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la morte del cuore e il tempo della pietà in un sonetto di cino da pistoia

LA MORTE DEL CUORE E IL TEMPO DELLA PIETÀ IN UN SONETTO


DI CINO DA PISTOIA
Giuseppe Marrani

Lo core mio che negli occhi si mise è uno fra i sonetti più noti di Cino da Pistoia.
Nondimeno la sua rilettura, fondata sul testo critico, fornisce l’esempio di partico-
lari aporie della tradizione, finora trascurate, che fanno emergere alternative testuali
capaci di mettere in lacerante trazione il testo e di proporre soluzioni foriere anche
di qualche ritocco all’esegesi del corpus ciniano. Si propone il sonetto anche come


Sul sonetto Lo core mio che negli occhi si mise si veda L. Di Benedetto, Studi sulle rime di Cino da
Pistoia, Tipografia D’Inzi, Chieti 1923, p. 50; G. Zaccagnini, Le rime di Cino da Pistoia, Olschki, Genève
1925, pp. 124-25; Poeti del dolce stil nuovo, a cura di M. Marti, Le Monnier, Firenze 1969, pp. 564-5;
Poesie dello stilnovo, a cura di M. Berisso, Bur, Milano 2006, pp. 266-67. I giudizi qui espressi sulla
poesia di Cino riflettono quanto già annotato da chi scrive in Ai margini della «Vita Nova»: ancora per
Cino ‘imitatore’ di Dante, in La lirica romanza del medioevo: storia, tradizioni, interpretazioni. Atti del
VI convegno triennale della Società Italiana di Filologia Romanza, Padova-Stra 27 settembre-1 ottobre
2006, a cura di F. Brugnolo e F. Gambino, Unipress, Padova 2009, pp. 757-76, e in Cino da Pistoia:
profilo di un lussurioso, in «Per Leggere», XVII, 2009, pp. 33-53 (Leggere i classici. Saggi di commento
ai classici italiani, antichi e moderni, atti del convegno di Ginevra 23-24 ottobre 2007, parte I).
La classificazione della lezione tiene ovviamente conto di D. De robertis, Il canzoniere Escorialense e
la tradizione ‘veneziana’ dello stilnovo, Loescher, Torino 1954, pp. 115-6. Sul manoscritto escorialense
in particolare si vedano adesso i saggi di S. Carrai, T. De Robertis e R. Capelli in Il codice escorialense
e il frammento marciano dello stilnovo, a cura di S. Carrai e G. Marrani, Sismel-Edizioni del Galluzzo,
Firenze 2009, pp. 3-150.
Per u > o nei dialetti settentrionali cfr. almeno F. Brugnolo, Il canzoniere di Nicolò de’ Rossi, vol. II
(Lingua, tecnica, cultura poetica), Antenore, Padova 1977, par. 4.2.18, p. 161 e bibliografia ivi richia-
mata.
La fortuna dell’immaginario della canzone Madonna, il fino amor presso gli stilnovisti è illustrata da
L. Leonardi, Guinizzelli e Cavalcanti, in Da Guido Guinizzelli a Dante. Nuove prospettive sulla lirica
del Duecento. Atti del convegno di studi Padova-Monselice 10-12 maggio 2002, a cura di F. Brugnolo
e G. Peron, Il Poligrafo, Padova, 2004, pp. 207-26, a p. 221.
Per il De vulgari Eloquentia si fa riferimento all’ed. commentata a cura di P. V. Mengaldo in Dante
Alighieri, Opere minori, tomo II, Ricciardi, Milano-Napoli 1979.
Un sincero rigraziamento devo a Giuliano Tanturli per l’attenzione generosamente dedicata al presente
contributo.

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paradigma della urgente necessità di una rinnovata esegesi dei testi ciniani che esplori
e valuti finalmente fonti anche altre dal solito circuito “interstilnovista” in volgare
di sì e ampli il circuito di confronto fra testi ciniani e testi di Guido Cavalcanti e di
Dante su terreni anche diversi dalla citazione o letterale ripresa (di solito da parte di
Cino) di stilemi e rimanti dei suoi maggiori. Cino ad esempio – già mi è capitato di
notare – compete con i suoi insuperati modelli sul terreno dell’arcadica ripresa del
Virgilio minore e si lancia con pari impeto nella citazione dalla Scrittura – vedremo
anche nel caso in oggetto – ad illustrazione di un amore, o meglio di una concezione
dell’amore forse, non del tutto collimante con quello dei suoi sodali.

