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Antropologia filosofica ed etica (Introduzione) Prof.

Schirone

Dispense lezioni del 7 e 20 ottobre 2020 al solo uso degli


studenti del I Anno di Scienze religiose

L’ uomo al centro del discorso filosofico


In questa prima parte cercheremo di tracciare il rapporto tra
etica e antropologia filosofica dal momento che al centro del
nostro studio c’è la persona nel suo insieme.
Viviamo in un’epoca di “emergenza antropologica”: psicologia
sperimentale, neuroscienze, biologia evoluzionistica e nuove
tecnologie ci hanno costretto a riconsiderare ab imis
fundamentis ( dalle più basse fondamenta) che cosa è l’uomo,
ci hanno spinto a risemantizzare il concetto di persona, a
evidenziarne la problematicità in quanto entità che e insieme
stabile e processuale, continua e mutevole nel tempo,
irriducibile ed “emergente” sotto alcuni aspetti ma
frammentaria sotto altri, e a mettere in dubbio se sia ancora
legittimo parlare di una “natura umana” e della sua presunta
specificità Nell’attuale contesto speculativo, inevitabilmente
caratterizzato da un primato delle scienze sperimentali e da
rinnovate forme di naturalismo, si ripropone con ancora più
radicalità il celebre interrogativo kantiano: «Che cose l’uomo?
Was ist der Mensch?». Di questo era ben consapevole anche
Martin Heidegger, il quale già negli anni Venti del Novecento
scriveva: «Nessuna epoca quanto la nostra ha accumulato
sull’uomo conoscenze cosi numerose e diverse; nessuna epoca
e riuscita a rendere questo sapere cosi prontamente e cosi
facilmente accessibile. Eppure nessuna epoca ha saputo meno
che cosa e l’uomo».
Ogni studio sull’uomo, dunque, non può prescindere
dall’investigare sull’essere e sul suo agire. Come afferma
Caltagirone, «L’antropologia ha nel suo statuto, il compito di
comprendere e definire il senso dell’uomo e la sua specificità
nell’ordine dei viventi. Il problema del senso è infatti, ciò che
caratterizza e connota la dimensione umana dell’uomo».
L’uomo è l’essere vivente che si pone delle domande
fondamentali: Chi sono io? Da dove vengo? Dove vado?
Domande che attraversano la sua esistenza e lo spingono verso
un superamento di sé stesso. L’uomo, diceva Sant’Agostino, è
un enigma a sé stesso e qualche secolo più tardi nel testo
L’uomo e la storia Max Scheler affermava che «Se c’è un
compito filosofico il cui assolvimento viene richiesto in
maniera particolarmente pressante nella nostra epoca, questo è
quello di un antropologia filosofica. Intendendo una scienza
fondamentale relativa all’essenza, alla costituzione essenziale
dell’uomo […]. In nessun’epoca le vedute circa l’essenza e le
origini dell’uomo sono state più incerte, più indefinite e
molteplici che nella nostra […]. Noi siamo diventati, in quasi
diecimila anni di storia, la prima epoca in cui l’uomo è

