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Aristotele, Metafisica, A. Sintesi e commento personale al libro.

Working Paper · January 2017


DOI: 10.13140/RG.2.2.34320.00004

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Stefano Ulliana
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Aristotele, Metafisica (A).
Commento personale.

Nel Libro A, cap. 1, della Metafisica Aristotele, dopo avere inizialmente discettato della
distinzione fra la , l’applicazione specifica del giudizio, riferita all’universale (
) e l’, il divenir esperto grazie ai successi applicativi individuali
(), mira alla stabilizzazione e valorizzazione del primo termine attraverso il
concetto di causa (). Sapiente è, infatti, colui che conosce le cause e, conoscendo le
cause, sa insegnare.1 Più sapiente è, ancora, chi conosce le cause relative alla realtà gratuita
dell’essere, rispetto a chi conosce le cause relative al benessere della vita ( ), o
rispetto a chi conosce solamente le cause capaci di soddisfare le sue mere necessità (
). Sommamente e realmente sapiente è chi, alla fine, conosce le cause prime ed
i principi ( []    … ).
Nel cap. 2 Aristotele riesce così a presentare e a definire il quadro concettuale delle
cause prime, che sono oggetto della ricerca filosofica. Se il sapiente ha conoscenza
dell’intero dell’essere, e se questa conoscenza è una forma di conoscenza superiore, che
riguarda la cause ed ha una finalità disinteressata e libera, allora il sapiente non può non
godere di una posizione di egemonia, dalla quale governare l’evoluzione e la
discriminazione delle conoscenze ulteriori e successive, comunque subordinate alla sapienza
stessa ().2 Con quest’immagine piramidale il filosofo di Stagira definisce le
caratteristiche della sapienza stessa: essa deve riguardare l’universale ( 
), in quanto tutti i particolari sono da riportarsi all’universale; ma l’universale è,
infatti, lontano dalla sensibilità e dall’opinione comunemente attingibile; esso è infatti
comprensibile grazie ad una quadratura o ad un insieme particolarmente ristretto di principi
– forse qui il riferimento è ai generi sommi dell’essere del Sofista platonico3 –
particolarmente elevato ed astratto. Questi principi definiscono così il perimetro, il limite ed
il confine, all’interno del quale l’immaginazione razionale delle cause può garantire
l’egemonia effettiva e concreta della sapienza su tutte le altre scienze e tecniche. Così la
materia che costituirà la formazione immaginativa e razionale delle cause sarà la materia
stessa della quale si concretizzerà lo spirito libero del sapiente, secondo l’orientamento
prevalente ed implicito, definito contestualmente dal proprio maestro Platone: la
diagonalizzazione dell’Uno necessario e d’ordine.4 È questa diagonalizzazione a tenere

1
Metafisica, A, 1, 981b 7-10.
2
Metafisica, A, 2, 982a 4-19.
3
Stabilità e movimento, identità e diversità, possono insieme aprire una separazione che da un lato predisponga il
primato dell’essere stabile ed identico, dall’altro conducano verso la dipendenza dell’essere sempre in movimento e
sempre diverso (il cielo e l’essere sensibile, in divenire).
4
Cogli il senso e l’orientamento intellettuale stabilito dalla divaricazione e dalla dipendenza costruite dalla quadratura
insieme obliquamente le cause ed i principi cercati, edificando trasversalmente ciò che
successivamente costituirà il predominio e l’egemonia della metafisica su tutte le altre
scienze (fisica, logica grammaticale, etica, politica, retorica, matematiche) e tecniche (arti
produttive). È questa diagonalizzazione, ancora, ad indicare nell’Uno necessario e d’ordine
il bene e il fine di ogni sviluppo naturale, come pure di ogni azione umana. 5 È questa
diagonalizzazione, infine, a far designare Dio – l’Uno necessario e d’ordine - come causa.6
Causa che è oggetto di una scienza teoretica, non pratica o comunque produttiva. Dal
sensibile, agli astri, all’universo il sapiente si è, così, progressivamente innalzato lungo
questa diagonale, abbandonando successivamente i territori della necessità ed i terreni del
piacevole benessere, per giungere al fine alla contemplazione di ciò che è più vicino a Dio
ed ha perciò il maggior valore. La sapienza è quindi scienza di Dio, in senso soggettivo ed
oggettivo.7
Le ultime affermazioni di Aristotele confermano, dunque, quell’impianto diagonale
stabilito da un soggetto assoluto, che fa dipendere a sé un mondo unico (cielo, astri e Terra),
che costituirà la stella polare del movimento intellettuale e della volontà nella fine dell’età
classica e che sorgerà di nuovo con forza ineguagliata, quando la visione imperiale
tradizionale pagana penetrerà con la sua ideologia nel nuovo mondo istituzionale in
formazione cristiano, sostituendone lo spirito e la natura originaria – così vicina al principio
creativo e doppiamente dialettico del pensiero presocratico – con un artefatto dogmatico ed
irrigidito, teso alla stabilizzazione della necessitazione generale con l’opposta libertà di un
immaginato mondo ultraterreno. Resecata via la pericolosa divaricazione avvertita
dell’eguaglianza, questa libertà diventava il criterio di ogni assoggettamento, in attesa che la
potenza del Capitale in ascesa potesse, durante il passaggio alla prima età moderna,
irrobustirne la sostanza e la prassi, prolungandone la vita sino ai nostri giorni.
In questo panorama di formazione della storia e tradizione ideologica dell’Occidente la
riflessione aristotelica è originariamente essenziale: quando nel capp. 3, 4 e 5 Aristotele si
preoccupa di conformare alla propria quadratura onto-logica dei principi e delle cause il
precedente pensiero presocratico, egli dà inizio proprio allo sradicamento della prospettiva
di alternativa, rappresentata dalla speculazione che precede le riflessioni del Socrate
platonico. Toglie ed annulla la stella dell’eguaglianza, per conservare una stella della libertà
ridotta ed in fin dei conti pure asservita: asservita all’immagine di Dio, che sarà prevalente
nell’ideologia occidentale sino ai giorni nostri.
Aristotele riesce a compiere questa estrema reazione, utilizzando proprio quella

determinata nella nota precedente.


5
Metafisica, A, 2, 982a 20 – 982b 7.
6
Metafisica, A, 2, 982b 7-10.
7
Metafisica, A, 2, 983a 5-11.
diagonalizzazione della disposizione intellettuale e della volontà precedentemente indicata,
procedendo ad un suo ulteriore raddrizzamento verticale. Successivamente perciò a quella
diagonalizzazione, Aristotele enumera, dispone ed organizza la serie delle quattro cause
prime, ponendole in una duplice serie composta: la forma che apertamente e superiormente
comprende e identifica (      ), la materia che soggiace alla forma
e ne subisce la determinazione (    ), per effetto di un
movimento che ha un inizio ed una opposta fine (    … 
  …     ). O, come si dice con terminologia
tradizionale astratta: una causa produttiva del movimento ed una causa finale dello stesso. 8
Non è difficile immaginare la dislocazione delle quattro cause aristoteliche nello spazio
immaginativo e razionale, utilizzando lo schema visivo seguente:

DIAGONALIZZAZIONE VERTICALIZZAZIONE
FINE

FORMA

MATERIA
A
INIZIO

Come si può facilmente vedere Aristotele si appropria degli spazi immaginativi e


razionali aperti dal pensiero presocratico, per condurre un proprio sviluppo immaginativo e
razionale. Forse, pure, sotto l’influsso del recupero che Platone stesso, nella fase finale della
sua speculazione, andava facendo della tradizione filosofica precedente. È solo dopo aver
condotto a fine questa specie di appropriazione indebita, che il filosofo di Stagira comincia
la propria trattazione storica delle filosofie che lo hanno preceduto. Iniziando dai primi
filosofi. Ma ad essi Aristotele attribuisce solamente lo spazio immaginativo e razionale
deputato all’accoglimento della specie materiale. Essi non sembrano avere posseduto alcuna
dimensione dialettica, né tanto meno creativa. La loro sostanza permaneva identica ed
indivenibile, mentre tutte le determinazioni successive e singolarizzanti venivano ridotte ad
affezioni ovvero modificazioni accettate dalla medesima, come se questa potesse

8
Metafisica, A, 3, 983a 24-32.
trasformarsi continuamente attraverso un corpo proteiforme.9
Talete10 avrebbe considerato questa sostanza materiale come elemento acquoso (),
considerandone le virtù di sostentamento vitale collegate al calore. Dell’elemento acquoso
partecipavano pure tutte le potenze generative degli esseri, cosicché l’elemento stesso
poteva garantire la potenziale dinamicità di ogni sviluppo e tendenza. Ma il concetto e la
prassi stessa instaurata dalla potenza dello sviluppo e dalla tendenza richiamano in campo
quell’orientamento divergente e quel termine d’eguaglianza, che Aristotele cerca sin da
questo momento di nascondere, occultare o negare, annullando completamente per il primo
dei naturalisti () la dimensione spazio-temporale, il modo attraverso il quale il
“quanto” si fa “quale”, grazie ad un particolare concetto di estensione con variazione.
Vedremo, quando tratteremo della riflessione di G.W.F. Hegel, come si potrà tematizzare e
problematizzare questo concetto, e quale prassi esso possa aprire. Del resto questo stesso
concetto presentava per lo stesso Aristotele una ragione problematica, nel momento in cui il
filosofo di Stagira dovrà cercare di risolvere la questione dell’induzione ().
Dopo Talete la trattazione storiografica aristotelica si dedica alla figura ed alla riflessione
di Anassimene, del quale rammenta la scelta del principio “materiale” dell’aria (). In
rapida serie, poi, Aristotele ricorda Eraclito di Efeso, con la sua scelta del principio del
fuoco () ed Empedocle, che aggiunge ai tre precedenti elementi il principio della terra
(), costituendo in tal modo un complesso di quattro sostanze in reciproca combinazione
puramente quantitativa. Aristotele toglie qui ogni movimento dialettico e creativo alla
natura empedoclea, quasi sterilizzandone la potenza dinamica. Una potenza che
massimamente viene riaperta e moltiplicata, ricordando l’effettiva realtà delle omeomerie
() di Anassagora di Clazomene, che vengono infatti riferite dallo stesso
Stagirita al novero dei principi infiniti ( ). Potenza moltiplicata ed infinito
costituiscono, infatti, la materia e la forma o ragione del suo essere dinamico, che può così
mantenere sia l’aspetto e la dimensione eterna, che – attraverso la variazione e la
combinazione reciproca – quella reciproca codeterminazione alla generazione e corruzione,
che stabilisce il senso del divenire temporale.11
Nascosto il raggiungimento di Anassagora – ricordiamolo attivo ad Atene durante il
periodo pericleo ed allontanato dalla città, proprio perché considerato pericoloso per la
religione tradizionale – Aristotele ha buon gioco nel sovrapporre allo spazio immaginativo
anassagoreo la propria voluta semplificazione, basata su un concetto lineare di divenire (per

