II Decameron di Boccaccio è il fiore più splendido della prosa trecentesca, ma non esce
improvviso, né rimane isolato. Narrare belle storie o esemplari anedotti, divertire rac-
contando con saggezza e arguzia, è costume di una civiltà, nella quale il vivere intensamente
(e il narrare la vita intensa) sa opporsi alle cupe paure d'oltretomba, alle forti passioni e
agli affanni politici.
Negli ultimi decenni del Trecento c'è un'altra raccolta di novelle: è di Franco Sacchetti
(1332-1400), fiorentino, mercante, nonché scrittore per diletto. Nel Trecentonovelle di
Sacchetti non ci saranno gli intrecci complessi dei racconti di Boccaccio, né tanto meno la
struttura salda del Decemeron. Troveremo trame semplici, scorciate, molto spesso risolte nel
gusto della battuta a effetto, del caso di vita curioso o stravagante: come è proprio, per
l'appunto, di chi scrive per svagare o svagarsi, per distrarsi o distrarre un pubblico, al quale si
vuol dare sollievo dalle cure del mondo.
Queste cure invece costituiscono lo sfondo delle opere di alcuni cronisti della vita politica
fiorentina. Dino Compagni (1246/47-1324), già priore a Firenze nel 1289 e nel 1301,
racconta con passione tutto ciò che visse. Nella Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi
di Compagni entra dunque la storia di Firenze dall'inizio del secolo, con lo scontro fratricida
delle opposte fazioni, con gli intrighi di papa Bonifazio VIII: e poiché il cronista, come
Dante, fu tra quelli che conobbero la sconfitta e l'esilio, il libro si ravviva in un'accanita
discussione politica, si inasprisce in giudizi molto duri, quasi che la sua penna divenisse
finalmente un'arma affilata per una giusta vendetta.
Vincitore al contrario fu Giovanni Villani (1267-1348) e perciò la sua Cronica è pacata,
più attenta a minuzie, più entusiasta, si capisce, a narrare gli splendori della vita comunale
fiorentina.
È un esercizio astratto, ma non arbitrario, il guardare a un insieme composito di scritture e di
esperienze letterarie. I frammenti di tantissime voci lontane, e magari stonate tra di loro,
costituiscono infatti alla fine un coro dissonante ma concreto della babilonia dei discorsi di
una lunga stagione letteraria. E c'è allora nel Trecento chi vuole vivere le passioni politiche,
per poi farsene testimone. Come c’è chi vuole starsene lontano, consapevole della propria
lontananza, per scrivere solamente per svagarsi. Come c'è, soprattutto, chi si stacca per
sempre dal mondo e ritorna all’antica vocazione medioevale di guardare verso il cielo, di
gioire o soffrire con Dio.
Anche questo coro religioso di poeti e scrittori è un coro dissonante negli echi delle voci
diverse che ci sono pervenute. Suona ancora forte nel Trecento il candore stupefatto della
voce francescana: nei Fioretti di san Francesco (un’anonima raccolta di episodi esemplari)
c'è di nuovo quel clima di attesa fiduciosa, quella compagnia universale delle tante creature,
che animava il Cantico di Frate Sole.
Ma alla voce bianca della tradizione francescana si accompagnano nel coro altre voci cupe:
e ritorna minacciosa un'immagine non cordiale di Dio, un'immagine terribile nella propria
grandezza, nella sua lontananza dall’uomo. È un'immagine di Dio che spaventa nel giudizio,
che propone di nuovo l'angoscia del peccato, con l'orrore della carne.
L'uomo perseguitato dal demonio seduttore, il corpo straziato e martoriato, le pene
dell'Inferno, le visioni allucinate, i sogni stravolti dagli inganni del peccato: questi temi, tutti
insieme, tornano nello Specchio di vera penitenza di lacopo Passavanti (1302-1357). È un
altro breviario a tinte tetre dell'immensa paura medioevale di Dio: un breviario nel quale
tornano a dominare i motivi della morte, del giudizio terribile di Dio, delle pene d'oltretomba.
C'è una voce diversa, più complessa, nell'autunno del Medioevo: ed è quella che si
ascolta nelle Lettere di santa Caterina da Siena (1347-1380). Caterina lascia il mondo, si fa
monaca, attraversa anche lei l'esperienza del martirio corporale, del cilicio e del digiuno, ma
alla fine approda a visioni liete e luminose.
