Paul Davies
ISBN: 9788875783006
Paul Davies
Paul Davies
ISBN 978-88-7578-266-5
Prefazione
Nell’agosto del 1931 Karl Jansky, radioingegnere dei Bell Telephone Laboratories di Homdel,
New Jersey, fece una scoperta scientifica fondamentale grazie a un attacco di quella che viene chiamata
serendipità. Jansky aveva il compito di studiare una fastidiosa serie di scariche elettrostatiche che
interferivano con le comunicazioni telefoniche intercontinentali. Per capire cosa stesse succedendo
Jansky costruì una semplice antenna con un montante di metallo, la montò su quattro pneumatici perché
potesse ruotare e cominciò ad analizzare i rumori radiofonici di fondo che provenivano da diverse
direzioni. Questo strumento sgangherato generava un output tramite una specie di stampante a inchiostro.
Ben presto Jansky cominciò a rilevare vere e proprie tempeste generate anche a molti chilometri
di distanza; ma quello che lo lasciava più perplesso era un sibilo di sottofondo che sembrava avere un
ciclo di ventiquattrore. Intrigato da questa particolarità decise di andare più a fondo; così facendo scoprì
che il periodo del segnale era di 23 ore e 56 minuti, durata nota agli astronomi come giorno siderale,
ossia il tempo che la Terra impiega a compiere una rotazione su se stessa relativamente alle stelle più
lontane (in contrapposizione con il giorno solare, ossia il tempo che impiega a ruotare relativamente al
Sole). La periodicità siderale implicava che la sorgente del segnale radio fosse situata da qualche parte
nello spazio più profondo. Alla fine Jansky concluse che queste scariche elettrostatiche dovevano
provenire dalla Via Lattea. Prima che potesse proseguire con i suoi studi, però, la società per cui lavorava
gli assegnò una serie di altri compiti.
Ecco come, mantenendo il classico basso profilo, è nata una vera e propria disciplina scientifica:
la radioastronomia. Nessuno squillo di tromba, nessuna medaglia1. E i progressi successivi, come
succede spesso nel campo scientifico, sono arrivati con la guerra.
Lo sviluppo del radar durante la Seconda guerra mondiale diede una spinta enorme alla crescita
della potenza e della fedeltà deiricevitori radio, e negli anni immediatamente successivi alla fine del
conflitto i fisici e gli astronomi colsero la palla al balzo: con attrezzature belliche in disuso cominciarono
a costruire i primi veri radiotelescopi, dotati di antenne enormi che consentivano loro di “sintonizzarsi
sull’universo”.
Più o meno in questo periodo – siamo intorno agli anni Cinquanta – ad alcuni scienziati apparve
improvvisamente chiaro che i radiotelescopi fossero abbastanza potenti per comunicare attraverso
distanze interstellari, e che se ci fosse stato qualche essere intelligente su altri pianeti sarebbe stato in
teoria possibile, per gli uomini, ricevere un loro messaggio radio. Il 19 settembre 1959 la prestigiosa
rivista scientifica “Nature” pubblicò un articolo di due fisici della Cornell University, Giuseppe Cocconi
e Philip Morrison, dal titolo Searching for Interstellar Communications (alla ricerca di comunicazioni
interstellari), in cui gli autori invitavano i radioastronomi a cercare i messaggi radio di civiltà aliene.
Cocconi e Morrison sapevano bene che la loro idea era solo frutto di un’ipotesi, ma conclusero l’articolo
con la seguente osservazione: «È difficile fare una stima delle probabilità di successo; ma se non la
cerchiamo, la probabilità di successo è di certo pari a zero»2.
L’anno seguente la sfida fu colta da un giovane astronomo, Frank Drake, a cui ho deciso di
dedicare il libro. Drake utilizzò un radiotelescopio situato in West Virginia per iniziare a cercare segnali
radio di provenienza aliena, e da questo progetto pioneristico nacque il programma di ricerca
internazionale noto come SETI. Si tratta dell’acronimo di Search for Extraterrestrial Intelligence
(“ricerca di un’intelligenza extraterrestre”), un programma grazie al quale dagli anni Sessanta del XX
secolo un eroico gruppetto di radioastronomi sta perlustrando i cieli alla ricerca di qualsiasi cosa che
indichi che non siamo soli nell’universo.
Nel 2010 SETI ha ufficialmente compiuto cinquant’anni, una buona occasione per fare il punto
della situazione. Questo libro è un omaggio alla dedizione, alla professionalità e al contagioso ottimismo
di tutti i ricercatori di SETI, in particolare al coraggio e alla visione di Frank Drake.
L’argomento di cui SETI si occupa è molto più astratto rispetto a quelli trattati dalla scienza
tradizionale. Questo vuol dire che se da un lato è saggio prendere cum grano salis ogni discussione sulle
civiltà aliene, dall’altro la prudenza e lo scetticismo non devono impedirci di avvicinarci alla ricerca di
intelligenze extraterrestri in modo metodico e penetrante, grazie alle informazioni di cui siamo entrati in
possesso con la migliore ricerca scientifica.
Con tale spirito ho scritto questo libro: mi sono preoccupato di separare i fatti e le teorie in cui
nutriamo una certa fiducia da riflessioni ragionevoli ma non dimostrate e dalle ipotesi più astruse, queste
ultime in gran parte ispirate da idee nate nel campo della fantascienza.
Quando il progetto SETI ebbe inizio io ero ancora uno studente delle scuole superiori, e sebbene
fossi vagamente a conoscenza della sua esistenza la mia comprensione del concetto di vita al di fuori
della Terra derivava quasi del tutto da idee raccolte qua e là nei libri di fantascienza. Come molte persone
ho imparato qualcosa in più su SETI dalle molte apparizioni televisive del carismatico scienziato Carl
Sagan: il suo Contact e il film che ne è stato tratto hanno convinto la gente che SETI sia un’avventura
umana assolutamente unica nel suo genere. Negli ultimi anni ho conosciuto i personaggi più importanti
della storia di SETI piuttosto bene; molti di loro oggi lavorano al SETI Institute, in California. Gran parte
di quello che ho scritto in questo libro è frutto della mia lunga e feconda frequentazione con loro, in
particolare con Frank Drake, Jill Tarter, Seth Shostak e Doug Vakoch.
Non volevo soltanto scrivere un libro vagamente celebrativo; al contrario, ho deciso di affrontare
con uno sguardo profondo e pungente gli scopi e le ipotesi di tutta l’impresa. Mentre scrivevo mi sono
sempre chiesto se non fosse possibile che ci stessimo perdendo qualcosa di importante: i vecchi modi di
pensare sono duri a morire, e a un progetto che si trovi alla soglia dei cinquant’anni qualche scossone non
può che far bene. Nel febbraio 2008 ho tenuto un seminario presso l’Arizona State University dal titolo Il
suono del silenzio: lo scopo era stimolare modi radicalmente nuovi di affrontare l’evocativa domanda
“siamo soli?”. I contenuti di questo libro riflettono in larga parte le discussioni che hanno avuto luogo
durante il seminario, e per questo ringrazio tutti i partecipanti.
Ci sono alcuni ringraziamenti speciali che vorrei fare. In primissimo luogo vorrei ringraziare mia
moglie Pauline Davies, giornalista scientifica per vari media, profondamente scettica e accanita
sostenitrice dell’accuratezza fattuale e dei ragionamenti ben strutturati. Pauline non soltanto ha colto al
volo molti errori, ma mi ha aiutato a far chiarezza su un gran numero di questioni e ha contribuito con
svariate idee che compaiono nel testo senza essere specificamente
citate come sue. Le mie posizioni sull’argomento si sono formate in gran parte durante le molte,
profonde discussioni che abbiamo avuto nel corso degli anni.
Carol Oliver, ex giornalista, scienziata del SETI e oggi astrobiologa, è stata una collega preziosa
nonché mia sostenitrice durante la mia carriera. Gregory Benford, James Benford, David Brin, Gil Levin
e Charles Lineweaver mi hanno dato ottimi riscontri critici su alcune parti di questo libro. Il mio agente
letterario John Brockman è stato per decenni una fonte di incoraggiamento e di supporto per la mia
attività di scrittore. I miei editor Amanda Cook e Will Goodland hanno seguito il progetto con abilità ed
empatia; il testo è molto migliorato grazie alle dettagliate critiche di Amanda.
Per ultimo un enorme grazie a Frank Drake, le cui lezioni e i cui articoli mi hanno grandemente
ispirato e mi hanno portato, per primi, ad addentrarmi in questo campo d’indagine.
Uno strano silenzio
Capitolo 1
L’assenza dell’evidenza non è la stessa cosa dell’evidenza dell’assenza. Donald Rumsfeld (sulle
armi di distruzioni di massa)
Cosa succederebbe se ET telefonasse domani?
Una fredda e nebbiosa mattina dell’aprile 1960 un giovane astronomo di nome Frank Drake prese
silenziosamente il controllo del radiotelescopio di 26 metri dello US National Radio Astronomy
Observatory di Green Bank, West Virginia. Poche persone compresero che tale momento fosse un punto
di svolta per la scienza. Con fare lento e metodico, Drake puntò il gigantesco strumento verso una stella
di tipo solare nota come Tau Ceti, lontana 11 anni luce, si sintonizzò su 1420 MHz e si sedette ad
aspettare1. La sua fervente speranza era che esseri alieni su un pianeta in orbita attorno a Tau Ceti
potessero star inviando segnali radio nella nostra direzione, e che questo potente radiotelescopio fosse in
grado di intercettarli.
Drake fissò il ricevitore a getto d’inchiostro che registrava ciò che l’antenna stava intercettando,
con spasmi intermittenti accompagnati dal sibilo dell’alimentazione audio. Dopo circa mezzora giunse
alla conclusione che non ci fosse nulla di significativo che provenisse da Tau Ceti: soltanto le solite
scariche elettrostatiche e il rumore di fondo naturale dello spazio. Fece un sospiro profondo e cambiò
attentamente l’orientamento della grossa antenna a favore di una seconda stella, Epsilon Eridani.
All’improvviso dall’altoparlante esplosero una serie di botti rumorosi e l’ago della stampante cominciò a
muoversi freneticamente avanti e indietro. Drake per poco non cadde dalla sedia: era chiaro che l’antenna
aveva intercettato un forte segnale artificiale. L’astronomo era stato colto di sorpresa e per lungo tempo
rimase immobile lì dov’era. Poi, ripreso possesso delle proprie facoltà, spostò il telescopio leggermente
fuori dal target: il segnale si attenuò. Ma quando rimise l’antenna nella posizione iniziale, il segnale era
scomparso! Poteva trattarsi davvero di una fugace trasmissione di ET? Drake subito intuì che captare un
segnale di una civiltà aliena al secondo tentativo sarebbe stato troppo bello per essere vero. La
spiegazione doveva essere in una sorgente umana e, come previsto, in seguito venne fuori che il segnale
era stato prodotto da una postazione militare radar segreta.
Con questi inizi modesti – che presero il nome di progetto Ozma, dal mitico Regno di Oz – Frank
Drake fu il pioniere del più ambizioso e potenzialmente significativo progetto di ricerca della storia. Noto
come SETI, Search for Extraterrestrial Intelligence (ricerca di intelligenza extraterrestre), questo
progetto cerca di rispondere a una delle più grandi questioni esistenziali: “siamo soli nell’universo?”. La
maggior parte del programma SETI si basa sul proposito iniziale di Drake di perlustrare il cielo con i
radiotelescopi alla ricerca di un indizio di un messaggio proveniente dalle stelle. Un tentativo che punta
in alto, con tutta evidenza. Le conseguenze di un successo sarebbero davvero incredibili, con un impatto
maggiore rispetto alle scoperte di quelle di Copernico, Darwin e Einstein tutte insieme. Ma è la ricerca di
un ago in un pagliaio, senza nessuna garanzia che l’ago esista davvero. A parte uno o due incidenti
intriganti (di cui parlerò oltre), tutti gli sforzi sono stati accolti sinora da uno strano silenzio. Cosa ci dice
questo silenzio? Che non ci sono alieni? Oppure che stiamo cercando la cosa sbagliata, nel luogo e nel
tempo sbagliati?
Gli astronomi di SETI dicono che il silenzio non è una sorpresa: semplicemente, non hanno
ancora guardato abbastanza, e per un tempo abbastanza lungo. Ad oggi i ricercatori hanno osservato solo
poche migliaia di stelle in un raggio di circa 100 anni luce. Paragoniamo questi dati alla scala della nostra
galassia nel suo intero: 400 miliardi di stelle sparse in uno spazio di più di 100.000 anni luce; e ci sono
miliardi di altre galassie… Ma le potenzialità di ricerca aumentano ogni giorno che passa, seguendo una
legge analoga a quella di Moore per i computer: gli apparecchi raddoppiano la loro potenza ogni uno o
due anni, e altrettanto impetuosamente crescono l’efficienza degli strumenti e la velocità
dell’elaborazione dei dati. Oggi tutto quest’ambito è destinato a migliorare sensibilmente con la
costruzione di 350 radiotelescopi collegati tra loro ad Hat Creek, nella California del Nord. L’Allen
Telescope Array, dal nome del benefattore Paul Allen, metterà gli scienziati alla ricerca di segnali alieni
nella condizione di poter sorvegliare una porzione della galassia molto più ampia. La struttura è gestita
dall’università della California a Berkeley e dal SETI Institute, dove lavora oggi Frank Drake. L’istituto
resta ottimista nei confronti delle prospettive di successo, e in frigo c’è sempre una bottiglia di
champagne in previsione di un rilevamento che metta fine ai dubbi.
È facile immaginarsi la scena che si verificherebbe se l’atteggiamento ottimista fosse corretto, e
se si trovasse presto qualcosa. Un astronomo è stoicamente seduto alla centrale di controllo dello
strumento, i piedi su una scrivania invasa da fogli. Sfoglia un libro di matematica con aria assente. Per
lui, e per dozzine di altri scienziati coinvolti nel progetto SETI, questa è la routine. Ma oggi è diverso.
All’improvviso l’astronomo annoiato è distolto dalle sue fantasticherie dal suono stridulo e distinto di un
allarme: il suono è generato dall’algoritmo informatico ideato per individuare segnali radio “strani” e
separarli dal mare magnum proveniente dallo spazio lontano che si riceve di continuo. Sulle prime
l’astronomo pensa che sia soltanto uno dei molti falsi allarmi, di solito una trasmissione umana che filtra
attraverso la rete progettata per schermare segnali artificiali ovvi provenienti da telefoni cellulari, radar e
satelliti. L’astronomo, rispettando un protocollo reso nobile dal tempo, segue alcune semplici istruzioni e
muove il telescopio un po’ fuori centro rispetto alla stella target. Il segnale, immediatamente, muore.
Allora l’astronomo rimette il telescopio nella posizione iniziale, e il segnale è ancora lì. Dopo aver
studiato con attenzione la forma d’onda e aver determinato che la sorgente resta ferma in un punto fisso
relativamente alle stelle, l’astronomo telefona subito a un altro osservatorio coinvolto nel progetto e allo
stesso tempo spedisce via email le coordinate del segnale misterioso.
A più di 8000 chilometri di distanza un’altra astronoma è costretta a saltare giù dal letto per
investigare questo strano fenomeno. Un po’ assonnata si dirige verso il centro di controllo e si versa un
caffè; cercando di farsi passare il sonno controlla l’email e inserisce le coordinate. Nell’arco di un minuto
il secondo telescopio si è agganciato al target e subito raccoglie lo stesso segnale, forte e chiaro. Il suo
battito comincia ad accelerare furiosamente: è concepibile che questa volta l’allarme sia reale? Dopo
decenni di ricerche senza nessun risultato, potrebbe essere lei la prima persona sulla faccia della Terra a
confermare che una civiltà aliena esiste davvero e sta trasmettendo dei segnali radio? L’astronoma sa
bene che saranno necessari molti altri controlli prima di poter giungere a questa conclusione, ma i due
scienziati, ora impegnati in una concitata conversazione telefonica a cavallo di due continenti, eliminano
sistematicamente un’ipotesi legata a intervento umano dopo l’altra finché, con il 90% di probabilità,
giungono alla conclusione che il segnale è senza dubbio artificiale, non umano e arriva da molto, molto
lontano nello spazio. Mentre i radiotelescopi continuano a tracciare in sincrono e a registrare ogni più
piccolo dettaglio, i due astronomi, un po’ frastornati, si comportano come se si trattasse di un sogno:
basiti, euforici e permeati di timore riverenziale. E adesso cosa succederà? A chi dobbiamo dirlo? Cosa si
può inferire dai dati già raccolti? Il mondo sarà mai più lo stesso?
Fin’ora la storia (che, lo ammetto, è stata un po’ romanzata2) non richiede enormi sforzi di
immaginazione: lo scenario di base è stato delineato molto bene dal film Contact, in cui Jodie Foster
interpreta il ruolo dell’astronoma fortunata e ammirata da tutti. Ciò che è molto, molto meno chiaro è la
fase immediatamente successiva: cosa dovrebbe seguire al rilevamento positivo di un segnale radio di
provenienza aliena? La maggior parte degli scienziati concorda che una tale scoperta sarebbe esplosiva e
porterebbe a una moltitudine di cambiamenti. Anche la semplice contemplazione di un segnale che arrivi
dal nulla all’improvviso suscita molte domande: come sarà valutato, e da chi? Come ne verrà a
conoscenza l’opinione pubblica? Ci saranno delle agitazioni popolari, o addirittura dilagherà il panico?
Cosa faranno i governi? Come reagiranno i leader mondiali? Questa novità sarà considerata con paura o
con meraviglia? E sul lungo termine cosa significherà per la nostra società, per il nostro senso di identità,
per la scienza, la tecnologia e la religione? E in cima a tali cose imponderabili c’è un’annosa questione:
dovremmo rispondere al segnale spedendo anche noi un messaggio agli alieni? Questo comporterebbe
qualche conseguenza spaventosa, come l’invasione di una flotta di navicelle spaziali armate fino ai denti?
Oppure sarebbe una promessa di speranza per la liberazione di una specie quasi distrutta?
Per nessuna di queste domande esistono risposte condivise all’unanimità. La storia di Contact era
fedele alla scienza fino al momento in cui il segnale veniva ricevuto, per poi entrare nell’indistinto regno
dei viaggi spaziali attraverso tunnel spaziotemporali, ponti di Einstein-Rosen e altri argomenti d’effetto.
Questa era fantascienza, nata dalla fertile immaginazione dell’astronomo della Cornell University Carl
Sagan, e autore del libro su cui il film era basato. Nel mondo reale non è per nulla chiaro cosa
succederebbe dopo la scoperta che non siamo soli nell’universo. Nel 2001 l’Accademia internazionale di
astronautica ha creato un comitato che si occupa delle questioni relative al “cosa fare dopo”; noto come
unità operativa di post rilevamento di SETI (SETI Post Detection Task Group), si occupa di preparare il
terreno nel caso in cui SETI all’improvviso abbia successo. L’idea alla base è che una volta che un
segnale proveniente da una sorgente aliena fosse dichiarato valido, le cose si muoverebbero troppo in
fretta perché la comunità scientifica possa prendere delle decisioni ben ponderate. Al momento io sono il
presidente di questo comitato, e questa posizione un po’ speciale mi ha portato a pensare molto alla
ricerca di intelligenze extraterrestri in generale, e al post rilevamento in particolare.
È possibile che SETI si sia fossilizzato?
In un modo o nell’altro SETI ha fatto parte della maggior parte della mia vita lavorativa e nutro
un’ammirazione sconfinata per gli astronomi che fanno funzionare i radiotelescopi e analizzano i dati,
così come per lo staff tecnico che progetta e costruisce le apparecchiature. Spero che questo silenzio un
po’ strano sia proprio dovuto al fatto che finora la ricerca è stata limitata, e sono un convinto sostenitore
dell’Allen Telescope Array. Allo stesso tempo, tuttavia, ritengo che – per ragioni sulle quali ritornerò più
avanti – ci sia soltanto una minima speranza di ricevere oggi un messaggio proveniente dalle stelle; di
conseguenza, parallelamente al “SETI tradizionale” à la Frank Drake, abbiamo bisogno di mettere in
piedi un programma di ricerca molto più vasto, che tenti di individuare segni generali di intelligenza,
ovunque essi possano nascondersi nell’universo. E questo richiede le risorse di tutta la scienza, non
soltanto della radioastronomia. Ad ogni modo c’è un altro fattore che va preso in considerazione:
concentrandosi su uno scenario ben specifico, come una civiltà aliena che invia in direzione della Terra
dei messaggi radio cosiddetti a banda stretta (alta frequenza), la ricerca tradizionale si è fossilizzata in
una sorta di circolo vizioso concettuale. Cinquant’anni di silenzio sono un ottimo spunto per allargare i
nostri orizzonti di pensiero: è di importanza fondamentale liberare SETI dai legami con
l’antropocentrismo che l’hanno imprigionato sin dall’inizio. Per aiutare a stimolare questo processo ho
organizzato, nel 2008, un seminario straordinario di SETI presso il Beyond Center for Fundamental
Concepts in Science (centro “oltre” per i concetti scientifici fondamentali) dell’Arizona State University,
con l’obiettivo di incentivare un vivace scambio di idee tra i veri e propri ricercatori di SETI e una
manciata di pensatori fuori dal coro: filosofi, scrittori di fantascienza e cosmologi. Il risultato finale è
stato un programma per un “nuovo SETI”, con tanto di alcune idee straordinarie che descriverò nei
prossimi capitoli.
Com’è possibile che qualcosa di così coraggioso e visionario come il progetto SETI sia diventato
conservatore? Uno dei motivi più importanti è di certo insito nella tendenza umana a estrapolare la realtà
dalla propria esperienza. Le fondamenta di SETI stanno, dopo tutto, nell’ipotesi che la nostra civiltà sia
per certi versi tipica e che là fuori ci siano altre terre con esseri senzienti in carne e ossa, non troppo
diversi da noi e ansiosi di stabilire un contatto. Ciò detto, è ragionevole prendere la natura e la società
umane come modello per immaginare una civiltà aliena; in fondo non abbiamo molto altro su cui basarci.
Nei primi giorni di SETI, quando venne pianificata la strategia di base, c’erano molte domande sulla
falsariga di “cosa faremmo noi in questa circostanza?”; il risultato, inevitabilmente, è stato un errore di
base che ha portato a un atteggiamento antropocentrico.
Ecco un esempio tipico: SETI scaturì dall’aver capito che i radiotelescopi hanno il potere di
inviare segnali nello spazio; di conseguenza, è possibile che ci siano messaggi alieni che arrivano nella
nostra direzione. L’immagine resa famosa da Carl Sagan è quella di una civiltà aliena che manda
messaggi sulla Terra sotto forma di segnali radio a banda stretta, ma ben presto si aggiunsero dettagli più
specifici: il messaggio sarebbe stato racchiuso in un’onda e trasmesso da un’antenna a frequenza fissa, e
con una potenza sufficiente a farlo emergere rispetto al rumore radio di fondo. Questo è il modo in cui si
comportano le stazioni radio terrestri; è facile rilevare segnali a banda stretta una volta che l’antenna
ricevente sia stata sintonizzata sulla frequenza giusta (o, nel caso di radiotelescopi, una volta che siano
stati orientati nella direzione giusta). Ci sono molti altri modi di codificare e trasmettere messaggi radio
che richiedono procedure di ricezione molto più sofisticate, ma gli astronomi di SETI presumono che una
civiltà aliena ansiosa di attirare la nostra attenzione userebbe il metodo più semplice, rilevabile anche da
una tecnologia radio alle prime armi.
Negli anni Sessanta del secolo scorso una delle più grandi preoccupazioni dei ricercatori di SETI
era quale sarebbe stata la frequenza scelta da ET; ci sono infatti miliardi di frequenze possibili. Non tutte
le frequenze penetrano nell’atmosfera terrestre in modo efficiente, pertanto la speranza era che gli alieni
adattassero i loro segnali a pianeti simili alla Terra usando una frequenza che non viene attenuata mentre
l’onda viaggia nello spazio. Anche questa ipotesi, tuttavia, lasciava spazio a un numero enorme di
potenziali canali radio. Sarebbe piuttosto ironico se puntassimo un radiotelescopio verso la stella giusta
ma lo sintonizzassimo sulla frequenza sbagliata, perdendo così l’occasione di ricevere il messaggio. I
ricercatori pensavano che gli alieni avrebbero anticipato il nostro problema e scelto una frequenza
“naturale”, ossia una frequenza nota a tutti i radioastronomi. Una stima piuttosto diffusa era quella di
1420 MHz, la frequenza di emissione del gas idrogeno freddo. I radioastronomi sono abituati a convivere
con questa “musica dell’idrogeno” e, per certi versi, sarebbe una buona scelta. Ad ogni modo questa è la
frequenza che Frank Drake scelse per il progetto Ozma nel 1960. Altri astronomi suggerirono di
moltiplicare la frequenza dell’idrogeno per, numero che generalmente gli uomini considerano un segno
di intelligenza dato che, comparendo sia in geometria sia nelle equazioni della fisica fondamentale,
sarebbe familiare anche a scienziati alieni. Ci sono altri numeri speciali, però, come il numero e o la
radice quadrata di 2. Un mistero aggiuntivo era se gli alieni avrebbero inserito una correzione per
compensare il moto del loro e/o del nostro pianeta. Presto la lista delle possibili frequenze “naturali”
divenne tristemente lunga. Questa battaglia delle bande d’onda, tuttavia, si è conclusa nel momento in cui
si è resa disponibile una tecnologia tale per cui i radioastronomi possono monitorare milioni e addirittura
miliardi di canali radio nello stesso momento (solitamente di ampiezza variabile tra 1 e 10 Hz). Ne
consegue che oggigiorno non sono molti i ricercatori di SETI che si preoccupano di dover indovinare la
scelta delle frequenze operata dagli alieni. Il punto che voglio sottolineare è che piccoli progressi nella
tecnologia umana ci hanno portato nel giro di pochi decenni a cambiare il modo in cui pensiamo alle
frequenze aliene più probabili. Questo esempio ci fornisce una lezione piuttosto importante: è saggio
vedere la situazione con gli occhi di una civiltà che voglia comunicare con noi ipotizzando che sia una
civiltà piuttosto vecchia (almeno di un milione di anni, o forse 100 milioni, o anche di più). Anche se è
possibile che gli alieni scelgano come mezzo proprio le onde radio – forse a nostro beneficio – non
possiamo aspettarci che siano in grado di distinguere fra la tecnologia che avevamo negli anni Cinquanta
e quella degli anni Ottanta: cosa sono pochi decenni rispetto a milioni di anni?
Ecco un altro esempio: negli anni Sessanta del XX secolo si iniziò a considerare il laser come un
valido mezzo di comunicazione alternativo, e ben presto alcuni ricercatori di SETI cominciarono a
pensare che ET, essendo tanto più progredito, avrebbe preferito usare questo grazioso strumento anziché
le vecchie onde radio. Ecco come nacque il settore ottico di SETI, ancor oggi fiorente: gli astronomi
cercano un segnale sotto forma di impulsi luminosi di brevissima durata e di alta intensità; questi, con le
apparecchiature adatte, possono essere distinti da quelli più intensi, ma molto più stabili, emanati dalla
stella. La comunicazione laser è nata meno di un secolo dopo la comunicazione radio: ancora una volta,
mi chiedo cosa sia un secolo per una civiltà vecchia un milione di anni.
Un livello ancora maggiore di provincialismo ha luogo quando SETI viene influenzato dalla
politica o addirittura dall’economia. Una delle cose di cui sappiamo meno è la longevità di una civiltà in
grado di comunicare: la sfida consiste nell’indovinare se ET trasmetterà segnali per secoli, millenni o
ancora più a lungo. Durante la Guerra fredda molti sostenitori di SETI sostennero che lo sviluppo di una
tecnologia di comunicazione radio avanzata sarebbe stata accompagnata da sviluppi tecnologici simili,
come le armi nucleari. Dato che a quel tempo la nostra società era minacciata dal pericolo di estinzione
proprio a causa delle armi nucleari, diventò di moda sostenere che una civiltà aliena simile alla nostra non
sarebbe sopravvissuta a lungo: gli alieni avrebbero avuto la loro Guerra fredda, che dopo pochi decenni
sarebbe diventata una guerra calda e li avrebbe distrutti. Quando la Guerra fredda (terrestre) finì, le
preoccupazioni politiche si spostarono in direzione dell’ambiente, e i ragionamenti fatti nell’ambito della
ricerca di intelligenza extraterrestre seguirono a ruota: ora, almeno per molti, la questione principale non
è più la guerra nucleare ma la sostenibilità. Trasmettere potenti onde radio attraverso la galassia
presuppone un’ingegneria molto sviluppata e richiede un sacco di energia. È sicuro che una civiltà aliena
adeguerebbe la propria tecnologia in modo da minimizzare l’impatto ambientale? Beh, è possibile.
Questa linea di pensiero, tuttavia, sarebbe stata considerata con scetticismo nell’atmosfera politica degli
anni Sessanta ed è parimenti possibile che venga considerata del tutto irrilevante tra un centinaio di anni,
quando le preoccupazioni legate all’ambiente potrebbero essere sostituite da altre. Non c’è alcun motivo
per pensare che una super civiltà vecchia di un milione di anni abbia un problema legato alla
sostenibilità; potrebbe avere altri problemi, magari che non siamo in grado di prevedere o addirittura che
non saremmo in grado di comprendere nemmeno se ci venissero spiegati. SETI è per definizione un
progetto a lungo termine, ed è assurdo basare le nostre strategie di ricerca esclusivamente sulla moda
politica dell’ultimo minuto. Cercare di indovinare le priorità politiche di una civiltà aliena è un’attività
del tutto futile.
Altrettanto inutile è cercare di indovinare quale possa essere l’economia di una civiltà aliena.
Prendiamo per esempio il romanzo di H.G. Wells La guerra dei mondi, in cui i marziani, costretti a
vivere su un pianeta inadeguato, decidono di svignarsela sulla Terra. Wells dipinge l’immagine
raccapricciante di alieni avidi, tecnologicamente molto più progrediti degli uomini, che guardano il
nostro pianeta con malignità:
Tuttavia, al di là degli abissi dello spazio, con menti che stanno alle nostre come le nostre stanno
a quelle degli animali bruti, intelletti vasti, freddi e spietati guardavano la terra con invidia e preparavano,
lentamente e con fermezza, i loro piani contro di noi.3
Wells scrisse il romanzo nel corso dell’ultimo decennio dell’Ottocento, quando l’Impero
britannico era al massimo del suo fulgore, e benessere e potere erano misurati in termini di acri di terra,
tonnellate di ferro e carbone e capi di bestiame posseduti. Gli uomini più ricchi costruivano ferrovie e
possedevano navi, erano proprietari di miniere di carbone, oro o rame, e acquistavano pascoli sconfinati.
In breve, ai tempi della Regina Vittoria benessere significava “possedere cose”: era naturale, pertanto,
pensare che anche una civiltà aliena tenesse in gran considerazione il possesso di terreni e miniere, e che
facesse dei piani per viaggiare nello spazio alla ricerca di nuove risorse una volta che il proprio pianeta
avesse esaurito le sue. Ecco qual era il motore principale che spingeva i marziani di Wells. Neanche un
secolo dopo, tuttavia, l’economia globale è cambiata tanto da renderla irriconoscibile: negli anni Novanta
del XX secolo Bill Gates era il nuovo Rockefeller, e aveva fatto i soldi non dalle “cose” ma da bit di
informazione; Microsoft aveva più potere finanziario della maggior parte delle nazioni. Con l’economia
dell’età dell’informazione arrivò l’età dell’informazione di SETI: è chiaro che gli alieni non sarebbero
così arretrati e rapaci da perlustrare la galassia in cerca di ferro, o ancor meno oro e diamanti. Una
comunità aliena progredita darebbe valore all’informazione: questa sarebbe la loro moneta di scambio, la
loro fonte di benessere. Informazione e conoscenza – incentivi sicuramente più nobili – sarebbero alla
base di tutte le attività aliene: la sete di informazione li potrebbe spingere a inviare sonde non per rubare
materiali, bensì per esplorare, osservare e misurare; per compilare una banca dati, una vera e propria
enciclopedia galattica4. Oggigiorno tutto questo sembra piuttosto ragionevole, ma mi chiedo che fine
farà la tesi dell’informazione nel 2090, quando l’economia potrebbe ruotare attorno a qualcosa che
nemmeno abbiamo ancora immaginato, figurarsi già inventato. Se le priorità degli uomini possono
cambiare in modo tanto radicale nel giro di un secolo, quali speranze abbiamo di poter indovinare le
priorità di una civiltà la cui economia può essersi sviluppata per un milione di anni se non di più?
Le stesse critiche generali possono essere mosse alla maggior parte delle teorie su come
apparirebbe una civiltà aliena e come si comporterebbero i suoi membri. È vero che la storia della civiltà
umana ci dà degli indizi e che alcuni principi generali potrebbero applicarsi a tutte le forme di vita
intelligente. Il problema è che abbiamo un campione unico di vita, un solo campione di intelligenza
progredita e un solo campione di alta tecnologia. È oltremodo difficile separare le caratteristiche che
potrebbero essere proprie del nostro pianeta da ogni principio che regola la comparsa della vita e
dell’intelligenza nell’universo. In queste circostanze, quando si cerca di indovinare qualcosa su ET, c’è la
tentazione inevitabile di ricadere in un’analogia con gli uomini. E questa è quasi sicuramente fallace:
chiederci cosa faremmo noi è in gran parte irrilevante. Il provincialismo e la strettezza di vedute inerenti
alle ricerche SETI tradizionali non sono sfuggite a Frank Drake: «I nostri segnali di oggi sono molto
diversi da quelli di quarant’anni fa, che allora pensavamo fossero modelli perfetti di quello che poteva
arrivare da altri mondi in qualsiasi stato di progresso tecnologico» ha scritto Drake. «Ci sbagliavamo. Se
la tecnologia può cambiare così tanto in quarant’anni, quanto potrebbe cambiare in migliaia, o addirittura
in milioni di anni?»5. Ecco il problema riassunto in due parole. Questo chiaro riconoscimento da parte del
fondatore del SETI classico, tuttavia, deve ancora tradursi in approcci del tutto nuovi sul fronte della
ricerca. Secondo me la strada da percorrere consiste nello smettere di vedere le motivazioni e le attività
degli alieni attraverso gli occhi umani; pensare a SETI, pensare alla ricerca di vita intelligente
extraterrestre, ci richiede di abbandonare tutti i nostri preconcetti riguardo la natura della vita, della
mente, della civilizzazione, della tecnologia e del destino comune. In breve, pensare a SETI significa
pensare l’impensabile.
Tutto molto bello… ma è davvero scienza?
Anche se oggi la comunità scientifica, nel suo complesso, è abbastanza a suo agio per quanto
riguarda il progetto SETI, alcuni non addetti ai lavori fanno fatica a inquadrarlo nel panorama scientifico.
La gente vuole sapere perché vada bene cercare gli alieni ma non i fantasmi, e perché i messaggi
provenienti dalle stelle lontane siano scientificamente accettabili ma lo stesso non valga per quelli dei
morti. Dov’è situata la linea che separa la scienza dalla pseudoscienza? È un punto molto importante ma
altrettanto labile, che arriva dritto al cuore del metodo scientifico; ed è impossibile capire come funziona
SETI senza spiegare questa separazione. Così eccola qui.
Secondo Carl Sagan dichiarazioni straordinarie richiedono prove straordinarie6. Questa
considerazione venne fatta a proposito delle storie sugli UFO (di cui parlerò ancora alla fine di questo
capitolo), ma si applica in modo abbastanza generale. Sagan stava esprimendo in termini colloquiali ciò
che è noto come regola di Bayes per l’inferenza, basata sulla valutazione statistica dell’evidenza.
Thomas Bayes, un religioso inglese vissuto nel XVIII secolo, comprese che il peso attribuito all’evidenza
dipende da quanto plausibile si valuti essere l’ipotesi su cui si basa (la cosiddetta probabilità a priori);
cerchiamo di capire meglio con un esempio tratto dalla vita quotidiana.
Mi sveglio alle sei del mattino e trovo sullo zerbino davanti alla porta d’ingresso una bottiglia di
latte: cosa concludo? Ci sono due possibilità: la prima è che il latte sia stato portato da un lattaio, come
succede ogni giorno tranne la domenica, dal momento che ho un contratto con la società locale Consegna
Espressa. Di solito il lattaio arriva alle sette, ma magari oggi è venuto prima. La seconda ipotesi è che il
latte sia stato lasciato lì da un vicino particolarmente altruista, il signor Jones, che aveva una bottiglia di
latte in più. La seconda ipotesi ovviamente è un po’ campata in aria, e ha una probabilità molto più bassa
della prima; per credere alla seconda ipotesi avrei bisogno di una “prova straordinaria”; quale potrebbe
essere? Beh, il signor Jones è abbonato a una società rivale, Latterie Unite; le loro bottiglie hanno la
scritta “Unite” stampata sul lato, mentre quelle di Consegna Espressa hanno scritto “Espressa”. Se oggi
sulla bottiglia vedessi scritto “Unite” rivaluterei le probabilità dell’ipotesi che vede coinvolto il signor
Jones. Però sulla bottiglia leggo “Espressa”: devo eliminare la seconda ipotesi? Non del tutto: potrebbe
essere successo, per esempio, che ieri Consegna Espressa abbia portato per sbaglio una bottiglia al signor
Jones… Più contorta e strana diventa l’ipotesi, tuttavia, maggiore dev’essere il peso della prova affinché
io la prenda sul serio. A dire il vero, la probabilità che una qualsiasi delle due ipotesi sia vera è
praticamente pari a zero, dal momento che non c’è più quasi nessuno che consegna le bottiglie di latte
sullo zerbino, almeno non nelle nazioni in cui io ho vissuto. Quest’esempio è dovuto a un attacco di
nostalgia.
La regola di Bayes applicata alla scienza e alla pseudoscienza ci aiuta ad assegnare fattori di
credibilità ad asserzioni in competizione tra loro. È famosa la frase che pronunciò Thomas Jefferson
quando ascoltò il resoconto di un testimone oculare di una pioggia di meteoriti: «Crederei più facilmente
a due professori yankee che mentono piuttosto che credere al fatto che ci sono sassi che cascano dal
cielo»7. Come molti intellettuali del XIX secolo, Jefferson non prendeva sul serio i racconti di piogge di
meteoriti, sulla base del fatto che la probabilità a priori che ci siano sassi nel cielo è bassa, mentre non lo
è altrettanto la probabilità a priori che un professorucolo si inventi una storia per diventare famoso. Oggi
sappiamo che il sistema solare abbonda di grossi sassi, residui dei tempi in cui si è formato, cosicché la
probabilità a priori che assegneremmo adesso al racconto di una pioggia di meteoriti sarebbe molto
maggiore. Dovremmo quindi essere inclini a prendere questi racconti sul serio, anche se una certa cautela
ci vuole sempre: un mio amico geologo ha compiuto indagini su diversi racconti di piogge di meteoriti
che in molti casi si sono rivelati interpretazioni sbagliate.
Una lamentela frequente che ricevo dai miei amici non scienziati è che la fisica contemporanea
parli di cose che fanno girare la testa, come le extra dimensioni (una materia oscura che non si è mai
riusciti a vedere), stringhe invisibili, universi paralleli, buchi neri che evaporano, ponti di
Einstein-Rosen8 eccetera, nonostante la maggior parte di queste ipotesi non abbia molte prove
sperimentali oppure osservative (se mai ne hanno una) a supporto della propria esistenza. Eppure
fenomeni come la telepatia e la precognizione sono sperimentati di persona da migliaia di persone, e gli
scienziati continuano a rifiutarle e a considerarle delle sciocchezze. Non stanno forse usando due pesi e
due misure? Una volta sono stato sfidato: «Come puoi negare l’esistenza dei fantasmi quando accetti
quella dei neutrini, che sono molto più elusivi e non sono mai stati visti da nessuno?» (per inciso, i
neutrini sono particelle subatomiche molto sfuggenti che passano attraverso la maggior parte della
materia solida, e questo li rende molto difficili da rilevare).
La risposta breve alla lamentela precedente è: “grazie alla regola di Bayes”. Per quanto riguarda
la fisica moderna, queste strane entità come la materia oscura o i neutrini non sono proposte come
congetture isolate, ma fanno parte di un corpus molto grande di teorie piuttosto dettagliate che ne
prevedono l’esistenza. Sono legate a concetti fisici familiari e sopravvissuti a molte prove tramite uno
schema matematico coerente che le contiene: hanno, in altri termini, un posto preciso in una teoria ben
compresa. Ne consegue che la loro probabilità a priori è alta. Il lavoro di un fisico sperimentale consiste
nel testare una teoria: se costruiamo un esperimento che faccia un’accurata misura di questa e quell’altra
quantità, il valore preciso della quale è già stato accuratamente previsto in anticipo, il livello di evidenza
richiesto per credere che suddetta entità sia reale è molto più basso di quello che richiederemmo se
qualcuno trovasse questa quantità per caso, in assenza di qualsivoglia inquadramento teorico9. Per quanto
riguarda il paranormale, non è ovvio che la telepatia sia qualcosa di assurdo, ma avrei bisogno di un sacco
di prove per credere alla sua esistenza, dal momento che non esiste alcuna teoria pertinente, e di certo
nessun modello matematico, che predica come funzioni o come varierebbe in diverse circostanze. Di
conseguenza, assegno alla telepatia una priorità a priori molto bassa, anche se diversa da zero. Se
qualcuno arrivasse con un possibile meccanismo di spiegazione della telepatia, supportato da un modello
matematico fatto come si deve che la leghi al resto della fisica, e se la teoria prevedesse risultati specifici
(per esempio, che il “potere telepatico” decresce in un certo modo ben definito col crescere della
distanza, e che è due volte più forte tra soggetti dello stesso sesso che tra soggetti di due sessi diversi) mi
siederei e ne prenderei nota, e se le prove sperimentali confermassero le previsioni mi convincerei con
una certa facilità. Purtroppo però non intravedo all’orizzonte alcuna teoria di questo tipo, e resto
estremamente scettico a riguardo della telepatia nonostante le molte storie sorprendenti che mi è capitato
di leggere10.
Ritornando a SETI, come si inserisce nel duello “scienza contro pseudoscienza”? Eccoci arrivati
al cuore del problema di tutta l’impresa: quale probabilità a priori dovremmo assegnare all’esistenza di
una civiltà extraterrestre in grado di comunicare? Nessuno lo sa. Se avete già buoni motivi per credere
che là fuori esista ET, e un’idea definita sulla natura del segnale, allora siete, per così dire, ben
predisposti all’esistenza di una prova, e facili da convincere. Ma se pensate che la semplice idea di una
civiltà aliena sia assurda, avrete bisogno di prove davvero formidabili. Nel Capitolo 4 parlerò del perché
le civiltà aliene progredite possano essere o molto comuni oppure estremamente rare: una posizione
intermedia in cui ce ne siano un po’ qui e un po’ là è intrinsecamente improbabile11. In questo modo,
quelli che trovano che l’idea in sé di una civiltà aliena sia un’ipotesi astrusa e ingiustificata, situano la
ricerca di extraterrestri intelligenti nel regno della pseudoscienza, mentre quanti trovano la stessa idea
plausibile la considerano scienza “vera”. Voi lettori dovete decidere da soli. Ciò che non è messo in
discussione, tuttavia, è che il metodo di SETI sia scientifico: la ricerca è condotta con tecnologie
dell’ultima generazione, ci lavorano scienziati che hanno studiato nelle migliori scuole e utilizzano
tecniche di ricerca e di analisi rigorose, e i risultati sono sottoposti al solito processo della peerreview12. I
gruppi di ricerca stanno facendo scienza di qualità, su questo non c’è alcun dubbio; ma stanno forse
andando a caccia di una chimera? Per scoprirlo, dovrete continuare a leggere…
Breve storia degli alieni
Le congetture su esseri alieni non ebbero inizio con i radiotelescopi: duemila anni fa il profeta
Ezechiele stava camminando lungo le rive del fiume Chebar in Caldea, quando vide un vento tempestoso
proveniente da nord, da cui emergevano quattro strane creature, ognuna superficialmente «di sembianza
umana». Le creature erano accompagnate da quattro ruote volanti che scintillavano come ottone brunito,
con «occhi» sui cerchioni. Alla fine le creature e le ruote «si sollevarono da Terra» e volarono via13.
Questo famoso racconto biblico è, ovviamente, una storia inventata, forse il resoconto di un
sogno o di una visione, o forse soltanto un modo colorito di trasmettere un messaggio di tipo religioso.
Non dovrebbe essere considerato come un fatto storico, e forse non è mai stato inteso come tale. Il suo
valore risiede nel fatto che ci rivela, attraverso la lente della storia, la mentalità di una cultura da tempo
scomparsa. Gli israeliti, così come molti dei loro contemporanei, credevano fermamente che l’umanità
fosse soltanto una delle tante forme di vita presenti nell’universo. Nella maggior parte delle culture
antiche dèi, angeli, spiriti e demoni erano considerati reali: si riteneva che molti di questi esseri non
umani vivessero da qualche parte al di là del cielo. Tutti i miti cosmogonici tradizionali si riferiscono a
uno o più agenti estremamente potenti che crearono il cosmo e che di tanto in tanto tornano a visitare la
Terra.
L’idea che gli esseri umani condividano l’universo con altre creature non era soltanto il prodotto
di una mitologia religiosa, ma già nel V secolo avanti Cristo era anche oggetto di argomentazioni
ragionate. Il filosofo greco Democrito (460-370 a.C.) fu l’architetto della teoria atomica della materia,
secondo la quale l’universo consiste per intero di minuscole particelle indistruttibili (gli atomi) che si
muovono nel vuoto.
Nello schema di Democrito tutte le forme di materia sono costituite di diverse combinazioni di
atomi, e tutti i cambiamenti non sono altro che il frutto del loro riposizionamento. Democrito postulò che
se la natura è uniforme, e se gli atomi possono associarsi in combinazioni particolari per costituire la
Terra, a sua volta popolata da piante e animali, allora possono disporsi in modo analogo anche in altre
parti del cosmo. Pertanto concluse:
I mondi sono infiniti e diversi per grandezza, cosicché in alcuni non esistono né sole né luna, in
altri ve ne sono di più grandi che nel nostro cosmo, e in altri ancora ce ne sono più numerosi […] I mondi
si corrompono nel collasso di uno contro l’altro. Alcuni mondi non hanno animali, piante e perfino
umidità.14
L’argomento di base di Democrito fu ripreso vividamente dal poeta latino Tito Lucrezio Caro
(99-55 a.C.) nel suo libro pregno d’atmosfera De Rerum Natura:
E ora se il numero degli atomi è così sterminato
che un’intera età dei viventi non basterebbe a contarli,
e persiste la medesima forza e natura che possa
congiungere gli atomi dovunque nella stessa maniera
in cui si congiunsero qui, è necessario per te riconoscere
che esistono altrove nel vuoto altri globi terrestri
e diverse razze di uomini e specie di fiere.15
Oggi possiamo essere sicuri del fatto che non c’è alcuna probabilità di trovare forme di vita
intelligente in un altro pianeta del nostro sistema solare. SETI, tuttavia, indaga pianeti extrasolari.
Quando Drake diede l’avvio al progetto Ozma fece una sorta di atto di fede, perché a quei tempi gli
astronomi non potevano essere sicuri che esistessero altri pianeti fuori dal sistema solare; sono stati
identificati soltanto in tempi recenti. Al giorno d’oggi abbiamo trovato circa quattrocento pianeti che
orbitano intorno a stelle situate nelle immediate vicinanze della nostra galassia. I metodi che hanno
portato al maggior numero di scoperte sono due: il primo dipende dal fatto che un pianeta esercita una
forza sulla stella attorno a cui orbita, facendola ondeggiare lievemente nel suo moto. Un attento studio
della luce della stella rileva questo movimento come uno spostamento periodico nella lunghezza d’onda
(il cosiddetto effetto Doppler). Il secondo metodo cerca piccoli cambiamenti nella luminosità della stella
causati dal passaggio di un pianeta (è detto metodo dei transiti). Ad oggi soltanto un pianeta extrasolare è
stato fotografato come oggetto distintamente riconoscibile dalla sua stella. Il motivo per cui è così
difficile catturare un’immagine è che la luce diffusa dalla stella è tale da inghiottire la debole luce
emanata dal pianeta; è come cercare di individuare una lucciola in prossimità di un proiettore luminoso.
Dal momento che sia il metodo Doppler sia il metodo dei transiti funzionano al meglio per oggetti
decisamente massivi che orbitano molto vicini alla loro stella (chiamati Giovi caldi dalla stampa
popolare), pochi dei pianeti identificati sinora sono simili alla Terra. Recentemente sono stati catalogate
alcune “super Terre”: pianeti densi e relativamente piccoli, ma dotati di masse che sono molte volte
quella del nostro pianeta. Gli astronomi, ciò nonostante, in generale concordano sul fatto che là fuori
abbondino pianeti delle dimensioni della Terra, e non vedono l’ora di poter disporre di sistemi ottici
migliori che, un giorno, ci forniranno immagini dettagliate di queste “altre Terre”. Nel frattempo un
satellite di nome Kepler, lanciato nel marzo 2009, per tre anni monitorerà 100.000 stelle alla ricerca di
transiti; Kepler ha la sensibilità di rilevare, anche se non anche quella di fotografare, pianeti abbastanza
piccoli da essere paragonabili alla Terra.
Dal punto di vista della possibilità di ospitare la vita non è sufficiente che un pianeta abbia più o
meno lo stesso raggio della Terra: essere un pianeta “tipo Terra” richiede numerose altre caratteristiche
che si ritiene siano essenziali per la biologia. Per esempio, deve possedere un’atmosfera ragionevolmente
spessa; ed è probabile che allo stesso tempo sia necessario un interno caldo, che generi un campo
magnetico in grado di deviare le pericolose radiazioni cosmiche, e di guidare la tettonica a zolle (i
movimenti della crosta continentale), fatto importante per riciclare gli elementi chimici nell’ambiente di
superficie. Inoltre non c’è dubbio sul fatto che l’elemento davvero fondamentale per la vita, così come
noi la conosciamo, sia l’acqua liquida: nessuna forma di vita nota può esistere in sua assenza. Queste
condizioni hanno portato al concetto di zona abitabile: una regione dello spazio attorno a una stella in cui
la superficie di un pianeta potrebbe sopportare la presenza di acqua allo stato liquido. Nel caso del
sistema solare la zona abitabile si estende a partire da un punto da qualche parte tra Venere e la Terra
(Venere è di gran lunga troppo calda perché possa esistervi acqua liquida) e arriva fino a Marte (che è per
la maggior parte, anche se non del tutto, troppo freddo).
Per essere “in zona”, l’ideale sarebbe un pianeta tipo Terra che si trovasse in un’orbita tipo quella
della Terra attorno a una stella tipo il Sole… il modo tradizionale di considerare le zone abitabili,
tuttavia, è oggi ritenuto troppo restrittivo e ha bisogno di essere allargato, per potere includere alcune
interessanti possibilità aggiuntive. Una stella fredda come una nana rossa, per esempio, potrebbe
possedere una zona abitabile molto stretta e a piccolo raggio. Nel 2007 attorno alla nana rossa Gliese
581c fu scoperto un pianeta che potrebbe ospitare la vita: si tratta di una super Terra, in orbita ad appena
11 milioni di chilometri dalla sua stella. Ora, dato che la Terra dista dal Sole 150 milioni di chilometri,
tale distanza risulta essere abbastanza piccola affinché l’acqua vi si trovi allo stato liquido, anche se la
stella è poco luminosa. Per quanto riguarda l’esistenza di forme di vita progredite, tuttavia, un pianeta
così vicino alla propria stella è di certo bloccato in fase con la sua orbita, presentando dunque un lato
sempre rivolto verso la stella e l’altro sempre in ombra, così come nel caso della Luna rispetto alla Terra
(dalla Terra non possiamo vedere l’altra faccia della Luna). Questa situazione implica che metà del
pianeta sia costantemente oppressa dal caldo e l’altra metà permanentemente congelata, e ciò non
rappresenta la situazione, diciamo, ideale sotto il profilo biologico. Eppure ci sarà una zona Goldilocks17,
sul confine, e là potrebbe essere possibile almeno la nascita di forme di vita primitive.
Un ulteriore tipo di zona abitabile sarebbe l’interno di piccoli pianeti o di satelliti ghiacciati: nella
periferia più fredda ed esterna del nostro sistema solare Europa, uno dei satelliti di Giove, ha un oceano
liquido scaldato dalla forza gravitazionale di Giove tramite riscaldamento mareale sotto la propria crosta
di ghiaccio. Ancora più lontano, il pianeta nano Plutone è oggi noto per essere soltanto uno tra molti corpi
ghiacciati presenti nell’universo, alcuni dei quali tanto ricchi di elementi chimici da poter favorire la
nascita della vita. I corpi più grandi hanno un calore interno derivante dalla loro formazione che,
aggiunto agli effetti riscaldanti della radioattività e dei processi chimici, è sufficiente perché restino
liquidi al proprio interno per miliardi di anni. Altri sistemi planetari conterranno quasi sicuramente corpi
celesti simili, con superfici congelate e parti interne piene di acqua allo stato liquido. Se in questi pianeti
ricoperti di ghiaccio dovesse emergere la vita, sarebbe quasi sicuramente allo stadio di microbi; anche se
si dovessero evolvere in questi luoghi entità biologicamente più complesse, sul tipo di vita che si
verrebbe a creare possiamo soltanto azzardare ipotesi. Quanto impiegherebbero queste creature senzienti
confinate da un solido cielo – spesso centinaia di chilometri – nel loro habitat liquido e nel buio più pesto,
a scoprire che oltre il tetto in apparenza impenetrabile del loro mondo esiste un vasto universo? È
difficile immaginare che costoro possano “evadere” dalla loro prigione di ghiaccio e lanciare messaggi
radio nello spazio.
Per finire: e tutte quelle storie sugli UFO?
Oggi sappiamo che il numero di stelle nell’universo è pari a 1 seguito da 23 zero. Dato questo
numero, è arrogante da parte nostra pensare che il nostro sia l’unico Sole con un pianeta che ospita la
vita, e che questo sia l’unico sistema solare con una forma di vita intelligente. Edward J. Weiler,
direttore NASA1
Un universo che brulica di vita?
La maggior parte delle persone non fa fatica ad accettare che, sparsi nello spazio, ci possano
essere innumerevoli mondi abitati. Quando si chiede loro di giustificare questa convinzione una risposta
tipica è che l’universo è così vasto che, semplicemente, da qualche parte là fuori devono esserci la vita e
l’intelligenza. Si tratta di un ragionamento molto comune e ripetuto, ma ahimè contiene la fallacia logica
elementare di confondere una condizione necessaria con una sufficiente. Consideriamo i due requisiti di
base per l’esistenza della vita su un pianeta simile alla Terra: in primo luogo, il pianeta tipo Terra e, in
secondo luogo, la genesi della vita. Immaginiamo di sapere per certo che esistono davvero migliaia di
miliardi di pianeti simili alla Terra nell’universo osservabile, cosa che peraltro sembra sempre più
probabile: questo ci garantisce l’esistenza di migliaia di miliardi di pianeti abitati? Assolutamente no. Un
pianeta abitabile non è la stessa cosa di un pianeta abitato; questo sarebbe vero soltanto nel caso in cui il
semplice fatto che un pianeta sia simile alla Terra garantisca la genesi della vita. Immaginiamo però che
l’emergere della vita dalla nonvita sia una mostruosa coincidenza, un evento con una probabilità così
bassa che anche se avessimo a disposizione milioni di miliardi di miliardi di pianeti sarebbe improbabile
che accadesse più di una volta; la mera dimensione dell’universo conterebbe ben poco di fronte al fatto
che le probabilità sono in così larga misura contro la formazione spontanea della vita.
Cosa sappiamo dell’origine della vita? Potrebbe essersi trattato di uno strano caso fortunato, un
incidente isolato che ha reso la Terra unica nell’universo osservabile? Molti scienziati famosi sono di
questo avviso. Francis Crick, coscopritore della struttura del DNA, ha scritto: «L’origine della vita al
momento ci sembra quasi un miracolo, dato che sono così tante le condizioni che devono essere
soddisfatte perché si verifichi»2. Jacques Monod, il biochimico francese vincitore del premio Nobel per
aver svelato i dettagli del codice genetico, ha in modo simile proclamato: «L’uomo finalmente sa di
essere solo nell’immensità indifferente dell’universo, da cui è emerso per caso»3. Al tempo in cui
quest’affermazione venne fatta, credere in una qualsiasi forma di vita extraterrestre – per non parlare poi
di esseri alieni intelligenti – era visto come pura fantascienza, roba da brutti film hollywoodiani, senza
alcuna base scientifica. Negli anni Sessanta ero studente, e la mia fascinazione nei confronti della
possibilità di vita extraterrestre aveva una così cattiva reputazione da rasentare l’eccentricità: il tutto era
visto un po’ come credere alle fate. In particolare, la ricerca di vita aliena intelligente non era affatto
presa sul serio: il famoso biologo di Harvard George Simpson descrisse SETI come «un gioco d’azzardo
contro la storia, con le più alte probabilità contrarie»4.
Oggi le cose sono molto cambiate: il biologo Christian de Duve (anche lui premio Nobel, come
Monod) è così convinto del fatto che, in tutto l’universo, su pianeti simili alla Terra debba sorgere la vita,
da chiamarlo un imperativo cosmico5. Oggi, sia gli scienziati sia i giornalisti dichiarano spesso che
l’universo è pieno zeppo di vita: ogni piccola scoperta che riguardi un pianeta è presentata dai mezzi di
comunicazione come un passo in più in direzione della scoperta di vita extraterrestre, o addirittura di vita
intelligente. L’appuntamento del 2009 dell’American Association for the Advancement of Science,
tenutosi in una Chicago coperta di neve proprio prima del lancio della missione Keplero votata alla
ricerca di pianeti extrasolari simili alla Terra, ha simboleggiato questo nuovo atteggiamento: molte
sessioni erano dedicate all’astrobiologia, una materia che, tra le altre cose, si occupa dello studio della
vita oltre la Terra. In una di queste sessioni, Alan Boss della Carnegie Institution di Washington DC ha
dichiarato con esuberanza: «Se abbiamo un mondo abitabile e lo lasciamo evolvere per qualche miliardo
di anno, è inevitabile che qualche forma di vita sorga su di esso… Sarebbe impossibile impedire alla vita
di crescere su questi pianeti abitabili». Boss ha continuato, fornendo statistiche interessanti: «Potrebbero
esserci centomila miliardi di miliardi di pianeti simili alla Terra nello spazio, e questo renderebbe
inevitabile l’esistenza di vita extraterrestre»6. Il giornalista scientifico Richard Alleyne ha scritto un
articolo su questo evento per il quotidiano britannico “Daily Telegraph”: «La vita sulla Terra una volta
era vista come uno scherzo della natura che aveva avuto luogo soltanto una volta. Tuttavia, oggi gli
scienziati stanno giungendo alla conclusione che l’universo brulichi di organismi viventi».
Allora, qual è il punto di vista corretto? La vita è una mostruosa coincidenza che si è verificata
soltanto sul nostro pianeta, oppure si tratta di un “imperativo cosmico”, e in quanto tale è diffusa in tutto
l’universo? La risposta risiede in quanto sia probabile, per la vita, emergere dalla nonvita; di
conseguenza, ha senso cercare indizi andando a vedere com’è iniziata la vita sulla Terra.
Com’è iniziata la vita?
Quando Charles Darwin pubblicò la sua opera fondamentale L’origine delle specie offrì un
racconto convincente di come, su archi di tempo lunghissimi, la vita si sia evoluta dai semplici microbi
alla ricchezza e alla complessità della biosfera che vediamo oggi. Intenzionalmente, tuttavia, ha omesso
di spiegare come, in primo luogo, la vita abbia avuto origine, limitandosi alla battuta: «Uno potrebbe allo
stesso modo speculare sull’origine della materia». Due secoli più tardi, per quanto riguarda il modo in cui
la vita è iniziata, stiamo ancora brancolando nel buio.
In questo caso abbiamo tre rompicapo in uno: il quando, il dove e il come della genesi della vita.
Se non altro, il quando sta diventando più chiaro: dopo alcuni battibecchi accademici nel corso
dell’ultimo decennio, la maggior parte dei biologi concorda sul fatto che le colline di Pilbara
nell’Australia Occidentale contengano tracce di vita risalenti a circa tre miliardi e mezzo di anni fa7. Oggi
centro di interesse e oggetto di un’intensa attività di ricerca internazionale, le antiche rocce sporgono da
colline aride, in un terreno secco e desolato che dista dalla città costiera di Port Headland circa quattro
ore di guida nella rada boscaglia. Le prove dell’esistenza della vita raccolte fin’ora includono placchette
fossili microbiche dette stromatoliti e minuscole escrescenze incorporate nella roccia, che molti
ricercatori ritengono essere microfossili. Di recente nella stessa regione sono state trovate prove di un
vero e proprio ecosistema fossilizzato8.
È possibile che la vita sia esistita in un’epoca ancora più antica? Il problema, nel rispondere a
questa domanda, sta nella scarsità di rocce davvero antiche. In Groenlandia ce ne sono alcune, datate a
poco meno di quattro milioni di anni fa, che sono state sottilmente alterate in modo consistente con
l’attività biologica (ma non si può escludere che la responsabilità sia piuttosto di processi non biologici).
Sono note rocce anche più vecchie di queste, ma ad oggi in nessuna di esse sono state trovate tracce di
vita. È ovvio che gli organismi di Pilbara non si sono affacciati alla vita belli e fatti: prima della loro
apparizione deve esserci stato un periodo di evoluzione. Tutto ciò che possiamo dire con sicurezza è che
la vita si è stabilita sulla Terra in un qualche momento compreso tra i tre miliardi e mezzo e i quattro
miliardi di anni fa; questo dato può essere messo a confronto con l’età del pianeta stesso, pari a circa
quattro miliardi e mezzo di anni.
