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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI “ROMA TRE”

DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE

TESI DI LAUREA
in
DIRITTO PENALE

IL REATO CULTURALMENTE ORIENTATO

Relatore: Laureanda:
Chiar.ma Prof.ssa Antonella Massaro Valeria Conte

Anno Accademico 2015 – 2016


Alla mia famiglia
Indice

Capitolo I .................................................................................................................... 4
Il reato culturalmente orientato .......................................................................... 4
1. La definizione di “reato culturalmente orientato” ....................................... 4
2. L’importanza di una preventiva definizione di cultura .............................. 9
3. L’attualità del tema ........................................................................................ 11
4. La risposta dell’ordinamento penale a fronte del fattore culturale ........ 17
4. Il modello “assimilazionista” ed il modello “multiculturalista” .............. 22
5. Ulteriori distinzioni all’interno del reato culturalmente orientato .......... 28
6. La cultural defense .......................................................................................... 34
Capitolo II................................................................................................................. 41
Le mutilazioni genitali femminili ......................................................................... 41
1. Storia ed evoluzione del concetto di mutilazioni genitali femminili ....... 41
2. L’evoluzione delle mutilazioni genitali femminili nel diritto penale ..... 58
3. Le mutilazioni genitali femminili e la circoncisione maschile a confronto
................................................................................................................................ 78
Capitolo III ............................................................................................................. 103
Il reato di accattonaggio ....................................................................................... 103
1. Le origini della cultura Rom ........................................................................ 103
2. I rom in Italia.................................................................................................. 125
3. Giustizia minorile e condizione dei minori rom in Italia: profili critici 135
4. Il reato di accattonaggio ............................................................................... 138
Bibliografia ............................................................................................................. 160
Introduzione

Il reato culturalmente orientato rappresenta una nuova fattispecie del


diritto penale che ha iniziato a diffondersi a causa dei forti flussi migratori e
della globalizzazione che generano l’integrazione di culture spesso anche
molto diverse da loro, creando quelle che oggi vengono chiamate società
multiculturali. Per reato culturalmente orientato si intende quando un
soggetto compie un reato in un dato territorio, senza sapere che si sta
configurando una fattispecie di reato, ma anzi, con la consapevolezza di
compiere un’azione legale spinto da motivazioni culturali o religiose che
permettono e a volte obbligano il compimento di date azioni. La domanda da
porsi è se e in che misura le credenze culturali o religiose possano giustificare
quello che in tutti gli aspetti integra un reato in Italia o nel territorio in cui è
stato posto in essere. Per giungere ad una risposta completa, bisogna dare una
definizione dai caratteri decisi di quella che è la cultura, essendo questa oltre
che fondamentale e molto difficile da delineare, anche in continua evoluzione.
L’elaborato tratterà delle problematiche relative alle origini, alla
definizione di reato culturalmente orientato, e alle risposte che il diritto penale
nei diversi Stati ha dato. Non tutti quelli che un tempo erano previsti come
reati culturalmente orientati oggi lo sono ancora. Insieme alle varie fattispecie
che formano il reato sopradetto, consequenzialmente si sono diffusi a livello
penalistico anche una serie di concetti innovati e creati appositamente con il
reato come quello della cultural defense. In Italia si è assistito a forti dibattiti per
dare definizioni complete del reato culturalmente orientato e per decidere
verso quale strada orientarsi: mentre in Francia si è deciso per la mancanza
assoluta della rilevanza del fattore culturale che spinge l’agente a commettere
un reato, negli Stati Uniti d’America la scriminante del fattore culturale ha un
nome a sé, la cultural defense. Per il gran numero di culture che sono presenti,
è normale che all’interno del reato culturalmente orientato si possano
configurare numerose fattispecie caratterizzate da elementi diversi tra di loro:
dal delicato tema delle mutilazioni genitali femminili ad altre ipotesi anche
esse di difficile soluzione quali la poligamia o il velo islamico per fare
riferimento alle fattispecie più attuali e maggiormente conosciute. Il secondo
capitolo farà riferimento alle mutilazioni genitali femminili. In Italia con la
legge 7/2006 è stata creata una normativa ad hoc con il compito di inasprire la
sanzione penale per condannare le c.d. “mutilazioni genitali femminili”, le
quali per la gravità dell’azione, per il diffondersi di tale pratiche sempre di più
in Italia e per il disvalore che provocano non potevano più essere ricomprese
nei reati che configurano le lesioni gravi e gravissime. Perché le mutilazioni
genitali femminili sono da ricomprendere nell’ampio cappello dei reati
culturalmente orientati? Perché in Italia, come in molti altri stati, la
mutilazione genitale femminile, anche se accompagnata dal consenso della
vittima, rappresenta una violazione di diritti fondamentali che sono garantiti
e tutelati sia quando un reato venga commesso in Italia, sia quando venga
commesso da un italiano, ma purtroppo non sono così concepite dagli agenti,
i quali anzi pensano di adempiere ai doveri genitoriali. Negli stati in cui le
mutilazioni sono permesse, o nelle comunità in cui vengono previste come
lecite, le mutilazioni hanno tutta un’altra dimensione. Queste sono ritenute
elemento necessario per poter rendere una ragazza pura e da poter sposare,
infatti sono fortemente volute dalla vittima stessa o da i propri genitori, per
non essere ritenute un disvalore per la famiglia o la comunità o affinché non
sembri che la famiglia abbia trascurato la propria figlia. Il secondo capitolo
tratterà quindi, delle origini di questa pratica e delle modalità con la quale
vengono attuate e della disciplina adottata dal legislatore italiano. Il terzo
capitolo fa riferimento ad un altro reato che sotto diversi punti può essere
valutato come reato culturalmente orientato: l’accattonaggio. Questa ultima
fattispecie suscita tanti dubbi quanti problemi. Infatti l’accattonaggio viene
posto in essere in gran parte dalla popolazione Rom, ma essendo questa nata
dall’incontro di popolazioni diverse, provenienti da luoghi diversi ne rende
complicato rintracciarne sempre i caratteri di reato culturalmente orientato.
Inoltre il problema, come per quello delle mutilazioni, non appartiene
soltanto all’Italia, e nonostante oggi abbia ottenuto maggior disvalore, in realtà
questa è una pratica che ha origini molto lontane. Inoltre proprio per
l’eterogeneità della comunità, nonostante si creda sia un comportamento
comune a tutta la popolazione Rom, non è così. È messa in atto da una parte
di loro, e mentre parte ne danno una motivazione culturale, gli altri
giustificano il loro comportamento come conseguenza di una loro
marginalizzazione non solo in ambito lavorativo, ma sociale. La strada del
legislatore sta piano piano delineando i suoi confini, verso una cosiddetta
personalizzazione del reato. A differenza che in alcuni altri stati, ciò che prova
a fare il legislatore italiano è non decidere per forza verso un inasprimento
della pena o una esimente culturale, ma decide come comportarsi a seconda
della fattispecie, analizzando caso per caso.
Capitolo I

Il reato culturalmente orientato

“Quando lasciano i
loro paesi di origine
e si trasferiscono in
Italia, si portano
dietro, nel loro
bagaglio, anche la
loro cultura, e
questo bagaglio
nessuno lo può
sequestrare loro alla
frontiera.”1

Sommario: 1. La definizione di “reato culturalmente orientato”; 2. L’importanza di una


preventiva definizione di cultura; 3. L’attualità del tema; 4. La risposta dell’ordinamento
penale a fronte del fattore culturale; 5. Il modello “assimilazionista” ed il modello
“multiculturalista”; 6. Ulteriori distinzioni all’interno del reato culturalmente orientato; 7. La
cultural defense

1. La definizione di “reato culturalmente orientato”

Il momento storico attuale è connotato da una forte emersione del


fattore culturale-religioso e del suo interscambio tra popolazioni nelle sue
diverse forme. Tutto ciò è avvenuto e continua ad avvenire a causa sia del
fenomeno dell’immigrazione sia per la globalizzazione. È dunque ben
possibile che si originino delle situazioni di contrasto tra i dettami di un
ordinamento e le altre culture in esso coesistenti. È proprio in questa ottica e
da questo scontro che nasce il reato culturalmente orientato.

1 M. BARBAGLI, Immigrazione e sicurezza in Italia, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 188.

4
Per “reato culturalmente orientato” si intende, in via di
approssimazione, la situazione secondo cui un fatto penalmente rilevante
all’interno di un sistema normativo facente capo ad un gruppo maggioritario
è compiuto dal soggetto agente appartenente, invece, ad un gruppo
minoritario per motivazione culturale o religiosa. Questa fattispecie, allo
stesso tempo, è ritenuta giustificata, permessa o addirittura imposta nel
contesto socio-culturale del soggetto in cui il “fattore culturale” ha svolto un
ruolo determinante. Si realizza, dunque, una vera e propria antinomia tra due
norme aventi come destinatario il medesimo individuo: quella culturale, che
consente od ordina, e quella giuridica, che sanziona e proibisce.
Rientrano nella nozione di “fattore culturale” tanto le convinzioni
religiose quanto il retaggio culturale del reo2. Il fattore culturale percorre
trasversalmente la struttura del reato, intersecando sia la tipicità, sia
l’antigiuridicità, sia la colpevolezza, sia la punibilità, sia la fase di
commisurazione della pena, coinvolgendo, dunque, un gran numero di istituti
penalistici3. Il tema concernente la significatività penale del “fattore culturale”
da sempre trascurato in Italia, è divenuto di gran moda, poiché l’Italia è ormai
divenuto meta dei flussi migratori sempre maggiori che tendono a modificare
il tessuto sociale in prospettiva multiculturale4. Analizzando la struttura del
reato culturalmente orientato è importante sottolineare come sia ritenuto
necessario che la ‘motivazione culturale o religiosa’, intesa come causa in base
alla quale il soggetto si è determinato alla commissione del reato, sia
riconosciuta o riconoscibile esternamente come ‘modello di comportamento’
corretto e spesso ritenuta conseguenza necessaria da una pluralità di soggetti,
non soltanto dalla sfera interiore del soggetto. Quindi, affinché sia rilevante, è

2 S. SARTARELLI, Proposte per un diritto del terzo millennio, Atti del Convegno “Visioni del
Giuridico” 2014, Il fattore culturale-religioso e il diritto penale: alcune osservazioni,
Ricercatore in Diritto penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli
studi di Perugia.
3 C. GRANDI, A proposito di reati culturalmente motivati, in Diritto Penale Contemporaneo, 2010.
4 L. RISICATO e E. LA ROSA, Laicità e multiculturalismo, profili penali ed extrapenali, G. Giappichelli

Editore, 2009, p.128.

5
necessaria la cosiddetta “prova di coincidenza di reazione” ovvero verificare
che anche gli altri componenti del gruppo di appartenenza del soggetto agente
avrebbero tenuto il medesimo comportamento in presenza della stessa
situazione in virtù delle loro convinzioni condivise. Infatti la soluzione
proposta dalla dottrina per valutare la futilità del motivo che ha spinto il
soggetto ad agire sarebbe quella di utilizzare la figura di un “agente modello”
che condivida con l'imputato alcuni tratti come ad esempio il lavoro e
l'ambiente di vita5. Il “motivo” preso in considerazione non è certo un
elemento a contenuto esclusivamente psicologico, dunque in ogni caso non va
inteso solo come “causa psichica” che ha determinato la commissione del
fatto6. Non rientrano nella categoria dei reati culturalmente orientati quei fatti
penalmente rilevanti commessi dai membri del gruppo etnico dominante,
anche se la motivazione che li ha spinti ad agire potrebbe essere definita come
culturale. Non appartengono alla fattispecie quindi i reati commessi dai
membri del gruppo etnico dominante:

- per motivi religiosi: come ad esempio il noto caso Oneda, affrontato negli anni
Ottanta, in cui i genitori essendo testimoni di Geova rifiutarono di sottoporre
la loro figlia alle terapie definite emotrasfusionali di cui necessitava essendo
una bambina talassemica, per cui ne cagionarono la morte, pur di ottemperare
ad un precetto della loro religione7;

- per motivi di coscienza o per convinzione: si pensi ai vari fatti, penalmente


rilevanti, espressione di una obiezione di coscienza oppure all’eutanasia e
all’aborto8;

5
F. BASILE, Immigrazione e reati “culturalmente motivati, Il diritto penale nelle società multiculturali
europee, CUEM, Prima Edizione, giugno 2008 cit., p. 438.
6 M. TRAPANI – A. MASSARO, Temi penali, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013, p.124 ss.
7 In argomento, per tutti, AV. VV., Trattamenti sanitari tra libertà e doverosità, Napoli, 1983.
8
S. RODOTÀ, Obiezione di coscienza e diritti fondamentali, in Obiezione di coscienza. Prospettive a
confronto, fascicolo monografico di Notizie di Politeia, a cura di P. BORSELLINO, L. FORNI, S.
SALARDI, n. 101, 2011, p. 34 ss.; G. BRUNELLI, L’interruzione volontaria della gravidanza: come si
ostacola l’applicazione di una legge (a contenuto costituzionalmente vincolato), in AA. VV., Scritti in

6
- per tradizione locale: si pensi a quelle manifestazioni folcloristiche, radicate
nella tradizione di determinate comunità locali, che possono comportare ad
esempio il maltrattamento o perfino la morte di animali come nel caso del Palio
di Siena o quello di Ferrara e, fuori d’Italia, le corride e che potrebbero
integrare il fatto tipico dei delitti contro il sentimento per gli animali di cui agli
artt. 544 bis e ss. c.p. 9.
Non rientrano, nemmeno, nella categoria dei reati culturalmente
motivati le ipotesi in cui il credente rappresenti non l’agente, ma la persona
offesa. Più che in ogni altro periodo il numero vasto di culture e religioni
presenti nel mondo stanno dando vita alle fattispecie di reato più disparate.
Infatti con il mescolarsi di orientamenti e culture diverse, all’intero della
stessa fattispecie di reato si possono riscontrare casi molto diversi tra di loro,
potendo queste spaziare dal delicato tema delle mutilazioni genitali femminili
ad altri casi quali la poligamia o il velo islamico per fare riferimento alle
fattispecie più attuali e maggiormente conosciute. Molti dei casi, come questi
ultimi appena citati, più che ad una diversità culturale, fanno riferimento ad
una motivazione religiosa che li ha spinti ad agire, quasi da poter supporre la
creazione di una sottocategoria costituita proprio da quelli che si possono
definire “reati religiosamente motivati”.
Chiaramente non sempre è così delineato né così facile da individuare
il confine tra religione e cultura. Molti studiosi hanno cercato di individuarne
la linea di rottura, iniziando così a dare una definizione di cultura che potesse
valere anche a fini penalistici. Punto d’arrivo dei diversi studiosi come De
Maglie e Basile è il ricorso alla definizione di societal culture elaborata dal
filosofo canadese Will Kymlicka che intende con questo termine quel tipo di
cultura che, “conferisce ai propri membri modi di vivere dotati di senso in un

onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, a cura di G.
BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI, vol. III, Jovene, Napoli, 2009, p. 841 ss.; S. ATTOLINO,
Obiezione di coscienza e interruzione volontaria della gravidanza: la prevalenza di un’interpretazione
restrittiva, in www.statoechiese.it, 33/2013.
9 F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati, Il diritto penale nelle società multiculturali

europee, CUEM, Prima Edizione, giugno 2008, pp. 8-10.

7
ampio spettro di attività umane, ivi comprese la vita sociale, formativa,
religiosa, ricreativa ed economica, nonché la sfera pubblica come quella
privata”. È importante dare una definizione di cultura per poter definire quali
sono le differenze culturali penalisticamente rilevanti e per restringere la
categoria dei “reati culturalmente orientati” ai soli reati commessi da agenti
appartenenti a minoranze etniche. Senza una definizione di tale tipo si
rischierebbe di confondersi con il concetto più ampio di Weltanschauung.
Questo termine non è traducibile nella lingua italiana facendo parte
della filosofia tedesca, per cui si può tradurlo come visione del mondo in
quanto si estende un dato punto di vista che può essere religioso o filosofico
ad una dimensione sovrapersonale e non limitata, quindi, ad un singolo
individuo, in questo modo si amplia vertiginosamente la categoria dei reati
culturalmente motivati. Pertanto per capire se ci trovi di fronte ad un reato
culturalmente orientato, si deve verificare che siano presenti tre elementi
fondanti e strutturali :
1) il motivo culturale, cioè la riconducibilità della causa psichica soggettiva della
condotta al bagaglio culturale del reo;
2) la coincidenza di reazione, ovvero la convergenza oggettiva tra la motivazione
psichica del soggetto agente e una regola culturale o una prassi generalmente
osservata e diffusa nel gruppo etnico di appartenenza;
3) il divario tra culture, ossia la forte differenza tra la cultura del gruppo etnico
dell’imputato e la cultura maggioritaria della società di accoglienza che
permea la norma penale violata10.

10 C. DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati, ideologie e modelli penali, ETS, 2010, p. 31, 146 ss.

8
2. L’importanza di una preventiva definizione di cultura

La combinazione tra norme penali e norme culturali contribuisce


indubbiamente ad un maggior “successo” del sistema penale. Infatti quando
le prescrizioni del diritto penale sono espressione della coscienza collettiva,
aumentano le possibilità di un loro effettivo rispetto da parte dei destinatari,
mentre se un ordinamento penale si disinteressasse completamente di quelle
che sono i valori culturali diffusi nella società rischierebbe di fallire il suo
obiettivo. Inoltre più le norme penali corrispondono a norme culturali diffuse
nel corpo sociale, tanto più il loro contenuto avrà maggiore possibilità di essere
noto dai consociati. La coerenza tra norme penali e norme culturali non va
ricercata in ogni singola norma penale, ma nel diritto penale nel suo
complesso. La difficoltà dei soggetti immigrati infatti è data proprio dalla loro
estraneità rispetto alla cultura di cui sono impregnate talune norme penali
vigenti nel luogo spesso diverse o addirittura di segno opposto rispetto alla
loro cultura11. È chiaro che l’accertamento da compiersi per verificare a quale
fattispecie appartenga il reato sia di per sé molto complicato, ancor di più se
l’indagine verte su fatti meramente psichici.
Allo stesso modo può essere ritenuto molto intricato cogliere il fattore
culturale innanzitutto poiché la cultura non rappresenta un concetto statico,
ma si modifica con il passare del tempo, inoltre non tutti i membri saranno
influenzati nella stessa maniera dal gruppo di appartenenza. Comunque la si
vuol definire, la cultura costituisce una dimensione indispensabile, un fattore
imprescindibile e irrinunciabile nella costituzione dell’essere umano e persino
nella sua evoluzione biologica12: infatti, l’uomo è un “animale portatore-di-
cultura”13. Ad oggi la definizione di cultura giuridicamente rilevante a livello

11 F. BASILE, Localismo e non neutralità culturale del diritto penale “sotto tensione” per effetto
dell’immigrazione.
12 F. REMOTTI, Temi di antropologia giuridica. Riflessioni e aggiornamenti su antropologia giuridica e

discipline affini, Trauben, 2006, cit. nota nº 23, p. 19


13 C. KLUCKHOHN e A. KROEBER, Il concetto di cultura, Il Mulino, Bologna, cit. nota nº 20, p. 288.

9
internazionale è contenuta nella “Dichiarazione universale dell’UNESCO sulla
diversità culturale” utilizzata durante la Conferenza Generale dell'UNESCO a
Parigi il 2 novembre 2001 in cui è spiegato come per cultura si intenda
"l'insieme dei tratti distintivi spirituali e materiali, intellettuali e affettivi che
caratterizzano una società o un gruppo sociale e che essa include, oltre alle arti
e alle lettere, modi di vita di convivenza, sistemi di valori, tradizioni e
credenze”. Il tema della cultura risulta essere oggi argomento fondamentale
nei dibattiti sull'identità e la coesione sociale14. Inoltre il processo di
globalizzazione, facilitato dal rapido sviluppo delle nuove tecnologie
d'informazione e comunicazione, pur costituendo una sfida per la diversità
culturale, crea le condizioni per un dialogo rinnovato tra culture e civiltà.
Trattandosi di una questione che, specie nell’esperienza giuridica
italiana, si è posta in tempi relativamente recenti il diritto penale non ha ancora
scelto una strada così netta, infatti, valuta e giudica credenze e valori
definendoli una volta come nemico una volta come amico15; dunque non
sempre la motivazione giustificatrice è una scusante a volte, infatti, può
rappresentare una aggravante vedi il caso delle mutilazioni genitali femminili
nell’ordinamento italiano. Il rischio quando si parla di immigrati e del loro
agire è quello di non riuscire a controllare le reazioni emotive che sono in bilico
tra cedere al razzismo ed un esagerato perbenismo: reazioni facilmente
manipolabili dai mass-media e dagli urlanti megafoni della politica16.
Non privo di significato simbolico dovrebbe, infine, risultare il fatto che
l’Unione europea, con la decisione n. 1983/2006/CE del Parlamento Europeo
e del Consiglio, 18 dicembre 2006, ha proclamato il 2008 Anno Europeo del
Dialogo Interculturale17 , in particolare sottolinea come “al centro del progetto

14 Dichiarazione Universale dell’UNESCO sulla diversità culturale, adottata all'unanimità a


Parigi durante la 31esima sessione della Conferenza Generale dell'UNESCO, Parigi, 2
novembre 2001.
15
Ibidem
16
F. BASILE, Il diritto penale nelle società multiculturali: i reati culturalmente motivati, Giuffrè, 2010,
p. 363.
17 F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente orientati, CUEM, 2008, p.41.

10
europeo, è importante fornire i mezzi per il dialogo interculturale e il dialogo
tra i cittadini per rafforzare il rispetto della diversità culturale e rispondere alle
complesse esigenze delle nostre società e della coesistenza di identità culturali
e credi diversi. È inoltre importante sottolineare il contributo delle varie
culture al patrimonio e al modo di vivere degli Stati membri dell’UE e
riconoscere che la cultura e il dialogo interculturale costituiscono gli strumenti
per eccellenza per imparare a vivere insieme armoniosamente”.18

3. L’attualità del tema

Il tema della rilevanza penale del fattore culturale e ancor di più del
“reato culturalmente orientato” presenta una elevata attitudine ad alimentare
dibattiti caratterizzati da concezioni contrapposte; in più questo tema risulta
essere molto affascinante perché oltre a spaziare da implicazioni ideologiche e
sociologiche, coinvolge un cospicuo numero di categorie penali19. Questa
fattispecie di reato nasce dall’incontro o meglio scontro di culture differenti
che, per molto tempo, si sono sviluppate in contesti socio-economici lontani
tra loro. Si parla di scontro perché le ondate di migrazioni succedutesi in
maggior numero in questo periodo hanno condotto il sovrapporsi “coatto” di
culture differenti e sono state di portata sempre maggiore.
Per dare un’idea la popolazione straniera residente in Italia al 31
dicembre 2013 è di 4.922.085 unità e, rispetto allo stesso dato del 2008
(3.432.590) mostra un aumento del 43,39%20. Ciò che peraltro impressiona di

18 Quarto ‘considerando’ della decisione 1983/2006/CE.


19 L. RISICATO e E. LA ROSA, Laicità e multiculturalismo, profili penali ed extrapenali, G.
Giappichelli Editore, 2009, p.129.
20
Dati statistici sull’immigrazione in Italia dal 2008 al 2013 e aggiornamento 2014.
Pubblicazione a cura dell’ufficio centrale di statistica, dipartimento per le politiche del
personale dell’amministrazione civile e per le risorse strumentali.

11
più della situazione italiana non è tanto il numero di immigrati presenti nel
territorio, quanto il ritmo vertiginoso di crescita dell’immigrazione: in soli 35
anni gli immigrati sono aumentati di 25 volte; nella seconda metà di questo
secolo, se i ritmi di crescita rimarranno costanti e, in particolare, se rimanesse
costante anche il calo demografico degli autoctoni, potrebbe esserci un
immigrato ogni cinque abitanti21. In più secondo alcune stime dell’ONU22
l’Europa è il continente che accoglie il maggior numero di immigrati. Se si fa
riferimento, infatti, alle statistiche di Eurostat si nota come nei ventisette Stati
appartenenti all’UE nel 2010 risultavano presenti più di venti milioni di
immigrati extraeuropei23. Lo stesso fenomeno del terrorismo islamico che si è
innestato ha creato tensioni internazionali, paura e pericolo per la
sopravvivenza della propria identità culturale. Si tende a rifiutare e ad aver
timore verso tutto ciò che non è conosciuto e la risposta più scontata a tutto ciò
è quella di pensare che sia il caso di lasciare un po’ perdere la laicità e di
rispondere con un simmetrico rafforzamento della propria identità24.
Ovunque l’immigrazione suscita panico e sospetti e apre la discussione
su quella che sta diventando piano piano una società multiculturale dove,
però, via via dovranno essere riconosciuti i diritti di ogni cultura a concorrere
in modo indistinto alla costruzione di un progetto futuro e unitario25.
Orbene la Costituzione italiana garantisce e tutela un’ampia gamma di
libertà tra cui quella di pensiero e di religione, fintantoché i fatti non integrino
una fattispecie penale, si pensi in particolare agli artt. 2,3,8,9,19 Cost, ed è
questo uno dei problemi che solleva il reato culturalmente orientato.
Il multiculturalismo in Italia, ma più in generale in Europa, si è creato

21 Caritas Migrantes, Immigrazione. Dossier Statistico, a cura di IDOS, in partenariato con


Confronti e in collaborazione con l’UNAR, 2010
22 Stime riportate da CARACCIOLO, Editoriale - Le vite degli altri (e la nostra), LIMES n. 4,2007
23 Comunicazione della Commissione dell’Unione europea sulla migrazione del 4 maggio

2011, COM (2011) 248 def., p. 24.


24
L. RISICATO e E. La ROSA, Laicità e multiculturalismo, Profili penali ed extrapenali, Torino, G.
Giappichelli Editore, 2009.
25 U. BERNARDI, La nuova insalatiera etnica, Società multiculturale e relazioni interetniche nell’era

della globalizzazione, Milano, FrancoAngeli, 2000.

12
poiché in un passato non lontano popoli con origini diverse si sono trovate
mescolate in uno stesso territorio dove vi era un sistema penale dato dalla
maggioranza della popolazione. I migranti, però, portavano e portano con sé
background culturali diversi non solo tra loro, ma soprattutto molto differenti
da quello del paese in cui provano ad arrivare od ad entrare creando così dei
veri e propri conflitti culturali. La causa di questo melting pot26 sono stati,
infatti, i flussi migratori di popolazioni costrette ad allontanarsi dal Paese di
origine per inserirsi in uno Stato già formato e spesso sconosciuto per quanto
riguarda il loro apparato normativo.
L’esempio immediato di un amalgama di elementi culturali, ideologici
e religiosi differenti che convivono all’interno di un’unica società sono
sicuramente gli Stati Uniti d’America. Qui senza dubbio, il fenomeno
dell’immigrazione è nato molto prima che in Europa e di conseguenza si sono
presentati i primi casi di reati culturalmente orientati ed infatti alla
giurisprudenza statunitense si devono le prime risposte dei problemi
dottrinali sollevati da questa fattispecie. Oggi questo reato è al centro di molte
discussioni essendo ritenuto un problema molto sentito in Italia, ma allo stesso
tempo, ancor poco diffuso tanto che ancora non è prevista una disciplina sul
piano normativo. L’Europa e nel particolare l’Italia, recentemente è diventata
scenario di una realtà sempre più mista, portando così alla creazione di una
società multinazionale. È importante, sin da subito, far presente che con la
stessa accezione di società multiculturale, si fa riferimento a due realtà diverse:
quella della società di tipo multinazionale e quella, invece, polietnica. In
particolare con società multiculturale di tipo multinazionale, si indica una società
in cui il pluralismo culturale si è creato tramite l’assorbimento in uno stesso
Stato di più minoranze autoctone. Essendo queste ultime caratterizzate da una

26melting pot ‹mèltiṅ pòt› locuz. ingl. (propr. «crogiuolo»), usata in ital. come s. m.: miscuglio
eterogeneo di razze, religioni, individui e gruppi molto diversificati tra loro: un melting pot di
etnie. Amalgama eterogeneo di gruppi, individui e religioni, molto diversificati tra loro per
ceto, condizione, appartenenza etnica, che convivono entro la stessa area territoriale
geografica e politica. Dizionario Treccani

13
certa autonomia, le minoranze cercano di rimanere indipendenti anche tramite
la creazione di forme di autogoverno per poter rimanere società distinte.
Spesso queste tipologie sono il risultato di processi di colonizzazione o
di conquista. Infatti in questi casi gli Stati tendenzialmente accolgono con più
facilità le richieste avanzate da queste minoranze per due ordini di motivi:
l’uno l’essere consci che in questi processi spesso sono state utilizzate maniere
coatte e l’altro perché solitamente sono realtà che esistono e coesistono da
molto tempo. Un esempio è rappresentato dalla Svizzera dove vivono insieme
ormai da tempo comunità di lingua differenti rispettivamente quella tedesca,
francese, italiana e romancia oppure dal Canada, nato dalla fusione in un unico
Stato di territori appartenenti a culture preesistenti e fornite di un certo grado
di autonomia: la comunità indigena, la comunità anglofona, e la comunità
francofona del Quebec27.
Dall’altro lato, invece, è definita società multiculturale di tipo polietnica
quella in cui, invece, il pluralismo trae origine da processi di immigrazione. La
caratteristica di una società multiculturale di tipo polietnico è data infatti dalla
presenza sul proprio territorio di un ampio gruppi di immigrati. Le famiglie
immigrate vorrebbero integrarsi all’interno della società e allo stesso tempo,
provare a conservare i caratteri più salienti della loro cultura per rendere il
distacco o la lontananza più agevole; in realtà queste caratteristiche culturali
spesso così differenti dal mondo occidentale, creano il maggior numero di
problemi. Inoltre in questo caso gli stranieri non sono avvertiti come parti
integrate dello Stato28 o meglio non sin da subito e l’esempio di questa
tipologia di società potrebbe essere proprio l’Italia oppure la Francia dove vi è
una massiccia presenza sul suo territorio di immigrati nord‑africani. Lo scopo
di tali gruppi di immigrati non è di costituire una nazione separata e
autonoma, bensì sperano che lo stato ospitante possa diventare più indulgente

27 F. BASILE, Il diritto penale nelle società multiculturali: i reati culturalmente motivati, Giuffrè,
gennaio 2010.
28 M. MARTINIELLO, Gestire la diversità culturale e identitaria, Il Mulino, 2000, p. 57 ss.

14
nei confronti delle differenze culturali29. Questi ultimi mirano alla
conservazione di alcune delle loro caratteristiche culturali e aspirano ad un
adattamento delle leggi dello Stato di accoglienza che renda loro più agevole
la partecipazione alla vita pubblica dello Stato. Nei confronti degli immigrati
per lo meno quando si tratta di immigrati volontari, lo stato d’accoglienza
crede in un loro maggiore sforzo di adeguamento alla cultura del gruppo di
maggioranza30. Come scrive Kymlicka, “dopo tutto, la maggior parte degli
immigrati, a differenza dei rifugiati, decide di abbandonare la propria cultura.
Hanno tagliato i legami e sanno che il successo loro e dei loro figli dipenderà
dalla loro integrazione nelle istituzioni della società d’accoglienza. In questo
modo, gli immigrati rinunciano volontariamente ad alcuni diritti della loro
originaria appartenenza nazionale (…). Ciò significa che non possono
avanzare le stesse rivendicazioni di una minoranza nazionale autoctona, bensì
rivendicare quelli che Kymlicka chiama “diritti polietnici” cioè la richiesta di
condizioni più eque per la loro migliore integrazione attraverso la valutazione
riguardo la loro differenza culturale, ma non già quelli che Kymlicka chiama
“diritti nazionali” , cioè ad esempio, la possibilità di usare negli spazi pubblici
la propria lingua madre e la possibilità di avere proprie istituzioni pubbliche,
proprie università, etc31.
Il diverso atteggiamento assunto dagli Stati nei confronti delle
minoranze nazionali autoctone da quello utilizzato per i gruppi etnici di
immigrati si rispecchia anche sul terreno del diritto penale. La dottrina ha così
avuto modo di mostrare come “in ambito penale il fattore culturale assume di
regola rilevanza assai maggiore nel caso in cui esso concerna le minoranze
autoctone piuttosto che le minoranze immigrate”32.

29 W. KYMLICKA, La cittadinanza, Il Mulino, cit., p. 22.


30 F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati, Il diritto penale nelle società multiculturali
europee, CUEM, giugno 2008, p. 16 e ss.
31 W. KYMLICKA, La cittadinanza, Il Mulino, cit., p. 170; nello stesso senso v. pure FACCHI, I

diritti, cit., p. 7 ss., p. 58 s.


32 A. BERNARDI, Modelli penali e società multiculturale, G. Giappichelli Editore, Torino, 2006, cit.,

p. 73 ss.

15
In effetti, in alcuni Stati multiculturali di tipo multinazionale le
minoranze nazionali autoctone hanno ottenuto rilevanti interventi legislativi
specificamente rivolti ai membri di tali minoranze si pensi alle varie
disposizioni di legge che prevedono esoneri, diminuzioni di pena in ambito
penale33. Nella prospettiva del penalista italiano ed europeo ci si concentra
principalmente sull’analisi della società multiculturale di tipo polietnico, e ciò
per due evidenti ragioni:

- in primo luogo, perché all’interno dell’Italia e più in generale dell’Europa, non


vi sono minoranze nazionali autoctone che abbiano mantenuto tratti culturali
significativi tale da implicare ricadute sul piano penale con la sola eccezione
dei Rom e dei Sinti34;35

- in secondo luogo, perché l’immigrazione costituisce uno dei fenomeni di


maggiore emergenza e più attuali per l’Europa e, soprattutto, per l’Italia, a
partire dalla recente crescita dei flussi migratori che hanno portato all’interno
dei confini europei persone provenienti da universi culturali molto diversi dai
nostri.36

Infine è importante sottolineare come ciò che oggi sembra anni luce
lontano dal nostro modo di pensare e di agire, in realtà, se si guarda indietro
di qualche decennio non è poi così diverso dal modo di comportarsi degli
individui appartenenti alla nostra società nel momento in cui si trovavano in
realtà differenti anni orsono. In particolare se si guarda all’evoluzione della

33 F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati, Il diritto penale nelle società multiculturali
europee, CUEM, giugno 2008, p.19.
34 Sinti: Popolazione nomade di origine indiana, il cui nome deriva da Sind, regione

del Pakistan occidentale, attraversata dal fiume Indo, dalla quale probabilmente i S. ebbero
origine. La provenienza e la storia recente dei S. sono in gran parte analoghe a quelle della
popolazione Rom. Dizionario Treccani
35 A. BERNARDI, Modelli penali e società multiculturale, G. Giappichelli Editore, Torino, 2006, cit.,

p. 71.
36 F. BASILE, Il diritto penale nelle società multiculturali: i reati culturalmente orientati, Giuffrè

Editore, 2ª ed., Milano, 2010.

16
società italiana, si nota come alcuni dei reati di più ricorrente commissione per
motivi culturali da parte degli immigrati di oggi, sono gli stessi che fino a
pochi decenni fa erano tollerati o valutati con generosa indulgenza
dall’ordinamento giuridico italiano, un esempio sono quei reati definiti “per
causa d’onore”37 in adesione ai bisogni sociali e culturali di quegli anni, i quali
sono stati aboliti sono con a l. n. 442 del 5 settembre 1981.

4. La risposta dell’ordinamento penale a fronte del fattore culturale

Il compito cui sono chiamati i giuristi per l’elaborazione di una risposta


del diritto penale, è certamente non agevole, posto che si tratta di coordinare
l’universalità dei valori della persona con le determinazioni dei cittadini nei
contesti culturali dati, facendo attenzione a che il particolare non sopprima
l’universale e ciò che è comune non divida, ma unisca38. La relazione tra
sistema penale e minoranze etniche, linguistiche, culturali e religiose sono
oggigiorno oggetto dell’attenzione degli studiosi anche italiani. Le domande
che bisogna porsi sono:

1) In che misura il diritto penale può o forse deve farsi carico, nella formulazione
della sanzione e più in generale delle norme incriminatrici, delle diversità
culturali?
2) Quale valore l’ordinamento giuridico dovrebbe attribuire al condizionamento
esercitato dall’appartenenza culturale di un individuo sull’esecuzione di una
condotta penalmente rilevante?39

37 Ibidem
38 L. RISICATOe E. La ROSA, Laicità e multiculturalismo, profili penali ed extrapenali, G. Giappichelli
Editore, 2009, p.125.
39 L. MASERA, Minoranze e immigrazione, in Diritto Penale Contemporaneo, p. 70 ss.

17
Va subito precisato, per giustificare le diverse risposte provenienti dei
vari Stati ai problemi sollevati dai reati culturalmente orientati, che il diritto
penale non è un prodotto culturalmente neutro, ma è anzi fortemente
impregnato della cultura del luogo da dove esso promana 40. Infatti il diritto
penale presenta la peculiarità di essere un diritto locale, cioè creato all’interno
di un singolo Stato e con valenza per tale Stato, quindi ad ogni Stato
corrisponderà un determinato ordinamento giuridico penale differente. Ogni
stato è determinato da un catalogo di reati, sanzionati con specifiche pene nel
caso di violazioni di regole; queste possono somigliare in misura più o meno
ampia a quelle di altri Stati, ma è molto difficile che possano coincidere con
quanto previsto in altri ordinamenti, con la conseguenza che “ciò che è reato
qui, potrebbe non esserlo in un altro luogo, o viceversa41”. Si può notare se si
sposta lo sguardo sull’Unione europea, come l’assenza di competenza diretta
delle Istituzioni comunitarie ed il ritardo nelle procedure di riavvicinamento
e armonizzazione delle legislazioni nazionali in ambito penale rispetto ad altri
settori del diritto, dimostrano la frammentazione localistica che caratterizza
oggi i sistemi penali degli Stati membri, e le difficoltà e le resistenze che il
superamento di tale frammentazione implica. Questo sottolinea come il diritto
penale sia un diritto variabile a seconda tanto del tempo quanto del territorio
in cui si forma. Va anche rilevato il forte legame tra cultura e diritto, e
soprattutto la capacità della prima di influenzare, almeno in parte, il secondo42.
L'art. 42 del Testo Unico sull'Immigrazione attribuisce allo Stato, alle
Regioni e alle autonomie locali il compito di favorire "la conoscenza e la
valorizzazione delle espressioni culturali, ricreative, sociali, economiche e
religiose degli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia". Se la riflessione
sui reati culturalmente orientati, nel nostro ordinamento, è relativamente

40 F. BASILE, Il diritto penale nelle società multiculturali: i reati culturalmente orientati, Giuffrè
Editore, 2ª ed., Milano, 2010, p.351.
41
E. MEZGER, Kriminologie. Ein Studienbuch, München-Berlin, 1951, p. 4. Vedi anche F. BASILE,
Localismo e non-neutralità culturale del diritto penale “sotto tensione” per effetto dell’immigrazione,
CUEM, Soc. Coop. ed., Milano, 2008.
42
Ibidem

18
recente, essa, invece nell'esperienza statunitense, nasce attorno agli anni
Ottanta del secolo scorso, in virtù della natura multietnica della società e della
presenza del fenomeno migratorio sin dalla sua origine43.
A differenza di altri Stati anche europei, l'Italia è invece stata il punto
di partenza dei migranti e solo ultimamente è divenuta una meta per gli
immigrati e si è dovuta confrontare con la criminalità culturale di matrice
immigratoria in tempi recenti. Per questo nel sistema italiano non vi era una
attenuante o una scriminante "culturale" e si riteneva che la presenza di
motivazioni culturali non potesse determinare in alcun modo una esclusione
o una riduzione della pena. Da qui la quaestio iuris relativa alla possibilità di
configurare o meno una nuova ipotesi di scriminante, la cd. cultural defense,
idonea a condizionare l’ an o il quantum della pena. Qualunque sia la strada
scelta, è stato da molti autori sottolineato che il rilievo penale della diversità
culturale non può giungere all’accettazione o all’introduzione di consuetudini
e costumi che potrebbero contrastare i diritti inviolabili della persona, sia
questo cittadino sia questo straniero 44. La cultura degli immigrati infatti non
può giustificare la loro non punibilità, se la condotta posta in essere è una
fattispecie penale che offende un bene giuridico tutelato nella nostra
Costituzione. Inoltre l’art.5 c.p. rubricato “Ignoranza della legge penale” non
consente di poter invocare a propria discolpa l’ignoranza della legge penale;
tale norma, infatti, si occupa della coscienza dell’antigiuridicità, cioè della
consapevolezza del disvalore penale della condotta attuata. Collegando tale
disposizione alla fattispecie presa in considerazione del reato culturalmente
orientato, si sottolinea come non possa essere utilizzata come giustificazione
la non conoscenza dell’illiceità del comportamento avuto dall’agente.
Da tenere distinti da quanto detto fin qui vi sono anche alcuni fatti

43 M. DI MASI, M. FALCONE, M. L. LOCCHI, Tra semplificazione e semplicità. Brevi riflessioni per un


ordinamento giuridico… di qualità, in Proposte per un diritto del terzo millennio, Atti del
Convegno “Visioni del giuridico”, Univali, 2015.
44
M. SANTISE, Il principio di legalità formale e sostanziale e le scriminanti non codificate con particolare
riguardo ai c.d. reati culturalmente orientati, in Gazzetta Forense, Diritto e Procedura penale, a
cura di R. D. COGLIANDRO, Denaro Libri Srl, Bimestrale Anno 4, luglio agosto 2010, p. 65 e ss.

19
culturalmente orientati che potrebbero essere scusati in quanto rientranti nella
rara casistica dei reati commessi per incolpevole “carenza di socializzazione”.
Il giudice, nella fase di commisurazione della pena, non può non
prendere in considerazione la diversità culturale del soggetto agente,
assicurandone l’adeguatezza e la personalizzazione della condanna. Va detto
anche che il giudice non può, nemmeno, sottrarsi al suo dovere di rendere una
giustizia imparziale e che segua le norme vigenti, quindi sarà molto spesso
indotto ad analizzare “caso per caso” o “situazione per situazione”45. In sede
di commisurazione della pena potrà, inoltre, tenersi conto di una serie di
variabili come l’etnia e le pratiche culturali che, ai sensi dell’art. 133 c.p.,
potranno incidere sull’intensità del dolo e sull’applicazione in concreto della
sanzione penale46. Finora in nessun ordinamento penale dei paesi destinatari
di flussi immigratori, è stata introdotta una qualche norma o istituto di parte
generale per disciplinare i reati culturalmente motivati commessi dagli
immigrati, ad eccezione di quelle società multiculturali di tipo multinazionale.
Solo nella parte speciale dei sistemi penali di alcuni paesi possiamo
ritrovare al più, qualche norma pensata ad hoc per alcune tipologie di reati
culturalmente motivati; un esempio è la previsione incriminatrice espressa del
reato di mutilazioni genitali femminili nel codice penale italiano all’art. 583
bis.47 Esistono poi non solo norme create ad hoc, ma addirittura un intero
sistema penale a sé con lo scopo di giudicare gli atti compiuti dai soggetti
appartenenti ad una data comunità. Per comprendere meglio bisogna spostare
lo sguardo sino in Australia dove, ad esempio, ci sono casi in cui le aboriginal
courts sono interpellate per poter giudicare nell’ambito dell’aboriginal

45 C. GRANDI, A proposito di reati culturalmente orientati; Osservazioni sulle monografie di F.


BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali,
Milano, 2010; A. B ERNARDI, Il "fattore culturale" nel sistema penale, Torino, 2010; C. D E
MAGLIE, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, Pisa, 2010.
46
M. SANTISE, Il principio di legalità formale e sostanziale e le scriminanti non codificate, con
particolare riguardo ai cd. reati culturalmente orientati, in Gazzetta forense, Diritto e Procedura
penale, a cura di R. D. COGLIANDRO, Denaro Libri Srl, Bimestrale Anno 4 – luglio-agosto, 2010.
47 F. BASILE, Il diritto penale nelle società multiculturali: i reati culturalmente motivati, Giuffrè, 2010,

p. 366.

20
community justice se non per la liceità o meno dell’atto, almeno per la
commisurazione della pena che è decisa, ad ogni modo, tra le misure punitive
comunque previste dal diritto nazionale. Infatti l’eventuale inserimento di
norme nel codice penale dei vari stati e in particolare di quello italiano, al fine
di accordare un trattamento favorevole ad alcuni casi di reati culturalmente
motivati, potrebbe scontrarsi con reazioni contrastanti e per lo più di rigetto
della pubblica opinione. Potrebbe, infatti, risultare di difficile comprensione la
ragione per la quale l’ordinamento giuridico debba valutare l’appartenenza
del reo ad una determinata cultura in suo favore. La diversità di cultura, se
considerata a fattore determinante una diversità di trattamento in ambito
penale ed in particolare una attenuante, potrebbe attirare su di sé reazioni
negative, ed essere indice, per molti, di un ingiustificato privilegio, che
porterebbe a fomentare, in conclusione, quell’atteggiamento di chiusura e di
barricamento dietro stereotipi e pregiudizi che, nelle intenzioni di chi si fa
promotore dell’introduzione di norme di favore per i reati culturalmente
motivati, si vorrebbe evitare48. Lucia Risicato ed Emanuele La Rosa
definiscono così la risposta del diritto penale “Se dovessi collocare il diritto
penale in questo variegato gioco di trasformazioni, sarei in forte imbarazzo,
poiché mi sembra che esso attualmente sia attraversato al suo interno da
movimenti ed orientamenti contraddittori. (…) Alla scienza del diritto penale
spetta il compito urgente di farsi consapevole dell’evoluzione culturale della
società contemporanea e al diritto penale di apprestare gli strumenti per
svolgere un ruolo in parte differente da quello tradizionale”49.
Dunque la strategia che il legislatore penale sembra portare avanti è
quella di introdurre alcuni singoli reati culturalmente orientati con interventi
caratterizzati da una decisa reazione sanzionatoria; si pensi alle riforme con le
quali sono stati introdotti il reato di pratiche di mutilazione degli organi

48
Ibidem
49L. RISICATO e E. LA ROSA, Laicità e multiculturalismo, profili penali ed extrapenali, G.
Giappichelli Editore, 2009, p.111.

