Spatriati
Spatriati
GIACOMO LEOPARDI
Parte prima
Crestiene
(s. m. Individuo qualunque, uomo. Come in altri dialetti del Sud. «Noi non siamo cristiani, – essi
dicono, – Cristo si è fermato a Eboli – Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo» (Carlo Levi).
Anche persona che professa la religione cristiana).
Quando un fronte d’aria fredda incontra a terra una massa d’aria calda,
quest’ultima si alza al cielo. Nascono i temporali. Pioggia e fulmini, acqua e
fuoco. Non ho mai capito chi tra i due fosse il caldo e chi il freddo, ma mi
ritengo fortunato di aver incontrato il mio fronte opposto in Claudia Fanelli,
la spatriata, come qui chiamano gli incerti, gli irregolari, gli inclassificabili,
a volte i balordi o gli orfani, oppure celibi, nubili, girovaghi e vagabondi, o
forse, nel caso che ci riguarda, i liberati.
La notai la prima volta nell’atrio della scuola e desiderai i suoi capelli
rossi, la pelle lunare, il naso pronunciato. Aveva l’aria d’essere piovuta lí da
un altro mondo, piú evoluto e illuminato.
Mi chiamo Francesco Veleno, sono il figlio unico di Elisa Fortuna e
Vincenzo Veleno, due ex atleti dilettanti, che si sono innamorati durante una
puntata di Giochi senza frontiere e per tutta la mia infanzia mi hanno
cresciuto con l’idea che li avrei riscattati dal misterioso incidente di avermi
messo al mondo. Ancora ero lontano dal sapere che molte relazioni vanno
avanti, come avrebbe detto Claudia, per «ragioni di Stato». E sempre grazie
a lei avrei capito che non esistono ragioni di Stato cosí stringenti da
obbligare tre persone tanto diverse a vivere insieme, a meno che non si
sconti una pena. La corte che aveva condannato Elisa e Vincenzo a
rimanere insieme nonostante l’evidente disamore risponde alla crudele
legge del quieto vivere, aspro codice umano che nei luoghi piú piccoli
richiede rigore e assoluta severità.
Prima di Claudia, la realtà era quella che mi raccontavano e non quella
che vedevo. Facevo parte del novero di quelli che si lasciano spingere dagli
altri, dagli eventi, dalle prescrizioni, dai pregiudizi. I coniugi Veleno mi
spingevano verso una vita senza smottamenti, tranquilla, il minimo
necessario per non soffrire. A loro, in fondo, era andata bene cosí.
Lui, professore di educazione fisica – aveva anche praticato brevemente
la scherma insieme a mia madre –, aitante, spregiudicato, girava con una
Beretta M9 regolarmente denunciata da cui non si sarebbe mai separato.
Non vedevo ancora nei maschi bianchi di mezza età armati di pistola le
vanaglorie sessuali perdute.
Mia madre era infermiera nell’ospedale di Martina Franca. Per un breve
periodo della mia infanzia mi aveva chiamato «Uva nera», perché a Martina
tutti coltivano uva bianca verdeca, asprigna, da cui fanno un vino secco che
rende brillanti con due sorsi. E lei invece aveva fatto un figlio con
l’incarnato olivastro, bruno, come quello dei contadini alla fine dell’estate o
i saraceni delle antiche cronache. Con l’uva nera si fa il Primitivo o il
Negramaro. Vini da offuscamento della ragione. Tenerlo presente al
momento delle decisioni impulsive della mia vita sarebbe servito.
Nessuno in famiglia aveva i miei tratti. Nessuno scuro come me, nessuno
con un’attaccatura dei capelli cosí alta, la fronte libera e il fardello della
pigrizia che mi inchiodava sul divano a leggere giornalini insulsi. Durante il
pomeriggio spesso ero solo, mia madre viveva praticamente in ospedale, a
volte spariva per due o tre giorni di seguito. Mio padre dopo le ore a scuola
si perdeva nei bar di paese millantando avventure e rievocando il suo
passato da atleta, per tornare con i vestiti stropicciati e una smorfia allusiva,
come di chi ha compiuto un’impresa e non vede l’ora di raccontarla. Ma
non la raccontava mai. Forse perché io avevo paura di chiedere o forse
perché credeva che non avrei potuto capire.
Erano diversi, mia madre e mio padre, e lo erano anche nei tempi verbali
quando si rivolgevano a me. Elisa era donna del presente, spesso in prima
persona plurale: «Usciamo». Mio padre non conosceva che il tempo passato
e ogni tanto il tempo futuro quando parlava di me. Abbarbicato ai ricordi, a
un elenco di aneddoti gloriosi per lui, noiosi per tutti gli altri.
Su una cosa Vincenzo Veleno ed Elisa Fortuna si ritrovavano in una
miracolosa convergenza: non avevano frequentato un solo giorno di liceo
classico, ma ne avevano il rispetto che si porta per un’entità irraggiungibile.
Aveva formato le menti dei loro capi, medici primari, presidi, provveditori.
Tutte teste uscite dal liceo di Martina Franca. Dicevano che con il latino mi
si sarebbero aperte le porte, e che tra i banchi avrei incontrato i figli delle
famiglie importanti. Consideravano quel percorso la cosa piú opportuna.
Gente che conosce perfettamente la verità degli altri ma non la propria.
Per Claudia i primi tempi non esistevo. Era la piú alta della scuola, i
capelli rossi sfavillavano sul collo – la tonalità delle marasche che i miei
nonni avrebbero raccolto in estate per trasformarle in barattoli di confetture
granata e amaranto. Gli occhi di un colore diverso l’uno dall’altro, marrone
chiaro e verde azzurro, quegli occhi che qui chiamano «di bosco». Aveva
ossa sporgenti, zigomi appuntiti, il viso magro e allungato.
Durante la ricreazione l’atrio del Tito Livio si svuotava, gli studenti
correvano ad accalcarsi contro il muro per abbeverarsi d’ombra. L’unica al
sole era lei. Se qualcuno avesse potuto osservare il quadrato dell’atrio
dall’alto avrebbe visto un deserto d’asfalto con un puntino rosso al centro.
Si portava addosso alcuni miei stessi vizi antisociali: si toccava il naso e si
arrotolava una ciocca di capelli attorno all’indice. Tra i suoi libri spiccava il
cartoncino colorato dei manga di Rumiko Takahashi, arrivava a scuola
ascoltando musica con le cuffie senza curarsi di nessuno. Nel cambio d’ora
affilavo matite stando nei suoi paraggi, chiacchieravo con insipidi compagni
dalle facce squadrate e l’alito di Philip Morris. Un giorno sentii lo squallido
interrogatorio al quale era stata sottoposta da un drappello di usurpatori
delle sue attenzioni: «Perché stai sola?», «Perché non fai come gli altri?»
Intendevano dire: «Perché sei come sei e non sei come noi?» Insistevano
con aria melliflua, la incalzavano, e Claudia rispose: – È già difficile essere
uguale a me, figuriamoci essere uguale agli altri.
Facile rifugio l’amore non corrisposto, per le adolescenze solitarie e
insicure, quelle di chi ancora non sa chi è, e io non sapevo quasi niente di
me, e tutto ciò che ero stato fino ad allora lo tenevo nascosto, terrorizzato
che potessero giudicarmi inadatto. Venivo da un’infanzia di oratori di
campagna e squadracce di calcio di periferia, con allenatori che allungavano
le mani e preti con la gamba di legno che si facevano frizionare l’arto
monco in sagrestia, mentre nella chiesa vuota i piú ribaldi giocavano a
pallone usando l’altare come porta.
I Veleno non parevano preoccupati dei segni rossi che mi disegnavano le
gambe, non si preoccupavano che pregassi o peccassi, nemmeno quando
tornavo dalla campagna pieno di terra, umiliazione e odore di concime.
Era appena finito l’anno scolastico, l’estate si spalancava in distese di
papaveri e grano. Rientrato a casa non trovai nessuno. Mi abbandonai al
silenzio, poi al crepuscolo che annerí le stanze e mi immalinconí. Mangiai
solo del pane bagnato in acqua con sale e pomodori, la mia cena quando
mia madre faceva il turno serale e mio padre spariva dietro le sue ambigue
commissioni. Mi addormentai sul divano. Al mattino la casa rimase
silenziosa, nessuno dei trambusti che mi svegliavano di solito quando mia
madre tornava dall’ospedale o mio padre riempiva il lavabo per la barba
parlandosi allo specchio. Vuota. Con occhi di catrame e la gola inaridita
vagai stordito, finché non rinvenni sulla scrivania di fòrmica – un banco di
scuola che mio padre aveva trafugato dal suo istituto tecnico per farne il
mio scrittoio – una busta bianca: «Alla mia Uva nera». Ebbi la sensazione
che mia madre l’avesse scritto piú per lei che per me.
Sono dovuta uscire e non c’eri. Ti parlerò di questi giorni che verranno. Ti aspetto in
ospedale.
A una manciata di giorni dalla fine della scuola Claudia mutò ancora, si
colorò di azzurro la ciocca e tagliò cortissimi gli altri capelli. Aveva smesso
di studiare quello che ci assegnavano i professori – Pascoli e D’Annunzio –
e si mise a leggere Elsa Morante e Dario Bellezza. Si contorceva su
minuscoli volumi di poeti contemporanei comprati in edicola e commentava
con me i versi che la emozionavano. Con tali premesse l’esame di maturità
non poteva che essere una disfatta. La versione di greco – Zeus ritratto da
Omero come un ozioso e libertino – sembrava nascondere un significato
minaccioso, quasi alludesse al nostro avvenire. Claudia mi aveva passato un
foglio di carta appallottolato con la traduzione e una nota («Luciano di
Samosata uno di noi») che copiai, interpretandola sciaguratamente come
una frase della versione. Questo agitò il sospetto.
Durante la prova orale ne chiesero conto, poi dissero a entrambi che
avevamo fatto una versione perfetta ma il voto sarebbe stato diviso in due;
io chinai la testa attonito, Claudia invece sostenne lo sguardo severo del
commissario. La vita era enorme e aspettava solo di essere divorata non
appena quella noiosa incombenza fosse stata portata a termine. I voti
preoccupavano soltanto Etta e i suoi oziosi pomeriggi dal parrucchiere in
quello spietato gioco di società in cui le famiglie paesane schierano le vite
dei loro figli come allo Start di un ippodromo. Alla fine diedero a Claudia il
mio stesso voto, ottantacinque, che la smorfia napoletana indica come
«l’anima del purgatorio».
Restammo col dubbio se tornare a casa e dare la notizia del voto non
esaltante oppure ubriacarci e festeggiare la fine di quella vita di obblighi. Il
conciliabolo durò poco perché lei interruppe ogni inutile dibattito sul nostro
futuro prossimo guardandomi negli occhi con un sorriso beffardo: mi chiese
perché non le avevo ancora raccontato la grande novità che era venuta a
sapere.
– Non so di cosa parli.
– Non ti devi vergognare, sono molto felice per te.
– Cosa?
– Tutti dicono che sei andato con Domenico, quello che serve messa alla
tua parrocchia.
– Ma che dici? – Pensai a come simili voci in paese significavano la
condanna a morte, non avrei mai piú potuto mettere piede in parrocchia
senza che qualcuno mi spintonasse toccandomi l’orecchio destro mentre
urlava «ricchione». – Non è come pensi, – la mia voce s’arrochí.
– A me non devi mentire, – mi fece una carezza con le nocche della
mano. – Non vergognarti, ognuno ha le sue pulsioni. Anche io da bambina,
una volta, mi sono innamorata della mia compagna di banco –. Era una
rassicurazione che somigliava al tepore di un accendino in una notte gelata.
– Si è tante cose durante l’infanzia, – replicai amaro. Infine, a voce
bassa, la bocca asciutta, dissi: – A settembre entro in seminario.
Vidi le sue labbra muoversi, un lieve gonfiore sulle guance, come stesse
prendendo fiato.
– Mi faccio prete!
– Dici sul serio? – incalzò.
– Scherzo, ovvio.
La nebbia riempiva l’orizzonte delle mie ambizioni future. Cosí protesi
le labbra e la baciai.
Parte seconda
Spatriètə
(agg. Ramingo, senza meta, interrotto, detto del sonno che si interrompe: u sunnə spatriètə. Anche
balordo, irrisolto, allontanato, sparpagliato, disperso, incerto. Esempio dal dizionario martinese-
italiano di Gaetano Marangi: lassə’ apirtə u jaddənèrə e lə jadd nə sə spatrajĕrənə int’a və́ gnə,
«lasciò aperto il pollaio e le galline si dispersero nella vigna»).
Martina Franca è uno di quei paesi abbastanza grandi per tenerti al riparo
da situazioni incresciose, salvo plateali sbadataggini. Un mattino, nei
paraggi della parrocchia, incontrai Michele Duranti bardato di collane, una
selva di serpenti tatuati sulle braccia. Salivo sul sagrato e ammiravo le facce
da oratorio o le intemerate di don Bastone aggiustandomi le giornate col
vento di giugno fatto di sabbia e grano. Una parte di me era già consapevole
di cosa stava cercando, ma un’altra quella consapevolezza la seppelliva nel
senso di colpa e nella paura, mi sentivo un essere informe: non sapevo
ancora che si possono desiderare piú persone in modo molto diverso, non
consideravo l’ipotesi di amare Claudia e smaniare allo stesso tempo per il
bacio di un pretino con i paramenti.
Ad aspettare che qualcosa accada può venire il peggio. Michele Duranti
mi credeva il nuovo fidanzato di Claudia Fanelli.
– Ti metti Veleno come cognome? – chiese minaccioso schioccando la
lingua.
Risposi «Sí» senza guardarlo, fedele alla regola di non contraddire chi è
piú potente e disperato di te. Fissavo le teste di serpente dei bicipiti e
masticavo il fiele dell’ingiustizia che stava per compiersi.
– Sai cosa sei, Veleno? – continuò con l’aria allusiva di chi conosce
meglio di me il mio destino.
– Non saprei.
– Sei una capa di cazzo.
Rimasi in silenzio, aveva un fiato cattivo.
– Allora? – incalzò. – Non hai niente da dire, capa di cazzo?
– N’dd, – dissi, che nel mio dialetto vuol dire niente. Rispondere con
quella parola cosí gutturale, animalesca, mi diede il tempo e la forza di
allontanarmi, il dialetto aveva fatto perdere a Duranti l’attimo che divide la
decisione dal dubbio. Camminai piano in direzione opposta, cosí come
aveva fatto Claudia quando l’aveva lasciato assecondando un romanzo.
Berciò frasi scostumate ma senza inseguirmi, le sue parole non pesavano
quanto le mie.
– A volte vivo certe emozioni solo perché ho una persona come te a cui
raccontarle, – mi diceva appena tornava da me.
– Non risparmiarmi nessun dettaglio, – le chiedevo, e sapevo che solo
cosí avrei provato piacere nel mio dolore.
Mi struggevo sui suoi resoconti, confrontavo il presentabile Curcio col
ferino Michele Duranti con la sensazione di avere di fronte la bella e la
brutta copia dello stesso compito scritto.
Claudia si stava appassionando a Naomi Klein e al suo libro No Logo,
ma Curcio ribatteva che ogni decennio del secolo appena finito aveva un
libro che spiegava come tutto fosse sbagliato. Claudia lo contestava e si
fotografava con la faccia dipinta di bianco alle manifestazioni contro le
multinazionali per farlo arrabbiare anche se sotto sotto era davvero una di
quelle persone che credono di poter rendere il mondo migliore.
Una volta mentre si osservavano seduti sul bordo del letto di un albergo,
le teste rivolte l’una verso l’altra, il fiato caldo che precede il bacio, Claudia
ebbe uno strano desiderio che non aveva mai avuto e che improvvisamente
la occupò dalla punta dei piedi alla lingua. Gli occhi di Curcio erano
piccoli, lievemente assonnati, meritavano una cornice migliore. – Posso
metterti l’eyeliner? – chiese, stupendosi lei stessa della sua schiettezza. Lo
sguardo sorpreso di lui riempí il silenzio lungo che precedette una richiesta
di chiarimento. – Un leggero kajal, è morbido, solo un tratto, – precisò lei,
come se lui conoscesse i trucchi da donna.
– Non so se mi piace, – rispose lui con imbarazzo.
– Ti faccio due linee, ci baciamo un po’, poi le tolgo con un dischetto di
ovatta. Non ci vorrà molto. Promesso –. La voce era con tutta probabilità
affievolita dall’eccitazione. Lui si rifiutò.
