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Le teorie della povertà e i diritti di libertà nel pensiero contemporaneo

Il dramma della povertà è uno dei più gravi temi su cui si sono confrontate le organizzazioni

internazionali, le varie istituzioni e l’intero mondo accademico. Si tratta di un fenomeno sociale la

cui estensione non può lasciarci indifferenti, sia per ragioni di stabilità economica, politica e

sociale, sia per motivi più strettamente etici e di responsabilità civile.

La maggior parte degli intellettuali1 è concorde nel prendere in variabili di studio la distribuzione

dei beni all’interno della famiglia o gli standard di vita che caratterizzano un determinato contesto

sociale per la determinazione e la misurazione del tasso di povertà. Ma un’unica definizione di

povertà accettata unanimemente non è stata tuttora elaborata.

L’indigenza si può considerare sia scarsità di reddito, sia mancanza di sviluppo umano, Inabilità a

partecipare alla vita sociale in ogni sua dimensione, e impossibilità di raggiungere il livello minimo

di sussistenza. Ma è sufficiente considerare soltanto gli indici di reddito pro capite ed aggregato o è

necessario tenere conto anche dei dati sulle aspettative di vita, sul livello di alfabetizzazione, sulle

condizioni epidemiologiche ed altre variabili non-monetarie come l’autostima o il senso di

sicurezza sociale?

Le difficoltà che gli economisti hanno incontrato nel rispondere a questo quesito trae probabilmente

origine dalla complessità del fenomeno: la povertà2, infatti, è uno stato che coinvolge la vita

dell’individuo nella sua interezza e riguarda, non solo la sua sopravvivenza fisica, ma anche la sua

crescita morale, intellettiva e sociale. Essa può essere endemica o temporanea ed indurre ad un

atteggiamento di passiva rassegnazione o di ribellione violenta. Si tratta di una patologia sociale

generata da un insieme di relazioni economiche e politiche che analizza lo stile di vita individuale.

1
Vedi ad esempio Sachs J. D., La fine della povertà. Come i paesi ricchi potrebbero eliminare
definitivamente la miseria dal pianeta, Milano, 2005.
2
Molto interessante sul tema il testo di Sylos Labini P., Miseria e sottosviluppo. Come uscirne, Il Sole 24
ore, 2007.
Essa denota, indubbiamente, uno stato di privazione e di mancanza, di non disponibilità di qualcosa

che viene ritenuto necessario.

Ma quali sono quegli elementi di cui non possiamo fare a meno? Cos’è indispensabile per l’umana

esistenza?

Tra le molteplici risposte che sono state fornite a questi interrogativi, quella forse più interessante e

significativa è stata elaborata da Amartya Sen, economista e filosofo contemporaneo, premio Nobel

per l’economia nel 1998, rettore del Trinity College a Cambridge e docente di economia e filosofia

morale alla Harvard Univerity3.

Sen recupera la dimensione etica all’interno dell’economia in modo innovativo 4 rispetto alla storia

del pensiero economico precedente. La sua teoria si sviluppa attorno al concetto di libertà

individuale5, diventa il baricentro di un’ articolata struttura teorica. In Sen, la povertà viene descritta

come uno stato deplorevole che impedisce, a chi ne sia colpito, di dispiegare la propria

individualità. Essa, però, non è né scarsità di reddito e di merci, né mancanza di sviluppo umano,

quanto piuttosto privazione della possibilità di raggiungere gli uni e l’altro.

La strada da percorrere per sradicare la povertà non può che coincidere, pertanto, con

l’ampliamento della sfera delle libertà reali 6, come quella di pensiero, di scelta, di azione che

dovrebbero costituire il mezzo e lo scopo di qualsiasi politica di sviluppo.

3
Amartya Kumar Sen nacque nel 1933 a Santiniketan (in Bengala). Egli divenne docente presso l’università
di Calcutta, presso il Trinity College di Cambridge, poi a Nuova Delhi, alla London School of Economics, a
Oxford e, successivamente, all’università di Harvard. Nel 1998, pur mantenendo la sua carica di docente ad
Harvard, ha fatto ritorno come rettore al Trinity College. Venne nominato presidente della Economic Society,
della International Economic Association e della Indian Economic Association. Nello stesso anno, a Sen è
stato conferito il Premio Nobel per l’economia. Egli è autore di numerosissime opere, delle quali meritano
sicuramente di essere ricordate Choice, Welfare and Measurement, Development as Freedom, On Ethics and
Economics. Si aggiungano ancora i fondamentali studi di economia dello sviluppo e soprattutto l'analisi delle
carestie, e si avrà un quadro completo per comprendere anche la riflessione più recente culminata in volumi
come Inequality Reexamined.

4
Sen A., Poverty and Famines: An Essay on Entitlement and Deprivation, Oxford
1981; trad. it., Milano, 1997, p. 34 ss.
5
Sen A., The Quality of Life, (edito con Martha Nussbaum), Oxford, 1993; pp. 21 ss.
6
Sen A., Development as Freedom, Oxford, 1999, pp. 46 ss.
Ma vediamo le premesse: l’impostazione dominante è quella di una macroeconomia fondata su

quella che lo studioso indiano definisce “divinizzazione del Prodotto Interno Lordo”, che

sostanzialmente somma i valori delle merci prodotte e scambiate a prescindere da come, chi, dove e

perché sono prodotte e consumate, e pretende di rappresentare un sufficiente indicatore di salute di

un paese. Da anni alcuni psichiatri, antropologi, sociologi assieme ad economisti di matrice liberale

sono tornati a riflettere insieme, convinti che la prima caratteristica necessaria per ogni dibattito

realistico è quello della multidisciplinarietà. Questi studiosi si autodefiniscono “studiosi

dell’happiness7”. Uno di questi è appunto, Amartya Sen. Gli esperti riuniti nei nuovi studi sul

benessere ci dicono che tra i paesi relativamente ricchi non esiste correlazione tra PIL e felicità.

Parlare di povertà significa, dunque, affrontare questioni molto più articolate e complesse.

Secondo Sen la povertà è il mancato riconoscimento e rispetto dei diritti umani da parte dei governi

di tutto il mondo: questi ultimi tendono ad una allocazione delle risorse “errata”. Lo studioso

prospetta un approccio sia individuale che macroeconomico della povertà: da un lato, l’individuo e

le sue chances sono al centro della discussione, in quanto a seconda del sistema economico di cui fa

parte, può o meno attuare la propria personalità; dall’altro, il sistema economico di radice

occidental-capitalista ( frutto delle teorie economiche del valore, da Adam Smith 8 fino a Karl

Marx9) dovrebbe essere inserito in un contesto di matrice prettamente etica, quindi necessariamente

da rivisitare ex novo.

7
Certamente nuovo e articolato è il tema delle capabilities, che nella definizione di felicità sottolinea la
dimensione della fioritura umana, sintetizzandone le condizioni e le possibilità concrete. Portato
all'attenzione dall'economista indiano e premio Nobel Amartya Sen, questo è un approccio che richiede
approfondimenti in discipline e contesti diversi, perché pone l'accento su quella preziosa e delicata risorsa
che è il capitale umano e il suo diritto ad una piena realizzazione. Ecco che il confronto assume allora una
prospettiva nuova, che pur mantenendo la dovuta attenzione ai livelli di produzione e reddito, si apre alla
natura più profonda dell'uomo, nella sua relazione con sé stesso e con gli altri. L'aspetto dell' happiness
invece guarda più specificamente al vissuto, all'esperienza che porta alla felicità, alle caratteristiche di tale
esperienza piuttosto che al percorso e alle condizioni che l'hanno sostenuta, analizzando le modalità per
garantirla e ripeterla.
8
Cfr. Smith A., An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, Londra, 1904.
9
Cfr., Marx K., Il Capitale. Critica dell'Economia Politica, Roma, 1964.
Secondo Sen, il riconoscimento dei diritti umani come diritti naturali sarebbe sufficiente ad imporne

la cogenza applicativa, alla stegua della Grundnorm kelseniana10, obbligando eticamente le parti

sociali forti a riallocare le risorse, dimodochè l’individuo possa finalmente esprimere se stesso nella

sua peculiare unicità. Decisamente, questo sarebbe un passo determinante. Ma si rivela

insufficiente, in quanto - come ben dice Grossi 11 - la libertà è la più grossa responsabilità che possa

esistere ed è necessario che l’individuo sia in grado di farne buon uso: molto più di frequente invece

ci troviamo davanti ad individui che necessitano di una guida costante per l’intera vita, incapaci di

prendere decisioni autonome. La responsabilità della libertà si rivela pertanto come un problema

altrettanto importante, in quanto, eventualmente disponendo delle risorse, il loro impiego potrebbe

essere vanificato dall’incapacità degli individui di una corretta gestione delle stesse.

Sen ha scritto saggi e libri, rilasciato interviste, utilizzato la sua voce per difendere i più deboli e

continua tuttora a farlo, non trascurando le nuove voci nel campo dei diritti umani 12. Per Sen è

necessario concettualizzare e definire ciò che manca ad una piena realizzazione di un benessere

sociale effettivo, globale e profondamente sentito.

L'India è oggi, per Amartya Sen13, un enorme stato laico che ha ancora molti problemi da risolvere.

E' il grande esperimento, in parte incompiuto, nel quale aveva creduto Nehru. L'India, che gli

occidentali considerano indù, conta 120 milioni di musulmani, ma anche cristiani, sufi, sikh,

gianisti. L'ateismo e il materialismo hanno prodotto la più copiosa letteratura del mondo. Il

buddhismo stesso è una forma di agnosticismo e il dio Rama, venerato dai nazionalisti indù, in

alcune zone è considerato solo un sovrano pio e bonario. L'India non è solo il paese di origine di

Amartya Sen, ma è anche la società privilegiata per comprendere il senso e l'originalità della sua

10
Cfr. Kelsen H., Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 1994.
11
Cfr. Grossi P., I diritti di libertà ad uso di lezioni, Torino, 1991.
12
Cfr. Vizard P., Poverty and human rights: Sen’s capability perspective explored, Oxford, 2006.
13
I concetti espressi in questo paragrafo sono tratti dalla raccolta di saggi curata da Massarenti A., Laicismo
indiano, Milano, 1998, pp. 3 e ss.
riflessione di filosofo morale e di economista14, il luogo della concretezza sul quale si fonda l'intero

edificio teorico di Sen.

Il filosofo riformista è noto per le sue critiche all'utilitarismo: esso ha contribuito - nell'Inghilterra

dell'Ottocento - a ridurre la sofferenza e ad aumentare la felicità, ma anche ad accrescere la libertà

degli individui, senza però includere il “tasso di libertà” nel calcolo utilitaristico. A questo

proposito, nel discorso tenuto a Torino nel 1990 in occasione del conferimento del Premio Agnelli

per l'etica, intitolato La libertà individuale come impegno sociale per il testo omonimo, riferendosi a

un episodio della sua infanzia che lo hanno segnato profondamente, egli ha parlato

significativamente del rapporto tra “idee astratte e orrori concreti”. L’episodio riguarda la carestia

che colpì il Bengala nel 1943, durante la quale morirono tre milioni di persone. Sen aveva nove anni

e studiava in una scuola di una zona rurale del Bengala, quando si presentò nel recinto della scuola

“un uomo di estrema magrezza, mostrando un comportamento poco equilibrato, è un segno tipico

di prolungate sofferenze da inedia”. Era solo il primo di una serie di decine, e poi centinaia e

migliaia di persone che provenivano da villaggi lontani con le stesse sofferenze scavate sul volto.

La carità privata, che pure fu considerevole, si dimostrò del tutto inadeguata per salvare milioni di

persone. Le autorità britanniche non riuscirono a organizzare alcunché, e gli aiuti iniziarono

tardivamente, sei mesi dopo l'inizio della carestia. Sen vide morire davanti ai suoi occhi migliaia di

persone. In seguito, con le sue analisi pioneristiche, egli chiarì molti anni più tardi che la scarsità di

cibo non era il fattore determinante della morte di quella gente. A mancare erano piuttosto i mezzi

per procurarsi il cibo. Mezzi che, durante le carestie, talvolta scarseggiano per il mancato

funzionamento dei meccanismi di mercato, altre volte per l'inefficacia o per la totale assenza di

intervento da parte delle autorità pubbliche, altre volte ancora per un effetto combinato di questi due

fattori. Vi sono state addirittura carestie che sono avvenute in periodi in cui la disponibilità di cibo
14
Sen A., Choice, Welfare and Measurement, Oxford, 1982. Sen A., Development as Freedom, Oxford, 1999.
Sen A., Choice of Techniques: An Aspect of the Theory of Planned Economic Development, Oxford 1960;
Sen A., Poverty and Famines, Oxford 1981. Sen A., Inequality Reexamined, Harvard, 1995.
era massima. Fortunatamente, in India, l'adozione di una serie di politiche di sostegno al reddito

delle categorie a rischio ha evitato che durante tutto il periodo postcoloniale fenomeni di quel tipo si

ripetessero.

Ma Sen si chiede come mai, nonostante i Codici per la carestia che prevedevano misure adeguate

per fronteggiare le emergenze esistessero già in epoca coloniale fin dal 1880, essi siano stati così

inefficaci prima dell'indipendenza e abbiano invece funzionato nel periodo successivo. A

determinare il cambiamento, risponde Sen, “è stata la natura pluralistica e democratica dell'India

dopo l'indipendenza. In presenza di una stampa relativamente libera, con elezioni periodiche e con

attivi partiti di opposizione, nessun governo può sfuggire a severe sanzioni nel caso si verifichino

ritardi nell'applicazione di misure di prevenzione e si consenta alla carestia di scatenarsi. E' questa

minaccia che mantiene i governi all'erta”. In questo contesto, Sen anticipa l’importanza della libera

informazione: l’opinione pubblica, se consapevole può manifestare la propria disapprovazione nei

confronti dei governi.

Ma vi sono anche motivazioni più concrete che lo hanno condotto in questa direzione, per illustrare

le quali egli ha fatto riferimento “ai due maggiori insuccessi sociali” del suo paese: la

diseguaglianza tra i sessi e l'analfabetismo, tuttora assai diffusi. Una serie di studi sul campo –

alcuni dei quali condotti dallo stesso Sen – dimostra che la donna in India è “sistematicamente

svantaggiata rispetto all'uomo in gran parte del paese, specialmente nelle zone rurali”. Ma a chi

proponeva politiche per un miglioramento di questa situazione è stato risposto che in realtà le donne

dell'India rurale non ambiscono a cambiare la loro condizione: non provano nessuna invidia per i

privilegi dell'uomo, né percepiscono di trovarsi in una posizione di penosa disuguaglianza.


Non si può neppure parlare di valori europei contrapposti ai valori asiatici. Le nozioni di giustizia,

diritto, amore per il prossimo sono solo occidentali? Amartya Sen sostiene di no 15. In un mondo in

preda alle peggiori atrocità, la possibilità di utilizzare la ragione rappresenta sempre una speranza.

La ragione ci può aiutare a prendere coscienza dei nostri errori e a fare in modo di non ripeterli. Sen

evidenzia però che l'idea della fede nella ragione sia un approccio occidentale, in quanto frutto delle

idee di giustizia sviluppate dai filosofi occidentali, da Immanuel Kant16 a John Rawls17.

Secondo Sen, i valori della tolleranza, della libertà e del rispetto reciproco vengono considerati

come “specifici di una cultura” e fondamentalmente limitati al mondo occidentale (teoria della

«frontiera culturale»)18. In secondo luogo, è vero che degli individui cresciuti in diverse culture

possano mancare di compassione e di rispetto gli uni verso gli altri (teoria della «incompatibilità

culturale»). Sen prende ad esempio i genocidi, azioni di una comunità contro un'altra. La capacità

di capire e di interpretare potrebbe interrompere ogni azione impulsiva. Spesso si sente dire, ad

esempio, che le civiltà non occidentali sono sprovviste di questo spirito critico e analitico, essendo

così straniere rispetto al “razionale occidentale”. Lo stesso succede per il “liberalismo occidentale”

e le «nozioni occidentali di diritto e di giustizia, così come affermato anche da Gertrude

Himmelfarb.