21
genitali femminili e il delitto di impiego dei minori nell’accattonaggio prima
prevista solo come fattispecie contravvenzionale.

4. Il modello “assimilazionista” ed il modello “multiculturalista”

Le possibili politiche adottate dai vari stati per fare fronte al


moltiplicarsi di casi di reati culturalmente orientati si possono suddividere in
due modelli principali: l’uno definito “assimilazionista”, l’altro
“multiculturalista”. Anche se con modalità differenti, entrambi i modelli
perseguono lo scopo di integrare gli immigrati nella società d’arrivo.
Il primo modello, quello “assimilazionista”, si basa sulla logica
dell’assoluta terzietà ed imparzialità dello stato nei confronti delle differenze
culturali e di una assoluta uguaglianza, non dando alcun peso ai caratteri
relativi alle appartenenze culturali. Attualmente, tra le democrazie occidentali
con massiccia presenza di immigrati, la Francia è forse l’unico Stato che tuttora
aderisce al modello assimilazionista50. Un esempio di tale modello, si può
trovare nella recente legge francese del 15 marzo 2004, n. 228, che, in nome del
principio di laicità dello Stato, vieta l’esposizione o l’esibizione di simboli
religiosi all’interno delle scuole pubbliche di ogni ordine e grado: questa legge
impone a tutti, al di là di qualsiasi differenza etnica o religiosa, di essere
formalmente uguali all’interno di uno spazio pubblico rappresentato, in
questo caso, dalla scuola51. Ciò a sottolineare come nel privato il singolo sia
libero di seguire ciò che vuole nella ampia concezione delle libertà, ma questo
non devono emergere nella sfera pubblica e consequenzialmente le scelte

50 W. KYMLICKA, Teoria e pratica del multiculturalismo d’immigrazione, in Multiculturalismo o


comunitarismo, p.126.
51 La legge è stata pubblicata nel Journal officiel de la République Française, n. 65, 17 marzo 2004,

p. 5190.

22
culturali dell’individuo non avranno alcuna rilevanza giuridica. In questo
modo il modello mira ad annullare ogni diversità favorendone la loro
immedesimazione nella comunità nazionale con lo scopo di renderli uniformi
ai cittadini nativi ed allo stesso tempo cerca di mantenere e garantire
l’omogeneità culturale dello Stato nel suo insieme52.
Il secondo modello definito “multiculturalista” o anche “all’inglese” è
improntato ad un riconoscimento di fondo delle diversità culturali53. Questo
modello si basa su di una uguaglianza sostanziale, nel senso che riconosce e
valuta la specificità del singolo individuo appartenente alla minoranza,
personalizzandone la sanzione. L’adesione a tale modello mira al
riconoscimento e l’accettazione delle diversità culturali, con l’adozione di
strategie politiche più tolleranti e pluraliste, nei diversi settori della vita
pubblica, verso gli immigrati per permettere loro di conservare numerosi
aspetti del loro retaggio etnico. L’Inghilterra ha adottato questo sistema ed ha
infatti adottato alcune norme che prevedono deroghe, esenzioni o comunque
regimi giuridici speciali per gli appartenenti ad un gruppo etnico di immigrati.
Gli esempi di tali leggi possono essere: il Matrimonial Proceedings
(Polygamous Marriages) Act del 1972, che, a determinate condizioni, prevede il
riconoscimento degli effetti giuridici e la validità di un matrimonio anche se
esso è stato contratto all’estero “under a law which permits poligamy” oppure la
sezione 16(2) del Road Traffic Act del 1988 che consente agli indiani sikh di
portare il turbante, anziché il casco, quando viaggiano in moto. Inoltre
all’interno del sistema del multiculturalismo all'inglese e come ulteriore
espressione di questo sono anche presenti gli Sharia Councils, pseudo-Corti
formate da membri autorevoli della comunità islamica alle quali può rivolgersi
la popolazione britannica musulmana affinché determinate controversie
vengano risolte in applicazione della shari'a, la legge islamica. Chiaramente il
Consiglio non ha alcuna autorità legale nel Regno Unito e non può imporre

52 A. BERNARDI, Modelli penali e società multiculturale, G. Giappichelli Editore, 2006, cit., p. 82.
53 F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente orientati, CUEM, giugno 2008, p.31.

23
eventuali sanzioni, a queste i destinatari potranno conformarsi
volontariamente. Il grande seguito e la grande autorità ottenuta dagli Sharia
Councils ha creato grandi problematiche e dibattiti a cui non si è detta ancora
risposta soprattutto in relazione alle competenze in materia di divorzio e di
violenza domestica. Una ricorrente obiezione al modello multiculturalista è il
rischio di comportare l’accettazione anche di pratiche culturali incompatibili
con i valori liberal-democratici. Tale obiezione viene superata se si considera
come in tutte le democrazie occidentali che hanno aderito al modello
multiculturalista esistono limiti al riconoscimento delle diversità culturali; e
tali limiti sono essenziali, essendo individuati nei diritti fondamentali
dell’individuo. La reciproca influenza tra i due modelli dipende anche dai
frequenti ripensamenti dei legislatori nazionali, incerti sul da farsi dinanzi ai
fallimenti e ai passi falsi tanto dell’uno quanto dell’altro modello54.
Nonostante il perseguimento del comune obiettivo dell’integrazione,
nessuno dei due modelli è finora riuscito ad evitare effetti di emarginazione
degli immigrati. Sono presenti anche apparati normativi in alcuni Stati in cui i
soggetti appartenenti alle minoranze sono stati esentati dal rispetto di alcune
norme penali, creando norme autorizzative all’interno delle politiche
criminali. Ricondurre ogni stato in uno o nell’altro modello è praticamente
impossibile, oscillando le scelte politico criminali tra entrambi i sistemi.
Secondo alcuni l’ordinamento italiano si porrebbe a metà strada tra i due
modelli, mentre altri credono si avvicini maggiormente al “modello
assimilazionista discriminatorio”55.

55 C. DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, ETS, cit., spec. 70. In
particolare, De Maglie dedica un apposito capitolo al trattamento dei reati culturalmente
motivati adottato nel sistema penale italiano, modello definito assimilazionista
discriminatorio. A fondamento di questo giudizio, ricorda la recente introduzione dei reati di
mutilazioni genitali femminili (art 583 bis c.p.) e di impiego di minori dell’accattonaggio (art.
600 octies c.p.), fattispecie entrambe discutibili in prospettiva politico-criminale, in quanto tese
a colpire condotte di chiara matrice culturale attraverso un considerevole inasprimento
dell’apparato punitivo. In seguito osserva che ‚la giurisprudenza italiana spicca per
l’orientamento decisamente assimilazionista, teso a non dare rilevanza ai conflitti culturali; V.
anche A. BERNARDI, Il “fattore culturale” nel sistema penale, G. Giappichelli, 2010, cit., 13-14.

24
Risulta difficile collocare il sistema italiano nell’uno o nell’altro modello
anche perché in materia di immigrazione le politiche italiane sembrano
cambiare direzione a seconda del governo eletto. Un esempio di una esplicita,
seppur debole, adesione dell’Italia al modello multiculturalista potrebbe
essere rappresentato dall’art. 42 T.U. immigrazione (d.lgs. 25 luglio 1998, n.
286), il quale attribuisce allo Stato, alle Regioni e alle autonomie locali il
compito di favorire “la conoscenza e la valorizzazione delle espressioni
culturali, ricreative, sociali, economiche e religiose degli stranieri
regolarmente soggiornanti in Italia”.56 Inoltre, anche in Italia, è possibile
rinvenire specifiche disposizioni di legge che prevedono deroghe, esenzioni o
comunque regimi giuridici speciali in virtù dell’appartenenza ad un gruppo
etnico di immigrati, e che possono avere rilevanza anche in ambito penale ad
esempio, anche in Italia è consentita, dall’art. 5 del d. lgs. n. 333 del 1998, la
macellazione secondo il rito islamico. Di segno opposto sono invece alcuni
interventi legislativi che sembrano ispirarsi ad una logica “assimilazionista”:
ad esempio la legge del 2006, incriminatrice delle mutilazioni genitali
femminili, contrassegnata da un accanimento punitivo. Gli ostacoli ad una
piena adesione dell’Italia al modello multiculturalista dipendono anche dal
fatto che una quota significativa dell’immigrazione italiana è illegale57; la
politica dello Stato italiano non può quindi avere come scopo quello
dell’integrazione dell’immigrato illegale. La politica dello Stato nei confronti
del clandestino sarà, invece, necessariamente una politica di esclusione.
Inizialmente nel sistema penale italiano infatti il “fattore culturale” non
era in grado di determinare se non una esclusione almeno una riduzione della
pena. Con il passare del tempo ed il moltiplicarsi delle fattispecie, si è cercato
di orientarsi per una ricostruzione più accurata del fatto, verificando la
dimensione culturale e religiosa del soggetto agente e basandosi su ciò per

56F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati, CUEM, giugno 2008, p. 35.
57
V. i dati riferiti da Caracciolo, Editoriale, che evidenziano la presenza di circa 6-800 mila
clandestini su un totale di 3 milioni e mezzo di immigrati in Italia.

25
adeguare la pena. L’ordinamento italiano aveva previsto come circostanza
aggravante la commissione del fatto la condizione dello straniero che si trovi
illegalmente sul territorio nazionale di cui all’art.61 n.11 bis c.p. La Corte
Costituzionale nel luglio 2010 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della
norma che prevede la condizione di clandestinità come causa ammissibile di
trattamenti diversificati e peggiorativi in quanto in contrasto con l’art.3 della
Costituzione che definisce i principi di uguaglianza, non discriminazione e di
proporzionalità; in quanto il fatto commesso dallo straniero presente
illegalmente nel territorio dello Stato è connotato dallo stesso disvalore penale
di quello posto in essere da un cittadino italiano poiché l’essere straniero non
è una condizione giuridica, ma sociale. Ipotizzare come reato l’immigrazione
clandestina anzi non solo può essere ritenuto atteggiamento non ospitale, ma
anche un ritorno regressivo della disciplina e dottrina dello Stato.
Il diritto penale si trova ad oscillare, dunque, tra posizioni progressiste
dirette ad una concezione laica per cui la motivazione rappresenta una
scusante ed altre in cui, invece, essendo ancora in parte legati a principi passati
rappresentano delle aggravanti. Tutto ciò genera una situazione di forte
instabilità. La risposta parziale del diritto penale è stata quella di provare a
personalizzare il reato, inducendo ad una soggettivazione della responsabilità
penale, anche se questo ha inevitabilmente portato al moltiplicarsi delle
fattispecie rientranti nella più ampia categoria del reato culturalmente
orientato. Infatti ritagliare la fattispecie dando importanza alle caratteristiche
etnico/culturali dell’agente provocano il moltiplicarsi di motivazione culturali
differenti. Se non si facesse ricorso alla personalizzazione del diritto si
rischierebbe di giudicare situazioni diverse nella stessa modo, rendendo ciò
che apparentemente sembrerebbe esplicitazione del diritto di uguaglianza,
una discriminazione. Il “processo di personalizzazione” degli illeciti penali
compiuto attraverso la valutazione del “fattore culturale” si può sintetizzare
in tre distinti livelli:

26
1) Ad un primo macroscopico livello vi è la preclusione alle sanzioni penali
per alcuni autori di reati con specifiche caratteristiche culturali dall’ambito
delle previsioni legislative penali, i quali poi saranno sanzionati secondo il
sistema giudiziario dei loro antenati. Sottratti dagli ambiti del diritto
penale o per meglio dire del diritto processuale penale, i soggetti agenti
presentano una sorta di incapacità penale. Questo sistema è sicuramente
espressione di equità, poiché vengono rispettate le diversità, come a
rappresentare la conclusione di un processo evolutivo realizzato nel segno
della tolleranza e della salvaguardia su base etnico- culturale; il rischio,
però, è quello di non curarsi dei diritti fondamentali della vittima,
contrastando i principi di parità dei diritti. Questo sistema non trova
seguito nell’esperienza italiana né, più in generale, nell’esperienza europea
ma, si è affermata soprattutto in quegli Stati in cui le minoranze native sono
riuscite a mantenere una certa indipendenza nonostante diversi processi di
colonizzazione o conquista. Esempi di queste tipologie di sistema si
possono ritrovare in Asia, Africa e nelle Americhe.
2) Ad un secondo livello si fa invece riferimento a quegli Stati in cui il fattore
culturale del soggetto agente può aggravare od attenuare la pena o
addirittura rendere il comportamento lecito od illecito. Tale sistema crea
norme penali sostanziali ad hoc. Infatti, sono previste norme che
consentono a date categorie di soggetti di compiere atti o di mantenere
comportamenti normalmente ritenuti non leciti dallo Stato, esonerandoli
dalle sanzioni. È importante sottolineare come ciò valga sia per le
minoranze culturali autoctone sia per le minoranze di immigrati
provenienti da universi culturali differenti. Un esempio di questo sistema
è quello adottato in Inghilterra; un esempio delle numerose leggi qui
adottate per taluni soggetti è quella che consente ai sikh di non separarsi
dai loro tradizionali pugnali58.

58
Criminal Justice Act, art.139, par.5

27
3) Il terzo livello fa riferimento all’incidenza del fattore culturale in sede di
interpretazione del giudice tanto sulla punibilità quanto sulla
commisurazione della pena del caso concreto, si riscontra quindi in sede di
interpretazione della fattispecie e cioè nella discrezionalità del giudice. Va
ricordato come anche quando ci si trovi dinanzi a situazioni non tipiche ed
anomale, il giudice non possa comunque ritirarsi dal giudicare. Da una
parte questa operazione risulta essere necessaria, dall’altro questo può
risultare rischioso e non risolutivo se si fa riferimento alla realtà conflittuale
e a differenti orientamenti in cui ci si trova. Tutti i Paesi europei, ormai,
adottano politiche che ricorrono alternativamente ai modelli, anche perché
tutti e tre i livelli hanno suscitato problematiche e critiche, tanto che l’uno
non può essere preferito totalmente all’altro59.

5. Ulteriori distinzioni all’interno del reato culturalmente orientato

Analizzando le sentenze pronunciate dai giudici italiani ed anche dei


giudici degli altri paesi europei, recettori di flussi immigratori, fa emergere la
rilevanza prasseologica di reati commessi per motivazioni culturali dagli
immigrati. Questi reati possono essere raggruppati in alcune categorie
delittuose:

1)violenze in famiglia:

a) maltrattamenti (art. 572 c.p.): sono numerosi i casi in cui l’autore del reato
agisce spinto da una motivazione culturale. Si tratta di casi in cui, solitamente,

59
L. RISICATO e E. LA ROSA, Laicità e multiculturalismo, profili penali ed extrapenali, G.
Giappichelli Editore, 2009, pp. 136 ss.

28
le vittime sono membri della famiglia immigrata spesso figli o mogli, mentre
l’autore del reato è un membro ‘forte’ di questa famiglia. La logica solitamente
è quella dei genitori nei confronti dei figli o dei mariti e nei confronti delle
mogli, poiché legati ancora alla concezione patriarcale ed autoritaria della
famiglia, presente nella sua cultura d’origine. Ad oggi questa categoria risulta
avere il maggior numero di casi di reati ‘culturalmente motivati’ finora giunto
all’attenzione della giurisprudenza italiana.
Caso 1.1. - Pretura di Torino 4 novembre 199113:
una coppia di genitori, immigrati stranieri di origine slava, per un periodo di
circa un mese costringe i propri cinque figli minori, di età compresa tra i sette
e i quindici anni, a mendicare ogni giorno per più ore sulla strada, in
prossimità di incroci regolati da semafori, o sui marciapiedi, lasciandoli
esposti alle intemperie, al pericolo d’investimento da parte degli autoveicoli,
nonché ai gas di scarico prodotti dai medesimi, in tal modo sottraendoli
all’obbligo scolastico ed alle normali attività ed agli svaghi tipici di bambini di
quella età60. In questo caso gli imputati offendono un bene costituzionalmente
tutelato: la dignità umano. Infatti ogni diversa tradizione culturale deve
ritenersi non solo inaccettabile ma legittimamente reprimibile qualora si
concreti in comportamenti costituenti reato alla stregua degli artt. 572 e 671
c.p. Il gruppo minoritario non può pretendere che la sua cultura e
consequenzialmente gli usi e le regole di cui si compone possano essere
globalmente accolte nella società di accoglienza.
b) imposizione di matrimoni combinati: i familiari ricorrono alla violenza contro
giovani donne per imporre loro un matrimonio combinato con uno sposo
prescelto dalla famiglia stessa, poiché in questo modo, garantirà che la giovane
si manterrà fedele alle tradizioni culturali del gruppo d’origine;
c) punizione di membri ‘ribelli’ alle regole tradizionali: i membri ‘forti’ della
famiglia non tollerano che altri membri si allontanino dalle regole culturali del

60
Cass. Pen. 1992, p. 1647, Imputato Husejinovic.

29
gruppo d’origine. Anche qui, spesso, si fa riferimento al rapporto tra padre e
figlia. Essi ritengono che la violazione di tali regole sia di tale gravità da dover
punire, in caso di mancato ravvedimento, con la morte del membro ribelle,
anche perché se così non fosse, sia la violazione che la mancata sanzione da
parte della famiglia coprirebbe di disonore la famiglia.

2) reati di sangue a difesa dell’onore:

a) onore familiare o di gruppo: in alcuni casi un esasperato concetto dell’onore


spinge a vendicare la morte o la lesione di un membro della propria famiglia
o del proprio gruppo, commettendo un reato ‘di sangue’;
b) onore sessuale: a volte a monte del reato di sangue commesso vi è il concetto
di onore sessuale che può essere stato offeso da un tradimento o da altra
condotta ritenuta riprovevole e da punire in base alla morale sessuale del
gruppo di appartenenza;
c) onore personale: in altri casi ancora, gravi fatti di sangue sono commessi per
ristabilire il proprio onore, allorché sia stato offeso da uno ‘smacco’ che può
consistere anche in un semplice insulto verbale, ed è inoltre ritenuto
intollerabile in base ai parametri culturali del gruppo d’origine.

3) reati di riduzione in schiavitù a danno di minori:

in Italia abbiamo avuto almeno tre procedimenti per il reato di riduzione in


schiavitù, in cui gli imputati hanno invano invocato, a loro giustificazione, le
loro consuetudini caratterizzanti i rapporti adulti-minori;

4) reati contro la libertà sessuale:

a) ai danni di fanciulle: le vittime sono talora giovani adolescenti che nella

30
cultura d’origine dell’imputato non godrebbero di alcuna particolare
protezione della loro sfera sessuale in ragione della loro età;
b) ai danni delle mogli: è il caso di violenza sessuale intraconiugale, in cui la
violenza è commesso dall’immigrato nei confronti della propria moglie e
rispetto ai quali l’imputato, in sede processuale, invoca a proprio favore la
concezione subordinata della donna nei confronti del marito diffusa nella
cultura d’origine;
c) ai danni di donne adulte: le vittime dei reati contro la libertà sessuale, per il
solo fatto di essere donne e per la già ricordata concezione di inferiorità diffusa
nel gruppo d’appartenenza dell’imputato, godrebbero di una libertà di
autodeterminazione in ambito sessuale notevolmente ridotta, talmente che la
forzatura di tale libertà da parte dell’uomo costituirebbe, per la cultura
dell’imputato, un fatto non illecito o comunque un illecito non connotato da
particolare gravità;

5) lesioni personali di matrice culturale:

A tale gruppo di reati possiamo ricondurre, oltre alle mutilazioni genitali


femminili, anche la circoncisione maschile rituale per lo meno allorché essa
provochi gravi emorragie o altri postumi invalidanti.

6) reati in materia di sostanze stupefacenti:

Si tratta di casi in cui alcuni membri di gruppi culturali utilizzano sostanze


droganti durante i loro rituali religiosi o le loro cerimonie. Essi invocano, a loro
difesa, il fatto che all’interno del gruppo culturale cui appartengono il
consumo di queste sostanze stupefacenti è lecito, o per lo meno tollerato, o
addirittura raccomandato: ad es. la marijuana per i rastafariani;

31
7) inadempimento dell’obbligo scolastico:

Tale reato può essere integrato dal rifiuto da parte dei genitori di mandare i
figli ad una determinata scuola a causa di riserve di tipo religioso-culturale
rispetto alla scuola cui i figli sono stati assegnati. Un esempio è stato affrontato
dalla giurisprudenza inglese: il caso riguardava un padre musulmano che si
rifiutava di mandare la propria figlia a scuola, perché si trattava di una scuola
mista e in cui erano presenti sia bambini che bambine ma, ciò non è ammesso
dalla cultura e dalla tradizione del suo gruppo d’origine.

8) reati concernenti l’abbigliamento rituale:

Una delle manifestazioni più evidenti dell’appartenenza ad un gruppo


culturale consiste nell’indossare un costume tradizionale o comunque nel
portare con sé un oggetto tipico della cultura d’origine. La giurisprudenza
italiana ha dovuto affrontare alcuni casi in cui tali pratiche culturali sono state
valutate alla luce della loro possibile rilevanza penale rispetto ad alcune figure
di reato a tutela della sicurezza pubblica. Si pensi, ad esempio, ai casi relativi
all’uso del burqa indossato dalle donne musulmane in cui ci si è chiesto se esso
possa integrare il reato previsto dalla legge Reale del 1975 sul riconoscimento
delle persone –, e al possesso del kirpan il coltellino rituale degli indiani sikh –
di cui ci si è chiesti se esso possa rientrare nel reato di porto d’armi;

9) reati commessi per errore, culturalmente condizionato, sul fatto o sulla legge penale:

Sono i casi riguardanti i reati più disparati che posso spaziare dal commercio
di prodotti con segni falsi, alla vendita di accendini senza il prescritto bollo di
Stato; dalla detenzione abusiva di armi, etc. Questi sono accomunati dal fatto
che l’agente a causa della diversità cultura, versa in una situazione di errore:
errore che può essere sul fatto che costituisce il reato (eventualmente rilevante

32
ai sensi dell’art. 47 c.p.) oppure errore sulla legge che prevede il fatto come
reato (eventualmente rilevante ai sensi dell’art. 5 c.p.). Tale categorizzazione
della fattispecie si spiega alla luce di due fattori principali:
da una parte, infatti, le relazioni familiari ed interpersonali, le concezioni in
materia di onore, i comportamenti nella sfera sessuale e riproduttiva
rappresentano un tema dominante nelle tradizioni e nelle regole delle diverse
culture;
dall’altra, la vita familiare e domestica costituisce la sede in cui tali tradizioni
e regole culturali sono insegnate e praticate.
Guardando al nostro passato possiamo ritrovare tanti emigranti italiani
che nei decenni passati, a causa delle condizioni economiche, lasciavano
l’Italia inseguendo un sogno, come ad esempio il cosiddetto sogno americano;
trovandosi a contatto con culture diverse da quella d’origine; ciò ha fatto sì che
in molti paesi si formasse anche una cospicua casistica giurisprudenziale di
reati culturalmente motivati, compiuti da imputati italiani emigrati in
Svizzera, in Germania, in America, etc. i quali si difendevano invocando a loro
discolpa la loro cultura, le loro tradizioni, la mentalità italiana61. Per meglio
comprendere questo collegamento è facile pensare come gli immigrati di oggi,
possono essere equiparati agli immigrati italiani del nostro passato.
Se si osserva con attenzione le fattispecie di reato sopraelencate di reati
si può notare come, la maggior parte di questi, siano compiuti da parte di
soggetti appartenenti a culture pressoché maschiliste e patriarcali, dove è
perpetuato l’asservimento della donna all’uomo, il quale è spesso giustificato
per i suoi comportamenti ed atteggiamenti violenti nei confronti della donna,
sia questa la moglie sia questa la figlia. In queste culture, spesso, il rispetto di
date regole ed usi è ritenuto talmente importante da scusare i consequenziali
maltrattamenti dovuti alla violazione di precetti culturali. Un esempio è
rappresentato dal trattamento benevolo riservato all’uxoricidio che ha

61
F. BASILE, Il diritto penale nelle società multiculturali: i reati culturalmente motivati, Giuffrè, 2010,
p. 364.

33
compiuto il reato per la lesa fedeltà coniugale. Ciò ovviamente non vuol dire
che tutti i reati siano di questa portata, infatti, ve ne sono altri in cui la condotta
culturalmente motivata dell’imputato non è espressione di una prevaricazione
sessista sulle donne. A questo punto sembra opportuno fare una seconda
distinzione in relazione alla gravità dell’offensività del reato posto in essere, e
cioè possiamo dividere quelli che vengono chiamati reati culturalmente
motivati a bassa offensività, caratterizzati da una rilevanza bagatellare o
comunque molto contenuta ed i reati culturalmente motivati ad elevata
offensività. Questa categorizzazione permette di non porre sullo stesso piano e
dunque, di non riservare lo stesso trattamento penalistico, a fatti di natura
contravvenzionale ed offesa ai diritti fondamentali della vittima. Per giungere
ad esiti assolutori per i reati culturalmente orientati a bassa offensività sono
state proposte soluzioni differenti a partire dall’ ignoranza inevitabile della
legge penale violata dell’art. 5 c.p. oppure facendo riferimento all’errore sul
fatto, che esclude il dolo, ai sensi dell’art. 47 c.p. Queste soluzioni, però, non
possono essere utilizzate nei casi di reati culturalmente orientati ad elevata
offensività. Infatti, la stessa Cassazione ha respinto, per questi ultimi casi,
ogni atto difensivo o canale normativo che elevando il fattore culturale a
scusante, possa portare all’assoluzione dell’imputato.

6. La cultural defense

All’esperienza statunitense si deve l’elaborazione del concetto di


“cultural defense” o “difesa culturale”; in realtà, questa ultima è una invenzione
prettamente dottrinale che, ad oggi, infatti, non trova ancora ufficialità nel

34
diritto penale statunitense62. La nozione di “cultural defense” nasce a partire
dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando il diritto penale si trova
a fronteggiare problematiche relative a casi giudiziari eclatanti sui reati
culturalmente orientati63. Si sviluppa a partire dagli Stati Uniti poiché, questi,
sono in assoluto il Paese caratterizzato da particolare varietà: gli studi
demografici mostrano, infatti, una straordinaria rappresentatività di
nazionalità ed etnie, che costituisce il risultato di fattori diversi: immigrazione
volontaria da parte di cittadini europei in cerca di fortuna e di opportunità di
lavoro, ma anche immigrazione “coatta” di neri provenienti dalle colonie
africane64. Ad oggi infatti la posizione attuale degli Stati Uniti è stata
qualificata come religious freedom o laicità aperta, che esprime la volontà di
attribuire il massimo grado di libertà e di pluralismo religioso, garantendo e
tutelando l’uguaglianza di tutte le confessioni religiose65.
Fin dalle prime applicazioni l’istituto in esame è stato in prevalenza
invocato da immigrati in relazione a vicende caratterizzate da significative
differenze tra l’insieme dei valori accolti nella legislazione del Paese di
accoglienza e quello vigente presso il gruppo culturale di origine
dell’imputato: usanze, tradizioni, costumi e modalità di comportamenti nelle
relazioni familiari contemplati nel gruppo minoritario divenivano per l’agente
occasione di violazione del precetto penale. In casi di questo genere la prima
risposta fu quella della rigida applicazione del diritto penale che, però, non
sembrò essere risolutiva, poiché le azioni illecite non erano meramente
occasionali e, quindi, condotte isolata di un individuo rispetto al gruppo di
maggioranza e dettata da motivazioni soggettive, ma di comportamenti

62F. BASILE, Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica in www.statoechiese.it,


luglio 2009.
63 F. BASILE, Il diritto penale nelle società multiculturali: i reati culturalmente orientati, Giuffrè, 2010,

p.
64 C. DE MAGLIE, Multiculturalismo e diritto penale. Il caso americano, in M. BERTOLINO, G. FORTI

(a cura di), Scritti per Federico Stella, Napoli, 2007, p. 7 ss.


65 A. BARBERA, Il cammino della laicità, in “Valori e secolarizzazione nel diritto penale”, a cura di S.

CANESTRARI – L. STORTONI, Bologna, 2009, p. 48.

35
riconosciuti come vincolanti secondo codici normativo-culturali presenti
all’interno di una comunità. Dunque l’applicazione indiscriminata e reiterata
della norma penale, in assenza di adeguata considerazione delle caratteristiche
soggettive dell’agente, era avvertita come ingiusta. All’interno del processo
penale, pertanto, si sono aperti spazi per attribuire rilevanza al fattore
culturale, sotto forma di cause di esclusione o di diminuzione della
responsabilità penale. Già in alcuni processi degli anni 30 del Novecento vi
sono le prime tracce di strategie difensive formulate in questi termini.
Sebbene la maggioranza delle decisioni giudiziarie in cui ha trovato
applicazione l’istituto della cultural defense, ha come protagonisti immigrati,
nella dottrina si è segnalata anche la presenza di significativi casi che
coinvolgono gruppi autoctoni di Native American. La dottrina statunitense
cominciò ad elaborare il concetto di “cultural defense” da quando, nel 1985, una
donna di origine giapponese scoprì una relazione extraconiugale del marito e
tentò di uccidersi gettandosi con i figli nell'Oceano Pacifico. Il gesto è
riconducibile ad una antica pratica dell’oyako-shinju o parent-child suicide. Il caso
si concluse con la morte dei due bambini mentre la donna fu fermata dai
soccorritori prima che riuscisse a portare a termine il suicidio, così fu
processata per omicidio, nonostante la comunità giapponese si mobilitò per
spiegare il significato di tale gesto.
Con il termine “cultural defense” si sintetizza l’aspetto forse più
significativo del reato culturalmente orientato: la formula in questione si
riferisce alle possibili cause di esclusione o di attenuazione della pena di cui
può beneficiare l’imputato appartenente a un gruppo culturale diverso da
quello maggioritario. In particolare, descrive una strategia difensiva attuabile
in sede processuale e basata sull’uso di una prova culturale anche detta cultural
evidence tramite cui si cerca di limitare od esonerare la responsabilità
dell’imputato. Il soggetto appartenente ad una minoranza culturale affinché
venga lui applicata almeno una attenuante dovrà mostrare il collegamento
eziologico tra la sua cultura e la sua condotta, nell’aspettativa che il

36
riconoscimento di tale influenza possa ridondare a suo favore.
Tale spiegazione fa leva su usanze, costumi, tradizioni, valori, pratiche
che, di regola, non sono note ai giudici appartenenti alla cultura di
maggioranza: infatti, “la necessità di introdurre una prova sul background
culturale dell’imputato nasce dalla realtà di fatto che le persone chiamate a
prendere decisioni nelle Corti criminali americane sono spesso culturalmente
differenti dalle persone accusate di un crimine”66. Il fine ultimo della cultural
defense è, quindi, che la spiegazione della motivazione culturale che ha spinto
ad agire i soggetti e la descrizione del loro background culturale possa essere
compresa dai giudici, in modo tale che, potranno riconoscergli una rilevanza
pro reo. La “cultural defense” afferma che le persone appartenenti ad una
minoranza o ad una cultura straniera, che si comportano in conformità con le
loro peculiari norme culturali, non dovrebbero essere ritenuti pienamente
responsabili per la condotta che viola la legge penale, se questa condotta è
conforme alle prescrizioni della loro cultura.
Parte della dottrina ritiene che non sia corretto l’utilizzo della cultural
defense: in particolare ne viene criticato l’uso in sede processuale, nella misura
in cui essa si basa sul concetto di “cultura”, poiché definito un concetto
estremamente generico ed imprecisabile ed il cui impiego, potrebbe portare ad
una serie di problematiche di ordine descrittivo ed applicativo. E seppur si
riesca a trovare una definizione ferma e corretta del concetto, si sottolinea la
grande difficoltà nel riuscire a conoscerne i contenuti, quindi le regole, i diritti
ed i doveri, che formano una determinata cultura, quindi non più il concetto
in sé, ma la formazione di ognuna di esse. In più è noto come la cultura e
consequenzialmente la società che la segue, siano in continua evoluzione e ciò
ne può comportare un cambiamento che però non sempre è facilmente
comprensibile agli osservatori esterni. A ciò si aggiunge una verifica ancor più
complicata che attiene alla sfera interiore del soggetto; in particolare, si dovrà

66
H. MAGUIGAN, Cultural Evidence, cit., p. 58.

37
valutare il grado di adesione del soggetto agente alla cultura d’appartenenza.
Consequenzialmente capire se al momento dei fatti, l’imputato abbia
agito influenzato effettivamente dalla cultura del gruppo d’origine ed in quale
misura. Come si evince le problematiche sollevate dalla dottrina sono
effettivamente corrette e di difficile soluzione, ma non a tal punto da escludere
qualsiasi rilevanza ai fattori culturali in sede penale. Nella pratica poi, ciò che
rileva per il diritto penale è, piuttosto, se l’intenzione dell’imputato al
momento dei fatti sia stata veramente quella di seguire una pratica, tra l’altro
diffusa, nel gruppo minoritario che poi si sarebbe scoperta come illecita.
Inoltre il problema della cultural defense è riuscire a trovare un equilibrio
senza sfociare in messaggi diseducativi nel gruppo di appartenenza
dell’imputato e, allo stesso tempo, non sacrificare i diritti violati della vittima
o di non lasciarla con una difesa in sede processuale minore. Facendo
riferimento al primo punto, accordare un trattamento favorevole potrebbe far
vacillare la funzione preventiva del diritto penale, causando al contrario
dell’effetto desiderato, la diffusione di un dato comportamento nel gruppo
minoritario dell’imputato, che ne conoscerebbe già la reazione indulgente del
sistema penale. Tutto ciò si potrebbe arginare prevedendo non l’esenzione
dalla commisurazione della pena, ma solo una sua attenuante, in modo che la
cultural defense non influenzerebbe la responsabilità dell’imputato nei
confronti della legge penale, ma solo il quantum di questa.
Dunque un riconoscimento pro reo del fattore culturale, dopo le dovute
valutazioni e sempre che siano presenti certi presupposti e che siano giudicate
correttamente gli elementi probatori connessi, può risultare equo se non
addirittura doveroso. Occorre, in definitiva, rimarcare come l’apertura alla
diversità culturale e la disponibilità a valutarla, in sede processuale, pro reo
limitatamente a determinati casi non deve lasciare pensare che la porta sia
aperta ad ogni espressione, nel senso più ampio del termine, di diversità
culturale, ma implica l’apposizione di limiti alla tolleranza di tale diversità,
limiti segnati dal rispetto reciproco dei diritti fondamentali dell’individuo che

38
sono ritenuti essenziali, e che rappresentano condizione necessaria per il buon
funzionamento e la convivenza tra culture diverse all’interno di una stessa
società. Ad oggi non è possibile indicare un paradigma politico-istituzionale
che, in relazione all’obiettivo di assicurare una convivenza pacifica tra
differenti culture possa ritenersi pienamente riuscito67, nemmeno negli Stati
Uniti, dove, anzi, con l’avvento del nuovo presidente Donald Trump, la
situazione potrebbe peggiorare. Il presidente ha vietato l'ingresso negli Stati
Uniti a sette paesi a maggioranza musulmana nonostante le proteste e le
polemiche dopo la decisione e ha “congelato” l’immigrazione per almeno
quattro mesi. L'alto commissario del Consiglio per i diritti umani dell'Onu,
Zeid al-Hussein, definisce il divieto di ingresso nei confronti dei cittadini di
sette paesi islamici "illegale e meschino". E non si fanno attendere i primi
effetti: il Parlamento iracheno, infatti, ha approvato una richiesta al governo
di adottare il principio della reciprocità rispetto al bando imposto dal capo
della Casa Bianca ai cittadini iracheni diretti negli Usa, vietando l'ingresso ai
cittadini americani per 90 giorni68. Federica Mogherini, alta rappresentante
per la Politica estera dell'Unione europea commenta la decisione di Donald
Trump così "L'Ue continuerà a lavorare con tutti i Paesi della regione, a
prescindere dalla loro religione, e a prendersi cura e ospitare i rifugiati siriani e
altri che fuggono dalle guerre". L’osservatore Romano, il quotidiano della
Santa Sede, analizza la scelta del presidente americano, partendo dalla
considerazione che proprio gli Stati Uniti d’America, hanno costruito la loro
potenza grazie al lavoro degli immigrati, grazie all’apertura e all’unione tra
autoctoni e immigrati. Nel particolare: "La chiusura non è progresso come il
muro anti-immigrati lungo la frontiera col Messico e la limitazione degli
ingressi da Paesi a maggioranza islamica. Solo un'analisi molto superficiale

67
M. I. MACIOTI, L'esperienza migratoria, Immigrati e rifugiati in Italia, Editori Laterza, Bari, cit.
139.
68
P. MATTEUCCI, Onu a Trump: Divieto illegale e meschino. Iracheni fanno causa, Washington
querela. Obama rincuorato dalla risposta del Paese., in LaRepubblica, Gruppo Editoriale L’Espresso,
30 gennaio 2017.

39
può far pensare che la lotta alle storture di una globalizzazione mal gestita vada
di pari passo con la chiusura dei confini o con la costruzione di muri sempre
più alti. A dimostrarlo è la stessa storia degli Stati Uniti che hanno costruito la loro
potenza economica, e quindi la loro influenza politica, grazie al lavoro degli immigrati.
Che, peraltro, sono ancora una risorsa preziosa, come testimoniano le reazioni
di molti esponenti di primo piano del nuovo capitalismo a stelle e strisce di
fronte alla decisione di limitare l'immigrazione. Da Tim Cook di Apple (Steve
Jobs era di origine siriana) a Mark Zuckerberg di Facebook, la presa di distanza
dall'iniziativa di Trump è stata unanime69".

69 Osservatore Romano, 2 febbraio 2017.

40
Capitolo II

Le mutilazioni genitali femminili

“Per tutte le violenze consumate su di lei,


per tutte le umiliazioni che ha subito,
per il suo corpo che avete sfruttato,
per la sua intelligenza che avete calpestato,
per l’ignoranza in cui l’avete lasciata,
per la libertà che le avete negato,
per la bocca che le avete tappato,
per le ali che le avete tagliato.”70

Sommario: 1. Storia ed evoluzione del concetto di mutilazioni genitali femminili; 2.


L’evoluzione delle mutilazioni genitali femminili nel diritto penale; 3. Le mutilazioni genitali
femminili e la circoncisione maschile a confronto.

1. Storia ed evoluzione del concetto di mutilazioni genitali femminili

L’Organizzazione Mondiale della Sanità71 nel 1997, proprio al fine di


monitorare e meglio individuare tale complesso e variegato fenomeno, ha
elaborato una definizione convenzionale di mutilazioni genitali femminili, in
base alla quale possono essere ritenute tali “tutte le pratiche che comportano la
rimozione parziale o totale degli organi genitali femminili esterni o altri danni agli

70
Autore ignoto.
71 L’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS, istituita nel 1948 con sede a Ginevra è
l’Agenzia delle Nazioni Unite specializzata per le questioni sanitarie e vi aderiscono 194 Stati
Membri di tutto il mondo. L’Italia ha aderito ufficialmente all’OMS in data 11 aprile 1947.
Secondo la Costituzione dell’OMS, l’obiettivo dell’Organizzazione è “il raggiungimento, da
parte di tutte le popolazioni, del più alto livello possibile di salute", definita come “uno stato
di totale benessere fisico, mentale e sociale” e non semplicemente “assenza di malattie o
infermità”.

41
organi genitali femminili, compiute per motivazioni culturali o altre motivazioni non
terapeutiche72”. Vi sono state sempre delle difficoltà nel dare degli appellativi
esatti a tali pratiche sin dai primi viaggi di esplorazione, le difficoltà erano
dovute soprattutto all’ignoranza che le circondava e, nonostante il passare dei
decenni e l’evoluzione della medicina, in realtà, è recentemente che si è deciso
l’utilizzo di tale definizione convenzionale73.
L’art. 583 bis c.p. è la risposta del diritto penale ad una pratica indegna
nei confronti della figura femminile e con il quale si è voluta applicare la linea
dura per tutelare la salute e la dignità della donna sottoposta a mutilazione.
L’accezione negativa del termine mutilazione utilizzato per queste pratiche, è
stata introdotta alla fine degli anni Settanta, in sostituzione del termine
circoncisione femminile, per sottolinearne i danni irreversibili cagionati alle
donne. Il termine mutilazione è stato adottato nella terza Conferenza del
Comitato inter-africano sulle pratiche tradizionali che riguardano la salute
delle donne e dei bambini, tenutasi ad Addis Abeba nel 1991; nello stesso anno
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ne è stato raccomandato l’utilizzo
come termine in ambito delle Nazioni Unite74; un appellativo che però crea
disagio in chi profondamente crede nella non violenza di queste pratiche e che
le ascrive tra gli atti di “genitorialità patriarcale” finalizzati alla miglior
crescita e all’accettazione sociale delle proprie figlie ed ai meccanismi
matrimoniali cui rimandano. Le mutilazioni genitali femminili vengono
collocate tra le tradizioni che segnano il passaggio dall’infanzia all’età adulta,
un rito attraverso il quale si diventa “donna”; un’identità di genere costruita
socialmente che darebbe senso ad un’identità biologica.75.

72
WHO, Female Genital Mutilation Information Pack, in
http://www.who.int/reproductivehealth/topics/fgm/overview/en/ (WHO, UNICEF,
UNFPA, 1997)
73 B. DI STEFANO, Le mutilazioni genitali femminili tra prevenzione e diritto, 2004.
74 Unicef, Changing harmful Social Convention: female genital mutilations/catting, Innocenti

Digest 2005.
75 Il Ministro della Salute: vista la legge 9 gennaio 2006, n. 7, recante “Disposizioni concernenti

la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile”, ed in particolare l’articolo


4, il quale attribuisce al Ministero della Salute il compito di emanare delle linee guida destinate

42
Nel caso delle mutilazioni genitali femminili si tratta spesso di pratiche
imposte, anche se a volte chi le subisce può sentire un sentimento di
accondiscendenza se non addirittura di piena adesione, ciò non toglie che si
tratti di atti che provocano danni fisici e psichici qualificabili, ai sensi del
codice penale italiano, come più gravi delle lesioni. Sono atti che costituiscono
una vera e propria violenza sul piano psichico e fisico e che oggi hanno a che
fare meno con le giustificazioni religiose, ma di più con i pregiudizi ancora
legati alla figura della donna. Nel corso dei secoli sono stati compiuti numerosi
reati in nome della religione. Per citare solo i casi più eclatanti e dando uno
sguardo al passato basta ricordare la persecuzione dei Cristiani compiuta al
tempo dei Romani, le Crociate, la Santa Inquisizione, la diffusione delle Sette
tra cui una delle più famose per la ferocia e per essere prettamente ghettizzante
come il KKK76 diffusissime nell’America del secolo scorso e via dicendo fino
ad arrivare ai più recenti fatti di cronaca77. In particolare è interessante notare
come pratiche riconducibili alle mutilazioni genitali femminili erano

alle figure professionali sanitarie nonché ad altre figure professionali che operano con le
comunità di immigrati provenienti da paesi dove sono effettuate le pratiche di mutilazione
genitale femminile per realizzare una attività di prevenzione, assistenza e riabilitazione delle
donne e delle bambine già sottoposte a tali pratiche; sentiti i Ministri dell'istruzione,
dell'università e della ricerca e per le pari opportunità; acquisito il parere favorevole della
Conferenza Stato-Regioni nella seduta del 20 settembre 2007; decreta Articolo 1: Sono adottate
le linee guida destinate alle figure professionali sanitarie nonché ad altre figure professionali
che operano con le comunità di immigrati provenienti da paesi dove sono effettuate le pratiche
di mutilazione genitale femminile per realizzare una attività di prevenzione, assistenza e
riabilitazione delle donne e delle bambine già sottoposte a tali pratiche, allegate come parte
integrante del presente decreto.
76 Ku-Klux Klan Nome di due associazioni segrete politiche degli USA.

Il primo K. sorse nel Sud dopo la guerra civile, in opposizione al Congresso. Fondato nel 1866
a Pulaski (Tennessee) dal generale N.B. Forest, esercitò notevole forza di attrazione sul popolo.
L’attività svolta, con la violenza e mezzi illegali, tra il 1868 e il 1870 portò a una resistenza
antinordista e al rovesciamento dei governi basati sul suffragio degli afroamericani. Il
secondo, fondato nel 1915 da W.J. Simmons ad Atlanta (Georgia), si ispirò al primo:
nazionalista e razzista nei confronti di afroamericani, cattolici ed Ebrei, si sovrappose allo
Stato nell’esplicazione di una pretesa difesa giurisdizionale. Nel 1922 causò sanguinose
violenze; nel 1926 influenzò fortemente le elezioni politiche; cominciò a declinare nel 1928,
quando gli episodi di violenza e di corruzione portarono a defezioni e processi. La sua attività
criminosa riemerse negli anni 1960, dopo i provvedimenti contro la discriminazione razziale
adottati dall’amministrazione Kennedy.
77 C. COLOMBO, L’articolo 583 bis c.p. un illecito compiuto in nome della religione?, Rivista di

Criminologia, Vittimologia e Sicurezza Vol. III - N. 2 - maggio-agosto 2009.