Dove la vita sia iniziata è una questione ancora più problematica. Le colline di Pilbara ci
forniscono le tracce di vita sulla Terra più antiche, ma non c’è alcuna ragione di supporre che la vita sia
iniziata proprio lì. Lo stesso Darwin ha rimuginato su un «piccolo stagno caldo» pieno di elementi
chimici rilasciati dalle rocce vicine, e ricco di energia fornita dalla luce del Sole. Sono stati ipotizzati
molti altri tipi di “brodo primordiale”: dalle lagune in via di essiccamento a goccioline d’acqua sospese,
fino all’oceano nella sua interezza. Altri ricercatori indicano invece la mescolanza dei liquidi bollenti che
esplodono dagli orifizi vulcanici situati nelle profondità oceaniche. La mia località preferita, se vi
interessa, è molto al di sotto del fondale marino (forse anche un chilometro o due più in profondità), nei
pori delle rocce fuse dalle lente correnti di fluidi caldi convettivi. A dire il vero, per quanto riguarda lo
scenario non si può far altro che tirare a indovinare. Non si sa con chiarezza nemmeno se la vita sia
iniziata proprio sulla Terra: ci sono ragioni per cui potrebbe essere iniziata su Marte, per esempio. Per
miliardi di anni, la Terra e Marte si sono scambiate rocce esplose nello spazio tramite il bombardamento
di comete e asteroidi, e la superficie di Marte è tutta bucherellata proprio a causa di tali impatti. La
maggior parte del materiale espulso entra in orbita intorno al Sole, e una piccola frazione alla fine
colpisce la Terra, magari dopo aver trascorso nello spazio un milione di anni, se non di più. Nel corso
della storia geologica migliaia di miliardi di tonnellate di materiale marziano sono piovute sul nostro
pianeta; da qui, non ci vuole molto a immaginare microbi marziani che si fanno dare un passaggio da uno
di questi detriti9.
Un microbo resistente, inserito ben in profondità nella roccia, al riparo dalle difficili condizioni
che ci sono nello spazio, potrebbe di certo sopravvivere a un viaggio interplanetario, specie se fosse nella
condizione di spora, se cioè fosse dormiente. Gli esperimenti hanno confermato che i microbi all’interno
di rocce possono sopportare le condizioni spaziali, così come il decollo e il successivo ingresso ad alta
velocità nell’atmosfera terrestre10.
Ma perché proprio Marte? Le prove a favore del fatto che la vita sia iniziata lì non sono certo
schiaccianti; eppure questa rimane un’ipotesi suggestiva. Marte è un pianeta più piccolo della Terra, che
pertanto si è raffreddato più velocemente dopo la sua formazione e che, di conseguenza, è stato pronto
per la vita con anticipo rispetto alla Terra. Per circa 700 milioni di anni entrambi i pianeti sono stati
bombardati in modo feroce da oggetti di dimensioni variabili, da quelle di un ciottolo a quelle di massicci
asteroidi con 500 chilometri di diametro. Gli strati superficiali segnati dal bombardamento sono meno
compatti su Marte che sulla Terra a causa della minore gravità, pertanto avrebbero offerto un rifugio più
sicuro a qualunque microbo vivesse nel sottosuolo. Su Marte c’è dell’acqua, ma non molta. La sua
relativa scarsità potrebbe a dire il vero essere stata d’aiuto per la sopravvivenza delle prime forme di vita:
sulla Terra il calore rilasciato dagli impatti più grandi fece bollire gli oceani e avvolse il pianeta in
un’atmosfera letale di vapore roccioso e fumi surriscaldati. Ai nostri giorni Marte è un deserto congelato,
forse abitabile soltanto da microbi terrestri; ma miliardi di anni fa le carte erano rovesciate: Marte offriva
un ambiente più favorevole alla vita, con corsi d’acqua e laghi, un’atmosfera di spessore molto maggiore
e temperature superficiali più alte di quelle odierne. Niente di tutto questo fa sì che le prove a favore del
fatto che la vita terrestre provenga da Marte siano del tutto convincenti, ma amplia il numero di scenari
che devono essere esplorati per rispondere alla domanda su dove sia iniziata la vita.
Il problema più spinoso riguardo l’origine della vita è il come. È facile capire quale sia il primo
ostacolo davanti cui ci si trova: la più semplice forma di vita conosciuta è già così complessa che è
inconcepibile che qualcosa del genere sia sorto in modo spontaneo in una singola trasformazione, solo
per caso. Per usare una famosa metafora dall’astronomo britannico Fred Hoyle, è più facile credere che
un tornado che passi attraverso un deposito di rottami riesca ad assemblare un Boeing 747 perfettamente
funzionante11. Eppure, la parola che stiamo usando qui è vita conosciuta: in realtà nessuno immagina che
il primo organismo vivente fosse complesso come un batterio. È possibile che esistano forme di vita
molto più semplici, trampolini di lancio dal primo organismo alla vita così come oggi la conosciamo. È
possibile che questi insetti primitivi siano ancora da qualche parte là fuori, ignorati per ciò che sono
davvero: troppo piccoli per attirare l’attenzione, oppure confinati in un habitat particolare non ancora
esplorato dai microbiologi (parlerò ancora di questi aspetti più avanti). Possono addirittura essere rimasti
su Marte. È altrettanto concepibile che i precursori della vita, più semplici della vita odierna, siano morti
molto tempo fa, inglobati o messi da parte da forme di vita più complesse e sofisticate, e che non abbiano
lasciato alcuna traccia.
La vita, almeno così come noi la conosciamo, è di natura chimica. Può sembrare ovvio, ma
quando si parla di SETI non bisognerebbe dare niente per scontato. Duecento anni fa la vita era vista
come qualcosa di magico, animato da una forza misteriosa: la forza vitale, per l’appunto. Gli scienziati
ancora oggi usano il termine chimica organica, anche se sappiamo che le leggi della chimica sono le
stesse sia per una molecola dentro un organismo sia per una che ne sia al di fuori. La maggior parte delle
prime ipotesi sull’origine della vita, proprio come quella di Darwin sul piccolo stagno caldo,
ipotizzavano l’esistenza di un percorso chimico ben definito (magari lungo e tortuoso) tra un cocktail
chimico amorfo e la prima cellula vivente organizzata. L’origine della vita, allora, sarebbe qualcosa di
analogo a una torta: ci sarebbero una lista delle sostanze richieste e una procedura – scaldare, asciugare,
raffreddare eccetera – per trasformare una cosa inanimata in un organismo vivo. È un’ipotesi
accattivante, rinforzata da un famoso esperimento condotto nel 1952 da Stanley Miller all’università di
Chicago. Su insistenza del geochimico Harold Urey, Miller riempì un contenitore con metano, acqua,
ammoniaca e idrogeno – gas che a quei tempi si pensava fossero presenti nell’atmosfera terrestre
primordiale – e irrorò la mistura di elettricità per qualche giorno. Miller fu entusiasta di scoprire, nella
fanghiglia sulla base del contenitore, degli aminoacidi, i mattoni costitutivi delle proteine.
Molti chimici iniziarono a considerare l’esperimento di Miller-Urey come il primo passo sulla
lunga strada verso la sintesi della vita in laboratorio, in cui si ricreerebbe lo stesso percorso chimico che
madre natura intraprese miliardi di anni fa. Ahimé, tutta questa linea di ricerca che sembrava così
promettente negli anni Cinquanta del XX secolo, si rivelò essere una specie di vicolo cieco. È innegabile
che gli aminoacidi siano i costituenti delle proteine, però sono lontani dal prodotto completo come lo è un
mattone rispetto all’Empire State Building. Inoltre gli aminoacidi sono facili da fare, e se ne trovano in
natura nei meteoriti e addirittura nelle nubi di gas interstellare. Andare oltre gli aminoacidi, per non dire
produrre acidi nucleici (la base del meccanismo dell’ereditarietà) si è dimostrato essere impossibile
usando una semplice procedura come quella di iniettare dell’energia in un po’ di brodo. Se la vita è stata
incubata da reazioni chimiche successive, è improbabile che sia successo in un modo tanto immediato.
Da Miller-Urey la nostra comprensione della natura della vita ha subito una rivoluzione: nel corso
dello stesso anno, Francis Crick e James Watson hanno pubblicato il loro articolo sulla struttura del
DNA, e nei decenni successivi gli scienziati hanno iniziato a considerare la cellula vivente più come un
supercomputer che come un oggetto magico. Di certo la vita usa la chimica per svolgere i suoi
programmi, ma la chiave per tali qualità misteriose sta nel modo in cui le cellule elaborano e replicano
l’informazione. Questo fatto getta una luce del tutto diversa sul rompicapo della biogenesi perché il
nocciolo della questione, ora, sta nel comprendere come possa essere sorto spontaneamente qualcosa
come la conservazione e la replicazione dell’informazione, e non come degli elementi chimici presenti in
natura abbiano reagito per “animare” la materia.
È ovvio che un ruolo fondamentale, in questa storia, lo gioca la complessità. Un sistema, per
qualificarsi ad essere descritto come vivente, deve fare qualcosa in più rispetto a limitarsi a replicare
l’informazione (questo lo può fare un semplice cristallo di sale): deve essere abbastanza complesso da
possedere un po’ di autonomia. In altre parole, il contenuto di informazione deve essere abbastanza
grande da far sì che questo sistema possa occuparsi dei propri programmi, ossia che possa, abbastanza
alla lettera, “prendere vita”. È ben lungi dall’essere chiaro cosa potrebbe essere questa soglia della
complessità, anche se i microbi autonomi più semplici che si conoscano in natura contengono, ciascuno,
oltre un milione di bit di informazione. Campi di ricerca che hanno a che fare con questo problema sono
lo studio dei sistemi auto-organizzati, l’autoassemblaggio delle strutture molecolari, la teoria della
complessità e dell’informazione in generale e un ambito di ricerca in fiorente sviluppo come la biologia
sintetica, in cui i ricercatori sono impegnati a progettare e a costruire degli organismi in laboratorio
partendo da zero. Si tratta di aree molto eccitanti che procedono a gran velocità, anche se tutto quello che
possiamo dire, al momento, è che il problema dell’origine della vita è lungi dall’essere stato formulato
con chiarezza, e ben lontano dall’essere risolto. Anche se non sapremo mai con esattezza come sia
iniziata la vita, possiamo ancora risolvere un rompicapo meno complicato: è successo per puro caso
oppure si tratta di un evento che è probabile si verifichi? Dal punto di vista della ricerca di vita
intelligente extraterrestre, tutto ciò che ci serve sapere è se la vita sorga con facilità e se, di conseguenza,
sia sparsa in tutto l’universo, convinzione che sembra essere molto diffusa.
La vita come strano caso fortuito
A un fisico come me non sembra proprio che la vita manchi di magia: tutte quelle stupide
molecole che cospirano per fare cose così intelligenti! Come fanno? Non c’è alcun direttore d’orchestra,
nessun coreografo che diriga la performance, nessuno spirito di gruppo, nessuna volontà collettiva,
nessuna forza vitale: soltanto atomi privi di cervello che spingono e premono l’uno sull’altro, presi a
calci da fluttuazioni termiche casuali. Ciò nonostante, il prodotto finale è una forma di ordine stupenda e
molto peculiare. Persino i chimici, a cui risultano familiari i sorprendenti poteri di trasformazione delle
molecole, trovano che tutto ciò tolga il fiato. George Whitesides, docente di Chimica alla Harvard
University, ha scritto: «Quanto è notevole la vita? La risposta è: molto. Quelli di noi che si occupano di
reti di reazioni chimiche non ne hanno assolutamente idea»12. Whitesides insiste su quanto sia difficile
immaginare che un sistema così complesso e così specificatamente organizzato sia, in primo luogo,
venuto in essere: «Com’è possibile che un impiastro chimico sia diventato una rosa, anche se ci sono stati
miliardi di anni a disposizione per le prove13? Noi, o io se non altro, non riusciamo a capire. Non è
impossibile, ma sembra molto, molto improbabile»14. E questo ci porta al cuore del problema: quanto è
improbabile? Tutta l’impresa di SETI è imperniata sulla risposta a questa domanda. Continuo a citare
Whitesides: «Quanto è probabile che un pianeta appena formato, con condizioni sulla superficie che
consentano l’esistenza di acqua allo stato liquido, dia origine alla vita? Oggi non ne abbiamo nessuna
idea, né disponiamo di alcun modo di ricavare stime credibili. Da quanto sappiamo, la risposta sta da
qualche parte tra impossibile e inevitabile. Non possiamo calcolare in modo né soddisfacente né
convincente le probabilità dell’emergenza spontanea di vita cellulare su una terra prebiotica
plausibile»15.
Le cose potrebbero essere diverse se la disposizione degli elementi chimici all’interno della
cellula seguisse qualche schema; per esempio, se le sequenze di aminoacidi che costituiscono le proteine
contenessero regolarità matematiche riconducibili a qualche legge di natura sottostante. Ma non appare
nessun ordine di questo tipo: le sequenze chimiche sembrano del tutto fortuite, il che ha portato Monod
alla sue sconfortanti conclusioni. Pur tuttavia, esse non sono arbitrarie: in molti casi anche un minuscolo
cambiamento nella sequenza può compromettere gravemente le funzionalità biologiche. Ne segue che la
disposizione è, allo stesso tempo, sia casuale sia molto specifica; una combinazione di caratteristiche
peculiare, per non dire unica, difficile da spiegare chiamando in causa forze fisiche deterministiche16.
D’altro canto, se nel campo dell’origine della vita è il caso a farla da padrone, le probabilità a favore
dell’ottenimento proprio di quella disposizione di molecole sono infinitesimali (il famoso tornado nel
deposito di rottami). Da questo punto di vista, allora, la vita è uno scherzo della natura scaturito da una
congiuntura casuale fin troppo fortuita, un processo che ha una così alta improbabilità di accadere che
possiamo dire, senza timore di sbagliarci, che si sia verificato soltanto una volta in tutto l’universo
osservabile. Il fatto che noi siamo testimoni di un mezzo miracolo non è per nulla sorprendente, ma un
effetto di selezione inevitabile: gli osservatori possono esistere soltanto là dove c’è la vita17.
Nonostante questi fatti scoraggianti, si è ormai diffusa tra gli scienziati la fiducia nell’esistenza di
vita extraterrestre. Cos’è cambiato allora rispetto ai giorni vissuti da quei pessimisti di Crick, Monod e
Simpson? Curiosamente, molto poco dal punto di vista scientifico. È vero che ora possiamo essere
piuttosto sicuri del fatto che ci siano molti altri pianeti nell’universo, ma questo non fa altro che
confermare ciò che gli astronomi sospettavano già negli scettici anni Sessanta. Da allora sono state
trovate nello spazio alcune molecole organiche di base – nelle comete e nelle nubi molecolari – ma come
ho spiegato è facile costruire i mattoncini della vita, e ciò conta ben poco rispetto al problema di come
metterli insieme nei modi molto complessi che caratterizzano l’esistente; per non parlare di modi che
elaborino, sistematicamente, le informazioni. Forse il cambiamento più radicale è stato la scoperta che i
microorganismi possono tollerare un insieme di condizioni molto più ampio di quanto si pensasse pochi
decenni fa, il che implica che il numero di pianeti che in linea di principio potrebbero ospitare la vita è
aumentato. Tutto questo però non fa che aumentare di poco il numero di pianeti che potremmo
considerare buoni candidati per entrare a far parte del gruppo “pianeti tipo Terra”. Ciò non va a incidere
per nulla sul fatto che la nascita della vita possa essere stata una mostruosa coincidenza.
Si è fatto un gran parlare del ritrovamento di indizi dell’esistenza di acqua allo stato liquido (su
Marte, per esempio). La NASA ha un mantra non ufficiale, “segui l’acqua”, come se la vita ci stesse
cortesemente aspettando ovunque vi sia un lago o un oceano. Spesso è stato fatto notare che là dove c’è
acqua allo stato liquido, sulla Terra, esistono forme di vita. È vero che l’acqua allo stato liquido è
essenziale per la vita così come noi la conosciamo, ma la sequenza di ragionamento pianeti / acqua / vita
è un altro esempio evidente di confusione fra una condizione necessaria e una sufficiente. Può anche
essere vero che l’acqua liquida sia necessaria per la vita, ma ciò è ben lungi dall’essere sufficiente:
potrebbe essere necessaria anche una pletora di altre condizioni. Sulla Terra troviamo forme di vita in
quasi tutti gli habitat con dell’acqua allo stato liquido non perché sia sorta lì spontaneamente ma perché
l’idrosfera terrestre forma un sistema più o meno contiguo, cosicché la vita è stata in grado di diffondersi
e di invadere tutti i luoghi in cui ci sia dell’acqua. Seguire le tracce dell’acqua nello spazio non è
sbagliato, ma è simile alla storia dell’uomo che perde le chiavi nel buio e le cerca sotto il lampione, non
perché è probabile che le abbia perse lì, ma perché non c’è alcuna probabilità di trovarle altrove.
Nessuna delle scoperte scientifiche degli ultimi cinquant’anni ha cambiato davvero cosa
sappiamo, o non sappiamo, dell’apparente natura un po’ grottesca della vita. Il cambio di atteggiamento è
dovuto, credo, più alla moda che al fatto di aver scoperto qualcosa. In un momento in cui i fisici
speculano in tutta libertà su extra dimensioni, antigravità e materia oscura, e i cosmologi propongono
universi multipli ed energia oscura, fare congetture sulla vita extraterrestre, in paragone, sembra una cosa
banale. Va bene così. Fare congetture è divertente, ed è possibile che da qualche parte là fuori ET ci sia
davvero. Oppure no. Ad ogni modo, non dobbiamo mai permettere che delle congetture prendano il posto
della scienza vera.
Un modo per fare sì che la vera scienza si occupi di questi argomenti è vedere se l’imperativo
cosmico di de Duve si regge in piedi. È possibile che le leggi della natura in qualche modo siano state
truccate a favore della vita, rendendo il suo emergere molto più probabile di quanto implicherebbe un
semplice agitare le molecole? La risposta è no, o almeno non al primo sguardo. Ho già accennato al fatto
che nelle proteine non esiste alcuno schema intelligibile nelle sequenze degli aminoacidi. Lo stesso vale
per le sequenze delle coppie di basi (le “lettere genetiche”) nel DNA. Sembra tutto casuale. Se le leggi
della fisica e della chimica, in qualche modo, stanno cospirando per creare una corsia preferenziale per la
vita in contrapposizione alle probabilità pure e semplici, questo non emerge nel prodotto finale, le
strutture molecolari vere e proprie. Le leggi della fisica e della chimica sono del tutto indifferenti alle
sequenze di coppie di basi nel DNA o a quelle di aminoacidi nelle proteine: non viene mostrato nessun
favoritismo nei confronti di una sequenza piuttosto che di un’altra18. I commentatori spesso dichiarano
che la vita è “scritta” nelle leggi della natura; ma se è scritta nelle leggi della fisica e della chimica
dobbiamo ancora individuarne i segnali. Questa non è certo una sorpresa per un fisico. Le leggi della
fisica, dopotutto, sono universali: la probabilità che dentro di loro abbiano scritto “vita” non è maggiore
di quella che abbiano scritto “computer portatile” o “Montagne Rocciose”. La vita, i computer e le
montagne coesistono con le leggi della fisica; ma le leggi, da sole, non ne spiegano l’esistenza.
Tutto questo invalida l’idea dell’imperativo cosmico? Non necessariamente. Le leggi di base
della fisica non possono esaurire tutte le leggi possibili. Per esempio, vi sono regolarità simili a leggi di
natura piuttosto generali che descrivono sistemi complessi che si auto-organizzano come le colonie di
formiche, i mercati azionari e internet. Queste leggi “organizzative” si aggiungono a quelle della fisica
fondamentale; non le soppiantano né le annullano. È possibile che la vita sia un prodotto di una legge
simile ma di livello più alto (anche detta emergente), forse una legge di complessità crescente che non
opera universalmente come le leggi della fisica, ma su sistemi speciali, anche se non troppo improbabili,
che soddisfano condizioni ancora sconosciute. Se fosse così, tutto quello di cui avremmo bisogno
sarebbe la fortuna, innanzitutto, di creare un simile sistema speciale; dopodiché sarebbe la legge a
portarlo in direzione della vita. Per quanto mi riguarda sono stato a lungo attirato dalla possibilità che
esistano simili leggi di livello più alto, cioè leggi di complessità crescente, ma ammetto senza problemi
che sinora le prove a loro favore sono insufficienti19. Ritornerò su questo argomento nel Capitolo 8.
Un’altra linea di ragionamento a favore dell’imperativo cosmico deriva da una varietà di giochi
matematici in cui sembra che un comportamento “simile alla vita” emerga quasi senza sforzo anche
quando le regole del gioco sono molto semplici. Un tipo di gioco, gli automi cellulari, propone un mondo
fumettoso in cui i quadrati su una scacchiera sono bianchi o neri in modo da formare uno schema; lo
schema evolve poi deterministicamente secondo alcune semplici regole. Un particolare automa cellulare,
inventato dal matematico inglese John Conway e passato alla storia, a ragione, come Gioco della vita, è
diventato molto di moda e mostra una serie davvero ricca e complessa di forme che si muovono e
interagiscono tra loro20. Se processi semplici “giocati” in combinazione possono generare una
complessità organizzata in accelerazione, forse dopo tutto il segreto della vita non è poi così sottile.
D’altro canto, la vita vera è tanto lontana dal Gioco della vita quanto un topo lo è da Topolino. Le
rappresentazioni matematiche semplici sono molto divertenti ma non devono essere confuse con la
realtà. Al più, gli automi cellulari possono far pendere di poco la bilancia a favore dell’idea che la vita sia
iniziata con una certa facilità.
Anche se non è stato identificato nessun “principio della vita” sepolto sotto le leggi della fisica e
della chimica, i biologi concordano sul fatto che ci sia almeno un principio organizzativo sottostante tutti
i tipi di vita: l’evoluzione darwiniana. Ogni sistema che si replichi con delle variazioni e che sia soggetto
alla selezione naturale evolverà nel corso del tempo. Questo principio, che in realtà è piuttosto un truismo
(dato che si limita ad affermare che quelle entità che si replicano con più efficienza fanno sì che i loro
numeri relativi crescano all’interno della popolazione), può essere preso come una definizione della vita.
L’evoluzione può condurre verso una complessità maggiore, ma non è necessario: la vita può essere
iniziata con qualcosa di comparativamente semplice (una popolazione di piccole molecole che si
replicano, per esempio). E forse queste molecole sono abbastanza semplici da formarsi in modo
spontaneo in molti ambienti; magari, addirittura, si stanno formando sulla Terra proprio oggi. Una volta
che il processo di replicazione molecolare è avviato può subentrare l’evoluzione darwiniana, portando la
complessità a livelli sempre maggiori, finché infine non emerge qualcosa di simile alla familiare cellula
vivente. Il punto importante è che il darwinismo non deve aspettare che insorga la vita cellulare per poter
agire: potrebbe essere parimenti efficace anche a livello molecolare. Questa è un’affermazione facile da
fare, ma lascia aperte molte domande, non ultima quella su quale sia l’identità dei primi replicatori. Cosa
sarebbero per la precisione queste molecole? Nessuno lo sa, anche se il chimico Graham Cairns-Smith ha
ipotizzato che possano anche non essere molecole organiche; è più favorevole all’ipotesi che siano
cristalli d’argilla impuri21.
A dire il vero, non è necessario che la vita abbia inizio con strutture replicanti. Tutto ciò che si
richiede è la replicazione dell’informazione. I bit di informazione possono essere rappresentati
ogniqualvolta ci sia uno schema ben definito in una struttura fisica. Lo schema può essere replicato
riproducendo la struttura oppure solo copiando lo schema su una “tabula rasa”. Facciamo un esempio:
quando trasferisco un file da una chiavetta di memoria a una parte vuota dell’hard disk del mio computer,
il computer non fa una copia fisica della chiavetta. Quello che succede è che i bit di informazione (lo
schema elettrico) nella chiavetta sono copiati sull’hard disk: è il software ad essere replicato, non
l’hardware. La vita potrebbe iniziare, semplicemente, con degli schemi che vengono copiati, con piccole
variazioni, e che sono poi soggetti alla pressione selettiva. Gli schemi potrebbero essere qualsiasi cosa:
tassellazioni elettriche o magnetiche complesse, così come file di atomi accoppiati a una fonte esterna di
energia22.
La vita in provetta
Molti scienziati credono che presto saremo capaci di creare la vita in laboratorio. In senso stretto
ciò è già stato fatto: nel 2002 un gruppo di ricerca della State University di New York, Stony Brook, è
stato in grado di mettere insieme dal nulla un virus della poliomelite utilizzando blocchi molecolari
disponibili in commercio. Un virus però non è un organismo del tutto autonomo, visto che non può
riprodursi da solo. I batteri invece lo sono, e Hamilton Smith e i suoi colleghi del J. Craig Venter Institute
in California hanno assemblato un genoma batterico sintetico completo con 582.970 coppie di basi. Sono
stati in grado di inserirlo in un batterio ospite, ma nel momento in cui sto scrivendo devono ancora
convincere il loro genoma fatto su misura ad “avviarsi” e fare qualcosa. Lo stesso Craig Venter ha
riprogettato il materiale genetico di piccoli batteri per creare una cellula autonoma che fosse il più
semplice possibile. Ma i due ultimi esperimenti non contano davvero se si tratta di “creare la vita”:
piuttosto, adattano organismi già esistenti, con tutta la loro fantastica complessità, per creare nuovi tipi di
organismi.
Anche se alla fine un microbo del tutto autonomo fosse costruito partendo da zero senza fare
alcun uso di forme di vita preesistenti, la questione dell’imperativo cosmico resterebbe comunque aperta.
La vita iniziò in natura, senza poter usare laboratori altamente tecnologici e procedure eseguite passo
dopo passo, in condizioni controllate; soprattutto, è andata avanti senza la presenza di un progettista
intelligente, un intelligent designer come Craig Venter, con in testa un traguardo specifico. Madre natura
creò la vita nelle condizioni un po’ difficili in cui si trovi un pianeta appena formato (o da qualche altra
parte, non lo sappiamo), sfruttando reazioni chimiche naturali e casuali, senza nessuna “destinazione
vita” preconcetta che guidasse, e formasse, le reazioni. Ciò che è successo è successo, punto. È
abbastanza ovvio che sia possibile creare la vita in laboratorio: tutto ciò che dovete fare è mettere insieme
le molecole giuste nel modo giusto. Non c’è nulla di miracoloso: le difficoltà sono meramente tecniche,
con in aggiunta il problema di mettere insieme le risorse sufficienti; per cui è ovvio che con fatica, tempo
e denaro sufficienti, potrebbe essere fatto. Ma questo non getterà molta luce su quanto la vita sia diffusa
nell’universo. Se si scoprisse che ci sono moltissimi modi di creare la vita in laboratorio, e che non sono
necessarie troppe fasi controllate per “avviarla”, le probabilità a favore dell’imperativo cosmico
aumenterebbero. Ma creare un organismo del tutto sintetico non proverebbe, di per sé, che la vita sia
ubiqua.
Riassumendo, la probabilità che la vita sia nata dalla nonvita ha uno spettro di valori che vanno
dall’infinitesimale (posizione di Monod) al quasi inevitabile (posizione di de Duve) più tutto quello che
sta nel mezzo. È frustrante che una questione così fondamentale e importante rimanga imponderabile.
Possiamo fare qualche progresso? Sì, possiamo. A dire il vero c’è un modo ovvio e diretto per
confermare se un imperativo cosmico sia all’opera, ed è trovare un secondo campione di organismo
vivente.
Alla ricerca di una seconda genesi su Marte
Tutti concordano sul fatto che Marte offra la speranza migliore di trovare forme di vita oltre la
Terra23. Nel 1977 la NASA spedì su Marte due navicelle spaziali chiamate Viking, con lo scopo specifico
di cercare forme di vita microbica nelle polveri di superficie. Poche persone apprezzano il fatto che
Viking oggi rimanga l’unica missione di qualsiasi agenzia spaziale votata alla ricerca di vita
extraterrestre che abbia avuto successo. L’unica. I media tendono a presentare tutte le esplorazioni
marziane come parte della ricerca di forme di vita, ma questo è un esempio di disinformazione un po’
furbetta. È vero che alcune forme di esplorazione di Marte, come per esempio la ricerca di acqua, si
portano dietro in maniera indiretta la questione della vita, ma esperimenti biologici più espliciti sono stati
sistematicamente eliminati dalle missioni NASA per trent’anni. L’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea, è
parimenti tiepida per quanto riguarda la ricerca di forme biologiche marziane. La loro missione Mars
Express, lanciata nel 2003, conteneva soltanto, come ripensamento tardivo, un piccolo modulo
britannico Beagle 2. Costruito con un budget striminzito e senza che fossero stati fatti i test adeguati per
via della fretta, Beagle 2 era stato progettato per scovare forme di vita sulla superficie di Marte. È
tristemente scomparso senza lasciare tracce. Tutto quello che abbiamo per procedere sono i risultati di
Viking.
Entrambe le navicelle Viking erano equipaggiate con un braccio e una pala meccanici per scavare
la polvere fine della superficie marziana e portarla ai piccoli laboratori situati a bordo, dove venivano
eseguiti quattro esperimenti volti all’individuazione di forme di vita. Gli esperimenti erano stati
progettati per essere il più generali possibile nell’ottica di un tipo di vita basata sul carbone (dal momento
che non c’era alcuna ragione di supporre che su Marte e la Terra ci fosse lo stesso tipo di vita). Uno
strumento dal nome piuttosto ingombrante – spettrometro di massa del cromatografo a gas – era stato
costruito per rilevare molecole organiche come i detriti decomposti di cellule una volta viventi. Un altro
cercava gas specifici emessi o assorbiti da qualsiasi organismo in presenza di una sostanza nutritiva. Un
terzo strumento cercava prove della fotosintesi. L’ultimo esperimento era stato progettato per rilevare
assorbimento di carbonio aggiungendo alle polveri una sostanza liquida (brodo) e vedendo se c’era
qualcosa che innescasse un processo metabolico. Un segnale positivo del fatto che il brodo veniva
consumato da microbi sarebbe stata l’emissione di gas carbonici come l’anidride carbonica o il metano.
Per monitorare la produzione di gas, gli atomi di carbonio presenti nel brodo comprendevano, come
marcatore (label), un isotopo radioattivo, il carbonio 14; per questo motivo la procedura fu denominata
esperimento Labelled Release (LR), ossia “con rilascio di marcatori”.
La missione Viking fu un grande successo, e portò grande onore alla NASA: entrambe le
navicelle atterrarono senza difficoltà in luoghi molto distanti tra loro; il braccio robotico si distese senza
problemi, le telecamere funzionarono e gli esperimenti a bordo andarono a buon fine quasi senza intoppi,
e tutto questo con la tecnologia degli anni Sessanta. Gli scienziati e il pubblico attesero i risultati con la
stessa ansia. Mi ricordo che quando la navicella atterrò ero in vacanza in quella che allora era la
Jugoslavia, e vidi i titoloni in inglese nei giornalai di Dubrovnik. Dopo secoli di ipotesi intorno alla vita
su Marte, era infine giunto il momento di mettere l’idea alla prova con test scientifici veri e propri.
Sfortunatamente la navicella inviò dati che tracciavano un’immagine piuttosto confusa. Lo
spettrometro di massa non trovò alcuna traccia di materiale organico, il che era un po’ strano perché
anche se non ci fosse vita nel suolo marziano, piccole quantità di sostanze organiche sono portate dallo
spazio tramite le comete, e avrebbero dovuto fare capolino. L’esperimento LR, al contrario, diede un
risultato fortemente positivo: il brodo era stato divorato con avidità e l’anidride carbonica radioattiva
spuntò proprio come sperato su entrambe le navicelle. Quando la mistura fu scaldata a 160°C la forte
reazione cessò, come avrebbe fatto se fosse stata causata da microbi uccisi dalle alte temperature. A
prima vista sembrava proprio che l’esperimento LR avesse scoperto la vita. Ma questa non era l’opinione
della NASA: dato che gli altri tre esperimenti avevano dato risultati inconcludenti, la reazione globale
conclusiva fu che su Marte non era stata rilevata alcuna forma di vita. Questa è ad oggi la posizione
ufficiale, ed è dichiarata con chiarezza sulla placca di fronte alla replica di una navicella Viking all’Air
and Space Museum di Washington DC. I risultati positivi dell’esperimento LR sono attribuiti dalla
maggior parte degli scienziati a terricci molto reattivi creati dal duro ambiente della superficie marziana,
e soprattutto dagli effetti della radiazione ultravioletta.
Il progettista dell’esperimento LR, Gilbert Levin, contesta le conclusioni della NASA. Continua
ad affermare che su Marte sia stata trovata la vita. Oggi, Gil è un mio collega al Beyond Center presso
l’Arizona State University, dove ha la posizione di professore aggiunto. Negli anni Settanta aveva
anticipato la possibilità che l’esperimento LR desse risultati ambigui, e aveva un piano per eludere la
questione. Quasi tutte le molecole organiche hanno un’orientazione; il DNA, per esempio, è una spirale
sinistrorsa e, vista in uno specchio, la sua orientazione è rovesciata. Il termine tecnico per indicare questa
orientazione è chiralità e la maggior parte degli scienziati ritiene che si tratti di una caratteristica
universale della vita. Le forme di vita conosciute usano quasi sempre zuccheri destrorsi e aminoacidi
sinistrorsi. Le leggi della chimica, tuttavia, sono simmetriche per riflessione in uno specchio: non
favoriscono una chiralità rispetto all’altra. Ne segue che un buon modo per distinguere l’attività biologica
dalla semplice chimica è cercare una discriminazione di chiralità, ossia una reazione che favorisca una
forma chirale rispetto all’altra. Gil voleva condurre l’esperimento LR con due brodi diversi, uno con
aminoacidi sinistrorsi e zuccheri destrorsi, l’altro con le loro forme così come le vedremmo in uno
specchio. Di conseguenza, se il terriccio marziano avesse reagito nello stesso modo in entrambi i casi, la
spiegazione più probabile sarebbe stata una spiegazione chimica (quella che oggi sostengono la maggior
parte degli scienziati); ma se la responsabile fosse stata la biologia, ci sarebbe stata una differenza ben
marcata nelle risposte dei due tipi di brodo24. Purtroppo, questa raffinata aggiunta fu eliminata per motivi
economici. Con il risultato che gli esperimenti di Viking restano un mistero esasperante.
Nonostante la conclusione definitiva tratta da Viking – nessuna forma di vita individuata – molti
scienziati, negli ultimi anni, si sono entusiasmati all’idea che, in fondo in fondo, su Marte potrebbe
esserci la vita. O se non altro, che avrebbe potuto esserci miliardi di anni fa. Questo cambio di
atteggiamento è dovuto, in gran parte, alle prove che si stanno accumulando in merito al fatto che un
tempo Marte avesse acqua allo stato liquido in quantità piuttosto cospicua. Le fotografie mostrano
antiche valli fluviali e letti di laghi, e gli esperimenti sul posto confermano che dell’acqua è scorsa sopra
le rocce. Oggi l’acqua è bloccata sotto forma di permafrost e di ghiacci ai poli, ma potrebbe ancora
verificarsi un episodico riscaldamento locale o globale in grado di permettere all’acqua allo stato liquido
di esistere, anche se per poco tempo, sulla superficie. Dovrebbe esserci acqua anche in profondità, nel
sottosuolo, dove il calore interno del pianeta mantiene le temperature superiori rispetto al punto di
congelamento. Su Marte ci sono inoltre vulcani che possono causare un riscaldamento locale, e
addirittura delle prove a sostegno della presenza di sistemi idrotermici, dove hot spot geotermici
provocano un ciclo dell’acqua lungo periodi estesi. Sulla Terra gli antichi sistemi idrotermici sono
associati alle più antiche tracce di forme di vita (nelle colline di Pilbara, per esempio). Molti astrobiologi
pensano che la vita sulla Terra abbia avuto inizio proprio in un ambiente del genere. Come ho accennato
prima, tutte le prove indicano che tre o quattro miliardi di anni fa Marte fosse marcatamente più caldo e
più umido, forse a causa di un’atmosfera molto più spessa, che portava a un decisivo riscaldamento
globale per via dell’effetto serra. A quei tempi l’ambiente sarebbe stato adatto per i microbi; a dire il
vero, è probabile che alcuni batteri terrestri particolarmente resistenti possano sopravvivere addirittura
nelle condizioni marziane odierne.
Se Marte è stato – o, in un senso limitato, è ancora – un pianeta “tipo Terra”, dovremmo essere in
grado di trovarvi prove a sostegno della vita, se questa esiste (o se è esistita un tempo). Tali prove
potrebbero essere raccolte da una sonda simile alla Viking ma perfezionata, nel corso di una missione
progettata per portare campioni di roccia sulla Terra, o di una spedizione con elementi umani. Mentre la
vita sulla rigida superficie marziana rimane una congettura rischiosa, l’esistenza di microbi nelle falde
acquifere situate centinaia di metri sottoterra è possibile in concreto. Essi potrebbero tradire la loro
presenza tramite rifiuti gassosi, per esempio di metano, che esalino dalla superficie. Nei prossimi
trent’anni gli scienziati potrebbero trovare prove chiare del fatto che in qualche fase della storia di Marte
dei microbi siano davvero esistiti.
La maggior parte delle persone salta erroneamente alla conclusione che la scoperta di vita su
Marte implicherebbe che l’intero universo ne sia pieno zeppo. Ma le cose non sono così semplici: come
ho spiegato all’inizio del capitolo, Marte e la Terra non sono in quarantena, ma scambiano regolarmente
materiali sotto forma di rocce espulse; e mentre il traffico tra Marte e la Terra è di gran lunga superiore a
quello esistente nella direzione opposta, nel corso della storia astronomica una quantità enorme di
materiale terrestre è approdato su Marte, infestato di microbi. La maggior parte dei passeggeri deve
essere perito nel corso del viaggio, ma non tutti; se un tempo Marte era più simile alla Terra di quanto lo
sia oggi, almeno alcuni di questi clandestini terrestri devono aver prosperato nella loro nuova casa.
Viceversa, è più che possibile che la vita terrestre non sia iniziata sulla Terra ma vi sia arrivata da Marte.
In un caso o nell’altro, il semplice fatto di trovare delle forme di vita su Marte non sarebbe di per sé
sufficiente per stabilire che l’imperativo cosmico valga: sarebbe necessario dimostrare che la vita è
iniziata da zero su Marte e sulla Terra, ossia in entrambi i luoghi indipendentemente. Il continuo
mescolamento di vita terrestre e marziana tramite lo scambio di rocce sarebbe come minimo una grave
complicazione che renderebbe difficile capire dove e come la vita abbia avuto inizio, e se ci fu soltanto
una genesi oppure se ce ne furono due distinte.
Cosa possiamo dire della vita al di là del sistema solare? C’è soltanto una possibilità
infinitesimale che una roccia espulsa dalla Terra colpisca un altro pianeta simile alla Terra in un altro
sistema solare; e anche se succedesse è davvero improbabile che un microbo sopravviva per tutto il
tempo necessario ad arrivare su quest’altro pianeta. Il problema della contaminazione, pertanto, è
irrilevante: trovare segni di vita su un pianeta extrasolare sarebbe una prova chiara di una seconda genesi,
indipendente dalla prima. Gli astronomi hanno dei progetti ambiziosi a proposito di un gran sistema
ottico posizionato nello spazio che potrebbe rilevare la presenza di ossigeno, e forse addirittura della
fotosintesi su pianeti extrasolari; ma le sfide tecnologiche sono incredibili, ed è improbabile che vengano
superate nel prossimo futuro.
Se dobbiamo basarci su satelliti e sonde spaziali per decidere se la vita sia o no un colpo di
fortuna, potremmo dover aspettare molto a lungo. Per fortuna esiste un altro modo di sottoporre a verifica
l’imperativo cosmico, un modo che inoltre evita l’impiego di costose missioni spaziali – un modo che
finora non è stato preso in considerazione: potremmo addirittura essere in grado di risolvere la questione
senza dover lasciare la Terra. Nessun pianeta è più simile alla Terra della Terra stessa: se davvero la vita
si forma rapidamente in condizioni simili a quelle terrestri, così come richiesto dall’imperativo cosmico,
ne consegue che avrebbe dovuto avere inizio più volte proprio qui, sul nostro pianeta natale.
Forse è andata proprio così.
Capitolo 3
Un’atmosfera ombra
Una scatola senza cardini, chiave né coperchio, ma con un dorato tesoro al suo interno. J.R.R.
Tolkien
Alla ricerca di una seconda genesi sulla Terra
Se la vita fosse iniziata sulla Terra più di una volta, potremmo virtualmente essere certi del fatto
che l’universo ne è pieno zeppo. A meno che ci sia qualcosa di davvero peculiare nel nostro pianeta, è
infatti inconcepibile che la vita sia incominciata due volte su un pianeta come la Terra e mai in tutti gli
altri. Fino a poco tempo fa i biologi presupponevano, senza starci troppo a pensare, che tutta la vita sulla
Terra fosse la vita stessa, che ogni organismo vivente discendesse da una genesi comune. Ma come
facciamo a sapere che è proprio così? Potrebbero esserci due o più tipi di vita diversi su questo pianeta?
Qualcuno si è mai messo a cercarli?
Ecco uno scenario plausibile di come la vita sarebbe potuta iniziare più volte. Come ho
menzionato nel Capitolo 2, per circa settecento milioni di anni dopo la sua formazione la Terra è stata
soggetta a un irrefrenabile bombardamento di asteroidi e comete, il più grande dei quali potrebbe aver
reso sterile tutto il pianeta. Tra un grande impatto e l’altro, però, le condizioni sarebbero state un po’
meno ostili; questi momenti tranquilli potrebbero essere durati molti milioni di anni. Secondo la teoria
dell’imperativo cosmico, che stiamo cercando di mettere alla prova, per quanto riguarda l’origine della
vita questi momenti di pausa potrebbero essere stati lunghi abbastanza perché la vita facesse capolino.
Per un po’ di tempo questi microbi primitivi avrebbero prosperato e si sarebbero diffusi, per poi essere
annientati dal successivo grosso impatto. Ci sarebbe poi stata un’altra tregua dai bombardamenti, e la vita
sarebbe ricominciata per poi essere distrutta un’altra volta. La storia più antica della vita sulla Terra,
pertanto, potrebbe essere stata una lunga serie di esperimenti biologici stop-and-go, con sequenze di
molti eventi di genesi che avrebbero prodotto tipi diversi di forme di vita, idea proposta per la prima volta
da due geologi del Caltech, Kevin Maher e David Stevenson1. Ogni impatto sterilizzatore avrebbe
mandato in orbita intorno al Sole enormi quantità di materiali, e insieme a questi ogni microorganismo
che li abitasse. Alcune delle rocce espulse, una volta che gli effetti dell’impatto si fossero attenuati fino a
svanire del tutto, avrebbero poi trovato il modo di tornare sulla Terra. Microbi dormienti, in una
posizione sicura e confortevole all’interno di una roccia, potrebbero sopportare l’ambiente
interplanetario per milioni di anni, e così almeno alcuni di essi sarebbero tornati in buone condizioni,
pronti per riprendere il normale corso della vita. Allo stesso tempo, tuttavia, proprio mentre “Vita 1”
stava bazzicando lo spazio, durante l’intervallo successivo “Vita 2” si sarebbe formata e sistemata nel
suo ambiente: ci sarebbero così state allo stesso tempo due forme di vita sulla Terra. E questa sequenza di
eventi avrebbe potuto ripetersi più e più volte, cosicché nel momento in cui fossero finiti i
bombardamenti più violenti ci sarebbero potuti essere molti tipi diversi di vite terrestri, discendenti da
molte genesi tutte diverse tra loro2.
Il suddetto scenario di origini multiple non è affatto l’unico: la vita avrebbe potuto iniziare in
maniera indipendente in molti luoghi separati geograficamente, magari restando intrappolata in nicchie
isolate per un’eternità. Alcuni microbi che vivono in profondità, rannicchiati nei loro rifugi sotterranei,
avrebbero potuto evitare il calore causato dal bombardamento ed essere emersi in superficie soltanto
dopo che un’altra forma di vita fosse già spuntata lassù. È anche possibile che la vita sia iniziata su Marte
molte volte e che sia giunta sulla Terra in modo sporadico, nelle sue varie manifestazioni, nel corso di
milioni di anni. Avrebbe addirittura potuto iniziare sia su Marte sia sulla Terra, e trasferirsi su uno e
sull’altro dei pianeti attraverso i detriti degli impatti, mescolandosi all’arrivo con la vita indigena. Per gli
scopi di questo capitolo non sono importanti i dettagli specifici: tutto quello che ci interessa per mettere
alla prova l’imperativo cosmico è capire se la vita sia iniziata più di una volta. Se così fosse, che prove
potremmo trovare?
Una conferma diretta potrebbe arrivare dalla scoperta di discendenti viventi di altri eventi
generativi, che dividono con noi il nostro pianeta e formano una biosfera “ombra”3. Un buon modo di
descrivere questa situazione è in termini di albero della vita, che illustra come la vita nel tempo abbia
sviluppato sempre più rami, diversificandosi attraverso speciazioni successive.
La vita oggi è rappresentata da milioni di specie diverse, ma se seguiamo all’indietro le tracce
dell’evoluzione risalendo fino a miliardi di anni fa, tutte le specie convergono nel “fusto dell’albero”. Gli
uomini e gli scimpanzé, di conseguenza, possono risalire al loro antenato comune che viveva in Africa tra
sette e cinque milioni di anni fa. Se andiamo ancora più indietro convergono tutti i mammiferi, poi tutti i
vertebrati eccetera, fino ad arrivare ai microbi primordiali di tre o quattro miliardi di anni fa. Richard
Dawkins ha descritto questo viaggio biologico indietro nel tempo nel suo avvincente libro Il racconto
dell’antenato4. La domanda che sto ponendo è soltanto: tutta la vita sulla Terra appartiene a questo unico
albero, oppure potrebbero esserci più alberi? Forse addirittura una foresta?
Quando ho iniziato a rimuginare su queste idee, qualche anno fa5, mi sorpresi a scoprire che
nessuno aveva mai pensato più di tanto a cercare prove di multipli eventi di genesi. Gli astrobiologi si
erano impegnati a capire come rilevare una forma di vita diversa su Marte; ma non era venuto in mente a
molti di cercare forme di vita alternative proprio qui, a casa nostra. Nonostante ciò, incontrai abbastanza
scienziati dalla mente aperta disposti a partecipare a un workshop alla Arizona State University nel
dicembre del 2006 per discuterne un po’. Ne risultò un articolo scientifico all’avanguardia6, che stabiliva
una strategia per «cercare nuove forme di vita», proprio come dichiarato per le missioni di Star Trek, ma
non ad anni luce di distanza nella galassia, bensì proprio qui, sulla Terra.
Prima di entrare più nel dettaglio, lasciate che riassuma perché i biologi pensano che tutte le
forme di vita abbiano un’origine in comune. La prova più schiacciante viene dalla biochimica e dalla
biologia molecolare. Le querce, le balene, i funghi e i batteri possono sembrare diversi, ma i modi di
funzionare al loro interno sono tutti organizzati intorno allo stesso sistema: usano tutti il DNA e l’RNA
per conservare l’informazione e tutti utilizzano le proteine come enzimi e come mattoni strutturali;
l’energia è conservata e rilasciata usando molecole note come ATP. Sono stati trovati in specie molto
diverse tra loro numerosi geni identici o molto simili; gli uomini, per esempio, condividono il 63% dei
loro geni con i topi, e il 38% con il lievito. Il fattore decisivo sta nel codice genetico, lo schema
matematico che traduce i dati contenuti nel DNA in istruzioni per fare proteine. Il DNA conserva
l’informazione sotto forma di sequenze di unità molecolari chiamate nucleotidi. Ci sono quattro
nucleotidi diversi, di solito indicati con le lettere G, C, A e T. Ciò che fa sì che tu sia tu, e che il tuo cane
sia un cane, dipende interamente dalla sequenza di queste lettere: ci vogliono milioni di lettere per
specificare il fatto che tu sei tu e il tuo cane è il tuo cane. Tra le altre cose, le lettere spiegano nel dettaglio
le istruzioni affinché quei congegni molecolari noti come ribosomi assemblino le proteine costruendo
stringhe di aminoacidi nell’ordine corretto. Per soddisfare queste specifiche, la vita che noi conosciamo
raggruppa i nucleotidi del DNA in gruppi di tre (per esempio, AGT). Sono disponibili 64 triplette
possibili per specificare i 21 tipi diversi di aminoacidi richiesti: bisogna fare delle scelte sui codici da
usare e per quali aminoacidi. Il numero delle scelte è in teoria cospicuo a causa del numero enorme di
permutazioni possibili; ma tutte le specie conosciute usano lo stesso codice.
Il fatto che cose così complicate e specifiche come i ribosomi, l’ATP e il codice a tripletta siano
universali sarebbe molto difficile da spiegare a meno che tutte le specie non discendano da un antenato
comune (antiche cellule che già incorporavano queste caratteristiche distintive). Sequenziando i geni, è
possibile costruire un vero e proprio albero genetico e mostrare la discendenza condivisa; la lenta
divergenza che via via si accumula ci dà un’idea di quanto tempo fa due specie si siano differenziate.
L’albero genetico ha una controparte speculare nel registro fossile, che rappresenta in modo analogo il
progressivo accumulo di cambiamenti e speciazioni.
Nessuno dubita che gli a noi familiari organismi multicellulari siano nello stesso albero della vita:
gli animali allo zoo, le piante nel giardino, gli uccelli nel cielo e i pesci nel mare rappresentano tutti un
unico tipo di forma di vita. Ma questa è soltanto una parte della storia: la stragrande maggioranza delle
specie sono microbi. Con una colorita espressione di Stephen Jay Gould, «il nostro pianeta è sempre stato
nell’”Era dei Batteri” fin da quando i primi fossili – naturalmente anche loro batteri – si depositarono
sulle rocce più di tre miliardi di anni fa. Secondo ogni criterio possibile, ragionevole e corretto, i batteri
sono – e sono sempre stati – la forma di vita dominante sulla Terra»7. Al microscopio molti microbi
sembrano uguali: piccole masse informi con dei tubicini, a volte protuberanze. Se ci si limita a guardare
non è possibile capire cosa succeda all’interno. Ma se esaminiamo le parti interne di un microbo, è molto
probabile trovare le stesse cose – DNA, proteine, ribosomi – che troveremmo dentro di voi o dentro di
me. O se non altro, finora è stato proprio così. I microbiologi, tuttavia, hanno appena iniziato a scalfire la
superficie del regno dei microbi. Il nostro mondo pullula letteralmente di questi minuscoli organismi: un
centimetro cubico di terra potrebbe contenerne milioni di specie diverse, raggiungendo un numero
complessivo nell’ordine dei miliardi di microbi, la stragrande maggioranza dei quali non è mai stata
classificata, figurarsi analizzata. Nessuno sa per certo cosa siano; per quanto ne sappiamo, alcuni
potrebbero essere forme di una vita che non conosciamo.
Per investigare con completezza una specie di microbi bisogna innanzitutto farne una coltura in
laboratorio e poi studiarne la biochimica, per esempio sequenziandone il genoma per posizionarlo
all’interno dell’albero. Questa tecnica, sebbene sia senza dubbio rilevante, presenta i suoi problemi:
molti microbi non amano essere sradicati dal proprio habitat naturale e non è facile farne una coltura; altri
resistono al sequenziamento dei geni. Dal momento che le tecniche chimiche usate per analizzare i
microbi sono tagliate su misura per la vita così come la conosciamo, non funzionerebbero per una forma
di biologia alternativa. Dovesse esserci là fuori un altro tipo di vita microbica, molto probabilmente
sarebbe passata inosservata fino ad ora, solo perché non reagirebbe alle azioni dei biochimici. Potrebbe
essere finita nella spazzatura di un laboratorio. Se allestiamo tutti gli strumenti per studiare la vita così
come la conosciamo, quello che troveremo sarà inevitabilmente la vita così come la conosciamo. Di
conseguenza, se alcuni microbi possano essere i discendenti di una genesi diversa resta ad oggi una
domanda aperta.
Strani estremofili
Come potremmo fare per identificare la vita così come non la conosciamo? Dato l’importante
ruolo del caso nell’evoluzione, è assai improbabile che organismi con genesi separate abbiano la stessa
biochimica. Gli astrobiologi si riferiscono a organismi noti in termini di vita standard e a forme
alternative in termini di vita strana: questa vita strana potrebbe essere aliena nel senso di “diversa dalla
nostra”, ma anche avere un’origine extraterrestre, per esempio marziana. Come ho accennato sopra, la
distinzione non è importante per gli scopi attuali.
Parte del problema nella ricerca di vita strana è che non sappiamo con esattezza cosa cercare: una
strategia consiste nel cercare in posti, per l’appunto, strani, tenendo gli occhi aperti nei confronti di
qualsiasi organismo vivente. Ma quanto strano dev’essere lo strano? Negli ultimi trent’anni i biologi si
sono ripetutamente sorpresi di trovare organismi viventi che sopravvivevano o addirittura prosperavano
in ambienti in precedenza ritenuti altamente letali. Negli anni Settanta si scoprirono dei microbi che
abitavano in sorgenti di acqua calda come quelle dello Yellowstone National Park; alcuni di questi
organismi possono tollerare temperature di 90°C, e per ovvie ragioni sono chiamati termofili. Ciò era già
abbastanza sorprendente, ma la storia non era finita: l’esplorazione di camini di vulcani presenti sul letto
oceanico compiuta dal sottomarino Alvin ha rivelato interi ecosistemi che vivono in un’oscurità totale,
simile a quella delle fumarole nere (camini situati sul letto dei mari che sputano fuori un fluido nerastro a
temperature che possono raggiungere i 350°C). I produttori primari alla base della catena alimentare
sono microbi che si raggruppano intorno al vapore dei fluidi bollenti, tollerando temperature fino a
120°C, se non oltre. Siamo ben sopra il normale punto di ebollizione dell’acqua (l’acqua lì non bolle,
però, a causa dell’alta pressione). Questi microbi amanti del calore estremo sono chiamati ipertermofili;
sopravvivono nell’oscurità perché non necessitano di luce per la produzione di energia: piuttosto,
metabolizzano e creano biomasse direttamente dai gas dissolti nel fluido proveniente dalla crosta
terrestre8.
Sono state scoperte molte altre specie di microbi che vivono in condizioni estreme differenti.
Alcuni organismi, per esempio, che rispondono al nome di psicrofili o criofili, possono sopportare un
freddo incredibile – anche fino a -20°C – prima di smettere di crescere. Altri possono tollerare acidi
abbastanza potenti da bruciare la carne umana, mentre ancora altri sopportano condizioni alcaline
altrettanto corrosive. Il Mar Morto si è rivelato avere un nome fuorviante, dal momento che ospita
diverse specie di alofili (organismi che vivono serenamente in ambienti con altissime concentrazioni di
sale). Forse i più notevoli fra tutti sono microbi resistenti alle radiazioni come il Deinococcus
radiodurans, che può sopravvivere a dosi di radiazione tanto alte che ne sono stati trovati alcuni
esemplari tra le scorie dei reattori nucleari.
Nel complesso, queste bizzarrie microbiche sono note come estremofili. Nonostante la loro
natura bizzarra, ad oggi tutti gli estremofili analizzati si sono rivelati forme di vita standard (cioè
appartengono al mio e al vostro albero della vita). La loro esistenza dimostra che l’intervallo di
condizioni in cui la vita standard può sopravvivere è molto più ampio di quanto si ipotizzasse in
precedenza. Eppure ci sono dei limiti: tutta la vita standard richiede l’acqua, per esempio. Quest’unico
fatto mette dei vincoli agli intervalli di pressione e di temperatura.
Se una biosfera ombra esiste, potrebbe essere occupata da strambi “iperestremofili” che abitano
in ambienti oltre la portata anche delle più resistenti forme di vita standard, e che finora sono sfuggiti alle
nostre ricerche perché nessuno ha mai pensato di andare a cercare una forma di vita in condizioni tanto
estreme. Un buon esempio è la temperatura. Gli ipertermofili standard sembra abbiano un limite
superiore di tollerabilità di circa 130°C, e questo per una buona ragione: il calore intenso distrugge le
molecole vitali, e anche se hanno una moltitudine di meccanismi di riparazione e di protezione, se
sottoposti a temperature che superano di molto i 120°C il DNA e le proteine cominciano a disfarsi e
disintegrarsi. Supponiamo di non trovare nulla che vive tra i 130°C e i 170°C nel sistema di camini
vulcanici situati nelle profondità oceaniche, ma di scoprire poi dei microbi che prosperano tra i 170°C e i
200°C: la discontinuità nell’intervallo di temperature sarebbe un forte indicatore del fatto che ci troviamo
di fronte una forma di vita strana, e non a una forma di vita standard che ha solo spinto un po’ più in là il
limite della temperatura.
Un altro fattore limite è la profondità: negli anni Ottanta l’astrofisico anticonformista Thomas
Gold della Cornell University supervisionò un progetto sperimentale di estrazione del petrolio in Svezia
e fece parlare di sé quando dichiarò di aver scoperto l’esistenza di forme di vita al fondo di un pozzo
profondo diversi chilometri9. Non furono in molti a credergli. Nel giro di qualche anno, tuttavia, altri
ricercatori cominciarono a trovare microorganismi viventi nei fori delle rocce a grande profondità. Ed era
soltanto il principio: milioni di microbi per centimetro cubico furono trovati nei nuclei delle rocce dei
pozzi di petrolio scavati in mare alla profondità a cui riuscivano ad arrivare gli scavatori (circa un
chilometro). Ben presto fu chiaro che c’è molto spazio per alloggiare i microbi dentro il nostro pianeta10.
Nessuno conosce l’estensione di questa biosfera calda e profonda, né fino a dove arrivi in profondità;
Gold congetturò che sotto la superficie ci fosse tanta biomassa quanta quella che si trova al di sopra. Sia
come sia, possiamo facilmente immaginare molti ecosistemi sotterranei isolati o quasi, ognuno che si
autosostiene, e nel complesso separati dalla biosfera normale.
Sono in effetti stati scoperti tre ecosistemi quasi del tutto isolati dal resto della biosfera11. Sepolte
molto in profondità, queste straordinarie comunità microbiche sono esempi di vita alimentata a idrogeno.
L’idrogeno è prodotto dalla dissociazione di acqua che viene in contatto con rocce bollenti o, in un unico
caso, tramite radioattività. Gli organismi ottengono energia e costituiscono biomasse combinando
l’idrogeno con anidride carbonica disciolta, e restituiscono metano come prodotto di scarto12. Molti di
loro sono termofili o ipertermofili, dal momento che la crosta terrestre diventa via via più calda quando si
scende in profondità. Nonostante il loro incredibile isolamento, però, tutti gli occupanti di questi tre
ecosistemi subsuperficiali sono forme di vita standard. È chiaro, tuttavia, che gli scienziati finora hanno
potuto scorgere soltanto la punta dell’iceberg; una domanda intrigante è se alcune di queste sacche
possano essere abitate da forme di vita strana anziché standard. È possibile che un futuro progetto di
scavo, sulla terra o nel mare, colpisca una sacca abitata da forme di vita strana. Anche se non fossimo
molto fortunati e non penetrassimo davvero all’interno di una simile sacca, potremmo lo stesso ottenere
prove indirette di una vita strana nascosta. La vita standard, per esempio, è una preda di caccia per i virus,
molti dei quali non hanno effetti negativi13: invadono piante, animali e microbi, ed essendo così piccoli
convergono verso un insieme molto più vasto di ambienti rispetto alle cellule microbiche. Sono ovunque:
nel terreno, nell’aria e nell’acqua. L’oceano è a tutti gli effetti una specie di “brodo di virus”, con fino a
dieci miliardi di particelle virali per litro di acqua di mare. Se degli organismi strani sono confinati al di
sotto della superficie terrestre (o in qualsiasi altro luogo della Terra, se è per questo) è possibile che
“virus strani”, adattati a interagire con loro, si diffondano nella biosfera. Potrebbero essere presenti,
magari in livelli molto bassi, tra i virus regolari nell’acqua di mare o nell’aria. Per quanto ne so, nessuno
ha mai pensato di andarli a cercare.
È pieno di altri luoghi che potrebbero offrire alloggio a estremofili strani isolati, luoghi così
difficili da essere oltre la zona di abitabilità della vita standard. Uno di questi luoghi è la parte centrale del
deserto Atacama: è così arido e ossidato che i batteri non possono compiere i processi metabolici. La
NASA ha una sede di ricerca, qui, ma finora non sono state trovate prove di chimica basata sul carbonio
attribuibile a forme di vita strana. Altri luoghi possibili comprendono gli strati più alti dell’atmosfera,
altopiani freddi e aridi, cime delle montagne (dove il flusso di raggi UV è un problema per la vita
standard), depositi di ghiaccio a temperature al di sotto dei -40°C, laghi altamente contaminati con
sostanze metalliche tossiche per la vita così come la conosciamo. Il modo corretto per riassumere tutto
questo consiste nell’escogitare uno “spazio parametrico” multidimensionale di variabili come la
temperatura, la pressione, l’acidità (pH), la salinità, la radioattività eccetera. La vita così come la
conosciamo è confinata a una regione finita di questo spazio parametrico, anche se le scoperte degli
ultimi anni hanno spinto i limiti della “regione abitabile” molto lontano. Tuttavia, ci sarà sempre un
limite: una biosfera ombra ecologicamente separata dalla biosfera normale esisterebbe in una regione
disconnessa dello spazio parametrico. Non dobbiamo basare la nostra ricerca di microbi strani su un
singolo parametro come la temperatura: è possibile che una combinazione di temperatura e acidità, per
esempio, sia più rilevante.
