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CRITICHE A SEVERINO

ROBERTO FIASCHI

Il contenuto di questo scritto non intende porsi come alternativa al sistema filosofico elaborato da
Emanuele Severino, poiché quanto qui vi è scritto non costituisce affatto un sistema filosofico,
bensì vuol soltanto mostrare come ogni tentativo speculativo (nel presente caso, quello di Severino,
ma poi di qualsiasi altro filosofo) atto a restituire incontraddittoriamente la totalità ontologica del
reale, venga prima o poi irrimediabilmente interrotto (aporia) dalla presenza della contraddizione
come affermata e quindi come insolubile (secondo il senso che la soluzione della contraddizione
acquista in Severino) la quale, perciò, ne frustra detta ambizione.

***

INDICE

1)- IDENTITÀ E DIFFERENZA: LA DISTINZIONE ORIGINARIA COME ORIGINARIA APORIA…...3

2)- <<OGNI COSA DEVE ESSERE IN SÉ IDENTICA E DIVERSA INSIEME>>…………….……….…7

3)- APORETICITÀ DELL’ENTE QUALE “IDENTITÀ-DIFFERENZIATA”…………………………….19

4)- TRIPLICE APORETICITÀ DELL’ENTE / ESSERE……………………………………………………20

5)- L’ENTE COME CONTRADDIZIONE…………………………………………………………………..27

6)- UNA DOMANDA SU ‘IDENTITÀ E DIFFERENZA’………………………………………………….30

7)- APORETICITÀ DELL’OPPOSIZIONE ‘ESSERE / NULLA’………………………………………….31

8)- <<IL FONDAMENTO DELLA NON CONTRADDIZIONE È LA CONTRADDIZIONE>>…………35

9)- LA CONTRADDITTORIA INCONTRADDITTORIETÀ DEL P. DI NON CONTRADDIZIONE…...39

10)- ILLUSORIA ‘SOLUZIONE’ SEVERINIANA DELL’APORIA DEL NULLA………………….…...42

11)- NICHILISMO PREDICATIVO E APORETICITÀ DELLA SOLUZIONE SEVERINIANA……...…66

12)- APORETICITÀ DELL’ENTE-LINGUAGGIO……………………………………………………..…83

13)- <<ESSERE INSIEME>>? …………………………………………………………………….….……90


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14)- LA CONTRADDITTORIA ‘INCONTRADDITTORIETÀ’ DELLA FILOSOFIA DI EMANUELE


SEVERINO……………………………………………………………………………………………… …93

15)- *CHI* TESTIMONIA IL DESTINO DELLA VERITÀ? ………………………………………….…98

16)- IMPOSSIBILITÀ DEL RAPPORTO (SEVERINIANO) <<IO-INDIVIDUALE / IO DEL DESTINO>> (O DEL


RAPPORTO <<ERRORE / VERITÀ>>)…………………………………………………………………..108

17)- L’INDIVIDUO E L’<<IO DEL DESTINO>>………………………………………………….…….136

18)- ‘B’ È IN ‘A’ <<COME NEGATO>>? ……………………………………………………………..…141

19)- APORETICITÀ DEL RAPPORTO (SEVERINIANO) <<PARTE / TUTTO>>…………….….……144

20)- IL DIVENIRE COME TRASFORMAZIONE (I parte)………………………………………………154

21)- IL DIVENIRE COME TRASFORMAZIONE (II parte)…………………………………………..….155

22)- IL PRESENTE DIVENTA PASSATO ……………………………………………………………….163

***
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1)- IDENTITÀ E DIFFERENZA: LA DISTINZIONE ORIGINARIA


COME ORIGINARIA APORIA

L’essere (= E), quale universale concreto, è la totalità degli IDentici-a-sé e DIfferenti dal proprio
altro.

Perciò, l’E è inteso come com-plesso trascendentale di IDentità / DIfferenza (= p.I.D) valevole
appunto trascendentalmente cioè per ogni/qualsiasi ente il quale ente, perciò, altro non è che
l’espressione ontica (a valle, se così si può dire) dell’E in quanto suddetto com-plesso ontologico.

Nella filosofia di Emanuele Severino, l’IDentità-con-sé e la DIfferenza-dal-proprio-altro (= p.I.D)


cui ogni ente è, rappresenta il nomos ontologico fondamentale che tutto informa nella modalità del
principio di non-contraddizione/identità.

Tale p.I.D è ciò senza il quale nulla sarebbe IDentico-a-sé e DIstinto dal proprio altro.

Ad esempio, l’ente-A (il nero) è IDentità (d’ora in poi: ID) con sé _ giacché è il nero _ e DIfferente
(d’ora in poi: DI) dall’ente-B (ad esempio il bianco), poiché non è (DIfferisce da) il bianco.

L’ID / DI costituisce perciò un intreccio unitario e inscindibile (= p.I.D.) tra due termini DIstinti e
reciprocamente implicantisi, capace così di fungere da trascendentale (l’a monte) di ogni
ente/significato.

Se non fossero DIstinti, i due termini (ID / DI) del plesso in questione non sarebbe nemmeno tali, e
l’E sarebbe totalmente inDIfferenziato.

ID e DI sono perciò tra loro innegabilmente DIstinti in quanto ID non significa DI, né questo
quello; ovvero ID significa sempre e soltanto ID e DI significa sempre e soltanto DI, come impone
lo stesso plesso in esame, valevole per OGNI ente/significato _ sempre seguendo il dettato della
filosofia severiniana _, così come sul piano ontico-iposintattico, il nero è sempre IDentico a sé e
sempre DIverso dal bianco.

Sul piano ontico-manifestativo, si osserverà come l’ente-A sia sì IDentico ed al contempo DIverso,
ma IDentico rispetto a sé e DIverso rispetto al proprio altro, (apparentemente) senza
contraddizione, poiché i rispetti sono DIversi.

Se infatti IDentico rispetto a sé significasse anche DIverso rispetto a sé, l’ente-A sarebbe auto-
contraddicentesi, in quanto sarebbe contraddittoriamente IDentico e DIverso rispetto a sé.

Allo stesso modo, ed anzi, a maggior ragione, ciò dovrà dirsi anche del trascendentale p.I.D, nel
quale i due termini ID e DI sono ciascuno IDentico rispetto a sé (ID = ID; DI = DI) e al contempo
DIverso rispetto al proprio altro (ID ≠ DI e DI ≠ DI), senza contraddizione...
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...E invece pare proprio di NO.

Infatti, è necessario domandarsi:

come si comportano/esplicitano i significati di ID e DI, considerati nella loro accezione ontologico-


universale ed intrascendibile che informa l’intero orizzonte ontico cioè ogni ente?

Come già accennato, ID deve esplicitarsi sempre come ID, certamente, e mai come il suo contrario
DI (e viceversa); così come NERO significa sempre NERO, mai BIANCO (e viceversa).

Tuttavia, ID, significando sempre e soltanto ID, significa anche il proprio altro-da-sé cioè DI
perché è DIverso da DI (appunto perché ID è ID ossia è IDentico-a-sé).

Essendo DIverso (o DIstinto) da DI, ID è DI (ID = DI), appunto perché, oltre ad esser ID e proprio
perché è ID DIfferisce da DI, quindi ID è DIverso; se non lo fosse, ID non si DIstinguerebbe da DI.

E tuttavia, proprio così DIstinguendosi da DI, ID è lo stesso DI, ossia è ID e al contempo non-ID (=
DI).

La IDentità con sé cui è ID si costituisce grazie al suo esser-DIversa da DI, ed essendo così DIversa,
ID è sub eodem DI.

Si può obiettare:

nel piano ontico, come nero è DIverso da bianco, così, parimenti nel piano ontologico ID è DIverso
da DI, quindi ID è e rimane ID, allo stesso modo in cui nero è e rimane nero; dove sarebbe il
problema?

Ma nero può esser DIverso da bianco perché nero non è/non significa (è DIstinto dal significato)
IDentità.

Se da un lato abbiamo l’ente/significato nero (1) e dall’altro lato abbiamo la sua IDentità-con-sé (2)
come presupposto di 1, allora 1 si costituisce come un’ulteriorità (ontica) rispetto a 2, appunto
perché i significati di nero e di IDentità non coincidono, non sono il medesimo significato/are.

Invece, nel piano trascendentale/ontologico cui è p.I.D, NON possiamo avere da un lato il
significato ID (1) e dall’altro lato la sua IDentità-con-sé (2) come sua (cioè di ID) ulteriorità,
poiché in questo caso 1 e 2 sono il medesimo significato non passibile di ulteriore DIstinguibilità _
è appunto un significato trascendentale _, non potendo 1 rimandare ad un’altra IDentità rispetto a
sé (cioè a ID o a 1): qui, c’è soltanto 1, ovvero soltanto ID o meglio: c’è soltanto p.I.D.

Quindi, siccome il significato nero non è IDentico al significato IDentità, e poiché quel DIverso dal
nero che è il bianco non è equivalente al significato DIverso _ essendo ID e DI il plesso semantico
sottostante ad ogni significato/ente e presupposto da ogni altro ente/significato _, allora dire che il
nero è DIverso dal bianco non comporta l’affermazione che il nero sia IDentico al bianco. Del
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nero possiamo dire che è IDentico rispetto a sé (cioè che è nero) ed al contempo che è DIverso
rispetto al bianco (cioè non è bianco) senza che ciò comporti da parte del nero l’esser IDentico e
DIverso rispetto a sé sub eodem (come invece accade a ID).
Ma, ripeto, tutto al contrario avviene riguardo ai due significati del nostro plesso. Qui, non
possiamo più procedere come abbiamo proceduto per il nero ed il bianco perché, a DIfferenza di
questi, ID si rivela esser, al contempo, ID-e-DI in uno, indistinguibilmente in sé, cioè rispetto
soltanto a sé!

Ciò che era posto come co-implicazione reciproca dei due termini, si rivela essere perfetta nonché
aporetica IDentità-tra-DIfferenti.

Ma torniamo nuovamente alla suddetta obiezione.

Cosa succederebbe se l’obiezione volesse ribadire che ID è DIverso da DI, sì, ma rimanendo pur
sempre soltanto ID (come nero è e rimane sempre soltanto nero) proprio grazie al suo implicare
l’altro inseparabile termine del plesso cui è DI?

ID, cioè, si vuole che rimanga sempre ID-a-sé senza mai significare l’altro-da-sé cui è DI; ma
rimanere sempre tale, impone a ID il suo paradossale rimaner sempre DIverso da DI. Rimanendo
sempre DIverso da DI, ID rimane sempre DI, appunto perché rimane sempre DIverso da DI, cioè
rimane sempre ID-e-non-ID...

ID non deve mai sobbarcarsi di significare DI (e viceversa), pena il significare contraddittoriamente


il suo contrario. Nel suddetto plesso, cioè, ID non può mai assumere il significato che spetta solo a
DI (e viceversa), perché il DIfferire spetta appunto a DI per definizione. ID è e deve significare
sempre e soltanto ID (idem per DI), altrimenti significherebbe anche altro da sé, ma tale altro, in
quanto altro da ID, spetta sempre e soltanto a DI.
Ma per significare sempre e soltanto ID, questo deve al contempo non significare DI, quindi deve
esser DIverso da DI, perché se non si DIfferenziasse da DI, sarebbe IDentico a DI; epperò,
DIfferenziandosene, è ugualmente IDentico a DI.

Aporia delle aporie!


Come detto, per esser sé, ID deve sempre e soltanto significare ID, ma nell’esser così significante,
ID si DIfferenzia da DI; in tal modo, ID si fa carico dello stesso DI, ossia ID si pone come quel DI
che non avrebbe dovuto mai essere/significare, e si pone così appunto perché ID non è più soltanto
ID ma, essendo DIfferente da DI, ID è (anche) DIfferente, risultando però, e al contempo _ non
successivamente _ non DIfferirne affatto, perché ID è già esso stesso DI proprio perché è posto
come non-DI ( = ID).

In tale plesso, ID e DI si DIstinguono, è ormai inutile ribadirlo, altrimenti sarebbe un plesso di (o


tra) che cosa? Essi perciò non possono avere il medesimo significato.

Tuttavia ID, essendo DIstinto da DI, è appunto DIstinto, ma non come il nero che è ID rispetto a sé
e DI rispetto a bianco; ID, proprio perché è DIstinto da DI, non lo è affatto, giacché tale suo esser
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DIstinto è intrinseco all’esser l’ID che è, cioè ID è DI rispetto a sé perché è ID il quale è DIstinto
da DI, quando, invece, ID dovrebbe esser sempre e soltanto ID.
Perciò ID è sia ID che DI, al contempo e sotto il medesimo rispetto.
Lo stesso dicasi per DI.

Sempre secondo il nomos che regola ogni ente/significato, DI si DIstingue (o è il DIstinguersi per
definizione) da ID in quanto è ovviamente un altro significato, e può esser così altro solo se DI è
IDentico a sé tanto quanto ID è IDentico a sé.

Ma ecco che, essendo IDentico a sé, DI può DIstinguersi da ID (come del resto ogni altro ente si
distingue dall’altro da sé); ma proprio perché è IDentico a sé, allora DI non è DI, cioè non
DIfferisce o non si DIstingue da ID.

DI è ID _ <DI = ID> _ in uno, sub eodem, altrimenti DI, se cioè non fosse IDentico a sé, non
DIfferirebbe da ID. Ma anche qui _ paradosso dei paradossi _ proprio perché DI è IDentico a sé,
allora DI non DIfferisce o non si DIstingue da ID DI.

In sostanza, come ID dovrebbe sempre e soltanto essere ID senza DIfferire mai (dall’altro), così DI
dovrebbe sempre e soltanto (essere DI o) DIfferire senza esser mai IDentico a sé...

Il plesso ID/DI va incontro ad una inestirpabile aporeticità analoga a quella in cui incappa la
relazione essere/nulla (vedasi più sotto).

Nel loro necessario dover significare ciò che significano, ID e DI significano ed insieme non
significano ciò che significano, perché Distinguendosi, non riescono a DIstinguersi; nel loro
necessario doversi DIstinguere, ID e DI non riescono a significare ciò che dovrebbero significare.

DIstinguendosi, ognuno è IDentico-a-sé: l’IDentità è (e non: implica) DIfferenza (è non-ID);

essendo ognuno IDentico-a-sé, si DIstinguono: la DIfferenza è (e non: implica) IDentità (è non-DI).

ID e DI si DIstinguono ed insieme non si DIstinguono, riescono ed insieme non riescono a


determinarsi cosicché siano in-determinati, in-distinguibili: non-sono, tanto da sancire il togliersi
da parte del plesso stesso (cioè della reciproca implicazione di <ID/DI>).

RF
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2)- <<OGNI COSA DEVE ESSERE IN SÉ IDENTICA E DIVERSA


INSIEME>>

§.1- Come già precisato sopra, nella filosofia di Emanuele Severino, l’IDentità-con-sé e la
DIfferenza-dal-proprio-altro formano il concreto plesso semantico-ontologico intrascendibile e
senza il quale l’ente non sarebbe tout court, non potendo darsi nulla oltre/fuori da tale plesso.

Perciò, il binomio IDentità/DIfferenza (= ID/DI) informa tutto di sé, potendosi quindi ritenere un
altro modo per indicare la TOTALITÀ degli enti quale sua concreta manifestazione nonché
orizzonte inoltrepassabile (secondo Severino).

Pertanto, la trascendentale coppia ID/DI non è ulteriormente fondabile né analizzabile senza


presupporre nuovamente se stessa, nient’altro potendovisi aggiungere o sottrarre di IDentico e/o di
DIfferente, poiché qualsiasi ALTRO IDentico e/o DIfferente volessimo aggiungervi, distinguervi e
reperirvi, sarebbe già ricompreso internamente alla coppia medesima.

È, infatti, un plesso onnicomprensivo e quindi universale, indipendentemente dal tipo di ente cui il
termine possa esser di volta in volta riferito (ogni ‘tipo’ di ente è già espressione di tale binomio).

Sempre secondo Severino, dalla IDENTITÀ-con-sé e DIFFERENZA-dal-proprio-altro discende (o


meglio, è un altro modo per affermare) l’ETERNITÀ dell’ente ossia l’impossibilità che esso
divenga o si trasformi in altro-da-sé, altrimenti l’ente diverrebbe contraddittoriamente (così crede
Severino) IDentico al DIfferente-da-sé.

§.2- Spostandoci sul piano ONTICO (o FENOMENOLOGICO), dicendo che l’ente ‘x’ è IDentico-
a-sé e DIfferente-dal-proprio-altro, diciamo (o presupponiamo) nuovamente l’ID/DI che presiede a
tale configurazione.

Così, siamo già entro la piena giurisdizione del Principio di IDENTITÀ/NON-


CONTRADDIZIONE: ‘x’ è IDentico-a-sé e non può essere IDentico-al DIfferente-da-sé;
parimenti, è DIfferente dall’altro-da-sé e non può essere DIfferente-da-sé.

Come si può constatare, i termini IDentità e DIfferenza sono ricorrenti e pressoché


PROTAGONISTI (BI-AGONISTI); per questo essi sono decisivi ai fini della pretesa
incontraddittorietà della struttura filosofica severiniana.
§.3- Riassumendo:

a) ID _ l’ente-‘x’ _ *È* (significa) non-ESSERE-l’altro _ l’ente-‘y’ _ (se lo fosse, ID _ l’ente-‘x’ _


sarebbe DI cioè DIFFERENTE-da-sé o dall’altro ente-‘y’; cioè l’ente-‘x’ sarebbe non-ID-a-sé).

b) DI _ l’altro ente-‘y’ _ *È* (significa) non-ESSERE-l’ente-‘x’ (se lo fosse, DI _ l’ente-‘y’ _


sarebbe ID cioè IDENTICO-all’altro-da-sé o all’ente-‘x’; cioè l’ente-‘y’ sarebbe non-DI-dall’altro-
da-sé).
Quindi:
c) ID = NON è MAI DIFFERENZA-DA-sé (se lo fosse, sarebbe DI e non ID);
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d) DI = NON è MAI IDENTITÀ-CON-sé (se lo fosse, sarebbe ID e non DI).


Cosicché:
e) ID non significa MAI (la) DIfferenza (altrimenti non sarebbe IDentità-con-sé);
parimenti,
f) DI non significa MAI (la) IDentità (altrimenti non sarebbe DIfferente da ID).

Infatti:

g) ID è sé appunto perché è IDentità.

h) DI non è sé _ cioè ID _ ma ‘ALTRO’ (è DIstinto) da ID; è appunto DI, cioè è DIfferente-dalla-


IDentità.
i) Se ID fosse DIstinto da DI, sarebbe esso stesso DI;

j) se DI fosse (IDentico a) sé, sarebbe esso stesso ID; sarebbe DI ed al contempo sarebbe ID, cioè
sarebbe sé e non-sé.

§.4 – Da quanto visto, perciò, il significato IDentità DIfferisce dal significato DIfferenza, come
d’altronde nessuno esiterebbe a riconoscere, perché se i DUE termini NON DIfferissero, non
potremmo parlare di plesso poiché questo è costituito da DIfferenti _ non avendo nessun senso
parlare di plesso-tra-IDentici _, dove i DIfferenti sono appunto i DUE significati del plesso:
IDentità e DIfferenza.

§.5- DIfferendo, però, finiscono o si ritrovano NON-DIfferenti perché ID, appunto DIfferendo da
DI, si ritrova immediatamente *IDentico* a DI in e per tale DIfferire in quanto ID *È* DIfferente
quindi IDentico-a-DI: ID è perciò esso stesso DI (è ID e non-ID).
Essere ‘ID’ENTICO-a-‘DI’ vuol dire che ‘ID’, in quanto resosi IDENTICO-a-‘DI’, è IDENTICO-
a-sé _ a ‘ID’ _ nel suo _ sempre di ‘ID’ _ non esser-sé o non-essere-‘ID’.

Implosione di ‘ID’.

§.6- Epperò, all’opposto di quanto affermato al §.4, si deve altrettanto dire che i significati ‘ID’ e
‘DI’ NON DIFFERISCONO, cioè sono IDENTICI.

Infatti, entrambi hanno di IDENTICO l’esser due significati DIFFERENZIANTISI, ovvero si


‘DI’FFERENZIANO ambedue, allo stesso IDENTICO modo.
Quindi, DIFFERENDO ENTRAMBI, SONO ENTRAMBI ‘ID’ per tale IDENTICO-DIFFERIRE.

Essi NON-DIFFERISCONO _ sono IDENTICI in quanto IDENTICAMENTE DIFFERENTI _


perché hanno in comune _ hanno perciò di IDENTICO _ l’esser, entrambi, IDENTICAMENTE
DIFFERENZIANTISI nei loro significati.

‘ID’ e ‘DI’, DIFFERENZIANDOSI, SONO entrambi _ IDENTICAMENTE _ ‘ID’ altrimenti, se


non fossero IDENTICAMENTE dei DIFFERENTI, sarebbero DIFFERENTEMENTE dei
DIFFERENTI, cosicché sarebbero nuovamente soltanto ‘DI’, in quanto l’esser
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DIFFERENTEMENTE DIFFERENTI non si traduce in ‘ID’ bensì ancora in un rafforzamento (se


fosse possibile) di ‘DI’, poiché:
‘DI’ + ‘DI’ = sempre e soltanto l’unico ‘DI’.
Ma, proprio in virtù del loro IDENTICO-DIFFERENZIARSI, NON vi è alcuna DIFFERENZA tra
‘DI’ e ‘DI’ e, non essendovi, SONO IDENTICI.

Implosione di ‘DI’.

§.7- Insomma, abbiamo visto i due significati del plesso ID/DI esser tra loro contraddittoriamente
DIFFERENTI E INSIEME IDENTICI, ovvero:
‘ID’ è ‘DI’ e ‘DI’ è ‘ID’.
‘ID’ è non-‘ID’, cioè è DIFFERENTE-DA-SÉ: è ‘DI’.
‘DI’ è non-‘DI’, cioè è IDENTICO-ALL’ALTRO-DA-SÉ: è ‘ID’.

§.8- Eppure, seguendo Severino, si deve affermare che anche il nostro plesso è UN SIGNIFICATO,
pertanto dev’essere anch’esso INCONTRADDITTORIAMENTE SIGNIFICANTE come quel
plesso che è, a maggior ragione, anzi, in quanto funge da trascendentale o da condizione di OGNI
ENTE...

Per il filosofo bresciano, infatti, è necessario che i termini ‘ID’ e ‘DI’ DIFFERISCANO, altrimenti
affermeremmo che la IDENTITÀ-CON-SÉ dell’ente-‘x’ (di ogni ente) sia LO STESSO
DIFFERIRE-DA-SÉ, il che rappresenterebbe _ per Severino _ la massima FOLLIA (infatti, egli
ritiene di ravvisarla nell’interpretazione del DIVENIRE comunemente accettata).

Se non DIFFERISSERO, dovremmo anche riconoscere ciò che per Severino è l’IMPOSSIBILE per
eccellenza, l’ASSURDO, cioè che ‘x’ sia IDENTICO-all’altro-da-sé (a ‘DI’) e DIFFERENTE-da-sé
(da ‘ID’).
§.9- Ma, proprio in ragione del fatto che ‘ID’ e ‘DI’ sono due termini DIFFERENTI nella
IDENTICA unità incontraddittoria del plesso, ne derivano (anzi, sono situate già a monte!) alcune
conseguenze radicalmente APORETICHE cioè ANTI-SEVERINIANE, per così dire.
Ciò, però, previa domanda:

riesce, il nostro p.I.D. a costituire-SÉ quale unità o sintesi concreta-incontraddittoria tra i significati
‘DI’ e ‘ID’?

§.10- Rispondendo POSITIVAMENTE, ‘DI’ si imporrebbe A SPESE di ‘ID’ giacché, essendo ‘DI’
e ‘ID’ due significati DIFFERENTI tali che ‘ID’ si ritrovi esso stesso ‘DI’, allora ‘ID’ non
potrebbe mai porsi al fianco di ‘DI’ (cioè come parte del plesso), ossia non riuscirebbe mai a
costituirsi come ALTRO/DIVERSO-da-‘DI’ perché ‘ID’ è esso stesso ‘DI’, venendo perciò a
ELIDERSI come ‘ID’ il quale, solo, potrebbe esser contrapposto (nel plesso) a ‘DI’.

§.11- Parimenti, sempre rispondendo POSITIVAMENTE, ‘ID’ si imporrebbe a spese di ‘DI’


giacché, essendo ‘DI’ e ‘ID’ due significati IDENTICI nel loro DIFFERIRE, IDENTICI tali che
‘DI’ si ritrovi esso stesso come ‘ID’, allora ‘DI’ non potrebbe mai porsi al fianco di ‘ID’ (sempre
nel plesso), ossia non riuscirebbe mai a costituirsi come ALTRO/DIVERSO-da-‘ID’ perché ‘DI’ è
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esso stesso ‘ID’, venendo perciò a latitare come ‘DI’ il quale, solo, potrebbe esser contrapposto
(nel plesso) a ‘ID’.

§.12- Certo, plesso-tra-‘ID’-e-‘DI’ sembrerebbe a tutta prima un significato incontraddittorio,


immediatamente intelligibile, IDENTICO-A-SÉ.

Eppure, è interamente contraddittorio, poiché equivale a dire: PLESSO-TRA-‘CERCHIO’-E-


‘QUADRATO’.
Infatti, ‘ID’ e ‘DI’ sono reciprocamente escludentisi.

Esattamente come, nell’ente-‘x’ (ma poi in qualsiasi ente), la sua ‘ID’-con-sé ESCLUDE _ almeno
secondo Severino _ la sua ‘DI’-da-sé (e viceversa).

Nel p.I.D. in quanto tale (essendo anch’esso un significato/ente, sebbene non sia UNA ‘COSA’ tra e
come le altre) si produce la medesima incongruenza.

Esso, in quanto significato consistente nella sintesi tra termini VICENDEVOLMENTE implicantisi,
si traduce in un significato contraddittorio (analogamente al significato ‘NULLA’ quale sintesi tra
due termini auto-contraddicentisi; vedasi più sotto).
Tale plesso ritiene di tener in piedi (o di stare esso stesso in piedi) due termini, come detto,
RECIPROCAMENTE ESCLUDENTISI.

Ma _ insorge prontamente l’obiezione _ esso dice soltanto la compresenza o l’implicazione di ‘ID’


e ‘DI’, affiancati nel o come plesso, distinguendosi sì, ma senza entrare in conflitto, giacché l’un
termine non si pone come SOGGETTO dell’altro, che fungerebbe da contraddittorio PREDICATO;
in questo caso, infatti, il PREDICATO escluderebbe il SOGGETTO; ossia ‘DI’ escluderebbe ‘ID’
dall’esser il suo SOGGETTO (e viceversa):
‘ID’ (SOGGETTO) *È* ‘DI’ (PREDICATO);
‘ID’ *È* NON-‘ID’.
Quindi
‘ID’ NON *È* ‘ID’;
‘ID’ = ‘DI’.
§.13- Rispondendo invece NEGATIVAMENTE (alla domanda posta al §.9), osservando come il
plesso quale unità o sintesi incontraddittoria tra ‘ID’ e ‘DI’ NON possa MAI sussistere
incontraddittoriamente, appunto perché PERFETTAMENTE CONTRADDICENTESI.

‘ID’ e ‘DI’ sono reciprocamente IMPLICANTISI ed al contempo reciprocamente


ESCLUDENTISI, conflittuali per definizione: ognuno ingloba l’altro in sé.
Nessuna pacifica convivenza, perciò, è possibile tra loro...

§.14- Il plesso-ID/DI non riesce affatto a costituirsi senza che l’un termine si imponga (prevalga) A
SPESE dell’altro.
A SPESE significa: fagocitando l’ALTRO in sé, di modo tale da renderli IN-DISTINGUIBILI.
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Ovvero:
(1a) ‘ID’ diventa INDISTINGUIBILE da ‘DI’: ‘ID’ È ‘DI’;
(2a) ‘DI’ diventa INDISTINGUIBILE da ‘ID’: ‘DI’ È ‘ID’.
Col risultato di una simultanea, reciproca ELISIONE auto-inferta...

§.15- In (1a), ‘ID’, diventando IDENTICO a ‘DI’, diventa NON-ID e, diventatolo (essendolo da
sempre), ‘DI’ è NON-ID: è quindi (prevale o sussiste) SOLTANTO ‘DI’.

In (2a), ‘DI’, diventando IDENTICO a ‘ID’, diventa NON-DI e, diventatolo (essendolo da


sempre), ‘ID’ è NON-DI: è quindi (prevale o sussiste) SOLTANTO ‘ID’.

È chiaro, pertanto, come e perché il p.I.D. sia IMPOSSIBILITATO a costituirsi senza il sacrificio o
di ‘ID’ (1a) o di ‘DI’ (2a).

D’altronde _ va da sé _, senza ‘ID’ o senza ‘DI’, in entrambi i casi non vi sarebbe alcun plesso.

§.16- Ma la faccenda si fa vieppiù complicata.

Che ‘ID’ DIVENTI IDENTICO al DIFFERENTE cioè a ‘DI’, diventando NON-ID e che, una
volta divenutolo, sia (IDENTICO) a ‘DI’, vuol dire che ‘ID’ (non) diventa ciò (-> ‘ID’) che in
realtà GIÀ È poiché, ‘diventare’ implica DIFFERENZIARSI-da-sé, per poi IDENTIFICARSI con
quel DIFFERENTE che risulta nel e come processo del proprio divenire, ma appunto: ‘ID’ È GIÀ
L’IDENTICO, essendovi sempre soltanto un unico significare valevole come ‘ID’ (e come ‘DI’).

Quindi ‘ID’, è DA SEMPRE IDENTICO a ‘DI’, non divenutolo diacronicamente giacché, se lo


diventasse, si presupporrebbe un momento antecedente nel quale ‘ID’ NON fosse ancora (divenuto)
‘DI’. Ma, in tal evenienza, e fintanto che perdura, ‘ID’ non sarebbe MAI DIFFERENTE da ‘DI’ (il
che è impossibile), visto che è proprio il suo DIFFERIRE da ‘DI’ a renderlo contraddittoriamente
IDENTICO-a-‘DI’.

(Il medesimo dicasi per ‘DI’, rovesciando i termini; infatti ‘ID’, essendo palesatosi IDENTICO a
‘DI’, fa sì che ‘DI’ sia a sua volta non-‘DI’ in quanto anch’esso resosi IDENTICO a ‘ID’,
ritrovandosi non-DIFFERENTE-da-‘ID’, cessando d’esser ‘DI’...).

§.17- A miglior _ spero _ chiarimento di quanto detto poc’anzi, al §.14:

(1a) ‘ID’ è INDISTINGUIBILE da ‘DI’:

‘ID’ È ‘DI’;

(2a) ‘DI’ è INDISTINGUIBILE da ‘ID’:


‘DI’ È ‘ID’,
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preciserei meglio come il termine INDISTINGUIBILE, significando NON-DIFFERENTE (= ‘ID’),


comporti che la NON-DISTINGUIBILITÀ o IDENTITÀ tra ‘ID’ e ‘DI’ si traduca nel
PREDOMINIO di ‘ID’ su ‘DI’ perché, NON-DIFFERENZIANDOSI, viene a negarsi la loro
DIFFERENZA, sancendo perciò l’IDENTITÀ dei due termini cosicché s’imponga quel non-plesso
cui sarebbe soltanto ‘ID’ (sebbene ‘ID’ senza ‘DI’, grazie al quale può significare ciò che significa,
neghi anche il proprio predominio a scapito di ‘DI’, ma non importa...).
Perciò:
(1b) ‘ID’ _ DIFFERENDO da ‘DI’ _ NON-DIFFERISCE da ‘DI’; il che vuol dire che ‘ID’,
ritrovandosi NON-‘DI’ da ‘DI’, è IDENTICO a DIFFERENTE;

(2b) così ‘DI’, ritrovandosi NON-DIFFERENTE da ‘ID’ _ perché quest’ultimo, essendosi nel
frattempo consumato in e come ‘DI’, non sussiste come ‘ID’ dal quale ‘DI’ avrebbe dovuto
DIFFERENZIARSI per restare ‘DI’ _, quindi ‘DI’ è NON-‘DI’ cioè è ‘ID’...

§.18- Adesso, invece, non ci resta che domandarci:

anche concedendo che tale plesso riesca ad essere IDENTICO-A-SÉ (o IDENTITÀ-CON-SÉ),


allora:
DA CHE COSA si DIFFERENZIA?

Poiché, come qualsiasi altro ente/significato, se è IDENTICO-A-SÉ, dev’esser anche


DIFFERENTE-DAL-PROPRIO-ALTRO, in quanto questo DE-TERMINA la determinatezza di
quello (e viceversa, naturalmente).

QUAL è (o COS’È), dunque, il suo ALTRO?

Evidentemente, NON C’È nessun ‘ALTRO’.

Il plesso-ID/DI non può aver nulla da cui DIFFERENZIARSI; può soltanto DIFFERENZIARSI in e
da se stesso.

Poiché un ente è ciò che è in virtù dell’esser DETERMINATO-DA-ALTRO-da-sé, ne discende che


il plesso-ID/DI è IN-DETERMINATO, non è cioè IDENTICO-a-sé in quanto, non potendo essere
DIFFERENTE-da-altro, non è DETERMINATO...

§.19- Eppure _ si ribatterà indefessamente, nonostante quanto sin qui detto _ è EVIDENTE
(APPARE) come gli enti del mondo circostante siano DIFFERENTI l’un dall’altro ed al contempo
siano (ognuno) IDENTICI-a-sé!
Pertanto _ prosegue l’obiezione _, è sbagliato considerare ‘ID’ e ‘DI’ IN-SÉ o IN QUANTO TALI
o ASTRATTAMENTE o ISOLATAMENTE, anziché unitamente alla loro CONCRETA
espressione ONTICA o FENOMENOLOGICA (piano-L e piano-F).

Solo così procedendo, il significare incontraddittorio del plesso (piano-L) potrà tornare a
risplendere nella sua incontrovertibilità.
13

§.20- Ma è impossibile operare quel presunto ISOLAMENTO.

La suddetta obiezione dimentica che i significati di ‘ID’ e ‘DI’ sono sempre i MEDESIMI per
entrambi i piani giacché non possono non mantenere il loro significato sempre e comunque,
qualsiasi sia il contesto o il piano in cui essi esercitano il proprio valore semantico, essendo
intrinseci a tutto ciò che appare, in quanto tutto ciò che appare, nei modi in cui appare, È LO
STESSO APPARIRE del plesso-ID/DI.
Così essendo, quanto potrà esser legittima, allora, l’accusa di ASTRARRE o di SEPARARE ciò il
cui significato/are informa di sé qualsiasi ente?

(Giacché, se la faccenda stesse come dice l’obiezione, si presupporrebbe un’ulteriore coppia-ID/DI


DIVERSAMENTE significante a seconda che appartenga al piano-L o al piano-F; così
DIVERSAMENTE significante da riproporre, perciò, ancora il medesimo significato cui è ‘DI’, del
quale si contestava la pertinenza esplicativa cui è il piano-L tacciandola di ASTRATTEZZA).

Poco o per niente legittima, altrimenti i significati di ‘ID’ e ‘ID’ continuerebbero indefinitamente a
sfuggirci di mano...

§.21- D’altronde, è proprio il piano-L a ‘governare’ il piano-F ovvero, il piano-L è la dimensione


della SIGNIFICANZA; ciò si rifletterà immediatamente sul piano-F come espressione ontica del
piano-L, altrimenti, tra i due piani non sussisterebbe nessuna sintesi, nessuna unità né implicazione.

E tuttavia, ripetiamoci, sembrerebbe davvero che nel piano-F le DIFFERENZE (e le IDENTITÀ)


APPAIANO.

§.22- APPARENDO, nel piano-F, esse sembrano incontraddittoriamente funzionare,


estrinsecandosi:

questo “Foglio è ( = ) Bianco”.

Sembrerebbe perciò innegabile. Esso APPARE. C’È.

Infatti, qui, ‘Foglio’ e ‘Bianco’ sono due significati IDENTICI-a-sé ed ognuno DIFFERENTE-dal-
proprio-altro, costituenti la sintesi unitaria dell’ente cui è, appunto, questo “Foglio-Bianco”.
Dire che soggetto e predicato DIFFERISCONO, comporta allora che il loro DIFFERIRE sia il
medesimo DIFFERIRE quale significato restituito dal piano-L, ovviamente (e viceversa).

§.23- Ora: se, nel piano-L, ‘ID’, DIFFERENDO da ‘DI’, è esso stesso ‘DI’, e se ‘DI’, avendo in
comune con ‘ID’ il loro reciproco DIFFERIRE che perciò fa di essi degli IDENTICI cioè (UN
SOLO) ‘ID’, e tenendo presente che, nel piano-F, l’ente è:

‘Foglio’ (che è IDENTICO-a-sé)

DIFFERISCE da
14

‘Bianco’ (anch’esso ‘ID’-a-sé),

allora, trasponendo il significare del piano-L nell’ente (come DOBBIAMO), avremo:

(1) ‘Foglio’ è IDENTICO-a-sé, come anche ‘Bianco’ è IDENTICO-a-sé.

Essendo il significato-‘ID’ un solo ed unico significato valevole sempre e ovunque (in entrambi i
piani) nell’UNICO MODO in cui significa, allora l’esser-IDENTICO-a-sé del ‘Foglio’ è il
medesimo (è IDENTICO-allo) essere-IDENTICO che compare nell’esser-IDENTICO-a-sé da parte
del ‘Bianco’.

Pertanto, il ‘Foglio’ è IN-DISTINGUIBILE dal ‘Bianco’ (e viceversa, ovviamente), appunto


perché entrambi sono il medesimo ‘ID’ ove, tale loro esser IDENTICAMENTE-IDENTICI-a-sé, è
sempre lo stesso significato (appunto: ‘ID’).

Quindi, ‘Foglio’ NON DIFFERISCE mai da ‘Bianco’ _ ripetiamolo: se DIFFERISSERO, non


sarebbero ‘ID’-a-sé, perché sarebbe ‘DI’ e non (più) ‘ID’ _; poiché sono entrambi ‘ID’-a-sé, allora
‘Foglio’ NON DIFFERISCE mai da ‘Bianco’ in quanto entrambi IDENTICAMENTE-‘ID’.

(2) ‘Foglio’ è DIFFERENTE dall’altro-da-sé cui è ‘Bianco’ (e viceversa).

Ma, in quanto ambedue DIVERSI, NON-SONO-IDENTICI-a-sé, perché nel piano-L, ‘DI’ significa
sempre e soltanto ‘DI’, mai ‘ID’, altrimenti non sarebbe il ‘DI’ che dice di significare, cosicché
anche ‘Foglio’ (e ‘Bianco’) _ sul piano-F _ sia DIFFERENTE-da-sé in quanto è ‘DI’.

Pertanto, essendo il significato-‘DI’ un solo ed unico significato valevole sempre e ovunque


nell’UNICO MODO in cui significa, allora ‘Foglio’ è ‘DI’-da-sé (come anche ‘Bianco’), è cioè
soltanto ‘DI’, mai ‘ID’ (o ‘ID’-a-sé), appunto perché sono entrambi ‘DI’.

§.24- A questo punto, però, è improrogabile introdurre l’obiezione di matrice aristotelica, che
osserva come il discorso condotto sin qui sia nuovamente viziato da ASTRATTEZZA per aver
anche OMESSO di menzionare il RISPETTO-A-CIÒ nei confronti del quale si è ‘ID’ e ‘DI’.

Giacché _ sempre secondo l’obiezione _, i termini ID/DI sono stati sin qui riferiti all’ente (al piano-
F) senza tener conto che esso è sì ‘ID’ e ‘DI’, ma lo è secondo RISPETTI appunto DIFFERENTI,
tenendo conto del quale, invece, l’ente è incontraddittoriamente plesso di ID/DI (= p.I.D).
Secondo l’obiezione, dunque, avremmo dovuto tener a mente che:
‘Foglio’ (‘x’) è IDENTICO RISPETTO-a-sé (‘x’),
ma
DIFFERENTE, però, RISPETTO-a-‘Bianco’ (‘y’).

Infatti, ‘x’ non può essere insieme ed al contempo ‘ID’-a-sé/‘DI’-da-sé.

Una volta tenuto conto del RISPETTO, allora i conti potranno tornare felicemente a posto...
15

... NON DIREI: dal punto di vista del loro significare (piano-L), infatti, NON CAMBIA NULLA.

§.25- E NON CAMBIA NULLA, in primo luogo perché, se il p.I.D non fosse analizzabile IN SÉ,
cioè a monte (piano-L, o ONTOLOGICO o della significanza), come potremmo individuarlo e
significarlo a valle (piano-F, o ONTICO), cioè negli enti?

§.26- In secondo luogo, il plesso in questione è ‘ID’-a-sé e ‘DI’-rispetto-a... CHE COSA?

Come già visto al §.18, esso si DIFFERENZIA rispetto-a... NIENTE!

Cioè NON si DIFFERENZIA!

Non potendo DIFFERENZIARSI da alcunché in quanto, se si DIFFERENZIASSE-rispetto-a-


qualcosa, questo ‘qualcosa’ sarebbe già _ s’è già detto _ (un) ‘DI’, significante come ‘DI’, sarebbe
cioè SEMPRE LO STESSO, UNICO ‘DI’ a DIFFERENZIARSI, ossia ad esser DIVERSO-rispetto-
a-ciò da cui dovrebbe appunto DIFFERENZIARSI senza però, ovviamente, poterlo fare!

§.27- In quanto plesso OLTRE al quale nulla vi può essere, esso è perciò DIFFERENTE-IN-SÉ o
DIFFERENZIANTE-SI quindi:

è DIFFERENTE-rispetto-a-sé.

È, cioè, al CONTEMPO ‘ID’-e-‘DI’-rispetto-a-sé, in UNO e come UNICO intrascendibile, SENZA


poter essere ‘ID’-e-‘DI’ rispetto-a-qualcos’altro; ossia, non secondo rispetti DIVERSI, che non
possono esservi.

Invece, dell’ente, si pretende che sia ‘ID’-rispetto-a-sé e ‘DI’-rispetto-al-proprio-altro, proprio


grazie al rispetto che nel caso del piano-L, NON FUNZIONA AFFATTO...

Allora, analizziamo l’ente a valle, ossia nell’orizzonte fenomenico, dove è situato e appare.

§.28- Dire che ‘Foglio’ è ‘DI’-rispetto-al-proprio-ALTRO-da-sé (al ‘Bianco’), è come dire che (il)
‘DI’ è ALTRO/DIFFERENTE-rispetto-a-‘DI’, giacché l’altro-da-sé di ‘DI’ è ancora (un) ‘DI’,
ovvero, in realtà, LO STESSO, UNICO ‘DI’ oltre al quale vi è soltanto ‘ID’...

Analogamente, asserire che ‘Foglio’ sia ‘ID’-rispetto-a-sé è come dire che ‘ID’ non DIFFERISCA
MAI perché, DIFFERENDO, non sarebbe più ‘ID’-rispetto-a-sé bensì ‘DI-da-sé’ (se non
DIFFERISSE da ‘DI’, ‘ID’ _ cioè ‘Foglio’ _ sarebbe IDENTICO a ciò verso cui non DIFFERISCE,
ossia a ‘DI’ _ a ‘Bianco’ _).

DIFFERENDO, però (se e poiché vuol significare ‘Foglio’ e non ‘Bianco’), ‘ID’ si ritrova
ugualmente non-‘ID’-rispetto-a-sé, cioè, ancora: ‘DI’-da-sé’.

§.29- È vero _ si prolunga l’obiezione _ che quei due enti sono DIFFERENTI ed in quanto tali, cioè
in quanto sono due ‘DI’, sono IDENTICI per il e nel loro DIFFERIRE;
16

tuttavia _ continua l’obiezione _, NON sono IDENTICI nel senso o a tal punto che tale
IDENTI(CI)TÀ sopprima le loro DIFFERENZE fenomenologiche.

Perciò sono sì IDENTICI, DIFFERENDO, ma rimangono pur sempre DIFFERENTI come


determinazioni ontiche.

Ma se ‘Foglio’ e ‘Bianco’ PERMANESSERO comunque nell’esser ritenuti DIFFERENTI in quanto


‘Foglio’ non significa (non è) ‘Bianco’ (e viceversa), vorrebbe dire che NON sarebbero IDENTICI
nel loro DIFFERIRE quindi, NON DIFFERIREBBERO, appunto perché non sono accomunati dalla
IDENTI(CI)TÀ del loro DIFFERIRE.

Poiché DIFFERISCONO, allora, DIFFERENDO, sono ENTRAMBI ‘ID’, perché il DIFFERENTE


da ‘DI’ è sempre e ancora ‘DI’, mai ‘ID’, come parrebbe in un primo momento, visto che ‘ID’,
DIFFERENDO da ‘DI’, si tramuta (lo è da sempre) a sua volta in ‘DI’.

§.30- E se, anziché esser IDENTICAMENTE DIFFERENTI, fossero DIFFERENTEMENTE


DIFFERENTI?

Onde evitare di porre la loro IDENTITÀ scaturente sempre dal loro esser IDENTICAMENTE
DIFFERENTI?

Così, insomma, da riuscire a salvaguardare le DIFFERENTI determinazioni _ ‘Foglio’ e ‘Bianco’ _


dall’esser (divenute) IDENTICHE?

In questo caso, cioè visti come DIFFERENTEMENTE-DIFFERENTI, il loro DIFFERIRE sarebbe


un DIFFERENTE-DIFFERIRE, quindi un non-‘DI’, giacché non si danno DUE (o più) ‘DI’ che
DIFFERISCANO; (il) ‘DI’ (così come ‘ID’ del nostro plesso) è sempre UNO SOLO.
due o diecimila ‘DI’ sono sempre IL SOLO ED UNICO significato.

§.31- Dire, perciò, che due enti non sono IDENTICAMENTE DIFFERENTI _ appunto perché lo
sono DIFFERENTEMENTE _, cioè dire che non hanno in comune l’IDENTICO-DIFFERIRE, è
come dire che NON DIFFERISCONO, poiché non avere in comune, da parte di due enti
l’IDENTICO-DIFFERIRE, vuol dire che essi DIFFERISCONO DAL DIFFERIRE-
IDENTICAMENTE e così, il loro DIFFERIRE, essendo DIFFERENTEMENTE-DIFFERENTE, è
un non-DIFFERIRE, perché se gli enti NON sono accomunati dal DIFFERIRE, non
DIFFERISCONO, altrimenti DIFFERIREBBERO-TUTTI-IDENTICAMENTE, all’unisono...

Per DIFFERIRE, occorre che TUTTI gli enti DIFFERISCANO allo STESSO MODO, ossia
IDENTICAMENTE.
§.32- E, tanto per bilanciare il discorso:

SE, anziché dire che ‘Foglio’ e ‘Bianco’ abbiano di IDENTICO il loro esser DIFFERENTI _
dimodoché siano IDENTICAMENTE-‘DI’ _, dicessimo invece che essi hanno di DIFFERENTE il
loro esser IDENTICI-a-sé?
Dimodoché siano DIFFERENTEMENTE-‘ID’?
17

In tal modo, finalmente, sembrerebbe che i conti tornino giacché, essere DIFFERENTEMENTE-
‘ID’ sembrerebbe voler dire: esser IDENTICI-a-sé da parte di ogni ente; e siccome ogni ente è
DIFFERENTE dal proprio altro, ecco, allora, come l’aver di DIFFERENTE l’esser IDENTICI-a-sé
_ quindi ogni IDENTICO-a-sé è DIVERSAMENTE IDENTICO-a-sé rispetto all’esser
IDENTIICO-a-sé del proprio altro _ sancisca l’IDENTITÀ-con-sé e la DIFFERENZA-dal-proprio-
altro, come vuole il dettato severiniano.

Direi di no; ‘ID’ _ giacché stiamo riferendoci a ‘Foglio’ e a ‘Bianco’ in quanto sono, ognuno, ‘ID’-
a-sé _ se fosse DIFFERENTEMENTE-sé cioè DIFFERENTEMENTE-‘ID’, sarebbe già ‘DI’,
ritrovandoci ‘ID’ _ quindi ‘Foglio e ‘Bianco’ _ come non-Foglio e non-Bianco, appunto perché
‘ID’, tramutatosi in ‘DI’, ovvero essendo DIFFERENTEMENTE-sé, DIFFERENTEMENTE-‘ID’,
è non-‘ID’.

§.33- Secondo Severino, dalla IDENTITÀ-con-sé e DIFFERENZA-dal-proprio-altro discende o


meglio, è un altro modo per affermare l’ETERNITÀ dell’ente ossia l’impossibilità che esso
DIVENGA o si TRASFORMI in altro-da-sé altrimenti _ sempre stando al filosofo bresciano _
l’ente diverrebbe IDENTICO al DIFFERENTE-da-sé e, una volta divenutolo, l’ente sarebbe il (o
IDENTICO al) DIFFERENTE.

Epperò, se ‘ID’ (la ‘Legna’) è già da sempre ‘DI’-da-sé in quanto, DIFFERENDO dal suo ‘DI’
(dalla ‘Cenere’) è esso stesso ‘DI’, allora il DIVENIRE-ALTRO-da-sé (la ‘Cenere’) non solo non è
impossibile ma è la norma conforme all’essere di ‘ID’/‘DI’, appunto perché ‘ID’ È anche _ o
meglio, è già da sempre _ ‘DI’; quindi la ‘Legna’ È anche la ‘Cenere’ (e viceversa)...

Pertanto, la contraddizione ravvisata da Severino non inficia il DIVENIRE inteso come


estrinsecazione della sua stessa contraddittorietà perché esso è l’apparire della contraddizione
originaria cui è il p.I.D, ovvero è già il DIFFERENZIARSI-DALLA-IDENTITÀ-con-sé e
l’IDENTIFICARSI-con-il DIFFERENTE-da-sé, cosicché ‘ID’ sia da sempre già (non) DIVENUTO
‘DI’ e questo, quello.

§.34- Insomma, il presunto ORIGINARIO severiniano non può esser la sola incontradditorietà
dell’ente o del p.I.D che lo informa perché, posto (e APPARENDO) come ‘ID’-e-‘DI’, non è né
‘ID’ né ‘DI’.

Posto SOLTANTO come DIFFERENZA, si ritrova esser NON-DIFFERENZA.

Posto SOLTANTO come IDENTITÀ, si costituisce per poi negarsi immediatamente, è cioè l’eterno
porsi e negarsi della IDENTITÀ E della DIFFERENZA.
Posto come plesso-unitario-ID/DI, l’IDENTITÀ e la DIFFERENZA si danno, si offrono,
APPAIONO, visto che ne stiamo parlando; ma al contempo si tolgono tramutandosi o mostrando
l’ente _ e la stessa ‘ID’ e ‘DI’ _ nel suo volto INDETERMINATO come DIFFERENZA-da-sé a sua
volta toglientesi in IDENTITÀ-con-l’altro...

Infatti, non è dato un momento in cui l’IDENTITÀ perduri immune dall’essere ‘DI’, cioè restando
intonsamente IDENTITÀ; se vi fosse, ‘ID’ non DIFFERIREBBE mai da ‘DI’ (perché, per
18

DIFFERENZIARVISI, deve significare DIFFERENTEMENTE-da-‘DI’) e, non DIFFERENDOVI,


non sarebbe mai intonsamente ‘ID’...

§.35- Concludo con un brano di un filosofo che non conoscevo affatto, BELTRANDO
SPAVENTA, col quale il presente scritto mostra notevoli consonanze):

<<E pure non è, come si può credere, sofisma il dire: se ogni cosa è identica a sé, e diversa da
ogni altra, ciò equivale ad affermare, che ogni cosa è insieme identica e diversa (non identica);
e così l'una delle due proposizioni contradice all'altra. È vero che si pretende di togliere la
contradizione, osservando che la identità concerne la cosa in quanto riferita a sé; la diversità
(non identità) concerne la cosa in quanto riferita ad altro. Ma [...] la radice così della identità
della cosa verso sé, come della diversità (non identità) verso altra, deve essere nella cosa
stessa; e perciò ogni cosa deve essere in sé identica e diversa insieme. Così la contradizione
delle due proposizioni (identità e diversità) esprime la contradizione (opposizione) della cosa
stessa>> – (B. SPAVENTA: Opere. Bompiani-Giunti 2008; pag. 2043).

RF
19

3)- APORETICITÀ DELL’ENTE QUALE “IDENTITÀ-


DIFFERENZIATA”

§.1- L’IDentità sta all’UNO come la DIfferenza sta al MOLTEPLICE (giacché essa presuppone
almeno il DUE).

§.2- Ciò significa che l’IDentità (l’UNO) deve costituirsi come IN-DIFFERENZIATA, IDentica e
SEMPLICE, altrimenti sarebbe già (lo stesso) MOLTEPLICE in sé in quanto DIFFERENZIATA,
NON-IDentica, NON-SEMPLICE e NON-UNO, e perciò non potrebbe fungere da sua (del
DIfferente/molteplice) ‘controparte’.

§.3- Certo, negli enti che ci circondano, l’IDentità di ogni-UNO di essi sembrerebbe emergere o
darsi tramite il loro esser in sé un’UNITÀ o IDentità-di-MOLTEPLICI (DIfferenziantisi), come
appunto ritiene Emanuele Severino allorché afferma:

<<È dunque necessario che LO STESSO [l’ente o l’IDentico-a-sé] implichi i differenti, ma I


DIFFERENTI CHE SONO UNIFICATI IN UN'IDENTITÀ, e implichi UN'IDENTITÀ CHE
È DIFFERENZIATA>> - (“Storia, Gioia”. Adelphi; maiuscolo mio).

§.4- Ma è proprio quanto appena detto dal filosofo bresciano a configurarsi aporeticamente.

Infatti, la IDentità-dei-DIfferenti intesa come il loro esser <<unificati>> in essa (seppur


‘ORIGINARIAMENTE’ unificati!) si rivela una perfetta NON-IDentità, tanto quanto l’UNO non
può esser in sé MOLTEPLICE e continuare a dirsi UNO o IDentico!

§.5- <<UN'IDENTITÀ DIFFERENZIATA>> (autentico ossimoro!) è soltanto una DUALITÀ (o


MOLTEPLICITÀ) di DIfferenti, senza alcuna IDentità perché questa, proprio in quanto
<<DIFFERENZIATA>>, è già intrinsecamente MOLTEPLICE cioè NON-IDentica, perciò NON-
UNO e NON-SEMPLICE, cosicché in nulla si distingua dalla DIfferenza o MOLTEPLICITÀ.

Però si è detto: una IDentità DIfferenziata, per cui essa è comunque una (= IDentica)…

Senonché tale unità o IDentità, DIfferenziandosi (nei molteplici), è già non-unità e non-IDentità
giacché, così DIfferenziandosi, l’ID diviene/si ritrova contraddittoriamente DIfferente, ossia è ID e
non-ID al contempo.

§.6- In tal modo la <<IDENTITÀ DIFFERENZIATA>> severiniana, in quanto pseudo-IDentità,


si toglie per rivelarsi esser l’ennesima modalità assunta dal MOLTEPLICE o dal DIfferente,
riconfermando perciò sia l’aporia originaria quale struttura dell’ente in quanto tale, sia _ perciò _
l’ente quale DIfferenza-da-sé o NON-IDentità-con-sé (NON-IDentità tout court).

§.7- Da qui al tema del DIVENIRE, il passo è breve (vedasi più sotto, cap.21)…
RF
20

4)- TRIPLICE APORETICITÀ DELL’ENTE / ESSERE

Adesso, vorrei evidenziare TRE APORIE derivanti dalla DISTINZIONE tra ESSERE (= E) e
DETERMINAZIONE (= D; plurale: DD), della quale DIstinzione l’ente ne costituisce la sintesi (E
+ D).
Normalmente, ogni qualvolta viene indicata un’aporia, fa immancabilmente seguito, da parte del
filosofo Emanuele Severino ed estimatori, la solita osservazione _ la quale, tuttavia, rafforza le tre
aporie qui esposte _, tesa a rilevare che l’indesiderato esito dipenda dall’aver indebitamente
ASTRATTO/SEPARATO/ISOLATO l’E dalla sua inscindibile D, cosicché esso si ritrovi come
ESSERE-SEMPLICE/FORMALE (= l’“È”) vuoto di contenuto o di D ed in quanto così
SEPARATO, inesistente.

(Molto frequente anche la variante che accusa di SEPARARE il piano LOGICO dal piano
FENOMENOLOGICO)…

Data la tempestività con la quale detta osservazione vien messa sul tavolo, altrettanto
immancabilmente e tempestivamente faccio subito notare come essa si lasci continuamente
sfuggire che:
(A)- o l’E si DISTINGUE realmente dalla (sua) D (della quale è ATTO);

in tal caso, bisognerà che l’E sia analizzabile/significabile DISTINTAMENTE dalla D, giacché il
SAPERLO DISTINTO deve comportare il suo apparire e quindi il suo significare COSÌ
DISTINTAMENTE, con le conseguenze che ne derivano e che ho cercato di evidenziare nel
presente post.

Pertanto, l’E-distinto-dalla-D deve potersi offrire alla significazione quale atto-distinto-dalla-D,


consentendoci di poter rispondere alla domanda:
CHE COS’È (o cosa significa), nell’ente, l’E distintamente considerato dalla D?
(B)- Oppure nessuna DISTINZIONE è possibile tra E e D;
in tal caso:

(B1)- l’E è sempre DIFFERENTE-DA-SÉ, non essendovi alcun E che sia predicabile
universalmente (= IDENTICAMENTE) per ogni ente (per ogni D), poiché in ciascun caso _ in
ciascuna D _ esso assumerà forme sempre diverse quante sono le DETERMINAZIONI (= DD).

(B2)- Se l’E è sempre differente-da-sé, non avrà alcun senso continuare a chiamarlo ‘E’ perché, non
essendo mai identico-a-sé in ognuna delle D, non potrà neppure costituirne il trascendentale che
tutto accomuna e che ne presuppone perciò l’INVARIANZA (= l’identità-con-sé).
21

(B3)- Non avendo più alcun senso continuare a chiamarlo ‘E’, esso _ sempre secondo l’accezione
severiniana _ non si opporrà neppure AL NULLA, perché una volta venuto meno l’E, viene meno
anche la posizione semantica del suo opposto _ il NULLA _ solo nell’opposizione al quale l’E trae
_ sempre secondo Severino _ la propria identità…

(B4)- In ogni caso _ lo vedremo _, che l’E sia distinto o meno dalla D, il risultato finale reciterà
sempre il medesimo verdetto:

nell’ente, l’E è IN-DISTINGUIBILE DAL NULLA; dell’E di ogni ente, davvero, non ne è
NULLA…

***
1)- PRIMA APORIA dell’E.

§.1a- Com’è noto, gli enti si differenziano l’un l’altro in virtù della loro DETERMINATEZZA (=
D).

Inoltre, in ogni ente si suol distinguere (non separare!) la sua specifica D dal suo ESSERE (= E) o,
come dice Severino, dal suo NON-ESSERE-UN-NULLA, il quale E è comune ad ogni ente,
identicamente: l’atto d’E non cambia mai.

§.1b- Per capirci meglio con un esempio: se L’ATTO-DEL-CORRERE (equivalente dell’E)


cambiasse in COLORO-CHE-CORRONO (gli equivalenti delle DD), i CORRENTI non sarebbe
accomunati dal CORRERE e quindi non tutti CORREREBBERO, appunto perché non avrebbero in
comune il (loro) CORRERE.

Pertanto, per predicare il CORRERE col medesimo significato per ognuno dei CORRENTI, esso
deve esser *DISTINGUIBILE* dal CORRENTE/CORRIDORE in quanto il CORRERE-non-
CORRE, o non-è-un-CORRENTE (non è una D).

§.1c- Certo, il CORRERE non FA ESSERE (non ‘crea’) i CORRENTI; esso è ciò che unifica i
CORRENTI nel loro CORRERE.

Per tale ragione, il CORRERE può anche cessare senza che i CORRENTI cessino a loro volta con
esso, giacché il CORRENTE eccede il suo essere-CORRENTE, essendo anche molto altro (è uomo,
è vivente, è riposante, mangiante, dormiente, nero, bianco, magro, operaio, italiano etc…) rispetto
ad esso.
§.1d- Neppure l’E fa essere le DD; esso è ciò che unifica le DD nel loro E.

Ma, a differenza di quanto appena detto riguardo al CORRERE ed al CORRENTE, per quanto
concerne l’E, le DD non possono mai cessare di essere DD per esser anche altro rispetto al loro
essere DD, poiché esse sono *integralmente* E, a differenza del CORRENTE il quale, come detto,
eccede il (suo) CORRERE.

§.1e- È per tale distinzione che la D, nell’ente, non coincide ‘simpliciter’ con l’E perché
quest’ultimo non può avere ‘QUIDDITÀ’ propria, ossia non può essere a sua volta una (altra) D,
altrimenti, se cioè fosse (una) D esso stesso, non potrebbe mai costituirsi come l’E-di-ogni-D _ non
sarebbe la CONDIZIONE del loro darsi o dell’apparire di ogni D _ bensì come un’altra D tra
molteplici DD:
22

se il CORRERE CORRESSE, sarebbe una D, cioè un CORRENTE…

§.1f- Le DD non possono perciò mai eccedere l’E, perché oltre l’E non vi è alcunché (sempre
stando a Severino) che possa sopravanzarlo.
Così l’E, non avendo ALTRO OLTRE sé in quanto è il solo mono-agonista, NON si distingue da
niente, nient’altro essendovi all’infuori dell’E da cui distinguersi giacché tutto rientra in esso (anche
il NON-ESSERE!); al contempo l’E, non essendo/avendo una propria specifica D, si distingue dalle
DD!

§.1g- Da questo consegue che nell’ente, l’E è al contempo identico-a-sé (è tutto l’ente) e distinto-
da-sé (in quanto è distinto dalla D).

O anche: l’ente è tale distinzione, ossia è distinzione DI-SÉ-DA-SÉ da parte dell’E, ove quel ‘DA-
SÉ’ è la D distinta dall’E.

