INTRODUZIONE
La psicologia dello sviluppo è lo studio dello sviluppo tipico e atipico delle competenze
cognitive, linguistiche, sociali, affettive, relazionali e dei processi che lo determinano in
una prospettiva ontogenetica, che include l’intero arco della vita.
La differenza principale tra ontogenesi e filogenesi è che la prima corrisponde allo studio
del soggetto, della sua crescita e del suo sviluppo all’interno della propria vita (storia
dell’individuo), mentre il secondo studia la storia della specie intera (importante da un
punto di vista evoluzionistico), ponendo l’accento sulle componenti genetiche e sulla se-
lezione naturale (comportamenti e funzioni fisiologiche, fisiche e psicologiche che sono
state selezionate e tramandate in quanto funzionali all’adattamento dell’organismo
all’ambiente), ma soprattutto sulla componente innata. In psicologia dello sviluppo par-
liamo di ontogenesi e filogenesi in quanto sono stati a lungo il fulcro di dibattito portato
avanti nel tempo che ha coinvolto anche i modelli della psicologia dello sviluppo stessa,
portando a domandarsi se ad avere maggior peso nello sviluppo fosse la componente
innata o la componente ambientale.
Es. avere un buon corredo genetico non è garanzia di successo, in quanto se la compo-
nente innata non incontra un ambiente che possa favorirne la maturazione, tale carat-
teristica non si manifesterà nemmeno.
I fattori che entrano in gioco durante lo sviluppo sono tanti, perciò si parla di comples-
sità: bisogna assumere una prospettiva di tipo sistemico, che esclude il determinismo di
tipo genetico e permette di vedere lo sviluppo come interattivo (vi è un’interazione tra
fattori innati di tipo genetico e fattori di tipo ambientale, interazione in cui nessuno dei
due fattori risulta predominante).
I processi di sviluppo (o domini dello sviluppo) possono essere suddivisi in tre macroaree:
➢ studio della crescita fisica, inclusi lo sviluppo corporeo e le abilità motorie → cre-
scita fisica di ogni parte del corpo e i cambiamenti nello sviluppo motorio e sen-
soriale, pone l’accento su come cambi la percezione;
➢ studio degli aspetti cognitivi dello sviluppo, inclusi la percezione, il linguaggio e
la memoria → cambiamenti che avvengono all’interno dei processi intellettivi le-
gati al pensiero, all’apprendimento, alla memoria, al giudizio e al problem sol-
ving;
➢ studio degli aspetti psicosociali, incluse le emozioni e i rapporti interpersonali →
sviluppo sociale.
Alcuni psicologi considerano anche una quarta macroarea, definita dallo sviluppo per-
sonale con la componente individuale, che riguarda lo sviluppo del concetto di sé, di
attaccamento, della fiducia, delle emozioni e della costruzione dell’identità.
I modelli teorici che hanno contribuito alla costruzione di una solida base da cui poi ha
preso origine la psicologia dello sviluppo sono:
Quando si parla di ciclo di vita si intende lo sviluppo durante l’arco dell’intera vita del
soggetto, caratterizzato da complessità e multidimensionalità, che rimandano alla con-
cezione sistemica (i fattori che costituiscono lo sviluppo sono molteplici). Lo sviluppo
atipico evidenzia quanto le persone si possano allontanare dalla tipicità dello sviluppo
(intesa come capacità del soggetto di rispondere adeguatamente agli stimoli ambientali,
quindi di adattarsi in maniera sufficientemente adeguata al contesto). Quando si parla
di sviluppo atipico si parla anche di problematiche dello sviluppo e ci serve per compren-
dere lo sviluppo tipico. Il concetto di tipico fa riferimento al concetto di stadio: gli stadi
sono finestre temporali utilizzate per dividere lo studio del soggetto (ad ogni stadio dello
sviluppo il soggetto acquisisce delle competenze specifiche, concetto molto utilizzato da
Piaget), servono dunque per strutturare e organizzare temporalmente le fasi evolutive
dei soggetti. Le neuroscienze dello sviluppo sono fondamentali per capire cosa cambia
da un punto di vista neuro-fisiologico durante lo sviluppo. La psicologia comparata, im-
portante da un punto di vista filogenetico, è utilizzata per comprendere lo sviluppo
umano e cerca di studiare le somiglianze e differenze tra i primati umani e quelli non
umani e gli altri animali. Abbiamo infine la da un lato la natura, sinonimo di innato, e
dall’altra la cultura, sinonimo di ambiente: questi due elementi vengono integrati per
favorire e determinare lo sviluppo del soggetto.
Con il concetto di ciclo di vita si supera quindi la concezione precedente secondo cui l’età
evolutiva, intesa come lo sviluppo del soggetto, termina con l’adolescenza: la nuova con-
cezione comprende tutto l’arco della vita, a partire dal concepimento stesso, quindi dallo
sviluppo prenatale. Già per quanto riguarda lo sviluppo prenatale troviamo il concetto
di ambiente e genetica strettamente legati, in quanto entrambi determineranno la ma-
turazione del soggetto (da embrione a feto a bambino etc.). Quindi, le influenze ambien-
tali (come lo stress materno o forme di intossicazione materna, es. sindrome da feto
alcolica) possono avere un notevole impatto sui bambini sia durante la gestazione che
dopo la nascita.
Ci sono molti studi in corso sull’ambito delle influenze genetiche e dell’ambiente perché,
per esempio, parlando di sviluppo atipico, negli ultimi anni c’è stata un’esplosione di
diagnosi di autismo. Questo è sicuramente dovuto alle metodologie diagnostiche evolute
rispetto al passato, ma la percentuale di casi è talmente elevata che secondo alcuni stu-
diosi non può essere spiegata solamente da questo. Negli anni ’70 alcuni studiosi attri-
buivano l’autismo all’incapacità di alcune madri nel prendersi cura del bambino, defi-
nite madri frigorifero in quanto considerate troppo distaccate: il bambino non svilup-
pava la competenza relazionale in quanto il proprio caregiver non gli insegnava come
relazionarsi adeguatamente con il mondo. Infatti, tipica del bambino autistico è la diffi-
coltà o incapacità a mantenere lo sguardo all’interno di una relazione e di mantenere
una relazione vera e propria con il proprio conspecifico. L’autismo era quindi spiegato
come una forma di ritiro dall’ambito sociale. Oggi tutti gli studiosi sono d’accordo nell’af-
fermare che l’autismo non è di natura ambientale, bensì genetica. Oggi si parla peraltro
di spettro dell’autismo perché si può avere un autismo ad alto funzionamento e uno a
basso funzionamento, che rispondono in maniera molto diversa ai trattamenti riabilita-
tivi.
Le ricerche attualmente stanno cercando di capire se la genetica, intesa come codice che
determina la maturazione (ossia lo sviluppo proteico, quindi accrescimento e matura-
zione dell’organismo e lo sviluppo del cervello), è influenzata dall’ambiente e, in caso di
risposta affermativa, in che modo fattori esterni di tipo ambientale entrino e influenzino
la maturazione del sistema nervoso del bambino. Oggi lo studio dello sviluppo inizia a
partire dal concepimento; quindi, si tiene conto anche dei nove mesi fondamentali per
la maturazione del feto e del sistema nervoso dell’individuo, di conseguenza la compo-
nente ambientale è fondamentale per la maturazione dello sviluppo (come abbiamo vi-
sto, fattori esterni ambientali possono avere ampia influenza sullo sviluppo, a prescin-
dere dai fattori genetici).
Ciclo di vita, quindi, include dal concepimento alla morte, incluse tutte le fasi di mezzo
come la nascita, l’infanzia, l’età adulta, la tarda età adulta e la vecchiaia, che servono
per definire dove si trova un soggetto durante la sua esistenza. Ci sono anche delle sud-
divisioni temporali di massima, perché sono età in cui avvengono dei cambiamenti si-
gnificativi, in particolare dal punto di vista psicosociale. L’ambiente, inoltre, propone
delle sfide che mettono in discussione le strategie di adattamento che il soggetto aveva
adottato fino a quel momento. Per esempio, secondo diversi studi, l’età adolescenziale
non termina più intorno ai 18-20 anni, ma si parla di adolescenza prolungata, che ter-
mina intorno ai 25-30 anni, periodo di acquisizione dell’età adulta in cui il soggetto ac-
quisisce una vera e propria autonomia ed entra nell’età adulta (alcuni soggetti hanno
difficoltà a raggiungere questa condizione di autonomia, come staccarsi dalla famiglia
di origine e costruire la propria autonomia personale e creare la propria famiglia). È
stata rivista anche l’età oltre i 65 anni, che prima corrispondeva all’età di pensiona-
mento, che adesso è molto più flessibile, di conseguenza si può distinguere l’anzianità
in due periodi: anziani giovani 65-75 anni e anziani vecchi. Queste suddivisioni, oltre ad
essere di natura biologica, sono anche di natura culturale.
Esponente della visione culturale/ambientale è John Watson, uno dei capiscuola del
comportamentismo, che afferma la possibilità, a prescindere dalle basi innate e motiva-
zionali, di addestrare il soggetto, istruirlo e formarlo fino a farlo diventare ciò che si
vuole (prendendo un bambino qualsiasi, da un contesto qualsiasi, lo si può formare per
farlo diventare un avvocato o un ladro), evidenziando la componente ambientale. Il mo-
dello sul quale si basa la teoria dei comportamentisti (tutt’ora attivi, nonostante il mo-
dello teorico-scientifico sia stato superato) è il modello S-R (stimolo risposta), che ha il
limite di non occuparsi dei processi mentali e cognitivi di che cosa accade nell’elabora-
zione mentale del soggetto quando questo riceve uno stimolo. Si concentra, invece, sul
modo in cui il soggetto risponde a determinati stimoli, osservando e misurando queste
risposte. Se si stimola un soggetto sin dalla prima infanzia, rinforzandolo a portare
avanti una serie di comportamenti, il bambino quando diventerà adolescente e poi
adulto diventerà quello che è stato rinforzato a fare durante il suo sviluppo. Studi suc-
cessivi dimostrano che il rinforzo funziona ed è un eccellente strumento di tipo educativo
e rieducativo, molti interventi di tipo terapeutico ne fanno uso, come quelli dedicati ai
disturbi dell’apprendimento o alla riabilitazione nell’autismo, in quanto è fondamentale
per produrre processi di cambiamento, in modo particolare con specifici comportamenti
disfunzionali. Il comportamentismo come modello teorico e psicoterapico è estrema-
mente efficace per lavorare sui singoli sintomi, perché ritiene non sia importante ciò che
succede dentro la mente, quello che è importante è cambiare una serie di comportamenti
che sono potenzialmente funzionali. Il modello comportamentista entra in crisi negli
anni ’60 perché non riesce a fornire una risposta a quelli che sono i comportamenti legati
alle motivazioni del soggetto: Watson prova a formulare un concetto secondo il quale
condizionare il bambino con amore e affetto creerà adulti deboli e dipendenti, concetto
che però verrà smentito dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby che dimostra che una
scarsa affettività durante lo sviluppo favorisce l’insorgere di problemi psichici. Il com-
portamentismo adotta la visione ontogenetica, si concentra sulla storia dell’individuo,
la quale può determinare una serie di cambiamenti.
La genetica del comportamento studia il ruolo dei nostri geni per poter spiegare la va-
riabilità degli individui rispetto, per esempio, ai tratti di personalità. A tal proposito, gli
studi più importanti in questo campo utilizzano come modello di ricerca i gemelli, in
particolare quelli monozigoti, che condividono il patrimonio genetico. Ad esempio, due
gemelli che vengono separati alla nascita condividono il patrimonio genetico, ma cre-
scono in un ambiente completamente diverso, con due famiglie differenti. Questi gemelli
vengono poi studiati da adulti e nonostante non abbiano condiviso l'ambiente mostrano
un QI analogo, il che è un aspetto importante, ma di media rilevanza, in quanto si sa
che il QI è di natura ereditaria. Si sono studiati anche fattori non ereditari, ma di tipo
sociale, ossia fattori relazionali che sembrano essere influenzati dalla genetica, come il
divorzio (fattore legato a una multifattorialità nella storia del soggetto, legato anche a
elementi esterni che dipendono dal partner), riguardo al quale esistono diverse ipotesi.
La prima ipotesi riguarda le forze evocative, ossia le predisposizioni genetiche che evo-
cano e suscitano nelle altre persone particolari risposte: caratteristiche molto simili, di
natura innata (come il temperamento), nei due gemelli, anche se separati, in qualche
modo sono andate a influenzare gli ambienti sociali in cui essi vivevano. Questo perché
le relazioni umane sono bidirezionali, quindi le somiglianze genetiche tra le personalità
dei due gemelli hanno reso somiglianti anche i loro ambienti familiari e sociali. Un esem-
pio possono essere due gemelli con un temperamento tendente alla rabbia e all’irascibi-
lità: anche se inseriti in due famiglie diverse, questa caratteristica spingerà i genitori
adottivi a rispondere con modalità educative simili, rendendo quindi gli ambienti fami-
liari simili. Questo spiega quindi come gemelli con caratteristiche simili si possono ri-
trovare con storie relazionali affettiva abbastanza turbolente che hanno avuto esito nel
divorzio in entrambi i casi. Un altro aspetto che riguarda la genetica del comportamento
è quella secondo cui gli individui scelgono attivamente gli ambienti sulla base delle loro
predisposizioni genetiche. Il nostro percorso di vita è come un succedersi di tentativi ed
errori finché non troviamo degli ambienti o delle relazioni che siano coerenti con i nostri
bisogni primari: ognuno di noi ha delle caratteristiche peculiari di natura genetica,
quindi quando scegliamo gli ambienti facciamo una selezione continua finché non tro-
viamo ciò che è coerente con i nostri bisogni e che permettete il manifestarsi delle pro-
prie predisposizioni innate e dei talenti. Questo continuo percorso di scelte, dall'infanzia
all'età adulta, permette agli individui di diventare sempre più simili a sé stessi, cioè di
trovare una sorta di coerenza interna tra quella che è la predisposizione genetica e l'am-
biente in cui si trovano a vivere. Quando un ambiente (inteso come lavoro, relazione
affettiva, amicale) trova un riscontro rispetto ai nostri bisogni, si va avanti. Le emozioni
sono dei segnalatori interni che ci indicano se stiamo andando nella direzione dei nostri
bisogni di fondo; quindi, ci segnalano il grado di coerenza tra i nostri bisogni e l’am-
biente.
In sintesi, c'è un superamento della diatriba genetica-ambiente. Ciò che bisogna com-
prendere è come interagiscono i due fattori nel determinare lo sviluppo, in che modo i
fattori ambientali si integrano con i fattori di tipo innato, ereditario e genetico.
Un altro aspetto importante sono le differenze individuali, che possono essere ricondu-
cibili e spiegabili all’interno di due processi polarizzati, l’universalità e la variabilità.
L’universalità è la manifestazione di un cambiamento che andrebbe ricondotto ad un
percorso universalmente valido. In psicologia dello sviluppo l’universalità si riferisce al
fatto che alcuni processi di cambiamento sono riscontrabili a prescindere dalle diffe-
renze culturali e sociali. Questo concetto può anche essere ricondotto al concetto di sta-
dio, quindi all’interno di un quadro di tipicità (normatività). Con stadio si intende una
suddivisione temporale dello sviluppo all’interno di finestre temporali all’interno delle
quali il soggetto acquisisce, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, una serie
di competenze che sono dovute a fattori maturativi e al modo in cui il soggetto fa espe-
rienza in una determinata fase all’interno di uno stadio specifico. Quindi in una deter-
minata finestra temporale ci sono le capacità per sviluppare un determinato processo
maturativo, ma la sua qualità dipende dall’esperienza ambientale e questo avviene con
tutte le differenze individuali, i tempi di maturazione, le esperienze e gli stimoli a cui i
bambini sono sottoposti e vanno a creare una sorta di variabilità. Per vedere la variabi-
lità interna esistono percorsi diversi, in quanto i bambini vivono esperienze diverse.
Entrano quindi in gioco fattori socioculturali, fattori specifici di rinforzi e modellanti
(apprendimento) che possono segnare forti differenze negli stimoli che il bambino riceve
durante lo sviluppo, portando quindi a un’alta variabilità. Quindi c’è una scarsa varia-
bilità nel percorso maturativo-universale con cui i bambini arrivano a sviluppare questi
processi di tipo stadiale, ma può esserci maggiore variabilità (anche all’interno dei sin-
goli stadi o fasi) in base alle esperienze che il bambino fa.
