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Direttore
Caterina Ricciardi
Comitato scientifico
Massimo Bacigalupo, Christopher Benfey, John Gery, Nan Goodman, Christoph
Irmscher, Franco Marenco, Giorgio Mariani, Giuseppe Nori, Viola Papetti.
Nota editoriale.......................................................................................... ix
Premessa................................................................................................... xi
Ottocento permanente
Modernismo
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
vi INDICE DEL VOLUME
L’età dell’ansia
Controcanti
Postcolonialismi
Voci femminili
Ultimi frutti
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
x NOTA EDITORIALE
degli inediti. Tra questi, stando alla bozza di indice, avrebbe for-
se dovuto esserci uno scritto su John Cage, Intorno al silenzio, che
avremmo voluto leggere. Ma non abbiamo potuto.
La casa editrice ringrazia infine la famiglia di Caterina per aver
incoraggiato, sostenuto e reso possibile la pubblicazione di questo
lavoro.
PREMESSA
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
xii PREMESSA
C. R.
OTTOCENTO PERMANENTE
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
david herbert lawrence
classici americani
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
4 NOVECENTO POETICO AMERICANO
george santayana
contro emerson
C’è una lettura nella storia critica della tradizione poetica ameri-
cana, cui pochi, nel tempo, hanno dato rilievo, ed è quella che ri-
conosce in R. W. Emerson, e nel suo pensiero trascendentalista,
non lo slancio positivo verso l’‘invenzione’ dell’uomo e del poeta
americano, libero dai paludamenti europei, ma l’incauto seduttore
di menti originali.
In questo senso Yvor Winters è stato un oppositore forte dell’entu-
siasmo adamitico di Emerson, il quale, lungo linee attinte dall’Idea-
lismo tedesco, attribuiva all’uomo un potere che poteva essere di sola
pertinenza divina. In questo modo, quell’illimitata «fiducia», di ma-
trice hegeliana, che il padre del Trascendentalismo americano seppe
iniettare, anche positivamente, nelle vene ottocentesche, veniva rias-
serita. Essa finì, infatti, col fuorviare molti giovani nella realizzazione
dei propri sogni di vita come pure del fare poetico.
Tanto più che nell’incoraggiamento di Emerson si affidava la mis-
sione di contribuire all’idea della nazione come nazione esemplare
(guida del mondo), progetto che – fa intendere George Santayana –
risultò poi pericoloso nel trasferire l’ideologia del Manifest Destiny an-
che fuori dai confini nazionali. E ciò, in effetti, avvenne con maggiore
consapevolezza – dopo la guerra con la Spagna per Cuba e la mano
allungata su Filippine e Hawaii (1898) –, a partire dal programma già
imperialista di Theodore Roosevelt, almeno ai fini dell’America del
Sud, incluso il caso Panama del 1904.
OTTOCENTO PERMANENTE 7
Pur nei suoi eccessi cosmici, Walt Whitman, degno primo epigone
della figura del poeta ritratta da Emerson nel saggio eponimo (The Poet,
1844), fu l’unico che – strano a constatarsi – non fu definitivamente tra-
volto dall’afflato della propria sicumera onnicomprensiva. Nonostante
la sua megalomania, secondo Santayana (che, per comodità, dimentica
le ambiguità e gli scetticismi di Melville, Poe, Thoreau e Hawthorne),
Whitman tenne i piedi per terra (nel suo caso: su tutta l’America!).
Ma giunti al Novecento, quell’egotismo emersoniano, intravisibile
persino nello slogan di Woodrow Wilson a favore dell’intervento nel-
la guerra in Europa («Salviamo il mondo per la Democrazia»), iniziò
a mostrare, sul piano dello sforzo artistico, tragici fallimenti (Hart
Crane è il caso più esemplare) o manifestazioni di una self-reliance
che sfiorava estremismi. Santayana toccava allora con animo critico
(ma talora sfuggente, se non contraddittorio) questa tematica, che ora
ci si presenta come osservata da «straniero», alla maniera di Alex de
Tocqueville.
Letta a Berkeley, in California, nel 1911, la conferenza che dà il tito-
lo al volume La tradizione signorile nella filosofia americana e altri saggi,
curato da Leonarda Vaiana nel 2017, offre un’analisi del germe del
problema, ponendolo nel predominio sulla scena letteraria nazionale
della cosiddetta Genteel Tradition, come Santayana aveva battezzato
la elitaria aristocrazia bostoniana (le varie famiglie dei Lowell, Eliot,
Norton, Cushing, Gardner), decisa allora a mantenere una distanza
ostinata dai drastici mutamenti del paese.
Quest’ultimi includevano le diversificate immigrazioni dall’Euro-
pa, gli smottamenti antropologici portati dalla guerra civile, la corsa
all’Ovest, la messa in atto del Manifest Destiny con la nascita di nuovi
Stati e nuovi territori. Si trattò di novità che implicarono la diffusione
del Gospel of Wealth (il Vangelo della ricchezza) e la realizzazione del
sogno promesso dal motto vincente («from rags to riches») di Benjamin
Franklin, che portò, ahimè, all’avvento dei Robber Barons, gli accalap-
piatori degli appalti per la fabbricazione delle ferrovie, del trasporto
del legname e dell’estrazione del petrolio in Ohio, l’oro nero che ini-
ziava a mostrarsi come la fonte energetica del futuro. Furono i neo-
arrivati (cinesi e italiani soprattutto), pagati con una miseria di dollari, a
mettere mani callose nella brutale realizzazione del Sogno. Molte delle
8 NOVECENTO POETICO AMERICANO
neva guida e modello, e una «volontà» dei più, che spingeva verso altri
obiettivi. È la vecchia dicotomia, congenita in America, divisa fra idea-
lismo e materialismo, o fra idealismo e la vita del paese in mutamento.
Quali i rimedi a tale aggravata situazione? Santayana li indica nell’e-
same di tre figure esemplari che seppero staccarsi, in parte o del tutto,
dall’equivoco ottimismo emersoniano: Walt Whitman, poeta bardico
bandito dall’élite per via del suo versificare «barbaro», e i due fratelli
James: William, il filosofo, che reagì al diffuso vuoto spirituale con il
pragmatismo, e Henry, l’esule, che adottò nell’analisi del suo paese la
distanza necessaria acquisita in Europa. Molti furono gli espatriati in
quei decenni, da James McNeill Whistler a T. S. Eliot, da Ezra Pound
a Ernest Hemingway, a Gertrude Stein, F. Scott Fitzgerald e altri. Sul
piano della formazione e creazione artistica l’America, arenatasi sulla
gentility moralistica e sul materialismo rampante, non aveva più nulla
da offrire ai suoi futuri talenti.
Lo fa intendere lo stesso Santayana in La poesia barbarica (1900), la
conclusione a La tradizione signorile, in cui così egli paragona il pre-
sente alle lezioni del passato: «troviamo i nostri poeti contemporanei
incapaci di elevata saggezza, incapaci di qualsiasi rappresentazione im-
maginativa della vita umana e del suo significato» e nessuna «visione
della bellezza». E ne indica anche le ragioni, molto vere e interessanti,
e fra queste una constatazione sovvertitrice in ambito protestante:
Dobbiamo ricordare che l’immaginazione della nostra razza è stata soggetta
a una doppia disciplina. Si è formata in parte alla scuola della letteratura
classica e in parte alla scuola della pietà cristiana. Questa duplice ispirazio-
ne, questa contraddizione fra i due metodi di razionalizzazione del mondo
adottati, è stata la fonte principale di quella incoerenza e di quella vaghezza e
imperfezione tipicamente romantiche, che caratterizzano ampiamente i pro-
dotti dell’arte moderna. Un uomo non può servire due maestri.
Preso atto dell’impossibile convivenza di tale doppia anima (i due
«maestri»), il Novecento cercherà di rimediare alla falla. E, nonostan-
te gli abusi della self-reliance, farà le sue scelte vincenti, non ultima
l’inseguimento di una «bellezza difficile».
testuali ad libitum («un tempo ogni parola era una poesia»), e lo evoca
(o sberleffa) per certi suoi vezzi sparagnini e vampireschi ai fini della
sua attività scrittoria: Emerson – incredibile e geniale – riciclava pagi-
ne dei diari di suo padre, creando o cancellando, in tal modo, ciò che
può definirsi un «palinsesto» generazionale.
T. S. Eliot invece trova in lui un fardello, e lo si può capire, perché
Emerson, nonostante in The Poet parli del poeta americano come «ta-
lento» («Our poets are men of talents, who sing, and not the children
of music»), porgendo al figlioccio un conio di fortuna a venire in The
Tradition and the Individual Talent (1919), in nome dell’indigenismo
negava la «tradizione», una rinuncia sacrilega per l’Eliot modernista;
E. A. Poe se ne infischia della sua predicazione; Walt Whitman, in-
vece, s’è già visto, preferisce appropriarsi egotisticamente e ingom-
brantemente del saggio Il poeta e procedere sicuro; H. D. Thoreau
lo segue alla lettera (erano buoni amici a Concord, Massachusetts,
ma, in genere, non vicini di casa: Thoreau viveva, periodicamente,
davvero nei boschi); Emily Dickinson lo legge con devozione, le era
permesso, sebbene non sappiamo bene se fosse d’accordo o no con
le idee del Maestro, lei, infatti, pensava per conto suo, e quel pensa-
re non sarebbe piaciuto al «saggio di Concord», ma i termini meta-
fisici «circonferenza», «circolo», «sfera», «Oversoul», devono averla
stuzzicata; George Santayana lo considera un fantasioso portatore di
rovine; D. H. Lawrence nei suoi Classici americani lo bistratta: il suo
Trascendentalismo è solo la conferma di un’America «senza sangue»
(i.e., carne, Venere) e solo spirito (paracleto?: «Spirito Santo», lo chia-
ma ironicamente Lawrence), che non basta per una vita nerboruta,
nonostante il furbesco pragmatismo, mai assente all’appello. Meglio
la via dura del mare dell’anti-emersoniano Melville, benché repressa
da rimanenze calviniste; Vittorini in Americana, in tempi anti-fascisti,
anche su Emerson rimastica Lawrence forse per abbassarne la quota.
Insomma, c’è da dire di tutto su Emerson e su quanto ha ottimistica-
mente e sofisticatamente sognato o adulterato.
Per tornare al trascurato Storia, cosa ci vuole dire Emerson sotto
l’enorme baldacchino Storia? Sembra chiaro che questo saggio vor-
rebbe essere un più diretto, sia pure obliquo, manifesto anti-europeo.
Emerson ci dice, infatti, che la Storia è un prodotto di una «mente
OTTOCENTO PERMANENTE 13
dall’opinione dei suoi padri, non c’è nulla di «divino» nella creazio-
ne umana.
Come si vede, ciò che era cominciato con una riflessione sulla Storia
approda quasi deterministicamente alla nascita della poesia e del po-
eta (americano). Non a caso, in sostegno della sua visione esaltata e
pirotecnica, Emerson si appella alla Musa della Storia, generalmente
evocata dai poeti, qual era anche lui in proprio e in meglio. Clio è in-
vocata in History per ben otto volte: «The student is to read history ac-
tively and not passively, to esteem his own life the text, and books the
commentary. Thus compelled, the Muse of history will utter oracles».
È alla poesia, quindi a Calliope, che il suo pensiero offre per-
le preziose: la ghianda, la conchiglia marina, il pesce, la quercia, il
fiore di loto, la palma, sono immagini che si disperderanno per cre-
scere, come da un seme gettato, nelle generazioni a lui successive.
Nonostante tali gemme offerte ai futuri nuovi talenti, Emerson non
riesce a non ripetere una delle sue numerose idiosincrasie sulla na-
scita del poeta americano, al quale – se si legge bene – egli neghereb-
be, in fondo, ogni autenticità. Il poeta, infatti, conclude in History,
«trova la propria biografia segreta in righe meravigliosamente intel-
legibili, scritte già prima che lui nascesse». Emerson ci lascia sem-
pre disarmati con le sue imperdonabili freddure da humor secco:
deadpan. E allora? si potrebbe obiettare: dov’è la necessità del poeta
nel mondo? nell’essere soltanto un interprete, un trasmettitore, un
traduttore, un mediatore tra Natura e Trascendenza, Natura e Uomo
comune? Dov’è la sua decantata originalità adamitica del poeta del
Nuovo Mondo?
Così è Emerson. Affascinate, accattivante, epigrammatico, potente
stimolatore, traboccante di esche prelibate, eppure – sotto la superfi-
cie – egli resta fuorviante, ingannevole e, dunque, molto pericoloso. Il
suo naviglio necessita di un timoniere accorto, altrimenti rischia l’urto
inevitabile con la scogliera. Non a caso, a eccezione di Hart Crane, i
modernisti, ottimi navigatori, del «Saggio di Concord» ebbero ironico
sospetto.
emily dickinson
sillabe di seta, sillabe scarlatte
E nuovi Continenti –
Fu l’Eternità prima che
Dell’Eternità fosse il momento.
Per noi non c’erano Stagioni –
Non c’era Notte, non c’era Mezzogiorno –
Soltanto l’Alba che si fermò in quel punto
E lo ancorò all’Aurora.
Ed è questa la voce che esplora paesaggi ignoti al piccolo mondo
di Amherst: l’Ovest, per esempio, e si pensi alla coeva corsa al West;
o il mare nelle straordinarie ‘marine’ qui raccolte, immaginate da chi,
come Emily, al pari di Thoreau, che poi ne divenne un assiduo fre-
quentatore, non lo aveva quasi mai visto. È una voce che coltiva una
«passione per la vita», anche perché essa non sembra poi meno miste-
riosa dell’altra condizione sua nemica, la Morte, da lei corteggiata o
dalla quale si fa corteggiare (nr. 479).
In nome della vita, e del suo agitarsi, un «fiore Artico» (nr. 180)
attraversa latitudini e si fa strada verso l’Eden; una farfalla raggiun-
ge il mare, arrendendosi al suo mistero: «Extinguished – in the sea»
(nr. 354); e un brigantino attracca al suo «mistico ormeggio» (nr. 52).
Sono parabole in miniatura del viaggio dell’anima verso mete visiona-
rie, metafore di mistici – o persino erotici – altrove, «isole incantate»,
«terre di fiaba», alternative nostrane all’ipotetico paradiso del Dio cal-
vinista, perché, come Emily dice nella poesia nr. 172: «quella del Cielo
è un’altra storia, / Lo immagini, poi – lì – il Risveglio – / E quella po-
trebbe essere la mia Fine!» («And might exstinguish me!»). Sebbene
dalle sue poesie, questa donna dedita all’avventura a occhi aperti, non
dovrà mai temere il «risveglio», perché nel luogo della «Fine» lei c’è
già stata, lo ha già visitato e lo conosce bene, per averlo incontrato a
suo tempo nelle sue fantasticherie.
ca per eccellenza (il demonio, per chi ci crede), sta tutto l’ineffabile
segreto di questa pseudo-innocente eretica del verso poetico che fu
Emily Dickinson, certamente memore – quando ella usa quella paro-
la con malizia nel suo ‘gioco di biglie’ – della ben nota Salem Witch
Hunt del 1692, di cui furono vittime-protagoniste per lo più don-
ne. Dickinson lo sa, e con sberleffo, nel chiuso della sua stanza, la
«Witchcraft» la traduce tacitamente e liberamente in arte, scrittura,
incantesimo.
3. Si sapeva che da una certa data in poi, più o meno dalla seconda
metà degli anni ’60, dopo il suo periodo più fecondo, Emily Dickinson
usava ritagli di carta d’ogni genere: per frugalità o forse perché le pia-
ceva condividere nel suo universo privato qualsiasi scampolo (persino
un conto della spesa) proveniente dall’esterno. Lì, su tessere da minia-
turista, appuntava i suoi versi.
All’inizio era stata metodica, fino a un giorno in cui – interrotta-
si l’ondata lirica degli anni 1858-1864 – raccoglie diligentemente le
sue poesie, trascritte su fogli normali, in quaranta fascicoli, ricuciti
sul dorso da un filo: libri virtuali, da non pubblicare. Poi davanti alla
sovranità della pagina bianca deve esserci stato un tonfo della men-
te, come in un abisso, un naufragio. La pagina si fa rifiutare. Cos’era
accaduto nella sua esistenza per determinare questo arresto? Non lo
sappiamo. Sappiamo invece che inizia a soffrire di fotofobia e che, se-
condo i medici di allora, rischia la cecità. Le viene proibito di leggere
e di usare la penna (ma non la matita!). Sappiamo anche ciò che acca-
deva fuori casa: una guerra civile che andava lacerando la nazione. E
lei, che vive fuori dal mondo (questa è la vulgata), ha un amico al fron-
te, il giornalista e colonnello T. W. Higginson, al quale invia lettere,
raccomandandogli di guardarsi dalla morte: la guerra è un «territorio
ambiguo» (oblique).
Più o meno dal 1864, e poi con più costanza, dal 1870, un fram-
mento spiegazzato, un volantino pubblicitario, il programma di un
concerto, l’involucro di un cioccolatino parigino, persino un pezzo di
OTTOCENTO PERMANENTE 27
carta da parati, o, come sarà più abituale, parti di buste da lettera scar-
tate in un cestino dopo l’apertura, serviranno al compito che ancora
le urge dentro. Difficile immaginare il contesto, quando quelle lettere
giunte a casa Dickinson, a Amherst, Massachusetts, non erano indiriz-
zate a lei. Cosa faceva? Andava rovistando, di nascosto, sottraendo ai
rifiuti di famiglia strappi di ogni taglia, persino i triangoli di chiusura
(figura mistica e abissale), ancora spalmati di colla?
Sono cinquantadue le poesie su buste studiate da Marta Werner
e trascritte dall’artista Jen Bervin, e quindi selezionate per un volu-
metto che esce nel 2018 anche in Italia con la cura di Nadia Fusini.
Una versione ridotta di The Gorgeous Nothings (2013), Buste di poesia,
pubblicate da Archinto, è un libro sui generis, da guardare e leggere
lungo più dimensioni, perché in un unico ensemble ci presenta le fo-
tografie a colori dei frammenti olografi, la loro transcodificazione in
un tracciato lineare (un balloon), le traduzioni italiane in testa alla pa-
gina e in corpo più piccolo. È un’opera che concilia ricerca archiviale,
filologia e composizione figurativa, ma è concepita soprattutto come
esperimento visivo. Semplice estetica del manoscritto? Un album di
palinsesti, cubismi, calligrammi, scarabocchi? Un reliquiario verbale
che somiglia a un’opera d’arte povera e minimale dei nostri tempi?
Ciò che attrae immediatamente l’occhio, infatti, sono le tonalità
ocra della carta antica a contatto dello sfondo bianco, e le forme dei
frammenti che si scapricciano in figure irregolari, un po’ illusioniste
(come quando in una nuvola si vede la silhouette di un cammello, di
una balena), grinzose (accartocciate) e poi levigate con la delicatezza
dell’amanuense. Sui retri qui e là appaiono un francobollo, un timbro
postale, macchie di colla, il nome amputato del destinatario, l’iniziale
miniata di un mittente. Nei risvolti si addensano invece selve di parole,
crocette e lineette, che provano a non strabordare i limiti degli orli in
un funambolico equilibrio visivo di spazio e messaggio. Anzi, anche lo
spazio si propone come messaggio.
E di più: se l’oggetto che abbiamo davanti piace all’occhio e stu-
pisce, esso sembra istigare a una virtuale esperienza tattile del ma-
noscritto. Per farsi leggere, infatti, questa nuova pagina molto spesso
bisogna farla roteare, seguirla in modo serpentino fin dove le parole
di un pensiero compiuto si chiudono a guscio, come un’ostrica, nel
28 NOVECENTO POETICO AMERICANO
walt whitman
assestamenti
2. Nel 1948 in un passo del saggio Da Poe a Valéry, T. S. Eliot met-
teva a confronto E. A. Poe e Walt Whitman, i due poeti americani
il cui successo era stato proclamato in Europa piuttosto che in pa-
tria. In quell’occasione egli rilevava che vi è nell’opera di Poe «un
certo tratto di provincialismo» in un senso per cui «Whitman non è
affatto provinciale: è il provincialismo di chi non si sente a proprio
agio nel luogo cui appartiene»; Poe, aggiungeva, e si può non esse-
re d’accordo, «è una specie di profugo europeo». Sulla «americani-
tà» di Whitman (un potenziale limite allora a livello transnazionale
ottocentesco), invece, non si sono mai nutriti dubbi, eppure le sue
difficoltà a farsi accettare dai suoi compatrioti (gli altri suoi «se stes-
si» nel discorso democratico) furono il tormento della sua carriera,
rimasta invitta grazie alla caparbietà dell’uomo-poeta (uomo disgra-
ceful lo definisce per sentito dire Emily Dickinson) e della ferrea
fiducia nel suo progetto poetico, personale e nazionalistico.
OTTOCENTO PERMANENTE 35
zione di Corona, il quale, a iniziare con il Canto di me stesso, via via che
la «quercia» democratica delle Foglie cresce ramo su ramo, si arrampica
egli stesso su quella quercia dalle radici: foglio su foglio, edizione su
edizione, poesia su poesia, fino alla cima, fino a compattare la simpateti-
ca identità di uomo-poeta-corpo-testo e America-anima-cosmo-lettore.
Tuttavia, prima di inoltrarsi su questo versante, egli preferisce aprire una
finestra strategica (voyeuristica) su uno dei tanti sguardi «da oltre ocea-
no», uno sguardo testimone, e forse partecipe, di certe consuetudini in-
timistiche di Whitman, come fu quello dell’inglese Edward Carpenter,
che nel 1877 si recò in visita dal vate seduttore a Camden, N.J., a due
passi da Filadelfia in Pennsylvania. Si squarcia così in apertura il velo sui
messaggi proibiti (perché per lo più omoerotici ma non solo) del testo e
dell’uomo. Le carte della corporea «indirection» whitmaniana («osce-
na» per la censura), che corrono sempre a fianco del discorso aperto sul-
la democrazia, vengono così scoperte in anticipo. È solo un’antifona, per
ora, prima del film omonimo dell’affrontare con occhi avvertiti la storia
della nascita di Foglie d’erba, dei suoi sviluppi, delle sue implicazioni.
Sviluppi che si fanno già più disinibiti nella terza edizione del 1860
con l’inclusione delle sezioni Figli di Adamo (l’amore eterosessuale)
e Calamus (l’omoerotico), che danno a Whitman agio di presentarsi
come il poeta sensuale di e per «tutti», un poeta più sfacciato, perché
molto più esplicito nelle sue proiezioni. Per esempio, quando rifà il
verso (seriamente) a Catullo in soli quattro audaci versi: «O Hymen! O
hymenee! perché mi tormenti così? / Oh, perché pungermi per un at-
timo fuggente soltanto? / Perché non puoi continuare? Perché smetti
adesso? / Forse perché se tu continuassi oltre l’attimo fuggente finiresti
di sicuro per uccidermi?». Versi non da antologia, bensì d’avanguardia
che faranno forse gola ai modernisti: c’è qualche prova, soprattutto
tramite Catullo, in Eliot, Pound, Hilda Doolittle. Lo spunto vale a
livello di analogia, o di sintonia, non di influsso diretto. L’influsso del-
l’«attimo fuggente» fu, invece, certamente diretto sul film The Dead
Poet Society del 1989 di Peter Weir, e funestamente profetico per il
protagonista Robin Williams, sebbene le implicazioni socio-letterarie
erano – come i tempi – lievemente diverse.
Seminati indizi più o meno segreti (covate «uova» furtive), mentre si
segue la crescita dell’albero, si avverte in questa storia un momento di
OTTOCENTO PERMANENTE 37
non saprei osare / (…). / Risoluto a non cantare oggi altri canti che
quelli dell’attaccamento virile, / Proiettandoli verso quella vita auten-
tica e piena, / Lasciando dunque in testamento tipi di amore atletico»
(trad. di Mario Corona). Per pruderie, è costretto a dire quel che può.
Il resto lo lascia immaginare a chi ha fantasia.
La scoperta di Turpin, che va indietro nel tempo ma resta valida
per i problemi del nostro tempo, torna utile ora a ricostruire uno sfon-
do, diciamo ‘teorico’, al discorso celato (o in double-talk) di Calamus, la
raccolta scottante, aggiunta a Foglie d’erba nel 1860, ovvero solo dopo
aver elaborato questi scritti di chiaro intento omosessuale. Whitman
si rifaceva al passato (alla Grecia) per affermare, attraverso la masche-
ratura dello sport, e di uno pseudonimo che lo proteggesse dalla cen-
sura, la legittimità umana e culturale della diversità sessuale.