9
Metafisica, A, 3, 983b 6-18.
10
Metafisica, A, 3, 983b 18 – 984a 5.
11
È qui sommamente da sottolineare come l’apparente confusione con la quale Aristotele riporta la dottrina di
Anassagora sia in realtà la diffusione di una impenetrabile cortina fumogena sul concetto di infinito e su come esso
possa indurre il movimento della variazione. Giordano Bruno riapproderà a questo concetto, facendo piazza pulita del
finitismo aristotelico.
semplice generazione ed altrettanto semplice e banale corruzione). Aristotele, per questo,
dopo avere ridotto ed annullato ogni spazio dialettico e creativo alle speculazioni
concorrenti, introduce il concetto e la prassi di una causa eteronoma, che dal di fuori riesce
a imporsi sul sostrato e lo fa modificare e muovere (in senso lato).12
Allora il “principio del movimento” (   ) sarà costituito da un
soggetto paraumano, che Aristotele unicamente dice di vedere, dopo averne sottratto
l’alternativa ai pensatori precedenti. Con questo gioco di prestigio piuttosto imbroglione
Aristotele si permette di sviluppare ulteriormente la sua consapevole mistificazione,
includendo quasi tutta la tradizione speculativa precedente – tranne Parmenide – fra coloro
che negano non solo – come del resto è comunemente accettato – che l’essere possa
dileguarsi, ma pure che possa in alcun modo modificarsi.13 Non solo: egli coopta
Parmenide nel novero dei pochi pensatori capaci di distinguere, dopo l’identificazione
dell’essere con l’Uno, due diversi piani separati, forse appunto quello della ragione (per
Aristotele sensibile al trattamento interiore) e quello della materia (per Aristotele sensibile
al trattamento esteriore).14 Qui, allora, non si può non rimandare ad una successiva
interpretazione corretta dei pochi frammenti rimasti del  , per smantellare
l’assunto assiologico che vede imposta la struttura del divenire del diverso dall’identico.
La potenza e l’atto di questo “movimento” conducono Aristotele a valutare positivamente
la possibilità offerta dai naturalisti, di combinare per elementi opposti l’emergere
progressivo del divenire reale, mentre nello stesso tempo ne critica la supposta incapacità –
anzi, di più, l’impossibilità – a giustificare la finalità migliorativa dell’esistente, comunque
presente in natura. Per primo, sarà Anassagora di Clazomene – secondo Aristotele – che
inserirà il concetto di Intelligenza (), per spiegare questa finalità, d’ordine tendenziale
e di organizzazione, che Aristotele stesso definisce come movimento verso il bene e il
bello.15
Nel cap. 4 Aristotele richiama a questo proposito il pensiero di Esiodo e, di nuovo, di
Parmenide, per segnalare un possibile antecedente alla teoria della necessaria presenza
attiva di un principio, che muova ed orienti al bene ed al bello: qui l’amore ed il desiderio
(, ) vengono come distolti dalla loro virtù e potenza rivoluzionarie,
consistenti nella capacità creativa e dialettica superiore, per essere in qualche modo
declassati e neutralizzati a fattori di convogliamento delle molteplici finalità naturali ed
umane.16 In opposizione a questo convogliamento Aristotele abbassa, poi, una dialettica

12
Metafisica, A, 3, 984a 21-22, 22-27.
13
Metafisica, A, 3, 984a 27 – 984b 1.
14
Metafisica, A, 3, 984b 1-4.
15
Metafisica, A, 3, 984b 20-22.
16
Metafisica, A, 3, 984b 23-32.
decettiva (), attraverso la quale dà origine al termine inferiore della materia riottosa e
disordinata, persino brutta per il suo divaricarsi dal  dell’ordine e della perfezione.
Qui egli riesce a deviare la speculazione di Empedocle, assegnando a questo spazio così
costruito l’agibilità funzionale dei suoi due principi: l’Amicizia () e la Discordia
(). Aristotele riesce, in questo modo, a trasporre il senso dei due principi empedoclei,
rispettivamente, alle funzioni unitarie, coordinatrici ed organizzatrici di una sensata
intelligenza finalistica ed alla funzione diabolica di un’attività disgregatrice e
contrappositiva.17 Separando su due piani diversi – essi pure contrapposti – i due principi
empedoclei, Aristotele toglie la loro paritaria complementarità, potente nel contempo a
unire e differenziare all’interno dell’orizzonte razionale, e costruisce quello schema
dualistico fra i principi del bene e del male, che ricomparirà con grande valore ed evidenza
nella tradizione religiosa medievale.
Materia e movimento però non soddisfano l’aspettativa aristotelica, che preme
conseguentemente per indicare e definire due ulteriori cause: una forma intelligente –
intrinsecamente presente in ogni evento naturale – e una finalità capace di elongare un
processo lineare e coerente, senza le “confusioni” empedoclee, 18 ma che sappia distinguere
fra un inizio ed un opposto scopo o fine. La dialettica deviata di Empedocle diventa allora
nella immaginazione aristotelica la prima forma, ancora abbozzata, della propria dialettica,
vera e reale, fra causa produttiva e causa finale. La dialettica dei contrari.
Proseguendo lungo la strada precedentemente tracciata e che gli aveva consentito di
collocare le speculazioni di Anassagora ed Empedocle in uno spazio distinto e separato che
non era affatto loro proprio, Aristotele banalizza e sminuisce le riflessioni provenienti dalla
scuola degli atomisti Leucippo e Democrito. Qui, dopo aver ricordato il loro uso dei due
principi del pieno ( ) e del vuoto ( ), egli aborrisce il loro paritario
accostamento, ancora una volta tradizionalmente infastidito dall’eguaglianza dell’essere e
del non-essere. Così come non aveva compreso, o addirittura mistificato, l’orizzonte di
quelle due riflessioni, così ora rende inintellegibili le differenze degli atomisti (
 ) – figura (), ordine () e posizione () – finalizzandole
secondo principi operativi – per proporzione (), per contatto () e per
direzione () – lineari e deterministici, che scompongono in una miriade di frammenti

17
Metafisica, A, 3, 984b 32 – 985a 10.
18
L’Amicizia che separa e la Discordia che riunisce – Metafisica, A 4, 985a 24-25 - sono la prova o dell’incapacità di
comprensione di Aristotele, che non vede la mutua e reciproca presenza attiva dei due principi, all’interno di un
medesimo ed aperto orizzonte razionale (l’Amicizia in effetti distingue per omeomerie orizzontalmente divaricate,
mentre la Discordia riunisce tutte queste omeomerie al comune orizzonte razionale), o della sua volontà di nascondere e
mistificare ulteriormente questa visione, forse influenzato da un’impostazione pitagorico-platonica, che gli impone
quella forma di dialettica decettiva già indicata. Del resto le stesse “incomprensioni” aristoteliche successive, relative
alle modalità d’azione dei due principi empedoclei, confermano a contrario l’effettiva sussistenza e realtà di un
orizzonte razionale aperto, costituito da una pluralità essa stessa aperta di determinazioni (lo Sfero).
inorganizzabili (caotici) i singoli movimenti degli esseri.
Se forma intelligente e fine riescono a comporre i “contrari” – causa produttiva e causa
finale – allora Aristotele ha buon gioco nel cap. 5 a nascondere il fatto che i Pitagorici
fossero stati degli anticipatori, in forma riduttiva (matematica), delle proprie
argomentazioni. Per il pensatore di Stagira, infatti, i discepoli di Pitagora considerarono e
considerano gli elementi dei numeri (   ) elementi di ogni realtà,
immobilizzando in tal modo con una serie di rapporti astratti le relazioni determinanti fra gli
esseri del mondo. In queste relazioni determinanti essi fecero uso della combinazione dei
concetti di materia e di forma, in quanto stabilizzarono e identificarono gli esseri grazie alla
composizione delle due categorie prime dei numeri, il pari ( ) ed il dispari (
). Il primo permetteva il fluire senza limite o termine della determinazione
numerico-geometrica (illimitato: ), mentre il secondo stabiliva un punto d’arresto a
questo fluire, un termine che chiudeva e rendeva compiuto e perfetto l’essere che ne veniva
determinato (limitato: ). Il primo essere a venir composto dall’applicazione
combinata di queste due categorie era l’Uno ( ), mentre tutti gli altri numeri erano
alternativamente indicati da una o l’altra delle stesse. Così l’Uno stesso poteva
rappresentare in una figura e schema ordinato, secondo l’applicazione delle due categorie
contrarie, una sorta di intreccio originario e di termine superiore d’arco della serie
successiva e subordinata dei numeri, immagini che si proiettavano sull’intera realtà.19
Lo schema generale, proposto da alcuni Pitagorici e ricordato da Aristotele, può allora
forse essere interpretato secondo la seguente mappa concettuale:

19
Metafisica, A 5, 986a 20-21.
In conclusione Aristotele può così ricordare l’affermazione pitagorica che maggiormente
gli preme, per le sue argomentazioni: l’affermazione che la combinazione e composizione
dei “contrari” è origine della materialità triangolare () di tutti gli esseri della realtà. In
questo modo egli può, ancora, accusare i pensatori che lo hanno preceduto di non aver
saputo analizzare e distinguere bene i principi formali e le cause effettive di produzione e
determinazione della realtà.
In opposizione alle scuole pluraliste di filosofia Aristotele può, successivamente,
introdurre il discorso verso la trattazione della posizione eleatica, qui espressa dalle figure di
Parmenide, Melisso e Senofane. I monisti, infatti, non si sottomettono alla derivazione
dell’essere sopra esposta per la scuola pitagorica, controbattendo al movimento dell’Uno
nell’atto della generazione la sua stabilità. L’Uno è immobile.20
Per essere immobile, però, deve essere riguardato in tutt’altro modo rispetto a quello nel
quale è stato considerato dalle scuole precedentemente descritte: non può più essere
considerato come principio isolato ed originario della derivazione della pluralità ordinata
degli esseri, ma deve imporre per sé una visione aperta. Aristotele definirà questa visione
aperta, quest’apertura in realtà opposta alla dimensione proiettata e soggetta delle precedenti
riflessioni, sotto il nome di forma (  ) per Parmenide e sotto il nome di
materia (  ) per Melisso, visto che, secondo il proprio intento di ridurre le
speculazioni altrui alla propria, il primo avrebbe trattato l’Essere ancora come limitato,
mentre il secondo ne avrebbe indicato una profondità superiore illimitata. Senofane, a sua
volta, avrebbe prima di Parmenide stesso identificato l’Uno con Dio, fuoriuscendo in tal
modo dalle coordinate riduttive dello Stagirita.
Concentrata, poi, la sua attenzione su Parmenide – la sua affermazione del tutto integro
ed unitario era infatti riconducibile con maggiore facilità alla forma intelligente aristotelica
– Aristotele sottolinea le difficoltà eleati di dover tenere insieme, anche se per opposti,
l’essere (senza contrari) ed i fenomeni (che sembrano agire e muoversi fra e dai contrari).
Così lo stesso Parmenide avrebbe assegnato e definito il campo ontologico dell’Essere alla
ragione (  ), mentre avrebbe dovuto in un certo senso abdicare
all’integralità della sua tesi originaria, generando e determinando il nuovo campo della
sensibilità (  ), attraverso una quadratura logico-reale composta da due
cause e due principi: il caldo () ed il freddo (), che agiscono grazie al fuoco
() ed alla terra (). In questo modo Parmenide stesso si sarebbe alla fine allineato
alla visione dei Pitagorici, rivoluzionandone però la linearità di tipo trasversale, per elevare
invece una forma di ritorno al principio fondamentale ed originario dell’Uno, che
20
Metafisica, A 5, 986b 17.
costituirebbe una prima forma razionale di etica naturale, se l’essere viene infatti
identificato tramite il caldo, mentre il non-essere viene ammesso per effetto della causa
inferiore del freddo.21
Stabulati in tal maniera materia e causa (anche sdoppiata) del movimento all’interno della
propria collezione di “animali filosofici”, Aristotele può in conclusione risottolineare come
la traccia finale di queste considerazioni e riflessioni non possa non portare alla valutazione
di una forma razionale di necessità naturale, capace di superare le teorizzazioni
sull’individuazione e le individualità praticate dalla scuola eleate e pitagorica. Qui comincia
ad inserirsi il discorso sulla predicazione, che ha infatti bisogno di un orizzonte di
riferimento e di un termine di ritorno stabile e continuamente attinto, pur nella possibile
varietà e variazione delle classi di determinazione effettivamente presenti ed agenti. Solo
così la definizione razionale e naturale degli esseri reali -  richiama il termine greco
per orizzonte - potrà farsi carico della responsabilità e del peso legati alla sussistenza
precedente di enti ideali oggettivi (le idee). Che nella mente di Aristotele devono sì essere
legati e vincolati alle cose che determinano, ma devono nel contempo esserne svincolati e
liberi (separati) – appunto dotati di una precedenza originaria – per evitare la compresenza
di concetti contraddittori (l’uno che è nello stesso tempo tutti quei molti uno, che individua
e distingue, o seleziona).22
L’estrazione dell’idea spinge ora la trattazione aristotelica a considerare le riflessioni e le
argomentazioni elaborate, organizzate e proposte da Platone e dai Platonici suoi discepoli.
Platone, infatti, ritenuto da Aristotele seguace e discepolo delle dottrine eraclitee e
socratiche, rivolge ed inverte la propria attenzione al mondo separato delle idee (),
dichiarando l’impossibilità di estrarre queste ultime dalla realtà sensibile. Per il pensatore
stagirita l’idea platonica era la determinazione aperta verso la superiorità celeste,
immaginativa ed universale, mentre le realtà sensibili individuali dovevano essere accostate
alla applicazione delle loro controproiezioni (riflessi od ombre) inferiori. In questo senso la
predicazione e l’individuazione stessa va dall’orizzonte delle idee stesse ai sensibili, che si
rivolgono a queste per partecipazione (). L’apertura di una relazione orizzontale che
raccolga i soggetti e li rivolga verso l’altezza dell’ideale e la sua molteplicità – il vero senso
e significato politico della metafisica platonica – viene occultato dall’interpretazione
aristotelica, che preferisce schiacciare il concetto platonico di partecipazione su quello
pitagorico di imitazione (), semplice riproduzione dell’oggetto guardato. Certo la
partecipazione – come l’imitazione – porta in campo la problematicità del contenuto della
relazione verticale oggetto sensibile – idea, ma lo stesso Aristotele subito dopo è costretto a

21
Metafisica, A 5, 986b 31 – 987a 2.
22
Metafisica, A 5, 987a 19-29.
nominare le entità intermedie che svolgono, nel panorama della speculazione platonica,
appunto questa funzione: gli enti matematici intermedi ( ), che riuniscono
in sé la funzione stabile e distinta – appunto mediana - di raccoglimento per similarità,
mentre le idee si aprono superiormente a ventaglio, per allargare la precisione della
differente individuazione.23
Per definire meglio la costituzione della pluralità ideale Platone avrebbe poi utilizzato,
secondo Aristotele, la combinazione e la composizione di un principio formale (razionale) e
di un principio materiale (immaginativo): l’Uno ( ) e la diade grande-piccolo (
   ). Qui la relazione di precisazione viene accolta all’interno di un
orizzonte, che mentre consente e rende possibile una rigida individuazione, dall’altro lato si
deve ampliare a costituire il riferimento della stessa.24 Per questo motivo l’Uno platonico
rimane stagliato all’orizzonte, come inindividuabile: così Aristotele lo avvicina al concetto
di sostanza, allontanandolo da quello di predicato. Pur sempre considerandolo come causa
generale dell’applicazione specifica, operata grazie agli enti matematici.
L’applicazione della prassi della precisazione tramite la diade grande-piccolo toglie alla
speculazione platonica l’estensione illimitata dell’immaginazione razionale. Su questo
punto argomentativo e problematico Aristotele è precisissimo: facendo derivare l’illimitato
dall’applicazione di questa diade, Platone apre al futuro concetto aristotelico della
necessaria distinzione fra atto del finito e infinito in potenza (posizione e successione
infinita dei numeri e delle grandezze). In questo modo, obiettivamente, la filosofia platonica
reseca via l’orizzonte speculativo e pratico dell’infinito, che invece era stato acquisito e
mantenuto dalle ultime filosofie presocratiche immediatamente precedenti o contemporanee
(Anassagora, Melisso). Inizia ora la tradizione del mondo finito occidentale, reale nella
sostanza, infinito in una forma decettiva di immaginazione (immaginazione lineare e
seriale). Così Aristotele ha buon gioco nel ricordare che, mentre i Pitagorici attribuivano
l’Uno attraverso i numeri ai sensibili in maniera sostanzialmente necessaria ed immediata,
Platone costituisce per primo la separazione del medio, opponendo la forma superiore ai
sensibili inferiori. Anima senza corpo e corpo indistinto perché senz’anima costituiranno
allora i due termini di distinzione del mondo platonico, che Aristotele indaga, analizza e
sviluppa in tutte le sue ulteriori conseguenze.
Se, dunque, Platone usando le immagini pure aggancia all’orizzonte dell’Uno la
successiva forma decettiva di immaginazione, così egli fonda – come sopra si sottolineava –
la dialettica fra finito ed infinito: la forma dell’Uno si sottrae attraverso l’applicazione che
comunque nasce da lei stessa, in virtù dell’aggiunta della diade grande-piccolo. Questa

