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PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO

INTRODUZIONE
La psicologia dello sviluppo è lo studio dello sviluppo tipico e atipico delle competenze
cognitive, linguistiche, sociali, affettive, relazionali e dei processi che lo determinano in
una prospettiva ontogenetica, che include l’intero arco della vita.

La differenza principale tra ontogenesi e filogenesi è che la prima corrisponde allo studio
del soggetto, della sua crescita e del suo sviluppo all’interno della propria vita (storia
dell’individuo), mentre il secondo studia la storia della specie intera (importante da un
punto di vista evoluzionistico), ponendo l’accento sulle componenti genetiche e sulla se-
lezione naturale (comportamenti e funzioni fisiologiche, fisiche e psicologiche che sono
state selezionate e tramandate in quanto funzionali all’adattamento dell’organismo
all’ambiente), ma soprattutto sulla componente innata. In psicologia dello sviluppo par-
liamo di ontogenesi e filogenesi in quanto sono stati a lungo il fulcro di dibattito portato
avanti nel tempo che ha coinvolto anche i modelli della psicologia dello sviluppo stessa,
portando a domandarsi se ad avere maggior peso nello sviluppo fosse la componente
innata o la componente ambientale.

La psicologia dello sviluppo studia anche i cambiamenti sistematici che caratterizzano


l’evoluzione psicologica di ciascun individuo nel corso della propria esistenza e, in par-
ticolare, si occupa dei processi, ossia modalità di funzionamento psicologico tipiche di
diversi periodi della vita, in quanto esito temporaneo del periodo stesso. L’esito di un
processo può essere anche di tipo cumulativo. Nello sviluppo l’esito è sempre di tipo
probabilistico, perché non può essere determinato in anticipo.

Es. avere un buon corredo genetico non è garanzia di successo, in quanto se la compo-
nente innata non incontra un ambiente che possa favorirne la maturazione, tale carat-
teristica non si manifesterà nemmeno.

I fattori che entrano in gioco durante lo sviluppo sono tanti, perciò si parla di comples-
sità: bisogna assumere una prospettiva di tipo sistemico, che esclude il determinismo di
tipo genetico e permette di vedere lo sviluppo come interattivo (vi è un’interazione tra
fattori innati di tipo genetico e fattori di tipo ambientale, interazione in cui nessuno dei
due fattori risulta predominante).

I processi di sviluppo (o domini dello sviluppo) possono essere suddivisi in tre macroaree:

➢ studio della crescita fisica, inclusi lo sviluppo corporeo e le abilità motorie → cre-
scita fisica di ogni parte del corpo e i cambiamenti nello sviluppo motorio e sen-
soriale, pone l’accento su come cambi la percezione;
➢ studio degli aspetti cognitivi dello sviluppo, inclusi la percezione, il linguaggio e
la memoria → cambiamenti che avvengono all’interno dei processi intellettivi le-
gati al pensiero, all’apprendimento, alla memoria, al giudizio e al problem sol-
ving;
➢ studio degli aspetti psicosociali, incluse le emozioni e i rapporti interpersonali →
sviluppo sociale.

Alcuni psicologi considerano anche una quarta macroarea, definita dallo sviluppo per-
sonale con la componente individuale, che riguarda lo sviluppo del concetto di sé, di
attaccamento, della fiducia, delle emozioni e della costruzione dell’identità.

I modelli teorici che hanno contribuito alla costruzione di una solida base da cui poi ha
preso origine la psicologia dello sviluppo sono:

➢ psicologia evoluzionistica → riguarda ciò che è innato, ossia tutti i comportamenti


di selezione filogenetica, cerca di rispondere alla domanda “perché ci compor-
tiamo così?”; ha le sue origini nella teoria di Darwin, che si domandava quali fos-
sero le capacità adattive dell’individuo rispetto al proprio contesto ambientale; la
selezione naturale permette appunto di escludere gli individui incapaci di adat-
tarsi ai cambiamenti;
➢ psicoanalisi → è un modello oggi superato da un punto di vista scientifico, soprat-
tutto in quanto basava il suo modello teorico sullo sviluppo e sulla maturazione
dell’individuo sulla narrativa, sulla storia raccontata dai pazienti (con disturbi
psicopatologici) riguardo al proprio sviluppo, anziché dall’osservazione diretta del
soggetto durante le fasi dello sviluppo stesso. Questo portò Freud alla formula-
zione delle fasi dello sviluppo psicosessuale, il cui presupposto era dato dallo spo-
stamento delle zone erogene; ciò non risulta attendibile da un punto di vista scien-
tifico anche perché non abbiamo la capacità di ricordare eventi accaduti attorno
ai 2 anni di vita (memoria episodica), in quanto la struttura dell’ippocampo non
è ancora maturata. Inoltre, la memoria dell’adulto viene costantemente “aggiu-
stata”, tantopiù nei casi di disturbi psicopatologici;
➢ teoria dell’attaccamento → questa teoria di Bowlby supera i precedenti modelli
psicoanalitici; è una teoria etologica, che si basa sullo studio degli esseri viventi
all’interno del loro ambiente naturale (osservazione naturalistica, il ricercatore
non manipola il contesto che osserva; questo tipo di osservazione può essere usata
per osservare i bambini in un contesto sociale e valutare quali tendano ad avere
più caratteristiche dinamiche e interattive e quali più marginali → nel socio-
gramma viene contato il numero delle interazioni e i loro tempi). Grazie alla teo-
ria dell’attaccamento è possibile scoprire che tipo di genitori abbia avuto un bam-
bino;
➢ comportamentismo → modello teorico centrale dello sviluppo dell’individuo, su-
perato in quanto non riuscì a spiegare adeguatamente il funzionamento della
mente. Il modello utilizzato era quello S-R, ossia stimolo-risposta, ma non si oc-
cupa di cosa accade nella mente del soggetto. Uno psicoterapeuta di questa cor-
rente non entra nel merito della ristrutturazione globale dell’individuo, ma si li-
mita a lavorare in modo specifico sul problema;
➢ cognitivismo → modello che rimanda ai processi mentali che costruiscono le rap-
presentazioni di significato della realtà (modo in cui conosciamo la realtà);
➢ costruttivismo → evoluzione del modello comportamentista-cognitivista, parte
dal presupposto che la conoscenza non è oggettiva, non esiste una realtà ogget-
tiva, anzi, questa viene costruita dal soggetto, che diventa un costruttore attivo
della conoscenza;
➢ teoria dei sistemi evolutivi → studia lo sviluppo mettendo insieme l’influenza
delle varie prospettive, dei vari approcci e dei vari elementi che possono determi-
nare lo sviluppo stesso, elementi che vanno a determinare l’evoluzione di un pro-
cesso.

Quando si parla di ciclo di vita si intende lo sviluppo durante l’arco dell’intera vita del
soggetto, caratterizzato da complessità e multidimensionalità, che rimandano alla con-
cezione sistemica (i fattori che costituiscono lo sviluppo sono molteplici). Lo sviluppo
atipico evidenzia quanto le persone si possano allontanare dalla tipicità dello sviluppo
(intesa come capacità del soggetto di rispondere adeguatamente agli stimoli ambientali,
quindi di adattarsi in maniera sufficientemente adeguata al contesto). Quando si parla
di sviluppo atipico si parla anche di problematiche dello sviluppo e ci serve per compren-
dere lo sviluppo tipico. Il concetto di tipico fa riferimento al concetto di stadio: gli stadi
sono finestre temporali utilizzate per dividere lo studio del soggetto (ad ogni stadio dello
sviluppo il soggetto acquisisce delle competenze specifiche, concetto molto utilizzato da
Piaget), servono dunque per strutturare e organizzare temporalmente le fasi evolutive
dei soggetti. Le neuroscienze dello sviluppo sono fondamentali per capire cosa cambia
da un punto di vista neuro-fisiologico durante lo sviluppo. La psicologia comparata, im-
portante da un punto di vista filogenetico, è utilizzata per comprendere lo sviluppo
umano e cerca di studiare le somiglianze e differenze tra i primati umani e quelli non
umani e gli altri animali. Abbiamo infine la da un lato la natura, sinonimo di innato, e
dall’altra la cultura, sinonimo di ambiente: questi due elementi vengono integrati per
favorire e determinare lo sviluppo del soggetto.

Con il concetto di ciclo di vita si supera quindi la concezione precedente secondo cui l’età
evolutiva, intesa come lo sviluppo del soggetto, termina con l’adolescenza: la nuova con-
cezione comprende tutto l’arco della vita, a partire dal concepimento stesso, quindi dallo
sviluppo prenatale. Già per quanto riguarda lo sviluppo prenatale troviamo il concetto
di ambiente e genetica strettamente legati, in quanto entrambi determineranno la ma-
turazione del soggetto (da embrione a feto a bambino etc.). Quindi, le influenze ambien-
tali (come lo stress materno o forme di intossicazione materna, es. sindrome da feto
alcolica) possono avere un notevole impatto sui bambini sia durante la gestazione che
dopo la nascita.

Ci sono molti studi in corso sull’ambito delle influenze genetiche e dell’ambiente perché,
per esempio, parlando di sviluppo atipico, negli ultimi anni c’è stata un’esplosione di
diagnosi di autismo. Questo è sicuramente dovuto alle metodologie diagnostiche evolute
rispetto al passato, ma la percentuale di casi è talmente elevata che secondo alcuni stu-
diosi non può essere spiegata solamente da questo. Negli anni ’70 alcuni studiosi attri-
buivano l’autismo all’incapacità di alcune madri nel prendersi cura del bambino, defi-
nite madri frigorifero in quanto considerate troppo distaccate: il bambino non svilup-
pava la competenza relazionale in quanto il proprio caregiver non gli insegnava come
relazionarsi adeguatamente con il mondo. Infatti, tipica del bambino autistico è la diffi-
coltà o incapacità a mantenere lo sguardo all’interno di una relazione e di mantenere
una relazione vera e propria con il proprio conspecifico. L’autismo era quindi spiegato
come una forma di ritiro dall’ambito sociale. Oggi tutti gli studiosi sono d’accordo nell’af-
fermare che l’autismo non è di natura ambientale, bensì genetica. Oggi si parla peraltro
di spettro dell’autismo perché si può avere un autismo ad alto funzionamento e uno a
basso funzionamento, che rispondono in maniera molto diversa ai trattamenti riabilita-
tivi.

Le ricerche attualmente stanno cercando di capire se la genetica, intesa come codice che
determina la maturazione (ossia lo sviluppo proteico, quindi accrescimento e matura-
zione dell’organismo e lo sviluppo del cervello), è influenzata dall’ambiente e, in caso di
risposta affermativa, in che modo fattori esterni di tipo ambientale entrino e influenzino
la maturazione del sistema nervoso del bambino. Oggi lo studio dello sviluppo inizia a
partire dal concepimento; quindi, si tiene conto anche dei nove mesi fondamentali per
la maturazione del feto e del sistema nervoso dell’individuo, di conseguenza la compo-
nente ambientale è fondamentale per la maturazione dello sviluppo (come abbiamo vi-
sto, fattori esterni ambientali possono avere ampia influenza sullo sviluppo, a prescin-
dere dai fattori genetici).

Ciclo di vita, quindi, include dal concepimento alla morte, incluse tutte le fasi di mezzo
come la nascita, l’infanzia, l’età adulta, la tarda età adulta e la vecchiaia, che servono
per definire dove si trova un soggetto durante la sua esistenza. Ci sono anche delle sud-
divisioni temporali di massima, perché sono età in cui avvengono dei cambiamenti si-
gnificativi, in particolare dal punto di vista psicosociale. L’ambiente, inoltre, propone
delle sfide che mettono in discussione le strategie di adattamento che il soggetto aveva
adottato fino a quel momento. Per esempio, secondo diversi studi, l’età adolescenziale
non termina più intorno ai 18-20 anni, ma si parla di adolescenza prolungata, che ter-
mina intorno ai 25-30 anni, periodo di acquisizione dell’età adulta in cui il soggetto ac-
quisisce una vera e propria autonomia ed entra nell’età adulta (alcuni soggetti hanno
difficoltà a raggiungere questa condizione di autonomia, come staccarsi dalla famiglia
di origine e costruire la propria autonomia personale e creare la propria famiglia). È
stata rivista anche l’età oltre i 65 anni, che prima corrispondeva all’età di pensiona-
mento, che adesso è molto più flessibile, di conseguenza si può distinguere l’anzianità
in due periodi: anziani giovani 65-75 anni e anziani vecchi. Queste suddivisioni, oltre ad
essere di natura biologica, sono anche di natura culturale.

Tornando al dibattito natura-cultura, la domanda principale (ormai superata) era: lo


sviluppo è influenzato prima di tutto dalla natura (intesa come l’eredità biologica e ge-
netica dell’individuo) o dalla cultura (intesa come le influenze ambientali a cui è esposto
l’individuo)?
I sostenitori della prospettiva biologica ritenevano che l’influenza del patrimonio gene-
tico fosse più significativa: siamo ciò che siamo destinati a diventare perché è ciò che c’è
scritto nel nostro codice genetico. Al contrario, i sostenitori della cultura ritenevano che
le esperienze ambientali che l’individuo fa durante il suo sviluppo siano più influenti.

Esponente della visione culturale/ambientale è John Watson, uno dei capiscuola del
comportamentismo, che afferma la possibilità, a prescindere dalle basi innate e motiva-
zionali, di addestrare il soggetto, istruirlo e formarlo fino a farlo diventare ciò che si
vuole (prendendo un bambino qualsiasi, da un contesto qualsiasi, lo si può formare per
farlo diventare un avvocato o un ladro), evidenziando la componente ambientale. Il mo-
dello sul quale si basa la teoria dei comportamentisti (tutt’ora attivi, nonostante il mo-
dello teorico-scientifico sia stato superato) è il modello S-R (stimolo risposta), che ha il
limite di non occuparsi dei processi mentali e cognitivi di che cosa accade nell’elabora-
zione mentale del soggetto quando questo riceve uno stimolo. Si concentra, invece, sul
modo in cui il soggetto risponde a determinati stimoli, osservando e misurando queste
risposte. Se si stimola un soggetto sin dalla prima infanzia, rinforzandolo a portare
avanti una serie di comportamenti, il bambino quando diventerà adolescente e poi
adulto diventerà quello che è stato rinforzato a fare durante il suo sviluppo. Studi suc-
cessivi dimostrano che il rinforzo funziona ed è un eccellente strumento di tipo educativo
e rieducativo, molti interventi di tipo terapeutico ne fanno uso, come quelli dedicati ai
disturbi dell’apprendimento o alla riabilitazione nell’autismo, in quanto è fondamentale
per produrre processi di cambiamento, in modo particolare con specifici comportamenti
disfunzionali. Il comportamentismo come modello teorico e psicoterapico è estrema-
mente efficace per lavorare sui singoli sintomi, perché ritiene non sia importante ciò che
succede dentro la mente, quello che è importante è cambiare una serie di comportamenti
che sono potenzialmente funzionali. Il modello comportamentista entra in crisi negli
anni ’60 perché non riesce a fornire una risposta a quelli che sono i comportamenti legati
alle motivazioni del soggetto: Watson prova a formulare un concetto secondo il quale
condizionare il bambino con amore e affetto creerà adulti deboli e dipendenti, concetto
che però verrà smentito dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby che dimostra che una
scarsa affettività durante lo sviluppo favorisce l’insorgere di problemi psichici. Il com-
portamentismo adotta la visione ontogenetica, si concentra sulla storia dell’individuo,
la quale può determinare una serie di cambiamenti.

Ciò che non riusciva a spiegare il comportamentismo in termini di evoluzione personali


e motivazioni di base ha provato a spiegarlo la psicologia evoluzionistica, che studia il
comportamento a partire dalle predisposizioni biologiche, le quali si sono evolute per
favorire la sopravvivenza della specie, richiamando il modello di Darwin della selezione
naturale: gli esseri umani, così come altri primati, nel corso della filogenesi hanno sele-
zionato una serie di comportamenti perché nella storia della specie hanno garantito una
maggiore sopravvivenza. Uno degli aspetti centrali nella psicologia evoluzionistica è il
ruolo dei sistemi motivazionali primari (primari = presenti sin dalla nascita, non hanno
bisogno di essere appresi o di un determinato ambiente per potersi manifestare). A tal
proposito è importante la figura di Lorentz, padre dell’etologia (studio degli animali nel
loro ambiente naturale) e colui che scoprì l’esistenza dei sistemi motivazionali primari,
che nel suo studio sull’imprinting ha dimostrato come le oche, subito dopo la nascita,
inizino a seguire la prima figura in movimento che vedevano (in questo caso lui, che si
era sostituito alla madre). Tale comportamento non è appreso, nella filogenesi delle oche
è un comportamento primario, innato, che ha aumentato le probabilità di sopravvivenza
perché seguire subito la nascita, quindi in una condizione di fragilità estrema, una fi-
gura protettiva (quella che si muove, potenzialmente la madre) aumenta la probabilità
di sopravvivenza in quanto c’è la possibilità di essere nutriti e di diminuire il rischio di
essere attaccati da predatori, in quanto la figura protettiva ha un ruolo centrale di pro-
tezione. Un altro esempio di comportamento primario può essere dato dal gatto: la
mamma porta i piccoli in un luogo nascosto subito dopo la nascita, per aumentare le
possibilità di sopravvivenza dei cuccioli (comportamento innato e protettivo). Per quanto
riguarda gli esseri umani, i bambini hanno la tendenza ad attaccarsi alla mamma come
fattore innato (anche se qui c’è anche una componente di tipo ambientale). Questo tipo
di comportamento, risultato efficiente per la sopravvivenza della specie, viene trasmesso
di generazione in generazione, mentre i comportamenti risultati inefficienti non sono
stati portati avanti. La teoria dell’attaccamento spiega meglio cosa si intende per fattori
innati: il bambino tende a costruire una relazione privilegiata con la propria figura pro-
tettiva, il caregiver (spesso la madre), ma al tempo stesso tiene anche conto di ciò che
accade sul versante ambientale, che cosa cambia a seconda della qualità di tale relazione
(la qualità influenza lo sviluppo psicologico del bambino).

La genetica del comportamento studia il ruolo dei nostri geni per poter spiegare la va-
riabilità degli individui rispetto, per esempio, ai tratti di personalità. A tal proposito, gli
studi più importanti in questo campo utilizzano come modello di ricerca i gemelli, in
particolare quelli monozigoti, che condividono il patrimonio genetico. Ad esempio, due
gemelli che vengono separati alla nascita condividono il patrimonio genetico, ma cre-
scono in un ambiente completamente diverso, con due famiglie differenti. Questi gemelli
vengono poi studiati da adulti e nonostante non abbiano condiviso l'ambiente mostrano
un QI analogo, il che è un aspetto importante, ma di media rilevanza, in quanto si sa
che il QI è di natura ereditaria. Si sono studiati anche fattori non ereditari, ma di tipo
sociale, ossia fattori relazionali che sembrano essere influenzati dalla genetica, come il
divorzio (fattore legato a una multifattorialità nella storia del soggetto, legato anche a
elementi esterni che dipendono dal partner), riguardo al quale esistono diverse ipotesi.
La prima ipotesi riguarda le forze evocative, ossia le predisposizioni genetiche che evo-
cano e suscitano nelle altre persone particolari risposte: caratteristiche molto simili, di
natura innata (come il temperamento), nei due gemelli, anche se separati, in qualche
modo sono andate a influenzare gli ambienti sociali in cui essi vivevano. Questo perché
le relazioni umane sono bidirezionali, quindi le somiglianze genetiche tra le personalità
dei due gemelli hanno reso somiglianti anche i loro ambienti familiari e sociali. Un esem-
pio possono essere due gemelli con un temperamento tendente alla rabbia e all’irascibi-
lità: anche se inseriti in due famiglie diverse, questa caratteristica spingerà i genitori
adottivi a rispondere con modalità educative simili, rendendo quindi gli ambienti fami-
liari simili. Questo spiega quindi come gemelli con caratteristiche simili si possono ri-
trovare con storie relazionali affettiva abbastanza turbolente che hanno avuto esito nel
divorzio in entrambi i casi. Un altro aspetto che riguarda la genetica del comportamento
è quella secondo cui gli individui scelgono attivamente gli ambienti sulla base delle loro
predisposizioni genetiche. Il nostro percorso di vita è come un succedersi di tentativi ed
errori finché non troviamo degli ambienti o delle relazioni che siano coerenti con i nostri
bisogni primari: ognuno di noi ha delle caratteristiche peculiari di natura genetica,
quindi quando scegliamo gli ambienti facciamo una selezione continua finché non tro-
viamo ciò che è coerente con i nostri bisogni e che permettete il manifestarsi delle pro-
prie predisposizioni innate e dei talenti. Questo continuo percorso di scelte, dall'infanzia
all'età adulta, permette agli individui di diventare sempre più simili a sé stessi, cioè di
trovare una sorta di coerenza interna tra quella che è la predisposizione genetica e l'am-
biente in cui si trovano a vivere. Quando un ambiente (inteso come lavoro, relazione
affettiva, amicale) trova un riscontro rispetto ai nostri bisogni, si va avanti. Le emozioni
sono dei segnalatori interni che ci indicano se stiamo andando nella direzione dei nostri
bisogni di fondo; quindi, ci segnalano il grado di coerenza tra i nostri bisogni e l’am-
biente.

In sintesi, c'è un superamento della diatriba genetica-ambiente. Ciò che bisogna com-
prendere è come interagiscono i due fattori nel determinare lo sviluppo, in che modo i
fattori ambientali si integrano con i fattori di tipo innato, ereditario e genetico.

Per quanto riguarda lo sviluppo delle relazioni primarie, è fondamentale il concetto di


intersoggettività primaria, che riguarda l’interazione diadica che si instaura tra madre
e bambino nei primi mesi di vita. L’intersoggettività primaria è innata: esiste una pre-
disposizione del bambino a interagire con la madre e la madre, in virtù di una serie di
cambiamenti ormonali (ossitocina) a seguito della nascita del bambino è predisposta a
prendersene cura in maniera attiva. All’intersoggettività primaria segue quella secon-
daria, di tipo triadico, che avviene a seguito dell’esperienza influenzata dall’ambiente:
se nella primaria gli elementi in interazione erano due (mamma e bambino) nell'intera-
zione triadica si aggiunge un oggetto esterno. Questo accade in seguito all'esperienza
del bambino, intorno al 9° mese. La forma triadica ci dà informazioni su come la mamma
e il bambino si sono relazionati durante le prime fasi dello sviluppo: il bambino acquisi-
sce le capacità di scambiare la relazione con il proprio caregiver integrando altri aspetti
all’interno della relazione, aspetti fondamentali anche per lo sviluppo del linguaggio.
Per quanto riguarda il linguaggio, è fondamentale l’attenzione condivisa: se durante
l’interazione primaria c’è stata un’adeguata sintonia tra madre e bambino, quest’ultimo
dai nove mesi in poi inizierà a prestare attenzione all’ambiente. La madre segue il bam-
bino durante questo processo e lo aiuta in un processo di comunicazione, inizialmente
non verbale e poi verbale. Il bambino inizia quindi ad associare un particolare suono (la
parola) a un oggetto preciso. Tutto ciò è legato al contesto in cui vive il bambino. Nello
sviluppo atipico ciò presenta delle anomalie: nell’autismo uno dei primi segnali è una
scarsa capacità del bambino di creare questa forma di intersoggettività con il proprio
caregiver; da ciò scaturiscono una serie di problematiche, quali un ritardo nello sviluppo
del linguaggio, in quanto il passaggio da intersoggettività primaria a intersoggettività
secondaria non avviene regolarmente perché il bambino non riesce, per problematiche
di tipo genetiche/innate, a costruire l'interazione diadica con la madre e questo porta a
uno sviluppo irregolare del linguaggio.

Il nostro cervello è predisposto a maturare, quindi a creare connessioni neuronali (si-


napsi) e collegamenti tra neuroni che permettono, all’interno di una finestra temporale
(quindi un periodo sensibile dello sviluppo del soggetto) di far emergere la qualità del
linguaggio, che richiede fattori innati e contemporaneamente fattori ambientali: al con-
trario del caso precedente (autismo) è possibile anche che il bambino sia pronto e ricet-
tivo rispetto al linguaggio, ma non trovi un ambiente sociale adeguato per sviluppare la
competenza (caso di Victor, il quale non è riuscito, nonostante la terapia, a sviluppare il
linguaggio umano perché la finestra temporale era ormai chiusa: il bambino aveva rag-
giunto la maturazione fisiologica per poter assimilare il linguaggio, ma non vi era stata
la condizione ambientale per poterlo apprendere). Quindi se da un lato non è possibile
sviluppare potenzialità non contemplate ancora nella maturazione, non è ugualmente
possibile svilupparle se nel momento della maturazione il bambino non trova l’ambiente
sociale adeguato (l’ambiente influenza la maturazione). Il periodo sensibile è un mo-
mento dello sviluppo in cui il rapporto tra maturazione biologica ed esperienza può avere
la massima influenza sullo sviluppo di una determinata funzione. Il periodo sensibile
dello sviluppo del linguaggio si chiude attorno ai 4-5 anni, quindi se il bambino fino a
quel momento non è stato sensibilizzato ad apprendere questa abilità, è probabile che
non potrà mai più farlo. Lo sviluppo avviene tramite la maturazione neuronale, siamo
predisposti ad una maturazione fisiologica relativamente ai comportamenti e alla psi-
cologia: si tratta della maturazione del sistema nervoso, che ha ripercussioni anche a
livello psicologico, come la comparsa di diverse emozioni che dipende dalla maturazione
di specifici circuiti neuronali.

Risulta quindi fondamentale l’integrazione tra fattori ambientali e fattori genetici, su


cui si basano anche tantissime teorie e modelli, tra cui il modello teorico dell’attacca-
mento: la predisposizione del bambino a costruire una relazione primaria di attacca-
mento con il proprio caregiver viene integrata con la qualità della relazione tra i due,
che determina le abilità socio-relazionali. La realizzazione delle potenzialità è dunque
legata all’esperienza e all’ambiente e l’esperienza e la pratica a sua volta influenza la
maturazione neurofisiologica (connessioni di sinapsi). Fare esperienza vuol dire appren-
dere, quindi favorire la connessione di neuroni, che rappresenta la base fisiologica di
tutti i nostri processi di apprendimento e di sviluppo. Il cervello crea in continuazione
nuove connessioni sinaptiche e rinforza le sinapsi preesistenti in risposta alle stimola-
zioni che riceve dall’ambiente interno ed esterno. La sinapsi è il mezzo attraverso il
quale due neuroni comunicano tra loro. Queste possono essere sinapsi elettriche, in cui
il passaggio dell’informazione avviene tra due neuroni in contatto tra loro, con conti-
nuità citoplasmatica, sono anche le più veloci (adatte, ad esempio, nei riflessi) e sono
maggiormente diffuse, e sinapsi chimiche, in cui il passaggio delle informazioni avviene
più lentamente (latenza sinaptica) ed elaborata, ma i neuroni non sono a diretto contatto
tra loro, bensì uniti da un neurotrasmettitore (manca la continuità citoplasmatica). I
neurotrasmettitori sono sostanze chimiche che modificano l’elettricità del neurone e fa-
voriscono il cambiamento dello stato elettrico del neurone, permettendo il passaggio di
informazioni. Durante l’apprendimento i collegamenti sinaptici aumentano e si rinfor-
zano, ritorna quindi il concetto di rinforzo (comportamentismo). Il rimodellamento delle
connessioni tra neuroni (sinapsi) lungo le vie nervose cerebrali costituisce la base
dell'apprendimento e della memoria. L'apprendimento è il processo di acquisizione delle
informazioni, quindi delle esperienze. La memoria è la modalità con cui queste informa-
zioni apprese rimangono permanenti all'interno della nostra mente e possono essere
richiamate nel presente.

Un altro aspetto importante sono le differenze individuali, che possono essere ricondu-
cibili e spiegabili all’interno di due processi polarizzati, l’universalità e la variabilità.
L’universalità è la manifestazione di un cambiamento che andrebbe ricondotto ad un
percorso universalmente valido. In psicologia dello sviluppo l’universalità si riferisce al
fatto che alcuni processi di cambiamento sono riscontrabili a prescindere dalle diffe-
renze culturali e sociali. Questo concetto può anche essere ricondotto al concetto di sta-
dio, quindi all’interno di un quadro di tipicità (normatività). Con stadio si intende una
suddivisione temporale dello sviluppo all’interno di finestre temporali all’interno delle
quali il soggetto acquisisce, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, una serie
di competenze che sono dovute a fattori maturativi e al modo in cui il soggetto fa espe-
rienza in una determinata fase all’interno di uno stadio specifico. Quindi in una deter-
minata finestra temporale ci sono le capacità per sviluppare un determinato processo
maturativo, ma la sua qualità dipende dall’esperienza ambientale e questo avviene con
tutte le differenze individuali, i tempi di maturazione, le esperienze e gli stimoli a cui i
bambini sono sottoposti e vanno a creare una sorta di variabilità. Per vedere la variabi-
lità interna esistono percorsi diversi, in quanto i bambini vivono esperienze diverse.
Entrano quindi in gioco fattori socioculturali, fattori specifici di rinforzi e modellanti
(apprendimento) che possono segnare forti differenze negli stimoli che il bambino riceve
durante lo sviluppo, portando quindi a un’alta variabilità. Quindi c’è una scarsa varia-
bilità nel percorso maturativo-universale con cui i bambini arrivano a sviluppare questi
processi di tipo stadiale, ma può esserci maggiore variabilità (anche all’interno dei sin-
goli stadi o fasi) in base alle esperienze che il bambino fa.

Le differenze individuali nello sviluppo si possono suddividere in due tipologie:

➢ differenze inter-individuali, che riguardano lo sviluppo e il percorso maturativo


di individui diversi;
➢ differenze intra-individuali, che riguardano lo sviluppo di aspetti diversi nello
stesso individuo (che avvengono durante la crescita e maturazione soggettiva,
quindi riguardano aspetti dello sviluppo in uno stesso individuo).

Queste differenze sono legate alla complessa interazione tra fattori maturativi (innati)
e il ruolo dell’ambiente (compresi apprendimento e istruzione). Le differenze individuali,
infatti, non vengono viste soltanto come differenze nella velocità di acquisizione di certe
abilità, ma tengono anche conto di come l’ambiente in cui il bambino vive possa influen-
zare la capacità e velocità di sviluppo di queste abilità.

Esempio: nello sviluppo del linguaggio si può osservare una certa variabilità: molti bam-
bini iniziano ad esprimere le prime parole intorno agli 8 mesi, altri attorno ai 13 o ai 18
e queste differenze possono essere fonte di preoccupazione per i genitori (mancato svi-
luppo del linguaggio può sottostare a diversi problemi del neurosviluppo – autismo).
Quando si parla di queste finestre temporali, si parla di tipicità, di percorso di sviluppo
tipico, dati da un’enorme variabilità dovuta a processi di tipo maturativo, che favori-
scono l’acquisizione e la memorizzazione (apprendimento degli stimoli ambientali), e dal
processo culturale (presentazione di stimoli adeguati dall’ambiente, che, durante quelle
finestre temporali, possono permettere l’acquisizione di un vocabolario più ampio). Un
altro aspetto importante del linguaggio in questa fase, oltre al vocabolario e alla produ-
zione di parole, è la comprensione, ossia la capacità del bambino di esprimersi e di capire
ciò che viene espresso (a 8-10 mesi si può non aver elaborato nessuna conoscenza delle
parole e a 13 si può passare da una conoscenza di 30 parole – vicine al loro mondo psi-
cofisico – ad una conoscenza di 200 parole – andando incontro a un accelerazione del
processo - o viceversa, si può partire con una buona conoscenza delle parole e poi andare
incontro ad un rallentamento; a 17-18 mesi si ha una conoscenza minima di 22 parole a
una massima di 398).

I processi di maturazione derivano dalle connessioni neuronali, che possono essere in-
fluenzate da tantissimi fattori che non sono predittivi, di conseguenza i processi matu-
razionali stessi possono essere imprevedibili.

CONCETTO DI STADIO DELLO SVILUPPO

Lo stadio, come finestra temporale, è un periodo di tempo in cui il pensiero e il compor-


tamento del bambino riflettono un tipo di struttura mentale che consiste in conoscenze
precise e specifiche interpretazioni della realtà e dà luogo ad una precisa interpretazione
del bambino dell’ambiente. È un periodo di tempo, segnato da un inizio e una fine dello
stadio, in cui il bambino acquisisce (all’interno di data finestra temporale) un certo tipo
di conoscenze e produce un certo tipo di rapporti con l’ambiente in termini di interazione.
Nel passaggio da uno stadio all’altro ci sono dei salti di tipo qualitativo: non riguarda
solo acquisire competenze nuove (differenza quantitativa), ma anche migliorare la qua-
lità di quelle già acquisite, con modalità differenti (es. quantitativo può essere il numero
di vocaboli appresi, qualitativo l’imparare a costruire delle frasi con vocaboli già acqui-
siti precedentemente). Ogni stadio è qualitativamente diverso dal precedente, presenta
forma e regole proprie e rappresenta un salto di qualità (cambiamento discontinuo, qua-
litativo). Ogni stadio deriva dal precedente di cui integra in sé le conquiste, lo incorpora
e lo trasforma all’interno di un processo qualitativo.

La sequenza degli stadi è invariante: nessuno stadio può essere saltato e ciascuno stadio
segue uno stadio più primitivo, quindi precedente dal punto di vista temporale.
Inoltre, gli stadi sono universali: sono presenti a prescindere dal conteso culturale e la
sequenza è la stessa per tutti i bambini, ciò che può variare è la velocità con cui vengono
raggiunti gli stadi.

Il bambino, secondo la prospettiva di Piaget, passa a 2 anni dallo stadio senso-motorio


a quello pre-operatorio, ma in alcuni bambini le operazioni qualitativamente differenti
dallo stadio successivo compaiono con lo scarto di qualche mese (in anticipo o in ritardo,
ossia 2 anni è la media). Intorno alla media c'è una deviazione standard, un ambito
temporale che permette ad alcuni bambini di arrivare prima e altri più tardi.

Un altro aspetto fondamentale dello sviluppo è dato dalla complessità, ossia la multidi-
mensionalità: la modalità e i processi con cui i bambini, durante lo sviluppo, arrivano a
raggiungere certe competenze non è dovuto a singoli fattori isolati, ma a un sistema,
una serie di elementi tipici del suo sviluppo (processi maturativi + ambiente).

APPROCCIO ECOLOGICO DI BRONFENBRENNER

Bronfenbrenner utilizza un approccio di tipo ecologico (ecologia = studio dell’ambiente


reale in cui vive il bambino, non fisico). L’etologia è la disciplina che studia gli animali
nel loro contesto, nel loro ambiente di vita, tramite il metodo osservazionale, cercando
di interferire il meno possibile (si usa anche con i bambini). Lo studioso suddivide tre
macroaree che rappresentano i contesti all’interno dei quali avviene lo sviluppo del bam-
bino, in cui ogni sistema integra spazialmente un sistema più piccolo come dei cerchi
concentrici:

➢ macrosistema: riguarda le politiche sociali e i servizi (asilo, ludoteca, politiche


sociali orientate all’infanzia, etc.): la gestione (anche a livello politico) di tali set-
ting e contesti influenza lo sviluppo del bambino e le possibilità di cui un bambino
può disporre cambiano a seconda della cultura di appartenenza; il ruolo dello
Stato e le scelte politiche che si fanno nei confronti dell'infanzia, hanno un ruolo
determinante sui contesti e le esperienze che il bambino porta avanti nel corso
della propria crescita. Il macrosistema è composto dai valori culturali, dalle leggi,
dai costumi e dalla cultura in cui gli individui vivono; si riferisce ai modelli globali
di ideologia e organizzazione che caratterizzano una determinata società/gruppo
sociale;
➢ ecosistema: fa riferimento alle condizioni di vita e di lavoro, è una prospettiva di
tipo culturale e permette di comprendere le differenze culturali tra i diversi Stati;
influenza lo sviluppo del bambino in quanto le conseguenze delle condizioni di
vita e di lavoro dei genitori (come un licenziamento) ricadono, indirettamente,
sull’esperienza del bambino; è il più ampio sistema sociale in cui il bambino non
è direttamente coinvolto;
➢ meso-sistema: prende in considerazione le relazioni tra i microsistemi (contesti
più vicini alla vita del bambino, come la famiglia, la scuola, i coetanei, etc. che
influenzano più direttamente lo sviluppo del bambino); è un processo di tipo si-
stemico dove vari fattori sono legati tra loro e si influenzano reciprocamente.
NEUROSCIENZE DELLO SVILUPPO

È una delle aree di ricerca più recenti, che si avvale particolarmente delle tecniche di
neuroimaging, soprattutto della risonanza magnetica, in cui le aree che risultano rosse
sono le aree del cervello che sono attive, cambiando il metabolismo, aumentando il con-
sumo di ossigeno e glucosio al momento della visualizzazione, in seguito all’attivazione
di determinati neuroni che svolgono il compito richiesto al soggetto durante la fase di
sperimentazione. Gli studi di neuroimaging servono per studiare la relazione tra un
comportamento e il substrato fisiologico del sistema nervoso.

È un approccio che cerca di fornire elementi per la comprensione del ruolo dello sviluppo
nell’ontogenesi delle funzioni psicologiche, delle basi neurali e del funzionamento delle
funzioni cognitive, emotive e sociali.

METODI DI RICERCA
Il disegno di ricerca è un progetto, un’operazione che lo sperimentatore porta avanti per
studiare e raggiungere l’obiettivo della sua ricerca. Le ricerche per studiare il cambia-
mento sono il disegno trasversale e il disegno longitudinale. All'interno della psicologia
dello sviluppo ci sono delle metodologie specifiche per studiare, oltre comportamento in
generale, anche il processo psicologico all'interno di una sequenza temporale. Il fattore
tempo nelle ricerche della psicologia dello sviluppo è una variabile centrale. Ci sono poi
disegni di ricerca per studiare le relazioni tra variabili, tra cui il disegno sperimentale
(che può essere anche a soggetto singolo). Normalmente nelle ricerche vi è un campione
(vari soggetti che partecipano alla ricerca), ma nello studio dei processi maturativi, so-
prattutto di uno sviluppo atipico, viene utilizzato il singolo soggetto (per cui si va a stu-
diare come cambia l’evoluzione di una problematica durante lo sviluppo). Il disegno cor-
relazionale mette in relazione le variabili tra di loro.

Successivamente si vanno a vedere i fattori della validità della ricerca: le ricerche de-
vono dimostrare, con una metodologia rigorosa, ciò che oggettivamente cercano di stu-
diare. Una ricerca è valida quando raggiunge l’obiettivo di isolare i fattori che si vogliono
osservare, facendo in modo che altri fattori non entrino in gioco e quindi che l’oggetto di
studio e gli effetti che si ottengono derivano effettivamente dal fattore oggetto di studio
(eliminando le possibili interferenze). La validità della ricerca si divide in due macroa-
ree: la validità interna e la validità esterna.

Sono importanti anche gli strumenti, ossia quali fonti sono utilizzate per raccogliere
dati empirici (questionari, test, osservazione diretta). Le osservazioni dirette non si pos-
sono fare nei bambini preverbali, con i quali vengono utilizzate tecniche di osservazione
naturalistica (con telecamera). Non si possono fare ricerche che producano, in modo par-
ticolare nei bambini, varie forme di sofferenza o ricerche che possano influenzare, anche
minimamente, in termini negativi il loro sviluppo.

Tra gli obiettivi della psicologia dello sviluppo vi è quello di rispondere a tre ordini di
domande:
➢ quando? identificare se un fenomeno si presenta durante lo sviluppo e quando si
presenta; è lo studio della dimensione temporale relativa alla compara di un par-
ticolare fenomeno psicologico o comportamento e serve per individuare le pietre
miliari dello sviluppo; è utile per seguire il progresso del singolo bambino ed è
importante conoscere sia le traiettorie comuni (universalità dello sviluppo) sia le
differenze individuali;
➢ come? descrivere come avviene un processo e in che modo si sviluppa; riguarda i
modi del comportamento del bambino;
➢ perché? spiegare perché accade un determinato fenomeno, perché maturino de-
terminati comportamenti, spiegare determinati comportamenti e cambiamenti
che avvengono con l’età; è la domanda che cerca di capire i fattori sottostanti un
determinato processo.

Il quando e il come sono relativi alla descrizione dello sviluppo del bambino, il perché è
relativo alla spiegazione dello sviluppo. Un limite della scienza in generale è che la de-
scrizione dei fenomeni è più semplice rispetto ad individuarne le cause.

CICLO DELLA RICERCA

Si parla di ciclo della ricerca perché si conclude con dei risultati, con la loro interpreta-
zione e andando a vedere se questa interpretazione dei risultati risponde al problema,
così come è stato formulato originariamente. Gli studiosi inoltre sono divisi in base agli
ambiti di ricerca e sono specializzati nel fare ricerche all’interno del proprio dominio di
ricerca. All’interno di ogni dominio ci possono essere delle sotto-specializzazioni, perciò
fare ricerca e formulare delle ipotesi è fondamentale per aumentare la conoscenza del
fenomeno oggetto di studio.

Il ciclo della ricerca si articola nella scelta del problema e nella definizione delle ipotesi
e di una domanda.

Formulazione del disegno di ricerca: si crea un disegno di ricerca, un piano d’azione per
capire come comprendere al meglio un determinato fenomeno. Esempio: all’interno di
un disegno di ricerca si deve trovare un campione e si deve usare una metodologia spe-
cifica per studiare quel fenomeno, quindi si raccolgono i dati che possono derivare da
una metodologia specifica (osservativa ad esempio), dopodiché si verifica se questo feno-
meno sia in relazione con altri fattori. I dati vengono raccolti tramite un’intervista o un
questionario, a seconda dell’età del bambino: un questionario si può sottoporre solo se i
bambini hanno la capacità di comprendere verbalmente e in maniera adeguata le do-
mande (8-10 anni), mentre nelle fasi precedenti si fatto interviste di tipo verbale e si
fanno videoregistrazioni per osservare meglio i comportamenti naturali dei bambini in
determinate circostanze. I dati raccolti vanno poi interpretati.

Esempio: studio su come i bambini gestiscono la rabbia: si creano due gruppi dove i
bambini devono competere rispetto al raggiungimento di un obiettivo, per studiare se ci
sono bambini che si arrabbiano più di altri o che diventino più aggressivo e mettere in
relazione questo aspetto con lo stile d’attaccamento. Si verifica poi se questo fenomeno
è in rapporto con altri fattori di personalità del bambino.

Codifica e analisi dei dati: l’interpretazione va fatta alla luce dell’analisi dei dati e di
quando è stato formulato il problema e definite le ipotesi.

Esempio: un’ipotesi è che bambini con attaccamento insicuro siano più aggressivi di
bambini con attaccamento sicuro in una dinamica competitiva. Si ipotizza che un fat-
tore, come la sicurezza dell’attaccamento, influenzi la modalità con cui un bambino re-
gola la propria rabbia in contesti competitivi di tipo sociale.

Interpretazione dei risultati: si osservano i dati e i filmati, si interpretano i risultati ed


infine si verifica se i questi siano in linea con l’ipotesi iniziale, quindi se le ipotesi sono
state confermate o meno.

Una variabile è una proprietà a cui è stata data una definizione operativa, in modo da
trasformare una serie di situazioni reali (stati) in una serie di dati analizzabili e con-
frontabili tra loro. Dare una definizione operativa ad un fenomeno spiega come lo si
intende misurare.

Tornando all’esempio della rabbia (che è una variabile), essa può essere misurata nu-
mericamente (numero di comportamenti/azioni aggressive). Si può definire la rabbia
tramite l’espressione della rabbia di tipo corporeo (toccare, aggredire un altro bambino
o gli oggetti) e si può definire operativamente anche l’espressione della rabbia (misurare
quante volte il bambino mette in atto comportamenti aggressivi verso gli altri o gli og-
getti attorno – in generale comportamenti definiti in precedenza come azioni di rabbia,
definendola in termini operativi e quindi misurabile). Abbiamo visto quindi che bambini
con un attaccamento insicuro hanno un numero maggiore di manifestazioni di rabbia
rispetto a bambini con attaccamento sicuro. Si può poi misurare l’intensità con cui si
esprime la rabbia e definire quando un bambino ha maggiore controllo sulla rabbia (se
urla anziché manifestare la rabbia con aggressività fisica o se tira un calcio alla sedia
piuttosto che uno schiaffo). Poi si procede con un’analisi di tipo statistico, quindi quan-
titativo, dei comportamenti osservati.

La variabile indipendente è il fattore che causa la relazione ipotizzata tra le variabili


studiate. Nel caso dell’esempio, la variabile indipendente è lo stile di attaccamento, per-
ché si ipotizza che le differenze nello stile di attaccamento causino l’intensità e/o la nu-
merosità con cui il bambino esprime la rabbia in un contesto sociale competitivo.

La variabile osservata o dipendente è rappresentata dai valori registrati dal ricercatore.


Nel caso dell’esempio la variabile dipendente è data dai comportamenti di rabbia, in
quanto essi dipendono dalla variabile indipendente (stile di attaccamento).

Le variabili si differenziano in qualitative (variabili categoriali) e in quantitative (va-


riabili cardinali). Le prime hanno un livello di scala nominale e ordinale, mentre le se-
conde hanno un livello di scala a intervalli e a rapporti.
LIVELLI DI SCALA DI MISURAZIONE

In base alla modalità con cui la ricerca viene portata avanti, i sistemi di misurazione
possono stare all’interno di varie tipologie di scala.

Nominale: è il tipo più semplice di misurazione, in cui una variabile è definita mediante
classificazione in categorie discrete e non ordinabili (per ordinabile si intende se si può
fare una sequenza di punteggi, una gerarchia). La scala nominale si chiama dicotomica
quando ha solo due possibilità (come il genere).

Ordinale: misurazione dove non solo è possibile operare una classificazione per categorie
discrete (come nella nominale), ma è anche possibile ordinare le categorie (sempre,
spesso, talvolta, raramente, mai).

A intervalli: livello di misurazione che specifica la posizione in graduatoria (come la


scala ordinale) e permette la creazione di intervalli che siano equamente differenti o
simili. Quindi, in più, specifica la distanza tra ciascuna delle modalità. Ha uno zero
arbitrario (non corrisponde all'intensità nulla della proprietà misurata e cambia nel
passare da una scala ad un'altra).

A rapporti: il livello di misurazione specifica il posto in graduatoria, la distanza tra le


posizioni e fissa un punto di zero assoluto (la scala parte da uno zero per la variabile in
questione). Con “a rapporti” si intende che in qualche modo si può dire che una misura,
per esempio, è il doppio di un’altra, rapporti che non si possono stabilire nella scala
precedente in quanto non si ha il punto fisso zero di partenza.

DISEGNO DI RICERCA

Il primo passo è dato dalla formulazione del disegno di ricerca: in questa fase il ricerca-
tore deve decidere come misurare le variabili di studio contenute nelle sue ipotesi e de-
finire il campione su cui verificare tali ipotesi (per numerosità e caratteristiche posse-
dute). È opportuno avere campioni sufficientemente numerosi a seconda del disegno di
ricerca. Esistono diversi tipi di disegni di ricerca (es. il disegno sperimentale, tipico del
laboratorio, per cui non sono necessari tanti soggetti a seconda del fenomeno che si vuole
studiare, mentre per altri disegni di ricerca sono necessari campioni più ampi, perché
devono essere rappresentativi della popolazione che si vuole studiare).

Il campionamento è un processo abbastanza delicato nella costruzione di un disegno di


ricerca e serve per rappresentare la popolazione. Più è generico l’oggetto di studio, più
ampio deve essere il campione, per permettere la maggiore rappresentatività possibile,
al contrario in casi in cui l’oggetto di studio è molto specifico (es. bambini svantaggiati),
si ricerca un campione ristretto solo in quella particolare categoria di popolazione. È in
questa fase che si decidono le tecniche di raccolta dei dati più appropriate agli obiettivi
della ricerca e di conseguenza le tecniche di elaborazione dei dati raccolti che verranno
utilizzate (osservazione, questionari ampi, interviste, test standardizzati – già testati
sulla popolazione, bisogna dimostrare che abbiano validità e affidabilità, ovvero che mi-
surino adeguatamente l’oggetto di studio). Un altro aspetto importante nel ciclo della
ricerca è la raccolta dei dati e la loro elaborazione: se i dati sono di tipo quantitativo, si
possono usare sistemi di elaborazione di tipo statistico, mentre se i dati sono di tipo
qualitativo (osservativo, descrizione di comportamenti del soggetto) non è possibile l’ela-
borazione statistica.

Tipologie di disegni di ricerca:

➢ disegno trasversale e disegno longitudinale: adatti a misurare la variabile tempo,


centrale nelle fasi di sviluppo in quanto la maturazione del soggetto (e le espe-
rienze che fa) producono cambiamenti;
➢ disegno sperimentale, pre-sperimentale e quasi sperimentale: tipici del laborato-
rio; a seconda della possibilità che si ha di attribuire casualmente i soggetti ai
due gruppi (sperimentale e controllo), possono esserci vari livelli: se non si ha la
possibilità di attribuirli in maniera causale si parla di disegni pre-sperimentali o
quasi sperimentali;
➢ disegno correlazionale: osserva e valuta in che modo due variabili oggetti di studio
siano correlate tra di loro.

In un disegno longitudinale le osservazioni e le valutazioni sono eseguite per un periodo


più o meno lungo sugli stessi soggetti, regolarmente nel tempo con cadenze temporali
stabilite a priori.

Nel disegno di ricerca trasversale si prendono gruppi di individui di età diversa nello
stesso momento, senza osservarli nel tempo.

Ogni disegno ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi, anche in termini di validità di ricerca.

Vantaggi dei disegni di ricerca longitudinali:

➢ seguire lo sviluppo individuale nel tempo: si può osservare come lo stesso indivi-
duo matura nel tempo;
➢ si può rispondere alle domande circa la stabilità del comportamento indagato,
sempre rispetto all’individualità del soggetto (come cambia e cosa rimane stabile
nello stesso soggetto);
➢ determinare gli effetti di esperienze o condizioni antecedenti sullo sviluppo suc-
cessivo.

Permette quindi di vedere quali siano i fattori sottostanti che possono determinare l’evo-
luzione dello sviluppo di un certo fenomeno.

Svantaggi dei disegni di ricerca longitudinali:

➢ molto costoso in termini di investimenti ed energie (costo della ricerca prolungato


nel tempo);
➢ possibilità di perdere soggetti nel corso della ricerca sia per cause accidentali che
per abbandono volontario, irreperibilità, perdita di motivazione o trasloco, rifiuto
dei genitori, etc.;
➢ possibilità di confusione tra i cambiamenti legati all’età e i cambiamenti di tipo
sociale e storico che si verificano nel corso della ricerca.

Inoltre, nel corso di lunghi periodi cambiano anche le situazioni sociali e bisogna verifi-
care in che modo le situazioni esterne vanno ad interferire e minacciare la validità della
ricerca.

Vantaggi del disegno trasversale:

➢ consentono di identificare le differenze tra le età che si vogliono studiare in ma-


niera immediata;
➢ relativamente poco costoso, in termini di costi economici e temporali.

Si seleziona un campione e nell’arco di qualche giorno si può fare ricerca di tipo trasver-
sale (al contrario della longitudinale che richiede anni). È quindi veloce nell’esecuzione
e facile da replicare (la replicazione è un aspetto centrale della scienza, in quanto una
volta fatta la ricerca e tratte le conclusioni, è opportuno che tali conclusioni possano
essere replicate, dimostrate in altri studi). La replicazione permette di confermare la
validità di una teoria.

Svantaggi del disegno trasversale:

➢ non dice nulla sullo sviluppo interno degli individui.

Il ricercatore inoltre può avere diversi gradi di controllo sulle varie tipologie di ricerca,
dalla polarità del minimo controllo a quella del massimo controllo.

