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“Athena” è un film che oserei definire religioso.

La maternità e il martirio sono


due immagini ricorrenti, l’azione è costantemente interrotta dalle chiamate della
madre, unico legame tra quei fratelli sfregiati dal lutto e dalle difficoltà della
vita. Ma le preoccupazioni della donna non vincono lo spirito allo stesso tempo
combattivo e sacrificale dei figli, vittime di una guerra che loro stessi hanno
fatto scoppiare, alla ricerca di un nemico ambiguo, incerto, a tratti immaginario.

Romain Gavras dipinge il degrado di una periferia francese, trasformata


scenograficamente in un campo di battaglia quasi fantascientifico, a cui le luci
dei fuochi d’artificio conferiscono un’atmosfera quasi surreale. E all’epicità del
combattimento si contrappone la storia dell’intimità distrutta di Karim,
egregiamente rappresentata sul volto cinematografico di un brillante Sami Slimane,
che a tratti rimanderà all’iconografia del Cristo, andando ad enfatizzare
quell’atmosfera biblica.

Il punto di vista oscilla e passa vorticosamente da Karim ad Abdel, e quest’ultimo


cambierà personalità più volte durante l’arco narrativo, come se assorbisse i
tratti caratteriali dei fratelli. I personaggi principali appartengono ad una
comunità musulmana, e la pellicola mette in scena i diversi modi in cui una persona
può vivere il suo essere araba in una periferia europea, il regista non si lega a
stereotipi di destra o di sinistra, è un film paradossalmente realistico poiché per
nulla politico.

Se all’inizio pare esserci un confronto diretto tra “neri” e “bianchi”, questa


distinzione non tarda a spegnersi per lasciare spazio ad un conflitto più
personale, istintuale, dove i contorni dell’avversario sono così sfumati da
renderlo inafferrabile. Il peccato originale non è stato punito, ed ogni martirio è
stato inutile, questa è la profonda tristezza di un film meraviglioso come “Athena”

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