Caterina scrive al Papa, scrive a re, a regine, scrive a prìncipi, a fratelli e sorelle, scrive a
tutti perché vuole raccontare a ognuno ciò che ha visto e vissuto dentro sé. Caterina, senza
averne spavento, è discesa nell'intrigo misterioso dell'anima, per sentire, con dolcezza e con
tremore, ogni moto del cuore. Ha scoperto alla fine che il sentire terreno non esclude l'amore
per Dio. È una grande scoperta. È una luce che allieta. E Caterina la comunica con gioia.
La rinascita umanistica
Con santa Caterina da Siena l'oppressiva spiritualità religiosa del Medioevo sembra ormai
già al tramonto: il peccato non è più fatale condanna per l'uomo, diventa una libera scelta. Ciò
significa che l'uomo finalmente può tornare padrone del suo destino. E difatti fra la fine del
Trecento e l'inizio del Quattrocento si afferma pian piano il mito della "rinascita".
Il Medioevo aveva proposto un'immagine debole ed effimera dell'uomo, segnata per sempre
dal peccato di origine, oppressa dalle miserie della carne, minacciata dalle insidie del
demonio. L'uomo umiliato poteva sperare la salvezza solo da Dio: e guardava allora verso il
ciclo, estasiato o impaurilo. Ora invece ritorna a guardare se stesso e ciò che gli si muove
intorno: riscopre la propria energia, la propria forza creativa.
L'uomo della "rinascita" sarà un essere liberato: consapevole della propria intraprendenza,
cosciente della capacità di piegare la realtà, di rifarla o modellarla con l'intelligenza. La
scoperta è magnifica: è un risveglio da una lunga oppressione, un ritorno finalmente a
respirare l'aria aperta e leggera. È un risveglio che promette giorni splendidi di avventure in
una nuova conoscenza.
II futuro è grandioso nelle promesse, ma intanto il presente, anche solo il presente, appaga,
perché l'uomo rinato può intanto contemplare, soddisfatto, il già fatto e narrarselo come suo.
"Nostre infatti, e cioè umane perché fatte dagli uomini", dice un Giannozzo Manetti (1396-
1459), declamando spavaldo un'orazione sulla Dignità e eccellenza dell'uomo, "sono tutte le
cose che si vedono: le case, i villaggi, le città; tutte infine le costruzioni della terra che sono
tante e tali, che per la loro grande eccellenza dovrebbero a buon diritto essere ritenute opere
piuttosto degli angeli... Sono nostre le pitture, le sculture, le arti e le scienze..." Pare un inno
felice, in cui l'uomo si riappropria alla fine di sé.
Gli uomini della nuova cultura, che sarà poi detta umanista, lentamente maturano la loro
esperienza ed esprimono una rinnovata concezione di vita, confrontandosi con il passato,
studiando, leggendo, scegliendo i maestri lontani o vicini nel tempo. Riascoltano ovviamente
l'eco ancor viva delle voci di Petrarca e Boccaccio, ma vanno soprattutto, con spirito
completamente nuovo, a riscoprire i classici: i latini specialmente.
Nei testi degli antichi scrittori trovano una concezione di vita più affine alla loro: ritrovano
un modello di uomo consapevole della propria dignità, del suo grande destino terreno, nel
quale si riconoscono pienamente. Dopo aver rinnegato il Medioevo come età di barbarie,
interposta fra passato e presente, questi nuovi umanisti si daranno con passione allo studio dei
classici, scopriranno in quei testi congeniali la misura per comprendere se stessi, e insieme,
per l'appunto, il modello ideale da cui trarre ogni stimolo e guida a pensare e operare.
La passione filologica
Più avanti nel tempo, lo vedremo, sarà proposto un vero e proprio canone di imitazione. Ma
per ora il problema più urgente è quello di rimettere alla luce i testi dei classici: di rileggerli
soprattutto nella loro integrità. Gli umanisti si muovono dunque verso le vecchie biblioteche
dei conventi a cercare gli antichi manoscritti. Ed è un frugare attento, un esplorare entusiasta e
paziente per scoprire e poi leggere, postillare e quindi trascrivere, per trasmettere infine le
scoperte ad amici vicini e lontani.