Il che è come dire che l’ente è il ‘luogo’ in cui l’E ha o è ALTRO OLTRE sé, precisamente ha (o è)
la D la quale, distinguendosi dall’E, è NON-E.

§.1h- Se la D è CIÒ (è la ‘cosa’) che appare, e se ogni differenza è lo stesso apparire di ogni D, e
poiché l’E è l’atto mediante il quale ogni D appare (e quindi l’E non può esser esso stesso alcuna
D), allora l’ineliminabile distinzione _ nell’ente _ tra l’E e la D (distinzione che fa sì che l’E non sia
mai alcuna D in nessun ente) CHE COSA distingue?
Distinguerà _ sempre in ogni ente _ la D da ciò che non-è-alcuna-D, ossia dal suo E.
Per cui l’ente NON-È-SÉ
poiché esso è-D-e-NON-è-D;
è-E-e-NON-è-E;
è-E-e-NON-E:
è, appunto ente, cioè E-e-D (o E + D); il che ci conduce dritti dritti alla seconda aporia dell’E.
***
2)- SECONDA APORIA dell’E.

§.2a- Da quanto appena tratteggiato, segue che l’E è sempre l’E-di-qualcosa (D) ma, proprio per
questo, essendo cioè analizzabile DISTINTAMENTE dalla D della quale esso ne è l’E (se non fosse
così analizzabile, infatti, non potremmo neppure affermare che l’E è sempre l’E-DI-QUALCOSA
perché, affermando ciò, saremmo comunque costretti a porre una DUALITÀ quindi una
DISTINZIONE tra l’E ed il ‘QUALCOSA’ di cui esso è ATTO), allora:
non tutto è D e non tutto è E!

§.2b- Che è come dire che tra l’E ed il NULLA vi è un TERZO _ la D _ che rientra-e-non-rientra
nell’E;
e rientra-e-non-rientra-nel NON-E, appunto:
un TERZO tra l’E ed il NON-E!
23

§.2c- Questo ci dice, allora, che il DIVENIRE è caratterizzato proprio da quell’epanphoterizein


platonico che Severino ha tentato di bollare come nichilistico ritenendolo impossibile:

epanphoterizein tra l’E ed il NULLA da parte di ogni D, che a rigor di termini si riduce ad
oscillazione o contesa tra ‘due’ NULLA quali sono l’E ed il NULLA, ovvero ad oscillazione _
dell’ente _ di sé da sé.

§.2d- Nell’ente, la D si ritrova cioè indecisa tra sé come NON-E, e tra l’E (o NULLA) come NON-
D!
OGNI ENTE è tale INDECISIONE…
(Per quanto riguarda l’indistinguibilità tra l’E ed il NULLA, si veda subito qui sotto).
***
3)- TERZA APORIA dell’E.

§.3a- Il non esser/aver D alcuna, fa perciò dell’E _ sempre considerato nell’ente distintamente dalla
D _ un NON-DETERMINATO (= NON-D); infatti, l’apparire della distinzione (tra enti) nient’altro
è che l’apparire della D degli enti la quale D è, perciò, l’apparire della differenza che caratterizza
ciascun ente in quanto D ossia in quanto DE-TERMINATAMENTE differ-ente dal proprio altro.

§.3b- Severino suol far notare che l’ente (o la D) è un NON-NULLA, ossia è appunto interamente
ed unicamente E.
Pertanto, ciò che ‘tiene fuori’ dal NULLA la D (o l’ente) è appunto il suo (atto d’) E.

Da ciò sembrerebbe poter senz’altro facilmente concludere che tra l’E e il NULLA vi corra
un’abissale differenza/distanza ontologica, la massima estraneità/opposizione reciproca che sia dato
riscontrare.

Ma sarà davvero così?


§.3c- Se fosse così, ovvero se l’E fosse totalmente altro dal NULLA, l’ente non dovrebbe costituirsi
come sintesi tra i distinti E e D.

Nella misura, però, in cui ne consiste (e tale misura non risparmia nessun ente), allora, ad opporsi al
NULLA quale massima alterità ontologica sarà SOLTANTO la D, appunto perché è essa a marcare
le differenze tra enti, essendo invece, il loro atto d’E NON-D, ossia DISTINGUIBILE dalla D e
come tale non rientrante in ciò (la D) che sancisce le differenze.
§.3d- Cosicché l’atto d’E-distinto-dalla-D sia IDENTICO al NULLA nei confronti del quale esso
vorrebbe valere come massima alterità.
Ma tale massima alterità è già intrinseca all’ente, alterità appunto tra l’E e la D.
Quindi, ciò che rende NON-NULLA ogni D è proprio un E non-distinguibile dal NULLA, o un
NULLA in-distinguibile dall’E.

Ricordiamo, infatti, come ogni distinzione possa darsi SOLTANTO tra DD appunto distinte l’una
dall’altra, e poiché l’E _ nell’ente _ non può aver di proprio né può essere alcuna D, allora è chiaro
24

come esso sia NON-DETERMINATO (NON-D) e pertanto stia nella massima alterità NON CON
IL NULLA bensì con la D!
§.3e- Perciò, ricapitoliamo:
o l’E non si distingue DA NULLA;

e allora non si distinguerà neppure dalla (sua) D nell’ente di volta in volta considerato, di modo tale
che l’E si riduca ad una D tra molte altre, ogni volta (cioè IN o COME ogni ente) tanto diverso-da-
sé quanto ogni D è diversa dalle altre.

Se, perciò, l’E non si distingue dalla D, esso sarà, di ente in ente, DIFFERENTE-DA-SE-STESSO
perché ogni D differisce dall’altra, quindi sarà NON-E = NULLA, venendo così meno la necessità
di continuare a considerarlo ESSERE (per poterlo fare, l’E *deve* distinguersi dalla D), con la
conseguente scomparsa anche degli ESS-ENTI.

Come il CORRERE, qualora non si distinguesse dal CORRENTE, sarebbe esso stesso *UN*
CORRENTE: il CORRERE CORRE o il CORRERE è (UN) CORRENTE; costituendosi perciò
come UNO-tra-i-CORRENTI, anziché come loro trascendentale o denominatore comune, cadendo
così la necessità di continuare a considerarlo IL CORRERE di ogni CORRENTE, con la
conseguente scomparsa anche dei CORR-ENTI.
§.3f- Oppure:
l’E si distingue _ nell’ente _ dalla D, come s’è visto;

e allora esso sarà inevitabilmente IN-DISTINGUIBILE *DAL* NULLA (non: *DA* NULLA!,
come invece in §.3e) poiché, non essendo l’E alcuna D (dalla quale si deve distinguere in quanto
NON-D), conferma la propria IN-DISTINGUIBILITÀ DAL NULLA.
Ripetiamo: proprio perché l’E è NON-D, NON RIESCE A DISTINGUERSI *DAL* NULLA.
§.3g- Ma perché diciamo: indistinguibile DAL *NULLA*?
Forse, che non vi sia differenza tra l’atto d’essere e il non-esserci da parte di un ente?

Eppure siamo tutti convinti che tra l’esserci ed il non-esserci di qualcosa passa una differenza
incolmabile…
E allora _ ridomando _ perché diciamo che l’E è INDISTINGUIBILE DAL *NULLA*?

§.3h- Perché nemmeno il NULLA ha alcuna quiddità; esso è IL NON-DETERMINATO per


eccellenza, il NON-INDIVIDUABILE per definizione, non essendo alcuna D (sempre
assecondando l’accezione severiniana di NULLA):
ESATTAMENTE COME L’E…
§.3i- A ciò, si potrà certo obiettare che l’E è ‘qualcosa’ ossia, l’E è comunque ATTO d’E, vero; ma
daccapo, poiché tale atto non è/ha alcuna D, questo atto come potrà distinguersi da ciò che non è/ha
alcuna D come appunto IL NULLA?
§.3l- O l’atto è a sua volta (una) D; e allora si ritorna all’E come D tra le tante altre, quindi come
NON-E e NON-trascendentale.
25

§.3m- Oppure non si distinguerà DAL NULLA…

§.3n- Si dirà che l’E è distinguibile DAL NULLA attraverso-la-D della quale esso funge da
inseparabile atto d’E.
Ovvero, l’E si individua IN o COME ogni D manifesta e così individuandosi, non potrà esser
equiparato AL NULLA il quale, invece, non si individuerebbe mai, non essendo l’atto di alcunché.

Nuovamente d’accordo: ma torna daccapo la domanda di come l’atto d’E possa render NON-
NULLA la D, manifestandola, se esso stesso è appunto DISTINGUIBILE dalla D e perciò IN-
DISTINGUIBILE *DAL* NULLA?

CHE COSA si individua, se tale E, non essendo D, non possiede una natura INDIVIDUABILE (né,
a questo punto, INDIVIDUANTE)?
§.3o- Che differenza vi sarebbe tra *DUE* IN-DISTINGUIBILI (quali l’E ed il NULLA)?

Nessuna; appunto perché, essendo NON-DISTINGUIBILI, non saranno neppure (distinguibili


come) *DUE*!
§.3p- Inoltre, quanto detto nel §.3n richiama per un attimo la sintesi cui _ secondo Severino _
consiste il termine ‘NULLA’, sintesi cioè tra il momento del positivo significare ed il contenuto
valevole come ‘nulla assoluto’ di tale positivo significare.

Egli ritiene che tale sintesi consenta al contenuto di quel termine di porsi e rimanere significante
come ‘nulla assoluto’; parimenti, aggiungo io, la sintesi tra E e D cui è l’ente consente all’E
dell’ente di porsi DISTINGUIBILMENTE dalla D, di porsi cioè come NON-D e la D come NON-
E, onde il rilievo esposto al §.3n non abbia più motivo di essere.

§.3q- D’altronde, L’INANTITÀ dell’accusa di SEPARARE l’E dalla D si evidenzia anche qualora
assegnassimo alla D il valore POSITIVO-DETERMINATO di 1 (appunto perché è D), e all’E, in
quanto è NON-D, il valore né positivo né negativo di 0 (zero).
In tal modo si palesa come da 1 + 0 (cioè da D + E) = 1, cioè risulti sempre D, non potendo ciò (=
l’E) che non è alcuna D aggiungervi nulla, cosicché dire D + E (cioè 1 + 0) sia come dire D +
NULLA = D, confermando perciò l’indistinguibilità dell’E dal NULLA e parimenti, confermando il
NON-E della D.

§.3r- Ma proprio per quanto appena detto, il severiniano potrebbe ribadire con maggior giustificata
forza _ ove ho scritto che da D + E = D (da 1 + 0 = 1) risulta sempre D, non potendo l’E, che non è
alcuna D, aggiungere nulla alla D _ di aver SEPARATO l’E dalla D, giacché non mi sarei accorto
come la D sia già essa stessa l’E, o sia ad esso inscindibilmente nonché originariamente unita
cosicché, che l’E non aggiunga nulla alla D, si riveli un ingenuo errore derivante dal non aver visto
che dire D è già dire (il suo) E!

§.3s- Ma che l’ente sia ritenuto sintesi inscindibile ed originaria tra E e D non può affatto togliere la
DISTINZIONE (non la SEPARAZIONE!) tra i due termini.
Non potendo toglierla, D in quanto così distinta, stando al rilievo del §.3r, si troverebbe in sintesi
inscindibile con (o SAREBBE essa stessa!) l’E, ovvero sarebbe essa stessa ciò (l’E) che è distinto-
da-sé cioè dalla D.
26

Ma se la distinzione è inaggirabile, saremmo punto e a capo, giacché non c’è originaria-


inscindibilità che tenga dinanzi alla sola semplice DISTINZIONE tra ciò che È TUTTO senza
alcunché al di fuori di sé: l’E, e ciò che da questo si DISTINGUE, appunto, senza però potersene
affatto distinguere: la D…

§.3t- Concludendo: come anticipato al punto (B4), che l’E sia distinguibile o meno dalla D, il
risultato finale reciterà sempre il medesimo verdetto:
- nell’ente, la D è NON-E;
- nell’ente, l’E è IN-DISTINGUIBILE DAL NULLA;
- dell’E e della D di ogni ente, davvero, non ne è NULLA…

RF
27

5)- L’ENTE COME CONTRADDIZIONE

§.1- La (1)<IDentità-con-sé> e la (2)<DIfferenza-dal-proprio-altro> costituiscono l’ente come le


due facce costituiscono una medaglia.

§.2- Con la non lieve differenza che le facce della medaglia (la medaglia stessa) sono
determinazioni IPOSINTATTICHE (appaiono e scompaiono con l’apparire e lo scomparire di esse),
mentre la (1)<IDentità-con-sé> e la (2)<DIfferenza-dal-proprio-altro> sono PERSINTATTICHE
(non appaiono né scompaiono mai, giacché senza di esse niente potrebbe apparire ed essere), stando
alla teoresi di Severino.

§.3- Domanda:

nell’ente, (a) l’IDentità-con-sé si DIfferenzia dalla SUA (b) DIfferenza-dal-proprio-altro?

Oppure sono IDentiche e perciò inDIstinguibili?

§.4- Evidentemente si DIfferenziano, tanto quanto l’esser sé si DIfferenzia dall’altro da sé,


altrimenti potremmo dire inDIfferentemente:

<IDentità-con-il-proprio-ALTRO> e <DIfferenza-da-SÉ> senza mutar i significati delle due


locuzioni (a) e (b), il che non accade, almeno non nell’ontologia severiniana nella quale le ultime
due espressioni rappresentano l’essenza stessa della contraddizione.

Quindi esse si Differenziano, pur essendo inscindibili in quanto, appunto, co-implicantesi (proprio
per questo si DIfferenziano, giacché non c’è co-implicazioni tra in-distinguibili).

§.5- Ma, così DIfferenziandosi, l’ente (ogni ente), si DIfferenzia-DA-SÉ, ovvero esso è innanzitutto
il PROPRIO-ALTRO-DI-SE-STESSO.

Com’è possibile?

§.6- L’IDentità di ‘x’ DIfferisce da quel DIfferente-da-‘x’ cui è ‘y’ (o DIfferisce dall’IDentità di
‘y’).

E sin qui sembrerebbe tutto a posto.

Ma, allora, cosa c’entra tutto ciò con l’esser il PROPRIO-ALTRO-DA-SÉ da parte di ogni ente?

§.7- Se ‘x’ può DIfferire da ‘y’ proprio in virtù del dettato DISTINGUENTE, che vuole la
(1)<IDentità-con-sé> cui è ‘x’ DIfferisca da quel DIfferente-da-‘x’ cui è ‘y’, allora ‘x’ DIfferisce
28

ANCHE DA-SÉ perché la sua (1)<IDentità-con-sé> DIfferisce ANCHE dalla propria (di ‘x’)
DIfferenza dall’altro da sé.

§.8- Se non ne DIfferisse, (1)<IDentità-con-sé> dell’ente non DIfferirebbe dalla sua (sempre di ‘x’)
DIfferenza dall’altro da sé cosicché (1) e (2) sarebbero significati sinonimi cioè tranquillamente
interscambiabili.

Ecco perché l’ente, ogni ente è, AL CONTEMPO ed INNANZITUTTO, IDentico-E-DIfferente-


DA-SÉ.

§.9- La DIfferenza che sancisce la DIfferenza tra ‘x’ ed ‘y’ è infatti LA STESSA DIfferenza che
sussiste, in ‘x’ e come ‘x’, tra l’<IDentità-con-sé> e la <DIfferenza-dal-proprio-altro>.

§.10- Certo, non sfugge che i ‘RISPETTI’ cui sono riferiti l’IDentico ed il DIfferente sono
DIfferenti; ma non è questo, qui ed ora, ad esser messo in questione.

Anche volendo tenerli presente, infatti, sebbene la DIfferenza sia riferita al proprio ALTRO, non
cambia il fatto che LA DIfferenza tra la (1)<IDentità-con-sé> e la (2)<DIfferenza-dal-proprio-altro>
non diviene per questo NON-DIfferenza.
§.11- Qui importa rilevare che NELL’ente l’<IDentità-con-sé> _ o l’ente in quanto è <IDentità-
con-sé> _ DIfferisce DALLA sua stessa <DIfferenza dal proprio altro> ALLO STESSO MODO IN
CUI l’IDentità-con-sé di ‘x’ DIfferisce dall’altro-da-‘x’, cioè da ‘y’.

§.12- Alla fin fine, cosa significa?

Significa, nuovamente, che affermando l’ente esser (1)-IDentico-a-sé e (2)-DIfferente-dal-proprio-


altro _ e ciò dovrebbe costituire la supposta IN-CONTRADDITTORIETÀ dell’ente _ affermiamo
altresì che esso è, al contempo, IDentità-E-DIfferenza-DA-sé, ossia che è contraddittorio…

§.13- L’ente si DIfferenzia-DA-SÉ, dunque, perché quella DIfferenza, che avrebbe dovuto valere
SOLTANTO in relazione al proprio-ALTRO, si ritrova già nel cuore del medesimo ente quale
DIfferenza di un aspetto di sé DA-sé.

§.14- La DIfferenza che rende DIfferenti due enti, è cioè LA MEDESIMA DIfferenza che vige
internamente allo stesso ente quale DIfferenza tra la sua (1)<IDentità-con-sé> e la sua <DIfferenza-
dal-proprio-altro> (stante la loro innegabile distinguibilità).

§.15- E se è contraddittorio che l’ente ‘x’ sia IDentico-a-ciò-(‘y’)-da-cui-DIfferisce (così Severino),


dovrà esser altrettanto contraddittorio che NELL’ente ‘x’ la sua stessa (1)<IDentità-con-sé>
DIfferisca da ciò (2) da cui non dovrebbe DIfferire _ giacché se l’ID si DIfferenzia, l’ID è non-ID,
è DI _ ma DIfferisce lo stesso; e sia parimenti contraddittorio che sempre NELL’ente ‘x’ la sua
<DIfferenza-dal-proprio-altro> (da ‘y’) sia IDentica alla DIfferenza tra (1) e (2) cui lo stesso ente
‘x’ è…
29

§.16- In sostanza, se la DIfferenza tra l’ente ‘x’ e l’ALTRO-da-Sé (l’ente ‘y’) è la stessa DIfferenza
che fa della (1)<IDentità-con-sé> (dell’ente ‘x’) una DIfferenza da ‘y’ (dall’ALTRO-da-‘x’) da
parte di ‘x’, allora la DI che rende DIfferente l’ente ‘x’ da ‘y’ è già presente internamente allo
stesso ente ‘x’ (ad ogni ente) nel momento in cui la (1)<’IDentità-con-sé> di ‘x’ DIfferisce dalla sua
_ di ‘x’ _ (2)<DIfferenza dal proprio altro>.

§.17- L’accento, qui, va posto su quella DIfferenza INTERNA ad ‘x’ che SEMBREREBBE
DIfferire o funzionare DIfferentemente (per via dei due ‘rispetti’) dalla DIfferenza vigente tra gli
enti ‘x’ ed ‘y’.

§.18- Ma se essa dovesse funzionare DIfferentemente, allora (1) e (2) _ essendo comunque due
aspetti complementari in-UNO come le suddette facce della medaglia _ sarebbero in realtà
IDentici cioè NON-DISTINGUIBILI, e non potendo DISTINGUERLI, non avrebbe alcun senso
precisare l’uno esser (1)<IDentità-con-sé> e l’altro esser (2)<DIfferenza dal proprio altro>.

Senonché, ritener che siano NON-DISTINGUIBILI presuppone la conoscenza (l’apparire) della


loro DIstinzione…

§.19- Ciò nonostante, che (1) e (2) siano inscindibilmente UNO (= ENTE), non è un esito
DIfferente da quello conseguente dalla loro conclamata DIfferenza.

§.20- Secondo il nomos della DIstinzione, che ESCLUDE che un ente/significato sia (IDentico) al
proprio altro (e quindi DIfferente da sé), qual è appunto la struttura escludente dettata dall’IDentità-
con-sé e DIfferenza dal proprio altro dell’ente, l’ID-con-sé dovrebbe esser appunto *SEMPRE* e
*SOLTANTO* IDentità-con-sé, senza ombra alcuna di DIfferenza, altrimenti SAREBBE GIÀ essa
stessa DIfferenza: altrimenti, cioè, sarebbe DIfferente-da-sé, contravvenendo al suddetto nomos.

§.21- Ma poiché, ripeto, la (1)<IDentità-con-sé> DIfferisce dal suo _ sempre della <IDentità-con-
sé> _ esser (2)<DIfferenza dal proprio altro>, allora la (1)<IDentità-con-sé>:

È GIÀ non-IDentità-con-sé;

È GIÀ DIfferenza-da-sé;

È GIÀ DIfferenza;

È GIÀ altro-da-sé,

cosicché lo stesso ente SIA GIÀ (anche) ALTRO-DA-SÉ, rispettando ed al tempo stesso
contravvenendo gli aspetti (1) e (2) che Severino vorrebbe fossero intrascendibili ed
incontraddittori…

RF
30

6)- UNA DOMANDA SU ‘IDENTITÀ E DIFFERENZA’

Mi è stato scritto:

<<Dici di essere sempre legato alla fede cristiana, mi fa specie però leggere che tenti di
confutare Severino. Ho letto il post dell'identità e differenza e fai notare come in entrambi i
termini ci sia la presenza implicita dell'altro, così nell'ID è presente il DI e viceversa. Qua
scorgi una contraddizione. Corretto??... Io sinceramente fatico a vederla ed infatti ti chiedo
questa cosa: Affermare che l'identità è differente dalla propria differenza, perché è
contraddittorio?... Penso che il bianco sia ID con il bianco e al contempo DI dal nero. Così l'
ID è ID e DI dal DI. Detto questo ti continuerò a leggere con piacere, è un grande esercizio
mentale per me. Ciao Robyyy>>.

Carissimo, chiedi:

<<Affermare che l'identità è differente dalla propria differenza, perché è


contraddittorio?...>>,
ovvero:
perché è contraddittorio che ID sia DIfferente da DI?

Ricordandoti che parlavo di IDentità e DIfferenza in quanto aventi il significato che hanno non
ulteriormente sviluppabile poiché ogni altro li implica (quindi nel loro rapporto o plesso cui
consistono), affermavo che ID e DI NON si DIstinguono, nonostante la loro EVIDENTE
DIstinzione.

Quindi, venendo alla tua domanda, LA RISPOSTA È GIÀ CONTENUTA IN ESSA.

Infatti, nell’affermazione secondo la quale ID è DIfferente da DI, è GIÀ DETTA l’IDentità


aporetica di ID con DI, nel momento stesso in cui appunto affermo che ID è DIfferente-da-DI.

ID, essendo DIfferente-da- (cioè non essendo DI), è sì ID (ID = ID), ma al contempo ID, proprio
DIfferendo da DI, è DI (ID ≠ ID -> ID = DI).

ID è sempre sé _ è sempre ID _ e NON può esser DI;

ma l’aporia consiste proprio nell’esser se stesso da parte di ID il quale deve perciò DIfferenziarsi
da tutto ciò che ID non è, ritrovandosi però esso stesso IDentico a DI, appunto perché, non
essendolo, cioè DIfferendone, allora ID è (già) DI...

RF
31

7)- APORETICITÀ DELL’OPPOSIZIONE ‘ESSERE / NULLA’

Per quanto concerne il cosiddetto piano ontico, la relazione tra enti o DIffer-enti (d’ora in poi: DE)
è relazione tra reciprocamente determinantisi, ognuno dei quali è indicato da Severino come
positivamente identico-a-sé e negazione (o negativo) del proprio altro (il quale ‘altro’, però, sarà a
sua volta un altro positivo, cioè DE), cosicché essa si costituisca come relazione tra un
POSITIVAMENTE positivo (A) ed un NEGATIVAMENTE positivo (non-A: B).

NEGATIVAMENTE positivo rispetto al POSITIVAMENTE positivo preso in esame (A), ma pur


sempre di entrambi positivi trattasi: relazione ad ‘armi pari’, diciamo.

S’era inoltre accennato come per determinare A, sia necessario B (C, D...), ossia l’altro-da-sé di A,
senza il quale A non potrebbe mai venir determinato come A.

Cosicché B sia identità costitutiva di A (e viceversa), seppur come negato _ secondo Severino _, ma
pur sempre come in(mpre)scindibile dal determinarsi di A, altrimenti B sarebbe facoltativo,
marginale, appunto pre-scindibile, ed in tal caso A mai addiverrebbe alla propria identità.

Poiché A è se stesso *SOLTANTO* in forza di B (e viceversa), ponendo A si dovrà porre al


contempo anche B non estrinsecamente bensì COSTITUTIVAMENTE all’IDENTITÀ di A, di
modo tale che essa sia <AB> o <A = B>, cioè che A sia sé-e-l’altro-da-sé IN UNO. Non
semplicemente INSIEME all’altro-da-sé, sebbene anche in base a questa opzione l’identità di A,
nell’essere-insieme-a-B, si strutturi perciò come <AB>: <sé-e-altro-da-sé>.
Senonché, si potrebbe obiettare facendo notare come, in <AB>, A rimanga comunque A e B
rimanga B, salvaguardando così l’identità di ciascuno. Apparentemente. Perché dire che A
rimarrebbe comunque A, indicherebbe l’aver ignorato B, e ignorando B, A non è A, quindi non
sarebbe <A-che-è-determinato-da-B> ossia non sarebbe A.

***

Ora, passando a considerare il fondamento, ovvero la relazione ontologica ESSERE/NULLA ( =


E/N), le aporie si complicano, rispetto al piano ontico.

Essendo posta da Severino come ‘originaria’, essa NON ‘funziona’ come l’anzidetta relazione
ontica, perché soltanto UN polo della relazione è l’assolutamente positivo (E, in quanto inclusivo
della totalità dei DE), mentre l’altro N è l’assolutamente negativo.

Dal momento che *OGNI* relazione (ontica, tra DE) necessita di almeno DUE relazionantisi,
qualora ne mancasse uno, non vi sarebbe più relazione alcuna. Invece N non può né deve
assolutamente _ secondo Severino _ costituirsi come un’altra NEGATIVA POSITIVITÀ (cioè sul
modello di ‘non-A’ quale è B, il NEGATIVAMENTE POSITIVO) in relazione a E, giacché N è
32

l’ASSOLUTAMENTE NEGATIVO o il negativo assoluto, altrimenti ricadremmo nella relazione


ontica tra DUE POSITIVI di cui sopra, caratterizzante ogni aspetto del mondo.

Poiché, però, di N ne abbiamo notizia, esso dovrà necessariamente darsi (si offre già con) una
VESTE POSITIVA, affinché se ne possa parlare come di ciò che, significando ciò che significa, stia
in relazione (di opposizione) con l’E, ed affinché l’E possa valere come E, ovvero come ciò che non
è N.

Ma N, in quanto negativo assoluto, non può dar-si (dare-a-se-stesso) alcunché, quindi neppure una
‘veste positiva’. La quale pertanto le verrà inevitabilmente ‘offerta’ dall’E, determinando così il
significato di N a guisa di un (altro) positivo significare (d’ora in poi: PS) da tradurre come
concretezza semantica cui N consiste, concretezza costituita dalla sintesi di due momenti:

I°)- il momento (incontraddittorio) costituito dall’assoluta negatività del significato ‘nulla’ (N);

II°)- l’altro momento (anch’esso incontraddittorio), ossia l’abito offerto da E: il positivo significare
(PS) del ‘nulla’ N.

Questi due momenti (si ricordi: entrambi incontraddittori, sempre secondo Severino) costituiscono
la concretezza (l’intero) inscindibile di N come significato auto-contraddicentesi (d’ora in poi esso
sarà scritto NC), giacché dalla loro eventuale separazione ricaveremmo un N isolato dal suo PS,
seppur ritenuto autonomamente sussistente, cosicché _ scrive Severino _ <<Se i due termini
vengono separati – se si compie l’ERRORE di separarli […] -, allora il significato ‘nulla’ [N] si
presenta a sua volta come un che di positivo [PS], come un essente [DE]>>, cosicché saremmo
<<costretti […] ad affermare che il nulla [N], essendo significante, È, è un essente [DE], sì che
l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, ossia l’identità di nulla [N] e di essere [E], è [DE]. In
seguito alla separazione, l’aporia del nulla si presenta pertanto come insolubile. Il pensiero è
definitivamente legato all’assurdo della contraddizione>>. – (Essenza del nichilismo; pag. 111).

NB: tralasciando, qui, per ora, il tentativo severiniano di risolvere l’aporia del nulla (vedi sotto,
cap. 10) descritto nel celebre capitolo IV del libro La struttura originaria, ritorniamo
all’opposizione E/N, osservando come essa si costituisca aporeticamente perché tutta interna all’E e
perciò non tra l’E ed il N.

Afferma Severino: <<proprio perché si esclude che l’essere [E] sia nulla [N], proprio affinché
questa esclusione sussista, il nulla [N] è posto, presente, e pertanto è [E]>> - (La struttura
originaria, pag. 209).

N, significando come N, è; è un non-essere CHE È, è un positivo:


<N = N>; <N è N>.

Ma, come il re Mida trasformava in oro tutto ciò che toccava, finendo col non poter più neppure
mangiare, così l’E entifica tutto ciò che ‘tocca’, cioè che pensa/pone. Con la non lieve differenza
che mentre re Mida alla fine poté ottenere da Dioniso l’eliminazione di quel potere onde riuscir così
nuovamente a cibarsi, non altrettanto può accadere all’E, il quale mai potrà cessare di entificare
tutto ciò che viene pensato/significato.
33

Da qui, la strategia severiniana della sintesi dei due suddetti momenti (N + PS) del significato NC,
al fine di risolvere questa aporia (ed altre) determinata dall’entificazione di N.

Con tale ineludibile veste positiva (PS), l’E non riesce pertanto a porre realmente alcunché che gli
stia in rapporto di radicale quanto autentica alterità ontologica (N) senza entificarlo, per cui, così
entificato, N non potrà realmente essere N secondo il valore semantico di assoluta negazione dell’E,
giacché mediante siffatto espediente, l’opposizione di E/N si rivela soltanto una finzione, una messa
in scena, un inganno, una opposizione ‘dipinta’, un ‘sembrare’ tale, in quanto essa è integralmente
interpretata dall’unico attore monoagonista: l’E.

Questi fa tutto da solo, recitando ogni ruolo, anche _ e soprattutto _ quello del suo antagonista più
estremo: N.

Va da sé, pertanto, come tale opposizione si riveli soltanto una illusione ottica, una maschera fittizia
indossata da E credendo di porre la sua relazione a N per poi poter negare che N sia, appunto perché
N è inevitabilmente positivamente significato, perciò è entificato, cioè NC come sintesi di due
momenti entrambi positivamente significanti, quindi entrambi ricompresi internamente a E.

A questo proposito, già risuona la seguente obiezione:


“Non è corretto ritenere che l’E non possa opporsi a N perché non avrebbe niente a cui opporsi,
essendo tale opposizione interna all’E, poiché tale ‘non-aver-niente-a-cui-opporsi’ è precisamente
lo stesso opporsi a N da parte dell’E. N non è un qualcosa, un essente (DE) _ continua l’obiezione _
bensì ne è l’assoluta negazione, perciò ritenere aporetico il fatto che l’E non riesca ad opporsi a N
sol perché non esiste niente (N è il ‘non-esistere-assoluto-di-ogni-qualcosa’) a cui opporsi non è
pertinente _ è sempre l’obiezione che parla _, appunto perché l’opporsi di E a N equivale al non
opporsi ad alcun DE da parte dell’E; quindi, non opporsi a nessun DE è lo stesso (che) opporsi a N
da parte di E”.
Sembrerebbe così che tale relazione oppositiva tra E e N sia incontraddittoriamente salvaguardata.

Tuttavia, la suddetta osservazione si limita a ribadire la presupposizione. Poiché ogni qualcosa


(ogni DE) è un significato ed ogni significato è un qualcosa, come ci ricorda Severino: <<porre un
significato equivale a porre una certa positività, o una certa determinazione del positivo,
dell’essere>> -, allora ‘non aver qualcosa a cui opporsi’ da parte dell’E significa non aver
nemmeno un significato a cui opporsi. Ma non aver un significato a cui opporsi, significa
semplicemente non opporsi tout court, non porre alcun riferimento relazionale; infatti: a quale
significato opporsi? Opporsi a N è non-opporsi!

Ma N non è ignorato, ne stiamo infatti parlando. N è quindi un significato saputo, noto; negativo
quanto si vuole ma pur sempre positivamente significante: la negazione dell’aver significato è un
significato, cioè un QUALCOSA (DE); l’affermazione della propria (di N) assoluta insignificanza è
un significato, un qualcosa (DE).

N, che si vorrebbe equivalesse al ‘non-esser-assolutamente-un-qualcosa’ in virtù del suo esser


negazione assoluta della totalità dei DE (dei ‘qualcosa’), richiede inevitabilmente la (notizia della)
significanza di N, cioè del suo PS, del suo esser qualcosa, richiede perciò che N si strutturi come
34

NC, come esige Severino, ossia costituito da DUE momenti entrambi, però _ ripeto _,
positivamente significanti. Richiede, quindi, il suo _ di N _ esser qualcosa appunto _ seppur come
qualcosa negante d’esser qualcosa _, come di ciò senza il quale, N non sarebbe neppure pensabile,
(pro)-ponibile in rapporto oppositivo a E.

Perciò, se l’opporsi di E a N è un ‘non-opporsi-a-qualcosa’ valevole come lo stesso opporsi a N da


parte di E, allora questo ‘non-opporsi-a-qualcosa’ deve implicare che N _ non essendo qualcosa, ed
ogni ‘qualcosa’ è un significante _ non sia neppure collocato nel rapporto, sia del tutto ignorato. Ma
poiché N è qualcosa di significante, allora l’opposizione tra E e N è opposizione tra due ‘qualcosa’.

Se N vuol _ come deve _ significare N, dovrà necessariamente costituirsi come qualcosa (DE, PS)
di significante, onde in virtù di tale PS _ in virtù di tale esser qualcosa _, si possa asserire che l’E è
lo stesso opporsi a N. In tal caso, E ha un opposto (N) in quanto non gli è opposto, giacché
entrambi sono positivamente dei ‘qualcosa’ significanti.

Si riconferma perciò come reale opposizione possa darsi soltanto tra significati (DE), quindi tra
positivi (DE) sul piano ontico, tra ‘qualcosa’ (DE), nonostante N intenda valere come significante
‘l’assoluto-negativamente-negativo’ o l’assoluta negazione di qualunque significato (il quale,
proprio per tale pretesa, è e resta un qualcosa di positivamente significante, ossia: N è quel DE
consistente nel negativo in quanto tale)...

Essendo così N (NC) tutto interno all’E, rivelandosi illusoria l’opposizione E/N in quanto E si
scinde opponendosi soltanto a se stesso, consegue anche un’ulteriore aporia, nel post che segue...

RF
35

8)- <<IL FONDAMENTO DELLA NON CONTRADDIZIONE È LA


CONTRADDIZIONE>>

§.1- <<È questo il punto che bisogna esplicitare: IL FONDAMENTO DELLA NON
CONTRADDIZIONE È LA CONTRADDIZIONE>>;

così afferma il filosofo MASSIMO DONÀ in un’intervista.

Questo post vuole <<esplicitare>> A MODO PROPRIO quel <<punto>>, continuando


l’approfondimento di quanto già esposto sopra.

§.2- Il com-plesso-IDENTITÀ/DIFFERENZA (= pID) è un’aporetica IDentità-DIfferenziantesi.

Perché aporetica? Ci arrivo.

§.3- Ogni ente/determinazione esprime UN modo del pID e questo, perciò, vive in ogni
ente/determinazione come ciò soltanto grazie al quale una certa determinazione è quella che è:
IDENTICA-a-sé e DIFFERENTE-dal-proprio-altro (così Severino).

§.4- Poiché ogni ente o determinazione è ciò che è (ossia è IDentico-a-sé: lato del pID cui è
l’IDentità, che informa ogni essere-IDentico-a-sé) in quanto è determinato DA ALTRO (ossia è
DIfferente dall’altro: questo è il lato del pID rispondente alla DIfferenza, che informa di sé ogni
essere-DIfferente-da-altro), il pID non ha altro oltre/fuori di sé, cioè non si DIfferenzia da niente,
altrimenti tale ALTRO rientrerebbe nel pID medesimo come (quel lato cui s’è detto essere la)
DIfferenza.

§.5- Pertanto esso, che TUTTO determina, DA NIENTE È DETERMINATO, perciò NON È
VERO CHE TUTTO DETERMINI poiché almeno esso NON È AFFATTO DETERMINATO
DA ALCUNCHÉ, nonostante l’ente sia (o così parrebbe esser) IDentico-a-sé e DIfferente-dal-
proprio-altro in virtù della trascendentalità del pID che informa di sé ogni ente, o in virtù del quale
ogni ente è forma manifesta del pID.

§.6- Non solo è IN-DETERMINATO ma, a differenza di ogni ente del quale il pID funge da nomos,
il pID _ che pure è ente giacché, per Severino, TUTTO ciò che non è (un) nulla è ente _, non
essendo determinato, non sarà perciò neppure IDentico-a-sé né DIfferente-dal-proprio-altro, poiché
si è IDentici-a-sé e DIfferenti-dal-proprio-altro soltanto se _ come negli enti (sempre
nell’intendimento di Severino) _ si è DETERMINATI ossia DIffer-enti da altri enti.

§.7- Pertanto, il pID non è un ente IDentico-a-sé:


36

perché per esserlo, dovrebbe consistere di (o costituirsi della) *SOLA* IDentità, la quale fa di un
IDentico-a-sé SOLTANTO un IDentico-a-sé o un NON-DIfferente-da-sé, cosicché l’ID sia la
negazione della DIfferenza.

Ma, s’è detto, il pID è tale perché è plesso di IDentità *E* DIfferenza; cioè il pID è quell’ente la cui
l’ID coinciderebbe soltanto con UN aspetto di sé, essendo l’altro aspetto _ la DI _ altro
(significato) dall’ID (in quanto ‘DI’ significa NON-ID), quindi altro dall’ID del pID.

Ciò fa del pID un’aporetica NON-IDentità-con-sé o un aporetico ente DIfferente-da-sé; proprio


perché, ripetiamolo, la sua ID consiste nella sola parte cui è appunto l’ID, essendo l’altra parte _
cioè la DI _ altra quindi DIfferente dalla ID (la DI è NON-ID).

L’ID del pID è dunque negata dall’altro lato dello stesso pID, cioè dalla DI.

§.8- Il pID non è un ente DIfferente-dal-proprio-altro:

perché per esserlo, dovrebbe esserci (almeno UN) ALTRO da/OLTRE di sé, ma ciò è impossibile,
in quanto tale supposto ALTRO _ e perciò tale supposto DIffer-ente _ sarebbe nientemeno che
(coinciderebbe con) la stessa DIfferenza già interna al pID…

Da ciò deriva che il pID possa DIfferire soltanto IN-sé e DA-se-stesso:

- DIfferisce IN-sé: in quanto pID, poiché è costituito da contraddittori, pertanto non è ID-entico-a-
sé;

- e DIfferisce da-se-stesso: giacché il suo (del pID) DIfferire è tale soltanto nei confronti di quella
parte di sé cui è l’ID.

§.9- Ricapitolando, il pID non è un ente IDentico-a-sé né DIfferente-dal-proprio-altro (che non


esiste), essendo invece non-IDentico-a-sé (§.7) e DIfferente-da-sé (cfr. §.8).

§.10- Naturalmente, tale pID, individuando-si nell’apparire come specificità di ciascun ente, non è
un DIffer-ente tra e come gli altri enti, bensì è la condizione trascendentale della loro possibilità.

§.11- Cosicché esso sia sì un ente, stando all’accezione severiniana di non-nulla, ma al contempo
non sia ente poiché, come appena detto, non si DIfferenzia dagli enti giacché, se si DIfferenziasse,
esso sarebbe uno specifico ente DE-TERMINATO dagli (e tra) altri enti e non la loro condizione
trascendentale.

§.12- In quanto è loro condizione, il pID è (‘incarnato’ in) ognuno degli enti nel loro essere,
ciascuno, IDentico-a-sé e DIfferente dal proprio altro…

O perlomeno così SEMBRA, ossia SEMBRA che ciascun ente sia IDentico-a-sé e DIfferente dal
proprio altro; infatti, ciò sarebbe vero soltanto se, internamente allo stesso pID, l’ID e la DI
riuscissero a porsi senza immediatamente nonché reciprocamente togliersi!

§.13- Da qui deriva che l’aporeticità appena registrata (ai §§.7 e 8) non sia l’unica a carico del pID;
vi è poi l’aporeticità dei singoli significati _ ID e DI _ INTERNI ad esso.
37

Ossia, non solo il pID non è un ente IDentico-a-sé né DIfferente-dal-proprio-altro ma, ancor
più radicalmente, in esso l’ID e la DI si elidono vicendevolmente a seconda dello ‘sguardo’
(teoretico) a loro rivolto.

§.14- Se, infatti, puntiamo l’attenzione sulla DI, essa potrà esercitare il proprio esser DI soltanto
nei confronti della ID, è ovvio, null’altro essendovi: DI è cioè la DI-da-ID.

La DI deve perciò costituirsi, nel pID, come puramente ed esclusivamente DI giacché, se fosse
anche IDentica-a-sé, sarebbe anche ID cioè il contrario (la negazione) di sé.

Pertanto, la DI non sopporta di esser IDentica-a-sé;

essa DIfferisce (deve DIfferire) dalla ID poiché non la è.

La DI deve perciò DIfferire anche da-se-stessa altrimenti, se non DIfferisse da-se-stessa, la DI


sarebbe la ID, cioè sarebbe IDentica-a-sé, il che, però, è stato appena escluso dalla natura stessa
della DI…

§.15- Se, invece, puntiamo l’attenzione sulla ID, questa _ come detto della DI _, non sopporta di
esser DIfferenza, altrimenti sarebbe negazione di sé come ID; tuttavia, proprio perché non è la DI
ma è soltanto IDentica-a-sé, la ID si DIfferenzia, si ritrova, perciò esser essa stessa DI.

Quindi, la ID deve costituirsi, nel PID, come puramente ed esclusivamente ID giacché, se fosse
anche DIfferente da DI, l’ID sarebbe la DI cioè il contrario (la negazione) di sé.

Pertanto, la ID non sopporta di DIfferire;

essa non deve DIfferire dalla DI poiché non la è.

La ID deve perciò essere IDentica soltanto a se-stessa altrimenti, se non fosse soltanto IDentica-a-
se-stessa, la ID sarebbe la DI, cioè sarebbe DIfferente-da-sé, il che, però, è stato appena escluso
dalla natura stessa della ID…

§.16- Si noti che quanto sin qui detto, lo è stato tenendo ben conto dell’<<essere-insieme>> della
DI e dell’ID nel (e come) pID, che Severino ritiene debba dirsi di OGNI ENTE.

Ciò, al fine di evitare l’IDentitificazione _ la contraddizione _ tra ID e DI.

§.17- Infatti, è proprio perché il PID è l’essere-insieme della ID e della DI senza reciproche
commistioni, sconfinamenti o identificazioni contraddittorie tra di loro che la DI, oltre che rimanere
giustamente DIfferente dall’ID _ è infatti DI _, deve altrettanto ed al contempo restare DIfferente-
da-sé-stessa altrimenti, se fosse IDentica-a-sé, sarebbe IDentità-con-sé, sarebbe la stessa ID: la DI
non è perciò IDentica-a-sé.

§.18- Così, è proprio perché il pID è tale essere-insieme senza reciproche commistioni,
sconfinamenti o identificazioni contraddittorie tra la ID e la DI che la ID non DIfferisce-da-sé _ è
infatti ID _ ma DIfferisce soltanto dalla DI con la quale è insieme.
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Ma, appunto per questo, l’ID, proprio perché è insieme alla DI, se ne DIfferenzia altrimenti, se non
se ne DIfferenziasse, non sarebbe la ID: DIfferenziandosene, la ID è perciò DI, è non-ID; è
DIfferente-da-sé.

§.19- Come detto, individuandosi come ente, possiamo, qui, assumere il pID quale brachilogia del
principio di non contraddizione/identità o, si può anche dire, come ciò che Severino chiama
STRUTTURA ORIGINARIA (= SO) (naturalmente, ciò ai fini del discorso, ammettendo senza
però concedere che essa sia davvero ORIGINARIA/NON-APORETICA).

Cosa recita la SO?

§.20- Recita, in breve (ma senza volerla assolutamente banalizzare), che ogni ente è l’apparire
dell’ORIGINARIETÀ INCONTRADDITTORIA dell’IDentità-con-sé e DIfferenza-dal-proprio-
altro nell’unità del piano Logico e Fenomenologico, cioè dell’originarietà del pID quale struttura
ipersintattica dell’ente in quanto ente e come tale innegabile, giacché la sua negazione comporta
l’auto-negazione della negazione.

§.21- Se, come s’è visto sopra nei §§.4, 5 e 6, il pID non può avere (un) altro-da-sé, come invece ha
ogni ente, cioè non può DIfferenziarsi da alcunché (se non dalla sola ID costituente il pID, ossia
auto-DIfferenziandosi), allora neppure la TOTALITÀ concreta degli enti potrà mai aver alcunché
oltre di sé perché se l’avesse, equivarrebbe a ritenere che il pID possa aver altro fuori di sé, il che è
impossibile appunto perché tale altro, essendo un DIffer-ente, sarebbe la DIfferenza stessa
costituente il pID e quindi non sarebbe altro dalla DIfferenza.

§.22- Parimenti, nel caso della totalità degli enti, l’altro sarebbe un altro ente e quindi già incluso
come PARTE di detta totalità, cosicché non possa affatto costituirsi come altro-da-essa né, perciò,
fungere da determinante della stessa.

§.23- Da ciò si comprende come la SO (severiniana) dell’ente, ossia la TRASCENDENTALITÀ


INTRASCENDIBILE del pID, non abbia ALTRO-da-sé dal quale DIfferenziarsi (mentre, invece,
tale DIfferenziarsi è richiesto per ogni ente, onde DE-TERMINARSI come ciò che esso è).

§.24- E da questo, conseguentemente, si comprenderà anche come IL TUTTO concreto degli enti
reciprocamente DIfferenziantisi faccia capo ad un trascendentale o ad un nomos (= il pID) il quale,
da nulla DIfferenziandosi, smentisce così la sua (del pID quindi della SO) pretesa ORIGINARIETÀ
secondo la quale la ID/DI costituirebbe l’orizzonte inoltrepassabile primo (e ultimo) della
manifestatività dell’ente.

§.25- Si comprenderà, cioè, come l’intrascendibilità del pID o della SO coincida con la sua
trascendibilità; o come la sua verità coincida con la sua erranza.

La sua apoteosi è, al contempo, il suo naufragio.

RF
39

9)- LA CONTRADDITTORIA INCONTRADDITTORIETÀ DEL


PRINCIPIO DI NON CONTRADDIZIONE

Come già detto, l’essere ( = E) è la totalità degli IDentici-a-sé e DIfferenti dal proprio altro ( = gli
enti).

Precedentemente, concludevo prospettando che, rivelandosi illusoria l’opposizione ESSERE /


NULLA ( = E/N) in quanto l’E si scinde in sé opponendosi soltanto a se stesso ( = opposizione tra
enti), sarebbe da ciò derivata un’ulteriore aporia.

L’opposizione E/N ci conduce così dritti dritti al PRINCIPIO DI NON CONTRADDIZIONE


(d’ora in poi: PNC). Esso è il principio della DISTINZIONE/IDENTITÀ, che di tutto dice l’esser-sé
ed il non essere il proprio altro, cosicché il proprio altro DE-TERMINI l’IDentità di ciò rispetto al
quale si dice il proprio altro (e viceversa).

Il PNC è incontrovertibile, perché la sua negazione è auto-negazione della medesima, in quanto


essa, negandolo, si DIfferenzia da ciò che nega, riconfermando così il principio e quindi il dominio
intrascendibile della IDentità/DIstinzione.

Pertanto la verità del PNC è ribadita a spese del negatore, il quale, perciò, NON RIESCE AD
ESSER TALE, ossia NON RIESCE A NEGARE ALCUNCHÉ.

Aristotele, nell’illustrare ciò, richiede innanzitutto che il negatore parli, dica qualcosa di
determinato.

Ovvero, richiede che il negatore ASSUMA il PNC conformandosi ad esso ancor prima che decida
di negarlo. Se vuoi negarlo, devi dire qualcosa di determinato _ invita Aristotele _, altrimenti sei
simile ad una pianta.

E certo, le piante se ne infischiano del PNC; se per negarlo si deve dire qualcosa, allora Aristotele ci
mette nella condizione di ACCETTARE tale principio ancor prima di giocare la partita.
Quindi, la partita è TRUCCATA: Aristotele BARA.

Bara, sì, perché ci dobbiamo PREVIAMENTE CONFORMARE al PNC entrando nel circolo del
linguaggio, ove solo al suo interno possiamo negarlo o affermarlo, poiché in esso e con esso vige
tale affermazione o negazione. Si tratterebbe pertanto di far innanzitutto emergere la PALESE
CONTRADDITTORIETÀ cui è l’ENTE-LINGUAGGIO IN QUANTO TALE, OGNI linguaggio,
non soltanto quello nichilistico, come vuole Severino. Ma questo sarà forse oggetto in un
successivo post; ciò di mostrare quanto il linguaggio sia quell’ENTE che è sé ed al contempo la
negazione-di-esser-sé...

***
40

Tornando a noi, accettiamo comunque l’invito di Aristotele e parliamo, ossia NEGHIAMO il PNC.
È chiaro, Aristotele (e Severino) ha a priori partita vinta, perché negandolo, tale principio risulta
riaffermato.

Ecco perché Aristotele bara. Perché in realtà non è consentita un’autentica negazione del principio,
essa è soltanto APPARENTEMENTE tale, in quanto, essendoci conformati previamente al PNC
assumendo di parlare, ne siamo già ricompresi in qualità di negatori, riconfermandolo, e pertanto
destituendoci dall’esser veramente negatori, non riuscendo a priori a costituirci tali.

Negando il PNC, in realtà non diciamo nulla di DIverso dal suo dettato, infatti lo riaffermiamo pari
pari.

Non riusciamo cioè a porci a distanza da esso, siamo messi nella condizione DI POTERLO
SOLTANTO RIBADIRE, rimanendo così, come accade al Nulla, soltanto degli pseudo-negatori,
dei negatori-dipinti, dei non-negatori bensì soltanto AFFERMATORI del PNC.
Ma allora cosa discende da ciò?
Discende che il PNC, padre e legge di tutte le distinzioni, esso stesso NON SI DISTINGUE DA
ALCUNCHÉ, neppure dal suo negatore, in quanto è preventivamente ricompreso in esso.
Tutto, ogni DE si distingue in nome suo, ma egli stesso NON sottostà alla propria legge.
Dunque P, per il quale tutto si DIstingue, NON si DIstingue da alcunché, poiché ogni DIstinzione
(anche la sua negazione che però è affermazione) avviene al suo interno, ossia sotto il suo nomos.
Pertanto NON È VERO che TUTTO si DIstingue, perché ciò ( = PNC) grazie a cui tutto si
distingue NON si DIstingue, non avendo alcunché d’altro da cui DIstinguersi (appunto perché,
ripeto, ogni DIstinzione avviene all’interno di PNC).
Quindi, PNC quale imperio della DIstinzione, coincide con (non si DIstingue da) il suo (di PNC)
esser inDIstinto;
Il PNC come determinatezza coincide con (non si DIstingue da) l’indeterminatezza;
per cui l’E quale totalità dei determinati coincide con (non si DIstingue da) il non-E;
infatti, anche la DIstinzione mediante la quale l’E dovrebbe DIstinguersi dal non-E, è DIstinzione
tutta interna all’E ossia al PNC, per cui il non-E viene a costituirsi anch’esso come ente cioè come
illusorio oppositore dell’E, esattamente come il suddetto pseudo negatore di P che è prima di tutto
un affermatore di P e quindi soltanto illusoriamente è un suo negatore.
Se A è determinato da B per poter esser A in quanto DIstinto da B _ se il piano ontico è il piano dei
RECIPROCAMENTE determinantisi _, il PNC non è il PNC perché nulla lo determina!
Il PNC è un A-senza-alcun-B, quindi non è A, non è se stesso, non è determinato come PNC.

Ogni significato posto come ‘ALTRO’ dal PNC, in modo da DE-TERMINARLO, è già fagocitato
dalla sua legge che vuole di esso esser un altro significato o DE, riconfermandola, assurgendo così
al suo massimo trionfo ed al contempo, però, assistendo al proprio suicidio, in quanto niente riesce
mai a determinarlo (al modo in cui i DE si determinano reciprocamente).
Ricapitolando: il vero, cui è il PNC, coincide perciò con (non si DIstingue da) il falso;
41

l’apoteosi dell’incontrovertibile (di PNC) coincide con (non si DIstingue da) l’apoteosi del suo
(sempre di PNC) tracollo.
PNC sancisce che l’IDentità sia ben DIstinta dalla DIstinzione, senza al contempo DIstinguersene
affatto…
Tutto questo discorso ha perciò alle proprie spalle _ a monte _ due snodi teoretici fondamentali:
1)- Il contraddittoriamente incontraddittorio piano ontico, espressione di PNC, è paradossalmente
normato dal contraddittorio piano ontologico cui è il PNC o l’E;
2)- sì che la risoluzione dell’aporia del nulla non funzioni.
***
Pertanto, l’opposizione E/N, amministrata dal PNC, È VERA ED È AL CONTEMPO FALSA;
È FALSA ED È INCONTROVERTIBILMENTE VERA:
verità-non-vera e falsità-non-falsa...

Tutto questo si riverbera ‘a cascata’ sulla totalità dei DE, la quale si costituirà perciò come IN-
DETERMINATA, non avendo alcunché, essa, che la possa determinare. Tanto più se è infinita
come vuole Severino.
Neppure N, voluto fungere come l’opposto di E, può determinarla.

N è un’altra maschera di E, per consentir-si di giocare con se stesso, esattamente come il presunto
‘negatore’ del PNC che SEMBRA tale (ma NON lo è!) in Actu signato, non lo (neppure) è in Actu
exercito...

La pretesa che N non si entifichi e valga come il radicalmente opposto di (o all’) E tramite
l’espediente della sintesi dei due momenti contraddicentisi (N e Positivo Significare) cui sarebbe il
significato concreto del nulla (NC), ricorda la pretesa di chi dovesse scrivere:
“QUESTA FRASE NON ESISTE”;

la sua inesistenza è smentita dall’esser “QUESTA FRASE” esistente in quanto posta oramai come
tale, appare come tale, così come N, è già posto con e come il proprio PS quindi come ineludibile
ente (DE)...

Stante che <<porre un significato [PS] equivale a porre una certa positività [DE], o una certa
determinazione [DE] del positivo, dell’essere [E]>> - (Severino, “La struttura originaria”; pag.
211), se ogni PS è un DE, allora N, che è un PS _ come dice lo stesso Severino _, è un DE,
nonostante significhi l’assoluta assenza di significato.

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42

10)- ILLUSORIA ‘SOLUZIONE’ SEVERINIANA DELL’APORIA


DEL NULLA

Per l’impianto teoretico severiniano risulta di fondamentale necessità risolvere definitivamente


l’ADN, visto che secondo Severino l’ESSERE (E) dev’esser posto incontraddittoriamente come
negazione di (esser) NULLA (N): ne va delle fondamenta dello stesso principio di non-
contraddizione, come lo stesso Severino afferma:
<<se il nulla [= N] non è posto, NON PUÒ ESSERE INFATTI POSTO NEMMENO IL
PRINCIPIO DI NON CONTRADDIZIONE: non porre il nulla [N] significa essere
nell’impossibilità di escludere che l’essere [= E] sia nulla. Non solo, MA NON PUÒ ESSERE
POSTO NEMMENO L’ESSERE [E]>>. - (La struttura originaria, pag. 211. Maiuscolo mio).
Molto brevemente, l’ADN si presenta principalmente mediante DUE aspetti:
- il PRIMO è l’ENTIFICAZIONE di N (o identità tra N e E);

giacché parlando di N e significandolo come tale, lo stiamo ponendo come qualcosa di significante
(= Positivo Significare: PS) _ come un ENTE (= DE) appunto _, confliggendo così col suo
significare soltanto N e non E.

Come dice Severino: <<il “nulla” appartiene al significato “essere”; sì che se non porre il nulla [N]
significa non porre nemmeno l’essere [E], non porre l’essere significa non porre nulla. [...]
L’appartenenza del significato “nulla” al significato “essere” è rilevabile IMMEDIATAMENTE; e
così pure, che la posizione di un qualsiasi significato implichi la posizione del significato “essere” è
IMMEDIATAMENTE rilevabile>>;

<<porre un significato [= PS] equivale a porre UNA CERTA POSITIVITÀ, o una certa
determinazione [= DE] DEL POSITIVO, dell’essere [= E]>>. - (Severino: La struttura originaria,
pag. 211. Il maiuscolo è il corsivo nel testo).

- il SECONDO lato dell’ADN è l’INOPPONIBILITÀ tra E e N;

<<se non porre il nulla [N] significa non porre nemmeno l’essere [E]>>, allora, è necessario che l’E
stia in relazione/opposizione con N. Ma N è N (cioè non è un ENTE, un DE); dunque l’E non ha
alcunché con cui relazionarsi/opporsi, e questo toglie anche l’E stesso _ non potendosi opporre a N
_ come negazione-di-N: l’E toglie sé.
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Tutto ciò, ripeto, in estrema sintesi. Per migliori e maggiori chiarimenti, si rimanda ovviamente a:
Severino; La struttura originaria; pagg. 209 – 233.

Per indirizzarsi verso la soluzione dell’ADN, Severino ritiene che il significato di N debba venir
CONCRETAMENTE tenuto fermo come sintesi di DUE MOMENTI DISTINTI:

I° momento (incontraddittorio, secondo Severino), cioè dell’ASSOLUTA NEGATIVITÀ del


significato ‘nulla’ (N);
e il
II° momento (anch’esso incontraddittorio) del POSITIVO SIGNIFICARE (PS) del ‘nulla’ (N).

Questi due momenti (ripeto: ENTRAMBI INCONTRADDITTORI, sempre secondo Severino)


costituirebbero la CONCRETEZZA (l’intero; d’ora in poi: CN) inscindibile di N come significato
auto-contraddicentesi (= CN), giacché dalla loro eventuale SEPARAZIONE ricaveremmo un N
isolato, ritenuto autonomamente quanto erroneamente sussistente, cosicché

<<Se i due termini [N e PS cui è composto CN] vengono separati – se si compie l’ERRORE di
separarli […] -, allora il significato ‘nulla’ [N] si presenta a sua volta come un che di positivo [PS],
come un essente [DE]>>, errore tale da esser <<costretti […] ad affermare che il nulla [N], essendo
significante, È, è un essente [DE], sì che l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, ossia l’identità
di nulla [N] e di essere [E], è [DE]. In seguito alla separazione, l’aporia del nulla si presenta
pertanto come insolubile. Il pensiero è definitivamente legato all’assurdo della contraddizione>>. –
(Severino: Essenza del nichilismo; Adelphi, pag. 111).

Sì che <<la contraddittorietà di quegli elementi […] è dovuta al modo astratto [separato, irrelato]>>
di intenderli. - (Severino: Discussioni intorno al senso della verità. Edizioni ETS, Pisa 2009. Pag.
77).

Pertanto la risoluzione dell’ADN richiede, secondo Severino, che si tenga innanzitutto ben presente
la DISTINZIONE dei due momenti reciprocamente contraddicentisi (N -><- PS) cui consisterebbe
il significato CONCRETO (CN) di N, senza SEPARARLI.

Per il filosofo bresciano, PS ed N devono perciò esser intesi come costituenti una indissolubile
sintesi originaria (= CN) il cui campo posizionale di ognuno dei due momenti sia saputo già
INCLUSIVO dell’altro, pur nella loro DISTINZIONE (peraltro, ciò dicasi per qualsiasi DE in
quanto è DE o in quanto è SIGNIFICANTE).

Dunque, <<OGNI SIGNIFICATO [ogni PS o ogni DE] è una sintesi semantica tra la positività del
significare [PS] e il contenuto determinato [qui, nel nostro caso, tale contenuto è ‘N’] del positivo
significare [PS]>> - (Severino. La struttura originaria; pag. 213. Maiuscolo mio).

Tornando a N, afferma Severino:

<<il nulla [N] è, nel suo significato concreto [CN], la contraddizione del nulla [N] essente [<N =
DE>]; ma questo essere del nulla, che consente al nulla [N] di essere momento, è posto nell’altro
momento [PS] (o come l’altro momento) di quel significato concreto [CN]; e, proprio perché è
44

posto nell’altro o come l’altro momento [PS], al nulla-momento [N] è consentito di essere il
significato in cui è posto soltanto l’assolutamente altro [N] da ogni essere e quindi anche da
quell’essere che è l’essere [E] del nulla [N] come momento>>. - (Ivi, pag. 223).
Pertanto:

<<La contraddizione del non-essere [N] CHE È [E], non è dunque INTERNA al significato nulla
[N]; ma è tra il significato nulla [N], e l’essere o la positività [E/PS] di questo significato [N]. La
positività del significare [PS] è cioè in contraddizione con lo stesso contenuto [N] del significare,
CHE È APPUNTO SIGNIFICANTE come l’assoluta negatività [N]>>. - (Ivi, pag. 213. Maiuscolo
mio);
e:
<<Per il risolvimento della situazione aporetica delineata, si cominci a osservare – MA SI TRATTA
POI DELL’OSSERVAZIONE FONDAMENTALE – che allorché si afferma che la posizione [PS]
del non essere [N] attesta l’essere [E] del non essere, non si può intendere di affermare che ‘nulla’
[N] significhi, in quanto tale, ‘essere’ [E]; ma che il nulla [N], che è significante [PS] come nulla
[N], è [E]>>. - (Severino. Ibidem. Maiuscolo mio).