Queste differenze sono legate alla complessa interazione tra fattori maturativi (innati)
e il ruolo dell’ambiente (compresi apprendimento e istruzione). Le differenze individuali,
infatti, non vengono viste soltanto come differenze nella velocità di acquisizione di certe
abilità, ma tengono anche conto di come l’ambiente in cui il bambino vive possa influen-
zare la capacità e velocità di sviluppo di queste abilità.
Esempio: nello sviluppo del linguaggio si può osservare una certa variabilità: molti bam-
bini iniziano ad esprimere le prime parole intorno agli 8 mesi, altri attorno ai 13 o ai 18
e queste differenze possono essere fonte di preoccupazione per i genitori (mancato svi-
luppo del linguaggio può sottostare a diversi problemi del neurosviluppo – autismo).
Quando si parla di queste finestre temporali, si parla di tipicità, di percorso di sviluppo
tipico, dati da un’enorme variabilità dovuta a processi di tipo maturativo, che favori-
scono l’acquisizione e la memorizzazione (apprendimento degli stimoli ambientali), e dal
processo culturale (presentazione di stimoli adeguati dall’ambiente, che, durante quelle
finestre temporali, possono permettere l’acquisizione di un vocabolario più ampio). Un
altro aspetto importante del linguaggio in questa fase, oltre al vocabolario e alla produ-
zione di parole, è la comprensione, ossia la capacità del bambino di esprimersi e di capire
ciò che viene espresso (a 8-10 mesi si può non aver elaborato nessuna conoscenza delle
parole e a 13 si può passare da una conoscenza di 30 parole – vicine al loro mondo psi-
cofisico – ad una conoscenza di 200 parole – andando incontro a un accelerazione del
processo - o viceversa, si può partire con una buona conoscenza delle parole e poi andare
incontro ad un rallentamento; a 17-18 mesi si ha una conoscenza minima di 22 parole a
una massima di 398).
I processi di maturazione derivano dalle connessioni neuronali, che possono essere in-
fluenzate da tantissimi fattori che non sono predittivi, di conseguenza i processi matu-
razionali stessi possono essere imprevedibili.
La sequenza degli stadi è invariante: nessuno stadio può essere saltato e ciascuno stadio
segue uno stadio più primitivo, quindi precedente dal punto di vista temporale.
Inoltre, gli stadi sono universali: sono presenti a prescindere dal conteso culturale e la
sequenza è la stessa per tutti i bambini, ciò che può variare è la velocità con cui vengono
raggiunti gli stadi.
Un altro aspetto fondamentale dello sviluppo è dato dalla complessità, ossia la multidi-
mensionalità: la modalità e i processi con cui i bambini, durante lo sviluppo, arrivano a
raggiungere certe competenze non è dovuto a singoli fattori isolati, ma a un sistema,
una serie di elementi tipici del suo sviluppo (processi maturativi + ambiente).
È una delle aree di ricerca più recenti, che si avvale particolarmente delle tecniche di
neuroimaging, soprattutto della risonanza magnetica, in cui le aree che risultano rosse
sono le aree del cervello che sono attive, cambiando il metabolismo, aumentando il con-
sumo di ossigeno e glucosio al momento della visualizzazione, in seguito all’attivazione
di determinati neuroni che svolgono il compito richiesto al soggetto durante la fase di
sperimentazione. Gli studi di neuroimaging servono per studiare la relazione tra un
comportamento e il substrato fisiologico del sistema nervoso.
È un approccio che cerca di fornire elementi per la comprensione del ruolo dello sviluppo
nell’ontogenesi delle funzioni psicologiche, delle basi neurali e del funzionamento delle
funzioni cognitive, emotive e sociali.
METODI DI RICERCA
Il disegno di ricerca è un progetto, un’operazione che lo sperimentatore porta avanti per
studiare e raggiungere l’obiettivo della sua ricerca. Le ricerche per studiare il cambia-
mento sono il disegno trasversale e il disegno longitudinale. All'interno della psicologia
dello sviluppo ci sono delle metodologie specifiche per studiare, oltre comportamento in
generale, anche il processo psicologico all'interno di una sequenza temporale. Il fattore
tempo nelle ricerche della psicologia dello sviluppo è una variabile centrale. Ci sono poi
disegni di ricerca per studiare le relazioni tra variabili, tra cui il disegno sperimentale
(che può essere anche a soggetto singolo). Normalmente nelle ricerche vi è un campione
(vari soggetti che partecipano alla ricerca), ma nello studio dei processi maturativi, so-
prattutto di uno sviluppo atipico, viene utilizzato il singolo soggetto (per cui si va a stu-
diare come cambia l’evoluzione di una problematica durante lo sviluppo). Il disegno cor-
relazionale mette in relazione le variabili tra di loro.
Successivamente si vanno a vedere i fattori della validità della ricerca: le ricerche de-
vono dimostrare, con una metodologia rigorosa, ciò che oggettivamente cercano di stu-
diare. Una ricerca è valida quando raggiunge l’obiettivo di isolare i fattori che si vogliono
osservare, facendo in modo che altri fattori non entrino in gioco e quindi che l’oggetto di
studio e gli effetti che si ottengono derivano effettivamente dal fattore oggetto di studio
(eliminando le possibili interferenze). La validità della ricerca si divide in due macroa-
ree: la validità interna e la validità esterna.
Sono importanti anche gli strumenti, ossia quali fonti sono utilizzate per raccogliere
dati empirici (questionari, test, osservazione diretta). Le osservazioni dirette non si pos-
sono fare nei bambini preverbali, con i quali vengono utilizzate tecniche di osservazione
naturalistica (con telecamera). Non si possono fare ricerche che producano, in modo par-
ticolare nei bambini, varie forme di sofferenza o ricerche che possano influenzare, anche
minimamente, in termini negativi il loro sviluppo.
Tra gli obiettivi della psicologia dello sviluppo vi è quello di rispondere a tre ordini di
domande:
➢ quando? identificare se un fenomeno si presenta durante lo sviluppo e quando si
presenta; è lo studio della dimensione temporale relativa alla compara di un par-
ticolare fenomeno psicologico o comportamento e serve per individuare le pietre
miliari dello sviluppo; è utile per seguire il progresso del singolo bambino ed è
importante conoscere sia le traiettorie comuni (universalità dello sviluppo) sia le
differenze individuali;
➢ come? descrivere come avviene un processo e in che modo si sviluppa; riguarda i
modi del comportamento del bambino;
➢ perché? spiegare perché accade un determinato fenomeno, perché maturino de-
terminati comportamenti, spiegare determinati comportamenti e cambiamenti
che avvengono con l’età; è la domanda che cerca di capire i fattori sottostanti un
determinato processo.
Il quando e il come sono relativi alla descrizione dello sviluppo del bambino, il perché è
relativo alla spiegazione dello sviluppo. Un limite della scienza in generale è che la de-
scrizione dei fenomeni è più semplice rispetto ad individuarne le cause.
Si parla di ciclo della ricerca perché si conclude con dei risultati, con la loro interpreta-
zione e andando a vedere se questa interpretazione dei risultati risponde al problema,
così come è stato formulato originariamente. Gli studiosi inoltre sono divisi in base agli
ambiti di ricerca e sono specializzati nel fare ricerche all’interno del proprio dominio di
ricerca. All’interno di ogni dominio ci possono essere delle sotto-specializzazioni, perciò
fare ricerca e formulare delle ipotesi è fondamentale per aumentare la conoscenza del
fenomeno oggetto di studio.
Il ciclo della ricerca si articola nella scelta del problema e nella definizione delle ipotesi
e di una domanda.
Formulazione del disegno di ricerca: si crea un disegno di ricerca, un piano d’azione per
capire come comprendere al meglio un determinato fenomeno. Esempio: all’interno di
un disegno di ricerca si deve trovare un campione e si deve usare una metodologia spe-
cifica per studiare quel fenomeno, quindi si raccolgono i dati che possono derivare da
una metodologia specifica (osservativa ad esempio), dopodiché si verifica se questo feno-
meno sia in relazione con altri fattori. I dati vengono raccolti tramite un’intervista o un
questionario, a seconda dell’età del bambino: un questionario si può sottoporre solo se i
bambini hanno la capacità di comprendere verbalmente e in maniera adeguata le do-
mande (8-10 anni), mentre nelle fasi precedenti si fatto interviste di tipo verbale e si
fanno videoregistrazioni per osservare meglio i comportamenti naturali dei bambini in
determinate circostanze. I dati raccolti vanno poi interpretati.
Esempio: studio su come i bambini gestiscono la rabbia: si creano due gruppi dove i
bambini devono competere rispetto al raggiungimento di un obiettivo, per studiare se ci
sono bambini che si arrabbiano più di altri o che diventino più aggressivo e mettere in
relazione questo aspetto con lo stile d’attaccamento. Si verifica poi se questo fenomeno
è in rapporto con altri fattori di personalità del bambino.
Codifica e analisi dei dati: l’interpretazione va fatta alla luce dell’analisi dei dati e di
quando è stato formulato il problema e definite le ipotesi.
Esempio: un’ipotesi è che bambini con attaccamento insicuro siano più aggressivi di
bambini con attaccamento sicuro in una dinamica competitiva. Si ipotizza che un fat-
tore, come la sicurezza dell’attaccamento, influenzi la modalità con cui un bambino re-
gola la propria rabbia in contesti competitivi di tipo sociale.
Una variabile è una proprietà a cui è stata data una definizione operativa, in modo da
trasformare una serie di situazioni reali (stati) in una serie di dati analizzabili e con-
frontabili tra loro. Dare una definizione operativa ad un fenomeno spiega come lo si
intende misurare.
Tornando all’esempio della rabbia (che è una variabile), essa può essere misurata nu-
mericamente (numero di comportamenti/azioni aggressive). Si può definire la rabbia
tramite l’espressione della rabbia di tipo corporeo (toccare, aggredire un altro bambino
o gli oggetti) e si può definire operativamente anche l’espressione della rabbia (misurare
quante volte il bambino mette in atto comportamenti aggressivi verso gli altri o gli og-
getti attorno – in generale comportamenti definiti in precedenza come azioni di rabbia,
definendola in termini operativi e quindi misurabile). Abbiamo visto quindi che bambini
con un attaccamento insicuro hanno un numero maggiore di manifestazioni di rabbia
rispetto a bambini con attaccamento sicuro. Si può poi misurare l’intensità con cui si
esprime la rabbia e definire quando un bambino ha maggiore controllo sulla rabbia (se
urla anziché manifestare la rabbia con aggressività fisica o se tira un calcio alla sedia
piuttosto che uno schiaffo). Poi si procede con un’analisi di tipo statistico, quindi quan-
titativo, dei comportamenti osservati.
In base alla modalità con cui la ricerca viene portata avanti, i sistemi di misurazione
possono stare all’interno di varie tipologie di scala.
Nominale: è il tipo più semplice di misurazione, in cui una variabile è definita mediante
classificazione in categorie discrete e non ordinabili (per ordinabile si intende se si può
fare una sequenza di punteggi, una gerarchia). La scala nominale si chiama dicotomica
quando ha solo due possibilità (come il genere).
Ordinale: misurazione dove non solo è possibile operare una classificazione per categorie
discrete (come nella nominale), ma è anche possibile ordinare le categorie (sempre,
spesso, talvolta, raramente, mai).
DISEGNO DI RICERCA
Il primo passo è dato dalla formulazione del disegno di ricerca: in questa fase il ricerca-
tore deve decidere come misurare le variabili di studio contenute nelle sue ipotesi e de-
finire il campione su cui verificare tali ipotesi (per numerosità e caratteristiche posse-
dute). È opportuno avere campioni sufficientemente numerosi a seconda del disegno di
ricerca. Esistono diversi tipi di disegni di ricerca (es. il disegno sperimentale, tipico del
laboratorio, per cui non sono necessari tanti soggetti a seconda del fenomeno che si vuole
studiare, mentre per altri disegni di ricerca sono necessari campioni più ampi, perché
devono essere rappresentativi della popolazione che si vuole studiare).
Nel disegno di ricerca trasversale si prendono gruppi di individui di età diversa nello
stesso momento, senza osservarli nel tempo.
Ogni disegno ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi, anche in termini di validità di ricerca.
➢ seguire lo sviluppo individuale nel tempo: si può osservare come lo stesso indivi-
duo matura nel tempo;
➢ si può rispondere alle domande circa la stabilità del comportamento indagato,
sempre rispetto all’individualità del soggetto (come cambia e cosa rimane stabile
nello stesso soggetto);
➢ determinare gli effetti di esperienze o condizioni antecedenti sullo sviluppo suc-
cessivo.
Permette quindi di vedere quali siano i fattori sottostanti che possono determinare l’evo-
luzione dello sviluppo di un certo fenomeno.
Inoltre, nel corso di lunghi periodi cambiano anche le situazioni sociali e bisogna verifi-
care in che modo le situazioni esterne vanno ad interferire e minacciare la validità della
ricerca.
Si seleziona un campione e nell’arco di qualche giorno si può fare ricerca di tipo trasver-
sale (al contrario della longitudinale che richiede anni). È quindi veloce nell’esecuzione
e facile da replicare (la replicazione è un aspetto centrale della scienza, in quanto una
volta fatta la ricerca e tratte le conclusioni, è opportuno che tali conclusioni possano
essere replicate, dimostrate in altri studi). La replicazione permette di confermare la
validità di una teoria.
Il ricercatore inoltre può avere diversi gradi di controllo sulle varie tipologie di ricerca,
dalla polarità del minimo controllo a quella del massimo controllo.
Al polo opposto del grado di controllo abbiamo l’osservazione: una metodologia di ricerca
che la psicologia dello sviluppo ha ripreso dall’etologia per osservare i bambini all’in-
terno del loro setting naturale, cercando di non far percepire nulla a chi è osservato (il
ricercatore mantiene una distanza ampia oppure si trova nascosto). Nell’osservazione
non si ha nessun controllo sulla variabile indipendente, quindi si osserva un comporta-
mento del tutto spontaneo (oppure c’è un controllo limitato dove si danno delle consegne
ad un gruppo, ma poi non si interviene più), quindi il controllo è minimo o nullo e l’obiet-
tivo è la descrizione del fenomeno, senza cercare di capire che cosa lo causi.
Es. per verificare se l’esposizione dei bambini ad un litigio tra adulti può portare ad un
aumento dell’aggressività verso i coetanei, è necessario creare due gruppi, quello speri-
mentale, in cui i bambini assistono al litigio tra due adulti, e il gruppo di controllo, in
cui i bambini osservano due adulti interagire cordialmente. La variabile indipendente è
data dall’assistere alla condizione di conflitto e il risultato è che i bambini del gruppo
sperimentale mostrano un comportamento più aggressivo nei confronti dei coetanei (va-
riabile dipendente) rispetto ai bambini del gruppo di controllo. Una minaccia alla vali-
dità della ricerca, data dalla mancata assegnazione casuale, potrebbe essere mettere in
un gruppo bambini più aggressivi di base nel gruppo di controllo e bambini più calmi
nel gruppo sperimentale. Senza assegnazione casuale non si può dire che la variabile
indipendente influenzi quella dipendente.
Es. esperimento per valutare se i bambini nella fascia di età tra i 9-24 mesi abbiano
consapevolezza di sé, ponendo il bambino davanti ad uno specchio per vedere come rea-
gisce e successivamente mettere una macchia sulla fronte o sul naso del bambino per
vedere se nota la differenza e se tocca la macchia su sé stesso o sulla figura nello spec-
chio.
VALIDITÀ DELL’OSSERVAZIONE
Nella ricerca sperimentale una delle minacce alla validità è l’impossibilità di distribuire
il campione dei partecipanti in maniera casuale, in quanto aumenterebbe la probabilità
che i partecipanti con caratteristiche peculiari siano concentrati maggiormente in un
gruppo rispetto ad un altro. In questo caso le minacce alla validità sono:
A metà tra il polo di massimo grado di controllo e di minimo grado di controllo troviamo
i metodi quasi sperimentali e correlazionali.
