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Ai miei genitori,

per avermi dato la forza di arrivare a raggiungere i miei obiettivi


INDICE

CAPITOLO 1

1.1 QUADRO STORICO………………………………………………..p.5


1.2 LA QUESTIONE RELIGIOSA……………………………………..p.7
1.3 GUERRE E GUERRIGLIE:1916-1923……………………..…….…p.8
1.4 LA GUERRA CIVILE …………………………………...………….p.12
1.5 THE TROUBLES 1960-1990………………………………………..p.14
1.6 IL TERRORISMO IN ITALIA……………………………………....p. 23
1.7 DAL BOOM ECONOMICO AL TERRORISMO:1960-1997…….....p.24
1.8 LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA……………………………….p.29
1.9 LA NASCITA DELLE BRIGATE ROSSE…………………………..p.30
1.10 L’EVERSIONE DI DESTRA, L’OPERAZIONE
“TORA, TORA” E IL “GOLPE BORGHESE…………………………...p.33
1.11 LA STRATEGIA DELLA TENSIONE ………………………..…...p.34
1.12 IL RAPIMENTO DI ALDO MORO ………………………………..p.39
1.13 LA STRAGE DI BOLOGNA E LA FINE
DEGLI ANNI DI PIOMBO …………………………………………p.42

CAPITOLO 2

2.1 INTRODUZIONE ALLA LETTERATURA


NORD-IRLANDESE…………………………………………………...p.47
2.2 INTRODUZIONE ALLA LETTERATURA ITALIANA
SUL TERRORISMO ……………………………………………...……p.59
2.3 GLI INTELLETTUALI E IL TERRORISMO: LA STRAGE DI PIAZZA
FONTANA……………………………………………………………….…p.62
2.4 TRAGEDIA E IRONIA: IL CASO ALDO MORO ……………………p.69
2.5 IL TERRORISTA COME PROTAGONISTA
DEI ROMANZI ANNI ’80 ………………………………………………p.77
2.6 GLI ANNI ’90 E DUEMILA: L’INIZIO DELLE RIFLESSIONI SUGLI ANNI DI
PIOMBO…………………………………………………………...…………p.80

CAPITOLO 3

3.1 DUE LETTERATURE A CONFRONTO………………………..... p.86


3.2 DUE CRIME NOVELS A CONFRONTO ………………………….p.87
3.3 LA MORTE DEI CAPI……………………………………………. p.104
3.4 I RAPPORTI FAMILIARI……………………………………….... p.107
3.5 RACCONTARE GLI ANNI ’70 …………………………………....p.116

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INTRODUZIONE

L’ idea per questa tesi è nata da una passione che ho da sempre per gli
argomenti storici. Da quando ero piccola ho sempre avuto un forte interesse per la
storia e, dall’adolescenza in poi, per tutto ciò che riguardava la storia contemporanea.
Ho sempre ritenuto estremamente affascinante tutto ciò che riguardava gli anni ’70,
gli anni di piombo e tutte le teorie sui piccoli e i grandi complotti che molti pensano
si celino dietro il periodo dello stragismo e degli attentanti.
Dal momento in cui ho dovuto scrivere la mia prima tesi, ho provato il desiderio di
scrivere un elaborato che unisse sia la mia passione per le lingue straniere, l’inglese
in particolare, e gli anni ’70. Quando poi mi è stato regalato il libro di Jonathan Coe,
La banda dei brocchi, mi sono resa conto di quanto le narrazioni sull’attentato e sul
terrorismo mi ricordassero vagamente altri romanzi che avevo letto in precedenza.
Da quel momento ho iniziato a leggere alcuni romanzi sul terrorismo nordirlandese
e mi sono resa conto che, effettivamente, le somiglianze c’erano ed erano molteplici.
La scelta dei romanzi è stata dettata da ragioni di gusto personale: Romanzo
Criminale ad esempio, è stato da sempre uno dei miei libri preferiti che ho letto e
riletto fino alla nausea, così come il romanzo di Jonathan Coe. Alle altre letture mi
sono avvicinata quando già avevo iniziato l’elaborato e ho deciso di approfondirne
l’analisi perché li ritenevo perfettamente pertinenti con il lavoro che avevo deciso di
fare.
Molte nazioni in Europa e nel mondo hanno conosciuto la paura del terrorismo
soprattutto negli ultimi vent’anni che, seppure declinato in una moltitudine di forme
diverse e mosso da ragioni diversissime tra di loro, ha sempre rimandato a un unico
ideale di violenza cieca di cui a fare le spese sono sempre persone inermi che
vengono colpite e uccise in maniera puramente casuale, senza una giustificazione
logica che possa motivare quelle morti.
Uno dei motivi per cui ho deciso di strutturare questo elaborato come un confronto
tra due letterature è stato per una convinzione che ho sempre avuto, ovvero che la
letteratura ha l’enorme potere di unire le persone e soprattutto di superare le frontiere,

3
le barriere linguistiche e le culture e di dimostrare che ci sono state persone reali e
personaggi fittizi anche lontanissimi da noi, che hanno affrontato esperienze molto
simili alle nostre e che hanno provato le nostre stesse emozioni.
Nel primo capitolo vengono delineate le coordinate storiche all’interno delle
quali sono avvenuti tutti gli eventi descritti nei romanzi. Per quanto riguarda
l’Irlanda, sono dovuta risalire molto indietro nel tempo dato che le cause che hanno
portato al conflitto degli anni ’70 risalgono all’Ottocento e addirittura l’atavico
conflitto tra cattolici e protestanti può essere fatto risalire ancora più indietro, ma per
una questione di tempo e di spazi, mi sono limitata ad analizzare in maniera
approfondita quelle più direttamente legate all’elaborato che mi stavo apprestando a
scrivere.
Il secondo capitolo tratta la prima parte del confronto: ho analizzato tutte le tipologie
di romanzi con cui è stato affrontato il terrorismo negli anni ’70 sia in Italia che in
Irlanda e ho iniziato a confrontare alcune delle modalità narrative che ho poi
approfondito nel terzo capitolo.
Nell’ultimo capitolo ho sviluppato il confronto vero e proprio tra i romanzi che avevo
scelto di analizzare, descrivendo non solo le numerose somiglianze, ma anche le
differenze che, ovviamente, li caratterizzano.

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CAPITOLO 1

1.1 Introduzione al quadro storico

And the battle's just begun


There's many lost, but tell me who has won
The trench is dug within our hearts
And mothers, children, brothers, sisters,
torn apart”1

La storia dell’Irlanda è stata da sempre segnata dalla violenza, dalle lotte per
l’indipendenza, dalla ricerca di una identità che la liberasse dalla presenza asfissiante
della Gran Bretagna che, fino a tempi recenti, ha avuto ingerenze rilevanti sul Paese.
I disordini che si verificarono negli anni ’60 nell’Irlanda del Nord colsero
tutti di sorpresa e sconcertarono la popolazione, come se la violenza e gli attentati
fossero esplosi dal nulla.
Le radici del conflitto, in realtà, risalgono molto indietro nel tempo, a partire
dall’inizio della dominazione britannica dell’isola.
Per più di ottocento anni il governo inglese si è intromesso negli affari
irlandesi e questa volontà di Londra di imporre il proprio controllo sul paese ha
creato al governo inglese il più grave problema di politica interna della sua lunga
storia.
Nel 1598 la regina Elisabetta I lamentava che:
A causa di queste ultime pericolose discordie in Irlanda... non riceviamo altro che notizie di
nuovi danni e disgrazie. Non permetteremo che i nostri sudditi vengano ulteriormente offesi
da quei miserabili ribelli2

1
Citazione dalla canzone “Sunday Bloody Sunday” degli U2.
2
Robert Kee, Storia dell’Irlanda, un’eredità rischiosa, Milano, Bompiani,1996 p.12.

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Nonostante le migliori intenzioni e tentativi del governo inglese, ancora nel
1846 il primo ministro Robert Peel si rivolse al Consiglio dei Comuni con queste
parole:

Il Governo di Sua Maestà ha riscontrato che in quattro o cinque contee dell’Irlanda... si sono verificati
atti criminali intollerabili e preoccupanti ai danni della vita e dei beni delle persone. Coloro che in
queste contee sono fedeli alla loro sovrana, in cambio della loro fedeltà non hanno che ricevuto ciò
che erano in diritto di attendersi, la protezione della legge e delle istituzioni del loro paese. Il Governo
di sua Maestà ha constatato come non solo la vita sia a repentaglio, come le libertà personali vengano
mortificate da una inaccettabile violenza, ma anche come l’azione della giustizia sia in ogni modo
ostacolata. Risulta così impossibile ottenere le prove dei crimini e perseguire gli autori di cosi
numerosi delitti.3

La violenza degli attentati raggiunse anche Londra e la stessa Camera dei


Comuni venne danneggiata dall’esplosione di una bomba nel 1867. Nel tentativo di
fare evadere Richard O’ Sullivan Burke si cercò di far saltare il muro di cinta, ma
nell’esplosione rimasero coinvolte anche le case circostanti causando trenta morti.
Nel 1979 venne colpita anche l’assemblea di Westminster quando il portavoce per
l’Irlanda del Nord, Airey Neave. rimase ucciso a causa dell’esplosione di un bomba
posizionata sotto la sua auto.
Gli attentati portarono all’approvazione di alcune leggi e riforme a favore
dell’Irlanda ad esempio, spinsero Gladstone a varare la riforma agraria, ritenuta di
fondamentale rilevanza in Irlanda. Il ministro riuscì a convincere i liberali ad
accettare il principio della Home Rule, una legge in base alla quale l’Irlanda avrebbe
avuto un proprio governo autonomo, anche se sottoposto alla Corona britannica. La
legge non venne approvata, ma il fatto che il provvedimento facesse parte del
programma politico di uno dei maggiori partiti inglesi e i progressi della riforma
agraria, regalarono per un po’ all’Irlanda una tranquillità fino a quel momento
sconosciuta.

3
Ibid., p.12

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1.2 La questione religiosa

Un ulteriore aspetto che ha contribuito a destabilizzare il paese è stata la


questione religiosa: la religione cattolica è talmente legata e fa cosi intimamente
parte dell’atmosfera irlandese che l’identità del paese sembra indissolubilmente
legata ad essa.
Nella Costituzione del 1937 la religione cattolica è stata riconosciuta come la
fede della maggioranza della popolazione, ma in questo risiedeva un paradosso: i
nazionalisti nel redigere la Costituzione affermarono che l’intera popolazione
irlandese costituiva una nazione.
Il problema sorgeva nel momento in cui un quarto della popolazione irlandese non
si riconosceva e non voleva far parte della nazione irlandese perché, essendo di fede
protestante, non accettava che sulla Costituzione fosse riconosciuta solo la fede
cattolica.
Uno dei primi nazionalisti irlandesi, Wolfe Tone, alla fine del Settecento
pensava che la fusione delle due identità fosse la premessa dell’indipendenza, ma
nella vita quotidiana le cose andavano diversamente. Il nazionalismo irlandese, pur
avendo avuto sostenitori protestanti, è stata sostanzialmente, almeno a partire dalla
metà del ‘700, l’espressione delle aspirazioni degli irlandesi cattolici.
La vittoria finale della Riforma in Irlanda aveva consegnato tutti gli edifici di
culto ai protestanti e solo a partire dall’800 vennero costruite nuove chiese dedicate
al culto cattolico; fino a quel momento i cattolici avevano potuto celebrare le funzioni
religiosi su altari di fortuna e, molto spesso, all’aperto.
La maggioranza della popolazione irlandese (che era di fede cattolica) venne
colpita, a partire dai primi anni del ‘700, da durissime leggi restrittive: ad esempio,
veniva impedito ai cattolici di ricoprire cariche pubbliche, partecipare ai lavori del
Parlamento, votare, arruolarsi nell’esercito e, soprattutto vi erano leggi che vietavano
loro di acquistare la terra. Un cattolico non poteva neppure prenderla in affitto per
un periodo superiore ai trentuno anni e non poteva lasciarla in eredità ai figli. Il
risultato fu che alla fine del secolo solo il 5% della terra coltivabile era in mano ai
cattolici.

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I parroci potevano esercitare solo registrandosi presso le autorità, ma tutte le
altre figure (i vescovi e tutti gli ordini monastici) erano banditi. La chiesa non si
estinse del tutto solo grazie a una applicazione spesso blanda della legge e grazie alla
micro-corruzione, che permise l’esistenza di monasteri clandestini. L’enorme
appoggio della popolazione alla Chiesa cattolica fu quello che, sostanzialmente,
impedì l’applicazione della legge: per sopprimere la chiesa cattolica si sarebbe
dovuta sopprimere la popolazione stessa. Se ci fosse stata la possibilità e l’intenzione
di applicare effettivamente la legislazione repressiva, la Chiesa cattolica sarebbe
stata spazzata via dall’Irlanda. Il fatto che questo non sia successo non solo rafforzò
la Chiesa stessa, ma anche il legame della popolazione con essa, la quale, privata di
ogni diritto politico e di molti diritti civili, vide nella Chiesa l’unica organizzazione
in grado di rappresentarla.

1.3 Guerre e guerriglie: 1916-1923

Tra il 1916 e il 1923 iniziarono le prime lotte intestine che portarono a


fronteggiarsi due fazioni: quella nazionalista, che voleva raggiungere l’indipendenza
dalla Gran Bretagna, e quella Unionista che, invece, voleva rimanere sotto la
giurisdizione inglese.
Il lunedì di Pasqua del 1916 scoppiò l’ennesima rivolta a Dublino, i capi
dell’insurrezione occuparono il General Post Office (GPO) e proclamarono
l’indipendenza issando una bandiera verde con la scritta 'Irish Republic' sull’edificio.
Anche se la rivolta divenne in seguito un episodio celebrato dai nazionalisti irlandesi,
fu molto impopolare all'epoca: l'opinione pubblica incolpò principalmente i ribelli
per le morti e la distruzione provocate nei combattimenti. Dopo la rivolta, i dublinesi
sputarono e lanciarono pietre ai ribelli, e vuotarono i pitali su di loro mentre in
colonna venivano fatti marciare verso le navi che li avrebbero portati nei campi di
internamento in Galles.
La popolazione si schierò dalla parte dei ribelli solo due anni più tardi,
disgustata dalle esecuzioni sommarie di 16 ribelli e dall’imposizione della
coscrizione obbligatoria da parte della Gran Bretagna per sostenere lo sforzo bellico.
Tra il 1916 e il 1918 il Sinn Féin ottenne la maggioranza in alcune elezioni e
si andò rafforzando sempre più fino a quando, nelle elezioni generali del 1918

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ottenne una vittoria decisiva, conquistando la maggioranza assoluta dei seggi
irlandesi. I membri del parlamento del Sinn Féin si ritirarono dal parlamento
britannico e dichiararono la Repubblica Irlandese nella Mansion House di Dublino,
dove si riunirono dando vita al primo Dáil Éireann.
I parlamentari del Sinn Féin eletti nel 1918 mantennero la loro promessa elettorale
di non occupare i loro seggi a Westminster, ma di istituire invece una "Assemblea
d'Irlanda" indipendente o Dáil Éireann, in gaelico. Il 21 gennaio 1919, questo nuovo
parlamento non ufficiale si riunì nella Mansion House di Dublino. Si parlava
esplicitamente di uno stato di guerra.
Come parte della strategia in corso per prendere il controllo dell'IRA, Cathal
Brugha, un rivoluzionario irlandese che aveva partecipato alla guerra civile e che
divenne ministro della Difesa nel nuovo Parlamento, propose al Dáil Éireann, il 20
agosto 1919, che ai Volontari venisse chiesto, nel congresso successivo, di giurare
fedeltà al Dáil. Egli propose inoltre che gli stessi membri del Dáil dovessero prestare
lo stesso giuramento. Il 25 agosto Collins, quello che i militanti ritenevano il vero
capo dell’IRA, scrisse al Primo Ministro, Eamon de Valera, per informarlo che "la
questione dei Volontari era sistemata".
L'IRA condusse una campagna di guerriglia contro le forze della Corona
Britannica in Irlanda dal 1919 al luglio del 1921. Il periodo più intenso della guerra
si ebbe dal novembre del 1920 al luglio del 1921, quando furono uccisi oltre tre quarti
delle circa 1.500 persone che morirono in guerra. La campagna dell'IRA può essere
divisa in tre fasi. La prima, nel 1919, riguardò la riorganizzazione dei Volontari
Irlandesi come esercito di guerriglia. Durante la seconda fase della campagna
dell'IRA, all'incirca dal gennaio al luglio 1920, vennero attaccate diverse caserme
fortificate della polizia situate nelle città. Tra gennaio e giugno 1920, sedici di queste
vennero distrutte e ventinove furono gravemente danneggiate. Alla fine del 1920 si
ebbe un’intensificazione del conflitto: In primo luogo i britannici dichiararono la
legge marziale in alcune parti del paese, permettendo l'internamento e l'esecuzione
di uomini dell'IRA. In secondo luogo, dispiegarono in Irlanda delle forze
paramilitari, i Black and Tans e l'Auxiliary Division, aumentando inoltre il numero
delle truppe. Quindi la terza fase della guerra (all'incirca dall'agosto 1920 al luglio
1921) vide l'IRA costretta ad abbandonare gli attacchi a caserme ben difese e si
iniziarono invece, ad usare tattiche di agguato. A questo fine l'IRA venne
riorganizzata in "colonne volanti": unità di guerriglia permanenti, solitamente

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composte da 20-30 uomini, anche se talvolta più corpose. Nelle aree rurali, le
colonne volanti avevano solitamente le loro basi in remote aree montagnose.
Gran parte del paese fu teatro di qualche violenza nel 1919-1921, ma il grosso
della guerra venne combattuto a Dublino e nella provincia meridionale del Munster.
Nel Munster, l'IRA portò avanti un significativo numero di azioni di successo contro
le truppe britanniche, ad esempio l'agguato e uccisione di 18 ausiliari da parte della
colonna di Tom Barry a Kilmicheal, nel West Cork, nel novembre o l'uccisione di
13 soldati britannici da parte degli uomini di Liam Lynch nei pressi di Millstreet
all'inizio dell'anno seguente. Altrove i combattimenti furono più sporadici e meno
intensi. A Belfast la guerra ebbe un suo carattere particolare. La città aveva una
maggioranza protestante e unionista e alle azioni dell'IRA seguivano sempre feroci
rappresaglie contro la popolazione cattolica, comprendenti omicidi e l'incendio di
molte case. L'IRA a Belfast, e nel nord in generale, fu quindi più impegnata nel
proteggere la comunità cattolica dai lealisti e dalle forze statali. La violenza nella
sola Belfast, a differenza che nel resto del paese, continuò ben oltre la tregua
causando 450 vittime, principalmente civili.
Nell'aprile del 1921, l'IRA venne nuovamente riorganizzata, secondo le
indicazioni del Dáil, sull'esempio di un esercito regolare. Vennero create delle
divisioni in base alla regione di appartenenza, con comandanti a cui veniva data
responsabilità, in teoria, per aree geografiche più vaste. In pratica, questo ebbe poco
effetto sulla natura localizzata della guerriglia. Nel maggio 1921, l'IRA a Dublino
diede alle fiamme il palazzo della Dogana (Custom House), subendo però l'uccisione
di cinque uomini e la cattura di altri ottanta, un duro colpo per l'organizzazione in
città.
Verso la fine della guerra, nel luglio 1921, l'IRA soffriva a causa della scarsità
di uomini, armi e munizioni. Nel giugno del 1921, Collins concluse era che l'IRA si
trovava a settimane, forse addirittura a giorni, dal collasso: quasi 5.000 uomini
dell'IRA erano stati imprigionati e oltre 500 uccisi. Collins e Mulcahy stimarono che
il numero di combattenti effettivi fosse sceso a circa trentamila. Comunque,
nell'estate del 1921 arrivò una tregua.
La guerra d'indipendenza irlandese fa caratterizzata da azioni brutali e
sanguinose: la brutalità dei Black and Tans rimane leggendaria in Irlanda, anche se
le repressioni più spietate attribuite alle forze della Corona furono spesso quelle delle
divisioni ausiliarie del RIC.

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Le tipiche rappresaglie britanniche prevedevano l'incendio di case e imprese, i
cui proprietari spesso non avevano alcun legame con l'IRA. Inoltre, dopo l'agosto del
1920, i britannici iniziarono a giustiziare i prigionieri dell'IRA. L'IRA rispose
uccidendo i soldati britannici che riusciva a catturare. Spie e presunte spie venivano
uccise dall'IRA e gettate ai bordi delle strade come monito per gli altri. Si è anche
sostenuto che molti uomini dell'IRA colsero l'occasione per uccidere persone verso
le quali avevano rancori personali, soprattutto se erano di fede protestante.
Nelle prime ore di domenica 21 novembre 1920, la "Squad" di Collins, grazie
alle informazioni fornite dall'efficientissima rete di agenti messa in piedi da Collins,
uccise 19 agenti britannici per rappresaglia, ma quello stesso pomeriggio, le forze
britanniche aprirono il fuoco sul pubblico di una partita di calcio gaelico tra Dublino
e Tipperary a Croke Park, uccidendo 14 civili, tra i quali un giocatore del Tipperary,
Michael Hogan, al quale è stata intitolata poi, una tribuna dello stadio. Quella stessa
sera due importanti esponenti repubblicani e un loro amico, che erano stati arrestati
la sera precedente, vennero uccisi in una caserma; venne riferito in seguito, che
furono colpiti mentre tentavano la fuga.
Un inatteso ramoscello di ulivo venne teso dal re Giorgio V che in un discorso
a Belfast invitò alla riconciliazione ambo le parti, cambiando il clima e permettendo
ai governi britannico e irlandese repubblicano di concordare una tregua. Questa
venne dichiarata l'11 luglio 1921
In base al Government of Ireland Act del 1920, l'Irlanda era stata divisa in due:
l’Irlanda del Nord, a maggioranza protestante, e l’Irlanda del sud, a maggioranza
cattolica. In base ai termini dell'accordo Anglo-Irlandese del 6 dicembre 1921, che
pose fine alla guerra, all'Irlanda del Nord venne data l'opzione di ritirarsi dal nuovo
Stato, lo Stato Libero d'Irlanda, e rimanere parte del Regno Unito. Il parlamento
dell'Irlanda del Nord, a maggioranza protestante, si pronunciò a favore. Venne inoltre
formata una Commissione che avrebbe dovuto rivedere i confini.
I leader protestanti si aspettavano che la commissione avrebbe ridotto
radicalmente le dimensioni dell'Irlanda del Nord, trasferendo le aree nazionaliste del
nord (come la zona del Fermanagh, Derry e la parte meridionale della contea di
Armagh) allo Stato Libero d'Irlanda, in modo da renderla economicamente
insostenibile. Inoltre, Michael Collins stava progettando una campagna di guerriglia
clandestina contro lo Stato del Nord usando l'IRA. All'inizio del 1922, egli inviò
unità dell'IRA nelle zone di confine e inviò armi alle unità settentrionali. Per questo

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motivo non fu la spartizione del paese la causa principale della guerra civile. Fu solo
successivamente, quando la spartizione venne confermata, che la divisione del paese
divenne causa degli attacchi da parte di coloro che erano contrari al Trattato.
La leadership dell'IRA era profondamente divisa sulla decisione del Dáil di
ratificare il trattato. Nonostante il fatto che Michael Collins — di fatto capo dell'IRA
e venerato da molti combattenti in tutta l'isola — avesse negoziato il trattato, molti
ufficiali dell'IRA erano contro di esso. Dello staff del Quartier Generale, nove
membri erano in favore del trattato, mentre quattro si opponevano. Durante i primi
mesi del 1922 il malcontento di coloro che si opponevano al Trattato si trasformò in
una sfida aperta al Governo Provvisorio d'Irlanda regolarmente eletto.

1.4 La guerra civile

La parte dell'IRA a favore del trattato divenne ben presto il nucleo del nuovo
Irish National Army creato da Collins e Mulcahy. La pressione del governo
britannico, che esigeva che il Governo Provvisorio ristabilisse la propria autorità e
disarmasse i ribelli, e le tensioni tra le fazioni dell'IRA pro e contro il trattato,
portarono ad una sanguinosa guerra civile in cui compagni che fino a qualche mese
prima avevano combattuto fianco a fianco si spararono addosso e che finì con la
sconfitta della fazione contraria al trattato.
Negli anni ’20 l’IRA aveva combattuto per due grandi cause: ottenere
l’indipendenza dall’Inghilterra e per l’unità del paese. Al termine della Guerra Civile
non aveva ottenuto nessuna delle due cose. Nel corso degli anni avrebbero sempre
perseguito questo Sacro Graal con la convinzione che l’unico modo per raggiungere
l’obbiettivo era ricorrere alla violenza. Poiché la maggior parte della popolazione
aveva accettato lo Stato Libero, l’IRA divenne, all’improvviso, politicamente
irrilevante.
Iniziò la costruzione del nuovo stato sotto la guida di William Cosgrave e
Kevin O’ Higgins rispettivamente Presidente del Consiglio e il Ministro degli Interni.
La Guardia Civica (una nuova forza di polizia) ristabilì progressivamente l’ordine.
Il nuovo stato era però fondato anche sul risentimento e sull’amarezza: l’esecuzione
dei repubblicani sorpresi con le armi continuò per un anno e quando i corpi dei
fucilati venivano resi alle famiglie non c’era una chiesa a Dublino che fosse disposta

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a officiare i funerali. Molti repubblicani, dando ormai per persa la loro causa,
decisero di emigrare in America. Non tutti scelsero questa strada: un gruppo formato
dai superstiti dell’esecutivo dell’IRA che aveva dato il via alla guerra civile decise
di riorganizzarsi e di proseguire la lotta per ottenere l’obbiettivo di un’Irlanda unita
e indipendente dall’Inghilterra. La strategia per la lotta era quella di sempre:
attraverso la lotta armata. Un altro gruppo, guidato da Eemon de Valera proponeva
un approccio più articolato e non violento.
L’IRA intraprese alcune azioni di protesta (cercò di distruggere la statua di
Guglielmo III), ma raggiunse pochi risultati concreti.
Nell’Ulster la qualità della vita era molto bassa: il reddito medio era pari a tre
quinti di quello britannico, l’87% delle abitazioni rurali non aveva acqua corrente e
la sanità era la peggiore di tutte le isole britanniche: un quarto delle morti infantili
avveniva negli istituti. In questa situazione ogni privilegio era ferocemente difeso e
suscitava un forte risentimento. Si potrebbe ritenere che la creazione dell’Ulster nel
1921 fosse stata una concessione ai protestanti e al loro bisogno di identità e
autonomia, ma i protestanti irlandesi non si sentirono affatto rassicurati, anzi
avvertivano la loro posizione come alquanto precaria. L’accettazione forzata della
Home Rule nel 1921 rafforzò la loro determinazione nel difendere l’Ulster a ogni
costo e la creazione della Ulster Volunteer Force divenne un potente mezzo per
raggiungere questo fine.
I terroristi furono invitati dalle autorità britanniche a partecipare alle trattative
come rappresentati dell’Irlanda; questo portò i nazionalisti a mettere in dubbio
l’esistenza politica dell’Ulster; lo stesso Trattato Anglo-Irlandese che ne scaturì
prevedeva l’uscita delle sei contee dallo Stato Libero ma non garantiva la loro
indipendenza. Gli articoli che prevedevano la costituzione di una Commissione per
la rettifica dei confini minacciavano la sopravvivenza dell’Ulster. I disordini
gravissimi scoppiati a Belfast nell’estate nel 1922, che provocarono più di 200 morti
e la fuga di migliaia di cattolici al di là della frontiera, furono il riflesso
dell’insicurezza e della paura provocate nella gente comune di fede protestante dalla
minaccia rappresentata dalla Commissione per i confini. La crisi economica e sociale
rafforzò la fisionomia protestante dello stato. Anche se l’Irlanda del Nord costituiva
una parte arretrata del Regno Unito, i suoi governanti potevano placare il
malcontento dei protestanti concedendo loro dei privilegi in fatto di posti di lavoro e
di case rispetto alla minoranza cattolica.

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Fino agli anni ’70 le discriminazioni colpirono i cattolici duramente a partire dalla
legge che regolamentava le votazioni politiche che favorivano, neanche in maniera
troppo celata, le circoscrizioni a maggioranza protestante. Già nel 1920 il governo
inglese aveva cercato di risolvere il problema con il Government of Ireland Act, che
però non venne applicato, nei fatti, fino agli anni ’70.

1.5 The troubles 1960- 1990

Nel 1966 nella contea di Londonderry si tenne un incontro per fondare la


Northern Ireland Civil Right Association, un movimento per i diritti politici in
Irlanda del Nord, analogo a quello creato negli Stati Uniti da Martin Luther King.
L’IRA non fu tra le forze che nel 1967 parteciparono alla fondazione del nuovo
movimento. Il leader era Eamon McCann; che con un gruppo di giovani di Derry
aveva già condotto una campagna contro le ingiustizie sociali che avvenivano nella
città, e, in seguito, indusse il movimento per i diritti civili a tenere una marcia a
Londonderry il 5 ottobre 1968. La marcia venne dispersa con inutile brutalità e
quest’atto di violenza gratuita cambiò per sempre la storia dell’Irlanda del Nord.
Il 1° gennaio 1969 il People’s Democracy, la frangia radicale del movimento
per i diritti civili, indisse una marcia da Belfast a Derry rivendicando lavoro, case e
un sistema di voto più democratico. La manifestazione non venne proibita, ma
ricevette una scarsissima protezione da parte della polizia, soprattutto nei pressi di
Derry dove i dimostranti vennero attaccati da gruppi di protestanti; nei filmati si
vedono le forze dell’ordine in divisa che evitano di intervenire. Nessun protestante
venne arrestato, anzi, ad essere arrestati furono 80 manifestanti che le forze di polizia
avrebbero dovuto teoricamente proteggere. Si ebbero numerosi disordini nei mesi
successivi, in svariate città: da Dungannon, a Derry e a Belfast. I “B Specials” con
fucili e mitragliatori dispersero i manifestanti cattolici. In due notti vennero bruciate
trecento case e vennero uccise sei persone. Si rese necessario schierare l’esercito sia
a Derry che a Belfast per ripristinare la legge e l’ordine, compromessi
dall’atteggiamento della polizia. Gli irlandesi della Repubblica rimasero sconvolti

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dalle feroci aggressioni avvenute a Derry e il primo ministro Jack Lynch rilasciò
un’intervista televisiva durante la quale asserì la necessità per il governo irlandese di
intervenire. Alcuni membri del governo, non si sa se con il suo consenso o meno,
furono coinvolti in un tentativo di rifornire i cattolici del nord di armi per difendersi.
L’ IRA non agì e non si palesò in nessun modo; i cattolici, che la vedevano come
una difesa contro i protestanti, si resero conto che l’organizzazione su entrambi i lati
della frontiera era troppo male equipaggiata per difenderli.
Nell’inverno del 1969 l’IRA si divise in 2 gruppi: gli “Official”, marxisti, e i
“Provisionals”, nazionalisti che si proponevano di perseguire gli antichi ideali.
Le perquisizioni e gli occasionali atti di brutalità dell’esercito repubblicano
provocarono una reazione nella popolazione e l’IRA riuscì a incanalare questi
sentimenti per i suoi scopi consolidando il suo stretto controllo sulle aree cattoliche
di Derry e Belfast. L’IRA assunse gradualmente il controllo e la direzione dei
disordini nelle aree cattoliche, soprattutto a Belfast: ebbero inizio i dirottamenti degli
autobus, il lancio di pietre e molotov, ma soprattutto, iniziarono i lanci di bombe
contro le forze dell’ordine e, a questo punto, lo scontro con l’esercito divenne
inevitabile.
Gli omicidi iniziarono in febbraio: due uomini disarmati della Constabulary
vennero uccisi in una strada a Belfast, all’inizio di marzo tre membri dell’esercito
vennero portati con l’inganno nelle campagne e uccisi con un colpo alla testa. Il
primo ministro Clark Chichester venne criticato per l’inefficienza dell’esercito,
costretto alle dimissioni e venne sostituito da Brian Faulkner, considerato più deciso
e intraprendente. Nell’agosto del 1971 si giunse alla conclusione che la legislazione
ordinaria non era più sufficiente per difendersi dall’IRA e vennero così varate delle
leggi di emergenza che prevedevano anche l’incarcerazione senza processo. La
manovra si rivelò inefficace dato che andò a colpire sempre più spesso persone che
non c’entravano nulla con gli atti di violenza; inoltre, le incarcerazioni immotivate
portarono molte persone che non ne facevano parte ad avvicinarsi all’IRA. Faulkner
dichiarò che la nazione era in guerra contro i terroristi e che, proprio come in tempo
di guerra, bisognava fare dei sacrifici. L’ IRA voleva proprio questo: che la gente
pensasse di essere in guerra.
Non erano solo gli unionisti a denunciare la crescente ferocia dell’IRA ma
anche molti esponenti della minoranza cattolica dell’Ulster, pur soddisfatti dal senso

15
di protezione dato dall’ avere un gruppo armato che lì difendesse non approvavano
molte delle loro azioni. .
Alla fine del 1971 quando, a seguito di svariati attentati da parte sia degli
Unionisti che da parte dell’IRA, si contarono altri 174 morti e 34 feriti, Faulkner
iniziò a usare l’esercito per sopprimere la nuova ondata di violenza. Questo portò a
quella che, in seguito venne definita la “Bloody Sunday” quando 13 civili disarmati
vennero uccisi dall’esercito inglese nelle strade di Derry: cinque vittime furono
colpite alle spalle e, nel 2003, un ex paracadutista inglese confessò di aver sparato a
Bernard McGuigan, una delle 13 vittime. mentre sollevava un fazzoletto bianco,
uccidendolo; si scoprì in seguito che diverse vittime erano minorenni (John Duddy,
ucciso con un colpo al petto nel parcheggio dei Rossville Flats, Hug Pious Gilmour,
Kevin McEihinney, Michael Gerald Kelly, John Plus Young, Gerald Donaghy
avevano tutti 17 anni) .

1971, l’inizio degli scontri nella “Bloody Sunday”4

Quest’ultimo avvenimento scatenò un’ondata emotiva anche nella Repubblica


d’Irlanda. Una folla di 20.000 persone attaccò l’ambasciata inglese a Dublino e la
diede alle fiamme. Nel 1970 il conflitto nell’Irlanda del Nord arrivò a toccare i 174
morti. Poche settimane dopo una bomba posizionata dall’IRA uccise 5 donne in una
base militare a Aldershot per vendicare i morti della Bloody Sunday; un’altra bomba
aveva ucciso 2 persone e ne aveva ferite 130 in un ristorante di Belfast,
un’autobomba era stata fatta esplodere in una via commerciale della capitale.
Il 20 marzo 1972, il governo inglese di Edward Heath, malgrado le proteste di
Faulkner e dell’amministrazione dell’Ulster, si assunse la responsabilità dell’ordine

4
https://www.pinterest.co.uk/saluscounsellin/free-derry-bogside/

16
pubblico in Irlanda, dopo cinquant’anni pose fine all’esistenza del Parlamento
nell’Irlanda del Nord e tutti i poteri tornarono a Westminster.
La manovra si rivelò di scarso successo e anzi, la campagna dell’IRA continuò col
ricorso all’uso indiscriminato delle autobombe: tre settimane dopo l’introduzione del
dominio diretto di Londra scoppiarono 30 bombe in un solo giorno.
Nel pieno delle violenze il governo inglese emanò l'Emergency Provision Act:
tra le disposizioni contenute nell’EPA, la più importante riguardava l'istituzione di
tribunali speciali senza giuria e con un unico giudice con competenze sul terrorismo
e sugli atti terroristici. L'EPA prevedeva, inoltre, l'ampliamento dei poteri di arresto
e di perquisizione attribuiti alla polizia ed ai militari; il prolungamento del fermo di
polizia sino a 72 ore senza l'obbligo di fornire alcuna giustificazione da parte
dell'autorità giudiziaria; la presunzione di colpevolezza nel caso di possesso illegale
di armi e l'accettazione di testimonianze senza possibilità di interrogatori o confronti.
L'introduzione della legislazione di emergenza produsse dei gravi effetti sulla
già critica situazione dell'Ulster. Il moltiplicarsi degli attentati dei gruppi paramilitari
e l'incremento delle vittime civili indussero il governo di Londra a revocare lo status
di prigioniero politico ai detenuti per reati di terrorismo. Il provvedimento colpiva in
gran parte i detenuti repubblicani, che proclamarono una blanket protest ed una no-
wash protest; i prigionieri si rifiutarono di indossare la divisa carceraria, come i
condannati per reati comuni, di lavarsi e di pulire le celle.
Nel frattempo, Amnesty International aveva denunciato in un proprio rapporto
i continui maltrattamenti subiti dai detenuti e da coloro che erano fermati dalle forze
di sicurezza, perché sospettati di appartenere all'I.R.A. Fu dunque istituita una
commissione d'inchiesta per stabilire quali fossero i mezzi usati dalla polizia durante
gli interrogatori. I risultati di tale inchiesta confermarono quanto denunciato da
Amnesty International ed il governo inglese si vide costretto ad abrogare
l'internamento senza processo.
Nelle carceri nord-irlandesi, intanto, le blanket e le no-wash protest proseguivano ed
alcuni repubblicani, detenuti negli H-Block della prigione di Long Kesh, iniziarono
uno sciopero della fame per ottenere il riconoscimento dello status di prigioniero
politico (H-block hunger strike). Lo sciopero fu dapprima sospeso, dato che il
governo inglese sembrava disposto ad accettare le richieste dei carcerati, e
successivamente ripreso a causa dell'ambiguo comportamento delle autorità di
Londra. Dieci scioperanti repubblicani, tra cui Bobby Sands eletto al parlamento di

17
Westminister, si lasciarono morire di fame e la comunità cattolica considerò tale
gesto come un estremo sacrificio per la causa irlandese. Più di 100.000 persone
parteciparono ai funerali di Sands e molti Stati europei manifestarono solidarietà ai
prigionieri repubblicani. Anche nella Repubblica d'Irlanda vi furono diverse
dimostrazioni, tra cui un corteo di protesta che si concluse davanti all'Ambasciata
inglese.
Le violenze e gli assassini dei gruppi paramilitari erano aumentati durante lo
sciopero della fame. L'I.R.A. colpiva prevalentemente le guardie carcerarie colpevoli
di maltrattamenti sui detenuti, mentre i lealisti proseguivano la loro campagna nei
confronti dei cattolici. In questo clima di tensione, il Segretario di Stato per l'Irlanda
del Nord propose un progetto di legge per la creazione di un'Assemblea elettiva a cui
delegare gli affari interni dell'Ulster, sulla base di una devoluzione progressiva.
L'Assemblea ebbe vita breve. Essa fu formalmente sciolta nel 1986, ma non
esercitò mai alcun peso sulla politica nordirlandese: la maggioranza degli unionisti
non aveva infatti nessuna intenzione di condividere il potere con i cattolici.
Allarmato dall'avanzamento del movimento repubblicano, John Hume, leader
del partito cattolico moderato, stabilì dei contatti con il Primo Ministro dell'EIRE
Gerry Fitzgerald. I due politici si accordarono per incontrarsi allo scopo di trovare
una soluzione alla questione irlandese. Gli incontri si tennero a Dublino e si
conclusero con la formulazione di tre opzioni da proporre al governo inglese:
un'Irlanda unita, con il consenso dei cittadini delle trentadue Contee, la creazione di
uno Stato federale oppure la creazione di un'autorità congiunta. Margaret Thatcher
rigettò le tre opzioni, ma i contatti continuarono. Il 15 novembre 1985 i
rappresentanti del Regno Unito e della Repubblica d'Irlanda stipularono il Trattato
di Hillsborough (Accordo anglo-irlandese). Nel testo del documento si ribadiva che
l'Irlanda del Nord non avrebbe subito alcuna modifica del proprio status
costituzionale, sino ad una differente espressione della volontà della maggioranza
della popolazione. L'accordo prevedeva, inoltre, la creazione di una Conferenza
intergovernativa, presieduta dal Ministro degli Esteri irlandese e dal Segretario di
Stato dell'Irlanda del Nord. La Conferenza avrebbe affrontato i problemi giuridici,
politici e di sicurezza comuni alle due entità irlandesi. Nel documento si auspicava,
infine, la creazione di un governo nord-irlandese che fosse compatibile con gli
interessi della minoranza cattolica.