Uno dei giorni seguenti Curcio la portò in una pineta con le radici degli
alberi ricoperte da un tappeto di aghi. C’era un rudere di trullo cosparso di
cespugli di borragine e ortica, dove si fotografavano le coppie prima dei
loro banchetti nuziali.
Curcio aveva con sé una macchina fotografica per farle qualche scatto.
Ma la macchina rimase sul sedile dell’auto e loro si ritrovarono a correre sui
sentieri di aghi e rovi. Lui arrancava con la camicia aperta sino alla pancia,
le maniche arrotolate e il fiatone. Lei correva saltando come una tortora, ne
faceva il verso, poi si voltò e lo minacciò scherzosamente: – L’ultimo che
arriva si spoglia –. Lui le rispose con sarcasmo: – Tanto non cambia niente
per una piatta come te –. Claudia fece finta di restarci male, si piegò verso
terra e raccolse due pigne, se le infilò nel reggiseno, poi gli andò sotto il
naso: – Guarda che tette, l’hai mai avuta una con due tette cosí? – Curcio
rise, poi Claudia si fece seria e guardandolo negli occhi gli chiese di
infilarsi quelle pigne nella camicia come aveva fatto lei.
– Non scherziamo.
– Voglio vederti con le tette –. E gli agitò davanti le pigne ricoperte di
gusci e muschio.
– Sei pazza?
– Dài.
– Se lo faccio ti costerà caro.
– Tutto quello che vuoi.
– Mi infilo le tue pigne sotto la camicia e giocherò a fare la tettona.
– Sí, ti prego.
– Claudia, io lo faccio –. E a Curcio luccicò un bagliore sinistro negli
occhi.
– Sí, mi costerà caro, – ripeté, felicemente sbalordita dalla sua
ispirazione.
– Lesbica, sei una lesbica, – le urlò lui che aveva perso l’iniziale
baldanza.
Curcio non aveva capito lo humour di Claudia, anarchico e
candidamente pornografico; rimase diffidente, e con la diffidenza – che è
l’incapacità di percepire la diversità degli altri – si chiude la porta a tutto
ciò che è umano, tutto ciò di cui aveva bisogno in quel momento Claudia.
Piú per orgoglio che per reale convinzione m’iscrissi a Scienze politiche
in un’università piena di marmi come un camposanto. Prendevo tutti i
giorni il treno per Bari, con il suo mare di due colori, verdognolo a riva,
cobalto oltre i frangiflutti. Guardavo i pescherecci e le petroliere in
miniatura sullo sfondo, la cortina azzurra a nord si univa con le strisce
bianche degli aerei. Era città di orizzonti puliti, e nella sua grandezza
manteneva un’anima di paese. L’università significava avere vent’anni, era
sempre una festa, bastava uscire dal tetro edificio delle lezioni per essere
rimbalzati da una casa all’altra, da una festa di studenti greci a una di
calabresi, ubriachi e leggeri, sguaiati e molesti. Lanciavo uova dai balconi e
ballavo gli Ace of Base con le studentesse, tenendo fermo il gomito con una
mano e roteando l’indice dell’altra. La sera perdevo il treno e la notte
restavo a dormire in appartamenti di fuorisede ricolmi di provviste e
ormoni. Ma dormire era come rubare tempo all’allegria, cosí si giocava a
carte, o si chiamava il professore di Storia antica spacciandosi per Leonida
o Giulio Cesare. Ci baciavamo con la scusa di essere avventati, bevevamo
liquori scadenti, poi ci baciavamo con la scusa di essere ebbri, e tornavamo
a bere, o cantavamo le parodie baresi degli Oasis, infine al mattino si
andava intontiti all’università sperando che succedesse qualcosa, che
scoppiasse una bomba, che i turchi liberassero Öcalan, o magari arrivasse
un gheppio con un fazzoletto in testa e il becco aperto pronto a cantarci La
cura di Franco Battiato.
Frequentai per poco tempo le lezioni di Sociologia del professor Franco
Cassano: ero innamorato del suo Pensiero meridiano, dove era scritto che
bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna, come chi va a
piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare
il libro e invece correre è guardarne soltanto la copertina. Cosí telefonavo a
Claudia e le dicevo sempre la stessa cosa: «Dobbiamo essere lenti come un
treno»; lei rideva, perché i treni al Nord non erano lenti come quelli al Sud.
Non mi sedetti mai a fare l’esame, baciai tante studentesse, con alcune di
loro passavo anche le notti, toccandoci e scoprendoci lentamente.
Condividevamo la stessa nuvola di ambizioni e prospettive, loro si
chiamavano Clara, Mariangela, Mirella, venivano tutte da province piú
remote della mia, avevano letto come me due libri in croce e solo di quelli
parlavamo, poi ci giuravamo di marciare per la pace, per le bandiere del
Kurdistan, ma il giorno dopo ci mettevamo il vestito buono e andavamo ai
funerali dell’ex missino Tatarella, perché lo chiamavano il ministro
dell’armonia e perché era pugliese, o un nostro amico aveva lavorato con
lui.
Claudia mi telefonava e mi raccontava di Curcio, che le aveva mandato
dei fiori oppure che non rispondeva agli squilli, che al telefono le era
apparso scostante o che un weekend sarebbe andata a trovarla a Milano per
portarla a un concerto dei Prodigy, ma poi non ci andava mai. Era sempre
Claudia a tornare, a lasciarsi alle spalle le nuove amiche, l’idea di
progettare un Erasmus, di addentrarsi nella vita di tutti gli universitari
fuorisede.
– Raccontami di te, Frank, che danni stai facendo a Bari?
– Sbronze e limoni, la vita universitaria mi sembra una pacchia.
– A me fa orrore, tutta libri ed equazioni.
E anche a me faceva orrore riassumere in poche parole la vita, forse
perché non avevo il coraggio di dirle che niente mi emozionava davvero
quanto aspettare una sua telefonata o il suo ritorno.
Una mattina all’alba finí la mia vita universitaria. Era ancora buio,
tornavo da Bari col pullman che prendevano gli operai del turno di notte
all’Italsider, tra i sedili rotti e gli sguardi di sbieco che lanciava l’autista
nello specchietto retrovisore. Scesi assonnato nel piazzale della stazione,
dietro un cancello di ferro riposavano i bus dell’autolinea; i primi treni
rompevano il silenzio cominciando a muoversi verso la città. Le gru erano
ombre altissime e le luci gialle delle scuole perdevano forza con
l’incombere del giorno: Martina mi sembrava bellissima. Un’auto coi vetri
appannati accese i fanali, giocò con gli abbaglianti per richiamare
l’attenzione. Ero l’unico essere umano in giro, la città deserta attraversata
dalla nostra maledetta tramontana che rende pazzi o cavi come le colline di
pietra sulla via di Ceglie. Ebbi paura, pensai a un agguato, ma le sei del
mattino non è un orario da balordi. E comunque l’auto mi era familiare,
ebbi un presentimento. Il vetro del finestrino lato passeggero si abbassò e
comparvero due persone, un uomo con berretto che teneva gli occhi puntati
nei miei e al volante una donna dai capelli vaporosi e disordinati, ma un
disordine felice, quanto il sorriso che l’accompagnava. – Francesco, salta
su, – m’invitò, come fosse la cosa piú ordinaria del mondo, e tanto ero
intontito che pensai dovesse esserlo davvero.
Mia madre con Enrico Fanelli era diversa, non sembrava nemmeno mia
madre. Guidava l’auto con naturalezza, mentre il padre di Claudia mi
chiedeva come ci si divertiva a Bari. Nell’auto c’era odore di deodorante e
sesso.
Arrivati a casa scendemmo insieme. Enrico con un salto da un sedile
all’altro si mise al volante, mia madre gli mandò un bacio piegandosi sul
finestrino.
Nell’ascensore che ci riportava a casa la osservai nello specchio,
stentavo a riconoscerla.
– Avete fatto l’amore in macchina? – chiesi a un tratto. C’era un’armonia
occulta in quel momento, e la stavo mettendo a repentaglio.
– Capita, – vidi guizzare i suoi giacinti negli occhi.
– Non è scomodo?
– Alla mia età sí. Ma alla tua no.
Quanto invidiai l’intesa che c’era in quella macchina e quanto mi sembrò
normale che quei due amanti potessero vivere il loro amore solo da
clandestini benedetti dai loro amori sbagliati.
In casa mia madre accese la luce del corridoio, poi sparí in bagno. Si
sentiva il russare di mio padre. Studiandomi allo specchio – due grandi
borse sotto gli occhi, le guance scavate – constatai la distanza che mi
separava dal fascino di mia madre, cosí come l’avevo sorpresa quella notte.
Quando uscí dal bagno aveva indosso una vestaglia di lana con decori
natalizi. Era ancora diversa, apparteneva all’insieme di tutti i genitori del
mondo che guardano i figli cresciuti e stentano a riconoscerli adulti. –
Francesco mio, abbiamo fatto pure questo. Adesso hai visto tutto –. E lo
disse con sollievo, come stesse rimuovendosi un macigno dal petto.
– Forse hai ragione, è meglio che mi trovi un lavoro, – replicai.
Il suo collo affusolato si piegò sul mio e con la bocca semichiusa stampò
sul bordo delle mie labbra un bacio né materno né erotico, dunque
sconvolgente. Per questo andai a letto praticandomi una complessa
masturbazione. Immaginai Claudia nell’auto con un altro uomo, le sue
gambe avvolte da calze fumo, le caviglie sottili, il suo corpo che si apriva al
mistero di un altro corpo sconosciuto, i seni piccoli e il ciuffo tra le gambe
un traguardo irraggiungibile, perché le sue gambe non finivano mai, ero un
lillipuziano gravato da lacci e massi, ero piccolo e modesto, mentre i
dettagli del corpo di Claudia si espandevano tanto da deformarmi la vista, il
tempo trascorso era un minerale, il futuro una poltiglia profumata, venni in
un fazzoletto di carta urlando nel cuscino «Claudia ti amo».
– Quante volte.
– Una, ma molto dolorosa.
Nella piccola chiesa di campagna, con le sedute in rovere e un
confessionale di noce, un’ombra dalla voce roca periziava le mie, di ombre,
quelle interiori. Un nuovo prete s’era preso in consegna la mia confessione.
– Non era mai successo?
– Mai cosí.
– Lei è sposata?
– No, ma è fidanzata con un uomo molto piú grande.
– Vive nel peccato con questo uomo?
– Si vedono solo nelle vacanze quando lei scende in paese.
– Quanti anni ha la donna che desideri?
– Andavamo a scuola insieme.
– Le hai detto che la ami?
– No, o forse sí, ma non mi ha mai creduto.
– Quante volte l’hai desiderata?
– Gliel’ho già detto, una volta.
– Non intendevo l’atto impuro.
– Per me non è impuro.
– Fallo dire a me cosa è puro e impuro.
– Sono confuso.
– Da cosa?
– Dalle domande.
– Hai mai desiderato un uomo?
– Mai.
– Cerca meglio nella memoria, l’ottavo comandamento è la falsa
testimonianza.
– Non è un peccato desiderare un uomo, – replicai con orgoglio, la
confessione aveva preso una piega imprevista.
– Lo hai fatto dunque?
– Mi sono fermato prima.
– Ti ricordo l’ottavo comandamento.
La voce era cambiata di tono, apparteneva a un intrigante che sembrava
aver capito chi fossi e voleva smascherarmi.
Interruppi la confessione. L’adrenalina e il petto a mille. Attraversai la
navata, raggiunsi il chiostro, un tempo ci giocavano i bambini, ma al centro
lo avevano bucato e trovato una tomba, e cosí avevano smesso di andarci
perché lí i morti hanno la precedenza sui bambini.
– Veleno! – Qualcuno urlò il mio nome, che vibrò dentro un cupo
rimbombo.
Alle mie spalle un pretino appoggiato all’ingresso del vestibolo mi
faceva segno con la mano. – Veleno, torna qui.
Mi affidai alla voce perché ne avevo riconosciuto la musica.
– Ti ho fatto uno scherzo, – disse con la faccia impertinente.
L’espressione e la risata di Domenico furono il miele su cui poggiare le mie
labbra amare. Aveva la testa bianca e liscia come un osso di seppia.
Continuava a vestirsi da prete e servire messa.
– Sei ricchione allora? – mi chiese a voce alta, ma tenendo l’indice sul
naso come a impormi un tono piú basso per la mia risposta.
– Perché ti sei nascosto nel confessionale? – protestai ad alta voce
disubbidendo.
– Mi piace ascoltare le stronzate che fanno le persone.
– Don Bastone lo sa?
– Don Bastone me lo fa fare, ma non devo farmi scoprire.
– Ora ti ho scoperto.
– Tanto domani me ne vado al Nord, mi hanno preso in aeronautica. E a
tutti dirò che sei ricchione.
– Perché mi hai ingannato?
– Perché, perché, quanti perché. Claudia è troppo per uno come te, non
lo vedi con chi sta adesso?
– Non mi interessa.
– Mi sposo con Mariella e tu non hai nessuno.
– Non ti invidio.
– Ora vieni, Veleno, devo dirti una cosa nell’orecchio.
Mi voleva baciare, e io volevo soltanto sentire l’odore del nostro primo e
unico bacio mancato. Mi fidai. Attraversai lo spazio tra noi senza toccare
col piede le fughe tra una mattonella e l’altra.
Domenico tese il collo, e notai la palandrana piú corta, gli si vedevano i
calzini gialli e le gambe nude, depilate. Quando le nostre labbra furono
vicine, cosí vicine che non baciarsi era ormai diventato intollerabile, lui aprí
la bocca e mi morse la guancia.
Durò un secondo, i denti affondati nella mia carne, un male crudele.
– Frocio di merda, sei un frocio, non dovevi avvicinarti, – gridò.
Rimasi paralizzato tenendomi la guancia senza protestare mentre
rimettevo insieme i tasselli per un congedo dignitoso. Disse che amava la
sua Mariella e che sarebbe diventato un buon soldato, disse altre cose, e che
non mi sarei mai dovuto permettere di parlare di lui, di dire anche solo che
lo avevo conosciuto. Quando alzai gli occhi, lo vidi piú adulto di quel che
era, le prime rughe sulla fronte e le labbra viola per lo sforzo di mordermi.
Disse che dovevo dimenticare il suo nome, che lui sarebbe partito per
sempre e si sarebbe fatto una famiglia.
Due gocce rotonde e calde inumidirono i miei occhi e scivolarono lungo
le guance, bruciando la ferita che avevo sulla faccia. Tornai a casa con uno
strano senso che faticavo a definire come un vero piacere, ma ci andava
molto vicino. Tutto questo l’avrei potuto raccontare a lei. Mi aspettava
Claudia e la vita complice che avevamo da trascorrere insieme. Mi
aspettava l’unica patria che sapeva riconoscermi.
– Chi te lo ha fatto questo succhiotto?
– Un’amica.
– O un amico.
– O un amico, già.
Camminavamo per il paese, le sentivo cambiare il respiro in salita tanto
eravamo vicini, tutti ci guardavano come fossimo due lupi, la bianca e lo
scuro, la rossa e il bruno, la leccina e l’ogliarola, l’albero di ciliegie e il
rovo di more.
Claudia negli uomini cercava imprevedibilità, mistero, e una tenera
inettitudine alla vita, cosí come promettevano i personaggi letterari che piú
amava: Jay Gatsby, Holden Caulfield, Fitzwilliam Darcy, oppure il sommo
Atticus Finch del Buio oltre la siepe, col suo innato senso della giustizia. La
notte sognava le mani di Marco Curcio che la toccavano, vene azzurre e
peli rossicci sul dorso.
Smise di diffidare della grande città. A Milano viveva nei pressi di Porta
Romana, il traffico e l’argento dell’alba simile al fumo dei roghi d’estate
attorno alle campagne. Una nuova e sconosciuta frenesia la rese euforica,
sulle sedute in legno del tram 15 si scopriva improvvisamente allegra.
Milano si rivelò un luogo pieno di occasioni, un brulicare di rumori che non
la facevano mai sentire sola. La notte apriva la finestra e ascoltava le
civette. Con la testa incassata nelle spalle per la brezza, gli occhi assonnati e
le mani sudate, sentiva di dominare le strade vuote respirando lenta.
Studiava Diritto privato, Economia aziendale, si impegnava con l’orgoglio
di chi vuole dimostrare di essere all’altezza delle piú spietate aspettative.