Prendiamo ad esempio il concetto di libertà individuale19, spesso considerato parte integrante del

liberalismo occidentale. L'Europa moderna e l'America, sin dall'Illuminismo hanno giocato un ruolo

preponderante nell'evoluzione dell'idea di libertà e delle sue diverse forme. Queste idee si sono

diffuse da un paese all'altro in Occidente, ma anche altrove, in un modo paragonabile a quella che

15
Sen A., La democrazia degli altri, Milano, 2004, pp. 35 e ss.
16
Kant postula l'esistenza di un imperativo categorico o voce della coscienza che universalmente in ogni
individuo spinge al rispetto di regole morali universali che si traducono in azioni differenti fra i vari contesti.
Le regole etiche ed estetiche sono le stesse in ogni individuo ed egualmente la loro applicazione: qualunque
individuo purché razionale, nella stessa situazione, avrebbe fatto la stessa cosa e considerato bella una certa
opera.
17
Rawls J., A theory of justice, Harvard, 1971.
18
Sen A., Identity and violence, cit., pp. 68 e ss.
19
Ibid., 85 e ss.
fu l'espansione industriale e tecnologica. Considerare le idee liberali come dei prodotti

dell'Occidente non ne impedisce l'adesione in altre zone geografiche. La nozione di libertà

individuale20 viene spesso utilizzata come criterio di classificazione e considerata come facente

parte di una eredità occidentale. Certo si trova facilmente nei grandi testi classici occidentali

l'espressione di una apologia della libertà individuale, come ad esempio, in Aristotele, anche se era

riservata agli uomini (esclusi quindi le donne e gli schiavi). Ma tale valore si può riscontrare anche

in parte della letteratura non occidentale. La conseguenza della supremazia occidentale in tema di

libertà è che le altre culture e tradizioni vengono spesso identificate e definite in opposizione al

modello occidentale. Per il fatto che esistono in Asia molti sistemi di valori e di tipi di

ragionamento, i “valori asiatici” possono essere definiti in mille modi: selezionando le citazioni di

Confucio, l'impressione è che i valori asiatici veicolano la disciplina e l'ordine, piuttosto che la

libertà e l'autonomia. Come reazione, alcuni asiatici 21 hanno preferito reagire con distanza e

fierezza, piuttosto che con risentimento, alla pretesa supremazia dell'Occidente. E' così che questa

pratica di conferire un'identità per opposizione, si perpetua, incoraggiata sia dai tentativi degli

occidentali di stabilire la loro propria identità, sia da quelli, contrari, degli asiatici di stabilire la

propria.

Mettere in questo modo l'accento su ciò che altrove differisce dal modello occidentale, può rivelarsi

di un'efficacia temibile e generare delle distinzioni artificiali.


20
Copiosissima è la letteratura sulla libertà individuale. Vedi ad esempio – solo per citarne alcuni - Berlin, I.,
Two Concepts of Liberty, Berlino, 1969; Berlin, Four Essays on Liberty, Oxford 1969; Bobbio, N., Scarpelli,
U., Passerin d'Entrèves, A. e Oppenheim, F., Libertà come fatto e come valore, in Rivista di Filosofia, 56, pp.
335-54; Rawls, J. (1982), The Basic Liberties and their Priority, in Rawls, Political Liberalism, New York
1993, pp. 289-371.

21
Nessuno nega che la nozione di "valori asiatici" abbia tuttora un ruolo centrale nel discorso accademico e
non accademico contemporaneo. Tuttavia sorgono vari problemi nel momento di proporre una definizione
teorica appropriata di questa nozione. I valori asiatici hanno origine nel campo politico, anche se il dibattito
successivo è stato condotto altresì dalla comunità scientifica internazionale allo scopo principale di
investigare se tale nozione sia sostenibile a livello teorico e quali siano le sue caratteristiche principali.
Proponendo la nozione di valori asiatici, i suoi sostenitori sottolineano l'esistenza di una "identità comune"
agli abitanti dei diversi paesi della regione asiatica, e così facendo hanno bisogno di un concetto
fondamentale di "Asia" contrapposto a quello di "Occidente". In questo senso il discorso sui valori asiatici
può essere sicuramente interpretato nel contesto del noto dibattito su orientalismo e occidentalismo che ebbe
inizio alla fine degli anni settanta con l'opera pionieristica di Said E., Orientalism, New York, 1978.
Ma in realtà è difficile sostenere la tesi di una opposizione radicale tra Oriente e Occidente.

Una volta accettata l'idea che molte delle nozioni considerate come fondamentalmente occidentali

possono ritrovarsi in altre civiltà, allora si vede bene che queste nozioni non sono specifiche di una

sola cultura.

Troppo spesso viene esaltata solo la libertà di scelta dell'economia di mercato. Meno

frequentemente ci si sofferma sulle reali condizioni di tale libertà. Eppure la libertà sostanziale è la

sfida che l'economia di mercato ha di fronte a sé per non essere iniqua. Tuttavia anche la libertà

sostanziale non può essere definita una volta per tutte: intervengono qui valori morali e culturali

raramente presi in considerazione dagli economisti, convinti perlopiù che la massimizzazione dei

profitti sia universale. Non solo contesti storici diversi impongono una comprensione differente del

successo economico e del senso di equità. Secondo Sen è sempre necessario mantenere una doppia

ottica sull’azione politica o sociale: non solo gli aspetti economici di vantaggio nel breve termine,

ma anche monitorare le eventuali conseguenze collaterali nel lungo termine.22

Partendo da un esame critico di Economia del benessere, che ha portato fra l'altro alla definizione di

un indice di povertà largamente usato in letteratura, Sen ha sviluppato un approccio radicalmente

nuovo alla teoria dell'eguaglianza e delle libertà. In particolare, Sen ha proposto le due nuove

nozioni di capacitazioni e funzionamenti come misure più adeguate della libertà e della qualità della

vita degli individui. La capacitazione23 è la libertà di realizzare diversi tipi di vita alternativi, dove

la dimensione relazionale è importante, perché è il luogo dove si esercitano le capacitazioni, lo

sviluppo umano, la libertà, la vita civile, il consumo di beni creativi e stimolanti. L’economista

riassume tutto questo con la definizione “fioritura umana”, dove il benessere di una società è

proporzionale alla quantità di scelte possibili, di libertà godibili e consentite dalle leggi.

22
Sen A., Development as Freedom , cit., pp. 11 e ss. Sen A., Well-being, agency and freedom, in The
Journal of philosophy, 1985, 4, pp.169-221.
23
Smith A., The Theory of Moral Sentiments, 1759.
Gli utilitaristi difendono il principio delle "utilità" di tutti gli individui. Rawls la descri ve come un

paniere di beni primari di cui tutti dovrebbero disporre come dotazione iniziale e Dworkin ne parla

in termini di risorse24. Sen propone invece di studiare la povertà, la qualità della vita e

l'eguaglianza non solo attraverso i tradizionali indicatori della disponibilità di beni materiali

(ricchezza, reddito o spesa per consumi), ma soprattutto analizzando la possibilità di vivere

esperienze o situazioni cui l'individuo attribuisce un valore positivo. Non solo, quindi, la possibilità

di nutrirsi e avere una casa adeguata, ma anche essere rispettati dai propri simili, partecipare alla

vita della comunità ecc25.

I funzionamenti sono invece le esperienze effettive che l'individuo ha deciso liberamente di vivere,

ciò che ha scelto di fare o essere.

L’approccio di Sen ha convinto molti studiosi a considerare i tradizionali indicatori monetari del

benessere (indici di povertà e diseguaglianza basati sul reddito o sulla spesa per consumi) come

misure incomplete e parziali della qualità di vita di un individuo. Il grado di eguaglianza di una

determinata società storica dipende dal suo grado di idoneità a garantire a tutte le persone una serie

di capabilities di acquisire fondamentali funzionamenti, ossia un’adeguata qualità della vita

generale, cioè non ristretta entro parametri strumentali o economici.

Fedele a questa impostazione, Sen è giunto a tratteggiare una teoria dello sviluppo umano in termini

di libertà (development as freedom). E, nel fare ciò, si è direttamente riallacciato alla tradizione

greca, inaugurata da Aristotele, dell’eudaimonìa: l’espressione greca eudaimonìa non corrisponde

affatto alla sua usuale traduzione inglese in happiness (felicità), ma ha piuttosto a che vedere col

termine fulfillment, che vuol dire realizzazione completa di sè e che può essere resa con la bella

immagine di una “vita fiorente” (flourishing life), ossia di una vita che fiorisce in tutte le sue

potenzialità.

24
Sen A., intervista a Il Sole 24 ore, 21 febbraio 1989.
25
Grossi P., I diritti di libertà ad uso di lezioni, cit.
L’eudaimonìa quale la intende Sen si contrappone direttamente al vecchio ideale di Welfare

economics, che bada soltanto al benessere materiale: ma Sen si oppone anche alla formulazione

monistica che dell’eudaimonìa ha dato lo stesso Aristotele. Secondo Sen, infatti, l’eudaimonìa deve

portare ad uno sviluppo pluralistico, per cui “esiste una pluralità di fini e di obiettivi che gli uomini

possono perseguire”. L’errore commesso da Aristotele sta nell’aver individuato una “lista” di

funzionamenti universalmente valida, trascurando di fatto l’individuo. Secondo Sen, invece,

essendo tanti i fini e gli obiettivi che ciascun individuo può legittimamente perseguire, anche le

capabilities sono una pluralità.

Le considerazioni di Sen si riflettono quindi, più in generale sul concetto di razionalità. Le ragioni

per apprezzare qualcosa non sono soltanto economiche. Sen attacca l'idea della razionalità che

coincide con la massimizzazione dell'interesse personale, ritenendola poco adatta a spiegare il

comportamento effettivo dei consumatori e degli attori economici. Argomenta Sen: “Chi sostiene la

visione della razionalità come massimizzazione del proprio interesse si richiama in genere alle

classiche considerazioni di Adam Smith sull'homo aeconomicus”. L’approccio di Sen è di tipo del

tutto idealistico su base solidaristica; egli continua a sottolineare la responsabilità delle parti sociali

forti nel riconoscere una necessità di “concessione” nei confronti dei più deboli. Sen giunge alla

stessa maturità di26 Grossi, che manifesta senza reticenze: “la felicità è in primo luogo il frutto

culturale dell’individuo che manifesta le proprie esigenze con cognizione di causa e con la

maturata capacità di gestire con buon senso la propria libertà, fino a giungere ad un ruolo in veste

di animale sociale del tutto coerente sia con il proprio istinto di sopravvivenza, sia con quell’istinto

di condivisione e compassione professato da Dio che si sostanzia nella locuzione ama il tuo

prossimo come te stesso”.

Sen mostra che etica ed economia sono due discipline che devono sorreggersi a vicenda. Per inciso,

la critica di Sen27 nei confronti dei teorici dell’etica si rivela del tutto coerente, poiché è evidente

26
Sen A., Rationality and Freedom, Harvard, 2002.
27?
Sen A., Rationality and Freedom, cit., p. 86.
che questa disciplina non è stata ancora in grado di affermarsi in modo dignitoso senza dipendere

dalla filosofia. L'analisi economica, al contrario,28ha una dignità tutta sua, specialmente quando

insiste sulla valutazione delle conseguenze nel teorema fisico di azione e reazione. Sen, da buon

economista, non abbandona il consequenzialismo, la considerazione dei risultati. Anzi, questa

capacità di valutare realisticamente parte da Rawls ed è per Sen decisiva: a partire dalla meditazione

dell'opera rawlsiana, Sen comincia a mutare il suo percorso teorico in una direzione etico-

umanistica. L'economia, in questa prospettiva, non è più (solo) una scienza descrittiva, ma diventa

una “scienza normativa” che spiega anche come dovrebbero essere regolati i fenomeni economici.

Sen osserva che:

1. la globalizzazione è il nostro mondo-ambiente, la sfera all'interno della quale ci muoviamo.

Persino chi la contesta radicalmente, come ad esempio i movimenti no-global, in realtà la

utilizza come strumento. La protesta antiglobalizzazione di questi movimenti è pur sempre

una protesta globalizzata;

2. la globalizzazione è un sistema aperto e, come tutti i sistemi aperti, ha la qualità di essere

autocorrettivo: alcune istanze etiche presenti nei movimenti no-global possono essere

incorporate nel sistema e produrre dei cambiamenti;

3. la globalizzazione è una modalità di interazione sociale che può essere liberamente

modellata e le sue dinamiche evolutive dipendono dalle nostre decisioni;

4. la libertà è l'ideale regolativo che dobbiamo adottare nel nostro sforzo di correggere gli

effetti negativi della globalizzazione (iniqua distribuzione delle ricchezze, esclusione

sociale);

5. tutte le istituzioni (il mercato, lo stato, i media, i partiti politici, le scuole, le organizzazioni

non governative) devono concorrere all'accrescimento delle libertà degli individui e potremo

28?
Rawls J., A Theory of Justice, cit.
parlare di autentico sviluppo globale qualora riusciremo a realizzare una effettiva

promozione di ogni forma di libertà politica e sociale. Abbiamo il dovere di non rassegnarci

fatalisticamente29.

Secondo Sen vi sono due diverse concezioni della libertà: la prima interpretata in senso positivo

“riguarda ciò che, tenuto conto di tutto, una persona può o meno conseguire” 30 ; la seconda, intesa

in senso negativo, “si concentra precisamente sull’assenza di una serie di limitazioni che una

persona può imporre a un’altra (o che lo Stato o altre istituzioni possono imporre agli individui)”31.

Su questo punto Sen abbozza una teoria dei diritti umani, distinguendo i due aspetti della libertà:

quella concessa dall’alto e quella che il singolo individuo deve essere in grado di gestire. Sen, pur

affermando l’importanza delle due libertà (perché entrambe necessarie all’emancipazione ed

all’affermazione dell’individuo nella società), è tuttavia convinto che l’intervento dello Stato, in

certe situazioni, si configuri come l’unico elemento in grado di salvaguardare in maniera sostanziale

le libertà positive: è il caso delle carestie avvenute nel paese natale dell’autore, l’India, dove un

sistematico intervento pubblico, consistente principalmente nell’attuazione di politiche economiche

basate su forme di integrazione di reddito delle fasce più vulnerabili della popolazione ha consentito

di limitare gli effetti atroci di queste situazioni che, come avverte lo stesso Sen, “sono avvenute

quando la disponibilità di cibo era al suo massimo livello”32 .

L’autore prosegue la sua analisi, focalizzando l’attenzione sul rapporto evidente che intercorre tra

l’intervento statale nell’erogazione di servizi pubblici e il tasso di mortalità: “gli uomini hanno

meno probabilità di raggiungere i quaranta anni nei sobborghi neri di Harlem a New York che

nell’affamato Bangladesh”33; e ciò si spiega senz’altro per le politiche pubbliche americane in

29
Sen A,, Rationality and Freedom, cit., p. 28
30
Ibid., p. 9.
31
Ibid., p. 10.
32
Ibid., p. 14.
33
Ibid., p. 32.
materia di sanità. Ciò che Sen rende evidente è il modo in cui uno Stato, con le sue scelte sociali 34,

influisce sulle libertà dell’individuo, in base ad una scala di valori che saranno (o così dovrebbe

essere), in un paese democratico nel costante confronto tra forze politiche diverse. Sen sostiene con

decisione la tesi secondo la quale la democrazia, e soprattutto un uso corretto degli efficaci mezzi di

comunicazione di massa capaci di sensibilizzare l’opinione pubblica, siano strumenti fondamentali

per garantire ed estendere le libertà dell’individuo: “se le notizie di carestie, pubblicate sui giornali,

sconvolgono il pubblico e mettono sotto pressione il governo, questo avviene proprio perché le

persone si interessano a quanto succede agli altri”35.

Sulla stessa linea prosegue Sen quando analizza il rapporto tra l’impegno sociale ed i doveri di

rigore e conservatorismo finanziario volti a non eccedere nella spesa pubblica 36: da un lato, quindi,

l’impegno della società a raggiungere un’eguaglianza sostanziale di tutti gli individui, e dall’altro,

la costante preoccupazione dei governi di tenere sotto controllo il bilancio dello Stato.

Dopo aver accennato all’importanza dei movimenti socialisti sorti come critica al capitalismo e al

conseguente rischio che la prosperità economica possa avvantaggiare solo alcuni ceti sociali, Sen

critica le scelte monetarie e fiscali europee degli anni Novanta. Tali scelte puntavano

sostanzialmente all’eliminazione dell’inflazione, con la chiara conseguenza della rinuncia a

politiche fondamentali di impegno sociale37.

Il rapporto tra disoccupazione ed impegno sociale è stato analizzato da diversi studiosi, tra i quali il

sociologo Zygmunt Bauman38, il quale, come Sen, afferma che in Europa sia scomparso il dovere di

34
Si ricorda che in uno stato democratico i rappresentanti del popolo vengono direttamente eletti dallo stesso.
Pertanto, è il popolo che necessita di consapevolezza circa le proprie azioni e non viceversa. Differente i il
discorso per ciò che concerne gli stati totalitari o dittatoriali.
35
Ibid., p. 42.
36
Ibid., pp. 45 ss.
37
Ibid., p. 78.
38
Zygmunt Bauman è un sociologo britannico di origini ebraico-polacche. Dal 1971 al 1990 è stato
professore di Sociologia all'Università di Leeds. Egli ha scritto innumerevoli saggi sociologici.
protezione sociale verso le fasce più deboli della popolazione: svilimento delle tutele del lavoratore,

precariato e terziarizzazione esasperati sarebbero prove a conferma di tale situazione.