18
Come prevedibile l'accordo riaccese gli antichi timori della comunità protestante,
che si sentì tradita dal governo inglese. La violenza riesplose nelle strade delle sei
Contee. Gli unionisti organizzarono manifestazioni e scioperi per esprimere il loro
profondo disappunto sull'accordo. Vi furono scontri tra i manifestanti e la RUC,
diverse abitazioni di agenti di polizia furono incendiate.
Nel 1988 il governo inglese emanò il Broadcasting Ban, in base al quale si
vietava la trasmissione via radio e televisione di dichiarazioni rilasciate da esponenti
di otto organizzazioni politiche nord-irlandesi (tra cui il Sinn Féin e l'Ulster Defence
Association). Il Ministro degli Interni britannico motivò il provvedimento
affermando che solo in tal modo era possibile impedire il diffondersi del terrorismo.
Il Broadcasting Ban venne revocato solo nel 1994.
Nel 1989 si ebbe un'inattesa apertura verso il movimento repubblicano. Il
Segretario per l'Irlanda del Nord Peter Brooke, infatti, rilasciò alcune dichiarazioni
in cui sosteneva che l'esercito inglese non era in grado di eliminare l'I.R.A. Dato tale
presupposto, era dunque indispensabile che nuove forze politiche fossero ammesse
alle trattative per giungere ad una soluzione della questione irlandese. Egli sostenne,
inoltre, che era necessario eliminare qualsiasi forma di discriminazione sul lavoro
(causa prima dell'alto tasso di disoccupazione tra i cattolici), perché in tal modo si
sarebbe potuto agevolare la creazione di condizioni di dialogo con il movimento
repubblicano.
Brooke pose, tuttavia, un limite imprescindibile: l'I.R.A. avrebbe dovuto rinunciare
all'uso delle armi. Solo nel 1994, dopo la proclamazione unilaterale del cessate il
fuoco da parte dell'Irish Republican Army, il Sinn Féin è stato ammesso alle
trattative.
Nell'ultimo ventennio, l’Irlanda sembra finalmente essersi avviata verso un
processo di pacificazione. Un primo passo in questa direzione è stato compiuto nella
primavera del 1993 da Gerry Adams e John Hume, leader rispettivamente del Sinn
Féin e del Partito Socialdemocratico e Laburista. I due esponenti politici hanno
sottoscritto, dopo numerosi colloqui, un documento contenente alcune proposte per
risolvere definitivamente la questione irlandese. In tale atto si ribadisce il diritto di
autodeterminazione di tutto il popolo irlandese e la necessità di giungere ad una
riconciliazione nazionale, attraverso il superamento delle differenze che separano i
diversi settori della popolazione d'Irlanda. Tale progetto, pur non avendo incontrato
ufficialmente il favore del governo britannico e irlandese, ha gettato le basi per una

19
reale trattativa politica che ha coinvolto anche il Sinn Féin. Alla fine del mese di
ottobre del 1993, infatti, il Primo Ministro dell'EIRE e il suo relativo britannico
hanno firmato una dichiarazione congiunta in cui si sono mostrati disponibili a
trattare con il movimento repubblicano, purché l'I.R.A. fosse disposta a sospendere
le operazioni armate.
Un passo ulteriore verso la pacificazione è stato compiuto il 15 dicembre 1993
quando il Primo Ministro britannico John Major ed il Taoiseach Albert Reynolds
hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta (Downing Street Declaration), in cui
hanno espresso la volontà collaborare allo scopo arrivare ad una rimozione delle
cause del conflitto in Irlanda del Nord.
Nel documento si sottolinea la necessità della cooperazione tra il popolo delle
ventisei Contee e quello dell'Ulster, poiché entrambi rappresentano le due tradizioni
presenti in Irlanda.
Nel testo della dichiarazione, il governo inglese ribadisce di voler rispettare la
volontà della maggioranza dei cittadini nord-irlandesi e si mostra favorevole alla
creazione di strutture comuni per tutta l'Irlanda, inclusa la possibilità di giungere
pacificamente all'unità del Paese. Il governo inglese, inoltre, riconosce il diritto
all'autodeterminazione del popolo irlandese, diritto da esercitarsi mediante accordo
tra le due parti sia nel Nord che nel Sud
I due governi, infine, ribadiscono che il raggiungimento della pace deve comportare
la completa rinuncia alla violenza ed al sostegno dei gruppi paramilitari. In tali
circostanze tutti i partiti democraticamente eletti potranno partecipare all'attività
politica e democratica relativa al futuro dell’Irlanda.
All'atto della sottoscrizione, la dichiarazione di Downing Street ha incontrato
l'opposizione degli estremisti unionisti e del Sinn Féin, i primi intimoriti dal fatto
che per la prima volta il governo inglese ha ufficialmente riconosciuto il diritto
all'autodeterminazione del popolo irlandese ed un'eventuale unione dell'Irlanda; i
secondi polemici per quel che concerne le modalità di esercizio del diritto di
autodeterminazione. Da un'attenta lettura del documento, infatti, si desume che tale
diritto deve essere esercitato separatamente, e dunque in due momenti diversi, dai
cittadini del Nord e del Sud. Ciò implica, chiaramente, che, essendo i protestanti in
maggioranza nell'Irlanda del Nord, il risultato del referendum ivi tenuto è scontato.

20
Qualora il diritto di autodeterminazione fosse esercitato da tutto il popolo irlandese,
in un unico referendum, vi sarebbero maggiori possibilità di un risultato a favore
dell'Irlanda unita, poiché la comunità cattolica sarebbe numericamente maggiore.
Un ulteriore passo in avanti si è avuto con la proclamazione nel 1994 del cessate il
fuoco da parte dell’IRA, proclamato qualche mese dopo anche dai lealisti.
L’evento più importante dell'ultimo decennio è tuttavia rappresentato dalla
stipulazione dell'Accordo del Venerdì Santo. In base a tale accordo il governo
irlandese si è assunto formalmente l'impegno di emendare la Costituzione della
Repubblica d'Irlanda, in modo che non siano più inserite rivendicazioni territoriali
sull'Irlanda del Nord ed ha solennemente riconosciuto che le Sei Contee sono
legittimamente parte del Regno Unito, escludendo dunque qualsiasi pretesa
territoriale in Ulster. Da parte sua, il governo britannico, invece, si è impegnato ad
emanare la legislazione necessaria per creare un'Irlanda unita, qualora ciò sia
espressione della maggioranza dell'Irlanda del Nord.
Nell'estate del 1999 il processo di pace ha subito un nuovo arresto: al di là degli
sforzi compiuti a livello politico, nella vita quotidiana dei cittadini delle Sei Contee,
le intimidazioni e le violenze erano all'ordine del giorno, pur assumendo diverse
forme, quali le uccisioni di informatori dei gruppi paramilitari, i furti e gli attacchi
alle abitazioni cattoliche. In tal modo i gruppi lealisti hanno tentato di escludere il
Sinn Féin dall'esecutivo, impedendo all'I.R.A. di deporre le armi. La situazione si è
sbloccata solo grazie all'intermediazione del Senatore Mitchell. Nel novembre del
1999 il partito moderato unionista ha formalmente riconosciuto la legittimità del
perseguimento, attraverso mezzi pacifici, dell'unità d'Irlanda da parte dei
nazionalisti, ribadendo l'impegno a formare l'esecutivo.
Da parte sua, il Sinn Féin ha invece riconosciuto l'importanza, per il processo di pace,
di considerare la violenza un elemento del passato, accettando il disarmo come una
parte essenziale dell'Accordo e dichiarando la propria opposizione all'uso della forza.
Nonostante tutti gli incontri e gli accordi politici sono ancora tanti e delicati
i problemi da affrontare. Nel gennaio del 2001 si è registrato un nuovo arresto delle
trattative, a causa della mancanza di un accordo sulla riforma della polizia
(fortemente osteggiata dagli unionisti e considerata insoddisfacente dai nazionalisti),
del rifiuto da parte del governo britannico di diminuire ulteriormente la presenza
dell'esercito nelle Sei Contee e per le resistenze dell'I.R.A. a fare nuove concessioni
sul disarmo.

21
È certo, comunque, che il processo di pace avviato negli ultimi vent’anni ha
delle basi solide, poiché tutte le forze politiche hanno compreso la necessità di
scendere a reciproci compromessi al fine di evitare di ripiombare in quel clima di
violenza e di tensione che ha caratterizzato sin dalla nascita l'Irlanda del Nord.5

1.6 Introduzione alla storia del terrorismo in Italia

L’Italia, come l’Irlanda, ha conosciuto in anni recenti la paura del terrorismo, la


violenza gli attentati e i morti. Seppur con ragioni differenti, il terrorismo rosso
quello nero hanno tenuto per decenni una nazione nella paura e nell’incertezza.
Spesso e volentieri quando si parla di terrorismo in Italia si tende a semplificare
non facendo distinzione tra terrorismo nero e rosso portando a un’equiparazione
storicamente inesatta: il terrorismo nero, infatti, ha goduto in maniera occulta
dell’appoggio di una parte dei servizi segreti e della massoneria e le loro azioni sono
state soprattutto di tipo stragista. Le azioni delle Brigate Rosse e delle altre bande
armate legate all’estrema sinistra andavano a colpire il singolo attraverso le
gambizzazioni, gli omicidi e il sequestro di persona. Gli agguati hanno colpito
giudici, magistrati, ministri, giornalisti e membri delle forze dell’ordine colpevoli di
aver incarcerato membri delle bande armate o di essere stati critici nei confronti dei
brigatisti.
I numeri sono impressionanti; i feriti sono stati più di tremila e impressionante
è anche il numero dei morti: 628 nell’arco di nemmeno vent’anni.
Mentre in Irlanda gli attentati erano giustificati da motivazioni religiose e solo
in seguito politiche, in Italia lo stragismo e la violenza erano giustificati con la
necessità di creare una rivoluzione rossa o nera che andasse a scardinare lo stato
democratico visto da entrambe le parti come uno Stato traditore, inetto che andava
rovesciato con qualsiasi mezzo.
Come in Irlanda molti vedevano un gigantesco complotto che coinvolgeva i
servizi segreti deviati, mafie, logge massoniche e servizi segreti stranieri. A tutt’oggi
molti degli eventi accaduti in quegli anni sono ancora coperti da segreto militare per

5
Informazioni riprese da: http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=irlanda

22
cui non si è ancora del tutto certi di quanto ci sia di vero o di quanto sia solo una
visione estremamente paranoica o che si discosta dalla storia.
L’altra cosa che accomuna i due Paesi è il tipo di vittima che veniva scelta: in
Irlanda si moriva per un’autobomba, per una bomba messa in un pub, in Italia si
moriva per aver preso un treno, per essere andati in banca o per aver deciso di seguire
un comizio sindacale.
Un ulteriore punto in comune è la crisi economica che affliggeva l’Italia e
l’Inghilterra e la crisi sociale che, puntualmente, l’accompagna.
Luigi Franchi in un articolo apparso su “Inbetween” analizza, tra le altre cose,
le analogie storico-sociali tra Italia e Inghilterra.

“Questa crisi, aggravata ulteriormente dallo shock petrolifero del 1973, dà il via sia in Italia
che in Inghilterra a un ridimensionamento dell’industria e, di conseguenza, determina un
impoverimento generale della classe dei lavoratori a peggiorare le cose, l’aumento della popolazione
scolarizzata non comportò conseguentemente un aumento delle opportunità di lavoro. Gli anni ’70
sono stati fin dall’inizio segnati dal conflitto radicale tra tra imprenditori e lavoratori e dall’attrito tra
quelle che Asor Rosa ha definito «le due società», ovvero quella dei garantiti e quella dei non garantiti
(1977). In uno scenario nel quale anche le altre nazioni si trovano a fare i conti con una crisi di portata
globale, l’Italia e l’Inghilterra, entrambe provenienti da un dopoguerra contraddistinto dalla
ricostruzione e dalla ripresa economica, sembrano risentire in maniera più profonda del rallentamento
della crescita dei consumi, soprattutto alla luce della natura incompleta del processo di estensione del
benessere a tutti i livelli della società che il “Boom” italiano e la ‘affluent society’ inglese degli anni
Cinquanta avevano lasciato intravedere. Proprio in questa asimmetria tra la retorica dello sviluppo
generalizzato e la permanenza residuale di individui non toccati da alcun beneficio materiale, secondo
alcuni critici, sarebbe da individuare una delle cause scatenanti della conflittualità politica che ha
caratterizzato gli anni Settanta in questi due paesi. Per quanto riguarda la realtà italiana, per esempio,
Guido Crainz non esita a rintracciare nella società «una grande contraddizione: da un lato la
produzione di ricchezza e le possibilità offerte dal boom, dall’altro le condizioni reali di settori ampi
di lavoratori, i costi da essi pagati al “miracolo”
La riflessione sulla violenza degli anni Settanta può essere allargata ulteriormente partendo da
alcune considerazioni effettuate da Slavoj Žižek: secondo il filosofo sloveno, infatti, la «violenza
soggettiva», ovvero la violenza come la si intende comunemente, «è soltanto la parte più visibile di
un triumvirato che comprende, oltre a essa, una violenza oggettiva di due tipi»: quella simbolica «che
si manifesta nel linguaggio e nelle forme» e quella sistemica, ovvero «le conseguenze spesso
catastrofiche del funzionamento ben oliato dei nostri sistemi economici e politici»
A questo riguardo è opportuno riportare due esempi: un caso di violenza simbolica può essere
considerato quello perpetrato nei confronti delle vittime incolpevoli degli scontri tra i manifestanti e

23
le forze dell’ordine, due esempi fra tutti Francesco Lorusso in Italia e Blair Peach in Inghilterra, e le
cui vicende vengono spesso assimilate alle narrazioni degli Anni di piombo.
Un esempio di violenza sistemica, invece, può essere riscontrato nel “Prevention of Terrorism
Act” del 1974: promulgata in Inghilterra subito dopo gli attentati dell’IRA ai pub di Birmingham e di
Guildford, questa legge presentava, al pari della quasi contemporanea “Legge Reale” in Italia, degli
aspetti fortemente controversi quali la custodia preventiva senza un quadro indiziario ben preciso e
l’ampliamento dei casi in cui l’utilizzo delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine era
considerato legittimo (Walker 1986). Fu proprio questa legge a permettere l’arresto di coloro che
diverranno noti come i Birmingham Six, sei uomini irlandesi condannati all’ergastolo nel 1975 per i
fatti di Birmingham e rilasciati, perché innocenti, nel 1991 dopo avere speso ben 16 anni in carcere.”
6

1.7 Dal boom economico al terrorismo: 1960-1977

Negli anni’ 60 l’Italia si trova nel pieno di una crescita economica senza
precedenti grazie agli aiuti derivanti dal Piano Marshall, dalla liberalizzazione degli
scambi e soprattutto, dalla voglia di una nazione intera di lasciarsi definitivamente
alle spalle gli anni terribili della Seconda guerra mondiale.
Vi è una crescita del potere d’acquisto che permette a un numero sempre più
alto di persone di accedere a beni di consumo come l’automobile, la televisione e la
lavastoviglie, lussi che fino a poco tempo prima non erano nemmeno immaginabili.
L’Italia diventa una delle 7 potenze mondiali lasciandosi alle spalle la sua natura di
nazione prevalentemente agricola.
La Democrazia Cristiana con il supporto dei socialisti guiderà l’Italia della
ricostruzione e del boom promuovendo un'importante riforma agraria e finanziando
la Cassa per il Mezzogiorno, istituita per promuovere la crescita economica del Sud
Italia. In questi anni vengono migliorate le infrastrutture del Paese con la costruzione
di nuove autostrade e con il potenziamento della linea ferroviaria; si è esaurita la
cultura contadina in cui era germinato il fascismo e quella generazione, ormai
cresciuta, esce dal disastro con una moderna vocazione industriale.
Il mutamento, però, non coinvolge la società interna e la politica si ritrova
inadeguata a fronteggiare cambiamenti così repentini: la necessità e la richiesta di
beni stabili e di rilevanza sociale come un’abitazione per tutti, l’adeguamento e lo

6
Articolo di Luigi Franchi, Dialogare con gli anni Settanta. Dinamiche di rinegoziazione della
memoria storica in Stefano Tassinari e Jonathan Coe, p.p,3,5.

24
sviluppo degli edifici scolastici, dei servizi medico sanitari e dei trasporti pubblici
restano in larga parte insoddisfatte.
A crescere inoltre, sono soprattutto le città del triangolo industriale ( Torino,
Genova e Milano) che arrivano a conoscere livelli di benessere sconosciuti al resto
del Paese: questo dà inizio a un imponente fenomeno di migrazione interna che
porterà un milione e mezzo di persone a trasferirsi dalle provincie più povere del sud
Italia verso le città del nord più ricche in cerca di lavoro e guadagni migliori; un
esodo così massiccio è il segnale dell’assenza di una politica di programmazione
nazionale capace di scongiurare squilibri economici, sperequazioni sociali e
diseguaglianze culturali.
La rinascita del paese genera per paradosso una nuova categoria di poveri che,
presa coscienza del loro stato di emarginazione, esprimono la loro protesta in forme
sempre più dure. Attorno a loro si mobilitano non solo i sindacati, ma anche i partiti,
gli intellettuali, gli studenti e i disoccupati.
Iniziano le contestazioni nelle piazze dove inizierà ad intervenire sempre più
spesso il reparto della Celere che renderà la repressione delle varie manifestazioni
sempre più dura lasciando spesso sul terreno anche dei morti: i loro interventi
provocano aspre critiche anche in Parlamento diventando fonte di scontro tra
maggioranza e minoranza.
Il governo viene travolto sia dalle durissime reazioni ai tragici eventi che dalle
nuove prospettive politiche che emergono dai partiti stessi: si inizia a delineare
l’apertura a sinistra voluta fortemente dai socialisti e da Aldo Moro, il Presidente
della Democrazia Cristiana.
Al boom economico fa seguito un periodo di recessione e crisi che porterà alla
fine del primo esperimento di governo congiunto proprio a causa delle diverse
opinioni su come uscire dalla crisi economica che stava iniziando a far affossare
l’economia del paese.
In quegli anni salirà a capo dei servizi segreti un personaggio decisamente
controverso; Giovanni De Lorenzo nel 1955 venne nominato a capo del Sifar e ne
rimarrà a capo per quasi sette anni, il più lungo periodo di permanenza di una stessa
persona a capo dei servizi segreti nella storia repubblicana. È proprio in questo
periodo che intorno al generale iniziano ad addensarsi molte ombre: vengono raccolti
157.000 fascicoli informativi su deputati, senatori, dirigenti di partito, sindacalisti,

25
intellettuali, professionisti, industriali e perfino 4500 fra sacerdoti e cattolici
impegnati.
Nel 1961 De Lorenzo viene promosso generale di Corpo d’Armata. La nomina
è possibile grazie a una legge speciale approvata per l’occasione che lo esonera
dall’obbligo di esercitare sia pure per breve tempo un comando operativo prima di
assumere il nuovo grado. Il ruolo di generale di Corpo d’Armata è incompatibile con
quello di capo del Sifar, ma una serie di tempestivi rinvii consentirà a De Lorenzo di
ricoprire entrambi i ruoli fino all’anno successivo, quando si libererà, grazie a un
pensionamento anticipato, il posto che De Lorenzo agognava: quello di comandante
dell’Arma dei carabinieri. Nel 1964 di sua iniziativa, senza quindi seguire ordini o
direttive o semplici sollecitazioni dell’autorità politica e senza nemmeno darne
notizia, ideò e promosse dei piani straordinari da parte delle tre divisioni dei
carabinieri operanti nel territorio nazionale. Tutto questo nella previsione che
l’impossibilità di creare un governo di centrosinistra avrebbe portato a un brusco
mutamento dell’indirizzo politico, tale da creare gravi tensioni fino a determinare
una situazione di emergenza; questo piano venne denominato Piano Solo e
prevedeva l’impiego solo dei carabinieri per affrontare possibili emergenze. Il piano
prevedeva un insieme di iniziative tra cui l’occupazione della RAI, il controllo delle
centrali telefoniche e il fermo di alcune figure di spicco della vita nazionale. Quando
questo piano venne scoperto si procedette immediatamente alla sostituzione di De
Lorenzo dopo che ebbe rifiutato l’invito alle dimissioni da parte del ministro della
Difesa. Il Sifar cessa di esistere poco dopo, nel 1965, non senza prima aver
contribuito a finanziare un convegno su “La guerra rivoluzionaria” a Roma dove
accanto a generali e colonelli vi accorsero anche membri della estrema destra
extraparlamentare tra i quali Stefano delle Chiaie e Mario Merlino.
Alla strategia dell’eversione di destra non rimangono estranei neppure i servizi
segreti internazionali: un agente della CIA raccontò che uomini del SID (il nuovo
Servizio informazioni della Difesa che, in realtà, mantenne intatte le strutture e le
strategie del Sifar) erano andati in America per formarsi e perfezionare il loro
addestramento. I servizi segreti americani fornirono anche delle direttive su come
agire in Italia e numerosi finanziamenti.
La strategia eversiva nacque dal mito della “nazione tradita” a cui va aggiunto
il malinteso patriottismo di alcuni militari; la crisi del riformismo europeo provoca
in alcuni gruppi di destra il ritorno di un vecchio revanscismo, l’aspirazione a uno

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Stato forte, il disprezzo per il parlamentarismo, l’anticomunismo come ideale, la
violenza come mito. Da questa matrice ideologica, politica e culturale si irradia una
marea di formazioni: due su tutte Avanguardia nazionale e Ordine nuovo che
daranno vita nel 1974 al gruppo clandestino Ordine Nero, immaginato e gestito come
una struttura paramilitare eversiva.
Lo scenario internazionale registra un evento che incoraggia l’estremismo di
destra: il 21 aprile 1967 i “colonnelli” greci prendono il potere. Il golpe è salutato
con entusiasmo nel mondo dell’eversione fascista. L’Italia è circondata dal regime
di Salazar in Portogallo, da quello di Franco in Spagna e adesso, dai militari in
Grecia. Si inizia a temere il colpo di stato anche in Italia.
A Roma l’università vive il suo primo scontro frontale: nel 1966 muore uno
studente di sinistra, Paolo Rossi, morte avvenuta in circostanze mai chiarite, che
provoca la prima occupazione di un Ateneo: è l’annuncio di quello che diventerà il
movimento studentesco
A Berkeley nel 1964 scoppia una rivolta senza precedenti che contagia
immediatamente anche gli altri campus: gli studenti lanciano slogan non solo contro
l’industria del sapere ma la loro è una contestazione globale che mette insieme ceti,
classi, gruppi, investe la morale e i rapporti umani, sovverte un modello culturale,
sconvolge un costume, rifiuta uno stile di vita. Questo bisogno di cambiamento si
manifesterà in tutti i paesi industrializzati dell’Occidente: posti di fronte al dilemma
di scegliere tra la vita borghese dei loro genitori o quella che definivano “un
inesorabile rabbia”, scelsero senza dubbio alcuno la seconda. Nasce così quella
chiamata generazionale che porta i giovani a occupare piazze e università in nome di
qualcosa in cui credere.
L’eco della protesta riecheggiò anche in Italia dove la protesta giovanile venne
presto a unirsi con quella operaia Si tratta di pulsioni che accelerano la crescita di
una società complessa che sarà destinata, nell’arco di qualche anno, a esprimere una
violenza drammatica respinta dalla stragrande maggioranza dei cittadini.
Nel collocare la nascita di questa violenza generalizzata si tenderà a collocarla
nel clima genericamente eversivo provocato dal grande falò, incompiuto, del
Sessantotto.
Il “libretto rosso” di Mao Tse- tung che accompagnò lo scontro ideologico e armato
della rivoluzione culturale cinese iniziò in questi anni a girare anche nelle università
occidentali. Il maoismo per molti fu solo una provocazione radicale e ribadì un

27
concetto che risulterà fondamentale in questi anni: ribellarsi è giusto. Nascono altri
miti: da Ho Chi Min al generale Giap, della guerriglia palestinese condotta da Arafat
e, su tutti, il mito di Che Guevara, il “ guerrillero heroico” che morendo giovane in
Bolivia diventerà una sorta di Cristo rosso a cui i giovani rivoluzionari riserveranno
un culto quasi religioso.

In pochi mesi la protesta uscì dagli atenei e coinvolse gli operai delle
fabbriche che iniziarono a politicizzarsi contestando i significati di una crescita che
aveva sì trasformato il Paese, migliorandone le condizioni di vita, ma che non era
riuscita a coinvolgere tutta la società anzi, aveva comportato l’emarginazione dei
suoi strati più deboli.
A marzo nei giardini di Valle Giulia a Roma ha luogo uno degli scontri più
duri tra manifestanti e polizia: si conteranno alla fine centinaia di feriti, 228 fermi e
10 arresti. L’agitazione si propaga in tutta Italia e il movimento di protesta inizia ad
avere i suoi miti, su tutti Mara Cagol e Renato Curcio che, pochi anni dopo,
diventeranno i capi delle prime Brigate Rosse.
Il 1969 sarà l’anno dei primi attentati a membri delle istituzioni: il 15 aprile
1969 scoppia una carica nell’ufficio del rettore dell’Università di Padova; secondo
gli atti processuali i colpevoli fanno parte di un’organizzazione avente come scopo
immediato quello di compiere una serie di attentati terroristici sempre più gravi e,
come scopo ultimo, quello di sovvertire con mezzi violenti l’ordinamento
costituzionale della Repubblica. Dieci giorni dopo esplode una bomba alla Fiera di
Milano distruggendo lo stand della Fiat. Rimangono ferite 20 persone, ma l’obiettivo

7
http://glianni70.it/wp-content/gallery/la-contestazione-1968-1969/1201020108396_41.jpg

28
era fare una strage. Tre ore dopo viene fatta esplodere una bomba alla Stazione
Centrale a Milano, un altro ordigno danneggia gravemente l’ufficio della Banca
Nazionale delle Comunicazioni. Altri attentanti dinamitardi vengono compiuti
nell’ufficio istruzione dei tribunali di Milano e Torino. In un documento inviato al
Sid viene svalutata l’ipotesi di una iniziativa eversiva da parte dei neofascisti e
vengono identificati come responsabili alcuni gruppi anarcoidi e filo maoisti. Nella
relazione, che verosimilmente proviene dai servizi segreti francesi, è messa in
evidenza l’esistenza di un internazionale anarchica, segnalata come una centrale per
collegamenti segreti, all’estero, fra terroristi di sinistra. Solo dopo dieci anni si
riuscirà a scoprire che i responsabili degli attentati di Milano, Torino e Padova furono
i neofascisti.
Inizia così uno dei periodi più neri della storia della Repubblica Italiana

1.8 la strage di piazza Fontana

È il 12 dicembre 1969 la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in


Piazza Fontana è colma di clienti che approfittano dell’orario prolungato rispetto agli
altri istituti di credito per
concludere le loro operazioni. Alle 16,37 scoppia una bomba lasciando a terra 16
morti orrendamente mutilati e 87 feriti.
Ero arrivato in treno da Roma a Milano, alla stazione ho preso un taxi e il tassista mi ha
detto che era scoppiata una caldaia in piazza Fontana, allora, invece di andare a casa gli ho detto
“mi porti in piazza Fontana!” sono arrivato davanti alla banca e ho incontrato un giornalista della
Rai che mi ha detto “Ma che caldaia, è una bomba! Ci sono 20 30 morti! “non c’erano ancora i
blocchi della polizia: sono entrato nella banca e ho visto sangue dappertutto e poi pezzi di mani,
credo, dei pezzi di gambe e poi dei pezzi di corpo umano appiccicati ai muri. 8

8
Intervista a Corrado Stajano presente su La Notte della Repubblica, Sergio Zavoli, Nuova
Eri, Arnoldo Mondatori editore, 1992, Roma pag. 48

29
9

Il pomeriggio a Roma si verificano altri tre attentati dinamitardi: uno nel


sottopassaggio della Banca Nazionale del Lavoro, due sull’altare della Patria per un
totale di 16 feriti. Una quinta bomba viene trovata inesplosa a Milano nei locali della
Banca Commerciale. Inizialmente viene seguita, seppur con molti dubbi, la pista
anarchica e in quattro giorni vengono fermate 84 persone tra anarchici e militanti di
estrema sinistra. I primi sospetti cadono su Giuseppe Pinelli ferroviere e figura di
spicco degli ambienti anarchici milanesi. Convocato in questura la sera stessa della
strage, Pinelli viene interrogato a lungo, ininterrottamente e non verrà rilasciato
seppure non vi è a suo carico nessuna imputazione specifica. A interrogarlo è Luigi
Calabresi che guida l’inchiesta sulla strage. Durante l’ultimo interrogatorio, Pinelli
vola dalla finestra del quarto piano della questura; ufficialmente viene considerato
un suicidio anche se da subito il fatto innescò dubbi e aspre polemiche. Per molti
Pinelli era stato ammazzato anzi, come molto amaramente si diceva in quei giorni
“era stato suicidato”. La magistratura apre due procedimenti penali: contro il
capitano dei carabinieri e contro il commissario Calabresi prima per omicidio
volontario, poi per omicidio colposo. Il 27 ottobre il giudice istruttore proscioglierà
tutti gli imputati, agenti e funzionari di polizia perché “il fatto non sussiste” Luigi
Calabresi verrà ucciso nel 1975 con cinque colpi di pistola sparati da un killer che lo
aspetterà in strada, davanti la sua abitazione.

9
https://www.google.it/search?q=strage+di+piazza+fontana&client=opera&hs=xm6&source
=lnms&tbm=isch&sa=X&ved=0ahUKEwjZi9CS5o_bAhWlJMAKHez_DwwQ_AUICigB&biw=12
05&bih=598#imgrc=mZC_9b9pGEWASM:

30
Vengono indagati altri personaggi legati all’ambiente anarchico, anche se, si
fa sempre più concreta l’idea che l’attentato sia stato compiuto dai fascisti e
coinvolgerà anche membri del Sid. Persone sempre diverse prenderanno il volto
degli imputati e le indagini saranno sempre bloccate dalla richiesta del segreto
militare in quanto coinvolgeva personaggi che appartenevano, appunto, ai servizi
segreti italiani; il Paese è turbato dalla sequenza di depistaggi e inquinamenti che
impediscono alla giustizia di venire alla luce. Questo, come molti altri attentati, è
rimasto ancora oggi senza colpevoli certi, ma con una marea di domande che ancora,
dopo 40 anni, rimangono senza risposta.

1.9 la nascita delle Brigate Rosse

Il 16 aprile 1970 viene annunciata la nascita dei GAP il primo gruppo della sinistra
che promuove apertamente il ricorso alla lotta armata; il capo, oltre che finanziatore
è l’editore Giangiacomo Feltrinelli. I membri del GAP sostenevano di continuare la
lotta della Resistenza presumendo di costruire una continuità storica tra loro e i
partigiani. I militanti consideravano lo stato democratico che era stato costruito nel
dopoguerra come un tradimento dei valori della Resistenza stessa affermando che il
suo fine ultimo doveva essere la costruzione di uno Stato socialista.
Di pari passo vanno formandosi gruppi e bande che, elaborando diverse
strategie, si collocano dentro e fuori la stessa sinistra extraparlamentare. Si
distinguono due gruppi: uno marxista- leninista che guarda al modello della Cina di
Mao. Sarà la direzione prescelta dal Movimento studentesco di Mario Capanna a
Milano. L’altro grande filone, che pure riunirà decine di sigle, è legato all’unione
studenti-operai che daranno vita a Lotta Continua e Potere Operaio che
rappresenteranno le frange più radicali. A metà tra operaismo e maoismo troviamo
Avanguardia Operaia che confluirà poi in Democrazia proletaria. Così come si
colloca a metà il Collettivo politico metropolitano di Renato Curcio, Mario Moretti
e Alberto Franceschini che diverranno i futuri capi delle BR.
Sempre in quegli anni usciranno da Lotta continua un gruppo di militanti che
passerà alla lotta armata formando i Nap.
Nella primavera del’70 si ha la nascita ufficiale delle BR quando a Milano
iniziano a comparire dei volantini firmati Brigate Rosse con disegnata una stella

31
asimmetrica a cinque punte. Durante l’estate viene presa la decisione di passare alla
lotta armata durante un incontro in una cittadina vicino Reggio Emilia. È nato un
progetto di guerra che inizialmente viene sottovalutato sia dallo Stato che
dall’opinione pubblica. Il 12 settembre dello stesso anno si ha il primo attentato a
firma Brigate Rosse contro Giuseppe Leone, direttore del personale della Sit-
Siemens, ma gli inquirenti ritengono che la rivendicazione sia soltanto una copertura
e lo classificano solo come un atto vandalico. La fabbrica diventa il campo di azione
e le attività punitive si moltiplicano. Nel 1972 iniziano anche i primi sequestri a
scopo di estorsione quando viene rapito il dirigente della Sit- Siemens Idalgo
Macchiarini. Tenuto nascosto in un appartamento viene fotografato, dietro di lui la
bandiera a 5 punte, un rituale che farà parte da quel momento in poi del codice
comunicativo delle BR. Il sequestro non desta grande scalpore, si è molto lontani da
una percezione esatta del fenomeno e del suo rapido indurirsi.
Neanche due settimane dopo muore Giangiacomo Feltrinelli a Segrate dopo
che, ufficialmente, aveva cercato di compiere un attentato mettendo una bomba su
un traliccio dell’alta tensione che sarebbe scoppiata prima del tempo uccidendolo sul
colpo. Ufficialmente si è trattato di un incidente dettato dall’imprudenza, ma
nell’ambiente della sinistra si avanza da subito l’ipotesi di un omicidio. I funerali si
trasformano in una manifestazione politica dove gruppi di giovani lanciano slogan
contro la CIA e la “borghesia assassina”, ritenuti i mandanti dell’omicidio Feltrinelli.
Un mese dopo Luigi Calabresi viene ammazzato fuori dalla sua abitazione. Verranno
ritenuti mandanti dell’omicidio gruppi dell’ultrasinistra come rappresaglia per la
morte di Pinelli. La primavera del ’72 produce un effetto disastroso su tutto il fronte
del nascente terrorismo rosso, investito da una massiccia contro-offensiva delle forze
dell’ordine che arrestano per primi i Gap, la cui organizzazione viene smantellata,
poi alcuni membri delle BR. Si scoprono alcuni covi e iniziano a essere identificati i
primi brigatisti.
Il ’72 e il ’73 sono gli anni dei sequestri e gli anni in cui le operazioni delle
BR iniziano ad acquistare una diversa modalità di azione, più violenta.
La scelta della clandestinità fu quasi immediata: dagli attentati alle macchine
e ai brevi sequestri di persona si passa in fretta ai ferimenti, agli agguati per strada:
dai progetti più sommari a un terrorismo più organizzato e diffuso, quindi.
In un comunicato si legge: “il proletariato ha raggiunto una maturazione sicura, è uscito
dalla sua prima fase, quello dello scontro dimostrativo, propagandistico e incomincia a

32
interpretare la lotta di classe come una guerra”10 I terroristi imparano a colpire
all’improvviso, concentrando tutte le loro forze sull’attacco per poi disperdersi
subito dopo. L’organizzazione cerca di intervenire nelle principali vertenze aziendali
con azioni tese a dimostrare la vulnerabilità del padrone e ritiene vitale il ricorso alla
lotta armata, vista come l’unica strategia sufficientemente efficace per affermare le
proprie idee. L’altro elemento che li inizia a definire è la necessità di ricorrere alla
clandestinità resa necessaria dall’intensificarsi delle azioni illegali ma che, allo
stesso tempo, veniva considerata un trauma salutare per tagliare i ponti con
l’esistenza precedente. I brigadisti iniziano a creare le prime basi sicure
(generalmente abitazioni private) che servivano da rifugio per i militanti e anche da
deposito per il materiale propagandistico o per le armi: sono i cosiddetti “covi”.
Il fronte, formato dai gruppi di militanti, ha il compito di organizzare
schedari, raccogliendo e classificando informazioni sui politici e su rappresentanti
delle istituzioni, giornalisti, magistrati, uomini delle forze dell’ordine. Ogni scheda
riferita a un singolo personaggio è composta da fotografie, dall’elenco delle attività
svolte, dalla descrizione delle abitudini, ricostruite attraverso diversi sopralluoghi.
Nessun gruppo terroristico nel mondo ha mai raccolto una mole tale di documenti e
informazioni tutti accuratamente catalogati e archiviati. Sono testi talvolta oscuri,
spesso intrisi di una tradizione ideologica che affonda le sue radici nel marxismo-
leninismo, aggiornato dalle esperienze più radicali: da quella cinese a quella cubana.
Il linguaggio, che spesso si contrae in slogan, è quello di una cultura che non conosce
né il dubbio né la tolleranza. Sembrava che la rivoluzione fosse a portata di mano e
che il mondo intero stesse per esplodere.