La sfida consiste nello scovare i microbi strani nel caso in cui siano presenti con abbondanze
relative molto basse. Un’idea sulla quale stiamo lavorando al Beyond Center è di inserire una variante
dell’esperimento LR di Gil Levin, l’esperimento che ebbe luogo su Marte nell’ambito di Viking.
Dopotutto, quell’esperimento era stato progettato proprio per trovare organismi di tipo non specifico,
usando una definizione del concetto di vita molto generale, basata soltanto sulla capacità di fare un ciclo
del carbonio (qualcosa che ci aspettiamo che la vita ombra sia in grado di fare). Il segreto
dell’esperimento LR è nella sua incredibile sensibilità. Come ho spiegato in precedenza, funziona per
mezzo di un brodo nutriente marcato con carbone radioattivo (C14); ogni ciclo di carbonio dovuto al
metabolismo è rilevato cercando del C14 nell’anidride carbonica emessa. Dato che anche i livelli più
piccoli di radiazione sono facili da misurare, l’esperimento LR può registrare anche solo le tracce di una
qualche attività: se ci sono bestioline strane lassù, sulla cima delle montagne, nel cuore del deserto
Atacama o da qualsiasi altra parte (con la speranza che non affoghino in questo brodo preparato con così
tanta attenzione), l’esperimento di Gil le può trovare. Il primo passo sarà determinare se sono soltanto
estremofili ancora più estremi, che appartengono all’albero della vita standard, oppure discendenti di
un’altra genesi14.
Alieni fra noi
Nella sezione precedente ho illustrato l’idea secondo cui le forme di vita strana potrebbero essere
confinate a sacche isolate non raggiungibili dalla vita standard, e che questo le renderebbe facili da
scovare. Sarebbe molto più difficile invece se la vita strana e la vita normale fossero intrecciate. Un topos
fantascientifico sempre di gran voga è che esseri alieni vivano clandestinamente tra noi, indistinguibili
dagli esseri umani. Un classico nel suo genere era Quatermass 2, una serie horror della BBC degli anni
Cinquanta, in cui alcuni sfortunati individui venivano sostituiti da alieni. In altri casi, come nella
lunghissima serie TV americana, sempre degli anni Cinquanta, The Invaders (“gli invasori”), alieni
travestiti da umani si infiltravano nella nostra società. Il successo di questo genere è, in parte, finanziario:
è più economico usare attori umani con poco o nessun trucco per recitare la parte degli alieni. Quest’idea
ha nutrito per decenni le paure nei confronti della Guerra fredda e le nevrosi occidentali alla “comunisti
sotto il letto”. Miglioramenti negli effetti speciali, nei costumi e nell’animazione computerizzata hanno
portato infine un cambiamento nel modo in cui gli alieni vengono rappresentati; cosicché nel momento in
cui venivano distribuiti film come Guerre stellari e Alien l’anatomia aliena era diventata molto più
variegata e meno umanoide.
Basta con la fantascienza. Ora sembra che una variante lillipuziana del topos dell’infiltrazione
aliena possa essere vera. Se dei microbi strani assomigliano a batteri standard e abitano il nostro stesso
ambiente, potrebbero essere già stati notati, ma in mancanza di un’uniforme ben visibile che proclami
l’appartenenza a un altro club non avrebbero suscitato molti commenti, e resterebbero dunque nascosti
nella folla dei microbi15. Ci potrebbero essere organismi alieni letteralmente sotto il nostro naso (o
addirittura dentro il nostro naso!) ancora non riconosciuti per ciò che sono davvero. Il problema spinoso
è come identificarli.
Un sistema di identificazione è dato dalla biochimica: due microbi possono sembrare molto simili
ma avere all’interno due “chimiche” del tutto diverse. Se fossimo in grado di conoscere una biochimica
alternativa, potremmo testare i campioni microbici e trovarne dei segnali. Il problema sta nell’indovinare
nella maniera corretta: dato che non sappiamo di preciso cosa stiamo cercando si tratta di una sfida
abbastanza impegnativa; possiamo però fare alcune ipotesi attendibili. Un esempio ovvio è quello della
chiralità, la preferenza per zuccheri destrorsi e aminoacidi sinistrorsi rispetto alla loro immagine
speculare (si veda pag. 43): se la vita dovesse ricominciare da capo, c’è una possibilità che la prossima
volta venga scelta l’orientazione opposta. Anche se questa “vita riflessa nello specchio” somigliasse alla
vita standard in tutti gli altri aspetti (se, per esempio, usasse gli stessi acidi nucleici e le stesse proteine),
la differenza balzerebbe comunque all’occhio. Non visivamente, però, bensì biochimicamente: ci
sarebbe cioè bisogno di un filtro chimico in grado di selezionare la vita standard rispetto a quella
“speculare”. Ho parlato di questo problema qualche anno fa con mia moglie Pauline, e mentre ne
discutevamo a lei è venuta un’idea brillante sul da farsi: una forma di vita speculare storcerebbe il naso di
fronte a una sostanza che per la vita standard è gustosa, ma di certo divorerebbe un “brodo speculare”,
una sostanza cioè in cui gli zuccheri e gli aminoacidi standard siano stati sostituiti dalle loro immagini
riflesse nello specchio. Per la vita standard varrebbe lo stesso principio, pertanto in questo modo sarebbe
possibile separare il grano dal loglio.
Riuscimmo a persuadere Richard Hoover ed Elena Pikuta a compiere un esperimento pilota con il
brodo speculare presso il Marshall Spaceflight Center di Huntsville, in Alabama. I risultati furono
curiosi: Hoover e Pikuta scoprirono un nuovo estremofilo di un lago altamente alcalino in California, che
mangiò il brodo speculare con gusto. Lo chiamarono aerovirgula multivorans, che significa più o meno
“capretta16 di poche pretese”17. Purtroppo non era il microbo speculare in cui speravamo, ma un microbo
standard che si era intelligentemente adattato a mangiare cibo riflesso nello specchio. A volte la vita
standard utilizza le molecole speculari (per esempio nelle membrane cellulari), e alcuni microbi standard
sono pieni di enzimi che sminuzzano molecole dell’orientazione “sbagliata” e le trasformano in prodotti
utili. Secondo Hoover, aerovirgula multivorans era in grado di crescere digerendo una versione
speculare dello zucchero arabinosio ma non riusciva a crescere con l’arabinosio standard, il che è
sorprendente. La storia della chiralità lascia un po’ perplessi ed è di certo molto più complicata di quanto
pensassimo all’inizio. Usare la chiralità come indice di vita strana, tuttavia, resta una tecnica chiara e
facile da usare.
Un altro indizio potrebbe venire dai mattoni costituenti la vita strana. Come ho accennato, la vita
standard per fare le proteine usa 21 tipi di aminoacidi, ma ne esistono molte altre varietà. Nel 1969 un
inconsueto meteorite cadde vicino alla città di Murchison in Australia: apparteneva a una classe rara nota
come condriti carbonacee. La meteorite di Murchison contiene materiale organico in abbondanza (così
abbondante che puzza di petrolio) compresi molti aminoacidi non utilizzati dalla vita standard. Alcune
persone sono saltate alla conclusione che il meteorite un tempo fosse abitato da microbi alieni che si sono
decomposti, lasciando che noi trovassimo tra i cadaveri i loro singolari aminoacidi. È una conclusione un
po’ azzardata: è più probabile che queste molecole organiche si siano formate in un punto ben preciso.
Come ho accennato nel Capitolo 2, non è difficile fabbricare aminoacidi in laboratorio, quindi è
presumibile che ci siano anche molti modi naturali in cui si formano. La Terra primitiva può essere stata
ricoperta di materiali carbonacei provenienti da meteoriti e da granellini interplanetari che cadevano dal
cielo come manna, fornendo le materie prime da cui la vita potrebbe essere emersa. Se questa ipotesi è
corretta, all’interno del cocktail organico la cellule originali sarebbero state in grado di fare scelte
oculate. Per quanto ne sappiamo, i 21 aminoacidi scelti dalla vita così come la conosciamo non
costituiscono un set unico nel suo genere; avrebbero potuto essere fatte altre scelte e forse, se la vita è
iniziata più di una volta, sono state fatte altre scelte.
Steve Benner è un biochimico ed esperto mondiale di biologia sintetica. Conosce molte cose su
come fabbricare cellule che incorporino componenti “innaturali” che inserisce lui stesso18. Una
componente evitata dalla vita normale, ma che Benner pensa vada bene per la vita sintetica, è una classe
di molecole note come 2-metil-aminoacidi. Trovare organismi che impieghino questi aminoacidi sarebbe
un indicatore significativo di qualcosa di nuovo e strano. A dire il vero, non avremmo neanche bisogno di
vedere gli stessi microbi: un detrito organico che contenesse 2-metil-aminoacidi, specialmente nel caso
in cui mostrasse una chiralità preferita, sarebbe già un segnale eloquente. Il suggerimento di Benner per
gli aminoacidi è parte di una strategia generale: fare una lista delle molecole organiche che la vita
conosciuta non produce, che non sono prodotti di degradazione della vita come la conosciamo e che,
preferibilmente, non si formano in modo naturale con processi non biologici. Dobbiamo andare a
cercarli: nessuno ha ancora provato a farlo, e non c’è mai stata alcuna ricerca sistematica di materie
organiche strane nell’ambiente.
Collegato al tema degli aminoacidi c’è quello del codice genetico, che come ho spiegato in
precedenza è universale per la vita standard. Possiamo immaginare un tipo di vita alternativa fatta di
DNA e dello stesso insieme di 21 aminoacidi, ma che impieghi un diverso codice genetico. Sarebbe
facile lasciarsi sfuggire organismi che hanno questa biochimica alla “ci mancava poco”, eppure gli stessi
si tradirebbero con rapidità se studiati in dettaglio da un biologo molecolare. Sarebbe più probabile che la
vita strana, se fosse iniziata da zero indipendentemente dalla vita standard, usasse un insieme diverso di
aminoacidi, e che così dovesse usare anche un codice genetico diverso. Possiamo addirittura immaginare
una vita in cui due dei quattro nucleotidi G, C, A e T sono assenti, o sostituiti da un altro nucleotide, o in
cui ci sono più nucleotidi (per esempio sei invece di quattro). Sono tutti candidati per la vita sintetica,
quindi sono possibilità valide anche per forme alternative di vita naturale. Dato che le probabilità che i
microorganismi che usano una biochimica fondamentalmente diversa rispondano in modo sensato alle
tecniche biochimiche standard sono piccole, microbi strani di questo genere potrebbero anche essere
proprio intorno a noi, finora non identificati.
Una forma più radicale di vita strana sarebbero organismi che usano elementi chimici diversi. La
vita così come la conosciamo è basata sulle proprietà più uniche che rare del carbonio, ma usa anche altri
elementi chiave, ossia l’idrogeno (H), l’azoto (N), l’ossigeno (O), il fosforo (P) e lo zolfo (S). Alcuni
hanno ipotizzato che il silicio possa sostituire il carbonio: congettura che è stata presa in considerazione
in un episodio di Star Trek, ma che non è stata presa davvero sul serio dai biochimici, perché il silicio non
può formare lo straordinario ventaglio di molecole complesse che può invece costituire il carbonio. Un
candidato più plausibile è stato proposto dalla mia collaboratrice Felisa Wolfe-Simon, che ha ipotizzato
che il fosforo possa essere sostituito dall’arsenico19. L’arsenico può svolgere gli stessi compiti strutturali
e quelli legati all’immagazzinamento di energia del fosforo, ma può anche fare di meglio fornendo
inoltre una fonte energetica, ossia del cibo20. Ci sono microbi che sfruttano l’arsenico ma, per così dire,
non lo respirano: il composto dell’arsenico viene spogliato del suo contenuto energetico, dopodiché
l’arsenico viene sommariamente espulso. L’arsenico è un veleno proprio perché i nostri corpi fanno
fatica a separarlo dal fosforo. Felisa spera di trovare microbi strani con dell’arsenico incorporato ai loro
elementi vitali, e per i quali il veleno sarebbe il fosforo.
Come distinguere una radice da un ramo
Se scoprissimo forme di vita strana, la prima priorità sarebbe quella di determinare se essa
appartiene davvero a un albero della vita separato dal nostro o se è soltanto un ramo finora sconosciuto
dell’albero della vita standard. Immaginiamo di avere di fronte due forme di vita del tutto diverse, che
saremmo tentati di attribuire a due alberi separati, ognuno con un’origine indipendente (dove con questo
intendo con transizioni dalla nonvita alla vita indipendenti tra loro). Dopo ulteriori indagini, però,
potremmo scoprire che “sotto terra” i due tronchi hanno un sistema di radici comuni: questo significa che
forme di vita diverse tra loro appartengono a un unico albero, dopo tutto, ma si sono ramificate prima
dell’ultimo antenato comune di tutte le forme di vita standard.
L’albero della vita così come lo conosciamo consiste di tre “cespugli” distinti che si sono
ramificati miliardi di anni fa. Un cespuglio contiene i batteri; un altro tutta la vita multicellulare, dagli
uomini ai porcospini; ci sono anche organismi unicellulari complessi come l’ameba. Quest’ultimo è il
dominio degli eucarioti. Il terzo cespuglio consiste soltanto di microbi, ma sono tanto diversi dai batteri
quanto lo sono da noi, e hanno il nome collettivo di archei. La questione che sto sollevando ora è la
seguente: come facciamo a sapere che non c’è un quarto cespuglio, in attesa di essere scoperto, che si
divide ancora prima della triforcazione in batteri, eucarioti e archei? Se trovassimo una nuova e bizzarra
forma di vita, dovremmo eliminare la spiegazione del “quarto cespuglio” prima di concludere che si
tratta di una dimostrazione dell’esistenza di un secondo albero.
Come possiamo distinguere un ramo che spunta molto in basso da un albero separato? La risposta
dipende, in parte, da quanto è strana la vita strana: la questione sta proprio nei dettagli. Consideriamo il
caso della vita speculare (organismi con chiralità rovesciata): è concepibile che le primissime forme di
vita fossero achirali, ossia fatte soltanto di molecole simmetriche per riflessione nello specchio, e che in
seguito l’albero si sia diviso in due parti, una popolata di organismi con zuccheri sinistrorsi e aminoacidi
destrorsi, l’altra popolata di organismi con le loro forme speculari? Sembra assai improbabile. Le
molecole piccole e semplici spesso sono simmetriche per riflessioni nello specchio, ma molecole di
complessità anche soltanto moderata hanno sia versioni destrorse sia versioni sinistrorse. Si dubita del
fatto che un sistema con la complessità di un organismo vivente possa nascere soltanto grazie alle
semplici molecole achirali. Ne segue che la scoperta di vita speculare sarebbe un forte indicatore di
eventi di genesi multipli.
Se al contrario si scoprisse una forma di vita strana che assomiglia in tutto e per tutto alla vita
standard fatta eccezione per il codice genetico, sarebbe facile affermare che le due forme di vita hanno
una genesi comune e un codice “antenato” in comune, a partire dal quale la vita si è divisa in due forme
che hanno sviluppato, evolvendosi, codici diversi. Almeno una versione di questo scenario sembra
plausibile. Il codice a triplette usato dalla vita così come la conosciamo è complicato, e alcuni biologi
pensano che si sia evoluto da un antenato più semplice, magari un codice a coppie basato soltanto su due
nucleotidi (G e C) e dieci aminoacidi. Questa versione ristretta della vita standard, si pensa meno
complessa, avrebbe potuto avere un grande successo tre o quattro miliardi di anni fa. Il codice a tre
potrebbe essersi evoluto più tardi, conferendo una maggiore versatilità che rese la vita in grado di
diffondersi in un numero più ampio di ambienti. La transizione tra coppia e tripletta avrebbe potuto
verificarsi più di una volta, oppure la tripletta originale potrebbe essersi poi divisa in varianti.
Fa poi capolino una possibilità ancora più intrigante: è possibile che alcuni di questi tipi un po’
fuori moda siano ancora tra noi, e che vivano all’antica usando un codice soltanto con G e C? Ancora una
volta questi “fossili viventi” passerebbero inosservati a un’analisi biochimica standard, ma sarebbero
identificati con chiarezza se i ricercatori decidessero di mettersi a cercarli21. Con questo spirito, se
trovassimo segni di vita all’arsenico, avremmo bisogno di scoprire se la vita standard sia iniziata in quel
modo e poi si sia evoluta per sostituire l’arsenico con il fosforo. Per quanto la scoperta di simili organismi
precursori possa essere affascinante, non arriveremmo davvero al cuore del problema, che è la possibilità
di origini multiple. Per essere sicuri che qualsiasi forma di vita strana discenda davvero da una seconda
genesi, dovrebbe essere tanto diversa dalla vita standard da escludere che sia esistito un qualche antenato
comune plausibile. Questo criterio sarebbe difficile da stabilire se le due biosfere si sovrapponessero e
avessero molta chimica in comune. Sarebbe ancora più difficile se le due forme di vita si fossero in parte
integrate biochimicamente, per esempio scambiandosi geni o altre strutture, rimescolando i loro lignaggi
separati e confondendo tutta la storia evolutiva. Non possiamo escludere forme di vita che “abbiano la
meglio” su altre (come accadeva in Quatermass, il già citato fantasceneggiato trasmesso dalla BBC nei
primi anni Cinquanta), diffondendo proprie componenti chiave in un ospite ricettivo; specie se due forme
di vita distinte si sono trovate su percorsi evolutivi convergenti. Tutto questo rappresenterebbe una
complicazione indesiderata: sarebbe triste e fastidioso se la vita fosse iniziata sulla Terra più e più volte
ma poi ci fossero state una convergenza e una fusione, così che oggi non avremmo alcuna speranza di
districare tali radici multiple22. Per quel che mi riguarda, tuttavia, non credo che la convergenza evolutiva
possa essere così forte: può rigettare caratteristiche simili a grandi linee, ma mi sembra molto
improbabile che si concentri su uno schema biochimico specifico.
Spesso si dice che se due forme di vita diverse si trovassero accanto, una delle due alla fine
guadagnerebbe un vantaggio ed eliminerebbe l’altra. Non sono mai stato convinto del fatto le cose
debbano andare così. La coesistenza pacifica è una possibilità, e potrebbe verificarsi in due modi: in
primo luogo, se due forme di vita sono abbastanza dissimili da essere del tutto indifferenti l’una all’altra,
non competono. La vita speculare, per esempio, non sarebbe in competizione diretta con la vita
conosciuta perché le due forme userebbero per alimentarsi molecole in gran parte diverse. Una forma
potrebbe avere la meglio sull’altra, allora, in termini strettamente numerici; ma anche se fosse? I
microbiologi hanno molta familiarità con il fatto che alcune specie siano rare, pur restando una
componente stabile della popolazione microbica complessiva. Il secondo tipo di coesistenza pacifica si
verifica nel momento in cui popolazioni di microbi di tipo molto diverso raggiungono un
accomodamento: ne è un esempio la coabitazione fianco a fianco di batteri e archei, due grandi regni
microbici che rappresentano milioni di specie che spesso hanno nicchie ecologiche simili. Si potrebbe
supporre che questa tolleranza sia dovuta al fatto che i due ambiti diventino biochimicamente integrati
(creano cioè un matrimonio anziché una rivalità); in effetti però gli archei e i batteri sembrano aver
conservato gelosamente certi geni molto primari. Per quanto sappiamo gli archei non hanno mai
condiviso con i batteri (o gli eucarioti) la loro abilità di metabolizzare producendo metano; eppure la
metanogenesi è molto diffusa tra gli archei e si verifica in luoghi piuttosto diversi, come i camini
vulcanici sottomarini e la pancia di un uomo. Viceversa, sembra che la fotosintesi non sia mai stata
passata dai batteri (o dagli eucarioti) agli archei23. È chiaro, pertanto, che forme di microbi molto diverse
possono competere nello stesso spazio per le stesse risorse, senza che una forma giunga mai a eliminare
l’altra.
Anche se i discendenti di altre genesi si sono estinti molto tempo fa, potrebbero aver lasciato
qualche traccia della loro esistenza di un tempo sotto forma di antichi fossili e biomarcatori molecolari
distintivi. Gli sterani (molecole con quattro anelli), per esempio, sono prodotti da cellule complesse e per
quanto ne sappiamo non si formano tramite fattori abiotici; sono state trovate tracce di sterani in
microfossili che risalgono a più di due miliardi e mezzo di anni fa. Scoprire fossili che contengono sterani
speculari, ossia di chiralità opposta, potrebbe essere una prova dell’esistenza di antiche forme di vita
speculari. Molte altre molecole organiche complesse provenienti da uno schema biochimico
completamente alternativo potrebbero sopravvivere a lungo all’interno delle rocce. Un modo indiretto in
cui una forma di vita strana estinta potrebbe aver lasciato tracce è attraverso la separazione dei minerali.
Molti depositi minerari, tra cui quelli di ferro, rame e oro sono ritenuti di genesi biologica: in altri
termini, si pensa che il loro deposito e la loro concentrazione sia stata causata almeno in parte dall’attività
di microbi che usano questi minerali per le loro attività metaboliche. Un deposito minerario impossibile
da creare per la vita che conosciamo, ma che mostrasse comunque i segni distintivi di una biogenesi,
sarebbe una prova circostanziale di una biochimica alternativa al lavoro.
Abbiamo già scoperto la vita ombra?
Dal mese di luglio al mese di settembre 2001 il sud dello stato indiano del Kerala fu a più riprese
bagnato da una pioggia misteriosamente colorata di rosso. I campioni raccolti furono spediti a laboratori
indiani e britannici: si scoprì che l’acqua conteneva cellule dotate di motilità che somigliavano a batteri.
Dopo poco tempo cominciò a girare la voce che la pioggia rossa del Kerala contenesse microbi
extraterrestri. Alcuni ricercatori indiani mi mandarono sequenze video che mostravano cellule che si
muovevano a scatti; ma erano piuttosto indistinte, e avrebbe potuto trattarsi di qualsiasi cosa. Come
capita spesso in simili misteri scientifici, la ricerca andò a esaurirsi e le scoperte non portarono ad alcuna
conclusione. Ci sono molti meccanismi fisici che potrebbero spiegare la pioggia colorata, che si è poi
scoperto essere una caratteristica persistente dell’India del Sud; ne segue che non bisognerebbe mai
prendere troppo sul serio chi afferma che si tratti di qualche strana forma di vita proveniente dallo spazio.
D’altro canto, se microbi strani resistenti ai raggi ultravioletti abitassero negli strati più alti
dell’atmosfera potremmo aspettarci che di tanto in tanto dei cambiamenti meteorologici li portassero ad
altitudini più basse, dove potrebbero cristallizzarsi in gocce di pioggia e cadere al suolo. È interessante
annotare la scoperta di batteri che vivono nell’aria, i quali si trasformano in cristalli di ghiaccio
secernendo enzimi speciali, il che rappresenta un modo intelligente di raggiungere il suolo sotto forma di
fiocchi di neve24.
Un altro fenomeno intrigante è lo strano strato che ricopre le rocce nella maggior parte delle zone
aride del mondo, noto come vernice del deserto o rock varnish. L’origine di questo fenomeno è stata una
sorta di rompicapo sin da quando fu notato dallo stesso Darwin. Di sicuro il ricoprimento contiene forme
di vita microbica, e anche qualche insolita combinazione di materiali (a dire il vero, alcune varietà
contengono arsenico). La composizione chimica della vernice del deserto è molto diversa da quella delle
rocce ospitanti; non è chiaro se sia un prodotto della vita oppure uno strato minerale complesso invaso da
forme di vita “opportuniste”. Di certo la vernice fornisce una sorgente di materiale piuttosto strano, di
facile accesso e che merita studi ulteriori. I miei colleghi del Beyond Center hanno portato avanti una
ricerca pilota, ma finora senza alcun seguito. In questo momento ci stiamo preparando ad analizzare
nuovi campioni.
È probabile che la dichiarazione più insistente relativa al fatto che forme di vita strana siano già
state scoperte riguardi piccole forme di vita note come nanobatteri. Queste piccole masse indistinte
misurano soltanto poche centinaia di nanometri di diametro (un nanometro è un miliardesimo di metro);
assomigliano ai batteri ma sono troppo piccole per contenere i ribosomi (le macchine fabbrica-proteine,
componenti chiave della vita così come la conosciamo). Sono stati trovati nanobatteri nelle rocce25, nei
pozzi di petrolio26 e nel sangue27; sono stati coinvolti in numerose malattie, dai disordini renali
all’Alzheimer, e hanno addirittura attirato l’attenzione di industrie farmaceutiche. La pretesa che queste
piccole strutture siano organismi viventi, così come implica l’uso del termine batteri, è molto
controversa; se lo sono, è difficile vedere come potrebbero essere classificate tra le forme di vita
standard. Potrebbero essere piuttosto forme di vita strana che assemblano le proteine in modi del tutto
nuovi, oppure che usano altri tipi di enzimi. Oppure potrebbero non essere vivi per niente. Una teoria,
avanzata da Steve Benner, è che alcuni nanobatteri siano una forma di vita basata sull’RNA che non ha
bisogno di proteine fabbricate dai ribosomi in quanto l’RNA farebbe sia il lavoro delle proteine sia quello
del DNA28.
I nanobatteri sono saltati agli onori della cronaca grazie a un personaggio del tutto improbabile: il
presidente Bill Clinton. Nell’agosto 1996 Clinton annunciò che scienziati della NASA avevano prove
dell’esistenza della vita su Marte, sotto forma di microscopiche strutture trovate in un meteorite
rinvenuto in Antartide nel 1984 e di cui successivamente si scoprì la provenienza marziana. In quelle
forme tutti vedevano dei batteri fossilizzati, tolto il fatto che fossero circa dieci volte più piccoli dei più
piccoli microbi terrestri. Alcuni commentatori saltarono alla conclusione che i nanobatteri vengono da
Marte; molti scienziati cominciarono a credere che microbi vivi potrebbero trasferirsi da Marte alla Terra
dentro un meteorite. Tutti erano eccitati. Oggi il trambusto si è esaurito e un’analisi estesa del meteorite
ha tolto di mezzo le affermazioni sul fatto che contenesse dei marziani fossilizzati: oggi sono ben pochi
gli scienziati che ancora vi credono29.
Quali che siano le prove dell’esistenza di vita nel meteorite marziano, che ci siano o no
nanobatteri sulla Terra rimane una domanda senza risposta. Molti anni fa visitai Philippa Uwins
all’università del Queensland a Brisbane, in Australia; durante un’analisi di routine per la società
estrattiva aveva trovato alcune cosucce a forma di batterio, in campioni prelevati in un sito di estrazione
petrolifera nel mare della Western Australia. Philippa fece la propria scoperta usando un microscopio
elettronico per studiare i dettagli del materiale, e chiamò queste forme con il nome, neutrale, di nanobi. I
nanobi, come i nanobatteri, sono troppo piccoli per essere cellule viventi convenzionali. Quando Philippa
scoprì dentro i nanobi del DNA, ne fu, a ragione, entusiasta. Mi mostrò le prove: usando un tipo di
mistura chimica chiamata oro colloidale fu in grado di far legare l’oro al DNA, cosicché nelle immagini
al microscopio poteva vedere che era situato dentro i nanobi e non al di fuori, libero di fluttuare. Si
trattava di una cosa molto importante, perché frammenti di DNA provenienti da microbi standard
decomposti potrebbero attaccarsi alle superfici del minerale e così conservarsi. Il fatto che i nanobi
contenessero DNA suggerì a Philippa che fossero, se non altro, cellule che una volta erano state vive,
anche se ora non lo erano più, e che presumibilmente non avevano ribosomi per assemblare le proteine a
causa delle loro dimensioni minuscole. Tuttavia, Philippa non fu in grado di ottenere una sequenza di
DNA sensata, il che poteva indicare che stava avendo a che fare con una forma di vita basata su un DNA
strano che usa un codice genetico diverso. Una spiegazione più prosaica invece è che i nanobi siano
capsule minerali che si sono formate attorno a DNA di scarto che galleggia nel petrolio.
Ricerche condotte da John Young e dal suo studente Jan Martel alla Rockfeller University li
hanno portati alla conclusione che nanobatteri e nanobi non siano vivi; Young e Martel ipotizzano che
siano piuttosto composti chimici complessi, fatti di materiale organico combinato con il comune
carbonato di calcio (calcare), a dare forme amorfe che superficialmente assomigliano a minuscole
cellule30. I ricercatori insistono sul fatto che, anche se le cose stessero così, i nanobatteri non sarebbero
disconnessi dal tema dell’origine della vita in quanto forniscono un esempio naturale di
autoassemblaggio chimico: un passo verso la vita, dunque, anche se di per sé non sono vivi. I ricercatori
fanno un paragone con i prioni, sostanze chimiche simili alle proteine che possono subire malformazioni
in certe reazioni a catena originando malattie come il kuru e il morbo della mucca pazza.
Gli esempi precedenti sono suggestivi ma ancora inconcludenti, e richiedono di certo indagini
ulteriori. Nel frattempo la caccia per la vita ombra, o la vita strana, sta prendendo piede sempre più
rapidamente in tutto il mondo.
Alla ricerca del mondo ombra
Come ho già spiegato, la mia collega Felisa Wolfe-Simon ha la sensazione che ci potrebbero
essere microbi strani basati sull’arsenico, e la NASA attualmente ha finanziato un progetto di ricerca su
questo argomento. Dove potrebbero nascondersi questi arsenofili? Un luogo ovvio è un ambiente ricco di
arsenico. Molti laghi e molte sorgenti in tutto il mondo sono contaminati dall’arsenico e rischiosi per la
salute. Il Mono Lake in California, una meraviglia ecologica della Sierra orientale vicino allo Yosemite
National Park, è un rifugio pittoresco per forme esotiche di vita strana, e niente è più esotico dei microbi
che vi abitano. Il lago ha una concentrazione di arsenico eccezionalmente alta ed è abitato da molti
organismi peculiari, alcuni dei quali sembra usino le grandi quantità di arsenico a loro vantaggio. Il più
grande esperto degli arsenofili del lago Mono è Ron Oremland della US Geological Survey a Menlo
Park, che ospita il progetto. Ad oggi nessuno dei microbi che ha studiato è davvero una forma di vita
strana, con l’arsenico incorporato nelle proprie parti interne, così come suggerisce Felisa: sono piuttosto
semplici quanto inusuali adattamenti della vita standard. La ricerca di vita basata sull’arsenico, tuttavia, è
appena cominciata, e Ron e Felisa hanno escogitato un modo per accelerarla. Campioni del fango alla
base del lago vengono portati in laboratorio per fare delle colture e degli esperimenti; qui i
microorganismi sono sottoposti a livelli di arsenico ancora maggiori. Nel lago Mono microbi standard
possono essersi adattati per sopportare l’arsenico; ma questa tolleranza ha dei limiti, e a un certo livello di
concentrazione la cellula va in overdose e muore silenziosamente per avvelenamento da arsenico, come
una minuscola vittima di un romanzo di Agatha Christie. Una forma di vita genuinamente basata
sull’arsenico, per contro, si berrebbe tutto il cocktail nutritivo con entusiasmo, e anzi starebbe benissimo.
Mettendo in atto operazioni di coltura successive con livelli di concentrazione dell’arsenico sempre più
alti, gli sperimentatori si aspettano che tutti i microbi basati sull’arsenico, anche se presenti all’inizio in
quantità irrisorie, prendano il sopravvento nella competizione con la vita standard e giungano a dominare
la popolazione microbica.
Una prova dell’esistenza di vita basata sull’arsenico sarebbe la presenza di una struttura comune
della vita standard modificata dall’arsenico, sostituitosi al fosforo. Un esempio sarebbero dei nucleotidi
(i mattoni costituenti il DNA), in cui il fosforo gioca un ruolo determinante; un altro è la membrana
cellulare, che è fatta di una sostanza chiamata lipido che contiene fosforo. Entrambe queste strutture
possono essere studiate per cercare segni di arsenico usando tecniche standard di analisi chimica. Un
terzo esperimento usa arsenico radioattivo come marcatore per vedere se si incorpora alla biomassa.
Un altro metodo che stiamo sviluppando è quello di raccogliere il maggior numero possibile di
campioni di forme di vita dagli oceani. Nel 2004 Craig Venter, dopo aver contribuito a sequenziare il
genoma umano, ha di nuovo sbalordito la comunità scientifica annunciando di avere isolato l’incredibile
numero di 1,2 milioni di nuovi geni e 1800 microbi, fino ad allora non identificati, in un campione di
acqua prelevato dall’apparentemente sterile Mar dei Sargassi. Con un commento efficace, Venter ha
dichiarato: «Stiamo cercando la vita su Marte e non sappiamo nemmeno cosa c’è sulla Terra»31. Ed è
proprio così. La maggior parte delle cose che sappiamo sulla biodiversità nel regno microbico deriva
dallo studio di una minuscola parte degli organismi che possono essere fatti crescere in laboratorio: è
ovvio quanto questo sia poco rappresentativo. È certo che ci sia un numero immenso di microorganismi
rari del tutto tralasciati dai metodi molecolari standard, tra i quali potrebbero forse esserci microbi strani
che non risponderebbero alle tecniche standard in ogni caso, neanche se fossero relativamente
abbondanti. La cosiddetta analisi shotgun di Venter, in cui il DNA di molti campioni cellulari è
frantumato a caso in piccoli frammenti e poi sequenziato, fa sì che gli scienziati siano in grado di
misurare la diversità genetica dei campioni nel loro insieme, senza doverli identificare uno per uno e
senza dover coltivare ognuna delle specie individualmente. La sfida consiste nell’estendere queste
tecniche anche a tutti i microorganismi non standard, inclusi virus strani o altri parassiti molecolari ultra
piccoli, che potrebbero essere del tutto nuovi.
Sono ora in corso molti altri progetti di raccolta di campioni d’acqua oceanica, e questo fornisce
una splendida opportunità di scoprire ogni forma di vita strana che potrebbe nascondersi nel mare. Un
progetto triennale chiamato Tara-Oceans sta raccogliendo campioni in tutto il mondo, in primo luogo per
studiare l’impatto dell’anidride carbonica sulla biodiversità marina. Tara-Oceans cercherà inoltre di
studiare gli ecosistemi delle profondità oceaniche e di raccogliere campioni microbiologici dai mari di
tutto il mondo. Gli scienziati che vi partecipano si dedicheranno inoltre alla ricerca della biosfera ombra,
utilizzeranno un vasto insieme di tecniche per identificare forme di vita strana, e porteranno dei campioni
selezionati al Beyond Center per le analisi di laboratorio.
La scoperta di una forma di vita nata soltanto con una seconda genesi sarebbe l’evento più
sensazionale della storia della biologia, con conseguenze radicali per la scienza e la tecnologia. Avrebbe
anche implicazioni immediate per l’astrobiologia, perché in quel caso potremmo essere sicuri del fatto
che l’universo davvero brulichi di vita, così come molti dichiarano con disinvoltura. Lo scopo di SETI,
tuttavia, non consiste nel trovare la vita, ma forme di vita intelligente fuori dalla Terra. È possibile che la
vita sia comune ma l’intelligenza sia rara. Quali sono le possibilità che, una volta che la vita prenda il via
su un pianeta, l’intelligenza, presto o tardi, si evolva?
Capitolo 4
A volte penso che il segnale più sicuro del fatto che da qualche parte nell’universo esistano forme
di vita intelligente è che nessuno ha mai cercato di contattarci. Bill Watterson, fumettista
La fallacia de Il pianeta delle scimmie
Se poteste entrare in una macchina del tempo e visitare la Terra di tre miliardi e mezzo di anni fa,
trovereste continenti sterili e oceani deserti. L’unico segno di vita sarebbe qualche ben poco rilevante
montagnola granitica sparpagliata nei bassifondi mareali. Queste strutture a cupola, chiamate
stromatoliti, hanno dimensioni che variano dai pochi centimetri al metro; le stromatoliti non sono di per
sé organismi viventi, ma composti di strati di minerali deposti dai microbi che abitano sulla superficie.
Per quanto sappiamo, biologicamente parlando, tre miliardi e mezzo di anni fa non succedeva molto
altro.
Oggi il nostro pianeta pullula di vita: ci sono milioni di organismi complessi che camminano,
volano, strisciano, scavano, nuotano e sono impegnati nel processo della fotosintesi. Questa rete di forme
di vita ricca ed elaborata si è evoluta, a volte in modo regolare e altre volte a pezzi e bocconi, nel corso
dei miliardi di anni che ci separano dall’epoca delle stromatoliti. Alcuni, se devono usare una sola parola
per descrivere questa trasformazione, usano progresso; altri preferiscono avanzamento. L’impressione
dominante che si ha studiando l’evoluzione è quella di un’esuberanza biologica, con la vita diffusa quasi
ovunque, che sperimenta senza sosta sempre nuovi e migliori modi di adattarsi e che esplora piani
corporei sempre più complessi. Servendoci della prosa eloquente di Darwin, «mentre il pianeta seguita a
girare secondo la legge immutabile della gravità, [la vita] si è evoluta e si evolve, partendo da inizi così
semplici, fino a creare infinite forme estremamente belle e meravigliose»1.
Molti biologi (tra cui lo stesso Darwin) in linea di massima hanno sostenuto il punto di vista di un
avanzamento evolutivo complessivo: una marcia a senso unico dal primitivo al sofisticato, dal semplice
al complesso. E l’apice di questo avanzamento è, l’avrete già indovinato, proprio l’uomo. Caratterizzato
dal suo cervello massiccio e dalla sua intelligenza superiore, l’Homo sapiens svetta come simbolo
archetipico della natura che aspira a forme di vita migliori e più raffinate. E (così procede il ragionamento
logico) questa marcia senza sosta del progresso di certo non è un’aberrazione tipica della Terra, ma deve
essere una proprietà di base dell’ordine naturale delle cose, cosicché potremmo aspettarci che si ripeta su
tutti i pianeti che ospitano la biologia. Insemina un pianeta con la vita, torna qualche miliardo di anni
dopo e aspettati di trovare cultura, linguaggio, tecnologia, scienza e, con un po’ di fortuna, radiotelescopi.
In altre parole: l’intelligenza, e la sua manifestazione come società tecnologica, è qualcosa che è quasi
costretta a emergere, presto o tardi, una volta che la vita cominci a ingranare (salvo sfortunati incidenti,
come nel caso in cui esploda la stella del sistema planetario). È una visione molto diffusa, ed è quella che
hanno adottato Carl Sagan e molti altri ricercatori di SETI. Ma è corretta?
La teoria ottimistica, o “progressiva”, dell’intelligenza è appoggiata da uno studio
dell’evoluzione del cervello: le dimensioni assolute del cervello non sono, di per sé, una buona misura
dell’intelligenza, dal momento che gran parte del cervello è usata per far funzionare il corpo (corpi grandi
hanno bisogno di grandi cervelli). Un gattino, per esempio, che ha il cervello delle dimensioni di una
noce, ovviamente non è più stupido di una tigre del Bengala. Il cosiddetto quoziente di encefalizzazione
(qe) è un tentativo di aggirare il problema paragonando la dimensione vera del cervello con la
dimensione che ci si aspetterebbe di trovare per le specifiche dimensioni corporee dell’animale in
questione2. Il rapporto di riferimento è pari a 1, cosicché quelli che hanno un rapporto maggiore di 1
hanno un cervello “grosso”, quelli che hanno un rapporto minore hanno un cervello “piccolo”. Noi umani
cervelloni possiamo vantare un QE pari a circa 7,5; gli scimpanzé (i nostri parenti più vicini in vita) di 2,5
e i delfini di 5,3 (per chi è interessato, i gattini hanno un mediocre 13). Gli uomini di Neanderthal, che
probabilmente non erano nostri antenati diretti ma un ramo diverso del genere Homo, avevano un QE di
circa 5,6. Se mettiamo su un grafico l’evoluzione del QE nel nostro lignaggio nel corso degli ultimi
milioni di anni, sembra che ci sia la tendenza a un’accelerazione. Alcuni addirittura ci vedono un tasso di
crescita esponenziale4. È quasi come se l’intelligenza fosse “decollata” come grande idea evolutiva e poi
fosse partita a razzo, suggerendo che in qualche modo l’evoluzione la “favorisca”, forse su ogni pianeta
in cui ci siano organismi con qualcosa di simile a un sistema nervoso centrale.
Ah, se soltanto fosse così semplice. Per sfortuna l’idea popolare dell’evoluzione come progresso
è, nel migliore dei casi, una grave semplificazione, e nel peggiore semplicemente sbagliata. È
nell’essenza del darwinismo che la vita non possa “guardare avanti” e adattare i cambiamenti evolutivi a
un obiettivo desiderato o a un’opportunità futura. Le mutazioni avvengono casualmente e saranno
selezionate solo sulla base di ciò che in quel momento funziona meglio. La natura non può prevedere il
futuro più di quanto possiamo fare noi, e di conseguenza l’idea che la vita si stia battendo in modo attivo
per (o sia incanalata in direzione di) qualche fine pre-determinato, è semplicemente sbagliata. Questo
punto è stato sottolineato con enfasi da Stephen Jay Gould, che usava l’analogia di un ubriaco che si
appoggia al muro e che più tardi è trovato riverso nel canale di scolo: aveva come scopo quello di finire
nel canale di scolo? No: stava soltanto barcollando qua e là a caso, ma dato che il muro gli ha impedito di
andare in direzione opposta al canale di scolo, era inevitabile che presto o tardi trovasse il bordo del
marciapiede e cadesse giù. Questo processo crea l’illusione della direzionalità a causa dell’asimmetria
della situazione. Allo stesso modo, dice Gould, la vita non ha come scopo la complessità o
l’”avanzamento”: comincia come qualcosa di semplice (per necessità) e non c’è altro da fare che
procedere verso l’alto5. La vita, in media, con il tempo diventa più complessa non perché sia sottilmente
indirizzata verso la complessità, ma perché sta casualmente esplorando tutto il ventaglio delle possibilità,
la maggior parte delle quali sono più complesse dello stadio iniziale. Gould credeva che l’idea (sbagliata)
della “vita progressiva” fosse esacerbata dalla metafora dell’albero della vita usata per la prima volta da
Darwin, perché l’albero ha una direzione evidente (verso l’alto); secondo Gould, un cespuglio sarebbe
una metafora più adatta. Riassumendo questo punto di vista, si potrebbe dire che la vita semplicemente
va avanti improvvisando di volta in volta; e che l’intelligenza è soltanto una delle tante cose che ha
improvvisato. Quello che vogliamo sapere per la ricerca di vita extraterrestre intelligente, com’è ovvio, è
soltanto quanto sia probabile che la vita, alla cieca, incappi nell’intelligenza (come l’ubriaco) lungo il
cammino evolutivo. Succederà qualche volta? Spesso? Quasi mai?
Quando ci si occupa di tali questioni un fattore chiave è il fenomeno della convergenza
evolutiva6. Esso avviene quando per un problema simile viene scoperta la stessa soluzione biologica, ma
lungo percorsi diversi e da punti di partenza diversi. Gli esempi abbondano: le ali sono state inventate
molte volte, negli insetti, negli uccelli, nei mammiferi e addirittura nei pesci. Sono sorte in modo
indipendente perché volare o planare in alcune circostanze ha dei vantaggi evolutivi ovvi, e far crescere
delle ali adattando organi diversi (la pelle tra le zampe per le volpi volanti, le pinne per i pesci…) è una
tappa relativamente immediata del percorso. Anche gli occhi sono nati più volte: ci sono a dire il vero
molti tipi diversi di occhi. Anche la vista ha grossi vantaggi, e non sorprende che l’evoluzione l’abbia
scoperta più e più volte, sempre in via indipendente.
Un dibattito interessante in biologia si occupa di quali schemi o tendenze generali siano
manifestati dalla convergenza evolutiva, e se sia legittimo descrivere alcuni di questi in termini di nicchie
disponibili. Facciamo un esempio: a seguito della frattura dei supercontinenti Gondwana e Laurasia
l’evoluzione animale ha avuto un andamento divergente nei continenti separati. Ciò che oggi è
l’Australia finì di staccarsi dal Gondwana circa 50 milioni di anni fa e diventò dominato dai marsupiali,
mentre negli altri continenti ci fu il predominio dei mammiferi placentati. Quando gli aborigeni
raggiunsero l’Australia, circa 50.000 anni fa, scoprirono un feroce predatore carnivoro, il Thylacoleo.
Ahimè, il Thylacoleo oggi è estinto, forse a causa della caccia o dei cambiamenti climatici. Questa
creatura, evolutasi dai marsupiali mangiatori di piante, ha finito per avere le sembianze e le abitudini
(alimentari e non) della tigre dai denti a sciabola del Nord America, discendente dei mammiferi
placentati carnivori. Potremmo così dire che il Thylacoleo ha “occupato la nicchia” della tigre
nell’ecosistema australiano. Questo modo un po’ netto di porre la questione implica che ci sia davvero
una “nicchia della tigre” che aspetta di essere riempita, proprio come se ci fosse una nicchia delle ali e
una nicchia degli occhi.
Dato che la convergenza evolutiva è così diffusa e così potente, la metafora della nicchia ha una
certa forza; ma deve essere usata con grande cautela. Quello che vogliamo sapere, per quanto riguarda la
ricerca di vita intelligente extraterrestre, è se ci sia una “nicchia dell’intelligenza” che sulla Terra è stata
cortesemente riempita dagli uomini a partire da qualche milione di anni fa in Africa, quando i nostri
antenati assunsero per la prima volta la posizione eretta e iniziarono a usare strumenti (una serie di
sviluppi che ha portato dritto ai radiotelescopi). Se questo ragionamento fosse sensato potremmo
aspettarci che anche ET metta una i nell’acronimo SETI per noi, ossia anche lui cerchi vita extraterrestre
intelligente? Non c’è una risposta condivisa. Charley Lineweaver, un astrobiologo dell’Australian
National University, è molto scettico riguardo all’ipotesi relativa alla nicchia dell’intelligenza7.
Lineweaver ama paragonare le ali e gli occhi alle proboscidi. Un grosso elefante africano che capisse la
biologia potrebbe erroneamente concludere che tre miliardi e mezzo di anni di evoluzione siano stati
diretti proprio verso proboscidi sempre più lunghe e versatili, e concludere che esista una “nicchia delle
proboscidi” che proprio lui, Loxodonta africana, è stato chiamato a riempire da madre natura.
Esaminando il suo lignaggio evolutivo, l’elefante potrebbe essere portato a soffermarsi su un “quoziente
di nasalizzazione”, piuttosto che un quoziente di encefalizzazione. I fossili mostrerebbero un percorso
evolutivo di predecessori con proboscidi piccole che portano, centimetro dopo centimetro proboscidale,
fino all’elefante moderno; un andamento che potrebbe spingere a concludere, dato che il quoziente di
nasalizzazione ha subito un’accelerazione nel tempo, che l’elefante africano con la sua magnifica
proboscide fosse proprio destinato ad esserci.
La natura ridicola di questo modo di ragionare è evidente quando si parla di proboscidi, ma è
ancora in grado di convincere molte persone se applicata all’intelligenza. Dopo tutto, le proboscidi sono
banali appendici che hanno avuto ben poco impatto sul mondo, mentre l’intelligenza umana ha
ridisegnato il pianeta. Una grande intelligenza non è forse più profonda, più fondamentale a livello
biologico e in generale più significativa rispetto a una lunga proboscide? Beh, noi diremmo proprio che
le cose stanno così, ribatte Lineweaver. Diamo valore ai grandi cervelli perché sono ciò che abbiamo; gli
elefanti, presumibilmente, darebbero valore alle grandi proboscidi. Non c’è alcuna ragione oggettiva
perché una caratteristica debba essere più importante o più predestinata dell’altra; secondo Lineweaver
potremmo aspettarci alieni con grandi proboscidi proprio come potremmo aspettarci alieni con grandi
cervelli (è buffo che un romanzo del 1985 di Larry Niven e Jarry Pournell, Il giorno dell’invasione,
rappresenti davvero alieni elefanteschi, che hanno anche il beneficio di una grande intelligenza, anche se
non abbastanza da vincere la guerra contro noi uomini astuti). Lineweaver ama citare lo spaventoso film
hollywoodiano Il pianeta delle scimmie con Charlton Heston, un classico esempio di questa fallacia. Nel
film l’umanità è distrutta da una guerra nucleare, ma le scimmie stanno aspettando nelle quinte evolutive
per occupare la “nicchia dell’intelligenza” improvvisamente divenuta vacante. Dopo pochi secoli hanno
prevalso e scoperto le armi, le prigioni e le passeggiate a cavallo, spostandosi di un gradino in alto nella
scala evolutiva da cui Homo sapiens è stato bruscamente estromesso.
Nel contesto della ricerca di vita extraterrestre intelligente la storia si riduce a questo: possiamo
fare una lista di tratti (come gli occhi, le ali e forse la “tigritudine”) per cui sembra che ci siano nicchie in
attesa, e altri (come le piume del pavone e le proboscidi degli elefanti) che sembrano essere incidenti
casuali, e un po’ bizzarri, dell’evoluzione; incidenti così altamente specializzati che con scarsa
probabilità accadranno spesso. Abbiamo bisogno di sapere a quale lista appartenga l’intelligenza. Un
metodo è quello di chiedersi quanto tempo abbia impiegato la natura per scoprirla: la risposta è un tempo
molto lungo a paragone con quello degli occhi e delle ali. L’intelligenza potrebbe essersi evoluta in un
momento qualunque degli ultimi trecento milioni di anni (dal sorgere, cioè, degli animali) ma
l’intelligenza avanzata, quella che si avvicina al tipo di intelligenza che costruisce i radiotelescopi, è
apparsa soltanto nelle ultime centinaia di migliaia di anni. Se una nicchia dell’intelligenza esiste davvero,
là fuori, ha avuto la possibilità di essere riempita dai dinosauri, creature per il resto di grande successo
che, com’è noto, hanno governato la Terra per duecento milioni di anni prima di essere spazzati via
dall’impatto con una cometa, lasciando il campo libero ai mammiferi. Perché i dinosauri non hanno
sviluppato grandi cervelli, costruito razzi e non sono volati sulla Luna? Chris McKay si è occupato di
questo problema: «Oggi pensiamo che i dinosauri non fossero quegli esseri sciocchi e un po’ sgraziati
delle leggende metropolitane, ma che nel comportamento e dal punto di vista biochimico fossero tanto
sofisticati quanto i mammiferi contemporanei»8. Se l’intelligenza ha un così alto valore di
sopravvivenza, perché i dinosauri non l’hanno fatta evolvere? Hanno avuto un sacco di tempo per
riuscirci. McKay sottolinea che il piccolo dinosauro Stenonychosaurus (oggi ribattezzato Troodon)
aveva un QE paragonabile a quello del polpo (un animale molto intelligente), e camminava sulla Terra
ben 12 milioni di anni prima dell’apocalisse dei dinosauri: più del tempo che ha impiegato l’intelligenza
umana a evolvere da un QE di partenza simile.
Molti scienziati pensano che la vita sulla Terra sia un esperimento unico, e che non si possa
concludere molto da un’unica storia evolutiva. L’esempio del dinosauro tuttavia suggerisce che
l’evoluzione abbia avuto almeno due possibilità di fabbricare l’intelligenza. Si può addirittura affermare
che l’esperimento dell’intelligenza sia stato condotto sulla Terra parecchie volte. Lineweaver ha
evidenziato che in Australia non si è evoluto nessun marsupiale intelligente neanche dopo cinquanta
milioni di anni di isolamento fisico. L’intelligenza non è emersa neppure in America del Sud o del Nord,
o in Madagascar, tutte regioni grandi e riccamente popolate, rimaste isolate molto più a lungo di quanto
ci sia voluto per produrre il cervello umano. Se i grossi cervelli e l’intelligenza fossero qualcosa che ha
buone probabilità di evolversi, non sarebbe successo sulla Terra più di una volta? A volte si dice che
l’intelligenza si sia evoluta più di una volta, negli uccelli per esempio, e nei cetacei9. Secondo questo
punto di vista, gli uomini non sono altro che una deviazione estrema in un continuum di intelligenza, e le
nostre sorprendenti prodezze mentali il risultato di un’amplificazione evolutiva naturale avvenuta nel
corso di milioni di anni. È una visione controversa: gli uomini sono molto influenzati quando cercano
negli altri animali tratti umani, e ne antropomorfizzano il significato. Gli uccelli e i cetacei sono a loro
modo molto intelligenti, ma l’unica intelligenza che importa nel gioco di SETI (così come viene giocato
attualmente) è l’intelligenza legata all’alta tecnologia, perché SETI si basa sul principio “li
riconosceremo dai loro strumenti”. Non c’è uno straccio di prova del fatto che, soltanto con i propri
mezzi, gli uccelli o i cetacei avrebbero un giorno o l’altro scritto la teoria della relatività generale di
Einstein o inventato i laser.
Il risultato è che c’è un ampio spazio per il disaccordo. Potrebbe esserci una profonda legge della
natura che porta i sistemi viventi verso una complessità maggiore, con i grandi cervelli e la loro
intelligenza come una delle tante conseguenze; la scienza però non conosce una legge simile, nonostante
la diffusa fede nella sua esistenza. È anche possibile che la convergenza evolutiva sia così forte, e che
l’intelligenza avanzata abbia una spinta alla sopravvivenza così pervasiva, da rendere inevitabile che
prima o poi evolva, impedendo calamità peggiori. In assenza di un secondo campione della vita e di una
seconda storia evolutiva da paragonare alla nostra, però, questo non è altro che un pio desiderio.
La scienza è inevitabile?
Ammettiamo pure che l’intelligenza avanzata sia qualcosa di comune nell’universo. La domanda
successiva che interessa ai ricercatori di SETI è quale sia la percentuale di queste specie intelligenti che
scopre la scienza, inventa la tecnologia avanzata e si mette a comunicare su grandi distanze. È
assolutamente di moda, in parte perché politicamente corretto, asserire che qui sulla Terra ogni società
prima o poi sarebbe destinata a scoprire la scienza e la tecnologia. Dire qualcosa di diverso sembra
implicare la superiorità della civiltà europea, dove ha avuto inizio la scienza che conosciamo; e alcuni
considerano questo atteggiamento razzista e sciovinista. Per quanto mi riguarda sono sempre stato
scettico nei confronti dell’affermazione “la scienza è inevitabile”. Il problema è che la scienza funziona
così bene, ed è a tal punto parte della vita di tutti i giorni, che la gente ha la tendenza a darla per scontata.
Il metodo scientifico insegnato (male, la maggior parte delle volte) agli studenti si palesa come una
procedura del tutto ovvia: esperimento, osservazione, teoria; quale potrebbe essere un modo più naturale
di scoprire come funziona il mondo?
Tuttavia, una volta inserita in un contesto storico, la visione “ovvia” della scienza poggia su
fondamenta fragili. La scienza vera e propria emerse nell’Europa rinascimentale dalla doppia influenza
della filosofia greca e di una religione monoteistica. I filosofi greci ci insegnarono che gli uomini
potevano capire il mondo esercitando la ragione, la quale così diventava un vero e proprio metodo con le
regole della logica e dei teoremi matematici che ne conseguivano direttamente: dichiaravano che il
mondo non fosse arbitrario né assurdo, ma razionale e intelligibile, anche se confuso e complicato. La
filosofia greca, però, non produsse mai quello che oggi chiameremmo metodo scientifico, in cui la natura
è interrogata tramite esperimenti e osservazioni, a causa del fatto che i filosofi greci credevano, in modo
commovente, che le risposte potessero essere dedotte dalla pura ragione e nient’altro. I notevoli progressi
compiuti dai greci nel campo del ragionamento e della matematica furono invece nutriti per secoli,
durante il medioevo europeo, dagli studiosi islamici, senza i quali si dubita che la scienza e la matematica
avrebbero preso piede nella cultura europea del periodo medievale. Un’eco della fase islamica risuona in
parole moderne come algebra e algoritmo, e nei nomi di stelle familiari come Sirio e Betelgeuse.
Nonostante l’importanza della fase islamica nel periodo pre-scientifico, per qualche ragione (forse
politica o sociale) gli studiosi arabi non proseguirono fino a formulare leggi matematiche del moto o a
eseguire esperimenti di laboratorio nel senso moderno del termine.
Nello stesso momento, durante il periodo in cui la scienza si veniva a formare, il monoteismo
plasmò sempre in misura maggiore la visione occidentale del mondo. L’ebraismo rappresentò un punto
di rottura decisivo rispetto a tutte le culture contemporanee, postulando una narrazione cosmica che si
svolge lungo un tempo lineare. Secondo il racconto biblico l’universo fu creato da Dio in un momento
preciso del passato e si sviluppò lungo una linea unidirezionale (creazione, caduta, tribolazioni,
Armageddon, salvezza, giudizio, redenzione…). In altre parole, l’ebraismo ha una storia cosmica da
raccontare, quella di un piano divino rivelato tramite una sequenza storica. Ciò era in forte contrasto con
il prevalente punto di vista di un mondo ciclico: il succedersi di momenti buoni e momenti cattivi, la
nascita e la caduta delle civiltà, la ruota della fortuna che gira di continuo. Anche oggi la visione della
storia del mondo lineare e unidirezionale della civiltà occidentale non va molto d’accordo con altri temi
culturali, come il Tempo del Sogno degli aborigeni australiani o la ciclicità delle cosmologie indù e
buddiste10.
Il concetto di tempo lineare, e di un universo creato da un essere razionale e ordinato secondo un
insieme di leggi immutabili, fu adottato sia dal cristianesimo sia dall’islam, ed era l’influenza dominante
in Europa ai tempi di Galileo. I primi scienziati, profondamente religiosi, vedevano il proprio lavoro
come una scoperta del piano cosmico di Dio, rivelato attraverso relazioni matematiche nascoste. Ciò che
oggi chiamiamo leggi della fisica veniva da loro interpretato come pensieri nella mente di Dio. Senza la
fede in un singolo e onnipotente legislatore razionale è improbabile che qualcuno avrebbe ipotizzato che
la natura fosse intelligibile in un modo sistematico e quantitativo, riflesso da forme matematiche eterne.
Il metodo scientifico vero e proprio, ai tempi di Newton, era quasi una pratica occulta e veniva applicato
dagli scienziati come se si trovassero in una società segreta: scrivere simboli in codice su pezzi di carta, e
sottoporre la materia a esperimenti “innaturali” nel sancta sanctorium di uno stano laboratorio è, da
qualsiasi punto di vista, una procedura arcana. Ne consegue che, anche se oggi è considerata qualcosa di
naturale, quando ha iniziato ad affermarsi la scienza fosse ben poco diversa dalla magia.
Immaginiamo che nel 1300 un asteroide avesse colpito Parigi e distrutto la cultura europea: la
scienza sarebbe mai emersa sulla Terra? Non ho mai sentito un ragionamento convincente a favore del sì.
Spesso si sottolinea il fatto che nel medioevo i cinesi fossero molto più progrediti degli europei sotto il
profilo tecnologico, il che è vero. Perché allora i cinesi non sono diventati scienziati veri e propri? In
parte perché la cultura cinese tradizionale non era immersa nella nozione monoteistica di un legislatore
trascendente11: fuori dal mondo monoteistico la natura era vista come regolata da complesse interazioni
tra autorità in competizione tra loro, sotto forma di dèi, agenti e tendenze mistiche nascoste. Nella Cina
medievale non si faceva nessuna chiara distinzione tra leggi morali e leggi naturali: gli affari degli
uomini erano legati al cosmo in modo inestricabile, e formavano con esso un’unità indivisibile. Per i
pagani d’Europa e del vicino Oriente, in competizione con il cristianesimo e l’islam nel periodo della
loro formazione, la conoscenza del cosmo era raggiunta tramite la gnosi, una comunione mistica con il
creatore, piuttosto che tramite la ricerca razionale. La gnosi avrebbe potuto portare alla scienza, alla fine?
Non credo; a meno che non ci si aspetti che nei processi naturali esista un ordine intelligibile, fisso e
analizzabile dalla matematica, non ci sarebbe alcun motivo di lanciarsi nell’impresa scientifica.
Ed eccoci arrivati a una sottigliezza chiave del metodo scientifico, ossia il ruolo che gioca in
fisica. Il potere della fisica teorica nasce dal riconoscere che ci sono in natura profondi principi
interconnessi tra loro. Quando Newton vide cadere la mela non vide soltanto una mela che cadeva:
percepì un insieme di equazioni che legavano il moto della mela al moto della Luna. Fisica teorica non
significa “avere delle congetture sulla fisica”: significa stabilire un elaborato sistema intercollegato di
equazioni matematiche specifiche per catturare aspetti della realtà fisica che a un’ispezione casuale non
avremmo mai immaginato fossero collegati, e poi modellizzare queste relazioni quantitativamente.
Nessun’altra scienza possiede tali fondamenta. Non esiste alcuna “biologia teorica”, per non parlare di
una “sociologia teorica” o “psicologia teorica” nel senso che si dà in fisica alla parola teoria. Ci sono
idee, congetture, modelli matematici semplici, principi organizzativi, paradigmi eccetera, ma nessuna
teoria matematica che assomigli a una vera legge (se non altro, non ancora). Il successo spettacolare delle
scienze fisiche deriva dalla fertile interazione fra teoria ed esperimento. Senza menti preparate dagli
antecedenti culturali della filosofia greca e del monoteismo (o qualcosa di simile) – e in particolare dalla
nozione astratta di un sistema di leggi matematiche nascoste – è possibile che la scienza così come la
conosciamo non sarebbe mai emersa.