I metodi correlazionali sono quelli che mettono in relazione due variabili, ma non è pos-
sibile affermare una relazione di causa-effetto all’interno della relazione (per farlo serve
la metodologia sperimentale). Il disegno correlazionale si usa quando non è possibile
individuare gruppi che differiscono per l’aspetto che interessa il ricercatore. Questo tipo
di ricerca dà quindi il grado di associazione tra una prima variabile e una seconda va-
riabile.
Nei disegni quasi sperimentali si può controllare una serie di variabili, ma diventa molto
difficile distribuire i partecipanti a caso all’interno dei vari gruppi che vengono osservati
nell’esperimento. Non essendo possibile quindi la distribuzione casuale (in quanto
spesso si usano gruppi già formati, a prescindere dall’esperimento), si avrà più difficoltà
ad affermare che la causa dell’effetto (variabile indipendente) sia data solo la variabile
indipendente.
Quando parliamo di validità è come se ci stessimo chiedendo: ciò che noi abbiamo stu-
diato, la metodologia che abbiamo adottato, i risultati ottenuti stanno descrivendo ciò
che ci eravamo proposti? Le minacce sono forme di interferenza, quando non riusciamo
a controllare la ricerca stessa.
Così come per il bambino si parla di complessità, in quanto egli si trova all’interno di
contesti relazionali interagenti tra loro, in metodologia e statistica si parla delle analisi
multivariate, ossia i fattori che influenzano un determinato fenomeno sono tanti, quindi
servono metodologie statistiche avanzate che dicano quanto un fenomeno influenzi l’al-
tro, quindi quale sia la variabilità. Quindi non si osserva un singolo fenomeno, ma una
serie di aspetti che probabilisticamente vanno ad influenzare il comportamento osser-
vato.
La validità interna cerca l’assenza di interferenze di variabili non controllate nella re-
lazione tra variabile indipendente e variabile dipendente (soprattutto nel disegno spe-
rimentale). La validità interna di un esperimento si ha quando si può affermare che i
cambiamenti riscontrati nei soggetti sottoposti all’esperimento dipendono dalle variabili
studiate e non da altre variabili di disturbo sfuggite al controllo (come variabili indivi-
duali). Se le condizioni sperimentali sono ben controllate, la relazione tra variabili indi-
pendenti e variabili dipendenti è quella proposta dal ricercatore: il controllo come il
campionamento casuale sono forme e strategie che aumentano il livello di validità in-
terna, cioè diminuiscono il tasso di minaccia.
Un altro tipo di validità è quella esterna, che si occupa della generalizzabilità dei risul-
tati ottenuti sul campione. Per avere una variabilità esterna bisogna fare attenzione
alla rappresentatività del campione rispetto alla popolazione oggetto di studio (si devono
avere soggetti di diverso livello culturale, che provengano da differenti status socio-eco-
nomici e diversi livelli di intelligenza o aspetti di personalità). Per aumentare la validità
esterna di una ricerca si possono utilizzare, oltre al campionamento più adeguato possi-
bile, vari metodi di ricerca che diminuiscano la probabilità che una tipologia di ricerca
possa essere poco rappresentativa nella misurazione del fenomeno: quanto è minore la
generalizzabilità dei risultati, tanto più è scarsa la validità esterna dell’esperimento.
Le principali fonti dei dati (o strumenti) in psicologia dello sviluppo sono le interviste, i
questionari, i test e l’osservazione. Le interviste e i questionari vengono utilizzati per
interrogare bambini su proprie idee, esperienze e motivazioni e per interrogare adulti
su comportamenti, capacità e personalità dei bambini. Spesso nella ricerca sui bambini
si chiedono ai genitori ed educatori conferme sul comportamento del bambino.
Il questionario è uno strumento per la raccolta dei dati ed è necessario garantire la ri-
levanza del questionario attraverso la rilevanza degli scopri dell’indagine e delle do-
mande per l’intervistato, bisogna evitare le doppie negazioni (potrebbe creare confu-
sione nella risposta dell’intervistato) e le domande ambigue, per aumentare la validità
e fedeltà di un questionario. Accanto all’importanza per la formulazione delle do-
mande, occorre dare altrettanta importanza alle modalità di risposta, che possono es-
sere aperte o chiuse.
I questionari possono misurare varie scale: un questionario con molte domande può
misurare differenti comportamenti e punteggi molto elevati determinano l’argomento
su cui il paziente dovrà essere in seguito interrogato. In particolare, alcuni comporta-
menti vengono posti in alcune domande in modo affermativo e in altre in modo nega-
tivo, in modo tale che il soggetto non crei una sorta di abituazione alla risposta e per-
mettendogli di mantenere un’attenzione sulle domande più elevata.
L’etica è finalizzata alla salvaguarda dei diritti dei partecipanti allo studio ed è fonda-
mentale garantire che durante la ricerca non si procuri un danno al soggetto parteci-
pante. Un altro aspetto centrale è il rispetto della privacy del partecipante, tramite
una procedura che si chiama consenso informato: il ricercatore presenta gli obiettivi
della ricerca, descrive la possibilità per il partecipante di ritirarsi in qualunque mo-
mento ed infine il partecipante è tenuto a firmare tale consenso. All’interno di questo
scambio informativo tra ricercatore e partecipante dev’essere chiara la natura della ri-
cerca, gli obiettivi che si propone e cosa intende studiare. Non è necessario che il parte-
cipante conosca gli obiettivi precisi della ricerca, in quanto ciò potrebbe influenzare le
sue risposte e il suo comportamento, tuttavia deve conoscere la natura della ricerca e
l’utilizzo dei dati.
Es. in ricerche con tanti partecipanti non emergono le caratteristiche individuali del
soggetto in quanto il dato del singolo rientra all’interno di una media, perciò il soggetto
non può essere riconosciuto all’interno della ricerca. Al contrario, una ricerca osserva-
tiva deve ampiamente tutelare la privacy del soggetto: se si utilizza un filmato che
deve poi essere reso pubblico o utilizzato ai fini della diffusione stessa, esso deve es-
sere modificato per tutelare la privacy e rendere il soggetto irriconoscibile.
Per quanto riguarda i danni ai partecipanti, si può portare l’esempio del piccolo Albert:
il bambino fu condizionato alla paura da Watson, che voleva dimostrare che attraverso
una serie di stimoli si potevano condizionare le persone (e i bambini) verso particolari
emozioni. In particolare, voleva dimostrare come attraverso l’esposizione a una serie di
stimoli che spaventavano il bambino, egli avrebbe maturato delle fobie. Riuscì nel suo
intento, ma non fu mai in grado di ricondizionare il bambino al punto di partenza.
Il periodo germinale inizia con la fecondazione e termina con l’impianto della blastoci-
sti nella parete interna dell’utero. La blastocisti è una modalità con cui viene definita
la struttura pre-embrionale, che diventa embrionale solo dopo la sua fissazione nella
parete intrauterina. Un aspetto centrale per quanto riguarda la fecondazione è quello
dei cromosomi: il corredo cromosomico di un essere umano consta di 46 cromosomi, du-
rante la fecondazione sono 23 cromosomi con corredo genetico materno che si combi-
nano ai 23 cromosomi con corredo genetico paterno, combinazione da cui si forma lo zi-
gote, il cui obiettivo è quello di trasmettere il messaggio genetico di entrambi i geni-
tori. Lo zigote è composto da catene di molecole di DNA che hanno le info per trasmet-
tere il messaggio genetico, le istruzioni delle caratteristiche fisiche. Lo zigote poi si du-
plicherà a sua volta tramite la mitosi, formando una nuova struttura che contiene il
codice genetico del muovo organismo che si sta creando. C’è un processo di duplica-
zione continua di tipo cellulare durante tutto il percorso prenatale, che creerà il feto. Il
corredo genetico, quindi tutta la componente genetica di un individuo, è il genotipo. La
componente della manifestazione del genotipo si chiama fenotipo, ossia il risultato
dell’interazione tra il genotipo e l’ambiente.
Si deve a James Watson la scoperta del DNA e, in particolare, del fatto che il DNA è
una molecola genetica.
Solo a metà del 1800 si scoprì l’equivalente degli spermatozoi nelle donne, ossia gli
ovuli, comprendendo che la prole deriva dalla fusione in un’unica cellula di una cellula
spermatica maschile e di un ovulo femminile. Negli esseri umani una normale cellula
del corpo possiede 46 cromosomi, mentre negli ovuli e negli spermatozoi ne sono conte-
nuti 23.
Lo sviluppo del sistema nervoso ha inizio nel periodo embrionale: nella terza setti-
mana l’ectoderma si piega più volte (foglietto embrionale) per dare origine al tubo neu-
rale, da cui deriva la strutturazione del cervello e del midollo. Nel tubo neurale una
delle estremità si ingrossa e dà origine al cervello, che si sviluppa in tre fasi:
Verso la fine del periodo embrionale, dalla superficie interna del tubo neurale, si forma
una regione ad alta concentrazione neurale, da cui ha inizio una costante migrazione
di cellule nervose in una regione subito sotto la superficie del tubo neurale. Nella parte
alta si forma il cervello, quindi la corteccia cerebrale. I neuroni si collocano nella giu-
sta posizione alla 25esima settimana attraverso il processo di migrazione neurale.
Sviluppo cerebrale a livello fetale (il periodo fetale inizia intorno al 3 mese):
Nel periodo fetale l’organismo è già differenziato in tutte le sue parti, deve solo cre-
scere, maturare e perfezionarsi, ossia differenziarsi ulteriormente. In questo periodo
inizia la formazione degli organi sessuali, il feto inizia ad avere i primi comportamenti
motori (può succhiare, inghiottire e inizia ad avere i primi riflessi, ossia forme automa-
tiche o automatismi) e, anche se non del tutto differenziate, iniziano a formarsi le ossa.
Una mancata maturazione (funzionale al parto) riguarda le ossa della testa, che non
sono strettamente collegate, non hanno una struttura ben definita (la fontanella, ossia
uno spazio tra le ossa craniche che permette una maggiore flessibilità del cranio du-
rante il parto). I movimenti del feto, invece, sono funzionali per esercitare l’attività
motoria e sono finalizzati a favorire l’espulsione fetale durante il parto.
SVILUPPO FETALE
Al quinto mese il feto è lungo 15cm, pesa circa 250gr e si muove all’interno della sacca
amniotica. I polmoni sono già sviluppati ma inattivi (la loro attività inizia dopo la na-
scita). Viene raggiunto il massimo sviluppo staturo-ponderale nella vita uterina, che
subirà un rallentamento dalla 35esima settimana.
SVILUPPO PRENATALE
Il codice genetico ha tutte le info per produrre la maturazione delle strutture attra-
verso la creazione di proteine, ma tutto questo programma deve incontrare una condi-
zione ambientale adeguata: la componente ambientale e quella genetica si integrano.
NASCITA
Alla nascita il bambino è lungo circa 50cm e pesa in media 3,4kg: c’è una correlazione
tra lunghezza e peso alla nascita e crescita nei primi sei mesi di vita, in quanto più il
bambino è piccolo e più crescerà. Al compimento del primo anno la statura aumenta
circa del 50% e raggiunge i 75cm circa e un peso di 10kg circa. Il tasso di accresci-
mento del peso tende a diminuire nel tempo: importanza della regolarità della crescita
(curva di accrescimento) → nei primi mesi il tasso di accrescimento è superiore ai mesi
successivi, dove continua ad aumentare, ma con una velocità inferiore. La curva di ac-
crescimento è abbastanza standard e viene applicata a livello internazionale.
La prima operazione che viene svolta subito dopo la nascita è la valutazione delle fun-
zioni vitali, attraverso il punteggio Apgar (max 10 punti), in cui si valutano cinque in-
dici vitali (scala 0-2):
La circonferenza cranica misura circa 35cm alla nascita, fino a raggiungere i 47cm al
compimento dell’anno, in seguito si verificherà un significativo incremento in età pube-
rale, per le variazioni delle secrezioni ormonali (e in questo periodo non si ha solo au-
mento della circonferenza cranica, ma di tutte le caratteristiche e i parametri analoghi
fisiologici). Il cervello ha un peso, una grandezza e una cronologia di sviluppo specifici:
nel neonato è circa 1/3 dell’adulto e a 6 anni il cervello infantile raggiunge il peso di
quello dell’adulto.
Alcune aree del cervello continuano a maturare e creare connessioni sinaptiche fino
alla tarda adolescenza (concludendo il percorso maturativo intorno ai 18-20 anni).
Gli esseri umani raggiungono la massima densità cerebrale tra il terzo e il sesto mese
di vita intrauterina, periodo in cui la proliferazione prenatale raggiunge l’apice (e ciò è
programmato geneticamente). Durante gli ultimi mesi di gestazione il cervello subisce
una drastica riduzione cellulare, in quanto le cellule cerebrali non più necessarie ven-
gono eliminate (selezione delle popolazioni neuronali utili per il processo di sviluppo e
per la fase post-natale). Esiste poi una seconda fase, post-natale, tra i 6 e i 12 anni, di
sinaptogenesi, di genesi di connessioni neuronali che infittiscono i collegamenti neuro-
nali. Si tratta di un processo di tipo maturativo, geneticamente determinato, il quale
deve però incontrare un ambiente adeguato per permettere la maturazione di queste
funzioni. In mancanza di esperienze adeguate avviene il fenomeno del pruning, ossia
la perdita di connessioni neuronali, per mancanza di esercizio ed esperienza. Lo spes-
sore di materia grigia è massimo nella fase preadolescenziale, con leggera differenza di
genere nel processo maturativo (F 11 – M 13 anni), dovuta a fattori endocrini. Sugge-
stivamente avviene poi un altro pruning delle connessioni, che inizia nella preadole-
scenza e si protrae fin oltre i 20anni.
Le prime regioni del cervello che raggiungono la maturità sono localizzate nella parte
posteriore del cervello, ossia quelle dedicate all’elaborazione delle info provenienti dai
canali sensoriali (percezione visiva, uditiva, etc.). Raggiungono per prime la maturità
in quanto è la prima forma di passaggio dell’info dalla realtà esterna attraverso il pro-
cesso di elaborazione dell’info, che poi si completerà in tarda adolescenza (quando ma-
turano le ultime aree prefrontali, implicate nella presa di decisioni, soprattutto deci-
sioni responsabili e ponderate).
L’ultima parte che matura, invece, è la corteccia prefrontale, sede delle funzioni esecu-
tive (pianificazione, definizione delle priorità, organizzazione dei pensieri, controllo de-
gli impulsi, valutazione delle conseguenze delle proprie azioni), ossia funzioni fonda-
mentali per l’adattamento dell’individuo nell’ambiente. Ciò si collega alla fase, definita
da Piaget, delle operazioni formali: fase in cui la mente dell’adolescente può astrarre la
realtà e pianificare un obiettivo, immaginare, prendere consapevolezza della gerarchia
di priorità degli obiettivi da raggiungere, organizzare i vari passaggi dal pensiero al
raggiungimento dell’obiettivo ed è la fase del controllo degli impulsi. Questa fase pre-
para il cervello adolescente alla mente adulta.
Gli adolescenti sono impulsivi e “in preda alle emozioni” in quanto la corteccia prefron-
tale termina di maturare solo in tarda adolescenza, quindi il controllo degli impulsi e
delle emozioni non è regolato adeguatamente.
Nello sviluppo cerebrale atipico si cerca di capire quali sono le esperienze che hanno
prodotto anomalie nello sviluppo cerebrale. La prima è la deprivazione affettiva, ri-
scontrata soprattutto nei bambini che vivono in orfanotrofio. Il fenomeno viene chia-
mato Early severe socioemotional deprivation e ha come effetto una riduzione della so-
stanza bianca nei lobi frontali, temporali e parietali. Gli esseri umani sono predisposti
geneticamente a ricevere cure durante le prime fasi dello sviluppo e la deprivazione af-
fettiva è la più grave forma di deprivazione cui si può andare incontro nelle fasi dello
sviluppo. Bowlby stesso (teoria dell’attaccamento) si occupò di questo fenomeno, stu-
diando cosa accadeva nei bambini portati negli ospedali e privati delle cure affettive
durante la prima infanzia. Il modello di attaccamento è uno degli aspetti principali
dello sviluppo affettivo ed è legato per questo alla ricerca. I bambini deprivati palesa-
vano una serie di sindromi, tra cui la depressione anaclitica intorno ai 9 mesi, in cui il
bambino smetteva di mangiare e si lasciava andare, talvolta fino a morire. Il substrato
fisiologico di questa forma di perdita è una riduzione della sostanza bianca nei lobi
frontali, parietali e temporali. Con il termine severa si fa riferimento a una depriva-
zione avvenuta per tempi prolungati, sia di deprivazione affettiva che sensoriale:
quest’ultima è data dalla mancanza di adeguati stimoli ambientali, che non permet-
tono il corretto sviluppo cognitivo del bambino, quindi la capacità di elaborare la realtà
che lo circonda, con un conseguente aumento della permanenza in istituto per disturbi
quali ADHD (per altro, disturbo in costante aumento negli ultimi 20anni).
