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Workshop: Eudaimonia socratica e cura dell’altro

Sezione: Dialettica e protrettica

Amathia come ostacolo all’eudaimonia


(Leggi 731d-732a)1
Guido Cusinato

1. L’eccessivo amor di sé come il peggiore di tutti i mali ............................................. 1


1.1. «Amor di sé» o «eccessivo amor di sé»? .....................................................................1
1.2 La vera confutazione dell’egoismo di Callicle come cancro dell’anima .......................3
1.3 Sviluppo successivo dell’argomentazione .....................................................................5
1.4. Eccessivo amor di sé ed amathia ..................................................................................5

1. L’eccessivo amor di sé come il peggiore di tutti i mali

1.1. «Amor di sé» o «eccessivo amor di sé»?

L’obiettivo di questo contributo è quello di attirare l’attenzione degli studiosi di Platone


sulla straordinaria rilevanza di un passo delle Leggi che finora è stato poco considerato. Il
passo in questione è il seguente:

Πάνηφν δὲ μέγιζηον κακῶν ἀνθρώποις ηοῖς πολλοῖς ἔμθσηον ἐν ηαῖς υσταῖς ἐζηιν, οὗ πᾶς
αὑηῷ ζσγγνώμην ἔτφν ἀποθσγὴν οὐδεμίαν μητανᾶηαι· ηοῦηο δ' ἔζηιν ὃ λέγοσζιν ὡς θίλος
αὑηῷ πᾶς ἄνθρφπος θύζει ηέ ἐζηιν καὶ ὀρθῶς ἔτει ηὸ δεῖν εἶναι ηοιοῦηον.
ηὸ δὲ ἀληθείᾳ γε πάνηφν ἁμαρηημάηφν διὰ ηὴν ζθόδρα ἑασηοῦ θιλίαν αἴηιον ἑκάζηῳ γίγνεηαι
ἑκάζηοηε.

La gran parte degli uomini ha nella sua anima fin dalla nascita il maggiore dei mali [kakon] [...]. E
con ciò intendo riferirmi al principio – peraltro è del tutto logico che così debba essere – secondo cui
ogni uomo è per natura portato ad amare sé stesso [philos hauto]. Di fatto, però, causa di ogni difetto
[hamartematon] per ognuno è sempre una forma eccessiva e violenta [sphodra] di questo amore di sé
[heautou philian]» (Leg. V, 731d-e).

In questo passo sono implicite quattro tesi: 1) nella maggior parte degli umani l’origine
del maggiore di tutti i mali non è nel corpo, bensì nell’anima; 2) in ogni umano esiste una
tendenza naturale e legittima ad amare sé stessi; 3) di fatto però questa tendenza, in sé

