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Oggi tutti parlano di serie TV. Per gli appassionati sono l’oggetto di

Daniela Cardini
continuo discorso sociale. Per la stampa fanno notizia e sollecitano analisi
e spiegazioni. Per gli studiosi sono il simbolo delle grandi e talvolta
imprevedibili potenzialità narrative dei media. Ma cosa sono le serie TV?
Quali le origini, quali i formati che hanno favorito la loro Golden Age, e come
stanno cambiando?
La serialità contemporanea si riassume nel termine “complessità”: la
televisione, il cinema ed il web contribuiscono a costruire un racconto denso
e affascinante, di cui in questo volume si rintracciano alcune coordinate
fondamentali.
A partire dalle radici della serialità classica si affrontano alcune questioni
aperte, come la rilevanza della dimensione produttiva, le ragioni delle

LONG TV
recenti innovazioni di formato, la centralità della figura dell’antieroe come
motore narrativo. Dopo aver analizzato i fondamenti, gli strumenti di analisi
e le prospettive, si prendono in esame alcuni esempi delle tendenze più
interessanti degli ultimi anni: da Game of Thrones a Gomorra, da House of Cards
a The Young Pope, da Stranger Things a Narcos.
La “Long TV” di cui si tratta in queste pagine è un fenomeno composito,
a volte sfuggente, in costante evoluzione: la Grande Serialità televisiva
degli anni Duemila è il racconto contemporaneo per eccellenza, capace
di esprimere tutta la complessità dello scenario mediale, ma anche le sue
fragilità. 
Daniela Cardini
Daniela Cardini è docente di Teorie e tecniche del linguaggio televisivo e di
Format e serie tv presso l’Università IULM di Milano. I suoi interessi di ricerca
si concentrano da tempo sul tema delle forme della serialità nei media
LONG TV
ed in particolare nella televisione. Ha pubblicato in proposito numerosi
contributi, tra cui i volumi: La lunga serialità televisiva. Origini e modelli (Carocci, Le serie televisive
2004); Le serie sono serie (Arcipelago 2010); Le serie sono serie - seconda stagione viste da vicino
(Arcipelago 2015), oltre ad articoli e saggi in volumi collettanei e riviste, tra
cui «Imago», «Between», «ComPol», «Series-International Journal of Serial
Narrative», «View-Journal of European Television History and Culture».

€ 12,00 EDIZIONI UNICOPLI


INDICE

p. 7 Introduzione

13 I. FONDAMENTI
Le origini della Grande Serialità
13 1. Serialità e media
17 2. La matrice seriale della televisione
20 3. Le radici seriali del cinema
22 Autorialità
23 Divismo
25 Formati
26 4. Il linguaggio visivo della serialità dal cinema
alla televisione
30 5. Uno sguardo al caso italiano

37 II. STRUMENTI
La Grande Serialità, oggi
41 1. La spinosa questione delle definizioni
45 2. La Grande Serialità: caratteristiche
(e contraddizioni)
47 Serie tv e pratiche di fruizione: tra fandom
e social network
51 Serie tv e qualità
55 Serie tv e tele-cinefilia
58 3. La Grande Serialità nel dibattito accademico
61 Alcuni concetti-chiave
6 Indice

p. 71 III. PROSPETTIVE
Le questioni aperte
72 1. La rilevanza della dimensione produttiva
76 2. Nuovi formati
77 Il modello dei network: il pilot
79 La stagione dei network: dai ventidue ai tredici
episodi
80 Il modello HBO: il pilot-film
81 Il modello Netflix: la stagione-pilota
84 La risposta di HBO: il film a puntate
86 3. Oltre il binge watching
88 4. L’antieroe e la fine del cliffhanger

91 IV. SGUARDI
Alcuni temi della Grande Serialità
91 1. Quello che (non) c’è
93 2. La serie-kolossal: Game of Thrones
96 3. La serie perfetta: House of Cards
98 4. Il period drama britannico: Downton Abbey
e The Crown
101 5. La via italiana e lo stile Sky: Gomorra
104 6. Le serie-format: Tutto può succedere
e Braccialetti Rossi
109 7. Il film seriale: The Young Pope
112 8. La stagione-pilota: Stranger Things
114 9. L’antieroe: da Dexter a Narcos
119 10. La rilettura del teen drama: Tredici
122 11. La madre di tutte le serie: Twin Peaks

125 Bibliografia
INTRODUZIONE

Mettiamo che Nonna mi abbia detto in maniera parecchio


convincente che tutto ciò che davvero esiste della mia vita
è limitato a quello che se ne può raccontare. Be’, credo
che non sia esattamente che la vita va raccontata anziché
vissuta; è piuttosto che la vita è il suo racconto, e che in
me non c’è niente che non sia o raccontato o raccontabile.
(David Foster Wallace, “La scopa del sistema”)

Introdurre un volume sulle serie tv citando David Foster Wal-


lace è pretenzioso e piuttosto banale, dato che si tratta dall’autore
forse più saccheggiato dell’ultimo decennio. L’ho molto amato,
come chiunque lo abbia letto, ma so bene che ciò non mi autorizza
ad appropriarmi delle sue parole per nobilitare le mie.
Sono consapevole anche del fatto che la frase che ho scelto tra
le mille possibili non è particolarmente originale, né tra le più
rappresentative della sua stupefacente intelligenza; mi aiuta però
a mettere a fuoco il fulcro attorno al quale ruota la mia riflessione.
Le serie tv degli anni Duemila - perché è di questo che scri-
vo qui - sono considerate ormai unanimemente espressione delle
grandi e spesso imprevedibili potenzialità narrative dei media.
Non solo della televisione, quindi, a dispetto dell’espressione che
le definisce: ma anche (per alcuni soprattutto) del cinema e del
web. La parola-chiave che meglio di ogni altra sembra descri-
verne le caratteristiche è complessità, termine intorno al quale
si è andato costruendo negli ultimi anni quasi un canone di ri-
cerca, prodotto da una nutrita corrente di studi internazionali e
concretizzatosi nell’ormai imprescindibile volume Complex TV
di Jason Mittell1. Insieme all’idea di complessità, altri concet-
ti condivisi hanno trovato posto nella cassetta degli attrezzi dei

1
J. Mittell, Complex TV. The Poetics of Contemporary Television
Storytelling, The New York University Press, New York 2015 (trad. it. Com-
plex TV. Teoria e tecnica dello storytelling delle serie tv, minimum fax, Roma
2017).
8 Introduzione

media studies. Ad esempio la qualità, tema sul quale i television


studies si sono misurati sin dagli esordi, senza tuttavia arrivare
ad una prospettiva condivisa2; il concetto recente di cinematic te-
levision3, ossimoro che evidenzia la peculiarità forse più evidente
della serialità contemporanea, e cioè la capacità di far convergere
linguaggi e apparati critici dei due media storicamente distanti
come il cinema e la televisione; e ancora, l’attualità della ricerca
sul fandom, le cui radici affondano negli ormai classici lavori di
Henry Jenkins4 e che oggi attraversa un profondo e stimolante
processo di rilettura, sollecitato da un panorama mediale che in
un solo decennio si è trasformato al punto da favorire lo sviluppo
di pratiche di fruizione inedite. Di questi temi, e di altro ancora,
cercherò di dar conto nelle prossime pagine.
Il mio interesse per la serialità televisiva ha origini piuttosto
lontane; eppure, anche dopo tanti anni di ricerca la plasticità di
questo oggetto di studio continua ad entusiasmarmi, insieme
alla sua capacità di interpretare le trasformazioni del panorama
mediale. È sufficiente pensare alla distanza enorme che separa le
formule seriali degli anni Ottanta e Novanta dalle serie tv con-
temporanee per comprendere quanto sia cambiato lo scenario dei
media narrativi, e quanto oggi sia complesso - appunto - dar con-
to di tutte le numerose dimensioni che lo compongono. La velo-
cità di trasformazione è tale che anche all’interno di questa stessa
categoria trovano posto testi molto diversi tra loro, il che mi ha
convinto a definire Grande Serialità i prodotti narrativi più re-

2
Si veda ad esempio J. McCabe e K. Akass (eds.), Quality TV: Contempo-
rary Television and Beyond, I.B. Tauris, London 2007.
3
Si veda tra l’altro: J. Butler, Television Style, Routledge, London-New
York 2010; B. Mills, What does it mean to call Television ‘Cinematic’?, in
J. Jacobs e S. Peacock, Television Aesthetics and Style, Bloomsbury, Lon-
don-New Delhi-New York-Sydney 2013, pp. 57-75.
4
Il riferimento è ai lavori più noti dello studioso americano, quali ad
esempio: H. Jenkins, Fans, Bloggers, and Gamers: Exploring Participa-
tory Culture, New York University Press, New York 2006a (trad. it. Henry
Jenkins, Fan, blogger e videogamers: l’emergere delle culture partecipative
nell’era digitale, Franco Angeli, Milano 2008); Id., Textual Poachers. Tele-
vision Fans and Participatory Culture, Taylor & Francis, London-New York
2004; Id., Convergence Culture: where Old and New Media Collide, New
York University Press, New York 2006b (trad. it. Cultura convergente, Mila-
no, Apogeo 2007).
Introduzione 9

centi, sui quali si è concentrata l’attenzione non solo dei television


studies, ma anche dei film studies e di discipline storicamente di-
stanti dal tema della serialità.
Nel corso degli anni ho avuto la possibilità di riflettere su diver-
si elementi costitutivi della serialità e ho provato a riunirli in un
unico volume, con l’obiettivo di ricomporre uno scenario indub-
biamente frammentato e parziale ma, allo stesso tempo, denso di
suggestioni. Alla fine degli anni Novanta la serialità era ancora un
elemento marginale, quando non apertamente ignorato, all’inter-
no della nascente corrente dei media studies. Di conseguenza, la
prospettiva dalla quale si affrontava l’argomento era spesso la ne-
cessità, anche polemica, di affermarne la rilevanza teorica rispet-
to ad altri oggetti di studio ritenuti culturalmente più pertinenti
al dibattito ed al confronto multidisciplinare. Infatti i nascenti
television studies internazionali si concentrarono su quella che
era ritenuta l’espressione più triviale della serialità televisiva, la
soap opera, di cui ribadirono, tra l’altro, la capacità di dar voce
ad una dimensione femminile (e femminista) fino ad allora quasi
totalmente estranea alla riflessione sui media5. Da qualche anno
a questa parte, invece, l’analisi delle forme contemporanee della
serialità attrae studiosi di cinema, narratologi, studiosi di televi-
sione, semiologi, psicologi, filosofi, che non hanno difficoltà ad
applicare alle serie tv più recenti le categorie interpretative della
qualità, dell’estetica, della complessità narrativa.
Nel primo capitolo di questo volume ho voluto partire nuova-
mente dalle radici storiche della serialità6, mettendo in rilievo un
aspetto a mio avviso ancora scarsamente indagato: la dimensione
seriale del cinema delle origini. Nelle pieghe dei pochi, interes-
santi contributi italiani esistenti in materia si celano alcune chiavi
interpretative inattese che permettono, da un lato, di attribuire
alla serialità cinematografica un ruolo fondamentale nello svilup-
po storico dei media e, dall’altro lato, di evidenziare come anche
il cinema sia debitore nei confronti delle logiche seriali. La pros-
simità del cinema alla televisione (o, a seconda del punto di vista,
della televisione al cinema) non sembrerebbe quindi una preroga-

5
Si veda il cap. 2.
6
Rimando al proposito al mio: La lunga serialità televisiva. Origini e
modelli, Carocci, Roma 2004.
10 Introduzione

tiva dell’attuale cinematic tv, ma anzi affonderebbe le radici lon-


tano nel tempo, ai primordi dell’arte cinematografica - un aspetto
non sempre considerato dagli studiosi di cinema oggi impegnati
nello studio delle serie tv.
Nel secondo capitolo ho provato a mettere a fuoco gli strumen-
ti teorici attraverso i quali se ne affronta attualmente lo studio. È
stato inevitabile affrontare anche la questione delle definizioni;
il tema non è sempre affascinante, ma è ineludibile soprattutto
nel composito scenario mediale contemporaneo. Nel mettere in
luce alcuni dei già citati temi della complessità e della qualità, ho
evidenziato anche i punti più controversi sui quali la ricerca oggi
appare particolarmente vivace.
Nel terzo capitolo vengono affrontate quelle che a mio parere
sono oggi le questioni aperte sulle serie tv, su cui la letteratura è
ancora relativamente scarsa. Il primo aspetto riguarda la dimen-
sione produttiva, con la quale storicamente la riflessione accade-
mica si misura a fatica ma che dovrebbe invece essere studiata in
maniera sistematica. Le logiche produttive sono molto utili per
comprendere i cambiamenti nel formato delle serie tv contem-
poranee in stretta relazione con le trasformazioni dello scenario
tecnologico - come ad esempio lo sviluppo delle piattaforme di
streaming. A loro volta, le variazioni di formato sono legate alla
trasformazione sempre più rapida delle pratiche di fruizione, che
sembrano affiancare all’acquisita prassi del binge watching il re-
cupero di una dimensione più lenta di visione, sollecitata dal pia-
cere di metabolizzare la densità narrativa tipica della serie tv più
recenti. Non a caso il cuore del racconto seriale contemporaneo
è la figura dell’antieroe, la cui complessità psicologica dà vita ad
una narrazione estesa e coinvolgente.
Infine, nell’ultima parte ho scelto alcune serie che esemplifica-
no i punti nodali di tutto il volume. Di ognuna ho voluto eviden-
ziare un solo aspetto, quello che secondo me esemplifica una ten-
denza, un salto in avanti nell’abbondanza dell’offerta contempo-
ranea. Non si tratta delle serie “migliori”, né delle mie preferite;
sono piuttosto quelle che a mio parere rappresentano al meglio la
fisionomia della Grande Serialità. È una scelta che può apparire
poco ortodossa, ma rispecchia (e rispetta) sia la mia ricerca, sia
la mia passione, tanto che mi sono presa la libertà di adottare in
questa parte un linguaggio più leggero, svincolato ai codici della
scrittura accademica e dagli apparati bibliografici.
Introduzione 11

È un lavoro in progress che non ha la presunzione di dare ri-


sposte ma, piuttosto, vuole suscitare domande. Per scriverlo ho
riordinato i materiali sui quali ho lavorato negli ultimi anni (ar-
ticoli, saggi, interventi a convegni, lezioni, relazioni a conferenze,
lezioni di dottorato e altro ancora). Ho faticato non poco a trac-
ciare i confini entro i quali circoscrivere l’abbondanza di stimoli,
suggestioni, domande che il tema della serialità inevitabilmente
sollecita. Mi sono trovata molte volte di fronte alla necessità di
eliminare un concetto ripetuto, e di volerlo invece mantenere per-
ché mi sembrava avesse senso anche in quel punto del volume. Mi
sono chiesta (anche con una certa esasperazione) come mai fosse
così difficile “organizzare” gli argomenti che avevo in mente senza
ripetermi. Alla fine credo di aver trovato una risposta nell’idea di
circolarità che appartiene al DNA della serialità contemporanea,
legata alla sua compattezza e allo stesso tempo alla sua natura
dinamica e multiforme. Ogni elemento costitutivo della Grande
Serialità agisce sugli altri e ne è a sua volta influenzato, in un an-
damento circolare che assume spesso l’aspetto e la velocità di un
vortice.
Anche questa introduzione, che ho scritto per ultima, assume
la medesima dinamica. Sono partita da una frase di D.F. Wallace,
e per caso mi sono accorta che una citazione di D.F. Wallace chiu-
de il volume. Ho pensato che non fosse un caso ed ho volutamen-
te lasciato anche questa ripetizione, che esprime la nostalgia e il
mio rimpianto per uno sguardo, il suo, che avrebbe saputo dirci
moltissimo su una forma della contemporaneità che, purtroppo,
non ha fatto in tempo a raccontare con la spietata lucidità di cui
sarebbe stato capace.

I ringraziamenti sono la parte più delicata di ogni introduzione. Molti


colleghi e amici mi hanno sostenuta in questo lungo percorso di studio
e di crescita. Si usa dire che non c’è spazio per ringraziarli tutti, ed in
questo caso è vero, senza retorica. Ho iniziato mille elenchi ma alla fine
dimenticavo sempre qualcuno. Perciò mi assumo la responsabilità di una
scelta che, ancora una volta, risponde alla circolarità che dà forma a que-
sto lavoro: per avermi aiutata, capita, spronata, ringrazio Gianni, perfet-
to collega e compagno, con cui parto e a cui ritorno, sempre.
I

FONDAMENTI

Le origini della Grande Serialità

Nell’ultimo decennio, nell’ambito dei media studies è in atto


un processo apparentemente paradossale: la televisione ingloba
le dinamiche della rete, provando a metabolizzare le pratiche dei
social network e a svincolarsi dalle rigide logiche del palinsesto;
il cinema si apre alla serialità, a lungo osteggiata o addirittura ne-
gata, incorporandola nel proprio linguaggio e dando corpo alla
definizione ossimorica di “serialità d’autore”. L’oggetto mediale
che meglio esprime le tensioni, le innovazioni e i paradossi del
panorama mediale contemporaneo è rappresentato dalle serie tv,
attualmente al centro del dibattito critico e del discorso sociale.
Prima di entrare nel merito di quella che nel corso del volu-
me definiremo Grande Serialità, è utile un rapido sguardo alle
sue radici storiche. Se è vero che le forme assunte dalla serialità
nei media ne esprimono i rapporti di forza, gli equilibri e le con-
traddizioni (Abruzzese 1984; Casetti 1984), allora è importante
metterne a fuoco la presenza in alcune fasi cruciali di sviluppo dei
due media che oggi ne delineano la fisionomia: il cinema e la te-
levisione. Tra le pieghe di questo percorso sarà possibile intrave-
dere una contiguità inaspettata, capace di dar conto della matrice
complessa delle serie tv contemporanee.

1. Serialità e media

La lunga storia del prodotto culturale seriale comincia nel di-


ciannovesimo secolo, come effetto dell’industrializzazione e della
riproducibilità tecnica dell’arte analizzata da Walter Benjamin.
Dalla dialettica intrinseca all’origine della storia, “[…] risulta
14 Capitolo I

come in ogni processo essenziale l’unicità e la ripetizione si con-


dizionino l’un l’altra” (Benjamin 2001, p. 86). La storia, nella
visione benjaminiana, è il risultato del ritmo seriale che costan-
temente fagocita il passato per restituirlo in forme differenti ma
intrinsecamente uguali nella ripetizione. La principale caratteri-
stica della serialità è quella di sfruttare il tempo a fini produttivi,
per produrre differenza (e sempre nuovo valore) attraverso la ri-
petizione (Dall’Asta 2009, p. 12).
La produzione in serie di oggetti culturali nasce da esigenze
economiche: la suddivisione di un contenuto narrativo in fram-
menti uguali resi fruibili ad intervalli temporali regolari permette
di ottimizzare i costi di produzione e di aumentare i ricavi econo-
mici, grazie alla capacità del modello seriale di creare un pubblico
fedele sia alla narrazione, sia al medium che la veicola. Ogni seg-
mento narrativo traghetta il fruitore al successivo, promuovendo
la storia nella sua interezza e, parallelamente, il supporto che la
contiene.
Fin dalle sue origini, che coincidono con la storia dei media, lo
sviluppo industriale del prodotto culturale ha proceduto paralle-
lamente alla resistenza a riconoscerne il valore qualitativo, che nel
discorso sociale ha fin da subito contrapposto industria a cultura,
il concetto di merce alla dimensione artistica. Come ha sottolinea-
to Casetti in uno dei lavori più precoci e rilevanti sulla serialità in
Italia: «L’estetica romantica, che privilegia l’unico e l’irripetibile,
ha avuto l’effetto di fissare un punto di svolta nella valutazione
della ripetizione e della serialità, fornendo i criteri della svaluta-
zione del prodotto seriale e di ciò che poteva o non poteva esse-
re rilevante studiare» (Casetti 1984, p. 5). I forti pregiudizi nei
confronti della serialità persistono sin nel nuovo millennio, come
se le dinamiche di produzione e diffusione del prodotto culturale
fossero non tanto il risultato inevitabile dell’evoluzione dei media
e delle relative formule narrative, quanto piuttosto penalizzazioni
dell’aspetto culturale in favore della prevalenza dell’interesse eco-
nomico e delle dinamiche industriali.
La produzione in serie, l’applicazione delle meccaniche indu-
striali a matrice e l’identificazione di azioni ripetute per la creazio-
ne di oggetti identici ma diversi si applica da due secoli al modo di
pensare il racconto già sotto forma di unità distinte, ma ripetibili
con regolarità, che appaiano in giornali, libri o - più tardi - in ra-
dio, film, dischi e TV: «La storia della serializzazione del prodotto
Fondamenti 15

culturale è in primo luogo la ricostruzione del meccanismo, delle


dinamiche e delle ragioni storiche mediante le quali il racconto
di una storia si modella, segmentandosi, sulla forma del suppor-
to che lo contiene» (Cardini 2004, p. 19). Per questo la formula
seriale del prodotto culturale va letta, oggi più che mai, in una
prospettiva che tenga conto non solo delle forme del racconto se-
riale in sé, ma del contesto mediale in cui esse prendono corpo e
si sviluppano.
Si pensi al ruolo svolto dal feuilleton e dal romanzo d’appendi-
ce nella diffusione della stampa, e alla successiva diffusione della
stampa a colori grazie al fumetto e - in Italia - alla forma originale
del fotoromanzo (De Fornari 1990). Si pensi al ruolo della seria-
lità nella diffusione del linguaggio cinematografico e nelle abitu-
dini di fruizione, come vedremo nel dettaglio più oltre (Dall’Asta
2009). E si pensi a come la narrazione infinita della soap opera
prenda corpo nel modello radiofonico commerciale degli anni
Trenta, costruendo un originale ed efficace punto d’incontro tra
la domanda inevasa di un pubblico femminile fino a quel momen-
to sprovvisto di contenuti dedicati, e la richiesta economica de-
gli investitori pubblicitari verso l’individuazione di nuovi target
per i loro prodotti. Il racconto sentimentale a puntate quotidiane
costituisce la risposta a questa duplice esigenza: nel palinsesto
pomeridiano, a quel tempo privato di contenuti, le casalinghe
americane trovano una compagnia adatta ad accompagnare i rit-
mi delle faccende domestiche, e le aziende produttrici di prodotti
per la pulizia della casa - primi sponsor di questa nuova formula
narrativa - trovano il luogo e il pubblico ideale per pubblicizzare e
vendere i propri prodotti. Non sono solo le aziende a beneficiare
di questo nuovo modello seriale: è la radio stessa - e la televisione
subito dopo - ad avvantaggiarsi dal successo della soap opera, che
ne promuove la diffusione e la popolarità presso il pubblico largo.
Si possono identificare tre declinazioni parallele e interdipen-
denti della serialità all’interno dell’industria culturale (Abruzzese
1984):
- serialità produttiva: l’ottimizzazione del processo produttivo,
mirata a ridurre al minimo gli sprechi di tempo e di denaro
secondo il modello della catena di montaggio, riduce i costi e
massimizza i benefici, grazie all’eliminazione dei tempi mor-
ti, all’aumento della produttività che permette di riempire di
16 Capitolo I

contenuti i palinsesti radiofonici prima e televisivi poi, alla


conseguente creazione di un pubblico fedele;
- serialità narrativa: la necessità di modellare una narrazione
rispettando le regole della produzione in serie dà origine ad
una nuova scansione ritmica del racconto, basata sui tempi
(e sui costi) dettati dal medium che la supporta. I meccani-
smi della serialità rendono imprescindibile rispettare regole
precise nella gestione dei tempi narrativi, che si concretizzano
nell’affascinante contrapposizione fra semplicità apparente
e complessità effettiva: la superficie liscia e scorrevole della
narrazione seriale, necessaria per favorire l’accesso al maggior
numero possibile di fruitori, nasconde la costruzione minuzio-
sa dei ritmi narrativi e i delicati equilibri fra gli spazi dedicati
ai luoghi, ai personaggi e alle loro interazioni.
- serialità di fruizione: la scansione seriale della produzione e il
ritmo seriale della narrazione riecheggiano e favoriscono - in
un gioco di specchi - la ritualità della fruizione. Il pubblico del
prodotto culturale si costruisce grazie alla rassicurante ripe-
tizione seriale, capace di proporre - con ritmi modellati sulla
quotidianità - appuntamenti cadenzati e facilmente reperibili,
in grado di creare una stabile relazione di “consumo”. Aspet-
tare con ansia il numero del prossimo fumetto o fotoromanzo,
sintonizzarsi ogni giorno su un canale radiofonico o televisivo
per ascoltare (o guardare) una soap opera, la nuova puntata di
un quiz o il notiziario del giorno sono indicatori di una rela-
zione abitudinaria, fedele e consapevole tra il pubblico ed un
media in un dato periodo storico.
Perciò, come abbiamo accennato in apertura di capitolo, il
rapporto tra la formula seriale ed il medium che la supporta è
bidirezionale e plastico: il racconto seriale si modella in base alle
caratteristiche del supporto che lo veicola, e quest’ultimo a sua
volta si modifica per adattare alla propria fisionomia quel parti-
colare modello di racconto. La produzione sollecita e condiziona
una domanda che poi viene soddisfatta con un’offerta costruita in
modo tale da incrementare a sua volta la domanda.
Il testo seriale si realizza unicamente nella ricorsività della frui-
zione e sopravvive solo se esiste un pubblico che ne rende possi-
bile l’estensione nel tempo; di conseguenza, il testo seriale è ben
diverso dall’Opera romantica, i cui fruitori potevano/dovevano ac-
contentarsi di una contemplazione passiva (Dall’Asta 2009, p. 21).
Fondamenti 17

La serialità, insomma, ha carattere insieme dinamico e vischioso: il


testo seriale produce il proprio pubblico che, a sua volta, ne rende
possibile l’esistenza e la sopravvivenza nel tempo, dando vita ad un
energetico movimento circolare di significazione.

2. La matrice seriale della televisione

Periodicamente si decreta la morte della tv, e periodicamen-


te la tv dimostra di sapersi adattare alle trasformazioni sia tec-
nologiche, sia sociali che accompagnano le tappe della storia dei
media. L’aspetto forse più interessante della profonda mutazione
dello scenario televisivo degli ultimi vent’anni sta nella sua sor-
prendente plasticità linguistica, che le serie televisive contempo-
ranee esprimono con chiarezza.
La televisione interpreta quotidianamente il mondo. Registra
fatti, accumula informazioni, propone storie e costruisce un me-
ta-racconto composto da una molteplicità di frammenti narrativi.
Anche il lavoro interpretativo compiuto dai destinatari si può
leggere in termini di costruzione narrativa: il significato della
narrazione televisiva è prodotto dall’interazione fra la dimensio-
ne narrativa tipica del medium ed i percorsi seguiti dai fruitori
per ricostruire l’andamento di una data storia (Livingstone 1998;
2006) . Ogni spettatore ri-articola lo svolgimento di un racconto
televisivo evidenziando gli elementi che ritiene salienti, contri-
buendo a costruire una nuova storia.
In questa cornice interpretativa acquisiscono rilevanza al-
cune fortunate metafore ormai classiche, che attribuiscono alla
televisione il ruolo di central storytelling system della contem-
poraneità (Newcomb 1988), o che ne evidenziano la funzione
affabulatoria, assimilandola a quella del bardo medievale (Fiske
1987), il cantore nomade che dava voce ai miti di una collettività
attraverso un linguaggio semplice, cadenzato, facilmente memo-
rizzabile. Una attualizzazione di questa prospettiva si rintraccia
nel concetto di storytelling (Thompson 2003) la cui definizione
aderisce quasi totalmente al linguaggio televisivo incrociandosi
con le componenti identitarie del medium tra cui la quotidiani-
tà, l’accessibilità, la semplicità del tono e del linguaggio visivo e
verbale.
18 Capitolo I

Insieme alla dimensione narrativa, la ripetizione ne costituisce


l’altro elemento chiave, come abbiamo già sottolineato più sopra:
essa si può definire non tanto come la riproposizione di un identi-
co, quanto piuttosto come un nuovo contenuto che unisce in sé il
già noto e alcuni tratti di originalità (Casetti 1984, p. 10). Il piace-
re e la necessità della ripetizione si possono riconoscere già nella
richiesta – tipica dell’età infantile – di ascoltare ancora e ancora
la favola preferita: la trama è sempre la stessa, ma ad ogni ripeti-
zione vengono aggiunti nuovi dettagli e se ne eliminano altri; il ri-
sultato, ogni volta, è una storia uguale eppure sempre diversa. La
«variazione di un identico» (Ibid.) è uno dei caratteri costitutivi
della ripetizione. Perciò la serialità è definibile come «un processo
di successione che consente la creazione di un gruppo omogeneo
di casi» (Ibid.), come il risultato dell’alternanza fra ripetizione e
variazione, in un processo che rassicura il destinatario “arredan-
do” il suo immaginario con elementi nuovi ma non troppo dissi-
mili dal già noto, e stimolandone allo stesso tempo la curiosità e
l’attenzione.
Come abbiamo accennato più sopra, la serialità televisiva
coinvolge le procedure tecniche di produzione dei testi. In questa
accezione il termine definisce un processo di standardizzazione
teso ad eliminare i tempi morti tramite lo sfruttamento di risor-
se attentamente programmate per ottimizzare al massimo tempi,
luoghi, professionalità e soprattutto costi, richiamando le logiche
della catena di montaggio in cui ogni minimo elemento dell’ingra-
naggio produttivo diviene fondamentale ai fini del conseguimento
del risultato finale.
In ambito televisivo la rilevanza del meccanismo e delle dina-
miche seriali è legata alle peculiarità delle modalità di fruizione,
che ne determinano la centralità e il peso. La quotidianità e la
continuità in ambiente domestico giustificano la formula seriale
narrativa e produttiva e ne favoriscono lo sviluppo. È interessan-
te notare come proprio la serialità della fruizione nel contesto di
quotidianità e di intimità tipico della televisione, vada a costituire
uno dei perni della Grande Serialità contemporanea, portando la
qualità del cinema fuori dalla sala e dalla fruizione festiva che lo
contraddistingue per trasferirla al consumo domestico, a partire
dall’idea di “cinema espanso” promossa dalle serie HBO (DeFino
2013), fino alla voracità del binge watching derivante dalla seria-
lità in streaming di Netflix.
Fondamenti 19

L’intrinseca inclinazione ripetitiva della televisione storica-


mente costituisce uno dei temi più dibattuti. Come si accennava
in apertura di capitolo, infatti, nel linguaggio corrente serialità
è sinonimo di povertà di contenuti e mancanza di creatività. La
“banalità” del linguaggio televisivo è stata spesso attribuita a cau-
se esterne alla natura del mezzo, alle sue condizioni di fruizione
ed alla sua aderenza all’opacità del vivere quotidiano. Abbiamo
accennato anche a come le radici di tale posizione fortemente cri-
tica siano rintracciabili nell’idea romantica dell’unicità dell’opera
d’arte contrapposta alla trivialità della cultura popolare, nella ri-
levanza valutativa dell’autorialità rispetto all’anonimato del pro-
dotto seriale (inteso anche – in senso artistico – come copia ed in
quanto tale privo di autenticità). L’inclusione della televisione nel
novero dei media popolari - e per ciò stesso considerati inadatti
a veicolare contenuti culturali alti, come è accaduto al fumetto, al
cinema cosiddetto “di genere”, alla letteratura di consumo - ha a
lungo congelato la critica (in Italia in particolare, ma non solo) in
un atteggiamento di forte preclusione ideologica, con il risulta-
to di nascondere all’analisi le peculiarità del mezzo e di proporre
ostinatamente una contrapposizione di valore fra due linguaggi
(cinema e televisione) di fatto non paragonabili. Ulteriore corol-
lario è l’equazione “successo=cattiva qualità”, dove il prodotto
culturale che ottiene il favore dei cosiddetti grandi numeri viene
automaticamente considerato di basso livello, in contrapposizio-
ne ad una “nicchia” che invece risulterebbe destinata ai raffinati
palati di una ristretta minoranza1. La fisionomia delle serie tv con-
temporanee sembra invece ricomporre e superare questa radicata
dicotomia, che tuttavia ancora persiste in relazione alla dimensio-
ne industriale della televisione.
Come abbiamo anticipato più sopra, la fisionomia della seria-
lità contemporanea mette in luce la stretta relazione tra cinema
e televisione, alla luce della digitalizzazione dei media. La persi-
stenza del pregiudizio sulla povertà culturale della formula seriale
si scontra, negli ultimi anni, con il massiccio coinvolgimento dei
film studies nell’analisi della serialità più recente, caratterizzata

1
Il tema della contrapposizione tra nicchia e mainstream è stato ed è og-
getto di una ampia considerazione critica da parte degli studiosi dei media, a
cui rimandiamo per una più approfondita trattazione che esula dal perimetro
di queste pagine. Si veda ad esempio Martel 2010.
20 Capitolo I

dal recupero della dimensione dell’estetica e della qualità come


parametri sia dell’analisi che del giudizio.
In questo contesto culturale profondamente mutato rispetto
a qualche decennio fa, vale la pena di riconsiderare in una nuova
prospettiva le origini seriali del cinema, su un doppio versante: la
serializzazione dei contenuti, che ha dato origine a film a puntate
basati sulla tecnica narrativa del cliffhanger, e la serializzazione
dei formati, che ha visto e vede lo sviluppo di prequel, sequel e
spin off di film di successo.