Non arretrava sulle sue passioni, l’elettronica e la poesia. Mi
contrabbandava libri usati con le pagine sgualcite e le frasi sottolineate,
come Il visconte dimezzato di Calvino. Come al protagonista di quel libro
dilaniato in due metà, la mia parte grama e la mia parte buona mi
suggerivano un’opzione temeraria: canfora o soffione, abito talare
smanicato o maglietta arcobaleno, corridoi ornati e profumati oppure un
divano sfondato.
Lei al Nord e io al Sud, uccelli distanti, il migratore e lo stanziale. Mi
consolavo pensando che una volta tornata le avrei preparato il nido dove
stare. Rimanevo appena piú basso di lei e sempre piú scuro, piú uva nera.
Studentessa giudiziosa, aveva incrementato il milione di lire nel conto
corrente con qualche turno in un fast food dove uomini incravattati ci
provavano con lei. «Hanno tutti mani piccole e curate come zampe di
peluche».
(s. m. Persona che rompe gli equilibri, guastafeste, guastamestieri, elemento impazzito all’interno
di comunità. Mina vagante. Un pessimo inverno ancora piú rigido).
Non avrebbe mai voluto che di lei si dicesse: «Una persona perbene». Lo
avevano ripetuto il giorno del funerale scambiandosi compunte espressioni
di circostanza: «Un uomo perbene, davvero perbene», come se tutti gli altri
non lo fossero. Drappelli di persone in abiti sartoriali, buoni per matrimoni
e battesimi, o funerali.
Perbene. Perbene.
Ricorreva anche nei necrologi, confermato da un notaio baffuto che le
sorrideva con l’aria di chi sa la verità e mantiene una posa per nasconderla.
Significava che non c’era poi molto da dire su Enrico Fanelli.
Lei sapeva cosa pensavano quelli che dicevano «perbene»: Enrico
Fanelli aveva avuto tutto. I soldi, una moglie devota, la figlia sistemata a
Milano e un’amante che molti sognavano. Il medico con l’infermiera del
suo reparto. I cliché rasserenano perché fanno credere a un disegno del
destino, illudendo che si sia immuni dai suoi tiri mancini. Poi il cuore ti si
ferma mentre dormi.
L’infarto lo colse in una camera d’albergo durante un convegno. I
colleghi poterono solo constatarne il decesso dopo aver chiesto al personale
di aprire la porta, visto che non si era presentato al panel del mattino.
Al funerale ci andai con mio padre. Mia madre si affacciò dalla sua
stanza con il viso che assomigliava al letto prosciugato di un torrente,
piangeva da quarantotto ore, ma mantenendo compostezza, come se l’amore
in clandestinità l’avesse temprata anche al dolore clandestino: le sue
passioni piú intense esplodevano lontano da tutti. Disse che non avrebbe
preso parte alle esequie perché non si sentiva bene. Ci facemmo bastare la
sua bugia. Non ebbe torto, il funerale fu grottesco. Claudia e la madre si
sostenevano in un angolo della basilica, la folla tracimava – il sagrato, le
scale, la piazza erano gremiti –, mentre il solito maledetto maestrale ci
tormentava. Due figure si lanciarono verso la bara che fendeva la calca.
«Enrico, Enrico, Enrico». Mi sporsi poggiandomi sulla spalla di mio padre
e riconobbi due donne giovani, vestite allo stesso modo, veletta nera,
guanti, calze spesse. Un uomo alto e secco con la faccia rubizza tentò di
allontanarle. La bara proseguí sopra la folla che si sporgeva per
raggiungerla, come se dentro ci fosse un santo.
Al cimitero Claudia mi parve piú alta del solito, aveva il mento rivolto al
cielo, le labbra serrate. Non dava l’impressione di rompersi, ma dietro gli
occhiali scuri c’era un mare nero.
La bara che conteneva Enrico era troppo grande, non riuscivano a
tumularla nel loculo, cosí chiamarono un falegname per rifinirla. Etta era
trasfigurata, toccata da una grazia sconosciuta, come se dal suo corpo si
fosse staccata la sua naturale diffidenza. I cipressi profumavano di umido,
sulla cerimonia cominciò a scendere una pioggia leggera. Claudia non volle
guardare gli spigoli della bara che venivano segati, mi venne incontro
dicendomi: «Somiglierà alla sorpresa dell’ovetto Kinder». Ero certo che
stesse pensando all’anima di suo padre pronta a liberarsi da quel sarcofago
pesante di mogano.
Il giorno dopo sentimmo i nostri corpi piú leggeri, pareva che Enrico si
fosse portato via un pezzo di noi. Andammo in campagna a raccogliere
foglie, come per assecondare un rito: finocchietto, asparago selvatico,
zavirne, tarassaco e cicorie. Succhiammo i fiori viola della borragine e
assaggiammo i germogli della malva, restando perlopiú in silenzio. Poi
Claudia mi domandò di mia madre. Aveva un petalo giallo di trifoglio nei
capelli. Non le risposi.
– Ha fatto bene a non venire, – continuò, e si piegò a strappare l’erba con
accanimento. Le sentivo il fiato cambiare.
Andai ad abbracciarla.
Piegò la testa sul mio collo, la bocca semichiusa accanto all’orecchio
emanava un fiato bollente.
– Francesco, hai visto quanta gente ieri?
– Sí.
– Oggi sotto casa non c’era nessuno.
– Ci sono io, – la rassicurai.
– Però c’era tua madre… – Ebbi una vertigine, temevo quello che stava
per dirmi. – Ci siamo guardate a lungo, e gliel’ho detto.
– Che ha fatto bene a non venire? – domandai.
– Che mio padre non era perbene come tutti pensavano, – rispose.
– E lei che ha detto?
– Che lo amava per questo.
Ci stringemmo piú forte, affidandoci al calore dei nostri corpi.
Destino comune di molti figli è quello di non conoscere la vita
professionale dei propri genitori, averne un’idea generale ma ignorare i
dettagli essenziali. Mia madre era un soldato semplice di medicina generale,
aveva a che fare soprattutto con gli anziani e qualche giovanissimo caso
disperato, parlava poco del suo lavoro. Mia madre e il padre di Claudia non
lavoravano mai davvero insieme, si davano del lei davanti a tutti quando si
incontravano nei corridoi tra i reparti, lasciandosi sfuggire una smorfia
d’intesa, eccitante quanto un bacio clandestino nel parcheggio.
Mia madre stava piegata davanti allo specchio del bagno con la porta
aperta, intenta a pulire le ciglia con i polpastrelli per ammorbidire il rimmel.
– Dove sei stata?
– Ho fatto il turno di notte.
– Ti sei truccata per la notte?
– Creanza ed eleganza, la notte devi dare l’impressione di essere sveglia
e curata come durante il giorno, Uva nera –. L’aveva detto. Avvertii un
lontano languore.
– Come stai? – Volevo una verità, Enrico era appena stato sepolto,
Claudia s’era riempita la bocca e i capelli di erba per non piangere, avevo il
fuoco nella testa.
– Mi sento una vena bucata mille volte.
Mi raccontò che aveva fatto la scuola per infermieri ai tempi in cui dava
di scherma con mio padre. C’è qualcosa che lega il fioretto e l’infilare gli
aghi nelle vene. Poi abbassò la voce, anche se mio padre era già uscito,
senza salutarci.
– Tu sei d’accordo?
– Su cosa.
– Per una notte.
– Ma di che parli?
– Di Claudia.
– Claudia?
– Proprio cosí.
– Perché me lo stai dicendo tu?
– Una mia iniziativa, ha la casa piena di parenti che non sopporta e Etta è
in tilt –. Sentii una strana forma di gelosia, s’erano confidate e s’erano già
trovate senza di me.
Claudia comparve tardi, era mezzanotte, mia madre lasciò a me fare gli
onori di casa. Muovendosi compassata andò a occuparsi della sistemazione
del letto. Lo fece solo allora e non durante il giorno, sospettai per
superstizione: finché Claudia non si fosse palesata era meglio non far nulla,
il destino non va mai provocato.
Claudia portava tra le mura di casa Veleno un messaggio segreto che
arrivava dall’aldilà.
Impedí a mia madre di prepararle il letto. – Posso rimanere con
Francesco, siamo cresciuti assieme, – disse.
– Non siete diventati un po’ grandi per un letto da una piazza? –
domandò Elisa, leggermente disorientata, aveva sugli avambracci lenzuola
di una fantasia fiorata che sembravano appartenere a un’epoca lontana,
quando in questa casa si aspettavano ancora figlie invece di figli. Dallo
sguardo che si lanciarono capii che Claudia non era lí per me.
– E come ti ha risposto?
– Come possono rispondere tutti i cinquanta-sessantenni sposati con
prole. Il quieto vivere.
– Ha detto cosí? «Quieto vivere»?
– Peggio, dice che ha ristrutturato casa con la moglie, lei ci ha messo
molti soldi e lui non può ridarglieli.
– E tu che hai detto?
– Che era il momento di provare a farlo in modo diverso.
– Cosa?
– L’amore, anche se ho usato un linguaggio un po’ piú spiccio… ero
arrabbiata, Frank, molto arrabbiata.
Deglutii.
– Frank, lo sai come sono fatta.
– Sí. E lui?
– Ha sbroccato. Ha detto che certi discorsi non stanno bene sulla mia
bocca. «Ah sí? E cosa sta bene sulla mia bocca? O nella mia bocca?» gli ho
detto.
– Claudia!
– Era quello che si meritava, non aveva il coraggio di dirmi la verità.
– Che verità?
– Che sono una da scopare e basta perché con la moglie non lo fa.
– Lo hai lasciato?
– No.
– Perché?
– Perché voglio metterlo davanti alle sue responsabilità: ogni atto ha una
conseguenza, non gli permetterò di passarmi addosso.
Nei primi anni al lavoro aveva mantenuto una distanza che tutti avevano
attribuito alla timidezza. Ma ora i colleghi maschi la consideravano
«acida». Claudia non sopportava le domande che in ufficio non le venivano
rivolte a parole, ma con gli sguardi: «Hai un progetto sulla tua vita?»,
«Quanti uomini ti corteggiano?», «Hai qualcuno che ti vuol bene qui a
Milano?» (un modo ipocrita per dire se c’era qualcuno in grado di
proteggerla). Tornava a casa dall’ufficio la sera tardi, non riusciva neanche
ad aprire un libro, avvertiva una nausea lontana.
Ottenne una promozione, leggeva i bilanci delle società clienti e studiava
piani aziendali per mettere a posto i conti, collaborava con uno stagista e
con un manager, sposato, tre figli, una timida spolverata di capelli bianchi,
tanto radi da far venire fuori la pelle lucida del cranio. Il manager aveva
cercato un’immediata complicità nel modo che Claudia ritenne il peggiore
possibile: – Una cosí bella donna ce l’ha un uomo al suo fianco?
– Non credo sia un’informazione con delle ricadute sul tipo di lavoro che
faremo –. Anche se avrebbe voluto rispondergli: «Non al mio fianco,
piuttosto alle mie ginocchia».
Una volta un partner commerciale in espansione chiese una verifica dei
costi. Claudia la preparò in due giorni, ma il manager fu incaricato dalla
direzione di presentare lui il progetto. A capo della start up che stava
aprendo sedi in tutta Europa c’erano due donne che quando videro il
documento chiesero espressamente chi lo avesse preparato. Erano serie,
sembravano avere una velata aria di minaccia. – Sono solo un ambasciatore,
– disse l’uomo per scrollarsi di dosso eventuali critiche. Claudia prese in
mano la situazione. – Abbiamo usato un software avanzato –. Le donne
guardarono Claudia, le dissero che era un documento molto preciso, molto
piú di quello che chiedevano, e se ne complimentarono stringendole la
mano. Una delle due le diede un bacio sulla guancia al momento dei saluti:
il fresco della pelle di quella donna le mise allegria.
(s. m. Piacere provocato dal fascino degli edifici abbandonati, in rovina, centrali elettriche, vecchi
manicomi, sanatori e villaggi diroccati. Sentimento di nostalgia per un tempo inesorabilmente
passato. Origine risalente alla cultura neoclassica, quando i viaggiatori ammiravano i resti e le
vestigia delle civiltà scomparse. Allude anche al compiacimento per i propri fallimenti e all’allegria
dei naufragi).
Non sopportavo gran parte dei miei coetanei all’estero, una volta
espatriati scoprivano di aver vissuto per venti o trent’anni in mezzo ai
barbari. Non importa in che città fossero: Parigi, Barcellona, New York,
Pechino, Osaka, e ovviamente la maledetta Berlino. Non importa che lavoro
o che ragione profonda si nascondessero dietro la loro nuova vita. La terra
natale era disseminata di ladri, burocrati, baciapile, raccomandati e mafiosi.
Ma loro cosa avevano fatto per migliorarla? Erano andati via.
Questo pensavo all’epoca, ma chi va e chi resta ha le sue ragioni. Dopo
tutti questi anni, lo riconosco. La vita mancata è sempre migliore di quella
vissuta.
Per Claudia non era cosí. Il passato andava cancellato, e anche sua
madre. Mi parlava solo della sua nuova città. Berlino, Berlino, Berlino. Lí
era libera, si amava e si perdeva, lavorava e mangiava, falliva e
ricominciava da capo, senza mai sentirsi uno zero. La sua lontananza ormai
non era solo un fattore geometrico, era esistenziale: parlava un’altra lingua,
pensava in un’altra lingua, circondata da persone che parlavano altre lingue.
I primi mesi di Claudia a Berlino provai qualcosa di molto simile a
quando era andata a Londra, e io cercavo nel suo banco vuoto risposta alle
mie incertezze, oppure a quando tornai da Milano e sublimai nella stazione
di Martina le mie malinconie. La nostalgia altro non è che un piacere
distillato e persistente.
La vedevo perfettamente in sintonia con tutto, scendere dall’aereo
diversa da tutti gli altri viaggiatori, una borsa da mare come bagaglio a
mano per riporre quanta piú roba, la testa alta verso l’uscita del gate, sicura
di sé. A Berlino c’erano sempre ponti su cui fermarsi a guardare il fiume.
C’erano parchi enormi con altissime querce, prati talmente ben rasati che
era impossibile distinguere le nostre erbette, quelle con cui da ragazzi ci
ornavamo i capelli, o sentirne il profumo. Questi erano i racconti di
Claudia, favoriti dal suo arrivo in primavera quando tutte le grandi città
diventano luminose, i colori piú vividi. Passeggiate lunghissime, il trillo
della bicicletta e la sua voce affaticata mentre parlava negli auricolari lungo
il tragitto tra casa e lavoro, i primi amici e la parola «amici» risuonava in
modo diverso, piú frequente nelle nostre conversazioni rispetto al passato.
Poi con l’inverno sparí il trillo del campanello, ma sullo sfondo rimaneva
qualcosa di esotico, come l’incomprensibile avviso della metropolitana di
cui Claudia mi parlava in modo quasi orgoglioso. Non mi aveva mai parlato
della metropolitana di Milano.
L’inverno di Claudia a Berlino fu una lunga notte da novembre a
maggio. I viali di acciottolato sotto i grandi lecci, i chioschi dei fiorai dentro
le fermate della metro, traboccanti di tulipani e girasoli. I cimiteri che
interrompevano il disegno dei quartieri mimetizzandosi coi parchi.
Erika prese Claudia per mano tirandosela dietro, gli occhi fissi verso un
orizzonte indecifrabile. Claudia le affidò le sue sensazioni, si rifletterono
l’una nell’altra giocando a specchio come fanno i bambini. Claudia rideva.
C’era una mescolanza aspra nell’aria, sudore e cannabis, violente scariche
di fumo scendevano dall’alto, ognuno ballava da solo, ognuno cercava un
mondo suo, una ragazza eseguiva movimenti marziali e precisi davanti al
muro, come volesse afferrare la propria ombra. Sembravano felici. Non
erano le droghe sintetiche, il sesso soffuso, i bassi violenti, la bellezza della
dj che danzava alla sua consolle. C’era altro. Lo capí uscendo dal Berghain,
dopo oltre quindici ore di musica ininterrotta nel cervello, nei muscoli e
negli occhi. Era discesa negli inferi come Euridice, aveva incontrato
Persefone, la regina dell’oltretomba.
Erika viveva in una casa con due ragazzi e una ragazza, in quella fase
della vita in cui ci si adatta per mancanza di risorse. La stanza era ricoperta
di poster come una vecchia cameretta anni Ottanta, su un muro spoglio
erano scarabocchiate frasi casuali, date, partite a tris, pezzi di canzoni.
