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Mario Desiati

Spatriati
Spatriati

… mai contento, mai nel mio centro…

GIACOMO LEOPARDI
Parte prima
Crestiene

(s. m. Individuo qualunque, uomo. Come in altri dialetti del Sud. «Noi non siamo cristiani, – essi
dicono, – Cristo si è fermato a Eboli – Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo» (Carlo Levi).
Anche persona che professa la religione cristiana).
Quando un fronte d’aria fredda incontra a terra una massa d’aria calda,
quest’ultima si alza al cielo. Nascono i temporali. Pioggia e fulmini, acqua e
fuoco. Non ho mai capito chi tra i due fosse il caldo e chi il freddo, ma mi
ritengo fortunato di aver incontrato il mio fronte opposto in Claudia Fanelli,
la spatriata, come qui chiamano gli incerti, gli irregolari, gli inclassificabili,
a volte i balordi o gli orfani, oppure celibi, nubili, girovaghi e vagabondi, o
forse, nel caso che ci riguarda, i liberati.
La notai la prima volta nell’atrio della scuola e desiderai i suoi capelli
rossi, la pelle lunare, il naso pronunciato. Aveva l’aria d’essere piovuta lí da
un altro mondo, piú evoluto e illuminato.
Mi chiamo Francesco Veleno, sono il figlio unico di Elisa Fortuna e
Vincenzo Veleno, due ex atleti dilettanti, che si sono innamorati durante una
puntata di Giochi senza frontiere e per tutta la mia infanzia mi hanno
cresciuto con l’idea che li avrei riscattati dal misterioso incidente di avermi
messo al mondo. Ancora ero lontano dal sapere che molte relazioni vanno
avanti, come avrebbe detto Claudia, per «ragioni di Stato». E sempre grazie
a lei avrei capito che non esistono ragioni di Stato cosí stringenti da
obbligare tre persone tanto diverse a vivere insieme, a meno che non si
sconti una pena. La corte che aveva condannato Elisa e Vincenzo a
rimanere insieme nonostante l’evidente disamore risponde alla crudele
legge del quieto vivere, aspro codice umano che nei luoghi piú piccoli
richiede rigore e assoluta severità.
Prima di Claudia, la realtà era quella che mi raccontavano e non quella
che vedevo. Facevo parte del novero di quelli che si lasciano spingere dagli
altri, dagli eventi, dalle prescrizioni, dai pregiudizi. I coniugi Veleno mi
spingevano verso una vita senza smottamenti, tranquilla, il minimo
necessario per non soffrire. A loro, in fondo, era andata bene cosí.
Lui, professore di educazione fisica – aveva anche praticato brevemente
la scherma insieme a mia madre –, aitante, spregiudicato, girava con una
Beretta M9 regolarmente denunciata da cui non si sarebbe mai separato.
Non vedevo ancora nei maschi bianchi di mezza età armati di pistola le
vanaglorie sessuali perdute.
Mia madre era infermiera nell’ospedale di Martina Franca. Per un breve
periodo della mia infanzia mi aveva chiamato «Uva nera», perché a Martina
tutti coltivano uva bianca verdeca, asprigna, da cui fanno un vino secco che
rende brillanti con due sorsi. E lei invece aveva fatto un figlio con
l’incarnato olivastro, bruno, come quello dei contadini alla fine dell’estate o
i saraceni delle antiche cronache. Con l’uva nera si fa il Primitivo o il
Negramaro. Vini da offuscamento della ragione. Tenerlo presente al
momento delle decisioni impulsive della mia vita sarebbe servito.
Nessuno in famiglia aveva i miei tratti. Nessuno scuro come me, nessuno
con un’attaccatura dei capelli cosí alta, la fronte libera e il fardello della
pigrizia che mi inchiodava sul divano a leggere giornalini insulsi. Durante il
pomeriggio spesso ero solo, mia madre viveva praticamente in ospedale, a
volte spariva per due o tre giorni di seguito. Mio padre dopo le ore a scuola
si perdeva nei bar di paese millantando avventure e rievocando il suo
passato da atleta, per tornare con i vestiti stropicciati e una smorfia allusiva,
come di chi ha compiuto un’impresa e non vede l’ora di raccontarla. Ma
non la raccontava mai. Forse perché io avevo paura di chiedere o forse
perché credeva che non avrei potuto capire.
Erano diversi, mia madre e mio padre, e lo erano anche nei tempi verbali
quando si rivolgevano a me. Elisa era donna del presente, spesso in prima
persona plurale: «Usciamo». Mio padre non conosceva che il tempo passato
e ogni tanto il tempo futuro quando parlava di me. Abbarbicato ai ricordi, a
un elenco di aneddoti gloriosi per lui, noiosi per tutti gli altri.
Su una cosa Vincenzo Veleno ed Elisa Fortuna si ritrovavano in una
miracolosa convergenza: non avevano frequentato un solo giorno di liceo
classico, ma ne avevano il rispetto che si porta per un’entità irraggiungibile.
Aveva formato le menti dei loro capi, medici primari, presidi, provveditori.
Tutte teste uscite dal liceo di Martina Franca. Dicevano che con il latino mi
si sarebbero aperte le porte, e che tra i banchi avrei incontrato i figli delle
famiglie importanti. Consideravano quel percorso la cosa piú opportuna.
Gente che conosce perfettamente la verità degli altri ma non la propria.
Per Claudia i primi tempi non esistevo. Era la piú alta della scuola, i
capelli rossi sfavillavano sul collo – la tonalità delle marasche che i miei
nonni avrebbero raccolto in estate per trasformarle in barattoli di confetture
granata e amaranto. Gli occhi di un colore diverso l’uno dall’altro, marrone
chiaro e verde azzurro, quegli occhi che qui chiamano «di bosco». Aveva
ossa sporgenti, zigomi appuntiti, il viso magro e allungato.
Durante la ricreazione l’atrio del Tito Livio si svuotava, gli studenti
correvano ad accalcarsi contro il muro per abbeverarsi d’ombra. L’unica al
sole era lei. Se qualcuno avesse potuto osservare il quadrato dell’atrio
dall’alto avrebbe visto un deserto d’asfalto con un puntino rosso al centro.
Si portava addosso alcuni miei stessi vizi antisociali: si toccava il naso e si
arrotolava una ciocca di capelli attorno all’indice. Tra i suoi libri spiccava il
cartoncino colorato dei manga di Rumiko Takahashi, arrivava a scuola
ascoltando musica con le cuffie senza curarsi di nessuno. Nel cambio d’ora
affilavo matite stando nei suoi paraggi, chiacchieravo con insipidi compagni
dalle facce squadrate e l’alito di Philip Morris. Un giorno sentii lo squallido
interrogatorio al quale era stata sottoposta da un drappello di usurpatori
delle sue attenzioni: «Perché stai sola?», «Perché non fai come gli altri?»
Intendevano dire: «Perché sei come sei e non sei come noi?» Insistevano
con aria melliflua, la incalzavano, e Claudia rispose: – È già difficile essere
uguale a me, figuriamoci essere uguale agli altri.
Facile rifugio l’amore non corrisposto, per le adolescenze solitarie e
insicure, quelle di chi ancora non sa chi è, e io non sapevo quasi niente di
me, e tutto ciò che ero stato fino ad allora lo tenevo nascosto, terrorizzato
che potessero giudicarmi inadatto. Venivo da un’infanzia di oratori di
campagna e squadracce di calcio di periferia, con allenatori che allungavano
le mani e preti con la gamba di legno che si facevano frizionare l’arto
monco in sagrestia, mentre nella chiesa vuota i piú ribaldi giocavano a
pallone usando l’altare come porta.
I Veleno non parevano preoccupati dei segni rossi che mi disegnavano le
gambe, non si preoccupavano che pregassi o peccassi, nemmeno quando
tornavo dalla campagna pieno di terra, umiliazione e odore di concime.
Era appena finito l’anno scolastico, l’estate si spalancava in distese di
papaveri e grano. Rientrato a casa non trovai nessuno. Mi abbandonai al
silenzio, poi al crepuscolo che annerí le stanze e mi immalinconí. Mangiai
solo del pane bagnato in acqua con sale e pomodori, la mia cena quando
mia madre faceva il turno serale e mio padre spariva dietro le sue ambigue
commissioni. Mi addormentai sul divano. Al mattino la casa rimase
silenziosa, nessuno dei trambusti che mi svegliavano di solito quando mia
madre tornava dall’ospedale o mio padre riempiva il lavabo per la barba
parlandosi allo specchio. Vuota. Con occhi di catrame e la gola inaridita
vagai stordito, finché non rinvenni sulla scrivania di fòrmica – un banco di
scuola che mio padre aveva trafugato dal suo istituto tecnico per farne il
mio scrittoio – una busta bianca: «Alla mia Uva nera». Ebbi la sensazione
che mia madre l’avesse scritto piú per lei che per me.

Sono dovuta uscire e non c’eri. Ti parlerò di questi giorni che verranno. Ti aspetto in
ospedale.

C’era il tempo futuro e questo non mi rassicurava.


Misi piede per la prima volta in ospedale e nelle narici salí un odore
simile alla benzina, i corridoi semivuoti rimandavano lo scalpiccio sul
pavimento, le grandi vetrate si sporgevano a valle e dentro le stanze con le
porte socchiuse ombre impalate vegliavano corpi avvolti nel bianco. Mia
madre apparve con le spalle erette, in uniforme, un paio di sabot e le calze
trasparenti. Il viso luminoso, gli occhi infuocati e lucidi, i capelli costretti in
un pugno biondo sulla cima della testa. Mi abbracciò piú del solito, la sua
carezza sulla schiena assomigliava a un energico massaggio, il
trasferimento di un codice tra me e lei, animali della stessa specie che si
riconoscono. Profumava di domenica mattina e mi teneva la mano
spingendomi nella sala dei medici dove saremmo stati tranquilli.
Fischiettava il motivetto di Vacanze romane dei Matia Bazar. Era felice,
mentre io faticavo a trattenere il nervosismo, cosa c’era da essere felici in
quel posto? Disse svariate cose che il mio cervello elaborava e subito
rimuoveva, il sorriso con cui mi aveva accolto man mano si trasformava in
un’espressione di circostanza, severa.
– Saremo lontani, ma solo per un po’, abbiamo bisogno di spazio –.
Giunse al punto: aveva lasciato mio padre.
– Piú avanti capirai, – concluse.
Tornai a casa prosciugato, concentrato sul suono che fanno le scarpe di
gomma sull’asfalto.
– Tanto torna, tornano tutte, – proclamò il fanfarone, mio diretto
ascendente, vedendomi sulla soglia pieno di lacrime non piante e di urla
trattenute.
La routine delle nostre giornate cambiò, lui portava in casa i piatti di
pasta preparati dalla nonna avvolti in uno straccio tiepido, oppure riscaldava
delle zuppe pronte bruciandole con puntualità e rovesciando contumelie
contro pentole, fiamme del gas, produttori di zuppe. Non era mai colpa sua,
sempre di qualcun altro, ma ancora non riconoscevo i cercatori di capri
espiatori e non sapevo come trattarli. Covavo rabbia ardente sotto la cenere
dell’apparenza mite, non perché i miei genitori si erano separati, ma perché
non lo avevo capito prima.
Seguirono giorni sbandati. Cercavo di stare il meno possibile a casa, le
finestre non venivano mai aperte e in cucina si accumulavano i piatti
sporchi. Studiavo in biblioteca o a casa di qualche amico, ma presto i
compagni di scuola iniziarono a tenermi distante perché l’uva nera ha
sempre qualche chicco marcio: non tifavo per nessuna squadra di calcio,
non giocavo a Street Fighter, se mi tiravano uno schiaffo me lo tenevo, e me
la facevo con i preti. Ero guardato con il sospetto che si concede ai diversi,
abitavo la linea esatta tra la cautela e la confidenza, il non frapporsi tra i
migliori e i peggiori.
Un giorno una compagna di classe di Claudia mi fermò all’uscita di
scuola. Giada, pluriripetente, una donna in miniatura con le sopracciglia
rivolte verso il basso, come gli angoli della bocca: – Stai lontano da
Claudia, lei ti odia –. Non aveva un’aria sincera, ma invece di andare da
Claudia a chiedere perché, mi chiusi ancora di piú. Camminavo per ore nel
borgo vecchio affumicato dai camini o nei passaturi ripuliti dalle falciatrici,
nei pomeriggi caldi di settembre e in quelli pieni di vento a ottobre.
Guardavo il paese attraverso il fumo delle nazionali o delle pipe d’osso dei
vecchi a crocchio davanti ai barbieri. Mi incantavo a osservare come il
barbiere ammollava le setole del pennello da barba, di suino o di tasso.
Mentre la schiuma da barba montava grazie alle pennellate circolari, i
vecchi socchiudevano gli occhi, le labbra imbiancate si aprivano facendo
affiorare il palato rosso. Da giovani, dovevano essere stati come i miei
amici di oratorio, robusti, secchi, nervosi, arroventati dal sole. Il barbiere
diceva sempre che il tasso è meglio del maiale, va cacciato in autunno e
macerato nel vino vecchio. Io mi guardavo allo specchio la peluria che
cresceva piano, i capelli lunghi: sembravo un piccolo Gesú nero.
Partecipai alla processione della Madonna del Rosario, indosso la tonaca
bianca, in mano una croce di ferro dall’asta lunga quanto me, e il Cristo di
legno appiccicato sulla sommità. Don Bastone pregava in un megafono
aggrappandosi a due chierichetti che lo trascinavano come un sacco
d’immondizia, una dozzina di inquieti adolescenti smaniava con gli
incensieri. Io pregavo stringendo la croce, il freddo del ferro si trasferiva
alle mani. Finirono a stracciarsi le tonache di dosso e picchiarsi con gli
incensieri facendo impazzire don Bastone che rotolava senza che nessuno
avesse riguardo di lui; mi sottrassero il grande crocefisso e si inseguirono
per darselo in testa. Volevo ridere, volevo pregare, mi limitai ad assistere
alla ribellione e pensai che nessuno nell’universo sarebbe stato felice
quanto Cristo a guardare i suoi angeli picchiarsi solo per far finire presto la
processione e tornare a giocare.
Io non tornai a giocare: sulla piccola salita che riportava in paese, sul
poggio tra le macerie d’un palazzo e una chiesetta scavata nella roccia,
scorsi lei.
Avevo notato molti cambiamenti nelle ultime settimane: portava i capelli
corti, indossava abiti maschili, camicia bianca e cravatta nera. Quel giorno
aveva un cappello di panno e la cravatta era blu con i pallini rossi, il
broncio severo. A vederla dal basso, mentre risalivo ancora imbustato nella
tonaca, ebbi l’impressione che mi stesse aspettando. La corteggiavano
quelli del triennio, perché era alta, perché aveva la pelle chiara, e perché la
spolverata di rosso sulla testa era come vedere i suoi pensieri bruciare. Ma
io amavo il suo naso grande e la sua bocca larga.
– Ciao, Francesco.
La sua voce risvegliò il brivido che precede la pelle d’oca. In quei
pochissimi secondi tra il suo saluto e la mia risposta sospettai un miracolo
perché avevo le mani arrossate dal crocefisso: lei aveva riconosciuto il mio
amore e la mia corte silenziosa di quei mesi.
– Claudia, – dissi timidamente. Nel riempirmi la bocca col suo nome
provai un piacere tutto nuovo.
– Noi due dobbiamo parlare.
– Credo proprio di sí –. «Davvero mi odi?», le avrei chiesto un attimo
dopo.
Invece lei mi anticipò.
– Come sono le tette di tua madre?
– Non ho capito.
– Hai capito bene, dimmi come sono le tette di tua madre.
Mi si annebbiò la vista.
– Non mi vuoi rispondere?
– Non lo so –. Mi costò tantissimo dirle «non lo so», perché da qualche
parte dentro di me sentivo che la stavo già deludendo.
Ma nel suo interrogatorio quella mia reticenza era ampiamente prevista,
cosí riprese il filo del suo copione già scritto per arrivare al cuore della
verità, che io tardavo a comprendere:
– E allora come sta tuo padre? – si tolse il cappello e scosse la testa.
– Perché me lo chiedi?
– Perché mia madre non sta bene.
Iniziò a comporsi un quadro nuovo in cui vedevo raffigurati i miei
genitori come non li avevo mai visti. Carne, sesso, umanità. Percepii anche
Claudia in una nuova veste: era una figlia come me, e non sapevo nulla dei
suoi genitori.
– Veleno, sai chi è mio padre? – Quell’improvviso passare al cognome
mi spinse a una piú dignitosa omertà.
– No.
– Mio padre è chirurgo nell’ospedale dove lavora tua madre e adesso
sono andati a vivere insieme.
Nelle famiglie non esistono segreti, ma solo dei patti dolorosi, a volte
miserabili, a volte irrinunciabili, dei «non detti». E nei non detti ci sono le
verità profonde, le crisi, la lotta tra bene e male, l’origine delle relazioni e di
tutti i traumi. Col tempo avrei capito che Claudia stava condividendo con
me qualcosa di simile a un biglietto vincente della lotteria. Il non detto era
lí, esposto alla nostra innocenza. Ne rimasi talmente sconvolto che Claudia
assunse un’espressione di sbalordimento: la rabbia nervosa con la quale
aveva appena confessato il segreto delle nostre famiglie si mutò in una
inaspettata premura.
– Veleno, stai bene?
– Sí! – dissi, ma non era vero, e lei se n’era accorta.
– Non lo sapevi?
– Non sapevo niente, – balbettai, e i miei occhi si gonfiarono senza che
lo volessi.
– Allora ho fatto bene.
«No, hai fatto male, – pensai, – ora diventeremo fratellastri, io volevo
mettermi con te, volevo amarti».
Le labbra di Claudia erano sparite dentro la bocca, respirò, e respirando i
capelli sembrarono crescere in un’aureola di luce, scintille di agata e
corniola tracciarono la linea che ci divideva e ci univa.
– Ti va di accompagnarmi a casa e parlarne un po’?
Il paese era battuto da un vento fastidioso, i segnali stradali cigolavano.
Sfilammo tra le vie piene di gente che avevano abbandonato la processione
interrotta dalla rissa. Ci guardavano tutti: una ragazza vestita da uomo e un
ragazzino in una lunga tonaca che toccava l’asfalto.
– Giovani, è passato carnevale! – urlò un tizio. Altri ci fissavano storto.
– Non passiamo inosservati, – dissi.
– Che ti frega, Veleno.
– Niente.
– E invece ti frega.
– Non è vero.
– Ma tu ci credi? – chiese a bruciapelo.
– A cosa?
– A Dio.
– Sí, – dissi con un tono di voce acuto. Volevo mostrare orgoglio, ne
venne fuori un sinistro squittio.
– E credi anche a queste cose: la processione, la messa?
– Non vedi come sono vestito?
– L’apparenza inganna.
– E tu sei vestita da uomo, sei un uomo? – le indicai la cravatta blu con i
pallini rossi che teneva annodata al collo.
– Questi sono i vestiti di papà –. Allentò il nodo della cravatta, disse che
grazie a lui aveva imparato a leggere i manga, ad ascoltare il rock e Fabrizio
De André, tenne una breve perorazione di cui mi restò impressa l’intensità.
– Anche io amo mia madre, ma non mi vesto da donna, – obiettai.
– Peccato, staresti bene.
Ora sorrideva, e sorrideva a me.
Finsi di non capire.
Camminammo in silenzio allungando il tragitto, lambimmo la vecchia
circonvallazione, si notavano gli uliveti, le viti e i trulli.
L’antipatia a quindici, sedici anni, è un muro tanto alto e solido quanto
l’odio.
– Ero venuta per suonartele, – disse Claudia.
– Perché non lo hai fatto?
– Parlandoti ho capito che è meglio essere alleati –. E aggiunse, con gli
occhi infiammati dentro i miei: – Dobbiamo dirci tutto.
In quella manciata di passi assieme vuotai il sacco. Le dissi che mio
padre aveva conosciuto mia madre a Giochi senza frontiere, quando
Martina Franca ospitava la puntata. Le dissi di quando durante gli
allenamenti in palestra erano saliti entrambi su una pertica, e lí si erano
innamorati.
– Come lo sai?
– Non lo so, mi piace immaginarla cosí, – confessai subito. Avevo
davvero poco dentro quel sacco vuoto che le sventolavo.
Quando arrivammo sotto casa sua mi accorsi che gli occhi non le
brillavano piú, un’ombra cupa le attraversava la faccia. Mi sentii a disagio
mentre scrutava la finestra che dava sul giardino. Disse, quasi senza
intonazione: – Forse c’è mia madre, dovresti andare via.
La porta si aprí all’istante, come se sua madre ci stesse spiando. Notai
che con un cenno le intimò di pulirsi bene le scarpe sullo zerbino, poi la
porta la inghiottí. Attraverso la finestra vidi la sagoma di Etta, sua madre,
torcersi verso di me, che ancora guardavo incredulo.
Quando rimasi solo realizzai la verità: mia madre era andata via di casa
come milioni di genitori in tutto il mondo che si innamorano della persona
giusta dopo aver sposato quella sbagliata. Io ero il figlio di quella sbagliata.
Claudia era cresciuta nel candore. Abiti bianchi, camiciole inamidate con
i bottoni imbrigliati nelle asole sino al collo. Dopo le capriole in soggiorno,
sotto lo sguardo attento del padre, il sudore veniva asciugato da sbuffi di
talco profumato. Tutto nella sua infanzia sapeva di talco, polvere bianca al
magnesio e al burro di iris.
Da lei imparai un modo nuovo di parlare dei miei genitori, sino ad allora
figure intoccabili o evanescenti. Claudia era critica e affettuosa, amava i
suoi e un secondo dopo sembrava disprezzarli. La madre, Etta Bianchi in
Fanelli, mi venne presentata come una maniaca dell’ordine, donna dai
principî antiquati e le nevrosi modernissime, secondogenita dei Bianchi
Caracciolese, nobiltà contadina proprietaria di masserie e latifondi che negli
anni aveva perso potere, denaro e uno dei due cognomi. Etta aveva
frequentato una scuola di campagna e nelle foto da ragazza stava sempre
con abiti di mussola dai colletti che somigliavano a centrini ricamati.
Scrupolosa nel controllo, puliva la stanza di Claudia come chi cerca nello
sporco una verità nascosta. Allo scrupolo univa alcune usanze che la figlia
riteneva di cattivo gusto: le spiava il diario e le aveva regalato un anello il
giorno in cui le erano venute per la prima volta le mestruazioni,
chiamandola Rugiadina.
Passeggiavamo dopo la scuola attorno al borgo vecchio, a volte osavo
allargare il gomito tenendo il polso contro il fianco, sperando che lei
infilasse il suo braccio dentro. Raggiungevamo il tetto di un chiostro
abbandonato e lassú ci riempivamo gli occhi con la Valle d’Itria e i crateri
bianchi di Ostuni e Locorotondo.
Mia madre era una donna piú espansiva da quando era andata via, non
osavo ammetterlo, ma anche noi due stavamo meglio insieme.
Claudia mi parlava di dettagli minutissimi con l’entusiasmo di chi
condivide un segreto essenziale. Di quanto amasse la custodia di carta
bruciacchiata che avvolgeva gli Lp, e piú di tutto il momento esatto in cui la
punta del giradischi cominciava a graffiare sul solco nero. La felicità per lei
era l’attimo di ronzio che precede la musica di un 33 giri. Suo padre la
accompagnava al negozio di dischi. Ci sapeva fare, la portava anche a
vedere i carri allegorici in allestimento dentro le grandi rimesse in periferia
tra selci, ortiche e immondizia. Le permetteva di assaggiare la colla fatta di
acqua e farina con cui i mastri cartapestai attaccavano i lembi di carta sulle
anime di ferro di quei giganti. In tutti i suoi racconti c’era un sottinteso: suo
padre era geniale ed era l’uomo giusto per qualunque donna con grandi
aspirazioni.
Piú cresceva la nostra relazione e piú ci allontanavamo dagli altri.
Claudia parlava meglio di tutti, leggeva Osamu Tezuka e Banana
Yoshimoto, ma non era la migliore della classe, era appariscente nei suoi
abiti da uomo ma non ammiccava alle compagne che l’ammiravano o
detestavano, andava a messa ma non frequentava l’ora di religione, era
sensibile ma non la scalfivano le battute sul suo naso da uomo o sul suo
petto piatto, partecipava alle assemblee stando in disparte e prendendo
posizioni minoritarie o estremiste. Un giorno era contro lo sciopero e la
settimana dopo proponeva l’occupazione. La chiamavano Papavero e ne
rideva, i papaveri in primavera coloravano distese verdeggianti verso sud,
erano la fine della scuola, l’estate, la nostra giovinezza.
Lei aveva la luce, gli altri al confronto mi parevano spenti, tutti identici
con gli stessi tagli di capelli, gli stessi occhiali da sole. Durante la
ricreazione salivano sul tetto della scuola e si sedevano dando le spalle
all’orizzonte maestoso punteggiato dai campanili delle collegiate e dei
conventi, dalle macchie verdi degli uliveti e arancio dei fragni. Si
chiamavano Giuseppe, Luigi, Salvatore, Romina, Ilaria, Valentina, ma tra
loro erano tutti «chicco» e «chicca», si fidanzavano per quindici giorni, poi
si lasciavano e si fidanzavano di nuovo, giocavano a fare gli adulti.
A noi, nessuno ci avrebbe mai chiamati chicca o chicco, e comunque non
lo avremmo mai permesso.
Anche il mio cristianesimo da oratorio si trasformò, lei viveva la
religione come elevazione, io la seguivo durante la messa quando intonava
l’Osanna. I fiori sull’altare, le tremule luci delle candele elettriche, il segno
della croce e l’«Andate in pace». Nell’Esodo Dio si presenta a Mosè e dice:
«Io sono colui che sono». Claudia lo ripeteva come un mantra riempiendosi
il petto. La musica dell’organo elettrico, il coro dei ragazzi dell’Azione
cattolica, le Sacre Scritture che parlavano di giustizia, amore e fede, le
ghirlande di carta, e ancora le note dell’Osanna che risuonavano tra le mura
della chiesa. Assistevamo alle benedizioni con i petali di rose bianche
chiedendoci se non dovesse essere proprio cosí il Regno dei Cieli: una
gremita assemblea di preghiere, canti e profumi. Fuori dalla messa
guardavamo gli uliveti dietro le campane di ferro dell’ultima chiesa prima
della campagna.
In quella dilatazione del tempo della giovinezza, quando ogni istante è
un tergiversare del futuro, sognavo di andare a passo agile verso l’estate, di
montare i motorini nelle strade grigie tra i pini d’Aleppo che scendevano al
mare, esplorare i segreti della sabbia gialla o di certi ruderi abbandonati
nelle insenature azzurre del porto, dove le donne un tempo si spogliavano e
facevano il bagno; pregare assieme al tramonto sotto le nuvole d’argento
che attraversano la cruna del cielo sul golfo di Taranto.
L’adulterio dei nostri genitori cominciava ad apparirmi come una
benedizione. Avevo la tentazione di confessare a Claudia un piccolo seme
di entusiasmo: in fondo mia madre era perfetta per suo padre.
I nostri genitori fedifraghi tornarono a casa il giorno della Vigilia dopo la
fuga in una masseria di pietra leccese. Natale sradicò le passioni adultere
sino a ricomporle nell’alveo della Sacra Famiglia. Allinearsi al mondo delle
parentele perfette e felici che scartano i regali sotto l’albero e transumano
sottobraccio alla messa della mezzanotte fu pura, irresistibile inerzia.
Etta accolse Enrico come un eroe che torna da una guerra, lo abbracciò e
lo lavò di lacrime. In delirio mistico, davanti a un manipolo di parenti che si
preparava a consumare il pranzo di Natale tra candele accese, tovaglioli
rossi e due grandi centritavola con l’agrifoglio, si alzò in piedi con un
librino amaranto tra le mani per la vendetta che aveva covato e progettato
nei piú minuscoli dettagli. – «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai
trasgredito un tuo comando…» – Enrico capí subito di cosa si trattava e
scosse la testa: – Etta, Etta, Etta, – ma lei continuò a recitare: – «Ora che
questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per
lui hai ammazzato il vitello grasso… bisogna far festa e rallegrarsi, perché
questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato
ritrovato…» – Claudia si alzò da tavola, corse in camera, cercò le cuffie e
mise Come As You Are a tutto volume, fino a sentire i colpi del basso di
Krist Novoselic batterle nelle tempie e l’urlo di Kurt Cobain sopraffarla.
Suo padre la raggiunse e rimase impalato sulla soglia, senza dire nulla, la
guardava negli occhi con l’espressione di chi si professa innocente. «Non è
colpa mia se sono felice con Elisa», avrebbe probabilmente voluto dirle.
Claudia, quando la sera ci sentimmo al telefono, aveva una voce
malinconica e impastata, mi confidò che non s’era mai vergognata cosí
tanto nella sua vita.
Il ritorno di mia madre in casa Veleno ebbe sfumature meno teatrali. Mio
padre sembrava addirittura scocciato, aveva organizzato un capodanno
scoppiettante in una dubbia villa fuori città con altrettante dubbie
personalità della locale vita notturna, e mi stava già facendo dei discorsi sul
trascorrere piú tempo coi nonni che non stavano bene. La sua delusione
aumentò quando scartò il regalo di mia madre (lui non aveva intenzione di
farglielo): un orologio con le maglie in acciaio e il cronometro, che
Vincenzo Veleno non avrebbe mai messo al polso. Capimmo che a
sceglierlo non era stata lei.
Fu come ogni altro Natale della mia vita, mangiammo con la banda dei
Veleno e dei Fortuna al completo, mio padre sarcastico e nervoso, mia
madre che recitava un pallido interesse per le storielle dei parenti, un sorriso
che assomigliava alla smorfia gentile con cui si nega un’offerta, era chiaro
che non vedeva l’ora di tornare in ospedale dove si era fatta mettere un
turno nel pomeriggio del 25.
Elisa e Enrico non avevano rinunciato ad amarsi. Si incontravano in una
masseria di lamie bianche circondata da un campo nero seminato ad avena,
un sentiero di cipressi come ingresso. Uscivano da due punti diversi
dell’ospedale e si ritrovavano nell’auto di lui. Percorrevano le tortuose vie
del Paretone ascoltando l’ultimo album di Iggy Pop o un raro bootleg di
Charlie Parker, che mia madre con dorata modestia diceva di non capire ma
ne era affascinata. Superavano vigneti e uliveti cantando a squarciagola coi
finestrini abbassati Sentimiento nuevo di Franco Battiato, fino al sentiero
dei cipressi, che se li mangiava e li risputava al calare della notte
abbracciati e vinti dal loro amore.
Elisa colorava le labbra di ciliegia e ricalcava di blu la linea attorno agli
occhi, usciva molto presto e tornava tardissimo, l’avevo sorpresa diverse
volte a ridere da sola. Enrico aveva lo stesso naso e gli stessi spigoli di
Claudia, levigati da un velo di barba sottile, e la testa lucida: a sua figlia
diceva sempre di aver perso i capelli perché gli erano cresciute le idee. A
immaginarli da lontano mi apparivano variopinti contro il grigiore delle vite
routinarie dei genitori di tutti quelli che conoscevo. A Vincenzo e Etta
toccava il legame con la terra, i figli, le cose pratiche, agli adulteri una
felicità che a me pareva inspiegabile, ultraterrena. Quella felicità che avrei
cercato tutta la vita
Di quel nuovo equilibrio che doveva tutelarmi, il piú insoddisfatto ero io.
Era questo il prezzo da pagare, pranzi e cene con un padre distratto e
polemico, troppo concentrato su se stesso, e una madre peccatrice che
doveva recuperare uno svantaggio. La vittima/carnefice e il
carnefice/vittima. Erano insopportabili.
Un giorno, mentre osservavo mia madre districare la matassa chiara dei
suoi capelli, pensai che le mani di Enrico avrebbero saputo farci molto piú
delle rozze dita di mio padre. Lei voltandosi mi disse: – So che sei amico di
Claudia… – Mi sentii scoperto e violato. – Non è sano, Francesco, –
aggiunse. Poi mi venne incontro e con gli occhi nei miei mi mise la mano
sulla spalla. – Ma non posso impedirtelo, – chiarí, come aspettasse da tanto
di dirmelo. Era il senso di tutto quello che sarebbe venuto: nessuno poteva
impedirmi di essere chi volevo essere.
Claudia cambiò. La routine apparente di Etta e Enrico parve
addomesticarla, si vestiva in modo meno creativo e aveva sempre la testa
tra le nuvole, forse per sfuggire a quell’ipocrita quieto vivere. Le leggevo i
cambiamenti sulle mani, le dita nodose come rametti maneggiavano sempre
una penna con la quale scriveva sul diario. Ero convinto di essere uno dei
protagonisti delle sue annotazioni, ma quando lo lessi di nascosto, un giorno
che lo aveva lasciato incustodito, fu un dramma: non ero mai citato.
Inferocito gliene chiesi conto e lei replicò: – Ci parli con gli alberi? –
Davanti alla mia incredulità aggiunse: – Quello che conta nella mia vita lo
dico agli alberi, non lo scrivo sul diario. Purtroppo gli alberi hanno detto
che c’è un problema tra noi.
– Quale? – chiesi interdetto.
– Non sei un albero.
Il periodo surrealista di Claudia durò il tempo della mia rivalsa. Le parlai
di una misteriosa presenza femminile che amavo ma non riuscivo a
conquistare. La vedevo tutti i giorni in parrocchia, le dissi, veniva dalla
campagna anche lei e passavamo tanto tempo insieme, prendevamo il caffè
e addirittura mi aveva fatto fumare una sigaretta. Claudia non sembrò
gelosa quando le chiesi come fare per conquistarla. Scrollò le spalle, poi
disse che le cose si fanno in due e non da soli, se le fossi piaciuto avrebbe
lanciato un segnale un po’ piú esplicito di quelli che le stavo descrivendo.
Un sabato pomeriggio d’inverno, quando fa buio presto e il cielo di Martina
è viola e metallo, ci rifugiammo nella cappella del Santissimo Sacramento
di San Martino, un grembo di marmi policromi, bronzi e legno. Era una
delle nostre tane. Al riparo dalla tramontana e dagli impiccioni, le parlavo
della misteriosa ragazza di cui mi stavo innamorando, ma non dovevo
essere molto convincente. Claudia mi camminava avanti, oltrepassò l’altare
per guardare da vicino l’Ultima cena di Domenico Carella, e indicò la ferita
di fuoco che si apriva sulla testa di Gesú e degli apostoli: per me era solo un
lucernario che trasmetteva calore, ma per Claudia quel fuoco era un disco
volante. Due modi di vedere il mondo. E cosí sbottai: – Claudia non esiste
nessuna ragazza, mi sono inventato tutto, questa tipa sei tu.
– L’ho sempre saputo –. Socchiuse le palpebre. Da surrealista a realista
con quella semplice battuta.

«Ci mettiamo insieme?» le scrissi su un biglietto che le feci trovare sul


banco. Era in corso la lezione di un supplente di matematica. Lei si alzò e
attraversò il riflesso del sole che abbacinava gli studenti dei primi banchi. In
piedi, con la schiena rivolta alla lavagna mi coprí con la colonna fresca
della sua ombra.
– Non credi che i Veleno e i Fanelli su questo pianeta abbiano già fatto
abbastanza casino?
– Non mi basta esserti amico, – dissi con una vocina mortificata, pronto
già alla sua obiezione.
– Ti farò una sega.
– Dici sul serio?
– Scherzo, ovvio.
Il professore ci buttò fuori dall’aula sbraitando, non credeva a quello che
aveva sentito e l’avrebbe riferito al preside. Claudia visse la sfuriata senza
drammi, continuammo il discorso nei corridoi deserti della scuola. Le voci
ovattate degli insegnanti arrivavano dalle porte chiuse, cosí come l’odore di
gesso.
– Francesco, non possiamo stare insieme.
– Tu qui parli solo con me, certe cose le posso capire solo io –. Ed
eccolo il maschio ferito e ricattatorio che sbandiera la complicità come
prova d’amore.
– Non vivo bene qui, ma il mondo è molto piú grande di noi due –. I suoi
occhi strattonavano la mia anima, ed era come se ciò che stava per dirmi le
costasse piú del rifiutarmi come fidanzato.
– Non posso restare qui, – continuò.
– In questa scuola?
– No, in Italia.
L’orizzonte si appannò e la luce dalle finestre si trasformò in lampi
intollerabili, il flash prima d’un feroce ottundimento.
– Via dall’Italia? – balbettai come se non avessi capito.
– Sí.
Sarebbe partita per Londra. Credetti fossero vacanze, invece avrebbe
frequentato il quarto superiore all’estero, poi forse sarebbe tornata per
l’ultimo anno. Forse.
– Sei impazzita ad andare via adesso? – ero risentito.
– Sei pazzo tu, anzi sei addormentato, io non respiro qui. Voglio stare
dove succedono le cose, e qui non succede niente, non imparo niente.
– Ma ci sono i tuoi genitori! – Volevo dirle che c’ero io.
– Appunto! Ci sono i miei genitori. Ed è la ragione per cui tutti
dovremmo andar via da dove siamo nati –. Per la prima volta lo pensai
anche io. Ci congedammo mentre la campanella suonava, lei uscí da scuola
lasciando nell’aula il soprabito e lo zaino: ammennicoli, eccedenze, oggetti
di cui si poteva fare a meno.
Praticai l’arte della rimozione, tecnica che si collauda da bambini
davanti a traumi e brutture, e che si perfeziona nell’adolescenza. Ma i giorni
di maggio correvano senza lasciarsi afferrare e a giugno ci salutammo con
un bel pianto mentre la pioggia batteva sui vetri e l’ostro fischiava nei
comignoli.
– Non fare troppo casino mentre sto fuori.
– No, non farò altro che aspettarti –. Lo dissi con una devozione
spaventosa.
– Non essere patetico, non sta morendo nessuno.
– Se vai con qualcuno mi chiami? – le chiesi con la faccia da pazzo.
– Avrai tante telefonate da Londra, – disse ridendo. Sorrisi anche io, ma
sentivo il cuore come un brandello di seta.
Il suo banco vuoto fu un pozzo che fissavo tutti i giorni. Invece di
telefonare scrisse alcune lettere in cui mi raccontò della famiglia che
l’ospitava, composta da un suonatore di oboe e una venditrice di macchine
da cucire che parlavano a un cane come fosse un umano e a lei rivolgevano
pochissime confidenze in un inglese incomprensibile, facendola sentire al
centro di un perenne complotto.
La mia solitudine si acuí a tal punto che persino mio padre se ne
preoccupò; un giorno propose di portarmi a caccia con lui, ma quando lo
vidi pulire con accuratezza le canne del fucile nella camera da letto mentre
parlava da solo addobbato come la carta roccia d’un presepe («Sparo a tutto
quello che si muove, pure alle farfalle», minacciava), finsi un malore.
Restai a casa a guardare i biglietti che mi aveva scritto Claudia,
sprofondando nella nostalgia lancinante che a quell’età ha un suo retrogusto
piacevole.
Supplicai per mesi il Signore, e dunque Gesú, e dunque lo Spirito Santo,
di rivelarsi con un piccolo miracolo. Chiedevo che lei arrivasse a sorpresa
dall’altra parte della Manica con l’improvvisa interruzione della sua
esperienza londinese. Un giorno mia madre con una voce emozionata e
l’espressione complice apparve sulla soglia della mia camera.
– C’è lei.
– Dove? – E il cuore fibrillò.
– Al telefono –. Pietrificato, mi alzai percorrendo quei pochi metri verso
la cornetta posata accanto all’apparecchio. Aveva dunque la sua prima
avventura da raccontare. Il magone mi toglieva il fiato.
– Is that you, my best friend? – sentii dall’altro capo, con un leggero
ronzio sullo sfondo. Mia madre sparí lasciandomi con un sorriso allusivo
che voleva dire: «Sappiamo solo noi quanto è grandioso l’amore per un
Fanelli».
Andai al dunque.
– Con chi è successo? – Non avevo tempo da perdere, dovevo subito
conoscere la verità e avviare le pratiche della rimozione il prima possibile.
– Mi sono innamorata, – rispose.
– Sono felice per te –. Ero morto.
– Mi sono innamorata della techno.
– Non ho capito.
– La techno.
Cosí mi raccontò con trasporto che sí, era innamorata, ed era un amore
incondizionato. La musica elettronica. Il colpo di fulmine era avvenuto una
domenica pomeriggio; il giorno dopo aveva lezione in un campus
dall’architettura neoclassica e grandi prati verdi che nessuno osava
calpestare. Aveva seguito due amiche, una indiana e l’altra cilena, le
avrebbe seguite fin nei loro Paesi di origine, entusiasta di dividere
un’avventura con persone che appartenevano a mondi cosí distanti. Si era
ritrovata nella periferia estrema, a Northwood, in un capannone; non aveva
mai visto un posto simile, un centinaio di ragazzi vestiti di scuro con code e
rasature, basette colorate; c’erano oggetti irragionevoli sparsi ovunque
come astronavi, capsule di ferro e alluminio, ingranaggi arrugginiti e
vecchie automobili compresse come scatole; le poche macchine nei paraggi
erano inghiottite dal fango, e anche le sue gambe scoperte, nonostante gli
anfibi pesanti, si erano sporcate di melma argillosa. Eppure il suono che
usciva dal muro di casse in fondo all’orizzonte di un degradato stabilimento
di liquori aveva la stessa armonia di un canto delle sirene, l’amniotico
fascino di quando ci si abbandona a una spirale. Claudia aveva seguito quel
suono, lasciandosi trasportare su una pedana di legno marcito e
scricchiolante. Una delle sue amiche ballava coi capelli sulla faccia
bevendo birra dalla bottiglia di un «amico» poco piú grande conosciuto
un’ora prima. Non era la solita musica. Quella sembrava arrivare
direttamente a una parte del cervello che lei pensava di non aver mai avuto.
Niente melodia, solo il ritmo e i bassi che le scuotevano il petto, e si accorse
che con l’alcol i bassi arrivavano meglio. La gente attorno aveva un’aria
perduta e innocua, non c’erano maschi che le mettevano le mani addosso o
la spintonavano, come nella discoteca del paese. Brilla, la faccia calda, i
pensieri radi, nel sangue fermentava un distillato di felicità. Riaffioravano
odori che non sentiva da anni, il ciuffo interrato alla radice di un fungo, i
rami di corbezzoli, la piccola gioia delle domeniche mattina quando suo
padre la portava ai concerti dell’Avvento e la lingua si inumidiva per la
frizzante allegria di un analcolico rosso. Aveva la sensazione che il tempo si
dilatasse. La musica, dunque l’arte, rendeva completa la natura. Era come
sprofondare in un tempo che precedeva tutto, un tempo in cui gli uomini
disegnavano sui muri delle caverne e ascoltavano il fuoco bruciare le
ramaglie; il ritmo, bastava quello a tenerla in pace.
Alla fine di quella lunghissima telefonata scandita dal rumore degli
scatti, avevo le lacrime agli occhi dalla felicità. Ma non mi importava nulla
che lei fosse andata o no con qualcuno, ero felice perché per la prima volta
avevo percepito l’esistenza di un’altra vita, piú ricca, variopinta, anche
abissale, e quella vita era a portata di mano e la stava vivendo la persona a
me piú cara.
– Mi sarà costata centomila lire questa telefonata.
– Ti voglio bene, – dissi fremente.
– Anche io, Little Frank.
– Devo fare l’esame per la patente, – annunciai tronfio.
– Cosí quando torno mi vieni a prendere?
– Quindi torni?
– Non baciarne troppe in questo tempo, – rispose.
– Dici sul serio? – Ero contento ma anche stordito da quel lampo di
ironica gelosia.
– Scherzo, ovvio –. La telefonata si interruppe.

Invece di placarsi, la mia solitudine s’aggravò. Scappai in oratorio anche


se ero diventato troppo grande per giocare con i ragazzi della parrocchia.
Era come se a diciassette anni non si potesse piú essere cristiani. Ma a me
cresceva una febbre, l’horror vacui si riempiva con la preghiera, con la
frequentazione dei paraventi cartonati dietro cui si cambiava don Bastone.
Andavo lí in sagrestia e mi vestivo con un abito talare, stretto in vita con
maniche lunghe, svasato alle caviglie e con una fila di bottoni davanti.
Trafugai un rocchetto cardinalizio, un ferraiolo color porpora e una stola
viola usata nei tempi dell’Avvento. Sfilavo nelle stanze vuote mentre don
Bastone schiacciava il suo pisolino pomeridiano, fuori il paese si
abbandonava al torpore della controra, in estate le cicale e in inverno il
ronzio del treno al cherosene. Mi guardavo nello specchio gonfiandomi
come una rana. Ma la divisa del Signore pesava quanto un’armatura,
soffrivo il colletto, il freddo dei bottoni della palandrana sul petto nudo.
Un giorno, mentre giocavo a dire messa nella sagrestia, sentii da una
finestra le grida di una banda di ragazzini piú piccoli di me, avevano tredici
o quattordici anni. Mi accostai ai vetri e li scrutai con bonario paternalismo,
come un sacerdote che controlla dall’alto il fluire ordinato del mondo.
Erano lí con le magliette stracciate, o a torso nudo, correvano, saltavano
nella torba con febbrile vitalità di nervi, sollevando nuvole di terra come
bestie liberate dopo una lunga detenzione. Erano uguali a me qualche anno
prima. Quando mi videro alla finestra mi urlarono: «Padre Veleno succhiaci
la ciola!» e con le mani aperte accompagnavano una testa invisibile verso le
loro parti esecrabili. Aprii la finestra e gli diedi la benedizione disegnando
una croce nell’aria.
Mentre ero intento a impersonificare il pontefice apparve un’ombra in
abito talare che con voce potente minacciò che se non l’avessero piantata
sarebbero piovute «le mele cotogne», e nel nostro gergo le mele cotogne
erano i pugni con i quali i preti di campagna rimettevano in ordine le cose.
Don Bastone, livido e zoppo, non s’accorse di me, mentre i ragazzini si
dileguarono all’istante.
Provai a spogliarmi e scappare, ma accanto alla soglia dell’androne c’era
un secchio con lo straccio, una puzza fortissima di canfora.
– Giovane, non passare, è tutto bagnato, – mi gridò qualcuno con la
tonaca svolazzante. L’odore di canfora divenne piú forte sino a bruciare le
narici, ebbi la nausea. Non era don Bastone, ma Domenico, uno che serviva
messa, aveva forse vent’anni, zigomi alti. Indossava la tonaca anche se non
sarebbe mai diventato prete.
– Pure tu fai questo gioco? – gli chiesi candidamente.
– Mi sento piú adulto –. Aveva un tono dolce.
– Stai bene, Domenico, – gli dissi come mi aveva detto Claudia la nostra
prima volta.
– Grazie, Francesco, anche tu stai bene, dovremmo servire messa vestiti
cosí.
Domenico era alto, si avvicinò a me mantenendo un’espressione
rassicurante, aveva odore di menta. Non temevo nulla, anche se era già
chiaro come ne saremmo usciti.
– No, – dissi.
– No! – disse.
Ci abbracciammo. Fu un abbraccio rigenerante, spalle nervose e braccia
indurite non si opponevano.
– Non siamo ricchioni, – asserí.
– Credo di no, – risposi, ma la mia poca assertività lo irrigidí ancor di
piú.
– Solo un abbraccio, è solo un abbraccio, – dissi per calmarlo e
calmarmi.
Ci baciammo vicino alle labbra tenendole serrate. Il sangue bruciava le
tempie.
Per il turbamento smisi di andare in chiesa. Presi a leggere le Sacre
Scritture per conto mio, dopo i compiti studiavo il Vangelo, il libro
apparentemente piú facile da leggere, ma anche quello che mi metteva piú
in crisi. Smisi di esprimere desideri piccoli, tornai a puntare in alto, tornai a
pregare per la vita eterna. Ogni frase del Vangelo la applicavo alla mia vita
di tutti i giorni sottintendendo una domanda: sto facendo la cosa giusta?
Quanto tempo perso la giovinezza, quanto tempo perso a cercare una
risposta a quella domanda, quando invece era meglio non rispondere affatto.

Claudia rientrò da Londra il giugno successivo. Percepii il suo arrivo in


città, Martina profumava di grano e alberi di fico, e come tutte le estati le
campagne e il mare si erano avvicinati al paese.
Mantenni la promessa, l’andai a prendere con la Seicento di mia madre,
accostai davanti al cancello della villetta, i limoni brillavano dai rami sulla
strada. Dal cancello venne fuori una macchietta del cinema muto, in
salopette nera e bombetta, occhiali tondi azzurri e una ciocca verde che le
scendeva sul collo. Entrò nell’auto e senza salutarmi attaccò:
– Sei pazzo? Perché hai parcheggiato sotto casa?
– Che male c’è?
– Se ci vede mia madre le viene un infarto.
– Se non avessi saputo che eri tu non ti avrei riconosciuta.
– Non hai visto nulla –. Girò la testa mostrandomi un soleluna tatuato
sulla nuca.
– Come lo trovi?
– Un tatuaggio definitivo?
– Nulla è definitivo nella vita –. Vide che non reagivo. – Era una battuta
Francesco, è un ricordo che avrò di questa città pazzesca.
– Quindi è indelebile.
– Niente, sei come mia madre.
– Non sono come tua madre, – protestai bofonchiando.
– Sai che mi ha tolto la parola perché ho il tatuaggio e il piercing? – E
posò il dito su un sottile anello che brillava sul sopracciglio destro.
– Il piercing? – Mi vergognai un secondo dopo averglielo chiesto.
– Ti ho portato un regalo, – mi interruppe.
Si trattava dell’edizione inglese di Oliver Twist con una dedica: «Gli
amici sono come il buon whisky, invecchiando migliorano, ma a me il
whisky fa schifo e tu no».
Trascorremmo il pomeriggio girando per le poche strade in cui mi
sentivo sicuro di guidare, poi Claudia implorò di andare al mare. Una
ventina di chilometri per le spiagge piú vicine, il tramonto incombeva e
l’aria volgeva al tiepido. Provai a dirle che non avevo mai guidato fuori
città, che non ero abbastanza esperto, che avevo paura, ma lei me lo ordinò
con la dolce fermezza con cui aveva sempre introdotto nei nostri dialoghi
una rivoluzione.
– Faremo insieme una cosa che non abbiamo mai fatto.
La paura indietreggiò perché accanto c’era lei, mi accarezzava la mano
mentre cambiavo le marce e sussurrava come se stesse confessando un
segreto. – Stai andando bene.
Le viti e le chiese rupestri, i frutteti di Cisternino, poi i monti trapuntati
di querce e infine gli uliveti con dietro l’orizzonte fatto di due azzurri che si
baciavano. – Torneremo col buio, – dissi con un lieve tremito.
– Stiamo insieme, non ci succede niente.
– Sei cambiata.
– Sono piú stronza e ho scoperto che mi fa schifo la birra, – e ridendo: –
Ho anche imparato un sacco di parolacce inglesi e so cantare Starman di
David Bowie.
Tenevo i finestrini abbassati e mangiavo l’aria di giugno. Davanti agli
scogli di Savelletri si tolse la bombetta e la lanciò sul cruscotto, scosse la
testa liberando i capelli rossi e la ciocca verde.
– Ieri sera sono uscita con un tipo.
– Hai visto uno prima di me? – dissi deluso.
– Era uno che vedevo anche l’anno scorso.
Sospirai.
Sospirò.
– Ha preteso che lo baciassi e se non l’avessi fatto avrebbe detto a tutto il
paese che sono una puttana che era stata con tutti i suoi amici…
– Perché me lo stai raccontando?
– Perché di maschi cosí è pieno qui e non ci ero piú abituata.
– Vuol dire che a Londra… sei stata con qualcuno?
– Fa parte della vita, Francesco.
– Perché non me lo hai detto al telefono?
– Perché non erano importanti.
– Sei innamorata?
– No. Non mi piace nessuno.
– Io non sono come loro.
– Lo so.
Tornammo a casa stanchi, percepivo un fastidio lontano, parlammo dei
nostri genitori. L’anno londinese della figlia aveva cambiato il rapporto di
Etta e Enrico, mettendoli davanti all’insulsaggine della loro recita. Etta
aveva avviato le pratiche della separazione passando lunghi pomeriggi negli
studi legali del paese con avvocati che facevano grandi promesse, mentre
Enrico assecondava la finzione rimanendo sotto lo stesso tetto, ma
dormendo in un’altra stanza.
Arrivati sotto casa i limoni nell’oscurità parevano d’oro e le luci della
villa occhi di fuoco. Claudia armeggiò con la manovella della portiera: –
Perché apri il finestrino ora che esci?!
– Ho fatto una scoreggia.
– Ma perché me lo dici?
– Perché non abbiamo segreti noi due, siamo fratelli.
– Io non volevo essere tuo fratello.
– Non è dipeso da noi.
– Non mi piace.
– Sei pesante Veleno, e comunque ne ho fatta un’altra.
– Basta, piantala.
– Vedrai che ti piacerà.
– Le tue scoregge?
– No, Londra, l’Europa, il mondo, la vita fuori da Martina.
Tornato a casa aprii il Vangelo con la copertina di pelle sul comodino.
Spesso mi affidavo a una frase a caso la sera quando entravo sotto le
lenzuola fredde, e quella sera il caso si aprí a Matteo, capitolo 7, versetto
13: «Larga è la porta e spaziosa la via che porta alla perdizione, molti sono
quelli che entrano per essa».
Durante l’ultimo anno scolastico il nostro rapporto divenne ancora piú
intimo e disperato. Le confessavo quante seghe mi ero fatto nell’ultima
settimana, quante volte mi ero strusciato al divano mentre i miei genitori
guardavano la televisione. E lei, dopo avermi osservato seria e con teatrali
scossoni di testa, se ne usciva con un: «Pure io». Le dicevo tanto ma non
tutto, non le avevo confidato il bacio mancato con Domenico, talmente
sconvolgente da suscitare certe fantasie a tema: il giovane sacerdote che
urla parole della Passio Christi dentro un megafono, il figlio del corniciaio e
un ausiliario del traffico nei panni dei due ladroni appesi su croci in legno
verniciato nella piazza del Cinema Nuovo, le cosce dei centurioni, il torace
di Cristo in croce, impersonato dal figlio di un ufficiale dell’aeronautica, la
spalla seminuda di Ponzio Pilato, la caviglia di Giuda. Mantenni il riserbo
sui maschi che giravano con rami d’ulivo durante la Passione (si chiama
Passione non a caso, pensavo), fiaccole e aste appuntite – che si palpavano,
spingevano e tradivano con un bacio. Sensazioni furibonde che affioravano
simili a una carezza dell’inconscio. Tenevo tutto ciò lontano da Claudia, ma
anche da me stesso.
Odiavamo la moda e i gusti musicali degli altri, ci vestivamo con tute
acetate e indossavamo collane di bigiotteria, ci leggevamo le lettere di
Sibilla Aleramo e Dino Campana. Ma ancora una volta dovetti scendere
dalla sua giostra, perché arrivò Michele Duranti.
Si erano conosciuti a una festa in discoteca, la relazione mi fu annunciata
attraverso un’apparente, innocua domanda.
– Stasera non usciamo insieme, ti offendi?
– Perché me lo chiedi?
– Sto bene solo con te –. Per me questo era amore, me lo facevo bastare,
ma lei aggiunse: – Si chiama Michele, vediamo un po’ come va.
– Chi è? – indagai, mantenendo il piú possibile il contegno.
– Un musicista, ha trent’anni.
– Forse un po’ grande, – commentai con una sfumatura di stizza.
– Ne ho baciati di piú grandi a Londra, – rispose con orgoglio, forse non
era vero.
– Qui siamo a Martina.
– Me la so cavare.
Michele Duranti non era un tipo appariscente, ma solido e
sufficientemente vissuto. Indossava sempre la stessa felpa col cappuccio e
quando suonava nei pub con la sua band di scappati di casa sfoggiava una
maglietta con scritto «Ho la capa vacante», sorprendente e sincera presa
d’atto della propria identità.
Claudia mi spingeva a seguirla a questi concerti dentro locali
dall’umidità ferale e l’acustica indegna – cantine, garage, pub in disarmo.
Lui tossicchiava in un microfono, dicendo prova prova, poi suonava una
chitarra elettrica accompagnando il vocalist in strofe sgrammaticate e
rabbiose. Claudia ne era rapita, e lo aiutava a trascinarsi dietro gli strumenti,
si vestiva con una felpa col cappuccio come lui e infilava le mani nei jeans
strappati mentre lui brandiva la chitarra. Il sabato notte l’aspettava da sola
sui muretti a secco rollandosi una canna. Solo una cosa era piú triste dei
concerti della band di Michele Duranti: i finali dei concerti della band di
Michele Duranti, quel momento in cui restava il vociare dei musicisti che
smontano le casse e i tramestii delle custodie trascinate verso le auto
scassate abbandonate sul terriccio di un parcheggio.
Quando si seppe che Claudia lo frequentava divenne il piú desiderato
dalle mie compagne, perché l’amore è un capriccio, volatile e contagioso
come un virus.
Claudia scurí il rosso dei capelli d’un mogano austero, se li legava, e
avvolgeva al collo una sciarpa nera per coprire il tatuaggio, tolse il piercing.
Non parlava ai ragazzi fuori da scuola, e quando mi rivolgeva la parola,
l’ansia di essere vista le faceva tremare la voce. La sua libertà era tutta nei
libri che si portava nella borsa di tela, c’era Caro Michele di Natalia
Ginzburg perché in quel titolo, forse, cercava una verità che potesse parlare
anche a lei.
Michele Duranti era l’unico adulto che la trattava da adulta. Le lasciava
guidare la sua auto, l’ammetteva alle prove della band, le permetteva di
lavorare in nero nel suo negozio di abbigliamento durante il fine settimana.
La voleva con sé quando incontrava i fornitori o discuteva l’ingaggio di una
serata. Claudia s’adagiava su di lui come chi cerca riparo dalla propria
adolescenza.
Purtroppo le persone che ci piacciono possono essere maledettamente
diverse dalle nostre aspettative. Michele Duranti, cresciuto nel suo brodo
patriarcale, era possessivo, bulimico di attenzioni, narciso e prepotente. La
spingeva continuamente a scegliere tra lui e il teatro, tra lui e la gita
scolastica, tra lui e la festa dei cento giorni. Tra lui e me. Anche se questo
non era ancora accaduto, ne sentivo vicino il momento.
Un sabato sera nella villa comunale fui richiamato dalle urla d’un
capannello di ragazzi che incitavano due persone in una rissa.
Tra i palmizi e un trullo diroccato circondato da gerbere due ombre si
sfinivano in una lotta serrata fino a confondersi in un’unica forma. L’uno
cercava di gettare a terra l’altro. Non ero attratto dalle risse, ma quella mi
riguardava. Uno dei due era Michele Duranti che presto ebbe il sopravvento
sull’altro. Claudia piangeva in ginocchio tra due amiche che la trattenevano,
scuoteva la testa cercando di scagionare il ragazzo a cui Michele urlava di
non farlo piú.
La voce di quella scena cruenta arrivò alle orecchie di Etta e Enrico. Si
riavvicinarono, nella speranza di separare Claudia da Duranti. Non
sapevano che questo invece avrebbe determinato la resa di Claudia a
Michele. Eravamo giovani per capire che non c’è lungimiranza né
freddezza che tenga quando infuria la passione, o quando si è cosí delusi e
arrabbiati da voler incendiare tutto quello che di noi non ci piace. Claudia
ambiva a dare alle fiamme l’ipocrisia in cui era cresciuta, il senso di
vergogna e di colpa. Io non sapevo cogliere il suo conflitto, notavo soltanto
che era in pericolo, perché ero un codardo e un maschio (il maschio che si
innamora indossa spesso l’armatura del salvatore e la sostanza del
predatore).
– Chi te lo ha fatto? – le chiesi un pomeriggio indicando il segno scuro
nascosto dietro gli occhiali da sole. Sapevo già la risposta.
– Lasciatemi stare, – rispose lei. E in quel plurale c’era la sua verità.