A volte si sente dire, anche senza una fede in un ordine naturale pervasivo e immutabile come
fosse una legge, che ogni società che viva abbastanza a lungo incapperebbe prima o poi nella scienza,
anche solo tramite un processo fatto di tentativi ed errori. I cinesi, dopotutto, scoprirono il compasso
senza avere idea di come la dinamo all’interno della Terra generi un campo magnetico, o come questo
campo interagisca con gli elettroni nella bussola; forse, allora, l’uso di strumenti sempre più sofisticati
avrebbe presto o tardi portato all’energia nucleare, alle navicelle spaziali e alle comunicazioni radio. Per
la tecnologia è sufficiente sapere cosa, senza bisogno di sapere come. Beh, è ovvio che in linea di
principio sia possibile scoprire, passo dopo passo, che certe cause producono certi effetti. Il vero potere
della scienza, tuttavia, è che ci porta a progettare oggetti nuovi di zecca basati sulla comprensione dei
principi che li governano. Per tentativi ed errori si possono perfezionare strumenti e apparecchi già
esistenti, ma senza una solida base teorica non c’è alcun motivo di andare neppure a cercare la maggior
parte delle cose che oggi dominano la scienza moderna. Perché per esempio dovremmo aspettarci che
esistano i neutrini o le onde gravitazionali, che passano attraverso la Terra senza avere alcun effetto
misurabile? Perché cercare la materia o l’energia oscure, che gli astronomi deducono da osservazioni
molto attente tramite satelliti e grandi telescopi, ma che acquistano un significato soltanto se interpretate
in modo corretto attraverso strati su strati di teorie matematiche? Perché costruire un acceleratore di
particelle a meno di avere ragione di sospettare che particelle finora sconosciute e invisibili come W e Z
abbiano buone probabilità di esistere? Certo, c’è una probabilità diversa da zero che una razza di esseri
senzienti privi della scienza possa, per uno strano caso alimentato dalla curiosità, mettere insieme un
radiotelescopio o un acceleratore di particelle, il tutto senza avere la minima idea di quello che sta
facendo o di quale ne sarebbe il risultato, e senza avere nessuna consapevolezza in merito a ciò che ha
scoperto una volta che l’ha scoperto. È possibile, sì, ma si tratta di uno scenario così ridicolo che non può
essere preso sul serio. È una cosa stupida come dire che qualcuno con nessuna comprensione o
apprezzamento della musica un giorno, per caso, scriverà una sinfonia.
Concedo che possa esserci qualche profondo, anche se ancora non scoperto, principio
dell’organizzazione sociale secondo cui, data una razza di esseri curiosi (e la curiosità, questo è certo, è
un tratto biologico generale) e dato un tempo abbastanza lungo, la scienza sia inevitabile. Potrebbe darsi
che la storia umana sia stata incanalata lungo il percorso dell’illuminazione e della scoperta dalla mano
nascosta di simili leggi ignote della complessità e dell’organizzazione (parlerò ancora di questa
congettura nel Capitolo 8). A giudicare dalle apparenze, tuttavia, potrebbero esserci stati molti fattori
contingenti – politici, religiosi, economici e sociali – che si inserirono nello sviluppo del moderno
metodo scientifico. Potrebbe darsi che la storia non sia altro che una serie di incidenti casuali e
imprevedibili, uno dei quali fu la felice congiunzione della filosofia greca e del monoteismo nell’Europa
medievale. Se davvero scoprissimo una civiltà aliena che si è imbattuta nella scienza sarebbe una prova
molto pesante a favore del fatto che davvero ci sono leggi universali di organizzazione sociale e
intellettuale, proprio come esistono le leggi della fisica. Ma senza una buona ragione per credere in tali
leggi, l’affermazione “la scienza è inevitabile”, oggi molto in voga, mi colpisce per la sua assoluta
mancanza di fondamento.
L’equazione di Drake
Un buon modo di riassumere quanto scritto finora è di mettere insieme i vari fattori che, nel
complesso, determinano il numero atteso di civiltà comunicanti che esistono oggi da qualche parte nella
nostra galassia. Il risultato è noto come equazione di Drake, scritta da Frank per la prima volta nel 1961.
Non è proprio un’equazione nel senso matematico convenzionale, ma piuttosto un modo di quantificare
la nostra ignoranza. Lascerò stare, in questa circostanza, la solita regola del divulgatore scientifico
secondo cui non è permessa, in nessun caso, nessuna matematica a parte E = mc2, sulla base del fatto che
comunque l’equazione di Drake non è una vera e propria equazione. Eccola qui:
N = R* fpneflfifcL
Cosa vogliono dire tutti questi simboli? Lasciate che li definisca uno per uno:
R* = tasso di formazione di stelle simili al Sole nella galassia;
fp = frazione di stelle con dei pianeti;
ne = numero medio di pianeti simili alla Terra in ogni sistema planetario;
fl = frazione di pianeti in cui emerge la vita;
fi = frazione di pianeti in cui evolve l’intelligenza;
fc = frazione di pianeti in cui emergono una civiltà tecnologica e la capacità di comunicare;
L = vita media di una civiltà in grado di comunicare.
Il numero N nel lato sinistro dell’equazione rappresenta quante civiltà “radioattive” sono là fuori
nella galassia. Dato che il SETI tradizionale si concentra sui segnali radio, quello che conta come civiltà
che comunica per gli scopi dell’equazione di Drake è semplicemente una civiltà che possiede la
tecnologia della radio. Potrebbero esserci modi migliori di spedire segnali nello spazio, o potrebbero
esserci civiltà aliene avanzate che preferiscono non impegnarsi in una comunicazione a lungo raggio, via
radio o con altri mezzi. Ma se ci sono, non ci accorgeremo di loro usando i radiotelescopi.
I simboli sul lato destro dell’equazione di Drake sono quantità di cui abbiamo bisogno per stimare
– provare a indovinare12 sarebbe forse la parola più adatta – il numero N. Li descriverò criticamente uno
per uno.
Il primo termine, R*, è il tasso (rate in inglese) annuale di nascita di stelle simili al Sole nella
nostra galassia. Perché soltanto nella nostra galassia? Perché, date le grandi distanze coinvolte, ricevere
segnali radio da oltre la Via Lattea è assai improbabile, anche se certo non impossibile. Ad ogni modo,
manteniamo per ora questa restrizione. Il numero totale di stelle simili al Sole oggi nella galassia è ben
noto agli astronomi (basta puntare un telescopio, mettersi a contare e usare un po’ di statistica): la
risposta è circa dieci miliardi, cifra che dipende un po’ da quanto “tipo il Sole” deve essere una stella per
poter supportare la vita. Il numero però non è fisso: le stelle nascono e muoiono, e così è stato sin da
quando la Via Lattea cominciò a formarsi circa 13 miliardi di anni fa. Per esempio, oggigiorno si
aggiungono in media alla galassia ogni anno circa sette nuove stelle, anche se questo numero è cambiato
un po’ nel corso della storia13. Le specifiche non sono importanti: il punto è che l’incertezza sul valore di
R* è relativamente piccola.
Il simbolo successivo, fp, è la frazione di stelle con pianeti. Negli anni Sessanta del XX secolo,
quando SETI prese il via, questa quantità era poco definita perché nessuno era sicuro di come si
formassero i pianeti. Una teoria suggeriva che il sistema solare fosse composto di materiali trascinati via
dal Sole da una stella di passaggio (di certo un evento piuttosto raro, che implicherebbe per fp un valore
incredibilmente piccolo). Un’altra teoria supponeva che i pianeti fossero fatti di materia concentrata in un
disco o una nebulosa di gas e polveri in rotazione attorno al protosole. Drake (da bravo ottimista) si affidò
alla seconda teoria, e stimò per fp un valore pari a 0,5: la metà dei pianeti tipo il Sole ha dei pianeti. Per
decenni le osservazioni hanno aiutato ben poco, ma oggi gli astronomi sono in grado di rilevare pianeti
intorno ad altre stelle, usando tecniche che ho discusso in breve nel Capitolo 1. Le osservazioni indicano
che la teoria della nebulosa è corretta e che la maggior parte delle stelle ha dei pianeti di qualche tipo. È
addirittura possibile che Drake abbia sottostimato il valore di fp.
L’originale equazione di Drake, a dire il vero, non teneva conto di un’intera classe di pianeti,
l’importanza dei quali è stata apprezzata soltanto di recente. L’analisi teorica del moto planetario
suggerisce che le orbite possano essere destabilizzate da pianeti che si “aggregano”, dando come risultato
oggetti che vengono scagliati via dal sistema stellare. Come risultato, potrebbero esserci molti pianeti
“vagabondi” che vagano nello spazio interstellare, magari accompagnati da un seguito di satelliti. È
abbastanza possibile che il nostro sistema solare sia iniziato con più degli otto (o nove) pianeti che
vediamo oggi, e che gli altri siano stati espulsi. Un ricordo duraturo della mia infanzia è la serie TV
fantasy della BBC che andava in onda ogni due settimane nel 1954, The Lost Planet (“il pianeta
perduto”): raccontava di un’astronave alimentata a energia atomica in viaggio verso il pianeta vagabondo
di Hesikos, entrato momentaneamente nel sistema solare dallo spazio profondo. Hesikos, si scoprì poi,
era abitato da umanoidi telepatici. Era senza dubbio una storia affascinante per un bambino di otto anni,
ma l’idea di un pianeta che vagava sperduto nella galassia mi sembrò ai tempi la cosa più debole di tutta
la trama. Guarda un po’, alla fine non è un’idea così stupida. Alcuni astronomi stimano che ci potrebbero
essere miliardi di pianeti vagabondi nella Via Lattea, pertanto l’equazione di Drake ha bisogno di essere
modificata perché ne tenga conto14. Sommare i pianeti “legati” a quelli “liberi”, tuttavia, fa raggiungere
una cifra dell’ordine dei mille miliardi di pianeti.
Perché emerga la vita così come la conosciamo un pianeta deve essere “tipo la Terra”. Il fattore ne
nell’equazione di Drake indica proprio il numero di pianeti in un sistema stellare in grado di supportare la
vita (ossia “tipo la Terra”, in inglese Earth, da cui il pedice e). All’inizio Drake per ne scelse il valore 2, a
significare che in media ci sono due pianeti simili alla Terra per sistema planetario. Cosa mostrano le
osservazioni? Nel caso del sistema solare si qualificherebbero sia la Terra sia Marte; per quanto riguarda
pianeti simili alla Terra extrasolari non è stato ancora scoperto nulla. Questo però dovrebbe cambiare
presto, cioè non appena saranno disponibili i risultati della missione Kepler. Sono stati progettati molti
altri strumenti per la ricerca dei pianeti da posizionare nello spazio, ed è possibile che nell’arco di dieci o
vent’anni avremo immagini accettabili di altre Terre fino a una distanza, diciamo, di cinquanta anni luce.
È quasi certo che ci siano molti pianeti simili alla Terra nella galassia, ma fornirne un numero preciso è
difficile; la mia stima per la frazione di pianeti che, in un sistema stellare tipo quello solare, somiglino
alla Terra almeno in temperatura, pressione atmosferica e gravità alla superficie, è tra l’1 e il 10%. È una
cifra inferiore a quella ipotizzata da Drake, ma non troppo, e comprende comunque miliardi di pianeti
“tipo la Terra”.
Ecco che ora arriva la parte davvero difficile. Il fattore fl è il numero di pianeti simili alla Terra su
cui compare la vita (life). Come mi sono più e più volte sforzato di sottolineare, questo numero è molto
incerto. Gli entusiastici della ricerca di vita extraterrestre intelligente, come Frank Drake e Carl Sagan,
mettono fl = 1: assumono cioè che se un pianeta è simile alla Terra è inevitabile che vi compaia la vita, a
tempo debito (l’imperativo cosmico di de Duve). Scettici come Jacques Monod, d’altro canto, scelgono
per fl un valore molto prossimo allo zero. Se scopriremo una biosfera ombra potremo mettere la parola
fine alla questione a favore di un numero prossimo a 1; per ora, tuttavia, brancoliamo nel buio.
Il fattore fi, essendo la frazione di pianeti che ospitano la vita in cui evolve l’intelligenza, l’ho già
discusso nelle parti precedenti di questo capitolo; Sagan gli diede il valore assai ottimistico di 1,
implicando che l’intelligenza, una volta che la vita ha inizio, presto o tardi sia inevitabile. Drake, in
origine, gli assegnò il valore più conservativo, anche se comunque speranzoso, di 0,01. Ho insistito sul
fatto che questo numero sia molto incerto, così come lo è fc, ovvero la frazione di pianeti con vita
intelligente su cui si sviluppano la scienza e le telecomunicazioni.
Quanto durano le civiltà tecnologiche?
Il fattore finale dell’equazione di Drake è la vita media di una civiltà in grado di comunicare. Per
apprezzare la portata di questa affermazione immaginiamo una città in cui ogni abitante accenda e
rispenga le luci per dieci secondi, soltanto una volta, in un momento della notte scelto a caso da ogni
cittadino. Ora chiediamoci quanto è probabile che due case della città abbiano la luce accesa nello stesso
momento: se ci sono soltanto 100 case è molto improbabile che due case siano illuminate
contemporaneamente. Le luci si accendono e si spengono a caso in tutta la città, ma probabilmente mai
nello stesso momento. Se il processo va avanti per un minuto anziché per dieci secondi, o se ci sono
10.000 case anziché 100, c’è ovviamente una probabilità maggiore di un’illuminazione simultanea.
Pensiamo ora alle civiltà che comunicano proprio in questo modo: vanno e vengono, si accendono e poi
si spengono. Proprio adesso, la civiltà umana è “accesa”; vorremmo sapere se nella galassia qualcun altro
adesso stia attraversando la fase delle comunicazioni radio. Non serve a molto, quando si compiono
ricerche radio di segnali di vita aliena intelligente, sapere che migliaia di civiltà in grado di comunicare
sono esistite nella Via Lattea, che sono anche scomparse molto tempo fa e che le loro trasmissioni sono
cessate; né serve a molto sapere che altre migliaia di civiltà sorgeranno in un futuro molto lontano,
quando l’umanità sarà scomparsa. Lo scopo della ricerca tradizionale di vita aliena intelligente è di
trovare un po’ di compagnia cosmica adesso15. E la probabilità di successo è affidata al fattore L
dell’equazione di Drake: la lunghezza di tempo in cui una tipica civiltà aliena trasmette segnali radio. Più
grande è il valore di L, maggiore è la probabilità che un’altra civiltà sia in onda proprio in questo
momento.
Nel 1961 Drake fissò L = 10.000 anni. Sagan, depresso dalla stupidità umana per via della guerra
nucleare e dei danni ambientali, pensò che 10.000 anni fosse un valore un po’ troppo ottimistico. Michael
Shermer della Skeptics Society ha stimato che le civiltà umane sono intrinsecamente instabili e che
collassano dopo soltanto poche centinaia di anni16. Alcuni biologi ritengono che la vita media di una
specie di mammiferi sia di qualche milione di anni, e questo pone un limite abbastanza generale alla
durata attesa della nostra civiltà. Com’è ovvio nessuno lo sa davvero; per quel che mi riguarda, credo che
tutti i discorsi su L siano ingenui e irrilevanti, specie quelli biologici. L’evoluzione darwiniana si era
fermata già con l’agricoltura, ed è ormai del tutto superata dall’avvento della medicina moderna, dei
diritti democratici, dell’ingegneria genetica e della biotecnologia. La civiltà umana potrebbe ancora
soccombere a una catastrofe naturale, come l’impatto di un asteroide o una pandemia mortale che passi
da una specie all’altra, o a una catastrofe provocata da disastri di matrice umana, come una guerra
nucleare. È certo però che una cosa simile non sia inevitabile, e se riusciamo a sopravvivere nei prossimi
secoli potremo andare avanti per un futuro indefinito. Non vedo alcun motivo per cui, una volta che una
civiltà extraterrestre progredita si sia stabilita, non debba perdurare per un tempo straordinariamente
lungo, nell’ordine dei milioni o delle decine di milioni di anni, se non di più. Ecco un termine
dell’equazione di Drake riguardo il quale sono più ottimista degli esperti.
Di enorme importanza per la tradizionale ricerca di vita aliena intelligente tramite messaggi radio
è la questione se l’impronta elettromagnetica di una civiltà duri anch’essa per uno straordinario lasso di
tempo. L’umanità sta trasmettendo segnali radio da circa un secolo; le nostre emissioni più potenti sono
quelle dei radar militari, seguite da quelle delle emittenti televisive. Nei primordi di SETI gli scienziati
predissero un innalzamento irrefrenabile del traffico radio a mano a mano che fossero cresciuti il
benessere e la tecnologia. Quel che è successo però è stato quasi il contrario. In primo luogo, le
comunicazioni da punto a punto sono diventate dominate da satelliti a bassa potenza che dirigono i
segnali in direzione della Terra; in secondo luogo, la maggior parte delle telecomunicazioni è passata
dalla radio alle fibre ottiche interrate. Se ET sta monitorando il nostro traffico radio, sembrerà che abbia
raggiunto un picco alla fine del XX secolo e che poi abbia iniziato a scomparire. In altri cento anni
potrebbe non esserci più alcun segnale radio emesso dalla Terra. Per inciso, è possibile che si continui a
usare il radar e che ci siano comandi occasionali diretti a una sonda spaziale. Tuttavia, a meno che una
comunità aliena non abbia deliberatamente scelto di trasmettere segnali radio come una sorta di policy, è
del tutto possibile che la galassia brulichi di civiltà progredite e allo stesso tempo non abbia un’impronta
radio artificiale rilevabile. È stato stimato che se costruissimo un radiotelescopio di 100 chilometri di
diametro, sarebbe così sensibile da rilevare una stazione TV fin sulla stella Sirio; non sarebbe importante,
pertanto, che ET stesse mandando dei messaggi direttamente a noi oppure no. Se però la TV su Sirio
fosse via cavo non saremmo molto fortunati; intercettare una civiltà aliena sulla premessa che gli alieni
possano ancora usare la tecnologia umana degli anni Ottanta è chiedere un po’ troppo. Ritornerò su
questo argomento nel Capitolo 5.
Per quel che vale, tuttavia, se si adotta la cifra assegnata da Drake (L = 10.000) insieme alle sue
stime per tutti gli altri fattori nella sua equazione eponima, si ottiene che N = 10.000: ci dovrebbero essere
oggi 10.000 civiltà, nella galassia, in grado di comunicare tra loro (e con noi) usando la tecnologia radio.
Il che sembra molto eccitante. Diecimila civiltà extraterrestri che stanno andando in onda proprio adesso!
Se lo sapessimo per certo, SETI sarebbe una priorità urgente: tutti direbbero “troviamoli!”. Ma come ho
spiegato, anche se molti dei termini dell’equazione di Drake sono conosciuti abbastanza bene, e almeno
uno (L) è stato secondo me molto sottostimato, l’equazione è oltremodo dominata da due fattori di cui
non sappiamo quasi nulla: fl, la frazione di pianeti simili alla Terra sui quali emerge la vita, e fi, la
frazione di quelli su cui evolve l’intelligenza. Dal mio punto di vista il primo è molto più problematico
del secondo. Se la vita incomincia, l’intelligenza ha almeno una possibilità. Potrebbe anche darsi che
dopotutto l’intelligenza sia più come le ali che come le proboscidi; non è poi così incredibile. Ma è
altamente possibile che l’origine della vita sia una cosa così stramba e mostruosa che sia successa
soltanto una volta; ed eccoci qui. Oggi non abbiamo le basi scientifiche per confutare questa posizione:
non c’è uno straccio di prova che “la natura favorisca la vita”, che ci sia un “principio vitale” che dirige le
brodaglie chimiche verso la grandiosità della biologia; e dato che non abbiamo la minima idea di come la
vita sia emersa, a meno che e finché non troviamo una biosfera ombra o forti prove a sostegno della vita
su un pianeta extrasolare, non possiamo nemmeno dare a fl un limite inferiore e superiore mettendo
insieme le stime numeriche pessimistiche e ottimistiche: a questo stadio del gioco, la frazione potrebbe
essere qualsiasi valore tra 0 e 1.
I rischi della statistica fatta su un unico oggetto
Dato che la nostra galassia contiene circa 400 miliardi di stelle, una stima plausibile del numero
di pianeti simili alla Terra che girano intorno a stelle simili al Sole potrebbe esser un miliardo. Se Monod
ha ragione, soltanto uno di questi pianeti possiede forme di vita; se ha ragione de Duve, c’è vita sulla
maggior parte di loro. E che dire di una posizione intermedia? La nostra galassia potrebbe contenere,
diciamo, un milione di pianeti su cui c’è vita?
Esiste un’argomentazione persuasiva contro la posizione intermedia. Le “altre Terre” non stanno
lì per l’eternità aspettando che la biologia compaia; c’è una finestra finita al cui interno la vita può
emergere. La vita così come la conosciamo richiede una stella stabile come il Sole che fornisca energia e
mantenga sul pianeta condizioni abitabili. Le stelle però non possono brillare per sempre; presto o tardi
finiscono il carburante e muoiono. Avendo 4 miliardi e mezzo di anni, il nostro Sole è circa a metà del
suo ciclo di vita completo, e ha già consumato una larga parte del suo combustibile nucleare. In altri
pochi miliardi di anni, più o meno, comincerà a sentire gli effetti della carenza di carburante e, come
risultato, si gonfierà fino a inglobare la nostra casa (in gergo astronomico, comincerà a diventare una
gigante rossa, fase che lascia presagire la morte per collasso in una nana bianca). Un ruolo simile è
assegnato alle stelle di tutta la galassia. Se la vita è destinata a emergere su un pianeta in orbita intorno a
una certa stella simile al Sole, deve farlo nella finestra temporale che va dai 5 ai 10 miliardi di anni e i cui
limiti sono dati dalla formazione e dallo spegnimento della stella. Ipotizzando che la biogenesi si
verifichi casualmente su pianeti abitabili, ci sarà una certa varianza, ossia un intervallo di valori per la
quantità di tempo necessaria perché succeda. Ma concentriamoci sul tempo medio: se il tempo medio è
breve – se la formazione della vita è veloce e facile – ci saranno tante opportunità perché incominci su
molti pianeti (punto di vista di de Duve). D’altro canto, se il tempo atteso per la biogenesi è molto
superiore a 10 miliardi di anni, la vita potrebbe non iniziare per nulla su un dato pianeta simile alla Terra.
Se succedesse sarebbe contro a ogni previsione (sarebbe cioè un colpo di fortuna). In termini più
scientifici, sarebbe una fluttuazione molto rara, una deviazione estrema dalla distribuzione statistica. In
quel caso è del tutto possibile che si verifichi soltanto su un unico pianeta in tutta la galassia, che sarebbe
la Terra (punto di vista di Monod).
Passiamo ora al caso intermedio: la vita che, in una galassia come la nostra, si forma su diciamo
un milione di pianeti: il tempo atteso perché la biogenesi abbia luogo non dovrebbe essere né troppo più
breve né troppo più lungo della finestra media di abitabilità del pianeta (diciamo tra un decimo e dieci
volte tanto). È ragionevole tutto questo? Consideriamo cosa comporta. La lunghezza della finestra di
abitabilità, vincolata alla durata del tempo in cui una stella brucia in modo stabile (chiamiamolo T1),
dipende da una varietà di fattori, come il tasso di reazioni nucleari nel nucleo della stella, l’efficienza con
cui il calore è trasportato alla superficie e la massa totale della stella. Riflettiamo ora su quanto tempo ci
vorrebbe perché la vita si sviluppi su un pianeta simile alla Terra (chiamiamolo T2); per il momento
considero soltanto la vita microbica, e non forme di vita intelligente. Com’è ovvio, non conosciamo il
numero T2; eppure se è corretta l’ipotesi intermedia di un milione di pianeti su cui c’è vita, il tempo
necessario perché si verifichi la biogenesi dovrebbe essere di pochi milioni di anni (ossia paragonabile a
T1, la durata della fase stabile di una stella media): su alcuni pianeti simili alla Terra, allora, la vita non
riuscirebbe a iniziare in tempo, su molti si formerebbe all’incirca a metà della finestra temporale in cui
può verificarsi, e su pochi di questi pianeti inizierebbe proprio poco prima che il pianeta diventi
inabitabile. Un simile scenario, per quanto possibile, rappresenta una coincidenza molto poco probabile.
Il tempo richiesto perché la vita emerga dalla non vita, a giudicare dalle apparenze, non ha nulla a che
fare con i fattori che determinano la vita media di una stella, così come il tasso di reazioni nucleari. Per
quanto ci è dato vedere, la vita è un prodotto di processi fisici – che coinvolgono la fisica atomica e
molecolare, la chimica e la geologia – del tutto diversi da quelli che hanno luogo all’interno delle stelle.
Allora perché, se le due scale di tempo non hanno una connessione causale, i tempi T1 e T2 dovrebbero
avere all’incirca uguali i valori richiesti affinché un milione di pianeti generino la vita? Non c’è alcuna
ragione ovvia per cui un numero non sia molto più grande dell’altro. Potrebbe darsi, naturalmente, che T1
e T2 abbiano valori paragonabili soltanto per caso; nella scienza le coincidenze sono ammesse, ma si
dovrebbe ricorrere a loro come spiegazioni soltanto in ultima istanza17. Se si rifiutano le coincidenze, si
deve ritenere molto probabile che il tempo atteso perché la vita emerga sia molto minore della vita media
di una stella, o molto maggiore.
Quale delle due ipotesi? Tutto quello che abbiamo è la vita sulla Terra: un campione di un solo
oggetto. Trarre conclusioni statistiche è un po’ rischioso, pertanto; anche se questo non ha certo impedito
ad alcuni di provarci. Carl Sagan ha fatto notare che la vita iniziò sulla Terra piuttosto rapidamente: per
dirlo con parole sue: «L’origine della vita deve essere una cosa molto probabile; appena le condizioni lo
permettono, eccola che spunta!»18. Sagan si riferiva al fatto che la Terra subì un pesante bombardamento
fino a quasi 4 miliardi di anni fa, e secondo il registro fossile si è stabilizzata del tutto entro 300 milioni di
anni (figura 1). Questo suggerì a Sagan che qualsiasi processo sconosciuto avesse prodotto la vita fosse
un processo veloce, e pertanto potremmo aspettarci che su altri pianeti simili alla Terra la vita nasca con
una rapidità paragonabile.
Figura 1 La vita si stabilizzò sulla Terra rapidamente una volta che le condizioni divennero
appropriate. Se non l’avesse fatto, tuttavia, gli uomini potrebbero non essersi evoluti prima che la finestra
di abitabilità si chiudesse nell’arco di circa 800 milioni di anni. I numeri esprimono i milioni di anni
prima del tempo presente.
Sagan potrebbe avere ragione, ma per sfortuna c’è una grave complicazione: il motivo per cui la
Terra è stata scelta per il nostro campione statistico fatto di un unico oggetto è che noi ne siamo un
prodotto. La Terra non ospita solo la vita, ma la vita intelligente, o comunque abbastanza intelligente da
formulare ragionamenti sulla biogenesi. Per raggiungere questo livello di intelligenza la vita deve
evolvere fino a un alto livello di complessità, e deve farlo entro i pochi miliardi di anni di durata della
finestra di abitabilità durante la quale il Sole brucia stabilmente. Le tappe fondamentali di questo
percorso includono l’emergere di organismi multicellulari (per cui furono necessari due miliardi di anni),
l’evoluzione del sesso, la formazione del sistema nervoso e lo sviluppo di grandi cervelli; nel mezzo ci
sono state una miriade di tappe più piccole, alcune difficili, altre facili. Di certo, a meno che tutte le tappe
non fossero state completate entro pochi miliardi di anni, gli uomini (o animali di intelligenza
comparabile) non si sarebbero mai evoluti in modo abbastanza complesso da riflettere su problemi
scientifici. La vita sulla Terra, in altri termini, doveva mettersi in moto abbastanza rapidamente, perché
altrimenti non ci sarebbe stato abbastanza tempo perché osservatori intelligenti come noi entrassero in
scena prima che il Sole diventasse una gigante rossa. La rapida comparsa della vita sulla Terra, dopo
tutto, potrebbe non essere indicativa della situazione generale; potrebbe essersi verificato un insieme di
eventi molto inconsueto, che è stato selezionato per essere considerato ed esaminato proprio dagli stessi
osservatori che ha creato.
Il grande filtro
Il ragionamento un po’ raffazzonato che ho appena descritto venne dotato di una base matematica
nel 1980 dal cosmologo britannico Brandon Carter19 e, successivamente, rifinito dall’economista Robin
Hanson20. Carter e Hanson immaginarono un grande insieme di “esperimenti” in cui la natura abbia
avuto la possibilità di produrre vita intelligente, e notarono che se il tempo atteso per l’evoluzione
dell’intelligenza è molto inferiore alla vita media di una stella tipica (per esempio è pari a soltanto un
milione di anni), è difficile capire perché ci siano voluti miliardi di anni perché la vita si sia stabilita sulla
Terra: per spiegarlo bisognerebbe portare avanti l’idea che, anche se la vita intelligente fosse comune
nell’universo, per qualche strano motivo l’evoluzione della vita sulla Terra sia stata stranamente
ritardata. Se, al contrario, si suppone che il tempo atteso perché l’intelligenza evolva sia molto più lungo
della vita media di una stella tipica, nonostante le alte probabilità contrarie al fatto che la vita evolva
davvero (come è successo sulla Terra), il tempo necessario per completare questo processo così
improbabile sarebbe verosimilmente prossimo alla durata complessiva permessa, la durata della finestra
di abitabilità. Ed è proprio questo che osserviamo: l’evoluzione della vita intelligente sulla Terra ha
esaurito quattro dei circa cinque miliardi di anni di finestra di possibilità prima che la Terra sia bruciata
da un Sole fiammeggiante (figura 1).
Carter e Hanson furono in grado di quantificare questa idea con precisione. Ecco il succo del loro
risultato, conseguenza immediata delle equazioni della teoria della probabilità (anche se il lettore curioso
dovrà consultare gli articoli originali per la dimostrazione vera e propria). Facciamo l’ipotesi che lungo la
strada verso l’intelligenza abbiano avuto luogo numerose tappe d’importanza cruciale, e che ogni tappa
sia così improbabile che ognuna di esse sarebbe, in media, molto più lunga della vita media di una stella
tipica21. Hanson chiama questa corsa a ostacoli per la vita il grande filtro. Supponiamo che ci siano N di
queste tappe e che, contro ogni previsione, la vita sorga davvero. Le equazioni in questo caso mostrano
che il tempo atteso tra ognuna di queste tappe molto improbabili è pari a circa un N-simo della finestra di
abitabilità, con un altro un N-simo che rimane prima che la finestra si chiuda (ho rappresentato questo
risultato in figura 2). Gli intervalli tra le tappe, cosa curiosa, non dipendono da quanto potrebbero essere
improbabili queste tappe, finché tutte sono alquanto improbabili. L’intuizione, infatti, potrebbe suggerire
che se la tappa A ha una probabilità di uno su un milione e la tappa B di uno su un miliardo, nel caso in cui
entrambi questi eventi si verificassero A si verificherebbe all’incirca un migliaio di volte più velocemente
di B: ma questo non è ciò che succede.
Figura 2 Il grande filtro, nel caso in cui si verifichino sei tappe estremamente improbabili lungo
la strada verso la vita intelligente, e considerando l’ipotesi che alla fine – nonostante le alte probabilità
contrarie – l’intelligenza emerga prima che si chiuda la finestra di abitabilità (lunga diversi miliardi di
anni). Il risultato chiave, dimostrato usando la teoria della probabilità, è che gli intervalli hanno durata
(pressoché) uguale e che essa è la stessa prima del giorno del giudizio, quando si chiude la finestra di
abitabilità. Sapere quanto tempo abbiamo sulla Terra prima del giorno del giudizio serve a fissare la
grandezza di questi intervalli e, di conseguenza, il numero delle tappe. Se, come in figura, per il tempo
che ci resta si utilizza un intervallo di 800 milioni di anni ci sono sei tappe; in ogni tappa ci possono
essere trasformazioni biologiche plausibili, per quanto improbabili. I dati sono più coerenti rispetto al
modello se la prima tappa ha luogo su Marte e la vita è poi trasportata sulla Terra.
Cosa possiamo dire sul numero N se applichiamo il ragionamento di Carter-Hanson alla
situazione reale della Terra? Se la nostra comprensione dell’evoluzione del Sole è corretta, secondo le
stime migliori devono trascorrere circa 800 milioni di anni prima che il nostro pianeta sia troppo caldo da
tollerare la presenza di vita intelligente. Questo suggerisce che N sia circa pari a 6 (essendo questo il
valore totale della durata della finestra – 5 miliardi di anni – diviso per il tempo atteso rimanente – 800
milioni di anni); in altri termini ci sono stati circa 6 ostacoli di importanza cruciale ma molto improbabili,
che si sarebbero verificati a intervalli di circa 800 milioni di anni. Questo fatto quanto va d’accordo con il
record fossile? Piuttosto d’accordo, a dire il vero. Le tappe improbabili più importanti possono essere
identificate con la stessa origine della vita, con l’evoluzione della fotosintesi nei batteri circa 3 miliardi e
mezzo di anni fa e con l’emergere degli eucarioti (cellule larghe e complesse dotate di nucleo) circa 2
miliardi e mezzo di anni fa. La quarta tappa sarebbe la riproduzione sessuale (circa un miliardo di anni
fa), la quinta l’esplosione di grandi organismi multicellulari 600 milioni di anni fa e finalmente, nel
passato recente, l’arrivo degli ominidi dotati di cervello. Tutto bene, eccetto per il primo ostacolo: anche
consentendo un’approssimazione molto elevata sembra ci sia una notevole discrepanza, dal momento
che la vita non emerse sulla Terra 800 milioni di anni fa, e neppure in un’epoca vicina a questa. La vita
emerse soltanto 200 o 300 milioni di anni dopo la fine dei bombardamenti cosmici: ecco cosa intendeva
Sagan quando scriveva che la vita «è lì che spunta» con una fretta ai limiti dell’indecenza. Questo fatto
un po’ strano distrugge forse il ragionamento di Carter? No. Carter ha controbattuto che non possiamo
essere sicuri che la vita sia iniziata davvero sulla Terra; potrebbe aver avuto inizio su Marte ed essere
giunta sulla Terra dentro rocce eiettate da Marte, muovendo i primi passi sul nostro pianeta soltanto
quando il bombardamento diminuì. Se Carter ha ragione, la finestra di opportunità perché la vita nascesse
potrebbe estendersi all’indietro fino a 4 miliardi di anni fa o anche prima, perché Marte era pronto per la
vita prima della Terra. Tutte le tappe del grande filtro, compresa la prima, sarebbero allora spaziate dagli
intervalli previsti, pari a circa 800 milioni di anni22.
In precedenza ho discusso come l’ostacolo dell’intelligenza non sia stato superato in fretta, sulla
Terra (ci sono voluti oltre 200 milioni di anni di evoluzione del cervello degli animali sulla terraferma
prima che si siano evoluti gli ominidi); e già questa non era un’ottima notizia. Ma il ragionamento di
Carter suggerisce una conclusione ancora più pessimistica: la base del suo ragionamento, ricordiamolo, è
che il tempo medio, o atteso, perché nasca la vita intelligente è molto più lungo anche della finestra di
abitabilità di molti miliardi di anni offerta da una stella tipica come il Sole. Pertanto, il fatto che
l’intelligenza per evolvere sulla Terra abbia impiegato 200 milioni di anni, per quanto ci possa sembrare
un processo lento, secondo Carter dovrebbe essere considerato un colpo di fortuna, una deviazione
statistica estrema, un evento che è incredibile si sia verificato in una finestra così breve. E il risultato di
questa conclusione («Terra fortunata») è che la stragrande maggioranza di altre stelle simili al Sole non
avranno la stessa fortuna del nostro sistema: non avranno pianeti con forme di vita intelligente. Se Carter
ha ragione, allora, la Terra è un’eccezione molto rara, e l’emergere di esseri intelligenti come gli uomini
è uno scherzo della natura, proprio come sostiene Monod23.
Anche se la spiegazione di Carter sembra mettere SETI al tappeto, molti dei miei colleghi sono
sospettosi riguardo al ragionamento che lo sostiene. Un’obiezione diffusa è che non possiamo usare
congetture sul futuro (per esempio, quanto tempo ci vorrà prima che la Terra si carbonizzi) per ragionare
sul passato. In realtà si tratta di un’obiezione spuria: i ragionamenti probabilistici sono perfettamente
validi sia applicati al passato sia applicati al futuro, fintanto che tutti gli altri fattori non cambiano con il
tempo. Ma supponiamo che gli altri fattori cambino; cosa succederebbe se, per esempio, catastrofi
cosmiche di portata galattica ostacolassero per miliardi di anni la comparsa di vita intelligente e poi si
placassero? Uno degli eventi più violenti dell’universo è un gamma ray burst, un lampo di raggi gamma;
questi spiacevoli cataclismi sono forse causati quando stelle massicce implodono a formare un buco nero,
rilasciando enormi spruzzi di energia sotto forma di particelle elettricamente cariche, dirette lungo
coppie di fasci sottili orientati in direzioni opposte. Le particelle cariche, a loro volta, generano
un’intensa radiazione gamma (fotoni ad alta energia) che dipingono la galassia con degli archi – come
mortiferi raggi cosmici – mentre il buco nero ruota. Se uno dei fasci di raggi gamma colpisse un pianeta
potrebbe far annichilare tutta la vita complessa presente sulla superficie. I lampi di raggi gamma sono
osservati tramite un satellite di nome Swift che registra centinaia di eventi all’anno; sarebbero stati
ancora più comuni nel passato, ed è concepibile che per alcuni miliardi di anni possano aver impedito alla
vita intelligente di evolvere da qualsiasi parte nella galassia. Se così è stato, sotto condizioni ideali (ossia
non sotto la minaccia dei raggi gamma), l’intelligenza forse non è così improbabile. Il fatto che ci sia
voluto molto tempo perché l’intelligenza evolvesse sulla Terra avrebbe una spiegazione fisica bell’e
pronta (la Terra era bombardata dai raggi gamma), e la conclusione di Carter che l’intelligenza sia
altamente improbabile anche dopo decine di miliardi di anni ne uscirebbe indebolita. È ancora al vaglio
della giuria, pertanto, quanto potrebbe rivelarsi serio il ragionamento di Carter una volta che avremo
compreso tutti i fattori coinvolti nel determinare quanto impieghi a sorgere la vita intelligente.
Siamo condannati?
Prima di proseguire oltre la lotta delle probabilità, c’è un ultimo episodio sorprendente che è
necessario prendere in considerazione. Se questo strano silenzio viene preso come prova prima facie del
fatto che siamo soli (nel senso che siamo gli unici esseri intelligenti nell’universo), potrebbe darsi che le
tappe che hanno portato alla vita intelligente siano così improbabili da essere accadute soltanto una
volta24. Ma c’è una seconda spiegazione possibile per il silenzio, che ho menzionato nel capitolo
precedente: forse la vita intelligente e le civiltà tecnologiche sono intrinsecamente instabili, e non
sopravvivono abbastanza a lungo da entrare in contatto le une con le altre. Se questa è la spiegazione
corretta, non è una buona notizia per l’umanità: implica che, se la Terra è tipica, possiamo aspettarci che
ci succeda lo stesso che è capitato agli alieni, e che quindi seguiremo i nostri cugini cosmici nella strada
dell’oblio abbastanza in fretta (o se non altro prima di riuscire a trasmettere messaggi nella galassia). Non
è di certo difficile identificare pericolose calamità che potrebbero spazzarci via: una guerra nucleare, una
pandemia mortale, impatti di una cometa, disintegrazione economica e sociale25.
Come possiamo determinare la spiegazione più probabile del silenzio in cui siamo immersi, tra
l’ipotesi di una Terra fortunata e quella di una condanna a breve termine? In assenza di prove da ambo le
parti, entrambi gli scenari sono parimenti plausibili. Il nostro stato di ignoranza, tuttavia, potrebbe presto
cambiare: se il silenzio è reale, e non soltanto il risultato della sfortuna o di cattive tecniche di ricerca,
qualcosa agisce come un filtro che esclude le civiltà più progredite tecnologicamente, impedendo che si
formino tout court, oppure distruggendole poco tempo dopo che si sono affermate. Nel primo caso il
grande filtro è nel nostro passato, e noi uomini fortunati, evidentemente, siamo passati attraverso quella
parte del filtro. Nel secondo caso il filtro ci aspetta nel futuro, il che è un brutto presagio: potremmo non
essere così fortunati nell’andare avanti e potremmo anche non essere “filtrati”. Ipotizziamo di scoprire
una prova della vita oltre la Terra, scoprendo dei microbi da qualche altra parte del sistema solare, per
esempio, oppure trovando dell’ossigeno nell’atmosfera di un pianeta extrasolare. Ne seguirebbe che la
prima tappa del cammino verso l’intelligenza e una civiltà tecnologica – la genesi della vita dalla nonvita
– non è poi un salto così estremo e improbabile. Potremmo concludere che il grande filtro sia dopo la
prima tappa; una conclusione che servirebbe a far cadere l’ago della bilancia a favore del suo essere
situato dopo che l’intelligenza è emersa, facendo aumentare le probabilità di un’apocalisse imminente
per l’umanità. La situazione diventa ancora più sconfortante se scopriamo oltre la Terra non soltanto una
forma di vita primitiva ma forme di vita complessa, perché allora le tappe successive del cammino verso
l’intelligenza si rivelerebbero essere più probabili che improbabili. E questo indebolirebbe ulteriormente
l’ipotesi che il grande filtro sia nel passato della storia di una vita intelligente, e farebbe aumentare le
probabilità a favore di un futuro pericoloso per l’intelligenza. In breve, se la vita è un imperativo
cosmico, il grande silenzio è senza dubbio inquietante: a dirla tutta, è assolutamente funesto per quanto
riguarda il destino dell’umanità. Se ET non fosse là fuori, faremmo proprio meglio a sperare che là fuori
non ci sia la vita. Nick Bostrom, filosofo dell’università di Oxford, ha riassunto con schiettezza:
«Sarebbe una buona notizia se scoprissimo che Marte è completamente sterile. Rocce morte e sabbie
prive di vita mi metterebbero di buon umore… Sarebbero la promessa di un futuro potenzialmente
radioso per l’umanità»26.
Nel 1979 mi fu chiesto di scrivere un copione per l’attore Dudley Moore, che aveva il ruolo di
uno studente perplesso nel documentario della BBC It’s About Time. La trama iniziava con il famoso
paradosso del grande filosofo greco Zenone, secondo cui una freccia non potrebbe mai raggiungere un
bersaglio che arretra. Ecco il ragionamento: la freccia non arriverà al luogo occupato dal bersaglio
quando è stata scoccata prima che il bersaglio si sia mosso un poco; e quando la freccia raggiunge questa
nuova posizione, il bersaglio si sarà nuovamente mosso, e così via, all’infinito. La versione televisiva del
paradosso mostrava Dudley Moore che fuggiva dall’arciere per poi cadere a terra non appena la freccia lo
colpiva nella schiena; e a questo punto la voce fuori campo commentava ironicamente: «Con tanti saluti
alla filosofia».
I discorsi filosofici che ho presentato in questo capitolo, per quanto intriganti possano essere, non
sostituiscono i dati puri e semplici. Costruiscono grandiose conclusioni cosmiche a partire da fatti molto
esigui, e valgono soltanto quanto le ipotesi su cui si basano. Fintanto che non ci sono prove scientifiche
concrete della vita oltre la Terra, non possiamo fare molto altro; ma SETI è fondamentalmente un
progetto sperimentale e osservativo, non un esercizio di filosofia e di statistica. Una singola scoperta,
come un singolo scoccare di freccia, potrebbe all’istante capovolgere secoli di congetture filosofiche.
Uno strano silenzio non è un motivo sufficiente per abbandonare la ricerca di vita aliena intelligente ma
è, piuttosto, un ottimo motivo per estenderla.
Capitolo 5
La visione è l’arte di vedere ciò che è invisibile per gli altri. Jonathan Swift
Non sanno che siamo qui
L’approccio tradizionale a SETI è basato sul credere che le civiltà aliene stiano mandando
messaggi radio a banda stretta sulla Terra. Secondo me, però, questo “dogma fondamentale”, molto
semplicemente, non è credibile: il motivo per cui non lo è riguarda la finitezza della velocità della luce e
il fatto che nessun segnale né alcun effetto fisico possono propagarsi più in fretta della luce. Questo limite
assoluto è una legge fondamentale della fisica che ha a che fare con la natura dello spazio e del tempo. A
meno che la nostra comprensione della fisica di base sia del tutto errata (nel qual caso sarebbe irrilevante
anche molto di ciò che si è detto su SETI), dobbiamo convivere con questa restrizione. Per apprezzarne le
implicazioni consideriamo una civiltà aliena situata a 1000 anni luce di distanza – vicina anche per gli
standard dei più ottimisti – e supponiamo che gli alieni possiedano una tecnologia tanto potente da essere
in grado di osservare la Terra in dettaglio. Cosa vedrebbero? Beh, non vedrebbero noi. Non vedrebbero i
nostri radiotelescopi o i nostri acceleratori di particelle, né le strade o i razzi: vedrebbero la Terra
com’era, all’incirca, nell’anno 1010. Questa data è di parecchio antecedente alla Rivoluzione industriale,
e risale a un’epoca in cui l’espressione più alta della tecnologia umana era il meccanismo dell’orologio.
Gli alieni potrebbero vedere le piramidi egizie e la grande muraglia cinese; noterebbero le città e i segnali
dell’agricoltura, ma si tratterebbe di tutt’altra cosa rispetto alla tecnologia delle telecomunicazioni
interstellari. Il fatto che gli uomini abbiano sviluppato l’uso delle case in muratura e dell’agricoltura può
essere promettente, ma non garantisce certo la comparsa dei radiotelescopi 1000 anni più tardi (piuttosto
che 5000 o 50.000). Non ci sarebbe pertanto alcuna ragione perché gli alieni comincino a trasmettere
segnali radio diretti a noi nell’anno 1010; prima di disturbarsi a spedirci un segnale farebbero meglio ad
aspettare finché non sanno che abbiamo davvero i mezzi per riceverlo.
Come possono sapere gli alieni quando siamo pronti per il loro messaggio? Beh, lo sapranno
quando i nostri primi segnali radio avranno raggiunto loro. La tecnologia radio umana è vecchia di circa
un secolo; tra circa 900 anni tali primi, deboli segnali raggiungeranno questa civiltà immaginaria a noi
vicina e, se gli alieni ci staranno monitorando di continuo usando apparecchiature molto sensibili e non
perderanno tempo, potremmo ricevere il loro primo messaggio proprio prima dell’inizio del quinto
millennio. Non è possibile aggirare l’ostacolo del ritardo. Nel “loro” universo (ossia dalla prospettiva
aliena del tempo ritardato), i radioastronomi umani, molto semplicemente, non esistono ancora: a meno
che non possano prevedere il futuro, per gli alieni non esiste alcuna civiltà tecnologica, sulla Terra, alla
quale spedire messaggi, e non ne esisterà nessuna per altri 900 anni. E se la civiltà aliena è ancora più
lontana – diciamo 10.000 anni luce – il tempo di attesa è molto più lungo. Il risultato è che il SETI
tradizionale, basato sul sondare i cieli con radiotelescopi alla ricerca di messaggi degli alieni, può anche
essere un’ottima idea, ma forse lo stiamo facendo con qualche millennio di anticipo. L’unica via d’uscita
si ha nel caso in cui una presenza aliena sia situata molto più vicino a noi, diciamo entro 50 anni luce:
sarebbe una cosa sorprendente, ma chi lo sa? Gli astronomi di SETI, ad ogni modo, hanno studiato ogni
sistema stellare possibile a quella distanza, e hanno fatto un buco nell’acqua.
La conclusione precedente, anche se un po’ deprimente, non va contro un ampliamento della
strategia di SETI; solo, sottolinea la futilità di cercare messaggi che siano deliberatamente indirizzati
verso la civiltà umana provenienti da una sorgente molto lontana. È concepibile che una ricerca di tipo
radio nel cielo incappi in un messaggio radio alieno diretto a qualche altro destinatario che, per caso, sia
situato lungo la nostra linea di vista; un messaggio che, per pura coincidenza, è stato trasmesso molto
tempo fa e adesso sta attraversando i nostri paraggi astronomici. È una speranza un po’ vaga, certo.
Un’altra remota possibilità è che ci siano civiltà aliene che trasmettono messaggi in modo indiscriminato
e con continuità a tutta la galassia (l’equivalente galattico del BBC World Service). Sarebbe però
necessario un trasmettitore molto potente e un livello di determinazione e altruismo che non abbiamo
alcun diritto di aspettarci.
Un’altra congettura pubblicizzata dai ricercatori SETI è la possibilità di intercettare traffico radio
locale e routinario proveniente da un altro pianeta. Le nostre stazioni radiotelevisive trasmettono a
frequenze molto più basse di quelle cercate da SETI, ovvero nell’intervallo che sta tra i 50 e i 400 MHz;
SETI si concentra su un’ampia banda di frequenze, ma nell’intervallo che va tra 1 e 2 GHz. Si stanno
costruendo strumenti radio del tutto nuovi che copriranno bene la fascia dei MHz, con una sensibilità
senza precedenti. In Europa si sta per completare un sistema chiamato LOFAR (Low Frequency Array,
“array a bassa frequenza”): consiste di 25.000 antenne situate in diverse nazioni, collegate
elettronicamente tra loro in modo che i dati possano essere uniti digitalmente. Invece di saltare da
sorgente a sorgente, LOFAR è in grado di monitorare grandi porzioni di cielo per mesi, aumentando la
possibilità di rilevare un segnale debole continuo. Lo scopo principale di LOFAR è lo studio della fine
del cosiddetto medioevo cosmologico, il periodo subito precedente alla formazione delle prime stelle.
Dato che da allora (circa 13 miliardi di anni fa) l’universo si è molto espanso, la lunghezza d’onda delle
emissioni elettromagnetiche è aumentata, cosicché per il ricevente (la Terra) molte sorgenti interessanti
hanno frequenze che si sono abbassate alla scala dei MHz. Ma LOFAR non è l’unica carta da giocare. Un
sistema più ambizioso, con uno scopo e un’idea di base simili, è candidato ad essere costruito nella
Western Australia o nell’Africa sud occidentale, zone di silenzio radio: si tratta dello Square Kilometre
Array (SKA); come suggerisce il nome, questo insieme di antenne coprirebbe un’area totale di un
chilometro quadrato. Mentre questi sensibili strumenti stanno svolgendo i loro compiti astronomici di
routine, i ricercatori di SETI possono farsi dare una mano senza interferire con gli scopi principali.
Sembra che, per quanto questa nuova generazione di strumenti possa essere benvenuta dai
ricercatori di SETI, a meno di non essere molto fortunati, né LOFAR né SKA siano in grado di
intercettare gli alieni. Nonostante le loro immense dimensioni questi strumenti non riuscirebbero infatti a
rilevare una stazione televisiva come quelle terrestri nemmeno se fosse su un pianeta che orbita intorno
alla stella più vicina a noi. Ma c’è un barlume di speranza: Abraham Loeb dell’università di Harvard ha
stimato che un trasmettitore TV tipo quelli terrestri potrebbe essere rilevato da SKA fino a una distanza
di molti anni luce se le osservazioni si accumulassero con continuità per un mese, e ipotizzando che si
riuscisse a trovare un modo di filtrare le interferenze terrestri della stessa gamma di frequenze1. Anche se
questo raggio di distanza comprende molte stelle si tratta pur sempre del nostro vicinato,
astronomicamente parlando: non c’è alcuna speranza di intercettare una stazione TV a, diciamo, una
distanza di 1000 anni luce, a meno che le sue trasmissioni siano molto più potenti delle loro controparti
terrestri2. C’è anche un altro grosso problema, a cui ho fatto cenno nel Capitolo 4: se è l’umanità a farci
da guida, è probabile che le emissioni radio ad alta potenza siano una moda effimera tra le civiltà
emergenti. Molti dei nostri canali TV già oggi sono trasmessi via fibra ottica; è altamente possibile che
entro pochi decenni la Terra diventi del tutto silenziosa dal punto di vista radio, e che le nostre
telecomunicazioni non si disperdano quasi più nello spazio. Una civiltà aliena molto antica, d’altra parte,
potrebbe avere le proprie buone ragioni per continuare con le trasmissioni radio; così può ancora avere
senso usare LOFAR e SKA per andarle a cercare.
Oltre il fotone
I segnali radio e i segnali laser sono entrambi elettromagnetici: usano dei fotoni per recapitare i
messaggi. In linea di principio, però, ogni cosa che va da A a B potrebbe essere usata per codificare un
segnale, pertanto una strategia più ampia di SETI dovrebbe considerare che i segnali alieni possano
essere trasmessi in qualche altro modo. Un problema tecnico che incontrano tutti i mezzi che inviano
segnali è il fatto che, se A e B sono lontani molti anni luce l’uno dall’altro, potrebbe esserci lungo la
strada un materiale opaco come i gas e le polveri. Questo è vero soprattutto nel piano della galassia, dove
le polveri sono abbondanti soprattutto sotto forma di corsie scure che attraversano la Via Lattea. Sia le
onde radio sia la luce laser hanno il vantaggio che, a certe lunghezze d’onda, questo materiale è
relativamente trasparente per loro; nonostante ciò, qualcosa con un potere penetrante maggiore di quello
dei fotoni potrebbe funzionare meglio per i messaggi interstellari. Una possibilità è quella di ricorrere ai
neutrini, famosi per la loro straordinaria abilità di passare attraverso la materia; il problema è che tendono
a passare anche attraverso i ricevitori. Se ET stesse usando fasci di neutrini per mandare messaggi,
avremmo il nostro bel da fare a individuarli.
Per molti anni i neutrini sono stati qualcosa di puramente teorico proprio perché non c’era nessun
apparecchio abbastanza sensibile da rilevarli; le cose cambiarono negli anni Cinquanta del XX secolo,
quando vennero finalmente rilevati intensi flussi di neutrini emanati dai reattori nucleari. Anche se
reagiscono in maniera molto debole con la materia, di tanto in tanto un neutrino colpisce un nucleo e
causa una trasformazione rilevabile. La probabilità che questo avvenga è però molto piccola: per un
neutrino che interagisce, migliaia di miliardi di neutrini svicolano via. I fasci di neutrini, per esempio,
sono prodotti nei laboratori degli acceleratori di particelle e sparati attraverso la Terra, per essere poi
raccolti da strumenti lontani migliaia di chilometri. Si stanno costruendo enormi rilevatori che consistono
di volumi dell’ordine del chilometro di acqua (o ghiaccio) ultra pura, dai quali sono emessi piccoli lampi
luminosi ogni qualvolta un neutrino colpisce un nucleo, creando particelle cariche che si muovono ad
altissima velocità. I lampi luminosi sono poi amplificati e registrati da apparecchi sensibili. Per esplorare
l’universo attraverso “gli occhi di un neutrino” i fisici stanno costruendo rilevatori in Antartide, sotto il
mar Mediterraneo e nel lago Baikal in Siberia. Ci aspettiamo che siano emessi lampi di neutrini ad alta
energia dalle supernove, dai buchi neri e forse anche dalla materia oscura.
Nonostante tutte le difficoltà, pertanto, gli uomini possiedono rivelatori che in linea di principio
potrebbero rilevare un messaggio alieno codificato in un fascio di neutrini.
Emettere segnali con i neutrini è stato argomento di studio per Anthony Zee e i suoi colleghi del
Kavli Institute of Theoretical Physics della University of California a Santa Barbara3, che hanno
ipotizzato che gli alieni preferirebbero di gran lunga le energie dei neutrini rispetto a quelle generate
naturalmente dal Sole e dalle stelle. Dato che ci sono pochissimi neutrini che provengono da una data
direzione dello spazio, un fascio di neutrini ad alta energia che passasse proprio di qui sarebbe molto
evidente. Paragoniamo questo fatto alle onde radio energetiche generate da molte sorgenti astronomiche
compatte: usando le trasmissioni radio, ET è in competizione con tutto il cosmo. Zee pensa che gli alieni
potrebbero usare un acceleratore di particelle per far collidere e annichilare gli elettroni e le loro
antiparticelle (i positroni) ottenendo uno stretto fascio di neutrini che può essere puntato dove si vuole. È
una tecnica consolidata dai fisici terrestri, ma gli alieni avrebbero bisogno di farlo a energie molto
maggiori, dal momento che maggiore è l’energia più è facile rilevare i neutrini. La cosa migliore sarebbe
un’energia a cui trasmettere dei neutrini che reagiscano in particolare con i nuclei atomici, creando uno
spruzzo di particelle note ai fisici con il nome di bosoni W. Per chi vuole i dettagli tecnici, questa energia
è pari a 6,3 PeV: se vedessimo bosoni W fabbricati in questo modo ce ne accorgeremmo di certo. Tutto
ciò che ET avrebbe bisogno di fare per codificare un messaggio a questo punto sarebbe usare un codice
tipo il codice Morse. Bisogna ammettere che il tasso di trasferimento dei dati sarebbe abbastanza
patetico, ma come spiegherò adesso questo potrebbe non essere poi così importante.
Segnalatori luminosi
Per tutti noi il computer è un oggetto familiare, ma ben pochi sanno chi l’ha inventato. Potrà
sorprendervi, ma il progetto di base della macchina calcolatrice universale fu sviluppato nella metà del
XIX secolo da un eccentrico genio inglese di nome Charles Babbage. La sua macchina calcolatrice, detta
macchina analitica, non fu mai completata; una replica di questa antenata, la cosiddetta macchina
differenziale, fu costruita e messa in funzione dal Science Museum di Londra nel 1991, giusto in tempo
per il bicentenario della nascita di Babbage.
Tra le tante altre invenzioni di Babbage c’è il ben noto sistema di segnalazione per i fari. Il
principio è dei più semplici: un raggio luminoso spazia sul piano orizzontale e da un certo punto di vista
è visto lampeggiare una o due volte lungo ogni transito. Il segnale non è diretto a nessuno in particolare,
ma chiunque stia navigando in prossimità di un luogo in cui il faro sia visibile non potrà non
accorgersene. Il segnale significa “Pericolo, navigate con attenzione” e anche “Qui c’è qualcuno”. Ecco
qui: contenuto complessivo di informazione basso ma importanza enorme, almeno per i marinai4. È
possibile che una civiltà aliena abbia costruito un simile sistema di segnalazione luminosa che spazia per
la galassia?
Storicamente l’idea di segnali scambiati tra i pianeti per mezzo di oggetti luminosi come i fari ha
preceduto SETI di almeno un secolo: nel 1802 il genio matematico Karl Friedrich Gauss suggerì di creare
nella foresta siberiana grosse forme che attirassero l’attenzione dei marziani segnalando la nostra
intelligenza. La sua idea era di disboscare la foresta e piantare al suo interno del grano, in modo da
formare una riproduzione grafica del famoso teorema di Pitagora. Più tardi, Percival Lowell escogitò
qualcosa del genere, scavando nel deserto del Sahara dei canali pieni di petrolio che di notte potevano
venire dati alle fiamme. Una variante sul tema della “geometria su vasta scala” fu proposta dall’inventore
e fabbricante di telescopi Robert Wood, che scrisse al “New York Times” proponendo di costruire
un’enorme macchia scura fatta di strisce di tessuto che potevano essere arrotolate e srotolate a intervalli
regolari, facendo sì che la macchia sembrasse fare l’occhiolino ai nostri vicini marziani! Queste prime
proposte mancavano tutte della possibilità di essere amplificate per funzionare oltre i confini di un
singolo sistema planetario. Con lo sviluppo di laser e trasmettitori radio ad alta potenza, però, si è aperta
la strada per un segnalatore che invii segnali attraverso lo spazio interstellare, e non soltanto
interplanetario5.
La possibilità che civiltà aliene abbiano creato tanto tempo fa potenti “fari” radio, e che gli
uomini abbiano i mezzi per trovarli, è stata studiata in dettaglio da Greg e Jim Benford, due fisici gemelli
che lavorano in California. Greg è un astrofisico e ha vinto dei premi come scrittore di fantascienza,
mentre Jim è un esperto di tecnologie microonde ad alta intensità. Per come la vedono i Benford, delle
civiltà antiche potrebbero aver avuto molte ragioni per costruire un segnalatore; per esempio, potrebbe
essere un monumento all’orgoglio hitech di una gloriosa civiltà da tempo scomparsa. Un faro
segnalatore, in aggiunta, è un ottimo modo per attirare l’attenzione e attivare il primo contatto in modo
semplice: chiunque lo rilevasse raddoppierebbe i propri sforzi nella ricerca di vita aliena intelligente.
Potrebbe anche essere un simbolo artistico, culturale o religioso, o addirittura l’equivalente cosmico dei
graffiti; potrebbe essere un grido d’aiuto oppure, come l’umile faro marittimo terrestre, un avvertimento.
I Benson hanno determinato le richieste in potenza di segnalatori a microonde (anziché ottici) che
operino emettendo impulsi intensi e di breve durata (dei sibili, se si vuole). Com’è ovvio, per trasmettere
un sibilo sporadico è necessaria molta meno potenza rispetto a un flusso continuo di messaggi; mentre gli
impulsi sono più difficili da rilevare, sono assai più facili da inviare (anche se un segnalatore luminoso di
portata galattica è ancora molto oltre le capacità tecnologiche umane). L’ipotesi di partenza dei calcoli
dei Benford è che il costo a impulso sia qualcosa di determinato dalla fisica fondamentale, che vincola i
costruttori alieni proprio come vincola noi; è presumibile che anche una superciviltà non dilapiderebbe le
proprie risorse in modo deliberato6. In seguito i Benford hanno analizzato il problema «dal punto di vista
di chi paga i conti», per usare le loro stesse parole, e hanno tirato fuori quelle che ritengono essere le
caratteristiche di un segnalatore a impulsi, tenendo conto dei costi iniziali di costruzione dell’antenna e
dei costi operativi per farla funzionare7. L’efficienza è a favore delle frequenze più alte, così i due
gemelli suggeriscono come ottimale la frequenza di 10 GHz; se la si supera, il rumore radio di fondo
galattico interferisce. La maggior parte delle osservazioni SETI finora si sono concentrate su intervalli di
frequenze molto più basse, cioè intorno a 1 o 2 GHz. C’è una compensazione tra la durata di ogni impulso
e il tempo trascorso tra un impulso e l’altro; un buon compromesso sarebbe una vampata della durata di
circa un secondo più o meno una volta all’anno.