23
Metafisica, A 6, 987b 14-18.
24
Metafisica, A 6, 987b 20-22.
aggiunta si oppone alla separazione definitiva dell’Uno (opposizione assoluta), facendo
cadere giù – derivare – la flussione del rapporto numerico della grandezza. Nella
proporzione 1:1 ecco nascere il 2; quando il 2 viene esteso secondo una diagonale
orizzontale e lineare i termini dell’1 e del 2 permettono la proiezione ulteriore del 3 (che è
un’aggiunta aperta). Ecco nascere il triangolo (che è un’aggiunta chiusa), secondo un modo
di procedere influenzato dal pitagorismo. Ma anche ecco nascere la potenza del plurale, che
secondo la materia della diade grande-piccolo può generare tutti i numeri successivi: più
grande del 3 è il 4, prodotto per l’aggiunta di 1. E così via, secondo la serie immaginativa
della posizione e dell’infinito potenziale.
Aristotele, invece, preferisce non voler vedere questa potenza del plurale, che lo avrebbe
costretto a considerare la materia sotto il punto di vista dell’immaginazione, non più della
semplice applicazione immediata ed individuale della forma materiale. Così non l’Uno
aperto produce la serie - anche infinita - degli esseri, ma l’unico e ristretto soggetto umano
diventa l’artefice esclusivo ed assoluto di una produzione sempre identica, senza variazione
o trasformazione alcuna. La perdita dell’orizzonte attuale infinito operata volontariamente
dalla speculazione platonica qui si riduce ulteriormente nella perdita del valore stesso
dell’immaginazione razionale, pur nelle forme ridotte e decettive stabilite da Platone. È solo
da notare il fatto che il contro-esempio utilizzato da Aristotele – l’accoppiamento maschio-
femmina – svela l’originaria fissazione della costituzione autoritaria del Soggetto Assoluto.
Per questa costituzione – appunto per la costituzione aristotelica del mondo (poi anche per
quella cristiana) – le forme restano molteplici a livello inferiore, anche se possono – o
meglio, devono – essere riportate, attraverso il fattore produttivo, a quello finale.
Equivocando ancora una volta le riflessioni di Empedocle ed Anassagora, 25 Aristotele
finisce per schiacciare lo stesso Platone dentro le coordinate della sua opposizione assoluta:
quella appunto fra causa produttiva (naturale) e causa finale (metafisica). Così la forma
dialettica decettiva platonica trova la sua fissazione definitiva nel rapporto del mondo (e del
pensiero) unico aristotelico.
Tramite l’Assoluto, che si fa opposizione all’opposizione rappresentata dall’emergere del
mondo naturale, si innalza ed edifica quella forma all’interno della quale l’Uno di tradizione
eleate, pitagorica e platonica trova la sua definitiva e mortale sistemazione, in un processo
di progressiva riduzione e mortificazione. Qui esso diventa, infatti, un ente di ragione
astratto e separato, falsamente perché riduttivamente universale, proprio in quanto atto a
capovolgere l’apertura dell’universale vero e buono, della sua comune partecipazione, nella
costrizione alla necessaria e soggetta appartenenza, nella partecipazione rovesciata ad una
comunità che si instaura per comunicazione della sua unica ed assoluta voce. Questa
25
Metafisica, A 6, 988a 14-17.
univocità di tipo restrittivamente oggettivo fonderà nella storia della civilizzazione
occidentale tutte le forme gerarchiche ed autoritarie, costituendo quella che sopra è già stata
definita come la tradizione dell’Uno necessario e d’ordine. Dalla comunità politica greca,
all’Impero romano, dalla Chiesa cristiana allo Stato occidentale come universale che si
impone sulla naturalità ed universalità del diritto, dalla Nazione borghese allo Stato
socialista reale o neoliberista e neocapitalista, la dialettica contemporanea di questa
tradizione pare terminare con l’esito finale rappresentato dalla potenza in atto di un Capitale
(finanziario, produttivo e distributivo) che si fa religione mondiale, mentre al contempo le
varie e diverse religioni mondiali paiono modularsi in relazione ad esso, per affinità e
somiglianza (quando non in un rapporto di reciproca e soddisfacente legittimazione e
strumentalizzazione), o per opposizione ed incongruenza. Oggi, come in ogni momento di
“crisi” della civiltà occidentale, è il mantenimento dell’orizzonte razionale e naturale
dell’infinito come atto e potenza a costituire il superamento di quella stessa
autosterilizzazione alla quale si assoggetta, paradossalmente, quella tradizione.
Quando, infatti, quell’Uno si fa opposto all’opposto, esso si riduce sino alla propria
autoeliminazione, per una sorta di contro-effetto originato dialetticamente da quella stessa
negazione assoluta che rivolge contro la potenza del suo nemico costante, il soggetto
naturale e razionale. La potenza naturale e razionale, infatti, tanto più si evidenza e si
raccoglie come soggetto, quanto più quell’Uno pretende di rivolgere a sé e solo a se stesso
una superiore potenza ed un atto distaccato. Questi non sono altro, infatti, che quella volontà
di vita capovolta e convertita in necessità di morte: una natura maligna e violenta, sempre
pronta alla sopraffazione ed alla spoliazione, una ragione che si fa diritto ed insieme legalità
del più forte, della comunità coesa che si fa strumento di eliminazione del diverso e
dell’altro. Ma questa conversione punta come proprio obiettivo la fonte stessa che l’ha
generata: la necessità di morte – l’eliminazione dell’amore per la libertà e l’eguaglianza, la
dissoluzione della prassi della natura buona e pacificatrice, la disintegrazione della ragione
aperta e giusta – deve infatti togliere di mezzo se stessa, come necessità, per una morte
spontanea, per l’eliminazione volontaria e collettiva – il sacrificio rituale (quotidiano) - di
tutti i soggetti che aderiscono alla sua logica violenta. Essa sostituisce l’apertura
immaginativa e razionale, il movimento creativo e dialettico del pensiero e dell’azione, per
presentare una pietrificazione di se stessa – quasi come un monolite dell’isola di Pasqua – in
attesa che qualcuno la riscopra e la riattivi, dopo l’autoeliminazione dei suoi sudditi. Questo
è accaduto realmente nella storia dell’evoluzione negativa della civiltà occidentale, quando
la necessità di finire ed essere terminati ripropone continuamente la contro-affermazione
dell’identico e della necessaria identità; questo è ciò che in ogni momento – da tutti e da
ciascuno – può e deve essere fermato e rovesciato, ora per la stessa salvezza rivoluzionaria
della specie umana e dell’intera vita di questo pianeta.
Al tempo in cui Aristotele scriveva la sua Metafisica, la lotta fra l’affermazione assoluta
dell’identico e della relativa e necessaria identità e la pluralità creativa e dialettica della
natura razionale (anche nella sua veste apparentemente oscura di materia immaginativa) era
rappresentata proprio dal tentativo aristotelico di affermazione del concetto e della realtà
della sostanza (). Per ottenere questo risultato, però, Aristotele deve affrontare e
superare i problemi rappresentati dalla filosofie presocratiche e dallo sviluppo delle
teorizzazioni platoniche. Per questo, dopo una breve ricapitolazione organizzata di queste
posizioni, egli affronterà criticamente tutti i loro principi argomentativi.
Con in mente la disposizione che lo porterà ad affermare il concetto e la realtà della
sostanza, Aristotele segnala, dunque, per prima la decettività dei pensatori naturalisti, che
sostennero l’equiparazione del principio () con la materia (). Unica o molteplice,
corporea od incorporea, essa vale come astratto da applicare alla determinazione degli
esseri.26 Ma prima di questa affermazione - Aristotele sembra implicitamente sostenere –
dovrebbe essere individuata ed affermata la presenza e la funzione della causa motrice (
  ): questa viene effettivamente posta in essere da quei pensatori che la
identificarono attraverso i concetti dell’Amicizia e della Discordia (Empedocle),
dell’Intelligenza (Anassagora) o dell’Amore (Parmenide).27 Se questo è un primo passo
necessario per il raggiungimento della verità, ben più difficile è stato – secondo lo stesso
Aristotele – guardare e vedere la presenza e l’azione di ciò che costituisce lo stabile ed
aperto riferimento superiore: solo i platonici con le forme () e l’Uno () hanno dato
conto – anche se in modo unilaterale e quindi erroneo - della realtà e verità dell’essenza (
   ) e della sostanza (), aprendo superiormente il luogo razionale distinto e
separato dell’Uno e delle idee.28 Così, scostando l’unilateralità platonica, data dalla sua
apertura, Aristotele giunge alla fine a parlare della causa che meno è stata vista, analizzata e
trattata con definizione e determinazione dalle precedenti scuole di filosofia: la causa finale
(  ). Contro la derivazione dal basso di questa causa – sostenuta da Anassagora
con l’Intelligenza ed Empedocle con l’Amicizia – oppure contro l’assenza della sua
funzione terminale e di relazione – non vista dai platonici, che utilizzano l’Uno e l’Essere
come determinazione inintelligente – Aristotele sottolinea – quasi con una contro-reazione
platonica di prima maniera alla reazione critica finale del proprio maestro Platone - la
valenza etica del prospetto platonico, assegnando alla causa finale la qualifica del bene
().29

