Una riflessione più che mai attuale, sui fascismi moderni, sull’odio (razziale e
non) e sull’eredità ideologica che un genitore lascia al figlio, spesso ignorante
del male e non pienamente consapevole. Quella di Marcello (interpretato da Luka Zunic) è una rabbia immotivata, costruita sul pregiudizio, figlia di una cultura deviante e perversa.
“Non odiare” è un imperativo rivolto soprattutto al protagonista (Alessandro
Gassmann) che, in quanto medico, dovrebbe salvare la vita anche a chi non la salverebbe a lui, dovrebbe non odiare chi ha fatto dell’odio una bandiera. La pellicola è piena di simboli, più o meno evidenti: la svastica accompagna la narrazione, è il grembo che partorisce disprezzo che genera disprezzo, un disegno che alza muri, etichetta persone sulla base di niente (il piccolo Paolo non riesce a distinguere i “giudei” perché sono uguali agli altri, innocenza che ritroviamo anche nel capolavoro di Taika Waititi “JoJo Rabbit”)
Oltre alla contrapposizione tra la simbologia fascista/nazista e quella ebraica,
ritroviamo il mappamondo, probabile riferimento al globalismo (ipotesi che viene rafforzata nella scena finale); anche il cane ha, secondo me, una sua valenza, la transizione dalla furia ferina alla placidità non è di certo casuale.
Il contatto necessario e vitale tra i diversi è la cosa che più ho apprezzato di
questo film: ci si scambia sangue, saliva, sguardi, annientando automaticamente la paura della contaminazione; basta un accadimento per smontare un’intera impalcatura ideologica, soprattutto nella mente dei più giovani e dei più facilmente plagiabili.
La coppia Gassmann-Serraiocco regge bene il film, ho trovato un po’ forzata
l’interpretazione di Zunic che comunque porta a casa il personaggio. Ottimo esordio per il regista Mauro Mancini che mette in scena una storia vera, riuscendo ad adattarla con maestria al grande schermo.