Contrariamente al classico target di SETI – un segnale continuo a banda stretta emesso a una
frequenza specifica – un segnalatore si paleserebbe come diffuso su un grande intervallo di frequenze
sotto forma di un breve bip (o forse di un bip bip, che attira di più l’attenzione). Durante la storia di SETI
sono stati registrati molti bip; ma non c’è mai stato alcun seguito, e per buone ragioni. Come abbiamo
visto nel Capitolo 1, quando un radiotelescopio individua qualcosa di strano la procedura consiste nello
spostare l’antenna dal target, assicurarsi che il segnale svanisca (per eliminare l’ipotesi del
malfunzionamento dell’apparecchio) e poi riposizionare di nuovo l’antenna in direzione del target. Se il
segnale è ancora lì la seconda volta, un radiotelescopio partner del progetto, preferibilmente situato a
grande distanza, viene chiamato in causa per confermare che la sorgente sia effettivamente astronomica
(e non un cellulare locale, per esempio). Tutto questo parte dal presupposto che il segnale misterioso
continuerà abbastanza a lungo perché la procedura di controllo possa essere completata (il che, nella
pratica, richiede diverse ore). Se invece un telescopio rileva un bip momentaneo – un momento è lì, il
momento dopo se ne è andato – la procedura di controllo non è applicabile8.
Un rinomato impulso misterioso è l’opportunamente soprannominato segnale Wow!, rilevato il
15 agosto 1977 da Jerry Ehman utilizzando il radiotelescopio Big Ear (“grande orecchio”) della Ohio
State University. Il segnale durò per 72 secondi (un impulso abbastanza lungo) e non è stato rilevato una
seconda volta. Ehman lo scoprì mentre stava perlustrando la stampata via computer dei dati raccolti
dall’antenna, ed era così eccitato che scrisse «Wow!» sul margine. Il segnale non è mai stato spiegato in
maniera soddisfacente né come di origine umana né come fenomeno naturale. Un altro evento
passeggero oggetto di molte discussioni è un bip intenso della durata di mezzo millisecondo detto
impulso di Lorimer, rilevato vicino alla Piccola Nube di Magellano dal radiotelescopio Parkes in
Australia; fu scoperto da David Narkevic, uno studente universitario che lavorava per David Lorimer
presso l’università della West Virginia. Lorimer non stava cercando ET ma degli oggetti astronomici
chiamati pulsar. L’enigmatico impulso fu scoperto molto dopo essere stato ricevuto, perché era rimasto
sepolto tra i dati raccolti da una ricerca di routine. Non è mai stato osservato in seguito nulla di simile in
quella parte del cielo. Non c’è consenso riguardo alla sorgente, anche se sembra che il segnale provenisse
da lontano, molto oltre i confini della nostra galassia. La congettura migliore è che sia stato causato da un
qualche tipo di evento violento legato ai buchi neri.
Un’altra possibile sorgente di impulsi radio è l’esplosione di un buco nero. Nel 1975 Stephen
Hawking dedusse che i buchi neri non sono davvero neri, ma che irradiano calore e, come conseguenza
della perdita di energia, rimpiccioliscono sempre più finché non evaporano del tutto. Dato che mentre il
buco nero si restringe la temperatura aumenta, l’evaporazione è un processo fuori controllo che culmina
in un’esplosione finale di particelle ad alta energia, molte delle quali elettricamente cariche. Se questa
esplosione definitiva ha luogo in un campo magnetico ambientale, come quello della galassia, le
particelle cariche creano un breve ma potente impulso elettromagnetico9. Le ricerche dirette di esplosioni
di buchi neri fatte usando radiotelescopi finora non hanno portato a nulla.
La sfida, per SETI, consiste nel discriminare tra un impulso artificiale e un impulso naturale. Se
una civiltà aliena volesse usare degli impulsi per attirare l’attenzione, avrebbe bisogno di etichettarli con
una “firma” che denoti la presenza di intelligenza, come una trasmissione simultanea centrata su diversi
canali radio a frequenze che mostrino uno schema aritmetico evidente. Sistemi di ricerca di intelligenza
extraterrestre non sono ben adattabili a trattare questi segnali, perché sia l’hardware sia il sistema di
analisi dei dati sono stati progettati in prevalenza per sorgenti continue a banda stretta. Non c’è tuttavia
alcun ostacolo fondamentale nel compiere una ricerca degli impulsi; si tratta soltanto di avere le risorse.
Cercare eventi passeggeri richiede di monitorare una porzione di cielo in modo continuativo per un certo
lasso di tempo, diciamo un anno: anche se possiamo fare ipotesi attendibili su dove il segnalatore
potrebbe essere nel cielo, non sappiamo quando sarà il prossimo bip. Una ricerca pilota di impulsi della
durata di un millisecondo è oggi in atto all’Allen Telescope Array, usando un sistema chiamato Fly’s Eye
(“occhio della mosca”), messo in funzione dalla University of California di Berkeley. Nella
configurazione usata, ognuna delle attuali 42 antenne è puntata in direzione di una diversa porzione di
cielo, dando nel complesso una copertura molto ampia. Ahimé, dato che l’apertura delle antenne è
soltanto di 6 metri, la sensibilità è piuttosto limitata. Un’altra ricerca dedicata, nota come Astropulse, è
attiva presso il più grande radiotelescopio del mondo ad Arecibo, a Porto Rico, da tempo uno dei cavalli
di battaglia di SETI, e reso famoso dai film Contact e Agente 007 - GoldenEye. Anche se questo
strumento ha una sensibilità molto superiore, ha un campo visivo comunque assai piccolo. Questi
progetti sono un punto di partenza, anche se una ricerca approfondita di segnalatori alieni è ancora ferma
allo stadio della pianificazione.
Restringere la ricerca
Ho iniziato questo capitolo con un appello ad allargare le ricerche per l’intelligenza extraterrestre;
è però improbabile che un approccio del tutto privo di un focus preciso possa avere successo, data la
natura dell’impresa (molto simile alla ricerca di un ago in un pagliaio). Nel caso dei segnalatori, il
compito è reso meno oneroso se ci si concentra sulle regioni della galassia dove si trova la maggior parte
delle stelle. La struttura della Via Lattea assomiglia a un disco piatto da cui escono dei bracci a spirale:
uno di questi bracci contiene il nostro sistema solare. Le regioni esterne della galassia sono poco popolate
e povere di elementi pesanti come il carbone, che dà la vita. È nelle regioni interne che abbiamo la
maggior parte delle stelle, specie le più vecchie (nelle vicinanze delle quali è più probabile trovare civiltà
antiche): ne consegue che la migliore speranza che abbiamo di trovare un segnalatore è nella direzione
del Sagittario, dove è situato il centro della galassia10.
La direzione radiale è soltanto metà della storia: cosa possiamo dire dell’abitabilità in funzione
della distanza “sopra” e “sotto” rispetto il piano galattico? Questo argomento è più complicato, perché le
stelle, mentre sono in orbita nella galassia, si muovono in alto e in basso lungo una direzione trasversale;
il Sole, per esempio, compie tale oscillazione una volta ogni 62 milioni di anni, e ne risulta un moto che è
fuori dal piano galattico di circa 230 anni luce. Qualche anno fa due fisici di Berkley, Richard Muller e
Robert Rhode, osservando le prove fossili della vita marina negli ultimi 542 milioni di anni, fecero una
scoperta sorprendente11. È risaputo che l’abbondanza di vita sulla Terra è sottoposta a notevoli variazioni
dovute a improvvise estinzioni di massa. Ci sono molte teorie sui motivi per cui si verifichino questi
stermini raccapriccianti: impatti cosmici, supernove, attività vulcaniche fuori controllo eccetera. Ciò che
trovarono Muller e Rohde nello schema delle estinzioni marine fu un ciclo di 62 milioni di anni, con il
tasso di mortalità maggiore quando il sistema solare è localizzato alla massima distanza dal piano
galattico nella direzione del nord (galattico), e minore quando il sistema è alla massima distanza nella
direzione sud. La loro analisi suggerisce la presenza di qualcosa di terribile oltre il bordo settentrionale
della galassia: cosa potrebbe essere, e perché non lo troviamo anche a sud? Se fosse anche a sud, infatti,
il ciclo sarebbe di 31 e non di 62 milioni di anni.
Una spiegazione intrigante è quella fornita da due astrofisici dell’università del Kansas, Mikhail
Medvedev e Adrian Melott12: sottolineano che anche se lo scintillante disco della Via Lattea è
simmetrico rispetto alle direzioni nord e sud, l’alone galattico non lo è. La galassia emette un vento sotto
forma di protoni e altre particelle cariche, creando una nuvola impalpabile che si estende molto oltre,
nello spazio intergalattico, in tutte le direzioni, ma che è sbilanciata in direzione sud. E per una buona
ragione: la Via Lattea, così come le altre galassie nella vicinanza, sta sfrecciando a 200 chilometri al
secondo verso un massiccio cluster di galassie in direzione della Vergine (che, galatticamente parlando, è
dritta in direzione nord). L’ancora più impalpabile mezzo intergalattico (che consiste per la maggior
parte di gas idrogeno ionizzato) serve come impedimento vischioso, e questo ha deformato l’alone verso
la direzione sud, creando un’asimmetria. Là dove il gas dell’alone incontra il mezzo intergalattico si
forma un bow shock (“choc di prua”) in cui l’energia, col tempo, viene trasferita per un processo
magnetico ai protoni del mezzo intergalattico e dell’alone, accelerandoli a energie molto elevate. Sono
questi protoni (più altri accelerati in modo simile sui bordi dell’alone) che costituiscono in gran parte i
raggi cosmici ad alta energia che colpiscono la Terra. Il nostro pianeta è protetto in qualche modo dal
proprio campo magnetico, ma anche dal campo magnetico galattico. Medvedev e Melott hanno concluso
che l’intensità della radiazione cosmica ricevuta dalla Terra sia sorprendentemente sensibile al luogo in
cui si trova il sistema solare. Se è a nord, più vicino al fronte del bow shock, il flusso di raggi cosmici ad
alta energia è circa cinque volte maggiore rispetto a quando è a sud.
I raggi cosmici da tempo sono stati chiamati in causa nelle estinzioni di massa. Un flusso di raggi
cosmici ad alta energia che colpisce gli strati più alti dell’atmosfera crea cambiamenti chimici che
possono far aumentare la copertura nuvolosa; persino, talvolta, innescando un notevole raffreddamento
globale. Possono anche creare una pioggia di particelle subatomiche dannose chiamate muoni che
penetrano nelle profondità degli oceani minacciando la vita marina. Come se non bastasse, i raggi
cosmici attaccano lo strato di ozono, lasciando passare la mortale radiazione ultravioletta che proviene
dal Sole. L’effetto combinato è di ridurre la zona per la vita intelligente a una striscia lontana dal lato
nord del piano galattico. È improbabile che una civiltà tecnologica possa evolvere su un pianeta simile
alla Terra troppo a nord, anche se una civiltà progredita formatasi prima che la stella ospite migrasse a
nord potrebbe avere le conoscenze necessarie per “mettersi al riparo” per qualche milione di anni e uscire
dalla tempesta di raggi cosmici13. Ci aspetteremmo che la maggior parte delle civiltà longeve, tuttavia,
nasca intorno a stelle che compiono piccole oscillazioni e restano vicine alla zona sicura del piano
galattico. Avrebbe senso, per una civiltà aliena, usare dei segnalatori che abbattano i costi concentrando
il raggio in questo “piano della vita”, anziché sparare a raffica nell’etere in tutte le direzioni. Di
conseguenza, se là fuori ci sono dei segnalatori, dovrebbero essere raggruppati in questo piano.
Le civiltà aliene potrebbero usare come marcatori dei segnalatori naturali, nell’attesa che
radioastronomi su altri pianeti studino comunque questi oggetti e possano accorgersi che hanno qualcosa
di strano. Fare uno zoom su questi oggetti nello specifico potrebbe aiutarci a restringere ancora di più il
campo di ricerca. Le pulsar sono sorgenti radio potenti, con cui gli astronomi hanno familiarità, e
potrebbero essere usate per attirare l’attenzione verso un segnale artificiale. Una pulsar è una stella di
neutroni rotante14 che emette particelle cariche, che a loro volta emettono un intenso e stretto fascio di
onde radio. Mentre la stella ruota il fascio gira tutto intorno, proprio come un faro; dalla Terra il
fenomeno è percepito come una serie molto regolare di impulsi radio. Alcune stelle di neutroni girano su
se stesse tanto in fretta che gli impulsi sono separati soltanto da pochi millisecondi. Questi oggetti, di
grande interesse per gli astronomi, sono molto studiati. William Edmonson e Ian Stevens dell’ università
di Birmingham, in Inghilterra, hanno ipotizzato che gli alieni potrebbero provare a trasmettere dei bip
artificiali in direzione di pianeti abitabili che si trovino vicino alla loro linea di vista di una pulsar, e farlo
con lo stesso tasso di emissione della pulsar15. Se la Terra fosse uno dei pianeti a cui si rivolgono,
riceveremmo questi impulsi da una direzione opposta a quella della pulsar: una prova schiacciante della
presenza di qualcosa di intelligente e artificiale. Edmonson e Stevens hanno identificato qualche dozzina
di stelle che potrebbero ospitare la vita, ubicate in coni di 1° dal lato della Terra in direzione opposta a
pulsar molto stabili che ruotano velocemente. Inoltre hanno compilato una lista di probabili stelle situate
nell’altra direzione, ossia allineate con le pulsar e molto vicine. Dato che il segnale consisterebbe di
battiti regolari con un periodo noto (quello della pulsar), se si portassero avanti le osservazioni per un
tempo lungo sarebbe possibile notare, separato dal rumore radio di fondo, un segnale molto più debole;
una civiltà progredita dal punto di vista tecnologico potrebbe provare a usare l’emissione della stessa
pulsar per recapitare il messaggio, modulando in qualche modo gli impulsi naturali. Questo risolverebbe
del tutto il problema della potenza (le pulsar sono così potenti che possono essere rilevate in tutta la
galassia con un radiotelescopio di qualità modesta). Il segnale si paleserebbe, in questo caso, come uno
schema preciso nella frequenza, nell’intensità o nella polarizzazione degli impulsi radio.
Un segnalatore che si limita a lampeggiare, naturalmente, sarebbe di valore limitato per la
comunità che trasmette i segnali, perché un impulso passeggero è per sua stessa natura incapace di
codificare una grande quantità di informazione; potrebbe però essere utile come chiave che consenta di
accedere a una banca dati molto più grande. Il segnalatore, per esempio, potrebbe indicare come scaricare
l’Enciclopedia Galattica da un deposito; ma dove potrebbe essere il deposito? Dall’altra parte della
galassia? Forse. Ci sono anche motivi per cui potrebbe essere sulla soglia di casa, astronomicamente
parlando.
Un messaggio sulla soglia di casa
Il maggiore inconveniente del SETI tradizionale è l’immenso tempo richiesto perché i segnali
radio passino tra una stella e l’altra: se scoprissimo un’altra civiltà lontana 1000 anni luce ci vorrebbero
almeno 2000 anni per poter ricevere una risposta a qualsiasi messaggio avessimo spedito loro; come notò
Carl Sagan, non esattamente quella che definiremmo una conversazione vivace. Nella scala temporale o
geologica due millenni possono essere un battito di ciglia, ma in termini umani sono di una lentezza
sconsolante. C’è però un’altra possibilità, molto più eccitante: gli uomini potrebbero conversare con
un’intelligenza aliena in tempo quasi reale “per interposta persona” nel caso in cui gli alieni avessero
spedito una sonda fino al sistema solare, dove il tempo che i segnali impiegano per raggiungere la Terra è
misurato in minuti o, al più, in ore16. Ronald Bracewell sollevò questa possibilità agli inizi del progetto
SETI e da allora si è trattato di un argomento ricorrente17.
Dal punto di vista degli alieni il grande vantaggio di una sonda è insito nel suo carattere una
tantum: una volta che sia stata posizionata ci si può anche dimenticare della sua esistenza. Una sonda
progettata con attenzione potrebbe addirittura sopravvivere alla civiltà che l’ha lanciata. Non ha bisogno
di una grande antenna, a meno che non sia richiesto che invii dei resoconti al quartier generale del pianeta
da cui proviene. I radiotelescopi sulla Terra non fecero fatica a mantenere un legame con la navicella
Pioneer 10 ai confini del sistema solare (prima che l’ultimo contatto avesse luogo qualche anno fa) e il
suo trasmettitore non era più potente di una lampadina dell’albero di Natale. Una sonda aliena potrebbe
conservare una quantità enorme di informazioni in un minuscolo chip; una volta in comunicazione con
noi, il suo supercomputer potrebbe impegnarsi in un intenso scambio educativo e culturale. La sonda, in
linea di principio, potrebbe avere qualsiasi dimensione, ma per il momento penso a qualcosa grande
come un nostro comune satellite per le telecomunicazioni.
Se ci fosse una sonda aliena nelle nostre vicinanze lo sapremmo? Dove dovremmo cercare? Dal
nostro punto di vista la cosa più semplice sarebbe una sonda in orbita bassa attorno alla Terra. Questo
però lo possiamo escludere: quella parte di cielo è stata passata in rassegna abbastanza in dettaglio e non
ci sono oggetti non identificati che si aggirano sopra le nostre teste. E un po’ più lontano? Una piccola
sonda in orbita geosincrona18 (molto più alta) o attorno alla Luna sarebbe probabilmente sfuggita alla
nostra attenzione finora. La meccanica newtoniana mostra che le orbite stabili a lungo termine, per
evitare che ci sia bisogno di correzioni orbitali frequenti, devono essere scelte con attenzione. Per fortuna
nello spazio ci sono due punti dove i campi gravitazionali del Sole e della Terra concorrono a creare
orbite stabili che tengono il passo con la Terra mentre orbita intorno al Sole; sono noti, tecnicamente,
come punti di Lagrange L4 e L5. Su questo gli scienziati vedono molto chiaro: sono state compiute
diverse ricerche preliminari sui punti di Lagrange e non è saltato fuori niente di inusuale19. Per quanto ne
so, nessuno ha provato a trasmettere dei potenti segnali radio dalla Terra ai punti L4 e L5, nel tentativo di
“svegliare” una sonda aliena dormiente che potrebbe essere parcheggiata lì.
Il resto del sistema solare è così vasto che una ricerca sistematica di una piccola sonda è del tutto
irrealistica. Un oggetto artificiale nella fascia degli asteroidi, dove sarebbe circondato da detriti rocciosi
di tutte le forme e dimensioni, sarebbe quasi impossibile da notare, specie se fosse ancorato a un
asteroide. Una forma perfettamente sferica o conica, o un insieme di oggetti connessi da montanti, ci
farebbero com’è ovvio saltare sulla sedia; ma se gli alieni volessero nascondere una sonda sarebbe una
cosa abbastanza facile da fare. Potrebbe, certo, esserci un gran numero di sonde aliene nel sistema solare,
e noi ne saremmo del tutto all’oscuro a meno che ci inviassero dei segnali.
Non c’è motivo per cui una sonda sarebbe dovuta arrivare nel sistema solare soltanto di recente;
avrebbe potuto essere mandata milioni di anni fa da una civiltà che, osservando di lontano, aveva
determinato che sulla Terra ci fosse della vita. La sonda sarebbe rimasta passiva, sorvegliando in silenzio
il nostro pianeta e attendendo il momento opportuno in cui emergesse una società tecnologica. A quel
punto, se il computer della sonda lo ritenesse prudente, potrebbe iniziare il contatto: e come avverrebbe?
La cosa più naturale sarebbe che la sonda ci spedisse un segnale radio. Perché potessimo riconoscerne la
natura eccezionale, il segnale dovrebbe catturare la nostra attenzione come qualcosa di davvero
straordinario; un’ipotesi (usata da Carl Sagan in Contact) è che la sonda ci rimandi una vecchia
trasmissione radio o televisiva. Ci farebbe restare di certo di stucco se un radiotelescopio rilevasse una
trasmissione di Lucy ed io20 che arriva dallo spazio profondo; per inciso, il primo episodio di Lucy ed io
andò in onda il 15 ottobre 1951. Se una puntata della sitcom fosse invece ricevuta da una televisione
privata, gli spettatori non lo troverebbero per nulla strano, ma la prenderebbero per una delle tante
repliche21.
Un’ipotesi più estrema è che la sonda possa far uso di internet per comunicare con noi. Senza
dubbio il computer di bordo della sonda, prima di svelare la sua presenza, sarebbe programmato per
valutare il livello di sviluppo e il carattere generale della società umana. Quale modo migliore di
costruirsi un’immagine dell’umanità che sorvegliando i siti internet, i messaggi email, le chat room,
YouTube e così via? Dopotutto, è proprio quello che le agenzie governative fanno già. Quando i tempi
fossero maturi, la sonda si connetterebbe a un appropriato sito internet con un link a microonde e
annuncerebbe pubblicamente la sua presenza.
Un gruppo di entusiasti del progetto SETI, a capo del quale il ricercatore canadese Alan Tough,
ha preso l’idea abbastanza seriamente da creare un sito web dedicato in cui invitano ET a connettersi
(http://www.ieti.org). Il lettore che si prenderà il tempo di dare un’occhiata troverà il mio nome tra i
firmatari a sostegno di questo progetto dichiaratamente eccentrico ma deliziosamente immaginifico.
Com’è comprensibile il sito ha attirato un flusso regolare di intelligenti contraffattori, ma, ahimè,
nessuna sonda extraterrestre; se non altro, non fino ad oggi. L’esistenza del sito, però, solleva una
questione che stimola l’interesse sulle probabilità di stabilire che chi entri in contatto sia un’entità aliena
e non un burlone umano. Sarebbe terribile se ET ci chiamasse e noi gli rispondessimo “Ma chi credi di
prendere in giro!”. Allen qualche anno fa mi telefonò per raccontarmi di un candidato interessante che
aveva superato in fretta un certo numero di test di base progettati per filtrare le bufale pure e semplici. Mi
chiese di suggerirgli un modo sicuro per smascherare l’eventuale imbroglio: gli proposi di rispedire al
mittente un numero di 100 cifre composto dal prodotto di due numeri primi e di chiedere al candidato di
fattorizzarlo; il punto, qui, consiste nel fatto che mentre è facile moltiplicare i numeri, andare nella
direzione opposta (ossia fattorizzare) è molto più difficile. Tanto per fare un esempio, la maggior parte
della gente impiegherebbe meno di un minuto a trovare, per dire, che 141 3 79 = 11.139; mentre se
venisse chiesto di trovare due numeri primi che moltiplicati tra loro danno 11.139, ci vorrebbe molto più
tempo: a dirla tutta, è necessario esplorare tutte le possibilità ed eliminarle una ad una, finché non si
arriva alla risposta giusta. Un computer può essere messo davanti allo stesso ostacolo, e per numeri
grandi si troverebbe in difficoltà anche il più veloce supercomputer del mondo: per questo motivo il
prodotto dei numeri primi forma la base della maggior parte delle tecniche di crittografia. Come
convenuto, Allen tirò fuori un numero e, con nostra grande sorpresa, il candidato fornì la risposta giusta
dopo pochissimo tempo! Così provammo con un numero di 200 cifre, che (a quel tempo) sapevamo
essere oltre la capacità di calcolo di qualsiasi computer costruito dall’uomo. A quel punto l’imbroglione,
un annoiato operatore informatico di Birmingham, gettò la spugna. Il problema con il test dei numeri
primi è che potrebbe essere risolto da un computer quantistico, se mai se ne costruirà uno (si veda il
Capitolo 8). Ad oggi, nonostante i milioni di dollari spesi in ricerca, la computazione quantistica è ancora
nella sua fase embrionale: nel caso in cui un computer quantistico funzionante venisse un giorno
costruito dagli uomini, perderemmo una discriminante molto utile per individuare la tecnologia
extraterrestre.
Se gli alieni rischiassero di spedire una sonda qui senza sapere se la Terra abbia, o possa avere in
futuro, una civiltà dotata di tecnologia, c’è un’alta probabilità che la sonda sia arrivata molto tempo fa
(diciamo 10 milioni di anni fa, o anche di più). Un problema fondamentale che avrebbero affrontato i
costruttori della sonda sarebbe stato quello di creare un artefatto in grado di restare intatto e funzionante
per un periodo di tempo così lungo; la nostra tecnologia, per dire, resta funzionante solo per qualche
decade. Dal punto di vista della durata la superficie terrestre è un luogo poco rassicurante per
parcheggiare una sonda, a causa di sconvolgimenti geologici come le glaciazioni, gli impatti delle
comete, le eruzioni vulcaniche, i terremoti eccetera. Un luogo un po’ meno instabile è la Luna, sempre
che l’oggetto sia sepolto abbastanza in profondità da evitare gli impatti con i piccoli meteoriti. Questo
scenario fu esplorato da Arthur C. Clarke e Stanley Kubrick nel famoso 2001: Odissea nello spazio, in
cui il manufatto alieno è rappresentato come un gigantesco obelisco. Anche se la superficie lunare è stata
fotografata abbastanza in dettaglio, se la sonda fosse piccola o sepolta sotto terra non ne conosceremmo
ancora l’esistenza.
Nanosonde, messaggi virali e genomi manipolati truffaldinamente22
Un’obiezione nei confronti dello “spargimento del verbo” con sonde ad alta velocità anziché con
segnali radio è il costo: una navicella di una tonnellata, per esempio, che viaggi alla velocità modesta di
un decimo della velocità della luce, richiederebbe mezzo miliardo di miliardo di joules di energia per il
lancio, l’equivalente dell’energia che la Terra emette in totale, in molte ore. E ciò trascura il bisogno della
sonda di rallentare (in qualche modo) all’arrivo, cosa che potrebbe richiedere la stessa energia, se non di
più. Dovrebbe esserci una motivazione davvero forte per impegnarsi in questo progetto: altruismo,
curiosità – o disperazione, per esempio per conservare qualcosa prima del giudizio universale – specie se
comportasse l’invio di un’intera flotta di sonde che coprisse una grossa fascia della galassia.
Per fortuna esiste un modo di abbattere in modo consistente il fattore energetico: costruire sonde
intelligenti in grado di autoripararsi e di riprodursi lungo la strada. Così, anziché spedire ogni volta una
sonda in direzione di ogni sistema stellare promettente, ET potrebbe spedire un’unica sonda e lasciare
che si moltiplichi. Il concetto di macchina che si autoriproduce fu esplorato per la prima volta dal fisico
matematico ungherese John von Neumann, che, insieme al matematico inglese Alan Turing (anche
decifratore di codici segreti durante la Seconda guerra mondiale) è colui a cui si attribuisce l’invenzione
del computer elettronico moderno, realizzando finalmente l’idea ottocentesca di Babbage. Un computer
è una macchina universale, nel senso che un solo apparecchio può essere programmato per risolvere tutti
i problemi computabili. Il concetto di computer universale porta in modo molto naturale a quello di
costruttore universale: una macchina che segue un programma interno per costruire altre macchine. Una
macchina di von Neumann, opportunamente programmata, potrebbe anche fare copie di se stessa
(comprese le istruzioni di copiatura) e, pertanto, costituirebbe una macchina in grado di autoriprodursi23.
È facile immaginare una civiltà progredita che spedisce sonde di von Neumann in esplorazione
della galassia. All’arrivo nel sistema stellare, per potersi replicare, una simile macchina andrebbe a
estrarre materie prime da asteroidi o comete; parte della progenie potrebbe studiare i pianeti e, forse,
provare a contattare ogni forma di vita intelligente, rimandando le informazioni al pianeta di origine. Le
sonde potrebbero anche indefinitamente restare nel sistema stellare per fungere da segnalatori o sonde
silenziose, mentre altre viaggiano verso il prossimo sistema stellare. Il processo potrebbe andare avanti
all’infinito, con il numero complessivo di macchine che cresce in via esponenziale. In questo modo i
costi di costruzione del programma di esplorazione non ricadrebbero tutti sulla civiltà che l’ha creato.
Rinunciando a un equipaggiamento sofisticato e ai trasmettitori radio ci sono opportunità per
ulteriori miglioramenti decisivi nei costi grazie alla miniaturizzazione: se lo scopo delle sonde consiste
solo nel diffondere un messaggio, o delle informazioni essenziali su chi le ha spedite, c’è un modo molto
facile per realizzare lo scopo, ossia tramite l’uso della nanotecnologia. Nel 1959, lo stesso anno in cui
Cocconi e Morrison pubblicavano il loro articolo visionario su SETI, una conferenza non meno
visionaria fu tenuta da Richard Feynman, il brillante e creativo fisico teorico; intitolata C’è un sacco di
spazio in fondo, la conferenza anticipava le decadi in cui si sarebbe sviluppata l’ingegneria su scala
molecolare ben prima del suo avvento. Oggi la nanotecnologia sta progredendo in fretta: dapprima ci fu
l’incredibile rimpicciolimento dei microchip, poi i microscopi a effetto tunnel in grado di muovere
singoli atomi in modo controllato, poi ancora i nanotubi al carbonio e i quantum dot. Probabilmente la
nanotecnologia avrà un impatto incredibile sulla conservazione delle informazioni. Nel discorso sulla
scienza e sulla tecnologia del gennaio 2000 il presidente Clinton parlò della National Nanotechnology
Initiative americana e citò alcune delle possibilità, come «comprimere tutta l’informazione contenuta
nella Biblioteca del Congresso in un apparecchio delle dimensioni di una zolletta di zucchero»24. È stato
stimato che i contenuti di un’importante enciclopedia potrebbero essere impacchettati in un volume
inferiore a quello occupato da un batterio. Il progresso è così rapido che gli allarmisti stanno prevedendo
la fine del mondo così come lo conosciamo, con nanomacchine in fuga che trasformano la superficie del
pianeta in gray goo25. In termini stretti, nano si riferisce a una scala dimensionale di un miliardesimo di
metro, corrispondente a una grossa molecola; ma il termine è usato più in generale per riferirsi a tutti i tipi
di ingegneria su scala ultra piccola.
In un futuro non troppo distante, quando gli uomini saranno in grado di costruire micro o
nanomacchine che contengano una quantità prodigiosa di informazioni, queste potranno essere usate
come sonde spaziali. Grazie alle loro minuscole dimensioni potrebbero essere accelerate ad alte velocità
(diciamo 0,01% della velocità della luce) con costi molto ridotti, forse senza il bisogno di razzi.
Potrebbero ancora impiegare milioni di anni per raggiungere le stelle target, ma nello scenario che sto
esplorando la fretta non è un problema. Possiamo immaginare con facilità una civiltà aliena progredita
che impacchetta mini banche dati in capsule microscopiche e le sparge a milioni per la galassia.
Una nanosonda differisce dalla sonda di tipo Bracewell di cui ho parlato in precedenza perché
non in grado di emettere segnali radio che attirino l’attenzione. Ma allora come potrebbe avere effetti?
Ecco dove entra in gioco l’idea di von Neumann: se la nanosonda fosse una macchina di von Neumann
autoreplicante, all’arrivo potrebbe replicarsi come una matta finché la sua progenie non formasse una
schiuma cospicua idonea ad essere analizzata con un potente microscopio da uno scienziato curioso. C’è
anche una strategia più elegante. La natura ha già inventato nanomacchine ricche di dati ordinatamente
impacchettati: li chiamiamo virus26. Un virus tipico contiene migliaia di bit di informazione codificati nel
DNA o nell’RNA, sufficienti per un messaggio come si deve. Perché non costruire migliaia di miliardi di
virus, impacchettarli in microsonde delle dimensioni di un pisello e mandarle in giro per tutta la galassia?
Ogni virus conterrebbe un messaggio per qualsiasi futura forma di vita intelligente sul pianeta di
destinazione27, l’equivalente spaziale di un messaggio in bottiglia. La bellezza di questo schema è che nel
caso in cui incontrasse forme di vita sul pianeta di destinazione il messaggio potrebbe essere replicato
all’infinito, solo programmando i virus perché “infettino” ogni cellula basata sul DNA con cui entrano in
contatto. Il virus allora inserirebbe il suo messaggio nel materiale genetico della cellula germinale
dell’organismo ospite (questo è ciò che fanno i cosiddetti retrovirus endogeni) e la cellula, molto
gentilmente, lo replicherebbe, passando il messaggio alle generazioni future. In questo modo il virus si
diffonderebbe in un lampo nell’ecosistema ospite, e l’informazione in esso contenuta si conserverebbe
per milioni anni finché un qualche Craig Venter del futuro non cominciasse a sequenziare i genomi e si
imbattesse nel messaggio. Sicuramente il DNA viene inserito nelle cellule viventi proprio in questo
modo: interi pezzi del DNA umano sono i rifiuti genetici degli antichi virus che infettarono i nostri
antenati.
Il modo in cui l’ho descritta la fa sembrare semplice, ma in realtà lungo la strada di realizzazione
di questa idea ci sono alcuni ostacoli tecnici non da poco. Quello più ovvio è il fatto che il DNA potrebbe
essere solo uno dei tanti modi in cui l’informazione biologica è codificata, ed è difficile capire come gli
alieni potrebbero sapere in anticipo quale sia quello usato dalla vita terrestre. Un secondo problema ha a
che fare con la fisica. Lo spazio interstellare è un ambiente pericoloso: i raggi cosmici, in particolare,
possono causare danni seri alle nanostrutture, e col tempo distruggere il messaggio molecolare. Uno
schermo migliorerebbe la situazione, ma a spese della leggerezza, dal momento che bisognerebbe
aggiungere massa. Il proiettile, per di più, deve essere rallentato all’arrivo sul pianeta target per non
bruciarsi del tutto entrando nell’atmosfera: anche il carburante necessario per decelerare andrebbe ad
aggiungersi in modo sostanziale alla massa del carico utile. Tutte queste aggiunte manderebbero all’aria
la filosofia del “piccolo ed economico” che sta dietro l’idea delle microsonde. È possibile che i problemi
tecnici siano risolvibili senza aggiungere troppa massa extra (per esempio usando aerofreni per la
decelerazione) ma anche se fosse, i virus artificiali incontrerebbero all’arrivo seri problemi dal punto di
vista biologico. I virus si conformano radicalmente al loro ospite, ed è per questo che possiamo nuotare
nel mare – brodo di virus, non dimentichiamolo – senza ammalarci (almeno la maggior parte della volte).
Per cui, se anche ET indovinasse che la Terra è piena zeppa di vita basata sul DNA, senza essere a
conoscenza delle specifiche dei genomi ospiti non è chiaro come potrebbe progettare un virus che
funzioni in modo affidabile; ma forse possono essere fabbricati virus universali, o per tutti gli scopi, che
infettino un vasto spettro di organismi senza ucciderli.
Un ulteriore problema riguarda le mutazioni: una volta che il messaggio sia stato inserito deve
restare stabile il più a lungo possibile perché ci sia una buona probabilità di essere, un giorno o l’altro,
scoperto. Eppure le mutazioni naturali avvengono di continuo durante il processo di copiatura del DNA;
e un messaggio mutato è un messaggio mescolato, in cui il senso è degenerato nella mancanza di senso.
La selezione naturale può servire a stabilizzare l’informazione genetica, ma soltanto se c’è una pressione
selettiva, ossia se la mutazione ha conseguenze dannose per la sopravvivenza dell’organismo, nel qual
caso viene espulsa dal gruppo di geni. Se il segmento inserito – il messaggio – è biologicamente inattivo
(ossia se sta lì soltanto per essere trasportato dal DNA) è difficile prevedere come la selezione naturale
opererà per conservarlo. Gran parte del DNA sembra essere “spazzatura”: grandi sezioni che non
codificano nulla, e quindi mutano di generazione in generazione rapidamente e senza causare danni,
senza essere controllati dalla selezione. Facendo l’ipotesi che il DNA virale sia trattato dall’organismo
ospite come un po’ di spazzatura in più, il messaggio rischia di essere confuso con le mutazioni dopo
poche migliaia di generazioni. Di recente, tuttavia, sono state avanzate alcune perplessità riguardo questa
semplice raffigurazione. Sono state trovate sia nei genomi umani sia in quelli dei topi sezioni sostanziali
di ciò che sembrano essere sequenze identiche di DNA spazzatura, il che suggerisce che siano state
conservate fino dai tempi in cui, 40 milioni di anni fa, il corredo genetico dei pretopi e dei preuomini si
divise. È possibile che queste sequenze abbiano, sotto sotto, qualche ruolo vitale, ma non è affatto ovvio:
quando vengono cancellate dal corredo genetico dei topi, i topi sembrano felici lo stesso. È possibile,
pertanto, che parti di DNA spazzatura possano essere accuratamente replicate e conservate per milioni di
anni, magari facendosi dare “un passaggio chimico” dai geni chiave che sono sottoposti a una forte
pressione selettiva, e così sopravvivere. Comunque, se un virus alieno si insinuasse nel genoma ospite in
questo modo, facendosi cioè dare un passaggio, il messaggio potrebbe restare comprensibile per decine
di milioni di anni28.
Per recapitare un messaggio biologico esiste un modo alternativo che evita alcuni di quei
problemi che insorgono con i virus: anziché cercare di pilotare la vita indigena, gli alieni potrebbero
cercare di creare una biosfera ombra artificiale partendo da zero. Una civiltà lontana pochi anni luce
potrebbe, anche da quella distanza, conoscere abbastanza della geologia, dell’atmosfera e della
composizione chimica terrestre da dedurre qualcosa sulla nostra biologia e sulle condizioni ambientali.
Armati di queste informazioni gli alieni potrebbero progettare microbi nuovi di zecca, fatti su misura per
prosperare nell’ambiente terrestre e convivere in pace con gli organismi indigeni. Le cellule sintetiche
non necessitano di DNA né di proteine, e potrebbero essere progettate per vivere al meglio in condizioni
troppo estreme per le forme di vita indigene terrestri, evitando così una competizione diretta. Usando
strutture molecolari con legami più forti di quelle presenti nel DNA, le cellule soffrirebbero meno danni
per via dei raggi cosmici lungo il tragitto: le importantissime sequenze del messaggio sarebbero costruite
con attenzione, in modo da mutare molto lentamente, possiederebbero una ridondanza intrinseca e
godrebbero di meccanismi che correggono gli errori, come quelli usati dagli organismi terrestri.
L’insieme dei microbi sarebbe spedito in direzione della Terra, nello specifico, oppure verso qualsiasi
altro pianeta in cui fosse possibile l’insorgere, un giorno o l’altro, di una forma di vita intelligente.
All’arrivo i microbi si stabilirebbero per poi spargersi in tutto il pianeta, adattandosi al mutare delle
condizioni e bighellonando senza dar fastidio a nessuno per decine di milioni di anni, in attesa di essere
scoperti. Se scopriremo mai una biosfera ombra, sarà il posto più plausibile in cui cercare un messaggio
alieno, rispetto che cercarlo nei genomi delle forme di vita a noi note.
La fattibilità dell’idea di usare cellule microbiche per spedire i messaggi tra le stelle si basa sul
fatto che questi possano essere recapitati in modo efficiente. Michael Mautner, un chimico neozelandese
che è anche a capo dell’ente Panspermia Society, ha fatto un po’ di conti per scoprire se sia o meno
un’ipotesi corretta. Lui crede che funzionerebbe; in effetti pensa che la tecnologia umana possa arrivare a
realizzarla fra non troppo tempo. La chiave sta nel microminiaturizzare il carico utile. Mautner immagina
membrane delle dimensioni di pochi centimetri con incorporate palline minuscole; i microbi potrebbero
stare dentro le palline insieme a un kit di nutrienti iniziali. Le membrane rifletterebbero il vento e la luce
solari, ricevendo una piccola ma persistente forza propulsiva. Accumulato nel corso degli anni, questo
minuscolo effetto potrebbe dolcemente accelerare la capsula fino allo 0,01% della velocità della luce.
Una volta che la navicella in miniatura abbia raggiunto la velocità di crociera, la vela solare si
staccherebbe o, come ulteriore protezione dai raggi cosmici, si avvilupperebbe intorno alle palline. Per la
maggior parte del tempo non succederebbe granché: i microbi sarebbero dormienti, le palline si
raffredderebbero fino a pochi gradi sopra lo zero assoluto e questa piccola cosina si aggirerebbe per il
vuoto interstellare senza dare fastidio a nessuno. Una volta giunto vicino al sistema planetario target
l’insieme di palline si frantumerebbe, trasformando un proiettile in volo in un pallettone sparpagliato.
Mautner ha calcolato che un granellino di 60 micrometri di diametro potrebbe sopravvivere a una frenata
nell’atmosfera di un pianeta, senza bruciare il proprio carico.
Un’altra strategia aliena potrebbe essere quella di usare, come veicoli per la consegna dei
messaggi, le comete. Una cometa, seguendo una serie di studiate deviazioni gravitazionali, potrebbe
essere fatta volare fuori dal sistema planetario degli alieni in direzione del nostro. Ci sono prove del fatto
che microbi o virus dormienti siano in grado di sopravvivere dentro una cometa per molti milioni di anni;
un tempo abbastanza lungo per attraversare anni luce di spazio con le velocità tipiche dell’eiezione.
Quando una cometa arriva abbastanza vicina al Sole comincia a evaporare, facendo spuntare la
caratteristica coda, mentre i gas, l’acqua e altre particelle microscopiche volano via. Se la cometa fosse
carica di batteri, virus o qualche altro tipo di entità microbiologica artificiale, anche loro volerebbero via,
formando una lunga e diffusa nuvola infettiva. Se la Terra passasse attraverso questa nuvola
acquisterebbe un gran numero di possibili agenti biologici29.
Per quanto l’idea di un “SETI genomico” possa sembrare strana, ha senso dare un’occhiata alla
ricerca di genomi manipolati in modo truffaldino. È proprio quello che fecero Hiromitsu Yokoo e Tairo
Oshima della Kyorin University Hachioji Medical School nel 1979. Cercarono il DNA di X174, un virus
che infetta i batteri noto come fago, per vedere se contenesse qualcosa di sospetto30. La risposta era no,
ma stiamo parlando degli albori della bioinformatica; oggi la sequenziazione dei genomi è una vera e
propria industria e molti organismi, dai microbi agli uomini, hanno il proprio DNA letto e pubblicato su
internet. I tempi sono maturi per una ricerca sistematica di questi genomi che capisca se ci siano
stranezze interessanti. Il sequenziamento viene fatto comunque, pertanto non costa quasi nulla immettere
i dati in un computer alla ricerca di schemi sospetti. A dire il vero, il progetto SETI@home, che ebbe un
successo straordinario, è stato emulato da genome@home, oggi tristemente sospeso. Sarebbe abbastanza
semplice unirli: chi sa cosa potrebbe uscirne? Il progetto potrebbe parafrasare la serie TV X Files ed
essere promosso con l’attraente slogan: “La verità è qui dentro”.
Capitolo 6
Dopo aver eliminato l’impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, deve essere la verità.
Sherlock Holmes1
Dove sono tutti?
Nell’estate del 1950 il fisico italiano Enrico Fermi stava lavorando a Los Alamos, nel New
Mexico, nei laboratori di ricerca dove era stata progettata la bomba durante la Seconda guerra mondiale.
A quel tempo Fermi era una figura leggendaria della fisica teorica perché aveva risolto molti problemi in
meccanica quantistica, fisica delle particelle e astrofisica, e aveva avuto un ruolo fondamentale nel
progetto Manhattan. Era considerato l’archetipo del genio. Un giorno Fermi stava andando a pranzo con
alcuni colleghi, tra cui Edward Teller – spesso chiamato “il padre della bomba H” – e John von Neumann
(che ho menzionato nel capitolo precedente in relazione alle macchine che si autoriproducono), quando
la conversazione passò agli avvistamenti di UFO – o dischi volanti, così come erano stati chiamati dalla
stampa – a quei tempi molto numerosi. Com’è ovvio, questo portò a una vivace discussione sulla
probabilità dell’esistenza di vita extraterrestre e su quella che i dischi volanti fossero in effetti navicelle
spaziali aliene. Nel bel mezzo del dibattito Fermi chiese all’improvviso: «ma dove sono tutti?»
riferendosi, senza dubbio, a questi presunti esseri alieni. Se la galassia brulicasse davvero di vita, spiegò,
la Terra avrebbe dovuto essere stata colonizzata nel lontano passato; gli alieni avrebbero dovuto restare
qui per tutto il tempo e noi ne saremmo stati ben consapevoli.
Il ragionamento di base di Fermi è abbastanza semplice: la vita sulla Terra ha impiegato tre o
quattro miliardi di anni per evolvere al livello dell’intelligenza e della tecnologia. Se la vita fosse iniziata
su un altro pianeta, diciamo il pianeta X, nello stesso momento in cui è iniziata sulla Terra, la probabilità
che la vita su X raggiunga lo stesso livello di tecnologia degli uomini in questo momento o qualche
migliaia di anni prima o dopo, è assai piccola. Consideriamo i molti eventi casuali che si sono verificati
nel corso di miliardi di anni di evoluzione, come l’impatto che 65 milioni di anni fa distrusse i dinosauri.
Quali sono le probabilità che un impatto simile si sia verificato sul pianeta X causando una simile
trasformazione catastrofica, più o meno nello stesso periodo? Irrisorie. Se su X si fossero evolute
l’intelligenza e la tecnologia per via di qualche altro percorso evolutivo, il pianeta potrebbe aver
raggiunto il livello della tecnologia umana con decine o addirittura centinaia di milioni di anni di
anticipo. O ritardo; se la Terra fosse un luogo tipico e ci fossero tantissimi pianeti X là fuori, la vita su
alcuni di questi sarebbe evoluta in tempi più lunghi rispetto a quanto è successo qui. Questi pianeti
raggiungerebbero la tecnologia fra molto tempo. Su altri l’evoluzione di intelligenza e tecnologia sarebbe
avanzata più in fretta, così da aver raggiunto il nostro livello molto tempo fa, magari 100 milioni di anni
fa, se non di più. Aggiungiamo ora il fatto che c’erano pianeti simili alla Terra ben prima che il nostro
sistema solare si formasse: su questi pianeti la vita sarebbe in gran vantaggio rispetto alla Terra.
Mettiamo tutto insieme e la conclusione è chiara: se la vita è diffusa e la Terra è un luogo tipico, ci
dovrebbero essere stati molti pianeti attivi in campo spaziale già molto, molto tempo fa. Perché allora gli
alieni non sono ancora arrivati? Questo, molto in breve, è quello che è diventato noto come il paradosso
di Fermi. Strettamente parlando non è un paradosso in termini filosofici, ma solo una conseguenza
inevitabile di alcune ipotesi abbastanza plausibili. Ma qual è la risposta?
La spiegazione più ovvia dell’assenza degli alieni sulla Terra è che gli alieni non esistono; in altri
termini, siamo soli nell’universo. È presumibile che proprio questa fosse la posizione di Fermi, e che lo
scopo del suo ragionamento fosse deridere le storie sui dischi volanti. Se questa è la risposta giusta, ne
segue che SETI è una perdita di tempo e di denaro; però non dobbiamo essere troppo frettolosi nel trarre
questa conclusione pessimistica. Potrebbero esserci tantissime ragioni per cui esistono civiltà aliene là
fuori ma non qui sulla Terra: un divertente libro di Stephen Webb ne elenca almeno cinquanta a
motivazione della lampante assenza di ET2, dall’ipotesi dello zoo (siamo osservati ma non ci contattano)
all’ipotesi dell’universo parallelo (gli alieni si stanno divertendo troppo a esplorare altri universi per
pensare a noi). Scegliete quella che preferite.
Per fare un esempio esaminiamo il seguente scenario. Immaginiamo che nella Via Lattea ci siano
molte civiltà e che queste, tempo fa, abbiano stabilito un network galattico per lo scambio di
informazioni. Questa è un’idea che risale al 1974, quando l’astronomo Ronald Bracewell, della Stanford
University, immaginò un “club galattico” di civiltà che comunicano tra loro scambiandosi notizie,
informazioni e pettegolezzi, con i dati che rimbalzano di stella in stella come email in un’internet
cosmica3. Il club avrebbe potuto nascere addirittura prima che si formasse il sistema solare quattro
miliardi e mezzo di anni fa (la galassia ha più di dodici miliardi di anni): alcuni membri ne uscirebbero
quando le loro civiltà dovessero decadere o fossero distrutte da una catastrofe, altri entrerebbero a farne
parte non appena raggiunto il livello della tecnologia radio, grazie a cui scoprirebbero che esiste un
network di scambio di informazioni già operativo. Bracewell pensava che l’umanità fosse sul punto di
unirsi a questo club galattico, a titolo di suo membro più recente; passo che ci avrebbe portato incredibili
benefici, ma che sarebbe stato un forte disincentivo nei confronti dei viaggi interstellari. Se le
motivazioni per esplorare il cosmo sono la curiosità e la raccolta di informazioni, sarebbe molto più
facile accedere al GWW (Galactic Wide Web) e ottenere informazioni gratis. Dopo tutto è molto più
facile e più economico spedire nello spazio interstellare onde radio piuttosto che grandi macchine di
metallo. Se c’è già qualcuno sul pianeta di destinazione perché darci la pena di fare il viaggio? Se lo
scopo dei viaggi spaziali è l’esplorazione, gli alieni possono benissimo spedirci i contenuti del loro
ultimo DVD. Se invece è la conquista, il fatto che sul pianeta target si sia stabilita una civiltà molto più
progredita della nostra sarebbe un deterrente piuttosto forte. Dopo tutto avrebbe molto più senso, per la
nuova civiltà, starsene lì dov’è e limitarsi a entrare a far parte del club galattico. Se nessuno si mette in
viaggio, d’altronde, non c’è alcun motivo per cui gli alieni dovrebbero essere qui, o avrebbero mai
dovuto passare di qui: non significa che là fuori non ci sia nessuno, ma soltanto che i viaggi spaziali non
hanno troppo fascino. Credo che questo ragionamento abbia qualche punto di forza, ma è convincente
soltanto se c’è un gran numero di pianeti con comunità tecnologiche autoctone. Se su altri pianeti ci sono
innumerevoli terre libere e incontaminate, una civiltà potrebbe spostarsi per occuparle, continuando a far
parte del club. È inoltre importante fare attenzione, come sempre, all’antropocentrismo: gli uomini hanno
sempre avuto una gran voglia di emigrare a causa della curiosità, del desiderio di conquista o per ragioni
economiche; potrebbero però esserci molti motivi per cui una civiltà aliena potrebbe volersi espandere
nello spazio, molti dei quali per noi privi di significato.
Un aspetto non troppo rilevante è quello delle distanze enormi tra le stelle: è vero che anche con
una navicella spaziale molto veloce occorrerebbe un tempo lungo per gli standard umani prima di riuscire
a portare a termine un viaggio da un sistema stellare a un altro. D’altro canto, a un decimo della velocità
della luce ci vuole solo un milione di anni perché una navicella attraversi la galassia; se per esempio un
milione di anni fa ci fosse stata da qualche parte nella galassia una civiltà aliena, un viaggio lungo un
milione di anni non sarebbe un’ipotesi tanto assurda. È possibile, certo, che la civiltà non abbia fatto il
viaggio tutto in una volta, ma che abbia viaggiato di pianeta in pianeta, forse in grandi arche spaziali che
impiegano molte generazioni per completare il viaggio, e che i passeggeri delle arche si siano stabiliti su
ciascun pianeta visitato. Prima o poi un insediamento sarebbe maturato e i coloni si sarebbero avventurati
fino al pianeta adatto più vicino e così via. Questa colonizzazione un po’ strisciante è più lenta di una
spedizione che ha come meta un ben preciso pianeta di destinazione, ma non lo è di molto se
consideriamo una scala temporale astronomica: se una colonia impiegasse mille anni per svilupparsi e,
diciamo, i pianeti adatti fossero dislocati in un raggio di dieci anni luce, il tempo accumulato per le tappe
sui pianeti aggiungerebbe soltanto circa tre milioni di anni al tempo totale necessario per raggiungere la
Terra da una parte interna della galassia, là dove si trovano le stelle più vecchie e dove forse potrebbero
trovarsi le civiltà più progredite. Tutto considerato, per arrivare fino a qui ci vogliono meno di quattro
milioni di anni. Certo, non dovremmo aspettarci che gli alieni si precipitino sulla Terra, dal momento che
c’è una ricca scelta di altri pianeti abitabili lungo la strada; possiamo però immaginare una civiltà “seme”
che allarga i suoi tentacoli colonizzatori in tutte le direzioni promettenti, forse fino a occupare, alla fine,
tutta la galassia. Un simile processo di diffusione richiederebbe più tempo, ma di nuovo sarebbe un
tempo pari a soltanto una piccola frazione dell’età della galassia. È ovvio che non tutte le civiltà in grado
di viaggiare nello spazio sceglierebbero di colonizzare la galassia con questa grandiosa tecnica
“imperiale”; e sarebbe meglio che non lo facessero, oppure ci sarebbero scontri continui. È sufficiente
una comunità del genere da qualche parte nella galassia, tuttavia, perché ci si trovi davanti
all’imbarazzante paradosso di Fermi.
Quando Fermi formulò la versione originale del suo enigma aveva in mente alieni in carne e ossa
che si recavano sulla Terra; lo stesso ragionamento, però, è applicabile ad artefatti alieni, soprattutto se in
grado di moltiplicarsi e di diffondersi come le macchine di von Neumann. Rispetto a colonizzatori
biologici, quando si tratta di esplorazione e colonizzazione dello spazio, le macchine che si
autoriproducono offrono molti vantaggi in termini di costo, durata e possibilità di sopravvivenza. Se le
civiltà extraterrestri fossero comuni la galassia dovrebbe già essere infestata di macchine di von
Neumann, perché potrebbero colonizzare l’intera Via Lattea in un tempo molto inferiore all’età del
sistema solare. Dal momento che non è (ancora) stata trovata alcuna prova dell’esistenza di macchine di
von Neumann nel nostro vicinato astronomico, la loro assenza potrebbe essere considerata una prova
contro l’ipotesi che le civiltà extraterrestri siano comuni.
Il fisico Frank Tipler ha sostenuto con forza la tesi secondo cui l’assenza apparente di macchine
di von Neumann nel sistema solare sia quasi una prova che siamo soli nell’universo. Ha stimato che ci
vorrebbero soltanto 300 milioni di anni perché la galassia venisse inondata di questi apparecchi, e
pertanto c’è stato molto tempo a disposizione affinché potesse compiersi una presa di potere galattica.
Tipler pensa che sonde come quelle di von Neumann rappresentino una forma molto efficace di
migrazione interstellare, sia dal punto di vista logistico sia da quello economico, e che di conseguenza la
loro mancanza rappresenti una versione più potente del paradosso di Fermi. È facile pensare a motivi per
cui degli esseri viventi potrebbero evitare i viaggi interstellari (sono abbastanza lunghi, dopo tutto), ma è
meno facile capire perché non dovrebbero farli delle sonde di von Neumann aliene.
Il ragionamento di Tipler funziona soltanto se si accetta la sua premessa più importante, ossia che
non ci sia nessuna macchina di von Neumann nel sistema solare. Possiamo esserne certi? Di certo
possiamo escludere lo scenario in cui macchine di von Neumann aliene si moltiplicano senza sosta finché
non infestano tutto il sistema solare. Ma nel caso di una strategia meno aggressiva la situazione non è così
ben definita. Come ho spiegato nel capitolo precedente, sono innumerevoli i luoghi in cui una piccola
macchina inerte potrebbe sonnecchiare a nostra insaputa. È difficile però capire lo scopo di qualcosa del
genere, se non lo stabilire un contatto con forme di vita intelligente autoctone; e in tal caso, perché questo
strano silenzio?
E dove sono tutti i turisti temporali?
C’è una curiosa versione del paradosso di Fermi, esplicitata nella sua forma più famosa nel 1992
dalla domanda di Stephen Hawking: «Dove sono tutti i turisti temporali che vengono dal futuro?»4.
Hawking concluse che, data la loro assenza, il viaggio nel tempo dal futuro al passato non fosse
possibile. Bisogna ammettere che il viaggio nel tempo è al confine tra scienza e fantascienza: un sogno
allettante sul quale il meglio che si possa dire è che ancora nessuno ha dimostrato che sia impossibile. La
nostra migliore comprensione della natura del tempo deriva dalle teoria della relatività generale di
Einstein, che non sembra consentire viaggi avanti e indietro nel tempo. A dire il vero, il viaggio nel
futuro è qualcosa di già assodato: va sotto il nome di dilatazione del tempo ed è ben dimostrato da orologi
molto precisi. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno per arrivare prima nel futuro è muoverci: muoverci il più
velocemente possibile. Al 99% della velocità della luce, per esempio, se partite ora potreste raggiungere
la Terra del 2100 in meno di 13 anni. Dato che i nostri razzi più veloci raggiungono lo 0,002% della
velocità della luce, però, il viaggio nel tempo per gli uomini al momento è limitato a quantità di tempo
ridicole (microsecondi).
Tornare indietro nel tempo è una sfida molto più difficile. Anche se non è davvero proibito dalla
teoria della relatività generale, il viaggio indietro nel tempo richiede tecnologie superesotiche come i
ponti di Einstein-Rosen. Ricordano i buchi neri, dal momento che entrambi usano la gravità per curvare il
tempo; ma mentre l’ingresso in un buco nero è un viaggio a senso unico verso il nulla, un ponte di
Einstein-Rosen così come ha un’entrata ha anche un’uscita, il che consente al viaggiatore di cascarci
attraverso e di uscire da qualche altra parte. Per quanto riguarda i fatti: mentre i buchi neri esistono
davvero, non c’è alcuna prova dell’esistenza dei ponti di Einstein-Rosen5.
Trasformare un ponte di Einstein-Rosen in una macchina del tempo richiede la creazione di una
differenza temporale tra i suoi due estremi, il che non è esattamente una cosa semplice da fare. Quel che
succede è che il tempo richiesto per portare a termine la creazione della differenza temporale è sempre
maggiore della durata della differenza stessa: per esempio, ci vorrebbero più di cento anni per creare una
macchina del tempo in grado di arrivare nel passato fino a cento anni prima. Di conseguenza, è ovvio che
non sia possibile usare un ponte di Einstein Rosen per visitare un tempo precedente alla data di
completamento della macchina stessa. Sotto questo aspetto, le macchine del tempo reali sono diverse da
quelle descritte nei romanzi di H.G. Wells. L’assenza, ad oggi, di turisti temporali umani provenienti dal
futuro, quindi, non è forse così sorprendente. Ma cosa succederebbe se ci fossero alieni dotati di una
super tecnologia che consenta la realizzazione di macchine del tempo? I loro discendenti potrebbero farci
visita dal futuro, oppure potrebbero prestare le macchine del tempo ai terrestri del futuro e permettere
loro di studiare la storia “dal vero”. L’assenza di turisti temporali ci dice che non esistono alieni con una
tale tecnologia, oppure che dopo tutto viaggiare indietro nel tempo è impossibile, o ancora che è possibile
in teoria ma che è anche pericoloso, oppure proibitivo per i costi? Tutto ciò che possiamo concludere con
certezza è che la possibilità del viaggio nel tempo non fa altro che peggiorare il paradosso di Fermi, dato
che apre la strada alla visita (o all’invasione) della Terra da parte non soltanto degli alieni a noi
contemporanei, ma anche ai loro (e ai nostri) discendenti. E con il viaggio nel tempo, il lungo viaggio
interstellare è irrilevante: ET potrebbe raggiungere la Terra prima di essere partito! I lettori interessati a
imparare di più sul viaggio nel tempo possono rivolgersi al mio piccolo libro Come costruire una
macchina del tempo6. Per quanto l’argomento possa essere affascinante, non lo considererò oltre in
questo libro; fare congetture sui viaggi nello spazio è già abbastanza difficile.
Un’impronta cosmica
Quando prendono in considerazione le prospettive dei viaggi nello spazio compiuti da uomini, i
futurologi si dividono in due fazioni: una prevede un futuro roseo in cui nuovi sistemi di propulsione ed
economie di scala rinvigoriscono la nostra spinta verso lo spazio. Si costruiranno colonie sulla Luna, poi
su Marte, forse su qualche asteroide, e con esse sorgeranno nuove industrie sotto la spinta degli interessi
commerciali7. Nei secoli a venire gli uomini si sparpaglieranno per tutto il sistema solare e oltre,
compiendo coscienziosi il proprio destino cosmico.
I pessimisti non prevedono nulla di tutto questo: vedono l’esplorazione spaziale come un
diversivo idiosincratico ed effimero tipico delle politiche della Guerra fredda e della spinta a raggiungere
“la frontiera”. Con i proibitivi costi di lancio e la trascurabilità dei ritorni commerciali dei voli spaziali, è
inevitabile che i contribuenti si stancheranno di pagare i conti e l’intero programma spaziale si restringerà
fino a esaurirsi del tutto. Non importa che il ritorno scientifico delle esplorazioni spaziali sia immenso: è
un segreto di Pulcinella il fatto che il programma spaziale americano sarebbe drasticamente ridotto se
non ci fossero, a spingerlo, vantaggi militari sostanziali. È possibile sperare, e addirittura aspettarsi, tra
un secolo o due, un “nuovo ordine mondiale” che abolirà le minacce militari provenienti dallo spazio: se
succederà, le esplorazioni spaziali con astronauti in carne e ossa saranno la vittima inevitabile dei
vantaggi portati dalla pace. Ci sono già evidenti segni del calo di interesse nel blocco dei budget della
NASA e delle altre agenzie spaziali. Non è difficile convincersi dal fatto che una presenza umana nello
spazio su larga scala non andrà molto oltre i prossimi dieci anni.