Un’area di studio sullo sviluppo atipico si concentra sui disturbi genetici causati da
anomalie genetiche (sindrome di Williams, deficit nelle abilità visuo spaziali e nella ri-
soluzione dei problemi). L’anomalia genetica riguarda le info che non sono adeguate
(anomalie del codice genetico), che si esprimono attraverso una serie di problemi di
tipo comportamentale (di solito le problematiche sono interrelate).
Vi sono poi disturbi definiti da uno o più deficit comportamentali diagnosticati (disles-
sia come DSA, oppure disturbi dello spettro autistico, in cui il soggetto è incapace di
riconoscere gli stati mentali altrui). Nell’autismo l’incapacità di sintonizzarsi con gli
altri impedisce al bambino di acquisire strumenti sociali e relazionali per rispondere
alle richieste ambientali (chiusura sociale, ritiro verso sé stesso, perché mancano le
competenze relazionali).
Un altro tipo di disturbi sono quelli legati ai fattori di tipo ambientale, in cui entra in
gioco la componente culturale, come crescere in famiglie in cui la stimolazione cultu-
rale e cognitiva è minima, comportando problematiche di tipo evolutivo (i genitori pos-
sono deprivare ulteriormente il bambino di stimolazioni in quel caso, pensando non sia
capace, cristallizzando il bambino nel suo disturbo).
Vi è una stretta connessione tra lo sviluppo percettivo, quello neurologico, quello per-
cettivo-motorio e quello cognitivo: lo sviluppo percettivo, quindi una buona capacità di
elaborare le info dell’ambiente, va di pari passo ed è una base necessaria per lo svi-
luppo cognitivo. Difficoltà nell’elaborazione delle info percettive provenienti dall’am-
biente avrà conseguenze negative anche sullo sviluppo cognitivo, quindi le info percet-
tive guidano l’azione e l’azione guida la percezione (gli individui percepiscono al fine di
muoversi e si muovono al fine di avere percezioni). Piaget definì questa fase come fase
senso-motoria (prima fase dello sviluppo, dalla nascita ai 2 anni), in cui il bambino co-
nosce la realtà attraverso la forte interconnessione tra questi due processi, ossia si
muove per esplorare la realtà cercando stimoli percettivi o muovendosi verso di essi. È
quindi un’interconnessione fondamentale per conoscere l’ambiente: il sistema percet-
tivo non solo seleziona, ma costruisce anche la realtà sin dalle primissime fasi dello
sviluppo in modo coerente con la soddisfazione dei bisogni del bambino. La realtà per-
cepita o fenomenica non è copia immediata di quella ambientale e questo aspetto è un
aspetto importante nella percezione. La percezione non si identifica con la sensazione
ma è una integrazione, una interpretazione delle sensazioni. La sensazione è stretta-
mente legata al canale sensoriale che riceve l’informazione sensoriale e riguarda im-
pressioni soggettive e immediate, la percezione, invece, è una forma di elaborazione di
queste sensazioni, affinché queste vengano integrate e interpretate per poter dar senso
alla realtà attorno. La differenza tra percezione e sensazione è ben spiegata dal trian-
golo di Kanizsa.
I neonati hanno un’acuità visiva molto ridotta (0,5/10 alla nascita, 30x inferiore
all’adulto) e hanno una porzione foveale e una capacità di accomodamento del cristallino
più immature. L’elasticità del cristallino è fondamentale per la messa a fuoco degli og-
getti, il neonato, infatti, è in contatto solo con oggetti o relazioni molto vicine al suo
campo visivo; ne consegue una preferenza per oggetti e figure distanti non oltre i 50cm,
ma può mettere a fuoco stimoli posti solo a distanza ravvicinata (15-20cm). Ha inoltre
una discreta capacità di percepire i contrasti (10x inferiore all’adulto), i colori primari (i
recettori dell’occhio sensibili al colore – i coni – funzionano a partire dai due mesi, quindi
la sensibilità al colore alla nascita è molto ridotta) e i cambiamenti di luminosità e pre-
senta una preferenza per gli stimoli che compaiono alla periferia piuttosto che al centro
della visuale (ha una competenza visiva orientata alla visione globale del mondo
esterno) ed è predisposto geneticamente a preferire il volto. I limiti del sistema visivo
del neonato sono funzionali al suo adattamento.
Es. preferenza volto umano (in particolare quello femminile) → favorisce l’adattamento
(anche da un punto di vista fisiologico) in quanto favorisce il processo di costruzione del
legame di attaccamento verso la figura del caregiver. Allo stesso modo per la stessa mo-
tivazione il neonato è attratto da informazioni visive dotate di simmetria, presenza di
curve, mobilità, tridimensionalità, figure con alto contrasto e stimoli presentati sul
piano fronto-parallelo. A pochi giorni dalla nascita, il neonato preferisce il volto ma-
terno. → predisposizione a stimoli di natura sociale (preferenza per il movimento ani-
mato, biologico, e per il volto umano).
L’attenzione, fin dalla nascita, è selettiva: la ricerca di informazioni è pre-orientata a
particolari configurazioni di stimoli. Ad esempio, il volto attrae il bambino per le sue
caratteristiche, quali nitidezza dei contorni, movimento e simmetria (quindi regolarità
delle forme, preferenza verso stimoli strutturati) e la complessità presente all’interno
del viso (occhi, bocca, naso, che creano una regolarità nella struttura schematica). Du-
rante il primo mese il bambino, guardando il volto della madre, orienta la sua atten-
zione verso i punti più esterni del viso (attraverso l’esplorazione della periferia dell’info
il bambino riesce a farsi un’idea più immediata di cosa ha davanti), in seguito viene
attratto dal movimento degli occhi (fondamentali per la costruzione di un’interazione);
al secondo mese invece si concentra sul triangolo occhi, naso, bocca, quindi sta in con-
tatto con i canali comunicativi del viso (a partire dal secondo mese inizia l’intersogget-
tività primaria, per cui il bambino inizia a costruire una forma di reciprocità interattiva
con il proprio caregiver).
Tra tre immagini differenti, il bambino tenderà a preferire l’immagine più simile al volto
umano: il neonato è predisposto a selezionare gli stimoli biologicamente e psicologica-
mente rilevanti, per una questione di evoluzione (filogeneticamente sono state selezio-
nate queste modalità percettive, in quanto funzionali all’adattamento all’ambiente),
base per la costruzione del rapporto di attaccamento con il caregiver (preferenza per il
volto → predisposizione genetica).
Con il paradigma dello sguardo preferenziale (o preferenza visiva) si ricerca quante volte
il bambino si orienta verso uno stimoli e la durata della fissazione; si valutano, quindi,
due aspetti:
➢ la direzione dello sguardo, presentando due stimoli (uno a destra e uno a sinistra)
e verificando quale sia l’orientamento preferenziale dello sguardo del bambino;
➢ la durata della fissazione.
Questa metodologia fornisce informazioni sulla preferenza (quali stimoli il bambino pre-
ferisce guardare) e ci dice che il bambino, fin dalle primissime fasi dello sviluppo, ha
capacità discriminatoria (quando il bambino cambia i tempi di fissazione e preferisce
orientare lo sguardo su un’immagine piuttosto che su un’altra, sta discriminando e mo-
stra preferenze dal punto di vista percettivo).
Inoltre, da una ricerca sugli altri canali sensoriali, emerge che il neonato ha una certa
preferenza per gli stimoli uditivi: sin dalle prime ore di vita egli risponde a questi sti-
moli con capacità di discriminazione, ossia è capace, senza apprendimento, di discrimi-
nare diversi suoni, ma anche diversi odori e sapori. Fin dai primi mesi, il neonato, in-
fatti, mostra una preferenza per i suoni linguistici e fino ai sei mesi vi è una discrimi-
nazione dei contrasti fonetici (anche quelli non presenti nella lingua madre) e dai 10-
12 mesi, nel momento in cui egli si abitua a sentire il linguaggio dei genitori, questo
tipo di discriminazione riguarderà solo la lingua madre.
Per quanto riguarda l’udito, vi è una discriminazione uditiva già a livello fetale: nel
momento in cui matura l’organo sensoriale dell’udito il bambino mostra capacità di-
scriminatoria, producendo un’attività motoria diversa in base alla tipologia delle diffe-
renze dei suoni presentati. Vi è inoltre preferenza per voci femminili e il riconosci-
mento immediato della voce materna (memoria intrauterina), oltre che una sensibilità
precoce alle caratteristiche prosodiche della lingua madre (intonazione, oscillazione del
volume, etc.).
Sin dalla prima settimana di vita, inoltre, il bambino è capace di discriminare una
grande varietà di odori, sempre per una questione di funzione di tipo adattivo: capa-
cità di sentire attraverso il gusto e l’olfatto odori e sapori che potrebbero essere poten-
zialmente dannosi per l’organismo. Vi è quindi preferenza per l’odore del latte materno
rispetto a quello del liquido amniotico; inoltre, la capacità di riconoscere l’odore del
latte materno ha per il bambino un effetto psicologico di tipo calmante, in quanto sente
di essere in un contesto protettivo (a livello emotivo la componente di familiarità evoca
in lui sicurezza e senso di protezione, con conseguente abbassamento del livello di ten-
sione).
Intorno ai 3-4 anni emerge il fenomeno del sincretismo infantile: il bambino ha delle
difficoltà a percepire i singoli elementi all’interno di una configurazione percettiva glo-
bale; la percezione della struttura d’insieme ostacola l’individuazione delle singole
parti (quindi il sincretismo non è un problema di visione, ma dovuto all’influenza delle
proprietà strutturali degli stimoli, è una carenza di organizzazione flessibile e artico-
lata del campo percettivo). Questo fenomeno viene superato dopo i 5-6 anni. Dai 6-7
anni vi è un incremento delle strategie visuo-esplorative, con riconoscimento delle
forme visive dal contorno frammentato o continuo e se il bambino viene posto davanti
a delle configurazioni percettive, anche non lineari e ben organizzate, riesce a ricono-
scere la particolare configurazione. A quest’età vi sono quindi mutamenti dell’atten-
zione sostenuta, dell’attenzione selettiva e nelle strategie di esplorazione visiva. Lo
sviluppo percettivo, legato alla maturazione cognitiva, permette al bambino di selezio-
nare e orientare la propria attenzione in modo tale da cercare un’informazione in ma-
niera strategica e di trovare soluzioni a problemi di tipo visuo spaziale (stretta rela-
zione tra sviluppo percettivo e sviluppo attentivo).
SVILUPPO MOTORIO
Sistema nervoso, corpo e ambiente sono sistemi dinamici complessi e altamente strut-
turati che si sviluppano in maniera coordinata e il comportamento adattivo emerge dalla
loro continua interazione.
Di alcuni riflessi non è nota con certezza la funzione e possono essere retaggi della storia
evolutiva dell’uomo, come il riflesso di Moro o di grasping. Tuttavia, i riflessi sono im-
portanti dal punto di vista diagnostico, in quanto sono possibili indicatori di problemi al
SNC.
Il controllo dei movimenti fini viene raggiunto secondo la legge prossimo-distale: il bam-
bino impara a governare prima i muscoli della parte mediana del corpo e in seguito i
muscoli più periferici. I primi atti di afferramento riusciti compaiono intorno al 4 mesi:
raggiungimento dell’oggetto a rastrello (la mano del bambino con dita allargate) e una
prensione di tipo cubito palmare (tutta la mano viene coinvolta). L’abilità di modulare
l’atto di accertamento sulla base delle proprietà del bersaglio è ancora poco sviluppata.
A sei mesi vi è un approccio parabolico, ossia l’avvicinamento della mano all’oggetto
traccia una sorta di parabola e la prensione diventa radio palmare, quindi il bambino
afferra con il palmo e con la partecipazione delle tre dita. Verso i nove mesi il bambino
non utilizza più la curva, ma va in linea retta con il braccio che segue una sequenza
diretta orientata allo stimolo con la mano che si rivolge verso l’oggetto e la prensione
diventa radio digitale ed emerge la presa a pinza (maniera di articolare la mano e le
dita sempre più adeguata), emerge inoltre l’uso preferenziale di una mano per le attività
che richiedono maggiore precisione (predominanza manuale).
Solo intorno ai nove mesi si ha una vera e propria coordinazione visuo manuale (sviluppo
percettivo e motorio sono nuovamente strettamente legati). La postura eretta la rag-
giunge intorno agli 8-18 mesi (notevoli differenze individuali nei tempi).
Per quanto riguarda lo sviluppo atipico, possono esserci problematiche legate a danni a
carico del SNC, come l’agnosia (danno alle cortecce associative).
Nello sviluppo motorio, invece, i disordini più importanti derivano da lesioni a carico del
sistema nervoso: le più conosciute sono le paralisi cerebrali infantili, che possono essere
sia congenite che acquisite. Le manifestazioni cliniche dipendono dalla sede a livello del
nervoso del danno, del grado di lesione, dell’ampiezza dell’area cerebrale coinvolta e dal
periodo di sviluppo in cui è avvenuta la lesione. La tipologia più conosciuta di paralisi
cerebrale infantile è quella spastica (emiplegia, diplegia, tetraplegia), ma esistono anche
forme più lievi in cui sono presenti sintomi come il tremore. Si possono avere conse-
guenti disturbi della coordinazione motoria.
Esistono poi forme di difficoltà di sviluppo delle abilità motorie che possono essere asso-
ciate a forme di disabilità intellettiva, tipiche per esempio della sindrome di Down. In
questo caso le difficoltà motorie sono secondarie, ovvero derivano dai limiti e dall’inca-
pacità di interagire con l’ambiente circostante in maniera adeguata, quindi dalla po-
vertà di emozioni e di iniziativa, difficoltà di formulare piani di azione organizzati: tutte
caratteristiche della disabilità intellettiva che produce difficoltà di tipo motorio.
Es. bambini con sindrome di Down → più lenti nel portare a termine movimenti di presa
e la dinamica stessa del movimento appare diversa e più variabile rispetto a bambini
con sviluppo tipico. I bambini con sindrome di Down, per raggiungere l’obiettivo motorio
fanno una serie di attività motorie che sono anche poco congruenti, quindi c’è una sorta
di dispendio di energia e di tempo.
Atipie nello sviluppo motorio si sono riscontrate anche con bambini con disturbo dello
spettro autistico, dove si riscontra una certa postura e una deambulazione atipiche, con
movimenti poco fluidi, soprattutto per ciò che riguarda l’aspetto macro del movimento
del corpo, ma possono palesarsi anche difficoltà nella motricità fine (come nella scrit-
tura, ad esempio con la macrografia).
La presenza di alcuni deficit percettivi può influenzare il normale percorso dello svi-
luppo motorio, quindi lo sviluppo percettivo-motorio risulta compromesso: avere deficit
visivi comporta una limitazione importante nell’acquisizione delle abilità visuo-spaziali,
quindi anche nelle abilità visuo-motorie. La capacità di muoversi in uno spazio può es-
sere fortemente limitata per un bambino con deficit visivo e questo comporta difficoltà
nell’apprendere e sviluppare attività motorie adeguate al raggiungimento degli obiet-
tivi.
In modo analogo, se nel corso dello sviluppo alcuni comportamenti motori non diventano
più automatizzati (ossia svolgere un’azione in maniera automatica), il bambino dovrà
continuamente concentrare tutte le sue risorse attentive nell’esecuzione del movimento
(quindi non potrà rivolgerle ad altre attività). È come se la mancata automatizzazione
di un comportamento motorio portasse il soggetto a mantenere costantemente l'atten-
zione sulla esecuzione dell'attività motoria specifica.