Claudia s’era lasciata portare, guidata da un’istintiva fiducia. Erika
s’abbandonò al sonno bardata da Wonder Woman, lei lesse le parole sul
muro lasciandole cadere, come se la sua mente fosse una battigia che la
risacca del mare ripuliva. Si soffermò soprattutto sulle maiuscole all’inizio
delle strofe, lettere scritte con la stessa grafia rotonda e malferma dei
bambini.
Rimase nel letto a una piazza della stanzetta di Erika, mentre i
coinquilini di là si muovevano rumorosamente.
– Sei alta e buona, ma un po’ ansiosa di non farlo sembrare, – le disse
Erika risvegliandosi con la voce impastata. Poi si cinsero in un abbraccio.
Claudia si lavò in un piccolo bagno colmo di flaconi vuoti impilati
nell’armadietto accanto allo specchio, e osservandosi vide che la sua faccia
era stropicciata, gli occhi gonfi e un alone rosso attorno alle labbra.
Trovò Erika in canottiera e pantaloni, per il sonno stentava a stare ritta
contro l’uscio della stanza. Le parve una ragazza con le braccia muscolose,
molto diversa da quando si erano abbandonate sul letto. Mostrava due
finestre nere al posto dei premolari superiori. Claudia le guardò senza
volerlo in bocca e Erika disse: – Ho denti deboli, ma rido lo stesso –. Sul
suo viso si accese una luce diversa.
Quella sera Claudia andò via con la sensazione di aver dormito da
un’amica storica o una parente. Anche se non s’erano dette arrivederci,
sapeva che l’avrebbe rivista molto presto. Fissò il palazzo da cui era sbucata
per memorizzarlo, era tutto bianco con le cornici gialle delle finestre. Scale
e ballatoi di legno, porte fragili che un calcio ben assestato avrebbe fatto
cadere. Una donna con il chador e due bambine avevano lasciato la porta
aperta per farla uscire, Claudia le ringraziò con un cenno.
Eravamo solitudini perfette, due monadi. Ero cortese e sapevo masticare
chiacchiere essenziali con chiunque, ma dentro di me il fuoco era spento.
Mi piaceva restare a Martina perché tenevo a bada l’ansia, la quotidianità
era sopportabile, mi nascondevo all’ombra di un gelso, camminavo sulla
spiaggia scura di Torre Canne. Tornò Domenico per qualche giorno con la
moglie e la figlia, quando lo seppi corsi in campagna e andai a mangiare i
fiori viola della borragine e i germogli della malva come aveva fatto
Claudia alla morte del padre. A Martina il vento percuoteva le imposte e
faceva fischiare le finestre quasi tutti i giorni dell’anno, usavo i tappi per le
orecchie che Claudia metteva per andare a ballare.
– Una tipa fuori dal comune, – borbottai a denti stretti, quando invece
volevo soltanto dirle che questa Erika non mi piaceva affatto e che si
sarebbe infilata in un pasticcio.
– So quello che faccio, sono lucida –. Claudia mi rispondeva quasi mi
avesse letto nel pensiero. Come chiamarlo questo prodigio, questa relazione
che c’eravamo inventati? Come chiamare il nostro istinto comune, quella
forza solidale che ci faceva annusare i pensieri l’uno dell’altra? Era molto
piú sottile e sofisticato dell’innamoramento, era una nazione libera e
indipendente, e non aveva nome.
Qualche tempo dopo Claudia mi chiamò scossa, aveva incontrato di
nuovo il tipo che Erika s’era portata a casa quella sera. Il mondo è molto
piú piccolo di quanto sembri: lui stazionava a Gorlitzer Park con alcuni
balordi. Apparteneva alla tipologia degli italiani che frequentavano il
«Ghetto Italia», il gruppo degli expat che avevano rinunciato
all’integrazione, sbandati che non avendo trovato il lavoro per cui erano
venuti a Berlino si consegnavano all’ombroso mondo del risentimento, tra
emarginazione e vanagloria inespressa. Partiti col desiderio di tutto ciò che
era moderno e cosmopolita, alle prime difficoltà si chiudevano nelle
abitudini di sempre, i peggiori finivano a spacciare nei club.
La fermò chiedendole se si ricordava di lui e dicendole che non serbava
rancore per essere stato cacciato di casa, anche se tra italiani non si fa.
Quell’atteggiamento ricattatorio e vittimistico che Claudia disprezzava. In
quei pochi istanti riuscí a dirle che Erika era una spacciatrice e si faceva
pure.
Claudia avvertí in queste parole un fetore familiare. Se lo lasciò alle
spalle come si fa con certi incubi del mattino quando non si è dormito per
tutta la notte. Ma congetturò a lungo su quelle parole e sui misteri di Erika,
pianse brevemente sulla U1, mentre i vagoni gialli rompevano l’azzurro
della mattina sopra i pilastri che trapuntavano la vecchia Kreuzberg.
Aveva in mente di farle un discorso, ma salendo le scale udí un frastuono
di passi e musica che arrivava dal suo appartamento: un party in casa.
Erika le aprí la porta in canottiera nera, cappello sugli occhi e shorts
rossi. – Stiamo in chill con un po’ di amici, ora li mando via tutti –. Glielo
disse con l’aria piú mite del mondo.
Claudia avvistò una quindicina di figure nere ammucchiate ai quattro
angoli della stanza, sembravano inanimate, come soprabiti gettati alla
rinfusa l’uno sull’altro.
– Perché non mi hai detto niente?
– Non era in programma, – rise Erika.
– Non voglio roba qua dentro –. Claudia aveva messo le mani sui
fianchi.
Erika mutò improvvisamente tono, la fronte aggrottata: – Vuoi fare la
mamma con una come me? Ti ricordi che hai messo la faccia tra le mie
gambe?
– Non c’è bisogno che lo dici davanti ai tuoi amici.
– Nessuno parla italiano qui.
– A proposito… Ho incontrato per strada il tuo amico italiano…
Erika non sembrò stupita. – Non è mio amico, e non ti devi fidare, io ho
chiuso con lui.
«Stai per chiudere anche con me…» fu sul punto di dirle Claudia. Invece
l’abbracciò.
– Io vado via, tra due ore voglio trovare casa com’era –. Claudia
l’ammoní con una voce ferma e la faccia piú dura che riuscí a mettere su.
Quando rientrò, l’appartamento era perfettamente in ordine, profumava
di detersivo, Erika l’aspettava sul letto vestita da Wonder Woman, il lazo al
collo.
Per dimenticarla, Claudia ballò per mesi. Non è vero che si balla solo
quando si è felici. Erano fabbriche abbandonate, sotterranei antiaerei,
rimesse di periferia, sfasciacarrozze, mulini sopravvissuti alla guerra. In
ogni quartiere dal giovedí sera fino al lunedí mattina si accendevano lucine
rosse o azzurre in luoghi che durante il giorno parevano disabitati. Nei
paraggi, uomini con il bavero alzato guidavano il traffico delle migliaia di
clubber in giro per la città col solo cenno della testa.
Cercò una casa dove stabilirsi per un po’, non poteva rimanere nella sua,
le ricordava Erika. Affittò una stanza in un appartamento abitato da due
professori di Amburgo, davanti alla Sprea. Erano una coppia di giovani
vegani con un dobermann vegano al quale Claudia diede da mangiare una
scatoletta di tonno, sancendo la rescissione immediata del contratto. Poi finí
da un tipografo con moglie esperta di esoterismo, che il sabato, nel salotto
di legno e merletti, riuniva altri appassionati di magia per misteriose e
lunghissime sedute che terminavano puntuali all’ora di cena.
I tramonti estivi di Berlino erano fatti di striature rosate su un cielo di
diversi azzurri, acquamarina, topazio, aragonite. I tramonti sono per pochi,
vanno condivisi solo con gli accoliti di una setta che per il resto del mondo
è una banda di ingenui.
All’ennesimo parente, amico, ex collega che le chiedeva perché non
tornasse in Italia, rispondeva:
– Sto bene qui.
– Ma cosa fai lí?
A quel punto scattava la Claudia provocatoria: – Mi drogo.
Intanto, invece, meditava, praticava il Tai Chi; al telefono mi parlava di
mantra, me li faceva ascoltare. Voci indistinguibili, uomini o donne,
ripetevano ossessivamente: Ong namo guru dev namo, mi inchino alla
volontà divina. E io li ascoltavo e mi inchinavo a Claudia con tutte le sue
storie.
– Mi viene voglia di camminare sui muri come in Matrix, – diceva.
– Le blatte camminano sui muri, – replicavo.
– Francesco, che ti succede?
– Mi manchi.
– Un tempo mi avresti detto che sui muri camminano le coccinelle e si
posano le falene.
– Mi fanno schifo le falene.
– Ma quelle mi somigliano, escono di notte e vanno verso la luce –. Poi
rise e quello scoppiare improvviso di buonumore era irresistibile. Mi
sentivo solo e avrei voluto parlare di qualcosa di pratico, la casa, il lavoro,
la vita, ma non c’era tempo per nulla, se non per noi stessi, le coccinelle e le
falene.
Un giorno arrivò in ufficio puntuale come al solito, ma invece delle
colleghe trovò due operai intenti a staccare i fili colorati dei computer, e
altri impegnati a rimuovere le scrivanie. Il suo vaso azzurro era in un
angolo a testa in giú, i giacinti gialli spuntavano da un cestino della
spazzatura. Una donna con gli occhiali e il sorriso stanco le si avvicinò
agitando un foglio: – Miss Fanelli? – Quel «Miss» trasmise a Claudia
un’elettricità perversa, come quando da piccola camminava nelle campagne
dopo essere scappata di casa e si graffiava passando tra gli ulivi. La donna
le consegnò una lettera di licenziamento con la quale sarebbe potuta andare
in un Centro per l’impiego e avviare il procedimento per il sussidio.
– La società ha qualche problema in Germania, però questo è un ottimo
Paese. Qui puoi ricominciare.
Mi cercò subito, era incredula, balbettava: – Frank, sto fuori, – non
l’avevo mai sentita cosí smarrita. La conversazione fu travagliata, mi
arrivavano i suoi passi svelti sul selciato, ogni tanto si fermava e rideva
istericamente, poi riprendeva a parlare e camminare ansimando, diceva che
forse quella poteva essere un’occasione di inventarsi un nuovo lavoro, poi
si demoliva accusandosi d’essere un’incapace, una buona a nulla. – Non
sono mai stata chiara con me stessa, ho sempre scelto compromessi, non
sarei mai dovuta tornare da Londra, avrei dovuto studiare letteratura, avrei
dovuto capire un po’ di piú chi sono, avrei dovuto tagliare i ponti molto
prima –. Ci sentimmo parecchio quelle settimane, avrei dovuto prendere il
primo aereo da Brindisi per raggiungerla, ma una forza misteriosa ancorava
le mie caviglie al suolo, erano i soliti artigli che mi trattenevano da quando
ero nato e avevo una paura folle dei graffi che potevano lasciarmi.
Fece un colloquio per un’azienda multinazionale, e si ritrovò davanti una
donna che le assomigliava. Non fisicamente, perché era piccola e aveva
occhi nerissimi, un rossetto amaranto, testa ricciuta e corvina, eppure nello
sguardo e nella posa Claudia vide una persona inquieta, che rivolgeva a lei
le stesse domande che avrebbe rivolto a se stessa.
– Perché lei, che è italiana, ha scelto la nostra azienda? – le chiese in
tedesco.
Claudia se l’aspettava e rispose con una frase fatta: – Vi ritengo i
migliori e io aspiro al meglio.
– Capisco, ma noi abbiamo solo sedi in Nord Europa, e lei viene da un
posto dove c’è il sole dodici mesi l’anno, qui a Berlino ci sono giornate che
finiscono alle due e dobbiamo assumere ogni giorno compresse di vitamina
D per le nostre ossa.
Le sembrò una considerazione un po’ fuori dal comune. – Non mi fa
paura il buio, – rispose, cercando di convincere innanzitutto se stessa.
Quando lo aveva riconosciuto, Claudia aveva avuto una visione di lui col
torace nudo dentro un quadro di Pellizza da Volpedo, allungato su una scala
tra le scintille che rimbalzavano contro la maschera da saldatore, un Efesto
malinconico e timido.
Quel pomeriggio camminarono verso le biciclette attaccate alle
transenne di un marciapiede, poi percorsero chilometri l’uno accanto
all’altra, a piedi, le biciclette in mano. Le piaceva, anche se non avrebbe
mai osato ammettere a se stessa una delle ragioni profonde di quel piacere:
le ricordava Erika.
Stremati dalla lunga passeggiata, decisero di prendere un tram, ma ne
fecero scorrere tanti, perché continuavano a parlare fitto, a raccontarsi, poi
lei estrasse da una borsa un fazzoletto bianco, lo aprí. – Mio padre fece
innamorare mia madre dopo averle regalato un fazzoletto di seta. Questo è
di carta, per me vale lo stesso.
Andria rise e le rispose che sulla carta ci puoi scrivere, se il messaggio è
bello resta per sempre. I suoi occhi avevano un colore tra il verde e il
castano. Piegò il capo e si avvicinò al collo di lei. Claudia credette che
volesse baciarla e rimase immobile. Aveva un buon odore. Invece delle
labbra sentí il naso, per pochi secondi. Dopo averla annusata le leccò il
collo, l’orecchio, le tempie.
– Sei salata, – le disse.
– Ora ti assaggio io, – rispose lei tirando fuori la lingua, incurante degli
sconosciuti che correvano verso le porte del tram. Partí dalle sopracciglia,
poi gli occhi, scese sugli zigomi, succhiò il naso e le labbra appena schiuse,
il mento, portandosi in bocca un sapore maschile che non aveva mai sentito:
giovinezza, pietra, ferro. Claudia lo sentiva nelle narici e nella bocca. Ebbe
un incontrollato desiderio di mischiarsi alla sua purezza, smaliziarlo e
restarne contaminata.
Lo seguí ai Plattenbau di Leipziger Straße pedalando sulla sua bicicletta
rossa, i raggi producevano il suono dei grilli al tramonto, il cielo era viola
sopra l’avorio dei casermoni brulicanti di giovani immigrati e studenti.
L’appartamento di Andria si nascondeva in un labirinto; oltre la porta
pesante, una celletta di venti metri quadri ricolma di irragionevoli
carabattole. Raggiunsero un piccolo letto coperto da un plaid marrone. Fu
lei a svestirlo, si fermò sul suo sesso che spuntava tra i riccioli neri, lo
baciò, non era duro, il respiro di lui variava come se stesse andando in
apnea. Gli ordinò: – Toccati, – ma lui capí male e allungò le dita tra le
gambe di lei. L’esitazione la eccitò ancor di piú, s’inarcò, lo guidò, ce
l’aveva tozzo e curvo adesso, ma non ce la faceva e lei aveva voglia. Lo
aiutò a entrare anche se non era pronto. Lui affondò la testa nel cuscino
accanto al volto di lei, e nell’orecchio le disse: – Non l’ho mai fatto.
– Sei vergine?
– Non l’ho mai fatto con una donna.
Tornata dal viaggio in Vietnam, mia madre scelse di vivere in una
masseria di trulli in aperta campagna. Mio padre reagí comprando un
trapano nuovo e applicando una dozzina di fori alla parete della camera da
letto come se avesse provato ad appendere dei quadri immaginari. Per tutti
gli anni in cui era stato tradito da sua moglie non aveva fatto una piega, ma
quando lei era andata via gli aveva spalancato un paesaggio di mille paludi,
e prendersi cura della casa era il modo piú semplice per non affondare.
Quando chiesi conto di questo bricolage fantasma lui disse che con quei
buchi finalmente le stanze potevano respirare.
Accettai la proposta di mia madre di trascorrere insieme qualche giorno
sul Gargano. Con noi venne una sua amica di nome Tonia, insegnante di
sostegno in scuole paritarie, silenziosa e giudicante, era stata con lei in
Vietnam.
Elisa Fortuna nel suo costume intero, la schiena nuda e dorata dal sole
gentile di luglio, i folti capelli ammansiti da una molletta, si stagliava tra gli
altri bagnanti. Gli uomini le lanciavano sguardi.
Si dibatteva di una coppia di loro amici.
– Speriamo si sposino presto, – disse mia madre.
– Mamma! – cominciai a grattarmi alla base del collo, come se una
colonia di insetti avesse preso a morsicarmi la testa. – Ma se il matrimonio
con papà è stato un fallimento, – e pensavo alla distanza incolmabile tra i
due bordi del divano quando guardavano la tv.
– Il matrimonio è una fotografia, ti resta qualcosa della persona che ami
per tutta la vita –. Non capii se stesse parlando di Enrico o di mio padre.