C'è quasi un furore religioso nella comune passione di questi umanisti. È uno dei momenti
assai rari della nostra storia letteraria, nel quale tanti uomini soli e assorti in un sogno si
aggregano in un gruppo compatto e trovano una intcriore compagnia che fa bene. Girano
infatti per tutta l'Europa lettere esaltate e commosse. Poggio Bracciolini (1380-1459), per
esempio, dal convento di San Gallo, vicino a Costanza, parla di un'inaspettata scoperta. Tra la
muffa e la polvere della biblioteca di quel convento ha trovato un codice intatto. Ne scrive con
animo lieto, festante, a un amico: racconta la scoperta come avesse davvero liberato un tesoro
sepolto in un "carcere" dai "barbari" del Medioevo.
Gli umanisti scovano dunque i manoscritti e poi li studiano con grande amore. Nascono
allora accademie, congreghe, sotto la protezione discreta di prìncipi colti. L'Umanesimo ha la
sua culla a Firenze, all'inizio fra i discepoli di Pe-trarca e Boccaccio; poi gli umanisti si
riuniscono alla corte di Lorenzo il Magnifico. A Roma i Papi incoraggiano gli scavi
archeologici. A Napoli la corte degli Aragonesi, a Ferrara quella degli Este, a Mantova quella
dei Gonzaga chiamano a raccolta poeti e studiosi.
La passione dei classici comporta comunque un'analisi serrata e profonda. Rileggere i testi
antichi significa per gli umanisti studiarli con metodo e disciplina. Nasce così la nuova
scienza filologica: si tratta di studiare da capo il latino dei classici, bisogna attrezzarsi di
strumenti adatti all'indagine scrupolosa del mondo antico, bisogna - prima ancora -restaurare
quei testi tramandati molto spesso da copisti ignoranti e distratti.
La scienza filologica ha un esito immediato: porta chi studia a riacquistare il senso della
storia. Questa scienza esprime infatti una nuova misura del sapere. Conoscere non può più
significare soltanto accettare l'autorità indiscussa dei "padri" del passato, di Aristotele e san
Tommaso, per esempio. Conoscere vuol dire affidarsi invece all'esperienza diretta, significa
cercare, trovare, confrontare, verificare comunque su dati di fatto concreti, visibili, per capire,
distinguere ciò che è vero da ciò che ha solo l'apparenza della verità. 11 conoscere cessa
dunque di essere un'azione passiva e diventa un'azione diretta: si fa avventura, ricerca senza
fine. E quello che accade nello studio degli antichi manoscritti, accade nello studio della
natura.
Leonardo da Vinci (1452-1519) lascia scritto, in uno dei suoi tanti frammenti di diario, un
breve episodio di vita. Un giorno, mentre cammina, viene a trovarsi per caso all'entrata di
un'enorme e oscura caverna. È attratto dal buio che avvolge ogni cosa, tirato da una voglia
"bramosa" di andare a scoprire le "vane e strane" forme nascoste in quel buio. D passo non è
facile. Se è forte il "desiderio", forte altrettanto è la "paura": paura per le minacce possibili
celate dalla "scura spelonca", "desiderio" di vedere cosa "fusse" là dentro, nell'attesa di
trovarvi "alcuna cosa miracolosa".
L'episodio è simbolico. L'avventura della conoscenza, nel secolo xv, è davvero un salto
coraggioso nel buio: a vedere e stupirsi, a toccare con mano, misurare, sezionare le forme, per
sapere, per conoscere i grandi miracoli della natura. Rimane intatto, stupefatto, lo sgomento
religioso nei confronti del mistero: ma è più urgente, più potente, il bisogno di indagare.
L'avventura non si ferma in brevi orizzonti, diventa avventura totale. Conoscere il mondo
significa studiare tutto: entrare curiosi in qualsiasi scienza, accostarsi a ogni segreto, per
tentare, se possibile, di svelarlo.
Nasce allora, con l'Umanesimo, una nuova figura di intellettuale: ed è quella dell'uomo
poliedrico che allarga l'interesse di studio a tutte le forme del sapere. Così è appunto
Leonardo da Vinci: pittore grandissimo, scultore, matematico, studioso di tutte le scienze,
dall'idraulica alla meccanica, dall'anatomia umana alle scienze naturali. Così era stato, ancor
prima, Leon Battista Alberti (1404-1472): architetto insigne, teorico raffinato delle arti
figurative, matematico anch'egli, fisico, musicista, oltreché, ovviamente, letterato.