43
conosciute già nel passato dell’Occidente: oltre alla cintura di castità
medioevale, forma di mutilazione meccanica del piacere femminile, è possibile
ricordare che nell’antica Roma veniva praticata una forma di infibulazione
meccanica alle schiave, per scopi contraccettivi78. Anche attualmente, pur
senza entrare nella complessità sociologico-politica di una materia che
necessiterebbe di ben altro approfondimento, è evidente come gli attentati e
gli atti persecutori compiuti in nome della religione siano ancora
significativamente diffusi. Le popolazioni immigrate provenienti dai paesi
africani, per ciò che attiene in modo specifico alle pratiche di mutilazione
genitale femminile, sono portatrici di un bagaglio culturale fino a poco tempo
fa quasi completamente sconosciuto nel continente europeo, composto da
comportamenti fortemente influenzato dalla loro religione che corrisponde
anche alla loro legge applicata. A tutto questo vanno poi ad aggiungersi
attitudini e costumi che secondo la religione e le tradizioni locali non sono
contra ius ma, anzi, avvalorati nella maggior parte dei casi dalla consuetudine.
Capita sovente che la religione venga utilizzata dagli interessati come
giustificazione per determinare qualcuno a commettere un reato che in realtà
è di tutt’altra specie. Ora, un caso conosciuto come illecito compiuto in nome
della religione, è proprio il grave fenomeno delle “mutilazioni degli organi
genitali femminili (MFG)”, conosciute anche come “taglio genitale femminile”
“Female Genital Cutting” (FGC).
Anche se sembra ormai accertata l’origine non strettamente religiosa
della pratica è vero che le mutilazioni genitali femminili creano notevoli
implicazioni di questo tipo, in quanto in generale il corpo della donna e la sua
sessualità occupano, da sempre, nella visione della maggior parte delle
religioni non ultimo il cattolicesimo, una posizione ambivalente e a tratti
opposta: per un verso, infatti la donna è considerata fonte di vita; mentre, per
l’altro verso, rappresenta una figura agli estremi anche negativa che deve

78
I. RUGGIU, La Risoluzione ONU del 2012 per l’eliminazione delle mutilazioni genitali femminili.
Una lettura problematica.

44
essere tenuta sotto controllo e mai esibita o lasciata libera di espandersi o
esprimersi79. Le mutilazioni genitali femminili sono per lo più compiute
tramite la pratica dell’infibulazione, derivante dal termine latino fibula che
significa spilla: individua una procedura di mutilazione che chiude la vagina
della donna attraverso una sutura che permette la sola uscita dell’urina e del
sangue mestruale. Si tratta di una pratica spregevole che non lede “solamente”
la dignità della donna, ma ne può far derivare soprattutto danni alla salute
della stessa. I consequenziali danni spaziano dall’ambito psicologico vedi
depressione, mancanza di autostima all’ambito ancor più grave fisico in
riferimento al rischio di emorragie o di tetano, setticemia, fino alle gravi
conseguenze di sterilità e morte per complicazioni sia durante l’operazione
che successive a questa. Difficoltà psicologiche sorgono inoltre in maniera più
sentita nell’esperienza dell’emigrazione attraverso il confronto, sia per le
ragazze giovani che per le donne adulte, con altri modelli di socializzazione e
di costruzione dell’identità femminile80. Purtroppo, però, la dannosità delle
mutilazioni genitali femminili non sembra affatto costituire un freno alla loro
diffusione81. Alcune donne attribuiscono a questa operazione il senso di
umiliazione, di impotenza e di inibizione che le accompagna perennemente,
altre riferiscono di aver vissuto la mutilazione come uno stupro o come un
tradimento da parte della famiglia con la conseguente difficoltà di costruire
relazioni affettive persino con i propri figli.
Tutto ciò rende questa pratica una tradizione che l’ordinamento italiano
non può in alcun caso tollerare, in quanto contrario ai valori garantiti e tutelati
dalla Carta costituzionale. Tornando alle considerazioni alle quali si è già fatto
rapido accenno, le mutilazioni genitali femminili sono state scambiate spesso
per un illecito compiuto in nome della religione. In particolare è stato

79
F. BOTTI, Manipolazioni del corpo e mutilazioni genitali femminili, BUP, Bologna, 2009, p. 59-60.
80 L. ABDULCADIR O.H., Ferite per sempre, Ed. Deriveapprodi Roma 2005.24.
81 WHO, “Female Genital Mutilation”.

45
individuato un collegamento tra Islam-Corano82 e la pratica delle mutilazioni
femminili. In realtà l’infibulazione non trova la sua fonte nella religione bensì
in una terribile tradizione che è portata avanti da quelle società definite
patriarcali e che ancora oggi valutano la donna solamente come un oggetto.
Oggetto di soprusi e maltrattamenti, non solo da parte del marito, ma
anche, e forse è ancora più denigrante, da parte della famiglia d’origine a causa
di usi ancestrali e tramandati nelle popolazioni localizzate soprattutto nei
territori africani83. In almeno trenta paesi africani, ma anche nello Yemen, negli
Emirati Arabi, in India, in Indonesia, in Pakistan, le mutilazioni genitali
femminili vengono praticate e sono permesse dall’ordinamento.
A titolo di esempio della gravità della situazione in Sierra Leone il
Ministro del Welfare e delle Pari Opportunità ha annunciato che la
mutilazione genitale femminile è una pratica culturale supportata dal Governo
e che dunque non sarà messa fuori legge84. Di opposta linea di pensiero è lo
stato della Guinea, il quale sin da subito ha bandito le mutilazioni, infatti già
nel 1965 la Guinea adotta una legge contro le mutilazioni genitali femminili ed
è addirittura il primo paese ad approvare una norma contro tale pratica.
Se si presta attenzione alle zone geografiche sopra dette, si può notare
come questa diffusione in territori così lontani e diversi tanto che
appartengono anche a continenti differenti, mostrino come non si tratti di una
zona omogenea neanche dal punto di vista religioso e che si possono
riscontrare casi di mutilazioni in popolazioni di fede musulmana, cattolica,
protestante, copta e animista, questo per avvalorare la tesi secondo cui non sia
più una pratica di matrice religiosa. Inoltre quanto appena detto dimostra
anche e purtroppo la grande diffusione del fenomeno che a causa dei processi

82
É lo Statuto dei musulmani da cui estraggono le prescrizioni e le leggi che regolano le loro
faccende religiose e quotidiane.
83 C. COLOMBO, L’articolo 583 bis c.p. un illecito compiuto in nome della religione?, Rivista di

Criminologia, Vittimologia e Sicurezza Vol. III - N. 2 - maggio-agosto 2009.


84 “La Sierra Leone è ancora uno dei pochi Paesi che in Africa non hanno dichiarato le

mutilazioni illegali.” Amref Health Africa, “Mutilazioni genitali: tolleranza zero”, febbraio 2016.

46
migratori è ormai diffuso in tutto il mondo. Secondo l’OSM85 sarebbero 130
mila le vittime dell’infibulazione nel mondo. Nonostante si può riscontrare
come la maggioranza dei casi si trovino nelle zone africane, le origini delle
mutilazioni sono, pre-islamiche e pre-cristiane86.
La tradizione vuole che questa pratica discenda da una antica leggenda
che narra di una potente regina somala Araweelo che castrava tutti i neonati di
sesso maschile credendo così di poter sottomettere il sesso maschile al proprio
dominio, ma alla fine venne uccisa da un parente di sesso maschile che lei
stessa aveva sottratto alla castrazione e da quel momento tutti gli uomini si
vollero vendicare dei torti subiti fino a quel momento mutilando le donne.
Se si fa riferimento, invece, all’attualità si può notare come la comunità
internazionale ha agito con un po’ di ritardo nel condannare in modo esplicito
le mutilazioni genitali femminili poiché in realtà, il generale problema della
violenza contro le donne è stato preso in considerazione solo negli anni
Novanta con l’adozione della Dichiarazione sull’eliminazione della violenza
contro la donna del 1993, da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni
Unite. Ormai la problematica aveva già assunto una dimensione allarmante
che coinvolgeva tutti i Paesi e che si esplicitava nelle diverse forme che
assumeva e ancora oggi assume la violenza a partire per fare l’esempio
purtroppo più noto dalla violenza domestica. La ragione per cui si fece
attendere così tanto una risposta della comunità internazionale, ma anche
statale era perché si riteneva potesse essere una problematica risolvibile tra gli
individui e che non necessitava dell’intervento statale.
È importante sottolineare che quando si parla, genericamente, di
mutilazioni genitali femminili, in realtà si fa riferimento ad un fenomeno
antropologico assai vario, infatti possono assumere caratteristiche diverse per

85 OSM, Organizzazione della Sanità Mondiale: “A tal fine l’OMS promuove la cooperazione
internazionale nel settore della sanità, in particolare nella lotta contro malattie infettive e nella
gestione delle emergenze sanitarie globali”. ENCICLOPEDIA TRECCANI
86 M. PAGANELLI e F. VENTURA, Una nuova fattispecie delittuosa: le mutilazioni genitali femminili,

in Rassegna italiana di criminologia, 2004, p. 457.

47
tipologia, modalità di intervento, di motivazione, nonché per età delle donne
che vi vengono sottoposte87. Per tipologia si possono distinguere quattro tipi
di mutilazioni:

I tipo - la circoncisione: consiste nell’asportazione del prepuzio, con o senza


l’asportazione di parte o di tutto il clitoride;
II tipo - al uasat: predispone l’asportazione del clitoride con asportazione
parziale o totale delle piccole labbra;
III tipo - l’infibulazione faraonica: consiste nell’asportazione di parte o della
totalità dei genitali esterni e sutura/restringimento del canale vaginale
(infibulazione);
IV tipo - non classificato, comprensivo di pratiche consistenti nel forare
(pricking), trapassare (piercing) e vari interventi sui genitali come taglio,
foratura o incisione del clitoride e/o delle labbra; estensione o allungamento
del clitoride e/o delle labbra; cauterizzazione con bruciature del clitoride e dei
tessuti intorno ad esso; scorticatura dei tessuti attorno all’orifizio vaginale
(tagli “anguria”) o taglio della vagina eseguito longitudinalmente cosiddetti
tagli “gishiri”; introduzione di sostanze o erbe corrosive nella vagina per
causare un sanguinamento o allo scopo di restringerla; ed infine ogni altra
pratica che possa rientrare nella definizione di mutilazione genitale
femminile88.

In particolare l’infibulazione faraonica è quella più diffusa e prende il


nome dal territorio in cui sono state compiute un vasto numero di operazioni,
l’Egitto. Attualmente in Egitto il 96% delle donne tra i 16 e 49 anni ha subito
questa mutilazione. È importante sottolineare che, nonostante il 7 giugno 2008
il Parlamento Egiziano, trovando grandi ostacoli, ha approvato una nuova

87
A. FACCHI, I diritti nell’Europa multiculturale, Laterza, 2001, cit., p. 80.
88WHO, Fact Sheet n. 241, giugno 2001; Per una descrizione maggiormente dettagliata delle
procedure impiegate per ogni tipo di mutilazione genitale femminile, v. Toubia e Izett, “Female
Genital Mutilation: an Overview, Genéve”, 1998 (edizione a cura del WHO).

48
legge contro tale pratica, per raggirare il problema viene concessa comunque
la possibilità di attuare la mutilazione in caso di “necessità medica”89.
Nel giugno 1997 addirittura una Corte egiziana si era pronunciata
contro il decreto che il Parlamento egiziano aveva attuato nel 1996 e che poi
era stato successivamente abolito, affermando che la pratica in questione
rappresenta una forma di chirurgia che i medici hanno il diritto di praticare
senza alcuna interferenza governativa. Al contrario durante la dichiarazione
finale della Conferenza mondiale su popolazione e sviluppo del Cairo del 1994
si chiede esplicitamente ai Governi di abolire le Mutilazioni Genitali
Femminili, appoggiando e collaborando con le organizzazioni e le istituzioni
che stanno lottando per la loro eliminazione. Inoltre esorta a proteggere le
bambine e le donne da queste pratiche dolorose e non necessarie, attraverso
azioni che rendano consapevoli i leader delle comunità, gli uomini e le donne
in merito alle conseguenze ed ai danni che derivano da queste pratiche90.
Si stima che in nel mondo il numero di donne che convivono con una
mutilazione genitale siano circa 125 milioni. Dati gli attuali trend demografici,
possiamo calcolare che ogni anno circa tre milioni di bambine sotto i 15 anni
si aggiungano a queste statistiche. Si registrano casi anche in Europa,
Australia, Canada e negli Stati Uniti, soprattutto fra gli immigrati provenienti
dall'Africa e dall'Asia sud-occidentale: si tratta di episodi che avvengono nella
più totale illegalità, e che quindi sono difficili da registrare statisticamente91.
“Imprimere un segno riconoscibile ed in particolare infliggere una
mutilazione costituisce un gesto di separazione ed allo stesso tempo di

89
C. COLOMBO, L’articolo 583 bis c.p. un illecito compiuto in nome della religione?, Rivista di
Criminologia, Vittimologia e Sicurezza Vol. III - N. 2 – maggio -agosto 2009.
90 Dichiarazione finale della Conferenza mondiale delle Nazioni Unite su popolazione e

sviluppo del Cairo del 13 settembre 1994


91 UNICEF: L’UNICEF è attivo nel contrasto alle pratiche di MGF nel contesto del proprio

programma di protezione dell’infanzia, e collabora con l’UNFPA dal 2008 con un programma
congiunto che si rivolge alle comunità locali dei diversi paesi ed ha l’obiettivo di pervenire
all’eliminazione delle MGF attraverso l’abbandono della pratica da parte della comunità
intera nel giro di una generazione. Attualmente circa 10.000 comunità in 15 Stati hanno
abbandonato la pratica da quando è cominciato il programma.

49
aggregazione definitiva al gruppo che a quella mutilazione attribuisce un
unico significato come un segno di alleanza. Parimenti può anche darsi che la
mutilazione genitale femminile costituisce parallelo con la circoncisione, un
rito di differenzazione, cioè di definitiva assunzione dell’identità di genere
femminile e maschile, che costituisca una forma di esorcizzazione del non
conoscibile che si accompagna al piacere, di affermazione, di logiche
proprietarie nei confronti delle donne, tese allo stesso tempo a rafforzare la
fedeltà, con la diminuzione del piacere sessuale92”.
Le ragioni fornite sul motivo per cui vengono praticate tali operazioni
possono cambiare a seconda del gruppo etnico di appartenenza della vittima
e dell’agente. Queste sono spesso contraddittorie e comunque contrarie a
fattori biologici ed ovviamente non hanno alcuna giustificazione medica, ma
neppure una tutela di tale tipo. Le giustificazioni utilizzate sono per lo più di
tipo psicosessuale, psicosociale e psicoreligioso; in definitiva di possono
raggruppare così:

a) Ragioni legate a credenze: in alcune zone, specialmente in Etiopia e Somalia,


si pensa che se i genitali femminili non vengono recisi, assumeranno una
forma anatomica simile a quella dell'uomo. In altre zone è radicata la
convinzione che ambedue i sessi, maschile e femminile, convivano nella stessa
persona al momento della nascita, in particolare il clitoride rappresenta
l'elemento mascolino di una ragazza e il prepuzio quello femminile di un
ragazzo; ambedue devono essere recisi per definire inequivocabilmente il
sesso di una persona93.

b) Ragioni "etiche": molto spesso la ragione fornita è quella di attenuare il


desiderio sessuale. Il clitoride è infatti il punto focale di tale desiderio e la

92E. CESQUI, Le mutilazioni genitali femminili e la legge, in Questione di Giustizia, 2005, p.750.
93D. ACERBI, Donne mai più spezzate: continua la lotta contro l’infibulazione fibulazione, in La storia
dell’emancipazione femminile da ieri ad oggi.

50
recisione viene ritenuta come protettiva poiché salverebbe la donna dalle
tentazioni, dalla perdizione, favorendone la castità.

c) Ragioni sociali: nei territori in cui è diffusa tale pratica la verginità femminile
è un requisito ritenuto necessario per il matrimonio e le relazioni sessuali
extraconiugali sono bandite dalla legge stessa. In tali zone, quindi, una donna
non recisa viene considerata indegna e spesso cacciata dalla comunità o, se vi
rimane, non ha praticamente alcuna possibilità di matrimonio.

d) Ragioni religiose: viene spesso citato dai racconti popolari il nome del profeta
Maometto come colui che avrebbe ordinato di ridurre l’organo genitale
femminile. Un comandamento di tale tipo non ha alcuna fonte affidabile,
tuttavia nella maggioranza dei paesi musulmani si crede che le donne non
escisse siano da ritenere religiosamente impure (najasa).

e) Ragioni “igieniche ed estetiche”: in alcune culture, i genitali femminili sono


considerati osceni e portatori di infezioni.

f) Ragioni sanitarie: si crede che la mutilazione favorisca la fertilità della donna


e la sopravvivenza del bambino94.

È evidente come tali motivazioni paragonate alla pratica siano da


ritenere superflue e ancestrali. Oggi le motivazioni vanno ricercate nel bisogno
del predominio maschile sulla donna, nella necessità dell’uomo, che vive in
un contesto di tipo patriarcale, di controllare a tal punto la donna da dover
deciderne anche sulla sua salute riproduttiva. In più si ritiene che la donna
infibulata, per meglio dire mutilata, salvaguardi con la sua mutilazione l’onore
della famiglia di appartenenza. Le mutilazioni vengono praticate

94
www.unicef.it

51
principalmente su bambine tra i quattro e i quattordici anni di età. Tuttavia in
alcuni paesi vengono operate bambine con meno di un anno di vita, come
accade nel 44% dei casi in Eritrea e nel 29% dei casi nel Mali, persino neonate
di pochi giorni nello Yemen95. L’operazione è generalmente compiuta da una
donna definita “esperta” appartenente alla comunità e abituata ad effettuare
tale intervento a pagamento che è spesso scelta tra le levatrici tradizionali, ma
queste donne di solito non hanno alcun tipo di conoscenze chirurgiche e sono
solite utilizzare tecniche che sono tramandate di generazione in generazione
nell’ambito familiare. In alcune comunità vengono compiute da coloro che
rivestono la carica di capi tribù o di capi religiosi.
Un altro problema legato alle mutilazioni è che solitamente gli
strumenti utilizzati sono rudimentali e di uso comune come possono essere
pezzi di vetro, lamette, coltelli ed inoltre non sono nemmeno sterilizzati. Le
lesioni sono spesso volute da parte della famiglia, in alcuni casi è persino la
madre che chiede venga attuata tale pratica per la figlia, poiché una donna che
non subisce tale mutilazione è ritenuta impura e come tale è una bambina di
cui nessuno si è voluto occupare, qui si scambia il significato delle lesioni con
quello della tutela. In più la donna infibulata è solitamente una “vergine”; il
motivo per cui si è voluto utilizzare il termine solitamente è perché esiste
anche la pratica della reinfibulazione cioè la procedura attraverso la quale le
labbra vaginali vengono ricucite insieme dopo il parto. Il senso di tale ulteriore
pratica è quello di simulare la verginità della donna tramite l’occlusione
dell’organo genitale femminile, ma è anche in grado di produrre lesioni
gravissime. Infatti consequenzialmente possono verificarsi danni da
provocarne la sterilità o nel peggiore dei casi la morte per cause che vanno
dallo shock emorragico, poiché le perdite ematiche subite durante
l’operazione sono cospicue, a quello neurogenico provocato dal dolore e dal
trauma, all'infezione generalizzata (sepsi). Sono poi conseguenze di lungo

95
Ibidem

52
periodo: la formazione di ascessi, calcoli e cisti, la crescita abnorme del tessuto
cicatriziale, infezioni e ostruzioni croniche del tratto urinario e della pelvi, forti
dolori nelle mestruazioni e nei rapporti sessuali, maggiore vulnerabilità
all'infezione da HIV/AIDS, epatite e altre malattie veicolate dal sangue,
infertilità, incontinenza.
Altra pratica di mutilazione è quella della deinfibulazione96, cioè la
procedura che si attua per accrescere l’apertura dell’orifizio lasciata al
momento dell’infibulazione: un’incisione nella cicatrice della prima
mutilazione che crea un’apertura con la rimarginazione delle rimanenti labia
majora. Ciò riduce le possibilità di future complicazioni e aiuta a eliminare
alcuni problemi cronici, ma è spesso effettuata al momento del parto o
solitamente quando una donna sta per sposarsi o per praticare un controllo
medico. Come si può immaginare la ripetizione delle operazioni di
deinfibulazione e reinfibulazione97 può causare danni per tutta la vita98.
Si tratta di un tema complesso nel quale si attraversano trasversalmente
problematiche profonde ed in più si violano nell’accezione più generica i diritti
fondamentali dell’uomo, quanto in particolare si riscontrano crimini contro
l’infanzia e contro le donne. Si tratta di diritti fondamentali e inviolabili tutelati
dalla costituzione italiana che non sono derogabili nemmeno in nome di
radicate e antiche credenze religiose o di rivendicazioni culturali.
Sembrano lontani i tempi in cui in Italia si rivendicavano i diritti per la
parità della donna. Invece per le donne provenienti dai Paesi africani la
mutilazione dei genitali femminili è una realtà attuale, accolta con
rassegnazione anche dalle nuove generazioni. Il problema è fortemente sentito

96
Deinfibulazione: rimozione, totale o parziale, della sutura delle grandi labbra della donna
infibulata, con conseguente riapertura, totale o parziale, del canale vaginale.
97 Reinfibulazione: effettuare una nuova sutura dei lobi vulvari in una donna prima infibulata

e poi deinfibulata.
98 "Mutilazioni dei genitali femminili. Si crede che… Invece… Perché questa pratica deve finire",

pubblicazione dell'AIDOS, Associazione italiana donne per lo sviluppo, 2000.

53
in tutto il mondo99 a tal punto che dal 1990 è andata crescendo la mobilitazione
delle organizzazioni non governative e dell’ONU per il riconoscimento delle
mutilazioni genitali, quali gravissime violazioni del diritto della persona
all’integrità e alla salute100. Nel 1993 la Mutilazione Genitale Femminile è stata
classificata come una forma di violenza contro le donne dalla Legislazione
Internazionale dei Diritti Umani. Nel 2012 l’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite ha emanato una risoluzione sull’eliminazione delle mutilazioni
genitali. Negli anni sono stati compiuti vari progressi su questo fronte e oggi
ventiquattro dei ventinove Paesi dove si concentravano maggiormente le
mutilazioni genitali femminili hanno promulgato una normativa contro

99 In Italia è nata nel 1993 “Non c’è pace senza giustizia” è un’associazione internazionale senza
fini di lucro, su iniziativa di Emma Bonino che si struttura in tre programmi principali tra cui
quello specifico sulle mutilazioni genitali femminili. Nel corso degli anni l’associazione ha
lottato con le organizzazioni e le persone attive a livello locale affinché i governi
promulgassero leggi apposite contro le MGF e adottassero politiche e programmi di contrasto
a tali pratiche. Anche Amnesty International ha promosso la campagna europea “End Fgm”
che ha avuto origine nel 2010, ed è portata avanti attraverso la cooperazione con altre
organizzazioni non governative di diversi paesi europei.
100 Il 6 febbraio si celebra in tutto il mondo la Giornata internazionale della tolleranza zero nei

confronti delle mutilazioni genitali femminili (MGF), proclamata dall’Assemblea generale


delle Nazioni Unite il 20 dicembre 2012, con Risoluzione A/RES/67/146, con il titolo
“Intensifying global efforts for the elimination of female genital mutilations”, “Intensificare gli sforzi
globali per l'eliminazione delle mutilazioni genitali femminili”, e co-sponsorizzata da oltre 110
Paesi, tra cui 50 africani; per incoraggiare i Governi, i membri della società civile e tutte le parti
interessate ad intraprendere azioni concrete e a potenziare campagne di sensibilizzazione
contro il fenomeno. l tema di quest’anno è “Raggiungere i nuovi Obiettivi Globali attraverso
l’eliminazione delle mutilazioni genitali femminili entro il 2030”, “Sustainable development
demands full human rights for all women and girls. Sustainable Development promises an end to this
practice by 2030.” Questo tipo di intervento non ha alcun effetto positivo sulle ragazze e sulle
donne. Si stima che globalmente circa 100-140 milioni di ragazze e di donne oggi hanno subito
una qualche forma di MGF.Continuando su questa linea, si stima che 15 milioni in più di
donne subiranno tali abusi entro il 2030. “Per la prima volta le mutilazioni genitali femminili
sono state riconosciute pienamente su scala globale attraverso la loro inclusione nell’Obiettivo
numero 5 per lo Sviluppo Sostenibile, Uguaglianza di Genere, che impegna tutta la comunità
globale a porre fine a questa pratica, congiuntamente all’eliminazione dei matrimoni e alle
gravidanze in giovane età. Il fondo delle Nazioni Unite per le popolazioni (UNFPA) e il fondo
ONU per i bambini (UNICEF) guidano il più grande programma a livello globale per
accelerare l’abbandono di questa pratica. I due fondi operano in sette continenti, collaborando
con altri partner a livello globale per sensibilizzare le comunità sulle conseguenze di questa
pratica per la salute e quindi per aiutare le famiglie e le comunità a comprendere che
l’abbandono di questa pratica è nel loro interesse.” Vedi “51 anni di lotta contro le mutilazioni
genitali femminili”, UNRIC, Centro Regionale di Informazione delle Nazioni Unite.

54
questa pratica101.
L’Italia è attualmente il paese europeo con il più elevato numero di
donne infibulate infatti sarebbero oltre 20.000 donne adulte immigrate102. Così
se l’Italia fino a qualche tempo fa sembrava essere lontana da queste
problematiche da poco ha dovuto affrontare questo fenomeno, in alcuni casi
provvedendo con una regolamentazione legislativa e in altri demandando le
decisioni direttamente alla giurisprudenza. Il 4 maggio 2004 è stato approvato
dalla Camera dei deputati il progetto di legge avente ad oggetto le
“Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione
genitale femminile”. L’iter del progetto è stato tortuoso.
Dopo numerose ratifiche all’originale disegno di legge, il 9 gennaio 2006
è stata approvata la Legge n° 7, che con l’art. 6, ha introdotto nel nostro Codice
Penale l’art. 583 bis, rubricato “Pratiche di mutilazione degli organi genitali
femminili”. La legge n. 7 del 9/1/2006 ha voluto attuare i principi della
Dichiarazione e del Programma della IV Conferenza mondiale dell’ONU sulle
donne tenutasi a Pechino il 15 settembre1995. Nonché l’introduzione di tale
delitto ha concretizzato i principi già racchiusi negli articoli 2, 3 e 32 della
Costituzione italiana. La legge attuatrice ha cercato di tutelare le donne vittime
di questo sopruso dichiarando reato ogni “lesione o mutilazione genitale
femminile, provocata in assenza di esigenze terapeutiche, al fine di condizionamento
sessuale”, punibile con detenzione da 6 a 12 anni. Le donne vittime di questo
abuso possono essere considerate, a tutti gli effetti, delle rifugiate in forza
dell’art. 1, comma 2, della Convenzione ONU. L’articolo citato stabilisce che è
rifugiato colui che trovandosi al di fuori dello Stato a cui appartiene non ha la
possibilità di rientrarvi a causa di una motivata paura derivata da
persecuzione dovuta alla religione, nazionalità, razza, in quanto membro di

101 Amref Health Africa, la più grande organizzazione per lo sviluppo sanitario del continente
africano. “La mutilazione genitale femminile è illegale. È una forma di violenza contro le donne. È
contro la giustizia naturale e i diritti delle donne”. Ha detto il Direttore Generale di Amref Health
Africa Githinji Gitahi.
102
Ibidem

55
un gruppo sociale o per le sue idee. Nel 1985 l’UNHCR ha infatti, dato la
possibilità di riconoscere le donne a rischio infibulazione come appartenenti a
un gruppo sociale e si è sostenuto anche il bisogno di sottrarre le bambine
sottoposte alle mutilazioni alla patria potestà dei genitori103.
Nessuno dubita, in questo caso, della corrispondenza fra strumento
penale e valori da difendere, ma la domanda che ci dobbiamo porre è se
davvero la minaccia penale potrà essere un efficace deterrente contro questa
violenza. Il problema è che le mutilazioni genitali femminili sono sentite tra la
popolazione come un requisito che la donna deve avere e come un dovere
sociale genitoriale da compiere nei confronti delle figlie, quindi tale pratica è
sentita come obbligo nei confronti delle regole dettate dalla tradizione.
La risposta del diritto penale italiano tramite la creazione dell’art.583
bis c.p. si muove in una direzione opposta rispetto a quella seguita fino ad oggi
dai giudici italiani. Infatti i giudici italiani, prima dell’entrata in vigore della
legge del 2006, potevano applicare solo la cosiddetta “esimente culturale”,
diminuendo o non applicando la pena, tenendo conto dei condizionamenti
culturali del soggetto agente. Con l’entrata in vigore dell’articolo ad hoc, il
giudice non avrà più questo potere discrezionale di poter limitare l’entità della
pena o giustificare il fatto, ma dovrà applicare necessariamente la sanzione.
Nella giurisprudenza inglese troviamo altri casi per alcuni versi
analoghi alle mutilazioni, relativo ad un fatto di lesioni personali consistite
nell’incisione della cute a scopo ornamentale, affinché la cicatrice risultante
segni l’appartenenza del soggetto ad una determinata tribù, le cosiddette
scarificazioni tribali. Il Caso è 10.3. - R v Adesanya (1974)114: un’immigrata

103UNCHR, United Nations High Commissioner for Refugees o Alto Commissariato delle Nazioni
Unite per i Rifugiati, è l'Agenzia delle Nazioni Unite il cui mandato è quello di fornire e
coordinare la protezione internazionale e l’assistenza materiale ai rifugiati e alle altre categorie
di persone di propria competenza, impegnandosi nel ricercare soluzioni durevoli per le loro
drammatiche condizioni. I beneficiari dell'UNHCR sono: i rifugiati, i rimpatriati (coloro che,
essendo rifugiati, chiedono di poter tornare nel Paese d'origine), i richiedenti asilo, gli apolidi
(coloro che non hanno la cittadinanza in nessuno Stato) e gli sfollati interni (IDP- Internally
Displaced Persons: coloro che sono costretti a spostarsi per conflitti o cause naturali all'interno
della propria nazione

56
nigeriana, durante la celebrazione del Capodanno e dopo aver creato
un’“atmosfera cerimoniale”, con una lama di rasoio pratica piccole incisioni a
scopo ornamentale sulle guance di entrambi i figli maschi, di nove e
quattordici anni, così seguendo un tradizionale rituale della sua tribù d’origine
Yoruba: le scarificazioni ornamentali sulle guance segnano, infatti,
l’appartenenza dei membri maschi alla tribù degli Yoruba. Alcuni educatori,
scoperte le cicatrici sulle guance dei due ragazzi, denunciano la donna per il
reato di assault occasioning actual bodily arm ai sensi della section 47
dell’Offences against the Person Act del 1861. La Corte giudicante, dopo aver
rilevato che “the existence of the Nigerian custom was no defense to the charge
brought”, condanna la donna per il suddetto reato. Peraltro tenuto a mente il
consenso dei figli e del fatto che le cicatrici subite sarebbero scomparse con gli
anni e della valutazione della donna come ottima madre, del fatto che trattava
del primo caso in Inghilterra, nonché della testimonianza di un rappresentante
della Nigerian High Commission dalla quale era risultato che la comunità
nigeriana che risiedeva in Inghilterra non era a conoscenza delle illeicità delle
sacrificazioni ornamentali, per questo dispone un esonero totale dalla pena
(absolute discharge)104. Considerate le motivazioni culturali che spingono alla
realizzazione di tali pratiche, le mutilazioni genitali femminili costituiscono,
per unanime opinione, un chiaro esempio di reato culturalmente motivato in
quanto si tratta di un comportamento realizzato da un membro appartenente
ad un gruppo culturale di minoranza spesso un immigrato, che è considerato
fattispecie di reato dal gruppo di maggioranza del Paese d’accoglienza; allo
stesso tempo tale comportamento è invece permesso o accettato o addirittura
obbligato all’interno del gruppo culturale d’origine.

F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati, Il diritto penale nelle società multiculturali,
104

Giuffrè Editore, p. 60 ss.

57
2. L’evoluzione delle mutilazioni genitali femminili nel diritto penale

“Il Comitato Nazionale per la Bioetica è ben consapevole del rispetto


che è doveroso prestare alla pluralità delle culture, anche quando queste si
manifestino in forme estremamente lontane da quelle della tradizione
occidentale, e del gran valore del giusto confronto con la diversità culturale,
che è oggetto di continuo studio. Ritiene non di meno (…) che nessun rispetto
sia dovuto a pratiche, ancorché ancestrali, volte non solo a mutilare
irreversibilmente le persone, ma soprattutto ad alterarne violentemente
l’identità psico-fisica, quando ciò non trovi una inequivocabile giustificazione
nello stretto interesse della salute della persona in questione. È evidente che le
pratiche di circoncisione femminile non sono poste in essere per ovviare a
problemi di salute né fisica, né psichica delle donne che le subiscono, anzi esse
comportano gravi conseguenze negative sulla salute delle donne che ad esse
vengono sottoposte. Il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB)105 non può
quindi che ritenerle eticamente inammissibili sotto ogni profilo ed auspicare
che vengano esplicitamente combattute e proscritte, anche con l'introduzione
di nuove, specifiche norme di carattere penale106. Nell'adottare questa
opinione, il CNB è confortato dal dettato della Convenzione internazionale dei
diritti del fanciullo, che impone agli Stati, nell'art. 243, di adottare tutte le
misure efficaci atte ad abolire le pratiche tradizionali pregiudizievoli per la
salute del minore (…). Le considerazioni sopra avanzate inducono il CNB a
stigmatizzare severamente coloro che, soprattutto per motivi di lucro e in

105
In data 24 dicembre 1997 il CNB riceveva quattro quesiti da parte del Prof. Corrado Corghi,
Presidente del Comitato Etico istituito in unità tra l'ASL Reggio Emilia e l'Arcispedale S.Maria
Nuova della medesima città. I quesiti venivano formulati nel modo seguente: (…)d) se le
mutilazioni genitali femminili sono state condannate da una dichiarazione congiunta
dell'OMS, dell'UNICEF e dell' UNFPA, si pone un problema etico tra i fautori della condanna
della circoncisione e i fautori della non condanna e del rispetto delle tradizioni rituali religiose.
Dopo adeguata riflessione, il CNB è pervenuto alla formulazione del presente documento, che
è stato approvato all'unanimità nella seduta plenaria del 25 settembre 1998.
106 Comitato Nazionale per la Bioetica, I pareri del comitato, “Le circoncisioni: profili bioetici”, 25

settembre 1998

58
specie se medici, si prestano a mutilare sessualmente le donne.”
Anche la Risoluzione adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni
Unite nel dicembre 2012, nel corso della 67° sessione107, è il risultato di una
tema molto sentito a livello internazionale che ha visto come soggetti governi
e istituzioni, che hanno più volte nel corso degli ultimi anni affermato la
necessità di una messa al bando universale delle mutilazioni genitali
femminili. Il testo della Risoluzione inizialmente richiama le fonti giuridiche e
i Programmi di Azione significativi per la tutela dei diritti delle donne e delle
bambine e dichiara che le mutilazioni sono un abuso e che violano i diritti
umani e rappresentano una pratica dannosa e ancestrale che costituisce una
seria minaccia per la salute delle donne e delle bambine. In particolare pone
l’attenzione su un incremento delle mutilazioni genitali femminili praticate dal
personale sanitario; inoltre sottolinea che le credenze stereotipate impediscono
l’implementazione di un contesto legislativo che garantisca uguaglianza di
genere. Infine esprime preoccupazione poiché nonostante gli sforzi
internazionali e statali, le pratiche continuano ad esistere. Inoltre il Consiglio
d’Europa si è occupato delle mutilazioni genitali femminili attraverso
l’emanazione di documenti a queste dedicati: la Risoluzione sulle mutilazioni
genitali femminili della Commissione per le pari opportunità del Consiglio
d’Europa del 1999 e la Risoluzione 1247 del 2001 dell’Assemblea Parlamentare
del Consiglio d’Europa sulle Mutilazioni Genitali Femminili. Tramite
quest’ultima poi si chiede che la pratica delle mutilazioni genitali femminili
venga considerata come un trattamento inumano e degradante e come pratica
che si avvicina alla tortura e per le quali non si può addurre la difesa della
cultura. Il percorso giuridico internazionale verso la condanna delle
mutilazioni genitali femminili è stato lungo e tortuoso e caratterizzato da una
progressiva consapevolezza del problema e delle sue implicazioni mediche e

107Risoluzione ONU 67/146: “Intensifying global efforts for the elimination of female genital
mutilations” adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York il 20 dicembre
2012, nel corso della 67° sessione.

59
da una cautela nel pervenire a nominarle in questi termini nei documenti
ufficiali, affinché non vi sia alcuna idea di discriminazione.
Vengono condannate esplicitamente le mutilazioni chiedendo agli Stati
membri di farle rientrare in una fattispecie di diritto penale. Inoltre auspica
che gli Stati attuino una serie di misure di prevenzione, di collaborazione e di
sostegno ai Paesi che hanno adottato misure che sanzionano tali pratiche e di
punire chiunque le sostenga e chi ad ogni modo commette tale reato anche se
all’esterno delle loro frontiere.
In Europa vige un sistema normativo che vieta le mutilazioni genitali
femminili, in quanto lesive dei diritti umani fondamentali tutelati, ma anche a
livello di singoli Paesi si possono rilevare norme a contrasto del fenomeno; in
altri Paesi ancora le mutilazioni genitali femminili sono comunque condannate
e perseguite anche se non si è in presenza di una legge ad hoc; in questi ultimi
le mutilazioni anche se non disciplinate in maniera esplicita sono comunque
considerate rientranti nei delitti contro la persona e punite secondo la
disciplina del codice penale vigente.
Il Regno Unito è stato il primo Paese europeo a proibire le mutilazioni
genitali femminili, dichiarate illegittime sin dal Prohibition of Female
Circumcision Act del 1985108. Da allora sono trascorsi quasi trent’anni durante i

108 “L’attenzione della Gran Bretagna al problema delle mutilazioni genitali femminili parte
da lontano: già nel 1861 l’Offences Against the Person Act proibiva e puniva gli autori di
mutilazioni nell’ambito dei delitti contro la persona. Nel 1985 il Prohibition of Female
Circumcision Act definiva con maggiore precisione l’illegalità degli interventi sui genitali
femminili, punendo non solo chi effettua va materialmente l’intervento, ma anche chi lo
consentiva, lo rendeva possibile o lo incoraggiava, responsabilizzando penalmente così anche
i genitori o i tutori della vittima. Altresì, non erano punibili gli interventi eseguiti per garantire
la salute fisica e mentale della bambina o della donna, ma escludendo esplicitamente che tra
queste motivazioni potesse essere intesa la tradizione o la ritualità dell’intervento. Nel 1989, il
Children Act riforma estesamente la legislazione relativa alla protezione dell’infanzia
introducendo importanti provvedimenti di tutela (allontanamento dalla famiglia, restrizione
dei viaggi all’estero) qualora si ravveda un rischio per l’incolumità della bambina. Le
successive revisioni legislative del 2003 (Female Genital Mutilation Act 2003) e del 2015 (Serious
Crime Act 2015) ribadiscono l’illegalità delle mutilazioni genitali femminili condotte dentro e
fuori i confini del Regno Unito, inaspriscono le pene per i responsabili a ogni effetto del reato
e obbligano i professionisti sanitari, dei servizi sociali e della scuola a denunciare ogni caso di
mutilazione genitale femminile entro i 18 anni di età di cui siano venuti a conoscenza.” E.
Valletta, Il Parlamento britannico e le mutilazioni genitali femminili, in Osservatorio

60
quali non sono mai stati celebrati processi in materia109. Eppure, l’anno scorso
la BBC ha diffuso un reportage nell’ambito del quale si denuncia la dimensione
allarmante e nascosta del fenomeno110. Il fatto, tuttavia, che il Female Genital
Mutilation Act111 non sia mai stato concretamente applicato porta alcuni a
ritenere che si tratti di una mera legge-manifesto, che si risolve in una
dichiarazione di intenti. Il reato di mutilazioni genitali femminili è stato
introdotto in Italia con la legge n. 7 del 2006 ed è considerato l’unico reato
previsto dalla legislazione italiana rispetto al quale il fattore culturale emerge
inequivocabilmente112.

Internazionale, ACP, 2017, p. 23 ss. In particolare vedi anche: per Offences Against the Person
Act www.legislation.gov.uk/ukpga/1861/100/pdfs/ukpga_18610100_en.pdf; per
Prohibition of Female Circumcision Act
www.legislation.gov.uk/ukpga/1985/38/pdfs/ukpga_19850038_en.pdf; per Children Act
1989 www.legislation.gov. uk/ukpga/1989/41/contents; per Female Genital Mutilation Act
2003 www.legislation.gov.uk/ukpga/2003/31/pdfs/ukpga_20030031_en.pdf.; per Serious
Crime Act 2015. www.legislation.gov.uk/ukpga/2015/9/contents/enacted.
109 “Nonostante le mutilazioni genitali femminili siano illegali in Gran Bretagna da più di 30

anni, stupisce che non un solo processo si sia ancora concluso con la condanna di chi ha
provocato o favorito una pratica che tuttora coinvolge bambine e giovani donne dentro e fuori
i confini britannici. Nel 2015 un ginecologo, accusato di avere reinfibulato una donna somala
dopo il parto in un ospedale di Londra, è stato prosciolto e con lui il mediatore culturale che
lo affiancava derubricando l’evento a sutura maldestra eseguita da ginecologo poco esperto.
Il medico rischiava una condanna fino a 14 anni di carcere. L’atto del medico appariva in realtà
come l’ultimo di una catena di piccole o grandi omissioni che non avevano consentito di
intercettare la donna prima e durante la gravidanza: mutilata all’età di 6-7 anni, era stata
sottoposta nel 2011 a un intervento per facilitarle il rapporto sessuale e la sua situazione
clinica, apparentemente ignorata nel corso di tutta la gestazione, si era resa evidente solo al
momento del parto. Responsabilità condivise e diffuse, quindi, di un sistema socio-sanitario
che stenta ancora a farsi carico del problema e che richiede maggiore consapevolezza,
formazione, cultura e percorsi assistenziali e di tutela ben strutturati.” E. Valletta, Il Parlamento
britannico e le mutilazioni genitali femminili, in Osservatorio Internazionale, ACP, 2017, p. 23 ss.
110 S. LLOYD-ROBERTS, Hidden world of female genital mutilation in the UK, in BBC Newsnight, cfr.

http://www.bbc.co.uk/news/health-18900803.
111 La battaglia contro le MGF nel Regno Unito è stata dichiarata nel 1985 con il Female

Circumcision Act, poi sostituito del 2003 dal Female Genital Mutilation Act che, rispetto al
precedente, ne ampliò l'applicabilità e innalzò la pena massima prevista. Nel testo del FGM
Act, allo scopo di determinare se un'operazione è necessaria per la salute mentale della
ragazza, "non è rilevante se ella o altra persona creda che l'operazione sia dovuta in osservanza di
un'usanza o un rituale". Questa significativa battuta d'arresto, rispetto alla consueta valutazione
che il sistema anglosassone fa del fattore culturale, sancisce quindi l'illiceità dell'operazione
anche quando questa venga compiuta nel rispetto di un dettame culturale, essendo irrilevante
che l'inosservanza di una regola culturale possa mettere a repentaglio la salute mentale della
ragazza.
112 A. BERNARDI, Il “fattore culturale” nel sistema penale, G. Giappichelli, 2010, p. 94.

61
Prima di questa data le mutilazioni se venivano punite, erano
sanzionate per violazione del diritto alla salute previsto dall’art. 32 Cost 113. o
in applicazione delle norme penali in materia di lesioni e di abusi o
maltrattamenti a danno di minori o secondo le circostanze aggravanti di cui
all’art. 583c.p. Precedentemente all’introduzione della fattispecie delittuosa ad
hoc, si ha notizia di due vicende giudiziarie in Italia in ambito delle mutilazioni
genitali femminili.
Un primo processo si è tenuto a Milano nel 1999 ed iniziò con la
denuncia fatta due anni prima da una madre italiana nei confronti dell’ex
marito egiziano il quale, a sua insaputa, aveva sottoposto la figlia a
infibulazione. Il fatto veniva commesso a Menoufia, una città dell’Egitto
nell’agosto 1995 durante una vacanza. Le aggravanti che venivano attribuite
al soggetto agente erano quelle di avere commesso il fatto contro il minore; di
avere agito con premeditazione; di avere approfittato di circostanze di luogo
per ostacolare la difesa avendo agito in danno di persona minore, che si
trovava lontana dal luogo di abituale dimora e di avere commesso il fatto con
abuso di autorità e coabitazione. La madre del minore avviò un procedimento
penale ai sensi dell’art. 583 c.p.114. In giudizio l’imputato sostenne una linea
difensiva basandosi sulla cultural defense, infatti addusse il fatto che in Egitto
la pratica è effettuata al 97% della popolazione femminile e che i genitori che
fanno eseguire tali pratiche sulle figlie sono convinti di adempiere un dovere
morale e sociale poiché l’operazione è uno dei requisiti per aspirare al
matrimonio e perché tale intervento è sentito come doveroso nella comunità
di appartenenza. Il Tribunale condannò l’uomo a due anni di reclusione per

113 Parte I, Diritti e doveri dei cittadini, Titolo II Rapporti etico-sociali, Art. 32: “La Repubblica
tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e
garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato
trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare
i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
114
Art.583 c.p. Rubricato Circostanze aggravanti, dove prima era ricompreso anche il reato delle
mutilazioni genitali femminili, non avendo una normativa ad hoc.