26
Metafisica, A 7, 988a 23-32.
27
Metafisica, A 7, 988a 32-34.
28
Metafisica, A 7, 988a 34 – 988b 6.
29
Metafisica, A 7, 988b 6-16.
Come se rigettasse, dunque, l’evoluzione critica del proprio maestro, Aristotele – quasi
un platonico della prima maniera, ferocemente attaccato all’insegnamento proposto dalla
Repubblica – pare quasi congegnarsi per criticare tutte quelle posizioni filosofiche che
richiamino in qualsiasi modo, grado e misura la concezione dell’Uno infinito ed aperto.
Negando la dimensione creativa e doppiamente dialettica dello Spirito, il pensatore stagirita
procede così, quale primo passo, alla critica dei naturalisti, siano essi monisti o pluralisti.
I monisti materialisti vengono accusati:30 (1) di ridurre e quasi dimezzare l’ampiezza
dell’essere alla dimensione inferiore, materiale e corporea. Qui Aristotele in realtà
disinnesca l’intima creatività ed il rapporto dialettico insito in questa presente nelle
speculazioni dei primi pensatori greci. Toglie loro questa dimensione dell’essere, per
attribuirla successivamente – e, soprattutto, in modo neutralizzato - alla propria posizione
speculativa, codificata dalla sintesi autonoma del concetto e della prassi dello scopo o fine
(naturale e razionale). (2) Di negare, appunto, ciò che solo lui stesso porterà in campo in
modo definito e determinato: la causa del movimento. Ovvero, appunto, il rapporto con il
fine nella natura e nella ragione. (3) Di negare, conseguentemente, la sostanza e l’essenza:
la determinazione superiore ed interiore di ogni cosa, dunque la loro stessa natura.
Paradossalmente, dunque, Aristotele sembra sottintendere nel suo discorso che i monisti
materialisti mancano con i loro stessi strumenti e posizioni concettuali l’obiettivo che si
erano prefissati: spiegare naturalisticamente la verità e realtà di ogni cosa e del tutto in
generale. Infatti: (4) essi mancano strutturalmente la dialettica fra gli elementi ed il loro
ordine. Invece Aristotele sostiene di porre in campo una propria organizzazione gerarchica
degli elementi, facendo occupare il luogo superiore ed egemonico all’elemento dal quale si
generano tutte quelle “radici”, che raccoglieranno sopra i propri “tronchi” tutti i “fiori” ed i
“frutti” della generazione ulteriore, in tal modo generando l’immagine dell’Uno necessario e
d’ordine di tipo materiale. Quest’immagine di chiusura finalizzatrice ed organizzativa –
quasi l’archetipo di ogni prassi annichilatrice del rapporto fra libertà ed eguaglianza, a
garanzia della diversità e della relazione – vale come principio d’ordine: come elemento
primo e superiore esso consente, permette, sviluppa ed organizza l’azione dell’insieme
gerarchico degli elementi graduati e subordinati. Infatti se gli elementi non fossero graduati
e subordinati il posto ed il luogo egemone, occupato secondo Aristotele dal fuoco, verrebbe
preso dall’elemento maggiormente concentrato, la terra. È, dunque, l’immagine di un centro
superiore – e non inferiore – quella che comincia a stagliarsi e definirsi nell’immaginario
aristotelico, quale premessa per la prosecuzione del proprio discorso critico, ora rivolto ai
naturalisti pluralisti.
Così come aveva chiuso, ridotto e spento, l’ampio orizzonte dell’Uno infinito nei primi
30
Metafisica, A 8, 988b 22 – 989a 19.
pensatori greci, così – a maggior ragione – Aristotele deve annullare ora ogni possibilità di
visione dell’elemento creativo e dialettico presente nei “naturalisti pluralisti”. Forse
influenzato dalla visione egemone dell’elemento fuoco presente in Eraclito, forse
combattuto dalla necessaria scelta fra un’impostazione eliocentrica o geocentrica,
l’Aristotele naturale decide di combattere a suo modo l’immagine aperta e dinamica
dell’Essere presentata da Empedocle e da Anassagora.
Così della concezione empedoclea31 (1) critica l’apparente fissità degli elementi estremi,
fuoco e terra, che andrebbero invece considerati secondo lui in una continua dinamica di
trasformazione. Considerati gli elementi ordinati secondo la propria scala gerarchica – dal
basso verso l’alto: terra, acqua, aria, fuoco – Aristotele vuole avere buon gioco nel mostrare
come i termini opposti e motori dell’intero movimento naturale non possano essere
considerati come distinti e separati dai restanti elementi, pena l’incomponibilità e la
fratturazione della stessa unità naturale. Ma il punto è proprio questo: Empedocle utilizzava
Odio e Discordia quali motori opposti per l’integrazione o la differenziazione naturale, che
godeva proprio per questa ragione di uno spazio immaginativo e razionale comune. Qui
Aristotele pare, invece, sostituire consapevolmente i due termini corretti della speculazione
empedoclea con il quadro gerarchico entro il quale farà poi valere le proprie critiche e le
proprie contro-teorizzazioni, falsificando in anticipo la discussione e la dimostrazione
stessa.32
Proseguendo nella sua critica volutamente confusa, Aristotele (2) confonde la visione
chiara e precisa della dialettica empedoclea, la sua apertura d’immagine razionale,
sottintendendo che uno solo debba essere il principio egemone, al quale l’altro debba in
ogni caso obbedire. Se, di nuovo ed ancora, questa dev’essere la per-struttura entro la quale
costringere il pensiero di Empedocle, è gioco facile per Aristotele dimostrare
apparentemente che lo schema che lega le due cause di movimento nell’interpretazione
empedoclea non regge la prova della composizione e dell’ordine naturale. Facendo valere
ancora la sua interpretazione sull’origine pitagorico-orfico-platonica della separazione ed
opposizione dei motori, Aristotele può conseguentemente (3) affermare che la divaricazione
indotta da questa opposizione impedisce il passaggio medio dall’elemento inferiore a quello
superiore e viceversa, così annullando quel processo che è da lui stesso definito alterazione.
Ma questo processo del divenire altro dall’altro - che qui viene fondato teoreticamente e
praticamente, per essere successivamente trasmesso alla storia della filosofia occidentale
sino a G.W.F. Hegel – divarica effettivamente le due linee di quella dialettica decettiva,

31
Metafisica, A 8, 989a 20–30.
32
Una critica, questa, costantemente messa in gioco nelle affermazioni critiche di Giordano Bruno, nella sua costante
polemica antiaristotelica e proprio nei luoghi testuali nei quali il filosofo di Nola intende contrapporre la propria
rivalutazione del pensiero presocratico alla vulgata della tradizione ideologica platonico-aristotelica.
precedentemente delineata e criticata, che stabilisce – forse per controbilanciare l’effetto
della tradizione pitagorico-platonica – la necessità di riorientare lo scopo naturale e
razionale dalla sua fissità geometrica alla sua potenza soggettiva. Se infatti l’altro dall’altro,
rispetto all’Uno di tradizione pitagorico-platonica, rischia di non trovare ricomposizione,
perdendosi nei cieli dell’incomprensibile e dell’irrazionale, l’altro dall’altro che qui, nel
pensiero aristotelico, viene ricomposto, stabilisce la distinzione fra la fascia superiore della
ragione e quella inferiore della natura, edificando e costruendo lo spazio vincolante della
potenza di un soggetto unico ed egemone, capace di tenere insieme sotto un comune
orizzonte generale tutte le determinazioni razionali e le finalizzazioni strumentali naturali. È
in questo modo che, allora, nasce l’immagine e la figura dell’uomo occidentale, che
comprende ed agisce, secondo un presupposto generale che afferma la dialetticità piena e
completa fra razionale e reale (si noti qui ancora la figura terminale, per la civiltà ideologica
occidentale, rappresentata dal pensiero di G.W.F Hegel, attualmente ripreso dalla linea del
cosiddetto pensiero unico in economia politica o del Dio unico nelle riflessioni di matrice
istituzionale-religiosa). Non è difficile vedere come e quanto questa piena e completa
dialetticità fra razionale e reale abbia alla fine stravolto paradossalmente rispetto ai suoi
stessi fini – e proprio a causa della sua costruzione di un soggetto assoluto – sia la ragione
che la realtà naturale, come le abbia pervertite nella loro creatività e nel loro rapporto
dialettico. La ragione, infatti si è oramai ridotta ed autoisterilita nella celebrazione dei fasti
del potere politico e religioso tradizionale – suo criterio valoriale è infatti l’idea e la prassi
del dominio, del controllo e della sempre più ampia, profonda ed addirittura preventiva
repressione – mentre la natura stessa ha perso quasi del tutto la sua stessa esistenza,
schiacciata dal presupposto e dalla necessità utilitarista e strumentale. Solo il richiamo ad
una concezione che ricordi e ravvisi la presenza e l’azione dell’infinito nella ragione e nella
natura e che quindi ne ristabilisca le reciproche aperture d’immaginazione, potrà ricostituire
il senso della vita dello spirito che le accomuna.
Quale testimone antico di questa alleanza, Anassagora,33 viene invece investito dal furore
distruttivo del fondatore di quella linea interpretativa. Aristotele infatti, più ancora che con
Empedocle, costringe la speculazione dell’avversario entro delle coordinate che ne
mortificano ed annullano in anticipo l’apertura e lo spirito. Prima (1) ne schiaccia il
pensiero entro la falsa opposizione fra mescolamento iniziale e generico – tutto è
inizialmente mescolato - e distinzione finale completa e specifica – tutto è alla fine distinto
e separato. Poi, utilizzando l’implicito nascosto in questa sua prima riscrittura revisionista –
che le cose devono essere tagliate e semplificate alla sostanza (naturale e razionale) – (2) ne

33
Metafisica, A 8, 989a 30 – 989b 21.
approva una certa, per lui importante, novità.34 Questa novità sarebbe rappresentata
dall’azione dell’Uno razionale e dalla presenza della Diversità naturale. Chiuso entro lo
stereotipo tipico della propria interpretazione verticale Aristotele, infatti, riduce
l’Intelligenza anassagorea ad un principio separato e puro. Così la sua autonoma ed
illimitata presenza viene convertita ed invertita in una determinazione egemonica separata,
trasmessa poi come qualità dominante a tutta la tradizione storiografica filosofica
occidentale. Nello stesso tempo ciò che in questa stessa tradizione occuperà il posto della
materia visibile, il Diverso e l’indeterminato, viene ristretto alla definizione di una
corporeità multiforme e proteiforme: appunto quella di una materialità che sorregge
l’apparizione sempre diversa degli enti contingenti, nell’interpretazione di un estremo
materialismo quasi a propaggini sempre cangianti dell’unica sostanza. Chiuso l’Uno e
schiacciata sino all’annullamento la dialettica fra le omeomerie anassagorea, Aristotele può
a buona ragione essere considerato l’inventore della tradizione del concetto e della prassi
dell’Uno necessario e d’ordine, al cui muro schiacciare gli avversari filosofici, quasi come
in una sorta di stupro filosofico, dove la vittima viene prima costretta e poi negata e gettata
via. Del resto questa stessa tradizione diventerà in epoca tardo-medievale e moderna – anzi
sino alla nostra stessa contemporaneità – il fondamento della lotta all’eresia, alla deviazione
politico-religiosa, dal momento che tutte le sue forme storicamente determinate possono
essere effettivamente riportate proprio alla volontà di riaprire e far rivivere il concetto e la
prassi dell’Uno aperto ed infinito (dalla ribellione dei Catari alla rivoluzione comunista).
Aristotele può dunque procedere nella sua opera di selezione filosofica, aggredendo il
nemico successivo, prossimo a quello a lui più vicino e dunque più pericoloso (Platone ed i
platonici): i Pitagorici.35 Dei Pitagorici Aristotele ravvisa la distinzione e la separazione fra
enti sensibili ed enti insensibili, astratti, geometrico-matematici. Come se si trattasse
dell’applicazione, in una fase primitiva indefinita ed imprecisa, della medesima figura ed
immagine dell’Uno necessario e d’ordine, che sarà sviluppata da Platone e dai Platonici, per
essere poi veramente e realmente determinata da Aristotele solamente, (1) la struttura
argomentativa dei Pitagorici viene raccolta e quasi raggrumata attorno al cardine verticale
rappresentato dall’ente primo e stabile, privo di movimento, perché determinante: gli enti
matematici ( ). Occupata comunque in questo modo una posizione medio-
superiore, essi rivolgono secondo Aristotele la propria attenzione quasi esclusivamente agli
enti naturali, contenuti entro il limite superiore del cielo. Nello stesso tempo essi si
riferiscono pure, con gli stessi strumenti, agli enti più alti, che si sottraggono alla sensibilità,
non perché non affettino gli uomini con il loro pensiero o con la loro azione, ma perché