L’estremismo nelle scelte finanziarie degli Stati non deve ridimensionare quelle priorità sociali

(salute, istruzione, libero accesso alle posizioni sociali, uguaglianza di capacità), che fungono da

sistemi di bilanciamento e di garanzia delle libertà e dei diritti fondamentali. Una politica

unidirezionale porta ad esiti rovinosi che non possono durare a lungo: Sen porta l’esempio di Chirac

e degli interventi sulle spese sociali che il suo governo intraprese senza alcuna preventiva

consultazione con le parti interessate. Una politica di tal genere è anche il frutto dell’eccessivo

potere dato ai tecnocrati: il loro operato non può essere d’impedimento alla realizzazione degli

obblighi sociali. È questo il messaggio finale che ci consegna l’autore, avvertendo nel contempo che

le scelte dei governi non possono essere disgiunte dal confronto sociale e dalla concertazione.

Sen39 si pone l’interrogativo se anche multiculturalismo non contenga un tranello, cioè, invece di

porre sullo stesso piano le diverse culture, non si finisca invece per cristallizzarle, in modo non

soltanto formale, ma sostanziale, al fine di riprodurre invece proprio l'ostilità tra le culture. “La

tragedia”, scrive Sen “è che, quando lo slogan del multiculturalismo ha guadagnato terreno, è

aumentata anche la confusione su quali fossero i suoi requisiti. La prima confusione è quella tra il

conservatorismo culturale e la libertà culturale. Essere nati in una particolare comunità non è di

per sé un esercizio di libertà culturale, dal momento che non è una scelta. Al contrario, la decisione

di restare saldamente all’interno della tradizione sarebbe un atto di libertà se la scelta fosse fatta

dopo aver preso in esame diverse alternative. Nello stesso modo, la decisione di allontanarsi - di

poco o di molto - da schemi di comportamento tradizionali, presa dopo un’attenta riflessione,

sarebbe anch’essa un atto di libertà multiculturale. I leader politici ora si rivolgono spesso ai

diversi gruppi di appartenenti alla stessa religione come a comunità separate. I portavoce religiosi

39
Dall’intervista ad Amartya Sen pubblicata su La Stampa, 23 gennaio 2006.
dei gruppi di immigrati vengono presi in considerazione - e hanno accesso ai corridoi del potere -

come mai prima d’ora”40.

Essendo il globalismo basato sul multiculturalismo, sull'interpenetrazione dei destini, nasce una

responsabilità di tutti verso tutti. Una nuova responsabilità sociale, economica ed ecologica con una

rinvigorita responsabilità civica. E questo è un processo irreversibile. Il ruolo del pensiero è quello

di farla propria e di umanizzarla. Globalità vuol dire fondamentalmente estensione della

responsabilità, perché nell'epoca della velocità elettrica siamo tutti vicini e il problema di un vicino

è anche un mio problema, sia che si parli di politica, di diritti umani, di economia, di guerra e di

privilegi41. La globalizzazione si presenta sia come mezzo di apertura delle coscienze, in quanto la

percezione della moltitudine simultanea di individui diventa molto più tangibile rispetto al passato

(grazie soprattutto all’impiego massiccio dei mass-media), sia come strumento di schiavitù, in

quanto gli stessi mezzi di comunicazione vengono monopolizzati sempre più articolatamente dalle

classi di potere che non sono più piccoli gruppi dirigenti nazionali, ma sono diventati organismi

molto più complessi, a forma di “reticolo” sull’intero pianeta. In questo senso 42 è possibile

affermare una “metamorfosi globalizzante” delle classi dirigenti di tutti gli Stati mondiali. La

discussione sulla globalizzazione provoca un interesse rinnovato per quello che si è soliti chiamare

lo "scontro delle civiltà", secondo la definizione proposta da Samuel Huntington nel suo celebre e

ambizioso The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, pubblicato cinque anni

prima degli attentati al World Trade Center. Parecchi commentatori, hanno subito intravisto uno

stretto legame tra i conflitti globali e i confronti tra civiltà diverse (ad esempio, tra la civiltà

"occidentale" e quella "islamica"). Questa tesi presenta un interesse epistemico per l'enorme

importanza che la questione ha sull'agire politico nel mondo contemporaneo. La tesi dello scontro

delle civiltà può essere indicata come la categorizzazione della popolazione mondiale secondo un

40
Da un’intervista Amartya Sen del settembre 2002 pubblicata sulla rivista online Micromega,
www.micromega.repubblica.it
41
Sen A., Identity and Violence. The Illusion of Destiny W&W Norton, New York, 2006.
42
Sen A., Identity and Violence.The Illusion of Destiny, cit.,p. 8.
unico sistema di classificazione, che opera scegliendo quello che sarebbe un tratto predominante e

distintivo. Sen spiega: “Considerare una persona soltanto, o anche soprattutto, come membro di

una cosiddetta civiltà (ad esempio, per riprendere le categorie di Huntington, un membro del

"mondo occidentale", del "mondo islamico", del "mondo induista", del "mondo buddista"…) già

significa ridurre la gente a una sola dimensione. Incasellare storie differenti sociali e individuali,

miniaturizzandole in pochi accenni, è un esempio di quello che l’autore chiama “solitarismo”: un

approccio che considera gli esseri umani come membri di un solo gruppo, anziché persone

”diversamente differenti”. I rischi del solitarismo sono legati allo sviluppo della violenza.

Promuoverla è molto facile, quando ci si basa su «un sentimento di inevitabilità riguardo a una

qualche presunta identità unica – spesso belligerante – che noi possederemmo. La storia dei

conflitti religiosi è lì a dimostrarlo: molte carneficine hanno tratto impulso da un comportamento

connivente del gregge, indotto a scoprire e identificarsi in un’identità che non può essere

contraddetta e che non lascia possibilità di scelta”.

Sen precisa che nessuna di queste collettività può essere considerata come la sola identità della

persona o come il suo solo gruppo di appartenenza. Data la nostra inevitabile identità multipla,

dobbiamo stabilire l'importanza relativa delle nostre associazioni e delle nostre affiliazioni in un

dato contesto. Centrale nella vita umana è dunque – secondo Sen - la responsabilità di scelta e di

ragionamento, che può essere considerata sia un diritto sia un dovere 43. Viceversa, la violenza è

alimentata dal coltivare il senso di inevitabilità di un'identità unica. Purtroppo, molti onesti tentativi

di arrestare la violenza sono penalizzati dalla percezione che non è dato scegliere la propria identità .

L'etica sociale - dice Sen - può svolgere un ruolo essenziale nell'arrestare questa tendenza a

fomentare il terrorismo e l’antiterrorismo stesso. Il concetto di diritti umani può contribuire a

43
A questa conclusione giunge parimenti P. Grossi, in I diritti di libertà ad uso di lezioni, cit., dove al
concetto di libertà appunto associa quello di responsabilità, sostenendo che non è sufficiente voler essere
liberi, ma è necessario essere in grado di esserlo. Avendone gli strumenti, il diritto di libertà si trasforma
automaticamente nella più grande delle responsabilità.
riconoscere il diritto delle persone di scegliere le proprie priorità come vogliono. Questa potrebbe

essere una nuova voce da aggiungere ai diritti umani.

Sen alterna capitoli di maggiore impegno teorico-normativo (che toccano il plesso concettuale

democrazia - liberalismo - diritti umani) a capitoli che trattano temi di carattere prettamente

economico (come la produzione alimentare o l'efficienza dei mercati). In “Libertà è sviluppo”, Sen

fornisce utili spunti di riflessione. Sen difende l'idea di diritti umani ed argomenta l'impiego della

ragione per promuovere il progresso sociale.

In particolare, sono interessanti le repliche di Sen alla classica nozione di diritto umano, secondo

cui gli individui non nascono già "vestiti" di diritti. Secondo Sen i diritti umani sono essenzialmente

"rivendicazioni etiche", che, come tali, non debbono necessariamente essere identificate con diritti

esplicitamente riconosciuti da un sistema giuridico; in secondo luogo, vanno visti come richieste

generiche rivolte a chi sia in grado di fare qualcosa per renderli effettivi (a questo proposito Sen

recupera la nozione kantiana di "obbligo imperfetto"); infine, compaiono non solo nelle tradizioni

occidentali, ma anche in quelle asiatiche: “Lo sviluppo umano può essere visto come un processo di

espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani e pertanto si richiede che siano eliminate le

principali fonti di illibertà: la miseria come la tirannia, l'angustia delle prospettive economiche

come la deprivazione sociale sistematica, la disattenzione verso i servizi pubblici come

l'intolleranza o l'autoritarismo di uno stato repressivo44". La libertà effettiva è dunque il criterio in

base sul quale orientare le politiche pubbliche.

Sen argomenta questa idea con un esempio: "un benestante che digiuni [...] può anche funzionare,

sul piano dell'alimentazione, allo stesso modo di un indigente costretto a fare la fame, ma il primo

44
Ibid., p. 9.
ha un "insieme di capacitazioni" diverso da quello del secondo (l'uno può decidere di mangiar bene

e nutrirsi adeguatamente, l'altro non può45".

In Inequality Reexamined Sen si muove sul terreno più vasto della filosofia politica e dell'etica

pubblica. I riferimenti sono a John Rawls 46, Bemard Williams47, John Harsanyi48, Robert Nozick49,

Ronald Dworkin50, James Buchanan51, tutti studiosi - alcuni filosofi, altri economisti - che si sono

occupati di un problema normativo di vastissima portata: quello di stabilire quali siano i criteri

generali per valutare il grado di giustizia delle società in cui viviamo. Un terreno che, com'è noto,

non è affatto estraneo alla scienza economica, visto che essa, attraverso il welfare economics52, ha

inglobato nella sua parte più squisitamente normativa i principi di quello che storicamente è stato il

primo vero tentativo organico di formulare un'etica pubblica: l'utilitarismo di Jeremy Bentham.

Le istituzioni e le politiche pubbliche, sosteneva Bentham sul finire del XVIII secolo, devono essere

valutate, e se necessario criticate e riformate, sulla base del "principio della massima felicità per il

maggior numero". Questo principio, variamente ridefinito e rielaborato, ha dominato lo spazio

morale dei paesi di lingua inglese per due secoli, finché non è stato messo in discussione nel 1971

dal testo di Rawls A Theory of Justice, cui è seguito un ampio dibattito tuttora in corso, di cui Sen è

uno dei protagonisti. Ciò che Amartya Sen si propone di porre al centro della propria riflessione è la

discussione sulla disuguaglianza53, letta però in una nuova direzione che si contrappone a quelle

tradizionali: l’idea di disuguaglianza (inequality) deve confrontarsi con due diversi ostacoli: la

45
Ibid., p. 81.
46
Rawls J., A Theory of Justice, cit.. Dworkin R., Taking Rights Seriously, Cambridge Mass., 1977.
47
Il filosofo morale di Oxford con cui Sen ha curato la celebre raccolta di saggi Utilitarianism and Beyond,
Cambridge 1982.
48
Harsanyi J. L'utilitarismo, raccolta di saggi a cura di S. Morini, Milano 1988.
49
Nozick R., Anarchy, State and Utopia, New York 1974.
50
Dworkin R., cit.
51
Buchanan J., Freedom in Constitutional Contract, Londra, 1977.
52
Ramo della scienza economica che si occupa delle tecniche e dei principi volti a massimizzare il benessere
collettivo di una società.
53
Sen A., Inequality Reexamined, cit., pp. 18 ss.
sostanziale eterogeneità degli esseri umani e la molteplicità dei punti focali dai quali la

disuguaglianza può essere oggetto di valutazione.

Al di là della “potente retorica dell’uguaglianza”, che trova il suo apice nella nota asserzione per

cui “tutti gli uomini nascono uguali”, Sen è convinto che gli individui siano del tutto diversi gli uni

dagli altri e che, dunque, il pur ambizioso progetto egualitario debba muoversi “in presenza di una

robusta dose di preesistente disuguaglianza”. Sen è d’altro canto convinto che la misurazione della

disuguaglianza dipenda dalla variabile focale54 (felicità, reddito, ricchezza, ecc) attraverso cui si

fanno i confronti: la misurazione della disuguaglianza dipende cioè dai parametri assunti per

definirla. La prima conseguenza di ciò sta nel fatto che, se tutte le persone fossero identiche,

l’eguaglianza in una sfera (ad esempio nelle opportunità o nel reddito) tenderebbe ad essere

coerente con eguaglianze di altre sfere (ad esempio, l’abilità di funzionare). Ma poiché le persone

non sono affatto identiche, ne segue che l’eguaglianza in una sfera tende a coesistere con

disuguaglianze in altre sfere: così, ad esempio, redditi uguali possono coesistere con una forte

disuguaglianza nell’abilità di fare ciò che si ritiene importante (un sano e un malato, pur avendo lo

stesso reddito, non possono fare le stesse cose).

La seconda conseguenza fondamentale scaturisce dal fatto che la misurazione della disuguaglianza

dipende dai parametri assunti per definirla. Ciò vuol dire che per poter parlare di eguaglianza

occorre preventivamente porsi il duplice quesito: a) why equality?55 (“perché eguaglianza?”); b)

equality of what? (“eguaglianza di che cosa?”). Non si può infatti pretendere di difendere

l’eguaglianza (o di criticarla) senza sapere quale sia il suo oggetto, ossia quali siano le

caratteristiche da rendere uguali (redditi, ricchezze, opportunità, libertà, diritti, ecc). Interrogarsi
54
La scelta della variabile focale è senza dubbio critica: vista la diversità degli esseri umani, il
raggiungimento dell’equità in base ad una data variabile implica delle iniquità sotto altre dimensioni. Ma le
molteplici teorie a riguardo non concordano su quale sia tale variabile rilevante.
55
Nussbaum – Sen (a cura di), Equality of what? On welfare, goods, and capabilities, The quality of life,
Oxford, 1993, pp. 9-30.
sull’uguaglianza significa dunque innanzitutto interrogarsi su quali siano gli aspetti della vita umana

che debbono essere resi eguali.

La storia della filosofia ci offre una molteplicità di esempi diversi di soluzioni: Rawls 56 descrive

l’eguaglianza come un paniere di beni primari di cui tutti gli individui dovrebbero disporre;

Dworkin57 come eguaglianza di risorse; gli utilitaristi come eguale considerazione delle preferenze

o delle utilità di tutti gli individui.

Rendendo il fattore umano centrale rispetto ai fenomeni economici, Sen parte da un esame critico

dell'economia del benessere, che lo porta fra l'altro alla definizione di un indice di povertà che viene

largamente usato in letteratura: l'HDI, Human Development Index, ossia il coefficiente di

misurazione del grado di sviluppo. Questo introduce nuovi parametri per valutare la reale ricchezza

di un Paese: aspettativa di vita, alfabetizzazione degli adulti, distribuzione del reddito.

Sen collega il valore eguaglianza al valore libertà: quest’ultima è da lui connessa ai concetti di

“funzionamenti” e “capacità”. Non è un caso che, in origine, Sen voleva che l’opera La

diseguaglianza fosse intitolata Eguaglianza e libertà.

Amartya Sen è un convinto assertore della democrazia quale discussione pubblica. Non il diritto di

voto, non il diritto ad essere eletti, ma il diritto di esprimere opinioni e proposte, e, quando occorra,

anche protestare, poichè la definizione delle capacità irrinunciabili può essere stabilita soltanto

mediante la discussione pubblica, e non una volta per tutte in sede teorica. Questa è la differenza tra

una vera democrazia ed un regime autoritario.

56
Rawls, J., A theory of justice, cit., pp. 441 e ss.
57
Dworkin, R., What is equality? Part I: Equality of welfare, in "Philosophy and Public Affairs", 1981, 10,
pp.183-245
Negli scritti sull'India queste riflessioni acquistano una grande concretezza. Inevitabilmente, le

società libere, dove le opinioni circolano insieme alle informazioni, e queste ultime vengono da più

fonti, sono meno esposte al rischio di crisi e catastrofi. Terremoti ed epidemie comprese. Se in Cina

ci fosse stata democrazia, dice Sen, la Sars non avrebbe fatto i danni colossali che conosciamo.

Criminale quel ministro della sanità che nascose le informazioni. Mai sufficientemente criticato

quel regime e quel costume politico che rese possibile la cosa. Ma la democrazia, così intesa, dice

Sen, non è affatto un'invenzione occidentale. Esisteva in Africa, in Cina, nell'India dell'imperatore

buddhista Asoka: “Indubbiamente la tolleranza è stata in gran parte una caratteristica significativa

della politica occidentale (tralasciando le estreme aberrazioni della Germania nazista e

l'intollerante amministrazione degli imperi inglese, francese e portoghese in Asia e Africa).