62
concorso materiale di lesioni personali gravi115 con la sospensione
condizionale. Il giudice riconobbe la motivazione culturale. In particolare fece
notare che la condotta criminosa presentasse una diretta connessione con le
usanze culturali, socialmente accettate in Egitto, motivo che portò i magistrati
a riconoscere un esiguo disvalore sociale che meritasse una conseguenza
sanzionatoria contenuta116.
Sempre alla fine degli anni ‘90, il Tribunale per i minori di Torino si era
occupato della vicenda di due genitori che avevano sottoposto la figlia a
infibulazione durante un soggiorno in Nigeria. Il Pubblico Ministero aveva
considerato le pratiche di mutilazione pienamente accettate dalle tradizioni e
dalle leggi locali del Paese di origine degli indagati117; si era concluso con un
decreto d’archiviazione, richiesto dallo stesso pubblico ministero, per
“mancanza di condizioni per legittimare l’esercizio dell’azione penale”. Infatti
dall’indagine che seguì risultò una relazione familiare positiva. La mediatrice
culturale a cui era stato affidato il caso, spiegò che per le consuetudini
dell’etnia dei genitori le donne non sottoposte a mutilazioni rischiavano di non
trovare marito ed erano mal viste. La bambina venne quindi riaffidata ai
genitori. Nel caso presentato la motivazione culturale è stata considerata
un’attenuante tale da portare ad escludere una responsabilità penale dei
genitori. Persino alcuni medici avevano denunciato per lesioni personali
gravissime i genitori nigeriani. Del procedimento penale avviato con tale
denuncia si ha, peraltro, notizia solo indirettamente tramite la pronuncia,
riguardante i profili civilistici del medesimo, emessa dal Tribunale per i
minorenni di Torino il 17 luglio 1997.
Queste pronunce non hanno avuto una particolare risonanza, ma

115 Trib. Milano, sez. IV penale, sent. 25/11/1999, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, (2)2000,
pp. 148 ss.
116 C. COLOMBO, L’articolo 583 bis c.p. un illecito compiuto in nome della religione?, in Rivista di

Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, maggio-agosto 2009.


117
Trib. minorenni Torino, decr. 17/7/1997, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, (2)2000, pp.
140 ss.

63
l’aumento di questa pratica in Italia, dovuto alle numerose donne immigrate e
mutilate che vivono nel territorio, ha spinto il legislatore a ritenere non più
sufficiente ricomprendere tali pratiche nel reato di lesioni personali gravi o
gravissime118. Colpisce della norma ad hoc il rigore sanzionatorio, infatti con
l’art. 583 bis c.p. le pratiche di mutilazione genitale femminile sono punite con
pene più gravi di quelle che sarebbero altrimenti derivate dall’applicazione
degli artt. 582 e 583 c.p. che appunto sanzionano le lesioni dolose lievi, gravi e
gravissime. La norma ad hoc attuata in Italia risponde anche all’esigenza di
tutela della salute che è uno dei principi fondanti della Costituzione e come
tale deve essere garantito a tutti i cittadini119.
Così per disciplinare il fenomeno e tutelare le vittime delle mutilazioni,
nonché per rispondere alle richieste delle comunità internazionali120, è stato
attuato l’art. 583 bis c.p. rubricato “Pratiche di mutilazione degli organi genitali
femminili” il quale disciplina:
“Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli
organi genitali femminili è punito con la reclusione da quattro a dodici anni.
Ai fini del presente articolo, si intendono come pratiche di mutilazione degli
organi genitali femminili la clitoridectomia121, l'escissione e l'infibulazione e
qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo122.

118 La legge spagnola del 2003 si differenzia sensibilmente da quella italiana: l’art. 149 comma
2 c.p. spagnolo ha sottoposto le mutilazioni genitali femminili allo stesso trattamento
sanzionatorio riservato per le lesioni personali aggravate di cui all’art. 149 comma 1 c.p.
spagnolo.
119
A. GENTILOMO, A. PIGA, A. KUSTERMANN, Mutilazioni genitali femminili: la riposta giudiziaria,
in Riv. it. medicina legale, 2008, p. 13.
120 “La risoluzione delle Nazioni Unite contro le mutilazioni genitali femminili Risoluzione

UNGA 67/146 si appella agli Stati perché introducano e facciano rispettare una legislazione
che vieta le mutilazioni genitali femminili.” Bruxelles, 25.11.2013 COM (2013) 833 final
Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo e al Consiglio “Verso
l’eliminazione delle mutilazioni genitali femminili” p.8 ss.
121 Si intende per clitoridectomia l’ablazione, parziale o totale, del clitoride.
122 È possibile ricondurre ad essa qualsiasi altra pratica che cagioni la mutilazione, quali

l’ablazione, l’asportazione, la resezione, il distacco totale o parziale di uno o più organi genitali
esterni. Secondo una dottrina, con “qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo” si
persegue il fine di punire le condotte che determinano la menomazione in maniera differente,
come ad esempio attraverso l’impiego di farmaci.

64
Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare
le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle
indicate al primo comma, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente, è
punito con la reclusione da tre a sette anni. La pena è diminuita fino a due terzi
se la lesione è di lieve entità. La pena è aumentata di un terzo quando le
pratiche di cui al primo e al secondo comma sono commesse a danno di un
minore ovvero se il fatto è commesso per fini di lucro. La condanna ovvero
l'applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del
codice di procedura penale123 per il reato di cui al presente articolo comporta,
qualora il fatto sia commesso dal genitore o dal tutore, rispettivamente:
1) a decadenza dall'esercizio della responsabilità genitoriale124;
2) l'interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela
e all'amministrazione di sostegno125.
Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì quando il fatto è
commesso all'estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia,
ovvero in danno di cittadino italiano o di straniero residente in Italia. In tal
caso, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della giustizia.”

Strettamente collegato all’articolo sopra citato è l’art. 583 ter c.p.


rubricato “Pena accessoria” il quale dispone:
“La condanna contro l'esercente una professione sanitaria per taluno dei delitti
previsti dall'articolo 583 bis importa la pena accessoria dell'interdizione dalla
professione da tre a dieci anni. Della sentenza di condanna è data
comunicazione all'Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri126”.

123
Articolo 444 c.p.p. comma 1: “L’imputato e il pubblico ministero possono chiedere al
giudice l’applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di
una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa,
tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera due anni di reclusione
o di arresto, soli o congiunti a pena pecuniaria”.
124 Numero così modificato dall’art. 93, comma 1, lett. s), D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, a

decorrere dal 7 febbraio 2014.


125 Comma aggiunto dall'art. 4, L. 1 ottobre 2012, n. 172.
126
Anche questo articolo è stato aggiunto dall'art. 6, L. 9 gennaio 2006, n. 7.

65
Già prima della legge ad hoc sull’argomento in Italia vi erano diversi
articoli che disciplinavano implicitamente le mutilazioni: l’art. 5 del Codice
Civile rubricato “Atti di disposizione del proprio corpo127” disponeva che gli atti
di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una
diminuzione permanente dell’integrità fisica del corpo umano, l’art. 582 c.p.
configura il reato di lesioni personali dalle quali derivano una malattia nel
corpo e nella mente e il successivo art 583 del c.p. individua tra le circostanze
aggravanti di detto reato effetti riconducibili alle pratiche di mutilazioni in
esame128. Inoltre era già previsto il divieto per il personale medico di effettuare
le operazioni di mutilazioni genitali femminili già dai vari Codici di
Deontologia Medica e da ultimo dal nuovo Codice di Deontologia Medica del
16 dicembre 2006, che all’art. 52 dal titolo “Torture e trattamenti disumani”
recita:
“Il medico non deve praticare per finalità diverse da quelle diagnostiche e
terapeutiche, alcuna forma di mutilazione o menomazione né trattamenti
crudeli, disumani o degradanti129”.
L’art. 583 bis c.p. interviene per reprimere le pratiche di mutilazione
genitale femminile quali violazioni dei diritti fondamentali della persona. In
particolare punisce con la reclusione da quattro a dodici anni chiunque, in

127
Art. 5 c.c.: Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una
diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge,
all’ordine pubblico o al buon costume.
128 Art.583: “La lesione personale è grave, e si applica la reclusione da tre a sette anni: 1) se dal

fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia
o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta
giorni; 2) se il fatto produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo.
La lesione personale è gravissima, e si applica la reclusione da sei a dodici anni, se dal fatto
deriva: 1) una malattia certamente o probabilmente insanabile; 2) la perdita di un senso; 3) la
perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di
un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella
(…)”.
129 Codice di Deontologia Medica Art. 52 “Tortura e trattamenti disumani” dispone: “Il medico

non deve in alcun modo o caso collaborare, partecipare o semplicemente presenziare a


esecuzioni capitali o ad atti di tortura o a trattamenti crudeli, disumani o degradanti. Il medico
non deve praticare, per finalità diversa da quelle diagnostiche e terapeutiche, alcuna forma di
mutilazione o menomazione, né trattamenti crudeli, disumani o degradanti.”

66
assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi
genitali femminili e con la reclusione da tre a sette anni chi, sempre in assenza
di esigenze terapeutiche, al fine di menomare le funzioni sessuali, provoca
lesioni agli organi genitali femminili da cui derivi una malattia nel corpo o
nella mente. I limiti edittali delle due fattispecie di cui al primo ed al secondo
comma riprendono quelli del delitto di lesioni personali dolose aggravate.
Infatti, il comma 1, prevede la stessa pena massima di dodici anni di reclusione
come indicato nell’art. 583, comma 2 c.p. per le lesioni gravissime; mentre il
comma 2 contempla gli stessi limiti minimi e massimi da tre a sette anni di
reclusione previsti anche dall’art.583, comma 1 c.p. per le lesioni gravi.
Il soggetto attivo è chiunque: essendo un reato comune, può essere
commesso tanto da un cittadino italiano quanto da uno straniero. Il terzo
comma dell’art. 583 bis c.p. infatti, stabilisce un doppio binario di
transnazionalità punitiva che attiva la sanzione per i fatti commessi
all’estero130 quando l’agente sia italiano o straniero con residenza in Italia e
quando la vittima sia italiana o straniera con residenza in Italia. L’efficacia
spaziale della norma penale essendo questa applicabile anche se commessa
all’estero, presenta uno spettro di apprezzabile ampiezza, tuttavia ciò
potrebbe suscitare problemi o conflitti con le norme appartenenti a diversi
ordinamenti penali: si pensi ad esempio al caso dell’intervento eseguito in un
territorio nel quale la pratica è considerata lecita o punita con sanzioni
solamente amministrative.
La condotta consiste nel “cagionare” comma 1 e nel “provocare” comma
2, l’evento descrittivo. Per quanto riguarda tutte le altre pratiche “diverse da
quelle indicate al primo comma” è specificato che per essere puniti bisogna
procurare delle lesioni agli organi genitali “da cui derivi una malattia nel corpo o
nella mente”, con il fine di menomare le funzioni sessuali. Questo però,
comporta l’esclusione di talune pratiche; infatti sebbene siano comunque

130
Riprende e modifica la disposizione di cui all’art. 604 c.p. rubricato “Fatto commesso
all’estero”

67
considerate mutilazioni secondo la definizione dell’OMS, non tutte provocano
una lesione con conseguente malattia, si pensi ad esempio al caso della
puntura ed inoltre non tutte le mutilazioni sono eseguite con l’intenzione di
menomare le funzioni sessuali. Queste operazioni sui corpi hanno piuttosto
un significato sociale e di carattere simbolico volti a cagionare l’impotentia
generandi e di creare un stato di subalternità percepito tanto dalla donna che lo
subisce, quanto da terzi. La pena è aumentata di un terzo quando le pratiche
di mutilazione riguardano un minore o quando sono state poste in essere con
scopo di lucro. Una aggravante è poi prevista per il personale medico, in
quanto è sanzionato con la radiazione dall’albo e la sospensione dell’esercizio
della professione. Inoltre la legge 7/2006, introducendo l’art. 25 quater 1. d.lgs.
231/2001, ha anche previsto la responsabilità amministrativa da reato a carico
dell’ente: l’ipotesi più frequente sarà quella dell’ospedale o della clinica,
presso cui il medico o altro sanitario, abbia praticato uno o più interventi di
mutilazione genitale femminile131.
Con la legge n. 172 del 2012 è stata ratificata e portata ad esecuzione la
Convenzione del Consiglio d’Europa, firmata a Lanzarote il 25 ottobre del
2007; tale fonte di diritto internazionale pattizio ha richiesto l’adeguamento
dell’ordinamento italiano tramite diverse modifiche al sistema penale per
tutelare i minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale. Tra le novità
apportate dalla Convenzione, vi è l’introduzione del quarto comma all’art.
583-bis c.p. con il quale è stata prevista la pena accessoria della “decadenza
della responsabilità genitoriale” e dall’“interdizione perpetua da qualsiasi
ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all’amministrazione di sostegno”, in
base alla circostanza che i responsabili dell’intervento mutilatorio siano i
genitori, uno o entrambi, o il tutore132.

131 Si tratta
di una scelta sanzionatoria innovativa per le strutture sanitarie si pensi, ad esempio,
agli aborti o alle pratiche di procreazione assistita illegittimi, per i quali non è prevista una
sanzione di tale tipo a carico dell’ente.
132 Vedi anche art.330 c.c. rubricato “Decadenza sulla responsabilità genitoriale dei figli” dispone

“Il giudice può pronunziare la decadenza dalla responsabilità genitoriale quando il genitore

68
Quella che sembra una conseguenza necessaria e cioè che colui che
sottopone una figlia a mutilazione genitale deve essere perseguito, posta
l’illeicità della pratica, in realtà non dimostra la mancanza o l’inidoneità del
genitore a realizzare l’interesse della figlia stessa; anzi focalizzandosi sui
motivi che sono alla base di questo fenomeno come descritti precedentemente,
emerge come tale pratica venga compiuta proprio per il “bene” della figlia,
come espressione attraverso cui si esplica il ruolo di genitore.
Quanto detto non mira a sminuire di certo l’assoluta gravità dell’atto
mutilatorio o la sua illeicità, ma è volto ad aggiungere ulteriori elementi di
riflessione133. Si presenta quindi il quesito di quali diritti sono coinvolti nella
problematica delle mutilazioni genitali femminili e di quali siano prevalenti
agli altri. Esse infatti sono state dichiarate una violazione dei diritti umani ma,
allo stesso tempo, sono anche radicate fortemente radicate nel tessuto sociale
e nel contesto culturale; tuttavia, un diritto culturale non può essere garantito
se questo viola i diritti umani fondamentali.
Inoltre occorre chiedersi se con tale norma si riesca a rincorrere la
finalità rieducativa della pena accessoria in discorso, cioè se una volta ritenuto
il genitore responsabile della mutilazione su una figlia e perdendo, quindi, la
potestà su quest’ultima non sottoporrà un’altra figlia a tale pratica. È
importante analizzare poi che, anche se si trattasse di una “rieducazione” o di
un’“educazione” ai valori che stanno alla base della cultura italiana o più in
generale occidentale, quel genitore è già portatore di un’educazione, la
propria, cioè quella della cultura di appartenenza che, anche se presenta
modelli non sempre compatibili con quelli del paese di accoglienza, non vuol
dire che non abbia una cultura, dei suoi valori, insomma una sua educazione.

viola o trascura i doveri ad essi inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del
figlio”
Art.34 c.p. rubricato “Decadenza dalla responsabilità genitoriale e sospensione dall’esercizio di essa”
dispone, “La legge determina i casi nei quali la condanna importa la decadenza della
responsabilità genitoriale”.
133 P. VERCELLONE, La potestà dei genitori: funzione e limiti interni, in P. ZATTI (diretto da), Trattato

di diritto di famiglia, Milano, 2002, p. 1234 ss.

69
Se si analizza invece il fine preventivo della norma, è necessario rilevare
che una volta compiuta la mutilazione è ovvio che la vittima minore non
rischia certamente di essere ulteriormente sottoposta ad un intervento di
questo tipo134. Quanto detto dimostra come, ancora una volta, si può
constatare che l’intento del legislatore voglia essere quello di sanzionare
l’imputato per il pregiudizio arrecato. Il compito arduo è in capo al giudice, il
quale tramite il suo potere discrezionale dovrà valutare “caso per caso” se
applicare una sanzione così pesante, come la decadenza della potestà
genitoriale; la Corte inoltre recentemente, ha fatto uso di una tecnica quella del
“bilanciamento in concreto135”per poter meglio valutare la questione. Inoltre
dal 2012 è prevista per le vittime di mutilazioni genitali femminili la possibilità
di usufruire del patrocinio gratuito in deroga ai limiti connessi ai requisiti di
reddito altrimenti imposti dalla legislazione sul tema. Da più parti sono state
sollevate critiche nei confronti della criminalizzazione delle pratiche di
mutilazione genitale femminile. In particolare, la sproporzione delle sanzioni
di cui all’art. 583 bis c.p. rispetto a quelle previste per il reato di lesioni ha
portato parte della dottrina a dubitare seriamente della stessa legittimità
costituzionale della previsione normativa. C’è chi ne ha riconosciuto la volontà
di garantire un effetto di orientamento culturale, a discapito del principio di
eguaglianza e di quello di proporzionalità della pena e con il rischio di
mostrare il sistema penale come ingiusto che potrebbe in maniera
consequenziale la ghettizzazione delle minoranze. In senso contrario si sono
espressi coloro secondo i quali, la ratio dell’aggravamento di pena della
fattispecie sarebbe dovuta alla “volontà di conferire rilevanza penale all’offesa

134M. CERATO, La potestà dei genitori, Milano, 2000, p. 163.


135
“Si suole ripetere che quando due diritti soggettivi in un caso concreto entrano in conflitto
tra loro, occorre bilanciarli ovvero (per usare altre espressioni sinonime ricorrenti nel
linguaggio dei giuristi) occorre ponderarli, contemperarli, coordinarli. Il bilanciamento tra
diritti o principi confliggenti è una tecnica di argomentazione molto usata in sede
giurisprudenziale, e che di recente è venuta prepotentemente”, G. PINO, Diritti fondamentali e
ragionamento giuridico, Giappichelli, Torino, 2008, p.110 ss.

70
alla dignità delle donne e non soltanto alla lesione della loro integrità fisica136”.
Parte della dottrina ha messo in luce la differenza di trattamento delle
mutilazioni genitali femminili rispetto alla circoncisione maschile, che in Italia
non è considerata una pratica illecita.
Per quanto riguarda la giurisprudenza successiva alla legge 7/2006 è
necessario richiamare solamente due casi con molti elementi comuni entrambi
si sono verificati a Verona alla fine del mese di marzo del 2006, in cui i giudici
si sono dovuti confrontare con l’applicazione del nuovo art. 583 bis c.p. che ha
trovato la sua conclusione nella sentenza della Corte d’Appello di Venezia del
23 novembre 2012 n. 1485 che ha assolto gli imputati e ribaltato l’esito della
sentenza di primo grado del Tribunale di Verona, in data 14 aprile 2010, che
era stata di condanna137. Il procedimento riguardava un’ostetrica nigeriana
della comunità veronese, priva però di titolo per esercitare la professione in
Italia. La donna era accusata di aver praticato, su richiesta della giovane
madre, l’aruè138 su una bambina di appena due mesi al momento dei fatti,
dietro compenso. In sede procedimentale veniva accusata di aver cagionato
una lesione di lieve entità che già in sede di rinvio a giudizio fu ricondotta al
secondo comma dell’art. 583 bis c.p., che punisce chi cagiona una lesione dei
genitali femminili meno grave rispetto alle ipotesi di cui al primo comma, al
fine di menomare le funzioni sessuali della vittima. In primo grado l’ostetrica
fu ritenuta responsabile ai sensi dell'art. 583 bis commi 2 e 3 c.p. e di esercizio
abusivo della professione medica, ex art. 348 c.p., dunque fu condannata a 1
anno e 8 mesi di reclusione, e con lei venne ritenuta responsabile per lo stesso
delitto anche la madre della minore.

136 R. FATTIBENE, Verso una Risoluzione dell’Onu per l’abolizione delle mutilazioni genitali femminili
a livello mondiale. il trattamento giuridico di questa pratica tra atti internazionali, modelli culturali e
normative nazionali, in www.aic.it, 2012, p.8.
137 Si farà riferimento anche al commento di F. BASILE, Il reato di pratiche di mutilazione degli

organi genitali femminili alla prova della giurisprudenza: un commento alla prima e (finora unica)
applicazione giurisprudenziale dell’art. 583 bis c.p., che è stato pubblicato per la prima volta il 1
luglio 2013 sul sito www.statoechiese.it , nella sezione Tutela Penale.
138 Aruè: forma di mutilazione genitale femminile, praticata presso l’etnia nigeriana degli

EdoBini che consiste in un’incisione superficiale del clitoride.

71
Nel secondo caso l’ostetrica si era recata presso l’abitazione di una
famiglia nigeriana, dopo aver preso accordi telefonici con il padre della
bambina che all’epoca dei fatti aveva due settimane: in questa situazione, la
polizia era riuscita a bloccare sulla soglia dell’abitazione l’ostetrica impedendo
che l’operazione venisse effettuata. Nel secondo caso preso in considerazione
l’ostetrica ed il padre della minore, vennero ritenuti responsabili del tentativo
del delitto di cui all’art. 583 bis co.2. Inoltre l’ostetrica fu ritenuta responsabile
anche del delitto di esercizio abusivo di una professione. Le condanne in
primo grado furono: per la madre della prima minore otto mesi di reclusione
e per il padre della seconda quattro mesi inoltre per tutti venne concessa la
sospensione condizionale della pena. La condanna non era molto severa
poiché fu il risultato della valutazione della lieve entità del danno inferto,
considerata quindi un’attenuante, e della ricostruzione delle motivazioni
culturali e di rispetto delle tradizioni, che vennero tenute in considerazione in
favore degli imputati. Anche i genitori delle bambine furono condannati per
concorso nel reato. Essi però impugnarono la sentenza per assenza del dolo
specifico139 richiesto dal secondo comma dell’art. 583 bis c.p. e la ricorrenza
dell’ignorantia legis. La Corte d’Appello, accogliendo il motivo per assenza del
dolo specifico, ha assolto tutti gli imputati, non avendo questi agito allo scopo
di menomare le funzioni sessuali della bambina, ma piuttosto sottoposero la
figlia “a livello simbolico”. Inoltre la Corte d’Appello decise di non valutare il
profilo dell’ignorantia legis, dal momento che “le conclusioni a cui la Corte è
pervenuta in merito al dolo specifico consentono di ritenere assorbiti nella
formula assolutoria proposta gli ulteriori motivi descritti nell’atto

139
Quando, nei reati a dolo specifico, la finalità perseguita dal soggetto agente consiste in un
evento offensivo di beni giuridici protetti dall’ordinamento come, nel caso dell’art. 583 bis co.
2, la “menomazione delle funzioni sessuali” della donna, il principio costituzionale di
offensività esige che tale risultato non appartenga solo al mondo delle intenzioni
dell’imputato, ma sia da questi perseguito, anche se non necessariamente raggiunto, ma
attraverso atti che sarebbero stati idonei a compierlo: in altre parole, occorre che il bene
giuridico sia stato messo in pericolo. In caso contrario, il reato a dolo specifico si
trasformerebbe in uno strumento per punire una mera volontà, un’intenzione. F. ANGIONI,
Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Giuffrè, Milano, 1983, p. 114 ss.

72
d’appello”140. Dal 2006 ad oggi si ha notizia solamente di questi due processi.
Tutto ciò fa dubitare dell’efficienza dell’art.583 bis c.p. perché i processi
appena descritti sono gli unici di cui si ha conoscenza nel quale gli imputati
erano stati accusati ai sensi del predetto articolo e questi si conclusero con una
sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato. In più solleva dei
dubbi poiché secondo uno studio condotto nel 2009 dal Ministero per le pari
opportunità141, le bambine potenzialmente vittime di questa pratica nel nostro
Paese sono circa 1.100 e non si ha conoscenza in sede giurisdizionale di tutto
ciò. Sul complessivo trattamento sanzionatorio mite inflitto agli imputati dalla
sentenza di primo grado hanno inciso in maniera determinante due fattori. In
primo luogo, un’attenta ricostruzione dell’entità della lesione provocata: erano
state infatti eseguite plurime consulenze mediche, alla stregua delle quali il
giudice riteneva provata “una lesione agli organi genitali da cui è derivata
certamente una malattia, ma non anche, non essendovi riscontro in tal senso,
un indebolimento permanente della sensibilità clitoridea”. Ciò consentiva di
ricomprendere il caso nella fattispecie di cui al secondo comma dell’art. 583 bis
punita con la reclusione da tre a sette anni, sanzione minore rispetto al primo
comma che prevede la reclusione da quattro a dodici anni, ed altresì di
concedere a tutti gli imputati l’attenuante della lesione di lieve entità di cui
all’art. 583 bis co. 2 II pt. Il secondo fattore che ha inciso sul trattamento
sanzionatorio è stata una scrupolosa ricostruzione delle motivazioni142 che
avevano condotto gli imputati, a favore della quale vennero chiamati a

140 F. BASILE, Il reato di “pratiche di mutilazioni degli organi genitali femminili alla prova della
giurisprudenza: un commento alla prima (e finora unica) applicazione giurisprudenziale dell’art. 583
bis c.p., Stato, Chiesa e Pluralismo Confessionale, 2013, p.16.
141 I risultati della ricerca “Valutazione quantitativa e qualitativa del fenomeno delle mutilazioni

genitali in Italia”, del luglio 2009


142 Tali motivazioni consistono nella finalità di realizzare una pratica “simbolica” per

soddisfare una “funzione di umanizzazione” o per meglio dire il riconoscimento di un


individuo come uomo o come donna all’interno della comunità degli umani, una “funzione
identitaria” cioè sancire il vincolo di appartenenza alla specifica comunità degli Edo-bini,
garantendo la possibilità di vivere in libertà all’interno di tale gruppo e una “funzione di
purificazione” garantita dalla fuoriuscita di qualche goccia di sangue. Corte d’Appello di
Venezia 23 novembre 2012, cit., p. 47.

73
testimoniare in sede processuale testi qualificati: in particolare un sacerdote
della chiesa pentecostale, appartenente all’etnia degli Edo-bini la stessa etnia
dell’imputato, ma immigrato in Italia da circa vent’anni143.
Si analizzi invece il caso della Francia, la quale risponde in maniera
molto diversa dallo stato italiano e differenti sono quindi i casi e le soluzioni.
Questa risponde alla realtà multiculturale affermando un principio
cardine della democrazia francese, che trova le sue radici nel principio di
legalità: l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Anche il
multiculturalismo, infatti, viene ricondotto alla stregua dell’ideologia
egualitaria, cioè che l'individuo sia avulso da qualsiasi tipo di
caratterizzazione di ordine sociale, culturale o religioso nel momento in cui è
soggetto alla legge. Le diversità culturali non sono rilevanti per quanto
riguarda la titolarità di diritti e soprattutto l'adempimento di obblighi144.
La possibilità di tipizzare un reato culturalmente orientato non viene
presa in considerazione dal legislatore francese. La cultura assimilazionista
francese parte infatti dal presupposto che, colui che risiede sul territorio
nazionale, ha il dovere di integrarsi nella cultura locale e quindi alcuni
comportamenti non sono consentiti, né permessi in quanto contrastanti con i
principi fondamentali dell'ordinamento francese. La Francia non prevede una
norma ad hoc che punisca la fattispecie, ma la lesione subita dalla vittima verrà
ricondotta in una delle fattispecie già disciplinate dal codice penale: lesioni
lievi, gravi o gravissime fino all'ipotesi di omicidio colposo. Fondamentale
infatti, sarà l'interpretazione giurisprudenziale del singolo caso145. Dagli anni
'80 del secolo scorso ad oggi a differenza del caso italiano, decine di casi di
mutilazioni genitali sono giunti nelle aule dei Tribunali francesi si pensi che

143F. BASILE, Il reato di “pratiche di mutilazioni degli organi genitali femminili” alla prova della
giurisprudenza: un commento alla prima (e finora unica) applicazione giurisprudenziale dell’art. 583
bis c.p., Stato, Chiesa e Pluralismo Confessionale, 2013, p.4.
144 L. BELLUCCI, Immigrazione, escissione e diritto in Francia, in Sociologia del diritto n. 3.2006, p.

183.
145 T. PITCH, Il trattamento giuridico delle mutilazioni genitali femminili, cit., p. 503.

74
tra il 1985 e il 2006 se ne sono contati 40146. La Francia è indubbiamente al
primo posto tra i paesi europei per il numero di casi giudiziari riguardanti le
mutilazioni genitali femminili; l'assenza di una disposizione ad hoc non è
infatti sintomo di tolleranza nei confronti della pratica, anche perché è
comunque perseguita penalmente tra le esistenti fattispecie criminose. Gran
parte delle imputazioni sono state ricondotte nel reato di lesioni
personali ex art. 222-9 del nuovo codice penale francese. L'art. 222-10 c.p.
prevede invece le circostanze aggravanti che innalzano la reclusione a quindici
anni: tra queste, rilevanti ai nostri fini la nº 1 (lesioni cagionate a un minore di
15 anni), la nº 2 (ai danni di persona vulnerabile dovuto all'età, a una malattia
o infermità fisica o mentale), la nº 3 (ai danni di un discendente legittimo o
naturale) e la nº 9 (con premeditazione). È evidente come per gli imputati "la
consuetudine del proprio popolo costituisce un'obbligazione sociale e
religiosa estremamente cogente, molto di più dell'interpretazione
giurisprudenziale del codice penale di un paese estraneo"147. L'esperienza
francese ha evidenziato le difficoltà di ricondurre la pratica alle categorie
penalistiche tradizionali; in mancanza di una fattispecie ad hoc è inevitabile che
l'organo giudicante si imbatta in una serie di ostacoli giuridici: in sede
processuale erano presenti cause di giustificazione e di non punibilità, dove
perizie mediche e pareri d'esperti hanno un ruolo determinante per la
sentenza finale. Si è discusso in Francia circa l'introduzione di un reato
specifico, ma la componente tradizionalista in linea con la concezione
mutilculturalista-assimilazionista francese non ha lasciato possibilità.
Il pluralismo giuridico è una delle sfide più impegnative che le società
multiculturali si trovano a dover affrontare. Le tensioni sociali che si creano
nelle società multiculturali conducono a scontri difficili da risolvere; ad essi
spesso rispondono attingendo al diritto penale. È necessario che il diritto si

146 J. ABDLUCADIR, Care of women with female genital mutilation/cutting, in Swiss Med Wkly. 2011,
p. 140.
147
A. FACCHI, L’escissione rituale femminile: da consuetudine a crimine, in I diritti nell’Europa
multiculturale, Roma-Bari, Laterza, 2001, cit., pp. 41-63.

75
unisca con altre discipline per trovare risposte attraverso il dialogo tra esse; se
il contributo della sociologia si rivela necessario per la predisposizione di
strumenti giuridici efficaci, lo è ancor di più l'apporto della giurisprudenza e
della medicina per l’attenzione nel categorizzare e definire il comportamento
degli individui. Spesso si dimentica che al di là del contesto in cui la persona
vive, questo è in primo luogo un individuo, e che difficilmente possa essere
ricondotto in categorie standardizzate. La delicatezza e la complessità delle
questioni che ruotano attorno alle mutilazioni genitali femminili è data
dall'incontro di molteplici fattori tra cui: i connotati della pratica, la natura
culturale della norma che la prevede, la minore età delle bambine ad essa
sottoposte, le conseguenze sanitarie e psicologiche, l'assoluta concordia delle
posizioni delle donne e degli uomini appartenenti alle differenti culture che la
praticano, la condanna unanime a livello internazionale, europeo e ad oggi
nazionale di molti stati, le difficoltà degli Stati nazionali a darvi attuazione e
ad aprire un dialogo con i soggetti attivi e passivi della pratica.
I Paesi Europei, mete di immigrazione, ritengano necessaria la
condanna penale della pratica, talvolta la riconducono alle fattispecie di reato
già esistenti come nel caso da ultimo visto della Francia, altre volte tramite la
costituzione di una autonoma fattispecie di reato come in Italia ed in
Inghilterra. La strada della criminalizzazione rischia di dimostrarsi inefficace
e inadeguata per un superamento del radicato rito tradizionale. È
fondamentale che la disposizione metta il giudice nella condizione di poter
valutare in ambito giurisprudenziale quelle specificità di natura, nel caso,
culturale che meritano di essere presi in considerazione nella valutazione del
caso concreto. In questo senso la soluzione normativa adottata dal Regno
Unito si dimostra la più idonea ad affrontare i reati culturalmente orientati.
La politica perseguibile del diritto affinché sia efficace dovrà in
primis essere di natura preventiva più che punitiva. Tra le misure che rientrano
in questa strategia: il riconoscimento del diritto d'asilo alle donne e alle madri
che fuggono dal proprio territorio per il fondato timore che esse o le figlie

76
vengano sottoposte alle mutilazioni genitali, misure concrete per favorire un
processo di crescita della donna basato sull'incremento della stima di sé e
dell'autodeterminazione per le donne immigrate, specialmente laddove
appartenenti a culture minoritarie e patriarcali e il sostegno alle
organizzazioni e degli stati che operano nei Paesi in via di sviluppo per la
realizzazione di campagne di sensibilizzazione e di progetti di cooperazione
internazionale in ambito sociale e sanitario. Il passaggio da una politica
punitiva ad una di prevenzione e il margine di libertà lasciato dell'organo
giudicante per giudicare questioni culturalmente sensibili, sono due elementi
essenziali per un uso efficace e adeguato del diritto penale in una società
multiculturale. Le proposte alternative proposte come via transitoria, nella
prospettiva del "male minore" e della riduzione del danno, laddove vi sia il
pericolo che la pratica tradizionale verrà effettuata; il rito simbolico alternativo
eliminerebbe in questi casi l'elemento del dolore per lasciare spazio agli aspetti
positivi che la tradizione associa al rito, "nel rispetto delle scelte compiute dalle
donne legate ad una tradizione che, per quanto crudele e dolorosa, fornisce di
senso e motivo d'orgoglio la loro vita"148. Avvallare tale possibilità non implica
accettare il disvalore associato al rito tradizionale né scendere a compromessi,
ma permette di rispettare le culture, stante la ferma condanna nei confronti
delle pratiche lesive dei corpi e della condizione subalterna della donna,
entrambe sicuramente da condannare. Inoltre una pratica così ancestrale e
profondamente radicata nel tessuto culturale di alcune popolazioni non può
essere sconfitta semplicemente con una norma che la vieti o con delle sanzioni
a suo carico o con una disposizione generale. Le tensioni che si vengono a
creare all'interno di una società multiculturale possono risolversi senza
sfociare in conflitti; tramite una visione più aperta verso un senso
multiculturale della società, che si mostri permissivo e favorevole alla
convivenza tra le diverse culture attraverso il dialogo interculturale.

148
F. BELVISI, Società multiculturale, diritti delle donne e sensibilità per la cultura, in AAVV, Diritti
delle donne tra particolarismo e universalismo, cit., p. 521.

77
È importante evitare che si percepiscano le norme come
imposizioni dall'alto e discriminatorie e che possono portare ad effetti
diametralmente opposti a quelli auspicati, relegando le minoranze in
condizioni di isolamento che le indurrà a perpetrare comunque, ma
clandestinamente i comportamenti proibiti. Nei confronti della diversità
culturale "non è ammissibile né il paternalismo né l'indulgenza, ma la critica
rispettosa"149 delle pratiche tradizionali seguite da i gruppi minoritari che si
pongono in contrasto con i principi e i valori della cultura maggioritaria.
Ciò implica adottare soluzioni normative non meramente repressive
che sfocino inevitabilmente in un conflitto tra le norme poste in essere
dall'ordinamento giuridico vigente e quelle ritenute vincolanti all'interno di
una data minoranza culturale, seguendo vie di soluzioni graduali e
progressive150. Il messaggio da dover comunicare alle comunità interessate è
che in Italia queste pratiche sono proibite, non per una forma di
discriminazione né di avversione nei confronti delle culture differenti, ma in
nome dei principi di libertà, di uguaglianza tra uomini e donne, della tutela
dell’integrità fisica e psichica dei minori, del rispetto della dignità della
persona: diritti che in Italia appartengono e sono garantiti a tutti, senza
discriminazione a coloro che sono provenienti da Paesi a tradizione escissoria;
diritti e principi che sono posti a base della convivenza universale.

3. Le mutilazioni genitali femminili e la circoncisione maschile a confronto

Anche il corpo maschile è suscettibile di diventare oggetto di operazioni


attuate per motivi religiosi ed a tal fine la pratica più anticamente riconosciuta

149 F. BELVISI, Società multiculturale, diritti delle donne e sensibilità per la cultura in AAVV, Diritti
delle donne tra particolarismo e universalismo, cit., p. 516.
150 L'altro diritto, Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità
http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/migranti/ghizzi/conclus.htm

78
è la circoncisione. Nonostante presenti numerose differenziazioni rituali e vari
fondamenti ideologici e sia espressione di più culture, la circoncisione non si
sostanzia mai nella modificazione profonda della funzionalità complessiva del
corpo o meglio nell’asportazione totale o parziale di un organo, come invece
avviene nel fenomeno delle mutilazioni genitali femminili. Infatti il Comitato
Nazionale di Bioetica italiano, nel 1998, si è espresso condannando qualsiasi
forma di mutilazioni genitali femminili, ma non ha fatto lo stesso in tema di
circoncisione. Questo ultimo infatti ha vietato solo le forme di circoncisione
maschile che non hanno valenza terapeutica, igienico-profilattica o rituale.
Dunque queste tre motivazioni ne giustificano l’operazione151. In particolare il
Comitato Nazionale di Bioetica nel parere del 1998 definisce così tale pratica:
“La circoncisione maschile è una pratica di origine antichissima, e tutt'ora
ampiamente posta in essere, consistente nell'asportazione totale o parziale
dell'anello prepuziale maschile finalizzata a determinare una scopertura
permanente del glande.
Secondo la letteratura più accreditata è possibile ricondurla a quattro diverse
possibili categorie:

a) circoncisione terapeutica (ad es. in caso di fimosi o parafimosi);


b) circoncisione profilattica (ad es. nei neonati per prevenire infezioni del tratto
urinario nell'infanzia);
c) circoncisione rituale (tipica nell'ebraismo e nell'islamismo);
d) circoncisione provvista di altre motivazioni (desiderio di imitazione, ragioni
non esplicitate da parte del richiedente)152.

Di queste quattro distinzioni non merita particolare attenzione, poiché

151
Comitato Nazionale per la Bioetica, I pareri del comitato, “Le circoncisioni: profili bioetici”,
25 settembre 1998.
152
Ibidem

79
ovviamente del tutto giustificata ed eseguita secondo i principi della buona
pratica medica, la circoncisione terapeutica soprattutto per la tematica da
affrontare. Per quanto riguarda la circoncisione non terapeutico-profilattica e
quella non rituale, il Comitato è unanime nel ritenere che la mancanza di
ragioni renda impossibile giustificarne l’attuazione. Il rifiuto per ragioni
bioetiche dei medici a praticare una circoncisione in assenza di ragioni
terapeutiche e profilattiche necessita di essere accompagnato da una adeguata
argomentazione: portare a conoscenza dei rischi obiettivamente inerenti alla
circoncisione stessa e consequenziali in specie se tale richiesta è avanzata per
la prole. La pratica della circoncisione non costituisce di per sé una lesione, se
effettuata su adulti consenzienti infatti può dirsi pacificamente ammessa.
Inoltre anche quando tale pratica è voluta dai genitori e realizzata sul
corpo dei figli minori questa può essere ricompresa nell’ambito della loro
educazione religiosa; in particolare nella possibilità riconosciuta ai genitori
nell’ambito della loro funzione educativa, ossia della loro facoltà “di seguire e
conseguentemente di tramandare, una linea educativa di natura religiosa,
avviando i figli verso una determinata credenza religiosa e alle connesse
pratiche”153. Infatti riconducendo la pratica alle forme di esercizio del culto
garantite dall'art. 19 della Costituzione italiana154 essa rientrerebbe in quei
margini di disponibilità riconosciuta ai genitori dall'art. 30 Cost155.
La giurisprudenza ha precisato i limiti all’educazione religiosa del
minore: essa non deve generare “confusioni e/o turbamenti nella sua
personalità o un indottrinamento precoce e intransigente a qualunque fede
religiosa si facesse riferimento”. La scelta religiosa inoltre, non deve “risultare

153 Comitato Nazionale Di Bioetica, La circoncisione: profili bioetici, 25 settembre 1998. In


particolare La circoncisione maschile rituale n. 3. 1.
154 Art. 19, Parte I, “Diritti e doveri dei cittadini”, Titolo I Rapporti civili: “Tutti hanno diritto di

professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di


farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti
contrari al buon costume”.
155 Art. 30, Parte I, “Diritti e doveri dei cittadini”, Titolo II Rapporti etico-sociali: “È dovere e diritto

dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. (…)”.

80
gravosa per una mente in fase di evoluzione oltre che controproducente”, né
deve generare il “rischio di una connotazione della figura divina in termini
solo persecutori e punitivi, fonte di ansia e angoscia anziché di
rassicurazione156”. Viene affermato altresì che, nonostante lasci anche questa
operazione tracce irreversibili, se eseguita correttamente non causa
menomazioni o alterazioni nella funzionalità sessuale e riproduttiva maschile
essendo compiuta nel rispetto di precise regole di prudenza. Le valutazioni
sul tipo di danno arrecato saranno giudicate caso per caso, ma la pratica, in sé,
non è illecita. Il differente trattamento giuridico rispetto alle mutilazioni
genitali femminili è evidente come lo è la differente tipologia di operazione.
Inoltre anche se la circoncisione maschile determina la violazione
dell'integrità pisicofisica del soggetto che la subisce, è allo stesso tempo priva
delle connotazioni psicologiche e simboliche negative delle mutilazioni
genitali femminili ed è probabilmente per questo da tempo accettata dalla
cultura occidentale. La circoncisione nelle sue diverse tipologie comporta
notevoli differenze anche per quanto riguarda le motivazioni, l’età ritenuta
giusta per il rituale, gli strumenti utilizzati e la tecnica da attuare. Un aspetto
che accomuna tali pratiche è però sicuramente quello cerimoniale vista la loro
natura rituale. La tradizione della circoncisione appartiene a popoli molti
diversi, sia dell'antico Oriente mediterraneo, che dell'Africa nera, che
dell'Australia prima della colonizzazione. La diffusione in America, invece,
ebbe inizio durante la seconda guerra mondiale per la mancanza di igiene.
Infatti la pratica coinvolse i soldati americani al fronte e poi si diffuse
successivamente in tutta la patria. Dopo la guerra, negli Stati Uniti, e all'incirca
fino all'inizio degli anni Settanta, la circoncisione divenne una pratica
assolutamente generalizzata. Una prima contro-tendenza a tale pratica si ebbe
all’American Academy of Pediatrics nel 1971 e nel 1975, quando, con due
separate pronunce, si sostenne l'inesistenza di valide motivazioni mediche per

156 Cassazione Civile, sez. I, 12 giugno 2012, n.954 in


http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/7322.pdf.

81
la circoncisione neonatale. Questa opinione venne confutata verso la metà
degli anni Ottanta dalle ricerche di Wiswell. Egli sostenne un maggior rischio
di infezioni del tratto urinario nei neonati non circoncisi piuttosto che in quelli
che subivano l’operazione. Le ricerche di Schoen del 1993 avanzano, inoltre,
l'ipotesi di un incremento del rischio di contrarre malattie a trasmissione
sessuale nei maschi non circoncisi. L'American Academy of Pediatrics nel 1989
ha riformulato le proprie precedenti prese di posizione. In particolare
sostenendo che allo stato attuale delle conoscenze si può ritenere che i benefici
che provengono dalla circoncisione neonatale siano equivalenti ai rischi
provocati da tale pratica157. Non esistendo indicazioni cogenti che ne
sconsiglino comunque la pratica in realtà, si potrebbe giustificare l’attuazione
di tale pratica dal punto di vista medico purché effettuata nel rispetto dei
criteri della buona pratica medica e avvalorata nel caso concreto da uno
specifico giudizio di carattere scientifico e compiuta in ambiente ospedaliero.
Le mutilazioni genitali femminili, inizialmente chiamate anche
circoncisione femminile, si differenziano dalla circoncisione maschile perché
sono pratiche tradizionali che non hanno alcuna giustificazione nell’interesse
della salute; infatti, a differenza della circoncisione maschile, sono proibite e
ritenute molto più invasive. La giurisprudenza italiana in realtà ha affermato
che la permanente mutilazione conseguente a un intervento di circoncisione
rituale maschile costituisce alterazione anatomica e funzionale del pene, che
integra in sé una "malattia" ai sensi dei delitti di lesioni personali. Tale pratica,
anche se fondata su precetti di matrice culturale e come tale svincolata da
esigenze di natura terapeutica, trova quale unico e imprescindibile
presupposto di liceità il consenso dell'avente diritto, e pertanto non può mai
essere eseguita contro il volere di colui che vi si sottoponga. Se una delle
giustificazioni a favore della possibilità di attuare l’intervento circoncisorio
maschile è quella di causare danni lievi, vi sono stati interventi istituzionali

Comitato Nazionale Di Bioetica, La circoncisione: profili bioetici, 25 settembre 1998. In


157

particolare La circoncisione maschile rituale n. 3. 1.