La ricchezza di queste personalità poliedriche, la loro attenzione curiosa per qualsiasi
fenomeno dell'arte e della natura interpretano molto bene la freschezza giovanile del nostro
Umanesimo: il senso dell'autentica e integrale rinascita di un uomo, il quale, mentre riscopre
se stesso, si appropria anche di quello che ha intorno. L'umanista è un uomo proteso verso un
sogno: il sogno magnifico di uno sviluppo armonico e totale di ogni facoltà, il sogno di
sentirsi in tutto e per tutto artefice primo del proprio destino.
Questo sogno trova anche un'espressione letteraria importante nell'Orlando innamorato di
Boiardo. Matteo Maria Boiardo (1441-1494) riprende i temi della vecchia epopea
carolingia, ma trasforma Orlando, che era stato il grande paladino medioevale della fede e
dell'ubbidienza, nell'eroe della nuova cultura. Orlando si fa infatti l'uomo nuovo che sa
abbattere ogni ostacolo, che sa imporsi alla Fortuna, che afferma se stesso e ottiene la gloria e
la fama.
Ma quest'uomo non è ricco soltanto di forza e di gloria: è sensibile, sa incantarsi di fronte
alla bellezza, sa amare con infinita tenerezza. Nell'Orlando innamorato ci saranno pertanto
grandi battaglie, duelli epici, spettacoli di ardire e di forza, ma insieme mille altre avventure
meravigliose, dove mostri, giganti, fate diventano proiezioni figurative di un groviglio vitale
di passioni, emozioni, sensazioni: un groviglio che ha la propria misura nella sua stessa
esuberanza.
II sogno degli umanisti è tuttavia breve, si corrompe troppo presto in un gioco vago, in un
culto astratto di un'armonia ideale che diventa fittizia. C'è nel secondo Quattrocento un'altra
personalità poliedrica ed è quella di Lorenzo de' Medici detto il Magnifico (1449-1492):
politico accorto, abilissimo diplomatico, tanto che riuscì per parecchi anni a mantenere la
pace e l'equilibrio fra i vari stati italiani; e ancora poeta, curioso di tutte le esperienze lette -
rarie; e infine mecenate davvero "magnifico", capace di raccogliere intorno a sé il fior fiore
dell'intelligenza del tempo.
Alla sua corte a Firenze (come del resto a quella degli Este a Ferrara e in altre ancora)
convengono i letterati da ogni parte d'Italia: protetti dal principe, sollevati da ogni cura, vi-
vono il sogno di un'armonia perfetta, lasciandosi assorbire dalle letture dei classici e dal gioco
delle belle parole. Il gusto della riscoperta dei testi antichi, il lungo lavoro filologico per
rimetterli alla luce, l'innamoramento nello studio degli antichi manoscritti finiranno per far
scovare in essi e poi imporre dei modelli di perfezione da imitare. Da principio contava
soprattutto riscoprire in quei testi il prototipo di un uomo compreso della propria dignità.
Finirà poi invece per attrarre molto di più nei classici l'assoluta perfezione delle forme.
C'era stata una stagione giovane dell'Umanesimo, nella quale la coscienza della "rinascita"
aveva portato a un furore di ricerca, a un ansioso frugare fra i segreti delle biblioteche, come
fra quelli della natura. E c'è invece un'altra stagione, più matura (ma anche più invecchiata),
nella quale gli umanisti si accomodano in un pigro ideale di vita letterario: dove il sogno
dell'armonia del mondo viene appunto incarnato soltanto negli antichi miti leggiadri e nei
giochi preziosi di parola.
Il poeta umanista più importante di questa stagione matura è Angelo Poliziano (1454-
1494). Le sue Stanze per la giostra sono scritte con il pretesto di celebrare la vittoria di
Giuliano de' Medici (il fratello di Lorenzo) in un torneo d'armi ed esaltano il mito classico
dell'eterna bellezza. Il tema è assai gracile. Ciò che conta nelle Stanze è tuttavia il decoro:
l'apparenza preziosa delle immagini, il perfetto suono del verso, l'intreccio melodioso delle
strofe, tutto quanto insomma riproduce pari pari lo splendore dei testi antichi.