(Alias, novembre 2019)
herman melville
naufragi
che le nasconde i capelli. Per Shelley (e per Melville?) l’incesto era una
specie di «family romance». A prescindere da insondabili circostanze
biografiche (se ci furono), esso circola in Matilda di Mary Shelley e in
Pierre del baleniere americano.
La forma drammatica non era il forte di Shelley, ma questo dram-
ma – su modello elisabettiano, ci dice Rognoni, con precisi richiami
a Shakespeare – ebbe il vigore di consegnare il suo nome a un’in-
scalfibile fama ottocentesca (e poi novecentesca). Da Stendhal al puri-
tano Hawthorne, Dumas (padre), Guerrazzi… si possono facilmente
elencare seguaci di Shelley, che leggeranno il play ri-puntando sul-
l’«innocenza» di Beatrice, che diventerà quasi un mito ottocentesco.
Nel Fauno di marmo, Hawthorne sarà preso da qualche dubbio sulla
sua innocenza, poi lenito dall’esame degli occhi della ritratta, la quale
pare colta nell’atto di vedere ciò che non deve vedere, e tanto più subi-
re ciò che non deve subire.
Quando lo Shelley ventisettenne si appassiona a Beatrice, egli
aveva alle spalle un considerevole curriculum di elaborazioni poli-
tico-filosofiche come pure di scrittura creativa (Queen Mab, Alastor,
Ozymandias, La rivolta dell’Islam, l’Inno alla bellezza intellettuale,
Difesa della poesia, Zastrozzi) e, prima di naufragare a Viareggio
nel 1822, aveva da partorire il meglio della sua produzione poetica:
Adonais, l’elegia per la morte di Keats, l’Epipsychidion, l’Ode al Vento
d’Occidente, la Medusa di Leonardo, Hellas, il Prometeo liberato, Il
trionfo della vita.
Alle opere poetiche è dedicato il primo volume del dittico
Meridiano, affidato ancora all’esperto Rognoni, il quale in questo
secondo volume, con il dramma Cenci, raccoglie prose più o meno
atipiche. Nel 1819 Shelley usciva dalla sua fase più ideologica e plato-
nica, la fase libertaria, per calarsi totalmente nello spiritus loci italia-
no. L’Italia respira nel volume: dalle Alpi, ai Colli Euganei, a Venezia,
Napoli, Firenze, Roma, Lerici, dove per l’indomito trentenne soprag-
giungerà la fine.
Ma prima di incarnarsi in quello spiritus, la sua storia intellettuale
e creativa è leggermente diversa, a cominciare con l’«enciclopedico»
La Regina Mab, un poema in nove canti, accompagnati da diciassette
«Note» filosofiche, pubblicato nel 1813 e scritto sotto l’influsso dell’a-
OTTOCENTO PERMANENTE 47
2. «Si può ammirare una poesia di cui non si accettano le idee? Sì,
rispondono da tempo immemorabile gli studiosi italiani». Così scri-
veva Montale nel 1951 in una recensione al volume P. B. Shelley (Neri
Pozza) di Elio Chinol, riassumendo, subito dopo, le controverse opi-
nioni (sì/no) sul dibattuto problema ‘Shelley poeta’, opinioni formulate
da un’élite di letterati e critici inglesi, che includeva Matthew Arnold e
I. A. Richards, T. S. Eliot e F. R. Leavis, C. S. Lewis e Herbert Read.
OTTOCENTO PERMANENTE 49
senza cura e pretesa, così come quelle opere che meritano seria consi-
derazione presentano spesso difetti, e talvolta gravi. Shelley: «non era
dotato né per il dramma né per il poema narrativo, aveva deficiente il
senso architettonico, poteva spesso lasciarsi portar via dall’impulso
fino a perdere il controllo, restare sentimentalmente irretito in falsi
e convenzionali schemi psicologici, e avvilupparsi e confondersi, a
causa della sua grande esuberanza verbale, in labirinti di parole». Ma
quando si sia liberato il setaccio da ciò che appare caduco, continuava
Chinol, «cosa dobbiamo dire di opere come il Prometheus Unbound,
l’Epipsychidion, l’Adonais e The Triumph of Life? Nessuna forse è per-
fetta, eppure è assurdo negare che vi sia in tutte la pura impronta di
ciò che si può, senza nessuna rettorica, chiamare “Genio”».
Chinol qui si rivolgeva anche e soprattutto ai modernisti, Pound
e Eliot, ai quali, in modo indiretto, ricordava che, in nome del loro
«senso storico», bisognava comprendere anche valori diversi da quelli
della poesia contemporanea. Il grande «talento», diceva Eliot, modifi-
ca la «tradizione», proiettandola sempre in avanti: cosa che nel caso di
Shelley essi avevano dimenticato.
Shelley, il «Cuor dei Cuori» (Carducci) dei romantici inglesi, aveva
goduto di facile fortuna in Italia, grazie al mito della sua morte in nau-
fragio al largo di Viareggio, nonché di poeta intellettualmente ribelle,
libertario, e addirittura, in alcune manifestazioni (il Prometeo liberato),
titanico: un anticonformista nella vita, nelle idee politiche e nell’arte.
Venerato da D’Annunzio, Adolfo de Bosis e Melville, aveva trovato in
Emilio Cecchi il primo estimatore del calibro letterario della sua opera.
Poi più nulla di risonante scuoterà il silenzio in cui lo si seppelliva, anti-
cipando un destino che, se si eccettuano le traduzioni e pochi altri sparsi
interventi, si ripeterà dopo gli anni Cinquanta, ovvero dopo la pubblica-
zione della monografia di un Elio Chinol con vocazione filosofica.
Bisognerà attendere, infatti, l’uscita nel 1995 della solida edizione
delle Opere (Einaudi-Gallimard), curata con maestria ineccepibile da
Francesco Rognoni, il quale ora torna alla carica con un densissimo
Meridiano Mondadori, Opere poetiche, in cui, con rinnovata e diversa
energia, raccoglie nuovamente un’eredità abbandonata.
(Alias, agosto 2018)
OTTOCENTO PERMANENTE 51
john keats
verso bisanzio
Nel novembre del 1820 John Keats, condannato dalla tisi, arri-
va a Roma, prendendo alloggio al numero 26 di Piazza di Spagna.
Contestualmente smette di scrivere all’amata Fanny Brawne. La città
delle bellezze da «urna greca» non lo conforta sulla speranza di una
guarigione. Anche per lui, e per Fanny, le nozze mai consumate sul
fregio antico, da lui cantato nella sua Ode più classicheggiante (Ode to
a Grecian Urn, 1819), resteranno per sempre sospese nel tempo. Forse
Keats vide Roma come il vecchio W. B. Yeats immaginò Bisanzio: l’ul-
tima meta dell’anima che, in groppa a un delfino, vola verso l’«artificio
dell’eternità» (Sailing to Byzantium).
Le lettere di lei giunte a Roma non vennero aperte e, alla morte
del poeta, il 23 febbraio 1821, saranno distrutte. Le lettere a Fanny,
scritte in Inghilterra, e rese pubbliche solo nel 1878 in forma di libro,
in Italia appaiono nel 2010, con Prefazione di Nadia Fusini e sotto il
titolo Leggiadra stella. Lettere a Fanny Brawne. Esse sono anche parte
dell’intera corrispondenza di Keats, un epistolario voluminoso, ripro-
posto in più edizioni (l’ultima è del 1958), che, in The Use of Poetry
and the Use of Criticism (1933), T. S. Eliot definì «il più notevole e il
più importante mai scritto da un poeta inglese».
Il tempo che lega queste due anime è breve: poco più di un anno.
Lei è la ragazza della porta accanto, a Hampstead, il pastorale quartie-
re di Londra dove Keats fa capo per soggiorni periodici presso l’amico
C. A. Brown. Qui nasce l’Ode all’usignolo (1919) e il poeta innamorato
è contagiato dalla stessa ebbrezza spiraleggiante del suo cantore «im-
mortale». Ma la realtà mondana è più vile e chiede i conti. Keats sa che
la fine incalza. «Vorrei che fossimo farfalle e vivessimo tre soli giorni
d’estate», scrive a Fanny nel 1819, con vaga risonanza del sonetto 18 di
Shakespeare: «A un giorno d’estate potrò paragonarti? Tu sei più mite
e più leggiadro. / Rudi venti scuotono i teneri boccioli del maggio / e
il tempo dell’estate in fretta si dilegua».
Fanny lo ha «abbagliato», lo ha imprigionato in uno «stato di totale
malia», lui non può «respirare» senza di lei, e lei è ora l’«unico dogma»
52 NOVECENTO POETICO AMERICANO
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
william butler yeats
recupero bardico
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
58 NOVECENTO POETICO AMERICANO
d’Irlanda non erano lontani per spirito e valori comuni, condivisi con
la cultura occidentale. D’altro canto, si ricorderà, Plutarco sembrava
identificare l’isola di Ogygia con l’Irlanda. Anche sulla base di queste
fonti, Yeats collabora al progetto nazionalistico con un gesto di schiet-
to sincretismo e di preveggente europeizzazione. Non a caso nel suo
discorso a Stoccolma per il Nobel nel 1924, incluso nell’Autobiografia,
egli si augurava, profeticamente, un’Irlanda «europea».
La raccolta Il figlio di Cuchulain, curata da Dario Calimani nel
2011, unisce in un insieme coerente il primo e l’ultimo dramma di quel
ciclo, e cioè Sulla spiaggia di Baile, Purgatorio (1939), e il postumo La
morte di Cuchulain, più influenzato dal Nō giapponese. Quest’ultimo,
una breve pièce, è da leggere come un rifacimento – in chiave «basso
mimetica» direbbe Frye – di un episodio cruciale della vita dell’eroe
pre-cristiano, ovvero il «figlicidio». Da qui il titolo di questa nuova
selezione in italiano.
Da sempre angustiato dal dovere verso un’arte alta e di impegno ci-
vile da trasmettere ai posteri, come pure dal desiderio di una progenie
in cui trasmettersi, ancora una volta Yeats trova nel folclore nazionale
materia degna di riflessione, come già gli era accaduto con il recupero
sulle scene teatrali dell’eroina nazionalista Cathleen ni Houlihan. E,
a tali fini, in particolare, la figura di Cuchulain – «una figura di eroe
istintivo e passionale, una sorta di Ercole celtico», scrive Calimani –, lo
attanaglia subito, già con la lirica Cuchulain’s Fight with the Sea (1982).
Non l’abbandonerà mai. Vi tornerà sopra a più riprese nei suoi versi
(Alternative Song for the Severed Head in «The King of the Great Clock
Tower», The Statues, e altre poesie), quasi ossesionato da una sorta
di rovesciata trasposizione edipica di Cuchulain (il padre che ucci-
de inconsapevolmente il figlio), fino a pochi giorni dalla morte con
Cuchulain Comforted (1939), una discesa agli Inferi in terza rima.
Lungo le linee degli inganni di un fato da tragedia greca, Cuchulain,
figlio di Lugh, dio della luce dalla testa di falco, sarà destinato a esse-
re inconsapevole assassino (sulla spiaggia di Baile, appunto) del figlio
avuto dalla soggiogata Aoife, la vendicativa regina guerriera di Scozia.
Cuchulain che – come Yeats – ha amato con «frenesia» molte donne,
morirà, dunque (a differenza di Yeats che diventerà padre di Michael
e Anne), senza eredi, decapitato, come Orfeo, e infine divinamente
MODERNISMO 59
vachel lindsay
ritmi afro
lustrazione giornalistica, una vocazione per lui innata che non smise
mai di coltivare. Fu dunque solo un caso fortunato che la New York
di quel momento storico si avviasse a imporsi come la capitale nordica
dei ritmi jazz, un’accidentalità che ebbe un grande impatto su di lui.
Da quella musica nera, generata a New Orleans e appena scoperta da
un pubblico bianco, il suo intuito poetico trarrà, infatti, nuova inven-
zione assieme a una patina di inedita multietnicità. Sulla base di tali
ragioni, e sia pure nel solo sottofondo, per certi modernisti egli di-
venterà una sorta di fastidioso, geniale fuoriuscito dai binari che loro
avevano tracciato per il rinnovo dell’arte poetica e in particolare della
poesia americana.
La misura del rifiuto da lui subìto a esser parte di una confraternita
d’avanguardia ci viene da W. B. Yeats, il quale, in visita in America
nel 1914, assistette stupefatto a una première di The Congo, eseguita
in un’inaccettabile performance da vaudeville. Ezra Pound sarà, inve-
ce, un po’ più gentile e confesserà a Harriet Monroe di apprezzarlo
(«he’s all right») ma di non sentirsi parte della sua famiglia, anzi di
esserne così distante d’averne già approntato una buona parodia. Al
contempo, T. S. Eliot, originario di St. Louis, Missouri, pur d’accordo
con Pound sulla noia che Lindsay gli procurava, ci offrirà un ulteriore
punto di vista su questo bardo portatore di nuovi ritmi. Ricordando,
infatti, la sua infanzia lungo un Mississippi solfeggiante accenti afro,
egli finirà col trasferire l’eco di The Congo nelle sue opere.
Ciò avverrà soprattutto nelle due pièce di Sweeney Agonistes (1927)
e, più rapsodicamente, nei frammenti jazz e ragtime di The Waste Land
(«O O O O that Shakespeherian Rag», «Twit twit twit / Jug jug jug jug
jug jug»), per poi scemare via via e rispuntare solo in alcuni passi dei
Four Quartets, paradossalmente i più toccati dall’infanzia a St. Louis.
Sull’influsso diretto di Lindsay in Sweeney Agonistes basti ricordare
almeno lo «Hoo, Hoo, Hoo», la sincope da The Congo che si ripete nel
play per poi chiuderlo con un «Hoo ha ha / Hoo ha ha / Hoo / Hoo /
Hoo / Knock Knock Knock / Knock Knock Knock / Knock / Knock
/ Knock».
Un altro caso di influsso sottaciuto è nel Fitzgerald delle nottate mu-
sicali a Harlem e delle sue antiche radici famigliari nel Sud, che certa-
mente si riversano, tramite la musicalità frenetica di The Congo, nei party
66 NOVECENTO POETICO AMERICANO
folleggianti organizzati a Long Island, tanto più che nel Grande Gatsby il
protagonista, l’uomo affascinante e misterioso, del quale non conosciamo
né il volto né il suo colore, è reso, con tecnica narrativa magistralmente
aderente, attraverso quella contaminazione jazzistica, di cui, nei magici
anni ’20, i newyorkesi si andavano ormai imbevendo ad libitum.
In tutti costoro (con l’eccezione di Eliot) non c’è nulla, tuttavia, di
così frastornante e crackeggiante come in, per esempio, The Santa-Fe
Trail di Lindsay: «The mufflers open on a score of cars / with wonder-
ful thunder, / CRACK, CRACK, CRACK, / CRACK-CRAK, CRACK-
CRACK, / CRACK-CRACK-CRACK, … / Listen to the gold-horn …
/ Old-horn … / Cold horn …». E tanto per eccedere, ecco l’inizio di
The Congo, sottotitolato A Study of the Negro Race:
Fat black bucks in a wine-barrel room,
Barrel-house kings, with feet unstable,
Sagged and reeled and pounded on the table,
Pounded on the table,
Beat an empty barrel with the handle of a broom,
Hard as they were able, / Boom, boom, BOOM,
With a silk umbrella and the handle of a broom,
Boomlay, boomlay, boomlay, Boom.
È un’esplosione. Le didascalie affiancate indicano di volta in volta
il giusto strumento musicale («A deep rolling bass») da accompagnare
a parole che restano mere sillabe ripercosse a rulli di tamburo, vuotate
di senso, ma piene di soul. È bravo e umile Lindsay a riciclare con ri-
spetto il genio dello spregiato ex nigger, dedicandosi volentieri – come
lui dice – allo «studio della razza nera».
Cosa ne sapevano infatti i bianchi della razza nera? Persino uno
geniale come William Faulkner, sostenitore della teoria che la questio-
ne ‘negra’ era questione riguardante solo i sudisti, si è mai chiesto se
i sudisti ne sapessero veramente qualcosa della razza nera? Faulkner,
questo è certo, ne sapeva eccome. Due secoli di storia di famiglia ave-
vano lasciato tracce, documenti, memoriali, cronache, sospetti, e quin-
di egli sapeva, per esempio, della sacra pazienza da «mulo» del negro,
della sua insopportabile indolenza, la beffante furbizia, il modo istin-
tivo di scimmiottare furtivamente il bianco e cogliere ogni possibilità
MODERNISMO 67
robert frost
contro la confusione
by, / And that has made all the difference». In realtà, non sappiamo
bene di cosa stia parlando, ma siamo sempre lì: alla gestione dell’in-
sondabilità del nascosto. Tuttavia, ciò che a lui interessa nella sostanza
è la figura che una poesia crea (una figura epifanica?). Su questo nodo
arriva a spiegarsi in modo chiaro, benché anche qui gli riesca di semi-
nare nel suo dettato qualche ambiguità:
It begins in delight and ends in wisdom. The figure is the same as for love.
No one can really hold that the ecstasy should be static and stand still in
one place. It begins in delight, it inclines to the impulse, it assumes direc-
tion with the first line laid down, it runs a course of lucky events, and ends
in clarification of life – not a great clarification, such as sects and cults are
founded on, but in a momentary stay against confusion.
Il suo disegno sembra limpido. Questa concatenazione di frasi
brevi, consequenziali come per sillogismo, brevi quasi fossero versi
narrativi in cui lo scrivente – che scaltramente ci adesca fino a farci
cedere alla malia dell’estetica dell’enigma – ci concede qualche bel
tocco comparativo («The figure is the same as for love»), tanto per di-
strarci un po’ dall’incisività di quanto ha fatto precedere («delight»,
«wisdom») e di quanto farà seguire («ecstasy», «impulse»). Tale pro-
cedura è sostenuta fino a che il ragionamento della voce poetante non
prende di corsa il volo nella frase centrale, per finire con un tuffo in
un «ends in clarification of life», fermandosi poi, come per un’impun-
tatura revisionista, quando afferma: «non necessariamente un grande
chiarimento», ovvero uno simile a quello di una liturgia religiosa, ma
in «una pausa momentanea contro la confusione», concludendo così
la sua cogitazione – logica fino all’estremo – con un approdo risolu-
tivo che, in verità, viene invece dato al lettore in subdolo e ironico
denouement, se paragonato alla promettente pienezza dell’iniziale
«wisdom». È la «confusione» il problema che tortura tacitamente il
mondo, una «confusione» di ordine metafisico, che implica, sì, una
scelta esistenziale ma che, scaduta la sua contingenza, si rapporta a
un’entità più trascendente.
In questo saggio programmatico, Frost si auto-decostruisce, o de-
molisce, o gli piace impegnarci in un conundrum, un vero rompicapo.
Si dice che una volta abbia avvertito il suo pubblico dopo la lettura di
MODERNISMO 71
The Road Not Taken, affermando: «You have to be careful with that
one; it’s a tricky poem—very tricky». Non si tratta, infatti, semplice-
mente di un dire che qualsiasi strada si scelga, quella scelta condurrà
alla perdita dell’altra e di ciò che, nel bene o nel male, essa avrà in
riserva. Sarebbe troppo semplice. È la «figura» che la poesia crea che
noi lettori dobbiamo cercare. Nonostante a tal fine non si debbano
fare grandi sforzi, continua Frost, e neanche – dopo la delusione tra-
smessa dal denouement – ci sia da aspettarsi alcuna sorpresa, né per il
poeta né per il lettore, perché tutto è già segnato nel flegma umorale
che è inscritto nel primo verso.
Ciò che conta per lui è la libertà («We prate for freedom»), la libertà
dell’artista di condurre il proprio discorso («All I would keep for my-
self is the freedom of my material […] to summon aptly from the vast
chaos I have lived through»), e la libertà dell’uomo comune di vivere
in consonanza con se stesso e gli altri. Dovere dell’artista, egli precisa,
è il valutare se stesso «as he snatches a thing from some previous or-
der in time and space into a new order with not so much as a ligature
clinging to it of the old place where it was organic». Si sente qui l’eco
di Tradition and the Individual Talent di T. S. Eliot, il quale nel 1919
aveva sostenuto che il giovane talento cambia l’ordine della tradizione
letteraria, di cui si è nutrito e, prendendovi posto, crea un nuovo «or-
dine», ovvero rinnova la tradizione, riassettandone l’organicità.
Frost, tuttavia, si distacca da tale interpretazione. Egli preferisce
che il suo ‘furto’ dal passato rimanga non fuso, disorganico, nella
nuova contestualità che lui crea, a testimoniare in tal modo il caos
della realtà, che pur esige ordine, un po’ come fa Wallace Stevens.
Affidandosi al potere dell’immaginazione, Stevens riesce talvolta a
ricreare un ordine possibile, per lo meno vivibile. Frost opera inve-
ce diversamente nella gestione del caos della realtà in cui viviamo.
Per lui la salvezza è nella «figura» della poesia, che, a differenza
di quella di Stevens, conta sulla «saggezza» e su quanto l’accom-
pagna («delight», «ecstasy», «impulse»), una «clarification of life»,
per generare poi quella miracolosa «pausa momentanea contro la
confusione», consistente in un’epifania fugace, un’illuminazione at-
timale, prima che il tutto si spenga per ricondurre il caos nella vita:
la temuta «confusione».
72 NOVECENTO POETICO AMERICANO
prima nella vita? Non lo sappiamo, e neanche Frost lo sa. Gli resta tut-
tavia una momentanea illuminazione, una consolazione contro il caos,
una figura, secondo il dettato di The Figure a Poem Makes, e questo è
ciò che conta. Quel «a momentary stay against confusion» è quanto
basta a un poeta con i fiocchi.
wallace stevens
del mero essere
Metafora dell’artista nel poemetto The Man with the Blue Guitar (1937),
il chitarrista resta maschera delegata alla sintesi della visione estetica di
Wallace Stevens (1879-1955), sebbene negli ultimi anni egli modificherà
lievemente il teorema che il suo alter ego musicista vi esprime. Compito
di questa figura – tra Picasso e Rilke, secondo Montale – è la rappre-
sentazione della realtà e la sua trasfigurazione da parte di quell’ente
misterioso che è l’immaginazione, la quale però non ha il compito di
intervenire sull’essenza della realtà, ovvero su quella che sarebbe la sua
congenita entelechia. Un compito difficile.
Il trasparente riferimento al Picasso del periodo «blu» e la connes-
sione con la musica tendono a fare del protagonista anche un simbolo
dell’unità delle arti, un saldo principio dell’Estetismo di Walter Pater,
fautore di un’estetica germinata da linguaggi artistici diversi dalla poe
sia (pittura e musica). Il problema consiste nel cercare un rapporto fa-
vorevole tra realtà e immaginazione, mondo e poesia, soggetto e mon-
do, umanità e individuo, una liaison della quale il chitarrista deve farsi
mediatore, diventando, se non ci fosse di mezzo Picasso, un tramite
ambizioso per un compito così imponente.
La visione di Stevens non è semplice, eppure Renato Poggioli la
sintetizzava con perspicacia, quando, nel presentare il suo Mattino
domenicale e altre poesie, scriveva che Stevens percepisce il reale non
solo come «visibilità» ma anche come «plasticità». Quindi, la sua crea
zione poetica appare come particolarmente consapevole di quelli che
Berenson chiamò «valori tattili». Per «valori tattili» si deve intendere
74 NOVECENTO POETICO AMERICANO
zione, una visione simbolica del mondo (la poesia), mentre il suonatore è
una specie di «taglia-panni» («a shearsman of sorts»), un sarto immerso
nella realtà quotidiana, nobilitato, tuttavia, dall’allusione ai frantumi di
mondo che, come lui, Picasso ricompone in una sintesi funzionale.
Egli, infatti, non fa che ricomporre, ricucire, i fenomeni della vita in
arpeggi. I suoi interlocutori sono, invece, consapevoli della discordan-
za: se il giorno è verde e la chitarra azzurra, la musica non può ripro-
durre «le cose come sono», ma «le cose come sono», ribatte il musicista,
vengono cambiate, ovvero riordinate e armonizzate sulla chitarra az-
zurra, intendendo egli anche dire che la creazione della composizione
è salvezza dal caos che la realtà rappresenta, nonostante ogni arpeggio
inesorabilmente modifichi la realtà, cosa che è sia merito sia tormento
dell’artista. E questa tormentata (ma stimolante) dualità (frammento e
composizione) è vera di molta poetica americana coeva a Stevens.
Le ultime due strofe citate sciolgono il dilemma e il contrasto dia-
lettico, perché, se l’ordine nel caos può essere una creazione della
mente umana, anche la musica creata dal suonatore deve essere «noi»
e al contempo «al di là di noi», ovvero deve partecipare dei due mon-
di, deve contenere tutte le polarità simboliche coinvolte: realtà e im-
maginazione, sole e luna, verde e azzurro, mondo e individualità. Solo
così la composizione sarà perfetta e anche il quotidiano diventerà una
creazione dell’immaginazione.