82
come la proposta della Commissione di bioetica della Regione Toscana, che ha
emanato un parere in materia di “Prevenzione delle mutilazioni genitali femminili:
liceità, etica, deontologica e giuridica della partecipazione dei medici alla pratica di un
rito alternativo” del 9 marzo 2004 a favore di ciò. In quella sede proponeva che
una “sunna lievissima” cioè una piccola incisione meramente simbolica sul
clitoride della neonata atta a far uscire ritualmente alcune gocce di sangue
potesse essere consentita in quanto, in questo modo, atto compatibile con la
legislazione italiana ed anche con la deontologia degli operatori sanitari158,
purché intesa come parte integrante di un percorso volto al completo
superamento di ogni forma di mutilazione e manipolazione dei genitali
femminili”159. La “sunna lievissima” quale procedura rituale attuabile in

158 “Motivazioni etiche favorevoli: L’esperienza di altri Paesi ha dimostrato che per il
raggiungimento del fine, ossia un’efficace lotta alle mutilazioni genitali femminili, non è
sufficiente un’affermazione di principio che ne proclami l’illiceità, né la promulgazione di una
legge che la condanni. Pertanto, senza negare il valore di iniziative che si inseriscono nel
suddetto contesto, alle quali va la nostra più totale adesione, si ritiene lecito sperimentare
anche altri metodi ed accogliere in via transitoria la “sunna lievissima”, in quanto tale
procedura, senza procurare un danno alla bambina e senza provocarle dolore, conserva per
quanti la scelgono il significato simbolico del rito: realizzare “il massimo bene per le proprie
figlie” donando loro purezza e accettazione sociale. Permettere un tale rito non implica la
condivisione del suo significato, che può continuare ad essere “incomprensibile” e/o “non
condivisibile”, come del resto lo sono, per molti di noi, alcuni dei numerosi riti presenti nella
nostra cultura. Motivazioni etiche contrarie: Accettando la “sunna lievissima” quale pratica
sostitutiva dell’infibulazione si avvallano i disvalori che sono alla base delle mutilazioni
genitali femminili e cioè le violazioni dei diritti umani delle donne e delle bambine. Al fine di
un’efficace lotta alle mutilazioni genitali femminili sono lecite solo quelle azioni che
proclamano inequivocabilmente l’illiceità di tale. (…) Uno dei punti fondamentali su cui
occorre riflettere è proprio l’efficacia: gli stessi proponenti il rito sostitutivo della “sunna
lievissima” non sono in grado di garantire l’efficacia della procedura, in quanto, pur basandosi
su esperienze già iniziate ed ancora in atto in alcuni Paesi dove esistono varie forme di riti
sostitutivi, non è possibile reperire in pochi anni dati significativi sulla modificazione dei
comportamenti umani, soprattutto laddove essi risultano essere profondamente radicati alle
culture e alle tradizioni. Potrebbe risultare opportuno considerare la “sunna lievissima” come
una sorta di momentaneo tentativo di profilassi sociale da verificare con strumenti scientifici”.
Prevenzioni delle mutilazioni genitali femminili (MGF): Liceità etica, deontologia e giuridica
della partecipazione dei medici alla pratica di un rito alternativo (9 marzo 2004), La
Commissione Regionale di Bioetica nella riunione plenaria del 9 marzo 2004, presa attenta
visione della relazione del proprio gruppo di lavoro ad hoc costituito, esprime il seguente
parere sul quesito di cui all’oggetto, rivolto alla stessa da parte del Presidente della
Federazione Toscana degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri, Dr. A. PANTI.
159 Pertanto, integra il delitto di lesioni volontarie la condotta del genitore non affidatario e

quella del medico che, in concorso tra loro, sottopongano un bimbo a un intervento di
circoncisione rituale, essendo ben consapevoli del dissenso espressamente manifestato dal
genitore esercente la potestà in via esclusiva (Tribunale Como, 13 dicembre 2012). In dottrina,

83
sostituzione dell’infibulazione è una lesione puntoria che non comporta
lesioni permanenti e all’assenza di danno si aggiunge l’assenza di dolore,
grazie al ricorso dell’anestesia. Queste distinzioni fanno sì che, sebbene
permangono perplessità di carattere giuridico sotto il profilo di principio, non
sia da sottovalutare la soluzione compromissoria del rito sostitutivo, sempre
che sia effettuata con le doverose garanzie e sempre che venga interpretata
come fase transitoria per il conseguimento del risultato ultimo del totale
abbandono di tali pratiche. Per quanto riguarda l’ipotesi di effettuazione della
procedura della “sunna lievissima” nell’ambito delle strutture sanitarie
pubbliche, si ritiene che la mancanza di motivazioni terapeutiche a sostegno
della stessa, comunque non la consenta. Per quanto riguarda l’ambito del
consenso prestato dall’avente diritto di cui all’art. 50 c.p.160 non può essere
scriminato per la duplice ragione: a) che il suddetto consenso scrimina, stante
il limite previsto dall’art. 5 c.c., ma solo gli interventi che non comportano una
menomazione permanente dell’integrità fisica; b) che i genitori, in quanto
rappresentanti legali dei minori, possono validamente consentire soltanto agli
interventi sul corpo, sempre che si ritengano necessari quali gli interventi
terapeutici; e tali non sono almeno per quanto riguarda le mutilazioni genitali
femminili; 2) non si può nemmeno ritenere di esimere sulla base della
scriminante dell’esercizio di un diritto di cui all’art. 51 c.p.161, perché non è
rinvenibile nel codice penale una scriminante di tale tipo a favore dei genitori:
a) né alcun diritto ad effettuare la mutilazione disposta da qualche norma;

F. V. La circoncisione rituale maschile eseguita nonostante il dissenso di uno dei genitori


integra il delitto di lesioni personali dolose, in Diritto penale contemporaneo, 2013, consultato
su www.penalecontemporaneo.it., A. GENTILOMO, A. PIGA, A. KUSTERMANN, Mutilazioni
genitali femminili, cit. p. 97.
160
Art. 50 c.p. : “Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della
persona che può validamente disporne".
161 Art. 51 c.p.: “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma

giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità. Se un fatto


costituente reato è commesso per ordine dell’Autorità, del reato risponde il pubblico ufficiale
che ha dato l’ordine. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine, salvo che, per errore
di fatto, abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo. Non è punibile chi esegue l’ordine
illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine”.

84
b) né vi è alcuna traccia nella consuetudine.
Se è vero che si ammette che una scriminante possa avere la propria
fonte nella consuetudine, sempre che si tratti di consuetudine richiamata dalla
legge, nell’ordinamento giuridico italiano non esiste alcuna legge che richiami
una consuetudine in materia di mutilazione del corpo altrui, per di più una
consuetudine relativa alle mutilazioni genitali femminili. La consuetudine,
quale possibile fonte di un diritto, altro non è che la ripetizione costante ed
uniforme di un comportamento nella convinzione di esercitare un diritto:
questi requisiti necessari per rientrare all’interno della consuetudine sono del
tutto insussistenti per le mutilazioni genitali femminili, anche perché sono
praticate da una esigua minoranza di soggetti e perché la maggior parte dei
cittadini italiani, non ritengono queste rientrare nell’esercizio di un diritto, ma
piuttosto come un illecito o, comunque, un comportamento non condivisibile.
Quanto, poi alla proposta di sostituire alle mutilazioni genitali l’atto
simbolico del prelievo di gocce di sangue dal clitoride, sotto il profilo di
principio, sembra comunque non del tutto condivisibile anche se meno
invasiva, poiché anche tale atto si inquadra nella stessa logica della
mutilazione genitale e perciò in contrasto con il principio della salvaguardia
della dignità della persona. Pur se effettuato con il consenso dei genitori, si
pone comunque in contrasto con l’ordine pubblico, di cui all’art. 5 c.c., e quindi
deve ritenersi non consentito162. Quanto detto è riferibile tanto alle
mutilazioni genitali femminili quanto alla pratica sostitutiva, forse però
sarebbe in grado di riferirsi anche alla pratica della circoncisione maschile.
Questa è una pratica maggiormente diffusa tra soggetti appartenenti
all’ebraismo e all’islamismo anche se con differenti caratteristiche.
La circoncisione maschile ebraica, detta brit milà o patto della

162
Prevenzione delle mutilazioni genitali femminili (MGF): Liceità etica, deontologica e
giuridica della partecipazione dei medici alla pratica di un rito alternativo (9 marzo 2004). La
Commissione Regionale di Bioetica nella riunione plenaria del 9 marzo 2004, presa attenta
visione della relazione del proprio gruppo di lavoro ad hoc costituito, esprime il seguente
parere sul quesito di cui all’oggetto, rivolto alla stessa da parte del Presidente della
Federazione Toscana degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri, Dr. A. PANTI.

85
circoncisione, è praticata l’ottavo giorno dopo la nascita, da un parente
generalmente il padre del neonato o dal mohèl, cioè da una persona di religione
ebraica specializzata nella pratica. Tale pratica trova la sua origine in uno
specifico comando divino espressamente formulato nel Vecchio Testamento
della Bibbia: “All’età d’otto giorni ogni maschio sarà circonciso fra voi di
generazione in generazione” (Gen. 17:12). A tale precetto religioso va
rimandata anche l’origine di questa pratica per quel che concerne la religione
islamica, nella quale la circoncisione ha un carattere più tradizionale che
strettamente religioso e viene di solito praticata alcuni anni dopo la nascita,
ma comunque in età prepuberale. Il rituale, solitamente, non prevede anestesia
e viene eseguito in casa, alla presenza dei familiari, o in sinagoga dinanzi alla
comunità. L’atto esprime l’appartenenza del circonciso al popolo eletto, la sua
alleanza con Dio e l’ingresso del circonciso nella società163. Con la legge 8
marzo 1989, n. 101164 di esecuzione all’Intesa stipulata con la Comunità ebraica
viene sancito un implicito riconoscimento di tale pratica: la liceità della
circoncisione è “affermata in segno di rispetto verso una pratica religiosa
professata da un’ampia minoranza165”. La liceità della prassi circoncisoria
maschile risiederebbe nella compatibilità dell’atto con le forme di esercizio del
culto garantito dall’art. 19 Cost. Il punto nevralgico è che nonostante vi sia
l’accettazione della pratica nella società occidentale e sebbene l’operazione crei
lievi lesioni, la conferma di una siffatta tipologia di intervento “determina
comunque una violazione dell’integrità psico-fisica di un soggetto che in
genere, per la tenera età, non è in grado di esprimere un efficace consenso166”.
In ogni caso ed in qualunque modo venga eseguita, si tratta pur sempre
dell’alterazione anatomica e funzionale dell’organo genitale maschile che non

163
T. DI IORIO, Segni sul corpo e ferite nell’anima. Manipolazione degli organi genitali dei minori e
diritti violati, Stato, Chiese e Pluralismo Confessionale, 2016, nota n. 29, p. 10.
164 Legge 8 marzo 1989, n. 101 (modificata) sancisce le orme per la regolazione dei rapporti tra

lo Stato e l’Unione delle Comunità ebraiche italiane.


165 E. PAZÈ, Disuguali per legge. Quando è più forte l’uomo e quando è più forte la donna, Franco

Angeli, Milano, 2013, p. 83.


166 Cfr. Tribunale di Padova, 9 novembre 2007, n. 7.3.

86
è giustificata da alcuna ragione terapeutica, se non religiosa. Nonostante la
connotazione religiosa della pratica, l’atto circoncisorio può essere sanzionato
solamente se eseguito nel dissenso di uno dei genitori; poiché il consenso
dell’avente diritto o di chi ne esercita la responsabilità genitoriale, è
considerato “l’unico e imprescindibile presupposto di liceità167”. Al riguardo
va prestata attenzione alla sofferenza provocata nel neonato. Si fa riferimento
all’assenza di trattamenti anestetizzanti durante l’intervento nel vivo
convincimento che la sofferenza sia un inevitabile elemento del rito e che, in
ogni caso, “il neonato non abbia ancora sviluppato una distinta percezione del
dolore168”. Tale impostazione è smentita da coloro i quali sostengono che i
centri nervosi atti a trasmettere gli stimoli dolorosi sono già sviluppati sul
finire della gestazione ed in particolare che detti stimoli si rifletterebbero “in
modificazioni ormonali, metaboliche e cardiorespiratorie” non solo “simili ma
maggiori di quelle osservate nei soggetti adulti169”. L’intervento è praticato
mediante oggetti specifici che hanno un forte significato simbolico e religioso:
un coltello con una particolare lama, in uno scudo di protezione e in un
contenitore per il prepuzio.
Parlando della circoncisione è spontaneo il collegamento con il mondo
ebraico ma, nella realtà, molte sono le religioni e quindi gli Stati in cui la
circoncisione è prevista come tradizione culturale. Ad esempio nella religione
musulmana vi sono addirittura diverse forme di questi ultimi rituali con
consequenziali caratteristiche differenti. In Pakistan il 90-95% circa delle
circoncisioni viene eseguito da circoncisori abituali, dai barbieri del villaggio
e da personale paramedico, mentre il restante 5-10% è eseguito in ambito
ospedaliero da personale medico; la procedura, quando eseguita in ambito
extra ospedaliero, non prevede l’anestesia locale, né l’uso di strumenti sterili.

167 Cfr. Tribunale di Como, 14 gennaio 2013, n. 1339.


168 C. CALCAGNO, Circoncisione: la trasformazione medica di un rituale, in https://www.ido
ctors.it/articolo/circoncisione--/466/32. L’Autore sottolinea come “il dolore debba far parte
del rito”.
169 Ibidem

87
In Turchia, nelle campagne, la circoncisione è praticata nell’85% dei casi
da circoncisori non medici mentre in Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi al
contrario l’85% delle operazioni sono eseguite da personale medico.
Le circoncisioni praticate nelle comunità musulmane presenti nei paesi
di matrice occidentale quali perlopiù il Regno Unito o gli Stati Uniti,
avvengono maggiormente in ospedale. Inoltre anche la natura del rituale può
variare tra i vari paesi musulmani, spaziando da circoncisioni eseguite su
singolo bambino senza alcun cerimoniale particolare, alla circoncisione
cosiddetta “medica” poiché eseguita in ospedale, alle circoncisioni di massa
seguite da feste della durata di diversi giorni. La circoncisione di massa viene
praticata maggiormente in Indonesia, in Africa e in Turchia170. Le motivazioni
che portano all’operazione non sono solo meramente religiose, infatti si ritiene
che la circoncisione possa essere giustificata da:

- Motivi medico terapeutici: può essere indicata la circoncisione come terapia


chirurgica per alcune malattie del glande o del prepuzio oppure in chirurgia
plastica perché il prepuzio è un lembo di pelle con caratteristiche particolari
che può essere utilizzato ad esempio per la ricostruzione di difetti uretrali.

- Motivi igienico profilattici: è molto diffusa l’opinione secondo cui la


circoncisione sarebbe una pratica igienica, perché garantirebbe una maggiore
pulizia, con conseguente diminuzione di infezioni.

- Motivi religiosi: nella religione ebraica la circoncisione è effettuata nei


neonati, ed è un segno di appartenenza religiosa. Nella religione cristiana non
è richiesta la circoncisione. Nell’Islam invece la pratica è ritenuta un dovere
religioso.

- Motivi relativi a rituali di iniziazione: in alcune culture è considerato un segno


del passaggio dall’età puberale all’età adulta come anche per le mutilazioni
genitali nel caso delle donne, in altri un rito prenuziale che prepara l’organo

170
C. CALCAGNO, Circoncisione: la trasformazione medica di un rituale, p. 50 ss.

88
alla funzione riproduttiva, o ancora un segno di appartenenza al gruppo;
inoltre, come nelle mutilazioni genitali femminili, in alcune culture il clitoride
viene rimosso dal corpo delle donne poiché considerato una parte maschile da
dover togliere, così il prepuzio viene associato ai genitali femminili, e quindi
ne è necessaria la sua rimozione dal corpo maschile. Non si possono trascurare
le complicanze durante l’intervento o quelle eventualmente post-operatorie e,
persino, le implicazioni psicologiche ai quali il circonciso è sottoposto. Inoltre
va precisato che l’ablazione del prepuzio ove non venga compiuta in sede
ospedaliera e ove si tratti di neonato, può essere praticata da appositi ministri
i quali sono scelti indipendentemente da una loro qualifica medica; questa è
per lo più consumata in sinagoga o in ambiente domestico, comunque non in
un locale sterile adeguato a standards igienicosanitari come dovrebbe essere
per ogni altra tipologia di operazione chirurgica171. Come nelle mutilazioni
genitali femminili, anche nel fenomeno della circoncisione maschile, si trovano
messi sulla bilancia diritti differenti ma fondamentali: il diritto alla salute, il
diritto all’integrità fisica ed il diritto a professare liberamente la religione e
consequenzialmente anche all’educazione religiosa dei genitori nei confronti
della prole. Inoltre se non è condivisibile né ammissibile negare cure mediche
necessarie in virtù di credenze spirituali in particolare ai propri figli 172, allora
ci si chiede se invece sia possibile ricondurre nei margini di disponibilità dei
genitori scelte religiose che possono incarnare forme lesive dell’integrità fisica
o psichica dei figli ancora non in grado di fare un atto di scelta religiosa.
Neppure sembra essere rilevante il grado di lesione causata nel
bambino poiché il legislatore ha inteso perseguire anche le lesioni “lievi”

171 T. DI IORIO, Segni sul corpo e ferite nell’anima. Manipolazione degli organi genitali dei minori e
diritti violati, Stato, Chiese e Pluralismo Confessionale, 2016, p. 17.
172 Numerosi casi si realizzano tra gli appartenenti alla Congregazione dei Testimoni di Geova

per la contrarietà a sottoporre i propri figli a trattamenti emotrasfusionali, anche se necessari.


Famoso il caso “Oneda” precedentemente trattato. In questo caso però Si è, in altra sede,
considerata giustificata la sospensione della potestà genitoriale per il rifiuto di emotrasfusioni
su neonati in pericolo di vita (cfr. Tribunale minorenni di Trento, 30 dicembre 1996, in Rivista
italiana di medicina legale, 1998, p. 835).

89
causate agli organi sessuali femminili, dunque, si dubita che la lievità dei
danni conseguenti all’operazione possa giustificare la circoncisione dei
genitali maschili eseguita in assenza di ragioni mediche. Inoltre anche per
questa pratica tradizionale si è cercato di prevenire tale operazione attraverso
una maggiore informazione riguardo i rischi ed i danni che ne possono
conseguire. Un esempio è il Protocollo di Intesa per la prevenzione della
circoncisione rituale clandestina tra il Ministro del Lavoro, della Salute e delle
Politiche Sociali e la Federazione Italiana Medici Pediatri. Si tratta di un
importante documento che obbliga i professionisti, e in particolare i Pediatri:
“1. Ad informarsi sull’orientamento religioso della famiglia del neonato, o del
bambino, e sulla possibile intenzione di voler accedere alla pratica della
circoncisione 2. Informare la famiglia sulle implicazioni e le possibili
complicanze medico chirurgiche che la circoncisione comporta e sconsigliare
in maniera preventiva il ricorso a pratiche al di fuori dall’ambiente sanitario 3.
In caso di espressione di netta volontà da parte dei genitori di procedere
all’effettuazione dell’intervento, indirizzare la famiglia verso il centro di
riferimento utilizzando tutti i mezzi possibili per favorire l’accessibilità alle
strutture sanitarie173”. Nel silenzio normativo le problematiche relative alla
circoncisione sono state affrontate direttamente a livello pratico all’interno dei
tribunali italiani: gli esempi sono due sentenze del Tribunale di Padova sent.
9.11.2007 e del Tribunale di Bari sent.21.05.2009. Entrambi i Tribunali hanno
affermato in conclusione che la circoncisione maschile in Italia è ritenuta una
pratica lecita, anche in base al parere precedentemente citato del Comitato
Nazionale di Bioetica. In sede processuale il Tribunale di Bari è stato chiamato
nel caso sopra citato a giudicare la madre di un bambino di due mesi morto in
seguito ad un intervento di circoncisione effettuato da un membro della
comunità nigeriana. È stato poi affermato che la circoncisione non è una
pratica vietata anche perché “l'aver approvato una normativa che cita

173Il
testo è disponibile in
http://www.glnbi.org/documenti/beba7de183c8cda9dbde7cc812c880ae.pdf.

90
espressamente solo le mutilazioni degli organi genitali femminili, con
esclusione di qualsiasi riferimento alla circoncisione maschile non può essere
considerata fattore neutro ascrivibile a mera svista o disinteresse del
legislatore, ma ad una precisa scelta di campo del legislatore medesimo”.
In entrambi i procedimenti penali le lesioni e l’omicidio, contestati a
titolo di dolo, sono stati riqualificati in termini di colpa. A novembre 2004 una
donna di origini nigeriane, accompagna al pronto soccorso pediatrico
dell'ospedale di Padova suo figlio neonato, affetto da emorragia prepuziale. Il
bimbo era stato sottoposto a circoncisione rituale maschile da parte di una
conoscente della madre, una signora appartenente alla comunità nigeriana di
Rovigo. Alla madre del bambino sono contestati i reati di lesione dolosa grave
ed a colei che nella pratica ha attuato l’operazione, l’esercizio abusivo della
professione medica. Altro è il caso di cui è stato investito il Tribunale di Bari
nel 2008, con esiti drammatici per le conseguenze sul piccolo: un bambino di
due mesi muore in seguito ad un non riuscito intervento di circoncisione
effettuato da un concittadino nigeriano. In entrambe le sentenze, la prima
questione affrontata è la liceità o meno della pratica di circoncisione maschile.
Nella sentenza del Tribunale di Padova il caso ruota intorno
all’esercizio abusivo della professione medica. Questo caso per la sua
complessità è giunto di fronte alla Cassazione174, la quale ha assolto l’imputata
riscontrando la sussistenza dell’error iuris scusabile: “certamente dato
oggettivo incontestabile il difettoso raccordo che si determina tra una persona
di etnia africana, che, migrata in Italia, non è risultata essere ancora integrata
nel relativo tessuto sociale, e l’ordinamento giuridico del nostro Paese.
Quanto all’aspetto soggettivo, non possono essere ignorati (…) il forte
condizionamento derivatole dal mancato avvertimento di un conflitto interno,
circostanze queste che sfumano molto il dovere di diligenza dell’imputata
finalizzato alla conoscenza degli ambiti di liceità consentiti nel diverso

174 Vedi Cass. Pen., sez. VI, 22.6.2011, n. 43646, in Cassazione penale, 2012, pp. 3706 e ss.

91
contesto territoriale in cui era venuta a trovarsi”. Un altro caso affrontato dalla
Corte di Cassazione nella Sezione VI Penale sent. 24 novembre 2011, n. 43646:
"Circoncisione ad opera di soggetto non abilitato all’esercizio della professione medica:
insussistenza del concorso nel reato di cui all’art. 348 c.p. da parte del genitore".
La Corte d'Appello di Venezia, con sentenza 12/10/2009, confermava
la decisione 9/11/2007 del Tribunale di Padova. L'addebito specifico mosso
all'imputata è di avere fatto sottoporre il proprio figlio ad un intervento di
circoncisione effettuato da un soggetto non abilitato all'esercizio della
professione medica, con la conseguenza che il neonato, poche ore dopo
l'intervento subito, aveva avuto una importante emorragia, che ne aveva
causato il ricovero d'urgenza in ospedale. Il giudice riteneva che l'intervento
di circoncisione andava qualificato come atto medico che 'richiede capacità
tecniche e conoscenze di medicina tali da dovere essere riservato solo ai
soggetti abilitati alla professione medica'. Sottolineava, inoltre, che l'imputata
aveva deciso di sottoporre il figlio di poche settimane alla circoncisione 'per
motivi culturali - religiosi', anche se tale pratica non costituiva un rito della
fede religiosa professata poiché di religione cristiana, bensì rituale in uso nella
comunità di appartenenza di fede cattolica, con l'effetto che la scelta operata
era una mera manifestazione della cultura d’appartenenza e non era
invocabile la scriminante dell'esercizio del diritto di professare liberamente la
propria fede religiosa. L'errore-ignoranza dell'imputata circa la natura di atto
medico dell'intervento di circoncisione, era privo di rilevanza, ai sensi dell'art.
5 c.p. Precisava, infine, che la sofferenza provocata al neonato dall'intervento
e dalle successive complicazioni integrava il 'danno morale', al cui
risarcimento l'imputata era tenuta.
L’imputata ha poi proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio
difensore, deducendo:
1) erronea applicazione della legge penale, con riferimento all'art. 348 c.p., e
vizio di motivazione circa l'individuazione della nozione di 'atto medico', nella
quale non può essere ricondotta la circoncisione rituale, per tre ordini di

92
ragione: non ha alcuna finalità terapeutica, non è finalizzata alla cura della
salute psico-fisica del soggetto ed è caratterizzata, specie se eseguita su
neonato, da una estrema semplicità;
2) violazione dell'art. 55 c.p. in relazione agli artt. 51 c.p., 19 e 30 Cost., non
avendo preso in considerazione che l’imputata difettata la consapevolezza di
sottoporre il proprio figlio ad un intervento di competenza medica, essendo
incorsa, per eccesso di colpa, in errore circa i limiti entro cui le era consentita
la pratica della circoncisione in linea con la propria cultura di origine;
3) violazione di legge in ordine alla ritenuta sussistenza del nesso causale tra
l'ipotizzato reato di cui all'art. 348 c.p. e il danno morale lamentato dalla parte
civile.
Il ricorso veniva ritenuto fondato e quindi era accolto. La circoncisione
maschile è solitamente percepita da un medico occidentale come una
mutilazione genitale per il bambino e come un atto medico perché, sebbene
non sorretto da finalità terapeutica, l’operazione interferisce comunque
sull'integrità fisica della persona. Non può però essere taciuto il significato che
tale pratica assume da parte di aderenti. Inoltre tale pratica prevede
l'osservanza di rigide regole e rappresenta, considerate tra gli altri fattori le
profonde radici della civiltà ebraica in occidente, una forte sfida culturale sia
per l'imponenza sotto il profilo numerico del fenomeno che per le tematiche
in esso coinvolte. L'intreccio tra circoncisione e cultura ebraica non può essere
ignorato, come non possono essere ignorati i limiti medici e legali che sono
messi in gioco. È necessario quindi, verificare se è possibile conciliare tali
opposte esigenze, se è possibile trovare un compromesso tra cultura e diritti:
da un lato, la volontà di determinate minoranze che vivono in Italia di
rivendicare l'appartenenza alla propria etnia tramite l'osservanza delle proprie
tradizioni; dall'altro, il rispetto delle regole e dei principi posti a fondamento
dell’ordinamento italiano.
Questo è il problema di una società multietnica che non può ignorare
una certa dose di relativismo culturale e che dovrebbe guardare ad altre

93
culture senza giudicarle. Osserva la Corte che sul tema della circoncisione
rituale non esiste in Italia una espressa normativa di legge che indichi il
soggetto che può praticarla e il luogo in cui può essere praticata.
La circoncisione rituale praticata dagli ebrei su neonato deve, pertanto,
ritenersi non in contrasto con l’ordinamento e, avendo una tale valenza
religiosa da sovrastare quella medica, la condotta di chi pone in essere
l’operazione che oggettivamente dovrebbe integrare il reato di lesione
personale è scriminata, sempre che non determini una lesione grave o
permanente e non mostri segni di negligenza, imprudenza o imperizia. La
scelta del legislatore del 1989 di accettare almeno implicitamente tale pratica è
in linea con diritti fondamentali della Carta Costituzionale. Quanto al delitto
di lesione personale, astrattamente ipotizzabile, la causa di giustificazione a
favore del mohel trova titolo nel consenso dell'avente diritto (art. 50 cod. pen.),
prestato dai genitori del neonato, per il compimento di un atto che rientra tra
quelli consentiti di disposizione del proprio corpo (art. 5 cod. civ.), in quanto
non determina una menomazione irreversibile e non modifica
sostanzialmente il modo d'essere dell'individuo sotto il profilo dell'integrità
funzionale o di capacità di vita di relazione. Non può omettersi di considerare,
però, che il significato della circoncisione non terapeutica non è del tutto
compatibile, sul piano operativo, con la legislazione italiana. Non può essere
ignorato, infatti, che in molti casi l'esecuzione dell'intervento, a differenza di
quanto accade nel mondo ebraico è affidata a persona non qualificata e, quindi,
non dotata di adeguate conoscenze con conseguenze possibili di pericolo per
la salute del bambino, alla quale l’ordinamento italiano dà maggior peso
rispetto ai fattori culturali ed etnici che ispirano tale pratica. In sostanza, la
scelta operata dalla donna nella sentenza precedentemente citata, altro non è
che espressione della propria cultura e nulla ha da condividere con la
circoncisione rituale di matrice religiosa praticata dagli ebrei, sicché non è
invocabile, nella specie, l'esercizio del diritto di professare liberamente la
propria fede religiosa. L'imputata affidò il compito di eseguire l'intervento

94
circoncisorio ad una donna nigeriana, certamente priva, per ammissione
implicita della stessa imputata, di qualsiasi professionalità adeguata al caso.
La domanda è quindi se siamo di fronte a quello che viene definito
cultural offence o reato culturalmente orientato. Nel reato culturalmente
orientato non viene in rilievo il conflitto interno dell'agente, vale a dire il
disvalore della sua azione rispetto alle regole della sua formazione culturale,
bensì il conflitto esterno, quando la persona, avendo recepito nella sua
formazione le norme della cultura e della tradizione di un determinato gruppo
etnico, migra in un'altra realtà territoriale, dove quelle norme non sono
presenti. Il reato commesso in condizione di conflitto esterno è espressione
della fedeltà dell'agente alle norme di condotta del proprio gruppo. Tuttavia,
alla luce di quanto emerge dalle due sentenze di merito, è da escludere la
sussistenza dell'elemento soggettivo del reato contestato all'imputata. Il reato
di cui all'art. 348 c.p. è punito a titolo di dolo, consistente nella coscienza e
volontà di concorrere nel compimento di un atto di abusivo esercizio della
professione medica. La citata norma è una norma penale in bianco che è quindi
integrata da altre norme e che penetrano nella struttura della prima, formando
con questa un tutt'uno. Si tratta di valutare il processo di formazione della
volontà dell'imputata, i suoi eventuali condizionamenti, la consapevolezza o
meno nel decidere di fare circoncidere il proprio bambino, e in particolare di
sottoporlo ad un intervento di chirurgia che è normalmente di competenza
medica. Tale aspetto non è adeguatamente approfondito dalla sentenza
impugnata, che si limita ad affermare l'irrilevanza dell'ignoranza sul precetto
penale; e tale deve ritenersi, secondo la stessa sentenza, 'l'errore/ignoranza'
che riguarda 'la natura di atto medico dell'intervento di circoncisione'. La
sentenza omette di valutare la posizione dell'imputata alla luce dell'art. 5 c.p.,
nel nuovo testo risultante a seguito della sentenza additiva n. 364/1988 della
Corte Costituzionale, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima detta
norma “nella parte in cui esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge
penale l'ignoranza inevitabile”. La rilevanza dell’ignorantia legis scusabile

95
implica che il giudizio di rimproverabilità del soggetto agente deve
necessariamente estendersi alla valutazione del processo formativo della sua
volontà, per stabilire se il medesimo soggetto, al momento dell'azione posta in
essere, si sia o no reso conto dell'illiceità della sua condotta e del valore tutelato
dalla norma violata con l'effetto che l'errore ove scusabile deve essere valutato
come fattore di esclusione della colpevolezza. L'individuazione dei parametri
di valutazione del principio della scusabilità dell'ignorantia legis inevitabile
però non può che essere rimessa all'interprete, su considerazioni generali. Il
criterio non può che emergere dal raffronto tra dati oggettivi, che possono
avere determinato nell'agente ad agire circa l'illiceità del suo comportamento,
e dati soggettivi attinenti alle conoscenze e alle capacità dell'agente, che
avrebbero potuto consentire di non incorrere dell’error iuris.
È incontestabile quanto sia facile per una persona di etnia africana
migrata in Italia che non è risultata essere ancora integrata nel relativo tessuto
sociale entrare in collisione con l'ordinamento giuridico del Paese ospitante.
Allo stesso modo non può risolversi a danno della prima solo perché portatrice
di un bagaglio culturale estraneo e a tratti opposto a quello della civiltà
occidentale e che viene a trovarsi in una oggettiva condizione di difficoltà nel
recepire valori e divieti a lei sconosciuti. Quanto all'aspetto soggettivo, non
possono essere ignorati, il basso grado di cultura dell'imputata e il mancato
conflitto interno, circostanze queste che sfumano molto il dovere di diligenza
dell'imputata finalizzato alla conoscenza degli ambiti di liceità del diverso
contesto territoriale in cui si trova. Sussistono pertanto, nel caso concreto, gli
estremi dell'error iuris scusabile e la conferma indiretta di ciò si coglie nel fatto
che l'imputata resasi conto che il figlio necessitava di assistenza medica, non
esitò a ricoverarlo in ospedale e a riferire al personale ospedaliero quanto era
appena accaduto. Le argomentazioni impongono l'annullamento senza rinvio
della sentenza impugnata, perché il fatto non costituisce reato175.

175 Sentenza 24 novembre 2011, n. 43646, Circoncisione ad opera di soggetto non abilitato
all’esercizio della professione medica: insussistenza del concorso nel reato di cui all’art. 348 c.p. da parte

96
Ora va osservato come la pratica circoncisoria maschile è effettuata
solitamente a carico di minori, i quali non sono ovviamente in grado di
prestare un valido consenso ad una pratica che provoca in loro modificazioni
anatomiche irreversibili, soprattutto se si pensi che l’operazione anche se non
compiuta entro pochi giorni dalla nascita verrà effettuata comunque nel giro
di qualche anno. La domanda da porsi è se tale pratica possa essere ritenuta
compatibile o meno con l’ordinamento giuridico italiano soprattutto a seguito
delle sentenze sopra riportate. Inoltre non è da sottovalutare che, nelle culture
che praticano la circoncisione, e soprattutto in base al diritto ebraico, questo
rituale costituisce un obbligo personale posto a carico dei genitori del neonato
e viene vissuto come atto di devozione. Assumendo per i fedeli
caratterizzazione religiosa, la circoncisione può essere dunque ricondotta alle
forme di esercizio del culto garantite dall'art. 19 Cost., che tutelando e
garantendo la libertà di professare la religione, si limita a vietare solamente
eventuali pratiche rituali contrarie al buon costume.
Invero, l'atto circoncisorio non sembra contrastare con il parametro del
"buon costume", sempre che con quest'ultimo si intenda quel complesso di
principi inerenti alla sola sfera del pudore e del decoro in campo sessuale. Più
di una ragione porta, infatti, ad escludere che la procedura circoncisoria si
ponga in contrasto con il "buon costume", in quanto essa non è compiuta
attraverso atti idonei a pregiudicare o a violare la sfera dell'intimità e della
decenza sessuale della persona, ma è praticata seguendo precise regole di
prudenza e di riservatezza. Di più, la circoncisione viene solitamente praticata
attraverso forme e modalità tecniche che non si concretizzano sotto alcun
profilo in atti osceni che possono violare il sentimento del pudore in materia
sessuale. La prassi circoncisoria pare ledere altri valori costituzionalmente
tutelati, quale, ad esempio, quello della tutela dei minori o quello della loro
salute. Va detto che ove correttamente effettuata la pratica circoncisoria non

del genitore, Diritto Penale Contemporaneo, in Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose
contiene documenti, notizie, riflessioni e idee su tutto ciò che riguarda il diritto e le religioni.

97
produce né menomazioni né alterazioni nella funzionalità riproduttiva
maschile. Pertanto, si deve ritenere che l'operazione circoncisoria maschile non
rientri fra gli atti di disposizione del corpo umano dannosi per la persona e,
dunque, da ritenere giuridicamente illeciti.
La conformità della pratica circoncisoria ebraica ai principi
dell’ordinamento giuridico italiano appare implicitamente confermata da
alcuni enunciati contenuti nella legge 8 marzo 1989, n. 101, che ha approvato
l'intesa stipulata fra lo Stato italiano e l'Unione delle Comunità ebraiche
italiane il 27 febbraio 1987176. In particolare si ritiene che i principi stabiliti in
tale intesa possano, per analogia, essere estesi anche a tutte le altre confessioni
religiose che effettuano la circoncisione come operazione rituale.
Un riconoscimento indiretto della liceità di tale usanza religiosa può
essere ricavato sia dal disposto dell'art. 2.1 secondo cui “In conformità ai
principi della Costituzione, è riconosciuto il diritto di professare e praticare
liberamente la religione ebraica (…) e di esercitarne in privato o in pubblico il
culto e i riti”, sia dall'art. 21 anche se sembra essere un collegamento un po’
forzato il quale, contemplando tra gli "enti aventi finalità di culto" anche
l'Ospedale israelitico di Roma, può essere interpretato come norma che
comprende implicitamente alcune attività sanitarie effettuate nell’ambito
ospedaliero nell'esercizio del diritto di libertà religiosa. Ancora, l'art. 24177
della legge citata stabilisce che l'attività religiosa e cultuale ebraica si svolge
liberamente in conformità dello Statuto dell'ebraismo italiano, senza ingerenze

176
Intesa tra la Repubblica Italiana e l'Unione delle Comunità Israelitiche Italiane Roma, 27
febbraio 1987 e 6 novembre 1996. Testo coordinato con le modifiche di cui alla legge 20
dicembre 1996 n. 638 pubblicata sul n. 299 della Gazzetta Ufficiale del 21 dicembre 1996.
177 Art.24, Attività degli enti ebraici: “L'attività di religione e di culto dell’Unione, delle

Comunità e degli altri enti ebraici civilmente riconosciuti si svolge a norma dello Statuto
dell'ebraismo italiano e degli statuti dei predetti enti senza ingerenze da parte dello Stato, delle
regioni e degli altri enti territoriali. La gestione ordinaria e gli atti di straordinaria
amministrazione dell'Unione, delle Comunità, e degli altri enti ebraici civilmente riconosciuti
si svolgono sotto il controllo degli organi competenti a norma dello Statuto, senza ingerenze da
parte dello Stato, delle regioni e degli altri enti territoriali. Per l'acquisto di beni immobili, per
l'accettazione d donazioni ed eredità e per il conseguimento di legati da parte degli enti
predetti si applicano le disposizioni delle leggi civili relative alle persone giuridiche”.

98
da parte dello Stato, delle regioni e degli altri enti territoriali; mentre, in base
all'art. 25178, la Repubblica italiana prende atto che, secondo la tradizione
ebraica, le esigenze religiose comprendono quelle di culto, assistenziali e
culturali. Una volta accertata la non illiceità della pratica circoncisoria, si pone
il diverso problema delle modalità della sua effettuazione.
È evidente che quando sia motivata da ragioni profilattiche o
terapeutiche la circoncisione non possa che essere realizzata da un medico; è
logico quindi che l'intervento del medico richiesto per eseguire la circoncisione
rituale di un neonato è assolutamente giustificato da un punto di vista etico e
giuridico. L'attuale stato delle conoscenze richiede la necessità di una attenta
valutazione delle condizioni del soggetto da circoncidere prima di eseguire un
atto che comporta anche una lieve lesione alla quale potenzialmente
potrebbero conseguire dei danni alla salute del soggetto. Pertanto è evidente
che, quando sia motivata da ragioni profilattiche o terapeutiche, la
circoncisione è effettuata necessariamente da un medico. Sebbene le
preoccupazioni relative al circoncidendo per motivi rituali rimangono e
nonostante l'intervento del medico in alcuni casi sembra sia irrinunciabile, nei
soli casi però in cui la circoncisione sia posta in essere esclusivamente per
ragioni rituali, alcuni membri del Comitato ritengono che non sia opportuno
favorirne la medicalizzazione, favorendo esplicitamente l'intervento almeno
nel caso dei neonati per la sua estrema semplicità la pratica da appositi e
riconosciuti ministri che, indipendentemente da una loro professionalità
specifica in campo sanitario, possiedano adeguata competenza. Il Comitato
però sostiene anche ed a gran voce che chi procede all'intervento abbia
specifiche responsabilità in ordine non solo alla sua corretta effettuazione

178Art. 25, Attività di religione e di culto e attività diverse: “La Repubblica Italiana prende atto che
secondo la tradizione ebraica le esigenze religiose comprendono quelle di culto, assistenziali e
culturali. Agli effetti delle leggi civili si considerano peraltro: a) attività di religione o di culto
quelle dirette all'espletamento del magistero rabbinico, all'esercizio del culto, alla prestazione
di servizi rituali. alla formazione dei rabbini, allo studio dell'ebraismo e all'educazione ebraica:
b) attività diverse da quelle di religione o di culto. quelle di assistenza e beneficenza,
istruzione, educazione e cultura e, comunque, le attività commerciali o a scopo di lucro”.

99
dell’operazione, ma anche al rispetto dell'igiene e dell'asepsi179. Rientra altresì
nella responsabilità di colui che effettua l’intervento, il compito di garantire
l'assistenza eventualmente necessaria e successiva alla circoncisione e fornire
le indicazioni che risultano essere essenziali.
Diversamente il caso in cui la circoncisione rituale venga richiesta da un
adulto ad esempio nel caso di una sua conversione ad una professione
religiosa che la richieda, e di un bambino o di un adolescente come spesso
accade nel caso degli aderenti alla religione musulmana. In queste ipotesi, la
circoncisione è valutato come un piccolo intervento chirurgico. L'esigenza di
tutela del diritto alla salute impone che in questi casi la circoncisione venga
effettuata da un medico. Per impostare correttamente la questione della
fondatezza di tale pretesa si deve, innanzi tutto, riflettere su di alcuni principi
costituzionali fondamentali. L'ordinamento costituzionale italiano ha sancito
il principio della laicità dello Stato, implicante, fra l'altro, il divieto di
discriminare in base all’appartenenza religiosa dell’individuo. Occorre
precisare che lo Stato italiano mantiene un atteggiamento di laicità sia in senso
per così dire negativo quindi di imparzialità, ma anche in positivo, attivandosi
a garanzia del fattore religioso al fine di rimuovere quegli ostacoli che di fatto
possono impedire ai cittadini un effettivo godimento delle loro libertà.
Tuttavia tale laicità deve essere necessariamente coniugata con un altro
principio costituzionale quello di "bilateralità" garantiti dagli articoli 7180 ed
8181 della Costituzione. Trattandosi, dunque, di un tema avente carattere

179 asepsi: pratica, introdotta da J. LISTER nel 1865, volta a ridurre o eliminare la presenza di
agenti contaminanti (batteri, virus, funghi, parassiti) che possono causare infezioni durante le
procedure medico-chirurgiche. Si avvale dell’uso di strumenti sterilizzati con diverse tecniche
(vapore, calore secco, raggi UV). Definizione Enciclopedia Treccani.
180 Art. 7, Principi fondamentali: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio

ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le
modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione
costituzionale”.
181 Art.8, Principi fondamentali: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti

alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo
i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti
con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”.

100
confessionale, essa rientra nel quadro dei rapporti fra Stato e comunità
religiose che la Costituzione riserva obbligatoriamente a disciplina bilaterale.
Su questa linea, va osservato che la legge di approvazione dell'intesa
con la religione ebraica sopra citata prevede in modo espresso alcune forme di
garanzia confessionale, come, ad esempio, la possibilità di effettuare le
macellazioni animali secondo le speciali procedure previste dal rito. In
secondo luogo, la legge citata prevede altresì delle vere e proprie forme di
intervento statuale a titolo promozionale e solidaristico. Non è prevista però
alcuna norma nella legge che preveda esplicitamente un onere economico-
sanitario a carico dello Stato in relazione alle pratiche circoncisorie. In assenza
di una espressa previsione in materia una eventuale pretesa da parte degli
interessati non potrebbe essere fondata sull'esigenza di tutela del sentimento
religioso. Il fatto che non si possa individuare, nell’ordinamento giuridico
italiano, alcuna norma che determini un obbligo per lo Stato di far praticare la
circoncisione nell’ambito ospedaliero, induce pertanto a ritenere giustificata
l'esclusione di questa specifica prestazione dal novero di quelle che devono
essere comunque prestate a tutti i soggetti che ne facciano richiesta, viene
escluso così il carattere obbligatorio nei confronti del medico.
L'accettazione del carattere multietnico dell'attuale società italiana
implica il rispetto nei confronti di tutti gli aspetti specifici di ciascuna cultura.
Al contrario i singoli gruppi etnici devono accettare i principi e le norme che
regolano la vita della società ospitante, con particolare attenzione per quelli
espressamente indicati nella Costituzione. Perciò gli atti di disposizione del
proprio corpo che non abbiano finalità terapeutiche e profilattiche e che
comunque producano una invalidità sono inoltre proscritti dall'art. 5 del
Codice civile italiano. È quindi da ritenere che la circoncisione femminile non
possa essere ritenuta lecita sotto alcun profilo, né etico, né giuridico.
Invece, per le sue specifiche caratteristiche di carattere terapeutico o
profilattico, non può non essere considerata lecita la circoncisione maschile. Le
comunità che praticano la circoncisione rituale meritano quindi pieno

101
riconoscimento e di conseguenza piena tutela. Resta infine il problema se il
personale ospedaliero a farsi carico di prestazioni che non abbiano una
motivata indicazione terapeutica, ma solo una indicazione prevalentemente o
esclusivamente religiosa. Va detto che tra le mutilazioni, come analizzato
precedentemente, vi sono alcune tipologie che, relativamente alla modalità
dell’operazione, sono meno invasive della circoncisione maschile che però non
è certamente condannata come invece accade con tutte le tipologie di
mutilazioni genitali femminili182. Per quanto riguarda l’aspetto igienico
profilattico è evidente come non si possa vietare la circoncisione che si basa su
tale motivazione: ma se gli studi affermassero che si tratta di teorie infondate
queste pratiche diventerebbero una mutilazione? E allora data l’incertezza
perché non vietarle fino ai risultati degli studi?
Inoltre se si fa riferimento alle motivazioni che inducono il compiersi di
tali operazioni rituali prendendo in considerazione anche le mutilazioni
femminili, queste possono essere considerate in parte corrispondenti a quelle
della circoncisione maschile. Perché dunque la circoncisione maschile è
giustificata e non invece proibita e sanzionata? Perché le pratiche di
modificazioni dei genitali sono identificate come barbarie ingiustificate
mentre in Occidente risultano essere socialmente accettate? Lo scontro tra
culture è quindi messo in evidenza dal contrasto tra la condanna della pratica
di mutilazione e il permissivismo relativo a pratiche che si possono definire
simili aventi ad oggetto la rimozione degli organi genitali che appartengono
però ad una cultura più vicina a quella occidentale.