Continuo a esitare nel capire quale tra i due scenari – ottimista o pessimista – sia quello in cui
credo. Entrambi sono plausibili. Nei termini del paradosso di Fermi, però, la storia si riduce a questo:
Fermi visse nei primordi dell’era spaziale, quando era naturale credere che l’esplorazione dello spazio
sarebbe stata un’estensione ininterrotta delle esplorazioni terrestri e sarebbe cresciuta esponenzialmente
insieme alla scienza, alla tecnologia e all’economia globale. Fermi e i suoi colleghi, dopo tutto, avevano
appena finito di costruire la prima bomba atomica: sembrava di essere a pochi passi dai razzi ad
alimentazione nucleare8; l’universo era governato da Flash Gordon, l’eroe dei fumetti. Oggi, quasi
cinquant’anni dopo l’ultimo allunaggio, i viaggi spaziali non sembrano più così inevitabili. Quando
riflettiamo sulle civiltà aliene è affrettato concludere, sulla base delle poche decadi dei nostri programmi
spaziali, che per una civiltà più avanzata sarebbe indispensabile andare alla scoperta degli spazi siderali;
è altrettanto imprudente, tuttavia, supporre che nessuna civiltà aliena si sia mai espansa nella galassia.
Ricordiamoci che quando riflettiamo sul potenziale di una tecnologia aliena abbiamo bisogno di adottare
una prospettiva che abbracci un ventaglio di tempo ben più ampio di quello della storia umana.
Per cinquant’anni SETI è stato motivato dalla speranza che civiltà extraterrestri tecnologicamente
progredite si sarebbero manifestate tramite emissione di onde radio. Lo strano silenzio che ci circonda ci
spinge però a rivalutare questa speranza, e considerare altri modi in cui un’intelligenza aliena possa
lasciare tracce identificabili. Come ben sa ogni scienziato forense, un comportamento intelligente può
tradirsi in modi molto indiretti e sottili, anche quando il soggetto compie uno sforzo intenzionale per
nascondere le proprie attività. L’universo è un’arena ricca e complessa in cui i segni di un’intelligenza
aliena potrebbero essere sepolti sotto un’accozzaglia di dati provenienti da processi naturali, e
dissotterrati soltanto dopo essere stati passati al vaglio di un ingegnoso setaccio. Anche se non troveremo
mai un segnale intenzionale o un segnalatore di una civiltà aliena, possiamo sempre accumulare
abbastanza prove circostanziali per convincerci che non siamo soli nell’universo.
Per poter andare avanti è essenziale escogitare strategie che vadano molto oltre il tradizionale
SETI. Anche i ricercatori di SETI sono d’accordo: Seth Shostak ha ammesso che «i nostri esperimenti
stanno ancora cercando il tipo di extraterrestre che sarebbe piaciuto a Percival Lowell»9. Un’ampia
ricerca di tecnologie aliene dovrebbe tenere conto di altre cose oltre all’uso dei radiotelescopi, e
preferibilmente abbracciare tutta la panoplia della scienza moderna, dalla fisica delle particelle alla
microbiologia, fino all’astrofisica. La tecnologia aliena, nel suo senso più ampio, potrebbe tradirsi
attraverso una qualche anomalia, qualcosa che “stoni”, perché fuori posto o fuori contesto. Potrebbe
essere qualcosa di piccolo, magari soltanto una perturbazione di poco conto, che passi facilmente
inosservata ma che porti con sé il segno distintivo dell’artificialità. Dato che non abbiamo idea di cosa
potrebbe essere, è meglio mantenersi il più possibile fantasiosi e di larghe vedute.
Anche se non sappiamo cosa cercare possiamo provare a fare ipotesi plausibili su dove potremmo
trovare un’impronta di una tecnologia aliena. Fermi escluse l’esistenza degli alieni sulla base di un
semplice modello di migrazione in cui gli alieni lasciano il loro pianeta natale e si diffondono in modo
uniforme nella galassia. Un’immagine più realistica di come potrebbe svolgersi l’emigrazione
interstellare è quella in cui qua e là nella galassia nuove civiltà tecnologiche emergono a caso: alcune
declinano, altre perdurano e altre ancora si espandono, con un processo che nel suo insieme va avanti per
miliardi di anni. Quale schema emergerebbe? Quanto ci vorrebbe prima che la galassia si riempisse di
emigranti? Ogni quanto le civiltà vicine si fonderebbero o scontrerebbero? Fermi basò la versione
originale del proprio paradosso su un’analogia con le migrazioni umane: gli uomini moderni lasciarono
l’Africa, terra che aveva dato loro i natali, un po’ più di 100.000 anni fa, e a gran velocità si diffusero nel
pianeta raggiungendo zone lontanissime come la Tasmania, la Terra del Fuoco, le isole del Pacifico e le
sterili distese artiche. La prima tappa fu la colonizzazione di un territorio fertile, seguita da un periodo di
consolidazione, dopo il quale la colonia proseguì con una seconda migrazione alla ricerca di nuove terre
non occupate. Passo dopo passo questa dispersione andò avanti finché non vennero abitati tutti i luoghi
accessibili della Terra. Dato che i vagabondi che riuscirono nel loro intento sopravvissero per diffondere
i propri geni, l’evoluzione darwiniana fissò il desiderio di viaggiare nel proprio corredo genetico, ed è per
questo che gli esseri umani ancora oggi sentono la spinta ad arrampicarsi sulla prossima montagna, a
volare fin sulla Luna o a creare delle colonie su Marte (se non altro, alcuni di noi la sentono), nonostante
per la stragrande maggioranza delle persone non ci sia più alcun bisogno di continuare a spostarsi per
poter sopravvivere. Molti scrittori di fantascienza hanno estrapolato questo messaggio dalla storia, e
ritratto i nostri discendenti nell’atto di raggiungere altre stelle o fondare un potente impero, spinti verso
gli estremi più remoti della galassia da questi antichi geni del desiderio di viaggiare e dal loro tacito
suggerimento: “L’erba del vicino è sempre più verde”.
L’esperienza umana, però, potrebbe essere di importanza marginale per una migrazione galattica
aliena. Le motivazioni di alieni intelligenti ci sono del tutto oscure: qualsiasi cosa possa indurli a
diffondersi altrove, è improbabile che sia il prodotto di spinte primitive che danno ben poche garanzie di
sopravvivenza a lungo termine (i relativi geni, credo, sarebbero stati eliminati dal corredo genetico molto
tempo prima). Quando si parla di intelligenza di una macchina, poi, brancoliamo nel buio: chi può
indovinare le strategie programmate in sonde di von Neumann da una mente aliena, o come queste
strategie evolverebbero se la macchina autoreplicante possedesse un po’ di autonomia? Tutto questo
rende difficile capire quali potrebbero essere le circostanze in cui una civiltà aliena si diffonde nello
spazio e, se lo facesse, in quale modo, e quanto lontano dal suo luogo di origine. Anche se la diaspora non
è guidata da forti spinte biologiche (“Dobbiamo andarcene da qui”) potrebbe pur sempre essere favorita
sul piano razionale (“Un insediamento sul pianeta X sarebbe una bella cosa per la nostra società”). Per
creare un modello di migrazione aliena dobbiamo partire da qualche parte. Un buon posto da cui iniziare
è la seguente massima: se qualcosa è buono, quel qualcosa in quantità maggiori è anche meglio. Se una
civiltà crea qualcosa di valore sul proprio pianeta natale – una cultura, un trionfo della tecnologia, una
grande visione (non importa cosa con esattezza) – è ragionevole che la comunità si comporti in modo tale
da riprodurre altrove questo qualcosa. E con tale modesto investimento dal lato delle ipotesi possiamo
dedurre un’incredibile quantità di cose, usando i modelli matematici.
Cavalcare l’onda
Pochi sospetterebbero che un’umile caffettiera possa aver ispirato un’intera branca della
matematica: la teoria della percolazione – così chiamata proprio in analogia con il modo in cui l’acqua si
sposta attraverso i chicchi di caffè – è invece stata applicata a problemi concreti in campi molto diversi
tra loro come l’idrologia, l’epidemiologia e la scienza dei materiali. È stata applicata anche alle
migrazioni aliene. Lo scienziato aerospaziale Geoffrey Landis ha prodotto uno dei primi modelli
quantitativi di percolazione per predire come una civiltà aliena potrebbe diffondersi nella galassia10.
Landis fa l’ipotesi ragionevole che il viaggio interstellare (di organismi intelligenti, robot o cyborg) sia
difficile e costoso, e che il numero di pianeti non occupati adatti alla colonizzazione sia molto piccolo.
Intelligentemente, rifiuta l’idea di un impero galattico dotato di controllo centrale: ci vogliono 100.000
anni perché un segnale attraversi la galassia, pertanto il concetto di cultura galattica unitaria, per quanto
popolare tra gli appassionati di fantascienza, è ridicolo. Uno schema più realistico è un patchwork di
diverse culture locali che emergono a mano a mano che la colonizzazione evolve; alcune colonie si
accontenteranno di consolidarsi, altre sceglieranno di espandersi in fretta; ognuna può avere i suoi
programmi e le sue priorità distintive che noi ignoriamo del tutto. Landis ipotizza, inoltre, che i violenti
scontri e le invasioni tipo Guerre stellari siano davvero improbabili. Questa ipotesi, com’è ovvio, è
confutabile: una comunità superiore dal punto di vista tecnologico può non avere scrupoli a scacciarne
una inferiore, proprio come gli europei scacciarono dalle loro terre i nativi americani e gli australiani.
Eliminati i Gengis Kahn interstellari (oppure il paradosso di Fermi torna a farsi sentire), dai calcoli di
Landis emergono alcuni risultati interessanti: lo schema di dispersione dipende sensibilmente dalla forza
dello zelo espansionistico. Se la motivazione scende oltre un certo valore critico, la nuova colonizzazione
comincia a perdere colpi fino a esaurirsi; in questo caso, la configurazione finale consiste di compatti
gruppi di colonie circondati da un grande territorio abbandonato. Oltre la soglia critica questo schema
che ricorda una pista per le biglie lascia il posto a una demografia più pervasiva: l’espansione si blocca
soltanto quando la galassia si satura di coloni; ma anche in questo caso alcuni piccoli appezzamenti di
terreno restano incontaminati. Raggiunto il valore critico, lo stato finale assume una cosiddetta struttura
frattale, con regioni colonizzate e non che appaiono su ogni scala dimensionale.
Un aspetto irrealistico dell’analisi di Landis sono gli elementi di competitività. Robin Hanson, di
recente, ha rimediato a questo difetto adattando un modello economico al problema delle dinamiche di
una colonizzazione galattica. La base del modello è che la competitività, in modo inevitabile, plasmi lo
schema della crescita. Hanson fa notare che qualunque siano i motivi che spingono una comunità a
espandersi, e quali che siano i parametri (tipo la velocità a cui si muove, la lunghezza di soggiorno nelle
nuove colonie, l’ordine delle priorità e i livelli di incentivo per andare avanti), ci sarà sempre un’onda
migratoria più veloce. Dato un insieme abbastanza ricco di differenti culture in competizione per verdi
pascoli planetari, il fronte di salita dell’onda sarà determinato solo e soltanto dagli effetti della selezione
per la competizione. L’onda si diffonderà dalla comunità sorgente per invadere i territori vicini (che
possono essere già occupati da altre civiltà meno progredite o con mire meno espansionistiche) e
continuerà a muoversi; ossia, gli individui o le comunità possono restare indietro, mentre onde
secondarie, più lente, possono seguire la prima proprio mentre la frontiera si espande rapidamente. In
questo senso l’onda migratoria è più simile all’onda di un fenomeno come per esempio la moda, piuttosto
che a un fuggi fuggi generale: se una comunità extraterrestre sceglie di imbarcarsi su un simile progetto
di espansione, e ha la tecnologia e le risorse per farlo, è difficile capire cosa potrebbe fermarla, tolto il
caso in cui i coloni incappino in un’altra comunità che sta facendo la stessa cosa, dal momento che
(presumibilmente) non c’è nessuna legge che valga in tutta la galassia. L’onda più veloce è pur sempre
limitata dalla velocità della luce, com’è ovvio, ma non c’è alcun impedimento scientifico ad avvicinarsi
quanto si vuole a questa velocità limite (mentre questo non vale per gli ostacoli ingegneristici di ordine
pratico).
Hanson ha scoperto, grazie al suo modello matematico, che la vita di frontiera è difficile, così
come di certo succedeva nel selvaggio West americano. La rapida crescita nelle oasi colonizzate si
accompagna a una rapida morte tra le oasi stesse: in media, soltanto un seme spedito da un’oasi
sopravvive per creare l’oasi successiva. I “semi” in questo caso potrebbero essere, per esempio, arche
spaziali con coloni vivi, macchine di von Neumann o piccole sonde con cellule che necessitano di essere
incubate all’arrivo. Qualunque cosa siano, Hanson trae una conclusione radicale: l’unica cosa che conta è
la capacità di sopravvivere. «Migliaia di miliardi di semi valgono quanto un milione di semi due volte più
penetranti» conclude Hanson11. Ci sarà una compensazione tra velocità e capacità di sopravvivenza di un
seme; un seme molto veloce, per esempio, può sopportare impatti più devastanti con le polveri stellari
rispetto a un avversario più lento. Cosa curiosa, le colonie con alti tassi di crescita crescono meglio se
aspettano più a lungo prima di lanciare nuovi semi. In colonie economicamente stagnanti, per contro, ci
sarà più pressione a muoversi e a “cavalcare l’onda”, per andare dove ci sono i raccolti più ricchi
(qualsiasi cosa questi raccolti possano essere; la bellezza del modello di Hanson è che ciò non importa).
Ci possono essere quindi meno ritardatari lasciati indietro dall’onda di quelli che potremmo immaginare.
Come risultato di questa corsa all’oro interstellare alcune oasi potenziali saranno evitate; anche in questo
caso, in numero abbastanza maggiore rispetto a quanto ci aspetteremmo in analogia con l’esperienza
umana di colonizzazione terrestre, ma sempre in conformità con l’analisi di Landis. Il nostro sistema
solare potrebbe trovarsi in una di queste oasi lasciate indietro, il che fornisce un’altra possibile soluzione
al paradosso di Fermi.
Se i migranti alieni fossero organismi biologici anziché macchine, potrebbe esserci un’altra
ragione, più specifica, per cui il nostro pianeta è stato evitato: la Terra ha ospitato la vita sin dai primordi
della sua storia, pertanto c’è un’alta probabilità che, se ET è passato di qui, il nostro pianeta stesse già
brulicando di microorganismi, e magari anche di macroorganismi. Nella fantascienza, quando gli umani
scendono dall’astronave e mettono piede su un pianeta verdeggiante, ne prendono semplicemente
possesso, per risiedervi come se fosse un duplicato della Terra; ma questo è ridicolo. Le probabilità che
una biologia aliena corrisponda a quella terrestre sono davvero bassissime: anche se il DNA è l’unica
molecola genetica affidabile, non c’è alcun motivo per cui gli stessi amminoacidi in combinazioni simili
dovrebbero essere usati come enzimi da tutte le forme di vita. Le forme di vita aliene e terrestri non
sarebbero compatibili e gli alieni non potrebbero mangiare le nostre piante e i nostri animali (con tanti
saluti ai romanzi di fantascienza di bassa lega in cui gli alieni ci vogliono come fonte di cibo). Viceversa,
è improbabile che gli alieni soccombano ai germi terrestri (come succede nel romanzo La guerra dei
mondi di H.G. Wells): anziché offrire un incentivo all’invasione la biosfera potrebbe rappresentare un
fastidio per gli alieni, fatta forse eccezione per l’ossigeno rilasciato nell’atmosfera. Una colonizzazione
della Terra, per avere successo, dovrebbe probabilmente comportare la costruzione di habitat artificiali
enormi e costosi, oppure l’eliminazione totale della biosfera indigena e la sua sostituzione con una
biosfera aliena; terraformare la Terra, per così dire. Contrariamente al folclore, quindi, la ricca e ben
radicata biologia del nostro pianeta potrebbe proprio essere la spiegazione del perché ET non è qui12.
Scenari meno appetitosi mancano del tutto dai calcoli di Hanson: abbiamo invece, per esempio,
coloni non cooperativi esiliati a forza in badlands galattiche, o espulsi da una colonia contro la propria
volontà (un equivalente spaziale del tuffo dalla passerella dell’epoca dei pirati). Questi reietti potrebbero
vagare per la galassia come “pirati” oppure andare a imboscarsi, senza accorgersene, nelle zone
astronomiche più desolate. Ancora peggio, potrebbero mutare ed evolvere in killer involontari che
scorrazzano per la galassia in preda a una furia omicida, devastando qualsiasi cosa (entità note agli
appassionati di fantascienza come berserker). Applicare la teoria dei giochi a questa competizione
buono-contro-cattivo in un contesto galattico potrebbe apportare interessanti variazioni ai risultati
ottenuti applicando solo la teoria delle percolazioni.
L’onda è passata di qui?
Lasciate che mi concentri sullo scenario X: l’assenza anomala di qualcosa. Che ne dite
dell’ipotesi seguente? Gli alieni molto tempo fa passarono dal nostro lato della galassia per raccogliere
dalle comete acqua e materia organica. È una strategia abbastanza plausibile, che in effetti è stata presa in
considerazione dai nostri futurologi spaziali. L’acqua di una cometa può essere sottoposta a elettrolisi e
l’idrogeno usato per un reattore nucleare. Per di più le comete sono ricche di deuterio (idrogeno pesante),
un combustibile particolarmente adatto per la fusione nucleare. Gli idrocarburi che fanno parte dello
“sporco” delle palle di neve sporca, come spesso sono descritte le comete, possono essere usati per
produrre una moltitudine di materiali sintetici, oltre che come fonte di cibo. Si crede che la maggior parte
delle comete abbia origine nella cosiddetta nube di Oort (da Jan Oort, l’astronomo che proposte questa
idea), che consta di migliaia di miliardi di piccoli corpi ghiacciati situati a circa un anno luce dal nostro
Sole. È probabile che altre stelle abbiano, a distanze simili, la propria nuvola di comete. Dato che queste
comete “dormienti”, situate in zone così remote, sono legate debolmente alla propria stella, sarebbero
una sorgente ideale di materie prime per i viaggi interstellari, giacché non nutrirebbero il bisogno che ha
una navicella di entrare nella profonda buca gravitazionale della stella per poi doverne uscire.
Di tanto in tanto un disturbo gravitazionale manda una delle comete della nube di Oort in
direzione del Sole lungo una traiettoria ellittica allungata, e di conseguenza la cometa si infiamma nel
cielo notturno in quel modo spettacolare che ci è familiare. C’è però anche una buona probabilità che il
disturbo gravitazionale spinga la cometa nell’altra direzione, alimentando il suo moto verso lo spazio
interstellare. Se il sistema solare è tipico, e se anche le altre stelle hanno nubi di comete, le comete spinte
fuori dai sistemi stellari dovrebbero talvolta venire dalle nostre parti ed entrare nel sistema solare. Se una
cometa extrasolare ci facesse visita, la vedremmo viaggiare lungo un’orbita iperbolica anziché ellittica,
ossia si muoverebbe troppo in fretta per provenire dalla nube di Oort. Finora non abbiamo mai visto una
cometa simile, il che ci lascia un po’ perplessi. Forse per qualche motivo le nostre stelle più vicine sono a
corto di comete; le ha rubate tutte ET? Se future ricerche astronomiche riveleranno una carenza
sistematica di comete in alcuni sistemi stellari ma non in altri, questo potrebbe suggerire che ci sia stata
una raccolta di comete. Allo stesso modo, il ritrovamento di una popolazione di comete molto carenti in
deuterio (lo possiamo determinare dal loro spettro) potrebbe indicare che sono state oggetto di scavi per
ottenere combustibile nucleare.
Una tecnologia aliena sarebbe in grado di requisire interi pianeti e farli a pezzi per estrarne le
materie prime? C’è una grandissima varietà di masse: dalle comete ai pianetini ghiacciati, dai pianeti
nani come Plutone e i satelliti come Titano, ai pianeti terrestri e giganti. Il fisico e futurologo di Princeton
Freeman Dyson ha formulato varie ipotesi su questa possibilità con le sue sfere di Dyson (ritornerò su
questo tra poco). Come si fa a pezzi un pianeta? Non è di certo cosa facile. L’energia totale necessaria per
ridurre la Terra a brandelli, per esempio, equivale alla potenza totale emessa dal Sole per diversi giorni.
Sbatterci conto un altro pianeta non funzionerebbe: a dire il vero, è proprio quello che è successo quando
la proto-Terra fu colpita da un corpo delle dimensioni di Marte, circa quattro miliardi e mezzo di anni fa:
lo strato più esterno fu strappato via (e diventò la Luna), ma il resto dei materiali si unì a formare un
pianeta più grande. Una bella idea per smontare i pianeti venne avanzata dallo scrittore Greg Bear nel suo
apocalittico romanzo di fantascienza L’ultimatum17. Bear racconta la storia di una civiltà aliena che
rilascia macchine di von Neumann, le quali vagabondano per la galassia facendo a pezzi i pianeti. Il
trucco intelligente che usano questi ladri senz’anima è di calare sul pianeta in questione un’enorme palla
di neutronio (un’ipotetica palla di neutroni di densità nucleare) e, a seguire, una massa equivalente di
antineutronio (la sua controparte di antimateria). Formata una spirale, le due palle scendono verso il
nucleo e lì si annichilano a vicenda, rilasciando abbastanza energia per distruggere il pianeta e scagliare
nello spazio i suoi sventurati abitanti.
Tutto questo mi porta a una vecchia storiella che girava nell’era spaziale: la fascia degli asteroidi
tra Marte e Giove potrebbe essere il residuo di un pianeta esploso. È vero che c’è un curioso “buco”
proprio là dove potrebbe esserci stato un pianeta, ma la massa totale degli asteroidi non è sufficiente per
formarne uno intero. La spiegazione convenzionale è che la maggior parte dei detriti, in questa regione
del sistema solare, è stata spazzata via dalla potente spinta gravitazionale di Giove, e ciò ha impedito la
formazione di un pianeta; potremmo però immaginare che un’antica super tecnologia abbia fatto
esplodere il pianeta, abbia preso ciò che le serviva e si sia spostata, lasciando che le macerie formassero
la fascia degli asteroidi.
Anziché darsi la pena di fare a pezzi pianeti già formati, degli alieni rapaci potrebbero trovare più
semplice intervenire prima che i pianeti si aggreghino nelle fasi iniziali e portarsi via tutte le cose utili
lasciando là i rifiuti. Potremmo ottenere le prove di una raccolta selettiva di questo tipo dalla scoperta di
sistemi planetari con una composizione fisica e/o chimica anomala. Ad oggi gli astronomi non hanno una
comprensione sufficiente del processo di formazione dei pianeti per identificare tali anomalie, ma con il
numero crescente di pianeti extrasolari scoperti si dovrebbe presto rimediare a questo problema. Si
conosce un certo numero di sistemi stellari in cui i processi di formazione planetaria stanno avendo luogo
proprio adesso; sarebbero un buon posto in cui cercare segni di astroingegneria aliena su vasta scala.
In linea di principio, manipolando la natura caotica di alcune orbite planetarie, una super
tecnologia sarebbe in grado di portarsi via un intero pianeta, intatto. Cominciando con un’esplosione
nucleare che deflette un piccolo asteroide e lo fa collidere con un corpo più grande, una serie di manovre
ben controllate potrebbe avere un effetto gravitazionale cumulativo e amplificatore su un periodo esteso:
alla fine dei giochi un’orbita planetaria potrebbe essere abbastanza destabilizzata per mandare il pianeta
fuori dal sistema planetario. Successivi incontri con altre stelle favorirebbero effetti assimilabili a quelli
di una fionda gravitazionale, e ne farebbero aumentare la velocità; questo pianeta dirottato potrebbe
essere usato come una maneggevole arca spaziale per attraversare la galassia, idea già prevista da Olaf
Stapledon nel suo classico della fantascienza del 1937 Il costruttore di stelle18.
Oggetti esotici mancanti
I pianeti potrebbero non essere l’unica cosa che manca: i fisici teorici sono maestri nel prevedere
cose che potrebbero esistere ma che non sembrano esserci. Oggetti subatomici esotici dai nomi bizzarri
come neutralini, materia oscura e assioni abbelliscono il lessico dei teorici, ma ancora non si sono
palesati in laboratorio. Dall’altro lato dello spettro della massa ci sono i mini buchi neri, le stelle di quark
e la texture cosmica, per nominarne solo alcuni. Se li è portati via ET? È ovvio che bisogna usare la
massima attenzione prima di dare la colpa a un alieno. Ricordiamoci la regola di Bayes: l’ipotesi che gli
alieni siano la spiegazione corretta per l’assenza anomala di qualcosa è valida quanto la probabilità a
priori che, in primo luogo, una super civiltà aliena esista; e questa probabilità può essere molto bassa. Per
intenderci, potrebbe essere molto più alta la probabilità a priori che la teoria del professor A su quella
certa particella, o che la previsione dell’esistenza di quell’altro oggetto astronomico fatta dal professor B,
siano semplicemente sbagliate.
Alcune delle particelle “mancanti” potrebbero ancora fare capolino e, per esempio, costituire la
famosa materia oscura che pervade il cosmo ma che deve ancora essere identificata. È anche possibile
che i teorici si siano un po’ fatti prendere la mano; per contro, alcune previsioni non confermate godono
di una certa credibilità. Un buon esempio di questo tipo riguarda particelle note come monopoli
magnetici, al cui riguardo sono ammissibili alcune spiegazioni: mentre i familiari magneti sono sempre
sotto forma di dipoli (un polo nord a un’estremità e un polo sud all’altra), un monopolo magnetico, se
esiste, sarà un nord o un sud isolato. Non possiamo costruire un monopolo magnetico tagliando in due un
magnete: in questo modo facciamo due dipoli, con un nuovo nord e un nuovo sud, rispettivamente, ai lati
opposti del taglio. Nel suo sgabuzzino matematico, però, la fisica possiede un luogo adatto che sta
aspettando i monopoli magnetici per essere riempito. Le cariche elettriche, dopotutto, sono monopoli (+
e -) e per il resto l’elettromagnetismo è del tutto simmetrico per elettricità e magnetismo. Il fisico
britannico Paul Dirac sviluppò una teoria dei monopoli magnetici negli anni Trenta del XX secolo, e
addirittura calcolò quale dovesse essere la loro carica magnetica. Negli anni Settanta, poi, i fisici teorici
riscoprirono il concetto di monopolo magnetico mentre stavano cercando di formulare una descrizione
unificata dell’elettromagnetismo e delle due forze nucleari, teorie note sotto il (penoso) acronimo GUT,
Grand Unified Theory, ossia “teoria di grande unificazione”. Sono state fatte nel corso degli anni ricerche
dirette di monopoli magnetici perlustrando depositi di ferro, fondali marini, raggi cosmici e addirittura
rocce lunari. Non siamo stati fortunati. Ci fu un falso allarme memorabile nel 1982, quando un fisico
della Stanford University, Blas Cabrera, pensò di aver trovato un monopolo usando una tecnica astuta:
Cabrera aveva un filo ad anello, reso superconduttivo dopo che lo aveva raffreddato fin quasi allo zero
assoluto. Se un monopolo magnetico passa attraverso il buco nel mezzo dell’anello, per caso, genera una
corrente elettrica. Per di più, la teoria di Dirac ci dice con precisione quanta dovrebbe essere questa
corrente, e questo è il valore che Cabrera dichiarava di aver misurato. I suoi risultati però, non
confermati, furono imputati a un problema tecnico dell’apparecchiatura.
Una caratteristica distintiva dei monopoli magnetici della teoria di grande unificazione è la loro
enorme massa, che è prevista essere migliaia di miliardi più grande di quella di un protone, e che li rende
più pesanti di un batterio. Con una massa del genere non c’è da meravigliarsi che non siano stati fatti in
laboratorio (la richiesta energetica è sbalorditiva). Ma che dire del Big Bang che diede alla luce il nostro
universo più di 13 miliardi e mezzo di anni fa? Lì c’era un sacco di energia che si poteva utilizzare. Verso
la fine degli anni Settanta i cosmologi cominciarono a capire che l’universo avrebbe dovuto essere pieno
di monopoli magnetici primordiali, creati dal calore incandescente subito dopo che l’universo ricevette le
sue istruzioni iniziali. La loro assenza sconcertante spinse Alan Guth del MIT a proporre una soluzione
drastica: forse, disse Guth, le dimensioni dell’universo fecero un balzo in avanti di un fattore di milioni di
miliardi subito dopo la creazione dei monopoli, diluendone l’intensità a livelli non osservabili. Chiamò
questa spiegazione dei monopoli mancanti inflazione (per distinguerla dalla normale espansione
cosmologica, molto meno frenetica). Presto si scoprì che l’inflazione spiegava anche un sacco di altri
misteri cosmologici, e oggi fa parte del modello standard dell’universo primordiale. La teoria
dell’inflazione, tuttavia, è stata messa in discussione da alcuni cosmologi: anche se ha molti fan e ci sono
buone prove osservative in suo favore, è lungi dall’essere una teoria consolidata con sicurezza. Il mistero
dei monopoli magnetici non è ancora stato risolto.
Non possiamo essere certi che la mancanza di monopoli sia universale; forse ne è affetta soltanto
la nostra parte della galassia. Dobbiamo dare la colpa agli alieni? E che uso potrebbero mai fare dei
monopoli magnetici? Dunque, i monopoli sarebbero la fonte energetica di ogni super civiltà che si
rispetti. Questo perché nord e sud non sono soltanto di carica opposta, parlando in termini magnetici:
sono anche antiparticelle l’una dell’altra, il che significa che se si avvicinano possono neutralizzare il
proprio magnetismo e annichilarsi, rilasciando la loro massa sotto forma di energia (ancora una volta, E =
mc2). Potremmo avere una caraffa di nord da un lato del laboratorio e una caraffa di sud dall’altro e,
quando siamo pronti, mescolarli insieme e… bum! L’esplosione sarebbe alcuni miliardi di miliardi di
volte più grande, per grammo di materiale, della fusione termonucleare impiegata nelle bombe a
idrogeno19.
Se l’assenza dei monopoli magnetici è spiegata dal fatto che li hanno sequestrati gli alieni (e non
dall’inflazione), potremmo trovare prove per alcuni degli eventi esplosivi descritti poco sopra? È
possibile. L’energia liberata sarebbe rilasciata sotto forma di particelle subatomiche più leggere,
compresi l’umile elettrone e la sua controparte di antimateria, il positrone. Di recente sono stati rilevati
elettroni e positroni ad alta energia provenienti dallo spazio, usando uno strumento attaccato a una
mongolfiera che volava 37 chilometri sopra l’Antartide20. L’origine di queste particelle ha dato un po’ di
grattacapi agli astrofisici: potrebbero provenire da una pulsar finora non osservata, o da qualcosa di
ancora più ignoto come l’annichilazione della materia oscura. Finora nessuno ha suggerito che fossero le
scorie di una fabbrica aliena alimentata a monopoli…
Un altro esempio di previsione teorica che regge l’esame del tempo è la cosiddetta stringa
cosmica, un tubo ultra sottile pieno zeppo di energia a una concentrazione tale che un chilometro di
lunghezza sarebbe più pesante della Luna. Come nel caso dei monopoli magnetici, le stringhe cosmiche
potrebbero essersi create nel Big Bang. Sono così pesanti che la loro gravità farebbe curvare la luce
proveniente da galassie distanti, creando distintive immagini doppie. Di tanto in tanto ci sono astronomi
che affermano di aver scoperto una stringa cosmica, ma poi la prova scompare; se esistano o no rimane
una domanda senza risposta. Una stringa cosmica avrebbe un impatto ancora maggiore di una coppia di
monopoli magnetici. La stringa, in effetti, è un nanotubo che intrappola la colossale energia primordiale
che l’universo aveva miliardi di miliardi di miliardesimi di secondi a seguito del Big Bang. Se questa
energia potesse essere estratta in qualche modo controllato – per esempio restringendo un anello chiuso
di stringa a dimensioni zero – gli alieni non avrebbero più bisogno di preoccuparsi delle loro bollette
elettriche. Le stringhe cosmiche sono prese sul serio da molti fisici e cosmologi21 e la loro apparente
assenza è per alcuni fonte di delusione, se non di vero e proprio sconcerto. I monopoli magnetici sono più
solidamente radicati nella teoria di quanto non lo siano le stringhe cosmiche (anche se nascono da
concetti simili), pertanto la loro strana assenza richiede maggiori spiegazioni.
In questo capitolo ho ristretto la discussione all’esplorazione e alla colonizzazione della nostra
galassia, ma una civiltà tecnologica abbastanza avanzata e motivata potrebbe spingersi anche verso le
galassie vicine e, infine, in tutto il cosmo osservabile. Anche se l’universo che osserviamo oggi non è
stato occupato da una o più super civiltà, c’è ancora un sacco di tempo nel futuro perché questo succeda.
E chi lo sa, magari i nostri discendenti faranno parte di questa gloriosa avventura cosmica.
Capitolo 7
Magia aliena
Se ci capitasse di incontrare una tecnologia aliena di gran lunga superiore alla nostra, ci
accorgeremmo di cosa si tratta? Riflettiamo su cosa sembrerebbe un laser o una radio al membro di una
tribù della foresta pluviale mai entrata in contatto con il mondo esterno. Immaginiamo adesso una
tecnologia che sia avanti milioni di anni, o più, rispetto alla nostra: ci potrebbe benissimo sembrare
qualcosa di miracoloso. Tutto ciò comporta un serio problema per il nuovo programma SETI: come
possiamo cercare i segni di una tecnologia aliena se non abbiamo alcuna idea di come si manifesterebbe?
Nel capitolo precedente ho suggerito alcuni dei modi in cui una civiltà progredita che si diffonde nella
galassia potrebbe lasciare tracce della propria attività. Tutti gli esempi che ho fornito, però, si basano su
estrapolazioni della fisica umana del XXI secolo, e sono quindi contaminate dall’antropocentrismo. E se
la tecnologia aliena fosse basata su principi del tutto al di là della comprensione dei nostri migliori
scienziati?
Un modo di affrontare il problema è di considerare effetti fisici molto generali, effetti che
potremmo aspettarci anche da una tecnologia “magica”. Nel 1964 l’astronomo russo Nikolai Kardashev
propose una misura dei progressi tecnologici degli alieni basata solo sul consumo di energia; è vero che
questo criterio, appartenente all’era sovietica dell’industria pesante è, ancora una volta, un esempio di
ricerca di intelligenza extraterrestre campanilistica. Oggi potremmo dare più importanza ai terabyte che
ai megawatt, ma domani chissà? C’è un buon motivo per attenersi allo schema di classificazione di
Kardashev, tuttavia, quando si consideri una tecnologia aliena lontana dalla Terra: data la limitatezza
attuale dei nostri strumenti è probabile che saremmo in grado di rilevare un’attività aliena soltanto se
producesse un’impronta energetica molto grande.
Kardashev ha definito civiltà di tipo I quella che usa tutte le risorse energetiche del proprio
pianeta natale per alimentare le proprie attività industriali. Una civiltà di tipo II richiede tutta l’energia
emessa dalla propria stella e una civiltà di tipo III avrebbe bisogno di tutta la galassia per poter portare a
termine i propri progetti. Possiamo aggiungere un tipo IV: una civiltà che comanda l’intero cosmo. Ad
oggi non c’è alcuna prova di civiltà di Kardashev di nessuno status numerico, anche se quelle di tipo I
sarebbero difficili da scovare. Il tipo II è un caso interessante, perché utilizzare tutta l’energia emessa da
una stella – certo non impresa da poco – lascerebbe dei segni piuttosto eloquenti. Un modo in cui una
civiltà potrebbe riuscirci è stato suggerito nel 1959 da Freeman Dyson1: ispirato dal romanzo di
Stapledon Il costruttore di stelle, Dyson immaginò la costruzione intorno alla stella di un guscio sferico
con un raggio simile a quello dell’orbita del pianeta, fatto di uno sciame di particelle progettato per
raccogliere tutto il calore e la luce della stella finché questa continua a brillare. Paragoniamo questo ricco
filone energetico all’irrisorio milardesimo del prodotto energetico solare intercettato dalla Terra…
pianeti e asteroidi sarebbero fatti a pezzi in modo da fornire il materiale di costruzione per le strutture
necessarie. La costruzione, com’è ovvio, sarebbe un’impresa titanica, ma è in teoria possibile. Una sfera
di Dyson altererebbe in modo significativo lo spettro luminoso della stella “seppellita” creando un
notevole alone infrarosso, che potrebbe essere identificato da astronomi ficcanaso persino dall’altro lato
della galassia; sono state compiute ricerche di sfere di Dyson analizzando le banche dati dell’Infrared
Astronomical Satellite (IRAS), ma finora senza alcun successo2.
Una civiltà di tipo II capace di riconfigurare un sistema planetario potrebbe considerare
un’opzione più seducente, proposta per la prima volta da John Wheeler (il fisico che coniò il termine
buco nero). Wheeler immaginò di costruire un guscio di materia intorno a un buco nero rotante, una
strategia che offre notevoli vantaggi rispetto alle sfere di Dyson. In primo luogo i buchi neri non ci
infastidiscono estinguendo il proprio carburante dopo pochi miliardi di anni (dopo tutto, sono i resti di
stelle che l’hanno già esaurito). In secondo luogo sono discariche ideali per spazzatura indesiderata:
qualsiasi cosa cada in un buco nero ne è inghiottita irreversibilmente e dimenticata per sempre. Terzo,
possono essere usati per lanciare navicelle spaziali a una frazione significativa della velocità della luce (si
veda più oltre). Per finire, un buco nero può rilasciare di gran lunga più energia di quanto possa emanare
una stella tramite fusione nucleare. Il segreto dei prodigiosi poteri dei buchi neri risiede nella loro
rotazione: tutte le stelle ruotano su se stesse, e quando il nucleo di una stella collassa e forma un buco
nero, la rotazione aumenta in modo spettacolare come risultato della legge di conservazione del momento
angolare. Sono state osservate giovani stelle di neutroni, che sono buchi neri mancati, ruotare su se stesse
a una velocità pari a centinaia di rivoluzioni al secondo. Un corpo che ruota su se stesso contiene più
energia di un corpo statico, e dato che energia e massa sono equivalenti, si può esprimere l’energia di
rotazione come una frazione della massa totale. Nel caso di un buco nero, fino al 29% della massa totale
può essere sotto forma di energia di rotazione, e in teoria tutta questa percentuale può essere estratta e
utilizzata. Paragoniamo il 29% con il misero 1% della massa che una stella, di solito, irradia sotto forma
di calore e luce accumulati durante la sua vita lunga diversi miliardi di anni. I buchi neri rotanti
rappresentano una cornucopia energetica: se avete bisogno di potenza grezza, i buchi neri sono quello
che fa per voi.
Wheeler, sulla base di calcoli fatti da Roger Penrose, escogitò lo scenario rappresentato nella
figura 3, in cui camion che contengono scarti industriali sono lasciati cadere lungo una traiettoria
calcolata con precisione, fin dentro il buco nero rotante. Quando entrano in una regione vicina alla
superficie del buco, nota tecnicamente come ergosfera, diventa possibile una trasformazione notevole: i
camion scaricano il loro contenuto in modo tale che i rifiuti siano divorati dal buco nero. Per alcune
traiettorie i camion vuoti vengono spinti via dall’ergosfera ad alta velocità, andandosene con più
massaenergia di quanta ne avessero quando sono arrivati carichi. L’energia supplementare deve pur
essere arrivata da qualche parte, e infatti arriva dall’energia rotazionale del buco nero: ogni volta che si
ripete il trucchetto con i camion, la velocità angolare del buco nero cala un poco. Il tempo delle vacche
grasse non durerà per sempre: alla fine tutta l’energia rotazionale sarà estratta, e la civiltà costretta a
levare le tende. Con gli attuali livelli umani di consumo energetico, però, un buco nero potrebbe
soddisfare i nostri bisogni energetici per almeno un milione di miliardi di miliardi di anni. Per quanto ne
so, nessuna ricerca di SETI si è mai concentrata su un buco nero, forse perché sono difficili da rilevare.
Andando oltre gli identificatori più basilari di un’attività tecnologica aliena, come l’utilizzo di
energia e di risorse, brancoliamo nel buio alla ricerca di un punto di riferimento familiare, con la
tentazione inevitabile di ripiegare sull’esperienza umana. Persino la fantascienza tende a ritrarre
l’ingegneria aliena in modo per molti versi analogo alla nostra: nel film Hangar 18 del 1980, per
esempio, un disco volante è esaminato tramite il semplice atto di schiacciare qualche bottone per vedere
quello che succede. La gigantesca nave spaziale di Independence Day, nonostante sia il prodotto di una
tecnologia più progredita rispetto alla nostra di milioni di anni, è equipaggiata di computer anni Novanta,
privi di un firewall. Anche nelle storie di fantascienza più accurate gli artefatti alieni sono riconoscibili
come macchine nell’accezione che gli attribuirebbe un uomo del XX secolo: di forma geometrica
regolare, fatte di metallo o di qualche sostituto superiore, spesso inerti se non in risposta a qualche
stimolo intenzionale, e costruite su scale di grandezza tipiche della nostra quotidianità. Una tecnologia
aliena però potrebbe non essere affatto qualcosa del genere. Immaginando le attività di una super
intelligenza è meglio liberare la mente da ogni tipo di pregiudizio. Per aiutare questo processo
consideriamo un’ipotetica tecnologia aliena che:
- non sia fatta di materia;
- non abbia una forma o una dimensione fissa;
- non abbia limiti, né una topologia ben definita;
- sia dinamica su tutte le scale spaziotemporali;
- o, al contrario, non sembri fare niente di cui siamo in grado di accorgerci;
- non consista di cose separate, discrete: sia cioè un sistema, o una raffinata correlazione di
oggetti.
Siamo così legati al concetto umano di macchina come, per esempio, assemblato di pezzi di
metallo con bottoni e maniglie, oppure come elaborazione di informazioni (come nei software) che
troviamo difficile concettualizzare una tecnologia che richieda livelli di manipolazione che vadano oltre
questi. Cosa intendo? Una macchina in senso convenzionale come un’automobile sposta la materia
circostante in modo organizzato. Bene, ma anche la information technology sposta l’informazione in
modo organizzato: per esempio il programma Photoshop può ruotare un’immagine nel mio computer, e
quando questo succede si muove anche la materia, ossia gli elettroni nei circuiti del computer; eppure
non riconosceremmo la tecnologia in azione osservando gli elettroni, bensì guardando l’immagine.
Un modo di pensare all’informazione è quello di concepirla come un concetto di livello “più alto”
rispetto alla materia; il livello più alto si basa sul livello più basso, ma al tempo stesso lo trascende. Il
software, pertanto, è un concetto astratto e richiede invariabilmente un supporto fisico: vorticosi bit di
informazione dentro un computer, o dati nel cervello, hanno bisogno di interruttori o di neuroni. Ora, mi
chiedo, questi due livelli concettuali (materia e informazione) sono tutto ciò che esiste? Cinquecento anni
fa il concetto stesso di un apparecchio che manipoli l’informazione, ossia un software, sarebbe stato
incomprensibile. Potrebbe esserci un livello ancora più alto, oggi al di fuori dell’esperienza umana, in
grado di organizzare l’informazione nello stesso modo in cui l’elaborazione di informazione organizza
gli elettroni? Se così fosse, questo “terzo livello” non ci risulterebbe evidente attraverso le osservazioni
compiute al livello dell’informazione (…non parliamo neanche per quanto riguarda il livello della
materia). Non c’è nel nostro vocabolario un termine che descriva il terzo livello, ma questo non significa
che non esista; e abbiamo bisogno di essere aperti alla possibilità che una tecnologia aliena possa operare
al terzo livello, al quarto o al quinto…
Per ragionare in modo creativo su questo argomento dobbiamo diffidare anche di concetti come
controllo, manipolazione e design, perché sono anch’esse categorie umane che potrebbero rivelare vita
breve. La separazione arbitraria degli oggetti tra naturali e artificiali è qualcosa che diamo per scontato,
ma come sosterrò nel prossimo capitolo si tratta di una distinzione puramente culturale. La tecnologia,
nel senso più ampio, è la mente, l’intelligenza o lo scopo che si mescola alla natura. Gli apparecchi
tecnologici, e questo è importante, non soggiogano la natura; obbediscono alle leggi della fisica. La
tecnologia sfrutta le leggi, non le supera. Pertanto, affermare che una radio o un laser o un obelisco sulla
Luna siano “innaturali” non significa che non siano parte della natura. Il modo migliore in cui posso
pensare di esprimerlo è che la tecnologia sia naturapiù (come anche l’arte): il valore aggiunto dalla
tecnologia è un mix ben specifico di vincoli e libertà, associato a scopi intenzionali. Una lavatrice non
può fare il pane, però può fare ciò che la natura non modificata non è in grado di compiere, ossia lavare,
risciacquare e asciugare i panni, che è proprio ciò per cui è stata progettata. Un computer non può volare,
ma può dimostrare il teorema dei quattro colori, che per quanto ne so non è una priorità per la lista degli
impegni di madre natura. La tecnologia di quel tipo (il nostro) – ed è questo il concetto chiave che voglio
sottolineare – può però essere soltanto uno dei modi in cui la natura diventa naturapiù; e potremmo
tranquillamente fallire nel riconoscere o apprezzare il significato di una forma più sofisticata di naturapiù
anche se ci stesse dritta davanti agli occhi.
Una macchina è caratterizzata dal fatto di possedere una certa relazione tra le parti e il tutto: le
componenti cooperano in modo sistematico così da adempiere una funzione globale. È famosa l’analogia
di William Paley tra un orologio e un organismo vivente, in cui entrambi constano di un sistema
complessivo coerente di parti che si supportano a vicenda3, concordanza che oggi è spiegata
dall’evoluzione darwiniana. La funzionalità biologica e la macchina rappresentano soltanto un paio di
esempi dei modi in cui le parti e il tutto possono essere in relazione tra loro in modo speciale e inusuale.
In realtà conosciamo un altro esempio ancora: i sistemi quantistici. La meccanica quantistica rappresenta
l’apice della fisica del XX secolo, e le sue previsioni e spiegazioni efficaci, coronate da successi, vanno
dalla fisica nucleare e delle particellare alla cosmologia, più molto di ciò che sta nel mezzo. I principi
della meccanica quantistica sono alla base del laser, del transistor, dei magneti superconduttivi e di
svariati altri oggetti della tecnologia umana. È una teoria che spiega quasi tutto, dal Big Bang al nucleare,
dalla chimica all’elettricità; pertanto dobbiamo prendere sul serio le sue previsioni.
Una previsione fatta dalla meccanica quantistica è che una parte sia definita in modo corretto
soltanto in relazione allo stato di tutto il sistema di cui fa parte. Questa descrizione un po’ zen può essere
meglio compresa con un esempio. Un atomo può comportarsi sia come un’onda sia come una particella.
Quando è isolato non si comporta in nessuno di questi due modi: il suo stato non è deciso. Tuttavia, se
l’atomo è messo nel contesto di un sistema più grande, la sua natura intrinsecamente ambigua può essere
risolta. Ecco come: costruiamo un tipo di microscopio che determini la posizione di un atomo specifico
che chiamiamo A. Dopo la misura, A è “un atomo in un luogo”. In alternativa, possiamo costruire un
apparecchio che faccia emergere la natura ondulatoria dell’atomo, nel qual caso A sarà “un atomo con
una velocità” (un’onda quantistica descrive l’atomo con una specifica quantità di moto). Il punto
fondamentale è che, secondo la teoria quantistica, A non può “essere in un luogo definito” e “possedere
una velocità definita” allo stesso tempo. Quale aspetto emerga dell’identità dualistica di A, sia esso
quello dell’onda o quello della particella, dipende dal tipo di apparecchio con cui A interagisce: in altri
termini, dipende da com’è l’ambiente nel suo complesso. Il sistema “atomo A più apparecchio” è, esso
stesso, un insieme di atomi, pertanto la configurazione particolare e lo stato di tutti gli atomi messi
insieme serve a definire la natura del singolo atomo A. E questo è vero in generale: tutti gli atomi che
interagiscono con sistemi più grandi sono definiti in parte dalla totalità degli atomi, mentre a sua volta la
totalità è fatta dalle singole parti. Ci sono stati molti tentativi di catturare questa interdipendenza “da
sotto a sopra” tra il tutto e le parti; Niels Bohr la associava allo ying e lo yang, David Bohm la descriveva
come «ordine implicato»4. Negli ultimi anni è stata soprannominata stranezza quantistica.
La stranezza quantistica, gli organismi viventi, le menti e le macchine progettate sono tutti
esempi in cui gli interi e le parti sono in relazione tra loro in modo diverso. Sarebbe ingenuo immaginare
che si tratti di una lista esaustiva; la relazione tra la parte e il tutto potrebbe essere diversa da qualsiasi
cosa rientri nella nostra esperienza in infiniti modi. Dopo tutto, cento anni fa chi avrebbe sospettato che
gli atomi si comportano così? Una tecnologia aliena davvero all’avanguardia potrebbe manifestarsi con
un’interrelazione tra le parti e il tutto assolutamente nuova. E proprio come la stranezza quantistica
emerge soltanto con apparecchiature molto speciali, allo stesso modo la tecnologia aliena potrebbe
passare inosservata e restare insospettata perché non la stiamo guardando con l’equivalente di… beh,
magari un interferometro di tipo beam splitter con condensato di Bose-Einstein.
Fantastica superscienza
Il nuovo programma di SETI richiede un compromesso non semplice da realizzare tra il bisogno
di pensare alla tecnologia aliena nel modo più creativo e immaginifico possibile e il dover fare
attenzione, allo stesso tempo, a non superare la linea talvolta confusa tra la scienza vera e propria e la
fantascienza. Gli scrittori di fantascienza di solito sono felici di prendersi delle libertà con le leggi della
fisica, mescolando tra loro scienza, congetture condite con scienza, e pura e semplice fantasia. Va tutto
bene: hanno dalla loro parte la licenza poetica. Ma una valutazione scientifica della ricerca di intelligenza
extraterrestre ha bisogno di fare di meglio.
Consideriamo il solito spauracchio dei viaggi spaziali – la finitezza della velocità della luce – che
ha intralciato molti bei racconti di fantascienza. Come ho spiegato, la teoria della relatività di Einstein
vieta a qualsiasi cosa di rompere la barriera della velocità della luce: pertanto, se abbiamo compreso
correttamente le leggi della fisica, né le navi spaziali né i messaggi possono viaggiare più velocemente
della luce. Le distanze tra le stelle sono misurate in anni luce (la distanza che la luce percorre in un anno),
il che significa che i viaggi interstellari sono del tutto irrealistici per un arco di tempo pari a quello di una
vita umana, a meno che siano ottenibili velocità che si avvicinano a quella della luce. Anche in quel caso
però ci sono dei problemi: a metà della velocità della luce, per esempio, un’astronave dovrebbe affrontare
i pericolosi impatti con i micrometeoriti, i quali esploderebbero sulla sua superficie come fossero bombe.
Tali complicazioni possono rivelarsi tanto scoraggianti da rendere di fatto impossibili i viaggi
interstellari ad alta velocità. È anche possibile, tuttavia, che una comunità sviluppata dal punto di vista
tecnologico risolva infine i problemi pratici: magari intercettando i micrometeoriti e distruggendoli con
un laser prima dell’impatto. Di conseguenza, che sia o no un’impresa realistica, viaggiare a velocità
prossime a quella della luce non è in conflitto con le leggi della fisica, quindi è un’ipotesi legittima;
viaggiare a velocità maggiori, invece, non lo è.
Un altro modo per attraversare in fretta lo spazio, molto amato dalla fantascienza, è il
teletrasporto. Si scannerizza qualcosa – diciamo un essere umano – e si “spedisce” l’informazione a
destinazione, là dove l’oggetto è ricostruito. Questo trucco è messo in atto nella serie Star Trek come
modo economico di mandare gli astronauti sui pianeti e riportarli poi sull’astronave (in aggiunta, è un
metodo che accelera lo svolgersi della trama). Il teletrasporto è scienza con tutti i crismi? Sì, fino a un
certo punto. Fintanto che il fascio non è spedito a velocità maggiori di quella della luce, è possibile che vi
sia una specie di trasferimento di informazione. A dire il vero, i fisici sono già riusciti a realizzare un tipo
di teletrasporto limitato, in cui l’informazione sullo stato quantistico di una particella è inviato tra due
stazioni usando i laser. Come sottolineato da Lawrence Krauss nel suo libro La fisica di Star Trek, ci sono
ragioni fondamentali per cui scannerizzare ogni singolo atomo del nostro corpo e ricomporre il tutto
dall’altra parte comporterebbe incredibili ostacoli tecnologici5. Per iniziare, conservare tutta
l’informazione contenuta in un corpo richiederebbe una pila di dischi alta un terzo della distanza tra noi e
il centro della galassia: non è fisicamente impossibile, forse, ma è probabile che si tratti di un’impresa
troppo costosa anche per una super civiltà galattica. Caro ingegner Scott di Star Trek, mi sa che non c’è
niente da fare.
In Contact Carl Sagan propone un ponte di Einstein-Rosen come mezzo per far spostare i suoi
personaggi nello spazio in un tempo infinitesimale; un ponte simile, che assomiglia vagamente a uno
stargate, è stato proposto da molti come mezzo per viaggiare nel tempo (si veda p. 126). Essi non
sembrano violare alcuna legge fisica nota, anche se la loro esistenza richiederebbe quantità incredibili di
un tipo di materia esotica che sappiamo esistere soltanto in quantità ultra microscopiche6. Se non
scopriamo nuove sorgenti di questa materia esotica, è probabile che ponti di Einstein-Rosen abbastanza
larghi per essere attraversabili restino per sempre un oggetto narrativo7.
I lettori che mi ritengono un guastafeste dovrebbero farsi coraggio: anche se restiamo vincolati
alle leggi della fisica correntemente accettate, è ancora possibile concepire ogni genere di scenario
complicato. Che ne dite di ingegneri tecnologici alieni che risiedono in grosse buche o in tubi a forma di
anello? Oppure di società ad alveare costituite di fili magnetici annodati, che costruiscono complicati
sistemi al plasma che attraversano lo spazio interstellare, come formicai cosmici fatti di gas ionizzato? O
ancora di esseri fatti di pura energia gravitazionale che riconfigurano lo spaziotempo in forme bizzarre?
Questi tripudi dell’astroingegneria non sembrano violare alcuna legge (è sempre difficile dirlo:
potrebbero esistere ipotesi nascoste che, a un’ispezione più ravvicinata, entrano in conflitto con qualche
legge). Questo non significa, com’è ovvio, che si tratti di cose che diventeranno reali; gli alieni
potrebbero non essere interessati, o essere inibiti da considerazioni politiche, finanziarie o addirittura
etiche, a imbarcarsi in progetti ambiziosi di questo tipo. Possiamo però ancora contemplare queste
imprese fantastiche e chiederci se lascerebbero qualche firma rilevabile dalla Terra.
Difetti nelle leggi
Gli esempi che ho discusso nella sezione precedente ricadono nella categoria delle ipotesi che, a
un’analisi superficiale, sembrano conformarsi alla nostra migliore comprensione della scienza; ma nella
pratica possono rappresentare sfide così eccezionali da non diventare mai effettive. Spingere così lontano
i limiti della fisica, per forza di cose, si ribella alla domanda se la scienza umana del XXI secolo sia così
affidabile da poter essere applicata a una civiltà aliena molto più avanzata della nostra. E se ci fossero dei
difetti nelle leggi così come le capiamo oggi? Possiamo essere assolutamente sicuri sulla questione della
velocità della luce, per esempio?
Ora: è vero che ci sono leggi e leggi. Alle superiori i ragazzi imparano la legge di Ohm
sull’elettricità che dice che la corrente attraverso una resistenza aumenta in proporzione alla differenza di
potenziale applicata. La legge di Ohm, tuttavia, non è affatto una legge di base: ci sono dei materiali mai
presi in considerazione da Ohm per cui essa non funziona. La legge per cui non è possibile andare più
veloce della luce, d’altro canto, ad oggi è di base e universale, e potrebbe essere per sempre non
negoziabile. Il guaio è che in ogni momento storico gli scienziati non possono che esporre le leggi della
fisica al meglio della loro comprensione corrente; chi può sapere se un futuro progresso non mostrerà che
una delle leggi tanto adorate viene meno sotto determinate circostanze? Nella scienza non è mai detta
l’ultima parola: c’è sempre spazio per una revisione alla luce di nuove prove. Tutto ciò che possiamo
affermare è che alcune leggi sono radicate in modo più solido e profondo di altre.
Un esempio tipico è la seconda legge della termodinamica, che potrebbe anche essere la legge più
fondamentale dell’universo. Si applica a tutto, nessuna eccezione. In parole semplici, dice che in sistemi
chiusi l’entropia totale (il disordine, grossomodo) non può mai decrescere. Tradotta in un esempio
semplice, la seconda legge impedisce che il calore fluisca da un corpo freddo a un corpo caldo
spontaneamente (ossia senza che sia spesa dell’energia). L’astrofisico inglese Arthur Eddington una
volta espresse la natura inviolabile della legge in modo piuttosto drammatico8: «Se si scopre che la vostra
teoria va contro la seconda legge della termodinamica non posso darvi speranza alcuna; non c’è altro da
fare per lei se non collassare nell’umiliazione più profonda». Nel fare congetture sulla superscienza
aliena, allora, la seconda legge della termodinamica dovrebbe essere l’ultima ad andarsene. E questo
scalza un’altra idea popolare, cioè che sia possibile approvvigionare un’astronave estraendo energia dal
vuoto quantistico. Lasciate che vi spieghi: quando si applica la meccanica quantistica al campo
elettromagnetico, oltre a spiegare come interagiscono la luce e la materia, la teoria prevede (cosa davvero
notevole) che una regione dello spazio svuotata di tutta la materia e di tutta l’energia – e di ogni altra sorta
di particelle – possieda, ciò nonostante, un po’ di energia. L’energia irriducibile dello spazio vuoto è
chiamata energia del vuoto quantistico, ed esiste davvero. Possiamo rilevarla come una minuscola forza
attrattiva tra le superfici metalliche. Gli astronomi hanno anche misurato quello che sembra essere la
stessa cosa su scala cosmologica, anche se le hanno dato un nome molto più misterioso: energia oscura.
È la responsabile del fatto che l’universo si espanda sempre più velocemente9. L’energia del
vuoto/oscura è là fuori, con una densità un po’ minore di un joule per chilometro cubico. Potrebbe essere
“lavorata” per dare carburante a un’astronave, per esempio usando una grande pala che raccolga
l’energia del vuoto/oscura e la converta in elettricità per un sistema al plasma? Questa strategia
eliminerebbe il bisogno di carburante per i razzi, dal momento che nello spazio c’è un sacco di vuoto
disponibile.
Per sfortuna la trasmissione a vuoto quantistico non funziona per le stesse ragioni per cui le
macchine per il moto perpetuo del XIX secolo erano destinate a fallire. Nel 1800 gli inventori
ipotizzarono di riuscire ad alimentare una nave con il calore dell’oceano; dopotutto l’acqua di mare
contiene oltre mezzo milione di joule di calore al litro per il solo fatto di avere una temperatura di poche
centinaia di gradi superiore allo zero assoluto. Non si potrebbe usare tutta questa energia del calore per
far funzionare una turbina? La risposta è sì, ma soltanto se c’è una pozza di calore a una temperatura più
bassa di quella della sorgente. Le pompe sono alimentate dal trasferimento di calore da una riserva calda
a una fredda ed estraendo energia lungo il percorso. Il punto è che, da qualche parte, ci deve essere una
differenza in temperatura. La stessa cosa vale per il vuoto quantistico: se c’è uno stato di vuoto a energia
più bassa in cui si può riversare l’energia oscura, allora possiamo metterci a fare affari con il motore
interstellare. Però, per quanto ne sappiamo non c’è uno stato a energia più bassa o, meglio, se ci fosse, la
natura lo avrebbe già cortocircuitato, con conseguenze estreme per l’universo10. Concludendo: in assenza
di una pozza di energia, non possiamo usare il vuoto quantistico per fare andare avanti un’astronave.
La levitazione è un altro popolare artificio letterario. Ha catturato la mia immaginazione fin da
quando ho letto della cavorite del Dr Cavor, comoda sostanza in grado di schermare la gravità, citata nel
romanzo di H.G. Wells I primi uomini sulla Luna. Non sarebbe bello fare a meno di tutti quei razzi
inquinanti e fastidiosi soltanto premendo un bottone e fluttuando serenamente fino alle stelle? Purtroppo
anche questo è un caso senza speranza. L’intoppo questa volta sta nel fatto che la cavorite viola il
principio fondamentale della legge della gravitazione, che richiede che tutte le forme di materia ed
energia cadano con la stessa velocità e nella stessa direzione (ossia verso l’alto e non verso il basso).
Galileo fu il primo a scoprirlo e Einstein lo incorporò nella sua teoria delle relatività generale come
principio fondamentale. Senza di esso la nostra comprensione dello spazio, del tempo, dell’astrofisica e
della cosmologia verrebbero meno, pertanto gli scienziati non hanno fretta di rinunciarvi. In teoria la
levitazione potrebbe essere raggiunta usando la stessa energia del vuoto quantistico di cui ho appena
parlato, ma nella pratica gli esperimenti mostrano che questa energia è così blanda che non può superare
l’effetto gravitazionale della materia, assai più grande11.
