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Introduzione a Cartesio
Il retaggio di René Descartes è incommensurabile, la sua svolta ineguagliabile. Hegel ci dice che
“Descartes comincia da ciò che è universale, dal pensare come tale”, individua in Cartesio il
fondatore della speculazione moderna e l’origine dell’idealismo, da Cartesio ha inizio il pensiero
ante esistenza, il pensiero come cornice entro la quale ha luogo l’esperienza. Da Cartesio è
sempre presente un “io penso”, che è universale, intersoggettivo, una facoltà dell’essere umano
(nel Discorso sul Metodo: “il buon senso è ciò che è meglio ripartito nell’umanità”). Con Cartesio
si ha il ri uto della loso a come autorità, si ha l’idea secondo la quale il losofo scopre la verità
con un gesto di verità (ciò è visibile teologicamente anche nell’esperienza protestante).
Descartes è così il losofo dell’epoché, il fondatore di una nuova loso a: rompendo con
l’immediatezza, andando oltre al fenomeno, ragionando nella duplice realtà esperibile
soggettivamente. Husserl ci dice che “Questa epoché cartesiana è in realtà di un radicalismo
inaudito, perché investe espressamente non soltanto la validità di tutte le precedenti scienze,
persino della matematica che pure pretende a un’esigenza apodittica ma anche addirittura, la
validità del mondo della vita per ed extra scienti co, e cioè di tutto il mondo, dato in un’ovvietà
indagata, dell’esperienza sensibile, di tutta la vita concettuale che di esso si nutre, della vita non-
scienti ca e in ne anche di quella scienti ca”.
L’io cartesiano è il punto di svolta del pensare loso co, l’io che lo salva dal dubbio, che gli
permette di costruire il fondamento di un nuovo modo di conoscere: “io, io che opero l’epoché,
non rientro tra i suoi oggetti, piuttosto – se la opero in modo realmente radicale ed universale –
sono escluso di principio dal suo ambito. Io sono necessariamente, perché sono colui che la
opera. Proprio per questo trovo quel terreno apodittico che cercavo, e che esclude assolutamente
qualsiasi dubbio” (Husserl).
È così che Cartesio diviene il losofo della verità, il modernizzatore della realtà, il costruttore
dell’idea. Egli coglie l’universale nel particolare, è stato in grado di fornire i primi passi verso la
scienza della rappresentazione: capace quindi di previsioni, idealizzazioni della materia, ma anche
di concepire in senso lato l’io penso, il soggetto.
“La tesi dice: il rappresentare che per essenza è rappresentare a se stesso pone l’essere come
rappresentatezza e la verità come certezza. Ciò a cui tutto viene riportato come fondamento
incontrovertibile è la piena essenza della rappresentazione stessa, in quanto in base a essa si
determinano l’essenza dell’essere e della verità, ma anche l’essenza dell’uomo come colui che
rappresenta e il modo di questo suo essere determinante” (Heidegger).
Da Descartes parte la rivoluzione di pensiero che ha condotto a numerose ri essioni sul metodo,
sulla natura delle scienze, della materia e dell’anima, ri essioni sull’essere di Dio, sulla
conoscibilità stessa. Ri essioni anche di carattere morale, etico. Descartes ha ispirato vari loso ,
con polemiche e prese di posizioni, dando via a numerosi dibattiti, fra cui quello sulla natura delle
idee, in particolare circa le idee innate.
Il metodo
Il cartesianesimo ha inizio con le sue ri essioni circa lo studio delle scienze. Agli inizi del 1600 si
cominciarono già a vedere le prime crepe di quello che poi sarebbe stato il crollo della loso a
aristotelica, in questo periodo di crollo l’obiettivo di Cartesio era molto semplice: rifondare tutto il
sapere scienti co. Viste le varie condanne nei confronti di scienziati rivoluzionari, fra tutte quelle
galileiana lo toccò più nel profondo, Cartesio decise di non pubblicare i due trattati di stampo
puramente scienti co che aveva redatto no a quel momento, L’Homme e Le Monde.
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Trasferitosi in Olanda negli anni ’30, decise di scrivere un trattato sul metodo per condurre
l’intelletto durante lo studio delle scienze, accompagnato poi da tre saggi, dimostrativi: la
Diottrica, le Meteore e la Geometria.
Il Discorso sul Metodo, che uscirà nel 1637, è un’opera dedicata al grande pubblico, di fatto è
scritta in francese, dove Descartes, non schierandosi apertamente, delinea delle linee guida per la
ragione, facoltà di cui tutti gli uomini sono ben provvisti (a detta sua). Si possono dividere le linee
guide in due categorie: le regole della ragione e le massime della morale provvisoria.
Le regole della ragione sono quattro e seguono pedissequamente l’atto di scoperta. Anzitutto,
bisogna accettare solo ciò che è evidente, evitando di considerare come vero ciò che non appare
come tale, così da non cadere in errore a causa della propria precipitosità. La seconda regola
riguarda la scomposizione del problema in quanti più piccoli problemi sia possibile, così che poi,
come appare nella terza norma, possano essere risolti dal più facile al più di cile, passando dal
particolare all’universale. Descartes delinea così i primi passi verso un tipo di scoperta scienti ca
che denota il rigore matematico, esplicitato dal quarto passaggio: il controllo a ritroso di ogni
punto sopracitato.
Per quanto concerne la morale provvisoria, vediamo spiegate tre (o quattro) massime: ubbidire a
leggi e costumi del proprio paese, adeguarsi alle situazioni scegliendo il partito sociale più
conveniente (evitando però questa adeguazione nelle scienze) e comprendere al meglio il proprio
desiderio e la propria vocazione (esercitandosi e sforzandosi di vincere se stessi anche nelle
situazioni più ostiche).
Descartes durante l’opera parlerà poi dell’io penso, dell’esistenza di Dio, delle ragioni che lo
hanno portato a scrivere e dello sviluppo delle scienze. Tutti temi che verranno ripresi e ritrattati
nelle Meditazioni Meta siche (1641), contenenti anche diverse obiezioni e risposte, visto la
controtendenza su cui viaggiava il pensatore francese.
Il dubbio
L’evidenza e l’indubitabilità sono due caratteri della conoscenza che conducono alla certezza,
certezza che è fondamentale nella gnoseologia cartesiana. Cartesio attraverso diversi livelli di
dubbio: dal normativo (dubitabilità di un fatto) allo psicologico (potenzialità di dubbio),
raggiungendo in ne il massimo livello di dubbio, iperbolico, con l’ipotesi del malin genié.
Il primo livello di dubbio, quello normativo, riguarda la dubitabilità dei sensi: Descartes a erma
che siccome i sensi ci ingannano, o ci hanno ingannato almeno una volta, allora non c’è mai da
darsi (radicalizzazione del dubbio). Passa poi, in un secondo livello di analisi, alla
riconsiderazione delle sensazioni con l’ipotesi del sogno: visto che nei sogni ho comunque alcune
verità che possono essere considerate sempre valide, rifancentesi spesso ai sensi, potrebbe
esserci qualcosa di vero (come le proporzioni matematiche o l’aritmetica). Non accontentandosi
Descartes ha ancora potenzialmente ragione di dubitare (dubbio psicologico), e ipotizza un Genio
Maligno che faccia sì che egli si inganni ogniqualvolta pensi a una verità apparentemente
indubitabile ed evidente. Descartes si rifà così all’occamismo scolastico, una tradizione di
pensiero in cui Dio non solo ha il potere sommo di verbalizzare tutto, ma detiene anche quello di
falsi catore sommo. In questo momento si è in una condizione in cui nulla è certo.
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L’io penso: la svolta
Il Genio Maligno non potrà però far sì che io non sia nulla se in questo momento sto pensando,
poiché io posso dubitare di tutto ma non dell’esistenza dell’io in quanto quell’io è il soggetto
pensante che sta pensando, cioè dubitando, in questo momento. È così che Cartesio parte dal
soggetto, è così che viene rivoluzionato il pensiero in ottica moderna. Questo “io penso” fonda
tutta l’esistenza, non si parte più dall’esterno o dai sensi, si parte dal pensiero, in un atto
originario, di generazione continua, poiché ntanto che si ha l’atto di pensiero si ha l’esistenza.
Interrogandosi, dopo questa grande conquista, sulla natura dell’io, scopre che può sussistere
anche senza un corpo, che può sussistere come mero pensiero, di ha così un pensiero
autosussistente, un pensiero-sostanza (res cogitans).
Gli furono mosse contro varie obiezioni, Gassendi anzitutto gli riferì che si possono fare molteplici
azioni, non soltanto il pensiero deve essere visto come fondatore dell’esistenza, a ermazione a
cui Cartesio risposte con il fatto che il pensiero viene prima di tutte quelle azioni. All’obiezioni di
Hobbes, sul fatto che starebbe scambiando l’azione col soggetto che la compie, Cartesio
risponde con l’autosussitenza del pensiero.
L’immaginazione
Dopo aver ri ettuto sulla sostanza incorporea, la sostanza pensante, Cartesio immagina una cosa
corporea, una gura dotata di corpo: da qui si evince l’immaginazione come il modo di pensare
connesso con le facoltà del corpo.
Si possono quindi distinguere, come farà poi, delle idee innate (proprie della res cogitans) e delle
idee avventizie e fattizie (proprie dell’immaginazione). Questa connotazione della ragione mostra
molto bene la fondazione del sapere scienti co come rappresentazione: dalla realtà esperita o
dalle idee gurative (o immaginative) si possono trarre delle regolarità proprie ed evidenti, idee
distinte, certe e sicure. Questo è un passaggio rivoluzionario, perché in precedenze si pensava
che la verità stesse nelle cose, e che al pensiero spettasse solo la facoltà astrattiva.
Immaginare un corpo vuol dire dargli forma, mentre l’intellezione è la comprensione delle sue
proprietà.
Senza idee innate non ci sarebbe possibile distinguere la continuità del mutamento (nell’esempio
della cera) o tra le varie di erenze nella continuità (esempio degli automi).
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L’idea denota poi una duplice realtà (in quanto idea è tutto ciò che non è corpo, e dunque fa parte
della vita mentale di un soggetto): la realtà obiettiva (ovvero la forma dell’idea) e la realtà formale
dell’idea (la sua concretezza, riscontro, anche pratico o sensibile). Il vero è quindi contraddistinto
dalla corrispondenza tra realtà obiettiva e formale, in quanto l’idea vera è chiara e distinta e se ne
comprendono tutte le proprietà.
Si passa così dalla forma dell’idea al suo contenuto, e ciò riguarda i giudizi: di fatto il criterio di
verità di un’idea in sé è fuorviante, di un giudizio si può esaminare la veridicità. La classi cazione
delle idee per il loro contenuto segue l’attivazione o meno di date facoltà della mente.
Le idee della scienza sono le idee innate, idee in cui la mente è attiva e che, per quanto piene in
forma, sono vuote di contenuto. Le idee in cui la mente è sempre passiva, e anche
contenutisticamente ci vengono date per come sono, sono le idee avventizie, che sono le idee
tratte dai sensi e dalla natura. In ne, le idee fattizie, pure dell’immaginazione, denotano un
contenuto attivo e una forma passiva, in quanto sono le idee fantastiche (chimeriche).
Da questa classi cazione si evince come la forma dell’idea sia prodotta dalla mente, mentre la
sua realtà formale sta fuori dall’idea. Se venissimo all’idea di Dio, la mente deve essere attiva per
pensarla, ma ha bisogno dell’esistenza di Dio come causa formale dell’esistenza oggettiva di Dio.
Grazie a questi principi e alla rappresentatività delle idee, bisogna sempre presumere una
causalità delle idee, che può essere di pari grado di realtà o superiore (eminente). Se si
analizzassero le idee dei sensi o delle sostanze nite non si avrebbero problemi, in quanto l’io
penso ha un grado di realtà su ciente o maggiore rispetto alle idee sensibili o di sostanze in nite,
e quindi può esserne causa. Tuttavia, con le idee di sostanze in nite, come l’idea di Dio, l’io penso
non può esserne la causa. Siccome si ha l’idea di Dio, e l’idea di Dio racchiude l’in nità, può
essere stato solo un essere in nito ad aver causato l’idea di Dio nella mente dell’io penso. Quindi
Dio esiste, e si manifesta nell’idea di Dio.
Gassendi obietterà asserendo che noi non abbiamo l’idea di Dio, perché non abbiamo l’idea di
in nito e Dio è, appunto, in nito. Cartesio risponderà a questa obiezione a ermando che noi
abbiamo un’idea chiara e distinta dell’in nito, così come di Dio, in quanto, anche se non ne
a erriamo tutte le proprietà, la sua ricerca di pone come inesauribile, in quanto sono idee innate.
N.B.: queste dimostrazioni sono de nite a posteriori perché partono dall’e etto e cercano la causa
La seconda dimostrazione a posteriori dell’esistenza di Dio
Nella seconda dimostrazione, Cartesio prende le mosse da elementi simili alla prima, ricercando
questa volta di dimostrare di Dio in quanto egli deve essere l’ente che causa l’esistenza
dell’essere pensante che ha l’idea di Dio. Questa dimostrazione è molto simile alla ricerca in nita
delle cause della scuola tomista, tuttavia Cartesio la rende più attuale per due motivi: anzitutto la
ricerca presente e indivisibile permette di superare lo scoglio della possibile digressione
all’in nito, in secondo luogo ricerca non solo l’io, bensì l’io che ha l’idea di Dio, per poter
tranquillamente avanzare secondo i gradi di realtà.
Dio si pone così, sempre secondo la catena delle cause, e a ermandosi come causa sui (atto
eretico per il cristianesimo del tempo), come garante dell’io penso. Dio è il garante del rapporto
realtà-rappresentazione, della continuità, del tempo della natura e della rappresentazione in sé.
L’idea innata di Dio è stata quindi impressa dal suo creatore nella nostra mente, così come tutte le
altre idee innate, in quanto racchiudono perfezioni e sono inesauribili (come la rma di un’artista
sulla sua opera).
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L’errore
Come già a ermato nella classi cazione cartesiana delle idee, queste assumono valori di verità o
falsità solo nei giudizio: dunque l’errore è un problema di giudizio. L’errore non arriva da Dio, in
quanto, una volta dimostrato Dio, si ha un’idea di Dio perfetta e una delle sue perfezioni è la
veracità: il Genio Maligno è così spazzato via da un Dio verace al massimo, che, in quanto tale,
non può ingannare. Sul perché Dio lasci che noi ci inganniamo, entra in gioco, come al solito,
l’in nito disegno divino, la questione del libero arbitrio e l’in nita volontà umana.
Nello schema cartesiano noi ci poniamo di fronte a una realtà da adeguare all’intelletto, dove per
conoscere correttamente dobbiamo adoperare le idee chiare e distinte, siccome ci viene
presentata corrotta dalla nostra nitezza e dalla nostra sensibilità. Il falso è così la mal attribuzione
di un predicato: l’errore è un giudizio in cui si con gurano male la facoltà di conoscere (intelletto) e
la facoltà di scegliere (volontà).
L’intelletto di per sé non compierebbe errori, perché conosce con le idee chiare e distinte, infatti
nei giudizi evidenti opera solo l’intelletto, senza la volontà. Tuttavia, l’intelletto è nito nell’uomo,
mentre la volontà è libera, in nita, e viene usata nei giudizi, permettendo così all’uomo di
esprimersi anche in assenza di certezza. Ciò accade perché l’uomo ha uno smisurato desiderio di
conoscenza, dunque serve un atto di forza che limiti questa libertà di espressione, bisogna
dunque sospendere il giudizio laddove non c’è certezza.