ESPOSIZIONE CRITICA

§ A ---------------

Seguendo il dettato severiniano, chiediamoci:

davvero ad N sarebbe <<CONSENTITO di essere il significato in cui è posto SOLTANTO


l’assolutamente altro [N] DA OGNI ESSERE [E] e quindi anche da quell’essere che è l’ESSERE
[E, PS] del nulla [N] come momento>>? – (Maiuscolo mio).

I)- ASSECONDIAMO che N sia <<il significato in cui è posto SOLTANTO l’assolutamente altro
[N] DA OGNI ESSERE [E]>>, come vuole Severino.

Di cosa necessita, N, per esser <<SOLTANTO l’assolutamente altro [N] da ogni essere>>?

Necessiterà, come minimo, della presenza di se stesso come significante N.

Infatti, per Severino, anche N è un significato incontraddittorio. È cioè identico-a-sé, sottostà


anch’esso, perciò, alla legge ontologica intrinseca ad OGNI altro significato, ad ogni PS/DE: al DE
in quanto tale. Ogni <<significato equivale [ad una] certa determinazione del positivo [DE],
dell’essere [E]>> - (Severino: La struttura originaria, pag. 211).

Detto questo, è chiaro che, se N significasse <<SOLTANTO l’assolutamente altro [N] da ogni
essere E QUINDI ANCHE [l’assolutamente altro] DA QUELL’ESSERE CHE È L’ESSERE [E,
45

PS] DEL NULLA [N] COME MOMENTO>> (maiuscolo mio), allora <<questo essere [E] del nulla
[N]>> che <<consente al nulla [N] di essere momento>> NON POTREBBE VENIR <<posto
nell’altro momento [PS] (o come l’altro momento) di quel significato concreto [CN]>>, come vuole
invece Severino, perché se così fosse, N NON POTREBBE VALERE NEPPURE come significante
<<SOLTANTO l’assolutamente altro da ogni essere E QUINDI ANCHE DA QUELL’ESSERE
CHE È L’ESSERE [E, PS] DEL NULLA [N] COME MOMENTO>>, appunto perché il valere
come <<l’assolutamente altro [N] da ogni essere [E]>> spetterebbe _ come sostiene Severino _
all’altro momento (PS), non a N.

Infatti, ripeto: <<questo essere [E] del nulla [N], che consente al nulla [N] di essere momento, È
POSTO NELL’ALTRO MOMENTO [PS] (O COME L’ALTRO MOMENTO) DI QUEL
SIGNIFICATO CONCRETO [CN]>> (maiuscolo mio).

Ma allora, N cosa significherebbe, se *TUTTO* _ di N _ è posto NELL’ALTRO momento?

Se cioè N significa <<SOLTANTO l’assolutamente altro [N] da ogni essere>>, e se al contempo,


l’esser significante <<l’assolutamente altro [N] da ogni essere [E]>> appartiene al secondo
momento o PS, allora ad N non spetterà NEPPURE di valere come <<l’assolutamente altro da ogni
essere>>!

II)- Ponendo N come momento distinto dal suo PS, NON viene <<posto SOLTANTO
l’assolutamente altro [N] da ogni essere e quindi anche da quell’essere che è l’ESSERE [E] del
nulla [N] come momento>>.

Perché <<questo ESSERE DEL nulla>> _ che secondo Severino dovrebbe consentire <<al nulla
[N] di essere momento>> di un ESSERE (PS) <<posto nell’altro momento (o come l’altro
momento) di quel significato concreto [CN]>> _, essendo appunto <<ESSERE>> *DEL*
nulla N ed in quanto <<OGNI SIGNIFICATO [ogni PS] è una sintesi semantica tra la positività del
significare [PS] e il contenuto determinato [qui è ‘N’] del positivo significare [PS]>> - (Severino.
La struttura originaria. Maiuscolo mio), NON <<consente>> N <<soltanto>> come
<<l’assolutamente altro [N] da ogni essere>> perché questo <<assolutamente altro>> _ come ha
ribadito lo stesso Severino _ essendo a sua volta ANCH’ESSO incontraddittoriamente significante,
è ANCH’ESSO un PS che dunque TOGLIE quel <<soltanto>>, perché il significare
<<l’assolutamente altro [N] da ogni essere>> è già quanto basta per EVITARE che esso sia
<<soltanto>> tale.

Infatti, il significare <<l’assolutamente altro [N] da ogni essere>> necessita soltanto di sé stesso in
quanto è il PS di sé stesso, senza attendere dall’altro momento la propria significanza. Essa è già
TUTTA inscritta in N.

CN risulta esser _ nell’ottica severiniana _ costituito da *DUE* distinti PS:

- PS1: è il PS cui è N, significante (secondo Severino <<soltanto>>) <<l’assolutamente altro [N] da


ogni essere [E]>> (il primo momento della sintesi-CN),
46

- PS2: è il PS di N (l’altro momento della sintesi), cioè è l’<<essere [E] del nulla [di N o PS1]>>.

Ma a questo punto è chiaro che PS2, cioè il II° momento, si riveli esser DEL TUTTO
SUPERFLUO, essendovi già PS1 a farne le veci in tutto e per tutto!

Tanto più che PS2 e PS1, essendo ENTRAMBI SIGNIFICATI significanti incontraddittoriamente,
non si distinguono affatto in quanto significati-incontraddittori, sì che la sintesi cui è CN sia
innanzitutto una sintesi INCONTRADDITTORIA, piuttosto che AUTO-CONTRADDICENTESI,
perché se è vero che PS1 significa <<l’assolutamente altro da ogni essere>> (= l’assolutamente
altro da PS2) ove PS2 confliggerebbe con PS1, è altresì vero che tale conflitto PRE-suppone la
NON-CONFLITTUALITÀ dei due significati in quanto, ripeto, ENTRAMBI PARIMENTI
INCONTRADDITTORI.

Piuttosto, se in CN conflitto v’ha da essere, dovrà realizzarsi tra la l’urgente PRETESA di


mantenere N (PS1) incontaminatamente ALTRO da ogni DE (da PS2) e l’inevitabilità
dell’entificazione di PS1 N...

Pare comunque evidente come la funzione di PS2 sia a questo punto già svolta da PS1 N, perché se
è vero che per Severino nel PS1 è posto <<SOLTANTO l’assolutamente altro da ogni essere>>, è
altrettanto vero che la posizione di PS1 è già o fa ab origine le veci di PS2, cosicché quel
<<SOLTANTO>> risulti davvero fuorviante, ritrovandosi perciò _ PS1 _ già inclusivo di PS2.

Se PS1 dicesse <<SOLTANTO l’assolutamente altro [N] da *OGNI ESSERE* e quindi>> dicesse
<<anche [l’assolutamente altro] da quell’essere che è l’ESSERE [PS2] DEL NULLA [PS1] COME
MOMENTO>>, allora PS1 dovrebbe dire il proprio esser <<l’assolutamente altro>> ANCHE da
PS1 ovvero DA SE STESSO in quanto è comunque significante (quindi rientra in <<OGNI
ESSERE>> circa il quale PS1, in quanto significato, NON sarà perciò davvero <<l’assolutamente
altro [N] da OGNI ESSERE>>!).

Appunto perché PS1 è comunque anch’esso un significato (è un PS) e come tale non può non
ricadere inter(n)amente nell’E, poiché se così non fosse, N (PS1) non potrebbe neppur venir
pensato/concepito.

In PS1, distintamente da PS2, N SI DICE (DICE-SÉ) DIS-DICENDO-SÉ. A questo punto, PS2 si


riassorbe in PS1, rendendosi (PS2) superfluo...

Infatti, sarà mai possibile che un qualsiasi significato sia SCISSO o sia TUTT’ALTRO DAL
SIGNIFICARE che lo pone?

La risposta la fornisce Severino:

<<PORRE UN SIGNIFICATO [PS1, PS2...] EQUIVALE A PORRE una certa positività, o una
certa determinazione [DE] del positivo, DELL’ESSERE [E]>> - (La struttura originaria, pag. 211.
Maiuscolo mio).

Severino pensa di riuscir a mantenere N (PS1) ‘immacolato’ nel suo significar <<SOLTANTO
47

l’assolutamente altro [N] da ogni essere [E]>>; senonché, è proprio tale pretesa a ribaltarsi nella
propria negazione, perché l’esser PS1 da parte di N entifica N, impedendogli di valere come
<<l’assolutamente altro>>, se non supponendo che il suo _ di N _ PS sia posto come altro/secondo
momento, in qualche modo ‘esterno’ a PS1. Ma questa ‘mossa’ pare lasciarsi sfuggire come N sia
già esso il PS2-di-sé-stesso, sia cioè PS1 e 2 insieme.

N vive di ‘vita’ propria come N-entificato...

III)- Inoltre, si riconsideri meglio il SECONDO MOMENTO (PS2) di N (PS1).

Esso, ripetiamoci, nell’intendimento di Severino dovrebbe esser ciò che costituirebbe l’<<ESSERE
[E] del nulla [N]>>, permettendo così a N di essere <<SOLTANTO l’assolutamente altro [N] da
ogni essere [E]>>.

Ma poiché PS2 È il momento *DI* N (PS1), com’è possibile ritenere che ciò lasci N nel suo valere
SOLTANTO come <<l’assolutamente altro [N] da ogni essere [E]>>?

Non dovremmo piuttosto concludere che PS2 entifichi PS1 N proprio in forza dell’esser, PS2,
l’<<ESSERE [E] *DEL* nulla [N, PS1]>>? - (Maiuscolo e asterischi miei).

Certo, PS1 intende significare <<l’assolutamente altro [N] da ogni essere [E]>> e così entrare in
contraddizione con PS2.

Tuttavia, come potrebbe riuscirci senza al contempo ENTIFICARSI, in quanto PS1 N è POSTO-
(PS2)-COME-TOGLIENTESI-(PS1) e al contempo, tale TOGLIENTESI-(PS1) è POSTO-(PS2)-
COME-PONENTESI-(PS1)?

Il toglientesi-(PS1)-POSTO-(PS2)-come-PS1 è lo stesso ESSERE-PS2–da-parte-di-PS1, perché


PS1 è fatto ESSERE da PS2 onde poterlo dire/significare, derivando così l’entificazione-del-
toglientesi-(PS1) effettuata dal SUO-(di PS1)-PORSI-(PS2).

***

§ B ---------------

Severino: <<Per il risolvimento della situazione aporetica delineata, si cominci a osservare – MA SI


TRATTA POI DELL’OSSERVAZIONE FONDAMENTALE – che allorché si afferma che la
posizione [PS1] del non essere [N] attesta l’essere [E; PS2] del non essere [N; PS1], non si può
intendere di affermare che ‘nulla’ [N; PS1] significhi, in quanto tale, ‘essere’ [E]; ma che il nulla
[N; PS1], che è significante [PS2] come nulla [N; PS1], è [E; PS2]>>. - (Severino. Op. Cit.
Maiuscolo mio).

Richiediamoci:
48

davvero, dunque, se <<la posizione [PS1] del non essere [N] attesta l’essere [E; PS2] del non essere
[N; PS1]>>, allora <<l’osservazione fondamentale>> consisterebbe nel non poter <<intendere di
affermare che ‘nulla’ [N; PS1] significhi, in quanto tale, ‘essere’ [E]; ma che il nulla [N; PS1], che è
significante [PS2] come nulla [N; PS1], è [E; PS2]>>?

Quindi, che lo <<è>> concerna esclusivamente PS2 <<SIGNIFICANTE [PS2] COME nulla [N;
PS1]>> e non COINVOLGA INTERAMENTE anche PS1/N stesso (in quanto viene significato
*da* PS2)?

Vediamo.

Significando come N, tale significare _ in quanto è il soggetto di un predicato (PS2) che è il *SUO*
(*di* PS1) predicato _, non può perciò stesso sottrarsi dall’esser ‘qualcosa’ (DE) circa il quale si
predica un certo, determinato ‘ESSERE-QUALCOSA’, per quanto negativo o in-determinato sia,
ma che appunto: *È*.

Certo, NON si afferma <<che ‘nulla’ [N; PS1] significhi, in quanto tale, ‘essere’ [E]>>; ma neppure
_ come vorrebbe Severino _ che <<il nulla [N; PS1], che è significante [PS2] come nulla [N; PS1],
è [E; PS2]>>, perché N <<significante [E; PS2] come nulla [N; PS1]>> è già l’esser E/PS2 da parte
di N/PS1.

Se PS2 è il predicato *DI* N (PS1), allora questo predicato ENTIFICA N in virtù del suo (di PN2)
stesso predicaLO, dal momento che lo <<È>> di <PS1 È PS2> indica che PS1 <<È>> fatto
ESSERE dal *SUO* predicato-PS2: <N È N>.

Cosicché PS2 si predichi (dica l’ESSERE) *DI* PS1, *DI* N.

Dicendo che N è N, si dice che a N spetta l’E, infatti N-è-N, non: è-non-N.

Non a caso lo <<È>> testimonia sempre l’ESISTENZA di ciò del quale funge da copula...

Pertanto sì, N (PS1) vale come <<l’assolutamente altro [N] da ogni essere [E]>>, MA AL
CONTEMPO tale ‘valere’ o tale <<assolutamente altro>> ENTIFICA-SE-STESSO in quanto PS1
*È* (è quindi IDENTICO-A-SÉ come) <<l’assolutamente altro [N] da ogni essere [E]>>.

N è un DE.

Ricapitolando: l’osservazione fondamentale di Severino secondo cui

<<allorché si afferma che la posizione del non essere [N] attesta l’essere del non essere, non si può
intendere di affermare che ‘nulla’ [N] significhi, in quanto tale, ‘essere’ [E]; ma che il nulla, che è
significante come nulla, è>> _ (cioè si deve intendere che ad esser E, non è N bensì il suo _ di N _
significare <<come nulla [N]>>, ovvero che ad essere E è il PS2 di N, non N in quanto N o in
quanto PS1) _, non è accettabile perché N, oltre a significare di per sé stesso in quanto tale, cioè è
<<significante [PS1] come nulla [N]>>, dice al contempo anche il suo stesso ESSERE (=
49

NEGAZIONE dell’altro da sé = identico a sé in quanto significante come) N, ossia dice che N è un


DE perché il suo essere ‘negazione-di-’ è il suo stesso essere <<significante [PS1] come nulla
[N]>>, onde per cui il suo PS non gli rimane ‘esterno’, diciamo così, bensì è N stesso il proprio PS
(= PS1) o anche: è il PS2-di-se-stesso.

Tutto ciò è tanto più vero quanto più è ritenuta decisiva, da Severino, la sua stessa EQUAZIONE tra
‘significato’ e ‘DE’, secondo la quale

<<porre un significato [PS] equivale a porre una certa positività [DE], o una certa determinazione
del positivo, dell’essere [E]>>. - (La struttura originaria; pag. 211).

***

§ C ---------------

L’E (concretamente inteso come totalità dei DE) secondo Severino è identità con sé _ <E = E> _ in
virtù del suo esser NEGAZIONE de (differente da) l’altro-da-sé cui sarebbe N. Se l’E non
NEGASSE di esser N, l’E non sarebbe neppure E. L’E è il positivo in forza del (unitamente al) suo
esser NEGAZIONE di esser-altro-da-sé, altrimenti l’E non sarebbe neppure identico a sé. Il
medesimo dicasi del DE in quanto DE. La NEGATIVITÀ, perciò, è parte integrante/tutt’uno con la
positività dell’E (del DE) tale che, se vale lo spinoziano Omnis determinatio est negatio, varrà
altrettanto l’Omnis negatio est determinatio ALMENO _ anzi, ESCLUSIVAMENTE _ per i
significati sottoposti al nomos escludente (= il principio di non-contraddizione) che regola il
NOSTRO orizzonte della identità/differenza.

N (cioè il ‘NON-E’), significando incontraddittoriamente N _ infatti: <N = N>, quindi essendo


NEGAZIONE di essere E, appunto perché N è N e non è (cioè NEGA di essere) ‘non-N’ _,
UBBIDISCE perciò alla legge ontologica dell’E che vuole ogni DE esser ‘identico-a-sé’ e
‘NEGAZIONE-d’esser-il-proprio-altro’, giacché <<‘nulla’ [N] significa ‘nulla’ [N] e non ‘essere’
[E])>> (Severino).

Quindi N _ essendo N = N _ è INCONTRADDITTORIAMENTE NEGANTE di esser altro da sé.

L’asserzione secondo la quale N non possa esser un DE perché significa soltanto ‘l’assoluto-non-
DE’ e non significa DE, non riesce a togliere che N, ESSENDO N ovvero ‘NEGAZIONE-di-E’,
ubbidisca quanto meno alla PROPRIA VOCAZIONE consistente, essa, nel suo ESSERE *IL*
negativo.

N è cioè quel paradossale DE consistente nell’ESSERE *IL* NEGATIVO in quanto tale.

‘N è N/nega-E’, per cui:

N è un DE.

Per non sottostare alla legge della quale ogni DE è espressione, N non dovrebbe aver NIENTE in
50

comune con essa, dovrebbe pertanto NON esser neppure ‘NEGAZIONE-DI’. Ma la pretesa di non
avere ‘niente-in-comune’ con tale legge si traduce nuovamente _ per N, essendo NEGAZIONE
(quindi daccapo UN NEGATIVO = DE) _ nell’aver QUALCOSA in comune con essa…

Anche in questo caso, N _ qualora cioè lo volessimo intendere come ‘non-negazione’ di alcunché,
quindi presuntamente non assoggettato alla legge dell’E che vuole ogni DE esser un
NEGATIVO/un NEGANTE (= un differente) _, sarebbe ugualmente ‘NEGAZIONE-di-esser-
negativo’, ‘NEGATIVO-del-negativo’ = DE…

N è un DE…

Ma la replica severiniana osserverà nuovamente come tale ‘essere-NEGAZIONE’ da parte di N sia


però detta (significata) DALL’ALTRO momento di CN, ossia da PS2.

Ci arriviamo...

***

§ D ---------------

Severino afferma che <<la distinzione tra il significante [PS] e il non significante [non-PS] è la
stessa distinzione tra l’essere [E] e il niente [N]>>. - (Essenza del nichilismo, pag. 188, in nota).
Pertanto <<il niente [N]>> deve costituirsi come <<non significante [come ‘non-PS’]>>.

Infatti, è allo scopo di mantenere tale esigenza che Severino precisa che

<<questo essere [E] del nulla [N], che consente al nulla [N] di essere momento [il I°; PS1], è posto
nell’altro [nel II°] momento [PS2] (o come l’altro momento) di quel significato concreto [CN]; e,
proprio perché è posto nell’altro o come l’altro momento, al nulla-momento [N; PS1] è consentito
di essere il significato [il PS] in cui è posto soltanto l’assolutamente altro da ogni essere [N] e
quindi anche da quell’essere che è l’essere [il II° PS: PS2] del nulla [N] come momento>> - (La
struttura originaria; pag. 223), tentando così di mantenere N come puramente ed esclusivamente
‘non-PS’ o ‘non-DE’, in quanto significante <<il non significante [non-PS] (il non essente)>>
altrimenti, sarebbe lo stesso N a costituirsi ‘contraddittorio’-in-sé’, anziché come
incontraddittoriamente significante, secondo il dettato di Severino.

Senonché:

<<[N] il non significante [= non-PS o PS1] NON È SEPARATO dal suo essere significante [PS2]
come il non significante [non-PS o PS1]: è solo nel suo ESSERE significante [PS2] che il nulla
[non-PS o PS1] significa l’assolutamente altro dal significato (l’assolutamente altro dall’essere)>>.
- (La struttura originaria; pag. 222).

Ma CHE COS’È, quindi, quel <<SUO [di N; di non-PS; di PS1] ESSERE significante [essere
PS]>>, tale da far sì che N significhi <<‘l’assolutamente altro dal significato’ (‘l’assolutamente
51

altro dall’essere’) [non-PS]>>?

Se N <<non è separato dal SUO essere significante [dal *SUO* _ di PS1 _ esser PS2]>>, allora N
(il non-PS o PS1), PROPRIO PERCHÉ NON NE È SEPARATO (!), non sarà neppure possibile
evitare il suo rapporto di CO-IMPLICAZIONE con ciò da cui <<non è separato>>, cioè <<dal suo
essere significante [PS2] come il non significante [non-PS o PS1]>>, onde tale non esser
significante (tale non-PS) sia realmente quanto paradossalmente ‘TUTT’UNO’ con ciò grazie a cui
esso (il non-PS: N) è significante (è PS2 = DE).

Di N (di non-PS), non si riesce neppure a PENSARNE l’effettiva ‘purezza’ (= ab-solutezza: essere
cioè sciolto, libero da qualsivoglia ‘contaminazione’ con l’E), giacché se lo fosse, il non-PS (PS1) _
volendolo distinguere da PS2 _, verrebbe comunque PENSATO COME SIGNIFICANTE ‘non-PS’,
ed in quanto tale, verrebbe al contempo smentita la pretesa di significare puramente ‘non-PS’
(puramente N); come a dire che il non-PS presuppone, non potendone fare a meno, il *SUO* PS2;
come a dire che N, non potendone fare a meno, presuppone il *SUO* E…

‘N-presupponente-l’E’ è un N impossibilitato a non entificarsi, per quanto negativamente significhi


rispetto all’E cui è PS2 (il II° momento), risulta pur sempre un DE in quanto È momento di se
stesso (PS1), prima ancora che di PS2, anzi, a ben vedere senza alcun bisogno di quest’ultimo,
giacché N (PS1) è ‘tutt’uno’ col proprio ‘dirsi-disdicendosi’, in inestricabile commistione col
proprio PS1 (DE) cui è la posizione del significato ‘N’.

La distinzione (interna a CN) tra PS2 e non-PS è perciò sempre INTRINSECA ALL’ORIZZONTE
del PS2 (dell’E), giacché N, ritenuto non-PS, è comunque quel PS1 ESSENTE (essendo
significante) LA NEGAZIONE del proprio valere come puro N incontaminatamente da ogni DE.

Pertanto, ancora una volta, neppure la sola DISTINZIONE si dimostra capace di salvaguardare la
purezza di N (di PS1 o non-PS) dal costituirsi come già ‘PS1 = DE’.

In altre parole, si può dire che, siccome <<il non significante [non-PS] NON È SEPARATO dal suo
essere significante [PS2] come il non significante [non-PS o PS1]>>, ecco allora che N, in quanto
<<significante [PS2] come il non significante [non-PS]>> _ in quanto cioè, ripeto, esso è <<il non
significante [non-PS]>> ovvero la ‘negazione-del-significare’ _, NON È SEPARATO dal suo
SIGNIFICARE N, quindi dal suo esser NEGAZIONE ( = DE); cosicché ‘l’E-di-N’ (il <<suo essere
significante [PS2]>> congiuntamente al suo stesso esser NEGAZIONE DEL SIGNIFICARE) è ciò
che fa sì che il suo essere <<non significante [non-PS]>> _ il suo esser N o NEGAZIONE _, sia un
DE, in quanto il DE è tale perché NEGA di esser il proprio altro.

Non è perciò accettabile la dichiarazione severiniana secondo la quale

<<La contraddizione del non-essere [N] che è [E], non è dunque interna al significato nulla [PS1];
ma è tra il significato nulla [N; PS1], e l’essere [E] o la positività [PS2] di questo significato [N;
PS1]>>. – (La struttura originaria; pag. 213).

Inoltre si ritorni per un momento al seguente brano:


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<<questo essere [E] del nulla [N], che consente al nulla [N] di essere momento, è posto nell’altro [il
II°] momento [PS2] (o come l’altro momento) di quel significato concreto [CN]; e, proprio perché è
posto nell’altro o come l’altro momento [PS2], al nulla-momento [PS1] è consentito di essere il
significato in cui è posto soltanto l’assolutamente altro da ogni essere [N] e quindi anche da
quell’essere che è l’essere [PS2] del nulla [PS1] come momento>>. - (Severino. La struttura
originaria).

Ecco nuovamente affacciarsi, per Severino, la pressante esigenza di mantenere N ‘incontaminato’


da ogni PS che non sia quel PS1 consistente nel significare <<SOLTANTO l’assolutamente altro da
ogni essere>>.

Tuttavia, domandiamoci: davvero l’esser-PS1 da parte di PS1 non lo ‘contamina’ già con (una parte
de) l’E?

E poi, quel <<SOLTANTO>> mette tutto a posto?

Soprattutto: l’esigenza di cui sopra è REALMENTE (o incontraddittoriamente) ESEGUIBILE?

L’abbiamo già visto e ribadirei di no, perché significare <<SOLTANTO>> è significare L’ESSER
<<l’assolutamente altro da ogni essere [N]>>, e questo ESSERE <<l’assolutamente altro da ogni
essere [N]>> è quanto basta per ritrovarsi <<l’assolutamente altro da ogni essere [N]>> COME
ESSERE (DE).

Perciò <<questo essere [E] del nulla [N; PS1], che consente al nulla [N] di essere momento, è
posto>> IN PS1, e NON <<nell’altro [il II°] momento [PS2] (o come l’altro momento) di quel
significato concreto [CN]>>!

Soffermiamoci ancora.

Ormai sappiamo come per Severino l’auto-contraddittorietà di CN sia data da PS2 (il II° momento)
il quale contraddice il significato-N (il I° momento: PS1) che significa l’assoluta negatività, detta
tutta da PS2.

Per questo motivo, egli pone sì N come significato (= PS1) anch’esso incontraddittorio, ma al
contempo, lo pone SCEVRO da ogni pur minima forma di significanza (di ogni PS) e di esistenza
(di DE), ricadendo queste, TUTTE su PS2 quale II° momento di CN.

Ed N è così tanto scevro da ogni possibile significanza ed esistenza che, s’è già visto,

<<la distinzione tra il significante [PS2] e il non significante [non-PS o PS1] è la stessa distinzione
tra l’essere [E] e il niente [N]>>. - (Severino; Essenza del nichilismo).

Senonché, la convinzione che <<il significante [PS2]>> equivalga all’<<essere [E]>> e che il non
significante (il non-PS, cioè il PS1) equivalga al <<niente [N]>>, deriva dal PREsupposto che la
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sintesi-CN riesca a dire N (PS1) senza entificarlo...

Se <<l’affermazione che il nulla [N] È nulla [N] (la quale esprime in forma positiva che il nulla non
è) [...] come tutto ciò che è necessario affermare del nulla [N], appartiene a quel positivo significare
[al PS2 quale II° momento]>>,

allora N non potrà neppure valere come significato (= PS1) incontraddittorio, significante
‘l’assenza-di-significato’ (significante il non-PS o PS1), giacché per così valere, deve almeno _
esso, PS1 distintamente da PS2 _ poter significare ‘l’assenza di significato’, SMENTENDO che
<<TUTTO ciò che è necessario affermare del nulla [N]>> appartenga <<a quel positivo significare
[al II° momento: PS2]>>!

Cosicché, per Severino, N (distintamente dal II° momento PS2) deve:

1a)- significare (cioè esser un PS) incontraddittoriamente <<il non significante [il non-PS]>>;

e INSIEME DEVE:

2a)- DELEGARE TUTTO il suo significare al secondo momento (PS2),

giacché qualora N (PS1) significasse ‘in proprio’ (e come minimo) <<il non significante [il non-
PS]>> o <<soltanto l’assolutamente altro da ogni essere [N]>>, allora sarebbe QUESTO significato
(cioè QUESTO PS1) a valere appunto come ‘PS2-di-se-stesso’, come ‘PS2-e-PS1-in-uno’, NON
UN ALTRO MOMENTO rispetto a esso tale da lasciare PS1 ‘intoccato’ dal tocco entificante di
PS2; ciò, significa fare *di* N un DE.

Praticamente, 1a) e 2a) sono due posizioni letalmente escludentisi, incomponibili tra loro, infatti:

1b)- o N possiede già in sé un qualche minimale significato incontraddittorio come vuole Severino
(che è appunto: PS1).

Ma se così fosse, N, significando incontraddittoriamente <<SOLTANTO l’assolutamente altro da


ogni essere [N]>> (quindi come ‘negazione-dell’altro-da-sé’), si costituirebbe esso stesso come il
PROPRIO PS2, contrariamente, perciò, a quanto voluto dal filosofo bresciano;

oppure:

2b)- se TUTTO il significare di PS1 _ e sottolineiamo *TUTTO*, perché è Severino ad averlo così
puntualizzato _ è dovuto unicamente all’altro momento (PS2), allora N non significa neppure
incontraddittoriamente <<SOLTANTO l’assolutamente altro da ogni essere [N]>> o <<il non
significante [il non-PS]>>, giacché per poter significare ‘incontraddittoriamente’, N deve
‘significare’ QUALCOSA. Ma se la significanza di tale ‘qualcosa’ fosse *TUTTA* a carico di PS2,
allora questi si ritroverebbe a non poter predicare alcunché, dal momento che N non significherebbe
incontraddittoriamente NEPPURE <<SOLTANTO l’assolutamente altro da ogni essere [N]>>: N
(PS1) non esisterebbe nemmeno come soggetto di PS2.
54

Da parte mia, ritengo che N (PS1) sia ESSO STESSO CONTRADDITTORIAMENTE (non
‘incontraddittoriamente’, come vuole Severino) significante (PS1/2), e proprio per questo si
costituisce come paradossale DE, ove cioè il suo ESSERE è detto di N e da N, non del né dal PS2
come II° momento DISTINTO (pur RELATO a PS1) di modo che N (PS1) si costituisca come
significato incontraddittorio.

Insomma: dire/porre N (PS1) È AL CONTEMPO dire/porre ‘L’ESISTENZA-


DELL’INESISTENTE’.

N (PS1) è sì DISTINTO in se stesso; il significato (il PS1) cui è N è al contempo la posizione


(l’apparire) della sua contraddittoria entificazione:

se a tutta prima potrebbe sembrare di aver, qui, inutilmente effettuato la medesima distinzione
severiniana, solamente su un altro piano, cioè in N (PS1), anziché _ come in Severino _, in CN,
allora faremmo notare che la distinzione severiniana è volta a mantenere N (PS1) alieno da ogni
‘commercio’ con E, mentre PS1 evidenzia invece la sua _ di PS1 _ stessa distinzione, il che
comporta comunque, in entrambi i casi, gli aporetici risultati discussi, ai fini della considerazione
di N…

Insomma, ovunque ci voltiamo, comunque la si voglia mettere, l’aporeticità della questione è tale
da farci ogni volta entrare in un vero e proprio VICOLO CIECO...

Comunque ed in ogni caso, N, che sia posto come ‘incontraddittoriamente’ significante, come vuole
Severino, oppure che sia posto come ‘contraddittoriamente’ significante, si costituisce comunque
CONFORMEMENTE alla supposta solo-incontraddittoria ‘LEGGE’ ontologica che ‘governa’ ogni
DE, rivelandosi perciò un DE al pari di qualsiasi altro, nonostante la sua conclamata
peculiarità/paradossalità, non tale, però, da far di N SOLAMENTE l’assolutamente-altro-dai-DE.

In entrambi i casi <<si è costretti […] ad affermare che il nulla [N], essendo significante [PS1], È, è
un essente [DE], sì che l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, ossia l’identità di nulla [N] e di
essere [E], è>>…

Resterebbe ora da rispondere ad un’ulteriore obiezione, e cioè:

Se N non può non entificarsi, allora, per poter affermare la contraddittorietà tra N ed il suo esser
ente (DE o PS2), tale N dovrà pur continuare a valere come PURO N, non contaminato da
entificazione, altrimenti, quale contraddizione potremmo mai rinvenire?

Certamente N è POSTO come significato valente L’ASSOLUTAMENTE-ALTRO-dall’E; tuttavia,


il *RISULTATO* di tale posizione ce lo *RESTITUISCE* come N-entificato, cioè come sintesi _
al contempo _ di ‘POSIZIONE-di-N-PURO-e-TOGLIEMENTO-della-PUREZZA-di-N’,
toglimento che restituisce N-ENTIFICATO.
55

D’altronde, possiamo pensare/dire/porre anche il PURO ESSERE, cioè l’E (parmenideo) privo dei
DE. Infatti ne stiamo parliamo, lo stiamo cioè dicendo/significando.

Lo possiamo quindi porre, certo, senza che per questo _ sempre rimanendo all’interno della teoresi
severiniana _ esso (l’E PURO) riesca EFFETTIVAMENTE a porsi o a porsi-senza-entificarsi
NELLA e/o COME moltitudine dei DE: entificazione in cui incappa anche N NONOSTANTE la
‘soluzione’ severiniana dell’ADN...

Perciò non si dà alcun ESSERE PURO (o meglio si dà ma come togliente-si), se non per
ritrovarceLO entificato nei/come DE.

Neppure come E-DISTINTO-dai-DE; tale distinzione è soltanto linguistica-nominale, non


‘vivendo’ l’E neppure come DISTINTO da ciò (dai DE) di cui esso costituisce il loro E.

Ma allora che ne è dell’E, inteso sia come UNIVERSALE ASTRATTO o FORMALE sia come
UNIVESALE CONCRETO cioè come <<individuazione di sé medesimo>> (Severino: La
struttura...; pag. 200)?

Curiosissimo ‘paradosso’:

I DE sono tali in forza di ciò (l’E) che distintamente da essi NON SI DÀ MAI, perché se si desse,
sarebbe:
o ALTRO (= ENANTION) rispetto ai DE;
o UN altro (= ETERON) DE tra altri DE.

Non essendo però ALTRO (= ENANTION) da essi _ sempre secondo la filosofia severiniana _,
ogni DE è integralmente E, ma in virtù di ciò, in ogni DE si distingue (= ETERON) il proprio E
dalla propria ESSENZA o DE-terminazione (DE); in tal modo, l’essenza così distinta non coincide
col significato-di-E e non coincidendo, allora all’essenza non resterà altro che esser N o non-E
giacché, ripeto, l’E SI DÀ soltanto ed esclusivamente come DE, ma poiché l’essenza di questo è
distinta dal suo E _ peraltro soltanto grazie al quale l’essenza è E _ allora sarà facile capire che se
l’essenza caratterizza i DE facendo di ognuno il preciso DE che è (l’essenza è integralmente E),
allora, dire che nei DE l’essenza si DISTINGUE dal proprio E, significa dire che l’essenza non-è-E,
perciò significa dire che ogni DE è E ed al contempo non-è-E, appunto perché l’essenza di ogni DE
si DISTINGUE da ciò (l’E) che fa dell’essenza un E!

***

§ E ---------------

Severino: <<Che il significato ‘nulla’ [N], come termine della sintesi col suo positivo significare
[PS2], non riesca ad evitare di essere un essente perché è un significato è una tesi alla quale il mio
critico [-> Marco Simionato] dà invece molta importanza […], ma è una tesi che finisce col non
tener presente (ripeto ancora una volta) che questo significato [N] non significa ‘essente’ [DE], ma
‘negazione assoluta dell’essente’ [N], e che l’esser significante, da parte di questa negazione [N,
56

PS1], è appunto l’altro termine [PS2] della sintesi nella quale consiste il significato
autocontraddittorio ‘nulla’ [CN]>>.

– (Severino in: MARCO SIMIONATO, Nulla e negazione. L’aporia del nulla dopo Emanuele
Severino. 2011, Edizioni Plus. Pisa).

In realtà questo aspetto è stato tenuto ben presente, seppure in modo critico.

Che <<questo significato [N] non signific[hi] ‘essente’ [DE], ma ‘negazione assoluta dell’essente’
[N]>> impedisce che N o <<’negazione assoluta dell’essente’>> sia qualcosa di realmente ALTRO
dall’E, perché IL SIGNIFICARE, OGNI significare si conforma alla legge dell’E (del principio di
non-contraddizione) _ ovvero al nomos ESCLUDENTE che A sia B _ regolante OGNI significato
appunto ESCLUDENTE (di esser) il proprio altro, come ANCHE PS1 N è un significare che
ESCLUDE di essere l’E o comunque l’altro-da-sé, ma così escludendolo, N rientra in essa come ciò
che non è altro-dall’E ma soltanto un DE altro (escluso) da altri DE.

Come se la <<‘negazione assoluta dell’essente’>> cioè il ‘non-significare-essente’ da parte di N


non fosse a sua volta, esso stesso, un PS (= DE) significante l’assolutamente negativo!

Il significare-come-insignificante da parte di PS1 N _ che sia detto o meno da PS2 (in quanto
ANCHE il solo PS1 dice già ciò che Severino vorrebbe fosse detto soltanto da PS2) _ non è pur
sempre un significare tutto interno all’E?

E ciò è stato così tanto tenuto ben presente proprio nel momento in cui Simionato, rilevando <<che
questo significato [N]>> non significa <<‘essente’, ma ‘NEGAZIONE assoluta dell’essente’>>, ne
ha mostrato la sua appartenenza al DE esattamente in virtù dell’esser, N, un significato
NEGATIVO, una <<‘NEGAZIONE assoluta dell’essente’>>, traducentesi inevitabilmente in un
DE, altrimenti ‘A’, se non fosse NEGAZIONE di ‘B’ e di tutto ciò che non è ‘A’, cioè del proprio-
altro, non sarebbe ‘A’. L’esser ‘negazione-di-B’ da parte di ‘A’ equivale a (è lo stesso che) esser
‘positivo-da-parte-di-A’. il NEGATIVO è il DE stesso, e grazie ad esso ‘A’ NON-è (è il
NEGATIVO di) ‘B’. Se è vero _ come per Severino è vero _ che <<porre un significato equivale a
porre una certa positività, o una certa determinazione [DE] del positivo, dell’essere [E]>>. – (La
struttura originaria).

Significando <<NULLA e non ESSENTE>>, N è perciò un DE che dice la specificità della sua
essenza, consistente nell’esser, come già detto, NEGAZIONE (del DE) in quanto tale.

Qualora l’esser negazione da parte di N spettasse UNICAMENTE all’altro momento di CN cioè a


PS2, allora occorrerà ribadire che se fosse davvero così, N _ distintamente da PS2 _NON
VARREBBE NEPPURE come significante <<SOLAMENTE>> la <<negazione assoluta
dell’essente>> (PS1), cioè come soggetto (Ns) di una sintesi la cui predicazione (il cui PS2 o Np)
ne attesti il valore di N. Tale PS2 non avrebbe semplicemente alcunché che funga da soggetto con
valore N (Ns)… Infatti, se fosse come afferma Severino, ossia se <<l’esser significante>> da parte
di N come <<negazione assoluta dell’essente>> fosse detto/significato dall’<<altro termine [PS2]
della sintesi nella quale consiste il significato autocontraddittorio ‘nulla’ [NC]>>, allora che senso
57

avrebbe riferirsi a N come ciò <<che pure è POSITIVAMENTE SIGNIFICANTE>> distintamente


da PS? NESSUN SENSO.

Se N come <<negazione assoluta dell’essente>> è significato dall’<<altro termine [PS2]>> _


<<come TUTTO ciò che è necessario affermare del nulla [N]>> (Severino) _, allora N _ quale
<<termine>> distinto da PS2 _ non potrà significare neppure <<negazione assoluta dell’essente>>,
giacché sarà privo di quella sia pur minima SIGNIFICANZA INTRINSECA, e come tale, si rivela
del tutto inutile, ridondante, un vuoto miraggio, puro segno grafico del tutto arbitrario ed inutile _
steresi posizionale _, venendo a mancare un polo semantico della sintesi cui è CN e perciò stesso
viene a mancare persino detta sintesi, giacché essa è data soltanto tra DUE significati e non da UNO
soltanto recitante però COME SE in sé fosse ‘DUE’. Cosicché CN, come mancata sintesi di N e PS
_ mancata, appunto perché N sarebbe meno che parvenza _ si riduce alla presenza del SOLO PS, il
quale non sarà il PS di alcun soggetto, TOGLIENDO PERSINO SE STESSO, ossia avremo una
predicazione che NON PREDICA ‘SIMPLICITER’:

<? = PS2> -> <? = non-PS2> -> <? = ?> -> non<PS1 = PS2N> -> non<N = N>.

***

§ F ---------------

Per il filosofo bresciano, l’ADN

<<può costituirsi perché prescinde dalla DISTINZIONE tra l’assoluta nullità (cioè tra l’esser ‘nihil
absolutum’) del ‘nulla’ [il I° momento della sintesi: PS1] e il positivo significare [PS2] del
significato ‘nulla’ [N] – dove questa stessa DISTINZIONE appartiene a tale positivo significare
[PS2]. Il nulla [N], infatti, in quanto NIHIL ABSOLUTUM, non è nemmeno quel qualcosa che è
l’opporsi all’essente, non è nemmeno negatività o negazione dell’essente. Anche il contenuto di
quest’ultima proposizione appartiene al positivo significare [PS2] del nulla [N]. E gli appartiene
anche l’affermazione che il nulla È nulla [N] (la quale esprime in forma positiva che il nulla non è).
Quel positivo significare [PS2] è dunque in contraddizione con l’assoluta nullità [PS1] di ciò che
esso significa [PS2] e anche questa affermazione, come tutto ciò che è necessario affermare del
nulla [N], appartiene a quel positivo significare [PS2]). Nella STRUTTURA ORIGINARIA si
afferma appunto che il significato nulla [la sintesi: CN] è una contraddizione, quella che intercorre
tra i DISTINTI [N o PS1 e PS2] che la costituiscono>>. – (Severino in: Marco Simionato; op. cit.,
pag. 10).

Ma se le cose stessero così, verrebbe da chiedersi:

- se N (in quanto distinto da PS2) <<non è nemmeno quel qualcosa che è l’opporsi all’essente>>;

- se N <<non è nemmeno negatività o negazione dell’essente [se cioè non è nemmeno N]>>;

- se <<Anche il contenuto di quest’ultima proposizione appartiene al positivo significare [PS2] del


nulla [N]>>;
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- se anche <<l’affermazione che il nulla è nulla [N]>> appartiene a PS2,

- e se la contraddizione tra N e PS <<come tutto ciò che è necessario affermare del nulla [N],
appartiene a quel positivo significare [PS]>>,

allora PS1 COSA CI STA A FARE?

Eppure Severino _ lo abbiamo già visto _, ne Intorno al senso del nulla (pag. 110), scrive che dei
<<due momenti contraddicentisi [N e PS2] del significato NULLA [CN]>>, ANCHE <<l’assoluta
nientità e assenza di significato del nulla [N] […] è positivamente significante [PS1]>> COME
<<SOLTANTO l’assolutamente altro da ogni essere [N]>>.

L’autocontraddittorietà di NC <<sussiste perché>> _ prosegue Severino _ <<in esso, NULLA (il


significato nulla) [N] non significa ESSENTE, ossia non è un essente (e appunto per questo non
esserlo il significato NULLA [N] contraddice quell’essente [DE] che è la positività [PS2, il II°
momento] del proprio significare)>>. – (Ibi, pag. 111).

Insomma, si dovrebbe scegliere:

o N è significante <<SOLTANTO l’assolutamente altro da ogni essere [N]>>,

oppure

<<TUTTO ciò che è necessario affermare del nulla [COMPRESO perciò anche l’esser
<<SOLTANTO l’assolutamente altro da ogni essere>>], appartiene a quel positivo significare [al
II° momento: PS2]>>...
Ma cosa guadagneremmo limitandoci alla sola distinzione dei due momenti N e PS2?
Dovremmo guadagnare di non incappare nel fatale esito cui è _ per Severino _ l’entificazione di N,
una volta dovessimo averlo separato da PS, evitando perciò di venir

<<costretti invece ad affermare che il nulla [N], essendo significante, È, è un essente, sì che
l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, ossia l’identità di nulla [N] e di essere [E], è. In seguito
alla separazione, l’aporia del nulla si presenta pertanto come insolubile. Il pensiero è
definitivamente legato all’assurdo della contraddizione>> - (Severino).

QUESTO è quanto Severino vorrebbe evitare.

Tuttavia _ l’abbiamo già visto _, è alquanto arduo non scorgere come PS1 sia ‘ab origine’ già
significante ‘NEGAZIONE-DI’ _ come vuole il principio di identità/differenza non-contraddizione
_, anche volendolo considerare SOLTANTO DISTINTAMENTE da PS2 (tale da non far venir
meno la cruciale differenza _ a detta di Severino _ tra ‘distinzione’ e ‘separazione’, cosicché la
‘distinzione’ permanga tale), essendo la NEGAZIONE (escludente) indice della presenza
giurisdizionale del principio di non-contraddizione che vuole, di ogni positivo, esser il NEGATIVO
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del proprio altro, sancendo così l’esser-ENTE da parte di N.

***

§ G ---------------

Severino: <<Entrambi i lati o momenti [N e PS] della contraddizione necessaria che costituisce il
significato NULLA [CN] sono significati [PS]. Ma il nulla [N] che è momento di tale
contraddizione [cui è CN] e che significa NULLA [N], e non ESSENTE [DE] – il nulla [N: PS1]
cioè che non è il nulla in quanto positivo significare [PS2] – È, sì, significante (È, appunto, un
significato), ma lo È soltanto, (così come esso [N] È, soltanto, lato e momento di quella
contraddizione) nel senso che il nulla [N], che è momento, è momento in quanto esso è DISTINTO
dal suo APPARIRE COME significante (e pertanto COME lato o momento), giacché questo
APPARIRE-COME è L’ALTRO momento [PS2] del nulla [CN] in quanto contraddizione
necessaria (l’altro momento, ossia il positivo significare [PS2] del nulla [N; PS1] che È significante
[PS1] ma come distinto dal proprio positivo significare [PS2]). Si potrebbe dire: il nulla [N; PS1]
che, come momento del nulla [CN] in quanto contraddizione necessaria, significa NULLA [N] e
non ESSENTE, È significante [come N: PS1], ma NON È POSTO COME significante [N: PS1]>>.
- (Severino: Intorno al senso del nulla, pp. 112-113).

N, in quanto è momento, è <<DISTINTO dal suo APPARIRE COME significante>>, pertanto _


così distinto _, finché è considerato come momento NON apparirà significante, NON sarà cioè
<<POSTO COME significante>>. Potrà <<APPARIRE COME significante>> soltanto grazie alla
sintesi inscindibile con l’altro momento _ PS2 _, poiché IN SÉ _ cioè come da quell’altro distinto _
non lo è, <<giacché questo APPARIRE-COME è L’ALTRO momento [PS2] del nulla [CN] in
quanto contraddizione necessaria>>.

Così Severino...

Ma ciò ha tutta l’aria di un’insostenibile acrobazia.

Se N (PS1) fosse davvero <<DISTINTO dal suo APPARIRE COME significante>>, allora sarebbe
distinto ANCHE dal suo stesso <<apparire come significante>> PS1, cioè sarebbe distinto ANCHE
da sé stesso, visto che proprio Severino riconosce esser PS1 un significato incontraddittorio.

Ora _ torno a ricordare _, se lo stesso PS1 N apparisse <<DISTINTO dal suo APPARIRE COME
significante>> PS1 N, non potrebbe neppure apparire DISTINTO, poiché CHE-COSA-
DISTINGUEREMMO-DA-COSA?

Ossia, *CHE COSA* apparirebbe così <<DISTINTO dal suo [di PS1, N] APPARIRE COME
significante>>?

Non è dato sapere.

Infatti, per poterLO distinguere <<dal suo APPARIRE COME significante>>, PS1 dovrà a priori
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(‘ab origine’) essere GIÀ IN SÉ un preciso significato e perciò esso, PS1, dovrà pur comunque
<<APPARIRE COME significante>> ‘A MONTE’ dal suo apparire distintamente <<dal suo
APPARIRE COME significante>> PS1, altrimenti ‘A VALLE’ non sussisterebbe alcunché da
distinguere!

Se PS1 apparisse <<COME significante>> NELL’<<altro momento [PS2]>>, PS1 non sarebbe quel
significato incontraddittorio distinto da PS2 stabilito da Severino: sarebbe un mero scarabocchio
non significante neppure ‘il-non-significare’.

Verrebbe inoltre da chiedersi innanzitutto DI COSA necessiti un significato, se non _ perlomeno! _


di esserlo <<SOLTANTO>>, un significato?

Cosa potrebbe essere, IN AGGIUNTA all’esser GIÀ un significato?

Quello sbrigativo <<lo È soltanto>> non ci esime dal domandarci:

CHE COS’È, o meglio: COSA SIGNIFICA N così distinto, cioè così <<SOLTANTO>>
distintamente significante?

Svisceriamone le evenienze.

Se N <<È, sì, significante (È, appunto, un significato), ma lo È soltanto>> in quanto è distinto, onde
il suo <<APPARIRE-COME>> tale sia realizzato unicamente dalla sintesi con <<l’ALTRO
momento [PS2]>>, non toglie però che l’esser <<soltanto>> un significato da parte di N sia
comunque già, di per sé _ anche in quanto distinto _ il PS di se stesso, appunto perché è
COMUNQUE SIGNIFICANTE ovvero è comunque un PS (è PS1), seppur lo sia <<soltanto>>,
appunto perché Severino intende far ricadere nell’altro momento la posizione _ l’apparire _ del
significare globale di N; diversamente, N non sarebbe nemmeno <<soltanto>> significante/ato…

Se N <<È, sì, significante (È, appunto, un significato), ma lo È soltanto>> poiché

<<NON È POSTO COME significante>> _ appunto perché è considerato distintamente da PS2


(cioè perché PS2 non è posto) _, allora:

*COME* è posto/saputo in quanto DISTINTO da PS2?

N è presente, appare cioè come UNO dei DUE momenti della sintesi CN; quindi:

COSA significherà COSÌ DISTINTO?

Si potrebbe rispondere:

N è sì distintamente <<significante>>, ma <<soltanto>> come semplice ‘noema’, cioè in quanto è


<<soltanto>> (un) momento semantico o termine DISTINTO.
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Ma non sembra un passo avanti.

In quanto distinto, è SAPUTO come <<soltanto>> significante; in quanto <<soltanto>>


significante, è SAPUTO come distinto…

Dunque?

CHE COSA, PROPRIAMENTE, si rivela significare N distintamente da PS2?

Non essendo <<POSTO COME significante>> distintamente da PS2, N non sarà neppure
<<soltanto>> significante, e non apparendo tale, NON SARÀ AFFATTO, come detto sopra, dove
tale ‘non-essere-affatto’ NON è l’equivalente di N, giacché la presenza di N non è identica/non
equivale all’ASSENZA o all’OMISSIONE di un qualsivoglia significato _ appunto, alla steresi
posizionale già indicata _; se fosse così, non potremmo aver intelligenza della funzione di N in
quanto significato preciso (PS1), significante appunto <<negazione assoluta dell’essente>>,
costituendosi perciò _ N _ come puro, arbitrario segno grafico (anzi neppure, bensì come
‘scarabocchio’ intercambiabile con qualsiasi altro, giacché un segno grafico è comunque atto a
trasmettere un determinato significato grafico/fonetico) posto come soggetto (Ns) di una
predicazione (ma al contempo negato come tale poiché <<non è posto come significante>>),
predicazione la quale, ripeto, non riuscirebbe a predicare alcunché, neppure L’ESSER N (Np o PS2)
da parte di N (Ns o PS1), giacché questo Ns SEMPLICEMENTE NON C’È…

Si potrebbe obiettare che questo rilievo sia ancora vittima di una considerazione isolata/separata di
N, giacché se non lo si scinde (= se non si pre-scinde) dall’altro momento (PS2), allora, in virtù di
tale originaria sintesi (= CN), N (PS1) apparirà significante come <<negazione assoluta
dell’essente>>.

Tuttavia, ciò non risponde alla domanda: se N acquista il suo valore semantico concreto
ESCLUSIVAMENTE come parte (cioè come PS1) della indivenuta (originaria) sintesi con PS2,
allora, soltanto come distinto da questo, QUALE VALORE SEMANTICO POSSIEDERÀ?

Dovrà pur avere un qualche valore distintamente da PS2, altrimenti, ripeto, non avrebbe nessun
senso _ sarebbe falso _ asserire che CN sia la concretezza di una sintesi tra DUE momenti
ENTRAMBI incontraddittoriamente SIGNIFICANTI!

D’altronde è Severino stesso a parlare di distinzione. Distinguendo N (PS1) da PS2, dovrà perciò
essere possibile _ per non dire inevitabile _ stabilire (porre) il valore di N distintamente da PS2,
altrimenti, giocoforza, riguardo ad N dovremmo concludere con quel che Severino ritiene l’esito
inevitabile dettato dalla posizione di un (non-)termine non-significante distintamente dal suo PS2,
ossia che:

<<la sintesi [tra N e PS2] non può essere sintesi non solo perché quell’“altro” termine [PS2] non si
unisce ad alcunché [essendo N o PS1 un <<non-termine>>], ma anche perché quell’“altro” termine
[PS2], non essendo il positivo significare [il PS] di alcunché [cioè di N in quanto <<non-
termine>>], non è nemmeno esso [PS2] un termine>>. – (Simionato. Op. cit., pag. 14).
62

Implosione completa...

Perciò:

a)- o N _ distintamente dall’altro momento della sintesi _ significa, e significa <<negazione assoluta
dell’essente>>; e allora N è già _ esso stesso! _ intrinsecamente contraddittorio in quanto
significando, seppur negativamente, è il PS (= DE) di se stesso, ossia <<essendo significante, È, è
un essente, sì che l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, ossia l’identità di nulla e di essere,
è>>. – (Severino. Intorno al senso del nulla).

b)- Oppure N _ sempre distintamente dall’altro momento della sintesi _ è un <<non-termine>>, un


non-significante nemmeno il ‘non-significare’ (N): grafema inesplicabile, completamente gratuito,
perché se almeno significasse ‘l’assenza-di-significato’ sarebbe pur sempre un siffatto significare
(fermo restando che ‘non-significare’ SIGNIFICA ‘non-avere-significato’. E allora <<la sintesi [tra
N e PS2] non può essere sintesi non solo perché quell’“altro” termine [PS2] non si unisce ad
alcunché [giacché N non sarebbe distintamente significante], ma anche perché quell’“altro” termine
[PS2], non essendo il positivo significare [PS] di alcunché [in quanto, appunto, N sarebbe un
<<non-termine>>], non è nemmeno esso [PS2] un termine>>. – (Ibidem).

Riportiamo PER INTERO il passo tratto dal libro di Simionato, ove Severino parla del <<non-
termine>>:

<<La mia impressione, comunque, a proposito di queste come di altre critiche affini, è che esse,
quel risolvimento [dell’ADN], non l’abbiano capito. Rispetto alla tesi della STRUTTURA
ORIGINARIA che il ‘nulla’ [CN] è la SINTESI del significato ‘nulla’ [N] e del positivo significare
[PS2] di tale significato [N] (dove ‘nulla’ [N] significa ‘nulla’ [N] e non ‘essere’), ho l’impressione
che si sia creduto che la mia intenzione (più o meno consapevole) fosse quella di stabilire una
sintesi tra un vuoto, un non-termine [N], e quello che dovrebbe essere l’“altro” termine, ossia il
positivo significare [PS2] di tale non-termine [N]; sì che, in conclusione, la sintesi non può essere
sintesi non solo perché quell’“altro” termine [PS2] non si unisce ad alcunché, ma anche perché
quell’“altro” termine [PS2], non essendo il positivo significare [PS] di alcunché, non è nemmeno
esso [PS2] un termine. Ora, è vero che il nulla [N] è il vuoto, l’assoluto vuoto, ossia è non-termine,
non è un ‘che’, ecc. Ma questa assoluta assenza, che è propria del NIHIL ABSOLUTUM [N], è
SIGNIFICANTE, è un SIGNIFICATO [PS] che significa quel che significa, cioè significa NIHIL
ABSOLUTUM [N], e non significa ‘essere’. E la positività [PS] di questo significato [N] non è un
NIHIL ABSOLUTUM, ma è un essente, e questo essente è l’ALTRO termine [PS2] della sintesi
[CN] che lo unisce al significato ‘nulla’ [N]. Se i due termini vengono separati – se si compie
l’ERRORE di separarli […] -, allora il significato ‘nulla’ [N] si presenta a sua volta come un che di
positivo [PS], come un essente [DE]>>.

Severino sospetta/lamenta _ <<ho l’impressione che si sia creduto […]>> _ che l’intento dei suoi
critici fosse quello di attribuirgli quanto sopra.

Tuttavia, se tale attribuzione non corrisponde all’intenzione originaria di Severino, pur


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riconoscendo egli che

<<è vero che il nulla [N] è il vuoto, l’assoluto vuoto, ossia è non-termine>>,

allora la sua intenzione reale _ pare, a suo dire, non compresa dai suoi critici _ dovrebbe consistere
_ oltre che, ripetiamo, nel tener fermo che N sia <<il vuoto, l’assoluto vuoto, ossia [un] non-
termine>> _ anche nella precisazione secondo cui

<<la positività [PS2] di questo significato [N] non è un NIHIL ABSOLUTUM, ma è un essente
[DE], e questo essente è l’ALTRO termine [PS2] della sintesi [CN] che lo unisce al significato
‘nulla’ [N o PS1]>>.

Pertanto, al fine di evitare quanto prospettato poco prima, cioè che la sintesi non possa essere sintesi
perché quell’altro termine (PS2) non si unirebbe ad alcunché (in quanto PS2, non avendo un
termine a cui unirsi _ visto che N sarebbe un <<non-termine>> _ non sarebbe il PS di alcunché),
conseguentemente facendo ANCHE di PS2 un non-termine, ecco che Severino ci invita a non
dimenticare come N sia sì

<<SIGNIFICANTE, è un SIGNIFICATO [N; PS1] che significa quel che significa, cioè significa
NIHIL ABSOLUTUM [N]>>, la cui <<positività [PS] di questo significato [N]>> però, non
essendo <<un NIHIL ABSOLUTUM, ma è un essente [DE]>>, appartiene all’<<ALTRO termine
[PS2] della sintesi [CN] che lo unisce al significato ‘nulla’ [N]>>, come abbiamo già visto sopra.

Pertanto, a N, s’è osservato, non apparterrebbe UNA PROPRIA POSITIVITÀ SIGNIFICANTE, un


proprio PS, contra(dditto)riamente a quanto invece precisato sopra da Severino, bensì il suo _ di N _
PS sarebbe sempre e soltanto detto dall’altro momento, da PS2 appunto.

E Severino ci chiarisce anche il perché: perché N <<è il vuoto, l’assoluto vuoto, ossia è non-
termine>>…

COSA significa: <<non-termine>>?

Ma innanzitutto: esso significa?

Scrivendo, Severino, che esso _ N _ <<è non-termine>>, noi tutti comprendiamo ciò che ha scritto,
e comprendiamo perciò che <<non-termine>> equivale a un <<non-significante>>. Comprendiamo
altresì l’espressione <<non-significante>>. E la possiamo così ben comprendere poiché <<non-
significante>>-SIGNIFICA-<<assenza-di-significato>>.

Che la faccenda stia così, lo dice lo stesso Severino allorché scrive:

<<Che il significato ‘nulla’ [N], come termine della sintesi col suo positivo significare [PS2], non
riesca ad evitare di essere un essente perché è un significato [PS1] è una tesi alla quale il mio critico
[Simionato] dà invece molta importanza […], ma è una tesi che finisce col non tener presente
(ripeto ancora una volta) che questo significato [PS1] non significa ‘essente’ [DE], ma ‘negazione
64

assoluta dell’essente’ [N], e che l’esser significante [PS1], da parte di questa negazione [N], è
appunto l’altro termine [PS2] della sintesi nella quale consiste il significato autocontraddittorio
‘nulla’ [CN]>>. – (Severino in: Simionato; op. cit.).

Dunque N <<come termine>> significa <<non-termine>>; questa è la sua _ di N _ specifica,


ineliminabile, inaggirabile primordiale significanza.

Pertanto N è un <<non-termine>> esso stesso positivamente significante come <<non-


significante>> distintamente _ non separatamente! _ da quel PS2 che si vorrebbe porre come altro
momento di CN. Se così non fosse, N non potrebbe valere neppure come <<termine>>
distintamente significante il <<non-termine>>, e quindi non sarebbe <<non-termine>>, come
invece afferma ESSERLO Severino.

Insomma: N è un <<termine>> in quanto è detto dall’altro termine (da PS2), giacché PS2 deve aver
un termine (che è N o PS1) del quale esser il suo PS; ed è altresì un <<non-termine>> in quanto
esso significa ‘negazione assoluta dell’essente’ e <<non significa ‘essente’>>…

Pertanto, CN È una sintesi ed al tempo stesso NON LA È.

- LA È, perché <<Entrambi i lati o momenti [N e PS2] della contraddizione necessaria che


costituisce il significato NULLA [CN] sono significati>>.

- NON LA È, perché N è un <<non-termine>>, <<sì che, in conclusione, la sintesi non può essere
sintesi non solo perché quell’“altro” termine [PS2] non si unisce ad alcunché, ma anche perché
quell’“altro” termine [PS2], non essendo il positivo significare [PS] di alcunché, non è nemmeno
esso [PS2] un termine>>.

Inoltre, se la <<positività [PS2] di questo significato [N]>> appartenesse davvero TUTTA INTERA
all’<<ALTRO termine [PS2] della sintesi che lo unisce al significato ‘nulla’ [N]>>, N non sarebbe
distinguibile da PS2 _ come invece vuole Severino _, perché non sussisterebbe alcunché da cui
distinguersi, né perciò N avrebbe alcuna possibilità di valere come <<non-termine>> perché
verrebbe meno il suo stesso significare <<non-termine>>, cosicché il presunto _ a questo punto _
secondo momento (PS2) della sintesi cui sarebbe CN, si ritroverebbe impossibilitato a significare
positivamente un soggetto LATITANTE, un ‘non-soggetto’ e come tale non significante neppure
<<non-termine>>, poiché per poter porre un <<non-termine>>, esso deve necessariamente
presentarsi, apparire (essere) in qualche modo GIÀ IN SÉ SIGNIFICANTE.

PS2 è il predicato/significante-di-…? …Non è dato saperlo, non è noto il soggetto, steresi assoluta,
giacché non è stato significato ALCUN TERMINE che si possa indicare e nei confronti del quale si
possa predicare qualche PS.