L’impiego di tale teorema astratto e il tentativo verso una soluzione
felice del paradosso sono auspicati e si rinnovano in altre liriche, liri-
che canoniche di Stevens. Il governo del caos attraverso la distruzione
della realtà e poi il tentativo ordinante dell’immaginazione è, infatti,
compito del «merlo» in Thirteen Ways of Looking at a Blackbird, o del-
la «giara» in Anecdote of the Jar, o del canto della fanciulla in Ideas of
Order at Key West, un canto che riesce a imporsi sull’«oscura voce del
mare» (l’inarticolato, il caos), domandando e assoggettando la realtà
al mondo che la cantatrice crea in una Gestalt.
Sono anche queste tutte auto-rappresentazioni, personae, o figure
dell’artista o del suonatore, il cui strumento è per Stevens un sim-
bolo usato «per lo più semplicemente in riferimento all’individualità
del poeta», intendendo per «poeta», egli afferma, «qualsiasi uomo di
immaginazione». Eppure, aggiunge Poggioli – più «scettico» del suo
76 NOVECENTO POETICO AMERICANO
poeta – sono «le poesie dedicate al tema dell’arte e della poesia quelle
dove interviene più spesso l’elemento dell’ironia». Stevens non è un
esteta come Mallarmé, né un mistico come Rilke, ma uno scettico: di
fronte al problema dell’arte, forse uno scettico anche più estremo di
Valéry. Si può non essere del tutto d’accordo, e proseguire ugualmente.
(Dizionario del Personaggi Letterari, UTET, 2003)
(«Dimmi tu, disse il passero all’erba crepitante, / e tu, e tu, dimmi tu mentre
sbocci, / quando nella mia macchia mi scorgete. // Ah, che! il sanguigno
scricciolo, la vile ghiandaia, / ché-ché, il pettirosso dalla gola affusolata /
effondendosi in tu, dimmi tu, tu nella radura. // C’era nella pioggia un con-
certo così balordo, / tanti sonagli scatenati senza campane, / che questi di’ tu
compongono un gong celeste. // Una voce a ripetere, corista instancabile, /
le frasi di un sol fraseggio, ché-ché, / un testo singolo, monotonia granitica».
Trad. it. di Glauco Cambon).
In ragione dell’intertesto qui apertamente evocato, quel «bethou
me as you blow» non sarà uno «sbocciare» ma un «soffiare» in ita-
liano. «Be thou me», sii me, si chiede al «vento occidentale» nell’Ode
di Shelley: «Be thou, Spirit fierce, / My spirit! Be thou me, imperious
one! // Drive my dead thoughts over the universe / Like withered
leaves to quicken a new birth!». Pur stravolgendone lo spirito, e mor-
tificando l’individualità del nobile «tu» in un composito «bethou»,
Shelley serve bene a Stevens, il quale, nell’invito alla metamorfosi,
chiede anch’egli una «nuova nascita», ma dai vecchi tropi, dalle me-
tafore consunte. Il timbrico «bethou» del passero (un tutoyer: dammi
del tu, riconoscimi) si perde nel cacofonico «ké-ké» degli altri uccelli,
originando una confusa monotonia di suono, un unico fraseggio della
terra «in cui la prima foglia è il racconto / delle foglie, in cui il passero
è un uccello / di pietra, che mai non muta».
Il canto degli uccelli è pietrificato in un solo testo che non cambia,
al pari delle foglie: tutte una sola foglia. Stevens non è tormentato dal-
le «ansie di influenza» di Harold Bloom, e quindi liquida il racconto
degli uccelli e, soprattutto, della prima foglia come il racconto delle
altre foglie: della Sibilla (e di Eliot), quelle, qui più intertestualmente
coinvolte, di Shelley (che ritornano a Dante), o quelle duplici e con-
sunte di Whitman (foglie/fogli).
E se i «bethous» compongono un ironico «gong celeste», anche il
gong, si badi, non rintocca per se stesso, non è ‘originale’, quando lo
accostiamo al magnifico «cathedral gong» e al mistico «gong-tormen-
ted sea» di Byzantium di W. B. Yeats, oppure a quello più demotico,
ma non meno studiato e pittorico, di William Carlos Williams in The
Great Figure: «Among the rain / and lights / I saw the figure 5 / in
gold / on a red / firetruck / moving / tense / unheeded / the gong
86 NOVECENTO POETICO AMERICANO
clangs / siren howls / and wheels rumbling / through the dark city».
Apparentemente, ma solo apparentemente, questo è un consueto, fa-
stidioso clanghettare urbano. Tuttavia, è meglio leggere bene, perché
invece registra un genere d’arte unicamente americana, un’emergente
fusione che congiunge la neonata pubblicità e un dipinto.
Stevens si espone più volte nel dichiararsi fuori dal concerto. I
suoi rimandi intertestuali sono deneganti, dissenzienti, decostruttivi.
In Academic Discourse at Havana, leggiamo un messaggio sui cigni
«metropolitani» che recita: «Prima che i loro becchi finissero / per
terra, e prima che la cronaca / degli omaggi affettati ingiallisse tanti
libri, / custodivano le acque vuote dei laghi». Le metropoli uccidono i
cigni, ci raccontava Baudelaire, tanto quanto le pagine dei poeti, dalle
quali faranno eccezione – almeno, ci si augura, per Stevens – quelle
riguardanti gli imperituri cigni del laghetto di Lady Gregory a Coole
Park, vicino a Galway, dove, nella sua torre non d’avorio, il venerabile
Maestro, il sempre vigile W. B. Yeats, risiedette, negli anni maledetti
della guerra di liberazione dalla Gran Bretagna, che si trasformò, in-
vece e presto, in una guerra civile tra fratelli.
Quanto alla primavera: essa deve essere «ombelicale», ci dice
Stevens, legata alla verità della terra. Così è in Holiday in Reality:
«Spring is umbilical or else it is not spring. / Spring is the truth of
spring or nothing, a waste, a fake» («La primavera è ombelicale oppu-
re non è primavera. / È la verità della primavera o niente, uno spreco,
un falso»). L’allusione, per di più preceduta da un altrettanto allusivo
«albero di Giuda» («Judas Tree») – che rimanda al Gerontion di T. S.
Eliot – è perfidamente mirata alla «crudeltà» del mese di aprile (un
«falso») dell’incipit di The Waste Land. La parola chiave è «waste», da
Stevens spesso usata in ambiguo ‘omaggio’ a Eliot. Difficile rispettare
in italiano la sottigliezza dell’intertesto, ma una primavera che è «de-
solazione» può essere un «falso» accettabile.
La tradizione si sfiocca petalo su petalo nel canone di Stevens,
come pagine o foglie morte. «I lillà avvizziscono nelle Caroline» (In
the Carolinas): il senhal qui è a Whitman (le «Caroline», North e
South, al plurale in Leaves of Grass), il quale ne farà fiore elegiaco,
dedicato alla memoria di Lincoln (When Lilacs Last in the Dooryard
Bloom’d). Ma sui variegati lillà di Stevens (e di Whitman e di Eliot)
MODERNISMO 87
is in the key»), Stevens sembra voler rivendicare una verità del suolo e
dell’«aria musicale» della sua terra, alla quale l’usignolo, un ‘immigra-
to’ dall’Europa, non appartiene.
Eppure, è destino dei grandi poeti finire sull’albero dell’usignolo.
Of Mere Being è l’ultima poesia di Stevens, rivolta al «mero essere»:
La palma alla fine della mente,
oltre l’ultimo pensiero, sorge
nella scena bronzea,
un uccello dalle piume d’oro
canta nella palma, senza senso umano,
senza sentimento umano, un canto strano.
Sai allora che non è la ragione
a farci felici o infelici.
L’uccello canta. Le palme splendono.
La palma svetta al limite dello spazio.
Il vento muove piano nei rami.
Le piume infuocate dondolano giù.
Le piume infuocate guardano giù, alla terra, alla realtà. Stevens
non si smentisce nel suo progetto. Ma il tropo dell’uccello d’oro lo
riporta in famiglia accanto a Yeats («Miracle, bird or golden handi-
work, / More miracle than bird or handiwork, / Planted on the star-lit
golden bough»), a Pound («Brancusi’s bird / in the hollow of pine
trunks»), a Eliot («Go, go, go, said the bird: humankind / Cannot bear
very much reality»), a Amy Lowell («I am persuaded that grackles are
birds, / But when they are settled in the trees, / I am inclined to de-
clare them fruits»), a John Ashbery («and solemn birds that dwarfed /
the trees they sat on»). Sono le ultime epifanie dei grandi, tutte diverse
eppure convergenti, tutte intraviste in solipsistica solitudine, «at the
edge of the mind».
(Soglie, 2015)
MODERNISMO 89
amy lowell
japonisme
così ella si rivolge all’amato: «As I would free the white almond from
the green husk / So would I strip your trappings off / Beloved». Quasi
un haiku, molto ‘femminista’, o da cosiddetto «matrimonio bostonia-
no», e molto simile nel ritmo e nel sillogismo a In a Station of the Metro
di Pound. Lo stesso commento può valere per un’altra lirica, Venus
Transiens, sempre tratta da Pictures of the Floating World. Anche questa
sembra rivolta a un amato, o a un’amata (pare, infatti, che il libro, de-
dicato a Ada Dwyer Russell, sia il camuffamento di un parlare lesbico):
Dimmi,
Venere era più bella
di te,
quando cavalcò
l’onda crespata,
fluttuando a riva su una
conchiglia scanalata?
Fu la visione di Botticelli
più leggiadra della mia;
e i boccioli dipinti soffiati
su di lei, la sua signora,
valevano di più delle parole
che io spargo su di te, come
per coprire di lieve velame
d’argento sfumato la tua
maestosa leggiadria?
(«Tell me, / Was Venus more beautiful / Than you are, / When she topped
/ The crinkled waves, / Drifting shoreward / On her plaited shell? / Was
Botticelli’s vision / Fairer than mine; / And were the painted rosebuds / He
tossed his lady, / Of better worth / Than the words I blow about you / To
cover your too great loveliness / As with a gauze / Of misted silver?»).
Pare inutile insinuare che qui (nel 1919) non si sa chi dei due fac-
cia l’eco all’altro: Venere aveva da tempo inaugurato I Cantos di Ezra
Pound e la Venere di Botticelli si rivelava già nel 1917 negli Ur-Cantos,
pubblicati su «Poetry» a Chicago. Per di più, Pound aveva già tradotto
drammi Nō, aveva scritto sull’ideogramma cinese e ricavato versio-
ni dal cinese e, al contempo, andava ammaestrandosi su Li Po e su
Confucio, sui quali la prosperosa Lowell, contemporaneamente a lui,
92 NOVECENTO POETICO AMERICANO
Ma bisogna guardare alle piccole fughe fuori dai binari del traccia-
to delle sue opere per apprezzarla in pieno, come ella dimostra in una
trasognata lirica su un Carpaccio conservato all’Accademia di Venezia:
On Carpaccio’s Picture. The Dream of St. Ursula. È un sonetto da Dolce
stil novo, senza distico finale:
Swept, clean, and still, across the polished floor
From some unshuttered casement, hid from sight,
The level sunshine slants, its greater light
Quenching the little lamp which pallid, poor,
Flickering, unreplenished, at the door
Has striven against darkness the long night.
Dawn fills the room, and penetrating, bright,
The silent sunbeams through the window pour.
And she lies sleeping, ignorant of Fate,
Enmeshed in listless dreams, her soul not yet
Ripened to bear the purport of this day.
The morning breeze scarce stirs the coverlet,
A shadow falls across the sunlight; wait!
A lark is singing as he flies away.
È abile Amy Lowell. La poesia non è sintatticamente facile da in-
quadrare. Ma lei è brava. Non è certo brava come Pound nell’arte
dell’ekphrasis, e tuttavia fa del suo meglio, e il soggetto le si addice, la
rispecchia. La rappresentazione, infatti, è molto femminile, con quella
cura dedicata al dettaglio di una rifinita economia domestica (il pavi-
mento ben spazzato e lucidato, il lampadario e le morbide infiltrazio-
ni, slants, della luce à la Emily Dickinson). Si notino le rime audaci e
a distanza per fare da eco: «still/fill», «floor/door», «Fate/wait», «day/
away», «coverlet/yet», i cruciali «Quenching», «Flickering». Ma è quel
«Fate» (Ananke, Fato, destino) che disturba un pochino, soprattutto se
accostato a «ignorant», riferito alla appena sposata, ma ancora vergine,
Orsola, intrappolata su un letto matrimoniale in sogni apatici, abulici,
perché non ha compreso il senso della giornata che ha vissuto. La lunga,
indisturbata notte è trascorsa e nessuno, neanche lo sposo, ha bussato
alla sua porta. Un’allodola prova a salutarla cantando, ma subito fugge
via. Peccato che nella sua descrizione del Sogno di Sant’Orsola Amy ab-
bia dimenticato la presenza dell’angelo con la palma del martirio, for-
MODERNISMO 95
hart crane
ancora naufragi
ezra pound
l’ultimo dei romantici?
e della società giuste. Nei Thrones de los Cantares (Troni, 1959) si cita
da Odissea, IV, 693: «Mai lui nulla d’ingiusto fece ad alcuno». Penelope
l’aspetta perché lui è uomo giusto: «keinos (…) eorgei» (Canto 102).
(Dizionario per personaggi letterari, UTET, 2003)
to dal canto delle Sirene, somiglia a uno smarrito Ulisse poco astuto
e poco combattente, un Ulisse che getta l’amo dell’ispirazione lirica
presso «isole ostinate»: quelle inglesi.
Se è vero che E. P. si è dedicato soltanto al suo falso classicismo in
un’epoca che lo ignora e che, nella sua isterica e meccanica diversità,
lo distanzia, è pure vero che, nel suo sdegno per la volgarità, per il «to
kalòn», il bello, messo in vendita (commercializzato) «sulla piazza del
mercato», egli è anche capace di assumere un tono di denuncia acco-
rata e rabbiosa di rara veemenza, da cui non risparmia quel rovinoso
spreco che fu la Grande guerra: «Ne morirono una miriade, / E dei
meglio, di loro, / Per una vecchia baldracca sdentata, / Per un aborto di
civiltà». Nonostante la critica e l’autocritica, E. P. non può dunque fare
a meno di difendersi come pure, paradossalmente, di autocelebrarsi,
paragonandosi, come fa in modo obliquo, ai grandi della letteratura.
Nel suo testamento, in cui appaiono ritratti in chiave i maggiori in-
terpreti dell’estetismo inglese (Ruskin, Swinburne, Rossetti, Johnson,
Beerbohm, Burne-Jones, e altri), egli ricostruisce un’epoca defunta, la
vittoriana, i suoi amati preraffaelliti, e una civiltà appestata, quella a
lui contemporanea. Ed è solo dopo l’anticheggiante e perfetto Envoi,
il congedo al suo «libro nato morto», che entra in scena il parnassiano
Mauberley, un dandy della poesia, un raffinato minore di quella stessa
confraternita decadente, l’ultimo medaglione della galleria di «contat-
ti»: il più passivo, il più impotente.
A differenza di E. P. (che avrebbe già seppellito), Mauberley è og-
getto e non soggetto di rappresentazione e di discorso. Pur mancando-
gli l’introspezione critica dell’altro, assieme alla consapevolezza della
crisi storica e della conflittualità fra artista e società, artista e mercato,
originale e surrogato, Mauberley, in realtà, è il doppio di E. P., un suo
ambiguo riflesso, nell’impegno che pone nella ricerca dell’arte perfet-
ta (la «scultura della rima», i «cammei» di Gautier), mentre trascura
la «tradizione migliore». Egli è però del tutto privo di autodifesa e, a
differenza del Prufrock di Eliot, del placebo dell’autoironia.
Soprattutto, Mauberley è incapace di vita attiva. Perduto nella visio-
ne di una bellezza platonica. Gli manca, fra l’altro, l’eros – proprio come
in Prufrock –, ovvero, gli manca la forza di farsi portatore di esperienza
feconda, di essere un serio interprete della vita, uno specchio morale
MODERNISMO 105
del suo tempo. Isolatosi dal suo ambiente, si trascina infatti alla deriva,
nel mondo privato di un esteta, dirigendosi, fallimentarmente, verso un
esilio da qualsiasi aspirazione costruttiva, e pervenendo, infine, a una
silenziosa scomparsa nell’oblio. È un Ulisse che ha perso il desiderio
del ritorno, un narcisista, destinato a una morte spirituale, perché si è
virtualmente estinta in lui una fiamma affermatrice, una luce che non
l’ha mai posseduto. Si è parlato molto di autobiografismo a proposito di
questo capolavoro. «Naturalmente», avvertirà Pound nel 1922, «io non
sono Mauberley più di quanto Eliot sia Prufrock».
Mauberley somiglia di più, parodicamente, a quanto è inciso nell’e-
pitaffio di Elpenore: «e poi su un remo / Leggi // “Io fui / E non esisto
più; / Qui finì alla deriva / Un edonista”». Ma anche lui, nella lirica
conclusiva del poemetto, consegna ai lettori il suo testamento con il
perfetto Medallion – scrive Nemi D’Agostino nel suo Ezra Pound – una
lirica «dalla bellezza gelida, inorganica e inumana, forma che si ripiega
su se stessa e si ammira sterilmente: bellezza “mauberliana”, alla quale
il nuovo poeta, come Ulisse esposto al canto delle sirene, deve impa-
rare a resistere e a rinunciare». Mauberely segna dunque un «addio» a
Londra, l’isola della maga Circe, da cui prenderà le mosse l’Odisseo
dei Cantos, il quale, già nel primo Canto – la discesa agli Inferi – s’im-
pegnerà a seppellire lo sfortunato compagno di viaggio, il cui corpo ha
abbandonato sulla spiaggia di Eea.
Le rime sapienti del poemetto, i suoi ritmi perfetti e sincopati dal
greco (talora quasi a suono di jazz), in realtà seppelliscono sia E. P. sia
Mauberley, ed è a questo livello che l’«addio» di Pound a Londra, e
alla sua vecchia tradizione, influenzerà – come il Prufrock di Eliot –
tutta la poesia del Novecento.
(Dizionario per personaggi letterari, UTET, 2003)
3. Otto sezioni vanno a formare i Canti postumi, curati nel 2002 da
Massimo Bacigalupo per Mondadori, selezionati dal materiale inedito
conservato negli archivi della Beinecke Library dell’Università di Yale
o ripresi da sepolte riviste più o meno d’avanguardia. Si inizia nel 1917
con gli Ur-Cantos e si conclude con Versi per Olga, risalenti agli ultimi
dieci anni della vita del poeta. L’omaggio – omaggio postumo anche a
106 NOVECENTO POETICO AMERICANO
canti il suo plazer («Maledica per sempre Iddio quelli che gridano
“Pace”»), ma poi rispedisce quel Bertran all’«Inferno», dove l’aveva
trovato in Dante (nel Canto XXVIII), perché, secondo la razo (la prosa
esplicativa) ad Altaforte, «seminatore di discordie».
Con la ricerca di nuovi documenti, la bibliografia precedente e l’ar-
te giusta, grande aiuto a questo volume viene dal corposo Ezra Pound
to his Parents (1895-1929), le lettere ai genitori, apparse nel 2010, con
la cura di A. D. Moody e Mary de Rachewiltz. Valeva la pena aspet-
tare la conclusione di un lavoro così lungo e complesso (‘filologico’ in
applicazione modernista), perché ora questo epistolario apre l’accesso
a infiniti percorsi di orientamento e di scoperta: fonti, letture, ‘ritrova-
menti’ casuali, date e spostamenti spaziali del primo Pound vagabon-
do, il percorso provenzale incluso. Le lettere ai genitori sono – con il
Companion ai Cantos di J. F. Terrell – uno strumento ormai inevitabile,
per cominciare, come fa Capelli in «Appendice» (per esempio, sulle
edizioni usate da Pound), a ripercorre – e ad assestare – le strade. E
a questo fine basterà ricordare gli echi del refrain della lauzeta (l’al-
lodola, lark) di Bernart de Ventadorn, scoperta dal giovane Pound
all’Hamilton College nel 1905, e ritrovata nei Canti Pisani (Canto 74) a
rispondere – in modo struggente – cantando «in contrappunto».
(Alias, ottobre 2013)
re, nella speranza che anche le parole esperte di chi le pronuncia non
vengano equivocate, che atmosfere, res e verba non vengano ribaltate,
come accaduto altre volte. Ci fideremo dello scriba di turno.
Di che cosa hanno conversato Mary e il suo scriba a Brunnenburg?
Dei Cantos, naturalmente, della loro ‘americanità’ («sono la Commedia
degli Stati Uniti d’America, anche se forse gli americani non l’hanno
compreso»), e di come tradurli («Credo di non essere riuscita a tra-
durre i Pisani. Sono intraducibili»), dell’ideogramma («L’interesse per
l’ideogramma forse si potrebbe vedere in un senso profetico: aveva ca-
pito che si andava verso una civiltà dell’immagine piuttosto che della
parola»), dell’italiano idiosincratico di Pound e dei suoi contatti con
alcuni dei nostri maggiori (e minori) poeti di allora, e poi dell’irrisolta
«questione Pound» (il cosiddetto «processo»), del suo dibattuto ritor-
no in Italia (Montanelli: «Gli americani non escono bene da questo
affare»), e ancora di «Gerione», l’usuraio dalla coda aguzza di Dante,
e del «prezzo giusto» e di economia, e del ruolo della Storia:
Senza Storia, non ci può essere epica e Pound cercava l’epica. Quando ab-
bandonò la poesia lirica per l’epica sapeva che avrebbe dovuto fare i conti
con la Storia. Era così anche per Dante. Si può capire ben poco della Divina
Commedia se non si conosce la Storia, le figure dei papi e degli imperatori.
In aggiunta, per Pound non era possibile comprendere la Storia senza capire
l’economia. Questo fu un grande passo in avanti per la sua ricerca, ma, in un
certo senso, fu anche un passo fatale.
Mary parla con franchezza e fermezza delle questioni più dure. A
Mussolini, del quale aveva in parte condiviso il progetto economico
(«aveva fatto alcune cose “interessanti”»), per coerenza di uomo fede-
le alla «parola» confuciana, Pound non voltò le spalle, «mentre tut-
ti gli italiani, che lo avevano seguito per vent’anni, in quel momento
gli sputavano addosso. Era una questione di etica». Dopo l’armistizio
«nessuno dei gerarchi pensò di offrire a mio padre un posto in auto-
mobile (…) Mio padre partì da Roma a piedi (…) Camminò per giorni
e giorni mangiando alle tavole dei contadini, dormendo nei fienili». E,
con pacatezza, abbatte i cliché ancora correnti: «Purtroppo in Italia si
continua a pensare che Pound abbia scritto soltanto i Pisani e magari
che questi siano un inno a Mussolini».
MODERNISMO 123
8. «Le cose hanno radici e rami: gli affari hanno fini e principi; rico-
noscere quel che precede e quel che segue, vi avvicinerà alla conoscen-
za del processo»: sono parole di Confucio nel Ta Hsio. Studio integrale,
pubblicato a Rapallo nel 1942 nella traduzione di Ezra Pound. Come
dalle radici non «torpide» spuntano rami sani, così dai risultati del
buon agire si costruisce l’ordine della vita, si assume la consapevolezza
dell’intero suo andamento, fino a cogliere il «processo» plasmante, la
dimensione di ciò che precede e di ciò che ne conseguirà in futuro.
La traduzione del classico confuciano, prima in italiano e solo più
tardi in inglese, nell’inferno di Pisa, fu per Pound un fermo impegno,
un obiettivo inderogabile da somministrare agli italiani in tempo di
guerra, in quanto egli riconosceva nei due libri del saggio cinese un
pensiero consonante alla sua filosofia, che riteneva un dono da tra-
smettere ad altri, perché ne prevedeva la durabilità: «Si legge una frase
di Confucio e può sembrare niente. Vent’anni dopo si ritorna a medi-
tarne la portata». Di suo aggiungeva: «tutto ciò che il critico può fare
per il lettore, o lo spettatore, è di mettere a fuoco la sua vista o il suo
udito» (The Perfect Critic, Saggi letterari).
A sua volta, Gianni Dessì – artista concettuale di non semplice
godibilità senza il suo passato di letture – trova nell’epigramma sul
«processo» l’incontro poetico tra due polarità: quella della memoria
dell’artista e quella dello spazio scrittorio, pensante e visionario del
poeta. Tutti i suoi dipinti ne risentono come di un’eredità che lo indur-
rà, in particolare con il recente tu x tu, a un confronto con se stesso,
con i suoi riflessi diacronici, a iniziare dal primo, Riflessi, un disegno
su carta del 1978.