182
Comitato Nazionale per la Bioetica, I pareri del comitato, “Le circoncisioni: profili bioetici”, 25
settembre 1998.

102
Capitolo III

Il reato di accattonaggio

“I Rom e i Sinti, come ogni


persona, sono portatori di
competenze e di capacità,
prima ancora che di bisogni
e problemi. Qualsiasi
politica attiva deve partire
dalle potenzialità e dalle
aspirazioni di ciascun
individuo coinvolto183”

Sommario: 1. Le origini della cultura Rom; 2. I Rom in Italia; 3. Giustizia minorile e condizione
dei minori rom in Italia: profili critici; 4. Il reato di accattonaggio

1. Le origini della cultura Rom

Prendere in considerazione i tratti distintivi della popolazione Romani


risulta assai complicato poiché si parla di una realtà assai eterogenea e
difficilmente inquadrabile in categorie univoche. Infatti le comunità rom184

183
Tavolo Rom, 2010, p. 12; per un approfondimento si veda anche Tavolo Rom, 2010b.
184D. STANCU, I ROM, CITTADINI EUROPEI, “Malgrado tutte le denominazioni loro conferite
– Zingari, Gypsies, Gitanos, Zigeuner, Tsigenes, Tigani, Cigany – hanno sempre preferito
chiamarsi Rom che significa “uomo” o “popolo” nella loro lingua e si distinguono dai non
rom che vengono chiamati gagè. Di conseguenza, come risposta alle varie Associazioni Rom,
il Consiglio dell’Europa ha adottato con la Raccomandazione CLRAE dell’11 giugno 1995,
l’utilizzo del termine Rom in tutti i suoi documenti ufficiali. La parola non ha niente in comune
con lo stato Romania oppure con la capitale italiana Roma. Oramai tutti i documenti ufficiali

103
non parlano tutte la stessa lingua anche se la lingua romanés risulta essere
l’elemento che maggiormente permette di accumunare i differenti gruppi.
In Italia l’esistenza di una lingua comune alla maggior parte della
popolazione, non risulta essere sufficiente per ricomprenderli tra le minoranze
linguistiche storiche riconosciute dalla legge n. 482 del 1999 185, nonostante
questa comunità sia presente in Italia sin dal XV secolo186. Inoltre le comunità
rom non professano nemmeno tutte la stessa religione, non sono tutti nomadi,
hanno tratti somatici diversi, vivono in zone geografiche anche molto distanti
tra loro e sono inquadrabili in livelli socio-economico distinti. Un’altra
problematica relativa al riconoscimento come minoranze è il fatto che queste
comunità sono prive di uno stanziamento territoriale187.
In particolare la legge italiana sopradetta riconosce e garantisce tutela a
dodici minoranze linguistiche: albanese, catalana, germanica, greca, slovena,
croata, francese, franco-provenzale, friulana, ladina, occitana e sarda
prendendo in considerazione sia il criterio linguistico, ma anche il criterio della
territorialità e quindi dello stanziamento in un dato territorio. Tenere conto
come criterio principale quello del territorio, di fatto esclude dal dettato
normativo, la minoranza Rom, in quanto priva di una concentrazione
territoriale stanziale e riconoscibile188. Una ipotesi di modifica della già citata
legge è stata proposta con la Legge n. 2858, presentata alla Camera dei
Deputati, nel luglio del 2007. La proposta, non giunta a termine, suggeriva
l’estensione della tutela delle minoranze linguistiche-storiche alle minoranze

fanno riferimento a loro utilizzando la denominazione Rom come rispetto verso questa etnia
eliminando così i termini con connotazioni dispregiative e denigranti.”
“Rom è il termine singolare; l’abitudine di usare indifferentemente Rom al singolare o al
plurale si è ormai diffusa nei mass media e tra i non specialisti. Oltre a questo termine i Rom
per definirsi, utilizzano manus, uomo, al plurale manusa.” Cit. M. CERMEL, “Le minoranze etnico-
linguistiche in Europa, tra stato nazionale e cittadinanza democratica”, CEDAM, Milano, 2009, nota
8, p. 131.
185 Legge 15 dicembre 1999, n. 482" Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche"

pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 297 del 20 dicembre 1999


186 Ibidem
187 Ibidem

104
dei Rom e dei Sinti, sulla base dei principi della “Carta europea delle lingue
regionali o minoritarie”, che riconosce anche le “lingue non territoriali” come
lo yiddish e il romanè189. Certamente una minoranza diffusa su tutto il territorio
italiano e che quindi non concentrata in una determinata zona del territorio
rende anche molto complicata la loro tutela. Gli studi linguistici hanno
documentato che la popolazione romanì comprende i principali cinque gruppi
romanès, e cioè rom, sinti, calè, manouches, romanichels, ed hanno rilevato ben
diciotto diversi dialetti, che costituiscono la romanì chib o romanès190. La lingua
romaní a differenza di quanto si creda, non ha nulla a che vedere né con la
lingua rumena, né con il romanesco della città di Roma, ma è piuttosto una
lingua influenzata dalle quelle neo-indiane come l’hindi191, il rajasthani. La
lingua romaní chib non è altro che il risultato dell’evoluzione di forme popolari
e di idiomi indiani: a causa delle diverse persecuzioni subite nel corso dei
secoli, in molti Stati la lingua romaní si è fortemente indebolita, tanto che il
dialetto è oramai assai influenzato dalle grammatiche delle lingue dei Paesi
ospitanti.
Sebbene l’origine indiana dei Rom è indubbia, tuttavia rimane da
individuare con certezza la regione dell'India da cui sarebbero partiti e
soprattutto l'epoca e il motivo che spinse la popolazione a compiere la prima
migrazione. La mancanza di documenti scritti ha reso la ricerca delle origini
complicata e per molto tempo incerta. È noto però che la vita sociale della
comunità è scandita da un insieme di norme che, sebbene non siano scritte,
vengono comunque rispettate. Queste leggi formano la cosiddetta Gypsy Law

189 Strategia Nazionale d’inclusione dei Rom, dei Sinti e dei caminanti attuazione
comunicazione Commissione Europa N.173/2011, La cornice normativa, internazionale ed
interna, in Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali Punto di contatto nazionale, strategia
nazionale 2012-2020 (28.02.2012) UNAR – PCN RCS, p. 5 ss.
190 G. SORAVIA, Rom e Sinti in Italia, breve storia della lingua e delle tradizioni, Bologna, 2010, p. 17

ss.
191 Hindi: Nome di una vasta famiglia di dialetti neoindiani, che occupa all’ingrosso il centro

dell’Unione Indiana, di cui è stata dichiarata lingua nazionale. Le parlate hindi sono
caratterizzate da una struttura grammaticale assai semplificata, e al contrario da una notevole
ricchezza del lessico, in cui confluiscono, accanto al patrimonio ereditato dal pracrito,
numerose parole desunte dal sanscrito e inoltre elementi europei, arabi e persiani.

105
o “diritto degli zingari”, in formato di leggi orali sono norme che vengono
tramandate di padre in figlio nei secoli. Nel caso di violazioni di queste
regole, conservando una tradizione medievale per la risoluzione dei conflitti,
le sanzioni sono sempre gestite all’interno della comunità tramite una sorta di
tribunale chiamato kris che esiste ancora oggi ed è una forma di
amministrazione della giustizia osservata in sedute pubbliche, guidata dai
capi delle famiglie, i quali sono scelti in funzione della loro reputazione e fama
all’interno della comunità. È un tribunale vero e proprio composto da un
consiglio degli anziani e da uno o più giudici, i quali sono tutti uomini.
La filosofia di vita del popolo rom si basa sul concetto di libertà come
senso profondo; una filosofia che si basa sull’essenziale e sul sapere vivere con
lo stretto necessario, per questo il popolo rom è un popolo sempre pronto a
partire, a lasciare, perché non sono le cose che contano ma le persone intese
come il nucleo familiare e la comunità. La cultura romanì ha nel tempo assunto
una posizione di difesa e chiusura nei confronti delle culture maggioritarie; in
particolare la società ospitante di oggi ha contribuito al cambiamento e alla
crisi dei valori della cultura rom stessa. Le attività lavorative che compievano
si svolgevano nel settore prevalentemente agricolo, ma con il passare degli
anni e con l’avvento della rivoluzione industriale, i servizi e la forza lavorativa
dei Rom vennero superati192. Infatti ad oggi sembra non esserci più spazio per
quelli che erano i lavori tradizionali dei rom e a mettere più in crisi la comunità
contribuiscono certamente i mezzi di comunicazione di massa ed i valori che
da questi promanano. Prima le comunità svolgevano attività ambulanti, in
particolare seguivano fiere e mercati o comunque praticavano attività dalla
durata per lo più stagionali, ma venendo a mancare le fonti tradizionali di
lavoro, nell’arco di due generazioni le comunità si sono dovute trasformare ed
adeguare, ciò ha portato indubbiamente ad una involuzione nel settore

192M. CERMEL, Le minoranze etnico- linguistiche in Europa, tra stato nazionale e cittadinanza
democratica, CEDAM, Milano, 2009, p. 134.

106
lavorativo193. La diffusione del televisore e la trasmissione dei mass-media
anche all’interno della comunità zingara ha comportato la propagazione di
modelli e valori quali il consumismo, l’individualismo e l’importanza del
denaro solo per fare degli esempi, del tutto in contrasto con quelli del popolo
rom. In Italia la “questione zingari” è tornata a farsi sentire a partire dal
novembre 2007. Il sentimento nei confronti di questa etnia ad oggi è perlopiù
di diffidenza ed odio e ciò ha dato luogo a fenomeni di violenza diffusi come
gli assalti ai campi nomadi dove si trovano rintanati. Nel corso dell’estate del
2008, una serie di rapine e il presunto rapimento di una bambina attribuiti alla
comunità dei Rom hanno aumentato in maniera esponenziale l’odio razziale
nei confronti di questa popolazione. È in questo contesto che il governo
italiano e in particolare il governo Berlusconi dopo le elezioni dell’aprile 2008,
ha lanciato l’allarme sulla sicurezza, contribuendo assieme se non perlopiù ai
mass media nazionali, alla divulgazione di assiomi quali rom-criminale. Il
governo ha inoltre richiesto l’espulsione dei rom e la sospensione degli accordi
di Schengen194. Il decreto sicurezza emanato con l’ordinanza 3676 del 30
maggio 2008, proposto dal Ministro dell’Interno Maroni, prevedeva tra i suoi
punti fondamentali: l’introduzione del reato d’immigrazione clandestina195, il

193 Ibidem
194 Accordi di Schengen: “Complesso di accordi volti a favorire la libera circolazione dei
cittadini e la lotta alla criminalità organizzata all’interno dell'Unione Europea (UE) mediante
l’abbattimento delle frontiere interne tra gli Stati partecipanti e la costituzione di un sistema
comune di controllo alle frontiere esterne dell’UE. A un primo accordo siglato a Schengen nel
1985 da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi, ha fatto seguito una
Convenzione di attuazione (1990), entrata in vigore nel 1995. Ulteriori accordi hanno permesso
l’adesione al sistema degli altri Stati dell’UE (l’accordo di adesione dell’Italia è del 1990),
tranne Regno Unito e Irlanda. Con il Trattato di Amsterdam (1997, entrato in vigore nel 1999)
le norme e le strutture previste dagli accordi sono state integrate nel diritto dell’Unione
Europea. Dell’area Schengen fanno parte anche tre paesi non aderenti all’UE come Islanda,
Norvegia, Svizzera”. Enciclopedia Treccani
195 “L’aggravante della clandestinità calpestava l’uguaglianza: permetteva di infliggere un

quantum di pena in più (fino a un terzo) solo in ragione dello status di ‘irregolare’, a parità di
offesa al bene giuridico. Non si giustificava cioè per una maggiore gravità oggettiva del fatto,
né, d’altra parte, per una maggiore gravità soggettiva (rimproverabilità) o pericolosità del reo.
È per questo, cioè per la violazione degli artt. 3 e 25, co. 2 Cost. (principi di
uguaglianza/ragionevolezza e di offensività), che l’aggravante è stata dichiarata illegittima
dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 249 del 2010. Il reato di clandestinità ha invece
retto al vaglio della Corte costituzionale, che ne ha scrutinato la legittimità costituzionale con

107
rimpatrio per i cittadini dell’Unione Europea che delinquono o non possono
mantenersi e la presa delle impronte di tutti i rom. Le misure proposte dal
governo hanno suscitato notevoli critiche soprattutto da parte di organismi ed
istituzioni come l’Unione Europea, l’Alto Commissario ONU per i diritti
umani, l’Unicef, che definiscono i provvedimenti discriminatori poiché
violano i diritti fondamentali. Inoltre più volte il governo e lo stato italiano
sono stati condannati per il trattamento riservato ai Rom. In particolare
l’European Commission Against Racism and Intolerance (ECRI) del Consiglio
d’Europa ha espressamente criticato la discriminazione abitativa attuata
tramite la costrizione a vivere nei campi in condizioni degradanti. Il Committee
on the Elimination of Racial Discrimination (CERD) dell’Organizzazione delle
Nazioni Unite (ONU), l’International Labour Organization (ILO), il
Commissario per i diritti umani del Consiglio di Europa Hammarberg, hanno
denunciato le politiche e le prassi italiane in questo ambito poiché violazione
dei diritti umani fondamentali196.
La discriminazione etnico-razziale nei confronti dei Rom è tale che essi
non godono di alcun riconoscimento, né come minoranze etniche, né in quanto

la sentenza n. 250 del 2010. L’incriminazione si giustifica in ragione dell’offesa a un bene


giuridico (l’interesse dello Stato a regolamentare i flussi migratori): piaccia o meno è
espressione del diritto penale del fatto e non del diritto penale d’autore (come l’aggravante).
Senonché la Corte costituzionale ha di molto limitato le possibilità di applicare
l’incriminazione, affermando da un lato la possibile applicazione della norma
sull’improcedibilità per particolare tenuità del fatto (art. 34 d.lgs. n. 274/2000), in conseguenza
dell’attribuzione del reato alla competenza al giudice di pace e, dall’altro lato, ribadendo che,
in relazione alla condotta di illecito trattenimento, che integra un reato omissivo proprio,
opera il principio ad impossibilia nemo tenetur: l’impossibilità di abbandonare lo Stato, ad
esempio per mancanza del denaro o dei documenti necessari per il viaggio, esclude il reato. Si
tratta comunque, lo ripeto, di un reato che non comporta l’ingresso in carcere (la pena è solo
pecuniaria); è un reato-manifesto, col quale il legislatore ha voluto lanciare un messaggio – e,
in chiave general-preventiva, una minaccia – ai clandestini, venendo incontro alle istanze
securitarie del corpo elettorale. Senonché è un reato inutile, perché, come dimostra la prassi,
non ha frenato l’immigrazione clandestina”. G. L. GATTA, “Immigrati, carcere e diritto
penale”, Testo della lezione svolta il 10 maggio 2012 presso il carcere di Bollate (seconda casa
di reclusione di Milano), alla presenza congiunta di un gruppo di detenuti e di studenti della
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano, in Diritto Penale
Contemporaneo, Editore Luca Santa Maria, 2010, p. 5 ss.
196 L. DI NOIA, La condizione dei Rom in Italia. Società e trasformazioni sociali 4, P. B ASSO, L. DI

NOIA, F. PEROCCO, Disuguaglianze combinate Il caso dei Rom in Italia, Collana diretta da P. BASSO
e F. PEROCCO, Edizioni Ca’Foscari- Digital Publishing, 2016, p. 7 ss.

108
minoranze linguistiche. La situazione delle persone che in Italia sono
denominati dal punto di vista linguistico o culturale, come rom o sinti è a
rischio sotto molti punti di vista.
La loro condizione giuridica è assai eterogenea: questi possono essere
tanto cittadini italiani, quanto cittadini di altri Stati membri dell’Unione
europea o cittadini di Paesi extracomunitari o rifugiati o apolidi. Ai gruppi rom
e sinti radicati in Italia infatti si sono andati affiancando gruppi giunti in
differenti momenti e da diversi territori dall’Europa centro orientale, spesso a
seguito di discriminazioni o persecuzioni, così creando un insieme variegato
dal punto di vista del retaggio sociale, economico e culturale.
Il confronto dei gruppi rom e sinti con la loro storia di ricorrente
discriminazione costituisce una sfida per l’ordinamento giuridico italiano che
deve prevedere apposite misure di tutela e deve promuovere azioni di
reinserimento sociale e di non discriminazione197. Va notato che in alcuni
contesti come nel caso dei tinkers irlandesi o dei camminanti siciliani, questi non
si distinguono nemmeno dal resto della popolazione che abita nello stesso
territorio se non per l’emarginazione in cui si trovano a vivere e che è
perpetuata tramite i matrimoni che li uniscono198. I Rom, sinti, camminanti o
come li si vuol chiamare sono piccoli gruppi da sempre presenti in ogni
contesto rurale e urbano dell’Italia e dell’Europa.
Questi sono i soggetti di un tema fortemente discusso non solo per la
politica locale, ma anche per i governi nazionali, per le relazioni internazionali
e per le istituzioni europee199. Spesso vengono chiamati in maniera
dispregiativa “zingari”, denominazione che probabilmente deriva dal nome
dell’antica setta eretica degli athìnganoi (“intoccabili”), originari del 500 d.C e
con cui, nel XII secolo, erano chiamati le popolazioni provenienti dall’Asia

197 Milano 16-18 giugno 2010 Università degli Studi Milano – Bicocca, Convegno
internazionale la condizione giuridica di Rom e Sinti in Italia.
198 M. CERMEL, Le minoranze etnico- linguistiche in Europa, tra stato nazionale e cittadinanza

democratica, CEDAM, 2009, p. 131.


199 T. VITALE, Rom e sinti in Italia: condizione sociale e linee di politica pubblica, Osservatorio di

politica internazionale, ottobre 2010, n.21.

109
Minore giunte nell’Impero Bizantino e in particolare erano una classe sociale
definita infima o 'casta-non casta' indiana200. Le comunità Rom originariamente
migrarono dall’India attraversando l’Iran e l’Anatolia e si stabilirono poi in
tutto il continente201. Mentre molte delle denominazioni derivano dal territorio
d’origine, cioè dall’India, il termine gipsy o gitano sembrano avere invece
origine egiziana202. Le motivazioni della connotazione negativa attribuita al
termine zingaro nei secoli si possono rinvenire nelle reazioni sociali che i tratti
culturali rom uno tra tutti il nomadismo, hanno scaturito nei paesi nei quali
sono presenti; ad esempio, nel medioevo, gli zingari, sono stati etichettati come
maledetti, con la nascita degli Stati moderni, invece il nomadismo era
considerato come devianza dall'ordine statale, sintomatico di delinquenza.
A tale fine, eloquenti sono le parole di Kant secondo il quale: "L'uomo
del non luogo è criminale in potenza"203, poiché da sempre la mancanza di una
fissa dimora è percepito come elemento di sospetto, in grado di generare
paura. In realtà quello del nomadismo che deve essere anche presente nella
tipologia di lavori che svolgono, non è un elemento innato nella comunità
Rom, ma nasce con la necessità e la volontà di tenere unito un nucleo familiare
che va via via aumentando e questa risulta essere una condizione che
altrimenti sarebbe impossibile da portare avanti204. Sebbene si diffusero in
tutto il continente provenendo dall’India, permangono delle diversità nelle
varie comunità: nelle regioni balcano- carpatiche le comunità risultano essere
integrate con il resto della popolazione ed hanno uno stile di vita
prevalentemente sedentario; nelle regioni nord occidentali invece i Rom

200 DELI - Dizionario etimologico della lingua italiana di M. CORTELAZZO e P. ZOLLI, Edizione
minore, Bologna, Zanichelli, 2004.
201 Ibidem.
202 C. MUTTI, Gli zingari e l’Egitto e La coscienza dei rom del proprio nome. La coscienza dei Rom di

sé stessi, in Lacio Drom, Rivista bimestrale di studi zingari, n. 3-4, maggio- agosto, 1974, p. 6
ss.
203 N. SIGONA, Figli del ghetto: gli italiani, i campi nomadi e l’invenzione degli zingari, Nonluoghi

Libere Edizioni, 2003, p.8.


204 Ibidem

110
conducono una vita per lo più itinerante205. Nel corso dei secoli sotto la stessa
denominazione sono stati ricondotti “una varietà abbastanza composita di
persone, con diversità culturali anche notevoli, il cui unico tratto comune è
consistito in una stigmatizzazione negativa da parte di chi non si considerava
zingaro206”. Sebbene spesso sono stati denominati “nomadi” va sottolineato
da subito che la maggior parte di queste comunità sono tutt’altro che nomadi,
tanto che a volte viene usato l’ossimoro “nomadi sedentari”.
Infatti secondo il rapporto della Commissione per le politiche di
integrazione degli immigrati avvenuto nel 2001, la percentuale di rom e sinti
che si può ricondurre ancora alla modalità di vita nomade sarebbe solamente
il 30%. L’eterogeneità che li caratterizza si riscontra anche sul piano delle
professioni tradizionali; molti gruppi sono impiegati nell’industria dello
spettacolo viaggiante vedi circensi e giostrai, ma queste competenze non sono
generalizzabili all’insieme dei gruppi. Questi infatti sono anche contadini,
operai, artigiani del ferro, mercenari, addetti alla transumanza, allevatori di
cavalli e pescatori. I rom, sinti, gitani, zigani, travellers, yenish, dom, gipsey sono
termini equivalenti che definiscono però comunità anche molto diverse tra
loro, accomunate dalla volontà più o meno espressa di mantenersi separati da
chi non appartiene al gruppo207. Per quanto il pregiudizio porta a pensarli
come economicamente poveri in realtà sono gruppi stratificati, per cui sono
caratterizzati da un ceto popolare, un ceto medio e una borghesia. Infatti
spesso si compie l’errore di ridurre la comunità appena descritta solamente al
ceto più povero, in realtà questa è una riduzione a unità della molteplicità ed
è soprattutto una convenzione che gli è spesso attribuita dall’ignoranza. Allo
stesso modo è uno stereotipo pensare a tutti gli zingari come ladri, nel loro
caso gioca a loro sfavore la paura e la diffidenza208. Sono condizioni tragiche e

205 M. CERMEL, Le minoranze etnico- linguistiche in Europa, tra stato nazionale e cittadinanza
democratica, CEDAM, Milano, 2009, p. 132.
206 L. PIASERE, I rom d'Europa, Editori Laterza, Roma, 2008, p. 37 ss.
207 Ibidem
208 M. CERMEL, Le minoranze etnico- linguistiche in Europa, tra stato nazionale e cittadinanza

democratica, CEDAM, 2009, Milano, p. 134.

111
veritiere, ma che non riguardano l’intera popolazione che si identifica nei rom.
Per questo la continuità di fenomeni di accattonaggio e richiesta di elemosina
nelle città italiane da parte di “zingari” non è da interpretare come una
continuità di comportamento da parte di gruppi stabilmente “improduttivi”.
Le diverse ondate di migrazioni zigane provenienti da parte diverse di
Europa che si sono susseguite hanno portato nelle periferie delle città gruppi
di nuova immigrazione particolarmente poveri economicamente e senza
catene migratorie pregresse, i quali possono essere ritenuti responsabili dei
reati sopra detti. Nessun gruppo di queste comunità ha mantenuto nel tempo
questi comportamenti o almeno non si hanno notizie a riguardo; in particolare
si sono mossi in direzioni differenti: andando sia verso una forte integrazione,
sia in alcuni casi nella direzione di atti di maggiore illegalità. La presenza di
sempre nuovi gruppi zigani nelle città che rappresentano il secondo gruppo
hanno consolidato le convinzioni di una tradizione culturale basata sulla
mendicità e sulla delinquenza. Con riferimento ad altre rappresentazioni
stereotipate che riguardano la comunità dei nomadi vale la pena richiamare i
casi dei presunti rapimenti di bambini da parte dei rom; una ricerca ha stabilito
con esattezza che fra il 1985 e il 2007 non vi è stato nessun caso accertato di
rapimento di minori imputabile a persone appartenenti a un gruppo rom o
sinto209. Per secoli numerosi studiosi hanno cercato la “vera” origine degli
“zingari” a partire dallo studio dei dialetti. I filologi hanno sviluppato le prime
ipotesi sull’origine indiana, precisamente da un territorio compreso tra
l’attuale Pakistan, Punjab, Rajasthan e la valle del Sind, una regione a nord-
ovest dell’India210. In realtà il problema legato alla comunità dei rom è che
trovare una unica origine che sia territoriale e linguistica è molto difficile per
il grande numero di influenze e la grande varietà. Il primo dato sugli antenati
degli odierni rom si trova nel poema epico Shah Nameh (Libro dei Re) del poeta

209 S. TOSI CAMBINI, La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze (1986-2007), CISU, 2008, p.
127 ss.
210 Ibidem

112
persiano Firdusi211. I diversi dialetti della lingua portano i segni di
contaminazioni legate alle migrazioni, con tracce di persiano, di armeno e di
greco. Si ritiene che tra il 1100 ed il 1300 la maggior parte di loro sia entrata
nell’Impero Bizantino disperdendosi fra la Grecia ed il Medio Oriente. Nei
secoli successivi avvennero numerose migrazioni verso l’Impero Ottomano,
forse per fuggire alle persecuzioni, dove alcune comunità rom si convertirono
all’Islam, disperdendosi poi nell’Europa balcanica. Le diverse comunità
iniziarono a essere conosciute in base a denominazioni che rimandavano alla
professione eseguita: i kalderasha, calderai, stagnini; i lovara, allevatori di
cavalli; i cˇurara, produttori di crivelli e venditori di cavalli, gli ursari,
ammaestratori di orsi; i rudara, minatori. A tutti questi si aggiungevano quei
mestieri che ancora oggi si attribuiscono alla comunità acrobati, prestigiatori,
danzatori e musicisti. Le migrazioni ripresero nell’Ottocento, soprattutto a
causa di eventi bellici. Inoltre si registrò una nuova ondata migratoria dai
Balcani verso l’Occidente anche per la ricerca di maggiori risorse economiche
e con la fine della schiavitù nei principati di Moldavia e Valacchia, un gran
numero di rom si diffusero in Serbia, Bulgaria, Ungheria, Polonia.
Nell’insieme si può sostenere che i rom, i sinti e gli altri gruppi zigani
appartengono pienamente alla storia europea. Essi sono sparsi in tutt’Europa
e da secoli e risultano essere presenti anche nei continenti extraeuropei nel
Mediterraneo, ad esempio, sono presenti i lom in Libano, e i dom in Palestina e
in Israele. Essendo stanziati ovunque in Europa, ma mai in grandi
concentrazioni, essi sfuggono alla logica “territorialista” che prevale nella
gestione delle cosiddette “minoranze”. Solo un approccio personalista

211“Firdusi (941- 1020) narra come i musicisti luri vennero inviati dal re indiano Shankal in
Persia allo scià Sassanide, Bahram Gur V, per intrattenere la popolazione con musiche e danze.
Dopo un anno lo scià donò ai luri grano e buoi in abbondanza che i luri mangiarono. Lo scià
si arrabbiò con i luri, perché questi non usarono i suoi doni per diventare allevatori e
agricoltori e li condannò a girovagare suonando per sopravvivere (Lapov, 2004: 79-80). I rom
dell’Iran e del Pakistan meridionale sono ancora oggi chiamati luri;”, G. A MIOTTI, A. ROSINA
e C. BEARZOT, “Identità e integrazione: passato e presente delle minoranze nell’Europa mediterranea”,
FrancoAngeli, Milano, 2007, p. 124.

113
potrebbe regolare la loro condizione giuridica. A causa della mancanza di un
territorio che li rappresenti è, in maniera consequenziale, anche difficile
stimare quante persone appartengano alla minoranza dei rom e dei sinti.
I documenti della Commissione Europea e del Consiglio d’Europa
riferiscono di circa quindici milioni di persone in tutto il mondo, di cui fra i
dieci e i dodici milioni in Europa, di cui il 60-70% nei Paesi dell’Est. I dati
comunque sono aleatori, poiché risulta essere complicato definire esattamente
chi appartiene a questi gruppi. In Italia si parla di una presenza che oscilla tra
le 130.000212 e le 150.000 persone, sono anche più numerosi dei componenti di
alcune altre minoranze. Circa la metà, 70.000 persone, hanno la cittadinanza
italiana, questi sono giunti in Italia dal 1400 fino al 1950, mentre i restanti
50.000 sono cittadini provenienti soprattutto dalla ex Jugoslavia e dalla
Romania213. In altri termini, un grande lavoro conoscitivo sulle dimensioni e
l’articolazione nel territorio del mondo zingaro andrebbe rilanciato per
rendere più attendibile i dati che da date analisi derivano. Per giungere alla
soluzione di un tale lavoro sarebbe necessario che si istaurasse un rapporto
fiduciario con le comunità rom e sinte e andrebbe progettato in modo da non
confondersi con un censimento di carattere etnico. Le stime effettuate in
territori italiani differenti denotano che, seppure con alcune differenze, il
numero di rom non abitanti in campi e insediamenti collettivi è assai
significativo. Certamente avere a disposizione un quadro più completo della
presenza di rom e sinti permetterebbe di distinguere non solo i gruppi, ma
anche le traiettorie individuali, e di ostacolare solo coloro che rappresentano
lo stereotipo della miseria o della delinquenza; queste ultime sono condizioni
che non possono essere generalizzate e attribuite come tratti caratterizzanti di
una intera etnia. Passando in rassegna le diverse comunità dei rom presenti

212 130.000 secondo un delegato italiano alle Nazioni Unite (ERRC, 2000: 15; United Nations
Committee on Economic, Social and Cultural Rights, Summary Record of the 6th Meeting:
Italy, E/C. 12/2000/SR.6, 3 May 2000).
213 T. VITALE, Rom e sinti in Italia: condizione sociale e linee di politica pubblica, Osservatorio di

politica internazionale, ottobre 2010, n.21.

114
nel territorio italiano si può notare che i sinti si stabilirono nelle regioni del
Centro-Nord d’Italia probabilmente a partire dal 1400. Il più antico gruppo
rom in Italia sembra essere quello dei rom abruzzesi e molisani, che è anche la
comunità più consistente in Italia, e dopo diverse migrazioni è anche presente
nel nord della Campania, della Puglia e nel Lazio. I rom napoletani, o
napulenghere, sono presenti in tutta la Campania, mentre i rom cilentani sono
stanziati da secoli nel basso salernitano. In Basilicata si trovano i cosiddetti
rom lucani, famosi in passato per l’allevamento di cavalli: rappresentano una
delle comunità più integrate nell’economia del Sud. I rom pugliesi sono diffusi
in tutta la regione, ma soprattutto nella zona del Salento. La maggior parte dei
rom kalderasha hanno la cittadinanza italiana; i restanti provengono dai Paesi
dell’Europa dell’Est, mentre solo pochissimi rom lovara presenti oggi in Italia
hanno la cittadinanza italiana. I rom harvati (croati) si stabilirono
prevalentemente nel Nord Est tra il 1920 ed il 1940; si trasferirono in Italia per
sfuggire alle persecuzioni degli ustasha214 ed in particolar modo dell’olocausto.
Alla fine della guerra quasi nessuna famiglia fece ritorno in Croazia e la
maggior parte di loro ha, oggi, la cittadinanza italiana. I rom xoraxané
(musulmani) bosniaci, montenegrini, ed i rom dasikané e i khanjára, serbi, di
religione cristiano-ortodossa, arrivarono a partire dalla fine degli anni
Sessanta fino alla fine degli anni Settanta. Una loro nuova ondata migratoria
si ebbe all’inizio degli anni Novanta con le guerre della Jugoslavia e del
Kosovo.

214
USTASCIA: In croato, ustaša è un derivato dal verbo ustati: "alzarsi in piedi, insorgere,
ribellarsi". Ante Pavelićse ne servì per indicare il movimento di ribellione antiserba da lui
promosso. La data di fondazione del movimento ustascia si fa risalire all'ottobre 1928, quando
Pavelić in un comizio a Zagabria proclamò la lotta aperta per l'indipendenza della Croazia; e
poco dopo, il 7 gennaio 1929, costituì formalmente l'Ustascia, lo Stato Indipendente Croato,
istituito per volontà di Hitler e Mussolini. Gli ustascia erano costituiti tanto da patrioti
entusiasti, perseguitati politici, ma anche da autentici criminali. Secondo le fonti più
attendibili, i bambini serbi che trovarono la morte per mano ustascia furono tra i 50 e i 60.000.
In uno studio recente si riporta l’identità di 19.432 bambini al di sotto dei 14 anni uccisi nel
complesso dei campi di Jasenovac (ma l’elenco non è mai stato terminato) di cui 11.888 serbi,
5.469 rom, 1.911 ebrei e 164 di altra nazionalità. M. P ISARRI, Diana Budisavljević. La donna che
salvò migliaia di bambini serbi dai campi di sterminio ustascia, DEP Deportate, esuli, profughe,
Rivista telematica i studi sulla memoria femminile, nota 102, p.43.

115
La loro connotazione negativa risale a tempi lontani, infatti già a partire
dal diciannovesimo secolo, vari autori europei iniziarono a pubblicare teorie
sulla inferiorità genetica degli ebrei e degli zingari e consequenzialmente
aumentarono le leggi discriminatorie che li riguardavano; in particolare le
scritture razziste identificavano i rom e gli ebrei come “gli escrementi
dell’umanità” - Knox, Tetzner, Gobineau, Wagner; nel 1876 Cesare Lombroso
pubblicò il libro “L’uomo delinquente215” in cui venivano descritti i rom come
criminali216. Nel 1880 il Cancelliere von Bismarck rafforza le leggi
discriminatorie e nel 1899 viene fondata a Monaco l’“Agenzia d’Informazione
sugli zingari” che ha raccolto e catalogato dati sulla popolazione rom; questi
risultati vennero archiviati per poi essere pubblicati e diedero un grande aiuto
nel 1905 per lo sterminio dei rom trentacinque anni più tardi. Nel 1920 è stato
pubblicato il libro di Karl Binding e Alfred Hoche “The Eradication of Lives
Undeserving of Life” in cui i rom erano classificati come popolazione “indegni
per vivere”, “malati mentali incurabili” e con una “criminalità trasmissibile
geneticamente”. Nello stesso anno veniva proibito ai rom l’ingresso nei parchi
e nei bagni pubblici e nella “Conferenza sulla questione zingara” si affermò il
loro necessario trasferimento nei campi di lavoro e la loro registrazione presso
la polizia. È stato creato nel 1929 “L’Ufficio Centrale per la Lotta Contro gli
Zingari” e nel 1933 sono stati annullati tutti i diritti per le persone di etnia rom.
Sono stati perseguitati e deportati nel campo di concentramento di Auschwitz
e a gennaio 1940 ha avuto luogo la prima uccisione di massa di 250 bambini
rom in Buchenwald217. Durante tutto il periodo della Seconda Guerra

215 Da L'uomo delinquente, così vengono descritti gli “zingari”: “(…) sono l'immagine viva di
una razza intera di delinquenti, e ne riproducono tutte le passioni e i vizi. Hanno in orrore (…)
tutto ciò che richiede il minimo grado di applicazione; sopportano la fame e la miseria
piuttosto che sottoporsi ad un piccolo lavoro continuato; vi attendono solo quanto basti per
poter vivere (…) sono ingrati, vivi e al tempo stesso crudeli (…). Amanti dell'orgia, del rumore,
dei mercati fanno grandi schiamazzi; feroci, assassinano senza rimorso, a scopo di lucro; si
sospettarono, anni orsono, di cannibalismo”, C. LOMBROSO, L'uomo delinquente, 1879.
216 A. FRASER, The Gypsies, 1992, Oxford, UK Blackwell.
217
Buchenwald: Località della Germania centro-orientale, sede di uno dei campi di
concentramento tedesco sorto nel 1937 come luogo di punizione per detenuti

116
mondiale, i rom sono stati vittime di atrocità disumani, con lo scopo
dell’ammissione e dimostrazione della loro “inferiorità razziale”. Solo il 1
agosto 1944 furono uccisi con gas e cremati 4.000 rom in un’unica azione ad
Auschwitz, inoltre la documentazione esistente attesta che lo scopo del regime
nazista era lo sterminio completo dei rom218. Lo sterminio della popolazione
rom è continuato anche nei paesi alleati ai nazisti come la Romania,
l’Ungheria, mentre nei paesi baltici la scomparsa è stata quasi totale. Si stima
che le vittime rom dell’Olocausto sono tra le 500 mila e un milione e mezzo di
persone219. È da notare però che nessun risarcimento di guerra è mai stato
accordato alla popolazione rom.
Solo nel 1980 le autorità tedesche hanno riconosciuto le persecuzioni e
lo sterminio dei rom durante il periodo nazista e hanno risarcito in maniera
irrisoria i pochissimi superstiti. Il porrajmos o la devastazione di
cinquecentomila Rom non è ricordato purtroppo con lo stesso sentimento con
cui è invece e giustamente ricordata la shoha o lo sterminio degli ebrei
europei220. Infatti l’antisemitismo è fortemente condannato dalle istituzioni
europee, mentre lo stesso non si può dire nei confronti dei Rom, per i quali

politici. Nella Seconda guerra mondiale fu uno dei più vasti campi di lavoro coatto della
Germania nazionalsocialista, dove furono oggetto di sterminio ed eliminazione sistematica
soprattutto Ebrei e Polacchi dei territori occupati. Fu liberato dalle forze armate statunitensi
l’11 aprile 1945. Dizionario Treccani
218 D. Kenrick, “Holocaust and Genocide Studies” 4(2), 251-254 1989; Kenrick D. & Puxon G.

“Gypsies under the Swastika”. Hatfield: University of Hertfordshire Press 1995; Polansky P.
“Black silence: the Lety survivors speak”. Pregue, Czechoslovakia: G plus G: Cross-Cultural
Communicatio 1998.
219 Holocaust Memorial Research Institute in Washington ha fissato il numero delle persone rom

che hanno perso la vita tra mezzo milione e un milione e mezzo.


220 Il nazismo riservò a Rom e Sinti lo stesso trattamento degli ebrei: nel 1939, con il Decreto di

stabilizzazione, furono obbligati a non abbandonare il luogo allora occupato e l’anno


successivo ne fu ordinata la deportazione in Polonia. Il 16 dicembre 1942 fu infine promulgato
il Decreto di Auschwitz: tutti i Rom dovevano essere internati senza alcuna considerazione né
del grado di purezza razziale né del paese di provenienza. I Rom furono perseguitati,
imprigionati, seviziati, utilizzati per esperimenti medici; ciò non avvenne solo in Germania,
ma anche in Italia, Iugoslavia, Francia, Belgio, Olanda, Polonia: circa 500.000 di essi trovarono
la morte durante il barò porrajmos (in lingua romanés: «grande distruzione»). Enciclopedia
Treccani

117
appare quasi giustificato poter sentire un forte disprezzo221. Vi sono diversi
modi con i quali gli Stati rispondono alla presenza delle comunità rom sul
proprio territorio, in particolare Piasere il più noto antropologo italiano
esperto di studi “zingari”222 individua due modelli che denotano le strategie
attuate:
- Modello balcano: "Chiamiamo modello balcano quello che vede l'inserimento
dei Rom nelle strutture socio-economiche locali attraverso il sistema della
tassazione e/o lo sfruttamento coatto della forza lavoro"223. Sotto l'impero
Ottomano del XIII-XIV secolo, i rom furono sfruttati attraverso una gravosa
tassazione. Svolgevano attività prevalentemente artigianali, erano sarti,
orefici, macellai, ma eseguivano anche attività 'immonde', come quelle di boia.
In Moldavia e successivamente anche in Germania e in Croazia i rom furono
anche oggetto di schiavitù. In questo modello il rom può mantenere la propria
cultura poiché è questa diversità culturale che giustifica il suo inserimento in
attività degradanti.
- Modello occidentale: "Chiamiamo modello occidentale quello che prevede il
divieto ai Rom di inserirsi nelle strutture socio-economiche locali, salvo un
loro previo annichilimento ereditario224". In questo modello è molto sentita la
contrapposizione all’interno della società. Questi ultimi, sono stati oggetto di
una criminalizzazione di massa, poiché si sono opposti ai meccanismi di
subordinazione. Più le politiche portate avanti da queste società sono
aggressive e violente, più forte è la spinta di chiusura dei rom attraverso le
proprie strutture sociali e il proprio 'ordinamento'. Nell'esperienza storica
europea ed italiana, vi sono state tre fasi che concernono le politiche intraprese
nei confronti dei rom: negazione territoriale, negazione sociale e riconoscimento
culturale225. Per fase della negazione territoriale si intende quando in nome

221 M. CERMEL, Le minoranze etnico- linguistiche in Europa, tra stato nazionale e cittadinanza
democratica, CEDAM, Milano, 2009, p. 135.
222 L. PIASERE, Comunità girovaghe, comunità zingare, Liguori, Napoli, p. 38.
223 L. PIASERE, I rom d'Europa, Editori Laterza, cit. p. 33.
224
Ibidem
225
Ibidem

118
della necessità di favorire l'unità sia politica che territoriale degli Stati
nazionali, si attuano politiche di espulsione fisica dei rom.
In questa fase le comunità rom sono sentite come un'estraneità e come
opposti ai principi base delle società ospitanti dando così origine alla
contrapposizione con le comunità romanè. Nel Cinquecento hanno inizio le
politiche di espulsone fisica dei rom dai territori dei nascenti Stati. Il tratto
identitario maggiormente criticato con i bandi di espulsione, è quello del
nomadismo; l'idea di non avere radici stabili in un luogo, è vissuta come una
minaccia. L'essere zingaro-nomade presto, si trasformò in sinonimo di
straniero. Lo zingaro diviene, così l'altro che minaccia l'identità nazionale ma,
dall'altra la rafforza, offrendo quel termine di paragone esterno che in maniera
unitaria si cerca di combattere. La necessità di generare l'idea di nazione e
appartenenza, porterà a giustificare la riduzione delle libertà personali in
nome della collettività; infatti viene indicato il concetto di nemico, come colui
che non condivide le credenze, gli usi, la lingua della maggioranza226; le
comunità rom non rappresentano altro che il nemico comune da cui difendersi,
la delinquenza e di disordine della società. Si apre la strada alle politiche di

negazione sociale, volte ad un'integrazione violenta dei rom. In questa fase


assistiamo alla negazione di un'identità etnica specifica. È l'essere diverso, più
che straniero, a divenire oggetto di legislazione.
Gli “zingari” vengono assimilati alle classi pericolose e violente, in
particolare il loro stile di vita non è percepito come un tratto culturale, ma
come caratteristica di devianza ad un ordine statale; infatti in linea con quello
che è il modello occidentale, se gli zingari sono esclusi dalla società, ne sono
responsabili in primis loro stessi alla luce dei comportamenti attuati e della loro
incapacità di adeguarsi ai valori imposti dalla società dominate, ma anzi
spesso avendone altri quasi contrapposti. Lo Stato si presenta come il
protettore dell'ordine minacciato, così facendo consequenzialmente rafforza la

226
N. SIGONA, Lo scandalo dell'alterità: Rom e Sinti in Italia, cit., p. 6.

119
propria identità. Un forte esempio che segue tale direzione, è la politica
intrapresa da Maria Teresa imperatrice d'Austria, che propone un programma
d'inserimento forzato formato, da una parte dall'abbandono di usanze come il
nomadismo e dall'altra prevede un piano d'inserimento socio-economico
offrendo case e attrezzi per lavorare. Inoltre la sovrana impartì l'ordine di
sottrarre alle famiglie rom i propri figli al fine di affidarli a famiglie contadine
con lo scopo di impartire loro un'educazione che fosse conforme ai valori
dominati nella società austriaca. Tali scelte politiche si rivelarono fallimentari,
poiché molti gruppi si diedero alla fuga verso le montagne227. Della fine del
Settecento sono i primi studi in cui si gettano le prime basi per un
riconoscimento dei rom come gruppo avente tratti caratteristici culturali, la cui
diversità non deve essere più ricondotta nella devianza sociale ma
nell'apparenza ad un'altra etnia; tuttavia anche se la diversità del
comportamento rom viene pian piano iscritta in tratti culturali, questi sono
percepiti come inferiori ed incivili. La politica che anche in questo caso è
intrapresa è di assimilazione forzata con il fine di conformare lo stile di vita
rom e i lori principi anche se diversi a quelli della maggioranza. In questo caso
è la diversità razziale a giustificare le politiche assimilazionistiche e
persecutorie verso i rom, il tutto in un contesto dominato dall'idea di razze
superiori che divengono l'obiettivo a cui le etnie come quella zingara, devono
tendere. I vari tratti caratteristici rom vengono da una parte accostati alla
delinquenza e dall'altro ad una inferiorità culturale superabile attraverso un
processo di assimilazione-inclusione. Le politiche intraprese dallo Stato saranno
di tipo penale, volte da una parte ad un allontanamento tanto fisico quanto
sociale dei rom, dall’altro con una politica di assimilazione-inclusione, con
azioni in campo abitativo, scolastico e assistenziale.
Oggi le politiche intraprese nei confronti dei rom trovano
giustificazione sociale nelle loro precarie condizioni di vita e nel timore

227
Ibidem

120
provato nei loro confronti dal resto della società; questi ultimi sono giudicati
sulla base di stereotipi semplicisti che provocano un'immagine di loro come
una popolazione di delinquenti, incivili, capaci di creare solo disagio e di
aumentare la criminalità. In Europa occidentale il pregiudizio antizingaro è
antichissimo228, come si nota dagli atti ufficiali delle autorità del passato che in
ogni regione e in molte epoche diverse gli hanno riservato un trattamento
repressivo229. Se si fa riferimento ad autori illustri e di più recente data si può
notare come gli stereotipi e i pregiudizi vengano alla luce e gli esempi possono
essere tanto opere letterarie quanto musicali famose come “Notre Dame De
Paris” di Victor Hugo con la figura femminile della zingara Esmeralda o “Il
trovatore” di Giuseppe Verdi, dove campeggia la zingara Azucena230.
La questione zingara viene sentita come un problema sociale da
risolvere piuttosto che essere inquadrata nell'ottica della diversità culturale e
quindi di conflitto tra valori e culture diverse. La nascita dello Stato moderno
è accompagnata dall'elaborazione di un diritto generale e dall'affermazione
del principio di uguaglianza, che si deve soprattutto alla rivoluzione francese
e che trova il fondamento nella triade liberté, égalité, fraternité, la quale ha
consacrato il principio come valore fondante. Dopo la seconda guerra
mondiale, le Dichiarazioni Universali sanciscono il riconoscimento di una
serie di diritti il quale destinatario diviene l'uomo in quanto tale, a prescindere
dalle sue appartenenze socio-culturali e dalla sua cittadinanza. Secondo queste
dichiarazioni, è già solo l'appartenere all'umanità che attribuisce all'individuo
la titolarità dei diritti. Questo è importante sia per avvalorare l'uguaglianza
degli esseri umani, sia per stabilire regole giuridiche sulla tutela di tali diritti.
La "Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo" del 10 dicembre

228 L. PIASERE, Breve storia dei rapporti tra rom e gagè in Europa, cit. p. 47, il quale osserva, invece,
“… che in tutta la storia ottomana pare che non vi sia una sola disposizione antizingara”.
L’impero ottomano, però, consentiva che nel principato vassallo di Vallacchia i Rom potessero
essere ridotti in schiavitù”, nota n. 11, p. 133, op. cit.
229 M. CERMEL, Le minoranze etnico- linguistiche in Europa, tra stato nazionale e cittadinanza

democratica, CEDAM, Milano, 2009, p. 133.