Il mondo di Poliziano si fa astratto nel suo idillio perfetto: è un mondo che decora la realtà,
una sorta di Eden incantato che ignora la morte e il dolore, che si specchia compiaciuto nella
propria armonia. In questo Eden è perenne la primavera. In questo Eden trionfa solamente la
bellezza. L'armonia regna dunque sovrana e la quiete sembra eterna.
L'avventura della parola
Il Rinascimento e le corti
II mito della "rinascita" raggiunge il culmine nei primi decenni del Cinquecento, quando si
inaugura la civiltà che viene detta, appunto, del Rinascimento. Questa civiltà è il frutto
maturo dell'Umanesimo: è splendida certamente, ma finisce per specchiarsi e chiudersi
ostinatamente nel suo splendore. Amplifica ed esalta la scoperta della grande energia creatrice
dell'uomo nel mondo, ma insieme la corrompe e la snatura.
L'Umanesimo era nato a Firenze, in un libero Comune che credeva ancora in se stesso:
perciò, da principio, lo scrittore umanista era un libero cittadino, confidente in sé, eco-
nomicamente slegato da ogni potere. Poi invece, con il passare del tempo, questo libero
scrittore si aggrega a una corte, va ubbidiente al servizio di un Signore e lo celebra. Ciò
accade in maniera vistosa a Firenze, alla corte di Lorenzo il Magnifico, ma accade anche
altrove: a Urbino con i Montefeltro, a Ferrara con gli Este, a Roma con i Papi. Il passaggio
è fatale e diventa obbligato. La storia di gran parte della nostra cultura rinascimentale appare
infatti raccolta all'interno della magnifica cornice di una vita di corte.
Il Signore si fa mecenate delle arti: accoglie a palazzo poeti e pittori, scultori e architetti, li
protegge, li paga anche bene, li stimola, senza troppo forzarli nel loro lavoro. Se ne serve
talvolta per delicate missioni diplomatiche o per propaganda politica. Ma vuole soprattutto
trarre dal loro intelletto lustro e prestigio e insieme vuole esserne lodato, celebrato: gli artisti,
pigri, svagati, stanno al gioco, diventano letterati di professione, contenti troppo presto di
rivivere quel lontano passato, già vissuto da uomini come Virgilio e Ora-zio, nella Roma
degli Imperatori.
Il poeta diventa mercenario: passa da corte a corte, si lascia ingaggiare e comprare.
Tra Ferrara, Urbino e poi Roma si muove, per esempio, Pietro Bembo. Lo stesso itinerario,
con la sola variante della partenza dalla corte mantovana dei Gonzaga, percorre Baldassar
Castiglione. Con molti altri, Bembo e Castiglione se ne stanno sereni nel chiuso splendore dei
palazzi: si adoprano anzi a rendere ancora più splendidi quei palazzi, a dettare regole raffinate
di vita e dimenticano intanto la triste realtà delle cose. Sull'Italia scendono Francesi e
Spagnoli, cancellano i piccoli stati, li inglobano nei loro più forti giochi di potere. Gran parte
dei poeti fanno finta di niente.
Rimane ancora una corte italiana che offre, almeno per ipotesi, l'illusione di condurre
una vera politica autonoma di prestigio: la corte romana dei Papi. È un fatto avvilente, ma
accade, che gran parte degli scrittori del nostro Rinascimento cerchino, ignorando ogni
pregiudizio morale, privilegi ecclesiastici.
Bembo diventa segretario pontificio, più tardi sarà cardinale. Castiglione è
protonotario del Papa e quindi nunzio apostolico. Ariosto, anche lui, gode dei benefici
ecclesiastici e coltiva persino la speranza di una dignità vescovile, quando sarà eletto papa
Leone x, suo amico. Così è pure per i minori: Folengo è monaco benedettino, Firenzuola
vallombrosano, Berni si muove ligio al servizio di potenti signori della Chiesa.