Ma l’oggetto di cui qui si vuole parlare è la scultura Ezra Pound,
un monumento di enormi proporzioni (cm 251×133×115), in fibra di
agave e pigmento su struttura di legno e rete metallica. L’opera, raf-
figurante il busto del poeta in età avanzata, è del 2010 e si intitola
tu x tu. È stata esposta a Bolzano, presso la Exibart, la galleria di
MODERNISMO 125
hilda doolittle
fine al tormento
2. Nel primo decennio passato a Londra, dove nel 1912 Pound fon-
dava l’Imagismo, il movimento poetico più innovatore del primo
Novecento, «H. D., Imagiste» (così Pound le aveva abbreviato e con-
notato il nome), ovvero Hilda Doolittle, sposata a Richard Aldington,
fu l’unica donna a convivere con un gruppo affiatato di giovani rivolu-
zionari delle arti. Aveva pubblicato poesie sparse insufflate di cultura
classica, che raccoglierà nel 1916 in Sea Garden, il suo primo volume
di versi, apprezzato per la limpidità «cristallina», anch’essa scultorea,
«impersonale». Assieme all’Imagismo, l’Antologia Palatina e Teocrito
avevano presieduto al suo apprendistato. Poi il graduale scivolamento
verso una crisi nel 1919, principalmente dovuta alla sua relazione falli-
mentare con D. H. Lawrence e alla nascita della figlia Perdita, venuta
alla luce senza padre.
Da questa prova traumatica la salvò l’ereditiera Winifred Ellerman,
più nota come Bryher, con la quale Hilda strinse un legame che, con
alti e bassi, sarebbe durato tutta la vita. H. D. aveva scelto la via del
sodalizio femminile, da lei tradito di tanto in tanto, ma verso cui la
sua inclinazione sessuale tendeva in modo più naturale. Fu allora, nel
1919, che la «driade» del primo Pound di Filadelfia, per il quale, tren-
totto anni dopo, allo scadere della prigionia di lui nel manicomio di
St. Elizabeth a Washington, ella pregherà tormentosamente, decise di
non farsi coinvolgere più in relazioni eterosessuali. Lo confesserà im-
plicitamente in Hymen, la sua quarta raccolta, apparsa nel 1921, dopo
un viaggio in Grecia con Bryher.
Nel frattempo il suo avvicinamento alla più antica delle poetesse –
l’arcana Saffo – si era intensificato al punto da dedicarle un breve sag-
132 NOVECENTO POETICO AMERICANO
gio: The Wise Sappho, scritto tra il 1916 e il 1920, e pubblicato postumo
nel 1982. Con una sconfessione dello scarso apprezzamento decretato
da Meleagro, il quale nell’Antologia Palatina riduceva il contributo del-
la musa di Lesbo a un «little, but all roses», in questa esaltata prosa
poetica Hilda faceva finalmente risuonare un punto di vista diverso
da quello pervenuto dalla tradizione ottocentesca. E così, in un tra-
sfigurato paragrafo, metteva in rilievo la «grandezza» della misteriosa
prima poetessa del canone occidentale: «lei è invero un faro roccioso
fermo in un mare azzurro. Lei è il mare stesso, un mare che frange e
tortura, eppure non si frange mai. Lei è l’isola della perfezione artisti-
ca, dove l’amante della bellezza antica (naufragata nel mondo moder-
no) può ancora trovare attracco e prendere fiato, guadagnare coraggio
per nuove avventure». Lei è il suo personale, poundiano «Make It
New».
Saffo, la misteriosa «astrazione» a cui, a Parigi, la connazionale
Natalie Clifford Barney ridava vita in una cerchia di fedelissime aman-
ti di Mitilene, è lo stesso grande «mare» che nella sua poesia Hilda
navigherà e rappresenterà così di frequente, un’«isola della perfezione
artistica», come quella disegnata nella lirica Thetis, capace di accoglie-
re le speranze del mondo moderno dopo il tragico «naufragio» che,
nel 1922, avrebbe chiuso The Waste Land. In Saffo dimorava il ricetta-
colo salvifico utile a far germogliare nuove sensibilità liriche.
Altro che il «solo rose» di Meleagro! H. D. incominciava a sentire
qualcosa di molto più potente nella scrittura di Saffo, a partire pro-
prio da quel colore di «rosa», su cui elaborerà gran parte della sua
‘riscrittura’: «Penso», lei afferma, contestando implicitamente l’occhio
maschile di Meleagro, «alle parole di Saffo come la stessa essenza dei
suoi colori, o stati, in realtà, trascendenti il colore che tuttavia con-
tengono (come il grande calore trascende lo spettro del termometro):
solo colore. E forse il più ovvio di questo color di rosa, mescolato a più
ricche ombreggiature di scarlatto, è il porpora, o il porpora fenicio, ma
all’amante superficiale restano – in verità – solo rose!».
Non dobbiamo dimenticare questo «purple» fenicio, perché H. D.
ne farà traumatica parola tematica (e simbolica) in tutto il suo canone.
Il discorso sui colori/fiori di Saffo, infatti, qui, nel saggio che Hilda le
dedica, sarà seminale.
MODERNISMO 133
È anche vero che, come è stato insistito dalla critica delle studiose,
Saffo diventa per lei una maschera strumentale al fine di nascondere
sia la sua intima identità sessuale sia di testimoniare una discendenza
genealogica tutta femminile, che – questo sì è molto vero – la distanzia
dal patronato maschile in cui vive e opera, ma è altrettanto vero che
il martoriato canone saffico l’attrae come un territorio su cui lavorare,
un «palinsesto» (testualità ‘archeologica’ da lei molto amata) in par-
te cancellato, da restaurare, riscrivere o integrare, ricalcando antiche
orme con animo moderno.
Hymen segna indubbiamente un risultato diverso dal più calligra-
fico Sea Garden nel tono come pure nel materiale. Composto da venti-
due pezzi di vario genere – liriche, monologhi, rifacimenti, libere tra-
duzioni, inclusa quella del frammento 113 –, nella sua interezza esso
intende ora dar voce a un discorso revisionista di chiara segnatura
femminile, in cui, tuttavia, questa volta, l’elemento personale entra
di prepotenza anche a fianco di quei vuoti testuali inflitti dal tempo.
Un immaginoso album autobiografico proiettato in un alibi buono a
coprire un discorso tutto privato.
Qui Hilda inizia ad assumere personae, attraverso le quali prova
a esprimere il suo ripensamento sui ruoli maschile e femminile, e il
contrasto fra verginità e matrimonio, passività e indipendenza, scal-
fendo l’ortodossia ufficiale (solo ufficiale allora) dell’eros eterosessua-
le e guardando indietro al thiasos, chiedendosi chi fossero davvero
le donne di cui Saffo si circondava (la presunta figlia Cleide, Attide,
Anattoria, Gongila, Arignota, Eriana, Megara), delle quali poco sap-
piamo. Dobbiamo solo provare a immaginarle, ella scrive quasi pro-
grammaticamente in The Wise Sappho.
Pur riconoscendo un’impotenza della sua «mano» a cogliere l’o-
biettivo desiderato, sotto questo aspetto la sua immaginazione si atti-
verà nella nuova raccolta. Ella procede per gradi, iniziando con una
riscrittura ribaltante del genere dell’epitalamio nella prima poesia,
Hymen, intitolata, al pari del volume, al dio dell’Amore che presie-
de alla cerimonia nuziale, per poi sgranare, quasi attingendo da un
sillabario, testimonianze mitologiche sulle ambiguità dell’istituzione
matrimoniale, come Saffo – bisogna aggiungere – non fa nel pregia-
tissimo e per lo più integro omaggio a Ettore e Andromaca (fr. 44V).
134 NOVECENTO POETICO AMERICANO
«Ma chi sono io? O piuttosto – poiché la mia nativa indole disegnante
e dipingente non vi concerne affatto – chi è la mia altra indole nativa,
l’indole della prosa e della poesia?». Così inizia la prima delle i: six
non-lectures (1953) di E. E. Cummings: sei «non-conferenze», mai tra-
dotte in italiano, tenute a Harvard nei primi anni ’50, in cui egli pone
il problema dell’essenza irrisolvibile di se stesso, in quanto vi sente
dentro una pluralità di «io». C’è il suo «io» modernista, e il «nativo»,
ovvero quello schiettamente «americano», e quindi l’«io» del suo es-
sere al contempo poeta, prosatore e pittore. Ma è della sua «indole»
più ineffabile che egli vuole venire a capo, ovvero del suo duplice «io»
minuscolo e l’«Io» maiuscolo.
Come Ernest Hemingway che combatté da volontario in Italia, egli
andò volontario in Francia come autista di ambulanze. Dall’esperienza
che, suo malgrado, ne ricavò, scaturì l’aspro romanzo The Enormous
Room (1922), una sintesi delle brutalità della guerra. Si fermò, come
altri esuli, a Parigi. Tornò in America. Dopo qualche anno, volle fare
MODERNISMO 139
Babbo Natale confessa a Morte di non avere più nessuno cui porta-
re i suoi doni. È un disoccupato. Per forza, gli risponde la savia Morte
che, a sua volta, ha il problema opposto, cioè ha tanto da prendere e
nulla da dare. Questo non è un tempo di regali, dice Morte a Santa
Claus, ma di «vendite». Come mai Babbo Natale non l’aveva capito?
E quindi gli spiega:
Tu parli di un mondo vero, di un mondo esistente. Ma immagina, se puoi,
un mondo così confuso che i suoi abitanti sono l’un l’altro, e viceversa – un
mostro idiota di negazione: così timoroso che si affamerebbe in eterno piut-
tosto che correre il rischio di soffocare per un boccone; così vorace che nulla
soddisfa mai la sua fame se non il niente in quantità sempre crescenti – un
mondo così pigro da essere incapace di sognare; così cieco da adorare la sua
propria bruttezza: un mondo così falso, così banale, così dis-così che, in con-
fronto, un fantasma è una cosa solida. Ma no – un mondo simile è una cosa
solida. Ma no – non riesci a immaginarlo.
Dopo un discorso così chiaro, Morte gli chiede qual è esattamente
il dono che cerca di donare e che nessuno vuole prendere. «Non lo
so», risponde Santa Claus. Te lo dico io qual è, dice convinta Morte:
«Sì. È il dono dell’intesa, il dono dell’intendere». E prosegue: «Noi
non viviamo in un’epoca di doni: questa, amico mio, è piuttosto un’età
di venditori e di mercanti, l’età del mercato; e tu sei carico dell’unica
cosa che non può essere venduta». E allora, chiede Santa Claus, qual
è la cosa più facile da vendere oggi? «La conoscenza» è la risposta,
una risposta che non convince Babbo Natale: «La conoscenza – priva
di intesa, priva dell’intendere?». Egli non capisce il senso che Morte
intende, e vi vede un busillis.
Perché, la conoscenza avulsa dall’intesa, per Santa Claus, è il cir-
cuito di Scienza e senso comune. Esso rende il mondo «vuoto», privo
di cose e persone «non esistenti», ovvero «automi che conoscono e
pensano senza intendere». Uccide l’«individuo» capace di pensare da
solo, ed è quindi, per fortuna, un uomo vivo, non un predatore; a pat-
to, egli riflette, che mantenga vivo in sé anche l’amore, il «mistero dei
misteri», ciò che ci rende adulti, responsabilmente individui, artisti
completi, contro l’immonda farsa del mondo odierno. Se questo è il
messaggio del masque, Cummings ci consegna un arcano prezioso.
MODERNISMO 141
marianne moore
zoografie cosmiche
james joyce
i finnegans
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
wystan hugh auden
una fiamma affermatrice
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
160 NOVECENTO POETICO AMERICANO
2. Bisogna dare credito alla casa editrice Adelphi del riscatto, soprat-
tutto in alcune ultime occasioni, dell’opera poetica di W. H. Auden
in italiano. Dopo il lungo dominio (per Lerici, Mondadori, Guanda)
dell’ormai ex traduttrice ufficiale, Aurora Ciliberti, che aveva a suo
modo rilevato l’opera iniziata da Carlo Izzo, di recente traduttori più
L’ETÀ DELL’ANSIA 163
rie Ninnananna), che gli genera un rinnovato Amor Loci (così il titolo
della lirica) persino per le miniere di piombo attorno a Rookhope,
nella contea di Durham:
Ma c’è molto per me: una visione
non già (come credevo
forse a dodici anni) dell’Eden,
tanto meno di una Nuova
Gerusalemme ma, per uno
persuaso di morire,
più attraente e credibile
di quelle fantasie.
La morte, invece, lo colse ancora fuori, da fuggitivo, solo, in un
albergo nei pressi di Vienna, nel 1973.
Poeta impegnato fu Auden, anche quando decise di disimpegnar-
si dai fallimenti della Storia: dopo l’avventurosa scelta di posizioni
marxiste, la presenza come autista di ambulanze nella Spagna con-
tro Franco, il viaggio rocambolesco da reporter nella Cina in guerra
con il Giappone, lo sdegno per Danzica e l’irruzione tedesca. Tutto
inutile, tutto vano, perché, ne consegue, «la poesia non fa accadere
niente» (In Memory of W. B. Yeats), nulla, se non lo strazio perso-
nale (e comunitario) e un gesto estetico, che nel caso di Auden è
vincente. Mai, tuttavia, c’è il cedimento alla pietrificazione davanti
alla Gorgone che insegue fatti e misfatti degli uomini, e li insegue
senza scampo. Anzi, il poeta assiste allo spettacolo del mondo in fu-
ria sempre con a portata di mano un po’ di commiserazione, humor,
arguzia, finezza del wit.
Tuttavia, al momento del suo taglio netto con il consenso alle cose
del mondo, il cordoglio fu amaro:
Sono seduto in una delle bettole
Della Cinquantaduesima
Incerto e spaventato: allo scadere
Delle speranze furbe
Di un decennio indegno e disonesto:
Onde di rabbia e di paura
Circolano sulle luminose
E oscurate contrade della terra
L’ETÀ DELL’ANSIA 169
sylvia plath
il demone della perfezione
L’11 febbraio del 1963 Sylvia Plath si toglie la vita. Lo fa con una certa
inclinazione estetica e un’ultima cura materna. Lascia pane e latte ai
suoi bambini ancora addormentati poi, prese alcune precauzioni, va
in cucina, stende una salvietta sulla bocca del forno, vi poggia sopra la
guancia e apre la manopola del gas. Niente di più accuratamente pulito.
In Lady Lazarus il gesto suicida si fa opera d’arte: «Morire / è un’arte,
come qualunque altra cosa. / Io lo faccio in modo magistrale» («excep-
tionally well»). Per esorcizzare la rischiosa performance l’artista qui
deve ispirarsi ai gatti: «come i gatti ho nove volte per morire». Quella
fredda mattina a Londra il gesto (chissà se rituale), il secondo fuori
delle pagine della poesia, si fa troppo «magistrale». Nessuna rinascita
alla fine della prova. Sylvia Plath consuma così tutte le sue nove vite.
Suicidio, follia, crisi depressive o anche solo alcolismo fra i poe-
ti americani in quel periodo sono casi curiosamente frequenti: John
Berryman, Anne Sexton, Randall Jarrell, Delmore Schwartz, Robert
Lowell, Theodore Roethke. Qualcosa non aveva funzionato nella so-
cietà americana degli anni ’50, qualcosa continuerà a non funzionare
nelle due decadi successive. Il poeta paga il sospetto di un disagio. Già
nel 1956 in Howl Allen Ginsberg aveva alzato la voce: «Ho visto le
menti migliori della mia generazione distrutte dalla follia».
Sylvia Plath, nata nei pressi di Boston nel 1932, è la più giovane di
quel gruppo di poeti detti «confessionali» (perché si distanziano dal-
l’«impersonalità» invocata da T. S. Eliot), tutti dominati dal demone
della perfezione formale. Sylvia è precoce nella sua vocazione, dedita
all’esercizio e ambiziosa: pretende da sé la poesia subito e la vuole al
più presto perfetta. In vita, oltre al romanzo La campana di vetro (The
Bell Jar, 1963), uscito con lo pseudonimo di Victoria Lucas un mese
prima della morte, pubblica una sola raccolta Il colosso (The Colossus,
1960). Le Collected Poems a cura di Ted Hughes (1930-1998) arrivano
con grande ritardo nel 1982, lei avrebbe compiuto cinquant’anni.
Dopo la preziosa raccolta di Giovanni Giudici del 1976 (42 poesie) e
quella di Gabriella Morisco e Amelia Rosselli del 1985 (37 poesie), nel
L’ETÀ DELL’ANSIA 171
Sono verticale) e in quelle della fine del 1959 (La figlia dell’apicultore, Il
colosso, Poemetto per un compleanno).
È proprio a partire da questa stagione che iniziano a entrare, come
ella aveva scritto profeticamente nei Diari il 25 febbraio del 1959, le
«situazioni vere, dentro le quali i grandi dèi recitano il dramma del
sangue, del sesso e della morte», un dramma che lei governa con la
voce di una nuova Medea. Poesia, vita e mito vissuti in modo molto,
forse troppo, passionale: questa è la scrittura di Plath.
È utile rileggere con più fredda passione, senza rinnegare, ove ser-
ve, l’urgenza del dato biografico di cui, con buone ragioni, si dà ampio
rilievo nella cronologia. Troppo innamorata della perfezione Sylvia
Plath pare aver lottato con un demone terribile dal quale non ha inte-
so subire. Sceglie di decidere lei la partita. Lo dice in Limite (Edge del
5 febbraio 1963), l’ultima sua poesia che inizia così:
The woman is perfected.
Her dead
Body wears the smile of accomplishment,
The illusion of a Greek necessity
Flows in the scrolls of her toga,
Her bare
Feet seem to be saying:
We have come so far, it is over.
(«La donna ora è resa perfetta. / Il suo corpo // morto ha il sorriso della
compiutezza, / l’illusione di una necessità greca // fluisce nei volumi della
sua toga, / i suoi piedi // sembrano dire: / Siamo arrivati fin qui, è finita»).
E lì finisce.
(L’Indice dei libri, aprile 2003)
2. È noto che una delle convenzioni cui è facile cedere nella lettura
dell’opera di Sylvia Plath è quella di seguire linee biografiche per in-
terpretarla alla luce di un giovanile, e poi vagheggiato e infine fatale,
‘tributo’ da lei reso alla «campana della morte», una fallacy che in
tempi di femminismo e oltre ha condotto alla costruzione di un ‘mito
L’ETÀ DELL’ANSIA 173
derivato dalle numerose responsabilità che, per quanto sia lecito de-
durre senza voli di fantasia, è possibile attribuirgli.
Il suo scopo con Lettere di compleanno sarebbe stato quello di «can-
cellare il biasimo che lo perseguitava». Si può trattare di mera illazio-
ne, ma non v’è dubbio che in questo caso la biografia si fa maestra di
lettura, nonostante anche Wagner-Martin ci avverta che: «leggendo le
poesie in chiave autobiografica, come abbiamo suggerito, in molti casi
si rischia di non cogliere l’arte che la Plath vuole e riesce ad esprimere
con la sua scrittura». Sarebbe un sottrarle un’identità autonoma (e non
vicaria) di poeta. Quanto all’operato di Hughes, e al suo memoriale
finale, tutto resta da chiarire e comprendere.
Non v’è dubbio che Plath fosse troppo amante della ricerca for-
male e retorica, per lasciare che il mero gettito procuratole dal disac-
cordo con la realtà e dalla seduzione del tragico fossero sufficienti a
giustificare l’esistenza della sua voce nel mondo. E se è vero che ama
farlo, imparerà a farlo con graduale alchimia: il suo scopo è l’arte,
perché ha scoperto presto di possedere le doti, di essere posseduta
da quel demone, oltre che dai suoi demoni personali, e vuole che il
primo abbia la meglio sugli altri. Sono da considerare anche ai fini
di tale impegno la sofferenza, la malattia schizofrenica, di cui ella
si alimenta nel breve tempo che nutre la sua produzione, passando,
per esempio, per la lirica intitolata Specchio (Mirror) dell’ottobre del
1961, che nulla ha a che vedere, almeno in apparenza, con disturban-
ti eventi circostanziali:
Sono d’argento e rigoroso. Non ho preconcetti.
Quello che vedo lo ingoio all’istante
così com’è. (…)
Ora sono un lago. Una donna si china su di me,
cercando nella mia distesa ciò che essa è veramente.
Poi si volge alle candele o alla luna, quelle bugiarde.
Vedo la sua schiena e la rifletto fedelmente.
Lei mi ricompensa con lacrime e un agitare di mani.
Sono importante per lei. Va e viene.
Ogni mattina è la sua faccia che prende il posto del buio.
In me ha annegato una ragazza e in me una vecchia
sale verso di lei giorno dopo giorno come un pesce tremendo.
176 NOVECENTO POETICO AMERICANO
Ancelle!
E al suo prossimo passo
libererò—
dalla piccola bambola
gemmata che lui custodisce come un cuore—
la leonessa,
l’urlo nel bagno,
il mantello di buchi.
(«Attendant of the eyelash! / I shall unloose / One feather, like the peacock. //
Attendants of the lip! / I shall unloose / One note // Shattering / The chandelier
/ Of air that all day flies // Its crystals / A million ignorants. / Attendants! //
Attendants! / And at his next step / I shall unloose //I shall unloose— / From
the small jeweled / Doll he guards like a heart— // The lioness, / The shriek in
the bath, / The cloak of holes»).
La «piccola bambola» velata dal purdah, o ingabbiata nella tenda di
un harem, è lei, naturalmente, e la «leonessa» liberata è Clitennestra, la
quale, nell’Agamennone di Eschilo, uccide il marito nel bagno dopo aver-
lo intrappolato in una rete. Intrappolato nella rete: proprio come il cac-
ciatore Ted Hughes – il «nero stregone» di Inseguimento – intrappolava
e poi uccideva lepri e conigli, le sue piccole prede innocenti da portare a
casa per la cena. Siamo, dunque, alla trasfigurazione del privato e del de-
motico in agone tragico, una proiezione che prova a disancorare la visione
dalle contingenze della vita. Ma con quanta sofferenza e costernazione.
(Alias, marzo 2013)
quello che Sylvia vuole che sappia, o tutto quello che lei, Aurelia,
decise poi che noi sapessimo.
Settecento lettere «alla madre» nell’arco di tredici anni, dall’entrata
di Sylvia allo Smith College nel 1950 al febbraio del 1963. Solo due terzi
di questo corpus, selezionato evidentemente con cura, Aurelia Schober
Plath rese pubblici nel 1975, in un momento in cui il ‘mito’ della figlia
trionfava nella coazione del lutto. La traduzione di una selezione per
Guanda fu quasi tempestiva nel 1979, anche a seguito dell’esile scelta di
poesie tradotte da Giovanni Giudici ancora per Guanda nel 1976. Nel
2015 si viene invitati a rileggere questo epistolario con occhio forse diver-
so, più maturo e più consapevole di altri materiali (i Diari di lei, le Lettere
di compleanno di lui), grazie alla ristampa intitolata ex novo Quanto lon-
tani siamo giunti. Lettere alla madre, che l’editore Guanda accompagna
alla Grande estate. Sylvia Plath a New York, 1953 di Elizabeth Winder.
La grande estate è una cronaca – con testimonianze raccolte dalle
compagne ancora in vita – dei venti giorni di stage giornalistico che
Plath, allora allieva del prestigioso Smith College, svolse, con altre
diciotto ragazze e su severa selezione nazionale, presso la raffinata ri-
vista «Mademoiselle», che patronizzava l’etichetta di eleganza mista
a cultura per la giovane donna americana di allora proiettata, più che
altro, verso un’etica di consumismo e conformismo: siamo nei fiducio-
si, ‘silenziosi’ e subdoli anni ’50 e Winder si propone di «smontare il
cliché della Plath artista maledetta» e mostrare come ella fosse invece
un prodotto autentico «dell’America della metà del secolo».
L’accostamento dei due volumi (grazie alle parzialità del primo)
funziona. Nell’orgoglio provato per l’estate a New York, fra sfilate di
moda, lavoro di redazione e mondanità, c’è una parvenza della vita da
vincente che Sylvia ambiva a costruire per sé, puntando sulla molla
della competizione, del primato, il successo, il denaro, e la conquista
di quella self-reliance che R. W. Emerson aveva coniato nel 1841 per il
giovane americano sia nell’attuazione di una pratica di vita sia – per il
genio creativo – nella espressione poetica: una spinta verso un’incon-
dizionata fiducia in se stessi che col tempo avrebbe finito col condurre
molti poeti (Herman Melville, Vachel Lindsay, Hart Crane, Delmore
Schwartz, Randall Jarrell, Theodore Roethke, Anne Sexton) al dera-
gliamento, allo pseudo-fallimento, al suicidio.