1
In questo contributo riprendo alcune tesi che ho sviluppato e approfondito in: in G. Cusinato,
Trascendenza dal sé ed espressività. Costituzione dell’identità personale ed esemplarità, in: «Acta
Philosophica», 21, 2012, 259-284; Id., Periagoge. Teoria della singolarità e filosofia come esercizio di
trasformazione, QuiEdit, Verona, 2017 (I ed. 2014). Ringrazio Linda Napolitano, Fulvia De Luise, Livio
Rossetti e Alessandro Stavru per il prezioso confronto e i numerosi consigli.
1
positiva, degenera spesso in una forma eccessiva e violenta di questo amore di sé; 4) l’origine
di tutti gli errori/peccati per ogni umano è sempre riconducibile a questo eccessivo e violento
amore di sé.
Ebbene stabilire ciò che è il maggiore di tutti i mali e la causa di ogni difetto non è
indifferente per un filosofo, in quanto ciò ha conseguenze dirette sul modo di concepire il
senso e le finalità della sua filosofia. Relativamente a questa questione in questo passo
emergono delle novità rilevanti: Platone non afferma più che l’origine del peggiore dei mali e
la causa di tutti gli errori è da ricondurre all’influsso del corpo (come nel Fedone) o al
prevalere di emozioni negative (come nella Repubblica), e neppure che «l’unico vero male è
l’ignoranza» (come in vari dialoghi).2 C’è qualcosa di nuovo anche rispetto alla tesi secondo
cui il bene non possa prescindere dall’autocontrollo (enkrateia), inteso come il fondamento
della virtù (Mem., I, 5, 4).
Finora le interpretazioni sul concetto di male in Platone si erano concentrate sul passo
del Fedone secondo cui il peggiore di tutti i mali deriva dall’influsso delle sensazione del
piacere e del dolore sull’anima, queste infatti inchiodano l’anima al corpo, facendole «credere
che sia vero ciò che il corpo dice essere vero» (Fedone 83c-d). In questa prospettiva il problema
del male non riguarda direttamente l’anima, che in sé non è l’origine del male, ma piuttosto
l’influsso del corpo e delle passioni ad esso legate.
Platone supera la concezione dualista del Fedone con la teoria della tripartizione
dell’anima presente nella Repubblica e nel Fedro, in quanto individua l’origine del male nelle
parti non razionali dell’anima. In 731e viene fatto un importante passo ulteriore: la novità di
questo passo è nello scoprire che nell’anima c’è una passione naturale implicitamente
positiva, la philautia, che per qualche motivo, se non è coltivata bene, degenera spesso in una
philautia violenta, eccessiva, e pericolosamente fuori controllo. Di conseguenza muta il
concetto di filosofia descritto nel Fedone: l’esercizio filosofico non mirerà più a una katharsis
dal corpo e dalle passioni ad esso legate, ma consisterà in una katharsis da una specifica
passione dell’anima: l’eccessivo e violento amor di sé.3 4
Naturalmente Platone aveva criticato l’egoismo anche prima di questo passo delle Leggi.
Ad es. nel Gorgia e nella Repubblica viene riportata la replica di Socrate nei confronti di
Callicle e Trasimaco, ma si trattava di una critica priva di mordente e riferita solo a individui
caratterizzati da passioni violente come ad es. i tiranni. In questo passo delle Leggi
l’argomentazione contro l’eccessivo egoismo acquista invece spessore e inoltre viene riferita
a un male presente in tutti gli umani, acquisendo di conseguenza una valenza antropologica.
È pertanto sicuramente sorprendente non solo il fatto che finora pochi studiosi si siano
soffermati ad analizzare con attenzione questo passo, ma anche che i pochi che lo hanno fatto
non ne abbiano colto le novità, tanto da confondere spesso la critica all’«eccessivo amore di

2
Euthyd. 281c-e; Hipp. ma. 296a; Protag. 345e, Gorg. 509e; Tim. 86e.
3
Sul concetto di katharsis in Platone e nella riduzione fenomenologica cfr. G. Cusinato, Katharsis, ESI, Napoli
1999.
4
«Quello che finora le varie interpretazioni di Platone non hanno messo sufficientemente in luce è che con
questo passo delle Leggi Platone pone il problema della katharsis ben oltre lo schema dualistico anima-corpo: se
“il peggiore dei mali”, anzi la “causa di tutti i mali” è l’egocentrismo, allora la katharsis a cui si dedica il vero
filosofo non è diretta alla separazione dal corpo, come accadeva nel Fedone, ma a purificare dalla malattia
dell’anima per eccellenza: un amore di se stessi smisurato, illimitato. Un male dunque che non è semplicemente,
come nel Filebo, ignoranza dei propri limiti, ma che diventa addirittura infatuazione di questa mancanza di
limiti. Non si tratta certo di condannare un “sano” egoismo, ma di verificare se un eccessivo amore di sé stessi,
inteso come compiacimento, non finisca per agire da cura sui inversa, che procede cioè all’indietro, atrofizzando
la trama della strutturazione della singolarità e portando, come nel Narcisio di Ovidio, alla morte. L’eccessivo
amore per sé stessi è il peggiore di tutti i mali nella misura in cui produce invidia (phthonos). L’agire invidioso è
infatti il non etico per eccellenza in quanto avvelena la propria esistenza. Invece l’agire privo d’invidia
(aphthonos) è l’etico: corrisponde al dar forma alla propria esistenza in direzione della fioritura, cioè di un
incremento dell’apertura al mondo» (G. Cusinato, Periagoge …, cit.,, p. 331).
2
sé» con la critica all’«amore di sé». Mi limito a citare Julia Annas: «Plato never budges from
his conviction that it is selfishness which is the main problem in human social organization»
(Virtue &Law in Plato & Beyond, p. 66); «Plato sees as the root of most evils in human life,
philautia or love of self» (id. p. 68). L’unica volta che Annas riporta l’intera espressione
«excessive love» è quando traduce letteralmente il passo 731e dal greco hē sphodra heautou
philia, tuttavia, anche in questo caso, nella riga successiva ritorna a usare l’espressione
«loving ourselves» (id. 112-3).
L’interpretazione dominante è che solo Aristotele coglierebbe l’importanza della
philautia, mentre in Platone il concetto di philautia avrebbe un significato sostanzialmente
negativo. Su questo punto Horn afferma:

Die Liebe zu sich selbst (philautia), die bei Aristoteles zur Grundlage aller Liebesbeziehungen
zu anderen wird (EN 1168a28–1169b2), spielt bei Platon nur eine untergeordnete Rolle und wird als
«übergroße Selbstliebe» (to sphodra philein hauton) explizit kritisiert (Leg. V 731d–732b).