Ripresi a supplicare la Trinità, andavo in tutte le chiese del paese


pregando che si lasciassero. A San Domenico recitavo l’Atto di dolore, alla
Madonna del Carmine il Salve Regina, a Sant’Antonio il Padre Nostro, a
Cristo Re il Gloria al Padre, infine alla chiesa Baita – dove le domeniche la
famiglia Fanelli lavava i suoi peccati – mi battevo il petto con l’Ave Maria.
Le mie preghiere furono esaudite.
Come tutte le grandi svolte claudiesche, arrivò inaspettata e improvvisa.
Erano al mare, non c’era nessuno per chilometri, lui senza ragione le tirò i
capelli. Fu un gesto gratuito e tracotante. Lei reagí e gli mollò uno schiaffo;
a quel punto gli occhi di lui brillarono di un lampo nefasto, la spinse sulla
sabbia, poi le mani raggiunsero il collo e cominciarono a stringere. L’aria le
venne a mancare. Il cielo grigio una coperta nera. Rivide sua madre quando
da bambina l’aiutava a cogliere i ciclamini dai bordi della strada.
Arrivavano da lontanissimo, un rosa acceso che diventa pallido, poi apparve
altro: suo padre la metteva sulle spalle per farle toccare la testa grande di un
pupazzo di cartapesta, e anche lui era rosa, rosa ovunque, ma sempre piú
chiaro, mamma e papà sempre piú lontani, e da quel rosa si sprigionò una
forza: gli afferrò i polsi che premevano contro la gola, strinse sulle vene e le
ossa fino a liberarsi e correre.
Confidò che l’aveva salvata proprio Caro Michele quando Natalia
Ginzburg scrive che l’importante nella vita è camminare e allontanarsi dalle
cose che fanno piangere.
I giorni successivi alla fine della storia con Michele Duranti, Claudia si
aggirava per il paese con la solennità marziale dello spirito che tenta di
rialzarsi e riappropriarsi dei muscoli, dei tendini, dei nervi.
– Perché non ti piace piú?
Era una giornata luminosa e calda di giugno, aspettavamo l’esame di
maturità con la consapevolezza di una lama che taglia in due il tempo.
– Mah, si drogava troppo, aveva pessimi gusti musicali, non capiva le
cose che leggeva, – mi disse, e gli occhi le si inumidirono, poi cominciò a
camminare sfiorando con le dita i paletti in ferro della ringhiera, come a
contarli, fino al portone della villa; la seguii, come sempre. – Comunque, –
aggiunse, – ho imparato tante cose –. Mostrò un ghigno che voleva essere
un sorriso, senza riuscirci.

A una manciata di giorni dalla fine della scuola Claudia mutò ancora, si
colorò di azzurro la ciocca e tagliò cortissimi gli altri capelli. Aveva smesso
di studiare quello che ci assegnavano i professori – Pascoli e D’Annunzio –
e si mise a leggere Elsa Morante e Dario Bellezza. Si contorceva su
minuscoli volumi di poeti contemporanei comprati in edicola e commentava
con me i versi che la emozionavano. Con tali premesse l’esame di maturità
non poteva che essere una disfatta. La versione di greco – Zeus ritratto da
Omero come un ozioso e libertino – sembrava nascondere un significato
minaccioso, quasi alludesse al nostro avvenire. Claudia mi aveva passato un
foglio di carta appallottolato con la traduzione e una nota («Luciano di
Samosata uno di noi») che copiai, interpretandola sciaguratamente come
una frase della versione. Questo agitò il sospetto.
Durante la prova orale ne chiesero conto, poi dissero a entrambi che
avevamo fatto una versione perfetta ma il voto sarebbe stato diviso in due;
io chinai la testa attonito, Claudia invece sostenne lo sguardo severo del
commissario. La vita era enorme e aspettava solo di essere divorata non
appena quella noiosa incombenza fosse stata portata a termine. I voti
preoccupavano soltanto Etta e i suoi oziosi pomeriggi dal parrucchiere in
quello spietato gioco di società in cui le famiglie paesane schierano le vite
dei loro figli come allo Start di un ippodromo. Alla fine diedero a Claudia il
mio stesso voto, ottantacinque, che la smorfia napoletana indica come
«l’anima del purgatorio».
Restammo col dubbio se tornare a casa e dare la notizia del voto non
esaltante oppure ubriacarci e festeggiare la fine di quella vita di obblighi. Il
conciliabolo durò poco perché lei interruppe ogni inutile dibattito sul nostro
futuro prossimo guardandomi negli occhi con un sorriso beffardo: mi chiese
perché non le avevo ancora raccontato la grande novità che era venuta a
sapere.
– Non so di cosa parli.
– Non ti devi vergognare, sono molto felice per te.
– Cosa?
– Tutti dicono che sei andato con Domenico, quello che serve messa alla
tua parrocchia.
– Ma che dici? – Pensai a come simili voci in paese significavano la
condanna a morte, non avrei mai piú potuto mettere piede in parrocchia
senza che qualcuno mi spintonasse toccandomi l’orecchio destro mentre
urlava «ricchione». – Non è come pensi, – la mia voce s’arrochí.
– A me non devi mentire, – mi fece una carezza con le nocche della
mano. – Non vergognarti, ognuno ha le sue pulsioni. Anche io da bambina,
una volta, mi sono innamorata della mia compagna di banco –. Era una
rassicurazione che somigliava al tepore di un accendino in una notte gelata.
– Si è tante cose durante l’infanzia, – replicai amaro. Infine, a voce
bassa, la bocca asciutta, dissi: – A settembre entro in seminario.
Vidi le sue labbra muoversi, un lieve gonfiore sulle guance, come stesse
prendendo fiato.
– Mi faccio prete!
– Dici sul serio? – incalzò.
– Scherzo, ovvio.
La nebbia riempiva l’orizzonte delle mie ambizioni future. Cosí protesi
le labbra e la baciai.
Parte seconda
Spatriètə

(agg. Ramingo, senza meta, interrotto, detto del sonno che si interrompe: u sunnə spatriètə. Anche
balordo, irrisolto, allontanato, sparpagliato, disperso, incerto. Esempio dal dizionario martinese-
italiano di Gaetano Marangi: lassə’ apirtə u jaddənèrə e lə jadd nə sə spatrajĕrənə int’a və́ gnə,
«lasciò aperto il pollaio e le galline si dispersero nella vigna»).
Martina Franca è uno di quei paesi abbastanza grandi per tenerti al riparo
da situazioni incresciose, salvo plateali sbadataggini. Un mattino, nei
paraggi della parrocchia, incontrai Michele Duranti bardato di collane, una
selva di serpenti tatuati sulle braccia. Salivo sul sagrato e ammiravo le facce
da oratorio o le intemerate di don Bastone aggiustandomi le giornate col
vento di giugno fatto di sabbia e grano. Una parte di me era già consapevole
di cosa stava cercando, ma un’altra quella consapevolezza la seppelliva nel
senso di colpa e nella paura, mi sentivo un essere informe: non sapevo
ancora che si possono desiderare piú persone in modo molto diverso, non
consideravo l’ipotesi di amare Claudia e smaniare allo stesso tempo per il
bacio di un pretino con i paramenti.
Ad aspettare che qualcosa accada può venire il peggio. Michele Duranti
mi credeva il nuovo fidanzato di Claudia Fanelli.
– Ti metti Veleno come cognome? – chiese minaccioso schioccando la
lingua.
Risposi «Sí» senza guardarlo, fedele alla regola di non contraddire chi è
piú potente e disperato di te. Fissavo le teste di serpente dei bicipiti e
masticavo il fiele dell’ingiustizia che stava per compiersi.
– Sai cosa sei, Veleno? – continuò con l’aria allusiva di chi conosce
meglio di me il mio destino.
– Non saprei.
– Sei una capa di cazzo.
Rimasi in silenzio, aveva un fiato cattivo.
– Allora? – incalzò. – Non hai niente da dire, capa di cazzo?
– N’dd, – dissi, che nel mio dialetto vuol dire niente. Rispondere con
quella parola cosí gutturale, animalesca, mi diede il tempo e la forza di
allontanarmi, il dialetto aveva fatto perdere a Duranti l’attimo che divide la
decisione dal dubbio. Camminai piano in direzione opposta, cosí come
aveva fatto Claudia quando l’aveva lasciato assecondando un romanzo.
Berciò frasi scostumate ma senza inseguirmi, le sue parole non pesavano
quanto le mie.

– Non sei stato un vigliacco, solo un uomo saggio, – mi consolò Claudia


dalla ringhiera che dava sul panorama murgese. Era l’estate piú lunga della
nostra vita, quella prima dell’università, un periodo di grandi aspettative in
vista del nuovo millennio. Ci scambiavamo idee su poesia e musica (Bowie
e Iggy Pop c’entrano qualcosa con Rimbaud e Verlaine?) Eravamo
nozionisti e idealisti e guardavamo al futuro pieni di paura e possibilità (io),
speranza e determinazione (lei). Le nostre vite non erano cambiate dopo il
primo bacio, che fu anche l’ultimo; avevamo provato a farcelo piacere,
caldo e asciutto, superficiale, a fior di labbra. Ci amavamo in modo diverso,
ma ci amavamo.
A ogni tramonto ci separavamo per tornare alle nostre recite domestiche.
Etta lavorava sul senso di colpa, la moglie devota e il marito fedifrago che
prima o dopo avrebbe pagato la sua slealtà al giuramento matrimoniale. Ai
miei occhi apparivano come una coppia improbabile tanto quanto i miei.
S’erano innamorati sul treno per Martina Franca ai tempi dell’università.
Enrico apparteneva a una famiglia di merlettai e ricamatrici. Sul treno notò
Etta con i suoi colletti e polsini di pizzo mentre puliva con dedizione il
posto sul quale si sarebbe seduta.
– Secondo te è possibile innamorarsi di una persona per tenerezza e non
per passione? – mi chiese Claudia.
– No.
– E invece io sono nata da due persone che provano tenerezza l’una per
l’altra, ma non si sono mai amate davvero.
Immaginai che le andava incontro con un fazzoletto di seta bianco in
mano, la criniera ancora fulva. «Mi chiamo Enrico e hai perso questo», le
diceva. «Non lo trovavo piú», si schermiva lei. «Sí, lo hai perso tempo fa,
l’ho raccolto da terra e l’ho fatto lavare». Cosí ce li rappresentavamo
nell’inesausto gioco di reinventarci la vita dei nostri genitori prima che
conoscessero l’amore che li rendeva pazzi e clandestini.
Dopo un temporale estivo, di quelli che segnano l’ambiguo confine da
cui le giornate iniziano a rimpicciolirsi, ci rifugiammo a casa mia. Una
bomba sulla nostra routine fatta di passeggiate e confidenze all’aria aperta.
La casa era vuota, Claudia la percorse con gli occhi, il naso puntato verso la
mia camera dove ci saremmo cambiati, sguardi furtivi a portafotografie e
scaffali. «Ho una casa deludente», pensai, non c’erano libri ma
cianfrusaglie accumulate sui piani. Invece lei cercava tracce della donna che
amava suo padre. Intirizziti ci spogliammo senza imbarazzo, solo odore di
pioggia, piedi scalzi e capelli umidi. Poi impugnò il fon come una pistola e
mi sparò addosso il getto caldo. Rideva guardandomi scomposto dal vento
bollente che soffiava sui miei capelli e il viso. Avvertii una sensazione di
pienezza.
Mi confidò che suo padre le aveva aperto un conto corrente e ci aveva
messo dentro un milione. Un milione! La cifra mi parve spropositata, non
riuscivo neanche a raffigurarmela, le consigliai di nasconderli in una parete.
Spensi il fon e un silenzio pesante ci gravò sulle spalle.
– Ci farò un viaggio, – disse Claudia.
Tentai di dissuaderla accampando pavidi scrupoli.
– Te li vuoi godere nella tomba?
– Abbiamo un sacco di tempo davanti a noi, – insistetti.
– No, non c’è tempo, Frank.
Claudia accese la radio ma incappò solo in notiziari: era stato chiesto
l’ergastolo per Giulio Andreotti, il Pontefice si era innamorato degli
occhiali di Bono, qualcuno aveva votato sí al sesso tra detenuti. Abbassò il
volume: – I grilli sono molto meglio –. Il cielo si era rasserenato, uscimmo
lasciando la casa in subbuglio.
«Non c’è tempo» continuava a ronzarmi nella testa.

Le cene in famiglia dopo la maturità erano una tortura, perché si


trasformavano nel festival dei consigli non richiesti. Ogni volta un discorso
edificante di Veleno padre: una sera se ne uscí con la storia che aveva
investito soldi e tempo nei miei studi. – È giunto il momento di tirare le
somme e restituire il dovuto con una scelta universitaria esemplare –. Che
solennità, che imprevedibile forbitezza d’espressione del pistolero di
Martina, Texas.
Gliel’avevo sempre invidiata, quell’aria attiva, vitale, naturalmente
pratica. Spesso ne conseguivano atteggiamenti spicci che non contrastavo,
subendoli con quel misto di passività e rassegnazione che hanno i figli unici
tormentati da padri competitivi in cerca di conferme sulla loro supremazia
genetica.
Sazio e allegro cambiò discorso, della mia scelta universitaria in fondo
non gli importava granché, iniziò a bearsi di sue imprese scolastiche (una
lucertola di gomma nel cassetto della bidella). Mia madre, dall’altro capo
del tavolo, restava in silenzio, senza che la sua forchetta si fosse avvicinata
alla bocca. Nel piatto bianco, il verde cocomero in un angolo e il rosso dei
pomodori in quello opposto, poi le cipolle e i capperi.
– A proposito di investimenti, il padre di Claudia le ha aperto un conto
corrente, – dissi per provocarli. Gli occhi di ceramica di mio padre
incrociarono i miei, carichi di sfida. – Ci ha messo dentro un milione.
– Eh, grazie al cazzo, sono ricchi, – chiosò con la spavalderia del
bambino che grida il re è nudo. Bevve un sorso di vino, si diede un colpo
sul petto, trattenne il fiato, ridacchiò tra sé per aver sventato un rutto. Il
bambino non era bambino, e il re nudo lo vedevamo tutti senza che nessuno
lo indicasse.
Guardai mia madre. Tu non sei Claudia, tuo padre non è Enrico. Ce lo
aveva scritto in faccia.
– Puoi aprirlo anche tu un conto corrente, – disse. – Però poi domani
inizi a lavorare –. Ce l’aveva con me.
– Sí. Lavorerò, – dissi senza crederci.
– Lavorare Francesco? – intervenne mio padre scandalizzato. Dalla
finestra arrivò una musica leggera, un furgone di dolciumi. «Gessyca
Gelati, Gessyca qua, Gessyca là, Regali e Gelati, Gelati e Regali, Gelati,
Gelati!» Una melodia allegra e incalzante, un richiamo irresistibile. Mio
padre si alzò e improvvisò uno degli spettacoli di cui pare andassero ghiotti
i suoi studenti. Ancheggiò al ritmo del refrain e per ogni «Gelati» urlato
dall’altoparlante scuoteva il bacino, finché la musica si diluí nel ronzio
d’auto della periferia. Allora distese la mano e il braccio verso di me come
a passarmi un oggetto che non riuscivo a vedere. – Vai a fare il ballerino.
– Speriamo balli meglio di te, – gli disse mia madre.
– Non so ballare ma almeno non ho mai mangiato nel piatto degli altri.
– Piatto? – ridacchiò amaramente mia madre. – Come si sta sposati da
vent’anni con un piatto? Non era meglio sposarsi che ne so… un tappeto
orientale o… un cucchiaino, ti ci vedi sposato con un cucchiaino?
– Sei sempre esagerata, Elí –. Quando la chiamava Elí era una falsa resa,
mio padre non la prendeva sul serio.
– Sono un piatto pieno di crepe –. Mia madre lo disse tenendo gli occhi
fissi oltre suo marito e suo figlio, davanti a lei l’insalata scomposta nei
quattro ingredienti aveva un senso nuovo.
– Non litighiamo, Elí –. Mio padre voleva essere calmo, ma il respiro
accelerò. – Quel grand’uomo del vostro dottore regala un milione a una
bambina e ora è il vostro idolo, padre dell’anno 1999.
– Enzo –. Pronunciando il nome con una rotondità che preludeva a un
intervento severo, mia madre disse: – Sto per essere sgradevole.
– Sentiamo.
– Un padre dovrebbe discutere concretamente…
– … concretamente…
– … del futuro, parlare di facoltà universitarie.
– Puoi farlo tu quando non sei troppo impegnata in ospedale.
– Sei tu il professore, io sono solo un’infermiera, – lo disse con
un’umiltà spiazzante.
– Professore di coglioneria sono.
Basta, avrei voluto urlare, ma il furgone della Gessyca Gelati irruppe di
nuovo con la sua musica.
RegaliGelatiRegaliGelati.
Mio padre non aspettava altro, si avviò verso il soggiorno a passo di
danza, viveva in un mondo di invisibili spettatori, per questo era
impossibile volergli male.
– Da ragazzo era divertente –. Lo disse restando ferma, quasi impietrita,
dentro un abito azzurro che mostrava il collo lungo. – Adesso è diventato
tragico.
Gli occhi di Elisa Fortuna in Veleno erano però giacinti che si aprivano
alla luce. Quella luce per un breve tempo era stato mio padre, ma adesso era
Enrico. Quei giacinti avevano visto le persone del mio paese ammalarsi,
guarire e a volte morire, avevano accudito e accolto il loro dolore. C’era un
mondo che mia madre si portava addosso come una seconda pelle, e ci
aveva fatto il callo. Elisa Fortuna si era indurita per stampo e disciplina. Il
callo è un ispessimento della pelle, un tentativo di difesa delle cellule da
quella pressione che in medicina viene definita «insulto meccanico».
Eravamo in tanti a essere insulti meccanici attorno a mia madre.
– Stai con lei? – chiese.
– Non ho capito –. E invece avevo capito.
– Avete una storia tu e Claudia? – Le pesava pronunciare il nome della
figlia del suo amante.
– No, – risposi abbassando la testa ma tenendo la coda dell’occhio sulla
sua faccia. – Però vorrei, – aggiunsi.
– Lo immaginavo.
– Le voglio bene, piú che a me stesso.
Sul suo viso lessi l’espressione lucida e serena del sollievo.
Sul biglietto con cui mi lasciò le chiavi della sua auto scrisse
semplicemente «A Francesco».
Non mi chiamava piú «Uva nera», e anche se ero ormai un adulto me ne
dispiacevo. Sognavo che mi guardasse come un estraneo o un forestiero che
la incuriosiva, sognavo che mi prendesse la mano come quando entravamo
nel mare. Ma lei aveva maturato una nuova forma d’amore: la complicità.
Ci avventurammo infatti con il permesso speciale dei genitori adulteri
ma contro il parere dei genitori traditi. Quell’aria tiepida di un pomeriggio
di fine estate a due passi da Taranto, il ronzio di Artificial Intelligence
dentro un impianto scassato, diretti a una delle feste clandestine ispirate agli
Spiral Tribe, casse alte due metri e il fango alle caviglie per tre giorni di
seguito.
Attraversammo la piana lunare dell’Orimini, una distesa di roverelle
basse tra enormi massi bianchi, pietrame piatto interrotto da radi cespugli di
mirto selvatico. Frantumi di masserie abbandonate e un bosco di fragni
giganti dove avrebbero ballato per giorni gruppi di scoppiati arrivati da tutta
la regione. Il cielo aveva striature color ruggine, il Siderurgico si faceva
sentire col suo odore di uova marce. Arrivammo fino alla fila di auto sul
ciglio della strada segnata dalle sghembe mezzelune dei muretti a secco.
Claudia era stata taciturna tutto il viaggio, le accarezzavo il ginocchio nudo
con dolcezza. Aveva pantaloncini da calcio e anfibi, una maglietta senza
maniche, i capelli sciolti sulle spalle.
– Mia madre mi ha regalato un loculo al cimitero –. Si divertiva a
interrompere momenti di silenzio con annunci roboanti come questo.
– Una tomba? – Parcheggiai e cercai nei suoi occhi quanta verità ci fosse
in quello che mi stava raccontando.
– Una tomba, il mio nome in lettere dorate è già in bella mostra.
E tirandosi i capelli indietro per irreggimentarli in un elastico bianco,
uscí con un balzo dall’auto.
– Sei malata? – chiesi con il terrore che dietro quell’informazione ci
fosse una rivelazione terribile.
– No.
– Allora è malata tua madre.
Claudia scosse il capo come a dire che lei non poteva far nulla.
– Ognuno regala quel che sente.
– Tuo padre che dice?
Sospirò. – Mi ha dato quei soldi per lavarsene le mani –. Ci sedemmo sul
cofano caldo, la musica del rave arrivava come rigata dal canto di un
esercito di cicale.
– Cosa volevi da lui?
– Un viaggio.
– Sei stata un anno a Londra.
– Un viaggio io e lui.
– Non può?
– Non ha tempo, il tempo libero è per tua madre –. Le scese un’amarezza
che mi imbarazzò e mi vergognai di averla messa nella condizione di
dovermelo ribadire.
Camminammo fino al bosco, attraversammo un ponte sopra un torrente
in secca mentre la musica iniziava a seppellire il canto delle cicale, gli
alberi ci abbracciarono con la loro ombra. Notai una quarantina di corpi
seminudi che si dimenavano strisciando contro le casse nere, come se da lí
provenisse l’ossigeno per sopravvivere. Una ragazza con la stampa enorme
di un papavero rosso sulla maglietta ci venne incontro, simile a
un’apparizione, capelli verdi, polsi sottili. – Liberi tutti, – gridò, un urlo
sfiatato, di chi non ha piú le forze e attinge all’ultima riserva. Claudia
obbedí a suo modo, togliendosi la maglietta e restando in reggiseno. – Hai
sentito cos’ha detto? Liberi tutti, – ripeté.
In lontananza un drappello di ragazzi correva, si erano bagnati e tra le
mani stringevano sassi bianchi e neri.
– Sono tutti pazzi, – mi lasciai scappare.
– Sono liberi, – mi corresse Claudia. La ragazza con il papavero sulla
maglietta si spogliò, si slacciò il reggiseno, i seni bianchi brillarono sotto i
raggi del sole che filtrava. Poi da una borsa tirò fuori qualcosa con l’aria di
passarci un oggetto clandestino: un fischietto di plastica giallo. – Soffiateci
dentro, partecipate anche voi al nostro rumore, il rumore è di tutti –. Aveva
gli occhi che guardavano oltre, un oltre buono, un futuro in cui il rumore
accompagnava la strada per l’estasi.
Trascorsi la prima ora a guardarmi attorno cercando di capire cosa stavo
ascoltando. I fischietti seguivano selvaggiamente il ritmo tribale delle casse,
timbri saturati, andamento ripetitivo. La musica techno deforma il tempo
riducendolo a un continuo presente, era il ritmo degli uomini della
preistoria, dei guerrieri e dei cacciatori di un mondo primordiale, dei fuochi
che si accendono con le pietre focaie. Capii perché le rivolte venivano fatte
al rullo dei tamburi.
Eravamo un centinaio, ci dimenavamo con le stesse movenze delle
nostre nonne che per aver il permesso di ballare da sole si fingevano morse
dalla tarantola e condannate a morte. – Bevi solo bibite sigillate, – mi mise
in guardia Claudia; protestai, ma dentro di me apprezzavo quelle premure.
Si spogliò mille volte e si rivestí con stracci a caso, perché aveva sentito
il proprio corpo senza barriere esposto alla brezza di scirocco, al fiato della
gente come lei. Anche io mi ritrovai con la maglietta stretta di un ragazzo
molto piú piccolo, Claudia con una camicia hawaiana. Le guardavo il collo,
le mani, il confine rosa dell’abbronzatura.
Poi la persi di vista. Tachicardia, lingua prosciugata, un peso invisibile
sul petto e le ginocchia molli: una specie di crisi di panico che mi impediva
di chiedere aiuto. Avrei imparato da adulto che il panico è una forma di
libidine repressa e le nevrosi una manovra del corpo davanti al pericolo. Era
questa la mia vita senza Claudia? Una solitudine spaventosa senza neanche
il riscatto dell’ascesi?
Corsi per parecchio tempo nel bosco affidandomi allo spirito di
sopravvivenza e, solo quando ormai stavo per interrompere la ricerca, la
trovai, piú vicina di quanto pensassi, nascosta dentro una piccola fossa con
le mani intrecciate, in posizione supina.
– Che fai? – le gridai.
– Testo la mia nuova tomba.
– Non scherzare –. Ero stanco e arrabbiato.
– Vieni qui, Velenuccio mio, sottoterra con me. Vieni. Vediamo come si
sta insieme a fare i morti.
L’avrei seguita in fondo agli abissi, e in un baleno mi ritrovai a guardare
il cielo disteso dentro la terra, tra le foglie appuntite di rovere e l’umido
delle radici.
– Scavano queste buche per far riposare i compagni che ballano. Si balla
per giorni.
– Per giorni… – Ormai mi aspettavo di tutto, la musica entrava in noi
nello stesso modo in cui la terra assorbe la pioggia.
– Non pensi che fingere di morire sia un modo per non averne paura?
Non risposi. Solo da giovani se ne può parlare cosí seriamente e allo
stesso tempo con leggerezza.
– Andrò a studiare a Milano.
– Perché Milano?
– Perché è lontana, ma non lo sembra abbastanza. Ho deciso di provare
Economia alla Bocconi.
– Perché me lo dici adesso? – Claudia aveva passato tutte quelle ore con
me senza dirmi una cosa cosí importante.
– Mi sono fatta delle domande a Londra quando gestivo quei pochi soldi
con cui vivevo…
Nei suoi capelli arruffati luccicavano pagliuzze dorate di fieno.
– Ti ha spinto tuo padre? – chiesi, mentre restava distesa con le mani
giunte sull’ombelico e gli occhi perduti tra i rami di quercia che coprivano
il cielo.
– No, lui e mia madre sono ancora convinti che farò Lettere o Medicina.
– Anche io ero convinto ti interessasse la letteratura, – le dissi con un
pizzico di delusione.
– Non mi basta.
– Ma l’economia che c’entra con te?
– Mio padre mi ha dato dei soldi, mi ha aperto un conto corrente, mi ha
accompagnato in banca. Voglio dimostrargli che prendo sul serio il suo
regalo.
Ero confuso, la musica nelle orecchie era diventata un fastidioso
tumulto.
– Voglio capire perché esistono i ricchissimi e i poverissimi, non mi
basta la filosofia.
– Una marxista alla Bocconi! Una rotella fuori posto nel grande
ingranaggio della classe dirigente!
La sentii ridere col naso come se si trattenesse.
– Se ti piace pensarla cosí non sarò io a farti cambiare idea. Per me è
questione di autodifesa. Studiare Economia è come fare judo.
– Judo?
– Per difendersi dai malintenzionati. Non voglio che nessuno mi
gestisca.
Scappava nella direzione opposta ai propri genitori. La fuga dura il
tempo di un arcobaleno o per sempre. Studiare Economia in una città che da
noi meridionali veniva vista come la mecca del benessere e del
cosmopolitismo. S’iscriveva a un’università prestigiosa e competitiva per
dimostrare a se stessa e agli altri che il suo destino aveva un padrone, e quel
padrone era lei.

Le sirene della polizia irruppero prima di sera, il cielo era fucsia. I


generatori elettrici che davano energia alla musica furono fermati, ma il
fiato dei fischietti continuò ancora per un’ora abbondante, mentre la gente
si disperdeva sotto le spinte dei poliziotti che erano appena una decina,
anche se sembravano il doppio. «Non stiamo facendo male a nessuno», urlò
Claudia. Anche io avrei voluto urlare cosa ci fosse di sbagliato in cento
ragazzi che ballavano seminudi dentro un bosco, ma ancora una volta
Claudia era arrivata prima. Guardai le facce serie dei poliziotti che
identificavano i presenti. Da una parte i visi affilati e pallidi dei ballerini,
dall’altra le rughe degli uomini in divisa, maschi sopra i quarant’anni,
incaricati di reprimere quella massa di scansafatiche. L’unica donna aveva
capelli biondo cenere legati, un’espressione severa, gli occhi annoiati di chi
sta recitando una parte.
Claudia e io ci lasciammo identificare con indifferenza: essere schedati a
diciannove anni era una sorta di debutto avventuroso, meritevole di essere
raccontato una volta tornati in paese.
Ma la nostra macchina non c’era piú.
Erano andati via tutti e qualcuno se n’era tornato a casa con l’automobile
di mia madre.
– Può capitare. Andiamo in città e chiamiamo qualcuno che ci venga a
prendere e poi vado a fare la denuncia, di solito le ritrovano quelle come la
tua, – disse Claudia con la stessa serenità con cui si era sepolta viva.
– Da qui ci vorranno un paio d’ore ma arriveremo in tempo per l’ultimo
treno –. Voleva rassicurarmi anche se era ovvio che non sarebbe andata
cosí. Le luci delle ciminiere cominciavano a imporsi oltre l’ultima collina
prima del mare nero mentre un maestrale improvviso ripulí l’aria. Estrasse
una torcia e le notai il braccio pallido e nervoso. Ci incamminammo.
– Non sono mai stato in una strada di campagna di notte, – dissi con un
filo di paura.
– Questa non è campagna, – mi rassicurò.
– Non è neanche città, – protestai indicando il buio indistinto attorno a
noi.
– Forse ci siamo persi, – disse con aria svagata.
– Stai scherzando?
– Sí, Francesco, io scherzo sempre quando ho paura.

Fu una passeggiata indimenticabile.


Mettemmo tutto alle nostre spalle: l’auto rubata, le bugie, Milano e la
Bocconi. Marciammo col riferimento delle braccia d’acciaio del
Siderurgico che fumavano di rosso arancio nell’oscurità. Avviammo un
lungo dibattito sui nostri genitori separati in casa. – Tutti i genitori delle mie
amiche sono separati, solo che si ostinano a vivere insieme, – mi disse. La
verità di Claudia sull’amore a quell’epoca era già compromessa, l’amore
eterno non esisteva e io ero ancora un illuso a crederci.
Ai bordi di Taranto il cielo era stellato, il dente rosso dell’Isola del
Borgo si stagliò dalla periferia.
Arrivati in stazione non c’erano treni fino al giorno dopo.
– E ora che facciamo? – dissi disperato.
– Aspettiamo –. Le sicurezze cedevano anche in lei. Tossici, ombre di
marinai addormentati sulle panchine, barboni che si lanciavano i cartoni di
vino vuoti, urla di gabbiani che lottavano con i primi parcheggiatori.
Un’auto dai riflessi metallizzati accostò mentre ancora la sensazione di
avventura si stava sgonfiando. Una voce dall’abitacolo ci richiamò.
– Sei la figlia di Enrico? Vuoi un passaggio?
Un uomo abbronzato ed elegante affacciato al finestrino ci fissava, o
meglio, squadrava Claudia con un’aria che univa allusione e sicurezza.
– Chi è lei? Come sa chi sono?
– Marco Curcio.
– Marco chi?
– Sono un amico di famiglia, – disse l’uomo senza ripetere il cognome
che avevamo sentito benissimo.
– Non sono sola e non prendiamo caramelle dagli sconosciuti –. Rise
mentre lo diceva. «Ha paura», pensai.
– Non ho caramelle da darvi, solo un passaggio al Pergolo.
Aveva fatto bingo. Sapeva dove viveva Claudia.
– Andiamo, – crollai per disperazione e stanchezza.
Ma Claudia esitava. Sembrava aver piú paura di quell’uomo che delle
ombre che incombevano minacciose intorno a noi.
– Non mi fido, – mi disse a mezza bocca.
– Porto te e lui, – insistette l’estraneo col pathos di un rilancio a poker.
Passarono lunghi secondi. Dopo aver cercato approvazione nei miei
occhi, mi strinse le dita della mano e mi tirò dentro l’abitacolo.
– Tu avanti con lui e io dietro, – mi disse senza darmi il tempo di
protestare.
– Col tuo ragazzo ci teniamo svegli fino al paese, – disse l’uomo mentre
il motore rombò nella sbiadita striscia d’asfalto che si snodava verso la
campagna.
– Non è il mio ragazzo, – puntualizzò Claudia, le era venuta fuori una
voce dura e adulta, e in un attimo mi ridusse in mille pezzi.
Marco Curcio.
Sino ad allora per me era stato soltanto un nome. A volte compariva nei
tabelloni del torneo comunale di tennis, altre avevo sentito nel bar accanto
alla porta di Santo Stefano che il caffè «stava pagato» da lui. Un
«signorino», che a Martina significa scapolone adulto, ma per altri Marco
Curcio era un nullafacente con tanti quattrini. Trent’anni piú di noi, ma
anche cento, per tutte le vite che sosteneva di aver vissuto. Diceva di aver
fatto la guerra in Libano, di essere stato avvocato di un testimone di Ustica,
di aver vinto il concorso scritto in magistratura e aver rinunciato all’orale
perché avrebbe tolto tempo al tennis.
A vent’anni tutti ci crediamo non solo voci fuori dal coro, ma un
controcanto, una nota solenne e acuta che si staglia sulle altre.
Contestavamo l’autorità degli adulti, ma senza metterla in discussione
davvero: non appena si diventa consapevoli della propria innocenza, ahimè,
la si è smarrita. Da bambina, la madre di Claudia le disegnò uno sbilenco
quadrato con un gessetto sul selciato del viale di casa e la pregò di non
muoversi da lí. Erigere delle colonne d’Ercole – un espediente per non farla
correre troppo e dunque sudare, un limite che come tutti i limiti si annida
prima nella mente. Claudia pensò per alcuni minuti che le linee bianche
fossero magiche, e si sedette nell’attesa del permesso di uscire. La liberò
Enrico. – Sono chiusa qui, – gli disse indicando i segni bianchi che
limitavano il suo confine. Enrico sorrise e arricciando il naso si piegò a
cancellare un tratto di riga con un polpastrello. – Ora sei libera.
Anche Marco Curcio aveva cancellato un’immaginaria riga di gesso,
togliendola da un piccolo guaio una notte d’estate. Si presentava come un
uomo stabile, ironico, suadente, pragmatico consigliere nei piccoli inciampi
quotidiani, addosso oggetti fuori tempo (gemelli al polso, un fermacravatta
in ottone, accendisigari d’argento).
Claudia accettò un appuntamento.
Prendersi un caffè con lui era salire su un trampolino eretto sopra il
mistero, e a lei incuriosiva saltare e dargli una chance.
A Claudia parve piú piccolo di come se lo ricordava, notò subito la tipica
uniformità dei capelli che sanno di tinta ma diede la colpa alla luminosità
artificiale della sera che deforma i contorni della realtà. Si incontrarono in
un anonimo bar di periferia, di quelli con le vetrine di liquori e le cassette
metalliche di caramelle Sperlari, e dove occhi impertinenti capirono in un
istante che erano troppo complici e allusivi per essere padre e figlia. Curcio
ne era lusingato, Claudia sentiva scivolare lungo la colonna vertebrale il
brivido di trasgredire una convenzione.

– Ma sei pazza, ci stai uscendo davvero?


– Sono solo curiosa, non mi farei mai toccare da uno vecchio come mio
padre.
– Se succede qualcosa me lo racconterai?
– Non succede niente.
– Io non mi fido di uno che esce con una di trent’anni piú giovane.
– Non mi trattare da bambina stupida, conosco gli uomini, so come
tenerli al loro posto.

Raggiunsero un concerto jazz nelle campagne tra Cisternino e


Locorotondo, lui le cercò la mano e lei se la lasciò prendere, le parve
grande e tiepida, si sentí al sicuro da un pericolo non identificato;
camminarono nella polvere dei viali di sansa e argilla, si bagnarono con gli
spruzzi di Verdeca brindando agli sguardi invidiosi e giudicanti, poi lui
l’accompagnò a casa. A Claudia piaceva che non provasse vergogna
insieme a una ragazza cosí giovane, la divertivano la sicurezza e l’ironia
che aveva intravisto nei suoi occhi quando, indicandola con lo sguardo,
aveva detto al cameriere che sua nipote aveva sete.

– Ci guardano tutti, Frank. È una sensazione strana.


– Sei molto alta per lui.
– Dici che si vede tanto la differenza?
– Di altezza?
– No, di età.
– Sí, tanto.
– Allora mi trucco un po’ e mi gonfio i capelli, posso dimostrare dieci
anni in piú.
– Sono geloso.
– Non c’è motivo di esserlo, per ora è un’amicizia.
– Vi siete baciati?
– Ancora no.
– Che vuol dire ancora no?
– Non posso dirti che non succederà mai.
– Curcio è un uomo molto grande e ambiguo, e poi è lampadato, ha le
catene d’oro ai polsi, non mi piace, è approssimativo nello stile.
– Approssimacosa?
– Lo trovo superficiale, ciondola in piazza con una banda di benestanti
nullafacenti.
– Lo stai seguendo?
– Mi è capitato di incrociarlo…
– Smetti immediatamente.
– Non puoi impedirmelo.
– Sei come mia madre.
– No, non lo sono.
– Sí, sei come Ettaspiotuttiquanti.
– Continuerò a spiarlo.
– Però ti adoro quando sei geloso, Frank.
E rideva forte. Io invece no, mi odiavo e non lo ammettevo perché in
Claudia percepivo un cambiamento, uno slancio verso la vita che era
sempre in una direzione imprevista, sembrava che stesse tastando un limite:
dove posso arrivare, quanta irragionevolezza mi è concessa.

La macchina di Curcio correva nella notte con i finestrini abbassati, c’era


qualcosa di sazio nell’anima di Claudia, fuori le campagne schiarite dalla
luna. Marco e Claudia si fermarono davanti al portone di casa di lei, un
albero di limone unico testimone del congedo. Lei aveva i capelli pieni di
salsedine per la giornata trascorsa in spiaggia, se li teneva cosí quando era
estate, le piaceva dormire con l’odore del mare in testa. Lui la tirò a sé per
avvicinarsi le sue labbra. Lei sentí il fiato acre del maschio adulto, non
riuscí a percepire altro di quel bacio atteso.
– Dunque è andata cosí?
– Piú o meno, ma tu puoi capirmi, tu sei come me.
– Io vorrei essere come te, ma non ci riesco.
– Ti confesso una cosa solo se mi prometti che non ci rimani male.
– Non ci resto male, te lo prometto.
– Non so se vivere cosí lontano da Marco.
Claudia si sarebbe trasferita a Milano col dubbio di interrompere quella
storia appena nata. Mi stava dicendo che chi le sarebbe mancato era lui e
non io. Non avevo abbastanza sangue freddo per dirle cosa era giusto, che
certi amori possono sopravvivere alla distanza e al tempo, che anzi, nella
distanza, nel tempo, nelle separazioni si esaltano. Avevo diciannove anni e
non sapevo niente di amore, non sapevo niente di niente, ma afferravo la
sua felicità e non potevo che assecondarla.
Per i primi tempi non lasciò mai fino in fondo Martina Franca. Trascorse
molte ore sui pullman notturni che congiungono la Puglia a Milano, come
se non fosse convinta di quel distacco dal paese. Milano non le piaceva, se
l’era immaginata piú vitale e ricca, una città dove fosse impossibile sentirsi
soli, e invece si sentiva piú sola che mai; aveva sperato di vedere un
orizzonte diverso, le Alpi con le loro cime bianche, ma solo case e nuvole, e
non erano le nostre nuvole, non erano le nostre case: soprattutto le mancava
Marco Curcio.
Non smisi di spiarlo neanche quando Claudia partí. Dava l’idea d’essere
un uomo emancipato pur mantenendo un rapporto sereno con la propria
terra. La domenica quando le strade si svuotavano e le tavolate
s’affollavano, Curcio pranzava solitario nell’unica trattoria del paese che
restava aperta per i turisti. Sosteneva di aver girato il mondo e a
cinquant’anni si mostrava affrancato dal rito familiare. Libero. Senza una
moglie, un figlio, un genitore, uno zio. Libero da certi infernali ferragosti,
natali, pasque, passati insieme a gente che non ha nulla a che vedere con te.
In lui percepivo un’idea di indipendenza, poteva viaggiare, cambiare casa e
lavoro quando voleva. Era la proiezione futura delle nostre aspirazioni.
Di quel primo anno universitario in cui Claudia fu al fianco di Curcio ho
ancora l’impressione che fosse un prolungamento della nostra estate
postdiploma. Rivedo Claudia rannicchiata tra i sedili della corriera.
Preparava accuratamente i suoi ritorni alla fine di ogni esame. A me il
compito di reggerle il gioco, perché comunicava un orario diverso ai
genitori per stare piú tempo con Curcio che la veniva a prendere. La
telefonata arrivava quando il pullman s’era fermato in una stazione di
servizio a Candela. La conoscevo bene quella fermata, il confine dei
pugliesi, da un lato le immense pianure del Tavoliere e dall’altro i colli e le
montagne dell’Appennino. Si sedeva sul guardrail e si lasciava abbindolare
dal paesaggio in attesa che il pullman riaccendesse i motori. La Puglia,
Martina, i nostri cieli hanno queste maledette unghie affilate che ti
artigliano, non si può andar via senza graffi.

Accadde in quel gracile anticipo d’estate che sono le miti serate di


maggio sui seni neri della costa salentina. Una di quelle sere Marco Curcio
la portò a cena in una masseria vicino a Lecce, e lei si sentí lusingata. Gli
parlò dell’università, e dell’amore. Usò proprio quella parola: amore.
Curcio non batté ciglio; con gesti lenti e studiati, la guardava negli occhi
senza mai toglierle le mani dalle gambe nude e nervose. Lei indossava una
minigonna, si sentiva bella e sicura. I lumi delle candele gonfiavano le
ombre dei due amanti e le voci erano sottili perché nessuno li sentisse.
Claudia gli chiese se fosse il caso di parlare con suo padre Enrico. – Ho
un bel rapporto con lui, capirà che vedo un uomo piú grande.
Curcio sbiadí, le tolse le mani dalle gambe, mosse gli occhi verso un
punto lontano, infine esplose, con un tono che a stento tratteneva il fastidio:
– La famiglia italiana, tutti prendono parte a questa sceneggiata di inutili
matrimoni, tanto poi si tradiscono, ma il sabato e la domenica fingono di
essere ciò che non sono per i figli, che sognano di essere uguali a loro.
– Stai parlando dei miei genitori? – lo interruppe Claudia.
– No, in generale. Ma sono cose che mi annoiano.
Un cantante che aveva un gilet con le frange e un cappello bianco da
cowboy gorgheggiò il motivo di una canzone su una pedana. Non sapevano
che il ristorante si dava arie da café chantant. Claudia prese a cantare anche
lei, non le era mai accaduto di intonare una melodia in un posto pubblico,
dondolava il capo mentre Marco Curcio la osservava sbalordito. Le labbra
rosse, gli occhi appena appena tristi, l’audacia dell’espressione. Gli
avventori si voltarono verso di lei, dimenticando il cowboy, che si
abbassava il cappello sul viso nella sfida impari contro la grazia spontanea
di Claudia.
Poi si avviarono lentamente verso le auto, il vento faceva tremare i salici
del viale. Quando arrivarono nel parcheggio lui le cinse i fianchi da dietro,
la spinse sul cofano dell’auto, lei non oppose nessuna resistenza e si lasciò
andare, scostò gli slip e sentí il calore. Occhi indiscreti di umani
indistinguibili li stavano guardando da una macchina, Claudia provò
un’emozione potente. Quando finí sentí di essere intatta, come se non fosse
accaduto nulla, ma era bagnata e allegra, scarmigliata e incosciente, e
riprese a cantare. Marco Curcio era un uomo qualunque in quel momento, il
cuore di Claudia era troppo grande, sprecato per contenerne uno solo, c’era
spazio per una famiglia intera, per un’amicizia, per un figlio, per l’umanità.

– A volte vivo certe emozioni solo perché ho una persona come te a cui
raccontarle, – mi diceva appena tornava da me.
– Non risparmiarmi nessun dettaglio, – le chiedevo, e sapevo che solo
cosí avrei provato piacere nel mio dolore.
Mi struggevo sui suoi resoconti, confrontavo il presentabile Curcio col
ferino Michele Duranti con la sensazione di avere di fronte la bella e la
brutta copia dello stesso compito scritto.
Claudia si stava appassionando a Naomi Klein e al suo libro No Logo,
ma Curcio ribatteva che ogni decennio del secolo appena finito aveva un
libro che spiegava come tutto fosse sbagliato. Claudia lo contestava e si
fotografava con la faccia dipinta di bianco alle manifestazioni contro le
multinazionali per farlo arrabbiare anche se sotto sotto era davvero una di
quelle persone che credono di poter rendere il mondo migliore.
Una volta mentre si osservavano seduti sul bordo del letto di un albergo,
le teste rivolte l’una verso l’altra, il fiato caldo che precede il bacio, Claudia
ebbe uno strano desiderio che non aveva mai avuto e che improvvisamente
la occupò dalla punta dei piedi alla lingua. Gli occhi di Curcio erano
piccoli, lievemente assonnati, meritavano una cornice migliore. – Posso
metterti l’eyeliner? – chiese, stupendosi lei stessa della sua schiettezza. Lo
sguardo sorpreso di lui riempí il silenzio lungo che precedette una richiesta
di chiarimento. – Un leggero kajal, è morbido, solo un tratto, – precisò lei,
come se lui conoscesse i trucchi da donna.
– Non so se mi piace, – rispose lui con imbarazzo.
– Ti faccio due linee, ci baciamo un po’, poi le tolgo con un dischetto di
ovatta. Non ci vorrà molto. Promesso –. La voce era con tutta probabilità
affievolita dall’eccitazione. Lui si rifiutò.
Uno dei giorni seguenti Curcio la portò in una pineta con le radici degli
alberi ricoperte da un tappeto di aghi. C’era un rudere di trullo cosparso di
cespugli di borragine e ortica, dove si fotografavano le coppie prima dei
loro banchetti nuziali.
Curcio aveva con sé una macchina fotografica per farle qualche scatto.
Ma la macchina rimase sul sedile dell’auto e loro si ritrovarono a correre sui
sentieri di aghi e rovi. Lui arrancava con la camicia aperta sino alla pancia,
le maniche arrotolate e il fiatone. Lei correva saltando come una tortora, ne
faceva il verso, poi si voltò e lo minacciò scherzosamente: – L’ultimo che
arriva si spoglia –. Lui le rispose con sarcasmo: – Tanto non cambia niente
per una piatta come te –. Claudia fece finta di restarci male, si piegò verso
terra e raccolse due pigne, se le infilò nel reggiseno, poi gli andò sotto il
naso: – Guarda che tette, l’hai mai avuta una con due tette cosí? – Curcio
rise, poi Claudia si fece seria e guardandolo negli occhi gli chiese di
infilarsi quelle pigne nella camicia come aveva fatto lei.
– Non scherziamo.
– Voglio vederti con le tette –. E gli agitò davanti le pigne ricoperte di
gusci e muschio.
– Sei pazza?
– Dài.
– Se lo faccio ti costerà caro.
– Tutto quello che vuoi.
– Mi infilo le tue pigne sotto la camicia e giocherò a fare la tettona.
– Sí, ti prego.
– Claudia, io lo faccio –. E a Curcio luccicò un bagliore sinistro negli
occhi.
– Sí, mi costerà caro, – ripeté, felicemente sbalordita dalla sua
ispirazione.
– Lesbica, sei una lesbica, – le urlò lui che aveva perso l’iniziale
baldanza.
Curcio non aveva capito lo humour di Claudia, anarchico e
candidamente pornografico; rimase diffidente, e con la diffidenza – che è
l’incapacità di percepire la diversità degli altri – si chiude la porta a tutto
ciò che è umano, tutto ciò di cui aveva bisogno in quel momento Claudia.
Piú per orgoglio che per reale convinzione m’iscrissi a Scienze politiche
in un’università piena di marmi come un camposanto. Prendevo tutti i
giorni il treno per Bari, con il suo mare di due colori, verdognolo a riva,
cobalto oltre i frangiflutti. Guardavo i pescherecci e le petroliere in
miniatura sullo sfondo, la cortina azzurra a nord si univa con le strisce
bianche degli aerei. Era città di orizzonti puliti, e nella sua grandezza
manteneva un’anima di paese. L’università significava avere vent’anni, era
sempre una festa, bastava uscire dal tetro edificio delle lezioni per essere
rimbalzati da una casa all’altra, da una festa di studenti greci a una di
calabresi, ubriachi e leggeri, sguaiati e molesti. Lanciavo uova dai balconi e
ballavo gli Ace of Base con le studentesse, tenendo fermo il gomito con una
mano e roteando l’indice dell’altra. La sera perdevo il treno e la notte
restavo a dormire in appartamenti di fuorisede ricolmi di provviste e
ormoni. Ma dormire era come rubare tempo all’allegria, cosí si giocava a
carte, o si chiamava il professore di Storia antica spacciandosi per Leonida
o Giulio Cesare. Ci baciavamo con la scusa di essere avventati, bevevamo
liquori scadenti, poi ci baciavamo con la scusa di essere ebbri, e tornavamo
a bere, o cantavamo le parodie baresi degli Oasis, infine al mattino si
andava intontiti all’università sperando che succedesse qualcosa, che
scoppiasse una bomba, che i turchi liberassero Öcalan, o magari arrivasse
un gheppio con un fazzoletto in testa e il becco aperto pronto a cantarci La
cura di Franco Battiato.
Frequentai per poco tempo le lezioni di Sociologia del professor Franco
Cassano: ero innamorato del suo Pensiero meridiano, dove era scritto che
bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna, come chi va a
piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare
il libro e invece correre è guardarne soltanto la copertina. Cosí telefonavo a
Claudia e le dicevo sempre la stessa cosa: «Dobbiamo essere lenti come un
treno»; lei rideva, perché i treni al Nord non erano lenti come quelli al Sud.
Non mi sedetti mai a fare l’esame, baciai tante studentesse, con alcune di
loro passavo anche le notti, toccandoci e scoprendoci lentamente.
Condividevamo la stessa nuvola di ambizioni e prospettive, loro si
chiamavano Clara, Mariangela, Mirella, venivano tutte da province piú
remote della mia, avevano letto come me due libri in croce e solo di quelli
parlavamo, poi ci giuravamo di marciare per la pace, per le bandiere del
Kurdistan, ma il giorno dopo ci mettevamo il vestito buono e andavamo ai
funerali dell’ex missino Tatarella, perché lo chiamavano il ministro
dell’armonia e perché era pugliese, o un nostro amico aveva lavorato con
lui.
Claudia mi telefonava e mi raccontava di Curcio, che le aveva mandato
dei fiori oppure che non rispondeva agli squilli, che al telefono le era
apparso scostante o che un weekend sarebbe andata a trovarla a Milano per
portarla a un concerto dei Prodigy, ma poi non ci andava mai. Era sempre
Claudia a tornare, a lasciarsi alle spalle le nuove amiche, l’idea di
progettare un Erasmus, di addentrarsi nella vita di tutti gli universitari
fuorisede.
– Raccontami di te, Frank, che danni stai facendo a Bari?
– Sbronze e limoni, la vita universitaria mi sembra una pacchia.
– A me fa orrore, tutta libri ed equazioni.
E anche a me faceva orrore riassumere in poche parole la vita, forse
perché non avevo il coraggio di dirle che niente mi emozionava davvero
quanto aspettare una sua telefonata o il suo ritorno.