Partiamo dai testimoni del sonetto. Lo core mio si legge nei manoscritti Ambrosiano
O.63 sup., (Am) al f. 16v, Chigiano L.VIII.305 (C1) al f. 87v, Escorialense e.III.23
(E) al f. 84r, Magliabechiano VII.1060 della Nazionale di Firenze (Mg1) al f. 5v, ed
è recato precocemente a stampa sia dalla cosiddetta Giuntina di rime antiche, ossia
Sonetti e Canzoni di antichi autori toscani, Firenze, Giunti, 1527 (Giunt) che fra le
Rime di M. Cino da Pistoia, edite da Niccolò Pilli, Roma, Blado, 1559 (Pil). L’attri-
buzione del sonetto a Cino non è unanime. Anonimo in C1, Lo core mio è attribuito a
Cino da Pistoia da E e Mg1, mentre Am reca (f. 16r) un improponibile Petrus de Senis
(il son. è fra l’altro qui inserito fra due testi angioliereschi). La paternità ciniana non
pare comunque da mettere in discussione, dato che trova conferma in individuabili e
indipendenti settori della tradizione (vedi subito infra) e non ha che il contrasto del
silenzio di C1, che comunque reca il sonetto in serie ciniana, e di una insolita proposta
di un testimone quale Am, le cui rubriche sono ben note per il generale disordine e
l’inaffidabilità.
Queste le opposizioni e le varietà di lezione che emergono dal testimoniale in-
dicato:

E Am Giunt Pil
3 E Am Giunt Pil fuggendo amore
5 E Errata de p., Am Engrata di p., Giunt Pil Ferrata di p.
7 E lo temperò, Am Giunt Pil la temperò
11 E Am Giunt Pil Così di voi
12 E Am Giunt Pil di me si veste

C1 Mg1
3 C1 Mg1 veggendo amore
5 C1 errato del p., Mg1 e ratto del p.
7 C1 Mg1 lo temperò
11 C1 Mg1 Ch’uscir di voi
12 C1 Mg1 di sé mi veste

Come si vede, le diverse testimonianze individuano un gruppo ben distinto: una


tradizione, che già da tempo grazie agli studi di Domenico De Robertis sulle rime di
Dante conosciamo come “settentrionale” e che coinvolge l’antico manoscritto Esco-
rialense e il più tardo Ambrosiano, con diretti riflessi poi nella tradizione a stampa.
Dal gruppo si distaccano con nettezza i trecenteschi manoscritti toscani Chigiano e

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Magliabechiano, che almeno in questo caso non si riuniscono saldamente in gruppo,


dandosi solo concordanza in lezione buona o indifferente.
Tralasciamo per il momento la discussione dell’opposizione del v. 3 fuggendo/
veggendo amore, e osserviamo gli altri luoghi indicati nella tabellina. I vv. 5 e 7 sa-
ranno probabili indicatori di un comune ascendente già corrotto. Per 5 si osserverà, a
partire dalla comune base erronea errata / errato degli indipendenti E e C1 il pervi-
cace rimaneggiamento della tradizione di E, con le stampe Giunt e Pil in particolare
che escogitano un ferrata del piacer evidentemente da riferire a saetta del v. prec.,
sulla base, c’è da credere, dell’uso figurato di Inf. XXIX 43-44 «lamenti saettaron
me diversi / che di pietà ferrati avean li strali», e al contempo la presenza, nella ge-
nerale diffrazione, dell’unica lezione attendibile o per lo meno accettabile e ratto del
piacer recata da Mg1. Anche in 7 l’errato lo temperò di E e C1 Mg1 (il verbo deve
riferirsi, questo sì, senz’altro, a saetta del lontano v. 4) fa intravedere una corruttela
che risalirà a monte di tutti i testimoni noti, con restauro stavolta facile di Am Giunt
e Pil. Degno di nota è infine l’erroneo Così di voi della tradizione di E al v. 11, che
ha buone possibilità di derivare da un precedente coscir (leggasi ch’oscir) di voi con
passaggio cioè della vocale iniziale del verbo (u > o) come non di rado avviene nei
dialetti settentrionali laddove il toscano mantiene invece u: possibile indizio dunque
di un antigrafo di patina già settentrionale.
Ecco dunque il testo critico che ne deriva, condotto principalmente sul Chigiano
(anche per forme e grafie), salvo ricorrere a Mg1 per 5 e ratto e quindi a tutto il resto
del testimoniale per le altre due minime mende singolari come l’omissione di mio al
v. 1 e al v. 9 l’erroneo uiful chore vs rell. mi fu l c. Ancora per 9 si fa eccezionalmente
spazio alla lezione di E Am si cu(m) uuy audite per evitare la soluzione con accento
di 5a («claudicante» la giudicava il Di Benedetto) di C1 Mg1 Morto ui(Mg1 mi)ful
chore (Mg1 cor) chon uoi udite.