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diventato completamente e interamente ‘problematico’ a sé
stesso, in cui egli non sa più che cosa è, ma
contemporaneamente sa anche di non saperlo» Max Scheler ha
cercato di recuperare una visione antropologica meno
frantumata e scissa nei vari saperi ed ha messo chiaramente in
evidenza come la crisi di conoscenza di se da parte dell’uomo
costituisca uno dei tratti più drammatici dell’epoca moderna e
segnatamente del Novecento. Sottolinea Scheler – l’uomo e
divenuto cosi enigmatico a se stesso come ai nostri giorni. […]
Abbiamo una antropologia scientifica, una antropologia
filosofica e una antropologia teologica che si ignorano a
vicenda. Cosi non possediamo una qualche idea concreta di
quel che l’uomo e. Nella loro sempre più grande molteplicità le
discipline particolari applicatesi allo studio dell’uomo, più che
chiarirne il concetto lo hanno oscurato e reso poco
comprensibile».
L’uomo contemporaneo, sa certamente molte più cose
sui fenomeni naturali, come il lampo, il tuono o il terremoto,
ecc., dei suoi antenati preistorici, e se oggi l’uomo può godere
di un migliore tenore di vita, sconfiggere le malattie, viaggiare
nello spazio, questo lo deve sicuramente alla sua curiosità e
intelligenza, alle domande che si è posto, che hanno fatto
crescere il suo interesse in svariati campi facendolo progredire
in ogni ambito, sia culturale, scientifico e sociale.
Le scoperte in campo medico, biologico e tecnologico
sono state in grado di dare all’uomo una risposta a molte delle
sue domande. Questa conoscenza, però, non ha eliminato o
diminuito la sua perplessità, al contrario, probabilmente ha reso
l’uomo ancora più insicuro di quanto non fosse il suo avo
preistorico.
Quest’ultimo, infatti, non conosceva le origini dei
diversi fenomeni naturali dai quali veniva sicuramente
sconcertato, ma certamente la sua vita era molto più semplice, i
suoi rapporti, infatti, erano abbastanza limitati e non si poneva
molte domande su sé stesso e sui suoi simili.
Può apparire strano, ma l’uomo dimostra una maggiore
maturità e sicurezza proprio quando si pone domande che
riguardano la sua esistenza, quando si chiede il perché della sua
presenza nel mondo e se questa ha o no un senso per sé e per
gli altri.
Per lo psicologo Viktor E. Frankl, infatti, «Il porre in
dubbio che la propria vita abbia un senso non dev’essere
considerato di per se stesso come qualcosa di morboso: è
invece espressione dell’esser-uomo, di ciò che nell’uomo vi è
di più umano.[…]. La problematicità dell’esistenza è dunque
una prerogativa essenzialmente nostra. Il momento in cui
l’uomo pone in dubbio il suo stesso essere, che la sua vita abbia
un significato, è più importante a differenziarlo dagli altri
animali del fatto di poter parlare, di poter pensare, di
camminare eretto, ecc.».

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Le moderne scienze umane come la sociologia,
l’etnologia e l’antropologia hanno rivelato che persino gli
uomini antichi si ponevano le domande sul senso della vita, alle
quali trovavano una soluzione ricorrendo ai diversi miti come
quello cosmogonico e teogonico.
La nostra epoca è spesso definita come “l’epoca dei
post”: si è parlato e si continua a discutere di
“postmodernismo”, “postumano”, “poststrutturalismo”,
“postdemocrazia”, ecc. Di certo la nostra è un’epoca segnata da
un generale congedo nei confronti dei grandi miti filosofici,
metanarrazioni ed ideologie che hanno segnato l’epoca
moderna
Per molti secoli l’uomo è stato legato alla cultura
agraria, da questa era stato forgiato e in base ad essa aveva
organizzato la sua vita che, a ben vedere, era intimamente
connessa con il ciclo delle stagioni.
Poi, l’avvento della rivoluzione industriale a partire
dalla metà del settecento - caratterizzato dall’introduzione di
nuove macchine e soprattutto da una nuova organizzazione del
lavoro - comportò il trasferimento dell’attività lavorativa dalla
campagna alla fabbrica. Le città, dove erano sorti i nuovi centri
industriali, si trasformarono, diventarono sovraffollate e
degradate. All’uomo “industriale”, divelto ormai dal proprio
passato e strappato dal suo legame con la natura, fu offerta
un’esistenza impersonale, misera e priva di significato. La
situazione non è, poi, molto diversa per l’uomo appartenente
all’era post-industriale a cui è richiesto di non porsi delle
domande su sé stesso, né sul mistero dell’alterità e/o sul senso
dell’esistenza ma piuttosto di produrre – possedere –
consumare - e infine- godere.
La cultura europea intorno al 1850 fu attraversata da
una nuova corrente di pensiero che accentuò il divario tra la
filosofia e le scienze particolari. La separazione tra filosofia e
scienza, nata già nel corso del pensiero illuminista, si rafforzò
con il positivismo. Questa corrente filosofica diede origine a
diverse discipline come la sociologia con Comte, l’antropologia
culturale con l’evoluzionismo di Lewis Henri Morgan e Tylor,
la psicologia con Wundt. Sono questi, gli anni dei progressi
delle scienze biologiche, matematiche e della teoria
dell’evoluzione formulata da Ch. R. Darwin nella sua opera
L’origine delle specie per selezione naturale. Proprio
quest’ultima teoria offrì le basi per dare alla ricerca
naturalistica un indirizzo e un respiro filosofico. Tra la fine
dell’800 e l’inizio del ‘900, infatti, come è già stato detto, la
critica kantiana rivolta alla metafisica contribuì allo sviluppo
delle diverse scienze dell’uomo le quali offrirono vari ambiti
disciplinari, tra queste l’antropologia strutturale di Lévi-
Strauss, la storia, la fenomenologia, la psicanalisi ecc. La
filosofia cominciò ad interessarsene mossa dal desiderio e dalla
fiducia che dalla discussione dei problemi inerenti la vita