230 Ibidem

121
1948 pone la solenne affermazione secondo cui "tutti gli esseri umani nascono
liberi e uguali in libertà e diritti" (art. 1) e poi precisa che "tutti sono uguali dinanzi
alla legge ed hanno diritto, senza alcuna discriminazione, a un'uguale tutela da parte
della legge". Analogamente, il "Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici" del
1966 prevede l'uguaglianza nel godimento dei diritti da esso enunciati, "senza
distinzione alcuna, sia essa fondata sulla razza, il colore, il sesso, la religione,
l'opinione politica o qualsiasi altra opinione, l'origine nazionale o sociale, la condizione
economica, la nascita o qualsiasi altra condizione" (art. 2). Il coevo "Patto
Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali" precisa anch'esso (art. 3)
che "gli stati parti del presente Patto s'impegnano a garantire agli uomini e alle donne
la parità giuridica nel godimento di tutti i diritti economici, sociali e culturali
enunciati nel presente Patto". A questa finalità si ispirano anche quei documenti
di tutela dei diritti umani che prevedono articolate clausole di non
discriminazione nel godimento dei diritti, come l'art. 14 della "Convenzione
Europea dei Diritti dell'Uomo" del 1950. Nell'ordinamento italiano l'art 3 comma
1 della Costituzione dispone: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di
religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, dunque la
diversità di sesso, razza e cultura non possono costituire un ostacolo
nell'accesso ai diritti.
Sintetizzando i vari momenti da attribuire alla storia zingara,
inizialmente si assiste ad una politica che mira all’eliminazione degli zingari,
in quanto considerati estranei alle società occidentali. In un secondo momento,
quando si comprende che la loro eliminazione non è possibile lo zingaro è
equiparato ad un soggetto portatore di devianza sociale e criminalità e come
tale deve essere marginalizzato e obbligato a sottostare alle politiche della
maggioranza che sono volte ad integrarlo obbligatoriamente nel tessuto
sociale. A partire dagli anni Settanta questi due indirizzi coesistono e la
problematica che riguarda i rom è trattata come problema di ordine pubblico
e affrontato attraverso azioni positive e sociali dominate dall'ottica

122
dell'assimilazione. Questo ha portato il diritto statale a una rilettura delle
condotte rom, non più in chiave di criminalità, ma in un'ottica culturale in un
dibattito multiculturalista. La difficoltà della società multiculturale è quella di
chiedere al diritto di essere in grado di trattare in modo diverso situazioni
diverse. La diversità culturale rom rileva nel rapporto tra diversità culturale
rom e principio di uguaglianza formale: questo principio vieta qualsiasi forma
di trattamento differenziato in ragione dell'apparenza ad un gruppo culturale.
I pregiudizi riguardanti la comunità rom sono talmente intrinseci nella
società attuale da influenzare anche la disposizione legislativa. In questo caso
i rom rivendicano il superamento delle discriminazioni subite al fine di vedere
garantito il principio di uguaglianza formale. Per quanto riguarda
lo status giuridico dei rom in Italia si potrebbe formulare la tesi secondo cui il
mancato accesso ai diritti è, per i rom, dovuto al loro status di stranieri, ma
nella realtà in Italia, la maggioranza della popolazione rom ha cittadinanza
italiana e come tale dovrebbe poter godere di tutti i diritti al pari di qualsiasi
altro cittadino italiano. In realtà, nonostante la cittadinanza, questi continuano
a vivere in una situazione di marginalità sociale. Inoltre se si vuole sostenere
la tesi che il mancato accesso ai diritti è dovuto al fatto che una parte della
comunità rom è straniera, ciò comunque non giustifica l'esclusione nell'accesso
ai diritti inviolabili dell'uomo o almeno non nell’ordinamento italiano. La
Corte Costituzionale ritiene che i diritti fondamentali garantiti tanto dall'art. 2
che dagli atti internazionali relativi ai diritti dell'uomo, sono applicabili anche
agli stranieri irregolari. L'accesso a questi diritti, infatti, non può essere
ricondotto ad una appartenenza territoriale, e non può esserne di certo escluso
chi non ha la cittadinanza.
Nel caso dei rom l'esclusione dai diritti fondamentali non avviene per
criteri dettati dal legislatore ma, per stereotipi e pregiudizi, ed in più, a causa
di questi, sono giudicati come non meritevoli degli stessi diritti. Ovviamente
questo mancato riconoscimento si ripercuote sulla costruzione dell'identità
tanto del singolo che del gruppo minoritario al quale appartiene. Per i rom, si

123
può parlare, in via prevalente, di misconoscimento, in quanto essi vedono la
loro identità ricostruita e restituita dall'esterno in modo distorto, o comunque
denigrante; in questo contesto operano una serie di schemi mentali, tra i quali
vanno rammentati: 'gli zingari rubano i bambini, sono dei ladri, sono devianti'.
Sono schemi mentali riprodotti dai mezzi di comunicazione di massa e
condivisi dall'opinione pubblica per ignoranza che genera poi paura. A volte
sembra di essere tornati indietro nel tempo e chi non si conforma all'identità
statale, chi non si assimila ad essa, viene percepito come estraneo, come
estraneo e come tale deve essere marginalizzato. In questo contesto anche il
concetto di uguaglianza deve esser inteso come uguaglianza al modello
imposto dal gruppo maggioritario, essere uguali significa conformarsi alla
costruzione culturale dominate. In questa chiave le popolazioni immigrate ed
in particolar modo la comunità rom vengono temute come una minaccia per
l'identità culturale delle maggioranze autoctone. La conferma del fatto che il
mondo politico e l'opinione pubblica considerano la cultura rom in termini di
criminalità perviene da alcune ricerche. Tra le più significative quella condotta
dall'associazione OsservAzione, commissionata e finanziata da OSCE/ODIHR
e CPRSI, e quella presentata da Mannheimer alla Conferenza europea sulla
popolazione rom, organizzata dal Ministero dell'Interno e dal Ministero della
Solidarietà sociale a Roma nel gennaio 2008. La prima ricerca ha riguardato la
partecipazione politica e rappresentazione mediatica di rom e sinti. Il rapporto
finale, intitolato "Political participation and media representation of Roma and
Sinti in Italy. The case studies of Bolzano-Bozen, Mantua, Milan and Rome"
mostra che, il dibattito politico su questioni concernenti rom e sinti si sviluppa,
principalmente sul tema della sicurezza, del degrado urbano e
dell'accesso/sfruttamento delle risorse sociali da parte di queste comunità. La
ricerca di Mannheimer mostra, tra i risultati più significativi, che: l'84% degli
intervistati ritiene che i rom siano prevalentemente nomadi; il 92% associa
l'immagine dello zingaro a quello del ladro; l'83% ritiene che lo zingaro viva,

124
per propria scelta, in campi ai margini della città231. Questi dati sono
orientativi di quanto ormai gli assiomi passati sono inculcati nella maggior
parte della popolazione e di quanto, il diverso e l’ignoto, facciano talmente
tanta paura da dover essere allontanato.

2. I rom in Italia

La travagliata vicenda dei Rom in Italia non differisce molto da quella


vissuta negli altri paesi europei: infatti sono considerati un “peso” per lo stato,
visti come stranieri dai cittadini, sono oggetto di una legislazione che anche se
non espressamente, condanna molti dei loro principi, messi al bando e
perseguiti per molto tempo232. A loro come a tutte le altre persone presenti sul
territorio, la Costituzione italiana come esplicitato nell’art. 2, “riconosce e
garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità”233. Allo stesso modo l’art. 3 co. 1 della
Costituzione italiana tutela e afferma l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti
alla legge e il divieto di discriminazioni per ragioni di sesso, razza, lingua,
religione o opinioni politiche. Inoltre l’art. 6 della Costituzione attribuisce allo
stato italiano il dovere di promuovere la tutela delle minoranze linguistiche,
cioè di quei gruppi che utilizzano una lingua differente da quella della
maggioranza; il principio sostenuto dall’articolo appena citato è quello di
tutelare i gruppi minori e di garantire la possibilità a questi ultimi di riuscire
a non perdere un elemento fortemente identificativo come quello della lingua.

231
P. ARRIGONI, T. VITALE, Quale legalità? Rom e gagi a confronto, Aggiornamenti sociali, 3, 2008,
pp. 182-194.
232 M. CERMEL, Le minoranze etnico- linguistiche in Europa, tra stato nazionale e cittadinanza

democratica, CEDAM, Milano, 2009, p. 146.


233
Ibidem

125
I legislatori regionali italiani a partire dal 1984 hanno provato a
disciplinare gli aspetti più problematici della presenza di Rom e Sinti sul
territorio attraverso testi normativi che, per un verso, prevedevano una forma
di riconoscimento delle comunità zingare in Italia e, per altro verso, hanno
avuto come principale scopo la disciplina dei campi sosta, per i quali risulta
ancora confusa la natura se di segregazione o di sicurezza234.
Lo stato italiano, come quello di molti altri paesi, non riconosce
giuridicamente questa minoranza e allo stesso tempo utilizza contro di loro
una normativa che reprime e condanna la mendicità e il vagabondaggio,
sottoponendoli alla discrezionalità della polizia. Le disposizioni legislative e
la loro attuazione concreta hanno dato prova di avere raggiunto solo
parzialmente il fine ultimo che tendevano a raggiungere in quanto
l’integrazione nel tessuto sociale e lavorativo dei gruppi Rom e Sinti
purtroppo risulta essere ancora soltanto agli inizi. La legge n. 482/1999

234 Vedi legge regionale 10 giugno 1993, n. 26. Interventi a favore della popolazione zingara.
Il Presidente della Giunta Regionale promulga la seguente legge:
Articolo 1 Tutela della popolazione zingara: 1.La regione Piemonte, con la presente legge,
disciplina gli interventi a favore delle popolazioni zingare allo scopo di salvaguardarne
l’identità etnica e culturale e facilitarne, nel rispetto della reciproca conoscenza e convivenza,
il progressivo inserimento nella comunità regionale. 2. La Regione Piemonte riconosce
pertanto ai gruppi zingari il pari diritto al nomadismo e alla stanzialità ed a tal fine si propone
di rispettare e garantire le loro libere scelte in ordine a tali possibili opzioni. 3. La Regione, i
Comuni, i loro Consorzi e le Comunità Montane, nel rispetto della legislazione italiana ed in
conformità con le norme e con i trattati internazionali, in materia di soggiorno e di libera
circolazione di cittadini stranieri e apolidi, promuovono azioni presso le altre
Amministrazioni pubbliche competenti e presso le rappresentanze diplomatiche degli Stati
interessati al fine di favorire il dirimersi di eventuali questioni concernenti l’ingresso ed il
soggiorno in Italia di zingari stranieri e apolidi. 4. Ai fini della presente legge il termine
zingaro si intende comprensivo di tutti i gruppi Sinti e Rom.
Vedi legge regionale del 23 novembre1988 n. 47. Regione Emilia-Romagna, Norme per le
minoranze nomadi in Emilia – Romagna, Fonte: Bollettino ufficiale della Regione Emilia-
Romagna n. 101 del 25 novembre 1988: Articolo 1 Finalità e principi: 1. Nel quadro dell'attività
di tutela delle minoranze etniche nel proprio territorio, la Regione Emilia - Romagna disciplina
e concorre alla concreta attuazione del diritto dei nomadi al transito e alla sosta, e ad agevolare
il loro inserimento nella comunità regionale. Articolo 2 Interventi a favore dei nomadi 1. Le
finalità di cui al precedente articolo sono perseguite con: a) attività volte a favorire la tutela
delle forme espressive, delle tradizioni culturali, delle produzioni artistiche ed artigianali
tipiche delle popolazioni nomadi; b) realizzazione di aree - sosta attrezzate; c) realizzazione
di aree di transito; d) realizzazione di aree - sosta attrezzate a destinazione particolare; e)
attività di formazione professionale e di attuazione del diritto allo studio; f) iniziative di
sostegno all' esercizio di attività artigiane.

126
“Norme in materia di minoranze linguistiche storiche” attuata in seguito alla
ratifica della Convenzione europea sulle lingue regionali e minoritarie non ha
comunque riconosciuto alla comunità Rom tale condizione. Il testo successivo
della proposta di legge n. 169 sulla tutela delle minoranze linguistiche
proponeva all’art.1 che fossero tutelate come minoranze anche la cultura della
popolazione dei Rom; il testo all’art. 2 co.2 sanciva che “La Repubblica adotta
a favore delle comunità Rom e Sinti presenti sul territorio italiano, misure di
particolari tutela adeguate alle loro particolari caratteristiche storico-
culturali”, in realtà durante l’iter legislativo il progetto subì alcune modifiche
e alla fine scomparve ogni riferimento alle popolazioni Rom e Sinti235.
La stagione della produzione normativa regionale si è arrestata di fatto
nel 2000 con l’ultima legge approvata in Toscana236, che ha cercato di orientare
le politiche abitative per andare incontro alle esigenze dei gruppi familiari
attraverso la realizzazione di piccoli villaggi. Il caso italiano si differenzia dalle
normative degli altri stati poiché il riconoscimento dei rom non si realizza
tramite leggi nazionali, ma è delegato a fonti secondarie e a leggi regionali;
questo modo di disciplinare un tema già di per sé complicato favorisce un
quadro normativo frammentato e spesso incoerente. A livello locale, la
contrapposizione è data dalla coesistenza di un 'riconoscimento' effettuato

235
M. CERMEL, “Le minoranze etnico- linguistiche in Europa, tra stato nazionale e cittadinanza
democratica”, CEDAM, Milano, 2009, p. 151.
236 Vedi legge regionale del 12 gennaio 2000 n. 2, Regione Toscana, Interventi per i popoli rom

e sinti. Fonte: Bollettino ufficiale della Regione Toscana, Articolo 1 (Finalità): 1. La presente
legge detta norme per la salvaguardia dell'identità e lo sviluppo culturale e l'identità dei rom
e dei sinti al fine di favorire la comunicazione fra culture, garantire il diritto al nomadismo,
all'esercizio del culto, alla sosta e alla stanzialità all'interno del territorio regionale, nonché per
la fruizione e l'accesso ai servizi sociali, sanitari, scolastici ed educativi.
Titolo I interventi per la residenzialità e per il transito, Articolo 2 (Le soluzioni abitative): 1.
Gli interventi per la residenza e l'inserimento abitativo previsti dalla presente legge sono: a)
aree attrezzate per la residenza con i requisiti indicati agli artt. 3 e 4; b) interventi di recupero
abitativo di edifici pubblici e privati previsti dall'art. 5; c) l'utilizzo degli alloggi sociali come
previsti dalla Legge 6 marzo 1998, n. 40 "Disciplina dell'Immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero"; d) il sostegno per la messa a norma e/o la manutenzione
straordinaria di strutture abitative autonomamente reperite o realizzate da rom e sinti; e) la
realizzazione di spazi di servizio ad attività lavorative di carattere artigianale. 2. Gli interventi
di cui al comma 1 sono predisposti nel rispetto della struttura sociale e degli stili di vita dei
gruppi, attraverso forme di partecipazione e coinvolgimento delle famiglie interessate.

127
tramite leggi regionali e dal versante opposto, da politiche locali che hanno
come fine l'espulsione dei gruppi insediati, norme che spesso sono
maggiormente dettate delle pressioni e dall’opinione pubblica o dalla paura
che opponendosi all’onda di pregiudizi si possa perdere il proprio elettorato.
Il quadro si complica nel versante nazionale, nel quale si richiedono
sempre più interventi emergenziali che collidono con le politiche di
'integrazione' volute invece fortemente dall’Unione europea. Il primo
riconoscimento implicito della presenza rom in Italia, in senso non solo
emergenziale, si ha con due circolari, una risalente al 1973237 in cui si chiede ai
sindaci di abolire i divieti di sosta per i nomadi e di favorirne l'iscrizione
anagrafica e la scolarizzazione dei bambini, l'altra del 15 luglio del 1985238 che
si richiama alla precedente, in particolare richiede che sia garantita a livello
locale l’ uguaglianza tra gli appartenenti ai gruppi nomadi e gli altri cittadini
nel rispetto della loro cultura, che venga riconosciuto e garantito anche il loro
stile di vita e che si tenga conto maggiormente dei bisogni primari della
popolazione239. Una volta che il legislatore ha elevato il nomadismo tra i tratti
culturali rappresentativi della comunità rom e quindi da preservare e tutelare,
la conseguenza a ciò è stata la creazione dei campi nomadi che hanno dato
luogo ad una serie di effetti tra emarginazione e aumento di delinquenza.
I campi nomadi sono localizzati nelle zone più emarginate della città,
dunque da strumenti funzionali in realtà sembrano servire più modalità ad
aumentare la marginalizzazione dei rom, tutto ciò alimenta lo stereotipo che li
vede come disadattati sociali e incivili nell’immaginario collettivo240. Le leggi
regionali muovendosi dal punto di vista di una tutela della cultura ed etnia
rom, in particolare cercando di risolvere l’emergenza abitativa per quella parte
di comunità nelle quali il nomadismo è assunto come tratto caratteristico della

237 Circolare MI.A.CEL. n. 17 del 11 ottobre 1973.


238 Circolare MI.A.CEL. n. 4 del 15 luglio1985.
239 C. MARTA, Relazione interetniche, prospettive antropologiche, Alfredo Guida Editore, 2005,

Napoli, p. 200 ss.


240 N. SIGONA, Lo scandalo dell'alterità: Rom e Sinti in Italia, p. 45.

128
cultura, non fanno altro che estendere questo indicatore culturale a tutti quei
gruppi che sono qualificati come rom, praticanti o meno il nomadismo.
Il risultato è che, in Italia, alla luce di un'immagine distorta molti rom,
praticanti uno stile di vita sedentario, sono costretti a vivere nei campi,
realizzando e al contempo avvalorando l'immagine stereotipata che di loro
hanno gli italiani241. La domanda da porsi è se il concetto di minoranza con
tutto ciò che ne consegue può essere funzionale a garantire un'effettiva tutela
alla realtà rom? Nella costituzione italiana sono previste esclusivamente due
tipi di minoranze: quelle linguistiche e quelle religiose, non sono utilizzati altri
indicatori culturali. Sebbene ciò rende la tutela da poter apportare incompleta,
il concetto così descritto di minoranza è la categoria alla quale, la gran parte
delle costituzioni democratiche, ricorre per garantire le diversità culturali.
Inoltre questi indicatori culturali non è detto che siano effettivamente
funzionali per garantire un'ottima tutela poiché sono stati individuati tramite
il risultato di scelte politiche. Infatti il concetto di minoranza continua ad
essere individuata da chi detiene il potere ed anche i parametri di accesso a
questa categoria sono scelti dalla maggioranza, così però vi è il rischio che
determinati gruppi rimangano esclusi dal riconoscimento. Certamente
delegare il riconoscimento delle minoranze al concetto deciso dalla
maggioranza determina il rischio di creare una gerarchia tra le minoranze
presenti in un paese. Va detto che il legislatore non è stato in grado di dare
un'effettiva risposta alle richieste avanzate dal gruppo rom, anzi, ha spesso
contribuito a rafforzare il giudizio negativo nei loro confronti. Il tentativo di
adattamento della categoria di minoranza linguistica al gruppo rom o meglio
il suo fallimento è dovuto principalmente a tre ragioni: il primo aspetto è che
la lingua non rappresenta la peculiarità culturale per la quale i rom chiedano
un riconoscimento. Nonostante tutte le opposizioni che si possono avanzare
per la scelta di voler ricondurre la tutela al concetto di minoranza linguistica,

241 Ibidem

129
ad oggi, non vi sono a livello normativo soluzioni alternative per ottenere un
riconoscimento dei rom.
Per poter trovare delle soluzioni che si possano adattare allo specifico
caso dei rom, è stato necessario ricostruire la loro l'identità in alcune
caratteristiche che se anche non rappresentano l’intera comunità ne
accomunano la maggioranza, e quindi fare riferimento al fattore culturale
linguistico. Perciò, la lingua romané diviene il paramento d'inclusione o
esclusione dalla comunità. Ovviamente ciò porta a sottrarre dalla tutela tutta
una serie di gruppi che non parlano questa lingua ma che sono caratterizzate
da altre specificità culturali comunque meritevoli di tutela. Posto che anche se
non rappresentativo della totalità del gruppo rom, la maggior parte della
comunità può comunque essere individuata sulla base dell'indicatore
culturale linguistico, perché, ad oggi, i rom non sono riconosciuti come
minoranza nella legge 428/1999?
La ragione è legata al fatto che l'indicatore linguistico non è l'unico
criterio considerato dal legislatore, ma è valutato anche il criterio territoriale;
e questo perché l'appartenenza di un soggetto a una minoranza linguistica,
può dar luogo a una serie di situazioni giuridiche se legata ad un territorio242.
Il collegamento dei rom come gruppo non direttamente collegabile ad un
territorio ma stanziato in generale nel territorio dello Stato, ha fatto venire
meno uno dei due requisiti richiesti dal legislatore, tanto più se uno dei tratti
salienti delineato dal legislatore stesso è proprio quella del nomadismo. A
questo punto si possono riscontrare due concezioni differenti. Un approccio è
quello della posizione territorialista per la quale si assume, ai fini della tutela
della minoranza, il vincolo stabile tra una comunità e una data porzione di
territorio nazionale; ed in particolare “Non sono minoranze linguistiche, in
senso legale, quelle comunità di lingua non italiana che appaiano nomadi,
disperse o che comunque non caratterizzano tradizionalmente alcun territorio,

242
U. BERNARDINI, Le mille culture, Coines Edizioni, Roma, p. 143.

130
nemmeno a livello minimo di comune: è il caso degli Zingari, degli Ebrei e dei
cittadini italiani cosiddetti di origine straniera i quali si sono stabiliti nel
territorio della repubblica”243. Chiaramente questa concezione dell’assoluta
importanza riservata al territorio può provocare una serie di rischi in
particolare giungere a creare separatismi e razzismi. Al contrario l’altro tipo
di approccio può essere quello personalista per cui invece l'espressione
linguistica è valutata come fosse un bene culturale.
Questa ipotesi è condivisa anche dagli interventi europei, i quali sono
mossi da una spinta verso il riconoscimento dei rom come minoranza. Infatti,
la "Risoluzione sulla situazione degli zingari nella comunità", adottata dal
Parlamento Europeo nel 1994, dimostra il misconoscimento che i rom sono
stati costretti e tuttora subiscono con modalità differenti in secoli di storia. Con
questa risoluzione si invitano gli Stati ad un riconoscimento dei rom a livello
legislativo. Non va sottovalutato, in ogni caso, che il popolo Rom rappresenta
una delle minoranze più importanti presenti sul territorio europeo e come tali
ne vanno tutelate la lingua e gli altri aspetti della cultura come parte integrante
del patrimonio culturale europeo; anche per questo infatti si raccomanda agli
Stati membri di completare la Convenzione europea dei diritti umani con
protocollo aggiuntivo sulle minoranze, in cui la definizione di minoranza
richieda dei requisiti tali da poter ricomprendere gli zingari attraverso un
riferimento alle minoranze che non abbiano un territorio proprio. Sebbene a
livello europeo non si soluzioni adatte per un riconoscimento dei rom come
minoranza, sicuramente, però, la volontà è quello di promuovere un loro
inquadramento tra le minoranze tutelate.
Nonostante le esortazioni a livello europeo ed internazionale la legge
482/99 "Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche", in
definitiva li esclude. Tuttavia va sottolineato che il criterio linguistico è
pienamente soddisfatto poiché effettivamente vi è una lingua che li accomuna

243
S. SALVI, Le minoranze linguistiche in Italia, Coines Edizioni, Roma, p. 138.

131
ed il criterio territoriale, non è l'unico possibile per l'attuazione della
Costituzione ed in più i parametri adottati per il riconoscimento essendo il
risultato di una scelta legislativa, non rappresenta un dato immodificabile.
Infatti gli interventi locali sono modellati su di una concezione
prettamente volta all'integrazione, che si traduce in una politica di
assimilazione. È chiaro come oggi non vi è un'effettiva spinta legislativa di
voler inquadrare i rom come gruppo culturale o minoranza meritevole di un
riconoscimento. Lo stereotipo del nomadismo, diffuso nell’opinione pubblica
e citato più volte nell’ambito legislativo tanto come allarme quanto come
problema da risolvere, ha dato l’ispirazione a che il requisito della territorialità
divenga l'elemento attraverso cui giustificare il loro mancato riconoscimento.
In particolare ricomprendere i rom nella categoria delle minoranze
vorrebbe dire per lo Stato italiano dover eliminare le politiche securitarie
rivolte a questo gruppo. La linea politica intrapresa dal legislatore italiano
volge l'attenzione sull’ appartenenza del soggetto alla comunità, piuttosto che
sulla necessità di attribuire e garantire diritti e riconoscimenti ai gruppi-
minoranze244. La Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati
nel 2001, sostenne che “l’unica vera politica nazionale si è avuta in campo
scolastico”, infatti negli anni Sessanta, il ministero della Pubblica Istruzione
stipulò una convenzione con l’Opera Nomadi e con l’Università di Padova per
creare le classi speciali “Lacio Drom” per bambini “zingari”, poi
definitivamente abolite negli anni Ottanta. Successivamente la circolare
207/1986245 ha ribadito la responsabilità pubblica della scuola nel favorire il
rispetto dell’obbligo scolastico da parte delle famiglie rom. La posizione dei
rom e dei sinti è fonte di diverse problematiche: dalla cittadinanza, l’accesso
ai diritti sociali e oggetto di tutela per discriminazioni ed emarginazione.

244
E. MARCHI, La famiglia Rom e problemi connessi all’incontro tra due ordinamenti, L’altro diritto,
Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità.
245 C. M. n. 207 del 16.7.1986: Scolarizzazione degli alunni zingari e nomadi nella scuola materna,

elementare e secondaria di I grado, “Come è noto la scolarizzazione degli alunni zingari e nomadi
costituisce un problema che, malgrado le numerose iniziative intraprese in passato, non può
dirsi ancora risolto”.

132
Alcuni tentativi di avanzare nella direzione del riconoscimento dei rom
e dei sinti sono stati intrapresi nel 2007 e sono giunti fino alla Conferenza
nazionale promossa dal Ministero della Solidarietà e dal Ministero
dell’Interno. Nel 2008 i prefetti di tre città italiane Milano, Napoli e Roma, in
accordo con i Commissari regionali per l'emergenza nomadi, facendo leva
sulla legge che istituisce il servizio nazionale di protezione civile, istituirono
dei “commissari governativi straordinari in relazione a una situazione di
allarme sociale creato dalla presenza di campi nomadi irregolari” e dal
conseguente “rischio per l'ordine pubblico interno”246. L’esperienza degli altri
Paesi europei ed extra-europei mostra il fallimento del riconoscimento e la
necessità di giungere al riconoscimento della minoranza dei rom e dei sinti ai
sensi dell’articolo 6 della Costituzione247 anche per meglio rimuovere gli
ostacoli che impediscono il rispetto e la partecipazione alla vita sociale,
economica e politica del Paese ai sensi dell’art. 3 Cost248. Se si ritiene necessaria
una modifica della legge 15 dicembre 1999, n. 482 recante "Norme in materia di
tutela delle minoranze linguistiche storiche", allo stesso modo queste devono
essere in grado di ricomprendere anche da ognuna delle altre minoranze
linguistiche tutelate. Occorre, inoltre, che la legge di tutela di rom e sinti,
apporti delle modifiche specificamente dedicate a rom o sinti e allo stesso
modo dovrebbero non collidere con le altre minoranze ed evitare che si
garantisca un trattamento differenziato e più favorevole a date minoranze
piuttosto che ad altre per evitare il ricrearsi di quelle prassi che li hanno portati
poi alla discriminazione. Per risolvere l’allarme e l’urgenza abitativa sono stati

246 T. VITALE, Rom e sinti in Italia: condizione sociale e linee di politica pubblica, Osservatorio di
politica internazionale, ottobre 2010, n.21.
247Art.6, Principi fondamentali, Costituzione: “La Repubblica tutela con apposite norme le

minoranze linguistiche”.
248 Art.3, Principi fondamentali, Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e

sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di
tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

133
costruiti i cosiddetti “campo nomadi” i quali più che un luogo di dimora
sembra essere, luogo di segregazione, come fosse “un ghetto in cui tenere
rinchiusi gli zingari in modo che possa essere impedito loro di nuocere249”.
Oggi la questione rom riempie le prime pagine dei quotidiani, sia per casi
i di cronaca che vedono i membri della comunità rom come autori di reati sia
per questioni di ordine pubblico delle quali costituiscono un esempio i recenti
sgomberi dei campi nomadi situati in varie città di Italia come quelli a Roma e
a Milano250. In realtà per riuscire a contrastare la mendicità minorile, i furti ed
i vari reati compiuti dai rom, bisognerebbe renderli partecipi della vita
quotidiana ed istruirli od insegnarli i modelli di comportamenti adottati in
Italia e per ottenere maggiori risultati in realtà i migliori alleati sono i rom e i
sinti stessi, integrati nelle società. Infatti la parte di loro che risulta essere
presente nella società ospitante da più tempo non ama questi comportamenti
tanto quanto sono odiati dai terzi e vengono condannati come azioni che
creano pregiudizi che poi ricadono sull’intera comunità, sono comportamenti
percepiti come segni di delinquenza e opportunismo. Per sfuggire da queste
realtà bisognerebbe essere in grado di creare un clima meno ostile.
Indubbiamente le azioni portate avanti da questi soggetti sono
condannate dal legislatore italiano e ritenute fastidiose dall’intera società, ma
non per questo o almeno non per tutti sono da considerarsi penalmente
rilevanti o connotati da pericolosità sociale251. A livello terminologico in l'Italia
si parla prevalentemente di rom e sinti, anche se i termini zingaro e nomade
persistono in alcune leggi regionali, ordinanze, atti ufficiali e sentenze; in altri
paesi, come il Regno Unito, la Svizzera, l'Irlanda si utilizza il termine
'camminanti' (travellers), nella maggior parte dei Paesi balcanici si parla di
rom, ashkhali ed egiziani, altri parlano semplicemente di rom (la maggior parte

249 Ibidem
250 T. VITALE, Rom e sinti in Italia: condizione sociale e linee di politica pubblica, Osservatorio di
politica internazionale, ottobre 2010, n.21.
251
M. CERMEL, Le minoranze etnico- linguistiche in Europa, tra stato nazionale e cittadinanza
democratica, CEDAM, Milano, 2009, nota n. 48, p. 147.

134
dei paesi). Decidere la parola è un po' decidere il metodo d'analisi [...] decidere
la parola è stabilire una frontiera." Nel caso dei rom, questa frontiera incide,
come si vedrà, sulla possibilità di accesso ai diritti, sulla costruzione dei rom
come gruppo etnico, sull'immagine che il gruppo ha di sé stesso. Come ha
sottolineato Gheorghe Nicolae, membro della Romani CRISS, nel corso del
"Convegno Internazione sulla Condizione Giuridica in Italia di Rom e Sinti"
tenutosi a Milano nel giugno del 2010, la questione della scelta terminologica
in relazione ai rom ha sempre prodotto, e produce tutt'ora, una serie di effetti
che si ripercuotano sui diritti delle singole persone e del gruppo stesso, ma
soprattutto, la terminologia, alla quale si ricorre, è legata anche agli interessi
che si perseguono.

3. Giustizia minorile e condizione dei minori rom in Italia: profili critici

La popolazione Rom in Italia raggiunge 120.000 persone, di cui 70.000


sono cittadini italiani ed i minori rom e sinti ne rappresentano più o meno il
50% del loro gruppo di appartenenza252, tutte queste risultano comunque
essere stime approssimative, poiché non è stato attuato ancora in Italia un vero
e proprio censimento253. Essi vivono in condizioni allarmanti e di marginalità,
sono inoltre sottoposti alla violazione e privazione dei diritti. È inevitabile
quindi che la giustizia si occupi di questi minori tramite interventi di
protezione speciali per situazioni di abbandono o con l’istaurarsi del processo
penale minorile nel caso di reati commessi da giovani tra i 14 e i 18 anni.
Innanzitutto bisogna premettere che la giustizia minorile giudica i

252
Questi dati sono rinvenuti da P. Morozzo Della Rocca nell’intervento tenuto al convegno
“Il caso zingari” organizzato a Roma nel 2007 dalla Comunità di S. Egidio, online
http://www.santegidio.org.
253 M. CERMEL, Le minoranze etnico- linguistiche in Europa, tra stato nazionale e cittadinanza

democratica, CEDAM, Milano, 2009, p. 148.

135
minori rom e sinti come qualsiasi altro minore sia nel settore civile sia nel
settore penale di conseguenza in sede penale ai minori rom che, tra i 14 anni e
i 18 anni compiono reati sul territorio italiano, sono applicabili integralmente
i principi e gli strumenti contenuti nel codice di procedura penale minorile che
risale al 1988. Il processo penale minorile ruota intorno alla figura del minore
e alle sue esigenze educative che non devono mai essere pregiudicate, ma anzi
devono essere sempre valutate durante il procedimento e in applicazione della
pena. Dagli anni '90 in poi il fenomeno dei furti nelle abitazioni e degli scippi
da parte dei minori rom era diventato allarmante: dati statistici che
concernono il numero dei minori presi in carico dagli uffici di servizio sociale
e successivamente collocati in comunità risulta essersi peraltro diminuito
costantemente delle segnalazioni di reato e delle prese in carico dei minori
nomadi dal 2004 in poi. La risposta dell'apparato giudiziario è stata ed è
comunque prevalentemente di tipo repressivo anche perché realisticamente
poche alternative vi sono alla misura cautelare della custodia in carcere.
Paradossalmente anche per le imputate minorenni incinte o con bimbi
piccoli si ritiene compatibile il regime carcerario nonostante la previsione di
cui all'art.275254 n.4 c.p.p. che la esclude nelle ipotesi citate, salvo che
sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.
Le estreme condizioni in cui gran parte di queste ragazze vivono nei
campi ma anche fuori, sottoposte a pesanti turni di lavoro se così si può
definire che espongono sé stesse e i figli a situazioni di pericolo e degrado,
funziona come ulteriore elemento discriminante. Agiscono poi a sfavore degli
imputati rom le difficoltà legate alle procedure di riconoscimento del minore

254Parte Prima, Libro quarto, Misure cautelari, Titolo I, Misure cautelari personali, Capo I,
Disposizioni generali, art.275 comma 4 c.p.p. dispone: “Quando imputati siano donna incinta
o madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la
madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, non può
essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze
cautelari di eccezionale rilevanza. Non può essere disposta la custodia cautelare in carcere,
salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputato sia persona
che ha superato l'età di settanta anni”.

136
per mancanza di documenti, la condizione frequente di pluri-imputato e di
pluri-condannati, le condizioni di vita precarie e prive di prospettiva. Le
risposte dell'esecutivo non possono prescindere dal contesto sociale in cui si
trova a lavorare, che è quello di accertare il reato e condannarne l'autore.
Inoltre il Tribunale per i minori interviene con il diritto civile anche nei
casi di minori infraquattordicenni che commettono reati e che non sono
punibili e in tutti quei casi che richiedono interventi di limitazione della
potestà genitoriale con riguardo a tutti i minori. Non è possibile né auspicabile
che tutti i bambini rom adibiti all'accattonaggio o che accompagnino gli adulti
che compiono tale attività siano allontanati dalle loro famiglie; bisogna
piuttosto verificare caso per caso quali siano le condizioni di vita e quindi
adottare i provvedimenti più opportuni al caso in esame.
Per quanto riguarda le attività economiche in cui sono attivi i Rom ed i
Sinti sono estremamente diversificate. Esistono alcune attività ancestrali e
tradizionali che vengono tuttora esercitate: il lavoro dei metalli, il commercio
dei cavalli, i mestieri dello spettacolo e del circo, i lavori agricoli spesso
stagionali. Tra i Rom provenienti dai Balcani invece i mestieri più diffusi sono:
la raccolta e la lavorazione del rame; il riciclo di oggetti trovati nelle discariche
o nei cassonetti; la raccolta di altri materiali come oggetti per la casa. Con
evidenti e scarse forme di reddito, molti di questi Rom vivono di questi ed altri
espedienti per il sostentamento, strutturando uno stile di vita ai margini della
legalità e del degrado. Nel tempo anche dal punto divisa dell’occupazione
lavorativa vi è stata una involuzione: sfruttamento della prostituzione, traffico
di armi e droga. L'immagine negativa è avvalorata dall'accattonaggio, ancor
di più se compiuto da minori o da donne molto anziane. Il problema non
sembra avere fine se non si indicano le alternative per ottenere un
sostentamento.
Vi sono due categorie di reati che sono generalmente attribuiti ai rom: i
reati commessi nei confronti dei minori e quindi dai casi più estremi di
riduzione in schiavitù, all’uso dei minori nell’accattonaggio, ai maltrattamenti

137
o all’inadempimento dell’obbligo scolastico; ed i reati contro il patrimonio, in
particolare il furto che rappresentano tra l’altro i titoli di reato più
frequentemente contestati a soggetti di etnia rom o sinti. Nella cultura rom “il
furto ai danni dei sedentari non costituisce, secondo i loro valori e le loro
norme, un reato: i gadjé sono ricchi, i rom poveri; e se i rom rubano” qualcosa
ai primi è soltanto per poter vivere, senza che questo renda poveri i gadjé”255.
Il furto per i rom non è un disvalore, a tal punto che se compiuto da uno degli
appartenenti può essere fatto rientrare nella categoria dei cd. “reati
culturalmente motivati”256. Il criterio normativo di commisurazione può
essere influenzato dalle condizioni di vita familiare e sociale del reo; vivere in
un contesto dove il furto non viene considerato reato, comporta per il reo una
maggiore possibilità di porlo in essere proprio perché per lui non è tale e di
conseguenza sarà necessario giudicarlo con un minor grado di colpevolezza257.

4. Il reato di accattonaggio

L’accattonaggio è la fattispecie di reato più frequentemente condannato


ai Rom. Infatti, in Italia come in altri paesi europei la mendicità è severamente
sanzionata per la pericolosità sociale che ne consegue258. Il termine
accattonaggio deriva dal termine accattare, che ora significa “mendicare”, ma
significò anche “chiedere” o “prendere”259. Prima di analizzare il reato di
accattonaggio è importante fare una breve sintesi delle condizioni sociali per

255 R. MANCINI, I rom tra cultura e devianza, in Dir. pen. proc., 1998.
256 F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati – Il diritto penale nelle società
multiculturali, Milano, 2010.
257 Analysis of Roma/Sinti situation in Italy, Redpure, I.G.E.S, Gorizia, dicembre, 2011.
258 M. CERMEL, Le minoranze etnico- linguistiche in Europa, tra stato nazionale e cittadinanza

democratica, CEDAM, Milano, 2009, p. 147.


259 Enciclopedia Treccani

138
meglio spiegarne il contenuto. È fondamentale sottolineare che le comunità
Rom vivono in strutture in cui sono pressoché segregati, a ciò si aggiunge che
spesso i campi in cui abitano sono situati spesso in zone malsane e, almeno in
Italia, a volte mancano anche i servizi primari, a cominciare dall’acqua e dalla
luce. Inoltre questi insediamenti hanno quasi sempre carattere temporaneo in
quanto i comuni nella realtà scalpitano poi per smantellarli perché
rappresentano delle zone lasciate a sé e spesso degradanti.
In questo contesto per i nuovi Rom non c’è certamente alcuna
possibilità, pur volendo, di condurre una vita civile magari mandando a
scuola i propri figli, o per cercare un lavoro stabile. Per tutto ciò che è stato
detto fin qui, è evidente come l’accattonaggio, il furto e altre attività illegali,
per un certo numero di loro, rappresentano la sola possibilità per il
sostentamento giornaliero e per riuscire ad andare avanti fin che ci si riesce,
infatti è da notare che in Italia appena il 3% dei Rom rinchiusi nei campi riesce
a superare la soglia dei sessanta anni260. Sul tema dell’occupazione lavorativa
esistono solamente due indagini su scala nazionale, e danno risultati tra loro
contraddittori261. La prima è stata elaborata nel 2007 in sei città italiane quali:
Milano, Torino, Genova, Pavia, Reggio Emilia e Roma. I risultati da questa
provenienti sono che il 61% dei Rom intervistati svolge un’attività lavorativa,
e solo il 2% di essi vive di accattonaggio. La seconda ricerca è del 2011

260 L. DI NOIA, La condizione dei Rom in Italia. Società e trasformazioni sociali 4, La rinnovata
persecuzione dei Rom, Collana diretta da P. BASSO e F. PEROCCO, Edizioni Ca’Foscari- Digital
Publishing, 2016, p. 60 ss.
261 “La prima è stata realizzata da Soleterre (2008): si tratta di un’indagine compiuta nel 2007

su un campione rappresentativo di 286 persone in età da lavoro e appartenenti a nuclei


familiari (178 abitanti in campi sosta attrezzati; 48 su terreni privati; 40 in insediamenti
«irregolari»; 20 in alloggi convenzionati). La seconda è stata realizzata, tra il settembre e il
novembre 2011, dalla Fondazione Casa della Carità Angelo Abriani/Consorzio Aaster (2012):
si tratta di un’indagine compiuta in dieci regioni italiane (Lazio, Lombardia, Piemonte, Emilia-
Romagna, Calabria, Toscana, Veneto, Campania, Abruzzo e Sicilia) su un campione volontario
di 1.600 persone, al 50% di nazionalità italiana, per circa 2/3 abitanti nei campi, per circa 1/3
in alloggi convenzionali. Per la scelta del campione sono stati combinati il campionamento per
quote (quota sampling) con quello «a valanga».” L. DI NOIA, La condizione dei Rom in Italia.
Società e trasformazioni sociali 4, La rinnovata persecuzione dei Rom, Collana diretta da P. BASSO
e F. PEROCCO, Edizioni Ca’Foscari- Digital Publishing, 2016, cit. p. 68 nota n. 1.

139
compiuta in dieci regioni italiane e da essa si avvince che solo il 34,5% degli
intervistati ha una attività lavorativa, il 27,2% è disoccupato in cerca di lavoro,
il 37,8% è inattivo. Dal confronto dei dati di queste due ricerche emerge un
altissimo tasso di disoccupazione e di inattività di gran lunga superiore a
quello medio della popolazione italiana. Inoltre una ricerca improntata su 811
donne dimostra come le punte di più alte inattività, che superano addirittura
il 60%, sono le donne sotto la soglia dei venti anni quindi parte di loro saranno
minorenni, sia di nazionalità italiana sia straniera; tuttavia una buona
percentuale di queste donne sarebbe disponibile a lavorare. In particolare
come si può intuire tra queste donne, mantengono una posizione ancor più
vacillante la «donna rom straniera, senza titolo di studio, che abita in un
insediamento regolare o abusivo di una grande area urbana262».
Nonostante non ci siano dati certi sulla disoccupazione delle
popolazioni Rom, è senza dubbio che vivano in una condizione di marginalità
sociale e lavorativa. La loro segregazione già considerando le loro attività
lavorative abituali, oggi in declino, spingono loro a compiere attività devianti
prima fra tutti la pratica dell’accattonaggio263.
Nella prospettiva di voler fronteggiare tale problematiche ed in
particolare per fornire una maggiore tutela ai minori di età appartenenti alla
comunità viene introdotto il nuovo art. 600-octies c.p. rubricato “Impiego di
minori nell’accattonaggio”. Viene collocato tra le fattispecie delittuose dei
Delitti contro la personalità individuale sezione I, capo III, titolo XII, libro II del
codice penale. La norma sopra detta rientra tra le novità introdotte dalla Legge
15 luglio 2009, n. 94 facente parte del cosiddetto pacchetto sicurezza,
pubblicata in Gazzetta Ufficiale 24 luglio 2009, n. 170. Il provvedimento
contiene altre disposizioni come: limiti ai matrimoni di interesse, nel senso di
essere conclusi per acquisire la cittadinanza italiana, in questo caso non sarà
più sufficiente l’attuazione del matrimonio soltanto ma occorrerà che il

262 Fondazione Casa della Carità Angelo Abriani o Fondazione Abriani 2012, p. 51 ss.
263
Ibidem

140
coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano risieda legalmente da almeno
due anni nel territorio della Repubblica oppure tre anni se la residenza è invece
all'estero; oppure contiene anche misure in materia di confisca dei beni di
provenienza illecita. La risposta del diritto penale tramite la creazione di un
articolo ad hoc è dovuto alla necessità di risolvere il problema
dell’accattonaggio che, anche se ha le sue origini lontane nel tempo, oggi è
connotato da un forte disvalore sentito molto sul piano sociale. A livello
europeo il compimento dell’accattonaggio rientra oggi, nella nozione di “tratta
degli esseri umani” che è più ampia rispetto alla Decisione Quadro del 2002.
In particolare la Direttiva afferma che la tratta “comprende, come
minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di
sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, compreso l’accattonaggio, la
schiavitù o pratiche simili alla schiavitù, la servitù, lo sfruttamento di attività
illecite o il prelievo di organi” delineate in base all’art. 2, par. 3, della Direttiva
36/2011264. Inoltre la costrizione all’accattonaggio è anche considerata
espressamente dalla l. 228/2003, la quale, ha rielaborato il dettato normativo
degli artt. 600 e 601 c.p.265. Inoltre il d.lgs. 24/2014 muta il volto della seconda
ipotesi delittuosa descritta dalla norma, riformulando il fine che deve essere
perseguito dall’agente affinché la sua condotta di reclutamento, possa
assumere rilievo penale ai sensi dell’art. 601 c.p. e tra le ipotesi di attività di
costringimento vi è anche quella dell’accattonaggio266. Sempre più diffuso,

264Definizione piuttosto analoga a quella contenuta nel protocollo sulla tratta della
Convenzione ONU del 2000.
265 Art. 601 c.p.: “È punito con la reclusione da otto a venti anni chiunque recluta, introduce

nel territorio dello Stato, trasferisce anche al di fuori di esso, trasporta, cede l'autorità sulla
persona, ospita una o più persone che si trovano nelle condizioni di cui all'articolo 60 0,
ovvero, realizza le stesse condotte su una o più persone, mediante inganno, violenza,
minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di
inferiorità fisica, psichica o di necessità, o mediante promessa o dazione di dena ro o di altri
vantaggi alla persona che su di essa ha autorità, al fine di indurle o costringerle a
prestazioni lavorative, sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque al compimento di
attività illecite che ne comportano lo sfruttamento o a sottoporsi al prelievo di organi. Alla
stessa pena soggiace chiunque, anche al di fuori delle modalità di cui al primo comma,
realizza le condotte ivi previste nei confronti di persona minore di età".
266“Il 13 marzo scorso è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il d. lgs. 4 marzo 2014, n.

