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Il ritiro da Kherson è un segnale

per trattare, ma Putin prepara il


piano B
di Gianluca Di Feo

Il Cremlino ha trasferito 150 mila uomini alla


frontiera in Bielorussia e nelle zone di Kursk e
Bryansk. Se non ci sarà una tregua,
attaccheranno

I russi potevano andarsene combattendo, lasciando squadre


di incursori nelle case di Kherson per rendere dura
l'avanzata ucraina e nascondere la disfatta. Invece Mosca ha
deciso di dare un segnale politico e ritirare tutte le truppe a
destra del fiume Dnipro. Una scelta che, nei tempi e nei
modi, trasmette per la prima volta dall'inizio dell'invasione
la disponibilità a una trattativa.

I due comandanti, il ministro Shojgu e il generale Surovikin,


hanno annunciato il ripiegamento, mettendo il popolo russo
davanti alla verità: gli ucraini oggi sono più forti. Più volte
hanno sottolineato: "La cosa più importante è preservare la
vita dei nostri soldati". La portavoce degli Esteri, Maria
Zakharova, ha lanciato un messaggio esplicito: "Non
abbiamo mai rifiutato di condurre negoziati con Kiev e
siamo ancora pronti, tenendo in considerazione la realtà
emergente". Ancora più rilevante è che sia stata attesa la fine

del voto di midterm: adesso la Casa Bianca può valutare la


situazione senza farsi influenzare dalle ricadute
elettorali. Insomma è una svolta. Nessuno pensa che ci siano
i presupposti per la pace: l'Ucraina non l'accetterà fino alla
completa liberazione dei territori occupati. Da ieri però ci
sono le premesse per cominciare a discutere un cessate il
fuoco, che fermi la carneficina dopo otto mesi di orrore
causati dall'aggressione di Putin: una tregua protetta dalla
larga barriera d'acqua del Dnipro. 

Gli elementi di incertezza sono molti. Dal Cremlino non è


venuta una sola parola: la comunicazione è stata gestita
esclusivamente dai vertici delle forze armate. Alcuni analisti
ipotizzano che la manovra possa essere più profonda e
arrivare alle porte della Crimea. Finora però i movimenti
prevedono il rischieramento sulle fortificazioni costruite in
fretta dietro al fiume. 
La reazione del governo Zelensky è ispirata alla cautela e al
sospetto. Oggi gli ucraini - come si dice militarmente -
hanno l'iniziativa: sono superiori in qualità e mezzi ai russi,
possono scegliere dove e come attaccare. Nonostante le
sofferenze inflitte alle città, le loro brigate tengono testa agli
invasori ovunque. Riescono a farlo grazie alla
determinazione degli uomini e agli strumenti forniti dalla
Nato: una quantità di armi, munizioni e informazioni senza
precedenti nella storia. La paura di Kiev è chiara: i russi
vogliono prendere fiato per riorganizzare l'esercito e
scatenare una nuova offensiva. Una considerazione fondata.
Il Cremlino ha gettato nella mischia almeno 50 mila dei
riservisti mobilitati a settembre. Altri 150 mila sono stati
trasferiti in tre centri di addestramento, in prossimità della
frontiera: uno nella zona di Kursk, uno in quella di Bryansk,
uno in Bielorussia. Se non ci sarà una tregua, queste truppe
andranno comunque all'attacco. Probabilmente a dicembre,

quando il ghiaccio compatterà le pianure fangose. La loro


manovra avverrà su tre direttrici lontane l'una dall'altra, in
modo da obbligare gli ucraini a dividere le loro unità
meccanizzate e gestire una logistica complessa: l'elemento
principale che ha permesso i successi di Kiev - la possibilità
di concentrare le forze nei punti deboli del nemico -
verrebbe a cadere. Quella che Mosca sta allestendo è una
massa d'urto pari all'onda d'assalto scatenata lo scorso 24
febbraio. Gli ucraini possono riuscire a fermarla, il prezzo di
sangue sarebbe però altissimo. E a quel punto a Mosca
resterebbe un'unica risorsa: la bomba nucleare.  questa
preoccupazione che nelle ultime settimane ha spinto la Casa
Bianca a imbastire un canale di comunicazione con il
Cremlino, affidato ai due consiglieri per la Sicurezza:
Sullivan e Patrushev. Contatti che si sono aggiunti alla linea
diretta creata dai vertici militari e alle delegazioni che
discutono il rinnovo degli accordi Start: tutti rivolti a
sventare l'escalation atomica. Come ha anticipato Claudio
Tito su queste pagine, la Nato considerava la liberazione di
Kherson il presupposto per ogni trattativa, anche se le
cancellerie dell'Europa occidentale condividono i timori
degli Usa, mentre i Paesi orientali e la Gran Bretagna
vogliono la disfatta totale dei russi.

Se tacessero le armi, quale sarebbe la situazione sul campo?


I confini a Donetsk e Lugansk sono sostanzialmente uguali
all'inizio del conflitto. Il Cremlino ha messo le mani solo sul
territorio a destra del Dnipro, con le città di Mariupol e
Melitopol. Un risultato lontanissimo dalla promessa di
"cancellare l'Ucraina e liberare il Donbass". Putin potrebbe
cercare di placare l'opinione pubblica proclamando di avere
riportato la frontiera sulla "linea sacra" del Dnipro. Zelensky
dovrebbe rinunciare a questa regione e vantare di avere

sconfitto i russi, mantenendo il sostegno dell'Occidente.


Sarebbe accettabile per il popolo ucraino?

Si apre una fase di grandi speranze e incognite terribili. Nel


1991 quando Saddam Hussein ordinò la ritirata dal Kuwait
era convinto di ottenere una tregua: le sue colonne vennero
massacrate. Anche l'operazione russa è ad alto rischio e i
razzi Himars sono in grado di decimare l'armata in marcia. I
volti scuri apparsi in tv del ministro Shojgu e del generale
Surokin lasciano pochi dubbi su quale sarebbe la risposta: le
testate nucleari.

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