In conclusione: N (PS1) è sì significante _ dice Severino _, ma in quanto distintamente considerato,


NON È ANCORA SAPUTO esserlo, giacché tale sapere spetterebbe all’altro momento PS2. Per
questo motivo N sarebbe inscindibile dall’altro momento, altrimenti la sua significanza ricadrebbe
tutta in N (PS1), facendone un DE, come ben si è espresso Severino più sopra proprio paventando
65

ciò.

Prescindendo però dall’originarietà della sintesi, di N-distinto non potremmo venir a sapere che
cosa davvero esso possa essere-significare. Se N non fosse saputo esser significante distintamente
da PS2, non potremmo neppure porlo COME DISTINTO da quest’ultimo, perché NON
SAPREMMO CHE COSA PORRE, in quanto, per distinguerLO, dovrebbe già mostrare una
qualche minima DIFFERENZA semantica. Così, se N-distinto NON È SAPUTO significante, non
sarà neppure saputo come distinto (infatti, DI-CHE-COSA _ DI QUALE significato _ dovremmo
sapere l’esser distinto?), e se non è saputo neppure come distinto, non vi potrà esser sintesi alcuna,
ossia CN…

RF
66

11)- NICHILISMO PREDICATIVO E APORETICITÀ DELLA


SOLUZIONE SEVERINIANA

Abitualmente, tutti noi siamo perfettamente consapevoli delle differ-enti ‘cose’ con le quali
veniamo quotidianamente in contatto: questo tavolo (‘x’) differisce da quella lampada (‘y’) ed
entrambi differiscono da questa stanza (‘w’), e così via in indefinitum... Tuttavia, nella realtà non ci
imbattiamo mai semplicemente con un ‘tavolo’ E BASTA, senza cioè che sia ulteriormente
determinato come ‘di-legno’ o ‘di-marmo’, ‘marrone’ o ‘bianco’, ‘quadrato’ o ‘tondo’, etc.
Lo stesso dicasi per qualsiasi altra ‘cosa’.

Pertanto, di ogni ‘cosa’, di ogni determinazione o DIFFER-ENTE (DE) si suol esprime la propria
identità sul seguente, comune modello predicativo:
x<Mario ‘A’ è ( = ) bianco ‘B’>.

y<quella lampada ‘C’ è ( = ) opaca ‘D’>... etc.

‘Mario’ è il REFERENTE; ‘bianco’ è il PREDICATO.


Ciò vale naturalmente anche per la predicazione analitica come:
x<A = A>, cioè:

x<Mario ‘A’ è ( = ) Mario ‘A’>, ovvero è (identico a) se stesso (giacché il primo ‘A’ è pur sempre
DIFFERENTE _ ALTRO _ rispetto al secondo (se non altro per il fatto di comparire l’uno primo,
l’altro secondo nella formula).
Severino ritiene NICHILISTICO-CONTRADDITTORIA la predicazione appena indicata:

<<Affermare che questa estensione [‘A’] È [ = ] rossa [‘B’], significherà infatti affermare che
questa estensione È NON questa estensione [<A ¬A>; ¬<A = A>] (stante che il colore di questa
estensione appartiene all’orizzonte del CONTRADDITTORIO di essa>> (maiuscolo e parentesi
quadre miei). - Severino; La struttura originaria, pag. 269.

<<Aporia antichissima _ prosegue Severino _ com’è noto, che già Platone discuteva (Sofista,
251 sg.), ma che da Platone fu piuttosto evitata che risolta [...] Aristotele aveva tentato di
eliminare la difficoltà introducendo la distinzione di sostanza ed accidente: nulla impedisce
che qualcosa (sostanza, o accidente in funzione di sostrato di un altro accidente) possa essere
anche ALTRO, oltre a ciò che esso è; ma questa alterità non è negazione della sostanza _ ossia
non è un’altra determinazione sostanziale _ ma è l’ambito delle determinazioni accidentali
67

della sostanza (Met. 1. IV, cap. 4). Il che può essere accettato, nel senso che allorché si afferma
che questa estensione [‘A’] è [ = ] rossa [‘B’], non si nega che questa estensione sia
un’estensione, ma si afferma che questa estensione _ che è come questa estensione _ è,
appunto, rossa; ossia che l’identico (questa estensione che è questa estensione) è determinato
in modo ulteriore rispetto a quello che costituisce la determinatezza dell’identità>>.

<<Senonché _ prosegue Severino _, nonostante il chiarimento fatto, l’aporia permane


egualmente: appunto in quanto l’identità È altro da sé. Ciò che provoca l’aporia è appunto _
per usare la terminologia aristotelica _ l’INESIONE della determinazione accidentale alla
determinazione sostanziale; ossia è il fatto che l’una è in qualche modo l’altra. Ogni giudizio
non tautologico ( = non identico) sembra pertanto una contraddizione. E quindi si dovrà dire
che ogni complessità semantica avente valore apofantico è una contraddizione: nella misura in
cui sembra che la complessità in questione non possa equivalere in quanto tale a un giudizio
tautologico>> - (Ibid).

<<Poiché pensare che qualcosa (soggetto) È QUALCOSA (predicato) È IDENTIFICAZIONE


DEI NON IDENTICI, perché soggetto e predicato sono isolati, sì che la loro relazione è
prodotta dal divenire del pensiero che li unisce [...] il divenire che li unisce è identificazione
dei non identici>> (maiuscolo mio) - (Severino; Tautòtes. Adelphi).

A questo proposito è nota l’aspra polemica tra Severino e Massimo Mugnai nel giugno del 1997,
allorché, sulle pagine di un giornale, questi si scagliò contro il filosofo bresciano contenstandogli _
tra le altre cose _ di interpretare l’‘è’ copulativo sempre e soltanto come identità ‘ = ’, anche dove si
tratterebbe di rilevarne la funzione di proprietà connotativa.
Lasciamo parlare lo stesso Severino:

<<Il professor Mugnai vuole insegnarmi, tra molte altre cose, che, già per Aristotele, nelle due
proposizioni “L’uomo è un animale ragionevole” e “Socrate è bianco”, la copula “è” ha un
significato diverso. Nel primo caso indica un’identità tra il soggetto e il predicato, nel secondo
caso, invece, indica una “proprietà” di Socrate. Credo di saperlo anch’io [...]. Vorrei
comunque domandare al mio critico se, quando si dice che Socrate è bianco, si pensa che in
Socrate (cioè nel soggetto in quanto distinto dal predicato) non ci sia proprio nulla che sia
bianco. Se fosse così, si verrebbe a dire, di una cosa che non è bianca, che è bianca! Se invece
si vuole evitare questo inconveniente, si deve pensare che anche quando si dice che Socrate è
bianco si deve affermare un’IDENTITÀ, tra qualcosa che è presente in Socrate, e il suo esser
bianco>>. - (Severino; La legna e la cenere. Rizzoli, Milano, pagg. 195-6).
Inoltre:

<<Ovviamente, dire che Mario [‘A’] è [ ‘=’ ] buono [‘B’] non significa dire che Mario è la
bontà. Ma se in Mario non esistesse in alcun modo un certo esser buono, si potrebbe
affermare che Mario è buono? Se Mario si trovasse in questa condizione, allora, dicendo che
Mario è buono, si direbbe, di un Mario non buono, che è buono. Questa contraddizione può
essere evitata solo se è di Mario-che-è-buono [‘(A = B)’] che si dice che è [ = ] buono [‘(B =
A)’]; cioè solo se una parte del significato del soggetto è identica al predicato [(A = B) = (B =
A)]. La copula “è”, allora, non può non esprimere questa identità tra una parte del soggetto e
68

il predicato. Nell’asserto “Mario è Mario” (o “l’uomo è l’uomo”) [(A = A) = (A = A)], il


predicato è invece identico alla totalità del significato del soggetto. In questo senso, è
necessario che, in un dire non contraddittorio, la copula esprima in ogni caso un’identità _
anche quando la logica parla di “inerenza”, “appartenenza”, “inclusione”>>.

Proviamo a sviluppare un po’ più in dettaglio i termini della contraddizione.

S’è visto che l’identità della predicazione comunemente in uso _ ma criticata da Severino sia per i
suoi presupposti sia per le conseguenze _ è espressa dalla copula ‘è’ ( = ):

<Mario ‘A’ è ( = ) bianco ‘B’>.

Ciò richiede che soggetto ‘A’ e predicato ‘B’ siano sempre reciprocamente differenti (differenti,
anche qualora _ ripetiamo _ soggetto e predicato coincidessero affermando il medesimo, come in:
<A = A>).

Vale a dire che ogni DE è ‘DIFFERENZIANTESI-IN-SÉ’, giacché in


<Mario ‘A’ è ( = ) bianco ‘B’>:

‘A’ (Mario) è differente ( ≠ ) dal (ovvero non significa il) suo predicato ‘B’ (l’esser-bianco).

(Uguale procedura valga per qualsiasi altro DE).

Cosicché:

1)- il costituirsi dell’identità-con-sé del DE in quanto ente necessita dell’identità ( = ) dei NON-
IDENTICI (cioè dei DIFFERENTI in quanto ‘A’ differisce ≠ da ‘B’).
Solo così l’ente ‘x’ può differire dall’ente ‘w’, ‘y’, ‘z’... _ e viceversa, ovviamente _ innanzitutto
perché e solamente se ‘A’ e ‘B’ da cui ‘x’ è costituito sono identici, in quanto se ‘A’ non fosse
identico a ‘B’, allora ‘Mario’ non sarebbe identico a (una parte de) il suo predicato ‘bianco’: l’ente
‘x’ non sarebbe l’ente ‘x’, cioè identità di ‘A’ con ‘B’; non sarebbe se stesso, ossia non sarebbe
quell’Ex che di fatto è:

x<Mario ‘A’ ( = ) bianco ‘B’>.

L’identità specifica dell’ente ‘x’ (di ogni ente) è data dall’identità tra ‘A’ e ‘B’. Perciò l’ente ‘x’ è
identico-a-sé _ è appunto l’ente x<A = B> _ in forza dell’identità espressa da ‘=’ che dice:
<A è (identico a) B>;

x<Mario ‘A’ è identico ( = ) a (una parte de) il bianco ‘B’>.

2)- Contemporaneamente al punto 1), il costituirsi dell’identità-con-sé dell’Ex in quanto ente


necessita parimenti della differenza ( ≠ ) dei NON-DIFFERENTI (cioè degli IDENTICI costituiti
tali dall’ ‘ = ’: <A = B>).
69

Solo così l’ente ‘x’ può differire da ‘w’, ‘y’, ‘z’... _ e viceversa _ innanzitutto perché e solamente se
‘A’ e ‘B’ da cui ‘x’ è costituito sono differenti, in quanto se ‘A’ non differisse da ‘B’, allora ‘Mario’
non sarebbe il soggetto che differirebbe dal predicato ‘bianco’ e questi non sarebbe il suo predicato:
l’ente ‘x’ non sarebbe l’ente ‘x’, non sarebbe se stesso, ossia non sarebbe quel DE che di fatto è:

x<Mario ‘A’ ( = ) bianco ‘B’>.

L’identità specifica del DE ‘x’ (di ogni DE) è data dalla differenza tra ‘A’ e ‘B’. Perciò l’ente ‘x’ è
identico-a-sé _ è appunto l’ente x<A = B> _ in forza della differenza espressa da ‘ ≠ ’ che dice:
<A differisce da B>;

x<Mario ‘A’ è diverso ( ≠ ) da/non significa bianco ‘B’>.

***

Insomma: il DE, per esser sé -> x<A = B>, abbisogna che il soggetto ‘A’ debba esser identico a
non-‘A’ (cioè al predicato ‘B’):
x<A è B>;
x<A è ¬A (cioè è appunto B)>,

in virtù della copula ‘è’ ( = ) che dice identità dei diversi, giacché senza lo ‘è’, non potremmo
affermare che ‘x’ sia se stesso, cioè che ‘x’ sia identità (in uno) di soggetto ‘A’ e predicato ‘B’.

Ma se ‘ = ’ dice _ come dice _ identità dei diversi -> <A = B>, dice al contempo la negazione della
loro differenza:
¬<<A = A> ≠ <B = B>>;
<¬A = ¬B>;
x<non-Mario ‘¬A’ è ( = ) non-bianco ‘¬B’>.
Quindi:

ogni DE (‘x’, ‘y’...), per essere identico a sé, deve negare la diversità tra soggetto e predicato, perciò
è in-differenziato:
ogni x<A ­ B>;
ogni x<¬ <x = x>>;
ogni x<¬ ¬ <x ≠ x>>;

ogni x ¬x.

Parimenti, il DE, per esser sé -> x<A = B>, abbisogna che il soggetto ‘A’ debba mantenere la
differenza dal predicato ‘B’:
x<A ≠ B>;
70

x<A ¬è B (infatti è A)>,

in virtù della differenziazione F-immediata costituente il DE, differenziazione resa mediante la


distinzione tra soggetto e predicato, giacché senza questi, non potremmo affermare che ‘x’ sia un
determinato e specifico ‘ciò che è’, cioè che sia sintesi di soggetto ‘A’ e predicato ‘B’.

Ma se ‘ ≠ ’ dice _ come dice _ l’autodifferenziarsi dell’identico o la differenza tra soggetto e


predicato -> <A ≠ B>, dice al contempo la negazione dell’identità del DE:
¬<<A ≠ B> = <B ≠ A>>;
<A = B>;

x<Mario-bianco A ≠ B non è (¬) bianco ‘B’>.

Quindi:

ogni Ex (‘x’, ‘y’...), per essere identità di soggetto e predicato, deve costituirsi come identità dei
diversi; ma i diversi sono negazione dell’identico, perciò il DE è non-identità dei diversi (giacché se
i diversi non sono identici in ‘uno’, non possono costituire il DE) -> il DE non-è identico a sé:

 x<¬<A = B>>;

 x<¬ <x = x>>;

 x<¬ ¬ <x ≠ x>> ->  x ¬x.

Si badi: l’‘identità dei diversi’, in Severino, non va intesa in senso relativo o financo debole,
sottintendendo che il ‘bianco’ cui è ‘Mario’ sia un aspetto accidentale, inessenziale, (pre-)scindibile
da lui, ossia qualcosa tolto il quale, ‘Mario’ continuerebbe tranquillamente a rimaner (a significare)
ciò che è: ‘Mario’.
No; senza quel ‘bianco’, ‘Mario’ non sarebbe quel ‘Mario-che-è-bianco’, giacché questo ‘bianco’ è
il ‘bianco-di-Mario’, e non un ‘bianco’ qualsiasi di un altro DE qualsiasi.

In tanto conosco ‘Mario-bianco’ in quanto egli è (in parte) identico al suo esser ‘bianco’, così come
conosco il ‘suo-esser-bianco’ perché questo ‘bianco’ è precisamente il ‘bianco’
fenomenologicamente specifico ‘di-Mario’ e soltanto suo, giacché se fosse il ‘bianco-di-Giuseppe’,
differirebbe dal ‘bianco-di-Mario’, come minimo perché è il ‘bianco’ di ‘Giuseppe’ e non di
‘Mario’.

Il ‘bianco’ di ‘Mario’ è ciò che si risponde alla domanda:

“Di che colore è ‘Mario’?”

‘Mario’ è ( = ) (identico al suo esser) bianco.

Come ha precisato Severino nel passaggio su riportato,


71

<<dire che Mario è [ = ] buono non significa dire che Mario è la bontà>>, ossia, nel nostro
esempio, ‘Mario’ non è la bianchezza. È evidente.

<<Ma _ prosegue Severino _ se in Mario non esistesse in alcun modo un certo esser [bianco], si
potrebbe affermare che Mario è [bianco]? Se Mario si trovasse in questa condizione, allora,
dicendo che Mario è [bianco], si direbbe, di un Mario non [bianco], che è [bianco]. Questa
contraddizione può essere evitata solo se è di Mario-che-è-[bianco] che si dice che è [bianco];
cioè solo se una parte del significato del soggetto è IDENTICA al predicato. La copula “è”,
allora, non può non esprimere questa IDENTITÀ tra una parte del soggetto e il predicato>>.

Si noti che l’inscindibilità del ‘bianco’ da ‘Mario’ è tanto più inscindibile, solida e necessaria
(eterna) proprio _ se non esclusivamente _ nella concezione severiniana dell’eternità del DE,
giacché in questa, il soggetto ‘Mario’ ed il suo predicato ‘bianco’ costituiscono una sintesi eterna ed
originaria, cioè mai divenuta tale, e quindi eternamente non-separabile né annientabile.

Pertanto l’‘identità dei diversi’ cui è DE in quanto DE, va intesa in senso fortissimo, dal momento
che l’impossibilità di prescindere dai differenti (soggetto ≠ predicato) identificati dalla copula ‘è’
( = ), dice l’impossibilità di evitare che DE sia sintesi contraddittoria di ‘identità-differente-da-
sé/differenze-identiche-tra-loro’ in ‘uno’, indivisibilmente:

(1a) <Mario è (diverso da) bianco ( = non-Mario)>: ‘Mario’ è identico a sé.

(2a) <Mario è (identico a) non-Mario ( = bianco)>: ‘Mario’ è diverso da sé.

‘Mario’ è così tanto ‘identico a sé’ (1) quanto altrettanto è ‘diverso da sé’ (2):

(1b) L’identità ( = ) nega la differenza dei differenti (‘A’ e ‘B’), ossia nega che ‘Mario’ e ‘bianco’
siano diversi ( ≠ ).

(2b) I differenti (‘A’ e ‘B’) negano la loro identità ( = ), ossia negano che ‘Mario’ e ‘bianco’ siano
identici ( = ).

Così, nell’ente: x<‘Mario’ = ‘bianco’>,

(1c) ‘Mario’ è ‘bianco’ soltanto se non lo è (bianco);

(2c) i differenti (‘Mario’ e ‘bianco’) sono differenti soltanto se non sono tra loro differenti:

l’ente (ogni DE) è contraddicente-si.

Si potrebbe pur sempre replicare che comunque, (il significato) ‘Mario’ significa (è) pur sempre
(significante come) ‘Mario’ e non ‘bianco’, nonostante Mario-sia-bianco.

Ma, come s’era già accennato, per asserire che ‘Mario’ significa soltanto ‘Mario’ e non ‘bianco’ si
dovrà porre ‘Mario’ in rapporto (predicativo) di identità con sé:
72

<Mario ‘A’ è ( = ) Mario ‘A’>,

ripresentandosi però l’aporia denunciata da Severino, giacché ‘A’-soggetto è comunque


diverso/altro da ‘A’-predicato, onde a tale relazione debba riferirsi la serie di contraddizioni emerse
finora.

Si capisce bene, quindi, come da ciò derivi, per Severino, l’urgente necessità di risolvere
l’astrattezza-contraddittorietà della predicazione semplice <A = B>, riformulandola perciò come
predicazione a suo dire incontraddittoriamente IDENTICA.

***

IL GIUDIZIO TAUTOLOGICO (IDENTICO) SEVERINIANO: SOLUZIONE


DELL’APORIA?
Passiamo adesso ad analizzare il tentativo severiniano di soluzione della suddetta aporia.

Come detto, Severino ritiene contraddittoria la predicazione appena indicata:

<<Poiché pensare che qualcosa (soggetto) è [ = ] qualcosa (predicato) è identificazione dei non
identici, perché soggetto e predicato sono isolati, sì che la loro relazione è prodotta dal
divenire del pensiero che li unisce — poiché, dunque, il loro isolamento implica il loro divenire
— e poiché, viceversa, il divenire a cui si rivolge il pensiero dei mortali nella preistoria e nella
storia dell’Occidente presuppone l’isolamento del terminus a quo dal terminus ad quem del
divenire (la loro relazione essendo il risultato del divenire), e quindi presuppone l’isolamento
anche del soggetto dal predicato, sì che il divenire che li unisce è identificazione dei non
identici (e peraltro è tale identificazione non solo in quanto presuppone l’isolamento, ma
anche in quanto è divenir altro); appare allora che il pensare che qualcosa è qualcosa non è
identificazione dei non identici solo se la relazione tra qualcosa e qualcosa non è il risultato di
un divenire, ma è eterna. La forma del pensare e del dire – cioè la relazione tra qualcosa e
qualcosa – non è dunque negazione dell’identità dell’essente con se stesso, solo se il contenuto
del pensare e del dire (ciò che è pensato e che è detto) è l’eterno>>. - (Tautòtes).

Nel pensiero dell’Occidente, perciò, secondo Severino, il DE quale sintesi tra il soggetto ‘A’ ed il
predicato ‘B’ si costituirebbe come risultato di un divenire il quale presupporrebbe la previa
irrelatezza tra un ‘soggetto-a-cui-non-conviene-il-proprio-predicato’ e viceversa, cosicché la loro
unione risulterebbe esser una identità contraddittoria fra diversi (‘A’ e ‘B’) estranei l’uno all’altro in
quanto pensati come ORIGINARIAMENTE SEPARATI.

Secondo la concezione severiniana del DE, invece, è tale unità (= sintesi) di soggetto e predicato a
doversi porre come originaria, non un’ulteriorità da conseguire a partire da una loro iniziale
separazione; perciò _ sostiene sempre Severino _ essa deve essere una sintesi eterna, indivenuta.
Pertanto, al soggetto ‘A’ converrebbe originariamente _ da sempre _ il proprio predicato ‘B’ e
questi sarebbe originariamente il predicato da sempre appartenente al soggetto ‘A’: relazione eterna
tra eterni. Soltanto considerando ‘A-da-sempre-includente-il-suo-predicato-B’ ‘(A = B)’ _ e
ugualmente dicasi per il predicato ‘(B = A)’ _, non sussisterebbe più la contraddittoria identità dei
diversi.
73

La soluzione proposta da Severino consisterebbe perciò nel convertire in TAUTOLOGIA


(riformulata, perciò, al di fuori del ‘nichilismo’) qualsiasi forma predicativa (analitica e sintetica) in
quanto <<ogni giudizio non contraddittorio è un giudizio identico>> (op. cit., pag. 271), giudizio
identico il quale, come <<significato concreto della proposizione: “dx è dy” è pertanto: (dx = dy) =
(dy = dx)>> (ibi, pag. 272), che per uniformità grafica con quanto ha sin qui preceduto, traduciamo
con le formule equivalenti, rispettivamente:
<A = B>, e <(A = B) = (B = A)>.
L’astrattezza-contraddittorietà della predicazione semplice <A = B>, va perciò riformulata come
predicazione identica, ove - ripetiamo _ il soggetto ‘A’ sarà da rendere autenticamente così:

‘(A = B)’;

ed il predicato ‘B’ come:

‘(B = A)’.

Onde l’espressione identica/concreta/incontraddittoria sarà:

<(A = B) = (B = A)>,

significando ‘concreto’, che soggetto e predicato non sono reciprocamente isolati e sussistenti
indipendentemente dalla (anteriormente alla) loro relazione; il significato di uno è già incluso nel
(includente il) campo posizionale dell’altro (e viceversa); identità concreta tra soggetto e predicato
espressa da ‘=’:

x<Mario ‘A’ è ( = ) bianco ‘B’> è ( = ) <il bianco ‘B’ che è ( = ) di Mario ‘A’>,
cosicché _ in <A = B> _, dire ‘A’ è già dire il suo esser ‘(A = B)’, e dire ‘B’, è già dire il suo esser
‘(B = A)’, appunto: <(A = B) = (B = A)>.

Riduzione a TAUTOLOGIA, insomma, come soluzione della contraddizione scaturente dal DE


quale ‘identità dei diversi/diversificazione dell’identico’.

Gli fa efficacemente eco la professoressa Nicoletta Cusano in: Nicoletta Cusano; Emanuele
Severino. Oltre il nichilismo; Brescia, Morcelliana 2011, a pag. 125-126, ove scrive:

<<La concezione astratta dell’identità ha luogo se i termini che la compongono le sono


presupposti, o anche se essa viene intesa come identità tra soggetto e predicato posti come
momenti semplicemente “noetici”. In quest’ultimo caso la semplice posizione dei termini
(distinti) dell’identità non è ancora la posizione della loro concretezza: “l’astratto ( = il
distinto = i termini dell’identità) è infatti concretamente concepito quando la sua posizione
non è negazione del concreto [Severino; La struttura originaria, pag. 187]”. L’affermazione
“l’essere è essere” [E = E] implica certamente una distinzione tra l’astratto (noesi) e il
concreto (apofansi). Nella sua concretezza, nell’affermazione dell’identità dell’essere il campo
posizionale del soggetto include il campo posizionale del predicato. Tuttavia, soggetto e
74

predicato sono distinguibili dalla concretezza dell’identità; ma tale distinzione è allora la


distinzione tra la posizione astratta e la posizione concreta dell’identità. Il predicato è lo stesso
“ma posto come predicato di sé medesimo [Severino; ibi, pag. 190]. Da un punto di vista
formale, predicare è ripetere e quindi “l’analisi del concreto trova certamente ripetuto
l’astratto; ma il concreto non è semplicemente l’astratto ripetuto, perché ciò che è posto nella
ripetizione è posto insieme come predicato di sé medesimo [Severino; ibi, pag. 191]”. Partiamo
da questa semplice considerazione _ prosegue la Cusano _: nell’affermazione “l’essere è
essere” il soggetto e il predicato, per quanto distinti, non sono due termini ma la ripetizione (o
posizione) del medesimo. Il che può sollevare la seguente obiezione: affermare l’identità
significa distinguere, ma insieme significa togliere ogni distinzione. L’identità è perciò identità
di una differenza. Come è possibile? Ciò non conduce forse alla negazione dello steso principio
di identità-non contraddizione, dal momento che, se per affermare che l’essere è essere si deve
distinguere l’essere dall’essere, tale distinguere non finisce forse col negare l’identità che
intende affermare? Si deve forse concludere che per affermare l’identità dell’essere è
necessario negarne l’incontraddittorietà? Se si separano i due momenti della relazione stessa,
la conclusione è certamente corretta. […] il problema è cioè questo: in quanto A e A sono
identici, sembra impossibile distinguerli; ma se non li si distingue, cioè senza porre alcuna
differenza tra essi, non ci può essere posizione dell’identità. Dunque una differenza deve
esserci, per porre l’identità; ma l’identità è ciò che esclude assolutamente la differenza. In
questo modo la differenza “vien lasciata semplicemente accanto all’identità, in opposizione
con questa” [Severino; ivi, pag. 192]. L’identico è diverso e dunque non identico? E il diverso è
identico e dunque non diverso?>>.

A tal interrogativo, la Cusano crede di dover risponde così:

<<Tale contraddizione è apparente; essa dipende […] dalla concezione astratta dell’identità e
della diversità: “se l’identità è intesa come identità di momenti astratti, non si può non
affermare che condizione dell’identità è la contraddizione, stante che la differenza, richiesta
dal costituirsi dell’identità, non può essere riferita che all’identico in quanto tale [Severino, ibi,
pag. 193]”>>.

Insomma, la <<concezione astratta>> svolgerebbe davvero il ruolo dell’enfant terrible


internamente alla filosofia severiniana, il cui rimedio sarebbe così delegato alla <<concezione
concreta>>, utilizzata quasi come una ‘bacchetta magica’ pronta a far scomparire ogni aporia…

Riporto adesso il seguente brano di MASSIMO DONÀ, dal suo Aporia del fondamento:

<<Questa, l’autentica articolazione dell’identità, secondo Severino. Una soluzione che, però,
senza nulla togliere all’innegabile vis speculativa del suo teorizzatore, non riesce ad essere più
che un semplice “tentativo” di soluzione; costituendosi in realtà – che è quanto stiamo per
andare a mostrare – più come radicalizzazione dell’aporia medesima, che come sua effettiva
soluzione. Come dire che, se già nella formulazione ‘semplice’ (A = B), tale predicazione rivela
una sostanziale aporeticità, nella traduzione che della stessa viene operata da Severino
l’aporia si fa ancor più radicale – non concernendo più solamente la forma predicativa
75

considerata nel suo insieme (A = B), quanto i suoi stessi elementi strutturali e semplici, nel
loro esser ‘SOLO APPARENTEMENTE’ semplici>>. - (Pag. 346).
Gli replica altrove Severino:
<<Qui occorre che il mio critico [Donà] non dimentichi quell’articolato insieme di tematiche,
presenti nei miei scritti, in cui si mostra che la contraddittorietà di quegli elementi non è
dovuta al fatto che, intendendo A = B come (A = B) = (B = A) l’aporia, invece di esser risolta si
è fatta “ancora più radicale”, ma è dovuta al modo astratto di intendere quest’ultima
formula. Infatti tale contraddittorietà sussiste solo in quanto quegli elementi siano isolati dalla
concreta identità di identità, ossia da (A = B) = (B = A). In quanto isolati, essi si presentano
daccapo come quel contraddittorio A = B (o quel contraddittorio A = A) in cui qualcosa è
identificato all’altro da sé (che è altro anche in A = A, ossia anche se è lo stesso qualcosa di cui
esso si predica): in quanto isolati, essi sono quella contraddittorietà che produce l’aporia e che
invece è assente nell’apparire del senso autentico di A = B, ossia nell’apparire di (A = B) = (B
= A). Tale isolamento implica la contraddittorietà degli elementi isolati, e ciò significa che
l’isolamento è ancora una volta (analogamente cioè all’isolamento dei “momenti” [N e PS] del
contraddicentesi significato “nulla” [NC]) una negazione dell’incontrovertibile,
un’autonegazione>>. – (Discussioni intorno al senso della verità; pag. 77).
Ma, ancora una volta, Donà non ha affatto dimenticato <<quell’articolato insieme di
tematiche>>, come ritiene Severino.
Lo si ricava perfettamente dai seguenti passaggi:

<<il nostro [Severino] sostiene che, una volta che ci si sia convinti del fatto che soggetto e
predicato non vanno intesi come termini IRRELATI [= separati- isolati]… ovvero, come
semplici “diversi” (presupposti al giudizio) – perché, “in quanto così presupposti [= così
separati- isolati], il soggetto è qualcosa cui non conviene ancora il predicato [= Severino: La
struttura originaria, pag. 271]” – e quindi del fatto che la loro relazione non va intesa come
LOGICAMENTE “ulteriore” rispetto alla POSIZIONE dei termini in quanto tali [cioè in
quanto separati-isolati], non si potrà più sostenere la contraddittorietà del giudizio in
questione. E tutto questo “perché, se quella presupposizione [ = quella separazione] non
sussiste, il predicato non viene affermato di ciò cui, in quanto presupposto alla predicazione,
non conviene tale predicazione, ma di ciò cui, appunto, tale predicazione conviene; o, il
predicato non conviene al soggetto in quanto questo è presupposto alla relazione col
predicato, ma in quanto il soggetto è appunto o già immesso nella relazione, ossia in quanto il
soggetto è già esso sintesi del soggetto e del predicato [ibidem]”. Insomma _ prosegue Donà _, la
forma predicativa in questione (A è B) non apparirebbe più come contraddittoria solo là dove
ci si dimostrasse in grado di riconoscere l’improprietà della sua comune e solo
apparentemente corretta espressione; che va dunque intesa come espressione
irrimediabilmente “ASTRATTA” [= separata-isolata] di una vera e propria tautologia. Quella
in relazione a cui non si predica mai il diverso (B dell’identico (A), ma sempre e solamente
l’identico dell’identico: (A = B) = (B = A)>>. - (Donà; op.cit., pag. 345).
Inoltre:
76

<<Per lui [Severino], […] quello che va evitato è la SEPARAZIONE ASTRATTA tra i poli di
queste ‘relazioni’ – inevitabilmente producentesi, peraltro, là dove tali polarità vengano intese
come elementi “che non intrecciano i loro campi posizionali [= Severino: La struttura
originaria, pag. 275]”>>. - (Donà; ivi, pag. 349).

È perciò evidente quanto Severino sia stato frettoloso nel ricordare a Donà ciò che questi in realtà
non aveva affatto dimenticato…

Comunque, la replica severiniana ha precisato che <<la contraddittorietà di quegli elementi […]
è dovuta al modo ASTRATTO di intendere quest’ultima formula [(A = B) = (B = A)]>>.

Nicoletta Cusano ha parimente osservato che la contraddizione in esame sia <<apparente; essa
dipende […] dalla concezione astratta dell’identità e della diversità>>.

Ma è proprio il ‘semplice’ rilevamento della loro distinzione (cioè della differenza tra ‘A’ e ‘B’; tra
soggetto e predicato) ‘in uno’ (distinzione dell’identico o del non distinguentesi) a costituire già, di
per sé, una contraddizione.
E che ‘l’identità-dei-diversi’ _ l’esser ‘uno-da-parte-dei-diversi’ _ sia una contraddizione, è lo
stesso Severino ad affermarlo a chiare lettere, sebbene per lui sia una contraddizione soltanto se i
termini sono relati MEDIANTE UN DIVENIRE:

<<Poiché pensare che qualcosa (soggetto) è qualcosa (predicato) è identificazione dei non
identici, perché soggetto e predicato sono isolati, sì che la loro relazione è prodotta dal
divenire del pensiero che li unisce [...] il divenire che li unisce è identificazione dei non
identici>> - (Tautòtes).
Ancora:

<<che questa estensione [‘A’] è [ = ] rossa [‘B’], significherà infatti affermare che questa
estensione è non questa estensione (stante che il colore di questa estensione appartiene
all’orizzonte del contraddittorio di essa […] nel senso che allorché si afferma che questa
estensione [‘A’] è [ = ] rossa [‘B’], non si nega che questa estensione sia un’estensione, ma si
afferma che questa estensione _ che è come questa estensione _ è, appunto, rossa; ossia che
l’identico (questa estensione che è questa estensione) è determinato in modo ulteriore rispetto
a quello che costituisce la determinatezza dell’identità. Senonché, nonostante il chiarimento
fatto, l’aporia permane egualmente: appunto in quanto l’identità È altro da sé. Ciò che
provoca l’aporia è appunto _ per usare la terminologia aristotelica _ l’INESIONE della
determinazione accidentale alla determinazione sostanziale; ossia è il fatto che l’una è in
qualche modo l’altra. Ogni giudizio non tautologico (= non identico) sembra pertanto una
contraddizione. E quindi si dovrà dire che ogni complessità semantica avente valore
apofantico è una contraddizione: nella misura in cui sembra che la complessità in questione
non possa equivalere in quanto tale a un giudizio tautologico>> - (La struttura originaria, pag.
269).

Si badi che <<nonostante il chiarimento fatto _ precisa Severino _, l’aporia permane


egualmente […] in quanto l’identità È altro da sé>>!

Essendo, a provocare l’aporia,


77

<<il fatto che l’una [‘A’] è in qualche modo l’altra [‘B’]>>,

cioè il fatto che l’identità cui consiste <<questa estensione [‘A’] è [ = ] rossa [‘B’]>> si traduca in
<<questa estensione [‘A’] è non questa estensione [‘A’]>> ovvero:

<A è non-A>.

L’<<identificazione dei non identici>> si traduce pertanto in un’identità che <<È altro da sé>>,
quindi in una ‘non-identità’ = contraddizione.
Altrimenti, perché Severino avrebbe dovuto metter a punto _ per risolvere tale aporia _ <<un
giudizio tautologico>> come ‘identità-dei-diversi’ che si dica concretamente, però, come ‘identità
degli identici’ o ‘dell’identico’ e che perciò non sottostia alla contraddizione denunciata?

Al fine di ciò, per evitare l’isolamento o separazione tra i termini ‘A’ e ‘B’, il filosofo bresciano
pone ‘A’ come già da sempre inclusivo della sua relazione con ‘B’ (e viceversa). ‘A’ è pertanto solo
momento astratto del concreto cui è A = (A = B) e B = (B = A), nel <<giudizio tautologico>>:

<(A = B) = (B = A)>.

Ma se l’identità di ‘A’ con ‘B’ a dire di Severino è una contraddizione perché è un’identità (tra
diversi) conseguita ossia divenuta tale ( = non-originaria), perciò presupponente la previa irrelatezza
di ‘A’ da ‘B’ (e viceversa), allora, per evitare detta contraddizione, sarà davvero sufficiente
considerarla come DA SEMPRE REALIZZATA ( = originaria, quindi concreta, in quanto il campo
semantico di ‘A’ è da sempre inclusivo di ‘B’ e viceversa)?

Il problema non sembra esser costituito dal fatto che ad ‘A’ appartenga da sempre (o meno) il suo
esser (insieme a o inclusivo di) ‘B’; il problema è piuttosto COME possa non esser una
contraddizione il fatto che ‘A’ sia (IDENTICO a) ‘B’, giacché è proprio Severino a ricordarcelo a
chiare lettere:

<<Affermare che questa estensione [‘A’] è [ = ] rossa [‘B’], significherà infatti affermare che
questa estensione È NON questa estensione [<A ¬A>; ¬<A = A>] (stante che il colore di questa
estensione appartiene all’orizzonte del contraddittorio di essa>> - (La struttura originaria; cit.),
ossia che <A = B> forma comunque una ‘IDENTITÀ-DI-DIVERSI’ o una ‘IDENTITÀ-NON-
IDENTITÀ’, conducendo inevitabilmente a concludere che essa <<È altro da sé>>.

D’altronde, che differenza potrebbe mai sussistere tra una contraddizione ‘divenuta’ tale (da parte di
‘A’ e ‘B’ originariamente estranei l’un l’altro/isolati), ed una contraddizione ‘originaria’, cioè ove il
<<contraddittorio>> di ‘A’ (cioè ‘B’) sia da sempre unito al suo <<contraddittorio>> (cioè ‘A’)?
Forse, cessa per questo di esser IL SUO <<contraddittorio>>?

Ovvero: se l’‘identità-dei-diversi’ costituisce contraddizione in quanto è ‘identità-tra contraddittori’,


in che senso, allora, posta come originaria, tale identità CESSEREBBE di essere ‘tra
contraddittori’?
78

Una contraddizione o è sempre tale, oppure non lo è mai; se essa è rilevata come contraddizione,
ciò deve essere indipendentemente dal ‘modo’ in cui essa è tale...

Forse perché l’inclusione di ‘B’ nel campo posizionale di ‘A’ (e viceversa) è tale da sempre quindi
non è il risultato di un ‘divenire’? Di modo che, qualora fosse invece divenuta, ‘A’ si ritroverebbe
originariamente ad esser il soggetto di un predicato che non gli sarebbe mai convenuto e da ciò,
pertanto, scaturirebbe la contraddizione in esame?

Che ‘A’ includa da sempre (originariamente) nel suo campo posizionale il proprio
<<contraddittorio>> (ciò vale anche per ‘B’, ovviamente), non rende però, tale
<<contraddittorio>> non-contraddittorio, quindi non fa sì che l’identità tra ‘A’ e ‘B’ si costituisca
come ‘identità-tra-NON-diversi’ o ‘non-contraddizione’, giacché detta ‘originarietà’ non dice altro
se non, appunto, l’originarietà da parte di una contraddizione!

Nella ‘soluzione’ severiniana, ‘B’ _ cioè <<il colore>> (di ‘A’) _ non dovrebbe neppure
originariamente appartenere <<all’orizzonte del contraddittorio>> di ‘A’.

L’originarietà della relazione non può esser la soluzione dell’incontraddittorietà dell’‘identità-dei-


diversi’ (o dell’‘identico-diversificato’) bensì _ ribadiamo _ è semplicemente la constatazione di
una contraddizione ‘scolpita’ nell’eternità immutabile del suo esser da sempre contraddizione
(fenomeno-logica!) appunto originaria…

Che ‘A’ di <A = B> sia concretamente (incontraddittoriamente) da leggersi _ secondo Severino _
come ‘(A = B)’ unitamente a ‘B’ come ‘(B = A)’, vorrebbe indurci a leggere ‘(A = B)’ come
perfetta (quanto incontraddittoria) IDENTITÀ DEI ‘NON-DIFFERENTI’:
‘A = (A = B)’ è identico a ‘B = (B = A)’, quindi:

<(A = B) = (B = A)>, della quale formula, ‘(B = A)’ si costituirebbe come semplice <<ripetizione
(o posizione) del medesimo>> e non ulteriormente sviluppabile, cioè di ‘(A = B)’, valevole perciò
come identità (concreta) dell’identità.

Qualora, invece, ‘A’ e ‘B’ fossero considerati nella loro differenza _ cioè in quanto ‘A-soggetto’ e
‘B-predicato’, quindi: <A = B> com’è d’uso nella comune predicazione, allora dovremmo leggere
<A = B> come perfetta (quanto contraddittoria) IDENTITÀ DEI ‘NON-IDENTICI’, giacché nel
campo posizionale dell’uno non sarebbe saputa l’originaria inclusione del campo posizionale
dell’altro.
Come ha scritto Nicoletta Cusano:

<<soggetto e predicato sono distinguibili dalla concretezza dell’identità; ma tale distinzione è


allora la distinzione tra la posizione astratta e la posizione concreta dell’identità>> - (cit).

Sempre a proposito della Cusano: <<ripetizione>>, diceva poco sopra:

<<[…] Da un punto di vista formale, predicare è ripetere e quindi “l’analisi del concreto trova
certamente ripetuto l’astratto; ma il concreto non è semplicemente l’astratto ripetuto, perché
ciò che è posto nella ripetizione è posto insieme come predicato di sé medesimo [Severino; ivi,
79

pag. 191]”. […] nell’affermazione “l’essere è essere” [E = E] il soggetto e il predicato, PER


QUANTO DISTINTI, NON SONO DUE TERMINI MA LA RIPETIZIONE (O POSIZIONE)
DEL MEDESIMO>> (maiuscolo mio).

Perciò abbiamo:

<E1 = E2>,

ove la distinzione è data dal numero della posizione di ciascun E, cosicché:


<(E1 = E2) = (E2 = E1)>.

La Cusano afferma che <<il soggetto [‘(E1 = E2)’] e il predicato [‘(E2 = E1)’], PER QUANTO
DISTINTI, NON SONO DUE TERMINI>>.

Ma se <<non sono DUE termini>>, allora perché vengono detti <<DISTINTI>> (DIVERSI)?

È inevitabile che i due ‘E’ differiscano, come minimo perché ‘(E1 = E2)’ è soggetto ed ‘(E2 = E1)’
è predicato. Soggetto e predicato differiscono sempre, ANCHE nella proposizione <E1 = E2>. (A
questo proposito occorrerebbe citare Hegel...).

Già la semplice negazione che essi siano <<due termini>> implica quantomeno l’apparire del loro
SIGNIFICARE-COME-DUE, cosicché appaia l’urgenza di negarne la dualità.
Non va meglio precisando che

<<ciò che è posto nella RIPETIZIONE è posto insieme come predicato di sé medesimo
[Severino; ibi, pag. 191]”>>,

perché il <<predicato [‘(E2= E1)’] di sé medesimo [‘(E1 = E2)’]>> comporta pur sempre la
DIFFERENZA tra <<sé>> (soggetto) e il <<predicato>> <<posto nella ripetizione [‘(E2= E1)’]>>,
per cui essa _ LA DIFFERENZA _, SCATURISCE DALLA FATALE ‘RIPETIZIONE’ (che a
questo punto non ‘ripete’ bensì DIVERSIFICA, o diversifica proprio in quanto ripete) di quel
differente cui è il soggetto, dal momento che il predicato non è la ripetizione di sé (ossia del
predicato) ma del soggetto, così come il soggetto non è ripetuto dal soggetto, ma dal predicato.

Anche volendo scrivere: <(E1 = E1) = (E1 = E1)>, il primo ‘E1’ sarebbe COMUNQUE DIVERSO
dal secondo ‘E1’, così come il terzo ed il quarto… se è vero come è vero che qualsivoglia
ripetizione è DIFFERENZIAZIONE _; e allora dovremmo forse scrivere soltanto <E>? …

Com’è possibile, d’altronde, porre realmente la <<ripetizione>> evitando al contempo che essa –
proprio perché tale _ sia POSIZIONE-di-diversi?

Non è davvero possibile, giacché l’identico in quanto tale è sempre comunque


DIFFERENZIANTE-SÉ _ identità di soggetto (E1) E predicato (E2) _, onde i termini dell’identità
non riescano ad evitare la differenza (per quanto minima) degli stessi termini che si vorrebbero
invece trasformare negli identici cui consisterebbe la supposta concretezza dell’identità
incontraddittoria.
80

<<Da un punto di vista formale, predicare è ripetere>>, quindi:

1a)- predicare è IDENTIFICARE <E = [è] E)>;

1b)- predicare è altresì RIPETERE <E1 = E1>;

2)- ripetere è però DIVERSIFICARE <E1 = E2>;

allora

3)- identificare è (uguale a) DIVERSIFICARE <(E = E) = (E1 ≠ E2)>,

o anche: <(E = E) ≠ (E = E)>.

Detto ciò, per quanto concerne la supposizione che la contraddizione in esame sia
<<apparente>>, poiché essa dipenderebbe <<dalla concezione astratta dell’identità e della
diversità>> in quanto <<“se l’identità è intesa come identità di momenti astratti, non si può
non affermare che condizione dell’identità è la contraddizione, stante che la differenza,
richiesta dal costituirsi dell’identità, non può essere riferita che all’identico in quanto tale
[Severino, ibi, pag. 193]”>>,

ci si domandava perché, allora, non scrivere

<(E1 = E1) = (E1 = E1)>, o <(dx = dx) = (dx = dx)>,

anziché

<(E1 = E2) = (E2 = E1)>, o <(dx = dy) = (dy = dx)>?

Differenze puramente segnico-linguistiche?

Perché, evidentemente, se già a livello noematico ‘E1’ DIFFERISCE comunque da ‘E2’, così come
‘(E1 = E2)’ differisce altrettanto da ‘(E2 = E1)’, allora risulta impossibile asserire che ‘E’, seppur
concretamente inteso, sia da leggersi come ‘(E1 = E2)’; avremmo infatti, nuovamente, ‘l’identità-
dei-diversi’ come contraddizione originaria _ poiché ‘(E1 = E2)’ differisce da ‘(E2 = E1)’ tanto
quanto ‘E1’ differisce da ‘E2’_, dal momento che tali differenti (soggetto e predicato) intendono
inevitabilmente valere come ‘identità-di-uno’, ossia:

come ‘idem-entità’, come ‘identica-entità’, come ‘ταὐτότης’, come ‘non-differenza’ dei differenti o
come ‘identità-dei-non-identici’.

Non a caso, si ricordi, Severino ricorre al termine: <<giudizio TAUTO-logico>>, a suo dire
risolutivo. Ma perché egli cerca così strenuamente un ‘giudizio identico’ che cioè dica il
MEDESIMO, immacolato dalla suddetta contraddizione cui l’unità fra diversi dà luogo?
81

Già lo sappiamo: perché, (giova ricordarlo ancora)

<<“se l’identità è intesa come identità di momenti astratti, non si può non affermare che
condizione dell’identità è la contraddizione>>.

Severino non nega affatto le differenze, tutt’altro; le eternizza, com’è ben noto. Pertanto il suo
<<giudizio tautologico>> non intende affatto eliminarle o con-fonderle:

<<dx non è dy in quanto dx e dy siano considerati come distinti>>. - (Severino; La struttura


originaria, pag. 276).

Appunto, MA IN QUANTO <<siano considerati come distinti>>!

Implicando che, qualora fossero invece considerati concretamente, allora <<dx>> e <<dy>>
sarebbero IL MEDESIMO E NON-DISTINGUIBILI!

Come a dire che per sfuggire alla contraddizione in esame, il giudizio tautologico deve, nella
propria presunta incontraddittoria concretezza (cioè nella propria supposta verità), RINUNCIARE
ALLA DISTINZIONE tra <<dx>> e <<dy>>, altrimenti, distinguendoli, <<dx>> sarebbe
contraddittoriamente identico a <<dy>>!

Tuttavia, come il piano F (fenomenologico) _ al quale Severino rimane fedele tentando, però, di
formalizzarlo nella valenza ‘onto-logico-predicazionale’ da lui ritenuta incontraddittoria _, continua
a mostrare la ‘DIFFERENZA-DI-UNO’ (<dx è dy>), ugualmente, anche il piano L (logico) non può
evitare ‘l’identità-come-differenza’ nonostante la messa a punto della sua predicazione ‘identica-
concreta-dianoematica-incontraddittoria’.

Ma continuare a mostrar tale ‘identità-differenziantesi’ internamente alla suddetta predicazione


significa non solo ripresentare l’originaria contraddittorietà di essa, ma anche continuare a non
spiegare perché il ‘campo posizionale’ di un soggetto ‘distinto’ o ‘astratto’ non possa contenere _
quantunque separato da _ il ‘campo posizionale’ del predicato astratto dal soggetto.

Si risponderà:

MA PROPRIO PERCHÉ SONO SEPARATI, cosicché al soggetto non possa convenire il predicato
in quanto giammai conveniente al soggetto!

Tuttavia:

perché NON sarebbe contraddittorio che al soggetto ‘x’ spetti originariamente il predicato ‘y’?

anche qui risponderà:

ma proprio perché APPARE (fenomenologicamente) che il predicato spetti al soggetto


ORIGINARIAMENTE!
82

E perché l’apparire di tale ‘originaria-reciproca-appartenenza’ non è da ritenersi l’apparire de:

la contraddizione originaria?

RF
83

12)- APORETICITÀ DELL’ENTE-LINGUAGGIO

Il mondo viene al linguaggio; il linguaggio è l’apparire del SIGNIFICARE del mondo.


Possiamo dire che ogni ente è e significa ciò che è e significa soltanto perché il suo essere ed il suo
significare si mostrano ineludibilmente come LINGUAGGIO/SIGNIFICARE.

Ciò presuppone la distinzione tra mondo e linguaggio.

Ma sarà proprio questa stessa distinzione a strutturare L’APORETICITÀ di tale rapporto.

Quel che nel post n° 2 ho ritenuto esser L’APORIA DELL’ESSERE nella sua valenza
generale/universale, qui, tale aporeticità si mostra massimamente evidente nel mostrarsi dell’ENTE-
LINGUAGGIO.

Non già per ciò che esso (si) dice _ come VOLONTÀ di assegnare un significato alla ‘cosa’, ovvero
di VOLER far esser altro-da-sé il designato _, quanto per ciò che esso È come ENTE-
LINGUAGGIO.
Prendiamo come esempio l’ente (complesso) cui è

1. QUESTA LAMPADA È ACCESA: piano Fenomenologico, ovvero della ‘cosa’ o dell’ente (DE)
che appare.
2. <<QUESTA LAMPADA È ACCESA>>: piano del Linguaggio o del Segno o del Significare che
dice/significa l’apparire di 1.

3. +QUESTA LAMPADA È ACCESA+ è il SEGNO GRAFICO mediante il quale 1 e 2 si rendono


noti.
Scrive Emanuele Severino:

<<L’apparire di qualcosa _ ad esempio l’alternanza di giorno e notte [1] _ è insieme l’apparire della
forma linguistica [2] che indica tale qualcosa [1]>> (La filosofia futura; Rizzoli 1989, pag. 200).

<<Il mondo appare, ma appare circondato dal linguaggio che si riferisce al mondo e che è una parte
del mondo; la cosa [1] non appare senza la parola [2,3], ma accompagnata dalla parola che la
nomina e la “ferma”, appare sul piedistallo, sul trono della parola. L’apparire delle cose [1] è
apparire delle cose nel loro essere affermate [2,3], è l’apparire dell’affermazione [2,3] delle cose [1]
(ossia è l’apparire delle cose, dell’affermazione di esse e del rapporto tra affermazione [2,3] e
cose[1]) _ e l’“affermare” è il “fermarsi” alla cosa [1] da parte della parola [2,3]. Ma se l’apparire
del mondo [1] è insieme apparire delle parole [2,3] che affermano il mondo, a sua volta
84

l’affermazione non è semplicemente parola>>. - (Ibidem).

<<Sicché l’AFFERMARE [2,3] che questa lampada è accesa non è una semplice struttura
linguistica, ma è lo stesso APPARIRE del suo [di 1] essere accesa, dove il suo essere accesa appare
nel suo essere indicato, cioè af-fermato dalla struttura linguistica “questa lampada è accesa” [2,3].
L’affermare è l’apparire; l’apparire è l’affermare>> (ivi, pag. 201).

Alle pagg. 215-16:

<<C’è linguaggio, solo quando certi eventi _ certe forme visibili e certi suoni _ sono SEGNI. Essere
segno [2,3] significa essere in una certa relazione, essere cioè in relazione con ciò [1] di cui il segno
[2,3] è segno; e tuttavia questo qualcosa [1] è in qualche modo presente nel segno [2,3], rendendolo
così il proprio [di 1] segno [2,3]. Essere segno [2,3] significa essere ciò in cui è in qualche modo
presente il qualcosa [1] di cui il segno è segno. Ma in che consiste questa “presenza”? [...]
L’apparire del linguaggio è l’apparire della presenza del significato [1] nel segno [2,3]. È per tale
presenza [di 1] che il segno [2,3] è segno. [...] se nel segno non fosse in alcun modo presente il
significato [1], il segno non sarebbe tale, ma una semplice forma visibile [3] o un semplice suono.
[...] Ed è per questa presenza [di 1] che del segno [2,3] si dice anche che è immagine,
rispecchiamento, imitazione, sostituto, aspetto, simulacro [...] del significato. Le cose [1] “lasciano
il loro segno” nel linguaggio [2,3]. Il linguaggio è il segno [2,3] lasciato dalle cose [1]. Dicendo che
il linguaggio appare, si dice che appare che le cose “lasciano il loro segno” nel linguaggio. Ma,
daccapo, in che consiste questo “lasciare il segno” _ cioè questa “presenza” della cosa [1] nella
parola [2,3]?>>.

E a pag. 218:

<<[...] l’affermazione che un certo evento visibile (o in generale sensibile) sia un segno [2], e sia il
segno di un certo significato [1], è una DECISIONE, un VOLERE. È la VOLONTÀ a VOLERE
che qualcosa [2,3] sia il segno lasciato da una cert’altra cosa [1], sì che questa cert’altra cosa possa
in qualche modo apparire anche quando appare soltanto la cosa in cui essa è “presente”>>.

Severino precisa però che <<le cose [1] NON SONO presenti nel segno [2,3], ma SI VUOLE che lo
siano; non lasciano il loro segno, ma SI VUOLE che lo lascino. La volontà è fede, certezza. [...]
L’apparire del linguaggio è l’apparire di questa certezza, di questa fede. La volontà _ cioè la fede, la
certezza della fede _ è il modo in cui il mondo appare nella non verità. [...] che qualcosa SIA segno
[2,3] non appare. Appare che qualcosa è ASSUNTO, VOLUTO, e quindi usato come segno>>. -
(Tutti i maiuscoli corrispondono ai corsivi nel testo di Severino).

Ai fini del discorso, prendiamo PER BUONO tutto ciò che ha appena scritto Severino.

Al di là della tesi severiniana secondo la quale, che il NESSO tra 2(3) e 1 sarebbe un VOLUTO
dalla (o una fede della) VOLONTÀ interpretante (NON È QUESTO ciò che interessa qui), secondo
Severino appare comunque <<Che il segno [2,3] sia segno di qualcosa [1] è una affermazione
NECESSARIA _ posto che il termine “segno” indichi qualcosa [2,3] in cui è presente, in un certo
modo, qualcos’altro [1]. Negare che il segno [2,3] sia segno di qualcosa [di 1] è negare che il segno
85

sia segno. È NECESSARIO che il segno [2,3] sia segno (cioè che un certo ente [DE] sia sé
stesso)>>. - (Severino, ivi, pag. 216. Per i maiuscoli vale quanto detto poc’anzi).

Ecco, QUESTO, è ciò che qui interessa.

Quindi: 1 è un ENTE, così anche 2(3) lo è.

Se 1 appare, allora appare unitamente all’apparire di 2(3). L’apparire di 1 è detto con e nell’apparire
di 2(3). 1 appare in 2(3), come 2(3). È grazie a 2(3) che 1 è ciò che è, significa ciò che significa.

Infatti Severino ha ripetuto più volte che ogni <<qualcosa [1] È IN QUALCHE MODO
PRESENTE nel segno [2,3]>> - (maiuscolo mio).

Precisando però che

<<le cose [1] NON SONO presenti nel segno [2,3], ma SI VUOLE che lo siano; non lasciano il loro
segno, ma SI VUOLE che lo lascino.

È chiaro: se 1 fosse <<PRESENTE>> in 2(3) (d’ora in poi solo 2 per semplicità espositiva), sarebbe
fatale per la costruzione severiniana, perché si realizzerebbe l’identità dei diversi (1 = 2).

E tuttavia, voluto o non voluto, creduto o non creduto, l’apparire di 2 <<è l’apparire della
PRESENZA del significato [1] nel segno [2]. È per tale PRESENZA [di 1] che il segno [2] è segno.
[...] se nel segno non fosse in alcun modo PRESENTE il significato [1], il segno non sarebbe tale,
ma una semplice forma visibile [3] o un semplice suono>> - (maiuscoli miei).

QUESTO è il punto.

***

APORIE

* L’ente-linguaggio (2) non è <<una semplice forma visibile o un semplice suono [3]>>, afferma
Severino. Esso (2) è quell’ente il cui apparire è INSIEME l’apparire DELL’ALTRO-DA-SÉ-(1)-
IN-SÉ-(2) (cioè dell’apparire di 2 come 1).

(Naturalmente, il linguaggio non è il medesimo DELL’APPARIRE dell’ente che appare, perché


l’apparire è trasparenza, il linguaggio dice-e-significa l’ente stesso che appare, quindi la non-
trasparenza per eccellenza).

* L’ente-linguaggio (2) appare COME SÉ E COME ALTRO-DA-SÉ, ovvero appare come 2 e al


contempo come 1, se è vero che 1 appare in 2 e 2 è l’apparire di 1.
86

* Il PER-SÉ di 2 è al contempo il PER-ALTRO (1) o il NON-PER-SÉ di 2.

* L’ESSER-SÉ di 2 è al contempo l’ESSER-SÉ-DELL’ALTRO-DA-SÉ (esser 1).

* 2 è presente (appare) COME 1, o è presente COME quell’altro-da-sé cui è 1.


1 è presente (appare) COME 2, o è presente COME quell’altro-da-sé cui è 2;

Esaminiamo adesso possibili obiezioni a quanto appena detto:

A)- o tutto è 2 _ linguaggio _, e allora non c’è reale distinzione tra 1 e 2, quindi non c’è neppure
contraddizione, giacché vi sarà soltanto 2, esprimente unicamente se stesso, le cui differenze (1 e 2)
saranno apparenze linguistiche INTERNE dell’unico solo reale esistente: 2.

………………….

B)- Oppure si ritiene 1 e 2 DISTINGUERSI REALMENTE, sono cioè ALTRO l’un dall’altro,
ovvero piano-Fenomenologico (1) e piano-Logico (2). Questa distinzione, oltre che esser detta pur
sempre da 2, rischiando così di rientrare tutta in A, evidenzia altresì la propria aporeticità, perché
per esser rinvenibile come davvero ALTRO da 2, 1 non dovrebbe venir detto (non dovrebbe
apparire) come 2, e perciò non potrebbe neppur venir detto come ALTRO-da-2, perché per dirlo
ALTRO, 1 dovrà essere detto (apparire) innanzitutto come 1 e AL CONTEMPO come ALTRO-da-
2 il quale 2, però, lo dice (ovvero: 2 dice 1 che è altro da 2) come 1-NON-DETTO-DA-2 (in quanto
autonomo o distinto da 2), rimanendo così _ 1 _, un perfetto sconosciuto, un punto di domanda...

Se cioè 1 fosse saputo come ALTRO DA 2, tale esser COSÌ saputo sarebbe comunque 2; in ogni
caso 1 sarebbe detto da 2, non potendosi costituire autonomamente rispetto a 2, giacché anche tale
‘autonomia’ sarà detta sempre da 2...

Insomma, 2 sarà sì DISTINTO da 1, ma al contempo NON LO SARÀ AFFATTO, perché 2 dice sé


unitamente dicendo quel non-sé (quel non-2) cui è l’apparire di 1 (nel modo in cui 1 appare, per
come appare).

In quanto distinto da 1, 2 dice 1 come non-distinto-da-sé, perché se 1 fosse distinto-dal-sé-di-2, il


sé-di-2-distinto-da-1 non direbbe 1, come si vedrà sotto, al punto E.

Ma il sostenitore della DISTINZIONE ORIGINARIA tra 1 e 2 non demorde e potrà sempre


osservare come non vi sia IDENTITÀ-DEI-DIVERSI, in quanto “qui” vi è 2 che dice, e “là” è 1 che
è detto; in tal modo, 2 rimarrebbe soltanto una indicazione ESTERNA rispetto a 1, pur
rispecchiandolo.

Per farla breve: CIÒ-CHE-È-DETTO (il linguaggio, 2) NON È _ così pensa il suddetto sostenitore
_ la ‘cosa’ detta (1).

Ma intanto: 1, la ‘cosa’ detta, si ritrova comunque e sempre come 2, cioè come DETTA, giacché:
QUESTA LAMPADA È ACCESA (1) (piano Fenomenologico)
si traduce immediatamente in: <<QUESTA LAMPADA È ACCESA>> (2).
87

Cosicché la distinzione tra 1 e 2 si ritrova nuovamente tutta INTERNA al linguaggio (o interna a 2).

La distinzione originaria tra 1 e 2 si rivela come loro originaria IN-DISTINZIONE, come


APORETICA IDENTITÀ di 1 e 2.

Paradossalmente, per ovviare a tale aporia, 1 e 2 non dovrebbero venir distinti, ossia dovrebbero
essere il medesimo: 2, cioè interamente linguaggio.

Ma la loro posizione è posizione tra già distinti, altrimenti sarebbero perfettamente sinonimi. E
allora, così distinti, si mostrano identici, in quanto ogni 1 appare-COME-2, ed ogni 2 è l’apparire-
DI-1...

.............................