I corpi
Dopo essersi occupato del fondamento della conoscenza (l’io penso e Dio), degli strumenti per
conoscere (le idee innate) e del metodo (per non commettere errori); è giunto il momento di
ampliare la propria conoscenza e occuparsi delle cose che stanno fuori dal pensiero: i corpi.
Decide di trattare i corpi, in quanto non c’è più il Genio Maligno e quello che immagina può avere
una sua verità, e attraverso un Gedankenexperiment immaginativo può studiarli. È da notare che
usa pur sempre una facoltà dell’intelletto, sempre perché i sensi ingannano, ma usa
l’immaginazione in quanto è la più vicina alle sensibilità, quindi alla corporeità.
Analizza, anzitutto, la quantità continua, ossia l’estensione e le sue proprietà (lunghezza, larghezza
e profondità). All’estensione e alle sue proprietà vengono a ancate delle altre sub-attribuzioni,
quali: grandezza (numero), gura, situazione e movimento (con durata).
È da notare che, per Cartesio, un corpo è un ente esteso e che in quanto esteso è in movimento;
per lui è inconcepibile il vuoto, poiché l’estensione riguarda tutto lo spazio e lo spazio è pieno di
corpi, anche questi estesi. Riprende al pari la teoria delle idee, infatti nemmeno nelle idee gurava
il nulla, in quanto il pensiero è sempre pensiero di qualcosa, oltre al fatto che il pensiero è l’attività
fondativa non solo del pensiero, ma anche dell’esistenza.
Questa prova parte dal fatto che noi abbiamo un’idea di Dio, in quanto di Dio rappresenta
qualcosa che racchiude tutte le perfezioni, e l’essere esistente è una di queste perfezioni. Dunque
Dio esiste. La critica di Caterus a erma che uno potrebbe pensare a un Dio in nito, così come
a ermare l’esistenza di questo pensiero, ma ciò non vuol dire che sia Dio a esistere, ma la sua
idea: il salto da pensiero a natura è quindi arbitrario. A tale obiezione Cartesio rispondere con le
altre due prove, in quanto la prova a priori è solo un corollario.
Il salto da logico a ontologico serve però a Cartesio per a ermare il fondamento della meta sica.
È dall’a ermazione di Dio che la natura può essere conosciuta come un meccanismo, con idee
innate inscritte nell’essere stesso delle cose. La dimostrazione a priori è moregeometrica, ricavata
come una proprietà di Dio, come una proprietà di un’idea innata, chiara e distinta, matematica,
come se fosse un triangolo (per esempio).
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Il dualismo cartesiano
Il problema del dualismo cartesiano è il problema della comunicazione fra sostanze. Le sostanze
sono tre: Dio, res cogitans e res extensa. Nell’uomo troviamo la sostanza pensante e la sostanza
corporea, ma come comunicano queste due se sono di due realtà ontologiche completamente
di erenti?
In questa ri essione Cartesio tenta di a ermare l’immortalità delle sostanze: dal corpo che è solo
un accidente dell’estensione, e l’estensione in quanto tale è eterne, all’anima che verrà
identi cata come pensiero puro, ma la questione riguardo alla sua natura a sé stante rimarrà
irrisolta.
Il primo carattere dell’anima, legata al corpo e al pensiero, è la sua passività nelle modi cazioni
delle a ezioni provenienti dall’esterno. Da qui il passato come il composto del nostro vissuto
emotivo, delle nostre modi cazioni. Ad ogni azione, modi cazione, è associata una reazione:
de nita inclinazione naturale. Le inclinazioni naturali ci mostrano le nostre reazioni involontarie
dovute alle passioni, ma queste sono ina dabili, in quanto confuse e condizionate dal passato.
A queste cose non ci dobbiamo a dare, si possono solo a ermare le esistenze, quindi dimostrare
l’esterno. Per costruire il sapere dall’esterno servono sempre le idee innate, chiare e distinte,
l’ordine delle cose date secondo i nessi causali, l’ordine naturale nato dalla potenza ordinaria di
Dio (per contro alla potenza assoluta, che è l’agire senza mediazioni: il miracolo).
È con la mediazione divina che Cartesio risolve quindi la comunicazione fra sostanze: se le cose
sono conoscibili attraverso nessi causali dalla potenza ordinaria di Dio, Dio ha dato la legge per la
corrispondenza percezione-e etto, per esempio, alla sete si rimedia bevendo.
Ma se Dio funge da mediatore, quindi a tutela dell’ordine, come mai esiste l’errore naturale?
Come mai esistono le malattie o le disabilità? Come mai l’idropico deve comunque bere? A questi
quesiti risponde con il fatto che tali errori vengono a generarsi dallo scontro di corpi, quindi di enti
corruttibili, e che dallo scontro seguono il loro corso, assoggettandosi al medesimo destino,
causato dalla nitezza, come nell’errore materiale.
Introduzione a Malebranche
Malebranche è un religioso, che viene ordinato prete nel 1664, anno al quale si fa risalire la sua
scoperta della loso a: passeggiando e cercando nuovi libri, gli fu proposto il trattato de
L’Homme di Descartes. Innamorandosi della metodologia cartesiana si avvicinò agli altri suoi testi
e alla loso a in generale, trovando anche un forte piacere nella lettura e nelle teorie di Agostino.
Tra le varie questioni cartesiane, quella che a ascina Malebranche riguarda il dualismo che,
diversamente da Spinoza e la sua interpretazione immanentista, Malebranche a ronterà in chiave
trascendente.
Dio agisce per sé, conoscendo e amando gli esseri da lui creati che debbono tendere verso di lui,
tuttavia, dopo il peccato originale, l’uomo commette l’errore di essere più legato al corpo, ai suoi
piaceri. L’uomo però sa che è meglio essere giusto che ricco, dunque pensando capisce che
l’anima richiede ben altro e deve essere puri cata.
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L’anima è così unità a Dio che Dio le fa conoscere la puri cazione attraverso la luce della verità.
Dio è talmente vicino all’anima tanto che la verità non abbandonerà mai lo spirito, sarà piuttosto
l’uomo che abbandonerà la verità, a causa del suo rapporto con l’essere terreno. Inoltre, l’unione
con Dio non toglie del tutto il legame terreno, pur indebolendolo fortemente: tale legame si spezza
solo con la morte.
Il ne dell’uomo deve essere quindi la conoscenza, razionale, perché così giunge a Dio, che è
verità pura: per fare ciò l’uomo si avvale delle idee innate, che svolgono così una funzione analoga
a quella cartesiana. Per puri care serve l’attenzione: che in Cartesio riguarda la chiarezza, mentre
in Malebranche è la mera ri essione, solo così arriviamo a Dio.
Dio è quindi la condizione di conoscenza della verità, è ancora più potente rispetto a Cartesio
(dove Dio funge da garante). Questa condizione di conoscenza consolida il rapporto Dio-anima,
o rendocelo come un tratto quasi mistico di fusione.
È evidente come Malebranche divida, in maniera ancora più decisa rispetto a Cartesio, l’anima dal
corpo: questo perché egli non vuole fondare una scienza, bensì un avvicinamento a Dio, una
puri cazione dell’anima.
Visto questo stretto rapporto analogico e parallelo, materia e gure, così come spirito e intelletto,
sono facoltà passive. L’intelletto immagina gli oggetti assenti e può sentire quelli presenti. I sensi
e l’immaginazione sono l’intelletto che conosce con i sensi. L’intelletto può adottare questo tipo di
conoscenza coi corpi e attraverso le idee chiare e distinta; ciò non può accadere per l’anima.
In Malebranche abbiamo una di erenza reale tra anima e corpo ancor più marcata, al punto che
l’anima è conoscibile (potenzialmente) solo per analogia. Infatti dell’anima io posso parlare per
coscienza, in base alle modi cazioni in atto, o a posteriori, a seguito delle modi cazioni. Lo spirito
è dunque la capacità dell’anima di ricevere modi cazioni.
Se in ambito conoscitivo segue i passi cartesiani, si discosta fortemente per la concezione della
volontà e dell’errore per mano di questa facoltà.
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In Cartesio la volontà può essere indi erente, ed è qui che viene sospeso il giudizio: in
Malebranche la volontà è sempre volontà di bene, e l’errore cade sulla libertà, che pare più forte
della volontà, o per lo meno in grado di modi carla; mentre in Cartesio la volontà è in nita ed è
colei che regola il giudizio. Vediamo quindi come la natura dell’errore, da scienti co a morale,
porti la disattenzione sotto un altro punto di vista: bisogna di fatto stare attenti al bene che si
persegue, sempre.
L’uomo ricerca, per sua natura, la verità. L’intelletto funge da forma e la volontà da spinta,
cosicché, nell’atto conoscitivo, queste due facoltà possano agire sempre assieme. La
conoscenza si con gura quindi come una ristrutturazione del bene, dove il criterio di razionalità fa
capo alla sommità della conoscenza, quindi alla totalità, a Dio, al bene.
La di erenza tra Cartesio e Malebranche è eclatante: da una ricerca analitica a un atto di sintesi
che sublima il soggetto e traspone la verità nel bene sommo e nell’unione con Dio; ciò accade
anche perché gli obiettivi sono diversi, la ricerca cartesiana e di carattere meta sico-
epistemologico, quella malebranchiana è meta sico-teologica.
Trovandosi le idee innate in Dio, si accentua ancor più la di erenza anima-corpo. A causa di
questo forte stacco è Dio che interviene sempre a regolare i rapporti fra le due sostanze: ogni
causa è non solo garantita primariamente da Dio, ma è Dio che interviene ogni volta anche nelle
cause particolari, seconde, occasionali, Dio veracizza le cause occasionali.
In Cartesio Dio ci dà continuità, causa l’io che è a fondamento della conoscenza e gli permette di
conoscere rilevando i rapporti causali: Dio è garante nella misura in cui permette l’applicazione
delle idee innate alla realtà sensibile. Per Malebranche è ancor di più: Dio è sempre attivo in ogni
regolazione dei rapporti anima-corpo, se l’anima (prendendo in causa gli spiriti animali) vuole
andare da A a B e il corpo di muove da A a B, è perché Dio, onnipotente, regola questo rapporto.
Dio è causa di tutto, della natura, delle passioni, Dio è immanente a ogni causa. È interessante
vedere come viene sviluppata la questione causale nelle varie teorie moderne: di fatto in Cartesio
è una corrispondenza reale (da qui il razionalismo), mentre in Malebranche interviene Dio e in
Spinoza (similmente) si ha una visione panteista, diversamente in Hume la causalità è
ridimensionata ad abitudine.
Quando il rapporto è chiaro si ha un espressione chiara, dunque si pensa che sia l’intelletto a
giudicare, in realtà è semplicemente un giudizio non libero e quindi non ci sembra che accettiamo
volontariamente.
C’è di erenza fra il semplice consentire e il volgersi sotto la spinta dell’amore, siccome
conosciamo imperfettamente ci serve la libera indi erenza, in quanto sennò, se dovessimo
acconsentire a cose confuse, Dio sarebbe autore degli errori.
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L’uso della libertà quindi può servire anche a non ingannarci. Dio ce l’ha donata per darci la
possibilità di non accontentarci della verosimiglianza, cosicché l’intelletto continui a lavorare non
accettando come vero nulla se non l’evidenza (svolgendo continuamente un compito di
chiari cazione). La libertà equivale alla sospensione del consenso ntato che la rappresentazione
fornitaci dall’intelletto non è certa.
Se la regola per evitare l’errore nelle scienze è molto simile a quella cartesiana del metodo, per
quanto concerne la morale Malebranche ci o re un interessante norma, ovvero: non amare un
bene se non lo si può amare senza rimorso, e l’unico bene amabile in tal modo è Dio.
Per la fede bisogna dunque credere ciecamente, in quanto l’autorità divina è infallibile. Nella
loso a bisogna vedere evidentemente, in quanto l’uomo può errare.
Malebranche distingue quindi due tipi di verità: le verità necessarie e vere di Dio (come la
matematica, la meta sica, alcune leggi della siche e norme morali), e quelle contingenti e
verosimili, date per volontà degli uomini, pragmaticamente utili (come la storia, il linguaggio, il
diritto particolare, i costumi, ecc.).
L’errore
Come già detto in precedenza l’errore deriva da un uso sbagliato della libertà, non ci si
ingannerebbe, infatti, se si giudicasse solo ciò che si vede. Le cause occasionali dei nostri errori
nei giudizi dipendono dal consenso della volontà e dalla percezione dell’intelletto. Dunque anche
la percezione ricopre un ruolo importante, infatti l’anima ha coscienza delle cose in tre modi
di erenti.
Con l’intelletto puro conosce le cose spirituali, le cose universali, le nozioni comuni, la perfezione,
l’idea di Dio, i pensieri di ri essione su di sé; ma anche le cose materiali come l’estensione e le
sue proprietà: nominate pure intellezioni o pure percezioni.
Con l’immaginazione conosce gli esseri materiali grazie a un’immagine che le si forma nel
cervello, le immaginazioni hanno carattere puramente materiale: non si possono formare esseri
spirituali con l’immaginazione.
La conoscenza sensibile, in ne, riguarda gli oggetti che impressionano i sensi esterni del corpo:
da essi gli spiriti animali conducono la sensazione (sentimento) al cervello. Così come questa
facoltà involontaria, anche le inclinazioni naturali e le passioni ci inducono in errore.
I sensi sono di fatto i più corrotti. Essendo che il piacere è un sentimento forte, datoci in origine
da Dio per condurci a Dio, ed essendo anche il nostro corpo dotato di tale sentimento (e non solo
lo spirito), per conservarsi meglio il primo uomo ha trovato il piacere in ciò che gli avrebbe
conferito più perfezione (sia nel corpo che nello spirito): facendosi così sedurre, allontanandosi da
Dio e avvicinandosi al corpo.
Tuttavia questa giusti cazione dell’errore dei sensi non pare la più corretta, Malebranche pensa
infatti che noi cerchiamo due beni: per lo spirito e per il corpo. Noi possiamo capire se una cosa è
buona per noi col solo spirito (conoscenza chiara ed evidente) o con spirito e corpo insieme
(sensazione confusa). Per i piaceri terreni si userà quindi l’istinto (secondo il grado di piacere), non
facendo uso dell’analisi delle perfezioni propria di Dio e dello spirito. Dacché lo spirito non è
in nito e cerca una qualche utilità (non potendo analizzare all’in nito un ente materiale), cadendo
così vittima delle passioni, che prendono il sopravvento.
Bisogna quindi alleggerire il peso delle passioni, con la penitenza, la morti cazione dei sensi e le
riduzione dei piaceri. Bisogna chiedere a Dio la grazia, usando i sensi solo per la conservazione
della vita. Di fatto non sono corrotti i nostri sensi, ma la nostra libertà (giudizi precipitosi e volontà
ingannevole) lo è: i sensi servono a giudicare le cose in rapporto col nostro corpo, non in sé.
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L’immaginazione
L’immaginazione in Malebranche è molto più aderente alla siologia, di quanto non lo sia in
Cartesio. Per Malebranche esistono gli spiriti animali che permettono di ripercorrere gli stimoli di
carattere nervoso sensibile, e grazie all’intervento di Dio ci viene fornita un’immagine.
L’immaginazione è un atto di libertà del corpo che produce una modi cazione: da qui immagini
che possono essere virtuose oppure no. L’associazione di idee che vediamo in Hobbes e in
Spinoza ha un riscontro molto più pratico, ponendo l’immaginazione a fondamento della vita
sociale, in quanto conoscenza sviluppata e prodotta per imitazione, come esperienza del vissuto.
Similmente accade in Malebranche, che nuovamente si discosta da Cartesio, non aderendo però
nemmeno completamente agli altri due pensatori. La vita sociale è dunque regolata
dall’esperienza, con gurando l’immaginazione con la religione e la pietà.