Si può osservare che nelle tre proposizioni presenti nella frase di Horn c’è un unico
soggetto, «die Liebe zu sich selbst (philautia)», e questo «wird als “übergroße Selbstliebe” (to
sphodra philein hauton) explizit kritisiert». In tal modo Horn pone sullo stesso piano
«l’amore di sé» e l’«eccessivo amore di sé» come se fossero equivalenti.
Una volta che la critica di Platone all’«eccessivo amor di sé» viene scambiata con la
critica all’«amor di sé», non ci sono più impedimenti a interpretare Platone come un
precursore della critica di Agostino all’amor sui contrapposto all’amor Dei. Ed è quello che in
effetti avviene ad es in Rist. Tuttavia questa contrapposizione agostiniana in Platone non c’è,
anzi non c’è neppure una critica all’amor di sé in quanto tale, piuttosto Platone contesta una
concezione solipsistica dell’amor di sé, come quella con cui il tiranno tenta di raggiungere la
felicità per sé stesso a danno dei suoi concittadini. Non critica invece il legittimo amor di sé,
l’egoistic eudaimonism, nella misura in cui converge con la felicità degli altri e il bene della
polis.
Tuttavia l’eudaimonia dell’individuo e il bene della polis non converge necessariamente
con la prospettiva dell’opinione dominante. In questo Platone rimane un seguace di Socrate e
mantiene un atteggiamento critico nei confronti dell’assiologia dominante, quella che
identifica la ricerca della felicità con la ricerca della ricchezza e della fama.
Si apre qui la strada a un tema finora poco indagato come quello della «cura del
desiderio» in Platone. Finora il concetto di cura del desiderio è stato escluso da gran parte del
pensiero contemporaneo perché confuso o con una esaltazione del desiderio immediato o,
all’opposto, con una repressione del desiderio. L’errore consiste nel credere che per essere
felici basti seguire il desiderio immediato. Invece la questione al centro della felicità è proprio
questa: non limitarsi a seguire il desiderio, ma piuttosto coltivarlo e farlo crescere. Inoltre si
tratta d’interpretare il termine “cura” non nel senso d’una educazione repressiva, ma di una
sua coltivazione.

1.2 La vera confutazione dell’egoismo di Callicle come cancro dell’anima


Come notato, Platone aveva già criticato l’egoismo e certe forme di eccesso, ad es. nel
Gorgia a proposito della replica di Socrate a Callicle. Ma è difficile sfuggire alla sensazione
che tale replica in realtà si riveli un’esortazione moralistica che cade nel vuoto. Come ha ben
messo in luce Fulvia de Luise, in realtà Platone riporta la replica di Socrate a Callicle, ma
distanziandosene:

«L’esito negativo del confronto e soprattutto l’alto livello di coerenza interna dei
modelli egoisti di felicità & virtù, difesi dagli antagonisti di Socrate, fanno pensare che
3
Platone consideri sostanzialmente debole, sul piano psicologico e politico, la strategia
socratica di moralizzazione degli individui» (de Luise).