C)- Oppure _ si potrà obiettare _ 1 PRECEDE 2, cosicché l’apparire di 2 o del linguaggio sia
soltanto l’apparire dell’erronea volontà o fede <<che un certo evento visibile (o in generale
sensibile) sia un segno [2], e sia il segno di un certo significato [1]>>, con la conseguenza che 1
PRECEDE DA SEMPRE l’apparire di 2 e quindi, NON essendo in verità <<le cose [1]>>
<<presenti nel segno [2], ma SI VUOLE che lo siano>>, allora tale IDENTITÀ-DI-2-CON-1 <<è il
modo in cui il mondo appare nella non verità>>, giacché, sempre secondo Severino, <<che
qualcosa SIA segno [2] non appare. Appare che qualcosa è ASSUNTO, VOLUTO, e quindi usato
come segno>>.

Senonché, pur <<nella non verità>>, <<POSTO che il termine “segno” indichi qualcosa [2] in cui è
presente, in un certo modo, qualcos’altro [1]>> (maiuscolo mio), <<Negare che il segno [2] sia
segno di qualcosa [di 1] è negare che il segno sia segno. È NECESSARIO che il segno [2] sia segno
(cioè che un certo ente [DE] sia sé stesso)>>.

Pertanto, NONOSTANTE il linguaggio del nichilismo appaia (SUCCESSIVAMENTE) nella e


come <<non verità>>, tuttavia, che <<il segno [2] sia segno di qualcosa [di 1]>> costituisce
comunque l’identità-con-sé di quell’ente cui è 2 o il linguaggio, e cioè che l’identità-con-sé-di 2
consiste nel suo esser identico al proprio altro, a 1.

QUESTO, ripeto, è ciò che conta ai fini del presente esame.


........................

D)- Severino ha ripetuto più volte che ogni <<qualcosa [1] È IN QUALCHE MODO PRESENTE
nel segno [2]>>; <<È per tale PRESENZA [di 1] che il segno [2] è segno. [...] se nel segno non
fosse in alcun modo PRESENTE il significato [1], il segno non sarebbe tale, ma una semplice forma
visibile o un semplice suono. [...] Ed è per questa PRESENZA [di 1] che del segno [2] si dice anche
che è immagine, rispecchiamento, imitazione, sostituto, aspetto, simulacro [...] del significato. Le
cose [1] “lasciano il loro segno” nel linguaggio [2]. Il linguaggio è il segno [2] lasciato dalle cose
[1]>> - (maiuscoli miei).

Ma a differenza di quanto detto nei post 1 e 2 circa le determinazioni ‘A’ e ‘B’, qui, non ci si può
avvalere della PRESENZA di 1 in 2 COME NEGATO.
88

Se così fosse, 2 sarebbe unicamente l’apparire di se stesso, non di 1.


In 2, 1 è interamente, pienamente affermato, esposto, detto, mostrato, significato...

Così, in 1 non vi è alcunché che sia nascosto a 2, perché se lo fosse, tale nascondimento apparirebbe
comunque come saputo, come 2, perciò 2 dice tutto di 1, nel modo in cui 1 appare in 2...

Pertanto, LA PRESENZA di 1 in 2 è senza residui _ sempre stando al discorso di Severino _, e non


è una TRACCIA NEGATA, bensì _ all’opposto _ una PIENEZZA AFFERMATA.

Vero, il concetto (2) di “fuoco” non brucia, come invece brucia il fuoco reale (1).

Questo dovrebbe mostrare l’irriducibilità di 1 a 2, quindi la loro originaria distinzione.

Ma, come osserva Severino, <<POSTO che il termine “segno” indichi qualcosa [2] in cui è
presente, in un certo modo, qualcos’altro [1]>> (maiuscolo mio), cioè <<POSTO>> che il segno
“bruciare del fuoco” (2) <<indichi qualcosa in cui è presente, in un certo modo, qualcos’altro [1]>>
cioè il fuoco-che-brucia (1) in atto _ cioè nel mentre che 1 appare, onde sia rilevato COME 2 _,
allora il concetto di “fuoco” che NON brucia è l’apparire di 2 privo dell’apparire del fuoco che
brucia (1) o di 2 come apparire di ALTRO-1 rispetto allo 1 in oggetto...

.........................

E)- Si potrà forse ribadire la DISTINZIONE tra 1 e 2, quindi la NON-IDENTITÀ di 1 e 2,


rilevando _ da parte di quest’altra obiezione _ che la specificità ontica _ l’identità-con-sé _ di 2
consista nell’esser SEGNO GRAFICO o ACUSTICO (3)?

Tuttavia:

se il SEGNO GRAFICO: +QUESTA LAMPADA È ACCESA+ (3) indica graficamente il


significato: <<QUESTA LAMPADA È ACCESA>> (2), allora tale segno è già tutt’uno con 2, è già
2, INDISTINGUIBILE, perché se lo fosse, avremmo da un lato il segno grafico +QUESTA
LAMPADA È ACCESA+ (3) del tutto muto, o indecifrabile ed insignificante, e dall’altro il
significante <<QUESTA LAMPADA è ACCESA>> (2) come significato ALTRO da +QUESTA
LAMPADA È ACCESA+ (3).

Ma così, <<QUESTA LAMPADA è ACCESA>> (2) non sarebbe più significante <<QUESTA
LAMPADA è ACCESA>> (2), appunto perché è stato DISTINTO (non dico SEPARATO) da
+QUESTA LAMPADA È ACCESA+ (3) onde quest’ultimo si riveli muto, giacché considerato
come mero SEGNO GRAFICO, esso non significa <<QUESTA LAMPADA è ACCESA>> (2), e
non significandolo, <<QUESTA LAMPADA è ACCESA>> (2) CESSA a sua volta di significare
sia se stesso _ in quanto, ripeto, 2 sarebbe distinto, altro dal suo segno grafico: +QUESTA
LAMPADA È ACCESA+ (3) _, sia CESSA di significare QUESTA LAMPADA è ACCESA (1),
perché se 2 distinto da 3 non è più 2 (né 3 è più 3), allora neppure 1 sarà più 1, in quanto, per esser
1, deve apparire come 2, quindi come 3...
89

Insomma, 3 non può costituire il ‘quid’ ontico o l’identità-con-sé di 2, distinto da 2. Essi sono
tutt’uno. Né 2 può distinguersi da 1, poiché _ anche in questo caso _, se il significato: <<QUESTA
LAMPADA È ACCESA>> (2) si costituisce come l’apparire di QUESTA LAMPADA È ACCESA
(1), allora 2 è già 1, è indistinguibile da 1 perché, se lo fosse, avremmo da un lato il significato:

<<QUESTA LAMPADA È ACCESA>> (2) senza alcuna LAMPADA ACCESA (1) _ ossia
avremmo il piano-Logico scisso dal piano-Fenomenologico, tenendo presente che stiamo parlando
DI QUESTA LAMPADA ACCESA (1) che appare F-immediatamente _, e dall’altro la ‘cosa’
significante cui è QUESTA LAMPADA È ACCESA (1) indipendente (altra) dal significato:

<<QUESTA LAMPADA È ACCESA>> (2). Cosicché avremmo il significato <<QUESTA


LAMPADA È ACCESA>> (2) che non dice QUESTA LAMPADA È ACCESA (1), e QUESTA
LAMPADA È ACCESA (1) non detta da <<QUESTA LAMPADA È ACCESA>> (2).

Conseguentemente, QUESTA LAMPADA È ACCESA (1), non essendo (detta da) <<QUESTA
LAMPADA È ACCESA>> (2), non sarà neppure QUESTA LAMPADA È ACCESA (1), né
<<QUESTA LAMPADA È ACCESA>> (2) sarà l’apparire di QUESTA LAMPADA È ACCESA
(1)...

L’ente-linguaggio (2) mostra nel modo più lampante l’aporeticità del suo esser il proprio altro-da-
sé...

RF
90

13)- <<ESSERE INSIEME>>?

SEVERINO: <<Il linguaggio continua a dire che A è B; ma dice l’impossibile. Dice


l’impossibile anche se A = B è pensato come (A = B) = (B = A). Solo se al di sotto della forma
linguistica “A è B” si pensa l’ESSERE INSIEME a B da parte di A, si può continuare a dire
che (A = B) = (B = A). La formula adeguata è dunque: [A = (insieme a B)] = [(insieme a B) =
A]. Tuttavia, anche il linguaggio che tenta di mostrare il destino della verità può continuare a
dire (come accade anche in queste pagine) che A è B, che questa superficie è bianca, il cielo è
sereno, Socrate è un uomo, quest’ombra è sulla parete, la lampada è accesa (cioè, come in
queste esemplificazioni di “A è B”, può continuare ad esprimere come identità i contenuti non
identici dell’interpretazione - e anche quei contenuti che invece non hanno questo carattere).
In questo linguaggio appare l’impossibilità che A sia B (ossia non -A); ma dicendo che A “è”
B, esso intende questo “essere” come un “essere insieme”; e dicendo (A = B) = (B = A) esso
intende [A = (insieme a B)] = [(insieme a B) = A] (intende che è A-che-è-identico-al-suo-essere-
insieme-a-B ad essere insieme a B, ossia a quell’essere-insieme-a-B che è identico ad A)>>

- (E. Severino, Tautótes; pag. 152).

1)- <<Il linguaggio continua a dire che A è B; ma dice l’impossibile [...]. Tuttavia, anche il
linguaggio CHE TENTA DI MOSTRARE il destino della verità può continuare a dire (come accade
anche in queste pagine) che A è B [...]>> (maiuscolo mio).

Stante a quanto si è indicato e discusso nel mio post n° 4 <<CHI TESTIMONIA LA VERITÀ?>>,
penso di dover ribadire che <<il linguaggio CHE TENTA DI MOSTRARE il destino della verità>>
NON può cominciare neppure come TENTATIVO di mostrarLO.

<<Il linguaggio continua a dire che A è B; MA DICE L’IMPOSSIBILE>> proprio in virtù delle
premesse filosofiche severiniane.

Dunque, se è vero che <<DICE L’IMPOSSIBILE>> e se ‘IMPOSSIBILE’ significa ‘NON-


POSSIBILE’, allora <<il linguaggio che tenta di mostrare il destino della verità>>*NON* <<può
continuare a dire (come accade anche in queste pagine [di Severino]) che A è B, che questa
superficie è bianca [...]>>, giacché un’IMPOSSIBILITÀ non si attenua (non diventa cioè ALTRO-
DA-SÉ, secondo Severino) rilevando che <<se al di sotto della forma linguistica “A è B” SI
PENSA l’essere insieme a B da parte di A>>, allora <<si può continuare a dire che (A = B) = (B =
A)>>.

Perché neppure QUEL PENSARE sarà esente dall’anzidetta IMPOSSIBILITÀ, visto che
PENSARE <<l’essere insieme a B da parte di A>> si esplica pur sempre mediante il sottinteso
91

linguistico <<A = B>>, PENSANDO pertanto <<l’impossibile ANCHE se A = B è PENSATO


come (A = B) = (B = A)>> (maiuscolo mio).

Onde per cui, ritenere che <<[A = (insieme a B)] = [(insieme a B) = A]>> sia la <<formula
adeguata>> è e rimane un TENTATIVO di ritenerla <<adeguata>>.

***

2)- <<In questo linguaggio _ prosegue Severino _ appare l’impossibilità che A sia B (ossia non -A);
ma dicendo che A “è” B, esso INTENDE questo “essere” come un “essere insieme”; e dicendo (A
= B) = (B = A) esso INTENDE [A= (insieme a B)] = [(insieme a B) = A] (INTENDE che è A-che-
è-identico-al-suo-essere-insieme-a-B ad essere insieme a B, ossia a quell’essere-insieme-a-B che è
identico ad A)>> (maiuscolo mio).

... <<INTENDE>>?

Ma per poterLO così INTENDERE, il pensiero che lo intende dovrebbe poterSI sottrarre dal dirLO
come <<l’impossibile>>, altrimenti lo penserebbe come POSSIBILE nel mentre che lo dice nella
forma dell’IMPOSSIBILE, forma mediante la quale i libri stessi di Severino sono composti (così
come ogni altro dire/comunicare)...

Curiosa evenienza, questa, la quale permette di dire con facilità (esprimendosi comunemente
mediante) LA CONTRADDIZIONE cui è <<A = B>>, ma NON consente di dire (esprimendosi
comunemente mediante) quel supposto dire INCONTRADDITTORIO cui sarebbe <<[A= (insieme
a B)] = [(insieme a B) = A]>>!
Eppure dovrebbe accadere il contrario, giacché secondo Severino il CONTRADDITTORIO <<A =
B>> dovrebbe esser INDICIBILE quindi INCOMUNICABILE, mentre l’INCONTRADDITTORIO
sarebbe ciò che si deve pensare, dire/comunicare INCONTRADDITTORIAMENTE quindi
INTELLIGIBILMENTE...

***
3)- Il pensato (incontraddittorio, secondo Severino) <<[A= (insieme a B)] = [(insieme a B) = A]>>,
NON COINCIDE col (contraddittorio) detto/parlato <<A = B>>.

Infatti, se si pensa ‘x’ per poi dirLO/scriverLO ‘y’, NON si sta dicendo ‘x’.

Se si dice/scrive ‘y’ intendendoLO (pensandoLO) però come ‘x’, NON si sta intendendo (pensando)
‘x’.
***

4)- Sostenendo che <<QUESTO LINGUAGGIO [...] INTENDE questo “essere” come un “essere
insieme”; e dicendo (A = B) = (B = A) esso INTENDE [A= (insieme a B)] = [(insieme a B) = A]
(INTENDE che è [etc ...]>>, esso TRASFORMA ciò che dice/scrive in quell’ALTRO-DA-SÉ cui è
ciò che invece andrebbe INTESO in luogo di ciò che viene detto/scritto (nel comunicare abituale).
92

E TRASFORMA ciò che pensa <<come un “essere insieme”>> in quell’ALTRO-DA-SÉ cui è ciò
che abitualmente, nel dire quotidiano, viene invece detto/scritto (e pensato!) come <<A = B>>...

***

5)- Infine, ma non per importanza:

davvero il pensare <<l’ESSERE INSIEME a B da parte di A>>, espresso mediante la formula <<[A
= (insieme a B)] = [(insieme a B) = A]>> esprime la <<formula adeguata>> cioè non-aporetica?
(Maiuscolo mio).

RF
93

14)- LA CONTRADDITTORIA ‘INCONTRADDITTORIETÀ’


DELLA FILOSOFIA DI EMANUELE SEVERINO

§.1- Da parte del filosofo Emanuele Severino (e dei suoi estimatori) si suol far notare ‘a spada
tratta’ che quanti criticano la struttura originaria (= SO) si avvalgono di essa, smentendo-si, giacché
la presupporrebbero al loro dire, riconfermandola.

§.2- Replicherei che lo stesso Severino (ma poi chiunque) _ avvalendosi SEMPRE, in ogni
contesto, non potendone fare a meno (nel suo pensare come nei suoi scritti) della STRUTTURA
PREDICATIVA CONTRADDITTORIA (= SPC; questa, non è una mia illazione, ma è
esplicitamente ammessa dallo stesso Severino: <<Il linguaggio continua a dire che A è B; ma
dice l’impossibile>>. Vedi sotto, §.8) _, nel rilevare che coloro che criticano la SO si avvalgano di
essa SMENTISCE SE STESSO, perché è come se dicesse che la conferma della SO avviene
attraverso la SPC, visto che tale suo rilievo è a sua volta costituito da un insieme di predicazioni
contraddittorie (= SPC) cosicché, nell’osservare che i negatori della SO debbano presupporla, egli
deve parimenti presupporre la _ e, ripeto: AVVALERSI senza poterlo evitare della _ SPC,
riconfermandola e restandovi confinato suo malgrado.

Di modo tale che la ‘frittata’ che il filosofo bresciano ritiene debba cadere sulla testa dei suoi
negatori ricada in primis sulla SUA testa.

§.3- In base a ciò, la SO nasce già contraddittoria prima ancora di essere redatta, perché comincia
con il pensiero e con linguaggio della SPC né mai DA ESSI riesce ad emanciparsi, NONOSTANTE
le precisazioni di Severino (-> §.8).

Severino dice sì di essersi gradualmente allontanato dal nichilismo residuo delle sue tesi, vero, ma
non altrettanto può dire della SPC grazie al quale esse sono espresse.

§.4- La SPC non è un incidente di percorso facoltativo e aggirabile; l’intero testo de “La struttura
originaria” (così come tutti gli altri) può esser dato alla luce e fruibile soltanto ed unicamente se
pensato/redatto internamente a detta SPC.

§.5- Non solo, ma anche il tentativo di soluzione della stessa è altrettanto pensato/redatto attraverso
la SPC, per cui Severino tenta di risolvere una o anzi, LA contraddizione capitale (poiché sottostà e
sorregge TUTTO il suo discorso ma poi OGNI e qualsiasi altro discorso) con l’onnipervasivo
impiego della contraddizione (cui è la suddetta SPC).

§.6- Che senso potrà mai avere, allora, tentare lo scioglimento di una contraddizione avvalendosi de
(e basandosi su) l’INEVITABILE ricorso della medesima?
§.7- Se la predicazione, entrante a costituire qualsiasi pensiero, qualsiasi discorso e qualsiasi tesi
NON È TRASFORMABILE _ nel pensare, nel parlare e nello scrivere _ in predicazione
incontraddittoria giacché NESSUNO potrebbe MAI pensare/parlare/scrivere utilizzando
94

l’espediente teoretico di Severino della predicazione tautologica (vedi sotto: §§. 8-22), rendendo
perciò stesso INAGGIRABILE la SPC, allora TUTTO il sistema filosofico severiniano presuppone
_ alla sua base così come lungo tutto il suo percorso esplicativo, tratto per tratto, frase per frase _
ciò dalla quale (-> la SPC) egli vorrebbe liberarsi, riproponendola, in realtà, continuamente,
essendovi completamente immerso…
Come colui che, stando sott’acqua, tentasse di tener l’ombrello aperto per ripararsi dalla pioggia…
§.8- Ma intanto delineiamo, per sommi capi, tale SPC.
Scrive Severino:

<<Il linguaggio continua a dire che A è B; ma dice l’impossibile. Dice l’impossibile anche se A
= B è pensato come (A = B) = (B = A). Solo se al di sotto della forma linguistica “A è B” si
pensa l’ESSERE INSIEME a B da parte di A, si può continuare a dire che (A = B) = (B = A).
La formula adeguata è dunque:
[A = (insieme a B)] = [(insieme a B) = A].

Tuttavia, anche IL LINGUAGGIO CHE TENTA DI MOSTRARE IL DESTINO DELLA


VERITÀ [maiuscolo mio: RF] può continuare a dire (COME ACCADE ANCHE IN QUESTE
PAGINE [idem]) che A è B, che questa superficie è bianca, il cielo è sereno, Socrate è un
uomo, quest’ombra è sulla parete, la lampada è accesa (cioè, come in queste esemplificazioni
di “A è B”, può continuare ad esprimere come identità i contenuti non identici
dell’interpretazione - e anche quei contenuti che invece non hanno questo carattere)>>.
Precisa inoltre Severino:

<<IN QUESTO LINGUAGGIO [idem] appare l’impossibilità che A sia B (ossia non -A); ma
dicendo che A “è” B, ESSO INTENDE [idem] questo “essere” come un “essere insieme”; e
dicendo (A = B) = (B = A) ESSO INTENDE [A = (insieme a B)] = [(insieme a B) = A]
(INTENDE che è A-che-è-identico-al-suo-essere-insieme-a-B ad essere insieme a B, ossia a
quell’essere-insieme-a-B che è identico ad A)>> - (E. Severino, Tautótes; pag. 152).

§.9- Stante i testi appena letti, non è un caso che una delle più insistenti repliche alla SPC consista
nell’osservare che detta contraddizione riguardi appunto il linguaggio nichilista del mortale
<<CHE TENTA DI MOSTRARE IL DESTINO DELLA VERITÀ>>, non IL SENSO da esso
trasmesso.
§.10- Come se IL SENSO non fosse a sua volta pensato e trasmesso (detto) mediante la SPC!
Se ciò che suppone quell’obiezione fosse traducibile nella realtà, avremmo l’esposizione del
SENSO immune dal ‘tocco’ nichilista e quindi potremmo DIR-LO con l’impiego di un linguaggio
(di un dire-non-nichilistico) a sua volta immune…

§.11- Ma la SPC non è scavalcabile, poiché essa avvolge anche il SENSO che il dire comunica;
SENSO che l’obiezione di cui poc’anzi vorrebbe mettere al riparo dalla contaminazione della SPC,
nella speranza di ritrovarselo, così, puro ed immacolato...
§.12- <<IN QUESTO LINGUAGGIO>> (= SPC) _ sostiene il filosofo bresciano _ <<appare
l’impossibilità che A sia B (ossia non -A)>> (maiuscolo mio).
95

Epperò, esso è il linguaggio del nichilismo o della contraddizione _ come già evidenziato dallo
stesso Severino nel brano riportato al §.8 _, rimanendo all’interno del quale egli vorrebbe
persuaderci che IN ESSO appaia incontraddittoriamente <<l’impossibilità che A sia B (ossia non -
A)>>, cioè che vi appaia l’impossibilità della SPC attraverso l’utilizzo della SPC.

§.13- Ossia, dovremmo persuaderci che NEL linguaggio contraddittorio appaia non-
contraddittoriamente l’impossibilità della contraddizione.
§.14- Come dire, perciò, che NEL linguaggio appaia l’impossibilità DI SÉ (DEL linguaggio stesso).

§.15- Che è come dire che LA contraddizione mostra/esprime senza-contraddizione che essa, cioè
LA contraddizione, è impossibile…

§.16- Che è come dire, ancora, che il linguaggio (contraddittorio) mostra con verità che esso
stesso è impossibile, e quindi tale linguaggio NON MOSTRA ALCUNCHÉ;
mostra-sé mostrando, di sé, che NON È: NON MOSTRA.

§.17- Il che è come dire, nuovamente, che il linguaggio (contraddittorio) mostra/esprime SENZA-
DI-SÉ (cioè mostra/dice incontraddittoriamente, quindi SENZA la contraddizione cui è il
linguaggio, altrimenti esso non potrebbe mostrare incontraddittoriamente, essendo per l’appunto
contraddittorio) che ciò che non è sé mostra (cioè, che solo ciò che non è il linguaggio
contraddittorio può mostrare) l’impossibilità del linguaggio (del contraddittorio)…
§.18- Ma come può il linguaggio contraddittorio esprimere/mostrare senza-di-sé?

Sì, SENZA-DI-SÉ, perché se fosse ESSO a mostrare l’impossibilità di sé quale linguaggio


contraddittorio, anche tale ESPRIMERE/MOSTRARE sarebbe un esprimere/mostrare
contraddittorio perciò un NON-MOSTRARE.
Per questo, il linguaggio dovrebbe paradossalmente esprimere/mostrare-SENZA-DI-SÉ; ovvero:
non è il linguaggio tout court a dover mostrare ciò che Severino suppone che esso esprima/mostri...
È quindi ovvio che la domanda:
“Come può il linguaggio mostrare SENZA-DI-SÉ?”,
sia una domanda paradossale, presupponente risposta negativa: non può.
§.19- Torniamo, quindi, al brano di Severino letto al §.8:

<<IN QUESTO LINGUAGGIO appare l’impossibilità che A sia B (ossia non -A); ma dicendo
che A “è” B, ESSO INTENDE questo “essere” come un “essere insieme”; e dicendo (A = B) =
(B = A) ESSO INTENDE [A = (insieme a B)] = [(insieme a B) = A] (INTENDE che è A-che-è-
identico-al-suo-essere-insieme-a-B ad essere insieme a B, ossia a quell’essere-insieme-a-B che è
identico ad A)>>.
Domanda:

ciò che il linguaggio <<INTENDE>> è un INTENDIMENTO (o un INTENDERE) a sua volta


immune da detta SPC?
96

Ossia, ciò che esso DEVE INTENDERE IN LUOGO di <<A è B>> è inteso prescindendo dal suo
_ dell’intenderlo _ esser costituito come <<A è B>> (cioè come SPC)?

Ché, se l’INTENDERE fosse inficiato dalla stessa impossibilità (dalla stessa SPC), non sarebbe
possibile INTENDERE incontraddittoriamente <<A è B>> COME SE <<questo “essere”>>
significasse <<un “essere insieme”>>!

§.20- NO, nessuno può PRESCINDERE dall’INTENDERLO (senza l’utilizzo della SPC ossia)
come <<A è B>>.

Perché ANCHE <<dicendo (A = B) = (B = A)>> ed INTENDENDOLO come se fosse <<[A =


(insieme a B)] = [(insieme a B) = A]>>, la suddetta SPC si ripresenta nello stesso ‘attuarsi’
dell’INTENDERE.
§.21- Infatti, se si prova ad INTENDERE la suddetta formula come se dicesse:

<<che È A-che-È-identico-al-suo-ESSERE-insieme-a-B ad ESSERE insieme a B, ossia a


quell’ESSERE-insieme-a-B che È identico ad A)>>,

non si potrà fare a meno di notare come in tale INTENDIMENTO vi compaia il verbo <<essere>>
per ben *SEI* volte.
Che significa?

Significa che quel verbo _ responsabile della SPC in quanto IDENTIFICA i NON-IDENTICI _
compare nell’INTENDIMENTO tanto quanto vi compare nel dire comune (nichilistico) del quale
quell’INTENDIMENTO vorrebbe vanamente costituirne la soluzione e/o il correttivo…

§.22- Inoltre, potremmo sfidare chiunque a tentar di pensare, parlare e scrivere mediante
l’INTENDIMENTO di cui poc’anzi, cioè INTENDENDO o sostituendo il verbo ESSERE con <<È-
identico-al-suo-ESSERE-insieme-a>>; tra l’altro, essendo l’INTENDIMENTO incontraddittorio _
secondo Severino! _ (di contro al contraddittorio <<A è B>>), dovrebbe risultare eminentemente
facile e consequenziale esprimerLO.

Mentre, invece, l’utilizzo del comune ed universale <<A è B>> dovrebbe costituire la difficoltà
suprema in quanto _ sempre a dire del filosofo bresciano _ <<A è B>> <<dice l’impossibile>>!

§.23- (NOTA su: universale. Qualcuno è propenso ad osservare come la copula <<è>> identificante
i DIversi non sia di utilizzo universale, poiché è noto, ad esempio, che nella lingua cinese classica,
solitamente <<A è B>> è reso senza copula: 我人也, io uomo 也. Ma qui, l’assenza del verbo
essere (爲) è rimpiazzata dalla particella modale (也) che nominalizza l’equazione col valore di
<<A è B>>).

§.24- Dunque, anche <<questo “essere”>> INTESO <<come un “essere insieme”>> ci restituirà
lo <<“essere insieme”>> nei termini equivalenti alla SPC, ossia dell’esser identico _ da parte di A
_ a quell’altro da sé cui è il suo _ di A _ <<essere-insieme>>, perché B è ciò senza il quale A non
sarebbe A, quindi B non può costituirsi come elemento semplicemente estrinseco o affiancato
(insieme, appunto) ad A bensì come sua _ di A _ INTIMA costituzione, cosicché <<l’essere
insieme a B>> si traduca in realtà come essere-B da parte di A o, che è lo stesso, come il già noto
<<A è B>>.
97

§.25- Pertanto, lo <<A-che-è-identico-al-suo-essere-insieme-a-B>> (così Severino), si rivela


come:

A è IDENTICO A CIÒ con cui è INSIEME, che è dire non esser semplicemente INSIEME, alla
faccia dell’<<ESSERE-CON è ESSERE-NON>>, perché l’ESSERE-CON non ha confini
inequivocabili grazie ai quali, in <questo foglio-rosso>, potremmo facilmente _
DETERMINATAMENTE! _ reperire il luogo dove <rosso> cessi come <rosso> e cominci
<foglio>.
Se e poiché <foglio> e <rosso> non sono separabili, l’ESSERE-INSIEME al <rosso> da parte del
<foglio> si rivela essere una IDENTITÀ-tra-diversi, non come un mero ESSERE-INSIEME dai
confini netti; da qui, l’inanità di indicare il supposto reciproco confine, che si volatilizzerà
nell’irrintracciabile…

§.26- Ma anche ammettendo di poter individuare tale CONFINE, avremmo delle sorprese; infatti,
laddove individuassimo IL PUNTO di confine in cui <foglio> cede il passo a <rosso> (o viceversa),
ebbene, QUEL PUNTO si costituirebbe come IDENTITÀ tra <rosso> e <foglio>, giacché quel
confine, non essendo né puramente <foglio> né puramente <rosso>, sarà un TERZO (essente), ossia
non sarà né <foglio> né <rosso> bensì ENTRAMBI AL MEDESIMO TEMPO!

§.27- Infine, si potrebbe obiettare che il rilevamento della SPC presuppone l’aver già avvistato
l’incontraddittorio (eventualmente in un secondo momento trasferibile anche ad essa, come infatti
ha tentato Severino, supra: §.8)

§.28- Il che sarebbe corretto, se non fosse che la SPC vanifica anche tale iniziale avvistamento
perché, oramai, neppure l’incontraddittorio potrebbe esser avvistato e detto se non mediante la SPC,
segando così il ramo sul quale tale avvistamento (o tale incontraddittorio) era seduto…

§.29- Questo tema del linguaggio è strettamente connesso all’antropologia severiniana, secondo la
quale l’uomo, l’individuo empirico o ‘io’ è un ERRORE costitutivamente (ontologicamente)
incapace della VERITÀ.

Infatti, l’essere-ERRORE da parte dell’uomo, unitamente al suo linguaggio costruito come SPC,
dicono <<l’impossibile>> affermando che
<<in questo linguaggio appa[ia] l’impossibilità che A sia B (ossia non -A)>>,

e tanto più rendono impossibile la ricezione della ‘verità’ (severiniana) se i due suddetti aspetti sono
_ come infatti sono _ reciprocamente solidali, rinvianti l’uno all’altro, in VICENDEVOLE
INESTRICABILITÀ.
§.30- Tutto ciò perché non solo l’ERRORE non può intravedere l’incontraddittorio e/o la verità
dell’ente (è lo stesso Severino ad affermarlo!); _ se li vedesse, cesserebbe di essere ERRORE _ ma,
esprimendosi tramite SPC, non riesce neppure a pensarli/dirli se non
contraddittoriamente/erroneamente (questo, sempre in base alle premesse
dell’ontologia/antropologia severiniana).
RF
98

15)- *CHI* TESTIMONIA IL DESTINO DELLA VERITÀ?

In relazione al tema del precedente capitolo (la SPC), qui viene preso in considerazione l’ERRORE
/ ERRANTE cui è l’uomo che della SPC si avvale.

Internamente al contesto filosofico, alcuni filosofi (nonché i loro discepoli/estimatori) affermano


non già di <<testimoniare la verità>> quanto piuttosto che la loro filosofia è un siffatto
TENTATIVO di testimonianza.
Nel libro La legna e la cenere (Rizzoli, Milano 1999), Emanuele Severino, alla domanda:
<<Chi può dare testimonianza della verità?>>,
risponde:

<<Innanzitutto, non è l'individuo che testimonia, cioè pensa esplicitamente la verità. Se fosse
l'individuo a testimoniare la verità, allora la testimonianza sarebbe per definizione
individuale, cioè ridotta allo spazio, al tempo e ai limiti dell'individuo. Bisogna vedere l'errore
del concetto che "Io vado verso la verità" e che "se mi va bene, a un certo momento la vedrò".
No! Perché se "Io" è ad esempio il sottoscritto, con questa struttura fisica determinata, allora
sarebbe come dire che un occhio cieco può vedere la verità. Perché un occhio cieco? Appunto
in quanto dominato dai condizionamenti che costituiscono l'individuo. L'apparire della verità
non è la mia coscienza della verità. All'opposto: io sono uno dei contenuti che appaiono. […]
Invece dobbiamo dire che l'individuo è il non illuminabile. Perché l'individuo è errore. Se ci si
rende conto che l'individuo è errore, allora la verità non ha il compito di rendere verità
l'errore. […] All'opposto, la verità include me, e te, e gli altri come conformazioni specifiche
dell'errore.

[D]: Ma io posso pormi oltre l'errore, una vota riconosciutolo come tale...
[SEVERINO]: Non "io"... E' la coscienza della verità ad essere oltre l'errore.
[D]: Questa coscienza per la quale la verità è, è coscienza di chi?
[SEVERINO]: E' un tratto della verità. La verità non è un atto soggettivo. Quindi siamo
totalmente al di fuori del concetto, poniamo, aristotelico, cristiano, marxiano, che intende la
coscienza come prodotto teorico dell'individuo. E' contraddittorio che l'individuo sia cosciente
della verità. L'apparire della verità non è un atto individuale, ma è il mostrarsi di ciò che
appare. E il mostrarsi non è il mio atto di coscienza, perché il 'mio' atto di coscienza è esso
stesso una delle cose che si mostrano>>.

***
99

Perciò, secondo Severino, <<l'individuo è errore>> <<in quanto dominato dai


condizionamenti>> che lo costituiscono, pertanto non è <<l'individuo che testimonia, cioè pensa
esplicitamente la verità. Se fosse l'individuo a testimoniare la verità, allora la testimonianza
sarebbe per definizione individuale, cioè ridotta allo spazio, al tempo e ai limiti
dell'individuo>>.
D’altra parte, come detto, Severino non è certo l’unico nel sostenere questa tesi.
Ad esempio, si può partire già da Eraclito con il suo noto aforisma:
<<Ascoltando non me, ma il lógos, è saggio convenire che tutto è uno>> (fr. 50).
Stante questa prassi, a questo punto riesce difficile evitare di chiedersi:

CHI pensa e testimonia la Verità? (Dando qui, come pacificamente acquisito, il fatto che vi sia una
_ o più _ ‘verità’ filosofica da testimoniare, ovvero da esplicitare nei suoi tratti fondamentali).

Che a testimoniarla sia un qualsiasi INDIVIDUO O SEVERINO STESSO _ è lui a ribadirlo _ è


infatti una FEDE (il termine <<fede>> è SEMPRE assunto da Severino (e da molti altri) nella
valenza NEGATIVA DI ERRORE), fede che guardando a sé, si vede (anche) come ‘l’individuo-
Severino’ (o chiunque altro) il quale, a sua volta, crede di essere, nel migliore dei casi, uno
‘scopritore’ della Verità, quindi un ‘testimone’; nel peggiore, un suo ‘produttore’ _ nel peggiore,
giacché dal punto di vista della prospettiva severiniana, ‘produrre’ qualcosa (materialmente o
cerebralmente, pensandolo), implica _ ad avviso del filosofo bresciano _ la contraddizione
consistente nel far transitare un ente dal suo precedente non-esistere/non-essere al suo presente
(quindi successivo) esistere/essere, identificando l’E con il N.

In ogni caso, errori ontologici (fedi) comunque, in quanto la Verità _ sempre secondo Severino _ né
la si ‘scopre’ (l’errore, cui noi individui saremmo, non si imbatte mai nella verità, né lo diventa),
tantomeno la si ‘produce’ come fosse un prodotto ‘secreto’ dal cervello individuale.
Perciò, che a testimoniare la Verità sia l’individuo Severino sarebbe una fede, ovvero un ERRORE.
Ma nuovamente:

CHI afferma tutto ciò?

i) - l’individuo Severino in quanto ERRORE,

oppure

ii) - la Verità stessa?

QUESTA, la domanda cruciale.

Se a testimoniarLA fosse l’individuo Severino, allora, che “a testimoniare la Verità sia


l’individuo Severino è una fede cioè un errore” sarebbe a sua volta la testimonianza di un
individuo, perciò sarebbe affermazione erronea (di fede) da parte di un errore (l’individuo).
Pertanto tale opzione mostra d’essere una strada aporetica, impercorribile…
100

Ma se non può esser l’individuo (Severino), allora CHI testimonia alethicamente l’asserzione
secondo la quale, che “a testimoniare la Verità sia l’individuo Severino è una fede cioè un errore”?
Giacché se c’è una testimonianza, dovrà pur esservi ‘QUALCUNO’ che la renda…
Severino afferma che tale testimonianza

<<E' un tratto della verità. La verità non è un atto soggettivo. Quindi siamo totalmente al di
fuori del concetto, poniamo, aristotelico, cristiano, marxiano, che intende la coscienza come
prodotto teorico dell'individuo. E' contraddittorio che l'individuo sia cosciente della verità.
L'apparire della verità non è un atto individuale, ma è il mostrarsi di ciò che appare. E il
mostrarsi non è il mio atto di coscienza, perché il 'mio' atto di coscienza è esso stesso una delle
cose che si mostrano>>.
La risposta corretta, perciò, non potrà che esser la seconda (ii): è la Verità stessa.

Quel ‘CHI’, altro non sarebbe che <<un tratto della verità>> nel momento in cui testimonia sé al
di là/oltre l’individuo, infatti _ ricordiamo le parole di Severino _ l’individuo è <<un occhio
cieco>> e come tale non <<può vedere la verità>>.

Tale mostrarSI (<<di ciò che appare>>), tale ‘mostrare-A-SÉ’ (<<ciò che appare>>) sarebbe
l’apparire di sé a sé da parte della Verità; quel SÉ (quel ‘CHI’ a cui appare tutto ciò che appare) è la
stessa coscienza della verità (<<Cerchio finito del destino>> o <<cerchio dell’apparire del
destino>>), perché appunto essa <<non è un atto soggettivo>>, mio o tuo.
La Verità appare soltanto a se stessa, quindi, come ben spiega Severino in quest’altro brano:

<<È un malinteso anche la buona volontà con cui l’io empirico vuole conoscere la verità. In
quanto l’io empirico non è l’apparire del destino della verità, tale io non può “conoscere” la
verità. Può credere di conoscerla, può avere l’intenzione di “conoscerla”>>. –
(Severino: Discussioni intorno al senso della verità. Edizioni ETS, Pisa 2009, pag. 80).
Ricapitoliamo.
Essendo <<contraddittorio che l'individuo sia cosciente della verità>>, quindi, non potendo
<<“conoscere” la verità>>, esso non può neppure testimoniarLA, neanche se lo desidera, anzi, a
maggior ragione, giacché ciò comporterebbe quell’altro errore consistente _ sempre secondo il
filosofo bresciano _ nel VOLER trasformare (= far diventare) la ‘non-testimonianza’ in
‘testimonianza-della-verità’: implicherebbe, cioè, il ‘divenire-altro-da-sé’ che caratterizzerebbe il
nichilismo, ossia la fede (l’errore) del ‘divenire-altro’ da parte dell’essente.
Perciò <<dobbiamo dire che l'individuo è il non illuminabile>>.
Non essendo <<illuminabile>>, l’individuo non può allora testimoniare la verità; è già venuto in
chiaro.

Infatti è <<la coscienza della verità ad essere oltre l'errore>> _ sostiene Severino _, così tanto
<<oltre>> da non offrire alcuna ‘presa’ da parte dell’errore cui ogni individuo è.
L’errore è quell’essente destinato ad esser e rimanere eternamente errore, in conformità
all’ontologia severiniana secondo la quale ogni essente è eternamente ‘identico-a-sé’ e ‘differente-
101

dal-proprio-altro’. Appurato quindi che l’errore cioè l’individuo (Severino) NON PUÒ AVERVI
ACCESSO, allora la verità non può affatto testimoniarSI _ mediarSI _ per interposta ‘persona’, in
quanto (ripetiamo):
- “io” (l’io empirico: tu, egli, Severino…), non essendo cosciente della verità, essendo cioè errore,
- non ne posso sapere nulla;
- non la posso testimoniare, giacché saprei e testimonierei unicamente l’errore cui “io” sono,
cosicché:
- se l’<<apparire della verità non è un atto individuale [mio, tuo…], ma è il mostrarsi di ciò
che appare>>;

- se tale <<mostrarsi>> (della Verità) è ciò che appare a sé (non a me), cioè alla coscienza della
Verità;
- se la Verità è <<oltre>> me, <<oltre>> l’individuo;

- se l’individuo è <<errore>>, così da non poter <<aver coscienza della verità>> né poterla quindi
mediare,
allora:

nel momento in cui la Verità testimonia se stessa mostrando sé a sé (ed in sé), tale testimonianza,
non potendosi avvalere dell’errore (dell’individuo),
forse testimonia-sé DIRETTAMENTE?

E se sì, come (ci) SI offre (COME offre se stessa) la Verità?

Il ‘ci’ indica: ‘a noi’ individui, come essa si offre A NOI ERRORI; sì, perché mi pare innegabile
che siamo comunque NOI INDIVIDUI, ‘qui ed ora’ ma anche ‘altrove ed in seguito’ a scriverNE ed
a parlarNE...

Sembra perciò impossibile evitare:

a) - o una qualche MEDIAZIONE CONSAPEVOLE dell’apparire della Verità da parte dell’io-


empirico-individuo-errore.

Ma questa evenienza abbiamo visto esser impossibile giacché secondo Severino, <<E'
contraddittorio che l'individuo sia cosciente della verità>>; <<non è l'individuo che testimonia
la verità>> e: l’<<io non può “conoscere” la verità>>;

b) - oppure riconoscere l’IM-MEDIATEZZA della Verità, a prescindere completamente dalla


mediazione dell’individuo/errore.

Ma daccapo, sono sempre “io” individuo a scriverNE ed a parlarNE.


Ed in quanto individuo,
102

<<se "Io" è ad esempio il sottoscritto, con questa struttura fisica determinata, allora sarebbe
come dire che un occhio cieco può vedere la verità. Perché un occhio cieco? Appunto in
quanto dominato dai condizionamenti che costituiscono l'individuo. L'apparire della verità
non è la mia coscienza della verità […] Perché l'individuo è errore>>…

Difficile, per non dire impossibile, dunque, conciliare due ‘canali’ ontologicamente
INCOMUNICANTI quali sono l’errore e la Verità, dato che:

- l’errore (l’individuo), strutturalmente non ‘vede’ la Verità;


- la Verità ‘vede’ l’errore ma non si comunica a lui o meglio, non può, da esso, esser conosciuta.
Traggo dal WEB un brano di un estimatore severiniano (VU):

<<Non si tratta di cambiare la follia, che è eterna come ogni altro è essente. Né di vestire i
panni dell'umilta' e poi sparare sentenze! Ma a spararle è il tuo io empirico [<<qualsiasi altro
"io dell'individuo, a cominciare dal mio o da quello di Emanuele Severino>>] che non può che
errare, non può che dire un sacco di sciocchezze, come quelle che hai scritto. Mi limito a
ricordarti che ciascuno di noi, oltre ad essere un "io individuale, empirico", è anche e
soprattutto, un "Io del destino", l'Eterno apparire della verità del destino, che dunque può
dare testimonianza della verità. Si tratta poi di rendersi conto che la verità è
contraddizione>>…

Insomma, l’“io” empirico direbbe <<un sacco di sciocchezze>> non potendo perciò <<che
errare>>; però _ al contempo! _, esso è altresì <<un "Io del destino", l'Eterno apparire della
verità del destino, che dunque può dare testimonianza della verità>>!

Stando a quanto espresso dal professore qui sopra, sembrerebbe doversi decidere per la possibilità
‘a’, ossia ammettere una mediazione consapevole dell’apparire della Verità da parte dell’io-
empirico-individuo-errore.

Il che rappresenta, però, decisamente UN ACCOMODAMENTO, estraneo al rigore del dettato


severiniano, come abbondantemente visto, giacché l’“io” NON PUÒ _ costitutivamente _ fornire
siffatta <<testimonianza della verità>>!

Come uscire, pertanto, da questo VICOLO CIECO?

Proviamo a compiere allora qualche ulteriore passo di chiarimento.

Nel far ciò, schematizziamo:

con 1

si indichi una coscienza individuale (tra le tante) _ l’io empirico _ creduta esser un <<mio
atto>>/<<atto individuale>>, cioè errore non-cosciente della Verità [ossia del punto 2, qui sotto],
onde per cui è <<contraddittorio che l'individuo [1] sia cosciente della verità [2]>>;
103

e con 2

si indichi la coscienza sovra-individuale _ l’IO del destino o cerchio dell’apparire del destino _
come AUTENTICA coscienza del <<mostrarsi di ciò che appare>>, cioè la Verità secondo la
quale il <<mostrarsi non è il mio atto [1] di coscienza, perché il 'mio' atto di coscienza è esso
stesso una delle cose che si mostrano [in 2]>>.

Soffermiamoci adesso sulle implicazioni di tutto ciò.

Stando a Severino, 1 è ciò che appare in 2; 2 ‘vede’ (in senso lato) l’apparire di 1 come contenuto
individuale pertanto come errore, interamente <<dominato dai condizionamenti che [lo]
costituiscono [come] individuo>>.

Domanda:

1 ha coscienza di 2?

Ovvero: ad 1 appare 2?

A)- SE la risposta è NO (come sostiene Severino), cioè se:

1 non ha coscienza di (non gli appare) 2, bensì soltanto di sé in quanto “io” empirico,
allora a 1 (a Severino o a qualunque altro individuo) non potrebbe mai apparire/conoscere la verità,
appunto perché è <<contraddittorio che l'individuo [1] sia cosciente della [gli appaia la] verità
[2]>>. 2 rimarrebbe soltanto un’ipotesi.

B)- SE la risposta è SÌ, cioè se:

1 ha coscienza sia di sé che di (gli appare) 2,

allora 2, apparendo NELL’errore ( = NELL’individuo) cui è 1, sarà anch’esso un contenuto


individuale/erroneo, poiché, come dice Severino, <<Se fosse l'individuo [1] a testimoniare la
verità [2], allora la testimonianza sarebbe per definizione individuale, cioè ridotta allo spazio,
al tempo e ai limiti dell'individuo. Bisogna vedere l'errore del concetto che "Io vado verso la
verità" e che "se mi va bene, a un certo momento la vedrò">>, pertanto è <<contraddittorio
che l'individuo [1] sia cosciente della [gli appaia la] verità [2]>>.

Domandiamoci adesso:

2 ha coscienza di 1?

Ovvero: a 2 appare 1?

C)- SE la risposta è NO, cioè se:


104

2 non ha coscienza di (non gli appare) 1,

allora 2 (che è l’inverso di A e negazione di B) _ se è vero che è il <<mostrarsi di ciò che


appare>> tranne che di 1 (appunto perché 1 non le appare) _:

- o non è realmente LA coscienza sovra-individuale del <<mostrarsi di ciò che appare>>, appunto
perché 1 non le apparirebbe, nascondendoLEsi;

- oppure 1 non esisterebbe del tutto.

In entrambi i casi, 2 ignorerebbe totalmente 1 e perciò non sarebbe il <<mostrarsi di ciò che
appare>>.

D)- SE la risposta è SÌ (come risponderebbe Severino), cioè se:

2 ha coscienza di (gli appare) 1 come (un) suo contenuto individuale/errore (oltre che di se stessa in
quanto è 2),

allora a testimoniare 2 _ cioè la Verità _ non potrebbe esser 1 (Severino) né chiunque altro,
ovviamente, poiché è <<contraddittorio che l'individuo [1] sia cosciente della [gli appaia la]
verità [2]>>, e dunque potrebbe esser testimoniata e detta soltanto ed esclusivamente da se stessa,
ossia da 2.

Sennonché, reintroduciamo il brano di Severino già in parte riportato sopra (aggiungendo adesso i
numeri ‘1’ e ‘2’ indicanti rispettivamente ‘l’individuo/errore’ e la ‘coscienza della Verità’):

<<È un malinteso anche la buona volontà con cui l’io empirico [1] vuole conoscere la verità
[2]. In quanto l’io empirico [1] non è l’apparire del destino della verità [2], tale io [1] non può
“conoscere” la verità [2]. Può CREDERE di conoscerla, può avere l’intenzione di
“conoscerla”. Se ora “io” ne sono l’apparire (la conosco) – se cioè essa appare nella sua
incontrovertibilità -, a esserne apparire e a “conoscerla” non sono io in quanto io empirico [1],
ma sono io in quanto Io del destino [2], ossia in quanto Io sono la verità stessa [2] che appare
in sé stessa, come contenuto di sé stessa, e come contenuto che contiene la terra e, in essa, in
quanto isolata, cioè in quanto non verità [1], l’interpretazione che mostra questo mio essere io
empirico [1] e “gli altri”>> - (Discussioni intorno al senso della verità.).
In base a ciò, dobbiamo allora riagganciarci alla precedente opzione ‘a’ e riconoscere _ con
Severino _, una mediazione consapevole dell’apparire della Verità da parte dell’individuo/errore,
dal momento che <<Se ora “io” ne sono l’apparire (la conosco) – se cioè essa appare nella sua
incontrovertibilità -, a esserne apparire e a “conoscerla” non sono io in quanto io empirico [1],
ma sono io in quanto Io del destino [2], ossia in quanto Io sono la verità stessa [2] che appare
in sé stessa, come contenuto di sé stessa>>.

Detto Appurato ciò, resta ancora rispondere al ‘perché’ ed al ‘come’ circa la connessione e la
coincidenza dell’io empirico o meglio: di quello specifico io empirico _ lui e non un altro _ cui è
105

Severino, con l’<<io in quanto Io del destino [2]>>, essendo SOLTANTO QUEST’ULTIMO a
testimoniare-di-sé, il che comporta la necessità di stabilire IN CHE MODO esso (2) testimoni
l’errore a prescindere da (o grazie a?) l’errore stesso, ossia dall’INDIVIDUO-Severino, ovvero
come la verità mostri-sé essendo <<oltre>> l’INDIVIDUO-Severino. Evitando al contempo che
l’<<io in quanto Io del destino [2]>> _ la Verità _, subisca LA RIDUZIONE a testimonianza
<<individuale, cioè ridotta allo spazio, al tempo e ai limiti dell'individuo>>.

Infatti non è ancora ben chiaro in virtù DI CHE COSA tale ‘testimonianza-di-sé’, la Verità
dovrebbe averla ‘concessa’ SOLTANTO all’“io”-Severino (o essersi mediata attraverso LUI) e non
a miliardi di altri “io”…

Se invece essa _ la Verità _ dovesse esser testimoniata SOLTANTO da sé stessa, allora, a dire che
sia davvero essa a testimoniarLA _ testimoniando-SI _ sarebbe altrettanto affermazione di un io-
empirico-individuo, ovviamente (ma l’ovvio, in genere, non piace alla filosofia), perché tale
convinzione è rinvenibile quanto meno nei testi recanti il nome del loro autore (e sempre UN
CERTO nome, piuttosto di altri); perciò anche in questo caso sarebbe affermazione di fede da parte
di un errore...Et sic in indefinitum…

Curiosamente, nel libro ora citato, Severino, rivolgendosi al suo critico Carlo Arata, scrive:
<<Lasci dunque da parte, il mio critico - ossia lasci da parte, quello che nell’interpretazione
[nella fede, nell’errore] è il suo linguaggio – la domanda che si chiede perché io (“lui e solo
lui”) sia “privilegiato uditore adeguato della Verità” (“Lui solo e non altri”)>> - (ibi, pag. 83).

Curiosamente, dicevamo, perché qui sembra emergere in Severino la coscienza dell’impossibilità di


rispondere alla domanda di Arata e quindi esprime la propria volontà di ‘tagliar corto’: <<Lasci
dunque da parte>>…

A comple(ta)mento di ciò, aggiungiamo che la teoresi severiniana si prolunga affermando che


l’errore (1) non è mai lasciato interamente a se stesso senza la costante testimonianza della Verità,
giacché 1 si muove pur sempre sullo sfondo di essa (2) che lo costituisce interamente nonostante 1
sia errore e sebbene _ nel nichilismo _ prevalga 1 anziché 2.

Infatti 1 presuppone l’intramontabile presenza di 2 _ della verità dell’essente _, pertanto 1 non è


mai tale da offuscare ed eclissare completamente detta testimonianza, la quale, persintatticamente,
sempre appare in ogni cerchio _ in ogni 2 _, ma non negli “io” empirici, appunto perché essi sono
ERRORI.
Il nichilismo consisterebbe perciò nell’apparire della CONTESA tra l’errore (1) e la verità (2):

<<Noi non siamo soltanto individui [1], ma siamo anche e soprattutto l'eterno apparire della
verità [2] del destino. Dunque, non in quanto siamo "individui" [1], bensì è in quanto siamo
"re" [2] (cioè eterno apparire della verità del destino) che ci capiamo, siamo l'apparire dello
"stesso" e possiamo "essere d'accordo". Va anche detto però che, sino a che la solitudine della
terra non tramonta concretamente, rimangono, nonostante la testimonianza del destino [2], le
angosce e le asperità che ciascuno di noi [1] ben conosce e con le quali quotidianamente deve
fare i conti>>.
106

Superfluo precisare, a questo punto, che anche questo brano DEBBA esser testimoniato da 2…

Ma, nonostante 2 appaia sempre, cioè sia costantemente presente (= costante persintattica:
‘l’identità-con-sé-e-diversità-dall’altro-da-sé’ dell’essente) offrendo testimonianza di sé e senza il
quale niente potrebbe apparire, RESTA il dato ontologico secondo cui, se è vero che

<<La verità [2] non può non vedere l'errore [1] [opzione D] e quindi il contrasto tra sé e
l'errore, mentre l'errore [1] non si vede come errore>>,
allora è altrettanto vero che (sempre a dire di Severino)

<<all'interno dell'isolamento della terra [all’interno dell’“io” empirico: 1] non può apparire il
destino della verità [2], cioè il vero senso dell'eternità degli essenti [2]>> - (Severino.
Oltrepassare - pp. 362-363).

Discende che:

- l’apparire dell’isolamento della terra è l’apparire dell’individuo (Severino);

- l’apparire dell’individuo è lo stesso apparire dell’errore;

- all’errore è contraddittorio che (gli) appaia il destino della Verità;

- all’errore (a Severino) è contraddittorio che (gli) appaia la Verità secondo cui “l’apparire
dell’isolamento della terra è l’apparire dell’individuo-errore”;

- che “l’apparire dell’isolamento della terra sia l’apparire dell’individuo/errore” è perciò un


errore…

A maggior ragione:

- all’errore (cioè a Severino) non può apparire la Verità di SAPERSI errore: <<l'errore [1] non si
vede come errore>>;

- Ma Severino SA _ poiché ne parla e ne scrive _ la Verità (2) di esser egli stesso errore (1).

Allora

- è errore (1) che all’errore (Severino) non possa apparire la Verità (2) di sapersi errore (1),

quindi

- è errore che <<l'errore [1] non si veda come errore>>…

OPPURE, in contrasto a quanto appena detto,


107

l’errore (1) non sarebbe realmente o interamente errore, giacché sebbene la Verità (2) sempre e
dappertutto appaia e non possa non apparire costantemente, e se è vero che l’errore è tale, ovvero se
è vero che 1 non può non ri(con)durre a sé la testimonianza di 2 nel limite alterante <<individuale,
cioè ridotta allo spazio, al tempo e ai limiti dell'individuo>>, allora:

a) - o non è vero che sia <<contraddittorio che l'individuo [1] sia cosciente della Verità [2]>>.

E allora 2 appare a 1 (a Severino) senza alterazioni deformanti;

OPPURE

b) – non è vero che 2, la Verità, non venga mai meno e che sia perciò una costante intramontabile
che avvolga 1 e che perciò essa rechi testimonianza di sé nonostante o a prescindere da 1.
E allora a 1 (a Severino, a chiunque) è totalmente preclusa la testimonianza di 2 cosicché sia
davvero <<contraddittorio che l'individuo [1] sia cosciente della verità [2]>>, pertanto l’intera
sua filosofia _ in quanto sua cioè di 1 _, rientrerebbe interamente in una testimonianza erronea;
totalmente, non parzialmente, e 2 rimarrebbe perciò soltanto una speranza sperata dall’errore o
un’ipotesi mai suscettibile di diventare o di esser saputa come Verità…

Insomma:

se l’individuo, 1, l’“io” empirico ossia l’errore È REALMENTE ed INTEGRALMENTE errore, se


cioè è ‘identico-a-sé-come-errore’ (come prescrive l’impianto teoretico severiniano), e se ad esso
<<non può apparire il destino della verità [2], cioè il vero senso dell'eternità degli essenti>>,
allora NEANCHE la costante persintattica cui è l’identità-con-sé-dell’ente potrà giammai apparire a
1 secondo <<il vero senso dell'eternità degli essenti>>, cosicché ogni, qualsiasi tentativo di
testimoniare la Verità (2) reso da (1) _ da Severino (o da chi altri) _, è e rimarrà sempre e comunque
una testimonianza erronea da parte dell’errore, inclusa ‘l’identità-con-sé-dell’ente’ la quale, a
questo punto decisivo, gli rimane completamente ignota (giacché l’individuo 1 è <<un occhio
cieco>>), ontologicamente estraneo com’è al <<vero senso dell'eternità degli essenti>> -
(Severino. Oltrepassare).

E se all’errore (1) rimane estraneo il <<vero senso dell'eternità degli essenti>> e tutto quanto è in
rapporto alla Verità (2), allora l’errore non sarà neppure _ paradossalmente _ realmente errore,
giacché non sarà realmente ‘identità-con-sé’, proprio perché, ignorando egli il <<vero senso
dell'eternità degli essenti>> e tutto quanto è in rapporto alla Verità (2), non potrà che ignorare
anche il suo esser davvero ‘identico-a-sé’ come errore…

RF
108

16)- IMPOSSIBILITÀ DEL RAPPORTO (SEVERINIANO) <<IO-


INDIVIDUALE/IO DEL DESTINO>> (O DEL RAPPORTO
<<ERRORE/VERITÀ>>).

- PER CHI HA FRETTA (E POCA VOGLIA).

In questo post lascerò parlare prevalentemente SEVERINO e la filosofa Nicoletta Cusano, al fine di
render ANCOR PIÙ CHIARO e DETTAGLIATO l’INEVITABILE CORTOCIRCUITO del
rapporto VERITÀ-ERRORE mediante cui il sistema severiniano si inabissa in un BUCO NERO da
esso stesso accuratamente preparato.
TENIAMO SEMPRE PRESENTE che il riferimento dal quale si struttura l’aporeticità del rapporto
“io individuale (ERRORE)/Io del destino (VERITÀ)” è rappresentato dal fatto che questo stesso
rapporto (oltre naturalmente l’intera impalcatura filosofica cui è inserito) RISULTA essere
PENSATO/SCRITTO/TESTIMONIATO da un individuo-ERRORE rispondente appunto al nome
dell’individuo-Severino _ per questa ragione egli ama spesso ripetere che il suo è solo un
<<tentativo>> di PENSARLO/SCRIVERNE/TESTIMONIARLO, in conformità al suo _ di
Severino-individuo _ ritenerSI ERRORE _.
Perché un <<tentativo>>?

Perché ritenendo, Severino, che l’io individuale sia sinonimo di ERRORE e come tale INCAPACE
di scorgere la verità del destino dell’essente, allora, per evitare la contraddizione derivante dalla
possibilità che un ERRORE _ Severino appunto _ possa scrivere veridicamente intorno alla verità,
DEVE parlar di <<tentativo>>.

E tuttavia esso, proprio in quanto TENTATO da un individuo-ERRORE, è un tentativo


<<DESTINATO A NON VEDERE ALTRO CHE NON VERITÀ ANCHE QUANDO TENTA DI
VOLGERSI VERSO LA VERITÀ>>, per sua stessa ammissione.

Se si volesse replicare precisando che a RISULTARE (ad APPARIRE) sarebbe in verità LA


*FEDE* sulla base della quale l’individuo-Severino è *CREDUTO* esser il
PENSATORE/AUTORE/SCRITTORE del destino, NULLA CAMBIEREBBE ai fini dell’intento
qui espresso giacché, che Severino-PENSATORE/AUTORE/SCRITTORE appaia in verità come la
FEDE che l’individuo-Severino sia il PENSATORE/AUTORE/SCRITTORE del destino anziché
come l’individuo-Severino qual egli è, sempre e comunque entrambi ERRORI sono _ secondo la
sua stessa teoresi _, pertanto non riusciremmo ad eludere la serie di aporie che il rapporto
(severiniano) io individuale/Io del destino (o rapporto ERRORE/VERITÀ) comporta, come
vedremo subito...
109

L’individuo _ secondo Severino _, come ogni altro essente, è un positivo significare del nulla,
ovvero è SOGNATO all’interno di quel SOGNO cui consiste il NICHILISMO.

Tale SOGNO appare *SOLTANTO* all’Io del destino, il quale SA di SOGNARE e SA perciò che
l’individuo sognato non ha verità, è appunto ERRORE.

Quindi, l’individuo sognato (Severino, io, tu... noi) NON PUÒ SAPERE di essere sognato, e non sa
di essere ERRORE e SOGNO.

Eppure, internamente al SOGNO, un individuo afferma di PENSARE, SCRIVERE e


TESTIMONIARE la verità del destino, dicendo e sapendo di esser egli stesso un sogno sognato
dall’Io del destino *SENZA* in realtà poterlo mai giungere a sapere, appunto perché
*SOLTANTO* l’Io del destino SA ciò. Ma che a saper ciò sia *SOLTANTO* l’Io del destino è
daccapo affermato all’interno del SOGNO...

Poiché l’individuo-sognato (e il SOGNO stesso) è ERRORE, anche *TUTTO* ciò che pensa e
testimonia sarà parimenti ERRORE, senza possibilità alcuna di ‘illuminazione’ o di sogno
‘LUCIDO’, poiché <<dobbiamo dire che l'individuo è il NON ILLUMINABILE. Perché l'individuo
è errore>> (Severino: La legna e la cenere. Rizzoli, Milano 1999).

Le conclusioni sarete senz’altro in grado di tirarle voi, o di capirle proseguendo la lettura del post...

***

- PER CHI HA VOGLIA E PAZIENZA.

La maggior parte dei brani è tratta dal testo della Cusano: “Emanuele Severino. Oltre il nichilismo”,
Morcelliana 2011. (Il maiuscolo è sempre mio salvo diversa indicazione), cominciando dal capitolo
(il cui titolo è già di per sé eloquente): <<La salvezza dell’Io del destino e il VICOLO CIECO
dell’io individuale>> (pag. 434).

Vediamo per gradi.

§.1- NICOLETTA CUSANO: <<[L]’io individuale NON PUÒ PENSARE la verità del destino,
ANCHE SE QUESTA È, come INCONSCIO dell’INCONSCIO, la VERITÀ DEL SUO
APPARIRE ed ESSERE: l’io dell’individuo NON È e NON PUÒ ESSERE COSCIENTE del
proprio essere veritativo. Tale coscienza appartiene SOLO all’Io del destino>>. - (Ibidem: pag.
434).