Lo spirito puro
Dopo aver cercato l’errore nei sensi, Malebranche cerca l’errore anche nello spirito a sé, senza
legami col corpo. Anzitutto copre che allo spirito è essenziale il solo pensiero, il sentire e
l’immaginare non sono altro che sue modi cazioni (parallelamente: l’estensione è ciò che è
essenziale alla materia).
Il pensiero sostanziale non lo si conosce però in sé, ma solo per coscienza. Questo è
accompagnato sempre dal volere (come il corpo è accompagnato dal movimento, il pensiero è
accompagnato dalla volontà). Questo volere è la spinta di Dio vero il bene.
Noi non conosciamo tutte le modi cazioni di cui è capace la nostra anima, sappiamo che se la
materia è unita allo spirito allora è in grado di poche modi cazioni, se lo spirito è libero allora è
in nito, in quanto Dio è in nito.
Quando l’anima dipende dal corpo è dunque limitata e corrotta (vanno scisse le sensazioni
corporee e i giudizi), mentre quando è libera è immortale e si possono abbracciare in nite nuove
modi cazioni ora ignote. Malebranche non pretende però che l’anima sia solo conoscenza e
amore; le sensazioni sono infatti altro e non ne sono una conseguenza.
Lo spirito può però essere limitato, non partecipando all’in nito: in quanto l’anima non può
conoscere perfettamente l’in nito, così come non può conoscere distintamente molte cose.
Infatti, più il numero di cose che conosciamo cresce, più i nostri pensieri appaiono confusi. Non si
smette mai di sentire o di pensare, il fatto che i pensieri siano tanti e diversi, e che non lascino
traccia, non vuol dire che non ci siano.
Lo spirito limitato è dunque la fonte degli errori dello spirito, facendo considerazioni a rettate,
interpretazioni sbagliate o confondendosi; sia in ambito di fede che di ragione. Dunque l’intelletto
compie degli errori perché è meno esteso degli oggetti che considera.
Un’altra ragione per cui erra è la sua incostanza: non può ssare abbastanza a lungo lo sguardo
su un soggetto per esaminarlo tutto intero. Questo perché la volontà che dirige l’azione
dell’intelletto cerca il bene sommo, che è in nito, e si appaga dunque di ciò che raggiunge.
Questa labilità porta alla mancata concentrazione, alla volubilità, lasciando crollare la conoscenza
chiara e distinta.
Di fatto le nostre sensazioni ci assorbono più delle idee pure dell’intelletto, essendo più immediata
e distogliendo l’attenzione dell’anima dalla speculazione meta sica. Nessun idea astratta modi ca
l’anima come la modi ca una sensazione.
Questa è la causa della corruzione dei costumi e dell’ignoranza degli uomini. Il problema della
speculazione e un problema di etica e morale, dunque religioso: l’amore naturale è più forte di
quello elettivo. Infatti nono bisogna mai credere all’opera di un solo uomo, per quanto sia bella o
riscuota il plauso, in quanto un uomo è sempre soggetto a errori a causa del proprio spirito.
Malebranche critica i loso che mancano di ordine, Aristotele e le auctoritas; a erma che i
geometri seguono una buona via, osannando il metodo cartesiano. A erma poi la speci cità delle
scienze che consente un ferreo sapere, per contro l’accumulo non porta a nulla (si disimpara).
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La nostra percezione
Noi non vediamo gli oggetti per sé stessi, noi vediamo l’idea degli oggetti. L’idea è la percezione
di un oggetto che tocca o modi ca l’intelletto. Le cose che l’anima percepisce sono nell’anima
(pensieri, sentimento interiore) oppure fuori dall’anima, percepibili dunque solo mediante le idee
spirituali (scopribili anche internamente) o materiali.
Da qui Malebranche tratta alcune opinioni errate. Per esempio, gli oggetti materiali non emettono
specie ad esse somiglianti, le specie non sono intrinseche agli oggetti come in Aristotele. Da qui
si arriva all’impenetrabilità dei corpi, al mutamento delle specie, al fatto che non vengano
necessariamente prodotte specie che rassomiglino agli oggetti. Inoltre, l’anima non può produrre
le idee: l’errore dipende dal fatto che l’oggetto accompagna l’idea che ce lo rappresenta.
Dio è causa dell’unione della volontà con la natura delle cose, da qui queste verità innate, in
maniera molto simile a Leibniz, sono eterne, non sono modi cabili nemmeno da Dio, quindi non
possono essere, a maggior ragione, impresse in noi. La rappresentazione delle idee sta dunque
nell’in nito essere divino. Dio è il mondo degli spiriti, parallelamente il luogo dei corpi è il mondo
materiale. Da qui l’anima, quando conosce è in Dio, quando immagina o sente è nel corpo.
Per le modi cazioni interne questo potrebbe anche andare bene, ma per gli oggetti esterni come
ci si comporta? L’anima no è eminente egli spiriti creati non possono vedere in sé stessi né
l’essenza delle cose né la loro esistenza. Soltanto Dio può: tutte le essenze e le esistenze
dipendono dalla sua volontà. Lo spirito non può vedere ora una cosa e dopo un’altra, lo spirito
percepisce solo attualmente l’in nito, senza comprenderlo.
Dio ha in sé le idee degli esseri che ha creato ed è unito alle nostre anime con la sua presenza,
per questo Dio è il luogo degli spiriti. Così lo spirito vede in Dio le sue opere, se Dio glielo
permette; ciò non vuol dire che gli spiriti vedano l’essenza di Dio.
È nell’in nità di Dio che sta la prova della sua esistenza. L’idea di Dio è increabile ma percepibile,
e l’in nità viene prima della nitezza, in quanto l’in nito è tutto l’essere: essendo che la mente,
poi, può agire solo sugli spiriti che non le sono superiori, solo Dio può aver messo in lei l’idea di
Dio. Quindi tutto è creato da Dio per Dio, in amore e conoscenza.
I modi di conoscenza
Esistono quattro modi per conoscere. La conoscenza delle cose per se stesse, è la conoscenza
delle cose intelligibili e che agiscono sullo spirito. Questa è la conoscenza che hanno i Beati di
Dio; siccome l’intelletto è passivo e la volontà è attiva, i desideri non sono le vere cause delle
idee, ma sono le cause occasionali e naturali della loro presenza, dunque solo la liberazione da
questi e la purezza dell’anima, permettono di accedere all’idea delle cose in sé in Dio.
Un’altra conoscenza è quella delle cose conosciute per le loro idee, quindi con qualcosa che
di erisce da esse. Questa è la conoscenza delle cose attraverso le idee innate, è la conoscenza
logica della realtà, è la conoscenza astratta, dove le idee fungono da mediazione.
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Le cose poi possono essere conosciute per sentimento interiore, non distinguendole da noi,
quindi per coscienza ed esperienza, e questo è il genere di conoscenza più umano, che riguarda
l’occasione, l’e ettualità. Altrimenti vengono conosciute per congettura, per somiglianza,
interagendo con le altre modalità di conoscenza.
Dio lo si conosce per sé stesso, perché è l’unico che può agire sullo spirito e rivelarsi; anche se lo
conosciamo imperfettamente, la sua sostanza illumina tutta la conoscenza, racchiudendo il
mondo intelligibile dove sono le idee di tutte le cose.
I corpi vengono conosciuti, così come le loro proprietà, per mezzo di idee, idee perfette e innate
dateci da Dio. Il difetto poi, non dipende dall’idea che Dio ce ne dà, ma dallo spirito che le
considera.
La propria anima la si conosce per coscienza, attraverso il sentimento interiore: questa è una
conoscenza imperfetta, che riguarda solo una minima parte del nostro essere. Bisogna stare
attenti, questa conoscenza non è falsa, non è da confondere con la conoscenza corporea (caso in
cui ci bastano le idee delle estensioni per conoscere, idee che ci salvano dalle cose imperfette).
Gli altri uomini si conoscono invece per congettura, molto soggetta a errore per colpa della
conoscenza imperfetta del sentimento esteriore (conoscenza dei corpi). L’a nità deriva dal fatto
che abbiamo le stesse idee perché dobbiamo conoscere le stesse cose.
Malebranche sottolinea come si debba fare loso a sulle scienze, ma non sulla fede, dove si deve
credere ciecamente e basta.
Indagando ulteriormente sulla natura trova un’ultima causa dei nostri errori: l’errata convinzione
che esista il nulla. Il niente non ha un’idea che lo rappresenti, l’errata convinzione deriva dal fatto
che lo spirito crede che siano inesistenti le cose di cui non ha un’idea.
I giudizi sono infatti più estesi delle nostre percezioni, e il vero non considerato nel suo totale
risulta solo verosimile. Credendo che non ci siano altri punti di vista al di là del nostro noi
giudichiamo male. Questo discorso si ricollega al limite dello spirito dell’uomo: capendo la
nitezza e pronunciandosi solo su ciò che è stato considerato interamente, si eviterebbero gli
errori. In questo breve frangente abbraccia nuovamente Cartesio.
L’uomo giudica del bene in rapporto a sé, così come del vero in base a rapporti di uguali Anza e
disuguaglianza: tuttavia, con i rapporti di cili si cerca il verosimile, perché è più facile, ma ciò è
una fonte di errori. Da qui per esempio l’errore sui moti dei pianeti, sia in Aristotele che nelle
irregolarità del tempo.
Il problema sta nel fatto che molti vedono anima e corpo come un tutt’uno, però sono diversi e
hanno delle proprietà incompatibili (spesso viene a ermato che l’anima sia estesa o si danno delle
facoltà dell’anima al corpo). L’essenza dei corpi non consiste nell’indivisibilità: i corpi sono
divisibili e corruttibili, mentre lo spirito suppone uniformità e armonicità, i corpi mutano.
Sull’essenza di Dio a buona ragione si dice che sia spirito, perché è la massima perfezione che
conosciamo, tuttavia potrebbe anche essere di una sostanza più perfetta dello spirito. Ciò che si
sa è che non è certamente spirito umano, non va antropomor zzato. Dio è colui che è; essere
senza restrizione, ogni essere, l’essere in nito e universale.
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John Locke - Saggi sull’intelletto umano
Introduzione a Locke
John Locke è conosciuto come il losofo fondatore dell’empirismo moderno, infatti, il cuore della
loso a lockiana è l’esperienza. Locke è molto vicino alla vita politica del suo Paese, e il fatto che
visse nel periodo della Gloriosa Rivoluzione lo in uenzò parecchio.
La sua loso a è molto attenta alla politica, alla società e al risvolto pratico: da qui l’idea di
studiare l’intelletto in forma di pubblicazione per il grande pubblico della borghesia, spostando
l’attenzione su caratteri più pragmatico-gnoseologici, di erenziandosi dalla speculazione
ontologica tipica della modernità.
John Locke sarà il losofo u ciale del gruppo degli intellettuali che fanno capo a Lord Ashley
Cooper, Lord Shaftesbury, andando contro i neoplatonici di Cambridge. Le critiche di carattere
politico fanno riferimento alla nozione di multiculturalità e tolleranza, andando contro la loso a
dei principi innati anche di carattere pratico. Infatti, tra il 1689 e il 1690, Locke scriverà numerose
lettere sulla tolleranza a favore di una legislazione più aperta nel consentire libertà religiosa.
Scriverà due trattati politici, il primo contro il Patriarca di Fillmer, smentendo il principio patriarcale
ebraico. Il secondo trattato riprenderà il tema hobbesiano del contrattualismo, introducendo però
numerose variazioni: se per Hobbes l’unico bene da tutelare era la vita, per Locke il sovrano deve
garantire anche la libertà e la proprietà; così, inevitabilmente, il cuore della sovranità viene posto
da Locke nel potere legislativo (quindi nel Parlamento e non nella corona), e si impone dunque
una ri essione politica volta alla tutela dello stato di natura e del diritto di proprietà.
Il Saggio
Nel 1687, in Olanda (anche se aveva già cominciato a svilupparlo prima dell’esilio), Locke inizia la
stesura del Saggio sull’intelletto umano, dedicandolo al suo protettore e amico: Thomas Herbert,
conte di Pennbrock.
L’obiettivo del Saggio è quello di costruire una teoria della verità che faccia attenzione ai
presupposti pragmatico-sociali sopracitati. Da qui la verità si fonderà sull’esperienza di ciascun
individuo, portando la verità anche nel mondo laico, non solo in quello teologico. Locke ripone
molta ducia nella conoscenza umana, nell’esperienza e nella natura.
La ricerca lockiana non sarà una ricerca ontologica, bensì gnoseologica, farà infatti sparire il
problema della coerenza della rappresentazione. Il problema sarà spostato dall’adeguazione
dell’idea all’adeguazione del linguaggio, in quanto è qualcosa che possiamo conoscere e che
contraddistingue la ri essione dell’essere umano.
La ducia nell’umanità è da interpretare come una ducia nelle nostre capacità conoscitive, nella
misura in cui ci sono su cienti a conoscere quel che ci è dato conoscere: è qui il carattere pratico
di Locke.
Epistola al lettore
L’opera è scritta anche per i meno dotti, essendo stata ideata da una discussione conviviale; tale
discussione ha condotto all’intelletto, come capo di ogni ri essione di carattere loso co. L’opera
è molto lunga, per via delle numerose sfaccettature dell’argomento e della segmentazione che ha
subito la sua stesura. Locke è molto riconoscente nei confronti dei lumi della sua epoca, come
Boyle, Sydenham, Huygens e Newton. Tuttavia la loso a per lui non va usata solo per la scienza,
il buon losofo è un artigiano della conoscenza, che deve modellarla per il mondo. Per questo
motivo si discosta da Descartes, il quale era alla ricerca di una conoscenza che fungesse da
verità, Locke cerca una verità alla portata dell’intelletto: per lui si commettono errori quando si
supera questa portata, dunque quando si supera la sensibilità andando a speculare su oggetti
sostanziali o di carattere dogmatico.
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Inoltre, nomenclature come “chiaro” e “distinto” sono molto di cili da comprendere per Locke,
per questo userà i termini: particolare, per la percezione delle idee semplici nella mente, e
determinato, per le idee complesse (composte dalle semplici o anche di minore complessità). In
tal senso, Locke starà molto attento al linguaggio e alla sua precisione, pur non esaurendo
completamente il discorso, poiché senza un’attenta critica si rischia di nire in nozioni oscure.
Infatti, molte discussioni derivano da espressioni oscure, o indeterminate, con cui si indicano
nozioni oscure. Usando “particolare” e “determinato” si risolvono molte diatribe.
Locke, per quanto si attenga spesso al suo predecessore, Hobbes, si discosta da lui per quel che
concerne la critica del linguaggio. Per Hobbes il linguaggio è uno strumento di potere, ha sempre
un signi cato politico, e quello oscuro è nalizzato alla sottomissione. Per Locke, invece, è il
risultato dell’attività umana.
Il saggio si presenta, dunque, come una chiari cazione dei processi con cui l’intelletto forma le
idee complesse dalle idee semplici, ovvero come l’intelletto elabora il dato della sensibilità. Una
volta chiarito questo passaggio, questa conoscenza verrà messa in tensione con le de nizioni
delle idee complesse.
Fenomenologia
Locke si propone di indagare l’intelletto ponendolo a distanza, paragonando la conoscenza alla
visione, di modo da poterne comprendere l’immediatezza e la percezione. Quando Locke parla di
percezione non è da intendersi in ottica siologica, bensì gnoseologica, come si lavora col
percepito, dal germe alla crescita in idea. Da qui, dunque, la ripresa di un elemento cartesiano:
l’attenzione alla conoscenza come fenomeno.
Per Locke, è utile conoscere l’estensione della nostra comprensione, così da non dover disputare
più sulle cose oscure. La nostra capacità di comprendere è, inoltre, proporzionata alla nostra
condizione e ai nostri interessi. Con queste indagine ci si riesce a discostare dallo scetticismo e
dall’indolenza.