24, intitolato "Attuazione della direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e alla repressione

141
infatti, è lo sfruttamento di minori, per lo più stranieri. Infatti il reato di
accattonaggio si sviluppa attraverso l’impiego di minori nella richiesta di
elemosina per le strade in condizioni spesso anche molto pericolose. In
particolare il disegno di legge n. 2245 del 2016 che affronta le “emergenze
ancora presenti nelle nostre città quali il fenomeno della prostituzione,
dell'accattonaggio, il rovistaggio dei rifiuti, il commercio abusivo, il contrasto
alla contraffazione” all'articolo 4 interviene sul tema dell'accattonaggio.”
Il codice penale punisce solo chi impieghi soggetti minori ovvero non
imputabili nell'accattonaggio. Con la disposizione in questione si intende
punire la condotta di chiunque organizzi l'altrui condotta di accattonaggio, se
ne avvalga o comunque la favorisca a fini di profitto, trattandosi di condotta
carica di disvalore penale anche se compiuta avvalendosi di persone maggiori
di età e imputabili, ma in condizioni di difficoltà economica e soggezione
personale”. Pare opportuno prendere in considerazione la formulazione
dell’art. 600- octies c.p.:
“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque si avvale per
mendicare di una persona minore degli anni quattordici o, comunque, non
imputabile, ovvero permette che tale persona, ove sottoposta alla sua autorità
o affidata alla sua custodia o vigilanza, mendichi, o che altri se ne avvalga per
mendicare, è punito con la reclusione fino a tre anni.”
A questo sono state apportate tali modifiche alla disciplina dell'articolo:
a) dopo il primo comma è aggiunto il seguente: «Chiunque organizzi l'altrui
accattonaggio, se ne avvalga o comunque lo favorisca a fini di profitto, è

della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime, che sostituisce la decisione quadro
2002/629/GAI". Si tratta di una riforma che ha la finalità di rafforzare la protezione
assicurata dal nostro ordinamento alle persone vulnerabili, quali "i minori, i minori non
accompagnati, gli anziani, i disabili, le donne, in particolare se in stato di gravidanza, i
genitori singoli con figli minori, le persone con disturbi psichici, le persone che hanno
subìto torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica, sessuale o di genere"
(art. 1). Essa, tra le altre cose, introduce significative modifiche al codice penale e al codice
di procedura penale.”, M. MONTANARI, L’attuazione italiana della direttiva 2011/36/UE: una
nuova mini-riforma dei delitti di riduzione in schiavitù e di tratta di persone. D.lgs. 4 marzo 2014,
n. 24, in Diritto penale contemporaneo

142
punito con la reclusione da uno a tre anni»;
b) la rubrica è sostituita dalla seguente: «Impiego di minori nell'accattonaggio.
Organizzazione dell'accattonaggio»267.

Il legislatore italiano ha deciso di contrastare questo fenomeno tramite


l’inasprimento della reazione penale nei confronti degli sfruttatori. La nuova
collocazione codicistica della fattispecie è dovuta alla volontà di contrastare
non solo un fenomeno che mette a repentaglio la pubblica tranquillità e il
decoro ma, secondo un orientamento che vede al centro della tutela la figura
del soggetto minore, in particolare il diritto del fanciullo268. La fattispecie
dell’accattonaggio, che porta con sé diverse implicazioni prima fra tutte la
spendita della giornata in strada, senza alcun tipo di protezione, certamente
influenza la personalità del minore anche se non è percepita come rischiosa e
tantomeno come un reato dallo stesso. Inoltre il rischio è quello di deviare il
minore dalle attività che normalmente ne orientano lo sviluppo, al contrario
viene esposto peraltro a situazioni inadeguati alla minore età.
L’intervento legislativo implica lo spostamento della fattispecie
dall’originario fatto tipico contravvenzionale tramite la modifica
sanzionatoria, all’ambito dei delitti. Inoltre il legislatore italiano è intervenuto
a modificare anche se solo parzialmente la struttura del reato. La condotta
delittuosa richiesta rimane sostanzialmente quella dell’abrogato art. 671 c.p.,
prevedendo quattro distinte tipologie di comportamento alternative269:

267
Senato della Repubblica, XVII Legislatura, Fascicolo Iter DDL S. 2245, Disposizioni in materia
di prevenzione e di lotta al degrado urbano, nonché per la sicurezza metropolitana, 20/02/2017,
http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/FascicoloSchedeDDL/ebook/46526.pdf, p. 5 ss.
268 M. M. SCOLETTA, Sistema penale e sicurezza pubblica: le riforme del 2009: L. 15 luglio 2009, n. 94

e d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, conv., con modif., dalla L. 23 aprile 2009, n. 38, Nuovo delitto di impiego
di minori nell’accattonaggio, Ipsoa, Milano, 2009, p. 123 ss.
269
Sull’abrogata fattispecie dell’art. 671 c.p., di cui la nuova norma ne riproduce
sostanzialmente la struttura, si veda A. COSEDDU, voce Mendicità, in Dig. disc. pen., VII, Torino,
1993, 604 ss.; S. PANAGIA, voce Mendicità (dir. pen.), in Enc. dir., XXVI, Milano, 1976, 90 ss.; G.
SABATINI, Le contravvenzioni nel codice penale vigente, Milano, 1961.

143
- l’avvalersi di un minore per mendicare, che ricomprende sia l’induzione
del minore alla richiesta dell’elemosina, sia il praticare l’attività
dell’elemosina, insieme o comunque in presenza del minore in modo
da generare maggior pietà nei terzi;
- l’organizzare l’altrui accattonaggio;
- il permettere che il minore mendichi;
- il consentire che altri sfruttino il minore per mendicare

Queste ultime due condotte possono essere ricomprese nella fattispecie


penale quando vengano messe in atto sia in forma commissiva, espressamente
autorizzandone l’accattonaggio, sia in forma omissiva, non impedendo che il
minore o il non imputabile mendichi270. In particolare nel consentire che altri
si avvalgano del minore per mendicare si può realizzare una fattispecie
plurisoggettiva propria, perciò risulteranno condannati tanto il terzo che ha
sfruttato il minore quanto il soggetto che ne sia garante e che
consequenzialmente lo permetta271.
Nella nuova fattispecie di reato i soggetti passivi del reato sono rimasti
invariati rispetto all’abrogata fattispecie precedente. Questi infatti sono
individuati nella “persona minore degli anni quattordici o, comunque, non
imputabile”, cioè incapace di intendere e di volere ai sensi dell’art. 85 c.p.272
L’impiego di minori ultraquattordicenni è considerato ancora oggi un fatto
penalmente irrilevante, a meno che non si rappresenti nei loro confronti una
condotta tipica differente, come nel caso di maltrattamenti (art. 572 c.p.273) o di

270 M. M. SCOLETTA, Sistema penale e sicurezza pubblica: le riforme del 2009: L. 15 luglio 2009, n. 94
e d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, conv., con modif., dalla L. 23 aprile 2009, n. 38, Nuovo delitto di impiego
di minori nell’accattonaggio, Ipsoa, Milano, 2009, p. 123 ss.
271 S. PANAGIA, voce Mendicità, cit., 103.
272 Art. 85 c.p.: Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se,

al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di


intendere e di volere.
273Art. 572 c.p.: Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una

persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua
autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per

144
riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.274)275.
Viene modificata invece la sfera dei soggetti attivi del reato. Infatti
l’articolo abrogato configurava un reato per cui in ciascuna delle tre ipotesi
alternative comportamentali, era caratterizzata da un particolare rapporto tra
l’autore del fatto e il minore impiegato nell’accattonaggio, invero si richiedeva
che il minore fosse sottoposto all’autorità o alla custodia o vigilanza del
soggetto attivo cosiddetto soprastante, mentre la Cassazione ha sottolineato
come tale rapporto nella nuova disciplina non debba essere più duraturo, ma
possa essere anche occasionale276. La formulazione normativa del nuovo
articolo continua a richiedere la sussistenza di un rapporto come sopradetto,
in particolare nella seconda e nella terza ipotesi comportamentali, delineano
in sostanza due particolari fattispecie omissive improprie qualificate dalla
figura dell’agente soprastante. Inoltre è stato esteso nella sezione Dei delitti
contro la personalità individuale (artt. 600-604 c.p.) un dettato legislativo che
prima era previsto solo dall’art. 602-quater. Oggi in caso di commissione di uno
dei delitti sopradetti in danno di minorenne, il colpevole non potrà invocare a
propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa277. Ad oggi inoltre è
prevista l'eccezione dell’ignoranza solo se inevitabile; mentre prima
l’inescusabilità dell’ignoranza dell’età della persona offesa riguardava dunque

l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se
dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se
ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte,
la reclusione da dodici a venti anni.
274 Art. 600 c.p.: Chiunque riduce una persona in schiavitù, o in una condizione analoga alla

schiavitù, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni.


275 Fino all’abrogazione dell’art. 670 c.p. avvenuta tramite la l. 25 giugno 1999, n. 205, il minore

ultraquattordicenne poteva essere sanzionato a tale titolo; cfr. C. RUGA RIVA, I lavavetri, la
donna col burqa e il sindaco. Prove atecniche di diritto penale municipale, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2008, 133 ss.
276 È sufficiente che il rapporto di custodia o di vigilanza sia anche solo occasionale: cfr. Cass.

27 maggio 1969, Morelli, in CED Cass., n. 112286.


277 Vedi Le modifiche apportate al codice penale, il Capo II della legge 172/2012 detta le

disposizioni di adeguamento dell’ordinamento interno, in Senato della Repubblica Camera


dei deputati XVII legislatura – disegni di legge e relazioni - documenti - DOC. CX, N. l,
http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/documentiparlamentari/indiceetesti/110/001_
RS/00000003.pdf, p. 33 ss.

145
solo alcuni delitti commessi in danno di minore degli anni quattordici. Con la
stessa legge 172/2012 viene previsto l’ampliamento dei termini di prescrizione
in particolare “la legge prevede il raddoppio dei termini necessari a
prescrivere il reato per le seguenti fattispecie”, così elencando è ricompreso
anche l’art. 600- octies c.p. Rappresenta invero un reato comune la condotta
commissiva di impiego, perché realizzabile da chiunque, anche senza la
necessità di un rapporto di autorità, che comunque si avvalga di soggetti
minori per mendicare. Il reato descrive una fattispecie di pericolo astratto al
bene giuridico del della personalità del minore.
In ogni caso non incide il pieno consenso del soggetto passivo od il suo
buon inserimento nel contesto educativo o la mancanza di condizionamenti.
Invero secondo l’orientamento giurisprudenziale che ha influenzato l’articolo
precedente abrogato e che tuttora ha inciso sulla formazione dell’art. 600- octies
c.p., il minore tutelato dalla norma debba almeno essere in grado di recepire,
anche se solamente in maniera parziale, gli stimoli negativi che possono
derivare dall’attività posta in essere, anche se essendo minorenne non sempre
è in grado di percepirli come tali278. Tuttavia se si prende in considerazione la
rilevanza del pregiudizio che può essere arrecato alla personalità del minore
compiendo od accompagnando a compiere la richiesta di elemosina, allora
non sarà rilevante la mendicità realizzata con la presenza di un neonato,
questo poiché il neonato non può essere pregiudicato nello sviluppo della sua
personalità. Se invero si parte dalla considerazione che la fattispecie è posta a
garanzia del decoro civile o dell’ordine pubblico o a tutela dell’inciviltà o di
igiene, questo scopo poteva giustificare l’abrogato art. 671 c.p. non lo stesso si
può affermare per la nuova normativa: infatti risulta un limite alla tipicità
penale. In particolare con la nuova normativa non sarà più punibile la
condotta colposa del soprastante che consente al minore di mendicare o che
altri se ne avvalga per mendicare. Affinché si configuri la fattispecie di reato è

278 Ibidem

146
sufficiente anche un solo episodio di accattonaggio del minore che ponga in
essere gli elementi strutturalmente inquadrabile reato. Inoltre, sebbene i fatti
di accattonaggio del minore dovessero essere reiterati nel tempo non si avrà
una pluralità di reati anche se ipoteticamente riunibili dal vincolo della
continuazione; piuttosto si realizzerà un unico reato che configura la
medesima offesa al bene giuridico configuratasi in più occasioni con condotte
analoghe, eventualmente si caratterizzerà nell’ambito abituale279. La nuova
fattispecie rende teoricamente ammissibile la configurabilità del tentativo
quando, ad esempio, vengano accertate attività dirette all’impiego del minore
nell’accattonaggio.
Il legislatore italiano ha scelto la linea dura nei confronti di tale
fattispecie, lo si può notare nel forte inasprimento del trattamento
sanzionatorio. Infatti la normativa precedente configurava la sanzione
dell’arresto da un minimo di sei mesi fino ad un anno, oggi l’art. 600- octies c.p.
presuppone la reclusione fino a tre anni. Inoltre nel nuovo articolo non viene
ribadita la possibile applicazione della sanzione accessoria della sospensione
della potestà genitoriale, precedentemente prevista dal comma 2 dell’art. 671
c.p. di un periodo corrispondente alla durata della pena. Tuttavia, sebbene la
mancata riaffermazione della possibile sospensione della responsabilità
genitoriale lasci pensare ad una normativa più docile l’art. 34, comma 2, c.p.280
prevede comunque la sospensione della potestà dei genitori, tra l’altro per un
periodo pari al doppio della pena inflitta quindi con un aggravio della

279
Ibidem
280 Art. 34 c.p.: La legge determina i casi nei quali la condanna importa la decadenza della
potestà dei genitori. La condanna per delitti commessi con abuso della potestà dei genitori
importa la sospensione dell’esercizio di essa per un periodo di tempo pari al doppio della
pena inflitta. La decadenza della potestà dei genitori importa anche la privazione di ogni
diritto che al genitore spetti sui beni del figlio in forza della potestà di cui al titolo IX del libro
I del codice civile. La sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori importa anche
l’incapacità di esercitare, durante la sospensione, qualsiasi diritto che al genitore spetti sui
beni del figlio in base alle norme del titolo IX del libro I del codice civile. Nelle ipotesi previste
dai commi precedenti, quando sia concessa la sospensione condizionale della pena, gli atti del
procedimento vengono trasmessi al tribunale dei minorenni, che assume i provvedimenti più
opportuni nell’interesse dei minori.

147
possibile sanzione da infliggere rispetto a quella dell’abrogato art. 671 c.p.,
inoltre può essere applicata nei casi di “condanna per delitti commessi con
abuso della potestà dei genitori” come il reato di accattonaggio può essere
definito. In realtà quando si fa riferimento alla condotta omissiva, quindi
quando si permette al minore di mendicare, non viene rappresentato il
requisito dell’abuso della potestà e allora, almeno in questa ipotesi, la pena
accessoria può non essere applicata. In questo caso si può allora ritenere che il
precedente art. 671 c.p. seguisse una linea maggiormente dura dal punto di
vista sanzionatorio, poiché anche in questo caso sarebbe potuta essere
prevista, ove vi fossero i requisiti richiesti, la sospensione della potestà
genitoriale281. Inoltre, ex art. 98, comma 2, c.p.282, affinché possa essere
applicata la pena accessoria che prevede la sospensione della potestà
genitoriale è necessaria che la pena detentiva inflitta sia superiore a cinque
anni: non potrà quindi essere applicata tutte le volte in cui il genitore che sia
anche l’autore del reato sia un soggetto di minore età, e nel contesto socio-
culturale cui si fa riferimento in questa trattazione non è un’ipotesi così lontana
dalla realtà. Inoltre l’art. 602 c.p. nel prevedere “per i reati di cui agli articoli
583- bis, 600, 601, 602, 609- bis, 609- quater, 609- quinquies e 609- octies comporta,
qualora i fatti previsti dai citati articoli siano commessi dal genitore o dal
tutore” tra le altre sanzioni la decadenza dall’esercizio della potestà del
genitore non ricomprende l’art. 600- octies c.p. Altresì ex art. 31 c.p., è prevista
la possibile applicazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea
dal proprio ufficio anche in capo al tutore e sempre se è stato condannato per

281Rivista scientifica di informazione giuridica Mondodiritto, Reg. Stampa n. 14/2013, Cron.


n. 157/2013 Tribunale di Pescara.
282 Art. 98. c.p.: È imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i

quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d’intendere e di volere; ma la


pena è diminuita. Quando la pena detentiva inflitta è inferiore a cinque anni, o si tratta di pena
pecuniaria, alla condanna non conseguono pene accessorie. Se si tratta di pena più grave, la
condanna importa soltanto l’interdizione dai pubblici uffici per una durata non superiore a
cinque anni, e, nei casi stabiliti dalla legge, la sospensione dall’esercizio della potestà dei
genitori o dell’autorità maritale.

148
il delitto de quo.
Se si fa riferimento al testo legislativo utilizzato nella nuova fattispecie
delittuosa si nota come con la clausola di sussidiarietà utilizzata in apertura
dell’articolo con “Salvo che il fatto costituisca più grave reato” che peraltro
non compariva nell’abrogato art. 671 c.p., ha lo scopo di sottolineare la
“prevalenza” della fattispecie più grave che può essere eventualmente
concorrente al medesimo fatto concreto. In rapporto con la fattispecie di
riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù ex art. 600 c.p. si noti come
l’art. 600- octies c.p. si trova nella stessa sezione e nello stesso capo poiché
entrambe inseguono lo scopo di tutelare la personalità individuale ed il suo
sviluppo. In particolare l’art. 600- octies c.p. sembra essere sussidiario rispetto
alle ipotesi indicate nell’art. 600 c.p., poiché interviene quando i
comportamenti attuati non rientrano nelle ipotesi indicate dal precedente
articolo, il quale nel primo comma fa riferimento ai casi di maggiorenni non
imputabili e solo nel terzo si riferisce al caso del minorenne. In particolare si
noti lo stringente rapporto tra le due fattispecie di reato sopra citate, infatti
l’accattonaggio è espressamente richiamato dall’art. 600 c.p. al primo comma:
“(…) chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione
continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero
all’accattonaggio è punito con la reclusione da otto a venti anni (…)”; come si
nota dal dettato legislativo è previsto ulteriormente la costrizione al comma
sopra indicato, nonché il secondo comma prevede la riduzione o il
mantenimento nello stato di soggezione che “ha luogo quando la condotta è
attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o
approfittamento di una situazione di vulnerabilità283, di inferiorità fisica o
psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa (…) di altri
vantaggi a chi ha autorità sulla persona”284.

283Le parole «di vulnerabilità», sono state inserite ex art.2, c. 1, lett. a), n.2), d.lgs. 24/2014 cit.
284 Per la linea distintiva tra riduzione in schiavitù e maltrattamenti vedi anche, Cass. 17
settembre 2008, n. 44516, in Guida dir., n. 8, 2009, 67, con nota di V. SANTORO, Abitualità degli
atti lesivi e dolo generico rappresentano il discrimine tre le fattispecie, vedi anche M.C. BARBIERI,

149
Per inciso dunque, l’impiego del minore o del non imputabile
nell’accattonaggio può integrare comunque la fattispecie di cui all’art. 600 c.p.,
per la quale in più, si dovrà verificare la configurazione degli ulteriori
elementi. Il rapporto con la fattispecie di maltrattamenti ex art. 572 c.p.: la
disciplina del concorso tra le due figure ha conosciuto un’interessante
evoluzione giurisprudenziale nel corso del tempo, parallela alla sempre
maggiore rilevanza attribuita alla tutela specifica della personalità del
soggetto minore di età. La fattispecie contravvenzionale che era prevista
dall’art. 671 c.p. è stata abrogata poiché non ritenuta una risposta
sanzionatoria adeguata rispetto alla gravità del reato in termini sociali e non
in grado di tutelare correttamente i diritti fondamentali che venivano violati
dalla fattispecie dell’accattonaggio. È partendo da questo presupposto che si è
giunti alla conclusione di aggravare la risposta sanzionatoria del reato di
accattonaggio dei minori. È ammissibile allora ritenere che in passato per la
gravità della condotta commissiva del soggetto agente e sempre che non
questa non si riferisca ad un solo episodio, ma sia reiterata nel tempo, il
comportamento non poteva ricadere nell’art. 671 c.p., ma poteva essere anche
ricompresa nella fattispecie di cui all’art. 572 c.p. dei maltrattamenti contro
familiari o conviventi285. In realtà è possibile che il minore, nonostante compia
attività che da uno sguardo comune sembrano poter essere definite come

Moderne schiavitù e moderne libertà: quali i limiti di applicabilità dell'art. 600 c.p.?, in Riv. it. dir.
proc. pen., 2002, 1109 ss.
285
“L' art. 572 c.p. statuisce testualmente che il reato di maltrattamenti può essere commesso
da “chiunque”. Tuttavia, l’indeterminatezza dell’agente sussiste solo nell’ipotesi in cui il reato
venga commesso nei confronti di un infra quattordicenne, mentre, negli altri casi, il soggetto
attivo deve necessariamente essere una persona qualificata, ossia una persona legata alla
vittima da un vincolo familiare o da un rapporto basato sull’autorità della prima nei riguardi
della seconda o alla quale la stessa vittima sia stata affidata per una delle ragioni indicate dalla
norma. Con riferimento ai soggetti passivi del delitto de quo si erano posti particolari problemi
interpretativi con riferimento al significato da attribuire alla locuzione “persone della famiglia”.
La giurisprudenza ha ritenuto che ai fini della sussistenza del delitto di maltrattamenti in
famiglia non fosse necessario che i soggetti fossero legati da un vincolo di parentela o affinità,
ma era fondamentale che tra di esse vi fosse un legame di assistenza e\o protezione allo stato
attuale, anche in assenza di un rapporto di convivenza o di stabile coabitazione.” Ufficio
Indagini preliminari Termini Imerese, 24/10/2011, E. Salemi, Maltrattamenti contro familiari
e conviventi, AltalexPedia, voce agg. al 23/03/2015, Pubblicato il 07/04/2015.

150
degradanti e incivili, secondo la sua percezione non sono valutate né come
maltrattamenti né come fonte di sofferenza nel particolare contesto sociale e
culturale in cui si trovi inserito. Dunque in questi casi, nonostante gli altri
elementi potrebbero portare a configurare la fattispecie di reato ex art. 572 c.p.,
ad oggi è possibile ricomprenderli nell’art. 600- octies c.p. che sembra la
risposta penale più corretta. Quindi l’art. 572 c.p. potrebbe essere applicato
solo quando il comportamento dei familiari riservato nei confronti del minore
sia vessatorio o generi nella percezione del minore sfruttamento o
maltrattamento286. Inoltre l’art. 600- octies c.p. configura la punibilità del
tentativo di impiego dei minori nell’accattonaggio, mentre invece depenalizza
le condotte colpose previsti invece dall’articolo precedentemente abrogato. Le
conseguenze delle modifiche apportate dal legislatore sono quindi una nuova
incriminazione nel caso di tentativo e l’effetto dell’abolitio criminis per le
incriminazioni precedenti dovute a colpa.
In ogni caso le due fattispecie si pongono in rapporto di continuità
normativa, infatti per i fatti commessi prima del giorno di entrata in vigore
delle nuove disposizioni (8 agosto 2009) troverà applicazione la legge più
favorevole, secondo la disciplina della successione modificativa di cui ai
commi 3 e 4 dell’art. 2 c.p. Per continuare l’analisi del dettato normativo si può
notare che se si mette a paragone il limite edittale minimo delle due fattispecie,
l’abrogato art. 671 c.p. prevedeva l’arresto per un minimo di tre mesi, mentre
nel nuovo dettato non è alcun riferimento al minimo edittale che quindi è
fissato in quindici giorni di reclusione287, tale che nel caso di applicazione del
minimo sembrerebbe essere più favorevole la nuova normativa. Quanto detto
non trova conferma, poiché non va perso di vista che la normativa precedente
qualificava la sanzione come contravvenzione, mentre nella normativa più

286Ibidem
287
Art. 23 comma 1 c.p.: La pena della reclusione si estende da quindici giorni a ventiquattro
anni, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con
l’isolamento notturno.

151
recente la fattispecie di reato è configurato come delitto288. La Suprema Corte
risolve, con la sentenza 22 giugno 2010, n. 23869 una questione insorta
riguardo l'interpretazione delle modifiche normative a seguito della
promulgazione della L. 15 luglio 2009, n. 94 in tema di reato di accattonaggio.
Il giudice di merito aveva fornito un'interpretazione parziale ed impropria
dell'art. 3 della ricordata legge, rilevando solo l'abrogazione dell'art. 671 c.p. e
concludendo per l'assoluzione dell'imputata con la formula “perché il fatto non
è più previsto dalla legge come reato”.
In particolare l’art. 671 del codice penale, contenuto nel libro III delle
contravvenzioni, Titolo I Delle contravvenzioni di polizia, Capo I Delle
contravvenzioni concernenti la polizia di sicurezza, Sezione I Delle
contravvenzioni concernenti l'ordine pubblico e la tranquillità pubblica, Delle
contravvenzioni concernenti la vigilanza sui mestieri girovaghi e la
prevenzione dell'accattonaggio, rubricato “Impiego di minori nell'accattonaggio”
recitava così:
"Chiunque si vale, per mendicare, di una persona minore degli anni
quattordici o, comunque, non imputabile, la quale sia sottoposta alla sua
autorità o affidata alla sua custodia o vigilanza, ovvero permette che tale
persona mendichi, o che altri se ne valga per mendicare, è punito con l'arresto
da tre mesi a un anno. Qualora il fatto sia commesso dal genitore o dal tutore,
la condanna importa la sospensione dall'esercizio della patria potestà o
dall'ufficio di tutore."

La pronunziata sentenza di proscioglimento ex art. 129289 c.p.p. conseguiva

288Ibidem
289
Art. 129 c.p.p.: “In ogni stato e grado del processo, il giudice, il quale riconosce che il fatto
non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è
previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di
procedibilità, lo dichiara di ufficio con sentenza Quando ricorre una causa di estinzione del
reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha
commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice
pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta”.

152
all’erroneità del giudizio. Va, infatti, notato, che la sentenza, non ha affatto
considerato che l’abrogazione dell’art. 671 c.p., veniva contestualmente
compensata dall'introduzione dell'art. 600 octies c.p. La nuova norma utilizza
la medesima indicazione e configurazione dell'ipotesi di reato abrogata e
cioè “Impiego di minori nell'accattonaggio”, allora la fattispecie sopradetta
costituisce chiaramente un esempio di sostituzione della norma pregressa e
conseguenzialmente è necessariamente applicata la successione delle leggi nel
tempo di cui all’art. 2290 c.p. Inoltre l’abrogazione dei divieti che erano già
tipizzati non può modificare l'antigiuridicità delle condotte pregresse, proprio
partendo dalla regola della retroattività degli effetti derivanti dall'abolitio
criminis. Ovviamente osservando la nuova dizione normativa salta subito agli
occhi l’inasprimento della disciplina che in termini più rigorosi ha configurato
la medesima materia. Conferme in tal senso provengono dalla presenza e dalla
utilizzazione delle medesime condizioni di punibilità ad esempio l’autorità, la
custodia o la vigilanza, condizioni già previste nell’abrogato art. 671 c.p.
In secondo luogo anche la scelta di trasformare il reato
contravvenzionale in delitto implica una maggiore rilevanza penale attribuita
alle condotte che sono espressamente individuate nonché il riconoscimento di
un allarme sociale correlato alle stesse. L’inasprimento delle sanzioni, anche
se solamente nel massimo edittale, e sottolineando che nella specie di pena
inflitta l’arresto diviene poi reclusione, mostra nuovamente la forma di
continuità rispetto all’abrogato art. 671 c.p. La Corte opera, sostiene un
presunto ampliamento della gamma dei destinatari cui la disposizione si

290Art.2 c.p., Successione di leggi penali: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo
la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce
reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali.
Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena
pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena
pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le
posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo
che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile [c.p.p. 648] (…)”.

153
rivolgerebbe. Tuttavia l’esame comparato delle due norme non pare
confermare questa possibilità posto che i soggetti delle norme rimangono
coloro che esercitino l’autorità o la custodia o la vigilanza sul minore, così
come era previsto nell’art. 671 c.p. Inoltre non bisogna mal interpretare
l’espressione “che altri se ne avvalga per mendicare”, questa infatti si limita ad
individuare una condotta puramente omissiva, e cioè tollerare che un terzo
utilizzi il minore agli scopi di mendicità già descritti, ciò detto non allarga
l’ambito di operatività soggettiva del precetto291. È poi necessario ricordare un
caso riportato all’attenzione della Suprema Corte di Cassazione, Sezione I
Penale, nella Sentenza 3-22 giugno 2010, n. 23869 dove il problema come anche
in altre sentenze è stato la trasformazione del reato contravvenzionale in
delitto e dove le difese spesso hanno voluto percepire solo l’abrogazione
dell’articolo senza la contestuale creazione dell’art. 600- octies c.p.
Il Tribunale di Siena dichiarava non doversi procedere nei confronti di
A. B. in ordine al reato di cui all’art. 671 c.p. perché il fatto «non costituisce più
reato». Il fatto riguardava l’impiego della figlia minore, di età di cinque anni,
nell’accattonaggio. A ragione della decisione il Tribunale osservava che l’art.
671 c.p. era stata abrogato dall’art. 3 comma 19 del «nuovo decreto sicurezza del
2009», ma allo stesso tempo l’articolo suddetto era stato sostituito dall’art. 600-
octies del c.p. Per questo Proponeva appello il Pubblico ministero, chiedendo
l’annullamento della sentenza denunziando violazione di legge. Infatti la
legge 15 luglio 2009 n. 94 aveva trasformato la fattispecie in delitto, ma punisce
la medesima condotta dell’art. 671 c.p. con la reclusione, e solo formalmente
abrogando, la fattispecie contravvenzionale. Con ordinanza 7.1.2010 la Corte
d’appello di Firenze rilevava l’impugnazione come ricorso avverso sentenza
pronunziata ai sensi dell’art. 469 c.p.p.292, trasmetteva gli atti a questa Corte.

291
L. BIARELLA, Il processo penale minorile, Altalex, 16 luglio 2010, Nota di Carlo Alberto Zaina.
Cfr. eBook.
292 Art. 469 c.p.: Salvo quanto previsto dall’articolo 129 comma 2, se l’azione penale non

doveva essere iniziata o non deve essere proseguita ovvero se il reato è estinto e se per
accertarlo non è necessario procedere al dibattimento, il giudice, in camera di consiglio, sentiti

154
Dunque la sentenza in esame ha prosciolto in predibattimento
l’imputata perché il fatto «non è più previsto dalla legge come reato». La non
corrispondenza alla fattispecie concreta di una fattispecie astratta, perché mai
prevista o perché abrogata, è causa di proscioglimento nel merito e non è
riconducibile al novero delle pronunzie a contenuto processuale richiamate
dall’art. 129 comma 1, cui esclusivamente si riferisce l’art. 469 c.p.p. Sebbene
l’art. 3 comma 19 della legge n. 94 del 2009 ha introdotto, con la lettera a), nel
codice penale l’art. 600-octies; contemporaneamente, con la lettera d), ha
previsto: «l’articolo 671 è abrogato». Rispetto all’art. 671 c.p., la novella ha
ampliato l’ambito dei soggetti incriminabili e ha aggravato la sanzione, ma
continua pur sempre a prevedere la fattispecie di reato contestata all’imputata
quale genitore che s’avvaleva della figlia minore per medicare. Si fa
riferimento all’ipotesi di successione di leggi nel tempo e la condotta
contestata mantiene rilievo penale, dovendo soltanto farsi applicazione degli
artt. 25 Cost. e 2 c.p. con riguardo alla pena applicabile in ragione del tempo
del commesso reato. Il proscioglimento dell’imputata perché «il fatto non è più
previsto come reato» è dunque sotto ogni aspetto errato. La sentenza
impugnata è quindi, annullata senza rinvio e gli atti vanno restituiti al
Tribunale di Siena per il giudizio di merito.
Ripercorrendo la storia del reato di accattonaggio va detto che il codice
penale italiano, inizialmente, lo puniva come reato all'articolo 670293 rubricato
"Mendicità", che al primo comma puniva con l'arresto fino a tre mesi chiunque
mendicava in luogo pubblico o comunque aperto al pubblico e al secondo
comma puniva con l'arresto da uno a sei mesi chi ponendo in essere il fatto, lo
faceva con modalità valutate come ripugnanti o vessatorie, o comunque
simulando deformità o malattie o adoperando altri mezzi fraudolenti per

il pubblico ministero e l’imputato e se questi non si oppongono, pronuncia sentenza


inappellabile di non doversi procedere enunciandone la causa nel dispositivo.
293 Art. 670 c.p. Mendicità: Chiunque mendica in luogo pubblico o aperto al pubblico è punito con

l'arresto fino a tre mesi. La pena è dell'arresto da uno a sei mesi se il fatto è compiuto in modo
ripugnante o vessatorio, ovvero simulando deformità o malattie, o adoperando altri mezzi
fraudolenti per destare l'altrui pietà.

155
indurre sentimenti di pietà nei terzi. Ad averlo abrogato, infatti, è stata la legge
numero 205 del 25 giugno 1999, che si è inserita nel solco già tracciato
dalla sentenza numero 519 del 28 dicembre 1995294 con la quale la Corte
costituzionale aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale del primo comma
di tale articolo. «L'estrema severità della norma in esame è, certo, il prodotto
delle concezioni autoritarie che connotavano la cultura del legislatore del 1930,
inducendolo a una radicale inversione di tendenza rispetto alla impostazione
del codice Zanardelli, che ispirandosi alla tradizione del pensiero liberale
puniva la mendicità con l'arresto fino a cinque giorni, nella forma meno grave
(art. 453295), e con quello fino a un mese per l'accattonaggio vessatorio (art.
454296). Attribuendo peraltro al giudice la possibilità di far scontare la pena
mediante prestazione d'opera in lavori di pubblica utilità (art. 455).».

294 «Non vi sarebbe, invece, offesa della morale e della tranquillità pubblica quando l'accusato
versi in una situazione di bisogno non riconducibile a sua colpa, risolvendosi la mendicità in
una legittima richiesta di umana solidarietà, volta a far leva sul sentimento della carità. La
previsione incriminatrice di cui all'art. 670, primo comma, del codice penale, violerebbe - ad
avviso del giudice a quo - i principi costituzionali di solidarietà, di uguaglianza e della finalità
rieducativa della pena contenuti negli artt. 2, 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, giacché
sarebbe riservato lo stesso trattamento punitivo anche a soggetti che si trovino in
condizioni economico-sociali del tutto diverse. Essa, infatti, prescinde dallo stato di indigenza
non ascrivibile alla condotta individuale: di qui, un trattamento inadeguato, poiché non
finalizzato a rieducare quanti, obiettivamente incapaci di mantenersi autonomamente, siano
perciò costretti a far ricorso all'altrui solidarietà. È intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la
infondatezza della questione per essersi questa Corte già espressa in tal senso con la sentenza
n. 51 del 1959, fornendo una interpretazione adeguatrice del combinato disposto degli artt.
670 e 54 del codice penale e sostenendo, altresì, che i diritti della persona umana,
solennemente affermati come primari e fondamentali, diverrebbero illusori se non venissero
contemperati con le esigenze di una tollerabile convivenza (sentenza n. 102 del 1975). Priva di
ogni fondamento sarebbe, poi, l'asserita violazione dell'art. 27, terzo comma, dal momento
che la consolidata giurisprudenza costituzionale ha circoscritto la finalità rieducativa e
risocializzante della pena esclusivamente alla fase dell'esecuzione.»
http://www.gazzettaufficiale.it/atto/corte_costituzionale/caricaDettaglioAtto/originario?
atto.dataPubblicazioneGazzetta=1996-01-03&atto.codiceRedazionale=095C1622
295
Art.453: Chiunque, essendo abile al lavoro, è cólto a mendicare, è punito con l'arresto sino
a cinque giorni; e, in caso di recidiva nello stesso reato, con l'arresto sino ad un mese (455). Le
stesse pene si applicano a chi, essendo inabile al lavoro, sia cólto a mendicare senza aver
adempiuto le prescrizioni stabilite dalla legge. La contravvenzione non è esclusa dal fatto che
il colpevole mendichi col pretesto o con la simulazione di rendere servizi! alle persone o di
smerciare oggetti.
296
Art. 454: Chiunque mendica in modo minaccioso, vessatorio o ripugnante, per circostanze
di tempo, di luogo, di mezzo o di persona, è punito con l'arresto sino ad un mese; e, in caso di
recidiva nello stesso reato, da uno a sei mesi. (455).

156
Infatti l’intero capo VII era dedicato al reato di mendicità ed inoltre l’art.
456297 faceva riferimento proprio al caso del reato di accattonaggio compiuto
con un minorenne. In particolare riguardo al primo comma dell’art. 670 c.p.,
la Corte Costituzionale afferma «In questo quadro, la figura criminosa della
mendicità non invasiva appare costituzionalmente illegittima alla luce del
canone della ragionevolezza, non potendosi ritenere in alcun modo necessitato
il ricorso alla regola penale. Né la tutela dei beni giuridici della tranquillità
pubblica, con qualche riflesso sull'ordine pubblico (sentenza n. 51 del 1959),
può dirsi invero seriamente posta in pericolo dalla mera mendicità che si
risolve in una semplice richiesta di aiuto.». Dunque, la questione di
illegittimità costituzionale in riferimento al primo comma sollevata sollevata
dal Pretore di Firenze veniva accolta. Invero il secondo comma dell'art. 670, si
riferisce ad una mendicità messa in atto con modalità invasive, questa
disposizione viene ritenuta adeguata per tutelare rilevanti beni giuridici. Ad
esempio anche il volontario adempimento del dovere di solidarietà, è
influenzato dalle modalità in cui il mendicante chieda l’elemosina, in
particolare quando impiega mezzi che si possono definire fraudolenti al fine
di impietosire i terzi. Infatti la seconda questione che era stata sollevata dal
Pretore di Modena – sezione distaccata di Carpi in riferimento alla
sproporzione della sanzione penale minima per l'ipotesi di reato più grave del
secondo comma non veniva accolta298.
Dunque si riteneva lecita la richiesta di elemosina per ottenere umana
solidarietà, sempre che non fosse idonea a disturbare l'ordine pubblico o la
pubblica tranquillità. Quindi ritenuti colmo di disvalore non era la richiesta di
elemosina in sé e per sé configurata, bensì le modalità con le quali ciò avviene,

297
Art 456: Chiunque permette che una persona minore di quattordici anni, soggetta alla sua
podestà o affidata alla sua custodia o vigilanza, vada a mendicare o che altri se ne valga per
mendicare, è punito con l'arresto sino a due mesi e con l'ammenda sino a lire trecento; e, in
caso di recidiva nello stesso reato, l'arresto è da due a quattro mesi.
298
Sent. n. 519 15 - 28 dicembre 1995, Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, in
http://www.gazzettaufficiale.it/atto/corte_costituzionale/caricaDettaglioAtto/originario?
atto.dataPubblicazioneGazzetta=1996-01-03&atto.codiceRedazionale=095C1622

157
soprattutto se si vuole ingenerare un sentimento di pietà nei terzi sfruttando
la figura di anziani o disabili o minorenni. Oggi molti regolamenti comunali
vietano espressamente l'accattonaggio, con la conseguenza che chi lo pratica è
sottoposto a sanzione amministrativa. Certamente il problema nelle strade di
molte città italiane c’è ed è indubbiamente mal gestito: l'importante è non
dimenticare che si tratta di persone che spesso vivono in situazioni di difficoltà
e pertanto, la questione va gestita con le dovute attenzioni299. “In relazione a
questo delicato tema, va, innanzitutto, chiarito che la giurisprudenza di
legittimità da tempo ha escluso ogni rilevanza scriminante alle tradizioni
culturali favorevoli all'accattonaggio.”300. Si tratta di un aspetto culturale forse.
In ogni caso anche ammettendo che rientra in un fattore culturale, che
come si è visto non è condiviso dalla totalità, fa molta difficoltà ad essere
accettato dalla società maggioritaria. Inoltre prima di attribuire la pratica
dell’accattonaggio alla tradizione rom, bisognerebbe interrogare il soggetto
agente sul gruppo culturale di appartenenza, tenendo ben presente che in “il
manghel301 non è praticato da tutti i gruppi di rom e sinti, e dentro una stessa
comunità vi sono persone che hanno remore e provano disagio a mendicare”302. In altre
parole, se non si può negare che la pratica dell’accattonaggio costituisce una
risorsa prettamente economica per molti gruppi rom e sinti, al tempo stesso, è
necessario riconoscere come essa possa essere anche considerata come un
portato della “cultura zingara”, ma allo stesso tempo essa è sconosciuta ai
gruppi rom più benestanti303.
Il problema della mendicità in realtà costituisce solo un aspetto

299 V. ZEPPILLI, Chiedere l'elemosina è reato?. Nonostante il reato di mendicità sia stato abrogato nel
1999, talvolta l'accattonaggio può diventare penalmente rilevante, in www.StudioCataldi.it
300
Cass. Pen., sent. n. 37638 del 15 giugno 2012, reperibile nella banca dati DeJure.it, accesso in
data 13.04.2014.
301
Questua o manghél che nella lingua Romanì vuol dire chiedere, in questo caso chiedere
l’elemosina.
302 I. RUGGIU, Il giudice antropologo. Costituzione e tecniche di composizione dei conflitti

multiculturali, Editore FrancoAngeli, 2013, p. 106 ss.


303 L. PIASERE spiega come piuttosto la mendicità vada ricollegata alla difficoltà che spesso

esponenti del popolo rom incontrano nel trovare un lavoro; L. PIASERE, I rom d'Europa, Editori
Laterza, Roma, 2008, p. 40 ss.

158
particolare di un problema più grande e generale: l’inclusione sociale dei rom.
Isolando la fattispecie dal contesto circostante non solo la si snatura ma in più
si nasconde la profonda problematica sociale che vi è sottesa304. D’altro canto
affermare che il manghel non può essere criminalizzato poiché fattore culturale,
infatti, può essere ritenuta inesatta e pericolosa perché in grado di generare
immagini scorrette e stereotipizzate con il rischio di inneggiare allo “scontro
di civiltà”305. Se la minoranza viene costretta entro ristretti “spazi culturali”
che gli vengono in parte forzosamente attribuiti, c’è il rischio per loro di
vederseli affibbiati e di rimanere segregati volontariamente o meno, all’interno
del proprio tessuto culturale306.

304 Ibidem
305Si veda, a tal proposito, il commento “Se era italiana la donna sarebbe già in cella” su Il Corriere
della Sera, 29 novembre 2008, richiamato da I. RUGGIU, Il giudice antropologo. Costituzione e
tecniche di composizione dei conflitti multiculturali, Editore FrancoAngeli, 2013, p. 39. Vedi anche
Quella dell’opportunità è una fondamentale “categoria di giudizio”, come ricordano,
(richiamando Giuliani, in La controversia. Contributo alla logica giuridica, Pavia, 1966, p. 121).
306 T. VITALE, (2011, 271), sottolinea “Gli stereotipi non pesano solo sulle rappresentazioni di

cittadini, attivisti, decisori politici. Essi pesano anche sul modo stesso con cui gli stessi Rom, così come
molti altri gruppi tendono a volte ad autorappresentarsi. I Rom possono giocare il ruolo dello zingaro,
ovverosia possono recitare la parte che gli è stata loro assegnata dallo stereotipo. È il caso dei Rom
rumeni che arrivati in Italia in breve tempo hanno imparato a chiedere l’elemosina, pratica pressoché
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Ringraziamenti

Alla professoressa Massaro, per l’attenzione, la disponibilità, la gentilezza, l’umanità


e il sostegno che mi ha sempre riservato.
Ai miei genitori fonte d’ispirazione, di gioia e di amore, per avermi sostenuto in ogni
momento della mia vita e per la forza che mi trasmettono ogni giorno.
A Claudia, per il supporto che sempre mi ha dimostrato in questi anni.
A Giovanni, per la pazienza che ha avuto e per le risate insieme.
A tutta la mia famiglia, per essere così uniti e così presenti nelle vite gli uni degli altri.
Ai miei amici, ormai compagni di vita, per avermi sopportato e per aver gioito insieme.
Alle mie amiche per essermi state accanto e avermi incoraggiato in ogni occasione.
A chi, anche se non presente, so che mi ha accompagnato fino alla fine di questo
percorso.

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