Cominciamo con la PRIMA riga:

<<[L]’io individuale NON PUÒ PENSARE la verità del destino>>.

Chiediamoci:

*CHI* è <<l’io individuale>>?


110

L’io individuale è <<negazione del destino>> - (Cusano. Op. Cit, pag. 529).

È cioè OGNUNO DI NOI, OGNI INDIVIDUO (Severino, io, tu, voi, essi...).

§.2- *PERCHÉ* l’io individuale <<NON PUÒ PENSARE la verità del destino>>?

Perché essendo <<negazione del destino>>, è diametralmente opposto alla verità, non la può
intravedere, le è irricevibile, estranea; <<ANCHE SE QUESTA>> _ <<come INCONSCIO
dell’INCONSCIO>> _ è <<la VERITÀ DEL SUO [dell’io individuale] APPARIRE ed ESSERE>>.
In quanto <<negazione del destino>>, l’io individuale è esso stesso l’apparire dell’ERRORE e
dell’ERRARE, un ERRORE che non attende REDENZIONE, poiché nella filosofia severiniana
ogni essente è eternamente ciò che è, senza possibilità di DIVENIRE-ALTRO.

Per questa ragione nel punto (1) vien detto che <<l’io dell’individuo NON È e NON PUÒ ESSERE
COSCIENTE del proprio essere veritativo>>.

§.3- <<Tale COSCIENZA appartiene SOLO all’Io del destino>>.

Ossia, il SAPERE la verità _ addirittura l’<<ESSERNE COSCIENTE>> _ non può


costitutivamente appartenere all’io individuale: NÉ oggi, NÉ domani NÉ MAI, come MAI
l’ERRORE può diventare VERITÀ (sempre secondo Severino).
§.4- Chiediamoci ora:

*CHE COS’È* il <<proprio essere veritativo>> del quale l’io individuale <<NON È e NON PUÒ
ESSERE COSCIENTE>>?

È la VERITÀ come coscienza di ciò che l’io individuale VERITATIVAMENTE sarebbe DAL
punto di vista della VERITÀ; coscienza appartenente, però, <<SOLO all’Io del destino>> (o alla
VERITÀ stessa), e sottolineo: *S-O-L-O*.

§.5- Segue il brano di Severino:

l’io dell’individuo <<proprio perché è fede, è DESTINATO [ <- corsivo nel testo] a NON
SENTIRE LA VERITÀ: in quanto ASCOLTATA DA “me”, cioè dalla fede in cui “io” come
individuo mortale consisto, la verità NON PUÒ ESSERE VERITÀ, e io sono destinato ad essere
soltanto il desiderio, ‘in indefinitum’, della verità, cioè alla lettera filo-sofo. La struttura originaria
non è il punto d’arrivo al quale perviene la filo-sofia così intesa: la filosofia È DESTINATA A
RIMANERE FUORI DALLA VERITÀ, perché il cammino lungo il quale essa vorrebbe giungere
non può che procedere nella NON VERITÀ>>. - (“La struttura originaria”, pag. 89).

Anche qui, tutto molto chiaro: “io” _ in quanto Roberto, Severino, etc. _, proprio perché sono
FEDE cioè ERRORE (nell’ottica severiniana!), ANCHE SE ASCOLTASSI (leggessi) la verità, ciò
che ascolterei (leggerei) NON sarebbe VERITÀ, nemmeno in virtù di ampie e dotte analisi onto-
logiche (né introducendo l’apporto delle scienze tutte), poiché chiunque di noi intendesse
INDICARE la verità, si troverebbe comunque ad indicarla INTERNAMENTE alla <<NON
111

VERITÀ>> cui ciascun individuo è.

§.6- Poiché <<La testimonianza attuale del destino è affermazione della IMPOSSIBILITÀ CHE
L’IO MORTALE [L’IO dell’INDIVIDUO] COMPRENDA LA VERITÀ DEL DESTINO [ciò]
porta con sé la necessità di ABBANDONARE ogni velleità veritativa in relazione alla propria
coscienza individuale>>. - (Cusano. Cit., pag. 437).

Ovvero, la VERITÀ del destino TESTIMONIA che l’individuo (Severino, tu, lui...) dovrebbe
<<ABBANDONARE ogni velleità veritativa in relazione alla PROPRIA COSCIENZA
INDIVIDUALE>> perché _ s’è visto _ egli è << DESTINATO [ <- corsivo nel testo] a NON
SENTIRE la VERITÀ>>.

§.7- SENONCHÉ, per Severino <<La terra isolata [l’ERRORE] può apparire solo in quanto appare
il destino della verità. [...] Il destino della VERITÀ è l’INCONSCIO dell’INCONSCIO della
TERRA ISOLATA. Ma questo più profondo inconscio AFFIORA NELLA COSCIENZA che la
terra isolata ha di sé: AFFIORA, appunto, nel molteplice che è costituito dai significati che sono
IDENTICI nella terra isolata e nel destino della verità. Questo molteplice, nella terra isolata, è
l’insieme dei frammenti della struttura del destino della verità. Tale struttura è invece la struttura di
tali frammenti, che, in quanto originariamente ed eternamente strutturati non sono frammenti, ma
determinazioni distinte che necessariamente sono unite in ciò la cui negazione è autonegazione. Il
destino e la terra isolata cantano, CON LE STESSE NOTE, gli OPPOSTI canti della verità e
dell’errore. Nel canto dell’errore affiora quindi, MA ROVESCIATO, il canto della verità>>. -
(Severino: “Oltrepassare”. Pag. 374).

Perciò, l’AFFIORARE di detto <<INCONSCIO dell’INCONSCIO>> <<non può non essere in


qualche modo PRESENTE NELL’APPARIRE MALATO [nell’ERRORE], non può non trapelarvi
in qualche modo, e dunque in tale apparire non può non essere in QUALCHE MODO [ <- corsivo
nel testo] presente anche quel tratto del destino per il quale, in tutto ciò che accade all’uomo,
l’uomo non trova l’estraneo, ma se stesso, e dunque può essere libero dal turbamento in cui il futuro
e l’immagine di altre possibili vite lo gettano>>. - (Severino: “La Gloria”. Pag. 69).

§.8- Restando sempre in linea col §.7, per maggior chiarezza riporto un altro passaggio di Severino,
tratto dalla sua PREFAZIONE al libro di Fabio Farotti: EX DEO – EX NIHILO, Mimesis edizioni,
2011:

<<Il mondo è interpretato. Non nel senso che l’uomo, quando voglia, abbia la facoltà di
interpretarlo. Anche gli uomini e i loro rapporti appartengono infatti al contenuto
dell’interpretazione. La quale, dunque, pur essendo volontà interpretante, non è a
disposizione dell’uomo, ma dispone l’uomo e le cose del mondo secondo gli ordinamenti da
essa stabiliti e modificati. È l’interpretazione originaria. Ma l’interpretazione NON È
VERITÀ: è fede, volontà, ossia ERRARE>> (pag. I. Maiuscolo mio).
<<Per indicare l’Errare è necessario ESSERNE AL DI FUORI: solo in quanto il destino della verità
è già da sempre aperto QUALCOSA PUÒ APPARIRE come l’Errare>> (pag. III. Maiuscolo mio
tranne la <<E>> di <<Errare>>).
112

<<Nel linguaggio [del mortale o dell’ERRORE] può però farsi innanzi già ora, A VOLTE, il
SENSO AUTENTICO DEL DESTINO. Nel linguaggio _ perché NEL PROFONDO DI OGNI
UOMO QUEL SENSO È GIÀ DA SEMPRE MANIFESTO>> (pag. V. Maiuscolo mio).

§.9- Detto ciò, è allora giunto il momento di domandarsi:

le tesi esposte ai §§.7 e 8 _ ossia che <<La terra isolata [l’ERRORE] [possa] apparire solo in quanto
appare il destino della verità>> e che di conseguenza <<il destino della verità>> come <<inconscio
dell’inconscio della terra isolata>> AFFIORI <<nella COSCIENZA che la terra isolata ha di sé>> e
dunque nel <<linguaggio>> dell’ERRORE _ sono tesi incontraddittoriamente COMPONIBILI con
quanto da Severino/Cusano affermato nei §§. 1, 2, 3, 4, 5 e 6?

§.10- ASSOLUTAMENTE NO, è evidente.

Se infatti fossero COMPONIBILI senza contraddizione, ALLORA l’io individuale NON avrebbe
più alcun motivo per essere designato come ERRORE, perché in tal caso esso SAREBBE GIÀ
COSCIENTE della VERITÀ del destino, la cui prima presa di coscienza è costituita PROPRIO dal
rilevamento secondo cui <<la struttura [ -> la struttura originaria] di tali frammenti, in quanto
originariamente ed eternamente strutturati non sono frammenti, ma determinazioni distinte CHE
NECESSARIAMENTE SONO UNITE IN CIÒ LA CUI NEGAZIONE È AUTONEGAZIONE>>.
E poiché NELL’ERRORE può <<farsi innanzi già ora, A VOLTE, il SENSO AUTENTICO DEL
DESTINO [...] perché nel PROFONDO DI OGNI UOMO QUEL SENSO È GIÀ DA SEMPRE
MANIFESTO>>, allora l’ERRORE può affermare CON VERITÀ _ come di fatto l’individuo-
ERRORE (Severino) afferma tutt’ora _, il senso <<AUTENTICO>> del destino, ossia può
affermare quel NON-ERRORE che l’ERRORE (Severino, io, tu...) non potrebbe invece *MAI*
affermare, nemmeno se IN ESSO fosse AFFIORATO ciò che sarebbe <<GIÀ DA SEMPRE
MANIFESTO>> perché, se davvero fosse <<GIÀ DA SEMPRE MANIFESTO>>, l’ERRORE
<<GIÀ DA SEMPRE>> lo scorgerebbe _ sebbene Severino dica: <<A VOLTE>>! _, visto che <<il
SENSO AUTENTICO DEL DESTINO>> giacerebbe schizofrenicamente <<nel PROFONDO DI
OGNI UOMO>> in attesa di affiorare.
Ma se così, allora è COMPLETAMENTE FALSA la tesi che recita

<<[L]’io individuale NON PUÒ PENSARE la verità del destino, ANCHE SE QUESTA È, come
INCONSCIO dell’INCONSCIO, la VERITÀ del SUO APPARIRE ED ESSERE: l’io
dell’individuo NON È E NON PUÒ ESSERE COSCIENTE DEL PROPRIO ESSERE
VERITATIVO. Tale coscienza appartiene SOLO all’Io del destino>>.

Se l’individuo <<NON PUÒ ESSERE COSCIENTE DEL PROPRIO ESSERE VERITATIVO>>,


allora, evidentemente <<il SENSO AUTENTICO DEL DESTINO>> NON È AFFATTO <<GIÀ
DA SEMPRE MANIFESTO>>; ma se anche lo fosse, cioè se davvero giacesse <<nel PROFONDO
DI OGNI UOMO>> cioè di ogni ERRORE, questo _ comunque _ non potrebbe MAI <<ESSERNE
COSCIENTE>>!

§.11- Che ERRORE potrà mai essere, quello IN GRADO DI RECEPIRE LA VERITÀ che
<<AFFIORA NEL MOLTEPLICE che è costituito dai significati che sono IDENTICI nella terra
113

isolata e nel destino della verità>> e che quindi recepisce che <<l’apparire dello stesso destino
come isolato, è pur sempre l’apparire (per quanto formale) “dell’esistenza della relazione necessaria
tra ogni essente e ogni altro>>?

IN NESSUN MODO potrà essere ERRORE.

Infatti, la VERITÀ offertasi così ALL’ERRORE (All’individuo-Severino) nonché accolta ed


espressa DALL’ERRORE (DALL’individuo-Severino), *TRASFORMA* (divenendo altro-da-sé)
l’io individuale in <<COSCIENZA DELLA VERITÀ>>, cosicché venga meno la DIFFERENZA
tra io individuale e Io del destino, ossia venga meno la differenza tra ERRORE e VERITÀ, avendo
il primo GIÀ RECEPITO tutto ciò che occorre affinché la VERITÀ sia VISTA e
TESTIMONIATA.

Se così, non avrebbe neppure ALCUN SENSO asserire che <<l’errore non si vede come errore>>
giacché, una volta SAPUTO veritativamente esservi ISOLAMENTO tra sé e la VERITÀ e che in
esso _ nell’ISOLAMENTO _ l’apparire è <<pur sempre l’apparire (per quanto formale)
“dell’esistenza della relazione necessaria tra ogni essente e ogni altro>> (e a SAPERLO è appunto
l’io individuale/ERRORE), sarà del tutto consequenziale che anche l’ERRORE SI SAPPIA esser
tale!

§.12- Severino: <<Per INDICARE l’Errare è necessario ESSERNE AL DI FUORI: solo in quanto il
destino della verità è già da sempre aperto QUALCOSA PUÒ APPARIRE come l’Errare>>.

*CHI* è <<AL DI FUORI>> dell’<<Errare>>?

Evidentemente *NON* è certo l’ERRORE, cioè NON è l’individuo;

la risposta di Severino:

<<E' la COSCIENZA DELLA VERITÀ ad essere OLTRE L'ERRORE>>.


- (“La legna e la cenere”. Rizzoli 1999).

Ma se <<la COSCIENZA DELLA VERITÀ>> è <<OLTRE L'ERRORE>>, e se perciò


l’<<apparire della verità non è la mia [dell’ERRORE, dell’individuo] coscienza della verità>>,
allora *N-E-S-S-U-N-O* potrà mai <<INDICARE l’Errare>>, giacché la VERITÀ che ne è fuori
<<non è la mia [dell’individuo] coscienza della verità>>, perciò <<NON posso essere COSCIENTE
del MIO essere VERITATIVO>>!

Ed a proposito dell’<<INDICARE>>, altrove Severino ricorre all’immagine del DITO che INDICA
la LUNA: se il DITO è malato _ dice _, non per questo sarà MALATA anche la LUNA che intende
indicare.

Senonché, un DITO malato ed INTERNO alla <<NON VERITÀ>> non potrà che indicare
‘storto’/sbagliato cioè ALTROVE rispetto alla VERITÀ.
114

Infatti, per INDICARE la verità, quel DITO MALATO (quell’ERRORE) dovrebbe innanzitutto non
essere ERRORE; parallelamente a ciò, dovrebbe SAPERE dove INDICARE, ma per far questo,
dovrebbe CONOSCERE quella verità affinché possa indicarLA senza ERRARE.
Ma può, l’ERRORE, non ERRARE?

NO, perché l’ERRORE è per definizione l’ERRANTE...

Inoltre, si può <<INDICARE l’Errare [...] SOLO in quanto il destino della verità è già da sempre
APERTO>>, cioè <<già da sempre>> è ed APPARE _ avverte Severino;

ma *CHI* LO INDICA?

E *CHI* SA (o A *CHI* APPARE) _ onde possa indicarLO _ che <<il destino della verità [sia]
già da sempre APERTO>> cioè APPAIA da sempre?

S’è visto che esso APPARE ALLA <<COSCIENZA DELLA VERITÀ>>, essendo questa
<<OLTRE L'ERRORE>>; quindi ALL’ERRORE <<il destino della verità>> NON può apparire,
altrimenti anch’esso sarebbe <<OLTRE L'ERRORE>> cioè OLTRE SÉ...

§.13- Quindi è del tutto lampante che se _ come dice Severino _ <<la filosofia È DESTINATA A
RIMANERE FUORI DALLA VERITÀ, perché il cammino lungo il quale essa vorrebbe giungere
non può che procedere nella NON VERITÀ>> - (“La struttura originaria”, pag. 89), allora NIENTE
E NESSUNO potrà <<INDICARE l’Errare>> stando <<AL DI FUORI>> perché, anche
ammettendo che <<il destino della verità [sia] già da sempre aperto>> dimodoché
<<QUALCOSA>> in esso possa <<APPARIRE come l’Errare>>, ammetteremmo
un’IMPOSSIBILITÀ _ sempre in base alla stessa ottica severiniana _ in quanto l’affiorare del
<<SENSO AUTENTICO DEL DESTINO>> non potrebbe che costituirsi come l’affiorare di uno
spettacolo PER <<un occhio CIECO>>, giacché:

<<Bisogna vedere l'ERRORE del concetto che "IO VADO VERSO LA VERITÀ" e che "se mi va
bene, A UN CERTO MOMENTO LA VEDRÒ". NO! Perché se "Io" è ad esempio il sottoscritto,
con questa struttura fisica determinata, allora sarebbe come dire che un OCCHIO CIECO può
vedere la verità>>. - (Severino: “La legna e la cenere”. Maiuscolo mio).

§.14- Nel libro citato, la professoressa Cusano indaga <<LA NATURA di alcune espressioni del
linguaggio MALATO dell’Occidente che SUONANO IDENTICHE a quelle del linguaggio che
testimonia il destino>>. - (pag. 441 ss).

E quali sarebbero quelle <<espressioni del linguaggio MALATO dell’Occidente>> che


sembrerebbero dire IL MEDESIMO della teoresi severiniana?

Sono le <<posizioni filosofiche occidentali (tra quelle di maggior rilievo speculativo) in cui sembra
essere presente un linguaggio FORMALMENTE IDENTICO a quello che testimonia il destino>>. -
(Ibidem).
115

(Tra esse _ secondo l’autrice _ vi è l’Apeiron di Anassimandro; il Lògos eracliteo; l’essere eterno di
Parmenide; l’Élenchos aristotelico; il cogito cartesiano; l’Ethica di Spinoza; il compito infinito di
Fichte; la dialettica hegeliana; Marx; l’Oltre-uomo nietzschiano e la differenza ontologica di
Heidegger).

C’è innanzitutto da chiedersi *PERCHÉ*, per le <<posizioni filosofiche occidentali (tra quelle di
maggior rilievo speculativo) in cui sembra essere presente un linguaggio FORMALMENTE
IDENTICO a quello che testimonia il destino>>, <<un lampo di COMPRENSIONE AUTENTICA
[sia] IMPOSSIBILE>>, mentre per l’individuo-Severino (o per la sua filosofia) NON lo è (stato).

Non si capisce, cioè, in virtù di quale ‘miracolo’ Severino abbia beneficiato della ‘grazia’ di <<un
lampo di COMPRENSIONE AUTENTICA>> dal/sul destino della verità, mentre a tutti gli altri sia
stato precluso...

...Curioso davvero.

Non sembra casuale che, nel §.8, Severino abbia sostenuto:


<<Nel linguaggio [dell’individuo/ERRORE] può però farsi innanzi già ora, A VOLTE, il senso
AUTENTICO del DESTINO>>.

COSA significa: <<A VOLTE>>?

Non potrà che significare che IN (e SOLTANTO IN) Severino si sia FATTO INNANZI <<il senso
AUTENTICO del DESTINO>>, cioè: *UNA* SOLA VOLTA nella storia!

Dal momento che per le ALTRE VOLTE (per le altre filosofie) _ come detto _ quel <<lampo di
COMPRENSIONE AUTENTICA>> è sempre stato <<IMPOSSIBILE>>!

Dispensato Severino, per un momento, dall’esser un ERRORE e quindi DIVENUTO _ sempre per
un momento ultra-cinquantennale _ ALTRO-DA-SÉ (cioè da ERRORE a NON-ERRORE), soltanto
a/in Severino si sarebbe così palesato il <<senso AUTENTICO>> _ in realtà, ANCHE ALTRI
rivendicano d’esser latori di tale <<senso autentico>> rispetto a quello severiniano, nel frattempo
divenuto inautentico, ormai da <<oltrepassare>>, ma lasciamo perdere questo giochetto ‘a
superarsi’ _, mentre TUTTO il resto del pensiero occidentale sarebbe, a suo dire, rimasto immerso
nel nichilismo: ne prendiamo atto...

§.15- La Cusano riporta poi il seguente brano di Severino:

<<A volte accade che il linguaggio dei mortali, pur dicendo cose il cui senso è essenzialmente
diverso da quello al quale si rivolge il linguaggio (esso stesso mortale) che testimonia il destino
della verità, RISUONI in modo che sia possibile SENTIRE NELLE SUE PAROLE QUALCOSA
DI RADICALMENTE DIVERSO _ ADDIRITTURA IL DESTINO DELLA VERITÀ. Da che cosa
sia reso possibile rimane un problema>>. - (Severino: “Oltrepassare”, pag. 302), e aggiunge:
<<Si intende ora mostrare che, proprio seguendo Severino, quest’ultima affermazione (“da cosa sia
reso possibile rimane un problema”) deve essere smentita, e cioè non è affatto un problema, e anzi
che il linguaggio che testimonia il destino è assolutamente in grado di mostrare “da cosa sia reso
116

possibile”>>. - (Pag. 443).

Infatti, secondo Severino l’AFFIORARE di detto <<inconscio dell’inconscio>> _ ossia <<il destino
della verità>> _ <<non può non essere in qualche modo presente nell’apparire MALATO, non può
non trapelarvi in qualche modo, e dunque in tale apparire non può non essere in qualche modo
presente anche quel tratto del destino per il quale, in tutto ciò che accade all’uomo, l’uomo non
trova l’estraneo, ma se stesso, e dunque può essere libero dal turbamento in cui il futuro e
l’immagine di altre possibili vite lo gettano>>. - (Severino: “La Gloria”. Pag. 69).

En passant, vorrei far notare come sovente Severino cerchi di togliersi dall’imbarazzo teoretico con
degli sbrigativi <<in qualche modo>> che nulla risolvono, lasciando tutto sospeso come prima,
ricorrendo tale espressione anche altrove, ad esempio a proposito dell’esser-‘B’ in ‘A’ come negato:

la traccia di ‘B’ è presente <<in qualche modo>>in ‘A’,

come a dire: “NON SI SA COME, MA È COSÌ, PUNTO”.

Proseguiamo.

§.16- Così, la filosofa chiede:

<<qual è l’origine di quel risuonare (“da cosa è reso possibile”)? Può fondarsi su una comprensione
autentica del destino o si tratta di una semplice somiglianza terminologica? Si tratta cioè di una
comprensione che è riuscita veramente a portarsi fuori dal nichilismo per un momento, quasi un
lampo di luce nella notte della non verità, oppure si tratta soltanto di una identità FORMALE,
sprofondata nella notte dell’errare nichilistico?>>. - (Pag. 443).

Integrando <<Severino con Severino>> ovvero integrando “Oltrepassare” con “La Gloria” _ la sua
risposta alla domanda <<“da cosa sia reso possibile” il RISUONARE FORMALMENTE
IDENTICO al linguaggio del destino da parte del linguaggio dell’isolamento [dell’ERRORE,
dell’io empirico]>> è la seguente:

<<Seguendo il ragionamento de “La Gloria” è infatti necessario affermare che quella possibilità
[cioè che AFFIORI quel <<RISUONARE>> della verità NELLA non-verità] È NEGATA dalla
struttura stessa dell’ISOLAMENTO [ossia dell’ERRORE]: il destino “non può non trapelare”, MA
SOLO in quanto inconscio del pensiero mortale (cioè del pensiero ISOLANTE); e, in quanto tale,
QUEL TRAPELARE NON È E NON PUÒ ESSERE COMPRESO COME TALE. Si tratta ora di
chiarire il senso di questa necessità, e cioè perché il destino NON POSSA ESSERE COMPRESO
NELLA SUA VERITÀ DAL PENSIERO DELLA NON VERITÀ [dall’io individuale]>>. (Ivi, pag.
444).

§.17- Pag. 444: <<Affermare che il destino “non può non essere in qualche modo presente
nell’apparire malato”, non equivale ad affermare che in ogni mortale, ossia non soltanto in coloro in
cui [segue citazione di Severino da “La Gloria”, pag. 69 ->] “albeggia la testimonianza del destino
_ sia in qualche modo presente la coscienza che lo salva dall’angoscia”; anzi, al contrario, nel
mortale quella presenza è e non può che essere inconscia. La verità NELLA NON VERITÀ è
117

presente in modo indiretto. Se fosse presente direttamente, SAREBBE POSTA E SAPUTA COME
VERITÀ, e dunque NON SAREMMO NELLA NON VERITÀ. La presenza, necessaria, del destino
[cioè della VERITÀ] nel mortale [nell’ERRORE] non può che essere inconscia proprio perché non
è diretta: sarebbe SAPUTA come tale, solo [segue citazione di Severino da “La Gloria”, pag. 69
->] “se la verità _ che è necessario che sia in qualche modo presente nella non verità _ fosse
direttamente presente nella non verità”>>. (Pag. 444).

Perciò (pag. 445): <<Sulla base di quanto detto _ prosegue la filosofa _, sappiamo che la non verità
è isolamento dalla verità pur essendole necessariamente unita: la non verità è isolamento da ciò a
cui è anche necessariamente ed essenzialmente unita. E poiché ogni unione, in quanto tale, [segue
citazione di Severino da “La Gloria”, pag. 70 ->] “è necessaria e nessun isolamento può riuscire a
sradicarla”, anche nell’isolamento i due uniti lasciano le tracce di sé nell’altro. L’essente che è
isolato dal legame con l’altro (legame in cui esso è concretamente se stesso) non appare per come è
ma come altro da sé [segue citazione di Severino da “La Gloria”, pagg. 69-70 ->], “E questo suo
apparire come altro è il rovesciamento del modo in cui il qualcosa appare in quanto appare nel suo
esser necessariamente unito al qualcos’altro. In questa situazione il qualcosa è in qualche modo
presente nel qualcos’altro, MA vi è presente come rovesciato, cioè come altro”. L’essente isolato è
sì presente nell’altro essente a cui è legato, ma quella presenza è rovesciata: è presente come altro
da sé, come ciò che essa NON È>>. [...]

<<Se si trattasse di una traccia diretta, l’apparire di un essente [segue citazione di Severino da “La
Gloria”, pag. 70 ->] “riuscirebbe a condurre all’apparire dell’altro essente”. In altre parole,
l’ALIENAZIONE che si produce nell’isolamento è tale che due essenti uniti continuano sì ad
apparire l’uno nell’alto, ma ognuno come altro da sé, cioè in forma ROVESCIATA rispetto al
proprio esser sé: poiché nell’isolamento della verità OGNI essente appare come altro da sé,
nell’unione tra due essenti ognuno conserva la presenza dell’altro in FORMA ROVESCIATA, cioè
“ambigua e sviante”>>.

§.18- In sostanza (pag. 446): <<Nell’apparire ROVESCIATO in cui consiste la coscienza


MALATA del nichilismo la VERITÀ NON PUÒ CHE APPARIRE ALTERATA>>.

E allora sorge la domanda:

<<le tracce della Gioia possono essere VISTE E COMPRESE come tali dal mortale [dall’io
individuale]?>>. (Pag. 446).

Ma, a questo punto, si rivela alquanto agevole rispondere:

<<Seguendo il linguaggio che testimonia il destino si deve sostenere [...] [che] non solo è
necessario che la verità del destino AFFIORI nel pensiero malato, MA è anche necessario che DA
QUEL PENSIERO ESSA [la verità] NON POSSA ESSERE COMPRESA: È IMPOSSIBILE che
nel linguaggio della terra isolata [quindi nell’INDIVIDUO, nell’ERRORE] CI SIA
COMPRENSIONE della VERITÀ del destino, ANCHE SE FORMALMENTE le sue parole
SUONANO IDENTICHE al linguaggio che TESTIMONIA IL DESTINO. È cioè necessario che il
linguaggio malato, proprio in quanto tale, NON LE POSSA COMPRENDERE. Anche se le parole
118

del linguaggio malato suonano simili a quelle del linguaggio che testimonia il destino, e simili in
maniera così impressionante da poter vedere in ciò una certa “problematicità”, SI DEVE
AFFERMARE LA NECESSARIA FORMALITÀ DI QUELLA IDENTITÀ>>. (Pag. 446).

§.19- Pag. 447: se <<il linguaggio mortale che suona identico a quello che testimonia il destino è
necessariamente un affiorare rovesciato (e dunque SVIANTE) dell’inconscio dell’inconscio (e che
sia rovesciato significa che sono IMPOSSIBILI LAMPI DI COMPRENSIONE AUTENTICA)>>,
allora

<<Si deve pertanto concludere che nel pensiero dell’isolamento UN LAMPO DI


COMPRENSIONE AUTENTICA È IMPOSSIBILE (NELLO STESSO SENSO E PER LO
STESSO MOTIVO PER CUI LO SI DEVE ESCLUDERE IN RELAZIONE ALL’IO
DELL’INDIVIDUO): è necessario che, all’interno del suo isolamento dalla verità del destino, il
pensiero mortale [dell’io individuale, dunque] fraintenda, sempre e inevitabilmente, le tracce della
Gioia. Se dunque “anche nell’isolamento della terra il destino lascia la propria traccia”, questa
“NON PUÒ NON ESSERE AMBIGUA, SVIANTE, cioè NON PUÒ condurre gli abitatori della
terra isolata alla luce del destino. Altrimenti la terra non sarebbe isolata”>>. (Pag. 447).

§.20- Quanto appena letto nei §§. 16, 17, 18 e 19 in realtà non fa altro che RADICALIZZARE LE
APORIE che sto tentando di presentare.

Vediamo.

Se _ come al §.16 _ <<è infatti necessario affermare che quella possibilità [cioè che AFFIORI quel
<<RISUONARE>> DELLA verità NELLA non-verità] [SIA] NEGATA dalla struttura stessa
dell’ISOLAMENTO [ossia dell’ERRORE]>>, allora, che <<il destino “non [possa] non trapelare”,
MA SOLO in quanto inconscio DEL PENSIERO MORTALE (cioè del pensiero ISOLANTE)>>
significa ESCLUDERE che <<quel TRAPELARE>> possa <<ESSERE COMPRESO COME
TALE>> dall’io individuale (da Severino), come afferma a chiare lettere la stessa Cusano.
E non può <<ESSERE COMPRESO>> non solo perché è inconscio _ essendo ADDIRITTURA
<<inconscio DELL’inconscio>>! _ ma altresì perché _ §.17 _ <<La verità NELLA NON VERITÀ
è presente in modo indiretto>>.

È ovvio: poiché l’io individuale è <<NELLA NON VERITÀ>>, ad esso la verità non potrà che
apparire (o non potrà che essergli presente) <<in modo INDIRETTO>>, il che equivale a dire come
NON-VERITÀ, giacché in caso contrario, cioè se fosse stata <<presente direttamente, SAREBBE
POSTA E SAPUTA COME VERITÀ, e dunque NON SAREMMO NELLA NON VERITÀ>>...

§.21- Ma allora *CHE FARSENE* della <<PRESENZA, necessaria, del destino [cioè della
VERITÀ] NEL mortale [NELL’individuo]>>?

Assolutamente NIENTE. Infatti, per quanto <<nessun isolamento [possa] riuscire a sradicar[e]>> il
<<legame in cui>> l’essente <<è concretamente se stesso>>, ciò nonostante l’<<essente che è
isolato dal legame con l’altro [...] NON appare PER COME È ma come altro da sé>>, ove <<questo
119

suo apparire COME ALTRO>> si realizzi perciò come <<ROVESCIAMENTO del modo in cui il
qualcosa appare in quanto appare nel suo esser necessariamente unito al qualcos’altro>>.

Tale <<ROVESCIAMENTO>> comporta che LA PRESENZA DELLA VERITÀ sia presente


NELL’ERRORE <<come ciò che essa NON È>>.

Ossia _ nuovamente _ la VERITÀ è presente nell’individuo come NON-VERITÀ, *SENZA* che


egli sappia essergli presente come NON-VERITÀ, altrimenti, se lo sapesse, saprebbe la VERITÀ
consistente nell’esser presente (in lui) della VERITÀ al modo della NON-VERITÀ...

Per questo, della <<PRESENZA, necessaria, del destino [cioè della VERITÀ] NEL mortale
[NELL’individuo]>>, quest’ultimo non saprebbe davvero *CHE FARSENE*...

Quindi, se <<nell’ISOLAMENTO DELLA VERITÀ OGNI essente appare come altro da sé>>,
allora, che <<nell’unione tra due essenti ognuno conserv[i] la presenza dell’altro in FORMA
ROVESCIATA, cioè “ambigua e SVIANTE”>> significherà che tale <<presenza dell’altro>> sarà
conservata nell’essente <<come ciò che essa NON È>>.

Per questo, nell’<<apparire ROVESCIATO in cui consiste la coscienza MALATA [l’individuo] del
nichilismo la VERITÀ non può che apparire ALTERATA>>.

§.22- Ciò detto, la conclusione inevitabile, *L’UNICA* conclusione possibile consiste perciò nel
fatto che la VERITÀ, apparendo a/nell’individuo in modo <<ROVESCIATO>> _ e <<che sia
ROVESCIATO significa che sono IMPOSSIBILI LAMPI DI COMPRENSIONE AUTENTICA>>
(punto 19) __, allora <<SI DEVE ESCLUDERE IN RELAZIONE ALL’IO DELL’INDIVIDUO>>
qualsiasi possibilità di TESTIMONIARE l’io del destino o la VERITÀ, perché <<all’interno del
suo isolamento dalla verità del destino, il pensiero mortale [dell’io individuale, dunque]
fraintend[e], sempre e inevitabilmente, le tracce della Gioia. Se dunque “anche nell’isolamento della
terra il destino lascia la propria traccia”, questa “NON PUÒ NON ESSERE AMBIGUA,
SVIANTE, cioè NON PUÒ condurre gli abitatori della terra isolata alla luce del destino. Altrimenti
la terra non sarebbe isolata”>>. (Pag. 447).

§.23- <<Tuttavia _ prosegue la Cusano _, SEPPUR NON DIRETTAMENTE, la VERITÀ DEVE


ESSERE PRESENTE>>, anche se <<questo essere presente è tale da dare luogo necessariamente a
un trapelare in FORMA ROVESCIATA e perciò ESSENZIALMENTE FUORVIANTE>>,
precisando che (pag. 450): <<Il ragionamento FIN QUI svolto si riferisce necessariamente a quella
diversa (e ulteriore) contraddizione consistente nella negazione della verità, cioè nell’isolamento
(nichilistico) dell’essente dalla verità del destino, e non nella posizione formale del concreto che è
l’originario in quanto apparire finito della verità. [...] L’alienazione nichilistica è quella diversa e
ulteriore contraddizione consistente nella negazione della verità, e non nella mera posizione formale
di essa. Se non si distingue tra contraddizione C e contraddizione nichilistica, si arriva a negare il
destino della verità>>.

Infatti, sempre secondo la professoressa, NON operando tale distinzione


<<si implica che ANCHE NELL’ORIGINARIO ABBIA LUOGO L’ISOLAMENTO DALLA
GIOIA e che perciò ANCHE NELL’ORIGINARIO LA GIOIA POSSA ESSERE PRESENTE
SOLO IN FORMA ALTERATA E ROVESCIATA. In tal modo ANCHE NELL’APPARIRE
120

FINITO SAREBBERO PRESENTI SOLO TRACCE ALTERATE E SVIANTI DELLA VERITÀ.


Il che significa che la VERITÀ SAREBBE AFFERMATA SULLA BASE DI TRACCE
ALTERATE DI SÉ, e pertanto ciò che sarebbe affermato SAREBBE E NON SAREBBE IL
DESTINO DELLA VERITÀ, ossia il DESTINO DELLA VERITÀ NON SAREBBE
AFFERMABILE. E ancor più: in quanto nell’originario sarebbero presenti solo tracce alterate della
Gioia, L’ORIGINARIO NON SAREBBE L’ORIGINARIO. Da qui l’importanza di tenere distinte
le due diverse contraddizioni (contraddizione C e negazione della verità del destino) anche in
relazione alla tematica delle tracce della Gioia: è SOLO IN RELAZIONE ALL’ISOLAMENTO
NICHILISTICO CHE LA PRESENZA DELLA GIOIA È INDIRETTA, ROVESCIATA,
ALTERATA. Infatti, [...] l’isolamento dell’apparire finito dalla Gioia [segue citazione da: Severino,
“Oltrepassare, pag. 364 ->] “è essenzialmente diverso dall’isolamento della terra isolata dal
destino, perché è l’isolamento del destino dalla totalità dell’iposintassi dell’essente”. L’isolamento
dell’apparire finito è sì apparire di una parte isolata dal Tutto, ma è l’apparire dello stesso destino
come isolato, e cioè è pur sempre l’apparire (PER QUANTO FORMALE) “dell’esistenza della
relazione necessaria tra ogni essente e ogni altro. Pertanto, l’isolamento non può spingere, qui, nella
fede del diventare altro”. NEL CERCHIO FINITO DEL DESTINO, infatti, appare [Severino. Idem;
pagg. 362-363 ->] “che il volto di tutto ciò che si manifesta è alterato _ secondo l’alterazione che è
propria della contraddizione C. È lo stesso cerchio del destino a vedere l’alterazione e la
contraddizione del proprio volto. Che il suo volto sia alterato è un tratto che appartiene al suo stesso
sfondo (è cioè una determinazione della stessa persintassi del destino) [...] giacché la verità non può
non vedere l’errore [-> l’io dell’INDIVIDUO] e quindi il contrasto tra sé e l’errore, mentre l’errore
non si vede come errore”>>.

§.24- Benissimo. Abbiamo appena appurato _ al §.23 _ come secondo Severino il nostro mondo, il
mondo dell’io individuale, sia avvolto da ben DUE contraddizioni:

<a>- la contraddizione C, ineliminabile e riducibile soltanto mediante incremento nel finito della
concretezza dell’Io infinito del destino. Essa consiste nell’<<apparire finito>> come <<apparire di
una parte isolata dal Tutto>>. <<Poiché nell’Io finito del destino non può apparire l’Io infinito del
destino, l’Io finito ISOLA [<- in corsivo nel testo] l’essente dalla totalità concreta. Tale
“isolamento” prende il nome di contraddizione C, giacché l’Io finito si contraddice mostrando un
tutto che non è il tutto>>. (Cusano. Op. Cit, pag. 528).

Quindi <a> è <<la posizione FORMALE del concreto che è L’ORIGINARIO in quanto apparire
finito della verità>>;
e
<b>- la contraddizione cui è la <<negazione della verità>>, cioè <<l’isolamento (nichilistico)
dell’essente dalla verità del destino>>.

Poiché l’<<Io finito del destino è l’essenza autentica dell’uomo [dell’io individuale] quale apparire
autocosciente di sé (Io)>> (ivi, pag. 527), e poiché l’<<io individuale è uno degli essenti isolati che
appaiono nell’Io del destino>> (pag. 529), allora abbiamo la stretta convivenza tra un ineliminabile
contraddirsi strutturale <a> e (al cui interno è presente) un contraddirsi come <<negazione del
destino>> <b>.
121

Come abbiamo già visto ma rileggiamolo, la filosofa ha precisato che il <<ragionamento FIN QUI
svolto si riferisce NECESSARIAMENTE [ <- corsivo nel testo] a quella diversa (e ulteriore)
contraddizione consistente nella negazione della verità, cioè nell’isolamento (nichilistico)
dell’essente dalla verità del destino [cioè si riferisce a <b>], e non nella posizione FORMALE del
concreto [cioè <a>] che è l’originario in quanto apparire finito della verità. [...] Se non si
DISTINGUE tra contraddizione C [<a>] e contraddizione nichilistica [<b>], SI ARRIVA A
NEGARE IL DESTINO DELLA VERITÀ>>.

Perciò, sarebbe <<SOLO in relazione all’ISOLAMENTO NICHILISTICO [<b>] che la presenza


della gioia [ma possiamo anche dire: della VERITÀ] è INDIRETTA, ROVESCIATA,
ALTERATA>>.

§.25- Ma la DISTINZIONE tra <a> e <b> raccomandata dalla Cusano riesce davvero ad EVITARE
*L’INFAUSTO ESITO* consistente nella *SOLA* PRESENZA <<ANCHE NELL’APPARIRE
FINITO>> (o nell’ORIGINARIO) delle <<TRACCE ALTERATE E SVIANTI DELLA
VERITÀ>>?

Temo di NO.

Perché?

Perché, che <<l’isolamento dell’apparire finito [<a>]>> sia _ come scrive Severino
_<<essenzialmente diverso dall’isolamento della terra isolata [<b>] dal destino>> in quanto sarebbe
<<l’isolamento del destino dalla totalità dell’iposintassi dell’essente”>> epperò sia comunque lo
<<stesso destino come isolato>>, NON TOGLIE il suo <<pur sempre>> costituirsi E come
<<posizione FORMALE del concreto>> E mostrando <<che il volto di tutto ciò che si manifesta è
ALTERATO _ secondo l’ALTERAZIONE che è propria della contraddizione C>>.

Analogamente al §.12, domandiamoci ancora:

*CHI* VEDE <<l’ALTERAZIONE che è propria della contraddizione C>>?

Risposta:

<<È LO STESSO CERCHIO del destino a VEDERE l’ALTERAZIONE e la CONTRADDIZIONE


del proprio volto>>. (Severino).

Ma che tale ALTERAZIONE sia VISTA dallo <<STESSO CERCHIO del destino>>, l’io
individuale NON LO PUÒ SAPERE, perché quest’ultimo *NON* è il cerchio finito del destino.

Se lo sapesse, non sarebbe io individuale (non sarebbe ERRORE) quindi NON differirebbe dal
<<CERCHIO del destino>>!
Lo stesso termine <<IPOSINTASSI dell’essente>> non appartiene già più _ NON PUÒ
appartenere! _ all’io individuale, perché è un termine che presuppone come GIÀ SAPUTO il
122

rapporto tra IPOSINTASSI e PERSINTASSI, ossia presuppone che <<LO STESSO CERCHIO del
destino>> sia già SAPUTO esser <<l’apparire (PER QUANTO FORMALE) “dell’esistenza della
relazione necessaria tra ogni essente e ogni altro”>>; senonché, tutto ciò *NON* può però esser
SAPUTO dall’io individuale o ERRORE, come lo stesso Severino nuovamente ci ricorda:

<<È LO STESSO CERCHIO del destino a VEDERE l’ALTERAZIONE e la CONTRADDIZIONE


del PROPRIO volto. Che il SUO volto sia alterato è un tratto che appartiene al SUO stesso sfondo
(è cioè una determinazione della stessa persintassi del destino)>>, ovvero è soltanto il <<CERCHIO
del destino>> a VEDER-SI ed a SAPER-SI <<alterato>> nel <<PROPRIO volto>>, <<giacché la
VERITÀ NON PUÒ NON VEDERE L’ERRORE>>.

Invece, l’io individuale o <<l’ERRORE NON SI VEDE COME ERRORE>>, NON ha _ non può
avere _ cognizione alcuna della <<PERSINTASSI>>!

Perciò, che l’individuo <<NON SI VEDA COME ERRORE>> rende del tutto inutile l’invito a
DISTINGUERE la contraddizione C da quella nichilistica al fine di NON arrivare <<A NEGARE
IL DESTINO DELLA VERITÀ>> ANCHE riguardo all’ORIGINARIO <a>, poiché in realtà
ESTREMIZZA tutte le aporeticità sin qui indicate, anzi: DESTITUISCE ogni ragione volta a
DISTINGUERE tra le due contraddizioni, appunto perché non solo l’apparire della <<posizione
FORMALE del concreto>> può apparire tale SOLTANTO se anch’essa <<AFFIORA>> ANCHE
internamente all’ERRORE o <<nell’isolamento (nichilistico) dell’essente dalla verità del destino>>,
ma anche perché, qualora AFFIORASSE, l’ERRORE cesserebbe di esser tale, giacché sarebbe
affiorato quanto basta affinché esso SAPPIA LA VERITÀ, giungendo così a SAPERE la suddetta
DISTINZIONE (tra sé come ERRORE <b> nichilistico vivente all’interno della contraddizione C)
quindi a SAPERE <<dello stesso destino come isolato, [il quale] è pur sempre l’apparire (PER
QUANTO FORMALE) “dell’esistenza della relazione necessaria tra ogni essente e ogni altro”>> e
conseguentemente _ ripeto _ l’ERRORE (l’io individuale) sarebbe CAPACE di DISCERNERE la
VERITÀ dall’errore: non sarebbe perciò ERRORE né ERRANTE ma un ASCOLTATORE di quel
proprio altro-da-sé che è <<il destino della verità>>...

D’altronde, se <<la verità DEVE ESSERE PRESENTE>> trapelando però <<in FORMA
ROVESCIATA e perciò ESSENZIALMENTE FUORVIANTE>>, *CHE* <<VERITÀ>> potrà
mai essere quella che trapeli in siffatta <<FORMA>>?

Direi una NON-VERITÀ...

Effettivamente, in *COSA* si differenzierebbe DALL’ERRORE una <<VERITÀ


ESSENZIALMENTE FUORVIANTE>>?

Direi IN NULLA...

§.26- Se così, allora, che il <<destino e la terra isolata cant[i]no, CON le STESSE NOTE, gli
OPPOSTI canti della verità e dell’errore>> _ come detto al §.7 _ è sotterfugio valevole meno di
ZERO, giacché se le note sono le stesse MA se <<il canto della verità>> affiora <<SVIANTE>>
nel <<canto dell’errore>>, allora questo SVIAMENTO <<fraintend[e], sempre e inevitabilmente le
123

tracce>> della verità (o le <<NOTE>> del CANTO DELLA VERITÀ), cosicché la traccia che <<il
destino lascia>> <<NON [POSSA] NON ESSERE AMBIGUA, SVIANTE>>, e a questo punto non
si capisce davvero né come il CANTO DELL’ERRORE possa cantare <<le STESSE NOTE>> del
CANTO DELLA VERITÀ, né si capisce che senso abbia osservare che la <<terra isolata [possa]
apparire solo in quanto appare il destino della verità. [...] IL DESTINO DELLA VERITÀ È
L’INCONSCIO DELL’INCONSCIO DELLA TERRA ISOLATA. Ma questo più profondo
inconscio AFFIORA nella coscienza che la terra isolata [l’ERRORE, l’io individuale] ha di sé>>;

infatti:

A)- o tale AFFIORARE dell’<<INCONSCIO DELL’INCONSCIO NELLA coscienza che la terra


isolata [l’ERRORE] ha di sé>> rende l’ERRORE non-ERRORE, trasformandolo così nel proprio
altro; il che è quanto la filosofia di Severino ESCLUDE categoricamente.

B)- Oppure l’ERRORE _ per quanto in esso AFFIORI l’<<INCONSCIO DELL’INCONSCIO>> o


per quanto <<il destino “[non possa] non trapelare” [nel mortale o nell’individuo]>> sebbene
<<SOLO in quanto inconscio DEL PENSIERO MORTALE [<- corsivo nel testo] (cioè del pensiero
isolante)>> _ rimane ERRORE, perché <<quel TRAPELARE NON È E NON PUÒ ESSERE
COMPRESO COME TALE>>, NEPPURE <<come INCONSCIO DELL’INCONSCIO>>,
NEPPURE come <<VERITÀ DEL SUO [dell’ERRORE] APPARIRE ED ESSERE>>. E se la
verità, <<in quanto ASCOLTATA DA “me” [da Severino e chiunque altro], cioè dalla fede in cui
“io” come individuo mortale consisto, NON PUÒ ESSERE VERITÀ>>, allora la (sua) <<filosofia
È DESTINATA A RIMANERE FUORI DALLA VERITÀ, perché il cammino lungo il quale essa
vorrebbe giungere non può che procedere nella NON VERITÀ>>. - (Severino: “La struttura
originaria”, pag. 89).

Ed è esattamente ciò che le accade in virtù delle sue stesse suicide premesse teoretiche...

§.27- In questa seconda parte introdurrò ulteriori passaggi (solo apparentemente più) esplicativi,
estratti dal testo della Cusano già menzionato: “Emanuele Severino. Oltre il nichilismo”.
Esaminiamo perciò in dettaglio tutte le nuove indicazioni di volta in volta offerte da
Severino/Cusano.

§.28- Scrive Nicoletta Cusano nel suo libro (pag. 292):

<<[...] il cerchio finito del destino è “io” in quanto apparire dell’autocoscienza. Ora si chiarirà
perché l’io del destino non è l’io dell’individuo. L’io individuale è un atto di fede [...]: che esista
[segue citazione di Severino da “La Gloria”, pag. 59 ->] “qualcosa come ‘individuo’ (o ‘popolo’)
appare all’interno dell’errare, cioè dell’isolamento della terra [...] L’io, come struttura nella quale
l’INDIVIDUO si RIFERISCE e APPARE A SE STESSO, è un ambito particolare di ciò che appare
nel destino della verità, è esso stesso una forma dell’errore”>>.
Inoltre, prosegue Severino,
<<“solo sul fondamento dell’Io finito del destino può apparire l’io dell’individuo, cioè l’io della
terra isolata; solo sul fondamento della verità che si struttura come RIFERIMENTO all’apparire del
124

destino a se stesso (dove il ‘sé’ non precede il riferimento, ma coincide con esso) può apparire la
non verità in cui consiste l’io dell’individuo”>>.

Ciò non comprometterebbe la tesi _ che già conosciamo _ secondo la quale (pag. 294):
<<L’io dell’individuo non è verità e NON PUÒ VEDERE LA VERITÀ; [segue citazione di
Severino: idem, pag. 65 ->] “e anche quando tentasse di comprenderla e di allearvisi, NON
POTREBBE SCORGERLA _ appunto perché lo SGUARDO della NON VERITÀ È DESTINATO
a NON VEDERE ALTRO che NON VERITÀ ANCHE QUANDO TENTA di VOLGERSI
VERSO la VERITÀ”>>.

§.29- Tuttavia _ ma conosciamo anche quest’altra tesi _, <<L’io dell’individuo [segue citazione di
Severino: idem, pag. 73 ->] “nel PROFONDO, ASCOLTA il destino, cioè lo vuole. Solo ALLA
SUPERFICIE, cioè nella solitudine della terra, il mortale vuole essere signore delle cose, e vuole e
agisce [...]”>>.

Così, l’io individuale NON PUÒ SCORGERE LA VERITÀ e tuttavia <<nel profondo>> di sé
<<ASCOLTA il destino, cioè lo vuole>>, in contrasto con quanto dice Severino secondo cui l’io
dell’individuo <<proprio perché è fede, è destinato a NON SENTIRE la verità: in quanto
ASCOLTATA DA “me”, cioè dalla fede in cui “io” come individuo mortale consisto, la verità
NON PUÒ essere verità, e io sono destinato ad essere soltanto il desiderio, in indefinitum, della
verità>>. - (“La struttura originaria”, pag. 89).

La VERITÀ sarebbe <<l’INCONSCIO dell’INCONSCIO della terra isolata>> perciò


dell’individuo.
Per il momento, si dovrà allora nuovamente ribadire come al

PENSATORE/AUTORE/SCRITTORE-Severino *NON* possa manifestarsi alcuna COSCIENZA


del (nessun LEGAME COSCIENTE col) destino della verità, essendo _ in quanto individuo
<<DESTINATO A NON VEDERE ALTRO CHE NON VERITÀ>>...

§.30- <<Traiamo le conseguenze>>, afferma la Cusano.

Precisando, perciò, che ad ogni modo <<Essere uomo significa, nella sua essenza, essere apparire
dell’essere, nel senso dell’esserne l’immediato presentarsi che sa di essere tale. Il fondamento di
questo apparire consiste nella immediata autonegatività del proprio negativo (originarietà). Proprio
questo aspetto fondamentale determina la differenza tra Io del destino e io individuale: l’apparire in
cui consiste l’Io del destino è l’apparire la cui negazione è autonegazione. Se si tengono presenti i
due significati fondamentali dell’apparire (apparire dell’apparire dell’apparire e immediata
autonegatività del negativo), è chiaro il senso dell’affermazione “Io sono l’apparire attuale”. La mia
‘coscienza’ individuale non è la ‘coscienza’ in cui consiste il mio essere l’apparire attuale. In quanto
IO INDIVIDUALE IO SONO ERRORE, la NEGAZIONE DELL’IO DEL DESTINO. Tuttavia
“Io” sono l’apparire del destino>>.

Domandandosi subito dopo:

<<Come si spiega?>>.
125

§.31- Lo (si) spiega così:

<<L’io dell’individuo è l’apparire di una totalità di convinzioni che, come tali, non sono niente:
appare il mio credere di provar dolore, o piacere, di essere un certo corpo o una certa identità
coscienziale. Tutto questo appare immediatamente e cioè il suo apparire è negazione immediata del
proprio negativo; ma quell’apparire è, nella sua verità, l’apparire innegabile della non verità: è il
mostrarsi di convinzioni il cui contenuto è la negazione della verità. L’IO del destino È QUEL
MOSTRARSI; è cioè l’apparire veritativo (ossia la cui negazione è autonegazione) della non verità.
Pertanto, OGNI VOLTA CHE APPARE LA MIA CONVINZIONE DI ESSERE UN INDIVIDUO,
che possiede un corpo, che prova certi sentimenti e certe emozioni, insomma una “persona”,
un’“anima”, qualcosa di unico e indivisibile che sottostà al suo divenire, appare il SUO ESSERE
NEGAZIONE della VERITÀ>>.

§.32- Intanto, comincio col far notare come in quest’ultimo periodo: <<appare il SUO
[dell’individuo] essere NEGAZIONE DELLA VERITÀ>>, il termine <<appare>> sia riferito
*NON* ALL’individuo (il quale NON SA di <<essere NEGAZIONE DELLA VERITÀ>>) bensì
all’Io del destino, in quanto l’<<IO del destino È QUEL MOSTRARSI>>. Perciò *SOLTANTO*
ALL’Io del destino appare che <<la MIA [dell’individuo] convinzione di essere UN INDIVIDUO,
che possiede un corpo, che prova certi sentimenti e certe emozioni, insomma una “persona”>> è
<<NEGAZIONE DELLA VERITÀ>>.

Ma così sostenendo, ripeto, non possono non ripresentarsi le aporie già viste dal §.9 sin qui.
Infatti, se l’<<IO del destino È QUEL MOSTRARSI>>, cioè se ESSO è IL MOSTRARSI
dell’erroneità della MIA coscienza individuale nell’atto in cui essa (cioè la MIA coscienza
individuale) crede di esser <<una certa identità coscienziale>>, allora questa MIA stessa coscienza
individuale _ che, ripeto, NON è la coscienza dell’Io del destino _ COME potrebbe mai averne
coscienza, essendo ERRORE ovvero <<NEGAZIONE della VERITÀ>>?

Non resta altro da dire, se non che essa NON PUÒ ESSERNE COSCIENTE.

Ma allora COME può l’individuo-Severino asserire _ quindi esser cosciente di _ ciò che egli
presenta come VERITÀ cioè che <<la MIA [di OGNI individuo] convinzione di essere UN
INDIVIDUO>> è <<NEGAZIONE DELLA VERITÀ>>, <<ossia È ILLUSIONE, un modo
particolare del POSITIVO SIGNIFICARE DEL NULLA>>?

Il poterne PENSARE/SCRIVERE/TESTIMONIARE con verità _ quindi l’esserne cosciente _ da


parte dell’individuo-Severino dovrà insomma comportare una sua qualche *PARTECIPAZIONE*
(un qualche LEGAME) alla <<‘coscienza’ in cui consiste il mio essere l’apparire attuale>>.

Sì, ma COME?

§.33- Lo dovremmo scoprire nella seguente ulteriore precisazione (pag. 296-297):


<<[...] la differenza tra Io del destino e io dell’individuo _ scrive la filosofa _ porta a concludere
che, nella sua essenza originaria, l’uomo NON È LA CORPOREITÀ CHE CREDE DI AVERE,
126

giacché si deve dire [segue citazione di Severino da “La Gloria”, pag. 295 ->] “che la ‘propria’ vita
è una vita ‘altrui’”, CHE NON È LA PERSONA CHE CREDE DI ESSERE (io, coscienza, anima),
ma è l’apparire dell’essere in quanto apparire dell’apparire e dell’autonegatività del proprio
negativo. Nella mia essenza autentica, FUORI DALL’ERRORE DELL’IO INDIVIDUALE, Io
sono l’Io del destino.

In Oltrepassare, chiarendo il senso in cui le determinazioni della terra isolata sono e non sono,
Severino scrive che

“tutte le determinazioni della terra isolata sono un contenuto interpretato [...] anche il contenuto che
nel cerchio originario appare con il carattere dell’esser ‘io’. Anche quest’ultimo contenuto è
interpretato, ossia è ILLUSIONE, un modo particolare del positivo significare del nulla. [...]
Comunque, anche di questo ‘io’, che è illusione e positivo significare del nulla [...], va affermata la
possibilità che, separato dall’isolamento, e apparendo altro da ciò che esso è e appare
nell’isolamento, appaia tuttavia come qualcosa A CUI È SOTTESA UN’IDENTITÀ tra ciò che
ESSO È IN QUANTO ISOLATO e in quanto SOTTRATTO ALL’ISOLAMENTO [...]. MA GIÀ
ORA, nel tempo del contrasto tra destino e isolamento della terra, APPARE NEL DESTINO della
VERITÀ che questo ‘io’ NON PUÒ ESSERE ‘CIÒ A CUI appare’ il DESTINO DELLA VERITÀ.
[...] D’altra parte il destino non ‘appare a...’, ma è l’apparire DI SE STESSO, giacché ciò ‘a cui’
qualcosa dovrebbe apparire non potrebbe essere privo di ‘coscienza’, e, in quanto ‘cosciente’,
sarebbe innanzitutto ‘apparire’ [...]. E se si volesse affermare che anche questo apparire è un
‘apparire a qualcuno o a qualcosa’, si produrrebbe un REGRESSUS IN INDEFINITUM in cui
sarebbe infinitamente differito ciò a cui l’essente e il destino dovrebbero apparire, sì che l’apparire
stesso sarebbe da ultimo impossibile” [“Oltrepassare”; pag. 294-296]>>.

§.34- Nei brani appena letti (§§.30, 31, 32 e 33) _ soprattutto nell’ultimo _, dovremmo reperire
quanto basta per sciogliere i nodi aporetici sin qui incontrati.

Se infatti l’essenza autentica dell’uomo è costituita dall’<<essere apparire dell’essere, nel senso
dell’esserne l’immediato presentarsi che sa di essere tale>>, allora <<GIÀ ORA [...], APPARE
NEL DESTINO della VERITÀ che questo ‘io’ [individuale] NON PUÒ ESSERE ‘CIÒ A CUI
appare’ il DESTINO della VERITÀ>> perché <<il destino non ‘appare a...’, ma è l’apparire DI SE
STESSO>>.

Dunque, la <<mia ‘coscienza’ individuale>> NON può dire <<“Io sono l’apparire attuale”>> _
affermare questo è, infatti, precisamente il suo affermare l’ERRORE, cioè il suo CREDERE di
esser ciò che <<appartiene SOLO all’Io del destino>> _; e tuttavia, comunemente LO AFFERMA,
non sapendo però di USURPARE ciò che non le spetta essere/affermare, giacché l’ERRORE non sa
di esser tale.

Quindi, il destino della verità NON appare A ME-individuo bensì è lo stesso <<apparire DI SE
STESSO>> da parte del destino, è il destino che VEDE e SA se stesso.

§.35- In perfetta continuità con quanto scritto da Severino, la Cusano ha perciò osservato (pag.
297):
<<L’io dell’individuo è un contenuto della follia, un fascio di convinzioni contraddittorie. [...] Nello
sguardo del destino l’io dell’individuo è errore, e perciò a esso non può apparire il destino della
127

verità. Ma qui si rifletta sull’espressione linguistica “a esso”: l’io non è ciò “a cui” qualcosa appare,
ma è l’apparire del destino, ossia l’apparire che il destino è: il destino è AUTOapparire. L’esser
“Io” del destino è questo AUTOapparire. Severino mostra che, qualora si intenda l’apparire come
“apparire a”, ci si chiude nella cattiva infinità, determinata dall’impossibilità che apparente e
destinatario [l’io individuale] di quell’apparire si incontrino: se l’apparire che è il destino apparisse
“a”, tale destinatario dovrebbe a sua volta essere apparire, che, come tale, dovrebbe apparire “a”;
anche quest’ultimo destinatario, in quanto apparire, dovrebbe apparire “a”, e così via all’infinito.
L’io individuale è un essente della follia e il destino non appare “a”, ma è apparire a sé: l’apparire
non può che essere apparire a sé, autoreferenzialità>> dell’Io del destino.

§.36- Per procedere con maggior chiarezza, schematizziamo il rapporto io individuale/Io del
destino.

Se <<l’io [dell’individuo] NON È ciò “a cui” qualcosa appare, ma [l’io] È L’APPARIRE DEL
DESTINO, ossia l’apparire CHE IL DESTINO È: il destino è AUTOapparire. L’esser “Io” del
destino è questo AUTOapparire>>, allora le possibilità che si aprono sono le seguenti:

(a)- QUALCOSA (cioè soltanto l’ERRORE) appare A ME io individuale, perché LA VERITÀ (e


l’ERRORE) appare SOLTANTO all’Io del destino;

(b)- TUTTO (pertanto sia l’ERRORE che la VERITÀ) appare sia A ME io individuale, sia _
ovviamente _ all’Io del destino (perciò vi sarebbero DUE “io”, entrambi CONSCI sia l’ERRORE
che della VERITÀ, con una eventuale differenza di gradi);

(c)- NULLA (cioè né ERRORE né VERITÀ) appare A ME io individuale perché TUTTO appare
SOLTANTO come <<apparire dell’apparire dell’apparire>> cui è l’Io del destino, cosicché SOLO
esso possa esser <<questo AUTOapparire>> _ (che invece il “mio io” si ostinerebbe
quotidianamente quanto illusoriamente a ritenerSI) _, cioè sia <<apparire a sé:
AUTOreferenzialità>>.

Pertanto, io come individuo appaio sì come ERRORE (pur senza saper di esser errore), ma appaio
tale *NON* A ME-io-individuale, bensì unicamente ALL’Io del destino, perché io non posso dire
“io”, in quanto non lo sono, se non illusoriamente.