SVILUPPO COGNITIVO
A cosa servono e a cosa servivano nel passato le funzioni mentali? E come mai sono state
selezionate filogeneticamente fino ad oggi per poter rispondere a livello comportamen-
tale e a livello delle richieste ambientali? Un esempio potrebbe essere dato dall’elabora-
zione delle risposte emotive. Perché abbiamo ancora paura? A cosa è servita nel passato?
Per rispondere alle domande facciamo un esempio di tipo psicofisiologico, in quanto le
emozioni sono delle funzioni della nostra mente fortemente basate a livello fisiologico.
Nel momento in cui si fa esperienza di un’emozione come la paura, insieme alla sensa-
zione e al vissuto soggettivo della paura, corrispondono delle modificazioni di tipo fisio-
logico che mettono l’organismo nella condizione di rispondere prontamente alla richiesta
ambientale. La paura è la risposta a un antecedente, che di solito è la percezione di un
pericolo. Nella nostra storia la paura corrisponde a un’attività motoria e fisiologica, di
solito la fuga, che mette l’organismo nelle condizioni di poter scappare davanti a un
pericolo, aiutando quindi l’uomo nell’adattamento al proprio ambiente: in passato alla
presenza di un predatore si attivava la paura, in quanto veniva percepito un pericolo
alla sopravvivenza e la risposta emotiva della paura attivava una serie di modificazioni
fisiologiche, atte alla produzione di adrenalina, producendo cambiamenti nell’organismo
(aumento della frequenza cardiaca, con conseguente maggiore erogazione nei muscoli,
aumento di glucosio nel sangue, che veniva poi rilasciato nel fegato e favorivano la fuga.
Inoltre, chi correva di più aveva maggiori possibilità di sopravvivenza e successiva ri-
produzione, quindi si toccano due aspetti fondamentali per la continuità della specie.
L’uomo nasce con alcuni schemi mentali che si sono selezionati durante la filogenesi
(componente innatista). Gli studi etologici hanno poi dimostrato tale predisposizione in-
nata per quanto riguarda lo schema del costruire le relazioni con figure protettive, au-
mentando la probabilità di sopravvivenza. Questi aspetti innati favoriscono gli accomo-
damenti, che non richiedono un’azione volontaria.
Ciò che definisce, per Piaget, il passaggio da uno stadio all’altro è la capacità del bam-
bino di rappresentarsi diversamente la realtà e di compiere delle operazioni sulla realtà
differenti.
Quattro stadi specifici della suddivisione del modello piagetiano, che suddivide lo svi-
luppo fino all’adolescenza (gli stadi vanno letti in maniera flessibile, ricordare le diffe-
renze individuali nelle tempistiche di maturazione di certi comportamenti):
Ricerche successive a quelle di Piaget hanno messo in discussione le varie età che lo
studioso stabilì all’interno di questa classificazione.
Ogni stadio è qualitativamente diverso dal precedente, presenta forma e regole proprie.
Ci sono due aspetti nel processo di sviluppo: un aspetto di tipo quantitativo, legato
all'aumento di conoscenza all'interno di un determinato fenomeno e vi sono poi processi
di tipo qualitativo (lo stadio operatorio-concreto è qualitativamente diverso dallo stadio
preoperatorio, in quanto c'è un aumento di conoscenza, una maggiore abilità nel com-
piere certe operazioni di conoscenza dell'ambiente circostante e vi è proprio un modo
diverso con cui il bambino si approccia a risolvere i problemi, cambia la modalità). Le
acquisizioni di uno stadio non si perdono con il passaggio allo stadio successivo, ma ven-
gono integrate in strutture più evolute, ovvero la forma di conoscenza acquisita dal bam-
bino all'interno di uno stadio viene integrata nello stadio successivo, anche se in que-
st'ultimo il bambino risolve i problemi con modalità qualitativamente superiori.
Piaget aveva individuato alcuni concetti chiave dello sviluppo cognitivo del bambino,
che sono stati confermati anche da altri studiosi, seppur con una comprensione diversa
delle competenze dello sviluppo cognitivo del bambino. Uno di questi è l’esperienza della
conquista della permanenza dell’oggetto: gli oggetti continuano ad esistere anche
quando il bambino non ne è consapevole (stadio senso-motorio). Questo, secondo Piaget,
deriva dalla conquista della rappresentazione, ossia con la possibilità di iniziare a me-
morizzare l’esperienza (tappa fondamentale dello sviluppo). L’altro aspetto è la com-
parsa del pensiero simbolico, ciò dimostra che il bambino ha costruito una rappresenta-
zione dell’oggetto che lui ha in mente e mette in atto il gioco di finzione. Un altro aspetto
ancora è l’egocentrismo di tipo cognitivo, ossia l’egocentrismo intellettuale, l’incapacità
dei bambini di comprendere che gli altri possono vedere le cose da un altro punto di vista
(stadio preoperatorio). Sempre nello stadio preoperatorio abbiamo anche l’animismo,
una sorta di difficoltà del bambino a distinguere le cose vive da quelle inanimate (il
bambino tende a dare vita agli oggetti inanimati). Ulteriore limite è l’irreversibilità del
pensiero: l’incapacità di annullare e poi invertire il risultato di un’operazione mentale.
L’età scolare coincide con lo stadio operato concreto, fase in cui le conquiste più impor-
tanti sono la reversibilità del pensiero e il superamento dell’egocentrismo intellettuale.
Il bambino adesso è in grado di superare compiti di conservazione, in quanto le caratte-
ristiche degli oggetti rimangono costanti anche se cambia la dimensione percettiva
(quindi è capace di ragionare correttamente su processi di trasformazione di un oggetto
– che magari cambia forma).
Un altro aspetto è il ragionamento sulle astrazioni, ossia il bambino inizia a fare delle
astrazioni dalla realtà e ha la capacità di fare una serie di operazioni di tipo cognitivo:
quando l’oggetto è posto davanti ai suoi canali sensoriali (quindi quando vede concreta-
mente l’oggetto), egli è capace di fare operazioni di manipolazione e operazioni cognitive
di tipo aritmetico.
Stadio operatorio concreto = c’è una realtà concreta davanti ai suoi canali sensoriali.
Altri studiosi (con metodologie più sofisticate) hanno dimostrato che la permanenza
dell’oggetto è presente anche in fasi precedenti. Una di queste è una metodologia del
paradigma della violazione dell’aspettativa (Renée Baillargeon), che si compone di due
fasi, quella di abituazione e quella di test: Renée sostiene che i bambini di 4 mesi pos-
siedono già un concetto di oggetto permanente nel tempo e nello spazio. Il problema non
è quindi solo rappresentativo o solo motorio, ma del collegamento tra sistemi di cono-
scenza e sistemi che guidano l’azione. Dopo una fase di abituazione del bambino si va a
osservare quindi il recupero dell’attenzione del bambino: il processo di abituazione pro-
duce una perdita di interesse, in seguito nella fase di test, quando l’aspettativa del bam-
bino non viene confermata dall’evento, egli mostra una forma di sorpresa e contempora-
neamente una riattivazione dell’attenzione e un maggior tempo di osservazione del fe-
nomeno. Tali aspetti sono stati utilizzati come conferma della permanenza dell’oggetto
nella mente del bambino anche in età inferiori ai 12 mesi. Per ora però la teoria di Piaget
non è stata ancora sostituita da nessuna teoria sistematica.
Vediamo ora l’inizio dello stadio preoperatorio, in cui il bambino ha il primo abbozzo di
rappresentazione: il bambino inizia a pensare attraverso i processi rappresentativi per-
ché sta costruendo degli schemi mentali sulla realtà e, attraverso processi di assimila-
zione e accomodamento, vi è un’evoluzione degli schemi mentali, quindi un ampliamento
continuo della modalità con cui il bambino impara a conoscere il mondo. Le principali
manifestazioni che possono mostrare che la rappresentazione della realtà sta comin-
ciando a costruirsi nella mente del bambino sono l’imitazione differita, il gioco simbolico
e il linguaggio. L’imitazione differita fa riferimento alla capacità del bambino di iniziare
a portare avanti dei comportamenti che ha osservato nei genitori e li porta avanti in
tempi diversi, quindi senza avere davanti il genitore (dopo aver interiorizzato un’idea di
un comportamento o una rappresentazione motoria). Il gioco simbolico, che fa riferi-
mento all’utilizzo di oggetti per far finta di fare qualcos’altro, dimostra che il bambino
ha assimilato alcuni comportamenti. Altro aspetto principale della rappresentazione
della realtà è l’utilizzo del linguaggio, che è un segnale di rappresentazione per antono-
masia: si tratta di utilizzare suoni per descrivere un’azione o degli oggetti, etc. La fun-
zione principale del linguaggio è infatti tradurre pensieri e comportamenti in termini
linguistici sia per comunicare che utilizzarli come forma di narrativa personale sia per
pensare sulla realtà (durante la fase del pensiero operatorio astratto). L’imitazione dif-
ferita, il gioco simbolico e il linguaggio si riferiscono a delle realtà non percepite in quel
momento, ovvero realtà che non si trovano davanti ai canali sensoriali del bambino, ma
che vengono evocate.
Nella fase prescolare (2-7 anni) un aspetto centrale è l’egocentrismo intellettuale, ossia
la tendenza del bambino a non immaginare che la realtà possa presentarsi ad altri in
modo diverso dal suo, è inconsapevole che gli altri possano avere ricordi, conoscenze ed
emozioni diversi dai suoi. Per dimostrare il fenomeno Piaget condusse l’esperimento
delle tre montagne: il bambino deve scegliere da una serie di fotografie del panorama
quella corrispondente ad una prospettiva diversa dalla propria. Solo intorno ai 6-7 anni
sembra emergere qualche consapevolezza che i punti di vista variano, ma tale capacità
si consolida solo tra i 9-10 anni, quindi nella fase operatoria concreta (durante la fase
preoperatoria la concezione del mondo fisico del bambino risente dell’egocentrismo in-
tellettuale). In base alle risposte che i bambini danno sulle relazioni di causa-effetto e
sulle spiegazioni dei fenomeni naturali, introduce altri due concetti: animismo e artifi-
cialismo. Nell’animismo il bambino dà vita, coscienza e intenzioni a ciò che è inanimato;
in modo analogo l’artificialismo è quello di credere che piante, animali o corpi celesti
siano prodotti dall’uomo (egocentrismo tendente all’antropocentrismo): l’uomo è la causa
di ciò che c’è nel mondo perché il bambino non riesce ad uscire dalla prospettiva indivi-
duale.
Altro aspetto tipico di questa fase è la cognizione di tipo sociale: il bambino non costrui-
sce solo rappresentazioni sulla realtà fisica, ma anche sul mondo sociale. Per studiare il
funzionamento della mente del bambino in questa fase sono stati utilizzati studi del
paradigma delle false credenze, all’interno del quale è stato costruito il termine teoria
della mente, che si riferisce all’abilità di imputare stati mentali a se stessi e agli altri (s
tratta di fare inferenze su come funziona la mente personale e la mente degli altri).
Possedere una teoria della mente è importante nella cognizione sociale: comprendere gli
stati mentali degli altri permette di predire i comportamenti propri e altrui, in termini
di desideri e credenze. I primi studi condotti su bambini in età scolare/prescolare hanno
utilizzato le misure esplicite, ossia compiti che richiedevano risposte esplicite a do-
mande dirette sulle false credenze. Una delle ricerche più importanti è quella di Anna
e Sally, in cui i bambini ascoltavano la seguente storia: Sally nasconde una pallina in
un cesto e poi esce dalla stanza; Anna sposta la pallina in una scatola. Poi veniva chiesto
ai bambini dove Sally avrebbe cercato la pallina una volta rientrata nella stanza. Bam-
bini di 4 anni con sviluppo tipico rispondevano correttamente e indicavano il cesto (il
posto della falsa credenza), mentre i bambini di età inferiore rispondevano la scatola (il
posto reale). I bambini di 3 anni venivano quindi ingannati dal proprio campo percettivo,
non comprendendo che Sally era uscita dalla stanza e non poteva vedere ciò che avevano
visto loro. Quindi l’abilità di attribuire false credenze agli altri e di fare inferenze sulla
mente altri non emerge prima dei 4 anni: prima di quest’età non viene sviluppata la
teoria della mente (il problema riguarda dunque un processo di maturazione). Lo stesso
compito è stato posto a bambini, di 4 anni, con sviluppo atipico (come disturbo dello
spettro dell’autismo) e si è scoperta una certa difficoltà nel comprendere lo stato della
mente altrui (non sviluppano la teoria della mente).
Studi più recenti, con cambio di metodologia, sono stati fatti su bambini più piccoli, con
l’utilizzo di misure implicite al posto delle misure esplicite (sotto l’anno/anno e mezzo
non si possono fare domande, si misura ciò che il bambino esprime spontaneamente), le
quali hanno rivelato una precoce abilità nel primo anno ad attribuire false credenze. La
comprensione degli stati mentali attraverso il paradigma della falsa credenza emerge
spontaneamente osservando le azioni degli agenti con compiti basati sulla violazione
dell’aspettativa: in caso di violazione dell’aspettativa quando il bambino ha un’aspetta-
tiva su quale potrebbe essere il comportamento dell’adulto nella scelta o nella ricerca di
un oggetto, il bambino mostra sorpresa o uno sguardo di anticipazione, guardando in
anticipo dove lui pensa che lo sperimentatore possa cercare l’oggetto, guardando più a
lungo l’evento in cui l’agente agisce in maniera non coerente con le aspettative del bam-
bino, quindi non coerente con le false credenze (lo sguardo anticipatorio del bambino
infatti guarda il posto dove l’agente con falsa credenza dovrebbe cercare l’oggetto). Si
scopre quindi la possibilità di una teoria della mente precoce (Onishi e Baillargeon). In
queste ricerche è previsto un primo momento di familiarizzazione, in cui al bambino
viene mostrato ripetutamente un giocattolo posto tra due scatole, in seguito il bambino
osserva un attore, collaboratore dello sperimentatore, entrare nella stanza, giocare e
deporre il giocattolo dentro la scatola, per poi riprenderlo in mano dopo una breve pausa.
In seguito il bambino riceveva l’evento test, ossia in assenza dell’attore il giocattolo ve-
niva spostato da una scatola all’altra (condizione di falsa credenza), mentre nella condi-
zione di credenza vera il giocattolo si sposta nell’altra scatola in presenza dell’attore e
torna nella scatola originale in sua assenza. In ciascuna delle condizioni i bambini os-
servatori si aspettano che l’attore cerchi il gioco dove lui crede che sia nascosto.
Il comportamento sociale del bambino risulta, sin dalle prime fasi, organizzato e biolo-
gicamente predisposto a incontrare stimoli ambientali per poter esprimere ciò che il
bambino ha in itinere nelle sue competenze.
Ci si pone quindi il quesito sul perché del fallimento dei bambini di tre anni nei com-
piti espliciti di falsa credenza, che coinvolgono tre processi: un processo di rappresen-
tazione della falsa credenza, un processo di selezione della risposta coerente e un pro-
cesso di inibizione della risposta non coerente. I compiti impliciti con misure sponta-
nee, invece, implicano solo la rappresentazione della falsa credenza, quindi solo il
primo processo dei tre necessari per i compiti espliciti (gli altri due processi sono dun-
que il motivo di fallimento, potrebbero non essere ancora disponibili o le connessioni
neurali potrebbero non essere sufficienti). Il superamento del compito della falsa cre-
denza rientra nello sviluppo della cognizione sociale.
SVILUPPO COGNITIVO IN ETÀ SCOLARE
Si tratta dello stadio operatorio concreto, in cui una delle conquiste principali è data dal
processo della reversibilità, con conseguente comprensione realista del mondo, capacità
di ragione e formulare concetti su oggetti concreti. Il bambino durante questa fase inizia
a fare delle operazioni cognitive superiori, per cui però ha bisogno di avere una realtà
concreta davanti ai propri canali sensoriali: la realtà su cui elabora le informazioni deve
essere davanti al suo campo percettivo. Durante questa fase le connessioni neuronali,
attraverso le sinapsi, subiscono una potatura abbastanza importante, in modo partico-
lare nei lobi frontali, con conseguente incremento nelle abilità di pianificazione, con-
trollo comportamentale e inibizione delle risposte inappropriate: inizia lo sviluppo delle
funzioni esecutive, le quali sono fondamentali nella pianificazione e organizzazione
dell'attività cognitiva, in modo particolare nella capacità dei soggetti di inibire i com-
portamenti che il soggetto intuisce non portino al raggiungimento dell'obiettivo. Inoltre,
la potatura aumenta l’efficienza del funzionamento e della velocità delle connessioni,
aumentando anche la capacità di portare avanti compiti cognitivi sempre più complessi.