3. Le radici seriali del cinema

Casetti ricorda come forme di ripetizione e di serialità fosse-


ro già presenti all’inizio della storia del cinema: «Sia le ‘vedute’
lumieriane che i ‘viaggi fantastici’ di Méliès […] praticavano con
profitto la ricorsività dei temi e delle formule; seguire quei film
significava riallacciarli a qualcosa di già visto e contemporanea-
mente ragionare nei termini della collezione» (Casetti 1984, p. 6).
La serialità cinematografica2 nasce in Francia ai primi del No-
vecento ma diventa rapidamente internazionale: quasi immedia-
tamente attecchisce negli Stati Uniti con l’emergere del taylori-
smo di matrice fordista come modello produttivo industriale. Il
primo film di lunga serialità realizzato negli Stati Uniti è What
Happened to Mary? (1912) e precede di appena due anni l’intro-
duzione della catena di montaggio della Ford modello T, avvenuta
nel 1914.
In Francia, il successo del feuilleton e delle forme di narrazio-
ne a puntate pubblicate sulla stampa periodica spinge la casa ci-
nematografica Pathé a produrre il film in tre puntate La passion,
che esce tra il 1902 e il 1904. Nello stesso periodo, i registi Louis
Feuillade e Léon Gaumont realizzano film come Fantômas ricor-
rendo ad un sistema produttivo basato sui principi della catena
di montaggio. Lo stesso accade alla SCAGL (Société Cinématog-
raphique des Auteurs et des Gens de Lettres), di Pathé. In questi

2
Non sono molti i contributi che affrontano la puntuale ricostruzione sto-
rica dello origini della serialità cinematografica. Prendiamo come riferimento
principale in queste pagine il lavoro attento di Monica Dell’Asta (2009).
Fondamenti 21

meccanismi industriali si ripropongono le stesse contraddizioni


della narrazione seriale: la serialità da un lato tende al massimo
successo commerciale, dall’altro cerca di individuare e sfruttare
le migliori energie artistiche e intellettuali, nel tentativo costante
– e spesso disatteso – di coniugare il successo con la qualità, il
binomio forse più controverso della storia della comunicazione
di massa.
Il processo di urbanizzazione nelle metropoli (Abruzzese
1984) è un elemento fondamentale per lo sviluppo della serialità:
si pensi alla diffusione dei nickelodeons, dove pagando appun-
to un nickel gli spettatori assistevano allo spettacolo cinemato-
grafico in piedi, all’uscita dalle fabbriche e dagli uffici alla fine
di una lunga e faticosa giornata di lavoro. La brevità del film era
una necessità, sia per non costringere gli spettatori a rimanere in
piedi troppo a lungo, sia per promuovere un ricambio veloce del
pubblico - e il conseguente aumento degli introiti per la sala - ad
ogni ripetizione dello spettacolo. Di conseguenza, i film venivano
divisi in segmenti direttamente dai distributori, che iniziarono a
rendere seriali oggetti originariamente pensati e prodotti come
unici. Si pensi anche al grande successo delle domestic comedies,
le “comiche” che chiudevano ogni spettacolo drammatico, ricche
di elementi ripetuti e personaggi ricorrenti (Dall’Asta 2009).

La dinamica di produzione seriale applicata al cinema trasfor-


ma profondamente e irreversibilmente le modalità di scrittura e
determina l’emergere di temi e contenuti particolari, così come
era già avvenuto per la letteratura. Il lavoro degli sceneggiatori di
film seriali è basato sul cottimo (Cristofori e Menarini 1986). In-
teressante la relazione che si instaura fra serialità e cronaca, ben
esemplificata dal caso di Fantômas. La pressione a produrre con-
tenuti a ritmo sostenuto tipica del film seriale spinse gli autori ad
attingere alla cronaca del tempo per riempire tutto l’ampio spazio
narrativo disponibile. Le fonti non erano solo i giornali dell’epo-
ca, di cui gli autori conservavano i ritagli nei cosiddetti “armoires
à trucs”, a cui ricorrevano in momenti di crisi creativa (Lacassin
2004), ma anche le notizie sensazionali che avevano colpito la
loro attenzione e quella dei lettori. L’esigenza di disporre conti-
nuamente di contenuti raccontabili e declinabili in formati seriali
faceva sì che i contenuti seriali risultassero particolarmente vicini
all’esperienza dei lettori/spettatori, richiamando alla loro memo-
22 Capitolo I

ria il ricordo di casi reali di cui la storia cinematografica riprende-


va temi e suggestioni. Si creava così un ulteriore vortice relaziona-
le fra il cinema seriale ed il suo pubblico, basato sulla condivisione
di temi, opinioni, fatti di cronaca capaci di sollecitare prossimità
emotiva e linguistica, tessendo una storia comune che avvicinava
il racconto seriale alla vita quotidiana dei suoi fruitori.

Autorialità

Uno dei risultati più caratteristici del metodo di produzione


e di scrittura seriale, basato su regole invariabili, è l’impossibi-
lità da parte del regista di esercitare il controllo totale sull’opera
(Dall’Asta 2009). È sorprendente notare come questa necessità
produttiva, intrinseca alla nascita stessa del cinema, sia stata suc-
cessivamente disconosciuta e negata, per riemergere oggi come
tratto distintivo della Grande Serialità: la figura dello showrun-
ner3 riprende alcuni dei tratti distintivi del ruolo del regista se-
riale delle origini. La cosiddetta complex tv (Mittell 2015) e la ci-
nematic tv (Jaramillo 2013; Mills 2013) di cui le serie tv sono la
massima espressione, assegna al regista-showrunner un ruolo ri-
levante, ma non sovrapponibile alla totale responsabilità autoria-
le attribuita a questa figura nel cinema. Forse neppure nelle serie
cinematografiche come The Young Pope di Paolo Sorrentino4 si
può paragonare il ruolo pur preponderante del regista all’analogo
nella realizzazione di un film di sala; la serialità televisiva risulta
comunque espressione di un lavoro corale, di uno sforzo collettivo
che emerge in maniera ben più evidente rispetto al film.

[nel cinema seriale delle origini] il concetto di invenzione subisce una


trasformazione profonda: non si dà più come genesi del senso nel vuoto
pneumatico dell’ispirazione di un autore demiurgo, ma come ‘ars inve-
niendi’: rinvenimento, riuso e ricombinazione di materiali che vengono
comunque assunti come preesistenti in contrasto col mito romantico
dell’invenzione d’autore (Dall’Asta 2009, p. 42).

3
Si veda il cap. 3.
4
Si veda il cap. 4.
Fondamenti 23

Parallelamente alla ridefinizione del ruolo e delle responsabi-


lità autorali del regista, anche le tecniche e il significato del mon-
taggio assumono una valenza originale nell’ambito della produ-
zione cinematografica in serie. Attraverso il montaggio è possibile
non solo selezionare e prelevare immagini, ma anche innestare,
sovrapporre, recuperare, ricombinare e risemantizzare, creando
innumerevoli variazioni sul medesimo tema capaci di ripropor-
re l’identico e di attribuirgli caratteri di novità: «Il testo seriale e
perciò essenzialmente un testo ‘ricombinante’, un’incessante mu-
tazione che prende le mosse dalla pratica del riuso e del collage»
(Ivi, pp. 45-46).
Tra le prime serie cinematografiche, “le comiche” si presta-
no particolarmente bene sia ad essere fruite nei nickelodeon per
un momento di svago dopo l’uscita dal lavoro, sia a proporre un
personaggio ricorrente a cui il pubblico può affezionarsi, un epi-
sodio dopo l’altro. Nascono così le serie comiche di Cretinetti e
Tontolini (dal 1906). Pochi anni più tardi si impone la serialità
antologica, basata su un personaggio fisso: Nick Carter e Sherlock
Holmes, tra gli altri, provengono dalla letteratura ma sono perso-
naggi di fantasia, senza agganci con la realtà.

Divismo

Un altro importante fenomeno legato allo sviluppo del cine-


ma seriale è lo sviluppo del divismo: il già citato Fantômas nasce
come protagonista di un romanzo a puntate mensili, il cui succes-
so spinge a produrne una versione cinematografica. Ma è soprat-
tutto nel sistema produttivo degli Stati Uniti che il film seriale si
lega strettamente alla nascente figura del divo, che si sovrappone
al suo stesso personaggio. Charlie Chaplin, Rodolfo Valentino,
Douglas Fairbanks, Mary Pickford, Greta Garbo rappresentano
una chiave di accesso ai contenuti filmici: il pubblico si affezio-
na al divo indipendentemente dal personaggio che esso interpre-
ta, ed assiste ai suoi film che ne serializzano non i contenuti, ma
la presenza fisica nella pellicola. Cambiano i ruoli recitati sullo
schermo, insomma, ma il protagonista-divo diventa un elemento
chiave della serialità: la sua presenza in un film genera fideliz-
zazione, discorso sociale, condivisione, pettegolezzo. Il divo cine-
matografico diventa l’incarnazione delle caratteristiche astratte
dell’eroe seriale letterario.
24 Capitolo I

Particolarmente interessante è la nascita del divismo femmi-


nile, che propone la figura della “donna nuova” che in quegli anni
andava precisandosi nelle nascenti metropoli occidentali: una
donna emancipata, che lavora fuori casa, veste abiti alla moda e
ama andare al cinema dopo il lavoro. Per questo nuovo pubblico,
le nascenti agenzie pubblicitarie mettono alla prova le neonate
tecniche di indagine di mercato e costruiscono specifiche strate-
gie mirate a sollecitarne i consumi. L’alleanza fra stampa, editoria
e cinema costruisce un gioco di rimandi dove la formula seriale
diventa la chiave di volta del successo sia di alcuni generi speci-
ficamente femminili, sia di attrici che presto incarnano l’ideale e
il modello estetico ed etico a cui tendere. Il già citato film seriale
What Happened to Mary? (1912) è un chiaro esempio di queste
tendenze e di questo clima culturale e sociale. Si tratta di un serial
in dodici episodi, distribuiti a cadenza quindicinale e promossi su
un periodico mensile destinato al nascente pubblico femminile.
La vita della giovane Mary, ereditiera alle prese con le difficoltà
della metropoli di New York e preda delle mire di un tutore, vie-
ne narrata con la tecnica del cliffhanger: ogni episodio si chiude
su un momento topico, rimandando le spettatrici alla lettura del
periodico, con relativi suggerimenti pubblicitari, nell’attesa della
puntata successiva. La relazione indissolubile fra cinema e pub-
blicità si precisa in questo periodo; il ruolo cardine esercitato fino
a quel momento dalla stampa viene assunto dal cinema, che però
a sua volta coinvolge l’editoria in un gioco di rimandi circolare
imperniato sulla figura femminile, che in questo periodo acqui-
sisce una rilevanza cruciale nello sviluppo del sistema dei media
(Galbiati 2008).
Il successo di What Happened to Mary? è clamoroso, tanto
che la popolarità raggiunta dall’attrice Mary Fuller suggerisce alla
casa di produzione Edison di realizzare un sequel in sei episodi,
dal titolo emblematico Who Will Marry Mary?, dove la giovane
eroina, sopravvissuta alle angherie del tutore e adattatasi alla vita
metropolitana, si accinge fra molte peripezie alla scelta del mari-
to. Appare fondamentale in questa fase la relazione di contiguità e
cooperazione fra stampa e cinema: i periodici femminili lasciano
il posto ai quotidiani come veicolo di diffusione e di rilancio delle
storie seriali cinematografiche, secondo la formula «Read it here
in the morning, see it on the screen tonight» (Ibid.). In breve la
novellizzazione del cinema seriale femminile diventa una prassi
Fondamenti 25

diffusa: titoli come The Adventures of Kathlyn (1914), o Lucile


Love, Girls of Mystery (1915) ottengono un successo inaspettato
sia sulle pagine dei quotidiani che ne pubblicano periodicamen-
te le puntate, sia nelle sale cinematografiche che proiettano gli
episodi. È in questo clima effervescente che, nello stesso anno,
si compie la fusione fra la serialità francese e statunitense: The
Perils of Pauline, prodotto dalla filiale americana della casa ci-
nematografica francese Pathé, lancia la prima “serial queen”, la
diva cinematografica seriale Pearl White (Galbiati 2008; Dall’A-
sta 2009).

Formati

Alla luce della fortuna della Grande Serialità contemporanea,


è interessante rintracciare nel cinema seriale delle origini un’al-
tra componente su cui attualmente il dibattito critico è acceso:
si tratta della questione del formato della serialità, che oggi con-
trappone il modello dei grandi network televisivi basato sui venti-
due episodi a stagione, alla struttura seriale proposta dalla tv via
cavo HBO che predilige stagioni più brevi, fino alla più recente
scelta delle piattaforme in streaming come Netflix che “rilascia-
no” un’intera stagione (di otto-dieci episodi) in un’unica soluzio-
ne. Di questo tema ci occuperemo estesamente più oltre5: qui ci
interessa evidenziare che non si tratta di una istanza originale,
come molti osservatori contemporanei tendono a considerare, ma
piuttosto del ritorno di quanto già accaduto nel primo Novecento,
quando a contrapporsi sulla scena del cinema seriale erano due
modelli culturali e produttivi differenti: appunto, gli Stati Uniti e
la Francia.
Come ricorda Dall’Asta (2009), il passaggio cruciale che in-
fluisce sul formato della serialità cinematografica avviene dal
cosiddetto roman-cinéma, cioè la novellizzazione del film seria-
le in puntate pubblicate su un quotidiano che anticipavano gli
avvenimenti cui i lettori potevano poi assistere sullo schermo,
al cinéroman, che fissa il canone della serialità cinematografica.
Judex (1917), il primo cinéroman della storia, inaugura anche per
il film seriale francese la pratica di collaborazione con la stampa

5
Si veda il cap. 3.
26 Capitolo I

e intende così rispondere al successo del film seriale americano.


Abbandonati i temi del poliziesco e del giallo, su cui si era basa-
ta fino ad allora la produzione seriale francese, Judex propone la
trasposizione in immagini di un grande romanzo popolare, dove
il centro narrativo è rappresentato più dalle relazioni umane che
dagli avvenimenti di cronaca. Premiato da un enorme successo,
dal punto di vista del formato Judex stabilisce il canone della se-
rialità cinematografica francese: «Il canone riguarda: il numero
degli episodi (dodici o, più raramente, dieci); la loro durata (che si
attesta su quella di un mediometraggio), con il primo episodio di
lunghezza doppia); la collocazione del clou drammatico al centro
dell’episodio» (Ivi, p. 139).
Dall’altra parte dell’Oceano, invece, il modello seriale aveva
assunto una fisionomia differente: episodi più brevi e più nume-
rosi e, soprattutto, articolati su quel cliffhanger che chiudeva ogni
puntata e trascinava gli spettatori da un episodio all’altro, ma che
non riuscì a divenire una chiave narrativa efficace nella serialità
europea.
È interessante notare come già i prodromi della serialità ci-
nematografica di inizio Novecento mettano in luce le contrappo-
sizioni e le dicotomie che un secolo più tardi caratterizzeranno,
mutatis mutandis, lo scenario competitivo della serialità televi-
siva, per quanto riguarda i formati, i contenuti e le modalità pro-
duttive.

4. Il linguaggio visivo della serialità dal cinema alla televisione

L’evoluzione parallela della formula seriale e del medium che


la veicola e la supporta è confermata anche dal modo in cui la
prima riesce a modificare non solo le routines produttive, ma il
linguaggio stesso del medium: lo studio system, caratterizzato dal
monopolio della produzione e della distribuzione e affermatosi
negli Stati Uniti, coniuga le basi strutturali della serialità produt-
tiva e distributiva con l’esperienza linguistica del “set palcosceni-
co” iniziata da David W. Griffith. Con The Musketeers of Pig Alley
(1912) e Birth of a Nation (1915) il grande regista stabilisce i cano-
ni linguistici della ripetizione cinematografica, che rappresentano
la grande eredità del cinema verso la televisione. La regola fonda-
mentale stabilita da Griffith è la continuità del movimento nello
Fondamenti 27

spazio: la norma consiste nel capire che, se si pone la macchina


da presa da una parte di questo movimento, nell’inquadratura
successiva bisogna restare dalla stessa parte. La prima posizione
della macchina da presa è stata così adoperata due volte: la ripe-
tizione è entrata a far parte come elemento essenziale della strut-
tura linguistica del cinema. Un sistema analogo di inquadrature
ripetute e seriali si ritroverà in televisione.
Questa osservazione ci conduce alla riflessione da cui siamo
partiti, e cioè a come la serialità contemporanea riguardi sia lo
specifico televisivo, sia le radici del linguaggio cinematografico.
Possiamo dire, dunque, che nella Grande Serialità il cinema si
riappropria, attualizzandola, di una modalità linguistica, estetica
e narrativa che gli apparteneva fin dalle sue origini. Nell’attuale
passaggio evolutivo della formula seriale, il cinema combatte la
guerra della modernità sia attraverso l’innovazione tecnologica,
sia - forse soprattutto - mediante una profonda rilettura ed attua-
lizzazione della serialità, di cui incorpora e rilegge le regole che ne
rendono denso il racconto, ne abbelliscono l’immagine, ne espan-
dono gli orizzonti estetici e narrativi.
Dalla metà del Novecento la televisione incorpora le dinami-
che seriali provenienti dal cinema6 assorbendole e adattandole
alla quotidianità e alla semplicità del suo linguaggio, indirizzato
ad un pubblico ampio e spesso non alfabetizzato. La televisione
si assume il ruolo di rendere familiare la narrazione seriale, as-
secondando il bisogno quotidiano di racconto, di rassicurazione.
Nella serialità contemporanea sembra risolversi la polarizza-
zione che dagli anni Sessanta in poi, soprattutto in Europa e in
particolare in Italia, ha contrapposto da un lato l’opera cinemato-
grafica, quasi dimentica delle sue origini seriali e, dall’altro lato,
la banalità del quotidiano racconto televisivo, necessariamente
poco impegnativo per adattarsi ad un pubblico spesso distratto,
poco scolarizzato, bisognoso di divertimento più che di approfon-
dimento. Il legame che unisce cinema e televisione traspare nella
grammatica visiva della serialità tv, che declina le regole cinema-
tografiche adattandole alle esigenze del proprio pubblico e che ri-

6
E parzialmente dal racconto radiofonico. Si veda tra l’altro Cardini
2004; Innocenti e Pescatore 2008.
28 Capitolo I

sulta particolarmente evidente proprio nella fase evolutiva della


serialità che parte dagli anni Zero.
In questo progressivo processo di avvicinamento fra due lin-
guaggi spesso contrapposti sembra nascere quasi per osmosi un
prodotto che non appartiene in maniera esclusiva né all’uno né
all’altro ma assorbe le positività di entrambi, un ibrido capace di
riassumere lo spessore narrativo, la qualità estetica, la libertà te-
matica tipica del cinema e di assimilare la spregiudicatezza verso
la dimensione economica e la disciplina produttiva derivanti dalle
pratiche seriali di matrice televisiva.
Nella serialità contemporanea i due elementi si fondono in
maniera armonica dando origine ad un genere e ad un linguaggio
visivo e narrativo originale. Sarebbe scorretto ignorare, tuttavia,
che le sue radici affondano anche nel genere seriale indubbiamen-
te più distante dalla complessità e dall’eleganza della Grande Se-
rialità contemporanea: la soap opera.
Come sosteneva già Robert C. Allen, uno dei massimi stu-
diosi della serialità televisiva negli anni Ottanta, le convenzio-
ni stilistiche del cinema americano di genere, sintetizzabili in
“economia, trasparenza, facilità di comprensione”, derivano da
una scrittura visiva seriale ed hanno lasciato tracce evidenti nei
codici visivi della televisione, soprattutto nei sottogeneri e nei
formati della fiction (Allen 1985, p. 64). Nel film hollywoodiano
degli anni Trenta-Quaranta il focus visivo deve essere orientato
costantemente sull’azione narrata, della quale lo spettatore deve
percepire la progressione senza però coglierne l’artificialità tec-
nica (Casetti e Di Chio 1990, pp. 105-106). Questa particolare
formula di scrittura cinematografica si basa sull’alternanza di
tre tipi di inquadrature, che consentono di rovesciare progressi-
vamente le proporzioni visive fra lo spazio rappresentato e i per-
sonaggi: l’inquadratura iniziale è la cosiddetta totale (establi-
shing shot), con cui si mostra per intero il luogo in cui si svolge
l’azione (ad esempio, l’edificio in cui si trovano i personaggi);
questa è seguita dall’oggettiva (master shot), mediante la quale
si inquadra una porzione più ristretta di spazio - ad esempio una
stanza - dove i personaggi ottengono maggiore risalto visivo, ed
il cui punto di vista è quello di un osservatore immaginario si-
tuato al di fuori della scena; infine, il ribaltamento delle propor-
zioni spaziali iniziali si attua con l’uso del campo/controcampo
(shot-reverse shot), che sottolinea l’alternanza del dialogo fra
Fondamenti 29

i protagonisti della scena ripresi a figura intera o a mezzobu-


sto, e con l’insistenza sul primo piano, che conferisce maggiore
spessore emotivo all’azione. Seguendo una struttura ad imbuto,
dunque, si contestualizza la collocazione fisica dei personaggi
e si avvicina lo spettatore al cuore dell’azione, costituito dallo
scambio comunicativo fra i personaggi stessi.
È interessante (e per alcuni versi sorprendente) come queste
convenzioni derivanti dal cinema siano rigidamente rispettate
nella soap opera, il cui processo creativo e produttivo esaspera
i meccanismi di relazione fra linguaggio, scrittura seriale e pro-
duzione nel testo televisivo. Si tratta di un esempio estremo ma
significativo, perché svela il meccanismo industriale che presiede
alla realizzazione del prodotto televisivo e contemporaneamen-
te mostra le costrizioni imposte da quest’ultimo al procedimento
creativo.
Nella soap opera le convenzioni del cinema hollywoodiano su-
biscono una forte compressione in termini spaziali determinata
dalle logiche economiche della produzione, che impongono tem-
pi strettissimi di realizzazione del prodotto finito. Rispettando
la scrittura visiva in tre fasi, la soap ne comprime all’estremo la
prima - la totale - sostituendola con inquadrature fisse e generi-
che del luogo geografico in cui è ambientata l’azione (i cosiddetti
stock shot), che vengono inserite in fase di montaggio; è invece
mantenuta l’attenzione sull’oggettiva, cioè sulla rappresentazio-
ne visiva dell’interno in cui avviene l’interazione fra i personaggi,
e soprattutto si concentra il focus visivo sulla terza fase, con l’uso
quasi esclusivo del primo piano e del campo/controcampo.
Queste particolari tecniche di ripresa permettono di enfatiz-
zare i dialoghi fra due personaggi, che costituiscono la cifra vi-
siva e narrativa della soap opera classica (Geraghty 1991; Allen
1985, 1995). L’angolo di ripresa è generalmente il primo piano
o il mezzo busto, con stacchi alternati e piuttosto lenti da un
personaggio all’altro per seguire i turni di conversazione. In al-
cuni casi, la macchina da presa segue il volto di un personaggio
mentre questi è in ascolto, evidenziandone l’espressione che in
determinate circostanze riveste una particolare importanza nar-
rativa. Caratteristica della soap, ad esempio, è l’inquadratura
finale che chiude sia la singola sequenza narrativa, sia l’intera
puntata: il protagonista è ripreso di tre quarti, in primissimo
piano, ed il suo sguardo evita di incrociare quello dello spettato-
30 Capitolo I

re. Dal punto di vista narrativo questo è l’adattamento televisivo


del cliffhanger, dispositivo narrativo adottato dal cinema seriale
degli anni Dieci per creare suspense e attesa fra gli spettatori;
nella soap opera il cliffhanger coincide con la conclusione di
ogni puntata in cui viene lasciata aperta una domanda cruciale
per lo svolgimento successivo della storia.
La soap opera è il prodotto televisivo più duramente industria-
le, dove l’idea di serialità raggiunge il massimo grado. La sua ca-
ratteristica è la mancanza di chiusura narrativa: le storylines che
sviluppa hanno tutte il carattere della continuità e potenzialmen-
te possono protrarsi all’infinito. La scrittura della sceneggiatura
non giunge mai ad un punto fermo prima della fase produttiva,
come invece accade per il film o per altri formati della fiction tele-
visiva. È un work in progress che si può modificare in qualunque
momento per adattarsi alle esigenze del pubblico, o degli atto-
ri, o della rete. È interessante la contraddizione fra la plasticità
della sceneggiatura e la rigidità della prassi produttiva, che non
permette deroghe né eccezioni al ritmo serrato della settimana
produttiva.
La soap opera rappresenta il caso estremo di serializzazione
produttiva, narrativa e di fruizione; è la metafora perfetta del
concetto williamsiano di flusso televisivo (Williams 1974), che si
declina nella dimensione della quotidianità, della potenziale in-
finitezza, della ritualità ripetitiva e rassicurante. Se ne parliamo
qui, in un volume che si occupa di serialità di altra qualità è per
sottolineare le peculiarità del linguaggio seriale televisivo di cui la
soap è la massima espressione. Questa, a nostro parere, è la “com-
petenza seriale” che la televisione porta oggi in dote al cinema: di-
sciplina, ottimizzazione dei costi, attenzione alla dimensione eco-
nomica del prodotto televisivo, capacità di intercettare i bisogni
narrativi strutturando formati e modalità narrative rispondenti
alle necessità del pubblico e alle risorse tecnologiche ed economi-
che espresse dal mercato.

5. Uno sguardo al caso italiano

Come si è visto fin qui, la storia della serialità corre parallela


alla storia dei media e trova nella televisione un ecosistema (Inno-
centi e Pescatore 2011; Bisoni e Innocenti 2013) particolarmente
Fondamenti 31

favorevole al suo sviluppo. Il caso italiano può risultare utile per


mettere a fuoco luci ed ombre di uno scenario che ha visto in cam-
po, e vede tutt’ora, forze e tensioni contrapposte. Ne è risultato
un modello originale sia per la lunga serialità, sia per quella che
abbiamo definito Grande Serialità, con la nascita del modello Sky
(Scaglioni e Barra 2013). Ripercorreremo rapidamente alcune
tappe significative di un processo discontinuo che mette in luce la
complessità dello scenario seriale contemporaneo7.
Intorno agli anni Ottanta si sviluppa un vivace dibattito inter-
nazionale - che lambisce anche l’Italia - sul ruolo della produzione
originale di fiction seriale. Mentre i sistemi televisivi occidentali
affrontano la fase del consolidamento, la lunga serialità8 si rende
necessaria non solo sotto l’aspetto economico, ma anche perché
riesce a dar voce al national drama, cioè al bisogno di un raccon-
to quotidiano profondamente legato all’esperienza del suo pub-
blico (Allen 1985; Livingstone 1998; Newcomb 2004).
Come è noto, negli anni Ottanta il sistema televisivo italiano
passa dal monopolio Rai alle dinamiche conflittuali della concor-
renza con la nascente televisione commerciale. La conseguente
dilatazione progressiva dei palinsesti genera una forte domanda
di nuovi contenuti. Per il genere della fiction, le produzioni origi-
nali Rai continuano a privilegiare il tradizionale formato della mi-
niserie (da due a quattro-sei puntate), sulla scia dello sceneggiato
degli anni Cinquanta e Sessanta che rispondeva alla vocazione
pedagogica e all’autorevolezza culturale della televisione di stato
(Grasso e Scaglioni 2005; Innocenti e Pescatore 2008; Buonanno
2012); la quota di fiction straniere rimane molto limitata. Media-
set invece punta sull’importazione di prodotti statunitensi: non

7
Una prima versione del presente paragrafo è stata pubblicata nel volu-
me: A. Grasso (a cura di), Storia della comunicazione e dello spettacolo in
Italia - Volume III, I media alla sfida della convergenza (1979-2012), Vita &
Pensiero, Milano 2017, pp. 81-86.
8
Indicativamente, in queste pagine l’espressione “lunga serialità” fa ri-
ferimento alla soap opera, cioè il formato continuo seriale a puntate aperte
trasmesse a cadenza quotidiana. Secondo alcuni autori, invece, la soap opera
sarebbe più correttamente descritta dall’espressione “lunghissima serialità”,
mentre con “lunga serialità” si indicherebbero le serie tv, cioè le produzioni
seriali articolate in più stagioni e/o con un numero di puntate pari o supe-
riore a 10-13 unità per stagione, che noi invece preferiamo definire Grande
Serialità.
32 Capitolo I

avendo le competenze produttive necessarie per produzioni ori-


ginali, preferisce acquistare serialità sui mercati esteri, prevalen-
temente Stati Uniti e America Latina, nei formati tipici del serial
continuo, della soap opera e della telenovela.
Nonostante il caso clamoroso di Dallas (CBS 1978-1991), ini-
zialmente acquistato dalla Rai e trasmesso in sordina e succes-
sivamente portato al successo da Mediaset con accorte strategie
di marketing, la Rai continua a sottostimare le potenzialità della
lunga serialità e a rimanerne distante culturalmente. Non manca il
dibattito interno all’azienda sulla questione9, ma le spinte al cam-
biamento rimangono a lungo inascoltate. Il grande successo an-
che internazionale de La Piovra (1984-2001) sembra confermare
l’orientamento della Rai verso la produzione originale di serialità
basata su criteri diversi dalle logiche commerciali di Mediaset.
Solo cinque anni dopo, tuttavia, lo scenario muta radicalmen-
te: i primi anni Novanta segnano una netta apertura della Rai
verso la lunga serialità di importazione, come dimostra un nuovo
scontro fra i due competitor a proposito un programma seriale di
importazione. Nel 1990 su Raidue debutta Beautiful e lentamente
riesce a costruirsi un solido e inaspettato successo di pubblico,
tanto che - quattro anni dopo - Mediaset riesce ad acquisirne i
diritti: intorno alla più famosa soap opera statunitense viene co-
struito il palinsesto del daytime di Canale 5.
A metà degli anni Novanta si verifica una svolta inaspettata:
è proprio la Rai a decidere di cimentarsi nella produzione ori-
ginale di una soap opera, sulla base del format produttivo della
fortunata soap australiana Neighbours10. La genesi di Un posto
al sole (Raitre 1996-in produzione), le cui storie familiari e sen-
timentali sono ambientate a Napoli, presenta molti punti di in-
teresse, a partire dalla pratica inconsueta di adattare un format
produttivo di matrice anglosassone totalmente sconosciuto allo
spettatore italiano, abituato fino a quel momento alle soap opera
statunitensi e alla telenovela sudamericana largamente trasmesse

9
Cfr. in particolare il cosiddetto “Rapporto Fichera”, in cui si proponeva
la costituzione di una struttura dedicata alla realizzazione di produzioni se-
riali (si veda Silj 1987; Abruzzese, Barlozzetti e Bartocci 2013).
10
Per una trattazione estesa sulla nascita della soap opera italiana e sui
diversi modelli di lunga serialità rimando al mio: La lunga serialità televisi-
va. Origini e modelli, Carocci, Roma 2004
Fondamenti 33

soprattutto da Mediaset. Il modello è il serial drama britannico,


caratterizzato da tematiche sociali e comunitarie, da un’ambien-
tazione realistica, da numerose riprese in esterna: sostanzialmen-
te l’opposto del modello statunitense “alla Beautiful”, basato su
tematiche sentimentali, location indefinite e prevalenza di riprese
in interni.
Dopo un inizio piuttosto faticoso, caratterizzato da ingenuità
produttive e narrative e da una infelice collocazione in palinsesto,
Un posto al sole si stabilizza, tanto da aver superato oggi felice-
mente il ventesimo anno di messa in onda. La risposta delle reti
Mediaset arriva nel 1998 con la produzione di Vivere (Canale 5,
1998-2008), soap opera ambientata sul lago di Como; forte dell’e-
sperienza del suo team produttivo e creativo, in parte maturata
ad Un posto al sole, il debutto di Vivere viene preceduto da una
accurata campagna di marketing e il programma viene collocato
nel daytime di Canale 5, al traino di Beautiful.
Dagli esperimenti rischiosi dei due primi prodotti di lunga se-
rialità italiani prende avvio la fortunata stagione delle produzioni
originali, come Un medico in famiglia (Raiuno, 1998-in produ-
zione), adattamento di un format spagnolo11 (v. cap. 4) e CentoVe-
trine (Canale 5, 2001-2016), seconda soap prodotta da Mediaset,
ambientata a Torino.
Il panorama cambia decisamente a partire dal 2003, con l’ar-
rivo sul mercato televisivo italiano del nuovo player Sky, che pun-
ta da subito ad un pubblico più esigente rispetto alle generaliste e
propone nella fiction quello che viene da subito definito “il model-
lo Sky”: temi di nicchia, anche scomodi o scabrosi; registi di cine-
ma alla direzione dei progetti seriali; attori conosciuti dal grande
pubblico; attenzione alla dimensione internazionale del prodotto
televisivo (Scaglioni e Barra 2013).
La prima produzione è già diventata un classico: si tratta di
Boris, serie comica prodotta dalla consociata Fox Italia (Fox Italia
2007-2010), ambientata nel backstage del set di una fiction tele-
visiva. Il successo è tale che viene realizzata anche la trasposizione
cinematografica (Boris-Il film, 2010). Nell’arco di pochi anni Sky
sviluppa diversi progetti seriali, prendendo come riferimento le
coordinate della grande serialità targata HBO. I primi titoli sono

11
Si veda il cap. 4.
34 Capitolo I

ancora strutturati intorno al rassicurante modello produttivo del-


la miniserie (Quo vadis, baby?, 2008; Moana, 2009; Nel nome
del male 2009), con esiti altalenanti e non sempre convincenti.
Il primo grande successo seriale drama, che diventerà il simbolo
del già citato modello Sky nel suo primo decennio di vita, è Ro-
manzo criminale-La serie (2008-2010). Basata sul romanzo di
Giancarlo di Cataldo pubblicato da Einaudi nel 2002, a sua volta
trasposto in film nel 2005 per la regia di Michele Placido, la serie
diventa il benchmark della serialità Sky, sia per le tematiche trat-
tate (la criminalità organizzata raccontata dal punto di vista dei
suoi protagonisti), sia per il formato (ventidue puntate di un’ora
lorda, sulla falsariga delle grandi produzioni seriali dei network
statunitensi e della stessa HBO), sia per i production values di
livello cinematografico. Il successo di Romanzo criminale apre la
strada alle grandi produzioni che definiranno lo stile della seriali-
tà Sky e che culmineranno nel grande successo internazionale di
Gomorra-La serie (Sky Atlantic 2014-in produzione)12
L’arrivo di Sky modifica profondamente la fisionomia della
serialità originale italiana, generando una serie di reazioni a ca-
tena: la lunga serialità entra in una crisi profonda, da cui rimane
indenne solamente la capostipite Un posto al sole. Mediaset chiu-
de entrambe le sue soap, non senza polemiche da parte del loro
pubblico, e punta su un altro tipo di serialità a basso costo, quella
appartenente al nascente, fortunato genere del reality show, sulle
cui fortune la rete costruirà i suoi palinsesti a partire dal debutto
di Grande Fratello nel 2000. Rai invece torna a puntare sul suo
formato classico, la miniserie trasmessa in prima serata, preva-
lentemente centrata su biografie di personaggi reali e storici, e
sulle saghe familiari. Forte dello straordinario e longevo successo
della serie Il Commissario Montalbano (Raiuno 1999-in produ-
zione), tratta dai romanzi di Andrea Camilleri, negli ultimi anni
si misura felicemente anche con temi e formati diversi, più vicini
agli standard della serialità internazionale. Pur dovendo rivolger-
si ad un pubblico molto ampio, ha prodotto titoli innovativi, come
ad esempio Tutti pazzi per amore (Raiuno 2008-2012) che ita-
lianizza il modello del musical seriale, sia percorrendo la difficile
strada dell’adattamento di format esteri, come Braccialetti Ros-

12
Si veda il cap. 4.
Fondamenti 35

si (Raiuno 2014-in produzione) e Tutto può succedere (Raiuno


2015-in produzione)13.
Tra le righe di questo parziale riassunto della situazione italia-
na traspaiono alcune tendenze significative riguardo allo sviluppo
della formula seriale nella televisione italiana. La breve presen-
tazione del caso italiano fa luce sulle tante contraddizioni, ma
anche sulle accelerazioni e le frizioni che il mercato televisivo ha
affrontato nel nostro Paese nel fare i conti con il modello seriale,
all’interno di un contesto culturale spesso apertamente ostile sia
alla televisione stessa, sia al concetto di serialità, come abbiamo
visto nelle pagine precedenti. Ciononostante, l’attuale offerta ita-
liana di serialità si dimostra in buona salute e capace di risponde-
re con efficacia alla potente diffusione di nuovi formati, dei nuovi
supporti che li veicolano e dei nuovi modelli di fruizione che li
accompagnano.