1.10 l’eversione di destra, l’operazione “Tora, Tora” e il “golpe


Borghese”

\Nel 1970 l’estremismo nero attraverso le sue numerosissime sigle (Mar,


Rosa dei Venti, Ordine nuovo) tentava di sovvertire l’ordine democratico, prima
diffondendo il terrore attraverso una serie di attentati poi organizzando un colpo di

10
Comunicato delle brigate rosse riportato in Zavoli Sergio, La notte della repubblica, Nuova Eri,
Arnoldo Mondatori editore, Roma, 1992, p.98

33
Stato che, una volta fallito, passerà alla storia come il “golpe Borghese”. La violenza
politica che l’Italia democratica si trova ad affrontare a partire dagli anni ‘70 ha due
punti di riferimento: da una parte il fascismo e la Repubblica di Salò, dall’altro la
Resistenza. Al crollo della Repubblica di Salò erano sopravvissuti individui, gruppi,
mentalità e propositi in gran parte espressi dal ceto piccolo-borghese, con qualche
frangia socialmente alta non di rado collegate alle leve del potere, che si sarebbero
riaggregati negli anni.
La sera del 7 dicembre 1970 comincia la notte del Tora-Tora, così chiamata
in ricordo dell’attacco giapponese a Pearl Harbor. L’operazione è guidata da Junio
Valerio Borghese, ex capo della X Mas ai tempi della Repubblica di Salò. Gli
obiettivi erano i ministeri della Difesa e dell’Interno, la Rai, le centrali telefoniche e
telegrafiche vi parteciparono tutte le organizzazioni eversive di destra che si misero
d’accordo per raggiungere l’obiettivo.
Il rapporto della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 ha portato
alla luce il coinvolgimento di Licio Gelli e della sua loggia nell’organizzazione del
Golpe. Un commando si introduce all’interno del Viminale per rubare delle armi
mentre un commando di guardie forestali si avvicina alla Capitale. Improvvisamente,
però, il contrordine: l’operazione viene annullata e a tutt’oggi rimangono oscure le
motivazioni che portarono all’annullamento del piano. Tra le ipotesi che sono state
formulate c’è quella che ritiene che si volesse strumentalizzare il golpe per creare
una situazione di emergenza che giustificasse la creazione di uno stato forte e
autoritario. Borghese espatrierà per evitare l’arresto, ma rivendicherà in diverse
interviste il progetto mancato. Del tentativo del generale il Paese non sa nulla:
l’ordine è di non parlarne o comunque di minimizzare. Si saprà in seguito che un
protocollo segreto impegnava l’Italia e altri Paesi del blocco occidentale a
organizzare formazioni militari e paramilitari clandestine con il compito di resistere
a eventuali tentativi di invasione da parte delle truppe comuniste e a possibili
sovversioni interne

34
1.11 La strategia della tensione

Nell’ estate del 1970 si verificherà una delle prime stragi a matrice terroristica
a Gioia Tauro: la parte meridionale della regione era in balia della rivolta di Reggio
Calabria causata dalla nomina di Catanzaro a capoluogo di regione. La rabbia di
molti cittadini di Reggio sfociò nella proclamazione dello sciopero cittadino il 13
luglio. La rivolta era coordinata da un "comitato d'azione" che raccoglieva esponenti
del Movimento Sociale Italiano e di altri partiti. Il 15 luglio si arrivò all'occupazione
della stazione, alla creazione di barricate e scontri con la polizia per le strade della
città.
L'attentato avvenne una settimana dopo quando a pochi metri dalla stazione di Gioia
Tauro venne fatto deragliare la Freccia del Sud. L’attentato causò la morte di sei
passeggeri e il ferimento di altre cinquanta persone. Nel clima di sommossa vissuto
a Reggio e provincia si verificarono anche altri episodi di sabotaggio alle
infrastrutture ferroviarie come la distruzione funzionale della stazione di Reggio
Calabria Lido; nessuno però di gravità paragonabile. Agli atti del Ministero
dell'interno, risultano comunque, tra il 20 luglio 1970 e il 21 ottobre 1972, ben 44
gravi episodi dinamitardi, di cui 24 a tralicci, rotaie e stazioni ferroviari. Due anni
più tardi su un treno che trasportava dei sindacalisti a un convegno esploderà una
bomba causando cinque feriti. Due ordigni esploderanno sulla ferrovia di Lamezia
Terme mentre altre verranno trovate inesplose lungo i binari della linea ferroviaria.
Il 30 maggio 1974 il giudice istruttore scagionò i dipendenti delle Ferrovie
dello Stato precedentemente accusati per errori nel servizio per "non aver commesso
il fatto". L'inchiesta si chiuse lasciando l'attentato dinamitardo come semplice
ipotesi, per quanto la più probabile. Ipotesi "destinata a restare nel limbo delle
congetture", in quanto "non è agevole ritenere, alla luce dell'umana esperienza, che
la detonazione prodotta dalla carica esplosa sul binario nel pomeriggio del 20 luglio
1970 si trovasse in prossimità della stazione ferroviaria di Gioia Tauro".
Questa sentenza suscitò scalpore all'epoca poiché di fatto ammetteva la possibile
esecuzione di un attentato, ma non stabiliva l'apertura di un fascicolo a carico di
ignoti per capire chi ne fosse responsabile. L'anno precedente un volantino datato 17
maggio 1973 era stato recapitato alla procura di Salerno da parte del circolo

35
anarchico "Bielli", in cui si denunciava un tentativo di occultamento delle
responsabilità dei gruppi missini e fascisti nella strage, tentativo operato dalle stesse
forze dell'ordine.
Nello stesso si sosteneva anche che l'incidente in cui persero la vita i cosiddetti
"anarchici della Baracca" e la sparizione dei loro documenti fossero ricollegabili alla
strage, sulla quale i cinque ragazzi avevano indagato. La Corte di Assise di Palmi nel
2001 stabilì che le indagini iniziali furono palesemente insufficienti, tanto che
"all'origine non si percepì neppure la natura dolosa di quello che venne, infatti,
considerato come un disastro colposo"
Gli attentati intanto, diventano sempre più all’ordine del giorno:
un’autobomba esplode a Gorizia uccidendo 3 carabinieri, a Milano una bomba
esplode nel cortile della Questura mentre viene mostrato il nuovo busto dedicato a
Luigi Calabresi. Sarà un massacro: 4 persone muoiono sul colpo e 52 rimangono
ferite. Si scoprirà in seguito che il colpevole aveva finto di far parte degli anarchici
mentre, in realtà, aveva stretti rapporti con l’estrema destra, era un collaboratore dei
Servizi segreti e confidente della polizia.
Intanto, a sinistra, i brigatisti continuano nella loro strategia della tensione
rapendo Mario Sossi, pubblico ministero nel processo contro il gruppo di Mario
Rossi. I GAP, artefici del rapimento chiederanno la liberazione di Mario Rossi in
cambio del magistrato. Sossi verrà in seguito, dopo numerose trattative fallite,
rilasciato indenne e senza contropartite, ma Francesco Coco, che si era opposto alle
trattative, e due guardie della scorta vennero ammazzati a sangue freddo di fronte
alla porta di casa,
Nel 1974 a piazza della Loggia a Brescia è in corso una manifestazione
sindacale di protesta contro gli attentati e le provocazioni dei gruppi neofascisti
quando all’improvviso esplode una bomba lasciando sul terreno 8 morti e 54 feriti.
Le indagini della magistratura prendono il via fra grandi difficoltà e si rivolgono
verso gli ambienti neofascisti. Quella di Piazza della Loggia è la quarta strage
politica. ma mentre in quella di piazza Fontana, in quella di Gioia Tauro e in quella
alla Questura di Milano rimasero uccise persone comuni, questa fu diversa perché le
vittime non furono casuali, ma vi era un target preciso: morirono cittadini che
stavano protestando contro la violenza nera.
Due giorni dopo uno dei capi di Ordine Nero sparò su una pattuglia di
carabinieri e guardie forestali che lo scoprirono accampato con tre compagni sulle

36
montagne tra la provincia dell’Aquila e Rieti. Dopo una violenta sparatoria vennero
feriti tre carabinieri e morì uno dei capi dei terroristi, Giancarlo Esposti. Venne così
scoperto uno dei più importanti campi paramilitari utilizzati per formare i terroristi e
per nascondere armi e munizioni. Restò senza spiegazione il fatto che le munizioni
e le armi trovate in quell’occasione facessero parte di uno stock assegnato al
ministero dell’Interno.
I partiti di governo – la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Democratico
Italiano, il Partito Repubblicano Italiano, il Partito Liberale Italiano e il Partito
Socialista Italiano – rafforzati dal sostegno del Partito Comunista, trovarono l'intesa
politica per elaborare una serie di leggi per far fronte alla situazione di crisi che il
Paese stava vivendo.
In ragione dell'emergenza terrorismo, vengono promulgate nuove leggi, sottoposte
anche al vaglio della Corte Costituzionale, che rafforzano, tra l'altro, i poteri di
intervento delle forze di polizia, ma sempre nel rispetto delle riserve di legge e di
giurisdizione, previste dalla Costituzione.
Significativa è l'approvazione della legge Reale (n. 152 del 22 maggio 1975), che
introdusse una serie di misure repressive
La legge in questione suscitò molte polemiche e fu sottoposta a referendum, attuato
l'11 giugno 1978, da cui emerse il favore da parte dell'opinione pubblica: il 76,46%
votò per il mantenimento e il 23,54% per l'abrogazione.
Nel 1978 seguirà l'istituzione di corpi speciali con finalità antiterrorismo: il GIS
(Gruppo di intervento speciale) dei carabinieri, il NOCS (Nucleo operativo centrale
di sicurezza) della polizia e, più avanti, i reparti SVATPI (Scorta Valori Anti
Terrorismo Pronto Impiego, in seguito divenuti ATPI) della Guardia di Finanza.
Nel 1980 verrà emanata la legge Cossiga (legge n. 15 del 6 febbraio), che
prevede condanne sostanziali per chi venga giudicato colpevole di terrorismo ed
estende ulteriormente i poteri della polizia.
Anche questo provvedimento fu sottoposto a referendum abrogativo, tenuto il
17 maggio 1981, da cui risultò invece il favore dell'opinione pubblica per questa
legge: l'85,12% infatti votò per il mantenimento della legge e solo il 14,88% per
l'abrogazione.
Nella notte del 4 agosto 1974 avvenne la strage numero cinque: Il treno
Italicus, in viaggio da Roma a Monaco sta attraversando una galleria nel tratto
ferroviario tra Firenze e Bologna quando all’improvviso esplode una bomba. Farà

37
12 morti e 105 feriti, ma sarebbero stati molti di più se il treno avesse deragliato
all’interno del tunnel, cosa che, per fortuna, non avvenne. Il nuovo tentativo di
minare il rapporto tra società e democrazia ancora una volta fallisce. Il Paese, anzi,
si raccoglie intorno alle istituzioni. Partiti e sindacati danno vita a grandi
manifestazioni democratiche. Iniziano, però, da subito i depistaggi che finiranno per
alimentare la mitologia di un regista occulto che ispira e devia, coinvolge e scagiona,
provoca e nasconde. Il progetto di destabilizzare un Paese, o di stabilizzarlo, secondo
alcuni è un progetto politico con una logica, un metodo e un obiettivo.
Il processo per la strage dell’Italicus si apre da lì a poco e, come per quello degli
attentati precedenti risulterà lungo, faticoso e inconcludente. E anche la strage
dell’Italicus, ancora oggi, dopo tanti anni, è rimasto senza colpevoli certi e così sarà
per tutte le altre stragi che seguiranno. L’impegno della magistratura non ottiene
risultati perché si ha sempre un sistematico occultamento delle prove e degli indizi
che ha la prontezza e l’efficacia che soltanto un disegno strategico può assicurare. Il
silenzio, l’omertà, le protezioni sommate alle difficoltà obiettive che si incontrano
nell’indagare su crimini non rivendicati e sempre attribuiti a gruppi diversi finiscono
per rendere difficoltosa la ricerca della verità.
Un inasprimento della lotta delle BR si ha soprattutto durante il ’77, quando
molti esponenti della sinistra più radicale iniziano ad abbracciare le nuove rivolte
che stanno avvenendo in quasi tutta Italia. Il Sessantotto ricco di denunce, ma povero
di un progetto è ufficialmente morto. In dieci anni gli slogan si sono inaspriti e sono
diventati più duri e disperati: “la violenza paga, la violenza è sempre politica” “la
distruzione è gioia continua” questi erano alcuni degli slogan che venivano utilizzati
durante le varie manifestazioni. Dal ’77 nasce il cosiddetto “movimentismo”
un’esplosione ribellistica che prenderà varie forme. Lotta continua accoglie subito
tutti i rami della protesta da quella studentesca a quelle femministe a quella degli
sfrattati. Scende in piazza per molti cortei di protesta e manifestazioni, ma presto
l’unione del movimento si incrina su un contrasto di fondo fra la linea che vuole uno
scontro più radicale, sostenuta da intransigenti frazioni operaie, e quella del gruppo
dirigente, che tende a trasformare il movimento in partito e ne teorizza l’ingresso
nell’area istituzionale con il rifiuto della lotta armata.
Sarà la via istituzionale a trionfare e molti militanti usciranno da Lotta continua per
costituire nuove bande armate o entrare in bande già esistenti.

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Con loro se ne andrà anche Walter Alasia, che in quella occasione compirà anche la
scelta decisiva della sua vita diventando un terrorista. Altri dopo di lui faranno la
stessa scelta, percorrendo le stesse tappe: dall’antifascismo rosso o cattolico ai gruppi
extraparlamentari, per uscirne poi in crisi politica ed esistenziale e arrivare al partito
armato. Alasia morirà poco dopo a seguito di una retata nella sua abitazione dopo
aver cercato di sparare ai poliziotti, salta da una finestra, ma viene colpito. Morirà
qualche tempo dopo.
Intorno alle frantumazioni dell’ultrasinistra ribolle l’area frastagliata e
variopinta del dissenso e della contestazione giovanile. Il movimento del’77 è un
insieme di molti ideali in cui si mescolano i valori egualitari della sinistra e quelli
permissivi e capitalistici della società occidentale. Hanno il gusto della beffa, dello
slogan dissacrante e in ogni manifestazione, il movimento mostra le sue due anime:
una è quella della creatività, cioè trasgressiva, irridente, spontaneista e quasi sempre
non violenta; l’altra, quella della lotta politica, è dura, intransigente, violenta. Nel
1977 si conteranno nel solo Veneto e soprattutto a Padova, 817 attentati,174
aggressioni e 206 espropri. Uno degli obiettivi principali di Autonomia Operaia era
non più il padrone o il capitalista, ma divenne principalmente la classe dirigente del
PCI accusata di aver tradito il popolo e i sindacalisti
Una delle manifestazioni più violente si ha a Bologna l’11 marzo 1977
quando viene ammazzato Francesco Lorusso, un militante di Lotta continua colpito
a morte da un carabiniere. La città viene invasa dalla contestazione, che prende di
mira anche il sindaco Renato Zangheri. A Roma due mesi dopo la morte di Lorusso
viene organizzata una grande manifestazione per il terzo anniversario della vittoria
nel referendum per il divorzio. Iniziano gli scontri con la polizia e viene uccisa
Giorgiana Masi di 19 anni che militava all’interno di un collettivo femminista. La
versione ufficiale ritiene che il colpo sia stato sparato da ignoti mentre per i collettivi
a sparare sono stati i poliziotti.
Le BR proseguono, intanto con ben altra strategia e altri strumenti i loro
obiettivi che corrispondono a una logica molto più militare. Uccidono il presidente
dell’Ordine degli avvocati incaricato di designare gli avvocati di ufficio ai brigatisti,
tre anni dopo ammazzeranno anche Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio
superiore della magistratura. Iniziano anche le rappresaglie contro i giornalisti che
avevano scritto articoli contro il terrorismo delle BR e i loro membri.

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Dalle minacce verbali si passa ben presto a quelle reali: il 1 giugno viene
gambizzato Vittorio Bruno vicedirettore del “Secolo XIX”, il giorno dopo viene
colpito alle gambe il più famoso dei giornalisti italiani: Indro Montanelli. Il giorno
dopo ancora è il turno del direttore del TG1 Emilio Rossi.
Mentre le grandi città sembrano tutte sull’ orlo della guerra civile, a Bologna
si apre un convegno sulla repressione. Per la prima volta vengono pronunciate parole
di solidarietà con le Brigate Rosse.

1.12 Il rapimento di Aldo Moro

La mattina del 16 marzo 1978, giorno in cui il nuovo Governo guidato da


Giulio Andreotti stava per essere presentato in Parlamento per ottenere la fiducia,
l'auto che trasportava Aldo Moro dalla sua abitazione all'Università La Sapienza, fu
intercettata e bloccata in via Mario Fani a Roma da un nucleo armato delle Brigate
Rosse.
In pochi secondi, sparando con armi automatiche, i brigatisti uccisero i due
carabinieri a bordo dell'auto di Moro (Oreste Leonardi e Domenico Ricci), i tre
poliziotti che viaggiavano sull'auto di scorta (Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e
Francesco Zizzi) e sequestrarono il presidente.
Il giorno dell'agguato i fucili mitragliatori in dotazione agli agenti di scorta
di Moro si trovavano riposti nei bagagliai delle auto; Eleonora Chiavarelli, spiegò,
in seguito, che i mitra della scorta si trovavano nei bagagliai per il fatto che nessuno
di loro sapesse usarli dato che nessuno di loro era stato addestrato a sparare. Persino
la radio non funzionava
Davanti alla Corte d'appello di Roma Valerio Morucci raccontò che
l'organizzazione era pronta per il 16 mattina, uno dei giorni in cui Moro sarebbe
potuto passare in via Fani, seppure i brigatisti stessi non ne fossero sicuri in quanto
c’era la forte probabilità che Moro potesse fare un’altra strada per andare
all’Università a tenere la sua lezione.
In realtà la vittima del sequestro sembra che dovesse essere Giulio Andreotti,
ma alla fine dopo numerose discussioni si decise di rapire Aldo Moro per punirlo di
aver voluto il compromesso storico con il PCI (la cui espressione sarebbe stata il
governo Andreotti IV) e per essere il presidente della Democrazia Cristiana. Stando

40
sempre a quanto dichiarato da Mario Moretti, per le BR era rilevante sia il fatto che
Moro fosse presidente della DC e che fosse da trent'anni al governo.
Durante i 55 giorni del sequestro Moro le Brigate Rosse recapitarono nove
comunicati con i quali, assieme alla risoluzione della direzione strategica, ossia
l'organo direttivo della formazione armata, spiegarono i motivi del sequestro; erano
documenti lunghi e, a volte, poco chiari.
Le Brigate Rosse proposero, attraverso il comunicato n. 8, di scambiare la
vita di Moro con la libertà di alcuni terroristi in quel momento in carcere, il
cosiddetto «fronte delle carceri», accettando persino di scambiare Moro con un solo
brigatista incarcerato, anche se non di spicco, pur di poter aprire trattative alla pari
con lo Stato
Nel corso della prigionia, Moro scrisse 86 lettere ai principali esponenti della
Democrazia Cristiana, alla famiglia e all'allora Papa Paolo VI per cercare di forzare
le trattative imposte dai brigatisti, ma è stato anche ipotizzato che queste lettere
contenessero messaggi cifrati per la famiglia e per i compagni di partito.
La politica si divise in due fazioni: da una parte il fronte della fermezza, composto
dalla DC, dal PSDI, dal PLI, e con particolare insistenza dal Partito Repubblicano (il
cui leader Ugo La Malfa proponeva il ripristino della pena di morte per i terroristi),
che rifiutava qualsiasi ipotesi di trattativa, e il fronte possibilista, nel quale
spiccavano Bettino Craxi, i radicali, la sinistra non comunista, i cattolici progressisti
come Raniero La Valle e uomini di cultura come Leonardo Sciascia. Tuttavia
all'interno dei due schieramenti vi erano delle posizioni in dissenso con la linea
ufficiale: una parte della DC era per il dialogo, tra cui il Presidente della Repubblica
Giovanni Leone (pronto a firmare richieste di grazia) e il Presidente del Senato
Amintore Fanfani, nel PCI Umberto Terracini era per un atteggiamento «elastico»,
tra i socialdemocratici Giuseppe Saragat era in dissenso con la posizione ufficiale
del segretario Pier Luigi Romita, mentre tra i socialisti Sandro Pertini dichiarò di non
voler assistere al funerale di Moro ma neppure a quello della Repubblica.
Per cercare di trovare una soluzione che mettesse d’accordo le due anime del
parlamento vennero istituiti due comitati di crisi dal Ministro del Interno Francesco
Cossiga :un «comitato tecnico-politico-operativo», presieduto dallo stesso Cossiga e
dal sottosegretario Nicola Lettieri di cui facevano anche parte i comandanti di
polizia, carabinieri e guardia di finanza, oltre ai direttori (da poco nominati) del
SISMI e del SISDE, al segretario generale del Cesis, al direttore dell'UCIGOS e al

41
questore di Roma, l’altro era un «comitato informazione», di cui facevano parte i
responsabili dei vari servizi: CESIS, SISDE, SISMI e SIOS.
Fu creato anche un terzo comitato, non ufficiale, denominato «comitato di esperti»
che non si riunì mai collegialmente. Della sua esistenza si seppe solo nel maggio
1981, quando Cossiga ne rivelò l'esistenza alla Commissione Moro, senza però
rivelarne le attività e le decisioni.
La decisione di mettere a morte Moro creò forti dibattiti tra i brigatisti perché
non tutti erano d’accordo. Moretti telefonò alla moglie di Moro affinché facesse
pressioni sui vertici della Democrazia Cristiana. La forte personalità e il carisma di
Moro colpirono profondamente i suoi carcerieri e fu anche questo alla base della
forte opposizione a mettere in atto la sentenza di morte. Alla fine, la decisione finale
venne messa ai voti e vinsero quelli a favore dell’esecuzione.
Moro fu fatto alzare alle 6:00 con la scusa di essere trasferito in un altro covo.
Franco Bonisoli ha invece raccontato che a Moro venne riferito di esser stato graziato
(e quindi liberato), una bugia definita dallo stesso brigatista «pietosa», detta per «non
farlo soffrire inutilmente» venne poi, portato nel garage del covo di via Montalcini.
Fu fatto entrare nel portabagagli di una Renault 4 rossa targata Roma N57686 e venne
coperto con un lenzuolo rosso. La vettura era stata rubata alcuni mesi prima. Mario
Moretti e gli altri spararono alcuni colpi addosso al Presidente uccidendolo.
Il cadavere fu ritrovato il giorno stesso in quella stessa Renault 4 rossa in via Caetani,
in pieno centro a Roma esattamente a metà strada tra la sede della Democrazia
Cristiana e la sede del PCI.

1.13 La strage di Bologna e la fine degli anni di piombo

La strage di Bologna, compiuta la mattina di sabato 2 agosto 1980 alla


stazione ferroviaria di Bologna, fu il più grave atto terroristico avvenuto in Italia nel
secondo dopoguerra, da molti indicato come uno degli ultimi atti della strategia della
tensione.
Alle 10 del mattino una bomba esplose nella sala d’aspetto della stazione
distruggendo un’intera ala e investendo un treno che era fermo al primo binario: 85
persone morirono per l’esplosione o a causa del crollo del tetto, mentre altre 200

42
rimasero ferite più o meno gravemente. L’intera città si mobilitò immediatamente
nei soccorsi; dato l’enorme numero dei feriti e data l’insufficienza di ambulanze
furono utilizzati anche gli autobus, i taxi o le vetture private, una corsia dei viali
venne riservata solo ai mezzi di soccorso per cercare di salvare quante più persone
possibili. Nei giorni successivi, a piazza Maggiore vennero organizzate imponenti
manifestazioni di sdegno e di protesta da parte della popolazione e non furono
risparmiate accese critiche e proteste rivolte ai rappresentanti del governo,
intervenuti ai funerali delle vittime celebrati nella Basilica di San Petronio. Gli unici
applausi furono riservati al Presidente della Repubblica Sandro Pertini, giunto con
un elicottero a Bologna alle 17:30 del giorno della strage, che in lacrime affermò di
fronte ai giornalisti: «Non ho parole, siamo di fronte all'impresa più
criminale che sia avvenuta in Italia»11.

12

Come esecutori materiali furono individuati dalla magistratura alcuni


militanti di estrema destra, appartenenti ai Nuclei Armati Rivoluzionari, tra cui
Valerio Fioravanti. Gli ipotetici mandanti sono rimasti sconosciuti, ma furono rilevati
collegamenti con la criminalità organizzata e i servizi segreti deviati. Le indagini si
indirizzarono quasi subito sulla pista neofascista, ma solo dopo un lungo iter
giudiziario e numerosi depistaggi (per cui furono condannati Licio Gelli, Pietro
Musumeci, Giuseppe Belmonte e Francesco Pazienza), la sentenza finale del 1995
condannò Valerio Fioravanti e Francesca Mambro «come appartenenti alla banda
armata che ha organizzato e realizzato l'attentato di Bologna» e per aver «fatto parte

11
Biblioteca di Repubblica: La storia d'Italia. Vol. 23. Dagli anni di piombo agli anni Ottanta,
Torino, 2005, p. 587
12
http://www.strettoweb.com/wp-content/uploads/2015/08/Strage-Bologna-8.jpg

43
del gruppo che sicuramente quell'atto aveva organizzato», mentre nel 2007 si
aggiunse anche la condanna di Luigi Ciavardini, minorenne all'epoca dei fatti
Dal giugno 1978 al dicembre 1981 aumentarono gli agguati, le uccisioni e i ferimenti
terroristici. Le statistiche segnalarono una continuità di attentati mai conosciuta in
Europa: il numero delle organizzazioni armate attive in Italia era passato da 2 nel
1969 a 91 nel 1977, e a 269 nel 1979. In quello stesso anno si registrò la cifra record
di 659 attentati. Tuttavia, l'anno con più vittime fu il 1980 in cui morirono 125
persone, di cui 85 nella strage della Stazione Centrale di Bologna.
Probabilmente secondo per risonanza internazionale solo al sequestro Moro
fu il sequestro del generale statunitense James Lee Dozier ad opera delle Brigate
Rosse, che coincise nel tempo con il periodo considerato comunemente come
conclusivo di un ciclo degli anni di piombo. Il sequestro Dozier destò scalpore per
la capacità delle Brigate Rosse di colpire un obiettivo militare tanto significativo: il
generale era infatti all'epoca vicecomandante della NATO nel Sud Europa e venne
sequestrato a Verona il 17 dicembre 1981. Fu poi liberato a Padova il 28 gennaio
1982 da un'azione dei NOCS.
Lentamente verso il finire del decennio gli episodi di violenza scemarono. In
particolare, crollò il sostegno alle Brigate Rosse dopo l'assassinio dell'operaio Guido
Rossa nel 1979. Rossa aveva denunciato un suo collega sorpreso a distribuire
materiale di propaganda delle BR.
Gli anni di piombo stavano terminando e l'opinione che la lotta armata potesse
portare al cambiamento dell'assetto costituzionale dello Stato stava trovando sempre
meno sostenitori.
La fine degli anni di piombo non significò la fine del terrorismo, ma il succedersi di
singoli attentati e singoli episodi tendenti ad agire sui conflitti sociali e politici non
riuscì più a mettere in pericolo la forma costituzionale-parlamentare dello Stato.
Le azioni terroristiche del triennio 1978-1981 intimorirono l'opinione pubblica e
diedero l'impressione che fosse in atto qualcosa di terribile: qualcuno,
drammatizzando, parlò di soglia della guerra civile.
In realtà (ma lo si capì solo a posteriori) quegli attacchi terroristici erano
colpi di coda pericolosi, ma senza prospettive: il generale Carlo Alberto dalla Chiesa
era stato investito delle più ampie responsabilità per la lotta al terrorismo e mise
presto a segno qualche colpo di grande efficacia.

44
Il 29 maggio 1982 fu approvata definitivamente la legge n. 304, che
prevedeva forti sconti di pena per chi avesse dato «contributi utili alla lotta contro
l'eversione». Per le organizzazioni terroristiche fu una legge devastante, poiché molti
militanti iniziarono a collaborare con i giudici rivelando i nomi dei complici.
Da quel momento, fino al 1988, ci furono altri colpi di coda, ma si trattava comunque
di episodi relativamente isolati. L'idea che la lotta armata potesse essere un mezzo
per risolvere i conflitti sociali aveva perso alquanto credito anche nelle ali estreme
di entrambi gli schieramenti politici.

45
CAPITOLO 2

2.1 Introduzione alla letteratura nord-irlandese

La questione irlandese delineata nel quadro storico non ha solo influenzato la


vita della popolazione, ma ha ovviamente influenzato anche la sua letteratura che, in
molti casi, ha rispecchiato la visione politica degli autori e delle autrici.
Le divisioni religiose, economiche e politiche sono radicate in profondità
all’interno della cultura irlandese e gli scrittori si sono da sempre dati un obiettivo
ambizioso: non presentare solo le proprie convinzioni personali, ma scavare per
arrivare alle radici storiche e sociali delle differenze, di ciò che le ha provocate,
capire l’enorme attrazione che suscitano gli atti di violenza, focalizzarsi sui suoi
effetti e descriverne l’onnipresenza all’interno di una realtà all’interno della quale la
vita delle persone e le loro relazioni sono inevitabilmente influenzate.
Nel tentativo di confrontarsi e raccontare il periodo dei “Troubles” gli
scrittori irlandesi devono colmare un imbarazzante vuoto: per quanto possa sembrare
strano, la risposta degli scrittori della Repubblica ai tumulti che si stavano
verificando in Irlanda è arrivata molto in ritardo. Declan Kiberd nel suo Inventing
Ireland racconta di questo fallimento degli scrittori e ne descrive le cause:

he ascribes this failure to come to terms with social problems in general and the Northern
problem in particular to that remorseless privatization of experience of an art which located
its interests in the pathology of the alienated individual which Kiberd states was so typical
of Irish Literature before and during what he terms “The Charlie Haughey era13

Alcuni autori irlandesi nati a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60, meno coinvolti
nella questione nord-irlandese, ritenevano invece che si fosse parlato fin troppo del
nazionalismo nel Nord Irlanda per coprire i drammi reali del paese come la
disoccupazione e la situazione dei più giovani e delle donne nel Paese.

13
Laura Pelaschiar, Writing the North The Contemporary novel in Northern Ireland, edizioni
Parnaso, Trieste, 1998 pag.17

46
Le vicende nord-irlandesi hanno ispirato romanzi agli scrittori non solo del
Paese, ma anche moltissimi scrittori inglesi hanno usato l’Irlanda come
ambientazione per i loro racconti.
Molti studi hanno analizzato la rappresentazione inglese del terrorista
nordirlandese ottocentesco: una rappresentazione che riassumeva tutti gli stereotipi
che colpivano gli irlandesi in generale, ritratti come persone rissose, sempre
ubriache, ingenue, ma fondamentalmente innocue. Gli autori irlandesi stessi si
ritrovarono ad adeguarsi a questi stereotipi e a partire dal XIX secolo portarono sui
palchi inglesi e americani il cosiddetto “stage Irishmen” partecipando in maniera
attiva alla diffusione di questi stereotipi.
Il Nord Irlanda ha fornito agli scrittori inglesi l’ambientazione perfetta per i
romanzi noir: la violenza, gli ideali, il cinismo e gli amori tormentati; anche in questi
romanzi viene ripresentato lo stereotipo dell’irlandese ingenuo e manipolabile che,
come nel caso di I See a Dark Stranger, viene a volte unito allo stereotipo dell’eroe
romantico.
La narrativa inglese sui Troubles, dunque, è costituita principalmente da noir,
thriller o da spy stories in cui vi è una scarsa propensione all’approfondimento
psicologico dei personaggi e a cogliere le cause profonde del conflitto.
Jack Higgins, uno degli scrittori inglesi più importanti degli ultimi anni, ha
vissuto per alcuni anni a Belfast dopo che la madre, irlandese, era tornata nella città
natale a seguito della separazione dal marito, e, a giudicare dalle prefazioni ai
romanzi di Higgins e da alcune interviste che ha rilasciato, è stato segnato
profondamente dall’esperienza a Belfast. I suoi racconti sull’esperienza irlandese
ricordano vagamente i racconti di Charles Dickens soprattutto quando scrive a
proposito della sua infanzia. Lo scrittore ha conosciuto molto bene la violenza che
stava flagellando l’Irlanda in quel periodo e, nonostante vivesse all’interno di una
delle roccaforti della Belfast protestante, è riuscito ad assumere una posizione di
equilibrio tra le due fazioni. L’esperienza porterà lo scrittore a creare tre personaggi
definiti “eroi cattolici” irlandesi che diventeranno i personaggi centrali di saghe o di
singoli volumi.
Nel XX secolo la produzione letteraria e cinematografica in Inghilterra ha
messo al centro degli avvenimenti una cospirazione dei servizi segreti inglesi e,
implicitamente, mostra come anche il thriller, considerato uno dei generi più

47
reazionari, possa essere usato come strumento di denuncia seppur leggermente
paranoica.
Uno dei casi più tipici di questo si ha nelle narrative relative ai processi
contro i presunti terroristi autori di attentati in Inghilterra: nei romanzi e nei film
viene mostrato come tali processi siano stati in realtà manipolati dai servizi segreti
per trovare un capro espiatorio. È il caso di tre irlandesi accusati di aver messo una
bomba all’interno di un pub di Guilford provocando 5 morti e 64 feriti. Qualche mese
dopo il loro arresto anche altri irlandesi vennero accusati di aver importato il
materiale esplosivo all’interno del Paese. Tutti gli imputati vennero dichiarati
colpevoli a seguito di confessioni estorte con la tortura e utilizzando prove
inesistenti. Solo nel 1989 si riuscì a dimostrare che il processo era stato nei fatti solo
una montatura.
Gerry Conlon pubblicò nel 1991 un’autobiografia dal titolo Proved Innocent, ma
l’evento ebbe una risonanza mondiale solo due anni dopo con l’uscita del film del
regista irlandese Jim Sheridan, basato sulla sua autobiografia, intitolato The Name of
the Father.
A partire dagli anni ’90 iniziano a comparire opere letterarie o
cinematografiche che inquadrano il conflitto nord-irlandese nel contesto più ampio
della politica inglese. Non abbiamo più a che fare con complotti imbastiti per trovare
dei colpevoli o con processi falsati, bensì con un Complotto che investe i livelli più
alti della politica inglese, il ruolo ambiguo dei servizi segreti e lo stesso governo. Il
genere prediletto è sempre quello del thriller dove, viene impiegata sempre una
vicenda nord-irlandese per mostrare e denunciare gli effetti nefasti delle continue
ingerenze dei servizi segreti deviati all’interno della questione nordirlandese, decisa
da Londra e destinata a ripercuotersi sull’intero Regno Unito.
Molte delle opere presentano in appendice una vera e propria bibliografia
usata per dimostrare la veridicità e l’attendibilità di quanto narrato, accentuando la
volontà di denuncia, che è un elemento anomalo all’interno di un genere come quello
del thriller. Quando gli autori scrivono un thriller spionistico ambientandolo in
Irlanda e affrontando il conflitto nordirlandese fanno assumere al romanzo dei
risvolti inevitabilmente politici svelando complotti e Complotti più o meno credibili
all’interno di un genere caratterizzato più dal nichilismo che da uno spirito di
denuncia.

