moda, la camera di tua figlia poi… Ma
ti pare che una bambina di sette anni debba ancora dormire in un letto con le sbarre? Io però non
ero così sicura che un letto in ferro battuto dei primi del Novecento e uno scrittoio Biedermeier
sarebbero stati sufficiente a farmi uscire di prigione, ma come al solito scelsi di far contenta la
mamma; perciò rinunciai volentieri anche alla cesta di vimini con le bambole per far spazio alla
sedia a dondolo della bisnonna di chissà chi. Alzati, ché si sfonda la seduta! Un unico
rimprovero e compresi che da quel momento in poi avrei vissuto in un museo.
Accadde nell’androne del palazzo, un giorno che tornavo da scuola di umore
insolitamente allegro: la maestra mi aveva dato addirittura della rompiscatole, perché a suo dire
avevo insistito troppo nel voler sapere se era con un uncino che tiravano fuori il cervello dal
cranio dei faraoni. Aveva detto che ero macabra, e così avevo imparato una parola nuova. Di
fronte alla guardiola del portiere mi era venuto incontro un bambino magro, dalla pelle olivastra
e con gli occhi così neri come non ne avevo mai visti: uno sguardo e ci riconoscemmo
immediatamente, due stranieri in fuga, lui dalla propria terra, io dalla realtà. Era scappato
dall’Iran dello scià alcuni anni prima, con la madre, il padre e due zii: erano in tre i fratelli
Esfandiari e si somigliavano talmente che quando li incontravo, non riuscivo a distinguerli l’uno
dall’altro. Qual è tuo papà?, chiedevo tutte le volte a Farbut. Quello con i baffi, rispondeva lui
immancabilmente e insieme scoppiavamo a ridere. I baffi li portavano tutti e tre. I pomeriggi a
casa sua erano pieni di quelle risate, un appuntamento fisso che non avrei mancato per nulla al
mondo, ogni martedì e venerdì, quando la mamma se ne andava dal parrucchiere e non mi voleva
tra i piedi. La stanza di Farbut, dove il tappeto di Paperino e i poster della Ferrari di Niki Lauda
non erano ancora diventati pezzi da museo, era il nostro set cinematografico: allora, spiegavo io
nelle vesti di regista-sceneggiatrice-attrice protagonista, adesso Carlo Caciocavallo, cioè tu, hai
scoperto chi è l’assassina, cioè io, quindi vieni da me, tiri fuori la pistola e dici ‘non hai scampo,
arrenditi!’. E io scappo, d’accordo? Poi Farzaneh, la mamma, veniva a chiamarci per la merenda
e alle mie orecchie quella voce melodiosa portava con sé l’atmosfera di terre sconosciute. Seduta
in cucina, masticavo pezzetti di baqlava con il miele e assaporavo tazzine di tè con la zolletta di
zucchero che si scioglieva lentamente in bocca: quella famiglia era un mistero per me, e non
perché parlassero una lingua incomprensibile. O perché considerassero i mobili semplicemente
mobili.
«Ma a casa tua non litiga mai nessuno?» avevo domandato una volta a Farbut.
«Certo, quando parlano dell’Iran, litigano sempre.»
«E perché?»
«Lo scià adesso non c’è più e papà vorrebbe tornare a Teheran. Gli zii invece non si
fidano di quello che comanda.»
«E chi sarebbe?»
«Non lo so, mi pare che si chiami Ayatollah.»
«E quindi?»
«Vorrebbero andare in America.»
«Le parolacce le dicono?»
«No.»
«Si tirano appresso i piatti?»
«No.»
«Insomma, qualcuno la alza mai la voce qui dentro?» chiesi spazientita.
«No.»
«Allora non è litigare davvero.»
Brava, Sancia! Diglielo. Litigare è quando tua madre urla a tuo padre Ti ammazzo,
perché lui si è scordato di comprarle le sigarette o quando ti lancia contro una forchetta se ci
metti troppo tempo a finire le patate lesse. Un perverso senso di superiorità mi scostò le labbra in
un sorriso soddisfatto.
All’inizio di quell’anno a Farbut era nata una sorella, Shirin, e io avevo dovuto fare i
conti con un sentimento assolutamente nuovo: l’invidia.
«Com’è avere una sorella?» gli avevo chiesto, mentre osservavo la neonata dormire nella
culla.