Nell’esperimento, ad esempio, il ricercatore ha il massimo controllo: l’esperimento è una


condizione estremamente controllata, soprattutto per quanto riguarda la distribuzione
dei partecipanti alla ricerca (che deve avvenire in modo casuale); la distribuzione ca-
suale fa in modo che le caratteristiche individuali dei vari soggetti (variabili individuali)
siano distribuite equamente all’interno dei due gruppi (se ciò non dovesse avvenire, rap-
presenterebbe una minaccia alla validità della ricerca, in quanto le caratteristiche indi-
viduali potrebbero influenzare indirettamente il trattamento), motivo per cui si creano
due gruppi, il gruppo sperimentale (che riceve il trattamento) e il gruppo di controllo
(che non riceve il trattamento). Nell’esperimento abbiamo:

➢ un controllo sulla variabile indipendente (che influenza il comportamento stu-


diato, quindi la variabile dipendente);
➢ l’analisi della relazione che potrebbe esistere tra le variabili in risposta alla ma-
nipolazione;
➢ l’obiettivo come verifica della relazione causa-effetto (se le variabili sono tutte
adeguatamente controllate, si può affermare la correlazione causa-effetto o la sua
mancanza).

Vantaggi del disegno sperimentale:


➢ capacità di stabilire relazioni di causa-effetto tra una variabile indipendente e
una variabile dipendente: per rispondere alla domanda sul perché di un compor-
tamento, si cerca di strutturare delle condizioni isolando le variabili e assegnando
i soggetti casualmente per trovare le relazioni di causa-effetto di quel comporta-
mento;
➢ facilità di essere replicato per ottenere ulteriori conferme o disconferme delle ipo-
tesi iniziali: il disegno sperimentale ha un copione molto dettagliato, che permette
agli altri sperimentatori di replicare la ricerca e nel momento in cui più studiosi
dimostrano che una ricerca ha condotto a risultati simili si può formulare una
teoria.

Svantaggi del disegno sperimentale:

➢ i soggetti osservati, trattandosi di condizioni controllate e artificiali (settings),


potrebbero comportarsi diversamente dalla vita reale, anche non sapendo gli
obiettivi della ricerca.

Al polo opposto del grado di controllo abbiamo l’osservazione: una metodologia di ricerca
che la psicologia dello sviluppo ha ripreso dall’etologia per osservare i bambini all’in-
terno del loro setting naturale, cercando di non far percepire nulla a chi è osservato (il
ricercatore mantiene una distanza ampia oppure si trova nascosto). Nell’osservazione
non si ha nessun controllo sulla variabile indipendente, quindi si osserva un comporta-
mento del tutto spontaneo (oppure c’è un controllo limitato dove si danno delle consegne
ad un gruppo, ma poi non si interviene più), quindi il controllo è minimo o nullo e l’obiet-
tivo è la descrizione del fenomeno, senza cercare di capire che cosa lo causi.

Es. per verificare se l’esposizione dei bambini ad un litigio tra adulti può portare ad un
aumento dell’aggressività verso i coetanei, è necessario creare due gruppi, quello speri-
mentale, in cui i bambini assistono al litigio tra due adulti, e il gruppo di controllo, in
cui i bambini osservano due adulti interagire cordialmente. La variabile indipendente è
data dall’assistere alla condizione di conflitto e il risultato è che i bambini del gruppo
sperimentale mostrano un comportamento più aggressivo nei confronti dei coetanei (va-
riabile dipendente) rispetto ai bambini del gruppo di controllo. Una minaccia alla vali-
dità della ricerca, data dalla mancata assegnazione casuale, potrebbe essere mettere in
un gruppo bambini più aggressivi di base nel gruppo di controllo e bambini più calmi
nel gruppo sperimentale. Senza assegnazione casuale non si può dire che la variabile
indipendente influenzi quella dipendente.

L’osservazione è quindi data dall’osservare un comportamento quando si verifica spon-


taneamente per cogliere le relazioni che esistono tra due o più variabili senza tentativo
di influenzarlo. Ci sono 4 forme di osservazione:

➢ osservazioni non strutturate nell’ambiente naturale, in cui non strutturato si-


gnifica che non si da una consegna specifica ai bambini;
➢ l’ambiente artificiale può essere un contesto naturale, in cui si possono dare
delle indicazioni: lo studio in un laboratorio strutturato dove si portano i bam-
bini a cui si assegnano poi dei compiti e si osservano i loro comportamenti
(meglio se i bambini non sanno di essere osservati).

L’osservazione può essere poi:

➢ di tipo naturalistico, in cui il ricercatore cerca di esercitare un minimo grado di


controllo sul proprio oggetto di studio e viene condotta in un ambiente naturale;
➢ di tipo controllato, in cui il ricercatore cerca di esercitare un grado medio o mas-
simo di controllo sul proprio oggetto di studio, creando dei setting di tipo struttu-
rato dove ci sono delle consegne che si possono dare ai bambini per vedere il loro
comportamento; viene condotta in un ambiente naturale o in laboratorio e all’in-
terno di questo tipo di osservazione rientra la Strange Situation (per valutare
l’attaccamento, Ainsworth).

Il vantaggio dell’osservazione naturalistica è che consente di avere un quadro preciso


del comportamento allo stato naturale, aspetto fondamentale in quanto l’artificialità
aumenta il rischio che i partecipanti abbiano comportamenti differenti rispetto a come
si comporterebbero naturalmente nel contesto naturale. Lo svantaggio però è che non è
sicuro che il comportamento che si intende studiare si manifesti nel momento in cui il
ricercatore osserva.

L’osservazione controllata cerca di supplire a questo svantaggio: il ricercatore introduce


alcune modifiche per ottenere una situazione più uniforme e omogenea per favorire la
comparsa del comportamento oggetto di studio.

Es. esperimento per valutare se i bambini nella fascia di età tra i 9-24 mesi abbiano
consapevolezza di sé, ponendo il bambino davanti ad uno specchio per vedere come rea-
gisce e successivamente mettere una macchia sulla fronte o sul naso del bambino per
vedere se nota la differenza e se tocca la macchia su sé stesso o sulla figura nello spec-
chio.

VALIDITÀ DELL’OSSERVAZIONE

Nella ricerca sperimentale una delle minacce alla validità è l’impossibilità di distribuire
il campione dei partecipanti in maniera casuale, in quanto aumenterebbe la probabilità
che i partecipanti con caratteristiche peculiari siano concentrati maggiormente in un
gruppo rispetto ad un altro. In questo caso le minacce alla validità sono:

➢ l’influenza dell’osservatore sul comportamento osservato: perdita della sponta-


neità dell’osservato, in quanto sapere di essere osservati diminuisce la sponta-
neità;
➢ le osservazioni sono filtrate dall’osservatore e dal suo personale punto di vista:
uno dei rischi è che le osservazioni e interpretazioni possano essere influenzati
dalle idee del ricercatore sulla realtà, dalle sue aspettative sui risultati e da una
serie di fattori personali che possono influenzare il processo di osservazione e in-
terpretazione;
➢ la stanchezza dopo lunghe sessioni di osservazione: in psicologia non accade, il
rischio riferito alla stanchezza a cui si può andare incontro è che il soggetto dopo
ore e ore di osservazione possa essere influenzato da fattori personali (stanchezza
compresa).

A metà tra il polo di massimo grado di controllo e di minimo grado di controllo troviamo
i metodi quasi sperimentali e correlazionali.

I metodi correlazionali sono quelli che mettono in relazione due variabili, ma non è pos-
sibile affermare una relazione di causa-effetto all’interno della relazione (per farlo serve
la metodologia sperimentale). Il disegno correlazionale si usa quando non è possibile
individuare gruppi che differiscono per l’aspetto che interessa il ricercatore. Questo tipo
di ricerca dà quindi il grado di associazione tra una prima variabile e una seconda va-
riabile.

Nei disegni quasi sperimentali si può controllare una serie di variabili, ma diventa molto
difficile distribuire i partecipanti a caso all’interno dei vari gruppi che vengono osservati
nell’esperimento. Non essendo possibile quindi la distribuzione casuale (in quanto
spesso si usano gruppi già formati, a prescindere dall’esperimento), si avrà più difficoltà
ad affermare che la causa dell’effetto (variabile indipendente) sia data solo la variabile
indipendente.

VALIDITÀ DELLA RICERCA

Quando parliamo di validità è come se ci stessimo chiedendo: ciò che noi abbiamo stu-
diato, la metodologia che abbiamo adottato, i risultati ottenuti stanno descrivendo ciò
che ci eravamo proposti? Le minacce sono forme di interferenza, quando non riusciamo
a controllare la ricerca stessa.

Così come per il bambino si parla di complessità, in quanto egli si trova all’interno di
contesti relazionali interagenti tra loro, in metodologia e statistica si parla delle analisi
multivariate, ossia i fattori che influenzano un determinato fenomeno sono tanti, quindi
servono metodologie statistiche avanzate che dicano quanto un fenomeno influenzi l’al-
tro, quindi quale sia la variabilità. Quindi non si osserva un singolo fenomeno, ma una
serie di aspetti che probabilisticamente vanno ad influenzare il comportamento osser-
vato.

La validità interna cerca l’assenza di interferenze di variabili non controllate nella re-
lazione tra variabile indipendente e variabile dipendente (soprattutto nel disegno spe-
rimentale). La validità interna di un esperimento si ha quando si può affermare che i
cambiamenti riscontrati nei soggetti sottoposti all’esperimento dipendono dalle variabili
studiate e non da altre variabili di disturbo sfuggite al controllo (come variabili indivi-
duali). Se le condizioni sperimentali sono ben controllate, la relazione tra variabili indi-
pendenti e variabili dipendenti è quella proposta dal ricercatore: il controllo come il
campionamento casuale sono forme e strategie che aumentano il livello di validità in-
terna, cioè diminuiscono il tasso di minaccia.

Un altro tipo di validità è quella esterna, che si occupa della generalizzabilità dei risul-
tati ottenuti sul campione. Per avere una variabilità esterna bisogna fare attenzione
alla rappresentatività del campione rispetto alla popolazione oggetto di studio (si devono
avere soggetti di diverso livello culturale, che provengano da differenti status socio-eco-
nomici e diversi livelli di intelligenza o aspetti di personalità). Per aumentare la validità
esterna di una ricerca si possono utilizzare, oltre al campionamento più adeguato possi-
bile, vari metodi di ricerca che diminuiscano la probabilità che una tipologia di ricerca
possa essere poco rappresentativa nella misurazione del fenomeno: quanto è minore la
generalizzabilità dei risultati, tanto più è scarsa la validità esterna dell’esperimento.

Campione di comodo → è un tipo di campionamento che viene effettuato con un metodo


non probabilistico, che non offre a tutte le unità della popolazione la stessa possibilità
di entrare a far parte del campione (come quando il ricercatore sceglie soggetti con Q.I.
superiore a 120 o un campione di studenti universitari). Non è un campionamento ade-
guato.

Le principali fonti dei dati (o strumenti) in psicologia dello sviluppo sono le interviste, i
questionari, i test e l’osservazione. Le interviste e i questionari vengono utilizzati per
interrogare bambini su proprie idee, esperienze e motivazioni e per interrogare adulti
su comportamenti, capacità e personalità dei bambini. Spesso nella ricerca sui bambini
si chiedono ai genitori ed educatori conferme sul comportamento del bambino.

L’organizzazione di questa metodologia di ricerca si suddivide in:

➢ strutturati con domande chiuse, comprese domande a risposta multipla


(vero/falso, sì/no o scala di Likert);
➢ non strutturati, con domande aperte (risposte estese ed articolate).

Quindi si chiede al soggetto di descrivere attraverso un’intervista o un questionario un


particolare fenomeno o comportamento.

Il questionario è uno strumento per la raccolta dei dati ed è necessario garantire la ri-
levanza del questionario attraverso la rilevanza degli scopri dell’indagine e delle do-
mande per l’intervistato, bisogna evitare le doppie negazioni (potrebbe creare confu-
sione nella risposta dell’intervistato) e le domande ambigue, per aumentare la validità
e fedeltà di un questionario. Accanto all’importanza per la formulazione delle do-
mande, occorre dare altrettanta importanza alle modalità di risposta, che possono es-
sere aperte o chiuse.

I questionari possono misurare varie scale: un questionario con molte domande può
misurare differenti comportamenti e punteggi molto elevati determinano l’argomento
su cui il paziente dovrà essere in seguito interrogato. In particolare, alcuni comporta-
menti vengono posti in alcune domande in modo affermativo e in altre in modo nega-
tivo, in modo tale che il soggetto non crei una sorta di abituazione alla risposta e per-
mettendogli di mantenere un’attenzione sulle domande più elevata.

ETICA DELLA RICERCA

L’etica è finalizzata alla salvaguarda dei diritti dei partecipanti allo studio ed è fonda-
mentale garantire che durante la ricerca non si procuri un danno al soggetto parteci-
pante. Un altro aspetto centrale è il rispetto della privacy del partecipante, tramite
una procedura che si chiama consenso informato: il ricercatore presenta gli obiettivi
della ricerca, descrive la possibilità per il partecipante di ritirarsi in qualunque mo-
mento ed infine il partecipante è tenuto a firmare tale consenso. All’interno di questo
scambio informativo tra ricercatore e partecipante dev’essere chiara la natura della ri-
cerca, gli obiettivi che si propone e cosa intende studiare. Non è necessario che il parte-
cipante conosca gli obiettivi precisi della ricerca, in quanto ciò potrebbe influenzare le
sue risposte e il suo comportamento, tuttavia deve conoscere la natura della ricerca e
l’utilizzo dei dati.

Es. in ricerche con tanti partecipanti non emergono le caratteristiche individuali del
soggetto in quanto il dato del singolo rientra all’interno di una media, perciò il soggetto
non può essere riconosciuto all’interno della ricerca. Al contrario, una ricerca osserva-
tiva deve ampiamente tutelare la privacy del soggetto: se si utilizza un filmato che
deve poi essere reso pubblico o utilizzato ai fini della diffusione stessa, esso deve es-
sere modificato per tutelare la privacy e rendere il soggetto irriconoscibile.

Per quanto riguarda i danni ai partecipanti, si può portare l’esempio del piccolo Albert:
il bambino fu condizionato alla paura da Watson, che voleva dimostrare che attraverso
una serie di stimoli si potevano condizionare le persone (e i bambini) verso particolari
emozioni. In particolare, voleva dimostrare come attraverso l’esposizione a una serie di
stimoli che spaventavano il bambino, egli avrebbe maturato delle fobie. Riuscì nel suo
intento, ma non fu mai in grado di ricondizionare il bambino al punto di partenza.

SVILUPPO PRENATALE E CEREBRALE


Gli studiosi tengono a distinguere tre momenti principali dello sviluppo prenatale:

➢ periodo germinale (due settimane circa);


➢ periodo embrionale (dalla seconda settimana fino all’ottava);
➢ periodo fetale (dal terzo mese fino alla nascita).

In psicologia, l’aspetto principale dello sviluppo prenatale è la maturazione del sistema


nervoso e del cervello.

Il periodo germinale inizia con la fecondazione e termina con l’impianto della blastoci-
sti nella parete interna dell’utero. La blastocisti è una modalità con cui viene definita
la struttura pre-embrionale, che diventa embrionale solo dopo la sua fissazione nella
parete intrauterina. Un aspetto centrale per quanto riguarda la fecondazione è quello
dei cromosomi: il corredo cromosomico di un essere umano consta di 46 cromosomi, du-
rante la fecondazione sono 23 cromosomi con corredo genetico materno che si combi-
nano ai 23 cromosomi con corredo genetico paterno, combinazione da cui si forma lo zi-
gote, il cui obiettivo è quello di trasmettere il messaggio genetico di entrambi i geni-
tori. Lo zigote è composto da catene di molecole di DNA che hanno le info per trasmet-
tere il messaggio genetico, le istruzioni delle caratteristiche fisiche. Lo zigote poi si du-
plicherà a sua volta tramite la mitosi, formando una nuova struttura che contiene il
codice genetico del muovo organismo che si sta creando. C’è un processo di duplica-
zione continua di tipo cellulare durante tutto il percorso prenatale, che creerà il feto. Il
corredo genetico, quindi tutta la componente genetica di un individuo, è il genotipo. La
componente della manifestazione del genotipo si chiama fenotipo, ossia il risultato
dell’interazione tra il genotipo e l’ambiente.

Si deve a James Watson la scoperta del DNA e, in particolare, del fatto che il DNA è
una molecola genetica.

Solo a metà del 1800 si scoprì l’equivalente degli spermatozoi nelle donne, ossia gli
ovuli, comprendendo che la prole deriva dalla fusione in un’unica cellula di una cellula
spermatica maschile e di un ovulo femminile. Negli esseri umani una normale cellula
del corpo possiede 46 cromosomi, mentre negli ovuli e negli spermatozoi ne sono conte-
nuti 23.

Lo sviluppo del sistema nervoso ha inizio nel periodo embrionale: nella terza setti-
mana l’ectoderma si piega più volte (foglietto embrionale) per dare origine al tubo neu-
rale, da cui deriva la strutturazione del cervello e del midollo. Nel tubo neurale una
delle estremità si ingrossa e dà origine al cervello, che si sviluppa in tre fasi:

➢ proliferazione: vengono prodotti i neuroni. Il nostro SN è composto dai neuroni,


all’interno dei quali passa l’informazione, tutta l’elaborazione dell’informazione
e la gestione in generale di tutti i processi comportamentali;
➢ migrazione: i neuroni si spostano, migrano dalle cellule nei luoghi appropriati e
si crea una distribuzione dei neuroni stessi all’interno dei vari tessuti del cer-
vello che si stanno progressivamente formando;
➢ organizzazione: costruzione dei collegamenti sinaptici tra le cellule neuronali, in
funzione degli obiettivi che le varie popolazioni neuronali avranno (forma di spe-
cializzazione).
Durante lo sviluppo embrionale il SNC si origina dal tubo neuronale e inizialmente si
formano tre vescicole, da cui origineranno le tre regioni principali dell’encefalo, ossia
proencefalo, mesencefalo e rombencefalo. Da queste tre vescicole iniziali ne derivano
poi cinque: telencefalo, diencefalo, metencefalo, mielencefalo e midollo spinale. Lo svi-
luppo inizia dalla parte superiore, con la corteccia cerebrale e le strutture sottocorti-
cali, fino ad arrivare alla parte del tronco encefalico, del cervelletto e del midollo spi-
nale. Quindi dal MS derivano tutti i neuroni collegati ai tessuti degli arti e tutta la
componente ricettiva (sensoriale per quanto riguarda la propriocezione, le sensazioni
di dolore, del contatto/tatto che passano attraverso una serie di popolazioni neuronali
che convergono nel MS, che a sua volta ha funzione di ricevere info sul corpo e tra-
smetterle al cervello – dal MS passano le info in entrata e in uscita rispetto al corpo).

Verso la fine del periodo embrionale, dalla superficie interna del tubo neurale, si forma
una regione ad alta concentrazione neurale, da cui ha inizio una costante migrazione
di cellule nervose in una regione subito sotto la superficie del tubo neurale. Nella parte
alta si forma il cervello, quindi la corteccia cerebrale. I neuroni si collocano nella giu-
sta posizione alla 25esima settimana attraverso il processo di migrazione neurale.

Quando parliamo di sviluppo cerebrale parliamo di proliferazione (neurogenesi, gene-


razione di nuovi neuroni e successiva migrazione) e di sinaptogenesi (formazione dei
contatti presenti tra i neuroni e le sinapsi, che hanno alla base la generazione delle si-
napsi stesse; è la fase della formazione di nuove connessioni – sinapsi - tra neuroni).

Altri processi importanti sono:

➢ il processo di pruning o sfoltimento sinaptico, ossia un processo attraverso cui


vengono eliminate le connessioni meno importanti o poco utilizzate; il pruning
sinaptico è guidato sia dal corredo genetico che dal principio esperienziale “ciò
che non si usa viene perso”, ossia la sopravvivenza delle sinapsi è determinata
dal loro stesso utilizzo;
➢ la mielinizzazione, che riguarda la maturazione dei neuroni, è un processo in cui
gli assoni (rami dei neuroni) vengono ricoperti di una guaina isolante e protet-
tiva, la mielina, che favorisce il passaggio di informazioni, che all’interno dei
neuroni è di tipo elettrico, dando maggiore velocità e stabilità alla trasmissione
elettrica. Il passaggio di info da un neurone all’altro, invece, è di tipo biochimico
e avviene attraverso i neurotrasmettitori (i principali sono l’adrenalina, la sero-
tonina, dopamina), ossia sostanze chimiche che vengono liberate nello spazio si-
naptico quando all’interno di un neurone avviene un passaggio di elettricità che
arriva a termine del neurone stesso, producendo il rilascio del neurotrasmetti-
tore che porterà l’info ad un altro neurone. Una patologia della mielina, molto
diffusa in Sardegna, è la sclerosi multipla: per processi di tipo autoimmunitario,
la mielina dei neuroni si deteriora e va incontro a processi infiammatori, per cui
le informazioni (il segnale elettrico) non passi nei neuroni e non venga tra-
smetta nella maniera adeguata; questo tipo di patologia crea difficoltà nel por-
tare avanti una serie di compiti di tipo motorio, in quanto la perdita della mie-
lina rende poco efficace la trasmissione delle info all’interno dei neuroni. La
mielina, dunque, ha la funzione di guaina protettiva che migliora la conduzione
elettrica, limitando forme di dispersione della conduzione e migliorando la co-
municazione interneuronale, aumentando la velocità del processo in atto.

Sviluppo cerebrale a livello fetale (il periodo fetale inizia intorno al 3 mese):

➢ neurogenesi e sinaptogenesi guidano lo sviluppo del cervello;


➢ i neuroni migrano e si collocano nella giusta posizione;
➢ le cellule sono pronte a differenziarsi, si allungano e sviluppano contatti reci-
proci;
➢ si crea un tipo di rete di connessione molto ampio all’interno del SN (un neurone
può creare circa 15.000 connessioni);
➢ tra il quarto e il settimo mese le dimensioni del cervello raddoppiano;
➢ a sei mesi di gestazione si hanno i primi segni di coscienza (legata al fatto che al
feto arrivano info di tipo sensoriale, come luce o suoni, a cui egli produce delle
risposte, anche se non finalizzate a uno scopo, risposta non elaborata di tipo ri-
flessivo);
➢ durante la sinaptogenesi inizia a crearsi all’interno del feto una forma di sensi-
bilità verso il mondo esterno: sono forme di riposta derivanti dalla graduale
creazione di connessioni all’interno del SN, prova del fatto che è in atto una ma-
turazione; le risposte messe in atto dal feto dimostrano che le connessioni tra i
neuroni comunicano tra loro.

Nel periodo fetale l’organismo è già differenziato in tutte le sue parti, deve solo cre-
scere, maturare e perfezionarsi, ossia differenziarsi ulteriormente. In questo periodo
inizia la formazione degli organi sessuali, il feto inizia ad avere i primi comportamenti
motori (può succhiare, inghiottire e inizia ad avere i primi riflessi, ossia forme automa-
tiche o automatismi) e, anche se non del tutto differenziate, iniziano a formarsi le ossa.
Una mancata maturazione (funzionale al parto) riguarda le ossa della testa, che non
sono strettamente collegate, non hanno una struttura ben definita (la fontanella, ossia
uno spazio tra le ossa craniche che permette una maggiore flessibilità del cranio du-
rante il parto). I movimenti del feto, invece, sono funzionali per esercitare l’attività
motoria e sono finalizzati a favorire l’espulsione fetale durante il parto.

SVILUPPO FETALE

Al quinto mese il feto è lungo 15cm, pesa circa 250gr e si muove all’interno della sacca
amniotica. I polmoni sono già sviluppati ma inattivi (la loro attività inizia dopo la na-
scita). Viene raggiunto il massimo sviluppo staturo-ponderale nella vita uterina, che
subirà un rallentamento dalla 35esima settimana.

SVILUPPO PRENATALE
Il codice genetico ha tutte le info per produrre la maturazione delle strutture attra-
verso la creazione di proteine, ma tutto questo programma deve incontrare una condi-
zione ambientale adeguata: la componente ambientale e quella genetica si integrano.

Principi organizzativi dello sviluppo prenatale (temporalmente):

➢ la crescita avviene secondo una sequenza prossimo-distale (dalle strutture in-


terne verso quelle esterne, quindi matura prima il tronco degli arti e gli arti ma-
tureranno prima delle dita);
➢ lo sviluppo avviene secondo una sequenza cefalo-caudale, dalla testa alla coda
(testa e cervello si sviluppano prima delle gambe);
➢ lo sviluppo avviene secondo una sequenza specifica rispetto alla massa (le strut-
ture più grandi si formano prima).

NASCITA
Alla nascita il bambino è lungo circa 50cm e pesa in media 3,4kg: c’è una correlazione
tra lunghezza e peso alla nascita e crescita nei primi sei mesi di vita, in quanto più il
bambino è piccolo e più crescerà. Al compimento del primo anno la statura aumenta
circa del 50% e raggiunge i 75cm circa e un peso di 10kg circa. Il tasso di accresci-
mento del peso tende a diminuire nel tempo: importanza della regolarità della crescita
(curva di accrescimento) → nei primi mesi il tasso di accrescimento è superiore ai mesi
successivi, dove continua ad aumentare, ma con una velocità inferiore. La curva di ac-
crescimento è abbastanza standard e viene applicata a livello internazionale.

MONITORAGGIO ALLA NASCITA

La prima operazione che viene svolta subito dopo la nascita è la valutazione delle fun-
zioni vitali, attraverso il punteggio Apgar (max 10 punti), in cui si valutano cinque in-
dici vitali (scala 0-2):

➢ frequenza cardiaca: vengono dati due punti, ossia il punteggio massimo, se la


frequenza cardiaca supera i 100 battiti al minuto; i bambini appena nati hanno
una frequenza cardiaca elevata (130-150 battiti al minuto), che durante lo svi-
luppo si stabilizzerà verso l’età adolescenziale e adulta intorno ai 70 battiti al
minuto; alle frequenze inferiori a 100 al momento della nascita viene dato un
punteggio inferiore (più è bassa la frequenza cardiaca più è a rischio la soprav-
vivenza);
➢ sforzo respiratorio: si danno due punti quando il bambino dopo la nascita piange
vigorosamente (espressione del potenziale respiratorio del bambino);
➢ tono muscolare: l’attività motoria subito dopo la nascita, un movimento attivo
del bambino sta ad indicare un buon tono muscolare ed una buona vitalità;
➢ risposta riflessa: legata alla capacità del bambino di piangere (intensità del
pianto);
➢ colore: si valuta il colorito del bambino, il rossore simboleggia una buona capa-
cità dell’organismo, una buona risposta generale dell’organismo allo stress del
parto; colorito rosso intenso è segnale di profonda vitalità.

Il punteggio massimo di 10 viene assegnato se la condizione è ottimale e quindi se c’è


massima espressione delle funzioni vitali analizzate. Quando il punteggio è pari o infe-
riore a 7 il bambino viene posto in osservazione in quanto è una condizione considerata
a rischio. Un punteggio inferiore a 4 significa che si ha frequenza cardiaca bassa, il
bambino non piange vigorosamente, ha un colorito pallido, tono muscolare basso e mo-
stra scarsi movimenti: tutti segnali di una condizione critica che richiede un inter-
vento importante.

SVILUPPO CEREBRALE ALLA NASCITA

La circonferenza cranica misura circa 35cm alla nascita, fino a raggiungere i 47cm al
compimento dell’anno, in seguito si verificherà un significativo incremento in età pube-
rale, per le variazioni delle secrezioni ormonali (e in questo periodo non si ha solo au-
mento della circonferenza cranica, ma di tutte le caratteristiche e i parametri analoghi
fisiologici). Il cervello ha un peso, una grandezza e una cronologia di sviluppo specifici:
nel neonato è circa 1/3 dell’adulto e a 6 anni il cervello infantile raggiunge il peso di
quello dell’adulto.

Alcune aree del cervello continuano a maturare e creare connessioni sinaptiche fino
alla tarda adolescenza (concludendo il percorso maturativo intorno ai 18-20 anni).

Il cervello si modifica nel corso della vita attraverso la neuroplasticità. La plasticità


neuronale è un processo fondamentale nella costruzione delle connessioni dei neuroni
tra loro, dovuta sia a processi di tipo maturativo che a processi legati all’apprendi-
mento (quindi all’esperienza). Esistono delle finestre sensibili, ossia degli archi tempo-
rali, in cui il cervello arriva a particolari forme di maturazione che devono incontrare
contesti adeguati per permettere la maturazione di tipo fisiologico e dei processi cogni-
tivi (come del linguaggio). Quindi il nostro cervello ha dei percorsi maturativi specifici
e autonomi, ma è importante che essi incontrino gli stimoli ambientali adeguati
nell’arco temporale delle finestre sensibili affinché si producano le funzioni cognitive
fondamentali per un buon adattamento dell’individuo nell’ambiente.

Gli esseri umani raggiungono la massima densità cerebrale tra il terzo e il sesto mese
di vita intrauterina, periodo in cui la proliferazione prenatale raggiunge l’apice (e ciò è
programmato geneticamente). Durante gli ultimi mesi di gestazione il cervello subisce
una drastica riduzione cellulare, in quanto le cellule cerebrali non più necessarie ven-
gono eliminate (selezione delle popolazioni neuronali utili per il processo di sviluppo e
per la fase post-natale). Esiste poi una seconda fase, post-natale, tra i 6 e i 12 anni, di
sinaptogenesi, di genesi di connessioni neuronali che infittiscono i collegamenti neuro-
nali. Si tratta di un processo di tipo maturativo, geneticamente determinato, il quale
deve però incontrare un ambiente adeguato per permettere la maturazione di queste
funzioni. In mancanza di esperienze adeguate avviene il fenomeno del pruning, ossia
la perdita di connessioni neuronali, per mancanza di esercizio ed esperienza. Lo spes-
sore di materia grigia è massimo nella fase preadolescenziale, con leggera differenza di
genere nel processo maturativo (F 11 – M 13 anni), dovuta a fattori endocrini. Sugge-
stivamente avviene poi un altro pruning delle connessioni, che inizia nella preadole-
scenza e si protrae fin oltre i 20anni.

Il periodo adolescenziale è importante per i processi di connessione che si verificano in


base alle nuove esperienze e in base ai processi di sfoltimento (fondamentali per co-
struire rappresentazioni psichiche della realtà adeguate per fornire risposte agli sti-
moli ambientali), in quanto permettono lo sviluppo delle funzioni esecutive. In questa
fase, infatti, non viene alterato il numero di neuroni, ma il numero di collegamenti.
Inoltre, il cervello adolescenziale va incontro a un aumento della mielinizzazione (e di
conseguenza di sostanza bianca), migliorando l’efficienza della conduttività neurale.
Quindi durante l’adolescenza si hanno nel cervello meno neuroni, ma più veloci: il pro-
cesso di pruning elimina tutte le connessioni non utili, lasciando solo quelle fondamen-
tali allo svolgimento dei compiti di adattamento all’ambiente (le strutture non potate
aumentano la loro efficienza).

Le prime regioni del cervello che raggiungono la maturità sono localizzate nella parte
posteriore del cervello, ossia quelle dedicate all’elaborazione delle info provenienti dai
canali sensoriali (percezione visiva, uditiva, etc.). Raggiungono per prime la maturità
in quanto è la prima forma di passaggio dell’info dalla realtà esterna attraverso il pro-
cesso di elaborazione dell’info, che poi si completerà in tarda adolescenza (quando ma-
turano le ultime aree prefrontali, implicate nella presa di decisioni, soprattutto deci-
sioni responsabili e ponderate).

Aree posteriori → elaborazione sensoriale della realtà esterna, attribuisce un signifi-


cato a ciò che percepiamo.

L’ultima parte che matura, invece, è la corteccia prefrontale, sede delle funzioni esecu-
tive (pianificazione, definizione delle priorità, organizzazione dei pensieri, controllo de-
gli impulsi, valutazione delle conseguenze delle proprie azioni), ossia funzioni fonda-
mentali per l’adattamento dell’individuo nell’ambiente. Ciò si collega alla fase, definita
da Piaget, delle operazioni formali: fase in cui la mente dell’adolescente può astrarre la
realtà e pianificare un obiettivo, immaginare, prendere consapevolezza della gerarchia
di priorità degli obiettivi da raggiungere, organizzare i vari passaggi dal pensiero al
raggiungimento dell’obiettivo ed è la fase del controllo degli impulsi. Questa fase pre-
para il cervello adolescente alla mente adulta.

Gli adolescenti sono impulsivi e “in preda alle emozioni” in quanto la corteccia prefron-
tale termina di maturare solo in tarda adolescenza, quindi il controllo degli impulsi e
delle emozioni non è regolato adeguatamente.

Il pruning è il processo opposto alla costruzione e al potenziamento delle connessioni


sinaptiche. Un esempio sono i processi di memorizzazione: più si ripete un certo mate-
riale, per poterlo apprendere, più forti saranno le connessioni sinaptiche (lo stesso vale
per la ripetizione di esercizi per l’abilità motoria, etc.) e di conseguenza i neuroni spe-
cializzati in quel compito aumentano le loro connessioni sinaptiche, c’è un rafforza-
mento; le connessioni rafforzate in maniera minore, col tempo, si indeboliranno e ver-
ranno perse. Lo stesso vale per le funzioni del cervello durante l’adolescenza, se non
vengono esercitate abbastanza (in senso di esercizio cognitivo e comportamentale), non
sopravvivranno al pruning sinaptico.

La plasticità neuronale è quindi un tipo di maturazione che riguarda determinate aree


del cervello (nel caso della memoria riguarda la maturazione dell’ippocampo, stretta-
mente legato alla comparsa della memoria esplicita). La memoria esplicita compare at-
torno ai 2 anni, quando l’ippocampo raggiunge un certo grado di maturazione, motivo
per cui per gli esseri umani è impossibile ricordare eventi accaduti prima dei 2 anni (la
mancata maturazione dell’ippocampo prima di quell’età rende le esperienze vissute
non memorizzabili e non revocabili – sorta di amnesia di tipo evolutivo). Dai 3 ai 6
anni vi è un’ulteriore modifica della memoria dovuta a cambiamenti della corteccia
prefrontale e alle sue connessioni con il lobo temporale e mediale: il bambino inizia a
utilizzare strategie di metamemoria, ossia diventa consapevole della strategia che sta
utilizzando per memorizzare una data info. Intorno ai 5-6 anni la corteccia prefrontale
crea connessioni con altre aree del cervello, soprattutto quelle implicate nelle funzioni
esecutive, successivamente si sviluppa la capacità di pensare e trovare le strategie più
adeguate ad attivare i processi di memorizzazione.

SVILUPPO CEREBRALE ATIPICO

Nello sviluppo cerebrale atipico si cerca di capire quali sono le esperienze che hanno
prodotto anomalie nello sviluppo cerebrale. La prima è la deprivazione affettiva, ri-
scontrata soprattutto nei bambini che vivono in orfanotrofio. Il fenomeno viene chia-
mato Early severe socioemotional deprivation e ha come effetto una riduzione della so-
stanza bianca nei lobi frontali, temporali e parietali. Gli esseri umani sono predisposti
geneticamente a ricevere cure durante le prime fasi dello sviluppo e la deprivazione af-
fettiva è la più grave forma di deprivazione cui si può andare incontro nelle fasi dello
sviluppo. Bowlby stesso (teoria dell’attaccamento) si occupò di questo fenomeno, stu-
diando cosa accadeva nei bambini portati negli ospedali e privati delle cure affettive
durante la prima infanzia. Il modello di attaccamento è uno degli aspetti principali
dello sviluppo affettivo ed è legato per questo alla ricerca. I bambini deprivati palesa-
vano una serie di sindromi, tra cui la depressione anaclitica intorno ai 9 mesi, in cui il
bambino smetteva di mangiare e si lasciava andare, talvolta fino a morire. Il substrato
fisiologico di questa forma di perdita è una riduzione della sostanza bianca nei lobi
frontali, parietali e temporali. Con il termine severa si fa riferimento a una depriva-
zione avvenuta per tempi prolungati, sia di deprivazione affettiva che sensoriale:
quest’ultima è data dalla mancanza di adeguati stimoli ambientali, che non permet-
tono il corretto sviluppo cognitivo del bambino, quindi la capacità di elaborare la realtà
che lo circonda, con un conseguente aumento della permanenza in istituto per disturbi
quali ADHD (per altro, disturbo in costante aumento negli ultimi 20anni).
Un’area di studio sullo sviluppo atipico si concentra sui disturbi genetici causati da
anomalie genetiche (sindrome di Williams, deficit nelle abilità visuo spaziali e nella ri-
soluzione dei problemi). L’anomalia genetica riguarda le info che non sono adeguate
(anomalie del codice genetico), che si esprimono attraverso una serie di problemi di
tipo comportamentale (di solito le problematiche sono interrelate).

Vi sono poi disturbi definiti da uno o più deficit comportamentali diagnosticati (disles-
sia come DSA, oppure disturbi dello spettro autistico, in cui il soggetto è incapace di
riconoscere gli stati mentali altrui). Nell’autismo l’incapacità di sintonizzarsi con gli
altri impedisce al bambino di acquisire strumenti sociali e relazionali per rispondere
alle richieste ambientali (chiusura sociale, ritiro verso sé stesso, perché mancano le
competenze relazionali).

Vi sono forme di disabilità intellettiva con eziologia sconosciuta. La disabilità intellet-


tiva è una problematica evolutiva che si manifesta nella difficoltà del bambino a risol-
vere i problemi della realtà quotidiana (D.I. misurata con il quoziente intellettivo).
Oggi si fa una diagnosi di disabilità intellettiva quando il Q.I. è di due deviazioni stan-
dard sotto la media (100): lo spostamento medio dalla media è di 15, quindi la media
tipica va dall’85 al 115, con due deviazioni standard sotto la media si arriva a 70 e a
130. Sotto il 75 si parla di disabilità intellettiva. Le cause possono essere innumere-
voli, di natura genetica, prenatale, perinatale (anossia, mancanza di ossigeno durante
il parto) e postnatale.

Un altro tipo di disturbi sono quelli legati ai fattori di tipo ambientale, in cui entra in
gioco la componente culturale, come crescere in famiglie in cui la stimolazione cultu-
rale e cognitiva è minima, comportando problematiche di tipo evolutivo (i genitori pos-
sono deprivare ulteriormente il bambino di stimolazioni in quel caso, pensando non sia
capace, cristallizzando il bambino nel suo disturbo).

SVILUPPO PERCETTIVO E MOTORIO


I domini del funzionamento cognitivo, percettivo ed emotivo sono strettamente inter-
connessi.

Abilità percettive → costruire scoprendo la realtà.

Vi è una stretta connessione tra lo sviluppo percettivo, quello neurologico, quello per-
cettivo-motorio e quello cognitivo: lo sviluppo percettivo, quindi una buona capacità di
elaborare le info dell’ambiente, va di pari passo ed è una base necessaria per lo svi-
luppo cognitivo. Difficoltà nell’elaborazione delle info percettive provenienti dall’am-
biente avrà conseguenze negative anche sullo sviluppo cognitivo, quindi le info percet-
tive guidano l’azione e l’azione guida la percezione (gli individui percepiscono al fine di
muoversi e si muovono al fine di avere percezioni). Piaget definì questa fase come fase
senso-motoria (prima fase dello sviluppo, dalla nascita ai 2 anni), in cui il bambino co-
nosce la realtà attraverso la forte interconnessione tra questi due processi, ossia si
muove per esplorare la realtà cercando stimoli percettivi o muovendosi verso di essi. È
quindi un’interconnessione fondamentale per conoscere l’ambiente: il sistema percet-
tivo non solo seleziona, ma costruisce anche la realtà sin dalle primissime fasi dello
sviluppo in modo coerente con la soddisfazione dei bisogni del bambino. La realtà per-
cepita o fenomenica non è copia immediata di quella ambientale e questo aspetto è un
aspetto importante nella percezione. La percezione non si identifica con la sensazione
ma è una integrazione, una interpretazione delle sensazioni. La sensazione è stretta-
mente legata al canale sensoriale che riceve l’informazione sensoriale e riguarda im-
pressioni soggettive e immediate, la percezione, invece, è una forma di elaborazione di
queste sensazioni, affinché queste vengano integrate e interpretate per poter dar senso
alla realtà attorno. La differenza tra percezione e sensazione è ben spiegata dal trian-
golo di Kanizsa.

Alla nascita l’apparato visivo è funzionante ma immaturo (manca la visione binoculare,


non vi è il focus di entrambi gli occhi su un punto e vi è bassa acuità visiva), il neonato
reagisce alla luminosità, al movimento, distingue alcuni colori e ha precise referenze. Il
neonato percepisce con costanza di grandezza, ossia percepisce un oggetto della stessa
grandezza indipendentemente dalla distanza cui è posto da lui (quando la distanza alla
quale l’oggetto si trova è percepita correttamente, la costanza di grandezza funziona
perfettamente, permettendo di vedere l’oggetto per quella che è la sua vera grandezza,
quando invece gli indizi di distanza vengono a mancare, la costanza di grandezza si
indebolisce e la grandezza dell’oggetto è determinata solo dall’angolo visivo).

I neonati hanno un’acuità visiva molto ridotta (0,5/10 alla nascita, 30x inferiore
all’adulto) e hanno una porzione foveale e una capacità di accomodamento del cristallino
più immature. L’elasticità del cristallino è fondamentale per la messa a fuoco degli og-
getti, il neonato, infatti, è in contatto solo con oggetti o relazioni molto vicine al suo
campo visivo; ne consegue una preferenza per oggetti e figure distanti non oltre i 50cm,
ma può mettere a fuoco stimoli posti solo a distanza ravvicinata (15-20cm). Ha inoltre
una discreta capacità di percepire i contrasti (10x inferiore all’adulto), i colori primari (i
recettori dell’occhio sensibili al colore – i coni – funzionano a partire dai due mesi, quindi
la sensibilità al colore alla nascita è molto ridotta) e i cambiamenti di luminosità e pre-
senta una preferenza per gli stimoli che compaiono alla periferia piuttosto che al centro
della visuale (ha una competenza visiva orientata alla visione globale del mondo
esterno) ed è predisposto geneticamente a preferire il volto. I limiti del sistema visivo
del neonato sono funzionali al suo adattamento.

Es. preferenza volto umano (in particolare quello femminile) → favorisce l’adattamento
(anche da un punto di vista fisiologico) in quanto favorisce il processo di costruzione del
legame di attaccamento verso la figura del caregiver. Allo stesso modo per la stessa mo-
tivazione il neonato è attratto da informazioni visive dotate di simmetria, presenza di
curve, mobilità, tridimensionalità, figure con alto contrasto e stimoli presentati sul
piano fronto-parallelo. A pochi giorni dalla nascita, il neonato preferisce il volto ma-
terno. → predisposizione a stimoli di natura sociale (preferenza per il movimento ani-
mato, biologico, e per il volto umano).
L’attenzione, fin dalla nascita, è selettiva: la ricerca di informazioni è pre-orientata a
particolari configurazioni di stimoli. Ad esempio, il volto attrae il bambino per le sue
caratteristiche, quali nitidezza dei contorni, movimento e simmetria (quindi regolarità
delle forme, preferenza verso stimoli strutturati) e la complessità presente all’interno
del viso (occhi, bocca, naso, che creano una regolarità nella struttura schematica). Du-
rante il primo mese il bambino, guardando il volto della madre, orienta la sua atten-
zione verso i punti più esterni del viso (attraverso l’esplorazione della periferia dell’info
il bambino riesce a farsi un’idea più immediata di cosa ha davanti), in seguito viene
attratto dal movimento degli occhi (fondamentali per la costruzione di un’interazione);
al secondo mese invece si concentra sul triangolo occhi, naso, bocca, quindi sta in con-
tatto con i canali comunicativi del viso (a partire dal secondo mese inizia l’intersogget-
tività primaria, per cui il bambino inizia a costruire una forma di reciprocità interattiva
con il proprio caregiver).

VALUTAZIONE DELLE CAPACITÀ PERCETTIVE NEL NEONATO

Tra tre immagini differenti, il bambino tenderà a preferire l’immagine più simile al volto
umano: il neonato è predisposto a selezionare gli stimoli biologicamente e psicologica-
mente rilevanti, per una questione di evoluzione (filogeneticamente sono state selezio-
nate queste modalità percettive, in quanto funzionali all’adattamento all’ambiente),
base per la costruzione del rapporto di attaccamento con il caregiver (preferenza per il
volto → predisposizione genetica).

Con il paradigma dello sguardo preferenziale (o preferenza visiva) si ricerca quante volte
il bambino si orienta verso uno stimoli e la durata della fissazione; si valutano, quindi,
due aspetti:

➢ la direzione dello sguardo, presentando due stimoli (uno a destra e uno a sinistra)
e verificando quale sia l’orientamento preferenziale dello sguardo del bambino;
➢ la durata della fissazione.

Questa metodologia fornisce informazioni sulla preferenza (quali stimoli il bambino pre-
ferisce guardare) e ci dice che il bambino, fin dalle primissime fasi dello sviluppo, ha
capacità discriminatoria (quando il bambino cambia i tempi di fissazione e preferisce
orientare lo sguardo su un’immagine piuttosto che su un’altra, sta discriminando e mo-
stra preferenze dal punto di vista percettivo).

Altro metodo di valutazione dalla capacità attentiva è il metodo dell’abituazione: si


presenta uno stesso stimolo ripetutamente, fino a quando non diventa talmente fami-
liare che in seguito la risposta di orientamento non avviene più (non produce più at-
tenzione), ma se lo stimolo viene sostituito da uno nuovo e diverso, l’attenzione si riac-
cende e avviene il processo di disabituazione.

Inoltre, da una ricerca sugli altri canali sensoriali, emerge che il neonato ha una certa
preferenza per gli stimoli uditivi: sin dalle prime ore di vita egli risponde a questi sti-
moli con capacità di discriminazione, ossia è capace, senza apprendimento, di discrimi-
nare diversi suoni, ma anche diversi odori e sapori. Fin dai primi mesi, il neonato, in-
fatti, mostra una preferenza per i suoni linguistici e fino ai sei mesi vi è una discrimi-
nazione dei contrasti fonetici (anche quelli non presenti nella lingua madre) e dai 10-
12 mesi, nel momento in cui egli si abitua a sentire il linguaggio dei genitori, questo
tipo di discriminazione riguarderà solo la lingua madre.

Per quanto riguarda l’udito, vi è una discriminazione uditiva già a livello fetale: nel
momento in cui matura l’organo sensoriale dell’udito il bambino mostra capacità di-
scriminatoria, producendo un’attività motoria diversa in base alla tipologia delle diffe-
renze dei suoni presentati. Vi è inoltre preferenza per voci femminili e il riconosci-
mento immediato della voce materna (memoria intrauterina), oltre che una sensibilità
precoce alle caratteristiche prosodiche della lingua madre (intonazione, oscillazione del
volume, etc.).

Sin dalla prima settimana di vita, inoltre, il bambino è capace di discriminare una
grande varietà di odori, sempre per una questione di funzione di tipo adattivo: capa-
cità di sentire attraverso il gusto e l’olfatto odori e sapori che potrebbero essere poten-
zialmente dannosi per l’organismo. Vi è quindi preferenza per l’odore del latte materno
rispetto a quello del liquido amniotico; inoltre, la capacità di riconoscere l’odore del
latte materno ha per il bambino un effetto psicologico di tipo calmante, in quanto sente
di essere in un contesto protettivo (a livello emotivo la componente di familiarità evoca
in lui sicurezza e senso di protezione, con conseguente abbassamento del livello di ten-
sione).

Per il gusto si ha una precoce sensibilità ai sapori fondamentali: i bambini smettono di


succhiare e fanno smorfie se sentono un gusto amaro, acido o salato; al contrario, si
calmano e tranquillizzano maggiormente, anche davanti ad esperienze dolorose, se
sentono un gusto dolce (ma non troppo), in quanto il dolce produce un effetto calmante
(sia nella primissima infanzia che nell’età adulta) perché contiene sostanze che sono
precursori di neurotrasmettitori dall’effetto rilassante.

Intorno ai 3-4 anni emerge il fenomeno del sincretismo infantile: il bambino ha delle
difficoltà a percepire i singoli elementi all’interno di una configurazione percettiva glo-
bale; la percezione della struttura d’insieme ostacola l’individuazione delle singole
parti (quindi il sincretismo non è un problema di visione, ma dovuto all’influenza delle
proprietà strutturali degli stimoli, è una carenza di organizzazione flessibile e artico-
lata del campo percettivo). Questo fenomeno viene superato dopo i 5-6 anni. Dai 6-7
anni vi è un incremento delle strategie visuo-esplorative, con riconoscimento delle
forme visive dal contorno frammentato o continuo e se il bambino viene posto davanti
a delle configurazioni percettive, anche non lineari e ben organizzate, riesce a ricono-
scere la particolare configurazione. A quest’età vi sono quindi mutamenti dell’atten-
zione sostenuta, dell’attenzione selettiva e nelle strategie di esplorazione visiva. Lo
sviluppo percettivo, legato alla maturazione cognitiva, permette al bambino di selezio-
nare e orientare la propria attenzione in modo tale da cercare un’informazione in ma-
niera strategica e di trovare soluzioni a problemi di tipo visuo spaziale (stretta rela-
zione tra sviluppo percettivo e sviluppo attentivo).

SVILUPPO MOTORIO

Sistema nervoso, corpo e ambiente sono sistemi dinamici complessi e altamente strut-
turati che si sviluppano in maniera coordinata e il comportamento adattivo emerge dalla
loro continua interazione.

Il repertorio motorio del neonato viene descritto in termini di riflessi, comportamenti


più o meno complessi che vengono prodotti in modo automatico. Sono quindi forme di
automatismo motorio in risposta a specifici stimoli. Alcuni riflessi permangono, altri si
estinguono. Si ipotizza che i riflessi siano il frutto dell’adattamento del feto all’ambiente
uterino, ossia sarebbero un insieme di comportamenti automatici non appresi, intera-
mente pre-specificati per via genetica (anche se alcuni possono essere considerati com-
portamenti acquisiti tramite processi di apprendimento durante la vita fetale). I riflessi
sono reazioni automatiche controllate da aree sottocorticali del cervello e destinate a
scomparire entro un anno e sono un inizio di adattamento dell’organismo all’ambiente
esterno, subito dopo la nascita.

I riflessi congeniti (presenti alla nascita, che poi si estinguono) sono:

➢ il riflesso di Moro, che scompare intorno al 6 mese di vita: se un adulto per un


attimo non sorregge il capo del bambino, oppure produce un forte rumore, il bam-
bino estende le braccia, curva il tronco e poi richiude le braccia come se “abbrac-
ciasse” in cerca di un qualche supporto o sostegno;
➢ il riflesso di rotazione: se un adulto tocca la guancia del bambino, questi ruota il
capo in direzione dello stimolo e apre la bocca, scompare attorno ai sei mesi;
➢ il riflesso di suzione è strettamente legato al riflesso di rotazione: se un adulto
mette un dito nella bocca del bambino (oppure il capezzolo materno), il bambino
tenderà a succhiare, scompare intorno ai 2 mesi;
➢ il riflesso di grasping, o riflesso di prensione, scompare dopo i 2-3 mesi, max 12;
➢ il riflesso di Babinski è un riflesso cutaneo plantare e scompare attorno agli 8-12
mesi: se un adulto sfiora il piede del bambino dall'alluce al tallone, questi estende
e poi ritrae le dita dei piedi;
➢ il riflesso di marcia automatico scompare attorno al 4 mese, se un adulto regge il
bambino verticalmente con i piedi che sfiorano il fasciatoio, il bambino alza i piedi
accennando il passo.