48
Un’area che, invece, è rimasta poco studiata è la letteratura sui Troubles,
principalmente perché molte delle opere che sono state prodotte in quegli anni non
sono sempre di grande qualità artistica.
Sull’ argomento una delle opere critiche più importanti è Gangster or
Guerrillas di Patrick Magee; l’autore venne arrestato per la sua presunta
partecipazione ad alcuni attentati messi in atto dall’IRA e scarcerato nel 1999 dopo
il Good Friday Agreement.
Il fulcro di questo testo è la rappresentazione del terrorista e una forte critica delle
modalità con cui, in maniera propagandistica, sono stati rappresentati i repubblicani
irlandesi. La sua tesi è che la narrativa sui Troubles ha avuto il profondo demerito di
denigrare la figura dei repubblicani irlandesi e di semplificare eccessivamente le
motivazioni del conflitto.
In Irlanda gli scrittori vivono sulla propria pelle tutti gli sconvolgimenti
politici del Paese e se da una parte è inevitabile che i loro romanzi siano in un certo
qual modo politicizzati, dall’altra rivendicano il loro diritto a non avere nessun tipo
di coinvolgimento politico.
Nonostante tutte le difficoltà che questo comportava, molti scrittori nord-
irlandesi hanno accettato la sfida. Dalla metà degli anni ’60 i poeti hanno iniziato a
comporre poesie che in diversi stili e registri, hanno cercato di dare una risposta a
ciò che stava succedendo. Nel lavoro dei poeti, la realtà viene descritta attraverso
metafore, allegorie e analogie con epoche storiche molto lontane ad esempio John
Hewitt nel suo poema The Colony dà voce a un contadino protestante e alle sue
rivendicazioni sulla terra irlandese attraverso la voce di un colono romano; Seamus
Heaney ritrova un analogia tra i riti sacrificali alla dea della terra nello Jutland
compiuti durante l’età del ferro e le vittime della violenza in Irlanda; Paul Muldoon
incrocia la storia e il mito dell’Irlanda con le tradizioni dei Nativi Americani.
Nel raccontare i Troubles mantenendo una certa distanza, gli scrittori si
rifanno anche al modello di Joyce attingendo ai classici e plasmandoli per raccontare
delle loro realtà locali. a cui venivano legati alcuni aspetti della realtà contemporanea
che il poeta viveva; anche il linguaggio si arricchiva di modi di dire e di espressioni
tipiche dell’irlandese parlato nel nord. Alcuni di loro hanno impegnato il loro talento
poetico nelle traduzioni e nelle riscritture dei capolavori classici: Riot Acts di Tom
Paulin pur essendo un romanzo con molte risonanze nordirlandesi offre allo stesso
tempo una resa fedele dell’Antigone di Sofocle.

49
Questa trasposizione dell’attualità in un altro tempo e spazio o attraverso
l’uso dei miti fa sì che gli scrittori irlandesi possano contemplare la realtà da una
certa distanza e allo stesso tempo dimostrare che la violenza che imperversa nel Nord
non deriva da una qualche specificità del Paese, ma è una violenza e un’aggressività
che hanno sempre fatto parte della natura umana fin dalla notte dei tempi. Il pericolo
di questo distanziamento è quello di elevare le atrocità che stavano avvenendo nel
Paese a una categoria più elevata dei comportamenti umani e allo stesso tempo
rinforzava l’idea che la storia irlandese sia sostanzialmente ciclica e ripetitiva, quindi
il conflitto irrisolvibile.
La violenza dei Troubles è stata invece affrontata in maniera molto più diretta
e nei romanzi: per i romanzieri sembra costituire un eccellente fonte di ispirazione,
soprattutto per gli scrittori noir. A oggi sono stati pubblicati almeno 450 romanzi
ambientati nell’Irlanda del Nord, molti di questi però, sono stati giudicati troppo
semplicistici, incendiari e propagandistici. Piuttosto che capire e partecipare alla
tragedia umana la sfruttano per ricavarne fama e soprattutto denaro.
Bill Robton, un insegnante della Ulster University a Coleraine, ha espresso
le sue preoccupazioni a proposito dei “Troubles thriller” e della figura del terrorista
che all’interno di questi viene presentata:

it’s got macho-men with guns, it’s got beautiful red-haired virgins running around, falling at
the feet of the macho men with guns, it’s got chases, it’s got bombs, it’s got all that you might want
[…] For factual writers of this place the length of the Troubles is a problem. Because there is no angle
they can find. But for fictional writers it’s absolutely perfect. […] these things are out there in the
world saying: Look this is an account of what’s going on here, this all genre is saying very awful
things about Northern Ireland. It’s saying that we are all congenially violent, or that people that might
ever get involved in politics here are people who are pathologically deranged, or something 14

Eemon Hughes va oltre la critica sociologica di Robton e ritiene che i


“Troubles thriller” siano la causa che ha impedito la nascita di una narrativa più
matura sulle vicende nordirlandesi. Il thriller con i suoi meccanismi stereotipati
(buoni contro cattivi usati in maniera assoluta e senza sfumature) non permette
un’interazione aperta tra i personaggi e le circostanze; lascia inoltre poco spazio a

14
Intervista con Billy Robton, in Telling the Troubles, un programma della BBC, 23 settembre
1993 citata in Writing the North, pag.20

50
una contestualizzazione articolata della realtà del Nord Irlanda. Per queste ragioni,
secondo Hughes, il Nord Irlanda è uno di quei posti all’interno dei quali le cose non
cambieranno mai: al contrario di quanto avviene nei thriller il cattivo, rappresentato
per Hughes dal sistema corrotto, non potrà mai essere battuto e i problemi del Nord
Irlanda perdureranno ancora a lungo nel tempo.
La posizione di Hughes pecca di un certo pessimismo che non ha un completo
riscontro nella realtà; per quanto, come si è detto prima, il thriller peccava di
superficialità nel raccontare la realtà dell’Ulster, in mani capaci è diventato un
articolato mezzo di denuncia e un ottimo mezzo per indagare su ciò che era avvenuto
e stava avvenendo nel Paese.
In un mondo narrativo all’interno del quale si ha la sensazione che la violenza
impregni ogni cosa è di fondamentale importanza concentrarsi sul modo in cui viene
articolato il discorso politico e come il mondo della lotta politica e quello dei gruppi
cattolici e protestanti, i mondi direttamente responsabili di questa violenza, vengano
visti e rappresentati. Chi e come sono le persone sul campo, come vengono
contestualizzati i leader politici, i politicanti, i terroristi, i simpatizzanti, i soldati e i
poliziotti?
McNeice descrive il primo requisito fondamentale per un killer: l’incapacità
di identificarsi e quindi di empatizzare con la vittima. Ma mentre per McNeice questa
freddezza dell’animo e del cuore è una componente necessaria della figura
ammiratissima dell’uomo d’azione, nella narrativa contemporanea questo elemento
è completamente sparito.
La capacità di uccidere non è minimamente legata a ideali o a ideologie o
dalla dolorosa consapevolezza della necessità della violenza, da un desiderio di
sacrificio per la propria Nazione, tutti elementi che trasformano l’assassino in un
eroe. Nei romanzi gli assassini sono lontanissimi dall’essere degli eroi anzi,
diventano un’allegoria che simbolizza il male assoluto e ne diventano l’emblema.
Nella narrativa nord-irlandese il mondo dell’impegno politico e quindi del
terrorismo, è popolato da figure per niente positive e sostanzialmente rientrano in
due categorie: quella del leader corrotto e del killer violento. Sono ovviamente degli
stereotipi che ricorrono in molte opere di narrativa: questo non deve far pensare a
una immaturità della letteratura del Nord Irlanda o a una mancanza di inventiva.
Questa negatività che a macchia d’olio tocca molti romanzi e racconti si deve a una
completa diffidenza degli irlandesi nei confronti della politica, dell’impegno

51
politico, nel terrorismo e nella sua capacità di portare dei cambiamenti reali nel
Paese. Questo sentimento di diffidenza è, ancora oggi, molto presente nei lavori di
autori contemporanei che non sono in alcun modo legati al genere dei “troubles
thriller”
Solo dagli anni’90 si è avuto un cambiamento di genere e sono comparsi
l’ironia e la satira, ma il senso di sfiducia era ancora molto diffuso e fortemente
sentito sia dai romanzieri che dalla popolazione: un romanzo che tratta questo senso
di diffidenza è Eureka Street di Robert McLiam Wilson.
In un’intervista lo scrittore affermò che non aveva alcuna intenzione di ignorare le
questioni politiche asserendo polemicamente: “I am not Seamus Heaney” 15
anzi,
ritiene che la politica non può e non deve essere ignorata dagli scrittori nord-
irlandesi.
Eureka Street è un lungo romanzo, con molti personaggi ambientato a Belfast e
estremamente politicizzato; McLiam Wilson sceglie di descrivere le sue posizioni
politiche e la lotta politica nell’Irlanda del Nord in una maniera molto chiara e diretta.
Sceglie come punto di partenza per la narrazione il 1994, coprendo i mesi
precedenti e successivi alla tregua stipulata dall’IRA. I protagonisti principali sono
Chucky Largan e Jimmy Eve: dopo una serie di eventi fortuiti si ritrovano ospiti allo
stesso programma televisivo. Chucky non ha nessun interesse nei confronti della
politica, ma dopo aver sniffato dell’anfetamina che gli era stata data da un
cameramen si lancia in un’invettiva contro Sinn Fein e contro la politica in generale.
Queste critiche possono sembrare un atto coraggioso da parte dello scrittore di dare
voce per la prima volta in un romanzo a una forte critica politica che in realtà era
mossa dagli Irlandesi a nord e a sud del confine, il metodo narrativo, utilizzato da
McLiam Wilson, in realtà, non si adatta molto al romanzo e il lettore viene lasciato
con la sensazione che le caricature delle figure politiche, per quanto siano divertenti
e piacevoli e certamente veicolino un messaggio costruttivo, non si trovino
all’interno del loro ambiente naturale né trovino una loro collocazione all’interno
della struttura del romanzo.
Il discorso politico di McLiam Wilson diventa molto più efficace nel
momento in cui gli orrori della violenza iniziano ad essere presentati attraverso la
creazione di personaggi con cui il lettore può identificarsi e attraverso la narrazione

15
Ibid.pag.22

52
degli eventi: nel capitolo 11 per esempio c’è la migliore descrizione della
devastazione della violenza e degli orrori causati dallo scoppio di una bomba mai
apparsa in un romanzo irlandese.
I politici, i terroristi vengono ridicolizzati magistralmente da Colin Bateman
nei suoi thriller comici anche se non è una satira estremamente politicizzata e che
non ha obiettivi concreti. Il primo comic thriller apparso nell’Irlanda del Nord è
Divorcing Jack del 1995 dove Bateman utilizza quel black humor per cui gli irlandesi
sono particolarmente famosi. Il protagonista del libro (e di Of Wee Sweetie Mice and
Men) è un alter-ego dello scrittore. Dan Starkey è un giornalista di Belfast, vicino
agli unionisti (si definisce un unionista moderato). Il protagonista/autore non sembra
particolarmente legato alla posizione politica che afferma di sostenere, al punto che
già nelle prime pagine del libro, è lui stesso la prima vittima della sua stessa ironia.

“On the opening page of Divorcing Jake, the narrator’s inability to cope with Chinese
chopsticks is related to the fact that he was ‘brought up with Protestant tastes. Plain and simple’ a few
pages on Starkey define himself has a Unionist with a sense of humor” 16

Allo stesso tempo al lettore non viene mai permesso di dimenticare la


posizione politica e religiosa del protagonista che viene sottolineata alla minima
occasione. Questa ironica insistenza dell’appartenenza del protagonista al gruppo dei
protestanti diventa estremamente importante se si hanno a mente le parole di Edna
Longely che a una conferenza sull’ identità dell’Ulster tenutasi a Belfast nel 1989
affermò che:

The northern Protestant writer is perceived has deviant from his own group because 1) the
Calvinist spirit, as in Scotland, remain hostile to artistic expression 2) literature has indeed historically
played a role in nationalist eloquence about its political demands (this contrast with a curious unionist
belief that you should only talk within your own laager). Thus, by default literature becomes
assimilated into nationalism. […] We need to banish the lingering sense, which feeds unionist
paranoia, that if protestants lift a pencil or take an interest in local culture they will insensibly be
drawn into the nationalist orbit17

16
Ibid., pag.23
17
Ibid., p.24

53
L’attitudine narrativa di Colin Bateman ricorda più i Monty Python o Quentin
Tarantino, piuttosto che riflettere l’attitudine tipicamente calvinista che Longely
vede ancora così centrale nella comunità protestante dell’Irlanda del Nord.
L’irriverente ironia di Bateman riflette in maniera del tutto nuova e, in una
maniera decisamente poco ortodossa, dà voce a una nuova percezione della realtà
dell’Irlanda del Nord e contribuendo inoltre, a modificare la visione che
tradizionalmente si aveva dei protestanti, visti come bigotti, di mente chiusa,
decisamente poco inclini all’ironia e privi di immaginazione creativa.
Anche se i suoi personaggi sono un po’ troppo arguti per essere ritenuti
completamente credibili, hanno avuto il merito, attraverso il genio creativo di
Bateman, di iniettare una più che necessaria dose di ironia catartica e di risate
all’interno della letteratura nord-irlandese.
Quella di Bateman è una narrativa veloce, le trame sono complesse e surreali
in esse il caso e gli incidenti giocano un ruolo fondamentale, il tutto condito da
dialoghi taglienti e estremamente divertenti. Nei suoi romanzi sono impiegati tutti
gli elementi classici dei thriller: politici corrotti, paramilitari, agenti della CIA
travestiti, servizi segreti, killer senza scrupoli, rapimenti, lettere minatorie, sparatorie
e, ovviamente, storie d’amore tormentate.
La sua attitudine irriverente è diretta principalmente contro questioni
politiche e culturali molto serie, come, ad esempio quell’intricata connessione di
diversi elementi che va a formare l’identità protestante, una prova evidente che
Bateman non è distaccato dalla questione nord-irlandese come prova a farci credere;
certo, l’Irlanda non entra come tema principale dei romanzi, ma sempre come
elemento apparentemente di contorno.
Nemmeno i terroristi vengono risparmiati dall’ironia di Bateman che li
dipinge, quando sono intelligenti, come gangster interessati solo al denaro e
completamente idioti quando non lo sono; per descrivere i paramilitari protestanti,
invece, fa un uso abbondante dello humor nero.
La tragi-commedia diventa il naturale modus operandi sia per Bateman che per
McLiam Wilson e questo ha marcato un radicale cambio di umore e attitudine nel
romanzo nordirlandese. Entrambi gli scrittori rappresentano ancora i politici come
personaggi cinici e inaffidabili, i paramilitari e i loro simpatizzanti come personaggi
calcolatori e molto spesso, irrimediabilmente stupidi.

54
Bateman e McLiam Wilson arrivano sostanzialmente alla stessa conclusione:
il Nord Irlanda può avere la meravigliosa capacità di ridere in faccia alla morte e alla
distruzione, ma non potrà mai avere una politica onesta e capace di togliere la causa
scatenante di questa amarissima ilarità.
In scrittori più tradizionalisti, invece, come Bernard McLaverty, Maurice
Leitch e Maurice Power le questioni dell’ideologia politica, della leadership politica,
e del terrorismo, sia protestante che cattolico, vengono affrontate attraverso la
creazione di personaggi fittizi che sono chiaramente metonimie dei limiti e dei
fallimenti della politica nel nord Irlanda. Uno dei maggiori espedienti utilizzati per
rappresentare i terroristi è quello di sottolineare le loro malformazioni fisiche che a
un livello di analisi più profondo rappresentano le loro limitazioni morali e minano
la credibilità dei leader e degli uomini d’azione nel presentarsi come eroi moderni.
Ned Galloway, personaggio di Cal di Bernard McLaverty, è uno dei numerosi
killer che appaiono nei romanzi sui Troubles e rappresenta perfettamente il prototipo
di tutti i killer che compaiono all’interno dei romanzi nord-irlandesi: è freddo, cinico,
solo, senza un amore o degli affetti rilevanti. Non ha il minimo interesse per la
politica o ideologie di alcun tipo, ma solo un’enorme aggressività che, come accade
spesso, serve la causa molto meglio di qualsiasi discorso politico.
Quello che colpisce i lettori è che, a parte i personaggi creati da Ronan Bennet
e Danny Morrison, due romanzieri che avevano, in precedenza preso parte ad
attentati terroristici e che, quindi, danno una descrizione positiva dei terroristi
presentati come eroi e come patrioti, quasi tutti i terroristi che compaiono nella
narrativa irlandese sono molto lontani dall’essere i guerrieri coraggiosi dei miti e
delle leggende irlandesi, ma piuttosto dei personaggi il cui impegno politico è quasi
inesistente o assente e la cui volontà di uccidere è una risposta a un bisogno di
violenza che è personale, psicologico e, a volte, patologico piuttosto che ideologico.
Questa tendenza degli scrittori nord-irlandesi di rappresentare i terroristi come dei
killer psicopatici è stata sottolineata e criticata da diversi critici e scrittori come
Joseph McMinn, Ronan Bennet e Bill Robton. Le critiche si muovono su diversi
fronti: in primo luogo perché i terroristi, comunque, sono uomini non mostri
senz’anima e volontà. Pur criticandone in molti casi le modalità, si riconosce loro il
possesso di ideologie e la fede nella violenza come mezzo sfortunatamente
necessario per raggiungere un fine.

55
Nonostante le critiche, anche nei romanzi più moderni ricompare il
personaggio del terrorista psicopatico; anche in quelle opere che cercano di
descrivere la realtà dei fatti e che vogliono rendere un’immagine più realistica della
figura del terrorista e anche più vicina a quella che è stata la realtà storica. Gli
assassini della narrativa nord irlandese sono lontanissimi dalla rappresentazione
tipica dell’eroe: non sono figure che si sacrificano per una causa, che uccidono con
la possibilità di essere uccisi a loro volta, sacrificando sé stessi e gli altri per una
causa più alta; l’isolamento e la solitudine che provano non sono figlie delle
conseguenza tipiche che l’eroe deve scontare per la propria grandezza e abnegazione
per la causa e la loro vera essenza non è quella di angeli custodi che lottano e
proteggono il proprio gruppo sociale; al contrario, gli “uomini di azione” dei
romanzi vengono isolati dal gruppo stesso.
Vengono presentati invece come figli di situazioni familiari difficili, con un padre
assente o violento, o come psicopatici e misogini. L’approccio con l’altro sesso non
ha nulla di romantico, ma è, anche questo, un approccio violento, sadico e privo di
sentimentalismi di alcun tipo. L’equazione sesso-violenza è stata una costante dei
romanzi e dei racconti irlandesi per decenni come se il sesso e la violenza
appartenessero alla stessa sfera di pulsioni; alla luce di queste considerazioni non è
una sorpresa se l’arma preferita dai killer è, in molte occasioni, il coltello che è stato
considerato da sempre un simbolo fallico.
Resurrection Men di Eoin McNamee è stato il romanzo che, seppure in una
maniera molto disturbante, ha analizzato la personalità sadica e deviata di un
terrorista lealista. Nel protagonista troviamo tutte le caratteristiche del killer
analizzate finora.
Gli eventi narrati non sono tutti inventati, ma prendono spunto da una storia
realmente accaduta ovvero dalle efferatezze compite da una delle unità di assassini
più violente della storia dei Troubles: la cosiddetta Shankill Butchers, “i più feroci
assassini di massa della storia criminale della Gran Bretagna, come vennero definiti
da Martin Dillon.
Murphy e la sua gang si divertivano a torturare le proprie vittime prima di ucciderle
con coltelli, asce e altri strumenti da taglio di vario genere, spesso lasciando i corpi
agonizzanti appesi a testa in giù per poi accoltellarli lentamente fino alla morte.
Murphy venne imprigionato varie volte prima di essere ucciso da un colpo di pistola
nel 1982 mentre lasciava la casa della sua ragazza. Gli esecutori dell’omicidio furono

56
due soldati del IRA, ma le indagini fecero emergere che agirono con il beneplacito
dei paramilitari vicini ai lealisti. La sete di sangue e violenza di Murphy erano
diventati un problema perfino per i suoi compagni di lotta; Resurrection Men è la
biografia romanzata della vita criminale di Murphy.
Il romanzo ambientato a Belfast negli anni ‘70 narra la storia di Victor Kelly che,
dall’essere un piccolo criminale di strada, diventa una delle figure più importanti
dell’Ulster Volunteer Force.

Dopo aver fondato una sua propria unità che verrà in seguito chiamata “Resurrection
Men”, inizia ad uccidere i soldati dell’IRA o persone vicine ad essa. Mentre gli
omicidi diventano sempre più crudeli anche la psiche di Victor inizia una discesa in
una spirale di follia che lo porterà ad allontanarsi sempre di più dalla realtà. Alla fine
del romanzo, come è storicamente accaduto, viene ucciso dai suoi stessi compagni
che lo ritengono ormai un folle senza controllo.
Nel raccontare le motivazioni dietro agli atti di Victor, Eoin McNamee non
compie un’analisi psicologica profonda del personaggio e conseguentemente, non
esprime alcuna critica alle politiche irlandesi, alle divisioni razziali e religiose che
portarono alle guerre civili che per decenni hanno funestato l’Irlanda.
Il romanzo ha però, anche degli elementi di novità: per la prima volta si ha una
descrizione dall’interno: non c’è più quindi, una descrizione esterna delle violenze,
ma si assume la prospettiva di chi queste violenze le ha compiute in prima persona,
narrando l’episodio più cruento di tutta la storia della violenza irlandese. Il libro
diventa così uno studio sulla parte più oscura e sadica dell’umanità tant’è che, in
realtà, potrebbe essere ambientato in qualunque altra parte del mondo dove si sia
avuta una guerra civile.
Come è stato già ribadito più volte, le motivazioni politiche (la fedeltà agli
unionisti) o le motivazioni religiose (l’odio per i cattolici) sono solo pretesti per
compiere gli omicidi: non è Victor il vero protagonista del libro, ma la violenza fine
a sé stessa e l’oscurità che potenzialmente alberga nei cuori delle persone più
impensate.
La rappresentazione narrativa di una realtà complicata come quella del Irlanda
del Nord è, dal punto di vista artistico, una continua sfida: negli ultimi anni si è fatto
sempre uso della satira e della parodia, come da parte di McLiam Wilson e ancora di
più da parte di Colin Bateman che hanno sfruttato questi stratagemmi per raccontare

57
la drammatica realtà del paese. La rappresentazione che viene data del terrorista, in
particolare, avviene attraverso la sottolineatura e l’eterna presenza della loro
violenza che sembra costituire la totalità della loro persona, alcune volte viene
sottolineata la loro mancanza di intelligenza e, molto spesso, la loro personalità
patologicamente deviata (che li porta a essere estranei all’interno della società civile)
gioca un ruolo cruciale nella codificazione testuale del messaggio politico. In molti
di questi romanzi, l’estrema sfiducia nei confronti degli ideali politici è associata con
il leitmotiv del padre assente, la cui incapacità di agire da genitore, di essere un
modello per i figli è, in un modo o nell’altro, legato alla violenza verbale e fisica che
trascende l’ambiente familiare e si riversa sulla società, finché si va a collegare e a
identificare con la violenza politica dei Troubles.
Un altro importante aspetto di questa tradizione narrativa risiede
nell’importanza cruciale dei luoghi (che sia la campagna o che sia la città): Wilson
Foster sottolinea spesso l’importanza e la fortissima relazione che c’è tra il Sé
dell’individuo e un luogo, tipica della narrativa irlandese in generale. In questo
contesto il romanzo irlandese passa dall’idea tradizionale e conservatrice che solo
nelle campagne si trova il Buono, l’unico posto in cui i valori trascendentali della
famiglia e della comunità riescono a resistere agli effetti insidiosi della politica
settaria, alla rappresentazione postmoderna della metropoli come l’unico posto dove
sia possibile costruire e articolare una coscienza nazionale, l’unico posto dove sia
possibile costruire una nuova società che accoglie dentro di sé tutti i tipi di fedi
religiose e tutte le credenze politiche che caratterizzano l’Irlanda del Nord.
Con la graduale consapevolezza acquisita dagli scrittori che il microcosmo della
campagna nordirlandese non è più un modello utile per lo scrittore si ha la redenzione
e la riscoperta delle città nord-irlandesi e del loro spirito.
Nei romanzi degli anni ’70 e’80, seguendo una visione ancora fortemente
conservatrice e pessimista, la città veniva descritta come il luogo dell’alienazione,
della confusione e della violenza, ma pian piano diventa una terra di opportunità e,
soprattutto Belfast, diventa un luogo dove tutti possono realizzare i propri desideri e
vivere la loro vita senza particolari ristrettezze. La sua violenza intrinseca non è né
cancellata né negata, ma non viene più vista come la sua unica e più importante
caratteristica: Belfast diventa così un’enciclopedia a cielo aperto di tutte le tipologie
umane in tutte le loro varietà.

58
2.2 Introduzione alla letteratura italiana sul terrorismo

La sinistra combatte da anni per impedire l’equiparazione tra gli anni Settanta
e il terrorismo in quanto sottintende una criminalizzazione della contestazione,
schiacciandola sotto il peso della violenza.
Dal punto di vista storico questa critica non è infondata in quanto, seppur
vero che i terroristi rossi provenivano dal movimento, è altrettanto vero che una larga
parte del movimento aveva rifiutato la lotta armata. Gli anni Settanta sono stati un
decennio difficile e violento dove in media avvenivano tre attentati al giorno, ma allo
stesso tempo, ci sono stati mutamenti nella società, nel lavoro, nella cultura di cui
godiamo ancora.
Molti intellettuali di sinistra hanno cercato di spiegare il terrorismo
vedendolo come una reazione alle angosce scatenate dalla strategia della tensione,
dello stragismo nero e del golpe che in quegli anni sembrava imminente. La sinistra
ha ritrovato in questo clima di perenne angoscia le cause di molti degli eventi di
quegli anni ovvero, nell’esistenza di un terrorismo ancora più spaventoso di quello
delle Brigate Rosse: il terrorismo dello Stato e del Potere.
Negli anni successivi si è sempre descritto il terrorismo come un trauma
collettivo da cui il Paese doveva riprendersi. Se così fosse, (e sotto molti aspetti lo è
stato) occorrerebbe trarne tutte le conseguenze, e rassegnarsi all’evidenza che le
forme dell’immaginario collettivo faticano a fare i conti con esso e gli oppongono
resistenza.
D’altro canto, l’analogia fra il terrorismo e il trauma è impropria: il trauma
per sua stessa definizione è inconscio e non può essere né elaborato e né raccontato;
per quanto riguarda il terrorismo, invece, secondo Raffaele Donnarumma:

è invece una costellazione di eventi su cui da subito sono proliferati discorsi e letture
simboliche. Solo che – e qui l’assimilazione può tornare ad avere valore – come il trauma genera i
discorsi obliqui, frammentari e non comunicativi del sintomo, del sogno, del lapsus, così il terrorismo
ha prodotto una serie di discorsi letterari che, mentre lo dicevano, insieme lo nascondevano:
formazioni di compromesso, insomma, tra bisogno di raccontare, capire, giudicare e resistenza al
racconto esteso, alla comprensione piena, al giudizio profondo.18

18
http://omero.humnet.unipi.it/matdid/843/Donnarumma.pdf pag322

59
Il terrorismo è stato da subito oggetto di attenzione e la pubblicazione delle
prime opere sull’argomento avviene già nel 1971: ad esempio, ne Il contesto Sciascia
parla già di «gruppuscoli» a cui sono attribuiti omicidi politici.
Da allora sino al 1981, ogni anno escono almeno un paio di romanzi su quello
che è ormai detto apertamente terrorismo e ne sono autori scrittori già affermati; a
questa prima fase, ne segue un’altra (dal 1982 al 2002) in cui la narrativa sul
terrorismo non dà troppi frutti, e il tema non attira autori riconosciuti.
Eppure, proprio in quell’anno iniziano a prendere la parola gli ex-terroristi:
il primo, nel 1984, è proprio uno dei fondatori delle Br, Renato Curcio; mentre la
produzione di romanzi non è molto alta, il numero di memoriali inizia a crescere: ne
scrivono tutti i maggiori ex-terroristi rossi, da Franceschini a Morucci che faranno la
fortuna di molte piccole case editrici.
La letteratura, invece, ha un ruolo subordinato, ma come abbiamo visto anche
per la letteratura irlandese, poco prima della metà degli anni Novanta, il terrorismo
inizia a diventare uno dei temi prediletti del noir. Dal 2003, il terrorismo diventa un
tema ampiamente trattato, ma in coincidenza dei trent’anni dell’assassinio di Moro
torneranno in auge le opere di ricostruzione storica a scapito dei romanzi. A
predominare negli scrittori italiani è il bisogno di parlare del terrorismo in modo
visibilmente diverso da quello messo a punto dalla cronaca o dagli storici.
La letteratura ha bisogno di affermare sé stessa e, alla fine, la propria distanza.
Al limite estremo, dunque, di terrorismo non si parlerà affatto, proprio perché ne
parlano già tutti, e troppo. Il rifiuto e la reticenza a parlarne non sono quasi mai, se
non per una minoranza, di carattere politico. È quanto è avvenuto inizialmente con
il Pci che, sino alla metà degli anni Settanta, negava l’esistenza di una lotta armata
di ispirazione marxista e anche gli intellettuali vicini a quell’ideologia, seppur lontani
dal partito, ne trascurarono il significato, l’entità e a volte, negarono l’esistenza
stessa di un terrorismo rosso
Sciascia inaugura due modi di raccontare il terrorismo concomitanti, ma per
altri aspetti molto diversi: il racconto poliziesco e il racconto di congiura.
In primo luogo, Sciascia si rese da subito conto che le strutture del giallo
tradizionali diventavano insufficienti nella narrazione del terrorismo ed è per questa
ragione che li sottopone a parodia: la loro fiducia nell’efficacia della ragione e della

60
giustizia si rivelano ormai insufficienti. È anche per questo che dal giallo si passa al
noir, la cui struttura e il clima che creano sono necessari per descrivere quella che
sembra una crisi della ragione
Il complotto, oltre a fornire una comoda sintassi narrativa, basata sulla
suspense, l’inversione delle apparenze e lo svelamento di una verità segreta, risponde
al bisogno di restituire a chi scrive un ruolo sociale. Soprattutto nel caso di storie di
terrorismo, esso si unisce a una volontà di indagine storica e di partecipazione alla
vita civile.
Talvolta, neppure manca una tendenza al ristabilimento della verità
giudiziaria, ma con un’ambiguità sostanziale: quando è presente nel romanzo, per
quanto venga descritta come una verità assoluta, nella realtà dei fatti non lo è ed è
ridotta a una favola.
Così, se un magistrato come De Cataldo spiega cosa c’è dietro la banda della
Magliana o la strage della stazione di Bologna, o un’ex-brigatista come Franceschini
ci dà la sua versione sul rapimento e sul delitto Moro, i loro racconti appaiono
insieme accreditati dal loro ruolo di persone a conoscenza dei fatti, e screditati dalla
forma romanzesca che assumono. Il romanzo può dire quello che nelle aule di
tribunale non è stato acclarato; ma, proprio perché è un’opera verosimile, non si può
sostituire alle aule di tribunale.
Nella retorica del complotto, la storia appare come un inganno: la verità è
sempre occulta e diversa dalle versioni ufficiali. All’inizio, questo modo narrativo
viene messo a punto intorno a un terrorismo falsamente spacciato per rosso o
anarchico, e dietro il quale si cela il Potere: il narratore può solo rivelarla a posteriori,
ma non infrangerla. Per quanto lo scrittore voglia cercare di riparare ai torti e
restaurare la giustizia, è sostanzialmente impotente. Nell’esporre e denunciare le
varie teorie del complotto l’autore riesce anche a promuovere l’Italia, da paese
declassato e marginale, a scenario di grandi conflitti internazionali durante la Guerra
Fredda.
Le verità che vengono svelate sono, nella sostanza, povere e prevedibili:
arrivare a scoprire, dietro ogni trama, il Potere-Leviatano o il Grande Vecchio
significa ormai ripetere quello che è già reputata verità assoluta nel senso comune,
non solo di sinistra.
Nei romanzi inoltre, si ha un altro tipo di indagine soprattutto tra gli anni ’90 e
Duemila: ovvero quella che racconta dei conflitti generazionali e famigliari o di

61
come raccontare il terrorismo e l’essere stati terroristi ai propri figli.

Donnarumma rivela almeno tre varianti nella trattazione dei conflitti:

La chiave generazionale e familiare ha almeno tre varianti: la prima, anche in ordine di


tempo, prevede il conflitto fra padri e figli, nella specie della ribellione del figlio terrorista contro il
padre depositario dell’ordine e dell’autorità; la seconda, rappresenta il terrorista come genitore (per
lo più, madre), che si sforza di razionalizzare agli occhi del figlio un’esperienza data per fallita; nella
terza, per spostamento, ci si muove all’interno della stessa generazione
La stessa difficoltà sta nei romanzi in cui il terrorista non è il figlio, ma il genitore che cerca di spiegare
il proprio passato. Questa produzione nasce solo nei primi anni Duemila: è una conseguenza sia della
necessità di comprendere le ragioni della lotta armata dopo un salto generazionale, sia dal problema
politico e giudiziario posto dagli ex-terroristi e dall’opportunità di un indulto, sia del rinascere del
terrorismo
In questa produzione incontriamo spesso madri anziché padri (Il segreto di Colotti, Tornavamo dal
mare di Doninelli, Tuo figlio di Villalta): la terrorista è la madre snaturata, la donna che viene meno
al suo dovere elementare e primitivo, e perciò la sua scelta appare tanto più condannabile. 19

2.3 Gli intellettuali e il terrorismo: la strage di piazza


Fontana

Gli intellettuali italiani, forse anche più di quelli irlandesi, hanno ambientato
molte opere negli anni dello stragismo e del terrorismo scrivendo romanzi, opere
teatrali e numerosi editoriali su riviste e giornali prendendo da subito posizione sugli
avvenimenti e difendendola dagli attacchi degli avversari.
L’intervento più celebre di accusa nei confronti dello Stato e delle istituzioni
appare in un editoriale del Corriere della Sera scritto da Pier Paolo Pasolini che già
dal ’72 si occupava di raccontare le stragi e la nascita del terrorismo. Girò un
documentario, dal titolo 12 dicembre con la collaborazione di alcuni esponenti di
Lotta Continua sulla strage di piazza Fontana, venne poi denunciato per “istigazione
a delinquere e apologia di reato” per aver collaborato con un suo scritto a un
supplemento sulle forze armate del giornale di Lotta Continua, Proletari in divisa.
Il 14 novembre 1975 pubblicò l’articolo Cos’è questo golpe? Io so in cui
denunciava la Democrazia Cristiana e i partiti alleati di essere i veri mandanti delle
stragi:

19
Ibidem pag.343

62
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie
di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe",
sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi
più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima
fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli
greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a
tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una
verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la
protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale
colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione
anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome
(per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno
dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto
operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggi grigi e
puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno
scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a
disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi
colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede,
di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina
fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro
politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che
il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi
riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri
sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a
proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi
anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio.

63
Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale del "Corriere
della Sera", del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente
degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario
coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione,
niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha
né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha
escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed
indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei
entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con
esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad
entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la
verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. 20

Dall’editoriale emerge un altro punto importante: la necessità che diventa


quasi obbligo per l’intellettuale di parlare di politica, e di denunciare pubblicamente
le istituzioni, un atteggiamento quasi opposto a quello degli intellettuali irlandesi che
anzi, rivendicavano la libertà di non dover parlare di questi argomenti, né tanto meno
ritenevano un obbligo prendere una posizione.
Dario Fo, Carlo Castellaneda e Paolo Volponi hanno rielaborato
artisticamente e letterariamente due degli eventi che hanno segnato gli inizi degli
anni di piombo: la strage di piazza Fontana e la morte di Pino Pinelli, rispettivamente
con Morte accidentale di un anarchico, La Paloma e Il sipario ducale.
Morte di un anarchico è stata scritta e messa in scena da Dario Fo nel 1970,
quindi proprio a ridosso dell'evento, e lo scopo principale e dichiarato dell’opera era
quello di intervenire sulla realtà politica del tempo. Fo già l'anno prima aveva dato
inizio alla sua stagione del “teatro politico” che si protrarrà per i successivi dieci
anni, non a caso durante il decennio che corrisponderà con le stragi, con la “strategia
della tensione” e con il terrorismo.

