Lo core mio che negli occhi si mise è uno fra i sonetti più noti di Cino da Pistoia.
Nondimeno la sua rilettura, fondata sul testo critico, fornisce l’esempio di partico-
lari aporie della tradizione, finora trascurate, che fanno emergere alternative testuali
capaci di mettere in lacerante trazione il testo e di proporre soluzioni foriere anche
di qualche ritocco all’esegesi del corpus ciniano. Si propone il sonetto anche come
Sul sonetto Lo core mio che negli occhi si mise si veda L. Di Benedetto, Studi sulle rime di Cino da
Pistoia, Tipografia D’Inzi, Chieti 1923, p. 50; G. Zaccagnini, Le rime di Cino da Pistoia, Olschki, Genève
1925, pp. 124-25; Poeti del dolce stil nuovo, a cura di M. Marti, Le Monnier, Firenze 1969, pp. 564-5;
Poesie dello stilnovo, a cura di M. Berisso, Bur, Milano 2006, pp. 266-67. I giudizi qui espressi sulla
poesia di Cino riflettono quanto già annotato da chi scrive in Ai margini della «Vita Nova»: ancora per
Cino ‘imitatore’ di Dante, in La lirica romanza del medioevo: storia, tradizioni, interpretazioni. Atti del
VI convegno triennale della Società Italiana di Filologia Romanza, Padova-Stra 27 settembre-1 ottobre
2006, a cura di F. Brugnolo e F. Gambino, Unipress, Padova 2009, pp. 757-76, e in Cino da Pistoia:
profilo di un lussurioso, in «Per Leggere», XVII, 2009, pp. 33-53 (Leggere i classici. Saggi di commento
ai classici italiani, antichi e moderni, atti del convegno di Ginevra 23-24 ottobre 2007, parte I).
La classificazione della lezione tiene ovviamente conto di D. De robertis, Il canzoniere Escorialense e
la tradizione ‘veneziana’ dello stilnovo, Loescher, Torino 1954, pp. 115-6. Sul manoscritto escorialense
in particolare si vedano adesso i saggi di S. Carrai, T. De Robertis e R. Capelli in Il codice escorialense
e il frammento marciano dello stilnovo, a cura di S. Carrai e G. Marrani, Sismel-Edizioni del Galluzzo,
Firenze 2009, pp. 3-150.
Per u > o nei dialetti settentrionali cfr. almeno F. Brugnolo, Il canzoniere di Nicolò de’ Rossi, vol. II
(Lingua, tecnica, cultura poetica), Antenore, Padova 1977, par. 4.2.18, p. 161 e bibliografia ivi richia-
mata.
La fortuna dell’immaginario della canzone Madonna, il fino amor presso gli stilnovisti è illustrata da
L. Leonardi, Guinizzelli e Cavalcanti, in Da Guido Guinizzelli a Dante. Nuove prospettive sulla lirica
del Duecento. Atti del convegno di studi Padova-Monselice 10-12 maggio 2002, a cura di F. Brugnolo
e G. Peron, Il Poligrafo, Padova, 2004, pp. 207-26, a p. 221.
Per il De vulgari Eloquentia si fa riferimento all’ed. commentata a cura di P. V. Mengaldo in Dante
Alighieri, Opere minori, tomo II, Ricciardi, Milano-Napoli 1979.
Un sincero rigraziamento devo a Giuliano Tanturli per l’attenzione generosamente dedicata al presente
contributo.
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paradigma della urgente necessità di una rinnovata esegesi dei testi ciniani che esplori
e valuti finalmente fonti anche altre dal solito circuito “interstilnovista” in volgare
di sì e ampli il circuito di confronto fra testi ciniani e testi di Guido Cavalcanti e di
Dante su terreni anche diversi dalla citazione o letterale ripresa (di solito da parte di
Cino) di stilemi e rimanti dei suoi maggiori. Cino ad esempio – già mi è capitato di
notare – compete con i suoi insuperati modelli sul terreno dell’arcadica ripresa del
Virgilio minore e si lancia con pari impeto nella citazione dalla Scrittura – vedremo
anche nel caso in oggetto – ad illustrazione di un amore, o meglio di una concezione
dell’amore forse, non del tutto collimante con quello dei suoi sodali.