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biologica si raggiungesse anche un risultato riguardante gli altri
temi più specificatamente spirituali o psichici inerenti la natura
umana. Tutte queste discipline, e in particolare quelle
marcatamente scientifiche, pongono al centro l’uomo.
La filosofia, allora, ritenendo di non avere nessuna
possibilità di ottenere delle risposte oggettive dalla metafisica,
e dopo aver ormai abbandonato qualsiasi ambizione in tal
senso, pone anch’essa l’uomo al centro della sua indagine.
Questa decisione è interpretata e motivata come tentativo di
scoprire realmente chi è l’uomo e, pertanto, si offre alla scienza
come metodologia, per organizzare in modo sistematico tutto il
sapere elaborato dalle scienze particolari, per giungere, così, al
sapere unitario. I filosofi a cavallo tra il XIX e XX secolo
sensibili alla svolta culturale operata dalla scienza elaborarono
una diversa visione dell’uomo facendone emergere una
particolare propensione e immagine. Ad es. se attraverso
l’opera di Marx abbiamo l’uomo economico, con Freud l’uomo
è istintivo, con Kierkegaard è angosciato, con Nietzche è
super-uomo mentre con Ricoeur l’uomo è fallibile, invece
Heidegger lo definisce l’ex-istente, ma abbiamo anche l’uomo
ermeneutico con Gadamer e quello problematico con Marcel e
perfino quello religioso con Luckmann. Certamente questo è un
quadro settoriale, sicuramente insufficiente per definire
veramente chi è l’uomo e qual è il senso della sua esistenza. Le
singole discipline scientifiche possono darci solo un’idea
parziale di cos’è l’uomo, nessuna è in grado di offrire una
risposta esaustiva e approfondita o è stata capace di andare oltre
l’esteriorità, a conoscerlo per ciò che veramente è al di là dei
condizionamenti sociali, economici, culturali e religiosi,
andando oltre anche la sua sessualità, tempo, spazio e
formazione
Ogni epoca ha cercato di fondare un’antropologia, ossia di
rispondere a quelle domande filosofiche sull’uomo. Già Sofocle
nell’Antigone cinque secoli prima di Cristo, si era posto il
problema avvertendo che nell’uomo c’è qualcosa di
straordinario che lo rende capace tanto di gesta memorabili
quanto di crimini ignominiosi. Se, come abbiamo visto alcuni
filosofi hanno dato una loro definizione di cos’è l’uomo,
certamente tutti ricordano l’espressione di Aristotele: L’uomo è
un animale ragionevole e parlante.
«Forse ci sono funzioni e azioni proprie del falegname e del
calzolaio, mentre non ce n’è alcuna propria dell’uomo? L’uomo
è forse nato senza alcuna specifica funzione naturale? Oppure
come c’è, manifestamente, una funzione determinata
dell’occhio, della mano, del piede e in genere di ciascuna parte
del corpo, così anche dell’uomo si deve ammettere che esista
una determinata funzione oltre a tutte queste?
Quale dunque potrebbe mai esser questa funzione? È manifesto
infatti che il vivere è comune anche alle piante, mentre qui si
sta cercando ciò che è specie-specifico dell’uomo. Bisogna