Lo core mio che negli occhi si mise,


quand’io guardai ’n voi molto valore,
fue tanto folle che veggendo Amore
dinanzi alla saetta sua s’assise, 4
e ratto del piacer che lo divise,
sì che per segno lì stava di fuore,
la temperò sì forte quel signore,
che dritto quivi traendo l’uccise. 8
Morto mi fu lo cor, sì com vo’ udite,
donna, in quel punto, e non ve n’accorgeste,
ch’uscir di voi la vertù non sentite: 11
poscia Pietate, che di sé mi veste,
lo v’ha mostrato; onde fera ne gite,
né mai udir mercé di me voleste. 14

3 fuggendo a. E Am

5 e ratto] Errata E, Engrata Am, errato C1 – 7 la] lo E C1 Mg1 – 11 così di voi E Am – 12


di sé mi v.] di me si v. E Am

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Per i suoi primi tre quarti il sonetto è votato alla descrizione della morte del cuo-
re, crudelmente ucciso dai dardi amorosi per essersi esposto, attratto dal valore della
bella, alla feritoia degli occhi. La stessa situazione è riferita in modo sostanzialmente
analogo nel sonetto Madonna, la beltà vostra infollìo. È un tema ricorrente che Cino
tenta e varia più volte, dando fondo ad ogni sperimentalismo di marca cavalcantiana,
qui con ricorso fin dall’incipit al sonetto A me stesso di me pietate vène dov’è ritratto
in chiusa proprio il cuore che «[...] si ferma per veduto segno / dove si lancia cru-
deltà d’amore», quasi il nuovo testo ciniano ne volesse costituire la prosecuzione. O
meglio si candidasse a illustrare con maggior ricchezza di dettagli il ferimento letale
del cuore caduto nell’imboscata di Amore. Cino si mette insomma a rappresentare in
dettaglio, quasi a spiegare, l’evento che Cavalcanti solo lascia intuire concludendo
suggestivamente il sonetto con l’immagine del cuore esposto al martirio. Né si lascia
sfuggire, pur costringendosi a un verso che ha quasi l’aspetto di una glossa (v. 6),
l’icona cavalcantiana del cuore-bersaglio (segno) con la sua potente e drammatica
carica evocativa di Hieremias, Lamentationes III 12 «tetendit arcuum suum, et posuit
me quasi signum ad sagittam».
Fin qui è il Cino che ci si attende: abile rimodulatore della nuova poesia fiorentina
cui prestissimo si associa, capace più di formalizzare con eleganza gli spunti poetici
più eminenti dei propri modelli che di innovarne originalmente la linea poetica. At-
tenzione però alla lezione di E e Am al v. 3: fuggendo amore. È francamente difficile
costringersi ad obliterarla senza troppo rimpianto per inerte devozione alla imperante
tradizione del Chigiano. L’alternativa, che pure tanto spiaceva al Di Benedetto, può
rivelarsi seducente.
Per C1 Mg1 infatti il folle arrestarsi del cuore esattamente sotto il tiro del nemico
avviene veggendo Amore, ovvero, presumibilmente, per essersi arrestato a fissare
la meravigliosa divinità di Amore negli occhi di lei. Niente fin qui di sorprendente.
Identificare anzi Amore nello sguardo calamitante di madonna è motivo tradizionale
che viene per di più a consolidare ulteriormente l’adesione ciniana al nascente verbo
stilnovista. Basti pensare al Dante più celebre di Negli occhi porta la mia donna Amore
(Vn 12, 2) e agli attacchi cavalcantiani «O tu che porti nelli occhi sovente / Amor»
e «Io vidi li occhi dove Amor si mise» (la cui clausola Cino ha presente proprio in
Lo core mio) o ancora «Veggio negli occhi della donna mia / un lume pien di spiriti
d’amore».
Ma fuggendo Amore sembrerebbe proporre una situazione un po’ più singolare.
Sembra specificare che il core, una volta che l’imprudente sguardo del poeta (v. 2)
ha prodotto la situazione di pericolo, si è scriteriatamente offerto ai dardi di Amore,
inchiodato dall’esca amorosa, proprio mentre cercava di fuggirli. E sarebbe dunque
questa la stolta follia del cuore: esporsi all’acuminata freccia di Eros, cedere cioè
agli allettamenti della beltà di lei, proprio quando ci si propone di sottrarsi ai suoi
colpi mortali (e temprata, riferito alla saetta, non varrà “appuntita”, come di solito
si chiosa, ma ne dirà indurito, temprato appunto, il metallo nel gelo dell’indifferente
avvenenza dell’amata).
È pur vero che, se ci s’innamora di questa soluzione interpretativa, un senso ana-
logo si può ricavare anche dalla lezione di C1 Mg1, attribuendo cioè a veggendo valore
concessivo: “pur vedendo Amore”, nonostante insomma il nemico armato («acconcio
sol per uccidere altrui» dice altra volta Cavalcanti) fosse bene in vista.