Una mattina all’alba finí la mia vita universitaria. Era ancora buio,
tornavo da Bari col pullman che prendevano gli operai del turno di notte
all’Italsider, tra i sedili rotti e gli sguardi di sbieco che lanciava l’autista
nello specchietto retrovisore. Scesi assonnato nel piazzale della stazione,
dietro un cancello di ferro riposavano i bus dell’autolinea; i primi treni
rompevano il silenzio cominciando a muoversi verso la città. Le gru erano
ombre altissime e le luci gialle delle scuole perdevano forza con
l’incombere del giorno: Martina mi sembrava bellissima. Un’auto coi vetri
appannati accese i fanali, giocò con gli abbaglianti per richiamare
l’attenzione. Ero l’unico essere umano in giro, la città deserta attraversata
dalla nostra maledetta tramontana che rende pazzi o cavi come le colline di
pietra sulla via di Ceglie. Ebbi paura, pensai a un agguato, ma le sei del
mattino non è un orario da balordi. E comunque l’auto mi era familiare,
ebbi un presentimento. Il vetro del finestrino lato passeggero si abbassò e
comparvero due persone, un uomo con berretto che teneva gli occhi puntati
nei miei e al volante una donna dai capelli vaporosi e disordinati, ma un
disordine felice, quanto il sorriso che l’accompagnava. – Francesco, salta
su, – m’invitò, come fosse la cosa piú ordinaria del mondo, e tanto ero
intontito che pensai dovesse esserlo davvero.
Mia madre con Enrico Fanelli era diversa, non sembrava nemmeno mia
madre. Guidava l’auto con naturalezza, mentre il padre di Claudia mi
chiedeva come ci si divertiva a Bari. Nell’auto c’era odore di deodorante e
sesso.
Arrivati a casa scendemmo insieme. Enrico con un salto da un sedile
all’altro si mise al volante, mia madre gli mandò un bacio piegandosi sul
finestrino.
Nell’ascensore che ci riportava a casa la osservai nello specchio,
stentavo a riconoscerla.
– Avete fatto l’amore in macchina? – chiesi a un tratto. C’era un’armonia
occulta in quel momento, e la stavo mettendo a repentaglio.
– Capita, – vidi guizzare i suoi giacinti negli occhi.
– Non è scomodo?
– Alla mia età sí. Ma alla tua no.
Quanto invidiai l’intesa che c’era in quella macchina e quanto mi sembrò
normale che quei due amanti potessero vivere il loro amore solo da
clandestini benedetti dai loro amori sbagliati.
In casa mia madre accese la luce del corridoio, poi sparí in bagno. Si
sentiva il russare di mio padre. Studiandomi allo specchio – due grandi
borse sotto gli occhi, le guance scavate – constatai la distanza che mi
separava dal fascino di mia madre, cosí come l’avevo sorpresa quella notte.
Quando uscí dal bagno aveva indosso una vestaglia di lana con decori
natalizi. Era ancora diversa, apparteneva all’insieme di tutti i genitori del
mondo che guardano i figli cresciuti e stentano a riconoscerli adulti. –
Francesco mio, abbiamo fatto pure questo. Adesso hai visto tutto –. E lo
disse con sollievo, come stesse rimuovendosi un macigno dal petto.
– Forse hai ragione, è meglio che mi trovi un lavoro, – replicai.
Il suo collo affusolato si piegò sul mio e con la bocca semichiusa stampò
sul bordo delle mie labbra un bacio né materno né erotico, dunque
sconvolgente. Per questo andai a letto praticandomi una complessa
masturbazione. Immaginai Claudia nell’auto con un altro uomo, le sue
gambe avvolte da calze fumo, le caviglie sottili, il suo corpo che si apriva al
mistero di un altro corpo sconosciuto, i seni piccoli e il ciuffo tra le gambe
un traguardo irraggiungibile, perché le sue gambe non finivano mai, ero un
lillipuziano gravato da lacci e massi, ero piccolo e modesto, mentre i
dettagli del corpo di Claudia si espandevano tanto da deformarmi la vista, il
tempo trascorso era un minerale, il futuro una poltiglia profumata, venni in
un fazzoletto di carta urlando nel cuscino «Claudia ti amo».
– Quante volte.
– Una, ma molto dolorosa.
Nella piccola chiesa di campagna, con le sedute in rovere e un
confessionale di noce, un’ombra dalla voce roca periziava le mie, di ombre,
quelle interiori. Un nuovo prete s’era preso in consegna la mia confessione.
– Non era mai successo?
– Mai cosí.
– Lei è sposata?
– No, ma è fidanzata con un uomo molto piú grande.
– Vive nel peccato con questo uomo?
– Si vedono solo nelle vacanze quando lei scende in paese.
– Quanti anni ha la donna che desideri?
– Andavamo a scuola insieme.
– Le hai detto che la ami?
– No, o forse sí, ma non mi ha mai creduto.
– Quante volte l’hai desiderata?
– Gliel’ho già detto, una volta.
– Non intendevo l’atto impuro.
– Per me non è impuro.
– Fallo dire a me cosa è puro e impuro.
– Sono confuso.
– Da cosa?
– Dalle domande.
– Hai mai desiderato un uomo?
– Mai.
– Cerca meglio nella memoria, l’ottavo comandamento è la falsa
testimonianza.
– Non è un peccato desiderare un uomo, – replicai con orgoglio, la
confessione aveva preso una piega imprevista.
– Lo hai fatto dunque?
– Mi sono fermato prima.
– Ti ricordo l’ottavo comandamento.
La voce era cambiata di tono, apparteneva a un intrigante che sembrava
aver capito chi fossi e voleva smascherarmi.
Interruppi la confessione. L’adrenalina e il petto a mille. Attraversai la
navata, raggiunsi il chiostro, un tempo ci giocavano i bambini, ma al centro
lo avevano bucato e trovato una tomba, e cosí avevano smesso di andarci
perché lí i morti hanno la precedenza sui bambini.
– Veleno! – Qualcuno urlò il mio nome, che vibrò dentro un cupo
rimbombo.
Alle mie spalle un pretino appoggiato all’ingresso del vestibolo mi
faceva segno con la mano. – Veleno, torna qui.
Mi affidai alla voce perché ne avevo riconosciuto la musica.
– Ti ho fatto uno scherzo, – disse con la faccia impertinente.
L’espressione e la risata di Domenico furono il miele su cui poggiare le mie
labbra amare. Aveva la testa bianca e liscia come un osso di seppia.
Continuava a vestirsi da prete e servire messa.
– Sei ricchione allora? – mi chiese a voce alta, ma tenendo l’indice sul
naso come a impormi un tono piú basso per la mia risposta.
– Perché ti sei nascosto nel confessionale? – protestai ad alta voce
disubbidendo.
– Mi piace ascoltare le stronzate che fanno le persone.
– Don Bastone lo sa?
– Don Bastone me lo fa fare, ma non devo farmi scoprire.
– Ora ti ho scoperto.
– Tanto domani me ne vado al Nord, mi hanno preso in aeronautica. E a
tutti dirò che sei ricchione.
– Perché mi hai ingannato?
– Perché, perché, quanti perché. Claudia è troppo per uno come te, non
lo vedi con chi sta adesso?
– Non mi interessa.
– Mi sposo con Mariella e tu non hai nessuno.
– Non ti invidio.
– Ora vieni, Veleno, devo dirti una cosa nell’orecchio.
Mi voleva baciare, e io volevo soltanto sentire l’odore del nostro primo e
unico bacio mancato. Mi fidai. Attraversai lo spazio tra noi senza toccare
col piede le fughe tra una mattonella e l’altra.
Domenico tese il collo, e notai la palandrana piú corta, gli si vedevano i
calzini gialli e le gambe nude, depilate. Quando le nostre labbra furono
vicine, cosí vicine che non baciarsi era ormai diventato intollerabile, lui aprí
la bocca e mi morse la guancia.
Durò un secondo, i denti affondati nella mia carne, un male crudele.
– Frocio di merda, sei un frocio, non dovevi avvicinarti, – gridò.
Rimasi paralizzato tenendomi la guancia senza protestare mentre
rimettevo insieme i tasselli per un congedo dignitoso. Disse che amava la
sua Mariella e che sarebbe diventato un buon soldato, disse altre cose, e che
non mi sarei mai dovuto permettere di parlare di lui, di dire anche solo che
lo avevo conosciuto. Quando alzai gli occhi, lo vidi piú adulto di quel che
era, le prime rughe sulla fronte e le labbra viola per lo sforzo di mordermi.
Disse che dovevo dimenticare il suo nome, che lui sarebbe partito per
sempre e si sarebbe fatto una famiglia.
Due gocce rotonde e calde inumidirono i miei occhi e scivolarono lungo
le guance, bruciando la ferita che avevo sulla faccia. Tornai a casa con uno
strano senso che faticavo a definire come un vero piacere, ma ci andava
molto vicino. Tutto questo l’avrei potuto raccontare a lei. Mi aspettava
Claudia e la vita complice che avevamo da trascorrere insieme. Mi
aspettava l’unica patria che sapeva riconoscermi.
– Chi te lo ha fatto questo succhiotto?
– Un’amica.
– O un amico.
– O un amico, già.
Camminavamo per il paese, le sentivo cambiare il respiro in salita tanto
eravamo vicini, tutti ci guardavano come fossimo due lupi, la bianca e lo
scuro, la rossa e il bruno, la leccina e l’ogliarola, l’albero di ciliegie e il
rovo di more.
Claudia negli uomini cercava imprevedibilità, mistero, e una tenera
inettitudine alla vita, cosí come promettevano i personaggi letterari che piú
amava: Jay Gatsby, Holden Caulfield, Fitzwilliam Darcy, oppure il sommo
Atticus Finch del Buio oltre la siepe, col suo innato senso della giustizia. La
notte sognava le mani di Marco Curcio che la toccavano, vene azzurre e
peli rossicci sul dorso.
Smise di diffidare della grande città. A Milano viveva nei pressi di Porta
Romana, il traffico e l’argento dell’alba simile al fumo dei roghi d’estate
attorno alle campagne. Una nuova e sconosciuta frenesia la rese euforica,
sulle sedute in legno del tram 15 si scopriva improvvisamente allegra.
Milano si rivelò un luogo pieno di occasioni, un brulicare di rumori che non
la facevano mai sentire sola. La notte apriva la finestra e ascoltava le
civette. Con la testa incassata nelle spalle per la brezza, gli occhi assonnati e
le mani sudate, sentiva di dominare le strade vuote respirando lenta.
Studiava Diritto privato, Economia aziendale, si impegnava con l’orgoglio
di chi vuole dimostrare di essere all’altezza delle piú spietate aspettative.
Non arretrava sulle sue passioni, l’elettronica e la poesia. Mi
contrabbandava libri usati con le pagine sgualcite e le frasi sottolineate,
come Il visconte dimezzato di Calvino. Come al protagonista di quel libro
dilaniato in due metà, la mia parte grama e la mia parte buona mi
suggerivano un’opzione temeraria: canfora o soffione, abito talare
smanicato o maglietta arcobaleno, corridoi ornati e profumati oppure un
divano sfondato.
Lei al Nord e io al Sud, uccelli distanti, il migratore e lo stanziale. Mi
consolavo pensando che una volta tornata le avrei preparato il nido dove
stare. Rimanevo appena piú basso di lei e sempre piú scuro, piú uva nera.
Studentessa giudiziosa, aveva incrementato il milione di lire nel conto
corrente con qualche turno in un fast food dove uomini incravattati ci
provavano con lei. «Hanno tutti mani piccole e curate come zampe di
peluche».

– Questa non fartela rubare, – mi mise in guardia ridendo.


Da mesi promettevo di portarla ai trulli, un tempo ci venivano rinchiusi i
lebbrosi perché stessero alla larga dalla città, e i contadini ci nascondevano
le loro masserizie per il lungo inverno, adesso erano diventati luoghi di
villeggiatura o le case dei nostri nonni. I miei, Giuseppe e Assunta Veleno,
ci vivevano da oltre sessant’anni, curavano un tomolo di terreno e
allattavano con calce bianca le pareti a ogni cambio di stagione.
– Cosa ti hanno fatto alla faccia? Ti ha morso un cane? – fece mia nonna
preoccupata venendomi incontro.
– In un certo senso sí, – intervenne Claudia.
– Lei è la tua fidanzata? – chiese la nonna illuminandosi, mentre
avanzavamo sul vialetto di borragine e cicorino.
– No, sono un’amica, – rispose. Io non ci rimasi male, invece la nonna le
chiese come si chiamasse con la voce leggermente increspata di delusione.
– Veronica, – mi sorprese Claudia con un sorriso.
Quando rimanemmo soli si scusò per quella piccola bugia. – Sono
sempre i genitori di tuo padre, e mio padre è quello che è scappato via con
sua moglie…
La grande novità delle ore in campagna fu l’improvvisazione. Ci
eravamo andati senza che nessuno ce l’avesse chiesto, come invece
accadeva da bambini. Andare a trovare i nonni mi annoiava, ma con
Claudia fu diverso. C’era una luce accattivante, gli odori fecero il resto.
Nella vigna si distinguevano i fiori selvatici, le erbe medicinali, la gramigna
campestre, i sivoni, l’euforbia e la cicoria amara, cespugli di salvia e
maggiorana. L’uva era quasi pronta e i primi passeri ne avevano saggiato i
chicchi piú maturi, un pino piangeva pigne, aghi e bacche azzurre a forma
di lapislazzulo.
Percorremmo tutta la vigna seguendo un sentiero di chiancarelle,
arrivammo sotto i mandorli, e Claudia si arrampicò sul tronco piú saldo;
scuotendolo, alcune gemme mi caddero in testa.
– Cosa fai quando sono a Milano? – mi interrogò da lassú dove l’altezza
le conferiva un’ulteriore autorità.
– Lo sai, lo sai, – mi giustificavo schivando i suoi lanci pesanti e
imprecisi.
– Non mi hai detto tutta la verità –. Aveva un’aria inquisitrice, come
sapesse su di me cose che neanche io conoscevo.
– Ti ho detto tutto, – giurai, e guardandola da sotto mi accorsi che i suoi
pantaloni si erano strappati, le si vedeva la sublime piega tra natica e coscia.
– L’albero ti sta strappando i vestiti.
– Non cambiare discorso, Veleno…
Ripensavo alle ragazze di quei mesi: una compagna di studi, una liceale
che usciva con gli universitari, una ragazza con i capelli cortissimi e il dente
scheggiato. Alla fine si assomigliavano tutte, erano ragazze che restavano
sole e in disparte come me.
– Stai mentendo, Frank. È come la storia di questo morso che hai in
faccia.
E cosí crollai: – Ho rivisto Domenico.
Claudia fece leva sulle braccia contro il ramo, poi si alzò come una
ginnasta sulla trave e saltò giú.
– Però niente di importante, – specificai. L’espressione, che pareva
benevola, divenne seria.
– Siete stati insieme?
– No, cosa pensi di me?
– Perché sei diventato rosso?
– Perché sono arrabbiato, perché un giorno si è vestito da prete e mi ha
teso un tranello.
– Un tranello?
– Ha raccolto con l’inganno una mia confessione, dentro il confessionale
c’era lui e non il prete.
– Uno psicopatico.
– Mi ha minacciato.
– Perché?
– Perché ha paura di quella voce su me e lui.
– Ma che male c’è? – chiese candidamente Claudia.
– Non abbiamo mai fatto nulla.
– Sai con quanti dicono che ho scopato a Martina?
– Non è la stessa cosa, – protestai.
– Ah, io posso essere la puttana di Martina e tu non puoi essere il frocio
del paese? – Rise con i suoi occhi di foresta. Poi aggiunse: – Hai capito
perché devi andare via da qui?
– Io non voglio andare via da qui, – e guardavo il mandorleto, annusavo
l’aria, adesso che l’avevo confessato mi sentivo libero.
– Sai quanti ne ho visti a Londra, Milano. E sai che ho baciato anche io
una ragazza?
– Mi piaci tu, non mi piace nessun altro, – mi dichiarai per l’ennesima
volta.
– Non fare il bambino, fai un viaggio, esci da qui, svegliati, forse
scoprirai cose di te che non immagini.
Il rombo degli aerei militari deflagrò preceduto da un fischio, ci fece
alzare gli occhi al cielo, come a far respirare le cose che c’eravamo detti;
dal vicino aeroporto militare di Gioia del Colle si alzavano ogni tanto voli
di ricognizione, o esercitazioni rumorose che insolentivano la pace.
Mi prese la mano e camminammo lungo il sentiero che riportava dai
nonni. In lontananza il ragliare degli asini, il cielo cominciava a ingrigirsi.
– Ho smesso di accettare i soprusi di tutti, anche di quelli che dicono di
amarmi.
– Di cosa parli? – Sentii un sussulto in petto.
– Voglio lasciare Marco.
– Davvero?
– L’ho tradito già due volte quest’anno.
– Tradito? – Credevo di sapere tutto e invece niente.
– Ho fatto l’amore con un ragazzo spagnolo solo per conoscere il suo
miglior amico francese, bello e stronzo.
– Non me lo hai detto –. Ero deluso.
Aggiunse particolari detonanti.
– Lo spagnolo?
– Il francese.
– Te li sei fatti tutti e due?
– Sí, ma non insieme, anche se avrei voluto.
– Marco se l’immagina? – chiesi stordito da quella confessione
inaspettata.
– Ha cinquant’anni, se ne farà una ragione, credimi, anche lui ha i suoi
giretti.
Milioni di informazioni mi fermentavano in testa. Dovevo spogliarmi di
ogni conformismo residuale, non avere paura di desiderare un maschio. Ero
vicino a capire che quel qualcosa di profondamente maschile in Claudia e
quel qualcosa di profondamente femminile nei maschi che si affacciavano
al mio desiderio erano la mia verità.

I nonni ci aspettavano con un vassoio pieno di mandorle tostate, tarallini


e una bottiglia di acqua colorata di verde. – Abbiamo solo la menta, –
dissero come per scusarsi.
Ero abituato alle loro cerimonie, lamentavano di non aver nulla da offrire
ma poi schieravano il fiore della campagna, le confetture e gli sciroppi.
Un’umiltà contadina di cui non era rimasta traccia nelle generazioni
velenesche piú giovani.
Ci sedemmo con la vigna negli occhi e la casedda alle spalle.
– Milano? Ma non c’è Economia a Bari? – obiettò la nonna quando sentí
dove viveva Claudia.
– Ci sono tante possibilità, – reagí Claudia con il riflesso di chi è
abituato a rispondere in quel modo.
– Peccato, non c’è il mare e neanche il cielo.
– Non è vero, si vedono le montagne e sono belle anche quelle.
Poi cominciarono a parlarsi fitto e mio nonno mi chiese per la prima
volta un favore. Non era mai successo, ero sempre stato io, sin
dall’infanzia, a chiedergli caramelle, doni, soldi. – Ci aiuti a vendemmiare
quest’anno? – Era serio, non mi parlava da nonno, ma da adulto ad adulto.
Mio padre non lo aveva mai fatto. Ne fui lusingato.
– Manca ancora un mese alla vendemmia, – feci.
– Non siamo piú forti come una volta, e poi avremmo bisogno anche di
qualcuno che ci aiuti a travasare il vino, tuo padre non si ricorda di noi, –
concluse con un’aria di vaga polemica.
Claudia e mia nonna erano sparite. Il crepuscolo aveva cambiato la
sostanza dei colori, un silenzio interrotto solo dal confabulare e il tramestio
dalle stanze. Claudia e mia nonna, quando riemersero fuori per congedarsi,
si scambiarono un saluto caldo, due baci sulle guance e uno sguardo
complice di chi si è passato un segreto.
– E mia nonna, che ti ha detto?
– Cose di donne.
– Non posso saperlo?
– Non vorrebbe che tu lo sapessi, altrimenti lo avrebbe detto davanti a
tutti.
La strada era sgombra, con i finestrini abbassati la campagna entrava in
auto e dentro la bocca. La radio diceva che due aerei erano entrati nelle
Torri Gemelle di New York e uno nel Pentagono di Washington. Ci
sentimmo minuti e impotenti rispetto a quelle tragedie cosí lontane. Pensai
in pochi secondi che non avrei mai piú preso un aereo, che Claudia sarebbe
rimasta in Puglia per un po’, e subito mi vergognai di averlo immaginato.
– Ci sarà una guerra, – disse Claudia con tristezza, non osai contraddirla.
Sull’asfalto comparve il rosso brillante di un triangolo; poco piú in là,
proprio sulla curva prima della discesa che riportava in paese, scorgemmo
un’auto in panne da cui spuntava la testa di una donna che guardava in
avanti come se aspettasse una risposta dall’orizzonte.
Era Etta.
Inchiodai e accostai nell’erba. Claudia uscí dall’auto con fastidio.
– Mamma, cosa ci fai qui?
– Devo parlarti. E lo devo fare subito –. La puntualizzazione piccata non
prometteva nulla di buono.
I tratti del viso erano attraversati da una bufera, le si vedevano appena gli
occhi, era un ritratto di dolore, rabbia e risentimento.
– Papà? È successo qualcosa a papà?
Mi indicò, e pensai al peggio. – Non ti dico niente finché c’è lui.
Restammo sospesi, la campagna a sud era diventata tutto un fulgore
fiammeggiante per i fuochi serali di una santa patrona.
– Sali in auto, – disse Etta.
– Io non salgo da nessuna parte, mi dici che sta succedendo?
– Con tanti uomini sulla faccia della terra, proprio con lui? – Etta aveva
messo in piedi quella sceneggiata pericolosa con l’auto ferma sulla
provinciale per darle una solenne lezione.
– Di che stai parlando?
– Di Marco.
– Marco?
– Sai chi è Marco?
Claudia impallidí. Le avevo tenuto il gioco perché i suoi non la
scoprissero per cosí tanto tempo, ed era stato vano. Del resto, tutti gli amori
clandestini sono destinati a essere scoperti, specialmente quando l’amore
finisce e resta soltanto la clandestinità. La relazione piú misteriosa
continuava a essere la nostra, in fondo, proprio perché cosí spudoratamente
alla luce del sole.
Marco. Marco Curcio.
Nei mesi della fuga di Enrico da casa, Etta era andata a chiedere
consiglio a un avvocato, e di questo avvocato si era invaghita. Etta diffidava
degli psicologi e cosí affidava il suo impetuoso, dirompente flusso di
coscienza all’avvocato di provincia, belloccio e spaiato, che le offriva un
bicchiere di acqua tonica e dei fazzoletti di seta con cui detergere le lacrime.
Era il tempo in cui Etta piangeva in terza persona («Come farà una
madre?») Gli aveva raccontato le cose per lei essenziali, confessando che
l’unica gioia della sua vita era sua figlia, che sua figlia avrebbe riscattato
tutto il dolore che stava provando in quegli anni a causa di Enrico e mia
madre. La pratica di divorzio era poi stata bloccata, ma l’infatuazione non si
era spenta.
Tutto questo lo appresi nei mesi successivi. Marco ci aveva truffato, con
l’arido pragmatismo di quegli uomini che vedono nella seduzione e nelle
relazioni un’arma di manipolazione.
Dopo tre ore ritrovai Claudia sotto casa. Furono tre ore lunghissime,
perché il mondo era cambiato, il paese sembrava trattenere il fiato, le
persone si erano chiuse in casa terrorizzate a guardare in televisione le torri
che cedevano. Era diversa da quando c’eravamo lasciati sulla strada di
campagna. Negli occhi due lugubri pozzi neri, camminava dentro un lungo
maglione maschile. S’era vestita con gli abiti di suo padre come aveva fatto
quando Enrico era andato via di casa con mia madre.
– Come stai? – le chiesi.
– L’ho lasciato.
– Lo odio, – dissi.
– Non c’è bisogno di odiarlo, – disse.
– Tua madre come sta?
– Sta peggio di me. Lei non ha nessuno, io ho te –. Ma di quella briciola
d’affetto non ne gioii.
Trascorremmo la notte in giro per Martina, Claudia piangeva e rideva
insieme – «Che scema sono stata» –, si infilava sotto il mio braccio, poi se
ne distaccava, come se un pensiero le avesse lasciato la testa con un battito
d’ali e andasse riacciuffato.
– Devo pisciare, – disse mentre il cielo si rischiarava.
– Cerchiamo un bar, – proposi.
– Voglio pisciare come i cani, – mi disse decisa.
– Anche io.
Andammo in un posto con dei grandi alberi di pino, scavalcammo la
ringhiera arrugginita, lei sontuosa, io goffo, scegliemmo un’aiuola, lei si
accovacciò e io di spalle in piedi, ridemmo insieme mentre i nostri fiotti
zampillavano.
A vedere le nostre foto da bambini Claudia era sempre apparsa l’esatto
prolungamento dei genitori, il loro calco preciso, all’opposto di quel
bambino gracile e scuro che non aveva niente della candida Elisa Fortuna e
del solido Vincenzo Veleno. Quella notte sembravamo piú simili e vicini di
come eravamo sempre stati. Ci stavamo mischiando.
– Posso guardare? – chiesi senza malizia mentre il suo getto scavava una
buca nel terreno.
Mi girai senza aspettare una risposta e intravidi un’ombra, solo
un’ombra, e i denti bianchi di Claudia, voltata verso di me.
– Perché i tuoi denti si vedono col buio?
– Perché siamo alieni, – rispose a bassa voce e molto seriamente.
L’alba nebbiosa nascondeva un’inaspettata mattina di sole. – Domani
parto e non torno piú, – giurò, e quei denti da sorriso divennero una smorfia
che a me trasmetteva la dolcezza e la melanconia di un addio.
Parte terza
Malenvirne

(s. m. Persona che rompe gli equilibri, guastafeste, guastamestieri, elemento impazzito all’interno
di comunità. Mina vagante. Un pessimo inverno ancora piú rigido).
Non avrebbe mai voluto che di lei si dicesse: «Una persona perbene». Lo
avevano ripetuto il giorno del funerale scambiandosi compunte espressioni
di circostanza: «Un uomo perbene, davvero perbene», come se tutti gli altri
non lo fossero. Drappelli di persone in abiti sartoriali, buoni per matrimoni
e battesimi, o funerali.
Perbene. Perbene.
Ricorreva anche nei necrologi, confermato da un notaio baffuto che le
sorrideva con l’aria di chi sa la verità e mantiene una posa per nasconderla.
Significava che non c’era poi molto da dire su Enrico Fanelli.
Lei sapeva cosa pensavano quelli che dicevano «perbene»: Enrico
Fanelli aveva avuto tutto. I soldi, una moglie devota, la figlia sistemata a
Milano e un’amante che molti sognavano. Il medico con l’infermiera del
suo reparto. I cliché rasserenano perché fanno credere a un disegno del
destino, illudendo che si sia immuni dai suoi tiri mancini. Poi il cuore ti si
ferma mentre dormi.
L’infarto lo colse in una camera d’albergo durante un convegno. I
colleghi poterono solo constatarne il decesso dopo aver chiesto al personale
di aprire la porta, visto che non si era presentato al panel del mattino.
Al funerale ci andai con mio padre. Mia madre si affacciò dalla sua
stanza con il viso che assomigliava al letto prosciugato di un torrente,
piangeva da quarantotto ore, ma mantenendo compostezza, come se l’amore
in clandestinità l’avesse temprata anche al dolore clandestino: le sue
passioni piú intense esplodevano lontano da tutti. Disse che non avrebbe
preso parte alle esequie perché non si sentiva bene. Ci facemmo bastare la
sua bugia. Non ebbe torto, il funerale fu grottesco. Claudia e la madre si
sostenevano in un angolo della basilica, la folla tracimava – il sagrato, le
scale, la piazza erano gremiti –, mentre il solito maledetto maestrale ci
tormentava. Due figure si lanciarono verso la bara che fendeva la calca.
«Enrico, Enrico, Enrico». Mi sporsi poggiandomi sulla spalla di mio padre
e riconobbi due donne giovani, vestite allo stesso modo, veletta nera,
guanti, calze spesse. Un uomo alto e secco con la faccia rubizza tentò di
allontanarle. La bara proseguí sopra la folla che si sporgeva per
raggiungerla, come se dentro ci fosse un santo.
Al cimitero Claudia mi parve piú alta del solito, aveva il mento rivolto al
cielo, le labbra serrate. Non dava l’impressione di rompersi, ma dietro gli
occhiali scuri c’era un mare nero.
La bara che conteneva Enrico era troppo grande, non riuscivano a
tumularla nel loculo, cosí chiamarono un falegname per rifinirla. Etta era
trasfigurata, toccata da una grazia sconosciuta, come se dal suo corpo si
fosse staccata la sua naturale diffidenza. I cipressi profumavano di umido,
sulla cerimonia cominciò a scendere una pioggia leggera. Claudia non volle
guardare gli spigoli della bara che venivano segati, mi venne incontro
dicendomi: «Somiglierà alla sorpresa dell’ovetto Kinder». Ero certo che
stesse pensando all’anima di suo padre pronta a liberarsi da quel sarcofago
pesante di mogano.
Il giorno dopo sentimmo i nostri corpi piú leggeri, pareva che Enrico si
fosse portato via un pezzo di noi. Andammo in campagna a raccogliere
foglie, come per assecondare un rito: finocchietto, asparago selvatico,
zavirne, tarassaco e cicorie. Succhiammo i fiori viola della borragine e
assaggiammo i germogli della malva, restando perlopiú in silenzio. Poi
Claudia mi domandò di mia madre. Aveva un petalo giallo di trifoglio nei
capelli. Non le risposi.
– Ha fatto bene a non venire, – continuò, e si piegò a strappare l’erba con
accanimento. Le sentivo il fiato cambiare.
Andai ad abbracciarla.
Piegò la testa sul mio collo, la bocca semichiusa accanto all’orecchio
emanava un fiato bollente.
– Francesco, hai visto quanta gente ieri?
– Sí.
– Oggi sotto casa non c’era nessuno.
– Ci sono io, – la rassicurai.
– Però c’era tua madre… – Ebbi una vertigine, temevo quello che stava
per dirmi. – Ci siamo guardate a lungo, e gliel’ho detto.
– Che ha fatto bene a non venire? – domandai.
– Che mio padre non era perbene come tutti pensavano, – rispose.
– E lei che ha detto?
– Che lo amava per questo.
Ci stringemmo piú forte, affidandoci al calore dei nostri corpi.
Destino comune di molti figli è quello di non conoscere la vita
professionale dei propri genitori, averne un’idea generale ma ignorare i
dettagli essenziali. Mia madre era un soldato semplice di medicina generale,
aveva a che fare soprattutto con gli anziani e qualche giovanissimo caso
disperato, parlava poco del suo lavoro. Mia madre e il padre di Claudia non
lavoravano mai davvero insieme, si davano del lei davanti a tutti quando si
incontravano nei corridoi tra i reparti, lasciandosi sfuggire una smorfia
d’intesa, eccitante quanto un bacio clandestino nel parcheggio.
Mia madre stava piegata davanti allo specchio del bagno con la porta
aperta, intenta a pulire le ciglia con i polpastrelli per ammorbidire il rimmel.
– Dove sei stata?
– Ho fatto il turno di notte.
– Ti sei truccata per la notte?
– Creanza ed eleganza, la notte devi dare l’impressione di essere sveglia
e curata come durante il giorno, Uva nera –. L’aveva detto. Avvertii un
lontano languore.
– Come stai? – Volevo una verità, Enrico era appena stato sepolto,
Claudia s’era riempita la bocca e i capelli di erba per non piangere, avevo il
fuoco nella testa.
– Mi sento una vena bucata mille volte.
Mi raccontò che aveva fatto la scuola per infermieri ai tempi in cui dava
di scherma con mio padre. C’è qualcosa che lega il fioretto e l’infilare gli
aghi nelle vene. Poi abbassò la voce, anche se mio padre era già uscito,
senza salutarci.
– Tu sei d’accordo?
– Su cosa.
– Per una notte.
– Ma di che parli?
– Di Claudia.
– Claudia?
– Proprio cosí.
– Perché me lo stai dicendo tu?
– Una mia iniziativa, ha la casa piena di parenti che non sopporta e Etta è
in tilt –. Sentii una strana forma di gelosia, s’erano confidate e s’erano già
trovate senza di me.
Claudia comparve tardi, era mezzanotte, mia madre lasciò a me fare gli
onori di casa. Muovendosi compassata andò a occuparsi della sistemazione
del letto. Lo fece solo allora e non durante il giorno, sospettai per
superstizione: finché Claudia non si fosse palesata era meglio non far nulla,
il destino non va mai provocato.
Claudia portava tra le mura di casa Veleno un messaggio segreto che
arrivava dall’aldilà.
Impedí a mia madre di prepararle il letto. – Posso rimanere con
Francesco, siamo cresciuti assieme, – disse.
– Non siete diventati un po’ grandi per un letto da una piazza? –
domandò Elisa, leggermente disorientata, aveva sugli avambracci lenzuola
di una fantasia fiorata che sembravano appartenere a un’epoca lontana,
quando in questa casa si aspettavano ancora figlie invece di figli. Dallo
sguardo che si lanciarono capii che Claudia non era lí per me.

Claudia non ci venne mai nel mio letto.


Passarono la notte in cucina a chiacchierare, lei e mia madre, mentre io,
con le orecchie tese, provavo ad afferrare qualche parola. Mio padre
comparve a un tratto nella mia stanza, seminudo e con una torcia in mano,
la voce impastata: – Che cazzo succede?
– C’è Claudia, – risposi ermetico con la bocca che masticava la federa
del cuscino.
Bofonchiò e tornò a dormire.
Ero quasi offeso che non avesse avuto altro da dire, una piccola scena di
gelosia, una minima curiosità su cosa stesse accadendo, possibile che non
gli importasse nulla?
Corsi in bagno e mi guardai allo specchio. Lí c’era l’astuccio di legno di
mia madre, lo aprii con la tensione di chi scassina uno scrigno: tante matite
in fila come soldatini. Annusai le punte colorate, avevano un profumo
buono che mi ricordava l’ora di disegno alle scuole medie. Nell’astuccio
spiccava un prisma a base esagonale lungo circa dieci centimetri, che
rifletteva la luce come gli specchietti rivolti al sole. Il rossetto vermiglio fu
un’attrazione irresistibile, fui percorso da un fremito di piacere, come quella
volta che avevo baciato Claudia, ormai un secolo prima. E la barriera tra
opportuno e inopportuno si rivelò per quello che era sempre stata:
un’impalpabile striscia di nebbia. Appoggiai il rossetto sul labbro inferiore,
a quel bacio di cera tiepida mi arresi completamente.
Mentre le mie labbra si coloravano di rosso e gli occhi si avvolgevano in
un alone sbavato di matita nera sentivo un’altra umanità, un altro essere
maschio, niente piú che essere persona. Piena, realizzata, vera. Un tempo si
truccavano i sovrani, avevano trovato tracce di tinture nei sarcofagi egizi e
sulle stele sumere, i grandi guerrieri indiani si coloravano con pigmenti
rosso sangue il viso prima delle loro battaglie. Avanzai verso la stanza in
cui c’erano Claudia e mia madre, facendomi coraggio con le mie nozioni.
«Guardatemi, sono io». Mi sarei messo al centro della cucina.
Sulla soglia sentii le loro voci fioche, bisbigliavano per non dare noia al
sonno di noi maschi. Ma io ero lí, non c’entravo nulla con mio padre, a me
importava di loro, a me importava di tutto ciò che avevano sfiorato le loro
mani e le loro parole.
Le vidi vicine come una madre che consola la figlia, in procinto di un
abbraccio, simili nel dolore e nell’elaborazione dell’assenza. Invece di
dichiararmi, tornai sui miei passi come davanti a un ponte che non osavo
attraversare.
Mi lavai con acqua e sapone e andai a dormire.
Al mattino, dalla cucina arrivò profumo di pane e caffè. Erano dove le
avevo lasciate, avevano parlato tutta la notte, si erano addormentate con le
teste sul tavolo; si erano svegliate e avevano preparato assieme la colazione.
Pallidissime, con leggere occhiaie, le fronti scoperte, i capelli che
incorniciavano i loro volti spigolosi. Sulla porta di casa si guardarono negli
occhi e Elisa la congedò con un bacio sulla guancia. L’ombra di Claudia
sembrava quella di un fenicottero. Mi guardò per salutarmi, mi parve come
liberata.
– Quando ti strucchi devi fare un’emulsione col sapone, altrimenti ti
resta l’ombra pasticciata, – disse.
Mi piacque come aveva detto la parola «emulsione». La pelle delle sue
braccia era fredda, le dita si sfilarono dalle mie senza concedermi il tempo
della replica.

Claudia prima di ripartire ebbe una delle sue uscite claudiesche.


Accatastò in giardino il giradischi, le raccolte di biglie, una poltroncina
girevole, una testa di Gorbačëv in cartapesta di mille carnevali prima, i
camici inamidati, le cravatte ordinate su un appendiabiti d’ottone, una
chitarra senza le corde, un grande quadro con l’effigie cavallina di Martina
Franca, orribili trulli di terracotta, medaglie, un ippogrifo, sfere armillari,
vestiti appartenuti a suo padre. Progettava uno sfavillante rogo di
purificazione che propiziasse un futuro tutto da scrivere. Etta minacciava
l’intervento dei pompieri: «Rimetti a posto tutta quella roba!» Intanto la
figlia girava per il giardino avvolta in una delle vestaglie paterne, da cui
spuntavano le caviglie e i polpacci di marmo. Sembrava il Grande
Lebowski, e come ogni volta che dava di matto, sulla soglia di quel grande
rogo c’ero io.
Sotto l’albero di limone che era stato testimone della sua infanzia, si
scostò i capelli passandosi la mano sulla faccia, estrasse un libro dalla
vestaglia e salí su una vecchia sedia.
– Papà, ascolta.
Etta scosse il capo e scacciò dal viso una mosca invisibile, poi rientrò a
telefonare a qualcuno.
Claudia lesse ad alta voce dei versi di Vittorio Bodini, scandendo le
parole in modo marziale. Calcò le sue erre su una poesia che parlava di
ritorni, e aveva dentro la parola polsi, cosí potente, perché i polsi sono come
il volante delle mani, guidano la direzione del sentire. Mi trasmise
solitudine, desolazione, pensai che tra quelle cose vecchie a cui dare fuoco
c’ero pure io.
Quando restammo soli, Claudia si sciolse la vestaglia mostrando i
pantaloncini e la maglietta con cui dormiva. Scherzava quando aveva paura
e diventava istrionica nella sofferenza. Certi dolori si sopportano meglio
con la teatralità, la festa, la storia dei lutti è fatta di prefiche e lamenti, di
canti. Quando il dolore si fa insopportabile si alza la musica, dicevano gli
antichi.
– Temevo volessi bruciare tutto davvero, – dissi indicando con gli occhi
la catasta di roba.
– Sarebbe stato crudele.
– Sei bella quando leggi poesie.
– Sono meglio quando mi masturbo.
Cambiava registro senza cambiare espressione. E io balbettavo, o
ammutolivo.
– Partiamo, Francesco.
– Ma non parti stasera?
– Adesso.

Andammo in aeroporto cinque ore prima del decollo, ci fermammo di


fronte al mare, dietro l’ingresso monumentale della vecchia Fiera del
Levante di Bari. Da lí guardavamo gli aerei scalare il cielo o avvicinarsi a
terra.
– Mentre rovistavo tra le cose di papà ho avuto un’idea.
Poi tirò fuori dalla borsa una cravatta di seta rossa, una piccola macchia
scura sull’estremità piú stretta era l’indizio che fosse appartenuta a
qualcuno.
– Un regalo, – disse, tendendo le mani verso di me. Erano affusolate,
morbide, in armonia con il tessuto, una striscia luminosa, come se proprio
in quel punto si concentrasse la luce del giorno. – È di mio padre –. La
avvicinai al naso per sentirne l’odore. – Credo che un sacco di volte l’avrà
indossata quando stava con tua madre –. Restai in un silenzio turbato. –
Credo che tua madre debba averla, – continuò.
– Allora non è un regalo per me, – protestai senza convinzione.
– Lo è, farai felice Elisa, tu ami far felice chi ti ama.

Arrivammo in aeroporto costeggiando la lamina del mare e lunghi campi


incolti ma rigogliosi di fiori selvatici e infestanti; le acetoselle dai petali
gialli s’aprivano al sole, ma la notte si richiudevano come pugni. Con
Claudia ci divertimmo a catalogare il panorama, cercando di dare un
significato a quell’attività. Mi disse che nei giorni prima della morte di
Enrico aveva sognato i ciclamini, rosa chiaro, bianchi, cosí com’era capitato
quando Michele Duranti le era saltato con le ginocchia sul petto la volta che
la stava per ammazzare. In Puglia puoi conoscere perfettamente quanto sei
distante dal mare guardando i fiori di campo, il giallo del tarassaco e
dell’acetosella prima del blu degli anemoni a due passi dalla costa, ma noi
eravamo gente di collina, venivamo dai terreni dei convolvoli e dei
papaveri, delle stellarie e della camomilla, e soprattutto dei ciclamini, fiori
dalle radici velenose, che si dice però proteggano dai malefici. – Forse ti
avvertono dei cambiamenti, – dissi. Scacciammo quei pensieri sotto le
insegne dell’area Partenze dell’aeroporto.
Avevo dentro un vento che per la prima volta spingeva per seguirla a
Milano. Mi sarebbero mancati tutti quei fiori, l’orizzonte celeste del mare a
venti minuti dal mio letto, ma avrei forse afferrato quella Claudia ormai
sfuggente.
Una voce familiare si stagliò sopra il brusio generale.
– Ti ho cresciuta e te ne scappi come una ladra, lasciandomi in questo
dolore –. A un metro dai controlli che portavano ai gates, Etta faceva la sua
scenata imbarazzante.
– Non ti appartengo, le persone non ti appartengono, – le rispose Claudia
con gli occhi gonfi e rossi, prima di imboccare l’area Imbarchi. Etta mi
trafisse col suo sguardo pieno di rabbia.
– Me lo avete ammazzato e lei me l’avete rovinata, – disse, poi si voltò e
andò via.
Una volta in auto mi mancò l’aria, la gola asciutta, attesi che l’aereo
partisse. Cercai Claudia nel rombo che mi scuoteva le orecchie, il bacio che
non ci eravamo dati.
Non ero riuscito a rispondere a Etta. Ignoravo la complessità del
rapporto tra una madre e una figlia. Per me era tutto bianco e nero, male o
bene. Etta un nemico, e io un vinto.
I ciclamini erano i fiori della dea dell’Oltretomba, Ecate, divinità che
praticava la magia e trasmetteva la conoscenza. Ma ricordarlo senza poterlo
condividere con Claudia mi riempí di malinconia.
La raggiunsi durante il turno di notte, quando gli ospedali sembrano piú
accoglienti. Le grandi vetrate del reparto davano sulla Valle d’Itria
trapuntata di luci bianche, i coni dei trulli come stalagmiti in una grotta di
ghiaccio. Inciampai sulle scale scarsamente illuminate, superai il corridoio,
le donne pagate dalle famiglie per sorvegliare i malati alzavano la testa al
fruscio dei miei passi. Mi affacciai nell’unica stanza col televisore acceso
ma il volume spento; lei mi aspettava con le ginocchia puntate verso la
porta, come aveva aspettato Enrico negli anni piú felici, leggendo un
romanzo. A me attraevano gli armadietti a vetro della medicheria, i mobili
color acquamarina con i tiretti traboccanti di medicine e il pensiero delle
gambe di mia madre che si intrecciavano alla vita di Enrico, che non c’era
piú, ma ancora aleggiava su di noi.
Rimanemmo in silenzio lasciando parlare il ronzio elettrico dei neon.
Aveva i capelli raccolti, le orecchie libere dai cerchi d’oro che portava
durante il giorno. Ripensai a quella notte in cui avevo incontrato lei e
Enrico alla stazione. Mi assopii e fui svegliato dal rumore di acqua che
scorreva. Salutai mia madre con un bacio sulla guancia, era freddissima e
aveva i capelli sulla fronte bagnati. Mi accompagnò all’uscita del reparto.
– Perché hai i capelli umidi?
– Mi bagno la testa per tenermi sveglia. A proposito di rivelazioni: so
che ti trucchi.
– Non capisco.
– La federa del tuo cuscino –. Sapeva come stanarmi.
– Continuo a non capire, – resistetti.
– Non mi piace come rifai il letto, e ieri mentre lo risistemavo ho visto il
cuscino.
Trovavo in quel gesto di rifare il letto già fatto da me un segno di
sfiducia, e la sfiducia contiene sempre un seme di violenza.
– Sí, ogni tanto mi trucco prima di andare a dormire, – ammisi.
– E poi?
– Il giorno dopo guardo le macchie sul cuscino, cerco di capire se il
sonno mi ha parlato.
– E lo fa? Che cosa ti dice?
– Che è meglio non farsi troppe domande.
– Arriverà il momento in cui dovrai fartele e darti una risposta.
Quando si trattava di svelare le mie contraddizioni diventava incalzante,
forse era per questo che avevo tanto bisogno di lei.
– Per ora va bene cosí.
L’alba ci colorò d’azzurro i visi. Continuammo a condividere
confidenze. A un certo punto lei disse:
– Enrico però era una persona piú simile a me rispetto a tuo padre.
– Per via dell’ospedale?
– Per via del dolore…
– Che dolore?
– Quello che potevo condividere con lui, non tutti reggono il dolore delle
persone che pensano di amare.
– Cosa vuoi dire? – Ero spaventato, mi mettevano a disagio quelle
confessioni.
– Che devi farti forte e reggere il dolore della persona che ami. Per
esempio, non essere mai se stessi per tutta la vita è un dolore.
Ci abbandonammo a un abbraccio, sentii i muscoli e i gomiti, l’odore di
vaniglia, l’odore di mamma. Aveva fatto un grande sforzo a dirmi la sua
verità e mi abbracciava per prendere fiato come dopo un pericolo appena
scampato.
Anni dopo lessi l’unica intervista di Kafka rilasciata a un giovane
scrittore, Gustav Janouch. Gli disse che il cuore è una casa con due camere
da letto: una è quella del dolore, l’altra quella della gioia. Non si può ridere
troppo fragorosamente, altrimenti il dolore si risveglia. Purtroppo, non può
accadere il contrario, perché la gioia è sorda. Elisa Fortuna e Enrico Fanelli
s’erano trovati in quel rifugio che è il silenzio. Una gioia silenziosa dura piú
di una fragorosa, ma trattenerla troppo a lungo fa male all’anima.
Il decennio milanese di Claudia andrebbe diviso in due grandi stagioni:
la prima fu quella che si portò appresso gli strascichi di paese, di Marco
Curcio che aveva osato scriverle una lettera che lei non lesse; del rancore e
del conflitto con Etta, fatta di dispetti e lunghe telefonate recriminatorie –
«Non merito di rimanere senza nessuno», «Non ho nessuno con cui stare»,
le diceva o scriveva, e nell’uso martellante della parola «nessuno» invece
che del nome di sua figlia c’era forse una delle ragioni profonde del loro
dissidio.
Per lo studio Claudia si impose un severo regime di rigore e
autodisciplina. Musica elettronica e viaggi vennero relegati a piccole
parentesi, una breve esperienza di tre mesi con l’Erasmus a Utrecht dove
aveva imparato dalla coinquilina polacca a cucinare i pierogi e aveva
ballato in qualche rave leggendario sotto le pale eoliche e le colline di
trifoglio. La sua unica distrazione era rimasta la poesia: come mi disse una
volta, la poesia per lei era la finestra sulle scrivanie, non esiste ispirazione
senza una finestra, senza luce e aria.
I suoi messaggi avevano il tenore a cui si abbandonano i meridionali
quando emigrano, in parte melenso in parte compiaciuto: «Me lo porti un
po’ di mare quando sali?» Ogni tanto osava qualche verso: «Ho imparato a
bruciare i sogni cattivi | che lasciano cenere all’aurora insonne». Ed erano
versi che si portavano dietro le letture che faceva, i rimuginii delle notti
agitate. In tutti quegli anni la nostra distanza si nutrí di sottintesi.

L’andai a trovare la prima volta poco dopo la morte di Enrico, avevo


cominciato a lavorare in una cooperativa che si occupava di assegnare case
popolari. Stavo in un ufficio dove un amico di mio padre spuntava le
domande per le famiglie che facevano richiesta di una casa del Comune.
Ogni giorno brutti ceffi venivano con un sorriso a mezza bocca e le braccia
nude come minaccia. Berciavano contro il sindaco, il presidente della
Repubblica, contro l’Italia, poi dicevano che non ce la facevano piú, e
minacciavano di darsi fuoco o dare fuoco a noi. Io studiavo tra quei
brogliacci le vite dei richiedenti. Trovavo sempre una magagna, sempre un
reddito che spuntava all’improvviso, una casa non intestata, un parente
ricco. La burocrazia era un gioco per equilibristi da cui imparai una lezione
che mi sarebbe servita negli anni a venire: in città c’erano molti piú tetti che
teste, nessuno sarebbe mai restato all’addiaccio, il problema era come unire
la domanda di alloggio all’offerta.
Salii da Claudia con una valigia ricolma di libri che aveva riempito
svuotando gli scaffali del padre e mi aveva chiesto di nascondere perché
temeva che la madre li avrebbe fatti sparire una volta partita.
Nessun viaggio mi era mai sembrato lungo come quello. Partii su un
pullman a due piani col sole di un giorno e giunsi a destinazione con la luce
di un altro.
Ricordo ogni secondo di quell’alba milanese: le strade larghe e vuote, la
lunga fila di platani, con i blocchi delle case uguali e massicci. Nella piazza
dietro la monumentale stazione con le facciate bianche, Claudia mi venne
incontro coperta da un mantello nero, avvolgendomi le braccia attorno al
collo come una fidanzata. Mentre gli altri passeggeri sparivano nelle auto
parcheggiate vicino al pullman, noi restammo a lungo abbracciati sulla
strada, con l’aria fredda che ci pizzicava la pelle.
La mattina fu poi inondata di sole e una tiepida, insolita brezza.
Camminavamo a passo svelto come se il tempo ci stesse minacciando con
la sua inesorabile caducità, Claudia imitava gli uomini e le donne che
correvano sulle scale mobili, e io le arrancavo dietro.
– Non si sta poi cosí male qua, – dissi con il fiatone, una di quelle frasi
che sembrano concludere un discorso rimasto nella testa.
Claudia opponeva una smorfia di consenso che era il suo modo piú
onesto per dirmi che ancora non s’era fatta una idea chiara di quella vita.
Ricordo come un miraggio, gli stessi contorni sfocati, la sete, la
stanchezza nelle gambe, l’euforia prestante delle gite, il Castello Sforzesco,
piazza Cordusio, le minuscole strade attorno alla Galleria, i tragitti dentro la
metropolitana che mi sembrava grandissima, intricata come un intestino,
affollata e frenetica, e infine lí, davanti al Duomo, l’acqua che scendeva a
grandi gocce, e i bambini che correvano con ombrelli colorati disegnando
fantasiose traiettorie come marionette in un teatrino. Fu la nostra unica
passeggiata in città e mi parve chiaro perché avesse deciso di vivere lí:
l’incredibile varietà umana che spiccava ai miei occhi provinciali.
L’eleganza delle vie centrali che si opponeva alle cataste di cartone sotto cui
dormivano uomini dai visi rugosi e gli occhi brillanti.
A sera Claudia e io tornammo a casa, un appartamento col granito a terra
dove già dai muri scarabocchiati si capiva che lí avevano vissuto solo
studenti fuorisede. Appena arrivati conobbi le sue coinquiline, e con una di
loro e il suo fidanzato mi intrattenni mentre Claudia s’inabissò in camera
per una telefonata «non procrastinabile». Giulia e Matteo mi diedero subito
l’impressione di voler estorcermi chissà quale informazione piuttosto che
intavolare una gentile conversazione. Lui aveva spalle grandi, lei guance
rosse come scottature da montagna. Entrambi originari di un piccolo paese
meridionale, entrambi figli di papà come Claudia, anche se al Nord i figli di
papà del Sud lo sono un po’ meno. Mi parlavano fitto con scoccianti
convenevoli su cosa studi, perché hai smesso, cosa farai, dove vivrai, non
sei fidanzato con Claudia, davvero non lo sei? Quasi scandalizzati che
potessimo dormire nello stesso letto senza un legame ufficiale. Poi Giulia
disse che aveva litigato e fatto pace con Claudia mille volte. Come diavolo
fa a leggere sempre e non stancarsi mai?
– Lei è cosí, crede davvero nei libri che legge, crede che la poesia e la
musica migliorino la vita.
– E tu ci credi? – disse Matteo, con aria scandalizzata.
– A me l’ha migliorata lei, Claudia –. È galvanizzante pronunciare a
voce alta il nome di chi ami.
– Sei proprio innamorato, – decretò Giulia, uno sguardo d’intesa col
fidanzato: – Pensavamo che fossi tu quello con cui Claudia stava sempre al
telefono –. Lo dissero insieme e col sottofondo di una risata sarcastica.
Raggiunsi Claudia pensando avesse finito con la telefonata, ma arrivai
mentre ancora parlava, un mormorio soffocato di risate e sospiri. Si
congedò con un tono perentorio, quasi sferzante: – Francesca resta fino a
mercoledí –. Le sentii dire proprio cosí, Francesca evidentemente ero io.
Non riuscii a nascondere l’indignazione. – Con chi parlavi? – le chiesi
quando mi rivolse la sua attenzione.
– Uno di quelli che vedo.
– Che vedi?
– Insomma, per ora lo sento e basta, lo vedrò dopo l’esame, se ancora ci
sentiremo.
– Ed è geloso di me?
– Non capirebbe, trovo sempre uomini che non capiscono. Ho fatto quel
che andava fatto, ti ho cambiato una vocale –. L’espressione del viso simile
a chi sta trattenendo uno scoppio di risa.
Ci scambiavamo alcune intuizioni sulla nostra identità ma senza
coglierne ancora l’essenza. Tirammo fuori i libri dalla valigia e li
accatastammo in un angolo della stanza, si trattava di una collezione
letteraria che qualche anno prima un quotidiano locale aveva distribuito con
le copie del giornale, c’erano i romanzi e le raccolte di poesie di alcuni dei
piú grandi scrittori pugliesi, Vittorio Bodini, Raffaele Carrieri, Maria Corti,
Mariateresa Di Lascia, Rina Durante, Maria Marcone. Mentre li ordinavo
uno sull’altro, leggevo i titoli sulle coste cercando illuminazioni. Erano
intonsi, avvolti nel cellophane cosí come quando erano stati acquistati,
perché Enrico – queste le parole di Claudia – «come molte persone perbene
possedeva tanti libri, senza averli letti».
Ne sfogliai qualcuno sul letto che per qualche notte fu il nostro, anche se
dormivamo con le spalle che combaciavano. Mi svegliavo al mattino
prestissimo, mentre la luce del giorno filtrava dalle scadenti tapparelle della
stanza, guardavo la montagna di coperte sotto cui dormiva Claudia ed ero
felice di vegliare sul suo sonno raggomitolato. La spiavo mentre studiava
piegata sui libri, con la luce accesa anche di giorno, gli appunti
scarabocchiati sulle ginocchia, quando alzava gli occhi e incontrava i miei
ci passavamo senza fiatare l’albero di limone, i vigneti a Lamie di Olimpia
e il ciliegio dei miei nonni.
Con Claudia scrutavamo dalla finestra la luce lattiginosa del mattino: il
cielo di Milano mutava in un riflesso d’argento col passare del giorno.
Uscivo da solo annusando l’odore metallico che si respirava nell’aria, lo
stesso odore che avevo sentito a Bari e Martina vicino alle stazioni. Milano
mi era piaciuta piú di quanto avessi potuto immaginare, la frenesia mi
metteva allegria, c’era un certo autunno nelle cose, il legno delle sedute sul
tram 15. Era un mondo pieno di occasioni, un brulicare di rumori che non ti
facevano mai sentire solo. «Il rumore delle città è troppo sottovalutato»,
pensai.
Quando ripartii era sera, Claudia mi regalò un piccolo cuscino di feltro
per rendermi meno pesante la traversata notturna, nel piazzale
dell’autostazione i rami dei platani s’erano riempiti di uccelli festosi.
– Sono pettirossi, – disse Claudia.
– Come lo sai?
– Si posano sulla mia finestra.
– Non li ho mai visti in questi giorni, – dissi credendo di trovarmi
davanti a una delle sue boutade.
– Perché non li hai notati.
Probabilmente non fu un caso quel riferimento di Claudia alla mia favola
preferita da bambino, quella del pettirosso che s’era sporcato di sangue per
aver estratto una spina dalla corona di Cristo. Dicevano che quello stesso
uccello col suo battito d’ali aveva tenuto viva la brace nella capanna di
Betlemme. Le parole della Chiesa erano rimaste dentro di noi come la posa
d’un vino. Quando c’era da essere felici, dunque finalmente se stessi,
affioravano, suonando com’erano suonate nelle messe e nelle liturgie di
tutta la mia vita.
La salutai con un bacio sul mento ossuto, le sue mani si lasciarono
prendere dalle mie.
– Milano è cosí bella, – disse, e poi, tirando su col naso arrossato per il
freddo: – Ma mai lo è stata come stasera con te.
La seconda parte del decennio milanese s’inaugurò con la laurea di
Claudia e la nostra relazione si colorò di nuove, inattese sfumature. Il
giorno della proclamazione arrivai tardissimo a causa del guasto di un
pullman infernale. La riconobbi nonostante la maschera, nei corridoi grandi
e caotici della sua università. S’era camuffata con una parrucca blu, scarpe
grandi, faccia dipinta di bianco e una pallina sul naso, e si sottoponeva alle
foto di rito. «È una pagliacciata», diceva a tutti, anche se non era chiaro se
si riferisse a quanto stava facendo o alla cerimonia o all’intero corso di studi
che aveva completato. Ci fu una festicciola in un bar con le luci basse,
molta gente di cui avevo sentito parlare nei messaggi e nelle telefonate,
nomi e visi che si accavallavano e sparivano dentro la nebbia, mancavano i
parenti e mancava Etta, ma ritrovai i vecchi coinquilini, Giulia e Matteo,
con dei colori migliori nel viso e nelle parole che ci scambiammo.
Nonostante la sceneggiata del pagliaccio, Claudia trovò subito lavoro nel
settore risorse umane di un’azienda, una di quelle professioni che nessuno
riusciva davvero a spiegare, e che io faticavo a conciliare con la sua
rivelazione di qualche anno prima quando mi aveva detto che avrebbe
studiato Economia perché voleva essere padrona del suo destino. Cambiò
sede due volte, sempre parallelepipedi di cemento armato, sempre in
periferia. Quando mi parlava del suo lavoro in azienda era molto generica,
si soffermava sugli aspetti secondari, usava molto l’espressione «partner
commerciale» e insisteva con le aneddotiche sulla navetta o la qualità dei
pasti alla mensa, i colleghi erano una massa indistinta di nomi e mansioni.
– Un lavoro noioso permette di concentrarsi su altro.
– Su cosa? – faticavo a credere che ci potesse essere qualcosa di noioso
nella sua vita.
– I viaggi, Francesco, voglio guadagnare per viaggiare, e poi in questa
azienda se fai strada puoi anche finire in qualche filiale in America o in
Australia.
– America, Australia, ma tu sei pazza, – le dicevo con le vertigini
all’idea di un nostro ulteriore allontanamento.
Da quel momento le cose tra noi cambiarono, senza che lo volessimo,
semplicemente le nostre esistenze si adeguavano alle routine, il lavoro, le
ferie contate, le nuove amicizie. Smise di mandarmi cartoline con il cielo
color lapislazzuli, sostituite da mail e qualche telefonata, poi si diradarono
anche quelle.
Finimmo anche per litigare, e questa volta non c’era di mezzo una delle
sue tempestose relazioni, ma la nostra percezione delle radici. Da un po’ in
Puglia c’era un’aria nuova, le masserie diroccate si trasformavano e
tornavano ad antichi splendori, era arrivata l’alta velocità, le compagnie low
cost da tutta Europa univano i nostri aeroporti alle grandi metropoli
internazionali, divi e artisti venivano a vivere nei trulli e si giravano una
montagna di film tra le nostre pietre bianche e le scogliere piantate nel
mare. Erano gli anni di Nichi Vendola, il governatore pugliese omosessuale
ma cattolico, politico e poeta. Forse eravamo diventati un popolo di
mitomani, tanto che senza alcuno sprezzo del ridicolo parlavamo di
Primavera pugliese, di Puglia come la California. Molti emigrati tornavano
a casa, si formavano aziende piccole e creative grazie agli incentivi del
nuovo presidente che per molti di noi era l’emblema di questa rinascita.
Claudia dopo un iniziale entusiasmo che la fece addirittura scendere per le
elezioni iniziò a diffidare, e maturò la decisione di non tornare neanche per
le vacanze estive o natalizie. Tagliò definitivamente i rapporti con Etta
anche se lei non faceva che vantarsi – «mia figlia è manager» – con le altre
madri di figli emigrati, tutti cervelli in fuga, geni incompresi, dirigenti,
capitani, professori universitari, ricercatori, scrittori, artisti, piloti di
Formula 1, ma il piú delle volte disperati come gli altri.
– È un’illusione, io sono felice qui, – mi disse, in una di quelle telefonate
arrabbiate che ci scambiammo.
– Ma tu sei un’artista, sei un’anima libera, puoi inventarti un’azienda,
una scuola, ci sono molti fondi e occasioni adesso, abbiamo bisogno di
gente come te –. La incoraggiavo con la prima persona plurale, anche se
dentro di me era: «Ho bisogno io di te».
– Io voglio la mia indipendenza, non voglio essere ricattata da nessuno,
parenti, paesaggi, mare e cibo, e questa vostra retorica orrenda –. Claudia
mi riversava contro ogni argomento che usavo per venderle il suo possibile
trionfale rientro.
– È questa la vita che volevi? Una routine da ufficio in un fabbricato a
specchi nella periferia di Milano? – E me la vedevo nitidamente lí, nel suo
open space asettico con i rumori ovattati e l’aria viziata dei condizionatori.
– Non esistono lavori noiosi quanto possono esserlo le persone.
Il filo che ci teneva uniti si assottigliò, Claudia spariva per mesi,
facendosi viva ogni tanto con mail torrenziali che stampavo e rileggevo per
giorni. Qualche volta osava mandarmi foto che si scattava col nuovo
BlackBerry aziendale attraverso lo specchio del bagno di una delle case che
cambiava continuamente.
Chiamava il tipo che aveva registrato sul telefonino come «Kevin
Trasloco», e lui l’aiutava a trasportare con un furgone le sue cose da una
stanza all’altra prima, da un monolocale a un appartamento poi.
Nelle sue mail setacciavo ogni frase alla ricerca dell’oro che mi avrebbe
reso felice. C’erano pareri su libri e progetti futuri, sui film che aveva visto,
mi poneva domande esistenziali, e comunque trovava sempre l’occasione di
lasciarmi un verso di qualche poeta, raramente, forse una sola volta, mi
mandò una delle sue poesie. Nei post scriptum accennava un riferimento
alle relazioni del momento, come se fosse una nota a margine della sua vita.
Mi illudevo che facesse cosí perché in qualche modo l’amore che contava
era il nostro.
Nelle foto del suo primo profilo social appariva piú ossuta, la faccia le
era venuta fuori squadrata e chiara come quella dei marmi dei soldati greci
su un’ara, i capelli scompigliati e rossi invece la facevano Medusa. Me la
immaginavo andare in ufficio con uno dei suoi tre tailleur pantalone –
grigio, blu notte e nero –, cinquanta ore alla settimana, percepiva un ottimo
stipendio, se lo faceva accreditare sul conto corrente che le aveva aperto il
padre ai tempi della maturità, quell’unica volta che l’aveva trattata da
adulta.