Tuttavia qui non c'è affatto un grande spartiacque che divida la tolleranza occidentale dal

dispotismo non occidentale”.

La crescita degli elementi essenziali del Dharma (il comportamento corretto nella cultura induista) è

possibile in molti modi. Ma la sua radice sta nel misurato controllo delle parole, in modo che non ci

sia l'esaltazione della propria setta o la denigrazione di altre sette in occasioni inappropriate, e si

deve mantenere un atteggiamento moderato anche nelle occasioni appropriate. Chiarimenti utili a

capire che nelle culture e nelle filosofie degli altri esiste un quantum di tolleranza non inferiore al

nostro. “Di fatto non c'è alcuna testimonianza convincente che il governo autoritario e la

soppressione dei diritti civili e politici favoriscano davvero lo sviluppo economico. Le ricerche sul

campo non offrono alcun sostegno concreto alla tesi dell'esistenza di una contraddizione di fondo

tra diritti civili ed efficienza economica. Il carattere e l'andamento del rapporto sembrano

dipendere da molti altri fattori”. La tesi di Sen è che libertà e democrazia siano valori in sé e

quindi, anche se fosse vero che l'autoritarismo garantisce una maggiore efficienza, non dovremmo

mai avere dubbi su cosa scegliere. Ma, ciò non è. Solo la democrazia e la libertà portano alla

responsabilizzazione diffusa, che è anche la chiave per accettare "la disciplina del lavoro" e quindi
ad una maggiore efficienza, quella garantita dalla responsabilità dei produttori. Non a caso questi

concetti non riescono ad essere confutati da alcuna tesi ragionevole, in quanto – proprio come

afferma Sen – democrazia e libertà vengono percepiti da tutti gli individui – non importa di che

appartenenza politica, religiosa, culturale – come valori assoluti, tali da essere definiti “diritti

umani”.

Diamo uno sguardo all’assetto giuridico italiano ed alla sua storia per vedere come si siano

affermati alcuni diritti di libertà nel nostro ordinamento, ai fini di una comparazione con gli altri

stati di civil law per osservare come questi hanno interagito58. Teniamo a mente che il pensiero di

Amartya Sen proviene da una cultura giuridica prettamente di common law.

La disciplina formale dei diritti di libertà costituiscono due aspetti significativi nella definizione

della forma di Stato. La scelta di riconoscere costituzionalmente le libertà fondamentali e di

predisporre strumenti di garanzia a tutela delle stesse caratterizzano il modo in cui si articolano i

rapporti tra lo Stato e la società civile. L’evoluzione storica delle diverse forme di Stato coincide

con una diversa disciplina dei diritti di libertà.

Nella forma di stato liberale i diritti di libertà erano concepiti come “libertà dallo stato” (libertà

negative) e si configuravano quali strumenti di tutela della sfera di autonomia dei singoli dai

possibili abusi da parte dei pubblici poteri. La codificazione all’interno dei testi costituzionali del

periodo liberale rappresenta la tutela della loro sfera di autonomia e segna il definitivo superamento

della forma di stato assoluto. In Italia, lo Statuto Albertino del 1848 prevedeva un elenco di diritti

(artt. 24-32) in cui era possibile riscontrare gli elementi di una forma di Stato liberale. L’articolo 24

dello Statuto riconosceva una dimensione meramente formale del principio di eguaglianza sancendo

che “tutti i Regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado sono eguali di fronte alla legge. Tutti

De Vergottini G., Diritto costituzionale comparato, Padova, 2007, pp. 81 e ss.; Grossi P., cit., 1991, pp. 135
58

e ss. Si tenta di tracciare il fondamento della faticosa conquista dei diritti di libertà nelle società
contemporanee, cercandone le radici in primis nella storia giuridica italiana e poi successivamente in quella
europea, per poi compararla con l’idea di Sen in relazione ai problemi da lui affrontati.
godono egualmente i diritti civili e politici e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salvo le

eccezioni determinate dalle leggi”.

La previsione riguardava i seguenti temi:

- Articolo 26: Libertà personale;

- Articolo 27: Libertà di domicilio;

- Articolo 28: Libertà di stampa;

- Articolo 32: Libertà di riunione.

Vediamo come questi principi siano poi trasmigrati nella odierna Carta Costituzionale italiana.

L’entrata in vigore della Costituzione repubblicana segna il definitivo e formale superamento della

forma di Stato liberale e l’adozione di un modello di Stato sociale in cui il catalogo dei diritti di

libertà, sino a quel momento costituito dalle sole libertà dallo Stato /libertà negative, si arricchisce

di una nuova dimensione data dalle c.d. libertà positive/ libertà nello Stato, intese come strumenti di

partecipazione attiva di tutti i cittadini alla vita politica e sociale del Paese.

L’articolo 3.2 della Costituzione del 1948 aggiunge all’eguaglianza formale di cui al primo comma,

l’eguaglianza sostanziale. Questa nuova eguaglianza attribuisce allo Stato non solo il compito di

garantire il rispetto delle sfere individuali dei singoli, come già era previsto nello Statuto Albertino,

ma anche quello di impegnarsi concretamente al fine di assicurare a tutti i cittadini un esercizio

effettivo delle libertà costituzionali. Il principio di eguaglianza sostanziale ammette dunque

l’esistenza di disuguaglianze di fatto e attribuisce ai pubblici poteri il compito di garantire a coloro

che di fatto risultano diversi dagli altri, di godere degli stessi diritti e di esercitare le stesse libertà.

L’eguaglianza consta nella riserva di legge, che rappresenta oggi un importante strumento

costituzionale garante del fatto che solo il legislatore può porre la disciplina della materia e che

affida unicamente all’autorità giudiziaria la facoltà di imporre limitazioni alle sfere di libertà dei

singoli, nei modi e casi previsti dalla legge.

La previsione della nostra attuale Carta Costituzionale include i seguenti diritti di libertà:
• Libertà personale: art. 13 Cost.;

• Libertà di domicilio: art. 14 Cost.;

• Libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione:

art. 15 Cost.;

• Libertà di circolazione e soggiorno: art. 16 Cost.;

• Libertà di religione: art. 19 Cost.;

• Libertà di manifestazione del pensiero: art. 21 Cost.;

• Libertà di riunione: art. 17 Cost.;

• Libertà di associazione: art. 18 Cost.

Nell'affrontare i profili costituzionali dei diritti di libertà secondo l'approccio tradizionale, in primo

luogo viene da rilevare che nell'articolo 2 della Costituzione c'è scritta l'espressione "doveri .... di

solidarietà". Non intesa come restrizione della libertà di chi deve adempiere a tale dovere, bensì

come condizione per consentire il pieno e libero sviluppo della personalità di tutti. Di qui

l’importanza di una conoscenza sistematica dei diritti umani, premessa indispensabile alla

formazione di una coscienza civile e democratica che superi il livello semplicemente dichiaratorio,

condizione indispensabile per ridurre la frattura tra etica e politica tra assunzione di norme

giuridico-politiche e prassi, tra realtà quotidiane di sistematiche violazioni dei diritti umani e diffusa

sensazione di impotenza. Senz’altro la lontananza tra le sedi di elaborazione dei diritti umani e i

contesti esistenziali ostacola l’affermazione della cultura di tali diritti.

Le attività della Repubblica nei confronti delle persone con disabilità non possono essere finalizzate

soltanto alla sopravvivenza fisica dei destinatari, bensì devono tener conto anche di tutte le altre

esigenze della normale vita quotidiana, incluse prima di tutto quelle riconducibili ai diritti di libertà,

alla tutela dei diritti inviolabili e del pieno sviluppo della personalità previsti nell'articolo 2. Un'altra

questione fondamentale riguarda il secondo comma dell'articolo 3 Cost. che vincola la Repubblica a

rimuovere gli ostacoli che impediscono anche alle persone con disabilità di vivere come gli altri. La
tesi per cui questa norma avrebbe un contenuto esclusivamente programmatico non pare

condivisibile, se non altro perché si tratta di una disposizione che va letta in stretta relazione con

l'inviolabilità e l'inderogabilità dell'articolo 2. Per cui, lungi dall'essere puramente programmatica,

la disposizione del comma 2 citato è anche precettiva e obbliga la repubblica ad agire tramite i suoi

organi, soprattutto legislativi, "in un dato modo e entro certi limiti" per "il conseguimento di

determinati fini". Tanto è vero che il comma 2 citato viene giustamente inteso anche come dovere di

dare la più ampia realizzazione alle possibilità di vivere i diritti di libertà. Inoltre, se si vuol

comunque attribuire un contenuto programmatico sia al comma 2 dell'articolo 3 che al comma 1

dell'articolo 38 della Costituzione, anche se queste norme non vincolano l'azione propositiva del

legislatore, in ogni caso vietano a questo l'emanazione di disposizioni che perseguono obiettivi

contrastanti con quelli indicati dal costituente.

Va ricordato che il supremo principio di eguaglianza previsto nel comma 1 dell'articolo 3 della

Costituzione vieta sicuramente discriminazioni nei confronti delle persone con disabilità. Sempre

restando al comma 1 dell'articolo 3, va evidenziato che questo impone di non trattare tutti allo

stesso modo, bensì di "disciplinare in maniera ragionevolmente diversa situazioni oggettivamente

differenti”. Può esserci pieno rispetto del principio di eguaglianza soltanto se tutti hanno pari

opportunità di esercitare i diritti inviolabili e senza discriminazioni.

L'inviolabilità da cui sono caratterizzate queste libertà, sta a significare che esse sono così

importanti da non poter essere ridotte neppure in un'eventuale sede di revisione costituzionale59.

In ogni caso, la dottrina è unanime sul fatto che il legislatore ordinario non può comunque

comprimere le possibilità che hanno le persone di esercitare i diritti inviolabili 60. Da ciò scaturisce il

fatto che, nella misura in cui le necessità delle persone con disabilità sono riconducibili

59
La Costituzione non promette l'effettiva uguaglianza di tutti i cittadini sul piano economico e sociale, ma
impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, in altre parole ad intervenire
attivamente per fornire ai soggetti più deboli i mezzi per esercitare effettivamente i propri diritti prevedendo
leggi speciali a favore delle categorie più deboli.
60
Sentenza della Corte Costituzionale n. 3 del 26.01.1957
all'inviolabilità delle libertà, i servizi pubblici finalizzati a questo non possono essere ridotti per

necessità di bilancio. Infatti le necessità di bilancio sono stabilite dalle maggioranze politiche, e far

dipendere le libertà da queste maggioranze, oltre ad essere eticamente orribile e giuridicamente

riconducibile a regimi dittatoriali, è incompatibile con l'inviolabilità di dette libertà.

Il punto è che in tema di esigenze fondamentali della vita prima si determina il bisogno, e poi il

bilancio va adeguato ad esso perché far dipendere la possibilità di godere effettivamente di taluni

diritti dall'utilità complessiva della collettività significa subordinare il diritto all'economia, mentre

diritto vuol dire tutela delle minoranze contro la maggioranza. I diritti non possono essere limitati

per ragioni utilitaristiche o tesi maggioritarie. Uno stato civile deve puntare non alla governabilità a

tutti i costi, bensì ad essere funzionale al benessere e alla felicità della popolazione. Perché il

nocciolo del problema non è certamente nuovo, ed è riconducibile alla questione se le persone con

disabilità hanno diritto di vivere anche se questo costa molto.

Un altro aspetto connesso con l'articolo 2 riguarda il fatto che in esso è previsto il pieno sviluppo

della persona umana. Poiché per realizzare questo sviluppo per le persone con disabilità sono

necessari più servizi che per le persone normodotate, a seguito del supremo principio di

eguaglianza, risulta evidente l'imperatività di adoperarsi maggiormente per la creazione di servizi

destinati a chi ha delle menomazioni prima che per quelli destinati al resto della popolazione.

Viste quindi le numerose inadempienze del legislatore in tema di libertà, diventa di rilievo il fatto

che, mentre l'aspetto "negativo" di queste può essere comunque tutelato dall'intervento della Corte

costituzionale, per l'aspetto "positivo" delle medesime risulta ancor più imperativa la necessità

dell'intervento del legislatore perché le lacune risultano insuperabili. Tutto ciò può essere ottenuto

soltanto se una norma di legge vincola la pubblica amministrazione a fornire comunque le

prestazioni necessarie all’individuo per espletare le sua libertà, semprechè gli enti preposti siano

dotati di adeguati fondi.


Sempre nell'articolo 2 della Costituzione vi è tutela pure al diritto dell'integrazione sociale delle

persone laddove viene usata la dizione "nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità".

La questione di centrale importanza per l'assistenza personale alle persone con disabilità è il fatto

che fra le libertà inviolabili c'è senz'altro il diritto di alzarsi la mattina e coricarsi la sera all'ora

preferita, il diritto di poter uscire a fare quattro passi quando se ne ha voglia, il diritto di poter

incontrare liberamente gli amici e il partner, il diritto insomma ad organizzare liberamente la

propria giornata. Negare il diritto di organizzare liberamente la propria giornata significa

comprimere quella che è forse la più importante delle libertà: la libertà personale. Tant'è vero che

un'autorevole e condivisibile giurisprudenza61 sostiene che: "la carenza delle potenzialità fisiche o

l'esistenza di barriere architettoniche o tecnologiche" si risolve "in una concreta menomazione

della libertà personale e di circolazione.". E quindi diventa di rilievo il fatto che l'assistenza

personale serve proprio a procurarsi i supporti umani necessari a sopperire a tali carenze. Volendo

concludere con un esempio significativo si può citare che Rosanna Benzi viveva nel polmone

d'acciaio al pronto soccorso di un ospedale di Genova. Viceversa l'amico Kalle Könkköla, pur

avendo una menomazione non molto diversa, ma disponendo di ben differenti e meno costosi

servizi assistenziali, è stato membro sia del Parlamento che del Consiglio comunale di Helsinki e

viaggia tranquillamente in tutto il mondo, da Vancouver, a Tokio, a Sidney.

Ma diamo uno sguardo al resto del mondo. Nel corso del XX secolo in Europa e nell’America

settentrionale molti gruppi e movimenti riuscirono a ottenere profondi cambiamenti sociali in nome

dei diritti umani, creando un rapido miglioramento delle condizioni di vita. I sindacati dei lavoratori

lottarono per il riconoscimento del diritto di sciopero, per garantire condizioni dignitose di lavoro e

per proibire o limitare il lavoro minorile. Il movimento per i diritti delle donne guadagnò il

suffragio universale. All'indomani della Grande Guerra fu messo in piedi un sistema di protezione

delle minoranze nazionali di razza, di lingua e di religione, grazie al quale molti gruppi lungamente
61
Sent. nn. 215 e 561 del 1987. Sent. n. 38 del 1973.
oppressi riuscirono ad ottenere diritti civili e politici. Nello stesso periodo, i movimenti di

liberazione nazionale poterono affrancare le nazioni colonizzate dal giogo delle potenze coloniali.

Importantissimo in tema di diritti umani fu il movimento non violento del Mahatma Gamdhi che

portò l’India all’indipendenza dal dominio britannico. Con la nascita dell’ONU e la proclamazione

della Dichiarazione universale del 1948, la tutela dei diritti umani è divenuta una delle priorità della

comunità internazionale, portando all'imposizione di limiti sempre più stringenti alla sovranità degli

Stati mediante la stipulazione di numerosi trattati e mediante l’istituzione di appositi meccanismi di

protezione azionabili dagli individui, tanto sul piano universale quanto sul piano regionale. Con

questa Carta si stabiliva, per la prima volta nella storia moderna, l'universalità di questi diritti, non

più limitati unicamente ai paesi occidentali, ma rivolti ai popoli del mondo intero, e basati su un

concetto di dignità umana intrinseca, inalienabile, ed universale. La Dichiarazione riconosce62 tra le

altre cose il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale; all'uguaglianza di fronte alla

legge; a garanzie specifiche nel processo penale; alla libertà di movimento e di emigrazione;

all'asilo; alla nazionalità; alla proprietà; alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; alla

libertà di associazione, di opinione e di espressione; alla sicurezza sociale; a lavorare in condizioni

giuste e favorevoli e alla libertà sindacale; a un livello adeguato di vita e di educazione. Da questo

momento in poi il posto occupato dall’ONU nel processo di legittimazione e promozione dei diritti

dell’uomo è fondamentale. Ma anche gli Stati europei hanno fatto un ulteriore passo avanti nel 1950

attraverso una convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Tra

le altre cose, la convenzione stabilisce che il godimento dei diritti da essa garantiti non è soggetto ad

alcuna discriminazione fondata su ragioni di razza, lingua, religione, opinione pubblica, origine

nazionale o sociale.