«Una noia, piange sempre» era stata la risposta scocciata. «Dai, adesso giochiamo, però»,
ma io non riuscivo a staccare la mano dalla bambina: le sfioravo i capelli, sottili come i petali di
un dente di leone, la pelle soffice, seguivo con il pollice le pieghe lungo il collo, indugiando su
una minuscola goccia di sudore. Immaginavo di prenderla in braccio per sentire la leggerezza di
quel corpo morbido e indifeso fra le mie braccia, stringerla al petto e respirarla. Profumo di
borotalco. Io ti proteggerò, le sussurravo, con me sarai al sicuro. Le poggiavo la guancia sulla
fronte, chiudevo gli occhi e tutte le difese crollavano: gli argini cedevano sotto una spinta
irrefrenabile, la diga crollava, e l’amore, quell’amore tanto a lungo represso, tracimava.
Impetuoso come un fiume in piena scorreva dentro di me, trascinando via macigni di rabbia e
solitudine. Mi accorsi di essere viva. E il senso di colpa fu incontenibile.
«Se ti piace tanto, te la regalo!» aveva buttato lì Farbut, riportandomi nell’alveo della
realtà. Non basta che mi rubi le attenzioni della mamma, adesso ti porti via anche quelle di
Sancia, piccolo mostriciattolo?, avrà pensato, inacidito dalla gelosia.
Subito dopo la fine della scuola i corvi volarono per la prima volta. Ero scesa al piano di
sotto alle tre in punto, ma quando avevo suonato il campanello nessuno era venuto ad aprire la
porta. A distanza di mesi mi domandavo ancora se fosse un martedì o un venerdì, quasi che
ricordare il giorno esatto avrebbe avuto il potere di cancellare il senso di perdita. Ripensavo di
continuo alle settimane precedenti, cercando parole o gesti che fossero in grado spiegare ciò che
mi appariva inspiegabile: ero sicura che se avessi individuato un solo dettaglio, anche
piccolissimo, quella sparizione avrebbe acquisito un senso. Idiota, sei un’idiota, mi dicevo, come
hai fatto a farti cogliere impreparata, eh? Che cosa dice sempre la mamma? Che ognuno è solo a
bastare a se stesso, è stata una delle prime cose che ti ha insegnato. E tu adesso te ne stai a
frignare per quattro beduini che non si sono nemmeno preoccupati di venirti a salutare.
Fregatene! Mandali a quel paese, quello da dove sono venuti. Bastardi che non sono altro.
«Saranno scappati», aveva spiegato la mamma, indispettita all’idea di dover cambiare i
suoi piani. Al parrucchiere non avrebbe rinunciato di sicuro, ma da chi poteva parcheggiarmi?
Da quella del primo piano? No, per carità, puzza di cavolo bollito già di prima mattina.
«Scappati!? E perché?» avevo chiesto io.
«Mi pare che uno di loro avesse qualche legame col regime dello scià…»
«Uno di loro chi?»
«Bijan, credo.»
«Che sarebbe il papà di Farbut?»
«No, il papà è Ahmad. Bijan è lo zio, il fratello della madre.»
«Ma come? Non erano tre fratelli maschi? E l’altro allora chi è?»
«Un altro fratello di lei.»
La famiglia Salucci dell’altra scala? No, sono sempre in viaggio, beati loro.
«Ma scusa, se allora Bijan era imparentato con lo scià...»
«Non ho detto imparentato, ho detto che aveva dei legami col regime.»
«Sì, va be’, insomma, se aveva dei legami col regime, perché stava qui in Italia quando
c’era lo scià?»
«Non lo so» iniziava a spazientirsi. Quel vecchio bavoso del quinto piano che in
ascensore provava sempre a strusciarsi addosso? Be’, adesso non esageriamo.
«Non sarebbero dovuti rimanere lì?»
«Non lo so.»
«Che fanno, vanno via adesso che...»
«E basta!» sbottò mia madre. «Smettila di fare la pitima e vai in camera tua.» Al
parrucchiere non ci rinuncio, era l’unica cosa che in quel momento contava.
Controlla, Sancia, controlla tutto per bene. Cerca indizi, scava e poi assolviti, se ci riesci.
Pensi davvero che serva a qualcosa? Non puoi nasconderti dietro le parole. Perché sei stata tu, e
lo sai, lo sanno tutti! Sei convinta di poterti difendere distribuendo responsabilità come briciole
ai piccioni? Ammettilo: Farbut se ne è andato a causa tua, è scappato, fuggito. Meglio l’Iran
degli ayatollah, avrà pensato quella volta che hai preferito accarezzare Shirin invece di giocare
con lui. E il nonno? Anche quello ti dovrai portare sulla coscienza. Morto di infarto? Sì, certo,
ancora credi a quella storia. Gli hai detto Ti odio, ricordi? E non vale il fatto che tu l’abbia solo
pensato. Non ti vuole nessuno, lo capisci o no? Nessuno. Figuriamoci, non ti vuole nemmeno tua
madre!

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