I riflessi elencati scompaiono quando il bambino inizia l’attività motoria volontaria e si


distinguono dai riflessi di sopravvivenza, i quali mantengono (pur essendo innati) la loro
utilità per tutta l’esistenza: respirazione, ammiccamento (quando vengono presentati
degli stimoli troppo vicini agli occhi, automaticamente, il soggetto chiude le palpebre
per proteggerli – riflesso protettivo), pupillare (in base all’intensità della luce si produce
una dilatazione – midriasi – o restrizione della pupilla – miosi, con lo scopo di regolare
l’intensità della luce per rendere la visione ottimale), riflesso di deglutizione (utile a
trasportare il bolo dalla bocca verso il canale digerente) e il riflesso dello starnuto (in
presenza di corpuscoli che possono essere dannosi se dalle vie respiratorie dovessero
raggiungere l’area polmonare).

Di alcuni riflessi non è nota con certezza la funzione e possono essere retaggi della storia
evolutiva dell’uomo, come il riflesso di Moro o di grasping. Tuttavia, i riflessi sono im-
portanti dal punto di vista diagnostico, in quanto sono possibili indicatori di problemi al
SNC.

L’abilità motoria si costruisce attraverso delle attività motorie primarie nell’adatta-


mento del bambino al proprio ambiente subito dopo la nascita. Una delle attività moto-
rie principali di adattamento è la capacità del bambino di prendere in mano degli oggetti
(capacità di prensione e in seguito di afferramento). La prensione può essere suddivisa
in due componenti: la sequenza di movimenti di raggiungimento (reaching) e l’abilità di
coordinare e modulare i vari movimenti della mano e delle dita (grasping). L’afferra-
mento è un comportamento volontario che il bambino mette in atto nel momento in cui
incontra uno stimolo visivo che sollecita il suo interesse e compare attorno al quarto
mese. Quella dell’afferramento è un’attività motoria più avanzata, ma già alla nascita
si assiste al reaching precoce, ossia una sequenza di movimenti finalizzata al raggiun-
gimento dell’oggetto (primo abbozzo di coordinazione visuo motoria).

Il controllo dei movimenti fini viene raggiunto secondo la legge prossimo-distale: il bam-
bino impara a governare prima i muscoli della parte mediana del corpo e in seguito i
muscoli più periferici. I primi atti di afferramento riusciti compaiono intorno al 4 mesi:
raggiungimento dell’oggetto a rastrello (la mano del bambino con dita allargate) e una
prensione di tipo cubito palmare (tutta la mano viene coinvolta). L’abilità di modulare
l’atto di accertamento sulla base delle proprietà del bersaglio è ancora poco sviluppata.
A sei mesi vi è un approccio parabolico, ossia l’avvicinamento della mano all’oggetto
traccia una sorta di parabola e la prensione diventa radio palmare, quindi il bambino
afferra con il palmo e con la partecipazione delle tre dita. Verso i nove mesi il bambino
non utilizza più la curva, ma va in linea retta con il braccio che segue una sequenza
diretta orientata allo stimolo con la mano che si rivolge verso l’oggetto e la prensione
diventa radio digitale ed emerge la presa a pinza (maniera di articolare la mano e le
dita sempre più adeguata), emerge inoltre l’uso preferenziale di una mano per le attività
che richiedono maggiore precisione (predominanza manuale).

Lo sviluppo del controllo posturale si sviluppa seguendo la legge cefalo-caudale: il con-


trollo del capo precede quello dell’asse corporeo, a cui segue il controllo degli arti. Il
bambino, dapprima in posizione prona, solleva il mento e quindi la testa e il torace, poi
è in grado di sollevarsi sugli avambracci e solo successivamente sarà in grado di usare
le gambe per spostarsi. Vi sono anche delle tappe intermedie, che portano il bambino a
regolare la propria attività motoria, quindi ad acquisire l’attività motoria che lo porterà
ad una posizione eretta per poter in seguito camminare. La postura seduta si sviluppa
attraverso una serie di tappe intermedie: dapprima il bambino starà seduto solo se il
tronco è supportato da un adulto, poi la postura seduta sarà caratterizzata da tronco
inclinato in avanti e sostenuto da braccia e mani e in seguito saprà sostenere il tronco
senza supporto delle mani, libere di esplorare l’ambiente (dal 7 mese).

Solo intorno ai nove mesi si ha una vera e propria coordinazione visuo manuale (sviluppo
percettivo e motorio sono nuovamente strettamente legati). La postura eretta la rag-
giunge intorno agli 8-18 mesi (notevoli differenze individuali nei tempi).

Agli esordi, la locomozione autonoma è caratterizzata da una larga base di supporto,


una minore lunghezza e una maggiore frequenza dei passi, l’appoggio del piede di punta
o pianta e la maggiore oscillazione del tronco e delle braccia in posizione di guardia e
prive di movimenti alterni, tipici della seconda fase, quando l’oscillazione delle braccia
permetterà di mantenere il baricentro (nella prima fase si muove cercando di controllare
il proprio equilibrio, con paura di cadere). Con il progredire dello sviluppo il cammino
autonomo assume sempre più le caratteristiche del cammino plantigrado dell’adulto
(tallone appoggiato per primo, fino ad arrivare alla punta del piede).

All’età di due anni i bambini padroneggiano un’ampia varietà di competenze motorie


(correre, salire le scale, calciare), tuttavia le abilità grosso motorie e fini continuano a
subire modificazioni fino all’adolescenza: una maggiore abilità motoria non è altro che
un aumento delle connessioni neuromuscolari, ossia i neuroni attraverso i processi di
arborizzazione costruiscono collegamenti maggiori con i muscoli e questo comporta una
maggiore abilità motoria. A tre anni i bambini acquisiscono un crescente controllo
dell’abilità di corsa, sanno stare su un piede solo, salire le scale alternando il piede d’ap-
poggio. Tra i tre e i sei anni le diverse abilità motorie diventano sempre più stabili,
coordinate, accurate e automatizzate, consentendo al bambino di acquisire una cre-
scente autonomia nelle abilità quotidiane e pre-scrittura. Anche la scrittura è un’abilità
motoria che deriva dalla maturazione di connessioni neuromotorie e permette al bam-
bino di acquisire un’abilità motoria fine (anche se progressivamente).

Sintesi delle tappe riguardanti le abilità motorie dei bambini:

➢ a 2 anni riescono a mangiare da soli con un cucchiaio e afferrare un oggetto con


pollice e indice, sono capaci di camminare senza sostegno e riescono a far rotolare
e lanciare una palla;
➢ a 4 anni riescono a tagliare la carta con le forbici, iniziando a seguire delle forme
e sono capaci di tagliare in base ad una rappresentazione che hanno in mente,
sanno disegnare linee approssimativamente circolari e sono capaci di scendere
le scale alternando i piedi e sono capaci di afferrare la palla al rimbalzo;
➢ a 5 anni riescono a scrivere il proprio nome in stampatello e di camminare in
equilibrio su un parapetto, di lanciare la palla sopra la testa tenendo i gomiti
piegati;
➢ a 6 anni diventa capace di copiare brevi parole, di saltare su un piede solo tenen-
dosi al corrimano e afferrare e controllare con entrambe le mani una palla te-
nendo le braccia davanti al corpo.
Vi sono anche differenze di genere e individuali e vi è anche una correlazione tra com-
petenze motorie e competenze scolastiche (la motricità fine è predittiva del rendimento
scolastico).

Es. di coordinamento motorio → attraversamento pedonale: a 10-12 anni la capacità di


coordinazione e sincronizzazione delle abilità percettivo-motorie è minore; infatti, i bam-
bini di quell’età tendono a non prepararsi per l’attraversamento e, una volta deciso, ri-
tardano la partenza, sovrastimando le loro abilità motorie.

SVILUPPO PERCETTIVO E MOTORIO ATIPICO


Possono presentarsi sia danni a carico del sistema nervoso sia forme di sviluppo atipico
che derivano dalla deprivazione di alcune esperienze. Il disturbo percettivo può dipen-
dere da una difficoltà nella raccolta periferica delle informazioni, ovvero dei canali sen-
soriali coinvolti nella trasmissione dei dati, e tale difficoltà può essere dovuta ad una
lesione che può avvenire sia a livello di deficit sensoriale elementare che a livello più
corticale oppure può essere un problema legato ala rielaborazione dei dati e al loro rico-
noscimento.

Es. agnosia, difficoltà nel riconoscere un’informazione, un esempio è la prosopagnosia,


ossia la difficoltà nel riconoscere i volti umani. Più nello specifico è l’incapacità del sog-
getto di creare, anche dal punto di vista fisiologico, un’altra opzione globale dell’infor-
mazione, ovvero il soggetto percepisce dalla realtà esterna una serie di informazioni,
che passano per i canali sensoriali, ma non riesce a farne una sintesi.

Un normale sviluppo percettivo ha bisogno di una quantità minima di stimolazione or-


ganizzata in un particolare periodo dello sviluppo. Un bambino con problemi di tipo or-
ganico, per esempio alla vista, può presentare uno sviluppo percettivo visivo compro-
messo, perché la distorsione dell’informazione che viene elaborata a livello cerebrale può
compromettere la costruzione di rappresentazioni adeguate del mondo circostante.
Quindi quando si parla di sviluppo si parla di periodo sensibile, ossia il periodo dello
sviluppo dell’individuo in cui deve avvenire un incontro tra processi maturativi, quindi
processi di connessione neuronale, e stimoli ambientali, permettendo al bambino di ela-
borare informazioni adeguate sulla sua realtà circostante.

Per quanto riguarda lo sviluppo atipico, possono esserci problematiche legate a danni a
carico del SNC, come l’agnosia (danno alle cortecce associative).

Può trattarsi di disfunzionalità percettive associate al disturbo dello spettro autistico


(difficoltà a raccogliere informazioni sui volti delle persone che interagiscono con loro,
che si ricollega alla difficoltà nelle relazioni interpersonali, con conseguente scarsa mo-
tivazione ad interagire con gli altri, inoltre hanno anche difficoltà a elaborare informa-
zioni percettive di tipo globale, in quanto presentano interesse verso il singolo dettaglio).

Ci sono poi le disfunzionalità percettive legate ai disturbi dell’apprendimento, in modo


particolare con forme atipiche di tipo percettivo associate a dislessia evolutiva (corrente
di pensiero 1: problemi nel dominio linguistico fonologico → dislessia; corrente di pen-
siero 2: problemi di tipo percettivo, visivo e uditivo → dislessia) o per la discalculia (cor-
rente di pensiero 1: problemi relativi al modulo numerico → discalculia; corrente di pen-
siero 2: problematiche visuo-percettive → discalculia).

Nello sviluppo motorio, invece, i disordini più importanti derivano da lesioni a carico del
sistema nervoso: le più conosciute sono le paralisi cerebrali infantili, che possono essere
sia congenite che acquisite. Le manifestazioni cliniche dipendono dalla sede a livello del
nervoso del danno, del grado di lesione, dell’ampiezza dell’area cerebrale coinvolta e dal
periodo di sviluppo in cui è avvenuta la lesione. La tipologia più conosciuta di paralisi
cerebrale infantile è quella spastica (emiplegia, diplegia, tetraplegia), ma esistono anche
forme più lievi in cui sono presenti sintomi come il tremore. Si possono avere conse-
guenti disturbi della coordinazione motoria.

Criteri diagnostici secondo il DSM-V del disturbo della coordinazione motoria:

1. le prestazioni nelle attività che richiedono coordinazione motoria sono sostanzial-


mente inferiori rispetto all'età cronologica e al livello intellettivo del bambino,
quindi in qualche modo fanno riferimento alla media dell'abilità motoria che si
raggiunge in quella specifica fase di età;
2. il disturbo interferisce con l'apprendimento scolastico e con le attività quotidiane,
quindi non deve essere un disturbo lieve ma deve avere una certa importanza e
porre dei limiti nell'adattamento del bambino al proprio ambiente, come per
esempio nella costruzione dell'abilità di scrittura;
3. l'esordio dei sintomi deve avvenire nel primo periodo dello sviluppo: per poter fare
la diagnosi del disturbo della coordinazione motoria bisogna escludere altre con-
dizioni di base, di tipo medico generale o comunque neurologico che influenzano
il movimento, come la paralisi cerebrale;
4. i deficit delle abilità motorie non devono essere dovuti a forme di disabilità intel-
lettiva.

Esistono poi forme di difficoltà di sviluppo delle abilità motorie che possono essere asso-
ciate a forme di disabilità intellettiva, tipiche per esempio della sindrome di Down. In
questo caso le difficoltà motorie sono secondarie, ovvero derivano dai limiti e dall’inca-
pacità di interagire con l’ambiente circostante in maniera adeguata, quindi dalla po-
vertà di emozioni e di iniziativa, difficoltà di formulare piani di azione organizzati: tutte
caratteristiche della disabilità intellettiva che produce difficoltà di tipo motorio.

Es. bambini con sindrome di Down → più lenti nel portare a termine movimenti di presa
e la dinamica stessa del movimento appare diversa e più variabile rispetto a bambini
con sviluppo tipico. I bambini con sindrome di Down, per raggiungere l’obiettivo motorio
fanno una serie di attività motorie che sono anche poco congruenti, quindi c’è una sorta
di dispendio di energia e di tempo.

Atipie nello sviluppo motorio si sono riscontrate anche con bambini con disturbo dello
spettro autistico, dove si riscontra una certa postura e una deambulazione atipiche, con
movimenti poco fluidi, soprattutto per ciò che riguarda l’aspetto macro del movimento
del corpo, ma possono palesarsi anche difficoltà nella motricità fine (come nella scrit-
tura, ad esempio con la macrografia).

LEGAME TRA PERCEZIONE E AZIONE NELLO SVILUPPO ATIPICO

La presenza di alcuni deficit percettivi può influenzare il normale percorso dello svi-
luppo motorio, quindi lo sviluppo percettivo-motorio risulta compromesso: avere deficit
visivi comporta una limitazione importante nell’acquisizione delle abilità visuo-spaziali,
quindi anche nelle abilità visuo-motorie. La capacità di muoversi in uno spazio può es-
sere fortemente limitata per un bambino con deficit visivo e questo comporta difficoltà
nell’apprendere e sviluppare attività motorie adeguate al raggiungimento degli obiet-
tivi.

Alcuni importanti mutamenti percettivi avvengono come conseguenza dell’incremento


delle capacità attentive: il bambino è capace di concentrarsi su un compito per prolun-
gati periodi di tempo quando ha acquisito maggiori abilità nella ricerca e nella selezione
delle informazioni. Nel caso di bambini con difficoltà a mantenere a lungo l’attenzione
attiva e a sviluppare strategie pianificate (ADHD), tale percorso di sviluppo risulta com-
promesso e in questo caso c’è una maggiore difficoltà nell’abilità di cercare e selezionare
le informazioni. All’interno di questo disturbo c’è una continua interferenza delle infor-
mazioni che portano il soggetto ad avere difficoltà e a mantenere l’attenzione prolun-
gata.

In modo analogo, se nel corso dello sviluppo alcuni comportamenti motori non diventano
più automatizzati (ossia svolgere un’azione in maniera automatica), il bambino dovrà
continuamente concentrare tutte le sue risorse attentive nell’esecuzione del movimento
(quindi non potrà rivolgerle ad altre attività). È come se la mancata automatizzazione
di un comportamento motorio portasse il soggetto a mantenere costantemente l'atten-
zione sulla esecuzione dell'attività motoria specifica.

SVILUPPO COGNITIVO
A cosa servono e a cosa servivano nel passato le funzioni mentali? E come mai sono state
selezionate filogeneticamente fino ad oggi per poter rispondere a livello comportamen-
tale e a livello delle richieste ambientali? Un esempio potrebbe essere dato dall’elabora-
zione delle risposte emotive. Perché abbiamo ancora paura? A cosa è servita nel passato?
Per rispondere alle domande facciamo un esempio di tipo psicofisiologico, in quanto le
emozioni sono delle funzioni della nostra mente fortemente basate a livello fisiologico.
Nel momento in cui si fa esperienza di un’emozione come la paura, insieme alla sensa-
zione e al vissuto soggettivo della paura, corrispondono delle modificazioni di tipo fisio-
logico che mettono l’organismo nella condizione di rispondere prontamente alla richiesta
ambientale. La paura è la risposta a un antecedente, che di solito è la percezione di un
pericolo. Nella nostra storia la paura corrisponde a un’attività motoria e fisiologica, di
solito la fuga, che mette l’organismo nelle condizioni di poter scappare davanti a un
pericolo, aiutando quindi l’uomo nell’adattamento al proprio ambiente: in passato alla
presenza di un predatore si attivava la paura, in quanto veniva percepito un pericolo
alla sopravvivenza e la risposta emotiva della paura attivava una serie di modificazioni
fisiologiche, atte alla produzione di adrenalina, producendo cambiamenti nell’organismo
(aumento della frequenza cardiaca, con conseguente maggiore erogazione nei muscoli,
aumento di glucosio nel sangue, che veniva poi rilasciato nel fegato e favorivano la fuga.
Inoltre, chi correva di più aveva maggiori possibilità di sopravvivenza e successiva ri-
produzione, quindi si toccano due aspetti fondamentali per la continuità della specie.

Le emozioni sono delle funzioni mentali fondamentali per l’adattamento all’ambiente.


Non provare paura (sindrome derivante da danno neurologico alle strutture sottocorti-
cali, quali amigdala, responsabile dell’elaborazione delle informazioni emotive associate
alla paura) significa aumentare le probabilità di morire, a causa della mancata risposta
fisiologica dell’organismo davanti a rischi e pericoli.

L’adattamento, in biologia, riguarda la fitness riproduttiva, cioè l’efficienza nella tra-


smissione dei propri geni. Organismi adatti al proprio ambiente hanno maggiori proba-
bilità di sopravvivere e di conseguenza di trasmettere i propri geni, favorendo la conti-
nuità della specie.

Un concetto centrale della prospettiva funzionalista è il concetto di adattamento come


risposta adeguata alle sollecitazioni ambientali per svolgere al meglio la propria fun-
zione. Per Baldwin l’adattamento della mente umana avviene per assimilazione e acco-
modamento. Egli parla di schemi mentali, ossia delle strutture con cui noi selezioniamo
la conoscenza e ci permettono di elaborare le informazioni sensoriali in arrivo dai canali
sensoriali, attraverso un processo di assimilazione, che deriva dall’esperienza, produ-
cendo un accomodamento degli schemi stessi. Man mano che l’uomo assimila esperienze,
le strutture (schemi mentali) si modificano, attraverso il processo di accomodamento.
Questo concetto sarà fondamentale per Piaget.

L’uomo nasce con alcuni schemi mentali che si sono selezionati durante la filogenesi
(componente innatista). Gli studi etologici hanno poi dimostrato tale predisposizione in-
nata per quanto riguarda lo schema del costruire le relazioni con figure protettive, au-
mentando la probabilità di sopravvivenza. Questi aspetti innati favoriscono gli accomo-
damenti, che non richiedono un’azione volontaria.

Ci sono delle risposte all’ambiente che aumentano il processo di conoscenza cognitiva;


per cognitivo si intende la modalità con cui, durante lo sviluppo, si apprende il mondo
circostante in funzione di adattamento (sviluppo cognitivo adeguato → aumento possi-
bilità di dare risposte funzionali all’ambiente). Questo processo avviene attraverso la
costruzione di rappresentazioni, il concetto di rappresentazione è centrale nello sviluppo
cognitivo in quanto è la costruzione di strutture, schemi mentali, che diventano una
guida del comportamento successivo. Si costruiscono rappresentazioni che diventano
permanenti, perciò legate ai processi di memoria.

Piaget continuò il lavoro di Baldwin (anche se utilizzando un campione molto ristretto


e poco oggettivo, i suoi tre figli). Per Piaget, prima dei 18 mesi i bambini non possono
pensare gli oggetti in loro assenza, in quanto non hanno ancora costruito delle rappre-
sentazioni mentali adeguate della realtà che hanno percepito fino a quel momento,
quindi un oggetto nascosto fuori dal campo visivo del bambino sotto i 18mesi, non esiste
più. A questo proposito Piaget fece il test della permanenza dell’oggetto.

Ciò che definisce, per Piaget, il passaggio da uno stadio all’altro è la capacità del bam-
bino di rappresentarsi diversamente la realtà e di compiere delle operazioni sulla realtà
differenti.

Quattro stadi specifici della suddivisione del modello piagetiano, che suddivide lo svi-
luppo fino all’adolescenza (gli stadi vanno letti in maniera flessibile, ricordare le diffe-
renze individuali nelle tempistiche di maturazione di certi comportamenti):

➢ stadio senso-motorio: da 0 a 2 anni, è caratterizzato da schemi percettivi e motori


con i quali il bambino esplora l’ambiente, apprende abitudini e combina più
schemi per risolvere problemi pratici; il bambino comprende il mondo in base a
ciò che può fare con gli oggetti e con le informazioni sensoriali. Verso la fine di
questo stadio il bambino inizia a creare delle rappresentazioni, non mediate dalla
componente linguistica (apprende attraverso la manipolazione, quindi attraverso
l’attività motoria e attraverso le informazioni che arrivano ai suoi canali senso-
riali). Questa prima fase dello stadio senso-motorio è attraversato dalle reazioni
circolari primarie, secondarie e terziarie. Le reazioni circolari sono delle azioni
che il bambino porta avanti logicamente, acquisendo abitudini, degli schemi men-
tali semplici orientati all'azione. Le reazioni circolari primarie si verificano tra il
primo e il quarto mese e sono definite le prime assimilazioni reciproche, ovvero
azioni abituali e ripetitive, spesso incentrate sul corpo. Sono le prime forme di
attività motoria e percettiva, finalizzate a conoscere il mondo circostante, dove
inizialmente la corporeità del bambino è il suo mondo, insieme al proprio caregi-
ver. Le reazioni circolari secondarie compaiono dal 4 mese fino all’8 circa, periodo
in cui aumenta la coordinazione e l’effetto di queste operazioni sull’ambiente. Ini-
zialmente mette in atto attività motorie non programmate, per poi scoprire che
alcune attività motorie producono degli effetti, quindi il bambino tende a ripe-
terle. Sono quindi azioni ripetitive e incentrate sugli oggetti del mondo esterno.
Le reazioni circolari terziarie compaiono intorno ai 12 mesi e restano fino ai 18 e
sono caratterizzate dalla scoperta del comportamento intenzionale: c’è una varia-
zione delle azioni per studiarne gli effetti (come lanciare il biberon, lasciar cadere
un oggetto, sono forme di esplorazione del mondo esterno attraverso le proprie
azioni). Alla fine delle reazioni circolari terziarie abbiamo la comparsa della fun-
zione simbolica, la quale rappresenta un aspetto fondamentale delle prime fasi
dello sviluppo: è la comparsa della funzione simbolica di “fare come se”, il gioco
dell’imitazione e della finzione. Il bambino inizia a rappresentare la realtà e que-
ste rappresentazioni iniziano a rimanere nella sua memoria. Il gioco dell’imita-
zione è fortemente legato inoltre alla memoria, anche per lo sviluppo dell’ippo-
campo che inizia proprio attorno ai due anni (memoria episodica, prima di questo
era presente solo la memoria implicita, che è una forma di memoria di tipo emo-
tivo);
➢ stadio preoperatorio: dai 2 ai 6 anni accade che il bambino usi i simboli e possieda
semplici regole e concetti; in questo stadio il bambino rappresenta mentalmente
gli oggetti e inizia a comprendere la loro classificazione, per cui inizia a capire il
nesso tra gli eventi e vi è la comparsa di una forma elementare di logica;
➢ stadio delle operazioni concrete: dai 7 ai 12 anni, il bambino interpreta la realtà
seguendo schemi logici (la logica si esprime attraverso processi di classificazione);
è tipicamente lo stadio della scuola primaria. La logica progredisce grazie allo
sviluppo di nuove operazioni mentali, che compaiono grazie alla maturazione sot-
tostante della mente del bambino;
➢ stadio operatorio-formale: esordisce durante la pubertà, procede durante la prea-
dolescenza e continua fino alla fine dell’adolescenza in termini maturativi. È an-
che lo stadio dell’età adulta. Qui si mettono in atto complessi ragionamenti ipote-
tici, i quali utilizzano schemi logici (disgiunzione di proposizioni, implicazione,
implicazione reciproca): pensiero ipotetico-deduttivo. È definito anche stadio
dell’astrazione, in quanto il bambino diventa capace di organizzare le informa-
zioni in modo sistematico e inizia a pensare in maniera ipotetico-deduttiva, supe-
rando la fase in cui doveva avere il dato percettivo davanti a sé per poter fare
delle operazioni sulla realtà.

Ricerche successive a quelle di Piaget hanno messo in discussione le varie età che lo
studioso stabilì all’interno di questa classificazione.

Ogni stadio è qualitativamente diverso dal precedente, presenta forma e regole proprie.
Ci sono due aspetti nel processo di sviluppo: un aspetto di tipo quantitativo, legato
all'aumento di conoscenza all'interno di un determinato fenomeno e vi sono poi processi
di tipo qualitativo (lo stadio operatorio-concreto è qualitativamente diverso dallo stadio
preoperatorio, in quanto c'è un aumento di conoscenza, una maggiore abilità nel com-
piere certe operazioni di conoscenza dell'ambiente circostante e vi è proprio un modo
diverso con cui il bambino si approccia a risolvere i problemi, cambia la modalità). Le
acquisizioni di uno stadio non si perdono con il passaggio allo stadio successivo, ma ven-
gono integrate in strutture più evolute, ovvero la forma di conoscenza acquisita dal bam-
bino all'interno di uno stadio viene integrata nello stadio successivo, anche se in que-
st'ultimo il bambino risolve i problemi con modalità qualitativamente superiori.

Piaget aveva individuato alcuni concetti chiave dello sviluppo cognitivo del bambino,
che sono stati confermati anche da altri studiosi, seppur con una comprensione diversa
delle competenze dello sviluppo cognitivo del bambino. Uno di questi è l’esperienza della
conquista della permanenza dell’oggetto: gli oggetti continuano ad esistere anche
quando il bambino non ne è consapevole (stadio senso-motorio). Questo, secondo Piaget,
deriva dalla conquista della rappresentazione, ossia con la possibilità di iniziare a me-
morizzare l’esperienza (tappa fondamentale dello sviluppo). L’altro aspetto è la com-
parsa del pensiero simbolico, ciò dimostra che il bambino ha costruito una rappresenta-
zione dell’oggetto che lui ha in mente e mette in atto il gioco di finzione. Un altro aspetto
ancora è l’egocentrismo di tipo cognitivo, ossia l’egocentrismo intellettuale, l’incapacità
dei bambini di comprendere che gli altri possono vedere le cose da un altro punto di vista
(stadio preoperatorio). Sempre nello stadio preoperatorio abbiamo anche l’animismo,
una sorta di difficoltà del bambino a distinguere le cose vive da quelle inanimate (il
bambino tende a dare vita agli oggetti inanimati). Ulteriore limite è l’irreversibilità del
pensiero: l’incapacità di annullare e poi invertire il risultato di un’operazione mentale.

LE COMPETENZE COGNITIVE IN ETÀ SCOLARE SECONDO PIAGET

L’età scolare coincide con lo stadio operato concreto, fase in cui le conquiste più impor-
tanti sono la reversibilità del pensiero e il superamento dell’egocentrismo intellettuale.
Il bambino adesso è in grado di superare compiti di conservazione, in quanto le caratte-
ristiche degli oggetti rimangono costanti anche se cambia la dimensione percettiva
(quindi è capace di ragionare correttamente su processi di trasformazione di un oggetto
– che magari cambia forma).

Un altro aspetto è il ragionamento sulle astrazioni, ossia il bambino inizia a fare delle
astrazioni dalla realtà e ha la capacità di fare una serie di operazioni di tipo cognitivo:
quando l’oggetto è posto davanti ai suoi canali sensoriali (quindi quando vede concreta-
mente l’oggetto), egli è capace di fare operazioni di manipolazione e operazioni cognitive
di tipo aritmetico.

Stadio operatorio concreto = c’è una realtà concreta davanti ai suoi canali sensoriali.

Inoltre in età scolare compaiono o migliorano le capacità di ragionamento controfat-


tuale, cioè la capacità di ragionare negando che sia successo qualcosa che in realtà è
accaduto (es. “se non fossi venuto a scuola (fatto realmente accaduto negato) cosa avresti
indossato a casa?”). In questa fase il bambino matura anche competenze metacognitive,
grazie alla maturazione dei lobi frontali: prende conoscenza dei limiti delle proprie ca-
pacità di memoria, attenzione, ragionamento e comprensione e la capacità di usare que-
ste e altre conoscenze per migliorare il successo delle attività di apprendimento.

Con la pubertà e l’adolescenza il ragazzo si sposta su una dimensione spazio temporale


più ampia e attraversa l’ultimo stadio dello sviluppo (pensiero operatorio formale, dai
12 anni in su), maturando il ragionamento deduttivo (l’adolescente è capace di costruire
ipotesi di ricerca e provare varie soluzioni) ed è capace di compiere operazioni di combi-
nazione (ipotizza una serie di conseguenze e riesce a farlo in maniera astratta, a livello
immaginativo, a livello di pensiero).

Questi aspetti (permanenza dell’oggetto, comparsa del pensiero simbolico, egocentri-


smo, animismo, conservazione, astrazione e pensiero ipotetico-deduttivo) sono i capi-
saldi del modello di Piaget. Ma molte di queste concezioni sono di circa 70/80 anni fa,
quindi per teorizzarle son state usate metodologie di ricerca troppo semplici, poi supe-
rate dai successivi studiosi.
Piaget spiega il concetto di permanenza dell’oggetto attraverso lo studio del fenomeno
che viene chiamato errore A non B, secondo il quale se il bambino ha trovato più volte il
giocattolo nascosto nello stesso luogo A, continuerà a cercarlo lì, anche vedendo lo spo-
stamento del giocattolo nel luogo B. Il bambino continua a cercare nel luogo A perché
mette in atto delle reazioni circolari, secondo cui tende a ripetere tutte le attività moto-
rie e i comportamenti che producono successo (siccome in precedenza cercare nel luogo
A ha avuto successo, il bambino continuerà a farlo). Questo errore viene superato con lo
sviluppo del concetto di permanenza (inizia non prima dei 12 mesi e si completa a partire
dai 18), quando comprende che gli oggetti esterni sono entità autonome dalle azioni e
percezioni e quindi hanno un’esistenza propria ed esistono anche quando non sono più
visibili. Questo per Piaget è un abbozzo di costruzione, di idea e di rappresentazione.

Altri studiosi (con metodologie più sofisticate) hanno dimostrato che la permanenza
dell’oggetto è presente anche in fasi precedenti. Una di queste è una metodologia del
paradigma della violazione dell’aspettativa (Renée Baillargeon), che si compone di due
fasi, quella di abituazione e quella di test: Renée sostiene che i bambini di 4 mesi pos-
siedono già un concetto di oggetto permanente nel tempo e nello spazio. Il problema non
è quindi solo rappresentativo o solo motorio, ma del collegamento tra sistemi di cono-
scenza e sistemi che guidano l’azione. Dopo una fase di abituazione del bambino si va a
osservare quindi il recupero dell’attenzione del bambino: il processo di abituazione pro-
duce una perdita di interesse, in seguito nella fase di test, quando l’aspettativa del bam-
bino non viene confermata dall’evento, egli mostra una forma di sorpresa e contempora-
neamente una riattivazione dell’attenzione e un maggior tempo di osservazione del fe-
nomeno. Tali aspetti sono stati utilizzati come conferma della permanenza dell’oggetto
nella mente del bambino anche in età inferiori ai 12 mesi. Per ora però la teoria di Piaget
non è stata ancora sostituita da nessuna teoria sistematica.

Vediamo ora l’inizio dello stadio preoperatorio, in cui il bambino ha il primo abbozzo di
rappresentazione: il bambino inizia a pensare attraverso i processi rappresentativi per-
ché sta costruendo degli schemi mentali sulla realtà e, attraverso processi di assimila-
zione e accomodamento, vi è un’evoluzione degli schemi mentali, quindi un ampliamento
continuo della modalità con cui il bambino impara a conoscere il mondo. Le principali
manifestazioni che possono mostrare che la rappresentazione della realtà sta comin-
ciando a costruirsi nella mente del bambino sono l’imitazione differita, il gioco simbolico
e il linguaggio. L’imitazione differita fa riferimento alla capacità del bambino di iniziare
a portare avanti dei comportamenti che ha osservato nei genitori e li porta avanti in
tempi diversi, quindi senza avere davanti il genitore (dopo aver interiorizzato un’idea di
un comportamento o una rappresentazione motoria). Il gioco simbolico, che fa riferi-
mento all’utilizzo di oggetti per far finta di fare qualcos’altro, dimostra che il bambino
ha assimilato alcuni comportamenti. Altro aspetto principale della rappresentazione
della realtà è l’utilizzo del linguaggio, che è un segnale di rappresentazione per antono-
masia: si tratta di utilizzare suoni per descrivere un’azione o degli oggetti, etc. La fun-
zione principale del linguaggio è infatti tradurre pensieri e comportamenti in termini
linguistici sia per comunicare che utilizzarli come forma di narrativa personale sia per
pensare sulla realtà (durante la fase del pensiero operatorio astratto). L’imitazione dif-
ferita, il gioco simbolico e il linguaggio si riferiscono a delle realtà non percepite in quel
momento, ovvero realtà che non si trovano davanti ai canali sensoriali del bambino, ma
che vengono evocate.

CONCEZIONI DEL MONDO FISICO NELLA FASE PREOPERATORIA

Nella fase prescolare (2-7 anni) un aspetto centrale è l’egocentrismo intellettuale, ossia
la tendenza del bambino a non immaginare che la realtà possa presentarsi ad altri in
modo diverso dal suo, è inconsapevole che gli altri possano avere ricordi, conoscenze ed
emozioni diversi dai suoi. Per dimostrare il fenomeno Piaget condusse l’esperimento
delle tre montagne: il bambino deve scegliere da una serie di fotografie del panorama
quella corrispondente ad una prospettiva diversa dalla propria. Solo intorno ai 6-7 anni
sembra emergere qualche consapevolezza che i punti di vista variano, ma tale capacità
si consolida solo tra i 9-10 anni, quindi nella fase operatoria concreta (durante la fase
preoperatoria la concezione del mondo fisico del bambino risente dell’egocentrismo in-
tellettuale). In base alle risposte che i bambini danno sulle relazioni di causa-effetto e
sulle spiegazioni dei fenomeni naturali, introduce altri due concetti: animismo e artifi-
cialismo. Nell’animismo il bambino dà vita, coscienza e intenzioni a ciò che è inanimato;
in modo analogo l’artificialismo è quello di credere che piante, animali o corpi celesti
siano prodotti dall’uomo (egocentrismo tendente all’antropocentrismo): l’uomo è la causa
di ciò che c’è nel mondo perché il bambino non riesce ad uscire dalla prospettiva indivi-
duale.

Altro aspetto tipico di questa fase è la cognizione di tipo sociale: il bambino non costrui-
sce solo rappresentazioni sulla realtà fisica, ma anche sul mondo sociale. Per studiare il
funzionamento della mente del bambino in questa fase sono stati utilizzati studi del
paradigma delle false credenze, all’interno del quale è stato costruito il termine teoria
della mente, che si riferisce all’abilità di imputare stati mentali a se stessi e agli altri (s
tratta di fare inferenze su come funziona la mente personale e la mente degli altri).
Possedere una teoria della mente è importante nella cognizione sociale: comprendere gli
stati mentali degli altri permette di predire i comportamenti propri e altrui, in termini
di desideri e credenze. I primi studi condotti su bambini in età scolare/prescolare hanno
utilizzato le misure esplicite, ossia compiti che richiedevano risposte esplicite a do-
mande dirette sulle false credenze. Una delle ricerche più importanti è quella di Anna
e Sally, in cui i bambini ascoltavano la seguente storia: Sally nasconde una pallina in
un cesto e poi esce dalla stanza; Anna sposta la pallina in una scatola. Poi veniva chiesto
ai bambini dove Sally avrebbe cercato la pallina una volta rientrata nella stanza. Bam-
bini di 4 anni con sviluppo tipico rispondevano correttamente e indicavano il cesto (il
posto della falsa credenza), mentre i bambini di età inferiore rispondevano la scatola (il
posto reale). I bambini di 3 anni venivano quindi ingannati dal proprio campo percettivo,
non comprendendo che Sally era uscita dalla stanza e non poteva vedere ciò che avevano
visto loro. Quindi l’abilità di attribuire false credenze agli altri e di fare inferenze sulla
mente altri non emerge prima dei 4 anni: prima di quest’età non viene sviluppata la
teoria della mente (il problema riguarda dunque un processo di maturazione). Lo stesso
compito è stato posto a bambini, di 4 anni, con sviluppo atipico (come disturbo dello
spettro dell’autismo) e si è scoperta una certa difficoltà nel comprendere lo stato della
mente altrui (non sviluppano la teoria della mente).

Studi più recenti, con cambio di metodologia, sono stati fatti su bambini più piccoli, con
l’utilizzo di misure implicite al posto delle misure esplicite (sotto l’anno/anno e mezzo
non si possono fare domande, si misura ciò che il bambino esprime spontaneamente), le
quali hanno rivelato una precoce abilità nel primo anno ad attribuire false credenze. La
comprensione degli stati mentali attraverso il paradigma della falsa credenza emerge
spontaneamente osservando le azioni degli agenti con compiti basati sulla violazione
dell’aspettativa: in caso di violazione dell’aspettativa quando il bambino ha un’aspetta-
tiva su quale potrebbe essere il comportamento dell’adulto nella scelta o nella ricerca di
un oggetto, il bambino mostra sorpresa o uno sguardo di anticipazione, guardando in
anticipo dove lui pensa che lo sperimentatore possa cercare l’oggetto, guardando più a
lungo l’evento in cui l’agente agisce in maniera non coerente con le aspettative del bam-
bino, quindi non coerente con le false credenze (lo sguardo anticipatorio del bambino
infatti guarda il posto dove l’agente con falsa credenza dovrebbe cercare l’oggetto). Si
scopre quindi la possibilità di una teoria della mente precoce (Onishi e Baillargeon). In
queste ricerche è previsto un primo momento di familiarizzazione, in cui al bambino
viene mostrato ripetutamente un giocattolo posto tra due scatole, in seguito il bambino
osserva un attore, collaboratore dello sperimentatore, entrare nella stanza, giocare e
deporre il giocattolo dentro la scatola, per poi riprenderlo in mano dopo una breve pausa.
In seguito il bambino riceveva l’evento test, ossia in assenza dell’attore il giocattolo ve-
niva spostato da una scatola all’altra (condizione di falsa credenza), mentre nella condi-
zione di credenza vera il giocattolo si sposta nell’altra scatola in presenza dell’attore e
torna nella scatola originale in sua assenza. In ciascuna delle condizioni i bambini os-
servatori si aspettano che l’attore cerchi il gioco dove lui crede che sia nascosto.

Il comportamento sociale del bambino risulta, sin dalle prime fasi, organizzato e biolo-
gicamente predisposto a incontrare stimoli ambientali per poter esprimere ciò che il
bambino ha in itinere nelle sue competenze.

Ci si pone quindi il quesito sul perché del fallimento dei bambini di tre anni nei com-
piti espliciti di falsa credenza, che coinvolgono tre processi: un processo di rappresen-
tazione della falsa credenza, un processo di selezione della risposta coerente e un pro-
cesso di inibizione della risposta non coerente. I compiti impliciti con misure sponta-
nee, invece, implicano solo la rappresentazione della falsa credenza, quindi solo il
primo processo dei tre necessari per i compiti espliciti (gli altri due processi sono dun-
que il motivo di fallimento, potrebbero non essere ancora disponibili o le connessioni
neurali potrebbero non essere sufficienti). Il superamento del compito della falsa cre-
denza rientra nello sviluppo della cognizione sociale.
SVILUPPO COGNITIVO IN ETÀ SCOLARE
Si tratta dello stadio operatorio concreto, in cui una delle conquiste principali è data dal
processo della reversibilità, con conseguente comprensione realista del mondo, capacità
di ragione e formulare concetti su oggetti concreti. Il bambino durante questa fase inizia
a fare delle operazioni cognitive superiori, per cui però ha bisogno di avere una realtà
concreta davanti ai propri canali sensoriali: la realtà su cui elabora le informazioni deve
essere davanti al suo campo percettivo. Durante questa fase le connessioni neuronali,
attraverso le sinapsi, subiscono una potatura abbastanza importante, in modo partico-
lare nei lobi frontali, con conseguente incremento nelle abilità di pianificazione, con-
trollo comportamentale e inibizione delle risposte inappropriate: inizia lo sviluppo delle
funzioni esecutive, le quali sono fondamentali nella pianificazione e organizzazione
dell'attività cognitiva, in modo particolare nella capacità dei soggetti di inibire i com-
portamenti che il soggetto intuisce non portino al raggiungimento dell'obiettivo. Inoltre,
la potatura aumenta l’efficienza del funzionamento e della velocità delle connessioni,
aumentando anche la capacità di portare avanti compiti cognitivi sempre più complessi.

In questa fase si ha anche l’acquisizione del concetto di invarianza, che avviene attra-
verso la comprensione della trasformazione.

In questa fase le azioni mentali isolate si coordinano tra loro e diventano operazioni
concrete: nella fase preoperatoria le operazioni cognitive venivano svolte isolatamente
nella soluzione di compiti semplici, mentre nella fase dello stadio operatorio concreto c’è
una sintesi e un coordinamento di queste operazioni cognitive, per permettere al bam-
bino una visione più globale della realtà. In questa fase c’è anche un aumento impor-
tante nello sviluppo della memoria: il bambino aumenta la propria capacità di ragio-
nare, di elaborare contemporaneamente più operazioni per risolvere problemi tipici
dell’apprendimento della scuola primaria.

L’aspetto importante caratteristico di questo stadio è la comparsa delle funzioni esecu-


tive, funzioni importanti nella soluzione dei problemi, in quanto aiutano il bambino a
organizzare il lavoro e a pianificare le sue attività. Un esempio può essere l’aumento
della capacità di inibire le risposte che vengono automaticamente alla mente del bam-
bino, permettendogli di capire che potrebbero non essere funzionali alla soluzione del
problema. Un altro aspetto importante è quello delle operazioni concrete: l’aumento di
capacità nell’elaborazione cognitiva della realtà è legata ad un vincolo, ossia il bambino
riesce a svolgere questo tipo di operazioni solo se il problema che gli viene presentato è
davanti al suo campo percettivo. Nello stadio successivo, quello delle operazioni formali,
il bambino può astrarre la realtà, può pensare ai problemi senza avere l’oggetto di fronte
ai suoi canali sensoriali.

Le operazioni che caratterizzano lo stadio operatorio concreto sono legate alla reversibi-
lità: ad ogni operazione corrisponde un’operazione inversa. Per dimostrare il pensiero
reversibile, Piaget sottopone i propri figli al compito della conservazione della sostanza:
si mostrano al bambino due palline identiche di plastilina e gli si chiede se sono uguali.
In seguito una delle due palline viene allungata in una salsiccia e si chiede al bambino
se la pallina e la salsiccia contengano la stessa quantità di plastilina. Per poter arrivare
alla soluzione il bambino deve fare il pensiero inverso, deve pensare al contrario e tor-
nare indietro per capire da dove proviene la forma di salsiccia, che è una forma allungata
della pallina originale. Facendo questo processo, egli può rispondere correttamente.
Nella fase precedente (preoperatoria) il bambino veniva ingannato dalla prospettiva
percettiva.

Un’altra ricerca, prototipica per comprendere cos’è il processo di reversibilità, è il com-


pito della conservazione del volume: si mostra al bambino un recipiente basso e largo
(a) che contiene del latte e gli si chiede di versare quest’ultimo da un boccale in un se-
condo recipiente di forma identica (b) finché c'è la medesima quantità di latte, il bambino
riconosce che la quantità è identica nei due recipienti; successivamente si mostra al
bambino un recipiente alto e stretto e gli si chiede di versare in esso il contenuto di uno
dei due recipienti originali poi gli si chiede “c'è tanto latte nel bicchiere allungato (c)
quanto ce n'è in (a)?”. In questo caso il processo mentale della reversibilità è fondamen-
tale per poter capire che la quantità è la stessa, infatti in un bicchiere più stretto l'im-
magine percettiva della quantità è più elevata, il livello del latte sta più in alto. Secondo
Piaget i bambini in età prescolare hanno difficoltà a capire le trasformazioni che avven-
gono davanti ai loro occhi perché colgono solo su un aspetto delle trasformazioni e si
concentrano su un’unica dimensione: non colgono il fenomeno nel suo insieme. La diffe-
renza sta proprio nella capacità del bambino che raggiunge le operazioni concrete di
avere contemporaneamente a mente tutta una serie di informazioni, quindi di poterle
elaborare concretamente, sempre davanti allo stimolo visivo. Questo descritto è il pro-
cesso dell’invarianza.

Il limite principale di questa fase è quindi dato dalla necessità di avere davanti ai propri
canali sensoriali il problema da risolvere, limite che verrà poi superato dal raggiungi-
mento dello stadio operatorio formale, dove il bambino potrà fare delle operazioni senza
avere davanti il problema concreto, astraendo la realtà. Astrarre la realtà significa spo-
stare su una dimensione spazio-temporale più ampia la capacità di pensare alle cose. Si
ha in questo stadio anche la forma di pensiero più evoluta, ossia il pensiero ipotetico-
deduttivo (capacità di pensiero più astratte). In questa fase compare anche il ragiona-
mento combinatorio, che richiede una sistematicità nel processo cognitivo nell’immagi-
nare tutte le varie ipotesi per risolvere un problema, con le varie conseguenze di ogni
ipotesi, per capire poi quale potrebbe avere una maggiore percentuale di probabilità di
verificarsi di un certo fenomeno rispetto ad un altro (poste le condizioni è più probabile
che si verifichi A o si verifichi B). Uno degli esperimenti formulati da Piaget per verifi-
care le sue ipotesi è l’esperimento del pendolo: viene appeso un pendolo e il compito è
quello di scoprire quali fattori determinano l’oscillazione del pendolo, per cui entra in
gioco il processo combinatorio, mettendo insieme tutta una serie di informazioni riguar-
danti il fenomeno e lavorando su tutte le combinazioni possibili, in maniera logica e
ordinata, fino a quando il soggetto non arriva a capire che la frequenza oscillatoria del
pendolo è data dalla lunghezza della cordicella.
Il modello di Piaget ha informato e istruito tutte le pratiche educative e formative di
tipo scolastico, è diventato un modello di riferimento in ambito educativo, oltre che nello
sviluppo cognitivo, permettendo la costruzione di programmi didattici adeguati allo svi-
luppo cognitivo di ogni singola fase.

Lo sviluppo cognitivo termina al raggiungimento dell’età adulta, vista come una fase di
stabilizzazione: in età adulta c’è solo un aumento quantitativo delle capacità della mente
di elaborare le informazioni, ma a livello qualitativo non ci sono ulteriori cambiamenti.
I cambiamenti a livello cognitivo si manifestano al raggiungimento della terza età,
quella dell’invecchiamento del cervello, in cui vari processi subiscono un rallentamento,
tra cui quello cognitivo. Si ha un rallentamento cognitivo con problemi a carico delle
funzioni esecutive della memoria di lavoro. A livello cognitivo gli aspetti principali ri-
guardano le funzioni esecutive, fondamentali nella programmazione e pianificazione di
un comportamento, nella capacità di inibire i comportamenti disfunzionali o che allon-
tanino il soggetto dal raggiungimento degli obiettivi. La memoria di lavoro, invece, è
quella forma di memoria che serve nel qui ed ora per elaborare le informazioni necessa-
rie per trovare soluzioni ai problemi che la realtà ci presenta; ha una capienza limitata
(7 più o meno 2 informazioni che possono essere elaborate contemporaneamente). Con
l’invecchiamento gli elementi che la nostra memoria di lavoro può contenere, quindi il
numero di informazioni che può elaborare contemporaneamente, registra un decadi-
mento e questo porta come conseguenza al rallentamento cognitivo, in quanto la persona
impiega più tempo per risolvere dei problemi complessi o a tenere a mente molte infor-
mazioni, in particolare c’è un declino della capacità di inibire l’informazione irrilevante
la risoluzione di un compito. Inibire, ossia escludere gli stimoli irrilevanti dal proprio
campo di attenzione, è uno degli aspetti più importanti delle funzioni esecutive. Vi è
inoltre una diminuzione delle capacità attentive e di concentrazione, che ha un effetto
maggiore sui processi controllati rispetto a quelli automatici (i due tipi di processi si
differenziano per la consapevolezza necessaria per eseguire un compito). C’è anche un
indebolimento delle capacità di rievocazione: il soggetto, per svolgere un'operazione,
deve rievocare dalla sua memoria a lungo termine una procedura e portarla nella me-
moria di lavoro, ma se questi processi sono indeboliti, l'operazione richiede più tempo. i
rallentamenti nella memoria di lavoro si riflettono non solo su operazioni complesse
come quelle aritmetiche, ma anche sul linguaggio: il vocabolario passivo (conoscenza dei
vocaboli) rimane abbastanza stabile nell’arco della vita, mentre il vocabolario attivo è
sensibile all’invecchiamento, perciò si verifica un rallentamento nella pianificazione del
discorso (l’anziano conosce il significato delle parole, ma ha difficoltà a metterle insieme
in maniera articolata e combinata nella costruzione delle frasi). È più lenta anche la
costruzione stessa delle frasi, perché la memoria di lavoro può contenere quantitativa-
mente meno parole, quindi il soggetto parla per frasi brevi, in quanto quelle lunghe
potrebbero portare a dimenticare la parte precedente del discorso o a perderne il filo. Si
registra anche un declino nella teoria della mente per quel che riguarda fare inferenze
sui pensieri dell’altro, quindi la componente epistemica, cognitiva, razionale e meno
emotiva della teoria della mente.
SVILUPPO ATIPICO

Una delle forme più conosciute nello sviluppo atipico dello sviluppo cognitivo è il di-
sturbo dello spettro autistico: i deficit maggiori nel bambino con autismo sono quelli di
tipo sociale, egli infatti manifesta uno scarso interesse verso le relazioni interpersonali
e questo porta alla mancanza di attenzione condivisa. Quest’ultima è un aspetto centrale
nello sviluppo socio-relazionale e nell’acquisizione del linguaggio: si tratta di una forma
di attenzione che il bambino presta insieme al proprio caregiver a una realtà terza (come
un oggetto). È importante in quanto ci informa sulle capacità del bambino di creare
forme sintoniche con la mente dell’altro, il che risulta fortemente lacunoso nella mente
del bambino autistico. È importante anche nello sviluppo del linguaggio in quanto nella
fase preverbale il bambino indica gli oggetti per attirare l’attenzione della madre, che
esprime a parole il concetto o il nome dell’oggetto. In questo modo il bambino inizia ad
associare oggetti a suoni, per cui è una forma di apprendimento della lingua madre. Nel
bambino con autismo il deficit di attenzione condivisa ha anche ripercussioni sul lin-
guaggio. L’altro aspetto è il gioco di finzione, che fa parte del raggiungimento di quella
competenza che riguarda la costruzione delle rappresentazioni e la comparsa dei sim-
boli. Anche il linguaggio è un processo di tipo simbolico. I bambini autistici hanno una
serie di interessi ristretti, spesso portano avanti dei giochi o delle attività in maniera
esclusiva e si occupano poco dei processi globali di interazione con l’ambiente (sono più
interessati ai dettagli). Sono inoltre molto selettivi e hanno difficoltà ad uscire anche
dai compiti che stanno eseguendo in precisi momenti.

Un aspetto riguardante l'autismo è l'aumento del numero di diagnosi, dovuto sicura-


mente a un miglioramento della capacità diagnostica, quindi della capacità in qualche
modo di individuare un numero di bambini che in passato non venivano diagnosticati
tali, ma risultavano bambini genericamente problematici.

