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Analisi Macroeconomica

Prof. Russo

2018/19
2
SOMMARIO
Analisi Macroeconomica 5
Funzioni di Politica Economica 11
Stabilizzazione Macroeconomica 16
Funzioni di Politica Economica: casistica. 24
Approccio moderno e limiti all’azione dei Policy makers. 26
Informazioni 26
Aspettative razionali 29
Credibilità 32
Incoerenza temporale 33
Moral hazard 34
Limiti alla benevolenza 37
Politica fiscale 40
Accumulazione del debito pubblico 44
Insostenibilità del debito pubblico 48
Teorie di accumulazione del debito pubblico 53
Teorie sull’effetto della politica fiscale 56
Modello di Mundell Fleming 64
Critica Neoclassica 67
Equivalenza Ricardiana 68
Estremizzazioni delle posizioni basate sulle aspettative 73
Politica Monetaria 79
Obiettivi delle Banche Centrali 86
Modello Neokeynesiano 95
Dimostrazione del modello Barrow-Gordon 102
Canali di trasmissione della Politica Monetaria 104
Politiche monetarie non convenzionali 110
Politica del tasso di cambio 115
Teorie di determinazione del tasso di cambio 119
Aree monetarie ottimali 126
3
Crisi Valutarie 131
La crisi finanziaria del 2007 (pt.1) 136
La crisi finanziaria del 2007 (pt.2) 143
Politica dell’occupazione 148
Modello neoclassico del mercato del lavoro 153
Classificazione della disoccupazione 154
Modello wage-setting price-setting 156
Modello di matching 161
Politiche della domanda di lavoro (pt.1) 168
Politiche della domanda di lavoro (pt.2) 170
Politiche della crescita 175
Politiche della crescita – Modelli esogeni 182
Politiche della crescita – Modelli endogeni 190
Politiche della crescita – New growth theory 199

4
Lezione 1 18/09/18

ANALISI MACROECONOMICA
Anzitutto, occorre fare una distinzione fondamentale nell’approccio all’economia:

• Approccio positivo: analisi del rapporto causa-effetto. Approccio tipicamente


usato in macroeconomia. Ad esempio: cosa succede se la BC aumenta il tasso
di interesse?
• Approccio normativo: analisi degli strumenti necessari a raggiungere
determinati obiettivi. Ad esempio: cosa occorre fare e che strumenti è
necessario utilizzare se l’inflazione è elevata?

L’analisi positiva costituisce, ovviamente, un prerequisito a quella normativa poiché


consente di capire cosa accade nell’economia e quali sono gli obiettivi da
raggiungere. La scelta delle migliori politiche economiche è fortemente condizionata
dal possesso di informazioni adeguate; le asimmetrie informative rappresentano uno
dei problemi principali nella scelta delle politiche ottimali: non è possibile
raggiungere il first best ma occorre accontentarsi del second best. Perché?
Perché i policy makers, nella scelta delle politiche ottimali, hanno una serie di vincoli
da considerare tra cui, per l’appunto, le asimmetrie. Ad esempio, una situazione di
asimmetria informativa si verifica nei monopoli naturali (ove può operare una sola
impresa per questioni tecniche). L’impresa monopolista, in quanto tale, può applicare
prezzi più elevati, causando una perdita del benessere ai consumatori. Per evitare ciò,
si può regolamentare il monopolio, imponendo al monopolista di non aumentare
eccessivamente i prezzi. Il problema, però, è che per imporre regole circa i prezzi al
monopolista, è necessario avere informazioni circa il suo processo produttivo e le
informazioni sono fornite dallo stesso monopolista il quale, ovviamente, non ha
interesse a rivelarle al regolamentatore. Al contrario, egli ha interesse a dichiarare
costi di produzione più elevati in modo tale da poter incrementare i prezzi.
In definitiva: lo Stato non ha informazioni sufficienti; le chiede al monopolista; il
monopolista usa strategicamente le informazioni. Risultato: impossibilità di
raggiungere il first best.

Esempio: Per comprendere l’analisi normativa, consideriamo la pirateria informatica


in ambito musicale. Il costo di copiare un Cd musicale è, essenzialmente, il mancato
guadagno per l’autore (inefficienza dinamica). La soluzione migliore, per risolvere la
questione, sarebbe imporre una norma fiscale che prevede il pagamento di una tassa a
carico di coloro che commettono l’atto di pirateria. La soluzione, però, per quanto
ottima, è impossibile data la difficoltà di individuare specificamente chi ha commesso
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l’illecito. Dunque, il first best è irraggiungibile. Occorre perseguire un second best:
ad esempio si potrebbero individuare, in base a caratteristiche personali, i maggiori
ascoltatori del genere musicale cui il Cd copiato appartiene e imporre loro la tassa
ma, in realtà, questa soluzione presenta problematiche: non è detto, infatti, che colui
cui si impone la tassa abbia commesso l’illecito. Ancora, si potrebbe tassare il Cd
bianco necessario per effettuare la copia. Ma si tratta, anche in questo caso, di una
soluzione secondaria poiché, ancora una volta non vi è la certezza della colpevolezza.

Un ulteriore esempio è dato dall’analisi di Von Hayek che vede la contrapposizione


tra un’economia centralizzata con un pianificatore che decide l’allocazione delle
risorse e un’economia decentralizzata ove le persone sono lasciate libere e i mercati
operano autonomamente1. L’idea di base è che un’economia pianificata difficilmente
possa funzionare date le forti asimmetrie informative. Il pianificatore, infatti, non
possiede le informazioni necessarie, relative alla funzione di produzione ma anche
alle preferenze dei consumatori, e questo gli impedisce di attuare il first best. In
un’economia decentralizzata, gli agenti, liberi di agire secondo le proprie preferenze,
sono in grado di ridurre le asimmetrie e migliorare l’efficienza allocativa.

L’approccio normativo non può, quindi, prescindere dai vincoli, di carattere


istituzionale quanto informativo. Occorre, inoltre, considerare che le politiche hanno
effetti multipli: un medesimo obiettivo può essere raggiunto con strumenti alternativi;
ciascuno strumento, però, genera effetti diversi su persone diverse: ecco perché
diviene difficile individuare gli strumenti ottimali.

• Approccio political economy: analisi delle decisioni assunte dai policy


makers. Si cerca di capire perché essi compiono determinate scelte e quali
incentivi si celano dietro. Ad esempio: perché il Governo decide di alzare o
abbassare l’età pensionistica?

Questo approccio nasce nel momento in cui muta la concezione dei “policy makers”.
In passato, quest’ultimi erano intesi quali soggetti perfettamente benevolenti: le loro
scelte coincidevano con il benessere della collettività. È stato solo successivamente
che si è compreso come gli incentivi siano in grado di discostare la funzione di utilità
dei policy makers dalla funzione di utilità sociale.

1
«Ogni individuo […] mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile, in questo come in molti
altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni.» Ricchezza delle nazioni, Adam Smith.
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Ma chi sono, effettivamente, i policy makers? Cosa fanno?

o Tassazione e spesa pubblica: decidono cosa e come tassare, come gestire


deficit e debito pubblico o, ancora, come spendere i soldi raccolti mediante la
tassazione. In Italia, i police makers che si occupano della politica fiscale sono
i politici eletti.
o Moneta: decidono i tassi di interesse, fissano le condizioni necessarie per la
concessione di credito al sistema bancario o, ancora, impongono i tassi di
cambio. Essi, per l’appunto, gestiscono la moneta. Si tratta, in questo caso,
della Banca Centrale, soggetto indipendente rispetto al Governo e al
Parlamento.
o Trattati: conclusione di negoziazioni internazionali. C’è tutta una serie di
organizzazioni internazionali (WTO, WB, IMF, ONU, UNESCO) cui il
Governo partecipa, stipulando trattati e conducendo negoziazioni con altri
Stati.
o Legislazione economica: fissano i limiti entro cui deve avvenire la politica
economica. Ad esempio, possono fissare un salario minimo nel mercato del
lavoro; individuare delle categorie protette o, ancora, stabilire dei requisiti per
l’apertura di nuove attività commerciali2. Si tratta, ancora una volta, del
Governo.
o Produzione di beni e servizi: è preferibile che la gestione di alcuni specifici
settori, data la loro importanza, competa allo Stato. La misura dell’intervento
statale nei settori e, quindi, nell’economia muta da Paese a Paese3.
Generalmente, quando lo Stato ha un ruolo diretto nella produzione di beni e
servizi, vuol dire che vi sono ragioni per ritenere che la massimizzazione del
profitto non sia l’unico obiettivo da perseguire.

Nell’ambito normativo, occorre compiere una distinzione tra gli obiettivi perseguiti e
gli strumenti utilizzati; come si diceva in precedenza, gli strumenti possono essere
molteplici e produrre effetti diversi. Ecco perché è necessario valutare l’opportunità
di ciascuno di essi, al fine di individuare il migliore.

2
Si tratta di barriere volte a garantire la qualità anche se, con esse, si corre il rischio di creare scarsa competitività e
causare un rialzo dei prezzi, con conseguente perdita di benessere del consumatore.
3
L’intervento può essere minimo o, al contrario, molto esteso. In Italia, una volta, esisteva anche il Ministero a
partecipazioni statali.
7
Obiettivi:

- Occupazione
- Inflazione
- Riduzione del debito pubblico
- …

Strumenti:

- Tasso di interesse
- Tassazione
- Spesa pubblica
- Variazioni di credito
- …

La BC è indipendente perché ciò consente di evitare che la PF generi pressioni


inflazionistiche, premendo affinché la BC acquisti il debito pubblico (generando, in
questo modo, l’inflazione). Dunque, il tipo di strumento muta in base al meccanismo
complessivo: una Banca Centrale indipendente incide sull’effetto che variazioni del
tasso di interesse o della PF hanno sull’inflazione. Il frame work istituzionale è
fondamentale.
Infine, occorre ricordare che all’utilizzo di uno strumento sono sempre associati i
cosiddetti “trade-off”.

Inflazione

Tasso di
disoccupazione

Consideriamo, ad esempio, la curva di Phillips: trade-off negativo tra inflazione e


tasso di disoccupazione. Data un’inflazione eccessivamente elevata, l’obiettivo è
quello di ridurla. La BC decide allora di aumentare il tasso di interesse (strumento).

8
L’aumento del tasso di interesse porta un minor numero di imprenditore a richiedere
un prestito per poi investire. Se gli investimenti si riducono, si riduce la domanda
aggregata, l’output e, quindi, l’inflazione: si raggiunge, così, l’obiettivo.
D’altro canto, però, l’aumento del tasso di interesse, data la riduzione dell’output,
conduce anche ad un aumento del livello di disoccupazione.
In conclusione, ad ogni strumento sono sempre connessi vantaggi e svantaggi, ecco
perché diviene difficile l’individuazione della politica ottimale.

Gli interventi di politica economica possono essere classificati in due categorie:

• Economic managment: gestione del trade-off.


• Structural reform: miglioramento del trade-off.

Nell’esempio fatto, aumentare l’indipendenza della banca centrale, può migliorare il


trade-off: per qualsiasi livello di disoccupazione l’inflazione è più bassa. Si tratta,
quindi, di un esempio di politica strutturale. Se la BC non risponde a pressioni
politiche ma ha quale unico obiettivo mantenere un’inflazione bassa, vi sono
aspettative circa un’inflazione bassa. Questo determinerà, effettivamente, un più
basso livello di inflazione per qualsiasi livello di disoccupazione: il trade-off, come
detto, migliora.

Un ulteriore esempio di trade-off è dato dalla relazione tra produttività ed


occupazione.

Produttività

Occupazione

La relazione esistente è decrescente. Si pensi al meccanismo di allocazione nel


mercato del lavoro: da un lato, ci sono imprese che cercano lavoratori e dall’altro, c’è
un pull di lavoratori con caratteristiche differenti. Ora, supponendo che l’impresa
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abbia informazioni perfette, essa sceglierà, ovviamente, i lavoratori migliori, i più
produttivi. Quantomeno all’inizio. Ma se l’impresa continua ad avere bisogno di
lavoratori, essa si troverà a scegliere, progressivamente, lavoratori meno produttivi.
Dunque, più aumenta la produzione e, quindi, l’occupazione, più sono occupati
individui con una produttività più bassa.
Supponiamo che la BC decida di attuare una politica monetaria espansiva, utilizzando
come strumento, anche in questo caso, il tasso di interesse. La riduzione del tasso di
interesse e l’aumento del credito disponibile determinano un aumento della domanda
aggregata, della produzione e dell’occupazione. Tuttavia, determinano anche una
riduzione della produttività aggregata. Si tratta, in questo caso, di una politica
economica che mira semplicemente a gestire il trade-off.
Un esempio di politica strutturale che può migliorare il trade-off, aumentando la
produttività per qualsiasi livello di occupazione (spostamento della curva verso
destra), è dato da un aumento dei sussidi all’istruzione, volti a migliorare la
formazione e le competenze dei lavoratori.

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Lezione 2 20/09/18

FUNZIONI DI POLITICA ECONOMICA


È possibile distinguere tre funzioni dell’intervento pubblico in economia:

1. Allocazione delle risorse.


2. Stabilizzazione macroeconomica.
3. Redistribuzione delle risorse.

1. Gli interventi allocativi mirano all’allocazione e, dunque, alla distribuzione


efficiente dei fattori produttivi → Allocazione Pareto efficiente: l'allocazione
delle risorse è tale che non è possibile apportare miglioramenti paretiani al
sistema, ovvero non esiste un’altra allocazione che migliori la condizione di un
agente senza peggiorare la condizione di un altro.
2. La stabilizzazione avviene rispetto a shock esogeni: le economie, infatti, sono
normalmente colpite da shock esogeni, quali variazioni dei prezzi nei mercati
internazionali o variazioni di fiducia degli agenti (ottimismo o pessimismo). Le
variazioni determinano fluttuazioni della domanda aggregata per cui l’obiettivo
della stabilizzazione è quello di ripristinare l’equilibrio, ovvero stabilizzare
l’andamento delle variabili macroeconomiche rispetto agli shock.
3. Si tratta di cambiare la distribuzione delle risorse perché, ad esempio, ritenuta
iniqua. Ciò può avvenire mediante la tassazione.

Qual è la differenza tra allocazione delle risorse e stabilizzazione


macroeconomica?

Considerata la serie storica di una variabile macroeconomica (ad esempio, del PIL),
essa può essere decomposta in due pezzi:

- Trend: tendenza di lungo periodo.


- Ciclo: fluttuazioni rispetto alla tendenza di lungo periodo.

FLUTTUAZIONI

TREND

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La funzione allocativa poggia su interventi di politica economica riguardanti la
tendenza di lungo periodo: una politica che migliore l’efficienza allocativa è una
politica che migliora il trend di lungo periodo. Al contrario, le politiche di
stabilizzazione mirano alla riduzione delle fluttuazioni rispetto al trend di lungo
periodo.
Ora, affrontiamo la questione relativa alla decomposizione da un punto di vista
formale. Consideriamo la seguente funzione di produzione:

𝑌𝑡 = 𝐹𝑡 (𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 )

𝑌𝑡 : quanto l’economia produce al tempo t (oggi); dipende da:


𝐾𝑡 : quanto capitale c’è nell’economia oggi;
𝑁𝑡 : quante persone lavorano oggi;
(e dal livello tecnologico: ovvero da come si combinano tra loro capitale e lavoro).

Breve periodo.
̅𝑡 .
Dato il breve periodo, consideriamo il capitale fisso: 𝐾

̅𝑡 = (1 − 𝜇̅ 𝑡 )𝐿̅𝑡
𝑁
𝐿̅𝑡 : Forza lavoro → quante persone potrebbero lavorare;
𝜇̅ 𝑡 : Tasso di disoccupazione di equilibrio (o di piena occupazione) → Tutte le persone
che vogliono lavorare, lavorano. Dunque, il tasso di disoccupazione d’equilibrio è
dato dalla somma dei disoccupati volontari e frizionali. I disoccupati frizionali si
trovano tra un impiego e l’altro, momentaneamente disoccupati ma già in cerca di un
nuovo lavoro. Vi è, infatti, un tempo necessario per trovare una nuova occupazione.
𝑁̅𝑡 : Livello di occupazione potenziale → Data nel breve periodo la struttura e il
funzionamento del mercato del lavoro, non è possibile occupare più persone del
suddetto livello. Nel lungo periodo, il livello è, chiaramente, endogeno poiché può
sempre mutare il modo in cui funziona il mercato del lavoro.
A questo punto, possiamo definire l’output potenziale ovvero quanto è possibile
produrre nell’economia, dato il funzionamento del mercato del lavoro e il livello di
capitale:
𝑌̅𝑡 = 𝐹𝑡 (𝐾
̅𝑡 ; 𝑁
̅𝑡 )

Il livello di produzione in corrispondenza del tasso di disoccupazione di equilibrio o,


anche, del livello di occupazione potenziale. Anche questo caso, ovviamente, si tratta
di una variabile che può mutare nel lungo periodo.

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A partire dall’output potenziale, si definisce l’output gap:

𝑌𝑡 − 𝑌̅𝑡
𝑂𝑢𝑡𝑝𝑢𝑡 𝐺𝑎𝑝 =
𝑌̅𝑡
L’output gap è la differenza percentuale tra la produzione attuale e la produzione
potenziale. Gli interventi di stabilizzazione mirano a ridurre l’output gap mentre gli
interventi allocativi migliorano l’output potenziale.
L’output gap può essere positivo o negativo:

• 𝑌𝑡 < 𝑌̅𝑡 → OG negativo: L’economia, oggi, produce meno di quanto potrebbe.


Nell’analisi keynesiana, quanto l’economia produce oggi dipende dalla
domanda aggregata; quanto si potrebbe produrre, invece, dipende solo da
fattori relativi all’offerta. Quindi l’output potenziale dipende dalla struttura
dell’economia mentre l’output attuale dipende anche dalla domanda. L’analisi
keynesiana prevede che, a volte, per ondate di pessimismo, la domanda
aggregata si riduce; dunque, si produce meno generando un output gap
negativo. Keynes vedeva nella politica (fiscale o monetaria) espansiva la strada
per ridurre le fluttuazioni e l’output gap.
• 𝑌𝑡 > 𝑌̅𝑡 → OG positivo: L’economia, oggi, produce più di quanto potrebbe,
ovvero oltre le proprie possibilità. Si pensi alle bolle speculative: molte
persone tendono a comprare un bene solo perché si aspettano che in futuro
valga di più. La domanda aumenta eccessivamente e così i prezzi, alimentando
sempre più la bolla speculativa. Politiche restrittive per ridurre l’output gap.

L’output gap è misurabile?

No poiché, pur ammettendo di poter identificare la forza lavoro, misurare il capitale o


conoscere il livello tecnologico, il tasso di disoccupazione d’equilibrio resta,
comunque, difficilmente misurabile. Dunque, si determina, statisticamente, l’output
potenziale e, conseguentemente, l’output gap. Si considera una serie storica e da essa
si estrae, ovvero si stima statisticamente, un trend di crescita di lungo periodo.
L’approccio statistico, ovviamente, non tiene conto delle condizioni
microeconomiche per cui possono esservi errori di misurazione. Quest’ultimi
possono generare problemi notevoli nel momento in cui si decidono gli interventi di
politica economica. Di fatti, nel momento in cui si deve decidere come agire di fronte
a variazioni dell’output potenziale, è necessario essere in grado di capire se le stesse
variazioni rappresentano delle semplici fluttuazioni o una mutazione del trend di
lungo periodo.
13
È opportuno che lo Stato intervenga? Esiste un fondamento teorico
alla base del suo intervento?
No se si prende come dato il 1° teorema dell’economia del benessere: lasciando gli
agenti liberi di scambiare nel perseguimento dei loro interessi individuali, il mercato
raggiunge un’allocazione delle risorse Pareto-efficiente per cui non è possibile
migliorare la condizione di un agente senza peggiorare la condizione di almeno un
altro agente. Dunque, qualsiasi intervento pubblico, in questo contesto, peggiora la
situazione di almeno un soggetto; ecco perché non è giustificabile un intervento
statale.
Il problema è che il teorema dell’economia del benessere richiede, ai fini della sua
validità, delle condizioni che, in pratica, non sono quasi mai verificate. Inoltre anche
se vigessero tutte le condizioni, vi sarebbero comunque problemi redistributivi. Il
concetto di efficienza paretiana, infatti, non considera questioni redistributive:
un’economia ove ci sono due soli agenti di cui uno possiede tutte le risorse e l’altro
nessuna può essere considerata efficiente. In altre parole, non si considera l’equità
nella distribuzione delle risorse. Dunque, l’intervento pubblico può trovare la propria
giustificazione in ragioni di equità.
In generale, esiste un trade-off tra efficienza allocativa ed equità: soluzioni volte
all’equità possono ridurre l’efficienza allocativa. D’altro canto, però, esistono anche
soluzioni in grado di ridistribuire le risorse, migliorando l’equità senza peggiorare
l’allocazione efficiente. Si pensi, ad esempio, ai sussidi.

Condizioni di validità del 1° Teorema dell’economia del benessere:


• Concorrenza perfetta (P=CM): L’idea della concorrenza perfetta è che le
imprese non abbiano potere di mercato per cui vi sono tantissimi produttori con
una quota di mercato talmente piccola da non poter incidere, in alcun modo,
sul prezzo. Condizione inesistente perché nella realtà, la maggior parte delle
imprese ha potere di mercato.
• Informazione perfetta: Le informazioni sono distribuite in maniera
disomogenea tra gi agenti e, soprattutto, gli stessi agenti utilizzano in maniera
strategica le informazioni in loro possesso. Esempio di Akerlof: mercato delle
auto usate. Data l’impossibilità di conoscere realmente le condizioni dell’auto,
i compratori saranno disposti a spendere di meno. D’altra parte, però, coloro
che hanno auto in buone condizioni, non saranno disposte a venderle per pochi
soldi → Adverse selection: alla fine resteranno sul mercato solo le auto
peggiori che nessuno vorrà → il mercato fallisce. Una soluzione potrebbe
essere, ad esempio, una garanzia ovvero un’assicurazione per un dato periodo
14
di tempo a carico del venditore. Ciò incentiva quest’ultimo a fornire
informazioni veritiere circa le condizioni dell’auto.
• Mercati completi: ovvero mercati in cui sia possibile scambiare ogni bene o
servizio. Non sempre vero. Ad esempio, è difficile per gli studenti prendere a
prestito per finanziare la propria istruzione poiché l’unica garanzia che possono
fornire è il guadagno futuro incerto. Questo rende il mercato dei “prestiti
d’onore” molto difficile. Una soluzione potrebbero essere delle garanzie
pubbliche.
• Assenza di esternalità: assenza di costi per soggetti esterni. Ad esempio, se
un’impresa con i propri processi produttivi inquina l’ambiente, genera un costo
per soggetti che non sono direttamente connessi alla propria attività produttiva
→ esternalità negativa. La funzione di utilità pubblica è diversa da quella
individuale e se le imprese non considerano i costi esterni della propria
produzione, tenderanno a produrre di più di quanto è ottimale fare.

Se le condizioni sono verificate, i mercati funzionano. Laddove le condizioni (anche


solo una di esse) non siano verificate, non si raggiunge l’allocazione pareto efficiente;
a tal proposito, si dice che i mercati falliscono.

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Lezione 3 25/09/18

STABILIZZAZIONE MACROECONOMICA
Come è possibile giustificare l’intervento pubblico volto alla stabilizzazione
macroeconomica? Rigidità nominali.
Per comprenderlo, occorre tornare all’idea keynesiana originaria circa l’opportunità
delle politiche di stabilizzazione. Gli elementi teorici sono sostanzialmente due:

• L’economia è colpita da shock esogeni: nell’analisi keynesiana tradizionale,


gli shock esogeni sono rappresentati da ondate di pessimismo e ottimismo.4
• L’economia è caratterizzata da rigidità nominali: i prezzi (come i salari)
non si aggiustano istantaneamente per cui, differentemente da ciò che accade in
presenza di prezzi flessibili, le loro variazioni sono lente. I prezzi sono rigidi
nel breve periodo; sono, invece, flessibili nel lungo periodo.

Laddove si verifichino degli shock esogeni in un’economia caratterizzata da rigidità


nominali, è possibile che la quantità prodotta sia diversa da quella che l’economia
potrebbe, potenzialmente, produrre (maggiore o inferiore). A questo punto, quindi, è
giustificato un intervento statale.
Esaminiamo la situazione utilizzando un modello di domanda e di offerta aggregata
di breve periodo. La curva di domanda aggregata è inclinata negativamente:
all’aumentare dei prezzi, si riduce la quantità domandata. Il punto cruciale dell’analisi
keynesiana, però, è l’ipotesi per cui, in presenza di rigidità nominali, ovvero nel breve
periodo, vi sia una curva di offerta aggregata inclinata positivamente: se aumentano i
prezzi, aumenta la quantità offerta. Perché?

Supponendo che non vi sia capitale, le decisioni sul livello conveniente di produzione
𝜔
per l’impresa dipendono esclusivamente dal salario reale ( ), unico costo
𝑃
dell’impresa. Se i salari nominali (𝜔) sono rigidi (non si aggiustano all’aumentare dei
prezzi), un aumento del livello dei prezzi (𝑃) determina una riduzione del salario
reale ovvero dell’unico costo sostenuto dall’impresa in base al quale, come si è detto,
si decide il livello di produzione. In definitiva, diviene più conveniente produrre e,
dunque, l’impresa produce di più.

4
Keynes parla, a tal proposito, di “animal spirits” per identificare un complesso di emozioni istintive che guidano il
comportamento umano ed imprenditoriale. Keynes fu il primo a comprendere l’importanza, nelle decisioni economiche,
degli aspetti umorali della mente umana.
16
Perché i salari nominali sono rigidi e non si aggiustano istantaneamente?
Keynes considerava questa rigidità come un dato di fatto. Tuttavia, analisi successive
hanno fornito diverse motivazioni, molte delle quali hanno a che fare con i salari
multiperiodali. Di fatti, i contratti di lavoro sono firmati per periodi temporali medio
lunghi e, spesso, accade che i salari vengano fissati per l’intero periodo del contratto.
Supponiamo che, oggi, un’impresa assuma nuova forza lavoro con un contratto di
cinque anni che stabilisce un salario predeterminato per il medesimo periodo.
Supponiamo, poi, che l’anno successivo alle assunzioni, si verifichi una recessione
dovuta ad un’ondata di pessimismo. Tecnicamente, l’impresa avrebbe due possibilità
per cercare di ripristinare l’equilibrio: aggiustare i prezzi o aggiustare le quantità.

Aggiustare dal lato dei prezzi equivarrebbe a ridurre i salari nominali in maniera tale
da poter ridurre i prezzi e produrre esattamente la stessa quantità antecedente la
recessione. Tuttavia, questa possibilità è preclusa all’impresa data la rigidità dei
salari. Non resta quindi che ricorrere all’aggiustamento delle quantità: l’impresa non
riduce i prezzi ma la quantità offerta. L’aggiustamento delle quantità rappresenta la
peculiarità dell’analisi keynesiana.

Analisi Keynesiana – Breve periodo → Curva di offerta inclinata positivamente


→ aggiustamento dal lato delle quantità.

P
S

𝐷1

In questo caso è giustificato l’intervento pubblico ai fini della stabilizzazione: lo


Stato interviene per riportare la produzione e l’occupazione al suo livello naturale. 5

5
Una deviazione dal livello naturale di produzione ed occupazione, anche per brevi periodi, può condurre a
conseguenze molto gravi. Basti pensare al fenomeno dell’isteresi della disoccupazione (del quale si parlerà più avanti):
più una persona è disoccupata, più diventa difficile trovare un’occupazione; più tende, quindi, a restare disoccupata.
Ecco perché, in queste circostanze, è consentito e giustificato l’intervento statale.
17
L’intervento keynesiano classico, in questa circostanza, è dato da una politica della
domanda aggregata: politica monetaria o fiscale espansiva.

Analisi Monetarista Neoclassica - Lungo periodo → Curva di offerta verticale →


aggiustamento dal lato dei prezzi.

Supponiamo ora che prezzi e salari siano perfettamente flessibili. Idea neoclassica:
l’economia opera in corrispondenza del tasso naturale di disoccupazione, dunque
produce sempre al suo livello potenziale. In questo caso, se si verifica uno shock
negativo della domanda, l’aggiustamento non avviene dal lato della quantità ma dei
prezzi: si abbassano i salari e, quindi, i prezzi e l’economia resta al suo livello
naturale. Stavolta, quindi, non sono giustificati interventi pubblici ai fini della
stabilizzazione. Di fatti, se i prezzi sono flessibili, variazioni delle domanda
aggregata, e cioè politiche espansive, non hanno effetti reali ma solo nominali. In
altre parole l’unico effetto che si genera è un aumento dei prezzi unito,
conseguentemente, ad un aumento dell’inflazione. Dunque, le politiche keynesiane di
espansione sono opportune solo in un contesto rigido e non anche flessibile.

𝐷1

Il framework concettuale utilizzato è il Modello di sintesi neoclassica: l’economia,


nel breve periodo, funziona in maniera keynesiana per cui i salari nominali sono
rigidi e la curva di offerta è inclinata positivamente. Nel lungo periodo, invece,
l’economia si comporta in maniera neoclassica per cui salari e prezzi sono flessibili e
la curva di offerta aggregata è una retta verticale in corrispondenza del tasso naturale
di disoccupazione.
La conclusione è che esiste un periodo di aggiustamento tra breve e lungo periodo.
Salari e prezzi non si aggiustano istantaneamente ma solo dopo un certo tempo.
18
Dunque, le politiche di gestione della domanda aggregata sono opportune solo nel
breve periodo, in presenza di rigidità. Tra l’altro, se la differenza tra breve e lungo
periodo è minima, per cui l’aggiustamento è ragionevolmente rapido, non vi è
necessità di intervento da parte dello Stato.

Oltre a shock della domanda, possono, ovviamente, verificarsi anche shock


dell’offerta. L’economia parte da una situazione d’equilibrio per poi subire uno shock
negativo dell’offerta: produce meno di
P 𝑆1 quanto potrebbe e il prezzo finale
S aumenta. Ciò avviene quando
aumentano i costi di produzione; si
pensi, ad esempio, ad un aumento del
prezzo del petrolio: se l’impresa
P utilizza molta energia nelle proprie
𝑃̅
attività produttive, sarà costretta a
D supportare costi più elevati; quindi,
produrrà meno e imporrà prezzi più
Y 𝑌̅ Y elevati. Cosa si può fare in presenza di
questo shock?
Nella concezione keynesiana, si
P
𝑆1 S interviene sulla domanda aggregata
attuando politiche espansive. Ad
esempio, si può attuare una politica
fiscale espansiva, tagliando le tasse o
concedendo sussidi per far tornare
P
l’economia a produrre al suo livello
𝑃̅ naturale, supportando, però,
D
un’inflazione più elevata.