– Quando verrò a trovarti ti porterò una valigia di libri, – le promisi,


forse con l’aspirazione di essere invitato di nuovo a Milano.
– Non ho piú spazio.
– Per i libri?
– Ne ho troppi, non so dove metterli, credo che alcuni li donerò.
– Ma come…
– Li ho già letti.
– Anche io li voglio leggere, voglio conoscere le cose che ami.
– «Crebbi foresta».
– Sei piú di una foresta.
– Citavo Analisi in famiglia di Maria Marcone, la storia di una donna del
Sud che è circondata da parenti maschilisti, gretti, ma lei è colta, scrive,
crede nella psicoanalisi, vede ovunque cordoni ombelicali marciti e
atrofizzati, persone che se li portano appresso con il terrore di reciderli.
– Cosa vuoi dirmi?
– Niente, non ho nessun messaggio nella bottiglia, ma non voglio
scendere.
– Eravamo alla pari, adesso sei andata avanti, – le dissi un po’
malinconico.
– No, Frank, sei tu che sei rimasto lí fermo, in quel guscio in cui ti sei
rintanato.
– Ci sto bene.
– Non tornerò per salvarti, dovrai venire tu da me.

Lo feci a modo mio.


Presi a leggere i suoi scrittori, era il modo piú facile per avvicinarmi a
lei, rintracciare nelle loro pagine qualcosa di suo. Sono stati gli anni in cui
ho letto di piú, perché mi ero sintonizzato, o provavo a farlo, con lo spirito
di Claudia. Maria Marcone, Rina Durante, Maria Teresa di Lascia, nomi che
non mi avrebbero mai detto nulla senza di lei, e a leggerle trovavo affinità
con le cose che diceva, cercavo di capirne un po’, sono libri duri, rabbiosi,
in ognuno una specie di verità rimossa. Nella Malapianta di Rina Durante
rimasi colpito dal concetto di «franare stando in piedi», una sensazione che
si prova mentre il tuo corpo resta su, senza scosse e cambiamenti, ma dentro
«te ne sei andata e hai detto addio a tutti». Proprio come aveva fatto
Claudia.
Certo, avevo una mia vita di paese, mantenevo l’abitudine di visitare mia
madre nei suoi turni infami per dirci segreti, anche se spesso restavamo in
silenzio. Ma aspettavo lei, solo con lei avrei potuto percorrere le strade di
pietra lavica tra piazza Plebiscito e i palazzotti dalle inferriate spagnolesche
di via Cavour, solo con lei avrei assaporato il garbo della cenere dei bracieri
accesi negli angoli piú nascosti dentro l’intrico del centro storico che noi
chiamiamo Curdunniddo. Mi attaccavo ai riti, bagnavo le dita
nell’acquasantiera delle chiese di campagna, mi facevo strofinare il cero di
san Biagio sulla gola per curarmi dalla faringite, interrogavo l’alba della
Candelora per progettare l’estate a venire, non mangiavo carne e cioccolata
per i quaranta giorni della Quaresima, partecipavo alla Settimana Santa col
cappuccio bianco sulla testa e il fazzoletto giallo al collo aspettando la notte
di Pasqua, l’apice della mia tensione metafisica, quando la pelle mi si
ricopriva di brividi. La chiesa buia, le navate attraversate dal respiro dei
fedeli, l’umido delle pareti si attaccava ai cappotti; l’officiante che
irrompeva nella navata centrale avvolto dal fumo di un incensiere che
bruciava all’esterno della chiesa. Il diacono spingeva un grande cero
ricoperto di effigi e i fedeli dal buio prendevano il fuoco con le loro
minuscole candele, la chiesa vibrava del canto Lumen Christi e la luce,
poco alla volta, spegneva l’oscurità dando l’illusione che quella gente fosse
migliore di come ci era sembrata anni prima al funerale di Enrico. Era forse
questo il mio cristianesimo, aver paura degli uomini tanto da doverli amare?
– Credo che mi fidanzerò con un asino, – esordí al telefono la mattina di
capodanno, neanche le nove, il rumore dei sabot di mia madre appena
tornata dall’ospedale e l’ubriacatura che mi ero preso a una moscia festa di
vecchi compagni di scuola.
– Sono ancora in hangover, – balbettai, anche se la voce di Claudia
aveva un effetto elettrizzante.
– Che ne sai tu dell’hangover –. La sua voce aveva un sospetto tono
pimpante, quello dei grandi annunci.
– Ho appena rivisto dieci dei nostri compagni di classe, dieci, dieci.
– Perché ti infliggi queste torture?
– Non è che qui ci sia tutta questa scelta, – mi difesi fiaccamente,
cercando di alzarmi nella penombra del giorno appena iniziato.
– Tutta questa Puglia migliore, la California, i creativi e alla fine fai il
capodanno con le rimpatriate.
– Lascia perdere.
– Senti un po’, io sono tornata da casa di Fabrizio e ho preso questa
decisione.
– Fabricosa?
– Niente, uno con cui mi vedevo e che non vedrò piú.
– Ma non stavi uscendo con uno che si chiamava Antonio?
– Giuseppe, si chiamava Giuseppe, Antonio è quello dell’estate scorsa –.
I suoi amori leggeri e a intermittenza, nessun maschio sembrava
convincerla.
– Stanotte ero un po’ brilla e gli ho confessato una mia fantasia.
– A chi?
– A Fabrizio!
– E lui?
– S’è spaventato, e s’è spento.
– Posso immaginare a cosa ti riferisci.
– Li voglio mettere alla prova da subito, voglio mostrare subito chi sono
e se ho una fantasia gliela sbatto in faccia. A Fabrizio gli ho chiesto di
immaginare un altro con noi.
– E s’è spento.
– Non ho piú voglia di nascondere le mie fantasie. Mi sono fatta una
lunga passeggiata, c’era ancora la gente che tornava dai veglioni, e mentre
camminavo lungo corso di Porta Ticinese con un silenzio che qui non senti
mai, ho pensato che mi fidanzerò con un asino, Frank. In fin dei conti vengo
dalla città degli asini.
– Un asino?
– Un grande asino con il mantello beige e gli occhi luccicanti e neri.
– L’asino di Martina Franca è molto rinomato, ci fanno le fiere in tutto il
mondo –. E mi lanciai nell’elenco di tutte le qualità del nostro asino apprese
in anni di fiere patronali.
– Un asino ha sicuramente meno paura di starmi ad ascoltare, e poi è un
animale leale, protettivo, difende i suoi cuccioli sferrando calci che possono
disintegrare il cranio di un predatore.
– E questo asino lo porterai qui, a qualche rimpatriata con i compagni di
scuola? Troverebbe qualcuno con cui fraternizzare.
– Molto di piú, farò grandi vasche in piazza, lo presenterò a mia madre,
finalmente un senso ai corredi conservati un’intera vita.
– Credo che Etta avrebbe da ridire.
– Finalmente un erede al casato dei Bianchi Caracciolese, dalla nostra
unione nascerà un centauro, e tu mi aiuterai a dargli un nome.
Fu la telefonata piú surreale da quando conoscevo Claudia, forse era un
modo per dirmi che questi maschi che s’era messa alle spalle, innocui o
cattivi, affascinanti o rivoltanti, su con gli anni o giovanissimi, ma sempre,
inesorabilmente, superficiali per lei non avevano nessun valore.
Alla fine, ai miei occhi e al mio cuore Claudia s’era spatriata dal
contesto nel quale c’eravamo conosciuti e amati, la sentivo milanese quanto
il nostro concittadino piú illustre, Paolo Grassi, che da figlio di emigrati
aveva fondato a Milano il Piccolo Teatro.
Claudia «la vip milanese», come i nostri ex compagni di classe la
chiamavano giocando sul fatto che vip in dialetto ha il significato di guitto
elevato alla massima potenza; la storia con Curcio non era mai uscita dalle
malelingue locali. «Chi se la prende a una matta cosí?», «Vi ricordate
quando se ne veniva con la cravatta e i capelli blu?» Di forza per reagire
non ne avevo, non rispondevo, ma mi alzavo e me ne andavo sperando di
trasmettere almeno un po’ del fastidio che Claudia avrebbe provato a sentire
quei discorsi.

Una volta lei era andata a un convegno a Bari e mi chiese di


raggiungerla. Presi il treno, rivissi con precisione le atmosfere dei tempi
universitari quando cercavo di darmi un tono con le matricole di Scienze
politiche. Bari aveva un sole alto e giallo, attraversai con un senso di intima
felicità piazza Umberto e via Sparano e, visto il grande anticipo, mi andai a
sedere in un punto della città che sembra protendersi dentro il mare, una
specie di banchina stretta con i chioschi di pesce fresco ai bordi e una
rotonda di cemento che dà l’impressione di essere una barca in mezzo alle
onde.
L’attesi lí, sotto quel sole alto che qua qualcuno chiama «mano del dio
Levante».
Mi venne incontro correndo goffamente, il viso magro, spigoloso mi
apparve uccellesco o picassiano, con il braccio si teneva la borsa, i
pantaloni a sigaretta grigi, ebbi un brivido, mi sembrava un’altra persona,
poi percepii una sensazione familiare, mi abbracciò come aveva fatto quella
volta a Milano, come i fidanzati che non si vedono da molto tempo, e ci
demmo un bacio a stampo fortissimo e detonante.
– Non vedi che sole c’è qui?
– Stasera riparto con il volo delle venti, – mi gelò.
Era diversa, nel modo di fare, e non solo per com’era vestita. Prese a
parlarmi di Milano, la città era tutta un cantiere, tra qualche anno avrebbero
fatto la piú grande fiera mondiale e stavano costruendo metropolitane
dappertutto. Cosí le confessai che mi piaceva andare da solo alla stazione di
Martina e guardare i treni. Non dissi che lo facevo per sentirmi piú vicino a
lei, ma lo capí.
– Se tornerai a Milano ti farò vedere la Torre Velasca –. Ne parlò
entusiasta, dandomi però l’impressione di allontanarmi invece che
avvicinarmi a quel luogo che diceva di amare.
– Se tu volessi io salirei ora sull’aereo con te –. E quasi arrivai a
implorarla.
– Non è vero, tu lavori e io pure, e insomma, mi verrai a trovare, sto
facendo un altro trasloco.
– Ancora?
– Una casa piú grande, appena mi sistemo vieni e mi aiuti, ma non
adesso.
Le parlai del mio lavoro, forse mi sarei aperto un’agenzia immobiliare.
Lei approvò, secondo lei era il momento migliore per farlo, poi quando le
chiesi del suo, di lavoro, le venne come un’ombra, disse che assomigliava al
Tetris. I costi erano i mattoncini che lei doveva far ruotare per ottenere la
combinazione che avrebbe completato la riga dei ricavi sulla quale
atterravano. Aveva un ottimo stipendio, ma lavorava tante ore al giorno
senza avere piú tempo di fare altro.
Mi chiese se stessi leggendo, mi consigliò Camere separate di Tondelli.
Aprí il telefono e mi mostrò la foto di una pagina, poi la lesse: – «Io volevo
tutto, ma mi sono sempre dovuto accontentare di qualcosa» –. Le risposi
che quella frase era geniale, ci riguardava, anche se un velo di tristezza
s’era impossessato di me.
Camminammo nel cuore del murattiano barese guardando le vetrine
colorate e scambiandoci degli sguardi che volevano dire: «Adesso va cosí».
Ci staccammo sotto i portici di un albergo vicino alla stazione dove era in
corso il convegno, avrei ripreso il treno per Martina con molto piú freddo
nelle ossa, il sole s’era nascosto oltre una nuvola nera, o forse era soltanto
cominciata presto la sera come succede in inverno.
Mentre lei cercava tracce rilevanti in ognuno dei suoi uomini, io fuggivo
la rilevanza, sostavo nelle mie relazioni sul confine tra l’affetto sbiadito e
l’amicizia impudica. Daniela, Flavia, Marianna, Loredana. Claudia le
chiamava «donne dello schermo» o fidanzate occasionali senza che io
protestassi mai, soltanto un lieve senso di colpa verso di loro. Giovani
donne che si incuriosivano delle mie debolezze, delle mie attenzioni, della
mia gentilezza: mi complimentavo per gli orecchini e il loro taglio di
capelli. Nei fine settimana andavamo al cinema, e loro trovavano accettabili
commedie orribili piene di cliché, le uniche che proiettavano dalle nostre
parti. Avevano tutte l’aria di accontentarsi. Ma dentro di me, aveva ragione
Claudia, c’era un’aspirazione, un germoglio: non sono ciò che sembro,
posso essere migliore, posso andare oltre, smettere di essere un impostore.
Le relazioni si interrompevano sempre quando arrivava il momento di
conoscere la famiglia. Era il primo esercizio di verità, ma con nessuna di
loro le mie ferite sanguinavano. E in un legame vero non si possono
nascondere le proprie ferite aperte.
Nella vita di Claudia, a un certo punto, ebbe la meglio ancora una volta
un uomo adulto, un suo ex professore di Economia politica, Eugenio
Baroni, sposato con figli. Il legame era nato senza grandi prospettive. Per
lui una semplice relazione extraconiugale, per Claudia uno sfizio. Ma ben
presto la relazione prese una piega imprevista, se solo non si fosse trattato
di Claudia.
Non ebbe alcun pudore a raccontarmi la loro intesa, come se per lei la
vita si amplificasse, la vivesse una seconda volta, nei racconti che faceva a
me.
– Mi sono incasinata.
– Lo ami?
– Ho perso la testa, non so se è amore.
– Lui ti ama?
– Non è capace neanche di amare se stesso.
Mi chiedevo se il masochismo sentimentale di Claudia fosse
riconducibile al suo primo amore, Enrico Fanelli, ma cercavo di evitare la
psicologia spicciola. E indossavo soltanto i panni di colui che ascolta senza
mai esporsi, terrorizzato di poter contraddire la sua felicità o alimentare i
suoi turbamenti. Certo, i maschi che le giravano attorno cominciavano ad
avere un’inquietante somiglianza: animali carnivori in attesa di fiutare
l’odore del sangue per affondare i canini. Eppure Enrico mi era sempre
apparso come l’uomo piú mite del mondo, l’uomo che amava mia madre.

Riprendemmo a sentirci con piú continuità, come se il vuoto che lui le


lasciava, quando tornava dalla moglie, dovesse essere colmato dalle nostre
conversazioni di piuma e zucchero.
– Mi immagino la sua vita quando torna a casa, come parla ai figli, cosa
fa con la moglie.
– Non credo faccia molto.
– So tutto di lei.
– Te ne parla lui?
– No, la spio su Facebook e mi sono fatta amica la sua parrucchiera.
– Sei diabolica.
– No, Frank, sono un’esaurita.
E alla fine delle nostre telefonate andavo per le vie bianche del borgo
antico, fino alla stazione. Solo col fischio dell’ultimo diretto da Taranto,
pieno di operai e studentesse della serale, sentivo di potermi connettere del
tutto con Claudia. Le rotaie brillavano sotto i riflettori gialli, e il cherosene
esalava nelle narici. Certe volte mi fumavo una sigaretta soltanto per
immedesimarmi meglio nel fervore della metropoli, non ero piú a Martina,
ma a Milano, e c’era Claudia appena scesa dal tram, in mezzo alle rotaie
brillanti, pronta a tendermi le sue braccia.
– Frank, ho fatto l’amore nello stesso letto dove dorme con la moglie.

A me il professor Eugenio Baroni sembrava un vero depravato. Un


giorno le diede un appuntamento via sms, scrivendole che avrebbe dovuto
indossare una gonna corta blu, e calze bianche sotto il ginocchio. Claudia
aveva trent’anni, trovava ridicolo travestirsi da studentessa giapponese per
far l’amore con un uomo di trent’anni piú grande.
Fui coinvolto nella preparazione con numerosi messaggi: si sarebbe
accontentato di una gonna stretta e delle Superga bianche? Il trucco leggero
andava bene? Era un pedofilo uno che la voleva vestita cosí?
Avrebbero passato per la prima volta la notte insieme. Sotto i rami
altissimi degli ippocastani secolari dei Giardini della Guastalla, lui le disse
che assomigliava a una donna degli acquerelli di Boldini. Claudia pensò che
fosse un modo gentile di rimproverarla per non aver rispettato i patti.
Baroni le tenne un discorso obliquo come quelli che fanno i maschi che non
vogliono assumersi responsabilità. Il nocciolo era che non potevano piú
vedersi clandestinamente, era il momento di dare uno stato alla loro
relazione.
– Stiamo insieme? – Claudia si sentí una stupida nell’istante preciso in
cui glielo chiedeva.
– Siamo noi, – rispose lui.
Fu ogni tanto serio, ogni tanto complice, quasi incoraggiante. Come a
convincerla che la relazione sarebbe cambiata, ma senza che ci fosse
bisogno di nominare il cambiamento. Il discorso suonò come una lezione
sui sentimenti. Al mattino, dopo che aveva piovuto tutta la notte contro le
persiane dell’albergo, lui le regalò un bracciale d’oro dicendo che cosí un
tempo si faceva con le schiave che diventavano favorite. Poi cominciò a
lamentarsi dei parenti di sua moglie e infine di uno dei due figli, che
riteneva inconcludente. Claudia, pur accecata dalla passione, vide in quelle
parole la crudeltà. Ma non riusciva a essere la donna consapevole e sicura
di sé davanti al professore che qualche volta la portava a cena con i colleghi
soltanto per esibirla.
Senza esserne convinta davvero gli disse: – Perché non lasci tua moglie?

– E come ti ha risposto?
– Come possono rispondere tutti i cinquanta-sessantenni sposati con
prole. Il quieto vivere.
– Ha detto cosí? «Quieto vivere»?
– Peggio, dice che ha ristrutturato casa con la moglie, lei ci ha messo
molti soldi e lui non può ridarglieli.
– E tu che hai detto?
– Che era il momento di provare a farlo in modo diverso.
– Cosa?
– L’amore, anche se ho usato un linguaggio un po’ piú spiccio… ero
arrabbiata, Frank, molto arrabbiata.
Deglutii.
– Frank, lo sai come sono fatta.
– Sí. E lui?
– Ha sbroccato. Ha detto che certi discorsi non stanno bene sulla mia
bocca. «Ah sí? E cosa sta bene sulla mia bocca? O nella mia bocca?» gli ho
detto.
– Claudia!
– Era quello che si meritava, non aveva il coraggio di dirmi la verità.
– Che verità?
– Che sono una da scopare e basta perché con la moglie non lo fa.
– Lo hai lasciato?
– No.
– Perché?
– Perché voglio metterlo davanti alle sue responsabilità: ogni atto ha una
conseguenza, non gli permetterò di passarmi addosso.

Nei primi anni al lavoro aveva mantenuto una distanza che tutti avevano
attribuito alla timidezza. Ma ora i colleghi maschi la consideravano
«acida». Claudia non sopportava le domande che in ufficio non le venivano
rivolte a parole, ma con gli sguardi: «Hai un progetto sulla tua vita?»,
«Quanti uomini ti corteggiano?», «Hai qualcuno che ti vuol bene qui a
Milano?» (un modo ipocrita per dire se c’era qualcuno in grado di
proteggerla). Tornava a casa dall’ufficio la sera tardi, non riusciva neanche
ad aprire un libro, avvertiva una nausea lontana.
Ottenne una promozione, leggeva i bilanci delle società clienti e studiava
piani aziendali per mettere a posto i conti, collaborava con uno stagista e
con un manager, sposato, tre figli, una timida spolverata di capelli bianchi,
tanto radi da far venire fuori la pelle lucida del cranio. Il manager aveva
cercato un’immediata complicità nel modo che Claudia ritenne il peggiore
possibile: – Una cosí bella donna ce l’ha un uomo al suo fianco?
– Non credo sia un’informazione con delle ricadute sul tipo di lavoro che
faremo –. Anche se avrebbe voluto rispondergli: «Non al mio fianco,
piuttosto alle mie ginocchia».
Una volta un partner commerciale in espansione chiese una verifica dei
costi. Claudia la preparò in due giorni, ma il manager fu incaricato dalla
direzione di presentare lui il progetto. A capo della start up che stava
aprendo sedi in tutta Europa c’erano due donne che quando videro il
documento chiesero espressamente chi lo avesse preparato. Erano serie,
sembravano avere una velata aria di minaccia. – Sono solo un ambasciatore,
– disse l’uomo per scrollarsi di dosso eventuali critiche. Claudia prese in
mano la situazione. – Abbiamo usato un software avanzato –. Le donne
guardarono Claudia, le dissero che era un documento molto preciso, molto
piú di quello che chiedevano, e se ne complimentarono stringendole la
mano. Una delle due le diede un bacio sulla guancia al momento dei saluti:
il fresco della pelle di quella donna le mise allegria.

So perché il professore le piaceva, a Eugenio poteva raccontare che non


aveva dormito la notte in cui finí di leggere L’ora di tutti di Maria Corti
perché sentiva nelle narici l’odore del sangue e nelle orecchie le urla dei
cristiani decapitati a Otranto. Lui non l’avrebbe presa per pazza, nessun
uomo con cui aveva parlato negli ultimi mesi conosceva Maria Corti o
Vittorio Bodini.
Quanto piú grandi erano gli uomini, tanto piú grande era
presumibilmente la vita che avevano vissuto. E perciò uno come Baroni
meritava una chance. Un giorno successe che il computer si mangiò un
rapporto che aveva scritto e avrebbe dovuto rifarlo da capo, in piú litigò con
un’ombra che da dentro un’auto l’aveva minacciata dopo aver inchiodato
sulle strisce pedonali. A casa lesse pagine a caso dei suoi libri, trascrisse
alcune frasi che l’avevano colpita su un quaderno, ma non le bastò. Voleva
discuterne, condividere. Ci parlammo al telefono, ma capii benissimo: le
mancava lui.
Al mattino gli scrisse un messaggio, soltanto «buongiorno», ma prima di
spedirlo si fermò a pensare alle conseguenze; era un bel po’ che non si
sentivano, pensò di aggiungere un emoticon allegro, un sole o una faccina,
oppure un cuore rosso, o forse era piú opportuno verde, a significare che era
speranzosa; o un cuore infranto? Il telefono le squillò in mano, le fu
ricordata la scadenza di un bando a cui l’azienda doveva partecipare e lei
non aveva ancora supervisionato il documento. La fretta le si propagò
dentro come la peste, smise di riflettere su quali fossero le parole giuste e
scrisse: «Buongiorno, volevo solo sapere come stai». Soltanto la sera tardi il
telefono lampeggiò nell’oscurità, mentre Claudia cercava di prendere
sonno. «Mia moglie non sta bene, è un momento difficile, siamo
particolarmente uniti. Lasciami stare».
Camminò per strada fino a perdersi, poi mi telefonò per dirmi quello che
era accaduto, che si sentiva tanto una stupida, che l’unico maschio che le
interessava era un bollito e pure sposato, che non la meritava e che aveva
gusti letterari discutibili, per giunta con una moglie che gli controllava il
telefono.
Poi salí sul primo taxi di una fila d’auto bianche; nello specchietto notò
il tassista che le guardava le gambe nude e quello sguardo insistente le
trasmise un sottile piacere. Durò un paio di secondi, subito dopo se ne
vergognò. Quando arrivarono sotto casa il tassista l’ammoní: – Stia attenta a
girare con la gonna cosí corta qui, è pieno di extracomunitari.
Claudia rimase senza parole, le tornò il fiato amaro di Michele quando le
era montato sul petto in spiaggia a Torre Canne, e poi il messaggio della
moglie del professore, e quando i compagni di classe la indicavano perché
era la piú alta, la piú ricca, quando una tipa alle medie le aveva chiesto dove
avesse lasciato i seni, essendo ancora l’unica a cui non si erano formati. Le
salí tutto insieme. «Bastardo», pensò, mentre era sul marciapiede, il portone
di casa aperto, nell’androne si intravedevano i panni stesi e il rosseggiare
dei gerani. Cosí si levò la gonna restando in mutande, semplici slip di
cotone, neri e sgambati. Le cosce si illuminarono nel riflesso della luce che
inondava l’androne. Camminava lenta e marziale verso il suo appartamento,
sentendosi fortissima. Il fresco tra le gambe fece affiorare la pelle d’oca,
come se fosse appena uscita dal mare d’estate. Una volta dietro la porta
dell’appartamento tirò un sospiro. Riempí la lavatrice con la roba che si era
portata nell’ultimo viaggio di lavoro, l’odore della città s’era attaccato a
ogni fibra. Dallo zaino estrasse l’agenda, sfogliò le pagine piene di
appuntamenti e promemoria. In fondo alla pagina di quel giorno scrisse una
parola, calcò i caratteri con la penna, una sola parola: LIBERTÀ .
In seguito al nuovo regolamento comunale sugli alloggi popolari la
cooperativa dove lavoravo fallí; l’ufficio era un prefabbricato tra le case che
venivano sventrate dai bulldozer, qualcuno lo riempí di gasolio e gli diede
fuoco. Ma l’esperienza tra brogliacci e catasti fu utile quando divenni
collaboratore di un’agenzia immobiliare – in quel periodo tutti cercavano
occasioni in Puglia per due lire, e io ero abile a inserire nei contratti di
affitto una clausola che trasformava gli affitti in vendita. Non era una truffa,
ma un bug della legge. Avevo imparato che la gente pagava solo per non
avere rogne; i giovani volevano liberarsi delle case di campagna, dei trulli,
delle specchie e le pajare che ereditavano, e gli speculatori le volevano
comprare spendendo il meno possibile. L’incontro tra domanda e offerta era
il mio lavoro. Non mettevo la giacca e la cravatta come tutti i miei colleghi,
ma ero sempre affabile, accondiscendente e pulito come uno studente al suo
primo esame; richiamavo al telefono tutti, anche quando il contratto era
firmato. Lasciavo in sospeso caffè nei bar del centro, perché è un segno di
magnanimità e potere a poco prezzo. «Questo è offerto da Veleno, Veleno
figlio, perché se fosse per il padre, solo calci in culo per tutti sarebbero».
Il mio ufficio nel centro storico era uno iuso, cosí come chiamiamo qui i
sottani, incavati nei palazzotti come tane nella pietra. Dalla portafinestra
guardavo il fascio colorato di una delle lanterne di ferro a forma di
campanula rovesciata all’angolo della strada, la stessa da quando era stata
montata lí un secolo prima, e una parte di me si sentiva esattamente come
quel pezzo di ferro invecchiato intorno alla luce.
La notte tornavo sempre a casa solo, i miei genitori guardavano la
televisione a volume bassissimo addormentandosi sui lati opposti del
divano. Non volevo diventare come mio padre, la sua accidia, il piglio da
bradipo. Segnava gli assenti sul registro e poi mandava tutti a giocare a una
generica «palla». I suoi alunni avrebbero potuto fare qualunque cosa sul
quadrato di cemento dove venivano liberati come carcerati, anche
picchiarsi. Lui, con la sua faccia tonda e angelica, li ignorava. Piú i miei
affari con le case andavano bene e piú sentiva incombere su di sé una
minaccia: morire povero. Era convinto che lo avrei depredato, e si
crogiolava in un arcaico, imperituro vittimismo meridionale.
Alcuni giorni, quando non ero in giro a mostrare case, mi rintanavo
nell’ufficio e giocavo a Tetris, mi lasciavo ipnotizzare dalla rotazione del
mattoncino colorato, pensavo a Claudia e mi abbandonavo al languore fino
a che il telefonino non squillava, con un nuovo cliente, un nuovissimo trullo
da vendere, una luminosa specchia con i vigneti da riposizionare nella
bacheca delle occasionissime.
La mia esistenza si trasformò in una continua trattativa; a volte
annaspavo, ma poi ne uscivo con la gloria minuta del commerciante che
vede gli affari andare in porto, il conto in banca fatto di tanti piú e pochi
meno. Contratti, promesse d’acquisto, ipoteche, fideiussioni, tutte
sfumature del pianeta nel quale vivevo. Nel frattempo, a Martina erano
arrivati cinquanta somali, ventenni e maschi, avrei voluto fraternizzare, ma
nessuno di questi giovani, dalle teste tonde e i volti emaciati, i capelli ispidi
e neri e la pelle scura come il caffè, mi degnava di uno sguardo. Scese
presto una cappa di sospetto su questi uomini che vagavano per il paese e
dormivano in un ex albergo abbandonato. Non rivolgevano la parola a
nessuno e a loro si avvicinavano soltanto i bambini e i malati che stavano al
Centro di salute mentale. Non era una situazione solo locale, nel Paese non
si parlava d’altro; sembrava che questi uomini scuri che giravano per le
strade fossero la causa della crisi, della povertà, degli omicidi, delle
carestie, dei terremoti. Non ero turbato da quelle parole, le avevo sentite da
bambino per gli albanesi e da ragazzo per i romeni, ora era il turno dei neri.
Facevano parte di un copione che ripetevano i piú sprovveduti e i piú
cattivi, spesso i piú ricchi.
Accanto alla riprovazione per i neri c’era quella per i gay. Il Comune
aveva dato il patrocinio alla mostra di un giovane pittore che disegnava
maschi che si baciavano. Era stata visitata dai parenti dell’artista e poco piú,
ma la presenza dello stemma comunale sul dépliant aveva alzato il
polverone. Fu organizzato in fretta e furia un comizio in cui un giovane
politico martinese tuonò contro i gay che toglievano soldi ai terremotati. La
gente lo applaudí anche se a Martina non c’era stato nessun terremoto.
Il giorno dopo si presentarono in agenzia tre ragazzi tra i venticinque e i
trent’anni, vestiti bene, si passavano la parola velocemente. Avevano deciso
di tornare in Puglia dopo la laurea perché avevano coraggio e voglia di
cambiare le cose e stavano fondando un’associazione per raccogliere tutti i
ragazzi di buona volontà del paese.
– Un appartamento o un locale? – chiesi loro, convinto che fossero
venuti a cercare un posto per la loro associazione.
– In realtà siamo qui per te, – disse il piú giovane dei tre. Aveva i capelli
lunghi e castani, gli zigomi sporgenti e una collana nera con un piccolo
corno d’avorio al collo. Il mio sguardo restò fermo a lungo su quel
dettaglio. – Tra un anno si voterà e sappiamo che tu sei abbastanza sensibile
a certe tematiche.
Ebbi un brivido. – Non capisco, – balbettai, come se mi stessero
interrogando.
– Tuo padre, sappiamo che gira con una pistola… e che non avete un bel
rapporto…
– Mio padre non è violento, è solo…
– … un fascista.
– Ma no, ma figurati.
– Io sono omosessuale, – intervenne quello con il corno d’avorio, – ma a
Martina non lo posso dire. Insomma, mia madre non lo accetta, anche se da
dieci anni le presento i miei fidanzati.
Mi limitai ad annuire. Li feci parlare, poi li accompagnai a prendere un
caffè, ma dissi che non ero interessato alla politica. Mi strapparono la
promessa di pensarci su.
Ne rimasi turbato, era come se mi avessero dato per la prima volta una
fotografia di quello che sembravo da fuori. Una vittima del patriarcato
fascista, che non sapeva nemmeno riconoscerlo. Col tempo il turbamento
lasciò lo spazio a una rabbiosa autocoscienza: era ingiusto, pensavo, che chi
non mi conosceva esprimesse simili giudizi. Ebbi un pensiero di
conciliazione: invitare a pranzo o a cena mio padre, farci vedere, se non
complici quanto meno coordinati e leali tra noi, o comunque quello che
eravamo stati da sempre, innocui l’uno per l’altro.
Il Tetris finisce con la sconfitta. Esiste un momento in cui le
combinazioni dei blocchi, i tetramini, per grandezza e velocità, non
permettono di completare la riga, di solito accade dopo il tredicesimo
quadro. Claudia non era ancora arrivata al tredicesimo quadro, ma la
dimensione e la velocità dei tetramini erano talmente squilibrate che non
riusciva piú a tenere il ritmo degli ultimi anni. Quando le chiedevo come
stava, rispondeva sempre usando metafore che avevano a che fare con gli
accerchiamenti. Nell’ultimo periodo aveva cambiato numerosi partner
commerciali, lavorava spesso nelle aziende che affidavano alla sua società
di consulenza le mansioni di controllo; ogni mese aumentavano le
responsabilità, finché non arrivò la peggiore di tutte, quella che Claudia
sospettò essere un modo per estrometterla: le veniva richiesto di tagliare i
costi di un grosso ramo commerciale in un’azienda che aveva appena
licenziato trenta persone. Avrebbe dovuto giustificare altri trenta tagli e
occuparsene personalmente. Non disse subito di no, prese una vacanza, poi
un’aspettativa di un mese, infine il taglio lo subí lei. Le proposero un piano
dimissioni con buonuscita. Lei lo accettò.
L’ultimo mese in ufficio fu il peggiore, dovette constatare di non aver
costruito nessuna amicizia con i colleghi, nemmeno con le stagiste che
aveva addestrato. L’ultimo giorno di lavoro si vestí come quando andava ai
rave, anfibi e una lunga camicia di jeans sugli shorts neri. La videro
camminare in corridoio con le braccia alzate come in equilibrio su un filo
immaginario, aveva le cuffiette con la musica nelle orecchie.
Nei primi giorni senza lavoro si tuffò nelle letture, fissò la sveglia al
mattino presto, per non perdere il controllo. Fece due viaggi, uno a Londra
e uno piú breve a Parigi. Entrambe le città le parvero tetre e respingenti,
forse colpa del suo stato d’animo, la gente pareva diffidente. «Sto solo
diventando vecchia». Mi telefonava anche due volte nell’arco della giornata
annunciando che aveva cominciato a prendere lezioni di pianoforte, pittura
e tedesco. Poi dopo un mese aveva lasciato tutto tranne il tedesco. – Non ho
orecchio e non sento i colori, ma ho il desiderio di leggere in lingua
originale La metamorfosi.
Scorreva le scarse offerte di lavoro adatte al suo curriculum, finché sul
suo profilo Facebook non trovò una richiesta d’amicizia da parte di una
delle sue stagiste; le scriveva che una donna l’aveva cercata in ufficio e si
era fatta dare il suo contatto. Aggiunse che sognava un giorno di ballare in
quei corridoi di grès porcellanato e gomma come aveva fatto lei.
La donna che aveva chiesto il suo contatto era la partner commerciale
che tempo prima l’aveva baciata sulla guancia dopo una riunione. Stava
aprendo una filiale della sua start up in Germania, cercava un account
brillante di cui fidarsi e con lei aveva lavorato bene. Claudia rimase
stupefatta, scandí nella sua testa le tre sillabe della città in cui sarebbe stata
aperta la filiale: Ber-li-no.
Qualche giorno dopo ricevette una strana telefonata dalla sua banca. Era
la voce un po’ impostata di un giovane: – Signora Fanelli, potrebbe
raggiungerci nella nostra sede? Il direttore vorrebbe parlarle.
– Vivo a Milano, faccio tutte le mie operazioni via internet, – rispose
Claudia, che aveva fretta.
Il tizio le chiese se avesse aperto recentemente un conto online. – Non
capisco –. Immaginò che qualcuno avesse piratato il suo conto, che un ladro
si fosse impossessato dei codici delle sue carte e da mesi drenasse piccole
somme fino a esaurirlo.
Molto peggio.
Claudia Fanelli scoprí che era ancora intrappolata nella sua infanzia e da
lí non era mai uscita. Tutto ciò che era stato versato sul conto corrente era
sparito, ritirato da una persona autorizzata.
– Non ho ritirato nulla, – protestò.
– Lo so, ma sua madre sí, – disse l’uomo. – Questo conto era a doppia
firma, la sua e quella di sua madre.
– Mia madre?
– L’ultimo prelievo è di tre giorni fa. Filiale di Martina Franca. È passata
Antonietta Bianchi insieme al suo avvocato, Marco Curcio.
Claudia raggiunse la sede centrale della banca al diciottesimo piano di
un grattacielo. C’era odore di plastica e moquette, rumori ovattati. Non era
un buon momento: la gente aveva perso molti soldi, erano crollati i fondi in
tutto il mondo. I funzionari in quei mesi erano stressati e sotto scacco, ma
con lei si mostrarono affabili. Le strinsero la mano. Le consigliarono un
avvocato. Si dichiararono disponibili ad aprirle un altro conto e a darle un
fido di duemila euro.
La donna con cui parlò aveva occhi chiari e piccole macchie nere sul
viso, faceva tante pause. Al momento del congedo le fece un sorriso e le
disse che all’ultimo piano del grattacielo c’era un bar con una bella vista,
come se le avesse confidato un segreto che conosceva soltanto una ristretta
cerchia di persone a cui era appena stata ammessa anche lei. Claudia ci vide
un’inconsueta premura e si sentí in obbligo di non disattenderla.
Quando entrò in ascensore, si asciugò gli occhi e pigiò il tasto per il
ventitreesimo piano. Lí c’era il bar promesso, uno squallido bancone in
mezzo a quattro tavolini e dei sottili muri di compensato. Stava chiudendo,
le dissero che anche la macchina del caffè era già stata spenta. Doveva
avere una faccia molto cupa, perché il cameriere le chiese se stesse bene.
– Sí. Ma sono molto triste, – e si voltò per andarsene. Mentre tornava
verso l’ascensore sentí due, tre volte: – Signora –. Era la prima volta che
qualcuno la chiamava «signora». Il cameriere le disse che poteva rimanere
anche senza consumare nulla. – C’è una bella vista, ed è fortunata perché
oggi non ci sono nuvole –. Si vedeva il Gran Paradiso.
Lo seguí fino a un tavolino davanti a una piccola finestra, una feritoia,
ma il panorama era bellissimo. Claudia viveva a Milano da dieci anni e in
città non aveva mai visto la cima imbiancata di una montagna. Le parve un
vero addio, «perché l’Italia è una terra che comincia col mare e finisce nelle
montagne», mi scrisse prima di annunciarmi che sarebbe partita, verso un
Nord ancora piú a nord di dov’era stata tutti questi anni, dove sciamavano i
nuovi italiani di ventura: Berlino. E anche se fosse stata Atlantide, l’isola
dei Feaci o Marte, io non avrei mai smesso di inseguirla.
Parte quarta
Ruinenlust

(s. m. Piacere provocato dal fascino degli edifici abbandonati, in rovina, centrali elettriche, vecchi
manicomi, sanatori e villaggi diroccati. Sentimento di nostalgia per un tempo inesorabilmente
passato. Origine risalente alla cultura neoclassica, quando i viaggiatori ammiravano i resti e le
vestigia delle civiltà scomparse. Allude anche al compiacimento per i propri fallimenti e all’allegria
dei naufragi).
Non sopportavo gran parte dei miei coetanei all’estero, una volta
espatriati scoprivano di aver vissuto per venti o trent’anni in mezzo ai
barbari. Non importa in che città fossero: Parigi, Barcellona, New York,
Pechino, Osaka, e ovviamente la maledetta Berlino. Non importa che lavoro
o che ragione profonda si nascondessero dietro la loro nuova vita. La terra
natale era disseminata di ladri, burocrati, baciapile, raccomandati e mafiosi.
Ma loro cosa avevano fatto per migliorarla? Erano andati via.
Questo pensavo all’epoca, ma chi va e chi resta ha le sue ragioni. Dopo
tutti questi anni, lo riconosco. La vita mancata è sempre migliore di quella
vissuta.
Per Claudia non era cosí. Il passato andava cancellato, e anche sua
madre. Mi parlava solo della sua nuova città. Berlino, Berlino, Berlino. Lí
era libera, si amava e si perdeva, lavorava e mangiava, falliva e
ricominciava da capo, senza mai sentirsi uno zero. La sua lontananza ormai
non era solo un fattore geometrico, era esistenziale: parlava un’altra lingua,
pensava in un’altra lingua, circondata da persone che parlavano altre lingue.
I primi mesi di Claudia a Berlino provai qualcosa di molto simile a
quando era andata a Londra, e io cercavo nel suo banco vuoto risposta alle
mie incertezze, oppure a quando tornai da Milano e sublimai nella stazione
di Martina le mie malinconie. La nostalgia altro non è che un piacere
distillato e persistente.
La vedevo perfettamente in sintonia con tutto, scendere dall’aereo
diversa da tutti gli altri viaggiatori, una borsa da mare come bagaglio a
mano per riporre quanta piú roba, la testa alta verso l’uscita del gate, sicura
di sé. A Berlino c’erano sempre ponti su cui fermarsi a guardare il fiume.
C’erano parchi enormi con altissime querce, prati talmente ben rasati che
era impossibile distinguere le nostre erbette, quelle con cui da ragazzi ci
ornavamo i capelli, o sentirne il profumo. Questi erano i racconti di
Claudia, favoriti dal suo arrivo in primavera quando tutte le grandi città
diventano luminose, i colori piú vividi. Passeggiate lunghissime, il trillo
della bicicletta e la sua voce affaticata mentre parlava negli auricolari lungo
il tragitto tra casa e lavoro, i primi amici e la parola «amici» risuonava in
modo diverso, piú frequente nelle nostre conversazioni rispetto al passato.
Poi con l’inverno sparí il trillo del campanello, ma sullo sfondo rimaneva
qualcosa di esotico, come l’incomprensibile avviso della metropolitana di
cui Claudia mi parlava in modo quasi orgoglioso. Non mi aveva mai parlato
della metropolitana di Milano.
L’inverno di Claudia a Berlino fu una lunga notte da novembre a
maggio. I viali di acciottolato sotto i grandi lecci, i chioschi dei fiorai dentro
le fermate della metro, traboccanti di tulipani e girasoli. I cimiteri che
interrompevano il disegno dei quartieri mimetizzandosi coi parchi.

La mia vita era andata in direzione contraria. Avevo tirato su in poco


tempo un’agenzia immobiliare di tutto rispetto. Sul rettilineo tra Massafra e
Martina toccavo i 200 km/h. Cronometravo il tempo che impiegavo da un
paese all’altro: undici minuti per ventiquattro chilometri. Dovevo
occuparmi dei clienti che chiedevano di vendere, con l’offerta che abbatteva
il mercato e i soldi che finivano, mentre le banche fallivano e si portavano
dietro i risparmi. Il mio consiglio era sempre lo stesso: vendere a poco a
poco. Gli appartamenti da centoventi metri quadri diventavano tre
miniappartamenti, i palazzotti barocchi del centro storico li vendevo a
piano, i fondi agricoli erano in saldo perché le tasse sarebbero state un
salasso ed era meglio dare, donare, abbandonare, togliere il proprio nome
dalle pietre ereditate dagli antenati.
La statale che percorrevo era per lunghi tratti tortuosa, si inerpicava su
una collina di lecci che nascondeva la vecchia base radar, poi tornante dopo
tornante si trasformava in una lingua stretta e piana come le strade delle
sconfinate distese americane, con massi lunari, burroni e l’orizzonte viola.
Scartabellavo al catasto in cerca di trulli abbandonati nelle campagne: li
compravo per due soldi e subito dopo cercavo di rivenderli a prezzi rialzati.
In tanti abbandonavano le loro cose, pareva la malattia dei miei
compaesani: le radici crescevano tra le pietre grigie delle specchie e dei
coni di pietra, come piante carnivore. E io fotografavo, pubblicavo annunci,
braccavo i compratori e ammansivo i venditori. Grotte, buchi nella pietra
dove con un po’ di fortuna arrivava l’elettricità e l’acqua corrente: Massafra
era il futuro perché uguale a Matera ma meno cara.
Vestivo come un impiegato delle pompe funebri, cravatte scure, giacche
su misura e scarpe in ecopelle. Del resto, trattavo case di persone morte o
che andavano via. I compratori cercavano case vuote, i mobili di chi aveva
vissuto lí portavano iella; mi occupavo io di far svuotare le abitazioni. Le
ditte che lo facevano dopo aver riempito i camion di roba giravano nei
mercati dell’usato rivendendo e guadagnando su quelli che per altri erano
ricordi da dimenticare. Prendevo una percentuale sullo svuotamento e
qualche volta, se c’era un mobile che mi interessava, lo facevo mettere da
parte. Le cose di famiglia hanno un’anima e i giapponesi dicono che dopo
cinquant’anni cresce in loro uno spirito.
Nel frattempo dimagrivo, compiacendomi quando qualcuno diceva:
«Che ti succede Veleno, mangi le mosche?» Ogni giorno bollivo due uova e
le nascondevo in tasca. Fino a sera me le sarei fatte bastare, pulendone il
guscio quando la testa cominciava a pesare e l’asfalto della strada su cui
correvo spariva. I ponti di Massafra cucivano la polpa di una città segnata
dalle gravine. Era come guardare la terra al suo centro. Lí mi assaliva
l’impulso di urlare. La sera tornavo stanco e affranto, gli occhi stropicciati,
la gola asciutta.
Mia madre partí un sabato in cui la luce inondava il soggiorno. Borsone
a tracolla e occhiali da sole per nasconderci i suoi occhi azzurri che a casa
erano sempre tristi. – Vedi di non fare troppo casino –. Mi baciò sulla punta
del naso.Partiva per un viaggio in Vietnam. Sulla porta d’ingresso mio
padre con lo sguardo da cane bastonato. Sua moglie e suo figlio erano lí a
due passi ma con i cuori distanti. Subito dopo avvertii un magone
fortissimo. – Tanto torna, – disse mio padre con voce malferma. «Dove l’ho
già sentita?» pensai.
Mi ritrovavo a immaginare come fosse nata la storia di mia madre con il
padre di Claudia, il primo sguardo in ospedale, quando si erano baciati la
prima volta, il dettaglio decisivo per cui avevano realizzato che si poteva
fare. Ricordai quando un giorno, arrabbiata con mio padre, mia madre mi
aveva detto di non innamorarmi di chi tira di scherma perché dopo che ti ha
infilzato arretra e lei era stufa di gente che arretra.
Mi vedevo sempre con gli stessi compagni di scuola, anche se col passar
degli anni mi consideravano il caso umano della comitiva, non presentavo
fidanzate e non mostravo interesse per i progetti familiari, ero tutto casa e
lavoro, ci si incontrava perché si era rimasti al paese, nei bar di periferia
verso Taranto col suo cielo bordeaux.
Avevo baciato una donna piú grande, un’insegnante che mi somigliava,
quando parlavo sembrava assentarsi. Trovavamo nei nostri incontri una
pausa dal resto della vita. Forse eravamo tipi da tenerezze, tiravamo sospiri
di sollievo quando ci separavamo senza essere arrivati al coito. Lei tornava
a casa da suo marito e io a letto mi rivedevo una scena di trent’anni prima:
la ninna-nanna cantata da mia madre con in testa un turbante.
Claudia raccontava sbalordita della quantità di alberi e vegetazione e
canali di Berlino. Nella strada in cui abitava notò un gelso come quelli delle
campagne di Martina. La foglia del gelso berlinese era meno grande, mi
disse, la punta e le curve la facevano somigliare a un cuore. La resina si
scioglieva sui capelli. Etta tornava nelle vesti di un fantasma dell’infanzia,
quando in estate le posava un fazzoletto bianco sulla testa perché i pini del
parco giochi a Fabbrica Rossa non la sporcassero. Guerreggiare per riavere
indietro i soldi non sarebbe servito a nessuno. Claudia era a Berlino anche
per questo.
Abitava in una mansarda fredda e vuota, il trasloco dei suoi libri da
Milano era avvenuto con un corriere che ogni giorno, per ventuno giorni, le
aveva consegnato una scatola. Era il trasloco dilazionato offerto da una ditta
che si appoggiava alla rete postale, cosí Claudia per un mese aveva aperto
una scatola alle sei in punto appena tornata dal lavoro. Nei giorni in cui
stilava l’accordo con la ditta aveva avuto una piacevole sensazione
immaginando il suo approdo in una nuova città dove il tempo le avrebbe
rilasciato poco alla volta parti di sé. Poi le si era affacciato un pensiero: la
tentazione di perdere tutte le ventuno scatole in arrivo dall’Italia come
antidoto alle ferite.
L’ufficio dove lavorava era in una strada affollata di botteghe turche,
bancarelle di spezie, negozietti di telefonia, fiorai. Nella stessa stanza
lavoravano due architetti, un grafico e le due colleghe con cui avrebbe
condiviso la start up, un’armena piccola e silenziosa e un’indiana appena
arrivata da Londra che apriva bocca solo per dire che a Berlino si parlava
un pessimo inglese. Claudia era convinta che la detestasse. La donna che
l’aveva assunta non c’era piú, aveva liquidato la sua quota, l’altra socia non
era mai presente. Aveva studiato avidamente il manuale di Eric Ries sulle
start up e lo sviluppo delle imprese a progetto. Il lavoro era piú
amministrativo e contabile che finanziario, si trattava di seguire i piani
espansivi delle filiali di un franchising. Piú monotono di quanto avesse
creduto. Le due colleghe, appena cortesi, fuggivano da quello spazio
comune alle cinque in punto. Trascorreva le sue giornate lavorative al
telefono parlando un inglese che diventava sempre piú fluente. Il lavoro era
piú concentrato rispetto al Tetris milanese, la pausa pranzo durava il tempo
di sbocconcellare un panino o un’insalata portata da casa. I suoi
interlocutori erano freddi, ma professionali. Nessuna voce maschile aveva
mai piegato la conversazione in modo sgradevole. Di solito doveva istruire
qualcuno su come far funzionare un software, oppure si confrontavano i
risultati dell’algoritmo, altre volte c’era da organizzare in diverse cartelle le
autorizzazioni delle varie amministrazioni per l’apertura delle nuove filiali.
Claudia con diligenza catalogava nomi e posizioni e si distraeva soltanto
con un vaso azzurro dove ogni settimana infilava rose scarlatte o tulipani
bianchi.

– Mi sento accolta, anche se ancora non conosco quasi nessuno.


– Forse è solo il tuo stato d’animo, la città non conta, – le replicavo.
– Conta, Francesco, conta l’aria che respiro, gli sguardi della gente.
– La gente? La gente è uguale dappertutto.
– Ho l’impressione che qui tutti siano miei complici.
I suoi resoconti assomigliavano a quelli di una turista innamorata, e nulla
è piú noioso del racconto di un turista. Diceva che il cielo sembrava piú alto
che in Italia. Le rispondevo che era la latitudine e lei mi rinfacciava
d’essermi inaridito.
Camminava sempre, seguendo l’onda dei semafori verdi. Sotto al ponte
di Jannowitz sentiva sferragliare i treni della S-Bahn. Nonostante il rumore,
quell’intrico di rotaie, ponti e strade aveva un’armonia che poggiava
sull’autorità della Sprea, un fiume amico dai riflessi argentati che emanava
odore di freddo e le ricordava il colore di un gatto randagio.
Alla sera frotte di senzatetto spuntavano spingendo carrelli e trascinando
buste piene di bottiglie vuote che i supermercati trasformavano in buoni
spesa. Lei regalava loro le bottiglie vuote solo per avere in cambio un
sorriso. Era appagante ricevere gentilezza per un gesto tanto semplice. Poi
tornava a casa e leggeva quello che da un po’ era il suo poeta preferito,
Raffaele Carrieri. Una sera al telefono elaborò un lungo discorso per
spiegarmi che Carrieri aveva lasciato la Puglia per imbarcarsi su navi
sconosciute, un po’ come lei. A volte si leggono libri solo per sapere che
qualcuno ci è già passato.
Che ne era delle mie letture? In passato mi ero affidato a romanzi e
poesie per trovare l’assenso di Claudia e un metodo per scardinare la
prigione che mi ero costruito attorno. Le metafore agresti di Carrieri
richiamavano l’origine e ci riguardavano: «Io sono quello | che sbaglia
tutto. | Il verme, il frutto. | Sbaglio l’amore, | sbaglio nel largo | e nello
stretto, | sbaglio a morire | dove non sono…»
Claudia anche a distanza dava un senso alla mia vita, era petrolio bianco,
ogni sua mail o messaggio, ogni sua telefonata, ogni sua parola
assomigliava alle fiammate degli sputafuoco nelle notti estive dedicate al
nostro santo. Percorrevo chilometri, conducevo visite negli appartamenti e
nelle campagne, parlavo con tanta gente con cui non avevo niente da dire, e
c’era sempre quella fiammata a illuminare il nero che m’era rimasto
addosso da quando era andata via.
– Ho passato le ultime due ore a guardare la finestra di casa tua, – le
dissi in una delle nostre conversazioni telefoniche.
– L’immaginazione non ci fa difetto.
– Macché, mi sono scaricato Google Earth solo per vedere in che posto
vivi.
– Non puoi capire il piacere che provo davanti alla finestra con questi
crepuscoli.
– Anche qui ci sono crepuscoli, – protestai mentre la maledetta
tramontana martinese quasi mi impediva di parlare.
– Ci sono cresciuta e mi hanno fottuto un sacco di volte, ma sembrano
colori sfregati col polpastrello, ora invece ho bisogno d’un cielo disegnato
col diamante.
Queste annotazioni liriche non erano pienamente convincenti, come se
Claudia cercasse di condividere con me solo la bellezza, mentre per le
contraddizioni non mi riteneva ancora pronto.
– Non hai piú la tua voce rabbiosa.
– Il tempo della rabbia è sprecato –. Serafica.
– A volte lo spreco serve, – la rintuzzavo.
– Tu che parli di spreco e non hai mai preso un aereo per venirmi a
trovare.
– Non me lo hai mai chiesto –. Avevo uscite infantili e me ne
vergognavo senza essere capace di arginarle.
– Sei diventato cosí formale?
– Temo il momento in cui dovremmo di nuovo separarci, – ammisi.
– Ti stai perdendo il meglio della tua vita per questo? – Temere la fine di
un piacere era superiore a qualunque desiderio, per me.
– Se non ballo esco matta, – aggiunse. Non aveva avuto il tempo, o forse
l’umore, per esplorare la Berlino dei club. Ma ora quell’esigenza naturale si
riproponeva prepotente. Ballare per noi era qualcosa di sacro, venivamo da
una terra in cui il ballo è un rito piú antico della religione. Senza che
nessuno dei due lo sapesse, la nuova vita di Claudia stava per cominciare
soltanto adesso.