13
Si veda il cap. 4.
II

STRUMENTI

La Grande Serialità, oggi

Fino a pochi anni fa, studiosi di letteratura o di cinema italiani


non avrebbero mai nemmeno immaginato di esprimersi entusia-
sticamente nei confronti di un prodotto televisivo, né di affrontar-
ne l’analisi. La televisione in quanto apparato produttivo, come
strumento di circolazione e di formazione di contenuti, semplice-
mente non attraversava l’orizzonte teorico a cui appartenevano la
letteratura o il cinema. Anzi, si può dire che venissero considerati
universi contrapposti in termini di qualità e rilevanza culturale. È
appena il caso di ricordare qui l’ampio dibattito su cultura alta e
cultura bassa che dagli anni Cinquanta del Novecento in avanti ha
accompagnato la nascita e lo sviluppo della televisione italiana.
Oggi lo scenario sembra completamente mutato, quantomeno
per quel che riguarda la declinazione del particolare genere televi-
sivo definito col termine-ombrello fiction e a cui appartiene quella
che in queste pagine viene definita Grande Serialità. Il tema è or-
mai entrato a buon diritto a far parte della riflessione interdisci-
plinare e multidisciplinare che coinvolge non solo gli studiosi dei
media e dei loro pubblici, tradizionalmente interessati alla que-
stione, ma anche chi, appunto, di tali temi non aveva mai ritenuto
di doversi occupare.
L’attuale interesse diffuso fra accademici e studiosi riguardo
alla Grande Serialità televisiva è sollecitato dalla ineludibile per-
vasività che il tema ha raggiunto nel discorso comune, e non solo
per il favore che raccoglie fra le generazioni più giovani e storica-
mente più sfuggenti alle categorie degli studiosi di consumi cul-
turali.
Non sapere di cosa parla House of Cards, non aver mai visto
una puntata di True Detective, non riuscire a citare correttamente
38 Capitolo II

i protagonisti di Game of Thrones con ogni probabilità signifi-


ca essere esclusi da una parte cospicua del discorso sociale. La
Grande Serialità non solo ha sollecitato l’attenzione di ambiti di-
sciplinari storicamente distanti da essa, ma ha attratto a sé pub-
blici tradizionalmente lontani dalla televisione tout court, non
soltanto coinvolgendoli in pratiche di fruizione lontane dalle loro
abitudini, ma sollecitandone il coinvolgimento al punto da tra-
sformarli spesso in veri e propri fan.
Cosa è successo in questi pochi anni per trasformare la seria-
lità da “ruota di scorta” degli studi mediali a punta di diamante
della riflessione accademica allargata? Per rispondere a questa
domanda cercherò di analizzare la mutata fisionomia del genere e
del suo pubblico e proverò a considerare la tendenza – sia da parte
del pubblico che degli studiosi – a svincolare la serialità televisiva
dall’universo di senso della televisione, connotata negativamente,
per avvicinarla alla sfera dell’arte, del cinema, della letteratura. In
sostanza, nelle pagine che seguono proverò a tracciare gli attuali
confini di quelle che oggi vengono definite serie tv, e quali sono
le marche di qualità che le contraddistinguono e ne giustificano
lo studio da parte di discipline storicamente estranee all’ambito
televisivo. Verrà delineata la fisionomia del loro pubblico e le re-
lative modalità di consumo, legate sia ai contenuti, sia allo svilup-
po tecnologico, elemento determinante nel modificare le pratiche
di fruizione e nel modellare i contenuti, proiettandoli al di fuori
dei tradizionali confini del medium televisivo. In questo processo
di profonda trasformazione, sembra emergere tra le pieghe della
riflessione teorica la tendenza ad ignorare o sottostimare la com-
ponente televisiva, in favore della prospettiva di analisi derivante
dagli studi sul cinema che ne enfatizzano la dimensione estetica. Il
rischio del ritorno di un pregiudizio culturale che ha abitato la ri-
flessione accademica - soprattutto in Italia - negli ultimi trent’anni
è concreto, e si manifesta ad esempio nell’emergere di una parti-
colare figura di spettatore, che definisco “tele-cinefilo”, di cui de-
scriverò le pratiche di fruizione nelle prossime pagine.
La Grande Serialità rappresenta un’opportunità per ripensare
alcune tradizionali e consolidate categorie analitiche dei media
studies, o per metterle alla prova su nuovi oggetti testuali, senza
cadere però nella tentazione di riproporre le dicotomie e polariz-
zazioni che in passato hanno contrapposto gli studiosi di televi-
sione e di cinema.
Strumenti 39

In pochi anni la fisionomia di un intero genere si è trasforma-


ta. Definizioni date per acquisite ed entrate nel lessico quotidiano
diventano rapidamente obsolete: cos’è oggi un serial? True De-
tective si può definire un telefilm? House of Cards è una serie tv
o un film espanso? Game of Thrones può essere chiamato fiction?
E Gomorra? La chiarezza definitoria è spesso un buon indicatore
della freschezza e della popolarità di un argomento: quando le de-
finizioni non specialistiche (giornali, internet, discorso comune) e
quelle accademiche non coincidono, significa che c’è margine per
esplorare i confini di quel territorio. (Cardini 2014; Grasso 2007).
Per mettere a fuoco la velocità di trasformazione della seria-
lità contemporanea, l’anno-spartiacque è il 2010: Netflix non
aveva ancora avviato l’attività di produzioni originali; Amazon
Studios, la branca del colosso del commercio elettronico che si
occupa di serialità televisiva, stava muovendo i primi passi ed era
ben lungi dall’impensierire i grandi network; la distinzione fra
le cosiddette “serie dei network” e le serie “indipendenti” aveva
contorni sfumati. Grey’s Anatomy (ABC 2005-in produzione) era
alla sua quinta, emozionante stagione, quella che si chiuse con la
drammatica morte di George, uno dei protagonisti più amati; The
Walking Dead (AMC 2010-in produzione) e Boardwalk Empire
(HBO 2010-2014) debuttavano quell’anno; al di qua dell’oceano
iniziavano il period drama Downton Abbey (ITV 2010-2015) e
Sherlock (BBC 2010-in produzione). Il panorama della serialità
di quel periodo era composto da titoli come The Good Wife (CBS
2009-2016), Glee (Fox 2009-2015), Flashforward (ABC 2009-
2010), Lie to me (Fox 2009-2011) e Modern Family (ABC 2009-
in produzione) tutte al debutto nel 2009, mentre Desperate Hou-
sewives (ABC 2004-2012) e Dr. House (Fox 2004-2010) erano
ormai alle battute finali del loro pluriennale successo. Mad Men
(AMC 2007-2015), alla terza stagione, stava consolidando la fama
di serie di qualità.
Forse il segnale più evidente del cambio di passo della se-
rialità statunitense in quel periodo è la chiusura di Lost (ABC
2004-2010). Da quell’ultima puntata ebbe origine quel fenomeno
di craze (Smelser 1965) che da allora in poi diventerà un chia-
ro indicatore di qualità nella serialità televisiva: dopo l’entusia-
smo collettivo generato dalla visione, i fan sperimentano il senso
di abbandono che coincide con la fine di una serie molto ama-
ta, condivisa e discussa. Lost ha rappresentato per le serie tv un
40 Capitolo II

cambiamento netto dei codici espressivi e linguistici, una frattura


profonda con tutto quanto lo ha preceduto. La sua conclusione ha
aperto scenari nuovi e per molti versi inattesi: il suo inaspettato
successo ha trasformato le serie tv in un prodotto pregiato, intor-
no al quale si coagula un pubblico ampio, diversificato e molto
appetibile per l’economia televisiva.
A partire dal 2010 la produzione di serie tv si arricchisce di ti-
toli significativi: HBO lancia il kolossal Game of Thrones (2011-in
produzione). Debuttano The Killing (Fox 2011-2014), American
Horror Story (FX 2011-in produzione), Homeland (Showtime
2011-in produzione), Revenge (ABC 2011-2015). Una dopo l’al-
tra, arrivano Scandal (ABC 2012-in produzione), The Newsroom
(HBO 2012-2014), House of Cards (Netflix 2013-in produzione)
e Orange is the new black (Netflix 2013-in produzione), Fargo
(FX 2013-in produzione), True Detective (HBO 2014-in produ-
zione).
Quest’ultimo titolo è particolarmente rappresentativo del mu-
tamento di attitudine da parte della critica e del pubblico verso
il prodotto seriale. True Detective ha suscitato un fenomeno di
hype paragonabile in parte a quello di Lost, ma appoggiandosi
su elementi diversi: la presenza di attori cinematografici di prima
grandezza1, la firma di un regista proveniente dal cinema indipen-
dente, il recupero di un genere vintage come la serie antologica
e l’autorevolezza del marchio HBO, cioè elementi che concorrono
a definire la fisionomia di True Detective come prodotto di qua-
lità. Qualità che viene attribuita alle componenti stilistiche ed
estetiche derivanti dal cinema, e perciò rafforza il fenomeno della
tele-cinefilia2 che, soprattutto a partire da allora, caratterizza la
fruizione ed in parte il discorso critico sulla serialità.
Una delle caratteristiche delle serie tv più recenti è la centra-
lità della stagione come unità di misura, che non corrisponde
semplicemente alla somma delle parti che la compongono – le
puntate o gli episodi -, ma costituisce una nuova Gestalt narrativa
all’interno della quale è possibile sviluppare una molteplicità di
storylines che coinvolgono gruppi numerosi di personaggi dalla

1
Matthew NcConaughey e Woody Harrelson; il regista è Cary Fukunaga,
vincitore del Premio miglior regia al Sundance Festival 2009.
2
Si veda il cap. 3.
Strumenti 41

psicologia complessa. Dietro il discorso sociale che accompagna


sempre più spesso il lancio di nuovi titoli sul mercato della Gran-
de Serialità c’è la profonda trasformazione della fisionomia e dei
ruoli dei player coinvolti, che non appartengono soltanto all’am-
bito produttivo e creativo del cinema, ma sempre più spesso pro-
vengono dal mondo televisivo ed incorporano, modificandole, le
logiche narrative, distributive e di fruizione proprie della rete.
Proprio questa complessità produttiva, narrativa e di fruizione
è la caratteristica più significativa della Grande Serialità (Mittell
2015). Tenendo presente questo punto di vista, nelle prossime
pagine cercherò di evidenziare come le nuove serie tv non siano
definibili solo come cinema espanso, né solo come televisione di
qualità, ma diano corpo piuttosto ad una inedita e affascinante
fusione tra due universi tradizionalmente percepiti come distanti
sia dagli studiosi dei media che nel discorso sociale.

1. La spinosa questione delle definizioni

La ricerca della definizione perfetta non è amata né dagli stu-


diosi né dagli studenti, e spesso a ragione. Non sempre, infatti,
è necessario entrare nel merito del “nome della cosa” se questa
operazione ha un mero effetto nozionistico o cosmetico che si ri-
solve in uno sterile esercizio di stile. In ambito televisivo, in parti-
colare, si assiste spesso alla frizione fra la terminologia utilizzata
dai professionisti e le definizioni teorizzate in ambito accademico,
che talvolta arrivano addirittura ad indicare oggetti differenti. Ad
esempio, ad una classificazione dettagliata dei sottogeneri tele-
visivi da parte degli studiosi - docudrama, docusoap, docureali-
ty, docufiction - corrisponde una drastica semplificazione nella
quotidianità dell’uso professionale, dove un prefisso docu- onni-
comprensivo descrive più uno stile visivo che una differenza di
contenuti e formati.
La chiarezza terminologica è rilevante, però, quando si trat-
ta di individuare con precisione il perimetro di un fenomeno per
evitare ambiguità che possono incidere pesantemente sui risultati
di ricerca.
42 Capitolo II

L’esempio del termine soap opera può essere utile per chiarire
i termini della questione. Con questa definizione si indicava, nel
linguaggio comune come negli studi accademici, un prodotto sen-
za qualità stilistiche né valore estetico o culturale; questa consue-
tudine durò fino agli anni Novanta, quando in area anglosassone
si sviluppò una robusta corrente di studi di matrice culturologica
che valorizzò il testo apparentemente più triviale del panorama
mediale, portandone alla luce la complessità di formati e contenu-
ti, il forte impatto sull’immaginario e sulle pratiche di fruizione e
di negoziazione del significato, la varietà tematica e narrativa in ri-
ferimento ai molteplici contesti culturali in cui questa forma seria-
le si era sviluppata (Allen 1985, 1995; Livingstone 1998; Brunsdon
1997; Geraghty 1991). La connotazione negativa attribuita alla de-
finizione “soap opera” nascondeva una grande quantità di forme
testuali diverse per contenuti, formati e pratiche di fruizione.
Una analoga ambiguità – o quantomeno una forma di sem-
plificazione – sembra emergere oggi in riferimento alle serie tv:
quali programmi fanno parte di questa categoria? Non sembra-
no esserci dubbi per quanto riguarda Game of Thrones, House
of Cards, Breaking Bad, True Detective. Anche Lost, Desperate
Housewives, Grey’s Anatomy, 24, Scandal, Mad Men possono
rientrarvi, anche se non condividono le caratteristiche estetiche e
di formato dei titoli nominati in precedenza. Qualche perplessità
emerge nel definire serie tv programmi come X-Files o E.R.-Me-
dici in prima linea, a cui alcuni attribuiscono l’etichetta “telefilm”
o “serial”, o ai prodotti seriali italiani, dove Gomorra e Romanzo
Criminale vengono definiti serie ma Braccialetti Rossi o Tutto
può succedere vengono invece chiamati più spesso fiction.
La genesi di quest’ultimo termine merita una piccola digres-
sione. Nella lingua di origine identifica un ambito diverso da
quello che invece indica il suo uso in Italia: in inglese, fiction ap-
partiene alla letteratura (“science fiction”, ad esempio), mentre
per definire un prodotto televisivo di carattere narrativo si ricorre
più spesso al termine drama. In Italia, invece, l’uso del termine
fiction risale agli anni Ottanta, con la nascita della neotelevisione
ed il conseguente ingresso dei prodotti narrativi seriali americani
nei palinsesti nazionali. Il significato del termine adottato in Italia
lo allontana dall’etimologia originaria anglosassone e lo associa,
per ingenua assonanza, al significato di finzione. In Italia, cioè, si
ricorre all’utilizzo di un termine inglese (che nel paese d’origine
Strumenti 43

rimanda a ben altro significato) per descrivere quei prodotti di


finzione che, negli anni Ottanta, fanno per la prima volta la loro
comparsa in maniera massiccia nei palinsesti della neonata tele-
visione commerciale. La scelta del termine inglese fiction per de-
finire i programmi statunitensi che stavano entrando massiccia-
mente nei palinsesti della neonata televisione commerciale lascia
trasparire una chiara presa distanza, un sospetto di inautenticità
cui si contrappone, con una valorizzazione positiva, la verità e l’a-
derenza alla realtà di altri generi della televisione nazionale (l’in-
formazione in primo luogo). Al significato di fiction, insomma, si
lega storicamente nel nostro Paese la diffidenza verso un genere
ritenuto inautentico, scivoloso, poco credibile. Col passare del
tempo l’uso del termine ha subìto una curiosa inversione di sen-
so, estendendosi a tutto il vasto ambito della produzione di storie
televisive di origine interamente italiana. Sono fiction prodotti
seriali italiani come Il commissario Montalbano (Raiuno 1999-
in produzione), Don Matteo (Raiuno 2000-in produzione), ma
anche adattamenti come Un medico in famiglia (Raiuno 1998-
in produzione), I Cesaroni (Canale5 2006-2014), le biografie di
personaggi storici: insomma, la parola fiction è arrivata ad indi-
care un genere televisivo narrativo i cui contenuti sono suddivisi
in puntate, trasmesse preferibilmente in prima serata sulle reti
generaliste.
Tuttavia, la questione resta aperta, perché nemmeno in que-
sto caso ci troviamo di fronte ad una definizione assoluta: come
abbiamo anticipato più sopra, a rigore sarebbe corretto definire
fiction anche un prodotto recente come Gomorra-La serie; ma
sia gli studiosi, sia i professionisti che lo hanno realizzato e man-
dato in onda si riferiscono invece a Gomorra come ad una serie
tv (Scaglioni e Barra 2013). E torniamo quindi alla questione di
partenza.
Un recente tentativo di delimitare il perimetro dell’espressio-
ne “serie tv” pone a confronto la serialità televisiva statunitense a
partire dagli anni Duemila con il film, la letteratura e le forme te-
levisive narrative precedenti (Bandirali e Terrone 2013). Secondo
questa lettura, rispetto al film la serie tv ha la proprietà di esten-
dere nel tempo la propria testualità e, di conseguenza, di ampliare
le potenzialità della narrazione. A differenza del film, che sviluppa
la storia in un unico testo, il racconto seriale si articola su tre li-
velli: la puntata, la stagione e la serie nella sua interezza (Ivi, p.
44 Capitolo II

24). Rispetto al romanzo, la serie tv ha una diversa articolazione


temporale. Se il romanzo può rapportarsi alla dimensione tempo-
rale in maniera astratta e non sempre commensurabile, la serie tv
duplica l’estensione del tempo vissuto, «con l’ambizione non solo
di riprodurlo, ma anche di imporgli una struttura e un’articolazio-
ne, e di attribuirgli un senso e un valore» (Ivi, p. 36).
A questo proposito, è significativo anche il confronto tra le
serie tv contemporanee e il telefilm. Questa parola, di uso cor-
rente nella televisione italiana degli anni Ottanta, si riferisce ai
prodotti seriali di importazione prevalentemente statunitense che
riempivano i palinsesti della neonata televisione commerciale. Si
trattava di un formato fino ad allora quasi totalmente sconosciuto
alla televisione italiana, la cui formula narrativa dominante era
lo sceneggiato di derivazione letteraria. Telefilm intende perciò
definire un ibrido che unisce i due universi distanti del cinema e
della televisione, ma riferendoli ad un prodotto la cui qualità non
è paragonabile a quella del film di sala. Rispetto alle serie tv con-
temporanee, anche i telefilm sono articolati in puntate o episodi,
ma non considerano la stagione come una unità significativa dal
punto di vista narrativo o estetico. La stagione del telefilm, cioè,
ha una funzione meramente pragmatica, produttiva e distributi-
va: «Nessuno considera le stagioni di Perry Mason o de L’ispetto-
re Derrick come si considerano le stagioni de I Soprano o di Mad
Men» (Ivi, p. 50).
La stagione3 diventa dunque una componente distintiva della
Grande Serialità, l’unità di misura che supera la distinzione tra
puntate aperte, episodi chiusi, serial, serie, serie serializzate ecc.
che ha tradizionalmente accompagnato la riflessione sulla fisio-
nomia del genere in ambito italiano (Buonanno 2002). È la suddi-
visione in stagioni ad esprimere il potenziale narrativo delle serie
tv contemporanee, che estendono i propri confini seguendo linee
verticali e orizzontali che debordano dal perimetro delle singole
puntate (Thompson 2002), ampliando gli universi di senso com-
pressi nella ristretta dimensione temporale del film e aggiungen-
do la forza dell’immagine alle grandi narrazioni del romanzo. La
stagione è dunque una dimensione narrativa espansa, che preve-

3
Sulla rilevanza della stagione come unità testuale della Grande Serialità
si veda il cap. 3.
Strumenti 45

de una meticolosa struttura produttiva e rappresenta il più evi-


dente elemento distintivo della Grande Serialità; ma da sola non
è ancora sufficiente a dar conto della sua complessità, né delle sue
contraddizioni.

2. La Grande Serialità: caratteristiche (e contraddizioni)

Nell’ultimo decennio, la televisione ha attraversato una pro-


fonda trasformazione tecnologica, di linguaggio e di pubblico che
le serie tv simboleggiano al massimo grado:

Definire “complesso” un prodotto mediale significa evidenziarne la


sofisticatezza e le sfumature, suggerendo che l’oggetto in questione pre-
senta una visione del mondo capace di evitare le semplificazioni eccessi-
ve e artificiali e di ricercare la ricchezza attraverso l’analisi continua e il
confronto. “Complessità” suggerisce che il consumatore della complessi-
tà abbia bisogno di immergervisi pienamente e con attenzione totale, e
che questa immersione genererà un’esperienza diversa da un’attenzione
parziale o distratta. […]. La complessità non va quindi vista come un cri-
terio valutativo, ma certamente serve per comprendere come la televi-
sione seriale riesca a raggiungere grandi risultati estetici” (Mittell 2015,
pp. 46-47).

Secondo alcuni studiosi italiani, però, il concetto di qualità non


potrebbe essere applicato a serie tv mainstream come Grey’s Ana-
tomy o CSI: struttura narrativa, sceneggiatura, regia, recitazione
non sarebbero allo stesso livello di True Detective o Fargo, per
citare solo due dei titoli spesso considerati sinonimo di serialità
di qualità (Fumarola 2014; Demaria 2014). A differenza di quan-
to accade in ambito anglosassone dove alcuni recenti contributi
hanno fatto chiarezza sulla questione della cosiddetta cinematic
tv (Mittell 2015; Mills 2013; Jaramillo 2013; McCabe and Akass
2007), in ambito italiano il tema sembra ancora scarsamente a
fuoco, e comunque indicativo di quanto il dibattito sulla serialità
contemporanea sia ricco di stimoli ma allo stesso tempo sfuggen-
te: benché si trovi al centro del discorso sociale, sembra ancora
poco definito il suo perimetro teorico.
46 Capitolo II

Uno degli argomenti più discussi nel recente dibattito italia-


no è se le serie tv possano essere considerate o meno un gruppo
omogeneo di testi. È facile notare grandi differenze tra le serie dei
primi anni Novanta (o i telefilm degli anni Settanta) e le produzio-
ni che a partire dagli anni Duemila possono essere propriamente
considerate serie tv (Buonanno 2012). Anche i gusti e le prati-
che di visione sono variegati e differenziati. La passione dei fan di
Grey’s Anatomy’s, per quanto intensa e longeva, si manifesta con
modalità ben diverse dall’entusiasmo scatenato dall’uscita della
nuova stagione di True Detective, di Game of Thrones o di Nar-
cos. Sono senza dubbio serie tv, ma diverse tra loro per struttura
narrativa, numero di episodi e stagioni, stili di regia e attoriali,
sceneggiatura, dialoghi, composizione del pubblico, rilevanza sui
social media - per citare solo alcuni dei possibili ambiti di con-
fronto.
Attraverso il concetto di complessità, Mittell propone di su-
perare la tradizionale opposizione tra i television studies e i film
studies e sottolinea la necessità di archiviare anche la limitante
questione della tv di qualità:

Non credo che la complex tv sia un sinonimo di tv di qualità: quest’ul-


tima è una definizione problematica, che mette in evidenza il punto di vi-
sta dello studioso a scapito dei programmi che prende in considerazione,
mentre il primo è un termine analitico che non necessariamente implica
un giudizio di valore. Complessità e valore non sono garantiti reciproca-
mente (Mittell 2013, p. 46).

Sarebbe auspicabile applicare il concetto di complessità anche


all’interno del dibattito italiano sulle serie tv. Perciò in queste pa-
gine ho utilizzato l’espressione Grande Serialità, che ho elaborato
a partire dalla definizione di Mittell «complex TV drama», e che
a mio parere si applica alle forme seriali la cui unità di misura è
la stagione e non più la somma dei singoli episodi/puntate, come
è stato più sopra ricordato (Bandirali, Terrone 2013). La serialità
televisiva tradizionale - quella del telefilm, del serial, della serie a
cornice, insomma delle definizioni utilizzate dagli anni Novanta
in poi per indicare i sottogeneri della fiction televisiva (Buonan-
no 2002) - è basata sulla ripetizione di unità narrative singole,
programmate con regolarità su base settimanale. Nella Grande
Serialità, invece, i meccanismi di ripetizione si applicano ad uni-
Strumenti 47

tà narrative estese, composte da un numero variabile di punta-


te, tra le sei-otto e le ventidue unità4. Questo modello narrativo
deriva prevalentemente dalla possibilità di pubblicare (release)
l’intera stagione in un’unica soluzione, una possibilità consenti-
ta dalla rapida affermazione dei servizi di streaming video come
Netflix o Amazon e dalla conseguente pratica del binge watching
(Poniewozik 2012; Roberts 2015), cioè il consumo compulsivo e
sequenziale di diverse puntate in un’unica soluzione temporale
che permette al fruitore di esaurire la visione dell’intera stagione
in pochi giorni5. Alla Grande Serialità appartengono dunque testi
complessi sotto l’aspetto narrativo e produttivo, definibili come
programmi televisivi ma anche film e/o opere letterarie, capaci
di superare sia la chiusura narrativa del film, sia la rigida suddi-
visione in unità discrete e ripetibili tipica della serialità televisiva
tradizionale (gli episodi a cadenza settimanale). Alcuni studi ita-
liani hanno recentemente accolto e valorizzato questo concetto,
con l’obiettivo di superare alcune delle rigidità disciplinari inter-
ne ai media studies che impedivano di applicare allo studio della
serialità contemporanea il concetto più flessibile di «ambiente
mediale» (Boccia Artieri 2012; Abruzzese 2015) e di «ecosistema
narrativo» (Bisoni e Innocenti 2013; Innocenti e Pescatore 2011,
2016)6.

Serie tv e pratiche di fruizione: tra fandom e social network

Dalla metà degli anni Novanta le pratiche di fruizione rese


possibili dalla diffusione del web e dei social media hanno messo
in discussione la nozione di audience televisiva tradizionale. L’i-
dea di un pubblico televisivo fondamentalmente attivo ma legato
alle logiche mainstream di trasmissione dei contenuti televisivi
(reti broadcast, palinsesti rigidi, programmazione settimana-
le dei contenuti seriali) è stata profondamente modificata dalla
possibilità di condividere contenuti e commentarli in tempo reale
con altri gruppi di utenti, oltre che dalla profonda e conseguente

4
Per l’analisi dettagliata dei formati della Grande Serialità si veda il cap. 3.
5
Sulla pratica del binge watching si tornerà più volte nel presente volu-
me; si veda in particolare il cap. 3.
6
In particolare, dell’approccio degli ecosistemi narrativi mi occuperò nel
par. 2.3.
48 Capitolo II

trasformazione dei profili socio-demografici degli spettatori del-


la tv tradizionale, profilati dai consolidati sistemi di rilevazione
degli ascolti come Auditel. Oltre alla condivisione istantanea di
commenti e contenuti derivanti dalla visione di una serie, i social
network hanno favorito la formazione di competenze e concetti
nuovi nello studio del pubblico dei media. I concetti di esperienza
e condivisione hanno radicalmente modificato l’agenda dei media,
insieme alla ridefinizione delle pratiche del fandom che agiscono
sulla morfologia dei prodotti mediali, e sulle serie tv in particolar
modo. La nascita della social tv segna un punto di non ritorno
nella storia degli usi della serialità televisiva: non solo ne espande
il pubblico, ma ne sottolinea la plasticità rispetto al film. L’uso
dei social network come strumento di interazione, conoscenza e
condivisione di contenuti trova nella Grande Serialità televisiva
un terreno ideale di sviluppo (Jenkins 2006a, 2006b; Scaglioni
2006, 2011; Colletti e Materia 2012; Colombo 2015; Boccia Artieri
2012).
È indubbio che uno degli elementi costitutivi della Grande Se-
rialità rispetto alle serie del periodo precedente è la capacità di
generare fenomeni di fandom più potenti - comunque diversi -
da quanto già ampiamente analizzato a proposito di programmi
seriali di culto come Star Trek, X-Files, Twin Peaks o lo stesso
Lost (Jenkins 2006b). Nelle sue precedenti forme, il fandom si
esprime principalmente in luoghi di nicchia, come le convention
organizzate via posta, i primi forum nascosti tra le pieghe del web
dei primi anni Novanta dove pochi appassionati si confrontavano
animatamente sulle trame intricate di Twin Peaks, le pagine delle
cosiddette webzines, i primi blog. Nell’epoca della Grande Seria-
lità, invece, la diffusione dei social network trasforma profonda-
mente le pratiche e la fisionomia dei fenomeni di fandom:

Il fandom nell’era di internet e del digitale esce dalle restrizioni spa-


zio-temporali connesse alla sua tradizionale povertà di mezzi e perde
buona parte della sua separatezza rituale per entrare in maniera massic-
cia nella vita quotidiana e nelle identità delle persone che ne sono coin-
volte. Le pratiche del fandom diventano, in breve, ampiamente disponi-
bili (Scaglioni 2006, p. 43).

I social network trasformano la passione per un oggetto me-


diale in un discorso condiviso, in un confronto continuo e serrato
Strumenti 49

in cui il commento - e soprattutto la visibilità - diventano persi-


no più rilevanti del contenuto cui fanno riferimento. Condividere
con i propri contatti Facebook o commentare su Twitter il proprio
punto di vista su una serie tv permette di mettere in comune – ma
soprattutto di mettere in mostra – la propria competenza, curio-
sità, conoscenza.

Il web ha reso più mainstream il fandom, consentendo a molti più


spettatori di partecipare ad attività normalmente riservate a comunità
marginali interessate a testualità marginali. […] Parrebbe che il web ab-
bia aperto i confini del fandom, consentendo a più persone di partecipare
a culture di fandom e finendo per designare molti più programmi televi-
sivi, film e celebrità come degni di diventare oggetti di culto per dei fan”
(ibid.).

I social network espandono le potenzialità di significazione


della testualità oggetto del culto e del suo pubblico; il discorso
condiviso su un determinato prodotto seriale esce dalla nicchia
per trasferirsi sul vasto palcoscenico del mainstream. Facebook o
Twitter permettono a chiunque di esprimere il proprio parere su
una serie televisiva e condividerlo più o meno pacificamente con il
punto di vista altrui. Da questo serbatoio potenzialmente infinito
di contenuti, l’industria televisiva ricava dati preziosi per i propri
obiettivi produttivi, sottoponendo i social network a misurazio-
ni che tentano di delineare e profilare il vastissimo “pubblico del
web”, come il discorso comune ama definirlo. È molto vivace il
confronto tra esperti di marketing, sociologi e psicologi sulla va-
lidità di metodi di rilevazione che spesso duplicano i tradizionali
criteri adottati per la misurazione degli ascolti della tv tradizio-
nale, replicandone però anche i numerosi limiti. La ricerca di un
corretto strumento di raccolta e analisi delle pratiche di fruizione
di contenuti seriali sul web è un tema ancora aperto nella rifles-
sione accademica.
Parallelamente all’espansione resa possibile dalla pervasività
dei social network, il fandom della Grande Serialità manifesta
anche una interessante tensione opposta verso l’individualismo,
quando non addirittura il narcisismo: essere i primi a commen-
tare una nuova puntata o stagione, a scovare un nuovo titolo “di
culto”, a spoilerare la serie del momento costruisce una reputa-
zione online a soggetti sia individuali che collettivi (blog, forum),
50 Capitolo II

il cui valore è misurabile, tra l’altro, nella velocità di acquisizione


di informazioni inedite e nella capacità di orientare il discorso
collettivo su un tema oppure su un altro. L’espansione verticale
e orizzontale della struttura narrativa della Grande Serialità, la
complessità dei personaggi che la popolano e le pratiche di frui-
zione legate alle tecnologie digitali si prestano a sollecitare la po-
larizzazione fra individualismo e condivisione (Thompson 2002),
conferendo nuovi significati all’attività di spoiling già a suo tempo
valorizzata dallo stesso Jenkins (2006) come uno degli indicatori
dell’attività e intraprendenza del pubblico online.
La fisionomia della Grande Serialità e del suo nuovo spettatore
sembrano dunque la risultante di diverse tensioni che ne attra-
versano il vasto campo di forza: l’espansione dell’estetica e della
narrazione cinematografica verso dimensioni temporali nuove; la
progressiva erosione dei confini produttivi fra cinema e televisio-
ne favorita dal mutamento tecnologico, ed il conseguente proces-
so osmotico di scambio tra professionalità produttive e creative
fra due ambiti (cinema e tv) tradizionalmente poco permeabili; la
nascita di uno spettatore-fan che, attraverso le possibilità espres-
sive offerte dai social network e alle pratiche discorsive che essi
consentono, sceglie la Grande Serialità come terreno privilegiato
per esibire sia la propria individualità, sia il suo bisogno di con-
fronto con un pubblico potenzialmente infinito.
La complessità della Grande Serialità, dunque, sembra pro-
durre un interessante processo di rispecchiamento tra le trasfor-
mazioni del testo mediale narrativo all’incrocio fra televisione e
cinema, e la formazione di una inedita fisionomia del suo spetta-
tore. L’articolazione narrativa in blocchi-stagioni promuove la vi-
sione individuale attraverso la pratica diffusa del binge watching,
che può avvenire su diversi device (computer, televisione, tablet,
smartphone) in una dimensione temporale frammentata e non li-
neare, dove l’esperienza soggettiva viene condivisa con commenti
e discussioni che hanno luogo nello spazio-tempo dei social me-
dia. Ne risulta un’esperienza molto differente non solo dalle ca-
ratteristiche del fandom mainstream (Scaglioni 2006), ma anche
dalle sue prime espressioni digitali, il cui capostipite è stato Lost
(Pearson 2009).
Strumenti 51

Serie tv e qualità

La questione della qualità, già affrontata in maniera indiretta


nelle pagine precedenti, è forse il tema sul quale si è maggiormen-
te concentrata l’analisi sulla televisione fin dagli anni Ottanta, nel
tentativo di definire un concetto molto sfuggente e che adombra
il rischio del pregiudizio culturale che ha contrapposto i vetusti
concetti di cultura alta e bassa, e ancora persiste in alcuni am-
biti della riflessione italiana sulla televisione. Il vivace dibattito
che ha considerato il ruolo della qualità nella tv italiana (Sartori
1994; Lasagni, Richeri 1996), non è sempre sfuggito alla tentazio-
ne del confronto con cinema, radio e letteratura su dimensioni
disomogenee, trascurando ad esempio le diverse pre-condizioni
di fruizione dei diversi media, o ignorandone le peculiarità in ter-
mini produttivi, economici e industriali. Da questi confronti la
televisione è uscita quasi sempre perdente e, in particolare, è sta-
ta a lungo oggetto di critica negativa proprio la dimensione della
serialità (Abruzzese 1984; Casetti 1984; Buonanno 2002; Cardini
2004). Come ho evidenziato nel capitolo precedente, la «cattiva
televisione» per lungo tempo è parsa manifestarsi al massimo
grado proprio nella dimensione seriale, associata all’idea di sper-
sonalizzazione, mancanza di autorialità, produzione orientata al
consumo e non all’arte, fino alla cosiddetta mercificazione della
cultura.
Un significativo mutamento di tendenza è avvenuto negli anni
Novanta, in concomitanza con un deciso cambiamento struttura-
le della televisione italiana. A fronte della produzione della prima
soap opera originale (Un posto al sole, Raitre 1996-in produzio-
ne) si è radicalizzata la polarizzazione fra sostenitori e detrattori
della serialità televisiva (Buonanno 2012), mentre la contempora-
nea diffusione della prima ondata di prodotti seriali statunitensi
di alto livello qualitativo (si pensi a E.R., Twin Peaks, X-Files)
ha messo in discussione i presupposti di gran parte della critica
negativa sulla televisione. Da quel periodo in poi, l’idea di quali-
tà non ha più potuto essere considerata estranea alla dimensione
seriale. Tuttavia, il termine di paragone per definire la qualità te-
levisiva dei prodotti nazionali ha continuato ad essere la prossi-
mità con gli standard estetici del cinema: quanto più una serie
presentava marche stilistiche che la avvicinavano al film, tanto
più veniva definita di qualità.
52 Capitolo II

La prossimità all’estetica del cinema è tra i parametri di qualità


anche nelle due Golden Age della televisione americana (Thomp-
son 1996). La prima Golden Age della televisione coincide con
gli esordi del medium e si attesta intorno agli anni Cinquanta. Le
analogie fra i prodotti appartenenti alla prima Golden Age della
televisione americana con la paleotelevisione italiana dello sce-
neggiato e dell’originale televisivo sono evidenti nella prossimità
all’ambito delle grandi narrazioni letterarie e al teatro, ancor più
che al cinema. Molto diversa è invece la fisionomia della seconda
Golden Age, descritta in un celebre passaggio:

In qualche momento degli anni Ottanta, la tv divenne arte. Raccolte


di sceneggiature televisive fecero la loro comparsa sugli scaffali delle li-
brerie. I dipartimenti universitari di letteratura cominciarono a organiz-
zare corsi intitolati “Analisi del linguaggio televisivo”; famosi romanzieri,
insieme a registi di cinema e teatro, iniziarono a sgomitare per lavorare
nel nuovo medium, una volta così disprezzato (Ivi, p. 59).