Così come la matematica newtoniana è uno strumento posto alla risoluzione della natura, la
loso a si pone come manutenzione della conoscenza. Non si tratta, infatti, di esaurire la verità,
ma di dotarsi di alcuni elementi che consentano di orientare la conoscenza, dunque il
comportamento. Si può considerare la conoscenza come una candela, che serve per illuminare
nell’orientamento, ma che non deve far luce su tutta la stanza (paragonabile alla natura).
Il saggio si propone quindi di partire dall’intelletto e giungere poi alla verità, seguendo il corretto
ordine. Il primo punto all’ordine dell’intelletto è l’oggetto su cui ri ette e che lo caratterizza: l’idea.
Locke de nisce l’idea come tutto ciò che è oggetto dell’intelletto quando un uomo pensa (una
specie di fantasma, concetto o specie): da qui, l’idea è il patrimonio comune di tutti gli esseri
umani, per questo la prima indagine che condurrà sarà circa la natura e l’origine delle idee.
Ciò che interessa a Locke è la realtà obiettiva dell’idea, ciò vuol dire che, un’idea, per essere tale,
ha bisogno di un soggetto che la percepisce, non sciogliendosi mai da quest’ultimo. Vediamo
dunque un elemento post-cartesiano che è quello dell’idea legata al soggetto; tuttavia Locke si
limita alla realtà oggettiva dell’idea, non cercando quella formale – non studia l’idea per adeguarla,
ma per ricercarne l’utilità – inserendo dunque l’elemento dell’idea-percezione empirista (non
arrivando all’annullamento della realtà di Berkeley, tuttavia ne considera l’atto di pensiero).
Il Dio lockiano è dunque più deistico di quello cartesiano, che si con gura come un losofo. Di
fatto, in Malebranche e Cartesio, l’azione divina è ridotta a qualcosa che si esaurisce nell’ordine
naturale, per questo sono entrambi loso in cui vive il sospetto di spinozismo.
Ci si può chiedere se ci sia più o meno vicinanza a Dio, fra Locke e Descartes. Nel processo di
secolarizzazione (ovvero il passaggio da funzioni o istituzioni prima ecclesiastiche poi laicizzate),
Locke si trova in controtendenza, in quanto lascia molto spazio alla fede, non a rontandola
loso camente. Ciò accade perché Locke dà come per scontata la separazione fra Dio e l’uomo,
infatti, la conoscenza si a da certamente sulla fede, ma prosegue poi da sola.
Da qui la conoscenza come percezione dell’idea nalizzata alla gioia e all’utilità. Con ni diversi
anche l’indagine si discosta dalla speculazione cartesiana e malebranchiana. Cartesio vuole
fondare una scienza, Malebranche vuole puri care l’anima, Locke ri ette sulla quotidianità e il
benessere, come oggetto per un pubblico di borghesi.
Critica dell’innatismo
Locke si schiera contro i neoplatonici di Cambridge, come Edward Herbert di Cherbury (che
scrisse il “De veritate” nel 1624): i neoplatonici a ermavano l’esistenza di principi innati sia pratici
che speculativi, è contro i primi che Locke si schiera in maniera particolarmente decisa.
La critica dei principi innati pratici si colloca nell’analisi lockiana della morale, infatti, se tali principi
fossero universali, tutti li saprebbero e tutti si comporterebbero bene. Tuttavia, spesso tali principi
sono da insegnare, per quanto possano essere veri, non sono dunque universali e innati. Inoltre,
osservando anche il male nel mondo, ci si discosta sempre più dall’idea che siano dentro ognuno
di noi. C’è anche da dire che tale visione lockiana si colloca all’interno di quel panorama di
tolleranza e apertura verso le diverse culture (che potrebbero avere principi pratici di erenti).
Riconosce anche l’utilità dei principi innati speculativi, fra tutti quello di identità e quello di non
contraddizione, criticando però il carattere innato e universale: soprattutto perché non sono noti a
tutti. La critica lockiana sarà, allora, verso l’innatismo attivo (cosa che gli farà notare Leibniz).
Locke nota come questi principi non sono noti in bambini e idioti, e come, dato il loro carattere
universale, dovrebbero essere noti consapevolmente. Spesso si obietta a ermando che si
scoprono poi addivenendo all’uso della ragione, ma non servisse la ragione è come se l’intelletto
conoscesse e al contempo non conoscesse tali idee (perché sono in lui e al contempo non ci
sono). Inoltre, sia i bambini che gli idioti, usano spesso la ragione senza dover adottare tali
principi, anzi, usano meglio e prima i particolari derivanti da questi principi, rispetto ai loro
universali.
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Facendo un esempio: si ottiene prima la nozione di 7 e solo dopo che può essere 3+4; il fatto che
non se ne dubita e se ne dà subito assenso non vuol dire che siano innate; vuol dire solo che
hanno un livello di chiarezza e distinzione elevato, livello ottenuto dal confronto del grado di
accordo fra idee.
Gli oggetti della sensazione costituiscono la prima fonte delle nostre idee: i sensi introducono
nella mente delle qualità sensibili percepibili (come bianco, morbido, ruvido, giallo, profumi, ecc.),
cioè ciò che produce in noi sensazioni. L’altra fonte sono le operazioni dell’intelletto, di cui si ha
una percezione interiore, che divengono poi oggetto di ri essione e analisi, cioè un nuovo genere
di idee dette azioni della mente (come il percepire, il pensare, il dubitare, …).
L’anima ha quindi delle idee, pensa, quando inizia a percepire, per questo motivo Locke si schiera
contro la sospensione del giudizio cartesiana, in quanto il pensiero è visto come sensazione. Il
modello della nostra conoscenza passa quindi dalla sensazione, alla ri essione, per giungere
in ne all’accrescimento della nostra conoscenza. Nel ricevere le idee semplici, il nostro intelletto è
di consueto passivo: la mente è indotta a ricevere impressioni, e non può evitare di percepire
quelle idee che sono associate a tali impressioni.
Per pensare bisogna percepire ed esserne consci, ma l’anima non è a itta da sensazioni nel
sonno, perché non è cosciente. Se coloro che dormono stessero al contempo pensando senza
saperlo, allora lo stesso uomo sarebbe al contempo in stato di veglia (consapevole) e non,
dividendosi in due persone diverse: anima e uomo.
È, inoltre, impossibile convincere chi dorme senza sognare che in realtà sta pensando, in quanto,
poi, gli uomini si ricordano dei loro sogni. Pensare senza ricordare sarebbe inutile e non
renderebbe giustizia all’anima, e Dio non ci dà cose inutili.
Inoltre, l’anima dovrebbe possedere idee non derivate dalla sensazione o dalla ri essione, di cui
non vi è alcuna traccia; oltre al fatto che se l’anima pensasse sempre dovrebbe essere provato,
cosa che non avviene, perché non è una proposizione autoevidente.
Le idee semplici
Le idee si dividono in semplici e complesse; erroneamente si pensa che la mente possa produrre
o distruggere le idee semplici, ma queste sono introdotte dai sensi come semplici e distinte. Le
idee semplici sono la materia prima di tutta la nostra conoscenza e sono fornite alla mente per la
sensazione o la ri essione. L’intelletto può poi associarle, confrontarle e riprodurle: creando così
le idee complesse. Le qualità delle idee semplici, inoltre, sono le uniche immaginabili.
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Sono poche le idee semplici alle quali compete un nome, alcune pervengono alla nostra mente
tramite un solo senso (suono, odore, ecc.), altre fanno ricorso a più sensi (lo spazio, la gura,
l’immobilità e il movimento), altre ancora sono prodotte dalle ri essione (gioia, disagio, ecc.), e,
in ne, ve ne sono alcune che otteniamo per concorso sia di sensazione che di ri essione.
Le idee giungono alla nostra mente con tanta apparente realtà quanta ne hanno, dunque la causa
si rende positiva, ma negativa in considerazione all’oggetto, perché viene privato di quella qualità
sensibile per a iggerla alla nostra mente. Così, la mente, distingue le idee da quel che, nelle
cose, dà loro origine: infatti, si possiedono idee delle quali si ignora la causa sica.
La solidità
Locke a erma che, come molte altre idee semplici, sarebbe meglio spiegarla coi fatti, in quanto
una spiegazione si rene assai ardua, nonostante ciò, prova a fornircene una. È l’idea più ricevuta
dalla sensazione, perché quella che riceviamo dal tatto (siamo sempre a contatto con qualche
cosa). La solidità è ciò che impedisce l’avvicinarsi di due corpi che si muovono l’uno verso l’altro,
ed è simile ai corpi, in quanto occupa spazio. Ma la solidità è altro dallo spazio (dall’estensione
cartesiana) e dalla durezza.
La solidità si distingue in estensione del corpo, cioè coesione di parti solide, separabili e mobili, e
in estensione di spazio, continuo nelle sue parti non solide, inseparabili e immobili. Dalla solidità
arrivano le idee di impulso, resistenza e spinta, in base all’estensione del corpo.
La materia si compone di gura e di corpo solido, da qui è ipotizzabile che un corpo si muova
mentre gli altri rimangono fermi, in quanto l’estensione dei corpi si distingue da quella spaziale.
Ipotizzando uno spazio in cui prima era presente un corpo e un attimo dopo questo corpo non v’è
più, si può pensare che lo spazio ora lasciato sia vuoto. Locke critica dunque Cartesio e la sua
idea per cui il vuoto non esisterebbe.
Il piacere e il dolore sono presenti in tutte le idee, e si presentano come i motivi delle nostre
azioni. Lo scopo e l’utilità del dolore concerne il fatto che noi impieghiamo le nostre facoltà per
cercare di evitarlo, come cerchiamo invece di perseguire il piacere. Dolore e piacere sono inseriti
nella nostra esistenza per mantenere un certo equilibrio, la nostra conservazione, come la
conservazione dell’universo da parte di Dio. Un’altra nalità può risiedere nel fatto che noi,
vedendo l’imperfezione, siamo spinti a cercare la felicità nel godimento di Dio, in quanto somma
gioia, pienezza e perfezione. Il piacere è dunque la facoltà più importante, perché conduce alla
conoscenza e alla venerazione di Dio, che è il compito che più conviene all’intelletto.
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Qualità
Le idee nella mente non vengono analizzate secondo una corrispondenza reale tra idea ed ente
(realtà formale dell’idea) ma solo per l’idea secondo la produzione a ettiva della mente (realtà
obiettiva dell’idea). L’idea è quindi ciò che è percepito dalla mente, mentre le qualità di un oggetto
sono il potere che ha quel dato oggetto di produrre in noi tale idee (queste qualità sono a loro
volta delle idee, perché sensazioni).
Le qualità primarie producono in noi le loro idee tramite dei moti interni, oppure esterni, al nostro
organismo; il medesimo percorso viene compiuto dalle secondarie, che dipendono dalle prime. Le
idee delle qualità primarie, poi, somigliano a queste qualità, ciò non avviene, però, per quelle
secondarie. Quindi esistono e ettivamente solo le idee delle qualità primarie, mentre le
secondarie si presentano come dei modi di queste.
Ci sono dunque tre generi di qualità nei corpi: qualità primarie, secondarie e poteri. Le secondarie
sono dette anche sensibili, si credono reali ma non lo sono, e hanno duplice valenza, in quanto
percepibili immediatamente e mediatamente. I poteri, in ne, sono il risultato dell’alterazione delle
qualità primarie e sono percepite per cambiamento, come atto sui sensi; queste non sono reali,
ma nessuno lo pensa.
Le qualità essendo riferite alle idee, ed essendo quelle primarie inseparabili dal corpo, sono quelle
che per Cartesio erano le idee innate fondamentali. Anche per Hobbes hanno una notevole
importanza, nel Leviatano spiega come il corpo immagini, come la conoscenza sia immaginazione
e come l’immaginazione sia la gura che un corpo produce nella nostra mente.
La percezione
La percezione è la prima idea semplice della ri essione, il pensiero è attivo e cosciente e lavora
sulla percezione che è involontaria. Solo la ri essione ci fornisce un’idea di cosa sia la percezione,
anche se è l’avvio della conoscenza: in quanto si ha ri essione quando la mente riceve
un’impressione, ma l’impressione esercitata sugli organi non è di per sé su ciente (serve
l’attenzione della mente).
Non è chiaro quali siano le prime idee ad apparire, però Locke nota come le idee che provengono
dalla sensazione sono spesso alterate dal giudizio; come nell’esempio di Monsieur Molineux del
cieco che appena acquisire la vista saprebbe discernere tra cubo e sfera anche prima di dover
toccare l’oggetto. Ciò accade perché il giudizio è spesso scambiato per una percezione diretta
(con la vista che è di veloce assimilazione). L’abitudine, poi, spesso muta le idee della sensazione
in idee del giudizio (a causa della veloce associazione di pensieri e mente).
La percezione costituisce la di erenza fra animali ed esseri inferiori, infatti nei vegetali avviene il
mutamento senza recezione di idea. Negli animali, poi, si trova la facoltà di percepire in base ai
loro sensi e alla potenza di questi. Similmente, la vecchiaia diminuisce notevolmente la potenza
dei sensi. Da qui si evince come la percezione sia la via di accesso della conoscenza.
La reminiscenza
La reminiscenza avviene per due modalità: contemplazione e memoria. La contemplazione è il
primo modo della reminiscenza, è la conservazione e ettiva e presente nella mente di un dato
ente per un qualche tempo. La memoria è il secondo modo di reminiscenza, si tratta di riportare
dal luogo di raccolte delle idee un qualche ente, che viene ravvivato in quanto si fa capo alla
percezione.
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È da notare come l’attenzione, la ripetizione e il piacere e il dolore, ssino le idee meglio nella
mente, sempre nell’ottica di conservazione del corpo. Quando non sono riprese abbastanza, le
idee sbiadiscono nella nostra memoria; la perdita di memoria rappresenta la causa dell’ignoranza,
uno dei due difetti della memoria; l’altro difetto è la lentezza che conduce alla stupidità, parla
infatti di Pascal, che ritiene uno dei più intelligenti, perché uno di quelli con la memoria migliore.
Anche le bestie posseggono una memoria, per spiriti animali, e gli serve per la conservazione,
come un meccanismo.
L’ingegno è la capacità di comunare le idee (per somiglianza o compatibilità), di comporre ciò che
c’è di piacevole nella ra gurazione di un’idea per la sua immaginazione. Il giudizio è invece la
capacità di separare le idee per non farsi ingannare dalle similitudini, diversamente dalle metafore.
L’ingegno si distingue dalla verità e dalla ragione, e soltanto la chiarezza impedisce la confusione.
L’astrazione è il passaggio dal particolare all’universale, in ciò si distinguono gli esseri razionali
dagli animali, perché gli animali non astraggono e non estendono la conoscenza, mentre gli umani
sì. Ciò non sta però a signi care che gli animali siano semplici macchine.
Locke conclude la dissertazione sulle facoltà parlando degli umani che hanno problemi in alcune
di esse. Gli idioti, per esempio, mancano di rapidità nel moto, o addirittura di moto in generale,
dell’intelletto. I pazzi, invece, hanno tutte le facoltà che, però, sono connesse in modo errato:
scambiano così le fantasticheria per la realtà.
Le idee complesse
La mente compone delle idee dalle idee semplici, queste sono le idee complesse. La mente ha tre
poteri sulle idee: può combinare idee semplici per formare un’idea complessa, può combinare
idee per formare idee di relazione, oppure separare le idee per dar vita a idee di astrazione (idee
generali). Da ciò si evince che le idee composte (complesse) sono formate volontariamente per un
potere della mente.