Il Berghain, un tempo centrale elettrica, conservava l’aria severa delle


fabbriche comuniste. Era conosciuto come «il tempio» o «la chiesa».
Sotto la pioggia Claudia percorse un lungo viale tra i grattacieli, oltre la
stazione di Ostbahnhof, fanghiglia e odore di piante bagnate. Una lunga fila
di persone silenziose vestite di nero. «Sembrano qui per fare le
condoglianze a qualcuno», pensò. Certi ragazzi alti e rasati con tuniche nere
e anfibi si voltarono a guardarla perplessi. Indossava shorts di jeans, una
lunga camicia bianca e stivaletti bassi.
Dopo due ore di fila il buttafuori, un uomo alto dai capelli bianchi, il
viso tatuato, scosse la testa: – Sorry, heute nicht –. L’aveva esaminata con
scrupolo per almeno un paio di minuti.
– Why? – protestò lei.
Il buttafuori ripeté il gesto di diniego.
Claudia si ritrovò a passeggiare nella notte sul ponte luccicante di
Warschauer, da un lato ammirava in lontananza lo sfavillio della stazione di
Ostkreuz e dall’altra le gru, braccia di luce che la ipnotizzavano. Vagò tra
gli sciami di giovani, i bassi potenti delle discoteche scuotevano l’asfalto.
Era sola e scottata dal rifiuto. Bevve al Sanremo, un baretto con le luci
rosse e la puzza di cucina, parlò con due tipi il tempo di annoiarsi. Ballò al
Lux, un piccolo club, ma la musica non le piacque, attese in fila all’Ava, nei
pressi dell’East Side, ma girò i tacchi quando il buttafuori le disse di
aspettare. Il cielo cominciava a schiarirsi. Erano le sei di mattina, un nuovo
giorno. Eccole le ombre nere dei reduci della notte, visi pallidi e occhiaie
viola.
Il Berghain di giorno aveva un aspetto piú prosaico, una fabbrica in
mezzo a scatole di cemento alte dieci piani. Claudia si raccolse i capelli in
una coda, il tatuaggio in evidenza sulla nuca. Non c’era fila, la scatola di
cemento vibrava, le finestre nere illuminate da lampi azzurri e bianchi. Nei
paraggi due ceffi vendevano ketamina, una ragazza senza mutande col
trucco nero sbavato, piegata in due, defecava sotto un albero muovendo il
corpo al ritmo di una musica che le era rimasta dentro le orecchie. Figurette
sbiadite uscivano ed entravano con un timbro sul braccio. Claudia ottenne
l’ingresso con un cenno ozioso. L’ammissione, a poche ore dal rifiuto, le
iniettò in corpo una scarica di adrenalina. Seguí un sentiero di luci fioche
che conduceva a una scala, le rampe terminavano in una nube bianca fino
alla sala principale, dove una densa massa di corpi seminudi sudava e
gioiva. Un’armonia insondabile arginava ogni tumulto. Claudia notò
un’altra scala di ferro e cominciò a salire per prendere aria. Da lassú
contemplò la fitta distesa, schierata come un esercito, che seguiva un’unica
traiettoria musicale proveniente dal fondo della sala: gomiti all’altezza dello
sterno, petto incassato, testa china e ciondolante, piedi ben piantati a terra.
In fondo, in una feritoia luminosa, suonava lo sciamano di quella mattinata:
una ragazza piccola con un casco nero di capelli ricci. Irradiava una musica
dura, violenta, ma elegante. Le vennero in mente i salmi responsoriali e il
frame dell’unico film di Salvador Dalí che aveva visto, in cui da un uovo
schiuso appare l’uomo coi baffi sottili.

– Ho avvertito la sensazione del mondo che si svegliava.


– Sei un bel po’ esaurita se ti viene in mente Dalí al Berghain.
– Frank, è tempo di splendere e io mi sono sentita splendere in tutto quel
buio.

Claudia continuò a salire e arrivò in una sala meno affollata, circondata


da nicchie piene di uomini muscolosi con canottiere, cinte e borchie, avvinti
tra loro. La musica si fece soffice, un cuscino elettrico. Trovò un posto con
un po’ di aria per poter ballare, iniziò a spingere dai gomiti all’altezza delle
scapole, i pugni paralleli ai seni, gli occhi socchiusi. Comparve una donna
con un lazo. Era l’unica figura colorata, una corona d’argento sulla fronte
teneva a freno folti capelli corvini che spiovevano sulle spalle, il corsetto
rosso e pantaloncini azzurri esaltavano gambe muscolose da pattinatrice.
Nel tondo del lazo si infilò un uomo dal torace liscio e nervoso. Erano
bellissimi, pensò Claudia.
Lei si fece vicino.
– I’m Wonder Woman.
– I’m Claudia, du bist schön!!!! – urlò, i bassi scuotevano i muri.
– Ciao Claudia, anche io sono italiana, hai un accento orribile! – e rise.
L’uomo al guinzaglio le guardava senza capire.
– Anche lui è un bel tipo, – disse Claudia.
– L’ho conosciuto cinque minuti fa. Vieni a farti una botta con me, – il
viso rettangolare e armonico emanava una luce chiara.
Claudia fece no con la testa. Wonder Woman continuò a ballare
stringendole i fianchi, poi con la gamba a mezz’aria le avvolse parte del
busto. Lo stivaletto le punse il gluteo e la spinse verso le sue labbra.
L’uomo le guardava divertito, a quel bacio si mischiò anche la sua bocca.
Piovve su di loro O Superman di Laurie Anderson in una versione che
Claudia non aveva mai sentito. Wonder Woman sparí nella calca, lei si
ritrovò con l’uomo al lazo tra esseri umani simili a pesci appena pescati. Gli
colava del trucco dagli occhi. Non era l’unico maschio truccato in quel
posto. A Claudia piaceva, era gentile. Col suo torace sudato e teso
assomigliava agli angeli del convento delle agostiniane di Martina. Statue
scolpite come efebi muscolosi per stimolare le fantasie delle monache e
donar loro la serenità. Avrebbe voluto raccontargli che lei veniva da un
posto di vento, polline e ulivi, ma lui si congedò, lasciandola con un leggero
sgomento. – Devo andare, stasera lavoro.
Wonder Woman ricomparve con gli occhi di fuori, l’aria terrea, le mani
libere, prive del lazo. – Mi hanno fregato la corda, ora nessuno mi dirà la
verità! Nessuno, nobody, niemand! – Claudia la guardava interrogativa. –
Non sono piú Wonder Woman senza lazo, sono solo Erika, sono tornata
Erika –. E cominciò un pianto misto a riso.

– Quando Wonder Woman lega un uomo al lazo questo ammette tutto.


Ricordi il telefilm? Il disegnatore di Wonder Woman è lo stesso che ha
inventato la macchina della verità.
– Era talmente fatta che era entrata nella parte?
– Erika non era fatta, era solo Wonder Woman, dovevi vederla,
Francesco, era proprio lei.

Erika prese Claudia per mano tirandosela dietro, gli occhi fissi verso un
orizzonte indecifrabile. Claudia le affidò le sue sensazioni, si rifletterono
l’una nell’altra giocando a specchio come fanno i bambini. Claudia rideva.
C’era una mescolanza aspra nell’aria, sudore e cannabis, violente scariche
di fumo scendevano dall’alto, ognuno ballava da solo, ognuno cercava un
mondo suo, una ragazza eseguiva movimenti marziali e precisi davanti al
muro, come volesse afferrare la propria ombra. Sembravano felici. Non
erano le droghe sintetiche, il sesso soffuso, i bassi violenti, la bellezza della
dj che danzava alla sua consolle. C’era altro. Lo capí uscendo dal Berghain,
dopo oltre quindici ore di musica ininterrotta nel cervello, nei muscoli e
negli occhi. Era discesa negli inferi come Euridice, aveva incontrato
Persefone, la regina dell’oltretomba.

– Come fai a fidarti di gente incontrata in un posto del genere?


– Ho come l’impressione che qualcuno abbia acceso un fiammifero nella
mia stanza oscura.
– Domani non ti ricorderai piú di lei.
– Ho la stessa sensazione dei colpi di fulmine.

Erika viveva in una casa con due ragazzi e una ragazza, in quella fase
della vita in cui ci si adatta per mancanza di risorse. La stanza era ricoperta
di poster come una vecchia cameretta anni Ottanta, su un muro spoglio
erano scarabocchiate frasi casuali, date, partite a tris, pezzi di canzoni.
Claudia s’era lasciata portare, guidata da un’istintiva fiducia. Erika
s’abbandonò al sonno bardata da Wonder Woman, lei lesse le parole sul
muro lasciandole cadere, come se la sua mente fosse una battigia che la
risacca del mare ripuliva. Si soffermò soprattutto sulle maiuscole all’inizio
delle strofe, lettere scritte con la stessa grafia rotonda e malferma dei
bambini.
Rimase nel letto a una piazza della stanzetta di Erika, mentre i
coinquilini di là si muovevano rumorosamente.
– Sei alta e buona, ma un po’ ansiosa di non farlo sembrare, – le disse
Erika risvegliandosi con la voce impastata. Poi si cinsero in un abbraccio.
Claudia si lavò in un piccolo bagno colmo di flaconi vuoti impilati
nell’armadietto accanto allo specchio, e osservandosi vide che la sua faccia
era stropicciata, gli occhi gonfi e un alone rosso attorno alle labbra.
Trovò Erika in canottiera e pantaloni, per il sonno stentava a stare ritta
contro l’uscio della stanza. Le parve una ragazza con le braccia muscolose,
molto diversa da quando si erano abbandonate sul letto. Mostrava due
finestre nere al posto dei premolari superiori. Claudia le guardò senza
volerlo in bocca e Erika disse: – Ho denti deboli, ma rido lo stesso –. Sul
suo viso si accese una luce diversa.
Quella sera Claudia andò via con la sensazione di aver dormito da
un’amica storica o una parente. Anche se non s’erano dette arrivederci,
sapeva che l’avrebbe rivista molto presto. Fissò il palazzo da cui era sbucata
per memorizzarlo, era tutto bianco con le cornici gialle delle finestre. Scale
e ballatoi di legno, porte fragili che un calcio ben assestato avrebbe fatto
cadere. Una donna con il chador e due bambine avevano lasciato la porta
aperta per farla uscire, Claudia le ringraziò con un cenno.
Eravamo solitudini perfette, due monadi. Ero cortese e sapevo masticare
chiacchiere essenziali con chiunque, ma dentro di me il fuoco era spento.
Mi piaceva restare a Martina perché tenevo a bada l’ansia, la quotidianità
era sopportabile, mi nascondevo all’ombra di un gelso, camminavo sulla
spiaggia scura di Torre Canne. Tornò Domenico per qualche giorno con la
moglie e la figlia, quando lo seppi corsi in campagna e andai a mangiare i
fiori viola della borragine e i germogli della malva come aveva fatto
Claudia alla morte del padre. A Martina il vento percuoteva le imposte e
faceva fischiare le finestre quasi tutti i giorni dell’anno, usavo i tappi per le
orecchie che Claudia metteva per andare a ballare.

Tutti i giorni a Claudia toccava spiegare quel maledetto software a


ventenni pieni di speranze sparsi per il mondo. Ma andare al lavoro era
anche la piccola gioia di riempire il vaso azzurro di fiori. Il suo fioraio
vietnamita alla fermata di Karl-Marx-Straße le incartava begonie, giacinti,
peonie, rose bianche e girasoli. Piú fuori la città era buia e gelida, bianca e
nera, piú nel suo ufficio i fiori erano variopinti.
La ragazza che Claudia aveva conosciuto non era la stessa che
frequentava durante la settimana. Il sabato Erika entrava in una dimensione
aliena, si nutriva di barrette proteiche, anfetamine, gelato al cioccolato e
acqua di rubinetto. Una vera alchimista delle sostanze sintetiche. Dopo la
prima esperienza, Claudia evitò quel mondo perché era difficilissimo
tornare sulla terra il lunedí dopo aver ballato per venti ore di fila, baciato
decine di bocche sconosciute, nell’illusione di realizzare tutti i desideri
possibili. Meglio stare alla larga, le diceva il suo innato senso della
disciplina. La domenica sera andava al Berghain e aspettava che Erika
uscisse dall’enorme scatola di cemento che rimbombava per tutta
Friedrichshain. L’intero weekend era attraversato da quell’attesa, il
momento preciso in cui verso le otto di sera l’ombra di Erika si stagliava
dietro l’unica finestra del secondo piano oltre la luce bianca e azzurra che
avvampava i vetri. La sagoma del suo viso, i capelli sciolti e la corona di
Wonder Woman comparivano come la cornice sbiadita di un miraggio.
Eccola lí, il braccio alzato a dire ci sono.
Con gli occhi spalancati e la bocca sformata da un ghigno, Erika
divorava i noodles che compravano sulla Gleimstraße. Raccontava quello
che aveva visto dentro il club, si grattava le braccia e la testa, accarezzava
la mano di Claudia. In sottofondo Paul Oakenfold, musica abrasiva e
selvatica che assomigliava a Erika, e in certi momenti nell’aria si avvertiva
come lo sfrigolare di un uovo sulla padella. A Claudia sembrava fosse il
cervello di Erika.
Fuori dal mondo del Berghain Erika portava i capelli legati o raccolti in
un cappello con visiera, abiti larghi e l’aria trasandata di chi si veste per non
sentire freddo. Una giacca a vento scura con la cerniera chiusa fin sotto il
mento che lei tirava compulsivamente su e giú, strofinandola contro la gola.
Sebbene fosse piú giovane, Erika aveva le idee ben chiare. Ligure, famiglia
di ristoratori, sognava di aprire un grande american bar. Viveva a Berlino da
tre anni, lavorava in nero in un negozio di borse fatte a mano e percepiva il
sussidio grazie a due anni trascorsi dietro al bancone di una gelateria.
Strabuzzava gli occhi quando Claudia le parlava di Antonia Pozzi o Rina
Durante. Ribatteva con i sestili e i quadrati della grande astrologa Lisa
Morpurgo. Si curava l’influenza con i decotti di piantaggine e le tisane di
elicriso. Grazie a Erika Claudia scoprí di avere Marte e Venere in ottava
casa, la luna in Ariete, l’ascendente nella Vergine, e soprattutto il segno nel
sole opposto al suo.
In certi giorni della settimana passeggiava nuda alla Liquidrom di
Hallesches Tor, un piccolo spazio termale in cui sfilava ai bordi di una
grande piscina circonfusa dai vapori. – A Berlino puoi vestirti come vuoi o
anche non vestirti affatto –. Nonostante il freddo e il cielo bianco, per lei la
città assomigliava a un lenzuolo caldo, in cui si sentiva a suo agio.
Claudia faceva progressi con il tedesco, ogni volta che afferrava qualche
nuova battuta la ripeteva a voce alta cercando l’approvazione dell’amica.
Riportava le frasi che imparava su un quaderno con la copertina di pelle
chiuso da uno spago. Si soffermava sulle parole lunghe, le sembrava di
giocare ai Lego. Accumulando quattro o cinque lemmi si costruivano parole
nuove. A Claudia piaceva quella rigogliosità linguistica dove le sfumature
erano definite con l’unione di due o piú parole. Mark Twain scrisse che a
Berlino non c’è nulla che non si possa apprendere tranne il tedesco. Ma
Claudia imparò il tedesco proprio perché non lo studiò: lo visse come
un’avventura, da esploratrice, una lunga ricerca dentro una miniera da cui
estrarre preziosi minerali. Una delle parole piú amate da Claudia in qualche
modo riguardava anche me e definiva la nostra attitudine a vivere in altri
mondi, a immaginare storie impossibili, una parola che nella lingua italiana
non esiste se non attraverso perifrasi o locuzioni.
– Mi insegni una parola nuova? – domandava spesso, mentre
attraversava la città con quell’amica che avrebbe potuto dirle dove prendere
il caffè migliore, quale fosse il buttafuori piú gentile, con quale frequenza
passava la Linea M13 o la parola d’ordine di uno speakeasy, ma che non
sapeva dove fossero il Muro, il Duomo o la sede del Governo.
Camminavano a lungo, fin quando il sole non spariva oltre le gru che si
mangiavano l’orizzonte di Ostkreuz. Una sera Erika le pronunciò la sua
parola preferita: «Kopfkino».
– Film in testa?
– Sí, ho tanti film nella testa, ma non riesco mai a guardarli fino in
fondo, – le spiegò, rabbrividendo e raggomitolandosi tra le sue braccia. Non
faceva freddo, forse era solo uno di quei film che stava passando proprio in
quel momento.
Claudia pensò ai suoi Kopfkino: parlava con le nuvole, mangiava gelsi
bianchi e nuotava nelle onde dell’Adriatico. Poi strinse le braccia attorno a
Erika, aveva i muscoli forti e le ossa robuste. In un’altra epoca sarebbe
sopravvissuta al parto, a pesti e carestie, mentre lei sarebbe morta di tisi,
con le sue ossa sporgenti e sottili. A un tratto il suo Kopfkino era diventato
lugubre, come se l’ombra che incombeva sull’amica l’avesse toccata.

– E tu, Francesco, ti fai ancora Kopfkino?


– Sí e ci sei sempre tu –. Ma sapevo che Erika non era come tutti gli
uomini con cui Claudia era stata, Erika era un’amica, occupava lo stesso
campo esteso e lussureggiante che avevo occupato io per tutta la vita.

Una domenica che Erika era su di giri, Claudia le preparò un bagno


caldo. Versò un tappo di bagnoschiuma al gelsomino, il getto dell’acqua
sfregolava sulla superficie schiumosa, mentre la goa affievoliva la frenesia
di Erika, che nuda scivolò dentro. Claudia ammirò i seni piccoli e
proporzionati, le caviglie forti, aveva voglia di accarezzarle, anche se la
pelle aveva una patina giallastra.
– Mi leggi qualcosa? – le chiese Erika con il corpo nascosto nell’acqua,
le spalle che fuoriuscivano superbe oltre la schiuma. Le punte dei capelli
s’erano bagnate, lasciando la nuca scoperta. Claudia prese il telefono e
cercò una poesia.
– Leggimi una favola, – disse Erika.
– Quale?
– Pippi Calzelunghe.
– Ma Pippi Calzelunghe non è una favola.
– Ti odio quando sei precisina, leggimi Pippi Calzelunghe!
Claudia cercò su Google e si trovò davanti un incipit: – «C’era, alla
periferia della minuscola città, un vecchio giardino in rovina; nel giardino
sorgeva una vecchia casa, e nella casa abitava Pippi Calzelunghe. Aveva
nove anni e se ne stava lí completamente sola…»
– Anche io sono sola, – la interruppe Erika.
– Ora non sei sola.
– Quando avevo l’età di Pippi Calzelunghe ero come lei.
Claudia mentre leggeva sentí salire la piú insensata e profonda delle
commozioni.
– Stai piangendo? – chiese Erika.
– Non lo so che mi succede, – si difese Claudia tirando su col naso.
La notte dormirono vicine, seminude. Erika si voltò dalla parte di
Claudia e con gli occhi chiusi posò il suo braccio sul collo di lei. Le bocche
si avvicinarono, e l’alito fresco di dentifricio alla menta riempí le narici di
Erika. Le due labbra si attaccarono e poi i gomiti, le ginocchia, le caviglie.
Non fu un piacere erotico, ma una bizzarra gioia priva di orgasmo, simile ai
sogni dell’adolescenza. Fu la prima volta per Claudia con una donna, per
Erika non fu mai chiaro.
Quando si risvegliarono Claudia provò un torpore piacevole, i capelli
neri di Erika odoravano di fumo. – Vuoi vivere qui con me? – le chiese.
Non aveva mai pensato a una simile opportunità.
– Sí! – rispose Erika raccolta su un lato, gli occhi chiusi.
Claudia ne rimase stupita e lievemente inquietata. Non era un sentimento
negativo, ma non era neanche la felicità.

Erika si riaddormentò, Claudia le baciò la fronte e attraversò la giornata


in ufficio con effervescenza, era piú reattiva, allegra. Dormire in
quell’abbraccio era stato appagante. Non vedeva l’ora di tornare a casa per
ritrovarsi, ma un messaggio di Erika la mise in allarme: «Scusa, sentivo
freddo e ho messo un po’ di cose tue addosso, ho lasciato casino in giro,
domani passo e metto a posto».
Una volta a casa, il guardaroba sembrava esploso, come se Erika avesse
frugato tra le sue cose. Ebbe il timore di aver sbagliato a fidarsi di lei. Il
bagno era un acquitrino e il flacone di bagnoschiuma svuotato.
Claudia inghiottí il disordine e cercò di concentrarsi sull’odore e la
forma del viso di Erika, le parole che la sua bocca aveva pronunciato nel
momento del loro piacere. Erika sparí per diversi giorni.
Riapparve il venerdí successivo con tre grandi valigie e un ragazzo dai
capelli lunghi, non troppo puliti, la barba incolta e la bocca marcia che
tradiva la smorfia di chi sta per provare un piacere prepotente. – Mi ha
aiutato a portare le mie cose, può fermarsi a dormire qui? – Gli occhi le
brillavano senza imbarazzo.
Ruggirono. L’intera notte.
Claudia strinse il cuscino mordendolo come quando da bambina cercava
di prendere sonno. Elencò in tedesco i nomi dei fiori che aveva imparato
guardando le vetrine del vietnamita dentro la U-Bahn: Sonnenblumen,
Tulipane, Hyazhinthen, Rosen, poi passò alla frutta di bosco Erdbeeren,
Brombeeren, Johannisbeeren. L’amico di Erika era italiano ed era stato
ammiccante anche con lei, per un momento aveva provato terrore, perché se
Erika avesse voluto e insistito non sarebbe riuscita a dire di no.
Quando all’alba sentí la porta della sua stanza schiudersi avvertí una
presenza e l’odore animalesco. Lui si avvicinò sino ad annusarla, poi si
piazzò accanto al letto. Si infilò i pantaloni e le scarpe e restò seduto su uno
sgabello a mezzo metro da Claudia. Lei si convinse di dormire, si stava
mutando in un vegetale, pregò le venissero le spine per tenere quel respiro
pesante lontano da lei.
– Sei bella, – le disse lui.
Trasformami in pianta, dio degli dèi. La mano dell’uomo le accarezzò la
testa, nel cuore un tumulto. – Lasciala dormire! – Claudia restò nella sua
posizione fetale, con la faccia contro il muro e gli occhi semichiusi.
– Magari le piace.
– Non le piace, – disse ferma e rabbiosa Erika.
Lui le abbaiò contro per spaventarla, prima di uscire sbattendo la porta di
casa.
Claudia s’era girata.
– Abbracciami, – disse Erika. Sotto la fronte corrucciata le palpebre si
aprivano e chiudevano per impietosirla.
Era diversa, piú adulta, come se il sesso con lo sconosciuto fosse durato
un decennio e non una notte.
– Non ti abbraccio, voglio sapere in che casino sei.
Le si avvicinò e schioccò un bacio sulle labbra serrate, la fissò negli
occhi: – Voglio avere abbastanza soldi per aprirmi un locale.
– Non metterti in brutti giri.
Erika alzò un sopracciglio. – Me la so cavare.
– Hai usato il preservativo?
Erika si passò la mano sul viso come fosse un tergicristallo. – Fidati di
me.
– Voglio fidarmi, ma mi hai portato in casa un uomo molesto.
– È solo un imbranato.
– No, è un porco e a Berlino c’è un’epidemia di gonorrea.
– Niente guantino, ma lui è uno sicuro.
Claudia rassettò il letto improvvisato su cui aveva dormito, dando le
spalle all’amica. – Me l’aspettavo –. L’operosità le permetteva di incanalare
la rabbia.
– Non vado con quelli marci, – si giustificò Erika.
– No sex finché non ti fai le analisi, – esclamò non troppo convinta
Claudia entrando in camera, il letto era rivoltato, le lenzuola accartocciate.
– Hai fatto un casino, – la rimproverò, sentendosi insopportabile.
– Che caratterino ti viene quando fai la gelosa.
– Non sono gelosa, sono delusa e arrabbiata, uno stronzo del genere a
casa mia è inaccettabile.
– Sai cos’è il Femidom? – Erika aveva cambiato ancora tono.
– Non lo so e non lo voglio sapere.
– Un profilattico per donne, una guaina di lattice con due anelli alle
estremità. Possiamo divertirci senza che la tua sacra vagina sia lambita dalle
mie luride estremità di untrice.
– Non sei divertente.
– Oppure potremmo usare un Dental dam, un fazzoletto di lattice da
mettere sulla bocca per baciare una fica perfettamente coperta da uno strato
di pellicola.
– La stai buttando sul ridere ma è una cosa molto seria.
– Proverai l’ebbrezza di mangiare un’aragosta avvolta nel Domopak –.
Erika le si avvinghiò e la spinse.
Claudia avvertí un miscuglio di emozioni che nei giorni a venire sarebbe
diventato una sensazione costante. Rabbia. Sospetto. Eccitazione mista a
terrore. La tensione di ritrovarsi a casa un ospite sgradito. La paura che
Erika se ne andasse per non tornare piú.

– Una tipa fuori dal comune, – borbottai a denti stretti, quando invece
volevo soltanto dirle che questa Erika non mi piaceva affatto e che si
sarebbe infilata in un pasticcio.
– So quello che faccio, sono lucida –. Claudia mi rispondeva quasi mi
avesse letto nel pensiero. Come chiamarlo questo prodigio, questa relazione
che c’eravamo inventati? Come chiamare il nostro istinto comune, quella
forza solidale che ci faceva annusare i pensieri l’uno dell’altra? Era molto
piú sottile e sofisticato dell’innamoramento, era una nazione libera e
indipendente, e non aveva nome.
Qualche tempo dopo Claudia mi chiamò scossa, aveva incontrato di
nuovo il tipo che Erika s’era portata a casa quella sera. Il mondo è molto
piú piccolo di quanto sembri: lui stazionava a Gorlitzer Park con alcuni
balordi. Apparteneva alla tipologia degli italiani che frequentavano il
«Ghetto Italia», il gruppo degli expat che avevano rinunciato
all’integrazione, sbandati che non avendo trovato il lavoro per cui erano
venuti a Berlino si consegnavano all’ombroso mondo del risentimento, tra
emarginazione e vanagloria inespressa. Partiti col desiderio di tutto ciò che
era moderno e cosmopolita, alle prime difficoltà si chiudevano nelle
abitudini di sempre, i peggiori finivano a spacciare nei club.
La fermò chiedendole se si ricordava di lui e dicendole che non serbava
rancore per essere stato cacciato di casa, anche se tra italiani non si fa.
Quell’atteggiamento ricattatorio e vittimistico che Claudia disprezzava. In
quei pochi istanti riuscí a dirle che Erika era una spacciatrice e si faceva
pure.
Claudia avvertí in queste parole un fetore familiare. Se lo lasciò alle
spalle come si fa con certi incubi del mattino quando non si è dormito per
tutta la notte. Ma congetturò a lungo su quelle parole e sui misteri di Erika,
pianse brevemente sulla U1, mentre i vagoni gialli rompevano l’azzurro
della mattina sopra i pilastri che trapuntavano la vecchia Kreuzberg.
Aveva in mente di farle un discorso, ma salendo le scale udí un frastuono
di passi e musica che arrivava dal suo appartamento: un party in casa.
Erika le aprí la porta in canottiera nera, cappello sugli occhi e shorts
rossi. – Stiamo in chill con un po’ di amici, ora li mando via tutti –. Glielo
disse con l’aria piú mite del mondo.
Claudia avvistò una quindicina di figure nere ammucchiate ai quattro
angoli della stanza, sembravano inanimate, come soprabiti gettati alla
rinfusa l’uno sull’altro.
– Perché non mi hai detto niente?
– Non era in programma, – rise Erika.
– Non voglio roba qua dentro –. Claudia aveva messo le mani sui
fianchi.
Erika mutò improvvisamente tono, la fronte aggrottata: – Vuoi fare la
mamma con una come me? Ti ricordi che hai messo la faccia tra le mie
gambe?
– Non c’è bisogno che lo dici davanti ai tuoi amici.
– Nessuno parla italiano qui.
– A proposito… Ho incontrato per strada il tuo amico italiano…
Erika non sembrò stupita. – Non è mio amico, e non ti devi fidare, io ho
chiuso con lui.
«Stai per chiudere anche con me…» fu sul punto di dirle Claudia. Invece
l’abbracciò.
– Io vado via, tra due ore voglio trovare casa com’era –. Claudia
l’ammoní con una voce ferma e la faccia piú dura che riuscí a mettere su.
Quando rientrò, l’appartamento era perfettamente in ordine, profumava
di detersivo, Erika l’aspettava sul letto vestita da Wonder Woman, il lazo al
collo.

– Claudia, vuoi un mio parere?


– Frank, mi fido solo di te.
– Mi sembra irresistibilmente stronza.
– Lo è molto piú di quanto immagini.
– Ed è per questo che ti piace.
– Non te lo avrei raccontato altrimenti.
– Ancora una volta ti farai fare tutto.
– Lo prendo come un auspicio.
– Verrò a Berlino per salvarti.
– Tu dovresti venire qui non per salvare me, ma per salvare te.

Quando chiudemmo il collegamento, restai davanti al computer dove


avevo fissato per ore la sagoma sfocata di Claudia. Per la prima volta avevo
voglia di partire, non per cambiare la mia vita, ma per aggiungermi alle
cose che le stavano succedendo.
Un mattino di fine settembre Erika la chiamò disperata, si era persa e
non riusciva a tornare a casa. Fluttuava sul bus da ore senza ricordarsi la
fermata giusta e sosteneva che un bambino la stesse minacciando con una
mela grande quanto la sua testa. Pochi giorni dopo l’episodio della mela
gigante, Claudia si accorse che Erika si esprimeva in modo confuso e
spesso incomprensibile, come se alcuni pezzi di frase le rimanessero
incastrati nel cervello. Rabbrividí al pensiero che Erika potesse non
riconoscerla piú. In quelle settimane, Claudia aveva continuato ad aspettarla
la domenica sera, le lavava la schiena nella vasca da bagno e le leggeva
Pippi Calzelunghe; dall’italiano erano passate al tedesco, come se
dismettere la loro lingua natale fosse una muta biologica, un fenomeno che
rinnovava l’involucro della loro identità.
Erika le chiese se una volta voleva accompagnarla al Golden Gate, un
club ricavato in uno dei magazzini su cui poggia il ponte ferroviario nei
pressi di Jannowitzbrücke: al passare dei treni tremavano i muri,
amplificando la musica. Claudia accettò.
Il club apriva il venerdí e chiudeva il martedí mattina. Aveva un
minuscolo giardino, due panchine e una pianta spelacchiata. Claudia
indossava pantaloni aderenti, le scarpe da trekking e una maglietta nera con
scollo a V; Erika pantaloncini bianchi, una bandana nera in testa, una treccia
finta che calava fino al sedere.
Dopo un’oretta di musica Erika urlò nell’orecchio di Claudia: – Vado in
bagno –. Claudia la seguí. Sulle scale di ferro il corrimano tremava,
vibravano le caviglie.
– Ti stai andando a fare? – le chiese Claudia.
– Me lo stai chiedendo davvero?
Claudia annuí, e Erika esplose.
– Sei come tua madre, cazzo, vuoi farmi le menate come tua madre, io ti
amo e tu hai preso tutto da tua madre –. Rideva mentre glielo diceva.
– Non conosci mia madre, – Claudia le rispose qualcosa di simile.
Erika si blindò nel bagno per farsi una botta di una roba che non aveva
mai provato sino ad allora. L’aria viziata di fumo e sudore pizzicava. Si è
sempre un po’ diversi dopo aver provato una nuova droga. Una parte di lei
non ci sarebbe stata piú, come dopo la prima canna o l’oppio o i funghetti
allucinogeni.
Claudia sentí Erika tossire forte nel bagno, poi starnutire. Quando uscí,
tornarono a ballare per alcuni minuti, poi Erika si piegò su di sé, come nei
video delle antiche tarantolate che in un saio bianco rotolavano per le
piazze di Galatina nei giorni di San Pietro e Paolo. Una sottile bava le
disegnò una barba giallastra sul mento.
In meno di venti minuti comparvero due infermieri in guanti di lattice
che la portarono via. Le note fitte della musica si intrecciavano con le voci e
le urla, non si distingueva piú alcun suono. Claudia sentí freddo mentre il
bagliore intermittente dell’ambulanza colorava di azzurro il piazzale.

Claudia non volle farsi vedere nella chiamata Skype, ma lasciò


debordare le parole.
– Resterò salda, – concluse con l’aria di volermi solo rassicurare.

Per dieci giorni Claudia si presentò all’Urban alle 17 in punto. Nel


giardino della clinica, chiuso da un’inferriata ricoperta da erbe rampicanti,
si muovevano lenti fantasmi in camice bianco e ciabattine di plastica: poche
ore prima avevano vissuto l’estasi e poi la convulsione. Erika era uno di
quei fantasmi. Uscí dalla clinica pallida, con la pelle appiccicata alle ossa
della faccia, i capelli rasati a zero, gli occhiali da vista spessi come il fondo
di bicchieri da whisky.
La convalescenza fu lunga, una volta a casa. Erika si nutriva solo di
centrifugati, in stato catatonico guardava clip musicali su YouTube e alcuni
video di cucina etnica. Claudia cominciò a prendersene cura con uno
scrupolo che non credeva di possedere: stava bene perché si stava
occupando di una persona che stava male. Ogni premura era preceduta da
una richiesta di permesso. «Posso prepararti una tisana?», «Posso
massaggiarti dietro la nuca?» Claudia capí di amare quella giovane donna
che le si era affidata come non aveva mai amato nessuno. E glielo disse.
Erika rispose alle parole d’amore di Claudia con altrettante parole
d’amore, ma il tono era arrendevole.
Poi un mattino Erika la svegliò annunciandole che tornava dai genitori.
Aveva le labbra esangui e i denti opachi. Claudia capí che la sua nuova vita
era già finita.

Per dimenticarla, Claudia ballò per mesi. Non è vero che si balla solo
quando si è felici. Erano fabbriche abbandonate, sotterranei antiaerei,
rimesse di periferia, sfasciacarrozze, mulini sopravvissuti alla guerra. In
ogni quartiere dal giovedí sera fino al lunedí mattina si accendevano lucine
rosse o azzurre in luoghi che durante il giorno parevano disabitati. Nei
paraggi, uomini con il bavero alzato guidavano il traffico delle migliaia di
clubber in giro per la città col solo cenno della testa.
Cercò una casa dove stabilirsi per un po’, non poteva rimanere nella sua,
le ricordava Erika. Affittò una stanza in un appartamento abitato da due
professori di Amburgo, davanti alla Sprea. Erano una coppia di giovani
vegani con un dobermann vegano al quale Claudia diede da mangiare una
scatoletta di tonno, sancendo la rescissione immediata del contratto. Poi finí
da un tipografo con moglie esperta di esoterismo, che il sabato, nel salotto
di legno e merletti, riuniva altri appassionati di magia per misteriose e
lunghissime sedute che terminavano puntuali all’ora di cena.
I tramonti estivi di Berlino erano fatti di striature rosate su un cielo di
diversi azzurri, acquamarina, topazio, aragonite. I tramonti sono per pochi,
vanno condivisi solo con gli accoliti di una setta che per il resto del mondo
è una banda di ingenui.
All’ennesimo parente, amico, ex collega che le chiedeva perché non
tornasse in Italia, rispondeva:
– Sto bene qui.
– Ma cosa fai lí?
A quel punto scattava la Claudia provocatoria: – Mi drogo.
Intanto, invece, meditava, praticava il Tai Chi; al telefono mi parlava di
mantra, me li faceva ascoltare. Voci indistinguibili, uomini o donne,
ripetevano ossessivamente: Ong namo guru dev namo, mi inchino alla
volontà divina. E io li ascoltavo e mi inchinavo a Claudia con tutte le sue
storie.
– Mi viene voglia di camminare sui muri come in Matrix, – diceva.
– Le blatte camminano sui muri, – replicavo.
– Francesco, che ti succede?
– Mi manchi.
– Un tempo mi avresti detto che sui muri camminano le coccinelle e si
posano le falene.
– Mi fanno schifo le falene.
– Ma quelle mi somigliano, escono di notte e vanno verso la luce –. Poi
rise e quello scoppiare improvviso di buonumore era irresistibile. Mi
sentivo solo e avrei voluto parlare di qualcosa di pratico, la casa, il lavoro,
la vita, ma non c’era tempo per nulla, se non per noi stessi, le coccinelle e le
falene.
Un giorno arrivò in ufficio puntuale come al solito, ma invece delle
colleghe trovò due operai intenti a staccare i fili colorati dei computer, e
altri impegnati a rimuovere le scrivanie. Il suo vaso azzurro era in un
angolo a testa in giú, i giacinti gialli spuntavano da un cestino della
spazzatura. Una donna con gli occhiali e il sorriso stanco le si avvicinò
agitando un foglio: – Miss Fanelli? – Quel «Miss» trasmise a Claudia
un’elettricità perversa, come quando da piccola camminava nelle campagne
dopo essere scappata di casa e si graffiava passando tra gli ulivi. La donna
le consegnò una lettera di licenziamento con la quale sarebbe potuta andare
in un Centro per l’impiego e avviare il procedimento per il sussidio.
– La società ha qualche problema in Germania, però questo è un ottimo
Paese. Qui puoi ricominciare.
Mi cercò subito, era incredula, balbettava: – Frank, sto fuori, – non
l’avevo mai sentita cosí smarrita. La conversazione fu travagliata, mi
arrivavano i suoi passi svelti sul selciato, ogni tanto si fermava e rideva
istericamente, poi riprendeva a parlare e camminare ansimando, diceva che
forse quella poteva essere un’occasione di inventarsi un nuovo lavoro, poi
si demoliva accusandosi d’essere un’incapace, una buona a nulla. – Non
sono mai stata chiara con me stessa, ho sempre scelto compromessi, non
sarei mai dovuta tornare da Londra, avrei dovuto studiare letteratura, avrei
dovuto capire un po’ di piú chi sono, avrei dovuto tagliare i ponti molto
prima –. Ci sentimmo parecchio quelle settimane, avrei dovuto prendere il
primo aereo da Brindisi per raggiungerla, ma una forza misteriosa ancorava
le mie caviglie al suolo, erano i soliti artigli che mi trattenevano da quando
ero nato e avevo una paura folle dei graffi che potevano lasciarmi.
Fece un colloquio per un’azienda multinazionale, e si ritrovò davanti una
donna che le assomigliava. Non fisicamente, perché era piccola e aveva
occhi nerissimi, un rossetto amaranto, testa ricciuta e corvina, eppure nello
sguardo e nella posa Claudia vide una persona inquieta, che rivolgeva a lei
le stesse domande che avrebbe rivolto a se stessa.
– Perché lei, che è italiana, ha scelto la nostra azienda? – le chiese in
tedesco.
Claudia se l’aspettava e rispose con una frase fatta: – Vi ritengo i
migliori e io aspiro al meglio.
– Capisco, ma noi abbiamo solo sedi in Nord Europa, e lei viene da un
posto dove c’è il sole dodici mesi l’anno, qui a Berlino ci sono giornate che
finiscono alle due e dobbiamo assumere ogni giorno compresse di vitamina
D per le nostre ossa.
Le sembrò una considerazione un po’ fuori dal comune. – Non mi fa
paura il buio, – rispose, cercando di convincere innanzitutto se stessa.

Mentre mandava in giro il curriculum in modo meccanico, senza esserne


convinta, incontrò una giovane psicologa argentina con la quale intraprese
un breve percorso psicoterapeutico. Mise in fila trionfi e sconfitte, senza
mai chiamare queste ultime fallimenti, ma snodi o bivi. In quella manciata
di sedute, riesaminò criticamente la sua vita: lo sgarro che le aveva fatto sua
madre non doveva essere rimosso, ma doveva scrollarselo di dosso, anche
soltanto con un gesto apotropaico.
Dopo l’ultimo colloquio andato male capí che forse non doveva cercare
piú un lavoro che rispondeva alle aspirazioni di quella che era stata sino ad
allora, e alle aspirazioni della società che l’aveva allevata. C’era un gran
parlare di decrescita felice e a Berlino il minimalismo era il nuovo trend,
case piccole con servizi essenziali, ma grandissimi giardini dove dedicarsi a
orti collettivi, piantare gelsi assieme a sconosciuti o coltivare piantine di
fragole e pomodori.
In metropolitana leggeva le pubblicità sulle pareti dei vagoni: un target
preciso, persone che vogliono cambiare la propria vita. Scuole di lingue,
agenzie di consulenza finanziaria, corsi per aspiranti scrittori. Poi le piú
spudorate: studi scientifici che cercavano cavie per testare nuove medicine.
Ci andò. Si ritrovò nella stanza asettica di una clinica privata insieme a
diversi ragazzini che avevano l’aria di essere scappati da un istituto o da
una famiglia difficile. Notò una bellissima ragazza con un eskimo, i capelli
crespi e un anello che pendeva tra le narici: avrebbe voluto abbracciarla e
chiederle perché fosse lí a farsi iniettare sostanze schifose per trecento euro.
Ma arrivarono due uomini in completo scuro e una signora in camice,
mostrarono i certificati della commissione etica, che nessuno sembrava
interessato a leggere, e prima di cominciare chiesero l’età e i documenti alle
aspiranti cavie. Tutti avevano meno di ventidue anni. Quando toccò a lei, la
donna la bloccò: – Non può –. Era troppo vecchia per quell’esperimento.
Claudia aveva letto le condizioni generali, ma le aveva, forse volutamente,
dimenticate un attimo dopo. Sentí un brivido dietro la nuca, l’alito del
tempo.
Uno dei due uomini la scortò alla porta, in corridoio sedevano altre
aspiranti cavie, lo attraversò a falcate con addosso la vergogna di quel
rifiuto.
– Ehi, ti ricordi di me? – si sentí chiedere. La voce aveva un accento
straniero. Il ragazzo indossava salopette blu e maglia fucsia, gli occhi fissi
su di lei, da una tasca sbucava un cacciavite.
I racconti di Claudia erano come isole inesistenti sulle mappe nautiche
della maggior parte delle persone. Ma io mi ci aggrappavo al pari di un
naufrago.
– Era il tizio che Erika aveva al lazo quando ci siamo conosciute.
– Il bonazzo?
– L’ultimo maschio che ho baciato.
– Che fine aveva fatto?
– Mi ha risposto che gli piaceva il mio rossetto.
– Cosa?
– Nude di Catrice non va con quel blush che hai messo. Mi ha detto cosí.
– E tu?
– Mi guardava le labbra e sorrideva, gli ho solo detto che Catrice era
generico, se era bravo doveva indovinare il tipo e l’ha indovinato. Nude-
Tastic.
– Anche lui era lí per donare il suo sistema immunitario alla causa?
– No, è un Hausmeister, una specie di manutentore, lavora nelle cliniche
e negli ospizi.
– Tedesco?
– Georgiano, si chiama Andria.

Quando lo aveva riconosciuto, Claudia aveva avuto una visione di lui col
torace nudo dentro un quadro di Pellizza da Volpedo, allungato su una scala
tra le scintille che rimbalzavano contro la maschera da saldatore, un Efesto
malinconico e timido.
Quel pomeriggio camminarono verso le biciclette attaccate alle
transenne di un marciapiede, poi percorsero chilometri l’uno accanto
all’altra, a piedi, le biciclette in mano. Le piaceva, anche se non avrebbe
mai osato ammettere a se stessa una delle ragioni profonde di quel piacere:
le ricordava Erika.
Stremati dalla lunga passeggiata, decisero di prendere un tram, ma ne
fecero scorrere tanti, perché continuavano a parlare fitto, a raccontarsi, poi
lei estrasse da una borsa un fazzoletto bianco, lo aprí. – Mio padre fece
innamorare mia madre dopo averle regalato un fazzoletto di seta. Questo è
di carta, per me vale lo stesso.
Andria rise e le rispose che sulla carta ci puoi scrivere, se il messaggio è
bello resta per sempre. I suoi occhi avevano un colore tra il verde e il
castano. Piegò il capo e si avvicinò al collo di lei. Claudia credette che
volesse baciarla e rimase immobile. Aveva un buon odore. Invece delle
labbra sentí il naso, per pochi secondi. Dopo averla annusata le leccò il
collo, l’orecchio, le tempie.
– Sei salata, – le disse.
– Ora ti assaggio io, – rispose lei tirando fuori la lingua, incurante degli
sconosciuti che correvano verso le porte del tram. Partí dalle sopracciglia,
poi gli occhi, scese sugli zigomi, succhiò il naso e le labbra appena schiuse,
il mento, portandosi in bocca un sapore maschile che non aveva mai sentito:
giovinezza, pietra, ferro. Claudia lo sentiva nelle narici e nella bocca. Ebbe
un incontrollato desiderio di mischiarsi alla sua purezza, smaliziarlo e
restarne contaminata.
Lo seguí ai Plattenbau di Leipziger Straße pedalando sulla sua bicicletta
rossa, i raggi producevano il suono dei grilli al tramonto, il cielo era viola
sopra l’avorio dei casermoni brulicanti di giovani immigrati e studenti.
L’appartamento di Andria si nascondeva in un labirinto; oltre la porta
pesante, una celletta di venti metri quadri ricolma di irragionevoli
carabattole. Raggiunsero un piccolo letto coperto da un plaid marrone. Fu
lei a svestirlo, si fermò sul suo sesso che spuntava tra i riccioli neri, lo
baciò, non era duro, il respiro di lui variava come se stesse andando in
apnea. Gli ordinò: – Toccati, – ma lui capí male e allungò le dita tra le
gambe di lei. L’esitazione la eccitò ancor di piú, s’inarcò, lo guidò, ce
l’aveva tozzo e curvo adesso, ma non ce la faceva e lei aveva voglia. Lo
aiutò a entrare anche se non era pronto. Lui affondò la testa nel cuscino
accanto al volto di lei, e nell’orecchio le disse: – Non l’ho mai fatto.
– Sei vergine?
– Non l’ho mai fatto con una donna.
Tornata dal viaggio in Vietnam, mia madre scelse di vivere in una
masseria di trulli in aperta campagna. Mio padre reagí comprando un
trapano nuovo e applicando una dozzina di fori alla parete della camera da
letto come se avesse provato ad appendere dei quadri immaginari. Per tutti
gli anni in cui era stato tradito da sua moglie non aveva fatto una piega, ma
quando lei era andata via gli aveva spalancato un paesaggio di mille paludi,
e prendersi cura della casa era il modo piú semplice per non affondare.
Quando chiesi conto di questo bricolage fantasma lui disse che con quei
buchi finalmente le stanze potevano respirare.
Accettai la proposta di mia madre di trascorrere insieme qualche giorno
sul Gargano. Con noi venne una sua amica di nome Tonia, insegnante di
sostegno in scuole paritarie, silenziosa e giudicante, era stata con lei in
Vietnam.
Elisa Fortuna nel suo costume intero, la schiena nuda e dorata dal sole
gentile di luglio, i folti capelli ammansiti da una molletta, si stagliava tra gli
altri bagnanti. Gli uomini le lanciavano sguardi.
Si dibatteva di una coppia di loro amici.
– Speriamo si sposino presto, – disse mia madre.
– Mamma! – cominciai a grattarmi alla base del collo, come se una
colonia di insetti avesse preso a morsicarmi la testa. – Ma se il matrimonio
con papà è stato un fallimento, – e pensavo alla distanza incolmabile tra i
due bordi del divano quando guardavano la tv.
– Il matrimonio è una fotografia, ti resta qualcosa della persona che ami
per tutta la vita –. Non capii se stesse parlando di Enrico o di mio padre.
Tonia cominciò a fissarmi mentre mi grattavo con goffaggine e furia,
come lo stessi facendo con una zampa.
– Fa sempre cosí quando diventa nervoso, – la tranquillizzò mia madre.
Poi mi lasciarono solo in spiaggia, le spiai mentre si allontanavano, l’una
davanti all’altra. Si eclissarono dietro la scogliera mentre il sole scappava e
il cielo da azzurro diventava blu. Avevano una loro armonia, Elisa sottile e
colorata, Tonia avvolta da un pareo bianco, i capelli corti e grigi. Era piú
giovane di mia madre, un po’ tarchiata, la chiamava Lise chiedendole di
non affrettare troppo il passo perché le pietruzze della spiaggia le dolevano.
Mi piaceva quella manciata di minuti prima della notte quando tornavo
dalla passeggiata sul molo di Vieste con Tonia e mia madre, le facce umide
e l’odore di brace sui vestiti. Mi piaceva il rito dell’ultima doccia che si
portava via il sole della giornata, poi lucidavo lo schermo del portatile su
cui avevo lavorato nel pomeriggio perché la sera mi aspettava
l’appuntamento con Claudia.
Le dissi che mia madre la salutava calorosamente.
Notai che Claudia s’era tagliata i capelli, e il viso mi parve smisurato
rispetto al corpo, come se le fosse cresciuta quella parte maschile che aveva
sempre avuto e che mi attraeva con forza.
– Ho una rogna sul lavoro ma la risolverò, – le confidai sperando di
trovare un buon consiglio.
– Magari è l’occasione buona per lasciare tutto, – disse, scacciando ogni
mia voglia di confidenze.
– Ho le radici qui, – replicai indispettito.
– Ti ricordi la storia dell’albero capovolto?
– No.
– Platone, l’uomo è un albero capovolto, ha le radici in cielo.
– Io mi sento come il limone di casa tua, ce le ho ben piantate qui.
– E invece no, proprio tu fra noi sei quello che le ha in cielo, devi solo
rendertene conto.
– E tu?
– Frank, io ho tagliato le radici, sono un tronco pronto a germogliare.

Da un po’ di tempo avevo problemi con Dente il malavitoso. Aveva


avvicinato mio padre facendogli i complimenti per la fulminea carriera del
figlio in ambito immobiliare. Di solito queste moine per interposta persona
erano foriere di maledizioni o avvertimenti. – Ma va’, quello vive ancora da
me, – gli disse mio padre per tenerselo buono. Dente da ragazzo era stato
sacrista e aveva fatto qualche anno di galera. Campava prestando soldi a
strozzo.
Alcuni giorni dopo – avevo appena finito di mostrare a un’agenzia
inglese un cumulo di pietre che spacciavo per masseria dell’Ottocento – fui
avvicinato da dei ceffi che quando eravamo bambini chiedevano il pedaggio
ai ragazzi sulle panchine vicino a casa. Erano anneriti dal sole, le braccia
scoperte, labbra tumide da risse in periferia. – Il proprietario non vuole
vendere piú, – disse il piú vecchio.
– Non vi conosco, – risposi con il coraggio dell’incoscienza.
Guardavo a terra le loro ombre che si accorciavano man mano che si
facevano piú vicini: – Vele’, ti conosciamo da quando eri una goccia di
sborra. Lo sai chi ci manda?
Come se tra noi ci fosse una consuetudine a cui aderivo, mi abbassai al
loro tono minaccioso: – Non lo so e non mi interessa –. Giocavo a fare il
duro, ma pensai che avevo l’aria di chi si stava cacando in mano.
– Ci manda Dente, che è amico del proprietario, – parlò ancora il
vecchio, gli mancava un incisivo. Mi concentrai sul vuoto che si apriva
nella sua bocca, prima di replicare: – E io sono il rappresentante del
proprietario –. La mia voce tremò impercettibilmente, come accadeva
sempre quando ero davanti a un’autorità. Lo notarono.
– Il proprietario a breve sarà Dente.
– Quando sarà cosí, me la vedrò con lui.
Se ne andarono scambiandosi un ghigno, il mio cliente era finito in un
brutto giro e con lui rischiavo di finirci anche io.
Tornai a casa infastidito piú che spaventato, mi accolse lo spettacolo di
mio padre in mutande in corridoio. Si lamentava ad alta voce nella cornetta
del telefono con quella che – dopo avermi visto – mi spacciò come la
nuovissima fidanzata.
Solo che da alcune settimane non avevamo piú la linea telefonica fissa e
il telefono era un soprammobile, cimelio di un tempo che non c’era piú.
Mio padre un giorno entrò in classe con la sua cronica disinvoltura, ma
privo di tuta e calzature ginniche. Indossava invece un elegante spezzato da
cerimonia e scarpe di vernice a punta.
– Veleno, chi è morto oggi? – gli aveva detto scherzando la bidella. Lui
non l’aveva degnata di risposta, rompendo una complice, decennale,
consuetudine di battute e barzellette che aveva con lei.
Gli studenti lo guardarono storto. Mio padre, che aveva sempre fatto la
guerra a tutti quelli che venivano a scuola senza tuta, stava infrangendo la
regola che lui stesso aveva imposto.
Prese posto dietro la cattedra mentre gli studenti vociavano, s’impettí ed
estrasse la semiautomatica Beretta M9. Il brusio si tramutò in un silenzio
terreo. Il professor Vincenzo Veleno la puntò sulla propria tempia. Un «No»
urlato da qualcuno coprí il clic metallico del grilletto. Tic. Bang. Il
professor Veleno si afflosciò su se stesso.
La pistola era scarica.
Il professor Veleno rialzò la testa dalla cattedra, sorrise e fece l’appello.

Fu convocato dal preside per chiarire se si fosse trattato di uno scherzo o


di qualcosa di brutto che non voleva nominare. Le spiegazioni furono
fumose, le attenuanti inesistenti, fu obbligato a un’aspettativa. Mio padre
era tipo da farsa, e le farse fanno perno sulla grossolanità, ogni scenetta
esigeva l’applauso. A scuola gli studenti non lo acclamavano piú, restavano
indifferenti ai suoi doppi sensi, nessuno conosceva il dialetto sul quale
basava gran parte del suo humour.
– Sono solo, Franceschino, – ammise parlando della sua bravata. E si
guardò le mani grandi. – Volevo farli ridere.
– Non fa ridere spararsi per finta.
– Volevo essere preso sul serio, qui nessuno lo fa.
– Io ti prendo sul serio da quando sono nato anche se un sacco di cose
non le ho mai capite. Di te, e di mia madre.
– Siamo due pazzi, questo l’avrai capito –. Era sincero. – Lei poi ha
trovato un uomo migliore di me.
– Papà… – Piangersi addosso non era da lui.
– Ma tanto migliore forse non era perché è sempre rimasta qui, –
puntualizzò.
– Magari è rimasta per me –. E mi pentii un secondo dopo d’averlo detto.
– Ho avuto anche io le mie storie.
– Posso crederlo.
– Avrei potuto averne di piú, ma non l’ho fatto per te.
– Mi stai dicendo che hai tenuto a bada il tuo uccello per il mio bene? –
Il suo paternalismo aveva una comicità involontaria. Quel cambio di tono fu
un regalo insperato, il nostro dialogo stava diventando troppo introspettivo
per i suoi gusti: – Comunque, se non scopavo tu non eri manco nato, – e
rise. Acora una volta non avrei conosciuto la verità di Elisa e Vincenzo.
Gli diedi la buonanotte e feci per ritirarmi nella mia stanza.
– Non sculettare quando cammini, – mi disse, continuando a ridere.
– Non sculetto, – mi difesi, ma lui mi scagliò contro una noce. Non fu un
gesto violento, c’era stato un elemento di complicità cameratesca. Ma mi
sentii sporco, e svergognato. Ebbi una vertigine. Dove sono, di chi si sta
parlando. Fame d’ossigeno. Vetri infilati sotto le unghie. Andai a letto senza
sonno, con la testa piena di pensieri pesanti. Fu una notte di apnea finché il
giorno rischiarò lo scaffale dei miei pochi libri e le cianfrusaglie infantili
della mia stanza. Avevo le ossa ancora buone per cambiare vita. Raccolsi la
forza per scriverle un messaggio, che era un grido di aiuto: «C’è un letto da
te?» E nonostante fosse da poco giorno il telefono confermò che avevo
un’anima complementare dall’altra parte del mondo. «È giunta la tua ora,
Francesco».
Parte quinta
Sehnsucht

(s. f. Parola composta da sehnen, «desiderare», e Sucht, «brama». Nostalgia di un desiderio non
ancora realizzato o irrealizzabile, di qualcosa di indefinito nel futuro o di un bene irraggiungibile.
Deriva dall’antico tedesco sensuht che indicava la malattia derivante dal bramare un oggetto
irraggiungibile, e può essere tradotta con «struggimento». Desiderio del desiderio, malattia e
malinconia di ogni essere vivente che anela all’impossibile o addirittura all’infinito. Riferito al
concetto ottocentesco di realizzazione di un duale simmetrico maschile e femminile: «Fiore
androgino è l’unico essere vivente che non conosce Sehnsucht», Johann Wolfgang Goethe, La
metamorfosi delle piante).
I siriani sembrano non finire mai, dicono mezzo milione, forse di piú,
una lunga, estenuante fila indiana varca il confine tra l’Ungheria e la
Germania, assomiglia alle colonne dei prigionieri di guerra; marciano con la
loro casa ridotta a un fagotto, i bambini in spalla, attraversano la puszta,
mentre le camionette della polizia ungherese sorvegliano il cammino – che
nessuno fugga dalla fila.
Sarà stata la seconda o terza notizia al telegiornale nei giorni che
precedettero il mio arrivederci, che come tutti gli arrivederci aveva una
piccola dose di addio; le telecamere riprendevano i profughi, i microfoni li
intervistavano, una cameraman sgambettò un vecchio che correva preso dal
panico con dei bambini in braccio, era un padre ma sembrava già un nonno.
Per noi pugliesi era un déjà-vu: quando era arrivata la nave Vlora lunga piú
di cento metri e con ventimila albanesi aggrappati all’albero e a Dio, i
bambini sembravano uomini. Chiedevano il pane ma al molo di Bari, dove
attraccarono, c’erano ad aspettarli i soldati. Alcuni si tolsero la cintura per
spingerli in mare, altri invece divisero il loro panino al prosciutto cotto per
sfamarli. La solita storia dell’uomo, la contrapposizione non era tra buoni e
cattivi, ma tra deboli e forti, e i piú forti sono quelli che sanno di poter
perdere tutto senza averne paura.
– Guardali, sei come loro, – disse mio padre, ancora incredulo per la
notizia della mia partenza, mentre chiudevo la valigia. Continuava a
palleggiarsi nelle mani le chiavi dell’auto che gli stavo lasciando. Se mia
madre mi aveva benedetto con un biglietto: «Buona fortuna, Uva nera», lui
proprio non si rassegnava. – Scappano dai guai come te.
– I loro guai sono una guerra, – sbottai, perché aveva toccato un nervo
scoperto. Mio padre in fondo non era un amabile saltimbanco con le corna,
ma un anziano amarissimo lupo solitario.
– Il tuo guaio è che una guerra non sai manco com’è, e se ci fosse te la
daresti a gambe come loro, – mi rimproverò.
– Neanche tu lo sai –. Ero stato sempre il debole tra i due, ma con un
piede fuori casa mi sentivo per la prima volta in vantaggio.
– Non chiudere l’agenzia, dalla in gestione a qualcuno, ascolta tuo padre
–. Le sue annotazioni avevano un’innegabile ragionevolezza, ma lo liquidai
con la mia verità: – Non voglio avere piú nulla che mi obblighi a tornare
qui.
A differenza dei milioni di emigranti che andavano via da una famiglia,
io tornavo nella mia famiglia, io tornavo all’amore, dove erano nate tutte le
cose significative della mia vita. Claudia mi stava aspettando, ero
addirittura arrivato ad annusare lo smartphone sul quale comparivano i suoi
messaggi.