L’ETÀ DELL’ANSIA 179
Anche se, come nessun altro, posseduta dal demone della poe
sia, Sylvia, artista in nuce e ‘consumatrice’, nel 1953 appare immersa
in quello slancio che lei non scinde dalla cultura del benessere del suo
paese e, a uso di identificazione, nelle golosamente ricercate «bambo-
line di carta», fabbricate da «Mademoiselle», alla cui redazione viene
eletta per fare praticantato: cosmetici, biancheria intima, lusso e cibo
sofisticato le procuravano un autentico piacere; un abito nuovo (magari
rosso) le dava «una vertigine di felicità»; una lista di acquisti era per lei
«una lista di poesia»; la contiguità con stelle del cinema (Grace Kelly al
Barbizon Hotel, dove anche Plath soggiornava) o la loro maschera abba-
gliante (Marilyn Monroe) l’affascinavano; l’incontro con celebri letterate
(Elizabeth Bowen) la esaltava. L’estate a New York, testimoniata da foto-
grafie di Hermann Landshoff, che la immortalano nel ruolo di collegiale
pin-up (somigliava alla modella Sunny Harnett), finirà in un esaurimento
nervoso e, tornata a casa, nella modesta Wellesley, vicino Boston, Sylvia
si abbandonerà al suo primo, devastante tentativo di suicidio.
Il passaggio a Cambridge nel 1955, grazie a una borsa di studio
Fulbright, lontano da quell’America competitiva e pragmatica, sposterà
verso sentieri più concreti e sacrificali le sue ambizioni. Sylvia frena la
corsa alla pubblicazioni di racconti in riviste commerciali («per il merca-
to»), e se lo fa, lo fa, e lo farà, solo per l’eterno bisogno di denaro. Ma ora
è più disposta ad attendere occasioni migliori e soprattutto – nonostante
un romanzo continuamente in fieri – a distillare quello che ha da dire
in versi: «Oh mamma, se solo sapessi che anima mi sto forgiando! Che
fortuna sono stati per me questi due anni! Io lotto, lotto per costruire il
mio io, spesso con gran dolore, come ogni nascita richiede, perché è giu-
sto che debba essere così, e mi purifico al fuoco dell’amore e del dolore».
Ha scritto una poesia stupenda, che acclude a quella lettera del
1956, Inseguimento: «Una pantera m’insegue, un giorno ne morirò».
Sogna, e confessa alla madre (nel 1953), l’uomo che desidera, «fisi-
camente voglio un colosso … intellettualmente voglio un uomo che
non sia geloso della mia creatività in nessun campo che non siano i
figli». Tre anni dopo questo «colosso» (come suo padre dall’ominoso
accento tedesco) lo identifica in Ted Hughes: «Ho conosciuto l’uomo
più forte del mondo, un brillante poeta già studente di Cambridge di
cui apprezzavo il lavoro prima di conoscerlo, uno squadrato, massic-
180 NOVECENTO POETICO AMERICANO
cio, robusto Adamo, metà francese, metà irlandese, dalla voce tonante
come un dio – un cantore, un gigante». Hughes è di ceppo contadino
del duro Yorkshire, uno che va a caccia di conigli e pesca trote velluta-
te, uno sport crudele che lei poi gli rinfaccerà in Il cacciatore di conigli.
Lui diventa la sua «pantera», il suo «fauno»:
Faunesco nei lombi, bubolò
da un folto di barbagli lunari e gelo di palude
finché tutti i gufi dell’irta selva
vennero con un nero batter d’ali
a meditare sul richiamo di quest’uomo.
Non un suono, se non di una folaga ebbra
che barcollava verso il nido lungo il fiume.
C’erano stelle sospese in fondo all’acqua
e una fila di doppi occhi stellati illuminava
i rami dove posavano quei gufi.
Un’arena di occhi gialli
osservò l’uomo che mutava forma.
Vide il piede farsi ungulato, e spuntare
corna di capro. Vide un dio che si levava
e galoppava verso il bosco in quella guisa.
(«Haunched like a faun, he hooed / From grove of moon-glint and fen-frost
/ Until all owls in the twigged forest / Flapped back to look and brood / On
the call this man made […]»).
Nel 1956 in Fauno la metamorfosi dionisiaca è osservata in ritmi
dirompenti, generalmente monosillabici, uniti a una narratività schiet-
tamente ovidiana: «An arena of yellow eyes / Watched the changing
shape he cut, / Saw hoof harden from foot, saw sprout / Goat-horns.
Marked how god rose / And galloped woodward in that guise». Si
capisce che agli inizi della sua storia d’amore Sylvia ha ormai perso il
lume di una scelta di vita più ponderata. Infatti, con questi traspor-
ti esuberanti, più o meno disperatamente innamorata, e fra difficoltà
economiche e creative, traslochi, faccende domestiche, allattamento
figli, gelo infernale nella campagna inglese, l’uscita agognata dell’u-
nico libro pubblicato in vita – ironicamente The Colossus (1960) –,
si arriva dunque a quel festoso evento immortalato a Russell Square:
L’ETÀ DELL’ANSIA 181
anne sexton
transustanziazioni
«Il mio lavoro sono le parole. Le parole sono come etichette, / o mo-
nete, o meglio, come uno sciame di api», scrive Anne Sexton in Disse il
poeta all’analista, una delle sue prime poesie di A Bedlam con parziale
ritorno, la raccolta con la quale esordisce nel 1960, cedendo a un tito-
lo premonitore del nodo contorto che unisce vita e scrittura: Bedlam
182 NOVECENTO POETICO AMERICANO
elizabeth bishop
evasioni brasiliane
(«Directly after Mass, humming perhaps / L’Homme armé or some such tune,
/ they ripped away into the hanging fabric, / each out to catch an Indian for
himself – / those maddening little women who kept calling, / calling to each
other (or had the birds waked up?) / and retreating, always retreating, be-
hind it»).
Si celebra così cristianamente la dannazione della Storia. Bishop
preferisce volgersi ora allo spazio, il «più strano dei teatri», per dar
conto di qualcosa di più del Brasile, nonostante si ponga presto il pro-
blema della correttezza ideologica del viaggio del turista (anch’egli, in
fondo, è un conquistatore) e della legittimità del «desiderio infantile»
di spostarsi all’altro capo del mondo alla ricerca di un qualcosa invece
di restarsene quieti a casa (come fecero Thoreau e Cesare Pavese) e
viaggiare con la mente o con i libri, soli in una stanza, senza incorre-
re così nella sorpresa incerta delle perlustrazioni dell’occhio. Bishop
risolverà il problema (la domanda/questione/quest/ricerca» di/del
viaggio), facendo del Brasile casa – a Rio, Petropólis, Ouro Prêto – e
sentiero di conoscenza per esplorazioni nei misteri della selva, al pari
dell’uomo del fiume pronto a seguire l’invito di Luandinha.
Dopo lo sbarco a Santos e una febbre allergica che la costringe a re-
starvi, c’è per lei la prima penetrazione dell’interno («we are driving to
the interior») in cerca di incontri folclorici. Ed ecco avvicendarsi nel suo
lungo diario di viaggio: Manuelzinho, il «Kid Colorfilla», il peggiore
giardiniere del mondo «dai tempi di Caino»; e i rivoli di «lacrime» lu-
centi che si trasformano in «troppe cascate»; ed ecco l’interminabile bi-
blica pioggia tropicale che crea mappe di muffa nella casa di Petropólis;
e l’armadillo miracolato dal crollo di una rupe colpita da dardi incan-
descenti, che lei associa a un sopravvissuto al fuoco del Vietnam; e l’e-
pifanica rievocazione della scoperta di Ilha Grande, Angra dos Reis, il
6 gennaio 1502, con il suo Balthazár brasiliano nero che dice «il mondo
è una perla / e io sono / il suo cuore luminoso»; gli sciamani, gli spiriti
dell’acqua e il gigantesco pirarucús dell’Uomo del fiume; e l’amara balla-
ta di Mucuçú il serpente velenoso di The Burglar of Babylon; la máscara
o fantasia, il costume di Carnevale per un povero cane ràbico, nudo «e
senza l’ombra d’un pelo» nelle strade del Carnevale di Rio; il fornaio
malaticcio con i vapori di cachaça di Capocabana; e ancora, il ritratto del
primo famoso mercante di schiavi letterario, il Robinson Crusoe di De
L’ETÀ DELL’ANSIA 191
Foe, destinato a far carriera in Brasil, fino a quando, più ricco e con l’in-
tenzione di tornare al Brasil con un po’ di africani a poco prezzo, sotto
cattiva stella, decide di drizzare la vela di nuovo su nave negriera, per
far invece naufragio in un’altra isola selvaggia. Quasi una fine ultima, se
non fosse intervenuta la «Provvidenza».
Non è la fine neanche per Bishop, alla quale a anni di distanza
e dopo anni di separazione e di ‘rimpatrio’, resta la testimonianza
del ritorno in Brasile nella bella Santarém, l’ultima poesia di viag-
gio, raccolta in Geography III (1976), nel tempo ormai della memoria.
L’incantesimo esercitato da Luandinha, bianco serpente satinato, ha
infine esaurito il suo potere.
(Milano, 2008)
robert lowell
innocenze perdute
in tre parti – Endecott and the Red Cross, My Kinsman Major Molineux
e Benito Cereno (le prime due da racconti di Nathaniel Hawthorne
rispettivamente del 1837 e del 1832, l’altra dalla celebre novella di
Herman Melville) –, Lowell esamina in versi, e in modo più scoperto,
le origini del paese, indagate rispettivamente nell’impatto puritano,
l’indipendentista e lo schiavista: targhette approssimative per som-
movimenti socio-culturali e politici di indicibile gravità. Alla prima a
Broadway, il giudizio dei recensori fu positivo, con un consenso spe-
ciale per il Benito Cereno, che risulta, in effetti, una piccola perla nel
suo genere e nel canone del suo autore.
Istigatrice di tale exploit fu di certo la congiunzione di tempi storici
problematici, che lo coinvolsero molto a livello emotivo e intellettuale.
Un presente percorso dagli esiti destabilizzanti di un assassinio presi-
denziale, dalle marce degli afroamericani per i diritti civili, la protesta
giovanile e soprattutto un’altra guerra (il Vietnam) non poteva lasciar-
lo insensibile al disastro in cui era finito il paese, costringendolo a un
riesame del passato con sguardo più inquisitore. Da sempre obiettore
di coscienza (scelse, à la Henry David Thoreau, la prigione piuttosto
che doversi arruolare dopo Pearl Harbor), Lowell reagì al disagio con
la scrittura, riflettendo su un’ironica «vecchia gloria» dell’ironicamen-
te irreprensibile prima repubblica libertaria.
Il pezzo meno studiato del trittico amaro che egli volle per le
scene resta a tutt’oggi My Kinsman Major Molineux. Si tratta di una
black comedy, un’odissea bostoniana, un’allegoria allucinata, che rie-
suma una Boston pre-Rivoluzione. Lowell saccheggia il bel racconto
di Hawthorne, pur rimaneggiandolo fino a intensificarne i risvolti più
oscuri. Soprattutto si affida a un colore, un rosso demoniaco, per ri-
creare un’atmosfera infernale, cosa che gli riesce con tratti più intri-
ganti, grazie al ricorso al mito classico.
Le navi in porto sono cariche di tè in una notte serena bagnata
dal chiar di luna: lo Stamp Act sta per essere promulgato da Giorgio
III e i suoi soldati (i Redcoats, le Giubbe rosse) presidiano le strade: i
cittadini mostrano irrequietezza e si esibiscono in strani tramestii. È
chiaro: i fremiti della Rivoluzione risuonano già nell’aria. All’attracco
del ferry, proveniente dalle zone interne del Massachusetts, scendono
due (non uno come in Hawthorne) giovani di Deerfield, un villaggio
L’ETÀ DELL’ANSIA 193
allora che Robin avrà l’impressione di aver visto «due diavoli distinti,
un demone del fuoco e uno delle tenebre», congiuntisi per plasmare
uno schietto «volto infernale». Al cospetto reiterato della infernale
figura la sua innocenza rustica e primordiale vacilla, vacilla molto di
più che nell’incontro con la donna dal corsetto rosso (una prostituta),
la quale qualche ora prima aveva avuto l’ardire di offrirgli ospitalità
in casa sua. Ma ricordiamolo, Robin è uno «shrewd youth», un ragaz-
zo sveglio che, sulla porta della prostituta (un’apocalittica whore of
Babylon) ha capito in quale orrenda perdizione sarebbe caduto.
No, non tutto a Boston fila per le dritte. Ben presto la simbologia
dello storicamente disinibito e informato Lowell illuminerà le cose
nella giusta direzione. Secondo Hawthorne, dopo l’agghiacciante
tirocinio che lo priva per sempre della sua innocenza, Robin dovrà
imparare «a farsi strada nel mondo senza l’aiuto» del suo parente, il
Maggiore Molineux, cioè, dell’Inghilterra, riferendosi nel suo solito
modo criptico sia all’indipendenza politica, frutto della Rivoluzione,
sia a quella self-reliance che sarà teorizzata in seguito da Emerson e
che anche Robin, uno «shrewd youth» d’America, dopo la sua terri-
bile esperienza, avrebbe conquistato. Lowell, invece, la vede in modo
un po’ diverso: quell’indipendenza che Hawthorne sbandiera quasi
trionfalmente non consiste – si può congetturare – in una semplice
«fiducia in se stessi», bensì in una maturità che uccide l’innocenza,
una felix culpa che per noi è naturale ma non per un calvinista.
Piuttosto che cavarsela con una «morale» di copertura (come fa
Hawthorne), tramite una serie di accorgimenti, nel suo My Kinsman
Major Molineux, egli riesce a mettere in luce simbolismi e pratiche di-
scorsive coeve al periodo rivoluzionario: nell’uso delle bandiere, negli
inni patriottici cui allude e nella figura bivalente di George Washington.
Per cui, la bandiera dell’Inghilterra sventola con sopra rappresentati
il «leone» d’Inghilterra e l’«unicorno» della Scozia; quella dei ribelli
esibisce invece un significativo rattlesnake, un serpente a sonagli, con
l’iscrizione «DON’T TRADE ON ME» (non mi commerciare/calpe-
stare), così architettato da quell’abile creatore di mitografie americane
che fu Benjamin Franklin; l’inno Rule Britannia si contrappone alla
più modesta Yankee Doodle, la ballata dei Rivoluzionari; il gioco sul
duplice valore conferito a George Washington, reso un po’ à la Rip
L’ETÀ DELL’ANSIA 195
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
carl sandburg
topografie di chicago
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
200 NOVECENTO POETICO AMERICANO
2. Nonostante sia stato riconosciuto come uno dei più fortunati bio-
grafi di Lincoln, Carl Sandburg, che sarebbe diventato il menestrello
con chitarra omaggiato da Bob Dylan e Marilyn Monroe, ha avuto
un po’ di vecchia gloria in Italia grazie ad alcuni stimati ammiratori
e a una selezione curata da Franco De Poli nel 1961, cui è seguita – a
cinquant’anni di distanza – la sola prima sezione di Chicago Poems
nella traduzione di Laura Ferri. Era tempo, dunque, di rimettere le
mani su questo poeta dell’avanguardia di casa, un midwesterner (come
i migliori letterati di quel tempo), figlio di immigrati svedesi, e proba-
bilmente il primo poeta americano dell’immigrazione non anglofona.
A farlo in modo più sistematico ci ha pensato Franco Lonati, il
quale, con un nutrito saggio conclusivo e una Premessa di Francesco
Rognoni, presenta nella sua integrità Chicago Poems, la raccolta di esor-
dio di Sandburg, pubblicata nello stesso 1916, anno in cui si consolidò
il successo di Edgar Lee Masters. Fu un anno felice per la Chicago
letteraria che, geograficamente lontana dagli sperimentalismi di una
generazione più giovane trapiantata allora in Europa, entrava in gioco
nel dettare le linee di un rinnovamento e promuovere, di conseguenza,
un sentire poetico dal solo gusto autoctono.
Un segnale che le sette sezioni e 133 poesie di Chicago Poems mo-
strano nella modulazione della varietà di stilemi, dei ritmi e delle for-
202 NOVECENTO POETICO AMERICANO
O piccole rose
E foglie infrante
E frammenti di petalo:
Voi che solo ieri
Splendevate scarlatte
Al sole.
(«Red / Red roses / Crushed / In the rain and wind / Like mouths of wom-
en / Beaten by the fists of / Men using them. / O little roses / And broken
leaves / And petal wisps: / You that so flung your crimson / To the sun / Only
yesterday»).
Sono i «fiori del male» d’America appena spuntati alla luce.
È, dunque, soprattutto una poesia di impegno sociale quella di cui
Sandburg si fa tra i primi portavoce in un disinibito ritratto della città
corrotta che ama, mentre, con un tocco dell’Imagismo re-inventato ol-
treoceano, al suo respiro ecumenico e commemorativo, egli alterna una
vena più lirica, contemplativa, da epifanico micro-osservatore di parti-
celle della natura, dei moti dell’anima, della morte e dell’amore. In Due:
Il ricordo di te è … un’azzurra lancia in fiore.
Non riesco a ricordarne il nome.
Accanto un ardito papavero sgocciolante è fuoco e seta.
E ti ricoprono.
(«Memory of you is ... a blue spear of flower. / I cannot remember the name of
it. / Alongside a bold dripping poppy is fire and silk. / And they cover you»).
Non sono estranei all’influsso pittorico (dall’Impressionismo al
Japonisme) certi improvvisi accostamenti coloristici e gli scarti seman-
tici, che sfumano invece nell’idillio monocromatico in quei componi-
menti in cui con voce incantata si coglie lo spirito antico del luogo: la
lucentezza notturna del lago, le sue «bianche bolle sfinite», la «svolaz-
zante burrasca di gabbiani», e la nebbia che «avanza / su piccole zampe
di gatto. // S’accuccia a osservare / il porto e la città / su terga silenziose
/ e poi se ne va». In queste Manciate (così il titolo della seconda sezione)
di puro lirismo resta il contributo più vincente del futuro menestrello.
(Alias, ottobre 2017)
204 NOVECENTO POETICO AMERICANO
allen ginsberg
affari beat e di famiglia
dei pochi romanzi miliari del secondo Novecento, nel 1951 non lo capì
quasi nessuno. Troverà un editore solo nel 1957.
Sei anni più tardi Allen proverà a spiegare a Louis la rottura avve-
nuta in quella girata di metà secolo. Louis proverà a dialogare, forse
per non alienarsi un figlio del quale, tra l’altro, andava fiero. Ma ormai
i figli dell’America d’allora, tormentati dalle oscure sorti del futuro del
mondo, s’erano incamminati su un’altra strada.
(Alias, giugno 2007)
2. Quando nel 1956, subito dopo la morte della madre, Allen Ginsberg
scrisse di getto il fulminante e magnifico inizio di Howl: «Ho visto
le menti migliori della mia generazione distrutte dalla follia», non
si riferiva soltanto agli artisti suoi sodali evocati nel poemetto: Peter
Orlovsky, Carl Solomon e Neal Cassady, di cui Solomon restava chiuso
anche lui, come la madre Naomi, in manicomio. In era Maccartista, il
suo sguardo era sicuramente allungato sul panorama delle lettere ame-
ricane: uno scenario non certo felice, pur nella rassicurante e attiva
presenza disagiata di voci eminenti e nelle promesse dei più giovani.
Quegli anni furono per alcuni di loro anni, sì, di pazzia vera o attri-
buita, provocata, più che da disturbi personali, dal soffocante sospetto
di una loro deviazione dal consenso ai veri valori americani. Il tutto
unito all’esasperato inseguimento di un capitalismo/consumismo che
metteva a rischio molte libertà individuali: da qui forse una forzata
pseudo-follia. Sono anche anni di suicidi per la migliore intellighenzia.
Ecco, la necessità dell’urlo-richiamo, lanciato da San Francisco.
Sono per l’appunto i poeti beat a suonare la campanella, un suono
che sarebbe poi esploso nella Bomba (Hiroshima e ben altro) di Gregory
Corso e che avrebbe trovato pubblica manifestazione nel movimento
degli hippie degli anni ’60, anni lacerati da un assassinio politico che la
diceva lunga (non tutta) su un maligno governo occulto. Fu un trauma
tagliente, delegato a fare da vero detonatore della sopita mente ameri-
cana, e del conseguente sconquassamento della famiglia americana. Da
tale psicotica situazione emersero travolgenti le migrazioni dei figli sulla
strada (anche psicotropica), da easy riders, determinando un improvviso
diaframma psicologico nei confronti del passato, una rottura epocale,
208 NOVECENTO POETICO AMERICANO
philip levine
topografie di detroit
«Certe cose», scrive Philip Levine in The Simple Truth (1994), la lirica
che oggi sembra imporsi alla memoria come la sua più canonica,
le sai da tutta la vita. Sono così semplici e vere
che devono essere dette senza eleganza, metro o rima,
devono esser messe sul tavolo accanto alla saliera,
al bicchiere dell’acqua, all’assenza di luce che s’addensa
nelle ombre delle cornici dei quadri, devono essere
nude e sole, devono stare per sé stesse.
CONTROCANTI 211
Detroit e alla macchina (la Ford), la modello standard negli anni ’30
e dunque alla portata di tutti: un mito americano, generato dagli alti
costi umani del Fordismo inventato da Ford. Ma, a mezzo secolo di di-
stanza dalla sua esperienza in fabbrica, il racconto pseudo-celebrativo
di Levine punta invece sul ritratto casalingo di un dipendente della
Ford, o dello stesso Henry Ford (la distinzione tra padrone e dipen-
dente è lasciata intenzionalmente nebulosa), la cui routine di allora è
rivisitata con la sovrapposizione intellettualizzante dell’ironia. Nella
prima «stanza», l’operaio/padrone
Di mezza età, sommamente annoiato
dalla propria moglie, un lavoro che odia,
in preda all’insonnia, si alza
dal letto e gira per la sua magione
in vestaglia e ciabatte, chiedendosi
se questo è proprio tutto ciò
che vuol dire essere Henry Ford,
l’uomo che ha creato
il mondo moderno. I cieli
sopra la grande fabbrica sul Rouge
sono neri di fuliggine, senza stelle,
il mondo intero è senza stelle adesso, tutto
perché è stato lui a renderlo
a sua immagine, gratificazione da non poco.
(«Middle-aged, supremely bored / with his wife, hating his work, / unable
to sleep, he rises / from bed to pace his mansion / in slippers and robe, won-
dering / if this is all there ever / will be to becoming Henry Ford, / the man
who created // the modern world. The skies / above the great Rouge factory
/ are black with coke smoke, starless, / the world is starless now, all / because
he remade it in his image, no small reward»).
Viene il sospetto che qui si trami un rimando a una Genesi rovescia-
ta, la genesi del mondo moderno che il suo creatore ha infine forgiato
non con un fiat lux, bensì spegnendo le stelle. Di contro al capitalismo
di Henry Ford si orchestra in rapporto dialogico l’‘io spagnolo’ d’ado-
zione di Levine. L’apologo in prosa ritmica Nella città bianca (Ronda,
in Andalusia) è un omaggio a Hemingway e ai morti dei repubblicani
spagnoli attraverso una paradossale lettura di Per chi suona la campa-
214 NOVECENTO POETICO AMERICANO
bob dylan
disincanti
the water white and black. // We have lingered in the chambers of the sea /
By sea-girls wreathed with seaweed red and brown / Till human voices wake
us, and we drown»)
È un campione dell’intertestualità, Bob Dylan, nell’usare le sue
fonti in modo antifrastico, a rovescio, in questa sua poesia vicina ai ri-
baltamenti citazionali del cosiddetto Postmoderno ma, in realtà, anco-
ra di eredità modernista. Se è così, egli è un «nuovo talento» à la Eliot,
ben dentro la visione della «tradizione» da Eliot decretata nel 1919.
Egli è il nuovo «talento» nel senso di colui che attinge a un vecchio
patrimonio, «rubando», diceva Eliot, e così, cambiando l’«ordine» di
quella stessa tradizione, e creando, di conseguenza – consapevolmente
o no –, un poundiano «Make It New». Cosa che Dylan fa egregiamen-
te, ‘pasticciando’ (come spesso fa Pound), e non irridendo (postcolo-
nialmente) le fonti della sua musicata poiesis.
Poiesis, lo ribadiamo, è «canzone»/«cantico» (da «cantus») nello
Stilnovismo di Dante/Pound, perché la «canzone» altrettanto provo-
cante di Dylan ancora restituisce la verità e la musicalità perfettamente
rimata che le fu propria sin dalle origini.