Y 𝑌̅ Y Nella concezione neoclassica, gli shock


di offerta negativi non possono essere
corretti con politiche espansive poiché, come si è detto in precedenza, si genererebbe
solo inflazione. Data la flessibilità di prezzi e salari, l’aggiustamento avviene in
maniera naturale mediante una riduzione dei salari, cosicché l’economia produce
sempre al suo livello potenziale.

19
Valutazione delle politiche economiche rispetto alle tre funzioni.
• Funzione allocativa.

Si utilizza il criterio dell’utilitarismo: per valutare gli effetti allocativi, si guarda alle
utilità individuali. Si valuta, cioè, l’effetto degli interventi allocativi sulle utilità degli
individui. Le utilità individuali, però, devono essere aggregate in due dimensioni:
- Dimensione spaziale: occorre aggregare tutte le utilità individuali in un’unica
utilità collettiva.
- Dimensione temporale: occorre aggregare le utilità presenti e future.

Come si può realizzare un’aggregazione temporale? Sommando tutte le utilità:


𝑇
𝑢1𝑡
𝑈=∑
(1 + 𝜌)𝑡
𝑡=0

L’utilità temporale aggregata individuale è la somma delle utilità relative ai diversi


periodi. Normalmente, non si dà lo stesso peso alle utilità future e all’utilità attuale.
𝜌 è un tasso di sconto ovvero una preferenza intertemporale. L’utilità che l’individuo
avrà, ad esempio, tra 20 anni vale meno dell’utilità che l’individuo ha oggi. Più alto è
𝜌, più l’individuo è impaziente, ovvero preferisce l’utilità attuale.
L’aggregazione temporale delle utilità è importante. Si pensi, ad esempio, ad un
incremento dei contributi pensionistici obbligatori: esso riduce il reddito attuale per
aumentare il reddito futuro. Dunque, esso determina, per gli individui pazienti, un
aumento della loro utilità intertemporale mentre ne determina una riduzione per gli
individui molto impazienti.
Un’ulteriore esempio è dato dalla decisione circa il consolidamento del debito
pubblico. Un Paese con un debito molto elevato, può decidere di pagarlo subito o di
rimandare il pagamento. Nel primo caso, si riduce l’utilità della generazione attuale
che sopporterà tasse più elevate e una minore spesa pubblica. D’altra parte, aumenta
l’utilità delle generazioni future. Avviene esattamente l’opposto nel caso in cui si
decida di rimandare il pagamento del debito.6
Ancora, altro esempio tipico è la liberalizzazione del commercio con l’estero. In
un’economia chiusa, non è possibile né esportare né importare. Supponiamo, che,
improvvisamente, sia possibile esportare e importare alcuni beni. È molto probabile
che, nel breve periodo, vi sarà una riallocazione delle risorse che genererà anche
disoccupazione. Di fatti, se un settore si espone alla concorrenza con l’estero, ci
possono essere degli effetti negativi. D’altro canto, però, ci può essere un

6
A tal proposito entrerebbe in gioco una forma di solidarietà intergenerazionale.
20
miglioramento di utilità nel lungo periodo perché l’apertura del commercio con
l’estero, crea maggiori opportunità.

Come avviene, invece, l’aggregazione spaziale?


Esistono diversi criteri utilizzabili:

Criterio Paretiano: è un modo per aggregare le utilità individuali; esso consente di


migliorare la situazione di almeno un individuo senza peggiorare quella di
nessun’altro.

Classe di modelli economici con consumatori rappresentativi: si assume che la


funzione di utilità individuale riflette quella di un consumatore rappresentativo,
ovvero un consumatore che possiede esattamente le stesse caratteristiche di tutti gli
altri, per cui un miglioramento dell’utilità del consumatore rappresentativo equivale
ad un miglioramento dell’utilità di tutti gli altri.

Aggregazione delle funzioni di utilità: supponiamo che la collettività sia composta


da n individui; si costruisce una funzione di utilità sociale 7 sommando le funzioni di
utilità individuale:

𝑈𝑡𝑠𝑜𝑐𝑖𝑎𝑙𝑒 = 𝑈𝑡1 + 𝑈𝑡2 + ⋯ + 𝑈𝑡𝑛

È un criterio molto diverso da quello paretiano. Di fatti, è possibile che una politica
peggiori notevolmente la situazione di un individuo ma migliori notevolmente la
situazione di un altro soggetto.

Criterio di Rauls: la funzione di utilità sociale coincide con l’utilità più bassa. La
società si identifica nella persona che si trova nella situazione peggiore.

𝑈𝑡𝑟𝑎𝑢𝑙𝑠 = 𝑚𝑖𝑛 {𝑈1 , 𝑈 2, . . . , 𝑈 𝑛 }

È concettualmente ineccepibile valutare le politiche economiche rispetto agli effetti


che hanno sui singoli individui e, quindi, utilizzare le utilità individuali come criterio
per valutare gli effetti allocativi. Tuttavia, per quanto ineccepibile, è piuttosto
difficile identificare cosa costituisce una funzione di utilità sociale. Ed è difficile
perché l’aggregazione delle utilità individuali, sia dal punto di vista temporale che
spaziale, richiede delle assunzioni. E in base alle assunzioni fatte, si ottiene una
differente funzione di utilità sociale. Innanzitutto c’è l’aggregazione temporale:

7
La funzione di utilità sociale è anche detta funzione benthamiana da Jeremy Bentham, uno dei primissimi esponenti
dell’utilitarismo.
21
occorre decidere se utilizzare il tasso di sconto e, in caso affermativo, fissare il tasso.
Poi, occorre scegliere uno tra i numerosi criteri di aggregazione spaziale. Ciascun
economista potrebbe compiere scelte differenti nel determinare la funzione di utilità
sociale e differenti funzioni di utilità sociale conducono a differenti valutazioni delle
politiche economiche.

“If you put two economists in a room, you get two opinions, unless one of them is
Lord Keynes, in which case you get three opinions.”

- Winston Churchill

• Funzione di stabilizzazione.

Per valutare le politiche di stabilizzazione, è possibile utilizzare, anche in questo


caso, le funzioni di utilità individuali. Di fatti, se c’è una recessione, è possibile
utilizzare l’effetto che la recessione ha sulle utilità individuale. Quindi, si utilizza la
funzione di utilità sociale per valutare gli effetti di stabilizzazione delle politiche
economiche. Tuttavia ci sono due problemi relativi al suddetto utilizzo:

1. Costo della disoccupazione: normalmente una funzione di utilità sociale


sottostima i costi della disoccupazione. Perché?
𝑈𝑡 = 𝐹(𝐶𝑡 , 𝐿𝑡 )
Se un individuo non lavora, avrà un reddito e, di conseguenza, un consumo più
basso. Questo porta ad una riduzione della sua utilità. D’altro canto, però, la
mancata occupazione aumenta le ore di tempo libero a disposizione e, quindi,
genera un aumento di utilità per l’individuo, bilanciando, seppur in parte, la
riduzione dovuta al reddito più basso. Ecco perché può esservi una sottostima
della disoccupazione.
2. Inflazione: le politiche di stabilizzazione mirano a correggere squilibri temporanei
rispetto all’inflazione. Si pensi, ad esempio, ad ondate di ottimismo: se non si
possono aggiustare i salari nominali, saliranno i prezzi, generando inflazione. Per
correggere l’inflazione è possibile intervenire, ad esempio, con una stretta
creditizia.
Si possono utilizzare le funzioni di utilità individuale per valutare i benefici di una
politica disinflazionistica?
Normalmente, le funzioni di utilità individuali dipendono da quantità reali e non
nominali (ovvero non dal livello dei prezzi). Ciò significa che non è possibile
valutare gli effetti dell’inflazione ma solo gli effetti allocativi dell’inflazione; non
è possibile valutare i benefici derivanti dal fatto che l’inflazione sia stata ridotta.

22
Generalmente, per valutare gli effetti delle politiche di stabilizzazione, si
utilizzano le cosiddette “loss function” (funzioni di perdita):

(𝑌 − 𝑌̃ )2 → Supponendo che l’unico obbiettivo è il livello di output, questa


rappresenta una loss function: differenza tra il valore di una variabile
macroeconomica ed il suo livello obiettivo. Se l’economia produce ad un livello
diverso dal livello obiettivo, si generano delle perdite; le politiche di
stabilizzazione mirano a minimizzare le perdite ovvero gli scostamenti delle
variabili macroeconomiche rispetto ai loro obiettivi.

(𝑌 − 𝑌̃ )2 + 𝛼 (𝜋 − 𝜋̃)2 → Laddove ci siano più variabili ovvero più obbiettivi: in


questo caso output ed inflazione.

In definitiva, una politica di stabilizzazione è efficiente quando minimizza gli


scostamenti.

• Funzione di redistribuzione.

Le politiche di redistribuzione sono giustificate dall’esistenza di disuguaglianza e, di


fatti, mirano ad una riduzione della stessa. Non stupisce, quindi, che, per valutare gli
effetti redistributivi, si utilizzino misure statistiche di disuguaglianza come, ad
esempio, l’indice di Gini.

23
Lezione 4 26/09/18

FUNZIONI DI POLITICA ECONOMICA: CASISTICA.

• Riduzione tasse reddito.

1. Effetti di stabilizzazione:
Assumendo prezzi rigidi nel breve periodo, si verifica un aumento della domanda
aggregata e del reddito.

2. Effetti allocativi:
Se vi è una minore tassazione sul reddito (reddito da lavoro), è più conveniente
lavorare per cui aumenta l’offerta di lavoro.

3. Effetti redistributivi:
Vi è un aumento della disuguaglianza: aumenta il reddito di chi lavora; al contrario i
disoccupati avranno un reddito più basso.

• Aumento social transfers (sussidi).

1. Effetti di stabilizzazione:
Anche in questo caso, si verifica un aumento della domanda aggregata e del reddito.

2. Effetti allocativi:
Si riduce l’offerta di lavoro. L’aumento dei social transfers, infatti, può generare la
cosiddetta “trappola degli incentivi”: in presenza di un sussidio particolarmente
generoso nonché illimitato da un punto di vista temporale, gli individui accetteranno
solo lavori con un salario sufficientemente più elevato rispetto al sussidio. Questo,
però, conduce ad un’inefficienza dinamica poiché i lavoratori, non lavorando,
perdono le proprie abilità e diventano sempre meno occupabili per il futuro. Si parla,
a tal proposito, di isteresi della disoccupazione: più una persona resta disoccupata,
più difficile diventa trovare lavoro; e ciò non solo per una perdita di competenze ma
anche per il cosiddetto effetto segnale: la lunga disoccupazione viene, ovviamente,
percepita negativamente dal mercato del lavoro. Un datore di lavoro non può sapere
se il disoccupato è improduttivo o, semplicemente, è stato sfortunato nel non trovare
un’occupazione. Nel dubbio, difficilmente lo assumerà.

24
3. Effetti redistributivi:
Vi è, chiaramente, una riduzione della disuguaglianza poiché aumenta il reddito di
chi ha reddito zero.

• Riduzione inflazione

1. Effetti di stabilizzazione:
Se l’inflazione supera il livello obiettivo, una sua riduzione determina, per
definizione, effetti di stabilizzazione nell’economia.

2. Effetti allocativi:
L’effetto allocativo è ridotto. Un’inflazione elevata è associata ad una variabilità
elevata della stessa ed una forte variabilità genera incertezza, sfavorendo gli
investimenti.

3. Effetti redistributivi:
Se l’inflazione aumenta, si riduce il reddito reale delle persone. Al contrario, una
riduzione dell’inflazione porta ad un aumento del reddito reale. A trarre guadagni da
una maggiore inflazione sono anche i debitori: l’inflazione riduce il valore reale del
debito. Chi detiene portafogli diversificati di attività finanziarie, sarà più protetto
rispetto all’inflazione.

• Trade opening (apertura al commercio estero).

1. Effetti allocativi:
Si ha un aumento della produttività. Nel momento in cui ci si apre ai mercati esteri, ci
si espone alla relativa concorrenza. Di conseguenza, nel mercato restano solo le
imprese più tecnologiche, sostituendosi a quelle tradizionali che, incapaci di
fronteggiare la concorrenza, falliscono.

2. Effetti redistributivi:
A subire l’apertura del commercio con l’estero sono principalmente gli unskills
worker ovvero i primi lavoratori ad essere espulsi dal mercato a causa della maggiore
concorrenza. L’effetto redistributivo, dunque, è a favore di lavoratori con elevate
competenze, che operano in settori ad alta produttività. Si genera, così, un aumento
del divario salariale tra lavoratori privi di competenze particolari e lavoratori
altamente qualificati in settori tecnologici ad alta produttività.

25
APPROCCIO MODERNO E LIMITI ALL’AZIONE DEI POLICY
MAKERS.

Nel corso del tempo, è mutata la concezione del “policy maker”, passando da un
approccio tradizionale ad un approccio moderno.

Approccio tradizionale: Il policy maker è onnisciente e benevolente. Egli conosce


tutte le informazioni e massimizza la sua funzione di utilità che coincide con la
funzione di utilità sociale. Conosce perfettamente gli strumenti da utilizzare per
influenzare e regolare un macchinario complesso quale l’economia.
Approccio moderno: Si abbandona l’idea del policy maker benevolente e
onnisciente, unico regolatore di un macchinario complesso. L’approccio moderno si
basa, piuttosto, sull’interazione strategica tra policy maker e agenti: gli agenti
rispondono alle politiche economiche e ne modificano gli effetti. I policy makers,
quindi, devono scegliere le loro politiche cercando di anticipare le risposte degli
agenti a quelle stesse politiche. I policy makers utilizzano l’approccio della teoria dei
giochi.

Limiti all’azione dei policy makers:

• Informazioni
• Aspettative razionali
• Credibilità
• Limiti alla benevolenza

INFORMAZIONI

Informazione incompleta

Informazione asimmetrica
Model uncertainty

Rischio

o Informazione asimmetrica.

Consideriamo, ad esempio, un’economia pianificata. L’allocazione ottimale delle


risorse è caratterizzata ed ostacolata dall’assenza di informazioni complete. Il
pianificatore non conosce la funzione di costo delle imprese. Quest’ultime,
26
d’altronde, non hanno alcun incentivo a fornire le informazioni al pianificatore; al
contrario, esse avranno interesse a dichiarare il falso in modo tale da sovrastimare il
fabbisogno di input e sottostimare l’output che produce. In questo modo, le imprese
potranno ricevere maggiori risorse dall’autorità centrale e si ritroveranno, alla fine,
con un eccesso di input. Gli input in eccesso sono destinati al mercato nero (così
come, ad esempio, avveniva in Russia). Dunque le asimmetrie informative
sfavoriscono le politiche economiche.

o Model uncertainty

Come si decide, allora, l’intervento di politica economica migliore?


In condizioni di incertezza, si utilizza un approccio normativo: si valutano ex-ante
una serie di alternative, esaminando costi e benefici di ciascuna politica per
individuare la migliore. Per effettuare le valutazioni, si fanno delle previsioni
mediante l’utilizzo di modelli matematici in cui si simulano scenari alternativi. Il
problema è la scelta del modello. I modelli sono rappresentazioni semplificate della
realtà per cui essi sono costruiti su delle ipotesi. Scegliere un modello, piuttosto che
un altro, significa partire da ipotesi diverse. È chiaro, quindi, che la valutazione delle
politiche sarà differente in base al modello scelto. Modelli diversi danno risposte
diverse. Quindi la valutazione ex ante trova un limite nell’informazione incompleta.
Ad esempio, si pensi al consumo aggregato; è possibile individuarne molteplici
modelli:

- 𝐶𝑡 (𝑌𝑡 ): Il consumo oggi dipende esclusivamente dal reddito oggi.


- 𝐶𝑡 (𝑌𝑡 , 𝐹𝑡 𝑌𝑡+1) : Il consumo oggi non dipende esclusivamente dal reddito attuale
ma anche da quanto mi aspetto di guadagnare in futuro, al tempo t+1.
- 𝐶𝑡 (𝑌𝑡 , 𝐹𝑡 𝑌𝑡+1, 𝑌𝑡+2) : Il consumo oggi non dipende esclusivamente dal reddito
attuale e dal reddito di domani ma anche da quanto mi aspetto di guadagnare in
un futuro più lontano, al tempo t+2.

Si possono usare anche valutazioni ex post: guardando all’esperienza passata, capire


cosa ha funzionato e, dunque, comprendere cosa è opportuno fare. Ma, anche in
questo caso, si creano dei problemi. In particolare, sorge il problema delle esternal
validity: non necessariamente una cosa che ha funzionato in passato, magari per un
altro Paese, funzionerà anche oggi, in un differente contesto macroeconomico.
Peraltro, è difficile stabilire se una condizione che si presenta sul mercato in seguito
all’implementazione di una politica economica sia da attribuire a quest’ultima e non
ad altri fattori che hanno potuto generarla. Bisognerebbe confrontare quello che
succede all’economia per effetto della politica con quello che sarebbe potuto
succedere se l’economia non avesse ricevuto la politica; inutile dire che non è
27
semplice. Solitamente vengono usati esperimenti controllati o naturali (molto diffusi
nell’economia dello sviluppo).

o Rischio

I modelli si basano su distribuzioni di probabilità di eventi futuri, dunque non sempre


sono affidabili. Il rischio deriva dalla difficoltà, se non impossibilità, di prevedere
tutti i possibili scenari. Inoltre, talvolta, si attribuiscono probabilità bassissime ad
eventi estremi8 rispetto ai quali, quindi, si è impreparati.9
Conoscere gli scenari è importante anche perché molte scelte di politica economica
sono irreversibili o, comunque, difficilmente reversibili come nel caso della politica
fiscale. Quest’ultima è difficilmente reversibile data l’esistenza di un iter di
approvazione, i cui tempi sono piuttosto lunghi. Una volta approvata, disattivare la
politica per poi, eventualmente, reintrodurla crea incertezza e pessimismo nelle
persone.

In questo contesto di informazione incompleta ed asimmetrica circa i possibili eventi


futuri, dovendo adottare una politica irreversibile o difficilmente reversibile, potrebbe
essere più conveniente attendere la disponibilità di nuove informazioni → option
value waiting.

Esempio: Emissioni di gas serra.

I gas serra generano il surriscaldamento globale e ciò può avere conseguenze globali
molto negative. Supponiamo, però, che non vi siano informazioni incontrovertibili
circa il rapporto di causa-effetto tra i gas serra e il surriscaldamento. In questo caso,
diviene difficile capire cosa fare. Ridurre le emissioni significa ridurre la produzione
e causare una recessione per cui, in mancanza di certezze, potrebbe essere opportuno
applicare il principio precauzionale e attendere. Il problema è che, laddove vi sia
effettivamente una forte relazione causale, attendere equivarrebbe a perdere tempo
utile per l’attuazione di una politica di risanamento, senza contare che più si aspetta,
più i costi per poterla attuare aumentano.

8
Questo accade anche perché molti modelli, per convenienza analitica, si basano su distribuzioni normali le quali,
tipicamente, attribuiscono bassissime probabilità ad eventi estremi. Bisognerebbe utilizzare distribuzioni statistiche che
attribuiscano maggiori probabilità a rischi estremi.
9
È esattamente ciò che è accaduto con la crisi finanziaria del 2007.
28
Lezione 5 02/10/18

ASPETTATIVE RAZIONALI

Teoria delle aspettative adattive.


Gli individui formulano le loro aspettative in maniera adattiva, cioè in base
all’andamento delle variabili macroeconomiche in tempi passati. Dunque, vengono
utilizzati dei modelli econometrici, stimati in base a dati passati. Il meccanismo di
formulazione delle previsioni in base ad aspettative adattive è stato fortemente
criticato da John Muth.

Teoria delle aspettative razionali di John Fraser Muth.


Gli individui nel formulare le loro aspettative future si comportano come i
consumatori nel momento in cui massimizzano la loro utilità. La teoria delle
aspettative adattive è incoerente per Muth perché se si assume che gli individui fanno
previsioni considerando solo il passato si sostiene che quest’ultimi ignorano
informazioni presenti rilevanti. Ad esempio, un individuo sta ignorando gli annunci
della banca centrale in merito ad una politica deflazionistica. Dunque, per Muth è
necessario estendere la perfetta razionalità degli individui anche nella formulazione
delle loro previsioni. Infatti, essere perfettamente razionali significa prendere
decisioni in base a tutte le informazioni disponibili (non solo quelle passate).

𝑒
𝑌𝑡,𝑡+1 : valore atteso dell’output gap (Y) nel periodo t+1, formulato al tempo t.
𝑒
𝑌𝑡,𝑡+1 = 𝐸[𝑌𝑡+1 ⁄ɸ𝑡 : Aspettative razionali
𝑒
𝑌𝑡,𝑡+1 = 𝐹(𝑌𝑡 , 𝑌𝑡−1, … , 𝑌𝑡−𝑛 , 𝑋𝑡 , 𝑋𝑡−1 , … , 𝑋𝑡−𝑛 ): Aspettative adattive

Affinché le aspettative siano perfettamente razionali è, inoltre, necessario che gli


individui non commettano errori sistematici. Di fatti, se vengono commessi errori di
questo tipo, si viola il concetto di perfetta razionalità: un individuo razionale non può
sbagliare sempre allo stesso modo, non può commettere sempre lo stesso errore.
Se l’individuo è razionale e non commette errore sistematici allora il forecast error
(errore di previsione) è del tutto casuale, ovvero non è possibile prevederlo in base
alle informazioni possedute al tempo t. Se non fosse così, l’individuo non sarebbe
razionale poiché, per la razionalità, se possedesse informazioni tali da fargli

29
conoscere l’errore di previsione, egli avrebbe usato quelle stesse informazioni nella
formulazione della propria aspettativa.
𝑒
𝑌𝑡+1 − 𝑌𝑡,𝑡+1 : Forecast error

Dunque, gli individui devono comportarsi come se conoscessero perfettamente il


funzionamento dell’economia e tutte le relazioni causa-effetto. Se così non fosse e
all’individuo sfuggisse una sola relazione di causa ed effetto, allora commetterebbe
errori di tipo sistematico. Ad esempio, se l’individuo ignora una politica annunciata
dalla banca centrale, commetterà sempre lo stesso errore ogni volta che la banca
deciderà di annunciare la stessa politica. Gli individui possono essere sia banche, sia
risparmiatori sia ministeri. Basta assumere che gli individui si comportino come se
conoscessero il funzionamento dell’economia.10 La capacità di capire il
funzionamento dell’economia si acquisisce con l’esperienza e con la stessa
esperienza, gli errori sistematici si correggono, permettendo agli individui di
comportarsi meglio ovvero di fare previsioni migliori.

Dunque, i requisiti fondamentali per le aspettative razionali sono:

1. Utilizzo di tutte le informazioni disponibili.


2. Impossibilità di errori sistematici.
3. Impossibilità di prevedere il forecast error.
4. Individui che si comportano come se conoscessero perfettamente l’economia.

Implicazioni della teoria delle aspettative razionali:

Le aspettative razionali sono importanti perché, quando un’autorità di politica


economica interviene, deve tenere conto degli effetti del suo intervento sul
comportamento degli agenti razionali.

Esempio: curva di Phillips: relazione tra inflazione e disoccupazione.

I salari sono frutto di negoziazioni. Nella negoziazione tra sindacato e datore di


lavoro, il primo deve tener conto dell’inflazione, perché al lavoratore interessa il
salario in termini reali. Quindi se il sindacato ha aspettative inflazionistiche elevate,
si tenterà di negoziare un salario più elevato o almeno uguale all’aumento del tasso di
interesse che ci si aspetta avvenga in futuro. All’aumento del salario si contrappone
l’aumento dei costi per l’impresa e quindi l’aumento dei prezzi. Quando i prezzi
aumentano anche l’inflazione aumenta. La banca centrale dunque deve valutare le

10
Non è necessario che conoscano realmente e perfettamente il funzionamento dell’economia ma devono comportarsi
come se lo conoscessero.
30
aspettative inflazionistiche future dei sindacati. In questo contesto si inserisce anche
la critica di Lucas.

Critica di Lucas.

La critica di Lucas è una conseguenza delle aspettative razionali e motiva le ragioni


che lo spingono a criticare l’utilizzo dei modelli economici per valutare gli effetti
potenziali delle politiche economiche. Secondo tale teoria, non è possibile usare un
modello economico perché il funzionamento dell’economia non è invariante rispetto
alle scelte di politica economica. Questo perché in primo luogo le aspettative degli
individui cambiano.

In generale per fare una valutazione degli effetti di una politica economica si prende
un modello e si stima il modello di riferimento, cioè i parametri in base dei dati a
disposizione per poi farsi una domanda di questo tipo: “Supponiamo che la banca
centrale cambi il tasso d’interesse dell’ 1%, di quanto cambierà la disoccupazione e
l’inflazione, in base al modello considerato?”. Secondo la critica di Lucas questo tipo
di ragionamento è sbagliato, soprattutto per variazioni sostanziali di politica
economica come ad esempio cambi di regime. Questo perché utilizzare un modello
stimato con dati passati vuol dire assumere che l’intervento di politica economica non
cambi il modo in cui l’economia funziona. E’ possibile che i parametri del modello
siano invarianti rispetto alla scelta del policy maker. E’ possibile che rispetto a
variazioni sostanziali di politica economica, i parametri stessi del modello che si
utilizzano per la valutazione cambino. Allora se cambiano i parametri stessi, vuol dire
che la valutazione è sbagliata. Quindi, il funzionamento dell’economia non è
invariante rispetto a scelte di politica economiche. Ad esempio, consideriamo una
riduzione del tasso d’interesse della banca centrale al fine di stimolare gli
investimenti. Possiamo usare un modello macroeconomica molto sofisticato e
valutare cosa succederà se la banca adopera questa politica. Per piccole variazioni
degli strumenti di politica economica la valutazione con il modello basato su dati
passati si può fare. E’ ragionevole assumere che se la riduzione del tasso è molto
piccola, la struttura dell’economia non cambi drasticamente. Per grandi variazioni del
tasso d’interesse il modo in cui funziona l’economia ora è piuttosto diverso rispetto a
prima. Dunque usare il modello considerando piccole variazioni del tasso è scorretto
se si intende utilizzare lo stesso modello per valutare l’azione di politica economica
consistente in una grande variazione del tasso d’interesse. Questo perché il
funzionamento delle economie è diverso nei due casi sopra indicati.

31
• CREDIBILITÀ

Supponiamo che la banca centrale annunci una politica per ridurre l’inflazione.
Dunque si annuncia un aumento del tasso d’interesse.
Gli annunci influenzano le aspettative. Gli individui incorporano l’annuncio nella
misura in cui credono all’annuncio stesso. Se gli individui credono alla disinflazione
futura, oggi cominceranno a chiedere riduzioni salariali per cui i prezzi non
cresceranno. Gli effetti della politica sono evidenti da subito; è quindi possibile che ci
sia disinflazione già solo per effetto dell’annuncio. Inoltre non si è indotta nessuna
recessione: si è raggiunto l’obiettivo a costo zero. La comunicazione gioca un ruolo
importante proprio per il concetto della razionalità. Tuttavia, ci sono ragioni per
credere che le banche centrali non faranno mai quello che hanno annunciato.
Ipotizziamo che la Banca centrale abbia due obiettivi: mantenere l’inflazione stabile e
mantenere l’output gap a zero. La politica monetaria non ha effetti solo
sull’inflazione ma, nel breve periodo, se i prezzi sono rigidi, ha anche effetti reali.
Ora, la Banca centrale trovandosi di fronte ad una situazione di inflazione elevata,
annuncia una disinflazione sul futuro. Gli agenti credono perfettamente a questo
annuncio per cui si raggiunge immediatamente la disinflazione per effetto del solo
annuncio. A questo punto, avendo già raggiunto l’obiettivo disinflazionistico ed
essendo cambiato il modo in cui funziona l’economia, per la BC è conveniente
ridurre il tasso d’interesse in modo tale da raggiungere anche il suo secondo
obiettivo: la riduzione dell’output gap. È chiaro, però, che questo collide con la
politica economica annunciata inizialmente. Di conseguenza, quando la banca si
troverà ad implementare la stessa politica in anni successivi, non verrà più preso sul
serio e, per operare una politica di disinflazione, dovrà realmente indurre una
recessione.

Più una banca centrale è credibile, più la politica da essa adottata è incisiva ed
economica (costerà meno perché non ci sarà bisogno di indurre una recessione ma
l’obiettivo sarà raggiunto a costo zero). Questa è una conseguenza delle aspettative
razionali. Le aspettative sono parte del modo in cui l’economia funziona e la capacità
di influenzarle è una delle abilità che le autorità di politica economica devono
sviluppare. La credibilità si ottiene con la reputazione (facendo ciò che si annuncia)
e con l’indipendenza → Scindendo l’obiettivo dell’inflazione stabile, in capo alla
Banca centrale, dall’obiettivo dell’output gap, in capo ai politici eletti, e rendendo la
BC indipendente da quest’ultimi, la BC non avrà la tentazione di fare qualcosa di
diverso da quanto annunciato. Per questo motivo, essa deve essere indipendente e
garante della stabilità monetaria.

32
• INCOERENZA TEMPORALE. (time inconsistency)

Situazioni come quella appena descritta generano un problema di incoerenza


temporale. Come visto, quando si annuncia il sentiero futuro dell’inflazione, le
aspettative si aggiustano, la politica economica ha incentivi differenti e l’economia
inizia a funzionare diversamente. Di conseguenza, la politica ottimale ex ante (al
momento dell’annuncio della politica) non coincide con la politica ottimale ex post
(al momento dell’implementazione della politica).
Se l’annuncio funziona, al momento della decisione, la BC farà l’opposto di quello
annunciato perché non avrà più nessun senso attuare la politica ex ante ora che
l’obiettivo è già stato raggiunto. Ciò porta alla perdita di credibilità della BC.

33
Lezione 6 03/10/18

MORAL HAZARD.