Un altro aspetto relativo all'autismo riguarda il compito della falsa credenza: gli adulti
autistici mediamente riescono a risolverlo, mentre i bambini hanno maggiori difficoltà
e riescono a raggiungerlo solamente in fasi di sviluppo successive, ma non sempre. Il
compito di falsa credenza è strettamente legato alla capacità del bambino di poter fare
inferenze sul funzionamento della mente dell'altro: nel bambino autistico la predisposi-
zione genetica e lo scarso esercizio che ne consegue comportano problematiche legate al
fare inferenze sulla mente dell’altro. Altri aspetti di tipo cognitivo sono i deficit nelle
funzioni esecutive, legate alla programmazione delle attività e quindi alla capacità di
inibire e di eseguire tutta una serie di compiti nel raggiungimento degli obiettivi.

L’altra forma di sviluppo atipico è il disturbo da deficit di attenzione e iperattività


(ADHD), con un numero di diagnosi ancora maggiore. Nei casi più gravi, questo disturbo
può sfociare in disturbi della personalità. I bambini con questo disturbo hanno difficoltà
a prestare attenzione prolungata ai compiti e contemporaneamente vi è un eccesso di
attività motoria e verbale; hanno difficoltà anche nel posticipare la gratificazione del
desiderio (hanno difficoltà a pensare che, a seconda della situazione, sarebbe opportuno
dilazionarne la soddisfazione e posticipare la realizzazione di quella gratificazione). Un
altro aspetto, riguardante le funzioni esecutive, è l’incapacità di inibire informazioni e
stimoli (ciò rende molto complicato riuscire a concludere i compiti stessi). Con i bambini
ADHD si utilizzano meccanismi di ricompensa.

Il declino cognitivo, da un lato è considerato fisiologico, dall’altro si può andare incontro


ad una forma di deterioramento cognitivo vero e proprio, che invece riguarda lo sviluppo
atipico. Quindi abbiamo da un lato, a partire da ciò che è tipico, una sorta di invecchia-
mento di successo dove il soggetto riesce comunque, in fasi avanzate, a portare avanti
una serie di compiti cognitivi e di adattamento sociale generale. Dall’altro lato abbiamo
forme di deterioramento cognitivo lieve che fa parte sempre dello sviluppo atipico o an-
cora forme di demenza vera e propria. Vi sono alcune sindromi degenerative, tra cui le
demenze senili, forme di disfunzione cronica, progressiva e spesso irreversibile a carico
delle funzioni del sistema nervoso centrale che causano declino cognitivo e possono es-
sere associate a disturbi dell'umore, del comportamento e della personalità. Per cronica
si intende una forma di deterioramento cognitivo con un’evoluzione in termini di gravità
(peggiora nel tempo), inoltre una condizione cronica diventa anche stabile e di solito
irreversibile, quindi il soggetto non può tornare alla condizione di partenza. Sono forme
che diminuiscono le abilità cognitive del soggetto e contemporaneamente possono essere
affiancate da dorme di tipo depressivo, in quanto forme gravi di declino rendono la vita
difficile anche da un punto di vista sociale. Alcune forme di demenza sono classificate in
base all’eziologia dei disturbi: la prima forma è la demenza degenerativa o idiopatica,
tra cui l'Alzheimer, abbiamo poi la demenza fronto-temporale, la demenza a corpi di
Lewy e la demenza associata alla sindrome di Parkinson (quest'ultima è una forma di
degenerazione di tipo neuronale, tipicamente di tipo motorio, che, nelle fasi più avan-
zate, viene accompagnata da forme di demenza anche di tipo cognitivo. A queste si ag-
giungono demenze non degenerative, legate a cause note come forme di demenza deri-
vanti da complicazioni cerebro-vascolari (post ictus): una mancanza di afflusso di san-
gue in alcune aree del cervello provoca la perdita di una serie di abilità cognitive, in
quanto quelle strutture del cervello non sono più in grado di svolgere i compiti che svol-
gevano precedentemente. Le forme di demenza non degenerativa sono legate a processi
depressivi molto gravi e in stadio avanzato: la capacità di elaborare gli stimoli cognitivi
viene meno, come se il soggetto con questa perdita di interesse non fosse più motivato a
interagire col mondo che lo circonda (sia col mondo fisico, sia con il suo mondo sociale).
Abbiamo poi forme che sono secondarie a malattie infettive: in questo caso c'è la possi-
bilità di una parziale, a volte buona, reversibilità, grazie a percorsi riabilitativi, soprat-
tutto per quanto riguarda la condizione depressiva grave, con un buon recupero. L’Alz-
heimer è una patologia degenerativa del cervello, puramente neuronale, caratterizzata
dalla morte dei neuroni, dalla perdita di sinapsi e dalla formazione di ammassi neuro-
fibrillari e di placche amiloidi, considerate una delle problematiche tipiche di questa
patologia. Si tratta di nuove proteine che si formano all'interno del sistema nervoso, le
quali interferiscono fortemente col funzionamento cerebrale del soggetto. Questa malat-
tia ha una eziologia pluri-fattoriale, tuttavia non è ancora chiara quale sia la causa e
non esiste una cura definitiva. Uno degli aspetti che si riscontra maggiormente dal
punto di vista cognitivo e comportamentale è il deficit di memoria, in modo particolare
si riscontra amnesia anterograda (parte della memoria a lungo termine è meglio conser-
vata, per cui i soggetti sono in grado di ricordare esperienze del proprio passato, ma
iniziano a manifestare una grossa difficoltà a memorizzare eventi nuovi). L'altro aspetto
tipico di questa patologia è la diminuzione delle abilità spaziali, che porta a disorienta-
mento, per cui spesso i soggetti hanno difficoltà a recarsi nel luogo dove avevano l'obiet-
tivo di svolgere il compito, oppure hanno difficoltà nel rientro a casa. Negli stadi più
avanzati queste forme peggiorano ulteriormente e compaiono altre problematiche, come
disgrafia e discalculia. Vi è inoltre un deficit di attenzione selettiva: viene meno la ca-
pacità di focalizzare l'attenzione su aspetti specifici, quindi di riuscire a concentrarsi. In
fase avanzata vi sono anche forme di agnosia, ad es. la prosopagnosia (incapacità di
riconoscere i volti delle persone, per cui queste persone non riescono a riconoscere nep-
pure i propri familiari).

SVILUPPO DELLA MEMORIA


La memoria è la capacità di ricordare le informazioni, gli eventi passati, le immagini, le
idee, le abilità precedentemente apprese e si distingue tra memoria a breve e a lungo
termine. La memoria è un processo essenziale nello svolgimento dei compiti quotidiani,
ma svolge anche una funzione fondamentale nella costruzione dell’identità dell'indivi-
duo, perché la modalità con cui elaboriamo la conoscenza nella nostra quotidianità di-
pende da come abbiamo memorizzato esperienze analoghe nella nostra storia. La me-
moria non è un qualcosa di unitario, ma è pluricomponenziale, è costituita da un insieme
di componenti e un insieme di processi, responsabili dell'elaborazione, dell'immagazzi-
namento e del recupero delle informazioni. Nessun processo di apprendimento sarebbe
possibile senza i processi di memoria: apprendimento e memoria sono due facce della
stessa medaglia. L’apprendimento è un processo con cui noi acquisiamo una serie di
informazioni, e la memorizzazione è la ritenzione di queste informazioni, sia per periodi
brevi, sia per lunghi periodi. La memoria ha la caratteristica della multicomponenzia-
lità: la memoria è composta da fattori molto diversificati tra loro e di processi diversifi-
cati sia nel tempo sia nella capacità del soggetto di elaborare il significato degli eventi
in modo tale da collocarli nella propria memoria a lungo termine.

Modello della struttura della memoria di Atkinson e Shiffrin: l'informazione arriva al


registro sensoriale, che è una prima tappa dell'elaborazione dell'informazione, e in se-
guito va nella memoria a breve termine, la quale rappresenta lo spazio di elaborazione
limitato dal punto di vista temporale, che fa sì che il soggetto possa tenere le informa-
zioni per un breve periodo, prima che passino nella memoria a lungo termine. I tempi e
gli spazi di questo magazzino sono molto limitati. Per poter portare un’informazione
dalla memoria a breve termine alla memoria a lungo termine è necessaria la ripetizione
dell’informazione. Secondo alcuni studiosi (Miller) la memoria a breve termine ha uno
spazio limitato, di circa 7 più o meno 2 item (vi possono essere differenze individuali).

Dalla memoria a breve termine è partito un filone di ricerca che ha cercato di approfon-
dire cosa accade realmente in questa prima fase di elaborazione della informazione:
Baddeley ridefinisce questa forma di elaborazione di memoria a breve termine e indivi-
dua la memoria di lavoro, la quale conserva le informazioni e le elabora. Questa forma
di elaborazione è fondamentale per decodificare e dare significato alle informazioni che
provengono dalla realtà esterna. Di conseguenza la memoria di lavoro si occupa di capire
se alcune informazioni sono importanti o meno, e solo nel caso in cui lo siano ne permette
il passaggio alla memoria a lungo termine, attraverso l’esercizio. Memorizziamo le in-
formazioni rilevanti per il raggiungimento dei nostri obiettivi e quelle connotate emoti-
vamente, mentre per altre informazioni abbiamo bisogno di maggiore esercizio: un ar-
gomento rilevante/interessante o con connotati emotivi attiva i processi cognitivi e
orienta l’attenzione verso quel materiale, aumentando le probabilità di memorizzarlo.
L’esercizio fondamentale per la memorizzazione all’interno della MLT è la reiterazione,
quindi la ripetizione del materiale. La memoria a lungo termine è a sua volta divisa in
due forme principali: la memoria dichiarativa o esplicita, da cui si possono recuperare
facilmente le informazioni attraverso il processo di consapevolezza (memoria episodica,
legata ai ricordi e alle esperienze vissute dal soggetto e memoria semantica, legata ai
significati, alle conoscenze) e la memoria implicita, in cui troviamo la memoria procedu-
rale (che riguarda tutto ciò che è stato appreso per associazione – condizionamento clas-
sico di Pavlov -, ossia una forma di condizionamento delle informazioni per cui attra-
verso particolari esperienze si porta avanti una serie di comportamenti, che diventano
automatismi in quanto associati nelle nostre esperienze a particolari configurazioni di
significato; è legata all’acquisizione delle abilità motorie, dove nelle prime fasi è neces-
saria una forma di apprendimento e memorizzazione sequenziale).

Shiffrin e Atkinson proposero il primo modello multicomponenziale della memoria, de-


scrivendola come un complesso di sistemi interconnessi, che si differenziano per mecca-
nismi di funzionamento, per qualità di informazione conservata e aree cerebrali coin-
volte. Tale modello individua tre sistemi di memoria: è necessario un input esterno, che
viene inizialmente elaborato dai canali sensoriali e, inizialmente, abbiamo il registro
sensoriale (RS), che conserva per un breve periodo l’informazione che proviene dagli
canali di senso (max 2 secondi). Il tipo di elaborazione primaria non è un’elaborazione
complessa, ma è una forma di passaggio. Dal registro sensoriale si va alla Memoria a
breve termine (MBT), che conserva temporaneamente l’informazione proveniente dal
registro sensoriale e la trasferisce, tramite il processo di reiterazione, nella MLT. Si
tratta di una forma primaria di elaborazione un po’ più complessa, con dei tempi di
elaborazione sempre limitati. L'informazione in questo magazzino temporale viene
persa se non viene ripetuta. Di solito ci sono delle strategie che i soggetti adottano af-
finché l'informazione acquisita non venga persa, ad esempio se dobbiamo memorizzare
un numero di telefono con 9 cifre (limite dello spazio, che è di 7 + o – 2) si potrebbe
accorpare i numeri in gruppi, per cui le nove cifre diventano 3 unità informative da
ricordare e sarà più semplice mantenerle in memoria; anche forme di elaborazione del
materiale più complesse favoriscono la memorizzazione. Ognuno adotta delle strategie
di apprendimento che sono più consone al proprio funzionamento cognitivo. Attraverso
la ripetizione si rafforzano anche le connessioni sinaptiche. Baddeley andò ad approfon-
dire quella che inizialmente era stata definita memoria a breve termine: il concetto di
MBT come magazzino di passaggio dell’informazione dal registro sensoriale alla MLT
non soddisfava pienamente gli studiosi, perché si comprese che in quel momento non vi
è solo un passaggio di informazioni, bensì delle forme di elaborazione del materiale
molto più profonde. Baddeley quindi ridefinì la memoria a breve termine come memoria
di lavoro (working memory). Il modello della memoria di lavoro di Baddeley individua
la ML come un sistema a breve termine, atto a mantenere temporaneamente e a mani-
polare l’informazione durante l’esecuzione di differenti compiti: non è solo un processo
di memoria, ma è un momento in cui l'individuo elabora le informazioni per far sì che
da questa elaborazione le informazioni possano passare alla memoria a lungo termine.
Lo spazio di lavoro consente la rappresentazione nella coscienza dei risultati parziali
che provengono dai compiti che si stanno svolgendo, come la rievocazione, il ragiona-
mento e la comprensione di un testo. Questo è fondamentale anche in termini di appren-
dimento durante lo sviluppo, nel corso del quale ci possono essere diverse problematiche,
come i DSA, in cui la memoria di lavoro è fortemente implicata.

Il modello di Baddeley è molto più complesso del precedente e suddivide la ML in più


componenti: il primo è l’esecutivo centrale, che presiede al controllo attentivo di tutte le
operazioni cognitive intenzionali (la capacità di prestare attenzione al materiale che si
sta elaborando è un processo fondamentale per l’elaborazione stessa). Poi si hanno tre
sottosistemi a capacità limitata, che mantengono temporaneamente l’informazione (la
componente temporale nell’elaborazione delle informazioni è rimasta quella del modello
precedente, ossia nella ML il tempo di elaborazione e la capacità di tenere le informa-
zioni per quel breve tempo è limitata). Le componenti sottoposte all’esecutivo centrale
sono il ciclo fonologico, il taccuino visuo-spaziale e il buffer episodico. L’esecutivo cen-
trale ha il ruolo di supervisore di controllo con capacità attentive, quindi seleziona le
informazioni e inibisce quelle che sono poco rilevanti per il compito (l’inibizione è una
funzione esecutiva principale per poter mantenere l’attenzione focalizzata). La seconda
operazione dell’esecutivo centrale è la modifica delle rappresentazioni mentali attivate
sulla base degli oggetti percepiti: per poter interpretare l’informazione abbiamo bisogno
di rievocare dalla nostra MLT la struttura di significato che in qualche modo ci permette
di comprendere ciò che in quel momento stiamo percependo. Se questo non dovesse suc-
cedere, nel momento in cui arrivano informazioni ai nostri canali sensoriali, queste in-
formazioni risulterebbero sempre nuove e non saremmo in grado di riconoscerle. La me-
moria di lavoro opera sulle informazioni in modo tale da elaborarle, dargli un significato
che poi possa permettere un passaggio alla memoria a lungo termine. Il terzo compito
dell’esecutivo centrale è quello di aggiornare la memorizzazione delle informazioni in
ingresso: nel momento in cui abbiamo delle informazioni nuove, le colleghiamo a delle
rappresentazioni di significato che abbiamo già e, chiaramente queste nuove informa-
zioni vanno ad integrarsi con quello che noi sappiamo già su quel materiale. Analizziamo
ora i sottoinsiemi subordinati all’esecutivo centrale:
➢ ciclo fonologico: permette l’elaborazione del materiale verbale e linguistico, per-
mettendo anche il mantenimento e la ripetizione del materiale verbale. Abbiamo
un magazzino fonologico, che mantiene in memoria l’informazione linguistica
prima che decada, permettendo di mantenere la sequenza di informazioni verbali
che provengono dal nostro interlocutore, per comprenderne il discorso. Il processo
di reiterazione attivo si basa sul linguaggio interno che mantiene vivo il ricordo,
trasforma per esempio gli stimoli visivi in codice fonologico (questo è tipico della
lettura);
➢ taccuino visuo-spaziale: è caratterizzato dal mantenimento e dalla reiterazione
del materiale visivo e spaziale, permette il mantenimento temporaneo delle in-
formazioni visuo-spaziali in entrata e visualizza e manipola le immagini mentali.
Anch’esso è legato al processo di lettura, in quanto abbiamo bisogno di mantenere
l’informazione su un’organizzazione spaziale, in quanto la componente visiva di-
venta spaziale all’interno del contesto in cui si colloca l’informazione stessa, di-
ventando fondamentale per la comprensione e l’elaborazione dell’informazione in
entrata. Questo è importante anche per la capacità di produrre un’azione motoria
all’interno di uno spazio, in modo tale che l’attività motoria sia coerente con tutto
ciò che stiamo elaborando dal punto di vista visivo e spaziale. È una prima forma
di memorizzazione temporaneamente definita per poter elaborare un'informa-
zione che poi può passare nella memoria a lungo termine;
➢ buffer episodico: mette in connessione il ciclo fonologico con il taccuino visuo-spa-
ziale (è stato aggiunto successivamente). Il buffer episodico ha la funzione di in-
tegrazione delle informazioni in formato multimodale, cioè le informazioni che
integra provengono da caratteristiche differenti per provenienza, significato e
specificità. Quindi mantiene le informazioni provenienti da differenti fonti, inte-
grandole fra loro in forma multi-percettiva e la funzione integrativa è fondamen-
tale affinché le informazioni non risultino isolate, comportando una sorta di fram-
mentazione nell’elaborazione delle informazioni.

PROVE PER VALUTARE LA CAPACITÀ DELLA MEMORIA DI LAVORO


Le due tipologie principali di memoria di lavoro sono dunque quella fonologica e quella
visuo-spaziale. Per quanto riguarda la memoria di lavoro di tipo fonologico, uno dei test
più utilizzati è lo span di numeri avanti: si va a misurare la capacità del soggetto di
ricordare, nel medesimo ordine di presentazione, alcuni numeri che vengono indicati
dallo sperimentatore; si parte da una sequenza semplice e breve con pochi numeri e
progressivamente si va ad indicare una quantità di numeri maggiore. Il punteggio del
soggetto è quello in cui lui si ferma e non riesce più ad andare avanti. Per quanto ri-
guarda la memoria visuo-spaziale il test più utilizzato è il Visual Pattern Test, in cui
vengono presentate una serie di configurazioni al soggetto. Viene fatta vedere al sog-
getto una configurazione semplice, che poi viene messa da parte, dopodiché al soggetto
viene fornito un foglio con le parti in bianco dove egli dovrà indicare la configurazione
visionata. Piano piano vengono presentate configurazioni sempre più complesse, per va-
lutare in che modo il soggetto riesce a ricordare la distribuzione delle configurazioni. Un
altro test che riguarda la memoria visuo-spaziale è il Test di Corsi: si presentano al
soggetto 9 cubetti numerati dal lato rivolto verso l’esaminatore, che toccherà alcuni dei
cubetti in una sequenza che poi dovrà essere ripetuta dal soggetto, presentando via via
sequenze più lunghe ogni volta che il soggetto riuscirà a completare correttamente la
sequenza precedente. La misura della capacità della MBT visuo-spaziale sarà data dalla
lunghezza della serie più lunga per la quale siano state ripetute almeno 2 sequenze. In
questo test c’è una differenza significativa di genere: i maschi tendono ad avere una
memoria visuo-spaziale più elaborata e sviluppata, probabilmente per questioni filoge-
netiche.
VALUTAZIONE DELLA MEMORIA IN BASE ALLO SVILUPPO
Nei bambini viene studiata la capacità della memoria, le strategie di elaborazione (pro-
cessing strategies), la velocità di elaborazione delle informazioni (processing speed), le
capacità attentive (componente fondamentale della ML) e la meta-memoria. La capacità
viene studiata con procedure di span che misurano la capienza (particolarmente adatte
ai bambini): la quantità del materiale da ricordare aumenta progressivamente e lo span
verbale sarà dato dal numero di cifre della stringa più lunga che il bambino è stato in
grado di ripetere. L'aumento della prestazione è abbastanza tipico e veloce fino all'età
di 8 anni, dopodiché la curva di crescita della velocità della prestazione tende a rallen-
tare. Un'altra forma di valutazione e misurazione è il listening span che riguarda la
capacità della memoria del bambino e mostra una costante sensibile sviluppo fino ai 16
anni d’età. Nel listening span il compito è più complesso, è richiesta la comprensione di
una frase e, contemporaneamente, di ricordare le ultime parole della frase stessa. Gli
span complessi coinvolgono maggiormente l'esecutivo centrale, per cui non si parla più
di memoria visuo-spaziale o di memoria verbale, in quanto coinvolgono anche compiti di
tipo attentivo, quindi la capacità di tenere sotto controllo varie informazioni. Per poter
svolgere in maniera appropriata tali compiti è necessaria anche la maturazione dei lobi
frontali (che si sviluppano durante l’adolescenza).
Un altro aspetto è quello dello sviluppo delle strategie. La strategia è un piano d'azione
deliberato e controllato per migliorare la prestazione. Durante lo sviluppo sono state
individuate delle tappe specifiche con cui il bambino riesce progressivamente a gestire
adeguatamente delle strategie di memoria: il primo step ha dei limiti molto importanti
e viene definito deficit di mediazione (anche quando i bambini sono istruiti nell'uso di
una strategia, la prestazione non risulta comunque essere migliorata dal suo uso), il
secondo deficit di produzione (i bambini non si dimostrano in grado di usare spontanea-
mente la strategia, ma sono in grado di usarla se viene loro suggerita), il terzo deficit di
utilizzo (frequente nella fase iniziale di acquisizione di una strategia, ossia quando l'e-
secuzione di una strategia - in questo caso messa spontaneamente in atto - non porta
benefici al ricordo; i bambini sono in grado di utilizzare le strategie più utili per uno
specifico compito). Alcune strategie per migliorare il ricordo sono la ripetizione (o reite-
razione), l'organizzazione del materiale e l'elaborazione profonda e significativa del ma-
teriale da ricordare. La ripetizione può essere intesa come un processo di rivitalizzazione
degli elementi presenti in memoria per impedirne il decadimento, rivitalizzazione signi-
fica riportare progressivamente le informazioni a livello di consapevolezza. I bambini
utilizzano la ripetizione in modo spontaneo solo a partire dall'età di 7 anni, in età pre-
cedenti il bambino può utilizzare questa strategia se stimolato da un adulto e progres-
sivamente impara ad utilizzarla spontaneamente dopo che prende consapevolezza che
la ripetizione può essere utile per ricordare qualcosa. In un compito di rievocazione li-
bera di una lista di parole i bambini di 7-8 anni tendono a ripetere solo uno o due parole
per volta, mentre bambini di 10-12 anni ripetono la parola nuova insieme con le prece-
denti, quindi c’è una ripetizione attiva e cumulativa (per cumulativa si intende che le
informazioni in qualche modo si sommano tra di loro). Un altro aspetto importante è che
i bambini di 7-8 anni codificano figure di oggetti in modo prevalentemente visivo, dopo
gli 8 anni tendono a usare un approccio fonologico per ricordare le figure. Prima degli 8
anni probabilmente non riesce a usare l’approccio fonologico perché le sue capacità di
elaborare le informazioni (quindi anche la capienza di memoria di lavoro) è più limitata
e quindi l'informazione rimane con lo stesso canale con cui è stata percepita: le informa-
zioni visive vengono codificate e rimangono nella memoria di lavoro come visive, le in-
formazioni verbali rimangono verbali.
A 10 anni e poi a 12 c'è un uso completo delle strategie e possibilità di ricordare in modo
cumulativo le conoscenze.
La codifica precoce è da prima di tipo visivo e poi diventa di tipo fonologico. L'elabora-
zione dell'informazione sotto il piano fonologico viene considerata una forma di elabora-
zione più evoluta.
Un altro aspetto è quello del raggruppamento in categorie (categorizzazione) su base
semantica che avviene solo a partire dalla fase elementare (più il materiale da appren-
dere è organizzato più è facile portarlo nella memoria a lungo termine). L'organizzazione
del materiale favorisce, in seguito, anche il richiamo, infatti uno degli aspetti centrali
della memoria non è solo l'immagazzinamento dell'informazione, ma anche l'abilità
nella capacità del soggetto di recuperare l’informazione stessa.
In seguito avviene un aumento nell'uso di strategie di selezione, condensazione e più
tardi di invenzione di frasi significative che riassumono il testo. Questa diventa una
strategia per ricordare un concetto più articolato e complesso; una parola chiave che
nella nostra memoria, nel momento in cui noi la revochiamo, ci riporta dalla memoria
di lavoro alla memoria a lungo termine una serie di significati e di nessi che noi abbiamo
appreso in precedenza. Prendere nota, sottolineare, porsi domande e concentrarsi sulle
parti più difficili sono tecniche per dirigere e controllare l'attenzione, la quale all'interno
dei processi di memorizzazione ha un ruolo centrale: infatti per poter portare in memo-
ria le informazioni l'aspetto primario è prestare attenzione (tutto ciò che noi riusciamo
a cogliere dalla realtà circostante attraverso processi di attenzione focalizzata, ha più
probabilità poi di essere elaborato in maniera adeguata). Infine l'elaborazione profonda
e significativa del materiale da ricordare rende più efficace il suo ricordo e quindi il suo
apprendimento: il principio è quello della profondità della codifica.
Un altro aspetto importante è lo sviluppo della capienza della memoria, durante la ma-
turazione del bambino aumentano non solo le capacità di memoria, ma cambiano anche
le strategie che il bambino utilizza per memorizzare; per quanto riguarda la velocità di
elaborazione, i cambiamenti dipendono da processi di maturazione neurologica.
Un altro aspetto è la mielinizzazione delle fibre nervose: l'elaborazione profonda per-
mette e favorisce la costruzione di nessi e quindi di collegamenti. La velocità di elabora-
zione ha un nesso con una forma di maturazione neurologica e di progressiva mieliniz-
zazione, quindi elaborare progressivamente e velocemente un'informazione ha una base
di tipo fisiologico. Il processo di mielinizzazione è quel processo di creazione di una
guaina protettiva, isolante, nel passaggio dell'informazione dei neuroni, che ne favorisce
un aumento della velocità, in modo particolare questo accade e si completa durante la
fase adolescenziale dove l'elaborazione delle informazioni è via via più veloce, quindi un
veloce processo di elaborazione permette di ridurre gli effetti del decadimento e dell'in-
terferenza nella memoria di lavoro in almeno due modi: il primo, in termini di un tasso
di reiterazione più rapido che permette un maggior mantenimento degli elementi da
ritenere in compiti di tipo fonologico. Un'alta velocità di elaborazione delle informazioni
previene il decadimento e l'interferenza all'interno della memoria di lavoro (l'interfe-
renza è la capacità di mantenere focalizzata l'attenzione su un compito, in modo tale da
impedire che informazioni che non sono fondamentali per l'elaborazione di quel mate-
riale entrino nel campo elaborativo dell'informazione stessa e quindi in seguito, memo-
rizzazione nella memoria a lungo termine). La reiterazione è più rapida e permette un
maggior mantenimento degli elementi da memorizzare nei compiti di tipo fonologico. Il
secondo riguarda l'aumento della velocità di ricerca in memoria e di recupero degli item
da ricordare. I bambini che rispondono più rapidamente, sia in compiti di memoria vi-
suo-spaziali, sia verbali, hanno, in genere, un ricordo migliore, ovvero la velocità di ela-
borazione dell'informazione ha una correlazione importante con la capacità di ricordare
in maniera più adeguata le informazioni stesse. Perciò velocità e qualità del ricordo sono
correlati.
Attenzione selettiva (Simons, test del gorilla invisibile): il test dimostra che quando le
persone focalizzano l'attenzione su un compito, è probabile che non si rendano conto di
tutta una serie di eventi che possono capitare lateralmente o all'interno della situazione
stessa. L'attenzione è focalizzata su un compito e gli altri eventi vengono filtrati, ciò non
significa che non arrivino al nostro campo percettivo, tuttavia non vengono elaborati
nella nostra memoria di lavoro e quindi noi non ne prendiamo consapevolezza, quindi
non li ricordiamo.
Un altro aspetto tipico dell’elaborazione è la meta-memoria, cioè la conoscenza delle
proprie capacità di immagazzinamento del ricordo, delle operazioni di ricerca, di recu-
pero e di controllo, ovvero il modo in cui noi utilizziamo consapevolmente delle strategie.
Il concetto di meta riguarda la capacità di osservarsi e di riflettere su quello che sta
accadendo nella nostra mente, ma oltre che di metacognizione, si parla anche di meta-
comunicazione, ovvero la capacità degli individui di essere consapevoli e quindi di riflet-
tere sulla modalità con cui stanno comunicando con un'altra persona. Meta-comunicare
in questo caso vuol dire riflettere sulla strategia, sulla modalità comunicativa che si sta
utilizzando. Per quanto riguarda la memoria, invece, significa avere conoscenza di come
funziona la propria memoria, dei propri limiti, delle proprie capacità, pertanto adeguare
le strategie di memoria in funzione di quello che ognuno di noi sa su come funziona la
propria memoria.
Es. strategie per il recupero delle informazioni usato dagli oratori romani → metodo dei
loci (metodo dei luoghi): consisteva nell'associare mentalmente dei concetti a degli spazi
fisici di un percorso ipotetico.
Cornoldi, ha approfondito lo studio della memoria anche nello sviluppo, con l’utilizzo di
favole, utilizzate per comprendere come si evolvono e come si sviluppano nel tempo le
strategie di memorizzazione dei bambini. Utilizza una favola che favorisce un aumento
di attenzione da parte dei bambini: vi sono delle idee chiave nella concezione infantile
della memoria che vengono esplorate attraverso questa tecnica e tali concezioni sono
alla base della costruzione di un atteggiamento di tipo meta-cognitivo, perciò si va a
vedere come i bambini interpretano in termini di memoria, quindi sono conoscenze del
bambino sulle cause e sui meccanismi del ricordo e dell'oblio. I bambini ascoltano il rac-
conto del principe, il quale deve ricordarsi di compiere un certo numero di azioni per
poter liberare una principessa. Se il principe dimentica delle informazioni che gli ven-
gono dette, secondo i bambini più piccoli, ciò è dovuto al fatto che il principe non ha
capito o ha non ascoltato adeguatamente che cosa gli è stato detto (codifica delle infor-
mazioni viene inteso come comprensione), quindi orientano l'idea della capacità di ricor-
dare le informazioni sul primo passaggio del processo di memorizzazione; la seconda
causa riguarda le strategie di immagazzinamento, ad esempio non ci ha pensato con
attenzione, pertanto i bambini più piccoli stanno sui primi due livelli del processo di
memorizzazione: la codifica e come quelle informazioni vengono immagazzinate. quindi
sul processo di reiterazione. I bambini più grandi invece, danno delle interpretazioni
che riguardano la possibilità che quell'informazione sia stata ritenuta in memoria,
quindi immagazzinata, ma anche recuperata. Essi entrano più nel merito della capacità
del soggetto di recuperare l'informazione stessa, quindi di ricordarla dopo che è stata
memorizzata. In sintesi bambini più piccoli stanno più su un piano della comprensione,
la quale rappresenta il primo step dei processi di memorizzazione; i bambini più grandi,
invece, si spostano sulla capacità del principe di ricordare l'informazione, quindi non
solo di memorizzarla ma anche di ricordarla, vi è dunque un'evoluzione nelle strategie
che il principe non riesce a portare avanti. I bambini con un QI più elevato spiegano la
perdita di informazioni in termini di decadenza della traccia o di interferenza, quindi
hanno una forma di elaborazione più evoluta nell'interpretazione dei significati di tipo
meta-cognitivo, legati alle cause del ricordo e dell'oblio, quindi mostrano una consape-
volezza nell'impegno e nello sforzo per migliorare il ricordo, quindi entrano nel merito
di cosa sia necessario per ricordare.
Un aspetto importante nel processo di elaborazione del materiale da memorizzare è
quello di dargli un ordine, una struttura, in modo tale che esso possa connettersi a co-
noscenze che noi abbiamo già nella memoria a lungo termine, ciò infatti favorisce il re-
cupero dell'informazione stessa. Non è la strategia in sé a migliorare la memoria, quanto
la sua efficacia ad organizzare attenzione, percezione e pensiero, verso ciò che ci inte-
ressa ricordare.
PROCESSI DI MEMORIA DURANTE L’INVECCHIAMENTO
Durante l'invecchiamento vi sono delle modificazioni notevoli per quanto riguarda la
memoria di lavoro attiva, la quale ci consente di elaborare delle informazioni, per esem-
pio, costruendo un discorso. Alcuni soggetti ricordano molto bene il significato di ogni
parola (un processo di memoria passivo), mentre hanno più difficoltà a utilizzare dei
termini che siano opportuni nella costruzione di una frase, quindi ricordare, riportare
dalla memoria a lungo termine alla memoria a breve termine le parole più opportune.
Per quanto riguarda la memoria a lungo termine, ovvero quella che dura nel tempo e
che riguarda le esperienze che sono state memorizzate e mostrano di essere sufficiente-
mente sedimentate, vi sono suddivisioni importanti, come la memoria procedurale, ti-
pica delle attività motorie (andare in bicicletta), quindi quel tipo di memoria che non
viene perso; si tratta di una forma di memoria detta “implicita”, la quale è legata anche
al linguaggio (la modalità con cui noi impariamo a parlare viene memorizzata nella no-
stra memoria implicita come una procedura, per cui parlare diventa quasi un automa-
tismo e non vi saranno compromissioni, a meno che non ci siano problemi di altro ge-
nere). La memoria procedurale ha una scarsa rilevanza in termini di perdita durante
l'invecchiamento, mentre vi è una certa compromissione della memoria episodica (la ca-
pacità di ricordare degli episodi col passare degli anni) mentre ancora la memoria se-
mantica, che riguarda la struttura del significato delle cose, registra una lieve modifica,
così come la memoria autobiografica. Una chiara compromissione subisce la memoria
prospettica, cioè la capacità di memorizzare nuove informazioni: venendo meno la me-
moria di lavoro attiva, che sta alla base dell’elaborazione di nuove informazioni, si
hanno maggiori difficoltà nel creare nuovi ricordi da portare nella memoria a lungo ter-
mine. All'aumento dell'età si associa un decremento nella capacità della MdL: il declino
mnestico è un processo continuo e lineare lungo l'arco della vita, senza tuttavia partico-
lari accelerazioni nel corso della vecchiaia.
Si evidenziano prestazioni carenti negli anziani rispetto ai giovani in prove di memoria
che richiedono processi attentivi e di controllo (con processi attentivi si fa riferimento
alla capacità di prestare attenzione e di elaborare contemporaneamente più informa-
zioni, mentre con processi di controllo ci si riferisce a compiti di inibizione delle infor-
mazioni irrilevanti), indipendentemente dal tipo di materiale presentato. In particolare,
i meccanismi di inibizione sono fondamentali per la memorizzazione, in quanto scac-
ciano le forme di interferenza che potrebbero ostacolarla, non permettendo a quelle in-
formazioni di occupare la memoria di lavoro, limitata. Selezionare ciò che è importante
escludere dal campo di elaborazione è quindi un aspetto fondamentale del processo di
memorizzazione, che però con l’invecchiamento viene sempre meno.
Una delle capacità mnestiche in declino con l'aumentare dell'età è la capacità di elabo-
razione cognitiva: la quantità di risorse attentive disponibili nell’elaborazione cognitiva
diminuisce con l'età, ovvero diminuisce la quantità di informazioni a cui si può prestare
attenzione (i 7 + o – 2 elementi di cui parlava Miller, diminuiscono progressivamente
con l’avanzare dell’età).
MEMORIA A LUNGO TERMINE
La memoria a lungo termine è più statica rispetto alla memoria di lavoro.
Tra le modalità con cui le informazioni vengono portate nella memoria a lungo termine
vi sono la memoria implicita e la memoria esplicita:
➢ la memoria esplicita riguarda manifestazioni dei ricordi di informazioni prece-
dentemente apprese, è intenzionale e consapevole (è il tipo di memoria attivato
nei normali compiti di rievocazione o di riconoscimento);
➢ la memoria implicita è la capacita di ricordare senza averne la consapevolezza,
come andare in bici: una volta che è diventata un abilità acquisita, non dobbiamo
pensare continuamente al movimento da fare per stare in equilibrio, è diventato
un processo, quindi una forma di memoria procedurale, automatica, quindi libera
nella nostra mente tutta una serie di risorse attentive.
Nella MLT si può distinguere inoltre tra memoria episodica e memoria semantica:
➢ la memoria episodica si riferisce a specifici eventi ed esperienze di vita, contiene
informazioni spazio-temporali che specificano dove e quando si è verificato lun
evento ed è organizzata cronologicamente (la memoria episodica è l'episodio spe-
cifico); l'aspetto emotivo rappresenta un aspetto fondamentale per ricordare
l’evento, in quanto ci permette di ricordare anche quando e perché abbiamo me-
moria di quell’evento; i ricordi autobiografici hanno carattere ricostruttivo; la me-
moria per gli aspetti spaziali raggiunge livelli simili a quelli dell'adulto verso i 9
anni e mezzo, mentre per gli aspetti temporali, solo verso gli 11 anni (i bambini
più piccoli fanno confusione nel collocare temporalmente e nello spazio un
evento);
➢ la memoria semantica si riferisce a conoscenze astratte e generali, trascende le
condizioni temporali e spaziali in cui la traccia si è formata ed è organizzata in
modo tassonomico e associativo (sappiamo l’informazione, ma non sappiamo
quando esattamente lo abbiamo imparato e perché).
La memoria nel bambino, in particolare quella episodica, esordisce intorno ai due anni,
in quanto è a quell’età che vi è la maturazione di alcune aree cerebrali, in particolare
l’ippocampo, che permette di memorizzare gli eventi e gli episodi quotidiani, che fino ad
ora non era possibile memorizzare a causa di una mancata maturazione fisiologica del
cervello e di connessioni neuronali non pronte ad elaborare l’informazione e tenerla in
memoria. Questo paradigma della testimonianza infantile ha ovviamente tutta una se-
rie di implicazioni, anche di tipo applicativo (i bambini potrebbero essere testimoni e
quindi potrebbero avere importanza giuridica, legale, penale, etc.), per cui è fondamen-
tale capire quanto sia affidabile la testimonianza infantile (intesa come capacità di
MLT, in particolare di tipo episodico).
MEMORIA DI LAVORO
Dagli studi effettuati sappiamo che la memoria subisce degli aggiustamenti, già la
stessa percezione della realtà circostante è una forma di interpretazione della realtà,
già nelle prime fasi di elaborazione delle informazioni (quelle in cui il canale sensoriale
trasmette le informazioni alle prime aree di elaborazione cognitiva) ci sono forme di
interpretazione della realtà e man mano che l’elaborazione diventa più profonda (come
quando si entra all’interno della componente semantica, che quindi attribuisce un par-
ticolare significato all’evento) si parla di forme di interpretazione della realtà in base
alle rappresentazioni che ognuno si costruisce degli eventi (la costruzione di schemi
mentali permette il raggruppamento dei ricordi di eventi in base al significato loro at-
tribuito). Questo ci dimostra come anche nell’adulto il ricordo di episodi spesso non è
affidabile, ma i bambini sono molto più soggetti a questo tipo di processi:
➢ i bambini sotto i 6 anni sono molto più vulnerabili alle distorsioni seguite all’espo-
sizione di informazioni fuorvianti, effetto presente anche nell’adulto, ma più mar-
cato nel bambino;
➢ in età prescolare poco meno del 60% dei bambini produce falsi ricordi, il falso
ricordo si mischia con l’esperienza realmente accaduta: si tratta di suggestiona-
bilità, ossia il falso ricordo è dato dall’interferenza tra quelle che sono le azioni o
gli eventi che il bambino può immaginare e ciò che effettivamente è accaduto
(quindi in un contesto di testimonianza, anche il modo in cui vengono poste le
domande può essere un fattore di suggestionabilità e per evitare questo evento è
fondamentale chiedere al bambino se abbia realmente vissuto l’evento dell’infor-
mazione o se ne abbia solo sentito parlare, spesso dal sentirne parlare si crea il
falso ricordo con la convinzione di aver vissuto l’evento).
Tutto ciò è dovuto alla mancanza, nei bambini piccoli, di processi di inibizione ben svi-
luppati, quindi hanno delle funzioni esecutive di tipo inibitorio non sufficientemente
mature (le funzioni esecutive sono i processi esecutivi per l’elaborazione delle informa-
zioni provenienti dalla realtà, che maturano progressivamente con l’aumentare
dell’età). Quindi la maggiore frequenza di distorsioni è dovuta al fatto che le funzioni
esecutive iniziano a svilupparsi in maniera sistemica dopo i 6 anni.
In particolare per quanto riguarda gli adulti, saper fare le domande senza forzare inde-
bitamente una risposta è fondamentale per non aumentare la probabilità di costruire
falsi ricordi.
SVILUPPO ATIPICO LEGATO ALLA MEMORIA DI LAVORO
Uno dei campi indagati sul ruolo della memoria di lavoro, soprattutto per quanto ri-
guarda il paradigma della MdL, è quello dei disturbi dell'apprendimento. Si fa diagnosi
di DSA quando si può escludere completamente la possibilità di deficit di tipo mentale
(disabilità intellettiva), in quanto i DSA non devono essere relativi a tale problematica
(nel caso tale problematica fosse presente, i DSA ne sarebbero una conseguenza, passe-
rebbero in secondo piano). Quindi per poter parlare in modo specifico di disturbi dell'ap-
prendimento, dobbiamo avere un quoziente intellettivo nella norma e la normalità rien-
tra all'interno di una deviazione standard (ossia il discostamento medio dalla media di
100 che è 15), quindi il quoziente intellettivo normale medio varia da 85 a 115. I disturbi
specifici dell’apprendimento si possono suddividere in discalculia, dislessia, disortogra-
fia, etc., tutti disturbi legati strettamente all’ambito scolastico. In questo caso la presta-
zione media del bambino (il QI relativo al compito svolto), per poter avere una diagnosi
di DSA, deve essere inferiore di 2 deviazioni standard dalla norma (una deviazione stan-
dard è 15, due deviazioni standard sono 30, quindi una prestazione inferiore di almeno
due deviazioni standard, vuol dire avere un punteggio sotto il 70. Circa 5-8% dei bambini
ha problemi nell'area matematica (che è una di quelle che è stata studiata maggior-
mente nel caso della implicazione della memoria di lavoro), quindi abbiamo in questo
deficit nei processi di elaborazione e rappresentazione in uno o più domini della mate-
matica (che può essere l'aritmetica, la geometria, l'algebra). Spesso, se questi disturbi
di apprendimento sono accompagnati da altre problematiche, i bambini hanno bisogno
di essere affiancati dall’insegnante di sostegno e hanno bisogno di interventi specifici
anche in ambito scolastico.
Uno dei deficit individuati nelle ricerche sui disturbi dell'apprendimento matematico
riguarda il taccuino visuo-spaziale: molti per poter fare un calcolo a mente utilizzano
una sorta di lavagna mentale, ovvero si rappresentano mentalmente i numeri e le varie
sequenze dell’esecuzione dell’operazione mentale all'interno della memoria spaziale; è
possibile farlo finché si fanno operazioni abbastanza semplici, dove basta solo una pic-
cola forma di elaborazione delle informazioni di tipo spaziale che occupa un'area limi-
tata della memoria di lavoro. Quando si parla di problemi più complessi è necessario
anche l'intervento dell'esecutivo centrale: quando dobbiamo mantenere contemporanea-
mente più informazioni la capacità attentiva, che è tipica delle funzioni dell'esecutivo
centrale, diventa necessaria. Quindi in bambini con deficit dell'elaborazione matema-
tica, la memoria di lavoro è fortemente implicata e, a seconda del tipo di compito asse-
gnato, si può vedere come il deficit può implicare le funzioni dell'area della memoria di
lavoro definite "taccuino visuo-spaziale", che si occupa appunto dell'elaborazione delle
informazioni, oppure l'esecutivo centrale, che ha invece una funzione di controllo gene-
rale delle informazioni ed è legata ai processi attentivi, in modo particolare anche alle
funzioni esecutive (come quelle di tipo inibitorio). Il ruolo centrale dell'esecutivo centrale
è quello dell'abilità di controllo o di inibizione delle informazioni per la risoluzione dei
problemi, quindi in qualche modo inibire significa escludere dal proprio campo di lavoro
di quel momento le informazioni che non sono funzionali alla soluzione del problema.
Un altro aspetto che è stato analizzato per quanto riguarda la memoria di lavoro è la
comprensione del testo, che è un'operazione abbastanza complessa che richiede forme
di lavorazione contemporanea abbastanza approfondite, come il riconoscimento delle
parole, il riconoscimento delle frasi, la comprensione del significato, la connessione con
un'informazione già presente, etc.
Es. per poter interpretare il significato di un testo abbiamo bisogno di accedere alla
memoria a lungo termine, ovvero, nel momento in cui non riconosciamo, o compren-
diamo una frase, conosciamo le parole, ne comprendiamo il significato e questo è legato
al fatto che noi riconosciamo quell'informazione perché esiste già nella memoria a lungo
termine. Quell'informazione deve essere portata nell'elaborazione momentanea tipica
della memoria di lavoro e la difficoltà nell’elaborazione può essere data da un sovraffol-
lamento dello spazio di MdL (7 + o – 2).
Il controllo attentivo è fondamentale: nell’interpretazione di significato del testo, se il
controllo attentivo e quindi la funzione di inibizione è scarsa, possono entrare nel campo
di elaborazione informazioni che devono essere escluse, perché altrimenti il soggetto non
riesce a comprendere il significato.
Es. Quando cerchiamo per esempio di comprendere il significato di un testo facciamo
delle ipotesi su quale possa essere il reale significato. La funzione dell'esecutivo cen-
trale, una volta che abbiamo la soluzione, è quella di escludere l'informazione o l'esito
che abbiamo ritenuto poco corretto, per fare in modo che si vada avanti. Se non funzio-
nasse questo processo ci porteremmo, man mano che cerchiamo di comprendere il signi-
ficato di un testo, tutta una di informazioni che vanno a sovraccaricare la memoria di
lavoro, rendendo complesso andare avanti nella comprensione del testo.
Quindi il ruolo dell'esecutivo centrale è il ruolo di processo inibitorio (una delle funzioni
esecutive principali dell’uomo) ed è fondamentale perché c'è uno spazio temporale limi-
tato di elaborazione delle informazioni, per cui inibire ciò che non è rilevante è fonda-
mentale, altrimenti l'elaborazione diventa caotica. Questo è il motivo per cui la memoria
di lavoro è stata considerata una delle forme maggiormente implicate in tutta una serie
di forme di elaborazione della realtà, ma in modo particolare in tutta una serie di com-
piti legati alle attività formative di tipo scolastico.
Abbiamo poi la relazione tra memoria di lavoro e disturbo specifico del linguaggio. Il
disturbo specifico del linguaggio è caratterizzato da deficit nella comprensione, nella
produzione e nell'utilizzo del linguaggio. I problemi legati alla comprensione sono ri-
guardano le informazioni in entrata (quando ascoltiamo qualcuno che parla), quelli le-
gati alla produzione all’elaborazione di frasi e alla produzione di forme verbali del lin-
guaggio. Anche in questo caso abbiamo una presenza di circa 6-8% dei bambini in età
prescolare, mentre in età scolare c'è una diminuzione, per cui si arriva a circa 1-2% dei
bambini: le problematiche dello sviluppo del linguaggio hanno un esito abbastanza po-
sitivo in seguito ad interventi, perché esistono, ad esempio, i parlatori tardivi, ovvero
quei bambini che arrivano anche a 30 mesi non tanto in assenza di linguaggio, ma che
hanno appreso singole parole e hanno ancora difficoltà ad associarle. Nello sviluppo ti-
pico i bambini apprendono le singole parole e poi in un secondo momento apprendono
ad associarle, quindi a costruire grammaticalmente delle frasi. I parlatori tardivi sono
una percentuale di bambini che in seguito hanno un'evoluzione positiva, ma quando i
hanno altri tipi di problematiche associate (non ritardo mentale), come nella capacità di
prestare attenzione, allora possono sviluppare disturbi specifici del linguaggio. Questo
è il motivo per cui circa un terzo dei bambini rientra all’interno del disturbo specifico
del linguaggio, mentre il resto attorno ai 30 mesi viene considerato parlatore tardivo.
Bisogna distinguere il disturbo specifico del linguaggio dalla dislessia: il problema della
dislessia riguarda la scarsa padronanza nella lingua scritta e non quella orale, mentre
il problema nell'area orale del linguaggio è tipico del disturbo specifico del linguaggio.
Quindi i deficit della memoria di lavoro sono in modo particolare quelli dell'area di tipo
fonologico. La memoria di lavoro fonologica o loop articolatorio, si occupa di elaborare le
informazioni di tipo verbale, mentre la parte di memoria di lavoro che elabora le infor-
mazioni spaziali presenta difficoltà nel ripetere parole composte da tre o quattro sillabe
rispetto a uno sviluppo tipico: questi bambini mostrano delle difficoltà nel mantenere
insieme varie informazioni quando stanno apprendendo il linguaggio, quindi parole
composte più complesse richiedono uno spazio mentale all'interno della memoria di la-
voro più elevato. Quindi se il deficit sta nella memoria di lavoro fonologica, vuol dire che
i bambini hanno difficoltà a mantenere momentaneamente in elaborazione troppe infor-
mazioni di tipo verbale e questo lo si può vedere nella ripetizione di parole più com-
plesse.
Vediamo ora le implicazioni della memoria di lavoro nella sindrome di Down, che è una
patologia di tipo genetico, con problemi di tipo cromosomico (trisomia 21, perché all'in-
terno del 21esimo cromosoma c'è la presenza di un cromosoma in più), ed è associata a
disabilità intellettiva. L'incidenza è di circa 1 ogni 700 nati. La sindrome di Down è
caratterizzata da una forma di deficit dell'esecutivo centrale tipico di quando ci sono
difficoltà globali nell'elaborazione dell'informazione, quindi del controllo e della mani-
polazione del materiale da ricordare. L'esecutivo centrale è quella parte della memoria
di lavoro che permette di mantenere l'attenzione focalizzata ed è quella implicata nei
processi legati alle funzioni esecutive, quindi processi di tipo inibitorio (legati diretta-
mente all'attenzione, quindi è la capacità del soggetto di prestare attenzione focalizzata
e non farsi distrarre, elaborare le informazioni in modo tale da escludere dal proprio
campo cognitivo di quel momento l'informazione che non è rilevante). Per quanto ri-
guarda la memoria a lungo termine, è stato riscontrato in questa sindrome una sorta di
deficit legato alla memoria esplicita (o dichiarativa), mentre viene conservata la memo-
ria implicita (di tipo procedurale). Abbiamo anche dei deficit della memoria fonologica
nel meccanismo di ripetizione (lo span), mentre c'è un buon funzionamento della memo-
ria visuo-spaziale.