20
http://www.corriere.it/speciali/pasolini/ioso.html

64
Fo definisce Morte di un anarchico un’opera di controinformazione su uno
degli episodi più oscuri e determinanti della storia recente italiana ovvero la morte
di Pino Pinelli in seguito all'arresto per l'attentato di piazza Fontana.
L'autore decide anche di sfidare le autorità portando in scena attraverso una
rielaborazione artistica le testimonianze e i documenti, sfidando la versione ufficiale
che era stata diramata dalla polizia. Secondo la versione ufficiale Pinelli si sarebbe
suicidato in seguito alla confessione di un suo compagno, Pietro Valpreda, notizia
che in seguito a ulteriori indagini risultò falsa.
Dopo la sua morte gli amici e la vedova avviarono una contro-inchiesta che
culmina nella pubblicazione del libro La strage di Stato dove si cercò di far luce sulla
strage di piazza Fontana e conseguentemente sul suicidio o presunto tale di Pinelli e
sulla colpevolezza di Valpreda. L'opera di Fo si basa molto sia su questo libro che
sulle informazioni che emergono dal processo contro Calabresi, ma Fo conduce in
prima persona anche una sua indagine insieme a Franca Rame utilizzando i servizi
di altri giornalisti e i documenti d'inchiesta sul caso.
Al centro della vicenda teatrale non c'è Pinelli, ma “un matto”, una tipologia
di personaggio che ha la funzione di far emergere, grazie alla sua follia, le menzogne
e le contraddizioni degli altri personaggi, ed è per questo motivo che Fo lo utilizza
spesso nelle sue produzioni teatrali. Gli altri personaggi, invece, sono modellati
fedelmente sugli altri protagonisti reali della vicenda.
Il matto viene, nella prima scena, interrogato dal commissario, poi la scena si
sposta alla finestra dove il matto diventa giudice e accusatore grazie a un
travestimento. Il questore e il commissario vengono sollecitati a ripercorrere i fatti
che hanno portato al presunto suicidio; i due rispondono alle domande, facendo però
emergere tutte le contraddizioni del caso che vengono puntualmente smascherate dal
giudice. Per una sorta di contrappasso dantesco l'interrogatorio li porterà a sentire
una pressione tale che li metterà nella stessa situazione psicologica vissuta
dall'anarchico, usando gli stessi metodi inquisitivi li indurrà quasi al suicidio. Alla
fine, dopo varie peripezie, si arriverà allo smascheramento del matto, il quale, come
Pinelli, si ritroverà sul selciato della questura. I fatti e le testimonianze reali
contenevano già in sé elementi comici e grotteschi e per questo si prestavano bene
alla rielaborazione artistica di Fo. Uno degli episodi più divertenti dell'opera è quello
definito “della scarpa” in cui un agente sosteneva di aver cercato di salvare Pinelli e
come prova presenta una scarpa che gli sarebbe rimasta in mano.

65
Il matto però, constata che il morto aveva entrambe le scarpe ai piedi e
utilizzando una certa dose di humor nero inizia a elencare come questa cosa sia
potuta succedere:

MATTO: ma qui in quest'altro allegato si assicura che l'anarchico morente sul selciato avesse ancora
ai piedi tutt'e due le scarpe. Ne danno testimonianza gli accorsi, fra i quali un cronista dell'Unità e
altri giornalisti di passaggio!
COMMISSARIO SPORTIVO: Non capisco come possa essere successo...
MATTO: Neanche io! A meno che quest'agente velocissimo abbia fatto in tempo precipitandosi per
le scale, a raggiungere un pianerottolo del secondo piano, affacciarsi alla finestra prima che passasse
il suicida, infilargli la scarpa al volo e risalire come un razzo al quarto piano nell'istante stesso in cui
il precipitante raggiungeva il suolo. 21

In questa scena il linguaggio non è completamente inventato, ma solo


rielaborato da Fo dato che già nella realtà conteneva molti elementi della farsa. Nella
testimonianza originale del brigadiere Panessa (uno dei poliziotti presenti nella
stanza dell'interrogatorio al momento del suicidio), questi affermò di essere rimasto
con una scarpa di Pinelli in mano, ma venne smentito dalle testimonianze dei
giornalisti presenti nella piazza della questura il giorno della tragedia.
Attraverso la risata, Fo vuole smascherare tutti gli svariati tentativi di
insabbiamento operati dalle autorità per nascondere come si siano realmente svolti i
fatti. Il teatro politico di Fo, pur basandosi sui documenti, non è un teatro documento.
Il documento è fondamentale, ma diventa un pretesto di comicità e spettacolarità
perché non viene presentato così com’è. Nell’opera Fo decide di presentare il matto
in una modalità che non permette di assimilarlo al vero Pino Pinelli per evitare che
il pubblico potesse immedesimarsi nel personaggio e commuoversi; l’espediente è
ripreso dallo “straniamento” del teatro brechtiano che predilige la situazione
all’identificazione con un personaggio per promuovere la comprensione di una
determinata situazione. La catarsi va rifiutata perché impedisce la comprensione, la
riflessione e la presa di coscienza che devono portare al fine ultimo del teatro
politico: quello della prassi. Per questo Fo sceglie la farsa, un genere popolare che
predilige la situazione e che, da sempre, è il mezzo attraverso cui il popolo si
prendeva gioco dei potenti. La comicità di Fo non è mai fine a sé stessa, ma deve

21
Dario Fo, Morte accidentale di un anarchico. Due atti. A cura di Franca Rame, Torino, Einaudi,
2004, p.4

66
provocare rabbia nello spettatore e indurlo a cambiare la realtà.
Per Fo la morte di Pinelli conteneva già in sé tutti gli elementi del teatro
compreso un copione che era stato scritto dai potenti per coprire come erano andate
realmente le cose, che però andava modificato continuamente a causa degli attori che
lo interpretavano male.
Corrado Stajano, un giornalista che partecipò alla conferenza stampa della
polizia dopo la morte di Pinelli, affermò che aveva avuto l’impressione di trovarsi di
fronte a una scena di teatro indegna dove non veniva mostrata la minima amarezza
per la morte di un innocente.
L’opera è una parodia tragica del teatro dei poteri giudiziari e di polizia, delle
morti coperte dal segreto di stato, di una tragedia politica. Nell’opera viene citata
anche la strage di piazza Fontana e il giudizio di Dario Fo è chiaro: gli anarchici non
hanno nulla a che fare con la strage; i veri colpevoli sono membri dei gruppi eversivi
fascisti aiutati da alcuni settori della borghesia e dello stato preoccupati da una
possibile svolta a sinistra. Le ipotesi di Fo sono state confermate nel 2005 anche se
la strage rimane a tutt’oggi senza colpevoli.
Anche Castellaneda scrive il suo romanzo La Paloma a ridosso degli eventi,
ma al contrario di Fo non scrive un’opera militante. Mette Pino Pinelli al centro del
suo romanzo senza traslarlo in altri personaggi, creando un alter-ego che verrà
chiamato Pietro. Nel romanzo cerca di immaginare e trascrivere le emozioni e i
pensieri di Pinelli negli otto mesi che seguirono la strage fino alla sua tragica fine.
La vicenda narra di un gruppo di anarchici che cercano di far uscire dal
carcere il loro compagno, Ciro, arrestato dopo essere stato incastrato dalla polizia.
Nella seconda parte del romanzo la vicenda si avvicinerà sempre di più a quella di
Pinelli fino al punto in cui il protagonista verrà accusato di aver compiuto la strage.
Viene anche narrato il rapporto matrimoniale tra Pietro e Lisetta che è molto simile
al rapporto tra Pinelli e la moglie, Lucia. La casa si trasforma in luogo di ritrovo degli
anarchici così come avveniva anche nella realtà. Confrontando i racconti del
romanzo con la biografia della vedova Pinelli si ritrovano tantissimi riscontri anche
nel romanzo di Castellaneda che dimostrano come l’autore si sia documentato sulle
loro vite prima di scrivere il romanzo. L’opera è sostanzialmente una continua
unione di elementi presi dalla realtà mescolati con elementi fittizi. Per descrivere
l’ambiente di lavoro di Pinelli, funzionale più alla descrizione umana che politica del
personaggio, viene prestata grande attenzione all’uso della terminologia.

67
Castellaneda è molto preciso su alcuni fatti di cronaca, come quando fa riferimento
con esattezza di particolari e di date alle bombe che precedettero quella di Piazza
Fontana e alla morte dell’agente Annarumma, pur non facendone esplicitamente il
nome, fa poi riferimento alla strage menzionandone l’ora e la data esatta, ma la
ambienta all’interno di un cinema anziché in una banca.
Il proposito che spinse Castellaneda a scrivere questo romanzo fu quello di
offrire un ritratto umano di Pinelli e per raggiungere questo scopo si serve di un
espediente narrativo originale: nel testo ci sono due narratori, la prima è Lisetta che
svolge il compito di descrivere la vita familiare con Pietro analizzando le sue
soddisfazioni, i suoi problemi e le sue azioni quotidiane. Il secondo narratore si
occupa di descrivere gli eventi e di narrare il flusso di pensieri di Pietro.
Entrambi i narratori utilizzano il monologo interiore. Lisetta in certi momenti
mostra una certa tendenza nel giudicare negativamente Pietro per il suo eccesso di
entusiasmo e per la sua ingenuità.
È lei che tenta di metterlo in guardia dalle possibili infiltrazioni di membri di gruppi
fascisti o di poliziotti; questo è un altro elemento di verosimiglianza con la realtà
storica in quanto i gruppi anarchici erano effettivamente molto permeabili alle
infiltrazioni della polizia e dei neofascisti. L’autore inserisce nell’opera diversi
messaggi politici, cercando soprattutto di difendere i metodi e gli obiettivi della lotta
degli anarchici che ritiene lontanissimi dall’uso indiscriminato della violenza

Per attuarla questa violenza bisogna avercela dentro, e lui non ha mai sentito l’impulso di
spaccare vetrine, svellere lampioni, incendiare automobili come tanti hanno voglia di fare, forse è la
ferrovia che ti insegna a rispettare il materiale […] in fondo ne soffriva dello spreco, d’istinto faceva
la conta dei danni al materiale rotabile, le ore di lavoro che costa un sabotaggio, forse non sono un
libertario vero, è tornato a pensare, visto che lui ha sempre scavalcato con l’immaginazione il primo
stadio dell’anarchia, quello del disordine che adesso è così caro a tanti compagni , il piacere perverso
di distruggere per il gusto di distruggere, per il gusto di distruggere così va all’aria tutto l’ordine
borghese, così va all’aria tutto perdio! Ma quale ordine? Un binario resta un binario, roba che ti serve
anche dopo, quando la rivoluzione è attuata, ci vogliono giornate di lavoro per rimettere in sesto un
armamento, e se non capisci questo non sei un ferroviere, non sei un operaio: sei un borghese, e infatti
fan presto loro, gli studenti, a gridare di rompere, spaccare, incendiare, perché non sanno cos’è la
fatica delle mani, se ci fosse qui il commissario adesso saprebbe spiegarlo: che un ferroviere che mette
una bomba sotto un carro è una bestia, se scoprisse chi è stato lo farebbe correre lui stesso a calci 22

22
Carlo Castellaneta, La Paloma, Milano, Rizzoli, 1972 p.24

68
Da questo estratto notiamo molte delle cose di cui si è parlato in precedenza:
l’utilizzo del monologo interiore che rende il romanzo, tra le altre cose, un’opera
anche psicologica dove a parlare è l’interiorità dei personaggi. Allo stesso tempo è
anche un romanzo descrittivo dove non mancano le valutazioni politiche dell’autore
che difende gli anarchici, senza alcun dubbio, dalle accuse di essere i responsabili
degli attentati del ’69.
Paolo Volponi, al contrario di Castellaneda e Fo, scrive il suo romanzo nel
1975, quindi a sei anni di distanza dagli avvenimenti di piazza Fontana, quando
ormai iniziano ad emergere dai vari processi alcune verità sia sulla strage che sul
suicidio di Pinelli; Volponi, però, al contrario degli altri ambienta il suo romanzo
lontano da Milano e anche i personaggi non sono più né degli attori né degli alter-
ego, ma si attiene ai canoni del romanzo storico manzoniano dove storia e invenzione
si mescolano; I personaggi principali (Gaspare Subissoni, Dirce, Vives) sono dei
personaggi di fantasia che vivono in un momento storico ben determinato e
interagiscono con esso così come la storia agisce su di loro.
Volponi ha il tempo di riflettere sugli eventi e per seguirne le vicissitudini
processuali; il romanzo inoltre, viene anche scritto in contemporanea all’attentato di
Piazza della Loggia e a quella del treno Italicus. La contemporaneità di questi eventi
lo porta a scrivere un romanzo “militante” dove l’autore sente la necessità e il
bisogno di prendere una posizione politica sugli eventi traumatici che stavano
avvenendo nel Paese.
Come Castellaneda e Fo, anche Volponi vede nelle bombe un chiaro segno
della “strategia della tensione” messa in atto dai servizi segreti e dagli ambienti
neofascisti per fermare l’avanzata delle sinistre e per provocare una svolta autoritaria
nel Paese; inoltre, anche lui rileva le contraddizioni e le manipolazioni delle indagini
messe in atto dalle forze dell’ordine.

2.4 Tragedia e ironia: il caso Aldo Moro

Il rapimento di Aldo Moro è stato un vero e proprio trauma che ha influenzato


in maniera profonda il Paese e ne ha segnato sia la memoria storica che la coscienza.
Nelle discussioni che sono seguite al rapimento sono intervenuti tutti i maggiori

69
intellettuali e scrittori del periodo.
Pochi mesi dopo il sequestro Leonardo Sciascia scriverà l’Affaire Moro che
è ancora oggi considerato il libro più importante sul sequestro del Presidente della
Democrazia Cristiana.
Anche Dario Fo inizierà a scrivere un’opera teatrale sul sequestro e
pubblicherà alcune sue parti su diversi giornali, non riuscendo però ad ultimarla e
quindi, a rappresentarla; Alberto Abasino invece, scriverà una sorta di memoriale
dove rappresenta gli umori e le reazioni della società italiana durante i giorni del
sequestro. Tutte e tre queste opere hanno in comune l’utilizzo delle fonti che sono le
lettere scritte da Aldo Moro alla famiglia e al partito nel corso dei 55 giorni della
prigionia, i comunicati delle Brigate Rosse e gli scritti giornalistici.
Per Sciascia scrivere del sequestro Moro, in realtà, è stata una necessità
dettata anche dal fatto che i due romanzi precedenti, Todo Modo e il Contesto,
sembravano contenere moltissime anticipazioni di quanto sarebbe avvenuto in Italia
pochi anni dopo.
In Todo Modo e nel Contesto Sciascia abbandona il realismo per adottare una
rappresentazione metafisico-allegorica della realtà con accenti grotteschi e fantastici.
Nel Contesto Sciascia mette in dubbio la verità, la possibilità della realizzazione
della giustizia e manifesta il suo scetticismo verso la capacità dello scrittore di
intervenire sulla realtà; Sciascia anticipa di qualche mese l’uccisione del procuratore
Scaglione a Palermo e prefigura gli assassinii e i ferimenti di giudici e personalità
politiche che si susseguiranno durante gli anni di piombo.
Il contesto nasce come parodia e vi ritroviamo l’utilizzo dell’ironia per
criticare la politica e le istituzioni incapaci di gestire la crisi che si stava profilando:

E dunque ho scritto questa parodia (travestimento comico di un’opera seria che ho pensato
ma non tentato di scrivere, utilizzazione paradossale di una tecnica e di determinati clichés) partendo
da un fatto di cronaca. Un divertimento. Ma mi andò per altro verso: che ad un certo punto la storia
cominciò a muoversi in un paese del tutto immaginario; un paese dove non avevano più corso le idee,
dove i principi- ancora proclamati e conclamati- venivano quotidianamente irrisi, dove le ideologie si
riducevano a pure determinazioni nel giuoco delle parti che il potere si assegnava, dove soltanto il
potere per il potere contava .La sostanza ( se c’è) vuole essere quella di un apologo sul potere nel
mondo , sul potere che sempre più digrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che
approssimatamente possiamo dire mafiosa 23

23
Luigi Sciascia, Il Contesto, Torino, Einaudi,1971, p.121

70
L’ Affaire Moro invece viene scritto d’impeto da Sciascia mosso da una
profonda indignazione per quanto era appena avvenuto al presidente della DC e alla
sua scorta. Il titolo viene ripreso dall’ Affaire Dreyfus e dall’ Affaire Calas due
interventi scritti da Zola e da Voltaire nell’Ottocento e nel Settecento e questa scelta
permise a Sciascia di inscrivere il testo all’interno del filone delle opere d’intervento
politico che vogliono portare una ricerca e una testimonianza di verità. Per tutto il
romanzo Sciascia sostiene un punto fondamentale: Moro poteva essere salvato;
anche se materialmente furono le BR ad ucciderlo, la responsabilità politica ricade
pesantemente anche sui suoi compagni di partito che non ascoltarono le volontà del
presidente espresse nelle lettere scritte durante la prigionia.
La polemica scoppierà ancor prima della sua pubblicazione: Eugenio Scalfari
dalle pagine di Repubblica scrive un intervento dove critica la tesi di fondo che viene
espressa nel romanzo.
Le lettere di Moro contenevano la richiesta di accettare lo scambio di
prigionieri che veniva proposto dai brigatisti, ma vennero sempre rifiutate da una
parte della politica che invece si opponeva a ogni trattativa di questo tipo. Le prime
pagine del libro sono dedicate a Pier Paolo Pasolini dove Sciascia riprende un
articolo molto famoso di Pasolini intitolato: “articolo delle lucciole”. È
un’introduzione poetica quella scelta da Sciascia dove, tra le altre cose, l’autore parla
del suo rapporto di amicizia con Pasolini scomparso tre anni prima. L’ autore
riprende non a caso questo articolo dove lo scrittore criticava e condannava il regime
democristiano distinguendone diverse fasi: prima, durante e dopo la scomparsa delle
lucciole

Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a


causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a
scomparire le lucciole, non c’erano più. […] quel “qualcosa” che è accaduto una decina di anni fa lo
chiamerò dunque la scomparsa delle lucciole. Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente
distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono
diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente
hanno insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle
lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi. […] nella fase di
transizione-ossia durante la scomparsa delle lucciole- gli uomini di potere democristiani hanno quasi
bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del
resto incomprensibile come il latino) specialmente Aldo Moro: cioè colui che appare come il meno

71
implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzare dal ’69 a oggi, nel tentativo, finora
formalmente riuscito, di conservare comunque il potere 24

Sciascia, citando Pasolini nell’introduzione, si pone come erede e


continuatore di una letteratura che deve perseguire la verità e riprendere quindi, quel
discorso avviato da Pasolini, ma che aveva dovuto interrompere con la sua morte.
L’articolo di Pasolini contiene tutti i nuclei fondamentali dell’Affaire Moro a partire
dal linguaggio, spesso criptico, che Aldo Moro utilizza nelle sue lettere, molte volte
di difficile comprensione. Sciascia le analizza con un rigore quasi filologico proprio
nel tentativo di estrapolare il non detto di Aldo Moro, che per Sciascia, così come
per Pasolini, era il politico della DC meno implicato nella storia del malgoverno del
Paese. Sciascia richiama Pasolini anche come studioso del linguaggio e soprattutto,
del modo di esprimersi di Moro perché l’Affaire è prima di tutto un libro sul
linguaggio: un libro che prende in esame, analizza e decodifica altri testi.
Vengono analizzati anche i comunicati delle Brigate Rosse, gli scritti
giornalistici e gli altri testi apparsi nei 55 giorni del sequestro. Le lettere vengono
riportate praticamente per intero, ma nel suo enorme lavoro di ricerca, Sciascia studia
anche i discorsi di Aldo Moro e li analizza arrivando alla conclusione che i pensieri
lì contenuti erano coerenti con quelli espressi dal presidente prima della sua
prigionia.
La Democrazia Cristiana aveva fino a quel momento reputato falsa la lettera
in cui Moro, argomentando con principi etico-giuridici, cercava di convincere la DC
ad accettare le richieste delle Brigate Rosse.
Analizzando i discorsi di Moro, Sciascia riesce a dimostrare che il presidente
già qualche tempo prima del sequestro aveva sostenuto la medesima posizione,
quindi ben prima di essere personalmente coinvolto nella vicenda:

Si discute qui non in astratto diritto (benché vi siano le norme sullo stato di necessità), ma
sul piano dell’opportunità umana e politica, se non sia possibile dare con realismo alla mia questione
l’unica soluzione positiva possibile, prospettando la liberazione di prigionieri di ambo le parti,
attenuando l’attenzione nel contesto proprio di un fenomeno politico. Tener duro può apparire più
appropriato ma una qualche concessione è non solo equa, ma politicamente utile 25

24
Pier Paolo Pasolini, Il vuoto del potere, “Il Corriere della Sera”, 1° febbraio
1975
25
Luigi Sciascia, L’Affaire Moro, cit, p.21

72
Moro sosteneva inoltre, che tra il salvare una vita e il tenere fede ai principi
astratti era giusto e doveroso, per un uomo che si definiva cattolico, forzare il
concetto giuridico di stato di necessità fino a farlo diventare principio. Per Sciascia,
Moro pronuncia questi discorsi coerentemente con la sua storia di uomo politico, di
docente universitario e con la sua visione della vita umana e politica.
Una delle osservazioni più acute di Sciascia riguarda il linguaggio nuovo e
“incomprensibile” di Moro:
“ha dovuto tentare di dire col linguaggio del non dire, di farsi capire adoperando gli stessi
strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. Doveva comunicare usando il
linguaggio dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e per autocensura. Da prigioniero.
Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata” 26

Mario Moretti, il terrorista che aveva partecipato al rapimento Moro,


confermerà indirettamente quanto aveva già scritto Sciascia qualche anno prima:
Moro parla, non tace, rivela molte cose, ma lo fa da “democristiano” cioè, parlando
in codice. Sa benissimo che le persone a cui si sta rivolgendo sono perfettamente in
grado di decriptarlo, al contrario delle BR per cui il linguaggio rimane oscuro, ma i
suoi compagni di partito decideranno comunque di ignorarlo, pur comprendendo
perfettamente il suo messaggio. Una delle critiche che vengono fatte a Moro è che
in tutte le lettere che ha scritto non ha espresso una parola di pietà sulla sua scorta,
ma anzi ne sottolinea l’inefficienza.
Anche Sciascia cerca di interpretare questo atteggiamento di Moro,
sottolineando come il Presidente si sia categoricamente vietato di mostrare pietà per
quegli uomini, pur sapendo dell’effetto favorevole che avrebbe ottenuto agli occhi
dell’opinione pubblica, e trova se non altro strano che tra loro non si sia instaurato
loro un rapporto di amicizia. Dal terzo capitolo Sciascia comincia a parlare di
letteratura: lo inizia citando un racconto di Borges contenuto nelle Ficciones: il
Pierre Menard autore del “Chisciotte”. Viene citato da Sciascia in seguito ad
un’associazione di idee perché questo racconto si adeguava all’impressione che la
vicenda di Aldo Moro fosse già di per sé un’opera letteraria già compiuta e perfetta
che non si può far altro che riscrivere.
“Come Menard riscrive il Don Chisciotte, Sciascia riscrive L’ Affaire Moro,

26
Ibidem, pag13

73
e tutto resta dentro i margini della letteratura” 27 .
La vicenda Moro diventa per Sciascia una vera e propria ossessione che lo
porta a far maturare riflessioni, spesso inconsce, sulla letteratura. Quasi tutte le
citazioni provengono da altre opere letterarie: Borges, Pirandello, Tomasi di
Lampedusa, Tolstoj, Poe e altri vengono chiamati a collaborare all’inchiesta. Il
dramma di Moro è soprattutto il dramma pirandelliano dell’uomo solo, una
condizione che è tipica di tutti i personaggi di Sciascia e che porta l’autore a
immedesimarsi con Aldo Moro, uomo solo di fronte alla morte. Solamente un forte
processo identificatorio spiega come Sciascia sia riuscito a scrivere L’Affaire Moro.
Lo scrittore non ha mai avuto una grossa opinione di Moro come uomo di
potere e di governo, né ha iniziato ad apprezzarlo nel periodo del sequestro o dopo
la sua morte. In lui vedeva l’uomo simbolo del potere democristiano che aveva
aspramente condannato in Todo Modo. Secondo lui né Moro né la DC avevano mai
avuto il senso dello stato, eppure, quando vede che tutti lo hanno abbandonato prova
per Moro un forte sentimento di pietà e si immedesima con lui completamente.
La pietà di Sciascia va soprattutto verso un uomo che subisce dei soprusi da
parte di altri uomini e all’uomo che sa di essere condannato a morte pur non avendo
ucciso nessuno ed è sottoposto al tormento della privazione della speranza, ma ha
sopportato tutto questo stoicamente, senza impazzire. In questo sta, secondo
Sciascia, la sua grandezza, nell’essere stato lucido fino all’ultimo cercando, come
prima del sequestro, la mediazione e la trattativa. Tutto questo è dimostrato dalle
lettere di Moro scritte sempre con lucidità e con spirito combattivo e acuto.
Nell’ Affaire, Sciascia condanna aspramente i terroristi, ma cerca anche di
andare oltre la condanna e di capirli, decifrando i comunicati delle BR. Riconosce ai
terroristi un’etica menzionando le lettere nelle quali Moro parlava del trattamento
che riceveva che era sempre stato rispettoso e umano, Sciascia sottolinea che i
terroristi non hanno interesse a disintegrare la personalità di Moro, ma che il loro
scopo era quello di svelare e analizzare quella identità integralmente.
I brigatisti mostrano sempre enorme rispetto per il carcerato e si assumono
dei rischi enormi per consegnare tutte le sessanta lettere scritte da Moro; non solo
lettere politiche, ma anche quelle a carattere privato soprattutto dopo la condanna del
prigioniero.

27
Ermanno Conti, Gli “anni di piombo” nella letteratura italiana, Longo Editore, Ravenna
p.57

74
Nel post-scriptum dell’opera, Sciascia sottolinea come con l’esecuzione di
Moro, le BR non abbiano segnato nemmeno un punto contro lo Stato e che Moro è
rimasto fedele fino all’ultimo alla DC, quel partito che non si era fatto alcuna remora
ad abbandonarlo al suo destino.
Anche Dario Fo nel momento in cui viene rapito Moro stava scrivendo un
canovaccio sulle BR e già qualche anno prima aveva profeticamente affrontato
l’argomento immaginando il rapimento di Amintore Fanfani che veniva fatto rapire
da Andreotti per suscitare emozione nell’elettorato e far aumentare i voti, Fanfani
però, convinto di essere nelle mani dei brigatisti, confessa le malefatte del suo
governo. Nel finale si scopre in realtà che si trattava di un sogno, ma a quel punto la
storia iniziava da capo e il rapimento avveniva veramente. L’opera doveva essere
una farsa sull’impronta delle commedie di Aristofane e vi appaiono scene e battute
tipiche della commedia dell’arte. Anche la situazione è paradossale e grottesca, piena
di colpi di scena, nel rispetto della tradizione comica.
L’esecuzione di Moro e l’eccidio di via Fani portano Fo a riaffrontare
l’argomento con un approccio diametralmente opposto non più quelli della farsa, ma
quello della tragedia, a cominciare dalla denominazione dell’opera: La tragedia di
Aldo Moro.
La tragedia non verrà mai rappresentata e ne verrà mai conclusa anche se Fo
aveva consegnato già il primo atto ai giornali che parlavano continuamente di questa
imminente rappresentazione.
La tesi di fondo è la stessa sostenuta da Sciascia nell’Affaire: Aldo Moro è
stato ucciso dalle BR, ma i suoi compagni di partito non l’hanno voluto salvare,
sacrificandolo alla logica della ragion di Stato.
La scena era stata organizzata secondo il modello della tragedia greca classica
con una cavea concentrica in legno sui cui gradoni si disponevano otto figure in nero
che rappresentavano gli amici di partito di Moro. C’era anche musica, satiri e
baccanti mentre Aldo Moro era al centro della scena che si difendeva dalle accuse e
contrattaccava. Si ha anche una sorta di processo che vede opporsi Moro e i suoi
compagni di partito, con l’arrivo del Papa nell’ultima scena fino ad arrivare alla
questione cruciale della scelta tra la possibile trattativa con i rapitori o del mantenere
la linea della fermezza nei loro confronti. L’ immagine di Moro è proiettata nel
contesto di una specie di grande tribunale, quello del potere. Anche qui Fo utilizza il
metodo dell’inchiesta, rimanendo fedele ai fatti, ricerca i documenti, le dichiarazioni

75
politiche, i comunicati politici e gli articoli delle più importanti testate nazionali.
Fo vede nella tragedia di Moro molti tratti tipici delle tragedie greche di
Eschilo, Sofocle e Euripide: nella tragedia classica uno degli elementi che ricorre
con più regolarità è la necessità del potere costituito di appianare i conflitti all’interno
scegliendo un capro espiatorio che, per essere tale, deve far parte del potere stesso,
essere un uomo degno e rappresentativo del suo gruppo. La ragione di Stato che detta
la linea della fermezza è l’equivalente moderno della legge degli dei che ha come
base il sacrificio della vittima, ovvero, Aldo Moro. Sono soprattutto due le tragedie
con le quali Fo stabilisce un parallelo: l’Ifigenia in Aulide e il Filottete di Euripide.
Sciascia e Fo condividono l’esigenza di far prevalere le ragioni della vita,
della salvaguardia e della dignità dell’uomo sulla ragion di stato. Per fare questo
utilizzano entrambi il linguaggio della tradizione della pietà, della carità e della
fratellanza. Entrambi avevano criticato aspramente la DC, la sua politica e i suoi
uomini, compreso Moro. Ma di fronte all’uomo prigioniero e condannato a morte
non riescono a non provare pietà e compassione e a non immedesimarsi in lui.
Alberto Abasino, al contrario di Fo e Sciascia, tratterà il caso Moro con molto
sarcasmo eliminando i toni pietosi e, inoltre, si focalizzerà più sulle reazioni che
seguiranno al rapimento Moro nel suo libro In questo Stato.
In questo caso la vicenda di Moro viene usata come pretesto per criticare i
vizi, le contraddizioni e i difetti degli italiani. Niente e nessuno si salva dalle sue
ironie e dai suoi sarcasmi dispiegate in una prosa esuberante, complessa e ricca di
citazioni.
Arbasino, come Sciascia, analizza filologicamente le lettere di Moro e il suo
linguaggio dove Arbasino rintraccia l’incapacità tutta italiana di intendere il reale, di
parlare di cose concrete in maniera concreta che, di conseguenza, impedisce
l’attuazione di programmi reali.
Moro e le Brigate Rosse parlano una lingua simile perché possono
riconoscersi in un uso del linguaggio astratto e mai realistico. La distanza dalla realtà
riguarda anche gli scrittori e gli intellettuali in genere, aspramente criticati da
Arbasino.
Nella sua esposizione fa largo uso dei paradossi, mantenendo un distacco (di
qui l’ironia e il sarcasmo) rispetto alle questioni trattate e, come Sciascia e Fo,
utilizza le lettere di Aldo Moro, ma arrivando a conclusioni opposte. Mentre i due
riconoscevano la veridicità delle lettere vedendo in esse la testimonianza di un uomo

76
rimasto lucido fino alla fine, capace di mantenere un forte autocontrollo, per
Arbasino è assurda la totale mancanza di immediatezza e disperazione e ne evidenza
soprattutto l’utilizzo di un tono di ripicca per rivolgersi ai suoi interlocutori. Il
linguaggio delle lettere, anziché essere immediato, è astratto e burocratico,
tipicamente italiano secondo l’ottica di Arbasino.
Sulla questione della trattativa, Arbasino utilizza un paradosso, paragonando
Moro a Santa Maria Goretti e ritiene che Moro non sia stato ucciso perché era stato
lasciato solo, ma perché aveva deciso spontaneamente di sacrificarsi per lo Stato.

2.5 Il terrorista come protagonista dei romanzi anni ’80

La produzione letteraria sul terrorismo diventa molto intensa negli anni ’80
e, il terrorista da elemento di contorno, diventa il protagonista principale dei romanzi.
Gli autori cercano di indagarne la psicologia, i comportamenti e le motivazioni anche
se ancora mancavano i resoconti “dall’interno” perché ancora non c’erano stati i
primi pentiti. Allo stesso tempo avviene una riflessione storico- politica sul
terrorismo che in molti casi viene inserita all’interno di spy stories o romanzi gialli
che consentono all’autore di indagare il fenomeno del terrorismo inquadrandolo nel
contesto degli intrighi politici nazionali e internazionali. Non è un caso che molti di
questi lavori vengano prodotti in concomitanza con la scoperta della loggia segreta
della P2 e in questo la letteratura anticipa la produzione storico-saggistica sul tema.
Come abbiamo visto nel caso della letteratura irlandese, anche in Italia
compare un filone umoristico che si divide in due direzioni: uno surreale che si affida
all’ abbassamento linguistico, l’altro sull’ inverosimiglianza dei contenuti.
Nel romanzo di Veraldi il vomerese e nel romanzo di Zandel Massacro per
un presidente, il terrorista è presentato come un protagonista in crisi che finirà
tragicamente sconfitto, inoltre, in entrambi i romanzi, i terroristi vengono presentati
come pedine manipolate da personaggi esterni. Nessuno dei due libri è solo una spy
story, seppure ne contiene molti elementi tipici del genere come il mantenimento
costante della tensione e della suspense, l’uso di un ritmo narrativo concitato e i finali
imprevedibili, ma allo stesso tempo sono romanzi autobiografici, d’indagine etno-
sociologica e politica che conferiscono a questi lavori sotto certi aspetti tragici e

77
intrisi di pessimismo, sfumature molto più complesse.
Anche Castellaneda, dopo dieci anni dalla Paloma, ritorna sul problema del
terrorismo nel 1982 con Ombre dove presenta a capitoli rigorosamente alternati,
l’eversione rossa e nera. L’autore cerca soprattutto di descrivere narrativamente il
funzionamento del terrorismo di sinistra e quello stragista di destra, come si
intersecano tra i vari livelli : a livello più alto ci sono le “menti”, che si identificano
in oscuri uomini politici, e al livello più basso ci sono i terroristi profondamente
ideologizzati mentre, nel mezzo, ci sono i settori deviati dei militari e della polizia
che si servono dei terroristi e di loschi personaggi legati ai servizi segreti
internazionali per attuare i loro piani eversivi.
Anche il romanzo di Castellaneda contiene gli elementi tipici delle spy
stories, ma allo stesso tempo c’è una personale interpretazione dell’autore degli “anni
di piombo” in Italia e una profonda analisi psicologica dei personaggi principali.
Nel romanzo vi sono anche numerose allusioni alle stragi: la strage di
Bologna, per esempio, viene raccontata definendola “l’incendio del Reichstag” i cui
responsabili vengono rintracciati nei gruppi ideologizzati di destra. Vi sono inoltre
evidenti allusioni a Licio Gelli e al ruolo da lui ricoperto nel depistaggio delle
indagini per rintracciare i colpevoli. Non è un caso che Castellaneda dedichi il suo
romanzo a Giuliano Turone, uno dei magistrati che indagarono sulla P2 e su Licio
Gelli.
Le ultime pagine del romanzo vedono i terroristi arrivare a una comune
sconfitta e la vittoria della democrazia che riesce a resistere agli urti di entrambi gli
estremismi che non sono riusciti a sortire l’effetto sperato, ovvero quello di
provocare lo Stato e costringerlo a intervenire attraverso quel golpe militare che la
destra, con la strategia dello stragismo, aveva cercato di provocare.
Il romanzo di Luce d’Eramo, Nucleo Zero, invece, abbandona tutti gli
elementi tipici delle spy story per concentrarsi più sulla riflessione sul terrorismo di
sinistra anni ’70 e ’80 e soprattutto, sull’uso indiscriminato della violenza. Il
romanzo è anche un tentativo di restituire, in un momento in cui non si avevano
testimonianze dirette, il comportamento, il linguaggio e i meccanismi cifrati dei
gruppi eversivi. La scrittrice si interessa non solo a come si diventa terroristi, ma
anche a come si diventa vivendo da terroristi.
In Veraldi e Castellaneda l’ossessione per la sicurezza si manifestava
attraverso il cambio di nomi, in Nucleo Zero questa paranoia porta i terroristi a

78
smettere di comunicare tra di loro. Si riuniscono solo una volta al mese, ma per il
resto comunicano seguendo un complicatissimo codice telefonico basato sul numero
degli squilli. La cosa che conta maggiormente è la sopravvivenza del gruppo e questo
comporta la perdita dell’identità individuale e l’eliminazione delle esistenze. Gli
appartenenti al gruppo sono disposti a cancellare ogni traccia della loro esistenza
fisica, addirittura utilizzando i proventi delle rapine per avere una clinica di chirurgia
plastica all’interno del covo nella quale possono alterare il loro aspetto e modificare
le loro impronte digitali.
Nel romanzo sono descritti dei momenti in cui la logica dei terroristi risulta
quasi condivisibile, ma in realtà la scrittrice esprime con chiarezza la convinzione
che il cambiamento della società per la quale i terroristi si battono non può avvenire
attraverso la lotta armata o il terrorismo:

Come la classe dominante decide al posto delle masse qual è il loro bene, non avete capito
che è da pseudorivoluzionari decidere al posto delle masse qual è il loro riscatto? Non si è
rivoluzionari al posto di un altro […] presumere di scuotere le masse con lo scandalo è un atto di
sfregio, un arrogante errore di valutazione. Sappiamo tutti che il vero rivoluzionario è uno che
vorrebbe aiutare le masse a sfilarsi l’uniforme del consenso, le vorrebbe aiutare dunque a cessare
d’essere opinione pubblica, fino a cessare a poco a poco d’essere anche masse per diventare infine
una comunità di persone che prendono in mano la propria vita. Ma aiutare le classi sfruttate non
significa sostituirsi a loro. Chi s’attribuisce il carisma del riscatto altrui è già un potenziale oppressore.
Si è rivoluzionari soltanto sulla propria pelle, quando si cessa di sottostare. Ma essere rivoluzionari
in prima persona non significa fare la rivoluzione. Ce ne corre. Significa esclusivamente saggiare in
anteprima gli strumenti a disposizione della sovversione di massa e tentare di creare quel minimo di
condizioni materiali alternative, perché chi non accetta di fare la bestia da soma in questa società non
sia costretto a ribaltare nel terrorismo 28

D’Eramo esprime, quindi, un giudizio fortemente negativo sul partito armato


che si auto elegge a guida delle masse popolari, in virtù di un consenso che nessuno
gli ha mai accordato e ritiene che proprio questa arroganza condannerà la rivoluzione
e la lotta alla sconfitta già in partenza.
Sebastiano Vassalli, invece, decide di raccontare il terrorismo attraverso
l’umorismo, la deformazione linguistica, la farsa e l’utilizzo del grottesco. Lo
scrittore nei suoi lavori voleva raccontare storie verosimili e legate all’attualità e in
Abitare il vento decide di raccontare del terrorismo di destra degli anni ’70. Il