Tonia cominciò a fissarmi mentre mi grattavo con goffaggine e furia,
come lo stessi facendo con una zampa.
– Fa sempre cosí quando diventa nervoso, – la tranquillizzò mia madre.
Poi mi lasciarono solo in spiaggia, le spiai mentre si allontanavano, l’una
davanti all’altra. Si eclissarono dietro la scogliera mentre il sole scappava e
il cielo da azzurro diventava blu. Avevano una loro armonia, Elisa sottile e
colorata, Tonia avvolta da un pareo bianco, i capelli corti e grigi. Era piú
giovane di mia madre, un po’ tarchiata, la chiamava Lise chiedendole di
non affrettare troppo il passo perché le pietruzze della spiaggia le dolevano.
Mi piaceva quella manciata di minuti prima della notte quando tornavo
dalla passeggiata sul molo di Vieste con Tonia e mia madre, le facce umide
e l’odore di brace sui vestiti. Mi piaceva il rito dell’ultima doccia che si
portava via il sole della giornata, poi lucidavo lo schermo del portatile su
cui avevo lavorato nel pomeriggio perché la sera mi aspettava
l’appuntamento con Claudia.
Le dissi che mia madre la salutava calorosamente.
Notai che Claudia s’era tagliata i capelli, e il viso mi parve smisurato
rispetto al corpo, come se le fosse cresciuta quella parte maschile che aveva
sempre avuto e che mi attraeva con forza.
– Ho una rogna sul lavoro ma la risolverò, – le confidai sperando di
trovare un buon consiglio.
– Magari è l’occasione buona per lasciare tutto, – disse, scacciando ogni
mia voglia di confidenze.
– Ho le radici qui, – replicai indispettito.
– Ti ricordi la storia dell’albero capovolto?
– No.
– Platone, l’uomo è un albero capovolto, ha le radici in cielo.
– Io mi sento come il limone di casa tua, ce le ho ben piantate qui.
– E invece no, proprio tu fra noi sei quello che le ha in cielo, devi solo
rendertene conto.
– E tu?
– Frank, io ho tagliato le radici, sono un tronco pronto a germogliare.
(s. f. Parola composta da sehnen, «desiderare», e Sucht, «brama». Nostalgia di un desiderio non
ancora realizzato o irrealizzabile, di qualcosa di indefinito nel futuro o di un bene irraggiungibile.
Deriva dall’antico tedesco sensuht che indicava la malattia derivante dal bramare un oggetto
irraggiungibile, e può essere tradotta con «struggimento». Desiderio del desiderio, malattia e
malinconia di ogni essere vivente che anela all’impossibile o addirittura all’infinito. Riferito al
concetto ottocentesco di realizzazione di un duale simmetrico maschile e femminile: «Fiore
androgino è l’unico essere vivente che non conosce Sehnsucht», Johann Wolfgang Goethe, La
metamorfosi delle piante).
I siriani sembrano non finire mai, dicono mezzo milione, forse di piú,
una lunga, estenuante fila indiana varca il confine tra l’Ungheria e la
Germania, assomiglia alle colonne dei prigionieri di guerra; marciano con la
loro casa ridotta a un fagotto, i bambini in spalla, attraversano la puszta,
mentre le camionette della polizia ungherese sorvegliano il cammino – che
nessuno fugga dalla fila.
Sarà stata la seconda o terza notizia al telegiornale nei giorni che
precedettero il mio arrivederci, che come tutti gli arrivederci aveva una
piccola dose di addio; le telecamere riprendevano i profughi, i microfoni li
intervistavano, una cameraman sgambettò un vecchio che correva preso dal
panico con dei bambini in braccio, era un padre ma sembrava già un nonno.
Per noi pugliesi era un déjà-vu: quando era arrivata la nave Vlora lunga piú
di cento metri e con ventimila albanesi aggrappati all’albero e a Dio, i
bambini sembravano uomini. Chiedevano il pane ma al molo di Bari, dove
attraccarono, c’erano ad aspettarli i soldati. Alcuni si tolsero la cintura per
spingerli in mare, altri invece divisero il loro panino al prosciutto cotto per
sfamarli. La solita storia dell’uomo, la contrapposizione non era tra buoni e
cattivi, ma tra deboli e forti, e i piú forti sono quelli che sanno di poter
perdere tutto senza averne paura.
– Guardali, sei come loro, – disse mio padre, ancora incredulo per la
notizia della mia partenza, mentre chiudevo la valigia. Continuava a
palleggiarsi nelle mani le chiavi dell’auto che gli stavo lasciando. Se mia
madre mi aveva benedetto con un biglietto: «Buona fortuna, Uva nera», lui
proprio non si rassegnava. – Scappano dai guai come te.
– I loro guai sono una guerra, – sbottai, perché aveva toccato un nervo
scoperto. Mio padre in fondo non era un amabile saltimbanco con le corna,
ma un anziano amarissimo lupo solitario.
– Il tuo guaio è che una guerra non sai manco com’è, e se ci fosse te la
daresti a gambe come loro, – mi rimproverò.
– Neanche tu lo sai –. Ero stato sempre il debole tra i due, ma con un
piede fuori casa mi sentivo per la prima volta in vantaggio.
– Non chiudere l’agenzia, dalla in gestione a qualcuno, ascolta tuo padre
–. Le sue annotazioni avevano un’innegabile ragionevolezza, ma lo liquidai
con la mia verità: – Non voglio avere piú nulla che mi obblighi a tornare
qui.
A differenza dei milioni di emigranti che andavano via da una famiglia,
io tornavo nella mia famiglia, io tornavo all’amore, dove erano nate tutte le
cose significative della mia vita. Claudia mi stava aspettando, ero
addirittura arrivato ad annusare lo smartphone sul quale comparivano i suoi
messaggi.
Nel cielo che mi accolse a Berlino ricomparve il violetto dello Ionio che
avevo salutato. Attraversai la campagna tra aeroporto e città, una foresta di
legno e pietra, case altissime senza balconi, da alcune finestre spuntavano le
larghe tese degli ombrelloni. Guardavo oltre il vetro, e il ghiaccio del
tedesco strideva nelle orecchie. Gli annunci nelle stazioni gracchiavano, ma
a quelle parole incomprensibili affidavo il senso oscuro della mia nuova
vita.
La relazione tra Claudia e Andria era andata avanti, poggiata sopra un
reciproco bisogno di accudimento. Come se a lungo si fossero cercati non
per condividere passione e sensualità, bensí tenerezza.
Lavoravano nello stesso posto.
Lui le aveva passato l’annuncio di una società che formava personale da
impiegare in case di cura per anziani. Claudia capí che Andria le stava
mostrando una strada. Se non era una forma d’amore quella, ci andava
molto vicino.
Il lavoro part-time in una casa di riposo non era una scelta di decrescita
felice ma un’occasione: guadagnava quanto bastava per vivere e per
leggersi tutti i romanzi che voleva. Intorno alle 13, dal lunedí al sabato,
domandava agli ospiti dell’ospizio che cosa avrebbero gradito per cena. Fra
i tre menu alternativi uno era preparato direttamente da lei. Zuppe tedesche,
ramen giapponesi e udong coreani, era diventata una specialista. Le piaceva
sporcarsi con gli ortaggi che restavano sui polpastrelli, assaggiare la verdura
mentre l’intingolo cuoceva.
Il suo paziente preferito era un anziano molto amabile, Torsten; lo
salutava lasciandogli una carezza sulla mano, la pelle sottile che pareva
screpolarsi al suo passaggio, lui arrossiva e sorrideva.
– Lo adoro perché una volta mi ha detto che prima o poi tutti diventiamo
come i pavimenti. Da giovani siamo morbidi e caldi, ma poi duri e freddi, –
mi raccontava divertita.
Andria ripeteva sempre di essere libero, come se quel Ich bin frei fosse
una sorta di esorcismo. Cercava continuamente uomini, un pomeriggio lo
seguii come i ciechi si aggrappano ai loro cani guida, la nostra destinazione
era il Lab.oratory di Friedrichshain, un sottoscala dove cento maschi
arrapati – tutti perfettamente vestiti dalla vita in su e nudi dal culo in giú –
ballavano mischiando i loro umori in una vasca di alluminio. La musica era
uno specchio d’acqua nel quale nuotare. Succhiai il cazzo a Andria, le sue
dita forti premevano sulla mia nuca.
Piú tardi glielo domandai: – Perché stavi con Claudia?
– Perché con lei non ero maschio e non ero femmina, ero Andria, e
basta.
Vagammo per la città baciandoci senza paura. In un parco di Prenzla, tra
pioppi e tavoli da ping-pong, ci appoggiammo contro la corteccia umida di
un albero, avevamo ancora la musica del Lab.oratory nelle orecchie.
Mi accorsi che un uomo aveva gli occhi fissi su di noi. – Ci sta
guardando? – chiesi a Andria. Fu un errore farglielo notare. Andria alzò gli
occhi verso quel tale dalle sopracciglia cespugliose. L’uomo si allontanò
fino all’angolo del parco, poi si girò e ci urlò qualcosa.
– È dovuto andare molto lontano per dire quello che pensava di noi, –
disse Andria con un’espressione feroce. – Lui ha perso il controllo e noi no.
Non replicai, il seme di un oscuro, pesantissimo disagio era calato tra
noi. Una mosca camminava sul collo di Andria, d’istinto l’afferrai; non mi
era mai successo da bambino di afferrarne una, ma lí, evidentemente, le
mosche erano piú stupide e ingenue, avevano fiducia negli uomini.
Non amo i racconti dell’infanzia, ma quelli di Andria erano speciali. Per
esempio, i giorni della vendemmia in Georgia. Non esisteva georgiano che
non avesse dimestichezza con quel mondo, che non avesse sentito il mosto
trasformarsi in vino dentro anfore di argilla, o in vasche di terracotta
conficcate nel suolo. Le sue vendemmie, al contrario delle mie – confinate
in un quadretto da sussidiario, col nonno che ti mostra come tagliare un
grappolo senza far soffrire la pianta, davanti a viti basse quanto noi bambini
di cinque anni –, avevano qualcosa di epico. Ogni vendemmia era un
attacco al cielo, le viti erano querce e il vino un nettare degli dèi. Mi
aspettavo che da un momento all’altro tirasse fuori un paio di forbici come
faceva mio nonno, gli avrei mostrato il modo in cui recidevo il grappolo di
verdeca con gli acini piccoli come occhi di pesce. Anche i suoi nonni
avevano trovato moglie o marito nelle sere estive, tra le note lamentose di
uno strumento musicale. Eravamo molto piú vicini di quanto credessimo.
Pareva un angelo, con le braccia avvolte a un cuscino di gommapiuma, io
me lo baciavo mentre dormiva, poi indossavo maglioni di lana col collo alto
per coprire i lividi dei baci che diventano morsi.
Una sera mi diede appuntamento alla metro di Mariendorf, le strade
coperte di foglie, il bavero dei cappotti alzato, qualche favilla di neve che
annunciava bufera. Salimmo in un condominio con gli infissi in anticorodal,
non c’era ascensore e all’ultimo piano, sulla soglia, un ragazzo turco con
sopracciglia folte e nere e pettorali glabri, in mutande, ci chiese se fossimo
mai stati lí. Andria rispose per entrambi. Allora il ragazzo partí con un
lungo sermone, dalla sua aria annoiata capii che quel discorso doveva
averlo fatto milioni volte. In uno stanzino ci spogliammo e una solerte
signora in divisa bianca simile a un’infermiera – non fosse stato per i bordi
amaranto sulle spalline – ci passò due asciugamani da mettere attorno alla
vita. Finimmo in una stanza dove una dozzina di uomini con la barba
fumava narghilè. Erano nudi e nell’aria il fumo aromatico pizzicava il naso.
Andria mi accarezzò tra le gambe. Uno degli uomini si avvicinò dal fondo
della sala, gonfio, striato da una barba malfatta, palpebre cascanti. – Posso
succhiartelo? – mi chiese.
Era la prima volta che ricevevo una richiesta cosí esplicita, fino a quel
momento c’era sempre stata la mediazione della musica, oppure un cenno,
uno sguardo, un sorriso. Risposi di no, perché anche la ritrosia andava
esercitata fino in fondo. Ed era una novità totale anche il rifiuto. Il
gorgoglio dell’acqua profumata nelle ampolle del narghilè era ipnotico.
Melassa, fiori e tabacco. Andria mi tese la shisha, compose tre cerchi di
fumo. Mi attaccai al bocchino per aspirare, il filtro era duro come un osso,
socchiusi gli occhi con la sua mano sulla testa e l’altra posata sopra il
ginocchio. Raggiunsi un luogo di trenta, forse trentacinque anni prima: mi
trovavo a Martina, l’autunno era cominciato da un pezzo e tra un po’
avremmo travasato il mosto fermentato dai grandi capasoni di coccio nelle
bottiglie. Mia madre era seduta su una sedia bassa con la gonna alzata sino
alle ginocchia, sostituiva le bottiglie vuote con quelle ricolme. Mio padre
immergeva un tubo di gomma di venti centimetri nel recipiente che
conteneva il vino appena fermentato, aspirava con le labbra poggiate
all’estremità opposta, il vino percorreva il tubo, assecondando l’effetto della
rarefazione. Quando il vino arrivava alle labbra, mio padre introduceva la
cannula nella bottiglia, o nella damigiana posta in basso, per rispettare fino
in fondo il principio dei vasi comunicanti. Sollevava la bottiglia e mi
mostrava il flusso che rallentava fino ad arrestarsi e arretrare; l’effetto
creava piccole e suggestive bolle d’aria nel tubo. «Vieni Francesco, aspira»,
diceva e io, dopo aver poggiato la bocca sulla gomma del tubo, aspiravo e
sentivo il flusso che arrivava forte e aspro sui denti. Non riuscivo mai a
evitare di bere involontariamente quel sorso di vino pungente. La famiglia
Veleno al completo partecipava al rito della vendemmia.
Quando fummo per strada, mentre il nevischio si trasformava in neve,
ombre umane raccolte in un drappello all’altro lato della strada fischiarono
verso di noi come pastori che richiamano il gregge. Per tutto il pomeriggio
Andria aveva inspirato il fumo con una smorfia di gioiosa beatitudine, ma al
fischio di scherno la sua aria divenne grave, gli occhi si rimpicciolirono. Un
oggetto fendette il pulviscolo di neve in un luccichio che terminò sulla
scocca di una delle auto parcheggiate sul nostro lato della strada. Era un
accendino. Subito dopo ci lanciarono contro una lattina di birra, una pietra,
finché non scapparono urlando «Schwuuuul», e continuando a fischiare
come uno stormo di merli.
Andria attraversò la strada e li inseguí. Riapparve poco dopo con una
borsa di stoffa e un berretto di lana prede della lotta. Mi sorrise con
tristezza. – Torna da Claudia stanotte, voglio rimanere solo –. Era un ordine.
Risposi meccanicamente: – Sí.
I fanali delle auto si diradavano, solo un bus giallo che andava verso la
periferia brontolava con le marce basse sulla carreggiata sconnessa. Andria
sparí in quel rumore, io restai immobile senza sentire freddo, o paura,
soltanto con il sospetto che non potevo contare veramente su di lui.
Scrissi a Claudia, la chiamai, ma non rispose. Mi prese un’irrazionale
gelosia.
– Cos’è successo? – mi richiamò a un certo punto, mentre ero al riparo
dentro il vestibolo di un club infame, il primo trovato, pieno di tossici e
punk da quattro soldi.
– Andria mi ha detto di tornare a casa tua, non mi vuole stasera.
– Che gli hai fatto?
– Niente.
– Forse è questo il problema.
Quanto la odiavo quando faceva cosí. Le sue verità in tasca trovavano
sempre la mia cieca obbedienza, ma questa volta non le diedi ragione, mi
limitai a tacere.
– Frank, sto per scopare con uno che ho conosciuto due ore fa su Tinder.
– Mi stai dicendo che non devo tornare?
– No, torna, ma voglio che tu sappia cosa puoi trovare.
– Bello?
– Ha la metà dei miei anni.
– Non mi hai risposto.
– Diciamo che sto per esplorare un campo a me ignoto. Piú che una
scopata sarà una ricerca etnografica.
– Quindi Andria mi ha mollato?
– Perché non lo hai seguito e non lo hai chiesto a lui? Perché non lo
affronti?
– Qui fa freddo, non capisco una parola di quello che mi dice la gente.
– Ora devo andare –. Mi stava dando una lezione e io ne ero
perfettamente consapevole, fu per questo che non la richiamai.