In questa fase si ha anche l’acquisizione del concetto di invarianza, che avviene attra-
verso la comprensione della trasformazione.
In questa fase le azioni mentali isolate si coordinano tra loro e diventano operazioni
concrete: nella fase preoperatoria le operazioni cognitive venivano svolte isolatamente
nella soluzione di compiti semplici, mentre nella fase dello stadio operatorio concreto c’è
una sintesi e un coordinamento di queste operazioni cognitive, per permettere al bam-
bino una visione più globale della realtà. In questa fase c’è anche un aumento impor-
tante nello sviluppo della memoria: il bambino aumenta la propria capacità di ragio-
nare, di elaborare contemporaneamente più operazioni per risolvere problemi tipici
dell’apprendimento della scuola primaria.
Le operazioni che caratterizzano lo stadio operatorio concreto sono legate alla reversibi-
lità: ad ogni operazione corrisponde un’operazione inversa. Per dimostrare il pensiero
reversibile, Piaget sottopone i propri figli al compito della conservazione della sostanza:
si mostrano al bambino due palline identiche di plastilina e gli si chiede se sono uguali.
In seguito una delle due palline viene allungata in una salsiccia e si chiede al bambino
se la pallina e la salsiccia contengano la stessa quantità di plastilina. Per poter arrivare
alla soluzione il bambino deve fare il pensiero inverso, deve pensare al contrario e tor-
nare indietro per capire da dove proviene la forma di salsiccia, che è una forma allungata
della pallina originale. Facendo questo processo, egli può rispondere correttamente.
Nella fase precedente (preoperatoria) il bambino veniva ingannato dalla prospettiva
percettiva.
Il limite principale di questa fase è quindi dato dalla necessità di avere davanti ai propri
canali sensoriali il problema da risolvere, limite che verrà poi superato dal raggiungi-
mento dello stadio operatorio formale, dove il bambino potrà fare delle operazioni senza
avere davanti il problema concreto, astraendo la realtà. Astrarre la realtà significa spo-
stare su una dimensione spazio-temporale più ampia la capacità di pensare alle cose. Si
ha in questo stadio anche la forma di pensiero più evoluta, ossia il pensiero ipotetico-
deduttivo (capacità di pensiero più astratte). In questa fase compare anche il ragiona-
mento combinatorio, che richiede una sistematicità nel processo cognitivo nell’immagi-
nare tutte le varie ipotesi per risolvere un problema, con le varie conseguenze di ogni
ipotesi, per capire poi quale potrebbe avere una maggiore percentuale di probabilità di
verificarsi di un certo fenomeno rispetto ad un altro (poste le condizioni è più probabile
che si verifichi A o si verifichi B). Uno degli esperimenti formulati da Piaget per verifi-
care le sue ipotesi è l’esperimento del pendolo: viene appeso un pendolo e il compito è
quello di scoprire quali fattori determinano l’oscillazione del pendolo, per cui entra in
gioco il processo combinatorio, mettendo insieme tutta una serie di informazioni riguar-
danti il fenomeno e lavorando su tutte le combinazioni possibili, in maniera logica e
ordinata, fino a quando il soggetto non arriva a capire che la frequenza oscillatoria del
pendolo è data dalla lunghezza della cordicella.
Il modello di Piaget ha informato e istruito tutte le pratiche educative e formative di
tipo scolastico, è diventato un modello di riferimento in ambito educativo, oltre che nello
sviluppo cognitivo, permettendo la costruzione di programmi didattici adeguati allo svi-
luppo cognitivo di ogni singola fase.
Lo sviluppo cognitivo termina al raggiungimento dell’età adulta, vista come una fase di
stabilizzazione: in età adulta c’è solo un aumento quantitativo delle capacità della mente
di elaborare le informazioni, ma a livello qualitativo non ci sono ulteriori cambiamenti.
I cambiamenti a livello cognitivo si manifestano al raggiungimento della terza età,
quella dell’invecchiamento del cervello, in cui vari processi subiscono un rallentamento,
tra cui quello cognitivo. Si ha un rallentamento cognitivo con problemi a carico delle
funzioni esecutive della memoria di lavoro. A livello cognitivo gli aspetti principali ri-
guardano le funzioni esecutive, fondamentali nella programmazione e pianificazione di
un comportamento, nella capacità di inibire i comportamenti disfunzionali o che allon-
tanino il soggetto dal raggiungimento degli obiettivi. La memoria di lavoro, invece, è
quella forma di memoria che serve nel qui ed ora per elaborare le informazioni necessa-
rie per trovare soluzioni ai problemi che la realtà ci presenta; ha una capienza limitata
(7 più o meno 2 informazioni che possono essere elaborate contemporaneamente). Con
l’invecchiamento gli elementi che la nostra memoria di lavoro può contenere, quindi il
numero di informazioni che può elaborare contemporaneamente, registra un decadi-
mento e questo porta come conseguenza al rallentamento cognitivo, in quanto la persona
impiega più tempo per risolvere dei problemi complessi o a tenere a mente molte infor-
mazioni, in particolare c’è un declino della capacità di inibire l’informazione irrilevante
la risoluzione di un compito. Inibire, ossia escludere gli stimoli irrilevanti dal proprio
campo di attenzione, è uno degli aspetti più importanti delle funzioni esecutive. Vi è
inoltre una diminuzione delle capacità attentive e di concentrazione, che ha un effetto
maggiore sui processi controllati rispetto a quelli automatici (i due tipi di processi si
differenziano per la consapevolezza necessaria per eseguire un compito). C’è anche un
indebolimento delle capacità di rievocazione: il soggetto, per svolgere un'operazione,
deve rievocare dalla sua memoria a lungo termine una procedura e portarla nella me-
moria di lavoro, ma se questi processi sono indeboliti, l'operazione richiede più tempo. i
rallentamenti nella memoria di lavoro si riflettono non solo su operazioni complesse
come quelle aritmetiche, ma anche sul linguaggio: il vocabolario passivo (conoscenza dei
vocaboli) rimane abbastanza stabile nell’arco della vita, mentre il vocabolario attivo è
sensibile all’invecchiamento, perciò si verifica un rallentamento nella pianificazione del
discorso (l’anziano conosce il significato delle parole, ma ha difficoltà a metterle insieme
in maniera articolata e combinata nella costruzione delle frasi). È più lenta anche la
costruzione stessa delle frasi, perché la memoria di lavoro può contenere quantitativa-
mente meno parole, quindi il soggetto parla per frasi brevi, in quanto quelle lunghe
potrebbero portare a dimenticare la parte precedente del discorso o a perderne il filo. Si
registra anche un declino nella teoria della mente per quel che riguarda fare inferenze
sui pensieri dell’altro, quindi la componente epistemica, cognitiva, razionale e meno
emotiva della teoria della mente.
SVILUPPO ATIPICO
Una delle forme più conosciute nello sviluppo atipico dello sviluppo cognitivo è il di-
sturbo dello spettro autistico: i deficit maggiori nel bambino con autismo sono quelli di
tipo sociale, egli infatti manifesta uno scarso interesse verso le relazioni interpersonali
e questo porta alla mancanza di attenzione condivisa. Quest’ultima è un aspetto centrale
nello sviluppo socio-relazionale e nell’acquisizione del linguaggio: si tratta di una forma
di attenzione che il bambino presta insieme al proprio caregiver a una realtà terza (come
un oggetto). È importante in quanto ci informa sulle capacità del bambino di creare
forme sintoniche con la mente dell’altro, il che risulta fortemente lacunoso nella mente
del bambino autistico. È importante anche nello sviluppo del linguaggio in quanto nella
fase preverbale il bambino indica gli oggetti per attirare l’attenzione della madre, che
esprime a parole il concetto o il nome dell’oggetto. In questo modo il bambino inizia ad
associare oggetti a suoni, per cui è una forma di apprendimento della lingua madre. Nel
bambino con autismo il deficit di attenzione condivisa ha anche ripercussioni sul lin-
guaggio. L’altro aspetto è il gioco di finzione, che fa parte del raggiungimento di quella
competenza che riguarda la costruzione delle rappresentazioni e la comparsa dei sim-
boli. Anche il linguaggio è un processo di tipo simbolico. I bambini autistici hanno una
serie di interessi ristretti, spesso portano avanti dei giochi o delle attività in maniera
esclusiva e si occupano poco dei processi globali di interazione con l’ambiente (sono più
interessati ai dettagli). Sono inoltre molto selettivi e hanno difficoltà ad uscire anche
dai compiti che stanno eseguendo in precisi momenti.
Un altro aspetto relativo all'autismo riguarda il compito della falsa credenza: gli adulti
autistici mediamente riescono a risolverlo, mentre i bambini hanno maggiori difficoltà
e riescono a raggiungerlo solamente in fasi di sviluppo successive, ma non sempre. Il
compito di falsa credenza è strettamente legato alla capacità del bambino di poter fare
inferenze sul funzionamento della mente dell'altro: nel bambino autistico la predisposi-
zione genetica e lo scarso esercizio che ne consegue comportano problematiche legate al
fare inferenze sulla mente dell’altro. Altri aspetti di tipo cognitivo sono i deficit nelle
funzioni esecutive, legate alla programmazione delle attività e quindi alla capacità di
inibire e di eseguire tutta una serie di compiti nel raggiungimento degli obiettivi.
Dalla memoria a breve termine è partito un filone di ricerca che ha cercato di approfon-
dire cosa accade realmente in questa prima fase di elaborazione della informazione:
Baddeley ridefinisce questa forma di elaborazione di memoria a breve termine e indivi-
dua la memoria di lavoro, la quale conserva le informazioni e le elabora. Questa forma
di elaborazione è fondamentale per decodificare e dare significato alle informazioni che
provengono dalla realtà esterna. Di conseguenza la memoria di lavoro si occupa di capire
se alcune informazioni sono importanti o meno, e solo nel caso in cui lo siano ne permette
il passaggio alla memoria a lungo termine, attraverso l’esercizio. Memorizziamo le in-
formazioni rilevanti per il raggiungimento dei nostri obiettivi e quelle connotate emoti-
vamente, mentre per altre informazioni abbiamo bisogno di maggiore esercizio: un ar-
gomento rilevante/interessante o con connotati emotivi attiva i processi cognitivi e
orienta l’attenzione verso quel materiale, aumentando le probabilità di memorizzarlo.
L’esercizio fondamentale per la memorizzazione all’interno della MLT è la reiterazione,
quindi la ripetizione del materiale. La memoria a lungo termine è a sua volta divisa in
due forme principali: la memoria dichiarativa o esplicita, da cui si possono recuperare
facilmente le informazioni attraverso il processo di consapevolezza (memoria episodica,
legata ai ricordi e alle esperienze vissute dal soggetto e memoria semantica, legata ai
significati, alle conoscenze) e la memoria implicita, in cui troviamo la memoria procedu-
rale (che riguarda tutto ciò che è stato appreso per associazione – condizionamento clas-
sico di Pavlov -, ossia una forma di condizionamento delle informazioni per cui attra-
verso particolari esperienze si porta avanti una serie di comportamenti, che diventano
automatismi in quanto associati nelle nostre esperienze a particolari configurazioni di
significato; è legata all’acquisizione delle abilità motorie, dove nelle prime fasi è neces-
saria una forma di apprendimento e memorizzazione sequenziale).
SVILUPPO MORALE
In ambito psicologico la morale indaga il modo in cui gli individui sentono, pensano e
agiscono riguardo al benessere e alla cura degli altri, ai diritti e alla giustizia nelle re-
lazioni interpersonali. L'organo della morale è la coscienza, intesa come l'insieme dei
processi cognitivi, affettivi e relazionali che influenzano il modo in cui gli individui agi-
scono in relazione a standard di comportamento.
Quando parliamo di morale legata alla coscienza parliamo di forme di interiorizzazione
degli standard di comportamento: regole che gli individui si sono dati, all'interno dei
vari contesti sociali, per poter regolare il proprio comportamento in funzione della vita
sociale, all'interno delle dinamiche interpersonali con gli altri.
Secondo gli studiosi che ritengono che la morale sia innata, nella filogenesi si è selezio-
nata una sorta di disposizione a prendersi cura degli altri, per cui forme di reciprocità,
altruismo e cooperazione si sono conservate in quanto funzionali per l'adattamento al
contesto di appartenenza, sia fisico che sociale. Nelle diverse culture però sappiamo che
esistono differenti valori, ci sono delle culture di tipo collettivo dove il comportamento
morale è legato al benessere di tutto il gruppo, mentre altre culture, come quella occi-
dentale, sono più competitive e la dimensione socio-gruppale è meno rilevante, perciò
conta di più la competitività dell'individuo nel raggiungimento dei propri obiettivi.
PIAGET
Piaget associa lo sviluppo morale allo sviluppo cognitivo (approccio cognitivo-evolutivo),
ovvero ritiene che lo sviluppo morale, per poter maturare, necessita della maturazione
delle capacità cognitive del bambino stesso. Piaget studiò come i bambini si rapportano
con le regole, di cui quelle morali sono una parte, e preparò una serie di attività di tipo
ludico per comprendere come i bambini (i propri figli) si pongono in confronto con le
regole. Secondo Piaget fino a 5 anni (fase preoperatoria) il bambino si trova in una con-
dizione pre-morale, caratterizzata da anomia, per cui il bambino, in questa fase dello
sviluppo, non mostra alcun interesse per le regole morali, ovvero, tradotto secondo il
linguaggio dello sviluppo cognitivo di Piaget, il bambino non ha ancora le strutture co-
gnitive per potersi occupare di regole morali. Dagli 8-10 anni parla di realismo morale
e utilizza il termine “eteronomia”: la regola proviene dall'esterno, c'è un imperativo
esterno (i genitori sono i depositari delle regole). In questa fase le regole morali sono
considerate immutabili e inviolabili, in quanto stabilite dalla autorità genitoriale,
quindi è il genitore che decide come dev'essere portato avanti un certo comportamento
e questo fa sì che le regole non si debbano né trasgredire, né si possano cambiare. All'in-
terno di questa fase del realismo morale, Piaget individua una responsabilità oggettiva,
la giustizia retributiva e la sanzione inspiratoria: per quanto riguarda la responsabilità
oggettiva Piaget ritiene che, quando i bambini di 8-10 anni compiono delle azioni legate
a forme di trasgressione di una regola, la gravità della colpa è in funzione del danno, ad
esempio se un bambino involontariamente rompe 6 bicchieri, rispetto a un bambino che
ne rompe uno perché volontariamente, il bambino che ha rotto 6 bicchieri ha una gravità
di trasgressione della regola, quindi in termini di responsabilità, maggiore rispetto al
bambino che ne ha rotto solo uno, anche se il suo comportamento è stato involontario il
danno è maggiore quindi la responsabilità oggettiva è maggiore; la giustizia retributiva
si può esemplificare con il detto: “occhio per occhio, dente per dente”, ovvero se il bam-
bino provoca un danno di una certa entità, la punizione deve essere analoga alla tipolo-
gia di danno provocato; la sanzione espiatoria implica che ad ogni violazione della regola
faccia seguito una punizione. Dopo i 9-10 anni compare una forma più autonoma: l'au-
tonomia morale. Secondo Piaget già da questa età i bambini iniziano a interiorizzare la
regola, perciò l'imperativo non è più esterno, ma deriva dalla regola che il bambino ha
acquisito: le regole, in particolare quelle morali, da questo momento in poi sono fondate
su una linea di cooperazione e di reciprocità, quindi si basano sulla relazione con l'altro.