28
Luce D’Eramo, Nucleo Zero, Milano, Mondadori, 1981, p. 193

79
romanzo vede Vassalli ritrovare l’interesse per la costruzione del personaggio,
facendolo però suicidare nel finale a indicare la chiusura di un percorso creativo dello
scrittore.
Nel romanzo non si parla delle strategie o delle ideologie dei gruppi
terroristici, ma vengono descritti soprattutto gli stati d’animo di Cris Rigotti, il
protagonista: è una figura tragica, sola e in lui convivono soltanto rabbia, malinconia,
follia e solitudine. Nonostante si definisca un “cavaliere errante”, quindi non
immischiato in questioni politiche, si ritrova sempre in mezzo alla lotta terroristica.
In lui si riflette la malattia di un’intera generazione che, non avendo niente in cui
credere, si ribella a questo stato di cose. L’uso del linguaggio riflette l’opinione dello
scrittore sugli anni di piombo che, per lui sono stati anni “ridicoli e terribili, dominati
da un’estetica barocca di distruzione e di morte”29, così che il rapimento di Andrea,
che dovrebbe dare vita a un esito tragico, si trasforma in una farsa. Il linguaggio è
caratterizzato da espressioni gergali e popolari e vi è un utilizzo aperto della volgarità
e di espressioni scurrili con il risultato di creare una sorta di umorismo linguistico in
cui ci sono anche moltissime distorsioni lessicali (gnente al posto di niente; inzomma
al posto di insomma) così come vi sono tantissimi giochi enigmistici, anagrammi e
sciarade, con una prosa sempre ritmata. La narrazione, infine, è fortemente
metaletteraria in cui il personaggio si rivolge all’autore stesso che deve aiutarlo a
narrarsi nel momento in cui lui non è più in grado di farlo.
A partire dagli anni ’90 gli anni di piombo possono considerarsi conclusi,
anche se vi erano stati alcuni omicidi da parte delle “Nuove Brigate Rosse”, non vi
erano più stati episodi di matrice terroristica di un certo rilievo e dal carcere alcuni
terroristi considerati irriducibili avevano firmato un documento in cui
ufficializzavano la fine della lotta armata contro lo Stato.
Dal punto di vista letterario, la conclusione della lotta armata coincide con un
recupero attraverso la memoria di quegli anni e alla riflessione su di essi: Giorgio
Napolitano, l’ex Presidente della Repubblica, con stupore di fronte alla debolezza
del ricordo di quegli anni affermò: “Non siamo riusciti a far capire cos’è stato per
noi”30 sottintendendo che siano gli altri a non capire, quelli che in quegli anni non
c’erano o erano troppo giovani per ricordarli e che la responsabilità di questa forte

29
Sebastiano Vassalli, Trent’anni dopo. Riflessioni su un personaggio e sulla sua storia, in S,
Vassalli, Abitare il vento, Milano, Calypso, Einaudi, 1980, pp.109-110.
30
http://www.minimaetmoralia.it/wp/tra-memoria-e-finzione-gli-anni-di-piombo-nella-
letteratura/

80
mancanza nella costruzione di una memoria collettiva è da attribuirsi a chi quegli
anni li ha vissuti, ma non li ha saputi raccontare.
Anche nelle scuole difficilmente gli anni ’70 vengono affrontati, sia per
quanto riguarda la parte storica che, ancora di più quella letteraria. La mancanza di
una trasmissione storica alle generazioni più giovani ha comportato una profonda
ignoranza sul tema e a non avere gli strumenti necessari a cogliere la gravità reale di
quanto è avvenuto nel nostro Paese fino a vent’anni fa.
Negli anni ’90 e Duemila vengono pubblicati diversi romanzi che cercano
proprio di costruire questa memoria e in esse vengono affrontati temi già emersi nei
decenni precedenti (ad esempio il conflitto generazionale come spiegazione della
rivolta) uniti con temi nuovi, come l’influenza dei “cattivi maestri” sulla generazione
degli anni ’70 e ’80, tema principale del romanzo di Vincenzo Mantovani, intitolato
per l’appunto “cattivo maestro”.
Viene introdotta anche la questione degli ex terroristi esuli in Francia che
vennero accolti sotto la presidenza Mitterrand come rifugiati politici approfittando
dell’asilo politico concesso dal presidente ai brigatisti rossi.
Mantovani affronta in Il cattivo maestro due tematiche fondamentali: già il
titolo mette in evidenza la questione della responsabilità morale di coloro che, pur
non avendo preso parte direttamente alla lotta armata, hanno contribuito a creare il
clima in cui vennero ideate e messe in pratica le azioni contro lo Stato. Lo scrittore
punta il dito soprattutto contro gli intellettuali e i docenti universitari che,
approfittando della loro posizione, hanno fatto propaganda tra i giovani.
Il testo alterna verità e finzione ripercorrendo, attraverso un’imponente
documentazione la Storia d’ Italia negli ultimi quarant’anni. Alcuni brani, un
elemento in comune a molte delle opere sugli anni di piombo, vengono ripresi da
memoir, interviste e confessioni dei brigatisti che vengono citati quasi alla lettera.
L’autore cita anche le fonti dalle quali ha ripreso i dialoghi ponendole in appendice
alla fine dei romanzi.
L’ altra questione affrontata è, appunto, quella degli esuli politici in Francia:
la concessione dell’asilo politico da parte del governo francese è senza dubbio una
delle questioni più ingombranti e attuali che ancora oggi creano un forte dibattito nel
mondo politico e ne è la prova la mancata estradizione, in tempi recenti, di Cesare
Battisti che non ha mancato di sollevare polemiche.
All’inizio dei primi anni Duemila si è assistito al perdurare degli attentati da

81
parte di una nuova formazione combattente, le Nuove Brigate Rosse: alla fine degli
anni ’90 avevano ammazzato il giuslavorista Massimo D’ Antona e nel 2002, a
Bologna, uccidono il professor Marco Biagi, consulente del ministro del lavoro
Maroni. Le nuove BR scompariranno nel 2003 in seguito a una sparatoria in treno
nella quale rimangono uccisi il terrorista Marco Galesi e Emanuele Petri, un agente
di polizia che, ad oggi, è stata l’ultima vittima del terrorismo armato.
Gli anni di piombo sono ormai lontani, quindi una riflessione su quanto era
accaduto era ormai possibile, ma allo stesso tempo, drammaticamente presenti con
gli ultimi colpi di coda del terrorismo.
A livello politico, le contestazioni durante il g8 di Genova e la morte di Carlo
Giuliani avevano riportato subito alla mente gli scontri che erano avvenuti dal ’68 in
avanti, riaccendendo a livello letterario l’interesse verso il racconto e la
comprensione degli anni di piombo.
Gli autori e gli scrittori hanno ora a disposizione una innumerevole quantità
di fonti fino a qualche anno prima irreperibili, ovvero studi storici, biografie,
autobiografie, inchieste giornalistiche, atti processuali e parlamentari. Nelle opere
pubblicate nel nuovo millennio ci sono temi ed elementi comuni come ad esempio,
la possibilità di una riconciliazione nazionale dopo il trauma del terrorismo, la figura
del “reduce”, ovvero l’ex terrorista che era sopravvissuto a quel periodo,
protagonista delle opere di Stefano Tassinari.
Una buona parte dei romanzi sono ambientati in luoghi claustrofobici: covi,
case minuscole, cascinali sperduti, ville bellissime ma in disuso. Sono testi con una
forte vocazione nostalgica, romanzi che raccontano il ritorno in un luogo, molto
spesso legato alla giovinezza, e da cui si dipanano i ricordi. Tutte queste narrazioni
hanno come fonte i memoriali degli ex terroristi come il libro di Peci o
il memoir della Braghetti (si pensi solo a quando l’ex brigatista racconta di come
preparava il minestrone per tutti gli occupanti della prigione del popolo dove era
detenuto Moro)
La scelta di usare queste narrazioni come struttura portante dei romanzi, però,
non ha tenuto minimamente conto dell’intento di tali memorie di autogiustificare chi
le scrive e per far passare così in secondo piano gli errori commessi, creando empatia
con il lettore.
Le vittime sembrano sparire: nel romanzo AmiciNemici, Spinato parla del
rapimento di Moro che nel romanzo arriva a perdere il proprio nome diventando “il

82
prigioniero” che, non a caso, era il titolo dell’autobiografia della Braghetti.
Tutto ciò che dice Moro, anche nei momenti più intimi, è politico, perché Moro
sa che le sue parole verranno lette e interpretate all’esterno; così si spiega il tono
oracolare delle lettere più private e quello strettamente tecnico-scientifico del
memoriale. Aldo Moro è una sagoma da tiro a bersaglio e la sua morte non ci fa
nessun effetto, la vittima nei romanzi è un semplice obiettivo, un bersaglio contro
cui a un certo punto della trama si scaglia il fuoco dei terroristi; la vittima è, quindi,
solo un pretesto narrativo che rimanda ai protocolli di inchiesta e di pedinamento
redatti dai componenti dei gruppi di fuoco, dove solitamente la persona che deve
essere uccisa non viene appellata con il proprio. nome, ma viene identificata come
obiettivo.
Un’ altro aspetto che viene analizzato è il presente degli ex terroristi e il
passato che prima o poi torna a bussare alle loro porte per trovare dinanzi uomini che
si sono rifatti una famiglia e una vita normale, come accade al protagonista del
romanzo di Stefano Tassinari l’amore degli insorti che, almeno in apparenza è
riuscito a ricostruirsi una vita normale dopo l’esperienza della lotta armata all’interno
di un gruppo di estrema sinistra.
Emilio Calvesi si è sposato e ha avuto due figli riuscendo quindi, nonostante
il fatto che in passato abbia anche ucciso, a ricostruirsi una vita normale e a sfuggire
alla giustizia, ma all’improvviso compare una persona sconosciuta che, oltre alle
lettere, gli invia alcune fotografie e oggetti del passato.
Sembrerebbe un romanzo giallo, ma la realtà è leggermente più complessa:
le lettere e gli oggetti costringono il protagonista a riflettere sul suo passato e a farci,
finalmente, i conti.
L’esito scontato sarebbe che confrontando le sue due vite l’ex terrorista
preferirebbe quella attuale, ma invece il protagonista farà ben altre riflessioni:

In questo momento mi sembra di stare seduto sul fondo di quel crepaccio che rappresenta la
mia vita. Non tutta la mia vita, ma quella attuale sì. Dal mio cellulare salgono suoni sempre più intensi:
sono i lamenti dei miei figli, di mia moglie, del mondo intero che mi sta cercando, e io non li
sopporto31

Nel romanzo riemerge anche il dibattito che coinvolse i movimenti

31
Stefano Tassinari, L’amore degli insorti, Milano, Tropea, 2005, p143

83
antagonisti sull’utilizzo o meno delle armi per portare alla vittoria le loro
rivendicazioni. Calvesi non ha dubbi, alle parole bisognava far seguire i fatti:

io non ce l’ho fatta a convivere con l’ipocrisia, a far risuonare per le strade un boato di sillabe
ritmate e rimate, a gareggiare da un capo all’altro del corteo a chi lanciava lo slogan più trucido, a
gridare con l’espressione dura:” per i compagni uccisi non basta il lutto, pagherete caro, pagherete
tutto” […] e poi a dormire sonni tranquilli nel mio letto, immaginando gli scogli a picco delle mie
prossime vacanze. Io no, io non ce l’ho fatta a aspettare tempi migliori, a limare documenti fino al
mattino per poi affermare soddisfatto: “abbiamo spostato a sinistra l’asse del partito”32

Alba, uno dei personaggi riemersi dal suo passato, invece, sosterrà la posizione
opposta:

posso accettare che si usino le armi per difendere le sedi o le manifestazioni di massa, ma
non per fare secco uno mentre esce di casa subito dopo aver baciato i bambini […] certi metodi li
usano i mafiosi, non i compagni! Noi siamo diversi e lo dobbiamo dimostrare anche a costo di pagare
prezzi altissimi.33

Questa posizione riflette quella reale dello scrittore che effettivamente


partecipò alle manifestazioni degli anni ’70, ma era fortemente contrario all’utilizzo
della violenza e delle armi. Tassinari ha voluto scrivere una difesa, ma non della lotta
armata, ma di un intero periodo storico che fu anche altro, ovvero un periodo di
incredibile vitalità politica nel quale c’erano stati anche giovani che avevano lottato
per le loro idee in maniera non violenta e sono posizioni che la memoria ufficiale ha
cercato di annullare totalmente all’interno di una condanna della deriva terroristica.
Sergio Lambiase invece, nel suo libro Terroristi brava gente sceglie di
raccontare la lotta armata con toni da commedia, leggeri e pieni di umorismo che
spesso, scivola nel tragico. La comicità nasce soprattutto dai personaggi che sono dei
terroristi imbranati e inetti nell’uso delle armi: Febo, ad esempio, non è capace di
utilizzarle, soffre di narcolessia e cataplessia che lo colpiscono soprattutto durante le
azioni militari e inoltre, è spesso distratto dalle questioni amorose.
Anche gli altri personaggi sono assolutamente inadeguati e questo non può
che portare ad avvenimenti altrettanto comici. C’è anche una parodia dei sequestri
quando, ad un certo punto, rapiscono un oculista che mentre è prigioniero dei

32
Ibidem p. 93-94
33
Ibidem p.105

84
terroristi passa il tempo a diagnosticare i loro disturbi visivi.
Sono terroristi che non uccidono, ma che rimangono uccisi a causa della loro
incapacità nell’utilizzare l’esplosivo per portare a termine le azioni armate.
L’opinione diffusa sull’assenza del tragico dimentica che storia e storia
letteraria, come storia e immaginario, procedono a velocità diverse. Non esiste
alcuna garanzia che fatti terribili generino una letteratura capace di dire quella
terribilità.
A partire dagli anni Novanta, con l’insistenza sul rapporto fra genitori e figli
e la volontà di ricostruire eventi che si suppongono ignorati, i romanzi sul terrorismo
vogliono operare una restituzione di memoria. La letteratura – ma ancor più il
cinema, o la memorialistica, o il giornalismo – acquisirebbe così la funzione di
supplire a una mancanza di storia.

85
CAPITOLO 3

3.1 Due letterature a confronto

Nei capitoli precedenti abbiamo potuto notare come l’Irlanda del Nord e
l’Italia
presentino numerosi punti in comune sia dal punto di vista storico che letterario, per
quanto riguarda gli ultimi decenni del secolo scorso.
Entrambi hanno subito il trauma del terrorismo, della violenza e
dell’insicurezza per il futuro e non è stata molto lontana nemmeno la risposta data
dai governi dei due paesi alla lotta al terrorismo: quasi contemporaneamente vennero
promulgate, dopo gli attentati di Birmingham nel ‘74 (citati da Jonathan Coe nel suo
romanzo The Rotters’ Club), il “Prevention of Terrorism Act” in Inghilterra e la
Legge Reale in Italia.
Entrambe presentavano aspetti controversi come, ad esempio, quello della
custodia preventiva senza alcun elemento indiziario preciso e l’ampliamento delle
circostanze in cui l’utilizzo delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine era
considerato legittimo.
Quella dell’Irlanda del Nord è stata però una violenza mossa da una rabbia e
da un’insicurezza accumulata nei secoli che abbracciava numerosi aspetti, in primis
quello sociale e quello religioso, mentre in Italia la violenza è stata sostanzialmente
mossa da ragioni di tipo politico: dalla paura del colpo di stato e di un conseguente
ritorno alla dittatura fascista da una parte e dall’altra dalla paura di un rafforzamento
dei comunisti, ritenuto pericolosissimo per la stabilità del Paese.
Nonostante le differenze che avevano portato ad attuare gli atti terroristici e
le conseguenti ritorsioni reciproche, entrambi i paesi hanno conosciuto bene la paura
delle bombe e il dolore di piangerne i morti, vittime più o meno innocenti di una
lunga guerra intestina che ha logorato per decenni la popolazione.

86
Questa paura comune si è riflessa in maniera molto simile anche nelle
produzioni letterarie di scrittori inglesi, italiani e irlandesi in primo luogo sulla scelta
del genere letterario di predilezione che è stato molto spesso il noir, come nel caso
dei romanzi di Eoin Mc Namee Resurrection Man o quello di Giancarlo Di Cataldo
Romanzo Criminale. Un altro filone è stato quello della memoria e del modo in cui
raccontare ai propri figli quel gigantesco trauma collettivo che sono stati gli anni ’70,
come nei casi del romanzo di Stefano Tassinari L’Amore degli Insorti o del romanzo
dello scrittore inglese Jonathan Coe, The Rotters’ Club.
Le similitudini che si possono rintracciare in questi romanzi sono molteplici
e riguardano un gran numero di temi che legano romanzi scritti e ambientati a molti
chilometri di distanza e in contesti decisamente diversi. Il rapporto con la famiglia
ad esempio, o la violenza perpetrata ai danni non solo di quelli che venivano percepiti
come nemici, ma anche tra i membri della stessa fazione, come avviene ad esempio
nei romanzi di De Cataldo e di McNamee

3.2 Due crime novels a confronto

Eoin McNamee e Giancarlo De Cataldo scrivono due opere legate al genere


del crime novel americana, sviluppando le storie secondo le rispettive sensibilità.
Spesso e tradizionalmente tenuto distinto dal poliziesco, il noir
rappresenta l'altra faccia della storia di un crimine, quella vista dalla parte del
criminale o dalla parte di chi vi è coinvolto senza volerlo. Nelle storie noir di solito,
manca la consolatoria e razionalizzante risoluzione finale di un "delitto misterioso"
con conseguente cattura e punizione del colpevole, una delle caratteristiche del
poliziesco classico e moderno. Le storie noir non sempre sono vicende enigmatiche,
l'attenzione è invece posta più sull'ambiente in cui avvengono le vicende criminali e
sulla psicologia dei personaggi.
Il primo punto di unione tra i due romanzi è l’utilizzo del contesto
storico: in entrambi i romanzi infatti, fatti storicamente accaduti e fiction si uniscono.
Victor Kelly è un personaggio realmente esistito con un nome diverso (il
nome reale era Lenny Murphy) e molti dettagli della sua vita sono stati riportati
fedelmente, mentre altri aspetti e personaggi sono stati inventati. Vengono inoltre,

87
inserite nel romanzo narrazioni di attentati realmente avvenuti a Belfast negli anni
’70.
Il medesimo modello viene seguito da Romanzo Criminale, anche se De
Cataldo modifica alcune cose per renderle funzionali alla sua storia. Ad esempio,
raccontando la strage del treno Italicus la fa avvenire 10 anni dopo rispetto a quando
era avvenuta realmente, addirittura successiva alla strage di Bologna che invece
viene raccontata così com’è storicamente avvenuta.
In Romanzo Criminale e in Resurrection Man troviamo due bande armate
criminali che si mettono insieme per raggiungere degli obbiettivi ben definiti: nel
caso della banda della Magliana l’obbiettivo è quello di aumentare il loro prestigio
sociale e uscire da una situazione economica precaria, la cui unica fonte di reddito
proveniva da azioni di microcriminalità.
I tre capi della banda, il Libanese, Il Freddo e il Dandi, sono amici fin da
ragazzini o lo diventano a seguito di azioni criminali: il Libanese e il Freddo ad
esempio, diventano amici dopo che il Freddo gli aveva rubato la macchina su cui
tenevano le armi e, almeno inizialmente, è il gruppo la cosa più importante,
qualunque azione deve essere concertata insieme e niente deve frapporsi tra i membri
della banda.
La svolta per il gruppo avviene dopo il sequestro del barone Rosellini che
finisce con la morte dell’ostaggio nonostante il pagamento del riscatto. Questo porta
per la prima volta i membri che avevano partecipato al sequestro a ottenere una
grande quantità di denaro mai vista prima di allora, e tutti non vedono l’ora di
ottenere la propria parte per spenderla tra macchine di lusso, droga e prostitute. Sarà
il Libanese a frenare l’entusiasmo con quella che era stata la sua idea fin dall’inizio:
usare tutto quel capitale per creare il loro impero: tutti uniti verso l’obbiettivo di
conquistare Roma:

Dividiamo oggi. E domani e dopo domani stiamo daccapo a quindici. Le macchine se fanno
vecchie, la droga si consuma […] ma se invece questi due miliardi e mezzo noi non li
dividiamo…se li teniamo uniti… se ci teniamo uniti noi... avete idea di che cosa possiamo
diventare? […] 34

34
Giancarlo De Cataldo, Romanzo Criminale, Einaudi stile libero, Torino, p.27

88
Si decide così di dividere in parti uguali una parte del riscatto e di reinvestire la
maggior parte del denaro in attività criminali come lo spaccio di droga o la creazione
di bische clandestine.
Viene anche creato un fondo per i compagni che potrebbero finire in galera e le loro
famiglie. Pur dichiarandosi fascista, il Libanese crea, quasi paradossalmente, un
gruppo su basi decisamente socialiste, dove tutti hanno denaro in parti uguali per non
creare invidie e gelosie che porterebbero inevitabilmente il gruppo a sfasciarsi prima
ancora di nascere. È anche vero che per il Libanese essere fascista significa
sostanzialmente riportare l’ordine nel disordine, un concetto che storicamente veniva
ripetuto come un mantra dai gruppi eversivi di estrema destra, dai servizi segreti
deviati e dagli organizzatori del fallito Golpe contro lo Stato.

Il Libanese […] era fascista da sempre, per lui la destra si identificava con l’ordine e
l’organizzazione. E questo aveva cercato di fare con la banda. Imporre l’ordine e
l’organizzazione a un branco di indisciplinate teste calde35

Un concetto che ritroviamo anche nel romanzo di McNamee, ma spostato su un altro


piano: il nazismo serve perché le persone non vogliono decidere. McClure, uno dei
personaggi principali, dichiara il suo appoggio al partito nazista:

McClure spiegò la propria attrazione per i nazisti. Eliminazione del rimorso. Semplicità
ideologica. Voce delle masse e stadi silenziosi. […]
- la gente aspira al controllo- disse McClure- vogliono che qualcuno assuma il comando,
decida per loro, dica loro cosa fare della propria vita. Gli affideranno la vita piangendo
lacrime di gratitudine perché qualcuno è disposto a farsene carico. Tutto quel tormentarsi e
decidere. Vogliono mettersi l’uniforme e fare gli eroi. Sono disposti a morire per questo36

Nei primi tempi di attività la banda stringe accordi con la Camorra e con le
bande rivali più o meno legate al crimine organizzato e inizia lo smercio della droga
nella Capitale.
Ma nessuno del gruppo vuole rimanere vincolato alla zona in cui sono stati confinati
e da quel momento in poi iniziano gli spargimenti di sangue per arrivare ad ottenere

35
Ibidem p.36
36
Eoin McNamee, Resurrection Man, Einaudi, p.71

89
il pieno controllo dello spaccio nella Capitale e diventare, quindi, ancora più ricchi
e potenti.
Il gruppo è unito e tutti si proteggono le spalle a vicenda, soprattutto il Libanese e il
Freddo che sono ormai praticamente fratelli. Entra nella storia anche un altro
personaggio chiave legato alla Banda della Magliana: il Nero, legato ai gruppi
eversivi di estrema destra e con molta probabilità, fortemente immischiato nella
strategia eversiva di destra basata sulle bombe piazzate nei treni.
I ruoli interni sono ben definiti, e tutti di comune accordo accettano come
capi della banda il Dandi, il Libanese e Il Freddo, non perché si siano autodefiniti
tali, ma come un riconoscimento condiviso al loro valore sulla strada che, come
spesso avviene in queste realtà, definisce l’uomo stesso.
Le decisioni vengono, almeno inizialmente, rispettate perché proposte da
persone che si sono guadagnate rispetto sul campo per la velocità di pensiero, di
azioni e spirito di sacrificio per il gruppo che ha portato dei vantaggi in primis
economici, ma anche di prestigio sociale anche ai sottoposti. Solo un personaggio,
prevedendo quello che sarebbe successo in seguito, deciderà di staccarsi dalla banda
prima che tutti cercheranno di ammazzarsi tra di loro:

-Il passato non mi preoccupa […] mi preoccupa il futuro. Quello che sta per accadere a tutti noi
-E che cosa ti preoccupa allora? - chiese il Freddo.
- Il futuro. Quello che sta per succedere a tutti noi… per questo me chiamo fuori, Freddo...
- Perché che cosa succederà secondo te?
[…]
-Succede che vi sbranerete come maiali. Che v’ammazzate uno alla volta come i cani. Garantito. E io
non ci voglio stare37

In quel momento, una previsione così sembra solo disfattista e mossa da un


profondo pessimismo. Tutti danno la colpa al fatto che Puma è solo stanco di vivere
da malavitoso perché vecchio. La storia, invece, gli darà ragione.
La storia dei Resurrection Men è diversa: la loro coesione è dettata non dalla
volontà di diventare potenti o ricchi, ma dall’odio viscerale che tutti i membri del
gruppo provano nei confronti dei cattolici. La loro è una vendetta feroce nei confronti

37
Ibidem p.41

90
dell’IRA per i morti che aveva provocato con gli attentati, una lotta serrata a favore
dell’Ulster protestante e contro quelli che cercavano in tutti i modi di scardinarlo a
favore di un Irlanda unita e cattolica.

McClure diresse quell’eloquenza verso un torrenziale odio per i cattolici. La loro


IRA. Le loro sventure. Le loro sofferenze ostentate. Le loro statistiche di disoccupazione. I
seni delle loro donne graziosamente offerti. L’esiguità dei loro bisogni. I loro innumerevoli
figli. La banalità con cui morivano […]
-l’ala provisional dell’IRA ha rivendicato l’attacco a una stazione di servizio alla periferia
della città. Il proprietario è un protestante. Due uomini sono rimasti uccisi e altri tre feriti
- che ti dicevo? Quei bastardi vogliono annientarci. Idioti. Dobbiamo fare qualcosa.
Dobbiamo fargliela pagare oggi stesso38

Bisogna fare anche una precisazione, che avvicinerà il personaggio di Victor


ai personaggi di Romanzo Criminale: l’odio di Victor per i cattolici, che certamente
esiste ed è così forte anche per via del suo cognome, che era uno dei cognomi
tipicamente cattolici, non ha un ruolo così fondamentale nel suo desiderio di uccidere
e la sua devozione alla causa protestante diventa sostanzialmente secondaria. La
motivazione più forte sembra essere data da un’oscura aspirazione ad ottenere il
potere, che per Victor significa avere il pieno e totale controllo sulla vittima
attraverso la violenza, e dalla volontà anche maggiore di ottenere la fama e il rispetto
che ritiene giusto meritare. Più di qualunque altra cosa Victor vuole essere visto,
ammirato e temuto.
La decisione di diventare un gangster arriva dopo che il padre lo aveva
portato al cinema a vedere la proiezione di Nemico Pubblico. Da quel momento in
poi aveva deciso che era così che voleva apparire. Questo non è inizialmente di aiuto,
il cognome troppo ingombrante lo porta a essere vittima di violenze da parte degli
altri ragazzi che, una sera, iniziano a schernirlo e a chiamarlo Pat, un nome anche
questo tipicamente cattolico, e a insultare sua madre. Da li prende per la prima volta
piede la violenza cieca nella mente di Victor che istintivamente cerca di prendere un
coltello dal bagagliaio per scagliarsi contro il ragazzino.

38
Eoin McNamee, op. cit, pp 152-153

91
Nella sua testa vedeva i contorni della violenza dispiegarsi come un tracciato della polizia
con segni di frenata che si perdevano in lontananza39

Victor, viene da subito presentato come il personaggio centrale del romanzo,


al contrario di quanto avviene in Romanzo Criminale che è un romanzo corale, e da
subito ci vengono date spiegazioni sul perché poi, in seguito, avrebbe raggiunto la
totale follia. La prima causa viene attribuita ai frequenti cambiamenti di casa e alle
compagnie che Victor aveva iniziato a frequentare. Inizia a compiere piccoli furti,
ma al contrario di quanto avviene in Romanzo Criminale, questi non venivano
compiuti solo come un modo per sopravvivere.
La genesi della banda di Victor avviene dopo che aveva assistito ad alcuni
omicidi e aver preso parte a uno di questi che verrà compiuto anticipando la modalità
con cui poi avverranno tutti gli altri e con l’ingresso di Victor nella UVF40 dove
conoscerà Big Ivan, Willie e gli altri che poi diventeranno i Resurrection Men. Anche
se in lui non c’è, come nei personaggi del romanzo di De Cataldo, la volontà di
arricchirsi, per Victor questo diventa un benaccetto effetto collaterale del far parte
dell’organizzazione. Il rispetto che tutti iniziano a portargli apporta numerosi
benefici e con i primi soldi riesce a comprarsi la prima automobile, che per Victor
rappresenta un’ossessione.
C’è quindi anche qui il cambiamento di status per il rispetto che gli altri
iniziano a manifestare: finalmente non viene più schernito per quel cognome così
ingombrante che gli aveva causato così tanti problemi fino a quel momento.

Imparò cos’erano davvero i soldi. All’inizio semplicemente entrare nei negozi e servirsi.
Imparò che non c’era bisogno di minacciare, i negozianti erano lieti di consegnargli gli
articoli. Li liberava da paure inconfessate, immagini istantanee di mogli e figli aggrediti da
uomini mascherati. Poi cominciò a girare i cantieri offrendo protezione. Era convinto che
avrebbero dormito più tranquilli se lo pagavano […] con i primi soldi veri si comprò una
Ford Capri nera; ecco una 007 per Victor, una fottuta bondmobile41

39
Ibidem, p.9
40
L’ Ulster Volunteer Force, era un’organizzazione protestante nata per combattere i repubblicani:
tornata attivissima nel ’66, è stata responsabile della maggior parte degli omicidi ai danni dei cattolici
negli anni ‘70
41
Ibidem p.31

92
Il patto di sangue tra i membri sia della banda della Magliana che dei
Resurrection men avviene con gli omicidi. Tutti i membri del gruppo si aiutano a
vicenda, e tutti sono d’accordo nel momento in cui bisogna eliminare quello che
veniva percepito come un pericoloso nemico. In entrambi i romanzi, inoltre, viene
descritto l’intero processo con una morbosa presenza di dettagli.
Gli omicidi vengono compiuti seguendo un meticoloso schema che non si
compie solo nell’atto finale, ma anche nei momenti precedenti. Il rituale comprende
lo scherno della vittima, prendere tutto come se fosse uno scherzo compiuto solo per
farlo spaventare, in un crescendo di atti violenti che si concludono sempre con la
morte della vittima predestinata:

-Come ti chiami? -
-John.
-Senza un cazzo di cognome?
-John McGinn
-Attraverso lo specchio magico oggi vediamo John McGinn. Ciao John. Ti chiameremo
Johnny. Ti chiamano Johnny i tuoi amici? Noi siamo i tuoi amici. Condividiamo la tua
sensazione di stupore. La tua profonda solitudine. Camminavi di fretta lungo la Crumlin
Road. Stavi andando al lavoro, a una scuola serale, a un appuntamento con una donna. Ci
sembra di sentirla piangere perché non ti sei fatto vedere. Condividiamo la sua tristezza. La
consoleremo. […] Era stato Billy McClure a tirare fuori la Romper Room. Si trovava a suo
agio con i riti di iniziazione. Era stato condannato per pedofilia e sapeva che la complicità è
tutto. Era questione di mantenere un cerimoniale con pause e intervalli per la riflessione
-Bel lavoro Billy, ho visto saltare dei denti. Ho visto proprio dei denti. Ce ne sono laggiù sul
pavimento.
Ci furono lunghe pause per bere. Gli uomini si affollavano al banco ansiosi di pagare il giro
per tutta la compagnia. La vittima veniva ignorata. Giaceva a terra tra la macchinetta del
poker e il tavolo da biliardo. C’era sangue sul pavimento, pezzi di scalpo. Victor si avvicinò
casualmente con il bicchiere in mano, smosse McGinn con la punta dello stivaletto e lo fissò
con aria indifferente come se fosse un
animale in via di estinzione.42

In Romanzo Criminale ritroviamo il patto di sangue tra i membri della banda:

42
Ibidem pp. 32-33

93
Fu respirando il soffio melmoso del fiume che ritornò padrone di sé stesso. E un senso di
indomabile potenza lo sollevò ad altezze stratosferiche: sentì che quel morto gli aveva fatto
bene, avvertì l’impatto devastante del rito che aveva celebrato, insieme al Bufalo, nel nome
dell’intero gruppo. Perché finalmente ora erano diventati un gruppo. Uniti. invincibili43

Dal brano tratto da Resurrecion Men si colgono molti degli aspetti che
caratterizzano il romanzo di McNamee: alcuni dei quali già segnalati, come la
ricchezza dei dettagli macabri, ma ciò che colpisce più di tutto è l’assoluta freddezza
del racconto. Non solo da parte degli assassini, che sono caratterizzati da una assoluta
freddezza e distacco, ma anche da parte della vittima stessa. Lo scrittore non ci
racconta il suo terrore o il suo spavento. Nel lungo dialogo la vittima non interviene
in alcun modo, nemmeno per cercare in qualche modo di salvarsi dall’inevitabile
fine.
L’altro aspetto che accomuna i due romanzi è l’escalation degli atti violenti.
Gli omicidi sono sempre più sanguinari e violenti e, soprattutto in Resurrection Men,
assumono quasi la forma di omicidi rituali dove l’ultimo colpo è sempre inferto dal
capo, armato del suo coltello rituale.
In Romanzo Criminale va compiuta, invece, una distinzione netta tra gli
omicidi che venivano compiuti come vendetta e quelli che portavano a eliminare
membri o ex membri della banda. Nel primo caso abbiamo lo stesso resoconto
assolutamente privo di emozioni, ma pieno di dettagli morbosi, che abbiamo visto
anche nel romanzo irlandese:

Il Beato Porco, ancora mezzo nudo, lo seguì fiducioso. Salirono su una Panda. Botola stava
dietro, e scherzava, faceva l’amicone. Nembo Kid li aspettava a Fregene. Il Beato Porco gli
andò incontro a mano tesa. Nembo sparò il primo colpo dalla tasca del trench, e il Beato
Porco cadde, una rotula fracassata. Subito Botola gli passò il fil di ferro intorno ai polsi e
alle caviglie, Scrocchiazeppi sparò all’altra rotula. Mentre il verme strisciava tossendo e
implorando pietà, si fecero due o tre piste commentando le ultime imprese di Falcao. Il Beato
Porco era quasi arrivato alla Panda. Ma dove credeva di andare, povero disgraziato? Lo
rimisero in piedi, si fa per dire, badando a non imbrattarsi di sangue, e lo legarono a un
tronco. Scrocchiazeppi accese l’autoradio e ci piazzò una cassetta di disco music. Nembo
Kid aveva voglia di spassarsela un po’ con il coltello. A ogni taglio la sua motivazione. […]
Dopo un po’ ne ebbero abbastanza.

43
G. De Cataldo, op.cit, p.122

94
Il Beato Porco, la testa appesa e rivoli di sangue dappertutto, non si capiva se c’era ancora o
se ne era già andato. A ogni buon conto gli spararono tre colpi ciascuno, poi portarono il
pacco nell’auto e accesero un bel falò.44

Un altro elemento simile tra i due romanzi è l’umorismo che accompagna


alcuni degli omicidi e dove di nuovo, per la vittima, sembra di essere di fronte a un
grande scherzo organizzato per spaventarlo. I morti sembrano sempre delle pedine
destinate a cadere che perdono quasi il loro essere umano.

-Botola- esclamò Zaraffa- dì Freddo, è vero che ci somigliamo come due gocce d’acqua?
[…]
-Qua va bene- disse Trentadenari, qualche chilometro dopo
-Bene per che? – chiese un po’ insospettito Zaraffa.
Trentadenari, fulmineo, gli avvolse intorno al collo un laccio che s’era portato appresso.
Zaraffa cominciò a scalciare, una gomitata spaccò il vetro, la pioggia di schegge ferì
Scrocchiazzeppi, che s’imbrutti.
- ce penso io, incapace! Si avventò sullo Zaraffa che si dimenava rantolando, e gli seccò la
gola alla maniera degli arabi. Zaraffa si accasciò con un gorgoglio. Scrocchiazzeppi per
essere sicuro, affondò due o tre volte la lama prima di ritirarla
- che schifo! So tutto sporco de sangue!
Il Freddo osservò che avrebbero fatto prima a piantargli una palla in testa. Botola arrivò a
cose fatte, contemplò lo scempio, e fece notare l’incredibile somiglianza con il morto
- hai visto? T’ha detto de culo! - rise Trentadenari45

Diverso è l’atteggiamento del gruppo quando a dover essere ucciso è un


membro della banda che ha compiuto un qualche errore imperdonabile. C’è la
sofferenza vera di dover compiere un atto reputato inevitabile, ma che allo stesso
tempo provoca enorme sofferenza. In Romanzo Criminale, piuttosto che in
Resurrection Man, questo dolore colpisce i personaggi e soprattutto colpisce il
Freddo che rappresenta perfettamente questa ambiguità: freddo e cinico in molti
omicidi, ma dilaniato quando a cadere devono essere i suoi stessi amici.