In base a come vengono composte, le idee complesse assumono un nome speci co, seguendo
la tripartizione sopra delineata. Le idee di modo non sussistono di per sé, sono dipendenze o
a ermazioni delle sostanze; tali idee si distinguono in idee di modi semplici (dalle idee semplici
alle idee semplici; come spazio e tempo, per esempio ) e idee di modi misti (dalle idee semplici se
ne dà una complessa).
Le idee di relazione sono poi quelle che nascono dal confronto di idee; mentre le idee di sostanze
sono una combinazione di idee semplici, volte a rappresentare cose particolari e distinte di per sé
sussistenti, queste possono essere singole (es. uomo) o collettive (es. esercito di uomini).
Locke nota, in ne, come le idee più astratte derivino da due sensi.
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Idee complesse di modi semplici: spazio, tempo, numero, in nità e potere
I modi semplici sono semplici mutazioni di idee semplici, per esempio: l’idea di due deriva
dall’idea semplice di unità ripetuta. Così come lo spazio, visto come estensione, che se ne
ripetiamo l’idea ci porta a pensare all’immensità.
L’idea di spazio deriva da due sensi: la vista e il tatto; da qui possiamo pensare alla distanza
come la lunghezza che separa due esseri, quando si ha un campo lineare, e alla capacità entro il
quale stanno le cose, in base a lunghezza, larghezza e profondità.
Un altro modo dello spazio è la gura, ovvero lo spazio circoscritto, le relazioni fra le parti estreme
di un estensione. La gura è modi cabile dalla mente e questo porta a una varietà senza ne di
gure. Pure il luogo è un modo dello spazio: è relativo ai corpi particolari e ha uno scopo presente.
Locke si discosta poi dalla sica cartesiana, asserendo che estensione e corpo non sono la
stessa cosa, in quanto l’estensione non implica la solidità, mentre un corpo sì. Inoltre le parti dello
spazio sono inseparabili, quindi immobili visto che il movimento è la di erenza di distanza fra due
cose. Da qui l’idea che esistano spazio privi di corpo, in quanto i corpi sono separabili.
Non solo il potere di annichilamento di Dio, ma anche il movimento dimostra l’esistenza del vuoto.
Benché estensione e corpi siano inseparabili, al movimento del corpo lo spazio esteso può
rimanerne privo. Per evitare future confusioni Locke userà “estensione” per i corpi e “espansione”
per lo spazio, ciò perché gli uomini per lo più concordano in merito alle idee chiare e semplici, e
bisogna partire da questi chiarimenti terminologici. Perché, no a che un uomo non compie
indagini sulle sue nozioni primarie e originarie delle cose, edi cherà su principi uttuanti e incerti,
e spesso di troverà smarrito.
Il tempo è invece visto grazie alla percezione interna, secondo la successione delle idee,
modellizzabile come una linea. Ogni tempo ha poi una durata, come la distanza per lo spazio, che
può essere moltiplicata no a giungere all’eternità. Insieme, spazio e tempo, appaiono
inseparabili, ma così non è, anche se denotano una grande somiglianza e intercorrono molte
relazioni fra loro.
Dopo un’accurata e dettagliata analisi di queste due grandezze siche, Locke esamina il numero:
a ermando l’onnipresenza dell’unità nell’idea e le sue proprietà aritmetiche (così come la
necessaria nomenclatura nei numeri).
Tutte le analisi precedenti sono utili e propedeutiche al capitolo sull’in nità. In questo capitolo
a erma l’in nità di spazio e tempo, rifacendosi alle loro caratteristiche e al potenziale numerico
della sommatoria. Con un breve accenno a Dio, esplica poi il carattere della nostra conoscenza
dell’in nito, sfatando poi le false credenze, spiegando, ancora, la necessità della chiarezza e della
distinzione.
Non tutti i modi semplici hanno un nome, i precedenti, e altri (come il moto, il suono, il colore, il
gusto, ecc.), lo hanno perché sono quelli utili e spesso impiegati nelle conversazioni fra gli uomini.
Esistono anche modi di pensiero, in quanto, come ha già a ermato, il pensare non è l’essenza
dell’anima; così come ci sono anche modi del piacere e del dolore, modi che accompagnano ogni
impressione (conoscibili quindi solo per esperienza). È interessante sottolineare il relativismo di
Locke circa il bene e il male, in quanto considerati in base al piacere e al dolore.
Altro modo semplice è il potere, questo è quasi sempre visto in virtù di una relazione, e può
essere attivo o passivo: la più chiara idea di un potere attivo la si ricava dallo spirito, mentre coi
sensi siamo per lo più passivi.
Volontà e intelletto sono dei poteri (delle facoltà). L’intelletto è il potere della percezione: delle idee
nella mente, del signi cato dei segni, della connessione (o accordi) o non fra idee. La volontà è,
invece, il potere della mente di determinare i suoi pensieri, di produrre azioni. Si distingue dalla
libertà, che è il potere dell’uomo di compiere azioni; inoltre, la libertà propone poi un feedback
a ettivo in base alla volontà della produzione di azioni: è così che si determina. Locke farà poi
diverse considerazioni sul bene, il desiderio, il disagio, ecc.
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Idee complesse di modi misti
Se nelle idee complesse di modi semplici si lavora con lo stesso genere di idee, coi modi misti ciò
non accade. La mente è attiva, può così congiungere le varie parti dei nomi in un un’unica idea,
similmente a come congiunge il molteplice delle idee semplici. Noi possiamo acquisire idee di
modi misti mediante l’esperienza e l’osservazione delle cose stesse, con l’invenzione o mediante
la spiegazione, presentando all’immaginazione le idee da combinare. È da notare che le idee di
moto, pensiero e potere sono quelle che hanno subito più modi che (più mischiate).
La sostanza
De nire la sostanza è molto di cile, siccome va oltre l’estensione, la conformazione, il pensiero,
la solidità, il movimento o altre idee osservabili; per cui: noi non abbiamo nessuna idea chiara e
distinta della sostanza in generale. Il concetto lockiano di sostanza si colloca però nel panorama
moderno di revisione aristotelica.
Aristotele, nella Meta sica, de nisce così la sostanza: “l’essere si dice in tutti questi modi, ma è
evidente che, di tutti questi, quello che costituisce l’essere primo è l’essenza che indica la
sostanza”. La sostanza è “ciò che è sotto”, “quello che sostiene”, “ciò che è costitutivo” ma non
solo, la sostanza de nisce anche l’essenza, l’ousia (ciò che propriamente è qualcosa), a rontando
anche la distinzione tra sostanza e accidente: così, Aristotele si discosta da Platone e pone nella
realtà naturale il luogo della permanenza, della manifestazione dell’essenzialità.
Anche nella loso a cartesiana il termine sostanza gioca un ruolo fondamentale, designando i tre
enti più discorsi da Cartesio: pensiero, estensione e Dio. Cartesio non si discosta troppo dalla
visione aristotelica, de nendo la sostanza come ciò che è realmente il soggetto del quale noi
concepiamo gli attributi e le proprietà, ciò che si manifesta così alla nostra coscienza. Tale
de nizione è adoperata da Cartesio per raggiungere i suoi obiettivi ontologici: con questa
sostanza, può costruire un grande modello meta sico che gli permetta di legittimare la
costruzione matematico-geometrica della natura. Anche Spinoza sfrutterà la sostanza per imporsi
nel proprio regime epistemologico.
Spinoza segue anche lui i passi dei suoi predecessori, distinguendo nella sostanza l’attributo e il
modo: l’attributo è ciò che percepiamo della sostanza, mentre il modo è la determinazione che la
sostanza ha nel momento in cui si presenta, secondo un grado di esistenza che è quello naturale,
è la parte determinata della sostanza (rappresentando il carattere nito).
La sostanza è, dunque, il riferimento ultimo di ciò che ci appare costituente e percepibile della
conoscenza. La sostanza spinoziana è data in virtù di un indagine della natura circa il rapporto tra
nito e in nito: è qui che sta il modo, nel tentativo di rintracciare il divino nella natura – con la
sostanza vuole immanentizzare la divinità e divinizzare la natura. Il rapporto fra gli attributi, gli
serve per ottenere una possibilità di conoscere la realtà, con una comprensione esaustiva,
adeguata. Il problema di adeguazione è un problema di attributi, in quanto, come in Cartesio, la
natura si lascia conoscere.
L’obiettivo di Locke, invece, è quello di criticare la conoscibilità della sostanza; per lui noi non
conosciamo le sostanze ma ne ipotizziamo l’esistenza per dare un ordine: in tal senso permane
un sostrato. Locke individua, anzitutto, le idee complesse di sostanza corporea e spirituale,
tuttavia, bisogna prima cercare le idee semplici che le compongono.
Le sostanze corporea sono de nite dalle qualità primarie, dalle qualità sensibili e dai poteri, che
sono ciò che più le costituiscono (attivi e passivi, producono alterazioni e modi cazioni sensibili).
Le sostanze spirituali riguardano invece gli atti della mente, le proprietà primarie sono quindi il
pensare e l’agire.
Le idee primarie del corpo sono la coesione fra parti solide e l’impulso, quelle dello spirito sono la
facoltà di pensiero e il movimento: sono tutte entità intelligibili, al di là delle quali, al di là di queste
idee semplici, non conosciamo nulla. Inoltre, non c’è totale separazione tra spiriti e corpi, per il
fatto che anche i corpi si muovono e che gli spiriti possono essere sia attivi che passivi.
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Locke ci ricorda che le nostre facoltà atte alla scoperta sono proporzionate alla nostra condizione,
ma noi non possiamo conoscere tutto. Per esempio, Dio, che è lo spirito supremo, possiamo
pensarlo per moltiplicazione all’in nito dello spirito, ma non lo conosciamo per la sua essenza.
Se queste sono le sostanze singole, per quelle complesse vediamo solo dei macro-aggregati
nominali.
La relazione
Le idee di relazione sono idee che sorgono dal confronto fra idee, dunque vengono apprese con i
termini correlativi. È quindi il riferire o paragonare due cose, l’una all’altra, dalla cui comparazione
una sola di esse o entrambe niscono con l’essere nominate: ma entrambe rimangono nella
relazione, sennò questa viene meno.
La relazione può sussistere solo fra due cose e tutte le cose sono suscettibili di relazione: spesso
le nostre idee di relazione sono più chiare di quelle dei soggetti relativi, questo perché le relazioni
terminano tutte in idee semplici. I termini che conducono la mente al di là del soggetto nominale
sono relativi (di comparazione).
La causalità rientra nelle idee di relazione, in quanto esistere dato da un altro essere, da qui
derivano poi la creazione (ex novo), la generazione (unione di particolari), il fare (divisione) e il
produrre alterazioni (quando ci sono nuove qualità). Anche i termini assoluti sono relazioni, come
ne esistono di luogo e di estensione, di tempo e ettivo e di tempo relativo.
Il principio individuationis indica il particolare tempo e luogo a cui inerisce un solo essere, così è
identico a sé stesso e solo a sé stesso. L’identità di conforma all’idea alla quale di applica, quindi
non è unità della sostanza, ma sempre riferito alla parola.
In tal senso, la coscienza costituisce l’identità personale, l’io è la persona. Perciò bisogna
indagare e scoprire se si tratta o meno della medesima sostanza, ciò appare però molto di cile a
causa della memoria e dei ricordi.
Inoltre, il corpo ci dimostra, nelle diverse sensazioni, che ci sono diverse sostanze unite nella
stessa persona ad opra della coscienza. Se mutano le sostanze pensanti, rimane la stessa
persona? Ciò non può essere scoperto, ntanto che non si ha una visione più chiara delle
sostanze pensanti. Locke tratta poi il problema della reincarnazione: possono coesistere due
sostanze pensanti come due uomini nello stesso corpo? La risposta è di cile, perché riguarda
l’indeterminatezza della coscienza e delle azioni passate.
Si sa che il corpo insieme all’anima, per il suo agire, contribuisce a formare l’uomo: ma è la
consapevolezza, per coscienza, a formare l’unicità di una persona. L’io dipende dalla coscienza e
non dalla sostanza, l’io è l’elemento consapevole e pensante che è sensibile (consapevole del
piacere e del dolore), capace di gioia e infelicità, e ha a che fare con sé stesso no al punto in cui
si estende la sua consapevolezza. L’identità di coscienza è l’identità personale, ed è su questa
che si fonda il diritto e la giustizia, in base alla ricompensa o alla punizione.
Così l’oblio separa il ricordo dalla persona, ma non dall’uomo, l’identità dell’uomo è diversa da
quella della persona, perché riguarda solo il giudizio. L’io può, quindi, concepire che la sostanza
di cui ora è fatto sarebbe esistita già in precedenza, ma, essendo che la sostanza non si può unire
alla coscienza: la coscienza unisce sostanze materiali e spirituali nella stessa personalità. Infatti il
termine persona è strettamente connesso alle azioni, alla preoccupazione per la felicità (ai meriti).
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Relazioni morali
Altre relazioni sono quelle di proporzione, quelle naturali (di comprensione), quelle istituite (come
le naturali, ma modi cabili) e quelle morali. Le relazioni morali riguardano l’accordo e il disaccordo
in base alla volontà, riferendosi alle nozioni di bene o male morale.
Da ciò discendono le regole morali, che sono delle regole del bene e del male, come quelle di
applicazione, di ricompensa e di punizione. Dalle regole morali discendono poi diverse leggi.
La legge divina è misura del peccato e del dovere, in virtù di gioia e dolore riferiti a Dio. La legge
civile è misura del crimine e dell’innocenza, fondandosi sul potere e sulla forza della comunità,
punisce privando dei beni i trasgressori. In ne, la legge loso ca (riferendosi allo stoicismo latino)
è la misura della virtù e del vizio, o dell’opinione e della reputazione, e questa dipende dagli usi e
dai costumi. L’e cacia delle norme dipende dalla lode e dal discredito (sempre in riferimento alla
comunità).
Da queste nozioni discende la moralità, come relazione delle azioni a queste regole, e le misure
sono usate per de nire in base al campo legislativo. Bisogna sempre prestare molta attenzione al
contesto, in quanto le leggi possono essere considerate in assoluto o come idee di rapporti: in
quanto le innumerevoli relazioni sono sempre riducibili a idee semplici.
Di solito abbiamo un’idea chiara tanto (se non di più) della relazione, quanto dei suoi fondamenti.
La nozione di relazione è la stessa, non importa se sia vera o falsa la norma con la quale
un’azione è confrontata.
Un’idea distinta, invece, è un’idea che la mente riesce a di erenziare bene dalle altre, mentre
un’idea confusa si perde in relazione ai suoi nomi. Le idee complesse sono le più soggette a
confusione, a causa dello scarso numero di idee semplici, del fatto che le idee semplici possano
essere mischiate in disordine, e perché le idee complesse sono idee mutevoli e indeterminate
(con parole in comune fra di loro): infatti la confusione deriva spesso dal medesimo nome usato
per designare due idee.
Per evitare la confusione si dovrebbe scindere l’idea complesse nelle sue idee più semplici, ma
ciò appare come poco pratico; inoltre, ogni tanto torna utile mantenere l’ambiguità.
Di tanto in tanto si incontrano idee confuse anche se sono composte da idee distinte: per
esempio, il chiliedro, un poliedro a mille facce, deriva dall’idea distinta di numero.
Le idee possono essere distinte e confuse al contempo, se non si tiene conto di questa ambiguità
si genera confusione nelle nostre discussioni, oppure si rischia di portarsi appresso l’ambiguità
nel trarre conclusioni
Un altro esempio riguarda l’eternità: abbiamo l’idea chiara di durata e intervallo, così come di
ingrandimento, però non possiamo concepire la totalità in nità dell’eternità. Anche la divisibilità
all’in nito della materia deriva dalle idee chiare di parte e totale, ma nel suo insieme è un’idea
confusa, come l’in nito in genere (anche nell’estensione): anche perché, quasi paradossalmente,
se mi impongono di cercare di raggiungere l’in nito a somma di quattro in quattro o a somme di
quattro milioni, il tempo impiegato è il medesimo.