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dunque escludere la vita che si riduca a nutrizione e crescita.
Seguirebbe la vita dei sensi, ma essa è, manifestamente,
comune anche al cavallo, al bue e ad ogni altro animale.
Rimane la vita intesa come quel determinato e specifico agire
proprio “dell’animale” che ha linguaggio: sia nel senso che si
lascia persuadere col linguaggio sia nel senso che ha linguaggio
e ragiona […] Poniamo come funzione specie-specifica
dell’uomo una determinata vita, ossia l’attività dell’anima e le
azioni che si compiono col concorso del linguaggio.
Secondo quanto espresso da Aristotele tre sono le
caratteristiche proprie dell’uomo il linguaggio, la razionalità e
le sue azioni morali. Tuttavia appare evidente che è il logos ad
essere la facoltà essenziale dell’uomo:
l’uomo è l’unico animale che abbia il logos: la voce è segno del
piacere e del dolore e perciò l’hanno anche gli altri animali, in
quanto la loro natura giunge fino ad avere e a significare agli
altri la sensazione del piacere e del dolore.
Secondo Nicola Abbagnano le risposte date sull’uomo si
possono ordinare in tre gruppi: quelle che cercano di scoprire
attraverso l’indagine delle condizioni naturali dell’uomo
l’ideale stesso dell’umanità, un secondo gruppo che descrive le
capacità dell’uomo che parla e crea l’universo,e infine un terzo
che considera l’uomo come agente e plastico, ossia aperto al
mondo, dotato di libertà e della capacità di progettazione.
Queste tre risposte mettono in evidenza che l’uomo possiede
qualcosa che lo distingue e lo eleva da tutti gli altri esseri
viventi, soprattutto perché l’uomo sa di essere anche se non sa
perfettamente che cos’è e perché è. Proprio questa coscienza lo
porta a divenire altro da sé e a realizzare la sua umanità nel suo
agire e nel suo vivere bene. Scopre così di essere umano,
pratico ed etico.
La filosofia nasce dalla meraviglia. Già Aristotele affermava
nella Metafisica che «Tutti gli uomini aspirano per natura alla
conoscenza. Ne è segno l’amore che portano per le sensazioni:
e infatti le gradiscono di per sé, indipendentemente dall’uso che
ne possono fare, e tra tutte preferiscono le sensazioni che hanno
attraverso gli occhi. Preferiamo la vista a tutto, si può dire, non
soltanto ai fini dell’azione, ma anche quando non dobbiamo far
nulla. La causa di ciò consiste nel fatto che la vista ci dà
conoscenza più di tutti gli altri sensi, e ci rivela molte
differenze. Per natura gli animali nascono forniti di sensibilità;
da questa in alcuni si genera la memoria, in altri no. Perciò i
primi sono più intelligenti e più adatti a imparare di quelli che
non sono capaci di ricordare. Sono intelligenti, pur senza avere
la capacità di imparare, gli animali che non possono udire i
suoni (per esempio l’ape e altri animali del genere, se ce ne
sono); imparano invece quelli che, oltre alla memoria, hanno
anche la sensazione dell’udito. Gli altri animali conducono la