Tuttavia in tal modo Platone non ha ancora toccato il cuore della questione. Qual è il
nerbo dell’argomentazione di Callicle che Socrate non riesce a confutare? In pratica Callicle
afferma due cose: 1) l’egoismo e il diritto del più forte sono un dato del diritto naturale,
mentre le leggi sono un’imposizione dei deboli; 2) l’agire del tiranno è il vero modello della
felicità, in quanto la felicità consiste nel poter fare tutto quello che si vuole e nel poter avere
tutto quello che si desidera.
È solo rovesciando queste due tesi che si può confutare veramente Callicle e Trasimaco.
Questo passaggio non avviene nel Gorgia, dove Socrate replica che la virtù e la felicità non
consiste nell’assecondare ogni desiderio; e neppure nella Repubblica, dove Platone pensa di
accompagnare lo sforzo virtuoso all’interno del quadro di riferimento normativo dello stato,
ma solo nelle Leggi. E precisamente con il passo 731c-732c.
Rispetto alla critica di Socrate alle tesi di Callicle e di Trasimaco (che compare nel
Gorgia e nella Repubblica) nelle Leggi la struttura argomentativa dei passi da 731c a 732c è
molto più solida e convincente. Infatti il discorso non si limita ad un’esortazione moralistica a
partire dalla celebre tesi che «nessun uomo malvagio fa il male di proposito» (731c), ma
aggiunge che l’uomo vizioso è «vittima di una qualche sciagura» che impone di «escogitare
una qualche via di scampo» (731d). Per poi svelare infine che tale sciagura da evitare è
appunto un eccessivo amor di sé (731e). Il presupposto è che esista un cancro, una patologia
mortale dell’anima che si esprime in un eccessivo e smanioso amor proprio.
Qui l’esortazione moralistica, che riecheggiava ancora nel Gorgia, viene sostituita da
una messa in guardia nei riguardi di quello che viene individuato come il peggiore di tutti i
mali possibili: l’eccessivo e smanioso amor proprio. Non è più l’esortazione di un retore, ma
la diagnosi di un medico dell’anima. Quello che prima veniva spacciato da Callicle per un
modello di felicità e un diritto di natura del più forte, ora si rivela un difetto dell’uomo
comune, anzi una sciagura da prevenire e curare, perché ci rende ciechi.
Nel proemio del V libro delle Leggi si afferma che anche il malvagio raggiunge il piano
intersoggettivo, ma nel senso della chiusura autoreferenziale: i malvagi si circondano di
malvagi e questa sarà la loro punizione (728b). Una specie di cura sui all’incontrario, pertanto
prendersi cura e onorare l’anima significa dedicarsi alle cose migliori e perfezionare se
possibile le altre: non c’è nulla di più adatto dell’anima per fuggire il male che porsi sulle
tracce del sommo bene. È solo al terzo posto che va onorato il corpo e le ricchezze: queste
quindi non sono da rifiutare, il danno deriva quando vengono anteposte alla cura dell’anima,
quando impieghiamo tutte le nostre energie nell’arricchimento e a inseguire la gloria e
trascuriamo la cura dell’anima. Nel far questo gli anziani non devono far discorsi, ma dare
l’esempio (729c). Una vita felice non deve portare a perdere gli amici come chi è infido o
ignorante (730c).
La conclusione dell’argomentazione, con il passo 731e, riorganizza e dà nuovo vigore a
tutta una serie di spunti che erano già presenti nella Repubblica. La vita del tiranno si rivela
un modello d’infelicità in quanto la sua vita sarebbe priva di comunanza (koinonia) e di
amicizia (philia). E nel rincorrere i piaceri e gli onori ritorna inevitabilmente in mente
l’immagine del dio marino Glauco, incistato dalle incrostazioni degli affanni che gli
impediscono di dare una vera fisionomia alla propria esistenza singolare. Quello di Callicle e
Trasimaco non è un modello di felicità ma d’infelicità, e neppure una legge di natura a cui
non si può sfuggire, perché si può vivere diversamente, focalizzando le proprie energie nel
prendersi cura dell’anima.
Riassumendo: se l’eccessivo egoismo è il peggiore di tutti i mali, allora anche Callicle e
Trasimaco si fanno male in quanto: 1) disperdono la loro esistenza prendendosi cura di cose
di poco conto e non di ciò che è veramente importante, cioè danno forma a un’esistenza piena
4
d’incrostazioni come quella del dio marino Glauco; 2) si chiudono dentro una prospettiva
solipsistica, erigendo un muro sempre più alto fra sé e il resto del mondo.

1.3 Sviluppo successivo dell’argomentazione

Nel passo 731e Platone individua nell’eccessivo e violento amor di sé una specifica
patologia dell’anima umana: un vero e proprio cancro che conduce a una grave forma
d’alienazione. Da questo eccessivo amore di sé scaturiscono tre diverse conseguenze che
vengono elencate nelle righe successive:

1) Una cecità non solo epistemologica, ma anche assiologica, che porta a «non
distinguere in modo esatto il giusto [ηὰ δίκαια], il bene [ηὰ ἀγαθὰ] e il bello [ηὰ καλὰ]»
(731e);

2) L’amathia, cioè lo scambiare «per sapere la propria ignoranza [ἀμαθίαν] e, di


conseguenza, di presumere di saper tutto pur non sapendo, oserei dire, assolutamente nulla.
Capita così che per le cose che non sappiamo fare noi non ci affidiamo agli altri e, per volerle
realizzare di mano nostra, ci condanniamo al fallimento» (732a-b);

3) Infine dopo la diagnosi del peggiore dei mali e dei due suoi principali sintomi,
Platone indica anche la medicina, già accennata nel passo precedente sull’amathia, che
consiste nel far ricorso alla forza dell’esemplarità altrui: «ognuno eviti l’eccesivo amor di sé
[πάνηα ἄνθρφπον τρὴ θεύγειν ηὸ ζθόδρα θιλεῖν αὑηόν] e segua [l’esempio di] chi è migliore
di lui [ηὸν δ᾽ ἑασηοῦ βεληίφ διώκειν ἀεί], non usando come pretesto la vergogna [αἰζτύνην]
che seguirebbe a questo suo comportamento» (732b)

Qui di seguito, per ragioni di spazio, mi limito a considerare solo il secondo punto,
relativo all’amathia. Per quello sull’esemplarità rinvio ai mie precedenti lavori menzionati
all’inizio.