Il moral hazard rappresenta un’assunzione eccessiva di rischio da parte degli agenti


nell’aspettativa di determinate azioni dei policy makers.
Consideriamo una banca con problemi di liquidità che si trovi sull’orlo del
fallimento: laddove la banca rappresenti una “systematically important financial
institution” ovvero un’istituzione finanziaria di rilevanza sistemica (“too big to fail”),
è molto probabile che lo Stato decida di salvarla piuttosto che lasciarla fallire.
Lasciarla fallire, infatti, potrebbe generare una crisi a catena: anche le altre banche
falliscono, bloccando, così, il mercato del credito; data la paralisi del canale del
credito, gli imprenditori non possono più prendere a prestito; la crisi ha effetti reali e
si genera una recessione. Per queste ragioni, quasi sempre, il Governo decide di
intervenire, utilizzando fondi pubblici per ricapitalizzare le banche. Il problema
dell’intervento, però, risiede nell’aspettative bancarie: la consapevolezza di
un’operazione di salvataggio da parte dello Stato genera, per l’appunto, il moral
hazard. Se le banche sono consapevoli che lo Stato interverrà in caso di crisi, non
avranno incentivo ad essere prudenti.
“Salvare una banca oggi significa firmare una cambiale a vita”: nel momento in cui
lo Stato salva anche solo una banca, dà il chiaro segnale di non voler sopportare una
crisi finanziaria. Questo alimenta le aspettative di salvataggio delle banche nonché il
cosiddetto rischio sistemico. Aumenta, cioè, la probabilità che lo Stato si ritrovi a
salvare sempre più banche in futuro e, quindi, la probabilità che vi sia, effettivamente,
una crisi finanziaria.
In definitiva, il moral hazard si traduce in impieghi eccessivamente rischiosi da parte
delle banche data la loro consapevolezza che, laddove essi vadano a buon fine, vi
saranno elevati guadagni; laddove, invece, dovessero andare male, esse si aspettano,
comunque, un intervento di salvataggio da parte dello Stato.
Il problema di moral hazard risiede, dunque, nell’esigenza di bilanciare due necessità:
da un lato, evitare una crisi generale; dall’altro, evitare di incentivare comportamenti
rischiosi.

Come si può evitare il moral hazard?

Ad esempio, facendo partecipare la banca ai costi del salvataggio così come previsto
dalla norma del bail in: parte della ricapitalizzazione avviene a spese degli
stakeholders bancari (azionisti, obbligazionisti, depositanti). Questo genera,
chiaramente, un incentivo ad essere più prudenti.
34
Esempio 1: Russia 1997.

La Russia, nonostante il forte deficit e l’altissimo debito pubblico, ha continuato a


mantenere interessi bassissimi sui titoli del debito pubblico. Questo perché i mercati
finanziari si aspettavano un intervento del FMI a favore della Russia a condizioni
piuttosto agevolate, così come aveva fatto il FMI in tutto il decennio precedente.
Quando il FMI annunciò che non ci sarebbe stato alcun intervento finanziario a
favore della Russia, lo spread dei titoli russi aumentò in maniera esponenziale.

Esempio 2: Costruzione di case in zone sismiche.

In caso di terremoto, lo Stato deve, chiaramente, intervenire nel luogo sismico.


L’aspettativa che lo Stato intervenga, però, incentiva fortemente la costruzione di
case in zone sismiche.

I problemi di moral hazard, peraltro, rappresentano una particolare fattispecie di time


inconsistency (incoerenza temporale): la politica annunciata ex-ante non corrisponde
alla politica ottimale ex-post.

Esempio 1: Risarcimento ai terremotati.

Supponiamo che lo Stato annunci ex-ante che non vi sarà alcun risarcimento in caso
di terremoto. Nonostante ciò, è probabile che quando questo si verificherà, lo Stato
deciderà di fare ex-post qualcosa di diverso da ciò che aveva annunciato; egli, molto
probabilmente, dovrà ricostruire le case andate distrutte poiché i costi sociali, in caso
contrario, sarebbero troppo elevati.

Esempio 2: Tassazione di capitale.

Supponiamo che il governo voglia aumentare gli investimenti, motivo per cui
annuncia ex-ante una detassazione di capitale, così da invogliare le imprese ad
investire. Una volta acquistati nuovi macchinari da parte dell’imprese, si ottiene
l’effetto sperato: un aumento degli investimenti. A questo punto, il Governo potrebbe
decidere di cambiare rotta e adottare la politica ottimale ex-post: tassare il capitale.
L’aspettativa di un simile comportamento opportunistico da parte del Governo, però,
può determinare l’inefficacia dell’incentivo concesso: in altre parole, le imprese, non
fidandosi dell’annuncio, non approfittano della detassazione.

Come si possono evitare problemi di incoerenza temporale?

La radice del problema di incoerenza risiede nella discrezionalità dei policy makers:
un’autorità economica può cambiare il proprio atteggiamento in qualsiasi momento.
La soluzione, dunque, potrebbe essere quella di acquisire una reputazione ovvero
35
diventare credibile, escludendo comportamenti discrezionali. La discrezionalità può
essere limitata mediante l’imposizione di regole fisse: ad esempio, imponendo alle
banche centrali un obiettivo fisso in termini di inflazione. Ciò può aumentare la
credibilità della banca, riducendo i costi di disinflazione. Se si limita la
discrezionalità, si elimina il problema dell’incoerenza temporale. Lo stesso discorso
può essere fatto per quanto concerne il moral hazard: è necessario limitare la
discrezionalità dei policy makers. La stessa bail in rappresenta una limitazione alla
discrezionalità dello Stato nelle operazioni di salvataggio bancario.
Quanto detto finora apre un dibattito fondamentale: discrezionalità o regole
fisse?
Quest’ultime, come visto, sono utili per risolvere problemi di moral hazard o time
inconsistency. D’altra parte, però, esse limitano la possibilità di azione dei policy
makers in presenza di eventi negativi ed inaspettati. La discrezionalità, invece,
favorisce la velocità di azione in caso di circostanze eccezionali.

Modello di incoerenza temporale di Kydland e Prescott.


Periodi: 𝑡 = (1,2)

Target: 𝑌1 , 𝑌2 (assumiamo che 𝑌1 non influenzi 𝑌2 e viceversa)

Strumento: 𝑋1 , 𝑋2

𝑌1 = 𝐺[𝑋1 , 𝐸 (𝑋2 )] → Il target nel primo periodo dipende da ciò che fanno le autorità
di politica economica nel primo periodo e dalle aspettative degli agenti circa il
comportamento delle medesime autorità nel secondo periodo.

𝑌2 = 𝐺(𝑋1 , 𝑋2 ) → Il target nel secondo periodo dipende da ciò che hanno fatto le
autorità nel primo periodo e da ciò che stanno facendo nel secondo periodo.

𝑈 = (𝑋1 , 𝑋2 , 𝑌1 , 𝑌2 ) → L’utilità dipende dai benefici derivanti dal raggiungimento dei


target ma anche dai costi derivanti dall’utilizzo degli strumenti necessari.

• Politica ottimale ex post: massimizzazione della funzione di utilità nel secondo


periodo.
𝜕𝑈 𝜕𝑈 𝜕𝑌2
F.O.C: + =0
𝜕𝑋2 𝜕𝑌2 𝜕𝑋2

• Politica ottimale ex ante: massimizzazione della funzione di utilità nel primo


periodo. In questo caso, l’autorità di politica economica deve scegliere non

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solo il target di primo periodo (𝑌1 ) ma anche cosa annunciare relativamente
all’obiettivo futuro (𝑌2 ).
𝜕𝑈 𝜕𝑈 𝜕𝑌2 𝜕𝑈 𝜕𝑌1
F.O.C: + + =0
𝜕𝑋2 𝜕𝑌2 𝜕𝑋2 𝜕𝑌1 𝜕𝑋2

Ci sono solo due casi in cui ciò che è ottimale fare ex post coincide con ciò che è
ottimale fare ex ante per cui le due funzioni di utilità coincidono:
𝜕𝑈
1. = 0 → Il che equivale a dire che l’obiettivo nel primo periodo non
𝜕𝑌1
influenza in alcun modo la funzione di utilità del policy maker. Ovviamente,
una cosa del genere non ha nessun senso, basti pensare che 𝑌1 è, per
definizione, un obiettivo del policy maker.
𝜕𝑌1
2. = 0 → Il che vorrebbe dire che l’aspettativa su ciò che il policy maker farà
𝜕𝑋2
in futuro non influenza in alcun modo gli agenti oggi ma se ci sono aspettative
razionali, ciò non può essere vero. L’aspettativa circa quello che farà l’autorità
di politica economica in futuro influenza le decisioni che vengono prese oggi.
Se ci sono aspettative razionali, in generale, c’è sempre una differenza tra la
politica ottimale implementata ex post e la politica ottimale ex ante.

LIMITI ALLA BENEVOLENZA

Jean Jacques Rousseau: il governo è una semplice e meccanica implementazione


della volontà sociale. Di conseguenza, la funzione di utilità del policy maker coincide
con la funzione di utilità sociale → paradigma classico.
Come detto in precedenza, però, il paradigma classico è stato definitivamente
abbandonato per abbracciare una visione completamente diversa: i policy makers
non sono perfettamente benevolenti poiché esistono svariati fattori suscettibili di
distanziare la loro funzione di utilità da quella sociale → paradigma moderno.

Quali sono questi fattori?

1. Importanza dei gruppi di pressione.


2. Political business cycle
3. Partisian politicians (mediar voter)

1. I gruppi di pressione sono in grado di influenzare le politiche. Si tratta, quindi,


di gruppi quantitativamente piccoli ma estremamente influenti. Come?

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Ad esempio, offrendo denaro. Essi offrono soldi per finanziare campagne
elettorali e, in generale, il funzionamento di un partito politico. In questo
modo, acquisiscono la loro influenza poiché i policy makers saranno indirizzati
a soddisfare, anzitutto, i gruppi che li hanno finanziati piuttosto che la
collettività. Un altro esempio tipico è dato dalle revolving doors (porte
scorrevoli): regolamentazione di monopoli naturali. Accade spesso che i
dipendenti degli uffici di regolamentazione vengano assunti dalle imprese
regolamentate.
Ancora, altro esempio: Istituzioni finanziarie o anche banche d’affari possono
offrire posizioni rilevanti a persone che ricoprono posizioni di governo (ad
esempio, al ministro dell’economia) per quando il loro mandato sarà scaduto.
Ciò, ovviamente, consente alle suddette istituzioni di acquisire una certa
influenza.
2. Ai politici interessa non solo il benessere sociale ma anche il proprio
benessere. Solitamente vengono prese decisioni che massimizzano la
probabilità di essere rieletti. Ad esempio, si aumentano i sussidi, si
diminuiscono le tasse subito prima delle elezioni o, ancora, si ridistribuiscono
le risorse: tutto questo al fine di acquisire maggiori consensi, sebbene, nel
lungo periodo, politiche del genere non faranno che incrementare il deficit.
3. Esistono partiti di destra e di sinistra. Se c’è coalizione tra diversi partiti, è
possibile che venga implementata la politica sorretta dalla minoranza piuttosto
che dalla maggioranza. Ciò avviene quando la minoranza è la componente che
permette di formare la coalizione, motivo per cui ha il potere di dettare le
proprie regole.
Un ulteriore esempio delle distorsioni che possono essere generate dal sistema
democratico è dato dal teorema dell’elettore mediano. Supponiamo che,
prima delle elezioni, vi siano due partiti A e B con differenti opinioni circa la
tassazione: il partito A sostiene una tassazione nulla (niente imu) mentre il
partito B sostiene la tassazione sulla prima casa al 50%. Supponiamo che la
distribuzione delle preferenze degli elettori sia uniforme per cui il numero di
persone che ha un interesse per le tasse basse è identico al numero di persone
che preferiscono, invece, tasse elevate.

25%
A: 0% B: 50%

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Se i due partiti restano nelle loro posizioni estreme, il partito A guadagnerà i
consensi degli elettori a lui più vicini ovvero coloro che sostengono tasse
inferiori al 25%; lo stesso avverrà per il partito B che guadagnerà tutti i
consensi di coloro che sostengono tasse superiori al 25%.
Tuttavia, per il partito A, è conveniente spostarsi verso destra al fine di
ottenere maggiori consensi. Ad esempio, prevedendo tasse non più allo 0% ma
al 5%, sarà in grado di ottenere il 5% in più di consensi. Ma lo stesso farà,
ovviamente, anche il partito B. Se entrambi i partiti si spostano verso il centro
per guadagnare consensi, alla fine, finiranno entrambi esattamente al centro.
➔ Teorema dell’elettore mediano: entrambi i partiti hanno interesse a
proporre la piattaforma elettorale che corrisponde alle preferenze
dell’elettore mediano.

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Lezione 7 04/10/18

POLITICA FISCALE

La politica fiscale attiene alla tassazione e alla spesa pubblica. Si tratta, dunque, di
decidere quanto prelevare dal pubblico, come allocare le somme ottenute dalla
tassazione ma, anche, di gestire l’eventuale debito pubblico derivante dalle
operazioni di politica fiscale. Come detto, le operazioni sono essenzialmente due:
tassazione e spesa pubblica, prelievo ed impiego. Il punto è che, in ciascun esercizio,
i due elementi potrebbero non coincidere. In particolare, si ha un surplus di bilancio
laddove le entrate (derivanti dalle tasse) superino gli impieghi (in spesa pubblica). Si
parla, invece, di deficit di bilancio nel caso in cui le uscite siano superiori alle entrate
in un determinato esercizio.

È chiaro che in presenza di un surplus non si pongono particolari problematiche: le


somme eccedenti possono essere investite o, ancora, accumulate. Il problema,
piuttosto, si pone in presenza di un deficit: come fa uno Stato a finanziarsi nel
momento in cui decide di spendere più di quanto incassa?

Innanzitutto, è possibile che vi siano interventi internazionali da parte di altri Stati o


da parte di organizzazioni internazionali come il FMI. Si tratta, tuttavia, di una
categoria residuale. In realtà, sono due i principali con cui uno Stato decide di
rispondere al deficit:

1. Monetizzazione del debito pubblico stampando nuova moneta. Si emettono


titoli del debito pubblico che vengono acquistati, in sede di collocazione, dalla
Banca Centrale. In questo caso, quindi, si realizza un’espansione della base
monetaria il che, chiaramente, genera inflazione. L’inflazione può essere
paragonata ad un’imposta poiché riduce il valore della moneta, del salario
nominale e reale e, in definitiva, il potere d’acquisto. Essa rappresenta una delle
ragioni per cui, in molti Paesi, la BC è indipendente: se la BC è un dipartimento
del ministero del tesoro, controllato dai politici eletti, è possibile che quest’ultimi
scelgano l’inflazione come un modo per finanziare il deficit di bilancio. Il
problema è che, collegando la gestione della politica monetaria alla politica
fiscale, ogniqualvolta si deciderà di avere un deficit di bilancio, si genereranno
aspettative inflazionistiche le quali, a loro volta, condurranno ad un’inflazione più
elevata. Tra l’altro, l’inflazione riduce il valore del debito pubblico per cui, anche
se la BC non acquistasse i titoli del debito pubblico emessi dallo Stato, ci sarebbe

40
comunque un effetto positivo: per l’appunto, la riduzione del debito. Ciò
costituisce un ulteriore incentivo per il politico eletto a fare pressione sulla BC per
la realizzazione di politiche espansive, suscettibili di aumentare l’inflazione e,
così, di ridurre il valore del debito.
Tutto ciò chiarisce l’importanza di avere una BC indipendente.

2. Chiedere un prestito ai privati: Si emettono titoli del debito pubblico acquistati


da privati. A fronte del prestito ricevuto, lo Stato sostiene un tasso di interesse.
Quest’ultimo dipende dalla scadenza (maturità) del prestito ma, soprattutto,
dipende dal rischio di credito ovvero dalla possibilità che il Governo dichiari
default totale, decidendo di non pagare nessuno dei suoi debiti, o default
parziale, pagandone solo alcuni. Proprio per questo, esistono le agenzie di rating
che valutano il rischio e assegnano un voto in grado di influenzare le decisioni
degli investitori. È chiaro che un rischio più elevato, porterà a tassi di interesse più
elevati ma potrebbe persino accadere che uno Stato sia talmente rischioso da non
reperire investitori. Una misura del rischio-Paese è lo spread: differenza tra il
rendimento di titoli di debito di Paesi molto rischiosi e il rendimento di titoli di
debito di Paesi poco rischiosi in un determinato orizzonte temporale. (Ad esempio,
Gemania, poco rischiosa, ed Italia, alquanto rischiosa.)

I deficit accumulati nel tempo costituiscono il debito pubblico dello Stato. Più
quest’ultimo si indebita, più aumenta il rischio di default e, quindi, i tassi di interesse
da pagare sui prestiti e, quindi, ancora, il debito pubblico, generando la cosiddetta
“spirale del debito pubblico”.

Come gestire il debito pubblico?

Le opzioni sono due:

1. Rolling over: emissione di nuovi titoli per ripagare quelli in scadenza. Il rolling
over viene compiuto continuamente dagli Stati poiché vi sono, continuamente,
titoli in scadenza che costringono gli Stati a rivolgersi al mercato per rinnovare i
prestiti. Ovviamente, i prestiti saranno rinnovati alle condizioni vigenti al
momento di emissione dei nuovi titoli (ad esempio, le condizioni potrebbero
cambiare laddove muti il rischio di default del Paese).
2. Nuove tassazione: imporre nuove tasse.

Esistono diverse misure del deficit. Un concetto molto importante è quello di deficit
primario (anche detto saldo primario) nel quale si escludono le uscite dettate dal

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pagamento di interessi sul debito pubblico. Il deficit primario è importante perché ci
dà un’idea dell’orientamento corrente della politica fiscale poiché gli interessi che si
pagano dipendono da scelte passate. Altra misura interessante per valutare
l’andamento della politica fiscale è il deficit strutturale ovvero il deficit corretto per
il ciclo economico. Perché è necessario correggere il deficit in relazione al ciclo
economico? Consideriamo, ad esempio, la recessione: si riduce la produzione e,
quindi, i redditi; se vi è un’aliquota fissa di tassazione sui redditi, si riducono le
entrate fiscali. D’altra parte, vi è un aumento della disoccupazione, dei sussidi e, in
generale, delle spese sociali. Questi processi rappresentano stabilizzatori automatici
e fanno si che, indipendentemente dalle scelte di politica economica, vi sia un deficit
più elevato in recessione o, al contrario, più basso in una fase di espansione. Quindi,
correggere il deficit dall’andamento ciclico vuol dire avere una visione più chiara di
ciò che il Governo ha deciso di fare, cioè di quello che non dipende dalla posizione
del ciclo economico ma dalle scelte discrezionali del Governo.
Come si corregge il deficit per il ciclo economico?

𝑠 ∗ = 𝑠 − 𝜀(𝑦 − 𝑦̅)
Con:
𝑠 ∗: saldo strutturale
𝑠: saldi totale
𝜀: correzione
(𝑦 − 𝑦̅): output gap

Se siamo in recessione, l’output gap è negativo e, quindi, l’economia produce meno


del suo livello potenziale, il saldo strutturale è più alto rispetto al saldo totale perché
“corregge” il fatto che ci siano più uscite e meno entrate in recessione.
Il problema vero è proprio determinare la correzione che è, sostanzialmente, una
valutazione fatta ex post.

*Dimostrazione*

42
43
Lezione 8 09/10/2018

ACCUMULAZIONE DEL DEBITO PUBBLICO

𝑏𝑡 = (1 + 𝑅𝑡 − 𝑔𝑡 )𝑏𝑡−1 + 𝑑𝑡

Il debito pubblico dipende dal debito dell’anno precedente in funzione del tasso di
interesse reale e del tasso di crescita e dal deficit corrente. N.B. La funzione è scritta
in termini reali: 𝑏𝑡 rappresenta il rapporto debito/Pil al tempo t così come 𝑏𝑡−1
rappresenta il rapporto debito Pil al tempo t-1.

Lo Stato si ritiene insolvente quando non è in grado di far fronte ai propri debiti, o
meglio quando decide di non far fronte ai propri debiti. L’insolvenza sovrana, infatti,
si differenzia da quella privata: se quest’ultima si concretizza nell’impossibilità
effettiva di pagare i debiti, lo stesso non si può dire per lo Stato che, in teoria, è
sempre in grado di pagare i debiti poiché, in qualsiasi momento, può rivolgersi al
mercato. Proprio per questo, appare più corretto parlare di decisione dello Stato di
non pagare. Il debito pubblico si definisce, invece, insostenibile quando si ritiene
che, a breve, lo Stato sarà insolvente.
Ci sono due modi per cercare di rendere il debito sostenibile:

1. Politiche di stabilizzazione: C’è un forte dibattito su quali siano le migliori


politiche di stabilizzazione. Da un lato vi sono le politiche di austerity secondo
cui il miglior modo per ridurre il debito pubblico è attuare politiche fiscali
restrittive: ridurre la spesa pubblica o aumentare le tasse. Secondo molti, però, le
politiche restrittive non sono in grado di rendere il debito più sostenibile poiché
esse tendono a generare recessioni con conseguente calo del tasso di crescita. In
particolare, Larry Summers ha definito gli interventi di stabilizzazione basati su
politiche fiscali restrittive “self-defeating”: se l’aumento delle tasse o la riduzione
della spesa pubblica portano ad una riduzione del tasso di crescita (Pil), il rapporto
debito/Pil può addirittura crescere. Il rischio, quindi, è che le politiche di austerity
generino una recessione talmente forte da annullare i benefici della stretta fiscale.
Per questo molti sostengono che il modo migliore per stabilizzare il debito sia
adottare politiche di crescita: aumentare la spesa pubblica (mediante un aumento
del deficit) per crescere nel lungo periodo.
2. Emissione di titoli del debito pubblico indicizzati al tasso di crescita: Se il
paese cresce, i bond pagano un tasso di interesse più alto per cui il rendimento
degli investitori dipende dalla crescita del Paese. Ciò consente di mantenere
44
costante 𝑅𝑡 − 𝑔𝑡 e, quindi, di avere un indebitamento a costi più bassi. Vi sono,
però, due problemi connessi a questo strumento:
- È possibile che il mercato richieda un premio per il rischio di crescita data la
necessità per gli investitori di fare previsioni non solo su cosa farà lo Stato ma
anche sulla crescita dello stesso. Ma prevedere un premio, specie se elevato,
può annullare i benefici stessi dell’indicizzazione.
- Si pone, inoltre, un problema di moral hazard: gli Stati tendono ad emettere
molti di questi titoli dato il meccanismo che vi è alla base: in caso di crescita si
pagano interessi, in caso di recessione non si paga nessun tasso di interesse.
Dunque, dato il basso costo dell’indebitamento, gli Stati potrebbero adottare
politiche fiscali eccessivamente espansive ovvero indebitarsi troppo,
assumendo una dose eccessiva di rischio.

Virtual Senate: è composto da soggetti che votano le politiche fiscali di un Paese.


Il debito pubblico viene acquistato da banche d’affari, fondi d’investimento o, ancora,
banche commerciali. In questo processo di collocazione del debito pubblico, le
agenzie di rating valutano la sostenibilità della politica fiscale, assegnano un voto al
Paese e, in base a questo voto, orientano le decisione di acquisto di titoli di debito del
Paese. Dunque, il senato virtuale è composto dalle agenzie di rating e dall’insieme di
investitori. Se le agenzie portano il rating di un Paese al di sotto di una certa soglia,
alcuni investitori istituzionali obbligati ad investire in attività poco rischiose (come,
ad esempio, i fondi pensione) non possono più acquistare i titoli del Paese.
Analogamente faranno tanti altri investitori in cerca di attività sicure. Dunque, di
fronte a un rating più basso, diventa difficile collocare i titoli, motivo per cui aumenta
il loro tasso di interesse. Ma, allora, posto che il rating delle agenzie e le decisioni
degli investitori dipendono dal comportamento Statale, i Paesi molto indebitati hanno
realmente la facoltà di scegliere, in modo del tutto libero e democratico, la loro
politica fiscale?
Di sicuro un Governo non può non considerare le risposte delle agenzie. Anzitutto
perché un rating basso riduce le possibilità di collocazione dei titoli; ma anche perché
esso genera un tasso di interesse elevato e, quindi, un alto costo del finanziamento.
Per uno Stato indebitato, è fondamentale fare roll-over sul debito ovvero trovare,
continuamente, persone che lo finanzino. Questo perché la sua decisione originaria di
indebitarsi lo espone definitivamente ad una situazione di vulnerabilità. A questa
stessa vulnerabilità è esposta, attualmente, l’Italia. L’attuale manovra finanziaria
basata su un aumento del deficit, in previsione di crescita, non ha ottenuto la fiducia
degli investitori. Lo spread è aumentato, così come i tassi d’interesse, poiché molti
hanno ritenuto il debito insostenibile, prevedendone anche un peggioramento. In
45
questo contesto, potrebbe verificarsi anche una fuga di capitali perché tra allocare i
propri soldi in Italia, dove si percepisce peggioramento, o all’estero, i fondi di
investimento preferiscono acquistare titoli migliori fuori dall’Italia. Dunque, il
problema fondamentale, alla base, è che il mercato vota la manovra finanziaria. Esiste
un’interazione strategica: scegliere cosa è meglio fare oggi per la politica fiscale
dipende anche dall’aspettativa circa la risposta del mercato, perché è questa
aspettativa che determina il successo o meno della manovra.

Doom Loop (o diabolik loop): relazione tra rischio bancario e rischio sovrano
(rischio di credito del Paese). L’idea è che molte banche commerciali sono esposte al
debito pubblico del Paese in cui operano il che, per l’appunto, determina il doom
loop. Se lo Stato dichiara default, le banche che hanno nel proprio portafoglio titoli
dello Stato, hanno delle perdite e ciò può generare una crisi bancaria. La crisi
bancaria, a sua volta, può generare una crisi del debito pubblico. Di fatti, il garante
della stabilità delle banche è proprio lo Stato. Se le banche hanno una crisi di
liquidità, si presume che lo Stato intervenga con operazioni di salvataggio,
aumentando, così, il proprio debito → ecco che la crisi bancaria si traduce in aumento
del rischio sovrano sicché gli investitori acquisteranno solo a prezzi più bassi e
interessi più elevati.11
Per questo si parla di doom loop: più cresce il rischio di insolvenza delle banche, più
crescono i tassi d’interesse pagati dal Paese; più crescono i tassi d’interesse pagati dal
Paese, più i titoli del debito pubblico si deprezzano (il prezzo di un titolo determina
l’interesse. Ad esempio se si acquista un titolo che sarà restituito dopo 10 anni, la
differenza tra il prezzo d’acquisto e il valore di rimborso diviso per il periodo è il
tasso d’interesse che si ottiene. Dunque, più basso è il prezzo, più alto è il tasso
d’interesse); se i titoli si deprezzano, le banche devono registrare una perdita,
aumentando il rischio bancario che, a sua volta, fa aumentare il rischio sovrano.

Come si può evitare il doom loop?

Limitare gli acquisti delle banche ai soli titoli pochi rischiosi non sembrerebbe essere
una soluzione poiché, nel momento in cui le agenzie attribuiscono un rating basso ai
titoli sovrani, le banche non possono più acquistarli. Così, crescono i tassi di interesse
ed aumenta il rischio bancario.
Una soluzione proposta è data dai cosiddetti European safe bond: operazione di
cartolarizzazione del debito. Come avviene la cartolarizzazione? Si prende un pull di

11
È esattamente questo meccanismo che ha fatto si che la crisi finanziaria del 2007 divenisse una crisi di bilancio per
molti Paesi Europei.
46
Paesi, rischiosi e non, con i relativi bonds; i bonds sono messi in un unico fondo dal
quale, poi, si emettono nuovi titoli. Gli ESB da un lato, consentono ai Paesi di
finanziarsi ad un tasso di interesse più basso perché essi sono emessi da Paesi
rischiosi ma anche non rischiosi per cui verranno emesse tranche senior, con rating
alto e poco rischiose, e tranche junior, con rating basso e molto rischiose. D’altra
parte, gli ESB danno più sicurezza a chi li acquista perchè il rischio è condiviso da
più Paesi per cui il titolo non sarebbe minimamente rimborsato solo se tutti i Paesi
dichiarassero default. Ad esempio, se un titolo è per il 50% italiano e per il 50%
spagnolo e l’Italia dichiara default, verrà comunque rimborsata la metà spagnola.
Il rischio degli ESB, quindi, è dato dall’insieme dei rischi-Paese.

Credit default swap (CDS): sono titoli che pagano in caso di default. Ad
esempio, se si acquista un CDS sul debito italiano e l’Italia va in default, il titolo
paga. L’idea è che unitamente ad un titolo si acquisti anche il CDS per cui essi si
configurano come una forma di assicurazione sul default. Ovviamente, in caso di
default, la necessità di pagare anche i CDS peggiora il diabolik loop.
La cosa realmente interessante è che i CDS possono essere acquistati anche “naked”
ovvero senza un titolo di riferimento. Chiaramente, in questo modo, si trasformano da
assicurazione a scommessa sul default di uno Stato. Guardare al prezzo a cui vengono
scambiati questi titoli sul mercato, è un modo per comprendere come il mercato
percepisce il rischio di fallimento di uno Stato.

47
Lezione 9 10/10/18

INSOSTENIBILITA’ DEL DEBITO PUBBLICO

Esempio: Crisi del debito sovrano in Grecia.


La Grecia si è trovata ad affrontare una crisi del debito pubblico. Per un Paese
dell’area Euro, le opzioni per gestire una crisi del genere sono limitate poiché i Paesi
non hanno sovranità monetaria per cui, ad esempio, non è possibile la
monetizzazione. Una strada percorsa è stata quella di rivolgersi al FMI. Tuttavia, per
ricevere aiuto dal FMI, è necessario adempiere numerose condizioni tra cui, in
particolare, politiche fiscali restrittive, apertura dei mercati finanziari o, ancora,
liberalizzazione di determinati settori commerciali.
Ad un certo punto, di fronte ad un prestito del FMI che prevedeva condizioni
particolarmente stringenti, il governo della Grecia ha deciso di indire un referendum
sulla questione, compiendo, però, contemporaneamente, una campagna a favore del
no. Alla fine, effettivamente, il referendum ha avuto esito negativo. Eppure, dopo il
no al referendum, il governo della Grecia si è ritrovato ad accettare un prestito a
condizioni peggiori delle precedenti. Perché? Che senso ha avuto l’atteggiamento del
governo?
Il default della Grecia, in caso di mancata accettazione del prestito, avrebbe
determinato una rottura con gli impegni assunti in ambito europeo e quindi la sua
uscita dall’Euro. Il referendum è stato soltanto un modo per capire come i mercati
finanziari avrebbero reagito ad una possibile uscita della Grecia dall’area Euro. Una
crisi dei mercati finanziari a seguito del no al referendum significava alti costi per
l’uscita della Grecia dal’UE il che avrebbe fatto guadagnare a quest’ultima potere
contrattuale → motivo d’indizione del referendum. In realtà, però, la reazione dei
mercati è stata tranquilla poiché la maggior parte delle istituzioni finanziarie si era già
coperte dall’eventualità dell’uscita greca, sicché il governo Tsipras ha perso potere
anziché guadagnarlo e si è visto costretto ad accettare condizioni peggiori.