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Su fuggire però si può ulteriormente insistere, ricordando un passo della guinizel-


liana Madonna il fino amore che potrebbe esser presente a Cino dato che vi si ritrae
la fuga proprio del core di fronte ad Amore: «...[ogni parola] pare uno corpo morto /
feruto a la sconfitta del mio core, / che fugge la battaglia u’ vince Amore» (vv. 70-72).
Richiamo che non potremmo giudicare scontato o di prammatica nell’ambito stilno-
vistico. Se infatti la fuga di uno dei contendenti dalla canonica battaglia d’amore è
elemento originariamente guinizelliano poi fittamente ripreso da Dante, Cavalcanti e
da tutti gli altri stilnovisti, è pur vero che questi nella descrizione della più drammatica
fenomenologia dell’innamoramento la riferiscono ora all’anima, ora agli spiriti ora
alle vitali virtù della persona. Mai però al cuore. Con la lezione di E Am siamo forse
di fronte ad una libera e originale competizione ciniana con i suoi sodali nel recupero
dell’auctoritas guinizelliana?
Osta semmai a questa ipotesi una sostanziale difformità dell’esempio guinizelliano
dal contesto di Lo core mio. Guinizelli, se intendo bene il passo, effigia la ritirata del
cuore sconfitto nell’ovidiano proelium amoroso, l’abbandono del campo insomma, da
parte di chi si è visto attorniato dai cadaveri delle proprie schiere (nel caso specifico,
figuratamente, le parole) mentre Cino in Lo core mio sembra ritrarre non la battaglia in
campo aperto ma piuttosto l’agguato, l’imboscata di Amore ai suoi danni. E, se questa
è la scena, il fuggire del core mal si armonizza al contesto e all’azione. A meno però
che quel fuggendo Amore non esprima fuor di metafora la pregressa e, alla prova dei
fatti, vana determinazione del poeta a non cader vittima della passione amorosa.
Sarà addirittura fuggendo Amor una difficilior da promuovere a testo a favore di
un Cino già, per così dire, “petrarchesco”?
Fra i molti dubbi lasciamo a fuggendo una distinta fascia di apparato che renda
merito alla suggestione dell’alternativa.

Trafitto mortalmente il cuore, si apre il tempo in cui è Pietà ad emergere e occu-


pare tutta la scena. Tempo di dolore e compianto sul corpo del ferito a morte. Sono
anzi stavolta le stesse spoglie del vinto a farsi maschera di Pietà, strazio che invoca
misericordia. Pietà letteralmente veste di sé la persona del poeta. Ma la pietà che qui
e in molti altri luoghi ciniani si rappresenta – si ricordi in particolare «Moviti pietate
e va incarnata, / e de la veste tua mena vestiti / questi miei messi...» – non sbocca,
come in Cavalcanti, in penosa autocommiserazione. C’è un fine, ed il più classico
dei classici, eminentemente strumentale: impietosire la donna fera. Il suo cuor duro
si pieghi di fronte al morente, alla vittima dei suoi occhi omicidi. Tutto inutile però.
Madonna è insensibile, anzi neppure si accorge che il volger del suo sguardo ha pro-
vocato delle vittime (vv. 13-14).
Se il tema è in fondo convenzionale, colpisce che tanta insensibilità di madonna
sia espressa con esplicito ricorso al v. 11 («ch’uscir di voi la vertù non sentite») al-
l’espisodio evangelico cosiddetto dell’emorroissa del Vangelo di Marco:

et sequebatur eum turba multa et comprimebant illum et mulier, quae erat in


profluvio sanguinis annis duodecim,… cum audisset de Iesu, venit in turba
retro et tetigit vestimentum eius; dicebat enim: quia si vel vestimentum eius
tetigero salva ero; et confestim siccatus est fons sanguinis eius et sensit corpore
quod sanata esset a plaga et statim Iesus cognoscens in semet ipso virtutem