44
G. De Cataldo, op.cit., p. 342
45
Ibidem, pp. 377-378

95
Ma la volontà e il bene del gruppo prevalgono sempre sugli affetti personali e la
decisione unanime va rispettata a ogni costo.
In Resurrection Man, invece, permane quella freddezza e la totale assenza di
emozioni anche quando a cadere sono ex compagni e amici. Victor è finito in galera
perché uno dei suoi, Hacksaw, aveva confessato gli omicidi che aveva compiuto
insieme a Kelly mentre erano in cella. Victor elabora un piano per fargli firmare una
confessione dove si assumeva la responsabilità e la colpa di tutto. Lo stratagemma
riesce e alla fine, lo soffoca con un cuscino. Quando gli viene chiesto cosa avesse
provato la risposta era stata che non provava assolutamente niente.
In Romanzo Criminale invece, la morte di Aldo Buffoni procura al Freddo, il
membro della banda incaricato di compierlo, un forte dolore emotivo. Viene
comunque portato a termine, ma con costi psicologici elevati. Viene scoperto dalla
banda che Aldo Buffoni aveva derubato molti soldi nascondendo i ricavi di alcune
sue attività criminali. In virtù dell’amicizia gli era già stata perdonata una volta, ma
la seconda diventa inaccettabile e deve andare incontro alla sua pena:

-Stavolta non ti posso aiutare Aldo..


Ora Aldo piangeva. Ma sì, sì che un modo c’era! Gli era venuta proprio allora, l’idea, era
l’idea che salvava tutto quanto, una vita umana, la preziosa vita umana di un amico, e la
faccia, sì la faccia del Freddo, che era un capo e certo, lui Aldo, lo capiva bene che c’erano
dei motivi, sennò…
-riportame a casa Freddo. C’ho un gruzzolo da parte. Stasera prendo Filly e stasera stessa
facciamo i biglietti per il Brasile. Ce ne andiamo e nessuno sentirà più parlare di noi.
- Nessuno ti vedrà più in giro, amico mio.
- Grazie, Freddo, grazie, sei più che un fratello per me, grazie... fatte abbraccià Freddo,
fratello mio!
Si abbracciarono, il Freddo gli sparò attraverso la tasca del trench con la pistola silenziata
che aveva preparato prima dell’incontro […]
Il Freddo commise l’errore di guardarlo in faccia. Aveva gli occhi pieni di lacrime e di
stupore. Rivide il volto dell’agnello, scagliò l’arma lontano, che se la prendesse il mare,
maledetta pistola, e maledetta pistola. Si sentiva più sporco di un infame.46

Il Freddo è uno dei personaggi più emotivamente complessi se non il più


complesso del romanzo. Per la sensibilità che mostra in molte situazioni sembra

46
G. De Cataldo, op.cit. p.385

96
quasi che sia capitato nella malavita per errore, mentre in molte altre riscontriamo in
lui quel distacco cinico che abbiamo osservato in Victor Kelly e nei Resurrection
Man.

Non sentiva pena per quel morto, non sentiva paura delle conseguenze, non sentiva
un accidente di niente. E il colpo di grazia era un dono di amicizia per il Libanese: era come
se l’avesse premuto lui, il grilletto 47

Le due narrazioni procedono seguendo una metodologia quasi opposta. Nel


romanzo di McNamee la vittima, che sia lontana o vicina all’assassino, non ha
emozioni e non ne provoca al momento dell’omicidio. Non c’è alcuna possibilità di
immedesimazione e il lettore è solo uno spettatore qualunque.
In Romanzo Criminale c’è una tensione nella narrazione che tocca la
coscienza stessa del lettore. Possiamo immedesimarci in Aldo Buffoni, nella sua
paura, nella sua angoscia e nel suo terrore. Siamo noi in ginocchio sulla sabbia
mentre seguiamo il suo flusso di pensieri e discorsi. Ma alcune righe dopo
diventiamo il Freddo e il suo dolore diventa anche nostro e soffriamo con lui.
In Resurrection Man questa identificazione è pressoché assente ed è assente
soprattutto in Victor Kelly. Avviene solo con un personaggio, Willie, che però viene
descritta senza la volontà di creare un qualche tipo di emozione, quasi come se
seguissimo un pensiero casuale e non le riflessioni di un assassino che si appresta a
uccidere, a proposito dell’uomo che sta per ammazzare:

Willie scoprì di provare simpatia per l’uomo che avevano prelevato, e lo sfiorò
l’idea che più tardi sarebbero andati a bere qualcosa e a scambiarsi le impressioni sulla
serata. E si sarebbero trovati d’accordo sul comportamento di Big Ivan. Ma sapeva che non
era possibile e provò una sorta di rammarico per chi è solo in questo mondo. 48

Nel crime novel sono ovviamente i cattivi a essere protagonisti, ma


contemporaneamente è presente anche la parte di chi cerca di fare giustizia e dare la
giusta punizione a chi compie dei crimini. Veniamo così a contatto con un mondo
profondamente marcio, dove anche i personaggi che fino a quel momento hanno

47
Ibidem p.119
48
E. McNamee, op.cit,, p. 177

97
mostrato un comportamento estremamente etico e corretto vengono corrotti dal
sistema stesso che non può essere combattuto: siamo in un universo dove nessuno
vince.
Il commissario Scialoja, ad esempio, si presenta fin dal primo istante come
un uomo incorruttibile, fortemente ligio al dovere e all’etica. In un momento storico
come quello del sequestro Rosellini (’77) l’Italia è nel pieno degli anni di piombo e
la prerogativa per tutti i corpi di polizia sono i terroristi, non il venire a capo di un
sequestro compiuto da quelli che fino a quel momento sono considerati dei piccoli
criminali di serie B, cosa che il procuratore Borgia gli comunica fin dal primo giorno
di lavoro:

Archiviazione. Per essere ignoti gli autori del fatto. Il sostituto gli stava dicendo che anche
se il rapporto era buono non erano riusciti a cavare un ragno dal buco. Il barone era andato.
Dei rapitori nessuna traccia.
- Il procuratore sostiene che la mia squadra è un po’... come dire… gonfiata- sussurrò Borgia.
Così Borgia stava per rispedirlo da dove era venuto. A passare carte. A cercarsi un’altra
occasione. Non c’erano stati risultati. Era mancato il successo. Non c’erano stati arresti.
Senza arresti non si va da nessuna parte. È la regola numero uno. Scialoja decise di saltare i
passaggi intermedi.
- Mi serve un po’ di tempo- disse, diretto.
- dipendesse da me … abbiamo lavorato bene insieme… ma il fatto è che l’uguaglianza non
va di moda in Procura... il fatto è che io sono l’ultimo arrivato… le cose sarebbero diverse
se stessimo dietro ai brigatisti… ma ho paura che del povero barone, in questo momento…
49

Per Scialoja inizialmente è solo un caso come un altro per fare carriera e
approdare all’antiterrorismo, ma con l’andare avanti del tempo diventa una questione
di principio quella di arrestare i membri della Banda della Magliana, ad ogni costo.
Più si addentra nelle indagini, più inizia a venire fuori uno schema torbido. I processi
a loro carico vengono sempre archiviati anche nel momento in cui le prove a loro
carico sono schiaccianti. Viene fuori un coinvolgimento dei servizi segreti che si
servono dei membri della Banda per svolgere i loro regolamenti di conti.

49
G. De Cataldo, op.cit, p.48

98
Quando Zeta e Pigreco50 gli avevano riferito la proposta del Vecchio Dandi era andato subito
in puzza
- Dunque, fateme capì ‘sta chiacchierata: al capo vostro gli servono certe carte, e siccome
che ‘ste carte stanno dentro un posto dove non ci può arrivare, il Vecchio t’organizza na
rapinetta..
- Chiamiamolo un recupero piuttosto- ribatté Zeta piccato-
-Scusami compagno, a scuola non ero molto forte in italiano… dov’ero rimasto? Ah, già il
recupero… e insomma si mettono un po’ di ragazzi e si organizza il recupero… l’accordo è
chiaro a voi i soldi, a me le carte. Senonchè sul più bello il capo de sti recuperanti se fotte le
cartucelle e comincia a fa i giochini co voi altri…
Hai colto il punto. - concesse Zeta
- E così mo ve serve il sottoscritto. Per il recupero del recupero…
- Precisamente
- E chi è sto soggetto?
-Lo chiamano il Larinese
-Allora sì o no?
-Dandi si accese perplesso una sigaretta.
-Quello che me chiedo è: se sto tomo rompe tanto, perché non ci pensate voi altri?
- Non sono cose che ti riguardano
[…]
Gli rodeva che il Vecchio e i suoi continuassero a trattarlo come il coatto che era stato un
tempo e che non avrebbe più accettato di essere. Una pedina che un giorno o l’altro sarebbe
stata sacrificata. Non voleva più dipendere da nessuno. Voleva uscire pulito da questa e da
tutte le altre storie. Il Vecchio era l’unico che poteva aiutarlo51

Addirittura, arriva dallo Stato la richiesta di trovare e salvare Aldo Moro


tenuto in ostaggio dalle Brigate Rosse con la promessa che vi sarebbero stati benefici
reciproci da questa collaborazione. La proposta viene fatta alla Mafia, ma
riconoscendo ormai che è la Banda della Magliana a controllare quel territorio gli
viene affidata l’incombenza

-Mi ha cercato Cutolo. Dobbiamo fare qualcosa per Moro.

50
Due agenti dei servizi segreti
51
Ibidem pp.452- 453

99
- che cosa? – chiese il Libanese
- Non è stato preciso. Credo che dobbiamo trovare la prigione, liberarlo, cose così…
-Noi? - trasecolò Dandi.
- O noi o la polizia. Basta che gli passiamo l’informazione […]
- Ho sentito che dobbiamo occuparci di Moro.
-Il Libanese schiacciò una sigaretta e ne accese un’altra.
-È una buona cosa,
-La politica non è mai una buona cosa, Libano. Sento puzza di trappola
- Ma che dici? Metti che veramente troviamo quel disgraziato: facciamo un favore allo Stato
e lo Stato chiude un occhio… è di questo che si tratta, Freddo. Il gioco grosso!52

La commistione tra malavita, servizi segreti e poliziotti corrotti che inizia a


gravitare intorno alla Banda della Magliana assicurerà ai membri una protezione
costante contro il rischio di subire processi e finire al carcere a vita. Zeta e Pigreco,
i due agenti segreti, sfrutteranno il bordello che era stato aperto a Patrizia, la donna
del Dandi, per convincerla a smettere di prostituirsi, mettendo in una stanza cimici e
microspie per poter ricattare gli uomini potenti che avevano iniziato a frequentare il
bordello.

-Si può dare il caso che capitino nel bordello clienti di riguardo. Clienti molto speciali.
Uomini importanti che tra un affare e l’altro delle loro tumultuose esistenze, avvertono la
necessità di una pausa. Una piccola, innocente boccata di ossigeno nel mare delle quotidiane
avversità. Si può dare il caso che questi uomini sentano il bisogno di sfogarsi di un’amarezza.
O di gioire di un successo a lungo inseguito e finalmente colto. Sarebbe interessante, in
questi momenti di abbandono, trovarsi, sul posto. Osservare. Ascoltare. […]
Tu ci affitti una stanza… una stanza dalla quale osservare senza essere osservati… ascoltati...
e noi ti garantiamo... che nessuno… mai… per nessun motivo ti disturberà 53

In Resurrection Man ritroviamo l’uso del ricatto sessuale da parte dei servizi
segreti ai danni di personaggi scomodi o da cui si voleva ottenere qualcosa:

Cominciarono a circolare voci su una casa di appuntamenti in periferia in cui erano coinvolti
paramilitari e uomini dei servizi segreti britannici. Si diceva che uomini politici e alti

52
Ibidem pp. 61,65
53
Ibidem p.p. 143-144

100
funzionari fossero stati filmati o registrati a letto con ragazzi adolescenti. Sembrava che tutti
ignorassero l’uso a cui quel materiale era destinato. Secondo Coppinger alcune decisioni
prese ad alto livello rilevano un nervosismo spiegabile solo con un profondo malessere negli
ambienti governativi54

I servizi segreti aiuteranno la banda della Magliana ad avere accesso a un


deposito di armi appartenente ufficialmente al Ministero della Difesa. Intorno ai
membri inizia a gravitare anche un poliziotto corrotto, Santini Fabio, dipendente
dalla cocaina e che, in cambio di una fornitura costante della sostanza, li avrebbe
avvertiti degli sviluppi delle indagini a loro carico o di eventuali retate da parte della
polizia.
Anche per i Resurrection Man arrivano delle protezioni esterne che li aiutano
durante i processi per cui otterranno, inizialmente, sempre l’assoluzione anche
quando le prove a carico degli inquirenti sono schiaccianti.

-Mister McClure, l’eminenza grigia. Implicato in casi di molestie a ragazzi di vari


orfanotrofi. Collegato con i servizi segreti britannici e diversi gruppi di estrema destra.
Attivo negli ambienti paramilitari protestanti anche se a quanto sembra non appartiene a
nessuna organizzazione. Ricatti, estorsioni il nome ricorre spesso. Nessuno lo dice
chiaramente, ma si allude a presunte protezioni. I testimoni ritrattano. Si mormora che
qualche tempo fa gli sbirri abbiano cercato di pizzicarlo, ma non se ne è fatto niente. Non
che ci sia stato un vero e proprio divieto dall’alto, ma è trapelata una certa disapprovazione
55

Ritroviamo questa commistione tra terroristi e servizi segreti non solo nei
crime novels, ma anche nel romanzo di Stefano Tassinari, L’amore degli insorti.
Il protagonista viene contattato dai servizi segreti per nascondere delle carte
compromettenti relativi a un non meglio precisato scandalo che coinvolgeva un
importante uomo politico. Per Emilio Calvesi era questa la ragione per cui non era
stato mai arrestato né indagato:

54
E. McNamee. Op.cit, p. 90
55
Ibidem p.170

101
Nonostante sia trascorso molto tempo, a qualche dirigente dei servizi potrebbe interessare
rientrarne in possesso, forse per imbastire un ricatto, oppure per mantenere in atto una forma
di protezione. Non posso escludere che, in questi anni, una voce sul mio ruolo nella vicenda
sia circolata in certi ambienti, con la possibile conseguenza di ritrovarmi sotto tiro. Se così
fosse, capirei anche la ragione per un mio mancato arresto: chi ha motivi per cercare di
recuperare quelle carte non ne ha altrettanti per rendere pubblica la vicenda. Molto meglio
proporre un patto: i materiali in cambio dell’impunità56

Come già detto prima, sia in Romanzo Criminale che in Resurrection Man, i
buoni sono sempre più attratti dalle due bande armate. Riescono dove le istituzioni
falliscono o vogliono fallire. Scialoja individua molti dei collegamenti della banda
della Magliana con i servizi segreti, tant’è che viene minacciato dagli stessi Zeta e
Pigreco affinché smetta di indagare sulla banda e a proposito del bordello di Patrizia,
ma dopo l’ennesima assoluzione dei membri, viene, ad un certo punto costretto a
trasferirsi a Modena.
Per lui le indagini diventano un chiodo fisso e a mano a mano che colleziona
buchi nell’acqua, inizia a essere sempre più depresso fino a diventare un alcolizzato.
In Resurrection Man invece degli inquirenti abbiamo due giornalisti, Ryan e
Coppinger, che inizieranno a seguire le azioni dei Resurrection Man fino al punto
che Ryan ne rimarrà quasi ossessionato:
“Gli assassini dei coltelli stavano prendendo forma e lui veniva attirato verso di
loro”57.

Scialoja, arriva ad avere un incontro con il Vecchio, dopo che uno dei suoi
agenti aveva confessato tutta la strategia del Vecchio e dei servizi segreti. Ma è una
battaglia che Scialoja non può vincere perché i suoi stessi colleghi accetteranno
l’accordo con il Vecchio di far cadere i pesci piccoli, tenendo sepolta la parte della
storia che risulterebbe problematica per molta gente. In cambio, a Scialoja verrà data
la possibilità di far carriera e diventare un uomo potente egli stesso. Accetterà,
abbandonando l’etica che per tutto il romanzo aveva difeso nonostante tutto e tutti e

56
Stefano Tassinari, L’amore degli Insorti, Ed. Alegre, Roma,2013 p. 53
56
Ibidem p. 51

102
nonostante quest’indagine sulla banda gli avesse rovinato la vita per più di un
decennio:

Mentre si cambiava per la cena dal Ministro degli Interni, ripensò ai vecchi tempi. Dieci
mesi prima un infarto aveva stroncato il Vecchio. Qualche tempo dopo Scialoja aveva
ricevuto un pacco anonimo. Conteneva i diari del Vecchio. Il biglietto di accompagnamento
diceva: “Buon Gioco!” “Buon Gioco!” sì il Vecchio aveva ragione. Il gioco era infinitamente
più esaltante di ogni altra avventura. Gli era bastato spargere qualche allusione, una distratta
battuta, un ammiccamento opportuno… e chi doveva capire aveva capito. Lui aveva i diari
del Vecchio! Era il depositario della storia segreta della Repubblica! Poteva far saltare
ministri, arrostire sulla graticola insospettabili uomini d’affari, provocare scandali inauditi.
Poteva praticamente tutto. Aveva il potere. Era il potere. Si era diffuso il panico. Scialoja
aveva insinuato rassicurazioni. Si sarebbe fatta pulizia, certo, ma con juicio. C’erano casi
che non potevano essere risolti. Altri che avrebbero solo una verità parziale. La continuità
di intenti non era in discussione, la lealtà istituzionale nemmeno. Gli avevano creduto o
avevano fatto finta di credergli. Non avevano alternative. Lui aveva il potere, lui era il potere.
[…] avrebbe seguito la linea del Vecchio. Restare nell’ombra. In un ufficio periferico,
protetto da una sigla anodina, con un manipolo di tagliagole pronti a scattare al minimo
battito di ciglia. Ah il gioco! il gioco! stringerli tutti tra le dita, essere l’anonimo, indifferente
arbitro dei loro destini. Ma mentre si infilava in ascensore, dopo aver controllato il nodo alla
cravatta, provò una piccola, dolorosa, fitta in fondo al cuore. Una puntura di spillo, niente di
più. Strano. Nel momento del trionfo, da quali, mai oscuri recessi del passato affiorava
questo incomparabile senso di sconfitta?58

Analizzando il finale, Scialoja ha vinto: è riuscito a fare carriera, ora è un


personaggio importante e potente, la banda della Magliana è stata sconfitta, due dei
capi sono morti e il Freddo è diventato un collaboratore di giustizia. Gli altri membri
o sono morti o marciscono in galera. Il poliziotto corrotto è stato sospeso dal servizio
e i due agenti segreti che l’avevano spedito a Modena a passare carte sono svaniti
nel nulla.
In realtà Scialoja ha accettato di essere solo una pedina all’interno di un gioco
molto più grande di lui che non avrebbe mai potuto vincere. E ha capito che per
sopravvivere doveva accettare quelle regole. Avrebbe potuto realizzare quello che

58
G. De Cataldo, op.cit, pp. 624, 625

103
aveva sognato per più di un decennio: non solo arrestare i membri della banda della
Magliana, ma anche svelare chi c’era dietro l’attentato della stazione di Bologna,
dietro le bombe e le stragi. Ma nel momento in cui ha ricevuto i diari ha percorso il
sentiero più semplice realizzando le sue aspirazioni più alte ma sacrificando la sua
integrità. Per questo Scialoja in realtà, ha perso.
Lo stesso destino toccherà a Ryan, che verrà pian piano risucchiato all’interno
dei giochi di potere della Ulster Volunteer Force che gli venderà Victor. Sarà
McClure a cercarlo e a sfruttarlo per far si che gli omicidi che avevano compiuto
avessero una risonanza mediatica e che venissero raccontati per come erano
veramente avvenuti e non più filtrati dalle bugie giornalistiche che fino a quel
momento erano circolate. Sarà Ryan poi, a trovare l’ultima vittima di Victor, Darkie
Larche, uno dei membri dei Resurrection Man. McClure ha tessuto una fitta rete di
finzioni in cui Ryan si è trovato intrappolato e da cui non riuscirà più a trovare una
via d’uscita.

3.3 La morte dei capi

Tra i tanti punti in comune che abbiamo riscontrato tra i due romanzi c’è
anche la morte violenta dei capi della banda. Il racconto della morte del Libanese, di
Dandi e di Victor Kelly può essere assimilato alla celeberrima tragedia greca di Icaro.
Dedalo per sfuggire dal labirinto di Minosse, costruì delle ali con delle penne per lui
e il figlio, Icaro e le attaccò ai corpi con la cera. Malgrado gli avvertimenti del padre
di non volare troppo alto, Icaro si fece prendere dall'ebbrezza del volo e si avvicinò
troppo al sole; il calore fuse la cera, facendolo cadere nel mare dove morì. È la storia
di tutti i capi che abbiamo incontrato nei romanzi: un incredibile parabola ascendente
costellata di successi personali che li ha portati a sentirsi onnipotenti e intoccabili al
punto da perdere sé stessi, la propria identità e come nel caso di Victor Kelly e del
Libanese, che li avrebbe portati alla follia.
Il Libanese aveva preso il vizio del gioco e, nel delirio di onnipotenza che
l’aveva portato a litigare con il Freddo, l’amico di sempre, decide che non vuole
pagare un debito contratto con Nicolino Gemito, uno degli uomini del Terribile che,
dopo la morte del capo, aveva iniziato a orbitare nell’orbita della banda della
Magliana.

104
Alla fine di luglio, al Re di Picche, dove tutto era cominciato la sera che avevano progettato il
sequestro del barone Rosellini, con un tris di assi, lasciò trentatré milioni a Nicolino Gemito. Ma
siccome non gli era piaciuto il sorrisino sfottente con cui l’altro aveva sfoderato la sua scaletta
minima, disse che non l’avrebbe pagato.
-Vabbè Libano, è stata una serata storta… so cose che se dicono…
- No, io proprio non te pago. Né stasera né mai!
Perché lui era il Libanese, il Numero uno. Perché nessun pidocchio come Nicolino Gemito poteva
dirgli che cosa fare e quando farlo […] Perché lui era il Libanese. Lui era il numero uno, lui poteva
tutto. Una sua parola apriva tutte le porte, un suo cenno e i Gemito, le loro puttane, i loro marmocchi
finivano dritti filati all’obitorio.
Se quella sera, dopo lo sfogo, avesse avuto la fortuna di incontrare il Freddo, forse si sarebbe fermato
a pensare. Avrebbe forse persino onorato il debito: se c’era una cosa che a Roma aveva un peso quella
era la parola del Libanese. Ma la brocca dopo tanto tessere le fila, e tirare a lucido i pensieri, e
calcolare i tempi, mosse e azzardi, la brocca gli era proprio partita 59

Il Libanese sottovaluta chi aveva di fronte, si sente intoccabile e al sicuro. Ma


in un ambiente come il suo nessuno è al sicuro e di fronte all’ orgoglio offeso non
c’è nulla che possa frenare una vendetta, neanche il pensiero dell’inevitabile
ritorsione a cui i Gemito sarebbero andati incontro per aver ammazzato il capo della
banda più potente di Roma:

Il Libanese lo seccarono la sera del 15 all’uscita dal bar di Franco. Sparò uno che stava sul
sellino posteriore di una moto rubata. Guidava una donna: avrebbero saputo, dopo, che si
trattava di un uomo con la parrucca. La prima palla gli arrivò alla schiena: uno squarcio di
stellata, l’odore acre di una pozzanghera, e il Libanese capì che era finita. Prima che il colpo
di grazia gli facesse scoppiare la carotide, gli parti una lacrimata che era mezzo dolore e
mezza risata. L’ultima pensata fu per i compagni: che ne sarebbe stato senza di lui? 60

Un altro membro della banda, il Dandi, subirà la stessa sorte anche se nel suo
caso non sarà solo per un delirio di onnipotenza, ma anche perché dopo la morte del
Libanese aveva smesso di mettere il gruppo in primo piano per seguire i suoi affari
personali, andando così a firmare la sua condanna a morte.
Ad ucciderlo sarà il Bufalo che era stato condannato all’ergastolo, dopo che
avevano ammazzato i fratelli Gemito, proprio per colpa del Dandi che era scappato

59
G. De Cataldo, op.cit, p. 243
60
Ibidem, p. 245

105
senza sparare un colpo per difenderlo. La morte del Dandi segna la fine della banda
della Magliana: ormai sono tutti divisi persino sulla decisione dell’omicidio. Sarà il
gruppo che era rimasto più fedele al Libanese a decidere che doveva morire.
Dandi peccherà di superbia nel momento in cui gli altri cercano di avvertirlo del fatto
che il Bufalo lo voglia ammazzare e lui di fronte a tanta preoccupazione si farà una
risata sottovalutando il pericolo, sentendosi ormai superiore al Bufalo che
considerava meno di uno zero.

Alle sette meno un minuto [il Dandi] entrò contromano in via dei Coronari. Fierolocchio
suonò due volte il clacson della Tipo. Dal lato opposto della strada una Honda 750 si avviò
a fari spenti. Guidava il Pischello. Il Conte Ugolino, seduto dietro, prese la mira. Dandi passò
sotto un arco di luce di un’insegna. Quando senti il botto, il Bufalo sorrise appena e si accese
una sigaretta61

Nel caso di Victor non si può parlare solo di delirio di onnipotenza anche se
ne presenta molti tratti, ma di follia vera e propria. Se ne rende conto McClure che
non manca di avvisare Ryan, il giornalista, e di fargli sapere che i capi sono stanchi
della sua follia e voglio ammazzarlo perché, ormai, è totalmente fuori controllo.
Il sintomo della lenta caduta di Victor nella follia è la perdita della conoscenza
istintiva che ha della città. Nei primi capitoli Victor viene ritratto in un processo di
self training in cui uno degli aspetti fondamentali era la conoscenza ossessiva delle
strade della città, andando in giro in macchina a occhi chiusi e ripetendo a voce alta
le strade che stavano attraversando. Sarà l’improvvisa perdita di questa capacità che
segnalerà l’involontario abbandonarsi alla follia del protagonista.62
Sarà McClure a tendergli la trappola sfruttando il punto debole di Victor, l’amore
per sua madre e il suo essere sola ad accudire il padre ormai moribondo

McClure vide l’auto civetta lasciare libero il posto che fu subito occupato dal furgone. Un
Commer blu con portiere scorrevoli. Rilevato dalla lavanderia Lilliput o dalla panetteria e
riverniciato alla meno peggio. Victor non lo notò mentre si chiudeva la porta alle spalle […]
Si accorse che McClure non c’era e che una smorfia da film gli si disegnava in viso, qualcosa
di sbagliato. I suoi occhi scrutarono la strada e capì che era uno sbaglio fatale. Socchiuse gli

61
Ibidem p.610
62
Informazioni riprese da: Laura Pelaschiar, Romanzo del Nord, in Renzo S. Crivelli, a cura di, La
letteratura irlandese contemporanea, Roma, Carocci, 2007, p 97

106
occhi e fissò le tenebre minacciose […] vide tre uomini che saltavano giù dal furgone
Commer, di corsa, con i fucili appoggiati di traverso sul petto. Li vide nascondersi dietro le
auto parcheggiate, sollevare i fucili in posizione di fuoco. Victor non aveva mai pensato che
sarebbe andata così, il tempo se ne va maledettamente in fretta. Estrasse la Browing da sotto
la giacca e cercò un luogo per ripararsi. Ma non c’era niente di adatto allo scopo. Desiderò
che fossero uomini seri abbastanza da gridargli un avvertimento. Desiderò replicare con
parole dense di minaccia e lusinghe. Non mi avrete vivo. Il fuoco dei fucili aveva un piatto
suono industriale. Victor si sentì ributtare contro la porta dalle pallottole. Conosceva la parte.
Sforzarsi di sollevare le pistole. Portarsi le mani al petto e piegarsi in avanti per il dolore.
Sbattè la faccia sul marciapiedi. Non vide uno degli uomini che usciva allo scoperto e lo
raggiungeva e gli metteva un piede sul collo e gli sparava alla testa da dietro con una pistola
a canna corta. Niente parole finalmente l’avevano preso. Niente più sorrisi da gangster, addio
mondo.63

Quella di Victor è la morte tipica del gangster e rispecchia la sua stessa vita
e l’immagine che aveva voluto dare di sé stesso. Di nuovo si ha quella totale
mancanza di empatia e di emozioni che risulta strana considerando che è il
protagonista a morire. Tutto il contrario di quanto avviene quando leggiamo della
morte del Libanese.
Questo distacco emotivo avviene invece con la morte del Dandi, perché ormai questi
è diventato un personaggio fortemente negativo: la sua morte non può toccarci e,
anzi, siamo quasi contenti che finalmente il Bufalo abbia potuto avere la sua
vendetta. Nel caso di Victor non avviene neanche questo: non siamo minimamente
coinvolti e ci limitiamo ad assistere alla sua caduta come se fossimo degli spettatori
casuali.

3.4 I rapporti familiari

La famiglia e i rapporti tra i membri vengono trattati più o meno diffusamente


in molti dei romanzi sul terrorismo: in Resurrection Man, dove ha un ruolo centrale,
in Romanzo Criminale dove viene analizzato il rapporto tra il Freddo e il fratello,
Gigio, e i suoi genitori, in L’Amore degli Insorti di Tassinari dove viene analizzato

63
E. McNamee, op,cit, pp 250- 251

107
il rapporto difficile non solo con i genitori, ma anche il difficile rapporto del terrorista
che diventa padre con i suoi figli e deve conciliare il suo ruolo con un passato
ingombrante da nascondere a ogni costo.
Nel romanzo di Jonathan Coe, The Rotters’ Club troviamo la famiglia come
protezione che cerca di aiutare uno dei suoi membri a recuperare la gioia di vivere
dopo il trauma di aver perso l’amore della vita in un attentato e di aver rischiato la
vita a sua volta.
In Resurrection Man troviamo un padre assente e inadeguato e una madre
segnata da una vita di sofferenze. È un personaggio impenetrabile di cui il narratore
onnisciente sceglie di rispettare questa impenetrabilità.
Il suo essere così silenzioso è una diretta conseguenza dell’avere un’identità ibrida e
problematica. È un protestante che si ritrova ad avere un cognome cattolico e si
ritrova suo malgrado, ad essere una fusione delle due identità dell’Irlanda.
Il silenzio di James è anche una forma di difesa non solo nei confronti del mondo
esterno, ma anche dalla famiglia stessa. Non passa mai del tempo né con sua moglie
né con suo figlio e preferisce trascorrere il suo tempo con i suoi piccioni nella
solitudine della casetta costruita nel giardino sul retro. Non prende parte alla vita del
figlio, non va a fargli visita in prigione, i due non hanno mai dialogo e non si
preoccupa di insegnargli nulla. L’autore non indaga sulle motivazioni di questo
silenzio anche se questa assenza lascerà una traccia evidente nella personalità
disfunzionale del figlio.
Completamente diverso rispetto all’atteggiamento del padre di Victor è
l’atteggiamento di Dorcas Kelly, la madre. Lo ama con tutte le sue forze e, accecata
da questo amore così forte nei confronti del figlio, non riesce a vedere la sua vera
personalità né a ritrovarci alcun tipo di cattiveria o malvagità: per Victor la madre
rappresenta l’unica persona per cui prova un amore incondizionato.
Dorcas rimane convinta fino alla fine dell’innocenza del figlio e anche negli ultimi
anni penserà che tutto quello che lui voleva era essere “un membro maturo della
società, fedele alla corona e devoto a sua madre64”.
È anche la prima a capire che anche suo marito soffriva di una forma di follia, che
aveva le stesse radici di quella che affliggeva il figlio, ma che nel padre si era

64
E. McNamee, op, cit, p 181.

108
declinata in una forma diversa. Quando Victor uscirà di prigione, ritroverà in lui
quell’essere taciturno che lo avvicinerà così tanto al padre.

Furono giorni di preoccupazione per Dorcas quando Victor fu rilasciato. Era cambiato, e
molto, ma soprattutto c’era in lui una tranquillità che ricordava suo padre James, e una
cattiveria nuova nel carattere65

Il padre, invece, si rende immediatamente conto che il responsabile degli


omicidi al coltello è Victor e cercherà in qualche modo di farlo capire anche a
Dorcas. Quando Victor, appena uscito dal campo di detenzione, riprenderà a
compiere gli omicidi inizia a ritagliare gli articoli di giornale che parlavano degli
omicidi. James inizia a studiarli con attenzione, sottolinea anche dei nomi e inizia a
mettere dei punti di domanda in alcuni punti e, finito di studiarli, li metterà tutti in
una scatola per nasconderli.

Fu più o meno in quel periodo che James cominciò a leggerle gli articoli che parlavano degli
uomini uccisi con coltello. Lo faceva per spaventarla. Aggiungeva dettagli di sua invenzione
per farle saltare il cuore tra i denti. Se ne stava seduto accanto al fuoco e tutto a un tratto
cominciava a leggere con la voce di un predicatore che dice che per quanta paura tu abbia
non ne hai mai abbastanza. La faceva impazzire. Quando aveva finito la fissava con uno
sguardo che diceva sei contenta adesso?66

La madre, in un certo senso, giustifica le azioni di Victor mettendo avanti la


difficile situazione e il senso di insicurezza che i protestanti stavano affrontando in
quegli anni a Belfast:

Qualche volta di notte sentiva un rumore all’esterno della casa e la paura l’afferrava come
una crisi epilettica. I telegiornali erano una triste giaculatoria di gente a cui avevano sparato
sul posto di lavoro o che era saltata in aria per una bomba. Il governo rifiutava di proteggere
i protestanti e l’IRA teneva i fucili puntati sugli indifesi. Inutile cercare conforto in James
perché le poche parole che diceva erano peggio del silenzio. Se Victor era coinvolto nella
protezione dei protestanti, lei non aveva obiezioni, ma qualche volta l’ansia le causava un
dolore che assomigliava a un’accusa67

65
Ibidem, p. 158
66
Ibidem p. 159
67
Ibidem p. 158

109
Dorcas ascolta il tono e le parole piene di fanatismo religioso del marito e qui
si può rilevare un’altra somiglianza tra padre e figlio, ovvero la somiglianza nel
linguaggio: quello del fanatismo, con la stessa voce, una voce piena di immagini
violente, di coltelli, vittime e morti terribili. L’odio tra padre e figlio non viene
esplicitato e i confronti tra di loro non vengono raccontati. Esplode in maniera
dolorosa solo verso la fine, in una scena descritta come se fosse un incontro da Far
West a cui la madre può solo assistere con dolore. Qui troviamo in un paio di pagine
tutto il loro rapporto famigliare, con la madre accecata dall’amore per Victor e il
padre che riesce solo a urlare, senza dire una parola contro il figlio e contro tutti i
crimini che ha deciso di compiere:

Non aveva mai visto un’espressione uguale a quella di Victor mentre fissava suo padre. Era
uno sguardo di odio assoluto per il male che quell’uomo aveva fatto alla sua famiglia.
Scorgeva il tormento del figlio nelle rughe profonde e nelle occhiaie marcate. James gli
stava di fronte con un’espressione uguale. […] Alla fine, Victor si era alzato in piedi come
una creatura priva di peso e si era diretto verso la porta senza dire una parola. Trascinava il
corpo rigido come se gli facesse male e lei si sentiva gli occhi pieni di lacrime pronte a
rotolare giù mentre lui si richiudeva la porta alle spalle. […] James si era alzato in piedi
emettendo un urlo così spaventoso da gelarla li dove si trovata. In seguito, l’aveva fatta
vergognare che un uomo potesse dar voce a un urlo così selvaggio, inimmaginabile perfino
per una donna. Un uomo che, da quando era nato stentava a mettere insieme due parole. Lui
che le rivolge uno sguardo disperato e dice cos’ho fatto di male e lei che non muove un osso
che è un osso per andare a consolarlo. Sapeva che se Victor avesse visto prima lei quella
sera avrebbe trovato conforto e non quello sguardo aspro che straziava il cuore.68

Victor prova emozioni reali, umane solo quando ha a fianco la madre mentre
quando non la trova in casa si sente perso: i dettagli che denotano la sua assenza,
come una borsa della spesa, gli creano dolore e un senso di profonda solitudine e di
perdita, quasi come se ci fosse una regressione a un livello infantile. Solo in questo
rapporto lo vediamo provare delle emozioni autentiche che non ha né nei confronti
dei suoi amici né nei confronti della sua ragazza.

68
Ibidem, pp.204, 205

110
Dal gancio dietro la porta mancava la borsa della spesa di sua madre. Pensarla mentre camminava tra
le bancarelle dello Smithfield Market bastò a fargli spuntare una lacrima. […]
- Tua madre non c’è
La frase suonò come un definitivo ripudio di Victor che era rimasto sulla porta della cucina, con gli
occhi arrossati, stralunato, nervoso69

Alcuni giorni dopo lo scontro, il padre di Victor viene colpito da un malore


che lo lascia completamente paralizzato. Come per Victor, ormai la discesa nella
follia è inarrestabile, così per James la discesa nel silenzio è adesso permanente e
irreversibile. Dorcas tenta senza successo di trovare Victor, che si sta nascondendo
dalla polizia, per dargli la notizia. Va anche al Pot Luck e lascia il compito di dargli
la notizia a Billy McClure, che la rassicura sulla condizione di Victor e in seguito va
a prenderlo al suo nascondiglio. Si rivelerà, poi, una trappola: infatti McClure aveva
già dato ai killer la disposizione di aspettarli davanti a casa della madre di Victor.
Quindi usa tutta la sua dialettica per convincerlo ad andare, fingendo un interesse
che in realtà non prova.
La conversazione tra i due rivela per l’ennesima volta nel romanzo quanto il
rapporto tra Victor e il padre sia totalmente deteriorato. Al punto che nemmeno la
notizia della sua malattia lo porta a provare qualcosa di lontanamente simile a un
sentimento:

-Tuo padre ha avuto un colpo, è malmesso. Non può né muoversi né niente. L’avevano portato al
Royal Hospital, ma adesso è a casa
-Stammi a sentire- disse Victor, voltandosi a guardare McClure bene in faccia, - vedi una lacrima nei
miei occhi?
- Maledizione, Victor il sangue non è acqua. E poi tua madre dà fuori di matto. Riconosco che le
famiglie sono un peso, ma non mi dirai che intendi startene qui a impasticcarti, mentre tua madre è
fuori di se dalla preoccupazione
-non c’è posto per i traditori. È un buono a nulla. Ci sono uomini che pagano con la vita, lui
è immerso nella merda di piccione fino al collo.70

L’ultimo incontro tra padre e figlio si rivelerà estremamente importante


perché Victor riuscirà, anche se solo nella sua immaginazione, a compiere l’unico
omicidio che avrebbe voluto veramente compiere.