Perché lo Stato ripaga i debiti?

Distinguiamo, anzitutto, due tipi di debito:


1. Debito interno: quando si parla di debito interno si intendono tutte quelle
passività dovute ad entità (siano essi singoli investitori, o società, o istituti
bancari) all’interno del territorio nazionale. Si parla sempre di titoli di stato, ma
stavolta acquistati da soggetti che si trovano all’interno del paese di emissione .

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2. Debito estero: quando si parla di debito estero si intendono tutte quelle
passività dovute ad entità (siano essi singoli investitori, o società, o istituti
bancari) al di fuori del territorio nazionale.

Il problema del pagamento si pone specialmente per il debito estero poiché non esiste
un’istituzione internazionale che faccia enforcement sui debiti sovrani ovvero che
faccia rispettare i contratti di credito. Si ritorna, quindi, al punto di partenza: perché
lo Stato ripaga i suoi debiti esteri?

• Approccio Eaton-Gersovitz: La primissima ragione concerne la reputazione →


Se non si ripagano i debiti, non si ottengono finanziamenti o si ottengono a
condizioni sfavorevoli. La capacità fiscale espansiva dipende dalla capacità di
farsi finanziare, da ciò l’importanza reputazionale. Questo approccio è stato, però,
criticato poiché la reputazione non è genericamente attribuibile allo Stato bensì al
Governo in carica per cui l’alternanza dei governi eletti non consente una
continuità reputazionale. Ulteriore problema di questo approccio è di tipo
meramente economico: è possibile che non sia economicamente conveniente
ripagare il debito se l’unica ragione per cui viene ripagato è avere accesso ai
mercati internazionali in futuro; in altre parole, non è più conveniente ripagare se
il debito diventa superiore a quanto lo Stato si aspetta di prendere a prestito in
futuro. Al contrario, è più conveniente dichiarare default e costituire, con gli stessi
soldi del debito, un fondo da cui prendere a prestito in futuro. In questo caso,
quindi, se lo Stato ripaga i suoi debiti non lo fa per motivi legati alla reputazione
ma per un’altra ragione. →
• Approccio Bulow-Rogoff: Gli Stati ripagano il debito perché, pur non esistendo
un’autorità sovranazionale che faccia enforcement, esistono comunque
meccanismi istituzionali in grado di far pagare il debito. Esistono, cioè, degli asset
appropriabili che consentono l’esistenza di meccanismi parziali di enforcement.
Ad esempio, supponiamo che l’Argentina prenda a prestito da una banca
americana, dichiari default sul debito e, dopo qualche anno, chieda e ottenga un
prestito da un’altra banca americana. A questo punto, la prima banca potrebbe
rivalersi sulla seconda, appropriandosi di una parte dei fondi. Un ulteriore esempio
è dato dai cosiddetti foreign direct investiment: investimenti diretti anch’essi
parzialmente appropriabili.

I due approcci non sono molto diversi; sono, in realtà, spiegazioni complementari tra
loro. La spiegazione del perché lo Stato ripaghi i propri debiti è, sicuramente, un mix
dei due approcci.

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Perché lo Stato ripaga i suoi debiti domestici?

Innanzitutto, vale, anche in questo caso, il discorso reputazionale: la reputazione è


necessaria perché garantisce la capacità di accedere ai finanziamenti → Contributo
di Douglas North: ripagare il debito nazionale serve a garantirsi la possibilità di fare
politica fiscale di stabilizzazione ed investimenti di lungo periodo.
Si pone, però, anche un problema di political economy: il debito è, sostanzialmente,
una questione redistributiva che sposta un onere nel tempo ma, alla fine, ci sarà una
generazione che dovrà pagarlo. Consideriamo due generazioni: persone anziane in
pensione che detengono i titoli del debito pubblico e giovani che lavorano e,
mediante il pagamento delle tasse, pagano il debito passato. Perché la nuova
generazione che paga tasse elevate per ripagare il debito non si coalizza e chiede un
default? Un default andrebbe a discapito dei detentori del debito pubblico,
tipicamente persone anziane che hanno lavorato e risparmiato durante tutta la loro
vita. Quindi cos’è che frena i giovani? Solidarietà intergenerazionale. Quando si
parla di due generazioni, non si parla di gruppi estremamente lontani tra loro quanto
piuttosto di padri-figli.

N.B. Lo Stato può anche obbligare le persone a finanziarlo, imponendo come unico o
principale strumento finanziario i titoli del debito pubblico (repressione finanziaria).

Si è fatta una distinzione tra debito interno e debito estero. Un’altra distinzione
importante riguarda, invece, la scadenza del debito: molti Stati si indebitano a breve
scadenza (short-term) poiché è più facile acquisire una reputazione rispetto a debiti a
lunga scadenza (long-term). Inoltre i debiti a breve scadenza incentivano una politica
fiscale prudente perché lo Stato si trova continuamente a rinnovare i prestiti (roll-
over) ovvero esposto al giudizio dei mercati. La politica prudente, infatti, riduce il
costo dell’indebitamento e favorisce una buona reputazione.

Comune di Napoli: “No al debito ingiusto” → Esprime il disaccordo circa il modo


in cui sono stati utilizzati i fondi presi a prestito in passato. In realtà, il comune di
Napoli richiama il cosiddetto “debito odioso”: esiste un’ampia letteratura al
riguardo, sviluppata per paesi africani o, comunque, paesi con regimi repressivi che
si sono spesso indebitati per finanziare guerre. L’idea è che se il governo in carica
si è indebitato per finanziare una guerra e, dunque, se il fine dell’indebitamento è
particolarmente “odioso”, non è detto che non ripagarlo generi problemi
reputazionali. Dunque … è sempre la soluzione migliore ripagare il debito?

50
Modello di sostenibilità del debito pubblico.

𝑏𝑡 = (1 + 𝑅𝑡 − 𝑔𝑡 )𝑏𝑡−1 + 𝑑𝑡

Un debito si definisce sostenibile quando si mantiene costante nel tempo, ovvero


quando:
𝑏𝑡 = 𝑏𝑡−1 = 𝑏

Possiamo, quindi, determinare il deficit massimo che può essere accumulato, oggi,
dallo Stato per mantenere costante il rapporto deficit/Pil:

𝑑 = (𝑔 − 𝑅 )𝑏 → In termini reali.
𝑑 = (𝑛 − 𝑖)𝑏 → 𝑑 + 𝑖𝑏 ≅ 𝑛𝑏 → In termini nominali.

Una spesa in deficit più elevata aumenterebbe il debito rendendolo meno sostenibile.
Vi è anche un modo alternativo per definire la sostenibilità del debito pubblico:
pareggio di bilancio in un certo periodo futuro. Si tratta, quindi, di una definizione
intertemporale: il valore atteso delle entrate del governo deve essere tale da coprire il
debito attuale più il valore atteso di tutte le spese future. Questa definizione ci
permette di calcolare quella che Blanchard definisce aliquota fiscale sostenibile la
quale consente, quindi, di valutare la sostenibilità delle politiche fiscali.

𝑑𝑏
= (𝑅 − 𝑔)𝑏 + 𝑑 → derivata del debito rispetto al tempo: come cambia il debito
𝑑𝑡
nel tempo.

𝑡
𝑏𝑡 = 𝑏0 𝑒 (𝑅−𝑔)𝑡 + ∫0 𝑑𝑠 𝑒 (𝑅−𝑔)(𝑡−𝑠) 𝑑𝑠

Debito iniziale Deficit accumulati dal tempo


capitalizzato iniziale 0 fino a t. La
differenza tra t ed s è data da
quanti periodi è stato
accumulato il deficit in
passato.

51
𝑡
𝑏𝑡 = 𝑏0 𝑒 (𝑅−𝑔)𝑡 + 𝑒 (𝑅−𝑔)𝑡 ∫0 𝑑𝑠 𝑒 −(𝑅−𝑔)𝑠 𝑑𝑠

Portato fuori perché non dipende da s

lim 𝑏𝑡 𝑒 −(𝑅−𝑔)𝑡 = 0
𝑡→∞

Se il debito è sostenibile, prima o poi, vi sarà pareggio di bilancio ovvero vi sarà


debito nullo e, quindi, equilibrio. Così si soddisfa la condizione intertemporale di cui
si parlava in precedenza.

𝑡
𝑏0 = − ∫ 𝑑𝑠 𝑒 −(𝑅−𝑔)𝑑𝑠
0
Ora, supponiamo che 𝑑 = 𝑥 − 𝜏 (dove 𝑥: spesa pubblica e 𝜏: tassazione):

𝑡 𝑡
−(𝑅−𝑔)𝑠
𝑏0 + ∫ 𝑥𝑠 𝑒 𝑑𝑠 = ∫ 𝜏𝑒 −(𝑅−𝑔)𝑠 𝑑𝑠
0 0

Se si somma il debito attuale e la spesa pubblico si ottengono le entrate fiscali


necessarie per ottenere l’equilibrio ovvero per mantenere il debito pubblico
sostenibile.

52
Lezione 10 16/10/2018

TEORIE DI ACCUMULAZIONE
DEL DEBITO PUBBLICO.
Perché esistono i debiti pubblici? E, soprattutto, come nasce la loro accumulazione
sistematica?

• Robert Barro, Tax smoothing (1979): Politici perfettamente benevolenti


possono decidere di spendere in deficit, e quindi accumulare debito, poiché ciò
rappresenta un investimento ottimale.
Supponiamo che si voglia finanziare la costruzione di un’infrastruttura: è possibile
finanziarla interamente attraverso un aumento delle tasse oggi quindi senza
accumulare debito. D’altra parte, è possibile diluire nel tempo il costo
dell’infrastruttura, realizzando un frazionamento dell’onere nel tempo: tax
smoothing. Ciò può essere ottimale perché introdurre nuove tassazioni genera
sempre delle distorsioni e, in particolare, secondo il principio del tax smoothing, le
distorsioni delle tassazioni sono più che proporzionali all’aumento dell’aliquota.
Quindi finanziare tutto oggi con l’aumento delle tasse genera più distorsioni
rispetto ad una tassazione diluita nel tempo. La decisione di diluire la tassazione
nel tempo richiede una spesa in deficit per finanziare l’infrastruttura da ciò
l’accumulazione di debito. Il debito pubblico è ottimale quando i politici operano
secondo il criterio del tax smoothing. Questa teoria, però, non spiega
l’accumulazione sistematica del debito pubblico. Essa è stata, dunque, superata e,
in particolare è stata superata la sua assunzione di base secondo cui i politici sono
perfettamente benevolenti.
• Teoria dell’assenza delle informazioni: È possibile che i policy makers
accumulino debito perché non hanno informazioni a sufficienza: se i benefici
della spesa pubblica sono immediatamente evidenti, lo stesso non può dirsi dei
costi. I costi dell’aumento del debito, essendo costi futuri, non sono facili da
valutare per i policy maker. Dunque, può esserci un errore sistematico nel fare
spesa pubblica in deficit creato da una sottostima ovvero da una difficoltà di
valutazione dei costi dell’aumento del debito. Anche questa teoria, però, non
spiega perché il debito si accumuli sistematicamente.

Ci sono tre classi di spiegazioni dell’accumulazione sistematica di capitale


basate sul meccanismo di funzionamento dell’interazione nel sistema
democratico:

53
• Effetto segnale: questa teoria è basata sull’asimmetria informativa. Gli elettori
non possono conoscere realmente la qualità dei politici eletti né osservare
l’effettivo livello del debito. Dunque, i politici possono utilizzare strategicamente
questa asimmetria per mandare un segnale di qualità. Ad esempio, una politica
fiscale basata su una riduzione delle tasse e un aumento della spesa pubblica, può
essere percepita quale segnale di alta qualità della dirigenza politica. La teoria si
basa, chiaramente, su un semplice ma fondamentale punto: l’impossibilità per il
pubblico di osservare l’andamento di determinate variabili macroeconomiche.
Tuttavia, una simile ipotesi appare, oggi, pressoché irrealistica, dato la facilità
d’accesso alle informazioni.
• Person – Suenson, Strategic role of debt: Supponiamo che al Governo esistano
soltanto due partiti che si alternano tra loro: un partito liberale, favorevole
all’aumento della spesa pubblica e un partito conservatore, non favorevole a tali
manovre. Supponiamo, inoltre, che il partito conservatore sia a capo del Governo
ma si aspetti di non essere rieletto; guidato dalle sue aspettative circa l’elezione
futura del partito liberale, esso può decidere di aumentare il debito per ridurre la
discrezionalità del partito successivo sulle manovre di politica fiscale nei Governi
successivi: il partito liberale, infatti, avrà un minore margine di scelta, non
potendo, in teoria, aumentare ulteriormente la spesa pubblica. Tuttavia, è
probabile che il partito liberale, per questioni elettorali ed ideologiche, aumenti
comunque la spesa pubblica, generando debito. Alla fine, tutti i partiti hanno
interesse ad accumulare debito per ridurre le possibilità di scelta del partito
successivo ed è esattamente questa logica, secondo la teroia di Person e Suenson,
che conduce ad un accumulo sistematico del debito pubblico. C’è anche una
variante della suddetta teoria di Alesina e Tabellini.
o Alesina –Tabellini: C’è alternanza tra partiti che, in questo caso,
rappresentano diverse fasce della popolazione. Ad esempio, supponiamo che
vi sia un partito favorevole alle spese di polizia e un altro favorevole alle spesa
per l’istruzione e la sanità. In questo caso, non abbiamo partiti che si
differenziano circa la scelta di spendere o meno, ma partiti che si differenziano
circa le modalità di spesa. Quindi, se c’è un partito favorevole alla costruzione
di caserme perché vuole limitare le manovre possibili al governo successivo,
inizierà a promuovere spese per la prima voce, aumentando il debito e
riducendo la possibilità futura di investire nella costruzione di ospedali.
Ancora una volta, se tutti i partiti ragionano così, si accumulerà
sistematicamente debito.
• Delayed stabilization (guerre d’attrito): Si tratta di un’iterazione strategica tra
partiti; più che spiegare le ragioni di accumulazione del debito, la delayed
54
stabilization spiega le ragioni per cui il debito pubblico non viene ridotto.
Supponiamo che vi sia in carica un Governo di coalizione e che il debito pubblico
sia particolarmente elevato: chi governa sa che è necessario ridurre il debito ma sa
anche che il costo politico ad esso annesso è molto elevato poiché aumentare le
tasse o ridurre la spesa pubblica per sanare parte del debito potrebbe condurre ad
una perdita di consensi e, dunque, alla mancata rielezione. Così, secondo il
principio della guerra d’attrito, si aspetta che sia il governo di domani ad
aumentare le tasse. Addirittura se al governo si ha una colazione come supposto, è
molto probabile che questa non voglia condurre in nessun modo una politica di
stabilizzazione del debito. Si parla di guerra d’attrito perché, prima o poi, qualche
partito dovrà cedere.12 Non a caso, secondo l’evidenza empirica, ad avere i deficit
maggiori sono i Paesi con governi di coalizione e governi eletti con sistemi
elettorali proporzionali.

Come si può ridurre l’accumulazione sistematica del debito?

Si può limitare la discrezionalità dei Governi stabilendo un tetto massimo


all’accumulazione del debito. Il costo di una regolamentazione fissa, però, è una
minore flessibilità ovvero una minore capacità di reagire a shock esogeni improvvisi.
Ma, soprattutto, il costo di una regolamentazione fissa è democratico: fissare regole
di questo genere non limita la possibilità del governo di attuare la volontà popolare?
D’altra parte, i governi non fanno necessariamente gli interessi della volontà popolare
poiché la loro funzione di utilità individuale non coincide con la funzione di utilità
sociale (i policy makers non sono perfettamente benevolenti). La regola fissa, dunque,
si limiterebbe a correggere questo disallineamento.
La questione è controversa.

12
Si pensi a ciò che è accaduto in Italia col governo tecnico Monti: nessuno era intenzionato ad assumersi direttamente e
politicamente la responsabilità della stabilizzazione del debito. Così è stata chiamata un figura esterna che se ne
assumesse l’onere ovvero la responsabilità individuale.
55
TEORIE SULL’EFFETTO DELLA POLITICA FISCALE

Se il governo decide di fare una politica fiscale espansiva, quali sono gli effetti di
tale politica? Partiamo dalla ragione stessa per cui, oggi, si studia la politica fiscale
espansiva quale strumento di stabilizzazione macroeconomica: la Teoria del
moltiplicatore di Keynes.

𝐶 = 𝑎𝑌 + 𝑏

Il consumo aggregato dipende dal reddito e da una quota fissa:


o 𝑏 rappresenta un consumo necessario, indipendente dal reddito, che deve
essere realizzato inevitabilmente per soddisfare bisogni essenziali quali
mangiare o vestirsi.
o 𝑎 è la propensione marginale al consumo che dipende, in misura proporzionale,
dal reddito 𝑌.

Supponendo un’economia chiusa, il reddito aggregato è dato dal consumo,


dall’investimento e dalla spesa pubblica:

𝑌 = 𝐶 + 𝐼̅ + 𝐺

Come funziona il moltiplicatore? Se oggi aumenta la spesa pubblica→ aumenta


meccanicamente il reddito, dato l’aumento della domanda di beni da parte dello
Stato→ l’aumento del reddito genera un aumento dei consumo→ quindi aumenta
nuovamente il reddito→ il che genera un ulteriore aumento del consumo...

Effetto del moltiplicatore: supponiamo che la spesa pubblica aumenti di un euro, il


reddito aumenta di un euro. Il consumo aumenta di 𝑎. Questo aumento di 𝑎 fa
aumentare il reddito di 𝑎. Ma se il reddito aumenta di 𝑎, il consumo aumenta di 𝑎2 .
Questo è l’effetto del moltiplicatore Keynesiano: la spesa aggiuntiva si traduce in
reddito per qualche individuo che aumenta i propri consumi. Ma aumentando i
propri consumi l’individuo sta facendo aumentare i reddito di qualcun altro che a
sua volta aumenta i consumi e dunque c’è un effetto espansivo moltiplicativo.

𝐺 ↑ 1€ → 𝑌 ↑ 1€ → 𝐶 ↑ 𝑎€ → 𝑌 ↑ 𝑎€ → 𝐶 ↑ 𝑎2 € …

Quindi la variazione totale del reddito è:



1
∆𝑌 = 1 + 𝑎 + 𝑎2 + ⋯ = ∑ 𝑎𝑗 = 𝑐𝑜𝑛 𝑎 < 1
1−𝑎
𝑗=0

56
𝑎 < 1 poiché l’idea keynesiana è che non si spenda tutto l’aumento di reddito e se
𝑎 < 1 la sequenza, ad un certo punto, convergerà perché gli aumenti di consumo
successivi sono sempre più piccoli.

Conclusione di Keynes: è opportuno fare spesa pubblica aggiuntiva perché ciò, nel
lungo periodo, aumenta il reddito grazie all’effetto del moltiplicatore.

Ci sono, però, degli elementi che suggeriscono che il moltiplicatore sia, in realtà,
molto più basso di quanto previsto da Keynes:

Tassazione: il reddito viene tassato. Questo significa che una parte dell’aumento di
reddito viene assorbita come maggiore tassazione. Quello che conta non è il reddito
totale ma il reddito “after tax” per cui il moltiplicatore diventa (più piccolo):

𝐶 = 𝑎(1 − 𝑡)𝑌 + 𝑏

Importazioni: non tutto ciò che viene consumato, viene anche prodotto nel territorio
nazionale. Una parte dell’aumento del reddito si traduce nell’aumento del consumo di
beni importati che generano un aumento del reddito estero e non nazionale13:

𝐶 = [𝑎 (1 − 𝑡) − 𝑚]𝑌 + 𝑏

dove 𝑚 è la propensione a consumare beni esteri importati.

Spiazzamento (crowding out): Utilizziamo il modello IS-LM che ci fornisce una


rappresentazione della domanda aggregata dell’economia schematicamente divisa in
settore reale e monetario (equilibrio nel mercato dei beni e nel mercato della moneta):

IS: 𝑌 = 𝐶 (𝑌 − 𝑇) + 𝐼 (𝑌, 𝑅 ) + 𝐺
𝑀
LM: = 𝑌𝐿(𝑖)
𝑃

[dove 𝑅 = 𝑖 − 𝜋 𝑒 ]

Che succede in caso di politica fiscale espansiva?

Supponiamo che vi sia un aumento della spesa pubblica o una riduzione delle tasse:
in entrambi i casi, si ha un aumento del reddito il che genera un aumento dei
consumi. Graficamente, la curva IS si sposta verso destra: aumenta il reddito per
qualsiasi livello del tasso di interesse.
13
Come si possono massimizzare gli effetti espansivi della manovra fiscale? Si potrebbero vincolare le spese.

57
L’aumento dei consumi
determina anche un aumento
LM
della domanda di moneta. Di
conseguenza, data l’offerta
esogena di moneta da parte
i’
della BC, il tasso di interesse
i
deve aumentare per ripristinare
l’equilibrio nel mercato della
IS’ moneta (modello di scelta di
IS portafoglio: l’individuo sceglie
se tenere moneta in forma
Y Y’
liquida o investirla ad un certo
tasso di interesse). Quindi aumenta il tasso di interesse nominale e,
conseguentemente, il tasso di interesse reale. Veniamo, allora, all’effetto
spiazzamento. L’andamento degli investimenti dipende positivamente dall’aumento
del reddito ma negativamente dall’aumento del tasso di interesse reale. Il modello
assume che l’incidenza del tasso di interesse sia maggiore per cui, alla fine, gli
investimenti si riducono. Effetto di spiazzamento: la spesa pubblica aggiuntiva
diminuisce la spesa privata per investimenti a causa dell’effetto indotto sul tasso di
interesse nominale, e quindi reale, che aumenta.

↑𝐺𝑂 ↓𝑇 →↑𝑌 →↑𝑖 →↑𝑅 →↓𝐼

Possiamo rappresentare la
domanda aggregata anche in
AS
un modello prezzo-qualità, il
modello AS-AD.

𝑃 = (1 + 𝜇 )𝜔 → Equazione
i’ per la determinazione dei
i prezzi.
𝜔
AD’ = 𝐹(𝑢, 𝑧) → Equazione per
𝑃𝑒
AD
la determinazione dei salari
Y* nominali e reali.

58
𝐿−𝑁 𝑌
𝑢= = 1 − (𝑐𝑜𝑛 𝑌 = 𝑁) → Tasso di disoccupazione.
𝐿 𝐿

Modello AS-AD: punto di incontro tra offerta aggregata (AS) e domanda aggregata
(AD).
𝑌
𝑃 = 𝑃𝑒 (1 + 𝜇 ) ∓ (1 − , 𝑧) → AS: esprime l’equilibrio nel mercato del lavoro.
𝐿

𝑀
𝑌 = 𝑌 ( , 𝐺, 𝑇) → AD: esprime l’equilibrio nel mercato dei beni e nel mercato
𝑃
finanziario.

59
Lezione 11 17/10/18

TEORIE SULL’EFFETTO DELLA POLITICA FISCALE


(Parte 2)
Introduciamo alcuni elementi necessari per la successiva analisi degli effetti della
politica fiscale in un’economia aperta mediante il Modello Mundell-Fleming.

Economia aperta, sistema di cambi flessibili: il tasso di cambio viene determinato


esclusivamente da forze di mercato; esso deve essere inteso quale prezzo della valuta:
sono, infatti, domanda e offerta di valuta estera a determinare il livello del tasso di
cambio.

Definiamo 𝐸 il tasso di cambio nominale: ovvero il prezzo della valuta nazionale in


termini di valuta estera. Un apprezzamento nominale, ovvero della valuta nazionale, è
un aumento del tasso di cambio nominale. Un deprezzamento nominale, invece, è una
diminuzione del tasso di cambio nominale.

Definiamo 𝜀 il tasso di cambio reale: ovvero il prezzo dei beni nazionali in termini
di beni esteri.
𝐸𝑃
𝜀= ∗
𝑃
Dove:
𝑃: prezzo dei beni nazionali.
𝑃 ∗: prezzo dei beni esteri.

Un apprezzamento reale equivale ad un aumento del tasso di cambio reale. Esso può
dipendere da un apprezzamento nominale o da un aumento del prezzo dei beni
nazionali rispetto al prezzo dei beni esteri; in quest’ultimo caso, diviene più
conveniente importare. Al contrario, un deprezzamento reale equivale ad una
riduzione del tasso di cambio reale.
A questo punto, possiamo definire l’equazione della domanda aggregata in
un’economia aperta:
𝐼𝑀𝑃(𝑌, 𝜀)
𝑌 = 𝐶 (𝑌 − 𝑇) + 𝐼 (𝑌, 𝑅 ) + 𝐺 + 𝐸𝑋(𝑌 ∗ , 𝜀) −
𝜀
N.B Le importazioni vanno valutate in termini di beni nazionali; dunque, occorre
dividerle per il tasso di cambio reale affinché siano confrontabili alle altre quantità.

60
Le esportazioni dipendono:

o Positivamente dal reddito estero: un aumento di quest’ultimo determina un


aumento della domanda estera, non solo di beni prodotti all’interno del Paese
estero ma anche al di fuori esso, per cui ci sarà un aumento delle importazioni
estere che si traduce in aumento delle esportazioni nazionali.
o Negativamente dal tasso di cambio reale: un apprezzamento reale fa si che i
beni prodotti all’interno del Paese siano relativamente più cari di quelli esteri
per cui vi è una riduzione delle esportazioni. Viceversa, un deprezzamento
determina un aumento delle esportazioni.

Le importazioni dipendono:

o Positivamente dal reddito interno: un aumento di quest’ultimo determina un


aumento dei consumi e della domanda di beni, non solo dei beni prodotti
all’interno del Paese ma anche dei beni prodotti all’estero. Dunque, vi sarà un
aumento delle importazioni.
o Positivamente dal tasso di cambio reale: un aumento del prezzo dei beni
nazionali rispetto a quelli esteri determina un aumento delle importazioni.

Quali sono gli effetti di un deprezzamento reale?

𝑁𝑋 = 𝐸𝑋 − 𝐼𝑀𝑃 → Bilancia commerciale

Supponiamo che un Paese abbia un deficit della bilancia commerciale; supponiamo


inoltre che, ad un certo punto, vi sia un deprezzamento reale: il prezzo dei beni
nazionali rispetto al prezzo dei beni
NX esteri si riduce per cui il
deprezzamento determina un
aumento del costo delle
importazioni. Se i prezzi sono
ragionevolmente rigidi, il primo
aggiustamento che si verifica nella
bilancia commerciale è un
t peggioramento dovuto proprio
all’aumento del prezzo delle
importazioni. Tuttavia, dopo un
certo periodo, le decisione
individuali si aggiustano: le
61
importazioni si riducono e le esportazioni aumentano per cui il saldo della bilancia
commerciale migliore. Condizione Marshall-Lerner: L’effetto di un deprezzamento
reale è un miglioramento della bilancia commerciale che, però, non si verifica subito
ma solo in seguito ad un “riorientamento” delle decisioni individuali.

𝜀 ↓ → Tre effetti:
𝐼𝑀𝑃
↑ Primo impatto: aumenta il prezzo delle importazioni e il saldo della bilancia
𝜀
commerciale peggiora.

𝐼𝑀𝑃 ↓ 𝐸𝑋 ↑ Medio periodo: gli individui orientano le loro scelte e il saldo migliora.

Bilancia commerciale (current account) :

𝑁𝑋 = 𝐸𝑋 − 𝐼𝑀𝑃 = 𝑌 − 𝐶 − 𝐼 − 𝐺

Con 𝑌 − 𝐶 = 𝑆 dove 𝑆 indica il risparmio.

Supponiamo che 𝐺 = 0 per cui:

𝑁𝑋 = 𝐸𝑋 − 𝐼𝑀𝑃 = 𝑆 − 𝐼

Deficit di current account: 𝐸𝑋 < 𝐼𝑀𝑃 e 𝑆 < 𝐼: il Paese esporta meno di quanto
importa. Ai flussi commerciali devono corrispondere flussi finanziari. Se c’è un
deficit di current account vuol dire che il Paese sta accumulando un debito nei
confronti del resto del mondo perché le risorse interne non sono sufficienti a
finanziare gli impieghi; dunque, c’è un afflusso di risorse finanziare dall’estero che
finanzia il deficit.