Ovvero, io-individuo sono sì posto ed esistente come ERRORE, ma l’Io a cui tutto ciò appare _ e
che perciò SA _ è unicamente l’Io del destino, non l’io-Roberto, l’io-Severino, etc...

Come dice Severino: <<qualcosa come ‘individuo’ (o ‘popolo’) appare ALL’INTERNO


dell’ERRARE [il quale <<ERRARE>> appare all’Io del destino], cioè dell’isolamento della terra
[...] L’io, come struttura nella quale l’individuo SI RIFERISCE e APPARE A SE STESSO, è un
ambito particolare di ciò che appare NEL destino della verità, è esso stesso una forma dell’errore>>.
- (“La Gloria”; pag. 59).

§.37- Cominciamo allora con l’ESCLUDERE la prospettiva (a), a motivo della serie di inestricabili
aporie già ampiamente riportate dal §.9 in poi.
128

Va altresì esclusa la prospettiva (b) perché se la situazione fosse come da essa tratteggiata, non
sussisterebbe alcuna DIFFERENZA tra io individuale e Io del destino (cioè tra ERRORE e
VERITÀ) e verrebbe così meno la ragione per porli entrambi.

Non resta che la prospettiva (c).

§.38- Apprestiamoci allora ad esaminarla.

Come giustamente ha scritto Severino, <<ciò ‘a cui’ qualcosa dovrebbe apparire NON potrebbe
essere PRIVO DI ‘COSCIENZA’, e, in quanto ‘cosciente’, sarebbe innanzitutto ‘APPARIRE’>>.
Infatti, se si sostiene _ come sostiene Severino _ che la <<MIA ‘coscienza’ individuale NON È la
‘coscienza’ in cui consiste il mio essere l’apparire attuale>> e quindi che <<in quanto io individuale
io sono errore, [sono] NEGAZIONE dell’IO del DESTINO>>, si riconosce che una qualche MIA
coscienza individuale CI SIA, APPAIA, appunto perché Severino sta riferendosi alla <<MIA
‘coscienza’ individuale>> come ciò che DIFFERISCE DAL <<il mio essere l’apparire attuale>>,
altrimenti non avrebbe NESSUN SENSO negare che l’una sia l’altra affermando il loro
DIFFERIRE.

Infatti, posso avvalermi _ in quanto “io” _ della facoltà di TENTAR di negare che l’apparire di
qualcosa sia APPARIRE-A-ME (individuo) *SOLO* SE INNANZITUTTO A ME appare che
qualcosa appaia A ME, altrimenti _ se cioè A ME NON apparisse mai nulla _ non potrei neppure
prendere in considerazione di negare ciò che ignorerei del tutto: non sarei neppure COSCIENZA-di.

Ho scritto: “TENTARE” di negare, sì, perché SOLO in quanto qualcosa appare effettivamente A
ME (individuo), posso AL SEGUITO DI CIÒ cimentarmi nel VANO TENTATIVO di negare che
tale “A ME” sia il MIO “A ME” (o più in generale, lo “A ME” dell’individuo), perché l’esperire lo
“A ME” è al contempo esperire il “MIO” in quanto tale; è l’esperire in prima persona *DELLA*
PRIMA PERSONA, è cioè esperire-sé-a-sé, non delegabile proprio perché è appunto “MIO”.

§.39- Appurato perciò come ANCHE l’io individuale sia <<‘COSCIENZA’, e, in quanto
‘cosciente’>> è <<innanzitutto ‘APPARIRE’>>, allora questo sembrerebbe ricondurci alla
prospettiva (b) che recita esservi DUE “io”, entrambi CONSCI sia l’ERRORE che della VERITÀ:
io individuale e Io del destino.

Ma ci riconduce altresì alla prospettiva (a), giacché, dopo quanto abbiamo letto sin qui, non è
sostenibile che l’io individuale sia un apparire a cui appaia (anche) la verità _ prospettiva (b) _,
essendolo stato risolutamente escluso da Severino.

Pertanto l’io individuale è sì un APPARIRE, ma a questo punto sarebbe soltanto un APPARIRE-


DELL’ERRORE _ prospettiva (a) _.

§.40- Tuttavia, Severino ha anche detto che l’individuo <<SI RIFERISCE e APPARE A SE
STESSO>>, essendo esso <<un ambito particolare>> sì; il quale, però, <<appare NEL destino della
verità>>.

<<NEL>> destino della verità vuol dire che il *MIO* credere-di-esser-io-Roberto, apparendo
appunto *NEL* destino della verità, sarebbe in realtà lo stesso vederSI DEL destino, auto-apparire
di sé (del destino) quale autentica coscienza del MIO-credermi-io-Roberto. Perciò, il MIO esser
129

consapevole come io-Roberto *NON* appare A ME-Roberto, *NON* è cioè l’apparire A ME del
MIO saperMI-Roberto...

... Ma siccome _ s’è visto _ in quanto io-individuo SONO comunque COSCIENZA, allora *DI-
CHE-COSA* sarei cosciente, se *ANCHE* il MIO esser cosciente di esser io-Roberto *NON* è il
MIO vederMI (o: NON è il MIO esser cosciente DI-ME in quanto io-Roberto) ma è lo stesso
vederSI ed esser-COSCIENTE-DI-SÉ *DEL* destino?

(Ove il MIO-saperMI-Roberto è lo stesso saperSI, l’unico saperSI mediante cui il destino SA SE


STESSO; quindi, tale MIO-saperMI-Roberto NON sarebbe in ‘verità’ _ secondo cioè la ‘verità’ di
Severino _ il *MIO*-saperMI-Roberto).

La situazione si fa vieppiù inestricabile...

(Tra l’altro, che il MIO sperimentarMi in prima persona *NON* appartenga A ME in quanto io-
Roberto bensì all’Io del destino onde io-individuo <<NON sia ciò “a cui” qualcosa appare>>,
presupporrebbe SAPERE/ESPERIRE la DIFFERENZA tra l’esperire-SÉ come io individuale e
come Io del destino.

E allora, se TRASCENDENTALIZZO lo “A ME” come orizzonte ‘puro’ _ in quanto presuntamente


libero da sovrapposizioni, distorsioni o condizionamenti _ ed originario come coscienza-di-sé che
appare-a-sé, ciò può accadere SOLTANTO SE e PRIMARIAMENTE PERCHÉ ho esperienza
immediata e diretta dello “A ME” come ineludibile MIO punto di partenza _ ove qui, “MIO”
coincide con la coscienza-di-sé-a-sé _, altrimenti risulterebbero del tutto incomprensibili termini
quali “IO”, “MIO”, “MI” e “A ME”.

Si tratterà POI di ‘capire’ se tale PRIMA PERSONA spetti all’Io del destino come
<<autoreferenzialità>> piuttosto che al mio io individuale...).

§.41- Insomma, RICAPITOLANDO e avviandoci alla conclusione; QUESTE le impossibili


alternative che derivano da quanto visto:

<1>- Al §.35 abbiamo letto che <<l’io NON è ciò “A CUI” qualcosa appare >>.

Se così, non resta che sancire la definitiva *INESISTENZA* della MIA coscienza-individuale _
come recita la prospettiva (c) _, giacché se l’io non è <<ciò “A CUI” qualcosa appare >>, questo
sarà necessariamente PRIVO della coscienza che qualcosa gli appaia, apparendo _ alla/nella
coscienza dell’Io del destino _ soltanto come ‘vuoto’ simulacro corporeo, per quanto eterno.

Ma l’inesistenza dell’apparire ALLA coscienza individuale (e quindi l’inesistenza della stessa


coscienza individuale) è in aperto CONTRASTO con quanto da Severino stesso già rilevato al §.28,
dove l’io individuale è invece ritenuto <<struttura nella quale [esso] SI RIFERISCE e APPARE A
SE stesso>>; ma se appare <<A SE stesso>>, a maggior ragione sarà anche <<ciò “A CUI”
qualcosa appare>>, poiché tale <<qualcosa>> sarà, come minimo, <<SE stesso>>...

Bisognerebbe decidersi: o <<qualcosa>> MI appare o NON MI appare.

<2>- Se la MIA coscienza risultasse INESISTENTE, allora saremmo costretti a concludere _


130

sempre sulla scia della prospettiva (c) _ che la COSCIENZA, l’APPARIRE della verità del destino,
essendo la sola, ineludibile, onnipresente nonché onnipervasiva COSCIENZA <<che il destino È>>
in quanto <<è AUTOapparire>> o coscienza-di-sé, si costituisca come l’unico ed il solo “Io” che
PENSA/SCRIVE/TESTIMONIA la verità del destino in quanto UNICO “Io” a esser cosciente-DI-
SÉ. Ed esso PENSA/SCRIVE/TESTIMONIA la verità del destino attraverso l’amanuense io-
Severino, costituentesi perciò come ‘ventriloquo’ non-cosciente _ giacché, ripeto, egli in quanto io-
individuale <<non è ciò “A CUI” QUALCOSA appare >> _ al servizio di un Io il quale, ad un certo
punto, si sarebbe (auto)-saputo come il vero ed unico AUTORE per mezzo del simulacro-Severino,
il cui credere di essere l’individuo-Severino non è una fede che appaia a lui come individuo, bensì
appare sempre e soltanto ALL’Io del destino, seppur poi venga usurpata dall’individuo il quale,
essendo però PRIVO di coscienza, non potrebbe usurpare alcunché, giacché, per poterlo fare,
dovrebbe ALMENO APPARIR-GLI (cioè averne coscienza) sia l’Io del destino che la possibilità di
usurparLO...

Negli altri individui, l’Io del destino _ sopraffatto o meglio CONTESO dai simulacri-individui _,
pare non riuscire a SAPER-SI come unico Io esistente, o meglio, lo sa da sempre ma questo
SAPER-SI non riesce a prevalere negli altri io-individuali; anche perché, qualora dovesse prevalere,
l’io non potrebbe MAI averne coscienza, in quanto, NON essendo l’io <<ciò “A CUI” qualcosa
appare>>, non avrebbe coscienza dell’apparire di alcunché.

E, come detto, nemmeno Severino ne ha coscienza, sebbene EGLI scriva e testimoni _ quindi
ABBIA coscienza _ che ad averne coscienza sia unicamente l’Io del destino e che perciò sia lo
stesso Io del destino a scrivere e a testimoniare di sé mediante colui _ Severino _ che non può
essere cosciente né di sé né _ tantomeno _ dell’Io del destino.

<3>- Se invece _ all’opposto di quanto detto al punto <2> _ si sostenesse che l’autocoscienza
mediante la quale l’io individuale dice “io” COINCIDA con la coscienza dell’Io del destino _
ricordiamoci infatti che nel §.33 abbiamo letto: <<FUORI DALL’ERRORE DELL’IO
INDIVIDUALE, Io sono l’Io del destino>> _, allora non sussisterebbe nessun ERRORE, perché:

- se l’io individuale (l’ERRORE) è cosciente di ciò, ha già accesso alla verità (di sé) e non ha senso
definirlo ERRORE;

- se non può esserne mai cosciente, È IMPOSSIBILE sostenere che la sua autocoscienza coincida
con quella dell’Io del destino, appunto perché non ne avrebbe coscienza alcuna;

- se l’Io del destino testimonia-sé TRAMITE l’io-Severino (cosciente o meno), l’ERRORE non può
CONTENDERE la coscienza di sé cui è l’Io del destino, neppure mediante lo SPICCO del
linguaggio del nichilismo sulla verità, perché tale spicco avverrebbe a detrimento dell’io individuale
(se vi fosse, e se fosse cosciente; se non lo fosse, non potrebbe esservi neppure la CONTESA nei
confronti dell’Io del destino), non certo dell’Io del destino...

<4- Inoltre, sempre riconoscendo la presenza della coscienza _ in accordo con la prospettiva (a) _
ANCHE a/nell’io individuale, in base all’affermazione che lo vuole esser <<struttura nella quale
[esso] SI RIFERISCE e APPARE A [è cioè cosciente di] SE stesso>> e in base a quest’altra
affermazione di Severino, incontrata al §.29, secondo la quale <<L’io dell’individuo “nel
PROFONDO, ASCOLTA il destino, cioè lo vuole. Solo ALLA SUPERFICIE, cioè nella solitudine
131

della terra, il mortale vuole essere signore delle cose, e vuole e agisce [...]”>>, dove si evince
chiaramente che l’io individuale comunque _ bene o male, tutto o in parte _ <<ASCOLTA>>.
Poiché ASCOLTA, allora QUALCOSA_ niente meno che il destino! _ GLI APPARE, perciò esso
<<È ciò “A CUI” qualcosa appare >>!

Anche in quanto <<vuole e agisce>>, deve apparirGLI il (deve aver coscienza del) VOLUTO,
alfine di volerLO mediante l’agire.
Se non MI apparisse alcunché, non potrei agire per volere ciò che non MI apparirebbe mai.

Ma tale ASCOLTARE <<il destino>> da parte dell’<<io dell’individuo>> è in


CONTRADDIZIONE con quest’altra osservazione severiniana:

<<qualora si intenda l’apparire come “apparire a”, ci si chiude nella cattiva infinità, determinata
dall’impossibilità che apparente e destinatario [l’io individuale] di quell’apparire si incontrino: se
l’apparire che è il destino apparisse “a”, tale destinatario dovrebbe a sua volta essere apparire, che,
come tale, dovrebbe apparire “a”; anche quest’ultimo destinatario, in quanto apparire, dovrebbe
apparire “a”, e così via all’infinito. L’io individuale è un essente della follia e il destino non appare
“a”, ma è apparire a sé: l’apparire non può che essere apparire a sé, autoreferenzialità>>.

Infatti, se COLUI CHE ASCOLTA _ seppur <<nel PROFONDO>> _ è l’io individuale, ciò
presuppone che tale ASCOLTO si costituisca <<come “apparire a”>> l’io individuale per
l’appunto, altrimenti l’io non potrebbe ascoltarLO, non sarebbe cioè il <<destinatario>> di tale
ASCOLTO.
Quindi:

- se lo ascolta, allora è FALSA l’<<IMPOSSIBILITÀ che apparente e destinatario [l’io individuale]


di quell’apparire si incontrino>>;

- se è VERA l’<<IMPOSSIBILITÀ che apparente e destinatario [l’io individuale] di quell’apparire


si incontrino>>, allora non può ascoltarlo.

<5>- Tuttavia, anche ammettendo che SOLTANTO <<nel profondo>> l’io <<ASCOLTI il
destino>>, resta il fatto che in <<SUPERFICIE>> non lo ascolta, proprio <<perché lo sguardo della
non verità [cioè l’io individuale] È DESTINATO a NON VEDERE ALTRO che NON VERITÀ>>,
riportandoci alla prospettiva (a).
Pertanto abbiamo a che fare con un io-individuale in sé DOPPIO e SCISSO:

una parte (nascosta) ASCOLTA la VERITÀ; un’altra parte (manifesta) non l’ASCOLTA, perché
non può.

Quindi, se <<FUORI DALL’ERRORE DELL’IO INDIVIDUALE, Io sono l’Io del destino>>,


allora questo significherà che <<FUORI DALL’ERRORE>> ovvero FUORI dalla parte manifesta
dell’io che non ascolta il destino, <<Io sono l’Io del destino>>; e FUORI dalla parte che ascolta il
destino, io NON <<sono l’Io del destino>>.
Praticamente, “io” *SONO* due aspetti RECIPROCAMENTE *NEGANTISI*, cioè sono VERITÀ
e NON-VERITÀ; ERRORE e NON-ERRORE in uno.
132

(Siamo sempre all’interno della prospettiva (a)).

Senonché, non potendo mai ASCOLTARE la parte che ASCOLTA _ anzi: che È, nel profondo di
sé, lo stesso Io del destino; infatti, la frase di cui sopra non dice: <<FUORI DALL’ERRORE
DELL’IO INDIVIDUALE, Io ASCOLTO l’Io del destino>> bensì <<Io SONO l’Io del destino>>
_, l’io individuale-Severino non potrà neppure dire/testimoniare ALCUNCHÉ di esso.
Che sia, allora, quest’altra parte dell’io-Severino a scriverne/testimoniare?

Se così, oscilleremmo tra (a) e (b), con un “io” doppio, scisso tra una parte di sé che ASCOLTA il
destino e l’altra no. Quest’ultima IGNORA la prima, altrimenti non se ne differenzierebbe. E, che
se ne differenzi, essa non lo può sapere, appunto: la IGNORA, facendoci pendere verso la
prospettiva (a) con tutte le aporie che ne sono conseguite...
Si potrebbe pur sempre obiettare come, in verità, l’io-individuale NON sia in sé DOPPIO né
SCISSO in una parte che ASCOLTA e in un’altra parte che NON ASCOLTA il destino, giacché
Severino vorrebbe semplicemente dire che tale dualità concerne il rapporto io individuale e
autocoscienza dell’Io del destino grazie al quale l’io individuale dice “io”.
Per cui, in realtà vi sarebbe UN SOLO “Io”: quello del destino, la cui <<SUPERFICIE>> sarebbe
costituita soltanto dall’ERRORE o dalla FEDE che l’io individuale dica: “io”.
Vale quanto detto in <3>.

<6>- Quanto appena detto in <5> potrebbe indurci in un <<equivoco>> che Severino, secondo la
Cusano, avrebbe però già dissipato.

Ossia <<l’equivoco per cui si potrebbe ritenere che l’errare nichilistico [dell’io individuale] [sia] un
delirio SLEGATO dal destino. Severino mostra che nell’INTERPRETARE non è possibile un
regresso all’infinito, perché l’interpretazione non può rincorrere all’infinito ciò con cui è in
RELAZIONE, ma lo deve incontrare proprio per poter accadere come interpretazione. [...]
L’interpretare è tale solo se incontra qualcosa che non è interpretare. E ciò che non è interpretare è,
appunto, il destino della verità>>.

<<Severino mostra l’inconsistenza dell’obiezione che si avvale del carattere non veritativo
dell’interpretazione [dell’ERRORE] per negare una qualsiasi RELAZIONE tra essa e il destino
della verità [segue citazione di Severino da “Oltrepassare”: pag. 299-300 ->]: “si perde di vista il
senso autentico di questo RAPPORTO tra interpretazione [ERRORE] e verità se si obietta che,
proprio perché l’interpretazione non ha verità, è impossibile che l’interpretazione da ultimo si
riferisca al destino della verità”>>.

Perciò, a conti fatti, <<è cioè impossibile che l’isolamento della terra [l’ERRORE] implichi lo
SCOMPARIRE del destino>>.

Anche concedendo che il destino NON SCOMPAIA MAI in quanto struttura persintattica, e
concedendo altresì che l’interpretazione debba prima o poi ARRESTARSI dinanzi a ciò <<che
NON È interpretare. E ciò che non è interpretare è, appunto, il destino della verità>>, questo
implicherà forse che l’io individuale _ ossia ciò che <<non ha verità>> _ finisca per
RICONOSCERE ed ACCOGLIERE (VEDERE) il <<destino della verità>>?
133

Secondo le premesse ontologiche severiniane, ciò È IMPOSSIBILE perché, per quanto l’io
individuale NON sia <<un delirio SLEGATO dal destino>>, tuttavia NON È il destino, è un
<<delirio>> impossibilitato a divenire altro-da-sé.

Scrive infatti la Cusano: <<Sappiamo che nella terra isolata le interpretazioni appaiono come NON
INTERPRETAZIONI e che non possono che apparire così. ALTRIMENTI SAREMMO FUORI
DALL’ISOLAMENTO E DAL NICHILISMO [saremmo cioè fuori dall’ERRORE]. SOLO nello
sguardo del destino esse appaiono come interpretazioni>>. - (Pag. 298).
Sebbene non sia <<SLEGATO>> dal destino, all’io individuale <<le interpretazioni appaiono come
NON INTERPRETAZIONI>>, quindi sarà _ ancora una volta _ SOLTANTO lo <<sguardo del
destino>> a VEDERE (e a SAPERE) tutto ciò, perché <<tale COSCIENZA appartiene SOLO all’Io
del destino>>, non all’individuo-Severino.

OPPURE, se si intende che l’interruzione dell’interpretare coincida al tempo stesso con


l’AFFIORARE del <<destino della verità>> come <<INCONSCIO dell’INCONSCIO della
TERRA ISOLATA>> NELL’individuo (vedi §.7) _ giacché, secondo Severino, esso <<non può
non essere in qualche modo PRESENTE NELL’APPARIRE MALATO [nell’ERRORE]>> _,
allora, l’affermazione <<nell’INTERPRETARE non [sia] possibile un regresso all’infinito, perché
l’interpretazione non può rincorrere all’infinito ciò con cui è in RELAZIONE>> a sua volta sarà:

- o UN’ALTRA INTERPRETAZIONE, proprio in quanto RILEVATA dall’io individuale;

- o, se NON è un’altra interpretazione, sarà FALSO che <<tale COSCIENZA appartenga SOLO
all’Io del destino>>.

<7>- Notare come quest’ULTIMA alternativa conduca fatalmente all’IMPOSSIBILE (stando ai


parametri ontologici severiniani) possibilità che l’io individuale riesca a PRENDERE COSCIENZA
di ciò a cui è da sempre relato, in modo tale che non possa nemmeno in questo caso
corrisponderebbe al suo esser davvero ERRORE, tanto da rendere insensato il continuare a ritenerlo
tale, SMENTENDO così la tesi che lo vorrebbe incapace di <<VEDERE LA VERITÀ>> e <<di
COMPRENDERLA>>. Sì, poiché sarebbe solo questione di tempo e d’impegno, ma se
l’interruzione della catena interpretativa s’impone come una necessità, allora all’<<errare
nichilistico>> (all’individuo) quel VEDERE è già assicurato ontologicamente, in forza di
quell’inscindibile LEGAME con <<il destino della verità>>, risultato: l’ERRORE non è ERRORE.

<8>- INFINE; poiché _ secondo Severino (come anticipato nei §§.30 e 31) _ <<“solo sul
fondamento dell’Io finito del destino può apparire l’io dell’individuo, cioè l’io della terra isolata;
solo sul fondamento della verità che si struttura come riferimento all’apparire del destino a se stesso
(dove il ‘sé’ non precede il riferimento, ma coincide con esso) può apparire la non verità in cui
consiste l’io dell’individuo”>>, egli può affermare che <<Essere uomo significhi, nella sua essenza,
essere apparire dell’essere, nel senso dell’esserne l’immediato presentarsi che sa di essere tale>>
perché (sempre) a suo dire <<il fondamento di questo apparire [dell’Io del destino] consiste nella
immediata autonegatività del proprio negativo (originarietà).
Proprio questo aspetto fondamentale determina la DIFFERENZA tra Io del destino e io individuale:
l’apparire in cui consiste l’Io del destino è l’apparire la cui negazione è autonegazione. Se si
134

tengono presenti i DUE significati fondamentali dell’apparire (apparire dell’apparire dell’apparire e


immediata autonegatività del negativo), è chiaro il senso dell’affermazione “Io sono l’apparire
attuale”. La mia ‘coscienza’ individuale non è la ‘coscienza’ in cui consiste il mio essere l’apparire
attuale. In quanto IO INDIVIDUALE IO SONO ERRORE, la NEGAZIONE DELL’IO DEL
DESTINO. Tuttavia “Io” sono l’apparire del destino>>. <<Pertanto, OGNI VOLTA CHE APPARE
LA MIA CONVINZIONE DI ESSERE UN INDIVIDUO, che possiede un corpo, che prova certi
sentimenti e certe emozioni, insomma una “persona”, un’“anima”, qualcosa di unico e indivisibile
che sottostà al suo divenire, appare il SUO ESSERE NEGAZIONE della VERITÀ>>.

Sembrerebbe la (loro: di Severino e della Cusano) risposta definitiva e risolutiva.


Ma anche tenendo <<presenti i DUE significati fondamentali dell’apparire (apparire dell’apparire
dell’apparire e immediata autonegatività del negativo)>>, NON diviene <<chiaro il senso
dell’affermazione “Io sono l’apparire attuale”>> perché, se l’asserire ciò avviene soltanto in virtù di
quei <<DUE significati>> appartenenti all’AUTOcoscienza cui è l’Io del destino, dove cioè <<il
fondamento di questo apparire [dell’Io del destino] consiste nella immediata autonegatività del
proprio negativo (originarietà)>> ovvero <<l’apparire in cui consiste l’Io del destino è l’apparire la
cui negazione è autonegazione>>, NON resta determinato né CHI né COME si possa affermare
quanto appena letto:

a)- NON è determinato incontraddittoriamente *CHI* affermi ciò perché _ ma dovrebbe esser
ormai chiaro _ se <<SOLO sul fondamento dell’Io finito del destino può apparire l’io
dell’individuo, cioè l’io della terra isolata>> e perciò l’io dell’individuo può illudersi di dire “io”
SOLO <<sul fondamento della verità che si struttura come riferimento all’apparire del destino a se
stesso>>, allora, tale strutturarsi <<come riferimento all’apparire del destino a se stesso>> è un
<<AFFIORARE>> universale cioè concernente ANCHE l’io individuale?

Se SÌ, vuol dire che l’io individuale (Severino) è CAPACE DI VERITÀ, il che è però incompatibile
_ s’è visto ‘in lungo e in largo’ _ col suo essere ERRORE.
Se NO, cioè se non può mai <<AFFIORARE>> nel o all’io individuale ma soltanto all’Io del
destino, vorrà dire che l’Io del destino stesso appare nel o mediante l’apparire dell’individuo-
Severino che lo testimonia, ma a questo punto è ovvio: non ha più nessun senso sostenere che
l’ERRORE cui sarebbe l’io individuale ÀLTERI INEVITABILMENTE la verità...

b)- NON è determinato *COME* si POSSA affermare ciò perché _ accettando per un momento _
che <<l’apparire in cui consiste l’Io del destino sia l’apparire la cui negazione è autonegazione>>,
NON si è ancora detto se <<l’apparire la cui negazione è autonegazione>> sia una presa di
coscienza ANCHE DELL’io individuale o SOLTANTO dell’Io del destino.

È stato detto che <<L’Io del destino È QUEL MOSTRARSI>>, cioè del <<MOSTRARSI>> di
quella <<totalità di convinzioni>> in cui consiste l’apparire del <<mio credere di provar dolore, o
piacere, di essere un certo corpo o una certa identità coscienziale. Tutto questo appare
immediatamente e cioè il suo apparire è negazione immediata del proprio negativo; ma
quell’apparire è, nella sua verità, l’apparire innegabile della non verità: è il mostrarsi di convinzioni
il cui contenuto è la negazione della verità>>.
135

Ora:

- se <<IL MIO credere di provar dolore, o piacere, di essere un certo corpo o una certa identità
coscienziale>> è ciò che chiam(iam)o il MIO apparire di ME-A-ME come io-individuale,
- e se questo vivermi come <<una certa identità coscienziale>> è ERRORE,
- e se è ERRORE in virtù di <<QUEL MOSTRARSI>> cui è l’<<Io del destino>>,
- allora ciò significa che tale Io del destino appare ANCHE A ME individuo-ERRORE, altrimenti
come potrei affermare la MIA erroneità?

- Ma tutto questo vorrà a sua volta implicare che l’io individuale NON sia affatto ERRORE,
- cosicché torni a chiudersi definitivamente il CIRCOLO VIZIOSO dell’IMPOSSIBILITÀ della
relazione tra io individuale/Io del destino.

Infatti, se l’élenchos surriportato _ cioè <<l’Io del destino è l’apparire la cui negazione è
autonegazione>> _ dovesse rivelarsi acquisibile anche dall’io individuale, allora sarebbe inevitabile
domandarsi *COME* l’ERRORE riesca ad ‘ASCOLTARLO’.
Se lo ascolta (ammesso solo per il momento che l’élenchos o la struttura originaria sia la verità),
vuol dire che l’io non è ERRORE, giacché sarà costitutivamente quindi immediatamente in
possesso degli ‘elementi’ necessari per ‘edificare’ l’intera impalcatura ONTO-LOGICA del
(supposto) destino della verità, col che, daccapo, verrebbe meno la pertinenza di definirlo
ERRORE.
Se non lo ascolta, sarà l’Io del destino stesso ad ‘ASCOLTARE-SÉ’, ma ciò non può essere saputo
attraverso l’individuo-Severino né attraverso nessun altro “io” cosicché, se l’Io del destino
testimonia-sé sempre, ovunque e comunque, allora la presenza dell’ERRORE cui sarebbe
l’individuo-Severino non potrebbe CONTRASTARE alcunché, giacché se tale contrasto dovesse
prevalere anche soltanto per un momento, vorrebbe dire che l’Io del destino, per quel momento,
NON sarebbe sempre, ovunque e comunque testimoniante-sé...
<9>- ULTIMO MA NON ULTIMO.
Giunti alla fine, si potrà obiettare _ anzi, si obietterà inevitabilmente _ a questo post di NON aver
tenuto conto come esso (significando) comunque poggi su e presupponga la STRUTTURA
ORIGINARIA, pertanto, quand’anche incappassimo in una contraddizione non ancora risolta,
questa non potrà che risultare tale soltanto APPARENTEMENTE, perché la struttura originaria _ a
dire di Severino _ non può esser il fondamento della propria contraddittorietà.

Direi piuttosto che, POICHÉ s’incappa in irrisolvibili contraddizioni, allora la struttura originaria
soltanto APPARENTEMENTE non può esser il fondamento della propria contraddittorietà, giacché
questa non la raggiunge estrinsecamente, bensì vive nei ed emerge dai ‘movimenti’ delle sue stesse
‘viscere’ (come del resto s’è appena visto)...
RF
136

17)- L’INDIVIDUO E L’<<IO DEL DESTINO>>

Che l’individuo sia ERRORE equivale a dire che tutto ciò che egli pensa e dice È ERRORE
(naturalmente ciò dicasi in relazione alla verità di cui parla Emanuele Severino); un ERRORE che
pensasse/dicesse anche la (o una qualche) verità, sarebbe come se l’ERRORE: 1 + 1 = 3, si
esibisse come professore di matematica...
Detto ciò, allora si capisce che l’affermazione secondo la quale l’individuo sia ERRORE è
affermazione auto-contraddicentesi, giacché sarà altrettanto un errore che l’individuo sia ERRORE.

Tuttavia, in un certo ambito filosofico, si persevera nel ritenere con fermezza che non sia
l’ERRORE in quanto INDIVIDUO a testimoniare la verità (e a sapere di esser ERRORE) bensì che
sia la verità a sapere tutto ciò: la verità come NON-INDIVIDUO o <<io del destino>> SOVRA-
individuale.

L’INDIVIDUO lo si vede soltanto come ‘produttore’ di infinite, contrastanti quanto infondate


opinioni e perciò è FEDE, mentre il filosofo agogna alla verità e alla verità razionalmente
FONDATA e, se possibile INCONTROVERTIBILMENTE, valida sempre e ovunque.

In fondo, le opinioni son capaci tutti di esprimerle, ma sempre opinioni rimangono. Non a caso, è
frequente il vezzo di tacitare l’interlocutore attribuendo alle sue tesi la connotazione negativa e
sprezzante di FEDI.

Appunto per questo, cioè al fine di rimanere IMMUNI da tale deleteria connotazione, alcuni filosofi
si premuniscono mettendo in ombra (o fingendo di metterlo in secondo piano) il proprio ‘io’ (o la
propria individualità) come intralcio indesiderabile, in quanto ciò che è FINITO non potrebbe mai
assurgere in nessun senso (né teoretico né mistico-esistenziale) all’IN-FINITO se non negandoSI.
L’autore di certa filosofia _ sì, l’AUTORE, giacché ‘stranamente’ essa è SEMPRE accompagnata
dal NOME/COGNOME dell’individuo quale suo autore/estensore _ deve perciò persuaderCI di
non esser REALMENTE LUI _ in quanto individuo _ a pensare ed a testimoniare la struttura
veritativa del proprio sistema filosofico, bensì che sia la verità stessa a testimoniarLA testimoniando
se stessa, sulla scia del noto frammento di Eraclito:
<<Ascoltando NON ME, ma IL LÓGOS, è saggio convenire che tutto è uno>> (fr. 50).

Il sottinteso è che vi sia <<IL LÓGOS>> che prescinda dall’individuo, pertanto quest’ultimo non
potrà che mettersi da parte <<ascoltando>> ciò che <<IL LÓGOS>> avrebbe da dire.
Insomma: detto AUTORE, che in quanto tale è ERRORE, deve persuadere altri ERRORI (i suoi
ascoltatori) che ciò di cui va parlando non è ERRORE, bensì quanto più possibile verità...
137

Senonché, l’autore-ERRORE non può indurre altri ERRORI ad <<ASCOLTARE IL LOGOS>>


innanzitutto perché egli, per primo, NON può ascoltarLO (è infatti ERRORE); secondariamente,
perché ogni altro ERRORE (ognuno di noi) non è suscettibile di recepirLO, poiché <<LA VERITÀ
NON HA IL COMPITO DI RENDERE VERITÀ L'ERRORE>> (così afferma Severino). Quindi ci
troviamo dinanzi ad un consesso di ERRORI, ove vi è un ERRORE-DOCENTE e molti ERRORI-
DISCENTI, la cui somma non fa una verità.

E allora, come realizzare il suddetto ESCAMOTAGE senza che la verità incappi nel filtro
dell’INDIVIDUO o dell’ERRORE il quale, NON volendo _ egli _ esser ASCOLTATO, ciò
nonostante LO si dovrà ascoltare per poter ascoltare <<IL LOGOS>>?

Leggiamo questo brano di Severino:

<<quando in certi scritti (che ALL’INTERNO della volontà interpretante RISULTANO “MIEI”) si
legge qualcosa come “il MIO pensiero filosofico”, QUEL “MIO” INDICA SEMPLICEMENTE
L’INSIEME DI EVENTI CHE L’INTERPRETAZIONE (cioè la NON VERITÀ, la FEDE)
VUOLE CHE SIANO IL MIO linguaggio; e cioè dei quali il MIO “io” empirico SI SENTE
L’AUTORE – tale “io”, come ogni altro “io” empirico, essendo essenzialmente volontà di
potenza>> - (Discussioni intorno al senso della verità. Adelphi, pag. 82. Maiuscolo mio).

Quanto appena letto rappresenta un eccellente esempio della volontà di accantonare-sé quale
<<autore>>, attribuendo tale ‘CREDENZA’ alla <<non verità>> (o alla <<fede>>) che <<vuole>>
che il linguaggio e le tesi mediante esso espresse siano invece il linguaggio e le tesi
DELL’INDIVIDUO Severino.

In virtù di questo suggestivo trucco, risulta più agevole dare ad intendere che ciò che vien
argomentato non sia semplice, personale opinione bensì stabile, inconfutabile verità, in quanto
appunto non prodotta dall’INDIVIDUO, sempre condizionato e variabile.
A consolidare il tutto, poi, si fa sovente ricorso _ nonché ossessivamente _ a termini perentori quali
<<incontraddittorietà>>,
<<incontrovertibilità>>,
<<verità>>,
<<questo è il senso autentico di…>>,
<<è necessario che…>>,
di contro alla
<<contraddittorietà>>,
alla <<controvertibilità>>,
all’<<errore>>,
alla <<FEDE>>,
138

all’<<inautenticità>>
e alla doxasticità delle tesi ALTRUI, ovviamente…

Non è un caso, infatti, che l’espressione <<i COSIDDETTI ‘miei scritti’>> ricorra frequentemente
in Severino.

Il problema, però, è che tale vezzo ‘filosofico’ non può seriamente uscire indenne dalle aporie
mostrate nei suddetti capitoli, giacché non pare rintracciabile alcunché (né filosofie, fedi, scienze,
scoperte, opinioni, ipotesi, teorie, prove, smentite, pettegolezzi, sogni, deliri…) che sfugga
DALL’ESSER PENSATO/DETTO DA UN INDIVIDUO.

COLUI che si affretta a collocare se stesso come individuo ai margini o al di fuori del <<logos>>
credendo così di lasciar parlare unicamente la verità sovra-personale _ mi riferisco ‘in primis’ al
filosofo Emanuele Severino ma non soltanto _ a mio parere sta BARANDO, non potendo evitare
che tale supposta verità sovra-individuale pensi/scriva/testimoni-sé MEDIANTE L’INDIVIDUO
cui Severino (o chiunque altro) sempre è.

In relazione a ciò, riporto adesso l’osservazione piuttosto ‘piccata’ di un estimatore di Severino (un
Professore di cui taccio il nome), scritta in data 2 ottobre 2017:

<<Non si tratta di cambiare la follia, che è eterna come ogni altro è essente. Né di vestire i panni
dell’umilta' e poi sparare sentenze! MA A SPARARLE È IL TUO IO EMPIRICO CHE NON PUÒ
CHE ERRARE, NON PUÒ CHE DIRE UN SACCO DI SCIOCCHEZZE, COME QUELLE CHE
HAI SCRITTO. MI LIMITO A RICORDARTI CHE CIASCUNO DI NOI, OLTRE AD ESSERE
UN "IO INDIVIDUALE, EMPIRICO", È ANCHE E SOPRATTUTTO, UN "IO DEL DESTINO",
L'ETERNO APPARIRE DELLA VERITÀ DEL DESTINO, CHE DUNQUE PUÒ DARE
TESTIMONIANZA DELLA VERITÀ. Si tratta poi di rendersi conto che la verità è
contraddizione>>
e:

<<GUARDA CHE SCIOCCHEZZE, SENTENZE, INSOMMA NON VERITÀ, CIOÈ ERRORI


NON LL DICE SOLTANTO IL TUO "IO EMPIRICO", MA QUALSIASI ALTRO "IO
DELL'INDIVIDUO, A COMINCIARE DAL MIO O DA QUELLO DI EMANUELE SEVERINO.
Quindi, non è proprio il caso di offendersi, né di insistere sull’umiltà perché non è proprio il caso. È
invece corretto portare la propria critica a un pensiero quando si conosce completamente e bene
quel pensiero>> (maiuscolo mio).

Credo che il Professore sbagli: <<CIASCUNO DI NOI, OLTRE AD ESSERE UN "IO


INDIVIDUALE, EMPIRICO">> *NON È* <<ANCHE E SOPRATTUTTO, UN "IO DEL
DESTINO">> bensì il primo è INCLUSO in quest’ultimo, *NON* VICEVERSA, altrimenti l’io
empirico sarebbe schizofrenicamente quanto contraddittoriamente sé ed al contempo altro-da-sé o
meglio: sarebbe INCLUDENTE il sovra-individuale <<io del destino>>.

Né serve precisare che l’<<io del destino>> sia L’INCONSCIO del mortale o dell’INDIVIDUO
(seppur inconscio non psicologico).
139

In quanto INCONSCIO, non può esser saputo; qualora emergesse rendendosi CONSCIO,
renderebbe l’ERRORE capace della verità palesatasi, ma ciò NON è conforme con lo statuto
ontologico di ERRORE cui è l’io empirico.

L’INDIVIDUO è perciò solo e unicamente INDIVIDUO, cioè ERRORE, il quale si ritrova ad esser
INCLUSO nell’<<io del destino>>, in contesa con esso.

Essendo unicamente ERRORE, non gli è consentito <<DARE TESTIMONIANZA DELLA


VERITÀ>>, perché L’INCLUSO non è l’includente, cioè L’ERRORE non è la verità, pertanto
L’INCLUSO (L’ERRORE) non può esser <<COSCIENTE DELLA VERITÀ>> in quanto
l’<<apparire della verità NON È UN ATTO INDIVIDUALE>> (Severino).

***

Tornando al brano di Severino:

<<quando in certi scritti (che all’INTERNO della volontà interpretante RISULTANO “MIEI”) si
legge qualcosa come “il MIO pensiero filosofico”, QUEL “MIO” INDICA SEMPLICEMENTE
L’INSIEME DI EVENTI CHE L’INTERPRETAZIONE (cioè la NON VERITÀ, la FEDE)
VUOLE CHE SIANO IL MIO linguaggio; e cioè dei quali il MIO “io” empirico SI SENTE
L’AUTORE – tale “io”, come ogni altro “io” empirico, essendo essenzialmente volontà di
potenza>> - (Op. Cit. - Maiuscolo mio).

Se la <<volontà interpretante>> coincide (anche solo in parte) con l’individuo e se esso <<E'
CONTRADDITTORIO CHE [...] SIA COSCIENTE DELLA VERITÀ>> <<all’INTERNO della
volontà interpretante>>, allora come evitare che QUESTA testimonianza _ resa <<all’INTERNO
della volontà interpretante>>, non sia a sua volta una (non)-verità dell’individuo interpretante
(errante)?

Non essendo COSCIENTE DELLA VERITÀ, essendo cioè ERRORE, l’individuo:

- non può MAI saperne nulla;

- non può MAI testimoniarLA,

giacché saprebbe e testimonierebbe unicamente ERRORI, in quanto esso stesso ERRORE (senza tra
l’altro saper di esserlo)...

Perciò, essendo *TUTTI* NOI <<all’INTERNO della volontà interpretante>>, allora, che <<certi
scritti>> appaiano come <<“il MIO [di Severino] pensiero filosofico”>> sia
<<L’INTERPRETAZIONE (cioè la NON VERITÀ, la FEDE) [che] VUOLE CHE SIANO IL MIO
linguaggio; e cioè dei quali il MIO “io” empirico SI SENTE L’AUTORE>>, non sarà anch’essa
una tesi INTERNA alla <<volontà interpretante>> e come tale NON VERITÀ, FEDE?

Se <<E' CONTRADDITTORIO CHE L’INDIVIDUO SIA COSCIENTE DELLA VERITÀ>> _ ed


è contraddittorio SEMPRE e COMUNQUE _, perché Severino (o chiunque altro) dovrebbe far
eccezione?
140

Se apparisse VERITATIVAMENTE la fede (l’errore) che Severino sia l’autore dei suoi libri, allora
non ci resterebbe altro che cercar di stabilire una volta per tutte COME/DOVE si auto-
testimonierebbe la verità secondo la quale “appare la FEDE che Severino sia l’autore delle sue tesi”
*SENZA* che tale auto-testimonianza sfiori l’io empirico, cioè PRESCINDENDO
COMPLETAMENTE da una qualche testimonianza da parte di un qualsiasi INDIVIDUO.

Epperò sarebbe tentativo votato al fallimento; non potremmo, cioè, affatto stabilirlo. E non
potremmo, perché perfettamente I-M-P-O-S-S-I-B-I-L-E grazie alle premesse severiniane...
Se fosse UNICAMENTE la verità a dover TESTIMONIARE-SÉ a SÉ (cioè ALLA verità stessa),
allora è chiaro che l’individuo (l’ERRORE) non potrebbe averne alcun sentore, alcun ruolo, alcuna
partecipazione: sarebbe il perfetto ESCLUSO da tale sapere, in quanto ERRORE.

<<La coscienza della verità [è] oltre l'errore>>, <<oltre>> la possibilità di venir testimoniata
dall’INDIVIDUO: appunto...

RF
141

18)- ‘B’ È IN ‘A’ <<COME NEGATO>>?

Severino ritiene che:

1)- l’essente A è A (è IDentico a sé) e non è (DIfferisce da) l’essente B (e viceversa);

2)- ma se B non è simpliciter, non sarà neppure A, per la ragione che A e B sono *DE-
TERMINATI* in quanto reciprocamente *DE-TERMINANTISI*:

A è *TERMINATO-DA* B (e viceversa);

3)- essendo B necessario all’essere di A (e viceversa), A deve <<in qualche modo>> (Severino)
conservare B in sé, altrimenti non potrebbe negare di esser B, giacché senza ciò di cui A è
negazione, A non può esser negazione di ciò che è assente: non può negare B;

4)- perciò si suol dire che B è PRESENTE in A soltanto come *NEGATO* da A (o vi è presente
come traccia);

5)- <<B è presente in A come NEGATO>> *EQUIVALE* a <<A non è B>> quindi a <<A è A>>;
*EQUIVALE* cioè al non esser presente di B (come AFFERMATO) in A, ovvero al non esser il
proprio altro-da-sé (B da parte di A, altrimenti A sarebbe (identico a) B.

Sin qui Severino.

***
6)- MA:

SE si deve escludere che B in A possa esservi PRESENTE come AFFERMATO (giacché ciò
negherebbe il punto 1);

SE perciò l’unica alternativa è costituita dall’esser B PRESENTE in A come NEGATO;

SE B in A è PRESENTE soltanto come NEGATO *EQUIVALE* all’ASSENZA di B come


AFFERMATO in A;

e SE l’ASSENZA di B come AFFERMATO in A *EQUIVALE* alla negazione della PRESENZA


di B ‘tout court’ (giacché se B non è presente, è assente; se B non è presente come affermato ma
142

solo come negato, B è presente COME ASSENTE ossia, daccapo: NON È PRESENTE),

= ALLORA (cioè AL DI FUORI dell’àmbito severiniano), B non è *IN ALCUN MODO* presente
in A, neppure come NEGATO giacché, se esservi come NEGATO significa NON ESSERVI come
AFFERMATO, allora B è COMPLETAMENTE ASSENTE in A _ se è vero che la negazione è il
non-essere-dell’affermazione _, perciò significa SMENTIRE il punto 4;
smentendo 4, si smentisce il punto 3;
smentendo 3, si smentisce il punto 2;

smentendo 2, si smentisce il punto 1 che recita: A è A e non è B (e viceversa).

Pertanto:

NON È VERO 1, cioè non è vero che A sia A e non B, perché se 2 è necessario a 1, ossia se è
necessario che A, senza B, non sia neppure A, ma se 4 si rivela insostenibile mediante quanto detto
in 6 _ appunto per la ragione che B non è IN ALCUN MODO presente in A, neppure come
NEGATO _, allora B non *DE-TERMINA* A; A non è *TERMINATO-DA* B (e viceversa),
quindi 1 è falso.

Cosicché, se è vero 6, allora si dovrà dire che A è (anche) B, che A è (anche) il proprio altro IN
UNO.

***

7)- Tuttavia, proviamo ugualmente _ cioè seguendo Severino _ a tener per buono l’esser in A come
NEGATO da parte di B.

Ovviamente, B-negato *NON* è IDENTICO a B-affermato, dal momento che tra


AFFERMAZIONE e NEGAZIONE sussiste notevole DIFFERENZA. Se cioè A nega B cosicché B
sia in A come negato, questo B-negato sarà comunque DIVERSO da B-affermato, ossia da ciò che
saremmo tentati di considerare lo stesso identico B in entrambi i casi.

Col risultato che in A non abbiamo la negazione *DI* B-affermato bensì abbiamo un B-negato _
cioè abbiamo NON-B-AFFERMATO _ che non è *IL* B-affermato ma è ALTRO da esso o,
secondo Severino, abbiamo un B-negato che è ETERNAMENTE ALTRO dal B-affermato (e
viceversa).

Volendo negare B, A si ritrova paradossalmente ‘tra le mani’ un ALTRO B rispetto al B-affermato,


cioè rispetto al B che avrebbe voluto negare.
Questa situazione comporta nuovamente la smentita di 1.

8)- inoltre, in che senso l’ipotetica presenza di B-negato in A non sarebbe anch’essa una
CONTRADDIZIONE ossia un’IDENTITÀ TRA DIVERSI, appunto una identità tra A e B-negato?
In che modo, cioè, potremmo EVITARE di ritenere che A sia CONTRADDITTORIAMENTE
IDENTICO a B-negato?
143

Si osservi:

(i)- Se in <<B è in-A come negato>> il <<B come negato>> è un ESSENTE, allora B-negato è
CONTRADDITORIAMENTE IDENTICO a (parte di) A.

(ii)- All’opposto: se in <<B è in-A come negato>> il <<B come negato>> è un PURO NULLA-di-
B in A, allora B non è in ALCUN MODO presente in A, visto che esser-in-A-come-negato
significherebbe esser-in-A-come-NULLA, ma esser-in-A-come-NULLA significa NON-ESSERE-
AFFATTO-in-A da parte di alcunché. Perciò B non può esser-in-A come negato quindi A non può
negare B.

(iii)- Oppure, se in <<B è in-A come negato>> il <<B come negato>> equivalesse alla stessa
IDENTITÀ-CON-SÉ di A (A = A) e al non esser-B da parte di A (A ≠ B), questo non ci esimerebbe
comunque dal dover ‘decidere’ lo statuto spettante a B-negato, ossia se rientrante in (i) o in (ii).

Infatti, se B-negato è il medesimo che il non esser-B da parte di A, B-negato deve essere in A come
al punto (ii), cioè come un assoluto NULLA, altrimenti saremmo nel punto (i). Ma se (ii), allora B
giammai è presente in A, appunto perché B-negato è NULLA-di-B-in-A e ciò è come dire che A
non nega B.

Chiaramente in A, il B-negato non può esser un essente/esistente rispetto alla NULLITÀ-di-B in A


_ se lo fosse, saremmo daccapo in (i) _.
Deriva che se in A, B è *COMPLETAMENTE* ASSENTE, allora non ha nessun senso asserire che
A neghi B né che questo *DE-TERMINI* quello (e viceversa)...

Ma... se invece fosse PROPRIO tale *ASSENZA* a DE-TERMINARE l’esser identico-a-sé da


parte di A nonché il suo esser altro-da-B?

In tal caso verrebbe meno il punto 3 e conseguentemente il punto 2, violando così 1.

Senonché _ s’è visto _ il punto 1 finisce comunque per esser sempre violato...

Pertanto:

se NEGARE-di-esser-B significa AFFERMARE-di-non-esser-B da parte di A, allora NON-


NEGARE-di-esser-B (per il motivo esposto in 6) significherà NON-AFFERMARE-di-non-esser-B.

B è in A come NEGATO; = B non è in A; = B non è negato da A.

RF
144

19)- APORETICITÀ DEL RAPPORTO (SEVERINIANO) <<PARTE


/ TUTTO>>

§.1- NOI siamo _ ciò che appare è _ una PARTE (= P) empirica.


Presumo che chiunque lo sottoscriverebbe.

OGGI non appare (il) TUTTO, perché appare qualcosa che IERI, in PARTE, non c’era; come
d’altronde DOMANI apparirà qualcosa che OGGI, in PARTE, non c’è.

Perciò, apparendo qualcosa OGGI e qualcos’altro DOMANI, ‘qualcosa’ è P, e ‘qualcos’altro’ è


anch’esso P, così come ‘IERI’, ‘OGGI’ e ‘DOMANI’ sono anch’essi PARTI (= PP).

§.2- Naturalmente, ogni P è (un) FINITO (= Fi), ed ogni P appare nell’APPARIRE FINITO (= Afi),
per usare il lessico di Emanuele Severino, visto che alle sue tesi mi sto riferendo.

§.3- L’apparire di P _ per esser constatato/riconosciuto come P _ deve però implicare ANCHE
l’apparire della non-PARTE o del TUTTO (= T) in Afi, perché se T non apparisse insieme a P,
rispetto a-che-cosa P sarebbe P?
§.4- Ma, intanto: cos’è (il) T?

In breve: (il) T, a differenza di P, è ciò che non può MAI aver qualcosa di ESTERNO-A-SÉ (se lo
avesse, T si ridurrebbe ad esser P esso stesso): T è INCLUSIVITÀ.

Pertanto, T NON-ESCLUDE-NULLA-OLTRE di sé, tranne (escludendo soltanto) di


ESCLUDERE-QUALCOSA-OLTRE di sé (tuttavia, vedi §.44).

T è il-NON-ESCLUDERE-ALCUNCHÉ-DA-sé, quindi tutto INCLUDE, o è l’INCLUDENTE o


l’INCLUSIVO.

P _ ogni P _ invece, ha sempre un’altra P oltre sé; ESCLUDE-SEMPRE-QUALCOSA, tranne (=


non esclude) sé.

§.5- Ma se (il) T apparisse in Afi, paradossalmente P non potrebbe apparire, giacché P appare
(come P) solo in quanto NON sta apparendo T (non appare, cioè, insieme all’apparire di P): se
infatti T apparisse, allora P non potrebbe apparire come P giacché non riuscirebbe a
DISTINGUERSI da T.
145

P può infatti DISTINGUERE-SÉ _ quindi presentarSI come P _ soltanto se al contempo NON


appare ciò che NON è P (= T), appunto perché, se apparisse T (= non-P), apparirebbe T
SOLTANTO.

Prospettando che, apparendo T, si ritenesse ANCHE di potervi INDICARE/DETERMINARE una


qualche P senza al contempo perdere l’apparire di T, ci riconfineremmo immediatamente in Afi _
cioè, daccapo, in P _ come unica ‘dimensione’ capace di ACCOGLIERE (e perciò di
INDICARE/DETERMINARE) soltanto P in quanto la PRETESA di DISTINGUERE una qualche P
nel dispiegamento completo di T è essa stessa P, riconfermando perciò di esserci nuovamente
ricollocati dal punto di vista di P, perdendo perciò l’apparire di T.

§.6- Eppure, POICHÉ P certamente appare, allora DEVE necessariamente apparire ANCHE T
soltanto in riferimento al quale P è P.
Come uscirne?

Per ovviare a ciò, Severino suol dire che sì, T deve apparire in Afi, insieme all’apparire di P, certo,
ma soltanto in modo FORMALE (= Tf), cioè non esaustivamente (= Tc; T nella sua totale
CONCRETEZZA la quale costituisce la verità di P) bensì come implicato dall’apparire di P
*COME* P.

Apparendo un ente ‘x’, appare FORMALMENTE _ è posto FORMALMENTE _ anche tutto


l’INTERO SEMANTICO, cioè il non-‘x’ (FORMALMENTE, in quanto impossibilitato ad apparire
come T CONCRETO, cioè come Tc), altrimenti, come detto nel §.5, P non si costituirebbe tale.
Pertanto, P si mostra come P perché appare relazionato all’apparire di T-formale (Tf).

(<<L’io del destino è il cerchio FINITO [Afi] della verità, dove finitezza significa
“manifestazione ASTRATTA [Tf] del tutto [Tc]”, ciò che dà luogo a quella contraddizione C,
che è “eternamente e compiutamente tolta nell’apparire infinito del destino e del Tutto”
[Tc]>>. - (Dal libro di Nicoletta Cusano: “Emanuele Severino. Oltre il nichilismo”).
§.7- Sembrerebbe così che P possa finalmente mostrarsi come P grazie all’apparire di Tf da cui
l’apparire di P è accompagnato (implicandolo in quanto è P)...
§.8- ...Senonché, Tf NON è IDENTICO a Tc.

Se Tf fosse IDENTICO a Tc, equivarrebbe a dire che apparendo P, apparirebbe insieme anche Tc
(anziché Tf); il che, stando all’ontologia severiniana, è impossibile perché P (che è Afi)
DIVENTEREBBE Tc, annullandosi cioè come Afi (e come P).

§.9- Ma che Tf non sia identico a Tc significa allora che è anch’esso un(a) P (= Ptf), giacché tutto
ciò che non è il Tc, è inevitabilmente P.

Per quanto intenda farne le veci, l’apparire di Tf è comunque PRIVO della concretezza cui è Tc,
perciò Tf è P.

§.10- Cosicché, l’apparire di P _ non potendo strutturalmente esser accompagnato dall’apparire di


Tc _, sarà accompagnato da Ptf (= cioè da quella P cui è il TUTTO formale).
§.11- Ma se Tf appare anch’esso sotto forma di Ptf, allora NESSUNA P può neppure apparire come
P, giacché, per esser riconosciuta tale, necessita dell’apparire di Tc e non di un(a) ulteriore P quale è
146

Ptf giacché _ ricordiamolo _, Tf è soltanto la FORMA di Tc, onde tra la FORMA (Tf) e ciò (Tc) di
cui Tf è FORMA sussista incolmabile distanza/differenza, la stessa che sussiste tra P e T.

§.12- Ma, una volta imboccata quella strada, nemmeno Tf potrà apparire giacché, per poterlo fare,
necessiterà anch’esso dell’apparire di Tc, in quanto anche Tf è P. E, non potendo Tc mai apparire in
Afi come Tc, allora neanche Tf potrà apparire, in quanto ogni P (quindi anche Ptf) abbisogna
dell’apparire di Tc.

§.13- Se nel nostro orizzonte FINITO (Afi) ad apparire È SEMPRE P, allora Tc, apparendo solo
come Tf, si ritrova ANCH’ESSO ridotto a P (Ptf) cosicché, il RAPPORTO tra Tc (che non può mai
mostrarsi concretamente in Afi) e P (il solo che appare in Afi) sia a sua volta un rapporto tra due P:
Ptf e P, senza poter intravedere all’orizzonte alcun T che non si riduca anch’esso a P...

§.14- Conseguentemente Tc, apparendo in Afi soltanto come Tf quindi come Ptf, rende impossibile
l’apparire di qualsiasi P e perciò anche di se stesso in quanto anch’esso è P (Ptf) non accompagnato
dall’apparire di Tc; in quanto è P, Tf sarà mancante dell’apparire della CONCRETEZZA cui è Tc.

§.15- Con la conseguenza che MAI alcun P dovrebbe apparire (vedi §.3). Infatti _ ripeterei _, Tc
appare SEMPRE come Tf = Ptf = P, cosicché, apparendo soltanto come Tf, Tc appare soltanto
come Ptf quindi ANCH’ESSO come P.

§.16- Pertanto, in Afi, Tc non può MAI apparire come Tc, e nonostante la precisazione secondo la
quale Tc appare come Tf, comunque Tf NON è Tc ma ancora e solamente (una) P.

Tc NON PUÒ MAI apparire, perché ogni tentativo di indicarLO lo trasforma SEMPRE in P (o in
non-Tc).

§.17- Ma _ si osserverà _, il significato-Tc c’è, è posto, è saputo, visto che ne stiamo parlando. E
questo esser SAPUTO lo presenta intatto nel suo essere il Tc che è, e non (una) P.

Eppure, tale “esser saputo” di Tc è ancora un esser saputo soltanto come Tf, cioè ancora come P
giacché è vero che Tc è SAPUTO, certamente; ma lo è, in realtà, SEMPRE E SOLTANTO come Tf
perché, per poterlo SAPERE come Tc, non dovrebbe apparire (la) P, alcuna P.
Perciò Tc non riesce MAI a costituirsi (ad esser pensato) incontraddittoriamente...

§.18- Inoltre, un’eventuale obiezione potrebbe rimarcare la NECESSITÀ di Tc (o dell’APPARIRE


INFINITO, che in Severino è il medesimo), perché se Tc non fosse, non sarebbe neppure Afi né,
quindi, le PP in quanto, se esistessero SOLO esse senza rinviare OLTRE l’Afi, vorrebbe dire che,
sempre secondo Severino, allorquando un ente _ P _ non appare ancora/più, esso è ancora/ormai
(identico al) NULLA, il che sarebbe impossibile (sempre in base al dettato dell’ontologia
severiniana).

Ciò, ha tutta l’aria di esser la variante severiniana della prova classica dell’esistenza di Dio (il quale
è l’equivalente dell’APPARIRE INFINITO di Severino) ove, non potendo (la) P dare-a-sé
l’esistenza di-sé in quanto è finito(a) e contingente, è NECESSARIO porre Dio quale toglimento
della contraddizione che scaturirebbe dal suppore che esso (= P) sia creatosi-da-sé.
Certo, l’APPARIRE INFINITO severiniano NON CREA l’ente (= P); però _ secondo il filosofo
bresciano _ consentirebbe di affermare incontraddittoriamennte che ‘apparire’ e ‘sparire’ siano il
provenire-da ed il ritornare-in una ‘dimensione’ da sempre non-nulla e non-finita: INFINITA.
147

Perciò, alla posizione del Tc o APPARIRE INFINITO severiniano soggiacerebbe la stessa


NECESSITÀ della posizione di Dio.
Ma questo è un discorso che NON può essere affrontato qui, esulando dagli intenti di questo post...
§.19- Dunque, tornando al tema, in Tc vi è un ‘luogo’ (= Afi) in cui Tc non riesce MAI a comparire
né come Tf né, tantomeno, come Tc.

Non comparendovi in NESSUN MODO e ciò nonostante, MANTENENDO per ora FERMA
l’esigenza del suo esserci, il Tc in quanto Tc si ritrova ad esser esso stesso ASTRATTO (= Ta)
appunto perché è ASSENTE da Afi, non potendoVI MAI apparire; pertanto, Afi viene così a
costituirsi come ‘luogo’ dell’ASSENZA concreta di Tc.

§.20- Quindi, MANCANDO da Afi, il Tc si ritrova al contempo MANCANTE da ciò (Afi) da cui
NON dovrebbe affatto MANCARE, altrimenti P (e Afi) non potrebbe(ro) mostrarsi come P.

§.21- Parimenti il Tc, MANCANDO di Afi _ appunto perché, non apparendo Tc in Afi, Afi non
potrà apparire in Tc altrimenti, se vi apparisse, Tc includerebbe qualcosa (Afi) al cui interno non
apparirebbe ciò (Tc) dal quale Afi è incluso _, si ritrova al contempo MANCANTE di CIÒ (Afi) di
cui NON dovrebbe affatto MANCARE, pena non essere il Tc bensì P.

§.22- Ciò vuol dire che il Tc NON È il Tc poiché è MANCHEVOLE (di Afi/P), e che P non è P
perché MANCHEVOLE del Tc (senza l’apparire del quale P non è P).

Insomma: T, che dovrebbe essere Tc-NON-MANCHEVOLE-DI-NULLA, si rivela esso stesso Ta


cioè = Tf = Ptf = P.

§.23- Anzi, neppure; Tc NON può ritrovarsi nemmeno come P in quanto, affinché si ritrovi P, deve
daccapo apparire insieme a Tc...
§.24- Tenendo conto che:
T è = Tc;
in Afi, apparendo P, Tc appare come = Tf;

ma in realtà Tf ≠ Tc,

quindi Tf è = Ptf;
Ptf è = Ta,

Ta è ≠ Tc:

allora Tc NON (C’)È MAI.