Nel cielo che mi accolse a Berlino ricomparve il violetto dello Ionio che
avevo salutato. Attraversai la campagna tra aeroporto e città, una foresta di
legno e pietra, case altissime senza balconi, da alcune finestre spuntavano le
larghe tese degli ombrelloni. Guardavo oltre il vetro, e il ghiaccio del
tedesco strideva nelle orecchie. Gli annunci nelle stazioni gracchiavano, ma
a quelle parole incomprensibili affidavo il senso oscuro della mia nuova
vita.
La relazione tra Claudia e Andria era andata avanti, poggiata sopra un
reciproco bisogno di accudimento. Come se a lungo si fossero cercati non
per condividere passione e sensualità, bensí tenerezza.
Lavoravano nello stesso posto.
Lui le aveva passato l’annuncio di una società che formava personale da
impiegare in case di cura per anziani. Claudia capí che Andria le stava
mostrando una strada. Se non era una forma d’amore quella, ci andava
molto vicino.
Il lavoro part-time in una casa di riposo non era una scelta di decrescita
felice ma un’occasione: guadagnava quanto bastava per vivere e per
leggersi tutti i romanzi che voleva. Intorno alle 13, dal lunedí al sabato,
domandava agli ospiti dell’ospizio che cosa avrebbero gradito per cena. Fra
i tre menu alternativi uno era preparato direttamente da lei. Zuppe tedesche,
ramen giapponesi e udong coreani, era diventata una specialista. Le piaceva
sporcarsi con gli ortaggi che restavano sui polpastrelli, assaggiare la verdura
mentre l’intingolo cuoceva.
Il suo paziente preferito era un anziano molto amabile, Torsten; lo
salutava lasciandogli una carezza sulla mano, la pelle sottile che pareva
screpolarsi al suo passaggio, lui arrossiva e sorrideva.
– Lo adoro perché una volta mi ha detto che prima o poi tutti diventiamo
come i pavimenti. Da giovani siamo morbidi e caldi, ma poi duri e freddi, –
mi raccontava divertita.

Dormivano assieme di rado, Claudia e Andria, e quando succedeva lei


rimaneva sveglia perché sul corpo di Andria sentiva il sesso degli altri
maschi liberi come lui. Un odore acidulo che la stordiva. Funzionava come
un’ipnosi e quel suo naso grande diventava come la punta sensibile di una
bacchetta rabdomantica. Eppure nessuno l’aveva mai fatta sentire cosí al
sicuro. «Devi sentirti al sicuro con chi ti ama», mi aveva scritto un sacco di
volte. Un giorno un cassiere molesto del REWE aveva preso in giro il suo
accento, e sul volto di Andria si era disegnata un’espressione animalesca
che lei non gli aveva mai visto prima. A Martina quando vogliono sapere
chi sei ti domandano, schioccando le dita: «Come ti metti?»; quel «metti»
include discendenza, appartenenza, stato e obiettivi, il modo di stare nello
spazio e nel tempo, come ci mettiamo nella vita, col ginocchio piegato,
pronti a scappare o a saltare. Ma Andria le ginocchia non le aveva mai
piegate, era questo che a Claudia piaceva.

– Hai una valigia troppo grande, – disse indicando il trolley che


trascinavo.
Non ci baciammo sulle labbra, quasi nessun contatto fisico, ciondolai
con il bagaglio seguendo il serpente metallico delle rotaie fino alla fermata
del tram.
– Ti faccio vedere casa, poi scappo al lavoro.
Nel viso si leggeva un indurimento che non riuscivo a spiegarmi. Non
era piú la «giovane ossuta» che suscitava le apprensioni materne sul suo
stato di salute; gli zigomi restavano affilati, ma le guance erano piú piene,
gli occhi impegnati a decifrare pensieri che arrivavano da lontano.
La città cuoceva sotto i miei piedi, il pavimento tremava per la
metropolitana, e la folla emanava un brusio incessante.
– Come stanno i nonni? – mi domandò.
Non me l’aspettavo, erano passati tanti anni da quando glieli avevo
presentati.
– Sono in un istituto, non riuscivano piú a vivere soli in campagna.
– Un posto come quello dove lavoro. Alla fine ci stiamo finendo tutti, –
commentò con una smorfia.
– Una cosa del genere. Hanno deciso loro, ma non erano felici di
andarci.
– E la campagna?
– L’abbiamo abbandonata, un giorno hanno dato fuoco alla vigna. Hanno
trovato un cane bruciato, l’avevano riempito di benzina.
Claudia si portò le mani sulla faccia: – Che bastardi.
– Tutto distrutto.
– Anche il pozzo?
– Quale pozzo?
– Quello che mi mostrò tua nonna quando andammo a trovarla, ricordi?
– No.
– Tua nonna mi disse che voleva farmi vedere una cosa, ed era il pozzo.
Mi disse che nel pozzo era stata gettata una donna un secolo fa.
– Non me l’ha mai detto.
– Ai maschi certe cose non si dicono perché non le capiscono.
Ero confuso e anche un po’ offeso che mia nonna avesse rivelato questo
segreto a Claudia dopo dieci minuti che l’aveva conosciuta.
– Temo di sapere perché me l’ha detto. Ma l’ho capito anni dopo.
– Mia nonna è una che si inventava delle storielle lugubri per farci
cacare sotto, – dissi per smorzare la tensione.
– Tua nonna mi stava dicendo che dove c’è un pozzo c’è sempre una
donna che ci finisce dentro gettata da… un maschio.
– Addirittura!
– Se fossi rimasta lí mi avrebbero gettata in un pozzo.
– Non siamo dei selvaggi.
– Curcio secondo te che ha fatto con me? Quello non significa gettare
nel pozzo?
– Non ti seguo.
– Ho letto anni fa una scrittrice… Alba de Céspedes, disse che le donne
abitano in fondo a un pozzo, e solo chi sta nel pozzo conosce la pietà.
– Non ti capisco.
– Tua nonna mi stava chiedendo aiuto.
– Mia nonna sta bene.
– Ne sono contenta, però erano tanti anni che volevo dirtelo.
Quando salimmo sul tram ebbi la sensazione di aver sbagliato a
raggiungerla. Aveva ragione mio padre, ero come i milioni di siriani che
arrivavano qui senza trovare nessuno. Le nostre vite erano andate troppo
lontano rispetto a quando ci eravamo candidamente amati. Poi Claudia
occupò due posti e, battendo con la mano sul sedile libero, mi invitò
accanto a lei. La mia testa si posò nell’ansa tra la sua nuca e la clavicola. La
fronte a contatto con la pelle del suo collo cuoceva. Le parole straniere dei
viaggiatori sul tram non erano piú il ghiaccio di qualche ora prima, ma un
mormorio di fondo. Annusavo l’aria della nuova città filtrata dalla pelle di
Claudia, che aveva preso a canticchiare Too Much Love Will Kill You dei
Queen. Dovevano essere passate tre fermate, ma a me sembrò una infinita
fessura temporale da quando c’eravamo incastrati. Claudia cantava senza
dire nulla di sé ma dicendo tutte le cose che avrei voluto sapere. Entrarono
due tizi che vendevano giornali con bicchieri di carta anneriti dal carbone in
mano, alle loro spalle una donna avvolta in un burqa nero e un passeggino
con due bambini impilati l’uno sull’altro, dei ragazzi spingevano la rete di
un letto nella parte posteriore, da un violino uscí l’inconfondibile Quinta di
Beethoven.
Scendemmo seguendo una folla di ragazzini biondi in bicicletta.
Eravamo a Pankow, disse Claudia, e guardandomi intorno vidi vie
trapuntate di platani, pioppi e faggi. Si sentiva odore di bosco e aria fresca.
– Abito lí, – e indicò uno stabile grigio in mezzo ad altri stabili grigi, come
il cielo. Mentre attraversavamo la strada mi invitò a osservare i cespugli,
perché di notte vibravano delle furtive esitazioni di qualche volpe
metropolitana. Come sempre, c’era molto altro che voleva dirmi senza che
io potessi afferrarne il senso.
Nell’appartamento mi intimò di togliere le scarpe, mi mostrò la mia
stanza e poi la sua, notai che non c’era nulla oltre al letto, una scrivania e un
armadio. Nel resto della casa, cartoni pieni di roba, libri, lampade,
soprammobili, cartoline, barattoli di vetro, come nell’imminenza di un
trasloco. Disse che li avrebbe rivenduti al Flohmarkt, non voleva nulla che
creasse «punti oscuri». Viveva con poco, un pallido papavero rosso
affiorava da un barattolo di conserve traboccante di terriccio bagnato, delle
foglie rinsecchite di basilico adornavano la superficie di un secchiello di
latta appeso alla finestra. Gli oggetti si impregnano di energie pericolose, la
roba appesantisce l’anima.
Entrata in camera disse che doveva cambiarsi, ma non mi chiese di
lasciarla sola. Lo fece con naturalezza come fossimo fratello e sorella, i suoi
vestiti atterrarono su una sedia, mentre dall’armadio uscí il profumo dei
sacchetti di lavanda. I nostri corpi erano mutati. Le sue gambe erano una
distesa bianca su cui si leggeva la filigrana celeste dei capillari. I miei
capelli diradati sulle tempie erano pieni di pagliuzze bianche. Ma le pance
erano simili, noccioli posati a metà di un esile gambo, il ventre gonfio dei
tipi secchi.
– Sai che leggendo le pubblicazioni in Comune si vengono a sapere un
sacco di cose? – le dissi. Sentivo il rumore lontano del tram, il ronzio di una
radio.
– Era diventato un lavoro da becchini, il tuo, l’ho sempre detto. Hai fatto
bene a lasciarlo perdere –. Claudia s’era infilata dentro una divisa amaranto,
ruotò sui calcagni in una mezza piroetta, come a dire «guardami».
– I beccamorti fanno un lavoro rispettabile.
– Dopo che ho visto come hanno trattato mio padre, consentimi una
superficiale generalizzazione.
L’inquietudine di ciò che stavo per dirle era stata la nuvola che aveva
accompagnato quel viaggio dal cielo terso.
– Insomma, nelle pubblicazioni in Comune… – Da un lato sentivo che
ciò che stavo per dirle le avrebbe fatto male, dall’altro non volevo tenerle
nascosto nulla.
– Lo so, – disse interrompendo qualunque altro mio giro di parole.
– Cosa sai?
– Che mia madre sposerà Marco.
Ancora una volta mi stupiva. – Non trovi sia di cosí cattivo gusto?
– Se si amano. Nulla è di cattivo gusto, – aggiunse dopo qualche istante
di silenzio ma con la voce dura senza sfumature.
Qualcosa non mi tornava.
– Non ho capito, Claudia, le stai dando la benedizione?
– Io non benedico e non maledico nessuno, dovresti conoscermi.
– Li sposa padre Agostino, posso informarmi se hanno una comunione
dei beni, – insistevo.
– Ich bin fertig, Francesco! – disse con fermezza, anche se la voce s’era
venata di una crepa.
– Io non voglio dargliela vinta.
– Qui ci sono un sacco di cose da fare, c’è il lavoro, c’è la musica, c’è
Andria.
– C’è Andria, – voleva essere una dolce constatazione, ma uscí fuori con
un po’ di amarezza.
– Sí, c’è Andria, uno che ha avuto un milione di casini in piú di quelli
che abbiamo avuto noi, uno che mi ha insegnato che a volte bisogna fare
come il metallo, prendere la forma dei colpi che ci dà la vita.
– Troppa filosofia per me.
– Non è filosofia Frank, noi siamo cresciuti nella convinzione che tutto
si affronta come se fossimo una pietra, come un cazzo di mazzacane.
– Coi mazzacani ci abbiamo costruito i trulli, le masserie, i paesi.
– Le pietre franano e i metalli si modellano, il mio bene preferisco darlo
alle persone del mio presente piuttosto che a quelle del mio passato.
Restai un po’ in silenzio, punto da un pizzico di gelosia per l’ultima
affermazione.
– Tu non sei mai stato cosí.
– Cosí, come?
– Quello che mi hai detto, di mia madre e Marco, del loro stato
patrimoniale, insomma della roba, non ha cambiato nulla nella mia vita. È
come se mi avessi detto che qualcuno ha parlato male di me. Perché farlo?
Tu non sei il tipo che fa il riportino delle disgrazie o delle malelingue.
– Forse invece sono cosí, o forse volevo solo farti capire che, anche se
eravamo lontani, ho sempre tifato per i tuoi interessi.
– Non ci sono interessi da curare, c’è da starci vicino quando ci
cerchiamo, anche se a volte ci è andata male e non ci siamo trovati, – disse
con una calma rinnovata.
«Quando non ci siamo trovati?» avrei dovuto chiederle, e invece mi
sentivo un bambino di nove anni per la disperazione con cui bussavo alla
sua porta.
– Mia madre a suo modo mi ha amata e a suo modo amerà Marco –. Si
abbottonò la divisa fino al collo.
– Voglio conoscere Andria, – le dissi.
– Se stasera non va a rimorchiare nei suoi gay bar facciamo notte al
Kitty.
– Cos’è?
– Come i berlinesi chiamano il KitKat Club.
– Uno di quei posti…
– Molto di piú. È il mio rifugio e magari sarà anche il tuo.
– Vuoi che diventiamo amici io e lui?
– Non ho programmi per le vite degli altri, ho solo la fortissima
sensazione che ti piacerà.
– Quante volte ci hanno fregato le tue sensazioni?
– Hanno fregato solo me, con te non ho mai sbagliato.
Una volta solo in casa non mi stupí che nonostante fosse giugno le mani
e i piedi fossero gelati, il naso gocciolasse. Sentivo un miscuglio di
tenerezza e distanza.
Mi sedetti sul bordo del letto davanti al grande specchio dell’armadio.
Da bambina Claudia temeva gli specchi perché aveva paura che
registrassero le cose passate e che da uno specchio all’improvviso sarebbe
potuta apparire la nonna che non aveva mai conosciuto, oppure qualche
altro morto, la cui immagine vi era rimasta intrappolata. Restai fermo
davanti a quello specchio quanto bastò perché registrasse la mia posa e i
pensieri che mi fumavano dentro. Avrei lasciato la casa e girato per la città
fino a tardi, prendendo confidenza col nuovo mondo; mi sarei iscritto a un
corso di tedesco per aspiranti lavoratori.
Parlai con due camerieri, un’impiegata della scuola di lingua, un gruppo
di turisti, due sbandati, con l’universale linguaggio della mimica facciale,
sorrisi, arricciai le labbra, strizzai l’occhio destro, affermai che un cibo era
buono infilandomi l’indice dentro una guancia, provai a decrittare i cartelli
di un barbone lituano che cercava soldi per tornare a Vilnius.
Camminai per due ore ignorando gli alti pilastri verniciati di verde su cui
tremavano i vagoni gialli della U2, proseguii lungo le rotaie con la stessa
ottusa precisione di una motrice che esegue i comandi. E i miei comandi
erano ridotti all’osso, andare verso est, ai confini della campagna, sul
tracciato che la guida consigliava solo a chi aveva già visto tutto della città.
A Lichtenberg c’erano tanti maschi in magliette aderenti, teste glabre,
sguardi bestiali, ero tornato piccolo e nero, me li sentivo addosso come una
coperta acuminata, finché il tramonto non riempí di arancione e rosa il
cielo. Avevo sbagliato a venire a Berlino, non sarei mai stato all’altezza di
quella nuova vita e Claudia non sarebbe mai tornata la donna che avevo
conosciuto.
Arrivai a Rummelsburg, dove il tram curvava per entrare nel municipio
di Friedrichshain. Era un quadrivio trafficato, accanto alla pensilina gialla
dei tram un attore recitava una farsa, ignorato dai pendolari.
Quando rincasai Claudia mi aprí la porta, altissima, gli occhi non
parevano truccati eppure luccicavano.
Nel soggiorno vidi un’ombra scura, mentre la sera faticava a prendersi lo
spazio del giorno. L’ombra si alzò, i tratti si schiarirono, gli zigomi
squadrati, il collo massiccio, gli avambracci due leve bianche che uscivano
da una maglietta scura aderente come un guanto. Andria era compatto,
poderoso, con mani grandi e curate. Si presentò affabile, una peluria leggera
attorno alle labbra, le basette due virgole che incorniciavano un largo
sorriso.
– Francesco.
– Piacere, Andria.
– Parli italiano.
– Un pochino, – mi disse avvicinando indice e pollice.
– Ha imparato a gesticolare come noi, – disse Claudia, e lui la guardò
come a chiedere conferma di quel che aveva detto.
Claudia tradusse con pazienza, Andria si rivolse in tedesco a Claudia,
che gli rispose senza farmi sentire escluso: gli dispiaceva di non potermi
parlare in italiano.
Pensai che sarebbero stati tutti cosí i miei futuri mesi a Berlino. L’afasia
che durante il giorno avevo sfuggito rivolgendo qualche parola in inglese
sarebbe stata un flagello. Non sarei riuscito a comunicare nostalgia, ansie, e
altre emozioni complesse, ogni sfumatura si sarebbe ridotta a messaggi
essenziali: «Ho fame», «Ho sete».
Claudia ci guidò in camera da letto, sulle lenzuola era adagiata la mia
veste talare, le maniche lunghe piegate all’altezza del petto.
– Hai tirato fuori le mie cose dalla valigia? – chiesi sorpreso.
– Ti entrerà? – disse Claudia, come se la mia domanda fosse superflua.
– Non sono cresciuto da quando l’ho messa l’ultima volta vent’anni fa, –
dissi.
Claudia la guardava con un’espressione increspata dal riso, come non
credesse di avermi convinto a seguirli quella notte.
– La talare è stretta in vita, si chiama cosí perché arriva ai talloni, –
chiarii con un’aria dottorale insopportabile a me stesso.
– Questa ti arriva alle ginocchia, – commentò lei, scoppiando a ridere.
Andria ci guardava in silenzio oltre la porta, aveva l’occhio di chi taglia
con esattezza le cose intorno.
– Stasera posso truccarti? – chiese Claudia. Disse che non ci sarebbe
stato bisogno del fard per la mia pelle scura. – Ci vuole un illuminante, – e
già rovistava nella sua trousse. – Usiamo una terra, con i polpastrelli.
Era una dichiarazione d’amore, nello specchio ci guardavamo come se
quelli riflessi non fossimo noi. Claudia parlò in tedesco e capii che avrebbe
truccato anche Andria. Per un secondo avevo creduto a un primato con la
stessa esaltazione degli esploratori che arrivano in un luogo sconosciuto.
Andria si sistemò su una sedia accanto a me. Ora nello specchio
splendevamo tutti e tre. Avrei voluto che questo momento venisse
registrato, il giorno che fossi tornato a Martina ne avrei sentito la mancanza.
Solo molto dopo avrei imparato la parola giusta per descrivere ciò che stavo
vivendo: Sehnsucht. Quel sentimento era composto da desiderio e nostalgia,
eccitazione e il principio di un’acquolina in bocca.
I polpastrelli di Claudia mi pizzicavano il viso mentre dentro lo specchio
il mio colore cambiava. Prese una matita, mi ordinò di chiudere gli occhi.
La pressione della punta mi fece lacrimare, quando li riaprii la vidi già
intenta a disegnare quelli di Andria. Con un pennello Claudia stese sulle sue
guance un colore diverso da quello che aveva applicato a me. Lo specchio
registrava la nostra armonia cromatica, eravamo un’unica persona.

Camminammo parlandoci addosso senza capirci mai fino in fondo,


fermandoci in piccoli bar puzzolenti di fumo dove tintinnavano bicchieri
vuoti di birra, mentre Claudia e Andria si sedevano l’una sull’altro,
lasciandomi a godere lo spettacolo. Avevamo quindici, al massimo sedici
anni. Prima di salire sull’ultima metro che ci avrebbe portato al KitKat lui
mi lanciò uno sguardo affilato, aveva occhi da lupo. Da bambino i lupi
erano i miei animali preferiti, perché erano sempre dalla parte del buio e
alla fine morivano in tutte le favole, come gli esseri umani in carne e ossa.
Alla nostra fermata uscirono dai vagoni figure nere con zaini e trolley
che marciavano verso lo stesso luogo. Sembrava un’ora qualunque del
pomeriggio, ma erano già le due del mattino. C’erano creste colorate, una
donna bellissima con una tunica trasparente e una pelliccia che copriva solo
le spalle, lasciando le forme scoperte, un ragazzo vestito di gomma rossa.
Una famiglia con bambini che scendeva le scale ci guardò e sorrise.
La fila davanti al locale era un serpente nero, soprabiti e lunghe giacche
scure nascondevano gli outfit piú avventurosi, alcuni invece erano già
seminudi, con camicie trasparenti, trampoli ai piedi, pantaloni con cerniere
sulla linea del culo, una ragazza con due righe tatuate dietro le gambe come
antiche calze di seta.
Claudia e Andria si tenevano per mano, il mio sangue cuoceva pensieri
confusi: avevo camminato pochissime volte tenendola per mano, il suo
dorso morbido e il suo palmo ruvido non sudavano mai. Mi apparve d’un
tratto una visione estiva di quando eravamo adolescenti: i fuochi di San
Rocco a Locorotondo, le auto accostate ai muri a secco della provinciale, le
persone ansiose di farsi bagnare dalla polvere da sparo, gli occhi pronti a
riempirsi di girandole colorate, quel vociare soffuso nell’oscurità, e noi due
illuminati solo dalle stelle e la luna, in attesa del primo schiocco infuocato
nel cielo. Si respirava lo stesso clima di sospensione.
Attraversammo un vestibolo sotto un discoball argentato e l’insegna
luminosa «Life is a Circus», la faccia senza espressione di un buttafuori mi
esaminò dicendo qualcosa che non capii. Claudia ci parlò e mi ordinò di
aprire lo zaino. Estrassi la mia tunica, gli uomini attorno risero. Il tema
della serata: «CarneBall Bizarre», un outfit feticista o sensuale. Mi ritrovai
in un piccolo corridoio dove la gente si svestiva freneticamente estraendo
grucce di legno da un contenitore di metallo e consegnando ai guardarobieri
borse e vestiti. Ancora una volta Claudia aveva avuto ragione, l’abito da
prete che non indossavo da anni non mi entrò. Provai due, tre volte, ma i
bottoni non arrivavano alle asole.
La mistress dell’ingresso mi guardò con pena. – O prete o nudo, –
pronunciò in inglese.
In fondo era sempre stato il bivio della mia vita, e io ero sempre rimasto
nell’inutile via di mezzo.
– Spogliati, – disse Claudia tirandomi a sé e guardandomi negli occhi.
– Nudo?!
– Come vuoi, ma spogliati.
Mai mi era sembrata cosí adulta. Mi intimava di spogliarmi. Il mio
sogno, dentro quello che pareva un incubo.
La liberazione cominciò con i miei vestiti gettati in un sacco scuro, restai
in boxer neri e scarpe. Claudia mi abbracciò e mi stampò un bacio sulle
labbra.
Raggiunsi un antro oscuro dove la musica scuoteva il pavimento, e una
umanità camuffata – divise della polizia, camici bianchi, pellicce sintetiche
con code di volpe, musi di cavalli o cani, corpi insaccati in corde strette –
ballava senza sosta nel fumo colorato. Nella piscina uomini nudi gridavano,
nuotando tra enormi draghi gonfiabili. Sui cuscini che incorniciavano la
vasca c’era un viluppo di corpi: una signora, nuda e zoppa, si trascinò
accanto a due ragazzi con bretelle borchiate e praticò una fellatio a uno di
loro. Da un momento all’altro qualcuno avrebbe potuto spiccare il volo con
lunghe ali piumate. Forse successe, ma da un certo punto in poi i miei
ricordi sono vaghi. Nei bagni, italiani e spagnoli promettevano la felicità
sotto forma di cristalli da sciogliere in acqua o cucinare con un accendino,
salvo essere dispersi e cacciati dai buttafuori in mimetica. Il cuore batteva,
avevo caldo, l’acqua che bevevo dai rubinetti non spegneva mai l’arsura.
Salii le scale verso un soppalco misterioso con la furia infantile di
quando giocavo spensierato. La mia mano intrecciata a quella di Claudia, la
sua a quella di Andria. C’era una stanza rosa, pervasa da un’essenza
floreale, al centro un lettino ginecologico su cui un uomo a gambe aperte
veniva sodomizzato da un nero con i capelli rasati, i pantaloncini rossi a
bordi bianchi e calze di spugna che brillavano sotto le luci. In un angolo una
gabbia con dentro un vichingo, un nero e un pellerossa che si mischiavano
ruggendo di piacere. Ci avvicinammo alla scultura di carne e sudore dietro
le sbarre, ebbi la tentazione che si ha nei musei di accarezzare il marmo, la
pelle era tesa e sudata. Poi comparve una ragazza minutissima in canottiera
nera che cominciò a scudisciare i tre uomini con un frustino: un gioco che
stentavo a capire, ma che trasmetteva un senso di perdizione e allegria. Rise
guardandoci e ci offrí il frustino: – Volete provare?
Claudia ci condusse in un angolo appartato che presto divenne meta di
pellegrinaggio di una decina di curiosi: eravamo noi lo spettacolo. Non
avevo paura, anelavo un bacio di Claudia; lo avevo anelato sotto i fiori di
castagno e tra le ginestre di Martina, ma lí sarebbe stato piú bello, con la
musica potente, lo sguardo di uomini e donne che ci incitava invece di
giudicarci. Andria allentò i pantaloni, estrasse il pene, grande, ma ancora
lontano da un’erezione accettabile, si stese a pancia in su e Claudia si piegò,
glielo prese in bocca, guardandomi negli occhi. Ero incredulo, scosso,
volevo piangere e gridare, dentro di me sentivo saltare le dighe e crollare i
muri. Per una vita avevo accolto in silenzio le stesse domande: «Hai la
fidanzata?», «Hai un lavoro?», «Hai una casa?», «Hai un futuro», «Hai un
piano», «Chi sei», «Come ti metti?»
– Scendi qui, Uva nera, – disse all’improvviso Claudia. La persona piú
importante della mia vita con lo sguardo sgranato e un cazzo in bocca, il
cazzo di un maschio che avevo conosciuto poche ore prima, pulsante e
pieno della saliva di Claudia. Erano vent’anni che la desideravo, tutte le
notti a immaginare come sarebbe stato entrarle dentro sotto il cielo delle
nostre campagne, di che sapore era la saliva, tra l’amaro delle noci e il
dolce delle mandorle. Baciai Claudia soltanto dopo che c’era passato il
piacere del suo fidanzato georgiano. Era questa la felicità? Cosa avrebbe
detto quel mondo che mi ero lasciato alle spalle? Eravamo lí, su un pianeta
che guardava il territorio delle malelingue con compassione.
Un bacio intenso, i nervi detonarono, mi sciolsi, la beatitudine era uno
stato di assenza di impulsi, la gioia del sonno che intorpidisce un corpo
stanco. Sí, era quella la felicità. Finché una lingua estranea, dura e ferrosa,
s’intromise: Andria ci stava baciando, e sentii il mare, il piacere che ti dà
camminare coi piedi freddi e salati sulla sabbia bollente.
Un uomo anziano provò ad avvicinare il suo pene alla bocca di Claudia,
la barba lunga, sorrideva; lei ricambiò, gli diede una carezza e un bacio
sulla punta del sesso turgido, ma poi scosse la testa in segno di rifiuto, e
quando si alzò non c’era piú nessuno, la folla di curiosi ne aveva avuto
abbastanza e ora accerchiava altri. Tornammo a ballare e continuammo a
baciarci, Andria e Claudia, Claudia e io, io e Andria, i nostri profumi
mischiati.
Ci baciammo sulla metro e poi sul tram, mentre il giorno occupava il
cielo. Sull’ultimo ponte che ci riportava a casa marciammo uno dietro
l’altro col braccio sulla ringhiera, avevo il respiro di Andria sulla nuca. Mi
persi ancora una volta nell’andatura di Claudia, era tanto tempo che non la
vedevo camminare di spalle, assomigliava a un fenicottero bianco. Solo
alcuni giorni dopo avrei imparato che i fenicotteri hanno le piume bianche
quando sono malati o denutriti, mangiano in equilibrio su una gamba sola,
ma non sanno zoppicare.
Mi affezionai ai versi delle capinere che arrivavano dai tigli. Avevano
creste arruffate, occhi spiritati, ma sapevano cantare nel freddo. Le
invidiavo in quelle mattine in cui i geloni segavano le mani e camminare
per strada era un supplizio. Appena potevo mi rintanavo nel tram o in
qualche caffè. Come facevano gli animali a resistere a quel freddo? E gli
uomini, in una città in cui da ottobre il cielo diventava argento pallido,
come riuscivano a sopravvivere?
Mia madre mi aggiornava con parsimonia sulla sua nuova vita, potevo
coglierne sprazzi in alcuni suoi consigli che avevano il retrogusto della
frivolezza: «Vestiti colorato, il freddo sta lontano dai colori». Mio padre
lanciava cupi dispacci dal sapore vittimistico e ricattatorio: «Quando
tornerai troverai i nonni in ospizio e me all’obitorio».
Erano passati sei mesi dal mio arrivo a Berlino e ancora sbagliavo strada,
perdevo documenti o venivo raggirato. Arrancavo nelle sabbie mobili del
Vorgangspassiv e del Konjunktiv II, rimpiangendo di aver sottovalutato per
oltre trent’anni la grammatica. Vivevo in un limbo che aveva i tratti
dell’infanzia e della vecchiaia, quando non resta che affidarsi fiduciosi.
L’insegnante di tedesco era una energica ragazza con le guance rosse di
cui non capivamo una parola, né lei capiva noi. Ci dava da imparare
canzoncine di gruppi teenager, le strofe riportavano spazi bianchi che
andavano colmati dopo l’ascolto ripetuto. Una tortura. Elargivo sorrisi di
circostanza, trangugiavo caffè turco insieme ai miei compagni di corso,
siriani, curdi, sudamericani e coreani, con i quali ci fraintendevamo
continuamente. Per attirare la loro attenzione indossavo i panni di attore del
cinema muto, tutto mosse e faccette, poi diventavo tremendamente triste
sulla metropolitana, mentre incrociavo gli sguardi dei passeggeri a loro agio
come in uno spot della BVG .
Per un po’ annusai la vita degli agenti immobiliari a Berlino, e mi
accorsi subito che era un altro mondo, anche se l’abitudine mi faceva
dividere le facciate dei palazzi in appartamenti, e gli appartamenti in stanze,
un altro Tetris. In una piccola provincia dell’Italia l’offerta era sempre
superiore alla domanda; qui era l’esatto contrario: per ogni casa c’erano
mandrie di aspiranti locatari o compratori disposti a pagare sull’unghia, a
vendersi tutto pur di aggiudicarsi un appartamento di settanta metri quadri.
La bolla speculativa era partita da un decennio, i palazzi occupati di Berlino
Est e Kreuzberg erano stati sgomberati con la forza, fondi spagnoli e russi
rivendevano a dieci volte il prezzo tuguri e stalle spacciate per loft. L’agente
immobiliare di Berlino non era un rivenditore da mercato delle pulci,
com’ero sempre stato io, bensí un cacciatore di teste. Assomigliava piú al
capo del personale di un’azienda: non doveva vendere case, ma scegliere
compratori.
Mi presero in un bistrot vegano. Non guadagnavo tanto, ma bastava per
una vita decorosa. L’essenzialità era diventata un’opportunità. Il bistrot
aveva porte splendenti dipinte di vernice bianca, per il resto la luce era
cupa. L’architettura delle caffetterie berlinesi mostrava il segno
dell’audacia, ma gli interni rivelavano una trasandatezza che sfociava non
di rado nella sporcizia. In quella specie di acquario torbido tagliavo torte e
servivo tisane tra sedie trafugate in un trasloco e divanetti polverosi. La mia
collega francese era abbronzata e muscolosa, canticchiava sistemando le
teiere sulla piastra e le quiche sui vassoi, rivolgendomi poche, essenziali
istruzioni: le ero grato per il fatto di risparmiarmi l’ennesimo dialogo tra
incompresi.
Camminavo tanto, avvertivo in quella città un senso di vita e morte
intrecciati, un destino che mi apparteneva. Camminavo talmente tanto da
perdere la cognizione del tempo. La varietà della gente mi ubriacava: il
giovane turista col Club-Mate, l’uomo di mezza età con l’alito di vodka e il
tono di voce alto, la giovane coppia con il bambino nella slitta da neve, il
vichingo con la bici di legno sulla banchina della U-Bahn. Dappertutto
c’erano pietre d’inciampo e qualche detrito della Vecchia Berlino, un pezzo
di muro confezionato nel cellophane o un vecchio rudere circondato da
condomini modernissimi. Una città in cui si è piú felici che nel resto del
mondo quando si è felici e si è piú tristi quando l’umore volge al nero.
Claudia non era piú tornata sulla notte al Kitty. I giorni successivi,
intontito e felice, avevo provato l’euforia dei principianti, ma non esiste una
vera felicità se non può essere condivisa con qualcuno. E con lei,
nonostante la convivenza, pareva impossibile. Mi chiedevo perché restassi
lí, visto che passavamo pochissimo tempo insieme. La sera era sempre
sfinita, mi liquidava con poche parole e si gettava su un piccolo divano in
soggiorno. La spossatezza aveva la forma di una coperta stropicciata che
aderiva alle pieghe del corpo e ne prendeva la perfetta misura. «Regnava
nel silenzio | alta la notte e bruna…» cantava qualche volta indovinando
uno degli acuti della Lucia di Lammermoor, ma era soltanto il repertorio di
quando eravamo giovani.
Qualche volta mi raccontava dei suoi pazienti, burberi o galanti,
silenziosi o logorroici, soli. La vedevo mentre si prendeva cura di loro,
occupandosi dei pasti mentre le unghie s’annerivano e i capelli
s’impregnavano di oli vegetali. Era beffardo che due come noi, dalle
abitudini alimentari disordinate, avessero intrapreso quella nuova vita al
servizio della fame degli altri.
A volte bastava il silenzio della sera a renderci quieti, quando la
stanchezza e l’odore di mensa si trasformavano in torpore. Oltre i tetti si
scorgeva la lunga fila di finestre illuminate, il segno della città ancora
sveglia, mentre il rumore del tram che andava in centro a qualunque ora del
giorno e della notte era lí a rassicurarci, sembrava dire che nonostante tutto
quello era il posto giusto per noi. Una città dove ogni illusione di libertà,
integrazione, solidarietà e democrazia sembrava possibile.

Quando poteva, Claudia andava a correre al vicino Weißensee, un lago


cittadino a due passi dal centro di Berlino, dove qualche madre coraggiosa
si tuffava nuda nelle terse mattine di mezza stagione. Eravamo cresciuti in
un paese pieno di campanili che annunciavano messa, ma soprattutto c’era
la stradina che ci avrebbe portati al mare poco prima che finisse la
primavera o prima che incominciasse l’inverno. Senza un tuffo in acqua
eravamo perduti, sporchi e affranti. Bagnarsi era una specie di purificazione
prima di ogni nuovo, promettente capitolo delle nostre vite, l’inizio di un
anno scolastico, accademico, professionale o sentimentale. Pur essendo
lontani dal mare, quel periodo della mia vita con Claudia lo avrei
ribattezzato il «periodo acquatico».
Un sabato sera la sorpresi sveglia a letto, leggeva sul Kindle e ascoltava
musica. Era al buio.
– Posso stendermi accanto a te?
Claudia non mi sentí per le cuffie, ma vedendomi sulla soglia della
stanza con il palmo della mano batté due volte sullo spazio vuoto del letto.
Si tolse le cuffie. – Stenditi, – disse.
– Perché non abbiamo mai parlato di quello che è successo al Kitty?
– Perché è bello cosí.
– Non mi bacerai mai piú?
– Non baciavo te.
– E chi?
– Baciavo tutto quello che eravamo e non siamo piú.
Ebbi la sensazione che quel pensiero le fosse sfuggito dalla testa, come
se stesse tirando le somme di un ragionamento tutto suo. Stavano
cambiando i nostri desideri, ma non la loro intensità.
– Andria è una persona importante per me, questo lo sai? – disse a un
tratto con voce materna.
Ebbi timore che Claudia mi avesse osservato tutte le volte che mi ero
eccitato immaginandoli assieme. – Lo so, – balbettai.
– Per questo ora che è finita non vorrei che ce l’avessi con lui.
– Vi siete lasciati?
– Non siamo mai stati insieme, però non c’è piú quel rapporto che
avevamo.
Claudia mi stava prospettando una nuova forma di futuro, quelle energie
che alcuni chiamano demoni sono fatte della stessa sostanza delle
aspirazioni e delle paure: andavano accolte senza freno.
– Posso uscirci? – le domandai.
– Perché non lo chiedi a lui? – I suoi occhi intelligenti mi scrutavano,
avvicinò la sua guancia alla mia per un bacio. – Non ti innervosire se non
capisci quello che ti dice.
Fu lei a scrivere il mio messaggio per Andria. Una richiesta neutra e
innocente: vedere un film o una serie tv insieme.
La prima volta ci incontrammo a casa sua, passammo il pomeriggio a
guardare Orange Is the New Black. A quel pomeriggio ne seguirono altri.
Trovavo esaltante trascorrere del tempo sul letto stretto e molle di Andria,
era il raggiungimento di un traguardo dopo un peregrinare durato decenni.
C’era qualcosa di simbolico negli ostacoli che dovevo affrontare per
arrivare da lui: fiancheggiare immensi palazzoni popolati di studenti e
immigrati, attraversare corridoi infiniti. Andria mi parlava in inglese mentre
io provavo a mettere in pratica i primi rudimenti del tedesco che
apprendevo. Parlavamo di noi senza capirci, «ich liebe dich» era una
minaccia e «ich habe dich lieb» un compromesso. Erano scambi maldestri
ma sinceri, mentre lui mi truccava con mano sicura come se fossimo
adolescenti, e forse era questo a mantenerci lievi. Andria si truccava da
quando frequentava i club, era un rito innocuo con cui attraversava una
porta magica. Quando torni a casa la musica è un ronzio persistente nelle
orecchie e il segno della matita resti di lacrime scure. Nel suo viso, lampi di
una mascolinità arcaica, sul comò un coltello infilato nella guaina di cuoio,
una scatola d’argento col tabacco, le avvertenze del suo – presto nostro –
lubrificante anale. Commestibile, insapore, inodore.
A tredici anni era già in piazza con la sorella maggiore e i genitori per la
Rivoluzione delle rose a Tbilisi. A diciott’anni era stato chiamato sotto le
armi. Fino a qualche mese prima molti di loro erano ancora tra i banchi di
scuola, non pensavano sarebbero finiti con un mitra in mano a camminare
per chilometri con pesanti scarponi di pelle e il fango alle caviglie. Andria
aveva fatto amicizia con ragazzi di provincia tra cui spiccava il sorriso di
Cristiano, un ragazzo fulvo e loquace che un mattino, mentre si lavavano
nelle docce, lo aveva afferrato per un polso e aveva provato a baciarlo.
Andria si era divincolato preso dal panico. Era arrabbiato. Quella notte non
era riuscito a dormire; ripensando a ciò che era accaduto, nel dormiveglia
sentiva la presa di Cristiano sul polso. Non osava ammetterlo, ma gli era
piaciuto quel gesto sconsiderato. Chissà se anche la sua spalla era liscia
come la mano che lo aveva afferrato. Senza quasi rendersene conto, si era
ritrovato a toccarsi.
Ascoltando quel racconto rivissi l’estate in cui avevo confidato a Claudia
di Domenico. Anche Andria in fondo era arrivato in cerca di un posto dove
amare, inseguendo una smania che viveva dentro di lui da decenni. Nei
primi tempi a Berlino si era lasciato rimorchiare negli ostelli di
Nollendorfplatz, tra giovani turisti gay. Agli occhi degli occidentali con la
barba, profumatissima e disegnata con il compasso, uno come Andria – che
aveva fatto la guerra – risultava irresistibile. Eppure lui si sentiva a disagio
quando glielo facevano notare, perché la guerra era durata poco, lui non
aveva sparato un colpo, non aveva ucciso nessuno per difendere la sua
patria, quella patria dove comunque certe attitudini dovevano essere
nascoste. Quando raccontava quanto fossero crudeli le torture nei confronti
degli omosessuali nell’esercito, gli esplodeva il cuore. Claudia era stata la
prima a dargli vera attenzione. Dopo averla conosciuta, Andria sapeva che
esisteva una persona a cui poter raccontare tutto, che lo amava senza alcun
pregiudizio.
Il nostro primo bacio senza Claudia avvenne una notte che sembrava
capodanno. Era ancora estate, migliaia di turchi in strada suonavano i
clacson all’impazzata, lanciando dai finestrini coriandoli e petardi; la rivolta
contro Erdoğan era fallita e i suoi sostenitori festeggiavano cercando di far
arrivare la loro gioia a tutti gli altri turchi di Berlino – rintanati in quel
momento dietro le finestre, sofferenti – favorevoli al tentato golpe. Nella
confusione Andria posò le labbra sul mio collo, ricambiai con una carezza,
come il riflesso di un colpo schivato. Poi mi prese la testa e mi baciò. La
barba mi bruciò le guance, il tocco di un fiammifero appena acceso. –
Kurze Pause, – dissi respirando, come quando si viene fuori da un’apnea.
Deglutii aria e saliva. Qualcuno dalle auto che suonavano ci lanciò una
bottiglia di birra senza colpirci, Andria gridò in georgiano, poi mi abbracciò
da dietro, dicendo che con lui al fianco non mi sarebbe mai accaduto nulla.
Non avevo mai visto il mondo da quella prospettiva.

Andria ripeteva sempre di essere libero, come se quel Ich bin frei fosse
una sorta di esorcismo. Cercava continuamente uomini, un pomeriggio lo
seguii come i ciechi si aggrappano ai loro cani guida, la nostra destinazione
era il Lab.oratory di Friedrichshain, un sottoscala dove cento maschi
arrapati – tutti perfettamente vestiti dalla vita in su e nudi dal culo in giú –
ballavano mischiando i loro umori in una vasca di alluminio. La musica era
uno specchio d’acqua nel quale nuotare. Succhiai il cazzo a Andria, le sue
dita forti premevano sulla mia nuca.
Piú tardi glielo domandai: – Perché stavi con Claudia?
– Perché con lei non ero maschio e non ero femmina, ero Andria, e
basta.
Vagammo per la città baciandoci senza paura. In un parco di Prenzla, tra
pioppi e tavoli da ping-pong, ci appoggiammo contro la corteccia umida di
un albero, avevamo ancora la musica del Lab.oratory nelle orecchie.
Mi accorsi che un uomo aveva gli occhi fissi su di noi. – Ci sta
guardando? – chiesi a Andria. Fu un errore farglielo notare. Andria alzò gli
occhi verso quel tale dalle sopracciglia cespugliose. L’uomo si allontanò
fino all’angolo del parco, poi si girò e ci urlò qualcosa.
– È dovuto andare molto lontano per dire quello che pensava di noi, –
disse Andria con un’espressione feroce. – Lui ha perso il controllo e noi no.
Non replicai, il seme di un oscuro, pesantissimo disagio era calato tra
noi. Una mosca camminava sul collo di Andria, d’istinto l’afferrai; non mi
era mai successo da bambino di afferrarne una, ma lí, evidentemente, le
mosche erano piú stupide e ingenue, avevano fiducia negli uomini.
Non amo i racconti dell’infanzia, ma quelli di Andria erano speciali. Per
esempio, i giorni della vendemmia in Georgia. Non esisteva georgiano che
non avesse dimestichezza con quel mondo, che non avesse sentito il mosto
trasformarsi in vino dentro anfore di argilla, o in vasche di terracotta
conficcate nel suolo. Le sue vendemmie, al contrario delle mie – confinate
in un quadretto da sussidiario, col nonno che ti mostra come tagliare un
grappolo senza far soffrire la pianta, davanti a viti basse quanto noi bambini
di cinque anni –, avevano qualcosa di epico. Ogni vendemmia era un
attacco al cielo, le viti erano querce e il vino un nettare degli dèi. Mi
aspettavo che da un momento all’altro tirasse fuori un paio di forbici come
faceva mio nonno, gli avrei mostrato il modo in cui recidevo il grappolo di
verdeca con gli acini piccoli come occhi di pesce. Anche i suoi nonni
avevano trovato moglie o marito nelle sere estive, tra le note lamentose di
uno strumento musicale. Eravamo molto piú vicini di quanto credessimo.
Pareva un angelo, con le braccia avvolte a un cuscino di gommapiuma, io
me lo baciavo mentre dormiva, poi indossavo maglioni di lana col collo alto
per coprire i lividi dei baci che diventano morsi.
Una sera mi diede appuntamento alla metro di Mariendorf, le strade
coperte di foglie, il bavero dei cappotti alzato, qualche favilla di neve che
annunciava bufera. Salimmo in un condominio con gli infissi in anticorodal,
non c’era ascensore e all’ultimo piano, sulla soglia, un ragazzo turco con
sopracciglia folte e nere e pettorali glabri, in mutande, ci chiese se fossimo
mai stati lí. Andria rispose per entrambi. Allora il ragazzo partí con un
lungo sermone, dalla sua aria annoiata capii che quel discorso doveva
averlo fatto milioni volte. In uno stanzino ci spogliammo e una solerte
signora in divisa bianca simile a un’infermiera – non fosse stato per i bordi
amaranto sulle spalline – ci passò due asciugamani da mettere attorno alla
vita. Finimmo in una stanza dove una dozzina di uomini con la barba
fumava narghilè. Erano nudi e nell’aria il fumo aromatico pizzicava il naso.
Andria mi accarezzò tra le gambe. Uno degli uomini si avvicinò dal fondo
della sala, gonfio, striato da una barba malfatta, palpebre cascanti. – Posso
succhiartelo? – mi chiese.
Era la prima volta che ricevevo una richiesta cosí esplicita, fino a quel
momento c’era sempre stata la mediazione della musica, oppure un cenno,
uno sguardo, un sorriso. Risposi di no, perché anche la ritrosia andava
esercitata fino in fondo. Ed era una novità totale anche il rifiuto. Il
gorgoglio dell’acqua profumata nelle ampolle del narghilè era ipnotico.
Melassa, fiori e tabacco. Andria mi tese la shisha, compose tre cerchi di
fumo. Mi attaccai al bocchino per aspirare, il filtro era duro come un osso,
socchiusi gli occhi con la sua mano sulla testa e l’altra posata sopra il
ginocchio. Raggiunsi un luogo di trenta, forse trentacinque anni prima: mi
trovavo a Martina, l’autunno era cominciato da un pezzo e tra un po’
avremmo travasato il mosto fermentato dai grandi capasoni di coccio nelle
bottiglie. Mia madre era seduta su una sedia bassa con la gonna alzata sino
alle ginocchia, sostituiva le bottiglie vuote con quelle ricolme. Mio padre
immergeva un tubo di gomma di venti centimetri nel recipiente che
conteneva il vino appena fermentato, aspirava con le labbra poggiate
all’estremità opposta, il vino percorreva il tubo, assecondando l’effetto della
rarefazione. Quando il vino arrivava alle labbra, mio padre introduceva la
cannula nella bottiglia, o nella damigiana posta in basso, per rispettare fino
in fondo il principio dei vasi comunicanti. Sollevava la bottiglia e mi
mostrava il flusso che rallentava fino ad arrestarsi e arretrare; l’effetto
creava piccole e suggestive bolle d’aria nel tubo. «Vieni Francesco, aspira»,
diceva e io, dopo aver poggiato la bocca sulla gomma del tubo, aspiravo e
sentivo il flusso che arrivava forte e aspro sui denti. Non riuscivo mai a
evitare di bere involontariamente quel sorso di vino pungente. La famiglia
Veleno al completo partecipava al rito della vendemmia.
Quando fummo per strada, mentre il nevischio si trasformava in neve,
ombre umane raccolte in un drappello all’altro lato della strada fischiarono
verso di noi come pastori che richiamano il gregge. Per tutto il pomeriggio
Andria aveva inspirato il fumo con una smorfia di gioiosa beatitudine, ma al
fischio di scherno la sua aria divenne grave, gli occhi si rimpicciolirono. Un
oggetto fendette il pulviscolo di neve in un luccichio che terminò sulla
scocca di una delle auto parcheggiate sul nostro lato della strada. Era un
accendino. Subito dopo ci lanciarono contro una lattina di birra, una pietra,
finché non scapparono urlando «Schwuuuul», e continuando a fischiare
come uno stormo di merli.
Andria attraversò la strada e li inseguí. Riapparve poco dopo con una
borsa di stoffa e un berretto di lana prede della lotta. Mi sorrise con
tristezza. – Torna da Claudia stanotte, voglio rimanere solo –. Era un ordine.
Risposi meccanicamente: – Sí.
I fanali delle auto si diradavano, solo un bus giallo che andava verso la
periferia brontolava con le marce basse sulla carreggiata sconnessa. Andria
sparí in quel rumore, io restai immobile senza sentire freddo, o paura,
soltanto con il sospetto che non potevo contare veramente su di lui.
Scrissi a Claudia, la chiamai, ma non rispose. Mi prese un’irrazionale
gelosia.
– Cos’è successo? – mi richiamò a un certo punto, mentre ero al riparo
dentro il vestibolo di un club infame, il primo trovato, pieno di tossici e
punk da quattro soldi.
– Andria mi ha detto di tornare a casa tua, non mi vuole stasera.
– Che gli hai fatto?
– Niente.
– Forse è questo il problema.
Quanto la odiavo quando faceva cosí. Le sue verità in tasca trovavano
sempre la mia cieca obbedienza, ma questa volta non le diedi ragione, mi
limitai a tacere.
– Frank, sto per scopare con uno che ho conosciuto due ore fa su Tinder.
– Mi stai dicendo che non devo tornare?
– No, torna, ma voglio che tu sappia cosa puoi trovare.
– Bello?
– Ha la metà dei miei anni.
– Non mi hai risposto.
– Diciamo che sto per esplorare un campo a me ignoto. Piú che una
scopata sarà una ricerca etnografica.
– Quindi Andria mi ha mollato?
– Perché non lo hai seguito e non lo hai chiesto a lui? Perché non lo
affronti?
– Qui fa freddo, non capisco una parola di quello che mi dice la gente.
– Ora devo andare –. Mi stava dando una lezione e io ne ero
perfettamente consapevole, fu per questo che non la richiamai.
Pochi minuti dopo feci sesso non protetto con uno sconosciuto dentro
questo club infame, lo vissi nel peggior modo possibile, con vergogna. Fui
roso da pensieri lugubri. Una parte di me desiderava ancora il godimento
dei preti, che immaginavo celato in una coltre misteriosa di masturbazioni e
polluzioni notturne, ma asettico, senza odore, senza sudore, senza contatto,
ossessivamente onanistico. Cosí com’era stato il mio amore per Claudia
tutti quegli anni.
Eravamo europei liberi di muoverci dentro un recinto, ma fuori dal quel
recinto c’era il mondo cui apparteneva Andria. La nostra Europa libera,
priva di muri, non era la stessa di Andria. La Georgia non è uno Stato
comunitario e Andria era costretto a lasciare la Germania per la scadenza
del suo permesso di soggiorno. Sentii accarezzarmi la schiena da una pietra
appuntita e fredda, qualcuno decideva per noi. Mi dispiace, Claudia, ma
oltre l’orizzonte che vediamo non possiamo andare, e chi viene da lí resta
con noi solo il tempo necessario per capire che esisteranno sempre frontiere
da onorare.
Non ci fu nessun lacrimoso congedo. Il primo maschio di cui stavo per
innamorarmi era andato via dopo avermi salutato bruscamente in una
tormenta di neve con la pelle ancora profumata di shisha e melassa. In uno
dei suoi ultimi messaggi scrisse che di me gli era sempre piaciuto il caos
linguistico, il modo in cui avevo inventato una lingua, la nostra lingua,
quella che capivamo solo io e lui. Mi sarei fatto bastare quelle parole
durante la sua assenza. A Claudia raccontò maggiori sfumature. Aveva
deciso di partire senza inutili addii perché nutriva la speranza di tornare. Sia
Claudia che io non ci credevamo, e per questo un pomeriggio con il cielo
color argilla litigammo. Eravamo ritti contro la finestra che dava sul cortile,
lei sorseggiava una tisana da una tazza che stringeva con entrambe le mani,
come a prendersi tutto il calore che emanava. Gli inverni cosí lunghi ci
facevano assumere la stessa identica postura, grandi falene con la pancia sul
vetro che irradiava l’ultima pallida luce del giorno. Il freddo ghiacciava i
rami dell’olmo giú in cortile.
– Avresti dovuto sposarlo, – sbottò soffiando nella tisana.
– Sposarlo? – Dicevano che l’olmo era l’albero dei sabba.
– Sí, lo dovevi sposare tu che sei l’ultimo a esserci stato –. Aveva un
tono neutro.
Mi voltai per trovare nei suoi occhi il senso di quel discorso. – Ho solo
esperienza di matrimoni infelici, e tu lo sai bene.
– Sarebbe stato il primo matrimonio felice della nostra vita, – disse
sconsolata.
– Solo se ti sposavi anche tu con noi.
Un’ombra le scurí il viso.
– Mia madre si è risposata.
– Non si smette mai di sbagliare.
Claudia mi stava parlando di sua madre dopo mesi.
– Non ti ho mai detto come ho saputo del loro matrimonio. Mi ha spedito
l’invito, non so come abbia fatto. Ma è riuscita a trovarmi e umiliarmi.
– Non è un’umiliazione.
– Lei crede di avermi umiliata perché si sposa due volte e io sono una
zita di Ceglie, nel suo mondo le cose stanno cosí.
– Appunto, è il suo mondo.
– Mi sento umiliata perché mi ha trovato e ovunque vada mi troverà
sempre. Le nostre origini ci rimangono addosso come una voglia gigante
sulla pelle, che puoi coprire con tutti i vestiti che vuoi, ma resta sotto e
quando ti spogli la vedi.
Eravamo usciti dalle nostre famiglie riportando ferite profonde, ma le
nostre famiglie non erano uscite da noi.
Non potevamo darla vinta a Etta e ai nostri demoni. Cosí dissi qualcosa
di provocatorio, come se lí tra noi ci fosse stata sua madre ad ascoltarci. Fu
un monologo insensato, raccontai una delle mie avventure piú estreme con
Andria, nel club only men piú infernale in cui eravamo stati. Lí dove si
finiva avvinghiati in un unico corpo, dove il pudore si polverizzava, dove si
arrivava a piangere perché l’acme del dolore tocca l’acme del piacere. Le
dissi che lí avevo smesso di aver paura di ogni malattia. Chi entrava in
questo posto si liberava dal male che aveva dentro sperimentando un altro
tipo di male. Ho visto con i miei occhi il superamento dei limiti del corpo
umano, il viaggio verso l’estremo.
– Ci vedi troppa morte nel sesso, Frank, – disse con un filo di voce, poi
aggiunse: – Non capisco perché Andria non abbia lottato –. Rimasi senza
parole. Come se di tutto quello che le avevo detto l’unica cosa che contava
era il rammarico per Andria.
– Tutte le persone che amo vanno via, Erika, Andria, mentre mia
madre…
– Io resto qui.
– Anche tu andrai via.
– Ti prometto di no –. E lo ripetei con tutta la solennità possibile.
Secondo una leggenda nordica la donna che diede origine all’umanità era
un albero, un olmo per l’esattezza. Passai tutti i crepuscoli dei giorni
successivi a guardare l’albero in cortile riflettere con i suoi cristalli di
ghiaccio le luci dei palazzi.
La U-Bahn, non osavamo dircelo, ma era un po’ come la vita da paese.
Standoci sopra si sfiorava un’infinita varietà di umani, maschere, abissi o
eccessi, ma alla fine sembravamo riconoscerci tutti quanti. Sul suo account
Instagram, Claudia s’era messa a scrivere piccoli ritratti che
accompagnavano le foto che catturava col telefono in giro per la città:
l’ascia di un uomo urlante contro misteriose presenze, una mano finta
appena visibile da un manicotto di pelliccia, una barca, piante enormi sotto
cui si nascondevano umani, carrozzelle di cianfrusaglie militari, violini di
gesso e travestimenti variopinti. Le piaceva la paletta blu della metro con la
lettera U e la voce registrata gracchiante «Aufsteigen, bitte»,
«Zurückbleiben, bitte». L’affascinava quell’alienante invito a salire e stare
indietro, c’era forse un modo per conoscere qualcosa di un popolo
attraverso gli altoparlanti di una metropolitana. A Milano l’ossessione era
non superare la linea gialla, a Berlino fare in fretta ciò per cui si è lí.
L’unica volta che non lo fece, fu quando s’imbatté nella recruiter di uno
dei suoi colloqui di lavoro. Rammentò la surreale discussione sul sole e la
vitamina D. Claudia la riconobbe sulla U-7, era dentro un piumino nero che
arrivava ai piedi e un cappello di lana, non aveva la faccia inquieta e tesa
del loro primo incontro. La salutò e sorrise, mentre i vagoni gialli
frullavano i viaggiatori aggrappati alle maniglie.
– Was für ein Zufall! – le disse Claudia.
– Sí, – la interruppe la donna, lasciando a bocca aperta Claudia. Era
calabrese, stava per tornare al Sud. – Basta compresse di vitamina D, voglio
il sole.
– Hai un lavoro?
– No, sta morendo mia madre.
Claudia si fermò a guardare quel piumino nero uscire dal vagone giallo, i
passi svelti verso una destinazione lontana quanto l’origine del suo respiro.
Claudia frequentava sempre meno la casa di riposo. Da un po’ preparava
i menu attraverso un programma legato a un catering esterno. Era stanca di
indossare la divisa e di mostrare una faccia sempre gentile. Disse che presto
avrebbe potuto lavorare da casa e pensare a un’applicazione che avrebbe
connesso i catering con altre case di riposo.
– Andiamo a farci un bagno, – propose un giorno.
L’edificio odorava di intonaco e pittura, cumuli di foglie ghiacciate erano
disseminati nel cortile: una parte era ancora in costruzione, come tante altre
cose in una città dove in certi momenti le gru affollavano il cielo come
stormi in migrazione. All’ingresso, un uomo con un berretto di feltro si
scusò per la pessima presentazione della struttura, e aggiunse che nel giro di
una settimana i lavori sarebbero terminati. Ci porse asciugamani soffici,
scortandoci per una viuzza di pietra verso la piscina, l’aria tiepida e il vento
che fischiava all’esterno. La porta scorrevole si chiuse alle nostre spalle,
c’erano panche ricoperte da corpi nudi, solo un uomo indossava
l’accappatoio e in quella comunità di nudisti appariva il piú scandaloso di
tutti.
Non fu l’asciugamano a cadere, ma Claudia a sfilarsi. La raggiunsi privo
di indumenti nella piscina calda.
– Ci vorrebbe un’ora di nudismo per tutti, – la voce amplificata dal
soffitto altissimo che rendeva quel posto piú simile a una chiesa che a una
piscina.
Prendevo coscienza dell’incarnato chiaro di Claudia, sul rettangolo di
pelle tra il pube e il ventre l’elastico delle mutande aveva lasciato il segno.
– Metti la testa giú, – mi ordinò.
– Obbedisco, – risposi con ironica solerzia.
Immerso nell’acqua verde e bianca ascoltai la musica che usciva dalle
casse subacquee, una schiuma iridescente seguiva il corpo di Claudia
mentre si spostava verso il centro della piscina. Riemersi e la vidi con i suoi
capezzoli piccoli e rosa, i gomiti larghi appoggiati al bordo della piscina.
– Vieni qui.
– Obbedisco, – dissi ancora una volta.
Mi rivolse un’occhiata di sfida. – Lo faresti ora con me?
– Sempre.
– Anche se fosse l’ultima volta?
– Non so se sarò all’altezza, – confessai.
Dentro quell’acqua calda sentii la sua mano attraversare il poco spazio
che ci divideva, mi accarezzò tra le gambe, emise un singulto breve e
strozzato, eravamo lontani dagli altri visitatori delle terme. Il piacere ha un
colore e il nostro era il bianco, come il marmo contro il quale le premevo le
ossa; era neve, latte, calce. Pensai alle pietre del mio paese, che in estate
sono accecanti. La calce disinfetta i palmenti, monda i sottani e i coni dei
trulli. Eravamo un unico corpo. Nessuno lí poteva sapere che provenivamo
da un paese dove dipingere con la calce si dice «allattare», perché gli
allattatori nutrivano le pietre per fortificarle, davano loro il latte come le
madri ai figli. Quel nostro amore era la calce con cui avevamo nutrito la
speranza della felicità, la piú illusoria e menzognera forma di dipendenza
umana.
Un crampo, un maledetto dolore al polpaccio mi indusse a staccarmi da
lei. Fu la campana del risveglio. Lei sparí sott’acqua.
– Claudia, aspettami… – implorai, e voltandomi verso chi ci guardava
dai bordi della piscina, poco stupiti di ciò che avevano visto, in italiano
dissi: – Non è come sembra.
– È molto peggio! – mi raggiunse acuta la voce di Claudia, che
schiaffeggiò l’acqua e mi abbracciò.
– Non accadrà mai piú? – le chiesi mentre tornavamo a casa abbracciati
come due ex amanti che si sono amati molto e non condividono piú il sesso
ma solo un grande, infinito affetto.
– Mi capisci, vero?
Restammo cosí per tutto il tragitto, Claudia rannicchiata contro di me,
poi la voce metallica annunciò Antonplatz, la nostra fermata. Nel minuscolo
viale che conduceva al portone una giovane donna ci sorrideva. Claudia
tese le mani, come a spingere un muro o una tenda invisibile tra sé e la
sconosciuta. A mezza bocca disse con incredulità: – Cosa ci fai qui? – La
sconosciuta schioccò un bacio e soffiò sul palmo della mano aperta. – Sono
tornata –. Poi scostando il piumino si indicò la pancia: – Anzi, siamo –. Alle
sue spalle c’era una valigia grande quanto una cassapanca.
Erika era di nuovo in città.
Parte sesta
Torschlußpanik