Mortati C., Istituzioni di diritto pubblico, II, Padova, 1976, p. 1032. Crisafulli V., La Costituzione e le sue
62

disposizioni di principio, Milano, 1952, pp. 37 e ss. Barile P., L'affermazione delle libertà democratiche
dalla Costituente ad oggi, in AA. VV., La Costituzione italiana: I principi - La realtà, Milano, 1977, p. 40.
Il Protocollo n. 14 della CEDU, adottato il 13 maggio 2004 riforma profondamente il sistema

europeo di protezione dei diritti umani dinanzi alla Corte di Strasburgo, introducendo una nuova

condizione di ricevibilità dei ricorsi individuali e delle procedure semplificate. In ogni caso, è

sempre possibile il ricorso davanti alla Corte Europea dei Diritti Umani.

La Dichiarazione universale, sebbene non ponga obblighi sotto lo stretto profilo giuridico, tuttavia

indicava agli Stati membri l'urgenza di promuovere un insieme di diritti umani, civili, economici e

sociali, affermando che questi diritti sono parte delle "fondamenta di libertà, giustizia e pace nel

Mondo". La dichiarazione fu il primo sforzo legale internazionale per limitare il comportamento

oppressivo di taluni Stati sui suoi cittadini.

Le Carte costituiscono le mappe valoriali di riferimento, i valori guida ai quali ispirare

comportamenti singoli e/o collettivi, movimento e azioni politiche.

La questione dei rapporti tra diritto comunitario e Convenzione europea dei diritti umani si è posta

all’attenzione degli studiosi e delle istituzioni comunitarie a partire dagli anni ’70. In quegli anni la

Corte di Giustizia ha attraversato fasi alterne, ma ha contribuito a riconoscere i diritti fondamentali

garantiti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e dai trattati internazionali.

Lungo questa linea evolutiva va collocato il Trattato di Maastricht del 7 Febbraio 1992 (detto anche

Trattato sull’Unione Europea) il quale, con il suo art. F, si è limitato a ufficializzare qualcosa che

già ufficiosamente faceva parte dell’acquis communautaire: il rispetto e la protezione dei diritti

umani. Contemporaneamente all’accresciuta importanza della Convenzione di Roma all’interno del

sistema comunitario, quasi a divenire un parametro con cui misurare il grado di legittimità degli atti

comunitari, sono sorti nuovi e imprevisti problemi tuttora di non facile soluzione.

Tradizionalmente, nel linguaggio politico occidentale, si pensa ai diritti umani soprattutto in termini

di libertà negative. Questa prospettiva non è riproponibile; se si guarda con attenzione alla stessa

Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dell’Onu, si potrà notare come essa vada ben oltre

al rispetto di un semplice elenco di garanzie. La stessa concezione di Rawls abbandona il concetto


tradizionale di diritti umani come libertà negative. Rawls vede soltanto i popoli come soggetti

politici e le società dei popoli come possibile strumento di difesa della pace. Per Rawls i diritti

umani si distinguono per la loro “particolare urgenza”: libertà dal genocidio e dalla schiavitù. Rawls

ha il merito di sganciare i diritti umani dalle forme della democrazia liberale.

Martha Nussbaum ha portato un contributo molto importante al dibattito sui diritti umani con il suo

capabilities approach, risultato anche della sua lunga collaborazione con Amartya Sen. La

prospettiva di Sen e Nussbaum è politicamente più esigente e filosoficamente molto più densa di

quella rawlsiana. L’aspetto di maggiore interesse nella riflessione di Sen e Nussbaum sta nel partire

dall’individuo che deve esprimere una certa rivendicazione e non dall’oggetto della rivendicazione

stessa (una determinata libertà, un determinato servizio).

Ma il punto più significativo dell’analisi svolta da Sen e Nussbaum è lo stretto legame fra diritti e

giustizia, che non si concentra semplicemente sulla necessità di stabilire garanzie e rimuovere di

ostacoli; piuttosto, si preoccupano di sviluppare nelle persone quelle capacità che le metteranno in

grado di vivere una vita degna di essere vissuta. Se dunque ogni essere umano ha diritto a poter

acquisire attivamente un numero minimo di capacità, si pone in modo non più eludibile il problema

della redistribuzione delle risorse.

La possibilità di elaborare una “teoria della giustizia” su scala planetaria è al centro del lavoro di

Thomas Pogge63. La prospettiva rawlsiana rientra quindi in gioco. Pogge parte da una

considerazione che riguarda i compiti della politica in età di globalizzazione. I cittadini del primo

mondo, osserva, sono pronti ad accettare come un dato di fatto che siano presenti livelli di

disuguaglianza in diverse aree del pianeta. La situazione di global interconnectedness non permette

più di considerare questi squilibri come “un problema di qualcun altro”; al contrario, esiste una

precisa responsabilità politica e morale di garantire a chiunque il proprio “flourishing” e quindi del

63
Pogge T., Global Justice and Human Rights, Blackwell, 2001.
proprio diritto ad un “minimally adequate share of  basic goods”64; ed è esattamente  l’accesso a

questi beni primari che deve essere considerato l’oggetto dei diritti umani. L’appartenere a un

gruppo quale la “nazione” non costituisce una ragione valida né per considerarsi gli unici titolari dei

diritti (entitlement), né tantomeno per escludere gli altri65.

Molto simile è anche la prospettiva di Peter Singer nel suo One world, dove afferma con decisione

il dovere morale alla condivisione e la necessità urgente di pensare a come realizzare una maggiore

giustizia su scala globale. Singer e Pogge non si accontentano di un generico richiamo alla capacità

o al senso morale degli esseri umani: al contrario, le loro rivendicazioni di giustizia globale si

fondano sulla convinzione che esista una precisa responsabilità non solo etica, ma anche politica66.

In epoca di globalizzazione, è necessario un processo di ripensamento, quantomeno per le

ingiustizie più atroci. E’ difficile pensare ad un compito più drammaticamente “politico” che non la

necessità di arrivare ad una meno iniqua distribuzione delle risorse – sempre più scarse – del

pianeta, e di eliminare (o almeno attenuare) le sofferenze causate dai processi economici.

Se dunque la questione dei diritti umani non può prescindere dalla questione della giustizia globale,

ci si chiede se il pensiero critico occidentale abbia pienamente recepito e compreso la situazione di

assoluta emergenza in cui si trova ad operare, se abbia veramente elaborato il fatto di trovarsi di

fronte ad un massacro silenzioso. La dimensione spaziale/territoriale è dunque una caratteristica

fondamentale della politica moderna67, Ma il nesso che lega obbedienza, protezione, e sicurezza non

64
Pogge T., World Poverty and Human Rights, Cambridge, 2002. I beni primari di cui parla Pogge sono
physical integrity, substinence supplies, freedom of movement and action, basic education, economic
participation, p. 49.
65
Questa è la posizione che Pogge definisce explanatory nationalism.
66
A questo proposito, la prospettiva di Rawls rivela ulteriori aspetti di debolezza. In particolare, Rawls
accetta sostanzialmente una spazializzazione tradizionale della politica. Nella sua società mondiale i popoli
accettano sì di porre dei limiti alla  propria sovranità, ma lo fanno in base a un contratto, sottoscritto perché i
popoli – come i cittadini di A Theory of Justice - condividono un basic sense of justice.
67
Tale variabile è particolarmente evidente nell linea genealogica che va da Hobbes a Schmitt.
è l’unico ambito in cui spazialità e politica si intrecciano. Habermas ricorda come anche i diritti di

cittadinanza si siano articolati seguendo la polarità inclusione-esclusione. Infatti, nella storia del

discorso politico occidentale i diritti sono stati sì proclamati come droits de l’homme, ma nella

pratica storica sono stati immediatamente declinati e concretizzati come droits du citoyen, ovvero di

chi apparteneva a una comunità politica ben identificata.

Il discorso dei diritti umani si intreccia dunque alla crisi della dimensione territoriale della politica.

Ciò dipende dalla crisi del concetto di ”sovranità popolare”, il principio della legittimità

democratica. Anche la sovranità popolare, infatti, si è teoricamente fondata sui “diritti naturali”

propri di tutta l’umanità, ma si è poi storicamente articolata nella dimensione territoriale della

politica.

Che cosa cambia con la globalizzazione? Da parte di molti si è osservato che ormai stiamo già

vivendo in una sorta di cosmopolis di fatto, a proposito della quale si può parlare di Human Rights

regime68. In questa prospettiva, una fitta rete di accordi e convenzioni in difesa dei diritti umani

limiterebbe sostanzialmente l’effettiva sovranità degli stati: ma basta uno sguardo alla situazione

effettiva della politica internazionale per capire quanto si sia lontani da questo scenario. Ben più

realistico è affermare, con Bertrand Badie, che i diritti umani si trovano ancora sospesi entre ruse et

raison, in una sorta di limbo fra una razionalità strumentale miope e una vera ragione pubblica69.

Il punto da chiarire quindi è come i diritti umani possano abbandonare questa zona grigia. Badie

ricorda che gli attori statuali, anche se in buona fede, non sembrano in grado di svolgere nei

confronti della società civile e della sfera pubblica una funzione essenziale, ovvero di
68
A questo proposito, Krasner interpreta la grande proliferazione di trattati sui diritti umani tipica del secolo
appena trascorso come una sorta di autocoscienza della politica moderna: signing human rights declaration is
part of the script of modernity; cfr. S.D. Krasner, Sovereignty, organised hypocrisy, Princeton, 1999, p. 122.
69
Cfr. Badie B., Un monde sans souveraineté. Les Etats entre ruse et raison, Paris, 1999.
istituzionalizzare i presupposti comunicativi indispensabili per una formazione ragionevole della

volontà politica e per l’esercizio di quella che Habermas definisce “sovranità popolare

comunicativamente fluidificata”. Ma a chi appartiene in ultima istanza questa sovranità popolare

“fluida”? I diritti umani non possono più essere declinati, come lo sono stati nella grande narrazione

del moderno, in termini di diritti del cittadino, né la sovranità popolare può essere declinata in

termini di “comunità naturale”. La crisi della politica su base territoriale/nazionale non ha come

unica via d’uscita il cosmopolitismo, e l’opzione rappresentata da aggregati regionali o sub-

regionali rappresenta una alternativa molto più credibile. Un livello regionale offre infatti più

chances effettive di arrivare alla formazione reale di una volontà pubblica, rappresentando un

contesto in cui tale idea non sembri più solo un monumento alle buone intenzioni, luogo in cui i

diritti umani siano oggetto del grande “discorso della politica” inteso come processo fluido e non

statico. Si tratterebbe di reti discorsive tali da render possibile una costante rielaborazione e

riflessione sulle “capabilities” degli esseri umani, come si è visto con Nussbaum. Per questo la

prospettiva rawlsiana di Law of the peoples sembra decisamente insoddisfacente, in quanto accetta,

nonostante gli inevitabili distinguo, una divisione fra politica estera e politica interna difficilmente

difendibile alla luce delle grandi sfide e dei grandi rischi che si incontrano in epoca di

globalizzazione.

Una politica post-nazionale, dunque, non può lasciarsi andare alla nostalgia delle comunità

“naturali”. Tuttavia, non si può trascurare il fatto che i diritti umani siano stati  originariamente

fondati e radicati proprio in una dimensione di naturalità. La necessità di dare una fondazione non

ingenuamente giusnaturalistica ai diritti dell’uomo così presente nel dibattito filosofico

contemporaneo70 non è certo senza passato. L’idea di condizione umana suggerisce immediatamente

una nozione di storicità, temporalità e narratività che permette di render conto anche delle

70
Cfr. il saggio di F. Cerutti, Le sfide globali e l’esito della modernità,  in D. D’Andrea eE.  Pulcini, a c.d.,
Filosofie della Globalizzazione, Pisa, 2002.
trasformazioni più stravolgenti che il bios umano sta subendo. I diritti umani sono quei punti

d’appoggio che garantiscono ad ogni essere umano di pensarsi e di progettarsi, di diventare ciò che

si è. L’idea di una rete di norme di protezione dei diritti umani consentirebbe quindi di affermare la

necessità di proteggere questa vulnerabilità. L’umanità non è in possesso di magnifiche sorti

progressive, al contrario, la dimensione dell’essere umano è segnata dal rischio, dall’obsolescenza

e dalla caducità.

Il pioniere degli studi sulla cittadinanza moderna è il sociologo inglese Thomas Humphrey Marshall

(1983-1981), che nel 1950 pubblicò l'ormai celebre Cittadinanza e classe sociale71. Secondo

Marshall, la cittadinanza è la condizione necessaria dell'esistenza politica di un individuo, è una

prerogativa conferita a tutti coloro che ne sono membri, che diventano eguali nei diritti e nei doveri.

Se è vero che gli esseri umani condividono una condizione fondamentale di eguaglianza in quanto

appartengono alla stessa specie, allora si può dire che la cittadinanza l'abbia arricchita

aggiungendovi ciò che Marshall chiama "una nuova sostanza" sociale e storica.

Un inedito rilievo viene assunto dai diritti sociali: abbiamo qui un’immagine fortemente inclusiva e

progressiva che colloca lo stesso Stato sociale all’interno di un lungo ciclo storico di espansione

(nel senso che soggetti originariamente esclusi sono stati progressivamente inclusi nel suo spazio) e

di arricchimento intensivo (nel senso che i suoi contenuti si sono moltiplicati e qualitativamente

modificati) del concetto di cittadinanza.

Questa immagine della cittadinanza ricapitola un insieme di sviluppi dottrinali (si pensi allo

sviluppo delle tematiche del “diritto sociale” in Germania negli anni di Weimar) e storici 72

(particolarmente importante, in questo senso è ovviamente il rapporto Beveridge73).


71
Marshall T.H., Citizenship and social class, cit.
72
Si ricordano anche , le «quattro libertà» enunciate da Roosevelt nel gennaio del 1941: libertà di parola ed
espressione, libertà di culto, libertà dal bisogno e libertà dalla paura).
73
Il 20 novembre ’42 è consegnato al Paymaster-General di Sua Maestà britannica, a firma Your obedient
servant W. H. Beveridge, Chairman, un documento di 300 pagine. E’ il risultato dei lavori del Comitato
Social Insurance and Allied Services, costituito per indagare sul vasto raggio d’anomalie sorte come risultato
La nuova posizione assunta dal concetto di sicurezza fa da sfondo a una profonda trasformazione

della semantica del progresso e della democrazia del benessere. In questo contesto possono essere

analizzate le trasformazioni che investono negli anni Cinquanta le principali correnti politiche – dal

socialismo, al liberalismo e al conservatorismo.

Per ricostruire la storia del pensiero politico occidentale nel dopoguerra, tuttavia, non è sufficiente

indagare le trasformazioni delle principali ideologie politiche. Essa deve piuttosto essere integrata

dallo studio dei modi in cui la dimensione sociale della cittadinanza è stata analizzata dalla scienza

giuridica74. Si è poi mostrato il rilievo nel discorso politico degli anni ’40 e ’50 della sociologia, con

particolare riferimento allo struttural-funionalismo di Parsons e Smelser. Si è infine insistito sulle

trasformazioni dei paradigmi dell’economia politica che corrispondono allo sviluppo dello Stato

sociale, offrendo una breve analisi della “rivoluzione keynesiana” e dell’“economia sociale di

mercato” tedesca, ma anche insistendo sulle nuove forme di “democrazia industriale” che si

sviluppano nella cornice della produzione di massa. Negli anni in questione si è verificato un nesso

strettissimo tra cittadinanza sociale e lavoro come una vera e propria apologia della “cooperazione

sociale”. Marshall ci insegna che il modello della cittadinanza sociale si fonda strutturalmente sul

sacrificio dei lavoratori della società “fordista”.

Marshall suddivide i diritti dell’individuo all’interno della società. Essi possono essere raggruppati

in tre tipi distinti, che sono gli elementi costitutivi della cittadinanza: l'elemento civile, formato dai

diritti che sono le condizioni della libertà individuale 75; l'elemento politico, ovvero il diritto di

partecipare all'esercizio del potere politico; infine, l'elemento sociale, un sottoinsieme piuttosto

indeterminato di prerogative che vanno dal diritto a minime garanzie di sussistenza economica al

della crescita a casaccio e a pezzi del sistema di sicurezza sociale nel cinquantennio precedente. Lord
Beveridge, un liberale che dirige con prestigio la London School of Economics, e che ha presieduto i lavori
del Comitato, ne assume la paternità esclusiva. Il testo, infatti, non ha ricevuto il sostegno dei membri del
Comitato.
74
Con riferimento particolare ai lavori di G. Gurvitch, C. Mortati ed E. Forsthoff.
75
Libertà personale, libertà di parola, di pensiero, di coscienza, diritto alla proprietà e a stipulare contratti,
diritto alla giustizia di fronte alla legge.
diritto all'accesso effettivo alla ricchezza societaria nelle sue varie componenti (lavoro, cure

mediche, istruzione e così via).