(Roma, giugno 2018)
POSTCOLONIALISMI
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
derek walcott
caraibi al crepuscolo
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
226 NOVECENTO POETICO AMERICANO
leonard cohen
figure di bellezza
raneo di Bob Dylan, Joan Baez, Jim Morrison, di Paul Simon e Art
Garfunkel, dei Beatles e di Fabrizio De André, tutti appartenenti alla
medesima famiglia del rock da leggenda.
A differenza di Bob Dylan e Simon e Garfunkel, tendenti più alla
parabola l’uno, e alla visione gli altri due, l’ebraismo di Cohen è fonda-
to sulla Storia, la testimonianza fotografica, il racconto e la preghiera,
perché egli ha coltivato maggiormente il ruolo della fede dell’amore
e della «pelle» (skin) nella complessa controcultura del Sessantotto,
come in New Skin for the Old Ceremony (1973), e solo attraverso la
fede e la pelle egli ha ingaggiato per il mondo le sue battaglie, le sue
velate proteste ideologiche, giunte, in verità, con più ritardo in Italia,
rispetto a quelle di Dylan e Baez, ma non senza fortuna. Lo si è visto
il 30 giugno del 2008 al Festival Villa Adriana di Tivoli, per il quale
Philip Glass ha messo in scena The Book of Longing (2006) al fine
di consacrare il riconoscimento di una perdurante grandezza da lui
proiettata su un’altra scala.
Cohen esordisce negli anni ’60 come poeta, per così dire, «roman-
tico» e poeta «religioso». È un versificatore istintivo, rigorosamen-
te prosodico nell’imbastire ballate con stanze rimate e ritmi chiusi.
Diventa presto famoso come cantautore maudit, nella scia dei versi di
Rimbaud, Verlaine e Dino Campana, avendo scelto di celebrare anche
gli aspetti più crudi del consorzio sociale e delle sue periferie: la vita
dei porti malfamati e dell’amore mercenario, le lande dei «beautiful
losers», i perdenti, giustapponendo nel suo canto le vittime e i vinti,
coloro che diventano «belli» non vincendo ma perdendo la lotta per
l’esistenza, e nella perdita trovano e donano bellezza e salvezza, una
santificante, mistica salvezza.
Nei suoi sette volumi di poesia, due romanzi, tredici album di can-
zoni e un libro di preci – Libro della misericordia (1984) – si rincorrono
da quarant’anni temi e motivi eterni; sono le litanie delle preghiere
tutte speciali di Cohen che toccano sofferenza e emarginazione, sesso
e religione, religione e religione, desiderio e rinuncia, vittimismo e
saggezza, malinconia e impotenza. Trionfano, tuttavia, nei suoi versi
soprattutto la pietas per il mondo in disfacimento e la ricerca della
Bellezza, o piuttosto di quelle «figure della bellezza» (Chelsea Hotel)
in cui si rifugia la Salvezza, quando si scopre all’improvviso che c’è
POSTCOLONIALISMI 235
che ha vissuto, e sui quali, con il suo «tocco» che non lascia «cicatrici»,
ha infine influito.
Il libro del desiderio traccia per noi, oggi nel nostro tempo, il cam-
mino dell’uomo moderno ideale: un uomo contemplativo che mantie-
ne uno stretto legame devozionale con le energie cosmiche e religiose
pur rimanendo attentamente vigile, nell’assenso e nel dissenso, alla
realtà fisica e politica, una realtà che spesso scotta e brucia. Bruciare
nel fuoco «che gli affina», direbbe Dante (Purgatorio, XXVI, 148).
Dante lo dice di Arnaut Daniel, il troubadour, il primo grande «trova-
tore», un abile menestrello come Cohen. Per Cohen, tuttavia, il fuoco
che «affina» è anche il fuoco ustionante della Storia, il fuoco che crea
cicatrici sulla «pelle», un fuoco che egli insegue con dolore dalla storia
di Isacco a quella dell’olocausto, fino al fuoco di Hiroshima.
Ecco, dunque, apparire dal suo passato genealogico il grande padre
Isacco (Storia di Isacco), e poi i due amanti del pogrom (Amanti), e, da un
altro passato, Giovanna D’Arco, bruciata da un altro fuoco. Sono questi i
vinti che restano «belli» pure avendo subìto la legge offensiva del fuoco,
l’ordalia di quello vero, non del fuoco ascetico. A Isacco, infine, il fuoco
fu risparmiato. A Cristo pure fu risparmiato, ma gli toccò la crocifissio-
ne. Cohen ne soffre assieme a Gesù, che, come ebbe a scrivere Irving
Layton, il suo maestro ebreo-canadese, fu suo «fratello».
Proprio a Gesù, Cohen dedica la sua prima poesia che inizia così:
«Quando da giovane i Cristiani mi raccontarono / di come noi in-
chiodammo Gesù / al pari di una bella farfalla sopra il legno, / e
allora piansi accanto ai dipinti del Calvario / alle ferite vellutate / e ai
piedi delicatamente intrecciati» (For Wilf and His House). Gesù, come
il corvo mandato avanti prima della colomba dopo il diluvio, è un’al-
tra «figura di bellezza» per Cohen che, evangelicamente, non ha mai
rifiutato la comparazione, il confronto, fra «mitologie», fra religioni e
olocausti, ebraismo e paganesimo, cristianesimo e buddismo.
In una virtuale breve antologia, scandita nella produzione di qua-
rant’anni, si potrebbero provare a toccare (con «la mente», egli direb-
be) i nodi cruciali della sua ricerca poetica e spirituale: dal dialogo con
Gesù e il cristianesimo agli echi dell’olocausto, al rapporto con l’Ame-
rica e il futuro del mondo, fino a privilegiare alcune delle sue celebri
donne ‘maledette’, le Maddalene messaggere di bellezza e salvezza,
238 NOVECENTO POETICO AMERICANO
quelle donne fatali in modo benefico che sanno indicare «i colori fra
la spazzatura e i fiori». Sono numerose queste donne belle, perdute e
vincenti di Cohen, donne dal «corpo perfetto» che Gesù ha «toccato
con la mente»: Suzanne, «nostra signora del porto», una Stella maris,
che regge lo «specchio» sui ‘fiori del male’ e Giovanna D’Arco che,
stanca della guerra, vuole infine un semplice abito da sposa, un abito
bianco che però solo il fuoco – che lo sposo ha scelto per «sposa» –,
con crudeltà, avrà diritto di consumare.
«Ho fatto molta strada per la bellezza», canta Cohen nel 1979: «I
came so far for beauty / I left so much behind / My patience and my
family / My masterpiece unsigned», versi che consuonano stranamen-
te con quelli di una poesia di Emily Dickinson: «Because I could not
stop for Death – / He kindly stopped for me / (…) / And I had put
away / My labour and my leasure too / For His Civility». E forse, an-
che Emily, è un’altra delle sue donne benedette.
(Teramo, maggio 2008, con aggiunte Roma 2020)
peter sís
reincarnazioni di ‘attār
tra materia più aspra, che il poeta libera le epifanie più suadenti, talvolta
filtrate da coloriture letterarie, come nei versi seguenti, in cui nel dato
personale e ‘locale’ si recupera una nota marginale di T. S. Eliot a The
Waste Land: «Lake Massawippi / was no ordinary drip lake // not like
Memphremagog ten miles off / (where T. S. Eliot heard his celebrated
Turdus // drip drop drip drop drop drop drop / in Quebec County)».
Diviso in cinque parti, Coming to Jakarta si snoda in liriche o ‘canti’
in terzine, echi da Williams e, perché no, da Dante, ed esordisce con
l’evocazione di una discesa agli Inferi (quella di Enea) chiudendosi con
spigolature dal secondo libro dell’Eneide sui lutti e la rovina di Troia (e,
evidentemente, di Djakarta). Sembrerebbe un’epica guidata dall’ombra
di Virgilio, ma il nume tutelare di Scott, il suo vero maestro (anche per
la denuncia della «res publica» in senso lato) è piuttosto Ezra Pound al
quale sono dedicate alcune delle pagine più belle (per esempio, in II. v),
e del quale si assimila tutta la lezione modernista (intertestualità, cita-
zioni multivalenti, ideogrammi, plurilinguismo, traduzioni ai margini,
cultura orientale), senza tuttavia mantenere nulla della frammentarietà
dei Cantos, o delle loro intermittenti oscurità, come ci si aspetterebbe
in una ‘narrazione enciclopedica’, qual è quella che Scott mette in atto.
Siamo dunque di fronte a una nuova «storia della tribù», corredata, si
potrebbe dire accademicamente (e Scott ha lavorato nell’Accademia),
da un ricco apparato di fonti à la Eliot e non certamente à la Pound.
E al fine di tenere a bada ogni sospetto di oscurità, in una nota alla
sua impresa successiva, Listening to the Candle, annunciata come la
seconda parte di un vero e proprio trittico da completare, Scott invita
il lettore a cercare nella sua opera «a pleasurable rather than a disci-
plined experience», avvertendo:
Il senso di contestualità che i marginalia sono intesi a creare non richiede
una decifrazione immediata: ciò che è inizialmente oscuro può restare oscu-
ro fino a che il lettore lo desidera. In particolare, ciò è vero di Candle, un
poema che medita ai margini della lingua e della coscienza, «ottenebrando»
e al contempo illuminando.
Egli ci invita così a usufruire allo stesso modo di luci e ombre della
creazione come dell’espressione poetica: pure l’«oscurità» è un’espe-
rienza utile alla poesia (e Pound lo insegna). È infatti alla candela che
244 NOVECENTO POETICO AMERICANO
and excoriation // mining the lithographic stone / again and again / for
what was not within it». E questo lavoro sulle «iscrizioni e re-iscrizio-
ni» della nostra «cultura corrotta» diventa per Scott «excavation / of
the unlimited future / disclosing the geology / of the original heart».
Grazie, dunque, all’aspirazione a scoprire la geologia del cuore ori-
ginario (se mai sia possibile!) attraverso gli infiniti scavi del futuro che
generazioni di poeti del passato hanno fatto, in Listening to the Candle
tutte le lezioni sono presenti. E non solo quelle dei grandi moderni-
sti, dei romantici e dei classici antichi (Omero, Ovidio, Virgilio, Dante,
Confucio, Mencio, i Salmi), ma anche quelle dei poeti della generazio-
ne stessa di Scott (i discepoli americani del moderno: Robert Creeley,
Richard Wilbur, Gary Snyder, Allen Ginsberg, Adrianne Rich, Robert
Duncan, Sylvia Plath, Theodore Roethke), e quelle dei postcoloniali (V.
S. Naipul, Edward Said), magari illuminate da Shakespeare e Montaigne
con la loro seminale storia di Calibano (in II. iv), e infine quelle dei cana-
desi (Northrop Frye e F. R. Scott, il padre, e di Leonard Cohen, Louis
Dudek, Paul Emile Borduas, George Woodcock, Mark Lescarbot).
Sulla lezione canadese va letta la lirica dedicata al «Rinascimento
di Montreal» degli anni ’40 e ’50 (in III. iii), realizzato con difficol-
tà nella cecità del contesto: «My father had come back / to civilize
Montreal / with Medici prints / the sepia del Sarto / the Blue Boy in
blue». A quell’epoca, ancora retrò, si trattò, senza dubbio, di un tenta-
tivo patriottico di conciliare «in this contrée … où tout se tait» (André
Breton) lingue e religioni in crisi di convivenza e rivolgere le loro po-
tenzialità all’accoglienza di una nuova poetica, come quella sostenuta
da Eliot della poesia come «estinzione della personalità». Un affare
difficile da concretare in una nazione in essere (e in una città bilingue),
culturalmente passatista e etnicamente divisa tra francesi e inglesi:
but no one from the States
can imagine what this illusion
of totality was like
to have written not just for the sake
of self-expression or for that
matter the extinction of personality
but from the needs of a mute
246 NOVECENTO POETICO AMERICANO
community to be distinguished
by a spirit of engagement
with an alien tradition
that ambivalence towards the past
which once led Virgil to refine
the arts of others (meaning the Greeks)
or Spenser to recreate
and then destroy in vengeance
his Italianate Bower of Blisse
(«Ma nessun Statunitense / può immaginare cosa significò / quest’illusione
di totalità / l’aver scritto non proprio in nome / dell’autoespressione, o siamo
/ lì, dell’estinzione della personalità / ma per le necessità di una comunità //
muta che deve distinguersi / con spirito di coinvolgimento / in una tradi-
zione aliena // la stessa ambivalenza verso il passato / che un tempo portò
Virgilio a rifinire / le arti di altri (intendendo i Greci) // o Spenser a ricreare
/ e poi distruggere con vendetta / il suo italianizzato Verziere delle delizie»).
Insomma, è la discendenza assieme allo strappo dal passato che
porta infine una comunità a esprimere una propria identità lettera-
ria. Su tematiche analoghe, altrettanto incisive sono le spigolature
da Anatomy of Criticism di Frye (in II. iv), nella cui conclusione Frye
cita Rousseau, esortando a «re-establish / the original society / of na-
ture and reason // now overlaid by the / corruptions of civilization /
with a sufficiently corageous // revolutionary act», parole ardite che
Scott commenta e illumina con il pensiero di Auerbach, filtrato tra-
mite Naipaul e Said (in II. vi): «our philological home / is the earth //
can no longer be the nation». Nel suo Filologia e letteratura mondiale
(1952), Auerbach aveva infatti scritto: «La nostra patria filologica è la
terra; non può più essere la nazione. Le lingue e la cultura della pro-
pria nazione che il filologo eredita, costituiscono certamente tuttora il
suo patrimonio più prezioso e irrinunciabile, ma solo distinguendole e
al contempo superandole, esse guadagnano il loro effetto». Tali acco-
stamenti sembrerebbero mossi dall’esigenza (tutta nostra contempo-
ranea) che Scott ha di andare oltre i nazionalismi creatisi negli spazi
dell’ex impero, ovvero oltre gli orgogliosi irredentismi culturali che,
pur attivi nelle loro minimizzate e sottovalutate antropologie etnico-
POSTCOLONIALISMI 247
seamus heaney
irlanda e classicismo
incontro con l’ombra del padre morto nel 1986. In questa sua versione
egli fa risuonare echi da The Waste Land, in sincronia con il passato di
Eliot e il futuro, rappresentato, in questo caso, dal tempo dello stesso
Heaney. Mi riferisco, in particolare, a quel foresuffered (presofferto),
pronunciato da Tiresia in Il ramo d’oro, uno stralcio di traduzione
dall’Eneide di Virgilio, raccolto in Vedere le cose (1991, 1997) e inclu-
so solo parzialmente nell’edizione Meridiano: «Heroic Aeneas began:
“No ordeal, O Priestess, / That you can imagine would ever surprise
me / For already I have foreseen and foresuffered all (…)”».
E di una discesa agli Inferi – questa volta nella torba natale – si può
parlare anche a proposito delle numerose liriche sull’età megalitica
dell’Irlanda, un’età primigenia, precedente a quella celtica, e quindi
da assumere come unica dimensione storica oggi acquisibile. Ne è
esempio Regina della torbiera (in Nord), una poesia che ricostruisce la
storia, risalente al 1798, del ritrovamento nella contea di Down dello
scheletro di una donna vestita con ricchezza e ornata da un diadema
da regina. A essa è affidato il racconto della sua riemersione alla luce,
evento che ella vive con un misto di felicità risorta e di dolore subìto
dalla violenza dello scavo:
La carie attaccò il mio diadema,
gemme preziose caddero
nella banchisa di torba
come le connessioni della storia. (…)
Il mio teschio ibernava
nel nido bagnato dei miei capelli.
Che saccheggiarono.
Fui rasata
e spogliata
dalla vanga di un tagliatore di torba
che mi coprì di nuovo (…)
Finché lo corruppe la moglie di un pari.
La treccia dei miei capelli,
cordone ombelicale
di torbiera, era stata recisa
252 NOVECENTO POETICO AMERICANO
infatti andiamo a rileggere The Waste Land, si vedrà che qui Enea sta
indossando i panni di Tiresia: «(And I Tiresias have foresuffered all)»
(v. 243). Tuttavia, non si deve intendere che l’eroe troiano, volto ad alte
imprese, voglia immedesimarsi nell’avvizzito voyeur Tiresia – destitui-
to da Eliot, fra l’altro, della sua funzione sacra e arcana –, nonostante,
davanti alla Sibilla profetica, Enea stia egli stesso facendo il profeta
che sa di aver già colto e ‘considerato nell’animo tutto’ quel che ha da
avvenire. Si tratta semplicemente di un’eco (un hapax di Eliot: foresuf-
fered) che a Heaney fa comodo o di cui non s’accorge (difficile!), un’e-
co che va a investire la situazione virgiliana di una coscienza moderna,
di una scrittura di sofferenza personale (autobiografica), del sentore di
una contemporaneità desolante (il moderno Tiresia non vede l’eroico
ma il volgare), la stessa che sortirà col tempo dal futuro (il coloniali-
smo moderno) della fondazione imperialista di Enea (e l’Irlanda, sog-
getta all’Inghilterra fino ad almeno il 1922, ne sa qualcosa!). Insomma,
quella piccola libertà che Heaney si concede riesce a conferire all’ori-
ginale un’altra aura, frutto di una sfumatura che ne altera l’atmosfera,
per consegnarla mutata a un nuovo secolo.
Bene hanno fatto i traduttori a cavarsela con un «già sofferto tut-
to» (che non c’è, appunto, nel testo virgiliano), sebbene, per restare
in linea con la citazione eliotiana che cambia un pochino (più che un
pochino) il target della restituzione, la resa giusta sarebbe stata «pre-
sofferto tutto». Quanto alla non «orrenda» Sibilla – parodiata in The
Waste Land nella «cartomante» Madame Sosostris – la cassazione ri-
entra negli effetti voluti da Eliot per il suo poemetto. La sua Sibilla è
da lui nobilitata (di contro alla sua stessa moderna Madame Sosostris,
che non legge foglie sibilline ma Tarocchi!), e autorizzata a parlare,
non tanto per le sue capacità divinatorie, ma perché lei, ai ragazzini
che la irridono, risponde soltanto «voglio morire».
Assistere a giorni di decadente desolazione (e persino con il
Satyricon già ci siamo!) è come continuare a subire una non-morte che,
nella sua ormai grinzosa immortalità, per lei – un tempo bella, giova-
ne e amata (da Apollo) – è irrimediabilmente solo una sterile morte
«spirituale», com’è in effetti spirituale quella dei moderni «morti» alla
«vita» di Eliot. La vecchia Cumana, rimpicciolita in un’ampolla, che in
Petronio desidera solo morire, non è «orrenda», e ha una funzione si-
258 NOVECENTO POETICO AMERICANO
3. Fu negli Stati Uniti, dove studiavo, consegnando, fra altro duro la-
voro e un impegnativo esame finale, un paper su At Swim-Two-Birds
(1939) di Flann O’Brian, che lessi per la prima volta di Sweeney, un
personaggio storico dell’Irlanda celtica, più volte reinventato. Il compi-
to fu pure facile: il romanzo era brioso (mi ricordava Il barone rampante
di Calvino), benché della malinconia – uno spleen struggente, estremo
– dell’originale, At Swim-Two-Birds non avesse nulla. Tornata a casa
e all’università, nessuno sapeva chi fosse Sweeney e chi fosse Flann
O’Brian. Ebbene, fu così che O’Brian inaugurò il mio curriculum. Nel
prosieguo degli anni, avrei rincontrato Sweeney nella poesia dell’im-
peccabile T. S. Eliot, e – curiosamente – in raffigurazioni non proprio
edificanti, ma bisogna riconoscere che negli Stati Uniti Sweeney è un
cognome frequente di origine scoto-irlandese. Anche tramite Eliot, via
via a Sweeney e alle sue mascherature mi andavo ormai abituando.
Ora me lo ritrovo qui, Sweeney (l’originale?), sulla scrivania, nel-
la sua versione filologica sino ad ora standard (è proprio così?), con
testo a fronte, tradotta in inglese e un po’ sfoltita, dice il curatore,
dallo stesso Seamus Heaney. È Sweeney smarrito (Astray) a cura di
Marco Sonzogni, pubblicato presso Archinto nel 2019. Che sia l’origi-
nale Buile Swibhne, poema composto fra il 1200 e il 1500, «una delle
massime opere del canone letterario medievale», sostiene Heaney, lo
dice una Prima postilla (anonima, come una Seconda postilla in ex-
plicit) nel solo italiano, che mi pare opportuno citare: «La storia di
Sweeney inizia a circolare tra l’VIII e il IX secolo in testi di vario tipo,
principalmente in versi, tra cui annotazioni dell’amanuense a margine
di altri scritti. Come, per esempio, Prima postilla, “ripresa dal copista
in una abbazia pavese: Impugna la penna come una vanga, / Continua
il primo solco lasciato / dal margine giustificato / dentro la pagina”».
A rileggere qui risuona un bel pasticcio! Questa sarebbe una postil-
POSTCOLONIALISMI 259
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
margaret atwood
discese agli inferi
Che «la dea che uccide per piacere / voglia anche guarire, / che in
mezzo al tuo incubo, / l’ultimo, un leone gentile / arrivi con le bende
in bocca / e il morbido corpo di una donna, / e ti lecchi via la febbre, /
e prenda con garbo la tua anima per la collottola / e ti accarezzi fino al
buio e al paradiso». Chi parla qui, nella poesia eponima, è Sekhmet, la
dea egizia dalla testa di leone e il corpo di donna, la «Possente», capa-
ce di distruzioni e pestilenze, e la «Guaritrice», colei che provvede alla
rigenerazione dell’umanità. Margaret Atwood le presta la voce in una
sala del Metropolitan Museum e affida a lei, benché ormai prigioniera
dell’impotenza, la speranza del messaggio salvifico della poesia.
Se gli dei ci hanno lasciato o sono stati neutralizzati dagli idoli della
modernità, al poeta deve restare una fede, o almeno il culto della parola
«riparatrice». È per questo che la poesia, come la bellezza, è difficile.
Atwood lo sa. Tanto più che il processo poetico per lei nasce dal «sotto-
suolo» (underground) non da ispirazione celeste, e comporta una «disce-
sa agli inferi». Lo prova la voce millenaria di Sekhmet in Morning in the
Burned House (Mattino nella casa bruciata, 2007), una raccolta di versi
del 1995 che, grazie a Giorgia Sensi e Andrea Sirotti, vede la luce in ita-
liano in coincidenza con la pubblicazione a Toronto di The Door. A do-
dici anni di distanza, dunque, la prima donna del Canada torna di nuo-
vo alla poesia, un ritorno difficile, perché il viaggio agli inferi del poeta
non sempre è praticabile, e soprattutto implica sofferenza. Qualcosa è
mutato nell’esercizio della sua vena più autentica e identitaria.
Infatti, nei primi vent’anni della sua carriera ella si è distinta come
poetessa piuttosto che come brillante e premiata autrice di romanzi. Un
dono speciale la possedeva, un’abilità istintiva (per lo più dissociata dall’e-
sperienza del canone lirico novecentesco) nell’articolazione di ritmo,
assonanze, misura del verso, struttura sillabica, parola giusta, metafore
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
266 NOVECENTO POETICO AMERICANO
tesse sono finite nel suicidio), oppure troppo facile, una soluzione che,
comunque, negli anni (Atwood è nata nel 1939), non l’ha allontanata dal
varco nel tunnel oscuro. Se la «bellezza è difficile» (sostenevano Pound
e Yeats), la buona poesia lo è ancora di più, e matura con lo stillicidio
calcareo sulla dura roccia, e nel tormento della ricerca della perfezione.
Tanto atteso quanto sorvolato dalla critica, e forse travolto dall’in-
tensa produzione narrativa dell’altra mano – la destra – di Atwood,
Mattino nella casa bruciata – e il «mattino» («morning») fa risuonare,
in inglese, l’eco del lutto, del lamento funebre («mourning») – è, nono-
stante il variegato mosaico di voci e fantasmi che vi si agitano, un’ele-
gia per la morte del padre, cui si dedica la quarta – la più folta e la più
canadese – delle cinque sezioni. Qui è il cuore pulsante e qualitativo
del volume, un centro immacolato che, mentre la casa/il mondo bru-
cia, lievita verso l’alto tanto quanto più si degrada la scena di contorno.
Quest’ultima è allestita su un palcoscenico surreale dove, assieme alla
ricorrente silhouette dell’io poetante, monologano delle postmoderne
Dafne/Laura, Cressida, Elena, Ava Gardner, l’Olympia. Il mito classi-
co, tanto coltivato agli esordi, non regge più, o è stato vampirizzato dai
miti della modernità di massa e non.