(s. f. È la paura di non raggiungere un obiettivo per ragioni anagrafiche, un figlio, una famiglia o
un determinato stato professionale. Usata anche in politica, quando fu costruito il muro di Berlino, il
«Time» il 18 agosto 1961 scrisse: «Una malattia aveva colpito tutti gli abitanti del settore est della
città e questa malattia porta il nome di Torschlußpanik». L’origine risale all’Ottocento, quando i
«portoni» (Tore) delle città circondate da mura chiudevano (Schluß, «chiusura») all’imbrunire; una
volta in cui ad Amburgo la bella giornata aveva fatto uscire di casa molti cittadini, la chiusura
provocò tumulti e scene di «panico» (Panik). «Augsburgische Ordinari Postzeitung», n. 105, 2
maggio 1808).
Un sole simile a un gong d’oro irradiava una luce felice nel terso
paesaggio della domenica. La strada era ricoperta da un tappeto di fiori
gialli sparsi dal vento la sera prima. Mancava poco alla nascita della
bambina e Claudia convinse Erika e me a far visita al mercatino del
quartiere, una lunga fila di tavoli con chincaglierie e giocattoli, scarpe usate
e libri sgualciti. I bambini dietro i banchetti erano tutti raggianti, ma
disciplinati nell’obiettivo che si erano dati: vendere piú cose possibili. Forse
si sarebbero scambiati qualcosa, il bambino biondo avrebbe comprato la
retina azzurra dal bambino moro, che avrebbe comprato uno gnomo di
legno dal bambino dai piedi giganti, e il bambino dai piedi giganti avrebbe
comprato a sua volta un ventaglio dalla bambina coi capelli alla maschietta.
Probabilmente era in corso una terribile competizione tra loro, anche se
nessuno degli adulti lo avrebbe ammesso.
Sulla soglia di un portone, notai un bambino solitario con il tavolo piú
ricco. Sembrava spaventosamente triste. La sua bancarella era distante una
cinquantina di metri dalle altre. Il bambino era tozzo, mostrava una
mascella da mastino; accanto a lui, nella penombra dell’androne, c’era la
madre, e anche lei aveva la mascella da mastino. Osservai la scena per
diversi minuti: nessuno si fermava a comprare qualcosa perché nessuno
passava di lí, non un bambino di quelli che percorrevano la ciclabile con
biciclette colorate e caschetto in testa lo degnò di uno sguardo. Fui distolto
da Erika, che mi richiamò con tre fischi brevi, ritmici e acuti. – Non ti
perdere, Francis.
In quelle settimane avevo avuto modo di apprezzare la sua vitalità
magnetica. Era sveglia e intraprendente, una che non si accontentava. Nei
suoi occhi brillava l’espressione di chi non prende sul serio nessuno fino in
fondo. Sin da subito mi aveva trattato come un bambino o, peggio, un
animaletto domestico da tormentare, visto che, avendo perso il lavoro, me
ne stavo a casa in qualità di Hausmann (come chiamano qui gli uomini che
si occupano delle faccende domestiche), mentre Claudia era impegnata
nell’avviamento dell’impresa di catering.
Entrambe sostarono davanti a una bancarella ricolma di vestiti, Claudia
mostrò a Erika una tutina blu con bottoni rossi; un bambino dal viso paffuto
e i suoi genitori le fissavano in attesa. Non potevano sapere che le due
ragazze, in realtà, parlavano di tutt’altro.
– Sei su Tinder? – aveva domandato Erika con tono innocente, ma lo
sguardo di chi sa benissimo d’aver messo a disagio l’interlocutore.
– Cazzeggio e basta, – le rispose Claudia.
– Un posto di maniaci sessuali e sfigati –. Sapeva come mandarla su tutte
le furie (un talento anche questo).
– Chi ti dice che non sono pure io una maniaca e una sfigata?
– Sei una dea, non permetterò a nessuno sfigato di metterti le mani
addosso –. Erika aveva alzato la fronte di scatto, la coda nera dei capelli
ondeggiò schiaffeggiata dal movimento repentino.
– Mi sono vista con un ragazzo giovanissimo, uno sfizio, – ammise
Claudia.
Sul suo profilo Tinder c’era scritto: «No One Night Stand, 1.80.
Multitasking. Riesco a camminare e a respirare insieme». Piú di uno le
aveva risposto: «Che vuol dire camminare e respirare insieme?»
Anche Claudia aveva notato la bancarella davanti al portone, con un dito
si sistemò gli occhiali da sole sul naso, scrollò le spalle e attraversò la strada
per raggiungere il bambino con la mascella da mastino. Lui non si mosse,
anche se la sua espressione ottusa cominciò a distendersi. Claudia sorrise e
chiese qualcosa. Il bambino rispose serio, sull’attenti, e mostrò un pallone
colorato. Claudia sollevò gli occhiali da sole sulla testa, ci fu uno scambio
di cortesie tra lei e la madre, poi comparve tra le lunghe dita nodose una
banconota da venti euro. Il bambino s’illuminò, mentre la madre, nella
penombra, cercava il resto nelle tasche. Claudia fece di no con la testa, non
voleva niente.
Ritornò da noi con la palla rosa e lilla sgonfia su cui era stampato il volto
della principessa di Frozen.
– Gli hai dato venti euro! – la rimproverò Erika.
– Un bambino non venderebbe mai un pallone, e se lo fa merita qualcosa
in piú.
– E perché glielo hai preso? – intervenni.
– Perché è della sorella.
– Vende le cose della sorella? – domandai con una punta di scandalo.
– La sorella non c’è piú.
– Hai comprato il pallone di una morta, – disse stizzita Erika.
– Abbiamo alleggerito di un peso quel bambino.
– Non lo voglio.
– Lo diamo a Francesco e se ne disferà lui –. Mi tese il pallone liscio e
pulito, odorava di gomma. In quel momento pensai fosse l’oggetto piú
prezioso al mondo. Aveva una storia da raccontare.
Quando tornammo a casa Erika venne nella mia stanza e rimase a
guardare le mie mani che stringevano la palla. – L’ha fatto davvero, ti ha
dato il pallone di quel bambino –. Il volto pallido si colorí. – Secondo me,
Claudia si è inventata la storia della bambina morta –. Poi, sottovoce,
concluse: – Conserva quel pallone, Francis!
Da quando eravamo in tre avevamo preso l’abitudine di sussurrare. Si
tessevano complici alleanze tra me e Erika, Erika e Claudia, me e Claudia;
parlavamo avvertendo il nostro respiro, percependo la temperatura che i
corpi trasmettevano; eravamo tanto stretti che potevamo origliare.
Tenni il pallone perché era quello che volevano entrambe, anche se non
lo avrebbero mai ammesso. Il loro rapporto verteva sull’occupazione degli
spazi. Claudia aveva fatto pulizia delle cose superflue: scatoline, pentole,
scarpe. Tutto era stato impacchettato e lasciato nell’androne del condominio
con un cartello: «Geschenk zu mitnehmen». La casa era stata ridisegnata in
funzione di Erika con senso pratico e diplomazia. Claudia aveva lasciato a
lei la sua stanza, e nella mia – ora la nostra – aveva messo un futon. Aveva
anche individuato la clinica dove Erika avrebbe partorito, procurandosi il
contatto di una ginecologa conosciuta al centro anziani.
Lei e Erika cucinavano insieme, si addormentavano abbracciate come un
tempo e talvolta meditavano l’una di fronte all’altra, ascoltando una
melodia che ogni dieci secondi veniva interrotta da un gong, mentre tra loro
cresceva un campo energetico, i mondi interiori migravano da un corpo
all’altro, esalavano risentimenti e rimpianti. Claudia diceva di percepire la
trasformazione del suo dolore in un fardello leggero, mentre Erika ci
confidava di contemplare il proprio respiro fino a sentire la bambina dentro
di sé parlare con voce di adulta.
Tre settimane sembravano tre anni. Con solerzia avevamo preparato il
giaciglio su cui Erika passava le giornate in attesa della nascita della
bambina. Occupava metà divano con le gambe distese e le caviglie su un
pouf, i capelli arruffati, il viso rivolto alla finestra, come se l’olmo fosse una
potente calamita e attirasse l’attenzione dei nostri cuori di metallo.
Prenderci cura di Erika prevedeva una grande intesa tra me e Claudia, tanto
che ormai comunicavamo senza parlarci. Altre volte Claudia si esprimeva
col dialetto, come se il confronto quotidiano con la nuova lingua
richiamasse dal profondo alcune espressioni dei nostri nonni. Mi dava dello
sciulisciato (disordinato), e a Erika della scecuscitata (indolente e
spensierata), anche se a me quella parola ricorda il termine scucito, e tutti e
tre eravamo un po’ scuciti come se il filo che ci legava non tenesse per
davvero la stoffa di cui eravamo fatti.
Con Erika vivevo alti e bassi, eravamo troppo nevrotici, e due nevrotici
insieme sono come due ioni con carica uguale: si respingono. Erika si stava
tirando fuori da una brutta storia. Mario, il padre della bambina, veniva
raccontato come un mediocre felicemente fiero della propria mediocrità,
uno che davanti alla Gioconda diceva: «A me ’sta Gioconda sembra una
stronza, ed è pure cessa», aspettandosi l’applauso liberatorio degli altri.
Erika lo aveva incontrato in una crociera coi genitori dopo il ritorno da
Berlino. Lui lavorava sulla nave, indossava una divisa bianca che lo faceva
sembrare piú alto, e per via del colore bruciato della pelle sembrava piú
grande, ma avevano la stessa età. Fecero sesso dopo un’ora che si erano
conosciuti, lui fu feroce, sbrigativo. Erika lo bollò come un testa vuota, e lei
in quel momento aveva bisogno di stare senza pensieri. Non si rendeva
conto della fortuna di vivere sempre sul mare, era quello che a Erika
piaceva di lui. Il vuoto e il mare. Stettero insieme un anno. Lui la tradiva
tantissimo e lei lo sapeva, ma non le importava, non era innamorata, sentiva
che presto avrebbe cercato un po’ di pieno dopo il vuoto. E invece,
nonostante le precauzioni, rimase incinta. Lui fece la scelta peggiore di
tutte: non prese alcuna decisione. Passarono i mesi. Chissà perché mentre
ascoltavo la sua storia mi sembrava tutto maledettamente noto, come se in
quell’uomo ci fosse una specie di campione dei maschi con cui ero
cresciuto e una piccolissima parte, indefinita, anche di me. Erika ci raccontò
scandalizzata che quando lei aveva voglia di fare l’amore lui diceva: «Lí c’è
mio figlio, non possiamo», che poi era una figlia, anche se lui diceva
sempre «mio figlio». Erika aveva scritto un messaggio a Claudia: «Torno da
te, faccio nascere la mia bambina accanto all’unica persona che mi ha
capita». Ma non l’aveva spedito, si era limitata a salvarlo nella cartella
bozze della mail, un pozzo di gesti mancati, insulti e pentimenti,
dichiarazioni folli e richieste di compassione. Erika era tutta nelle sue
omissioni. E nell’unica azione possibile che l’aveva portata nella nostra
casa.

Erika era orgogliosamente autonoma, una volta mi aveva anche


processato perché sosteneva che le guardavo troppo la pancia, e in una
circostanza l’avevo accarezzata dandole l’impressione che fosse una parte
distinta dal suo corpo. – Non è un cane, è la mia pancia!
L’aiutai ad alzarsi dal divano e insieme raggiungemmo il letto. Le chiesi
se fosse tutto a posto e lei mi rassicurò: – Sono soltanto molto stanca,
abbiamo camminato troppo.
Si distese sul bordo del letto, in posizione fetale; nel buio sentivo la
presenza di Claudia ma non riuscivo a percepire dove fosse. Finché il
materasso non emise un tonfo, ora in quel letto c’era anche lei.
– Stanotte resto qui con te, – le disse bisbigliando.
Tornai al mio film. Sentii tossire e non provai neanche a chiedermi chi
fosse delle due, ebbi però un pensiero scandaloso e lo misi in pratica. Tornai
nella stanza dove Claudia e Erika riposavano combacianti come due
cucchiaini da dessert, l’una dentro l’altra, i respiri regolari. Quello di
Claudia era appena percettibile, quello di Erika piú rotondo. Allungai la
mano sul letto, era caldo, entrambe sopra le coperte, come se aspettassero il
sonno per spogliarsi e infilarsi tra le lenzuola. Mi distesi a ridosso di
Claudia come il terzo cucchiaino, tra il mio ventre e la sua schiena c’era
l’ingombro del pallone che aveva comprato dal bambino, la gomma pulita e
liscia ci teneva divisi e al contempo indissolubilmente uniti. Avvertii il suo
polso caldo accarezzarmi il viso. Mancava Andria e lo evocai con tutte le
mie forze, tra i capelli di Claudia. Ci sono alcuni momenti della vita che
assomigliano a quelle conchiglie da paguro dove da bambini ci dicevano
che si sentisse il mare. Durò almeno un’ora il ronzio del mare nella mia
testa, poi la lucina fioca del comò s’accese come un battito di falena, Erika
si eresse spettrale nel buio, il viso deturpato da una smorfia di paura. Strinsi
di riflesso il pallone sul grembo. La testa di Claudia si sollevò e sussurrò
con la bocca leggermente impastata una frase che arrivò come un
punteruolo di ghiaccio nel petto: – Si sono rotte? – La parola mancante a
me, infantile frequentatore di Sacre Scritture, ricordava il Mar Rosso di
Mosè.
Claudia s’infilò nel giubbotto, chiamò un taxi, scortò Erika per tre piani
sorreggendola per l’avambraccio. Attraversarono un lungo giardino, il cielo
nero illuminato a giorno per i lampi di un temporale. Le prime gocce di
pioggia furono pesanti e fredde. Seguivo Claudia e Erika trascinando una
valigia che mi era stata messa in mano, poco dopo guardavo la città
ingrigita dall’acqua attraverso il parabrezza, il tassista turco parlava da solo
nella sua lingua, le pozzanghere esplodevano sotto gli pneumatici.
Erika e Claudia sparirono nelle luci azzurre di un ascensore. Sostai
nell’atrio a togliermi l’umido dai capelli, attorno c’erano donne col velo e
uomini col turbante, in una rigida distinzione tra generi e nazionalità. Non
restava che aspettare. Attesi un tempo vuoto e indefinito finché le lame
d’argento dell’ascensore mi restituirono Claudia col volto in tensione.
Aveva pianto. Ai bordi degli occhi brillavano minuscoli residui bianchi,
come dopo che il mare si è asciugato sulla pelle. Le accarezzai i capelli.
– Torniamo a casa, ha smesso di piovere, – disse Claudia, mentre tirava
su la cerniera del giubbotto con un gesto brusco.
– Ma Erika? – domandai.
– Non mi vuole con lei. Mi ha detto che vuole essere sola o con Mario.
– Ma lui non c’è.
– Appunto, ha preferito nessuno a me.
– Non possiamo andare via, – protestai, opponendole un sospiro
sconsolato.
– Certo, non possiamo, ma io mi sono caricata i suoi mali, le ho impedito
di crollare, ho cercato di trasmetterle amore, l’unica forza che ho. Sono
stata leale –. Gli occhi luccicavano, il sale ai bordi non c’era piú, altre
lacrime lo avevano sciolto. Infilò un berretto di un tessuto lucido, un
riflesso azzurrognolo brillò sulla testa. Percepii la rottura, quel momento in
cui non siamo piú noi, ma frammenti.
– Conta su di me –. Fu l’unica cosa che riuscii a dire, una frase fatta che
usavo alla chiusura delle transazioni al tempo della mia vita di agente
immobiliare.
– Ho sempre contato su di te –. Le labbra si posarono sulle mie in modo
candido, poi si staccò per assicurarsi che avessi capito: quello era il sigillo
di un amore speciale e casto.
– Andiamo?
– Andiamo, – ripetei.
Poi dopo essersi incamminata verso l’uscita s’arrestò improvvisamente:
– Stiamo facendo una cazzata? – Aveva cambiato espressione, quasi che la
tensione fosse stata spazzata via dal vento.
– Secondo me, sí.
Fece una risatina. – Sono nervosa come se dovessi farla io questa
bambina.

Un pallido raggio di luce illuminò la sala d’attesa. Mi ero addormentato


su una panca, voci sconosciute o irriconoscibili confabulavano; poi quella
chiara di Claudia.
– Pesa quasi tre chili, Elfo sta bene.
Aspettammo gli sgoccioli dell’Avvento per la nostra prima uscita
familiare. Le prime settimane con Elfo erano state frenetiche, e senza
sonno. Vestita di bianco, tutta merletti e ricami – la dote di una donna
polacca nascosta in un baule comprato da Claudia in un mercato delle pulci
–, sembrava uscita da foto sgranate dentro quadretti di legno, dagherrotipi
di villaggi rurali; niente a che vedere con le fasce colorate con cui Claudia
se la legava al petto.
La chiamavamo Elfo, ma ci sforzavamo di non farlo. A quarant’anni
l’abitudine prende il sopravvento sui buoni propositi, commettevamo errori
che ci ripromettevamo di non ripetere. Contavamo sul fatto che la sua
infanzia sarebbe stata migliore della nostra, nessuno le avrebbe impedito di
leggere Pippi Calzelunghe. Sul certificato di nascita risultava il nome «Elisa
Fortuna»: lo aveva proposto Claudia, Erika aveva accettato. I miei avi
sarebbero stati fieri di una scelta cosí conservativa dalla persona meno
conservatrice che avessi conosciuto, eppure mi trasmetteva disagio come se
un oscuro mistero sul rapporto tra mia madre e Claudia incombesse senza
che vi potessi fare luce.
La bambina cresceva bene e non mostrava segni di pigrizia, come i
pediatri avevano sospettato nei primissimi tempi quando s’attaccava al seno
di Erika e non succhiava. La pigrizia alla poppata era svanita quando il
padre naturale aveva rinunciato alla patria potestà. Nessuno di noi pensò a
un caso.
Giudicavamo Mario come gretto, machista, ci riferivamo a lui col
soprannome datogli da Erika: il vuoto e il mare. Ma quando lui non
riconobbe la bambina, in quel gesto non scorsi sintomi di vigliaccheria,
bensí un barlume di oculatezza. A Erika restò invece una ferita aperta, un
risentimento.
– Si rifarà vivo quando sarà cresciuta, – la rassicurava Claudia.
– Sí, ma solo per controllare se è diventato un maschio, – replicava Erika
con sarcasmo.

– Hai mangiato Elfo monello? – chiese Claudia con voce languida.


– Non può risponderti, al momento non c’è nessuna differenza tra un
cane e mia figlia! – disse Erika, ma Claudia, poggiando le ginocchia a terra,
i palmi delle due mani aperti, iniziò a latrare con la lingua fuori, fingendo di
scodinzolare, il respiro affannoso di un cane eccitato.
– Finalmente una femmina ti ha messo a quattro zampe, – la prese in
giro Erika. La bambina aveva addolcito la sua ironia tagliente, l’aveva resa
meno urticante, non era piú una coperta da tirare su per non mostrarsi
spaventata. Quella figlia capitata per caso stava plasmando la sua nuova
identità, e solo Claudia era in grado di coglierla fino in fondo.
Luci di Natale, un allegro inventario di cianfrusaglie e leccornie, tazze di
coccio, torroni, cappucci di lana, il Glühwein caldo nei bicchieri di cartone,
l’aringa affumicata, le noci caramellate. Io spingevo la carrozzina con una
lieve sensazione di panico che nascondevo in festosi sorrisi. Nel buio
trapuntato di luci natalizie, controllavo il telefono con il desiderio ossessivo
di trovare un messaggio di Andria. Ormai la sua sparizione aveva il sapore
amaro d’un tradimento e insieme della conferma di un pregiudizio: in
amore vince chi fugge. Ma cosa si vince, e soprattutto: che miseria vive chi
crede che gli amori siano duelli a cui sottrarsi?
Claudia non sopportava quando diventavo cosí melanconico, puntò
l’indice al cielo come a dire: «Ascolta». – Questa è una chiesa, – disse. – Ti
va una messa insieme?
– Mi sento arrugginito, – le risposi.
– Come prete mancato o come fedele?
– Sono un’anima perduta.
Claudia rise. Erika ci lasciò soli sparendo nella nebbia con la bambina.
Ci ritrovammo stretti, vicini come un bottone e un alamaro nel banco di
abete, tra le note di un organo e la voce flautata di un sacerdote
sudamericano. La chiesa odorava di un incenso resinoso meno aspro di
quelli a cui ero abituato, le navate avevano archi slanciati; l’ostensorio
luccicante mi ipnotizzava; calcavo ogni parola tedesca con le strofe italiane
che conoscevo a memoria. Il Credo, il Mistero della fede, il salmo
responsoriale, il Padre Nostro e «scambiatevi un segno di pace», avevano
suoni diversi, ma il ritmo era quello. E cos’era la celebrazione se non il
ripetersi preciso, inalterabile di un ritmo? Un ritmo che ci metteva assieme,
me e Claudia: due corpi, due lingue, due cervelli, due cuori, un solo dio
misericordioso a cui mi appellavo: «Tienila sempre vicino a me…»
Ci stringemmo la mano al segno della pace con l’energia di un addio.
Sentii la sua pelle fredda e asciutta. Alla comunione, i banchi si svuotarono,
le persone sciamarono in tre file ordinatissime ai cui capi svettavano in
bianco i ministri dell’Eucarestia.
Partecipare a una messa fu cercare il cuore della nostra infanzia, perché
la religione che si impara da bambini influenza la spiritualità di tutta la vita.
Lasciammo vibrare le nostre corde nascoste alla melodia dei canti e delle
preghiere in tedesco.
– Lo sai che abbiamo l’età dei nostri genitori quando ci siamo
conosciuti? – disse a messa finita.
Mentre uscivamo dalla chiesa e cominciavano a cadere i primi fiocchi di
neve, ebbi un’intuizione, quello che aveva detto combaciava con i pensieri
confusi che non riuscivo a mettere in ordine. Forse quando due persone
meditano o pregano insieme si prestano i propri spiriti a vicenda.
– Un’età è un’età, – mi alzai il bavero mentre respiravo ghiaccio.
– La migliore per cambiare tutto, – rispose.
Pochi giorni dopo la nascita di Elfo, davanti a un funzionario del
municipio era stato siglato un documento con la firma di Claudia: in caso di
morte di Erika lei sarebbe stata la persona garante fino alla maggiore età
della bambina. Un foglio in carta intestata che aveva il peso di un cartiglio
matrimoniale, con l’esito che Elfo sarebbe stata per Claudia come una
figlia. E su di lei Claudia si poneva già interrogativi da educatrice prudente,
sulla scorta dell’esperienza ricavata dagli errori passati. I suoi compagni di
scuola italiani avrebbero accettato che potesse chiamarsi Elfo, una bambina
con un nome che finiva per «o»? Dietro quel nome c’era la speranza che la
bambina crescesse a Berlino, dove le nostre aspettative aderivano ai fatti.

Claudia finalmente aveva firmato le prime forniture della sua impresa.


Cucinava personalmente alcune delle quiche vegane che venivano
distribuite proprio alla sua ex casa di riposo, e io l’aiutavo, rappresentando
però un’eccezione al suo rigore burocratico, visto che non risultavo neanche
iscritto nell’albo degli italiani all’estero e non avevo l’Anmeldung, la
registrazione obbligatoria per gli stranieri che lavorano in Germania.
Elfo quella mattina piangeva, Claudia e Erika le provarono tutte, persino
la scenetta del cane, visto il successo dell’ultima volta. Claudia in ginocchio
guaiva e latrava per placare le lacrime della bambina. «Odio i cani e i
bambini», diceva secoli prima agli appuntamenti con quei ragazzi che
sognavano di fare famiglia con lei; chi avrebbe potuto cogliere quanta
ironia c’era nella sua messinscena?
Erika le passò Elfo, gettando la spugna: – Sono tanto stanca, questo
mostriciattolo mi ha succhiato tutte le forze –. La chiamava cosí, oppure
sgorbio, alieno, ingombro, E. T., ma piú le parole risultavano sminuenti, piú
si percepiva il muro protettivo che Erika costruiva attorno alla bambina
contro l’incombere dell’ansia. In quello sforzo rintracciavo una forma di
amore verso Claudia che era cresciuta nel brodo maledetto di una madre
ansiosa. Era innegabile che Claudia e Erika avessero un’intesa eccezionale,
rafforzata dalla tirannia della bambina: tutto questo non era previsto quando
ero partito per Berlino. Il mio fugace idillio con la città e Claudia si era
trasformato in una specie di comune piena di mansioni.
Claudia prese in braccio la piccola piegando appena le ginocchia, poi si
accucciò sul mio letto cantando Ninnananna dei Modena City Ramblers a
voce bassissima. Mancavano i violini e la fisarmonica ma la melodia era
carezzevole. La voce s’affievoliva man mano che il respiro della bambina
s’ingrossava per il sonno. Poco dopo, lei e Claudia dormivano nello stesso
letto.
Erika e io restammo soli, l’una davanti all’altro, con gli sguardi sui nostri
telefoni posati sul bordo del tavolo, entrambi scrollavamo le notifiche,
appena inibiti dall’imbarazzo di non parlarci. Fummo interrotti dallo
scampanellio alla porta. Ci guardammo con sospetto. Erika avvolse il collo
dentro una sciarpa di lana talmente grande che a malapena si vedeva la
parte superiore del viso e raggiunse l’ingresso, chiedendo chi fosse: una
voce attutita dalla porta rimandò qualcosa che parve soddisfarla. Aprí senza
ulteriori domande, apparve un ragazzo con un giubbotto di jeans, riccioli
neri, baffi folti, l’espressione gentile di chi si è preparato una parte e sta per
recitarla: tra le braccia, serrata contro il petto, aveva una scatola di cartone.
– Mi chiamo Shorsh e sono un amico di Andria, ho un pacco da parte
sua.
Ci disse in inglese che andava di fretta, tese il pacco verso di me e se ne
andò.
Non era cosí pesante come la grandezza poteva far pensare. Lo agitai
con grazia, come se si trattasse di Andria stesso rimpicciolito in una sfera di
vetro; un tramestio di piccoli tonfi annunciava un cartone privo di oggetti
fragili.
– Prima di aprirlo vorrei svegliare Claudia, – dissi.
– Aprilo, dài.
Claudia apparve con la faccia ancora stropicciata da quel brevissimo
sonno e chiese: – Cos’è questo?
– È arrivato dal vostro amico, – spiegò Erika. Senza farsi vedere mi
mostrò la lingua fra l’indice e il medio.
– Chi? – Claudia parve stordita.
– Andria, – dissi.
Claudia si piegò e lo spinse con le mani verso il centro del soggiorno. –
Poca roba, – commentò. – Lo apro io. Se è una bomba salvate le penne e io
invece finisco flambée.
– Piantatela, altrimenti lo apro io, – disse Erika.
Cincischiavo, ma Claudia maneggiava già le forbici, mi spostò con una
spinta lieve e tagliò il nastro adesivo. Alla curiosità si mischiava
l’eccitazione e all’eccitazione si aggiungeva tensione. Nella carta da
imballaggio brillò subito la plastica azzurra di una macchina fotografica:
una Polaroid che Claudia aveva regalato a Andria. C’era anche una foto in
una bustina trasparente: un autoscatto di Andria con le labbra protese in un
bacio, sulla fascia bianca in basso c’era scritto: «Ich liebe euch». La scatola
conteneva un phon, due magliette, un’edizione di Pippi Calzelunghe in
georgiano, un portafotografie con la foto di me e Andria sul ponte di
Warschauer, le occhiaie nere e i visi pallidi, post clubbing, quando l’unica
salvezza era il caffè nero del turco Hakan.
– Non me lo ricordavo cosí bono, – commentò Erika.
– Aveva anche un super cazzo, – disse Claudia.
– Ah la mia buona intenditrice.
– Non solo quello, – puntualizzai indispettito.
– Ma un grande cazzo è sempre un buon inizio, – ribatté Claudia.
– Quasi come due grandi tette, – concluse Erika slacciandosi la camicia e
mostrando i larghi seni bianchi e il sigillo porpora dei capezzoli.
– Le mie sono meglio perché sono senza lattosio, – fece Claudia
raggiungendola nella nudità.
Certi spettacoli in casa erano all’ordine del giorno, e col tempo capii che
avevano il fine di stanarmi.
Claudia frugò ancora un po’ nella plastica dell’imballaggio fino a
imbattersi in uno straccio marrone tenuto da tre elastici blu. La fronte
s’aggrottò. Soppesò il misterioso involucro. Ebbi una strana sensazione,
come se nello straccio ci fosse la risposta alla sparizione di Andria. Pregai
subito Claudia di fare piano, come se dilatare i tempi fosse necessario per
prepararci alla verità. Con poche parole, Andria si congedava da noi
annunciando la sua seconda o terza vita. Ci aveva scritto come se fossimo
un’unica persona, Claudia e Francesco: nella sua calligrafia, sembravamo
fatti per essere scritti assieme. Nello straccio c’erano il telefonino e il visto
scaduto. Andria era stato un clandestino per molto piú tempo di quanto
avessimo creduto. Ripensai a quando Claudia aveva detto che avrei dovuto
sposarlo: allora avevo creduto che scherzasse, ma se ci fossimo presi tutti e
due piú sul serio – mi dissi ora – forse Andria non sarebbe stato costretto a
partire.
Passarono due mesi e le giornate cominciarono a essere meno fredde, la
scatola del tempo era rimasta lí dove l’avevamo scartata, non osavamo
quasi avvicinarci. Claudia chiuse le prime due fatture importanti, la sua
piccola azienda era avviata. Basò il menu sull’olio extravergine pugliese,
proprio ora che gli ulivi della mia terra morivano avvelenati da un parassita.
Da lei imparavo che il caos vince sempre, ma dargli una forma il piú a
lungo possibile produce quel che a quasi quarant’anni guardiamo con
orgoglio: un figlio o un albero piantato, un libro, un viaggio, una fotografia,
una degna sepoltura a chi hai amato. Eppure quella scatola con le cose di
Andria restava lí davanti alla porta. Erano i nostri atti mancati, da quelli che
ritenevamo piú importanti (non aver sposato Andria) ai piú superflui (non
aver imparato neanche una parola di georgiano). In fondo ci eravamo
rapportati a lui dando per scontato che fosse di passaggio, che sarebbe
tornato dove era nato, come forse, sotto sotto, noi stessi desideravamo.
Uscimmo dall’impasse quando Claudia scese con una paletta per seppellire
la scatola nell’orto condominiale, sopra ci avrebbe piantato una gardenia.
Piegata in due con il cappuccio sulla testa e la sciarpa sulla faccia,
soffocava il pianto. Piangemmo perché non avevamo avuto neanche la
consolazione del congedo.
– Ho la sensazione di conoscerti meno ora che vivo accanto a te rispetto
a quando eravamo lontani, – le confessai.
Le sue labbra si contrassero in una smorfia, aveva un po’ di terriccio
sulla sciarpa e il naso.
– Ho molti meno segreti di quanto pensi.
– Sarà per Elfo, ma sto diventando tirannico e infantile pure io.
– E dunque vuoi sapere tutto.
– Sí.
Gli occhi severi assomigliavano a monetine inverdite dal mare.
– Francesco, sai che per una maledizione di Afrodite, Psiche poteva
amare Eros soltanto al buio?
In quei mesi pieni di Erika e sua figlia avevo sentito la mancanza delle
sue lezioncine, caratterizzavano la nostra intimità.
– Non so nulla, imparo sempre troppo tardi.
– Nonostante i cattivi auspici e nonostante lei non vedesse Eros, si
amarono profondamente e gioiosamente rimanendo nell’oscurità –. La pelle
di Claudia s’era illividita per il freddo, dalle labbra rosa fuoriuscivano
nuvole di condensa. Continuò a parlare.
– Le sorelle invidiose del suo amore dissero a Psiche di accendere un
lume per scoprire chi fosse il suo amante misterioso. Psiche dopo lunghe
pressioni cedette e quando scoprí che il suo amante era niente di meno che
il dio dell’amore in persona, cominciarono i guai per tutti.
– C’è una morale?
– Le morali lasciamole ai cattivi maestri.
– Mi stai dicendo che hai tenuto nascosto qualcosa per il mio bene?
– Sto solo dicendo che accetto il buio di chi amo perché è parte di lui.
Poi si piegò di nuovo sulla piantina accarezzando il terriccio che copriva
le radici. Le mani di Claudia erano cambiate con lei negli anni, piú lunghe e
nodose che mai. Gliele presi, le sentii ruvide.
– C’è qualcosa dentro quella scatola che hai sepolto che avrei dovuto
vedere? – le chiesi stringendo le mani al mio petto.
Non rispose. E fu come se lo avesse fatto.
Guardai il muro che divideva il comprensorio dalla strada su cui
crescevano erbe che nessuno aveva piantato: la borragine, che i condomini
sopportavano, e poi i primi germogli viola dell’issopo, che qualche
bambino aveva strappato e con cui alcune signore turche preparavano
decotti contro il mal di pancia. Amavo i fiori e le piante di questa città,
erano una verità a cui aggrapparmi. L’ordine nuovo della mia vita aveva i
confini rassicuranti di un continente che si sentiva vecchio, ma dove un
buon numero di persone non aveva paura della libertà degli altri. Claudia
apparteneva alla prima cerchia degli europei integrati con le carte in regola,
la registrazione nel municipio di quartiere, l’iscrizione nel registro degli
italiani all’estero, le assicurazioni sanitarie. Io ero come l’issopo e la
borragine, cresciuto da semi casuali: documenti provvisori, nessuna
registrazione, lavori in nero; ero un’erbaccia selvatica, ferrigna e cocciuta,
ma estirpabile senza proteste da un momento all’altro. Eravamo decine di
migliaia cosí, anelavamo alla casualità dell’umido e della pioggia, con la
gioia di chi si trova nell’unica patria possibile, quella in cui non
rispondiamo a nessuno di ciò che siamo.
La scatola sepolta, neanche fosse un seme nel solco dell’aratro, produsse
i suoi frutti. Claudia una sera annunciò che era arrivata una mail. Andria
scriveva che «tutto sommato» stava bene, che era andato nel suo Kakheti a
vendemmiare e che di notte aveva visto un cielo stellato che era la cosa piú
«santa» e «grandiosa» che avesse mai ammirato. Quei due aggettivi ci
parvero una fotografia della cupola nera orlata di luci della nostra infanzia.
La notte stessa sfidammo una nostra atavica paura; muniti di un telo da
mare e delle torce dei nostri telefonini, raggiungemmo il lago, senza dirci il
perché ma conoscendolo alla perfezione. Brancolammo sul sentiero di
pietrisco che da Indira-Gandhi-Straße portava allo specchio d’acqua. Era
piú nero del nero circostante. Senza poter vedere oltre un metro davanti a
noi, attraversammo i gradini d’ardesia e scavalcammo la ringhiera di legno,
con i tigli che frusciavano e l’esile sciabordio dell’acqua. Nel buio pesto il
lago era invisibile, potevamo soltanto ascoltare mettendoci le mani accanto
alle orecchie. Stendemmo il telo sulla sabbia umida e alzammo il mento al
cielo. Vedevamo la stessa volta di stelle che aveva emozionato Andria
quando ci aveva scritto.
– Da bambina avevo le vertigini quando guardavo le stelle sul tetto. Mi
sembravano cosí lontane, ora invece Andria me lo sento qui –. Il giubbotto
stropicciato frusciò, si era colpita con la mano sul petto o sulla pancia, per
dare piú peso a quanto detto.
– Anche io, – fu l’unica cosa che riuscii a dirle, il freddo mi tagliava il
fiato e le frasi.
Sentivo il lago bisbigliare e la mia memoria affilata come un coltello. La
nostra scatola del tempo era sotto una gardenia e se tra vent’anni qualcuno
l’avesse ritrovata avrebbe saputo poco di Andria e molto di noi. Nella
migliore delle ipotesi saremmo stati due amici tornati a bagnare le caviglie
nel mar Adriatico, senza piú un ricordo dei lunghi inverni del Nord. In un
passo del Vangelo di Luca un uomo chiede di poter seppellire suo padre
prima di seguire Gesú, ma Gesú gli risponde: «Lascia che i morti
seppelliscano i loro morti». Se la legge dei confini ci aveva divisi da
Andria, la legge della nostra speranza ci faceva credere che prima o dopo ci
saremmo rincontrati in un mondo nuovo.
Avevo promesso a Claudia di scuotermi, di non lasciarmi andare. Cosí
cominciai a tenere in ordine la casa. La cucina era un regno di
compartimenti stagni: saliere, pepiere, barattoli portaspezie, zuccheriere,
thermos, contenitori di latta, legno e vetro messi in riga secondo un criterio
che soddisfaceva l’occhio piú della praticità. Ero nemico della praticità, una
qualità che attribuivo ai maschi peggiori con cui ero cresciuto. Solo un
quadrato di tutta la casa era risparmiato dalla mia furia ordinatrice: il
territorio dei giochi della bambina, una zona franca tra il lavabo e il
frigorifero, alla quale mi avvicinavo soltanto per riportare dentro un pezzo
fuoriuscito fino al mondo degli adulti.
Nell’aspetto cominciavo a somigliare a uno di quei vecchi pazzi che
girano nella U-Bahn con un cartone di vino in mano mentre parlano da soli:
la chierica in testa, la barba con tanti peli bianchi. Era il mio modo di essere
solidale con Claudia, visto che lei aveva smesso di tingersi i capelli, e ormai
apparivano schiariti, come se il rosso si fosse inargentato per la poca luce.
Non avevo nessuna idea di chi avrei incontrato in aeroporto quella
domenica di primavera. («Ho bisogno che tu vada a prendere questi
ospiti»). Ci andai per rispettare il patto della nostra convivenza che
prevedeva di portare a termine dei compiti senza fare troppe domande.
Allo scalo di Tegel (il volo da Milano per cui mi trovavo lí era in ritardo)
ciondolai a lungo masticando barrette energetiche e succhiando sciroppo
proteico da una bottiglia di vetro e plastica, accarezzando i pallini di un
rosario che avevo al polso e che in quel periodo usavo per pregare le mie
decine. Un Padre Nostro, dieci Ave Maria, un Gloria al Padre e, quando
riuscivo a ricordarlo, il Salve Regina. Gli ospiti misteriosi che mi era stato
chiesto di accogliere arrivavano per il party che Claudia aveva organizzato
quel pomeriggio: l’inaugurazione della nuova società di catering.
Il party era previsto in uno di quegli agglomerati che chiamano
«Kolonien» – casette in legno simili alle costruzioni di cioccolata destinate
ai bambini – nei quartieri periferici della vecchia Berlino Ovest, dove un
tempo i berlinesi passavano le loro brevissime villeggiature nelle mezze
stagioni senza dover lasciare la città, a volte neanche il quartiere nel quale
vivevano.
Finalmente vidi la porta automatica aprirsi, il flusso di passeggeri si
riversò nella sala, un manipolo di famiglie mediorientali vociava
polemicamente e i loro parenti si sbracciavano per richiamare l’attenzione.
Ne invidiavo la vitalità e la felicità di riunirsi. Subito dietro scorsi due
signore con grandi occhiali da sole sul viso che trascinavano i loro trolley.
Avvolte da trench simili ma dai colori diversi – pastello azzurro la piú bassa
e rosso damasco la piú alta –, a proprio agio con un’identica pettinatura
bouffante verde Shamrock. Venivano verso di me sorridendomi e la piú alta,
con il trench rosso, sollevando gli occhiali da sole sulla fronte, disse: –
Figlio mio, non ti resterà un capello!
Pietrificato dalla sorpresa balbettai frasi di circostanza, la mente
s’annebbiò, la mano di mia madre afferrò il mio polso. – Respira –. Poi
quando vide che avevo trasformato la smorfia di sorpresa in un sorriso mi
disse: – Te la ricordi Tonia? – mostrandomi la sua vecchia amica, che già
rideva di me.

A ridosso della colonia in cui si svolgeva il nostro party c’erano enormi


fabbriche di prodotti chimici abbandonate, il vecchio aeroporto di
Tempelhof trasformato in un enorme campo d’erba su cui volavano
mongolfiere e aquiloni. Piccoli accampamenti con i grill delle famiglie che
brindavano mentre le urla dei bambini salivano al cielo. La nostra colonia
era in un labirinto di muri ciechi, siepi altissime di bosso, tetti spioventi di
case basse – simili ai dolci di marzapane delle nostre pasquette – dietro un
groviglio di piccole gru, argani, pompe d’acqua e coroncine di fiori.
In un pezzo di prato una ventina di ragazzi ballavano con parrucche e
berretti verdi in testa, inneggiavano a Claudia, stretta in una maglia aderente
color pisello, in testa una parrucca verde lime. Al nostro arrivo la
festeggiata si divincolò dagli ospiti e, ancheggiando, ci venne incontro con
un bicchiere colmo di Aperol. Lei e mia madre si salutarono come se ci
fosse una consuetudine tra loro. Rivissi il mio mattino di un tempo lontano
quando al risveglio le avevo trovate affacendate in cucina, dopo che
avevano parlato di Enrico tutta la notte. Allora le avevo invidiate, amate,
odiate, le avrei morse e poi baciate con la rabbia dei traditi, chiedendo di
essere ammesso, di poter ascoltare senza aprire bocca.
La musica crebbe, ascoltammo le voci di un canto balcanico, poi
Celentano, Cutugno, il dj si divertiva a mischiare la musica elettronica e i
cantanti italiani che in Germania conoscono tutti. Due donne si tolsero le
scarpe e iniziarono a piroettare sull’erba. Claudia prese un microfono,
salutò in italiano e in tedesco, disse d’essere felice di quella giornata passata
insieme e che la nuova società che aveva fondato era solo una scusa per fare
casino. Un uomo molto giovane le si avvicinò per dirle qualcosa
all’orecchio, Claudia sorrise poi, salutando i vecchi colleghi dell’ospizio,
evocò il ricordo dei suoi anziani pazienti, disse che le avevano insegnato un
sacco di storielle sugli italiani. Ne raccontò una mentre mi guardava, era
come se si stesse rivolgendo soltanto a me: – Sapete perché Gesú è italiano?
Lavora nell’impresa del padre, ritiene sua madre vergine e sua madre lo
crede dio! – Tutti risero, tranne Tonia e mia madre, che non avevano capito
la storiella raccontata in tedesco.
La musica ricominciò, Claudia s’allacciò a Erika dandole un bacio sulla
bocca, la gente batteva le mani brandendo bicchieri di rosso nell’aria rosa
del pomeriggio. C’era una parte di me che moriva dalla voglia di far vedere
a mia madre cosa sarebbe potuto accadere se invece che su un prato per
famiglie fossimo stati nei bagni del Berghain o sul soppalco del Kitty; ma
un’altra parte di me era terrorizzata all’idea di mostrarle in cosa potevo
ridurmi in quelle circostanze. A un tratto però lasciai sfogare il malumore,
represso. – Sei venuta per Claudia e non per me, – le dissi.
Era come se si aspettasse la mia recriminazione, scosse il capo e
guardando verso il giovane dj rispose: – Non mi hai mai invitato, sarei
corsa.
– Sei mia madre, non hai bisogno di inviti, – incalzai.
– Madre, figlio… adesso io sono Elisa e basta, tu Francesco e basta.
Come Elisa sono venuta qui a trovare la mia amica Claudia –. Bevve in due
sorsi metà del bicchiere. – Mi ha invitato lei, anzi ci ha invitato, – aggiunse.
Tonia, dall’altra parte del prato, ci rimandava un sorriso leale.
Mia madre poggiò di nuovo le labbra sull’orlo del bicchiere, si sedette e
passandomi una mano lungo la gamba mi invitò a fare altrettanto. – Devo
confessarti una cosa, – disse schiarendosi la voce e avvicinandosi al mio
orecchio, come non volesse farsi sentire da nessuno. – Vent’anni fa Enrico
mi aveva regalato una masseria.
– Una masseria?
– Lo so a cosa stai pensando –. Sapeva perfettamente che avevo già
trasformato quella notizia in un annuncio immobiliare mancato.
– In che zona è? Quanti lavori ci sono da fare? – le domandai.
– L’ho venduta.
– L’hai venduta? Chi te l’ha venduta?
– Lascia stare, è andata bene.
Mi sentii violato, ero stato bravissimo a vendere masserie, mi avevano
anche minacciato di morte ai tempi di Dente, era un fatto ed esigevo venisse
riconosciuto anche da mia madre.
– Con quei soldi ci faremo un po’ di viaggi, – precisò gelida.
Le guardai il cenno di peluria lungo le tempie, un solco che spariva nel
cespuglio verde dei capelli.
– Era importante per te? – le chiesi.
– Ora lo è di piú perché mi ha permesso di aiutare Claudia, prima era
solo l’obitorio dei miei ricordi.
Ripensai alla notte in cui avevo incontrato alla stazione lei e Enrico, alle
sue gambe, i capelli esplosi, le caviglie nude, le scarpe tenute con le dita.
Poi bevve l’ultimo sorso del bicchiere, mi guardò negli occhi, indicò uno
dei tipi che ballava con Claudia con un’espressione che non andava
interpretata.
– Ha vent’anni, – le dissi.
– Non posso guardarlo?
Erika ci interruppe. – Claudia mi ha parlato molto di lei, siamo entrambe
pazze!
Parve un complimento sincero, che mia madre accettò con un sorriso. –
Quando l’aria rinfresca pensavamo di salire sulla mongolfiera.
– Scordatevelo, – dissi.
– Infatti tu terrai la bambina, – disse Erika.
– Ha una bellezza selvatica, – commentò mia madre quando Erika
s’allontanò.
– È una selvaggia e basta.
Il prato tremava per la musica, osservai il volto concentrato del dj e le
schiene di tutti.
– Com’era Andria? – chiese a bruciapelo mia madre mentre guardavo le
schermaglie amorose di Erika e Claudia.
– Cosa sai?
– Non so nulla, so solo il nome. Claudia mi ha detto che avevi una storia
con una persona e questa persona si chiama Andria. Non ho mai chiesto
altro e lei non ha mai aggiunto altro.
– Sai che è un uomo?
– Non lo sapevo –. Mia madre per la prima volta in quel pomeriggio fu
meno sicura di sé. – Ma me l’aspettavo.
– Era qui clandestino, ora è di nuovo in Georgia, – mi limitai a dire,
scrollando le spalle.
– Non tornerà.
Le osservai le mani ricoperte di lentiggini e rughe, il tempo passato,
quando quelle mani mi sollevavano da una culla.
– Lo sento ancora addosso, come se non fosse mai andato via da Berlino.
– Siete stati felici?
– Ci siamo divertiti parecchio –. Come se lei non avesse sentito, ripetei
quella parola: «Parecchio».
– Ricomincia senza di lui.
Tonia si avvicinò a noi, come se avesse capito il momento di difficoltà
che stavamo passando, e ci allungò un rametto di menta. – Annusatela, è
diversa dalla menta italiana, – disse.
– Tutto qua è diverso, – risposi. – Anche voi mi sembrate diverse.
– In cosa siamo diverse? – Tonia non parve soddisfatta.
– Dimostrate un sacco di anni in meno.
Il volto tondo di Tonia si sciolse in un sorriso. Mia madre mi strinse in
un abbraccio.
La musica si interruppe, Claudia disse qualcosa in tedesco e quasi in
trance lasciammo il piccolo recinto delle colonie, per raggiungere la distesa
verde di Tempelhof. La musica ci accompagnò imprigionata dentro una
cassa bluetooth che seguiva il corteo di amici. Passeggiammo per il grande
viale in fila indiana, in mezzo a olmi giganti. Mi ero messo la bambina in
un marsupio, guardavo da dietro la lunga figura di Claudia vicina alla
sagoma di mia madre. L’una, leggermente piegata, ascoltava ciò che la piú
bassa aveva da dire. Mi feci sotto.
– Eccolo, parlavamo di te, – disse Claudia. – Sei l’unico che non ha nulla
di verde addosso. Era il tema del picnic.
– Il verde non mi piace, – risposi, ma lei e mia madre ripresero a parlare
fitto tra loro.
– Sto convincendo tua madre a venire a vivere qui –. Claudia mi posò il
gomito sulla spalla, disse che la vita era troppo breve per stare appresso alle
convenzioni, avremmo passato mille domeniche cosí, aspettando il
momento giusto per rientrare a Martina e guardare il mare dall’aereo, e poi
con le caviglie nella sabbia celeste di Lido Bizzarro, prima di tornare ai
lunghi crepuscoli del Brandeburgo.
Dei bambini pedalavano tra adulti in pantaloncini e cappellacci
carnascialeschi che alzavano le braccia verso il sole; rombi gialli, rossi,
verdi riempivano l’aria.
Il pallone aerostatico ci sorvolava ricoperto da esagoni colorati, una fila
di persone aspettava il proprio turno per salire sventolandosi cartoncini
azzurri sulla faccia. Claudia stese un asciugamano e vi si accovacciò sopra
con le gambe incrociate, tutti la seguimmo con quella docile obbedienza
che hanno i bambini quando aderiscono ai movimenti della loro maestra.
Tirò fuori un libriccino consumato, le pagine ingiallite dalla borsa,
Racconto d’amore di Biagia Marniti. Si schiarí la voce e aprí nel punto in
cui una pagina era martoriata da una piega: – «Riposare vorrei | Dove gli
alberi sono quieti» –. Iniziava cosí la poesia sulla forma delle nuvole che
evocano le persone piú care. Non avrei mai smesso di amare chi ha una
fiducia infinita nell’uomo al punto da sedersi in mezzo a un aeroporto
abbandonato e leggere versi di una poetessa pugliese.
Claudia, non avevi sbagliato niente proprio perché avevi sbagliato tutto,
avevi fallito sempre e le volte che ti avevo seguito erano state le uniche in
cui ero stato davvero felice.
Mia madre mi diede un pizzicotto alla nuca. – Allora, vieni su con noi?
– No, vi guardo mentre salite, sarà bello lo stesso.
Passò almeno un’ora, eppure il tempo parve volare rapidissimo, tenevo
stretta al petto la piccola Elfo, che succhiava un sonaglio. Un odore buono
di pelle e mela rimbalzava tra le mie narici bollenti. Mia madre, Erika,
Claudia, Tonia e altri volti familiari presero posto nella gondola sotto il
bruciatore, che aveva iniziato a lanciare lingue infuocate dentro la gola
aperta del pallone. Il tramonto era prossimo, l’ora migliore per le
mongolfiere, la gente si accalcava prendendosi lo spazio, suonavano
lontano i violini, battevano i tamburi. Claudia ed Elisa con i gomiti sul
bordo mi sorridevano, mia madre aveva un pochino di paura e sorrideva a
denti stretti.
Una telefonata si insinuò insistente nella tasca dei miei pantaloni, risposi
continuando a guardare Claudia e mia madre, erano diventate due sagome
scure e verdi nel cielo bluastro e pieno di minuscoli scintillii, interpretavo i
movimenti delle loro braccia come saluti a me e al mondo, dal quale si
prendevano una pausa. Non avrebbero mai potuto interpretare il gelo che
paralizzò il mio sorriso. Avevo risposto al telefono con inerzia meccanica,
una voce dall’altra parte d’Europa mi comunicò che il cane era stato
manualmente tirato all’indietro, il grilletto premuto, e la canna aveva
esploso un proiettile. Questa volta la pistola di mio padre aveva sparato.
Epilogo
Amore

(s. m. Detto di cibi, sapore).