Partiamo dai testimoni del sonetto. Lo core mio si legge nei manoscritti Ambrosiano
O.63 sup., (Am) al f. 16v, Chigiano L.VIII.305 (C1) al f. 87v, Escorialense e.III.23
(E) al f. 84r, Magliabechiano VII.1060 della Nazionale di Firenze (Mg1) al f. 5v, ed
è recato precocemente a stampa sia dalla cosiddetta Giuntina di rime antiche, ossia
Sonetti e Canzoni di antichi autori toscani, Firenze, Giunti, 1527 (Giunt) che fra le
Rime di M. Cino da Pistoia, edite da Niccolò Pilli, Roma, Blado, 1559 (Pil). L’attri-
buzione del sonetto a Cino non è unanime. Anonimo in C1, Lo core mio è attribuito a
Cino da Pistoia da E e Mg1, mentre Am reca (f. 16r) un improponibile Petrus de Senis
(il son. è fra l’altro qui inserito fra due testi angioliereschi). La paternità ciniana non
pare comunque da mettere in discussione, dato che trova conferma in individuabili e
indipendenti settori della tradizione (vedi subito infra) e non ha che il contrasto del
silenzio di C1, che comunque reca il sonetto in serie ciniana, e di una insolita proposta
di un testimone quale Am, le cui rubriche sono ben note per il generale disordine e
l’inaffidabilità.
Queste le opposizioni e le varietà di lezione che emergono dal testimoniale in-
dicato:
E Am Giunt Pil
3 E Am Giunt Pil fuggendo amore
5 E Errata de p., Am Engrata di p., Giunt Pil Ferrata di p.
7 E lo temperò, Am Giunt Pil la temperò
11 E Am Giunt Pil Così di voi
12 E Am Giunt Pil di me si veste
C1 Mg1
3 C1 Mg1 veggendo amore
5 C1 errato del p., Mg1 e ratto del p.
7 C1 Mg1 lo temperò
11 C1 Mg1 Ch’uscir di voi
12 C1 Mg1 di sé mi veste
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la morte del cuore e il tempo della pietà in un sonetto di cino da pistoia
3 fuggendo a. E Am
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Per i suoi primi tre quarti il sonetto è votato alla descrizione della morte del cuo-
re, crudelmente ucciso dai dardi amorosi per essersi esposto, attratto dal valore della
bella, alla feritoia degli occhi. La stessa situazione è riferita in modo sostanzialmente
analogo nel sonetto Madonna, la beltà vostra infollìo. È un tema ricorrente che Cino
tenta e varia più volte, dando fondo ad ogni sperimentalismo di marca cavalcantiana,
qui con ricorso fin dall’incipit al sonetto A me stesso di me pietate vène dov’è ritratto
in chiusa proprio il cuore che «[...] si ferma per veduto segno / dove si lancia cru-
deltà d’amore», quasi il nuovo testo ciniano ne volesse costituire la prosecuzione. O
meglio si candidasse a illustrare con maggior ricchezza di dettagli il ferimento letale
del cuore caduto nell’imboscata di Amore. Cino si mette insomma a rappresentare in
dettaglio, quasi a spiegare, l’evento che Cavalcanti solo lascia intuire concludendo
suggestivamente il sonetto con l’immagine del cuore esposto al martirio. Né si lascia
sfuggire, pur costringendosi a un verso che ha quasi l’aspetto di una glossa (v. 6),
l’icona cavalcantiana del cuore-bersaglio (segno) con la sua potente e drammatica
carica evocativa di Hieremias, Lamentationes III 12 «tetendit arcuum suum, et posuit
me quasi signum ad sagittam».
Fin qui è il Cino che ci si attende: abile rimodulatore della nuova poesia fiorentina
cui prestissimo si associa, capace più di formalizzare con eleganza gli spunti poetici
più eminenti dei propri modelli che di innovarne originalmente la linea poetica. At-
tenzione però alla lezione di E e Am al v. 3: fuggendo amore. È francamente difficile
costringersi ad obliterarla senza troppo rimpianto per inerte devozione alla imperante
tradizione del Chigiano. L’alternativa, che pure tanto spiaceva al Di Benedetto, può
rivelarsi seducente.
Per C1 Mg1 infatti il folle arrestarsi del cuore esattamente sotto il tiro del nemico
avviene veggendo Amore, ovvero, presumibilmente, per essersi arrestato a fissare
la meravigliosa divinità di Amore negli occhi di lei. Niente fin qui di sorprendente.