Fare ipotesi sulle superciviltà aliene che sviluppano una superscienza e una supertecnologia è di
certo molto divertente, ma deve essere bilanciato da un sano scetticismo. Non c’è dubbio che la scienza
del XXI secolo sia incompleta e provvisoria; tuttavia essa rappresenta ancora l’approccio più affidabile
alla conoscenza, e raccoglie impressioni ed esperienze accumulate nel corso di numerosi secoli di attenta
ricerca. Nelle nostre indagini sull’intelligenza aliena è bene adottare un punto di vista pragmatico e usare
l’attuale visione scientifica come la migliore delle guide, tenendo intanto la mente aperta sulla possibilità
che davanti a noi ci siano delle sorprese. Il futuro potrebbe anche mostrare che parti della nostra scienza
di base sono sbagliate, ma se il nostro approccio nella considerazione di una tecnologia aliena è “tutto va
bene” arriviamo a una forma di anarchia speculativa che non ha alcun utile potere predittivo. Gli alieni
possono anche essere in grado di viaggiare più velocemente della luce, spedirsi attraverso lo spazio,
levitare oppure (probabilmente no) far sì che il calore fluisca all’indietro, dal freddo al caldo: ma in questi
casi ci stiamo muovendo nel regno della fantasia, e se continuiamo così possiamo anche smettere del
tutto di pensare di condurre una vera ricerca di intelligenza extraterrestre.
Capitolo 8
Intelligenza postbiologica
Le macchine stanno guadagnando terreno su di noi; giorno dopo giorno diventiamo sempre più
servili nei loro confronti. Samuel Butler, 18631
Se avessero pieni diritti, gli stati sarebbero costretti a fornire loro i benefici sociali, compresi il
sostegno economico, la casa e forse anche la robosanità per mettere a punto le macchine nel corso del
tempo. Diritti dei Robot, resoconto del Dipartimento per il commercio e l’industria, Regno Unito2
Incontri ravvicinati del tipo assurdo
Nel 1950 Alan Turing pubblicò un articolo estremamente innovativo nella rivista “Mind”, dal
titolo provocatorio Le macchine possono pensare?5. Turing immaginò, prendendo spunto dalla sua
esperienza diretta con la nascente industria informatica, un futuro in cui un apparecchio elettronico
fabbricato dall’uomo potesse imitare le risposte umane in modo così convincente da far sì che gli venisse
attribuita una coscienza. Qualche anno dopo Isaac Asimov sviluppò questo tema nel suo romanzo
divenuto un classico Io, Robot. Negli anni Sessanta il soggetto dell’intelligenza artificiale, o IA, stava
comparendo nei programmi di ricerca privata e universitaria, e si stava infiltrando anche nella cultura
popolare. Nel film di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio, il supercomputer HAL è dipinto come
un essere intelligente in competizione con gli uomini. Quando Guerre stellari entrò nelle sale
cinematografiche gli spettatori si erano già abituati all’idea di robot intelligenti che combattono e
lavorano al fianco degli uomini come loro pari o addirittura come loro superiori; e oggi non facciamo
molta fatica ad accettare che in molti compiti i computer offrano performance superiori a quelle umane.
Non è necessario uno sforzo immaginativo troppo grande per credere che, nell’arco di poche decadi, i
computer saranno più intelligenti di noi sotto tutti gli aspetti: molto presto macchine intelligenti,
computer e robot svolgeranno molte delle funzioni che oggi sono riservate agli esseri umani. La stessa
cosa potrebbe essere vera per ogni specie aliena intelligente.
Per capire come tutto questo potrebbe svolgersi su un pianeta alieno, possiamo considerare alcuni
degli sviluppi che ci sono stati sulla Terra nel campo dell’intelligenza artificiale. Il cervello umano adulto
contiene circa cento miliardi di neuroni, collegati in modo così denso che un neurone medio ha più di
mille connessioni sinaptiche (e alcuni neuroni molte di più). Di solito un neurone si accende fino a 500
volte al secondo, così che se tutto il cervello funzionasse al massimo delle sue potenzialità (prospettiva
del tutto immaginaria, direi) ci sarebbero 40 milioni di milioni di impulsi per centimetro cubico di
materia grigia – ossia 40 teraflop, nel gergo informatico6. Cosa succede nel caso dei computer, al
confronto? Per pura coincidenza, anche i supercomputer di oggi potrebbero raggiungere circa 40 teraflop
per centimetro cubico se ogni interruttore si accendesse contemporaneamente; la grande differenza è che
il computer, per farlo, consumerebbe molti megawatt, mentre al cervello bastano tre pasti al giorno.
Considerando il cervello nel suo insieme, esso esegue circa 10.000 milioni di milioni di operazioni al
secondo (il numero è un po’ indefinito). I supercomputer più veloci arrivano a 360 milioni di miliardi,
così che madre natura detiene ancora il primato; ma non per molto. Se la legge di Moore continua a
rivelarsi valida, l’industria informatica potrebbe dichiarare di aver raggiunto gli exaflop (milioni di
milioni di milioni di operazioni al secondo) nel 2020, e zetaflop (miliardi di milioni di milioni di flop)
una decina di anni dopo. È ovvio che, in termini di capacità di calcolo pure e semplici, i computer ad alta
performance sono destinati a sorpassare ben presto il cervello umano; e una volta che questa barriera sarà
superata, in linea di principio, l’intelligenza artificiale potrà fare a gara con l’intelligenza umana. Ma ci
sono degli ammonimenti: innanzitutto, l’architettura neurale del cervello è del tutto diversa dal modo in
cui sono disposti i circuiti di un computer. In aggiunta, il software che gestisce tutte queste operazioni
frenetiche in modo da imitare un intelletto tipo quello umano non è ancora pienamente compreso. Infine,
c’è la questione degli imput sensoriali e del controllo motorio.
Anziché mettere in pratica l’intelligenza artificiale cercando di costruire da zero un cervello di
silicio programmato in modo che sia intelligente, esiste un altro approccio, più spontaneo: perché non
usare tutta questa sorprendente potenza di calcolo dei computer per simulare un cervello? La differenza è
fondamentale: anziché usare un computer per imitare un cervello, il computer sarebbe programmato per
ricreare ciò che davvero succede dentro un vero cervello, da cima a fondo. In effetti, così il computer
diventerebbe un cervello virtuale, e non un rivale artificiale del cervello. È una prospettiva stuzzicante.
Sarebbe possibile, nel prossimo futuro, modellizzare in modo efficace su un supercomputer
l’intero cervello umano? Secondo il neuroscienziato computazionale Henry Markram la risposta è sì.
Markram è a capo del Blue Brain Project a Losanna, in Svizzera; nel suo ambizioso progetto ogni
neurone è modellato matematicamente da equazioni che possiedono fino a 500 variabili, e portano ad
accurate previsioni del comportamento di singoli neuroni sottoposti a stimoli elettrochimici. Si adotta in
seguito l’architettura neurale reale come modello per “collegare” virtualmente i neuroni simulati,
creando una rete neurale in silico7. Se il tutto è fatto nella maniera corretta, gli schemi che si succedono
nella rete nella simulazione al computer dovrebbero specchiare accuratamente gli schemi che si
presentano in un vero cervello. In uno studio pilota 10.000 neuroni sono stati legati tra loro in modo
digitale, e usati per modellizzare una componente della corteccia dei mammiferi, con risultati
convincenti. Questo per Markram è stato il fattore che ha fatto aumentare la scala del progetto,
affrontando il cervello di un topo come primo passo lungo la strada verso quello umano. Lo scopo di
Markram consiste nel catturare cento milioni di milioni di connessioni sinaptiche in una simulazione al
computer! Questo ad oggi è ben oltre le risorse computazionali del progetto, ma con i progressi attesi per
i prossimi decenni il sogno di Markram potrebbe realizzarsi a metà del secolo, se non prima.
Il Blue Brain Project lascia intravedere una questione filosofica affascinante: uno dei misteri
scientifici più profondi è la natura della coscienza. Nello specifico, come è creata dal cervello? Cosa
serve, in termini di “ghirigori elettrici”, per creare un pensiero, una sensazione o il senso di
consapevolezza di sé? Nessuno ne ha la benché minima idea. Ma se la simulazione di Markram è
abbastanza accurata, per definizione, il suo sistema di calcolo non sarà soltanto intelligente: sarà un
essere cosciente, senziente, che prova sentimenti. In breve, proprio ciò che aveva in mente Turing.
Potremmo essere ancora molto lontani dal capire come il cervello ci riesca, e non essere in grado di
individuare precisamente quali caratteristiche dei circuiti neurali siano responsabili della coscienza; ma è
molto probabile che impareremo molto dal fatto di essere in grado di simulare il fenomeno passo dopo
passo. Qui c’è una questione etica abbastanza ovvia: se il super cervello in silicio di Markram fosse un
agente cosciente, avrebbe quindi dei diritti. Gingillarsi con la programmazione per capire cosa lo spinga
a comportarsi così o cosà potrebbe a buon diritto essere considerato immorale. Dovrei a questo punto
sottolineare che il Blue Brain Project non è un qualche macabro tentativo di costruire una versione
virtuale di Frankestein: al contrario, la prima motivazione è di farci meglio capire cosa esattamente vada
storto a livello neuronale nei cervelli malfunzionanti, come per esempio quelli affetti da Alzheimer o
Parkinson.
Combinata con l’analisi genomica, una vera simulazione cerebrale aprirà le porte a incredibili
possibilità di progettare, modificare e creare entità pensanti con capacità molto amplificate applicabili al
ragionamento, al problem solving, all’apprezzamento dell’arte o degli standard etici… a qualsiasi cosa!
Se la ricerca sulle cellule staminali procederà di pari passo con i progressi nella genomica e nella
computazione, un giorno sarà possibile ricreare non soltanto singoli reni e fegati di ricambio, ma interi
cervelli, migliorati da modifiche genetiche e progettati da neuroscienziati informatici perché soddisfino
certi criteri di performance. Il passo successivo sarà quello di connettere questi cervelli progettati a
tavolino a materiali e circuiti non biologici, in modo da incrementare quello che può essere raggiunto con
la sola biologia. Come nel caso della nanotecnologia e della biotecnologia, una fusione tra neuroscienza
biologica e non biologica ben presto eliminerà la distinzione tra cos’è un cervello e cos’è un computer.
Questi sistemi possono essere creati per omettere in modo deliberato certe qualità tipiche degli uomini –
la mutevolezza dell’umore, l’impazienza o la gelosia, per esempio – ma raggiungeranno livelli talmente
alti di competenza e abilità che arriveremo a fidarci del loro giudizio in merito a un ventaglio sempre più
ampio di decisioni.
A un certo punto, è inevitabile, questi agenti progettati e fabbricati a tavolino dovranno ricevere
una certa autonomia per poter funzionare con la massima efficienza, perché noi semplici uomini non
saremo in grado di procedere al loro passo dal punto di vista intellettuale. Nella fantascienza questa tappa
spesso è rappresentata come il momento in cui le macchine “prendono il sopravvento” sugli umani, con
la prospettiva implicita che dopo tale momento le macchine potranno ribellarsi e addirittura sterminarci.
Questo significa cadere nella trappola dell’antropomorfizzazione di una macchina intelligente; non c’è
alcun motivo particolare per cui i piani degli uomini e dei computer non possano procedere in armonia.
Liberi dalle esigenze darwiniane primitive come il disgusto, il lotta-e-fuggi e il bisogno di procreare, è
improbabile che dei computer autonomi vedano gli uomini come una minaccia o come esseri in
competizione con loro (a meno che, va da sé, non proviamo a spegnerli)8.
Quali potrebbero essere i piani dei computer/robot? Dato che ci addentriamo in un terreno
altamente immaginifico, è quasi impossibile rispondere a questa domanda. All’inizio, è certo, gli uomini
creerebbero tali macchine per assisterli nei loro compiti difficili, e le macchine potrebbero continuare a
farlo finché non trovassero cose migliori con cui occupare il proprio tempo; su queste possiamo soltanto
tirare a indovinare. Facciamo l’ipotesi che le macchine, se non altro, vogliano assicurare la propria
sopravvivenza (come individui, non attraverso la procreazione) ed estendere in qualche modo la loro
portata: avranno bisogno degli strumenti adatti. Come gli umani prima di loro, i computer costruiranno
macchine che svolgano una gran varietà di compiti: alcune saranno simili alle nostre (motori che
spostano la ferraglia, dinamo che creano elettricità, telescopi che sorvegliano il cielo alla ricerca di
minacce come gli asteroidi); altre, tuttavia, saranno biologiche: un esempio ovvio è quello di microbi che
isolano e processano i minerali per le costruzioni. Potrebbero essere progettati altri microbi, che
cambiano le condizioni fisiche dell’ambiente delle macchine, e le macchine potrebbero anche progettare
e fabbricare organismi mesoscopici (piccoli, ma non microscopici) o al contrario macroscopici, che
adempino a funzioni specialistiche come il mantenimento, l’esplorazione e l’osservazione. Se le
macchine/computer fossero sedentarie, questi organismi complessi potrebbero essere le loro orecchie e i
loro occhi in esplorazione, perlustrerebbero il pianeta, o sarebbero inviati su altri per raccogliervi
informazioni.
Per centinaia di migliaia di anni gli uomini hanno manipolato il mondo usando semplici strumenti
che migliorassero le loro probabilità di sopravvivenza. All’inizio il progresso è stato molto lento, e gli
strumenti si sono limitati a clave e lance. Con lo sviluppo del linguaggio, di comunità stabili e
dell’agricoltura la velocità è aumentata, portando all’arco e alle frecce, e all’uso dei metalli, dell’aratro e
della ruota. Non molto tempo dopo ci sono state la rivoluzione industriale, l’era atomica, l’era spaziale e
l’era informatica. In tutto quest’arco di storia gli uomini hanno usato la tecnologia per migliorare il
proprio benessere; ora possiamo prevedere un punto di svolta in cui questa antica relazione tra il regno
biologico e non biologico sarà invertita: invece di forme di vita come gli uomini, che progettano e
fabbricano macchine specializzate, le macchine progetteranno e fabbricheranno forme di vita
specializzate. Il testimone dell’intelligenza (la fondamentale I nell’acronimo SETI) sarà passato in toto al
regno delle macchine; e gli organismi biologici intelligenti, a quel punto, avranno soltanto un ruolo
subordinato. A causa della maggiore robustezza delle macchine intelligenti, le loro prospettive di
sopravvivenza saranno molto superiori a quelle umane, o di qualsiasi altra entità fatta di carne e sangue.
Le macchine potranno essere rese immortali sostituendo con parti di riserva quelle logorate. Potrebbero
anche essere unite tra loro, in modo da dare macchine più grandi e migliori, in grado di funzionare in un
ampio ventaglio di condizioni fisiche. Dopo tutto le macchine si presentano all’intelligenza come un
contenitore molto più sicuro e duraturo dei cervelli.
La mia conclusione è sorprendente: penso che sia molto probabile – per non dire inevitabile – che
l’intelligenza biologica sia soltanto un fenomeno transitorio, una fase effimera dell’evoluzione
dell’intelligenza nell’universo. Se mai incontreremo un’intelligenza aliena, credo che sia del tutto
probabile che sia di natura postbiologica, una conclusione che ha per SETI conseguenze ovvie e radicali.
Ho visto ET, ed è un ATS
A seconda delle definizioni l’intelligenza umana non ha che poche centinaia di migliaia di anni.
Fra un milione di anni, se l’umanità non sarà spazzata via prima, l’intelligenza biologica sarà vista come
un semplice precursore della “vera” intelligenza: quel tipo di intelligenza potente, scalabile, adattabile,
immortale che è caratteristica del regno delle macchine. In seguito l’intelligenza delle macchine
accelererà in potenza e in capacità finché non raggiungerà i limiti fondamentali imposti dall’ambiente
fisico, qualsiasi esso possa essere. A quel punto i mega cervelli autocreatisi come divinità cercheranno di
diffondersi nell’universo. Allo stesso modo possiamo aspettarci che ogni intelligenza biologica aliena
progredita abbia fatto molto tempo fa la transizione verso l’intelligenza delle macchine: se entreremo mai
in contatto con ET, non comunicheremo con umanoidi tipo i Mekon, ma con un sistema, di gran lunga
superiore, che elabora informazioni e che è stato progettato con uno scopo.
Ahimé, nel corso delle ultime pagine ho usato alcuni termini poco precisi. Come ho descritto
pocanzi in questo capitolo, la distinzione tra vivente e non vivente, tra organismo e macchina, tra naturale
e artificiale ben presto svanirà. Chiamare delle entità aliene computer e macchine è fuorviante.
Potrebbero per esempio essere degli ibridi, con componenti organiche e inorganiche combinate tra loro:
non sarebbero organismi viventi in senso corrente, ma non sarebbero neppure inanimati, perché
potrebbero far crescere e rigenerare biologicamente le proprie componenti. È difficile capire come
chiamare queste entità, perché sono al di là dell’esperienza umana. La loro caratteristica più peculiare è
che sono il prodotto di un progetto, in origine (nel caso della Terra futura) fatto dagli uomini oppure (nel
caso di una civiltà aliena) dalla loro controparte extraterrestre; più tardi saranno autoprogettate e
riprogettate. Saranno sistemi che crescono, migliorano e si adattano, non per qualche prolisso
meccanismo darwiniano ma per mezzo della propria creatività intellettuale. Il termine migliore che mi sia
venuto in mente è il cacofonico supersistemi autoteleologici (ats, Auto-Teleological Super-Systems):
l’aggettivo implica la proprietà di autodotarsi di uno scopo. Dato che la manipolazione tramite
progettazione è molto più efficiente del darwinismo, è probabile che il processo di autoprogettazione,
una volta innescato, sia molto veloce; il che aumenta di molto la probabilità che la i di SETI sia dominata
dagli ATS9.
Mentre scrivo queste bizzarre speculazioni mi ritrovo ad essere curiosamente depresso e già
nostalgico dell’identità personale, una caratteristica peculiare dell’esperienza umana. Ognuno di noi ha
un senso specifico del proprio sé, insieme alla sensazione di essere parte, anche se separata, di una
comunità di altri esseri senzienti, e dell’universo. Come il cervello umano generi l’impressione di
un’autoidentità distinta, e le esperienze soggettive che l’accompagnano, è ancora un mistero assoluto,
così come il percorso evolutivo che lo ha permesso. Non c’è però alcuna ragione per cui un ATS debba
possedere un’identità personale analoga alla nostra10.
La forza dei computer sta nel poter essere collegati fra loro, senza tante proteste, per condividere
compiti e mettere in comune risorse. A differenza dei cervelli, che sono entità discrete, i computer
possono essere messi in rete, uniti, riconfigurati ed espansi, in un modo che appare potenzialmente
indefinito. Pensiamo a un motore di ricerca come Google, che ha una portata globale grazie a internet, e
distribuisce le proprie operazioni a gruppi di computer situati in tanti luoghi diversi in tutto il mondo.
Una potente rete informatica con nessun senso del sé avrebbe un vantaggio enorme sull’intelligenza
umana perché non avrebbe paura dei cambiamenti; potrebbe ridisegnare “se stessa”, unirsi ad altri
sistemi e crescere. Prenderla sul personale è un bell’intralcio al progresso.
Non è difficile immaginare l’intera superficie di un pianeta coperta da un singolo sistema
integrato che elabori informazioni. Alcuni futurologi, in effetti, parlano dell’intera superficie di una sfera
di Dyson dedicata a un mega cervello gigantesco e pulsante. Robert Bradbury ha coniato per queste entità
terrificanti il termine cervelli matrioska11. Anche se qualcuno scoprisse come collegare e fondere
insieme le esperienze e i cervelli umani in una sorta di World Wide Web della saggezza, la maggior parte
di noi (almeno nella cultura occidentale) sarebbe sconvolta dalla prospettiva di perdere i nostri sé
individuali in un vasto spazio mentale amorfo. La notevole mole di letteratura sull’”upload”, un’ipotesi
fantastica in cui i contenuti di cervelli che invecchiano (e di conseguenza i sé consapevoli ad essi
associati) sono trasferiti a un computer per poi essere scaricati in nuovi cervelli, è affascinante proprio
per via di una continuità implicita del sé e la promessa di immortalità.
Se l’intelligenza biologica è destinata a passare il testimone all’intelligenza ATS, dove andrà a
finire? Beh, anche questi incredibili cervelloni sono pur sempre soggetti alle leggi della fisica, come la
finitezza della velocità della luce. Un computer che avvolgesse la Terra, o un cervello matrioska,
potrebbe avere alcuni pensieri straordinari, ma il filo dei suoi pensieri sarebbe necessariamente vincolato
alla significativa frazione di secondo necessaria perché l’informazione sia spedita da una zona all’altra
del sistema. Un mostro ATS, in effetti, sarebbe straordinariamente brillante, ma relativamente lento. Lo
stesso limite è ancora più severo per sistemi su scala più ampia, come un Google galattico, dove il ritardo
di 100.000 anni impone un limite stringente al recupero dei dati e, di conseguenza, alla velocità di
pensiero.
Così è questa la fine della storia? Un universo dominato12 da intelletti enormi e un po’ lenti?
Forse l’intelligenza di una macchina può arrivare soltanto fino a qui. Ma se certi sviluppi recenti
nell’elaborazione delle informazioni sono corretti ci potrebbe essere un modo per andare oltre, un modo
che creerebbe un tipo di intelligenza aliena anche per gli standard di un ATS.
Computer quantistici e menti quantistiche
La base di tutta la computazione digitale è l’interruttore binario: un apparecchio che può essere
acceso o spento. Non è necessario che sia un interruttore meccanico: di solito è un componente
elettronico che ha due stati. Se spento sta per 0 e acceso sta per 1, una rete di interruttori può elaborare
l’informazione digitale solo cambiando lo stato di tutti gli interruttori per convertire le sequenze di input
di 0 e 1 in sequenze di output; i dettagli sono irrilevanti per gli scopi di questa discussione. La velocità dei
computer è limitata dal tasso con cui gli interruttori possono cambiare il proprio stato e dalla velocità con
cui i segnali ottici o elettrici che codificano gli 0 e gli 1 possono passare da un interruttore all’altro. La
velocità della luce impone un limite definitivo, ma se il sistema è più piccolo può funzionare più in fretta.
Il tempo che impiega la luce a spostarsi in un microchip di un tipico personal computer è inferiore allo
picosecondo (un millesimo di miliardesimo di secondo); se il chip fosse più compatto la velocità di
elaborazione potrebbe essere più alta. Restringere il chip però comporta i suoi problemi: uno di questi è il
calore. Ogni volta che un interruttore – anche uno non meccanico – cambia il proprio stato si genera
calore, che deve essere dissipato in qualche modo perché il chip non fonda. I fisici sanno che il calore
prodotto dai microchip contemporanei può, in teoria, essere ridotto di molto, quindi sul lungo termine
questo potrebbe non essere l’aspetto dominante. Ci aspetta però un problema di più difficile soluzione: a
mano a mano che le dimensioni di base dell’interruttore si avvicinano a quelle di un atomo, le proprietà
fisiche dei circuiti sono sempre più soggette agli effetti di disturbo delle fluttuazioni quantistiche.
La meccanica quantistica è la teoria che descrive lo strano comportamento degli atomi e delle
particelle subatomiche; ne ho accennato nel Capitolo 7. È radicalmente diversa dalla meccanica di
Newton che si applica a oggetti con le dimensioni di palle da biliardo e proiettili. La caratteristica chiave
dei sistemi quantistici è l’indeterminazione. Lasciate che vi faccia un esempio semplice: se spariamo
contro un bersaglio con una pistola, il proiettile segue una traiettoria ben definita nello spazio; se
ripetiamo l’esperimento in condizioni identiche il secondo proiettile seguirà la stessa traiettoria del
primo. In questi casi la natura è deterministica: la conoscenza delle condizioni iniziali e delle leggi della
meccanica ci rende in grado di calcolare in anticipo la traiettoria corretta. In parole semplici, il sistema è
prevedibile. La meccanica quantistica, però, è tutto un altro paio di maniche: un elettrone o un atomo
sparati contro un bersaglio possono seguire molte traiettorie diverse e colpire il bersaglio in molti punti
diversi. Se l’esperimento è ripetuto, anche in condizioni identiche, di solito non produce lo stesso
risultato.
Non tutti i fenomeni quotidiani sono prevedibili. Lanciare una moneta non truccata dà come
risultato testa o croce con il 50% di probabilità, ma è impossibile conoscere il risultato di un singolo
lancio perché esso dipende strettamente da forze, sconosciute, che agiscono sulla moneta. L’incertezza
quantistica è molto diversa da questa incertezza: non insorge perché ignoriamo tutte le forze che
determinano il risultato, ma perché il sistema è intrinsecamente non deterministico. Detto in modo più
colorito, neanche la natura sa cosa succederà caso per caso. Dal punto di vista della computazione
l’imprevedibilità è un disastro. Cosa succede se 1+1 dà come risultato 2 al primo tentativo e 3 al
secondo? Se i componenti di un chip di computer sono ristretti alle dimensioni atomiche,
l’indeterminazione quantistica è lì che li aspetta al varco per compromettere la loro performance.
Proprio mentre sembra che questi bizzarri effetti quantistici mandino all’aria ogni speranza di
compiere calcoli affidabili a livello atomico, potrebbe essere vero il caso contrario. Quando una moneta è
stata lanciata, anche senza guardare il risultato, non c’è alcun dubbio sul fatto che la faccia rivolta verso
l’alto sarà testa oppure croce. Per contro, la meccanica quantistica consente che un atomo si trovi
nell’equivalente di entrambe: testa e croce, allo stesso tempo. Un fantasmatico stato ibrido, proiettato
nella realtà concreta solo dopo che è stata fatta un’osservazione!
In aggiunta, questo mescolamento può variare continuativamente da: tutte teste, la maggior parte
teste più qualche croce, più croci che teste e così via, fino a tutte croci13. Nel contesto di un chip da
computer, la meccanica quantistica dice che un certo interruttore non è, in generale, acceso oppure
spento, ma un po’ di entrambi. Più l’interruttore si avvicina alle dimensioni atomiche, più questa
proprietà di “sovrapposizione” si manifesta. E qui sta il segreto del ricercatissimo computer quantistico,
un apparecchio che ho citato nel Capitolo 5 come test per una tecnologia aliena. I fisici credono di poter
trasformare un difetto in una qualità sfruttando le sovrapposizioni per compiere i calcoli, e che se questo
fosse fatto nel modo corretto i risultati potrebbero essere del tutto privi di incertezza14.
L’idea di un computer quantistico ha solleticato l’immaginazione di scienziati e di tecnici
dell’industria informatica, e oggi è oggetto di un significativo sforzo di ricerca internazionale15. La
ragione di questa ondata di attività è dovuta all’aver scoperto che un computer quantistico potrebbe
risolvere certi problemi non soltanto molto più in fretta di un computer convenzionale, ma in modo
esponenzialmente più veloce, rappresentando rispetto ai moderni supercomputer un passo in avanti
simile a quello del computer elettronico rispetto all’abaco. Un computer quantistico che controlli a pieno
soltanto 300 atomi potrebbe, in linea di principio, immagazzinare più bit di informazione di quante siano
tutte le particelle dell’universo osservabile. Questo però non significa che potremmo costruire un
computer potente come l’universo soltanto con 300 atomi: immagazzinare è una cosa, elaborare un’altra.
Gli stati quantistici sono molto fragili, e ogni disturbo estraneo ne impoverisce le prestazioni. Il segreto di
una computazione quantistica ben riuscita sta nel consentire al sistema di evolvere con il tempo restando
il più isolato possibile dall’ambiente circostante, e compensare i disturbi che si accumulano con tecniche
di correzione degli errori e di ridondanza; sono compiti dell’ingegneria, e al momento si stanno
indagando numerosi stratagemmi (come per esempio intrappolare singoli atomi in campi magnetici a
temperature ultra basse). Ciò che nessuno sa, a questo punto, è se la correzione degli errori potrà mai
essere perfetta, o se ci siano principi fondamentali della fisica che impongono una legge di diminuzione
del guadagno, implicando un limite fondamentale alla potenza di calcolo di un computer quantistico. Gli
esperti dicono che non dovrebbe essere così, ma finora sono riusciti a mettere insieme soltanto una
dozzina di atomi o poco più. Una tecnologia aliena avanzata potrebbe essere in grado di fabbricare un
computer quantistico quasi perfetto e molto compatto (delle dimensioni di un’auto, diciamo), che
avrebbe al contempo una sconcertante potenza di elaborazione delle informazioni, forse creando in
laboratorio una macchina super intelligente dotata delle stesse capacità di un computer convenzionale
delle dimensioni di un intero pianeta.
Se i computer quantistici sono realizzabili così come dichiarano i loro sostenitori, potremmo
anche aspettarci che ET sia un computer quantistico. Se così fosse, dove potrebbe essere? Sembra
improbabile che un EQC (Extraterrestrial Quantum Computer, “computer quantistico extraterrestre”)
risieda su un pianeta: ci sarebbero disturbi casuali – il maggior nemico della computazione quantistica –
derivanti dal calore, cosicché avrebbe un senso posizionare un EQC nell’ambiente più freddo a
disposizione. Lo spazio interstellare o intergalattico sarebbe ideale. In ogni caso, i pianeti sono luoghi a
lungo termine pericolosi a causa degli impatti di comete, delle esplosioni di supernove, dell’instabilità
della loro stella, di irregolarità orbitali eccetera. Uno spazio vuoto, scuro e quiescente sarebbe molto
meglio, fintanto che ci si può approvvigionare di energia e di materia prima; un asteroide lanciato nello
spazio intergalattico potrebbe essere sufficiente per la seconda richiesta, mentre la prima potrebbe essere
soddisfatta dai raggi cosmici.
Intanto che rifletto su queste idee fantastiche sui confini più estremi dell’intelligenza, continua a
saltar fuori la solita, spinosa questione: perché una simile entità dovrebbe disturbarsi a contattarci? Cosa
potremmo mai dirle? In effetti, non mi è molto chiaro perché un computer quantistico intelligente
dovrebbe mai essere interessato all’universo fisico. Cosa farebbe un EQC per “avere emozioni forti”? Per
definizione, questa entità non abita soltanto nello spazio fisico, ma nel cyberspazio. Anche supponendo
che provi emozioni, sarebbe molto più probabile che un EQC trovasse gratificazioni nel suo mondo di
realtà virtuale, o esplorando un territorio intellettuale interiore assai più ricco del paesaggio (o
spaziaggio)16 fisico che lo circonda. Ritirandosi nel cyberspazio, l’EQC si disconnetterebbe in modo
effettivo dall’universo abitato dagli uomini, eccetto che per quelle richieste minime di mantenimento
della propria esistenza (come pagare le bollette elettriche e sostituire le parti malfunzionanti). Una volta
che si fosse assicurato stabilità, sicurezza e un grado assoluto di isolamento, il suo futuro sarebbe
garantito per milioni di milioni di anni, con l’eccezione di incidenti imprevedibili e non gestibili da un
meccanismo di riparazione automatica. Quello che una simile entità sceglierebbe di fare è del tutto al di
là della nostra immaginazione, anche se alcuni hanno suggerito che intelletti super progrediti di questo
tipo passerebbero la maggior parte del tempo a dimostrare teoremi matematici sempre più difficili.
Confesso che questa visione della ricerca di emozioni forti mi pare un po’ ristretta, ma potrebbe anche
darsi che un EQC possa esaurire ben presto tutte le altre esperienze possibili. Si sa che la matematica
possiede una diversità illimitata e infinite sorprese, cosicché poco importa per quanto tempo l’EQC possa
portare avanti la sua avventura intellettuale: ci sarebbe sempre un’altra relazione matematica da
dimostrare e ammirare.
La ritirata nel cyberspazio è forse la soluzione al paradosso di Fermi più scoraggiante. Spero che
sia sbagliata, perché implicherebbe non soltanto che l’intelligenza biologica sia una fase transitoria, ma
che anche il coinvolgimento con l’universo fisico lo sia. Dal punto di vista di SETI, tuttavia, ciò che
conta è se un EQC produca o meno un’orma osservabile nell’universo fisico e reale. Secondo la fisica di
base della computazione quantistica, l’elaborazione di informazioni al livello base, essenzialmente, non
utilizza energia. Per il mantenimento delle condizioni che fanno funzionare questa elaborazione, però,
sono richieste apparecchiature complicate e una fonte energetica. Se, come ho proposto, nello spazio
intergalattico le richieste energetiche potessero essere soddisfatte dai raggi cosmici, è difficile
immaginare che un EQC possa mai essere rilevabile dalla Terra. Se però per qualche ragione le
periferiche di un computer quantistico avessero una richiesta energetica molto più grande, potrebbero
anche esserci dei cervelli matrioska quantistici, là fuori, avvolti intorno a stelle o a buchi neri rotanti.
Anche se non ci aspetteremmo mai di ricevere un messaggio da queste cybermenti quantistiche, la loro
presenza potrebbe avere un impatto notevole sull’universo fisico in cui risiedono.
Il nuovo programma di ricerca di vita intelligente extraterrestre che ho delineato sposta l’enfasi
dalla ricerca di messaggi per l’umanità tramite radiotelescopi, alla meta (meno ambiziosa) di provare in
modo più semplice a identificare segnali di intelligenza attraverso l’impatto che una tecnologia aliena ha
sull’ambiente astronomico. Per capire cosa dobbiamo cercare ho usato la scienza più all’avanguardia e
l’ho applicata al futuro. Questa strategia, però, è soggetta all’accusa ricorrente di essere antropocentrica:
è infatti possibile che una tecnologia aliena coinvolga cose che non abbiamo mai nemmeno sognato, e
che produca effetti fisici che ancora non compaiono in nessun elenco delle cose da cercare. Portando
avanti questo nuovo SETI è importante ricordare il seguente adagio: aspettiamoci l’inaspettato.
Il nuovo SETI non intende sostituire il SETI tradizionale, ma integrarlo. Anche se le mie ardite
speculazioni sui cervelli matrioska e altri oggetti esotici fossero corrette, non tutte le forme di
intelligenza extraterrestri avrebbero raggiunto, o raggiungeranno mai, uno stato così avanzato. È più
probabile che ci sia un ventaglio di forme di intelligenza: dalle comunità aliene non ancora entrate
nell’era tecnologica, agli organismi biologici con la capacità di inviare segnali radio, a società dominate
dai computer che conservano (e sostengono) le comunità biologiche, fino a intelletti cybernetici veri e
propri. Sarebbe ingiustificato presupporre che nessuna di queste ipotetiche comunità, a qualsiasi livello
di progresso, trasmetterà mai un messaggio, né costruirà segnalatori o monumenti che intendano essere
una dichiarazione per i loro cugini cosmici. E mentre c’è una possibilità, anche se remota, che da qualche
parte qualcuno voglia attirare la nostra attenzione, noi dovremmo continuare a cercare, perché le
conseguenze di un successo sarebbero davvero epocali.
Capitolo 9
Primo contatto
L’impatto sociale e culturale potrebbe essere più simile a quello di una rivelazione religiosa.
Stephen Baxter1
L’unità operativa di post rilevamento
Lasciate che mi soffermi sulla prima tappa che segue il rilevamento di un segnale putativo: il
controllo dell’autenticità. Nel caso del SETI radio tradizionale c’è un protocollo ben sperimentato per un
“even-to di rilevamento” in tempo reale (in contrapposizione con qualcosa che è scoperto su dati
registrati in precedenza), che è progettato per eliminare falsi allarmi, come il malfunzionamento di un
apparecchio, ed eventuali segnali creati dall’uomo. Come ho spiegato nel Capitolo 1, un controllo chiave
è quello di ottenere una verifica da un osservatorio radio indipendente. Ci vuole tempo, e non sempre le
cose vanno lisce: una volta, nel 1997, un forte segnale a banda stretta proveniente dallo spazio fu rilevato
a Green Bank, in West Virginia, durante un’operazione dedicata al progetto SETI. Per un giorno o due a
Green Bank ci fu grande eccitazione, finché il segnale alla fine non fu identificato come proveniente dal
satellite di ricerca SOHO (Solar and Heliospheric Observatory). L’interpretazione era complicata dal
fatto che il radiotelescopio non stesse davvero puntando in direzione di SOHO (in orbita vicino al Sole):
per uno scherzo della fisica delle onde radio, il segnale era stato rilevato in forma attenuata ai bordi, nel
cosiddetto lobo laterale dell’antenna3.
Il fatto che possano volerci giorni per essere sicuri che un segnale non sia prodotto dall’uomo fa
sorgere un problema abbastanza serio per l’organizzazione dei programmi di post rilevamento. Un
messaggio da una fonte aliena sarebbe un evento di importanza senza precedenti. Qualsiasi accenno a un
risultato positivo del progetto SETI potrebbe innescare l’immediato parossismo dei media, e gli eventi
potrebbero ben presto sfuggire al nostro controllo. Basta un’osservazione espressa alla leggera da un
inserviente dell’osservatorio ed ecco che la storia avvampa come un incendio. Anche se nessuno
vuotasse il sacco di proposito, un silenzio assoluto di fronte a una richiesta di routine potrebbe anche
essere interpretato come una sorta di insabbiamento. Nel caso del satellite SOHO, la stampa si
impossessò della storia addirittura prima che venisse fatta l’identificazione4; per fortuna il giornalista
coinvolto si comportò in modo responsabile, e attese un maggior numero di informazioni prima di far
stampare la notizia. Non ci possiamo però fidare del fatto che tutti i membri dei media riuscirebbero a
trattenersi se avessero la possibilità di fare lo scoop della propria vita.
L’unità operativa ha riflettuto in profondità su come gestire la situazione che seguirebbe un
segnale putativo, specialmente alla luce dei cambiamenti rivoluzionari nelle comunicazioni e nei media
oggi in atto, dell’uso di internet e delle tecnologie 2.0, dei cellulari, di Twitter, Facebook eccetera, tutti
strumenti che stanno trasformando la velocità e il modo in cui le informazioni, le scoperte e le opinioni si
diffondono. Due membri del gruppo, Seth Shostak e Carol Oliver, hanno messo a punto un “piano di
reazione immediata” per minimizzare la quantità di cattiva informazione diffusa sul nascere di
dichiarazioni in merito a rilevamenti di segnali alieni5. Dato che SETI, segnalano gli autori, è portato
avanti senza segreti e in modo aperto, le informazioni possono trapelare molto in fretta. I media, con tutte
le probabilità, divulgheranno la storia anche prima che siano stati completati i controlli scientifici iniziali:
«La storia esploderà ancora prima che sia una storia», ecco cosa dicono al proposito6. L’unità operativa,
come risultato di questo resoconto, ha istituito un sito internet protetto da password dove i membri
possano inserire informazioni, dal momento in cui è probabile che i siti di SETI accessibili al pubblico
verrebbero paralizzati dai troppi accessi.
Il problema fondamentale riguardo la gestione dei mezzi di comunicazione deriva dalla profonda
barriera culturale tra il mondo della scienza e il mondo dei media. Dato che gli astronomi di SETI sono
scienziati professionisti, i controlli rigorosi sono una parte essenziale della loro formazione, e vogliono
essere sicuri del terreno su cui si stanno muovendo prima di fare affermazioni definitive. La storia ha
mostrato che quando gli scienziati corrono dai giornalisti con dichiarazioni sensazionali che non sono
state controllate in modo adeguato il risultato danneggia la credibilità di tutta la scienza, per non parlare
poi della reputazione dei ricercatori coinvolti. Una lezione salutare su come non trattare con i media
deriva dalla dichiarazione, oggi largamente screditata, della fusione nucleare fredda. La storia emerse nel
1989 quando due fisici affermarono di poter produrre reazioni di fusione nucleare in quello che,
sostanzialmente, altro non era se non una provetta posta su un tavolo da lavoro, drogando del palladio
con del deuterio. Se avessero avuto ragione, tutti i problemi energetici del mondo sarebbero stati risolti in
un colpo solo. Indissero un’affrettata conferenza stampa e i mezzi di comunicazione, com’è
comprensibile, conobbero una giornata di festeggiamenti: la fusione fredda divenne la più importante
storia scientifica dell’anno7. Furono necessari molti mesi perché i laboratori di tutto il mondo
verificassero la dichiarazione e scoprissero che era infondata; la stampa si mise, letteralmente,
all’inseguimento dei due scienziati, che si nascosero. Al giorno d’oggi una manciata di laboratori
continua, tanto per curiosità, a lavorare sulla fusione fredda, ma sono ben pochi i fisici che credono che si
arriverà mai a qualcosa di concreto. La lezione da imparare da questa sconfitta è che è molto saggio
moderarsi quando si ha a che fare con i media, nel caso di scoperte con notevoli implicazioni sociali.
Nel caso di SETI il problema è ancora più grave: gli scienziati potrebbero stare seduti proprio
sulla più grande storia della Storia. A una sola parola che trapeli potrebbe seguire il caos. Gli astronomi
potrebbero arrivare al lavoro e trovare l’osservatorio assediato da giornalisti, cineasti e gente comune,
alcuni eccitati, altri impauriti. Ci dovrebbe essere un blocco della polizia, e protezione per gli scienziati e
i tecnici: non proprio l’ambiente che incoraggi un’analisi spassionata. Anche i normali mezzi di
comunicazione probabilmente salterebbero a mano a mano che le linee si intasano di chiamate di curiosi
che vogliono controllare i pettegolezzi; i server informatici si sovraccaricherebbero e gli hacker
cercherebbero di entrare nel sistema per avere un’anteprima non autorizzata del messaggio di ET.
È nella natura di questo tipo di indagine che i falsi allarmi siano molto superiori ai fatti reali, così
che lo scenario appena delineato potrebbe ripetersi molte volte, con il fracasso che alla fine diminuisce
mentre la storia evapora. Una situazione piuttosto analoga è quella, fin troppo frequente, dell’annuncio
che la nostra civiltà sia minacciata da un asteroide o una cometa che puntano in direzione della Terra.
Migliaia di oggetti gravitano su orbite che incrociano la Terra, e di tanto in tanto uno di loro colpisce nel
segno: le cicatrici di questi impatti sono visibili, sparse sul nostro pianeta dall’Arizona (Meteor Crater)
all’Australia (Wolfe Creek). I danni di un impatto dipendono dalle dimensioni e dalla velocità
dell’oggetto che collide. Un impatto relativamente raro, come quello che spazzò via i dinosauri, forse
sterminerebbe anche l’umanità; ma impatti di questo tipo capitano in media soltanto una volta ogni 30
milioni di anni, se non di più. Eventi di portata più ridotta sono più probabili, ma hanno anch’essi un
grande potenziale distruttivo: un asteroide largo un chilometro che colpisse la Terra a 30 chilometri al
secondo, per esempio, potrebbe uccidere un miliardo di persone sia durante la collisione vera e propria
sia per le spiacevoli conseguenze (tra cui incendi a macchia d’olio, piogge acide, polveri che oscurano il
Sole e tutta una pletora di altri effetti terribili). C’è all’incirca una probabilità su un milione che un evento
del genere si verifichi il prossimo anno.
Negli ultimi vent’anni gli astronomi hanno scrupolosamente catalogato le orbite degli asteroidi
più pericolosi, cosicché se non altro abbiamo qualche indizio sul prossimo grande impatto. Quando
sembra che un nuovo asteroide o una nuova cometa si stiano muovendo lungo una traiettoria che incrocia
quella della Terra, l’oggetto viene monitorato per determinare la sua orbita con precisione. Come nel
caso di SETI, i controlli accurati richiedono tempo. Nei giorni subito successivi alla scoperta le orbite
previste sono incerte, a causa dei normali errori nelle misure; dopo che l’oggetto è stato seguito per
diversi giorni o diverse settimane, gli errori si restringono abbastanza da consentire agli astronomi di
capire se colpirà o no la Terra. La strategia più intelligente è quella di aspettare finché l’orbita viene
determinata con precisione, e soltanto in quel caso, se ancora permane un pericolo chiaro e imminente,
“svegliare il presidente”8. Di solito però non succede così: più spesso accade che alla stampa giunga voce
che è stato trovato un nuovo oggetto che potrebbe colpire il nostro pianeta nel prossimo passaggio
orbitale. Ecco una storia che fa paura: “Asteroide killer potrebbe spazzare via la vita così come la
conosciamo!”. Titoli come questo attraggono un sacco di lettori, in particolare quando il “giorno del
giudizio” arriva in una data specifica. Ma c’è una bella differenza tra prevedere che un oggetto colpirà la
Terra ed essere incapaci di escludere che lo farà. L’incertezza nota nelle misure fa sì che gli astronomi
calcolino le probabilità di una collisione, la prima volta che l’oggetto viene identificato, come pari (di
solito) a una su 10.000. Queste probabilità possono sembrare terrificanti data la portata di una simile
calamità, ma un altro modo di guardare la questione è chiedersi se ci saranno migliaia di terribili storie
apocalittiche sulla stampa prima dell’unico caso in cui ci sarà davvero una collisione.
La fallacia della cortina di silenzio
Per sfortuna aspettare di essere sicuri ha i suoi svantaggi: se gli scienziati rispondono a
un’inchiesta sull’impatto di un asteroide o su un pettegolezzo che riguarda SETI con un semplice “no
comment”, la stampa e il pubblico saranno fin troppo pronti a sospettare una cospirazione del silenzio. Le
persone, com’è comprensibile, rivendicano il diritto di sapere, e sono sospettose quando sembra che gli
scienziati tacciano sulle loro scoperte, anche se il motivo è una normale prudenza scientifica e non un
deliberato blocco delle notizie. La maggior parte del pubblico, molto semplicemente, diffida
dell’atteggiamento “fidatevi di noi, siamo scienziati”. Gli scienziati, viceversa, preoccupati per la loro
reputazione e i loro finanziamenti, possono essere molto critici nei confronti dei media, che considerano
fin troppo inclini all’allarmismo. Il corrispondente scientifico della BBC David Whitehouse fu accusato
di gridare al lupo al lupo quando, nel 2002, produsse un servizio prematuro su un possibile impatto
cosmico previsto per il 1 febbraio 2019. Come risposta, Whitehouse replicò sul fatto che gli scienziati
erano muti come pesci: «Chi dà loro il diritto di prendere una simile decisione? Chi, in verità, prende la
decisione? E quali sarebbero le loro qualifiche, la loro affidabilità? (…) L’etica di questa presa di
posizione non è sostenibile. Ci sono altre aree della scienza dove la frase “non c’è bisogno che si sappia”
è stato discussa e scartata come non etica»9.
Per quanto mi riguarda ritengo che il pubblico abbia il diritto di sapere, anche se le notizie non
sono buone, ma che sia da informare una volta che la situazione sia stata compresa nel modo corretto.
Devo ancora incontrare uno scienziato di SETI che non sia d’accordo con questo principio di base. Non
c’è nessun “codice di segretezza” nel progetto SETI, e di certo non tra i membri dell’unità operativa di
post rilevamento; viene semplicemente condiviso da tutti il bisogno di cautela quando si stia valutando
un possibile segnale. La stessa IAA è esplicita (anche se un po’ ampollosa) sull’argomento della
divulgazione negli articoli 3, 4 e 5 della Dichiarazione dei principi riguardanti le attività che seguono il
rilevamento di un’intelligenza extraterrestre10, redatta nel 1997 del Gruppo di studio permanente:
3. Dopo aver concluso che la scoperta sembra essere una prova credibile di intelligenza aliena, e
dopo aver informato di questo gli altri membri, lo scopritore dovrebbe informare gli osservatori di tutto il
mondo tramite l’Ufficio centrale per i telegrammi astronomici della International Astronomical Union, e
dovrebbe informare il segretario generale delle Nazioni Unite, in accordo con l’Articolo xi del Trattato
sui principi che governano le attività degli Stati nell’esplorazione e nell’utilizzo dello spazio siderale,
inclusa la Luna e altri Corpi. Dato l’interesse da loro dimostrato e la loro competenza sulla questione
dell’esistenza di un’intelligenza extraterrestre, lo scopritore dovrebbe informare simultaneamente della
scoperta le seguenti istituzioni internazionali, e dovrebbe fornire loro tutti i dati pertinenti e tutte le
informazioni registrate a sostegno della prova: l’Unione internazionale delle telecomunicazioni, il
Comitato sulla ricerca spaziale dell’International Council of Scientific Unions, la Federazione
astronautica internazionale, l’Istituto internazionale per la legge spaziale, la Commissione 51 della
International Astronomical Union e la Commissione J dell’International Radio Science Union.
4. Un rilevamento confermato di un’intelligenza aliena dovrebbe essere diffuso in fretta, e in
modo ampio e aperto attraverso i canali scientifici e i mezzi di comunicazione di massa, osservando le
procedure che compaiono in questa dichiarazione. Lo scopritore dovrebbe avere il privilegio di fare il
primo annuncio pubblico.
5. Tutti i dati necessari per la conferma del rilevamento dovrebbero essere resi disponibili alla
comunità scientifica internazionale tramite pubblicazioni, incontri, convegni e altri mezzi appropriati.
Anche se gli scienziati sono pronti ad essere aperti sulle loro scoperte, possiamo fare affidamento
sul fatto che i governi si comportino allo stesso modo? In una tipica storia di fantascienza in cui compare
un contatto alieno, i servizi di sicurezza governativi si mettono in moto all’istante, prendono il controllo
del progetto e impongono un’aura di segretezza. Le misure repressive sono giustificate da ragioni di
paternalismo eccessivo (“La gente non è ancora pronta”) o per acquistare un vantaggio (“Potremmo
imparare qualcosa di sorprendente che farà aumentare il nostro potere”), o ancora per preparare una
difesa (“Dobbiamo costruire più testate nucleari”). Bene, se ci sono piani governativi per prendere
controllo di SETI dopo un risultato positivo, questi non sono ancora venuti a conoscenza di SETI,
nonostante le numerose bufale molto ben costruite e tutti i falsi allarmi11. In effetti, lontani dal nutrire un
insano interesse per l’argomento, i governi di tutto il mondo sembrano essergli del tutto indifferenti. Un
membro della Casa dei Lord britannica una volta mi chiese del progetto SETI, ma soltanto per curiosità
personale; negli Stati Uniti il Congresso ha cancellato i finanziamenti pubblici per SETI nel 1993 sulla
base del fatto che era uno spreco di soldi: non proprio il comportamento di un governo che ha un interesse
serio nel “contatto”. Per quanto riguarda i piani governativi segreti per l’eventualità in cui si verifichi un
rilevamento, non ho dubbi sul fatto che non esistano. Per quanto riguarda le decisioni relative al post
rilevamento, non c’è che l’unità operativa, anzi: ogni input dei politici, o almeno di qualche anziano
uomo di stato, sarebbe da parte nostra davvero benvenuto.
“È ufficiale: non siamo soli!”
Immaginiamo che il processo di controllo dell’autenticità sia stato completato e che la scoperta
abbia un livello di credibilità, diciamo, del 99% (gli scienziati non dichiarano mai di avere il 100% di
sicurezza su nessuna scoperta). Il passo successivo consiste nel fare un annuncio ufficiale di qualche tipo:
come bisognerebbe muoversi? Il modo dipende strettamente dalla natura precisa della scoperta. Nella
mia testa c’è una differenza immane tra il Sacro Graal di SETI – intercettare un messaggio diretto a noi
proveniente da una civiltà aliena – e il caso molto meno teatrale ma molto più probabile di ottenere
soltanto una prova incontrovertibile di un qualche tipo di tecnologia aliena. L’ultimo caso sarebbe molto
più facile da trattare: se un astronomo si trovasse a scoprire qualcosa di strano, che a un’ispezione più
vicina portasse tutti i segni dell’artificialità, credo che dovrebbe annunciarlo come farebbe con qualsiasi
altra scoperta astronomica fondamentale. Durante la mia carriera gli astronomi hanno trovato una varietà
di nuovi oggetti straordinari: quasar, pulsar, buchi neri, lampi di raggi gamma, per citarne alcuni. Trovare
nello spazio un oggetto “modificato da un’intelligenza” estenderebbe questa lista di ritrovamenti che
aprono la mente: potrebbe trattarsi di un segnalatore (Capitolo 5), di un segnale di astroingegneria
(Capitolo 6) o anche solo di una sorgente radio o luminosa che non abbiano un’interpretazione naturale
plausibile. Tutto ciò che si potrebbe concludere con un buon grado di fiducia da una simile osservazione
è che una qualche forma di intelligenza si sia messa al lavoro da qualche parte dell’universo. Una
conferenza stampa, idealmente, sarebbe organizzata in modo da coincidere con la pubblicazione su una
rivista scientifica accreditata di un articolo sottoposto alla procedura di peer-review12, processo che di
solito richiede alcuni mesi.
Non vi è dubbio alcuno che l’annuncio della scoperta di un oggetto spaziale modificato da
un’intelligenza sarebbe sensazionale. Quando il presidente Clinton, dal prato della Casa Bianca, disse
che gli scienziati della NASA avevano prove della presenza di vita in un meteorite marziano (si veda p.
65), i giornalisti di tutto il mondo furono elettrizzati dalla notizia. Presentare una prova dell’esistenza di
vita intelligente sarebbe ancora più sorprendente. Per qualche settimana non si parlerebbe d’altro: gli
scienziati verrebbero inseguiti per le interviste, i commentatori offrirebbero valutazioni improvvisate, la
blogosfera strariperebbe di teorie un po’ stupide. Dopo un po’, tuttavia, la novità comincerebbe ad
appassire, e i media tornerebbero alle solite occupazioni: politica, sport, aneddoti sulle celebrità. La vita
continuerebbe come prima. La stragrande maggioranza delle persone porterebbe avanti la propria routine
quotidiana con un interesse poco più che residuo; non sarebbe niente di diverso dal prezzo della birra o
dal risultato della prossima partita importante. Diventerebbe una mera curiosità scientifica.
Nel lungo termine, tuttavia, la scoperta avrebbe effetti dirompenti a molti livelli. Qui la storia ci
insegna una lezione: quando Copernico dedusse che la Terra gira intorno al Sole, questa fu considerata
una scoperta pericolosa e rivoluzionaria, sia nel senso letterale che nel senso metaforico del termine. A
quei tempi il potere politico era sul serio interessato a sopprimere la verità scientifica; quel potere non era
un governo nazionale, ma la Chiesa cattolica romana, che regolava quasi ogni aspetto della società
europea, comprese l’informazione e l’educazione. Ciò che la Chiesa temeva come risultato della
rivelazione cosmica copernicana non erano rivolte o scene di panico nelle strade: piuttosto, i prelati
prevedevano l’indebolimento che avrebbe causato nella loro versione della cristianità. Come sappiamo,
fallirono nel loro intento e il modello eliocentrico fu presto accettato; e la vita continuò normalmente.
Come prima, i contadini mietevano il raccolto, i nobili cacciavano e facevano guerre e gli studiosi (anche
all’interno della Chiesa) abbracciarono in silenzio la nuova cosmologia. Quattro secoli dopo cosa
possiamo dire sulla teoria di Copernico? Senza alcun dubbio che ha cambiato in misura radicale il modo
in cui gli esseri umani concepiscono se stessi e il proprio posto nell’universo. Ogni generazione
successiva si è basata su di essa, ed ha espanso la visione umana del cosmo per comprendere non soltanto
il nostro sistema solare ma un volume miliardi di milioni di milioni di volte più grande. Anche oggi, per
la maggior parte degli scopi pratici, la Terra potrebbe essere al centro dell’universo; ma sapere che il
nostro pianeta è un fragile puntino azzurro nella vastità dello spazio permea la nostra visione del mondo,
ed esercita sulle nostre vite una sottile influenza in innumerevoli modi diversi13.
Una simile accoglienza fu quella ricevuta dalla pubblicazione della teoria dell’evoluzione di
Darwin: la dichiarazione che gli uomini discendono dalle scimmie (descrizione popolare ma molto
inaccurata della teoria) in alcuni causò shock e indignazione. Per gli standard vittoriani si trattava
sicuramente di una “notizia succulenta”: la Chiesa non era più abbastanza potente da sopprimere la
verità, anche se in alcuni ambienti, prima di dichiararsi sconfitta, mise in atto una vivace resistenza.
Eppure, ancora una volta, la stragrande maggioranza della gente continuò come prima a vivere la vita
quotidiana, assimilando le idee con i propri ritmi. Non ci fu alcuna sommossa civile, nessuno sfogo
disperato e nessuna manifestazione di euforia. Centocinquant’anni dopo, tuttavia, pochi negherebbero la
grande portata della teoria di Darwin: sapere che gli uomini sono il prodotto di miliardi di anni di
selezione naturale – che voi e io siamo parte integrante della natura e non il prodotto di una creazione
speciale – colora i nostri atteggiamenti nei confronti degli altri esseri umani e degli animali. Quando oggi
ci viene posta la domanda “cosa significa essere umani?” e riflettiamo sul nostro posto nella natura, il
pedigree biologico che ci caratterizza è uno sfondo indispensabile per la nostra visione, e per il nostro
modo di pensare e rispondere.
Se mai scopriremo segnali inconfondibili di un’intelligenza aliena, la consapevolezza del fatto
che non siamo soli nell’universo alla fine si infilerà in ogni aspetto della ricerca umana e altererà in
misura irreversibile il modo in cui percepiamo noi stessi e la nostra posizione sul pianeta Terra. La
scoperta avrà lo stesso rango di quelle di Copernico e di Darwin, ovvero quello di uno dei grandi eventi
che hanno trasformato la storia umana. Ma ci vorrebbero molti decenni perché la gente si adattasse e
perché la sua importanza complessiva fosse recepita, proprio com’è successo per la cosmologia
eliocentrica e l’evoluzione biologica.
Intercettare email interstellari
Quando Frank Drake si imbarcò nel progetto Ozma la sua aspirazione non era soltanto rispondere
alla domanda “siamo soli?”, ma stabilire con gli extraterrestri un vero e proprio contatto. Nonostante le
catene di errori contenute nella sua equazione eponima, Frank rimane ottimista. Siamo tentati di supporre
che se un trasmettitore radio alieno stesse trasmettendo, Frank e il suo team di astronomi lo troverebbero
entro pochi decenni. Se ha ragione (e dovete essere ottimisti sull’argomento), potremmo ben presto
confrontarci con un messaggio alieno con dei contenuti. Per i motivi che ho spiegato nel Capitolo 5, è
improbabile che i segnali radio siano diretti in modo specifico ai terrestri; piuttosto, potrebbero essere
qualcosa che passa dalle nostre parti per caso: staremmo in effetti origliando la conversazione di qualcun
altro, o intercettando un’email altrui. Anche se è difficile immaginare come potremmo mai decodificarne
il contenuto, potremmo imparare molte cose anche soltanto dalla struttura del segnale. Potremmo per
esempio localizzare il trasmettitore: se si scoprisse che è relativamente vicino, avremmo antenne
abbastanza potenti da spedire “loro” un segnale abbastanza forte. Potremmo anche cercare la civiltà
destinataria (forse in una parte del cielo agli antipodi rispetto al trasmittente) e perlustrare anche quella
regione di cielo alla ricerca di segnali.
Potremmo addirittura determinare la ricchezza di informazione contenuta nel messaggio senza
decodificarne il contenuto: questo perché messaggi ricchi di dati soddisfano certi criteri statistici
indipendentemente dal significato che convogliano. Ecco un semplice esempio: se spedisco un
messaggio e lo rispedisco, la ridondanza riduce il contenuto complessivo di un fattore due (perché la
metà dei bit di informazione è “sprecata”); in generale, più schemi contiene il messaggio, più c’è in esso
ridondanza e più è basso il tasso di trasferimento dell’informazione complessiva. La ridondanza
ovviamente è desiderabile, e di solito compare deliberatamente nei messaggi umani, perché il processo di
trasmissione può comportare degli errori. Il tasso di trasmissione di dati ottimale, tuttavia, non ha
nessuno schema, ed è pertanto casuale. Casualità non equivale a dire sciocchezze: se avessimo la chiave
per decifrare il messaggio l’informazione sarebbe impacchettata nel modo ottimale; senza la chiave,
però, il messaggio ci sembrerebbe soltanto una forma di rumore.
C’è un ovvio contrasto tra il “farsi sentire” e un impacchettamento ottimale dei dati. Il rumore, in
un radiotelescopio, può non presentarsi a noi come un segnale intelligente. Siamo circondati di rumore
casuale, dalle fluttuazioni quantistiche nei sistemi atomici ai sibili che provengono dal cielo prodotti
dalla radiazione cosmica di fondo a microonde primordiale. Se un pezzo della cacofonia dell’universo
fosse non di origine naturale, ma invece un messaggio ben codificato da una civiltà lontana, lo
sapremmo? In breve la risposta è che, senza conoscere il codice, non lo sapremmo. Potremmo essere nel
mezzo di un gigantesco scambio di dati alieni ed esserne beatamente inconsapevoli. In Contact Sagan
fece spedire dagli alieni una sequenza di numeri primi come parte di un messaggio che attirasse
l’attenzione, un po’ come se dicessero: “Hey, ragazzi!”. Per un matematico i numeri primi non sono
casuali. Per fare un esempio più modesto, del fumo che sale un po’ a casaccio dal lato di una collina
potrebbe essere sia un fuoco naturale sia un falò da campeggio, ma una sequenza ben precisa di sbuffi di
fumo distinti indicherebbe che qualcuno sta usando un falò per inviare un messaggio. Lo stesso principio
si applica a un faro o a qualsiasi altro segnalatore. La parte di “aggancio per gli estranei” di un segnale
alieno dovrebbe essere in gran parte non casuale, ma il contenuto di uno scambio di informazioni tra
radioamatori consenzienti sarebbe molto probabilmente casuale (nell’ipotesi che gli alieni si preoccupino
dell’efficienza della trasmissione). Perché un astronomo capisca che una sorgente è artificiale è
necessario che ci sia un qualche segno di intelligenza o di tecnologia. Se il segnale non è indirizzato in
modo specifico a noi può essere privo di un aggancio che attiri l’attenzione, ma altre caratteristiche
potrebbero tradirne la natura: se il segnale, per esempio, fosse abbastanza brillante da emergere dal
rumore di fondo, fosse a banda stretta ed emanasse da una stella vicina che sappiamo avere un pianeta
simile alla Terra, ce ne accorgeremmo senza alcun dubbio.