Non intendo riassumere qui i contenuti di un dibattito vivace


su un tema tanto ampio e sfuggente. Mi preme piuttosto sottoli-
nearne un aspetto, che differenzia il punto di vista anglosassone
(e americano in particolare) da quello italiano: nel definire cosa
intenda per “televisione di qualità”, Thompson sovrappone –
quasi inavvertitamente – il discorso sul linguaggio televisivo tout
court ai prodotti seriali narrativi. In sostanza, a suo parere la te-
levisione di qualità non è distinta dalla serialità di qualità. Anzi,
al contrario: la miglior televisione è quella che sa produrre una
serialità di alto livello, paragonabile all’arte ma allo stesso tempo
palesemente debitrice alla componente industriale, produttiva ed
economica, che non deve essere sottovalutata né rinnegata.
Intorno agli anni Ottanta, dunque, il dibattito sulla qualità te-
levisiva si accende sia negli Stati Uniti che in Europa, e in Italia
in particolare, dando origine a due posizioni diverse: la seriali-
tà italiana di qualità viene considerata tale se ripropone marche
estetiche appartenenti al cinema; la serialità americana di qualità,
invece, viene considerata tale se sa valorizzare al meglio le com-
ponenti distintive del linguaggio televisivo seriale, se sa rispettare
criteri non solo estetici, ma economici e produttivi.
Strumenti 53

Con l’esplosione della Grande Serialità intorno agli anni Due-


mila7, tuttavia, la complessità cui abbiamo ampiamente fatto
riferimento nelle pagine precedenti modifica decisamente i ter-
mini della questione della qualità, tanto che lo stesso Thompson,
chiamato a contribuire ad una attualizzazione del suo lavoro a di-
stanza di qualche anno (Thompson 2007), mette in discussione
alcuni dei parametri da lui stesso enunciati dieci anni prima, il
che sembrerebbe confermare la difficoltà (o forse semplicemente
l’inutilità) di trovare un punto fermo alla questione.
L’evoluzione del concetto di qualità televisiva nell’ultimo de-
cennio, quantomeno in ambito statunitense e in relazione a pro-
dotti statunitensi, non prescinde dai cosiddetti production values
(Cardwell 2007, p. 26), né dal contesto economico e tecnologico
da cui la serie proviene e che ne influenza l’estetica. Il confronto
con il cinema non si gioca in termini di contrapposizione, ma di
espansione: una serie tv non è intesa come (cattiva) imitazione
del film, ma come una sua estensione, che ne assorbe i caratteri
estetici e li amplia, arricchendoli, grazie alla struttura episodica e
stagionale.
Gli elementi di contesto che nel mercato televisivo americano
hanno reso possibile lo slittamento del concetto di qualità televi-
siva avvicinando sempre più la Grande Serialità all’idea di cinema
espanso (e, analogamente, di letteratura espansa dalle immagini)
sono sostanzialmente riconducibili a due macroaree: una politica
di investimenti economici che ha favorito lo sviluppo della seria-
lità televisiva senza penalizzarla nei confronti del cinema (He-
smondhalgh 2008), e la trasformazione favorita dallo sviluppo
tecnologico intorno agli anni Duemila.
Non è il caso qui di soffermarsi su un tema che vanta una va-
stissima bibliografia a partire dai noti lavori di Jenkins (2006b),
Castells (2006), Bolter e Grusin (1999), per non citare che i più
noti studiosi che hanno introdotto nel dibattito concetti fonda-
mentali quali convergenza, ri-mediazione, transmedialità. Per gli
obiettivi del presente lavoro, basti ricordare che la svolta verso la
qualità che ha coinvolto la serialità statunitense prende le mosse

7
La cosiddetta terza Golden Age della serialità statunitense, secondo al-
cuni osservatori inizia con The Sopranos e la conseguente affermazione della
rete via cavo HBO (1999) e secondo altri invece esplode con la prima stagione
di Lost (2004).
54 Capitolo II

non solo da questioni puramente estetiche, ma anche da ragioni


radicate nel contesto culturale, economico e tecnologico da cui
nasce la Grande Serialità. Accenniamo solo alla rilevanza della co-
siddetta “svolta digitale”, al conseguente ampliamento esponen-
ziale delle piattaforme e dell’offerta televisiva, che a sua volta ha
comportato un profondo ripensamento dei concetti di pubblico,
palinsesto, programmazione e produzione. Vale la pena di ricor-
dare anche un aspetto poco considerato dello sviluppo tecnologi-
co, ma decisivo nella trasformazione del medium televisivo e delle
sue relazioni con il cinema: la digitalizzazione ha inciso profon-
damente sulle tecniche di ripresa e di montaggio, permettendo
all’immagine televisiva di raggiungere una qualità molto vicina a
quella cinematografica (McCabe e Akass 2007). Anche questo ele-
mento ha contribuito a ridurre le resistenze verso la serialità da
parte dei professionisti del cinema (attori, registi, sceneggiatori)
che avevano contraddistinto il periodo pre-digitale.
Mittell esprime chiaramente le differenze tra l’atteggiamento
culturale americano e quello italiano ed europeo in generale:

‘Televisione di qualità’ è un’espressione usata più comunemente in


Europa, con riferimento a programmi ritenuti rilevanti da studiosi e
stampa. È usata molto meno negli Stati Uniti, anche se quest’etichetta
viene spesso applicata a produzioni americane. La maggior parte degli
studiosi americani è scettica verso l’enfasi sulla qualità e spesso esprime
apertamente ostilità verso chi considera la televisione un oggetto da giu-
dicare in termini estetici (Mittell 2015, p. 210).

Nella stessa direzione si pone il dibattito in ambito statuniten-


se sulla cinematic television (Mills 2013; Jaramillo 2013):

È chiaro che il termine [cinematic] è associato ad un’idea gerarchica


di qualità ed è percepito come un complimento, quando viene applicato
alla televisione… Questo significa che lo stile televisivo sembra diventare
interessante solo quando si basa sulle convenzioni di un altro mezzo che
gode di una più solida legittimazione culturale. L’uso del termine nei te-
levision studies non è mai innocente (Mills 2013, pp. 64-65)8.

8
trad. it. a cura di chi scrive.
Strumenti 55

Benché questo dibattito sia ancora vivo anche negli Stati Uni-
ti, gli studiosi americani sono generalmente più sensibili alla di-
scussione dei production values (Cardwell 2007), cioè al contesto
economico e tecnologico in cui vengono sviluppate le serie tv, e
a come tale contesto influenzi la dimensione estetica. La natura
industriale della tv viene considerata anche dal dibattito sulla
complex tv, che amplia così il proprio ambito e in qualche modo
sfuma e riduce il riferimento ai valori cinematografici.
Al contrario degli studi italiani sulla produzione seriale, an-
cora poco numerosi (Scaglioni e Barra 2014; Barra, Bonini e
Splendore 2016; Menduni e Catolfi 2009), le ricerche statunitensi
sull’estetica della televisione (Mittell 2013, 2015; Pearson 2009;
Jacobs e Peacock 2013; Mills 2013) prendono in considerazione
sia il ruolo dell’investimento economico nello sviluppo della se-
rialità (Hesmondhalgh 2008), sia il ruolo della digitalizzazione
e i cambiamenti non solo nelle pratiche di consumo, ma anche
nei processi produttivi e negli aspetti tecnici che permettono alla
televisione di raggiungere una qualità tecnica “cinematografica”
(McCabe e Akass 2007).
In Italia, invece, la dimensione industriale e la legittimità eco-
nomica della serialità sono state spesso trascurate dai television
studies - e in parte lo sono ancora.

Serie tv e tele-cinefilia

La Grande Serialità è dunque il prodotto dell’unione di diversi


elementi: lo slittamento progressivo verso la compattezza della
stagione espande le possibilità narrative; i cambiamenti tecnolo-
gici permettono uno scambio prolifico tra cinema e televisione,
sia in termini di routine produttive che di professioni creative;
l’uso dei social media permette alle nuove generazioni di spettato-
ri e fan di esibire le proprie competenze attraverso la discussione
della densità delle strutture narrative, la fruizione multi-schermo
e la pratica del binge watching. A partire da questi elementi è
possibile rintracciare nel dibattito italiano sulle serie una caratte-
ristica che riassume molte delle contraddizioni evidenziate finora,
e che definirei tele-cinefilia.
Questo concetto è un adattamento al contesto italiano della
classica definizione «telefilia» coniata da John Caughie: «Uno
strano neologismo che è di per sé una provocazione» (Caughie
56 Capitolo II

2006, p. 6). Caughie parte dalla considerazione del termine cine-


filia, soprattutto in riferimento al lavoro di Elsaesser (2005) e si
chiede se sia applicabile alla televisione. Nell’ipotesi di Caughie,
la cinefilia può essere definita come una forma di amore idealiz-
zato per il cinema che, unito al ricordo e alla nostalgia, genera
un attaccamento che «determina un profondo legame emotivo
con l’oggetto di studio, che è allo stesso tempo oggetto d’amore»
(Caughie 2006, p. 9). È possibile, si chiede l’autore, un atteggia-
mento simile nei confronti della televisione?
Secondo Caughie, è evidente la possibilità di paragonare la
televisione al cinema, e tale dignità deriva dalla sua capacità di
«richiederci un certo grado di distacco intellettuale e intelligente
dallo shock e dalla discontinuità del flusso» (Ivi, p. 15).
Ai fini della nostra analisi è interessante osservare come il ter-
mine televisione, per Caughie, non sia rigidamente riferito alle se-
rie, ma comprenda il più ampio concetto di «buona televisione».
La telefilia, nelle parole di Caughie, descrive l’amore per quegli
aspetti particolari del linguaggio televisivo che «richiedono la no-
stra intelligenza percettiva […] e […] possono offrire un’esterio-
rità da valorizzare, piuttosto che un’interiorità in cui perderci»
(Ivi). In questa prospettiva la relazione tra cinema e televisione
non è percepita in termini gerarchici, come accade in gran parte
del dibattito accademico internazionale; di conseguenza, all’in-
terno di questa cornice concettuale è legittimo distinguere tra un
atteggiamento “cinefilo” e uno “telefilo”.
Nel dibattito accademico italiano, invece, emerge una relazio-
ne gerarchica tra cinema e televisione. Ne consegue che è forse
più appropriato parlare di “tele-cinefilia” per identificare l’atteg-
giamento verso la Grande Serialità sviluppatosi nel nostro pae-
se, dove - come abbiamo discusso nei paragrafi precedenti - la
specificità delle componenti televisive viene spesso sottostimata
rispetto agli elementi cinematografici. Con l’espressione “tele-ci-
nefilo” intendo fare riferimento ad una figura stereotipata, non
(ancora) suffragata da verifiche empiriche, la cui esistenza è dedu-
cibile dalle descrizioni dello spettatore della Grande Serialità che
emergono dagli studi recenti in merito e dal discorso sociale onli-
ne rappresentato da blog, forum, social network in cui si discute
di serie tv. Il tele-cinefilo non guarda la televisione tradizionale
né ama il cinema di consumo. Pratica con assiduità la socialità
in rete e vi esibisce la sua competenza prevalentemente cinema-
Strumenti 57

tografica, applicandola con soddisfazione a quella che ritiene –


appunto – la massima estensione del linguaggio cinematografico:
la serie televisiva di qualità, dove ritrova gli attori, i registi, gli
sceneggiatori che provengono dal cinema che più ama. La moda-
lità di visione che caratterizza il tele-cinefilo è il binge watching,
praticato preferibilmente su computer o tablet, e che gli permette
di godere appieno della caratteristica essenziale della Grande Se-
rialità, cioè quella espansione narrativa che estende i confini tem-
porali di visione troppo ristretti del film rendendoli un’esperienza
totalizzante, che produce la sensazione che non finisca mai, che
non si debba più aspettare per incontrare quell’universo narrati-
vo ma, anzi, che sia possibile immergervisi per giorni, senza fare
altro e senza nessuna interruzione obbligata.
La compulsività sembra essere una caratteristica diffusa fra i
tele-cinefili, insieme al nerdismo (Nugent 2008). Essere nerd, in
questo caso, significa esibire competenze specialistiche su aspetti
apparentemente secondari di oggetti di consumo comune, ed ar-
rivare prima degli altri alle novità, ad essere riconosciuto esper-
to e autorevole dalla comunità digitale in cui ci si trova inseriti e
alla quale si partecipa attraverso i social network. Il tele-cinefilo
è alla ricerca dell’autorevolezza che gli permette di segnalare alla
propria comunità di riferimento cosa guardare e cosa no; ha il gu-
sto per le anteprime ed il piacere del gossip; ama l’esercizio della
stroncatura e la ricerca delle citazioni.
In questa prospettiva è interessante ad esempio la progres-
siva trasformazione del significato e della rilevanza degli Emmy
Awards, la cerimonia di premiazione dei programmi televisivi
nata come “Oscar di serie B” e via via trasformatasi in un evento
internazionale, seguito da un pubblico sempre più vasto. Origina-
riamente gli Emmy Awards venivano attribuiti alla totalità dei ge-
neri televisivi, mentre attualmente riguardano quasi unicamente
le serie e i loro protagonisti: attori, registi, musicisti, sceneggiato-
ri, showrunner sfilano su un red carpet identico a quello del Ko-
dak Theatre di Los Angeles, dove ogni anno si svolge la cerimonia
degli Academy Awards.
La tele-cinefilia italiana è evidente anche in alcune dinamiche
di programmazione televisiva: prima dell’inaugurazione nel 2014
del canale dedicato Sky Atlantic, le serie tv venivano trasmesse
da Sky Cinema, in origine quasi esclusivamente dedicato ai film.
Anche il marketing e la programmazione di Sky Atlantic seguono
58 Capitolo II

il modello della promozione cinematografica: anteprime per gior-


nalisti, partecipazione a festival, cerimonie di premiazione.

3. La Grande Serialità nel dibattito accademico

Come abbiamo rapidamente anticipato nelle pagine preceden-


ti a proposito delle definizioni, il processo attuale di rivalutazione
e analisi multidisciplinare della serialità televisiva sembrerebbe
riportare alla luce, mutatis mutandis, alcune delle dinamiche
che hanno accompagnato la fortuna critica della soap opera, tra-
sformandola da prodotto deteriore ad emblema della plasticità
del testo televisivo, capace di coagulare intorno a sé - tra gli anni
Ottanta e Novanta del Novecento - il nascente e proficuo nucleo
internazionale dei television studies e degli women studies (Allen
1985, 1995; Ang 1985; Livingstone 1998; Hobson 2003). Come è
accaduto per lo studio della soap opera negli anni Ottanta e No-
vanta del Novecento, l’attuale centralità della Grande Serialità è
rappresentativa delle spinte, delle opportunità e delle contrad-
dizioni che animano il discorso accademico e sociale intorno ad
essa. Inoltre, sembra riproporsi una analoga varietà di declina-
zioni locali nell’approfondimento di alcuni dei temi che ne fanno
parte. In alcuni contesti culturali la discussione si concentra sul
fandom, in altri sulle formule narrative e sulle modalità più effi-
caci per indagarne la struttura, in altre ancora diventa centrale la
questione della qualità.
Un confronto fra due formule seriali tanto diverse suona in-
dubbiamente provocatorio, ma non è questa la mia intenzione:
intendo sottolineare chiaramente che l’obiettivo non è certo met-
tere a paragone soap opera e serie tv né sotto l’aspetto tematico,
né per quel che riguarda la struttura narrativa o la composizione
del pubblico. Il mio obiettivo è evidenziare una analogia per quel
che riguarda l’acquisizione di rilevanza nel dibattito accademico
di due oggetti tanto diversi tra loro, in due fasi diverse della sto-
ria dei media e della serialità. Entrambe le formule seriali hanno
costituito (la soap opera) e stanno rappresentando oggi (le serie
tv) un terreno di confronto stimolante - e talvolta scivoloso - per
discipline storicamente distanti tra loro, che hanno trovato allora
e trovano oggi in due oggetti mediali una sfida teorica capace di
mettere alla prova i propri apparati metodologici. Come è acca-
Strumenti 59

duto per la soap opera negli anni Novanta, sembra manifestar-


si anche riguardo alla Grande Serialità contemporanea il rischio
che il dibattito si polarizzi su alcuni temi e privilegi solo alcuni
strumenti di analisi, non ultima l’antica questione - mai del tut-
to superata - dell’egemonia culturale che prefigura, tra l’altro, la
gerarchizzazione tra approcci e discipline teoriche in relazione al
medesimo oggetto di studio.
Alla luce di questa premessa solo apparentemente parados-
sale, quali sono dunque i nodi intorno ai quali si orienta attual-
mente il dibattito critico sulla Grande Serialità? Per tentare una
risposta è utile ripercorrere le principali tappe della ricerca sulla
serialità televisiva a partire dalla sua affermazione sullo scenario
internazionale intorno agli anni Ottanta del Novecento.
Come è noto, il dibattito critico internazionale sulla serialità
televisiva ha attraversato fasi alterne. La sostanziale trasparenza
del tema per tutti gli anni Settanta del Novecento corrisponde alla
mancanza pressoché totale di rilevanza accademica del mezzo te-
levisivo tout court come oggetto di studio. È a partire dalla metà
degli anni Ottanta che si manifesta un deciso interesse per la tele-
visione come ambito di studio (Fiske 1987; Newcomb 1984), con
il parallelo sviluppo del filone degli audience studies (Ang 1985;
Morley 1992) e dei cultural studies di matrice strutturalista (Hob-
son 2003; Geraghty 1991).
L’arrivo massiccio di prodotti narrativi seriali nei palinsesti
televisivi statunitensi ed europei a partire dagli anni Ottanta por-
ta l’attenzione degli studiosi dei media sia sul mezzo televisivo
stesso (Newcomb 1984; Fiske 1987), sia soprattutto su una parti-
colare declinazione della serialità: la soap opera. Nello stesso pe-
riodo il paradigma degli studi sull’audience si trasforma, passan-
do dalla considerazione del pubblico passivo all’idea di consumo
produttivo (Ang 1985; Morley 1992), trovando nella soap opera
un oggetto capace di mettere alla prova le capacità interpretative
del pubblico (Allen 1985). L’attenzione per la formula narrativa
aperta della soap e per le sue molteplici letture possibili è al cen-
tro dell’interesse della semiotica (Hobson 2002; Geraghty 1991);
nel perimetro dei nascenti cultural studies prende forma la cor-
rente degli women studies, secondo cui la soap è il testo elettivo
sia per rimarcare la subalternità del ruolo femminile nella società
contemporanea, sia per dimostrarne la capacità creativa di inter-
pretazione del testo (Brunsdon 2000; Hobson 2002).
60 Capitolo II

Parallelamente allo sviluppo delle posizioni spesso radicali


degli women studies, lo studio della soap opera in ambito anglo-
sassone diventa terreno di confronto per sviluppare un approccio
multidisciplinare, che chiama in causa prospettive teoriche sto-
ricamente distanti dallo studio dei media, e della televisione in
particolare. Nella prospettiva di Sonia Livingstone, ad esempio
(1998), la soap opera è affrontata con gli strumenti della psicologia
sociale e dell’etnografia, nella convinzione che sia indispensabile
superare i ristretti e penalizzanti confini disciplinari per aprirsi
ad uno studio centrato sul tema della negoziazione di significato
fra testo e fruitore. Anche la dialettica fra globale e locale, di cui la
soap è chiara espressione nel transito verso contesti culturali di-
versi, è stata considerata da discipline tradizionalmente distanti
dallo studio della televisione (Allen 1995).
Questa sintetica ricostruzione del dibattito critico sulla soap
opera permette di delineare un possibile parallelismo con quan-
to sta accadendo nell’ultimo decennio relativamente alle serie tv.
Anche in questo ambito sembra emergere un percorso di valoriz-
zazione e rivalutazione di una formula seriale precedentemente
trascurata da diversi approcci disciplinari, valorizzazione che si
manifesta nel coinvolgimento di discipline tradizionalmente di-
stanti dallo studio della serialità stessa, come i film studies, o l’e-
stetica letteraria, o gli studi comparatistici. Questa vivacità acca-
demica e teorica è un segnale non solo della freschezza del tema,
ma anche ulteriore conferma di quanto la chiave d’accesso della
serialità nell’industria culturale permetta di comprendere la fisio-
nomia del mediascape in cui le sue forme storiche si inseriscono.
I nuclei attorno ai quali si articola il dibattito sono ricondu-
cibili ad alcuni concetti-chiave che ho richiamato nei paragra-
fi precedenti: la vexata quaestio della qualità, che nelle sue più
recenti declinazioni tematizza tra l’altro la dialettica - spesso fin
troppo vivace - fra estetica cinematografica ed estetica televisiva
(Mittell 2015); il perimetro attuale del fandom (Stein 2015; Hil-
ls 2002; Gary, Sandvoss e Harrington 2017), potente strumento
di lettura delle dinamiche di fruizione della serialità che si rivela
oggi non del tutto adeguato a definire la molteplicità di pratiche
che accompagnano alcuni dei prodotti seriali più recenti; l’evolu-
zione del cosiddetto transmedia storytelling (Jenkins 2006), che
rende ragione della complessità narrativa, produttiva e fruitiva
del prodotto seriale, con il rischio di trasformarsi nel tempo in
Strumenti 61

un termine-ombrello depotenziato del suo significato originario;


il recente concetto di ecosistema narrativo (Innocenti, Pescatore
2011, 2016) che tenta di superare alcuni limiti di diversi approcci
analitici nello studio delle formule narrative seriali.

Alcuni concetti-chiave

Un primo nucleo di studi, forse il più ricco, si concentra intor-


no al tema della qualità, già affrontato nel paragrafo precedente,
sul quale si delinea un deciso confronto fra l’approccio dei film
studies e quello dei television studies. Come è noto, la questione
della qualità ha impegnato gli studiosi di televisione e di media
in dibattiti spesso accesi (McCabe e Akass 2007), in cui il con-
cetto risulta quasi sempre sinonimo di valorizzazione estetica.
Applicando ai contenuti televisivi le categorie interpretative uti-
lizzate per analizzare il film, ne risulta una lettura oppositiva che
penalizza la narrazione televisiva. Come abbiamo visto più sopra,
recentemente al rigido concetto valutativo di qualità è stato con-
trapposto il più duttile concetto di complessità (Mittell 2015).
Altrettanto centrale nell’attuale dibattito sulle serie tv, è il
tema della cosiddetta cinematic television, che pone al centro
della valutazione di una serie tv i criteri legati all’immagine, alla
dimensione sonora, allo stile visivo (Mills 2013; Jaramillo 2013;
Cardwell 2007). Secondo questa prospettiva, la marca distintiva
della serialità di nuova generazione sarebbe rintracciabile nella
sua distanza dal linguaggio televisivo, nella sua capacità di mo-
strare al suo pubblico qualcosa che “non si era mai visto prima
in tv”. Già presente nello stile degli MTM studios, che fra gli anni
Settanta e Ottanta caratterizzò certa produzione seriale america-
na definita appunto di qualità, la marca di eccezionalità non te-
levisiva della produzione seriale si trasferisce in anni più recenti
allo stile HBO, il cui famoso claim, come è noto, recita: “It’s not tv,
it’s HBO”. In questa prospettiva, le serie tv sono dunque tanto più
significative e degne di nota quanto più sono in grado di proporre
una «densità di texture visiva» che le allontana dalla televisione
tradizionale per avvicinarle alle peculiarità stilistiche del film.
Insieme all’idea di televisione di culto (Scaglioni 2006), il vi-
vace dibattito sul fandom ha operato inizialmente una distinzione
netta tra fan e spettatore, dove il primo era identificato come un
soggetto attivo nella produzione testuale ed il secondo, invece,
62 Capitolo II

semplicemente coinvolto nell’attività di visione e non di elabo-


razione testuale produttiva. La diffusione dei social network ha
contribuito a modificare la fisionomia del fan, facendolo uscire
dalle pieghe più nascoste dei forum quasi clandestini in Rete per
proiettarlo nella dimensione quotidiana di una attività di condivi-
sione semplice ed accessibile. Il concetto di fan non rimanda solo
all’idea di un giovanissimo appassionato esperto della Rete, che
interviene consapevolmente e attivamente nella costruzione del
testo seriale (fan fiction, fan subbing ecc.). Viene spesso definito
fan anche uno spettatore più adulto, assiduo, consapevole e coin-
volto pur senza partecipare in prima persona alla costruzione di
testualità alternative o complementari sollecitate dal testo seriale
(Hills 2013).
Il concetto di produttività non sembra ormai più adeguato a
descrivere le attività possibili sollecitate dall’esposizione ad un
prodotto complesso come una serie tv contemporanea. Parten-
do dal concetto di produttività testuale elaborato da Fiske (1987)
in un ambiente definito “1.0” e basato sulla tripartizione fra pro-
duttività enunciativa, semiotica e testuale, Hills (2013) lo mette a
confronto con le pratiche rese possibili dal web 2.0. Ne risulta il
tentativo di definire nuove tipologie di produttività testuale, che
individuano a loro volta diverse tipologie di fan, comprese anche
quelle cosiddette «incompetenti». Hills evidenzia il limite dell’ap-
proccio di Fiske e dei cultural studies, che sembrerebbe ricondu-
cibile all’idealizzazione dell’attività dei fan, mentre il web 2.0 ne
porterebbe alla luce anche la povertà creativa.
In sintesi, sembrerebbe oggi necessario interrogarsi non solo e
non tanto sulla qualità (ancora una volta) della testualità prodotta
dai fan digitali, quanto piuttosto sull’identità reale dei fan stessi,
ad esempio sul loro profilo sociodemografico per poter avanzare
ipotesi interpretative sulla correlazione con le tematiche proposte
dalle nuove serie tv, o con i profili di consumo mediale, o con i
gusti estetici, ecc. La diffusione della serialità più recente, cioè,
sembra aver depotenziato il valore euristico del termine fan senza
aver ancora trovato un'alternativa che riesca a rendere ragione
delle numerose possibili declinazioni delle attività e delle compe-
tenze dei destinatari.
Nella prassi, anche senza riscontri empirici sono evidenti al-
tri comportamenti, meno discussi ma non meno rilevanti: sono
ad esempio quegli spettatori che non si impegnano in discussio-
Strumenti 63

ni on line, né si esprimono sui social network, ma si godono la


propria passione senza esplicitarla in attività comunicative con-
divise. Una semplificazione così polarizzante finisce non solo per
banalizzare, ma anche per nascondere pratiche di consumo che
meriterebbero indagini capaci di far emergere il comportamento
multiforme del nuovo pubblico seriale. All’estremo opposto degli
studi sul fandom, che spesso rilevano comportamenti residuali o
idiosincratici o relativi a nicchie e gruppi ristretti, persistono le
tradizionali tecniche di misurazione degli ascolti, utilizzate per ri-
levare pratiche di consumo generaliste - come il sistema Auditel -
che nulla hanno a che fare con la struttura della serialità contem-
poranea e con i supporti e le modalità con le quali le serie vengono
oggi consumate. Basti pensare al concetto di “trending topic” su
Twitter, che riproduce le logiche quantitative senza riuscire a dar
conto delle ragioni che le producono: occupare la prima posizione
in una discussione non significa che il tema di cui si parla sia gra-
dito o apprezzato.
Torniamo brevemente sulla questione del fandom e delle ca-
ratteristiche del pubblico della Grande Serialità. I margini teorici
si precisano grazie alle teorie di Henry Jenkins (2006), che ha
evidenziato le enormi potenzialità della rete nel favorire la par-
tecipazione e la produttività del pubblico nei confronti del testo
seriale, che si presta ad essere manipolato, contraddetto, amplia-
to, espanso ben oltre i suoi confini concreti e metaforici. Le teorie
di Jenkins hanno conosciuto una enorme fortuna critica a par-
tire dalla metà degli anni Zero in riferimento ad una particolare
categoria di prodotti seriali complessi il cui capostipite è Lost, il
capolavoro che ha ridisegnato il perimetro della serialità televi-
siva (Pearson 2009). Concetti quali produttività, condivisione,
interazione, transmedialità, insieme alla fortunata definizione di
bracconaggio testuale (textual poaching) con cui Jenkins descri-
ve l’attività di saccheggio del testo da parte dei fan, fanno il loro
ingresso nella cassetta degli attrezzi dello studioso di serialità e
vengono utilizzati come chiave interpretativa prevalente nei con-
fronti dell’attività delle audience.
In contrasto con questa prospettiva, una lettura in chiave sto-
rica sottolinea invece come la collaborazione ed il coinvolgimen-
to del pubblico nei confronti del testo seriale non sia tipica della
contemporaneità e dei media digitali, ma risalga già all’epoca del
feuilleton:
64 Capitolo II

Già Eugène Sue, con i Misteri di Parigi (1842) riceveva lettere con
richieste da parte dei suoi lettori (pubblicate sullo stesso quotidiano, Le
Journal de Débats, con le risposte dell’Autore). […] L’interattività non
appartiene solo all’era tecnologica, ma è intrinseca alla natura cumulati-
va e ‘durativa’ del testo seriale stesso. […] Ciò che si vuol sostenere è che
la serialità è sempre stata un luogo di scontro dialettico tra concezioni
politicamente opposte della modernità […] ciò che ne fa un fenomeno
così rappresentativo delle tensioni e delle contraddizioni culturali del
mondo moderno è la capacità di dar luogo a testi attivi, capaci di mobili-
tare l’attenzione del fruitore (Dall’Asta 2009, p. 13-20).9

Al di là della polemica, ci sembra particolarmente interessan-


te il punto di vista secondo cui il testo seriale costruisce il proprio
pubblico, riproducendo la regola più volte ricordata in queste pa-
gine che vede la corrispondenza tra lo scenario tecnologico di una
data epoca storica e le forme della serialità ad esso contemporanee.

Correlata al tema del fandom è la questione del transmedia


storytelling (Jenkins 2006), concetto intorno al quale si è strut-
turata la riflessione multidisciplinare sulle serie tv a partire dalla
metà degli anni Zero. L’idea che un testo narrativo possa essere
declinato su diverse piattaforme senza perdere contatto con il te-
sto-matrice, ma anzi ampliandolo ed espandendolo, ha affascina-
to in particolare narratologi e mediologi, che si interrogano sulle
forme che può assumere la narrazione all’interno della dinamica
policentrica e polisemica della Rete (Castells 2006). La dimensio-
ne tecnologica assume un ruolo centrale, portando gli studiosi ad
interrogarsi su temi quali il mutamento delle dinamiche di frui-
zione determinati dal second screen, le modalità di articolazione
narrativa rese possibili dalla fruizione in rete e dalle pratiche di
downloading e l’influenza del supporto tecnologico sulle dinami-
che creative delle serie stesse.
Ad uno scenario tecnologico e produttivo in rapida evoluzio-
ne corrisponde una formula seriale difficilmente riconducibile
alle coordinate con le quali è stata precedentemente analizzata in

9
Si veda anche J. Hayward, Consuming Pleasures. Active Audiences
and Serial Fictions from Dickens to the Soap Opera, University of Kentucky
Press, Lexington 1997.
Strumenti 65

quanto testo. Le logiche del multipiattaforma e del multiscreen,


insieme alla testualità prodotta dai fan, sfidano gli approcci anali-
tici della narratologia e della semiotica.
Nel recente modello degli ecosistemi narrativi, basato sull’ar-
chitettura dell’informazione, gli elementi che compongono il si-
stema interagiscono e si influenzano reciprocamente in maniera
continua, dinamica e fluida (Innocenti e Pescatore 2011; Innocen-
ti, Pescatore e Rosati 2016). In questa prospettiva, il testo seriale
è solo una delle molteplici componenti del sistema. Con l’intento
di superare i limiti concettuali e metodologici dell’idea tradizio-
nale di testo, la rappresentazione di una serie tv come ecosistema
narrativo permette di considerarla come un complesso sistema
evolutivo di relazioni e significati, la cui struttura aperta poggia
non solo sulle componenti narrative e strutturali, ma anche sulla
cornice mediale e culturale in cui l’oggetto seriale si colloca:

I prodotti seriali audiovisivi contemporanei non sono più semplici


oggetti testuali, ma sono il frutto di una progettazione a ecosistema, per
cui si progetta un modello generale pensato in anticipo per evolversi e
che abbia un elevato grado di coerenza tra tutti i suoi componenti. Si
pensa cioè a un concept che funziona da matrice per i possibili svilup-
pi dell’universo seriale, i cui contorni non sono definiti a priori. La tra-
smissione televisiva diventa una sorta di big bang a partire dal quale, nei
casi di successo, si espande un universo che ha le caratteristiche di un
sistema relativamente autonomo, i cui elementi si sviluppano secon-
do una logica evolutiva piuttosto che seguendo rigide determinazioni
progettuali e la cui dimensione non è limitata ai confini degli oggetti
testuali. In altre parole un ecosistema narrativo (è questa la definizione
che proponiamo) è una totalità che non può essere ridotta alla somma
degli oggetti testuali che ad esso si riferiscono, così come la sua evolu-
zione non può essere descritta secondo un progetto o un modello pree-
sistente o comunque statico. Gli ecosistemi narrativi sono caratterizzati
dall'apertura, dall'interconnessione, dalla tendenza al raggiungimento e
al mantenimento dell'equilibrio e dalla logica non procedurale, cioè «non
sono determinati da una successione sintagmatica di funzioni, ma da ele-
menti dichiarativi che descrivono l’ambiente di riferimento» (Innocenti
e Pescatore 2011, p. 143).