34
Metafisica, A 8, 989b 5-6.
35
Metafisica, A 8, 989b 29 – 990a 32.
paiono essere separati dal mondo che nasce e si corrompe, e che dunque sta in movimento
perenne e diuturna trasformazione. Essi, soli, restano eterni.
I Pitagorici, però, (2) con la loro combinazione laterale di illimitato () e limitato
(), pari ( ) e dispari ( ), non riescono a determinare
– sempre secondo Aristotele – da dove a dove proceda il movimento: non riescono a
definire e determinare la sua causa. La linearità di determinazione progressiva, che abbiamo
visto essere stata sviluppata dalla scuola pitagorica, sembra togliere – secondo la
considerazione implicita del pensatore stagirita - la visione ed il prospetto della necessità di
un movimento di ritorno alla causa prima, di movimento all’inizio (con la relativa
generazione e corruzione), infine di scopo etico. I Pitagorici sembrano agli occhi di
Aristotele non voler o poter definire e determinare, individuare, tale causa. Del resto, se si
ha presente lo schema visuale complessivo sviluppato a proposito della scuola pitagorica, si
nota facilmente come essenziale dovesse rimanere per tale impostazione speculativa proprio
quell’apertura superiore che Aristotele intende annullare e demolire (l’infinito aperto
dell’Uno). Perciò il problema resta – così come resterà nella storia della filosofia tutte le
volte che un’autentica ripresa della tradizione pitagorica si scontrerà con la volontà di
mantenere intatta ed integra la tradizione aristotelica – quello dell’incompossibilità fra una
impostazione che a priori impone il richiamo prioritario al non-identico – con valenze nello
stesso tempo teologiche, politiche e naturali – ed una statuizione – perché qui si situa la
fusione fra potere e potenza del religioso ed istituzione politica, così come la subordinazione
degli enti naturali – che pre-eleva l’identico come fondamento del pensiero e dell’azione.
Non è difficile notare come, di fronte all’affermazione del Dio vero e reale (l’Uno infinito
ed aperto) ci stia la continua e diuturna dichiarazione d’eresia da parte del suo idolo e
feticcio umano (l’Uno geometrico nella potenza). Tolto perciò il cappello della vera causa
prima pitagorica, Aristotele può far finta di denunciare l’insussistenza razionale di tutte le
loro spiegazioni naturali, in quanto prive di un altro elemento che diventerà fondamentale
nell’impostazione aristotelica stessa: l’alienazione. Se, infatti, l’impostazione pitagorica non
prevede un movimento per, da e in altro, la statuizione aristotelica lo impone, lo rende
assolutamente necessario. Senza questo movimento, infatti, la statuizione aristotelica
dell’identico si sfalda e dissolve: solo se uno spirito all’orizzonte ci chiama e ci si impone
attraverso la nostra morte, il rapporto fra la causa che chiama e la causa che si impone potrà
continuare indefinitivamente nella propria continua ripresa e circolarità. L’Uno aperto ed
infinito, senza questa doppia causa, non richiede e tanto meno impone alcuna alienazione:
l’essere per sé, da sé ed in sé ne costituisce la valenza nello stesso tempo teologica, politica
e naturale. Non è dunque un caso se nella lotta ideologica presente nella nostra
contemporaneità il richiamo alla tradizione aristotelico-hegeliana, effettuato dal pensiero e
dalla religione unica del capitale sacralizzato, venga combattuto teologicamente,
politicamente e, pure, naturalmente da uno spirito di nuovo attento e sensibile all’intreccio
inscindibile fra fattore creativo e rapporto doppiamente dialettico, nel divenire
dell’Eguaglianza per l’essere della Libertà.
È l’estensione quadrangolare di questo infinito – sospeso fra i capi dell’identico e del
non-identico - a costituire quella grandezza, che i Pitagorici sicuramente videro ed
Aristotele preferì negare, basandosi su di un concetto di eguaglianza finita, invece che
infinita. Tanto infatti l’eguaglianza aristotelica vuole valere come medio assoluto della
riduzione determinatrice operata in virtù del principio egemonico – l’Uno necessario e
d’ordine come coerenza assoluta del procedimento analogico (di accostamento e
proporzione) – quanto, all’opposto, la visione e la prassi dell’infinito creativo e dialettico,
che sarà ripresa esplicitamente dalla speculazione di Giordano Bruno, protenderà senza
alcuna predeterminazione – ecco la giustificazione del richiamo al Chaos atomico (antico e
moderno) – l’ambito di vita del desiderio, naturale e razionale. Apparentemente chiuso nella
vorace passione dell’amore – l’Orco della Lampas triginta statuarum (Wittenberg, 1587) –
esso proromperà di nuovo alla libertà della Notte – è, ancora, lo stesso testo bruniano – per
ricordare l’impredeterminato della ragione: l’Uno aperto ed infinito.
Aristotele, al contrario, (3) non solo nega questa forma dimostrativa, ma pretende di
confondere l’aspetto di distinzione astratta da lui stesso sovrapposto alla speculazione
pitagorica – gli enti matematici superiori da un lato, gli enti sensibili concreti e materiali
dall’altro - con la sua organizzazione fisica dei corpi leggeri e pesanti, ovvero con la
gerarchizzazione dei due contrari come motore combinato ed opposto della determinazione
superiore e della subordinazione inferiore. Con questa meta-fisica teologica e politica
Aristotele ritiene, pertanto, che le argomentazioni pitagoriche sulla prevalenza degli enti
matematici abbiano comportato un’impossibilità di principio: separate ed astratte, esse non
possono adeguarsi allo schema logico-organizzativo preparato in altri testi (Organon,
Fisica, De Caelo) dallo stesso Aristotele.
In più, alla fine, (4) egli pretende di rinchiudere la stessa, intera, speculazione pitagorica
entro il recinto di una piena e completa finitezza, come se lo stesso schema da lui stesso
proposto non ne indicasse invece un possibile superamento e rovesciamento. Non sarà
certamente un caso, che fra tutti coloro che alla fine del medioevo ed in piena o tarda età
rinascimentale indicheranno la possibilità di un rapporto diverso fra l’infinito divino (la sua
potenza) e la apparente finitezza mondiale (la sua volontà), comparissero dei pensatori che
si richiamavano nei loro schemi argomentativi appunto al lascito della tradizione pitagorica
(Fracastoro, Brahe, Keplero). Aristotele, invece, imputa ai pitagorici l’assenza di uno spazio
che solo lui stesso riesce a vedere e pensare, ad analizzare e sistemare: lo spazio proteso
dell’infinito potenziale.36 Anzi: che lui vede sulla scorta di Platone e, confortato dal suo
pensiero ed ammaestramento, organizza e sistema.
Volendo però rimanere coscientemente entro i limiti di un mondo unico e finito,
Aristotele non può non criticare e sottoporre a negazione preventiva la dialettica aperta dai
pitagorici, che invece del suo giusto mezzo – che medievalmente troverà corrispettivo
nell’espressione della necessaria adequatio mentis rei – pongono in essere due mondi
diversi ed opposti, dove le partizioni celesti trovano un numero – intellegibile ()
dirà Platone, secondo Aristotele – mentre le partizioni fenomenico-terrestri trovano un
numero diverso – secondo Platone: sensibile () e dipendente dai primi.37
Platone38 (1) sembra sviluppare la posizione dei Pitagorici, stabilendo una sorta di
corrispondenza tra gli enti soprasensibili e quelli sensibili, attraverso il concetto dell’idea
(). Non solo: egli istituisce una corrispondenza unitaria non solo per gli enti corruttibili,
ma persino per quelli incorruttibili (eterni). Forse immaginando un soggetto assoluto, che
predisponga l’orizzonte di uno spazio assoluto, all’interno del quale fosse necessario ridurre
ad unità le determinazioni prime (eterne) e seconde (sensibili), il maestro di Aristotele viene
(2) criticato dal suo allievo proprio per il procedimento di fondazione ideale, che pare non
avere un risultato effettivamente reale, moltiplicando gli enti soprasensibili fuori dalla
necessità. Oltre agli oggetti della determinazione scientifica, infatti, compariranno per
riflesso anche le origini immaginate del negativo () – l’essere diverso come
essere del non essere di qualcosa – con la conseguenza ulteriore che l’immagine razionale di
unità necessaria viene a prevalere e a fondare il richiamo (la memoria) di ciò che non è più,
perché già corrotto. Criticando il fatto che per Platone nulla sembra mai morire
definitivamente, Aristotele tende invece a spingere in avanti la sua concezione del divenire,
che stabilendo un atto prioritario selezionerà il procedere della materia. Allora questa
selezione preventiva non potrà non avere come conseguenza (3) la negazione del concetto e
della relativa prassi della relazione (   ), visto soprattutto che questo
concetto una volta ammesso tiene aperta la possibilità di un rapporto dialettico fra
soprasensibile e sensibile che non si esaurisce, ponendo sempre un diverso dal diverso
apparentemente possibile (il “terzo uomo” del Parmenide platonico). Questa
moltiplicazione all’infinito della determinazione allora (4) vanifica proprio quel necessario
richiamo all’unità, che pare essere la più forte richiesta razionale platonica (ed aristotelica).
Infatti Platone deve favorire il concetto di moltiplicazione numerica ( ),