SVILUPPO DEL LINGUAGGIO


Il linguaggio viene considerato un sistema comunicativo complesso. Con sistema si fa
riferimento a un insieme di elementi in fase di interazione e la complessità è stretta-
mente legata alla componente sistemica, in quanto richiede funzioni cognitive elaborate
e la contemporanea partecipazione di tutta una serie di processi mentali e cognitivi af-
finché il linguaggio venga prodotto in maniera adeguata. Il linguaggio è un codice sim-
bolico che informa sulla realtà attraverso la relazione tra segni (le parole) e gli elementi
della realtà esterna: oggetti ed eventi vengono astratti e simbolizzati e in base a questa
simbolizzazione gli individui possono condividere tra di loro una serie di significati (co-
dice socialmente condiviso). Inoltre è un sistema complicato in quanto si analizza su
diversi livelli e possiede alcune proprietà che lo rendono uno strumento altamente effi-
ciente per pensare e comunicare. C'è un'associazione iniziale perché il bambino nelle
prime fasi dello sviluppo non conosce i suoni che vengono prodotti dagli adulti e l'asso-
ciazione tra suoni e oggetti permette l’apprendimento del linguaggio. Una volta che que-
sta associazione è stata creata il bambino apprende ad associare oggetti ed eventi (at-
traverso quello che poi è stato definito "processo narrativo", quindi anche a raccontare
e descrivere gli eventi) e queste forme di simbolizzazione della realtà diventano lo stru-
mento con cui il soggetto pensa alla realtà stessa, anche al di fuori del linguaggio in
termini comunicativi, e diventa un processo con cui la sua mente elabora la realtà a
partire da questo codice simbolico.
Inizialmente apprendiamo il linguaggio attraverso il canale sensoriale dell'udito (asso-
ciazione tra suoni, oggetti ed eventi), poi lo apprendiamo attraverso l'apprendimento
della scrittura (in particolare nella fase della scuola primaria), apprendendo che una
particolare configurazione di simboli scritti, che noi cogliamo a livello percettivo, hanno
una semantica, quindi un significato e rimandano a rappresentazioni della mente di
oggetti ed eventi. Quindi sono simboli convenzionali che sono creati e condivisi in fun-
zione di fattori culturali, storici, sociali e politici. Inoltre il linguaggio non è statico, ma
in continua evoluzione. L'altro aspetto del linguaggio è la sua arbitrarietà: la relazione
tra il simbolo e il proprio referente non può essere inferita dalla forma visiva o sonora
(il suono “cane” o la parola “cane” non ha nessun nesso con l’animale cane – infatti di
cultura in cultura il suono o la parola che descrivono quell’animale variano, di conse-
guenza questa associazione è arbitraria). L'altra componente del linguaggio è la sua
referenzialità, la sua semanticità, ovvero la relazione tra significante e significato (in
termini di contenuto) che collega il suono con l'oggetto. Tornando all’esempio del cane,
se da un lato questa forma di associazione è arbitraria, contemporaneamente, in termini
di apprendimento, il suono della parola “cane” ci evoca la rappresentazione che noi ab-
biamo di quell'animale, quindi distinguiamo tra la componente della arbitrarietà in cui
non c'è nessun nesso tra suono e oggetto, e la componente della referenzialità secondo
cui abbiamo appreso ad associare quel suono con quell'oggetto per le rappresentazioni
mentali che suscita. L'altro aspetto di questa componente è il fatto che noi attraverso
queste forme di classificazione degli oggetti, quindi di categorizzazione, creiamo anche
un ordine mentale (nella fase dello sviluppo secondo Piaget un aspetto fondamentale nel
costruire delle rappresentazioni cognitive della realtà il processo di categorizzazione).
Attraverso il termine, attraverso il linguaggio, noi diventiamo capaci di ordinare la
realtà attraverso forme di rappresentazione ordinate, che categorizzano e mettono gli
oggetti e gli eventi all'interno di classi di significato. Stiamo parlando del linguaggio di
tipo verbale e di linguaggio non verbale e di tutto ciò che ruota intorno al linguaggio
verbale, come il tono e altri aspetti che sono definiti para-verbali. Il linguaggio è una
parte della modalità più globale con cui noi comunichiamo tra di noi. Alcuni studiosi
ritengono che, pur essendo estremamente efficace per definire e comunicare dei conte-
nuti, la modalità più globale con cui noi comunichiamo all'interno di questo processo
comunicativo più generale sia quella del linguaggio non verbale (il linguaggio non ver-
bale può contraddire il linguaggio non verbale). Questo per alcuni studiosi è stato spie-
gato in termini filogenetici: le aree relative al linguaggio verbale sono maturate in ri-
tardo rispetto a modalità precedenti, che comprendevano il linguaggio non verbale, come
l’espressione del volto, la gestualità, la postura. Quindi l'informazione verbale che il
soggetto sta comunicando potrebbe essere un’informazione falsa se il linguaggio del
corpo (linguaggio non verbale) la contraddice. È fondamentale che i partecipanti alla
comunicazione abbiano l'intenzione di trasmettere informazioni, e condividano il codice
di comunicazione. Sappiamo per esempio che in alcune forme di sviluppo atipico, come
nel caso dell'autismo, viene a mancare completamente l'intenzione comunicativa, questi
bambini hanno difficoltà ad esprimere l’intenzione comunicativa. Oltre l'intenzione c'è
la condivisione del codice culturale, ovvero chi riceve l'informazione deve essere capace
di decodificare il linguaggio di chi sta producendo un'informazione di segni linguistici
verbali e paralinguistici (ovvero forme che accompagnano il linguaggio verbale per ren-
derlo più efficace) per riuscire a trasmettere con più efficacia l'informazione che il sog-
getto vuole comunicare. Quindi si usano delle pause, un ritmo differente per mettere in
evidenza alcune parti della comunicazione, una variazione del tono per evidenziare pa-
role rilevanti: questo ha la funzione di cambiare e aumentare il livello di attenzione delle
persone che ricevono l’informazione (scarsa variazione degli aspetti paralinguistici
porta a diminuzione dell’attenzione nell’ascoltatore e una conseguente minore compren-
sione di ciò che si vuole comunicare). Oltre agli aspetti paralinguistici ci sono anche i
segni non verbali ad accompagnare il linguaggio verbale, come la postura, i movimenti,
le espressioni facciali, i gesti che il soggetto utilizza per mettere una maggiore enfasi.
Gli studiosi del linguaggio hanno diviso il linguaggio stesso all'interno di varie compo-
nenti, la prima di queste è la forma, all’interno della quale troviamo la fonologia, la
morfologia e la sintassi. La fonologia riguarda lo studio del sistema dei suoni di una
lingua (“cane” e “pane” differiscono per la C e la P, che, percettivamente, sia dal punto
di vista visivo che uditivo, ci evocheranno due rappresentazioni differenti di due oggetti
differenti). La morfologia riguarda un sistema di regole interne della parola che ne mo-
dificano il significato e la forma (tra queste troviamo il genere delle parole, il numero,
etc., che possono cambiare il significato della frase stessa e dell’informazione che si vuole
comunicare). La sintassi riguarda un sistema di regole relativo alla combinazione e
all'ordine delle parole: le frasi e le modalità con cui esprimiamo il linguaggio hanno
un'organizzazione anche sequenziale che fa in modo che gli altri ci capiscano in maniera
agevole, perché utilizziamo le parole in una sequenza specifica che riguarda un sistema
di regole che abbiamo appreso all'interno della nostra cultura. Un altro aspetto è il con-
tenuto, che riguarda la semantica, che fa riferimento al significato: la modalità con cui
organizziamo le frasi può cambiare completamente il significato della frase stessa. La
pragmatica, altro aspetto del linguaggio, è legata all'uso del linguaggio per fini comuni-
cativi e sociali, riguarda l'espressione delle intenzioni comunicative e le modalità con
cui noi comunichiamo con gli altri (come il rispetto dei turni, che è una delle regole con-
versazionali; talvolta questo non viene rispettato e le persone a quel punto smettono di
comunicare adeguatamente, tipico in una condizione di conflitto, perché si ritiene che
ciò che si vuole comunicare personalmente abbia un valore maggiore rispetto a quello
che sta comunicando l'altro e questo porta a una comunicazione confusa).
PRINCIPALI APPROCCI TEORICI AL LINGUAGGIO IN PSICOLOGIA
Il primo approccio, temporalmente, è quello comportamentista, che, come modello teo-
rico, utilizza meccanismi del condizionamento operante mediante rinforzo per spiegare
l'apprendimento di tutta una serie di abilità cognitive e utilizza questo modello anche
per l'apprendimento del linguaggio. Secondo i comportamentisti il rinforzo spinge il
bambino a ripetere una serie di parole sia perché producono una maggiore efficacia nella
comunicazione con l'altro, ma soprattutto perché questo comportamento viene rinfor-
zato dai genitori, dicendo al bambino che è bravo e gratificandolo qualora imparasse
parole nuove, quindi il bambino tenderà a ripetere queste parole perché ottiene un ri-
sultato in termini di efficacia comunicativa e di gratificazione da parte del genitore.
Questo modello che è fortemente ambientale, quindi basato sull'apprendimento all'in-
terno del contesto in cui il bambino si trova, viene criticato da Chomsky, il quale propone
un modello di tipo innatista. Critica il modello comportamentista perché secondo lui
apprendiamo delle regole di tipo sintattico (come dicevamo prima delle regole per orga-
nizzare le frasi) e riproduciamo attraverso l'apprendimento di queste regole, che sono
innate, delle frasi mai udite: attraverso questo meccanismo, che viene definito di lingui-
stica generazionista, abbiamo un sistema innato che ci permette di riprodurre frasi e
parole che non possono essere state rinforzate dai nostri genitori, anche perché secondo
Chomsky il rinforzo non spiegherebbe quella che è definita, intorno all'anno e mezzo o
due, esplosione del vocabolario. Il bambino acquisisce parole e ne apprende nuove con
una velocità notevole (anche 10 parole nuove al giorno) in particolari periodi del suo
sviluppo e non è pensabile, secondo Chomsky, che tutte queste parole siano state rinfor-
zate dai genitori. Infatti questo modello sostituisce temporalmente la visione comporta-
mentista dell'apprendimento del linguaggio. C'è un meccanismo innato di fondo, che
viene definito "language acquisition device" (forma di grammatica universale comune a
tutte le popolazioni), che permette di apprendere il linguaggio anche ai bambini con
pochi input ambientali (bambini non sono stimolati adeguatamente), perché esiste ap-
punto un meccanismo sottostante, a prescindere dalle forme di rinforzo di tipo ambien-
tale.
L'altro approccio è definito costruttivista con Piaget, dove il linguaggio è l'esito di uno
sviluppo cognitivo basato che avviene al termine dello stadio senso-motorio, in seguito
a una serie di esperienze in termini di azione sull'ambiente che il bambino porta avanti,
piano piano questi costruisce dei simboli e delle rappresentazioni. Al termine di questa
fase che si colloca tra un anno e mezzo e 2 anni, il bambino inizia a simbolizzare la realtà
e una delle principali forme di simbolizzazione che il bambino acquisisce, accompagnata
dai processi rappresentazionali, è la costruzione del simbolo linguistico. Per Piaget il
linguaggio segue lo sviluppo cognitivo, il quale è legato all'interazione dell'azione che il
bambino porta avanti sull'ambiente in seguito all'acquisizione delle informazioni attra-
verso i suoi canali sensoriali, quindi allo sviluppo sensomotorio.
L'altro l'approccio è definito socio-culturale e socio-costruttivista, di cui l'esponente prin-
cipale e Vygotskij, secondo cui il linguaggio deriva dal contesto sociale. Vygotskij pro-
pone una visione dove, a partire dalla costruzione di simboli, il bambino costruisce il
linguaggio e i significati della realtà. Secondo Piaget da un processo intrapsichico di
costruzione simbolica della realtà, il linguaggio diventa poi interpsichico, ovvero il lin-
guaggio diventa la possibilità di trasmettere tali simboli. Secondo Vygotskij invece, che
basa lo sviluppo cognitivo in modo particolare sulla componente sociale, l'apprendi-
mento del linguaggio avviene prima all'interno della relazione del contesto sociale in cui
il bambino vive, poi in seguito diventa intrapsichico. In modo particolare si è occupato
dello studio del rapporto tra linguaggio e pensiero. Per Vygotskij il linguaggio è legato
alla costruzione della rappresentazione della realtà in seguito all'acquisizione all'in-
terno di un contesto sociale.
Un recente approccio è quello neurocostruttivista, in cui lo sviluppo del linguaggio viene
studiato attraverso l'interazione tra maturazione neurobiologica ed esperienza lingui-
stica, quindi la componente dell'esperienza ambientale e sono stati fatti degli studi per
cercare di individuare le differenze individuali. All'interno dei fattori ambientali sono
stati distinti due tipi di fattori principali, che sono quelli considerati distali, ovvero in-
diretti, che agiscono non direttamente sull'individuo e hanno un'influenza che non è
direttamente collegabile all'esperienza soggettiva dell'individuo di tipo linguistico (per
esempio appartenere a una famiglia con uno status socio-economico elevato, piuttosto
che basso, e di conseguenza il livello di istruzione genitoriale). Tutto questo va ad in-
fluenzare il microsistema culturale e il macrosistema culturale, ovvero le condizioni di
una nazione, perché tra Stati con condizioni socio-economiche culturali tipiche, dove
condizioni differenti possono influenzare le differenze individuali nello sviluppo del lin-
guaggio. Abbiamo poi fattori più diretti, più prossimali, che influenzano direttamente lo
sviluppo del linguaggio del bambino, ossia l'input linguistico materno. Per quanto ri-
guarda i fattori prossimali si va a vedere che stimoli concretamente i genitori forniscono,
quindi che stile comunicativo c'è all'interno della famiglia, la possibilità che si siano
creati tutta una serie di fattori che, come l'attenzione condivisa, sono particolarmente
rilevanti nell'apprendimento del linguaggio. L'attenzione condivisa riguarda il fatto che
genitore e bambino condividono l'attenzione su aspetti della realtà ed è stata indivi-
duata come un fattore prioritario per l'acquisizione adeguata del linguaggio. I fattori
diretti devono essere studiati in presenza, dove ogni famiglia viene osservata (metodo-
logia dell'osservazione) e vengono osservate le modalità interattive, le dinamiche inte-
rattive comunicative tra genitore e bambino. Sono state fatte anche indagini legate alle
differenze di genere, che mostrano che nella comprensione e nella produzione del lin-
guaggio c'è uno sviluppo più precoce nel genere femminile. Questo va per certi versi a
compensare un altro aspetto sulle differenze di genere, che riguarda le abilità visuo-
spaziali, che sono maggiormente sviluppate nel genere maschile.
SVILUPPO DEL LINGUAGGIO NELLE VARIE FASI DELLO SVILUPPO
Il linguaggio prende avvio in forma gestuale e preverbale, quest’ultimo caratterizzato
principalmente dal pianto, a cui si aggiungono i suoni vocalici e consonantici. Il pianto
è stato studiato abbondantemente come funzione comunicativa preverbale perché è la
prima forma di comunicazione del bambino con il mondo circostante: attraverso il pianto
il bambino comunica gli stati interni, i bisogni e i desideri che devono essere interpretati
dal proprio caregiver, che piano piano deve apprendere a interpretare le modalità e i
ritmi del pianto stesso, in modo tale da comprendere che tipo di bisogni ha il bambino.
Gli studi fatti hanno portato alla comprensione che il ritmo prolungato, più breve o più
intenso, del pianto segnala forme diverse di bisogni, a volte forme di malessere, di dolore
e quindi tutto questo ci dice quanto sia fondamentale la componente ambientale dell'in-
terazione e della reciprocità tra chi si prende cura del bambino e il bambino stesso, in
modo tale anche che il bambino impari la madrelingua. I fattori innati e fattori acquisiti,
quindi ambientali, si integrano. Il linguaggio è esemplare da questo punto di vista per-
ché è importante la base biologica che predispone il bambino all'apprendimento del lin-
guaggio, però sono necessarie tutta una serie di condizioni ambientali. Sono stati stu-
diati alcuni aspetti nella reciprocità genitore-bambino che favoriscono l'apprendimento
del linguaggio: il linguaggio normalmente utilizzato dagli adulti con i piccoli è definito
Baby Talk, una forma di linguaggio che pone dei ritmi particolari nella scansione delle
parole, con maggiore enfasi e accentuazione di alcuni termini, e a volte i termini stessi
vengono modificati in modo tale da dare una forma di tonalità che possa attirare l'at-
tenzione del bambino. Il bambino stesso appare particolarmente attratto, soprattutto
nelle prime fasi dello sviluppo, da questa modalità con cui viene prodotto il linguaggio
dagli adulti. Tra i 6 e i 10 mesi compare la lallazione, una combinazione di vocali e
consonanti (la-la, pa-pa, ma-ma) che rappresentano la base su cui il bambino costruirà
il linguaggio. Tra i 9 e 13 mesi compaiono i vocalizzi intenzionali, ovvero, mentre prima
le produzioni vocali sono casuali, dai 9 mesi il bambino inizia a produrre forme di voca-
lizzazione intenzionalmente, quindi il bambino piccolo associa e utilizza in combina-
zione gesti comunicativi e sguardi all'interlocutore (come indicare, dare e mostrare). Il
bambino in questa fase dello sviluppo utilizza contemporaneamente una forma di lin-
guaggio non verbale fatto di gesti, accompagnato da queste prime forme di vocalizza-
zione. Tra gli 11 e 13 mesi compaiono le prime parole, sebbene il bambino conosca un
unico sistema comunicativo fatto sia di gesti che delle prime parole, le quali si integrano
con la componente non verbale e gestuale, quest’ultima quasi sempre di tipo diadico
(ovvero ha una funzione comunicativa e di ricerca dell'interazione dell'altro).
Nel neonato il pianto e il sorriso sono le prime forme di comunicazione. Il pianto come
forma di vocalizzazione che comunica una serie di stati interni del bambino a chi se ne
prende cura e il sorriso come forma di comunicazione di tipo prettamente non verbale,
dove il bambino esprime solitamente la propria condizione di benessere. La funzione del
sorriso è probabilmente stata selezionata nella nostra filogenesi per aiutare il caregiver
a costruire la relazione di attaccamento: il sorriso passa da una condizione di manife-
stazione di una situazione di benessere interna a una condizione di tipo sociale, anche
in questo caso il bambino apprende che il sorriso favorisce il richiamo del caregiver,
quindi favorisce la costruzione di un’interazione di reciprocità; questo aspetto possiamo
considerarlo un aspetto innato, nel senso che deriva dalla predisposizione a costruire
una relazione di attaccamento con qualcuno. Questi comportamenti si sono selezionati
durante la filogenesi, in quanto si sono rivelati funzionali per migliorare l'adattamento
degli organismi al proprio ambiente.
A 2-3 mesi c'è la comparsa delle prime vocalizzazioni, ossia espressione di suoni modu-
lati, formati da vocali ripetute, quindi il bambino produce inizialmente, in modo casuale,
delle vocali che vengono scandite per tempi abbastanza prolungati e poi, un po' come ci
ha detto Piaget riguardo le ripetizioni circolari, attraverso la ripetizione di questi com-
portamenti il bambino si rende conto che tali produzioni, inizialmente casuali, produ-
cono degli effetti, tutto ciò accompagnato dalla maturazione del sistema nervoso (la con-
nessione sinaptica tra particolari popolazioni neuronali in centri che sono specializzati
nella produzione del linguaggio, come l'area di Broca, area del lobo temporale parietale
sinistro, dove viene prodotto il linguaggio).
A 4-6 mesi compaiono le prime forme di lallazione, che sono definite lallazione margi-
nale: non c'è ancora un apprendimento vero e proprio del bambino perché ha sentito
parlare i propri genitori, ma sono produzioni ancora involontarie; queste produzioni
sono presenti in tutta la popolazione del mondo, a prescindere dalla cultura di apparte-
nenza, quindi sono precedenti alle forme di apprendimento. Quindi il bambino produce
dei suoni che poi si modificheranno quando apprenderà delle associazioni di suoni tipici
della sua lingua madre. A 7 mesi, infatti, compare un'altra forma di lallazione che viene
definita canonica dove c'è una combinazione di consonanti e vocali. A un anno abbiamo
un'altra forma di lallazione, perciò ci sono tre scansioni temporali con cui evolve questa
forma di linguaggio del bambino: la lallazione variata. C'è un cambiamento proprio nella
struttura rispetto alla forma precedente: vi è un'associazione tra due combinazioni della
lallazione canonica, ovvero il bambino fa un’ulteriore passo e inizia ad associare le com-
binazioni che ha prodotto nella fase precedente.
In definitiva possiamo affermare che vi è una dotazione di tipo biologico, quindi innata,
con forme di vocalizzazioni comuni a tutta la specie, le quali, in seguito, si integrano con
gli aspetti di tipo ambientale: prima di un apprendimento di tipo ambientale-culturale
abbiamo una produzione casuale che ha origine innata di tipo biologico, che deriva da
processi di maturazione, poi a questi processi si integrano aspetti di tipo ambientale,
quindi legati a processi di apprendimento all'interno della cultura di appartenenza.
Un aspetto fondamentale nelle prime fasi dello sviluppo sono i gesti, quindi la comuni-
cazione non verbale. La comunicazione di tipo gestuale insieme a quella tipicamente
verbale (la produzione di suoni vocalici a consonantici) vengono utilizzate contempora-
neamente. I gesti sono inizialmente spontanei, si tratta di un'attività motoria spontanea
che poi in seguito diventa intenzionale e c'è una forma di gestualità che viene definita
deittica, ovvero il gesto si sostituisce per certi versi al linguaggio, perché quel gesto vei-
cola un significato, fa capire al proprio caregiver ciò che si vuole comunicare. La gestua-
lità deittica (dimostrativa) è estremamente significativa e il gesto di indicare è chiara-
mente di tipo relazionale. I gesti del bambino hanno una natura diadica (forma di pre-
coce intenzionalità). La gestualità è sia deittica sia referenziale: fare “ciao” con la mano
diventa una prima forma di comunicazione di tipo interattivo e di tipo diadico.
L'interazione durante lo sviluppo da diadica diventa triadica. Questo aspetto è associato
all'intersoggettività primaria e all'intersoggettività secondaria, due forme di modalità
comunicativa interpersonale, centrali nello sviluppo sociale del bambino, che assolvono
una funzione fondamentale del linguaggio. Per diadica si intende che la relazione ri-
guarda due partner (la mamma e il bambino), mentre nella relazione triadica mamma
e bambino rimangono in interazione, però comunicano e hanno una forma di attenzione
per un oggetto esterno: la componente triadica integra nuovi elementi che possono es-
sere oggetti del proprio ambiente circostante (indicare diventa un gesto triadico). Questo
aspetto ha un forte collegamento con la teoria della mente: si tratta di un aspetto fon-
damentale nel momento in cui la mamma si trova in una condizione sintonica in cui ha
la capacità di interpretare i segnali (pre-linguistici) del bambino, favorendo la costru-
zione di una teoria della mente nel bambino stesso e di conseguenza anche lo sviluppo
del linguaggio.
SVILUPPO DEL LINGUAGGIO
Nell’interazione triadica la relazione tra madre e bambino è profonda: il bambino uti-
lizza la sua gestualità per indicare un terzo oggetto e la mamma ne comprende i signi-
ficati, per cui parliamo di attenzione condivisa. Tomasello ha studiato questi processi di
base da cui nasce il linguaggio: in queste prime fasi di sviluppo interattivo la mamma
risponde alla richiesta di attenzione del bambino, orienta la propria attenzione sull'og-
getto che egli indica e a sua volta denomina l'oggetto che il bambino sta indicando. Il
bambino a questo punto inizia ad associare gli oggetti ai suoni, quindi l’apprendimento
del linguaggio passa attraverso l'attenzione condivisa. La gestualità deittica, finalizzata
a indicare, e quella referenziale (fare “ciao” con la mano) sono tipiche e prevalenti fino
ai 16 mesi, anche se i bambini iniziano a dire le prime parole già dal primo anno di età.
Intorno ai 16 mesi si stabilizza la distinzione dei due codici linguistici e si verificano due
fenomeni complementari (fino ai 20 mesi): aumento della produzione verbale e ridu-
zione, fino alla quasi scomparsa, dei gesti referenziali. Nel momento in cui il bambino
apprende termini nuovi questi sostituiscono il gesto, in quanto quest'ultimo risulta es-
sere meno efficace nel comunicare i suoi bisogni e i suoi desideri. Perciò la progressiva
riduzione dei gesti è accompagnata da un aumento del linguaggio, quindi c'è un aumento
del vocabolario che via via sostituisce la comunicazione gestuale. Un altro aspetto im-
portante è che la comprensione lessicale precede quella della produzione delle parole: il
bambino, prima di esprimere delle parole, le deve memorizzare. Dai 12 ai 20 mesi: le
prime parole che il bambino produce sono generalmente dei nomi, usati per indicare
classi di oggetti molto familiari (mamma, giocattoli, cibo) e in seguito inizia ad esprimere
delle parole che indicano delle azioni abituali, quelle che lui compie nella quotidianità
(dormire, bere, andare).
SVILUPPO DEL DISCORSO
Intorno ai 13-14 mesi le nuove parole aumentano molto lentamente, da 1 a 10 parole al
giorno. Queste parole vengono utilizzate in sostituzione di una frase, è un periodo in cui
lo sviluppo cognitivo non è ancora avanzato e sufficientemente adeguato per produrre
delle frasi (stadio della olofrase).
Tra i 16 e 20 mesi lo stadio della olofrase viene sostituito dallo stadio del discorso tele-
grafico, in cui vi è una prima combinazione di parole per produrre frasi. In qualche modo
si verifica un processo analogo a quello della lallazione, nella quale vi è un'associazione
di vocale con consonante, mentre nel discorso telegrafico del bambino vi è la combina-
zione di parole.
A 2 anni aumenta la lunghezza media dell'enunciato: se il bambino nella fase della olo-
frase per esprimere il desiderio di bere un succo avrebbe detto solo 'succo', adesso dirà
“me succo” e poi “io voglio il succo”.
A 4 anni avviene un altro salto qualitativo: “mamma, per favore dammi il succo”. A
questa età avviene la maturazione di un processo fondamentale, ovvero l'acquisizione di
una teoria della mente. Il bambino prende piena consapevolezza che esiste l'altro e che
l'altro ha una mente, per cui inizia a utilizzare la forma della comunicazione che sta
all'interno di quella che viene definita la pragmatica.
Un passo fondamentale perché i bambini possano apprendere la grammatica è quello di
sperimentare delle regole che vengono assimilate dall'ascolto e dalla conversazione degli
adulti. Nell’acquisizione delle modalità linguistiche vi è dunque una componente innata,
poi attraverso processi di apprendimento dipendenti dalla cultura di appartenenza, il
bambino apprende a organizzare le parole dal punto di vista grammaticale. Per quanto
riguarda l'acquisizione della semantica, si passa da circa 3-4 parole che il bambino co-
nosce e pronuncia nel primo anno di vita, alle circa 10mila a 6 anni, all'inizio della fase
scolare (c’è comunque un'ampia variabilità nello sviluppo dell’acquisizione del vocabo-
lario, la quale dipende da tanti fattori che sono da un lato di tipo maturativo - processi
di memoria più o meno efficaci - e dall'altro contesti culturali più o meno stimolanti).
Tra i 3-4 anni l'acquisizione del linguaggio può dirsi completa e si può parlare di com-
petenza linguistica e conversazionale: i bambini a quest'età sono in grado di compren-
dere e utilizzare le regole condivise che regolano la conversazione. Oltre gli aspetti tipi-
camente linguistici che riguardano le parole vere e proprie, vi sono aspetti che riguar-
dano la modalità cui la capacità conversazionale del bambino si esprime, per esempio il
rispetto dei turni di eloquio (responsività e assertività): grazie allo sviluppo della teoria
della mente il bambino comprende che vi sono punti di vista differenti dal proprio, l'ac-
quisizione di questa competenza diventa fondamentale per migliorare le abilità circo-
lari, quelle che sono finalizzate alla conversazione, al dialogo. Per responsività si in-
tende la possibilità di rispondere all'interlocutore seguendo la logica del linguaggio
dell'altro; l’assertività consiste, invece, nella capacità di esprimere in modo chiaro ed
efficace le proprie emozioni e opinioni senza tuttavia offendere né aggredire l'interlocu-
tore, per cui il bambino diventa propositivo e propone dei discorsi. Questa è l'età in cui
il bambino inizia ad applicare elementari regole di cortesia (acquisizione progressiva) e
il bambino passa dall’egocentrismo intellettuale all’apprendere modalità socialmente
accettabili. Il bambino inizia ad adattare il proprio linguaggio per renderlo pari alle
caratteristiche del destinatario, quindi si sforza di comprendere il punto di vista del
proprio interlocutore.
LINGUAGGIO NARRATIVO
Gli studiosi Bruner, Piaget e Vygotskij si sono occupati di sviluppo del linguaggio, ma
hanno teorie abbastanza diverse.
Secondo Bruner il linguaggio viene usato prevalentemente a scopo narrativo: attraverso
la narrazione viene raccontato il mondo al bambino e attraverso essa il bambino è in
grado di raccontare eventi ed emozioni (dimensione più globale del linguaggio, utilizzato
per finalità narrativa per raccontare sé stessi). Secondo Bruner linguaggio e pensiero
sono fortemente integrati: il linguaggio viene utilizzato per pensare alla realtà. C'è una
narrativa di tipo interpersonale e una di tipo intrapersonale, ovvero il bambino usa il
linguaggio per raccontare gli eventi e poi, attraverso questa forma di narrativa indivi-
duale, è capace di comunicare la propria realtà (il processo narrativo diventa un pro-
cesso circolare all'interno della comunicazione interpersonale). Per Bruner la narra-
zione è sempre di natura comunicativa e sociale, è una forma di linguaggio finalizzata
alla condivisione. A livello cognitivo il linguaggio regola il pensiero, in quanto lo obbliga
ad una scansione analitica dell'esperienza e a una sua traduzione sequenziale, per cui
il linguaggio sta alla base dell'organizzazione, della costruzione di rappresentazione
della realtà, ovvero alla base di come gli individui si raccontano la propria esperienza e
come la raccontano agli altri. L'organizzazione rigorosa tipica del linguaggio (gramma-
tica e semantica), favorisce anche un’organizzazione del pensiero, ovvero come gli indi-
vidui attraverso il linguaggio pensano alla realtà.
Il caso del bambino “selvaggio” Victor ha evidenziato come alcune credenze di fine ‘700
siano false, come pensare che se c'è una predisposizione genetica il linguaggio possa
essere appreso in qualunque fase della vita. Lo studio ha dimostrato che per il linguag-
gio esiste una finestra temporale specifica, un arco di tempo in cui il processo maturativo
del nostro sistema nervoso deve incontrare adeguati stimoli ambientali affinché tale
competenza venga acquisita; è stato sottolineato che la componente interattiva precoce
che il bambino non ha avuto con un conspecifico è fondamentale per l'acquisizione del
linguaggio, la mancata attenzione condivisa ha portato Victor ad apprendere un bassis-
simo numero di parole e rimanere in uno stadio di tipo gestuale. Questo caso ci introduce
nello sviluppo atipico del linguaggio.
SVILUPPO ATIPICO DEL LINGUAGGIO
I bambini si differenziano notevolmente nei tempi delle competenze di tipo linguistico,
le quali hanno una funzione centrale anche nelle forme di adattamento sociale. Nello
sviluppo atipico rientrano i bambini che vengono chiamati “parlatori tardivi”, ossia 10-
15% dei bambini tra i 2-3 anni. Sono bambini la cui ampiezza lessicale (conoscenza di
termini) si colloca sotto il decimo percentile, ovvero nel 10% più basso di conoscenza
lessicale delle parole che i bambini hanno a quest'età. Sono considerati parlatori tardivi
anche i bambini che a 30 mesi non si riescono a combinare insieme le parole, hanno
acquisito la conoscenza lessicale di vari termini, ma non riescono a combinarli. La mag-
gior parte di questi bambini recupera tale ritardo intorno ai 4 anni (circa due terzi): sono
forme che stanno un po' a cavallo tra lo sviluppo tipico e quello atipico. Un terzo di questi
bambini presenta disturbi nello sviluppo del linguaggio in età prescolare, perciò il 10-
15% dei parlatori tardivi alla fine si riduce a un 5% della popolazione. Le forme di di-
sturbo del linguaggio riguardano sia ritardi nel linguaggio espressivo, sia riguardo ad
altri aspetti comunicativo-linguistici (comprensione, gestualità povera), aspetti cogni-
tivi e affettivo-relazionali. La probabilità di sviluppare un disturbo del linguaggio per i
parlatori tardivi è più elevata in termini di gravità se oltre ad una scarsa ampiezza
lessicale, il bambino presenta il problema espressivo: questi aspetti tendono a sommarsi
e le probabilità di recupero si riducono. Se i bambini vengono diagnosticati precoce-
mente, un lavoro con il logopedista aumenta le possibilità di recupero. La probabilità di
recupero si riduce quanto più sono coinvolti altri aspetti, come il fatto che nella storia
della propria famiglia siano presenti altri casi di bambini con deficit del linguaggio op-
pure se ci sono stati dei problemi pre-natali, difficoltà legate a un parto precoce, dove la
maturazione del sistema nervoso del bambino non è completa. Un altro aspetto, più di
tipo sociale, è lo status socioeconomico: se un bambino con problematiche di base, deri-
vanti da una predisposizione genetica, vive in un contesto in cui la stimolazione ambien-
tale è povera dal punto di vista linguistico, risulta più esposto al rischio di sviluppare
disturbi del linguaggio.
I deficit del linguaggio possono riguardare anche l'area fonologica (quantità e tipologia
dei suoni pronunciati), l'area semantica (anomalie nello sviluppo del lessico e nell'acqui-
sizione del vocabolario) e l'area morfosintattica (che riguarda l'acquisizione della gram-
matica).
I deficit si possono accompagnare ad altre problematiche dello sviluppo cognitivo oppure
possono essere dissociati. Il DSM-V non utilizza più il termine “specifico” per via del
fatto che esistono deficit di tipo cognitivo (come i deficit dell'attenzione visuo-spaziale e
della memoria di lavoro) per cui parlare di disturbo specifico, vuol dire che il problema
è prettamente di tipo linguistico, mentre sappiamo che è accompagnato anche da altre
problematiche.
Oggi si parla di disturbi del linguaggio primari che tendono ad escludere altre forme
associate di deficit. Nei disturbi del linguaggio primari si registra il 7% dei bambini in
età prescolare e il 4% in età scolare, per cui una serie di problematiche legate al linguag-
gio hanno un'evoluzione positiva, soprattutto se individuate precocemente, e grazie a
processi riabilitativi la percentuale diminuisce. Questi disturbi si manifestano con un
ritardo o un arresto dell'acquisizione del linguaggio a livello lessicale, semantico, mor-
fosintattico e pragmatico, perciò possono coinvolgere singolarmente o insieme vari
aspetti del linguaggio. Il disturbo del linguaggio primario viene diagnosticato in assenza
di deficit cognitivi, relazionali, uditivi e patologie neurologiche. Un aspetto importante
che risulta predittivo nello sviluppo dei disturbi del linguaggio, riguarda i bambini che
nascono prima delle 37 settimane di gestazione, ovvero quando la maturazione del si-
stema nervoso non è completata: dalle 37 alle 40 settimane viene considerato un periodo
di gestazione normale dove si completa lo sviluppo del sistema nervoso. I bambini nati
pretermine sono circa il 7% dei bambini che nascono vivi e il rischio per loro è di svilup-
pare ritardi e traiettorie atipiche che si manifestano in problemi nella gestualità e nella
comprensione lessicale. Gli studiosi distinguono due periodi di nascita pretermine: una
è precedente alle 28 settimane, l'altra alle 32 settimane. Vi sono delle difficoltà lingui-
stiche che riguardano anche abilità motorie e attentive, le quali hanno poi una serie di
effetti a cascata nello sviluppo successivo, in modo particolare si manifestano quando il
bambino si troverà nei contesti di apprendimento scolastici.
Altre forme di difficoltà, legate allo sviluppo atipico, sono associate a sindromi genetiche.
Tra le più studiate vi sono la sindrome di Down e la sindrome di Williams. La prima è
di natura genetica, dovuta alla trisomia del cromosoma 21, e i deficit che vengono
espressi dai bambini con questa sindrome sono nelle competenze fonetico-fonologiche e
di tipo lessicale. Sono presenti maggiori difficoltà nell'area morfosintattica con l'omis-
sione di funtori liberi (articoli, preposizioni, etc.): il bambino collega direttamente sog-
getto, verbo e oggetto senza utilizzare articoli e preposizioni, oppure sbaglia l'associa-
zione dei funtori legati, ovvero sbaglia l'accordo di genere e numero. Nella sindrome di
Williams (di natura genetica che implica una perdita del patrimonio genetico, localiz-
zata nel cromosoma 7) vi è un ritardo cognitivo linguistico, però in questo caso l'aspetto
linguistico risulta meno compromesso: ci sono maggiori difficoltà nell'area delle compe-
tenze pragmatiche e discorsive. C'è una scarsa consapevolezza dell'altro, con conse-
guente scarso adeguamento della componente pragmatica del linguaggio alla conversa-
zione e al discorso.
Un altro esempio di sviluppo atipico del linguaggio riguarda i bambini con disturbo dello
spettro autistico. Il DSM-V non considera il deficit del linguaggio come una caratteri-
stica principale per poter far diagnosi di autismo, tuttavia i deficit linguistici sono tipi-
camente associati a delle problematiche di tale disturbo. Vi sono infatti deficit nella
comunicazione e nell'interazione sociale, ristrettezza di interessi (i bambini con questo
disturbo tendono a concentrarsi su aspetti specifici e ad avere dei comportamenti di tipo
ripetitivo, sembrano poco interessati al loro mondo sociale). Manifestano, sin dalle
prime fasi dello sviluppo, deficit di comunicazione non verbale: difficoltà a mantenere
contatto visivo, difficoltà nella gestualità, nell'indicare gli oggetti sono legate al fatto
che è scarsa l'interazione sociale, di conseguenza l'attenzione condivisa fondamentale
per l'apprendimento del linguaggio viene meno. Vi è un ritardo nello sviluppo del lin-
guaggio, in modo particolare a livello prosodico: anche quando i bambini riescono ad
apprendere forme di linguaggio elementare, si manifestano forme di eloquio monotono.
I predittori precoci riguardo alla problematica del linguaggio nell'autismo sono: un de-
ficit dell'attenzione condivisa, il bambino è poco interessato alla dinamica interperso-
nale (di conseguenza porta avanti con scarso interesse questo processo e ciò comporta
dei grossi limiti nella capacità del bambino di associare i suoni agli oggetti), vi sono
deficit nel processo di imitazione, deficit che riguardano il gioco (il quale è solitamente
un gioco di tipo individuale, difficilmente diventa un gioco sociale, il bambino palesa
comportamenti di tipo ripetitivo, ha delle preferenze su alcuni giochi e tende a portare
avanti quel tipo di comportamento escludendo anche la componente interattiva).