In Mattino nella casa bruciata, incarnate in simulacri mondani, le
ombre decadute di archetipi, antichi e recenti, vivono una vita di grot-
tesco contrappasso nell’Inferno dell’ethos/Geist della nostra contem-
poraneità. In Elena di Troia balla sul bancone, Elena si accontenta di
un mestiere equivoco:
Il mondo è pieno di donne
pronte a dirmi che dovrei vergognarmi
se solo potessero. Smetti di ballare.
Ritrova il tuo contegno
e un lavoro normale.
Certo. E il minimo sindacale,
e le vene varicose a stare in piedi per otto ore
dietro il solito bancone di vetro
imbacuccata fino al collo, anziché
nuda come un hamburger.
A vendere guanti, o cose del genere
invece di quel che vendo io.
268 NOVECENTO POETICO AMERICANO
door swings open: O god of hinges, / god of long voyages, / you have kept
faith. / It’s dark in there, / You confide yourself to the darkness. / You step
in. / The door swings closed»).
Atwood la vede chiudersi alle spalle nel buio, quella porta.
Tuttavia, nonostante l’invocato «dio dei cardini» (Giano), chi go-
verna questo passaggio è piuttosto la dea Cardea, della quale parla
Ovidio nei Fasti (VI, 101-102), amante o sposa di Giano, e comunque
la sua compagna nel governo delle soglie e di quei cardini, dai quali
ella prende il nome, per diventare protrettrice della salute e della
casa. È la dea che, «con il suo potere, apre ciò che è chiuso e chiude
ciò che è aperto». Margaret Atwood conosce bene Ovidio, e quindi,
come dimostra il dettato immaginoso di questa lirica eponima, sa
che è lei, Cardea, la dea che sorveglierà in un futuro lontano anche
la sua soglia.
(Alias, febbraio 2012)
louise glück
giardini dell’anima
eavan boland
sincronie
suo parlare comune, che fa di Boland una voce interessante nel pano-
rama contemporaneo, soprattutto per le sue revisioni sincretiche. La
tradizionale rappresentazione bardica dell’Irlanda come figura fem-
minile, nella variante della giovane eroina (Cathleen Ní Houlihan) o,
molto più spesso, dell’umile vecchia (Shan Van Vocht, o la «lattaia»
di Joyce), o nella regina della torbiera di Heaney, domina la sua scrit-
tura dove la genitrice celtica prova a raccontarsi per la prima volta
con la voce più aderente di una donna: «Dapprima / fui terra» – dice
Madre Irlanda:
mi sdraiai sulla schiena per essere campi
e quando mi girai
su un fianco
fui colle
sotto gelide stelle.
Non vedevo.
Ero vista,
notte e giorno
le parole mi cadevano addosso.
Semi. Gocce di pioggia.
Schegge di brina.
Da una di queste
appresi il mio nome.
Mi alzai. Lo ricordai.
Ora potevo raccontare la mia storia.
Era diversa
dalla storia che si raccontava su di me.
(«At first / I was land / I lay on my back to be fields / and when I turned /
on my side / I was a hill / under freezing stars. / I did not see. / I was seen, /
night and day / words fell on me. / Seeds. Raindrops. / Chips of frost. / From
one of them / I learned my name. / I rose up. I remembered it. / Now I could
tell my story. / It was different / from the story told about me»).
Anche qui, come in Heaney, c’è da registrare una sorta di rina-
scita, di ‘resurrezione’ della voce. «Sono stata una voce», dice infine
Anna Liffey. Il riscatto della parola richiede difficili traduzioni dalla
lingua patriarcale. Anna Liffey, un «fiume nella sua città natale», si
spoglia della leggenda e si specchia nella figura di una «donna sull’u-
VOCI FEMMINILI 277
marilyn annucci
italianamericana
lo tocchi, (…)
Allunga il bel braccio
in un gesto che dice FERMATI.
Ma perché? Sembra chiedere Maddalena
nel volgersi verso di lui.
Questo non è affatto il Gesù sacerdotale
sulla Via di Emmaus, con occhi al cielo
mentre spezza il pane con i discepoli,
ma un insolito Gesù voluttuoso (…)
Cosa c’è di più grande
di questo? Il corpo
sontuoso:
Resta,
Non salvarci.
Salvaci.
Ed ecco la poesia eponima The Arrows That Choose Us:
Quelle che si librano su di noi, costringendoci
a vivere o amare o a farci mangiare dalla morte
sono più piccole delle felci, più alte delle capre,
più rosse del sangue, fredde come neve dentro la neve
dentro grotte di roccia o ombre o
l’inferno di un giardino. Esistono nel fango, in un cielo
oltre il cielo, in una mente che non vuole fermarsi,
nella luce bianca di dove il dovere ci chiama,
dove si scalpellano tunnel,
dove strane creature avanzano
con nere ossa, artigli, parole, il pungolo del desiderio,
o cos’altro sia necessario per destarci in lacerti.
Ebbene, non si può certo dire che le fantasie poetiche di Annucci
siano tranquille per sentirsi così accanitamente vittima di frecce male-
vole! In compenso, vale la pena apprezzare (anche in italiano) le qualità
retoriche della sua poesia, l’andamento veloce iniettato dalla deissi, le im-
magini sinestetiche, le iterazioni allitteranti, l’enjambment. «I am a very
sound-driven poet, very precise about the language I choose, and where
I break my lines», così Marilyn mi ha scritto il 6 febbraio 2019 in risposta
alla mia domanda sul suo apprendistato come poeta, aggiungendo che gli
282 NOVECENTO POETICO AMERICANO
autori ai quali si sente più vicina sono i metafisici del Seicento e, è ovvio,
Emily Dickinson. In quella occasione si raccomandò che le traduzioni in
italiano non stravolgessero l’originale, nonostante riconoscesse che «ev-
ery translation becomes its own poem apart from the original».
Sarà da aggiungere qualcosa di più sull’italianità di Marilyn Annuc-
ci, al di là delle tante personae che ella indossa nelle sue poesie. La storia
delle sue origini italiane, in verità, è davvero molto complicata. Breve-
mente, qui si dirà che i nonni paterni venivano da un paesino vicino a
Caserta, che si stabilirono prima a New York e poi a Brooklyn, dove
crebbe suo padre prima di arruolarsi, a 17 anni, per la guerra, destina-
to dall’esercito al fronte del Pacifico. Al suo ritorno aprì un negozietto
per scaricatori di porto. Marilyn ha vissuto poco con il padre e la sua
famiglia. Il padre era un uomo molto difficile e molto maschilista. Aveva
sposato sua madre, una irlandese americana, per poi abbandonarla. La
madre, per di più era orfana, e fu adottata da due italiani di Firenze.
Marylin ricorda bene quella sua unica visita in Italia a Firenze con i
genitori addottivi, ai quali è rimasta sempre legata, nonostante qualche
dissapore con la madre a proposito della conduzione della sua vita pri-
vata, che oggi, Marilyn condivide con una compagna.
Infanzia difficile, dunque, per una donna che la poesia ha libera-
to delle sue disavventure infantili e adolescenziali. Ma il suo fortune
cookie ha promesso bene, quando dice: «Your life will soon be // graced
with happiness».
(Italian Americana, inverno 2019)
anne carson
in agrodolce
Siamo quello che leggiamo, afferma, più o meno, Anne Carson in un’in-
tervista alla «White Review» del 2017, volendo significare che non c’è
alcun diaframma interposto fra chi legge e la materia di cui si legge. Di
conseguenza, la lettura sarebbe parte di un processo in cui ciascuno di
noi diventa, a suo modo, Virginia Woolf o Pascal, George Eliot o Sofocle,
VOCI FEMMINILI 283
e questo perché veniamo catapultati nel cuore del mondo dei libri e dei
loro autori con un vigore così trascinante da prestarci a convergere in-
sieme in un’osmosi tenace. E ciò a dispetto dell’epoca globalizzata in cui
viviamo, aggredita, com’è – nel bene e nel male –, da una comunicazione
tramite media digitali, impostisi ormai come i principali responsabili del-
la perdita di un sapere acquisibile in modo schietto, quello che ci mette in
sintonia (fisicamente, non virtualmente) con uno stato emotivo e – ideal-
mente – conoscitivo sia degli altri sia di noi stessi. Se così intende, ne con-
segue che Carson sembrerebbe battersi per un ritorno – magari assistito
digitalmente – alla tattilità della pagina (o della scena teatrale), alla sua
magica corrente attrattiva, capaci di sincronizzare la sympatheia tra entità
diverse, che resterebbero altrimenti distanti nel tempo o nello spazio.
Appassionata di Simon Weil, Virginia Woolf, Emily Brontë e degli
autori antichi (in particolare di Catullo), traduttrice dal greco (Saffo,
Sofocle, Eschilo, Euripide), vincitrice di numerosi premi e riconosci-
menti (a Berlino, alle università di Cornell e New York, a Toronto)
e a lungo docente di studi classici in istituzioni accademiche di alta
distinzione, Carson è emersa allo sguardo pubblico solo verso la metà
dell’ultimo decennio del Novecento, pubblicando, dopo alcuni volumi
apparsi in Canada (per esempio Odi et Amo, Ergo Sum del 1981), pres-
so la prestigiosa casa editrice New Directions di New York, la quale,
interessata al suo uso del Classico e a una versificazione del tutto sui
generis, finirà con l’adottarla per sempre.
A renderla celebre è però nel 1998 Autobiography of Red. A Novel
in Verse (nel 2000 in traduzione italiana), del quale nel 2013 esce
un presupposto seguito con Red Doc>. Appropriandosi di due eroi
dell’antichità, Carson riscrive la versione lacunosa di Stesicoro del
mito di Eracle e il mostro Gerione, al fine di proiettare i due mitici
giganti in due squinternati giovani gay dell’odierno Ontario, la terra
in cui ella è nata nel 1950, e vive tuttora. Abilmente ella sa attivare in
questo cosiddetto ‘romanzo’ l’interazione di autobiografia e mito, tem-
po antico e tempo presente, nonostante i suoi protagonisti non siano
nemici – come nel mito – ma due personalità attratte l’una dall’altra.
Essi infatti s’innamorano, si tradiscono a vicenda, si lasciano e si ritro-
vano, consumando così la loro intesa amorosa nel vortice spiraleggian-
te di un desiderio costantemente frustrato.
284 NOVECENTO POETICO AMERICANO
sato del suo paese e dell’Irlanda, entrambi buoni per una tipologia di
collage non certo riconducibile, come dimostra il luogo dell’incontro/
confronto, all’avanguardia primo-novecentesca (lo aveva già dimostra-
to Susan Howe).
Ma, per quanto simili e al contempo distanti, Carson e Howe si oc-
cupano entrambe di parole, e di parole che funzionano in modo nuo-
vo, con risultati di grande godimento e piacere intellettuale. Carson
tuttavia accarezza le parole del suo imponente dizionario (o dei suoi
dizionari) in modo diverso, ovvero, depositando enigmaticamente nel
loro seno il proprio personale arcano.
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
mary barnard
ancora saffismi
In uno dei suoi frammenti (il 147V), Saffo sembra annunciarci che nel
corso dei secoli qualcuno la ricorderà: «Tu puoi dimenticare // Ma
lasciami dire / questo: qualcuno in un / qualche tempo futuro / pen-
serà a noi» («You may forget but // Let me tell you / this: someone in /
some future time / will think of us»). Questa è – lo si può comprende-
re – l’ambizione di ogni poeta. Lo dice un po’ altezzosamente persino
Orazio: «non omnis moriar, multaque pars mei / vitabit Libitinam;
usque ego postera / crescam laude recens, dum Capitolium / scandet
cum tacita virgine pontifex» (Odi, 30, 6-9). È l’orgoglio di essere poeta
che Orazio qui vanta per sé: la dea Libitina, quella dei funerali, rispar-
mierà dall’oblio la sua opera (sempre «giovane»!), finché il Pontifex
delle cerimonie sacrali salirà al Campidoglio con una muta vergine.
È, in verità, un mutismo un po’ misterioso (forse quello dei miste-
ri ieratici), destinato a cadere in tempi moderni. Ma, evidentemente,
per Mary Barnard – nata a Vancouver (Washington State) nel 1909 e,
dopo vari soggiorni altrove, morta nella stessa città nel 2001 – quella
muta vergine continua ad essere una fedele compagna del sommo sa-
cerdote capitolino.
Barnard fu ai suoi tempi, e forse tuttora, nonostante l’entrata in
scena delle Saffo di Stanley Lombardo, di Anne Carson e di altri, la
‘muta’ e più affidabile traduttrice della prima poetessa greca – per in-
ciso, in America s’era diffusa la moda, seguita da Sara Teasdale, Edna
St. Vincent Millay e, naturalmente, sulla scia di A. C. Swinburne, da
Natalie Barney, Hilda Doolittle e Ezra Pound. Discendente da famiglia
di schietta origine del New England, approdata in America nel 1612,
Barnard fu una rappresentante di quel gruppo di scrittori e poeti nati
a Ovest (Edgar Lee Masters, Vachel Lindsay, Marianne Moore, T. S.
Eliot, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald) che, sull’onda dell’a-
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
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294 NOVECENTO POETICO AMERICANO
pertura dei nuovi territori e poi della guerra civile, nell’Ottocento ri-
spose al richiamo, invogliante anche per le antiche famiglie della costa
orientale, a imbarcarsi verso una nuova emigrazione, quella – questa
volta – diretta a Ovest in missione evangelizzante (gli Eliot) o in cerca di
un rinnovato benessere (i Fitzgerald). Non per tutti fu un’avventura ben
accolta (F. Scott Fitzgerald la subì, infatti, con indispettito disappunto).
Quanto a sé, Barnard racconta la sua ereditata odissea america-
na, ormai archetipica (perché coinvolgente un’inconsapevole coazione
del Sogno), nello splendido Nantucket Genesis. The Tale of My Tribe
(1988), dove si dedica una poesia a Herman Mellville con una citazio-
ne da Moby-Dick:
«Nantucket! Prendete la mappa e guardatela. Osservate quale angolino del
mondo occupa, lì lontano dalla costa, più solitaria del faro di Eddystone.
Guardatela – una mera collina e un gomito di sabbia, tutta spiaggia, senza
sfondo».
Così dice Melville, o dice Ismaele al suo posto.
Quattordici miglia in lunghezza, con un porto, paludi
e laghetti d’acqua dolce, la vegetazione a macchia:
quella era l’isola di Nantucket, unici pacifici
abitanti, Indiani ben disposti. Peter Folger aveva
già vissuto con loro, ne aveva imparato la lingua e
predicava loro il Vangelo. Quando gli fu detto di unirsi ai
coloni andò con moglie e figli, era molto richiesto se si creavano
problemi, e lui di tanto in tanto rispondeva alla chiamata.
I coloni avevano comprato la terra da Thomas Mayhew,
e lui, a sua volta, l’aveva comperata dai Nantucket.
Ciononostante, per confermare il loro diritto sulla terra
i coloni ricomprarono dai Nativi il diritto al possesso
per poi colonizzare un quarto dell’isola di Nantucket.
L’atto fu sottoscritto da Wanack-Mamack, il capo Sachem.
A parte questo pezzo di storia famigliare (i Barnard si erano inse-
diati a Nantucket), in anticipo sull’impareggiabile Susan Howe (della
quale Mary Barnard ebbe modo di conoscere il padre, Mark Howe),
Nantucket Genesis è un libro multimediale, in cui si mescola prosa,
poesia, documenti originali, riproduzioni manoscritte, disegni. È un
TRANSITI DI METÀ SECOLO 295
O questa Persefone:
Vissi come una talpa. C’erano
piatte scalinate sotterranee
verso colonne reggenti la terra e i suoi
narcisi. O dovremmo dire la facciata
del dove si cela il tesoro della terra?
Da lì in tutte le direzioni
si andava indefessi su bassi ciuffi d’erba
duri come cactus nel freddo acre.
Ghiacciati, i pontili del lago;
il vento assiduo, che avvoltolava i reconditi della terra,
non mi portava notizie.
Qui la nostalgia
si volge al crudo lavoro e alle cicatrici del suolo:
solchi, cave, legname fratto …
La sete che attira la gola è per un sangue caldo,
uno scambio con i vivi. E la fame—alla quale
(il lungo tavolo, l’offerta incerta
di frutta da perduti frutteti)
arrendersi significa morte.
Quante volte si è detto ai vivi,
conquista la fame! Se vuoi
tornare, su, su dove il sole bruciante cade
sulla roccia in fiore per annodare di nuovo ghirlande.
Persefone e l’Anadiomene sono vessillo resistente ai tempi, incrol-
labile in epoca soprattutto modernista. Barnard segue quella fedeltà
alle dee primigenie a modo suo, o al modo di Vancouver, dove ella
ha abitualmente vissuto. Ella trapianta lì, nella mitografia del mare
(Sea) di quei nativi (il loro Sachem aveva nome Seattle [Sea-ttle]) tutta
la loro ascendenza mediterranea. Al di là della poesia, altre opere,
è ovvio, la distinguono: The Mythmakers, un saggio sulla «mitogra-
fia» (1966), Three Fables (1948, 1975), tre fiabe amare, indirizzate alla
pratica della scrittura, Time and the White Tigress (1986), una medi-
tazione in versi sul nostro posto nell’universo, una ricerca di una «fe-
arful symmetry» pseudo-filosofica à la William Blake, decorata da
ingegnosi disegni, rifacimenti o adattamenti di artisti nativi, Navaho
TRANSITI DI METÀ SECOLO 297
charles olson
topografie di gloucester
legrini», primi residenti (dal 1620) di quel territorio non ancora svergi-
nato: John Endicott, John Winthrop, William Bradford, l’antinomia-
na Anne Hutchinson, e altri di diversa estrazione (yankee, anglicana),
come John Smith, il primo colonizzatore della Virginia. Maximus ha
il compito di ritrasmettere in versi i contenuti delle loro scoperte sotto
forma di «epistole», lettere, scritti in alfabeto (il primo alfabeto della
fondazione americana), primordiali alfabeti fenici. Maximus Poems,
un poema epico in forma epistolare, vicino al citazionismo dei Cantos
di Pound e di The Waste Land di Eliot, volto a una ricreazione della
città com’era prima della decadenza di un paese che, nel trascorrere
della Storia, si è svenduto al materialismo e al capitalismo, nel suo caso
persino nel mercato ittico (Lettera 26).
Una svendita già denunciata da Melville in Moby-Dick con lo ster-
minio delle balene a fini economici (nell’Ottocento si ricavava prezio-
so olio da combustione). D’altro canto, quaccheri e puritani avevano
una vocazione congenita per il mercantilismo, per di più richiesta dal
«charter» di concessione inglese per fondare colonie nel Nuovo Mondo,
allora concepite in termini di soli investimenti economici. È da questo
sistema che Max Weber fa nascere il capitalismo moderno. Una colonia
doveva produrre, e il New England, nato come porto di rifugio e di esi-
lio in difesa della libertà religiosa, scelse la via del mare (il commercio)
più che quella rurale di sviluppo a ovest. Nella Lettera 10, Olson si chie-
de: «sulla fondazione: fu il puritanesimo / o il pesce?». E nella Lettera
3, constatando il declino di Gloucester, dice: «parlo a uno qualsiasi di
voi (…) non a voi come cittadini / come i miei Tiriani avrebbero potuto
essere. La polis ora / è in pochi». Il mercante fenicio è ancora un buon
esempio di sano commercio, perduto in tempi moderni.
Non è un caso che in Walden («Economy») i Fenici siano indicati
da Thoreau come predecessori anche di mercantilismo. Nell’antichità
erano loro gli agenti di scambio del Mediterraneo, sebbene il loro com-
mercio fosse esente da una bassa negoziazione, anzi contribuì a diffon-
dere sani culti vegetativi. Lo ricorda Eliot nella Terra desolata, quando
dedica un’intera breve sezione a «Phlebas, il fenicio» posto in contrasto
con Mr. Eugenides (dal nome ironicamente allusivo), mercante di uva
passa a Londra nelle agenzie di cambio. E lo ricorda Pound nel Canto
40, dedicato in parte (inizia con Adam Smith) al periplo del cartaginese
302 NOVECENTO POETICO AMERICANO
roberto sanesi
bilancio di metà secolo
Come un frutto inaspettatamente maturo, negli anni della metà del se-
colo scorso appaiono in Italia tre distinte antologie di poesia americana
allora contemporanea. I rispettivi curatori – Carlo Izzo (1949), Alfredo
TRANSITI DI METÀ SECOLO 303
luigi ballerini
topografie di new york
in piena primavera
Mi metto i pantaloni di tutti i giorni
Lei invece se ne andrà a fare una passeggiata
E poi una nuotata
E quindi in biblioteca
A preparare l’esame
Un anno di latino
in bilico.
Cui si può contrapporre la visione dal basso dell’ultimo immigrato,
il portoricano Victor Hernández Cruz (classe 1949) in L’occhio Uptown
& Downtown (tre giorni):
1
Succedono sempre belle cose
per esempio
gatti che saltano di casa
in casa in silenzio.
2
la roba all’
angolo si smercia lentamente
dei tossici ballano
il boogaloo.
3
la testa di uno che dorme
spappolata
sull’asfalto
macchie di sangue sulle orecchie.
Da un Jean Dubuffet alla musica boogaloo e una testa spappolata,
le nicchie di New York riservano sempre qualche sorpresa (sia pure
oggi in tono minore), come fu più magicamente per Frank O’Hara,
eccetto forse che nel finale di questo scherzoso Petit poème en prose in
cui il poeta prende in giro il suo stesso modo di fare poesia:
ero di nuovo in città!
che sollievo!
TRANSITI DI METÀ SECOLO 311
frank o’hara
pop poetry
luigi ballerini
topografie del midwest
Una nebbia
fitta quanto l’ignoranza
del cuore, e dietro una moltitudine di uccelli
attutiti. de Chirico
cammina sulla sabbia;
la giacca color cioccolato funebri tendaggi da camera ardente
camicia bianca aperta sul collo
come ali (…)
Gli aborigeni hanno ragione.
La sua anima resterà sempre
nello specchio che si vede nella foto di Brandt.
La mia ombra cammina su Dearborn Street
in mezzo a una gazzarra di uccelli.
Dearborn (questo fu il primo nome di Chicago) Street è nel Loop,
il vorticoso e peccaminoso centro storico degli affari della metropoli
del Midwest: da Fullerton Ave. a Dearborn St. ne fa di strada questo
sognatore di de Chirico e di Bill Brandt.
Molte sono le trasposizioni dall’iconico al verbale, frequentate in
particolare da Paul Carroll e John Latta. Non mancano dichiarazioni
di estetica poetica in versi, come non manca la presenza di qualche
afroamericano (per esempio, l’ottimo C. S. Giscombe) e una visita di
saluto agli indiani delle praterie grazie alla divertente Against the Crow
Indians, dal tema difficile che l’autore, Merrill Gilfillan, gestisce con
briose argomentazioni ironicamente ribaltanti: «Voialtri che siete gli
unici in Nord America a portare / i pompadour e avete la fissa dei gio-
ielli / Voialtri che spendevate tutto in conchiglie / e mangiavate carne
di cane. / Voialtri che odiavate i Sioux che invece piacevano a tutti».
Il mito classico, pista battuta da Ralph Dickey, John Tipton e Devin
Johnston, viene generalmente trasfigurato in termini nuovi e un lin-
guaggio colloquiale. Per esempio con lo scanzonato e bel Re Mida di
Peter O’Leary, la cui fonte è data dalle Metamorfosi di Ovidio nella
traduzione di (addirittura!) Arthur Golding:
Orfeo è stato il maestro di Mida,
senza di lui il mondo mediterraneo è perso.
Si è avventurato in Frigia e ha suonato modi nuovi per quel villano
d’un re
320 NOVECENTO POETICO AMERICANO
mary de rachewiltz
lignaggi
grande periplo», una di quelle che ha saputo ascoltare «le voci dei vec-
chi che molto avevano patito». Insomma, a quanto essa stessa afferma,
Mary è un’ulisside, una figlia di Odisseo, anche se la sua poesia è una
poesia diversa e le sue traduzioni sono traduzioni diverse da quelle
dello stesso Pound, di T. S. Eliot, Richard Aldington, Hilda Doolittle
e di altri sodali della confraternita modernista.