69
Ibidem p. 183
70
Ibidem pp. 241-242

111
Quando arriva a casa di sua madre la trova che sta per rasare il marito e Victor
si offre di farlo al posto suo mentre lei prepara la cena. Il momento della rasatura è
descritto nei minimi dettagli e, in questo senso, è l’unica volta in cui sia descritto
minuziosamente l’utilizzo del coltello da parte di Victor nel momento esatto in cui
lo sta usando (nei capitoli precedenti le descrizioni degli omicidi venivano sempre
fatte da altri).
James è consapevole di cosa Victor sia capace di fare e vive questa scena con
il terrore. Vediamo Victor che controlla l’affilatura della lama, che la immerge nella
ciotola con l’acqua e che sfiora l’attaccatura del collo, la carotide. Non ucciderà il
padre, ma è come se nella sua mente l’avesse effettivamente ucciso e questo per lui
è sufficiente per soddisfare la sua volontà più profonda.71
Nel romanzo di Tassinari ritroviamo questa figura del padre totalmente disinteressato
ai figli e alla famiglia, ma in questo caso vengono ampiamente dibattute le
motivazioni di questo distacco.
Il romanzo si presenta come un lungo monologo interiore: viviamo nella testa del
protagonista e seguiamo per tutto il romanzo il suo flusso di pensieri, di conseguenza,
conosciamo molte più cose dei protagonisti della vicenda.

Sono qui di sfuggita, in una casa che non mi appartiene, trainato dalla curiosità di conoscere
il mio prossimo futuro, senza provare alcun desiderio di viverlo. Intorno noto solo corpi
estranei e oggetti troppo consueti per far sì che si ritorcano contro di me: il computer di
Ernesto, un paio di scarpe da tennis di Giulia, una giacca primaverile di Rita, abbandonata
da mesi sull’attaccapanni dell’ingresso come se fosse una scultura. Il fatto è che io non ho
più bisogno di loro. Ecco perché non provo niente nello sfogliare un catalogo di sensazioni
che anche io ho contribuito a costruire. Pagina dopo pagina, osservo con indifferenza le foto
dei miei figli da piccoli, i loro disegni infantili, i diplomi originali delle scuole medie, la
chitarra regalata a Giulia, una vecchia letterina di Ernesto inviata a Babbo Natale […] perché
non mi sento un mostro, adesso, nell’aver voglia di buttare tutto all’aria? 72

Da parte di Emilio Calvesi c’è un distacco emotivo e fisico dalla famiglia


che, come per James Kelly, è un distacco difensivo dettato dalla paura che si possa
scoprire chi è stato veramente. Dopo l’arrivo di una lettera da parte di Sonia in cui

71
Da: L. Pelaschiar, op.cit
72
Stefano Tassinari, op,cit, pp. 131-132

112
l’accusava per ciò che era stato nel passato, Emilio ha una crisi quasi di panico per
il terrore che le persone che ha intorno possano scoprire chi sia stato veramente:

Nel giro di una settimana ho perso la voglia di lavorare, di vedere gli amici, di uscire per
strada e di stare con la mia famiglia. Mica male per uno che si era rifatto una vita73

Vediamo in lui una contraddizione interna tra la volontà di nascondere alla


famiglia ciò che aveva fatto in passato e chi era stato veramente come se si
vergognasse, mentre allo stesso tempo, compie una lunga apologia della lotta armata,
difendendo sé stesso e i suoi ex compagni, criticando chi aveva denunciato e chi, pur
non avendo partecipato alla lotta armata, critica chi aveva compiuto gli omicidi.
Come Victor, Emilio compie un distacco totale da amici, fidanzata, ma nel
suo caso anche dai genitori, rivelando a sua volta un rapporto conflittuale che si
conclude con l’allontanamento dalla famiglia di origine.
La rottura con il padre avviene per motivazioni politiche: mentre Emilio è
dichiaratamente comunista e si avvicina presto alle frange estremiste della sinistra
extraparlamentare, il padre ci viene descritto come “un alto ufficiale dell’esercito,
con dichiarate simpatie golpiste e molti amici nei peggiori settori delle forze
armate”74. La rottura definitiva con il padre si consuma una sera, poco tempo dopo
il fallito colpo di stato, quando vede il padre brindare ad Augusto Pinochet che aveva
appena rovesciato il governo democraticamente eletto di Salvador Allende.
Emilio Calvesi sembra un uomo incapace, ancora più di Victor, di creare legami con
chiunque. La fuga da casa, l’interruzione dei rapporti con i genitori viene descritta
quasi con orgoglio. C’è la volontà del distacco, e di avere la totale autonomia:
condizione ritenuta necessaria per dedicarsi anima e corpo alla lotta armata.
Nel finale il protagonista si ritrova a dover nuovamente rinegoziare la sua
identità di padre, quando si trova di fronte Sonia, l’autrice delle lettere, che si scoprirà
essere figlia sua e di Alba, quella che negli anni ’70 era stata la sua fidanzata e che
non aveva mai dimenticato, nonostante fossero passati così tanti anni.

73
Ibidem p. 51
74
Ibidem p. 63

113
L’attitudine di Emilio non cambia e nonostante la scoperta di avere una figlia da una
donna che aveva amato molto, riemerge la sua volontà di distaccarsi da lei: “ho
appena ritrovato una figlia e ho solo voglia di rimanere da solo”75.
Da parte della figlia viene fuori una maturità che ad Emilio non appartiene e
che lo porterà a rendersi conto della sua inadeguatezza nel riuscire non solo ad essere
un buon padre, ma anche nel riuscire ad integrarsi nel presente.
La convinzione di essere riuscito a rifarsi una vita è stata solo un’illusione ed è stata
la comparsa di questa figlia, che rappresenta il collegamento più tangibile e fisico
col suo passato, a permettergli di acquisire questa consapevolezza.

La sua maturità mi spaventa, così come la mia inadeguatezza. Non so come


comportarmi. Una figlia di solito si saluta con un abbraccio o con un bacio, ma a me sembra
di non averne diritto. E poi è tutto molto strano perché davanti a me, in fondo, c’è una
sconosciuta. Ancora una volta è Sonia a togliermi dall’imbarazzo, e lo fa baciandomi su una
guancia e sussurrandomi una parola che suona tanto di ruoli ribaltati:” Riguardati”
La vedo andare via e m’incammino nella direzione opposta. Ho la maglietta
appiccicata alla pelle e questo aumenta il mio disagio. Il disagio di un uomo precario, infilato
a forza in una modernità senza profilo e incapace di camminare in sintonia con gli anni […]
va tutto troppo in fretta, o forse sono io a rallentare il mio percorso… 76

In Romanzo Criminale i rapporti famigliari vengono trattati marginalmente,


non sono centrali come negli altri due romanzi, ma sono comunque presenti
nell’universo vastissimo dei personaggi che popolano il romanzo. Viene descritto
soprattutto il rapporto tra Il Freddo, il fratello, Gigio, e i suoi genitori. Non ci sono
molti dettagli espliciti sul rapporto con i genitori, con cui il Freddo non ha contatti,
ma ci viene narrato dell’amore che aveva per il fratello e degli sforzi per cercare di
tenerlo lontano dalla strada e fargli avere delle prospettive di vita migliori.
Gigio ci viene descritto come un ragazzo segnato da una poliomielite che gli aveva
lasciato degli strascichi sia a livello fisico che mentale. Ci viene detto fin dalle prime
righe che i due fratelli hanno vissuto con un padre violento e infatti, il Freddo,
vedendolo fuori di casa gli chiede subito se fosse rimasto fuori perché il padre lo
aveva picchiato di nuovo. Gigio, nonostante gli sforzi del Freddo di fargli avere una

75
Ibidem p. 170
76
Ibidem p. 170-171

114
vita normale, vuole lavorare con il fratello, guadagnare dei soldi e andarsene anche
lui da casa.
Si consumerà una rottura anche tra di loro perché nonostante il loro rapporto
e il legame da cui sono uniti, litigheranno dopo che il Freddo si innamorerà della
ragazza di Gigio e gliela porterà via. Il fratello a quel punto inizia a frequentare dei
brutti giri e inizierà ad essere sempre più dipendente dall’eroina.
Il Freddo si sentirà sempre responsabile per questo e per lenire i sensi di colpa
e salvare la vita al fratello impedirà agli spacciatori di vendergli l’eroina.
Nonostante il divieto di vendergli la droga uno spacciatore troverà Gigio in overdose
e lo porterà in ospedale dove si consuma il primo incontro tra il Freddo e i genitori,
mentre il fratello lotta tra la vita e la morte.
Tra padre e figlio ritroviamo quel silenzio e quella lontananza che abbiamo
riscontrato anche tra Victor Kelly e suo padre e, inaspettatamente, lo vediamo
provare un profondo affetto per sua madre, di cui non era mai stata fatto menzione
fino a quel momento

La donna gli si gettò tra le braccia, il Freddo l’abbracciò forte. Lei cominciò a singhiozzare.
Il Freddo avrebbe voluto consolarla… avrebbe voluto77

Allo stesso tempo, sono passati ormai troppi anni di silenzio tra di loro e
ormai non sono più una famiglia, ma poco più che conoscenti ed è difficile aiutarsi
in un momento così difficile e doloroso.
Alla fine, nonostante tutti i tentativi fatti dal Freddo per tenerlo lontano dalla
strada e dalla vita criminale, anche Gigio finirà vittima di una vendetta e verrà
ammazzato da Sergio Buffoni, il fratello di Aldo, per vendicare la morte del fratello
ammazzato per mano del Freddo.
Questa sarà l’ennesima conferma che non si può sfuggire alla propria sorte e
il Freddo deciderà di mettere fine alla sua carriera criminale una volta per tutte. Porrà
fine alla sua latitanza e tornerà in Italia per diventare un collaboratore di giustizia.

7777
G. de Cataldo, op.cit, p.401

115
3.4 Raccontare gli anni ‘70

L’amore degli insorti e The Rotters’ Club possono essere considerati due dei
romanzi più rappresentativi sugli anni ’70 e allo stesso tempo, sono stati capaci di
innescare un ragionamento su alcuni degli episodi più controversi di quel periodo
come la lotta armata, il terrorismo e le proteste dei lavoratori narrati e analizzati in
entrambi i romanzi.
I due romanzi presentano una struttura simile in quanto si costruiscono su due
livelli narrativi: uno ambientato nei primi anni Duemila, il secondo negli anni ’70.
Nel romanzo di Tassinari i due piani si alternano in maniera molto regolare, mentre
in The Rotters’ Club il primo livello narrativo funge solo da cornice a quello
ambientato negli anni ’70.
In entrambi i romanzi vediamo la generazione successiva a quella dei
genitori che si appassionano alla storia: nel caso di Sonia, per la volontà di ritrovare
un padre perduto, mentre nel caso di The Rotters’ Club sono i figli che si raccontano
la storia dei propri genitori. In questo si vede come la costruzione di una memoria
storica degli anni ’70 sia uno sforzo collettivo e non individuale: si può raccontare
l’intera storia solo quando vi è un contributo da tutte le persone più o meno informate
dei fatti.
In L’amore degli insorti, ritroviamo questa collaborazione nell’incontro tra
Emilio Calvesi e la figlia, Sonia che gli dirà:

“Ce ne hai messo di tempo a farti vivo! Ciao, io sono Sonia, la tua persecutrice.”
“E io sono Paolo, anche se questo lo sai già.”
“È una delle cose che so. Il resto lo devi aggiungere tu.” 78

Allo stesso modo in The Rotters’ Club, Sophie e Patrick, figli di genitori che
hanno vissuto in prima persona gli anni Settanta, confidano nell’aiuto reciproco per
ricostruire la storia dei loro genitori alla loro età e, di conseguenza, anche gli
avvenimenti storici più importanti degli anni ‘70

78
S. Tassinari, op.cit, p.161

116
“Sai, io questa storia te la posso anche raccontare, ma potrebbe deluderti. Non ha una
vera fine. Si interrompe e basta. Non lo so come finisce.
“Magari lo so io”
“Me lo dirai? “
“Certo che sì” 79

In questi due romanzi può essere rintracciata una delle modalità di


trasmissione della memoria storica: in L’amore degli insorti, un padre, Paolo, deve
fornire a Sonia, una figlia, i tasselli mancanti per ricostruire un periodo al quale
questa non ha potuto assistere. Sonia, infatti, si è documentata su quel periodo storico
ma senza consultare fonti dirette, come sarà il racconto del padre o come avrebbe
potuto esserlo quello della madre. Infatti, Sonia dichiara:

«In questi anni ho letto libri e visto filmati, insomma, mi sono documentata sull’epoca in cui
quelli come te avevano la mia stessa età di oggi»
con l’intenzione di «sapere che cosa si provava a sparare a freddo a una persona inerme, o
a rompere la testa a un nemico politico a colpi di chiave inglese» 80

Prima di parlarne e di confrontarsi con il padre, Sonia considerava i membri


delle bande armate dei fanatici e dei pazzi, ma dopo il confronto in cui il padre le
spiega il contesto storico in cui quelle azioni sono avvenute, la figlia arriverà a
comprenderne meglio le ragioni, seppure senza condividerle

“Può darsi che tra di noi ci fosse qualche mostro, o qualche pazzo fanatico, ma ti garantisco che la
maggior parte era mossa da motivazioni ben diverse. Non puoi ragionare come se tutto ciò stesse
avvenendo adesso, in questo clima di pacificazione nazionale e di azzeramento della memoria
collettiva…
Se un evento lo si toglie dal contesto storico in cui è maturato si finisce con l’attribuirgli un significato
differente, e di sicuro con il giudicarlo con un altro metro di misura. Sta capitando anche per certi
episodi successi subito dopo la Resistenza, strumentalizzati da chi vuole gettare fango sull’intera lotta
di liberazione e sui partigiani: è chiaro che, se si guarda il fatto in sé, la fucilazione di qualcuno senza
processo e in tempo di pace ci pare un atto di crudeltà, ma questo avviene oggi a distanza di
sessant’anni, e avendo rimosso le ragioni capaci di generare un odio così intenso da provocare gesti
tanto violenti. Per noi si è verificata la stessa cosa e oggi, un quarto di secolo dopo, di quella stagione

79
J. Coe, La banda dei brocchi, Feltrinelli, Milano, p.9
80
S.Tassinari, op. cit, p. 165

117
affiorano solo le immagini drammatiche, i corpi senza vita stesi per terra, il pianto dei parenti, la
rabbia degli amici. Di tutto il resto, di ciò che in fondo ci ha armato la mano, non c’è più traccia.” 81

Nel corso di tutta la narrazione Emilio Calvesi si lancia anche in invettive


contro chi, pur non avendo partecipato alla lotta armata o pur essendo stato un
combattente ha in seguito parlato della lotta armata in termini negativi, rinnegandone
le motivazioni che le aveva scatenate e i risultati raggiunti. Questo è uno degli aspetti
che accompagnano tutte le trasmissioni di memoria storica e che, impediscono non
solo una riflessione, ma anche un giudizio imparziale su ciò che è stato:

non è mai stato un problema di coraggio, e neanche di follia, se è per questo. Era
convinzione, anche se adesso può sembrare strano, se si pensa a tutti quelli che, qualche
anno dopo, si sono cosparsi il capo di cenere giurando di avere solo giocato. Ogni tanto ne
intravedo qualcuno alla televisione, seduto con aria finto svogliata tra maghi e giovani attrici.
Le prime volte mi incazzavo, poi ho imparato a fregarmene di quel loro sputtanarci sera dopo
sera raccontando storie di cui hanno solo sentito parlare. Vuotano un sacco che non hanno
mai riempito e lo fanno soltanto per occupare la scena, finendo pure col rubarci il passato82

Nel caso di Jonathan Coe, due figli, grazie al racconto dei padri e delle madri,
possono aiutarsi a vicenda a ricostruire una stagione che altrimenti rimarrebbe loro
ignota.

“Torniamo a un paese che forse non riconosceremmo. L’Inghilterra del 1973”


“Secondo te era così diverso?”
“Completamente diversa. Pensaci. Un mondo senza cellulari, MTV, la Playstation,
nemmeno il fax! Un mondo che non ha mai sentito parlare della principessa Diana o
di Tony Blair, non ha mai pensato neanche per un attimo di andare a combattere in
Kosovo o in Iraq. A quei tempi in tv c’erano solo tre canali, Patrick, tre! E i sindacati
erano tanto potenti che se volevano potevano bloccarne uno per una serata intera. A
volte la gente doveva fare a meno dell’elettricità. Immagina!83

81
Ibidem p.166
82
Ibidem p,21
83
J. Coe, op.cit, p.9

118
Entrambi i romanzi sono stati pubblicati intorno ai primi anni Duemila, di
conseguenza la possibilità che venissero letti da lettori giovani, nati dopo gli anni
’70 o che ai tempi erano troppo piccoli per ricordarli, fa sì che il passaggio di
conoscenza che avviene tra padri e figli all’interno delle due narrazioni in un certo
qual modo richiami quello che parallelamente avviene tra il narratore e lettore nella
realtà, portando così i romanzi ad assolvere a un compito didattico che, soprattutto
in Italia, dovrebbe adempiere la scuola, ma che nei fatti non avviene
La peculiarità dei romanzi di Tassinari e Coe è quella di costruire delle
narrazioni a partire dalle informazioni contenute negli archivi, anche se i due autori
raccontano di un decennio troppo vicino ai giorni nostri perché vi possa essere su di
esso una produzione storiografica condivisa e con un archivio che ogni anno accoglie
al suo interno nuovi saggi, nuovi romanzi e nuove testimonianze.
L’aspetto più problematico del caso preso in esame è costituito proprio da
queste ultime, ovvero dalle testimonianze, soprattutto nel momento in cui si tratta il
tema della violenza e del suo legame con la giustizia. Molti personaggi sono ancora
in vita e avendo vissuto in prima persona quegli anni e in alcuni casi, averne patito
le conseguenze, ha comportato una produzione di saggi e scritti inevitabilmente
influenzate dalle opinioni di chi scrive, perdendo l’oggettività necessaria per avviare
una riflessione costruttiva sugli anni ’70 e sul terrorismo.
Per comprendere al meglio quanto è stato appena detto sarà utile riportare
due esempi relativi alla realtà italiana: nel primo caso è necessario fare riferimento a
Poliziotto senza pistola di Achille Serra, agente di polizia durante gli anni Settanta e
autore di un libro all’interno del quale viene offerta una ricostruzione degli
accadimenti di quel decennio. In un primo momento Serra, in riferimento alla morte
di Pinelli, afferma che la verità su cosa sia successo nel corso degli interrogatori è
ancora avvolto dal mistero, ma, poche pagine dopo, fornisce una versione dei fatti
che ricalca quella che era stata fornita dalla polizia nei giorni successivi alla morte
di Pinelli.
Questo lascia intuire come una testimonianza, seppure autobiografica, ma
proveniente dall’interno dell’istituzione di polizia che vede la riservatezza e il
segreto come due dei suoi attributi fondamentali, presenti numerosi aspetti
problematici.
Lo stesso discorso, ed è il secondo esempio, può essere fatto per la situazione
opposta, ovvero quando a parlare sono i pentiti della lotta armata o i latitanti

119
all’estero: nel primo caso, infatti, la veridicità della testimonianza può essere corrotta
dal beneficio che il pentito otterrà in cambio della propria ricostruzione; nel secondo,
invece, ed è una situazione che ritorna spesso nel romanzo di Tassinari, il latitante
non potrà di certo comunicare una versione completa dei fatti, per evitare che i
compagni o egli stesso, a quasi quarant’anni di distanza, possano trovarsi di fronte a
problemi con la giustizia.
Anche dal punto di vista delle testimonianze, L’amore degli insorti e The Rotters’
Club si distinguono rispetto ai numerosi romanzi presenti sul mercato e che hanno
come argomento gli anni Settanta: sia Tassinari che Coe hanno sì vissuto in prima
persona quel periodo, ma all’interno delle loro opere decidono con modalità
leggermente diverse l’uno dall’altro, di non influenzare l’opera con dati
autobiografici e di affrontare con gli strumenti della letteratura alcuni aspetti
controversi di quel decennio; per Tassinari e Coe scrivere di quel periodo non vuol
dire solo guardare criticamente alla realtà politica degli anni Settanta, ma ripensare
quel periodo addirittura attraverso gli occhi di un altro.
Nel caso di Tassinari, per esempio, il personaggio protagonista, contrariamente
all’autore, decide di aderire alla lotta armata e in diversi brani del romanzo di questa
scelta spiega quali fossero le ragioni che potevano spingere un giovane dell’epoca
ad aderire alla protesta violenta.
Lo scrittore non muove critiche dirette al personaggio, lo farà fare ad altri,
Alba in primis, ma gli darà anche la possibilità di giustificare le sue scelte. Tassinari
in questo modo fa sì che sia il lettore a decidere da che parte stare.
La scelta narrativa compiuta da Tassinari si rivela utile su più fronti: in primo
luogo, dando la parola a un latitante, lo scrittore permette di inserire nel dibattito
sugli anni Settanta una voce che, per i motivi citati in precedenza, non viene
considerata attendibile. È proprio Paolo, per esempio, nel momento in cui pensa ai
motivi per cui Sonia lo vuole incontrare, a permetterci di capire la condizione di
precarietà esistenziale che la vita da latitante comporta. Egli, infatti, riflette:

Che ne sa lei di quello che mi porto dentro? Degli anni passati a camminare a testa bassa per
non incrociare gli sguardi di qualche vecchio amico, di quelli che si incontrano per caso
quando meno te l’aspetti? Delle storie inventate per riempire i vuoti temporali della mia
vita?84

84
Ibidem p.13

120
Nel caso di Coe l’espediente utilizzato da Tassinari viene spinto ancora più
oltre, verso le sue possibilità estreme: The Rotters’ Club, infatti, è un romanzo corale
e dialogico, all’interno del quale vediamo rappresentata la classe operaia inglese, i
sindacati e le loro lotte e vediamo l’autore ripercorrere la sua adolescenza da studente
del King William, da lui veramente frequentata.
Viene anche raccontata la questione irlandese vista dalla prospettiva inglese
e Coe ci racconta tutti i pregiudizi e l’odio che molti inglesi avevano nei confronti di
ciò che stava succedendo in Irlanda e di cui venivano ritenuti responsabili tutti gli
irlandesi cattolici senza eccezioni:

“Ieri a Manchester i bastardi dell’IRA hanno ammazzato 12 persone su un autobus,


rifiutatevi di lavorare con i bastardi assassini irlandesi” il volantino era l’ultima esternazione
della sedicente Association of British People, un gruppuscolo di estrema destra ancora più
sgangherato del National Front. Secondo Bill il loro materiale era patetico, ed era tentato di
cestinare tutto senza pensarci due volte 85

Pur essendo ambientato in Inghilterra, ritroviamo nel romanzo le


conseguenze nefaste della lotta dell’IRA, gli attentati e l’odio dei protestanti per
questa violenza a cui rispondono con altrettanto odio, arrivando a auspicare la
ghettizzazione degli irlandesi presenti nel paese.
Nel giornalino della scuola viene pubblicata sempre una lettera, sotto falso
nome, di un sedicente Arthur Pusey-Hamilton descritto come un aristocratico
conservatore. Il personaggio è ovviamente falso (dietro c’è uno studente del King
Williams) e le lettere presentano sempre delle riflessioni ciniche e razziste contro
tutto ciò che non è bianco, inglese e protestante.
Il personaggio è falso e il tono stesso delle lettere rasenta il ridicolo,
espediente che porterà a non prenderle sul serio anche se molte lettere riflettevano
davvero le posizioni degli inglesi conservatori che, attraverso queste lettere, vengono
costantemente ridicolizzate.
Una lettera scritta a proposito della questione irlandese riflette abbastanza
fedelmente (seppur con alcune esagerazioni) le posizioni che avevano molti inglesi
sulla situazione dell’Irlanda:

85
J. Coe op,cit, p.43

121
Non si rende conto Mr Anderton che in Irlanda stiamo combattendo una guerra in difesa dei
legittimi interessi inglesi? Date le circostanze grava su ciascun cittadino inglese benpensante
l’onere di sostenere il governo in questa campagna contro le forze sediziose schierate contro
di noi dall’altra parte del mare d’Irlanda.86

A questa premessa segue poi, il racconto quasi delirante, di come abbiamo


replicato nei confronti del vicino, descritto come un insieme di stereotipi che gli
inglesi avevano sugli irlandesi, le stesse procedure che l’esercito inglese stava
applicando nell’Irlanda del Nord
Di fronte a questi sentimenti così fortemente negativi, troviamo anche
l’innocenza di adolescenti che ancora non hanno i mezzi per decodificare quello che
stava succedendo in Europa e nel mondo e che riescono solo a domandarsene i
motivi:

“E comunque, perché Berlino è divisa?” domandò Philip “Me lo sono sempre domandato.”
“Non lo so… Credo che ci sia un fiume che ci passa in mezzo. Come il Tamigi. Suppongo
sia il Danubio o qualcosa del genere.
“Credo che c’entri la Guerra Fredda”
“Forse”
“Sì ma cos’è la Guerra Fredda?”
“Beh” disse Benjamin, sforzandosi di mostrare un po’ d’interesse per l’argomento, “A
Berlino fa molto freddo, no?”
“Sì, ma pensavo c’entrassero l’America e la Russia”
“Beh, di sicuro in Russia fa freddo, lo sanno tutti”
“E poi cos’è sto Watergate? Cosa avrebbe fatto il presidente Nixon?”
“Non lo so”
“Perché la benzina costa così tanto?
Benjamin si strinse nelle spalle.
“Perché l’IRA va in giro ad ammazzare tutti?”
“Forse perché sono cattolici?”
Philip sospirò e cominciò a passeggiare per la stanza per niente contento della loro
padronanza dell’attualità. “Non ne sappiamo molto del mondo eh?” “E allora? Che importa?

86
Ibidem, p.225

122
Philip riflettè sulla domanda ma non riuscì a trovare una risposta87

Nonostante venga, seppur in maniera abbastanza marginale, trattata la


questione irlandese, manca, in un romanzo in cui viene raccontata la vita di tantissimi
personaggi, un personaggio irlandese che abbia un ruolo di rilievo nel racconto.
Questa assenza è un’assenza intenzionale che sembra voler simbolizzare il silenzio
in Inghilterra attorno alla vicenda processuale dei Birmingham Six.
L’unica figura riconducibile alla comunità irlandese di Birmingham, infatti, è quella
di Jim Corrigan, un personaggio al quale all’interno del romanzo non è accordata
nessuna battuta e la cui presenza nella narrazione è giustificata unicamente dalla
morte prematura avvenuta per un incidente sul lavoro.

Jim Corrigan, un operaio irlandese di soli 23 anni, addetto alla manutenzione, stava cercando
di spostare, da un’officina all’altra, un macchinario del peso di quasi una tonnellata, usando
un carrello costruito appositamente per quello scopo. Secondo la ricostruzione
dell’incidente, una delle ruote del carrello è rimasta incastrata in una fessura del pavimento
di cemento, e allora Corrigan ha usato un martinetto per sollevare il carico che però si è
sbilanciato e gli è caduto addosso uccidendolo sul colpo.88

Coe, imitando lo stile cronachistico dei giornali, descrive la scomparsa del


giovane: a una prima lettura, soprattutto considerando lo spazio dedicato in The
Rotters’ Club alla rappresentazione del mondo operaio britannico, questo brano
potrebbe indurre ad effettuare delle considerazioni relative alle condizioni di lavoro
precarie dei migranti all’interno delle fabbriche inglesi.
Analizzando quanto viene narrato in The Closed Circle, il romanzo di Coe
ambientato negli anni Novanta e nel quale si riprendono le vicende di molti dei
protagonisti di The Rotters’ Club, tuttavia, ad emergere è un’interpretazione di
questo evento ancora più inquietante. Quella di Jim Corrigan, infatti, non è una
cosiddetta “morte bianca”, ma il frutto di un omicidio premeditato a sfondo razziale.
Coe, infatti, racconta:

87
Ibidem, pp. 63, 64
88
Ibidem p 200

123
Ti ricordi le bombe ai pub di Birmingham? Quando l’Ira fece esplodere quei
due pub in centro pieni di gente? Bhe, c’era una brutta atmosfera dopo. […] un forte
sentimento anti-irlandese […] beh sarà stata una settimana dopo più o meno, quando
hanno rapito una persona. Non volevano solo picchiarlo a sangue, quei tipi.
Volevano ucciderlo. Ed è quello che hanno fatto […] Sono stati molto bravi nel farlo
sembrare un incidente89

In Romanzo Criminale ritroviamo una strategia narrativa simile a questi due


romanzi: il prologo viene ambientato a Roma, al tempo della stesura del romanzo
(nei primi anni duemila) e ritroviamo il Bufalo, uno dei pochi personaggi della banda
ancora in vita, ormai anziano, mentre viene picchiato e derubato da due ragazzini.
In questo vediamo chiaramente come i più giovani siano poco preparati sulla
storia del loro paese al punto da non sapere che stanno picchiando non un uomo
anziano qualsiasi, ma uno dei membri più feroci di una delle bande criminali più
famose degli anni ’70 e ‘80
Lo stesso Bufalo tra sé e sé dirà amaramente:

Pensò che qualche anno prima, solo a sentire il suo nome, si sarebbero sparati da soli,
piuttosto che affrontare la sua vendetta. Qualche anno prima. Quando i tempi non erano
ancora cambiati […] “Io stavo col Libanese” mormorò quasi incredulo, come se si fosse
impossessato della memoria di un altro90

Ma i tempi sono cambiati e l’Italia che si trova davanti non è quella in cui la
Banda della Magliana si è formata e ha prosperato fino alla rovinosa caduta.
Il Bufalo prova quasi tenerezza per quei teppisti alle prime armi, quasi come se fosse
un nonno che sa di dover impartire delle lezioni importanti ai suoi nipoti. Ma un
membro di una banda armata non userà certo la dialettica per dare degli
insegnamenti, ma altri mezzi, decisamente più diretti

Sparò senza prendere la mira e senza distogliere lo sguardo dal piccoletto. Il negro cadde
con un urlo, tenendosi il ginocchio. D’improvviso s’era fatto un gran silenzio
“Andatevene via tutti quanti, tranne questi quattro. tutti giù per terra”

89
J. Coe, The Closed Circle, Paperback, Milano, 2006
90
Ibidem p, 5

124
Quanto poteva mancare all’imbarco? Un’ora? Il Venezuela l’aspettava. Avrebbe stentato un
po’ a inserirsi, ma da quelle parti non doveva poi essere così difficile... sì, sarebbe stato da
saggi ripiegare, a questo punto. Ma quando mai lui era stato saggio? Ma quando mai tutti
loro erano stati saggi? Poi la paura del piccoletto… l’odore della strada… non era per questo
che avevano sempre vissuto?
Si chinò sul piccoletto e gli sussurrò il suo nome. Quello prese a tremare.
“Hai sentito parlare di me?” gli chiese in tono dolce-
Il piccoletto annuì, lui sorrise. Posò delicatamente la pistola sulla fronte e sparò in mezzo
agli occhi, indifferente ai pianti, al rumore di passi, alle sirene che s’avvicinavano, gli volse
le spalle, e puntata l’arma contro la luna bastarda urlò, urlò con quanto fiato aveva in corpo:
“Io stavo col Libanese”91

Per chi legge questo romanzo ed è nato dopo gli anni ’70 è molto difficile
capire di cosa si stia parlando e le domande sono tante. Sarà il narratore onnisciente
a raccontarci una storia lunghissima, che non è solo la storia della banda della
Magliana, ma è anche la storia del nostro Paese raccontata da molteplici punti di
vista. Non è ovviamente un manuale di storia o un saggio: come è stato
precedentemente ribadito più volte ci sono molteplici inesattezze storiche ma,
comunque, ci permette di ripercorrere gli anni più bui del nostro paese e quel clima
di tensione.
In questo prologo è anche molto forte l’elemento della nostalgia e del
rimpianto di qualcosa che non esiste più e vi ritroviamo quel senso di inadeguatezza
all’adattamento al presente che avevamo ritrovato molto forte anche in Emilio
Calvesi.
Tutta questa lunga analisi, su tutti questi aspetti porta inevitabilmente a delle
riflessioni anche da parte di noi lettori su un’epoca che molti di noi non abbiamo
vissuto o che abbiamo conosciuto solo marginalmente. E forse è in questo che
possiamo riscontrare il grande merito della letteratura, ovvero farci vivere esperienze
e farci immedesimare in personaggi e situazioni che percepiamo come lontanissime
da noi, ma da cui possiamo sempre imparare qualcosa.

91
Ibidem, p7

125
Conclusione

Dalle analisi dei testi emerge una realtà in cui non esiste più quel
tranquillizzante, per quanto irrealistico, confine tra buoni e cattivi e tra giusto e
sbagliato.
Emerge anche una natura umana che sembra inevitabilmente condannata a dividersi
praticamente su tutto.
Dalla nascita delle civiltà gli uomini si sono sempre ammazzati tra di loro per
questioni religiose e politiche, tutte cause per cui si è sempre lottato aspramente e
per cui ci si è sempre sentiti legittimati a compiere ogni tipo di crudeltà.
Sembra molto strano pensare che tutta questa violenza sia avvenuta in un
lasso di tempo così prossimo a noi, in posti che frequentiamo tutti i giorni. E, per chi
è nato nella generazione successiva a quella dei nostri nonni e genitori, sembra quasi
che tutti questi eventi siano avvenuti in un tempo lontanissimo e non solo
quarant’anni fa.
Quest’anno c’è stato il quarantesimo anniversario del rapimento e
dell’uccisione di Aldo Moro, una ricorrenza che, come sempre, è stata raccontata dai
giornali.
C’è stato quasi un caso mediatico quando alcuni ex brigatisti hanno
rivendicato l’azione cercando una legittimazione da parte dell’opinione pubblica. Lo
sdegno suscitato da queste parole è stato molto forte non solo da parte della famiglia,
ma anche da parte dello Stato e da parte di molti cittadini che attraverso i commenti
sul sito del giornale che aveva riportato l’articolo, hanno criticato aspramente quelle
parole.
L’Italia del terrorismo e delle divisioni, a leggere queste parole, sembra sia
ormai unita nella condanna di un gesto orribile accaduto quarant’anni prima nei
confronti di un uomo per il quale si tende ancora a provare un profondo rispetto. In
Irlanda, in apparenza, si ha una situazione simile da quando l’IRA ha annunciato la
fine della lotta armata. Non ci sono più stati né rapimenti, né attentati da molti anni
ormai, ma di nuovo, solo in apparenza si è raggiunta un’armonia tra i cattolici e i
protestanti che, ancora, si guardano vicendevolmente con sospetto e sono sempre

126
pronti a discutere su chi abbia ragione, mentre entrambe le parti sono poco disposte
ad accettare le ragioni reciproche.
Guardando a tutto questo non può che confermarsi quella visione così
pessimistica che è emersa nei romanzi: non esistono né vincitori, né vinti e ciò che
all’apparenza è giusto e sbagliato viene sempre rimesso in discussione dai “ma” e
dai “però” della parte avversaria

127
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nella-letteratura/ maggio 2018

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RINGRAZIAMENTI

Scrivere dei ringraziamenti non è mai semplice, o almeno non lo è per me. È
difficile esprimere a parole quello che penso e che sento per tutti voi, meritereste
molto di più che due righe scritte su una tesi di laurea e forse, un giorno, troverò un
modo più consono che possa ripagarvi di tutto quello che avete fatto per me in questi
anni.
Il primo ringraziamento va ai miei genitori, per essere stati dei pilastri, per
avermi supportata sempre nelle mie scelte e soprattutto, per avermi sempre permesso
di sbagliare senza giudicarmi per questo, ma facendo si che imparassi sempre dai
miei errori. Anche se ora so camminare con le mie gambe, non esisterà giorno in cui
smetterò di aver bisogno di voi.
Un enorme grazie anche al mio relatore per avermi appoggiato l’idea per
questa tesi, per l’aiuto e per avermi permesso di svilupparla esattamente come la
desideravo
Sara, Orazio, Diletta., Salvo, forse per voi servirebbe una tesi a parte per
ringraziarvi delle risate e per tutte quelle volte che mi avete dato una spalla su cui
piangere. Bologna, per me, siete voi, sempre. E non sarebbe stato lo stesso se le
nostre strade non si fossero mai incrociate.
Che il trash regni sovrano, sempre.
Un grazie particolare a Giulia, per essere stata non solo la coinquilina
perfetta, ma anche una delle migliori persone che io abbia incontrato in vita mia e a
Giovanni, per avermi sempre accolta con il sorriso e per avermi fatta sentire a casa.
A Mattia per essere stato il miglior fidanzato che potessi desiderare ed essere,
da ormai due anni, il mio porto sicuro. Sai già tutto, e non serve che te lo ripeta qui
Grazie a Federica, Alice, Valentina. Eleonora, Laura per essere le mie 5
lucine che, nonostante la distanza, mi hanno sempre accompagnato ovunque andassi.
Siete le mie migliori amiche da sempre e vi voglio un bene incalcolabile.

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