SVILUPPO EMOTIVO E SOCIALE


Gli studiosi ritengono che le emozioni non siano facilmente definibili in termini lingui-
stici, perché appartengono a un registro di funzionamento della nostra mente che non è
facilmente traducibile in tali termini. Le emozioni sono modalità di funzionamento della
mente prelinguistiche, cioè sono comparse durante l'evoluzione filogenetica prima del
linguaggio: i nostri antenati conoscevano la realtà attraverso le emozioni, perché le emo-
zioni ci pongono in relazione con l'ambiente attraverso un sentire, attraverso una serie
di modificazioni fisiologiche dell'organismo, il quale si prepara ad agire e a rispondere
alle richieste ambientali.
L'emozione viene considerata un'esperienza complessa, multidimensionale e proces-
suale che svolge un ruolo organizzatore cognitivo-affettivo e che media il rapporto tra
organismo e ambiente. Le emozioni hanno una componente comunicativa, perché nel
momento in cui esprimiamo delle emozioni comunichiamo agli altri il nostro stato emo-
tivo, in quanto esso si caratterizza da una serie di cambiamenti che riguardano la po-
stura, l'espressione facciale. L'uomo è inoltre un animale sociale, ha bisogno di condivi-
dere i propri stati interni con gli altri. Ciò ha la funzione di favorire la costruzione di
legami sociali. Oltre alla componente comunicativa c’è anche quella cognitivo-affettiva:
le emozioni, attraverso la componente cognitiva, ci permettono di conoscere la realtà
(valutiamo gli eventi e attraverso questa valutazione di tipo cognitivo produciamo delle
risposte, anche automatiche, alle richieste ambientali). La paura è una risposta adatta-
tiva, che ci permette di aumentare la nostra probabilità di sopravvivenza. La multi-
dimensionalità è legata al fatto che concorrono tutta una serie di aspetti, che sono com-
portamentali e fisiologici, i quali determinano l'esperienza e il vissuto delle emozioni.
L'emozione avviene quando c'è una modificazione del normale stato di quiete dell'orga-
nismo. Il termine emozione viene dall'etimologia di exmovere, ossia agire, muoversi: l'e-
mozione crea una condizione affinché l'organismo provi a ristabilire la condizione ini-
ziale in seguito a un cambiamento di tipo ambientale.
Il bambino, sin dalle prime fasi dello sviluppo, è un essere attivo e organizzato, capace
di inserirsi con successo in una rete di scambi comunicativi con le persone che lo circon-
dano: ci sono una serie di fattori innati, delle “emozioni di base”, le quali sono emozioni
primarie che abbiamo e di cui facciamo esperienza sin dalla nascita. Una selezione, av-
venuta durante la filogenesi, ha stabilito che emozioni quali la rabbia, il disgusto, la
paura, la felicità e la sorpresa (le emozioni primarie) siano presenti sin dalla nascita.
Secondo gli studiosi queste emozioni non hanno bisogno di fare esperienza sociale, a
differenza delle emozioni secondarie che, per maturare, hanno bisogno di una compo-
nente interattivo-sociale (l'invidia, la gelosia, la vergogna), che per poter essere esperite
necessitano di una componente di tipo interpersonale. Quando parliamo di fattori innati
intendiamo che il bambino è predisposto ad attivare forme di interazione con il proprio
caregiver, perciò, in questa prima fase dello sviluppo, le emozioni sono fondamentali,
infatti le prime forme di comunicazione interpersonale sono essenzialmente di tipo emo-
zionale: tutta la mimica facciale e la componente emotiva che si esprimono con cambia-
menti fisiologici del corpo.
Già durante il terzo trimestre di gestazione il feto è in grado di connettersi alla madre,
sentendo e riconoscendo la sua voce; già in fase di gestazione inizia una forma di comu-
nicazione: vi è una sorta di memorizzazione di alcune informazioni, le quali sono molto
generalizzate. Dopo la nascita questo tipo di informazione (la voce della mamma) di-
venta familiare, quindi produce delle emozioni di tipo positivo.
Subito dopo la nascita abbiamo una forma comunicativa emotiva essenziale nella crea-
zione di un legame col proprio caregiver: la risposta del sorriso (il sorriso è una attività
motoria), la quale compare sin dalla nascita, inizialmente come un segnale di tipo ri-
flesso (perciò è un comportamento automatico), si tratta di forme di risposta di tipo en-
dogeno (che proviene da informazioni della realtà interna del bambino), ma a due mesi
questa risposta da endogena diventa esogena, ovvero è provocata da stimoli esterni, ad
esempio dal sentire la voce familiare della mamma o dal vedere il volto della mamma.
Dal terzo mese il sorriso acquisisce la caratteristica di risposta strumentale, ovvero il
bambino inizia ad associare questa forma di risposta automatica alle risposte che pro-
duce nei suoi conspecifici: il bambino inizia a sorridere perché ciò comporta che la
mamma, in seguito al suo sorriso, gli presti maggiore attenzione. Il bambino, dunque,
sorride per raggiungere uno scopo. A partire dal quarto mese, esso viene espresso in
maniera coordinata e articolata con altre forme non verbali, inizia ad essere in sintonia
con tutta una serie di aspetti non verbali, come con la voce (mentre il bambino sorride
produce delle forme di vocalizzazione, oppure il sorriso è legato all'attività motoria del
sollevare le braccia).
L'altro tipo di comunicazione nelle prime fasi dello sviluppo è l'imitazione, una forma di
accoppiamento con l'altro che si esprime nel gesto di imitare, in cui ciò che conta è l'e-
sperienza emotiva di collegamento intersoggettivo che il bambino sperimenta: attra-
verso l'imitazione il bambino inizia a creare quella forma di sintonia di tipo emotivo-
intersoggettivo, che è fondamentale per la costruzione della relazione di attaccamento
con il proprio caregiver, relazione alla base della costruzione delle prime abilità sociali
del bambino, fondamentali per agire adeguatamente con i propri conspecifici negli anni
successivi.
Un altro aspetto fondamentale è l'apprendimento della regolazione dei propri stati emo-
tivi, perché esso si costruisce creando modelli di interazione sociale (pattern di attacca-
mento, forme di intersoggettività), cioè modalità differenziate e specifiche di costruzione
di relazioni interpersonali con il proprio caregiver: i bambini apprendono le corrispon-
denze tra trasformazioni del corpo che possono percepire (la bocca della mamma che si
apre) e del proprio corpo, che sentono ma non possono vedere, quindi si crea una forma
di sintonia di cambiamenti che avvengono in entrambi i partner in interazione.
Queste sono le basi affinché poi il bambino prenda consapevolezza della propria corpo-
reità e associ i cambiamenti della propria corporeità in relazione a ciò che sta espri-
mendo in relazione all'ambiente, si crea una forma di connessione nella sua mente. Si
tratta di forme inizialmente primarie, di cui il bambino non è consapevole: sono forme
di memoria che fanno parte della memoria implicita, ovvero quel tipo di memoria che
non possiamo raccontare facilmente in termini verbali, però sulla quale si costruiranno
le rappresentazioni della realtà. La prima forma di sintonia tra i cambiamenti che il
bambino osserva e tutto ciò che essi producono emotivamente in termini di cambiamenti
nella propria corporeità, crea una forma di reciprocità, di intersoggettività, di sintonia
tra sé stesso e il caregiver che si sta prendendo cura di lui, quindi l'imitazione ha un
ruolo fondamentale nella creazione del legame sociale. Lo scambio diretto e non verbale
dei segnali emotivi tra madre e bambino dà significato alle sue emozioni. Il cambia-
mento che il bambino percepisce nella propria corporeità e contemporaneamente la vi-
sione dello stato emotivo della mamma, collega questi due aspetti: il bambino inizia ad
associare nella propria memoria implicita che quello stato emotivo, quel cambiamento,
quella mimica facciale sono gioia, quindi è un'emozione di tipo positivo. Questo è il primo
passo nella costruzione della conoscenza dei propri stati interni. La mamma diventa
una fonte di apprendimento bio-psico-sociale che favorisce la conoscenza degli stati in-
terni del bambino stesso. Il volto della mamma ha la funzione di specchio nei confronti
dei diversi stati emotivi manifestati dal bambino, consentendogli in tal modo di ricono-
scerli come tali ed entrare in contatto psicologico con i suoi stati interni (neuroni spec-
chio).
La ricerca sui neuroni specchio ha dimostrato che se un individuo osserva un altro indi-
viduo mentre quest’ultimo sta compiendo una azione, nella mente di chi osserva si atti-
vano le stesse popolazioni neuronali di chi compie l'azione. Il concetto di specchio sta a
dimostrare che ciò che accade nella mente dell'altro, accade nella nostra mente anche a
livello fisiologico, quindi si crea quella forma di sintonia delle prime fasi dello sviluppo
e la ricerca ha dimostrato che i neuroni specchio hanno un ruolo fondamentale anche
nello sperimentare l'empatia. Provare empatia significa attivare una serie di neuroni
che, in qualche modo, sono gli stessi che l'altro sta attivando quando sta sperimentando
un certo stato emotivo.
ASPETTI PRINCIPALI DELLO SCAMBIO INTERATTIVO PRIMARIO
Lo scambio interattivo primario è il primo accesso al senso di reciprocità dei ruoli, ciò
significa che un ruolo non può esistere senza l'altro, il concetto di intersoggettività ri-
chiede una sintonia profonda tra i due partner in relazione. La sensibilità materna, os-
sia la capacità della mamma di sintonizzarsi sulla mente del bambino, è riconosciuta
come principale precursore dell'attaccamento a 12-18 mesi di età. Il bambino, infatti, si
rispecchia negli stati mentali della mamma, per cui nelle prime fasi dello sviluppo la
guida nella gestione di queste forme di reciprocità nasce dalla capacità materna di sin-
tonizzarsi nella mente dell'altro e quindi di stare in contatto con gli stati emotivi che il
bambino sta provando.
Tra le modalità di attaccamento ci sono differenze individuali e possono essere misurate
solo dal 12° mese di vita. Tali differenze sono dovute al fatto che ogni mamma interagi-
sce col bambino a proprio modo, andando a determinare differenti pattern di attacca-
mento, quindi differenti modalità con cui il bambino costruirà un senso delle relazioni e
della realtà. La costruzione e la differenziazione di queste abilità infantili riguardano la
regolazione delle emozioni e del senso di efficacia, di sicurezza interna del bambino e di
come il bambino si approccerà alle relazioni interpersonali in seguito.
Regolare le emozioni significa riuscire a modularne l'intensità di fronte alla qualità im-
perativa della richiesta emotiva: quando, ad esempio, abbiamo una risposta di rabbia
imperativa rispetto a dei torti subiti e abbiamo appreso a regolare l'intensità, la rego-
liamo perché sappiamo che l'espressione della rabbia potrebbe comportare conseguenze
sulle nostre relazioni sociali. Sin da bambini diventa fondamentale regolare e modulare
l'intensità delle emozioni in funzione dei contesti. Le prime forme precoci di intersog-
gettività si articolano nel primo anno di vita: dal primo anno possiamo già misurare,
attraverso una serie di strumenti, quali la Strange Situation, che tipo di relazione e di
rappresentazione il bambino ha costruito della sua realtà sociale. Vi è una base di pre-
disposizione biologica-genetica, ereditata dalla filogenesi, che ci porta ad avere già degli
strumenti di base per poter interagire adeguatamente con l'altro conspecifico (solita-
mente il nostro caregiver), quindi la qualità della nostra abilità a rispondere adeguata-
mente agli stimoli sociali e ad avere competenze di tipo sociale dipende dalle prime
forme di intersoggettività che il bambino costruisce con il proprio caregiver. L'intersog-
gettività si costruisce attraverso l'interazione tra la prima forma di linguaggio non ver-
bale con la mamma, esperienza nella quale il bambino impara alcuni aspetti fondamen-
tali per lo sviluppo della sua sfera emotiva, giungendo alla capacità di regolare adegua-
tamente le proprie emozioni, ossia la capacità di modulare e gestire l'intensità dell'arou-
sal (attivazione emotiva). La regolazione delle emozioni si configura come una capacità
dell'individuo di modulare il livello di attivazione, perciò di risposta fisiologica che gli
stimoli ambientali producono, in funzione del contesto in cui il soggetto si viene a tro-
vare. Il bambino piano piano arriva a capire la modalità e l'adeguatezza dell’espressione
dei propri stati emotivi all'interno dei contesti che incontrerà durante il suo sviluppo.
Al secondo mese abbiamo la prima importante trasformazione evolutiva, che segna l'i-
nizio del coinvolgimento attivo del neonato: l'intersoggettività primaria. Trevarthen ha
individuato, dal punto di vista temporale, l’intersoggettività di tipo primario, la quale
riguarda l'interazione del bambino con il proprio caregiver. Entro le 6-8 settimane vi è
una progressiva diminuzione dei ritmi endogeni e l'acquisizione di etero-regolazione. Il
bambino quando ha bisogno apprende una serie di segnali e li associa con la possibilità
che l'altro, intervenendo, possa cambiare il suo stato interno. In questo periodo abbiamo
lo sviluppo di strutture corticali preferenzialmente esposte a stimoli socialmente rile-
vanti (voce, volto umano). A 2-3 mesi lo sviluppo dell'attenzione, della percezione, della
sensorialità e della memoria consentono al bambino di iniziare a costruire pattern di
identificazione delle interazioni significative, definendo in tal modo i precursori dell'at-
taccamento: la capacità del bambino di prestare attenzione agli stimoli sociali rilevanti,
la ripetizione di determinate esperienze, l'iniziare a memorizzare che la figura del care-
giver è fondamentale rispetto alla propria sopravvivenza perché risponde ai propri bi-
sogni sono i precursori della costruzione della relazione di attaccamento di tipo prima-
rio. A 6 mesi l'accresciuta capacità del bambino di esprimere e comprendere una gamma
più ampia di emozioni si accompagna alla comparsa del gioco con degli oggetti: l’atten-
zione del bambino è rivolta sia ad aspetti di tipo sociale sia al mondo fisico che lo cir-
conda (i giochi del suo ambiente e gli oggetti con cui in relazione nelle prime fasi).
Dopo i 6-7 mesi vi è la comparsa dell’intersoggettività secondaria: la forma di condivi-
sione, di sintonia che si è costruita con il proprio caregiver (intersoggettività primaria),
attraverso processi di attenzione verso oggetti esterni, quindi attraverso processi di at-
tenzione condivisa, porta alla costruzione di una intersoggettività secondaria, ossia non
c'è più solo l'interazione faccia a faccia (la quale naturalmente continua durante lo svi-
luppo), ma contemporaneamente il bambino inizia ad indicare oggetti della propria
realtà fisica, insieme alla mamma. Perciò la sintonia costruita inizialmente si esprime
in un'attenzione condivisa verso il mondo fisico. Questo è fondamentale per iniziare a
costruire forme di associazione nella mente, nella memoria del bambino, tra oggetti e
suoni che la mamma denomina verbalmente. Tra i 7-9 mesi c'è un interesse per il mondo
esterno e quindi un aumento del gioco con l'adulto. Si tratta di forme primarie della
costruzione di abilità sociali, le quali sono mediate da emozioni che vengono interioriz-
zate dal bambino nella propria memoria implicita, e in seguito diventano strumenti di
adattamento sociale negli anni successivi.
Verso gli 8 mesi compare il riferimento sociale: il bambino fa esperienza di una situa-
zione nuova e si connette, guarda l'adulto e cerca di capire dall'adulto se la nuova situa-
zione è potenzialmente pericolosa, ciò significa che il bambino è profondamente in sin-
tonia con l'altro, sta condividendo l'esperienza col proprio caregiver, il quale, anche ba-
nalmente con un cenno, dà via libera al bambino. Tutto questo va nella memoria impli-
cita del bambino e diventa uno strumento di base per creare quelle forme di sintonia
legate al mondo circostante. Questo favorisce anche l'interiorizzazione di quelle che poi
saranno le regole di adattamento sociale del bambino.
Riferimento sociale significa avere una profonda connessione con il proprio caregiver,
avere una figura di riferimento e di guida nell'adattamento del bambino che sta ini-
ziando ad esplorare il mondo esterno. L'attenzione interpersonale in questo periodo
della vita diventa più selettiva, in seguito a interazioni ripetute. Questo si può vedere,
per esempio da un fenomeno tipico di questa età (7-9 mesi), ossia la paura dell'estraneo,
per cui il bambino inizia a provare disagio (che non provava prima, quando non c'era
una forma di interiorizzazione e memorizzazione della figura di attaccamento). Se nei
mesi precedenti il bambino stava tranquillamente con tutti, a questa età il bambino
inizia a provare una sorta di paura nei confronti di qualcuno che non appartiene alla
sua cerchia ristretta di conoscenza. Questo è un segnale importante di memorizzazione
da parte del bambino di quelle che sono le figure di riferimento principali.
STILI EDUCATIVI
Genitori autorevoli → hanno confini giusti, non sono troppo permissivi e non sono troppo
rigidi; sono quelli che hanno una modalità educativa adeguata e che creano dei bambini
fiduciosi delle proprie capacità e dotati di autocontrollo. Impartire un’educazione auto-
revole significa chiarire i ruoli di genitore-figlio, spiegare in modo chiaro le regole e far
attenzione a farle rispettare. In tal caso i bambini sviluppano maggiore empatia, auto-
stima e autocontrollo.
Genitori permissivi → lasciano crescere i figli senza indirizzarli, convinti che si possano
auto-educare. In questo caso i bambini sviluppano uno scarso autocontrollo e hanno dif-
ficoltà a rispettare le regole.
Genitori autoritari → sono i genitori troppo rigidi che danno ai figli regole rigide. Questo
tipo di educazione potrebbe dare risultati opposti a quelli che sono gli intenti, con uno
scarso sviluppo di autostima e un minore spirito di iniziativa.
Genitori trascuranti → sono quelli che “ci sono e non ci sono”, a volte si tratta di genitori
con problematiche psicologiche anche gravi. Spesso in questi casi, i bambini palesano la
mancanza di punti di riferimento, i quali sono un bisogno continuo, per cui sviluppano
insicurezza, scarsa autostima e scarsa regolazione emotiva.
STILI DI ATTACCAMENTO
La costruzione dell'attaccamento, durante il primo anno di vita, prende avvio dalle
forme di reciprocità di sintonia e dalla capacità del caregiver di sintonizzarsi sullo stato
della mente del bambino, in modo tale da riconoscere gli stati emotivi interni e diventare
anche una sorta di regolatore esterno dello stato della mente del bambino, regolatore
degli stati emotivi del bambino, in modo tale che attraverso questa forma di sintonia e
di reciprocità il bambino apprenda nella propria memoria gli strumenti che gli servi-
ranno a regolare autonomamente. Gli studiosi hanno “operazionalizzato”, cioè hanno
cercato di tradurre in termini misurabili, verificabili, osservabili questo fenomeno. Par-
tendo dalla teoria dell'attaccamento di John Bowlby gli studiosi hanno operazionalizzato
i costrutti cercando di capire meglio cosa significa sicurezza e sono arrivati alla conclu-
sione che si può affermare che “il bambino sicuro nasce e cresce all'interno di un contesto
in cui la mamma è sensibile”. La sensibilità è stata studiata ed è stato visto quale forma
interattiva favorisce la costruzione della sicurezza: sono state osservate le forme di sin-
tonia, cercando di comprendere che cosa avviene nel corpo e nella mente del bambino
quando si trova ad interagire con il proprio caregiver, in base a tali osservazioni si è
stabilito quali sono le forme di relazione e di cura che possono ritenersi adeguate. La
metodologia che è stata individuata per razionalizzare i vari stili di attaccamento e per
osservarli concretamente, così come accadono nella realtà, si chiama Strange Situation
e l'autrice è Mary Ainsworth (collaboratrice di John Bowlby).
Il primo stile di attaccamento è legato alla sicurezza: il bambino mostra un buon equili-
brio tra bisogno di esplorazione e attaccamento (con quest’ultimo si intende lo stare vi-
cino alla mamma in una condizione di protezione e di cura). Il bambino sicuro è capace
di stare vicino alla mamma e di trovare conforto ai suoi bisogni grazie alla vicinanza
della mamma; contemporaneamente è capace di allontanarsi, di esplorare l'ambiente
circostante, perché ha interiorizzato nella sua memoria implicita il fatto che la mamma
ha risposto adeguatamente ai suoi bisogni nella prima fase della sua vita. Tutto questo
è andato nella sua memoria implicita, di conseguenza il bambino ha interiorizzato che
se lui dovesse aver bisogno, la mamma ci sarebbe. Questo favorisce l'esplorazione, l'in-
teriorizzazione della sicurezza e aiuta il bambino ad allontanarsi progressivamente
dalla mamma stessa. Il bambino mostra segni di disagio alla separazione dalla mamma:
un'ansia da separazione dalla propria mamma è sano nella prima fase dello sviluppo, in
quanto dalle cure materne dipende la sopravvivenza del bambino stesso ed essa è legata
al fatto che nella nostra filogenesi si è costruita la configurazione secondo cui l'allonta-
namento dalla figura materna aumenta il rischio di essere predati.
Il secondo tipo di attaccamento è quello dell’insicurezza evitante, in cui vi è uno sbilan-
ciamento a favore dell'esplorazione che penalizza la ricerca dell'attaccamento: il bam-
bino è tendenzialmente evitante, mostra quella che apparentemente è una forma di
“falsa” autonomia, la quale deriva dalla difficoltà del bambino di stare in relazione pro-
fonda con il proprio caregiver, per cui tende ad allontanarsi, anche fisicamente, da lui.
Ciò avviene perché la mamma, durante le primissime fasi dello sviluppo, non ha risposto
adeguatamente alle esigenze del bambino, per cui lui non utilizza il proprio caregiver
come forma di regolazione esterna dei propri stati emotivi e tende ad allontanarsi. La
mamma è solitamente insensibile ai segnali del bambino, rifiutante sul piano del con-
tatto fisico, quindi il bambino non ha fiducia in una risposta adeguata da parte della
mamma; nel momento in cui la mamma non ha risposto alle sue richieste il bambino ha
interiorizzato l'idea che la mamma non può essere una figura di riferimento quando lui
ha bisogno, non ha tendenzialmente fiducia in lei, quindi c'è una forma di distacco emo-
tivo e un evitamento anche da parte del bambino del contatto. In questo caso il bambino
mostra indifferenza alla separazione.
L'altra forma di attaccamento è l'insicurezza ambivalente-resistente: in questo caso vi è
un'accentuazione dei comportamenti di attaccamento e di dipendenza, a scapito della
capacità di autonomia. Ciò porta il bambino a stare principalmente in prossimità della
mamma. La mamma in questo caso è imprevedibile nelle risposte, talvolta accudente,
altre volte invece non risponde alle richieste del bambino, una mamma che ha delle
risposte dettate più dai suoi bisogni che da quelli del bambino: il bambino interiorizza
un po' di incertezza rispetto al fatto che la mamma sia disponibile per soddisfare i suoi
bisogni; questa incertezza porta il bambino a non riuscire a utilizzare la mamma come
base sicura, però contemporaneamente, proprio perché è incerto, ne ha bisogno e la ri-
cerca continuamente, le rimane vicino, esplora poco l'ambiente e manifesta un forte di-
sagio alla separazione. Un altro aspetto importante, osservato nella Strange Situation,
è che quando la mamma ritorna non si fa consolare facilmente, ma rimanere arrabbiato
e continua ad esprimere e a mantenere una condizione di disagio nonostante la mamma
sia ritornata.
Il quarto stile di attaccamento è quello disorganizzato: spesso in questi casi la mamma
ha dei problemi di tipo psicologico, si registra il collasso della possibilità per il bambino
di mettere in atto una strategia coerente per realizzare e mantenere una vicinanza pro-
tettiva con il caregiver, si assiste alla disregolazione emotiva. Mentre nei primi tre stili,
anche in quelli insicuri, vi sono strategie organizzate che possono essere più o meno
funzionali, in questo stile manca una qualsiasi strategia. È stato riscontrato che quando
il bambino è disorganizzato, la mamma ha una forma di depressione maggiore, quindi è
incapace di occuparsi del bambino stesso. Tale situazione non permette alla mamma di
rispondere adeguatamente alle richieste del bambino. Si pensi a quella a forma di sin-
tonia che deriva dai neuroni specchio, la quale favorisce la costruzione di un'idea di un
bambino che si sintonizza sugli stati emotivi dell'altro, in questo caso non c'è nessuno
specchio, o meglio lo specchio potrebbe esserci ma sarebbe uno specchio che rimande-
rebbe un'immagine un po' deformata, in quanto la mamma non sta bene. Questa moda-
lità relazionale è inadeguata perché la mamma è più in contatto con i suoi stati emotivi
negativi non elaborati e ha una profonda difficoltà a sintonizzarsi con la mente del bam-
bino, il quale non interiorizza strategie stabili, non interiorizza modalità relazionali ade-
guate per mantenere la vicinanza con la propria figura di riferimento, quindi il bambino
è disorganizzato, disorientato, palesa comportamenti contraddittori, azioni mal dirette,
stereotipate e asimmetriche. Un'altra caratteristica è il cosiddetto congelamento, una
forma di immobilità e di disorientamento, che deriva dall'attivazione contemporanea,
nello stato della mente del bambino, di due forme particolari e centrali del nostro com-
portamento: l'approccio e l'evitamento. L'approccio è la tendenza ad avvicinarsi a un
altro; l'evitamento è la tendenza ad allontanarsi. Quando si attivano contemporanea-
mente queste due modalità comportamentali di base, tra loro opposte dal punto di vista
comportamentale, vi è una sorta di immobilità: il bambino non sa che fare. Questo è un
segnale molto chiaro della mancanza di strategie stabili, di un conflitto interno molto
forte, perché non sa se è opportuno avvicinarsi o forse è meglio allontanarsi.
STRANGE SITUATION
La Strange Situation è una modalità in 8 fasi individuata da Mary Ainsworth (collabo-
ratrice di Bowlby): si tratta di una situazione in cui il bambino viene esposto sperimen-
talmente a una serie di stimoli, i quali sono stressogeni e progressivamente più intensi
(situazioni in cui il bambino si trova con la mamma, poi entra una figura estranea; esce
la figura strana; entra nuovamente la mamma; successivamente il bambino si trova da
solo). Tutto ciò viene video-registrato con dei tempi stabiliti e si osserva come il bambino
si comporta, in particolare, si valuta come risponde alla separazione, la quale rappre-
senta uno dei fattori principali che vengono misurati e segnalati quando il bambino si
ritrova in una condizione di potenziale pericolo, perché privato della figura di riferi-
mento. È importante anche osservare come si comporta il bambino al ritorno della
mamma, perciò al ripristino della relazione, fondamentale per poter comprendere lo
stile di attaccamento del bambino.
Es. nello stile di attaccamento ansioso-ambivalente, così come in quello sicuro, i bambini
esprimono l'ansia da separazione (piangono), ma mentre nello stile di attaccamento am-
bivalente-insicuro il bambino ha difficoltà a ritornare ad una condizione di base (ha una
maggiore difficoltà a farsi consolare, è come se rimanesse arrabbiato per la separazione
avvenuta), in quello sicuro il bambino piange per la separazione, ma nel momento in cui
la mamma rientra si fa consolare immediatamente e iniziano a giocare insieme (nel mo-
mento del ricongiungimento si recupera subito il rapporto precedente, la sintonia tipica
dell'attaccamento sicuro). Nello stile evitante il bambino rimane quasi indifferente nel
momento di solitudine, mostrando autonomia, uno sbilanciamento a favore dell’esplora-
zione ambientale rispetto alla richiesta di accudimento. Il bambino mostra scarsa ansia,
quasi nulla e rimane quasi indifferente nel momento in cui la mamma rientra. È inte-
ressante notare quanto anche la mamma, in virtù di questo, mantenga lei stessa una
sorta di distanza e non si avvicini al bambino.
La Strange Situation si può misurare fino ai 18 mesi (periodo standard di misurazione),
dopodiché il bambino acquisisce una progressiva autonomia (la quale potrebbe far sem-
brare che molti più bambini siano evitanti). Questo ovviamente all'interno di un pro-
cesso evolutivo tipico, che segnala una progressiva maturazione e una costruzione
dell'autonomia personale che va verso l'esplorazione. I bambini sicuri hanno un’espres-
sione diretta e finalizzata delle emozioni e hanno strategie di coping (strategie con cui
gli individui rispondono alle situazioni stressanti, strategie messe in atto per fronteg-
giare una situazione critica): davanti allo stress il bambino regola lo stato emotivo, cer-
cando di risolvere la situazione o comunque richiedendo un supporto da parte di altre
figure di riferimento (utilizzo di strategie funzionali). Questo mostra che ha interioriz-
zato il proprio caregiver come figura di supporto, come figura che può sostenerlo nelle
difficoltà. I bambini con stile di attaccamento insicuro-evitante palesano un’espressione
diretta delle emozioni positive e le condividono con il caregiver (in quanto non necessi-
tano di una richiesta d’aiuto), ma inibiscono le emozioni negative: nei momenti di diffi-
coltà l’evitante non cerca l'altro e tende a inibire l’espressione emotiva delle emozioni
negative, ad esempio se ha ansia o paura tende a reprimerla e utilizza una forma di
strategia di coping legata alla repressione dello stato emotivo negativo. Davanti a situa-
zioni di tipo negativo il bambino tende a risolvere i problemi da solo (quando riesce),
oppure ad evitare questo tipo di situazioni, per cui palesa una sorta di precocità nell'au-
tonomia e nell’autosufficienza (autosufficienza solo apparente, che sottolinea la diffi-
coltà del bambino a fronteggiare l'evento e a chiedere aiuto e ciò, considerando l’età at-
torno all’anno, non è tanto normale, significa che il bambino non ha interiorizzato l'altro,
non ha costruito una forma di sintonia col proprio caregiver, per cui tende a non fidarsi
di tale figura). I bambini insicuri-ambivalenti sono caratterizzati da un'espressione in-
tensa e diretta delle emozioni negative, vi è addirittura una forma di enfatizzazione
delle emozioni negative. Questi bambini tendono ad esasperare emozioni negative come
ansia, paura e rabbia perché adottano delle strategie per cui anche queste forme di in-
sicurezza sono organizzate: nel senso del pianto, ad esempio, esso è un modo per man-
tenere la relazione col proprio caregiver, un modo per attirare la sua attenzione, ma
quando il caregiver va incontro al bambino, egli mostra una maggiore difficoltà nel ri-
tornare a una situazione di calma. Nei bambini disorganizzati vi è una sorta di crollo
delle strategie regolatorie quando si trovano sotto stress: esse sono talvolta contraddit-
torie e incompatibili rispetto al contesto, ovvero non sono finalizzate a trovare un mag-
giore adattamento al contesto sociale o a mantenere la vicinanza regolatoria del proprio
caregiver. Nelle storie dei bambini con attaccamento di tipo disorganizzato, i genitori,
in qualche modo, spaventano, si tratta spesso di persone che non hanno elaborato ade-
guatamente i propri traumi personali e si portano appresso storie di problematiche psi-
cologiche, anche importanti, non risolte, quindi rispondono alle richieste del bambino in
maniera aggressiva. Gli esseri umani hanno una predisposizione biologica ad attaccarsi
a figure di riferimento protettive, nelle rappresentazioni innate delle relazioni vi è un'a-
spettativa di cura da parte delle persone a cui si chiede aiuto e se questo non accade si
crea una forma di contraddittorietà, di incompatibilità tra la condizione ambientale/so-
ciale in cui si trova il bambino e la predisposizione biologica.
Negli sviluppi successivi, durante l'età prescolare (dai 3 ai 6 anni), vi è un consolida-
mento dei pattern di attaccamento, quindi vi è la comparsa delle abilità linguistiche, del
gioco simbolico e di un crescente senso di controllo. Pertanto, parliamo di regolazione
emotiva presente con un controllo maggiore sulle emozioni e l'utilizzo del linguaggio
come forma di autoregolazione. Per quanto riguarda il pattern di attaccamento c'è una
sorta di continuità nei pattern che si sono sviluppati durante la prima fase dello svi-
luppo: i pattern di attaccamento si rafforzano e diventano delle modalità stabili per la
mente. Vi sono anche una serie di situazioni, soprattutto all'interno di una condizione
atipica, come per esempio quella dei bambini adottati, in cui vi sono cambiamenti signi-
ficativi nel contesto di sviluppo. In questa fase diventano importanti i ruoli sessuali e la
costruzione di un'identità di genere, la quale porta i bambini ad avere propri interessi e
si ha la tendenza a costruire relazioni con altri bambini dello stesso genere, proprio per
via della condivisione degli interessi e dei giochi: è l'età in cui i bambini escono dal con-
testo familiare e in cui compare la teoria della mente. Questi aspetti sono fondamentali
nella costruzione delle relazioni di amicizia, in quanto il bambino diventa capace di ini-
ziare a fare inferenze anche sulla mente dell'altro, di conseguenza inizia a costruire
forme sintoniche di tipo emotivo con alcuni bambini piuttosto che con altri. Iniziano a
comparire anche le emozioni complesse, definite emozioni di tipo sociale, legate alla
forma di consapevolezza della relazione con l'altro, come l'orgoglio, il senso di colpa, la
vergogna (quest’ultima legata alla costruzione dell’identità di un sé che si sta svilup-
pando, perciò è quell’emozione definita da alcuni studiosi come il sé a nudo: il bambino
porta avanti dei comportamenti che lo mettono in luce nella sua vulnerabilità e nei suoi
limiti). Si tratta di stati emotivi che segnalano come la consapevolezza dell'altro stia
assumendo una crescente importanza nell'esperienza emotiva del bambino.
In età scolare (6-11 anni) emerge una serie di progressi delle competenze e delle abilità
sociali, c'è un maggiore utilizzo delle forme di autoregolazione, il linguaggio diventa più
adeguato e diventa via via uno strumento non solo per comunicare, ma anche per en-
trare in contatto col mondo interno, per auto-descriversi, diventa uno strumento che il
bambino inizia a utilizzare per auto-istruirsi e matura una crescente abilità di sostituire
le azioni impulsive, tipiche delle fasi precedenti, con pensieri, parole, gioco, fantasia.
Il gioco, ad esempio, diventa il mezzo di assimilazione delle regole, quindi del rispetto
dell'altro. In modo particolare i giochi di gruppo, in cui il bambino inizia a interiorizzare
le regole fondamentali all'interno dei contesti sociali, un modo per regolare il proprio
comportamento all'interno delle dinamiche di gruppo, perciò il rapporto tra pari e il sen-
timento dell'amicizia sono fondamentali in questa fase dello sviluppo. Il bambino si al-
lontana progressivamente dalla dinamica familiare, trascorre sempre più ore lontano
dalla famiglia, ciò comporta l'apprendimento di una serie di strategie sociali, che passa
attraverso i legami amicali, attraverso i quali il bambino inizia a costruire la propria
autostima (una componente della personalità legata al confronto con gli altri): il bam-
bino inizia a confrontare il proprio comportamento con quello dei pari, inizia a compren-
dere se i propri obiettivi, anche di tipo relazionale, hanno successo o meno e in base
anche alle forme di riconoscimento che il bambino ottiene dagli altri può costruire forme
di autostima più o meno elevata. La famiglia continua ad avere un ruolo centrale nello
sviluppo del bambino: è all’interno del contesto familiare che il bambino impara la so-
cializzazione delle emozioni e le loro relative regole di esibizione, per cui il bambino
acquisisce la capacità di regolare i propri stati emotivi in base ai contesti, apprende
all'interno di quali relazioni e di quali situazioni è opportuno esprimere la rabbia, la
gioia, la tristezza. La regolazione è dunque una forma di interfaccia tra il mondo interno
(la risposta emotiva) e la capacità del bambino di regolarla in base al contesto in cui si
trova. In questa età si sviluppano legami con più persone significative dal punto di vista
affettivo (legami multipli). Nella teoria dell’attaccamento Bowlby parlava di monotro-
pia, legata all'idea che il bambino costruisce il legame preferenziale, assoluto e unico,
con una figura di riferimento, ma vari studi hanno dimostrato che ci sono delle figure
primarie di attaccamento, le quali rimangono (ad es. i genitori), tuttavia il bambino co-
struisce anche una serie di legami importanti con figure affettivamente significative (i
nonni, il padre). Il legame di attaccamento col padre solitamente avviene in tempi suc-
cessivi rispetto alla costruzione dell'attaccamento con la madre. Secondo Bowlby l’attac-
camento si sviluppa in modo particolare con la figura materna per via di una serie di
fattori, anche di natura prettamente biologica, i quali nascono e si sviluppano già nella
fase della gestazione. In seguito, si sviluppano dei legami importanti e centrali, definiti
attaccamenti multipli, con figure come i nonni o gli insegnanti. Un altro aspetto che si
sviluppa durante la fase scolare è la comprensione degli stati emotivi: il bambino affina
la comprensione degli stati mentali interni, ovvero inizia a comprendere che i fattori
mentali possono sia determinare, sia influenzare le emozioni. Capisce che il raggiungi-
mento degli obiettivi comporta l'attivazione di emozioni di tipo positivo, mentre la fru-
strazione che deriva da un mancato raggiungimento di obiettivi determina emozioni ne-
gative e inizia a capire che figurandosi mentalmente particolari situazioni può provare
delle emozioni. Un altro aspetto importante che compare durante questa fase dello svi-
luppo è la dissimulazione, che consiste nell'esprimere un'emozione diversa da quella che
in realtà il soggetto sta provando, perché risulta appropriata rispetto al contesto sociale.
Es. un bambino riceve un regalo, il quale non è di suo gradimento, per cui il bambino
potrebbe esprimere il suo disappunto, la sua sorpresa negativa; tuttavia, inizia a capire
che esprimere disappunto o addirittura rabbia o aggressività perché non ha ricevuto ciò
che lui si aspettava non è appropriato. Il bambino capisce che questa è una forma di
adattamento al proprio contesto sociale.
Intorno ai 9 anni arriva la comprensione delle emozioni miste, in modo particolare delle
emozioni morali. Le emozioni miste sono quelle emozioni in cui il bambino fa esperienza,
contemporaneamente, di due stati emotivi.
Es. un bambino che deve allontanarsi dai propri genitori per una gita scolastica, se in
parte è contento per via della vacanza, contemporaneamente potrebbe essere triste per
via della lontananza da casa. Queste sono esperienze tipiche di una serie di avvenimenti
della vita degli individui e il bambino inizia a comprendere che si può fare esperienza di
queste emozioni, apparentemente conflittuali, ma che fanno parte della quotidianità de-
gli individui.
Anche per quanto riguarda le emozioni morali vi è un affinamento. Nella fase prescolare
compaiono emozioni come il senso di colpa e la vergogna, ma solo successivamente (dai
9 anni) il bambino comprende il senso sottostante di tali emozioni, ne comprende il si-
gnificato, e sviluppa una serie di abilità che sono di tipo meta-cognitivo: inizia a pensare
e prendere consapevolezza del significato dei propri stati interni.
PUBERTÀ E ADOLESCENZA
In questa fase c'è una forma di astrazione della realtà, l'adolescente inizia ad allonta-
narsi progressivamente dai contesti sociali come la famiglia e contemporaneamente c'è
un cambiamento di tipo qualitativo importante nello sviluppo cognitivo, ovvero la capa-
cità di pensare alla realtà superando il pensiero concreto e astraendo la realtà, inizia a
ragionare per ipotesi per quanto riguarda lo sviluppo degli eventi. Questa è l'età in cui
l'adolescente inizia a costruire la propria identità, che diventerà l'identità dell'adulto,
per cui si tratta di una fase di transizione sia corporea che cognitiva. È un'età in cui il
bambino si allontana sempre di più dal contesto familiare e ciò comporta la costruzione
di forme alternative di realtà, dove il gruppo dei pari diventa via via più importante e
dove l'adolescente inizia a costruire rappresentazioni sul suo futuro. Tutto questo ciò,
anche dal punto di vista fisiologico, comporta per l'adolescente qualche problema: le con-
nessioni neuronali tra il sistema limbico, che spingerebbe l'adolescente all'impulsività,
e le cortecce prefrontali, le quali hanno una funzione di tipo regolatorio. Queste connes-
sioni si completano al termine dell'adolescenza, quindi è evidente che vi sia un correlato
di tipo fisiologico che comporta delle difficoltà da parte dell'adolescente nel regolare i
propri stati interni, per questo motivo il periodo adolescenziale è considerato un periodo
particolarmente “difficile” sia dal punto di vista emotivo, sia dal punto di vista relazio-
nale. L'adolescente, non avendo ancora costruito un'identità ben definita e una buona
consapevolezza dei propri bisogni, si muove per tentativi ed errori nei vari tipi di rela-
zione (amicali, affettive) finché, attraverso le varie esperienze egli acquisisce una mag-
giore consapevolezza dei propri bisogni, dei propri desideri, perché nell'età adulta lo at-
tendono le scelte sul proprio futuro. Questa fase è caratterizzata da una forma d’insta-
bilità, che deriva da crisi emotive, dalla propensione a vivere emozioni in maniera estre-
mizzata e questo è legato al fatto che il sistema limbico dà delle risposte emotive molto
forti, però queste non sono ancora regolate adeguatamente, in quanto le connessioni con
la corteccia prefrontale non è ancora completata e questo comporta delle forti oscillazioni
di tipo emotivo. A ciò si deve aggiungere anche uno sviluppo di tipo ormonale. Tipico di
questa fase è l'accentuarsi dell'interesse per il gruppo dei pari, per cui il progressivo
allontanamento dalla famiglia va di pari passo con la costruzione di relazioni amicali e
di relazioni di tipo affettivo. Il benessere emotivo dell'adolescente si gioca sulla capacità
di trovare e di mantenere l'equilibrio tra il coinvolgimento emotivo con la famiglia e gli
interessi per il gruppo degli amici, per cui anche la continua oscillazione nella costru-
zione della propria autonomia contribuisce all'instabilità di cui parlavamo prima, ovvero
da una parte l'adolescente sente il desiderio di allontanarsi dalla famiglia, ma allo stesso
tempo sente che la famiglia è una base sicura di cui egli ha bisogno, per cui il continuo
allontanamento/avvicinamento alla famiglia segna il giovane dal punto di vista emotivo.
L'ultimo obiettivo è quello della costruzione dell'autonomia, quindi di un allontana-
mento progressivamente più ampio, sia dal punto di vista temporale, sia dal punto di
vista spaziale. Come evidenziato da studi più recenti, il periodo adolescenziale non ter-
mina con l'adolescenza stessa, ma talvolta si prolunga oltre i 30 anni, per questo si parla
di adolescenza prolungata. Il ruolo della sicurezza dell'attaccamento, in questo caso, è
fondamentale. Vari studi hanno dimostrato che la forma di instabilità emotiva tipica
dell'adolescente, è maggiormente presente negli stili di attaccamento più insicuri, men-
tre gli adolescenti con un attaccamento di tipo sicuro riescono a regolare i propri stati
emotivi.
Un bambino-adolescente cresciuto con uno stile di attaccamento sicuro ha maggiori ca-
pacità e competenza nel riuscire a chiedere aiuto quando si trova ad attraversare un
periodo di particolare criticità, mentre un giovane cresciuto con forme di attaccamento
insicuro-evitante ha più difficoltà a richiedere forme di supporto sociale, in virtù anche
della loro storia, che è stata caratterizzata da mancate risposte da parte delle figure di
attaccamento, perciò tenderà a sopprimere i propri stati emotivi e avrà più difficoltà a
richiedere una forma di supporto da parte degli altri e tenderà, apparentemente, a ri-
solvere i problemi maniera autonoma. Per quanto riguarda la socializzazione, il gruppo
dei pari ha un’importanza fondamentale nella regolazione delle emozioni: il soggetto,
oltre che regolare autonomamente le proprie emozioni, regola le proprie emozioni attra-
verso la sua vita sociale, attraverso la costruzione di legami amicali, i quali tendono a
sostituire, almeno temporalmente, la famiglia come base sicura per l'adolescente.
ETÀ ADULTA E INVECCHIAMENTO
L'intelligenza emotiva è la capacità regolatoria dei propri stati emotivi ed è un aspetto
legato alla capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consape-
vole le proprie ed altrui emozioni. L'intelligenza emotiva va a integrare quella che ve-
niva considerata l'intelligenza per antonomasia, ovvero l'intelligenza logico-razionale-
matematica perché si è visto che quel tipo di intelligenza non era predittiva della capa-
cità del soggetto di acquisire abilità che lo portassero ad adattarsi ai contesti sociali in
cui faceva esperienza. In seguito si è iniziato a parlare di intelligenze multiple (Howard
Gardner). L'intelligenza emotiva è dunque la capacità di utilizzare gli stati emotivi in
maniera funzionale per l'adattamento all'ambiente in cui soggetto si viene a trovare; la
capacità di riconoscere i propri stati emotivi e la capacità di riconoscere gli stati emotivi
nell'altro diventano dunque strategiche nell'adattamento ai contesti sociali.
Negli individui con sviluppo atipico, come per esempio disturbi di personalità, la scarsa
intelligenza emotiva diventa strumento di disadattamento sociale. Comprendere che
cosa accade nello sviluppo atipico ci aiuta a comprendere meglio lo sviluppo tipico. Il
DSM-V va verso una lettura della problematicità psichica di tipo dimensionale, ovvero
la problematica si colloca su una sorta di continuum, dove troviamo la tipicità e l’atipi-
cità sul polo opposto. Si sta però cercando di superare questa forma di categorizzazione
rigida e si sta andando nella direzione di considerare la problematicità e l’atipicità lungo
un continuum.
Negli anziani la qualità della propria vita, dal punto di vista emotivo, riguarda quanto
questa esperienza emotiva possa essere compromessa da tutta una serie di problemati-
che di decadimento mentale, tipico della dell'età anziana. Tuttavia nell'anziano la com-
ponente emotiva è meno compromessa di quella cognitiva: di solito è presente un buon
funzionamento relativo alla memoria emotiva e una serie di capacità che si associano a
una buona regolazione delle emozioni. Gli studiosi parlano, per esempio, di selettività
socio-emotiva, quella forma di saggezza che compare durante l'età anziana, dove i sog-
getti hanno appreso a selezionare le esperienze, sia dal punto di vista relazionale, sia
comportamentale: si viene a creare una sorta di circuito virtuoso dove l'anziano che se-
leziona i propri contesti, le proprie relazioni, vive meno esperienze di tipo negativo, per-
ché non sperimenta più come un adolescente, le sue relazioni sono state selezionate in
maniera più rigorosa e tendono a frequentare solo persone che li fanno stare bene, fre-
quentano numericamente meno persone.
SVILUPPO EMOTIVO E RELAZIONALE ATIPICO
Diversi studi hanno approfondito ciò che va ad influenzare uno sviluppo atipico emotivo
e relazionale, concentrandosi in modo particolare su fattori interattivi relativi a tempe-
ramento, fattori ambientali e fattori individuali. Si è così scoperto che dall'interazione
di questi fattori possono emergere esiti molto differenti. La differente suscettibilità è
l'esito di processi interattivi tra i vari fattori che determinano lo sviluppo del soggetto.
Es. è stato osservato che bambini con temperamento difficile, incontrando ambienti suf-
ficientemente adeguati in termini di cura e di stimoli cognitivi, possono migliorare no-
tevolmente la loro condizione; al contrario, bambini con fattori innati positivi, incon-
trando contesti relazionali problematici, hanno degli esiti più negativi.
Uno dei concetti principali in questo senso è quello della vulnerabilità, la quale si ma-
nifesta quando questi fattori sono messi in relazione con determinate condizioni. Da
questo derivano diversi gradi di atipicità: se la prevedibilità è bassa, la variabilità sui
possibili esiti è ampia. Uno degli aspetti importanti da studiare per isolare le variabili
sottostanti che determinano la vulnerabilità è il tema dell'adozione, il quale permette di
confrontare come cambino gli eventi e i contesti in cui il soggetto si trova durante lo
sviluppo e in che modo questi contesti possono influenzare lo sviluppo a partire da certe
condizioni.
Quando parliamo adozione, si parla di bambini che si ritrovano a vivere in contesti dif-
ferenti rispetto alla loro famiglia biologica e che devono costruire dei legami con la fa-
miglia adottiva. Questo cambiamento, spesso, causa un trauma precoce e di solito forme
di disorganizzazione nel legame di attaccamento. L'obiettivo auspicabile è che il cam-
biamento del contesto possa avere trasformazioni evolutive positive. In relazione all'at-
taccamento è stato studiato l'effetto dell’istituzionalizzazione: i bambini che sono stati
portati in strutture come gli orfanotrofi, quindi allontanati dalle figure di attaccamento
primarie, presentano degli stili di attaccamento insicuri e disorganizzati nell’80% dei
casi. Se i bambini continuassero a permanere all'interno di queste strutture il rischio
diventerebbe via via più alto con il passare del tempo: se il bambino dopo un anno con-
tinua a permanere nell'istituto, rischia di mantenere uno stile di attaccamento insicuro
disorganizzato. Gli studi hanno potuto osservare che i bambini, se vengono adottati en-
tro 6 mesi mostrano in seguito percentuali di attaccamento simili ai coetanei allevati in
famiglie biologiche. Questo significa che se il passaggio a una famiglia adottiva è pre-
coce, c'è la possibilità di costruire legami di attaccamento alternativi, al contrario, oltre
i sei mesi il legame di attaccamento inizia a solidificarsi e diventa stabile all'interno del
primo anno di vita. La percentuale della sicurezza nei bambini adottati precocemente è
di circa 55-60%, mentre quando si tratta di istituzionalizzazione il tasso di sicurezza è
solo del 20%. Il recupero sociale ed emotivo è solitamente abbastanza positivo, si passa
dall’80 al 30% e il tasso di sicurezza viene incrementata al 50%.
Tornando al ruolo del temperamento, abbiamo visto che i bambini che mostrano tempe-
ramenti difficili, all'interno di nuovi contesti, possono migliorare notevolmente. Tutta-
via tale miglioramento dipende anche dalle capacità del bambino di apprendere le nuove
modalità relazionali del nuovo contesto.
Vari studi hanno mostrato che nella trasmissione intergenerazionale dell'attaccamento
la percentuale di omogeneità tra genitore e figlio in termini di stile di attaccamento è di
circa il 75%: nascere all'interno di una famiglia in cui i genitori sono caratterizzati da
sicurezza di attaccamento significa che nel 75% dei casi anche i figli avranno uno stile
di attaccamento sicuro (compresi figli adottati). La Adult Attachment Interview misura
la storia dell'attaccamento del soggetto (genitore, adulto) e fornisce le tipologie di attac-
camento, con denominazioni leggermente differenti rispetto a quello che emerge dalla
Strange Situation. Nei casi di adozione si è visto che se la mamma ha un attaccamento
sicuro, la probabilità che il bambino passi da un attaccamento insicuro a uno sicuro è di
circa 6 volte; se, oltre alla madre, anche il padre possiede un attaccamento sicuro, le
possibilità che il bambino passi da un attaccamento insicuro disorganizzato a un tipo di
attaccamento sicuro aumentano di 50 volte. Questo ci dà delle informazioni importanti
su quali siano i fattori sottostanti, nella costruzione della sicurezza. Nel caso in cui i
genitori siano entrambi insicuri, la possibilità che il bambino permanga all'interno di
una forma di insicurezza è, ovviamente, molto alta: circa il 67%.
Un'altra forma di sviluppo atipico è rappresentata dai problemi esternalizzanti, ovvero
comportamenti in cui è evidente una difficoltà nel controllare le manifestazioni emotive
impulsive, spesso anche aggressive. Perciò il concetto di esternalizzazione è legato al
fatto che il bambino palesa delle difficoltà nel controllo del proprio comportamento, ri-
sultando in preda alla propria impulsività, la quale si manifesta con comportamenti
anche aggressivi. Questi bambini hanno sicuramente una scarsa consapevolezza ri-
guardo al loro comportamento e quindi anche riguardo agli effetti che esso produce negli
altri. Questo li porta ad avere forma di autostima ingiustificatamente molto alta, ossia
il bambino ritiene che la colpa di quello che accade all'interno dei propri contesti sia
degli altri.
Es. se il bambino viene escluso dal gruppo dei pari a seguito del suo comportamento,
attribuisce la responsabilità di quello che è accaduto agli altri e ciò gli permette di man-
tenere un’autostima elevata.
Infatti, l'autostima si costruisce attraverso il confronto con gli altri, attraverso la possi-
bilità di essere riconosciuti dagli altri all'interno del proprio gruppo dei pari. In questo
caso vengono a mancare le forme di confronto, per cui i loro comportamenti compulsivi
e, talvolta, aggressivi possono essere riletti da sé stessi come comportamenti di forza.
Tuttavia i bambini che mostrano tali comportamenti sono soggetti al rifiuto da parte dei
pari, a carriere scolastiche problematiche, a una speciale vulnerabilità in adolescenza e,
in età adulta, questo comportamento rischia di evolvere in forme di disturbi antisociali.
La costruzione di una forma d'identità deviante lo spinge a cercare contesti dove i suoi
comportamenti siano maggiormente riconosciuti: un bambino che ha problemi esterna-
lizzanti, che viene isolato in vari contesti di sviluppo tipico, quali la scuola, il gruppo dei
pari, le attività, nei contesti devianti, dove forme di aggressività sono più frequenti, si
sente maggiormente rappresentato. Inoltre, quando le forme di emotività sono difficili
da regolare, spesso le sostanze assolvono questa funzione: l'uso di cannabis e di eroina
hanno la funzione di stabilizzare, almeno nelle fasi iniziali del loro utilizzo, le risposte
emotive del soggetto.
La consapevolezza delle proprie emozioni è un aspetto centrale di questo problema: i
bambini esternalizzanti hanno un accesso vincolato alla gamma delle possibili espe-
rienze emotive e possono fare esperienza in maniera pervasiva di emozioni come la rab-
bia, che li portano a proiettare verso l'esterno il loro disagio. La rabbia è certamente una
delle emozioni che viene regolata con maggiore difficoltà da questi soggetti, perché at-
traverso essa riescono ad esprimere il proprio disagio. La rabbia è l'emozione della com-
petizione e della lotta, perciò il comportamento impulsivo e aggressivo risulta una forma
di proiezione verso l'esterno del proprio disagio interiore (da qui il concetto di esterna-
lizzazione). Altre emozioni, invece, come la paura e la vergogna, tendono a essere inibite,
motivo per cui si parla di accesso vincolato, vi è una sorta di filtro rispetto ai propri stati
emotivi ed emozioni come paura e vergogna vengono inibite perché rappresentano se-
gnali di vulnerabilità che non possono essere riconosciuti: via via che il soggetto si inse-
risce in contesti di tipo deviante, come anche nelle prime manifestazioni, aver paura
significa ammettere forme di debolezza, oppure vergognarsi per alcuni comportamenti
significa prendere atto della propria vulnerabilità e fragilità. L'alta autostima di questi
soggetti diventa incrollabile, perché l'esperienza emotiva di paura e vergogna che per-
mette agli esseri viventi, soprattutto all'interno dei propri contesti sociali, di poter pren-
dere consapevolezza dei limiti e della vulnerabilità delle proprie caratteristiche, in que-
sti soggetti rappresentano emozioni che non è opportuno esprimere. Talvolta i soggetti
con problemi esternalizzanti hanno difficoltà nel riconoscere i propri stati emotivi e
quelli altrui. Vi è una gamma piuttosto ampia di deficit nella regolazione delle emozioni,
in particolare di quelle emozioni che rimandano al sentirsi fragili, al percepire sé stessi
come vulnerabili: essi attuano delle difese molto forti nei confronti di questo tipo di emo-
zioni per mantenere una sorta di coerenza del proprio sé, una coerenza interna legata a
un'alta autostima; vi è una compromissione nelle abilità di coping.
Un altro aspetto è la dissimulazione delle emozioni: anche in questo caso l'espressione
delle emozioni in termini di dissimulazione risulta inadeguata. La dissimulazione delle
emozioni è una forma di abilità sociale, perché il soggetto inizia a filtrare l'espressione
delle proprie emozioni in base al contesto in cui si trova. I bambini che hanno difficoltà
a regolare le proprie emozioni e hanno una scarsa consapevolezza delle proprie emo-
zioni, dal punto di vista sociale risultano inadeguati, per cui, per esempio, se essi doves-
sero ricevere un regalo non gradito, potrebbero esprimere in maniera molto esplicita la
propria aggressività, il disappunto diventa rabbia, che viene espressa in maniera mani-
festa, fino all'aggressione nei confronti di chi gli ha fatto un regalo non in linea con le
sue aspettative. I deficit nella regolazione delle emozioni possono coincidere con alcuni
problemi di natura disinibitoria del disturbo da deficit di attenzione e iperattività e rap-
presentare un meccanismo chiave nell'insorgenza di forme di comportamento antiso-
ciale. I bambini ADHD hanno difficoltà a focalizzare la propria attenzione sui significati
dei contesti e contemporaneamente l'arousal elevato spinge li spinge a continue attività
motorie, anche quando non sono necessarie. Parliamo quindi di difficoltà nell'inibire i
propri comportamenti. Tutto questo può risultare associato a sviluppi successivi di un
comportamento antisociale: infatti, in tarda adolescenza, una parte di questi ragazzi
può presentare un vero e proprio disturbo di personalità, soprattutto personalità anti-
sociale.
I disturbi di personalità sono caratterizzati da modalità di funzionamento mentale sta-
bili e tipiche per l'intero ciclo di vita, con manifestazioni di pattern disfunzionali. Spesso
in questi bambini vi è una riduzione, o assenza, di senso di colpa, perché, sin dalle prime
fasi dello sviluppo, sono maggiormente in contatto con la prospettiva personale dei pro-
pri bisogni: il senso di colpa è un'emozione tipicamente sociale e complessa, di cui si fa
esperienza in relazione agli altri, ed è legata alla capacità empatica del bambino, che,
in questa problematica, è estremamente limitata, di conseguenza il bambino prova poco
senso di colpa, perché è più in contatto con la soddisfazione dei propri bisogni e l'altro
ha una funzione strumentale rispetto al loro soddisfacimento. Per questo motivo essi
sono spesso irritabili, talvolta anche cinici e sprezzanti nei confronti dei sentimenti e
delle sofferenze altrui.
Un'altra forma di sviluppo atipico è il disturbo borderline di personalità, caratterizzato
da una forma di deficit nella competenza emotiva, la quale risulta solo parzialmente
sotto il controllo della consapevolezza e della volontà del soggetto. Queste forme proble-
matiche di doppia emotività si manifestano solitamente in maniera automatica e incon-
trollata. La disregolazione si presenta in maniera abbastanza costante, sia nel vissuto
interiore del soggetto sia nelle situazioni esterne, nei comportamenti del soggetto. Tutta
una serie di problemi si manifesta in maniera costante, in un’ampia gamma di stati
emotivi, negativi e positivi, di situazioni e contesti: si tratta di soggetti che hanno diffi-
coltà a regolare i propri stati emotivi, non solo riguardo alle emozioni negative come
tristezza, rabbia, vergogna o senso di colpa, ma nell'esprimere emozioni positive. Vi è
una forma di vulnerabilità temperamentale: questi soggetti, sin dalle prime fasi dello
sviluppo, rispondono, dal punto di vista emotivo, in maniera molto intensa agli eventi
della propria quotidianità, vivono in maniera esasperata lo stato emotivo, con delle ri-
sposte agli stimoli ambientali che sono particolarmente intense. A questo, di solito, si
accompagnano delle risposte invalidanti da parte dei genitori, che respingono i segnali
dei figli: durante lo sviluppo, quando il bambino manifesta le proprie richieste in ma-
niera emotivamente molto intensa, per esempio con attacchi di rabbia e di scarso con-
trollo, i genitori hanno difficoltà a stare in contatto con tale componente emotiva in-
tensa, per cui quando parliamo di risposte invalidanti, significa che quello stato emotivo
non viene riconosciuto dai genitori. Il bambino esprime delle richieste con una rabbia
molto intensa, forme di ansia molto intensa e forme di paura molto intensa, ma i genitori
anziché sintonizzarsi su quello stato emotivo, tendono a respingerlo. Il concetto dell’in-
validazione è un aspetto molto importante, in quanto non aiuta il bambino a stare in
contatto col proprio stato emotivo. Sarebbe opportuno che il bambino incontri qualcuno
(il genitore) che gli faccia da specchio, che lo aiuti ad elaborare e accettare quella condi-
zione, per poi trovare altre forme di risposta e di regolazione più adeguate. Quando viene
a mancare tale incontro il rischio di un disturbo di personalità come il borderline è molto
più elevato. Nel momento in cui i genitori invalidano quello stato emotivo, il bambino
attua un meccanismo di difesa (o strategia di coping), per cui sopprime la rabbia, sop-
prime la paura perché sono state forme di espressione emotiva non ascoltate, cosicché
col tempo quelle forme diventano inaccessibili e in quanto tali non sono più regolabili.
Ma, per poter regolare uno stato emotivo bisogna prenderne consapevolezza. La disre-
golazione emotiva in questo disturbo è stata studiata all'interno di tre componenti di
base:
➢ la sensibilità agli stimoli emotivi;
➢ l'intensità della risposta;
➢ il lento ritorno alla condizione di funzionamento di base.
La sensibilità agli stimoli emotivi è una forma di ipervigilanza agli stimoli, ovvero il
soggetto si trova in una condizione di iper arousal, in grado di produrre delle risposte
emotive intense molto velocemente. Questi aspetti sono tutti strettamente collegati e la
seconda componente è la marcata reattività emotiva, ossia un modo di rispondere in
maniera immediata e intensa ai segnali che veicolano delle emozioni. L'altro aspetto è
quello di cercare di regolare questi stati emotivi intensi: i soggetti non hanno appreso
forme adeguate di regolazione, hanno scarsi strumenti per riuscire a dare il giusto peso
allo stimolo ambientale, per cui spesso utilizzano modalità disfunzionali di risposta, una
di queste è, per esempio, l'autolesionismo: il soggetto nelle situazioni di frustrazione, di
ansia o di rabbia, non riesce a regolare adeguatamente il proprio stato emotivo e cerca
di calmarsi tagliandosi, bruciandosi etc. Sembra un paradosso, però l'utilizzo di queste
forme inadeguate nella gestione del dolore rappresentano per il soggetto un modo per
dare un senso a quella sofferenza e, seppur momentaneamente, il dolore fisico fa passare
in secondo piano il dolore psichico; queste forme di risposte disfunzionali tendono a cro-
nicizzarsi. La terza caratteristica riguarda la durata degli stati emotivi e si caratterizza
per un funzionamento emotivo costantemente attivato, con scarse possibilità di ritorno
alla soglia di funzionamento di base. Nello sviluppo tipico sappiamo bene che nel mo-
mento in cui si prova rabbia o paura, vi è una sorta di curva di attivazione emotiva e
poi, progressivamente, dopo un picco che può essere più o meno lungo in termini di
tempo, si ritorna verso uno stato emotivo di base. In questo caso invece la disregolazione
del soggetto e l'utilizzo di modalità che talvolta peggiorano la sua condizione stessa,
come diventare aggressivi nei confronti di un altro aumentando il livello di conflitto, non
fa altro che perpetuare nel tempo un determinato stato emotivo. Nei soggetti borderline
anche gli stati emotivi positivi risultano spesso ingestibili, per cui il soggetto fa ricorso
a sostanze come alcool e droghe, palesando la sua difficoltà a stare adeguatamente in
contatto con i propri stati interni. Si creano così dei circuiti circolari, in cui vi è una sorta
di continuità tra i vari processi: le emozioni producono comportamenti disregolati, i
quali a loro volta producono risposte emotive inadeguate, cosicché tali processi tendono
a perpetuarsi nel tempo.