Piaget parla di responsabilità non più oggettiva, ma di responsabilità soggettiva, che
lega il giudizio sul comportamento all'intenzione dell'azione: il bambino inizia a capire
che quando compie un danno, e lo fa volontariamente, la forma di responsabilità è di-
versa rispetto a quando il danno è provocato in maniera involontaria. Dopo i 9-10 anni
inizia quindi a capire che la responsabilità dell'individuo è legata alla sua intenzionalità
e ciò dimostra come lo sviluppo morale sia legato allo sviluppo di tipo cognitivo, alla
capacità del bambino di comprendere il senso delle situazioni. Per questa fase di età
Piaget parla di giustizia distributiva: “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto
a te”. Questa è legata a forme di interiorizzazione della regola: il bambino inizia a com-
prendere che se qualcosa è dannoso per lui, potenzialmente lo è anche per gli altri, perciò
è opportuno non portare avanti certi comportamenti. Secondo il principio della sanzione
per reciprocità occorre trovare una punizione che sia in grado di far capire la gravità
degli atti, ovvero non è sempre necessario punire il bambino, la sanzione non deve essere
fine a se stessa, ma deve avere l'obiettivo di fargli comprendere il senso della regola, il
fatto che determinati comportamenti non sono opportuni.
KOHLBERG
Kohlberg nel 1976 portò avanti una teoria ispirata al modello piagetiano, ma la sua
teoria ha come presupposto il concetto di sviluppo morale, inteso come uguale in tutti
gli esseri umani, indipendentemente dal contesto. Secondo Kohlberg lo sviluppo morale
prescinde dalla cultura di appartenenza, per cui le norme che dovrebbero regolare i rap-
porti interpersonali sotto il piano morale sarebbero comuni a tutte le popolazioni. Per
cercare di comprendere come si collocano e cosa pensano i soggetti rispetto a situazioni
che riguardano lo sviluppo morale, Kohlberg utilizza una metodologia, definita “dei di-
lemmi morali”: all'individuo vengono proposte alcune situazioni, che egli deve riuscire a
fronteggiare scegliendo tra due o più doveri, o principi morali, che ritiene più giusti.
Sono situazioni inventate, dilemmi a cui il soggetto deve dare una risposta affinché Ko-
hlberg possa analizzare le tipologie di risposte per cercare di comprendere, a livello di
sviluppo, in quale posizione il soggetto viene collocato. Uno di questi è il dilemma di
Heinz, un uomo la cui moglie è malata di cancro e potrebbe salvarsi solo grazie ad un
farmaco molto costoso. Heinz non ha i soldi per acquistare il farmaco ed è alle prese col
dilemma: rubare il farmaco o veder morire la propria moglie? Al soggetto viene chiesto
cosa dovrebbe fare Heinz e quali sono i motivi alla base della sua scelta. Kohlberg pone
tale quesito a bambini e adulti, in base alle risposte lo studioso individua tre livelli prin-
cipali:
➢ un livello convenzionale, in cui la moralità è incentrata sul bisogno di rispettare
le regole sociali, definito convenzionale perché è legato alle regole che i soggetti
si sono dati all'interno di un gruppo sociale (regole di appartenenza a quel conte-
sto), per cui vanno rispettate in quanto rappresentano una convenzione.
Es. di risposte che stanno dentro il livello convenzionale sono: “Heinz dovrebbe
rubare la medicina perché è ciò che farebbe un bravo marito”, oppure al contrario
“Heinz non dovrebbe rubarla perché i cittadini non rubano”. Ciò che Kohlberg
vuole mettere in evidenza non è tanto il rubare o non rubare, ma come il soggetto
ragiona in termini di convenzione all'interno delle regole del proprio contesto so-
ciale;
➢ un livello post-convenzionale, in cui la moralità è incentrata su un codice morale
che va oltre le regole sociali convenzionali. Secondo Kohlberg solo una parte della
popolazione raggiunge tale livello.
Es. di risposta all'interno di questo livello è: “Heinz dovrebbe rubare la medicina
perché ci sono momenti in cui è necessario disobbedire alle regole e preoccuparsi
del benessere comune”. Trascendere, andare oltre alle regole sociali, in questo
caso significa che il benessere comune va oltre la regola del non rubare;
➢ un livello pre-convenzionale si presenta e si può osservare nei bambini fino ai 9-
10 anni (in termini di modello piagetiano, siamo al termine della fase operatoria
concreta, ossia prima della comparsa del pensiero astratto, per cui la norma è
ancora legata alla punizione). Il bambino agisce in funzione di una possibile pu-
nizione, perciò considera prevalentemente il proprio punto di vista, c'è consape-
volezza del punto di vista dell'altro ma non dei principi che regolano il giudizio
morale. Come affermava Piaget, lo sviluppo morale non può prescindere dalla
maturazione cognitiva, quindi dalla capacità di fare riflessioni sul giudizio mo-
rale, il quale compare solo negli anni successivi.
Kohlberg suddivide i tre livelli in sei stadi (due per ogni livello).
Nel livello pre-convenzionale, il primo stadio è legato al concetto di premio e punizione:
“non si ruba per non finire in prigione” oppure “si ruba il farmaco per non essere giudi-
cati male dagli altri per aver fatto morire la moglie”. Vi è una morale di tipo eteronoma,
analoga a quella definita da Piaget, per cui la norma si rispetta perché qualcun altro ha
stabilito una serie di regole, perciò il soggetto si deve adeguare, ma non è assolutamente
presente un'idea di giudizio morale. Nello stadio 2 c'è un orientamento individualistico
e strumentale, all'interno di questo stadio si riconosce che i bisogni possono essere di-
versi e bisogna rispettarli, non c'è un criterio universale di giustizia, ognuno ha i propri
interessi che possono entrare in conflitto con gli interessi dell'altro; siamo sempre all'in-
terno di una prospettiva eteronoma, seppur leggermente più evoluta, tuttavia ancora
lontana dalla costruzione di un concetto interno di morale.
Il livello convenzionale si sviluppa dalla preadolescenza fino alla tarda adolescenza. Du-
rante tutto il periodo dell'adolescenza c'è una presa di consapevolezza del carattere con-
venzionale e societario delle norme, ovvero delle regole di ogni società e ogni cultura.
All'interno di questo livello abbiamo gli stadi 3-4, che sono stadi evolutivi all’interno
dello sviluppo morale. Lo stadio 3 viene definito lo stadio dell'orientamento del bravo
ragazzo, in cui il rispetto delle norme è realizzato in modo tale da rispondere alle aspet-
tative della comunità, perciò ci sono dei valori e delle aspettative per cui il bravo ragazzo
è colui che si adegua a tali norme. Nelle risposte al dilemma di Heinz, che corrispondono
al rubare perché la famiglia lo giudicherebbe inumano oppure non rubare perché non
sopporterebbe l'onta di essere giudicato un ladro dalla comunità, questo tipo di compor-
tamento, a prescindere dall'azione in sé (rubare/non rubare), è un comportamento di
tipo convenzionale, dove il soggetto si adegua alle regole del proprio sistema di apparte-
nenza. Nello stadio 4, definito “del sistema sociale e della coscienza”, il sistema sociale
si basa sul mantenimento e il rispetto delle regole, per cui le norme non sono legate al
rapporto affettivo con la propria comunità, ma riguarda la società nel suo insieme,
quindi all'interno di questo stadio vi è un ampliamento del contesto. Heinz ruba perché
deve salvare la moglie, tuttavia dovrà accettare la condanna che deriva dal sistema giu-
diziario, oppure non ruba perché la legge va rispettata anche se va contro i sentimenti
personali.
Nello Stadio pre-convenzionale c'era una sorta di morale di tipo eteronoma, dove il bam-
bino si adeguava alle prescrizioni del genitore; nello stadio 3 si va verso la comunità
pubblica, la comunità di appartenenza; nello stadio post-convenzionale le norme morali
vanno al di là della società e sono legate a un sistema di principi astratti universali.
Post-convenzionale, perciò, significa che va oltre le convenzioni sociali. Lo stadio 5 è
legato all'orientamento del contratto sociale e dei diritti individuali: le regole morali non
sono fisse e modificabili, ma create in base a un contratto sociale; alcuni valori sono
assoluti, anche se non condivisi da tutti, quindi si inizia a prescindere dai valori conte-
stuali della propria cultura di appartenenza. Heinz può rubare perché una legge va ri-
spettata, ma non può violare il diritto universale alla vita, quindi vi è certamente la
legge, però ci sono dei valori che vanno oltre la legge stessa, come il diritto alla vita.
Heinz va condannato, ma la legge andrebbe rivista per renderla più flessibile rispetto a
tali valori universali. Lo stadio 6 è lo stadio più evoluto, c'è l'orientamento della co-
scienza e dei principi universali: si seguono principi etici universali che possono non
essere iscritti nelle leggi e dei quali ognuno risponde con la propria coscienza, sono prin-
cipi astratti e non regole concrete di comportamento. Heinz in questo caso ruba perché
la questione si pone in una sfera diversa da quella della legge, cioè in quella dei principi
etici universali.
NUCCI E TURIEL
Nucci e Turiel hanno criticato il lavoro di Kohlberg, affermando che Kohlberg crea un
po' di confusione tra regole morali e convenzioni. Essi, infatti, tendono a distinguere
questi aspetti: un ambito morale riguarda il benessere, la giustizia e i diritti umani,
mentre le prescrizioni morali sono obbligatorie, generalizzabili a tutte le situazioni, im-
personali, indipendentemente dal contesto in cui è stata istituita tale prescrizione, e non
sono modificabili. Quindi la componente morale prescinde dalla regola, dalla legge che
ogni Stato si può dare.
Es. l'ambito convenzionale riguarda le regole stabilite dall’autorità (es. gruppi sportivi
che si danno delle regole): sono convenzioni che vanno rispettate, in cui la trasgressione
delle regole imposte può sfiorare la componente morale, tuttavia, secondo questi stu-
diosi, bisogna fare una distinzione più chiara. La componente convenzionale riguarda
aspetti e regole non universali, come la possibilità che hanno i bambini di potersi espri-
mere all'interno delle culture: in alcune culture il bambino viene spinto ad esprimere sé
stesso quando si trova in contesti adulti, in altre culture, sempre all'interno di contesti
adulti, il bambino dovrebbe tacere e ascoltare; pertanto le convenzioni non sono genera-
lizzabili, perché non valgono per tutte le situazioni, ma al cambiare delle situazioni cam-
biano le convenzioni.
I bambini, secondo questi studiosi, all'età di 2 anni sanno già differenziare tra i vari
ambiti: se esiste all'interno delle relazioni interpersonali la regola per cui non bisogna,
per esempio, fare del male a un proprio pari, a quest'età il bambino non ha chiaro il
significato morale, però inizia a differenziare che non fare del male è legato, dal fatto
che c'è un divieto, ad una sanzione da parte dell’adulto, e inizia a comprendere che non
è giusto perché fare del male a un altro non è una cosa buona.
HOFFMAN: RADICI AFFETTIVE DELLO SVILUPPO MORALE
Alcuni studiosi hanno iniziato ad approfondire la componente affettiva, quindi le emo-
zioni dello sviluppo morale, e hanno individuato i presupposti per lo sviluppo morale
stesso: non si può comprendere la morale se ci si limita alla sola componente cognitiva,
occorre tenere conto del vissuto emozionale. L’empatia è alla base delle origini affettive
dello sviluppo morale, è l'attivazione di processi psicologici che fanno sì che una persona
abbia sentimenti più congruenti con la situazione di un'altra persona, piuttosto che con
la propria.
Lo sviluppo dell'empatia attraversa una serie di percorsi evolutivi e sono stati studiati
e osservati 5 stadi in cui l'empatia si modifica durante lo sviluppo, passando da una
modalità primitiva a quella più matura. Non si può prescindere dalla componente fisio-
logica di maturazione del nostro sistema nervoso, quindi della presenza di popolazioni
neuronali che favoriscono la comprensione empatica, per la quale svolgono un ruolo im-
portante i neuroni specchio, popolazioni neuronali che implicate nel sintonizzare l'indi-
viduo che, all'interno di una relazione interpersonale, osserva una situazione ed è ca-
pace, attraverso la loro attivazione, di sintonizzarsi con la mente dell'altro.
Abbiamo uno stadio zero, uno stadio del contagio emotivo, ovvero il neonato, già nelle
primissime fasi, quando sente piangere un altro bambino, mostra una sorta di contagio
e anche lui piange, come se ci fosse una sorta di connessione emotiva tra le menti.
Lo stadio 1 è quello dell'empatia “egocentrica” (dai 6 mesi), per cui vi è una forma di
sintonia con l'altro bambino che si trova nelle sue vicinanze ed esprime le stesse emo-
zioni, però i suoi comportamenti di autoregolazione sono finalizzati al proprio stato emo-
tivo e non a quello dell’altro. Il concetto di egocentrismo è dato dagli aspetti del funzio-
namento della mente che riguardano l'individuo quando non è ancora in grado di met-
tersi nella prospettiva dell'altro.
Lo stadio 2 è definito di empatia quasi egocentrica, in cui abbiamo la comparsa di una
spinta alla cura del malessere di un altro bambino: il bambino tende a prendersi cura
dell'altro, però ancora non c'è una profonda comprensione dello stato della mente dell'al-
tro, anche dal punto di vista dello sviluppo cognitivo non ci sono le strutture adeguate
per poterlo comprendere.
Nello stadio 3 abbiamo una forma di empatia veridica (dai 3,5- 4 anni di età): grazie alla
maturazione vi è una comprensione dell'altro e quindi la spinta alla cura si fa più ade-
guata.
Lo stadio 4 richiede forme di maturazione cognitive più avanzate, che sono tipiche della
fase preadolescenziale e adolescenziale, in cui l'empatia riguarda la condizione esisten-
ziale dell'altro a prescindere da che cosa, in quel momento, l'altro stia vivendo; sono
necessarie capacità di astrazione e di rappresentazione, c'è una forma di astrazione
dalla realtà concreta e una rappresentazione più generalizzata della condizione dell'al-
tro.
DALL’EMPATIA ALLA MORALITÀ
Alla base di un pensiero e di un comportamento morale c'è un'esperienza empatica. Per-
ché ciò si verifichi è necessario che tale esperienza diventi “simpaty”, che riguarda il
concetto di compassione, un sentire insieme, un sentimento che spinge a prendersi cura
di una persona.
Gli attori di questa dinamica interattiva sono dunque la vittima (distress), che soffre
una condizione di stress, e l'osservatore (distress empatico), che prova una forma di
stress empatico. Questa forma di stress dev’essere adeguata, in quanto non sempre l'em-
patia da sola è sufficiente per poter sentire ciò che l'altro sta vivendo: quando il distress
empatico è troppo elevato, l’osservatore può provare una sofferenza molto intensa, che
non gli permette di prendersi cura dell'altro, ciò non produrrà un comportamento morale
prosociale.
Questo aspetto è importante all'interno delle relazioni di cura, sia per un educatore che
per uno psicologo: per potersi occupare di qualcun altro bisogna sentire questo bisogno
di aiutare l'altro, però forme di invischiamento eccessivamente forti portano il soggetto
a una condizione quasi di inazione, facendo diventare difficile portare avanti una rela-
zione d'aiuto.
SOCIALIZZAZIONE MORALE E STILI DISCIPLINARI
La socializzazione morale si riferisce ai processi cognitivi, affettivi e sociali attraverso
cui i bambini assimilano e rielaborano regole e norme della comunità di appartenenza.
Quindi c'è la costruzione di una conoscenza morale che diventa un meccanismo psicolo-
gico, il quale guiderà le azioni del soggetto anche in assenza di controllo: c'è una forma
di interiorizzazione di tali valori che diventano una coscienza morale.
Ci possono essere forme disciplinari utilizzate dai genitori basate sul potere, con forte
asimmetria fra genitore e bambino, dove il genitore afferma che la regola va rispettata
perché lo dice lui ed è intransigente, perciò il bambino aderisce alle richieste per timore
di una sanzione da parte del genitore e si comporta bene perché altrimenti i genitori si
potrebbero arrabbiare e potrebbero punirlo.
Un secondo tipo di disciplina è quella basata sul “sul rito dell’amore”, per cui vi è un'a-
desione del bambino alle richieste di disciplina per paura di perdere l'affetto dei genitori.
Frasi come: “se non fai così, mamma non ti vorrà più bene” o addirittura “se non fai così,
mamma potrebbe morire”, andrebbero evitate accuratamente.