1.4. Eccessivo amor di sé ed amathia

A prima vista si potrebbe pensare che la tesi di Platone, secondo cui il maggiore di tutti i
mali è l’eccessivo amor di sé, si contrapponga a quella di Socrate secondo cui l’origine di tutti
i mali è l’ignoranza. In realtà la situazione è più complessa. La tesi secondo cui si fa il male
per ignoranza va innanzitutto letta tenendo presente che nell’Apologia Socrate dimostra che la
vera sapienza è il non sapere, inoltre che l’umano, al contrario degli dei, non è sapiente, ma al
massimo amante della sapienza. Ne consegue che per Socrate propriamente il male non si fa
per ignoranza, intesa come non sapere, ma a causa di un tipo di ignoranza ben più radicale.
La soluzione appare chiara non appena si tenga presente che Platone distingue
nettamente fra due tipi di ignoranza: amathia (il non sapere che ha la presunzione di sapere) e
agnoia (il non sapere che ha consapevolezza di non sapere). Nell’amathia oltre al limite
epistemologico, presente anche nella agnoia, sussiste un limite assiologico che ha la sua
radice etica proprio nell’eccessivo amor di sé. Pertanto non faccio il male perché non so, nel
senso che non ho sufficienti informazioni per comprendere come stanno le cose, oppure ho
informazioni sbagliate o false, ma perché sono accecato dall’amathia.
Una volta esplicitata tale differenza, risulta che nel passo 731e Platone non contesta la
tesi di Socrate, che riconduce la causa di tutti i mali all’ignoranza (amathia), ma piuttosto la
radicalizza. Per Platone il peggiore di tutti i mali è un eccessivo e smodato amore di sé stessi,
5
che genera l’amathia e impedisce l’agnoia; pertanto ha ragione Socrate a ricondurre il male
all’ignoranza, ma questa va intesa come amathia, che deriva i suoi limiti non solo da una
carenza epistemologica, ma in primo luogo da una forma d’infatuazione o cecità assiologica
causata dall’eccessivo amor di sé, o «egotismo». In 731e Platone fa pertanto un passo
ulteriore rispetto a Socrate e scopre che dietro l’amathia c’è l’eccessivo amore di sé, e che è
questa la causa ultima di tutti i mali.
La distinzione fra amathia e agnoia permette di mettere in crisi anche la tesi
dell’intellettualismo socratico che nasce con la lettura aristotelica del Protagora, quella
secondo cui per essere virtuosi è sufficiente la conoscenza: se la premessa precedente è vera,
allora per essere virtuosi non basta un procedimento intellettuale di apprendimento che
consenta di superare l’ignoranza epistemologica, ma è necessario qualcosa in più, e questo
qualcosa in più è quel percorso di guarigione dall’amathia e dall’egotismo, reso possibile da
quella che, riprendendo un termine oggi attuale, si potrebbe indicare come la forza
dell’esemplarità altrui, a cui Platone fa cenno anche nel passo 732b.5

5
Sul concetto di esemplarità cfr. il mio saggio Sull’esemplarità aurorale: «Con etica dell’esemplarità intendo
un’etica che non miri a fondarsi sulla correttezza procedurale del giudizio morale o sull’aderenza a un dover
essere o a un principio razionale, valido per tutti allo stesso modo, ma piuttosto a promuovere, attraverso
l’esemplarità, la fioritura della struttura affettiva dell’uomo e con essa la formazione della persona.
L’esemplarità è universale non nella misura in cui uniformi, facendo riprodurre una identica procedura in ogni
individuo, ma solo nella misura in cui trasforma l’ordo amoris di tutte le persone con cui viene a contatto,
inducendo in ciascuna di esse un incremento delle differenze qualitative» (G. Cusinato, Sull’esemplarità
aurorale, saggio introduttivo a: M. Scheler, Modelli e capi, FrancoAngeli, Milano 2011, pp. 9-10).
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