Considerare la Grande Serialità come un sistema complesso


permette di superare i limiti sia di un approccio centrato sulle di-
66 Capitolo II

namiche interne al testo, sia di una prospettiva che consideri uni-


camente gli aspetti della fruizione. Entrambe queste dimensioni
vengono ricomprese in un orizzonte più ampio, che considera il
risultato delle interazioni fra tutti gli elementi del sistema: dallo
scenario tecnologico alle caratteristiche narrative, dalle pratiche
di consumo alle routines produttive. Ciascuna di queste compo-
nenti agisce sulle altre e, a sua volta, ne è influenzata. Il testo se-
riale è una “matrice” che non solo si espande al di là dei confini
della testualità tradizionale, ma funge da calco e da base d’appog-
gio per lo sviluppo di ulteriori forme testuali che ne ampliano i
contenuti e il perimetro. Da questa potente plasticità deriva non
solo la diversificazione dei formati della serialità contemporanea,
ma anche la logica della dilatazione delle stagioni e la persistenza
di universi narrativi che vengono «abitati» e «arredati» da frui-
tori sempre più coinvolti, esperti ed esigenti (Grasso e Scaglioni
2009).
La complessità del testo seriale contemporaneo, che si estende
su ampi archi temporali e si appoggia su uno scenario tecnologico
profondamente mutato rispetto anche solo allo scorso decennio,
sollecita un’esperienza di fruizione inedita, che non si può più ri-
condurre alla distinzione tra fan e spettatori occasionali. Le di-
verse declinazioni dei formati narrativi seriali tipiche della Gran-
de Serialità, di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo, favorite
dalla plasticità della rete che si incrocia con le recenti forme di
televisione digitale, sono una delle conseguenze più evidenti del-
la fisionomia sistemica della serialità contemporanea, che non si
riesce a ricondurre entro le coordinate classiche del concetto di
testo, di narrazione o di fruizione attiva:

L’esperienza di fruizione seriale che ne deriva è un’esperienza diver-


sificata e distribuita, che genera una partecipazione profonda, che solle-
cita ulteriore consumo e che si configura più come l’esperienza di abitare
il mondo della serie che non di seguire una storia. La narrazione non pos-
siede più un unico centro d’irradiazione, ma tende a svilupparsi su strade
diverse e i tradizionali strumenti di analisi narrativa (semiotica, narrato-
logia), che vedevano il racconto nella forma di un percorso orientato e fi-
nalizzato, ancorché complesso e labirintico, si rivelano ormai inadeguati
rispetto alle forme narrative della nuova serialità, che è caratterizzata da
evidenti e sostanziali modifiche che riguardano le forme testuali e l’orga-
Strumenti 67

nizzazione narrativa, la relazione con i fruitori e il contesto mediale con


cui si relazionano (Innocenti e Pescatore 2011, p.137).

Al quadro sin qui delineato manca un cenno alla situazione


italiana, che cercheremo di riassumere brevemente facendo ri-
ferimento ad una recente e dettagliata ricognizione sullo stato
dell’arte della ricerca nel nostro Paese (Martina e Palmieri 2015)
che si propone di fare ordine in un panorama composito e non
sempre del tutto a fuoco.
Contemporaneamente agli Stati Uniti e ad altri Paesi europei,
l’inizio degli studi sulla serialità televisiva italiana si colloca a metà
degli anni Ottanta, in concomitanza con la prima invasione di pro-
dotti seriali di importazione (i telefilm) sugli schermi della neonata
televisione commerciale. È significativo notare come gli studiosi
italiani che per primi si sono interessati a questa formula fossero
studiosi (anche) di cinema (Casetti 1984; Abruzzese 1984).
Negli anni Novanta lo studio della serialità televisiva viene
condotto prevalentemente con gli strumenti della sociologia della
comunicazione (Buonanno 1994, 2002) e della semiotica (Basso,
Calabrese, Marsciani e Mattioli 1994). È solo all’inizio del nuovo
millennio che si manifesta pienamente l’interesse per la serialità
televisiva, con la contemporanea affermazione della dignità acca-
demica della soap opera italiana e internazionale e dell’attenzione
alla dimensione narrativa ed estetica del fenomeno seriale (Buo-
nanno 2002; Cardini 2004; Grasso 2007; Brancato 2007; Inno-
centi e Pescatore 2008).
Nello stesso periodo viene preso in considerazione per la pri-
ma volta nel panorama italiano il tema del fandom (Scaglioni
2006) e della cosiddetta televisione di culto. L’avvicinamento de-
gli studiosi di cinema alle serie tv prende corpo, come abbiamo
visto, all’inizio degli anni Dieci, con lo sviluppo di quella che ho
definito sin qui Grande Serialità.
Il quadro che risulta da questo rapido sguardo riflette l’imma-
gine di un settore di studi in fermento, attualmente concentrato
prevalentemente sulla prospettiva analitica di matrice narratolo-
gica ed estetica. Molto resta ancora da mettere a fuoco. Un aspet-
to interessante da indagare, ad esempio, è il criterio di scelta delle
serie tv che diventano oggetto di ricerca. Si potrebbe mettere alla
prova un concetto a suo tempo individuato e descritto da Jen-
kins (2006): il cosiddetto “Aca/Fan”, cioè lo studioso che sceglie
68 Capitolo II

di concentrare la propria analisi di un determinato prodotto se-


riale scegliendolo in base al gusto personale (cioè comportandosi
“da fan”), più che all’effettiva rilevanza nel panorama complessivo
dell’offerta. Nei blog non è difficile imbattersi in questa figura di
studioso appassionato, la cui fisionomia sottolinea ulteriormente
la necessità di circoscrivere il concetto di fan e fandom. Oltre ai
blog, dove l’emergere di questo atteggiamento è comprensibile,
potrebbe essere interessante (e forse sorprendente) rintracciarne
la presenza in contesti scientifici.
Si può dire, insomma, che la peculiare multiformità del lin-
guaggio seriale più recente mette in questione principalmente
due aspetti teorici: da un lato la nozione di testo, e dall’altro lato
la tendenza a fare riferimento ad un canone di ricerca. Ad entram-
bi questi nodi problematici cerca di dare risposta l’approccio degli
ecosistemi narrativi, che tiene conto delle molteplici componenti
della Grande Serialità tentando di includervi anche - forse soprat-
tutto - l’imprevedibilità della sua forma. In questa cornice inter-
pretativa, ad esempio, il testo televisivo è visto come un punto
di partenza che non esaurisce in sé il suo significato ma anzi, dà
origine a significati altri spesso imprevedibili e divergenti dalla
concettualizzazione originaria, ma mai estranei ad essa.
Lo sguardo rapido alla situazione italiana evidenzia come l’o-
rientamento attuale della ricerca coinvolga prevalentemente le
discipline afferenti all’area della narratologia e dei film studies,
che permettono una originale profondità di lettura della comples-
sità seriale, ma che possono comportare il rischio di una polariz-
zazione verso una lettura prevalentemente estetica. Non è raro
imbattersi in affermazioni di studiosi che più o meno volontaria-
mente danno voce ad un’intenzione valutativa: si legge di registi
di cinema che «si prestano» a dirigere serie tv, attori affermati
che «accettano» di comparire in un prodotto seriale. Da queste
espressioni sembra riaffiorare l’antica logica di gerarchizzazione
culturale tra diversi media, che espone però al rischio di errori
significativi, ad esempio non considerando rilevanti componenti
come l’articolazione seriale del materiale narrativo o la relazione
fra produzione e ricezione.
Infine, un’ultima considerazione sulla valutazione critica della
produzione locale di serialità, in relazione alla quale si potrebbe
riprendere un tema emerso nella riflessione sulla soap opera: se-
condo alcuni autori (Allen 1985; Livingstone 1998) la serialità do-
Strumenti 69

mestica è rilevante in quanto espressione del cosiddetto national


drama, cioè di quelle figure dell’immaginario collettivo prodotte
da una cultura che riflette sulla propria quotidianità e costruisce,
grazie ad esse, un racconto familiare e prossimo al proprio pub-
blico. La tendenza a privilegiare lo studio di formule seriali rite-
nute più “nobili” rispetto alla serialità domestica rischia di ripro-
porre il vecchio stereotipo, purtroppo duro a morire, secondo cui
il prodotto nazionale è per definizione meno prestigioso, o meno
importante delle serie statunitensi. Sarebbe bene invece tener
presente che la dimensione locale è una chiave interpretativa im-
prescindibile per far luce sulla relazione fra le formule seriali ed il
contesto mediale e culturale in cui esse si sviluppano.
III

PROSPETTIVE

Le questioni aperte

La complessità delle serie tv contemporanee è il prodotto


non solo delle accelerazioni tecnologiche e produttive dell’ulti-
mo decennio, non solo delle mutazioni profonde nelle pratiche
e nelle dinamiche della fruizione, ma anche delle contraddizioni
e tensioni che ne attraversano lo studio, a partire soprattutto da-
gli anni Dieci. La spinta propulsiva della riflessione critica sula
Grande Serialità porta con sé inevitabilmente frizioni e contrasti
che testimoniano, insieme alla vivacità del tema, anche alcune
inadeguatezze degli apparati critici e metodologici delle discipli-
ne coinvolte.
Come abbiamo visto, l’attuale entusiasmo teorico si concentra
attualmente intorno ad alcuni nodi particolarmente significativi
e densi di implicazioni. Non è semplice analizzarli singolarmente
senza incorrere nel rischio di ripetizioni, poiché ognuno di essi
deborda nell’altro e ne travalica i confini. La Grande Serialità ri-
chiede di essere affrontata in maniera per così dire olistica, met-
tendo alla prova le strumentazioni teoriche ed empiriche di più
prospettive di ricerca per poterne cogliere tutta la densità, come
abbiamo suggerito nel capitolo precedente.
Accanto all’emergere di interessanti prospettive che tentano di
interpretare la complessità, si precisano filoni di analisi che por-
tano alla luce ambiti di studio fino ad oggi ancora marginali. In
particolare, merita attenzione (a mio avviso) il filone di ricerca
che si concentra sugli aspetti produttivi del testo seriale e mediale
in genere; da qualche anno una corrente di studi internazionale
affronta in maniera sistematica l’analisi delle routines produttive,
cercando di ricostruire le dinamiche che legano lo sviluppo della
narrazione alla dimensione economica e allo scenario tecnologi-
72 Capitolo III

co (Kilborn 2003; Hesmondhalgh 2013; Cardini 2004; Perrotta


2007; Barra 2014; Barra, Bonini e Splendore 2016). Si tratta di
un risultato rilevante che mette fine ad un silenzio fin troppo lun-
go su un tema, al contrario, cruciale per comprendere la fisiono-
mia della Grande Serialità. Sottostimare le ragioni economiche e
le componenti tecniche e tecnologiche tipiche di un determinato
momento storico, significa limitare la comprensione della com-
plessità. Accanto alla robustezza delle analisi sul testo, sulla nar-
razione, sulla dimensione estetica e sulle audiences, è importante
considerare anche le ragioni strutturali - mi si perdoni il termine
ormai desueto, ma utile a definire il concetto - che ne accompa-
gnano, e talvolta ne precedono, lo sviluppo.

1. La rilevanza della dimensione produttiva

La difficoltà a misurarsi con la dimensione produttiva ha a che


fare non solo con una resistenza culturale, ma anche con ostaco-
li di ordine empirico-pratico. Per comprendere il funzionamen-
to di un prodotto seriale è necessario intraprendere un percorso
di ricerca sul campo che richiede tempo, in grado di raccogliere
le testimonianze dirette degli operatori o di adottare la prospet-
tiva classica dell’osservazione partecipante (Bennett 2014). La
mancanza di questi requisiti produce talvolta alcune distorsioni
interpretative. Ne citiamo solo un paio a titolo esemplificativo, ri-
mandando ad altra sede il loro approfondimento critico: l’analisi
della figura dello showrunner e la descrizione della relazione fra
routines produttive e audiences.
Nel primo caso è facile imbattersi in ritratti quasi agiografici,
strutturati in forma di intervista oppure di racconto biografico.
Ne risulta una visione romantica, che attribuisce a questa nuova
categoria professionale il ruolo di deus ex machina della Gran-
de Serialità contemporanea, enfatizzando la dimensione creativa
individuale e sottostimando l’indispensabile capacità di relazio-
narsi con un complesso apparato produttivo ed economico. Nella
ricca aneddotica che ne accompagna la descrizione, la figura dello
showrunner (termine preso a prestito direttamente dal contesto
americano, che traduce - migliorandolo - il nostro più umile “capo
autore” o “capo progetto”) viene talvolta equiparata all’Autore
con la A maiuscola o al regista cinematografico, ad esempio, il che
Prospettive 73

può essere realistico e accettabile nel contesto produttivo statuni-


tense, mentre lo è forse meno nel più giovane contesto produttivo
italiano.
Questa lettura, per quanto giustificabile sotto l’aspetto creati-
vo, mette in secondo piano la dimensione produttiva e industriale
del processo realizzativo della serialità più recente. La subordina-
zione della dimensione creativa alle logiche economiche è parte
integrante del processo produttivo e non può essere deliberata-
mente ignorata, se si accetta la definizione basica di serialità come
scomposizione in frammenti di un processo produttivo (Hesmon-
dhalgh 2013). Attribuendo allo showrunner l’intera responsabili-
tà di una serie evidenzia solo una piccola parte - non sempre la più
importante - della dinamica creativa e produttiva all’origine alla
Grande Serialità. Si dimentica spesso, infatti, che lo showrunner
può permettersi un grado di libertà creativa tanto maggiore quan-
to più cospicui sono gli investimenti economici che irrobustiscono
il suo progetto. In alcuni casi sembrerebbe addirittura riproporsi,
mutatis mutandis, la logica che ha presieduto per decenni allo
storytelling della figura del regista cinematografico o dell’autore
letterario, raccontati come soggetti eccezionali e quasi avulsi dal
contatto con la realtà delle logiche economiche, del denaro, del
tempo. Inutile dire che questa tendenza ripropone gli stessi limiti
che in passato hanno condizionato pesantemente la considerazio-
ne della serialità come espressione legittima di cultura.
All’estremo opposto, in un rovesciamento interessante di pro-
spettiva, tra le righe di studi recenti si intravvede il tentativo di
raccontare le routines produttive di un prodotto seriale come se
si trattasse di scienza esatta, di un procedimento talmente preci-
so da non lasciare spazio alla creatività individuale. Anche que-
sto approccio comporta il rischio di scarsa aderenza alla realtà:
chiunque pratichi professionalmente questo ambito sa bene che
molte delle decisioni che vengono quotidianamente prese su un
set televisivo o cinematografico sono frutto di mediazioni, ag-
giustamenti, ripensamenti (tra autori e rete, o tra rete e casa di
produzione, ad esempio) che mettono in discussione l’idea di
una fabbrica seriale basata sulla spersonalizzazione, sulla rigidità
delle routines e sulla mancanza di spazio per la creatività indi-
viduale. Oppure, si attribuisce un enorme potere alle audiences,
ritenendole capaci di influenzare in maniera decisiva le routines
produttive anche al punto di modificare in itinere la realizzazione
74 Capitolo III

di un programma seriale. Anche in questo caso è necessario met-


tere in prospettiva il tema, evitando le derive romantiche o poco
realistiche che attribuiscono ai gusti e alle richieste provenienti
dal basso un potere che spesso non è reale.
Al di là del primato dei numeri e delle pratiche di misurazio-
ne del pubblico, delle leggi stringenti del marketing e delle eco-
nomie predittive, la produzione seriale - soprattutto televisiva -
nella prassi è spesso figlia di decisioni istintive ed estemporanee,
talvolta derivanti dall’esperienza dei professionisti coinvolti, che
modificano strada facendo le decisioni prese in precedenza, tal-
volta da confronti tra le parti coinvolte (reti e case di produzione)
che possono sfociare in cambiamenti anche dell’ultimo minuto.
E lo showrunner, se è veramente tale, è coinvolto direttamente
nelle molteplici scelte quotidiane in deroga alla rigidità di ruoli e
funzioni.
La maggior parte dei recenti contributi internazionali sulla
produzione ha permesso di fare chiarezza su un tema, come ab-
biamo detto, ancora scarsamente considerato. In Italia è il caso,
ad esempio, delle analisi puntuali ed efficaci sulla serialità Sky,
che a partire dai primi anni Zero ha introdotto anche nel nostro
Paese dinamiche e routines sconosciute alla produzione della fiction
generalista che fino ad allora aveva riempito i palinsesti di Rai e
Mediaset (Scaglioni e Barra 2013), o del tentativo di far luce sulle
dinamiche produttive dell’industria culturale italiana più recente
(Barra, Bonini e Splendore 2016). Complessivamente, però, l’inte-
resse di ricerca verso questi temi sembra rimanere ancora limitato.
Sarebbe invece fondamentale attribuire alla dimensione produttiva
la centralità che merita, soprattutto alla luce delle trasformazioni
tecnologiche che esercitano un’influenza decisiva sull’identità del-
la Grande Serialità contemporanea.
È quasi impossibile comprendere le logiche sottese alle varia-
zioni di formato nell’ultimo decennio, di cui ci occuperemo nel
prossimo paragrafo, se si trascura l’influenza della dimensione
produttiva e tecnologica che ha portato in pochissimi anni all’af-
fermazione dei servizi di streaming come Netflix, Hulu, Amazon
e in Italia Infinity di Mediaset, a fianco dei broadcaster e dei tra-
dizionali soggetti satellitari (Sky) e via cavo (HBO). Le pratiche
di binge watching derivano proprio dalla possibilità di disporre
della totalità della serie in un’unica soluzione. Non solo: i cam-
biamenti tecnologici e la particolare densità del racconto seriale
Prospettive 75

espanso danno origine, da un lato, alla dialettica fra mainstream e


nicchia che ripropone un tema già largamente dibattuto all’inizio
del nuovo millennio (Martel 2010) e, dall’altro lato, a nuove speri-
mentazioni narrative capaci di riempire gli ampi spazi resi dispo-
nibili dalla Grande Serialità. Non è più fondamentale traghettare
lo spettatore da un episodio all’altro attraverso forti colpi di scena
che lo incuriosiscano o lo lascino col fiato sospeso; è altrettanto
coinvolgente invogliarlo a scoprire la personalità complessa di un
antieroe in continua evoluzione, un personaggio talmente umano
nella sua malvagità da generare storie multiformi e imprevedibili
(Garcìa 2016; Vaage 2015; Bernardelli 2016).
Questo breve cenno ad alcuni dei nodi problematici aperti re-
stituisce un quadro impreciso ma stimolante sulle aree di studio
da implementare. Si noterà come le considerazioni che abbiamo
espresso brevemente sin qui siano contraddistinte da una sorta di
spinta propulsiva circolare che dall’una rimanda alle altre, in un
gioco di specchi che rende difficile isolare un unico aspetto senza
richiamare anche tutti, o in parte, gli altri. La sfida teorica della
Grande Serialità sta anche nella capacità di attivare nuove do-
mande ma, allo stesso tempo, nel richiedere rigore metodologico
nell’affrontarle, alla luce di una densità che non ammette sempli-
ficazioni né facili scorciatoie.
Nel prossimo paragrafo prenderò in considerazione uno dei
temi che ritengo più rappresentativi delle serie tv contemporanee.
Non solo, come abbiamo visto nel capitolo precedente, la Gran-
de Serialità si definisce come tale grazie alla sua articolazione in
stagioni compatte; negli ultimi tempi si sta verificando una rapi-
dissima evoluzione dei formati tradizionali, che si sta traducendo
in una progressiva riduzione nella durata delle stagioni, nell’e-
stensione temporale delle singole puntate e nella radicale trasfor-
mazione della funzione del cosiddetto pilot. Le ragioni che hanno
portato a questo cambiamento mettono in luce tensioni e frizioni
tra la sfera dei mutamenti tecnologici, i percorsi di creazione di
nuovi contenuti narrativi e l’evoluzione nelle modalità di fruizio-
ne. Ancora una volta ci troviamo all’interno di una dinamica cir-
colare, ulteriore elemento distintivo della Grande Serialità.
76 Capitolo III

2. Nuovi formati

A partire dagli anni Zero, negli Stati Uniti il tradizionale mo-


dello seriale della network television, basato sulla cadenza rego-
lare di una puntata settimanale, è stato affiancato e superato dal
modello delle cable tv e dei servizi di streaming. Le tv via cavo
rappresentati da HBO, propongono una serialità modellata sull’e-
stetica cinematografica. I servizi di streaming, come Netflix, Hulu
e Amazon, annullano l’idea di palinsesto pubblicando una intera
stagione in una sola volta. L’abitudine alla fruizione festiva e alla
durata limitata del film di sala, con la scelta obbligata di tempi
narrativi e di luoghi di visione, è stata affiancata dalla comodità
del consumo domestico, individuale e portatile. La tv via cavo e i
servizi di streaming on demand hanno inciso radicalmente sulla
struttura della serialità e sul suo stesso DNA: la Grande Serialità
tele-cinematografica si consuma ovunque, si porta con sé dove e
quando si vuole, e circola con una capillarità e una rapidità rese
possibili dallo sviluppo della rete.
Questo processo conferma la regola della serialità di cui si è
già trattato a più riprese nel presente volume: la formula seriale si
modella sulla fisionomia del supporto che la veicola.
Un punto di osservazione ancora poco considerato è la recente
profonda trasformazione dei formati, nello specifico la durata tem-
porale e la struttura narrativa in stretta relazione con le dinamiche
della produzione e soprattutto con le caratteristiche dello scenario
tecnologico.
In particolare è interessante il cambiamento del formato e del-
la funzione del pilot, cioè la puntata di presentazione con cui una
serie viene mostrata ai possibili acquirenti internazionali e spesso
anche ad un campione selezionato di pubblico, per testarne le re-
azioni. Attraverso le mutazioni della dimensione, della durata e
del ruolo del pilot è possibile mettere a fuoco il mutamento della
formula seriale negli ultimi tre decenni ed il progressivo avvici-
namento tra televisione e cinema di cui si è trattato nelle pagine
precedenti.1

1
Una prima versione di questo contributo è stata presentata da chi scrive
nel corso del Convegno internazionale “ZoneModa Conference”, organizzato
dall’Università di Bologna, sede di Rimini, il 3-4-5 Maggio 2017.
Prospettive 77

Il modello dei network: il pilot

Negli anni Ottanta, caratterizzati dal dominio dei network, i


contenuti televisivi seguivano la rigida articolazione del palinse-
sto settimanale. In quel particolare contesto competitivo, la pun-
tata pilota di una serie aveva lo scopo di vendere la serie stessa
alle reti (se era stata realizzata da una casa di produzione) oppure
agli investitori pubblicitari durante i cosiddetti upfront, cioè la
presentazione dei palinsesti, se la puntata pilota era stata prodot-
ta direttamente dalle reti.
Nel mercato statunitense la nascita di una serie tv può partire
dal pitch, da uno spec script, dall’opzione di un contenuto origi-
nale, oppure dalla contrattualizzazione di un autore (Nathanson
2013). Il pitch è il momento in cui gli autori presentano il concept
della serie alle case di produzione o ai network. Ogni anno ven-
gono presentati circa 500 pitch. Uno speculative script (o “spec”)
può essere presentato invece dall’agente di un autore a diversi
network o alle case di produzione. Diversamente dai pitch, che
avvengono in occasioni precise e in momenti precisi dell’anno, la
vendita di “specs” può aver luogo in qualunque momento dell’an-
no; il valore economico dello script dipende da quanto interesse
l’agente riesce a suscitare presso i possibili interlocutori.
Un’altra possibilità è l’opzione di un contenuto originale da
parte di un network o di una casa di produzione. Può trattarsi
di un romanzo, di un blog, di un saggio, di un videogioco, di cui
l’acquirente opziona i diritti di proprietà intellettuale per un certo
periodo di tempo, in modo da poter realizzare la serie sulla base
di quell’idea.
Infine, una casa di produzione può mettere sotto contratto un
autore per un certo periodo di tempo, durante il quale l’autore do-
vrà sviluppare diverse idee e progetti la cui proprietà intellettuale
sarà ceduta alla casa di produzione stessa. È il caso, ad esempio,
di Breaking Bad, nata durante il rapporto di collaborazione tra
il suo autore Vince Gilligan e la Sony. L’azienda ha presentato il
concept della serie a diversi network tramite pitch, e solo dopo
diverso tempo la rete AMC decise di acquistarla e produrla.
Una volta che il concept è stato acquisito dalla rete tramite una
delle quattro modalità descritte, la produzione della serie può se-
guire diverse strade: il network può ordinare la realizzazione di
una puntata pilota (pilot order); oppure, il network decide di pro-
78 Capitolo III

durre direttamente una stagione intera, generalmente di tredici


episodi, senza bisogno della visione del pilot (straight-to-series
order); questa opzione ha senso nel caso in cui il programma pre-
veda investimenti iniziali molto elevati, che renderebbero poco
vantaggioso investire troppo denaro per la sola realizzazione della
puntata pilota. Infine, esiste la possibilità del cosiddetto on-air
commitment, con cui il network si impegna a trasmettere la serie
ancora prima che sia stato girato qualcosa.
I pilot sono costosi; una puntata pilota di un’ora può arrivare
a costare attorno ai 5.5 milioni di dollari soltanto per la fase del-
le riprese, senza contare il costo di acquisizione e sviluppo dello
script, i pitch e la contrattualizzazione degli autori (Ibidem).
Negli anni Ottanta i network arrivavano ad ordinare fino a
venticinque pilot ciascuno. Attualmente le cifre sono molto ridi-
mensionate e si attestano attorno agli otto-dodici pilot per cia-
scun network, a seconda delle diverse condizioni di mercato. Solo
una parte di essi arriverà alla fase di realizzazione della serie inte-
ra. In sostanza, uno script ha circa il 20% di probabilità di diven-
tare una puntata pilota, e solo il 6% di probabilità di arrivare ad
essere trasmesso; ogni script acquisito da un network ha il 98% di
probabilità di trasformarsi in un investimento sbagliato.
Gli upfront hanno luogo ogni anno a maggio a New York. In
questa occasione i progetti seriali vengono venduti con alcuni
mesi di anticipo rispetto all’effettiva messa in onda. Gli upfront
sono il momento conclusivo di un complesso meccanismo che
stabilisce se un pilot può arrivare ad essere mostrato al pubblico e
trovare uno spazio di programmazione nei palinsesti. Se durante
gli upfront dovessero emergere alcune debolezze del pilot, è pos-
sibile effettuare qualche modifica, ma non sostanziale: è troppo
tardi per aggiustare errori macroscopici o effettuare nuove ripre-
se, visto che la stagione televisiva inizia a settembre. I pilot ap-
provati devono essere messi in produzione immediatamente; al
momento del debutto in onda della prima puntata, non sarà stato
fisicamente possibile mettere in cantiere più di altre quattro pun-
tate (Edwards 2010): questo significa che non c’è neppure modo
di tener conto delle reazioni dell’audience alla messa in onda.
Questa è forse la ragione principale per cui i network sviluppano
tanti progetti in parallelo ogni anno: per poter far fronte ai rischi.
Questo sistema costringe i network a nascondere il caos del
processo creativo. È altrettanto vero, tuttavia, che gli investitori
Prospettive 79

spesso non sono in grado di valutare la qualità di un prodotto da


spezzoni del pilot, e preferiscono piuttosto tener conto della fidu-
cia mostrata dal network nei confronti del progetto.

La stagione dei network: dai ventidue ai tredici episodi

Fino alla fine degli anni Ottanta la stagione di una serie era
costruita sul modello a ventidue episodi: la ragione di questa re-
gola divenuta classica è che i ventidue episodi arrivano a coprire
l’intera stagione televisiva, da ottobre a maggio, fatta salva la nor-
male sospensione per le festività annuali. Pertanto, nella Golden
Age dei network il pilot doveva necessariamente condensare tut-
to il meglio dell’intera serie, gli elementi in grado di convincere
gli inserzionisti ad investire sulle fatidiche ventidue puntate che
avrebbero completato l’intera stagione.
Con questi obiettivi, il fuoco narrativo si concentrava sull’a-
zione, sulle trame multiple e su un numero consistente di perso-
naggi. La velocità dell’azione era più importante della profondità
narrativa, perché lo scopo era la costruzione di un pubblico fedele
e costante. Con queste premesse, i generi di maggior successo nel
decennio della Golden Age della serialità americana erano l’azio-
ne, le saghe familiari sul modello delle soap opera, le storie d’a-
more, i thriller, i medical drama e i cosiddetti procedural.
Questo modello viene messo in discussione dal successo dei
network via cavo, che esplodono sul mercato americano durante
gli anni Novanta. A partire dalla fine del decennio, anche i network
iniziano a prendere in considerazione le più gestibili stagioni da
tredici episodi, che erano diventate il core business delle nuo-
ve serie TV prodotte e trasmesse dai canali via cavo come HBO.
Invece di produrre una singola serie che copre l’intera stagione,
i network iniziano a realizzare un maggior numero di serie più
brevi: coprono lo stesso spazio nei palinsesti annuali, ma si sus-
seguono l’una all’altra. Di conseguenza, la consueta ricerca della
fedeltà dello spettatore lascia il posto alla ricerca della qualità e
della molteplicità dell’offerta.
Da un lato, questo modello è più dispendioso in termini sia
creativi che economici; creare dal nulla una nuova serie è più co-
stoso che ordinare nuovi episodi di una serie già in onda. Dall’al-
tro lato, sul lungo periodo si rivela più conveniente cancellare una
serie breve (e liquidare i relativi contratti in caso di insuccesso),
80 Capitolo III

anziché una serie più lunga che lascia scoperta una porzione im-
portante di palinsesto.
Un effetto rilevante di questo cambiamento è che a partire da-
gli anni Zero le star del cinema hanno iniziato ad essere interes-
sate alle produzioni seriali. Il modello a tredici episodi garantisce
diversi vantaggi ad attori e registi, che possono essere coinvolti su
più di una produzione all’anno (televisiva o cinematografica), con
ovvi benefici economici, e allo stesso tempo non sono legati ad un
unico, lungo progetto.

Il modello HBO: il pilot-film

Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio,


la tv a pagamento via cavo HBO, nata nel 1972 ma sviluppatasi
come produttore di serie di qualità negli anni Novanta, propone
un nuovo modello di serialità basato sulla ricerca di una qualità
estetica e narrativa vicina al cinema. Dal capostipite I Soprano
(1999-2007) a The Wire (2002-2008), Six Feet Under (2001-
2005), True Blood (2008-2014), fino ai recenti successi Game of
Thrones (2011-in produzione) e True Detective (2014-in produ-
zione), HBO impone uno stile visivo e narrativo che non ha nulla
da invidiare al cinema di sala.
Le tv via cavo come HBO, Showtime o Cinemax non basano il
loro modello di business sulla pubblicità, ma sulla vendita di ab-
bonamenti ad un pubblico con una particolare profilatura, basata
su buon livello economico e culturale; di conseguenza i loro pro-
dotti hanno caratteristiche ed obiettivi diversi rispetto allo stile
dei network. In questa prospettiva, il pilot di una serie modifica
la propria funzione: non si limita ad anticiparne il sapore, ma ne
potenzia decisamente i tratti, assumendo la fisionomia di un vero
e proprio film spesso firmato da grandi registi di Hollywood.
Nel modello dei network un pilot può essere girato anche solo
in dieci giorni e spesso, se la serie viene prodotta, si procede ad
un aggiustamento radicale di tono e stile a metà stagione, quando
gli ascolti si sono stabilizzati e c’è margine per proseguire la pro-
duzione su più stagioni. Nel modello della tv via cavo, invece, la
scelta di produrre stagioni più brevi permette di investire budget
consistenti sul pilot, la cui qualità deve convincere gli spettatori
a sottoscrivere o a rinnovare l’abbonamento al canale. Inoltre, i
tempi di produzione sono svincolati dalla stagionalità e dalla ri-
Prospettive 81

gidità del palinsesto e permettono una maggiore libertà creativa.


Nel modello dei network, l’interlocutore del pilot è l’inserzionista
pubblicitario, che deve essere convinto ad investire nel prodotto;
nel modello HBO, l’interlocutore del pilot è lo spettatore, che deve
essere convinto a sottoscrivere un abbonamento, o a rinnovarlo.
Attori e registi di successo, già attratti dalla serialità breve,
sono ulteriormente invogliati a prender parte alle serie HBO dalla
garanzia di elevati standard di qualità estetica, dai budget elevati
e dalla bassa pressione sui tempi di realizzazione. Grazie al mo-
dello HBO, riassunto nel noto claim «It’s not tv, it’s HBO», Hol-
lywood conquista definitivamente il mercato televisivo. In meno
di un decennio, la cinematic tv diventa una realtà concreta nel
panorama mediale internazionale (DeFino 2014; Feuer 2007;
McCabe 2013).
Tuttavia, gli elevati standard qualitativi cinematografici di
HBO spesso si limitano alla sola puntata pilota che, come abbia-
mo visto, deve stabilire il tono e lo stile dell’intera serie per atti-
rare lo spettatore colto che costituisce il target della tv via cavo.
Nel corso degli anni, in diversi casi HBO ha coinvolto grandi nomi
di Hollywood solo per il pilot e non per la realizzazione dell’in-
tera stagione, generando un dannoso effetto overpromising. È
il caso, ad esempio, delle serie musicali Vinyl (2016) e The Get
Down (2016-2017): la puntata pilota della prima è diretta da Mar-
tin Scorsese, quella della seconda da Baz Luhrman. Il nome dei
due registi è stato ampiamente speso durante la fase di comuni-
cazione della serie, senza però specificare che il loro impegno di-
retto nella realizzazione delle puntate sarebbe stato decisamente
ridotto. L’entusiasmo del debutto, favorito anche da questo tono
comunicativo, è andato via via scemando col procedere delle pun-
tate, tanto che Vinyl è stata cancellata dopo la prima stagione, e
The Get Down dopo la seconda.

Il modello Netflix: la stagione-pilota

La funzione del pilot viene ulteriormente trasformata dall’in-


gresso nel mercato di Netflix (nel 2015 in Italia). Il regolare rit-
mo palinsestuale del modello seriale dei network e della cable
tv, basato sulla messa in onda di un episodio a settimana, viene
sostituito da una modalità totalmente nuova: la pubblicazione
istantanea dell’intera stagione, che diviene immediatamente di-
82 Capitolo III

sponibile alla fruizione nella sua totalità (Ojer e Capapé 2013).