I santi vengono sempre dal mare, con le mani vuote ma colmi di
miracoli. Arrivano in corpo morto ma in spirito santo, giacciono in
reliquiari, sono attesi a riva per scongiurare grandi carestie, siccità o la
peste implacabile. San Nicola e san Teodoro arrivarono in umili urne con
galere di legno che attraccarono ai porti di Bari e Brindisi. Anche san
Martino apparve a Maramaldo dal mare. Quando non piove per mesi i nostri
contadini pregano santa Comasia con il mento rivolto all’Adriatico, perché
da lí il maestrale porta nuvole cariche di pioggia.
Al tramonto, prima della processione, anch’io guardo il mare oltre i colli
della valle: è una piastra di piombo incorniciata dai folti uliveti che da anni
ormai lottano la loro guerra, arrugginendosi come fili di ferro. Il cielo grigio
è disegnato da nimbi arancioni che sfumano verso l’orizzonte; il Giovedí
Santo è sempre un giorno freddo, in qualunque periodo cada. Le statue
vengono assegnate nella sagrestia di San Rocco, dopo un rancio frugale nel
corridoio del vecchio manicomio attaccato alla canonica; le urla dei pazzi
sono ancora intrappolate nel buio; in una delle celle dicono ci siano le
trecce delle donne legate ai letti a castello e le dentiere degli ultimi balordi
chiusi a chiave.
Siamo un’ottantina di maschi, ci conosciamo tutti, di molti so «come si
mettono», e molti credono di sapere «come mi metto» io. Il mio periodo
berlinese mi ha bollato per sempre ai loro occhi come «il tedesco», parola
che pronunciano con aria sarcastica. So bene che per gran parte di loro sono
uno che non ce l’ha fatta, che è dovuto tornare. Ma sono gli stessi che mi
credevano fuggito, un emigrato avrà sempre addosso un sigillo di
vigliaccheria.
«Tornato ma sempre spatriato», dicono, alludendo al fatto che non ho
una moglie, un figlio, un lavoro certo, ma solo una valigia sempre pronta.
Sono un disperso. Un interrotto, secondo la loro idea di mondo. Qualche
raro amico ha piú cautela e mi definisce scapulètə, che è un po’ meglio di
spatriètə e si usa per i buoi che si liberavano dal giogo.
Non mi trovo in un posto cosí pieno di maschi dai giorni del Lab,
quando frequentavo gli shisha bar per elemosinare un grammo della felicità
provata con Andria nelle nostre notti pazze.
Non mi posso avvicinare al tavolo dove i satrapi della processione
assegnano i misteri per il Venerdí Santo e le postazioni per la processione
dell’Addolorata che attraverserà la città per tutta la notte. Su una panca, in
fila, le damigiane di vino rosso e i vassoi con gli spuntini al capocollo che
serviranno a rifocillarci. Un uomo coi baffi e la pelle arsa rompe due uova
dentro una di queste damigiane, poi la scuote, sull’orlo si forma una
schiuma. – Il vino con le uova fa benzina, – dice rassicurandoci sulla
pozione magica che nessuno s’arrischia ad assaggiare.
Cammineremo chilometri con le statue di gesso in spalla, recitando il
rosario e inneggiando a Nostra Signora Madre Addolorata. Nessuno osa
dirlo, ma quella statua che precede il corteo ha nel volto lucido un fascino
terreno e corrivo, gli occhi rivolti verso l’alto e non verso il basso, come
chiunque viva un dolore; le mani sottili stringono un fazzoletto di merletti
bianchi, gli abiti con cui è stata adornata, pezzo dopo pezzo, odorano di
lavanda. Le decine di maschi della processione, a torso nudo, si passano il
borotalco sulle spalle e il collo, intrecciano le dita e stirano i muscoli degli
avambracci, allungano i tendini, piegano i gomiti. I vecchi hanno corpi
arrossati e pelosi, i giovani tatuaggi tribali e pelli glabre, minuscole gocce
di sudore scivolano lungo le loro gole, come avessero già compiuto uno
sforzo notevole. La temperatura è calda, l’aria è viziata. Si parla a voce alta,
in attesa che giungano le assegnazioni. Finalmente compare il vecchio
sacerdote, accompagnato da un giovane chierico in abito bianco e gli
occhiali con la montatura trasparente, ha tra le mani il foglio con la lista.
– Quello è illegittimo, – dice uno senza camicia, la tartaruga degli
addominali ricoperta dalla faccia di un drago. «Illegittimo» nel suo
linguaggio sta per «frocio»: se qualcuno dei miei vecchi compagni del
Berghain entrasse qui, vedrebbe illegittimi in tutti tranne che in quel pretino
con gli occhiali.
– Eccolo il pistolero, – grida un altro uomo. Con la sciarpa al collo e una
cartella sottobraccio, dietro il prete e il suo diacono «illegittimo», arriva
mio padre. Lo abbracciano e gli danno pacche che sottintendono antiche
complicità.
– Che figlio hai cresciuto, – gli dice qualcuno indicandomi, mentre
dall’angolo in cui sono lo osservo con un po’ di divertimento. So cosa
pensa, so quanto gli facciano schifo tutti quelli che, come me, vanno alle
processioni; ma lui adesso deve tenerseli buoni, perché ha cominciato a fare
politica, a mettere le cravatte, a dire che «vengono prima i martinesi dei
locorotondesi», il paese piú prossimo e piú ricco del nostro. Lui non lo sa,
ma io sono tornato per sabotarlo, la mia presenza in città è fonte di
fastidiose dicerie che lui scaccia come fa un randagio con i moscerini.
Dicono che ho chiuso l’agenzia e sono andato a Berlino per sposarmi la
figlia del dottor Fanelli, e che lei mi ha rifiutato sull’altare perché dovevo
soldi a Dente. «Ha fatto i soldi», «Sarà una spia», «Uscito de chep»,
«Scapulètə», «Spatriato!» Pochi – forse nessuno – sono in grado di
sospettare che cosa ho fatto, che cosa ho visto, chi amo.
Sono passati mesi da quando mio padre ha sparato al ladro che gli aveva
rubato l’auto (la mia auto). Lo aveva sorpreso fermo al semaforo, aveva
afferrato la pistola dalla fondina, caricato, preso la mira e sparato: non a lui,
ma alla gomma. Mentre tutti nei dintorni si erano voltati, e i curiosi avevano
cominciato ad affacciarsi dalle finestre, l’auto aveva proseguito con la
gomma sgonfia per duecento metri, poi si era fermata nei pressi della villa
comunale. Lí era avvenuta la breve colluttazione, i due attorniati dalle grida
di incitamento di un nugolo di nullafacenti. Mio padre aveva telefonato a
tutta la sua rubrica telefonica per raccontare l’accaduto – accrescendo con
dettagli inventati la storia – e sentirsi applaudire. L’onorevole Renna in
persona lo aveva invitato a candidarsi in una lista politica per le imminenti
elezioni locali. Lui aveva accettato comunicando la notizia a parenti e amici
durante una cena, brandendo una bottiglia di Primitivo come una clava, e
avviandosi cosí verso la sua nuova vita.
Mia madre, dopo la toccata berlinese, era opportunamente volata a
Tenerife per una lunga vacanza con Tonia, evitando di assistere alla scalata
politica del suo ex marito divenuto nuovo eroe popolare. Alla sua età vorrei
essere come lei, svegliarmi con la natura, essere cercato dalle persone che
mi amano.
Lungo la processione prego con l’intensità appresa negli esercizi
meditativi di Claudia, non ho freddo. La gente silenziosa osserva
cupamente i volti di noi spallieri sotto le statue, oscilliamo quando la marcia
si ferma, battiamo il tallone quando riprendiamo a camminare. Siamo vestiti
di nero, con un bottone che tiene fermo il mantello di velluto, siamo a volto
scoperto per essere guardati in faccia dal Cristo in croce che ci segue alla
fine del lungo corteo, e dalla nostra grande Signora.
La processione con tutte quelle statue è una resa all’evidenza che un dio
non può bastare per tutti. Ma il Vangelo ci ha insegnato che l’amore è
infinito, basta riconoscerlo, è un fluido che attraversa i continenti. Dalla sua
onda mi lascio trasportare tra il Tigri e l’Eufrate, dove le stelle luccicano
molto piú che qui; ci sarà una luna tonda e bianca che veglia laddove tutto è
nato. Inizio a pregare, lo faccio a mezza bocca, prego che Andria stia
davvero bene in Georgia. Prego anche se uno degli spallieri accanto mi
guarda perplesso. So cosa pensa, l’ho ascoltato confidarsi al suo compare:
pregare è da femmine, i rosari sono da beghine, ai maschi spetta solo
muovere le statue, togliersi il cappello. Ma sotto la statua di Giuda che mi è
toccata in sorte, a cui vengono assegnati spallieri meno esperti che un
tempo avrebbero rischiato la pelle – una volta la gente lanciava pietre alla
statua mentre oggi gli riserva uno sguardo di scherno –, siamo tutti uguali,
«tutti in petto a Cristo», come dicono in città vecchia quando si è al sicuro.
Poi, ecco, la noto. Un essere minuto e spettrale, curvo in una palandrana
bianca, il copricapo di lana. Etta Bianchi. Lo sguardo acuto e livido che
oscilla a destra e sinistra come la finestra di un periscopio sottomarino
affiorato dall’acqua. Mi studia, poi distoglie lo sguardo. Dovrei lasciare la
statua e raggiungerla, mollare la processione soltanto per dirle che il tempo
non torna; ma i suoi occhi sono già scivolati alle mie spalle. Ci si crede
molto piú importanti di quel che si è davvero per gli altri.
Proseguo nella foschia, tra i canti lontani della processione, verso l’inizio
del giorno. Quando sarà mattino avrò bisogno di un posto silenzioso nel
quale essere solo. La notte lava la mente, diceva la poesia di Mario Luzi che
Claudia amava.
Scendiamo dalle scale della collegiata dove è terminata la processione,
avanziamo come se qualcuno ci trainasse con una corda. Chi resta in paese,
chi va in periferia o in campagna, tutti a tirarsi sulla testa una coperta, con
le spalle indolenzite. Il sonno lotta con la voglia di una doccia calda, l’odore
del caffè appena bruciato nella caffettiera da mio padre, che è già sveglio e
mi aspetta.
– Sono orgoglioso di te, – mi dice. È in piedi, vestito come la sera prima,
il viso è piú piccolo di quanto ricordassi. – Non dovevi portarla tu, la statua
di Giuda, – mi rimprovera.
– Ci credi davvero? – mi chiede poi, mentre raggiungo il bagno.
Devo ingannare i brividi di freddo almeno con il rumore dell’acqua calda
che scorre, la carezza del vapore caldo sulla pelle d’oca è simile a un rasoio.
– Ci credo ogni giorno di piú, – rispondo senza guardarlo, ma lui è già
andato via. Ho sentito la porta sbattere.

Ho iniziato a occuparmi di un giovanissimo uliveto. È un impulso che


molti hanno seguito da quando il batterio della Xylella ha contaminato ettari
di ulivi secolari.
Coltivo una dozzina di piante, mi credo un alchimista solo perché
mischio il potassio, il fosforo e i sali d’azoto. E come tutti gli alchimisti
cerco un mistero da disvelare mentre cospargo il terreno con quei granuli
rossicci che alimenteranno le giovani radici. Questa nuova vita a suo modo
assomiglia alla vita che ho fatto a Berlino con Claudia quando ci curavamo
del cibo degli altri. Oggi allatto le pietre con la calce e nutro la terra con il
concime.
Da quando mi dedico alla campagna lasciata dai miei nonni ho scelto le
antiche ogliarole che daranno frutti non prima di vent’anni. L’ho fatto
contro il parere di tutti. I vivai propongono ulivi geneticamente modificati
che in tre anni faranno frutti. Io però mi tengo i vecchi, che si adatteranno
piú lentamente alla natura che cambia. Anche gli alberi possono essere
lungimiranti. Le prime olive le raccoglierà da adulta Elfo, durante una delle
sue vacanze in Italia. È folle piantare degli alberi che faranno frutti quando
io sarò vecchio. O forse la pazienza è solo una forma di umanità, quella dei
miei antenati quando piantarono le ogliarole tra lo Ionio e l’Adriatico. Ora
finalmente l’ho capito.
Con la bella stagione ho preso a vivere nei trulli dei miei nonni. Sono
umidi e silenziosi, anche se ancora sono soltanto un cantiere ricco di
promesse. Mio padre alle elezioni ha preso tre voti, è venuto in campagna a
darmi la notizia con una faccia piena di rughe che prima non c’erano.
– Tra te e i nonni manca almeno un voto, uno di voi mi ha menato a
mare –. Ha occhi da pazzo, viene a fare i conti nel posto sbagliato.
Non ho il coraggio di dirgli che non sono andato a votare. In compenso
ogni sabato vado a trovare i nonni dentro la villa bianca nella quale passano
i loro giorni addormentati su due sedie a rotelle; mi chiedono dell’uva,
anche se è ancora presto per raccoglierla, e questo mi fa impressione piú
della loro vecchiaia. Diciamo il rosario anche se il nonno non ci crede;
prego con loro e per loro, ma questo non lo possono sapere.
La notte sento il frinire dei grilli, fruscii da dietro le pareti, scricchiolii
del letto, il rumore della rada attorno, apro gli occhi, l’aurora affiora da uno
spiraglio delle feritoie. Ho poca connessione e per leggere i messaggi vado
nel cuore della vigna dove il segnale è comunque debolissimo. Gli operai
che lavorano alla ristrutturazione della campagna vengono sempre con
molto ritardo, mi trovano nella vigna, pensano che stia già lavorando,
invece aspetto: ogni lunedí invio un messaggio al vecchio numero di
Andria, che risulta inesistente. Ogni messaggio si trasforma in bit prima di
codificarsi in un segnale digitale binario. 0 e 1, 0 e 1. Bene e Male, Causa
ed Effetto, Bianco e Nero, Terra e Mare. Nessuno probabilmente
intercetterà questo biglietto amorevolmente inserito dentro il collo di una
bottiglia immaginaria in bit: «Ricordi quando eravamo al parco di
Gleisdreieck, seduti sull’erba, il calore dell’aria mischiato all’odore del
prato, come se stesse sudando…»
Ho bisogno di dare materia all’amore. Il dialetto della mia città insegna
che l’amore non esiste. Quando due persone si amano, al massimo si dice
che si vogliono «bbun», ossia «bene». Eppure la parola «amore» compare
nel vecchio dizionario del sacerdote dialettologo Giuseppe Grassi, vale
come sinonimo di «sapore». Se un frutto non ha amore vuol dire che è
insipido, acerbo. Ai tempi in cui lo psicologo della visita militare mi
chiedeva se avessi avuto un’infanzia priva d’amore, rispondevo sempre di
no: i miei nonni e i miei genitori mi davano cibi pieni di «amore».
Andria torna in un tramonto color rame, oppure annusando il rosmarino
che i nostri avi chiamavano erba della memoria. Ci siamo morsi tante volte
quando eravamo dentro certi party, nei momenti di estasi lui mi asciugava il
sudore con un fazzoletto e lo mordeva quando ero lontano. Ero stato io
regalarglielo: i fazzoletti bianchi con gli orli ricamati erano una costante
sulle bancarelle nel mercatino delle pulci di Ostbahnhof, in cui passavamo
la domenica mattina, al ritorno dalle nostre avventure.
La notte mi sveglio alle quattro con un sogno interrotto, una
premonizione: vedo Andria galleggiare sulle teste delle anime danzanti
dentro una cantina o una fabbrica abbandonata, attorno si accendono
fiaccole, mentre il cielo diventa indaco. Il mio cuore accelera, si insinua il
senso di colpa, un vuoto occupa lo spazio nero tra veglia e sonno, non sono
in grado di occuparmi delle persone che amo.
Quando il muso color duna dell’auto noleggiata appare davanti al
portone, il mio cuore comincia a battere all’impazzata. Dal finestrino
riconosco subito la sua chioma carminio che scintilla sotto il sole di
mezzogiorno. Sono piú colpito nel vederla senza Erika, che al volante in
costume da bagno.
– Avete litigato?
– La conosci –. Scuote la testa. Ci abbracciamo scivolando con le guance
l’una sull’altra.
– Cosa hai fatto alla faccia? – le domando.
– Ho scoperto di essere allergica alla terra, la mia.
Il corpo di recente ha preso a parlarle. L’allergia, all’inizio, si è
presentata in modo discreto sulla fronte, poi le gambe si sono ricoperte di
chiazze rosse e sul viso è apparso un eritema a forma di farfalla le cui ali si
estendono fino agli occhi.
È finalmente in Italia dentro una bella giornata di giugno, ma è come se
il suo corpo si fosse disabituato a quell’aria e a quel sole.
– Anche io da quando sono tornato sono pieno di infezioni, e mi cadono
i capelli –. L’età matura trasforma la pelle in una mappa di strade sempre
piú fitte. – Comunque mi piace il tuo nuovo taglio, – dico, sfiorandomi il
lato della testa dove lei si è rasata.
Si allontana e sfila tra le chiancarelle. Le cicale cantano in fondo alle
siepi di maggiorana, Claudia le asseconda: cri cri cra cra.
Ma non è spensierata, è come se volesse intrattenermi e allontanarmi
dall’ombra che ha addosso. Sotto il pergolato piroetta su se stessa. La tavola
è apparecchiata con una tovaglia celeste e caraffe di acqua e vino.
La preparo al peggio sul vino. L’ho trovato in una damigiana, risale a
una passata vendemmia e ormai ha il colore della ruggine. Forse quell’uva
l’avevo pestata io stesso da ragazzo.
Claudia salta da una parte all’altra della minuscola aia davanti alle
casedde. – Oggi farò una cosa che potrebbe farti arrabbiare.
– Dein Wunsch mein Befehl –. Ogni tuo desiderio è un ordine.
– Mi è venuta fame, – dice.
Entro nel palmento, l’acqua bolle e ci faccio cadere dentro gli spaghetti,
l’odore dei pomodori passati è formidabile.
Cinque minuti, il tempo della cottura al dente, e poi un paio di minuti per
infiorare il piatto con tre foglie di basilico.
Ci sediamo l’uno di fronte l’altra, le tendo la mano. – Voglio pregare, –
dico. Claudia mi asseconda poggiando il palmo sul mio. – Signore benedici
questo cibo e ricordati di chi non ne ha.
L’ombra della pergola le disegna ghirigori sul viso.
– È stato un errore tornare in Puglia, anche solo per una manciata di
giorni.
Sento salire le lacrime. A pochi è dato capire cosa significhi piangere per
un amore che resta, invece che per un amore perduto. Il pericolo scampato,
l’essersi salvati da un precipizio. Solo a pochi eletti capiterà di piangere
insieme: dopo un orgasmo, dopo pagine di romanzi lette ad alta voce, dopo
aver ascoltato l’Intermezzo della Cavalleria Rusticana. Non sono uno di
quegli eletti, davanti a Claudia trionfa il languore dell’insoddisfazione.
– Non riconosco niente, vedo solo vecchi maschi ovunque, strade rotte,
auto impazzite, gente piegata sui telefoni, ulivi bruciati, spazzatura,
aggressività dappertutto, il mare che puzza. Qui c’è gente che odia tutto
quello che non è e mai potrà essere: gli stranieri, le persone liberate, le
persone che hanno studiato, le giovani donne e noi che siamo andati via.
Sono stati giorni tremendi, non passavano mai.
Claudia mostra la sua debolezza, non ammetterebbe mai di essersi
appena abbandonata al «lamento degli expat», come l’abbiamo chiamato
per una vita.
– Sei intransigente.
– L’unico posto del mondo dove posso permettermi di essere
intransigente è dove sono nata, no? È un posto che ho amato.
Gira la forchetta nel piatto formando un gomitolo di pasta che nessuno
riuscirebbe a inghiottire.
– Non è male qui in campagna, – le dico.
– Ho passato un pomeriggio dentro una bagnarola solo per riabituarmi al
mare.
La bagnarola è una torretta ottagonale di pietra, a riva, in cui un tempo le
donne nobili delle ville rosa sul lungomare trascorrevano le giornate per
non farsi guardare dagli occhi dei maschi (o per farsi amare
clandestinamente dai giovani pescatori). L’immagine di Claudia nascosta
nella torretta di pietra sul lungomare di Leuca mi fa sussultare.
– Avevi bisogno di non essere vista da nessuno –. Le accarezzo le
nocche della mano, le ossa sono spuntoni, vorrei aggrapparmici come a una
fune, perché presto saremo di nuovo separati.
– Francesco, mi fai un favore? – Il tono è divenuto solenne, ha rinunciato
a mangiare.
– Quello che vuoi –. Sono un soldato sull’attenti.
– Non avercela con me quando non capisci le cose che faccio.
– Io ti amo proprio per questo, dalla prima volta.
– Ho paura di perdere Erika, è vitale, ricca, sembra amarmi, poi ha certe
uscite… – Si ferma, non vuole raccontare, io insisto, voglio sapere. Claudia
cede.
– Te ne racconto una che vale per tutte, dice che quando leggo le poesie
alla bambina divento lugubre.
– Non sei affatto lugubre.
– Leggo filastrocche, rime, Erika dice che dovrei ascoltarmi, che le leggo
poesie piene di morti e fantasmi. Dice che trasformerò Elfo in una broken
girl.
– E tu?
– Le ho detto che ci sono i sapori, gli odori, c’è la vita. A volte sembra
non capire cose essenziali di me.
– Sei sempre stata una fanatica della poesia.
– Erika assomiglia un po’ al tempo che viviamo, sottovaluta i semi della
poesia, sottovaluta l’intreccio delle nostre radici, sottovaluta il mondo
interiore suo e di nostra figlia.
È colma di amarezza, abbassa gli occhi, il collo si curva.
– Io ci sarò sempre, – prometto.
– Io pure, anche se non sarò mai piú a Martina, sarò sempre ad aspettarti
lassú.
– Lassú è la nostra felicità –. Lassú è Berlino, ma forse ci piace la
vaghezza di quella parola.
– Hai del ghiaccio? – mi chiede con lo spiraglio di un sorriso.
Mi allontano pochi istanti, svuoto quattro cubetti di ghiaccio in una
coppa di creta, poi torno all’aperto col sole negli occhi. Claudia non c’è. Mi
volto cercandola verso il portone, la vigna, il tetto. Il telefonino pencola
sullo spigolo della sedia, come se le fosse caduto. La mia voce che la
chiama si perde nell’afa del giorno.
Mi inoltro nella vigna, tra le erbacce, qualche pezzo coltivato a orto e il
frutteto con le mandorle, le amarene e i fichi fioroni. Gli operai hanno
lasciato stanghe di ferro arrugginite con cui monteranno l’impalcatura per
l’ultima parte del lavoro. La chiamo, ma risponde l’eco della pianura. Non
lontano c’è il bosco; un grecale tiepido e gentile smuove l’ibisco.
– Claudia…
Poi un presentimento: ritorno sui miei passi, laggiú dove gli operai
hanno incominciato a transennare il pozzo. È una gola da cui spunta il
cilindro di pietra sbreccata con la copertura di ferro battuto dalla quale un
tempo pendeva la catena del secchio. La bocca del pozzo è sigillata con una
rete metallica, il piccolo spiazzo di ghiaia è un arsenale di armamentari
edilizi; lo attraverso col cuore in gola e scopro che la rete è stata tolta; infilo
la faccia dentro quel buio pesto: non mostra altro che il nero abisso di tutti i
pozzi di campagna. Claudia. Claudia. Ci sei?
In quel momento un serpente nero striscia lungo i cespugli di origano e
salvia che sono cresciuti tra il muro a secco e la vigna, sembra aver perso la
strada, muove la testa a destra e sinistra, assomiglia a un’anguilla, cerca
l’ombra umida del muretto.
– Pensi che sia cosí disperata da buttarmi in un pozzo a Martina Franca?
Eccola qui, Claudia.
– No, volevo metterti in guardia dal serpente, – mento.
– Guarda che non era un serpente.
– Ah no, e cos’era? Un drago?
– Un innocuo spartamatrimonio.
– Come fai a saperlo?
– L’ho visto dagli occhi, i serpenti hanno le pupille verticali, gli
spartamatrimoni orizzontali.
– Hai proprio una vista acuta, – la prendo in giro, ma è la prima cosa che
ti insegnano vivendo in campagna: quando un animale che striscia ti viene
incontro la verità sul pericolo che stai correndo l’apprendi solo guardandolo
negli occhi.
Claudia cammina attraverso la vigna, la seguo fino al piccolo frutteto, si
arrampica su un albero, le gambe penzolano nel vuoto.
– Volevo essere sola con te e lui, – dice.
– Lui?
– Il ciliegio? Qui mi hai parlato del tuo primo bacio a un uomo.
– Era un mandorlo.
– Non importa –. Ha ancora ragione lei. Poi si inarca, le ginocchia si
piegano, si avvolge attorno al grande ramo e, assecondando la forza di
gravità, si lascia scivolare, cadendo in piedi in una nuvola rossastra di terra.
– Ho sempre desiderato morderti, – mi dice.
– Che cosa?
– Morderti, – ripete, e m’invita a restare fermo mentre si avvicina al
collo. I denti affondano nella carne producendo un brevissimo piacere a cui
segue un intenso dolore.
Grido: – Stupida!
Claudia ride, un filo di saliva le pende dalle labbra. In quella stella
filante c’è la mia vita, il legame indissolubile che ci tiene insieme.
Claudia è di nuovo alle mie spalle, mi divincolo ma lei è piú forte, mi
sovrasta, ed ecco un altro morso; riesco a sottrarmi e corro verso il
pergolato, lei però mi avvolge un braccio attorno alla gola. Cado a terra, ho
il viso nella polvere, lei mi è sopra, con le ginocchia sulla schiena. È un
gioco tra di noi e il resto del mondo è escluso. Sulla campagna scende un
silenzio perfetto, ma la pace dura un sospiro. Dalle contrade di Farinata e
Finimondo, a nord-ovest, arriva improvviso un boato. I Tornado e gli F14 si
sono sollevati dopo tanto tempo dalla base militare di Gioia del Colle, e non
è un buon segno quando volano bassi e sfrecciano verso oriente. Con
Claudia ci guardiamo infastiditi, come se quel rumore avesse rotto un
incantesimo.
Il resto del pomeriggio restiamo seduti all’ombra della pergola leggendo
poesie, con la segreta aspirazione che ogni verso in cui ci riconosciamo sia
stato scritto per noi.
Guardiamo al bosco, ai lati della strada e ai piedi dei muri a secco ciuffi
di ciclamini decorano di rosa la nostra cortina. Fuori dalla loro stagione, li
possiamo vedere e commentare solo noi, ma questo è uno dei nostri segreti.
Cantiamo canzoni e recitiamo versi piú vecchi di noi, siamo fuori dal
tempo e abbiamo l’illusione di essere salvi.

Berlino, Weißensee, 31 luglio 2019.


Note dallo scrittoio o stanza degli spiriti

Ovviamente le vicende e i personaggi di Spatriati sono frutto della fantasia, e ogni riferimento a
fatti realmente accaduti o a persone realmente esistite è da ritenersi casuale. Piccole modifiche alla
topografia dei luoghi raccontati e alla cronologia degli eventi storici, di cronaca o di costume sono
state apportate di tanto in tanto per esigenze drammaturgiche.

Spatriato è il participio passato del verbo spatriare, che sta per andar via o, come dice la Treccani,
cacciare dalla patria. In alcuni dialetti meridionali, tra cui il martinese, ha altre sfumature, come
incerto, disorientato, ramingo, stordito, senza arte né parte, in alcuni casi persino orfano: patria deriva
dal latino e significa terra dei padri, dunque lo spatriato può anche essere chi è rimasto senza padre, o
chi non l’ha mai avuto.

Per le parole in dialetto martinese che danno titolo alle parti, ho fatto riferimento per ragioni
sentimentali all’antico Dizionario martinese-italiano di Giuseppe Grassi (Schena 1984), visto che fu
il primo dizionario su cui appresi quel poco di dialetto che oggi parlo. Per il termine spatriètə che
compare nella corretta fonetica in esergo alla seconda parte, ho consultato il dizionario La parlata dei
martinesi e altri ricordi di Giuseppe Gaetano Marangi (Nuova Editrice Apulia 2010).

Nel romanzo vi sono citazioni, omaggi e riferimenti a opere letterarie, luoghi ed eventi storici: qui
di seguito elenco alcune informazioni e alcuni debiti di quello che Robert Walser nel suo La
passeggiata chiamava scrittoio o stanza degli spiriti.

Il testo in esergo è estratto da una lettera che Giacomo Leopardi scrisse nel 1827 al suo amico
Pietro Giordani dopo una delle sue tante fughe da Recanati, in cui vagheggia la teoria della
rimembranza per gente inquieta e instabile come lui: «Cangiando spesse volte il luogo della mia
dimora, e fermandomi dove piú dove meno o mesi o anni, avvidi che io non mi trovava mai contento,
mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantoché io
non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo». Cosí com’è scritto l’ho trovato nella
Letteratura Italiana a cura di Enzo Siciliano (Mondadori 1986).
Parte prima      Crestiene

La citazione nella definizione di Crestiene proviene dall’incipit di Cristo si è fermato a Eboli di


Carlo Levi (Einaudi), pubblicato per la prima volta nel 1945.

Giochi senza frontiere – chiamato anche JSF, acrostico di Jeux sans frontières – fu una
manifestazione promossa da Charles De Gaulle a metà degli anni Sessanta per favorire l’amicizia tra
Germania e Francia. In breve tempo, i Giochi diventarono un grande appuntamento estivo durante il
quale si confrontavano i giovani di numerose città europee. Martina Franca rappresentò l’Italia e
ospitò la puntata dell’11 luglio 1980, che fu vinta proprio dalla squadra locale. Nel film Fantozzi
subisce ancora del 1983 compare un frame di quell’episodio.

In questa parte del romanzo Claudia legge Banana Yoshimoto, un’importante scrittrice giapponese
che negli anni Novanta attraversò un periodo di grande successo di pubblico a partire dal romanzo
Kitchen (Feltrinelli), uscito nel 1988. A proposito di Giappone, Osamu Tezuka è un autore di manga
e inventore di numerosi cartoni animati, mentre Rumiko Takahashi è considerata a tutti gli effetti la
regina dei manga. Negli anni Novanta la casa editrice Granata Press pubblicò, tra le sue tante opere,
la Saga delle sirene.

Street Fighter è un videogioco uscito nel 1987, ma l’edizione dei compagni di scuola di Francesco
è la seconda, diffusa in Italia dal 1991. Il giocatore interpreta uno degli otto lottatori preparati da
diverse scuole mondiali di combattimento e ha l’obiettivo di sconfiggere gli altri sette.

Come As You Are è un brano dei Nirvana dall’album Nevermind del 1991. Starman è una canzone
di David Bowie pubblicata come 45 giri nell’aprile 1972. Sentimiento nuevo, scritta e interpretata da
Franco Battiato, è la traccia finale dell’album La voce del padrone del 1981. Vacanze romane è una
canzone dei Matia Bazar, gruppo italiano di musica leggera, presente nell’album Tango del 1983.

Domenico Carella fu un pittore allievo di Francesco Solimena ed epigono di Luca Giordano. Le


sue opere piú rilevanti si trovano nel Palazzo Ducale di Martina Franca e nella Basilica di San
Martino. L’Ultima cena è un dipinto del 1804.

Le citazioni bibliche tratte in tutto il romanzo dall’Esodo e dal Vangelo sono quelle delle edizioni
curate dalla Conferenza Episcopale Italiana nel 2008.

Le lettere tra Sibilla Aleramo e Dino Campana furono raccolte nel volume Un viaggio chiamato
amore (Feltrinelli) nel 2000. Nel 2002 uscí una riduzione cinematografica ispirata al carteggio, con la
regia di Michele Placido.
Caro Michele (Einaudi) è un romanzo di Natalia Ginzburg pubblicato per la prima volta nel 1976.

Elsa Morante è uno tra gli scrittori piú importanti della letteratura italiana, ma in pochi l’hanno
studiata durante gli anni delle scuole superiori. Dario Bellezza è stato un poeta molto noto negli anni
Ottanta e Novanta: alla sua morte alcune sue poesie uscirono nella collana «I Miti» Mondadori, che
distribuiva con grande successo volumi di poesia a 3900 lire nelle edicole.

Il brano di Luciano di Samosata (120-180 d. C. circa) citato nel finale della parte proviene
dall’opera Bis accusatus e fu la prova di greco nell’esame di maturità classica del 1999.

Parte seconda      Spatriètə

Martina Franca è un comune di 47 000 abitanti nella provincia di Taranto, a metà strada tra il
Salento e la terra di Bari. Confina con i paesi di Ostuni, Ceglie Messapica, Cisternino, Locorotondo,
Noci, Alberobello. Questo insieme di paesi forma la Valle d’Itria, che di recente molti venditori di
fumo hanno soprannominato «Trullishire». I piccoli complessi di trulli vengono chiamati nel dialetto
martinese casedde.

Il refrain della Gessyca Gelati fu il tormentone di una nota pubblicità con Andy Luotto alla fine
degli anni Ottanta.

Artificial Intelligence è un album di musica elettronica pubblicato dalla Warp Records nel 1992;
contiene le tracce di alcuni dei piú importanti precursori della techno moderna. Gli Spiral Tribe sono
un gruppo formatosi nel Regno Unito nel 1992, tra i massimi ispiratori della cultura rave.

Lo stabilimento siderurgico di Taranto fu inaugurato nel 1965 e nei suoi periodi di massima
espansione arrivò a impiegare 60 000 lavoratori. La sua prima denominazione fu Italsider, poi Nuova
Italsider, dopo la privatizzazione divenne Ilva e oggi ArcelorMittal. Dal grande bosco delle Pianelle
di Martina Franca, a circa 500 metri d’altezza, si può guardare il gigantesco impianto che occupa tre
quarti del territorio metropolitano di Taranto, con le sue nuvole color ruggine e il mare alle spalle.
Per chi voglia approfondire la storia di quest’industria consiglio Fumo sulla città di Alessandro
Leogrande (Fandango 2013), di cui qui riporto uno stralcio dall’ultima pagina, perché è uno
splendido contrappunto allo sguardo di Claudia e Francesco: «Guardo dal terrazzo della casa in cui
sono cresciuto le ciminiere dell’Ilva che si stagliano davanti a me, le gru immobili del porto, le navi
ormeggiate in attesa di scaricare il minerale o caricare i laminati, il golfo che si allarga all’orizzonte,
le isole di San Pietro e di San Paolo, e poi ancora la città vecchia, il traffico incolonnato della sera, i
palazzoni che si susseguono quartiere dopo quartiere spesso identici tra loro, l’inizio della campagna
e la strada che corre dritta, verso la collina di Martina Franca».

Martina Franca per un certo periodo degli anni Ottanta fece parlare di sé in relazione al disastro
aereo di Ustica, perché era sede di un grandissimo centro radar della Nato le cui enormi antenne
potevano essere viste a decine di chilometri di distanza. Oggi non rimangono che le piccole villette a
forma di fungo dove abitavano i soldati americani.

La scena in cui Claudia è imprigionata nel quadrato disegnato da Etta col gessetto è un debito. Un
burbero operaio chiuse una bambina in un cerchio di vernice nel bellissimo Titanio di Primo Levi
all’interno del Sistema periodico (Einaudi 1975).

L’immagine dei cieli pugliesi che lasciano graffi mi è stata ispirata da una lettera scritta da Franz
Kafka a Oskar Pollak nel 1902, in cui Praga viene paragonata a una matrigna con gli artigli.

Gli Oesais, parodia barese degli Oasis, erano interpretati da Emilio Solfrizzi e Antonio Stornaiolo,
due attori ancora oggi molto popolari che da giovani occuparono la scena locale col nome d’arte di
Toti e Tata. Insieme al loro autore Gennaro Nunziante prendevano in giro vizi e virtú della società
dello spettacolo con geniali parodie, come quella del drammaturgo Carmelo Bene chiamato Carmelo
Meglio, e sbeffeggiavano le liriche impegnate ed ermetiche dei poeti italiani attraverso il personaggio
di Mino Pausa, aspirante poeta maledetto – maledetto soprattutto dagli altri.

La cura è un celebre pezzo di Franco Battiato contenuto nell’album L’imboscata del 1996.

Il pensiero meridiano del sociologo Franco Cassano è un saggio uscito nel 1996 per l’editore
Laterza, e ha segnato l’identità di molti studiosi o semplici lettori pugliesi sul valore del tempo, della
lentezza, della provincia. Considerato tra i testi di punta del nuovo meridionalismo.

Nel 1998, il leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) Abdullah Öcalan, già ricercato
dal governo turco, restò in Italia sessantacinque giorni con la speranza di ottenere un asilo politico
che non gli fu mai concesso, nonostante le numerosissime manifestazioni in suo favore indette
soprattutto tra gli studenti universitari. Giuseppe Tatarella fu un politico di centrodestra molto
rispettato per le sue qualità diplomatiche, che gli valsero il soprannome di ministro dell’Armonia.

Jay Gatsby è il protagonista del romanzo Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, Holden
Caulfield del Giovane Holden di J. D. Salinger, Fitzwilliam Darcy di Orgoglio e Pregiudizio di Jane
Austen, Atticus Finch del Buio oltre la siepe di Harper Lee. Il visconte dimezzato è un romanzo di
Italo Calvino pubblicato nel 1962.
Parte terza      Malenvirne

Vittorio Bodini è probabilmente il piú noto e amato poeta pugliese. La poesia che legge Claudia
sotto l’albero di limone proviene dalla raccolta La luna dei Borboni, pubblicata per la prima volta nel
1952 e ora edita, come tutta l’opera di Bodini, da Besa.

Quella di Claudia è una biblioteca essenziale per chi abbia voglia di approfondire la narrativa
pugliese del Novecento e soprattutto di alcune scrittrici capitali. I romanzi citati sono L’ora di tutti di
Maria Corti, pubblicato nel 1962 e oggi edito da Bompiani, Analisi in famiglia di Maria Marcone,
pubblicato da Feltrinelli nel 1977, Passaggio in ombra di Mariateresa Di Lascia, pubblicato nel 1995
e oggi edito da Feltrinelli, e La malapianta di Rina Durante, pubblicato nel 1964 e oggi edito da
AnimaMundi Edizioni. Dal romanzo di Marcone ho recuperato il concetto di «crescere foresta», da
quello di Durante l’idea del «franare stando in piedi».

Nichi Vendola è stato presidente della Puglia tra il 2005 e il 2015. Le sue politiche furono
concentrate, soprattutto nel primo dei due mandati, sulla promozione turistica del territorio e
sull’imprenditoria giovanile, tanto che si parlò proprio per questo di «Primavera pugliese». Il suo
slogan politico fu «La Puglia migliore». Perché la Puglia non è la California (Baldini&Castoldi
2000) è un saggio in cui il manager Franco Tatò presenta soluzioni e proposte per migliorare l’offerta
turistica e l’innovazione sociale della regione.

L’asino di Martina Franca è la piú imponente razza asinina italiana: manto nero, muso grigio,
groppa larga, garrese che supera il metro e sessanta. Sin da bambini siamo stati allevati con la storia
biblica dell’asina di Balaam che parlava per conto di Dio, unico animale che in tutta la Bibbia ha
questo privilegio (capp. 22-24, Libro dei Numeri). I martinesi vengono chiamati dagli abitanti dei
paesi vicini «Ciucci» per la loro testardaggine: non è un caso se in molti siamo convinti che il somaro
che portò Gesú a Gerusalemme, che secondo alcune leggende sarebbe poi giunto in Italia, sia passato
anche da Martina.

Camere separate (Bompiani) di Pier Vittorio Tondelli è un romanzo del 1989.

L’intervista di Gustav Janouch a Franz Kafka è stata pubblicata da Guanda nel 2005 col titolo
Conversazioni con Kafka.

Il grande Lebowski è un film del 1998 diretto da Joel Coen, con Jeff Bridges nel ruolo del
protagonista «Drugo» Lebowski, un eclettico perdigiorno pigro e fannullone, molto spesso in
vestaglia.
Tetris è un videogioco inventato nel 1984 dal programmatore russo Aleksej Pažitnov.

Parte quarta      Ruinenlust

A Berlino la clubbing culture è stata un grande laboratorio per le nuove avanguardie musicali,
soprattutto nel campo della musica elettronica, ha armonizzato le due anime della città dopo il crollo
del Muro e ha fatto sentire a casa i numerosi stranieri accorsi negli ultimi trent’anni. Il Berghain è il
piú noto club di musica techno al mondo, fondato nel 2004 in un grande stabilimento abbandonato
nel quartiere Friedrichshain. È riconosciuto da tutti gli appassionati come uno dei club techno piú
esclusivi a causa delle stringenti modalità d’accesso coordinate dal buttafuori e fotografo Sven
Marquardt, che consente l’ingresso solo a una piccola parte delle migliaia di persone che ogni
weekend provano a entrare nel «Tempio». Il Golden Gate è un piccolo club berlinese fondato nel
2000 in un vecchio magazzino della linea urbana metropolitana. Alle sue spalle di solito c’è un
grande luna park con una ruota panoramica che si perde nelle nuvole, aperta anche con le
temperature piú rigide: quando i clubber escono a prendere una boccata d’aria, salgono sulla ruota e
arrivano a un passo dal cielo; poi tornano a terra tutti impolverati di neve.

O Superman di Laurie Anderson è una canzone pubblicata come singolo nel 1981. Viene spesso
suonata al Panorama Bar del Berghain alle otto in punto della domenica sera. Paul Oakenfold è un dj
di fama mondiale, precursore della musica trance, figura di spicco della scena musicale rave.

Il volume sulle start up di Eric Ries che legge Claudia si chiama Partire leggeri, pubblicato da
Rizzoli nel 2011.

La East Side Gallery è un tratto di 1300 metri del vecchio Muro di Berlino lungo la Sprea
ridipinto da artisti internazionali, oggi considerato la piú lunga galleria d’arte del mondo.

La raccolta di poesie Il verme e il frutto di Raffaele Carrieri oggi si può ascoltare soltanto online,
interpretata dall’attore Riccardo Cucciolla in un video di almeno trent’anni fa. Chi la volesse
possedere dovrebbe affidarsi al caso e recuperare l’introvabile edizione delle Poesie scelte
(Mondadori 1976).

Durante il suo soggiorno berlinese, Mark Twain provò a studiare il tedesco, ma con scarsi risultati.
Si vendicò scrivendo un piccolo pamphlet chiamato The Awful German Language (1880).

Pippi Calzelunghe è un romanzo di Astrid Lindgren pubblicato per la prima volta in Italia nel
1958. L’incipit che Claudia legge a Erika per farla addormentare è tratto dall’edizione Salani del
2008.

Lisa Morpurgo (1923-1998) è stata una scrittrice italiana, tra le prime e piú autorevoli studiose
dell’astrologia. Le sue Lezioni di astrologia (1983) sono oggi pubblicate da Tea.

Wonder Woman è un personaggio della DC Comics inventato da William Moulton Marston,


psicologo e femminista, teorico del poliamore. Fu la prima eroina femminile della DC Comics, col
suo lazo della verità obbligava i cattivi a confessare le loro nefandezze.

Matrix è un film del 1999 scritto e diretto dalle sorelle Lana e Lilly Wachowski.

Parte quinta      Sehnsucht

La citazione nella definizione di Sehnsucht proviene da Johann Wolfgang Goethe, La metamorfosi


delle piante, Guanda, Milano 1999.

La Vlora è la nave albanese che attraccò nel porto di Bari l’8 agosto 1991, con oltre 20 000
persone a bordo. Cercavano una nuova vita in Italia in seguito alla caduta del regime comunista. Per
noi pugliesi quei giorni d’estate assomigliarono tremendamente ai giorni d’autunno del 1989 a
Berlino, quando l’Est e l’Ovest si riabbracciarono: con la Vlora, pugliesi e albanesi riannodavano i
fili della loro storia.

Sulla rivista «Mercurio» nel 1948 ci fu un dibattito tra le scrittrici Natalia Ginzburg e Alba de
Céspedes. La prima scrisse: «Le donne piangono perché sono cascate nel pozzo e capiscono che ci
cascheranno spesso nella loro vita e questo renderà loro difficile combinare qualcosa di serio». La
seconda le rispose: «Ho grande e antica pratica di pozzi: mi accade spesso di cadervi e vi cado
proprio di schianto, appunto perché tutti credono che io sia una donna forte e io stessa, quando sono
fuori dal pozzo, lo credo. Figurati, dunque, se non ho apprezzato ogni parola del tuo scritto. Ma – al
contrario di te – io credo che questi pozzi siano la nostra forza. Poiché ogni volta che cadiamo nel
pozzo noi scendiamo alle piú profonde radici del nostro essere umano, e nel raffiorare portiamo in
noi esperienze tali che ci permettono di comprendere tutto quello che gli uomini – i quali non cadono
mai nel pozzo – non comprenderanno mai». I due interventi si possono leggere sul sito web della
Società delle Letterate.

Too Much Love Will Kill You, scritta da Brian May, è una canzone dei Queen pubblicata nel 1992,
quando Freddie Mercury era già morto, ma registrata nel 1988 ai tempi dell’album The Miracle.
Il KitKat Club è il piú estremo e trasgressivo club berlinese, fondato da Kirsten Krüger e Simon
Thaur nel 1994. Ogni sabato notte ospita il «CarneBall Bizarre», una superfesta a tema fetish che
dura fino al mattino, a cui si accede solo rispettando un dress code molto severo. Luogo cosmopolita
dove si incontrano spiriti liberi di tutto il mondo, il KitKat è anche noto per le performance
pittoresche ed estreme di alcuni suoi artisti, acrobati, maestri di corda e ipnotizzatori. Nelle lunghe
file di persone che aspettano il loro turno in coda fuori dall’edificio molte si trasformano,
denudandosi o indossando piume. Una notte due uomini si sono inseguiti con delle asce, senza però
smuovere alcun sentimento di terrore o mettere in fuga la fila. Il Lab.oratory è un club per soli
uomini molto estremo, nella stessa struttura del Berghain. Diverse serate nei locali gay della città
hanno nomi che richiamano l’attività laboratoriale, forse per la vicinanza tra il concetto di
sperimentazione chimica e sperimentazione sessuale. Gli shisha club come quello in cui si recano
Andria e Francesco sono luoghi nascosti, ben diversi dagli shisha bar aperti a tutti. Vi si può accedere
soltanto tramite passaparola, su invito o con una parola segreta. Dentro si fumano melasse speciali
non commercializzate e si pratica il nudismo.

Il Club-Mate è la bevanda ufficiale di Berlino, riconoscibile per il suo marchio che raffigura un
uomo col sombrero. Bibita gasata all’aroma di yerba mate con caffeina, viene venduta ovunque,
persino nelle edicole.

Lucia di Lammermoor è un’opera in tre atti del 1835 di Gaetano Donizetti, con libretto a cura di
Salvadore Cammarano tratto dalla Sposa di Lammermoor di Walter Scott.

A Berlino un terzo della popolazione è di origine turca, e nella notte tra il 15 e il 16 luglio 2016 la
città fu attraversata da spontanee manifestazioni pro e contro il presidente Erdoğan.

«La zita di Ceglie, nessuno la sceglie» è un detto pugliese coniato nel secolo scorso per le donne
che non si sposavano.

Il palmento nel suo significato originale indica la vasca dove fermenta il mosto, ma nelle casedde
pugliesi spesso si chiama cosí la stanza dove si fa il vino, una sorta di grande soggiorno.

Parte sesta      Torschlußpanik

Frozen è un film d’animazione del 2013 diretto da Chris Buck e Jennifer Lee. Anna, la principessa
protagonista della storia, è diventata un’icona per le bambine e i bambini di tutto il mondo.
Ninnananna dei Modena City Ramblers è una canzone del 1994 presente nell’album Riportando
tutto a casa.

Il Glühwein è una bevanda calda a base di vino, zucchero e spezie simile al nostro vin brûlé,
servita durante il periodo dell’Avvento tra i banchi dei mercatini natalizi tedeschi.

Il Kakheti è una regione della Georgia orientale molto conosciuta per la sua tradizione vinicola,
gode di un ottimo clima e vi crescono centinaia di varietà autoctone d’uva. Molti studiosi sostengono
che sia stata la culla dei primi vignaioli della storia.

Torre Canne è la località marina piú vicina a Martina Franca, nel comune di Fasano. La maggior
parte dei giovani martinesi, però, preferisce le spiagge piú a sud, come Lido Bizzarro e Lido
Buzzone.

Gli italiani, come i polacchi e i turchi, sono protagonisti di molte barzellette tedesche che usano
cliché ai limiti del pregiudizio. Solitamente nelle storielle piú lievi l’italiano è dipinto come un
mammone, in quelle piú pesanti come un malavitoso o un fannullone: «Chi si salva tra un italiano e
un tedesco quando una casa è incendiata? Il tedesco, perché è al lavoro».

Le Kolonien berlinesi sono piccoli lotti di terra occupati da casette di legno con piccoli orti in
piena città. Molto vissute nei giorni di sole e le domeniche, ideali per la piccola villeggiatura
metropolitana per chi non ha tempo o voglia di lasciare la città. Tempelhof è stato l’aeroporto di
Berlino fino all’ottobre del 2008. Dopo un referendum molto partecipato, la grande area aeroportuale
è diventata un parco metropolitano.

Racconto d’amore (Greco e Greco 1994) è una raccolta della poetessa pugliese Biagia Marniti.

Epilogo      Amore

La storia di san Martino che appare sulle mura di Martina Franca con un’imponente cavalleria per
difendere la città dall’assedio dei Cappelletti di Fabrizio Marramaldo nel 1529, episodio locale della
guerra tra spagnoli e francesi nel Regno di Napoli, è stata raccontata da Cito de’ Citi nel 1596 in Vita
di San Martino. Secondo la leggenda, la porta sulla quale apparve è rivolta all’Adriatico. Nel corso
degli ultimi anni, alcuni storici locali tra cui Giovanni Liuzzi hanno preferito separare la credenza
popolare dal quadro storico dell’epoca, caratterizzato da guerra, pestilenze e carestie.
La notte tra il Giovedí Santo e il Venerdí Santo a Martina Franca si tiene la tradizionale
processione dedicata all’Addolorata. La storia della statua di Giuda che veniva oltraggiata durante il
percorso della processione mi è stata raccontata; quello che ho scritto qui è tutto frutto della fantasia,
anche se mi sono ispirato alla spettacolare asta con cui a Taranto si assegnano le statue agli spallieri
nella processione dei Misteri, un evento che ho seguito decine di volte e su cui nel 2008 ho scritto un
reportage sul dorso barese della «Repubblica». Il mistero che avvolge i riti tarantini ha prodotto una
folla di pubblicazioni: nel 1984 usciva un libro con una copertina memorabile e un titolo molto
efficace, L’anima incappucciata, scritto da Nicola Caputo per l’editore Mandese. Ancora oggi è il
volume essenziale per chi voglia far luce su dicerie e arcani della Settimana Santa. La statua
dell’Addolorata, a differenza delle statue dei Misteri che sono in cartapesta, è in legno. Viene
conservata nell’omonima chiesa nel centro storico di Martina, dove può essere smontata e
ricomposta, spogliata e rivestita solo dai confratelli piú devoti.

La notte lava la mente è tra le piú note poesie di Mario Luzi, tratta dalla raccolta Onore del vero
(1957) e oggi riunita nelle sue Poesie (Garzanti).

Cavalleria rusticana è un’opera musicata da Pietro Mascagni (su libretto di Giovanni Targioni-
Tozzetti e Guido Menasci, ispirato all’omonimo racconto di Giovanni Verga), andata in scena per la
prima volta nel 1890. È nota anche per il suo dolcissimo Intermezzo, in cui la musica sembra la
risacca di un’onda quando il sole tramonta sul mare, e la carezza dei violini trasmette un senso di
serena solitudine di fronte alla bellezza delle cose.

Martina Franca, 17 febbraio 2021.

Questo romanzo è dedicato alla memoria degli scrittori della mia terra, perché senza non
esisterebbe il mio immaginario. Alcuni di loro sono citati nel libro e richiamati nella stanza degli
spiriti, altri vi aleggiano silenziosi, come la poetessa Claudia Ruggeri, altri ancora sono impliciti
nella mia vita di scrittore e di lettore, e affiorano man mano nel tempo. Il caso beffardo ha voluto che
uno di essi, il pensatore e sociologo Franco Cassano, andasse via nelle ore in cui stavamo chiudendo
le bozze. Speravo che Cassano leggesse questo libro, e quel piccolo paragrafo dove lo citavo. Da lui
ho imparato ad andare piano per dare un nome agli alberi, come scrisse nel Pensiero meridiano.
Questo romanzo in fondo parla di gente cosí, che lui aveva già raccontato quasi trent’anni fa. E a lui
va il mio inchino a terra.

Roma, 25 febbraio 2021.


Il libro

C laudia è solitaria ma sicura di sé, stravagante, si veste da uomo.

Francesco è acceso e frenato da una fede dogmatica e al tempo stesso incerta.


Lei lo provoca: lo sai che tua madre e mio padre sono amanti? Ma negli
occhi di quel ragazzo remissivo intravede una scintilla in cui si riconosce. Da quel
momento non si lasciano piú.
A Claudia però la provincia sta stretta, fugge appena può, prima Londra, poi
Milano e infine Berlino, la capitale europea della trasgressione; Francesco resta
fermo e scava dentro di sé. Diventano adulti insieme, in un gioco simbiotico di
allontanamento e rincorsa, in cui finiscono sempre per ritrovarsi.
Mario Desiati mette in scena le mille complessità di una generazione irregolare,
fluida, sradicata: la sua. Quella di chi oggi ha quarant’anni e non ha avuto paura di
cercare lontano da casa il proprio posto nel mondo, di chi si è sentito davvero un
cittadino d’Europa.
Con una scrittura poetica ma urticante, capace di grande tenerezza, dopo Candore
torna a raccontare le mille forme che può assumere il desiderio quando viene lasciato
libero di manifestarsi. Senza timore di toccare le corde del romanticismo, senza
pudore nell’indagare i dettagli piú ruvidi dell’istinto e dei corpi, interroga il sesso e
lo rivela per quello che è: una delle tante posture inventate dagli esseri umani per
cercare di essere felici.

«A volte si leggono romanzi solo per sapere che qualcuno ci è già passato».

Claudia entra nella vita di Francesco in una mattina di sole, nell’atrio della scuola:
è una folgorazione, la nascita di un desiderio tutto nuovo, che è soprattutto desiderio
di vita.
Cresceranno insieme, bisticciando come l’acqua e il fuoco, divergenti e inquieti.
Lei spavalda, capelli rossi e cravatta, sempre in fuga, lui schivo ma bruciato dalla
curiosità erotica. Sono due spatriati, irregolari, o semplicemente giovani.
Un romanzo sull’appartenenza e l’accettazione di sé, sulle amicizie tenaci, su una
generazione che ha guardato lontano per trovarsi.
L’autore

Mario Desiati è originario di Martina Franca, ha pubblicato tra gli altri: Il libro
dell’amore proibito (Mondadori 2013) e Mare di Zucchero (Mondadori 2014). Per
Einaudi ha pubblicato Candore nel 2016.
Dello stesso autore

Candore
© 2021 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano.
La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire tutti i diritti relativi alla riproduzione dei
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ragioni in proposito.
In copertina: foto © Sally Mundy / Trevillion Images.

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www.einaudi.it

Ebook ISBN 9788858435977


Indice

Copertina
Frontespizio
Spatriati
Parte prima. Crestiene
Parte seconda. Spatriètə
Parte terza. Malenvirne
Parte quarta. Ruinenlust
Parte quinta. Sehnsucht
Parte sesta. Torschlußpanik
Epilogo. Amore
Note dallo scrittoio o stanza degli spiriti
Il libro
L’autore
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Copyright

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