SVILUPPO MORALE
In ambito psicologico la morale indaga il modo in cui gli individui sentono, pensano e
agiscono riguardo al benessere e alla cura degli altri, ai diritti e alla giustizia nelle re-
lazioni interpersonali. L'organo della morale è la coscienza, intesa come l'insieme dei
processi cognitivi, affettivi e relazionali che influenzano il modo in cui gli individui agi-
scono in relazione a standard di comportamento.
Quando parliamo di morale legata alla coscienza parliamo di forme di interiorizzazione
degli standard di comportamento: regole che gli individui si sono dati, all'interno dei
vari contesti sociali, per poter regolare il proprio comportamento in funzione della vita
sociale, all'interno delle dinamiche interpersonali con gli altri.
Secondo gli studiosi che ritengono che la morale sia innata, nella filogenesi si è selezio-
nata una sorta di disposizione a prendersi cura degli altri, per cui forme di reciprocità,
altruismo e cooperazione si sono conservate in quanto funzionali per l'adattamento al
contesto di appartenenza, sia fisico che sociale. Nelle diverse culture però sappiamo che
esistono differenti valori, ci sono delle culture di tipo collettivo dove il comportamento
morale è legato al benessere di tutto il gruppo, mentre altre culture, come quella occi-
dentale, sono più competitive e la dimensione socio-gruppale è meno rilevante, perciò
conta di più la competitività dell'individuo nel raggiungimento dei propri obiettivi.
PIAGET
Piaget associa lo sviluppo morale allo sviluppo cognitivo (approccio cognitivo-evolutivo),
ovvero ritiene che lo sviluppo morale, per poter maturare, necessita della maturazione
delle capacità cognitive del bambino stesso. Piaget studiò come i bambini si rapportano
con le regole, di cui quelle morali sono una parte, e preparò una serie di attività di tipo
ludico per comprendere come i bambini (i propri figli) si pongono in confronto con le
regole. Secondo Piaget fino a 5 anni (fase preoperatoria) il bambino si trova in una con-
dizione pre-morale, caratterizzata da anomia, per cui il bambino, in questa fase dello
sviluppo, non mostra alcun interesse per le regole morali, ovvero, tradotto secondo il
linguaggio dello sviluppo cognitivo di Piaget, il bambino non ha ancora le strutture co-
gnitive per potersi occupare di regole morali. Dagli 8-10 anni parla di realismo morale
e utilizza il termine “eteronomia”: la regola proviene dall'esterno, c'è un imperativo
esterno (i genitori sono i depositari delle regole). In questa fase le regole morali sono
considerate immutabili e inviolabili, in quanto stabilite dalla autorità genitoriale,
quindi è il genitore che decide come dev'essere portato avanti un certo comportamento
e questo fa sì che le regole non si debbano né trasgredire, né si possano cambiare. All'in-
terno di questa fase del realismo morale, Piaget individua una responsabilità oggettiva,
la giustizia retributiva e la sanzione inspiratoria: per quanto riguarda la responsabilità
oggettiva Piaget ritiene che, quando i bambini di 8-10 anni compiono delle azioni legate
a forme di trasgressione di una regola, la gravità della colpa è in funzione del danno, ad
esempio se un bambino involontariamente rompe 6 bicchieri, rispetto a un bambino che
ne rompe uno perché volontariamente, il bambino che ha rotto 6 bicchieri ha una gravità
di trasgressione della regola, quindi in termini di responsabilità, maggiore rispetto al
bambino che ne ha rotto solo uno, anche se il suo comportamento è stato involontario il
danno è maggiore quindi la responsabilità oggettiva è maggiore; la giustizia retributiva
si può esemplificare con il detto: “occhio per occhio, dente per dente”, ovvero se il bam-
bino provoca un danno di una certa entità, la punizione deve essere analoga alla tipolo-
gia di danno provocato; la sanzione espiatoria implica che ad ogni violazione della regola
faccia seguito una punizione. Dopo i 9-10 anni compare una forma più autonoma: l'au-
tonomia morale. Secondo Piaget già da questa età i bambini iniziano a interiorizzare la
regola, perciò l'imperativo non è più esterno, ma deriva dalla regola che il bambino ha
acquisito: le regole, in particolare quelle morali, da questo momento in poi sono fondate
su una linea di cooperazione e di reciprocità, quindi si basano sulla relazione con l'altro.
Piaget parla di responsabilità non più oggettiva, ma di responsabilità soggettiva, che
lega il giudizio sul comportamento all'intenzione dell'azione: il bambino inizia a capire
che quando compie un danno, e lo fa volontariamente, la forma di responsabilità è di-
versa rispetto a quando il danno è provocato in maniera involontaria. Dopo i 9-10 anni
inizia quindi a capire che la responsabilità dell'individuo è legata alla sua intenzionalità
e ciò dimostra come lo sviluppo morale sia legato allo sviluppo di tipo cognitivo, alla
capacità del bambino di comprendere il senso delle situazioni. Per questa fase di età
Piaget parla di giustizia distributiva: “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto
a te”. Questa è legata a forme di interiorizzazione della regola: il bambino inizia a com-
prendere che se qualcosa è dannoso per lui, potenzialmente lo è anche per gli altri, perciò
è opportuno non portare avanti certi comportamenti. Secondo il principio della sanzione
per reciprocità occorre trovare una punizione che sia in grado di far capire la gravità
degli atti, ovvero non è sempre necessario punire il bambino, la sanzione non deve essere
fine a se stessa, ma deve avere l'obiettivo di fargli comprendere il senso della regola, il
fatto che determinati comportamenti non sono opportuni.
KOHLBERG
Kohlberg nel 1976 portò avanti una teoria ispirata al modello piagetiano, ma la sua
teoria ha come presupposto il concetto di sviluppo morale, inteso come uguale in tutti
gli esseri umani, indipendentemente dal contesto. Secondo Kohlberg lo sviluppo morale
prescinde dalla cultura di appartenenza, per cui le norme che dovrebbero regolare i rap-
porti interpersonali sotto il piano morale sarebbero comuni a tutte le popolazioni. Per
cercare di comprendere come si collocano e cosa pensano i soggetti rispetto a situazioni
che riguardano lo sviluppo morale, Kohlberg utilizza una metodologia, definita “dei di-
lemmi morali”: all'individuo vengono proposte alcune situazioni, che egli deve riuscire a
fronteggiare scegliendo tra due o più doveri, o principi morali, che ritiene più giusti.
Sono situazioni inventate, dilemmi a cui il soggetto deve dare una risposta affinché Ko-
hlberg possa analizzare le tipologie di risposte per cercare di comprendere, a livello di
sviluppo, in quale posizione il soggetto viene collocato. Uno di questi è il dilemma di
Heinz, un uomo la cui moglie è malata di cancro e potrebbe salvarsi solo grazie ad un
farmaco molto costoso. Heinz non ha i soldi per acquistare il farmaco ed è alle prese col
dilemma: rubare il farmaco o veder morire la propria moglie? Al soggetto viene chiesto
cosa dovrebbe fare Heinz e quali sono i motivi alla base della sua scelta. Kohlberg pone
tale quesito a bambini e adulti, in base alle risposte lo studioso individua tre livelli prin-
cipali:
➢ un livello convenzionale, in cui la moralità è incentrata sul bisogno di rispettare
le regole sociali, definito convenzionale perché è legato alle regole che i soggetti
si sono dati all'interno di un gruppo sociale (regole di appartenenza a quel conte-
sto), per cui vanno rispettate in quanto rappresentano una convenzione.
Es. di risposte che stanno dentro il livello convenzionale sono: “Heinz dovrebbe
rubare la medicina perché è ciò che farebbe un bravo marito”, oppure al contrario
“Heinz non dovrebbe rubarla perché i cittadini non rubano”. Ciò che Kohlberg
vuole mettere in evidenza non è tanto il rubare o non rubare, ma come il soggetto
ragiona in termini di convenzione all'interno delle regole del proprio contesto so-
ciale;
➢ un livello post-convenzionale, in cui la moralità è incentrata su un codice morale
che va oltre le regole sociali convenzionali. Secondo Kohlberg solo una parte della
popolazione raggiunge tale livello.
Es. di risposta all'interno di questo livello è: “Heinz dovrebbe rubare la medicina
perché ci sono momenti in cui è necessario disobbedire alle regole e preoccuparsi
del benessere comune”. Trascendere, andare oltre alle regole sociali, in questo
caso significa che il benessere comune va oltre la regola del non rubare;
➢ un livello pre-convenzionale si presenta e si può osservare nei bambini fino ai 9-
10 anni (in termini di modello piagetiano, siamo al termine della fase operatoria
concreta, ossia prima della comparsa del pensiero astratto, per cui la norma è
ancora legata alla punizione). Il bambino agisce in funzione di una possibile pu-
nizione, perciò considera prevalentemente il proprio punto di vista, c'è consape-
volezza del punto di vista dell'altro ma non dei principi che regolano il giudizio
morale. Come affermava Piaget, lo sviluppo morale non può prescindere dalla
maturazione cognitiva, quindi dalla capacità di fare riflessioni sul giudizio mo-
rale, il quale compare solo negli anni successivi.
Kohlberg suddivide i tre livelli in sei stadi (due per ogni livello).
Nel livello pre-convenzionale, il primo stadio è legato al concetto di premio e punizione:
“non si ruba per non finire in prigione” oppure “si ruba il farmaco per non essere giudi-
cati male dagli altri per aver fatto morire la moglie”. Vi è una morale di tipo eteronoma,
analoga a quella definita da Piaget, per cui la norma si rispetta perché qualcun altro ha
stabilito una serie di regole, perciò il soggetto si deve adeguare, ma non è assolutamente
presente un'idea di giudizio morale. Nello stadio 2 c'è un orientamento individualistico
e strumentale, all'interno di questo stadio si riconosce che i bisogni possono essere di-
versi e bisogna rispettarli, non c'è un criterio universale di giustizia, ognuno ha i propri
interessi che possono entrare in conflitto con gli interessi dell'altro; siamo sempre all'in-
terno di una prospettiva eteronoma, seppur leggermente più evoluta, tuttavia ancora
lontana dalla costruzione di un concetto interno di morale.
Il livello convenzionale si sviluppa dalla preadolescenza fino alla tarda adolescenza. Du-
rante tutto il periodo dell'adolescenza c'è una presa di consapevolezza del carattere con-
venzionale e societario delle norme, ovvero delle regole di ogni società e ogni cultura.
All'interno di questo livello abbiamo gli stadi 3-4, che sono stadi evolutivi all’interno
dello sviluppo morale. Lo stadio 3 viene definito lo stadio dell'orientamento del bravo
ragazzo, in cui il rispetto delle norme è realizzato in modo tale da rispondere alle aspet-
tative della comunità, perciò ci sono dei valori e delle aspettative per cui il bravo ragazzo
è colui che si adegua a tali norme. Nelle risposte al dilemma di Heinz, che corrispondono
al rubare perché la famiglia lo giudicherebbe inumano oppure non rubare perché non
sopporterebbe l'onta di essere giudicato un ladro dalla comunità, questo tipo di compor-
tamento, a prescindere dall'azione in sé (rubare/non rubare), è un comportamento di
tipo convenzionale, dove il soggetto si adegua alle regole del proprio sistema di apparte-
nenza. Nello stadio 4, definito “del sistema sociale e della coscienza”, il sistema sociale
si basa sul mantenimento e il rispetto delle regole, per cui le norme non sono legate al
rapporto affettivo con la propria comunità, ma riguarda la società nel suo insieme,
quindi all'interno di questo stadio vi è un ampliamento del contesto. Heinz ruba perché
deve salvare la moglie, tuttavia dovrà accettare la condanna che deriva dal sistema giu-
diziario, oppure non ruba perché la legge va rispettata anche se va contro i sentimenti
personali.
Nello Stadio pre-convenzionale c'era una sorta di morale di tipo eteronoma, dove il bam-
bino si adeguava alle prescrizioni del genitore; nello stadio 3 si va verso la comunità
pubblica, la comunità di appartenenza; nello stadio post-convenzionale le norme morali
vanno al di là della società e sono legate a un sistema di principi astratti universali.
Post-convenzionale, perciò, significa che va oltre le convenzioni sociali. Lo stadio 5 è
legato all'orientamento del contratto sociale e dei diritti individuali: le regole morali non
sono fisse e modificabili, ma create in base a un contratto sociale; alcuni valori sono
assoluti, anche se non condivisi da tutti, quindi si inizia a prescindere dai valori conte-
stuali della propria cultura di appartenenza. Heinz può rubare perché una legge va ri-
spettata, ma non può violare il diritto universale alla vita, quindi vi è certamente la
legge, però ci sono dei valori che vanno oltre la legge stessa, come il diritto alla vita.
Heinz va condannato, ma la legge andrebbe rivista per renderla più flessibile rispetto a
tali valori universali. Lo stadio 6 è lo stadio più evoluto, c'è l'orientamento della co-
scienza e dei principi universali: si seguono principi etici universali che possono non
essere iscritti nelle leggi e dei quali ognuno risponde con la propria coscienza, sono prin-
cipi astratti e non regole concrete di comportamento. Heinz in questo caso ruba perché
la questione si pone in una sfera diversa da quella della legge, cioè in quella dei principi
etici universali.
NUCCI E TURIEL
Nucci e Turiel hanno criticato il lavoro di Kohlberg, affermando che Kohlberg crea un
po' di confusione tra regole morali e convenzioni. Essi, infatti, tendono a distinguere
questi aspetti: un ambito morale riguarda il benessere, la giustizia e i diritti umani,
mentre le prescrizioni morali sono obbligatorie, generalizzabili a tutte le situazioni, im-
personali, indipendentemente dal contesto in cui è stata istituita tale prescrizione, e non
sono modificabili. Quindi la componente morale prescinde dalla regola, dalla legge che
ogni Stato si può dare.
Es. l'ambito convenzionale riguarda le regole stabilite dall’autorità (es. gruppi sportivi
che si danno delle regole): sono convenzioni che vanno rispettate, in cui la trasgressione
delle regole imposte può sfiorare la componente morale, tuttavia, secondo questi stu-
diosi, bisogna fare una distinzione più chiara. La componente convenzionale riguarda
aspetti e regole non universali, come la possibilità che hanno i bambini di potersi espri-
mere all'interno delle culture: in alcune culture il bambino viene spinto ad esprimere sé
stesso quando si trova in contesti adulti, in altre culture, sempre all'interno di contesti
adulti, il bambino dovrebbe tacere e ascoltare; pertanto le convenzioni non sono genera-
lizzabili, perché non valgono per tutte le situazioni, ma al cambiare delle situazioni cam-
biano le convenzioni.
I bambini, secondo questi studiosi, all'età di 2 anni sanno già differenziare tra i vari
ambiti: se esiste all'interno delle relazioni interpersonali la regola per cui non bisogna,
per esempio, fare del male a un proprio pari, a quest'età il bambino non ha chiaro il
significato morale, però inizia a differenziare che non fare del male è legato, dal fatto
che c'è un divieto, ad una sanzione da parte dell’adulto, e inizia a comprendere che non
è giusto perché fare del male a un altro non è una cosa buona.
HOFFMAN: RADICI AFFETTIVE DELLO SVILUPPO MORALE
Alcuni studiosi hanno iniziato ad approfondire la componente affettiva, quindi le emo-
zioni dello sviluppo morale, e hanno individuato i presupposti per lo sviluppo morale
stesso: non si può comprendere la morale se ci si limita alla sola componente cognitiva,
occorre tenere conto del vissuto emozionale. L’empatia è alla base delle origini affettive
dello sviluppo morale, è l'attivazione di processi psicologici che fanno sì che una persona
abbia sentimenti più congruenti con la situazione di un'altra persona, piuttosto che con
la propria.
Lo sviluppo dell'empatia attraversa una serie di percorsi evolutivi e sono stati studiati
e osservati 5 stadi in cui l'empatia si modifica durante lo sviluppo, passando da una
modalità primitiva a quella più matura. Non si può prescindere dalla componente fisio-
logica di maturazione del nostro sistema nervoso, quindi della presenza di popolazioni
neuronali che favoriscono la comprensione empatica, per la quale svolgono un ruolo im-
portante i neuroni specchio, popolazioni neuronali che implicate nel sintonizzare l'indi-
viduo che, all'interno di una relazione interpersonale, osserva una situazione ed è ca-
pace, attraverso la loro attivazione, di sintonizzarsi con la mente dell'altro.
Abbiamo uno stadio zero, uno stadio del contagio emotivo, ovvero il neonato, già nelle
primissime fasi, quando sente piangere un altro bambino, mostra una sorta di contagio
e anche lui piange, come se ci fosse una sorta di connessione emotiva tra le menti.
Lo stadio 1 è quello dell'empatia “egocentrica” (dai 6 mesi), per cui vi è una forma di
sintonia con l'altro bambino che si trova nelle sue vicinanze ed esprime le stesse emo-
zioni, però i suoi comportamenti di autoregolazione sono finalizzati al proprio stato emo-
tivo e non a quello dell’altro. Il concetto di egocentrismo è dato dagli aspetti del funzio-
namento della mente che riguardano l'individuo quando non è ancora in grado di met-
tersi nella prospettiva dell'altro.
Lo stadio 2 è definito di empatia quasi egocentrica, in cui abbiamo la comparsa di una
spinta alla cura del malessere di un altro bambino: il bambino tende a prendersi cura
dell'altro, però ancora non c'è una profonda comprensione dello stato della mente dell'al-
tro, anche dal punto di vista dello sviluppo cognitivo non ci sono le strutture adeguate
per poterlo comprendere.
Nello stadio 3 abbiamo una forma di empatia veridica (dai 3,5- 4 anni di età): grazie alla
maturazione vi è una comprensione dell'altro e quindi la spinta alla cura si fa più ade-
guata.
Lo stadio 4 richiede forme di maturazione cognitive più avanzate, che sono tipiche della
fase preadolescenziale e adolescenziale, in cui l'empatia riguarda la condizione esisten-
ziale dell'altro a prescindere da che cosa, in quel momento, l'altro stia vivendo; sono
necessarie capacità di astrazione e di rappresentazione, c'è una forma di astrazione
dalla realtà concreta e una rappresentazione più generalizzata della condizione dell'al-
tro.
DALL’EMPATIA ALLA MORALITÀ
Alla base di un pensiero e di un comportamento morale c'è un'esperienza empatica. Per-
ché ciò si verifichi è necessario che tale esperienza diventi “simpaty”, che riguarda il
concetto di compassione, un sentire insieme, un sentimento che spinge a prendersi cura
di una persona.
Gli attori di questa dinamica interattiva sono dunque la vittima (distress), che soffre
una condizione di stress, e l'osservatore (distress empatico), che prova una forma di
stress empatico. Questa forma di stress dev’essere adeguata, in quanto non sempre l'em-
patia da sola è sufficiente per poter sentire ciò che l'altro sta vivendo: quando il distress
empatico è troppo elevato, l’osservatore può provare una sofferenza molto intensa, che
non gli permette di prendersi cura dell'altro, ciò non produrrà un comportamento morale
prosociale.
Questo aspetto è importante all'interno delle relazioni di cura, sia per un educatore che
per uno psicologo: per potersi occupare di qualcun altro bisogna sentire questo bisogno
di aiutare l'altro, però forme di invischiamento eccessivamente forti portano il soggetto
a una condizione quasi di inazione, facendo diventare difficile portare avanti una rela-
zione d'aiuto.
SOCIALIZZAZIONE MORALE E STILI DISCIPLINARI
La socializzazione morale si riferisce ai processi cognitivi, affettivi e sociali attraverso
cui i bambini assimilano e rielaborano regole e norme della comunità di appartenenza.
Quindi c'è la costruzione di una conoscenza morale che diventa un meccanismo psicolo-
gico, il quale guiderà le azioni del soggetto anche in assenza di controllo: c'è una forma
di interiorizzazione di tali valori che diventano una coscienza morale.
Ci possono essere forme disciplinari utilizzate dai genitori basate sul potere, con forte
asimmetria fra genitore e bambino, dove il genitore afferma che la regola va rispettata
perché lo dice lui ed è intransigente, perciò il bambino aderisce alle richieste per timore
di una sanzione da parte del genitore e si comporta bene perché altrimenti i genitori si
potrebbero arrabbiare e potrebbero punirlo.
Un secondo tipo di disciplina è quella basata sul “sul rito dell’amore”, per cui vi è un'a-
desione del bambino alle richieste di disciplina per paura di perdere l'affetto dei genitori.
Frasi come: “se non fai così, mamma non ti vorrà più bene” o addirittura “se non fai così,
mamma potrebbe morire”, andrebbero evitate accuratamente.
C’è poi la disciplina di tipo induttivo, in cui il bambino è stimolato dai genitori a mettersi
nei panni dell'altro e a valutare le conseguenze delle proprie azioni. Secondo gli studiosi
ciò favorisce l'interiorizzazione dei principi morali: i primi due stili disciplinari possono
portare ad un’adesione al sistema di regole e si possono avere bambini abbastanza di-
sciplinati, però l'interiorizzazione dei principi morali non avviene (interiorizzazione
delle norme di tipo eteronomo secondo Piaget e Kohlberg).
Un altro aspetto riguarda l’aggressività. Secondo l’approccio etologico l’aggressività è
una componente che noi abbiamo ereditato nella nostra filogenesi, perché ci ha permesso
di difenderci dagli attacchi dei predatori e quindi di evolverci e non estinguerci. L’ag-
gressività sta a cavallo tra lo sviluppo tipico e quello atipico: non è una componente
atipica, perché molti comportamenti aggressivi sono presenti durante la prima infanzia
e sono comportamenti abbastanza normali, che, in seguito, devono essere regolati a se-
conda dei contesti. Tuttavia con aggressività intendiamo un comportamento volto a dan-
neggiare o ferire una o più persone, dove la componente intenzionale dev’essere centrale.
L’aggressione può essere:
➢ di tipo strumentale: l'altro viene aggredito non come fine a sé stesso, ma è funzio-
nale al raggiungimento di un obiettivo (tra bambini questo si osserva quando un
bambino pizzica o colpisce un altro bambino per prendergli un gioco);
➢ di tipo reattivo: in seguito a provocazioni intense da parte degli altri, oppure in
seguito a frustrazione, si può aggredire l'altro perché ha prodotto una rabbia
molto intensa, a cui è seguita una forma di aggressività;
➢ forme relazionali o forme di aggressione indiretta: sono quelle aggressioni che
danneggiano, per esempio, l'immagine dell’altro o lo mettono in cattiva luce per
danneggiarne le relazioni.
Secondo alcuni studi, il genere femminile tende a utilizzare maggiormente le forme di
aggressività relazionale, che sono più indirette, mentre i maschi sono tendenzialmente
più espliciti e diretti nella manifestazione dell'aggressività; altri studi non hanno con-
fermato questa differenza e secondo loro ciò dipende dalle situazioni, per cui anche i
maschi possono utilizzare questa strategia indiretta a seconda dei contesti. Secondo al-
cuni studiosi che hanno analizzato il processo cognitivo, l'aggressività è l'esito di un
processo di problem solving suddiviso in vari stadi (5-6 passaggi che portano all'azione
aggressiva):
➢ il primo passaggio riguarda la codifica dell'informazione, del comportamento
dell'altro, il quale sta avendo un atteggiamento scorretto nei nostri confronti: si
tratta dunque di capire se il comportamento dell’altro ha una bassa o alta rile-
vanza (il che è soggettivo);
➢ il secondo passaggio riguarda l'attribuzione delle intenzioni: il torto che noi su-
biamo nasce perché l'altro inavvertitamente ha avuto un comportamento scor-
retto oppure aveva dichiaratamente un atteggiamento di tipo ostile e finalizzato
a finirci?
➢ altro step è quello della formulazione dell'obiettivo, ovvero che cosa facciamo dal
punto di vista della risposta comportamentale?
➢ si valuta poi se quel tipo di risposta è funzionale o meno per ripristinare un equi-
librio precedente, ci possono essere dei processi di mediazione mentale che po-
trebbero portare il soggetto a usare altre strategie piuttosto che l'aggressività;
➢ come ultimo passaggio vi è la presa di decisione. In questo caso sono fortemente
implicati i valori morali valori morali dell'individuo.
Secondo alcuni studiosi un comportamento aggressivo può essere una sorta di deficit,
dovuto a forme di elaborazione disfunzionali all'interno di questi singoli step, ovvero un
individuo potrebbe interpretare come ostile un comportamento dell'altro che in realtà
non lo era. Anche nell’ultimo stadio, quello dei principi e dei valori morali, possiamo
avere dei comportamenti devianti durante l'adolescenza, dove l’utilizzo dell'aggressività
può essere alla base della costruzione di un'identità deviante.
Bandura ha proposto la teoria dell'apprendimento sociale, secondo cui il fatto di assi-
stere a una serie di situazioni aggressive, può portare il bambino ad imitare e a ripetere
quel comportamento di tipo aggressivo (Esperimento della bambola Bobo). L’esperi-
mento ha dimostrato scientificamente, attraverso una procedura di tipo sperimentale
(con soggetti divisi per gruppi, sottoposti a stimoli differenti a seconda dei gruppi) che
assistere ad una scena “violenta” porta a forme di apprendimento per imitazione e i
bambini che assistono ad azioni aggressive, tendono a ripeterle.
Secondo gli studiosi vi sono 3 situazioni differenti in differenti fasi del ciclo di vita. Il
primo è il bullismo: la messa in atto, in gruppi di pari, di ripetuti atti aggressivi verso
una vittima, forme di abuso di potere e comportamentale riguardo soggetti che vengono
identificati come vittima perché posseggono caratteristiche relazionali e talvolta cogni-
tive che vengono prese di mira (infatti, a volte, le vittime sono persone che hanno dei
deficit anche di tipo cognitivo e sono persone che hanno difficoltà di tipo socio-relazio-
nale). Il bullismo può essere inteso come forma di una violazione di principi morali.
Porta a vantaggi materiali, in quanto il bullo, all'interno di particolari contesti, diventa
la figura dominante, perché attraverso questo tipo di comportamento riesce ad avere
maggiore affermazione all'interno del suo gruppo di appartenenza.
Vi sono anche componenti antisociali e delinquenziali, in particolar modo durante la
preadolescenza e l’adolescenza, ma esistono varie forme di bullismo anche precedenti,
mentre negli adulti abbiamo forme di sviluppo morale atipico che riguardano meccani-
smi di disimpegno morale.
Nel ruolo assolto dai potenziali partecipanti al comportamento di bullismo abbiamo va-
rie tipologie:
➢ l'aiutante, colui che collabora con il bullo: non prende l'iniziativa, però contribui-
sce all'azione di bullismo;
➢ i sostenitori, ossia degli osservatori che non agiscono, a differenza degli aiutanti,
però ne favoriscono l'azione;
➢ gli spettatori passivi sono quelli che guardano e non sanno che tipo di ruolo assu-
mere, se difendere o meno la vittima, e sono soggetti che possono aver paura di
difendere la vittima per non diventare a loro volta oggetto dell'aggressività del
bullo e dei suoi compagni; mantengono una posizione apparentemente neutrale;
➢ i difensori veri e propri, coloro che si identificano empaticamente con la vittima e
cercano di limitare l'azione del bullo.
La componente cognitiva dell'empatia è definita perspective-taking e si tratta di un’abi-
lità che permette di comprendere gli stati mentali dell'altro, la quale però non entra nel
merito del sentire emotivo dell'altro. Secondo alcuni studiosi, i bulli sarebbero maggior-
mente competenti su questo piano, mentre per quanto riguarda la componente affettiva,
mostrerebbero maggiori mancanze, per cui il bullo sarebbe meno capace di sintonizzarsi
affettivamente con le emozioni dell'altro e con il grado di sofferenza inflitta. Da una
parte, dunque, il bullo ha una certa abilità di tipo cognitivo nell’impersonarsi nello stato
della mente dell'altro e nell'individuare le sue forme di debolezza, ciò che può diventare
oggetto di attacco, però contemporaneamente c'è un’assenza della capacità del sentire
emotivo.
Un'altra componente, che temporalmente si colloca più avanti, è quella dell’antisocialità
e delinquenza in adolescenza. Forme di bullismo perpetrate nel tempo possono diven-
tare potenzialmente anche forme di delinquenza conclamate e di antisocialità negli anni
successivi. Nell’antisocialità si registra un generale atteggiamento verso la violazione
di norme. Tuttavia, durante l'adolescenza, comportamenti di violazione delle norme pos-
sono rientrare all'interno di una forma di tipicità, non è detto che siano sintomi di anti-
socialità o di devianza, perché in qualche modo questi atteggiamenti di rottura delle
convenzioni durante l'adolescenza soddisfano alcune esigenze evolutive di crescita, come
l’affermazione di sperimentazione di sé, la verifica dei propri limiti, la ricerca di sensa-
zioni, la costruzione dell’identità, perciò se un soggetto ha interiorizzato moralmente
cos'è corretto oppure no, può arrivare alla soglia di forme di trasgressione che possono
essere più o meno gravi, però poi la forma di coscienza morale diventa una sorta di freno
nell'andare oltre, quindi parliamo di una sorta di trasgressione normo-critica delle re-
gole, per cui vi è una certa che criticità che sta all'interno di un range di normalità.
Inoltre vi sono forme di violazione di norme legate al bisogno di integrazione all'interno
del gruppo dei pari e di differenziazione oppure da quello degli adulti: la costruzione
dell'identità adolescenziale passa attraverso forme di identificazione col gruppo dei pari
e di separazione dalla famiglia. Adolescenti invece coinvolti in attività delinquenziali
presentano alcune caratteristiche decisamente più atipiche, troviamo infatti ritardi
nello sviluppo del giudizio morale: i primi due stadi della classificazione di Kohlberg,
quelli legati a una forma di moralità eteronoma, sono implicati in comportamenti delin-
quenziali dove i giudizi morali sono fondati su analisi di costi e benefici personali, senza
uno standard interno auto-regolatore di condotta, quindi il soggetto valuta se gli con-
viene o meno portare avanti un certo comportamento e talvolta si assume il rischio di
comportamenti devianti perché valuta che i benefici personali possono essere rilevanti.
Ci sono anche forme di distorsioni cognitive che sono state osservate all'interno di questi
comportamenti antisociali e delinquenziali, come la tendenza a colpevolizzare gli altri
per la propria immoralità che viene esemplificata con espressioni del tipo: “è la vita che
mi ha reso così”; “La colpa e degli altri!”. Queste forme di difesa rispetto ai propri com-
portamenti non portano a una riflessione, non portano a forme di autoregolazione o
all’interiorizzazione di morali. Riflessione necessaria per raggiungere lo stadio conven-
zionale o anche quello post-convenzionale, che richiedono forme di capacità di riflessione
molto profonde rispetto ai significati e ai valori etici, i quali esulano dai bisogni indivi-
duali. In questo caso i bisogni individuali sono molto egoistici e l'altro risulta essere
secondario rispetto ai propri obiettivi. Tali soggetti palesano spesso la tendenza a ipo-
tizzare sempre il peggio, tendono ad avere una prospettiva dell'esistenza apocalittica,
negativa, nella quale nessun miglioramento sociale è possibile se non a prezzo di un
rischio personale legato alle proprie trasgressioni e questa prospettiva pessimistica
viene utilizzata come forma di autogiustificazione delle proprie trasgressioni. In età
adulta abbiamo forme di allontanamento dalla componente morale, definite meccanismi
di disimpegno morale. Secondo Bandura, che ha formulato la teoria dell'autoefficacia
(self-efficacy), la condotta trasgressiva è regolata da due principali tipi di sanzioni:
quelle sociali e quelle internalizzate, che operano in modo anticipatorio rispetto al com-
portamento, per cui gli individui prima di mettere in atto un comportamento di trasgres-
sione anticipano mentalmente le conseguenze dell’azione. Le sanzioni sociali espongono
a una punizione/censura da parte della società, mentre le sanzioni internalizzate espon-
gono a sentimenti di autocondanna e di riprovazione, diminuendo, secondo Bandura, il
senso di autostima. Sono quindi soprattutto le sanzioni interne a determinare il com-
portamento individuale del soggetto: quanto più il soggetto ha interiorizzato una serie
di valori tanto più, in maniera anticipatoria, potrebbe evitare di portare avanti una serie
di comportamenti sia perché può essere esposto a forme di censura sociale o di punizione
sia perché se portasse avanti determinati comportamenti ne verrebbe meno il suo senso
di autostima e quindi anche la perdita del valore personale del soggetto stesso. L'emo-
zione tipica di queste forme di autocensura è il senso di colpa, attraverso il quale il sog-
getto entra in contatto con potenziali sanzioni legate ai suoi valori personali; quindi la
sofferenza che ne potrebbe derivare diventa una forma di auto sanzione. Bandura ri-
tiene però che i principi morali, quindi anche questa forma di auto-sanzione, non siano
sempre attivi nel regolare la condotta, ma vengano attivati o disattivati a seconda delle
circostanze e delle convenienze personali, per cui sarebbero forme di autoregolazione
morale, definite meccanismi disimpegno morale, che disimpegnano temporaneamente
la condotta dai principi morali, perciò si crea una sorta di separazione tra il comporta-
mento del soggetto e i principi morali che dovrebbero guidare il suo comportamento. I
vantaggi sono evidenti: se non si attiva quella forma di sanzione interna di cui parla
Bandura, l'individuo non vive quel senso di biasimo per aver trasgredito e la sua auto-
stima non risulta intaccata e in più vengono perseguiti una serie di vantaggi personali.
Bandura parla di 8 meccanismi principali:
➢ il primo è quello che lui chiama la giustificazione morale: per giustificare il pro-
prio comportamento il soggetto fa appello a fini “superiori” per mettere in ombra
la debolezza della condotta agita: “l'ho fatto per la famiglia”; “l'ho fatto per Dio!”;
➢ l'altro è l'etichettamento eufemistico, che consente di ridimensionare la dolorosità
delle conseguenze producendo una distorsione concettuale del vero significato
dell'azione, che risulta così mascherato. Questo è il meccanismo col quale si tende
a giustificare forme di pulizia etnica. Se si uccidono tante persone si potrebbero
attivare meccanismi interni di angoscia e per giustificare questo comportamento
si fa riferimento a forme più elevate: la pulizia etnica è portata avanti per fare in
modo di salvaguardare la razza di appartenenza;
➢ il terzo meccanismo viene definito confronto vantaggioso: si confronta la propria
azione con condotte moralmente peggiori, quindi ridimensionando la valenza im-
morale del proprio comportamento quando a qualcuno viene sottolineato un certo
comportamento facendo riferimento a un comportamento peggiore. Questo mec-
canismo permette al soggetto di trasgredire una serie di norme e sentire meno il
senso di colpa, perché comunque c'è qualcuno che fa peggio;
➢ il quarto è il dislocamento della responsabilità, quindi la responsabilità delle
azioni attribuita ad un terzo esterno, come ad esempio un'autorità, per cui la con-
dotta considerata scaturirebbe dai dettami della stessa. In questo caso possiamo
fare riferimento a ciò che accade durante una guerra, dove l'uccisione di altre
persone potrebbe risultare un'operazione difficilmente gestibile dal punto di vista
emotivo, però il soldato uccide perché ha ricevuto un ordine, il quale diventa una
forma di deresponsabilizzazione che permette all'individuo di auto-giustificare il
proprio comportamento;
➢ il quinto è la diffusione della responsabilità, che può generare un senso di non
imputabilità di fronte a colpe che, in quanto collettive, risultano non essere di
nessuno: quando a volte si dice che quello è un comportamento che fan tutti, che
è un comportamento diffuso, come guidare senza la cintura;
➢ il sesto è la distorsione delle conseguenze: ignorare o minimizzare le conseguenze
delle proprie azioni attraverso una “non considerazione” degli effetti di una
azione. Come nel bullismo, quando il bullo si giustifica dicendo che quello che lui
ha fatto era semplicemente uno scherzo, un gioco;
➢ un altro meccanismo è la deumanizzazione: si attribuisce alle vittime un’assenza
di sentimenti umani, quindi questo meccanismo non permette di sentire l'altro
empaticamente, perché si suppone che l'altro non abbia sentimenti. Questo è le-
gato anche al tema della pulizia etnica: nel momento in cui si considerano razze
o popolazioni intere da eliminare, le si considera senza sentimenti, cattive o po-
tenzialmente pericolose, per cui non viene attivato il meccanismo dell’empatia,
permettendo la messa in atto di una serie di reati nei loro confronti, senza sentire
sensi di colpa;
➢ un altro è l’attribuzione di colpa, intesa come responsabilità. Ci si convince che
l'offesa recata alla vittima è da lei pienamente meritata (se l’è cercata!).

PRINCIPALI CONTESTI DELLO SVILUPPO DEL BAMBINO


I contesti principali dello sviluppo del bambino sono la famiglia e la scuola. Quando
parliamo di contesti stiamo parlando di ambiente. A seconda dei periodi storici la com-
ponente ambientale è stata ritenuta predominante, come nel periodo del comportamen-
tismo: l'ambiente psicologico, inteso come contesto con un significato mentale per l'indi-
viduo, nasce con Lewin, che parla di relazione tra individuo e ambiente e va a studiare
in che modo i rapporti tra l'individuo e l'ambiente determinano lo stato psicologico del
soggetto. Perciò è questo rapporto che va a determinare una serie di significati diversi
per gli individui, è un rapporto peculiare dove l'individualità del soggetto, le sue carat-
teristiche, gli aspetti di personalità, gli aspetti temperamentali innati, presenti subito
dopo la nascita, determinano le modalità con cui il soggetto risponde agli stimoli dell'am-
biente in cui si trova inserito. Naturalmente l'ambiente psicologico assume significati
diversi, c'è una differenza di tipo interindividuale tra soggetti, in base a caratteristiche
personali, perciò gli stessi ambienti possono produrre esperienze diverse e, nel tempo,
lo stesso individuo può fare esperienze psicologiche differenti nello stesso contesto e ciò
può dipendere da una molteplicità di fattori: il cambiamento personale, l’accumulo di
esperienze, etc.
L'interazione con l'ambiente è stata studiata anche da Piaget nei suoi studi sullo svi-
luppo cognitivo, in particolare riguardo per l’intelligenza come forma di interazione, as-
similazione e accomodamento, finalizzata a produrre un adattamento al proprio am-
biente, alla propria realtà, costruendo dei veri e propri modelli mentali della realtà
stessa. In questo caso c'è uno sviluppo cognitivo continuamente in interazione col pro-
prio ambiente, in cui l'individuo, attraverso processi di assimilazione, costruisce modelli
sempre più adeguati della propria realtà, in modo da favorire l'adattamento, L'individuo
prima accoglie l'informazione, la assimila e poi accomoda.
Per Vygotskij la componente sociale, un po' lacunosa in Piaget, risulta essere centrale:
secondo lo studioso vi è un interiorizzazione dei comportamenti degli altri, una sorta di
assimilazione del comportamento dell'altro, che favorisce l’interiorizzazione di compor-
tamenti, ambienti e contesti per produrre la rappresentazione di significato della realtà.
Infine, la teoria ecologica di Bronfenbrenner, secondo cui il bambino si trova all'interno
ambienti interconnessi tra loro e gerarchicamente organizzati e ha approfondito il modo
in cui i vari contesti influenzano lo sviluppo del bambino. Famiglia, scuola e coetanei
sono i micro-sistemi e sono vicini al bambino in termini di rappresentazione psicologica.
I micro-sistemi sono inseriti all'interno di una prospettiva gerarchica che viene rappre-
sentata figurativamente come un sistema gerarchico integrato di cerchi concentrici, per
cui essi fanno parte di un sistema, che a sua volta fa parte di un meso-sistema (relazioni
tra i vari micro-sistemi), che a sua volta ancora fa parte di un eso-sistema (condizioni di
lavoro dei genitori) e infine un macro-sistema (le politiche sociali di una nazione e i
servizi); tutto questo direttamente e indirettamente va ad influenzare lo sviluppo del
bambino.
In sintesi, ecco una definizione di contesto: insieme degli aspetti fisici, sociali, culturali,
economici e storici della situazione in cui un individuo è inserito.
Pertanto, oltre alle differenze individuali legate a come l'individuo risponde alle condi-
zioni del contesto, bisogna tenere conto delle varie differenze che possono portare ad
adattamenti più o meno adeguati all'interno dei contesti stessi. L'aspetto centrale della
componente sistemica è un’interazione di elementi dove essi sono tutti strettamente
connessi e si influenzano reciprocamente, perciò un contesto (ad esempio una famiglia
o una classe scolastica) è costituito da più componenti che sono in relazione reciproca e
interdipendenti. La circolarità è una delle caratteristiche principali della relazione tra
i contesti. L'altro aspetto riguarda il cambiamento e la stabilità: un sistema è un pro-
cesso dinamico, avviene tutta una serie di cambiamenti al suo interno: la famiglia ha
un ciclo di vita, la costruzione di una famiglia passa dalla costruzione di una coppia, alla
quale segue la nascita dei figli e ogni tappa dell'evoluzione nel ciclo di vita di una fami-
glia comporta tutta una serie di cambiamenti che richiedono continuamente una sorta
di ristrutturazione dei significati, anche dello stare insieme, non a caso circa un terzo
delle famiglie che si costituiscono attraverso un matrimonio, terminano con la separa-
zione. Evidentemente ci sono una serie di difficoltà che rendono difficile il mantenimento
di unità e di coesione iniziale, in quanto sono intervenuti una serie di fattori esterni che
ne hanno modificato la stabilità iniziale. Spesso una famiglia entra in crisi dopo la na-
scita dei figli, oppure quando i figli lasciano la casa (sindrome del nido vuoto), che co-
stringe la coppia genitoriale a rivedere la loro relazione dopo aver trascorso diversi anni
con ruoli e significati diversi.
All'interno dei contesti abbiamo sia processi di sviluppo sia di apprendimento, i quali
passano attraverso forme di socializzazione. La socializzazione è definita come un pro-
cesso per l'acquisizione, da parte del bambino, delle capacità sociali, emotive e cognitive
necessarie per comportarsi in modo adeguato rispetto al proprio gruppo socio-culturale
e diventarne un membro componente. La socializzazione diventa una forma di appren-
dimento, di addestramento alle regole per favorire processi di adattamento di tipo so-
ciale. Evidentemente all'interno dei processi di socializzazione vi sono delle figure, come
i genitori e gli insegnanti, che svolgono un ruolo fondamentale. Secondo gli studiosi que-
sto processo avviene principalmente all'interno di tre modalità:
➢ la forma di insegnamento esplicito, in cui all'individuo vengono esplicitamente
dettate una serie di regole di comportamento che progressivamente il bambino,
nel corso del suo sviluppo, interiorizza;
➢ la forma della modellizzazione (modeling), che deriva dal partecipare e dall'osser-
vare una serie di comportamenti che poi modellano l'osservatore, perché sono con-
siderati come comportamenti auspicabili. Una forma di modellizzazione è quella
del modello dell'apprendimento sociale di Bandura, che ha dimostrato come l'ag-
gressività può essere appresa mediante l'osservazione e la partecipazione ad al-
cune esperienze che poi il bambino tende a ripetere;
➢ le figure dei genitori e degli insegnanti hanno un ruolo centrale nell'organizzare
e nel selezionare le attività, le esperienze che il bambino dovrà fare; durante la
prima fase dello sviluppo il ruolo di guida è fondamentale. Svolgere delle attività
insieme al genitore favorisce il processo di co-costruzione di conoscenza. Questo
processo viene definito scaffolding (impalcatura): si tratta di creare una sorta di
struttura organizzativa nella relazione tra adulto e bambino, in modo tale che il
bambino possa sperimentare, all'interno di questa relazione, processi di appren-
dimento.
Una serie di studiosi ha cercato di capire come è cambiata la famiglia nel corso del
tempo. Fino alla seconda metà del Novecento la famiglia era prevalentemente mononu-
cleare, lo stato della coppia era legata al matrimonio e si andava a vivere con il proprio
partner solo dopo di esso; oggi esistono varie forme con cui la coppia sta insieme (coppie
che convivono coppie che si risposano, coppie omosessuali/bisessuali etc.). C’è quindi
maggiore varietà nella tipologia delle famiglie e un cambiamento dei ruoli che comporta
nuovi equilibri. Tutto ciò comporta il cambiamento sistemico della famiglia stessa e di
conseguenza tutto il sistema si evolve in base a una serie di modifiche a cui la famiglia
va incontro nel tempo. Il funzionamento familiare risulta influenzato da molteplici fat-
tori, da caratteristiche dei singoli membri, dalla qualità delle relazioni familiari, come
il legame con i fratelli, che assolve a una serie di funzioni fondamentali: forme di reci-
procità, di solidarietà. Circa 50-70 anni fa la media dei figli era di 2-3, mentre oggi que-
sta media è scesa a 1,2, per cui esistono tantissime famiglie dove c'è un solo figlio, motivo
per cui si è provato a studiare se essere figlio unico possa avere delle ripercussioni sullo
sviluppo della personalità, dell'intelligenza e sullo sviluppo sociale del bambino e i ri-
sultati emersi da questi studi non mettono in evidenza differenze sostanziali, anche per-
ché sono cambiati altri aspetti: i genitori lavorano entrambi e portano i bambini all'in-
terno di contesti dove ci sono altri pari con cui creare legami, ovviamente i legami con i
fratelli possono risultare degli stimoli importanti nella costruzione dei processi di socia-
lizzazione, ma non sono fondamentali. Altre figure educanti fondamentali, soprattutto
nella cultura italiana, sono i nonni. È stata studiata una serie di comportamenti geni-
toriali per comprendere cosa c'è in comune con le altre culture e cosa invece è differente,
si è cercato di capire in che modo il contesto di appartenenza influenzi lo stile e le fun-
zioni genitoriali. Da un lato abbiamo funzioni genitoriali universali, ovvero comuni a
tutte le culture, come l'accudimento atto a favorire la sopravvivenza del bambino e la
costruzione dell'autonomia in modo che poi il piccolo diventi adulto e possa portare
avanti la continuità della specie. Queste forme universali sono associate a processi bio-
logici di base, quindi ciò che in qualche modo abbiamo appreso nella nostra filogenesi si
protratto nella società attuale. Vi sono poi pratiche genitoriali che sono influenzate dalle
culture di appartenenza: nelle società individualistiche, per esempio, è favorita la com-
petitività, la realizzazione individuale, mentre in quelle collettivistiche il bisogno del
singolo individuo passa in secondo piano, rispetto ai bisogni del gruppo. Quando par-
liamo di pratiche educative, di stili genitoriali, parliamo anche di credenze che possono
essere influenzate da processi di tipo culturale più ampio, per cui abbiamo sistemi di
credenze che fanno riferimento alla cultura di appartenenza, da cui derivano una serie
di pratiche educative che possono influenzare lo sviluppo del bambino. La teoria dell'at-
taccamento di Bowlby andò a modificare la modalità con cui i genitori e l'intera famiglia,
si pongono nei confronti del bambino. Ci sono credenze non solo culturali, ma anche
credenze individuali. Bandura ha formulato una delle teorie più importanti in psicologia
che riguarda le credenze di autoefficacia: immaginiamo una neo-mamma che ha un’alta
autoefficacia e crede di avere gli strumenti per poter allevare in maniera adeguata il
figlio, ciò comporterà inevitabilmente delle pratiche educative diverse da chi affronterà
la gravidanza e la nascita del figlio con un basso senso di autoefficacia, quest'ultima,
infatti, avrà maggiori ansie. A quanto detto si aggiungono gli stili educativi dei genitori:
stile autoritario, permissivo, induttivo o autorevole (che viene considerato lo stile più
adeguato perché favorisce un maggiore autocontrollo del bambino, una maggiore auto-
stima, una migliore capacità empatica). Nel caso dello stile educativo auterevole i geni-
tori si pongono in una modalità relazionale dove aiutano il bambino a comprendere qual
è il senso del comportamento che sta adottando o che deve adottare. La scuola, che nel
modello di Bronfenbrenner, insieme alla famiglia e alla relazione tra pari, fa parte dei
micro-sistemi, quelli più vicini al bambino; l'apprendimento è l'obiettivo principale negli
anni di sviluppo successivi, quindi la scuola dell'infanzia, la scuola primaria ecc. Un
aspetto centrale dell'evoluzione del sistema scolastico italiano è l'inclusività, ciò signi-
fica favorire l'integrazione di forme di sviluppo atipico. Nel sistema scolastico fino al
1977 vi erano le classi differenziali: c'erano i bambini con uno sviluppo tipico che erano
nelle classi “normali” e poi c'erano le classi differenziali dove venivano inseriti i bambini
con forme di disabilità o problematiche importanti dello sviluppo. Gli studi dicono che
inserire bambini con disabilità diventa una forma di arricchimento per tutta la classe,
perché abbiamo forme di empatia e di socializzazione all'interno di queste classi dove il
bambino, sin da piccolo, inizia ad apprendere e ad accettare le differenze individuali,
quindi si favoriscono forme di integrazione che aiutano sia il bambino disabile, sia il
bambino con sviluppo tipico a convivere con le differenze individuali.
Nel gruppo “classe” esistono due forme di relazioni: quelle verticali, ovvero quelle tra
l'educatore e l'allievo, e le relazioni orizzontali, quelle con i pari. Le forme di relazioni
verticali possono produrre, a seconda di come vengono gestite, risultati molto diversi.
Dal punto di vista educativo, l'altro aspetto che riguarda la scuola è il contratto didat-
tico, che affianca la dimensione relazionale, quella affettiva e le regole di comportamento
a cui gli alunni devono attenersi, cioè l'accettazione implicita della asimmetria, del fatto
che esiste una gerarchia tra l'insegnante e l'allievo. Per quanto riguarda gli approcci
educativi, il primo è quello centrato sull'insegnante, dove lo studente ha un ruolo più
passivo e la lezione è tipicamente frontale, finalizzata al raggiungimento di obiettivi
prefissati. Il secondo approccio è quello centrato sul bambino, dove lo studente ha un
ruolo più attivo e dove la costruzione della conoscenza avviene insieme, in cui l'inse-
gnante non assume una posizione eccessivamente direttiva, ma favorisce, all'interno di
un processo di guida, una maggiore autonomia nella costruzione della conoscenza. Que-
sta modalità è stata portata avanti all'interno di un modello teorico conosciuto come
costruttivismo, dove troviamo forme di cooperative learning, ossia forme di apprendi-
mento cooperativo. Si è potuto osservare che queste forme di apprendimento sono più
efficaci e favoriscono livelli di soddisfazione maggiore all’interno del gruppo classe. La
modalità con cui l'insegnante si pone influisce in maniera decisiva sugli alunni e sul
clima della classe.
Lewin si è occupato anche di sviluppo e parla di 3 stili educativi:
➢ il primo legato è a una forma di leadership di tipo autoritario, dove abbiamo ri-
sultati che avvengono solo se l'insegnante mantiene il controllo della classe, ov-
vero la produttività degli alunni al di fuori del controllo degli insegnanti si riduce
notevolmente; questo significa che il bambino non interiorizza forme di autono-
mia nella costruzione della conoscenza;
➢ la seconda forma di leadership è quella di tipo democratico, legato a un approccio
centrato sul bambino, per cui vi è una maggiore condivisione e cooperazione, alla
quale segue una maggiore efficacia nel lavoro in autonomia, accompagnato anche
da una bassa conflittualità tra i componenti del gruppo;
➢ il terzo tipo di leadership è quello permissivo, dove vi è un eccesso di libertà e di
conseguenza una bassa produttività, in quanto gli alunni non riescono ad orga-
nizzarsi adeguatamente, manca loro la guida. La libertà in questo caso non è un
valore, perché chiaramente significa che i bambini sono un po' lasciati da soli, e
qualunque gruppo, prima di diventare produttivo, ha bisogno di essere guidato
perché senza la guida abbiamo disorganizzazione e un aumento di conflittualità.