Infatti, Mary de Rachewiltz, che la audience ha voluto relegare
sotto la mole dell’infinito poema del padre, ha molte traduzioni al
suo attivo, rimaste interrate, ahimè, nei cataloghi degli editori. A suo
estro essa ha, in genere, preferito muoversi su una selezione dall’ope-
ra di poeti del calibro di E. E. Cummings, James Laughlin, Robert
Duncan, Robinson Jeffers (del quale ha invece curato per intero The
Double-Axe, La bipenne), Denise Levertov e Hilda Doolittle. La scelta
sembra essere stata condotta spesso da rapporti consequenziali sot-
to cui corre il canone degli avanguardisti: Doolittle, infatti, potrebbe
aver aperto il varco a Duncan, il confidente degli ultimi anni di Hilda;
e Laughlin, che Mary ha conosciuto da bambina, a Cummings, dal
quale Laughlin è stato influenzato; da Cummings si ritornerebbe a
Pound; e da Pound la strada si riapre per lei automaticamente, come in
una catabasi, e quindi in un’anabasi, verso l’approdo più vagheggiato:
l’ombra paradisiaca di Hilda Doolittle («Clarità d’Artemide»), la dan-
tesca «donzella beata» che non ha mai potuto incontrare e della quale
ha approfondito la tormentata vicenda di vita tramite la figlia Perdita,
da lei ospitata più volte a Brunnenburg, nel castello nei pressi di Tirolo
di Merano, dove abita da tempo. Almeno da dopo il suo matrimonio
con l’egittologo Boris de Rachewiltz. Ma questa è un’altra storia.
Nella veste non di moglie o di figlia, la sua opera inizia quindi con
Hilda Doolittle. Ecco una lirica da Hermetic Definition (1972), tradot-
ta nel volumetto/strenna natalizia H. D., un omaggio in memoriam di
lei, pubblicato da Scheiwiller nel 1986:
… «sorgi, sorgi, rianima,
O Spirto, quest’arca piccolina, questo piccolo corpo
questa identità separata; piccola; dei mortali,
uno solo rendi immortale uno solo si svegli,
per accendere il rogo,
322 NOVECENTO POETICO AMERICANO
di clerica vagans, ovvero di una che ha ascoltato «le voci dei vecchi
che molto hanno patito» e sa pertanto essere poeta in proprio, e mette
in versi ciò che lei ama mettere in versi. Quel che conta è la qualità
dell’affetto. Il resto è scoria.
james laughlin
apprendistati
(«Let me bow down before / the altar of love let // me genuflect at the sa- /
cred place it’s useless // for you to protest that / this shrine is ordinary // and
common to all your / sex for me it’s the lo- // cus of the sacrament the / altar
where the ritual of // the Mysteries is enacted»).
Laughlin gioca con la grammatica, la punteggiatura e gli enjambe-
ment. E gioca, inoltre, con doppi sensi poco chiari, sulla divinità del
Tempio e, al contempo, la divinità del Tempio femminile del mistero
del sesso. Il Tempio di Rimini rappresenta misteriosamente un astrola-
bio di significato ermetico-pagano che nulla ha a che vedere con la pu-
rezza cristiana dell’ex chiesa di San Francesco, la odierna Cattedrale
di Rimini. Inoltre, nei suoi numerosi ornamenti e bassorilievi, per lo
più per mano di Agostino di Duccio, in quello spazio sacro si mette
in cifra anche l’amore profano per la bella Isotta degli Atti, l’amante
di Sigismondo, il condottiero quattrocentesco che fu il committente
della nuova chiesa. Ed è del suo altare più intimo, quello di Isotta, che
qui si sussurra.
Un medesimo gioco linguistico egli mette in campo in Comporta-
mento indecoroso (Shameful Behavior), tratta dal poemetto Paintings in
the Museums of Munich and Vienna. Così leggiamo nella prima delle
otto poesie:
Lot e la figlia di Cranach è
un dipinto così indecoroso
da non potersi descrivere
entrambi meritavano il rogo &
mentre lo fanno bevono anche!
L’ironia di questa lirica è grande, in particolare nel titolo, perché
nei pur non limpidi capovolgimenti contenutistici che sono oggetto di
questi versi, sembra che, sotto la mascheratura di un’ipocrita pruderie
vittoriana, qui si brindi al sesso, addirittura incestuoso, se leggiamo
bene la Bibbia. Il dipinto di Lucas Cranach il Vecchio nella Halte
Pinakothek di Monaco è Lot e le figlie (e non Lot e la figlia), le quali
sono ritratte come figlie premurose verso l’anziano padre. Su quella
seduta per terra Lot si inclina, mentre l’altra, isolata, in piedi e a di-
stanza, versa il vino in una ciotola. Questa separazione spaziale tra
TRANSITI DI METÀ SECOLO 331
le due scene forse spiega il titolo della poesia e del dipinto, che han-
no la loro fonte nel Genesi (19, 30-38), dove si racconta della fuga da
Sodoma dello sfortunato Lot e della sua famiglia. Dopo la trasforma-
zione della moglie in una statua di sale per aver guardato indietro a
Sodoma in fiamme, racconta il testo sacro, Lot resta solo con le figlie
e si rifugia, stanco, in una grotta. Per salvare il genere umano le due
ragazze decidono di ubriacare il padre e, a turno, giacciono con lui,
che si fa dunque, senza saperlo, padre incestuoso.
Pare inutile citare altre istanze simili da Paintings in the Museums
of Munich and Vienna (oltre a Cranach, Bruegel, Jan de Beer, Holbein,
Geertgen van Haarlem), perché sono tutte una bella canzonatura della
figura retorica dell’ekphrasis. Quando viaggiava, Laughlin era davvero
un gran burlone, diversamente dal suo Maestro e amico Ezra Pound.
Ma egli fu il Demodoco del suo Maestro, e lo amò molto. E questo è
quel che conta nella vita e nell’arte: essere un buono scriba e curare la
qualità dell’affetto. Il resto è scoria.
john ashbery
contro il morire
re dagli anni ’60, verseranno (spesso tragicamente) gli Stati Uniti, fino
ad assorbirli con sapienza e condivisione intellettuale. Secondo John
Bailey, John Ashbery è colui che più di ogni altro ha saputo intonarsi, a
modo suo, ai ritmi altalenanti del suo paese. Scomparsi ormai gli amici
di rango (W. H. Auden in primis, e quindi Dylan Thomas, Robert
Lowell, Elizabeth Bishop, e non ultimo O’Hara), Ashbery si è ritrova-
to solo al timone del vascello poetico ‘America’, imponendosi come il
più grande dei suoi giorni.
Nel suo prolungato tragitto, infatti, egli ha portato la ricerca sul
poema lungo (un obiettivo che ha ossessionato l’intero secolo) a risul-
tanze eccelse pari a quelle di Pound, Eliot, Williams e Stevens, e lo ha
fatto prima con l’abbagliante Self-Portrait in a Convex Mirror (1975),
ispirato al manierista Parmigianino, e poi con il vorticoso Flow Chart
(1991), un frammentato «piecemeal uncurling», che incorpora la mul-
ti-simultaneità dei nostri tempi. Il poeta riesce infatti a imbrigliare i
piccoli e i grandi eventi del quotidiano in associazioni pluridirezio-
nali, e lo fa per il tramite di una sorta di disconnesso ‘incollamento’
di voci, un caleidoscopio di espressioni, linguaggi, letture, notizie te-
levisive, pubblicità, gesti involontari, e automatismi. Una «poesia or-
ganizzata in nitidi stampi» (ovvero inchiodata a nodi concettuali non
fluttuanti), ha scritto Ashbery, «non rifletterebbe alcuna situazione»
odierna.
Ciò conferma la sua vecchia passione per il collage, praticato in tut-
ta la sua carriera secondo tecniche diversificate che, con l’eccezione di
alcuni elementi costanti provenienti in genere dal mondo dell’infanzia
(favole, favolette, fumetti, personaggi di Walt Disney, Popeye, Duffy
Duck, un Pollicino) lo portano a creare collage sempre dissimili, ela-
borati sul ritmo degli stimoli che si sono avvicendati in quarant’an-
ni, fenomeni che si re-intellettualizzano in una visione personale.
Tuttavia, dietro il suo continuo gioco verbale in assonanza con il gioco
della vita che scorre, ciò che trionfa nella sua poesia è la solitudine,
non lenita neanche dagli echi vivaci delle strade della sua New York,
o dalle voci assorbite in quelle sale cinematografiche di serie B di cui
Ashbery amava abbuffarsi.
Percorrendo una via «that diverged from the true way» (un furto
da Robert Frost), Flow Chart non intende fermarsi, vuole, per strana
TRANSITI DI METÀ SECOLO 333
senza mai fine – soffre. Tuttavia, si badi, proprio in questa lenta con-
sunzione, Ashbery trova vitalità e sempre nuova vita e, dunque, una
esistenza prolungata paradossalmente ad libitum.
È la crescita della ‘vita in morte’ che bisogna salvare e salvaguar-
dare per tamponare la ‘morte in vita’ della Waste Land e degli Hollow
Men di Eliot. Ashbery è ormai un uomo anziano quando scrive questi
versi. Si può pertanto capire quale fede ponga nel «To be / continued»
– con un ironico enjambement di rottura proprio sull’andamento del
run-on line del verso che si spezza in due e continua, andando a intru-
folarsi nel verso successivo –, una continuazione che assicura crescita
attraverso nuove fantasie, sorprese, nuove scoperte e acquisizioni, il
vero antidoto, non la panacea, alla dissoluzione («In the meantime,
look sharp and sharply at what is around you; there is / always the
possibility something may come of something, and that is our fondest
wish»). D’altro canto, è destino del poema lungo americano quello
di essere ininterrotto, interrotto e non concluso («To be / continued»)
da una volgare morte. Si pensi ai Cantos di Pound, al Paterson di W.
C. Williams, alle Notes Towards a Supreme Fiction di Stevens: capo-
lavori non finiti. Si ricordi, di coté, quel che soleva dire il Constantin
Brancusi di Pound: «je peux commencer / une chose tous les jours
mais / fiinir». Essere promessi a non finire mai, e non solo per meritata
sopravvivenza presso i posteri, ma per mantenersi in vita con l’ascen-
sione sull’asse della nostra cultura («the seriously steep escalator of
destiny that only lurches upward / ever unsatsified»), è un segnale per
una buona convivenza con la posterità.
Pertanto, non ci si consegna alla morte, non le si va incontro a brac-
cia aperte, caso mai sarà lei a sorprendere noi vivi, magari mentre sia-
mo in ozio o ancora indaffarati in faccende domestiche. Un concetto,
questo della resistenza a una forza bruta e innaturale come la morte,
che vale per Emily Dickinson (specialmente nella poesia 479) quan-
to per il nostro Giorgio Caproni, il quale, nella veste dello «scemo
del paese», può affermare a sua volta «La morte non mi avrà vivo».
Quindi, diversamente da Auden, che si arriccia «come un gamberetto»
nel grembo di una Madonna per lasciarsi scivolare nel buio dell’ultima
ninnananna, lo sberleffo alla Morte quale compagna di vita nemica
per Ashbery è illusoriamente l’azzardo vincente. Non sarà un caso che
TRANSITI DI METÀ SECOLO 335
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
mark strand
nitore e morte
Caterina Ricciardi, Novecento poetico americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
ISBN (stampa) 978-88-9359-503-2 (e-book) 978-88-9359-504-9 – www.storiaeletteratura.it
340 NOVECENTO POETICO AMERICANO
3. Nonostante il suo nitore linguistico, Mark Strand non è poeta di fa-
cile accesso. Amaro e ironico cantore della ‘non-condizione’ dell’essere
nel mondo, egli spesso si maschera da poeta insonne e notturno, armato
contro l’ineffabile di un’irrisione ghignante, pseudo-salvifica o catartica.
Solo in apparenza chiuso in una torre di vetro, Strand guarda lontano e
medita sulla realtà (come faceva in termini meno surreali e annientanti
Wallace Stevens), elaborando ipotesi sull’universo esistenziale, solita-
mente da lui fermate in placidi (e tanto più sconcertanti) incontri con il
nulla e la sua sodale, la Morte. «O mia compagna, mia stupenda morte,
/ mio paradiso nero, mia droga antiquata, / mia musa simbolista, dam-
mi il tuo seno / o la mano o la lingua che dorme tutto il giorno / den-
tro quella muraglia di gengive rossastre»: così scriveva in Porto oscuro
(1993), facendosi gioco del decadente e snervato simbolismo fin de siècle.
Questo sguardo irridente ha nutrito la vena più autografa di Strand
negli ultimi due decenni. Ed è in tale sprezzatura (metafisica piuttosto
che disincantata) della durezza dell’esistere che sembra di poter nota-
re un’agonale convivenza sia con l’imperscrutabilità del reale sia con
la vita stessa, o con la non-vita di un qualche spazio oltre cortina: uno
sberleffo pacatamente faustiano su un terreno di rappresentazione de-
motico, alimentato dal commercio con il limite estremo, ai confini di
ogni immaginabile paesaggio. Strand si diverte a esplorare l’esperienza
del vivere in modalità liriche deadpan, che si appoggiano a chiuse in
punch-line – freddamente, o con freddura: un’arma di autodifesa af-
filata – senza manifestare traumi apparenti e con un personalissimo
gusto per il «black humor», che si fa sferzata vincente.
Rispetto alle ultime raccolte (dialogate per lo più con il personag-
gio «Morte»), la ricerca poetico-esistenziale di Strand continua in tale
direzione ma in termini sempre più brillanti nell’impiego virtuosistico
di un wit, un’arguzia, incandescente. Di fronte alla commedia dell’as-
surdo che è l’esistere nel mondo, e nel mondo di oggi, il poeta, che
coraggiosamente discende nei sottosuoli dell’anima e del reale, non è
affatto rassegnato a farsi fermare da un silenzio beckettiano. L’intento
è quello di interrogare entità inconoscibili, aprire porte proibite, come
fecero altri in altri tempi e con altre allegorie, e altri intenti, incluso
l’intento audace di ritornare a rivedere la luce. L’accostamento non è
azzardato: le bufere infernali flagellano anche i suoi ‘dannati’.
ULTIMI FRUTTI 349
charles simic
spots allucinogeni
«Un cane con le ali», ricorda Charles Simic in una breve poesia am-
bientata nel New Hampshire: «Ecco ciò che continuo a vedere! / La
notte che scende. Un cane con le ali». Epifanie di questo tipo non
sono rare nell’opera ormai corposa del poeta laureato degli Stati Uniti
nel 2007. Egli è cultore dell’immagine ‘profonda’, onirica, sinistra o
comica, lubrica, in apparenza illogica, refrattaria alla gabbia del senso,
che fa sortire da contesti di vita ordinaria. Ma nella poesia intitolata
Due Cani (l’altro invece di volare ha paura della sua ombra) la visione
angelicamente trasfigurata à la Chagall non è frutto di elaborazione re-
torica, né di catasterismo mitografico, bensì memoria indelebile («ciò
che continuo a vedere») di un evento vissuto nell’infanzia trascorsa
nella nativa Belgrado durante la guerra.
Malcapitato fra i piedi di uno squadrone di soldati tedeschi in mar-
cia, un cagnolino vola in cielo scalciato da un colpo ben assestato. La sua
guerra sarebbe finita lì, in quel cielo o sul quel selciato, se un bambino
non avesse contestualmente esperito in una vicenda di contorno i primi
elementi di una metamorfosi surrealistica della tragicità del reale. Sarà
forse da riporre in questo episodio autobiografico il seme di una pratica
poetica e di una visione del mondo maturata invece in cinquant’anni
di vita ‘pragmatica’ negli Stati Uniti, dove Simic approda sedicenne nel
1954 quale «displaced person» (uno dei tanti dalla Jugoslavia in quegli
anni), né esule né immigrato, ma, come egli ha affermato, «prodotto
della storia; Hitler e Stalin furono i miei agenti di viaggio. Se non ci
fossero stati loro, sarei rimasto sulla strada dove sono nato».
Non è un caso, di conseguenza, che, dopo l’esordio nel 1967, il
poeta Simic cresca in sordina (c’è un Pulitzer solo nel 1990), fra New
York, Chicago e il New Hampshire, e in qualche modo ‘dislocato’,
platealmente, nonostante certi contatti (W. S. Merwin e Robert Bly) e
dichiarate affiliazioni (gli opposti: Wallace Stevens e Frank O’Hara),
più fuori che dentro la tradizione americana, fra un pugno di inclas-
sificabili ‘dissidenti’, prima di essere più correttamente riconosciuto
solo a fine secolo vicino a un ristretto nucleo di poeti – Mark Strand,
352 NOVECENTO POETICO AMERICANO
Charles Wright, James Tate – con alcuni dei quali condivide il tratto
metafisico/surrealista, che Simic inasprisce con uno humor scomodo,
perturbante. Scrivo, ha dichiarato egli stesso, «per annoiare Dio e far
ridere la Morte», credendo poco in una vocazione consolatoria, o ripa-
ratrice, del gesto poetico, cui però egli prova ad assegnare il compito
di svolgere una diversa funzione sapienziale e catartica.
Tuttora consapevole egli stesso dell’opacità della sua collocazione,
è facile leggere Simic come un ibrido epigone di scrittura di fonda-
menti europei con radici slave (ha tradotto dal serbo) e innesti nord
e sudamericani. Eppure la tentazione di riconoscerlo araldo, assieme
a pochi altri, di una percezione sempre più in chiave ‘neosurrealista’
della condizione psico-culturale del suo paese di adozione sembra oggi
altrettanto appropriata. Pur con qualche cedimento, Club Midnight,
che segue a sei anni di distanza Hotel Insonnia, il primo volume di
Simic ad apparire in Italia nel 2002, offre materia provocante per ri-
flettere su un sensibile ripiegamento del discorso poetico americano
verso sentieri meno praticati (se non addirittura alienati: fuori mappa),
lontani dalle forme epiche o dai formalismi e gli sperimentalismi lin-
guistici che hanno dominato il Novecento.
Nella traduzione di Nicola Gardini, Club Midnight raccoglie l’inte-
ro Il mio inudibile entourage pubblicato nel 2005 e una breve silloge di
liriche risalenti agli anni ’90. Ne risulta una tersa ghirlanda di aned-
doti inquietanti, vignette compresse, limate fino all’osso, poco solenni,
eppure investite del grande peso di dare espressione al dramma uma-
no nell’articolazione delle voci appena fruscianti («noiseless») di un
fantasmatico entourage «di angeli e demoni nostrani». A Simic non
servono lunghe tirate, costruzioni liriche complesse o funamboliche,
ma brevi forme chiuse, quasi ‘scatole’ (anche visivamente sulla pagina),
simili a quelle di riciclo del «cacciatore di immagini» Joseph Cornell, a
cui Simic ha dedicato un libro appassionato (anch’esso apparso presso
Adelphi nel 2005), forme ritmicamente assonanti, segno di consumata
maestria tecnica, e governate da un assemblage di immagini delegate a
funzionare da contrappunto stridente.
Non è questa, nel caso di Simic, mera pratica di un irriverente sov-
vertimento di convenzioni, di uno sberleffo del ‘chiaro di luna’, che
infatti in queste pagine ci illumina nelle vesti di «un macellaio di car-
ULTIMI FRUTTI 353
2. In uno dei saggi selezionati con altre prose poetiche per un volume
del 2015, Charles Simic ricorda sua madre: «L’ultima volta che parlai
con lei – scrive – il giorno prima che morisse all’età di ottantanove
anni, nell’inverno del 1994, mia madre mi domandò: “Stanno anco-
ra ammazzandosi a vicenda, quegli idioti?”». La «sporca miserevole
guerra» allora in corso in Jugoslavia non poteva che riaprire la vecchia
ferita, quella che nove anni dopo, e rocambolescamente, portò la fa-
miglia Simic da Belgrado negli Stati Uniti. Nel 1954 il futuro poeta
aveva sedici anni e solo una spolverata di inglese, rubata, con la musica
jazz, da una radio italiana captata in segretezza nelle pause dei bom-
bardamenti durante la guerra. Il senso della vita acquisito da Simic,
la venatura assurda e bislaccamente fantasmagorica del suo sguardo
sul mondo va rintracciata in buona parte nella perdita dell’innocenza
subita nell’infanzia. «Leggiadro è il mondo che si sveglia presto al
male», egli cita da Yehuda Amichai.
Di quella sua prima guerra Simic non perderà la memoria. Fram-
menti visivi di cani scalciati in aria da stivali tedeschi, improvvise
macerie dove un attimo prima c’era una casa, gente impiccata ai pali
del telefono riaffiorano negli anni e nella scrittura fuori e dentro il
loro contesto d’origine vissuto da una coscienza stupita. Sono im-
magini mai sedate, anzi acuite, con lo studio dell’esercizio retorico,
dal ripetersi coattivo dell’‘idiozia’ umana. «La filosofia è come un
tornare a casa. Faccio un sogno ricorrente sulla via dove sono nato.
È sempre notte». Unico riscatto si potrà affidare alla reificazione
dell’assurdità del male alla luce dell’alchimia salvifica dell’arte. In
tal senso l’America aiuterà.
Queste premesse sono necessarie alla lettura tanto della poesia di
Simic, maturata con il consorzio di più esperienze culturali, quanto
della sua prosa altrettanto eccentrica, della quale in Italia sono già usci-
te alcune raccolte. La vita delle immagini, che registra l’ultimo ‘ombe-
licale’ ricordo della madre (e della patria), assieme a notazioni su temi
disparati (Heidegger, il blues, fotografia, cibo, poesia, politica, cinema
muto, personaggi), appare nel 2017 presso Adelphi nella traduzione di
Adriana Bottini, con ammiccamento affermativo sulla vita che rimane
agli ‘orfani’, come accade in Simic, quando egli fa correre la freccia
della mente sopra il basso continuo del substrato di una costernazio-
356 NOVECENTO POETICO AMERICANO
Caso continua a essere una delle manifestazioni del mistero del co-
smo», a meno che, come sceglierà di fare Simic, che riconosce l’impe-
riosa forza del Caos, non ci sottometta al Caso «solo per ingannarlo».
Un pensiero ondivago, fra dogmatismo, ricerca (anche identitaria) e
problematicità, energizza la prosa menippea della Vita delle immagini.
Se da un lato Simic si lascia prendere dallo spirito dell’Anatomia della
melanconia di Robert Burton (e Simic è un malinconico forzato, un
Buster Keaton della poesia) dall’altro guarda volentieri agli assemblage
di Joseph Cornell, con una convergenza – forse casuale – su un dato
che sfiora il personale e illuminanti intuizioni: «Come Edgar Allan Poe
e come Emily Dickinson, Cornell era un amante dei segreti e dei mi-
steri. Lui stesso disse che le sue scatole erano come giochi dimenticati,
i giochi abbandonati di un’infanzia ricca di ambiguità», erano «poesie
rigorosamente ermetiche». Come ermetica, su un altro versante della
rappresentazione del mondo che piace a Simic, è la filosofia dell’im-
perturbabile Buster Keaton, il quale, «naufrago alla deriva sull’oceano
sconfinato, trova un tabellone galleggiante, in realtà un bersaglio per le
esercitazioni delle navi da guerra, vi sale sopra, tira fuori la sua canna
da pesca e si mette come niente fosse a pescare. Ecco, così è la grande
poesia: una superiore serenità di fronte al caos. E la saggezza di farsi
passare per stupidi». Il Buster Keaton di quel film (forse Il navigatore),
come il Cornell collezionista e architetto dell’effimero del profondo,
sembra assumere un’aura più misterica. In attesa di risanare un mon-
do «totalmente illogico» strappando «una risata al destino», Keaton si
presta apostolicamente a farsi pescatore di saggezza contro il caos. Una
chiosa al detto di Robert Frost sulla poesia da intendere semplicemente
come «a momentary stay against confusion»: un puntello, fuggevole ma
affidabile, contro la confusione delle macerie del mondo.
(Alias, maggio 2017)
3. Basterà una lirica molto breve – Black Butterfly – a indicare l’aria
che spira ancora nella raccolta poetica più recente di Charles Simic.
Il prezioso fonosimbolismo del titolo si perde in italiano ma non l’at-
mosfera che si prepara a suggerire: «Nave fantasma della mia vita, /
pesante di bare, / che salpi / sulla marea nera della sera». Quattro versi
358 NOVECENTO POETICO AMERICANO
philip schultz
memoria ebraica
diatezza della visione, mentre fotografie mentali gli si fissano nella memo-
ria, la rinnovano nell’immedesimazione sua fantasmatica nel lager.
In genere, la scrittura di Schultz segue i suoi propri paradigmi.
Schultz non ha modelli, non appartiene ad alcuna scuola, le sue piaghe
sono il suo paese. Si potrebbe dire che insegue le modalità del «lamento»
ebraico, ma ben lontano da quello di Ginsberg, e tanto più lontano dal
giocosamente lenitivo Lamento di Portnoy di Philip Roth. Quest’ultimo
è tutt’altra storia, benché anch’essa molto ebraica.
Schultz resta figura dell’«ebreo errante», che vaga senza aspirazioni
alla felicità nella sfera di una frattura atavica, tornando nella sua mace-
razione sempre su se stesso. Un se stesso che si sublima in un’essenza –
un concentrato – di una condizione eterna ed eternante, senza uscita, e
sempre, ovunque egli si diriga, senza casa e senza tempo.
(Alias, marzo 2019)
charles wright
numinoso italiano