Surplus di current account: 𝐸𝑋 > 𝐼𝑀𝑃 e 𝑆 > 𝐼: il Paese esporta più di quanto
importa. C’è un flusso verso l’estero di risorse finanziarie.

~~~~~

UIRP (uncovered interest rate parity): condizione di non arbitraggio sui mercati
finanziari. Supponiamo che ci siano due Paesi e due attività finanziarie: un’attività
domestica con tasso 𝑖𝑡 e un’attività estera, perfettamente uguale, che paga il tasso di
interesse 𝑖𝑡∗ . Qual è la relazione tra i due tassi di interesse se c’è perfetta mobilità di
capitali, ovvero se una persona residente nel Paese domestico può liberamente
acquistare attività all’estero e viceversa? La UIRP:
(1 + 𝑖𝑡∗ )𝐸𝑡
(1 + 𝑖𝑡 ) = 𝑒
𝐸𝑡+1
62
Esempio: Se ho un euro, posso decidere di investirlo in un’attività finanziaria
domestica guadagnando, dopo un anno, (1 + 𝑖𝑡 ) oppure in un’attività estera. In
quest’ultimo caso, però, devo, anzitutto, convertire gli euro in dollari per poter
investire. Dopo un anno, guadagnerò (1 + 𝑖𝑡∗) e dovrò convertire nuovamente i
dollari in euro.

La prima parte dell’UIRP indica il rendimento dell’attività domestica in euro. La


seconda parte indica il rendimento dell’attività estera in euro. I due rendimenti
devono essere necessariamente uguali poiché, in caso contrario, vi è arbitraggio.
Ragioniamo per assurdo e supponiamo che i due rendimenti non siano uguali: il
rendimento atteso dell’attività domestica è più alto di quello estero. In questo caso, è
possibile guadagnare acquistando euro e investendo nell’attività domestica. Ma se
tutti acquistano euro, il prezzo dell’euro sale fino a che i due rendimenti si
eguagliano. Quindi, se c’è perfetta mobilità di capitali, questa relazione deve sempre
valere.

La relazione può anche essere scritta in modo alternativo:


1+𝑖𝑡∗ 1+𝑖𝑡∗ 𝑒 −𝐸
𝐸𝑡+1
1 + 𝑖𝑡 = 𝐸𝑒 → 1 + 𝑖𝑡 = 𝐸 𝑒 −𝐸𝑡
→ 𝑖𝑡 ≅ 𝑖𝑡∗ − 𝑡
𝑡+1 −1+1 1+ 𝑡+1 𝐸𝑡
𝐸𝑡 𝐸 𝑡

Quindi 𝑖𝑡 può essere più alto di 𝑖𝑡∗ solo quando ci si aspetta un deprezzamento della
valuta nazionale. In caso opposto, mi aspetto un apprezzamento: se i titoli denominati
in euro rendono meno di quelli denominati in dollari, mi aspetto che l’euro in futuro
valga di più dei dollari.

63
MODELLO DI MUNDELL FLEMING
Effetti della politica fiscale in economia aperta
Assunzioni: prezzi rigidi nel breve periodo ma aggiustamento nel lungo periodo.
Dunque, gli effetti reali della politica fiscale ci saranno nel breve ma non nel lungo
periodo.

i i
LM

IS’
IS

𝑌̅ Y 𝐸̅ E’ E
AS’
P
AS

AD’

AD

𝑌̅ Y’ Y

Assumiamo che le aspettative sul tasso di cambio siano fisse per cui la UIRP si
configura come una relazione tra tasso di interesse interno e tasso di cambio. A parità
di altre condizioni, se non c’è arbitraggio, deve trattarsi di una relazione positiva per
cui tassi di interesse più elevati si traducono in tassi di cambio più elevati.

64
Partiamo da una posizione d’equilibrio in cui l’economia opera al suo livello
potenziale cui corrisponde il tasso di cambio di equilibrio. Politica fiscale espansiva:
aumento della spesa pubblica. Che succede?

Nel breve periodo, l’economia opera secondo un comportamento keynesiano: i prezzi


sono perfettamente rigidi e gli aumenti di domanda aggregata si traducono solo in
aumenti dell’output.

La domanda aggregata aumenta. Aumenta la domanda di moneta, quindi aumentano i


tassi di interesse per ristabilire l’equilibrio nei mercati monetari. Il tasso di interesse
più elevato si traduce in un apprezzamento nominale, e quindi reale, del tasso di
cambio. Dunque, in economia aperta, c’è un ulteriore effetto di spiazzamento:
stavolta, l’aumento del tasso di interesse non determina soltanto una riduzione degli
investimenti ma anche una riduzione delle esportazioni nette, dovuta
all’apprezzamento reale, e, dunque, un peggioramento della bilancia commerciale. 14

Dunque, una politica fiscale espansiva, in questo modello, genera: un aumento del
reddito, una riduzione degli investimenti e una riduzione delle esportazioni nette.

Come avviene l’aggiustamento nel lungo periodo?

Nel lungo periodo, l’economia opera secondo il modello neoclassico: i prezzi sono
flessibili e gli aumenti di domanda aggregata si traducono solo in aumenti dei prezzi.

Il reddito determinato dalla politica fiscale è più alto del suo livello potenziale. I
prezzi sono più alti di quelli attesi.

𝑌 ′ > 𝑌̅ → 𝑃 > 𝑃𝑒

I lavoratori, trovandosi con un salario reale più basso, negozieranno aumenti salariali
che si tradurranno, ancora, in aumenti di prezzi. Un aumento dei prezzi interni
equivale ad un apprezzamento reale. Quindi, alla fine, l’economia ritorna a produrre
al suo livello potenziale ma con un livello di prezzi elevato e con un deficit della
bilancia commerciale notevole.

Politica fiscale restrittiva: ci sarà un livello di produzione più basso del livello
potenziale; si riduce il tasso di interesse determinando un aumento degli investimenti.
C’è, inoltre, un deprezzamento che determina un miglioramento della bilancia
commerciale. I prezzi si riducono e quindi investimenti ulteriormente più alti nonché
un ulteriore aumento del saldo della bilancia commerciale. Nel lungo periodo,

14
Si parla a tal proposito del cosiddetto “deficit gemelli” poiché questa politica fiscale non solo rappresenta una spesa
in deficit per i conti dello Stato ma, come visto, genera anche un deficit della bilancia commerciale.
65
dunque, ci avviciniamo ad una situazione neoclassica perché i prezzi si aggiustano e
non ci sono effetti reali della politica fiscale, ma ci sono effetti nominali → Infatti,
anche se alla fine il livello della domanda aggregata è lo stesso, essa assume una
diversa composizione.

Che succede se la Banca Centrale interviene nel mercato dei cambi?

Regime di cambi fissi: La Banca Centrale si impegna a mantenere un determinato


tasso di cambio. Ad esempio, supponiamo che la BCE fissi il cambio con il dollaro.
Se, ad un certo punto, sui mercati vi è un aumento degli acquisti di euro che potrebbe
portare ad un apprezzamento della valuta, la BC vende le proprie attività finanziarie
in euro e acquista attività in dollari per ripristinare l’equilibrio. La BC, dunque,
mantiene il tasso di cambio obiettivo vendendo e acquistando attività finanziare e
riesce a farlo solo nella misura in cui possiede una certa quantità di attività finanziarie
che può vendere in qualsiasi momento.

LM’
i i
LM

IS’

IS

𝑌̅ Y’ Y E

Politica fiscale espansiva: un aumento del tasso d’interesse interno, in assenza di


intervento della BC, si traduce in un apprezzamento. La BC per contrastare questo
apprezzamento deve adottare una politica monetaria espansiva, cioè deve ridurre il
tasso d’interesse interno. Quindi si tratta di una politica accomodante: una politica
(monetaria) espansiva in corrispondenza di una politica (fiscale) espansiva. Questo
significa che, se effettivamente la BC possiede una quantità sufficiente di attività
finanziarie per operare in questo modo, l’economia è come se operasse in
corrispondenza di una curva LM piatta. In regimi di cambi fissi, le espansioni fiscali
sono molto più efficaci perché la BC è obbligata ad attuare una politica accomodante.
Non ci sono effetti spiazzamento, il saldo della bilancia commerciale non cambia e
nemmeno il tasso d’interesse interno, dunque vi è un aumento della domanda interna
66
maggiore rispetto all’aumento che si verifica in un’economia che opera in un regime
di cambi flessibili.

Impianto concettuale: se i prezzi sono rigidi allora le politiche fiscali hanno effetti
espansivi. Le politiche fiscali non hanno effetti espansivi se i prezzi non sono rigidi.

CRITICA NEOCLASSICA.
Una politica fiscale espansiva in recessione ha effetti reali?
Secondo Keynes, si. Al contrario, la critica neoclassica sostiene che politiche fiscali
espansive non abbiano effetti espansivi: spendere in deficit oggi significa solo
accumulare debito e aumentare la probabilità che il paese entri in crisi domani.
La critica neoclassica si basa su tre elementi:

• I prezzi non sono così rigidi come supposto dall’impostazione Keynesiana:


l’inclinazione della curva di offerta aggregata (negativa secondo
l’impostazione Keynesiana) è, in realtà, quasi verticale. I prezzi si aggiustano
quasi istantaneamente e, dunque, l’espansione è molto piccola.
• Effetti spiazzamento: suscettibili di annullare politiche fiscali espansive. Gli
effetti spiazzamento riguardano gli investimenti privati ma anche le
esportazioni (modello Mundell-Fleming).
In particolare, l’aumento del deficit, genera un incremento del tasso di
interesse, deprimendo la domanda privata di prestiti e, quindi, gli investimenti.
La rilevanza dell’effetto spiazzamento dipende dal rischio paese: più il debito
di un Paese è elevato, più il tasso d’interesse aumenta in corrispondenza di una
politica fiscale espansiva.
• Equivalenza Ricardiana: i titoli del debito pubblico non costituiscono
ricchezza netta. Per comprendere l’equivalenza Ricardiana, occorre considerare
il ruolo delle aspettative individuali nell’efficacia della politica espansiva. Se,
oggi, uno Stato accumula debito aggiuntivo per finanziare una politica fiscale
espansiva, è probabile che, in futuro, dovrà condurre una politica fiscale
restrittiva per ripagare il debito. Gli agenti, nell’aspettativa di futuri incrementi
fiscali o di una riduzione della spesa pubblica, inizieranno, dunque, a
risparmiare per far fronte agli eventi futuri.
Dunque, i titoli del debito pubblico non sono ricchezza netta perche non hanno
effetti reali e non generano domanda aggiuntiva.

67
Lezione 12 18/10/18

EQUIVALENZA RICARDIANA
Le politiche fiscali sono realmente efficaci?

Equivalenza Ricardiana: l’espansione fiscale ha effetto nullo sulla domanda


aggregata. Una politica fiscale espansiva ha come unico effetto un aumento del
risparmio privato tale da annullare gli effetti espansivi della politica sull’output.

Ipotesi di validità:
1. Aspettative razionali: gli individui sono forward looking: a fronte di una
politica fiscale espansiva oggi, in grado di aumentare il debito dello Stato, essi
si attendono una politica fiscale restrittiva in futuro, volta al pagamento del
debito.
2. Spesa pubblica non produttiva: se così non fosse, il risparmio privato
sarebbe un’ipotesi non coerente. La suddetta ipotesi appare collegata
all’impostazione Keynesiana secondo cui non è realmente importante per cosa
si spende, l’importante è che la spesa pubblica si traduca in reddito aggiuntivo
per alcuni individui; individui che poi spendono i loro aumenti di reddito,
attivando l’effetto del moltiplicatore. In questo caso, l’idea è che se la spesa
pubblica è produttiva, la necessità di risparmiare per i consumatori è meno
evidente per cui viene meno l’assunzione di base dell’equivalenza Ricardiana.
Di fatti, se c’è un investimento produttivo che produce reddito, questo reddito
aggiuntivo può essere utilizzato per pagare il debito aggiuntivo accumulato,
oggi, per finanziare lo stesso investimento. Quindi, la spesa pubblica non può
essere produttiva.
3. Mercati finanziari completi e perfetti: non esistono vincoli di liquidità per il
consumatore, ovvero può sempre prendere a prestito quando vuole. In
particolare, il tasso d’interesse a cui prendere a prestito l’individuo deve essere
uguale al tasso d’interesse a cui prendere a prestito il governo.
4. Orizzonte infinito: gli individui che oggi ricevono gli effetti positivi di una
politica fiscale espansiva sono gli stessi che, poi, dovranno pagare le tasse in
futuro. In altre parole, affinché sia valida l’equivalenza Ricardiana, è
necessario che il debito venga ripagato dalla generazione attuale che, dunque,

68
risparmia nell’aspettativa di futuri incrementi fiscali. L’equivalenza Ricardiana
non varrebbe se si ipotizzasse che a pagare siano le generazione future, nel
senso che non varrebbe l’ipotesi di aspettative razionali → Contributo di
Barrow: Secondo Barrow non è necessario che a ripagare il debito siano
esattamente gli stessi individui di oggi; è sufficiente che la funzione di utilità
dell’individuo di oggi comprenda anche il benessere ovvero l’utilità degli
individui futuri (figli e nipoti) alla luce di una solidarietà intergenerazionale.

MODELLO INTERTEMPORALE.

Supponendo che l’individuo viva due periodi, la sua funzione di utilità


intertemporale è:

𝑈 (𝑐1, 𝑐2 ) = log 𝑐1 + 𝛽 log 𝑐2

o 𝛽 è il tasso di preferenza intertemporale. Esso definisce l’impazienza ovvero la


considerazione del consumo futuro rispetto al consumo attuale: più alto è 𝛽 , più
l’individuo è paziente; più 𝛽 è basso, più l’individuo è impaziente di consumare le
proprie risorse finanziarie oggi.

L’individuo ha un reddito nel primo periodo che può essere consumo oggi o
risparmiato mediante un trasferimento delle risorse finanziarie al periodo futuro:

𝜔1 = 𝑐1 + 𝑠1

Il tasso a cui si trasferiscono risorse al periodo successivo è R: più è alto il tasso di


interesse, più aumenta il consumo futuro. Dunque, il consumo del periodo futuro è
dato da ciò che si guadagnerà e si spenderà in futuro nonché dalle risorse finanziarie
che, trasferite dal primo periodo e scontate al tasso R, verranno consumate nel
secondo periodo:

𝑐2 = 𝜔2 + (1 + 𝑅 )𝑠1 → 𝑐2 = 𝜔2 + (1 + 𝑅 )(𝜔1 − 𝑐1)

Da cui il vincolo di bilancio intertemporale:


𝑐2 𝜔2
𝑐1 + = 𝜔1 +
(1 + 𝑅) (1 + 𝑅)

Dato il vincolo di bilancio, l’individuo vuole massimizzare la propria utilità:

max 𝑈(𝑐1 𝑐2)


𝑐1 𝑐2

Per risolvere il problema di massimizzazione, utilizziamo Lagrange:


69
𝜔2 𝑐2
𝐿 = log 𝑐1 + 𝛽 log 𝑐2 + 𝜆[𝜔1 + − 𝑐1 + ]
(1 + 𝑅 ) (1 + 𝑅)
𝜕𝐿 1
=0→ −𝜆=0
𝜕𝑐1 𝑐1
F.O.C. .
𝜕𝐿 𝛽 𝜆
{𝜕𝑐1 = 0 → 𝑐2

1+𝑅
=0

1 𝛽(1+𝑅) 𝑐2
=𝜆= → = 𝛽(1 + 𝑅) → Equazione di Eulero: descrive il consumo
𝑐1 𝑐2 𝑐1
intertemporale ottimo rispetto a due parametri: 𝛽 e R.

Utilizziamo il vincolo di bilancio per calcolare il livello di consumo ottimale:

𝛽(1 + 𝑅)𝑐1 𝜔2 1 𝜔2
𝑐1 + = 𝜔1 + → 𝑐1 = [ 𝜔1 + ]
(1 + 𝑅) (1 + 𝑅) 1+𝛽 1+𝑅

Posto che l’individuo può liberamente prendere a prestito o risparmiare, il consumo


attuale è una quota del suo reddito permanente15 ovvero il reddito che l’individuo si
aspetta di guadagnare in futuro attualizzato ad oggi. Se l’individuo si aspetta di
guadagnare meno in futuro, egli risparmierà in modo da avere un consumo stabile nel
tempo. Per la stessa ragione, se si aspetta che guadagnerà di più in futuro, anticiperà
parte del suo guadagno ad oggi.

A questo punto, introduciamo nel modello il Governo che ha lo stesso orizzonte


temporale dell’individuo (due periodi). È possibile considerare due ipotesi: con e
senza indebitamento. L’obiettivo è dimostrare che, se le condizioni precedentemente
citate sono valide, non ci sarà una differenza nel consumo privato → Dimostrazione
dell’equivalenza Ricardiana: i titoli del debito pubblico non sono ricchezza netta.

1. Consideriamo, anzitutto, l’ipotesi in cui lo Stato non possa indebitarsi per cui deve
necessariamente finanziarsi mediante tassazione.

𝐺1 = 𝑇1 , 𝐺2 = 𝑇2

15
Reddito permanente di Friedman; ciclo vitale di Modigliani.
70
Consumo del primo periodo:

𝑐1 = 𝜔1 − 𝑇1 − 𝑠1

Consumo del secondo periodo:

𝑐2 = 𝜔2 − 𝑇2 + (1 + 𝑅)𝑠1

Vincolo di bilancio → il valore attuale del consumo deve essere uguale al valore
attuale del reddito meno le tasse:
𝑐2 𝜔2 − 𝑇2
𝑐1 + = 𝜔1 − 𝑇1 +
1+𝑅 1+𝑅
Ma la spesa pubblica è interamente coperta dalla tassazione quindi:
𝑐2 𝜔2 − 𝐺2
𝑐1 + = 𝜔1 − 𝐺1 +
1+𝑅 1+𝑅

2. Ipotizziamo, ora, che il Governo possa finanziare la spesa pubblica in deficit


ovvero indebitandosi. Dunque parte della spesa pubblica viene finanziata
emettendo titoli del debito pubblico.

𝐺1 = 𝑇1 + 𝐵1
Le tasse nel secondo periodo devono coprire non solo la spesa pubblica ma anche
gli interessi sul debito pubblico accumulato. Definendo 𝑅̃ il tasso di interesse sui
titoli del debito pubblico:

𝐺2 = 𝑇2 − (1 + 𝑅̃ )𝐵1 → 𝐺2 = 𝑇2 − (1 + 𝑅̃ )(𝐺1 − 𝑇1) →

𝐺2 𝑇2
𝐺1 + = 𝑇1 +
1 + 𝑅̃ 1 + 𝑅̃

Supponiamo che il tasso di interesse a cui prendono a prestito gli agenti sia uguale
al tasso di interesse a cui prende a prestito il Governo (ipotesi di mercati finanziari
completi e perfetti) per cui:
𝑅 = 𝑅̃

71
Quindi:
𝐺2 𝑇2
𝐺1 + = 𝑇1 +
1+𝑅 1+𝑅

A questo punto, risolviamo il programma di ottimizzazione dei consumatori in


entrambe le ipotesi.

1 𝜔2 −𝑇2 1 𝜔2 𝑇2
1. 𝑐1 = [ 𝜔1 − 𝑇1 + ]= [𝜔1 + − (𝑇1 + )]
1+𝛽 1+𝑅 1+𝛽 1+𝑅 1+𝑅

1 𝜔2 𝑇2
2. 𝑐1 = [ 𝜔1 + − (𝑇1 + )]
1+𝛽 1+𝑅 1+𝑅

Osservazione: il reddito permanente non cambia. Il valore attuale delle tasse deve
essere uguale al valore attuale della spesa pubblica per cui, alla fine, il prelievo
fiscale nei due casi sarà lo stesso così come il reddito permanente. In un’ottica
intertemporale, al reddito preventivo va sottratto il valore attuale delle tasse; e il
valore delle tasse è uguale al valore attuale della spesa con o senza indebitamento.
Questo significa che finanziare o meno la spesa pubblica in deficit non fa differenza
per il consumatore poiché il consumo intertemporale sarà lo stesso → Equivalenza
Ricardiana.

Alla luce del del modello intertemporale appena fatto, ragioniamo nuovamente sulle
ipotesi di validità e sulla loro importanza ai fini della dimostrazione dell’equivalenza
Ricardiana:

Aspettative razionali: ipotesi di base senza la quale non avremmo potuto scrivere
neanche la funzione di ottimizzazione intertemporale del consumatore.

Spesa pubblica non produttiva: in questo modello la spesa pubblica è soltanto una
perdita poiché non entra nella funzione di utilità individuale, non fa nulla per il
consumatore e non aumenta il suo reddito. Scrivendo un modello in cui la spesa è in
grado di generare aumenti di reddito, probabilmente, le cose sarebbero diverse

Mercati finanziari completi e perfetti: se i due tassi di interesse non sono uguali, il
reddito permanente sarà diverso per cui è possibile che ci siano delle differenze.

Orizzonte temporale: se lo Stato avesse un orizzonte temporale più lungo, potrebbe


non ripagare tutto nel secondo periodo; se non ripaga tutto nel secondo periodo ma,
anzi, può continuare a fare deficit, possono esserci effetti espansivi e il reddito
permanente può essere più elevato.
72
Lezione 13 23/10/18

ESTREMIZZAZIONI DELLE POSIZIONI BASATE SULLE


ASPETTATIVE.

Supply-side economics (Reagannomics): aumenti della spesa pubblica generano


debito aggiuntivo e, quindi, effetti connessi all’equivalenza Ricardiana. Dunque, non
è opportuno utilizzare aumenti della spesa pubblica per sollecitare aumenti del Pil.
Anche la tassazione elevata ha effetti distorsivi nell’economia. Ridurre le tasse ha un
effetto benefico per la diminuzione dell’eccesso di pressione e un effetto sostituzione
tra lavoro e tempo libero perché si lavora di più e si ha un aumento della ricchezza.

Laffer Curve: ci mostra come, non sempre, un aumento dell’aliquota generi un


aumento del gettito fiscale. Chiarisce quindi le ragioni per cui, talvolta, è opportuno
ridurre le tasse.

Gettito
fiscale

Aliquota

Se l’aliquota aumenta non è detto che il gettito fiscale aumenti. Se l’aliquota è molto
elevata è possibile che all’aumentare dell’aliquota si riduca la base imponibile. E’
possibile che una riduzione dell’aliquota fiscale faccia aumentare il gettito per due
motivi:

1. È possibile che tasse sul reddito più basse inducano una maggiore offerta di
lavoro, aumentando l’output e quindi il gettito fiscale.

73
2. Riducendo l’aliquota si riduce anche l’evasione fiscale: considerando che la
ragione per cui si evade sono tasse troppo elevate, di fronte a tasse più basse,
più persone pagheranno e, dunque, il gettito aumenterà.

Starving the beast: la riduzione delle tasse potrebbe, inoltre, generare effetti positivi
dovuti al fatto che minori entrate per lo Stato riducono le possibilità di fare spesa
pubblica in deficit in futuro, riducendo conseguentemente le distorsioni dovute al
debito pubblico. Questo impianto teorico, tuttavia, non ha evidenze empiriche.

Expectations view (fiscal policies): la politica fiscale attuale influenza le


aspettative. Un’espansione fiscale può avere effetti recessivi. Fare debito aggiuntivo
per finanziare la spesa pubblica significa avere un debito più elevato. Questo può
determinare l’aspettativa di tasse più alte in futuro. Può esservi un risparmio tale da
essere più alto della spesa pubblica. Ciò che conta, quando si vogliono determinare
gli effetti di una politica fiscale, è anche il modo in cui cambiano le aspettative
rispetto all’intervento che si intende attuare. Le aspettative future determinano gli
effetti delle politiche fiscale di oggi. Rispetto a questa teoria esistono 3 contributi
teorici importanti:

1. BLANCHARD (1990): prevedere gli effetti di una politica fiscale significa


valutare come questa politica influenza le aspettative oggi. Questa teoria viene
definita anche come austerità espansiva: una politica fiscale restrittiva non ha
necessariamente effetti recessivi perché essa dipende da come viene percepita
dagli individui e da come influenza le aspettative private. Ad esempio, una
riduzione della spesa pubblica può segnalare una minore necessità di tasse
future. Essa riduce il debito e quindi anche la necessità di tassare per ripagarlo.
Alla luce di ciò, è possibile che si consumi di più (per l’equivalenza
Ricardiana, si risparmierebbe di meno) determinando un effetto reddito
positivo sul reddito permanente.
2. BERTOLA- DRAZEN (1993): un Paese con debito pubblico molto elevato
paga interessi più elevati. Se ci sono aspettative riguardanti l’aumento del
debito, è molto probabile che si generi una recessione anche se il governo
decide di non stabilizzare il debito. Questa teoria è definita anche come fail
stabilitation. Se c’è l’aspettativa che nessuno vuole pagare il debito allora
ragionevolmente i tassi possono aumentare ulteriormente. Secondo questa
teoria il Governo non solo non deve aumentare la spesa pubblica, ma deve
sempre e comunque intervenire con politiche di stabilizzazione.
3. GIAVAZZI – PAGANO (1996): in questo contributo si individua quale tipo di
austerità può avere effetti espansivi: se una modesta o sostanziosa riduzione

74
della spesa pubblica. La conclusione è che più si danno segnali forti, più si
influenzano le aspettative per cui più la spesa pubblica viene ridotta più si
avranno effetti espansivi. La vera austerità espansiva è quella enorme, piccole
riduzioni della spesa non sono in grado di orientare le aspettative circa una
riduzione delle tasse future.

Ricordiamo inoltre il contributo di SUTHERLAND (1995): se il debito pubblico è


basso, il modello è quello Keynesiano. In caso contrario, se la spesa pubblica viene
aumentata, aumenteranno le tasse future e quindi si avrà recessione (modello anti-
Keynesiano).

CRITICA: E’ vero che secondo queste teorie le aspettative si aggiustano ma una


spesa pubblica in riduzione può far diminuire il reddito dei consumatori (tagli
istruzione, tagli sanità). Qual è l’effetto netto allora? L’effetto netto può essere una
recessione nel breve periodo. Se il taglio alla spesa pubblica genera recessione, la
capacità di ripagare il debito si riduce. Quindi perché le aspettative dovrebbero
aggiustarsi?

Nonostante queste critiche alla teoria delle aspettative sulle politiche fiscali, vi sono
delle idee circa la stabilizzazione del debito che oggi non sono più controverse: in
particolare, se si deve implementare una politica fiscale restrittiva, è meglio ridurre la
spesa pubblica piuttosto che aumentare le tasse perché il governo così facendo dà un
segnale di voler ridurre il debito e genera aspettative circa una minore necessità di
aumentare le tasse in futuro. E’ necessario però considerare che non tutte le politiche
fiscali restrittive basate sulla riduzione della spesa pubblica sono efficaci.
Innanzitutto, è importante che le riduzioni di spesa pubblica siano permanenti
perché orientano meglio le aspettative. E’ importante, inoltre, che il Governo risulti
credibile nella riduzione della spesa pubblica. A tal proposito, tagliare voci più
sensibili dal punto di vista politico (ad esempio, un taglio del pubblico impiego,
riducendo il numero di dipendenti pubblici) conferisce una maggiore credibilità al
governo e dà un segnale forte di voler ridurre il debito. Questo tipo di politica ha
infatti effetti positivi proprio perché si tratta di voci molto sensibili alla politica del
governo.

Una soluzione alternativa è quella di avere una regola di politica fiscale fissa. A tal
proposito, si parla della cosiddetta Golden Rule di finanza pubblica, ovvero una
regola che impone il pareggio di bilancio a meno che non ci siano recessioni molte
importanti.

75
Dunque, è o meno possibile evitare che, data una politica fiscale espansiva, ci siano
effetti anti-Keynesiani? Lo Stato come può evitare che aumenti della spesa pubblica
si traducano in aspettative circa un aumento futuro delle tasse? In generale, è
possibile dare alla politica fiscale un vero effetto di stabilizzazione?

Lo Stato può:

1. Fare commitment : in circostanze eccezionali, lo Stato può decidere di


attuare una politica fiscale espansiva mediante un aumento della spesa
pubblica, annunciando però che, una volta tornati in condizioni normali, si
impegnerà a mantenere il bilancio in pareggio o a fare politiche fiscali
restrittive. L’obiettivo è, chiaramente, quello di evitare che le aspettative si
orientino verso un futuro incremento delle tasse, impedendo alla stessa
politica espansiva di sortire i suoi effetti. Se il pubblico effettivamente crede
a questo impegno è molto probabile che gli effetti anti- Keynesiani non ci
saranno. Dunque, vi sarà un aumento della spesa pubblica e del PIL. Ma
questo impegno è credibile? Fare commitment di questo tipo significa che,
tornati in condizioni normali e volendo rispettare l’annuncio fatto, lo Stato
si ritroverà a fare politica fiscale restrittiva in espansione e, quindi, si
ritroverà a perdere consenso politico. In altre parole, sorge un problema di
incoerenza intertemporale: la politica ottimale ex-ante non coincide con
la politica ottimale ex-post. Non è possibile fare un commitment di questo
tipo. Una possibile soluzione è:
2. Golden Rule di finanza pubblica: stabilire una regola fissa può limitare gli
effetti anti-Keynesiani. Questa legge impone che ci sia il pareggio di
bilancio in ogni periodo a meno che non ci sia una profonda recessione.
Questa regola permette alla politica fiscale di essere efficace, perché
seguendo la teoria di GIAVAZZI – PAGANO, vincolare la discrezionalità
di governo può essere positivo. Vieta di spendere sempre in deficit perché
in condizioni normali si deve rispettare il pareggio. Una regola fissa
permette di fare politica fiscale perché, se si deve mantenere il bilancio in
pareggio in condizioni normali, allora, in presenza di circostanze
eccezionali, le aspettative saranno ancorate proprio perché gli individui
sanno dell’esistenza di un’apposita regola che prevede la possibilità di
aumenti di spesa pubblica in recessione salvo poi ritornare al pareggio di
bilancio in futuro. È, quindi molto meno probabile che ci saranno effetti anti