Identificare anzi Amore nello sguardo calamitante di madonna è motivo tradizionale
che viene per di più a consolidare ulteriormente l’adesione ciniana al nascente verbo
stilnovista. Basti pensare al Dante più celebre di Negli occhi porta la mia donna Amore
(Vn 12, 2) e agli attacchi cavalcantiani «O tu che porti nelli occhi sovente / Amor»
e «Io vidi li occhi dove Amor si mise» (la cui clausola Cino ha presente proprio in
Lo core mio) o ancora «Veggio negli occhi della donna mia / un lume pien di spiriti
d’amore».
Ma fuggendo Amore sembrerebbe proporre una situazione un po’ più singolare.
Sembra specificare che il core, una volta che l’imprudente sguardo del poeta (v. 2)
ha prodotto la situazione di pericolo, si è scriteriatamente offerto ai dardi di Amore,
inchiodato dall’esca amorosa, proprio mentre cercava di fuggirli. E sarebbe dunque
questa la stolta follia del cuore: esporsi all’acuminata freccia di Eros, cedere cioè
agli allettamenti della beltà di lei, proprio quando ci si propone di sottrarsi ai suoi
colpi mortali (e temprata, riferito alla saetta, non varrà “appuntita”, come di solito
si chiosa, ma ne dirà indurito, temprato appunto, il metallo nel gelo dell’indifferente
avvenenza dell’amata).
È pur vero che, se ci s’innamora di questa soluzione interpretativa, un senso ana-
logo si può ricavare anche dalla lezione di C1 Mg1, attribuendo cioè a veggendo valore
concessivo: “pur vedendo Amore”, nonostante insomma il nemico armato («acconcio
sol per uccidere altrui» dice altra volta Cavalcanti) fosse bene in vista.
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Fidelissima est haec mulier, quae a fimbriis curationem speravit, propter quod
consequitur sanitatem; unde sequitur et confestim siccatus est fons sanguinis
eius, et sensit corpore quia sanata esset a plaga. (Theophylactus in Th. Aq.,
Catena aurea 6521)
All’opposto la virtus, la forza amorosa della donna crudele non risana. Trafigge anzi
penosamente il cuore senza che ella neppure se ne accorga – si direbbe per l’imporsi
della sua sola folgorante presenza –, né la sua insensibilità intende affatto saggiare
l’amorosa fede di Cino. Questa non è mai stata messa alla prova e non si prospetta
alcuna miracolosa e amorosa ricompensa. Tanto che del suo delitto l’omicida va poi
addirittura fiera (v. 13).
In Cavalcanti – sappiamo – l’impiego della parola sacra è finalizzato a esaltare
l’espressione della disperazione amorosa. In Dante più spesso, ma come del resto
in Chi è questa che vèn dell’amico Guido, la Scrittura serve ad innalzare la figura
della gentilissima nel suo divino potere beatificante o a sancire l’altezza della nuova
poesia, com’è difatti per la pronuncia di Donne ch’avete intellecto d’amore: «Allora
dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa [...]» (Vn 10, 13), che è
la modalità – notava già De Robertis – dell’annuncio e della proclamazione mossa
dall’ispirazione soprannaturale.
In Cino tanto impegnativo corredo si spreca per ritorcere l’ennesima, sempiterna
sollecitazione accusatoria contro la crudele. E mi pare innegabile, dato che tutto il
sonetto è rivolto proprio a madonna, che di nient’altro si tratti che dell’ennesima
pressione perché al fine ella ceda, della perorazione disperata dell’innamorato che
altre armi non possiede per piegare il suo volere che esporre le sue piaghe di morente.
Insomma un autentico ferrovecchio della poetica amorosa.
Non è la prima volta che peschiamo Cino a polverizzare la novità dantesca e caval-
cantiana, di cui tanto facilmente e tanto precocemente si è impossessato, nei risaputi
giochi galanti di un tempo. E di questo al pistoiese s’è spesso fatto carico, quasi che
sulle sue spalle dovesse gravare la responsabilità della “liquidazione” o della piatta
codificazione dello stilnovismo.
Ma non sarà l’ora di mutare prospettiva e di scorgere in Cino perfetta e del tutto
normale continuità e contiguità con la linea poetica della stagione pre-petrarchesca?
E ammirare una volta di più l’irraggiungibile e inavvicinata espressione lirica di
Cavalcanti e Dante?
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D’altronde per una volta ancora potremmo fidarci del giudizio dello stesso Ali-
ghieri che a Cino volentieri riconosce uso eccellente del volgare e dulcedo di stile
ma solo a sé stesso riserva e subtilitas (De vulgari eloquentia I x 4, xiii 3) e novitas
(Purg. XXIV 49-57).
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