Il Sessantotto, inteso come insieme plurale di movimenti di rifiuto del “sacrificio”, ha costituito un

decisivo punto di svolta nella storia della cittadinanza e dello stesso pensiero politico occidentale.

Nell'età moderna la classe operaia è stata inclusa nella comunità politica grazie alla graduale

acquisizione (o concessione, a seconda dei casi) della cittadinanza: gli operai hanno ottenuto diritti

civili, poi politici e infine sociali (soprattutto nel XX secolo), divenendo così pienamente parte della

comunità civile e conseguendo, attraverso la cittadinanza, anche esistenza politica. Il progresso dei

diritti di cittadinanza è stato nello stesso tempo un progresso dell'eguaglianza. Per Marshall tuttavia

la cittadinanza non è semplicemente una condizione fatta di diritti e responsabilità, era anche uno

strumento di creazione di identità che egli credeva potesse svolgere due compiti: includere la calsse

operaia nel discorso politico e realizzare la democrazia.

Il saggio di Marshall ha suscitato repliche e critiche per circa cinquant'anni. Fra gli altri, Brian

Turner76 ha sostenuto che la prospettiva di Marshall è insufficiente laddove non distingue

l'estensione dei diritti di cittadinanza avvenuta tramite l'azione di movimenti politici e sociali (dal

basso, per così dire) oppure tramite concessione da parte dei governanti (dall'alto), con risultati

molto diversi; inoltre, l'analisi di Marshall non tiene conto dei diversi modi in cui l'estensione dei

diritti di cittadinanza ha influenzato o è stata influenzata dai cambiamenti nei rapporti fra pubblico e

privato. Tom Bottomore ha notato che le tesi di Marshall devono essere riferite al contesto storico

della loro enunciazione, ovvero alla fine degli anni Quaranta, quando il governo laburista inglese

stava intraprendendo un ampio progetto di nazionalizzazione di settori cruciali dell'economia e

76
Turner B., Outline of a Theory of Citizenship, in C. Mouffe (a cura di), Dimensions of Radical Democracy.
Pluralism, Citizenship, Community, New York, 1992, pp. 33-62.
stava creando un servizio sanitario nazionale e di istruzione pubblica che sarebbero stati di esempio

per tutta l'Europa miranti a contrastare i privilegi di classe. Molti osservatori, incluso Marshall,

pensavano che l'Inghilterra fosse avviata a diventare una società democratica, egualitaria, forse

anche socialista, e non avevano dubbi circa la possibilità di estendere a tutti i diritti sociali. Nessuno

poi dubitava che la società inglese fosse unitaria e omogenea, superando l'unica vera divisione

sociale, quella fra le classi. La questione dell'integrazione fra culture ed etnie differenti non

appariva ancora all'orizzonte77 Questo infatti può essere considerato il limite più serio dell'analisi di

Marshall, semplicemente perché negli ultimi cinquant'anni gli Stati europei sono diventati sempre

più eterogenei dal punto di vista della cultura, dell'etnia, della religione, dei valori, dell'accesso alle

risorse e dei modelli di consumo.

A livello sociale è cresciuta piuttosto la domanda di differenziazione anziché quella di

assimilazione. La cittadinanza non viene più concepita come strumento equalizzatore ma come

conferimento di identità78.

Giovanna Zincone79 sostiene che i diritti di cittadinanza si sono affermati in modo discontinuo, in

ordine sparso, per così dire, e che la sequenza ricostruita da Marshall (prima i diritti civili, poi i

diritti politici, infine i diritti sociali) non è affatto l'unica via alla piena cittadinanza. Zincone nota

che da un punto di vista storico-sociologico la cittadinanza si deve intendere come l'esito di una

gara fra élite concorrenti che tendono a massimizzare la fedeltà del popolo distribuendo benefici e

vantaggi. Tuttavia, il fatto che l'estensione dei diritti di cittadinanza sia il risultato di una lotta per il

potere in via più formale che sostanziale, i diritti di cittadinanza hanno modificato ampiamente le

condizioni dell’esistenza delle persone negli ultimi duecento anni, sia nel privato che nel sociale.
77
Cfr. Bottomore T., Citizenship and Social Class, Forty Years On, in T. H. Marshall e T. Bottomore,
Citizenship and Social Class, Londra, 1992.
78
Kymlicka, W. e Norman, W., The Return of the Citizen", in R. Beiner (a cura di), Theorizing Citizenship,
Albany, 1995, pp. 283-322.
79
Cfr. Zincone G., Da sudditi a cittadini. Le vie dello stato e le vie della società civile, Bologna, 1992.
Malgrado i limiti e i difetti anche seri della loro applicazione, malgrado la funzione politica

ambigua (integrare gli attori sociali marginali o riluttanti, neutralizzare il dissenso sociale,

manipolare il consenso politico: si pensi alla celebre critica di Marx dei diritti "borghesi"), i diritti di

cittadinanza sono stati lo strumento più efficace, forse l'unico, con cui migliorare la vita dei gruppi

sociali svantaggiati o discriminati80.

Ciò che accade perciò è che il 'catalogo dei diritti' sia incline ad espandersi cumulativamente per

successive 'generazioni' o per interpolazioni normative legate a pure circostanze di fatto 81. E non

sono mancati filosofi e giuristi occidentali che hanno proposto un'estensione della teoria dei diritti

fondamentali anche agli embrioni umani, agli esseri viventi diversi dall'uomo e persino agli oggetti

inanimati. Ma è chiaro che l'espansione anomica del repertorio dei diritti fondamentali solleva

un'incontestabile aporia: se tutto è fondamentale, niente è fondamentale. D'altra parte è intuitivo che

i diritti fondamentali non possono essere tutti uguali - di eguale peso normativo - tanto più quando

si trovino in tensione gli uni con gli altri. Alain Laquièze ha giustamente sostenuto che più il

predicato 'fondamentale' si estende includendo una quantità crescente di diritti diversi, più

aumentano i rischi di una collisione fra i diritti e la necessità di relativizzarli82.

La tesi del fondamento filosofico e della universalità normativa dei diritti dell'uomo è dunque un

postulato dogmatico del giusnaturalismo e del razionalismo etico che manca di conferme sul piano

80
Zincone G., Da sudditi a cittadini, cit. pp. 142 e ss.
81
L'espressione 'generazioni' è di Bobbio ed è priva di ambizioni teoriche. P. Barile, in Diritti dell'uomo e
libertà fondamentali, Bologna, 1984, si limita ad una compilazione di diritto costituzionale positivo. Tentativi
di elaborazione teorica di devono ad autori come R. Alexy, Theorie der Grundrechte, Baden-Baden, Nomos
Verlagsgesellschaft, 1985; J. Rawls, The Basic Liberties and Their Priorities, in S.M. McMurrin (a cura di),
The Tanner Lectures on Human Values, vol. 3, Salt Lake City, 1982, pp. 1-87, trad. it. in H.L.A. Hart, J.
Rawls, Le libertà fondamentali, Torino, 1994; G. Peces-Barba Martínez, Curso de derechos fundamentales,
Madrid, 1991; L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, Roma-Bari, 2001.
82
Cfr. Laquièze A., Lo Stato di diritto e la sovranità nazionale in Francia, in P. Costa, D. Zolo (a cura di),
Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Milano, 2002. Laquieze ricorda che in Francia Etienne Picard
(L'émergence des droits fondamentaux en France, 'Actualité Juridique. Droit Administratif', 1998, numero
speciale su Les Droits fondamentaux, pp. 6 ss.) ha proposto di istituire una 'scala di fondamentalità'.
teorico, e che viene contestato con buoni argomenti sia dalle filosofie occidentali di orientamento

storicistico e realistico, sia dalle culture non occidentali. Da questa conclusione Bobbio ha inferito

un importante corollario pratico: ciò che è rilevante per l'attuazione concreta dei diritti dell'uomo

non è la prova della loro fondatezza e della validità universale 83. Anzi, questa dimostrazione rischia

di rendere intollerante e aggressivo il linguaggio stesso dei diritti. Ciò che realmente conta è che i

diritti soggettivi godano di un ampio consenso politico e che si diffonda il 'linguaggio dei diritti'

come espressione di aspettative e di rivendicazioni sociali. Ma il consenso è un dato puramente

empirico e storicamente contingente, oltre che difficilmente accertabile in termini rigorosi. Per di

più, al consenso e alla moltiplicazione dei Bills of rights non corrisponde, se non molto

parzialmente e ambiguamente, l'attuazione concreta dei diritti. Una cosa è la loro rivendicazione,

altra cosa è la loro effettiva tutela84.

Sen sostiene fortemente l'adozione di un concetto positivo di libertà, cioè una visione della libertà

come abilità concreta di fare qualcosa e di essere qualcuno, in opposizione a un concetto negativo,

che intende la libertà come assenza di impedimenti formali.

Un tema importante per Sen è la rilevanza della teoria dei funzionamenti per le politiche pubbliche.

Si tratta di un tema complesso e, in modo sintetico, si può dire che la teoria dei funzionamenti

protende favorevolmente verso la fornitura pubblica di alcuni beni essenziali, come la sanità,

l'istruzione, la sicurezza sociale. A giudizio di Sen, è la presenza di tale forma di intervento statale

che garantisce la trasformazione della pura e semplice crescita dell’economia 85 in un aumento di

benessere generale. Da un lato, l'iniziativa privata, adeguatamente incentivata e sostenuta, assicura

83
Bobbio N., L'età dei diritti, Torino, 1990, pp. 14-16.
84
Bobbio N., L'età dei diritti, cit., p. XX.
85
Vedi Sen A., Elements of a theory of human rights, in Philosophy & Public Affairs, Vol. 2, 4, 2004 , pp.
315-356.
l'incremento della ricchezza; dall'altro, la rete dei servizi pubblici fa sì che questo incremento possa

convertirsi realmente in un aumento del tenore di vita e nel potere di acquisto.

Il contributo di queste idee ad economia ed alla teoria ed alla pratica di sviluppo è ben noto e

documentato ed ha provocato un corpo di nuovi dibattiti di politica e di ricerca. Tuttavia, meno nota

fra gli economisti di sviluppo è l'importanza di queste stesse idee nel campo dei diritti dell'uomo,

soprattutto nella lotta contro la povertà. La verità è che molti professionisti dello sviluppo

rimangono altamente scettici sull'idea che i diritti dell'uomo possano essere il nocciolo centrale

delle estremità (ricchezza / povertà) e dei mezzi di sviluppo. Quella dei diritti umani è una categoria

divenuta centrale nel lessico filosofico-giuridico e filosofico-politico internazionale, a tal punto da

essere considerata come una sorta di codice etico e giuridico universale non privo di imprecisioni e

confusione concettuale.

Lo sviluppo dei diritti dell'uomo è un concetto che comincia a prendere corpo verso la fine degli

anni ‘90, con gli eruditi dei diritti dell'uomo e gli attivisti, in concomitanza con la presa di coscienza

del problema della povertà globale. Si accorsero così che non vi era protezione adeguata contro la

povertà e i diritti dell'uomo venivano ampiamente calpestati. Oggi i diritti umani sono

accompagnati da un attivismo diffuso nelle società civili che si esplica con l’attività di

organizzazioni non governative internazionali come Amnesty International o Human Rights Watch.

Accanto ad esse, istituzioni come l’ONU hanno messo i diritti umani al centro di un vasto progetto

di pacificazione del pianeta. Sotto la spinta della globalizzazione, che ha aumentato le

interdipendenze commerciali, economiche e politiche tra i paesi del mondo, si è venuta affermando

sempre di più l’idea che i diritti umani potessero anch’essi avere una valenza globale.

Mary Robinson, già alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti dell'uomo, ha svolto un ruolo

essenziale a tal proposito, mettendo spesso la povertà globale all’ordine del giorno, chiamandola "la

sfida più grande dell'uomo"86. Colei che le succedette, Louise Arbour, portò avanti la sua istanza87.

86
Fonte ONU 2003.
87
Fonte ONU 2007.
Sen pone come paradigma della sua analisi il commercio degli schiavi che chiama “abitudine

inumana” ed “insulto atroce” all’umanità, al fine di capire che valenza abbia in effetti la legge nel

processo di affermazione dei diritti dell’uomo.

Partendo dall’istanza etica, è necessario verificare quanta parte occupa la formalità legale. Citando

Mary Wollstonecraft, Sen ci fa presente che esiste qualcosa che fa appello semplicemente ed

immediatamente alla presunzione che ogni persona ovunque nel mondo - indipendentemente da

cittadinanza e residenza – può porre alcuni reclami di base all'attenzione di altre persone in modo

pressochè universale.

Ma come un reclamo dovrebbe essere per esistere come diritto legale? Qual è il principio secondo il

quale un diritto diviene basilare per l’umanità? Qual è la natura della disciplina di fondo della

discussione politica?

Non ci si sorprende se abbiamo una forte tentazione di collegare i diritti dell'uomo alla legge. Vi

sono almeno tre motivi validi.

In primo luogo, anche se l'idea dei diritti dell'uomo ha un’origine relativamente recente, il concetto

dei diritti legali è vecchio, affermato ed ampiamente usato; vi è inoltre un ovvio stimolo a

comprendere i nuovi reclami alla luce dei vecchi metodi.

In secondo luogo, la lingua che tratta dei diritti dell'uomo è influenzata chiaramente dalla

terminologia legale. Coloro che combattono per i diritti dell'uomo abbastanza spesso utilizzano

questo vocabolario per promuovere la nuova legislazione, di modo che il collegamento fra i diritti

dell'uomo ed i diritti legali è di evidenza immediata.

Sen però prospetta che tali itinerari non sono soltanto ingannevoli, ma possono essere anche errati.

La retorica dei diritti dell'uomo porta a pensare che i diritti riconosciuti sono tali proprio in quanto

riconosciuti. Ma la vera domanda che pone Sen è piuttosto se i diritti dell’uomo sono tutti lì, cioè se

sono soltanto quelli riconosciuti o ve ne sono altri che ancora non sono stati identificati e

formalizzati. Essi diventano reali soltanto una volta trasposti nella legge?
Ancora, dobbiamo esaminare se la legislazione è l'unico percorso tramite cui i diritti dell'uomo

possano essere resi efficaci. Ci sono buoni motivi per essere scettici circa la funzione formale della

legge, che Sen chiama “parassitaria” nei confronti dei diritti dell'uomo.

D'altro canto, l'idea che gli esseri umani possano avere alcuni diritti anche senza alcuna legislazione

specifica è vista da molti come fondamentalmente dubbia e priva di cogenza.

La domanda è: da dove vengono questi diritti?

Il rapporto fra legge e diritti dell'uomo richiede un esame più vicino. Dobbiamo vedere i diritti

dell'uomo in un contesto più ampio, ove motivazione legale, legislazione reale e forma giudiziaria

di applicazione sono soltanto una parte.

I dibattiti a questo proposito si sono presentati per più di duecento anni. La dichiarazione di

indipendenza americana ha indicato la ragion d’essere dei diritti umani come "manifesta" e, tredici

anni più tardi, nel 1789, la dichiarazione francese dei diritti dell'uomo asseriva che "gli uomini sono

e rimangono liberi ed uguali nei diritti."

Bentham al contrario, insisteva sul fatto che "i diritti naturali sono assurdità semplice: i diritti

naturali e imprescrittibili, assurdità retorica". Tale dicotomia rimane oggi molto viva.

In realtà, nella misura in cui i diritti dell'uomo sono presi come reclami etici significativi, il fatto

che non abbiano ancora forza legale o istituzionale è complessivamente irrilevante.

Una comprensione etica delle libertà umane significa vedere tali diritti non come "leggi in attesa”.

Un'altra linea d'esecuzione va nel riconoscimento derivante dall’agitazione attiva. Anche la

magistratura internazionale e le ONG possono sollecitare la conformità di taluni comportamenti al

rispetto dei diritti dell'uomo non codificati e il controllo delle violazioni.

L'etica dei diritti dell'uomo può manifestarsi con una varietà di strumenti correlati ed una grande

versatilità dei mezzi. Ciò è una delle ragioni per le quali è importante dare alla condizione etica

generale dei diritti dell'uomo il relativo credito, piuttosto che bloccarla all'interno della stretta

scatola del metodo legale.