Questa prassi inaugura (o, per meglio dire, esplicita e istituzio-
nalizza, togliendola dalle pastoie del download illegale) la pratica
del binge watching.
Due sono le principali conseguenze della strategia di Netflix
che agiscono sul piano narrativo e produttivo: la narrazione cam-
bia ritmo e struttura, ed il numero di puntate per stagione si ridu-
ce. Alcune delle serie prodotte da Netflix mantengono la struttura
delle tredici puntate per stagione, ma più di frequente si riduco-
no a otto-dieci. Se la release della prima stagione ottiene risul-
tati soddisfacenti, viene prodotta la stagione successiva; in caso
contrario, la serie viene cancellata. Ne deriva un modello seriale
originale, che definirei “stagione-pilota”.
Sul piano produttivo, rispetto ai network e alle tv via cavo
Netflix elimina i costi di distribuzione, recuperando budget da in-
vestire nella realizzazione dei suoi prodotti2.
Sul piano narrativo, il modello della stagione-pilota agisce sul
formato tradizionale, scomponendolo e ricomponendolo in strut-
ture plastiche e molto affascinanti, dove predomina la narrazione
orizzontale rispetto a quella verticale. La centralità delle storie e
degli eventi, che nel modello seriale dei networks vengono inter-
rotte in un momento cruciale (cliffhanger) per mantenere vivo
nello spettatore l’interesse per la puntata della settimana succes-
siva, lascia il posto ad una narrazione focalizzata sulle figure dei
protagonisti principali. La scelta di pubblicare tutta la stagione
in un’unica soluzione permette di fluidificare i passaggi da una
puntata all’altra, rendendo centrali le evoluzioni (o involuzioni)
dei personaggi.
Il modello produttivo della stagione-pilota, che influenza an-
che la durata dei singoli episodi, deriva dalle particolari strategie
di investimento di Netflix: nel 2017 ha investito circa cinque mi-
liardi e mezzo di euro (Ibid.), cioè più del doppio rispetto a HBO

2
Un recente esempio di questa strategia è Stranger Things (2016) (si
veda il cap. 4). Secondo i due autori, i fratelli Duffer, le otto puntate erano
state scritte come se si trattasse di “un film lungo” autoconcluso, e non come
una serie. Solamente dopo il fortunato esordio è stato firmato l’accordo per
produrre la seconda stagione. È significativo che gli autori preferiscano de-
finire la seconda stagione “un sequel”, sottolineando la maggiore vicinanza
del loro lavoro con il cinema rispetto alle dinamiche della serialità televisiva.
Prospettive 83

ed il quintuplo rispetto a Showtime. Ad esempio, Netflix ha speso


circa dieci milioni di euro per ogni episodio di The Crown, ovve-
ro quanto è costata una puntata della sesta stagione di Game of
Thrones3. Il confronto con il cinema è significativo: La La Land,
premio Oscar 2017, è costato circa trenta milioni di euro com-
plessivamente. La strategia aggressiva di Netflix si è manifestata
fin dal suo esordio agli upfront nel 2013, dove la società di Reed
Hastings si aggiudicò con un’offerta di cento milioni di dollari le
prime due stagioni da tredici episodi di House of Cards.
La politica di investimenti di Netflix ha influito decisamente
sulla ridefinizione dei cachet delle star di Hollywood, che possono
raggiungere anche i 250.000 euro per puntata (Ibid.), invoglian-
do attori e registi a prender parte ai progetti della piattaforma. Ol-
tre al dato economico, tuttavia, è interessante il fatto che Netflix
non imponga tempi rigidi di lavorazione, come invece accade per
la serialità dei network, legata a regole di palinsesto e di distribu-
zione ben diverse. Attori, registi e showrunner accettano di buon
grado di lavorare per Netflix non solo per i compensi spesso più
cospicui rispetto al cinema, ma anche per l’elasticità dei tempi di
lavorazione, che permettono loro di calibrare i propri impegni du-
rante l’anno e di partecipare, volendo, anche a più progetti con-
temporaneamente senza essere vincolati a scadenze rigide e alle
tempistiche stabilite dalle reti. Analogamente, anche la lunghezza
degli episodi su Netflix può variare, a seconda sia delle necessità
narrative, sia degli impegni dei professionisti, il che costituisce
una notevole differenza rispetto al modello dei network. La cosid-
detta qualità, che molti osservatori attribuiscono esclusivamente
a scelte di carattere puramente estetico e narrativo, di fatto nel
modello Netflix è legata ad una rilevante componente economica
e di sistema: con budget elevati a disposizione, senza vincoli di-
stributivi né richieste degli inserzionisti che influiscono sia sui co-
sti, sia sulle tempistiche di produzione, la partecipazione di pro-
fessionisti di alto livello diventa una conseguenza quasi naturale.
Nel mercato della serialità contemporanea, il modello Netflix
sembra ridimensionare decisamente la funzione della puntata pi-
lota, come afferma la Vicepresidente della società, Cindy Holland:

3
Si veda il cap. 4.
84 Capitolo III

Il nostro modello straight-to-series è nato da alcuni dati di fatto […],


ma soprattutto dalla nostra resistenza a sviluppare progetti basati sull’in-
vestimento a perdere in puntate pilota. Anche se il nostro prodotto può
risultare meno perfetto di quello che dovrebbe, perlomeno puoi farlo ve-
dere subito ai tuoi abbonati e sicuramente tra di loro ci sarà qualcuno a
cui piacerà. Non spenderemo denaro in puntate pilota, per noi non è un
investimento produttivo. È molto utile invece per i network, che devono
tenere il loro pubblico incollato a bocca aperta davanti allo schermo per
un’ora a settimana in un giorno preciso: in quel caso, è davvero indispen-
sabile poter avere un banco di prova su cui fare affidamento.4

La risposta di HBO: il film a puntate

Il modello innovativo di Netflix ridefinisce i confini della nar-


razione seriale televisiva e propone un modello di business che
agisce su più livelli, generando un movimento circolare di cau-
sa-effetto tra gli elementi che lo compongono: fluidifica le mo-
dalità di costruzione narrativa, stabilisce una relazione di scam-
bio con il mondo del cinema, promuove una modalità peculiare
di fruizione seriale, il binge watching più volte menzionato nelle
pagine precedenti. L’affermazione di Netflix mette in discussione
i parametri della qualità seriale televisiva che dagli anni Novanta
avevano individuato nello stile HBO il principale punto di riferi-
mento.
La serialità HBO degli anni Dieci risponde in maniera decisa
alle spinte innovative dettate da Netflix, proponendo nuovi mo-
delli seriali che spostano in avanti, ancora una volta, il limite della
ricerca. A fronte della elasticità di formato e durata promossa da
Netflix, HBO propone quello che possiamo definire “film a pun-
tate”, il cui esempio forse più chiaro è The Young Pope, ideato e
diretto dal regista premio Oscar Paolo Sorrentino. Si tratta di una
serie in dieci puntate co-prodotta da HBO con Sky e il francese
Canal +, trasmessa da Sky Cinema e Sky Atlantic nel 2016 e negli
USA nel gennaio del 20175.

4
Netflix’s Original Content VP on Development Plans, Pilots, Late-Ni-
ght and Rival HBO, in «The Hollywood Reporter», 18 June 2014 (http://
www.hollywoodreporter.com/news/netflix-original-content-vp-deve-
lopment-712293). Trad. it. a cura di chi scrive.
5
Si veda il cap. 4.
Prospettive 85

Oltre alla firma prestigiosa del regista, che in questo progetto


ricopre anche il ruolo di showrunner, il cast è formato da star di
Hollywood come Jude Law e Diane Keaton. L’aspetto tematico (la
controversa figura del giovane Papa Lenny Belardo) è stato og-
getto di un ampio dibattito sui media nazionali e internazionali
di cui in questa sede non ci occuperemo. Ci interessa piuttosto
sottolineare la dimensione promozionale e le leve di marketing
che sono state utilizzate per accompagnare il lancio della serie.
La dimensione cinematografica, storicamente legata alla garanzia
quasi automatica di qualità, è stata ampiamente sottolineata ed è
diventata la leva principale su cui la produzione ha costruito l’im-
magine del prodotto. Le prime due puntate della serie, la cui du-
rata complessiva coincide con quella del tradizionale film di sala,
sono state proiettate per la stampa durante il Festival del Cinema
di Venezia, nel settembre 2016, come se si trattasse - appunto -
di un’anteprima cinematografica. Analogamente, la distribuzione
ha seguito la logica tipica del film: la serie intera è stata venduta
in 110 Paesi prima del debutto, sulla base del punto di forza del
progetto: la regia di un artista visionario e geniale come Paolo
Sorrentino. La sua poetica ha potuto espandersi in un formato
inusuale - più di dieci ore complessive - che non rispetta né il pe-
rimetro del film, né il ritmo narrativo della serialità televisiva tra-
dizionale. Nelle parole dello stesso Sorrentino, The Young Pope
non è una serie tv ma un film in dieci puntate, il sogno di ogni
regista cinematografico lasciato libero di dare sfogo alla propria
creatività senza alcun limite temporale o produttivo.
Il tentativo di HBO di sperimentare nuovi formati seriali sem-
bra concentrarsi sulla possibilità di lasciare la massima libertà
creativa a firme importanti, esplorando i confini del racconto se-
riale e provando a metterne in discussione gli assunti apparen-
temente più rigidi. L’esempio di Big Little Lies (HBO 2017-in
produzione)6 conferma la volontà di spostare il limite della nar-
razione seriale persino oltre il vincolo tradizionale del cliffhanger
- che pure, benché in forma attenuata, era presente anche in The
Young Pope.

6
Si veda oltre, par. 3.4.
86 Capitolo III

3. Oltre il binge watching

Per quanto riguarda il formato, dunque, la tendenza più diffu-


sa nella Grande Serialità degli anni Dieci sembrerebbe il modello
basato su stagioni brevi, composte al massimo da dieci-tredici epi-
sodi. Tuttavia la contrazione nella lunghezza totale della stagione,
necessaria per ragioni economiche e produttive, non si adatta ad
ogni genere di racconto seriale: all’aumento delle serie di tredici
ore non sembra corrispondere un analogo aumento delle serie per
cui questo modello si rivela efficace. Il tasso di cancellazioni di
serie dopo la prima stagione è uno dei punti di maggior dibattito
in relazione all’efficacia del modello Netflix (Ojer, Capapé 2013).
Nel frattempo, le poche serie di ventidue episodi rimaste con-
tinuano a mantenere i propri fedeli spettatori, raggiungendo per-
centuali di ascolto ben più cospicue rispetto alle serie Netflix. Si
assiste dunque ad un interessante paradosso: dopo un week-end
passato a divorare l’ultima stagione di House of Cards (Netflix,
2013-in produzione) gli spettatori sono senz’altro soddisfatti, ma
dovranno aspettare molti mesi prima di ricevere nuovi contenu-
ti, di quella serie, mentre il “long-seller” Grey’s Anatomy (ABC
2005-in produzione) richiama nove milioni di spettatori ogni set-
timana da dodici anni (solo negli Stati Uniti).
Sembra manifestarsi una nuova tendenza che riassume tutte
le caratteristiche di cui abbiamo fatto cenno fin qui, e che alcuni
osservatori hanno chiamato «tantric tv»7. Con questa pittoresca
ma non banale definizione si intende descrivere il piacere di dila-
zionare il più possibile la visione di una serie, per ottenere la mas-
sima soddisfazione. Questa metafora esprime due delle tendenze
più attuali nella cultura occidentale contemporanea: l’importanza
dell’erotismo rispetto al sesso, che ne recupera la dimensione edo-
nistica e ludica alla luce di una diversa valorizzazione del tempo,
e l’ossessione per il cibo, che risponde alla velocità del consumo
vorace con la lentezza della cucina d’autore, capace di far riscopri-
re sapori, assaporare tradizioni, recuperare esperienze sensoriali
da godere con calma.

7
Cfr. A. Wallenstein, Why Binge Watch When There’s Tantric TV?, in
«Variety», march 2013 (http://variety.com/digital/columns/why-binge-wa-
tch-when-theres-tantric-tv-1200002131/)
Prospettive 87

Nel mondo multiforme e in rapida evoluzione della Grande


Serialità sembra riflettersi con chiarezza la fisionomia della con-
temporaneità, che vede contrapporsi lentezza e velocità: da un
lato l’amore per la forma fisica, la perfezione del corpo, la per-
formance, la paura del tempo che passa, l’ossessione per la giovi-
nezza e, dall’altro lato, la meditazione, la cura “dolce” del corpo,
la disintossicazione dallo stress, lo yoga, la valorizzazione delle
forme morbide, la dieta vegan… Da un lato l’accelerazione costan-
te, l’energia fisica, il risultato; dall’altro la pausa, la lentezza, la
riflessione. Le due tensioni opposte sono rispecchiate dai due mo-
delli di serialità contemporanea, il che però non significa che la
«tantric television» si riferisca solamente al modello tradizionale
di serialità dei network, basata sulla puntata settimanale: anche
nel modello Netflix gli amanti del binge watching sono affiancati
da spettatori più lenti, che preferiscono non divorare un’intera
serie in due giorni. Le nuove serie televisive sono talmente com-
plesse, ricche e piacevoli da sollecitare un consumo consapevole,
lento, capace di farne assimilare la densità; è un peccato termi-
narle troppo in fretta.
Gli spettatori “tantrici” preferiscono guardare uno o due epi-
sodi alla volta (alcuni osservatori affermano che non si riesca a
consumare più di due episodi e mezzo in una sessione, che pe-
raltro coincide con la durata di un film di sala), per poi lasciar
passare qualche tempo per assaporare la serie, lasciando sedi-
mentare la complessità dell’intreccio, godendo del ricordo delle
performance attoriali o registiche, insomma evitando il rischio
dell’indigestione - per mantenere la metafora legata al cibo. Que-
sta tendenza alla lentezza e al piacere di assaporare con calma la
densità estetica e narrativa della Grande Serialità emerge con evi-
denza dai forum, dai blog e dai social dove sempre più spesso gli
utenti affermano di rivedere abitualmente un singolo episodio per
comprenderne meglio il significato e coglierne i molteplici risvol-
ti. Il caso della settima (e, sembrerebbe, penultima) stagione di
Game of Thrones evidenzia questa prassi: ogni episodio settima-
nale, trasmesso in contemporanea con gli Stati Uniti da Sky At-
lantic, viene commentato e discusso in rete dai fan fin nei minimi
dettagli, riproponendo la stessa logica che Jenkins aveva descritto
a proposito del fandom di Lost. Consumare voracemente tutta la
stagione di Game of Thrones non permetterebbe la condivisione
88 Capitolo III

con altri fan che costituisce, appunto, uno dei grandi piaceri della
serialità contemporanea.

4. L’antieroe e la fine del cliffhanger

Oltre ad esercitare una forte influenza sulle pratiche di consu-


mo e di fruizione, il modello della “stagione-pilota” inaugurato da
Netflix spinge la costruzione narrativa seriale verso nuove dire-
zioni, tra cui una delle più interessanti è la perdita di rilevanza del
meccanismo del cliffhanger.
Quando una serie è disponibile nella sua totalità in un’unica
soluzione, la narrazione non ha (più) urgenza di essere interrotta
tra un episodio e l’altro per sollecitare la curiosità dello spettatore
e convincerlo a tornare alla puntata successiva. I colpi di scena
a fine puntata della serialità tradizionale perdono rilevanza nella
serialità contemporanea perché la narrazione si sviluppa preva-
lentemente seguendo linee orizzontali e concentrando la tensione
narrativa più sullo sviluppo dei singoli protagonisti che sulla tra-
ma dei singoli episodi.
Una ricaduta significativa di questa tendenza si riflette sulla
costruzione dei personaggi, che nella serialità più recente dà spa-
zio ad una figura che si può considerare emblematica della Grande
Serialità: l’antieroe: «…I tratti dominanti dell’antieroe contempo-
raneo derivano dalla compresenza di eroismo e cattiveria, carat-
terizzati da ambiguità morale. […] gli antieroi sono criminali, ma
possono redimersi» (Garcìa 2016, p. 53).
La complessità psicologica dell’antieroe (Bruun Vaage 2015)
ha il potere di impegnare lo spettatore in un’intrigante attività in-
terpretativa ed empatica nel corso degli episodi, ben più coinvol-
gente rispetto all’opposizione classica tra personaggi totalmente
cattivi e totalmente buoni. Tony Soprano è stato il primo grande
antieroe seriale, il sanguinario killer mafioso che soffriva di at-
tacchi di panico e amava le papere che vivevano nel suo giardino.
Personaggio a tutto tondo, complesso e profondamente umano
anche nella sua cattiveria, è stato seguito da altri giganti come
Dexter, Walter White, Don Draper, Frank e Claire Underwood, i
personaggi femminili di Orange is the new black e da molti altri.
L’affascinante tema dell'antieroe è stato affrontato da molte-
plici punti di vista negli ultimi anni (Bernardelli 2016; Buonanno
Prospettive 89

2017); in questa sede ci preme soprattutto evidenziarne il legame


con la dimensione produttiva della serialità contemporanea e con
i cambiamenti di scenario nel mercato globale dell’ultimo decen-
nio. A questo proposito è interessante il punto di vista di Cindy
Holland, VP di Netflix, nell’intervista già citata8:

Credo che si possa sempre prendersi il tempo di sviluppare davvero


i personaggi e le linee narrative, prendendosi anche il lusso di esplora-
re strade minori e tangenti rispetto alla storia principale, perché siamo
sicuri che lo spettatore starà con noi sulla stessa storia nelle prossime
due o tre ore. Jenji [Kohan, creatrice di Orange is the new black, N.d.A.]
ha affermato che lavorare a Orange le ha dato la libertà di non doversi
preoccupare di tutti i suoi personaggi in ogni singolo episodio, cosa che
sarebbe stata quasi impossibile.9

Anche i network stanno sperimentando il modello a tredici


episodi mutuato dalle reti via cavo, con risultati spesso sorpren-
denti. Alcuni esempi di quelle che vengono definite “special event
miniseries” sono Under the Dome (CBS, 2013-2015, tre stagioni
di tredici episodi ciascuno) o la scelta di FOX di produrre 24: Live
Another Day, una miniserie in dodici episodi con Kiefer Suther-
land e altre stelle appartenenti all’universo della serie-madre 24.
Il modello della serie-evento è stato adottato anche da HBO con
Olive Kitteridge, quattro episodi in formato cinematografico tra-
smessi nel 2014 con buoni risultati.
Un recente esperimento sul formato è rappresentato dalla mi-
niserie Big Little Lies (2017-in produzione), prodotta da HBO in
otto episodi, una pezzatura più simile agli standard di Netflix che
della tv via cavo. I valori estetici della serie sono tipici dello stile
HBO: i protagonisti sono star di Hollywood (Nicole Kidman, Ree-
se Witherspoon), fotografia e regia di qualità cinematografica. La
caratteristica singolare, però, è la struttura narrativa priva di clif-
fhanger. Tutti gli episodi sono costruiti intorno ad una domanda,
presentata nella puntata pilota, ma la cui risposta è differita fino

8
Si veda il par. 3.2.4
9
Netflix’s Original Content VP on Development Plans, Pilots, Late-Ni-
ght and Rival HBO, in «The Hollywood Reporter», 18 June 2014 (http://
www.hollywoodreporter.com/news/netflix-original-content-vp-deve-
lopment-712293). Trad. a cura di chi scrive.
90 Capitolo III

alla fine della serie. Ogni episodio si conclude senza che quasi lo
spettatore se ne accorga: nessuna domanda rimane in sospeso,
nessun colpo di scena lascia aperti interrogativi fondamentali. La
lenta progressione narrativa non si basa sulla necessità di coin-
volgere lo spettatore in enigmi, questioni irrisolte, colpi di scena.
Il piacere di guardare consiste nel lasciarsi avvolgere dall'inesora-
bile e inquietante progredire delle storie personali delle tre pro-
tagoniste principali, di cui lo spettatore scopre pian piano nuovi
risvolti e segue il progressivo intrecciarsi delle loro biografie, fino
ad una conclusione inevitabile, ma non inaspettata.
Dunque, osservare le serie dal punto di vista dei cambiamenti
di formato permette di coglierne la complessità e insieme la viva-
cità, oltre a confermare la stretta interdipendenza (o circolarità,
come l’abbiamo definita più sopra) tra le diverse componenti del
modello seriale contemporaneo.
Nel prossimo capitolo, uno sguardo ravvicinato ad alcune del-
le serie più significative degli ultimi anni metterà a fuoco alcune
delle principali linee di tendenza dal punto di vista narrativo, te-
matico e di formato, e permetterà di riconoscere nelle loro pecu-
liarità - e anche nelle loro debolezze -, le prospettive e le questioni
aperte.
IV

SGUARDI

Alcuni temi della Grande Serialità

1. Quello che (non) c’è

Questo capitolo conclusivo contiene una raccolta di alcuni casi


di serie tv recenti. Inevitabilmente, chi legge andrà alla ricerca
della propria serie preferita, o di quella a suo parere più impor-
tante; che la trovi oppure no, entrerà in empatia o in contrasto
con chi scrive, di cui penserà di comprendere la personalità e il
carattere attraverso le scelte effettuate. Anche questa è un’inte-
ressante attività dello spettatore seriale, determinata dalla parti-
colare fisionomia della Grande Serialità e resa possibile dall’ab-
bondanza dell’offerta e dei generi in cui si declina. Attraverso la
molteplicità delle proposte, l’appassionato di serie si costruisce
un menù personalizzato che dice molto della sua personalità, dei
suoi gusti, del suo stile di vita: un aspetto dell’attività del pubblico
seriale che forse meriterebbe maggiore approfondimento e una
più attenta riflessione teorica.
L’obiettivo che ha guidato la selezione presentata in queste
pagine non ha tanto a che fare con i gusti personali di chi scri-
ve, quanto piuttosto con la rappresentatività di ciascun titolo ri-
spetto alle tendenze più significative del genere, ai temi e ai nodi
problematici trattati nel volume. Non è difficile comprendere che
moltissime serie sono state escluse; l’obiettivo non era compilare
un’enciclopedia della serialità contemporanea, né fornire suppor-
to teorico alle passioni e ai gusti personali. Più semplicemente, le
scelte sono state effettuate in base alla capacità di ciascuna serie
selezionata di dar corpo ad un nodo tematico, di portare alla luce
una questione rilevante, di offrire uno sguardo originale rispetto
alla vastità ormai incontrollabile dell’offerta.
92 Capitolo IV

L’approfondimento su singole serie è diventato talmente ap-


passionante da generare, negli ultimi anni, una vasta pubblicisti-
ca sia accademica, sia giornalistica. Numeri monografici di riviste,
volumi collettanei, atti di convegni monotematici costituiscono or-
mai un corpus molto nutrito, a cui rimando per una panoramica
più che esauriente su titoli come Breaking Bad, Game of Thro-
nes, True Detective, Mad Men e molti altri.
Cosa manca alla mia selezione, dunque? Non ci sono le pietre
miliari che “non puoi non aver visto” (Lost, Mad Men, Breaking
Bad), su cui esiste appunto una vasta e consolidata pubblicistica
monografica; manca il teen drama classico (Beverly Hills 90210,
The OC), che merita una riflessione approfondita sulla particolare
relazione fra quei testi seriali e il loro pubblico di riferimento; non
c’è la cinematic tv (True Detective, Fargo, Westworld), perché è
oggetto di analisi attente da parte dei film studies; sono escluse le
serie comiche (The Big Bang Theory, How I Met Your Mother,
Modern family, Master of None) poiché, come il teen drama,
richiedono un approccio capace di tener conto delle peculiarità
del genere comico, spesso non riconducibile ai criteri analitici ap-
plicati alle serie drammatiche; per ragioni analoghe non ci sono
i capolavori di genere, come l’horror (The Walking Dead, True
Blood) e le serie musicali (Vinyl, The Get Down, Empire), la cui
valutazione critica non può prescindere dalla collocazione all’in-
terno del vasto genere cui appartengono.
Si potrebbe continuare a lungo a categorizzare, classificare,
raggruppare, anche perché si tratta di un’attività piuttosto diver-
tente - tanto da essere praticata spesso e volentieri da blogger e
giornalisti che si cimentano in apprezzati elenchi sulle “dieci serie
da non perdere”, “le dieci serie che hanno fatto la storia”, e così
via. Anche procedendo in questa direzione, tuttavia, moltissimi
titoli rimangono esclusi e c’è sempre qualche appassionato che
lamenta l’assenza della sua serie preferita.
I titoli presentati qui, insomma, sono stati selezionati tra quel-
li di cui scrivo ogni mese sulla rivista Vita Magazine1. Il punto di
vista che privilegio non è l’attualità giornalistica, né l’ultima usci-

1
Voglio ringraziare qui il direttore Giuseppe Frangi per avermi affidato
una rubrica dove posso riflettere in totale autonomia su quelle che ritengo le
tendenze più interessanti della serialità contemporanea. Poter scrivere delle
proprie passioni è un privilegio di cui sono consapevole e grata.
Sguardi 93

ta, né il tema del momento, ma piuttosto la rilevanza tematica,


l’originalità, la capacità di raccontare la contemporaneità. Fra le
molteplici opzioni possibili, ho scelto anch’io (circa) dieci titoli.
Per la verità, dieci sono i temi: le serie che li esemplificano sono
un po' di più. Ma si tratta di una convenzione che aiuta ad uscire
dall’impasse di cercare a tutti i costi "quello che non c’è".
Mi sono presa il lusso di scriverne con un linguaggio leggero,
libero dalla rigidità degli apparati bibliografici e capace anche di
dar voce, quando serve, all’emotività o al mio gusto personale, che
inevitabilmente in qualche caso traspare. Posso dire serenamen-
te, però, che non tutte sono tra le mie preferite; alcune sono state
piacevoli scoperte, altre mi hanno costretto ad affrontare storie
e temi distanti dalle mie corde, altre ancora mi hanno divertito
molto. Tutte - senza eccezione - hanno alimentato la mia curiosità
sul mondo della Grande Serialità, il cui interesse per me non ac-
cenna a diminuire.

2. La serie-kolossal: Game of Thrones

Riassumere in poche righe la complessità di Game of Thrones


(HBO, 2011-in produzione) è impossibile. In questa serie è tutto
ipertrofico: la durata, il numero dei personaggi, i costi di produ-
zione, i discorsi sociali che genera, gli ascolti. Come abbiamo vi-
sto, HBO è stata l’apripista fin dagli anni Settanta della cinematic
television: temi originali e spesso scabrosi, sceneggiature com-
plesse, personaggi densi, regia, fotografia e montaggio di livello
cinematografico, attori da Oscar. I Soprano, Sex and the City,
Vinyl, Six Feet Under, True Blood, The Wire, True Detective, solo
per citare alla rinfusa alcuni titoli, hanno aperto le porte della se-
rialità televisiva agli appassionati di cinema. Ma non è un azzardo
sostenere che Game of Thrones è il prodotto più clamoroso della
premiata ditta HBO, quello che non si può descrivere (nel bene e
nel male) se non attraverso superlativi.
Per esempio, il suo pubblico è non solo tra i più numerosi della
serialità contemporanea, ma anche tra i più appassionati: se si
inizia a guardare Game of Thrones, non si può non diventarne
fan. Magari si può rifiutare per principio di entrare in contatto
con quel mondo: può non attrarre il genere fantasy, o la violen-
za pervasiva, o l’entusiasmo persino stucchevole che trasuda dai
94 Capitolo IV

blog, dalle pagine Facebook, dai discorsi sui social. Ma se si attra-


versa la soglia dei Sette Regni, non se ne esce più. Era dai tempi
di Lost e dei suoi enigmi che un prodotto seriale non scatenava
un tale dibattito mediatico (o hype, come viene definito da fan e
studiosi il “rumore” che si crea intorno ad un prodotto mediale).
All’uscita di ogni nuova puntata sui social network non si parla
d’altro, tanto che i pochi fan che non riescono a mettersi in pari
con gli episodio (in Italia Sky Atlantic li trasmette in contempo-
ranea con gli Stati Uniti, prima in versione originale sottotitolata,
una settimana dopo in versione doppiata), sono costretti a slalom
improbabili per evitare gli spoiler.
Game of Thrones sembra generare più di ogni altra serie il fe-
nomeno cosiddetto “Fomo”, fear of missing out, cioè la paura di
restare esclusi dalla conversazione social. Il che obbliga molti fan
alla vile menzogna. Pur di non confessare di non aver visto una
puntata, tanti preferiscono, come a scuola, ricorrere al “bigino”:
un riassunto in rete (persino il blasonato New York Times li pub-
blica regolarmente dopo ogni puntata), una sbirciata ad uno spoi-
ler, un’occhiata di straforo alla pagina ufficiale del programma.
Non è ammissibile non conoscerla o non guardarla, perlomeno
presso il pubblico più giovane.
E poi c’è il binomio inscindibile sesso e violenza, esibito spes-
so - forse troppo -, senza filtri né pudori, soprattutto nelle prime
stagioni. L’esperienza di vedere scene fin troppo esplicite, che nor-
malmente la tv non mostra, fa di Game of Thrones una serie smart,
adatta ad un pubblico emancipato, o che ama definirsi tale.
Il genere cui appartiene, il fantasy, ha una grande tradizione
letteraria e cinematografica. La serie tv è tratta dalla saga Crona-
che del ghiaccio e del fuoco scritta da George R. R. Martin, che già
di per sé ha una fama e ed un fandom paragonabili a quelli de Il
signore degli anelli di Tolkien, ma adattato ai tempi e agli spazi
contemporanei. Il seguito è tale che una delle principali discus-
sioni tra gli adepti (non è azzardato definirli così) è la paura che
Martin, ormai settantenne, non riesca a terminare la saga prima
di morire.
Se lo spazio occupato su Wikipedia è un indicatore della po-
polarità di una serie, nel caso di Game of Thrones è davvero no-
tevole. L’ambientazione vi è descritta come «un grande mondo
immaginario costituito principalmente dal continente Occidenta-
le (Westeros) e da quello Orientale (Essos). Il centro più grande e
Sguardi 95

civilizzato del continente Occidentale è la città capitale, Approdo


del Re, dove si trova il Trono di Spade dei Sette Regni. La lotta
per la conquista del trono porta le più potenti e nobili famiglie del
continente a scontrarsi o allearsi tra loro in un contorto gioco di
potere»2. Gli intrecci fra i numerosi personaggi richiedono un’at-
tenzione estrema ai volti, ai nomi, ai ruoli e alle relazioni. Come
se non bastasse, in ossequio alle regole di genere, insieme agli es-
seri umani l’affollatissimo universo di Game of Thrones è popo-
lato da draghi, zombie, umanoidi malvagi, esseri soprannaturali,
persino meta-lupi, gli imponenti antenati preistorici dell’odierno
lupo grigio. La lotta per il potere cambia continuamente gli alberi
genealogici, costringendo il pubblico ad un’attenzione e ad una
concentrazione che poche altre serie richiedono per stare al passo
con la densità delle storie, con le alleanze e i continui tradimenti
che modificano ad ogni episodio i rapporti di forza tra le famiglie
coinvolte.
Questo è un ulteriore elemento di eccezionalità: la capacità
di rivestire con gli abiti eleganti del grande cinema la narrazione
e i temi tipici della soap opera - sentimenti forti, potere, sesso -
dando origine ad un ossimoro molto originale: una soap opera di
qualità. HBO è riuscita nell’intento, valorizzando in un unico pro-
dotto letteratura, cinema e televisione per creare forse il migliore
esempio di transmedialità degli ultimi anni.
In Game of Thrones è ipertrofico anche il male, motore in-
discutibile della serialità più recente che qui viene spinto fino al
paradosso narrativo di uccidere uno dopo l’altro tutti i personag-
gi più chiaramente positivi, fin dall’inizio. I fan sono costretti a
fare i conti fin da subito con la dura lezione dei Sette Regni: non
ci si può affezionare a nessuno. Tutti i protagonisti, anche i più
amati, possono morire. Nella prima stagione, ad esempio, viene
subito eliminato il carismatico Ned Stark, che sembrava l’ancora
di salvezza cui aggrapparsi per tollerare la violenza gratuita del
suo temibile avversario Aerys Targaryen, il re folle e ubriacone.
Invece no, Stark non si salva. E per gli spaesati spettatori inizia
un’altalena emotiva di speranze e delusioni che culmina con la
storia di Jon Snow, uno dei pochi “buoni” a resistere indenne fino
alla quinta stagione. Ma niente, anche lui finisce pugnalato a mor-

2
https://it.wikipedia.org/wiki/Il_Trono_di_Spade_(serie_televisiva)
96 Capitolo IV

te nel finale di stagione, scatenando tra milioni di fan disperati un


delirio durato un’estate intera, passata a chiedersi se Jon Snow
fosse morto veramente, a fare congetture, a scommettere per il
sì o per il no. Potente cliffhanger, certo, ma non originalissimo;
per gli spettatori più adulti non è difficile rintracciarvi l’eco di
un’altra prodigiosa operazione di marketing, quella che nell’esta-
te del lontano 1980 tenne in ansia mezzo mondo a chiedersi: “Chi
ha sparato a Gei Ar?”. Mutatis mutandis, anche in Dallas (CBS,
1978-1991), le lotte di potere, il sesso e il denaro erano i perni nar-
rativi intorno a cui ruotava l’esistenza dei numerosi personaggi. E
anche in quel caso, la risposta fu piuttosto banale; anzi, nel caso
di Game of Thrones l’espediente usato per uscire dall’impasse ri-
chiede una sospensione della credulità ancora maggiore rispetto a
quella già tipica del genere fantasy. Ma i fan non si formalizzano,
talmente sono felici di poter rivedere il loro beniamino.
Game of Thrones è la serie degli eccessi, capace di spingere al
limite ciascuna delle sue numerose componenti. È una meravi-
gliosa espressione delle potenzialità attuali della Grande Serialità,
della sua complessità e delle sue contraddizioni. È un racconto
forte, denso e sfacciato, con accelerazioni improvvise e anche
diversi momenti di noia, che con la sua potenza visiva e la sua
eleganza narrativa riesce a rivestire di classe, oro e meravigliosi
effetti speciali persino la banale struttura della soap opera.