36
Una lettera – Giordano Bruno la sosteneva come per eccellenza pitagorica (De umbris idearum, Parigi, 1582) - che
rende bene questa protensione visuale, nel mantenimento di quell’apertura di relazione, che contraddistingue il pensiero
presocratico ed il miglior platonismo, è la lettera Y.
37
Qui la lettera più adatta, per presentare il doppio ventaglio della moltiplicazione partitiva dell’immaginazione, è la
lettera X.
38
Metafisica, A 9, 990a 33 – 993a 10.
aprendo lateralmente la possibilità materiale della moltiplicazione degli enti; nello stesso
tempo è costretto a negare l’apparenza vincolante ed identitaria dell’Uno (   
 ). I Platonici, a loro volta seguendo questo insegnamento platonico, devono
contraddire proprio l’originario richiamo all’unità razionale avanzato dal loro maestro.
Così Aristotele può – a buon vedere, secondo la propria considerazione – correggere
questa tendenza alla disintegrazione dell’Essere – che porterà effettivamente alla deriva
scettica dell’Accademia - e, quasi rincamminandosi lungo i sentieri dell’essere parmenideo
(o almeno di quell’immagine determinata e determinante dell’essere parmenideo a lui più
funzionale), riprendere la questione dell’unità dell’essere e del reale, riproponendo la
necessità del concetto di sostanza (). Contro l’apertura del relativo e del negativo, che
comporta l’impossibilità di chiudere l’essere nell’interezza e continuità di una
organizzazione positiva e di scopo, Aristotele ribadisce quelle che gli parevano essere le
finalità originarie della stessa speculazione platonica: (5) affermare l’essere delle sostanze,
costituendo una relazione di determinazione univoca e vincolante, perciò necessaria perché
intrinseca. Qui può comparire il senso e significato dato da Aristotele al concetto di natura,
appunto quasi seguendo le orme di una tradizione parmenidea modificata e trasformata al
soggetto. È in questo modo – con questo concetto di natura così rideterminato – che
Aristotele può legittimamente ritenere di aver superato la distinzione e separazione imposta
dall’idea platonica, oltrepassando ed annullando perciò stesso la posizione del suo maestro.
In conclusione: il positivo è dato dallo scopo. È lo stesso orizzonte soprasensibile
tracciato ed indicato da questo a costituire la direzione della selezione analitica e puntuale
della materia. In caso contrario – ed è il caso di Platone e dei platonici – la materia non solo
non riesce a trovare determinazione, ma si sdoppia apparentemente fra una materia
superiore ed una inferiore, che non riescono più a trovare connessione e collegamento.
La connessione ed il collegamento sono invece dati solamente qualora fra il superiore
della ragione e l’inferiore della sensibilità si situi l’equilibrio di una determinazione, che
dopo aver oscillato fra posizione di un soggetto assoluto – qui forse sta il lascito e
l’influenza del Dio raffigurato nella Repubblica platonica – e meditazione di uno scopo,
trovi l’effettiva e reale causa della nascita e del movimento, del venire ad essere e del suo
scomparire e trasformarsi. Come se Aristotele fosse abbagliato dalla significatività
dell’immagine concreta – di derivazione archimedea – dell’equilibrio idrostatico di un corpo
immerso in un liquido, egli subito precisa – rende chiaro e distinto, si potrebbe dire – (6)
che il mondo intiero – compreso, dunque, tutto ciò che è in esso contenuto – non può avere
come causa trasformativa un ente separato ed astratto, quanto invece un ente inseparato ed
interno. Qui Aristotele comincia ad incamminarsi lungo i sentieri che definiranno la portata
e lo sviluppo di una Natura generale, capace di comprendere e muovere dall’interno ed in
modo organizzato ogni sorta di fenomeno apparente (esterno od interno, materiale o
psicologico). Per questo il pensatore stagirita (7) procede allo smantellamento della visione
“poetica” platonica, sostituendo al principio di una variabilità di orientamenti comuni – le
idee come “modelli” () e la “partecipazione” () ad esse - la
possibilità di un’azione unitaria, che non faccia però convergere necessariamente verso un
termine univoco con funzione d’origine (per riflesso d’immagine), ma che apra una
relazione di apparente diversità – simile, non uguale – tale da costituire un’estensione di
qualità e caratteristiche, che non possono essere date a priori – perché queste sarebbero
nell’ottica platonica forme delle forme primigenie, una riduzione inutile e dannosa dal punto
di vista euristico per Aristotele - ma che devono al contrario essere ricostruite a posteriori,
integrando se possibile tutte le possibili somiglianze. Nasce in questo modo il procedimento
analogico, con un debito nascosto dovuto al fattore moltiplicativo materiale platonico.
L’estensione per variazione - il 3 rispetto alla diade – rimane qui il concetto fondante
della produzione creativa e nello stesso tempo scientifica della ricerca aristotelica: essa
consente infatti sia l’individuazione specifica, che la variabilità individuale. È con questo
concetto che Aristotele (8) può superare la separazione platonica fra idee e sensibili,
impiantando nell’ambito della conoscenza un’azione di ricerca che procede per integrazioni
successive, o per salti qualitativi, mentre nell’ambito del riconoscimento dell’azione
presente in Natura può inserire la ricerca delle vere ed effettive cause motrici. Queste allora
verranno considerate come l’autentico artefice interno delle materie che vengono ad esistere
e che si trasformano.
Aperto l’orizzonte degli artefici naturali, Aristotele può a buon diritto (9) eliminare la
fredda e rigida corrispondenza numerica platonica, che attua una triangolazione dove la
diversità individuale è precompresa nella possibilità di una forma data a priori. Se per
Platone la variazione della determinazione era concessa da una forma assoluta di necessità,
per Aristotele questa necessità non ha più alcun valore, in quanto e perché tende a
focalizzare a sé il rapporto come ente di proporzionamento, costituendo persino il fattore di
un raddoppiamento inutile e fuorviante: quello fra ragione e sensibilità.
L’autofocalizzazione del proporzionamento metafisicizza poi il numero, costituendolo in
rapporto d’ordine (dall’Uno e verso l’Uno). Ciò (10) toglie la possibilità di una molteplicità
delle forme, come invece asserito dagli stessi Platonici. Infatti rimanere – come fanno questi
– all’interno dell’orizzonte del quantitativo non consente di cogliere la giustificazione del
passaggio alla variazione (e quindi la stessa numerazione, secondo Aristotele), che è invece
garantita da una visione qualitativa, che sia non fa scomparire il singolo ente nella
scomposizione elementare, sia mantiene ed assicura la differenza fra gli enti singoli grazie
comunque alla comune persistenza di un criterio di giudizio e di classificazione (la logica
ontologica degli elementi aristotelici).
Tolta la separazione platonica, Aristotele (11) può fare a meno dell’intermedio platonico
(  ), che da un lato dovrebbe far derivare ed esprimere la diversità, ma
dall’altro non sembra essere capace – proprio per la sopraindicata impotenza quantitativa –
di raccogliere ed elevare a vera ed effettiva differenza gli enti singoli esistenti. Comincia
così a delinearsi l’accostamento aristotelico del concetto di potenza a quello di qualità e
differenza, che (12) impedisce il fissarsi di una diagonalizzazione della disposizione
assoluta, voluta attraverso il radicarsi nell’Uno della diade platonica ed il suo riflesso diviso
negli elementi a questa dipendenti. Tolta la visione del terzo termine platonico, Aristotele
(13) gli sostituisce la soluzione da lui stesso approntata, che prevede l’alta composizione
delle differenze come forma di unificazione non meramente quantitativa. Il processo di
composizione in serie (14) aprirebbe però alla considerazione del suo rovesciamento e della
sua penetrazione nella materia soggetta, che in tal modo riuscirebbe a staccare una
determinazione progressiva, per aggiunte successive. Così l’unità del numero superiore
troverebbe riflesso in una frantumazione inferiore, in una scansione di segni separati. Come
può allora – questiona Aristotele – l’unità superiore continua trovare corrispondenza in una
divisione data? Il rapporto fra quella e questa dovrebbe essere di opposizione, così come
sostengono i pensatori dialettici presocratici. Per superare questa apparente difficoltà fra
principio e principiato – che presso i Platonici li oppone – Aristotele (15) escogita una
particolare critica della composizione delle tre dimensioni platoniche (misurazione
progressiva, limite orizzontale e limite verticale), sottolineandone l’incomponibilità
meramente quantitativa. La scomposizione aristotelica, infatti, evidenzia il grado e l’ordine
diverso degli elementi platonici, facendo leva sulla differenza assoluta fra corpo, superficie
e numero.
La stessa misurazione progressiva, poi, (16) dev’essere un’aggiunta successiva di unità
(punti), altrimenti l’estensione platonica dal punto iniziale – la retta - non avrebbe limite e
determinazione precisa e progressiva (secondo un punto finale). Punto iniziale e punto
finale riempiono perciò di punti tutta la linea tracciata, o questa se fosse di genere diverso
non potrebbe essere fermata dal termine finale (o partire da quello iniziale). In questo modo
Aristotele comincia a definire il genere come relazione. Come capacità reciproca di due
termini di entrare in relazione. Ciò ha valore non solo nell’aritmetica, ma anche nello
svolgimento del discorso, nella composizione grammaticale della frase (nome-verbo). Come
pure nella composizione onto-logica iniziale degli esseri (atto-potenza). Con la sistemazione
generale di questa disposizione Aristotele (17) riesce a sbarazzarsi delle ontologie
precedenti – quelle presocratiche e quelle, più recenti, dei Platonici – irradicando al centro
dell’apparizione dell’Essere e del movimento dei suoi fenomeni – il loro comparire
all’essere e la loro finalità - la logica reale della sostanza. Togliendo di mezzo il falso ed
inutile raddoppiamento fra sensibili e razionali proposto dalla scuola platonica, (18)
l’affermazione aristotelica della priorità, prima genetica e poi finale dell’atto su di una
potenza materiale che gli sia fedele accompagnatrice, sostituisce la visione dell’apertura
proposta dalla tradizione presocratica e platonica con una triangolazione d’orizzonte più