Pochi minuti dopo feci sesso non protetto con uno sconosciuto dentro
questo club infame, lo vissi nel peggior modo possibile, con vergogna. Fui
roso da pensieri lugubri. Una parte di me desiderava ancora il godimento
dei preti, che immaginavo celato in una coltre misteriosa di masturbazioni e
polluzioni notturne, ma asettico, senza odore, senza sudore, senza contatto,
ossessivamente onanistico. Cosí com’era stato il mio amore per Claudia
tutti quegli anni.
Eravamo europei liberi di muoverci dentro un recinto, ma fuori dal quel
recinto c’era il mondo cui apparteneva Andria. La nostra Europa libera,
priva di muri, non era la stessa di Andria. La Georgia non è uno Stato
comunitario e Andria era costretto a lasciare la Germania per la scadenza
del suo permesso di soggiorno. Sentii accarezzarmi la schiena da una pietra
appuntita e fredda, qualcuno decideva per noi. Mi dispiace, Claudia, ma
oltre l’orizzonte che vediamo non possiamo andare, e chi viene da lí resta
con noi solo il tempo necessario per capire che esisteranno sempre frontiere
da onorare.
Non ci fu nessun lacrimoso congedo. Il primo maschio di cui stavo per
innamorarmi era andato via dopo avermi salutato bruscamente in una
tormenta di neve con la pelle ancora profumata di shisha e melassa. In uno
dei suoi ultimi messaggi scrisse che di me gli era sempre piaciuto il caos
linguistico, il modo in cui avevo inventato una lingua, la nostra lingua,
quella che capivamo solo io e lui. Mi sarei fatto bastare quelle parole
durante la sua assenza. A Claudia raccontò maggiori sfumature. Aveva
deciso di partire senza inutili addii perché nutriva la speranza di tornare. Sia
Claudia che io non ci credevamo, e per questo un pomeriggio con il cielo
color argilla litigammo. Eravamo ritti contro la finestra che dava sul cortile,
lei sorseggiava una tisana da una tazza che stringeva con entrambe le mani,
come a prendersi tutto il calore che emanava. Gli inverni cosí lunghi ci
facevano assumere la stessa identica postura, grandi falene con la pancia sul
vetro che irradiava l’ultima pallida luce del giorno. Il freddo ghiacciava i
rami dell’olmo giú in cortile.
– Avresti dovuto sposarlo, – sbottò soffiando nella tisana.
– Sposarlo? – Dicevano che l’olmo era l’albero dei sabba.
– Sí, lo dovevi sposare tu che sei l’ultimo a esserci stato –. Aveva un
tono neutro.
Mi voltai per trovare nei suoi occhi il senso di quel discorso. – Ho solo
esperienza di matrimoni infelici, e tu lo sai bene.
– Sarebbe stato il primo matrimonio felice della nostra vita, – disse
sconsolata.
– Solo se ti sposavi anche tu con noi.
Un’ombra le scurí il viso.
– Mia madre si è risposata.
– Non si smette mai di sbagliare.
Claudia mi stava parlando di sua madre dopo mesi.
– Non ti ho mai detto come ho saputo del loro matrimonio. Mi ha spedito
l’invito, non so come abbia fatto. Ma è riuscita a trovarmi e umiliarmi.
– Non è un’umiliazione.
– Lei crede di avermi umiliata perché si sposa due volte e io sono una
zita di Ceglie, nel suo mondo le cose stanno cosí.
– Appunto, è il suo mondo.
– Mi sento umiliata perché mi ha trovato e ovunque vada mi troverà
sempre. Le nostre origini ci rimangono addosso come una voglia gigante
sulla pelle, che puoi coprire con tutti i vestiti che vuoi, ma resta sotto e
quando ti spogli la vedi.
Eravamo usciti dalle nostre famiglie riportando ferite profonde, ma le
nostre famiglie non erano uscite da noi.
Non potevamo darla vinta a Etta e ai nostri demoni. Cosí dissi qualcosa
di provocatorio, come se lí tra noi ci fosse stata sua madre ad ascoltarci. Fu
un monologo insensato, raccontai una delle mie avventure piú estreme con
Andria, nel club only men piú infernale in cui eravamo stati. Lí dove si
finiva avvinghiati in un unico corpo, dove il pudore si polverizzava, dove si
arrivava a piangere perché l’acme del dolore tocca l’acme del piacere. Le
dissi che lí avevo smesso di aver paura di ogni malattia. Chi entrava in
questo posto si liberava dal male che aveva dentro sperimentando un altro
tipo di male. Ho visto con i miei occhi il superamento dei limiti del corpo
umano, il viaggio verso l’estremo.
– Ci vedi troppa morte nel sesso, Frank, – disse con un filo di voce, poi
aggiunse: – Non capisco perché Andria non abbia lottato –. Rimasi senza
parole. Come se di tutto quello che le avevo detto l’unica cosa che contava
era il rammarico per Andria.
– Tutte le persone che amo vanno via, Erika, Andria, mentre mia
madre…
– Io resto qui.
– Anche tu andrai via.
– Ti prometto di no –. E lo ripetei con tutta la solennità possibile.
Secondo una leggenda nordica la donna che diede origine all’umanità era
un albero, un olmo per l’esattezza. Passai tutti i crepuscoli dei giorni
successivi a guardare l’albero in cortile riflettere con i suoi cristalli di
ghiaccio le luci dei palazzi.
La U-Bahn, non osavamo dircelo, ma era un po’ come la vita da paese.
Standoci sopra si sfiorava un’infinita varietà di umani, maschere, abissi o
eccessi, ma alla fine sembravamo riconoscerci tutti quanti. Sul suo account
Instagram, Claudia s’era messa a scrivere piccoli ritratti che
accompagnavano le foto che catturava col telefono in giro per la città:
l’ascia di un uomo urlante contro misteriose presenze, una mano finta
appena visibile da un manicotto di pelliccia, una barca, piante enormi sotto
cui si nascondevano umani, carrozzelle di cianfrusaglie militari, violini di
gesso e travestimenti variopinti. Le piaceva la paletta blu della metro con la
lettera U e la voce registrata gracchiante «Aufsteigen, bitte»,
«Zurückbleiben, bitte». L’affascinava quell’alienante invito a salire e stare
indietro, c’era forse un modo per conoscere qualcosa di un popolo
attraverso gli altoparlanti di una metropolitana. A Milano l’ossessione era
non superare la linea gialla, a Berlino fare in fretta ciò per cui si è lí.
L’unica volta che non lo fece, fu quando s’imbatté nella recruiter di uno
dei suoi colloqui di lavoro. Rammentò la surreale discussione sul sole e la
vitamina D. Claudia la riconobbe sulla U-7, era dentro un piumino nero che
arrivava ai piedi e un cappello di lana, non aveva la faccia inquieta e tesa
del loro primo incontro. La salutò e sorrise, mentre i vagoni gialli
frullavano i viaggiatori aggrappati alle maniglie.
– Was für ein Zufall! – le disse Claudia.
– Sí, – la interruppe la donna, lasciando a bocca aperta Claudia. Era
calabrese, stava per tornare al Sud. – Basta compresse di vitamina D, voglio
il sole.
– Hai un lavoro?
– No, sta morendo mia madre.
Claudia si fermò a guardare quel piumino nero uscire dal vagone giallo, i
passi svelti verso una destinazione lontana quanto l’origine del suo respiro.
Claudia frequentava sempre meno la casa di riposo. Da un po’ preparava
i menu attraverso un programma legato a un catering esterno. Era stanca di
indossare la divisa e di mostrare una faccia sempre gentile. Disse che presto
avrebbe potuto lavorare da casa e pensare a un’applicazione che avrebbe
connesso i catering con altre case di riposo.
– Andiamo a farci un bagno, – propose un giorno.
L’edificio odorava di intonaco e pittura, cumuli di foglie ghiacciate erano
disseminati nel cortile: una parte era ancora in costruzione, come tante altre
cose in una città dove in certi momenti le gru affollavano il cielo come
stormi in migrazione. All’ingresso, un uomo con un berretto di feltro si
scusò per la pessima presentazione della struttura, e aggiunse che nel giro di
una settimana i lavori sarebbero terminati. Ci porse asciugamani soffici,
scortandoci per una viuzza di pietra verso la piscina, l’aria tiepida e il vento
che fischiava all’esterno. La porta scorrevole si chiuse alle nostre spalle,
c’erano panche ricoperte da corpi nudi, solo un uomo indossava
l’accappatoio e in quella comunità di nudisti appariva il piú scandaloso di
tutti.
Non fu l’asciugamano a cadere, ma Claudia a sfilarsi. La raggiunsi privo
di indumenti nella piscina calda.
– Ci vorrebbe un’ora di nudismo per tutti, – la voce amplificata dal
soffitto altissimo che rendeva quel posto piú simile a una chiesa che a una
piscina.
Prendevo coscienza dell’incarnato chiaro di Claudia, sul rettangolo di
pelle tra il pube e il ventre l’elastico delle mutande aveva lasciato il segno.
– Metti la testa giú, – mi ordinò.
– Obbedisco, – risposi con ironica solerzia.
Immerso nell’acqua verde e bianca ascoltai la musica che usciva dalle
casse subacquee, una schiuma iridescente seguiva il corpo di Claudia
mentre si spostava verso il centro della piscina. Riemersi e la vidi con i suoi
capezzoli piccoli e rosa, i gomiti larghi appoggiati al bordo della piscina.
– Vieni qui.
– Obbedisco, – dissi ancora una volta.
Mi rivolse un’occhiata di sfida. – Lo faresti ora con me?
– Sempre.
– Anche se fosse l’ultima volta?
– Non so se sarò all’altezza, – confessai.
Dentro quell’acqua calda sentii la sua mano attraversare il poco spazio
che ci divideva, mi accarezzò tra le gambe, emise un singulto breve e
strozzato, eravamo lontani dagli altri visitatori delle terme. Il piacere ha un
colore e il nostro era il bianco, come il marmo contro il quale le premevo le
ossa; era neve, latte, calce. Pensai alle pietre del mio paese, che in estate
sono accecanti. La calce disinfetta i palmenti, monda i sottani e i coni dei
trulli. Eravamo un unico corpo. Nessuno lí poteva sapere che provenivamo
da un paese dove dipingere con la calce si dice «allattare», perché gli
allattatori nutrivano le pietre per fortificarle, davano loro il latte come le
madri ai figli. Quel nostro amore era la calce con cui avevamo nutrito la
speranza della felicità, la piú illusoria e menzognera forma di dipendenza
umana.
Un crampo, un maledetto dolore al polpaccio mi indusse a staccarmi da
lei. Fu la campana del risveglio. Lei sparí sott’acqua.
– Claudia, aspettami… – implorai, e voltandomi verso chi ci guardava
dai bordi della piscina, poco stupiti di ciò che avevano visto, in italiano
dissi: – Non è come sembra.
– È molto peggio! – mi raggiunse acuta la voce di Claudia, che
schiaffeggiò l’acqua e mi abbracciò.
– Non accadrà mai piú? – le chiesi mentre tornavamo a casa abbracciati
come due ex amanti che si sono amati molto e non condividono piú il sesso
ma solo un grande, infinito affetto.
– Mi capisci, vero?
Restammo cosí per tutto il tragitto, Claudia rannicchiata contro di me,
poi la voce metallica annunciò Antonplatz, la nostra fermata. Nel minuscolo
viale che conduceva al portone una giovane donna ci sorrideva. Claudia
tese le mani, come a spingere un muro o una tenda invisibile tra sé e la
sconosciuta. A mezza bocca disse con incredulità: – Cosa ci fai qui? – La
sconosciuta schioccò un bacio e soffiò sul palmo della mano aperta. – Sono
tornata –. Poi scostando il piumino si indicò la pancia: – Anzi, siamo –. Alle
sue spalle c’era una valigia grande quanto una cassapanca.
Erika era di nuovo in città.
Parte sesta
Torschlußpanik
(s. f. È la paura di non raggiungere un obiettivo per ragioni anagrafiche, un figlio, una famiglia o
un determinato stato professionale. Usata anche in politica, quando fu costruito il muro di Berlino, il
«Time» il 18 agosto 1961 scrisse: «Una malattia aveva colpito tutti gli abitanti del settore est della
città e questa malattia porta il nome di Torschlußpanik». L’origine risale all’Ottocento, quando i
«portoni» (Tore) delle città circondate da mura chiudevano (Schluß, «chiusura») all’imbrunire; una
volta in cui ad Amburgo la bella giornata aveva fatto uscire di casa molti cittadini, la chiusura
provocò tumulti e scene di «panico» (Panik). «Augsburgische Ordinari Postzeitung», n. 105, 2
maggio 1808).
Un sole simile a un gong d’oro irradiava una luce felice nel terso
paesaggio della domenica. La strada era ricoperta da un tappeto di fiori
gialli sparsi dal vento la sera prima. Mancava poco alla nascita della
bambina e Claudia convinse Erika e me a far visita al mercatino del
quartiere, una lunga fila di tavoli con chincaglierie e giocattoli, scarpe usate
e libri sgualciti. I bambini dietro i banchetti erano tutti raggianti, ma
disciplinati nell’obiettivo che si erano dati: vendere piú cose possibili. Forse
si sarebbero scambiati qualcosa, il bambino biondo avrebbe comprato la
retina azzurra dal bambino moro, che avrebbe comprato uno gnomo di
legno dal bambino dai piedi giganti, e il bambino dai piedi giganti avrebbe
comprato a sua volta un ventaglio dalla bambina coi capelli alla maschietta.
Probabilmente era in corso una terribile competizione tra loro, anche se
nessuno degli adulti lo avrebbe ammesso.
Sulla soglia di un portone, notai un bambino solitario con il tavolo piú
ricco. Sembrava spaventosamente triste. La sua bancarella era distante una
cinquantina di metri dalle altre. Il bambino era tozzo, mostrava una
mascella da mastino; accanto a lui, nella penombra dell’androne, c’era la
madre, e anche lei aveva la mascella da mastino. Osservai la scena per
diversi minuti: nessuno si fermava a comprare qualcosa perché nessuno
passava di lí, non un bambino di quelli che percorrevano la ciclabile con
biciclette colorate e caschetto in testa lo degnò di uno sguardo. Fui distolto
da Erika, che mi richiamò con tre fischi brevi, ritmici e acuti. – Non ti
perdere, Francis.
In quelle settimane avevo avuto modo di apprezzare la sua vitalità
magnetica. Era sveglia e intraprendente, una che non si accontentava. Nei
suoi occhi brillava l’espressione di chi non prende sul serio nessuno fino in
fondo. Sin da subito mi aveva trattato come un bambino o, peggio, un
animaletto domestico da tormentare, visto che, avendo perso il lavoro, me
ne stavo a casa in qualità di Hausmann (come chiamano qui gli uomini che
si occupano delle faccende domestiche), mentre Claudia era impegnata
nell’avviamento dell’impresa di catering.
Entrambe sostarono davanti a una bancarella ricolma di vestiti, Claudia
mostrò a Erika una tutina blu con bottoni rossi; un bambino dal viso paffuto
e i suoi genitori le fissavano in attesa. Non potevano sapere che le due
ragazze, in realtà, parlavano di tutt’altro.
– Sei su Tinder? – aveva domandato Erika con tono innocente, ma lo
sguardo di chi sa benissimo d’aver messo a disagio l’interlocutore.
– Cazzeggio e basta, – le rispose Claudia.
– Un posto di maniaci sessuali e sfigati –. Sapeva come mandarla su tutte
le furie (un talento anche questo).
– Chi ti dice che non sono pure io una maniaca e una sfigata?
– Sei una dea, non permetterò a nessuno sfigato di metterti le mani
addosso –. Erika aveva alzato la fronte di scatto, la coda nera dei capelli
ondeggiò schiaffeggiata dal movimento repentino.
– Mi sono vista con un ragazzo giovanissimo, uno sfizio, – ammise
Claudia.
Sul suo profilo Tinder c’era scritto: «No One Night Stand, 1.80.
Multitasking. Riesco a camminare e a respirare insieme». Piú di uno le
aveva risposto: «Che vuol dire camminare e respirare insieme?»
Anche Claudia aveva notato la bancarella davanti al portone, con un dito
si sistemò gli occhiali da sole sul naso, scrollò le spalle e attraversò la strada
per raggiungere il bambino con la mascella da mastino. Lui non si mosse,
anche se la sua espressione ottusa cominciò a distendersi. Claudia sorrise e
chiese qualcosa. Il bambino rispose serio, sull’attenti, e mostrò un pallone
colorato. Claudia sollevò gli occhiali da sole sulla testa, ci fu uno scambio
di cortesie tra lei e la madre, poi comparve tra le lunghe dita nodose una
banconota da venti euro. Il bambino s’illuminò, mentre la madre, nella
penombra, cercava il resto nelle tasche. Claudia fece di no con la testa, non
voleva niente.