3. La serie perfetta: House of Cards

Non è mainstream, non è nicchia, non è cinema, non è televi-


sione, ma tutto questo insieme. House of Cards (Netflix 2013-in
produzione) si potrebbe definire la serie perfetta. I tele-cinefili
trovano pane per i loro denti nel cast stellare, nella regia d’auto-
re, nella densità narrativa e tematica; lo spettatore comune viene
catturato dalla perfidia dei personaggi e dal ritratto spietato dei
retroscena della politica americana. Come capita ai grandi classi-
ci, sa mettere d’accordo tutti.
House of Cards è l’adattamento di un adattamento: deriva da
una miniserie inglese dallo stesso titolo del 1990, che a sua volta
derivava da una trilogia di romanzi di Michael Dobbs. A fare di
House of Cards una pietra miliare della serialità contemporanea
Sguardi 97

è anche il suo ruolo nel consacrare Netflix come grande potenza


nel mercato televisivo e cinematografico mondiale3.
Per questi motivi, e per altri che andrò a spiegare, è forse il
primo esempio della nuova generazione della Grande Serialità,
quella che marca una frattura profonda fra un “prima”, legato alle
logiche della televisione di palinsesto, e un “dopo”, dove il bin-
ge watching reso possibile dallo streaming diventa una pratica
di consumo comune, con tutte le conseguenze sul formato, sui
contenuti e sulla reputazione del genere che abbiamo considerato
nelle pagine precedenti. Ancor più rilevante è la portata di tutto
questo se si considera che House of Cards non ha un tema parti-
colarmente innovativo, non è l’unica serie a vantare un cast blaso-
nato, e neppure il punto di vista sulla scena politica statunitense
è originale: l’interno dello Studio Ovale e della camera da letto
della Casa Bianca sono il cuore tematico di altre serie importanti
che l'hanno preceduta, da The West Wing (NBC, 1999-2006) a
Scandal (ABC, 2012-in produzione).
Ma se il gradimento di gran parte di queste serie tv si deve
all’eccezionalità di uno o di alcuni degli ingredienti che le com-
pongono - colonna sonora, recitazione, sceneggiatura, regia, te-
matiche -, il successo di House of Cards ha qualcosa in più: è il
risultato dell’eccellenza in tutti questi elementi. E poco importa se
alla quinta stagione (2017) i primi scricchiolii narrativi si stanno
facendo sentire.
Che la politica americana sia il racconto mediale perfetto è or-
mai chiaro dai tempi dello scandalo Clinton-Lewinski, quando il
privato e il gossip sono diventati lo sfondo inevitabile sul quale
poggia la ribalta degli intrighi del potere. Ma in House of Cards
si va molto oltre.
Alla gelida, splendida Claire Underwood non interessa affatto
la vita extraconiugale del marito Frank, candidato presidente. Il
solidissimo progetto di coppia che i due protagonisti condivido-
no non lascia spazio alle trivialità del pettegolezzo o alla banalità
dei tradimenti della carne, che entrambi tranquillamente e con-
sapevolmente si concedono. È la stima per l’intelligenza politica
dell’altro che non ammette il tradimento. Due menti diaboliche
sono concentrate, all’unisono, su un unico oggetto erotico con-

3
Si veda il cap. 3.
98 Capitolo IV

diviso: il potere. Un obiettivo che sanno di poter raggiungere so-


lamente insieme. Claire e Frank sono due giganti del male che si
fronteggiano alla pari, senza esclusione di colpi, traendo piacere
e complicità nello sfidare continuamente l’altro ad oltrepassare
un limite, per poi stupirlo con un colpo ad effetto. E lo spettatore
assiste, soggiogato e affascinato, ad una tragedia shakespeariana
che sa raccontare la grandezza terribile del male mentre ci seduce
con le fattezze stupende di Claire-Robin Wright e con gli sguar-
di taglienti di Frank-Kevin Spacey, che addirittura ricorre agli “a
parte” teatrali per sfidare lo spettatore, dicendogli in faccia: «Sia-
mo complici. Non sei migliore di me. Se sei qui, ora, è perché ami
il male quanto me».
Frank e Claire Underwood impersonano la doppia faccia del
potere: maschile e femminile, scena e retroscena, umano e non
umano. Manca solo l’antinomia più antica, l’opposizione tra bene
e male: perché in House of Cards il bene non esiste. È questa la
chiave che rende nuovo, seducente e tragico un tema tutto som-
mato poco originale. L’antico topos della smania di potere si tinge
di una luce sinistra e amara, che illumina l’umanità totalmente
priva di umanità che abita lo spietato “castello di carte” della po-
litica americana.
Basterebbe anche solo la sigla per testimoniare la grandezza di
questa serie. Una musica solenne e inquietante sottolinea il rapi-
dissimo scorrere in time-lapse di immagini-simbolo della capitale
americana: la Casa Bianca, il traffico delle strade, il fiume, l’obe-
lisco, la statua di George Washington. Ciascun luogo è illuminato
per pochi attimi da un taglio di luce, per poi ripiombare nell’oscu-
rità. Sono immagini affascinanti, perfette. Ma non c’è traccia di
esseri viventi. Solo luce gelida, buio, potere e assenza di umanità:
la sintesi perfetta di Claire e Frank Underwood.

4. Il period drama britannico: Downton Abbey e The Crown

«Mi dispiace. Credevo avessimo più tempo», dice con sguardo


triste una giovanissima Elisabetta d’Inghilterra al marito Filip-
po di Edimburgo. È il 1952. I due sposi sono in Kenya nel primo
viaggio ufficiale della principessa erede al trono. Il marito la ac-
compagna in quella che sembra a tutti gli effetti una luna di miele.
Assolti gli impegni ufficiali, i due si stanno concedendo un safari
Sguardi 99

e un po’ di intimità, come una giovane coppia qualunque, quan-


do vengono raggiunti dalla notizia della morte dell’adorato pa-
dre di Elisabetta, il re Giorgio VI. Partita da Londra principessa,
Elisabetta sbarca dall’aereo di ritorno già regina, e perfettamente
consapevole che la sua vita da quel momento in poi apparterrà
alla Corona. Quel marito molto amato e fortemente voluto contro
il parere della Corte, i figli piccoli, la bella residenza di Clarence
House appena arredata passeranno inevitabilmente in secondo
piano, insieme all’illusione di una vita normale.
La chiave narrativa di The Crown (Netflix 2016-in produzione)
è condensata in quella frase e in quella scena, che rende evidente
la costante tensione fra la dimensione privata e la sfera pubblica
nella coppia reale della dinastia più conosciuta d’Occidente.
The Crown è un period drama, come viene definito in Inghil-
terra dove è uno dei generi televisivi di punta. È ambientata nella
Gran Bretagna del secondo dopoguerra, dominata dalla persona-
lità gigantesca ed ingombrante di Winston Churchill. La relazione
quasi filiale e di reciproca protezione, densa di implicazioni psico-
logiche, storiche e politiche fra la giovane ed inesperta sovrana e
l’ormai vecchio e malandato statista aveva offerto inizialmente lo
spunto per un film. Ma il materiale si è rivelato talmente abbon-
dante da convincere lo sceneggiatore e drammaturgo britannico
Peter Morgan (vincitore del Golden Globe 2007 per il film The
Queen, diretto da Stephen Frears) a trasformarlo invece in una
serie, di cui sono previste ben sei stagioni, a coprire l’intero arco
temporale della lunga vita di Elisabetta.
Nella prima si racconta la sua infanzia dorata protetta dalla
splendida figura del padre, quel re Giorgio VI asceso al trono dopo
la scandalosa abdicazione del fratello Edoardo, che alla Corona
preferì l’amore per la divorziata Wallis Simpson; poi il matrimo-
nio con l’inquieto e guascone Filippo di Edimburgo; la turbolenta
relazione con la sorella Margaret e con la Regina Madre; il duro
apprendistato per imparare a fare la Regina. Bellissimo il dialogo
con la Regina Madre, in cui Elisabetta la rimprovera di non averle
impartito un’educazione in grado di farla interloquire con i poten-
ti del mondo: «Non posso parlare solo di cavalli e di cani!»
Quello che colpisce in questo sontuoso dramma in costume è
l’equilibrio elegante con il quale vengono narrate le vicende priva-
te della monarchia inglese. Nessuna concessione al pettegolezzo
nel tentativo di unire alla testimonianza storica di un’epoca il rac-
100 Capitolo IV

conto di una famiglia e delle sue dinamiche emotive e relazionali.


Il retroscena è in primo piano, il che talvolta forza la narrazione
a scapito della precisione, come qualche critico ha fatto notare;
ma anche gli aspetti più privati mantengono quel tono di algida
distanza che identifica, nell’immaginario collettivo, lo stile della
monarchia inglese.
È inevitabile il paragone con il grande successo di Downton
Abbey (ITV, 2010-2015), l’altrettanto sfarzosa serie in costume
sulla nobiltà anglosassone ambientata tra la fine dell’Ottocento e
i primi decenni del Novecento, che ha proiettato il period drama
britannico nell’empireo della Grande Serialità internazionale. Nel
2012 è stata la serie non americana a ricevere il maggior numero
di nomination agli Emmy Awards. Anche in Downton Abbey la
storia viene raccontata dalla prospettiva del privato, intrecciando
la quotidianità dei nobili conti di Grantham, la famiglia Crawley,
con le vicende della loro servitù, facendo dialogare modernità e
tradizione per veder trasparire in filigrana le contraddizioni di
un’epoca.
Ma The Crown segna un punto di svolta nella tradizione della
serialità britannica, storicamente poco permeabile alle influenze
provenienti da oltreoceano. Gli Stati Uniti, stavolta, si impadro-
niscono di un tema tipicamente britannico: il colosso americano
Netflix cerca di conquistare quel mercato tradizionalmente osti-
co con l’artiglieria pesante, minacciando direttamente il primato
storico della tv nazionale, principale produttrice del period dra-
ma originale che da sempre vince sulle importazioni di serialità
statunitensi. The Crown è una sfida per Netflix, che si propone
l’ambizioso e un po’ arrogante obiettivo di raccontare da outsider
la storia della monarchia britannica, contando sulla potenza di
fuoco della propria robustezza economica. E infatti The Crown
si presenta sul mercato internazionale come la serie più costosa
mai prodotta da Netflix: più di House of Cards, più di Stranger
Things. C’è chi ha parlato di centocinquanta milioni di dollari per
una stagione (poi smentito dalla stessa Netflix, secondo cui quel-
la cifra si riferiva invece alle prime due stagioni), chi ha scritto
che siano stati investiti circa tredici milioni di dollari a episodio.
Resta il fatto che il termine di paragone per una puntata di The
Crown è un film come Il discorso del re o una puntata di Game of
Thrones, non certo l’episodio di una serie tv “normale”.
Sguardi 101

In Downton Abbey la nobiltà britannica di sangue deve fare


i conti con l’avanzare della nobiltà statunitense consacrata dal
dio denaro; in The Crown il protocollo della Corona viene infran-
to dalla spregiudicatezza della divorziata commoner americana
Wallis Simpson, il cui fascino persuade il re Edoardo VIII ad ab-
dicare per poterla sposare; sembra quasi che, allo stesso modo, la
storica televisione britannica veda vacillare in patria il suo prima-
to culturale sotto la pioggia di dollari proveniente da oltreoceano.
Fortunatamente, però, Netflix non è un parvenu della serialità,
ma ha dimostrato di saper raccontare con fedeltà, rispetto e classe
la cultura del Paese che, mi si passi la metafora, sta tentando di
conquistare.

5. La via italiana e lo stile Sky: Gomorra

Quelli che gli studiosi di serialità chiamano production values


in Gomorra-La serie sono ineccepibili: immagini perfette, foto-
grafia quasi maniacale, regia attenta (a volte compiaciuta, ma è
un peccato italiano), recitazione senza sbavature. Siamo indub-
biamente al cospetto della Grande Serialità, quella che tratta lo
spettatore da adulto, senza fargli sconti, senza impartirgli facili
lezioni né indicargli scorciatoie.
Gomorra-La serie, basata sul libro-evento di Roberto Savia-
no (Mondadori 2006), non è la prima produzione di Sky Italia
che trasforma un libro nella sceneggiatura di una serie tv. Era già
accaduto con Romanzo criminale-La serie, dove l’adattamento
televisivo del libro di Giancarlo De Cataldo (Einaudi 2002) era
stato preceduto nel 2005 dalla versione cinematografica diretta
da Michele Placido. Ma l’enorme successo della prima stagione ha
fatto di Gomorra il simbolo della via italiana alla Grande serialità
e la punta di diamante della serialità targata Sky.4
Dalla prima stagione (trasmessa nel 2014) alla seconda sono
passati due lunghissimi anni. Troppi, forse. L’attesa eccessiva non
aiuta la serialità: può attenuare la memoria, alimentare aspettati-
ve e, parallelamente, anche delusioni. Sky ha scelto questa strada
produttiva, assumendosene il rischio e tamponandolo con atten-

4
Cfr. Scaglioni e Barra 2013
102 Capitolo IV

te e intelligenti campagne di comunicazione. È successo appunto


con Romanzo Criminale, la cui prima stagione è andata in onda
nel 2008 e la seconda nel 2010, e con 1992-La serie, sugli anni di
Mani Pulite, trasmessa nel 2015 e seguita, due anni dopo, da 1993.
Più in linea con il modello della Grande Serialità statuniten-
se sono invece le scelte narrative. È vero che Gomorra-La serie
affronta il tema della criminalità organizzata, un classico della fi-
ction italiana fin dai tempi de La Piovra (Rai, 1984-2001) Ma la
distinzione netta tra bene e male è un ricordo della vecchia fiction
RAI; il grande successo di Gomorra è il prodotto di molti fatto-
ri, primo fra tutti la credibilità, resa possibile da un grande cast
e da un’ottima scrittura - quei production values che un diffuso
pregiudizio ritiene impossibili da raggiungere nelle produzioni
nazionali.
Qui non ci sono i buoni. Pietro, Ciro, Genny, Salvatore, i prota-
gonisti di Gomorra, sono gli abitanti della nostra “metà oscura”.
Personaggi terribili, che non hanno neppure l’attenuante di es-
sere lontani da noi a proteggerci dalle loro scomodissime verità.
Quel male è qui, sotto casa nostra. Eppure, nostro malgrado, ci
appassioniamo alle loro storie, alla loro quotidianità fatta di omi-
cidi, crimini efferati, spaccio, truffe, regolamenti di conti. Sequen-
za dopo sequenza, con orrore ci scopriamo affascinati da questi
personaggi che non sono stereotipi né macchiette: sono persone.
Con una famiglia, degli affetti, delle passioni. Che soffrono per un
amore non corrisposto, per un figlio troppo diverso dalle aspetta-
tive, per la morte della compagna. Sono come noi, insomma. Solo
che vivono dalla parte sbagliata e nessun buono andrà a redimerli.
Nessun commissario, poliziotto, persona perbene farà trionfare la
giustizia. Non è un giallo, Gomorra. Non è un crime. È la testimo-
nianza tremenda di com’è la vita vissuta dal lato oscuro, dove non
c’è altro orizzonte che il Male senza redenzione, senza lieto fine.
Il punto di vista del racconto è quello della camorra: una scelta
rischiosissima. Eppure funziona, perché il racconto è totalmente
privo di retorica e di giudizio. E noi non possiamo fare a meno di
guardare quell’orrore così vicino e così reale.
Rispetto alla prima stagione, la scelta narrativa della secon-
da è stata quella di incentrare ogni episodio su un personaggio,
raccontandolo a tutto tondo. Il primo è Ciro, che alla fine della
prima stagione avevamo lasciato in piena ascesa da tirapiedi della
famiglia Savastano a capoclan. Nella seconda, per affermare il suo
Sguardi 103

ruolo deve superare una prova inimmaginabile: uccidere la mo-


glie amatissima, che ormai non accetta più di vivere in quell’orro-
re. Per la prima volta lo vediamo piangere, Ciro. Non ha scelta, e
nemmeno noi: per un attimo, nostro malgrado, ci sorprendiamo
a capire il suo strazio.
Poi entra in scena Pietro, il capo carismatico, e tutti gli altri
scompaiono, inghiottiti dall’immensità della sua lucida ferocia.
Pietro incarna l’estrema, disperata solitudine del male: non si
può fidare del figlio, nemmeno quando lui, Genny, il bamboccio-
ne trasformato in una bestia sanguinaria, gli salva la vita. Pietro
è una figura quasi struggente, il vecchio re che non vuole cedere
lo scettro. E noi, con un brivido di raccapriccio, riconosciamo e
comprendiamo quella impietosa fase che ogni padre “normale”
attraversa, quando deve fare spazio in famiglia ad un nuovo gio-
vane maschio alfa.
E ancora Salvatore, il terribile nuovo padrone di Gomorra, fer-
vente cattolico e perdutamente innamorato di un “femminiello”.
Una contraddizione inaspettata e potentissima, che ne mette a
nudo la sofferenza atroce e senza soluzione. Noi, ancora una vol-
ta, osserviamo il suo dramma con stupore, orrore e - sì - umana
compassione.
Infine le donne, che in Gomorra dimostrano di saper agire il
Male con una grandezza sconosciuta agli uomini. Dopo l’uscita di
scena della splendida e terrificante donna Imma - forse la figura
più riuscita della serie -, la giovane Patrizia e la malvissuta Scianel
(un nome grottesco, una delle poche cadute di stile degli autori)
sono le donne cattive: è questo l’ossimoro più crudo, la rottura
inaccettabile del tabù della femminilità come simbolo di vita. I
personaggi di Gomorra sono una sfida continua al nostro perbe-
nismo, alle nostre convinzioni di essere sempre nel giusto: sono
criminali, ma gli affetti e i dolori personali sono spaventosamente
simili ai nostri.
Dove si trova davvero Gomorra? Possiamo rispondere Scam-
pia, o Secondigliano: ma attribuire un’identità geografica a quelle
strade non rassicura chi non vi appartiene. Certo, è Napoli ma
potrebbe essere ovunque: quel male è dappertutto. La Napoli di
Gomorra è un non-luogo, un microcosmo di violenza infettiva.
Altre città, altre nazioni - la Germania, Milano, il Sudamerica - ne
sono contagiate e compaiono sulla scena senza identità, scheletri
resi quasi irriconoscibili dalla luce livida e opaca del Male.
104 Capitolo IV

Anche la lingua di Gomorra è una non-lingua: napoletano, sì,


ma sottotitolato e, secondo molti napoletani, edulcorato e non ri-
spondente al dialetto parlato a Scampia. Questa è forse l’unica
concessione che una produzione impeccabile fa al suo pubblico,
un piccolo salvagente per non annegare in un mare di malvagità:
se abbiamo bisogno dei sottotitoli, allora è come se guardassimo
un altrove quasi esotico, diverso dalla nostra quotidianità.
Gomorra è un pugno allo stomaco, un urlo nero che ci fa com-
prendere - nostro malgrado - che la banalità del male, come la
chiamava Hannah Arendt, non è mai stata tanto vicina a noi.

6. Le serie-format: Tutto può succedere e Braccialetti Rossi

Adattare una serie tv è un processo molto delicato, che può


sfociare nell’effetto brutta copia. Il processo di adattamento di
un format estero è ormai prassi comune nel mercato televisivo
dell’intrattenimento: game show, reality show e talent sono ormai
quasi esclusivamente adattati da format internazionali.
Ben diverso è il processo per quanto riguarda il genere della fi-
ction. Tradurre una serie estera in una cultura diversa da quella di
provenienza è una scelta che solitamente viene ritenuta rischiosa
da reti e produttori tv. I valori ed i modelli di relazione che coin-
volgono i personaggi e su cui si basa la narrazione rispecchiano
la struttura sociale e relazionale del contesto di provenienza, e
non è semplice tradurli e renderli credibili in una cultura diversa.
Non è un caso se gli adattamenti in Italia si contano sulle dita di
una mano: ad esempio la longeva serie Un medico in famiglia
(Raiuno, 1998-in produzione), adattamento del format spagnolo
Médico de familia (Telecinco 1995-1999); la sit com Camera Café
(Italia Uno-Raidue 2003-in produzione), basata sull’omonima
serie francese (Caméra Café, M6 2001-2010); la soap opera Un
posto al sole (Raitre 1996-in produzione), il cui format produtti-
vo deriva dall’australiana Neighbours (Seven Network, Network
Ten 1985-in produzione). Questi e pochi altri esperimenti di adat-
tamento sono stati tentati dalle reti generaliste italiane. Recen-
temente, però, due di questi hanno ottenuto ottimi risultati di
ascolto a dispetto sia del fatto di essere, appunto, adattamenti, sia
di occuparsi di temi estremamente delicati. Si tratta di Tutto può
Sguardi 105

succedere (Raiuno 2015-in produzione) e di Braccialetti Rossi


(Raiuno 2014-in produzione).
Oltre alla diffidenza generata dalla scelta di adattare un format
di fiction, in questi due casi si tratta di fare i conti con un ulteriore
pregiudizio ben radicato, secondo cui la fiction nazionale è sem-
pre qualitativamente inferiore ai prodotti statunitensi. Nell’im-
maginario collettivo, le serie tv degne di questo nome sono solo
americane: su House of Cards, Game of Thrones, True Detecti-
ve non ci sono dubbi. Sui prodotti italiani invece il tele-cinefilo
preferisce trincerarsi dietro uno snobistico silenzio, quando non
manifesta la sua aperta disapprovazione. L’opinione sulla seriali-
tà italiana è generalmente negativa: banale, stereotipata, recitata
male e scritta peggio, piena di commissari tutti d’un pezzo, san-
ti, personaggi storici o storie d’amore da romanzo rosa. Certo, ci
sono le eccezioni: la qualità cinematografica di Gomorra e di gran
parte della serialità targata Sky, come abbiamo appena visto, o
il successo inossidabile de Il Commissario Montalbano (Raiuno
1999-in produzione), il cui formato però non è di lunga seriali-
tà ma rispecchia il modello produttivo classico di Raiuno - una
miniserie, composta da pochi episodi lunghi e autoconclusi, ben
lontana dai tredici-ventidue episodi a stagione della serialità tra-
dizionale dei network statunitensi5.
Tutto può succedere è l’adattamento della serie americana Pa-
renthood, un family drama prodotto dalla NBC e trasmesso negli
Stati Uniti dal 2010 al 2015 (e in Italia da Mediaset), a sua volta
basato su un film diretto da Ron Howard. Fino ad ora ne sono
state prodotte due stagioni, ciascuna composta da tredici episodi
lunghi da quasi due ore; la prima è andata in onda tra il 2015 e il
2016, la seconda nella primavera 2017. Al momento in cui scri-
viamo è stata annunciata la produzione di una terza stagione che
dovrebbe essere trasmessa nel 2018.
Tutto può succedere racconta dei Ferraro, versione romana
dei californiani Braverman: due genitori, i loro quattro figli e i
rispettivi consorti/compagni. È una famiglia patriarcale come ne
abbiamo viste tante in tv. Ma questa non è tradizionale. C’è Sara
(Maya Sansa), madre separata e disoccupata, con due figli adole-
scenti, che prova a ripartire da zero tornando a vivere a casa dei

5
Si veda il cap. 3.
106 Capitolo IV

genitori dopo il fallimento del matrimonio e del lavoro. Questi


ultimi, una coppia anziana e inquieta (interpretati magistralmen-
te da Licia Maglietta e Giorgio Colangeli), nella prima stagione
decidono di separarsi dopo decenni, per poi ricomporre i dissidi
nella seconda stagione. Le loro fragilità vengono condivise con gli
altri figli già adulti: Giulia (Ana Caterina Morariu), giovane avvo-
cato di successo che fatica ad essere madre e delega il suo ruolo al
marito disoccupato; Carlo (Alessandro Tiberi), il più giovane, che
deve affrontare la responsabilità di un figlio di cui non conosceva
l’esistenza; Alessandro, il maggiore (un ottimo Pietro Sermonti),
manager quarantenne che si assume il ruolo di risolutore dei pro-
blemi di tutto il nucleo, composto anche da sei nipoti alle prese
con i problemi dell’infanzia e dell’adolescenza. Un cast di livello
ed una scrittura attenta sono valorizzate da una regia sensibile,
supportata da una colonna sonora originale (curata da Paolo Buo-
nvino) a cui collaborano artisti noti al grande pubblico, come i
Negramaro e Raphael Gualazzi. Un mix di qualità, insomma. Pro-
prio come accade nelle migliori serie americane.
La parola chiave di Tutto può succedere è “diversità”, declinata
nelle vicende credibili di una famiglia non stereotipata alle prese
con problemi attuali. La componente sentimentale, essenziale nel
family drama, è intrecciata con temi sociali delicati come l’inte-
grazione razziale, l’omosessualità, la crisi economica e del lavoro,
la malattia.
Soprattutto una delle storie ha fatto discutere: Alessandro
scopre che suo figlio Max è affetto dalla sindrome di Asperger.
Come spesso accade in Italia quando la televisione affronta temi
controversi, alcuni osservatori e alcune associazioni specializzate
ne hanno ritenuto superficiale la rappresentazione dal punto di
vista medico e si sono scatenate polemiche in proposito. Ai critici
della televisione spesso sfugge, però, che il suo ruolo non è quello
di approfondire o - addirittura come alcuni pretenderebbero - di
suggerire soluzioni e risposte a temi che necessitano di ben altra
competenza. Più realisticamente, il compito della tv generalista è
piuttosto quello di accendere i riflettori su un tema specifico, por-
tandolo all’attenzione di un pubblico largo che diversamente non
sarebbe possibile raggiungere. In Tutto può succedere la storia di
Max è raccontata dal punto di vista del ragazzo e della sua fami-
glia, cercando di privilegiarne gli aspetti emotivi e sociali senza
dare giudizi né soluzioni, ma rappresentando la quotidianità di
Sguardi 107

un problema molto serio attraverso l’esperienza dei protagonisti,


che non nascondono difficoltà, imbarazzi, momenti di disperazio-
ne verso i quali viene sollecitata l’empatia degli spettatori. L’ac-
coglienza molto positiva di un programma sul quale avrebbero
scommesso in pochi ha messo a tacere le critiche a priori e ha
dimostrato che un’operazione delicata come l’adattamento di un
prodotto televisivo narrativo può essere condotta con rigore ed
efficacia, persino da una rete generalista.

Un discorso analogo si può fare per Braccialetti Rossi. Nel


gennaio 2014, quando andò in onda su Raiuno la prima puntata,
le premesse non erano favorevoli al successo della storia di un
gruppo di adolescenti gravemente malati che vivono in un ospe-
dale; se è raccontata così, in effetti, non si può fare a meno di
pensare ad un insopportabile melodramma. Tre stagioni dopo, il
bilancio è più che positivo, a conferma che le prime impressioni
non fanno quasi mai testo in una serie. Anche questa è un adat-
tamento, della catalana Polseres Vermelles trasmessa dl 2011 al
2013 in Spagna con grande successo, e basata sull’autobiografia
di Alberto Espinosa. In questo caso gli autori hanno dovuto af-
frontare il tema centrale ed estremamente delicato della malat-
tia anche mortale, declinandolo per un pubblico di adolescenti:
un’impresa quasi titanica, dato che storicamente la fascia d’età
degli adolescenti è molto difficile da coinvolgere da parte della
televisione generalista, a maggior ragione se viene trasmessa dal
canale più adulto della Rai, se è l’adattamento di un format e per
di più parla di malattia.
Il diciassettenne Leo soffre di una grave forma di tumore os-
seo, per cui subisce l’amputazione di una gamba; Valerio, suo
compagno di stanza in ospedale, vive lo stesso dramma; Cris è
ricoverata per problemi di anoressia; Davide è cardiopatico; Toni
ha avuto un incidente in auto; l’undicenne Rocco è in coma ma ca-
pisce e sente tutto, ed è la voce narrante della storia. Tutti insieme
formano il gruppo dei “Braccialetti”, come Leo li chiama dal nome
della polsiera di plastica rossa fornita dall’ospedale ad ogni pa-
ziente. Il mondo adulto è rappresentato dalla dottoressa Lisandri,
primario burbera ma materna. Gli altri - genitori, parenti, medici
- sono comprimari sullo sfondo, almeno nella prima stagione.
Sulla carta, la storia è talmente retorica da far accapponare la
pelle. Invece le prime puntate sono una sorpresa: scrittura equili-
108 Capitolo IV

brata, dialoghi credibili, recitazione di buon livello. C’è dramma,


ma non c’è traccia di autocompiacimento né del temibile effetto
“melò”, anche grazie ad un ulteriore elemento di originalità: di-
versi brani della colonna sonora (curata da Niccolò Agliardi) sono
cantati da artisti di primo piano come Laura Pausini, Tiziano Fer-
ro, Vasco Rossi.
L’alchimia fra questi ingredienti trasforma la prima stagione in
un fenomeno di costume: sui social si genera un fandom che soli-
tamente riguarda solo i teen drama americani (Buffy, Gossip Girl,
Glee…). Ai giovani attori è riservato un trattamento da rockstar: folle
nelle piazze e nei centri commerciali, ospitate, premi e red carpet.
Purtroppo, un grave rischio di tutti i successi seriali è quello di
non sapersi fermare in tempo. La storia della serialità è piena di
esempi di serie che vivono di rendita, spinte ben oltre il punto di
non ritorno. In questo caso, la difficoltà è mantenere il delicatis-
simo equilibrio narrativo tra la serietà del tema della malattia e la
leggerezza dell’adolescenza, senza concessioni alla lacrima facile,
al melò, appunto.
I primi sintomi di malessere si avvertono già nella seconda
stagione. Uno dei protagonisti muore dopo un delicato intervento
chirurgico, ma paradossalmente non viene eliminato dalla serie.
Con un curioso escamotage narrativo, viene mantenuto in vita:
uno dei Braccialetti suoi amici continua a “sentirlo” e a parlare
con lui, e la casacca fosforescente che indossa - sì, è incredibile a
dirsi - ne sta ad indicare la condizione di non-umano. Lo si vede
appollaiato su un armadio nella camera di Leo, nascosto nei cor-
ridoi dell’ospedale, in sala operatoria; agli spettatori si richiede
uno sforzo enorme di sospensione dell’incredulità per accettare
di lasciarsi coinvolgere. Nonostante ciò, l’operazione riesce e gli
ascolti si mantengono elevati.
Nella terza stagione, andata in onda nel 2017, la narrazione
viene spinta oltre le colonne d’Ercole del verosimile. Il compagno
defunto promette a Leo - sempre tramite l’amico visionario - un
futuro senza malattia: ad un certo punto, senza capire bene per-
ché, i disorientati spettatori vedono Leo correre in moto, ha an-
cora la sua gamba, è pieno di energia. Ma il prezzo da pagare per
questo “sliding doors” sarebbe una vita senza gli amici Braccialet-
ti, cosa che naturalmente Leo non accetterà, scegliendo di restare
in ospedale - per di più con un peggioramento della malattia.
Sguardi 109

Benché giustificata a posteriori come un delirio dovuto al tu-


more che ha colpito il cervello, questa linea narrativa è al limite
del cosiddetto “salto dello squalo”, ovvero lo spauracchio di ogni
serie tv in crisi creativa: l’espressione (jumping the shark) deriva
da un episodio del 1977 di Happy Days, la famosissima sitcom
allora a corto di idee, in cui Fonzie in costume da bagno e giub-
botto di pelle fa sci d’acqua su una spiaggia californiana tentando,
appunto, di saltare uno squalo bianco: una sequenza totalmente
priva di senso, talmente inverosimile da essere diventata un cul-
to per gli appassionati del telefilm dei “giovani vecchi” degli anni
Cinquanta. Purtroppo nell’ultima stagione di Braccialetti Rossi si
è intravisto qualcosa di simile.
Gli ascolti si sono mantenuti comunque buoni, benché inferio-
ri alle prime due stagioni, e pare confermata anche una quarta nel
momento in cui scriviamo, che dovrebbe andare in onda nel 2018.
Premere l’acceleratore sul registro dell’inverosimile, però, non
paga. L’esperienza internazionale del format non è incoraggiante:
in Spagna la serie è stata sospesa dopo la seconda stagione e negli
Stati Uniti, dove i diritti sono stati acquistati nientemeno che da
Steven Spielberg, non è arrivata neppure a concludere la prima.
“Troppo dramma”, hanno scritto i tabloid americani. Ecco, uno
dei punti centrali della Grande Serialità contemporanea è proprio
questo: estendere a tutti i costi la durata di una serie non è sem-
pre la scelta migliore, a dispetto del marketing e della redditività.
Sapersi fermare è un lusso che bisogna concedersi, soprattutto se
si vuole perseguire la tanto desiderata qualità.