Amartya Sen, nel suo articolo Elements of a theory of human rights, che risale al 2004, ne dà

un’analisi approfondita, successicamente esposta in occasione dell’incontro del 19 gennaio 2006 a

Roma dal titolo I diritti umani fra identità e povertà organizzato dall’associazione Humanity e dalla

rivista Filosofia e questioni pubbliche. A partecipare al dibattito, che affrontava proprio

l’intersezione tra il discorso sui diritti umani e quello su identità e povertà, c’erano tra gli altri il

filosofo Sebastiano Maffettone presidente di Humanity, e il segretario dei Democratici di sinistra

Piero Fassino, in veste anche di socio fondatore di Humanity.

Il discorso di Sen parte proprio dalle dichiarazioni settecentesche e, passando per la confutazione

delle critiche che Jeremy Bentham, muove alla Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo,

arrivando a dimostrare che i diritti umani sono diritti di natura, e cioè appartengono all’uomo in

virtù della sua umanità e non grazie ad una specifica legislazione.

Bentham88, nella sua opera Anarchical Fallacies scritta tra il 1791 e il 1792, sostiene l’assurdità

dell’imprescrittibilità e della naturalità dei diritti umani, definendoli “lamentazioni su carta”

(«bowling upon paper»). In sostanza dice Bentham non esistono diritti se non c’è una legge che li fa

rispettare.

Secondo Sen è riduttivo includere la classe dei diritti umani in quella dei diritti tutelati dalla legge,

perché i primi sono piuttosto una rivendicazione etica che una disposizione giuridica. Esistono

infatti dei riconoscimenti (ad es. il Diritto allo sviluppo del 1986) che hanno una valenza

internazionale anche in assenza di leggi. Non si possono considerare i diritti dell’uomo come

“proto-giuridici” (e cioè precedenti a una loro legislazione) o “leggi potenziali”.

La classe dei diritti dell’uomo è in continua espansione rispetto alle dichiarazioni del ‘700. Alle

richieste dell’epoca, quali la libertà personale e politica, se ne sono aggiunte di altre nel corso del

tempo: i cosiddetti diritti sociali ed economici di seconda generazione, ovvero il diritto

all’assistenza sociale, alla sussistenza, alle cure mediche etc.


88
Bentham J., Anarchical Fallacies; Being an Examination of the Declaration of Rights Issued during the
French Revolution (1792); ripubblicato in The Works of Jeremy Bentham, vol. II, ed. J. Bowring, Edinburgh,
1843, p. 501.
Una volta stabilito che i diritti umani non si esauriscono nella legislazione e che la loro classe è in

continua espansione, si arriva quindi al punto più controverso del dibattito: l’universalità dei diritti

umani89. Interrogarsi sulla loro universalità vuol dire chiedersi entro che limiti sia possibile

estenderne la validità. Il retroterra teorico è quindi quello classico del rapporto tra universalismo e

relativismo, quello del ‘700. Essi sono quindi espressione della società occidentale prima ancora

che della società globale.

Quanti di quei principi si possono applicare universalmente?

Esiste a tal proposito una visione deflazionistica basata sulla distinzione tra nucleo sottile, il

cosiddetto “core” di diritti universali ela profondità delle culture locali, che invece trovano spazio

in una parte accessoria di diritti non universalmente condivisa. In sostanza, ci sarebbe una parte

minimale che è comune a tutti gli uomini, e una sostanziale che invece dipende dalla storia concreta

dei singoli popoli o addirittura dei singoli individui.

Il sistema deflazionistico minimale entra però in crisi spesso e volentieri, così come Sen evidenzia.

Finora abbiamo parlato di culture come un unicum, ma la realtà dei fatti è più complessa.

Nonostante oggi sia sempre più diffusa la visione del mondo come una sorta di insieme di religioni

e di civiltà secondo la convinzione che i paesi possano essere classificati suddividendoli in categorie

religiose e culturali, essa si presenta come alquanto riduttiva. All’interno di una stessa cultura

esistono persone che hanno opinioni diverse tra loro contrapposte, anche se condividono la stessa

cultura. E in genere all’interno di ogni cultura esiste un potenziale critico che rende possibile lo

svviluppo culturale al suo interno. Imporre un identità singola significa inevitabilmente provocare

dei conflitti. I fanatismi religiosi ne sono un esempio lampante. Il conflitto politico dal 1945 in poi,

(in clima di guerra fredda) ruotava esclusivamente intorno alla questione economico-sociale

motivata dalla lotta di classe. Dopo il 1989 (il crollo del muro di Berlino) esso subì una radicale

mutazione. Da quel momento in poi infatti si cominciò a parlare di identità, e cioè di religione,

89
Questo punto verrà approfondito nel prosieguo, sulla base del saggio di Sen e la posizione che Vizard
Polly manifesta nei suoi scritti più recenti.
cultura, civiltà, tradizione come veri e propri motori della lotta ideologica. Ad esse si aggiungeva la

nuova contrapposizione di classe, figlia del post-comunismo e cioè quella tra ricchi e poveri.

Qualche dato può dare l’idea di quanto questa nuova contrapposizione sia radicale e in espansione.

Oggi l’1% della popolazione mondiale (i 60 milioni di persone più ricche) ha un reddito pari a

quello posseduto dal 57% della popolazione del pianeta. Le 200 persone più ricche della Terra

dispongono di più risorse dei 2 miliardi di persone più povere. Nel mondo 800 milioni di persone

patiscono la fame, mentre altri 800 milioni hanno, all’opposto, problemi per l’eccesso di cibo che

consumano. Il bilancio di una singola grande azienda americana come la General Motors supera di

circa il 25% quello del più ricco paese dell’Africa sub-sahariana, il Sud Africa. In una grande

azienda dell’occidente lo stipendio dell’amministratore delegato spesso supera quello di 150 dei

suoi operai, e mentre il primo tende a salire i secondi tendono a scendere.

Mai nella storia dell’uomo la ricchezza era stata ridistribuita in maniera così ineguale, tra le nazioni

e all’interno delle nazioni stesse. Non c’è dubbio quindi che le disuguaglianze, accanto alle identità,

stanno assumendo un ruolo sempre più predominante nell’interpretazione della società globalizzata,

diventando una priorità sociale e politica.

Amartya Sen cerca quindi una quarta via al problema deflazionistico che non sia una soluzione

banalmente intermedia tra relativismo e universalismo e la soluzione si chiama “dialogo

interculturale”: esso comporta un doppio vantaggio. Da un lato rende più facile, attraverso la

frequentazione reciproca, conoscere l’alterità delle diverse culture, con i punti di convergenza e

quelli di divergenza, e al tempo stesso promuove la consapevolezza dei problemi, da cui dipende in

ultima analisi la struttura dei diritti umani. Fondamentale è il ruolo della comunicazione fra esseri

differenti. L’occidente non solo è il luogo che ha dato origine alla teorizzazione dei diritti umani, ma

è anche la società che più li ha violati. Più è ampia la partecipazione al dialogo interculturale delle

società del mondo, più è largo il confronto che da questo deriva. Non esiste quindi una comunità o

una società che si possa elevare su tutte le altre e possa imporre la propria visione. Naturalmente il
dialogo interculturale dovrà rispettare alcune condizioni formali e sostanziali, dovendo essere libero

da condizionamenti e durevole nel tempo.

In sintesi, si può affermare che non esiste un nucleo statico di diritti umani valido attraverso tutte le

culture, ma esistono piuttosto articolazioni complesse di diritti di base, la cui formulazione risente

in maniera non determinabile a priori dell’intreccio di legittimazione locale e giustificazione

universale in specifici contesti storici e normativi. In sostanza, i diritti umani vanno mediati

attraverso la rete delle culture e delle situazioni storiche, ma al tempo stesso essi costituiscono un

limite alla auto-indulgenza culturale, ossia pongono un freno alla tentazione di giustificare tutto ciò

che proviene dalla propria tradizione culturale. Questa concezione prevede un doppio livello di

appartenenza da parte dell’individuo. Il primo è il livello etico e metafisico della propria prospettiva

culturale tradizionale, e/o delle proprie convinzioni personali. Il secondo è il livello politico, a cui

l’individuo converge insieme agli altri membri della comunità in una visione superiore composta da

elementi comuni.

Ma vediamo nel concreto come Sen affronta il tema e la ratio dei diritti umani.

Egli, nel suo saggio Elements of a theory of human rights 90 evidenzia immediatamente quanto poco

siano citati, nelle discussioni politiche contemporanee, i diritti dell’uomo. L'appello morale dei

diritti dell'uomo è stato usato soltanto per una varietà di scopi (tortura, incarcerazione arbitraria,

ecc.)91. “Vi è qualcosa profondamente attraente nell'idea che ogni persona dovunque nel mondo,

indipendentemente dalla cittadinanza o dalla legislazione territoriale, ha alcuni diritti di base, che

gli altri sono tenuti a rispettare. L'idea centrale dei diritti dell'uomo come qualcosa che la gente ha

90
Cfr. Sen A., Elements of a Theory of Human Rights, cit
91
Ibid., p. 315. Cfr. International Human Rights in Context: Law, Politics and Morals, ed. Henry J. Steiner
and Philip Alston, New York, 2000; Richard Falk, Human Rights Horizons: The Pursuit of Justice in a
Globalizing World, New York, 2000; Jack Donnelly, Universal Human Rights in Theory and Practice, Ithaca,
2003; Micheline R. Ishay, The Human Rights Reader: Major Political Writings, Essays, Speeches, and
Documents from the Bible to the Present, New York, 1997.
anche senza alcuna legislazione specifica, è visto da molti come fondamentalmente dubbio. Una

domanda ricorrente è, da dove vengono questi diritti? 92”.

Sen prende ad esempio la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 1776, e la

dichiarazione francese "dei diritti dell'uomo", dove viene affermato che i diritti dell’uomo

semplicemente “sono”, esistono e sono inalienabili. Poi paragona queste Carte al pensiero di

Bentham. Sen ci spiega che Bentham tentava di intaccare la forza nella credenza di un nuovo

giorno, in cui le persone comuni avrebbero potuto far sentire la propria voce in virtù della loro

semplice umanità. Questo perché questa forza disturba quella politica che mira a detenere un potere

sulle masse.

Oltre alla teoria benthiana, vi è una categoria di persone che accetta l’idea dei diritti fondamentali,

ma non ammette che da essi possa dipendere la ragionevolezza di alcune istituzioni pubbliche come

le cure sanitarie e così via. L’aggiunta dei diritti di seconda generazione ha suscitato uno scetticismo

ancor più specializzato, dove i critici si concentrano sui problemi di fattibilità e sulla dipendenza da

specifiche istituzioni sociali che dovrebbero erogare i servizi relativi.

Secondo Sen i dubbi concettuali devono anche essere indirizzati in maniera soddisfacente. Ecco che

lo stesso economo evidenzia la necessità impellente di formulare una teoria dei diritti umani.

Sen ci propone una teoria basata sulla coerenza, la cogenza e la legittimità. Prima di diventare leggi

accettate e rispettate dalla comunità, le idee devono prima passare da una fase teorica che si adatti

alla realtà, tanto che tale teoria entra poi a fare parte del pensiero collettivo della comunità stessa.

Questa è la condizione prelegislativa affinchè i diritti possano poi essere cristallizzati in una

normativa adeguata.

Sen ci propone talune domande cui è necessario rispondere in prima battuta:

1) cosa deve affermare una dichiarazione dei diritti dell'uomo?;

(2) che cosa rende i diritti dell'uomo importanti?;


92
Ibid., p. 315.
(3) che funzioni ed obblighi generano i diritti dell'uomo?;

(4) attraverso che azioni possono essere promossi i diritti dell'uomo?; ed in particolare se la

legislazione è il principale – o anche il necessario - mezzo di esecuzione dei diritti dell'uomo e

come?;

(5) i diritti economici e sociali di seconda generazione vanno ragionevolmente inclusi fra i diritti

dell'uomo?;

(6) infine, come possono i diritti dell'uomo essere difesi in modo universale, dati gli svariati

approcci possibili nei diversi Stati?

Sen ci dà la sua risposta93.

(1) I diritti dell'uomo possono essere visti come richieste soprattutto etiche. Non sono

principalmente "legali," "ordini proto-legali" o "ideal-legali". Anche se i diritti dell'uomo possono

ispirare la legislazione, questa è un ulteriore fatto, piuttosto che una caratteristica costitutiva dei

diritti dell'uomo.

(2) L'importanza dei diritti dell'uomo si riferisce all'importanza delle libertà che formano il tema di

questi diritti. Sia la funzione di opportunità che la funzione di processo possono contare. Per

qualificarsi come base dei diritti dell'uomo, le libertà garantite devono essere:

- di speciale importanza;

- di influenzamento sociale.

(3) i diritti dell'uomo generano lo stimolo nelle persone con posizione forte di aiutare altri nella

promozione o nella salvaguardia delle libertà di fondo. Le statuizioni devono inoltre essere in grado

di adattarsi a qualsiasi caso concreto, anche “imperfetto”.

(4) l'implementazione dei diritti dell'uomo può andare ben oltre la legislazione; una teoria dei diritti

dell'uomo non può essere limitata all'interno del modello giuridico a cui è spesso incatenata. Inoltre,

alcuni diritti dell'uomo alle volte sono meglio rappresentati con altri mezzi, come la pubblica

discussione, le associazioni di categoria, etc.


93
Ibid., 318.
(5) i diritti dell'uomo possono includere alcune libertà economiche e sociali di interesse

apprezzabile. Se non possono essere realizzati a causa di istituzioni inadeguate, allora la riforma

delle stesse può costituire una parte degli obblighi. “L’irrealizzabilità degli stessi non li converte in

non-diritti”94.

(6) l'universalità dei diritti dell'uomo si riferisce ad una discussione pubblica e aperta a tutte le

frontiere, con un flusso di comunicazione sufficiente, oltrechè fluido. In queste condizioni, è

possibile valutare che cosa realmente emerge dalla discussione pubblica.

Il dibattito pubblico aperto consente di colmare tutte le lacune, in particolar modo in relazione ai

casi cd. imperfetti. Una teoria dei diritti dell'uomo può, quindi, permettere variazioni interne

considerevoli senza perdere la comunanza dei principi.

Il ragionamento utilitaristico di desire-fulfillment bentiano può essere impiegato anche per il

concetto dei diritti dell'uomo: infatti, i diritti morali sono spesso serviti come la base di nuove

legislazioni. E’ utile anche valutare i diritti umani in ragione della loro soglia: non tutti i temi

affrontati nelle discussioni pubbliche possono assurgere a rango di diritti umani, anche tenendo

conto della serietà e dell’influenzamento sociale delle libertà in questione.

Sen affronta anche i concetti di chance e processo.

La prospettiva di chance si concentra sulle occasioni reali95 che una persona ha (Sen porta

l’esempio della persona abile e quella disabile) e i funzionamenti che da queste discendono.

Altrettanto importante è la valutazione dei processi: poiché le libertà sono importanti, le persone

hanno ragione nell’invocare il rispetto delle stesse ed hanno il diritto di conoscere quali sono i mezzi

appropriati per difenderle e per promuoverle96.

94
Ibid., p. 319.
95
Ibid., p. 342.
96
Ibid., p. 346.
Dalla violazione, o dalla non-realizzazione dei diritti significativi di fondo, l’individuo parte alla

conquista di determinati diritti. Inoltre, la persona deve essere in grado di giudicare l’incidenza della

propria azione singola o in collaborazione con altri individui.

Chiunque in una posizione di favore può fornire ragionevolmente aiuto ad altri: questo è ciò che

viene considerato da Sen come il coronamento di quegli obblighi imperfetti di cui parlava Kant.

Ma il ragionamento, sebbene sia parte del territorio etico, non può limitarsi soltanto a questo: esiste

una serie di ragionamenti pratici ai quali è necessario allenarsi. La legislazione pubblica è senz’altro

un dominio importante di azione, ma esistono altri mezzi altrettanto importanti ed efficaci.

In primo luogo, va verificato "l'itinerario di riconoscimento" (distinto "dall'itinerario legislativo"):

la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo ONU del 1948 (forse il movimento più importante

tra le attività globali sui diritti dell'uomo nel secolo scorso) cade in questa categoria: come altre

dichiarazioni internazionali, la dichiarazione universale impone un riconoscimento sociale, prima

ancora che legale.

Una seconda linea di riconoscimento deriva dall’agitazione attiva da parte di associazioni di

categoria o movimenti popolari, che sollecitano la conformità a determinati reclami di base di tutti

gli esseri umani, generando una pressione sociale efficace anche attraverso una continua discussione

pubblica, distinta dal processo di produzione legislativa in sè.

Il terzo metodo è, naturalmente, quello legislativo, spesso ispirato e preceduto da considerazioni

etiche.

Le relative istanze si dividono in “valutazione istituzionalizzata” e “valutazione di possibilità”.