Ritornò da noi con la palla rosa e lilla sgonfia su cui era stampato il volto
della principessa di Frozen.
– Gli hai dato venti euro! – la rimproverò Erika.
– Un bambino non venderebbe mai un pallone, e se lo fa merita qualcosa
in piú.
– E perché glielo hai preso? – intervenni.
– Perché è della sorella.
– Vende le cose della sorella? – domandai con una punta di scandalo.
– La sorella non c’è piú.
– Hai comprato il pallone di una morta, – disse stizzita Erika.
– Abbiamo alleggerito di un peso quel bambino.
– Non lo voglio.
– Lo diamo a Francesco e se ne disferà lui –. Mi tese il pallone liscio e
pulito, odorava di gomma. In quel momento pensai fosse l’oggetto piú
prezioso al mondo. Aveva una storia da raccontare.
Quando tornammo a casa Erika venne nella mia stanza e rimase a
guardare le mie mani che stringevano la palla. – L’ha fatto davvero, ti ha
dato il pallone di quel bambino –. Il volto pallido si colorí. – Secondo me,
Claudia si è inventata la storia della bambina morta –. Poi, sottovoce,
concluse: – Conserva quel pallone, Francis!
Da quando eravamo in tre avevamo preso l’abitudine di sussurrare. Si
tessevano complici alleanze tra me e Erika, Erika e Claudia, me e Claudia;
parlavamo avvertendo il nostro respiro, percependo la temperatura che i
corpi trasmettevano; eravamo tanto stretti che potevamo origliare.
Tenni il pallone perché era quello che volevano entrambe, anche se non
lo avrebbero mai ammesso. Il loro rapporto verteva sull’occupazione degli
spazi. Claudia aveva fatto pulizia delle cose superflue: scatoline, pentole,
scarpe. Tutto era stato impacchettato e lasciato nell’androne del condominio
con un cartello: «Geschenk zu mitnehmen». La casa era stata ridisegnata in
funzione di Erika con senso pratico e diplomazia. Claudia aveva lasciato a
lei la sua stanza, e nella mia – ora la nostra – aveva messo un futon. Aveva
anche individuato la clinica dove Erika avrebbe partorito, procurandosi il
contatto di una ginecologa conosciuta al centro anziani.
Lei e Erika cucinavano insieme, si addormentavano abbracciate come un
tempo e talvolta meditavano l’una di fronte all’altra, ascoltando una
melodia che ogni dieci secondi veniva interrotta da un gong, mentre tra loro
cresceva un campo energetico, i mondi interiori migravano da un corpo
all’altro, esalavano risentimenti e rimpianti. Claudia diceva di percepire la
trasformazione del suo dolore in un fardello leggero, mentre Erika ci
confidava di contemplare il proprio respiro fino a sentire la bambina dentro
di sé parlare con voce di adulta.
Tre settimane sembravano tre anni. Con solerzia avevamo preparato il
giaciglio su cui Erika passava le giornate in attesa della nascita della
bambina. Occupava metà divano con le gambe distese e le caviglie su un
pouf, i capelli arruffati, il viso rivolto alla finestra, come se l’olmo fosse una
potente calamita e attirasse l’attenzione dei nostri cuori di metallo.
Prenderci cura di Erika prevedeva una grande intesa tra me e Claudia, tanto
che ormai comunicavamo senza parlarci. Altre volte Claudia si esprimeva
col dialetto, come se il confronto quotidiano con la nuova lingua
richiamasse dal profondo alcune espressioni dei nostri nonni. Mi dava dello
sciulisciato (disordinato), e a Erika della scecuscitata (indolente e
spensierata), anche se a me quella parola ricorda il termine scucito, e tutti e
tre eravamo un po’ scuciti come se il filo che ci legava non tenesse per
davvero la stoffa di cui eravamo fatti.
Con Erika vivevo alti e bassi, eravamo troppo nevrotici, e due nevrotici
insieme sono come due ioni con carica uguale: si respingono. Erika si stava
tirando fuori da una brutta storia. Mario, il padre della bambina, veniva
raccontato come un mediocre felicemente fiero della propria mediocrità,
uno che davanti alla Gioconda diceva: «A me ’sta Gioconda sembra una
stronza, ed è pure cessa», aspettandosi l’applauso liberatorio degli altri.
Erika lo aveva incontrato in una crociera coi genitori dopo il ritorno da
Berlino. Lui lavorava sulla nave, indossava una divisa bianca che lo faceva
sembrare piú alto, e per via del colore bruciato della pelle sembrava piú
grande, ma avevano la stessa età. Fecero sesso dopo un’ora che si erano
conosciuti, lui fu feroce, sbrigativo. Erika lo bollò come un testa vuota, e lei
in quel momento aveva bisogno di stare senza pensieri. Non si rendeva
conto della fortuna di vivere sempre sul mare, era quello che a Erika
piaceva di lui. Il vuoto e il mare. Stettero insieme un anno. Lui la tradiva
tantissimo e lei lo sapeva, ma non le importava, non era innamorata, sentiva
che presto avrebbe cercato un po’ di pieno dopo il vuoto. E invece,
nonostante le precauzioni, rimase incinta. Lui fece la scelta peggiore di
tutte: non prese alcuna decisione. Passarono i mesi. Chissà perché mentre
ascoltavo la sua storia mi sembrava tutto maledettamente noto, come se in
quell’uomo ci fosse una specie di campione dei maschi con cui ero
cresciuto e una piccolissima parte, indefinita, anche di me. Erika ci raccontò
scandalizzata che quando lei aveva voglia di fare l’amore lui diceva: «Lí c’è
mio figlio, non possiamo», che poi era una figlia, anche se lui diceva
sempre «mio figlio». Erika aveva scritto un messaggio a Claudia: «Torno da
te, faccio nascere la mia bambina accanto all’unica persona che mi ha
capita». Ma non l’aveva spedito, si era limitata a salvarlo nella cartella
bozze della mail, un pozzo di gesti mancati, insulti e pentimenti,
dichiarazioni folli e richieste di compassione. Erika era tutta nelle sue
omissioni. E nell’unica azione possibile che l’aveva portata nella nostra
casa.
Ovviamente le vicende e i personaggi di Spatriati sono frutto della fantasia, e ogni riferimento a
fatti realmente accaduti o a persone realmente esistite è da ritenersi casuale. Piccole modifiche alla
topografia dei luoghi raccontati e alla cronologia degli eventi storici, di cronaca o di costume sono
state apportate di tanto in tanto per esigenze drammaturgiche.
Spatriato è il participio passato del verbo spatriare, che sta per andar via o, come dice la Treccani,
cacciare dalla patria. In alcuni dialetti meridionali, tra cui il martinese, ha altre sfumature, come
incerto, disorientato, ramingo, stordito, senza arte né parte, in alcuni casi persino orfano: patria deriva
dal latino e significa terra dei padri, dunque lo spatriato può anche essere chi è rimasto senza padre, o
chi non l’ha mai avuto.
Per le parole in dialetto martinese che danno titolo alle parti, ho fatto riferimento per ragioni
sentimentali all’antico Dizionario martinese-italiano di Giuseppe Grassi (Schena 1984), visto che fu
il primo dizionario su cui appresi quel poco di dialetto che oggi parlo. Per il termine spatriètə che
compare nella corretta fonetica in esergo alla seconda parte, ho consultato il dizionario La parlata dei
martinesi e altri ricordi di Giuseppe Gaetano Marangi (Nuova Editrice Apulia 2010).
Nel romanzo vi sono citazioni, omaggi e riferimenti a opere letterarie, luoghi ed eventi storici: qui
di seguito elenco alcune informazioni e alcuni debiti di quello che Robert Walser nel suo La
passeggiata chiamava scrittoio o stanza degli spiriti.
Il testo in esergo è estratto da una lettera che Giacomo Leopardi scrisse nel 1827 al suo amico
Pietro Giordani dopo una delle sue tante fughe da Recanati, in cui vagheggia la teoria della
rimembranza per gente inquieta e instabile come lui: «Cangiando spesse volte il luogo della mia
dimora, e fermandomi dove piú dove meno o mesi o anni, avvidi che io non mi trovava mai contento,
mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantoché io
non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo». Cosí com’è scritto l’ho trovato nella
Letteratura Italiana a cura di Enzo Siciliano (Mondadori 1986).
Parte prima Crestiene
Giochi senza frontiere – chiamato anche JSF, acrostico di Jeux sans frontières – fu una
manifestazione promossa da Charles De Gaulle a metà degli anni Sessanta per favorire l’amicizia tra
Germania e Francia. In breve tempo, i Giochi diventarono un grande appuntamento estivo durante il
quale si confrontavano i giovani di numerose città europee. Martina Franca rappresentò l’Italia e
ospitò la puntata dell’11 luglio 1980, che fu vinta proprio dalla squadra locale. Nel film Fantozzi
subisce ancora del 1983 compare un frame di quell’episodio.
In questa parte del romanzo Claudia legge Banana Yoshimoto, un’importante scrittrice giapponese
che negli anni Novanta attraversò un periodo di grande successo di pubblico a partire dal romanzo
Kitchen (Feltrinelli), uscito nel 1988. A proposito di Giappone, Osamu Tezuka è un autore di manga
e inventore di numerosi cartoni animati, mentre Rumiko Takahashi è considerata a tutti gli effetti la
regina dei manga. Negli anni Novanta la casa editrice Granata Press pubblicò, tra le sue tante opere,
la Saga delle sirene.
Street Fighter è un videogioco uscito nel 1987, ma l’edizione dei compagni di scuola di Francesco
è la seconda, diffusa in Italia dal 1991. Il giocatore interpreta uno degli otto lottatori preparati da
diverse scuole mondiali di combattimento e ha l’obiettivo di sconfiggere gli altri sette.
Come As You Are è un brano dei Nirvana dall’album Nevermind del 1991. Starman è una canzone
di David Bowie pubblicata come 45 giri nell’aprile 1972. Sentimiento nuevo, scritta e interpretata da
Franco Battiato, è la traccia finale dell’album La voce del padrone del 1981. Vacanze romane è una
canzone dei Matia Bazar, gruppo italiano di musica leggera, presente nell’album Tango del 1983.
Le citazioni bibliche tratte in tutto il romanzo dall’Esodo e dal Vangelo sono quelle delle edizioni
curate dalla Conferenza Episcopale Italiana nel 2008.
Le lettere tra Sibilla Aleramo e Dino Campana furono raccolte nel volume Un viaggio chiamato
amore (Feltrinelli) nel 2000. Nel 2002 uscí una riduzione cinematografica ispirata al carteggio, con la
regia di Michele Placido.
Caro Michele (Einaudi) è un romanzo di Natalia Ginzburg pubblicato per la prima volta nel 1976.
Elsa Morante è uno tra gli scrittori piú importanti della letteratura italiana, ma in pochi l’hanno
studiata durante gli anni delle scuole superiori. Dario Bellezza è stato un poeta molto noto negli anni
Ottanta e Novanta: alla sua morte alcune sue poesie uscirono nella collana «I Miti» Mondadori, che
distribuiva con grande successo volumi di poesia a 3900 lire nelle edicole.
Il brano di Luciano di Samosata (120-180 d. C. circa) citato nel finale della parte proviene
dall’opera Bis accusatus e fu la prova di greco nell’esame di maturità classica del 1999.
Parte seconda Spatriètə
Martina Franca è un comune di 47 000 abitanti nella provincia di Taranto, a metà strada tra il
Salento e la terra di Bari. Confina con i paesi di Ostuni, Ceglie Messapica, Cisternino, Locorotondo,
Noci, Alberobello. Questo insieme di paesi forma la Valle d’Itria, che di recente molti venditori di
fumo hanno soprannominato «Trullishire». I piccoli complessi di trulli vengono chiamati nel dialetto
martinese casedde.
Il refrain della Gessyca Gelati fu il tormentone di una nota pubblicità con Andy Luotto alla fine
degli anni Ottanta.
Artificial Intelligence è un album di musica elettronica pubblicato dalla Warp Records nel 1992;
contiene le tracce di alcuni dei piú importanti precursori della techno moderna. Gli Spiral Tribe sono
un gruppo formatosi nel Regno Unito nel 1992, tra i massimi ispiratori della cultura rave.
Lo stabilimento siderurgico di Taranto fu inaugurato nel 1965 e nei suoi periodi di massima
espansione arrivò a impiegare 60 000 lavoratori. La sua prima denominazione fu Italsider, poi Nuova
Italsider, dopo la privatizzazione divenne Ilva e oggi ArcelorMittal. Dal grande bosco delle Pianelle
di Martina Franca, a circa 500 metri d’altezza, si può guardare il gigantesco impianto che occupa tre
quarti del territorio metropolitano di Taranto, con le sue nuvole color ruggine e il mare alle spalle.
Per chi voglia approfondire la storia di quest’industria consiglio Fumo sulla città di Alessandro
Leogrande (Fandango 2013), di cui qui riporto uno stralcio dall’ultima pagina, perché è uno
splendido contrappunto allo sguardo di Claudia e Francesco: «Guardo dal terrazzo della casa in cui
sono cresciuto le ciminiere dell’Ilva che si stagliano davanti a me, le gru immobili del porto, le navi
ormeggiate in attesa di scaricare il minerale o caricare i laminati, il golfo che si allarga all’orizzonte,
le isole di San Pietro e di San Paolo, e poi ancora la città vecchia, il traffico incolonnato della sera, i
palazzoni che si susseguono quartiere dopo quartiere spesso identici tra loro, l’inizio della campagna
e la strada che corre dritta, verso la collina di Martina Franca».
Martina Franca per un certo periodo degli anni Ottanta fece parlare di sé in relazione al disastro
aereo di Ustica, perché era sede di un grandissimo centro radar della Nato le cui enormi antenne
potevano essere viste a decine di chilometri di distanza. Oggi non rimangono che le piccole villette a
forma di fungo dove abitavano i soldati americani.
La scena in cui Claudia è imprigionata nel quadrato disegnato da Etta col gessetto è un debito. Un
burbero operaio chiuse una bambina in un cerchio di vernice nel bellissimo Titanio di Primo Levi
all’interno del Sistema periodico (Einaudi 1975).
L’immagine dei cieli pugliesi che lasciano graffi mi è stata ispirata da una lettera scritta da Franz
Kafka a Oskar Pollak nel 1902, in cui Praga viene paragonata a una matrigna con gli artigli.
Gli Oesais, parodia barese degli Oasis, erano interpretati da Emilio Solfrizzi e Antonio Stornaiolo,
due attori ancora oggi molto popolari che da giovani occuparono la scena locale col nome d’arte di
Toti e Tata. Insieme al loro autore Gennaro Nunziante prendevano in giro vizi e virtú della società
dello spettacolo con geniali parodie, come quella del drammaturgo Carmelo Bene chiamato Carmelo
Meglio, e sbeffeggiavano le liriche impegnate ed ermetiche dei poeti italiani attraverso il personaggio
di Mino Pausa, aspirante poeta maledetto – maledetto soprattutto dagli altri.
La cura è un celebre pezzo di Franco Battiato contenuto nell’album L’imboscata del 1996.
Il pensiero meridiano del sociologo Franco Cassano è un saggio uscito nel 1996 per l’editore
Laterza, e ha segnato l’identità di molti studiosi o semplici lettori pugliesi sul valore del tempo, della
lentezza, della provincia. Considerato tra i testi di punta del nuovo meridionalismo.
Nel 1998, il leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) Abdullah Öcalan, già ricercato
dal governo turco, restò in Italia sessantacinque giorni con la speranza di ottenere un asilo politico
che non gli fu mai concesso, nonostante le numerosissime manifestazioni in suo favore indette
soprattutto tra gli studenti universitari. Giuseppe Tatarella fu un politico di centrodestra molto
rispettato per le sue qualità diplomatiche, che gli valsero il soprannome di ministro dell’Armonia.
Jay Gatsby è il protagonista del romanzo Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, Holden
Caulfield del Giovane Holden di J. D. Salinger, Fitzwilliam Darcy di Orgoglio e Pregiudizio di Jane
Austen, Atticus Finch del Buio oltre la siepe di Harper Lee. Il visconte dimezzato è un romanzo di
Italo Calvino pubblicato nel 1962.