C’è poi la disciplina di tipo induttivo, in cui il bambino è stimolato dai genitori a mettersi
nei panni dell'altro e a valutare le conseguenze delle proprie azioni. Secondo gli studiosi
ciò favorisce l'interiorizzazione dei principi morali: i primi due stili disciplinari possono
portare ad un’adesione al sistema di regole e si possono avere bambini abbastanza di-
sciplinati, però l'interiorizzazione dei principi morali non avviene (interiorizzazione
delle norme di tipo eteronomo secondo Piaget e Kohlberg).
Un altro aspetto riguarda l’aggressività. Secondo l’approccio etologico l’aggressività è
una componente che noi abbiamo ereditato nella nostra filogenesi, perché ci ha permesso
di difenderci dagli attacchi dei predatori e quindi di evolverci e non estinguerci. L’ag-
gressività sta a cavallo tra lo sviluppo tipico e quello atipico: non è una componente
atipica, perché molti comportamenti aggressivi sono presenti durante la prima infanzia
e sono comportamenti abbastanza normali, che, in seguito, devono essere regolati a se-
conda dei contesti. Tuttavia con aggressività intendiamo un comportamento volto a dan-
neggiare o ferire una o più persone, dove la componente intenzionale dev’essere centrale.
L’aggressione può essere:
➢ di tipo strumentale: l'altro viene aggredito non come fine a sé stesso, ma è funzio-
nale al raggiungimento di un obiettivo (tra bambini questo si osserva quando un
bambino pizzica o colpisce un altro bambino per prendergli un gioco);
➢ di tipo reattivo: in seguito a provocazioni intense da parte degli altri, oppure in
seguito a frustrazione, si può aggredire l'altro perché ha prodotto una rabbia
molto intensa, a cui è seguita una forma di aggressività;
➢ forme relazionali o forme di aggressione indiretta: sono quelle aggressioni che
danneggiano, per esempio, l'immagine dell’altro o lo mettono in cattiva luce per
danneggiarne le relazioni.
Secondo alcuni studi, il genere femminile tende a utilizzare maggiormente le forme di
aggressività relazionale, che sono più indirette, mentre i maschi sono tendenzialmente
più espliciti e diretti nella manifestazione dell'aggressività; altri studi non hanno con-
fermato questa differenza e secondo loro ciò dipende dalle situazioni, per cui anche i
maschi possono utilizzare questa strategia indiretta a seconda dei contesti. Secondo al-
cuni studiosi che hanno analizzato il processo cognitivo, l'aggressività è l'esito di un
processo di problem solving suddiviso in vari stadi (5-6 passaggi che portano all'azione
aggressiva):
➢ il primo passaggio riguarda la codifica dell'informazione, del comportamento
dell'altro, il quale sta avendo un atteggiamento scorretto nei nostri confronti: si
tratta dunque di capire se il comportamento dell’altro ha una bassa o alta rile-
vanza (il che è soggettivo);
➢ il secondo passaggio riguarda l'attribuzione delle intenzioni: il torto che noi su-
biamo nasce perché l'altro inavvertitamente ha avuto un comportamento scor-
retto oppure aveva dichiaratamente un atteggiamento di tipo ostile e finalizzato
a finirci?
➢ altro step è quello della formulazione dell'obiettivo, ovvero che cosa facciamo dal
punto di vista della risposta comportamentale?
➢ si valuta poi se quel tipo di risposta è funzionale o meno per ripristinare un equi-
librio precedente, ci possono essere dei processi di mediazione mentale che po-
trebbero portare il soggetto a usare altre strategie piuttosto che l'aggressività;
➢ come ultimo passaggio vi è la presa di decisione. In questo caso sono fortemente
implicati i valori morali valori morali dell'individuo.
Secondo alcuni studiosi un comportamento aggressivo può essere una sorta di deficit,
dovuto a forme di elaborazione disfunzionali all'interno di questi singoli step, ovvero un
individuo potrebbe interpretare come ostile un comportamento dell'altro che in realtà
non lo era. Anche nell’ultimo stadio, quello dei principi e dei valori morali, possiamo
avere dei comportamenti devianti durante l'adolescenza, dove l’utilizzo dell'aggressività
può essere alla base della costruzione di un'identità deviante.
Bandura ha proposto la teoria dell'apprendimento sociale, secondo cui il fatto di assi-
stere a una serie di situazioni aggressive, può portare il bambino ad imitare e a ripetere
quel comportamento di tipo aggressivo (Esperimento della bambola Bobo). L’esperi-
mento ha dimostrato scientificamente, attraverso una procedura di tipo sperimentale
(con soggetti divisi per gruppi, sottoposti a stimoli differenti a seconda dei gruppi) che
assistere ad una scena “violenta” porta a forme di apprendimento per imitazione e i
bambini che assistono ad azioni aggressive, tendono a ripeterle.
Secondo gli studiosi vi sono 3 situazioni differenti in differenti fasi del ciclo di vita. Il
primo è il bullismo: la messa in atto, in gruppi di pari, di ripetuti atti aggressivi verso
una vittima, forme di abuso di potere e comportamentale riguardo soggetti che vengono
identificati come vittima perché posseggono caratteristiche relazionali e talvolta cogni-
tive che vengono prese di mira (infatti, a volte, le vittime sono persone che hanno dei
deficit anche di tipo cognitivo e sono persone che hanno difficoltà di tipo socio-relazio-
nale). Il bullismo può essere inteso come forma di una violazione di principi morali.
Porta a vantaggi materiali, in quanto il bullo, all'interno di particolari contesti, diventa
la figura dominante, perché attraverso questo tipo di comportamento riesce ad avere
maggiore affermazione all'interno del suo gruppo di appartenenza.
Vi sono anche componenti antisociali e delinquenziali, in particolar modo durante la
preadolescenza e l’adolescenza, ma esistono varie forme di bullismo anche precedenti,
mentre negli adulti abbiamo forme di sviluppo morale atipico che riguardano meccani-
smi di disimpegno morale.
Nel ruolo assolto dai potenziali partecipanti al comportamento di bullismo abbiamo va-
rie tipologie:
➢ l'aiutante, colui che collabora con il bullo: non prende l'iniziativa, però contribui-
sce all'azione di bullismo;
➢ i sostenitori, ossia degli osservatori che non agiscono, a differenza degli aiutanti,
però ne favoriscono l'azione;
➢ gli spettatori passivi sono quelli che guardano e non sanno che tipo di ruolo assu-
mere, se difendere o meno la vittima, e sono soggetti che possono aver paura di
difendere la vittima per non diventare a loro volta oggetto dell'aggressività del
bullo e dei suoi compagni; mantengono una posizione apparentemente neutrale;
➢ i difensori veri e propri, coloro che si identificano empaticamente con la vittima e
cercano di limitare l'azione del bullo.
La componente cognitiva dell'empatia è definita perspective-taking e si tratta di un’abi-
lità che permette di comprendere gli stati mentali dell'altro, la quale però non entra nel
merito del sentire emotivo dell'altro. Secondo alcuni studiosi, i bulli sarebbero maggior-
mente competenti su questo piano, mentre per quanto riguarda la componente affettiva,
mostrerebbero maggiori mancanze, per cui il bullo sarebbe meno capace di sintonizzarsi
affettivamente con le emozioni dell'altro e con il grado di sofferenza inflitta. Da una
parte, dunque, il bullo ha una certa abilità di tipo cognitivo nell’impersonarsi nello stato
della mente dell'altro e nell'individuare le sue forme di debolezza, ciò che può diventare
oggetto di attacco, però contemporaneamente c'è un’assenza della capacità del sentire
emotivo.
Un'altra componente, che temporalmente si colloca più avanti, è quella dell’antisocialità
e delinquenza in adolescenza. Forme di bullismo perpetrate nel tempo possono diven-
tare potenzialmente anche forme di delinquenza conclamate e di antisocialità negli anni
successivi. Nell’antisocialità si registra un generale atteggiamento verso la violazione
di norme. Tuttavia, durante l'adolescenza, comportamenti di violazione delle norme pos-
sono rientrare all'interno di una forma di tipicità, non è detto che siano sintomi di anti-
socialità o di devianza, perché in qualche modo questi atteggiamenti di rottura delle
convenzioni durante l'adolescenza soddisfano alcune esigenze evolutive di crescita, come
l’affermazione di sperimentazione di sé, la verifica dei propri limiti, la ricerca di sensa-
zioni, la costruzione dell’identità, perciò se un soggetto ha interiorizzato moralmente
cos'è corretto oppure no, può arrivare alla soglia di forme di trasgressione che possono
essere più o meno gravi, però poi la forma di coscienza morale diventa una sorta di freno
nell'andare oltre, quindi parliamo di una sorta di trasgressione normo-critica delle re-
gole, per cui vi è una certa che criticità che sta all'interno di un range di normalità.
Inoltre vi sono forme di violazione di norme legate al bisogno di integrazione all'interno
del gruppo dei pari e di differenziazione oppure da quello degli adulti: la costruzione
dell'identità adolescenziale passa attraverso forme di identificazione col gruppo dei pari
e di separazione dalla famiglia. Adolescenti invece coinvolti in attività delinquenziali
presentano alcune caratteristiche decisamente più atipiche, troviamo infatti ritardi
nello sviluppo del giudizio morale: i primi due stadi della classificazione di Kohlberg,
quelli legati a una forma di moralità eteronoma, sono implicati in comportamenti delin-
quenziali dove i giudizi morali sono fondati su analisi di costi e benefici personali, senza
uno standard interno auto-regolatore di condotta, quindi il soggetto valuta se gli con-
viene o meno portare avanti un certo comportamento e talvolta si assume il rischio di
comportamenti devianti perché valuta che i benefici personali possono essere rilevanti.
Ci sono anche forme di distorsioni cognitive che sono state osservate all'interno di questi
comportamenti antisociali e delinquenziali, come la tendenza a colpevolizzare gli altri
per la propria immoralità che viene esemplificata con espressioni del tipo: “è la vita che
mi ha reso così”; “La colpa e degli altri!”. Queste forme di difesa rispetto ai propri com-
portamenti non portano a una riflessione, non portano a forme di autoregolazione o
all’interiorizzazione di morali. Riflessione necessaria per raggiungere lo stadio conven-
zionale o anche quello post-convenzionale, che richiedono forme di capacità di riflessione
molto profonde rispetto ai significati e ai valori etici, i quali esulano dai bisogni indivi-
duali. In questo caso i bisogni individuali sono molto egoistici e l'altro risulta essere
secondario rispetto ai propri obiettivi. Tali soggetti palesano spesso la tendenza a ipo-
tizzare sempre il peggio, tendono ad avere una prospettiva dell'esistenza apocalittica,
negativa, nella quale nessun miglioramento sociale è possibile se non a prezzo di un
rischio personale legato alle proprie trasgressioni e questa prospettiva pessimistica
viene utilizzata come forma di autogiustificazione delle proprie trasgressioni. In età
adulta abbiamo forme di allontanamento dalla componente morale, definite meccanismi
di disimpegno morale. Secondo Bandura, che ha formulato la teoria dell'autoefficacia
(self-efficacy), la condotta trasgressiva è regolata da due principali tipi di sanzioni:
quelle sociali e quelle internalizzate, che operano in modo anticipatorio rispetto al com-
portamento, per cui gli individui prima di mettere in atto un comportamento di trasgres-
sione anticipano mentalmente le conseguenze dell’azione. Le sanzioni sociali espongono
a una punizione/censura da parte della società, mentre le sanzioni internalizzate espon-
gono a sentimenti di autocondanna e di riprovazione, diminuendo, secondo Bandura, il
senso di autostima. Sono quindi soprattutto le sanzioni interne a determinare il com-
portamento individuale del soggetto: quanto più il soggetto ha interiorizzato una serie
di valori tanto più, in maniera anticipatoria, potrebbe evitare di portare avanti una serie
di comportamenti sia perché può essere esposto a forme di censura sociale o di punizione
sia perché se portasse avanti determinati comportamenti ne verrebbe meno il suo senso
di autostima e quindi anche la perdita del valore personale del soggetto stesso. L'emo-
zione tipica di queste forme di autocensura è il senso di colpa, attraverso il quale il sog-
getto entra in contatto con potenziali sanzioni legate ai suoi valori personali; quindi la
sofferenza che ne potrebbe derivare diventa una forma di auto sanzione. Bandura ri-
tiene però che i principi morali, quindi anche questa forma di auto-sanzione, non siano
sempre attivi nel regolare la condotta, ma vengano attivati o disattivati a seconda delle
circostanze e delle convenienze personali, per cui sarebbero forme di autoregolazione
morale, definite meccanismi disimpegno morale, che disimpegnano temporaneamente
la condotta dai principi morali, perciò si crea una sorta di separazione tra il comporta-
mento del soggetto e i principi morali che dovrebbero guidare il suo comportamento. I
vantaggi sono evidenti: se non si attiva quella forma di sanzione interna di cui parla
Bandura, l'individuo non vive quel senso di biasimo per aver trasgredito e la sua auto-
stima non risulta intaccata e in più vengono perseguiti una serie di vantaggi personali.
Bandura parla di 8 meccanismi principali:
➢ il primo è quello che lui chiama la giustificazione morale: per giustificare il pro-
prio comportamento il soggetto fa appello a fini “superiori” per mettere in ombra
la debolezza della condotta agita: “l'ho fatto per la famiglia”; “l'ho fatto per Dio!”;
➢ l'altro è l'etichettamento eufemistico, che consente di ridimensionare la dolorosità
delle conseguenze producendo una distorsione concettuale del vero significato
dell'azione, che risulta così mascherato. Questo è il meccanismo col quale si tende
a giustificare forme di pulizia etnica. Se si uccidono tante persone si potrebbero
attivare meccanismi interni di angoscia e per giustificare questo comportamento
si fa riferimento a forme più elevate: la pulizia etnica è portata avanti per fare in
modo di salvaguardare la razza di appartenenza;
➢ il terzo meccanismo viene definito confronto vantaggioso: si confronta la propria
azione con condotte moralmente peggiori, quindi ridimensionando la valenza im-
morale del proprio comportamento quando a qualcuno viene sottolineato un certo
comportamento facendo riferimento a un comportamento peggiore. Questo mec-
canismo permette al soggetto di trasgredire una serie di norme e sentire meno il
senso di colpa, perché comunque c'è qualcuno che fa peggio;
➢ il quarto è il dislocamento della responsabilità, quindi la responsabilità delle
azioni attribuita ad un terzo esterno, come ad esempio un'autorità, per cui la con-
dotta considerata scaturirebbe dai dettami della stessa. In questo caso possiamo
fare riferimento a ciò che accade durante una guerra, dove l'uccisione di altre
persone potrebbe risultare un'operazione difficilmente gestibile dal punto di vista
emotivo, però il soldato uccide perché ha ricevuto un ordine, il quale diventa una
forma di deresponsabilizzazione che permette all'individuo di auto-giustificare il
proprio comportamento;
➢ il quinto è la diffusione della responsabilità, che può generare un senso di non
imputabilità di fronte a colpe che, in quanto collettive, risultano non essere di
nessuno: quando a volte si dice che quello è un comportamento che fan tutti, che
è un comportamento diffuso, come guidare senza la cintura;
➢ il sesto è la distorsione delle conseguenze: ignorare o minimizzare le conseguenze
delle proprie azioni attraverso una “non considerazione” degli effetti di una
azione. Come nel bullismo, quando il bullo si giustifica dicendo che quello che lui
ha fatto era semplicemente uno scherzo, un gioco;
➢ un altro meccanismo è la deumanizzazione: si attribuisce alle vittime un’assenza
di sentimenti umani, quindi questo meccanismo non permette di sentire l'altro
empaticamente, perché si suppone che l'altro non abbia sentimenti. Questo è le-
gato anche al tema della pulizia etnica: nel momento in cui si considerano razze
o popolazioni intere da eliminare, le si considera senza sentimenti, cattive o po-
tenzialmente pericolose, per cui non viene attivato il meccanismo dell’empatia,
permettendo la messa in atto di una serie di reati nei loro confronti, senza sentire
sensi di colpa;
➢ un altro è l’attribuzione di colpa, intesa come responsabilità. Ci si convince che
l'offesa recata alla vittima è da lei pienamente meritata (se l’è cercata!).