– Keynesiani. Inoltre, una regola di questo tipo evita che il debito venga
usato in modo strategico e, dunque, evita un’accumulazione sistematica del
debito. Risolve problemi di moral hazard se esistono governi di diverso
76
livello. Di fatti, se c’è uno Stato con autonomia di spesa e di tassazione e un
Governo federale di un livello più elevato, e se il governo statale ha
l’aspettativa che il governo federale possa intervenire con un salvataggio in
caso di crisi di bilancio dello Stato, si genera un problema di moral hazard.
Lo Stato accumulerà un debito eccessivo perché si aspetta che il governo
federale possa intervenire con un salvataggio. Imporre una Golder Rule ai
singoli Stati evita questo problema ovvero evita che il debito venga
eccessivamente accumulato.

Il Patto di Stabilità e Crescita o Fiscal Compact segue la stessa logica. I Paesi europei
quando hanno deciso di entrare in un’unione monetaria si sono imposti regole fisse
sulla fiscalità. Questo perché le crisi di debito pubblico di un Paese facente parte
dell’Unione possono generare crisi bancarie di un altro Paese dell’Unione se questo
ha molti titoli del debito pubblico del Paese in crisi.

Come funzionano le golden rules?


Una Golden Rule impone il pareggio di bilancio (o rapporto deficit/PIL inferiore ad
una certa soglia) salvo in due casi:

• Recessione
• Spese per investimenti produttivi da finanziare.

Infatti, quasi sempre le spese per investimenti devono essere scorporate dalla spesa
pubblica utilizzata per calcolare il deficit. In recessione, invece, si riducono le entrate
fiscali e aumentano, ad esempio, i sussidi di Welfare. Automaticamente, anche se si
parte da una situazione di pareggio di bilancio, in presenza di una recessione, il Paese
va in deficit. Una Golden Rule che impone solo il pareggio di bilancio, impone ai
Paesi di fare politiche fiscali pro-cicliche perché riducendo le entrate in recessione il
deficit aumenta e quindi, secondo la regola, in questo caso bisognerà implementare
politiche fiscali restrittive. Ma ciò può avere un ulteriore effetto recessivo. Ecco
perché è necessario prevedere delle eccezioni. In particolare, l’eccezione prevista per
gli investimenti produttivi permette di migliorare la capacità di pagare il debito
poiché essi generano crescita aggiuntiva.

Le golden rules rappresentano un vincolo o un’opportunità?


Le regole fisse sono delle opportunità soprattutto per i Paesi che hanno un debito
pubblico molto alto. In questi casi infatti, è molto probabile che politiche fiscali
espansive basate su aumenti permanenti della spesa pubblica non hanno nessun

77
effetto reale di aumenti della crescita perché sono molto probabile effetti anti –
Keynesiani. Secondo alcuni invece presenta alcuni vincoli e problemi:

• Come scrivere la regola.


• Eccezioni previste: come si definisce una recessione? Come si sa se un
investimento è produttivo? Come si definisce la differenza tra investimento e
spesa pubblica redistributiva? Pensando ad un programma di formazione per
disoccupati, si parla di investimento se si ha un aumento della produttività e
più lavoro, si parla di spesa pubblica in aumento con effetto redistributivo se
non aumenta le competenze richieste dal mercato del lavoro.
• Enforcement: che succede se si viola la Golden Rule? Se non c’è un
meccanismo di sanzione, la regola è inefficace. Ma se esiste, quale sono le
conseguenze?

Possibile alternativa alla Golden Rule:

Comitato esterno che decide la politica fiscale. Dato che queste regole presentano
una serie di problematiche, si può creare un organismo che ha il compito di stabilire il
budget in ogni periodo ovvero un organismo indipendente che decide quanto deve
essere alto il deficit. Si lascia decidere a questo organismo quanto spendere e per cosa
spendere. In altre parole, si crea un organismo che decide la politica fiscale.

78
Lezione 15 25/10/18

POLITICA MONETARIA
Cos’è la moneta?16

La moneta è un bene utilizzato come controparte ad uno scambio di altri beni,


universalmente accettato e riconosciuto. Nasce nel momento in cui si decide di
passare dal baratto ad un sistema di scambio più avanzato.

Evoluzione dei mezzi di pagamento nel tempo:

1. Originariamente il mezzo di scambio utilizzato era l’oro.


2. Successivamente si è passati allo scambio di titoli che davano il diritto a
prelevare una determinata quantità di metalli preziosi (convertibilità).
3. Si possono emettere titoli con un valore superiore al valore nominale dell’oro.
4. Uso della moneta scritturale emessa dalla Banca Centrale. Costituisce un
mezzo di pagamento legalmente accettato, privo di valore intrinseco. Il valore
della moneta nasce, infatti, dal suo generale ed universale riconoscimento.

La politica monetaria è di competenza della BC la quale, in particolare, decide


quanta moneta immettere in circolazione. L’obiettivo principale, nel momento in cui
la BC decide quanta moneta immettere, è garantire la continuità del sistema dei
pagamenti e, dunque, assicurare gli scambi commerciali. La Banca Centrale crea
liquidità e la distribuisce al sistema bancario (banche commerciali), motivo per cui è
anche definita “banca delle banche”. Laddove le banche abbiano problemi di
liquidità, possono rivolgersi al mercato interbancario; se non vi sono risorse
sufficienti sul mercato secondario, la BC è tenuta a provvedere.

Qual è il limite all’emissione di nuova moneta?

Teoricamente la BC può sempre emettere nuova moneta ma il costo della nuova


emissione è l’inflazione: più moneta c’è in circolazione, più basso sarà il suo valore
→ “l'inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario” (Milton Friedman).
L’obiettivo della BC è quello di mantenere l’inflazione a livelli bassi per garantire la
stabilità della moneta.17

Ogni banca centrale può operare secondo diversi criteri:

16
Mezzo di scambio ed unità di conto legalmente accettata.
17
Si pensi, ad esempio, ai bitcoins. Essi rappresentano un mezzo di scambio; il problema è che generano un’eccessiva
volatilità del prezzo, suscettibile di creare inefficienze nel sistema degli scambi. Per questo obiettivo fondamentale della
BC è la stabilità dei prezzi, cioè, per l’appunto, mantenere un’inflazione bassa.
79
Banca Centrale Americana. La FED americana agisce mediante operazioni di
mercato aperto: acquista e vende titoli del debito pubblico americano dalle banche
per immettere e ritirare, rispettivamente, moneta. Le banche possiedono depositi
presso la FED e si prestano denaro tra loro al FED founds rate; l’orientamento della
politica monetaria viene valutato in base a questo tasso, il quale è influenzato dalle
operazioni di mercato aperto della Banca centrale → Quando la FED acquista titoli
dalle banche commerciali, genera un incremento della domanda dei titoli per cui il
prezzo dei titoli sale mentre il rendimento cala. Dunque, il tasso d’interesse
diminuisce. Le banche si prestano denaro tra loro ad un tasso più basso.
La FED ha un tasso obiettivo e acquista e vende titoli affinché il tasso a cui le banche
commerciali scambiano liquidità sia uguale al suo tasso obiettivo.

Banca Centrale Europea. Gli strumenti di politica monetaria utilizzati dalla BCE
sono molteplici. Anzitutto, la Banca Europea non effettua operazioni di mercato
aperto ma usa i REPO (prestito garantito alle banche). Per finanziarsi presso la BCE,
le banche commerciali devono depositare titoli a garanzia che il prestito verrà
restituito a scadenza. A scadenza, la BCE rivende il titolo alla banca commerciale.
Esistono due tipi di REPO:

• MRO (Main Refinance Operations): prestiti a scadenza settimanale - 1


settimana. Come detto, si tratta di prestiti forniti dalla BCE ad un tasso
d’interesse definito REFI e garantiti da titoli depositati dalle banche
commerciali. I titoli depositati in garanzia devono avere un valore superiore al
prestito richiesto. Si definisce haircut la differenza tra il valore della garanzia e
quanto è possibile erogare come prestito dalla BCE. La differenza cambia in
base al titolo depositato in garanzia. È la BCE a fissare le regole: essa pubblica
periodicamente una lista in cui si stabilisce quali titoli possono essere usati
come garanzia con relativi haircut annessi. Dunque, l’haircut rappresenta uno
strumento di politica monetaria che fissa le condizioni a cui le banche possono
rifinanziarsi.
Come avviene il finanziamento? Le banche commerciali, dato il loro attivo
patrimoniale e in base a tassi d’interesse, comunicano la loro funzione di
domanda di moneta alla BCE; indicano, cioè, la quantità di moneta richiesta
per ogni livello assunto dal tasso di interesse. La BCE aggrega le domande
individuali e decide quanti prestiti erogare, ovvero quanta moneta distribuire al
sistema, in modo tale che domanda e offerta si incontrino in corrispondenza del
tasso d’interesse obiettivo.

80
• LTRO: prestiti a scadenza mensile - 3 mesi. Fornitura di liquidità al sistema a
scadenza più lunga ma il criterio di finanziamento è lo stesso dei MRO.

Un ulteriore strumento utilizzato dalla BCE nella politica monetaria è rappresentato


dalle Riserve obbligatorie: le banche sono obbligate a depositare presso la Banca
centrale una quota fissa dei depositi che ricevono. Queste riserve sono importanti
perché influenzano il cosiddetto “moltiplicatore monetario”.
Per comprendere il funzionamento del moltiplicatore, supponiamo che la BCE presti
denaro per 100 euro ad una banca commerciale (Banca A). Quest’ultima, a sua volta,
li presta ad un imprenditore che li utilizza, ad esempio, per acquistare un bene
strumentale. Il venditore del bene riceve, allora, i 100 euro e li deposita presso la sua
banca (Banca B). Dei 100 euro, 2 vanno alla riserva obbligatoria presso la BCE ma i
restanti 98 euro possono essere utilizzati, a loro volta, per prestare denaro e così via.

BANCA
100 € BANCA A
CENTRALE

Imprenditore +100 €

Venditore +100 €
2% R.O.
BANCA B +100 €
Imprenditore B
+98% …

Va detto, poi, che la BCE non opera soltanto mediante le operazioni di


rifinanziamento principale ma anche attraverso le Marginal Facilities
(finanziamento a margine) ovvero operazioni che possono essere fatte in qualsiasi
momento e non solo in casi eccezionali. Ne esistono due tipologie:

• Marginal Lending Facilities: le banche commerciali prendono a prestito ad


un tasso più elevato rispetto al REFI.
• Marginal Borrowing Facilities: le banche commerciali depositano i loro
fondi in eccedenza ad un tasso più basso rispetto al REFI.

81
LENDING

Tre tassi di
REFI riferimento
della BCE.

BORROWING

Un altro tasso di riferimento fondamentale nell’area Euro è l’EONIA: il tasso


d’interesse medio per i prestiti overnight (a brevissima scadenza) in area Euro. È il
tasso a cui le banche commerciali si prestano liquidità nel mercato interbancario. Per
questioni di arbitraggio L’EONIA e REFI devono essere molto simili anche se il
tasso di riferimento della politica monetaria resta solo il REFI.
Vi è poi l’EURIBOR: il tasso d’interesse a cui, normalmente, vengono indicizzati i
mutui, i prestiti e altre attività finanziarie a scadenza più lunga. Si forma sempre sul
mercato interbancario ma, come detto, ha scadenze più lunghe (normalmente a 3
mesi). C’è un collegamento tra EONIA e EURIBOR. Se il REFI aumenta,
normalmente aumenta anche l’EONIA e, quindi, anche l’EURIBOR: se è più costoso
per le banche commerciali finanziarsi presso la BCE, sarà anche più costo finanziarsi
sul mercato interbancario a breve scadenza e, quindi, anche a lunga scadenza. C’è ,
dunque, una trasmissione.

Infine, un’ultima categoria di strumenti di politica monetaria utilizzati dalla BCE è


data dai cosiddetti strumenti non convenzionali → operazioni straordinarie:

• TLTRO: è, a tutti gli effetti, una REPO ovvero un’operazione di


finanziamento alle banche commerciali a lunga scadenza ma con un vincolo:
tutta la somma di denaro prestata o, comunque, una parte considerevole deve
essere, necessariamente, riprestata.
• OMT: è un programma di acquisto titoli da parte della BCE. Sono operazioni
di monetizzazione a titolo definitivo.

82
Relazione tra tassi d’interesse a breve e lunga scadenza.
La capacità della banca centrale di influenzare le decisioni private dipende anche e
soprattutto da questa relazione. La BC, normalmente, presta alle banche a breve
scadenza ma tipicamente gli imprenditori e i consumatori prendono a prestito a
scadenze molto più lunghe e, a tal proposito, il tasso che interessa realmente è
l’EURIBOR. Un’espansione della moneta in circolazione si traduce in maggiori
investimenti se un più basso tasso d’interesse a breve scadenza si riflette anche in un
più basso tasso d’interesse a lunga scadenza. In che misura la decisione di espansione
si traduce in un aumento dei mutui e degli investimenti dipende da quanto una
riduzione del REFI si riflette in una riduzione dell’EONIA e, quindi, dell’EURIBOR.
Lo strumento interpretativo utilizzato per studiare la suddetta relazione è la Yield
Curve (struttura a termine dei tassi di interesse).

Supponiamo di avere due diverse possibilità sul mercato finanziario ed un orizzonte


temporale di due periodi. È possibile acquistare un titolo a lunga scadenza, di due
anni, oppure acquistare un titolo ad un anno, incassare e fare roll-over acquistando un
altro titolo ad un anno. Quale deve essere la relazione tra i tassi di interesse a breve e
lunga scadenza per evitare che vi sia arbitraggio?

(1 + 𝑖𝑡2 )2 = (1 + 𝑖𝑡1 )(1 + 𝑒𝑡 𝑖𝑡+1


1
)

Le due quantità devono essere uguali al netto di un premio per il rischio indicizzato
alla scadenza. Il premio per il rischio deriva dal differente rischio delle attività.
Dunque la relazione di non arbitraggio è:

(1 + 𝑖𝑡2 )2 = (1 + 𝑝2 )(1 + 𝑖𝑡1 )(1 + 𝑒𝑡 𝑖𝑡+1


1
)

Se il rendimento del titolo a due anni è più alto, tutti lo acquistano; il prezzo aumenta
e il rendimento diminuisce fino ad eguagliarsi al rendimento dato dai titoli ad un
anno.
Generalizzando la relazione:
(1 + 𝑖𝑡𝑛 )𝑛 = (1 + 𝑝𝑛 )(1 + 𝑖𝑡1)(1 + 𝑒𝑡 𝑖𝑡+1
1
)

Ora, supponiamo che il tasso si mantenga costante:

(1 + 𝑖𝑡1 ) = (1 + 𝑒𝑡 𝑖𝑡+1
1 )
→ 𝑖𝑡1 = 𝑒𝑡 𝑖𝑡+1
1

Ne deriva:

(1 + 𝑖𝑡2 )2 = (1 + 𝑝2 )(1 + 𝑖𝑡1 )2

83
Come evince dalla relazione, se vi sono aspettative circa un tasso d’interesse
costante, ciò che conta e fa la differenza è il premio per il rischio: il tasso di interesse
a due anni è più alto del tasso ad un anno perché tenere fermo un investimento per un
periodo più lungo è più rischioso e, quindi, genera un rendimento più elevato. Ciò
evince chiaramente anche dalla Yield Curve che mostra la relazione tra scadenze e
tassi di interesse:

i Fig. 1

1 2 Scadenza

Generalmente, le YC sono inclinate positivamente proprio per quanto appena detto:


vi è un rischio di liquidità maggiore connesso ad attività finanziarie a più lunga
scadenza per cui più crescono le scadenze, più aumentano i rendimenti. La pendenza
della curva dipende, poi, dalle aspettative circa i tassi futuri. Se vi sono aspettative
relative ad una politica monetaria restrittiva con conseguente aumento dei tassi
d’interesse, è più conveniente comprare un titolo ad un anno e fare roll-over.
Tuttavia, se tutti acquistano titoli ad un anno, la domanda cresce facendone
aumentare i prezzi; i tassi di interesse dei titoli ad un anno calano mentre i tassi a due
anni crescono. Come conseguenza di questo processo, la pendenza della Yield Curve
diventa più ripida:

Fig. 2
i

1 2 3 4 Scadenza

84
Ma la Yield Curve può anche avere una pendenza negativa. Ciò avviene quando vi
sono aspettative circa una politica monetaria particolarmente espansiva in futuro tali
addirittura da compensare il rischio di liquidità. Si parla a tal proposito di Yield
curve rovesciata.

Fig. 3
i

Scadenza

In definitiva, osservare l’andamento della Yield Curve serve a capire quali sono le
aspettative circa l’andamento delle politiche monetarie in futuro.

85
Lezione 16 30/10/18

OBIETTIVI DELLE BANCHE CENTRALI.

Quattro sono i principali obiettivi della Banca Centrale:

• Stabilità dei prezzi: l’inflazione dipende dalla circolazione di moneta e da


quanta la BC ne crea.
“L’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario.”
- Friedman
Dal momento che è la stessa BC a generare inflazione, è ovvio che uno dei
principali obiettivi sia la stabilità dei prezzi. L’inflazione è costosa e genera
distorsioni. Essa, inoltre, si configura come una redistribuzione tra creditori e
debitori a favore di quest’ultimi.
Il valore della moneta dipende da quanta ce n’è il circolazione. Se la BC emette
grandi quantità di moneta, il suo valore si riduce e ciò equivale ad imporre una
tassa su tutti. Più è elevata l’inflazione, più ci sono costi relativi alla gestione
del denaro. L’inflazione genera, inoltre, inefficienza allocativa poiché i prezzi
non crescono proporzionalmente nello stesso momento.
• Stabilità del tasso di cambio: ovvero del valore esterno della moneta. Il
valore della moneta dipende da quanta moneta è in circolazione; quindi anche
il prezzo per cui la moneta domestica viene cambiata con monete estere
dipende da cosa fa la BC.
• Stabilità finanziaria: la BC è uno dei soggetti garanti della stabilità
finanziaria. Altri soggetti sono: agenzie di regolamentazione e il Governo. La
BC ha il compito di prestare soldi alle banche e detiene il ruolo di lender of last
resort, prestatore di ultima istanza. Altro ruolo della BC in merito alla stabilità
finanziaria è l’assicurazione sui depositi. Questo evita le cosiddette corse agli
sportelli: al primo segnale di difficoltà delle banche la prima risposta razionale
dell’individuo è ritirare i propri depositi. Il problema relativo alla fornitura di
liquidità alle banche in momenti di difficoltà è l’inflazione e l’aspettativa
inflazionistica più alta in futuro, cioè il ruolo di garante della stabilità
finanziaria è in contraddizione con il ruolo di garante della stabilità dei
prezzi. L’altro problema è il moral hazard: di fronte all’aspettativa che la BC
intervenga a fornire liquidità, non c’è nessun incentivo per le banche ad avere
gestioni prudenti. Tutte le banche avranno rischio elevato. Il ruolo di garante
della stabilità finanziaria è in contraddizione con sé stesso. Una soluzione al

86
moral hazard può essere collegata alle agenzie di regolamentazione bancaria.
Ci sono delle agenzie che impongono delle regole di comportamenti prudenti
alle banche per evitare che queste si assumano eccessivo rischio.
L’imposizione riguarda coefficienti patrimoniali: i prestiti di lunga durata
devono essere una certa proporzione del capitale proprio. Questa proporzione
dipende da quanto è rischioso il credito. Questa regolamentazione viene
definita microprudenziale: ha come target la singola banca e prevede
l’applicazione dei coefficienti a questa. Il problema della regolamentazione che
impone che ci sia un capitale proprio a garanzia degli impieghi riguarda
l’attivo patrimoniale: questo viene valutato al valore di mercato. In recessione,
le banche sono obbligate a fare gli aggiustamenti. Se si riduce il valore
dell’attivo patrimoniale delle banche, queste devono ridurre gli impieghi o la
rischiosità. Ma ridurre gli impieghi significa non fare più prestiti e questo può
determinare un effetto peggiore o anche una crisi sul mercato interbancario.
Anche in questo caso, il ruolo di garante della stabilità finanziaria è in
contraddizione con sé stesso. Si può, allora, fare una regolamentazione
macroprudenziale: evitare che ci siano problemi pro ciclici attraverso la
previsione di coefficienti più piccoli in recessione.
L’altro soggetto della stabilità finanziaria è lo Stato: può usare soldi pubblici
per ricapitalizzare le banche. È opportuno aiutare le banche ma crea problemi
di moral hazard. Il costo per lo Stato è deficit oppure aumento delle tasse. È
possibile evitare problemi di moral hazard attraverso la bank recovery and
resolution directive: questa direttiva europea ha introdotto la norma sul bail
in→ Se la banca sta per fallire gli stakeholders devono sostenere un costo per la
crisi. Allora l’intervento dello Stato è giustificato.
Esistono altri meccanismi per ricapitalizzare le banche in crisi. Il meccanismo
della “Bridge Bank” prevede, per banche che hanno molte attività in
sofferenza, la creazione di un’entità dove vengono trasferiti attivi e passivi
delle banca in sofferenza; l’entità così creata vende il possibile per poi
realizzare la risoluzione della banca. Il meccanismo della “Bad Bank” prevede
la creazione di entità dove vengono trasferite solo le attività in sofferenza. Il
suo ruolo è quello di ripulire l’attivo delle banche. La bad bank emette
obbligazioni per acquistare queste attività in sofferenza. Poi le vende, rimborsa
gli obbligazionisti e cessa di esistere. Le obbligazioni però sono di difficile
sottoscrizione perché comunque sono obbligazioni molto rischiose. Per questo
motivo queste obbligazioni hanno garanzia statale: lo Stato non interviene
direttamente ma garantisce obbligazioni emesse dalla bad bank che ha
acquistato titoli in sofferenza dalla banca in crisi. Comunque si tratta di un
87
intervento pubblico. Il problema del moral hazard non è però ancora risolto. In
un’ottica di diversificazione del rischio si possono emettere obbligazioni senior
garantite o junior non garantite. Chi è più propenso al rischio acquisterà le
prime. Si può limitare le garanzie concesse al valore di mercato delle attività in
sofferenza. Si limita l’esposizione dello Stato. Ma il problema è proprio il
valore di mercato di queste attività. Il mercato per queste attività non c’era
quindi questo meccanismo non ha senso. Allora si può limitare le garanzie
statali al valore di mercato di attività con rischio simile (credit default swaps).
• Stabilità dell’output: le espansioni monetarie hanno anche effetti reali? Nel
breve periodo aumenta l’output mentre nel lungo genera inflazione.
Normalmente l’abbassamento del tasso d’interesse ha effetti reali, ma questo
effetto è molto breve e non si ha immediatamente. In recessione ci sono due
opzioni: si possono usare sia strumenti di politica fiscale sia strumenti di
politica monetaria.

È opportuno che la BC svolga il ruolo di stabilizzazione dell’output?


Rispetto alla politica fiscale, la politica monetaria è molto più flessibile e facilmente
implementabile. La politica monetaria è molto più reversibile. Il costo di una politica
monetaria espansiva è un’inflazione più elevata. Inoltre si hanno effetti anche sulle
aspettative inflazionistiche. Una BC che interviene molto spesso con politiche
espansive è una banca che genera molta inflazione e dunque genera aspettative
inflazionistiche più elevate e dunque maggiore inflazione. Questo entra in contrasto
con l’obiettivo di inflazione bassa da parte della BC. Per garantire la stabilità dei
prezzi è necessario giocare anche sulle aspettative.

COSA FANNO LE BANCHE CENTRALI?


Taylor rule: è una stima della relazione tra tasso d’interesse della BC e variabili
macroeconomiche; serve per capire se il tasso della BC è o meno una risposta
all’output gap.

𝑖𝑡 = Ř + 𝜋𝑡 + 𝛼𝜋(𝜋𝑡 − 𝜋) + 𝛼𝑦(𝑦𝑡 − 𝑦)

𝑖𝑡 è il REFI (tasso d’interesse nominale) in area Euro.


(𝜋𝑡 − 𝜋) rappresenta la differenza tra l’inflazione oggi e il livello obiettivo.
Solitamente non è mai zero, perché l’inflazione non ha solo costi ma anche benefici.
In recessione, l’aggiustamento prevede una riduzione dei salari reali, l’output cresce
semplicemente perché si riduce il costo di produzione per le imprese. Questo
processo di riduzione dei salari reali può avvenire attraverso due modi: attraverso una
riduzione dei salari nominali oppure attraverso un aumento dei prezzi. La riduzione
88
dei salari nominali, però, è molto difficile da contrattare con i lavoratori. Non resta
che l’aumento dei prezzi. Quindi un’inflazione positiva contribuisce ad un
aggiustamento più rapido e facile in recessione, perché i salari nominali sono molto
rigidi verso il basso. È meglio avere un’inflazione positiva piuttosto che uguale a zero
per la questione della trappola della liquidità. Quello che conta per le scelte di
investimento di consumo è il tasso d’interesse reale. Ma la BC controlla il tasso
d’interesse nominale. Una riduzione del tasso nominale genera un aumento degli
investimenti (perché le banche danno più facilmente a prestito); ma questo è vero
guardando solo alla relazione che esiste tra tasso d’interesse nominale e reale e dalle
aspettative attese sull’inflazione. Se il tasso d’interesse è molto basso e tende a zero
vuol dire che c’è un’aspettativa negativa di peggioramento sull’andamento
macroeconomico del sistema. Se si è in recessione con prezzi molto bassi, avrò
aspettative di deflazione con tassi reali più alti in generale e che potrebbe essere
positivo solo se anche quello nominale è zero. Se ci sono aspettative inflazionistiche
uguali a zero è molto più facile entrare in una situazione di trappola della liquidità.

(𝑦𝑡 − 𝑦) è l’output gap. Ř è il tasso d’interesse naturale reale, cioè il tasso a cui
corrisponde un sentiero di crescita bilanciata (ovvero inflazione uguale a quella
obiettivo e output gap zero). Su questo sentiero, Ř è il tasso che massimizza il
consumo all’interno dell’economia.
Con la Taylor Rule si possono stimare i coefficienti 𝛼. Considerando solo 𝛼𝑦(𝑦𝑡 −
𝑦), se 𝛼 = 0 siamo di fronte ad una BC che non vuole stabilizzare l’output ma ha
come unico obiettivo quello di stabilizzare i prezzi. Questo coefficiente, però, deve
essere sempre positivo: se l’inflazione è più alta dell’obiettivo, la BC deve fare una
politica monetaria restrittiva; se l’output gap è maggiore di quello obiettivo, la BC
deve fare lo stesso. Questa regola permette di capire come si comportano le banche
centrali. Non è detto però che se questo coefficiente è maggiore di zero allora uno
degli obiettivi della BC è la stabilizzazione dell’output gap. L’output gap positivo
può segnalare un aumento dei prezzi in futuro. Quindi il fatto che la BC risponda
all’output gap corrisponde alle aspettative inflazionistiche in futuro, essendo
l’aumento dell’output gap correlato con l’aumento dei prezzi e dunque
dell’inflazione.
La Taylor Rule può essere usata in altri modi: una volta stimata, si può confrontare il
tasso d’interesse che sta praticando la BC con il tasso d’interesse che risulta dalla
Taylor Rule stimata. In particolare, se il tasso d’interesse praticato dalla BC è più alto
rispetto a quello stimato, la BC sta praticando una politica monetaria più restrittiva
rispetto a quella che sarebbe coerente con la regola.

89
Lezione 17 31/10/18

TEORIA NEUTRALITA’ DELLA MONETA


Le variazioni nominali dell’offerta di moneta hanno effetti reali sull’economia?

𝑃𝑌 = 𝑀𝑉

L’idea alla base della relazione è che la moneta nient’altro è che unità di conto. La
teoria esprime la neutralità della moneta: non ci sono effetti reale; l’output è
determinato da altri fattori. Tuttavia, la neutralità si esplica nel lungo periodo poiché