Parte terza Malenvirne
Vittorio Bodini è probabilmente il piú noto e amato poeta pugliese. La poesia che legge Claudia
sotto l’albero di limone proviene dalla raccolta La luna dei Borboni, pubblicata per la prima volta nel
1952 e ora edita, come tutta l’opera di Bodini, da Besa.
Quella di Claudia è una biblioteca essenziale per chi abbia voglia di approfondire la narrativa
pugliese del Novecento e soprattutto di alcune scrittrici capitali. I romanzi citati sono L’ora di tutti di
Maria Corti, pubblicato nel 1962 e oggi edito da Bompiani, Analisi in famiglia di Maria Marcone,
pubblicato da Feltrinelli nel 1977, Passaggio in ombra di Mariateresa Di Lascia, pubblicato nel 1995
e oggi edito da Feltrinelli, e La malapianta di Rina Durante, pubblicato nel 1964 e oggi edito da
AnimaMundi Edizioni. Dal romanzo di Marcone ho recuperato il concetto di «crescere foresta», da
quello di Durante l’idea del «franare stando in piedi».
Nichi Vendola è stato presidente della Puglia tra il 2005 e il 2015. Le sue politiche furono
concentrate, soprattutto nel primo dei due mandati, sulla promozione turistica del territorio e
sull’imprenditoria giovanile, tanto che si parlò proprio per questo di «Primavera pugliese». Il suo
slogan politico fu «La Puglia migliore». Perché la Puglia non è la California (Baldini&Castoldi
2000) è un saggio in cui il manager Franco Tatò presenta soluzioni e proposte per migliorare l’offerta
turistica e l’innovazione sociale della regione.
L’asino di Martina Franca è la piú imponente razza asinina italiana: manto nero, muso grigio,
groppa larga, garrese che supera il metro e sessanta. Sin da bambini siamo stati allevati con la storia
biblica dell’asina di Balaam che parlava per conto di Dio, unico animale che in tutta la Bibbia ha
questo privilegio (capp. 22-24, Libro dei Numeri). I martinesi vengono chiamati dagli abitanti dei
paesi vicini «Ciucci» per la loro testardaggine: non è un caso se in molti siamo convinti che il somaro
che portò Gesú a Gerusalemme, che secondo alcune leggende sarebbe poi giunto in Italia, sia passato
anche da Martina.
L’intervista di Gustav Janouch a Franz Kafka è stata pubblicata da Guanda nel 2005 col titolo
Conversazioni con Kafka.
Il grande Lebowski è un film del 1998 diretto da Joel Coen, con Jeff Bridges nel ruolo del
protagonista «Drugo» Lebowski, un eclettico perdigiorno pigro e fannullone, molto spesso in
vestaglia.
Tetris è un videogioco inventato nel 1984 dal programmatore russo Aleksej Pažitnov.
Parte quarta Ruinenlust
A Berlino la clubbing culture è stata un grande laboratorio per le nuove avanguardie musicali,
soprattutto nel campo della musica elettronica, ha armonizzato le due anime della città dopo il crollo
del Muro e ha fatto sentire a casa i numerosi stranieri accorsi negli ultimi trent’anni. Il Berghain è il
piú noto club di musica techno al mondo, fondato nel 2004 in un grande stabilimento abbandonato
nel quartiere Friedrichshain. È riconosciuto da tutti gli appassionati come uno dei club techno piú
esclusivi a causa delle stringenti modalità d’accesso coordinate dal buttafuori e fotografo Sven
Marquardt, che consente l’ingresso solo a una piccola parte delle migliaia di persone che ogni
weekend provano a entrare nel «Tempio». Il Golden Gate è un piccolo club berlinese fondato nel
2000 in un vecchio magazzino della linea urbana metropolitana. Alle sue spalle di solito c’è un
grande luna park con una ruota panoramica che si perde nelle nuvole, aperta anche con le
temperature piú rigide: quando i clubber escono a prendere una boccata d’aria, salgono sulla ruota e
arrivano a un passo dal cielo; poi tornano a terra tutti impolverati di neve.
O Superman di Laurie Anderson è una canzone pubblicata come singolo nel 1981. Viene spesso
suonata al Panorama Bar del Berghain alle otto in punto della domenica sera. Paul Oakenfold è un dj
di fama mondiale, precursore della musica trance, figura di spicco della scena musicale rave.
Il volume sulle start up di Eric Ries che legge Claudia si chiama Partire leggeri, pubblicato da
Rizzoli nel 2011.
La East Side Gallery è un tratto di 1300 metri del vecchio Muro di Berlino lungo la Sprea
ridipinto da artisti internazionali, oggi considerato la piú lunga galleria d’arte del mondo.
La raccolta di poesie Il verme e il frutto di Raffaele Carrieri oggi si può ascoltare soltanto online,
interpretata dall’attore Riccardo Cucciolla in un video di almeno trent’anni fa. Chi la volesse
possedere dovrebbe affidarsi al caso e recuperare l’introvabile edizione delle Poesie scelte
(Mondadori 1976).
Durante il suo soggiorno berlinese, Mark Twain provò a studiare il tedesco, ma con scarsi risultati.
Si vendicò scrivendo un piccolo pamphlet chiamato The Awful German Language (1880).
Pippi Calzelunghe è un romanzo di Astrid Lindgren pubblicato per la prima volta in Italia nel
1958. L’incipit che Claudia legge a Erika per farla addormentare è tratto dall’edizione Salani del
2008.
Lisa Morpurgo (1923-1998) è stata una scrittrice italiana, tra le prime e piú autorevoli studiose
dell’astrologia. Le sue Lezioni di astrologia (1983) sono oggi pubblicate da Tea.
Matrix è un film del 1999 scritto e diretto dalle sorelle Lana e Lilly Wachowski.
Parte quinta Sehnsucht
La Vlora è la nave albanese che attraccò nel porto di Bari l’8 agosto 1991, con oltre 20 000
persone a bordo. Cercavano una nuova vita in Italia in seguito alla caduta del regime comunista. Per
noi pugliesi quei giorni d’estate assomigliarono tremendamente ai giorni d’autunno del 1989 a
Berlino, quando l’Est e l’Ovest si riabbracciarono: con la Vlora, pugliesi e albanesi riannodavano i
fili della loro storia.
Sulla rivista «Mercurio» nel 1948 ci fu un dibattito tra le scrittrici Natalia Ginzburg e Alba de
Céspedes. La prima scrisse: «Le donne piangono perché sono cascate nel pozzo e capiscono che ci
cascheranno spesso nella loro vita e questo renderà loro difficile combinare qualcosa di serio». La
seconda le rispose: «Ho grande e antica pratica di pozzi: mi accade spesso di cadervi e vi cado
proprio di schianto, appunto perché tutti credono che io sia una donna forte e io stessa, quando sono
fuori dal pozzo, lo credo. Figurati, dunque, se non ho apprezzato ogni parola del tuo scritto. Ma – al
contrario di te – io credo che questi pozzi siano la nostra forza. Poiché ogni volta che cadiamo nel
pozzo noi scendiamo alle piú profonde radici del nostro essere umano, e nel raffiorare portiamo in
noi esperienze tali che ci permettono di comprendere tutto quello che gli uomini – i quali non cadono
mai nel pozzo – non comprenderanno mai». I due interventi si possono leggere sul sito web della
Società delle Letterate.
Too Much Love Will Kill You, scritta da Brian May, è una canzone dei Queen pubblicata nel 1992,
quando Freddie Mercury era già morto, ma registrata nel 1988 ai tempi dell’album The Miracle.
Il KitKat Club è il piú estremo e trasgressivo club berlinese, fondato da Kirsten Krüger e Simon
Thaur nel 1994. Ogni sabato notte ospita il «CarneBall Bizarre», una superfesta a tema fetish che
dura fino al mattino, a cui si accede solo rispettando un dress code molto severo. Luogo cosmopolita
dove si incontrano spiriti liberi di tutto il mondo, il KitKat è anche noto per le performance
pittoresche ed estreme di alcuni suoi artisti, acrobati, maestri di corda e ipnotizzatori. Nelle lunghe
file di persone che aspettano il loro turno in coda fuori dall’edificio molte si trasformano,
denudandosi o indossando piume. Una notte due uomini si sono inseguiti con delle asce, senza però
smuovere alcun sentimento di terrore o mettere in fuga la fila. Il Lab.oratory è un club per soli
uomini molto estremo, nella stessa struttura del Berghain. Diverse serate nei locali gay della città
hanno nomi che richiamano l’attività laboratoriale, forse per la vicinanza tra il concetto di
sperimentazione chimica e sperimentazione sessuale. Gli shisha club come quello in cui si recano
Andria e Francesco sono luoghi nascosti, ben diversi dagli shisha bar aperti a tutti. Vi si può accedere
soltanto tramite passaparola, su invito o con una parola segreta. Dentro si fumano melasse speciali
non commercializzate e si pratica il nudismo.
Il Club-Mate è la bevanda ufficiale di Berlino, riconoscibile per il suo marchio che raffigura un
uomo col sombrero. Bibita gasata all’aroma di yerba mate con caffeina, viene venduta ovunque,
persino nelle edicole.
Lucia di Lammermoor è un’opera in tre atti del 1835 di Gaetano Donizetti, con libretto a cura di
Salvadore Cammarano tratto dalla Sposa di Lammermoor di Walter Scott.
A Berlino un terzo della popolazione è di origine turca, e nella notte tra il 15 e il 16 luglio 2016 la
città fu attraversata da spontanee manifestazioni pro e contro il presidente Erdoğan.
«La zita di Ceglie, nessuno la sceglie» è un detto pugliese coniato nel secolo scorso per le donne
che non si sposavano.
Il palmento nel suo significato originale indica la vasca dove fermenta il mosto, ma nelle casedde
pugliesi spesso si chiama cosí la stanza dove si fa il vino, una sorta di grande soggiorno.
Parte sesta Torschlußpanik
Frozen è un film d’animazione del 2013 diretto da Chris Buck e Jennifer Lee. Anna, la principessa
protagonista della storia, è diventata un’icona per le bambine e i bambini di tutto il mondo.
Ninnananna dei Modena City Ramblers è una canzone del 1994 presente nell’album Riportando
tutto a casa.
Il Glühwein è una bevanda calda a base di vino, zucchero e spezie simile al nostro vin brûlé,
servita durante il periodo dell’Avvento tra i banchi dei mercatini natalizi tedeschi.
Il Kakheti è una regione della Georgia orientale molto conosciuta per la sua tradizione vinicola,
gode di un ottimo clima e vi crescono centinaia di varietà autoctone d’uva. Molti studiosi sostengono
che sia stata la culla dei primi vignaioli della storia.
Torre Canne è la località marina piú vicina a Martina Franca, nel comune di Fasano. La maggior
parte dei giovani martinesi, però, preferisce le spiagge piú a sud, come Lido Bizzarro e Lido
Buzzone.
Gli italiani, come i polacchi e i turchi, sono protagonisti di molte barzellette tedesche che usano
cliché ai limiti del pregiudizio. Solitamente nelle storielle piú lievi l’italiano è dipinto come un
mammone, in quelle piú pesanti come un malavitoso o un fannullone: «Chi si salva tra un italiano e
un tedesco quando una casa è incendiata? Il tedesco, perché è al lavoro».
Le Kolonien berlinesi sono piccoli lotti di terra occupati da casette di legno con piccoli orti in
piena città. Molto vissute nei giorni di sole e le domeniche, ideali per la piccola villeggiatura
metropolitana per chi non ha tempo o voglia di lasciare la città. Tempelhof è stato l’aeroporto di
Berlino fino all’ottobre del 2008. Dopo un referendum molto partecipato, la grande area aeroportuale
è diventata un parco metropolitano.
Racconto d’amore (Greco e Greco 1994) è una raccolta della poetessa pugliese Biagia Marniti.
Epilogo Amore
La storia di san Martino che appare sulle mura di Martina Franca con un’imponente cavalleria per
difendere la città dall’assedio dei Cappelletti di Fabrizio Marramaldo nel 1529, episodio locale della
guerra tra spagnoli e francesi nel Regno di Napoli, è stata raccontata da Cito de’ Citi nel 1596 in Vita
di San Martino. Secondo la leggenda, la porta sulla quale apparve è rivolta all’Adriatico. Nel corso
degli ultimi anni, alcuni storici locali tra cui Giovanni Liuzzi hanno preferito separare la credenza
popolare dal quadro storico dell’epoca, caratterizzato da guerra, pestilenze e carestie.
La notte tra il Giovedí Santo e il Venerdí Santo a Martina Franca si tiene la tradizionale
processione dedicata all’Addolorata. La storia della statua di Giuda che veniva oltraggiata durante il
percorso della processione mi è stata raccontata; quello che ho scritto qui è tutto frutto della fantasia,
anche se mi sono ispirato alla spettacolare asta con cui a Taranto si assegnano le statue agli spallieri
nella processione dei Misteri, un evento che ho seguito decine di volte e su cui nel 2008 ho scritto un
reportage sul dorso barese della «Repubblica». Il mistero che avvolge i riti tarantini ha prodotto una
folla di pubblicazioni: nel 1984 usciva un libro con una copertina memorabile e un titolo molto
efficace, L’anima incappucciata, scritto da Nicola Caputo per l’editore Mandese. Ancora oggi è il
volume essenziale per chi voglia far luce su dicerie e arcani della Settimana Santa. La statua
dell’Addolorata, a differenza delle statue dei Misteri che sono in cartapesta, è in legno. Viene
conservata nell’omonima chiesa nel centro storico di Martina, dove può essere smontata e
ricomposta, spogliata e rivestita solo dai confratelli piú devoti.
La notte lava la mente è tra le piú note poesie di Mario Luzi, tratta dalla raccolta Onore del vero
(1957) e oggi riunita nelle sue Poesie (Garzanti).
Cavalleria rusticana è un’opera musicata da Pietro Mascagni (su libretto di Giovanni Targioni-
Tozzetti e Guido Menasci, ispirato all’omonimo racconto di Giovanni Verga), andata in scena per la
prima volta nel 1890. È nota anche per il suo dolcissimo Intermezzo, in cui la musica sembra la
risacca di un’onda quando il sole tramonta sul mare, e la carezza dei violini trasmette un senso di
serena solitudine di fronte alla bellezza delle cose.
Questo romanzo è dedicato alla memoria degli scrittori della mia terra, perché senza non
esisterebbe il mio immaginario. Alcuni di loro sono citati nel libro e richiamati nella stanza degli
spiriti, altri vi aleggiano silenziosi, come la poetessa Claudia Ruggeri, altri ancora sono impliciti
nella mia vita di scrittore e di lettore, e affiorano man mano nel tempo. Il caso beffardo ha voluto che
uno di essi, il pensatore e sociologo Franco Cassano, andasse via nelle ore in cui stavamo chiudendo
le bozze. Speravo che Cassano leggesse questo libro, e quel piccolo paragrafo dove lo citavo. Da lui
ho imparato ad andare piano per dare un nome agli alberi, come scrisse nel Pensiero meridiano.
Questo romanzo in fondo parla di gente cosí, che lui aveva già raccontato quasi trent’anni fa. E a lui
va il mio inchino a terra.
«A volte si leggono romanzi solo per sapere che qualcuno ci è già passato».
Claudia entra nella vita di Francesco in una mattina di sole, nell’atrio della scuola:
è una folgorazione, la nascita di un desiderio tutto nuovo, che è soprattutto desiderio
di vita.
Cresceranno insieme, bisticciando come l’acqua e il fuoco, divergenti e inquieti.
Lei spavalda, capelli rossi e cravatta, sempre in fuga, lui schivo ma bruciato dalla
curiosità erotica. Sono due spatriati, irregolari, o semplicemente giovani.
Un romanzo sull’appartenenza e l’accettazione di sé, sulle amicizie tenaci, su una
generazione che ha guardato lontano per trovarsi.
L’autore
Mario Desiati è originario di Martina Franca, ha pubblicato tra gli altri: Il libro
dell’amore proibito (Mondadori 2013) e Mare di Zucchero (Mondadori 2014). Per
Einaudi ha pubblicato Candore nel 2016.
Dello stesso autore
Candore
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Copertina
Frontespizio
Spatriati
Parte prima. Crestiene
Parte seconda. Spatriètə
Parte terza. Malenvirne
Parte quarta. Ruinenlust
Parte quinta. Sehnsucht
Parte sesta. Torschlußpanik
Epilogo. Amore
Note dallo scrittoio o stanza degli spiriti
Il libro
L’autore
Dello stesso autore
Copyright