Da ciò si evince che nulla di nito sopporta il peso di una qualsiasi proporzione con l’in nito:
perché le nostre idee sono tutte nite e noi non possiamo tollerare l’in nito, approderemmo
sempre alla confusione.
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Idee reali e fantastiche
Le idee reali trovano il loro fondamento nella natura, sono in conformità all’essere reale e
all’esistenza delle cose (o ai loro archetipi); quelle che non sono così sono idee fantastiche.
Tutte le idee semplici sono reali, perché sono create per conoscere, anche se non si cerca una
corrispondenza reale ma solo una costanza percettiva, in quanto la mente è passiva quando le
percepisce. Invece, quando la mente è attiva, nelle idee complesse, l’uomo ha una certa libertà:
queste sono infatti volontarie, dunque bisogna stare attenti.
I modi misti composti da idee compatibili sono reali, perché sono gli archetipi stessi, se c’è un
problema, con loro, sta nel linguaggio. Poi, le idee di sostanze sono reali quando corrispondono
all’esistenza delle cose (che sono già state viste).
Inoltre, anche le idee di moto sono adeguate, perché sono gli archetipi che servono per collegare
(sono archetipi senza modelli). A volte i modi si presentano inadeguati rispetto ai nomi stabiliti per
essi, perché nell’intenzione dovrebbero corrispondere alle idee che sono nella mente di altri.
Le idee di sostanze, in quanto riferite a essenze reali non sono adeguate, perché gli uomini non
conoscono le essenze reali delle sostanze. Le idee delle sostanze, intese come collezioni delle
loro qualità sono anch’esse inadeguate: perché le nostre idee complesse delle sostanze sono
tratte, di solito, dai poteri che esse hanno, che sono innumerevoli; così come sono inadeguate se
discendono dalla collezione delle loro qualità.
La mente possiede quindi tre generi di idee astratte, o essenze nominali: le idee semplici, che
sono copie adeguate (puro potere), le idee di sostanza, che sono copie inadeguate (complesse), e
le idee dei modi e delle relazioni, che sono originarie e archetipiche, quindi adeguate.
Le idee riferite a qualcosa di esterne a esse possono essere, invece, vere e false. Gli uomini,
solitamente, riferiscono le proprie idee a quelle degli altri uomini, all’esistenza reale o alle presunte
esistenze reali. Ciò avviene nelle idee complesse astratte.
La mente categorizza le conoscenze per gradi, generi e specie. Quando ci imbattiamo in una
nuova conoscenza astraiamo e nominiamo l’essenza del nuovo ente, quindi lo immagazziniamo.
Con le idee semplici accade meno, perché ci sono meno nomi di erenti e meno fraintendimenti.
Le idee di modi misti (sostanze) sono le più soggette a essere false in questo senso o, quanto
meno, a essere considerate false: ciò accade perché sono combinazioni volontarie, dunque la
sostanza si rifà a una presunta esistenza reale, ma ciò è potenzialmente molto falso.
Le idee semplici sono, invece, infalsi cabili, perché le percezioni della mente sono quel che sono
esternamente: questo è il potere degli oggetti, dato da Dio, per produrre quella modi cazione.
Nemmeno le idee dei modi possono essere false (perché sono autoriferite).
Verità e falsità presuppongono sempre l’a ermazione o la negazione, è per questo che sono
legate al linguaggio, al giudizio: la verità consiste nel congiungere o separare elementi
rappresentativi, in modo conforme all’accordo o al disaccordò delle cose stesse designate. Dato
ciò, i vari riferimenti, le idee dovrebbero essere dette, più propriamente, giuste o errate.
Si ha falsità quando le idee si giudicano: conformi all’idea di un altro senza esserlo; concordi con
l’esistenza reale quando non è così; adeguate quando non è così; rappresentati l’essenza reale.
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Associazione di idee
C’è qualcosa di irragionevole nella maggior parte degli uomini: ma non è colpa totalmente
dell’amor proprio, né dell’educazione o del pregiudizio. È colpa dell’errata connessione di idee,
che può avvenire per famigliarità, volontà o casualità.
L’unica soluzione al trauma è la disabitudine, in quanto la ragione non ci può far fuoriuscire.
L’educazione, il pensiero, l’abitudine: anche loro possono operare in modo deviante sulla mente,
come nei casi delle sette loso che o religiose. Il fatto rilevante, e che le rende più pericolose dei
traumi, è che non ce ne si accorge: non si riescono più a disgiungere due cose, di conseguenza
non solo si cerca male, ma anche lo sguardo ne rimane compromesso.
Il linguaggio
Locke è un convenzionalista e ritiene che le parole siano segni che esistono per un certo accordo
di comunità. Le parole generali sono segni di idee generali: le idee diventano generali quando
vengono separare dalle determinazioni della loro esistenza particolare, ovvero, per astrazione.
Locke attribuisce al linguaggio anche un valore conoscitivo: non solo può servire a organizzare i
rapporti sociali (strumento di mediazione), ma, essendo composto di segni, può accrescere le
nostre conoscenze per astrazione e studio di tali segni.
Hobbes, invece, mette in evidenza la pericolosità dello stato di natura, pensando allo stato
belligerante sociale che si può venire a creare: apre quindi la strada a un potere sovrano
assolutista, dove l’unico obbligo del sovrano è la tutela della vita dei cittadini.
Locke non giunge allo stato di guerra, per lui bisogna individuare le prerogative che deve avere un
potere per non compromettere la vita naturale: bisogna lavorare sulle istituzioni come se fossero
degli strumenti, da con gurare per migliorare la vita naturale senza comprometterla.
Locke è uno dei primi che cerca di legittimare il potere sovrano senza compromettere lo stato di
natura; ma fa di più: è uno dei primi a pensare alla divisione del potere, la ri essione politica
lockiana denota quindi un forte carattere pre-illuminista.
La conoscenza
La nostra conoscenza si riferisce sempre alle nostre idee e consiste nella percezione dell’accordo
o del disaccordo di due idee fra loro. La concordanza si articola in quattro specie, ci sono quattro
modi di conoscenza.
L’identità o la diversità (come il blu che è diverso dal giallo) l’abbiamo quando la mente
percepisce le idee, anzitutto si rende conto che sono diverse, che un’idea è uguale a sé stessa e
basta: riguarda quindi il naturale potere di percezione e distinzione.
Le relazioni riguardano ciò che sta fra due idee, anche in riferimento alla distinzione. Un esempio
di relazione è l’uguaglianza fra due triangoli di uguale base posti fra due parallele.
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La coesistenza riguarda le sostanze, le qualità che le sono riferite come costanti, come l’essere
magnetico del ferro.
L’esistenza reale riguarda l’esistenza e ettiva e reale fuori dalla mente: come l’esistenza di Dio.
La conoscenza può essere attuale oppure abituale, quindi riguardare la visione presente o la
memoria. La conoscenza abituale (di memoria) può essere una conoscenza intuitiva, cioè ad ogni
riscoperta si ha una visione immediata; oppure ci sono conoscenze già dimostrate, di cui si
conserva anche la forza persuasiva: una volta vere sono vere sempre, così è anche la conoscenza
matematica.
Si è detto che nella conoscenza intuitiva la mente percepisce l’accordo e il disaccordo fra due
idee per se stesse e immediatamente, senza l’intervento di altro: per questo è la conoscenza più
chiara e certa. La conoscenza dimostrativa ha bisogno di qualche passaggio in più.
La dimostrazione dipende dalle prove, che sono le idee intermedie; la rapidità nel trovare tali
prove viene de nita sagacia.. Non è facile conoscere per dimostrazione, serve molta e costante
attenzione.
La conoscenza dimostrativa è diversa da quella intuitiva, perché nell’intuitiva non ci sono mai
dubbi iniziali; inoltre la conoscenza intuitiva è più chiara, in quanto la conoscenza dimostrativa,
pur basandosi su passaggi razionali e prove, è da considerare come un’immagine che più volte
viene rimandata su uno specchio, e sarà sempre meno chiara dell’originale. La conoscenza
dimostrativa necessita di un’evidenza intuitiva in ogni passo che compie, da qui spesso di genera
l’errore della conoscenza precedente: ex praecognitis et praeconcessis.
La dimostrazione non si limita alla quantità, va quindi oltre alla matematica. Anche nell’estensione,
nella gura, nel numero e nei loro modi di può ragionare e dimostrare. Si pensava valessero solo
in ambito matematico perché la matematica era la disciplina con le idee meglio determinate, ora,
però, si sono trovati dei modi anche le altre scienze. Bisogna fare attenzione ai modi delle qualità,
che non sono dimostrabili come quelli delle quantità: non si hanno dei modi certi per misurarle, o
per distinguerne le minime di erenze reali, in più le qualità secondarie delle cose non sono
scoperte per dimostrazione.
La conoscenza non è sempre chiara, anche se lo sono le idee con cui si lavora, questo perché è
l’accordo che conta. Se le idee non sono chiare, però, la conoscenza non lo sarà mai. In questo
senso Locke è molto cartesiano. Da qui l’errore come errata connessione nell’accordo o nel
disaccordo fra due idee.
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La conoscenza intuitiva, poi, non si estende di per sé a tutte le relazioni fra le nostre idee (perché
serve sempre la quantità). La conoscenza dimostrativa non può estendere la nostra conoscenza e
la conoscenza sensoria è la più ristretta fra tutte. Da tutto ciò si evince che la nostra conoscenza
è più limitata rispetto alle nostre idee (molte cose sono indimostrabili, come tutte le disquisizioni
sull’anima).
Ognuna delle quattro specie di conoscenza a ronta, poi, i suoi limiti. La conoscenza per identità o
diversità non si estende oltre le nostre idee.
La conoscenza della coesistenza non va molto lontano: ciò riguarda il problema della sostanza. La
connessione fra idee semplici è la più sconosciuta, in particolare modo a proposito delle qualità
secondarie: perché ci sono sconosciute tutte le connessioni fra le qualità secondarie e quelle
primarie (di cui non abbiamo ancora una conoscenza perfetta). Sicuramente è più vasta la
conoscenza della ripugnanza a coesistere, questo perché ogni soggetto può avere, al contempo,
una sola specie particolare di qualità primarie. Mentre la conoscenza del coesistere dei poteri
(ipotesi corpuscolare) è poco estesa, e ancora meno lo è quella relativa agli spiriti.
Sappiamo poi, che la conoscenza delle relazione è il campo più esteso della nostra conoscenza,
anche se non sappiamo quanto sia vasto. È da notare che le relazioni non riguardano solo la
quantità, ma anche la morale.
Dio è chiaro, il nostro intelletto è chiaro, dunque si può trarre una certezza morale dalle de nizioni,
analizzando ogni elemento della proposizione, come, per esempio, “dove non c’è proprietà non
c’è ingiustizia”, oppure “nessun governo consente libertà assoluta”.
Due cose hanno reso le idee della moralità refrattarie alla dimostrazione: la loro complessità, per il
signi cato incerto (disordine, confusione ed errori nelle idee) e per la memoria (dimostrativa), e
l’impossibilità di associare loro una rappresentazione sensibile.
Ma la moralità è dimostrabile tramite l’attenzione alle de nizioni, solo che il desiderio di stima,
ricchezza e potere hanno condotto alla moda dell’incostanza partitica (politicamente) e
all’abbandono dell’accortezza normale e della dimostrazione morale.
Siamo anche certi della nostra grande ignoranza, che è ciò che ci fa capire meglio come limitarci
per evitare dispute inutili. Sono tre le cause della nostra grande ignoranza.
Noi possiamo essere ignoranti per mancanza di idee: perché sono proprio assenti, perché sono
lontane (e non ci toccano), o perché sono estremamente esigue (minute al punto da rendere i
nostri sensi inadeguati alla loro recezione). Per questo motivo non possiamo avere alcuna scienza
dei corpi: non ne vediamo bene i particolari, né la costituzione, i poteri o le operazioni. Ancor
meno possiamo avere una scienza degli spiriti: per le loro diverse specie e proprietà nascoste;
l’unica cosa che sappiamo è che pensiamo e che altri pensano, così come che esiste Dio.
Possiamo essere ignoranti anche perché ci manca una connessione manifestatile fra le idee in
nostro possesso; così come perché non siamo sempre in grado di seguire il totale corso delle
nostra idee (dunque rilevare le idee intermedie).
La conoscenza, così collocata nelle nostre idee, potrebbe essere una pura visione e basta? No,
non è così quando le idee concordano con le cose. E quale sarà il criterio di questa concordanza?
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Anzitutto, tutte le cose semplici sono conformi a quel modo. Tutte le idee complesse, esatto
quelle di sostanza, sono conformi alle cose esterne.
Da ciò discende la realtà della conoscenza matematica e della conoscenza morale, infatti non è
necessaria l’esistenza a rendere reale una conoscenza astratta, né questa sarà meno vera o certa
perché le idee morali sono fatte e nominate da noi: i nomi errati, infatti, non turbano la certezza
della nostra conoscenza.
Le idee di sostanza hanno i loro archetipi fuori di noi. Più le nostre idee complesse concordano
con quegli archetipi più la nostra conoscenza su di loro è reale. Nella nostra indagine sulle
sostanze dobbiamo considerare le idee e non limitare i nostri pensieri ai nomi o alle specie, che si
suppone siano stabilite dai nomi. Anche se degli idioti nominassero diversamente o avessero altre
concezioni della realtà, la certezza permarrebbe: perché risiede nelle parole e nelle specie, che
sono indipendenti e dotate di riferimento.
La verità in generale
La verità è la corretta unione o separazione dei segni (appunto accordo e disaccordo fra idee).
Questa è potenzialmente espressa in una proporzione; le proposizioni si distinguono in mentali o
verbali, in base ai loro segni, quindi alle idee e alle parole. Idee e parole rappresentano due verità
diverse, che però sono di cili da scindere: si pensa con le parole (soprattutto con le idee
complesse), e le parole sono più chiari e distinte delle idee, a causa dell’oscurità di alcune nozioni.
Le proposizioni mentali sono idee combinate o separate senza l’uso delle parole: l’intelletto vi
lavora con la mente che percepisce, poi per giudizio ci si accorge dell’accordo o del disaccordo.
Le proposizioni verbali riguardano invece le parole, i segni delle idee. In quali casi le proposizioni
mentali e quelle verbali contengono un’e ettiva realtà?
La verità mentale si distingue come l’accordo di un’idea, in base all’accordo iniziale, per
evoluzione nel mezzo e nale. La verità delle parole sono invece più potenti, perché puramente
verbali, e consentono una verità reale e istruttiva, oggetto della conoscenza reale.
Contro la realtà della verità verbale si potrebbe fare la stessa obiezione posta alla realtà della
conoscenza, a ermando che potrebbe essere chimerica. Così non è perché anche qui la verità
verbale riguarda le idee che concordano con le cose. La falsità consiste nel congiungere i nomi in
un modo diverso da come le loro idee concordano con le cose.
Le parole si possono quindi distinguere come veicoli della conoscenza, che portano a verità
generali; ovvero quelle che devono essere discusse in modo più approfondito, in quanto sono le
più ricercate dalla nostra mente perché estendono la nostra conoscenza.
Si distinguono poi la verità morale e la verità meta sica. La verità morale è il parlare conforme alla
persuasione delle nostre menti, nonostante le proposizioni siano in disaccordo con la realtà. La
verità meta sica è reale esistenza delle cose, conforme alle idee che la designano. La mente
congiunge la cosa particolare con l’idea, facendo attenzione al suo compito attuale.