La valutazione istituzionalizzata, che è mirata specialmente ai diritti economici e sociali, si riferisce

all'emissione generale della corrispondenza esatta fra i diritti riconosciuti ed i corrispettivi doveri
precisamente formulati legislativamente. Le attività di appoggio delle organizzazioni sociali spesso

sono mirate al cambiamento istituzionale; queste attività possono essere effettivamente viste come

componente degli obblighi imperfetti che gli individui ed i gruppi hanno in una società in cui i

diritti dell'uomo di base sono violati.

La valutazione di possibilità prende le mosse dal fatto che, anche con tutte le energie e gli sforzi

possibili, non è possibile realizzare tutti i diritti economici e sociali di cui le persone necessitano.

Questo tipo di considerazione è pragmatico. Dice Sen97: “Come possono i governi di quelle zone

dell'Asia, dell'Africa e del Sudamerica, in cui l'industrializzazione è appena cominciata, a fornire la

previdenza sociale e le ferie pagate per milioni di gente che abita quei posti partendo da condizioni

così differenti dai paesi occidentalizzati?”. A questo proposito, allora è necessario ampliare lo

spettro delle possibilità attraverso la cooperazione mondiale e così via. Il buon senso suggerisce la

necessità di cercare di portare le circostanze prevalenti e determinanti ad un livello adeguato a

rendere i diritti umani da irrealizzabili a realizzabili.

Sakiko Fukuda-Parr è un’economista che ha ottenuto il riconoscimento per il suo lavoro con il

Programm a di Sviluppo ONU (UNDP), per i suoi libri e pubblicazioni, tra cui il Journal of Human

Development, che ha fondato. Nel 1973, Fukuda-Parr lavorava presso la Banca Mondiale ed ha

giocato un ruolo importante nella scena della globalizzazione, la povertà, l’economia, la tecnologia

e i diritti umani. Nonostante l'enorme squilibrio internazionale di distribuzione delle risorse e della

ricchezza, Fukuda-Parr si dimostra ottimista per quanto concerne uno sviluppo equo. Ella ha

partecipato alla redazione del Human Development Report per dieci anni. Inoltre si è occupata

dell’attività svolta da Sen nel campo dei diritti dell'uomo in via di sviluppo.

Fukuda–Parr rivela che molti dei professionisti dello sviluppo rimangono altamente scettici sull'idea

dei diritti dell'uomo come epicentro dei mezzi di sviluppo. Ma in ogni caso, una nuova attenzione si
97
Ibid., p. 355.
è sviluppata alla conclusione della guerra fredda, aprendo lo sguardo della comunità occidentale

aumentata cosiì velocemente grazie all’implementazione delle reti globali.

Mary Robinson, allora alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti dell'uomo, ha scelto spesso

la povertà globale come argomento da porre all’ordine del giorno.

Grazie a queste due voci femminili, la comunità internazionale ha cominciato ad occuparsi della

discriminazione nei confronti delle donne e della protezione a tutto tondo dei diritti dei bambini,

tentando di usare la cooperazione come arma per esercitare la pressione sui governi meno tolleranti

e maggiormente repressivi.

Le origini dei diritti dell’uomo in via di sviluppo sono norme etiche prodotte dal ragionamento

sociale pubblico, così come insegna Sen nel corso della sua intera opera. Le norme che riconoscono

i diritti dell'uomo si sviluppano perché gli individui manifestano la necessità di migliorare alcuni

stati di vita umani che non si presentano come adeguati alla realizzazione della loro personalità

dell’uomo, come lo stato di inedia, che non consente scelta.

Queste norme inoltre si sviluppano perché, attraverso i mass media, la gente ha maggiore

opportunità di confrontare il proprio stato di vita con quello altrui e riconosce più chiaramente le

minacce alla propria sopravvivenza.

L'emersione recente dei diritti umani in via di sviluppo deve essere concepita come istanza guidata

dalla preoccupazione per la povertà globale come affronto alla libertà ed alla dignità umane e come

ingiustizia, dice Fukuda–Parr. Diversa è l’analisi economica della povertà come risultato economico

rapportato alle risorse e alle politiche inadeguate come causa stessa. I diritti in via di sviluppo

necessitano di una spiegazione, chiedendo un’azione effettiva anche da parte delle istituzioni di

controllo. Si pone come sfida globale tra la concezione improntata sulle leggi di mercato e le

riforme di protezione sociale. Inoltre, i diritti umani in via di sviluppo sono un'approvazione e un

supporto ai processi di democratizzazione che aumentano la responsabilità dei singoli e dei governi

stessi.
La nozione di “buon governo” (good governance) occupa uno spazio centrale nei documenti delle

organizzazioni internazionali e nella riflessione accademica contemporanea. Essa offre un campo

analitico importante sul tema del “come” il governo viene esercitato.

La nozione di buon governo, pur delineando uno spazio teorico aperto al riconoscimento del ruolo

attivo della società civile nella definizione e attuazione di politiche di sviluppo e di cooperazione

allo sviluppo, finisce spesso per essere utilizzata prevalentemente all’interno di strategie volte ad

appoggiare riforme istituzionali disegnate dall’alto e guidate da standard presentati erroneamente

come universali. Significativamente, tale prassi diviene di per sé illustrativa delle tendenze generali

che riguardano principi e pratiche.

Fukuda–Parr focalizza l’attenzione sull'esigenza delle riforme istituzionali in relazione ai diritti

dell'uomo. Si tratta di una responsabilità e non di un atto di carità. Il sistema internazionale di tutela

dei diritti umani oggi crea, quando riesce, responsabilità statali. Ma è necessario andare verso un

sistema di responsabilità molto più differenziato. Nell’era della "globalizzazione" imprese

multinazionali e organizzazioni globali – Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, World

Trade Organization (WTO) – sono in grado di avere un impatto immenso sui diritti degli individui.

È allora necessario costruire un sistema internazionale di responsabilità per la promozione e la

protezione dei diritti umani che coinvolga non solo gli Stati, ma anche le imprese, le organizzazioni

internazionali economiche, i media, le scuole, le comunità, le famiglie, gli individui.

Ancora oggi i diritti sociali appaiono all’interno di un sistema internazionale di tutela dei diritti

umani deboli. Ma oggi è risaputo che i diritti civili e politici senza i diritti economici e sociali sono

vuoti. Non è vero che la garanzia dei diritti economici e sociali richiede risorse economiche che non

tutti gli Stati hanno. Alcuni diritti non sono costosi e che non necessitano di una realizzazione

graduale, come ad esempio rimuovere le discriminazioni - tra uomini e donne, tra etnie, tra caste -

nell’accesso alla scuola o agli ospedali.


Per tali diritti gli Stati, le istituzioni, le comunità non possono trovare la scusa della mancanza di

risorse o prospettare una possibilità di realizzazione soltanto graduale. Per i diritti economici e

sociali che invece richiedono dispendio di risorse e di tempo – per esempio il diritto al lavoro, alla

protezione contro la disoccupazione, alla pensione, all’assistenza sanitaria – è necessario l’impegno

nazionale e locale verso una definizione delle proprie priorità e l’impegno della comunità

internazionale anche attraverso la cooperazione internazionale.

Fino ad oggi la prospettiva dei diritti umani a livello internazionale è stata troppo spesso

esclusivamente una prospettiva "punitiva": la denuncia delle violazioni dei diritti umani è

sicuramente un’arma fondamentale a disposizione delle organizzazioni non governative, a maggior

ragione oggi che l’era dell’informazione permette attraverso un computer di aderire a campagne

internazionali, movimenti e appelli. Ma la denuncia e il biasimo non vanno però confusi con la

condizionalità degli aiuti internazionali, in base alla quale alcuni Stati ricchi decidono di togliere o

non iniziare a dare aiuti a Stati poveri che non rispettano i diritti umani. Il venir meno di tali aiuti

peggiora certamente le condizioni economiche e sociali delle persone più povere, ma probabilmente

non sfiora neppure i governanti dello Stato "incriminato". Allora sarebbe forse meglio che gli Stati

ricchi adottassero una politica "positiva" dei diritti umani, per esempio premiando i paesi che

migliorano la propria situazione dei diritti umani con maggiori aiuti internazionali.

Nessun sistema internazionale di tutela senza la volontà, politica e operativa, di ciascuno Stato. È

allora necessario un maggior impegno perché i diritti umani siano riconosciuti e tutelati all’interno

delle Costituzioni. Ciò non significa negare il riconoscimento delle differenze culturali e sociali o

voler occidentalizzare il mondo, ma riconoscere che il rispetto e la dignità della persona umana, che

devono essere interiorizzati e valorizzati all’interno di ogni cultura.


Il commento di Polly Vizard98 all’opera di Sen viene svolta dalla stessa in tre saggi 99 e un libro100.

Nei suoi saggi, la Vizard evidenzia quanto i diritti umani siano stati negletti dai governi. Inoltre,

continua nell’analisi di diritti positivi e negativi, quella cominciata con Kant e finita con Sen.

ribadendo la necessità di stilare un elenco dei diritti umani il più vasto possibile.

La scrittrice si propone peraltro di fornire le basi di una struttura governativa 101 che non sia

assolutista, ma piuttosto capace di riconoscere i diritti umani in nuce. Cosa che sinora non è mai

accaduta: non per niente la dura lotta per il riconoscimento dei diritti umani è costellata di guerre

sanguinose e manifestazioni inascoltate.

L’autrice ribadisce il diritto ad una corretta alimentazione nella categoria dei diritti umani da

difendere e, possibilmente, da realizzare e legittimare a livello sia internazionale che capillare. In

particolare, appare evidente ripartire dal concetto principale di Sen, che pone al centro della sua

intera analisi l’uomo in sé, e solo come corollario delega agli stati e agli organi sovranazionali la

responsabilità di apportare modifiche agli assetti sociali, in quanto non è tanto la legge a dare una

pregnanza a taluni valori, ma sono gli uomini stessi a dare voce alle proprie istanze e a pretendere

correttamente un assoluto rispetto delle stesse.

Sen, correttamente aveva accennato alla responsabilità dell’individuo come requisito importante ai

fini del riconoscimento dei diritti di libertà. Nell’aprile 2006, Sen redigeva un saggio 102 nel quale

evidenziava i limiti della legge nella conquista dei diritti di libertà (o diritti umani). Sen ha sempre
98
La Vizard è dottore di ricerca per ESRC, centro per analisi dell'esclusione sociale, presso la London School
of Economics.
99
Vizard P., Definition of equality and framework for measurement: Final Recommendations of the
Equalities Review Steering Group on Measurement [CASE/120], aprile 2007; Developing a capability list:
Final Recommendations of the Equalities Review Steering Group on Measurement [CASE/121], aprile 2007;
The Contributions of Professor Amartya Sen in the Field of Human Rights [CASE 091], gennaio 2005.
100
Vizard P., Poverty and Human Rights : Sen's 'Capability Perspective' Explored, Nuova Dehli, 2006.
101
Vizard P., Work in progress, Freedom From Poverty as a Basic Human Right: Preliminary Classifications
Using Deontic Logic, Pavia, 2003.
102
Sen A., Human rights and the limits of law, in n. 27 Cardozo Law Review 2913, 2006.
prospettato la questione in termini di etica, un movimento individuale suddiviso in “possibilità” e

“processi”. Questo altro non è che la responsabilità del singolo, opportunamente dotato di strumenti

intellettuali idonei, anche riconoscendo i propri obblighi “negativi” nei confronti degli altri soggetti.

Questa impostazione non è stata ancora sufficientemente formalizzata, ma molte sono le voci che si

stanno levando per aiutare eticamente (e quindi non economicamente) le persone svantaggiate a

dotarsi di mezzi (soprattutto intellettivi e culturali) che consentano loro di difendere i propri diritti.

L’affermazione esplicita del valore della dignità nelle carte costituzionali europee assume un

significato preciso e vincolante: vedere nella dignità il segno distintivo della comune appartenenza

all’umanità in un reciproco riconoscimento. Al rifiuto della logica del totalitarismo, della shoa, dello

sterminio, in negativo, si contrappone l’affermazione della dignità umana come valore fondante di

tutti gli altri.

Il ponte fra passato e futuro è rappresentato da questo punto di riferimento: la persona, con le sue

caratteristiche peculiari e irrinunciabili di identità e di diversità nell’uguaglianza. Sono

caratteristiche in sè immutabili, ma calate in una realtà in continua e profonda evoluzione, che

evidenzia sempre nuove e diverse possibilità di offesa e relative esigenze di tutela: la dignità

sempre uguale e sempre suscettibile di nuove aggressioni che necessitano di nuovi diritti. La

considerazione della dignità umana come premessa di tutti i diritti fondamentali della condizione

umana è largamente condivisa, così come lo è la richiesta di riconoscimento dei nuovi diritti, quali

quelli di terza e di quarta generazione: si pensi, per tutti, al diritto all’ambiente, al territorio, allo

sviluppo sostenibile. Se mai, v’è da restare perplessi di fronte alla constatazione che al

riconoscimento dei nuovi diritti troppo spesso si accompagnano l’indifferenza e il disinteresse per la

violazione dei diritti fondamentali più classici e tradizionali: quello alla vita, all’acqua, al cibo, alla

salute.
L’approccio al tema della dignità nelle carte costituzionali può essere duplice: o attraverso

l’affermazione di essa e della sua tutela in via preliminare (come nell’art. 1 della Costituzione

tedesca o della Carta europea dei diritti fondamentali) o attraverso specifici richiami ad essa. Il

significato letterale della dignità esprime una condizione di onorabilità, nobiltà morale,

meritevolezza di rispetto, derivanti dalle proprie qualità. Essa si traduce in un giudizio di valore. Il

passaggio dal significato letterale a quello giuridico del termine non è agevole per la sua ambiguità,

per la sua oscillazione – mutuata dal linguaggio comune – fra autonomia e libertà. La dignità è vista

nelle tradizioni costituzionali europee come valore ultimo non privo di obblighi “negativi” nei

confronti degli altri soggetti. Essa è il presupposto di qualsiasi libertà, alla quale l'uomo non può

mai rinunciare: essa è essenziale in quanto valore personale, educa all'autodisciplina, forma il

carattere e la personalità, permette lo sviluppo del singolo e quindi, per estensione, dell'intera

società civile.

Il concetto di responsabilità circa la propria libertà d’azione è un concetto originariamente liberale.

Non a caso il concetto di etica della responsabilità, Verantwortungsethik, occupa uno spazio centrale

nella riflessione kantiana. Se il soggetto economico-politico non fosse responsabile, ci sarebbe la

necessità di una azione educativa da parte dello Stato. Ma se tale soggetto è responsabile in quanto

contrae liberamente un patto con i propri simili, alienando in direzione del garante (lo Stato) la

quota più piccola possibile della propria libertà in funzione della difesa dalle aggressioni esterne,

allora tutto il suo agire è, per definizione, razionale e di tutto il suo agire egli è pienamente e

completamente responsabile. Il principio kantiano di giustizia retributiva è tutto fondato su questo

concetto: lo scopo della pena non è la riabilitazione sociale del reo (la qual cosa presupporrebbe

un’idea dello Stato pedagogo e quindi postulerebbe la tirannide come la migliore forma possibile di

governo), ma la sua remunerazione. In questo senso libertà e responsabilità sono strettamente

complementari: solo l’uomo libero può rispondere delle proprie azioni e solo chi può rispondere

delle proprie azioni è libero.


La lotta per la libertà si configura, così, anzitutto come lotta per il riconoscimento della propria

responsabilità e quindi come lotta contro l’apparato di dominio dello Stato assoluto. E’ per questo

che la teoria liberale è severissima riguardo ai confini da porre all’arbitrio del potere statale, in

quanto ogni limitazione della libertà individuale è anche una limitazione della responsabilità

individuale. Se nessuno è libero, infatti, nessuno risponde delle proprie azioni. Spogliando il singolo

di qualunque libertà e perciò anche di qualunque responsabilità grazie alle teorie politiche stataliste,

egli eguaglia un minorato in completa balia dell’autorità statale, che se ne fa carico sottraendogli

ogni autonomia e facoltà di giudizio.

La libertà invece esige responsabilità, che si configura, anzitutto, come forma logica che consente di

rispondere del proprio operato. Qualunque azione tesa a limitare la libertà deve essere messa in

radicale discussione. In caso contrario, lo Stato, sottraendo libertà, sottrae responsabilità e si

sostituisce ai singoli. Riappropriarsi degli spazi di libertà che dovessero essere stati sottratti dallo

Stato è pertanto un atto di piena responsabilità. Infine, non si ha libertà e responsabilità senza

l’esistenza di una comunità tesa a a definirne i limiti. L’azione politica della ricerca di un’etica

dell’agire umano è quindi possibile al di fuori dei confini della sfera di influenza dello Stato, nel

libero gioco di liberi uomini pensanti e di libere comunità.

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