FORME DI SVILUPPO ATIPICO E MODALITÀ DI INTERVENTO


Parliamo di nuovo di attaccamento, il quale è uno dei capitoli centrali della psicologia
dello sviluppo, in modo particolare per quanto riguarda lo sviluppo emotivo, sociale e
relazionale. Il modello di attaccamento è diventato un paradigma, ovvero un modello di
riferimento per gli studiosi della psicopatologia dello sviluppo, nel senso che le proble-
matiche di attaccamento dovute a trattamenti disfunzionali, come quello disorganiz-
zato, spesso hanno forme evolutive di tipo psicopatologico. L'attaccamento non è solo un
fattore di tipo eziologico, ovvero un fattore che poi può determinare un disturbo, o è
anche un modello formidabile per il percorso riabilitativo: ci sono degli interventi che
vengono fatti più sui genitori che sui bambini. Se da una parte nello sviluppo tipico sono
presenti dei fattori che determinano come il bambino poi diventerà, quali caratteristiche
avrà dal punto di vista cognitivo, della personalità, della regolazione delle emozioni,
anche per quanto riguarda lo sviluppo atipico i fattori in gioco sono tanti: abbiamo fat-
tori di rischio e fattori di protezione, il loro intreccio può determinare differenziazioni
nello sviluppo del bambino, ovvero caratteristiche di tipo temperamentale (un bambino
difficile dal punto di vista temperamentale può incontrare fattori di protezione di tipo
ambientale, come una famiglia con stile attaccamento sicuro, per cui il fattore di rischio
iniziale non esprimerà una direzione dello sviluppo di tipo negativo o addirittura di tipo
psicopatologico, in quanto i fattori di protezione di tipo ambientale favoriscono uno svi-
luppo adeguato dal punto di vista dell'adattamento del bambino al proprio contesto so-
ciale). Nel caso ad esempio di adozione, il cambiamento di contesti a favore di contesti
socio-relazionali più adeguati favorisce direzioni nello sviluppo più favorevoli; durante
l'adolescenza risultano più influenti le norme educative all'interno del contesto fami-
liare e nei contesti educativi più formali, come possono essere la scuola, il gruppo di
appartenenza, i quali possono influenzare e determinare esiti di sviluppo più o meno
problematici. La dimensione affettiva e relazionale dell’intervento è sicuramente cen-
trale, tutti i modelli hanno fatto riferimento alla componente affettiva e relazionale in
qualità di fattori determinanti nella costruzione di rappresentazioni adeguate della
realtà, finalizzate ad un buon adattamento del soggetto al proprio contesto sociale. In
questo caso, come intervento abbiamo forme di promozione della sicurezza, non solo nei
bambini ma anche nei genitori. Molte forme intervento, in virtù della multifattorialità
della problematicità originaria, tendono a intervenire non solo sul bambino, ma sul suo
contesto relazionale e su chi svolge un ruolo centrale all'interno del processo educativo
e nella costruzione della sicurezza del bambino.
I fattori contestuali che ruotano intorno al bambino vanno in qualche modo a determi-
narne gli esiti dello sviluppo, anche dal punto di vista riabilitativo, per cui anche per gli
interventi bisogna ragionare in una prospettiva sistemica allargata, che vada oltre la
problematica individuale del bambino. L'aspetto diagnostico descrittivo è solo il primo
step, poi bisogna andare ad approfondire tutta la componente sociale e contestuale che
ruota intorno al bambino.
Secondo gli studiosi un attaccamento insicuro, un parenting inefficace, delle caratteri-
stiche atipiche del bambino e le avversità familiari rappresentano le diverse aree di
rischio per uno sviluppo atipico del bambino: se queste aree si sovrappongono il rischio
diventa maggiore fino ad arrivare a casi di psicopatologia. Secondo gli studiosi il singolo
problema, quindi il singolo fattore di rischio, non dovrebbe determinare un'evoluzione
psicopatologica, però abbiamo le aree dove, per esempio, avversità familiari e attacca-
mento insicuro si sovrappongono, per cui si può avere una situazione critica nel ciclo di
vita della famiglia. La vulnerabilità individuale è quella che riguarda lo sviluppo del
bambino, per quanto riguarda fattori innati di tipo biologico, quindi aspetti che riguar-
dano il temperamento, forme di difficoltà o di deficit che sono presenti già dalla nascita
che poi, incontrando fattori di rischio di tipo ambientale, aumentano la probabilità di
uno sviluppo psicopatologico.
I sistemi di classificazione diagnostica sono essenzialmente di tipo descrittivo e i più
utilizzati nell'ambito della psicopatologia sono il DSM-V e l’ICD10 dell'OMS. Gli inter-
venti hanno tre finalità: l’intervento di prevenzione primaria è finalizzato a far sì che il
disturbo non si presenti, mentre le forme di intervento di prevenzione secondaria e ter-
ziaria entrano in gioco quando il problema si è già presentato. La prevenzione primaria
è finalizzata a proteggere i soggetti sani, annullando o riducendo il rischio di malattia:
si interviene su un’ampia popolazione, cercando di fornire una serie di strumenti fina-
lizzati a fare in modo che il problema non si presenti; è necessario avere conoscenze
riguardo alla causa di una malattia o di una problematicità e riguardo ai fattori princi-
pali che ne influenzano il manifestarsi, proprio per intervenire su quelle che poi sono le
cause che possono determinare sviluppi problematici. Gli interventi di prevenzione sono
dunque azioni volte alla rimozione delle cause della malattia, alla modifica dell'am-
biente, delle abitudini di vita, in modo da attenuare le cause, o di modificare l'azione di
fattori patogeni o potetti. Questo viene fatto, per esempio, formando i genitori sin dal
principio; possiamo immaginare prima della nascita o subito dopo la nascita, interventi
che in qualche modo mirano a far acquisire ai genitori tutta una serie di competenze che
possono favorire sviluppi tipici o ridurre o attenuare la possibilità di avere sviluppi ati-
pici. L'aiuto ai genitori si fornisce attraverso forme di parent training, ovvero forme di
addestramento alla genitorialità, finalizzate a migliorare le competenze relazionali dei
genitori, soprattutto le competenze di tipo educativo prima che si presenti il problema,
in modo tale che i genitori adottino ciò che gli esperti dell'educazione conoscono, per
favorire uno sviluppo adeguato dei propri figli. Abbiamo prevenzione, per esempio, ri-
guardo l'obesità: le ricerche a livello internazionale hanno evidenziato che l'obesità in-
fantile è uno dei fattori di rischio più importanti, con tutta una serie di conseguenze
anche di tipo psicologico e relazionale, perciò se i genitori presentano questo tipo di pro-
blema aumenta il rischio che anche il bambino possa seguire stili alimentari scorretti,
perciò se si osserva un rapido aumento ponderale del bambino nel primo anno di vita,
rispetto alle normali curve di crescita, e si è in presenza di bassi livelli socio-culturali
della famiglia, in questo caso sarebbe opportuno intervenire preventivamente. La pre-
venzione secondaria riguarda interventi che agiscono su un processo patogeno già in
atto, in cui i soggetti sono già stati colpiti da un danno che non è ancora manifesto a
livello clinico: le indagini quindi sono volte a effettuare una selezione di soggetti e sono
dette indagini di screening. Esempi di screening sulla popolazione infantile possono es-
sere il rilievo precoce di forme di acuità visiva e uditiva, obesità, crescita di scoliosi,
oppure screening sull'autismo infantile o disturbi dell'apprendimento. Più gli interventi
sono precoci, soprattutto per quanto riguarda i disturbi dello spettro autistico, più au-
menta la possibilità che l'evoluzione della problematicità sia benigna e le difficoltà il
disagio sociale sarà ridotta. L'ultimo intervento è quello clinico-terapeutico, per cui il
soggetto affetto da una malattia clinicamente evidente verrà trattato in modo da elimi-
nare la causa della malattia, oppure bloccarne l'effetto. Attenuare il processo patologico
e i suoi sintomi significa limitare il danno da esso derivante. L'insieme di queste prati-
che viene effettuato su una malattia riconosciuta e distinta dalle altre, grazie a un at-
tento lavoro di tipo diagnostico. Le problematiche presenti fin dalla nascita, per cui non
c'è una condizione premorbosa a cui il soggetto deve essere riportato, verranno trattate
con l'obiettivo di migliorarne le abilità. Se l'intervento terapeutico ha bloccato il processo
patologico, ridotto l'impatto e rallentato il decorso, l'obiettivo dell'intervento è quello di
migliorare il grado di adattamento del soggetto al proprio contesto: uno degli aspetti che
si manifestano nel momento in cui si ha davanti una problematica di tipo psicopatologico
è un adattamento minimo al contesto, il soggetto infatti ha pochi strumenti, quindi
scarsa abilità di adattamento, perciò l'intervento cerca di massimizzare il recupero delle
autonomie e dei livelli di funzionamento. In questo caso non si parla di intervento ria-
bilitativo, in quanto non c'è una situazione pre-morbosa, ma si parla di intervento abi-
litativo. Ci sono varie fasi che riguardano l'intervento terapeutico: una prima fase dia-
gnostica (di assessment o di inquadramento diagnostico), che permette di collocare il
soggetto all'interno di alcune caratteristiche peculiari, l'inquadramento diagnostico è
utile soprattutto per trattamenti di tipo psicofarmacologico. È quindi richiesto un ap-
proccio di tipo globale e integrato che comprenda un esame attento del funzionamento
psicologico del bambino, del ragazzo, dell'adolescente, sia delle sue caratteristiche indi-
viduali di sviluppo auto-organizzative, emotive, cognitive e sociali; il funzionamento psi-
cologico dei genitori e le risorse globali del sistema familiare.
È praticamente impossibile fare un intervento solo sul bambino, perché egli, in fase di
sviluppo, continua ad avere una serie di contesti che ruotano intorno a lui, contesti di
tipo relazionale, emotivo, riguardanti l'apprendimento, quindi per poter intervenire in
maniera adeguata sui disturbi dello sviluppo, diventa necessario programmare inter-
venti più globali.
Il sistema multi-assiale del IC10 riesce a descrivere meglio le sindromi, perciò risulta
più utile come base diagnostica per gli interventi successivi, perciò faremo riferimento
ad esso, piuttosto che al DSM-V. Gli assi maggiormente coinvolti nell'intervento clinico,
per quanto riguarda lo sviluppo sono i primi tre:
➢ nel primo asse troviamo i disturbi da internalizzazione e da esternalizzazione,
che nello sviluppo atipico delle emozioni sono quei comportamenti in cui l'indivi-
duo esprime il proprio disagio attraverso forme di aggressività, quindi l'esterna-
lizzazione e l'internalizzazione sono due polarità dove il sintomo viene espresso
all'interno del soggetto nei disturbi da internalizzazione, oppure nel suo contesto
sociale, verso l'esterno come disturbo da esternalizzazione. Nell'asse 1 vediamo
due poli, all'interno dei quali troviamo i disturbi d'ansia (disturbi da internaliz-
zazione) e all'opposto abbiamo i disturbi oppositivo-provocatori della condotta e i
disturbi da deficit dell'attenzione e dell'iperattività;
➢ nell'asse 2 troviamo i disturbi dello sviluppo motorio, del linguaggio, dell'appren-
dimento e i disturbi generalizzati dello sviluppo, all'interno dei quali vedremo
anche il disturbo autistico;
➢ nell'asse 3 troviamo la disabilità intellettiva.
ASSE I
Partiamo dai disturbi d'ansia, collocati all'interno dell’asse 1. Essi sono considerati di-
sturbi da internalizzazione e comprendono alcuni principali quadri clinici, troviamo dei
sottotipi:
➢ il primo è la sindrome d'ansia da separazione dell'infanzia, caratterizzato da una
forma eccessiva di ansia, manifestata dal bambino quando si deve separare dalla
figura di attaccamento (la figura materna);
➢ il secondo è la sindrome fobica dell'infanzia; per poter parlare di fobia dobbiamo
uscire dalla concettualizzazione della normalità, infatti le paure fanno parte nor-
malmente dello sviluppo tipico di ogni bambino, si può parlare di sindrome fobica
dell'infanzia quando la paura nei confronti di particolari oggetti, animali o situa-
zioni risulta essere eccessiva e persistente, cioè quando non riguarda singoli epi-
sodi legati a particolari situazioni, ma è persistente, dura nel tempo;
➢ la terza è la sindrome di ansia sociale dell'infanzia, che si manifesta con un’ecces-
siva timidezza nei confronti di situazioni e figure nuove o poco familiari.
La prima è un'ansia legata alla figura di attaccamento, in particolare quando essa viene
a mancare. Il pianto e l'ansia dovuti all'allontanamento della figura di attaccamento
sono normali, come dimostrato nelle prove della Strange situation, tuttavia in questo
caso si tratta di un'ansia eccessiva, che anche in seguito alla ricongiunzione con la figura
protettiva non si placa.
La seconda tipologia riguarda in particolare oggetti, animali o situazioni, perciò qual-
cosa che non riguarda la componente relazionale. La paura di determinate situazioni
potrebbe diventare una forma di claustrofobia o di agorafobia.
La terza sindrome riguarda quella forma di ansia legata al pianto quando al bambino si
avvicinano figure nuove. Durante lo sviluppo vi è una fase particolare, definita “paura
dell'estraneo”, la quale compare intorno ai 7-9 mesi, ma si tratta di un periodo transito-
rio, legato all’interiorizzazione della figura di attaccamento, per cui se nei mesi prece-
denti il bambino poteva essere preso in braccio da estranei, durante il periodo di inte-
riorizzazione egli piange e prova ansia. Una forma di persistenza con forme di timidezza
anche nei periodi successivi, può essere diagnosticata come ansia sociale.
Un'altra sindrome, più generalizzata, è legata a forme di preoccupazione irrealistica, in
cui lo stato ansioso non è associato a stimoli particolari (sindrome ansiosa generaliz-
zata). Mentre nelle prime tre è più evidente l'oggetto, il motivo che provoca l'ansia, in
questa tipologia l’ansia può comparire anche in situazioni dove il bambino non sta vi-
vendo condizioni o situazioni potenzialmente pericolose.
Il tasso di prevalenza dei disturbi d'ansia (DA) dai 4 ai 20 anni è secondo alcuni autori
del 12%, per altri intorno al 20-25%; probabilmente vi è un’influenza anche di tipo con-
testuale. Il disturbo d'ansia da separazione è il più frequente nell'infanzia e nell'adole-
scenza, ha una prevalenza pari al 3-4% ed è prevalente nei maschi che ottengono una
diagnosi di disturbo d'ansia da separazione di circa il doppio rispetto al genere femmi-
nile. Nell'eziopatogenesi, insieme ad alcuni aspetti di vulnerabilità neurobiologica e
temperamentale, sono implicati fattori relazionali e sociali in interazione reciproca: se
queste forme di vulnerabilità neurobiologica incontrano contesti che non sono favorevoli
per lo sviluppo del bambino, la probabilità che tale incontro tra fattori diventi una sin-
drome risulta più elevata.
Nel disturbo d'ansia da separazione abbiamo la presenza di schemi cognitivi dominanti,
caratterizzati dalla paura della perdita, un intenso timore di danno fisico o di critica, il
bambino in assenza della figura di riferimento si sente più vulnerabile non solo a livello
fisico, ma anche nel contesto sociale. Il bambino ha delle aspettative molto più pericolose
e catastrofiche sugli eventi rispetto a quelle riscontrabili nei bambini non ansiosi. Uno
degli esiti di queste forme d'ansia è la diminuita esplorazione dell'ambiente da parte del
bambino, il quale tende a stare più vicino possibile alle figure protettive o a contesti in
cui si sente protetto; la scarsa esplorazione lo porta a fare meno esperienze di vita so-
ciale, di contesti nuovi e ciò non favorisce un arricchimento della sua esperienza di svi-
luppo. L'influenza delle esperienze primarie di attaccamento è molto forte, infatti, una
delle 4 tipologie di attaccamento è legata all'ansia, il modello ansioso-ambivalente: ci
sono itinerari di sviluppo di tale organizzazione cognitiva dove ci sono dei pattern an-
sioso-resistenti, in cui la componente di cura è caratterizzata da forme di instabilità e
imprevedibilità della figura di attaccamento. L'imprevedibilità e l'instabilità comporta-
mentale da parte del genitore non favorisce l'interiorizzazione della sicurezza e per poter
costruire una rappresentazione di sicurezza è necessario che il bambino abbia fiducia
nella continuità della risposta genitoriale, ovvero quando il bambino ha bisogno il geni-
tore ci dev'essere, soprattutto nelle primissime fasi dello sviluppo, quando la memoria
del bambino è ancora una memoria implicita di tipo emozionale, che diventa la base per
la costruzione di rappresentazioni relazionali successive. Vi è una sorta di enfatizza-
zione dell'aspetto emotivo in questo tipo di attaccamento, un’enfatizzazione dell'ansia
da separazione, che ha come finalità quella di mantenere la vicinanza della madre.
Molto probabilmente la madre a sua volta è ugualmente una figura insicura, infatti,
vista la trasmissione intergenerazionale degli stili di attaccamento, vi è una probabilità
del 75% che i figli abbiano lo stesso stile di attaccamento di quello genitoriale, perciò un
bambino che viene diagnosticato con un disturbo d'ansia è probabile che abbia delle fi-
gure genitoriali insicure. Il bambino, tramite i neuroni specchio, è sintonizzato con gli
stati emotivi del caregiver, i quali vengono colti tacitamente dal bambino anche se il
caregiver non manifesta esplicitamente il proprio stato emotivo, ma lo comunica con
segnali di tipo non verbale. Si osservano comportamenti genitoriali apparentemente di
tipo iperprotettivo che mascherano difficoltà a tollerare la solitudine: l'iperprotettività
fa parte di quella sorta di instabilità, di imprevedibilità, e diminuisce implicitamente la
tendenza del bambino ad esplorare l'ambiente, perché il messaggio che la mamma gli
trasmette è che l'ambiente è potenzialmente pericoloso. Questa forma di iperprotettività
viene gestita impedendo o limitando l'esplorazione del bambino, connotando il bambino
come fragile e descrivendo la realtà esterna come pericolosa, densa di insidie e di mi-
nacce. Al bambino vengono date tutta una serie di indicazioni, anche comportamentali,
sottolineando che il bambino è piccolo, perciò non può fare ancora alcune esperienze. Le
forme di comunicazione implicite di tipo emotivo si integrano con queste più esplicite e
il bambino costruisce forme di rappresentazione della realtà in termini di insicurezza,
dove l'idea di fondo è che il mondo è pericoloso, perciò si deve essere sempre accompa-
gnati da una figura protettiva. Gli interventi che si portano avanti in questi casi sono
programmi di tipo cognitivocomportamentale, risultati efficaci sia con bambini sia con
adolescenti. All'interno di questi programmi uno degli obiettivi primari è quello di aiu-
tare il bambino a riconoscere i segnali di attivazione ansiogena, caratterizzata da cam-
biamenti di tipo fisiologico che diventano indicatori per aiutare il bambino a prendere
consapevolezza dei propri stati interni (livelli di tensione, aumento della frequenza car-
diaca, la tendenza comportamentale e motoria a scappare verso il caregiver). Il primo
passo dunque è raggiungere una certa consapevolezza, in seguito l'intervento è diviso in
due parti principali: una parte di tipo pedagogico, in cui il bambino viene aiutato a iden-
tificare le varie componenti della propria reazione ansiosa, le quali si esprimono a vari
livelli (somatico, cognitivo, comportamentale).
Es. a livello cognitivo, nel caso in cui i genitori escono, il bambino pensa che possano
avere un incidente, che possano morire mentre sono fuori casa; per quanto riguarda le
reazioni di tipo somatiche, fisiologiche e comportamentali pensiamo ai comportamenti
tendenzialmente di fuga o al nascondersi in luoghi che lui ritiene più protettivi.
La seconda parte di intervento è quella di aiutare il bambino a costruire abilità di coping
che siano efficaci riguardo ciascuna di queste componenti, ovvero a costruire forme di
apprendimento e strategie regolare il deficit. I dati prognostici mettono in evidenza che
in alcuni soggetti i risultati acquisiti, grazie all'apprendimento di queste strategie, si
mantengono nel tempo, in altri vi è il rischio di ricadute successive; ciò dimostra che
durante lo sviluppo niente è definitivo. I cambiamenti evolutivi sono già di per sé fonte
di ansia anche nello sviluppo tipico, in questo caso l’ansia è un segnalatore interno
dell'imprevedibilità che ci aspetta quando stiamo percorrendo strade nuove o comunque
ci stiamo avventurando in percorsi evolutivi che non conosciamo, ma nel caso di bambini
che hanno già manifestato esperienze con disturbi d'ansia, ulteriori eventi critici nella
storia familiare possono comportare forme di ricadute successive, perciò è importante il
lavoro terapeutico con la coppia genitoriale per aumentare, nei genitori stessi, la consa-
pevolezza delle aree emozionali critiche, della loro gestione e comunicazione all'interno
della coppia, si tratta in questo caso di un intervento di tipo sistemico, dove si va ad
intervenire non solo su un aspetto (l'ansia del bambino), perché se permangono modalità
di accudimento disfunzionali, aumenta la probabilità di ricaduta. Per questo motivo an-
che i genitori devono essere aiutati a gestire adeguatamente sia la componente comuni-
cativa, sia la consapevolezza delle proprie risposte emotive agli eventi. L'obiettivo è
quello di ripristinare all'interno della relazione madre-bambino quella forma di condi-
visione attiva, un sentire condiviso rispetto agli eventi, che aiuti il bambino a sentire la
mamma più vicino rispetto ai propri bisogni. Il genitore dovrebbe aiutare il bambino a
riflettere sui propri stati emotivi, a riconoscerli ed esternarli, ad esprimerli, in questo
modo il genitore può diventare più consapevole di quali siano i fattori che inducono l'an-
sia nel bambino. I sintomi hanno funzione all'interno della componente relazionale,
quindi l'ansia da perdita del legame con il proprio caregiver ha la funzione di attivare
un sistema motivazionale di accudimento da parte del genitore, pertanto se il bambino
viene rassicurato, inizierà a non usare più l'ansia come strumento di richiamo sul geni-
tore e sulla ricerca di vicinanza.
Studi longitudinali su bambini e adolescenti con disturbi d'ansia evidenziano che il ri-
schio di sviluppare un disturbo d'ansia (DA) in età adulta è 3-4 volte maggiore rispetto
ai bambini che durante l'infanzia non presentano tale disturbo, vi è una sorta di conti-
nuità, un fattore di rischio anche per l'età adulta. Man mano che vengono interiorizzate
le rappresentazioni di significato della realtà, diventano strutture rappresentative cen-
trali della mente del bambino, che si riattivano ogni qualvolta il soggetto entra in con-
tatto con quegli stimoli peculiari che riattivano risposte da ansia.
Altri tipi di disturbi che caratterizzano lo sviluppo sono il disturbo della condotta e il
disturbo oppositivo-provocatorio. Il disturbo oppositivo provocatorio è considerato un
precursore che predispone il soggetto all'insorgenza di disturbi della condotta. I due di-
sturbi sono messi insieme perché vi è una forma di continuità temporale, mentre i di-
sturbi dell'attenzione e dell'iperattività vengono collegati perché spesso si tratta di co-
morbilità, ovvero si presentano spesso insieme, per cui ci sono diagnosi congiunte. La
presenza di questa caratteristica aumenta la probabilità di sviluppare un disturbo di
condotta, il quale ha come precursori problematiche che possono essere associate al di-
sturbo oppositivo-provocatorio e al disturbo dell'attenzione e dell'iperattività. Dal punto
di vista della prognosi, quando si sommano più disturbi contemporaneamente diventa
più complesso intervenire e l'evoluzione di solito è più sfavorevole: gli esiti possono es-
sere condotte antisociali, problemi con la giustizia e abuso di sostanze in età adulta. La
stabilità nei disturbi della condotta dall'infanzia all'adolescenza oscilla da moderata ad
alta a seconda delle ricerche. L'aggressività e i pattern comportamentali distruttivi
identificano in maniera attendibile e precoce i disturbi di condotta. I disturbi di condotta
interessano maggiormente i maschi, che mostrano una certa continuità temporale
dall'infanzia all'età adulta, mentre nelle femmine le forme di aggressività durante lo
sviluppo comportano con più probabilità disturbi depressivi e ansiosi nelle fasi succes-
sive. Il disturbo della condotta e il disturbo oppositivo-provocatorio sono caratterizzati
da modalità persistenti di condotte antisociali, aggressive e provocatorie, con violazione
dei diritti fondamentali degli altri e delle principali norme e regole sociali; in relazione
all'età, questi comportamenti vengono osservati per almeno sei mesi consecutivi, con
una compromissione significativa del funzionamento sociale, scolastico e lavorativo. Un
esordio precoce, inferiore ai 5 anni, è predittivo di una prognosi peggiore, ovvero au-
menta il rischio di un disturbo antisociale e di disturbi correlati all'abuso di alcool e
sostanze in età adulta. Una diagnosi precoce permette di intervenire precocemente e
aumenta l'efficacia dell'intervento, mentre attendere significa andare verso una croni-
cizzazione del comportamento, il quale diventa più stabile e rappresenta un tratto com-
portamentale tipico del soggetto. È stata riscontrata anche una difficoltà a mentaliz-
zare, quindi difficoltà a riflettere sugli stati interni e a inibire l'aggressività, per cui tali
soggetti mentalmente rappresentano la vittima come priva di pensieri, sentimenti e in-
capace di vera sofferenza, ciò è tipico dei soggetti con comportamenti antisociali, nei
quali viene a mancare o è carente l'empatia. La vittima viene disumanizzata e si crea
una serie di strategie cognitive, veri e propri meccanismi di difesa, in cui il soggetto
giustifica il proprio comportamento, ciò lo porta a non apprendere dall'esperienza e a
perpetrare nel tempo queste tipologie di comportamenti. Si ritrovano tutta una serie di
aspetti all'interno di questo tipo di disturbo e questo comporta dei fallimenti negli abi-
tuali trattamenti psicoterapeutici individuali, di gruppo e della famiglia. Gli interventi
devono essere integrati e globali. Interventi su singoli fattori dell'individuo sono desti-
nati con un'alta percentuale a un fallimento. C'è invece una maggiore efficacia in inter-
venti multi-modali e multisistemici, dove è necessario fare interventi individuali, fami-
liari ed extra-familiari, quindi si parla di intervenire anche sul contesto, talvolta anche
di tipo psicofarmacologico, questo sottolinea la necessità di un trattamento integrato.
"L'assessment", processo di valutazione, deve occuparsi in modo particolare dell'osser-
vazione della relazione genitore-bambino per aiutare i genitori a prendere consapevo-
lezza delle proprie modalità di accudimento, di cura e di risposta, quindi responsività ai
segnali di attaccamento del figlio. Sono quei tipi di trattamenti in cui si cerca di ripri-
stinare quello che dovrebbe essere il tipo di attaccamento sicuro e l'intervento, su questo
piano, aiuta anche il genitore a prendere consapevolezza delle modalità con cui si pone
in relazione con il proprio figlio; sono importanti anche percorsi psico-educativi di parent
training, per aiutare i genitori nella formazione di nuove competenze comunicative ed
educative di gestione delle regole del conflitto. Questo è un aspetto importante perché
componenti di tipo temperamentale, quindi innate, mettono fortemente in crisi anche i
genitori che hanno buone capacità di accudimento. L'aiuto ai genitori nell'acquisire delle
abilità che possano aiutare a gestire in modo particolare tutta la componente provoca-
toria e conflittuale che si viene a creare all'interno della relazione, aumenta le probabi-
lità di successo del trattamento. Anche un approccio cognitivo comportamentale sono
molto importanti, perché lavorano su aspetti molto specifici e in modo particolare sono
trattamenti più idonei per le prime fasi dello sviluppo, in quanto ci sono dei training
orientati all'autocontrollo che portano l'individuo a prendere consapevolezza di espe-
rienze, sensazioni cinestesiche (che derivano dalla componente corporea) del soggetto
sensoriale, oppure fisiologiche nella comparsa delle reazioni di rabbia, e incoraggiarli a
graduare i livelli di intensità delle emozioni avvertite.
Vediamo ora i deficit dell'attenzione e della iperattività, una problematica complessa,
perché racchiude varie componenti: l'iperattività, l'impulsività e la disattenzione; si
parla di componente predominante perché nella diagnosi tutte le componenti sono pre-
senti, però una di queste emerge in modo particolare. In base al tasso di prevalenza di
queste singole componenti abbiamo la possibilità di diagnosticare tre sottotipi:
➢ il primo è quello con disattenzione predominante: per esempio bambini con scarsa
capacità di prestare attenzione ai compiti, però contemporaneamente non tanto
iperattivi, quindi che riescono a controllare sufficientemente la componente ipe-
rattiva-impulsiva;
➢ il secondo sottotipo è quello con iperattività-impulsività predominante, dove la
componente comportamentale orientata all'azione motoria è prevalente;
➢ infine abbiamo un sottotipo combinato, dove le componenti sono entrambe impor-
tanti.
Questo disturbo ultimamente ha avuto, così come il disturbo autistico, un incremento
notevole di diagnosi e si sta cercando di comprendere quali siano i fattori di base, da
cosa possa derivare oltre ad una serie di cambiamenti in termini di stimolazione am-
bientale. Nella nostra filogenesi, storicamente, questi aspetti ambientali erano ben di-
versi: da un lato l’esplosione tecnologica può disorientare una mente in fase di sviluppo
(componente ambientale), però molti studi sottolineano la componente di base di tipo
neurobiologica. È da comprendere in quale fase avviene la costruzione di questo di-
sturbo; una delle ipotesi è che avvenga nella fase prenatale, ma ancora non è ben chiaro.
L'evidenza clinica compare quando la scarsa regolazione del bambino si incontra con
strategie genitoriali che amplificano il deficit stesso e quindi che si trasforma in sintomo.
A volte le risposte genitoriali non sono molto adeguate, forme educative basate sulla
punizione, sull'aggressività da parte dei genitori portano ad amplificare il deficit stesso
e alla costruzione del sintomo vero e proprio. I modelli di trattamento si focalizzano su
tre ambiti principali. Il primo riguarda il miglioramento delle abilità autoregolative del
bambino, tecniche orientate a forme di autoistruzione, problem solving e tecniche di
rinforzo, tipicamente appartenenti alla metodologia comportamentale. Si parla di inter-
vento integrato: intervento sul bambino, intervento sui genitori nel contenimento e nella
gestione educativa quotidiana attraverso forme di Parent training, per insegnare a dare
delle risposte adeguate a questa forma di impulsività del bambino. Il sostegno agli in-
segnanti all’interno del contesto scolastico risulta molto produttivo, soprattutto perché
è un ambito nel quale le risorse del bambino mostrano i loro limiti. La scuola richiede
processi attentivi molto prolungati: comportamenti di controllo motorio come lo stare
seduti in un banco e prestare attenzione ai compiti per molte ore di seguito è un contesto
dove il disturbo viene fatto emergere dalla dinamica organizzativa del lavoro scolastico.
ASSE II
Passiamo ai disturbi evolutivi della funzione motoria in cui abbiamo un sistema di va-
lutazione attraverso test standardizzati che vanno a misurare la coordinazione motoria
fine e la motricità più grossolana. Queste due forme di coordinazione motoria devono
risultare con almeno due deviazioni standard sotto il livello atteso in base all'età crono-
logica. La motricità grossolana riguarda la postura, la funzione statica, l'equilibrio, il
cammino e la corsa, mentre la motricità fine riguarda la coordinazione oculomanuale,
quindi la manipolazione degli oggetti. Per quanto riguarda la motricità fine, abbiamo
l'esecuzione di compiti più dettagliati e per poter fare una diagnosi di questo disturbo è
necessaria l'assenza di una condizione neurologica e di un ritardo mentale (quoziente
intellettivo inferiore a 70). Gli interventi tipici per questo disturbo sono praticati dal
fisioterapista, ma anche in questo caso la componente comportamentale è fondamentale:
anche il fisioterapista deve cercare di reinterpretare la fisioterapia, che va interpretata
come esperienza di vita quotidiana piuttosto che esclusivamente un esercizio terapeu-
tico. Parallelamente ai diversi interventi riabilitativi e abilitativi, una grande atten-
zione dell'equipe curante deve essere posta alle implicazioni relazionali ed emotive che
tali problematiche comportano. L'inserimento all'interno dei gruppi dei pari di bambini
affetti da questo disturbo comporterà un impatto importante in termini di adattamento,
perché il bambino con problematiche di tipo motorio di questo genere, mostrerà difficoltà
nell'esecuzione di una serie di compiti motori specifici e di abilità motorie che lo porte-
ranno, se non supportato adeguatamente, a un abbassamento di forme di autostima e
talvolta anche a forme di ritiro sociale. Anche in questo caso l'intervento deve essere
orientato su vari ambiti dello sviluppo del soggetto. Se si dovessero verificare compo-
nenti psicologiche che vanno ad aggravare la condizione generale, il bambino potrebbe
anche perdere la motivazione alla riabilitazione motoria vera e propria.
Un altro aspetto dell'asse II è il disturbo specifico del linguaggio. Il sistema diagnostico
riconosce due forme di disturbo specifico di linguaggio: una che riguarda la compromis-
sione sia della comprensione che dell'espressione del linguaggio e un'altra in cui è com-
promessa solo l’espressione. Anche in questo caso c'è una valutazione con test standar-
dizzati, dove la diagnosi si fa con due deviazioni standard al di sotto del livello appro-
priato per l'età del bambino. Uno studio di metanalisi ha dimostrato che leggere libri al
bambino, fin dai 6 mesi di vita, migliora significativamente il suo sviluppo linguistico,
in particolare del vocabolario e delle competenze fonologiche. Questo è un intervento di
tipo preventivo, per aumentare la probabilità che attraverso forme adeguate di stimola-
zione ambientale, il bambino possa migliorare o sviluppare forme di comprensione e di
espressione linguistica all'interno della norma. Queste forme di ritardo nello sviluppo
del linguaggio solo in un terzo hanno un esito clinico vero e proprio, in altri casi è un
ritardo che si risolve con lo sviluppo. Già da dopo gli anni 90 negli Stati Uniti e nel
Regno Unito, quindi nei paesi anglosassoni, sono stati creati programmi di promozione
della lettura da parte dei genitori ai propri figli, come forma di prevenzione dei disturbi
del linguaggio. Queste forme di intervento (sia per il ritardo dello sviluppo, sia per ab-
bassare il tasso di probabilità che uno sviluppo del linguaggio che compare in ritardo
abbia un esito negativo) sono risultate particolarmente utili. Anche in Italia dal 2000 è
stato creato un programma di questo tipo. Il tipo di trattamento che di solito viene at-
tuato, è il trattamento riabilitativo, portato avanti principalmente dal logopedista, con
3 metodologie. Quello che viene chiamato il "metodo ortofonico sintomatico" è il metodo
classico, più lineare, un metodo direttivo, in cui il bambino esegue esercizi programmati
e finalizzati a migliorare l'articolazione dei fonemi, il vocabolario lessicale e la costru-
zione sintattica delle frasi; il logopedista ha un ruolo centrale nello stimolare il bambino
nell'acquisizione di queste competenze. Si interviene quando queste competenze non
compaiono all'età prevista. Il metodo invece “psicoterapico” ha come obiettivo fondamen-
tale la componente relazionale, intensa col bambino in cui si utilizzano diversi strumenti
comunicativi ed espressivi: mimici, gestuali, grafo-motorie e infine verbali. Mentre il
primo è molto "direttivo” e orientato al compito, in questo caso la componente relazionale
è prioritaria: a partire da forme di comunicazione non verbali, è come se questo tipo di
trattamento recuperasse la componente relazionale iniziale. Attraverso il linguaggio
non verbale, si passa a quello verbale. Poi abbiamo il metodo logopedico definito "natu-
rale", dove l'intervento è orientato a coinvolgere la mamma e gli educatori e si lavora
sulle tappe linguistiche da stimolare nel bambino. Il primo è un intervento orientato al
trattamento sul sintomo, il secondo è più basato sulla ricostruzione relazionale per ar-
rivare poi all'acquisizione delle abilità verbali, mentre in questo caso vengono coinvolte
le persone che ruotano intorno al bambino. Perché l'intervento risulti produttivo e rag-
giunga il proprio obiettivo è importante integrarlo con altre forme collaterali di inter-
vento, anche relazionale.
Vediamo adesso i disturbi specifici dell'apprendimento: i DSA. C'è da dire che riguardo
a questi disturbi c'è una continua evoluzione. Quando parliamo di letto-scrittura c'è an-
che una componente culturale specifica: c’è una diagnosi che misura tutta una serie di
fattori riconosciuti a livello internazionale, però poi ogni Stato aggiorna metodologie,
strumenti tipici della lingua specifica in cui compare il disturbo. La dislessia, per esem-
pio, ha tutta una serie di caratteristiche su cui gli studiosi convergono a livello interna-
zionale, però un dislessico che ha problemi con la lingua italiana e un dislessico che ha
problemi con la lingua inglese, possono aver bisogno di trattamenti anche leggermente
diversi in base proprio a come è articolato il linguaggio all'interno di ogni singolo Paese.
Il criterio dell’ICD10: un punteggio nell'accuratezza e nella comprensione della lettura,
che abbia almeno due deviazioni standard al di sotto del livello atteso, sulla base all'età
cronologica e dell'intelligenza generale del bambino. Poi abbiamo anche il disturbo che
riguarda le abilità aritmetiche, conosciute come forme di acalculia oppure discalculia.
Le abilità aritmetiche possono riferirsi, così come la lettura, alla velocità e all'accura-
tezza, in questo caso del calcolo matematico e all'abilità di interpretare e risolvere pro-
blemi espressi con parole, frasi e con figure geometriche. Anche in questo caso, per
quanto riguarda l'intervento della lettura, studi di metanalisi hanno dimostrato che leg-
gere il libro al bambino dai sei mesi di vita, migliora competenze linguistiche in età
prescolare e l'apprendimento della lettura in età scolare, non solo l'apprendimento del
linguaggio verbale, ma anche apprendimento della lettura. Questo sta ad indicare come
le forme di linguaggio siano spesso interrelate. Programmi di promozione alla lettura
sin dalla più tenera età, vengono avviati come strumento di prevenzione anche del di-
sturbo specifico della letto-scrittura, non solo come prevenzione del disturbo specifico
del linguaggio. La mancata frequenza della scuola d'infanzia e difficoltà di apprendi-
mento sin dalla prima classe elementare si sono dimostrati fattori di rischio per la car-
riera scolastica successiva. L'abilitazione in questo caso corrisponde a forme di tratta-
mento individualizzate, in modo particolare in ambito scolastico, forme di personalizza-
zione orientate alle caratteristiche specifiche del soggetto. Bisogna cercare di compren-
dere quali sono le aree della disabilità più compromesse e cercare di lavorare su questi
aspetti specifici. Ci sono dei training specifici che sono orientati ad aumentare la velocità
e la correttezza della lettura.
Vediamo ora i disturbi generalizzati dello sviluppo, i quali sono forme di anomalie nelle
interazioni sociali e nelle modalità di comunicazione, con repertorio limitato e stereoti-
pato di interessi e di attività. Nei disturbi generalizzati dello sviluppo sono presenti
importanti vincoli biologici che rendono impossibile l'acquisizione di un'adeguata teoria
della mente, ossia l'espressione delle relative competenze di tipo meta-cognitivo e comu-
nicative. Gli strumenti diagnostici come l’ICD-10 e il DSM-V hanno una finalità descrit-
tiva delle problematiche e sono l'esito di una serie di studi in cui sono stati osservati
questi deficit. Caratteristiche del disturbo sono: l’incapacità di utilizzare lo sguardo, la
mimica facciale (questa è una componente fondamentalmente socio-comunicativo-emo-
tiva) e gestuale per regolare l'interazione sociale, l’incapacità di condividere con i coeta-
nei interessi attività ed emozioni l’incapacità di reciprocità socio-emozionale e di ap-
prendere comportamenti sociali, la mancanza della componente di costruzione della re-
ciprocità (tipica durante lo sviluppo del bambino con il proprio caregiver), della condivi-
sione (legata allo sviluppo di una teoria della mente). La componente prettamente psi-
cosociale riguarda questa forma di condivisione, di sintonia e di reciprocità all'interno
della relazione. La compromissione qualitativa della comunicazione riguarda, invece,
almeno uno di questi aspetti: ritardo o mancanza nello sviluppo del linguaggio verbale
e assenza del linguaggio gestuale come modalità alternativa al precedente. C'è quindi
un ritardo nel linguaggio, che ha anche come predittore importante l'apprendimento del
linguaggio non verbale, che nasce e si costruisce all'interno della reciprocità relazionale
con il proprio caregiver, che in questo caso non si costruisce. Inoltre, c’è un’incapacità a
sostenere una conversazione con risposte reciproche pertinenti alle comunicazioni di un
altro soggetto o nell'iniziare un discorso. Anche in questo caso è assente quella compo-
nente interattiva di sintonia e di reciprocità che su questo piano si manifesta anche a
livello linguistico e non solo della comunicazione sociale più ampia. C'è un uso ripetitivo
e stereotipato di parole o frasi che sono fuori dal contesto, che derivano inevitabilmente
dal fatto che il bambino non è in sintonia con la mente dell'altro; l’altro aspetto è l'as-
senza di gioco d'imitazione e del gioco simbolico. Questo aspetto è una componente fon-
damentale, descritto in particolare da Piaget, al termine della fase senso-motoria: in-
torno ai 2 anni compare il gioco simbolico, quel tipo di gioco del fare "come se". Esso è
dato da uno strumento che viene rappresentato come se potesse essere utilizzato con
un’altra funzione. I comportamenti ripetitivi e stereotipati riguardano almeno uno dei
seguenti aspetti: adesione compulsiva a pratiche oppure rituali, manierismi motori ri-
petitivi (osservabile nel bambino che muove le mani intorno al viso facendole roteare
continuamente, oppure seduto nel seggiolino che si dondola e tende a sbattere la testa
ripetutamente sulla spalliera). C'è una preoccupazione inusuale per elementi particolari
del materiale di gioco, quale l'odore, il tatto, oppure una vibrazione, c'è proprio una sorta
di attenzione che può arrivare a forme ossessive, quindi in termini di preoccupazione
anche delle potenziali conseguenze di questi aspetti della sua realtà circostante. Ci sono
poi interessi ripetitivi anomali per contenuto e natura come giochi che il bambino ripete
con l'acqua o con oggetti circolari (muove continuamente la mano all'interno di una ba-
cinella e può stare lì per tanto tempo ripetendo in maniera compulsiva questo tipo di
comportamenti). Un aspetto fondamentale nella diagnosi dell'autismo è la diagnosi pre-
coce: prima si interviene meglio è e c’è uno strumento, il quale è composto in due parti:
un questionario con domande ai genitori, quindi uno screening dall'anno e mezzo ai due
anni per permettere la diagnosi precoce, poi c'è un'osservazione diretta del comporta-
mento del bambino da parte dello psicologo. Le domande, gli item critici di maggior ri-
lievo per la diagnosi di sospetto autismo, sono quelle relative a due aspetti fondamentali:
l'attenzione condivisa e il gioco simbolico. Quando questi due aspetti non sono presenti,
il rischio che il bambino possa sviluppare il disturbo autistico è molto molto elevato. Dal
disturbo autistico non si guarisce, però una serie di interventi possono migliorare tutti
gli aspetti che ruotano intorno a questo disturbo, in modo particolare quelli che sono più
debilitanti, che sono quelli legati alla componente psicosociale. Si sta cercando di abbas-
sare l'età della diagnosi perché in passato si arrivava a formulare una diagnosi addirit-
tura all'inizio della scuola primaria o poco prima e quando la diagnosi viene fatta troppo
in ritardo, tutta una serie di aspetti comportamentali si sono già cronicizzati. Per alcuni
studiosi si può fare una diagnosi o individuare questi segni anche prima dell'anno e
mezzo, intorno a un anno. Quando si hanno diagnosi di questo genere, l'impatto emotivo
è molto forte quindi i meccanismi di difesa sono abbastanza frequenti in questo ambito
(negazione da parte dei genitori o minimizzazione iniziale dei sintomi). Nel trattamento
i genitori devono sapere che non esistono cure farmacologiche che guariscono l'autismo.
Questa è una delle cose più difficili da accettare per i genitori. Esistono anche dei gruppi
di sostegno tra genitori, dove ci sono forme di condivisione di comportamenti da utiliz-
zare, forme di supporto reciproco. Il trattamento è finalizzato a miglioramenti nelle aree
della comunicazione, interazione sociale e interessi personali. Alcune procedure hanno
dimostrato una sufficiente efficacia nel migliorare la prognosi naturale dell'autismo.
Questo rimanda a una delle metodologie specifiche. La prima è l’ABA, un trattamento
educativo basato sui principi della terapia comportamentale. È organizzato con almeno
20 ore settimanali di trattamento individuale e si lavora su comportamenti sociali, ver-
bali, cognitivi e motori attraverso l'osservazione sistematica, in modo particolare l'uti-
lizzo del rinforzo positivo e l'incentivo all'apprendimento. È una modalità di tipo com-
portamentale, la procedura del rinforzo, ed è uno strumento di apprendimento fonda-
mentale, in modo particolare riguardo a comportamenti di tipo elementare. È l'incentivo
all'apprendimento attraverso procedure passo passo di comportamenti specifici che sono
deficitari nel disturbo autistico. Il metodo TEACCH è una forma di apprendimento al-
tamente strutturato e organizzato che prevede compiti visivi e visuo-motori, quindi è
più orientato a favorire quelle forme di comunicazione spontanee. Ci sono dei risultati
incoraggianti con questa metodologia, ma dipendono dal coinvolgimento di genitori e
degli educatori. L'altra è la Comunicazione Alternativa Aumentativa: una forma di co-
municazione con strumenti visivi e tecniche comportamentali di rinforzo che integra un
po' aspetti che sono presenti nei primi due.
Gli obiettivi comportamentali e comunicativi nei contesti di vita del bambino vengono
acquisiti grazie al tempo da trascorrere con l’educatore adulto, con un rapporto uno a
uno, quindi un educatore per ogni bambino. L'individualizzazione è molto forte in questo
tipo di intervento sulle caratteristiche personali, e si attua con l'utilizzo di canali visivi
e visuo-motorie. Anche in questo caso è richiesta la collaborazione tra genitori e profes-
sionisti.
ASSE III
Infine, nell'asse III, abbiamo il ritardo mentale. Il bambino con ritardo mentale è un
bambino con bisogni speciali che va riconosciuto, valutato e trattato per migliorare il
suo adattamento sociale e lavorativo in età giovanile ed adulta. Anche in questo caso i
trattamenti sono finalizzati a favorire un adattamento al contesto negli anni successivi
dello sviluppo. La diagnosi si fa col quoziente intellettivo, che è una misura standardiz-
zata sulla popolazione di appartenenza; quindi, il livello raggiunto durante lo sviluppo
della media dei bambini di quell'età. Il ritardo mentale si osserva sotto il terzo centile
per gli standard cognitivi normativi. Terzo centile vuol dire che se noi abbiamo una di-
stribuzione di bambini che collochiamo da 0 a 100, abbiamo un ritardo mentale pratica-
mente nel primo 3%, quindi con i punteggi più bassi che riguardano il primo gruppo che
occupa il 3% di questa curva di distribuzione. Più si sale e più aumenta il quoziente
intellettivo. Un QI di 100 nella popolazione di pari età si trova al cinquantesimo centile,
ossia nella media. La media è 100 in una distribuzione che va da 0 a 100 (centile vuol
dire la percentuale dei bambini che si collocano all'interno di questa curva, quindi avere
100 vuol dire stare a metà). In altre parole, 100 è la media di una curva dove ci sono i
50% sul lato sinistro che hanno un QI inferiore a 100, man mano che si scende, sull'e-
strema sinistra troviamo il primo, il secondo e il terzo centile, dove troviamo i bambini
con ritardo mentale. Sul lato opposto della curva a destra, troviamo i bambini che sono
considerati più intelligenti. Dal cinquantesimo centile fino al centesimo centile abbiamo
i bambini più intelligenti e quelli che sono dotati di abilità cognitive superiori. Un QI a
85, si trova a meno una deviazione standard, ovvero intorno al 16° centile (ricordiamo
che centile riguarda la percentuale dei bambini all'interno di una distribuzione), che è
all'interno della curva, verso il basso. Con un QI inferiore a 70, cioè con due deviazioni
standard sotto la media, troviamo il terzo centile. 70 è il QI che corrisponde a meno 2
deviazioni standard dalla media, occupa all'interno della curva della distribuzione il 3%
di bambini che vengono diagnosticati con ritardo mentale. Più precisamente: un ritardo
mentale lieve corrisponde a un QI che va da 50 a 69, un ritardo mentale medio va da 35
a 49 e il ritardo mentale grave ha un QI che va da 20 a 34 e infine un ritardo mentale
molto grave, dove abbiamo bambini e poi adulti anche con grosse difficoltà di adatta-
mento al proprio contesto, con un QI inferiore a 20. Affianco a una ridotta prestazione
cognitiva, abbiamo contemporaneamente una diminuita competenza sociale, che è la
conseguenza del grado di gravità del ritardo mentale, influenzata anche dall'ambiente
socioculturale di crescita. Vuol dire che ci può essere un contesto che risponde a questo
deficit, che può limitare i danni in termini di adattamento oppure non rispondere ade-
guatamente a questo deficit. Le competenze sociali a quel punto saranno molto molto
più limitate e ridurranno l'adattamento del soggetto. In età giovanile e adulta un ritardo
mentale lieve (usiamo il criterio di Piaget, il pensiero operatorio concreto, quello tipico
della Formazione Primaria, quello che compare dai 6 agli 11 anni), si presenta individui
che hanno appreso a leggere e scrivere, usare calcolatrice, usare gli strumenti della loro
quotidianità con un buon grado di autonomia e di adattamento all'interno del lavoro.
Abbiamo invece un ritardo mentale medio dove il livello cognitivo in termini Piagetiani,
è quello di tipo preoperatorio, quello che va dai 3 ai 6 anni e riguarda la componente
della costruzione rappresentativa della realtà, dove i bambini hanno imparato a parlare,
a comunicare e hanno una forma di autonomia personale, possono svolgere dei lavori di
tipo protetto. È assente quella forma di elaborazione cognitiva tipica in tutte le forme di
ritardo, che è tipica del pensiero formale adolescenziale, quello che permette di estrarre
la realtà, di utilizzare il linguaggio in maniera articolata proprio come forma di pensiero
per astrarre i concetti della loro quotidianità. Abbiamo forme di adattamento all'am-
biente, ma sono forme di adattamento elementari. Man mano che diminuisce il QI, il
ritardo mentale diventa più grave. Col grave arriviamo al pensiero senso-motorio,
quindi stiamo parlando di uno sviluppo cognitivo fino a 2 anni, in cui la persona non ha
appreso a parlare. Con la comunicazione aumentativa alternativa può apprendere il lin-
guaggio non verbale e deve stare in una comunità protetta con supervisione e supporto
continuativo. Con un QI inferiore a 55 ci si dovrà poi occupare dell'eventuale eziopato-
genesi organica del ritardo. Con ritardi mentali leggermente superiori, le cause biologi-
che sono rintracciabili in un basso numero di casi, mentre invece con un QI inferiore a
55, la causa biologica è presente nell’80% dei casi.
L'impatto emotivo, in termini di intensità e di profonda sofferenza, a cui il genitore va
incontro quando viene a conoscere diagnosi che sono associate a forme di ritardo men-
tale, come forme di tetra-paresi spastica, sindrome di Down, autismo infantile, etc. È
dato dalla comunicazione della diagnosi, che risulta però già questa è una forma di in-
tervento, perché la sua comunicazione non può essere una comunicazione fredda e arida
dell'esito della valutazione dell’assessment, ma è una forma di presa in carico sulla com-
ponente emotiva anche dei genitori, in modo tale che aumentino la probabilità di lavo-
rare insieme con l'equipe nel rendere la vita del soggetto meno problematica possibile.
Una diagnosi di questo genere è una sorta di lutto che va elaborato, è un lutto rispetto
alle rappresentazioni interne e alle aspettative che il genitore stesso aveva maturato
riguardo al proprio figlio. La nascita di un figlio, la scelta della genitorialità, nasce all'in-
terno di una progettualità con componenti emozionali positive, di aspettative. Diagnosi
così negative sono forme di lutto rispetto alle aspettative stesse; quindi, anche i genitori
vanno aiutati ad accettare questa condizione, in modo tale da collaborare. Si legge nella
cronaca, bambini con queste forme gravi, talvolta vengono anche abbandonati. Sono si-
tuazioni in cui i genitori hanno forme di scompenso emotivo, perché l'aspettativa, in
termini di rapporti, di relazioni e di impegno di cura rispetto a bambini con gravi pro-
blemi, vanno ad influenzare fortemente la vita del genitore stesso.
Nella prognosi del ritardo mentale i genitori e professionisti di solito tendono a non con-
siderare il fatto che questa forma di ritardo mentale è maggiormente influenzata, in
termini di adattamento, dal quoziente di adattamento sociale (che anche questo viene
misurato con degli strumenti), che dal quoziente intellettivo. A partire da un deficit ti-
picamente di tipo intellettivo, il mancato supporto nella costruzione di abilità sociali, di
adattamento di tipo sociale ai compiti che vengono richiesti dal proprio contesto, fa sì
che sul lungo periodo la prognosi possa essere molto più negativa. Non è solo un pro-
blema di quoziente intellettivo. Il QI è solo il punto di partenza. Qualora non vengano
adottate tutta una serie di interventi finalizzati a migliorare le abilità sociali, la pro-
gnosi sul lungo periodo è molto molto più infausta.

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