Il problema della certezza sica riguarda poi la certezza del dato percepito: questo non è
a dabile a causa del ltro sensibile che identi ca le qualità secondarie degli oggetti. Io connetto
le idee, creo relazioni, ma non posso avere nessuna certezza sulla corrispondenza reale.
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Il sapere giunge poi a un problema di adeguazione quando devo a ermare che cosa sia un’idea.
Ciò accade perché le azioni che compio con le idee, le connessioni, non perché debbano essere
tali: si connette secondo un criterio di compatibilità, senza sapere da cosa questa sia data. Quindi
vedo il fenomeno ma non riesco a connetterlo col fenomeno naturale. Non si capisce il rapporto
fra qualità primarie e secondari, fra cose e pensiero: non so se la certezza del pensiero sia la
certezza della cosa.
Locke è diverso da Hobbes perché analizza la conoscenza come uno strumento. Per questo non
si fa abbattere da i tipi di conoscenze incerte, né tenta di certi carli (come ha fatto invece
Cartesio): se per Locke la conoscenza è uno strumento, in quanto strumento deve essere utile in
qualche modo.
Entra quindi in gioco il sapere probabile che, spinozianamente, potrebbe anche essere il sapere
“per sentito dire”. Questo può seguire due vie: essere a ermato secondo il principio di autorità
(come nei dogmi della fede, per esempio), oppure per una serie di conoscenze e convinzioni che
ho per esperienza, perché ho visto che le cosa vanno così: l’esperienza della ripetizione
dell’esperienza. Il sapere probabile può dunque essere fede od opinione. Non essendo certo ci
sono dei criteri per poter seguire il principio di autorità: il numero, l’integrità, l’abilità del testimone,
l’intenzione dell’autore (quando la testimonianza è presa da un libro), la coerenza fra le parti e le
circostanze di relazione, le testimonianze contrarie.
Introduzione a Leibniz
Leibniz è l’autore che chiude la discussione loso ca del diciassettesimo secolo – con la sua
gnoseologia, racchiusa nei Nuovi Saggi sull’intelletto umano, e la sua ontologia (meta sica), nella
monadologia – aprendo la strada alla ri essione loso ca kantiana, culmine della modernità.
Diversamente dagli altri moderni, simile solo a Spinoza, Leibniz risolve tutte le questioni con
l’unità: concentrandosi però non sul problema della rappresentazione ma sulla distanza tra il tutto
e la parte. Per far ciò spiritualizza la materia, introducendo la monade come la sostanza semplice
che racchiude un intero mondo, tutti i pensanti, la monade che mostra il carattere in nito e
semplice del mondo, il carattere inscritto nella natura.
La semplicità, l’unità, l’ordine, tutto conduce alla risoluzione del problema del male nel mondo,
alla teodicea, alla giusti cazione della presenza del male come di un male necessario, un male
che però non è un problema, perché tutto tornerà al bene, perché siamo nel migliore dei mondi
possibili.
Leibniz: un conciliatore
Leibniz si con gura sin da subito come un losofo conciliatore, denota l’esigenza innovativa di
voler combinare insieme le loso e più emergenti del tempo: il cartesianesimo, l’empirismo
lockiano e la nuova sica newtoniana. Oltre a questi elementi più recenti, Leibniz è anche molto
attento alla tradizione, cercando un ritorno alla meta sica della tradizione aristotelica, lavorando
anche su elementi tomisti.
Superando l’ontologia, Leibniz è molto attivo anche in campo politico: lavorando alla corte degli
Hannover, il suo obiettivo è quello di riunire le chiese dopo la rottura post-riforma.
Da un punto di vista teologico-meta sico, invece, cerca di conciliare il Dio-idea cartesiano con
l’immanentismo spinoziano, cercando di mantenere la trascendenza del divino.
Ontologicamente, per quanto concerne il mondo sico, costruisce invece una natura popolata da
forze che si muovono, di stampo newtoniano, aggiungendo una realtà immateriale nella materia e
che non coincide propriamente con il movimento (si stacca dalla sica dei corpi).
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Il Barocco leibniziano: spiriti e organismi, contro le macchine e Newton
Deleuze de nisce Leibniz come un losofo del barocco per evidenziarne l’eterogeneità, questo
perché cerca di costruire una loso a in cui la sensibilità è corpo della razionalità e la razionalità è
forma della sensibilità. Deleuze pone l’attenzione, in particolare modo, sulla natura monadica,
essendo la monade il luogo dove ontologia e gnoseologia si fondono (ci spiega cos’è e com’è
l’essere): anche se monade e corpo sono due sostanze diverse sono necessariamente legate, la
monade ha bisogno del corpo (qui sta la risoluzione anche del rapporto cartesiano).
Così facendo la natura diventa animata, spiritualizzata, vivi cata: così si apre al mondo degli
organismi: il corpo diventa organismo e il pensiero diventa vivente.
L’unità collettiva che va creando Leibniz serve a compattare un mondo che oramai è senza
centro, non riferito se non a sé stesso: un mondo unito ma in nito, tenuto insieme dall’animazione
dell’organismo. L’ipotesi organicista è molto importante perché si discosta dal mondo-macchina,
nel mondo organico in ogni parte è contenuta l’indicazione per il tutto, come se tutto e parte
fossero costantemente in un rapporto osmotico.
Tolti i punti di riferimento, la macchina e ogni altro limite; in Leibniz spazio e tempo vengono
de niti come grandezze derivate dall’ordine dello spazio e del tempo delle monadi. Ciò va contro
la concezione newtoniana di spazio e tempo, che le credeva entità reali.
La caratteristica universalis
Nella “Dissertatio de arte combinatoria” (1666), uno scritto giovanile, Leibniz voleva provare a
costruire una lingua in grado di applicarsi formalizzando ciascun ambito del sapere. Ripercorre
quindi i passi cartesiani della mathesis universale, ovvero l’idea per cui la matematica sarebbe la
lingua in cui è scritto l’universo.
La ricerca logica universale è una tema aristotelica, che vedeva il sillogismo come certezza
fondatrice, e la logica combinatoria come funzione del mondo. Da qui l’idea per cui il linguaggio
non sarebbe solo una convenzione, ma anche il risultato di una storia (in base all’a nità del
rapporto tra nome e cosa nominata): è così nuovamente visibile il suo spirito mediatore, mettendo
in rapporto gli antichi e i moderni.
Queste ricerche giovanili saranno però poi abbandonate perché fatica ad individuare gli elementi
primi. Tuttavia, agli inizi, Leibniz era fortemente in uenzato dal diritto, in quanto sapere rigoroso
delle azioni umane che condivideva un obiettivo simile alla caratteristica universalis; convinto,
inoltre, dell’esistenza di una logica universale, nel 1678 scrive una lettera a Tschirnhaus in cui
osanna l’arte combinatoria, de nendola: “scienza delle forme, ovvero del simile e dissimile”.
Questo linguaggio deve essere completamente aderente alla realtà logica delle cose, così
facendo diverrà il linguaggio del ragionamento in sé, di modo che, come scriverà a Oldemburg,
“nessuno potrà scrivere su un argomento che no comprenda”, permettendoci di indagare meglio
gli ambiti del sapere che ancora non si conoscono del tutto.
Umberto Eco ci fornisce una spiegazione su cosa intende con linguaggio universale, riferendoci
alla natura; ma non solo la natura, anche i moti interni umani saranno esprimibili per numeri.
Questo linguaggio universale dovrà toccare ogni ambito del sapere, proprio perché per Leibniz
non si deve rigettare l’Organon aristotelico, anzi, Leibniz a sua volta ne vorrebbe costruire uno
sintetizzando la grande eterogeneità del sapere.
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I realisti, come Cicerone (dunque anche Nizolio, perché Nizolio era ciceroniano), Aristotele e
Tommaso, a ermano che nelle cose siano già contenuti gli elementi per categorizzare, e ciò è ben
visibile dall’ordine della natura. Le sostanze sono, poi, singolari e vengono de nite in categorie
con generi e specie (secondo gli accidenti, ciò che è proprio e la di erenza).
Per i nominalisti, invece, i nomi erano pure convenzioni, accordi per de nire le somiglianze della
natura. Guglielmo di Ockham e Thomas Hobbes sono di questa seconda posizione. Per loro il
vero e il falso sono attributi delle parole e non delle cose. Per cui i vocaboli esistono perché sono
utili e servono, sia nel sapere che nella vita quotidiana. Anche Spinoza è molto vicino a questa
posizione, in quanto nella sua loso a gli universali si vengono a creare per conoscenza
immaginativa, quindi sono risultato dell’esperienza, un’approssimazione della realtà.
Nizolio si schiera con i realisti, in quanto per lui la posizione ricopre un ruolo centrale e bisogna
attenervisi come se fosse la realtà; inoltre, con il nominalismo si cadrebbe nello scetticismo,
quindi non si potrebbe più trarre un sapere universale: se tutto si fondasse sull’induzione non si
potrebbe trarre alcuna conoscenza utile e universale.
La posizione leibniziana è al molto critica, facendo risaltare per l’ennesima volta il suo carattere
conciliatore. Pensa anche lui che se gli universali fossero solo su base empirica non potremmo
mai costruire una scienza apodittica, tuttavia accetta l’origine convenzionalista: questo si risolve
con l’acquisizione di autorità nel tempo della de nizione (sedimentazione). C’è un ribaltamento
storico in cui per il percorso l’ultima de nizione parrebbe la più evoluta, quindi la più certa,
tuttavia si tiene anche conto degli antichi e dell’origine del termine. L’universalità diventa così un
problema linguistico di cui bisogna capire il rapporto tra il signi cato formale e le diverse
applicazioni. Il losofo si con gura così come un costruttore di legami fra linguaggi, fra autorità
storica e convenzionalismo.
Leibniz decide di intraprendere la via logica, decidendo anzitutto di distinguere due tipi di realtà:
una realtà e ettuale e una possibile; a questi corrispondono rispettivamente verità di fatto e verità
di ragione. Con la logica e i suoi principi può anche dedurre una moralità; i tre principi della logica
sono: il principio di causa, il fatto che se una cosa non è percepita allora è inesistente, ciò che
non è dedotto va trascurato no a prova contraria.
Tornando alla natura, per Leibniz il fatto che una mela cada è una verità di fatto, il principio di non
contraddizione è invece una verità di ragione. Lui parte dall’esperienza ma usa la logica per
ragionare, è un ragionare per contrasto, problematizzando l’esperienza. Così egli ragiona sul
mondo della possibilità e alla ne stabilisce il fatto; indaga su questo mondo trovando la soluzione
migliore. Distingue quindi due piani: quello della logica, che è il mondo della possibilità, e la realtà
e ettuale delle verità di fatto.
Si pensi al numero uno come l’essere astratto dell’unità; alla pluralità o al molteplice associamo
dunque dei rapporti e delle relazioni da cui ricaviamo un’analisi. Il numero si può, dunque,
con gurare come una gura incorporea sorta dall’unione di enti qualsiasi. “Essendo dunque il
numero qualcosa di universalissimo, giustamente appartiene alla sica.”
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Per Leibniz, secondo Cassierer, “il problema dei principi logici del sapere è diventato per la prima
volta ne a sé stesso”; grazie alla composizione dell’ente riesce a porre il medesimo ordine fra
logico-ontologico – la dottrina delle parti, de nita dal sito, spiegare come queste si collochino
nell’ente, o nel tutto; la dottrina del tutto, de nita complessione, spiega come queste parti
vengano unite, ponendo i siti sempre in rapporto reciproco. In riferimento alla sostanza ora si ha,
al contempo, la variabilità numerica e la semplicità.
Nella prefazione Leibniz esprime la sua posizione come più vicina a Platone, dato il suo pensiero
più astratto, mentre quella lockiana sarà più aristotelica e popolare. Le divergenze fra i due
pensatori riguardano numerosi argomenti, e queste saranno a rontate in forma di dialogo, la
posizione leibniziana sarà espressa da Teo lo e quella lockiana da Fidalete. Il dialogo non sarà
con una posizione di rilievo e una preposta a subire: sarà un confronto alla pari, ricco di quello
spirito che ritiene sia possibile una conciliazione tra empirismo e razionalismo.
L’uomo leibniziano condivide con Dio la capacità di vedere l’universalità nelle cose, al pari del
linguaggio notiamo un ra narsi di conoscenze col tempo, con la storia. Dunque le idee innate
sono sempre presenti, anche se in forma virtuale, quindi non ancora scoperte. L’essere virtuale è
poi riempito con l’esperienza: da qui l’esempio di un blocco di marmo, nelle cui venature è
inscritta la forma che può prendere la statua, è inscritto il mondo dei possibili.
Il concetto di una cosa, se completo, de nisce la sostanza della cosa, così la logica si rende
necessaria per la de nizione del vero, sennò l’esperienza resterebbe indeterminata.
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L’uomo pensa sempre
Leibniz si schiera anche contro la negazione lockiana di Cartesio, secondo la quale l’uomo non
penserebbe sempre. Per Leibniz l’uomo pensa sempre, in quanto una sostanza non può essere
priva d’azione e l’azione della sostanza pensante è pensare; si discosta quindi dal paragone coi
corpi che possono essere privi di movimento, anche perché per Leibniz non ci sono nemmeno dei
corpi privi di movimento. Per Leibniz, quindi, non tutta l’attività intellettuale è cosciente.
Le piccole percezioni
Leibniz introduce poi l’appercezione e le piccole percezioni, che sono importantissime. La materia
giunge all’intelletto con la sensibilità, e si attiva quando giunge alle idee innate, ma è un
passaggio confuso, osmotico, di cile da tracciare. Per confutare l’idea lockiana, Leibniz che le
piccole percezioni formino immagini delle qualità dei sensi, chiare nell’insieme, ma confuse nelle
parti: creando la connessione che ogni essere ha con tutto il resto dell’universo. Ciò si colloca
entro la teoria dell’armonia prestabilita dell’anima con il corpo, e sulla di erenza individuale di
ogni punto di vista dell’universo.
Le piccole percezioni sono il terreno di mezzo fra la parte e il tutto. Io vedo il mondo ma al
contempo il mondo mi costituisce. Di questo mondo io ne vedo poi una sola parte, tutto il resto è
virtuale, perché mi in uenza nella visione: questo è il mio modo di percepire e conoscere la realtà.
Leibniz problematizza il rapporto tra oggetto e soggetto, per questo l’unione e la monade. La
con gurazione è, quindi, confusa sia intramonadicamente che tra materia e pensiero.
Da qui l’esperienza si con gura come un fondo di sensazioni, in base anche alla teoria delle
piccole percezioni, che non sono immediatamente coscienti, non sono appercezioni: serve quindi
un rapporto osmotico tra il mio corpo e il corpo esterno che determina il prodursi di una serie di
appercezioni che non raggiungono il livello di consapevolezza.
In generale costruisce un passaggio tra il virtuale e l’appercepito, per cui rimane qualche cose di
inconscio. Questa è la sua soluzione tra le due sostanze, questa è la soluzione per la logica. La
monade è quindi una mera visione di parte che accede al mondo del pensiero perché parte
pensante, ma che non solve tutto questo mondo. Gli universali, quindi, sono come una forma che
deve essere incarnata: esprimendo poi l’appercezione come una relazione intramonadica.
La conoscenza appare come un usso, una forza che risalta nell’appetizione della monade.
L’uomo e la bestia
Leibniz separa l’uomo dalla bestie in un modo diverso rispetto a Locke. Per Leibniz le bestie sono
puramente empiriche, non possono formare proposizioni necessarie, mentre l’uomo ne è capace
(le proposizioni necessarie stanno alla base delle scienze dimostrative). Essendo solo empiriche,
le bestie fanno solo delle associazioni, delle connessioni d’immaginazione (passaggio di
immagini), legate alla memoria. Anche l’uomo è una bestia, e in quanto tale ha questa
componente associative, ma è una bestia che ragiona, e il ragionamento si fonda sulle
connessioni sicure delle verità necessarie.