Immaginiamo allora che gli astronomi intercettino un segnale che sembri artificiale sotto certi
aspetti, ma senza contenere informazioni che indichino che sia stato inteso in modo specifico per
l’umanità, o che sia stato trasmesso a beneficio del cosmo (come nel caso di un segnalatore): per quanto
riguarda le dichiarazioni ufficiali la situazione sarebbe un po’ diversa dallo scenario che ho considerato
nella sezione precedente, e la scoperta dovrebbe essere resa pubblica nel modo convenzionale. Lasciate
che ora passi allo scenario meno probabile, ma di certo più drammatico: ricevere un messaggio che sia
stato deliberatamente concepito per l’umanità.
Segreti dalle stelle
Se una civiltà aliena dovesse spedirci un messaggio scritto apposta per noi tutto quanto detto fin
qui non varrebbe più: fin dall’inizio andrebbero fatte scelte molto difficili, scelte che l’unità di post
rilevamento ha ponderato. La prima decisione sarebbe a chi parlarne e come; in questo scenario il
protocollo che abbiamo pubblicato verrebbe quasi certamente meno. Per quanto mi riguarda credo che le
implicazioni anche soltanto della ricezione di un simile messaggio sarebbero tanto sorprendenti e
dirompenti che, anche se sarebbe comunque essenziale svelare tutto, bisognerebbe fare ogni sforzo per
rimandare un annuncio pubblico finché non fosse portata a termine un’attenta valutazione dei contenuti,
e finché non fossero state stimate appieno e con cura le conseguenze di una divulgazione della notizia
alla luce delle raccomandazioni dell’unità operativa. In teoria bisognerebbe che le informazioni relative
alle coordinate astronomiche dei trasmettitori fossero ristrette agli astronomi coinvolti, per ragioni che
spiegherò a breve. Come abbiamo visto, tuttavia, tenere il segreto su una simile scoperta affronterebbe
enormi ostacoli. È presumibile che alla fine se ne accorgerebbero persino i governi, anche se finora
hanno dimostrato ben poco interesse a riguardo di SETI, e non c’è dubbio che vorrebbero prendere il
comando della situazione. Tuttavia, secondo il mio punto di vista, meno fossero coinvolti i governi nella
fase di valutazione, meglio sarebbe: tutto considerato, anziché facilitare la valutazione scientifica, ogni
tentativo di controllare sarebbe forse controproducente.
Il susseguirsi degli eventi dipenderebbe dal contenuto vero e proprio del messaggio. La
primissima questione sarebbe la decodifica: è probabile che ET non parli inglese, né alcuna altra lingua
umana (a meno che gli alieni non abbiano monitorato le nostre trasmissioni). C’è consenso sul fatto che
la matematica, culturalmente neutra e alla base delle leggi universali della natura, sarebbe la lingua
franca delle comunicazioni interstellari; in Contact c’era un messaggio in forma di immagini con numeri
primi usati per costruire un reticolo di pixel. Non dimentichiamo che questa sarebbe una comunicazione
unidirezionale proveniente da una specie davvero aliena, non un dialogo in tempo reale con sorrisi,
aggrottamenti di sopracciglia, uso delle dita e altri gesti che gli uomini utilizzano per farsi capire anche
da completi estranei. Gli alieni possono condividere con noi più della semplice matematica, però: c’è
anche la cosmografia. Viviamo nello stesso universo e, con ogni probabilità, anche negli stessi paraggi
galattici, pertanto simboli che denotano stelle e altri oggetti astronomici sarebbero da noi compresi
all’istante; per estensione, potrebbero essere comunicate tramite disegni e correlate con dei simboli
alcune idee relative alla scienza di base condivisa da entrambi. Com’è ovvio tutto questo richiede di fare
delle ipotesi abbastanza radicali sull’architettura mentale di una mente aliena: le stesse nozioni di
linguaggio e della sua rappresentazione simbolica sono emerse dallo studio degli esseri umani: chi può
dire se gli alieni penserebbero o cercherebbero di comunicare nello stesso modo?
Sarebbe un’impresa non da poco dare un senso al messaggio, ostacolata per di più dal fatto che si
presenti incompleto, o distorto dal rumore. Decodificarlo potrebbe richiedere molto tempo: potrebbero
volerci addirittura anni di lavoro meticoloso e analisi informatiche prima di avere qualche idea su cosa
sia ciò con cui abbiamo a che fare (e non posso immaginare come gli scienziati coinvolti potrebbero
essere lasciati in pace mentre lavorano). Nonostante ciò, un lungo processo di analisi sarebbe molto utile
per ridurre lo shock culturale che seguirebbe all’annuncio iniziale. Secondo Sagan la decifrazione di un
eventuale messaggio, la comprensione dei suoi contenuti e l’applicazione estremamente cauta degli
insegnamenti in esso veicolati, potrebbero richiedere decenni o addirittura secoli; dopo così tanto tempo
un simile messaggio non risulterebbe di certo troppo disorientante per l’uomo14.
Facciamo l’ipotesi che, presto o tardi, cominci a emergere il succo del discorso: cosa
succederebbe allora? Qui siamo nel campo delle ipotesi fantasiose. Cosa potrebbe volerci dire ET? Il
messaggio più semplice sarebbe sulla falsariga di “noi siamo qui e voi siete lì, e vi abbiamo scritto per
salutarvi”. Un po’ più stimolante sarebbe “vi invitiamo a entrare nel club galattico e a scambiare
informazioni con i vostri vicini cosmici”. Possiamo anche immaginare comunicazioni con un contenuto
allarmante, tipo “la vostra civiltà è in grave pericolo. Abbiamo scoperto una cometa gigante che viaggia
nella vostra direzione”. Poi ci sono le missive con intento morale: “I nostri strumenti hanno rilevato sul
vostro pianeta esplosioni nucleari e vi consigliamo caldamente di risolvere i vostri problemi; altre civiltà
che sappiamo aver fatto esplodere ordigni nucleari non sono sopravvissute a lungo”. È improbabile che
quest’ultimo messaggio arrivi presto, perché l’informazione sulla prima esplosione nucleare è arrivata a
meno di 70 anni luce nello spazio. Prove di anidride carbonica artificiale generata dall’uomo dovrebbero
essere arrivate più lontano, però; forse questo solleciterebbe un avviso tipo: “Smettetela di bruciare
combustibili fossili, sciocchi che non siete altro”.
Più difficile da capire è l’impatto di un messaggio contenente importanti informazioni
scientifiche o tecnologiche. Il più preoccupante di tutti sarebbe un messaggio che ci porgesse su un piatto
d’argento un oggetto tecnologico rivoluzionario, come per esempio una nuova fonte energetica, oppure
una tecnica per progettare in sicurezza nuove forme di vita: il gruppo che per primo entrasse in possesso
delle conoscenze sarebbe in una posizione di potere incomparabile. Nazioni, organizzazioni scientifiche,
società e altri gruppi con interessi specifici combatterebbero con le unghie e con i denti per avere accesso
e controllo su queste perle del know how alieno. La lotta all’accaparramento delle informazioni potrebbe
essere seguita da una vera e propria guerra. La nostra unica speranza è che gli alieni riconoscano i
pericoli ed evitino di dar via segreti scientifici come fossero caramelle.
Un modo meno rischioso di offrire aiuto tecnologico, per una civiltà aliena benevola, sarebbe
quello di mandarci un invito a scaricare dati scientifici in un certo momento nel futuro; invito soggetto a
tutele e fornito di mezzi per evitare un battibecco disdicevole su chi possa sbirciare per primo, più alcune
chiare rassicurazioni su come useremmo le informazioni in seguito. Per esempio, una speranza di vecchia
data per risolvere la crisi energetica mondiale è la fusione nucleare controllata (il processo che alimenta il
Sole). I primi esperimenti vennero fatti negli anni Cinquanta del XX secolo, quando ancora si sperava
che la fusione sarebbe diventata una realtà commerciale entro trent’anni. Oggi gli esperimenti con la
fusione nucleare continuano, ma la promessa di energia illimitata a buon mercato resta un sogno lontano.
L’ostacolo tecnico principale è trovare un modo di confinare il caldissimo idrogeno gassoso, che ha la
tendenza a diventare instabile (tale processo è la fusione calda, non la dubbiosa “fusione fredda” discussa
a p. 180). Un consiglio utile da parte di ET potrebbe far sì che gli scienziati risolvessero i problemi di
stabilità. La trasformazione improvvisa delle nostre attività industriali in un’alimentazione a fusione
quasi gratuita darebbe uno scossone notevole all’economia e cambierebbe dal giorno alla notte il
paesaggio geopolitico. Una pianificazione preventiva di qualche decina d’anni sarebbe caldamente
consigliata.
Impatti sulla scienza, la filosofia e la politica
La pura e semplice conoscenza del fatto che esiste un’altra comunità tecnologica implicherebbe
che ci siano, ci siano state e ci saranno molte altre comunità del genere; la probabilità che nella galassia ci
siano due, e soltanto due, civiltà è piuttosto bassa. Potremmo concludere subito che fl e fi nell’equazione
di Drake non siano, dopo tutto, prossime allo zero. Comincerebbe una vera e propria caccia alle civiltà
aliene, se possibile più vicine, e si farebbero seri tentativi di ricerca di artefatti alieni sulla Terra o nelle
vicinanze. L’astrobiologia nel suo complesso riceverebbe un bello scossone, perché sapere che fl non è
un numero minuscolo significa che possiamo aspettarci di trovare almeno forme di vita microbica in
molti ambienti simili alla Terra, magari anche all’interno del nostro sistema solare.
Ci sarebbe inoltre un importante cambiamento di paradigma tra gli scienziati. Secondo la visione
scientifica ortodossa del mondo, tutta la storia cosmologica è organizzata attorno a due principi
fondamentali: il principio copernicano e la seconda legge della termodinamica. Il secondo, a cui ho
accennato nel Capitolo 7, riguarda l’inarrestabile aumento dell’entropia in tutti i sistemi fisici, da cui
risulta un passaggio dell’universo dall’ordine al caos a senso unico, in direzione di ciò che i fisici
chiamano morte termica. La manifestazione più cospicua del secondo principio al lavoro è il modo in cui
le stelle, alla fine della loro vita, esauriscono le loro riserve di combustibile nucleare e smettono di
bruciare. In un futuro molto lontano non soltanto la luce stellare, ma tutte le forme di energia utile
saranno del tutto dissipate. Per un esperto di termodinamica la storia dell’universo è una storia di
degenerazione e decadimento inesorabili. Scrive il chimico Peter Atkins:
Noi siamo i figli del caos e la struttura profonda di una trasformazione è costituita dal
decadimento. Alle radici vi è solamente degrado e l’inarrestabile ondata del caos. Non vi è più un fine;
tutto ciò che rimane è la direzione. Questa è la desolazione che dobbiamo accettare se guardiamo
attentamente e con imparzialità nel cuore dell’Universo.15
Gli stessi fatti, visti attraverso gli occhi di un cosmologo, potrebbero però assumere una
sfumatura diversa. L’universo ebbe inizio in una condizione piuttosto scialba: un brodo caldo e uniforme
di particelle subatomiche. Col tempo, grazie a una sequenza di processi autoorganizzati, si è arricchito
incredibilmente sia in varietà sia in complessità: la materia si è aggregata in galassie, che a loro volta si
sono differenziate in stelle; sono stati creati gli elementi pesanti, che hanno portato alla formazione di
pianeti; i pianeti hanno prodotto rocce e nuvole e uragani e, almeno in un caso, la vita. Partendo da una
manciata di semplici microbi, la vita sulla Terra si è diversificata nel corso di miliardi di anni nella
straordinaria varietà di forme elaborate che vediamo oggi. Un cosmologo potrebbe preferire descrivere la
storia dell’universo come una storia di continuo arricchimento, anziché di degenerazione e decadimento
incessanti. I due racconti – quello termodinamico e quello cosmologico – non sono contraddittori:
semplicemente, enfatizzano aspetti diversi del cambiamento. Sono consistenti perché ogni processo
autorganizzato e ogni nuova specie di vita hanno un prezzo termodinamico sotto forma di crescita
dell’entropia, che serve ad accelerare la morte termica del cosmo.
Ecco che siamo arrivati al punto: c’è una forte tentazione a descrivere l’arricchimento
complessivo dell’universo come progressivo. Sembra che sia al lavoro un qualche tipo di principio
sovrastante (un principio di complessità e organizzazione crescenti) che si applica ad ogni cosa: dalla
formazione delle galassie all’evoluzione della vita multicellulare. L’avanzata sembra avere sempre più
successo: cervelli, cognizione, intelligenza e una società tecnologica. SETI sta in cima a questa ipotetica
discesa in picchiata, fondata sull’ipotesi che ci sia davvero un principio di complessità che progredisce,
che addirittura imperversa nella galassia e nell’universo più remoto, facilitando l’emergere della vita,
dell’intelligenza e della tecnologia ovunque abbiano un’opportunità di fiorire. È una visione suggestiva;
ma è credibile? La maggior parte degli scienziati risponderebbe di no, scartando tali idee come quasi
religiose. Nel Capitolo 4 ho spiegato come la nozione di progresso sia molto controversa e rappresenti
per i biologi un argomento delicato; si situa in una posizione scomoda nel paradigma darwiniano, oggi
dominante, che rifiuta ogni ipotesi sul fatto che la natura possa “guardare avanti” e legiferare una
direzione complessiva e sistematica nell’evoluzione. Come per la fisica e la chimica, decenni di ricerca
nei sistemi complessi finora hanno fallito nello scoprire una “legge del progresso” generale, e hanno
trovato soltanto tendenze vaghe ed esempi specifici che coinvolgono circostanze particolari. La scoperta
di una tecnologia aliena risolverebbe il problema in un battibaleno e dimostrerebbe, contrariamente al
pensiero scientifico ortodosso prevalente, che il cosmo è soggetto a qualche sorta di principio universale
di avanzamento della complessità organizzata16.
L’impatto sulla filosofia sarebbe parimenti profondo. La visione termodinamica della natura,
mettendo l’accento sul decadimento senza sosta e sulla transitorietà di tutti i sistemi fisici, ha per lungo
tempo sostenuto una filosofia nichilista, o al più un’acquiescenza stoica, nei confronti di un universo
inutile e senza scopo che dovrà sopportare una lenta morte termica. Un secolo fa il grande e influente
filosofo britannico Bertrand Russell scrisse cupamente della «inflessibile disperazione», invitandoci ad
accettarla quando contempliamo «la vasta morte del sistema solare»17. Il punto di vista contrario – che
l’universo sia pregno di speranza e potenziale, e stia cavalcando un’onda di crescita verso nuove, gloriose
realtà – rafforzava le contrastanti (e coronate da un’utopia) visioni del progresso sposate dai
contemporanei di Russell dell’Europa continentale18 che contribuirono alla nascita del pensiero socialista
europeo. La medesima divergenza di opinioni prevale ai giorni nostri: nel XXI secolo l’umanità si
affaccia su un futuro incerto, e molti famosi scienziati sono pessimisti sul fatto che, nel lungo periodo, ci
sia per noi un futuro19; nonostante ciò, esistono previsioni di un progresso tecnologico in accelerazione,
che promette l’eliminazione di tutti i mali della società, come quelle esposte per esempio da Freeman
Dyson20 e dal futurologo Ray Kurzweil21.
La consapevolezza che una comunità aliena abbia per eoni sopportato e superato i molteplici
problemi con cui l’umanità si trova oggi a confronto ravviverebbe i sogni utopici degli uomini, e
diventerebbe per tutto il nostro pianeta una potente forza unificante. Scorgere nelle stelle una linea di
progresso come quello umano avrebbe un effetto galvanizzante, molto maggiore di ogni retorica politica.
Nel nostro attuale stato di ignoranza è possibile credere in una qualunque tra le due ipotesi sul futuro:
quella pessimista e quella ottimista. Sapere che non siamo gli unici esseri senzienti in un universo
misterioso e a volte spaventoso, tuttavia, darebbe all’umanità un meraviglioso messaggio di speranza.
Impatto sulla religione
Non vi è alcun dubbio che l’impatto più immediato di un messaggio alieno sarebbe uno scossone
alle fedi religiose di tutto il mondo. La scoperta di un qualunque segnale che indichi che non siamo soli
nell’universo potrebbe dimostrarsi assai problematico per le più importanti religioni organizzate, che
furono fondate nell’era prescientifica e che sono basate su una visione del cosmo che appartiene a
un’epoca ormai passata. Anche se le scoperte cosmologiche di Copernico, Galileo, Einstein e Hubble
causarono disagio e imbarazzo alla religione, alla fine vennero assorbite perché la maggior parte delle
religioni non fa alcuno sforzo serio di descrivere l’universo fisico in modo scientifico. I loro miti della
creazione sono poetici e simbolici più che fattuali; duemila anni fa ben poche persone avevano il minimo
sospetto che al di là del cielo ci fosse un vasto universo. La superficie della Terra e la vita su di essa erano
il creato. Il motivo per cui la cosmologia scientifica, con i suoi miliardi di galassie sparse nell’abisso
dello spazio, fallì nel demolire le religioni affermate risiede nel fatto che la fede religiosa si occupa
principalmente di persone, e non dell’universo. La maggior parte delle religioni si concentra su una
specie particolare che è esistita su un pianeta di una galassia per un misero centomillesimo dell’età
dell’universo; una specie che, nonostante ciò, si dice abbia una relazione speciale nientemeno che con
l’architetto del cosmo. Il pericolo indicato da SETI è che la religione non riguardi la vastità e la maestà
del cosmo, ma gli affari di esseri senzienti.
Il cristianesimo è la religione messa più alla prova dall’esistenza di esseri extraterrestri, dal
momento che i cristiani credono che Dio sia diventato un essere umano (nello specifico, un dissidente
politico ebreo): Gesù è chiamato Salvatore proprio perché si è incarnato per salvare l’umanità; non venne
per salvare le balene, i delfini, i gorilla o gli scimpanzé, e nemmeno i Neanderthal (per quanto nobili o
meritorie queste creature possano essere state). Gesù fu il salvatore di Homo sapiens: un pianeta e una
specie. La plausibilità di una missione divina così straordinariamente focalizzata era molto più facile da
accettare quando la maggior parte della gente credeva – come succedeva due millenni fa – che ci fossero
soltanto una Terra e una specie intelligente, quando non si sapeva nulla dell’estinzione dei Neanderthal e
non si aveva riflettuto molto sulla possibilità dell’esistenza di alieni in altri mondi.
Il problema del cristianesimo è messo in grande rilievo quando si tiene conto del relativo stato di
progresso delle civiltà aliene. Come ho sottolineato, se l’intelligenza è diffusa nell’universo ci saranno
comunità di esseri che possono aver raggiunto il nostro stadio di sviluppo milioni di anni fa. È probabile
che tali esseri siano molto avanzati rispetto a noi non soltanto dal punto di vista scientifico e tecnologico,
ma anche etico. È possibile che abbiano usato l’ingegneria genetica per eliminare comportamenti
smaccatamente criminali o antisociali. Per i nostri standard sarebbero dei veri e propri santi22. Ed ecco la
situazione critica per il cristianesimo: se noi miseri uomini saremo salvati, non si meritano una possibilità
anche questi santi esseri alieni?
Bene, cos’ha da dire la Chiesa sull’argomento? La questione della vita extraterrestre, anche se
non è tra le prime in classifica, non è stata del tutto ignorata dai teologi. Una ricerca tra la letteratura
rivela due frasiscappatoia in base alle quali gli alieni potrebbero essere salvati. La prima fa appello alle
incarnazioni multiple: un salvatore per ogni specie meritoria. «Dio fattosi carne verdolina per salvare
ometti verdi» è come me l’ha spiegata un giorno un pastore anglicano. Il problema, con questa idea, è che
l’incarnazione («Dio si fa carne») dovrebbe essere un evento unico: la Bibbia dice che Gesù è l’unico
figlio di Dio, e molti cristiani considerano un’eresia l’ipotesi di incarnazioni avvenute su miliardi di
pianeti. L’altra soluzione consiste nell’ipotizzare che ci sia soltanto un’incarnazione e un unico salvatore,
nella forma del Gesù Cristo terrestre, e che sia il destino assegnato da Dio all’umanità quello di “spargere
il verbo” nell’universo. Gli uomini, così, si assumono la responsabilità di una specie di crociata cosmica,
presumibilmente prima via radio; aumentando le divertenti probabilità che, se mai entreremo in contatto
con ET, i cristiani possano presentarsi agli alieni come la strada verso la salvezza, anziché viceversa23!
Entrambi gli scenari sopra menzionati sono stati ponderati dai teologi, di solito con la rassicurante
conclusione che ET, in fin dei conti, non sia una minaccia per l’umanità. Consideriamo per esempio la
recente affermazione del reverendo José Gabriel Funes, capo dell’osservatorio vaticano e consulente
scientifico di papa Benedetto XVI, decisamente ottimista a riguardo dell’intelligenza extraterrestre:
«Come possiamo escludere che la vita si sia sviluppata altrove?» ha rimarcato in un’intervista a un
quotidiano. «Proprio come c’è una moltitudine di creature sulla Terra, potrebbero esserci altri esseri,
anche intelligenti, creati da Dio». Ma il cristianesimo è messo in pericolo? Per nulla, secondo Padre
Funes: «L’extraterrestre è mio fratello»24.
Poco dopo che fu fatto questo commento, venne pubblicata una ricerca in cui si chiedeva a 1135
persone di fedi diverse se la scoperta di un’intelligenza extraterrestre avrebbe avuto un impatto negativo
sulle proprie fedi religiose (lo studio fu condotto dal teologo luterano Ted Peters, da tempo interessato
alle implicazioni teologiche dell’esistenza degli alieni25). È rilevante notare che solo un numero ristretto
di fedeli lo abbia ritenuto un problema: la maggior parte di loro rispose che la propria fede poteva
comodamente fare spazio all’esistenza di esseri alieni progrediti senza troppi scossoni alle proprie
credenze fondamentali. Molti intervistati, facendo eco a Padre Funes, addirittura dichiararono che l’idea
di ET fosse bene accetta, e che pensavano dipingesse un quadro ancora più ricco della creazione divina.
La maggior parte dei commenti, tuttavia, aveva l’aria di spazzare il problema sotto il tappeto. Pochissimi,
tra gli intervistati cristiani, entrarono nel campo minato dell’unicità dell’incarnazione e della natura della
salvezza specifica della nostra specie. Una manciata tra questi pochissimi identificò il problema, ma non
venne fornita alcuna nuova soluzione.
I cristiani non sono sempre stati così rilassati nei confronti di questo problema: quando Giordano
Bruno propose che ci fossero molti mondi abitati, nel XVII secolo, fu condannato a morte per eresia26. Il
terribile destino di Giordano Bruno non bastò a indebolire l’entusiasmo sul dibattito intorno alla vita
extraterrestre, e in tutta l’Europa cristiana si espanse la credenza che esistessero esseri alieni. L’ostinato
problema dell’incarnazione, tuttavia, era sempre sullo sfondo. Agli inizi del XIX secolo William
Whewell, filosofo presso l’università di Cambridge divenuto famoso per aver coniato il termine
scientista, era preside del Trinity College (come Isaac Newton, prima di lui): la sua posizione accademica
vantava il titolo di professore di Teologia morale e Divinità casuistica. Esprimendo il punto di vista
prevalente, Whewell fu in un primo tempo a favore degli esseri extraterrestri, ma a partire dal 1850
cominciarono ad affiorare i dubbi alimentati da preoccupazioni teologiche sull’incarnazione e la salvezza
dell’umanità. In un manoscritto non pubblicato, dal titolo Astronomia e Religione, scrisse:
Dio è intervenuto nella storia dell’umanità in modo speciale e personale… cosa dobbiamo
immaginare per quanto riguarda gli altri mondi che la scienza ci rivela? Esiste un simile schema di
salvezza per ciascuno di loro? La nostra visione del salvatore dell’uomo non ci consente di immaginare
che ci sia più di un salvatore. E il salvatore, venuto come uomo tra gli uomini, è parte così essenziale
dello schema… che il tentativo di trasferirlo ad altri mondi e immaginare che lì esista qualcosa di analogo
è più ripugnante, al nostro sentire, che immaginare che questi altri mondi non siano forniti di alcuno
schema divino di salvezza…27
In altre parole Whewell sostenne che non esistono esseri extraterrestri che valga la pena di
salvare. Le sue pesanti riflessioni culminarono in un libro, pubblicato anonimamente nel 1854 con il
titolo Sulla pluralità dei mondi, in cui cercò di sfruttare ragionamenti scientifici per appoggiare quella
che, in buona sostanza, era un’obiezione cristiana all’esistenza degli alieni28.
Nonostante ciò, anche il punto di vista opposto, ossia quello che ci siano innumerevoli pianeti che
ospitano esseri santificati, si è dimostrata essere popolare tra i cristiani. Nel 1758 Emanuel Swedenborg,
uno scienziato, filosofo e mistico svedese sulle cui idee ancora oggi è basato un certo culto, offrì una
scappatoia al pantano teologico nel curioso libricino intitolato Le terre nel cielo stellato29. Come molti
altri studiosi del XVIII secolo, Swedenborg era convinto – anche sul piano teologico! – che un certo
numero di pianeti, inclusi quelli del nostro sistema solare, fossero abitati. Si spinse addirittura a
descrivere l’aspetto, i vestiti, la struttura familiare, le pratiche religiose, le case e altri aspetti mondani
delle vite degli alieni, informazioni che sosteneva di aver raccolto grazie a una rivelazione mistica.
Alcune società aliene, secondo le dichiarazioni di Swedenborg, erano del tutto idilliache; su Marte, per
esempio, gli abitanti erano molto più amichevoli dei terrestri: quando incontrano un estraneo «sono allora
subito amici». In aggiunta «le loro consociazioni sono piacevoli» e sono prese precauzioni affinché
«alcuni per cupidità di lucro non rapiscano agli altri i loro beni»30. Nonostante questa presunta utopia
marziana, Swedenborg insisteva sul fatto che soltanto la Terra avesse ospitato un’incarnazione. Il suo
capitolo Le ragioni per cui il Signore volle nascere sulla nostra Terra, e non su nessun’altra spiega il suo
ragionamento. Dio selezionò la Terra per spargere «il Verbo… la Verità Divina» con lo scopo esplicito
che prima dovesse essere comunicato sul nostro pianeta, e poi passato agli altri pianeti31. Come? Potreste
chiedervi. Non conoscendo le onde radio, come mezzo di comunicazione con gli extraterrestri
Swedenborg invocò la presenza di «spiriti e angeli». Sul problema della natura dell’incarnazione
specifica della nostra specie Swedenborg propose una soluzione originale: anche gli extraterrestri
sarebbero umani: «Ci sono terre in numeri immensi, abitate da esseri umani, non soltanto in questo
sistema solare ma nel cielo stellato al di là di esso»32. In questo modo quando Gesù Cristo morì per
salvare l’umanità la definizione si estese, convenientemente, a comprendere gli alieni.
Il concetto di Swedenborg di Terra privilegiata sotto il profilo teleologico, con «il Verbo» che si
diffonde nello spazio come le increspature che si diramano da un sasso gettato in uno stagno, fu adottata
nel XX secolo nientemeno che da E.A. Milne, fisico matematico e cosmologo britannico con una solida
reputazione, e professore presso l’università di Oxford. Nel suo libro Cosmologia moderna e idea
cristiana di Dio, pubblicato nel 1952, Milne scrisse:
Il più notevole intervento di Dio nell’attuale processo storico, secondo il punto di vista cristiano,
è stato l’Incarnazione. Si è trattato di un evento unico, oppure è stato rimesso in atto in ognuno degli
innumerevoli pianeti? Il cristiano indietreggerebbe con orrore da una simile conclusione. Non possiamo
immaginare il Figlio di Dio che soffre per interposta persona su ognuno di una miriade di pianeti. Il
cristiano eviterebbe questa conclusione partendo dall’ipotesi ben definita che il nostro pianeta è, di fatto,
unico. Che dire allora dei possibili abitanti degli altri pianeti, se l’Incarnazione si è verificata soltanto sul
nostro?33.
Milne ha centrato la questione, e continua suggerendo che il problema teologico sarebbe eluso se
il Verbo potesse essere diffuso dalla Terra usando i radiotelescopi (ipotesi che se non altro è un
miglioramento rispetto agli «spiriti e angeli» di Swedenborg34).
Risulta evidente da queste citazioni che la teologia cristiana, quando si parli di esseri
extraterrestri, è un pasticcio spaventoso, e che un risultato positivo di SETI aprirebbe subito un orribile
vaso di Pandora a prescindere dalle blande rassicurazioni fornite finora dai leader religiosi35. A dire il
vero, mi azzarderei ad affermare che la scoperta degli alieni infliggerebbe un duro colpo non soltanto al
cristianesimo, ma a tutte le religioni tradizionali. Non sto dicendo che ciò che in modo grossolano
possiamo chiamare la dimensione spirituale della vita umana ne sarebbe eclissata, o che verrebbe negata
la fede in qualche sorta di scopo o significato più ampio; i buddisti, fuor di dubbio, continuerebbero a
cercare il cammino dell’illuminazione tramite una riflessione interiore, anche se consci dell’esistenza di
vita intelligente oltre la Terra. Ciò che è chiaro, tuttavia, è che per ogni teologia che insista sull’unicità
umana sarebbe una catastrofe; come questo si concretizzerebbe in termini di sconvolgimenti sociali e
politici a livello mondiale è difficile da prevedere. La religione, anche se lenta a cambiare, è molto
adattabile: nel corso dei secoli è riuscita a venire a patti con la cosmologia copernicana, con l’evoluzione
darwiniana, il sequenziamento del genoma e altri destabilizzanti sviluppi scientifici. Tra questi,
l’evoluzione è stato il più difficile da digerire a causa della sua minaccia implicita allo status unico
dell’Homo sapiens. La scoperta di esseri extraterrestri progrediti rappresenterebbe una minaccia della
stessa natura, ma ancora più esplicita e, pertanto, ancora più difficile da assimilare.
Sugli dèi e sugli uomini. È forse SETI una religione?
Gli uomini hanno il bisogno primario di percepire se stessi come parte di uno schema grandioso,
di un ordine naturale che ha un significato più profondo e un respiro ben più ampio degli sciocchi affari
quotidiani. L’assurda discrepanza tra la futilità della condizione umana e la minacciosa maestosità del
cosmo spinge le persone a cercare un significato trascendente che puntelli le loro fragili esistenze. Per
migliaia di anni questo contesto più ampio è stato fornito dalla mitologia e dai racconti tribali: la capacità
di coinvolgimento di queste narrazioni forniva agli esseri umani un’ancora spirituale di importanza
fondamentale. Tutte le culture rivendicano miti evocativi di altri mondi, dal Tempo del Sogno degli
aborigeni australiani alle Cronache di Narnia, dal Nirvana del buddismo fino al Regno dei Cieli
cristiano. Con il tempo semplici storie da raccontare intorno al fuoco si tramutano nello splendore e nei
rituali di una religione organizzata, così come in grandi opere letterarie e teatrali. Anche nella nostra
epoca secolare, dove molte società si sono evolute in una fase postreligiosa, le persone hanno ancora
desideri spirituali non soddisfatti. Un progetto della portata e della profondità di SETI non può essere
separato dal suo più ampio contesto culturale, perché anch’esso ci offre la visione di un mondo
trasformato, e mantiene l’irresistibile promessa che questo potrebbe avverarsi anche domani. Come
evidenziato dallo scrittore David Brin «il contatto con civiltà aliene progredite potrebbe avere lo stesso
significato trascendente o di speranza di una idea molto più tradizionale di “salvezza dall’alto”»36. Ho
affermato che se ci mettessimo in contatto con una comunità extraterrestre progredita le entità con cui
avremmo a che fare, ai nostri occhi, assumerebbero uno status divino. È certo che sarebbero più divini
che umani: i loro poteri, non c’è dubbio, sarebbero maggiori di quelli attribuiti alla maggior parte delle
divinità della storia umana.
SETI corre dunque il pericolo di diventare anch’esso una religione dell’ultimo giorno? Lo
scrittore di fantascienza Michael Crichton pensava di sì. «La ricerca di intelligenza extraterrestre è, senza
dubbio, una religione» dichiarò senza mezzi termini in una conferenza tenuta nel 2003 al California
Institute of Technology37. Crichton stava criticando l’utilizzo diffuso dell’equazione di Drake, dato che
molti dei termini che essa include sono determinati tirando a indovinare.
La fede è definita come la ferma credenza in qualcosa per cui non c’è alcuna prova. Credere che
ci siano altre forme di vita nell’universo è una questione di fede. Non c’è uno straccio di prova
dell’esistenza di altre forme di vita, e in quarant’anni di ricerche non ne è stata scoperta alcuna. Non c’è
assolutamente alcuna ragione evidente per mantenere viva questa credenza.
Mantenendo un tono simile George Basalla, storico dell’università del Delaware, sostiene che
l’ostinata ricerca di un contatto con gli alieni nonostante cinquant’anni di silenzio tradisca una sorta di
fervore religioso, sostenuto dalle tracce della credenza che i cieli siano popolati di esseri superiori38.
La scrittrice Margaret Wertheim ha studiato come il concetto di spazio e dei suoi abitanti si sia
evoluto nel corso di diversi secoli: fa risalire la nozione moderna di alieni a scrittori rinascimentali come
il cardinale cattolico romano Niccolò Cusano (1401-64), che considerava lo status dell’uomo
nell’universo in relazione ad esseri celesti come gli angeli. «Storicamente, questo può essere visto come
il primo passo di un processo che sarebbe culminato nell’idea moderna di alieno» scrive la Wertheim.
«Cosa sono ET e la sua specie, dopo tutto, se non angeli incarnati – esseri che vengono dalle stelle che si
manifestano in carne e ossa?»39.
Con l’era scientifica le speculazioni sugli esseri alieni sono passate dai teologi agli scrittori di
fantascienza, ma la dimensione spirituale è comunque rimasta subito sotto la superficie. Viene esplicitata
occasionalmente, come in Il costruttore di stelle di Olaf Stapledon, in A Voyage to Arcturus di David
Lindsay o in Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg, che ricorda molto da vicino Il viaggio
del pellegrino di John Bunyan40. Sono immagini iconiche che risuonano nel profondo della psiche umana
e che seguono molto da vicino la ricerca scientifica di vita intelligente oltre la Terra. La maggior parte
degli astronomi di SETI nega con veemenza che nel loro lavoro ci sia una dimensione religiosa: questi
uomini considerano l’esistenza degli alieni solo un’ipotesi da mettere alla prova. Per molti non scienziati,
però, il fascino di SETI sta proprio nel suo carattere quasi religioso e nella sua allettante promessa di
scoprire nel cielo ricchezze illimitate e una saggezza celeste; non serve nient’altro che un segnale radio.
Capitolo 10
Portatemi dal vostro capo! Appello di migliaia di alieni dei cartoni animati
Urlare al cosmo
Immaginiamo che il giorno sia giunto. L’umanità ha ricevuto un messaggio proveniente da una
civiltà aliena diretto verso la Terra. Il messaggio è stato decodificato e gli alieni stanno chiedendo di
stabilire un contatto. Dovremmo rispondere? E se sì, cosa? E soprattutto, chi parla per conto della Terra?
L’unità operativa di post rilevamento di SETI ha già iniziato a lottare contro questi problemi
spinosi, per la semplice ragione che alcuni hanno giocato d’anticipo e comunque iniziato a trasmettere
messaggi, pratica nota come SETI attivo o METI (Messaging to Extraterrestrial Intelligence, “mandare
messaggi a un’intelligenza extraterrestre”). Il radio METI iniziò sul serio nel 1974, quando il
radiotelescopio di Arecibo fu impiegato per trasmettere un messaggio al cluster globulare di stelle M13,
lontano 25.000 anni luce. Un tentativo più recente è stato fatto nel 2009, quando un grande
radiotelescopio in Ucraina è stato usato per spedire 50 fotografie, disegni e messaggi testuali verso il
pianeta Gliese 581c, a 20 anni luce di distanza. Il target è solo uno tra la manciata di pianeti extrasolari
scoperti di recente che si pensa siano capaci di accogliere la vita.
Alcuni sono del tutto contrari a METI sulla base della convinzione che trasmettere nello spazio,
per passione o per forza, attirando in modo deliberato l’attenzione su di noi, sia un’azione imprudente.
Un’ovvia paura è che pubblicizzare l’esistenza del nostro meraviglioso pianeta in grado di accogliere la
vita possa essere un invito per un’invasione aliena. Un grande critico di METI è lo scrittore e cronista
David Brin, che ha coniato l’espressione “urlare al cosmo”: è sgomentato dall’atteggiamento di una
nuova generazione di fan di SETI, specie quelli che provengono dall’ex Unione Sovietica, che
sostengono una grande espansione ad hoc del programma METI senza troppa premeditazione, o troppi
tentativi di discutere i problemi. Ed è vero che METI attira molta più attenzione di SETI, principalmente
perché succede qualcosa: si spedisce un messaggio! Tutti gli astronomi di SETI, invece, non fanno altro
che ascoltare passivamente. METI è in voga presso i giovani quando il contenuto del messaggio è reso
noto al pubblico; una trasmissione ucraina venne fatta di recente dopo un concorso lanciato su un social
network chiamato Bebo, che si vanta di avere 12 milioni di utenti. La posizione di Brin è che la prudenza
dovrebbe avere la meglio sulla popolarità. Ha richiesto un protocollo internazionale che chieda a tutti
quelli che controllano i radiotelescopi di «astenersi dall’accrescere sensibilmente la visibilità della
Terra con emanazioni intenzionali in direzione del cielo, finché i loro piani non siano prima discussi in
forum internazionali aperti e accettati dalla comunità internazionale»1. I suoi sentimenti sono stati
appoggiati con convinzione da David Whitehouse: «Se non sappiamo cosa c’è la fuori» scrive
Whitehouse «perché sulla Terra stiamo con premeditata intenzione mandando messaggi nello spazio,
provando a contattare queste civiltà delle quali non sappiamo assolutamente nulla?»2.
Paladini di METI come Alexander Zaitsev dell’Accademia russa delle scienze minimizzano le
preoccupazioni di Brin: sottolineano che stiamo già trasmettendo, giacché i nostri programmi
radiotelevisivi starebbero scorrazzando per la galassia alla velocità della luce, e non possiamo
riprenderceli. Un’antenna abbastanza sensibile potrebbe rilevarli, e la nostra copertura salterebbe. Come
ho menzionato prima, tuttavia, le nostre trasmissioni TV sono in realtà troppo deboli; i radar militari
hanno un impatto di gran lunga maggiore, così come gli impulsi radar occasionalmente diretti verso
pianeti e asteroidi per scopi scientifici. Questi fasci, tuttavia, sono sporadici e brevi, ed ET potrebbe
lasciarseli sfuggire. Tutto considerato, pertanto, c’è una buona probabilità che finora siamo scampati al
rilevamento (via radio, se non altro) anche se la galassia contiene legioni di civiltà aliene armate di
enormi antenne radio. Non c’è dubbio sul fatto che il dibattito andrà avanti ancora a lungo, ma ciò mi
sembra piuttosto irrilevante dal momento che nonostante quello che possono pensare scienziati e cronisti,
la realtà è che un miliardario ben motivato potrebbe costruire un radiotelescopio e bombardare i cieli
quanto gli pare, senza che ci sia molto da fare per contrastarlo3. Non è realistico pensare di poter
regolamentare METI; o, se non altro, nessuna agenzia internazionale in grado di farlo nutre il minimo
interesse nei confronti dell’argomento.
Sono convinto che la pericolosità di METI sia minima. La paura dell’ignoto è comprensibile, ma
se dobbiamo sempre aspettare di essere sicuri che non ci siano demoni in agguato nel buio, non faremmo
mai scienza e non esploreremmo mai il mondo. La prudenza è saggia, ma prudenza non dovrebbe
significare paralisi. Dobbiamo chiederci perché gli alieni sarebbero interessati a farci del male o
invaderci: se la Terra, come potenziale habitat alieno, ha delle attrattive, gli alieni lo sanno già senza
bisogno del nostro aiuto. È possibile ottenere spettrograficamente elementi di prova dell’esistenza di
ossigeno, acqua e vita vegetale da distanze molto grandi, anche con una tecnologia a portata degli
uomini. Ed eccoci ritornati al paradosso di Fermi: se gli alieni stessero arrivando qui per il nostro pianeta
– anziché per noi – si sarebbero palesati molto tempo fa. I nostri messaggi radio, ad ogni modo, sono
irrilevanti se è il pianeta ciò che vogliono: l’unica informazione aggiuntiva deducibile dalle
comunicazioni radio sarebbe il fatto che la Terra ospita anche forme di vita intelligenti capaci di costruire
trasmettitori radio. Alcuni si preoccupano della schiavitù, ma è del tutto irragionevole: una comunità
tecnologica abbastanza sviluppata da poter compiere viaggi interstellari è difficile che abbia carenza di
forza lavoro. Per il lavoro sporco ma necessario gli alieni potrebbero con maggiore facilità costruire
robot o biomacchine; è concepibile invece che si possa essere considerati come risorsa culturale, o
curiosità biologica, e pertanto degni di essere preservati. Se così fosse, non ci sarebbe alcun pericolo. La
preoccupazione a cui ho dato voce nel Capitolo 8 sul fatto che gli uomini potrebbero essere spinti con
l’inganno a costruire un alieno ostile partendo da istruzioni genetiche non è rilevante per METI; quello
scenario avrebbe bisogno di essere preso in attenta considerazione soltanto se ricevessimo un messaggio
dotato di significato da parte loro.
Il più grande pericolo per l’umanità è che una comunità di alieni vicini a noi ci ritenga essere una
minaccia. Considerata la nostra storia in fatto di guerre, non è una conclusione irragionevole. Gli alieni
potrebbero decidere di sferrare un attacco preventivo per il bene di tutta la comunità galattica. E
potremmo forse biasimarli, dal momento in cui alcuni dei nostri governi hanno usato la stessa identica
logica contro quelli che percepivano come nemici terrestri? Se la democrazia umana del XXI secolo può
essere considerata un precedente significativo, può bastare anche un minuscolo pretesto perché gli
extraterrestri ci sottraggano “le nostre armi di distruzioni di massa”. Ma anche se questa valutazione
pessimistica fosse corretta, METI non farebbe aumentare il rischio di farci bombardare: piuttosto, può
assolvere a un’utile funzione se riusciamo a segnalare a ET le nostre migliori intenzioni, nonostante la
nostra propensione alla guerra qui sul nostro pianeta. Come potremmo convincere gli alieni che non
proveremmo a farli saltare in aria con i nostri missili e le nostre testate nucleari è un altro problema; e un
messaggio del genere, in ogni caso, sarebbe una menzogna. Gli uomini hanno combattuto l’uno contro
l’altro per millenni a causa di minuscole differenze di razza, religione o cultura; immaginate come
reagirebbe la maggior parte della gente di fronte ad esseri veramente alieni: non soltanto una specie
diversa, ma una forma di vita del tutto anomala, con motivazioni sconosciute e sentimenti non umani. La
paura e la repulsione potrebbero provocare una reazione in cui prima si spara, poi si fanno domande. Il
mio messaggio personale a ET è di “stare alla larga e difendersi” prima di incappare nel vespaio della
nostra società militaristica. Spero che un simile avvertimento possa essere considerato, di per sé,
abbastanza altruistico da evitare un attacco preventivo.
Sono favorevole a METI; e non soltanto perché penso che non ci sia la benché minima probabilità
che qualcuno intercetti i segnali, ma perché l’atto di progettare e trasmettere dei messaggi in direzione
delle stelle ha molti scopi nobili, come aumentare l’interesse nei confronti della scienza in generale e di
SETI in particolare, e incoraggiare le persone (specialmente i giovani) a pensare al significato
dell’umanità e alla vastità dell’universo, e a riflettere su quali siano i fattori comuni alle nostre disparate
culture che vogliamo conservare per i posteri. METI è positivo per l’umanità e quasi di certo del tutto
innocuo, se consideriamo la probabilità infinitesimale che segnali spediti a caso siano mai rilevati da una
civiltà aliena malintenzionata.
Cosa dovremmo dire?
Nel contesto odierno METI è poco più di una bravata innocua. La situazione sarebbe
drammaticamente diversa, però, se avessimo davvero localizzato una civiltà aliena. In quel caso sarebbe
essenziale prevalessero pareri più saggi. Il punto 7 della Dichiarazione dei principi riguardanti le attività
che seguono il rilevamento di un’intelligenza extraterrestre racchiude il bisogno di cautela:
In risposta a un segnale o ad altre prove di intelligenza extraterrestre non dovrebbe essere
effettuata alcuna trasmissione finché non abbiano avuto luogo appropriate consultazioni internazionali.4
Giunta al suo cinquantesimo compleanno SETI rimane un’impresa edificante e grandiosa. I suoi
astronomi sono più dediti e ottimisti che mai: lo strano silenzio non ne ha offuscato lo zelo né cancellato
la motivazione, perché c’è sempre una possibilità che il prossimo turno di osservazioni finalmente rilevi
qualcosa di davvero convincente. Allo stesso tempo l’analisi dei dati di routine e lo sviluppo dei
macchinari vanno avanti. SETI è una tra le poche imprese umane che, davvero, possiede una visione a
lungo termine.
In questo libro ho cercato di spiegare con cosa siamo alle prese quando ci imbarchiamo in SETI,
e di esaminare in maniera critica le ipotesi nascoste che sottostanno alla strategia presente. Ho
argomentato che è giunto il momento di pensare in modo molto più creativo e di allargare la ricerca in
modi del tutto nuovi, senza per questo compromettere il tradizionale programma di SETI. Anche i più
ferventi ottimisti, tuttavia, concederanno che SETI è un’impresa straordinariamente rischiosa: tutto
quello su cui possiamo basarci sono principi scientifici generali e un’analisi filosofica. Il meglio che
possiamo dire è che non è stato fornito alcun ragionamento convincente sul perché una civiltà aliena non
possa esistere.
Ma allora perché lo facciamo? È possibile giustificare l’impresa di SETI, considerando le minime
prospettive di successo? Credo di sì, e per molte ragioni. In primo luogo ci costringe a confrontarci con le
grandi questioni dell’esistenza su cui dovremmo comunque riflettere. Cos’è la vita? Cos’è l’intelligenza?
Qual è il destino dell’umanità? Come ha notato Frank Drake, in molti sensi SETI è una ricerca su noi
stessi: su chi siamo e su quale sia il nostro posto nell’universo. Quando pensiamo a civiltà aliene
progredite stiamo anche sbirciando il futuro dell’umanità. Lo strano silenzio che ci avvolge ci fa esitare
sul fatto che tale futuro sia qualcosa di certo.
Cinquant’anni sono un utile punto di riferimento, e un ottimo momento per valutare il
programma. Di certo è troppo presto per scoraggiarsi e lasciar stare. Come ho spiegato, SETI ha
campionato soltanto una minuscola frazione degli habitat potenziali. Inoltre è chiaro che la galassia non
pullula di attività aliene; usando le parole di David Brin «anno dopo anno, lo spazio profondo è
scandagliato con i radiotelescopi e non si arriva a niente, nessuno dei “segnalatori” che ci aspetteremmo
di trovare. Nessun segno di reti di comunicazione interstellari. Non c’è nessuna traccia di una civiltà
tecnologica, là fuori. Nessuna»9. Per quanto dovremmo continuare allora? Dal momento che la versione
di SETI della legge di Moore implica che l’efficienza della ricerca cresca in modo esponenziale, cento
anni di silenzio sarebbero qualcosa di molto diverso da due volte cinquanta: ogni anno in più che produce
un risultato negativo amplifica in misura enorme il significato del silenzio, e rinforza le conclusioni
provvisorie che possiamo trarre.
La ricerca di un’intelligenza aliena è un esercizio del principio copernicano, che, grossomodo,
dice che la nostra posizione nello spazio non è speciale né privilegiata, e che quindi quel che succede
nella nostra parte di universo dovrebbe succedere anche altrove. Non è una legge di natura, ma soltanto
una regola empirica: “Perché pensiamo di essere così speciali?”. È inevitabile che in qualche punto sia
sbagliato, ed è proprio in questo punto in cui comincia a venir meno che è di enorme interesse e
importanza10: il principio copernicano funziona bene per galassie come la Via Lattea, per stelle come il
Sole nella galassia e, come abbiamo scoperto di recente, anche per interi sistemi planetari. Non è ancora
chiaro se il principio funzioni oppure no in modo specifico per pianeti simili alla Terra nella nostra
galassia. Al momento sembra che gli scienziati siano divisi tra i sostenitori della “Terra rara” e quelli
della “Terra comune”; ma l’incertezza potrebbe ben presto essere chiarita quando saranno disponibili i
risultati della missione Keplero, votata alla caccia di pianeti. Per contro, oggi sappiamo che la Terra
nell’ambito del sistema solare è piuttosto atipica per le sue condizioni fisiche, e che scienziati del
Rinascimento come Huygens e Keplero sbagliavano a considerare alla pari gli altri pianeti. Per quanto
riguarda la biologia, le tesi pro e contro il principio copernicano sono al momento in assoluto equilibrio le
une rispetto alle altre. Il caso si risolverebbe all’istante a favore dei pro, tuttavia, se scoprissimo una
biosfera ombra o una genesi di vita indipendente su Marte. Questo non ci porta all’intelligenza o alla
tecnologia, però: è possibile che il principio copernicano si applichi fino alle forme di vita complessa, ma
che venga meno quando si parli di comunità tecnologiche come la nostra. Potremmo ancora essere
assolutamente unici.
Non possiamo, certo, dimostrare il contrario. Potremmo proseguire con SETI per un milione di
anni senza mai incontrare nessuna prova dell’esistenza di alieni intelligenti, e questo non escluderebbe
comunque la loro esistenza; potrebbe esserci una pletora di motivi eccezionali per cui la nostra ricerca se
li sia fatti sfuggire. Se ricerche esaustive non conducessero a nulla, tuttavia, ossia se il silenzio diventasse
assordante, la maggior parte della gente si sentirebbe a suo agio rispetto all’ipotesi che, dopo tutto, siamo
completamente soli. E allora?
Concludere che siamo soli nell’universo amplificherebbe di gran lunga il valore che diamo alla
vita e alla mente, e al pianeta che li supporta. In questo modo il silenzio potrebbe essere d’oro. È pur vero
che in un certo senso la vita – o almeno la vita intelligente – dovrebbe essere considerata uno scherzo
della natura: ma la sua rarità ne diminuisce il valore, oppure lo accresce? Di certo dovremmo voler
curarci di più del nostro pianeta, e avremmo anche bisogno di curarci di più di noi stessi. Sarebbe una
tragedia di proporzioni cosmiche, in termini letterali, se riuscissimo ad annientare l’unica specie davvero
intelligente di tutto l’universo. C’è però un caveat fondamentale su cui è imperniata ogni conclusione di
vasta portata sulle implicazioni per l’umanità. Nel Capitolo 4 ho discusso se il “grande filtro” si trovi, nel
tempo, davanti o dietro di noi. Se la Terra non soltanto è l’unico pianeta con vita intelligente, ma anche
l’unico pianeta con forme di vita qualsiasi, siamo già passati attraverso il filtro, e potremmo essere pronti
per un esperimento cosmologico più unico che raro: potremmo far diventare il diffonderci al di là della
Terra la nostra missione e il nostro destino, portando con noi la fiaccola della vita, dell’intelligenza e
della cultura, e fare questo dono a innumerevoli mondi sterili. Se però scoprissimo che, anche se
l’intelligenza è confinata alla Terra, la vita complessa è diffusa, le conseguenze sarebbero davvero
allarmanti e deprimenti: ciò implicherebbe una probabilità molto più ampia che l’intelligenza si sia
evoluta su molti pianeti nella nostra galassia e in altre, e che sia sempre stata annientata dalle guerre, da
incidenti tecnologici o da una miriade di altre cause. A meno che avessimo ragioni davvero valide per
pensare che siamo estremamente atipici, ci aspetterebbe un destino simile.
La sostanza è molto semplice. Ci sono tre possibilità, ognuna con implicazioni drasticamente
diverse per l’umanità. La prima è un universo pieno di intelligenza: non è soltanto stimolante, ma
promette un brillante futuro per gli uomini. La seconda è che la Terra sia un’oasi di vita più unica che
rara: questo metterebbe sulle nostre spalle un enorme fardello di responsabilità, eppure ci fornirebbe una
missione cosmologica, ovvero perpetuare quel fenomeno prezioso che è la fiamma della ragione. Ma è la
terza possibilità, quella di un universo in cui la vita è diffusa ma non c’è nessuno tranne noi a celebrarla,
a promettere molto male per la nostra specie.
Potremmo essere soli, dopo tutto? La risposta dei tre cappelli
La gente mi chiede sempre, in modo piuttosto diretto: “Crede che siamo soli nell’universo, o che
ci siano là fuori, da qualche parte, altri esseri intelligenti?”. In questo libro ho cercato di presentare vari
argomenti pro e contro queste tesi, ma è giunto il momento, per me, di scendere in campo. E posso farlo
soltanto indossando, in successione, tre cappelli. Per prima cosa indosserò il mio cappello da scienziato.
Io, il Paul Davies “scienziato”, penso che siamo soli? In quanto scienziato la mia mente è aperta a nuove
prove, pertanto non ho deciso. Posso assegnare una qualche probabilità all’esistenza degli alieni basata
sull’aver esaminato tutti i fatti, soppesandola a sua volta in base all’importanza relativa che attribuisco ai
vari argomenti. Mettendo insieme il tutto, la mia risposta è che probabilmente siamo gli unici esseri
intelligenti dell’universo osservabile; e non mi sorprenderebbe molto se il sistema solare contenesse
l’unica vita di tutto l’universo osservabile. Sono arrivato a questa triste conclusione perché vedo tante
caratteristiche contingenti coinvolte nell’origine e nell’evoluzione della vita, e perché devo ancora
trovare un ragionamento teorico convincente su un principio di complessità universale crescente del tipo
di cui ho parlato nel capitolo precedente.
La mia risposta può essere deludente per il lettore. Di certo è deludente per me, il Paul Davies
“filosofo”. Indossando il mio secondo cappello, e lasciando da parte la scienza, quali sono i miei
sentimenti sulla natura di un universo in cui siamo soli? Ad essere sinceri, mi mette a disagio. Mi chiedo
a che scopo ci sia tutta quella roba là fuori, quando c’è soltanto il modesto Homo sapiens a guardarla. I
miei colleghi più realisti, ovviamente, mi dicono che non è lì per nessuno scopo, è lì e basta; l’idea che
l’universo abbia uno scopo, dicono, non è altro che uno strascico della religione.
E infine c’è il Paul Davies essere umano. Una delle cose che hanno influenzato la mia scelta
professionale è stata la mia fascinazione nei confronti dell’idea che ci potesse essere, là fuori da qualche
parte, una vita intelligente. Come tutti gli adolescenti ho letto i racconti di dischi volanti, e mi sono
chiesto se ci potesse essere dietro qualcosa di vero. Ho divorato romanzi di fantascienza di Arthur C.
Clarke, Fred Hoyle, Isaac Asimov e John Wyndham, e mi sono immaginato una galassia pulsante di
attività aliene. Ho visto il film di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio e mi sono rallegrato
all’idea che l’umanità potesse realizzare presto una dimensione astronomica; conosco altri scienziati che,
nell’arco delle loro carriere, hanno seguito lo stesso percorso. I decenni di lavoro come scienziato
professionista non hanno diluito la mia fascinazione da scolaretto con gli occhi spalancati dallo stupore.
Mi piacerebbe tantissimo credere che l’universo sia intrinsecamente amichevole nei confronti della vita e
dell’intelligenza. Si adatta al mio temperamento ipotizzare che i nostri modesti sforzi sulla Terra,
compresa la routine che consuma quasi tutto il nostro tempo e le nostre energie, siano parte di qualcosa di
più grandioso e significativo. Non posso pensare a nessuna scoperta più eccitante che incappare in una
prova chiara di un’intelligenza extraterrestre. Nei momenti di romanticismo mi piace pensare che tutte le
entità intelligenti, biologiche o no, godano di un legame di fratellanza che si espande nei meandri più
lontani dello spazio e del tempo, e su e giù lungo la scala del quoziente intellettivo. Che siano menti
quantistiche simili a divinità che fluttuano nel vuoto oscuro dello spazio intergalattico, supercyborg a
cavallo di comete, cervelli matrioska che abbracciano buchi neri rotanti o umili organismi biologici
dotati di grandi cervelli e una tecnologia sofisticata, mi piacerebbe avere notizie da loro. Indossando il
mio cappello da “sognatore”, pertanto, la risposta è sì: mi sento a casa in un universo in cui la vita
intelligente è qualcosa di comune. È più un volere che un credere, ma è il massimo in cui mi posso
spingere prima che il Davies “scienziato” mi trattenga.
Ed è questo che fa sì che SETI sia così eccitante. Il fatto che, molto semplicemente, non
sappiamo.
Appendice
Prefazione
1
Al giorno d’oggi la rilevanza della scoperta di Jansky è riconosciuta dal nome assegnato
all’unità di misura del flusso radio: il jansky.
2
G. Cocconi e P. Morrison, Searching for Interstellar Communications, in “Nature”, 184, 1959,
p. 844.
Arthur I. Miller, L’impero delle stelle. Amicizia, ossessione e tradimento alla ricerca dei buchi
neri
Daniela Minerva, Giancarlo Sturloni, Di cosa parliamo quando parliamo di medicina
Steven Mithen, Il canto degli antenati. Le origini della musica, del linguaggio, della mente e del
corpo
Evgeny Morozov, L’ingenuità della rete
Richard Muller, Fisica per i presidenti del futuro. La scienza dietro i titoli dei giornali
Gary Paul Nabhan, A qualcuno piace piccante
Giorgio Napolitano, Gustavo Zagrebelsky, L’esercizio della democrazia
Jayant Vishnu Narlikar, Le sette meraviglie del cosmo
Aldo Naouri, Adulteri
Aldo Naouri, Piccoli tiranni (non) crescono. Manuale di educazione per i figli d’oggi
Aryeh Neier, Alla conquista delle libertà
Henry Nicholls, George il Solitario
Martin A. Nowak, Supercooperatori. Altruismo ed evoluzione Helga Nowotny, Curiosità
insaziabile. L’innovazione in un futuro fragile
Helga Nowotny e Giuseppe Testa, Geni a nudo. Ripensare l’uomo nel XXI secolo Sherwin B.
Nuland, Il morbo dei dottori. La strana storia di Ignác Semmelweis
Robert Oerter, La teoria del quasi tutto. Il Modello Standard: il trionfo mai celebrato della fisica
moderna
Susie Orbach, Corpi
Domenico Parisi, Una nuova mente
Antonio Pascale, Luca Rastello, Democrazia: cosa può fare uno scrittore?
Marta Paterlini, Piccole visioni. La grande storia di una molecola
Massimo Piattelli Palmarini, Psicologia ed economia delle scelte
Richard Posner, Un fallimento del capitalismo. La crisi finanziaria e la seconda Grande
depressione
Norman Potter, Cos’è un designer
Franco Prattico, Eva nera
David Quammen, L’evoluzionista riluttante. Il ritratto privato di Charles Darwin e la nascita
della teoria dell’evoluzione
Richard Reeves, Una forza della natura. Ernest Rutherfor, genio di frontiera
Peter J. Richerson, Robert Boyd, Non di soli geni. Come la cultura ha trasformato l’evoluzione
umana
Matt Ridley, Francis Crick. Lo scopritore del codice genetico
Paul Roberts, La fine del cibo
Steven Rose, Il cervello del ventunesimo secolo. Spiegare, curare e manipolare la mente
Sharman Apt Russell, Fame. Una storia innaturale
Paul Seabright, In compagnia degli estranei. Una storia naturale della vita economica
Frank Schirrmacher, La libertà ritrovata. Come (continuare a) pensare nell’era digitale
Clay Shirky, Uno per uno, tutti per tutti. Il potere di organizzare senza organizzazione
Clay Shirky, Surplus cognitivo
Wole Soyinka, Clima di paura
Tom Standage, Una storia del mondo in sei bicchieri
Tom Standage, Una storia commestibile dell’umanità
Ian Stewart, La piccola bottega delle curiosità matematiche del professor Stewart
Mark C. Taylor, Il momento della complessità. L’emergere di una cultura a rete
Neil DeGrasse Tyson, Donald Goldsmith, Origini. Quattordici miliardi di anni di evoluzione
cosmica
Nicla Vassallo, Donna m’apparve
Nicla Vassallo, Filosofia delle conoscenze
Paolo Vineis, Equivoci bioetici
Paolo Vineis, Lost in translations
Edward O. Wilson, Il futuro della vita
Gabrielle Walker, Un oceano d’aria. Perché il vento soffia e altri misteri dell’atmosfera
Gabrielle Walker, Sir David King, Una questione scottante. Cosa possiamo fare contro il
riscaldamento globale
Spencer Wells, Il seme di Pandora. Le conseguenze non previste della civilizzazione
Peter Woit, Neanche sbagliata. Il fallimento della teoria delle stringhe e la continua sfida
all’unificazione delle leggi della fisica
Lewis Wolpert, Sei cose impossibili prima di colazione. Le origini evolutive delle credenze
Charles Yang, Il dono infinito. Come i bambini imparano e disimparano le lingue del mondo
Semir Zeki, Splendori e miserie del cervello
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