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quae exierat de eo conversus ad turbam aiebat: quis tetigit vestimenta mea?


et dicebant ei discipuli sui: vides turbam conprimentem te et dicis ‘quis me
tetigit?’; et circumspiciebat videre eam quae hoc fecerat. Mulier autem timens
et tremens sciens quod factum esset in se venit et procidit ante eum et dixit ei
omnem veritatem; ille autem dixit ei: filia fides tua te salvam fecit, vade in pace
et esto sana in plaga tua. (Mc 5, 24-34)

La citazione evangelica serve evidentemente a illustrare e stigmatizzare la crudeltà


dell’amata. L’indifferenza del Cristo verso le miserie dell’inferma è infatti apparente
ed è anzi finalizzata a sollecitare un disperato zelo di fede che è diretta causa del
premio.

Fidelissima est haec mulier, quae a fimbriis curationem speravit, propter quod
consequitur sanitatem; unde sequitur et confestim siccatus est fons sanguinis
eius, et sensit corpore quia sanata esset a plaga. (Theophylactus in Th. Aq.,
Catena aurea 6521)

All’opposto la virtus, la forza amorosa della donna crudele non risana. Trafigge anzi
penosamente il cuore senza che ella neppure se ne accorga – si direbbe per l’imporsi
della sua sola folgorante presenza –, né la sua insensibilità intende affatto saggiare
l’amorosa fede di Cino. Questa non è mai stata messa alla prova e non si prospetta
alcuna miracolosa e amorosa ricompensa. Tanto che del suo delitto l’omicida va poi
addirittura fiera (v. 13).
In Cavalcanti – sappiamo – l’impiego della parola sacra è finalizzato a esaltare
l’espressione della disperazione amorosa. In Dante più spesso, ma come del resto
in Chi è questa che vèn dell’amico Guido, la Scrittura serve ad innalzare la figura
della gentilissima nel suo divino potere beatificante o a sancire l’altezza della nuova
poesia, com’è difatti per la pronuncia di Donne ch’avete intellecto d’amore: «Allora
dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa [...]» (Vn 10, 13), che è
la modalità – notava già De Robertis – dell’annuncio e della proclamazione mossa
dall’ispirazione soprannaturale.
In Cino tanto impegnativo corredo si spreca per ritorcere l’ennesima, sempiterna
sollecitazione accusatoria contro la crudele. E mi pare innegabile, dato che tutto il
sonetto è rivolto proprio a madonna, che di nient’altro si tratti che dell’ennesima
pressione perché al fine ella ceda, della perorazione disperata dell’innamorato che
altre armi non possiede per piegare il suo volere che esporre le sue piaghe di morente.
Insomma un autentico ferrovecchio della poetica amorosa.
Non è la prima volta che peschiamo Cino a polverizzare la novità dantesca e caval-
cantiana, di cui tanto facilmente e tanto precocemente si è impossessato, nei risaputi
giochi galanti di un tempo. E di questo al pistoiese s’è spesso fatto carico, quasi che
sulle sue spalle dovesse gravare la responsabilità della “liquidazione” o della piatta
codificazione dello stilnovismo.
Ma non sarà l’ora di mutare prospettiva e di scorgere in Cino perfetta e del tutto
normale continuità e contiguità con la linea poetica della stagione pre-petrarchesca?
E ammirare una volta di più l’irraggiungibile e inavvicinata espressione lirica di
Cavalcanti e Dante?

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D’altronde per una volta ancora potremmo fidarci del giudizio dello stesso Ali-
ghieri che a Cino volentieri riconosce uso eccellente del volgare e dulcedo di stile
ma solo a sé stesso riserva e subtilitas (De vulgari eloquentia I x 4, xiii 3) e novitas
(Purg. XXIV 49-57).

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