Anche per quel che concerne la ri essione Leibniz si discosta da Locke: la ri essione pondera e
presta attenzione a elementi che sono già presenti in noi, non deriva tutto dai sensi per lui; seppur
ammetta il fatto che le nostre due fonti conoscitive siano sensi e ri essione (come in Locke), la
ri essione ha un altro statuto e compito.
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Ci sono due generi di conoscenza: soltanto logica (variato dalle diversità semplici) e reale (le cui
diversità sono modi cazioni, cioè materia). La conoscenza reale può poi essere meta sica
(soltanto, in cui c’è omogeneità) oppure sica (in cui c’è una massa omogenea solida).
In base a questa suddivisione si può comprendere come la materia non produca macchinalmente
la sensibilità e la ragione. Noi, poi, non intelleggiamo nell’ordine di Dio, ma nell’ordine della natura:
possiamo comprendere solo perché è il disegno di Dio.
Il pensare, quindi, non è materiale (come in Cartesio), però le bestie pensano (diverso da
Cartesio). Essendo che l’anima è legata al corpo, e anima e corpo non sono la stessa cosa, e il
corpo non può creare l’anima, allora si evince: l’immaterialità e l’immortalità dell’anima, visto che
l’anima pensa ed è tutt’altro. Quindi non ci sono sostanze separate dalla materia tra le creature.
Per cui noi possiamo conoscere Dio solo come razionalità, con intelletto e idee innate, mentre lui
ci può conoscere anche nelle piccole percezioni. In tal senso è simile a Malebranche, poiché in
Dio egli raccoglie tutta la razionalità, come in Agostino, Dio è il fondamento della verità. Dio c’è
perché c’è la scienza, perché c’è la geometria, l’algebra e la logica: noi facciamo esperienza della
perfezione con la logica, con il luogo della verità, e la verità ci svela il principio di razionalità e
questo a sua volta ci svela Dio.
L’immaginazione
Esistono le idee innate, la conoscenza sensibile e l’immaginazione, che è simile all’immaginazione
spinoziana, solo che per Leibniz è positiva. In Locke sono il risultato della percezione, per
Cartesio è fantasia; per Leibniz è ordinata in base alle idee innate. L’immaginazione è una sorta di
senso comune (come dirà alla regina So a Carlotta), una terra di mezzo tra la piccola percezione
e la conoscenza razionale. Anche gli animali hanno l’immaginazione, solo che li manca la
razionalità per distinguerla dal reale anche se possono organizzare il dato percepito coi
sentimenti, questo perché l’immaginazione può fungere da principio d’ordine.
Continuando, nella lettera alla regina So a Carlotta, Leibniz parla di “tre ranghi di nozioni: quelle
meramente sensibili, che sono gli oggetti a erenti a ciascun senso in particolare, quelle sensibili e
intelligibili a un tempo, che appartengono al senso comune, e quelle soltanto intelligibili, che sono
proprie dell’intelletto. Le prime e le seconde insieme sono immaginabili, ma le terze sono al di
sopra dell’immaginazione. Le seconde e le terze sono intellegibili e distinte; ma le prime sono
confuse, benché siano chiare o riconoscibili.”
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La monadologia: caratteri generali
La Monadologia è stata composta per il Principe di Savoia, il titolo non è stato dato da Leibniz ma
da due autori francesi. Il termine monade è ripreso da Bruno e da Campanella, che le pensavano
come parti immateriali che costituivano l’anima del mondo. Nel medesimo anno in cui scrive la
Monadologia, 1714, gli Hannover interrompono la dinastia Stuart inglese, decretando un anno
doppiamente importante per Leibniz, visto che vi lavorava come diplomatico.
La Monadologia, così come i Principi razionali della natura e della grazia (scritta lo stesso anno), è
un’opera scritta in francese e in un linguaggio molto semplice per ragioni divulgative. In questo
scritto la loso a leibniziana assume una formazione sistemica, in quanto è un riassunto di
ri essioni pregresse.
In quest’opera Leibniz spiega l’insieme naturale come un tutt’uno armonico, che si manifesta nel
suo carattere razionale; da qui l’uomo che partecipa alla razionalità dell’essere divino e lo può
conoscere. La monade è semplice, e in ognuna c’è tutta la natura, tutta la realtà; anche se non
tutto viene percepito dalla monade: ciascuna è il tutto, vede il tutto ed è parte del tutto, è questo
l’idealismo monadico. Poi i diversi gradi di percezione di erenziano le monadi, per questo la loro
conoscenza è de nita modulare.
C’è un doppio dualismo in Leibniz, o pluralismo nel secondo caso: anzitutto il dualismo corpo-
monade, risolto in modo molto malebranchiano con un’armonia prestabilita; poi un pluralismo
degli sguardi monadici, anche quello risolto con una sorta di armonia, è risolto con la sincronia.
In Leibniz il rapporto con l’idea non è quindi più pensato in termini rappresentativi, bensì
espressivi: ciascuna idea è in grado di esprimere una visione della realtà, per cui Dio è ciò che ci
consente di rendere coerenti le visioni. Dio, nella di erenza monade-corpo, è ciò che garantisce
unità a ciò che è intrinsecamente diverso: Leibniz giunge quasi a un concetto dialettico di
pensiero ed estensione – per questo è diverso dal panteismo spinoziano.
La monadologia: la sostanza
La monade è la sostanza semplice: senza parti, inestesa, indivisibile. La monade è ingeneratile e
incorruttibile, solo la creazione e l’annientamento istantaneo possono intervenire su di lei. La
sostanza semplice deve esistere perché esistono i suoi aggregati: le sostanze composte. Così
come il corpo è l’elemento primo dell’estensione, la monade è l’elemento primo del pensiero: la
sostanza leibniziana è in molto vicina a quella aristotelica. Vediamo come il dualismo cartesiano,
che in Spinoza si materializza, in Leibniz si spiritualizza.
La monade è senza nestre, ovvero che nulla di esterno può mutarne l’interno, né sostanza né
accidente può entrare dal di fuori di una monade: è un tutt’uno.
Le monadi non di eriscono per quantità, quindi lo fanno per qualità, sennò sarebbero tutte uguali
e non ci sarebbe mutamento, quindi ogni cosa è intrinsecamente diversa da un’altra. Inoltre, ogni
essere creato è soggetto a mutamento, continuo nella monade. I mutamenti derivano da una
causa interna detta appetizione.
La percezione è determinabile da ciò che muta, perché si riferisce alle diverse coscienze e
appetizioni. Il principio costitutivo di speci cazione e varietà delle sostanze semplici determina ciò
che muta ed è anche dedito all’uni cazione del molteplice.
La monade non può essere irriducibile a meccanismo: si percepisce per la sostanza e non per il
composto o per la macchina. Le sostanze semplici sono anche chiamate entelechie, dotate di una
certa perfezione autosu cienza, il cui principio originario è l’automatismo incorporeo. Le azioni
interne delle entelechie sono le percezioni e i mutamenti.
L’anima non è solo monade, l’anima si compone di percezione distinta e memoria: così come da
un movimento se ne causa un altro, da una percezione ne giunge un’altra. Da qui le piccole
percezioni, che nché siamo storditi non notiamo: la distinzione è ciò che ci toglie
dall’assopimento e ci fa cogliere le percezioni più piccole.
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La monadologia: la conoscenza
La percezione cosciente è il primo grado di conoscenza, è la conoscenza sensibile. Anche gli
animali hanno percezioni distinte, appercezioni. Hanno delle rappresentazioni in memoria
associate a dei sentimenti: così si crea l’abitudine e le aspettative (come il sorgere del sole).
Anche gli uomini hanno queste percezioni, agendo di tanto in tanto come animali, esseri empirici.
La conoscenza razionale è quella propria degli uomini, è la conoscenza per verità necessarie ed
eterne. È la conoscenza della ragione, delle scienze, dell’io e di Dio. L’anima ragionevole, o
spirito, compie degli atti ri essivi, con i pensieri che sono l’oggetto del ragionamento.
Leibniz sottolinea la di erenza fra sentimento e percezione. Tutti gli esseri viventi percepiscono,
ma il sentimento è una percezione già elaborata in un grado di immaginazione. Gli animali
passano da stati percettivi diversi, sono entelechie, o monadi, quando hanno solo percezione.
Lo sviluppo del sentimento crea poi la di erenza dell’uomo con gli animali: poiché negli umani il
sentimento viene ra nato e si assomma con la memoria. È nella memoria che si costituisce il
modo individuale umano di lavorare su queste percezioni.
L’immaginazione spinoziana è molto simile alla memoria leibniziana: può dare disillusione della
ragione, ma non è propria razionalità. Mentre la ri essione è comprensione della totalità, cioè
attività monadica.
Ci sono due tipi di verità: le verità di ragione e le verità di fatto. Le verità di ragione sono
necessarie e non possono essere impossibili, grazie a loro si può risalire no alle verità primitive
della matematica, con teoremi e canoni che portano a de nizioni, assiomi e postulati. Le verità di
fatto, invece, sono contingenti o possibili.
Esistono idee semplici inde nibili, come anche principi primitivi indimostrabili, ma che non hanno
bisogno di dimostrazione (poiché il contrario sarebbe contraddittorio). Per le verità di fatto serve
invece il principio di ragion su ciente; ma la loro risoluzione può andare avanti all’in nito nella
ricerca delle cause e degli e etti.
In Leibniz non c’è l’anticipo dell’Io rispetto alle idee innate. La conoscenza delle idee innate porta
alla consapevolezza dell’Io: si pensi all’esempio della statua di marmo. In Locke l’Io agisce solo
quando stimolato dalla sensazione, in Leibniz, invece, la monade è sempre in attività, in una
condizione di percezione. Esistono, oltre alle piccole percezioni, altre percezioni che danno un
grado di appercezione sostenuto, quindi portano alla consapevolezza dell’Io, dello star pensando.
Questa autocoscienza, consapevolezza, viene raggiunta grazie al fatto che noi condividiamo con
Dio le idee innate: è quindi pensando a sé stessi che si conoscono le verità eterne.
La monadologia: Dio
Leibniz fa diverse prove dell’esistenza di Dio, una a priori e una a posteriori (che parte da un
e etto di Dio stesso). La prova a posteriori parte dal fatto che esistano dei contingenti particolari
che sono causati da altri enti contingenti particolari. La digressione di causa ed e etto può andare
avanti all’in nito. Per quanto in nita possa essere, la ragion su ciente che causa il tutto deve
essere in nita e necessaria, quindi non può essere contingente. Serve dunque una sostanza
necessaria ed eminente: un Dio che basti a tutto.
Gli attributi di Dio sono unità, in nità e somma perfezione; quest’ultima è la fonte delle perfezioni
dell’uomo, anche se l’uomo è imperfetto perché limitato per natura. Dio, inoltre, stabilisce i
rapporti fra Dio e il mondo.
La prova a priori dell’esistenza di Dio parte dal fatto che Dio è origine anche delle essenze, in
quanto reali, sia in sé che potenzialmente. Così si pone a fondamento delle verità eterne, quindi
della realtà, di ciò che è esistente e attuale: quindi è l’essere necessario supremo, perché
l’essenza implica l’esistenza, se è possibile (e la sua possibilità è reale) allora esiste.
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Mentre nella monade abbiamo un mondo di istintualità, un mondo inconscio, degli orientamenti
emotivi più bassi, un sottofondo inconsapevole della percezione: per cui è un misto tra essenza
ed esistenza, per questo ha bisogno delle continue folgorazioni.
Tutte le verità contingenti dipendono da Dio, secondo il principio di convenienza (o miglior scelta),
ciò però non vale per le verità eterne. Le verità necessarie dipendono unicamente dall’intelletto
divino e ne sono l’oggetto interno, ma non può modi carle. Per cui la verità è grande di Dio, ma
Dio è, al contempo, necessario per aprire al mondo della libertà, della possibilità, della
conoscenza razionale; assente nei corpi in quanto mera natura ed e ettualità.
Dio è potenza e origine di tutto (dà continue folgorazioni alle monadi), somma conoscenza di tutte
le idee, somma volontà secondo il principio del meglio (come Dio ha la volontà, la monade ha
l’appetizione, l’azione che consiste nelle molte pieghe intramonadiche, nel movimento verso il
tutto). Questi tre attributi sono alla base del soggetto, nelle sue percezioni e appetizioni: solo che
in Dio sono perfezioni, nell’uomo sono solo imperfette imitazioni.
L’attività di Dio sceglie sempre il migliore, la potenza si distingue come produzione del meglio.
Il reale è organico: ogni sostanza semplice è in rapporto con le altre, specchio vivente e perpetuo
dell’universo, ogni monade ha un punto di vista in cui esprime le altre: ogni sostanza è in
rapporto, secondo il principio di armonia universale.
Le monadi sono limitate, non nell’oggetto della loro conoscenza, ma nel modo di conoscere
l’oggetto in nito e sommamente ideale, che si distingue, per grado, dalle percezioni. Un’anima
può leggere solo ciò che le è distintamente rappresentato, non va all’in nito prendendo il mondo,
anche se si muove con esso.
Ogni monade è legata al corpo di cui è entelechia, il reale, infatti, si compone di tutto l’organico e
una macro-anima della natura. La monade con l’entelechia compone il vivente, la monade con
l’anima compone l’animale. Il corpo naturale è quindi un organismo di sommatoria in nita e diviso
anche all’in nito, dove il tutto dà ragione alle parti. Quindi tutto l’universo è animato, perché in
ogni materia c’è anima, perché ogni anima ha un corpo, secondo la sua facoltà uni catrice.
Soltanto Dio non ha un corpo.
La generazione dei viventi avviene per sviluppo o crescita, mentre la morte è involuzione o
diminuzione: queste non sono mai assolute, poiché sono eterne e c’è sempre una preformazione
prodotta germicamente (germe come animale spermatico). Quindi sia l’anima che l’animale sono
indistruttibili.
L’anima segue cause nali per appetiti, secondo ni e mezzi; il corpo segue le cause e cienti e i
movimenti (che, diversamente da Cartesio, denotano la conservazione della quantità di moto).
Anima e corpo sono quindi incompatibili, è hanno bisogno dell’armonia prestabilita per funzionare
nel rapportarsi.
La causa nale c’è perché c’è Dio. Non c’è solo il mondo dell’e ettuale e del contingente, il
mondo ha un ordine. L’ordine è quello divino, quello scelto per il migliore dei mondi possibili. È
per questo che si risolve in armonia il rapporto monade e moto corporeo, perché la monade vede
gli scopi e i corpi rientrano nel meccanismo di causalità già prescelto. Quindi c’è anche armonia
tra il sistema delle cause e cienti e quello della cause nali.
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L’anima poi si distingue in anima sensitiva e anima razionale. L’anima è lo specchio dell’universo
creato, lo spirito è lo specchio anche delle immagini di Dio. L’anima razionale conosce il sistema
dell’universo e lo imita con dei “saggi architettonici” (conoscenza della sica-matematica). Ogni
spirito è quindi come una piccola divinità nella sua sfera d’azione.
L’armonia nel regno sico della natura è data dal Dio architetto della macchina, l’armonia nel
regno morale della grazie è data dal Dio re della città degli spiriti. La realizzazione vicendevole
porta alla legge del mondo morale: la giustizia, che punisce i vizi e premia la virtù. Il buon uomo
però non segue la virtù per essere premiato, ma perché tutto torno al puro amore: visto che siamo
nel migliore dei mondi possibili. Per questo noi aderiamo a Dio e alla causa nale, la provvidenza,
perché è il nostro unico scopo, la nostra unica possibilità di felicità.
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