7. Il film seriale: The Young Pope

Per gli indifferenti, The Young Pope è una serie tv andata onda
su Sky Atlantic nel 2016. Per i detrattori, è una fiction piuttosto
noiosa. Per i fan, non è solo un capolavoro ma un esperimento
mai tentato prima dalla televisione italiana, in cui il regista pre-
mio Oscar Paolo Sorrentino dirige un cast hollywoodiano in quel-
lo che – per sua stessa ammissione – è un film lungo più di dieci
ore, co-prodotto assieme ad HBO e Canal +.
Alcune testate giornalistiche si sono lasciate andare a com-
menti entusiastici e a titoli ad effetto: «Finalmente il vero cinema
è entrato nelle serie tv». Ma Sorrentino non è certo il primo regi-
110 Capitolo IV

sta importante ad aver affrontato la formula seriale. Una ventina


di anni fa, un certo David Lynch ebbe carta bianca da un network
(la ABC), che gli permise di creare Twin Peaks, amatissimo dalla
critica e molto meno dal grande pubblico. Anche in quel caso il
marketing televisivo giocò una grande partita, tanto che venne fir-
mata una seconda stagione (che non funzionò benissimo, però)6.
Nel progetto di Sorrentino anche il tema è parecchio contro-
verso. Lenny Belardo (uno splendente e convincente Jude Law)
diventa papa col nome di Pio XIII all’età di 47 anni, grazie alle
macchinazioni in Conclave del cardinale Voiello (Silvio Orlando),
che crede di poterlo manipolare a suo piacimento. Non vediamo
la proclamazione, ma veniamo informati sin dalle prime, elegan-
tissime inquadrature che Lenny/Pio è testardo, sospettoso ai li-
miti della paranoia, irascibile e irrispettoso dei complessi mecca-
nismi della Curia romana.
Belardo non vuole apparire, e lo sottolinea nella seconda pun-
tata il monologo-capolavoro sull’invisibilità, in cui il giovane Papa
si paragona allo scrittore J.D. Salinger, a Mina, a Banksy e ai Daft
Punk. Ma la sua prima uscita sul balcone di piazza San Pietro,
con le braccia allargate e lo sguardo al cielo, è da rockstar. Irride
il protocollo, beve Cherry Coke, sogna la sua prima omelia come
un inno al gioco e al sesso senza divieti, ma il durissimo discorso
reale che invece pronuncia davanti ai fedeli attoniti esprime nei
loro confronti una totale assenza di compassione.
L’inequivocabile genio di Sorrentino affronta con piacere e si-
curezza un formato apparentemente congeniale alla sua poetica,
che gli permette di dilatare i limiti temporali del film per dar sfogo
alla potenza visiva del suo elegante ed inquietante immaginario.
Il sorrentinismo gli prende un po’ la mano, in verità, ad esempio
nell’amore per il grottesco che sconfina nella macchietta (i fedeli
e i cardinali rappresentati come freaks), oppure nell’autoironica
ma troppo compiaciuta scena del canguro liberato nei giardini del
Vaticano, che cita gli ormai famosissimi fenicotteri de La grande
bellezza.
Il dubbio maggiore, però, riguarda la tenuta del suo linguaggio
per tutta la serie. Le prime due puntate sono andate in onda il

6
Del ritorno di di Twin Peaks nel 2017, ben ventisette anni dopo il debut-
to, parliamo nel paragrafo 4.11.
Sguardi 111

21 ottobre 2016 in contemporanea su Sky Atlantic e Sky Cinema,


anticipate a settembre dalla presentazione al Festival del cinema
di Venezia. La produzione, la più costosa per una serie italiana,
unisce Sky, HBO e il francese Canal+; prima ancora di andare in
onda, The Young Pope è stato venduto in 110 Paesi. Uno sforzo
produttivo immenso e una copertura mediatica internazionale
senza precedenti per un prodotto in gran parte italiano, che si è
guadagnato tanti superlativi sulla stampa, generando un’attesa
altissima soprattutto fra gli addetti ai lavori, tanto che esiste già
l’accordo per la produzione della seconda stagione.
Ma alla Grande Serialità non bastano le grandi firme, di cui
peraltro è piena: ha bisogno prima di tutto di una storia di ferro,
con ritmo e regole capaci di dare corpo alla narrazione, con per-
sonaggi il cui spessore psicologico deve renderli immediatamente
credibili presso un pubblico sempre più esperto ed esigente.
The Young Pope rinuncia a queste coordinate ineludibili: più
che alla narrazione e alla costruzione dei personaggi, il timone è
affidato ai dialoghi. Un film può reggere benissimo questa scelta;
una serie tv “classica” invece no. Al di là delle polemiche più o
meno vivaci sui contenuti, la formula di The Young Pope porta
alla luce una contraddizione interessante: da un lato richiede allo
spettatore un impegnativo lavoro di interpretazione del comples-
so immaginario del regista, attraverso tanti piani di lettura e tante
provocazioni; dall’altro lato, però, gli nega il piacere della densità
del racconto incalzante, cioè la più moderna componente della se-
rialità attuale. La serie di Sorrentino sembra piuttosto suggerire
una modalità di visione legata alla tradizionale dimensione del
film: alla densità narrativa si sostituisce la densità visiva e me-
taforica, che spinge a rivedere ogni episodio per godere appieno
dell’opulenta estetica sorrentiniana, ma che tra una visione e l’al-
tra richiede una pausa per metabolizzare e riposare.
Al di là delle tifoserie da stadio che ha suscitato, la novità di
The Young Pope sembra stare soprattutto nel tentativo di forzare
le potenzialità visive del film all’interno delle coordinate narra-
tive della nuova serialità, anche se i risultati non sono del tutto
convincenti.
112 Capitolo IV

8. La stagione-pilota: Stranger Things

La ricetta per una serie di successo: prendete un’abbondante


dose del Male, cioè la chiave narrativa più potente della seriali-
tà televisiva degli ultimi cinque anni. Mescolatelo alla nostalgia
verso un certo periodo del nostro passato recente. Aggiungete un
paio di nomi di richiamo pescati dall’inesauribile serbatoio dei
divi di Hollywood. Amalgamate l’impasto con una abbondantis-
sima dose di citazioni da film, romanzi, videogiochi, insomma
dall’immaginario del pubblico al quale pensate di parlare. Servite
il tutto accompagnandolo con una colonna sonora emotivamente
perfetta, una grafica raffinata, un formato modernissimo che si
adegui al “ristorante” in cui vi trovate, cioè il più elegante e cool
del momento.
Semplificando, questa potrebbe essere l’origine del successo
incredibile di Stranger Things. Otto puntate pubblicate su Netflix
il 15 luglio 2016, scritte e dirette dai fratelli Duffer, due gemelli
nati nel 1984 e finora poco più che sconosciuti. Winona Ryder
e Matthew Modine i nomi di spicco del cast, ma soprattutto un
eccezionale gruppo di giovanissimi attori in cui svetta la spetta-
colare Millie Bobby Brown nella parte di Eleven, la bambina con
i superpoteri.
Siamo negli anni Ottanta, in una cittadina dell’Indiana uguale
a mille altri luoghi della sconfinata provincia americana. Quat-
tro ragazzini amici per la pelle scorrazzano con le loro Bmx, gio-
cano a Dungeons and Dragons in cantina, comunicano tra loro
con enormi ricetrasmittenti usando quel frasario ormai desueto
che suscita immediatamente un’ondata di tenerezza: «Mike, mi
senti? Riesci a sentirmi? Passo!» »Sì Lucas, ti sento! Passo e chiu-
do!». Niente smartphones, negli anni Ottanta… E poi un fratello
maggiore che spiega il rock al ragazzino, regalandogli una musi-
cassetta con una compilation (una compilation!) che si apre con
Should I stay or should I go dei Clash.
Si potrebbe procedere all’infinito, come peraltro continuano
a fare i numerosi fan della serie, giocando a individuare scena
per scena la miriade di richiami al mondo narrativo di Stephen
King o all’immaginario cinematografico di Spielberg: dalla sigla
con lo stesso carattere tipografico dei libri di King alle puntate
intitolate come capitoli di suoi romanzi, dall’adolescenza raccon-
tata in Stand by me ai ragazzini in bicicletta che immediatamente
Sguardi 113

richiamano E.T. e i Goonies. E quando nella storia si affaccia il


Male, cioè quasi subito, l’effetto nostalgia raggiunge il déjà vu:
Will - uno dei quattro ragazzini - sparisce, vittima di un’oscura
presenza che si aggira nei boschi e delle macchinazioni di un mi-
sterioso istituto di ricerca diretto da un gelido Modine. La madre
un po’ svitata (una Winona Ryder qui non sempre convincente)
non si dà per vinta e lo cerca insieme all’immancabile sceriffo ed
ai fratelli maggiori dei ragazzini, nell’indifferenza della comunità
cittadina. L’immaginario anni Ottanta viene sapientemente sac-
cheggiato a piene mani: Carpenter, John Hughes, La cosa, Alien.
Lo stesso King ha affermato che Stranger Things è una sorta di
“best of” di tutta la sua opera, e qualcuno ha scritto che la serie
avrebbe potuto benissimo essere ideata da King, diretta da Spiel-
berg e musicata da Carpenter.
Insomma, la costruzione a tavolino del successo è palese: è
una serie lucida, intelligente, furba e modernissima. Il gioco raf-
finato delle citazioni visive, letterarie e musicali, offre molteplici
piani di lettura divertendo anche i più snob, e l’effetto-nostalgia
colpisce con precisione chirurgica il target elettivo della Grande
Serialità contemporanea, cioè i trenta-quarantenni.
Però la novità forse meno evidente, ma non meno importante,
è la capacità di riscrivere con intelligenza le logiche del mercato
delle serie tv, cui abbiamo accennato nella prima parte di questo
capitolo. Secondo alcuni osservatori le serie sono ormai troppe,
non c’è tempo di guardarle tutte, e sembra preannunciarsi il decli-
no del genere. La risposta di Stranger Things è semplice: un for-
mato più compatto e diretto ad un pubblico specifico ottimizza le
risorse economiche rispetto a narrazioni più lunghe ed economi-
camente rischiose. Stranger Things è stato pensato come un film
in otto parti e nelle intenzioni dei suoi creatori non prevedeva una
continuazione. Ovviamente, alla luce del successo un seguito si
farà, ma - dicono i fratelli Duffer - sarà un sequel e non una secon-
da stagione. Non si tratta di una banale sottigliezza linguistica: è il
segnale del superamento di un modello produttivo. Al posto della
vecchia logica della puntata pilota, utile per testare la validità di
una serie, Stranger Things ha proposto la stagione-pilota, perfet-
tamente aderente alle caratteristiche strutturali di Netflix7.

7
Si veda il cap. 3.
114 Capitolo IV

E pazienza se, per la fretta, è rimasto qualche evidente buco


narrativo nelle maglie della storia. A testimoniare la caratura del-
la serie basterebbe anche solo la delicatezza con cui viene raccon-
tata (e recitata) la relazione fra i giovanissimi Eleven e Mike. La
potenza salvifica della loro amicizia che si trasforma a poco a poco
in amore si rivela l’unica arma capace di sconfiggere il Male. E di
neutralizzare persino i freddi calcoli del marketing.

9. L’antieroe: da Dexter a Narcos

In principio era Gei Ar. Perfido, disonesto, pessimo marito, fi-


glio e fratello. Per la prima volta (era il 1978) un cattivo era il pro-
tagonista di una serie tv, quando ancora si chiamavano telefilm.
Fino a quel momento i villain erano stati solo comprimari; non
era previsto che il pubblico simpatizzasse con loro. Gei Ar invece
era un cattivo vero e Dallas divenne un successo mondiale.
Se Gei Ar era un’eccezione, oggi i “bad characters seriali” sono
tanti. Ma, a differenza del grottesco petroliere texano, i protago-
nisti delle serie tv del Duemila non sono completamente cattivi.
In qualche piega del loro comportamento delittuoso si scorge
un’ombra di umanità; una velatura nello sguardo, una mania buf-
fa, una relazione amorosa infelice ne ammorbidiscono le negativi-
tà. Sono gli antieroi, ormai un esercito di personaggi complessi e
affascinanti, come Tony Soprano, Walter White, Dexter Morgan,
Frank Underwood, Pablo Escobar, ma anche i nostri Ciro Di Mar-
zio e Pietro Savastano.
Così come, nei ruggenti anni Ottanta dell’edonismo reagania-
no e degli yuppies, il dibattito sulle conseguenze negative del pro-
tagonismo di Gei Ar fu molto acceso, anche oggi molti osservatori
temono le ripercussioni sulla morale comune del successo della
figura dell’antieroe, che potrebbe scatenare pericolosi fenomeni
di imitazione e di identificazione. In effetti, a differenza del caro
vecchio Gei Ar, la cui cattiveria un po’ macchiettistica era con-
trastata dalla bontà stucchevole del fratello Bobby, i personaggi
contemporanei sono raccontati come esseri umani a tutto tondo,
non come stereotipi.
Ad esempio, l’antieroe ha un passato spesso doloroso che
ne giustifica parzialmente il comportamento. Come dice Dexter
Morgan, il feroce serial killer di serial killer della serie prodotta da
Sguardi 115

Showtime tra il 2006 e 2013: “Mi chiamo Dexter, Dexter Morgan.


Non so cosa mi ha fatto diventare ciò che sono ma, qualunque
cosa sia stata, mi ha lasciato un vuoto dentro. Le persone fingono
molto; io fingo quasi tutto e fingo molto bene”. E noi spettatori
siamo immediatamente portati a pensare che la sua inclinazione
al crimine sarà il risultato di un’infanzia difficile, o di un qualche
trauma sentimentale.
Non solo. L’antieroe ha solitamente una vita familiare norma-
le e quasi noiosa, una moglie e dei figli che ama teneramente, con
cui vive una rassicurante quotidianità di provincia che contrad-
dice l’efferatezza delle sue azioni. Il capostipite del genere resta
l’ineguagliato Tony Soprano: un feroce capo mafia che uccide a
sangue freddo ma si fa ancora sgridare dalla mamma, adora la
famigliola di anatre selvatiche che vivono nel suo giardino e si fa
cogliere dal suo primo attacco di panico quando queste volano
via. Spiazzante, divertente, tragicomico. Umano, troppo umano.
Per di più, a differenza della granitica cattiveria del villain,
l’antieroe solitamente prova un forte senso di colpa. Come non
pensare ai tormenti di Walter White in Breaking Bad, a tutt’oggi
uno degli esempi più alti dell’affascinante complessità dei prota-
gonisti seriali contemporanei. La storia è nota: Walter, modesto
professore di chimica, scopre di essere malato terminale e deci-
de di produrre droga per garantire un futuro economico alla sua
famiglia dopo la sua morte. Le scene finali della serie sono così
drammatiche da suscitare nello spettatore una forte empatia. È
lo stesso, straniante effetto provocato dalla morte di Pietro Sava-
stano in Gomorra-La serie (Sky 2014-in produzione): certo, è un
terribile assassino, ma anche un uomo solo, disperato, vittima di
se stesso - e nostro malgrado ci scopriamo a dispiacerci per lui.
O come in Orange is the New Black (Netflix, 2013-in produ-
zione), il cui spunto narrativo è l’autobiografia di Piper Kerman,
che ha passato un anno in carcere per spaccio di droga e ne ha
scritto nel libro Orange is the New Black: My Year in a Women’s
Prison (Spiegel & Grau, 2010). Il suo personaggio nella serie,
firmata da Jenji Kohan (Weeds, Sex and the City, Una mamma
per amica, Will & Grace), è la giovane e bella alto-borghese Pi-
per Chapman, che decide di costituirsi per un reato commesso
dieci anni prima. Il mondo delle donne di Litchfield, il carcere in
cui Piper si ritrova, non ha la minima connotazione ideologica.
Le detenute non sono migliori degli uomini. Possono essere catti-
116 Capitolo IV

ve, calcolatrici, tenere, sentimentali, criminali, spietate, stupide,


meschine, innamorate. Creano alleanze, alimentano odio, hanno
familiarità con la violenza. Non sono mai stereotipi e il fatto che
siano donne è un dato, non un merito.
In Orange is the New Black, così come nelle altre serie con
protagonisti gli antieroi, il male viene raccontato, non giudicato.
E viene reso spaventosamente umano, come in Breaking Bad, in
Gomorra, in House of Cards. Sparisce la linea di confine tra buoni
e cattivi, tra normalità e diversità, tra il bene e il male: siamo tutti
sulla stessa barca, è inutile perciò giudicare. Serve piuttosto cer-
care di comprendere, conoscere, vivere e - se possibile - cambiare.
Ma Orange fa un passo ulteriore nel racconto seriale del male
che sembra contraddistinguere tanta parte della narrazione tele-
visiva recente. Qui non ci sono più neppure gli antieroi. Ci sono
solo persone, capaci di intrecciare relazioni dure e disperate ma
anche buffe e divertenti, come nella vita. E come nella vita, le loro
immagini possono essere anche crude: etnie, colori, imperfezio-
ni fisiche, rughe, disordine, sporcizia, bellezza, in Orange tutto è
vero e spietato, fin dal titolo: la divisa arancione delle detenute è
uguale alla normalità di un abito nero, il classico passe-partout
per ogni occasione. Non c’è differenza tra loro e noi: potremmo
essere al loro posto.
Il caso di Narcos (Netflix 2015-in produzione) propone un’ul-
teriore affascinante declinazione della figura dell’antieroe. Che si
tratti di una serie ambiziosa, come ormai tutti i prodotti Netflix,
lo si capisce dai primi cinque minuti: una scritta sullo schermo
con un inaspettato riferimento a Gabriel Garcia Marquez (“Non
per niente il realismo magico è nato in Colombia”) fa capire che
l’asticella, fin da subito, è stata posizionata molto in alto.
Giusto il tempo di far immaginare allo spettatore i sapori che
gli verranno serviti nelle dieci puntate della prima stagione - toni
cupi, violenza, intreccio di realtà e finzione nel racconto dell’in-
dustria della droga nell’America Latina degli anni Settanta - e
parte una delle più belle sigle degli ultimi anni che, come accade
solo nella serialità di alto livello, sa condensare in una manciata
di secondi l’anima della serie intera. In quella musica struggente
(“Tuyo”, del cantautore brasiliano Rodrigo Amarante) c’è tutto il
languore, la sensualità e la malinconia del Sudamerica mentre, in
un contrasto straniante, alle foto calde e seppiate di spiagge, voli
di fenicotteri e donne bellissime fanno da contrappunto spezzo-
Sguardi 117

ni di documentario e immagini di repertorio di panetti di droga,


armi, facce da galera. E poi - un pugno nello stomaco - ecco lui, il
vero (e sorridente) Pablo Escobar.
Nella prima stagione, pubblicata a fine agosto 2015, si snoda
l’ascesa del più pericoloso e famoso narcotrafficante sudamerica-
no. Un anno dopo è uscita la seconda stagione; mentre scrivia-
mo è appena stata pubblicata la terza, ed una quarta è già stata
annunciata per il 2018. Il promo - capolavoro di comunicazione
- cancella in pochi secondi la logica imperante del “no spoiler”, la
fuga di notizie che fa arrabbiare i binge watchers che sui social
evitano come la peste le anticipazioni su quello che ancora devo-
no vedere. «Chi ha ucciso Pablo?»: in queste parole del promo
si condensa la fisionomia di una serie che ambisce ad essere più
vera del vero, capace di mescolare finzione e realtà in una verti-
gine che sovrappone continuamente il volto del vero Escobar a
quello del suo avatar, il superlativo Wagner Moura. Pablo muore,
è ovvio. Nessun colpo di scena da tener nascosto. Il marketing di
Netflix ci dice che «è la storia il vero spoiler».
Anche se molti aspetti della sua rocambolesca e tragica vita
non sono stati mai chiariti, la fine di Escobar è nota. Morì, fuggia-
sco, nella sua Medellìn il 2 dicembre 1993, dopo essere diventato
uno dei più ricchi uomini del mondo («Non sono un uomo ricco,
sono un uomo povero con i soldi»), avere tentato senza successo
la carriera politica con il motto «Plata o plomo», denaro o piom-
bo, corruzione o proiettili, fino a diventare un leader sanguinario
che combatteva il proprio governo a suon di bombe e stragi di
innocenti, e ciononostante era amatissimo dal popolo.
L’aspirazione cinematografica della serie (non a caso co-pro-
dotta da Gaumont) si manifesta nell’alternanza di fiction e docu-
mentario, con le frequenti incrostazioni nel tessuto narrativo di
immagini di repertorio del vero Escobar e dei luoghi in cui viveva,
ma soprattutto nella scelta - molto discussa - di non tradurre i
dialoghi in spagnolo fra i narcos, lasciandoli in originale e sotto-
titolandoli sia nella versione originale che in quella italiana. Un
“effetto di genere” che ribadisce il legame con il documentario
ed esplicita la volontà di posizionarsi nella nicchia del cinema
d’autore, quello che non regala nulla al suo spettatore sfidandolo
continuamente a faticare e a cooperare attivamente all’interpre-
tazione del testo.
118 Capitolo IV

Però, nonostante queste raffinatezze stilistiche la serie non è


perfetta. Qualche buco narrativo, qualche evidente calo di ritmo.
E soprattutto l’uso eccessivo ed invadente della voce over, quella
dell’agente della DEA Steve Murphy il cui punto di vista fa da filo
conduttore a tutta la storia. Se, come è noto, la voce over serve
a fluidificare la narrazione aiutando lo spettatore (e gli autori) a
districarsi fra flashback e flashforward, qui il suo eccesso didasca-
lico disturba. La scelta dello spagnolo sottotitolato prefigura uno
spettatore adulto e consapevole, mentre l’uso smodato della voce
over parla, al contrario, ad un pubblico pigro e immaturo, a cui
bisogna raccontare tutto per filo e per segno. In un progetto tanto
ambizioso non ci si aspetterebbe questa caduta di stile.
La commistione di generi resta comunque il principale punto
di forza di Narcos. Grazie all’equilibrio tra finzione e realtà la fi-
gura di Escobar, dei luoghi e degli anni in cui è vissuto tracciano
un ritratto del Male che risulta contemporaneamente coinvolgen-
te e distante. Il taglio documentaristico permette di evitare giudi-
zi e di tenere a distanza l’empatia; la magistrale interpretazione
di Wagner Moura - un gigante che rende tutti gli altri attori dei
semplici comprimari - restituisce tutta la complessità e la follia
di Escobar, in bilico fra sprazzi di umanità (l’amore per la moglie
Tata) e la crudeltà compulsiva e catatonica con cui compie le sue
mostruose violenze. Noi spettatori veniamo presi a schiaffi dal-
la durezza delle immagini reali che ci dicono che tutto quel male
è esistito davvero; allo stesso tempo, però, accettiamo quasi con
sollievo gli aspetti romanzati della fiction, gli stop and go che ren-
dono compulsiva la visione, come richiede la piattaforma Netflix.
La fedeltà del documentario, insomma, è subordinata alle leg-
gi della serialità: infatti, recentemente, il figlio di Escobar (che
nel frattempo è riuscito a rifarsi una vita fuori dal narcotraffico,
cambiando nome e paese) ha duramente criticato la serie, senza
negare le efferatezze del padre, ma insistendo sul fatto che alcuni
dettagli, alcuni personaggi e alcuni eventi non sono mai esistiti e
sono stati forzati per la drammatizzazione.
Diciamo la verità. A noi non interessa se tutti i particolari non
sono esatti, o se il vero Pablo Escobar fosse migliore o peggiore di
quello che ci viene raccontato. Potenza della Grande Serialità, che
riesce a ribaltare uno dei luoghi comuni più duri a morire sulla
tv, e cioè che sia falsa, manipolatoria, non credibile: in Narcos è
dichiaratamente così, ma non ci importa. Ci va benissimo seguire
Sguardi 119

quella storia, anche se la sappiamo imperfetta. Come per il Pietro


Savastano o il Ciro di Gomorra, o Tony Soprano, o Dexter Mor-
gan, sappiamo benissimo che siamo davanti ad un uomo orribile,
ma non possiamo fare a meno di sapere cosa fa, come lo fa, perché
lo fa. Le sue debolezze lo rendono spaventosamente umano, e allo
stesso tempo la sua ferocia ci tranquillizza sulla nostra diversità
da lui. Perciò abbassiamo la luce, accendiamo il pc e clicchiamo
voracemente sul quadratino del prossimo episodio.

Perché, dunque, tanti antieroi oggi? Più che cercarne la giu-


stificazione nelle pieghe della questione morale, nella pervasività
del male o nella mai sopita diffidenza verso la “cattiva maestra
televisione”, se ne possono spiegare le ragioni da un punto di vi-
sta puramente narrativo. La serialità attuale che nasce dallo sti-
le estetico HBO e dal modello produttivo di Netflix ha bisogno
di personaggi complessi, sfaccettati, capaci di riempire con la
propria personalità il fluire rapido delle puntate. Per passare da
una puntata all’altra con la voracità del binge watching abbia-
mo bisogno sì di storie intriganti e coinvolgenti, ma ancor più di
protagonisti forti, affascinanti, mai del tutto comprensibili. Per-
sonaggi ambigui, spiazzanti, capaci di farci provare allo stesso
tempo attrazione e repulsione, empatia e distacco. Nessun villain
ha questo potere, nessuna contrapposizione manichea tra figure
positive e figure negative riesce ad essere tanto coinvolgente. Noi
non vogliamo essere come loro, ma sentiamo che qualcosa di loro
ci appartiene, o potrebbe appartenerci.
Accompagnare passo dopo passo la “normale” vita tragica e ri-
pugnante di Tony Soprano, Dexter Morgan, Walter White, Pablo
Escobar, persino del giovane papa Lenny Belardo ci consente il
privilegio dell’esperienza della vertigine: ci fermiamo ad un mil-
limetro dal baratro, con la certezza assoluta di non cadere. Lo
schermo ci protegge, e il nostro divano - per fortuna - è molto
confortevole.

10. La rilettura del teen drama: Tredici

Il suicidio di una adolescente. Raccontato da lei stessa a ri-


troso, in voce over, attraverso tredici audiocassette che prima di
uccidersi ha inviato alle persone che, secondo lei, sono correspon-
120 Capitolo IV

sabili del suo gesto: amiche, compagni di classe, il ragazzo di cui


è innamorata, un unico adulto - lo psicologo della scuola. Insom-
ma: un pugno nello stomaco.
Hanna Baker è una diciassettenne come tante. Un giorno, sen-
za una ragione precisa, viene presa di mira dai bulli della scuola:
prima il titolo di “miglior sedere del liceo”, poi una sua foto un po’
spinta che viene fatta circolare sui social e dà il via ad una esca-
lation di pressioni psicologiche, violenze verbali e infine fisiche
che la portano a togliersi la vita, nell’ultima delle tredici puntate,
in una sequenza tra le più drammatiche e discusse della serialità
recente.
Thirteen reasons why (Tredici in Italia) è uscita su Netflix il
31 marzo 2017. Il romanzo da cui è tratta la serie, pubblicato nel
2007 e ristampato in Italia da Mondadori, ha conquistato la pop-
star Selena Gomez che ne ha acquistato i diritti e ha co-prodotto
la serie, rinunciando al ruolo principale che inizialmente voleva
per sé. A distanza di mesi dal debutto si è discusso e polemiz-
zato nelle scuole, sui giornali, nei dibattiti televisivi. Sono stati
soprattutto gli adulti a condannare, a sollevare questioni etiche e
a farsi domande scomode, tanto che Netflix ha dovuto inserire un
avvertimento prima degli episodi più scabrosi ed ha fatto seguire
l’ultima, drammatica puntata da un breve documentario (Beyond
the reasons) in cui gli stessi giovani attori discutono le questioni
sollevate dalla serie, suggerendo ai ragazzi di non imitare, di chie-
dere aiuto, di denunciare.
Gli adolescenti hanno accolto con un entusiasmo che non si
vedeva da tempo un programma che finalmente li descrive come
sono realmente: normali, né troppo belli né troppo ricchi, al con-
trario di come la tv ci ha abituato a immaginare l’adolescenza ne-
gli amatissimi teen drama dagli anni Novanta ad oggi. Titoli che
sono la memoria di una generazione come Beverly Hills 90210
(Fox 1990-2000), Dawson’s Creek (The WB 1998-2003), e più di
recente Gossip Girl (The CW 2007-2012) e Glee (Fox 2009-2015),
hanno raccontato i teenagers attraverso una lente talvolta defor-
mante, capace sì di riflettere i loro problemi (la droga, la malattia,
i drammi amorosi, il conflitto col mondo adulto) ma anche di ri-
vestirli con una patina dorata e un po’ irreale. Hanna Baker invece
è normalissima, come tutti i suoi compagni. Anche lo stupratore
è normale; e lo è anche il ragazzino di cui è innamorata, che la
Sguardi 121

fotografa di nascosto in una posa un po’ spinta e lascia che la foto


venga diffusa sui social.
Gli unici a non essere attratti da Tredici sono i millennials, la ge-
nerazione di mezzo che non è ancora genitore ed è troppo distante
dall’adolescenza per condividerne i problemi e la sensibilità.
Raramente mi è successo di entrare in una serie - all’inizio an-
che un po’ faticosamente, a dire il vero - e non riuscire a staccar-
mene come nel caso di Tredici. È vischiosa, urticante, scomoda: ti
porta in un mondo banale, visto mille volte, anche un po’ noioso,
per poi farti intravedere sotto la superficie l’abisso che separa due
generazioni che non sanno parlare tra loro, che non hanno più
punti di contatto.
L’aspetto forse più duro e difficile da accettare del racconto
angosciante di Hanna Baker è che anche gli adulti (genitori, inse-
gnanti, psicologi) sono normalissimi. Fanno il loro dovere. Si pre-
occupano dei propri figli e studenti, cercano di parlare con loro,
di entrare in contatto con il loro mondo. E i ragazzi non si op-
pongono, se non con la normale irritazione che ogni adolescente
del mondo ha verso i propri genitori o insegnanti nella quotidia-
nità. Ma in fondo si capisce che si vogliono bene, tutti. Anche la
mamma maltrattata dal compagno ama il figlio; anche la mamma
avvocato, che difende la scuola contro i genitori di Hanna, vuole
con ogni sua forza entrare in contatto con Clay, suo figlio e inna-
morato di Hanna. E ci provano tutti, continuamente, a capirsi.
Ma l’abisso che li separa è troppo profondo. Non basta la buona
volontà, non basta l’informazione, non basta l’attenzione agli ora-
ri, alle compagnie, allo studio. Il malessere, il baratro, è troppo
profondo.
Al di là di ogni sterile polemica e di ogni principio etico o re-
ligioso, questo mi sembra il punto che dovrebbe spingere ogni
adulto ad affrontare la fatica di guardare questa serie: il suicidio
di Hanna Baker, che scuote la quieta normalità dei suoi coetanei e
del mondo adulto in cui convivono, è la fotografia tragica e impie-
tosa della sconfitta di due generazioni. Adolescenti incapaci non
solo di chiedere aiuto, ma addirittura di riconoscere il pericolo:
una ragazzina subisce violenza e non se ne rende neppure conto,
un ragazzo stupra due compagne di classe ma lo ritiene un com-
portamento normale. Adulti presenti, impegnati, attenti a fare le
domande giuste ai propri figli, ma senza riuscire a scalfire la loro
corazza di silenzio. Come in tanta Grande Serialità contempora-
122 Capitolo IV

nea, anche qui è la banalità del Male a farci paura e a spingerci a


non voler vedere, a non voler accettare.
Tredici è scomoda; non è divertente, non è rilassante. È uno
schiaffo molto doloroso. È il silenzio assordante che separa due
mondi, raccontato dalla voce di una ragazzina morta a diciassette
anni che decide, nel suo ultimo tenero e disperato tentativo di far-
si capire dagli adulti, di incidere le sue parole proprio su delle vec-
chie audiocassette, quelle che non usa più nessuno, anacronistico
reperto tecnologico simbolo di una generazione che non è riuscita
ad ascoltarla, e da cui non ha saputo farsi capire.

11. La madre di tutte le serie: Twin Peaks

O si ama o si odia. Non ci sono mezze misure quando si parla


di Twin Peaks-Il ritorno, trasmessa a partire dal 21 maggio 2017
su Showtime (dal 26 maggio in Italia su Sky Atlantic). L’attesis-
sima terza stagione è uscita a ben 27 anni di distanza da quell’8
aprile 1990 che ha fatto la storia della serialità televisiva. Quel
giorno debuttava sul network americano ABC una serie stranissi-
ma, costruita intorno alle visioni geniali di un regista-divo, David
Lynch, che aveva in odio il mezzo televisivo ma che riusciva ad
usarlo come nessuno prima di lui (e anche dopo, a dire il vero).
Commentare Twin Peaks senza scontentare qualcuno è im-
possibile. Ci si sente sovrastati non solo dalla smisurata aned-
dotica che la accompagna, ulteriormente arricchita dalla nuova
stagione, ma dall’integralismo di spettatori-adepti pronti a sotto-
lineare ogni microscopica inesattezza. Perché Twin Peaks è una
religione, una serie anomala, uno spartiacque che divide l’inge-
nua preistoria dei telefilm dalla complessità della Grande Seria-
lità contemporanea. Che piaccia o no, da qualunque parte la si
affronti si ha a che fare con un superlativo, una primogenitura, il
capovolgimento e la frantumazione di un limite. Insomma, è un
meraviglioso ossimoro.
È stata la prima serie televisiva firmata da un regista di cinema,
un autore con la A maiuscola. Grazie a Lynch, negli anni Novanta
il cinema d’autore superava la voragine culturale che lo separava
dalla trivialità della televisione per dar vita ad un prodotto osti-
co, ad una narrazione anti-televisiva fatta di pause, incongruen-
ze, frizioni di genere. A dire il vero, un certo Alfred Hitchcock un
Sguardi 123

paio di decenni prima aveva già firmato la famosa serie antologica


Alfred Hitchcock presents (CBS-NBC, 1955-1965). Ma le storie di
Hitchcock aderivano al ritmo narrativo della tv. Le storie di Lynch,
invece, assolutamente no.
Twin Peaks è stato un grande successo di critica ma un par-
ziale successo di ascolti: dopo le prime otto puntate, acclamate
in tutto il mondo grazie anche ad una sapiente strategia di mar-
keting, la rete in tutta fretta commissionò a Lynch e a Mark Frost
(la vera mente televisiva del team) altre ventidue puntate: ma le
sperimentazioni narrative della seconda stagione portarono rapi-
damente il pubblico a disaffezionarsi a nani ballerini, donne che
parlavano con i tronchi e strani detective ghiotti di torta di cilie-
gie. Ma (altra contraddizione) ai bassi ascolti corrispose la nascita
di uno dei più vasti e longevi fenomeni di fandom televisivo di tut-
ti i tempi, indissolubilmente legato alla parallela diffusione della
Rete in quegli anni: i fan sfegatati si ritrovavano nei primi forum
online a scambiarsi opinioni e a cercare soluzioni agli enigmi più
ostici - e ciò accadeva almeno vent’anni prima dell’esplosione dei
commenti alle serie che oggi sono diventati prassi quotidiana sui
social network.
E che dire della musica? L’immortale melodia firmata da An-
gelo Badalamenti mandò in soffitta in un paio di minuti le sigle
banali e spensierate dei telefilm degli anni Settanta e Ottanta, mo-
dulando un equilibrio sonoro mirabile tra sentimento e orrore sul
tema portante della serie, il doppio. Da allora la componente mu-
sicale è diventata fondamentale nelle serie cosiddette di qualità.
Il ritorno dopo quasi tre decenni non fa che ribadire la di-
versità di Twin Peaks, da tutto il resto della produzione seriale,
evidenziandone quasi con violenza l’alterità rispetto alla serialità
contemporanea e, al tempo stesso, rimarcando la fedeltà al pro-
prio codice genetico. Come trent’anni fa, Twin Peaks è al centro di
una spettacolare operazione di marketing: è una serie-brand ac-
clamata ancor prima della sua uscita, capace di generare un’attesa
che poco o nulla ha a che fare con gli effettivi risultati di ascolto.
Per le reti che la trasmettono è il viatico per un prestigioso posi-
zionamento, e se il pubblico non la premierà, pazienza: il risul-
tato d’immagine è già stato raggiunto. L’anteprima delle prime
due puntate al Festival di Cannes 2017 è stata salutata con cin-
que minuti di applausi. Convegni celebrativi e giornate di studio
organizzate da studiosi-fan sono fioriti un po’ ovunque. E come
124 Capitolo IV

trent’anni fa, Lynch si è fatto beffe delle regole e delle mode, con-
fezionando un lunghissimo film che ha tagliato in diciotto episodi
solo al montaggio, non in fase di sceneggiatura. Come nelle prime
due stagioni, le citazioni artistiche sono talmente numerose da
far parlare alcuni osservatori di una vera e propria installazione.
Il senso ultimo di questo ritorno, forse, sta proprio qui: nella
personalità complessa e straordinaria di un visionario che si serve
dei media mainstream come forme d’arte. Il suo Twin Peaks di
trent’anni fa ha superato il limite fra cinema e televisione; il suo
Twin Peaks di oggi ha alzato l’asticella ben oltre le questioni della
qualità, della cinematic television, della complessità: ha creato la
prima serie tv d’arte.
Però tra le mille voci autorevoli che si sono levate per com-
mentare, venerare o stroncare il ritorno di Twin Peaks, quella
che vorrei veramente ascoltare purtroppo non c’è più. Chissà cosa
avrebbe pensato David Foster Wallace di questo ultimo Lynch.
Chissà se avrebbe detto ancora: «A Quentin Tarantino interessa
guardare uno a cui stanno tagliando un orecchio; a David Lynch
interessa l’orecchio».8

8
David Foster Wallace, David Lynch non perde la testa, in «Tennis, tv,
trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più)», mi-
nimum fax, Roma 1997, p. 207.

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