essa necessita di un periodo di aggiustamento dei prezzi (al variare della moneta) data
la loro rigidità.
Nel lungo periodo, quindi, vi è l’aggiustamento dei prezzi per cui l’inflazione è si
configura quale fenomeno monetario. Nel breve periodo, date le rigidità nominali, è
possibile che vi siano effetti reali.

Ma da cosa derivano le rigidità nominali?

● Modello ad isole (Phelps): le rigidità nominali possono derivare da


asimmetrie informative. Ad esempio, è possibile che si generino effetti reali
laddove un produttore, a causa di informazioni incomplete sui mercati,
confonda un aumento generalizzato dei prezzi (inflazione) con un aumento
specifico del prezzo del proprio bene, aumentando conseguentemente l’offerta.
Dunque, secondo Phelps, la neutralità della moneta non deriva dalle rigidità
nominali quanto, piuttosto, dalle asimmetrie informative.
● Modello dei contratti multiperiodali (Fisher – Taylor): Laddove i contratti
siano multiperiodali, è possibile che i salari nominali siano fissati per l’intero
periodo contrattuale. I salari, quindi, sono rigidi (da ciò, anche la rigidità dei
prezzi fissate dalle imprese).
Vi sono delle critiche a questa assunzione: perché i lavoratori dovrebbero
accettare dei contratti di lavoro per periodi molto lunghi, specialmente in
situazioni in cui l’inflazione è elevata, se non possono essere rinegoziati?
● Menu costs (Mankiw): i prezzi non si aggiustano istantaneamente poiché
l’aggiustamento genera costi. Essi, quindi, cambiano solo quando vi sono
variazioni consistenti di moneta (Menu costs: costi di ristampa del menu). Tra
l’altro, cambiare continuamente i prezzi, di fronte ad ogni variazione
monetaria, può generare forti incertezze.

I prezzi rigidi sono alla base del modello di domanda e offerta aggregata. In
definitiva, una variazione monetaria può avere effetti reali ma si tratta solo di
90
variazioni temporanee dell’output che, nel lungo periodo, ritorna al suo livello
iniziale.

Curva di Phillips: esiste un trade – off tra disoccupazione e inflazione? Può la BC,
mediante un aumento della moneta in circolazione e, quindi, dei prezzi, ridurre la
disoccupazione?
Studi empirici condotti da Phillips nel Regno Unito, nel corso degli anni 50-60,
hanno portato ad individuare una relazione negativa tra inflazione e disoccupazione.

Modello di determinazione dei prezzi:

𝑃𝑡 = 𝑃𝑡𝑒 (1 + 𝜇 )𝐹(𝑢𝑡 , 𝑧) , 𝐹 (𝑢𝑡 , 𝑧) = 1 − 𝛼𝑢𝑡 + 𝑧


𝑃𝑡 𝑃𝑡𝑒 (1+𝜋𝑡)
= (1 + 𝜇 )(1 − 𝛼𝑢𝑡 + 𝑧) →
(1+𝜋𝑡𝑒 )(1+𝜇)
= (1 + 𝜋𝑡𝑒 )(1 + 𝜇 )(1 − 𝛼𝑢𝑡 + 𝑧)
𝑃𝑡−1 𝑃𝑡−1

→ 1 + 𝜋𝑡 − 𝜋𝑡𝑒 − 𝜇 = 1 − 𝛼𝑢𝑡 + 𝑧 → 𝜋𝑡 = 𝜋𝑡𝑒 + (𝜇 + 𝑧) − 𝛼𝑢𝑡

Il salario è determinato dalla contrattazione che dipende dalla struttura del mercato
del lavoro, ovvero dalla disoccupazione. Le imprese fissano il prezzo come un mark-
up sul costo marginale. L’unico costo marginale è il salario che pagano ai lavoratori.
91
Il livello dei prezzi attesi influenza la negoziazione salariare. Più alta è la
disoccupazione più bassi sono i prezzi più bassi sono i salari. Con la formulazione si
cerca di passare da una relazione dell’offerta aggregata a una relazione con
l’inflazione.

Se 𝜋𝑡𝑒 = 0 allora abbiamo una relazione lineare tra disoccupazione e inflazione.


Esiste una relazione negativa tra queste due variabili perché nel momento in cui è
stata studiata da Phillips, così come da Samuelson e Solow, l’inflazione era
mediamente uguale a zero. Dopo gli anni ’70, però, la relazione scompare a seguito di
un aumento dell’inflazione e di un cambiamento nel modo di vedere le cose delle
persone (inflazione attesa). Le aspettative erano sempre state costanti fino a quel
momento, non influenzando molto la determinazioni dei salari. Questa relazione è
scomparsa quando si sono visti periodi di stagflazione (contemporaneamente
inflazione elevata e disoccupazione elevata). Quello che è cambiato è che l’inflazione
è diventata sempre più positiva e, dunque, si sono modificate anche le aspettative. Se
la relazione di Phillips valesse allora la BC
potrebbe scegliere il valore preferito di
𝜋𝑡 disoccupazione e inflazione. Ma realmente la
BC attraverso politiche monetarie espansive
può ridurre la disoccupazione?

Teoria di Friedman

u Il trade – off tra disoccupazione e inflazione


esiste solo ad aspettative inflazionistiche date.
Se la BC avesse tentato sistematicamente di ridurre la disoccupazione attraverso
espansioni monetarie, l’unico effetto possibile sarebbe stata inflazione più elevata.

𝜋𝑡𝑒 = 𝜗𝜋𝑡−1

Se 𝜗 = 1 → 𝜋𝑡𝑒 = 𝜋𝑡−1 per cui gli individui si aspettano che l’inflazione sia costante;
dunque, la curva di Phillips diventa:

𝜋𝑡 − 𝜋𝑡−1 = (𝜇 + 𝑧) − 𝛼𝑢𝑡
𝜇+𝑧
Se 𝜋𝑡 = 𝜋𝑡−1 → 𝑢𝑁 = → NAIRU
𝛼

𝜋𝑡 − 𝜋𝑡−1 = −𝛼(𝑢𝑡 − 𝑢𝑁 ) → Curva di Phillips modificata.

In presenza di aspettative adattive, la relazione rilevante è tra variazioni di inflazione


e disoccupazione. Se l’inflazione è costante, il livello di disoccupazione di equilibrio
è definito come NAIRU. Si ottiene la cosiddetta curva di Phillips accelerata, definita
92
così perché il trade – off esiste tra disoccupazione e variazione di inflazione. È
accelerata perché il costo associato alla riduzione della disoccupazione non è un
livello dei prezzi crescente, ma un livello di inflazione crescente. L’inflazione deve
essere più alta di quella attesa per avere una riduzione della disoccupazione. Il
NAIRU è così definito perché rappresenta il livello di disoccupazione in
corrispondenza del quale l’inflazione non accelera. Se la BC vuole fare sempre
manovre espansive, l’unico risultato è una disoccupazione al suo livello naturale e
un’inflazione crescente. Una volta formate le aspettative allora un’espansione
monetaria può determinare una riduzione della disoccupazione al di sotto del
suo livello di equilibrio. Il costo di questa operazione è l’inflazione. Non si tratta
di un’inflazione positiva come nel modello originario, ma di un’inflazione
crescente perché deve essere più alta dell’inflazione attesa per avere un effetto
reale.

Critiche alla teoria di Friedman:

● Questa formulazione si basa sulla presenza di ASPETTATIVE ADATTIVE. Il


modo in cui si formulano le aspettative non è invariante rispetto alle manovre
di politica monetaria. Le autorità di politica monetaria annunciano un livello di
inflazione, le aspettative si ancorano a questo livello. Le autorità dopo che le
aspettative si sono ancorate decidono di fare un’inflazione più alta per ridurre
la disoccupazione al di sotto del suo livello di equilibrio. Nel periodo
successivo le autorità annunciano un livello di inflazione. Se le aspettative
sono adattive i consumatori commettono sistematicamente lo stesso errore. Ma
nel caso di consumatori razionali ciò non è possibile. Quindi la curva di
Phillips sono verticali, non esiste nessun trade – off.
● LUCAS: il modo in cui le aspettative si formulano dipende dalle informazioni
che si hanno e dall’andamento circa la politica monetaria futura. Se ci sono
aspettative adattive, se la BC ritiene che il livello di inflazione sia troppo alto
deve fare una politica monetaria restrittiva. Il costo di questa politica è un
livello di disoccupazione più alto. Per Lucas questo non è sempre vero: se le
aspettative sono razionali e la BC annuncia una disinflazione e le aspettative si
ancorano, in fase di contrattazione salariale i lavoratori non chiederanno
aumenti salariali e quindi i prezzi non cresceranno. Si realizza la disinflazione
solo per effetto dell’annuncio. Per disinflazionare un’economia non è
necessario indurre una recessione, ma è possibile semplicemente annunciare
una politica restrittiva. Quindi le politiche monetarie restrittive sono meno
costose se le BC sono molto credibili. Se la BC deve mantenere un obiettivo di
inflazione basbbassa, questo sarà tanto più facile quanto più la BC è credibile.
93
Il costo della disinflazione non è ovviamente esattamente zero. Le disinflazioni
sono comunque costose perché i salari non sono immediatamente flessibili
perché i prezzi oggi riflettono le aspettative rilevanti al momento in cui i
contratti sono stati scritti. Il semplice annuncio non si traduce istantaneamente
in salari più bassi perché ci vuole tempo prima che tutti i contratti vengano a
scadenza.
● BARROW – GORDON: problema di time inconcistency. Se la BC annuncia
la disinflazione, le aspettative si ancorano. La disinflazione si realizza già oggi
in virtù del solo annuncio. Quando è il momento di implementare la politica
annunciata, gli incentivi della BC saranno diversi, perché ci saranno aspettative
inflazionistiche più basse. L’obiettivo di inflazione bassa è stato raggiunto.
Quindi se la BC ha un obiettivo anche di stabilità dell’output a quel punto sarà
conveniente fare una politica opposta a quella annunciata. Se gli agenti
anticipano il problema di incoerenza intertemporale, allora non crederanno
all’annuncio. Per acquisire credibilità, la BC lo può fare attraverso una
reputazione facendo esattamente quello che ha annunciato. Altra alternativa
può essere avere una banca centrale indipendente con un obiettivo di stabilità
dei prezzi. Si limita dunque la discrezionalità alla banca, con l’introduzione di
una regola fissa di mantenimento di inflazione bassa. È cruciale avere un
banchiere centrale (governatore) che sia conservatore, che abbia una preferenza
per l’inflazione bassa.

Il trade – off tra disoccupazione e inflazione non esiste. Non è possibile


permanentemente raggiungere livelli elevati di output o di disoccupazione bassa. La
politica monetaria non è sempre in grado di poter far raggiungere all’economia un
livello di disoccupazione più basso rispetto al suo livello naturale. L’unico effetto se
la BC tenta di sistematicamente di espandere la moneta, in presenza di aspettative
razionali, è inflazione elevata.

Lezione 18 06/11/18

94
MODELLO NEOKEYNESIANO
Analizzeremo la parte più moderna del dibattito relativo agli effetti reali della politica
monetaria, esponendo e spiegando il modello neokeynesiano, così definito proprio
poiché presenta elementi keynesiani. In particolare, esso presenta delle rigidità
nominali: i prezzi non si aggiustano istantaneamente.

Partiamo, anzitutto, da due relazioni:

• Curva di Phillips neokeynesiana (lato dell’offerta):

NKPC: 𝜋𝑡 = 𝜆𝑥𝑡 + 𝛽𝐸𝑡 (𝜋𝑡+1) + 𝜇𝑡

È una curva di Phillips perché ci mostra una relazione tra output ed inflazione:

𝜋𝑡 → inflazione che dipende da:

𝑥𝑡 → output gap; differenza, quindi, tra output e livello naturale [𝑥𝑡 = 𝑦𝑡 − 𝑦̅];

𝐸𝑡 (𝜋𝑡+1) → aspettative inflazionistiche;

𝜇𝑡 → shock esogeno al livello dei prezzi (ad esempio, aumento del prezzo del
petrolio); per questo, è anche detto cost push shock.

- Perché l’inflazione dipende dalle aspettative inflazionistiche?

Per comprenderlo, occorre osservare che la relazione NKPC si basa su una


concorrenza monopolistica; essa deriva da un’ottimizzazione intertemporale di
imprese che massimizzano i profitti (e, quindi, il valore atteso di tutti i profitti futuri).
Nel farlo, hanno potere di mercato (concorrenza monopolistica); dunque, possono
fissare i prezzi ma con un vincolo: esse non possono mutare il livello dei prezzi in
qualsiasi momento ma solo ad intervalli prestabili di tempo → si tratta, quindi, di una
particolare forma di rigidità nominale. Ne deriva che, laddove un’impresa si aspetti
uno shock, consapevole di non poter cambiare istantaneamente i prezzi rispetto allo
shock e di dover attendere l’intervallo, fissa un livello attuale dei prezzi che tenga
conto anche dello shock atteso. Quindi, 𝜋𝑡 dipende da 𝐸𝑡 (𝜋𝑡+1) per via di una
particolare forma di rigidità dei prezzi.

t t+1 t+2
Se so che potrò cambiare i prezzi soltanto in t+2 (e non anche al tempo t+1), in t
fisso un prezzo che tenga conto anche di quello che mi aspetto accadrà in t+1.

95
• Curva IS (lato della domanda):

IS: 𝑥𝑡 = −𝜑[𝑖𝑡 − 𝐸𝑡 (𝜋𝑡+1 )] + 𝐸𝑡 𝑥𝑡+1 + 𝑔𝑡

𝑥𝑡 → output gap che dipende da:

𝑖𝑡 − 𝐸𝑡 (𝜋𝑡+1) → tasso di interesse reale con 𝑖𝑡 = tasso di interesse nominale;

𝐸𝑡 (𝜋𝑡+1) → aspettative sull’output gap in futuro;

𝑔𝑡 → shock esogeno (che ↑ l’output gap);

Se la NKPC deriva da una massimizzazione intertemporale delle imprese, la IS,


invece, deriva da una massimizzazione intertemporale del consumo e descrive,
quindi, il comportamento dei consumatori.

A questo punto, inseriamo nel modello la Banca Centrale il cui obiettivo è


minimizzare una funzione di perdita per il conseguimento di due scopi:

- 𝜋𝑡 = 0
- 𝑥𝑡 = 0

La BC sceglie 𝑖𝑡 in modo tale da minimizzare la seguente funzione di perdita (loss


function):

1 2 2
min = 𝐸𝑡 ∑ 𝛽(𝛼𝑥𝑡+𝑗 + 𝜋𝑡+𝑗 )
𝑖𝑡 2
𝑗=0

𝛼 è il peso specifico che viene dato all’output gap:

- Se 𝛼 = 1, la BC dà pari peso ai due obiettivi: 𝜋𝑡 = 0 𝑒 𝑥𝑡 = 0.


- Se 𝛼 = 0, la BC ha quale unico obiettivo 𝜋𝑡 = 0.
- Se 𝛼 ≫ 1, la BC si interessa soprattutto a 𝑥𝑡 = 0.

Nella funzione 𝜋𝑡 e 𝑥𝑡 sono elevati al quadrato affinché spostamenti positivi e


1
negativi abbiano lo stesso peso; , invece, viene utilizzato al fine di semplificare
2
calcoli matematici.

Ora, risolviamo il problema di minimizzazione utilizzando la lagrangiana:

96
1 1
min = 𝐸𝑡 ∑∞ 2 2 2 ∞ 2 2
𝑗=0 𝛽(𝛼𝑥𝑡+𝑗 + 𝜋𝑡+𝑗 ) = [𝛼𝑥𝑡 + 𝜋𝑡 + ∑𝑗=1 𝛽(𝛼𝑥𝑡+𝑗 + 𝜋𝑡+𝑗 )]
𝑖𝑡 2 2

𝐿𝑡 𝑗=0 𝐸𝑡

Scriviamo la lagrangiana:
1
𝐿 = (𝛼𝑥𝑡2 + 𝜋𝑡2 ) + 𝐸𝑡 + 𝛾(𝜆𝑥𝑡 − 𝜋𝑡 + 𝑓𝑡 )
2

Funzione che vogliamo Vincolo della


minimizzare rispetto a neokeynesiana

Con:

𝛾 = moltiplicatore;
𝑓𝑡 = 𝛽𝐸𝑡 (𝜋𝑡+1) + 𝜇𝑡 ;

Occorre osservare che, per il momento, non stiamo risolvendo per 𝑖𝑡 . Cerchiamo,
prima, di capire qual è la relazione ottima tra 𝜋𝑡 e 𝑥𝑡 . Dopodiché, cercheremo di
capire qual è il tasso 𝑖𝑡 che rende vera la relazione. Dunque, stiamo scomponendo il
problema in due parti: non consideriamo subito entrambi i vincoli (NKPC ed IS).
Prima, minimizziamo la funzione rispetto al vincolo NKPC; dopo, determinata la
relazione ottimale, utilizziamo il vincolo IS per capire quale tasso 𝑖𝑡 realizza la
relazione.

Quindi, minimizziamo la lagrangiana rispetto a 𝜋𝑡 e 𝑥𝑡 :


𝜕𝐿
1𝑎 condizione: = 0 → 𝛼𝑥𝑡 + 𝛾𝜆 = 0
𝜕𝑥𝑡

𝜕𝐿
2𝑎 condizione: = 0 → 𝜋𝑡 = 𝛾
𝜕𝜋𝑡

Da ciò, otteniamo la nostra relazione:

𝜆
𝑥𝑡 = − 𝜋𝑡 → Relazione ottima tra 𝜋𝑡 e 𝑥𝑡 . Quindi, se la BC si prefigge di
𝛼
minimizzare 𝜋𝑡 e 𝑥𝑡 , deve scegliere 𝑖𝑡 in modo che sia vera la suddetta relazione. Ad
esempio, se 𝜋𝑡 è elevata, occorre ↓ 𝑥𝑡 . Per far ciò, si induce una recessione: si
conduce una politica monetaria restrittiva che porta all’aumento di 𝑖𝑡 .

Abbiamo determinato la politica monetaria ottimale; prima di determinare il tasso di


interesse corrispondente, analizziamo la dinamica dell’inflazione laddove la BC

97
adotti la politica monetaria ottimale. Per farlo, andiamo a considerare la 3𝑎
condizione di 1° ordine del nostro problema: il vincolo della neokeynesiana.
Dunque, torniamo alla NKPC e sostituiamo la relazione ottimale:
𝜆
NKPC: 𝜋𝑡 = 𝜆𝑥𝑡 + 𝛽𝐸𝑡 (𝜋𝑡+1) + 𝜇𝑡 ; R.Ott.: 𝑥𝑡 = − 𝜋𝑡 ;
𝛼

𝜆2 𝜆2
𝜋𝑡 = − 𝜋𝑡 + 𝛽𝐸𝑡 (𝜋𝑡+1) + 𝜇𝑡 → (1 + ) 𝜋𝑡 = 𝛽𝐸𝑡 (𝜋𝑡+1) + 𝜇𝑡
𝛼 𝛼

𝐴𝜋𝑡 = 𝛽𝐸𝑡 (𝜋𝑡+1) + 𝜇𝑡

Questa è un’equazione da differenza (ovvero un’equazione che considera una


variabile in due tempi: t e t+1). Per risolverla, possiamo utilizzare degli operatori: i
forward operators:
𝐹𝑥𝑡 = 𝐸𝑡 𝑥𝑡+1

𝑛
𝐹 𝑥𝑡 = 𝐸𝑡 𝑥𝑡+𝑛

È un’operazione matematica: moltiplicando l’operatore per la variabile 𝜋, ottengo il


valore atteso.
Ci sono anche i lag operators:
𝐿𝑥𝑡 = 𝑥𝑡−1

𝑛
𝐿 𝑥𝑡 = 𝑥𝑡−𝑛

Torniamo all’equazione 𝐴𝜋𝑡 = 𝛽𝐸𝑡 (𝜋𝑡+1) + 𝜇𝑡 , utilizzando 𝐹𝜋𝑡 = 𝐸𝑡 𝜋𝑡+1:


𝛽 1 1
𝐴𝜋𝑡 − 𝛽𝐹𝜋𝑡 = 𝜇𝑡 → (𝐴 − 𝛽𝐹)𝜋𝑡 = 𝜇𝑡 → 𝐴 (1 − 𝐹) 𝜋𝑡 = 𝜇𝑡 → 𝜋𝑡 = 𝜇
𝐴 𝐴1−𝛽𝐹 𝑡
𝐴
1
Utilizzando la formula delle progressioni geometriche: ∑∞ 𝑗
𝑗=0 𝑎 = con 𝑎 < 1:
1−𝑎

∞ ∞
1 𝛽 𝑗 1 𝛽 𝑗 𝑗
𝜋𝑡 = ∑ ( 𝐹) 𝜇𝑡 → 𝜋𝑡 = ∑ ( ) 𝐹 𝜇𝑡
𝐴 𝐴 𝐴 𝐴
𝑗=0 𝑗=0

98
Utilizziamo nuovamente il forward operator 𝐹𝑛 𝑥𝑡 = 𝐸𝑡 𝑥𝑡+𝑛 per ottenere:

1 𝛽 𝑗
𝜋𝑡 = ∑ ( ) 𝐸𝑡 𝜇𝑡+𝑗
𝐴 𝐴
𝑗=0

A questo punto, facciamo un’ulteriore assunzione nel modello relativamente agli


shock esogeni 𝜇𝑡 . Assumiamo che gli shock siano auto regressivi al 1° ordine (1°
ordine perché consideriamo il tempo t-1): lo shock è una funzione di quello che è
successo in passato (regressivo verso se stesso → sul loro stesso valore passato).
Quindi, assumiamo che la dinamica degli shock dipenda dal seguente processo
stocastico:
𝜇 𝜇
𝜇𝑡 = 𝜌𝜇𝑡−1 + 𝜀𝑡 ; 𝐸(𝜀𝑡 ) = 0 , ∀𝑡

Dove:

o 𝜌 è il coefficiente
𝜇
o 𝜀𝑡 è il cosiddetto “white noice” (rumore bianco): qualcosa che abbia aspettativa
nulla. È il termine di errore del processo che, in teoria, mi aspetto uguale a 0.

𝜇 al tempo t dipende da 𝜇 al tempo t-1.


𝜇
𝜇𝑡−1 = 𝜌𝜇𝑡−2 + 𝜀𝑡−1
𝜇 𝜇
𝜇𝑡 = 𝜌 2𝜇𝑡−2 + 𝜌𝜀𝑡−1 + 𝜀𝑡

Elevato al quadrato perché


consideriamo il periodo t; t-2
(2° ordine)
𝜇
𝜌𝜀𝑡−1 è lo shock del periodo precedente;
𝜇
𝜀𝑡 è la realizzazione del processo stocastico; gli 𝜀 sono disturbi casuali: shock che
non mi aspetto.

Ora, generalizzando:

𝜇𝑡 = 𝜌 𝑛 𝜇𝑡−𝑛 (+ una certa somma di shock 𝜀 a media nulla che, proprio per questo,
non consideriamo).

𝐸𝑡 (𝜇𝑡+𝑗 ) = 𝜌 𝑗 𝜇𝑡 per cui, ad esempio per j=1: 𝐸𝑡 (𝜇𝑡+1) = 𝜌𝜇𝑡 . Il valore atteso al
tempo t di 𝜇𝑡+1 dipende dal valore di 𝜇 al tempo t.

99
La parentesi relativa all’autoregressione ci ha permesso di giungere ad una relazione
𝐸𝑡 (𝜇𝑡+𝑗 ) = 𝜌 𝑗 𝜇𝑡 che possiamo sostituire nella nostra equazione relativa a 𝜋𝑡 :
∞ ∞
1 𝛽 𝑗 𝑗 1 𝛽𝜌 𝑗 1 1
𝜋𝑡 = ∑ ( ) 𝜌 𝜇𝑡 → 𝜋𝑡 = ∑ ( ) 𝜇𝑡 → 𝜋𝑡 = 𝜇 →
𝐴 𝐴 𝐴 𝐴 𝐴1− 𝛽𝜌 𝑡
𝑗=0 𝑗=0
𝐴
1 𝜆2
𝜋𝑡 = 𝜇𝑡 → Ricordiamo che 𝐴 = 1 + , sostituendo si può facilmente ottenere:
𝐴−𝛽𝜌 𝛼

𝛼
𝜋𝑡 = 𝜇
𝜆2 + (1 − 𝛽𝜌)𝛼 𝑡

𝜆
Ricordando la relazione ottima 𝑥𝑡 = − 𝜋𝑡 , si ottiene:
𝛼

𝜆
𝑥𝑡 = − 𝜇𝑡
𝜆2 + (1 − 𝛽𝜌)𝛼

Quindi abbiamo risolto il problema di ottimo giungendo alla relazione ottimale tra 𝜋𝑡
e 𝑥𝑡 ed indagato come questi rispondono a shock esogeni. Passiamo, ora, alla seconda
parte del problema (che considera il vincolo IS): le espressioni così ottenute vengono
sostituite nella curva IS per determinare il tasso 𝑖𝑡 che la BC dovrà applicare per
conseguire i propri obiettivi. Risolviamo la IS per 𝑖𝑡 :
𝐸𝑡 𝑥𝑡+1 𝑔𝑡 𝑥𝑡
𝑥𝑡 = −𝑦(𝑖𝑡 − 𝐸𝑡 𝜋𝑡+1) + 𝐸𝑡 𝑥𝑡+1 + 𝑔𝑡 → 𝑖𝑡 = 𝐸𝑡 𝜋𝑡+1 + + −
𝑦 𝑦 𝑦

Ricordando quanto detto in precedenza 𝐸𝑡 𝜋𝑡+1 = 𝜌𝜋𝑡 :


𝛼
𝐸𝑡 𝜋𝑡+1 = 𝜌𝜇𝑡 (+𝜀 a media nulla che non consideriamo)
𝜆2 +𝛼(1−𝛽𝜌)

Facendo analogamente per 𝐸𝑡 𝑥𝑡+1, otteniamo:


𝛼𝜌 1 𝜆𝜌 1 𝜆 1
𝑖𝑡 = 𝜇𝑡 − [ 2 𝜇𝑡 ] + 𝜇 + 𝑔
𝜆2 + 𝛼(1 − 𝛽𝜌) 𝜑 𝜆 + 𝛼(1 − 𝛽𝜌) 𝜑 𝜆2 + 𝛼(1 − 𝛽𝜌) 𝑡 𝜑 𝑡
𝜆𝜌 𝜆 1 1
𝑖𝑡 = (𝛼𝜌 − + )( 2 ) 𝜇𝑡 + 𝑔𝑡
𝜌 𝜑 𝜆 + 𝛼(1 − 𝛽𝜌) 𝜑
𝜆𝜌 𝜆 1
Definendo 𝛿 = (𝛼𝜌 − + )( 2
) 𝜇𝑡 , ne deriva:
𝜌 𝜑 𝜆 +𝛼 (1−𝛽𝜌)

1
𝑖 = 𝛿𝜇𝑡 + 𝑔𝑡 → Tasso di interesse ottimale: come rispondere a shock esogeni.
𝜑

100
1 1
𝑖𝑡 = 𝛿𝜇𝑡 + 𝑔𝑡 → 𝑖𝑡 = 𝛾𝑡 𝐸𝑡 𝜋𝑡+1 + 𝑔𝑡
𝜑 𝜑

VALUTAZIONI.

Sia in caso di shock di domanda che di offerta, la BC risponde con un aumento del
tasso di interesse. Tuttavia, la risposta in caso di shock della domanda sarà molto più
aggressiva. Utilizziamo il modello AS/AD per capire:

Fig. 1 Fig.2
AS
AS

AS’
AD’

AD
AD

Fig. 1: Shock positivo della domanda: porta ad un aumento di P e Q. In questo caso,


la BC aumenta il tasso per rispondere ad entrambi i suoi obiettivi che sono quindi
coerenti tra loro.

Fig. 2: Shock dell’offerta: porta ad un aumento di Q e ad una riduzione dei P. In


questo caso, la BC aumenta il tasso solo per rispondere all’obiettivo relativo
all’output e non anche all’inflazione. I due obiettivi, in questo caso, vanno in
direzioni opposte: da ciò, una risposta meno aggressiva.

Un’altra conclusione cui si giunge riguarda 𝐸𝑡 (𝜋𝑡+1):


1
𝑖𝑡 = 𝛾𝜋 𝐸𝑡 𝜋𝑡+1 + 𝑔
𝜑 𝑡

𝛾𝜋 > 1: la BC, per conseguire i suoi obiettivi, deve rispondere in modo aggressivo
(aumentando molto il tasso) in presenza di aspettative inflazionistiche.

101
DIMOSTRAZIONE RISULTATO BARROW-GORDON.
Supponiamo che ci sia una BC opportunista che cerca di raggiungere un livello di
output superiore a quello naturale, fissando, quindi, quale obiettivo un’output gap
maggiore di zero. La funzione di perdita diventa:
1 ∝
min 𝐸𝑡 [ ∑𝑗=0 𝛽 2𝛼 (𝑥𝑡+1 − 𝑘 )2 + 𝜋𝑡+1
2
] con 𝑘 > 0 , 𝑥𝑡 = 𝑘 → nuovo obiettivo
𝑖𝑡 2

➔ (𝑥𝑡+1 − 𝑘 )2 = 𝑥̃

➔ 𝜋𝑡 = 𝜆𝑥𝑡 + 𝛽𝐸𝑡 𝜋𝑡+1 + 𝜇𝑡

𝜆2
➔ 𝜋𝑡 = − 𝜋𝑡 + 𝛽𝐸𝑡 𝜋𝑡+1 + 𝜇𝑡 + 𝜆𝑘
𝛼

𝜆2
➔ (1 + ) 𝜋𝑡 = 𝛽𝐹𝜋𝑡 + 𝜇𝑡 + 𝜆𝑘
𝛼

𝜇𝑡 𝜆𝑘
➔ 𝜋𝑡 = + ;
𝐴−𝛽𝐹 𝐴−𝛽𝐹

imponendo 𝛽 = 1:

𝜆 1
➔ 𝜋𝑡 = 𝜋𝑡𝑘 + ( 1 )𝑘
𝐴 1−𝐴𝐹

𝜆 1 𝜆 1 𝑗 𝜆 1 𝜆
➔ ( 1 ) 𝑘 = ∑∝
𝑗=0 ( ) 𝐹𝑘 = 1 𝑘= 𝑘
𝐴 1−𝐴𝐹 𝐴 𝐴 𝐴 1− 𝐴−1
𝐴

Quindi:
𝜆
𝜋𝑡 = 𝜋𝑡𝑘 + 𝑘
𝐴−1

102
𝜆2
Risolvendo per 𝐴 = 1 + , otteniamo:
𝛼
𝛼
𝜋𝑡 = 𝜋𝑡𝑘 + 𝑘 → INFLATION BIAS: espandere l’economia al di sopra del livello
𝜆
naturale, genera un’inflazione più elevata.
𝜆
𝑥𝑡𝑘 = − 𝜋𝑡𝑘 = 𝑥𝑡 → nessun effetto reale derivante dall’espansione, solo prezzi più
𝛼
elevati.

103
Lezione 19 07/11/18

CANALI DI TRASMISSIONE DELLA POLITICA


MONETARIA

I canali di trasmissione della politica monetaria sono essenzialmente quattro:

• Interest rate channel


• Asset price channel
• Credit channel
• External channel

L’interest rate channel è il canale di trasmissione che passa attraverso il tasso di


interesse: la BC, ad esempio, riduce il tasso di interesse, rendendo più convenienti i
prestiti per gli imprenditori → quest’ultimi prendono a prestito per poi investire in
beni strumentali → c’è un aumento degli investimenti e del consumo di beni durevoli.
Dunque, l’irc ha a che fare con la domanda di credito (lato imprese). Connesso al
suddetto canale di trasmissione vi è, poi, un possibile effetto ricchezza. A tal
proposito, uno degli argomenti cruciali in economia è dato dai mutui immobiliari: ci
si chiede, cioè, cosa accada ai mutui in corrispondenza di variazioni del tasso di
interesse. La risposta risiede, anzitutto, nella distinzione tra mutui a tasso fisso e
mutui a tasso variabile.

• Mutui a tasso fisso: un eventuale riduzione del tasso di interesse non influenza
in alcun modo le tasse del mutuo → non si genera alcun effetto ricchezza.
• Mutui a tasso variabile: la riduzione del tasso di interesse determina, a sua
volta, una riduzione delle tasse del mutuo → effetto ricchezza positivo:
aumento del reddito e, dunque, dei consumi.
In conclusione, quindi, nelle economie caratterizzate da mutui a tasso variabile, ci
saranno effetti ricchezza che porteranno ad un ulteriore aumento dei consumi,
rendendo più rapida la trasmissione della politica monetaria (più effetti reali).

Veniamo all’asset price channel: il canale di trasmissione che passa attraverso il


prezzo delle attività finanziarie quali, ad esempio, le azioni. In particolare, il prezzo
delle azioni dipende dai dividendi che sono scontati a un determinato tasso. Se la BC

104
decide di condurre una politica restrittiva, aumentando il tasso di interesse, i prezzi
asset si riducono, generando un effetto ricchezza; vi è, poi, un effetto sugli
investimenti che può essere visto come effetto ricchezza negativo poiché, se i prezzi
si riducono, è meno conveniente investire. Al contrario, una politica espansiva rende
più conveniente investire, generando un effetto ricchezza individuale e, quindi, un
effetto espansivo. È chiara la logica alla base dell’asset price channel: variazioni di
politica monetaria determinano → variazioni dei prezzi asset il che genera → effetti
ricchezza (positivi o negativi).

Alla luce di quanto detto sull’asset price, sorge spontanea una domanda: la BC
deve monitorare i prezzi delle azioni?

Una politica monetaria espansiva è un modo per alzare i prezzi delle azioni però, se
condotta in modo eccessivo, per troppo tempo, può generare una bolla speculativa:
tutti acquistano un bene poiché si aspettano di poterlo rivendere ad un prezzo più alto
in futuro → le aspettative fanno crescere, effettivamente, i prezzi → i prezzi
crescono, consolidando le aspettative e raggiungendo livelli incredibilmente levati,
fino a quando non ci si rende conto che non esistono reali basi per prezzi così elevati:
tutti iniziano a vendere, i prezzi crollano e la bolla speculativa scoppia. Quanto
esposto è, esattamente, ciò di cui è stato accusato Greenspan, direttore generale della
FED americana ai tempi della crisi finanziaria del 2007, additato come causa della
stessa crisi per aver condotto politiche monetarie troppo espansive con tassi troppo
bassi per troppo tempo, mantenendo i prezzi delle azioni artificialmente elevati e
alimentando la bolla speculativa. Greenspan, tuttavia, risponde alla critica sostenendo
come il ruolo della BC non sia quello di monitorare i prezzi delle azioni, correggendo
le proprie politiche espansive in caso di eccessivi rialzi. La risposta di Greenspan si
basa su una semplice assunzione: teoria dell’efficienza dei mercati. Se si parte dal
presupposto che i mercati siano efficienti, un aumento dei prezzi rifletterà i
fondamentali del mercato alla luce delle informazioni disponibili (ad esempio,
informazioni relative ad una maggiore redditività delle imprese). Il corollario della
suddetta teoria è che le bolle speculative non esistano per cui aumenti di prezzi
riflettono sempre i fondamentali. Greenspan credeva nell’efficienza dei mercati ma,
in realtà, pur discostandoci da questa teoria e, quindi, ammettendo l’esistenza di bolle
speculative, occorre evidenziare l’impossibilità per una banca di distinguere rialzi
dovuti ai fondamentali da rialzi dovuti a bolle speculative e, dunque, la difficoltà
d’intervento della BC: se l’aumento dei prezzi non dipende dall’esistenza di bolle,
intervenire significa limitare l’espansione dell’economia.

105
C’è poi il credit channel che, differentemente dall’interest rate channel, ha a che
fare con l’offerta di credito (lato banche). Variazioni del tasso di interesse incidono
anche sull’offerta di credito delle banche agli imprenditori. Ci sono due ragioni per
cui ciò avviene:

• Adverse selection: la banca offre credito ad imprenditori potenziali, ciascuno


con un progetto caratterizzato da un differente rapporto rischio-rendimento.
Tuttavia, a causa delle asimmetrie informative circa la rischiosità dei progetti
degli imprenditori, la banca è costretta ad offrire credito ad un tasso che rifletta
la rischiosità media del mercato. Conseguenza: gli imprenditori meno rischiosi
non prenderanno a prestito perché caratterizzati da un play-off basso, incapace
di fronteggiare il tasso di interesse. A prendere a prestito, saranno solo gli
imprenditori con i progetti più rischiosi ma anche più redditizi. La banca,
anticipando queste dinamiche, chiederà, allora, un tasso di interesse più elevato
per compensarsi dal rischio maggiore, incentivando, però, in questo modo,
quelle stesse dinamiche: ancora una volta, a chiedere il prestito saranno solo gli
imprenditori più rischiosi con un rendimento tale da fronteggiare l’elevato
tasso di interesse. Alla fine di questo processo di selezione, la banca potrebbe
non essere più disposta a dare credito → fallimento del mercato.
Ci sono due opzioni per fronteggiare l’adverse selection:
➢ Chiedere maggiori garanzie all’imprenditore.
➢ Finanziare solo una parte dell’importo affinché l’imprenditore sia
costretto a compartecipare.
In entrambi i casi, la banca mira a comprendere il reale grado di rischio del
progetto, eliminando il problema delle asimmetrie informative. Ora, per
comprendere come variazioni del tasso di interesse incidano sull’offerta di
credito (a causa della selezione avversa), supponiamo che la BC conduca una