ferma e salda nel mantenimento dell’unità e dell’integralità dell’Essere. Come procedendo
ad una moralizzazione delle stesse determinazioni naturali, Aristotele rigetta quella visione
quantitativa, che gli pare inabile alla considerazione finalistica dell’intelligenza, presente
come motore interno a tutti gli esseri esistenti. Questa impostazione, infatti, deve comunque
inserire a posteriori una forma astratta e superiore di intelligenza, per spiegare
successivamente le motivazioni razionali, che paiono fondare il venire ad essere, il
movimento e l’eventuale trasformazione – magari reciproca ed organizzata - dei fenomeni
apparenti.
Se, allora, il centro dell’Essere è occupato da questa nuova impostazione, anche il
concetto di soggetto materiale (19) deve innovare la prospettiva delle ricerche
naturalistiche: se, infatti, nei platonici la proporzione lineare – il grande e piccolo – stabiliva
la porzione di corpo da doversi considerare, il nuovo ordinamento aristotelico – rifacendosi
a quello dei primi fisiologi – stabilirà la duplice ed opposta – ma interconnessa – direzione
spaziale e temporale dell’alto e del basso, delle nature che procedono ad una diffusione
degli elementi e di quelle che, invece, ne determinano una concentrazione. Stabilita, quindi,
la differenza fondamentale, tutte le altre differenze successive (20) fonderanno la
spiegazione delle diversità naturali ed i movimenti degli esseri comparenti. Senza questi
movimenti infatti non sarebbe possibile identificare, distinguere e dividere gli esseri nelle
loro proprie classificazioni, distruggendo in tal modo la stessa ricerca naturalistica.
L’immobilità delle forme platoniche conduce proprio a questo esito fatale, impedendo
l’ordinamento gerarchico del mondo.
In tal modo l’ordine aristotelico delle sostanze (21) annulla la confusione presente nel
tentativo di sistemazione razionale proposto dai Platonici. La stabilità delle forme
platoniche si regge infatti su un orizzonte di continuità, che stabilisce quel limite superiore
al di là del quale pare governare con legge assoluta (necessità insuperabile) l’Uno stesso.
Perciò i Platonici attribuiscono all’Uno medesimo la proprietà assoluta di tutte le forme e –
conseguentemente – di tutte le determinazioni che originano da queste. Così le forme stesse
vengono ad essere – per proprietà – separate. Ma nello stesso modo vengono separati anche
tutti gli atti di giudizio che identificano, qualificano, quantificano ed in diverso modo
definiscono gli esseri esistenti. Così però – con le parole stesse di Aristotele – si identifica
l’universale () con il genere (). Si dà forma solo conoscitiva, intellettuale,
alla relazione: al contrario, la relazione – definita da Aristotele in precedenza come rapporto
fra causa e fine – non permette alcuna forma di chiusura verticale, proprio perché se
l’universale platonico vale in realtà come forma di riduzione e di negazione della pluralità
aperta dell’esistente, il genere aristotelico conserva tale pluralità, pur organizzandola in
modo gerarchico all’interno di un mondo unico. È da vedere, naturalmente, con un’analisi
approfondita dei testi platonici della cosiddetta fase autocritica – per esempio il Parmenide
– se Platone avesse effettivamente stabilito una forma di verticismo astratto, tramite il quale
garantire l’applicazione assoluta di un giudizio esso stesso assoluto. E se la riformulazione
critica della teoria delle idee non valesse invece proprio come reazione al tentativo di
superamento aristotelico, che comunque stabilisce una pluralità finita di sostanze, all’interno
dell’orizzonte di un mondo unico, dove la sostanza del pensare divino deve coincidere con
quella del fare morale, politico e naturale. Insomma, se Platone volesse ricordare
un’apertura più ampia di quella del suo discepolo.
Comunque, Aristotele, dopo aver demolito quest’immagine platonica dell’Uno astratto,
necessario e d’ordine, ritiene di (22) poter esibire alcuni casi, nei quali il genere non può
essere ridotto all’universale. I numeri ideali infatti non sono capaci di costruire la
progressione che conduce dalle lunghezze alle superfici ed ai solidi. Questi infatti sembrano
costituire un tipo di enti legati ad una facoltà immaginativa, che si sovrappone alla
distinzione platonica fra enti ideali, intermedi e corruttibili. Soprattutto, (23) ridurre la
pluralità aperta e diversificata (comunque ordinata) delle determinazioni razionali e naturali
rischia di far mancare al ricercatore la costituzione formale e materiale degli esseri stessi:
per esempio nel caso della finalità attribuita all’azione, solo le sostanze – gli enti che
possiedono una intelligenza motrice interna – possiedono apertamente delle caratteristiche
speciali, solo ad esse consone. Altri esseri – che non godono di questa specialità – non
possono essere parificati a queste, come invece pare volere la ricerca egualitaria dei
platonici (o dei presocratici).
L’apertura egualitaria della ricerca proposta dai presocratici e dai platonici (24)
presupporrebbe, secondo Aristotele, la possibilità di un’acquisizione totale ed integrale dei
contenuti scientifici a partire da un grado zero della conoscenza, che lo stagirita rigetta, al
pari della teoria platonica dell’innatismo. L’epistemologia aristotelica prevede, invece, che
la conoscenza sia un’azione progressiva, capace di svilupparsi – sia che si attui per
dimostrazione (), o definizione (), od ancora per induzione
() – da alcuni presupposti sino alla conclusione dei propri diversi procedimenti
interni. L’universale, l’accettato od il comunemente posto conducono, allora, verso una
gradualità di determinazione che scandisce la fermezza, la stabilità e la chiarezza degli stili
conoscitivi aristotelici: la ricerca presocratica o quella platonica, invece, secondo Aristotele,
presupponendo una forma generale di conoscenza eguale negli oggetti e nei soggetti, (25)
non riconosce il grado persistente nell’attività di conoscenza, dove gli oggetti devono essere
portati ad evidenza grazie a stili e modalità strumentali diverse, legate al contatto immediato
con l’oggetto stesso di conoscenza, ovvero alla mediazione costituita dall’opinione
(specialistica o comune). La pretesa presocratica e platonica di cogliere immediatamente
l’essenza dei fenomeni comparenti alla mente generale si scontra, secondo Aristotele, con la
necessaria presenza di una mediazione, che divide e distingue gli obiettivi della conoscenza
stessa, secondo le finalità teoretiche, pratiche o poietiche ad essa attribuite dalla volontà
umana. La volontà umana, in questo modo, entra a modulare l’accesso soggettivo ai
contenuti ed alle forme di conoscenza, riflettendo o rivoluzionando l’ordine sociale
costituito.
Aristotele resta, naturalmente, fermo all’ipotesi sociale necessariamente riflessiva,
quando predispone all’attenzione collettiva il problema della differenza o coincidenza fra
l’intero e le parti. L’intero astratto e separato e la somma convergente delle parti riflette
infatti lo stile e la concezione elitaria del problema del rapporto fra lo Stato unitario della
 greca e la pluralità di partecipazione alla vita cittadina, legificata nel passaggio dalla
condizione di autonomia a quella di obbedienza al nuovo potere imperiale in formazione
(quello macedone). Del resto sarà Aristotele stesso a risolvere a conclusione del Libro XII il
problema metafisico – problema in realtà sempre di natura teologico-politica – affermando
che “le cose non vogliono essere governate male, <<il governo di molti non è buono; uno
solo sia il comandante>>.”39 Al contrario l’ipotesi sociale rivoluzionaria, se si accontenterà
di mantenere l’orizzonte d’intervento razionale e naturale codificato dall’impostazione
aristotelica, tenderà a bloccare l’energia e la potenza sociale creativa, prestabilendo un asse
dialettico di soggezione e di rappresentanza, costituendo le basi per la primazia del Partito o
per l’attuale Stato assoluto del Capitale, nel quale ogni diritto naturale e razionale viene
alienato a vantaggio della necessaria ed imprescindibile intangibilità della sostanza
patrimoniale del profitto generale (neocorporativismo gerarchico e sessista). Solo la
riapertura del più ampio e diverso orizzonte razionale e naturale platonico e presocratico
potrà, invece, superare e dissolvere questo vincolo necessitante, riaprendo una dialettica
orizzontale e verticale capace di conservare l’elemento creativo e vitale del e nel rapporto
inscindibile fra libertà ed eguaglianza.
Così la condanna finale pronunciata da Aristotele (26) del procedimento in astratto dei
platonici (o dei precedenti presocratici), deve in realtà essere rovesciata proprio contro
l’impostazione aristotelica, che assicura una sensibilità mediata dai diversi gradi e dalle
diverse modalità (finalità) affermate dalla sua concezione di conoscenza.
39
Aristotele, Metafisica. A cura di Giovanni Reale. Milano, Rusconi, 1998 (1993¹). Pag. 585.
Le conclusioni40 approntate, dunque, da Aristotele devono essere rovesciate contro
Aristotele stesso: non sono confusi i suoi predecessori, ma al contrario è ristretto e
discriminato l’orizzonte speculativo da lui stesso impostato ed imposto. È per via di questa
restrizione e discriminazione preventiva, che il discorso sulle cause dei predecessori viene
occultato e mistificato nelle sue effettive aperture e nelle sue reali determinazioni.
Dimostrazione sicura di questa arroganza è del resto l’affermazione per la quale “la filosofia
primitiva, infatti, sembra che balbetti su tutte le cose, essendo essa giovane e ai suoi primi
passi.”41 Non è un caso nemmeno che l’obiettivo polemico principale sia, poi, Empedocle.
Con la sua concezione apertamente egualitaria degli elementi e delle forze il pensatore
agrigentino doveva infatti stabilire quel concetto e quella realtà creativa e dialettica
dell’infinito, che proprio l’impostazione aristotelica doveva svellere e distruggere
dall’orizzonte razionale e naturale dell’Essere. Con tutte le conseguenze teologiche,
politiche e scientifiche che, nel lungo e più che bimillenario sviluppo della storia
occidentale, a tutt’oggi ancora affliggono la mente umana generale.

40
Metafisica, A 10, 993a 11 – 993a 27.
41
Aristotele, Metafisica. A cura di Giovanni Reale. Milano, Rusconi, 1998 (1993¹). Pag. 65.

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