Accade anche che Machiavelli e Guicciardini, gli intellettuali più "laici" del nostro
Cinquecento, facciano i conti con la Curia. Guicciardini sarà luogotenente delle truppe ponti-
ficie. Machiavelli non potrà evitare di guardare alla Chiesa, nel proprio sogno di un principato
italiano.
Nei raffinati ambienti delle corti rinascimentali si raccolgono dunque gli ingegni d'Italia:
sono uomini, tutti, che conoscono e predicano il culto della misura, del decoro, della sobria
eleganza di gesti e parole, di un ragionevole equilibrio intcriore, che eviti ogni eccesso.
Questi uomini tornano a studiare Platone e scoprono che può esistere, al di sopra del mondo
reale, transitorio e imperfetto, un mondo ideale, che è invece perfetto, senza tempo.
Ripensano a questo mondo ideale e cercano di riviverlo tra di loro: di farlo concreto per se
stessi, creature dotate di una superiore cultura e di un genio creatore.
Nasce un progetto grandioso. L'uomo del Rinascimento guarda se stesso e si piace: ma
pensa che potrebbe divenire ancora più bello, se riuscisse a esaltare le sue qualità sia del
corpo che dell'anima. Basterà dare forte dominio alla ragione sui sensi, senza doverli per
questo mortificare del tutto. Basterà coltivare il gusto della bellezza e dell'armonia, il piacere
di essere cortesi e generosi. E allora si potrà diventare "perfetti" davvero.
L'ideale della perfezione non è soltanto un bel sogno campato per aria: è un progetto a cui
lavorano alacri questi bravi, compiti, letterati. Un progetto nel quale gli artisti e gli studiosi si
occupano con impegno e piacere, protetti come sono dagli ambienti di corte, magnifici nella
loro sobria eleganza, maestosi nel loro misurato decoro.
Baldassar Castiglione (1478-1529) dà allora nel Cortegiano il ritratto dell'uomo di corte
perfetto: è un uomo superiore, si intende, olimpico nella calma, dotato di una cultura
eccellente, di bei modi, ha una grazia naturale di parola, ha una giusta "sprezzatura", che lo fa
non troppo spontaneo, né troppo sorvegliato, noncurante magari, ma mai trascurato.
Pietro Bembo (1470-1548) invece si occupa dell'amore in un dialogo dal titolo
Asolani: predica un giusto controllo delle basse passioni, una loro sublimazione nel platonico
esercizio di una moderata elevazione dello spirito.
Verrà più tardi Giovanni Della Casa (1503-1556) a insegnare con il Galateo persine i
dettagli più minuti delle buone maniere; intanto Agnolo Firenzuola (1493-1543) si preoccupa
di dare un ideale ritratto della bellezza femminile: disegna il profilo di una splendida donna in
carne, alta, bionda e formosa, che si oppone alla diafana, astratta bellezza medioevale.
Verranno molti altri manuali: il Principe di Niccolo Machiavelli e la sua Arte della
guerra daranno l'immagine dell'uomo politico perfetto, così come della perfetta teoria dell'arte
militare. Ma intanto è naturale che tanti letterati, così compiaciuti nel dettare le norme precise
per la vita, rivolgano l'attenzione ai problemi del loro mestiere e pensino di indicare, con
regole dettagliate, i modelli perfetti di lingua e di arte, nonché dei vari generi letterari.
C'è un comune fervore di intenti, un cordiale e continuo scambio di idee nelle dotte e
piacevoli conversazioni che si svolgono nelle tante accademie sorte all'ombra delle corti. E in
queste accademie si commenta la Poetica di Aristotele, nella fresca traduzione in latino, si
discute della lingua letteraria in prosa e poesia. La perfetta letteratura sarà ovviamente la
letteratura dei classici che ha raggiunto per sempre l'armonia, che ha segnato un modello
ideale insuperabile di bellezza: un modello da imitare attraverso un codice di regole precise.
Per la lingua il problema è più serio. Gli da soluzione Pietro Bembo. Nelle Prose della
volgar lingua il modello è segnato nella lingua fiorentina di Petrarca e Boccaccio. Per lo
scrivere in prosa il discorso è più vago. Per lo scrivere in versi si concorda su un paradigma:
la parola poetica sarà astratta, armoniosa, più importante nel suono che in ciò che rappresenta.
D decoro, la misura, l'armonia hanno dunque la precedenza assoluta su tutto.