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vita con immagini e ricordi, ma partecipano poco
dell’esperienza1.
Il genere umano invece conduce la propria vita con arte e con
ragionamenti. Negli uomini dalla memoria nasce l’esperienza,
perché molti ricordi della medesima cosa costituiscono
un’esperienza. E, se sembra che in qualche modo l’esperienza
sia simile alla scienza e all’arte, in realtà, attraverso
l’esperienza, scienza e arte pervengono agli uomini, perché,
come dice giustamente Polo, l’esperienza ha generato l’arte,
l’inesperienza il caso.»
L’uomo, è evidente, è affascinato dal mistero che aumenta la
sua voglia di conoscere e Aristotele attraverso questo famoso
brano ne descrive il processo attraverso le sensazioni e la
memoria che rende sempre vive e uniche le esperienze vissute.
Proprio il desiderio di conoscenza porta l’uomo a sviluppare le
sue capacità intellettuali e tecniche che col tempo lo porteranno
a traguardi impensabili sia in campo medico che tecnologico.
Chi, dunque prova un senso di meraviglia o di stupore, come
afferma Aristotele, sa di non sapere ed è proprio questo stupore
iniziale, questa coscienza di non sapere che è all’origine della
nascita della filosofia. Soddisfare il bisogno di sapere chi è
all’origine dell’essere o perché c’è l’essere e non il nulla, sono
domande che hanno attraversato le diverse epoche. E del resto,
sono così connaturate all’essere stesso dell’uomo da divenire
ineludibili.
afferma Buber, se Aristotele si meraviglia dell’uomo in quanto
fa parte della natura già di per se stessa meravigliosa, Agostino
si meraviglia proprio perché nota che l’uomo pur facendo parte
della natura se ne distingue perché l’uomo «non è cosa tra le
cose». La meraviglia, lo stupore, ci fa conoscere e ci permette
di fare esperienza, di penetrare il senso della realtà. Nessuna
conoscenza potrà dirsi autentica se non ci trasforma in un
essere migliore. Oggi, tuttavia, l’uomo sembra aver perso la
capacità di stupirsi, nessuna cosa sembra più interessarlo o
interpellarlo. La meraviglia si è sostituita ad una insensibile
apatia. La nostra epoca, altamente tecnologica, ha sostituito ciò
che veniva considerato il centro dell’uomo, ossia l’intelletto e
la volontà, con le reazioni date dagli istinti. La cultura odierna,
secondo la CEI, ha contribuito con i suoi mezzi di
comunicazione a plasmare la società, tanto che alcuni parlano
di rivoluzione antropologica. «Non si tratta, infatti, di semplici
strumenti ma di nuovi linguaggi e processi di comunicazione
che trasformano le attitudini psicologiche, i modi di sentire e di
pensare, le abitudini di vita e di lavoro, l’organizzazione stessa
della società». La diffusione della rete Internet e dei mezzi di
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Tutti gli animali sono forniti di sensibilità e alcuni anche di memoria e si
rivelano come più intelligenti di altri. Ci sono poi animali che non possono
udire i suoni, come le api che capiscono ma non imparano. Gli altri animali
possiedono immagini e ricordi ma non la conservano come esperienza.

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comunicazione ha portato all’esagerazione o esasperazione
della socialità facendo venire meno gli spazi intimi della
persona rendendo noti i suoi drammi, paure, gioie ed emozioni,
come le sue relazioni. Ci stiamo avvicinando, come afferma
Bauman, ad una nuova rivoluzione culturale e antropologica
prodotta non più da sistemi politici o ideologici bensì da
«solitari interconnessi» o meglio da «agenti solitari in costante
contatto tra loro» che credono di poter controllare il mondo, in
realtà ciò che conoscono a fondo è la propria solitudine e
isolamento. La società appare sempre più de materializzata e
l’uomo pur crescendo in competenze scientifiche e
tecnologiche rischia di perdere il senso della meraviglia, dello
stupore per la bellezza della natura per divenire un fruitore
apatico del suo mondo virtuale o come afferma il filosofo
francese J. Besnier : «L’uomo semplificato è l’ultima conquista
di una concezione tecnoscientifica del mondo. Affetto dalla
sindrome del tasto asterisco, riuscirà a provare nostalgia per la
profondità che le macchine compiacenti gli risparmiano, mentre
nello stesso istante, gli chiudono quegli ‘occhi interiori’ che
ama evocare Marta Nussbaum nel tentativo di ridestare la causa
umanistica?». La filosofa americana Marta Nussbaum ritiene
che uno dei modi di relazionarsi sia la via emozionale; ossia
tutto quello che passa attraverso le emozioni. Tra queste, una
particolarmente importante è la paura, che manifesta l’istinto di
conservazione e avverte la persona di un pericolo imminente.

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