Ma così non vi sarà neppure P (né Ptf),
giacché P appare soltanto se appare la sua DIFFERENZA da Tc.
Tc appare come Tf;

ma Tf ≠ Tc,

perciò Tf è = Ptf = P:
148

allora P NON (C’)È MAI,


e perciò non vi sarà neppure Tc,

giacché Tc _ apparendo soltanto come Tf, e Tf soltanto come P _, appare soltanto se appare la sua
DIFFERENZA da P; ma se P non appare, non apparirà neppure Ptf e a maggior ragione non
apparirà Tc...
§.25- Certo, come al solito si ribatterà:

“Non si deve SEPARARE P dall’apparire di T il quale, pur non apparendo CONCRETAMENTE


(cioè come Tc) è comunque concretamente INCLUSIVO di (ogni) P.

Se infatti li separassimo _ sostiene l’obiezione _, T si tramuterebbe a sua volta in P (Ptf) appunto


perché, SEPARATO da P quindi MANCANTE di P, anche Tc si ritroverebbe esso stesso P, come
appena visto (mentre P sarebbe, invece, originariamente l’INCLUSO affinché Tc sia (il) Tc, di
modo tale che non manchi mai di nulla).
§.26- Tuttavia, che P sia INSEPARABILMENTE (concretamente) visto/INCLUSO in T comporta:
<a>- o che P cessi di esser P se visto SUB SPECIE AETERNITATIS (o DAL punto di vista del
Tc), giacché in questo caso P _ proprio in quanto COSÌ veduto _ non apparirebbe più come P
poiché, apparendo UNITAMENTE / INSIEME al Tc, sarebbe INDISTINGUIBILE da quest’ultimo,
irrintracciabile come P, imponendosi soltanto l’interezza infinita del Tc.
Quindi P _ così indistinguibile _ non apparirebbe come P (o apparirebbe come non-P);

<b>- oppure, visto SUB SPECIE TEMPORIS o DAL punto di vista di Afi (il NOSTRO punto di
vista), comporta che P appaia sì in Afi come la P che è (quindi SENZA l’apparire del Tc, come di
fatto o empiricamente accade); ma, in questo caso, il Tc NON apparente-insieme-all’apparir-di-P _
perciò non-inclusivo dell’apparir-di-P, giacché se lo fosse, P apparirebbe già da sempre incluso in
Tc e Tc apparirebbe da sempre inclusivo di P _ sarebbe, come già detto, Tf e come tale DIVERSO /
ALTRO da Tc, condannandosi, tale Tf, ad esser non-T = Ptf = P.

<c>- Infine, si affaccia come terza possibilità la tesi che P sia _ insieme e (presuntamente) senza
contraddizione _ ANCHE (il) Tc: cioè che un qualunque essente appaia essere P ma ANCHE (il) Tc
(questa tesi verrà trattata in un post a sé).

§.27- Il punto in <b> indica ciò che APPARE fenomenologicamente, come direbbe Severino, ove
SUB SPECIE TEMPORIS, T non si manifesta mai CONCRETAMENTE (= Tc) bensì soltanto
FORMALMENTE (= Tf).

Senonché, come detto al §.18, la filosofia severiniana necessita anche della posizione descritta in
<a>, dove SUB SPECIE AETERNITATIS Tc appare inclusivo di Afi, pur continuando Afi ad
apparire come descritto in <a> nello STESSO IDENTICO MODO in cui appare in <b>, cioè
apparendo accompagnato dall’apparire di Tf, quindi come DISTINTO da Tc.

Ma così, il T cioè Tf che appare come detto in <b> si ritrova irrimediabilmente essere ALTRO dal
Tc che appare come in <a>.
149

Ossia in Afi, apparendo Tc nella forma di Tf, comporta che Tc, guardando-sé (<a>), si veda in Afi
(<b>) non come Tc (<a>) bensì come Tf, quando NON dovrebbero affatto esser DIVERSI o
ALTRO l’un rispetto all’altro, essendo Tc sempre e soltanto UN SOLO ed UNICO TC (ogni sua
‘replica’ non potrà che esser Tf o P).

§.28- Invece _ ripeterei _ dal punto di vista indicato in <a>, Tc, guardandosi in Afi (<b>), si vede
come Tf, il che è come dire che NON SI VEDE affatto, perché vedersi COME Tf da parte di ciò
che non è Tf, significa vedersi COME P da parte di ciò che NON può mai _ per definizione _ esser
P, quindi si vede come non-Tc: non vede sé.

§.29- Ma se la filosofia severiniana necessita anche della posizione detta in <a> cioè SUB SPECIE
AETERNITATIS, allora in che senso tale posizione _ in relazione a P _ è APORETICA?

Ossia: COME si può distinguere (o CHE COSA distingue) P allorquando sia VISTO INSIEME A,
o DA Tc (SUB SPECIE AETERNITATIS)?

Se, dal punto di vista di Tc (<a>), ciò che appare è il SOLO Tc (nel senso che, essendo Tc
l’apparire INFINITO che non lascia nulla fuori di sé, esso sarebbe il SOLO ad apparire a sé), allora
P non può PIÙ essere visto o distinguersi COME P (<b>), perché per potersi distinguere, P deve
apparire SENZA mai poter essere accompagnato dall’apparire di Tc, visto che P _ che è non-T _ è
tale soltanto se al contempo non-P (= Tc) NON appare altrimenti, se apparisse anche Tc insieme a
P, non potremmo INDIVIDUARE né DISTINGUERE P da non-P...

§.30- P (<a>), in quanto INCLUSO in Tc, è DIVERSO/ALTRO da P (<b>) in quanto appare _ qui,
nel nostro finito orizzonte esistenziale _ senza l’apparire di Tc ma solo di Tf.
Se appare P non appare Tc.
Se appare Tc non appare P.
Poiché appare P,
allora appare Tf.
Poiché appare Tf,
non può apparire P
perché Tf è P.
Se Tf è P,
Tf non può apparire,
perché per apparire P
deve apparire anche Tc.
Ma apparendo soltanto Tf,
P non può apparire.
150

Quindi non appare neppure Tf.


Quindi non appare alcuna P.
Né alcun Tc...
P senza l’apparire di Tc è Pa.
Tc senza l’apparire di P è Ta.
§.31- Tuttavia, P appare; ad esempio, diciamo che appare l’ente ‘x’.

Ma l’ente ‘x’ sopraggiunto in Afi NON PUÒ MAI essere l’ente che SEMBRA essere, perché senza
l’apparire della concretezza di tutto il suo non-‘x’ _ cioè senza l’apparire di Tc _ viene a
MANCARE l’apparire della VERITÀ di ‘x’ costituita appunto dalla concretezza cui è non-‘x’, ossia
manca ciò che DETERMINA L’AUTENTICO essere-‘x’ di ‘x’: l’autenticità di ‘x’ richiede perciò
l’apparire di Tc come sua concretezza o verità.

Senza l’apparire di Tc, dunque, ‘x’ non è l’ente ‘x’ che *SEMBRA* essere (ma che, appunto, non
è): la severiniana contraddizione C.

§.32- D’altronde _ al CONTRARIO di quanto appena detto nel §.31 _, l’ente ‘x’ appare COSÌ
COME APPARE proprio perché NON appare la sua concreta verità cui è non-‘x’.

Infatti, il *SEMBRARE* l’ente ‘x’ che sembra essere è siffatto SEMBRARE proprio in forza del
*NON* apparire di non-‘x’ (o dell’apparire di Tf), giacché è l’apparire del solo Tf a rendere ‘x’
quell’ente che appare inautenticamente e che pertanto SEMBRA essere ciò che (di) esso appare.

§.33- È allora ‘curioso’ (cioè aporetico) osservare come sia il MEDESIMO Tc a determinare
*DUE* modalità incomponibili dello STESSO ente ‘x’, ossia:

Tc determina l’autenticità di ‘x’ proprio in virtù della sua _ di Tc _ concretezza ed al contempo, lo


stesso Tc determina l’inautenticità di ‘x’ che appare in Afi in virtù del suo _ di Tc _ non apparire in
Afi!

§.34- Da quanto detto nel §.31, deriverebbe la presenza di DUE enti-‘x’, ritenuti esser IL
MEDESIMO ente colto sotto due intendimenti diversi (l’uno astrattamente l’altro concretamente
inteso):

(1): ‘x’ che apparendo(ci) in Afi, NON È ciò che pur (ci) SEMBRA essere, perché NON è
accompagnato dall’apparire da Tc solo grazie al quale ‘x’ è veritativamente se stesso. In questo
caso, ‘x’ è P come manifestazione ASTRATTA (= Pa).

(2): ‘x’ come l’AUTENTICO ente ‘x’ (“autentico” perché interamente determinato dalla totalità del
suo non-‘x’) qual è nella sua concretezza IN Tc la quale, però, NON (ci) appare perché, IN Afi, Tc
può apparire soltanto come Tf.

Perciò, soltanto IN Tc, ‘x’ è P come CONCRETEZZA di sé (= Pc) in quanto originariamente unita
a tutte le PP = Tc.
§.35- Abbiamo già visto al §.6, con le parole della filosofa Nicoletta Cusano, che in Afi
<<FINITEZZA significa “manifestazione ASTRATTA del tutto”, ciò che dà luogo a quella
151

contraddizione C, che è “eternamente e compiutamente tolta nell’apparire infinito [= Ain] del


destino e del Tutto”>>.

Ora, se ‘x’ in quanto Pa e in quanto Pc sono il MEDESIMO ente, allora, se non si vuole che
l’astrazione cui è Pa permanga NON-TOLTA, si dovrà concludere _ contro Severino _ che Pa
*DIVENGA* Pc IN SENSO NICHILISTICO (in senso non-severiniano) ossia che Pa, in quanto
appare in Afi, *DIVENGA* Pc in quanto appare in Tc (= Ain), cessando così di esser ciò che è a
seconda dello sguardo con cui si guarda P, se cioè dal punto di vista di Afi oppure dal punto di vista
di Tc (Ain).

Ma, come sappiamo, il DIVENIRE in senso NICHILISTICO è inammissibile nel sistema


severiniano.

Eppure, la contraddizione C non toglie ‘progressivamente’ tale astrattezza, perché l’incremento


(l’apparire in Afi) della concretezza di ‘x’ lascia ‘x’ _ sul quale sopraggiungerebbe la sua sempre
maggiore concretezza _ nella sua inossidabile astrattezza perché, in quanto astratto PRIMA della
concretezza sopraggiungente, questa, una volta sopraggiunta, non TRASFORMA ‘x’ _ sul quale
sopraggiunge la sopraggiungente concretezza _ in un ‘maggiormente’ concreto.

L’ampiamento dei tratti di ‘x’ non può _ a mio parere _ TRASFORMARE i tratti
antecedentemente ritenuti ASTRATTI (in quanto in attesa dei loro sopraggiungenti): essi sono da
sempre ASTRATTI e tali rimangono, a meno che _ di nuovo _ non si introduca il concetto di
TRASFORMAZIONE (in senso non-severiniano), che a questo punto NON mantiene più una
connotazione NEGATIVA come la possiede in Severino.

§.36- In pratica, ciò che si ritiene esser IL MEDESIMO ente ‘x’, se visto in Afi è Pa; se visto in Tc
è Pc: il medesimo ‘x’ si sdoppia in due ‘x’ DIVERSI, che è come dire che NON SONO
REALMENTE il *MEDESIMO* ente.
O meglio: P è da sempre Pc in quanto è da sempre in Tc.

Ma se P è da sempre Pc, allora è consequenziale che P in quanto Pa (quindi in Afi) sia da sempre
Pa, a meno che _ ripetiamo ancora _ non s’introduca il DIVENIRE-ALTRO allorché lo si consideri
nel suo ‘DIVENIRE’ da Tc a Ta (nell’Afi) e da Ta a Tc (in Tc)...

§.37- Ma se P è da sempre Pc in quanto è da sempre concretamente in Tc quale sua determinazione


completa, c’è da rilevare come anche Pa-in-Afi sia pur sempre *IN* Tc, giacché non può situarsi
AL DI FUORI di Tc essendo, questo, ciò che nulla avrebbe esternamente/oltre di sé...

...Col che viene meno ogni ragione per definirlo Pa, giacché dire Pa è al contempo dire
ASTRATTO-DA-, ove questo “DA-” rimanda già _ dicendoLO _ al RIFERIMENTO concreto,
ossia a Tc, rispetto al quale Pa è solo presuntamente astratto, cosicché tra Pa e Pc non sussista mai
alcuna differenza.

§.38- Ovvero: ‘x’, ASTRATTO-DA-Tc, si ritrova in Afi depauperato da ciò che lo determina
integralmente; ma siccome Pa, in quanto così depauperato, è pur sempre INCLUSO IN Tc in quanto
Tc è l’INCLUSIVO-NON-ESCLUDENTE-ALCUNCHÉ, Pa è allora se stesso IN-QUANTO-
DEPAUPERATO, ossia la sua concretezza consiste nell’esser così astratto: è Pa ma è al contempo
anche Pc, giacché il suo esser P consiste nell’esser Pa-senza-il-Tc (in Afi) ED INSIEME è Pc-con-
152

il-Tc (in Ain); il MEDESIMO ‘x’ è autocontraddittoriamente astratto-concreto, cioè è Pa in quanto


è non-Pc, ed è Pc in quanto è non-Pa.

§.39- Si potrà replicare osservando che i RISPETTI mediante i quali Pa e Pc verrebbero


inopinatamente identificati sono DIversi, ovvero: ‘x’ è Pa, sì, ma soltanto in relazione all’Afi; e
sempre il MEDESIMO ‘x’ è Pc, certo, ma in quanto considerato unitamente (da sempre
relazionantesi) al Tc.

In tal caso, essi sono sì il *MEDESIMO* ente, differenziatesi a seconda del “RISPETTO”. Ma così,
l’essere di ‘x’ _ il medesimo ‘x’! _ si fa carico di due modi antitetici quali sono astratto e concreto. I
rispetti sono diversi, ma l’astrattezza e la concretezza afferiscono al *MEDESIMO* ente. Ciò non è
cosetta da nulla, per un sistema filosofico che si pretende incontraddittorio-incontrovertibile...

§.40- Oppure, diversamente da quanto detto al §.35, avremmo *DUE* DIFFER-ENTI ‘x’ dei quali
Pa è predicabile SOLTANTO di Pa e Pc SOLTANTO di Pc, cosicché asserire _ del supposto
*MEDESIMO* ‘x’ _ che in quanto Pc sia il CONCRETO *DI* ‘x’ in quanto Pa, è una patente
contraddizione giacché sono appunto *DUE* enti DIVERSI, non il medesimo ‘x’.
§.40- E se NON sono il MEDESIMO ente, allora la contraddizione-C concernente Pa _ la sua
astrattezza _ NON è MAI <<COMPIUTAMENTE TOLTA nell’apparire infinito del destino e
del Tutto [Tc]>> proprio perché, NON essendo il medesimo ente, Pa NON PUÒ MAI *D-I-V-E-
N-T-A-R-E* Pc _ cioè NON PUÒ MAI TOGLIERE la propria astrattezza _, giacché anche Pa è un
eterno non suscettibile di DIVENIRE-ALTRO-DA-SÉ.

Per quanto eternamente la concretezza di Pa vada incrementandosi, riducendo in(de)finitamente la


contraddizione-C cui la gradualità di tale incremento dà luogo, in Afi Pa rimane SEMPRE
accompagnato dalla contraddizione-C, perché Afi non è Tc e quindi, se in Afi Pa si manifestasse
come Pc, Afi stesso diverrebbe (il) Tc o Ain, distruggendo-sé, perché Pc è tale _ è concreto _
SOLTANTO in Ain.

§.41- Pertanto Pc, ritenuto (da Severino) DA SEMPRE (eternamente) esser tale, non potrà che esser
altrettanto da sempre (eternamente) DIVERSO/ALTRO-da-Pa il quale sarà anch’esso eternamente
DIVERSO/ALTRO-da-Pc, col risultato che la contraddizione-C di Pa non può MAI ritrovarsi
<<COMPIUTAMENTE TOLTA nell’apparire infinito del destino e del Tutto>>, destinato
com’è a rimanere tale ANCHE NELL’<<apparire infinito>>.

Insomma, l’eternità dell’ente derivante dall’elaborazione della presunta originarietà della ‘struttura
originaria’ severiniana conduce ad esiti risolutamente aporetici, onde sì: contrariamente a quanto
dice Severino, essa è ciò che, sul fondamento di sé, perviene alla propria aporeticità...
***

§.42 – Bisognerebbe inoltre accennare anche alla questione FINITO / INFINITO concernente
(il) Tc severiniano, ma faremmo ‘notte’...
Mi limito soltanto a rilevare che (il) Tc, in Severino, si configura come ASSOLUTO-INFINITO, da
nulla dipendendo e da nulla limitato; esso è SCIOLTO-DA (ab-solutus) qualsiasi di-pendenza o
legame; è, appunto: ASSOLUTO.
153

Ed è appunto INFINITO, già da sempre tale, non passibile di accrescimento _ non diveniente _
poiché COMPLETO, NON MANCANTE DI ALCUNCHÉ.

Se infatti fosse FINITO, (il) Tc si ritroverebbe non-Tc cioè P, in relazione ad ulteriori PP ad esso
sempre aggiungibili in quanto FINITO, perciò in quanto suscettibile di ampliamenti.

§.43- Invece, il Tc severiniano è INFINITO, NON MANCANTE DI ALCUNCHÉ, come detto


giacché, se fosse trovato MANCANTE, non sarebbe (il) Tc (bensì sarebbe P in fieri)...
...Epperò, non MANCANDO di alcunché… MANCHERÀ della MANCANZA!

Ad esso NON MANCA niente, cosicché MANCHI della MANCANZA, giacché se gli
MANCASSE qualcosa, non MANCHEREBBE della MANCANZA (non gli MANCHEREBBE
perché, MANCANDO di qualcosa, il T MANCHEREBBE; perciò sarebbe NON-MANCANTE
della MANCANZA)...
Se gli MANCASSE qualcosa, però, non sarebbe (il) Tc.

§.44- Dunque, essendo INFINITO quindi NON-MANCANTE di niente, al Tc MANCA la


MANCANZA.
Gli MANCA, cioè, di (il) MANCARE.

Quindi NON MANCA di alcunché, neppure del MANCARE perché, MANCANDOGLI il


MANCARE, non MANCA del MANCARE: per questo il T INFINITO (severiniano) non
MANCHEREBBE di niente.

Ma proprio perciò _ se cioè al Tc il MANCARE non MANCA (ce l’ha, s’è infatti detto che
esso, in quanto INFINITO, NON MANCA di nulla, neppure del MANCARE) _ il Tc è
MANCANTE!
In ogni caso, comunque lo si voglia mettere, (il) Tc (severiniano) è M-A-N-C-A-N-T-E:
NON È (il) Tc.

RF
154

20)- IL DIVENIRE COME TRASFORMAZIONE (I parte)

Introduzione. Chi avesse TEMPO e VOGLIA di leggerne la forma INTEGRALE, passi sotto, a:
20)- IL DIVENIRE COME TRASFORMAZIONE (II parte).

***

§.1- Secondo Severino, il DIVENIRE concepito come TRASFORMAZIONE è impossibile, poiché


implicherebbe l’IDentità-dei-DIfferenti (= dei non-IDentici), contravvenendo così alla legge che
vuole l’ente esser IDentico-a-sé e DIfferente-dall’altro-da-sé. Ugualmente dicasi per le stesse
IDentità e DIfferenza informanti ogni ente; anch’esse (come tutto) rigorosamente DISTINGUIBILI,
pertanto l’IDentità mai soggetta ad esser IDentica-al-proprio-altro-da-sé (cioè alla DIfferenza) né la
DIfferenza ad esser DIfferente-da-sé: mai soggette, cioè, ad essere contraddittorie.

§.2- Eppure, HEGEL si espresse con grande chiarezza:

<<coloro che restano attaccati alla VUOTA IDENTITÀ sempre mettono avanti che
L’IDENTITÀ NON È LA DIVERSITÀ, ma che identità e diversità SON DIVERSE… ma,
così facendo, NON VEDONO che appunto QUI DICONO GIÀ CHE L’IDENTITÀ È UN
DIVERSO… in ciò sta che non già estrinsecamente, ma in lei stessa, nella sua natura,
L’IDENTITÀ CONSISTE NELL’ESSER DIVERSA>>. - (G. W. F. HEGEL; “Scienza della
logica”, vol. II. Maiuscolo mio: RF).

§.3- Appunto, <<NON VEDONO>>…

§.4- L’IDentità, infatti, proprio per escludere di esser (la) DIfferenza, deve DIfferenziarsi dalla
DIfferenza, negando (escludendo) se stessa come IDentità.

Ossia, DIVENTA (epperò lo è DA SEMPRE!) essa stessa DIfferenza, proprio nel momento in cui
afferma di esser IDentità al fine di DIfferenziarsi dalla DIfferenza.

§.5- Ciò significa che l’IDentità È la stessa DIfferenza che si nega in quanto IDentità; che è come
dire, al contempo, che la DIfferenza, in quanto è IDentità-negata o negantesi, è il DIfferenziarsi (il
DIVENIRE) negante ogni (stabile) IDentità.

§.6- Perciò, contrariamente a quanto pensa Severino, ‘x’ (la legna), non ha nessuna difficoltà
(ontologica) a DIVENTARE (a TRASFORMARSI in) ‘y’ (cenere), perché DIVENENDO, non fa
che assecondare o esplicitare la propria ‘natura’ aporetica, in quanto l’IDentità-dei-DIfferenti è già
inscritta nell’ente (onde il DIVENIRE sia la manifestazione diacronica di essa, e la
155

MOLTEPLICITÀ ne sia la manifestazione sincronica), il quale è da sempre toglientesi in vista de


(DIVENTARE) l’altro-da-sé; così come la IDentità è da sempre toglientesi in vista de
(DIVENTARE) la DIfferenza.

DIVENENDO così IDentico a quel DIfferente-da-sé cui è ‘y’, per poi togliersi anche come esser-
DIVENUTO-IDentico all’altro-da-sé nell’esser solo (un ennesimo) DIfferente.

§.7- Per questo _ sia detto a mo’ di accenno conclusivo _ il DIVENIRE non può esser letto come
l’apparire e lo scomparire degli eterni severiniani, o anche come l’avvicendarsi (nella luce
dell’apparire) del preteso STARE delle DIfferenti IDentità, perché:

- già in quanto semplicemente DIfferenti, la loro IDentità si è risolta (TRASFORMATA) in non-


IDentità;
- e quindi, perché il DIfferenziarsi quindi il DIVENIRE degli enti è lo stesso DIfferenziarsi
(negarsi) dello stare dell’IDentità, cioè è il loro stesso TRASFORMARSI.

RF

21)- IL DIVENIRE COME TRASFORMAZIONE (II parte)

§.1- Vorrei dunque sostenere come il DIVENIRE, inteso nella modalità (ontologica) illustrata dal
filosofo Emanuele Severino ossia come DIVENIRE-DEGLI-ETERNI, non riesca a costituirsi se
non aporeticamente, indicando l’ineseguibilità del suo tentativo di inquadrarlo (esaurendolo)
all’interno dell’IDentità-con-sé dell’ente e della DIfferenza-dal-proprio-altro e perciò scevre da
contraddittorie commistioni (sé / altro-da-sé; essere / nulla).

§.2- Nel sostenere ciò, procederò proprio assecondando (e non ponendomi CONTRO!) la
DISTINGUIBILITÀ dell’IDentità dalla DIfferenza; quindi A PARTIRE dalla IDentità-con-sé e
DIfferenza-dal-proprio-altro, per ritrovarsi in esplicita IDentità-con-l’altro-da-sé e DIfferenza-da-sé
quale ‘CUORE’ ancipite al DIVENIRE _ ma poi a tutto _ soggiacente.
§.3- Come già abbondantemente ripetuto, ogni ENTE è ‘incarnazione’ del plesso
IDentità/DIfferenza, cosicché neppure la lettura del DIVENIRE ne possa prescindere, alla luce di
quanto tratteggiato sin qui, anzi: esso è il ‘luogo’ nel quale tale plesso si palesa in tutta la propria
irrisolvibile aporeticità.

§.4- La critica al DIVENIRE comunemente inteso dall’Occidente _ ossia come


TRASFORMAZIONE nell’altro-da-sé e perciò implicante l’IDentità dell’ente diveniente con l’ente
divenuto, cioè l’IDentità-dei-Differenti o dei non-IDentici (siano, tali non-IDentici, altri enti o il
NULLA) _ costituisce il ‘cavallo di battaglia’ critico della filosofia di Severino.
§.5- Secondo il filosofo bresciano, il pensiero occidentale, ritenendo che l’ente ‘x’ divenga (si
trasformi in) quell’altro-da-sé cui è ‘y’ _ la legna che diventa cenere _, non si accorgerebbe di
156

IDentificare contraddittoriamente i non-IDentici nel risultato del divenire attraverso il quale ‘x’,
divenuto ‘y’, sarebbe (ora) IDentico ad ‘y’ cioè IDentico al DIfferente-da-sé (sia questo l’ente ‘y’ o
il NULLA cui ‘x’ deve anche diventare per poter divenire ‘y’).

§.6- Ma, per lui, il DIVENIRE così concepito è impossibile perché impossibile sarebbe la suddetta
IDentità-dei-Differenti quale esito di esso.

§.7- Pertanto, sempre secondo Severino, i DIfferenti (gli enti) sono da sempre INDIVENUTI ed
eternamente resteranno INDIVENIENTI, che è come dire che sono e resteranno eternamente tra
loro DIfferenti ed ognuno IDentico soltanto a se stesso.

§.8- Infatti, in luogo di quel DIVENIRE a suo dire ‘nichilistico’, egli propone l’ETERNITÀ
dell’ente, di ogni ente, cosicché il DIVENIRE sia da ‘leggere’ come il succedersi degli enti-eterni
nella luce dell’apparire, senza comportare, per essi, alcuna contraddittoria trasformazione e quindi
alcuna Identificazione-dei-DIfferenti né, perciò, il loro provenire dal nulla-di-sé per poi tornarvi, i
quali ‘provenire’ dal nulla-di-sé e ‘tornare’ ad esser nulla implicherebbero ugualmente l’IDentità-
dei-DIfferenti (quali sarebbero appunto radicalmente DIfferenti tra loro l’essere/ente ed il nulla).
Questo, a dire del Nostro filosofo.

§.9- Notiamo, perciò, come per Severino L’IMPOSSIBILE PER ECCELLENZA sia costituito dalla
IDentità-dei-DIfferenti (o dalla IDentità-dei-non-IDentici che dir si voglia) nonché dalla
DIfferenza-da-sé dell’IDentico-a-sé.

§.10- Ed è così impossibile _ sempre stando all’ontologia severiniana _ in quanto la IDentità e la


DIfferenza dalle quali ogni ente è costituito, sono anch’esse o INNANZITUTTO ESSE
rigorosamente DISTINGUIBILI (come lo sono tra loro tutti gli enti/significati), pertanto mai
soggette ad esser l’una IDentica-al-proprio-altro-da-sé né DIfferente-da-sé: mai soggette, cioè, ad
essere contraddittorie.

§.11- Infatti, come controprova, se asserissimo che un ente/significato possa esser IDentico-al-
proprio-altro-da-sé e DIfferente-da-sé, sarebbe quanto basta per far trasalire Severino e molti altri; a
riprova, perciò, della loro inequivocabile DIfferenza…

§.12- Il DIVENIRE è (atto di) DIfferenziazione. Non dico nulla di nuovo anzi, è persin banale
osservarlo.
Come accennato, nell’ottica severiniana il DIVENIRE è il DIfferenziarsi della ‘scena’ (nell’apparire
finito o trascendentale) che accoglie l’avvicendarsi degli eterni, nel senso che ogni ente (o insieme
di enti) sopraggiungente è comunque sempre DIfferente rispetto all’ente (o insieme di enti) su cui
sopraggiunge: sempre, quand’anche sopraggiungesse soltanto un singolo granello di polvere, è
sufficiente a MUTARE l’assetto di ciò sul quale esso sopraggiunge.

§.13- È sempre DIfferente ma, per Severino, l’ente non si TRASFORMA (non si DIfferenzia) mai
in ALTRO da sé o, per usare il suo linguaggio, in ciò che risulta esser l’ormai sopraggiunto.
§.14- Ossia, nel camino acceso, alla legna bruciata sopraggiunge la cenere; ma la legna sulla quale
la cenere sopraggiunge non si è TRASFORMATA in cenere (né mai la cenere è stata, prima, legna).
157

La legna rimane IDentica-a-sé sebbene, oramai, col sopraggiungere della cenere, essa non appaia
più in quanto non più presente (come legna) internamente all’apparire trascendentale (se non come
ricordo).

§.15- Che quel DIfferente dalla cenere _ cioè la legna _ non possa DIVENTARE IDentico a
quell’altro DIfferente dalla legna cui è la cenere, è esigenza dovuta all’impossibilità _ sempre
secondo Severino _ che non solo ogni ente/significato ma, più originariamente ed a maggior
ragione, che il termine “IDentità” si mantenga SEMPRE e SOLTANTO (significante) unicamente
come IDentità, senza mai poter essere/DIVENTARE (significante come) DIfferenza e/o DIfferente-
da-sé.

§.16- Così come il termine “DIfferenza” non possa mai essere/DIVENTARE (significante come)
IDentità e/o IDentità-con-sé. È bene non dimenticarlo…

§.17- Così come è bene nuovamente ricordare quanto detto nel §.11, cioè che è tutt’altra cosa
affermare che ‘x’ sia DIfferente-dall’altro-da-sé dall’affermare che ‘x’ sia IDentico-all’altro-da-sé!

Se, infatti, la DIfferenza potesse (ANCHE!) essere/significare l’IDentità, avremmo che ‘x’ sarebbe
(ANCHE!) IDentico-all’altro-da-sé (o lo potrebbe DIVENTARE) e DIfferente-da-sé; il che
rappresenterebbe la quintessenza della follia (per Severino).

§.18- Quindi, esse DEVONO DIfferenziarsi, altrimenti IDentità e DIfferenza sarebbero due
significati IN-DISTINGUIBILI, perfettamente quanto indifferentemente INTERSCAMBIABILI;
SINONIMI, alla fin fine.

§.19- Alla IDentità, se non altro sulla base del suo significato, spetta perciò SEMPRE e
SOLTANTO fungere da IDentità.

Così come alla DIfferenza spetta SEMPRE e SOLTANTO significare DIfferenza.

§.20- Nel plesso IDentità/DIfferenza, la IDentità è sé in quanto è/significa/rappresenta la IDentità;


la DIfferenza non-è-sé in quanto è/significa/rappresenta la DIfferenza cioè DIfferisce dalla IDentità.

Solo così il plesso ID/DI può avere il senso che ha, ove ognuno dei due termini è o rappresenta
SOLTANTO IL PROPRIO SIGNIFICARE.
§.21- Pertanto, dire che il plesso È IDentità-e-DIfferenza, è come dire che esso È SÉ-E-ALTRO-
DA-SÉ, appunto perché i due termini QUESTO significano.

§.22- D’altronde, tutto ciò è in accordo con il nomos ontologico che Severino ritiene esser lo stesso
essere/apparire di OGNI ente/significato quale STRUTTURA ORIGINARIA, stabilendo che l’ente
NON possa non essere ciò che è e significa e che NON possa non rimanere eternamente tale, quindi
sempre IDentico-a-sé, senza perciò mai DIVENIRE DIfferente-da-sé.

§.23- È chiaro, però, che se il suddetto ‘NOMOS’ dovesse smentirsi con le ‘PROPRIE MANI’ (e
non mediante interventi critici ad esso esterni), verrebbe smentita tutta l’impalcatura severiniana…

§.24- Come ogni ente/significato nei confronti della totalità del proprio altro, anche l’IDentità
NEGA (= non è) ed ESCLUDE (di esser) il proprio ALTRO cioè (essendo l’unico ALTRO
possibile dalla IDentità) la DIfferenza (e viceversa).
158

§.25- Senonché, (riporto nuovamente ciò che) HEGEL osservò con grande chiarezza:

<<coloro che restano attaccati alla VUOTA IDENTITÀ sempre mettono avanti che
L’IDENTITÀ NON È LA DIVERSITÀ, ma che identità e diversità SON DIVERSE… ma,
così facendo, NON VEDONO che appunto QUI DICONO GIÀ CHE L’IDENTITÀ È UN
DIVERSO… in ciò sta che non già estrinsecamente, ma in lei stessa, nella sua natura,
L’IDENTITÀ CONSISTE NELL’ESSER DIVERSA>> - (G. W. F. HEGEL; “Scienza della
logica”, vol. II. Maiuscolo mio).
§.26- Appunto, <<NON VEDONO>>…

§.27- Infatti, l’IDentità, per escludere di esser (la) DIfferenza, deve DIfferenziarsi dalla DIfferenza,
negando (escludendo) se stessa come IDentità, perché DIVENTA essa stessa DIfferenza, proprio
nel momento in cui afferma di esser IDentità al fine di DIfferenziarsi dalla DIfferenza.

§.28- Così, nel suo esser IDentità, questa assume su di sé quel DIfferenziarsi che invece spetterebbe
(significare) SOLTANTO alla DIfferenza, giacché è facile capire come nel plesso in questione i due
significati debbano essere ben distinti, come detto al §.21, onde uno non possa significare l’altro,
altrimenti la loro com-presenza _ il loro esser plesso _ non avrebbe alcun senso.

§.29- Proprio perché la IDentità è DISTINGUIBILE dalla DIfferenza, si rivela essere (DIVENTA!)
quell’altro da sé cui è la DIfferenza.

§.30- Così, nel momento in cui la DIfferenza è DISTINGUIBILE dalla IDentità, si rivela essere
(DIVENTA!) quell’altro da sé cui è la IDentità.

§.31- DIVENTA!, s’è appena detto. A ragion veduta, direi. Giacché la IDentità e la DIfferenza,
offrendosi come indubbiamente DISTINGUIBILI, DIVENGONO ovvero si offrono altrettanto IN-
DISTINGUIBILI!

§.32- Il che può solo voler dire come la verità, proprio distinguendosi dall’errore, non se ne
distingua, così come la IDentità, proprio nel distinguersi dalla DIfferenza, non se ne
distingua…

§.33- Se l’IDentico _ cioè l’ente _ è una IDentità-di-DIfferenti e se la ID È DI, essa È IDentica non
a sé, ma a quel DIfferente-da-sé cui è la DI.

§.34- Dire che l’IDentità È IDentica a quel DIfferente-da-sé cui è la DIfferenza significa dire che
l’IDentità È la stessa DIfferenza che si nega in quanto IDentità; che è come dire, al contempo, che
la DIfferenza, in quanto è IDentità-negata o negantesi, è il DIfferenziarsi negante ogni (stabile)
IDentità.

§.35- Infatti, cos’è il DIfferenziarsi, se non lo stesso DIVENIRE?

DIVENIRE quale costante, inarrestabile diacronìa dei DIffer-enti DIfferenziantisi o, in una parola:
DIVENIENTI…

§.36- Si può già vedere quanto la temuta IDentità-dei-DIfferenti _ quale <<FOLLIA>> (Severino)
ontologica atta a squalificare di ogni veridicità il DIVENIRE comunemente inteso _ riaffiori
comunque al di là di ogni ‘buona’ intenzione di evitarla…
159

§.37- Ma, allora:

- in quale modo l’IDentità, per rimanere (per significare) sempre e soltanto IDentità, potrebbe
NON DIFFERENZIARSI?
(Giacché DIfferenziandosi, ripetiamo, l’IDentità si ritrova esser DIfferenza).

- E in che modo la DIfferenza, per restare (per significare) sempre e soltanto DIfferenza, potrebbe
NON essere IDentica-a-sé?

(Giacché essendo IDentica-a-sé, la DIfferenza si ritrova esser quell’altro da sé cui è l’IDentità).

§.38- NON POSSONO! Ecco il punto.

O meglio: non possono seguendo il dettato del ‘NOMOS’ ESCLUDENTE (col quale tutti noi
abbiamo a che fare) cioè del PRINCIPIO DI NON-CONTRADDIZIONE/IDENTITÀ, che di ogni
ente/significato sancisce l’esser quell’ente/significato che è-IDentico-a-sé e DIfferente-dall’altro-
da-sé, ESCLUDENDO perciò di esser IDentico al proprio altro.

§.39- Certo, il DIfferente ed il DIfferenziarsi presuppongono il darsi (l’apparire) dell’IDentico e


dell’IDentità, è ovvio.

§.40- Senonché _ l’abbiamo visto _, l’IDentità, con e per il suo stesso darsi (apparire), si nega
essendo (DIVENENDO!) già DIfferente.

§.41- Perciò, un DIffer-ente auto-negantesi come IDentità è un DIfferenziarsi innanzitutto da-sé,


poiché la SUA IDentità si converte (lo è COSTITUTIVAMENTE, epperò lo DIVIENE!) in
DIfferenza (costituendosi, perciò, come IDentità-non-IDentica e DIfferenza-non-DIfferente).

§.42- “Lo è COSTITUTIVAMENTE, epperò lo DIVIENE!” significa che l’IDentità appare (è


rilevabile) certamente come ALTRA o DIfferente dalla DIfferenza, e tuttavia lo DIVIENE _ ripeto
_ proprio nell’atto in cui essa appare così distinta dalla DIfferenza, di modo tale che non vi sia un
PRIMA, in cui l’IDentità sia soltanto stabile IDentità per POI DIVENTARE DIfferenza; essa è
GIÀ DA SEMPRE tale DIfferenza nell’atto col quale si pone (appare!) COME IDentità, epperò la
DIVENTA, nel senso che tale ‘DIVENTARE’ mostra diacronicamente ciò che essa è
(sincronicamente) da ‘sempre’.

§.43- Ovvero, ogni ente si DIfferenzia-da-sé, e DIfferenziarsi-da-sé significa non essere un “sé”
(una IDentità) capace di STARE ‘pacificamente’ insieme alla DIfferenza senza da questa farsi
fagocitare; significa non essere quella IDentità che ogni ente SEMBRA essere, appunto perché è
IDentità-negantesi-in-un-DIfferente, o declinantesi-come-DIfferente.

§.44- Con lo stesso negarsi dell’IDentità (cioè negandosi come IDentico-a-sé), l’ente ‘x’ DIVIENE
(si DIfferenzia quindi si TRASFORMA ne) l’ente ‘y’, attuando quella negazione della IDentità
che ogni ente già è, nell’atto stesso di porsi come IDentità la quale è già da sempre risoltasi
(negatasi/TRASFORMATASI) in DIfferenza.

Appunto perché la sua tentata IDentità si è negata in (o come) DIfferenza; vale a dire:

‘x’ si è negato in (è DIVENUTO) ‘y’.


160

§.45- Perciò, contrariamente a quanto pensa Severino, ‘x’ (la legna), non ha nessuna difficoltà a
DIVENTARE (a TRASFORMARSI in) ‘y’ (cenere), perché DIVENENDO, non fa che assecondare
o esplicitare la propria ‘natura’ aporetica, in quanto l’IDentità-dei-DIfferenti è già inscritta nell’ente
(onde il DIVENIRE sia la manifestazione diacronica di essa, e la MOLTEPLICITÀ ne sia la
manifestazione sincronica) il quale è da sempre toglientesi in vista de (DIVENTARE) l’altro-da-sé;
così come la IDentità è da sempre toglientesi in vista de (DIVENTARE) la DIfferenza,
DIVENENDO così IDentico a quel DIfferente-da-sé cui è ‘y’, per poi togliersi anche come esser-
DIVENUTO-IDentico all’altro-da-sé nell’esser solo (un ennesimo) DIfferente.

§.46- Il che vuol dire che ‘x’ DIVIENE IDentico al DIfferente-da-sé, rivelandosi non-IDentico
neppure a ‘y’ bensì solo (un ennesimo) DIfferente, giacché lo stesso ‘y’ è già (DIVIENE)
autonegantesi in ALTRO (da sé)…

§.47- Ossia, il porsi della IDentità-di-‘x’ _ giacché ponendosi, essa si toglie o si converte in
(DIVIENE!) DIfferenza _ è lo stesso atto del suo negarsi o DIfferenziarsi, tale da rendersi un
DIfferente (tra innumerevoli altri).

§.48- Il processo mediante cui ogni IDentità-DIVIENE-DIfferenza è lo stesso DIVENIRE-degli-


enti quale TRASFORMAZIONE o DIfferenziazione, dunque, ognuno dei quali si costituisce come
un DIfferente-costantemente-DIfferenziante-si.

§.49- Per questo, il DIVENIRE non può esser letto come l’apparire e lo scomparire degli eterni
severiniani, o anche come l’avvicendarsi (nella luce dell’apparire) del preteso STARE (in quanto
volute eternamente IDentiche-a-sé) delle DIfferenti IDentità:

- perché già in quanto semplicemente DIfferenti, la loro IDentità si è (già) risolta


(TRASFORMATA) in non-IDentità;

- e quindi, perché il DIfferenziarsi degli enti è lo stesso DIfferenziarsi (negarsi) dello stare
dell’IDentità, cioè è il loro stesso TRASFORMARSI, cosicché:

(a) l’IDentità-e-DIfferenza (cioè in quanto DISTINGUIBILI)

e la

(b) IDentità-come-DIfferenza (cioè in quanto IN-DISTINGUIBILI),

insieme costituiscano l’apparire del DIVENIRE inteso come TRASFORMAZIONE o DIVENIRE


(essendo già) ALTRO-DA-SÉ, dove (a) si riveli DISTINGUIBILE pur non DISTINGUENDOSI

(b) ovvero:

il DIVENIRE come diacronìa della loro DISTINGUIBILE (IDentità-e-DIfferenza, cioè (a))


INDISTINGUIBILITÀ (cioè (b)), cui l’ente da sempre, sincronicamente, è…

§.50- Severino ritiene che la LEGNA (= L ), si mantenga stabile quale significato COMUNE alle
sue DIfferenti fasi ove essa brucia nel camino; fasi contraddistinte _ ad esempio _ da L1 (la legna
che comincia a bruciare e l’addensarsi delle nuvole); L2 (il divampar della legna e l’iniziare a
piovere); L3 (il cominciar ad affievolirsi del fuoco)… fino alla sua CENERE (= C).
161

§.51- Epperò L _ la LEGNA _ come pretesa IDentità permanente nel e nonostante il variare o il
succedersi nell’apparire dei suoi momenti _ L1, L2, L3 etc. _ NON È RINTRACCIABILE in alcun
luogo, giacché L1, L2, L3 etc., non sono quel che è stata posta come l’IDentità cui sarebbe L bensì
sono sempre e soltanto quei DIfferenti-da-L quali appunto sono L1, L2 e L3, visto che anche L, se
c’è, si pone come UN momento TRA gli altri, ossia come inevitabilmente DIfferente da L1, L2, L3,
anziché come ciò (l’IDentità) che rimarrebbe IDentica-a-sé nel variare di L1, L2, L3…

§.52- Ma, allora, perché diciamo che è L, proprio QUESTA LEGNA a variare nelle sue fasi pur
rimanendo sempre QUESTA LEGNA o la STESSA L?

Quasi che L fungesse da trascendentale dei DIfferenti momenti…

§.53- I DIfferenti mostrano sì il prolungarsi (nel ricordo) del permanere di una IDentità (passata)
comune, per poi, però, mostrare come tale prolungamento ne costituisca la di lei negazione nel
momento stesso in cui essa si rivela esser a sua volta una DIfferenza.

§.54- Inoltre, vi è da notare come l’IDentico cui sarebbe L _ e qui ci collochiamo nello specifico di
questo post _, proprio nel prolungare l’apparire della propria IDentità attraverso le fasi L1, L2… si
DIfferenzi e quindi SIA DIfferente-DA-SE-STESSO, giacché è soltanto grazie al permanere
dell’IDentico che il DIfferenziarsi appare come l’apparire del DIfferenziarsi-dell’IDentico!

§.55- In quanto, quell’IDentico (L) di cui si dice il suo prolungarsi nell’apparire, è sempre
DIfferente nelle ‘sue’ fasi, sì che ciò che diciamo (del tutto impropriamente) la ‘sua’ IDentità (cioè
L), si riveli SEMPRE DIfferente di fase in fase, senza perciò MAI potersi costituire come IDentità-
a-sé-IDentica nei vari momenti, poiché L1 non è comunque MAI IDentica ad L2, TALE da far sì
che L non sia assumibile fondatamente come tratto COMUNE, appunto perché L è SEMPRE
DIfferente...

§.56- Quindi, questa PARVENZA di stabile nonché prolungantesi IDentità non evita che la
fantomatica ‘L’ sia a sua volta un altro DIfferente tanto quanto L1, L2… anzi, lo impone; e così
essendolo, solo APPARENTEMENTE (pre-criticamente) L può esser assunta ingiustificatamente
come indice di stabile “IDentità”.

§.57- Ove, a questo punto, risulta chiaro come ‘L’ e ‘C’ siano ASTRAZIONI volute come IDentità
soggiacenti alle varie fasi DIfferenziantisi; senza peraltro poter nuovamente evitare che tali
astrazioni siano a loro volta (dei) DIfferenti e in quanto tali impossibilitati a costituirsi come
IDentità…

§.58- L’ILLUSIONE della IDentità-protraentesi cui sarebbe L, è dovuta al prolungare-sé da parte


del DIfferente-MENO-DIfferente rispetto agli altri DIfferenti presenti nel contesto in questione. Ma
il meno DIfferente è pur sempre un DIfferente…

§.59- In aggiunta a ciò, circa l’ILLUSIONE della IDentità (sebbene, nel caso che segue, sia riferita
prevalentemente alla IDentità personale), è interessante anche quanto sostiene l’antropologo
Francesco Remotti (maiuscoli miei):
162

<<Ho voluto quindi fare un discorso critico nei confronti dell’uso del concetto di IDENTITÀ
su diversi piani: il piano del discorso quotidiano, il piano del discorso politico, giornalistico,
televisivo, mediatico, e il piano del discorso scientifico, quello delle scienze umane e sociali>>

§.60- <<Cosa dice HUME a proposito dell’IDENTITÀ personale? Da buon empirista egli
afferma che l’IDENTITÀ non è oggetto di osservazione. Se osserviamo la realtà,
QUALUNQUE TIPO DI REALTÀ (fisica, sociale, psicologica), noi vediamo una continua
trasformazione>>.

§.61- <<Secondo Hume _ prosegue Remotti _, se si guarda bene l’IDENTITÀ, se la si tratta


come un explanandum, se cioè proviamo ad analizzarla, ci accorgiamo che essa È UNA
“FINZIONE”: noi FINGIAMO che ci sia IDENTITÀ, noi pensiamo, e spesso agiamo, COME
SE CI FOSSE QUESTA IDENTITÀ>>.

§.62- <<Hume aggiunge poi un’altra cosa. Egli spiega e giustifica perché così spesso noi
facciamo ricorso all’IDENTITÀ. L’IDENTITÀ È UNA FINZIONE, DUNQUE UN ERRORE,
ma – secondo Hume – È UN ERRORE INEVITABILE, di cui non possiamo fare a meno.
QUESTO AVVIENE PERCHÉ ABBIAMO BISOGNO DI AVERE DEI PALETTI NELLA
VITA, DELLE RASSICURAZIONI, DELLE CERTEZZE>>.

§.63- Quest’ultimo brano (in maiuscolo) suggerisce come ANCHE la filosofia di Severino, tutta
incentrata sull’IDentità-con-sé dell’essente e sulla sua eternità, costituisca un RIMEDIO (suo
malgrado!) al terrore del DIVENIRE concepito come TRASFORMAZIONE implicante
l’ANNULLAMENTO dell’ente diveniente.

§.64- RIMEDIO che intende restituirci un mondo di INCONTROVERTIBILE IDentità-con-sé, ove


la NULLIFICAZIONE (la contraddizione) sia bandita in quanto costituirebbe L’INESISTENTE per
eccellenza, cosicché possa corrispondere alle esigenze <<DI AVERE DEI PALETTI NELLA
VITA, DELLE RASSICURAZIONI, DELLE CERTEZZE>> quale l’ETERNITÀ
DELL’ESSENTE sicuramente È (sebbene essa non equivalga all’immortalità dell’io empirico e pur
tuttavia offrendo _ l’eternità dell’ente _ molto di più: la Gloria severiniana).

§.65- Perciò, risulta teoreticamente infondata nonché filosoficamente ingenua l’attribuzione di


IDentità-permanente (quale aspetto unificante dei tratti L1, L2…) ad un tratto meno-DIfferente
rispetto agli altri tratti succedentisi nell’apparire di ciò _ in forza dell’illusione che scambia il
TOGLIMENTO per una PERMANENZA-di-IDentità _ che diciamo LO STESSO.

§.66- E tale NEGARSI della IDentità è _ ricordiamolo _ l’apparire del DIVENIRE o


dell’inesauribile DIfferenziarsi (TRASFORMARSI) dei DIfferenti in altri, ulteriori DIfferenti...

§.67- E il negarsi dell’IDentità è nostalgia di essa; nostalgia come ricerca di DIO (la quale, in
Severino, si traduce come ricerca dell’ETERNITÀ dell’ente)…

RF
163

22)- IL PRESENTE DIVENTA PASSATO

Di questo Testo scritto (= T) che appare qui ed ora, si dice esser presente (= Tp).
Prima che apparisse _ prima che fosse presente _, T era ancora futuro (= Tf).
Una volta letto e gettato via, esso sarà ormai un passato (= Tpa).
Com’è noto, in Severino ogni ente è eternamente IDentico-a-sé e perciò non muta mai, non diviene
mai altro-da-sé.
Per cui Tf resta eternamente IDentico-a-sé cioè resta sempre e soltanto Tf e perciò non può mai
diventare Tp, così come Tp è e resta sempre ed unicamente Tp e non può mai esser divenuto né
presente (Tp), provenendo dal futuro, né mai potrà diventare passato.
Quindi, per ovviare a tale contraddittorio diventare-altro-da-sé, per Severino
<<il presente non diventa un passato, non diventa altro da sé: ciò che incomincia ad apparire
come passato è l’incominciare ad apparire di ciò che eternamente è un passato e che permane
nel presente, nel senso che ha in comune col presente quei tratti che è necessario che appaiano
affinché il presente possa apparire come sopraggiungente>> - (E. Severino: Oltrepassare, pag.
340).
Commenta Nicoletta Cusano: <<In conclusione, il passato non è il diventare altro dell’essente,
ma ciò che è eternamente passato>>.
Inoltre aggiunge: <<Se il passato fosse il diventare passato di ciò che prima era presente, il
passare sarebbe il diventare altro: il che è impossibile. Dunque ciò che inizia ad apparire
come passato è l’iniziare ad apparire di una scena eterna e originaria dell’essente, in cui
alcuni tratti continuano ad apparire in ciò che è presente. Se non avesse luogo questa
permanenza, se ciò che sopraggiunge non conservasse alcuni tratti di ciò che è oltrepassato, il
presente non potrebbe apparire come sopraggiungente>>. (N. Cusano: Emanuele Severino.
Oltre il nichilismo. Morcelliana, pag. 323).

CRITICA

Dunque, dalla teoresi severiniana emerge che ad esser presente qui ed ora in quanto è Tp non può
esser ciò che era ancora futuro cioè Tf, perché Tp non può mai esser stato futuro pur essendolo
stato futuro, visto che lo dicevamo esser ancora assente (Tf); né Tf può mai esser divenuto
presente pur essendo presente qui ed ora, visto che appare, lo abbiamo dinanzi (Tp).
Lo stesso dicasi per Tpa; questo, non può mai esser stato presente (Tp) pur essendolo stato
presente, visto che Tp è apparso.
164

Cosicché Tp non possa mai diventare Tpa cioè un passato pur essendolo ora un passato, visto che
Tp non appare più.
Se Tpa <<che incomincia ad apparire come passato [= appunto come Tpa] è l’incominciare ad
apparire di ciò [= di Tpa] che eternamente è un passato [= che è eternamente Tpa]>>, allora ciò
che Severino considera l’impossibile diventare altro da parte di Tp, coinvolge anche
l’<<incominciare ad apparire di ciò [= di Tpa] che eternamente è un passato [= che è
eternamente Tpa]>>, giacché ANCHE questo <<incominciare ad apparire>> sarà prima o poi un
passato (= iApa), ANCHE del quale bisognerà affermare quanto segue.
Se Tp non diventa Tpa (come appunto vuole Severino) e quindi se l’apparire di Tpa <<è
l’incominciare ad apparire di ciò [= di Tpa] che eternamente è un passato [= che è eternamente
Tpa]>>, Tp dovrebbe permanere e perciò apparire stabilmente come Tp ossia come presente,
proprio perché Tp non è divenuto Tpa cioè un passato e, non essendolo divenuto, Tp non può non
restare Tp cioè stabilmente presente.
Infatti, essere eternamente Tp e poi ritener che tale suo esser eternamente presente non appaia più
(in quanto ormai passato), comporta che il suo (di Tp) non apparire ormai più (= non esser più
presente) equivalga al suo esser divenuto Tpa cioè passato.
Se il non apparire più non equivalesse al passato (di ciò che ora, nel presente, non appare più),
allora ciò che non appare più (= Tpa) sarebbe ancora presente (= sarebbe Tp).
Senonché, Tp ormai non appare più pur restando (secondo Severino) eternamente Tp.
In tal caso, se il non apparire più di Tp è lo stesso <<incominciare ad apparire di ciò [= di Tpa]
che eternamente è un passato>>, allora <<l’incominciare ad apparire di ciò [= di Tpa] che
eternamente è un passato>> NON può essere il non apparire più di Tp, poiché Tp e Tpa sono due
essenti DIfferenti:
- il primo è eternamente presente,
- il secondo è eternamente passato.
Quindi, <<l’incominciare ad apparire di ciò [= di Tpa] che eternamente è un passato>> NON
può costituire il tramonto (= il passare) di Tp, perché tale tramonto/passare costituisce l’essere
eterno di Tpa, non di Tp.
Per cui NON può essere Tp a tramontare/passare perché, se fosse Tp a passare, allora sarebbe Tp a
diventare (quell’altro da sé cui è) Tpa.
L’<<incominciare ad apparire di ciò [= di Tpa] che eternamente è un passato>> concerne
unicamente Tpa, NON Tp, perché è Tpa ad essere eternamente un passato, NON Tp.
Quand’anche <<l’incominciare ad apparire di ciò [= di Tpa] che eternamente è un passato>>
SOPRAGGIUNGESSE su/in luogo di Tp _ cosicché Tp non appaia più ma appaia, ora,
<<l’incominciare ad apparire di ciò [= di Tpa] che eternamente è un passato>> _, ebbene,
QUESTO <<incominciare ad apparire di ciò [= di Tpa] che eternamente è un passato [= che è
eternamente Tpa]>> NON potrebbe far di Tp un passato dovendo Tp, invece, continuare ad
apparire come Tp (= come presente in carne ed ossa, NON come semplice ricordo) INSIEME al
sopraggiunto incominciante <<apparire di ciò [= di Tpa] che eternamente è un passato [= che è
eternamente Tpa]>>, sì che, in tale evenienza, non avrebbe più senso parlare di distinzione tra Tp e
Tpa, in quanto entrambi Tp, ossia entrambi presenti:
165

- Tp sarebbe presente come ciò che in realtà è, ossia come immutabilmente presente;
- Tpa sarebbe presente come <<ciò [= Tpa] che eternamente è un passato [= che è eternamente
Tpa]>> il che, tradotto, vuol dire:
• Tp sarebbe presente contraddittoriamente come Tp (poiché non può diventare Tpa) ed
INSIEME come NON-Tp, poiché è sopraggiunto (= è presente) Tpa (o iApa) il quale rende Tp un
passato SENZA (!!!) al contempo renderlo (= farlo diventare) un passato:
contraddittoria COMPRESENZA dei reciprocamente escludentisi Tp e Tpa:
reciprocamente escludentisi perché <<l’incominciare ad apparire di ciò [= di Tpa] che
eternamente è un passato [= che è eternamente Tpa]>> NON è <<l’incominciare ad apparire>>
di Tp nel suo divenir un passato (Tpa) ma è <<l’incominciare ad apparire>> di Tpa nel suo esser
da sempre, eternamente un passato (Tpa).
In tal modo Tp non è minimamente toccato dal sopraggiungere di Tpa perché, se lo fosse (cioè, se
Tpa rendesse Tp un passato), allora Tp diverrebbe altro da sé (Tpa).
Appunto perché <<l’incominciare ad apparire di ciò [= di Tpa] che eternamente è un passato [=
che è eternamente Tpa]>> NON equivale all’<<incominciare ad apparire>> del diventare un
passato da parte di Tp, proprio perché Tp NON diventa MAI un passato, essendo eternamente Tp.
Per cui <<l’incominciare ad apparire di ciò [= di Tpa] che eternamente è un passato [= che è
eternamente Tpa]>> è l’incominciare ad apparire della notizia dell’esistenza di Tpa come ciò che
MAI è stato Tp, e quindi che Tp MAI diverrà Tpa.
Se Tp mai diverrà Tpa e se Tpa mai è stato Tp, allora Tp resta sempre Tp cioè NON PASSA MAI
DAL PRESENTE, RIMANE SEMPRE QUI DINANZI (il che è ovviamente smentito
fenomenologicamente) e Tpa resta sempre Tpa e non è mai stato presente, cosicché Tpa NON sia il
passato di Tp giacché, per poterlo essere, Tpa deve esser stato dapprima quell’altro da sé cui è Tp,
e successivamente deve esser diventato, da Tp, quell’altro da sé cui è Tpa.
• Tp resta perciò eternamente Tp (cioè presente) ma al contempo, contraddittoriamente, non
appare più come presente (come Tp) poiché è ormai passato, SENZA (!!!) esser diventato un
passato (= Tpa);
• Tp è cioè un presente il quale, SENZA diventare un passato, è ormai _ contraddittoriamente _
un passato o NON-presente (= NON-Tp).
Nel summenzionato libro, Nicoletta Cusano scrive altresì che
<<è necessario affermare che ciò che non appare più [= Tp] continua ad apparire, seppure
diversamente da come appariva [= quando era Tp], ed è presente in ciò che sopraggiunge
proprio in quanto sopraggiunge: è, per così dire, la natura del sopraggiungere a portare con
sé la necessità di quel permanere [= di Tp], di quel continuare a essere presente [= da parte di
Tp]. Il sopraggiungere, proprio in quanto tale, non può che includere l’apparire di ciò [= di
Tp] che non appare più. Ciò che non appare più [= Tp] smette di essere presente come era
prima [= quando cioè era Tp], ma continua a essere presente come contenuto incluso o
implicato in ciò [= in Tpa] che sopraggiunge: ciò che non appare più [= Tp] continua ad
apparire, ossia permane, nel sopraggiungente [= Tpa]>>; (pag. 327).
Tuttavia, il Tp che continua <<a essere presente come contenuto incluso o implicato in ciò [= in
Tpa] che sopraggiunge>> DIFFERISCE dal Tp <<che non appare più>> (nonostante il
166

permanere degli elementi comuni) e che perciò <<smette di essere presente come era prima [=
quando era Tp]>>.
Questo cessar <<di essere presente come era prima>> è l’esser ormai passato da parte di Tp,
ossia è il DIVENTARE ALTRO da parte di Tp, giacché se MAI Tp diventasse altro da sé (cioè
passato), allora MAI potremmo asserire che Tp smetta <<di essere presente come era prima>>,
appunto perché Tp rimarrebbe nella sua eterna ed indivenibile permanenza come Tp.
E invece abbiamo Tp che _ secondo la Cusano _ <<continua a essere presente come contenuto
incluso o implicato in ciò [= in Tpa] che sopraggiunge>> e che <<continua ad apparire, ossia
permane, nel sopraggiungente [= Tpa]>>;
ma ecco: Tp <<continua ad apparire>> (= ad essere presente), sì, MA NON <<come era
prima>>!
Dunque, l’esser presente <<come era prima>> (cioè come Tp) da parte di quest’ultimo è oramai
un passato SOLTANTO NEL SENSO CHE È DIVENUTO ALTRO DA SÉ, appunto perché il
suo (di Tp) continuare <<a essere presente come contenuto incluso o implicato in ciò [= in Tpa]
che sopraggiunge>> e che quindi <<continua ad apparire, ossia permane, nel sopraggiungente
[= Tpa]>>, costituisce il passato di Tp nell’accezione severiniana (a suo dire non-nichilistica),
cosicché quel residuo di Tp che invece <<smette di essere presente come era prima [= quando
era Tp]>> non potrà che ESSERE DIVENUTO ormai un passato nel suddetto senso non-
severiniano, altrimenti Tp <<come era prima>> continuerebbe ad apparire <<come era prima>>,
nonostante un Tp DIFFERENTE dal Tp <<come era prima>> <<continu[i] ad apparire, ossia
permane[re], nel sopraggiungente [= in Tpa]>>.
Tutto questo discorso vale anche per Tf…
Infatti, l’<<incominciare ad apparire di ciò [= di Tpa] che eternamente è un passato [= che è
eternamente Tpa]>> è a sua volta, inevitabilmente, un incominciare ad apparire futuro (= iAf),
appunto perché è incominciante, ossia è futuro in relazione al presente in rapporto al quale iAf è
incominciante ed è così incominciante in quanto non è ancora presente.
Affinché iAp, da iAf che era SENZA però poterlo essere stato, sia presente cioè iAp SENZA però
poterlo essere, e affinché di iAp possa essere il medesimo (lo stesso) iAf e iAf il medesimo (lo
stesso) iAp, iAf DEVE diventare altro-da-sé cioè iAp, così come iAp, prima che apparisse qui ed
ora, DEVE esser stato quell’altro-da-sé cui era iAf.
Se negassimo queste due evenienze, avremmo (rispettivamente) iAf che mai diverrà iAp, cosicché
non avremmo, qui ed ora, neppure iAp di cui si possa dire che fosse ancora futuro, il che non è
attestato fenomenologicamente giacché iAp appare qui ed ora.
E avremmo qui ed ora iAp il quale, non essendo mai stato iAf, è sempre stato iAp, cioè è sempre
stato qui ed ora presente, il che, nuovamente, non è attestato fenomenologicamente giacché iAp ha
COMINCIATO ad apparire, non è SEMPRE stato qui presente…

RF

26 dicembre 2021

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