politica restrittiva, aumentando il tasso di interesse richiesto per i prestiti alle
banche commerciali. Di riflesso, aumenterà il tasso richiesto dalle banche
commerciali agli imprenditori, peggiorando evidentemente il problema
dell’adverse selection. E non è finita qui.
• Balance sheet effect: l’aumento del tasso di interesse determina anche una
riduzione del prezzo degli asset → ciò, a sua volta, determina una riduzione
dell’attivo patrimoniale degli imprenditori e, quindi, delle garanzie che sono in
grado di fornire. Alla luce di minori garanzie, le banche riducono la loro offerta
di credito. Questo meccanismo è detto: “acceleratore finanziario”, così
definito, per la prima volta, da Bernankle e Gertler per evidenziare come esso
costituisca un effetto ulteriore rispetto all’interest rate channel di fronte a
variazioni di politica monetaria: se il tasso di interesse aumenta, non solo si

106
riduce la domanda ma anche l’offerta di credito. Ad amplificare l’effetto
dell’acceleratore finanziario, c’è il fatto che il balance sheet effect non riguarda
soltanto il bilancio delle imprese ma anche delle banche: la riduzione del tasso
e l’aumento dei prezzi determinano anche una riduzione dell’attivo delle
banche che, per restare nei coefficienti di regolamentazione, dovranno ridurre
gli impieghi e, cioè, ancora una volta, l’offerta di credito.

In passato, molti vedevano l’offerta di credito da parte delle banche come una
semplice funzione crescente del tasso di interesse, ignorando tutto quanto detto finora
e, in particolare, ignorando il problema dell’adverse selection. Stiglitz e Weiss sono i
primi a prendere atto dell’esistenza di questa problematica nel mercato del credito:

Il problema della selezione avversa fa sì che la curva di offerta del credito cresca al
crescere del tasso di interesse solo fino ad un certo punto (i*) dopodiché inizia a
decrescere. Ciò dipende da quanto detto in precedenza: più il tasso aumenta, più i
creditori “buoni”, caratterizzati da un rischio più basso, smetteranno di chiedere a
prestito → aumenterà, quindi, la rischiosità media cui si espone la banca, rendendo
conveniente per la stessa restringere l’offerta di credito. In questo contesto, si può
anche verificare una situazione di credit crunch: il mercato sparisce perché la banca
non è più disposta ad offrire credito. Se la banca chiede ed ottiene più garanzie, il
mercato può ripristinarsi. Tuttavia, occorre considerare che se la BC aumenta il tasso,
le garanzie degli imprenditori si riducono (balance sheet effect); d’altra parte, come
visto, le banche riducono la loro offerta di credito; tutto questo impedisce agli
imprenditori di finanziarsi → credit crunch.
Una soluzione possibile al credit crunch è la ricapitalizzazione bancaria mediante
spesa pubblica affinché le banche possano nuovamente fornire prestiti e si riattivi il
credit channel. La ricapitalizzazione, però, genera il rischio della moral hazard per cui
107
occorre bilanciare il suddetto rischio con l’esigenza di riattivare il canale di
trasmissione.

Infine, c’è il canale esterno: il canale che passa attraverso il tasso di cambio. A tal
proposito, ricordiamo la uncovered interest rate parity (condizione di arbitraggio che
eguaglia i rendimenti attesi degli asset di due diversi Paesi):

1 + 𝑖 = 𝑠(1 + 𝑖 ∗)⁄𝑠 𝑎

che può essere scritta in questo modo:

dove 𝛥𝑠 𝑎 rappresenta la rivalutazione attesa della valuta nazionale. Il tasso di


interesse domestico (i) può essere maggiore di quello estero (i*) (e quindi gli asset
domestici più convenienti di quelli esteri) se mi aspetto un deprezzamento della
valuta nazionale (che, quindi, varrà di meno e compenserà il tasso più elevato)
poiché, in mancanza di deprezzamento, ci sarebbe arbitraggio.

Quali sono gli effetti sulla trasmissione della politica monetaria?

Se la BC, ad esempio, decide di condurre una politica espansiva, riducendo il tasso di


interesse, ci sarà un deprezzamento della valuta nazionale. Il deprezzamento porta ad
un aumento delle esportazioni e ad una riduzione delle importazioni il cui prezzo
aumenta (se si riduce il valore della valuta nazionale rispetto a quella estera, dovrò
pagare di più, rispetto a prima, per acquistare un bene estero) → miglioramento della
bilancia commerciale.

Modello dell’overshooting di Dornblisch

Supponiamo che la BC annunci una riduzione, per un anno, dell’1% del tasso di
interesse, dopodiché tornerà al livello precedente; supponiamo, inoltre, che ci sia un
aggiustamento lento delle quantità.
Cosa succede al tasso di cambio? Di quanto si riduce?

108
𝛥𝑠 𝑎 indica l’apprezzamento atteso che è pari, in questo caso, all’1% (in seguito
all’annuncio della BC per cui, dopo un anno, vi sarà un aumento di i dell’1% che lo
riporterà al suo livello). Dato l’apprezzamento atteso, il tasso di cambio oggi si riduce
dell’1% affinché continui a valere la condizione di arbitraggio.
Supponiamo che la riduzione duri non uno ma due anni. In questo caso, c’è un
apprezzamento atteso, oggi, del 2% compensato da un deprezzamento dello stesso
valore (affinché 𝛥𝑠 𝑎 = 0). In realtà, il tasso di interesse aumenta dell’1% all’anno
per due anni e così anche l’apprezzamento effettivo → overshoot: il tasso di cambio
(s) è molto più volatile del tasso di interesse (i); le variazioni di “s” sono più grandi di
quelle di “i” per via delle aspettative. Quanto detto è confermato dalla UIP che può
essere espressa in funzione di “s”:

E in generale:

Il tasso di cambio oggi dipende dal tasso di cambio atteso tra un certo numero di
periodi e dal valore atteso di tutti gli scostamenti del tasso di interesse domestico da
quello estero. La relazione ci mostra come “s” non dipenda solo dal differenziale tra i
tassi di i attuali ma anche da tutti i differenziali futuri → quindi i tassi di cambio
riflettono le aspettative circa l’andamento della politica monetaria futura.
Esempio: supponiamo che in un Paese con sovranità monetaria siano pubblicati dati
circa una riduzione dell’occupazione; la riduzione dell’occupazione → riduzione
dell’output → output negativo → recessione; di fronte ad una possibile recessione ci
si aspetta che la BC attui una politica monetaria espansiva → riduzione di i →
deprezzamento del tasso di cambio.

109
Lezione 20 08/11/18

POLITICHE MONETARIE
NON CONVENZIONALI

Partiamo dalla seguente relazione:

𝑅 = 𝑖 − 𝜋𝑒 (R: tasso di interesse reale)

Per la BC è sempre possibile realizzare politiche di stabilizzazione e, quindi,


influenzare l’attività economica mediante il tasso di interesse?
In realtà no; vi è, infatti, un limite nel cosiddetto “zero lower bound” per cui
l’interesse nominale non può scendere al di sotto di zero. Se così fosse, ci si
troverebbe in una situazione paradossale ove è la stessa BC che paga e sostiene un
costo per prestare soldi. In realtà, anche laddove il tasso di interesse resti a zero e non
scenda al di sotto, è possibile che vi sia una paralisi dei canali di trasmissione.
Consideriamo, anzitutto, l’interest rate channel: se l’economia è in recessione e vi
sono aspettative di persistenza della recessione, vi saranno anche aspettative
deflazionistiche circa un abbassamento dei prezzi; alla luce di queste aspettative, è
possibile che, pur abbassando la BC il tasso di interesse nominale a zero, il tasso di
interesse reale (R) sia molto elevato il che, per l’appunto, blocca il funzionamento
dell’interest rate channel.
La paralisi riguarda anche il credit channel: in recessione, le imprese tendono a fallire
per cui le banche commerciali si ritroveranno con prestiti non performing ovvero non
restituiti. Ciò induce le banche a ridurre gli impieghi e, dunque, il credito anche se la
BC riduce a zero il tasso di interesse richiesto per dare a prestito alle banche. Dunque,
le banche possono offrire meno credito per problemi tecnici dovuti al rientro nei
coefficienti di regolamentazione. In realtà, è anche possibile che le banche abbiano la
possibilità tecnica di estendere il credito ma non trovino impieghi sufficientemente
poco rischiosi per farlo. In questo caso, le banche prendono a prestito a tasso 0 dalla
BC per poi ridepositare il denaro presso la stessa BC.

È evidente che la recessione possa bloccare i canali di trasmissione: cosa può fare la
BC in questa situazione?
Può realizzare delle politiche monetarie non convenzionali anche definite ZIRP (zero
interest rate policy) → politiche monetarie in corrispondenza di un tasso di interesse
nominale vicino o uguale a zero.
110
• Una delle possibili soluzioni, connessa al ruolo della BC quale prestatore di
ultima istanza, è la cosiddetta helicopter money: distribuzione monetaria
mediante accredito sui c/c delle persone. Si tratta, quindi, di una particolare
forma di espansione monetaria che bypassa il credit channel, fornendo
direttamente il denaro agli utenti finali senza passare per l’intermediazione
bancaria.

• Vi sono, poi, delle politiche non convenzionali adottate dalla BC con lo scopo
preciso di evitare che le banche commerciali prendano a prestito a tasso zero
per poi depositare presso la stessa BC. A tal scopo, è possibile fissare un tasso
di interesse negativo sui depositi per incentivare le banche al prestito. Altra
soluzione è quella dei prestiti vincolati: le banche sono obbligate ad utilizzare
i fondi ricevuti pena la restituzione degli stessi (target loans). Si tratta, anche in
questo caso, di incentivi e non di soluzioni strutturali: banche con un attivo
deteriorato e prospettive di peggioramento della recessione, potrebbero
decidere di non ricorrere ai prestiti vincolati.

• Un’ulteriore ZIRP concerne la relazione precedentemente citata:


𝑅 = 𝑖 − 𝜋𝑒
Come detto, l’interest rate channel si blocca a causa di aspettative
deflazionistiche; dunque, la BC cerca di riattivare il canale generando
aspettative inflazionistiche. Questa politica è stata definita da Krugman quale
“commitment to be irresponsable” poiché, in condizioni normali, l’obiettivo
della BC è esattamente l’opposto: mantenere bassa l’inflazione e, con essa, le
aspettative. Al fine di generare aspettative inflazionistiche, la BC annuncia un
abbassamento dei tassi di interesse. In particolare, la BC cerca di comunicare
che i tassi resteranno bassi anche laddove l’economia entri in una fase di
espansione, quantomeno fino a quando non vi saranno segnali consistenti di
ripresa (celebre il discorso di Mario Draghi: “ECB is ready to do whatever it
takes”). Questo tipo di strategia è definita forward guidance proprio perché
cerca di orientare le aspettative.
Tuttavia, si definiscono anche come “targeting sulla yield curve”; la yield
curve mette in relazione tassi di interesse a diversa scadenza ed ha una
pendenza che dipende dall’andamento delle politiche monetarie future. Per
comprendere cosa significa fare targeting sulla yc, occorre considerare che la
BC influenza il tasso di interesse nominale a breve scadenza mentre quello che
111
conta, ai fini degli investimenti, è il tasso reale a scadenze più lunghe. La
relazione tra tasso nominale e reale è data dalle aspettative inflazionistiche.
Quando la BC comunica che vi saranno tassi nominali bassi influenza le
aspettative inflazionistiche ed incide, quindi, sul tasso reale; ma, in realtà,
influenza anche le aspettative circa i tassi nominali (e, come visto, reali) futuri,
compresi quelli a scadenza più lunga attraverso la yield curve. Quindi, in
sostanza, mediante gli annunci di politica monetaria, la BC riesce ad
influenzare anche i tassi reali a lunga scadenza con l’obiettivo di stimolare
prestiti agli imprenditori.

• La forward guidance rappresenta una delle due ZIRP fondamentali e, come


visto, cerca di sbloccare l’irc. L’altra ZIRP fondamentale cerca, invece, di
sbloccare il credit channel. Le banche, infatti, riducono il credito a causa di un
attivo deteriorato dai non performing loans (la situazione è ancor peggiore se la
crisi finanziaria si traduce in una crisi del debito sovrano e le banche sono
esposte a titoli del debito pubblico deprezzati).
In questo caso, si ricorre alle strategie di easing (in particolare di quantitative
easing): programmi di acquisto dei titoli deteriorati delle banche da parte della
BC → in questo modo le banche riducono il loro rischio all’attivo e possono
offrire più credito. Le strategie di easing possono essere:
➢ Qualitative easing: la BC sterilizza l’operazione → acquista titoli
rischiosi e vende, per lo stesso ammontare, titoli poco rischiosi in modo
tale che non vi sia un aumento della moneta in circolazione.
➢ Quantitative easing: la BC acquista titoli senza venderne degli altri per
cui si tratta, a tutti gli effetti, di un’espansione monetaria.
In entrambi i casi, l’obiettivo è il medesimo: ripulire l’attivo delle banche. Va
detto che le operazioni di quantitative easing si differenziano dalle classiche
operazioni di mercato aperto: in quest’ultimo caso, la BC acquista titoli a breve
scadenza e poco rischiosi; nel primo caso, si tratta non solo di titoli rischiosi
ma anche a lunghissima scadenza.
Le operazioni di quantitative easing presentano, però, delle problematiche.
Accanto all’effetto sperato di ripulire gli attivi bancari e generare inflazione, si
pongono delle questioni:
➢ I titoli rischiosi, alla fine, sono solo trasferiti per cui il rischio nel sistema
economico globale permane, solo che la perdita è imputata alla BC e,
quindi, indirettamente, ai suoi stakeholders → Stato → collettività.
➢ Queste operazioni non possono essere permanenti; ad un certo punto,
l’intervento di quantitative easing deve essere “faced out” ovvero
eliminato ed i titoli devono essere messi in circolazione; se i titoli sono
112
immessi repentinamente in circolazione, c’è il rischio di una crisi dei
prezzi (che si riducono) e, dunque, di una crisi finanziaria. Quindi, la BC
deve essere cauta, attuando un’immissione graduale.
➢ Un altro aspetto che occorre sottolineare tocca la politica fiscale e ha
riguardato, negli ultimi tempi, proprio l’Italia. Negli ultimi anni, infatti,
la BCE ha acquistato numerosissimi titoli di Paesi con crisi del debito
pubblico, mantenendo così prezzi alti e interessi bassi e favorendo,
quindi, prestiti alle banche; ma, trattandosi di titoli del debito pubblico,
così facendo, ha anche monetizzato il debito dei Paesi in questione
come, per l’appunto, l’Italia. Quindi anche se la BCE è indipendente ed
ha quali unici obiettivi il controllo dell’inflazione e la stabilità
finanziaria, non è da escludere che essa possa monetizzare il debito
sovrano → si parla, a tal proposito, di dominanza fiscale: la BCE agisce
per ragioni di politica monetaria (ovvero per evitare problemi di diabolik
loop, crisi bancarie e finanziarie) ma, involontariamente, agisce anche
sulla politica fiscale.
N.B. Proprio questo atteggiamento della BCE ha consentito all’Italia,
negli ultimi anni, di non attuare eccessivi aggiustamenti fiscali.
➢ Vi è, infine, un’ultima questione relativa alle operazioni di quantitative
easing: ci si chiede se sia meglio un acquisto contenuto o consistente dei
titoli bancari
→ un acquisto contenuto può suscitare l’idea di un intervento
insufficiente;
→ un intervento massiccio può, invece, suscitare l’idea di un problema
molto grave, creando aspettative di peggioramento;
Non è, quindi, chiaro quale sia la strategia ottimale.

Cos’ha fatto la BCE negli ultimi dieci anni con tassi di interesse quasi a zero?
Ha realizzato diversi programmi, tutti inquadrabili nelle quantitative easing:

✓ Long term refinincing operations: estendere i prestiti, non più a tre mesi ma a
tre anni, per influenzare i tassi di interesse a tre anni (al ribasso).
✓ Targeted longer-term refinincing operations: prestito alle banche con un
vincolo → le banche devono, a loro volta, prestare pena restituzione.
✓ Asset purchase programmes: programmi che si distinguono in base ai titoli
acquistati. Ad esempio, covered bond purchase programme o, ancora, asset-
backed securities purchase programme.

113
✓ Outright monetary transaction: operazioni di monetizzazione → acquisto di
titoli del debito pubblico.
✓ Emergency liquidity assistance: fornitura straordinaria di liquidità alle
istituzioni finanziarie in crisi.

114
Lezione 21 13/11/18

POLITICA DEL TASSO


DI CAMBIO
Panoramica della storia del sistema finanziario internazionale:

• Fine ‘800-1°GM: regime di cambi fissi → sistema del gold standard.


Il gold standard prevedeva una convertibilità fissa della moneta in oro: si
poteva emettere moneta solo in misura proporzionale alle riserve auree del
Paese. Quindi, tenendo fisso lo stock di oro in circolazione, i cambi tra le
monete sono fissi. Il vantaggio principale del gs è la stabilità dei prezzi,
derivante dalla stabilità del tasso di cambio, suscettibile di migliorare il
commercio internazionale.
• 1°-2°GM: Il gold standard crolla a seguito dell’inflazione derivante dal
finanziamento in debito dei Paesi per sostenere il costo della guerra. Tra le due
guerre mondiali si ha un periodo di instabilità durante il quale si sviluppa un
regime flessibile con tassi di cambio liberi di fluttuare tra loro – il mercato
fissa il prezzo della valuta generando continue fluttuazioni. C’è stato un
tentativo di ripristinare un sistema fisso, tentativo fallito con la crisi finanziaria
del ’29 a causa delle “svalutazioni competitive”: Paesi in recessione attuavano
politiche monetarie espansive ovvero svalutazioni della moneta interna per
aumentare le esportazioni, rese artificialmente più convenienti, ed esportare la
crisi all’estero; tuttavia, alla fine di queste svalutazioni competitive tra Paesi,
l’unica conseguenza era un’inflazione più elevata senza alcun effetto reale.
• Post 2°GM: Accordi di Bretton Woods → Gold Exchange standard.
Convertibilità fissa di tutte le valute in dollaro e del dollaro in oro. A Bretton
Woods viene anche costituito il FMI, il cui ruolo era di garante del sistema
internazionale dei pagamenti nonché di fare prestiti a chi si trovasse
momentaneamente in crisi.
Questo sistema viene abbandonato nel ’71 con la decisione di Nixon di
sospendere la parità tra dollaro e oro per finanziare la guerra in Vietnam
(svalutazione). Al di là di questo, il gold Exchange standard presentava un
problema strutturale definito dal cosiddetto “dilemma di Triffin”: se il dollaro
è la moneta chiave, gli Stati Uniti devono essere disposti a fornire più liquidità
al sistema; tuttavia, più liquidità si immette, meno è credibile la parità dollaro-
oro. Questo è, in realtà, un problema generale dei cambi fissi: essi facilitano e

115
favoriscono il commercio internazionale ma più questo migliora, più vi è
necessità di valuta a scopi transattivi e ciò mette in dubbio la parità centrale.
• Dal 1973-74 in poi: Venuto meno il gold Exchange standard, si instaura un
regime flessibile. Tuttavia, i Paesi Europei danno vita ad un accordo locale ove
fissano il tasso tra loro. Nel ’79, in particolare, viene creato l’European
monetary system: un accordo con cambi non perfettamente fissi; c’era la parità
centrale ma c’era anche la possibilità di discostarsi dal tasso entro una
determinata banda di oscillazione (2%, ad eccezione dell’Italia alla quale era
consentita una speciale fluttuazione del 6%).
Anche questo sistema, però, entra in crisi con l’apertura dei mercati dei capitali
tra Paesi. L’apertura, infatti, determina rapidi e ingenti flussi speculativi che
rendono difficoltoso il controllo dei tassi di cambio. I Paesi, accortisi di ciò,
hanno iniziato a dare vita ad accordi sempre più stringenti fino ad arrivare
all’Euro.

La prima scelta che i Paesi devono fare concerne, dunque, la convertibilità. Avere
una moneta non convertibile è una scelta poco comune poiché determina una
chiusura con solo scambi autorizzati, caso per caso. Generalmente, la moneta è
convertibile. La moneta, inoltre, può essere convertibile per le sole operazioni di
current account: importazioni ed esportazioni e remunerazione dei fattori produttivi.
Una forma di maggiore libertà, invece, prevede la convertibilità anche per operazioni
di financial account: flussi finanziari → perfetta mobilità dei capitali (ad esempio, è
possibile chiedere prestito ad una banca estera). In realtà, in nessun Paese vi è una
perfetta mobilità dei capitali, al 100%, un minimo di controllo c’è sempre (ad
esempio, vi sono Paesi che vietano l’acquisto di determinate attività finanziarie). Il
principale beneficio della mobilità finanziaria (motivo per cui il FMI l’ha ritenuta
buona pratica macroeconomica) è la diversificazione, ovvero l’espansione delle
possibilità di investimento e di finanziamento (un investimento interno, ad esempio,
può essere finanziato anche laddove le risorse interne siano insufficienti) il che può
condurre ad una crescita maggiore nel lungo periodo. Un ulteriore vantaggio della
diversificazione è, ovviamente, anche la riduzione del rischio.
L’apertura dei mercati, però, genera anche dei problemi, motivo per cui è stata
criticata da molti, tra cui Stiglitz. In particolare, ci si apre alla possibilità di forti flussi
speculativi che determinano, a loro volta, forti fluttuazioni del tasso di cambio,
generando incertezza e rischiando di essere deleteri per un’economia in sviluppo.
Inoltre, è stato anche messo in dubbio che la mobilità finanziaria offra la possibilità di
finanziare più investimenti → Feldstein-Horioka puzzle: il risparmio e
116
l’investimento interno sono altamente e positivamente correlati tra loro; i Paesi con
investimenti maggiori sono anche quelli con un risparmio maggiore per cui questi
grandi finanziamenti esteri di investimenti interni non sembrerebbero esistere. La
spiegazione di ciò risiede nel cosiddetto “home-buys”: a parità di rendimento di due
attività finanziarie, si preferisce quella nazionale; il discorso si estende a tutti i beni e
servizi nazionali. Le ragioni di questa preferenza possono essere molteplici come, ad
esempio, una maggiore conoscenza del mercato nazionale. Inoltre, eventuali squilibri
tra risparmio ed investimento interno non possono persistere per un lungo tempo: una
situazione di risparmio basso ed investimento elevato equivale ad un forte debito
verso l’estero e ciò può creare degli squilibri nella politica monetaria.

Considerate le monete convertibili, la seconda decisione che i Paesi devono


affrontare concerne il regime di cambio:

- Fluttuazione “pura” del tasso di cambio: quest’ultimo viene, quindi,


determinato dal mercato. La BC, però, può intervenire, acquistando o
vendendo valuta sul mercato, influenzando, così, il tasso di cambio. La BC
interviene perché i tassi di cambio influenzano exp ed imp per cui ridurre il
tasso significa stimolare la crescita interna (politica di stabilizzazione).
Un’altra ragione concerne l’esposizione delle aziende domestiche al rischio di
cambio. Questo regime, proprio in virtù degli interventi della BC, è anche
definito “managed” ed è, ad oggi, il regime adottato dalla maggior parte dei
Paesi.
- Regimi a cambi fissi: possono essere divisi, a loro volta, in due classi:
Hard pegs: meccanismi istituzionali che mantengono il tasso fisso. La forma
più estrema è la dollarizzazione: si legalizza la circolazione di un’altra valuta
all’interno del Paese. Ciò avviene quando un Paese non è in grado di gestire la
moneta ed è, spesso, l’evento finale di una situazione di iperinflazione
derivante da spese fuori controllo. Così, si decide di adottare un’altra moneta
con un’inflazione più bassa della quale non si ha il controllo. È ovviamente un
estremismo poiché si rinuncia a fare politica monetaria. Una forma meno
estrema di dollarizzazione è il currency board: si autorizza la BC ad emettere
moneta solo se ha una quantità proporzionale di riserve di valuta estera.
Soft pegs: Il regime consiste in un annuncio della BC che fissa il tasso di
cambio; la BC deve, quindi, essere credibile. In caso di oscillazioni, la BC si
impegna a riportare il tasso al suo livello.

Ulteriore differenza in materia di regime fisso può, poi, essere fatta tra tassi di
cambio fissi con un solo valore e tassi di cambio fissi che presentano una banda

117
di oscillazione. Infine, vi è il crowling peg: un meccanismo in cui il tasso di
cambio, pur essendo fisso, muta progressivamente a seguito di un
aggiornamento automatico della parità centrale in risposta all’inflazione.

Osservazione di Mandell: è impossibile avere simultaneamente perfetta mobilità


di capitali, politica monetaria indipendente e tassi di cambio fissi → triangolo di
incompatibilità di Mandell (2 escludono il 3°).

1. Mobilità dei capitali e cambio fisso: la PM non è indipendente poiché dipende


dal mantenimento del cambio fisso.
2. Mobilità dei capitali ed indipendenza della PM: data l’indipendenza della PM,
il tasso non viene mantenuto fisso.
3. Cambio fisso ed indipendenza della PM: per mantenere il cambio fisso,
nonostante l’indipendenza della PM, è necessario un controllo sui flussi di
capitale.

N.B.

Bilancia di pagamento con l’estero:

• Current account: import/export, remunerazione dei fattori produttivi.


• Capital account: trasferimenti senza contropartita con l’estero.
• Financial account: flussi finanziari.

Un deficit di current account suggerisce un saldo positivo di financial account: la


capacità di finanziare un deficit di current account di un Paese dipende
dall’appetibilità dei titoli interni (financial account).

118
Lezione 22 14/11/18

TEORIE DI DETERMINAZIONE
DEL TASSO DI CAMBIO

Le teorie del tasso di cambio mirano a rispondere ad una stessa domanda: è


opportuno che le autorità di politica economica facciano politica del tasso di
cambio? Posto che il tasso rappresenta il prezzo della valuta, è necessario intervenire
per modificare artificialmente questo prezzo? Una risposta affermativa potrebbe, ad
esempio, poggiare sulla necessità di correggere un deficit di current account derivante
da una riduzione della domanda estera di un bene domestico (aumento delle
exp/riduzione delle imp): si potrebbe, quindi, intervenire sul mercato del tasso di
cambio per riequilibrare il current account. Va osservato che una riduzione della
domanda internazionale di beni domestici → porta ad una riduzione della domanda di
valuta domestica per acquistare beni → quindi ad un deprezzamento e ad un
riequilibrio naturale del current account, senza necessità di intervento. La ragione per
cui, spesso, si decide di intervenire è che l’aggiustamento naturale potrebbe
richiedere tempi lunghi.
Un’altra spinta all’intervento deriva dalla perfetta mobilità dei capitali: i mercati
finanziari, caratterizzati da bolle speculative e fenomeni di herding, sono imperfetti e
danno vita a flussi speculativi in grado di incedere sulla domanda e sull’offerta di
valuta; un eventuale disallineamento tra il valore del tasso di cambio attuale
(determinato sui mercati finanziari) e il valore fondamentale, coerente con gli
equilibri macroeconomici, pone la necessità di intervento.

Ad ogni modo, la questione relativa all’intervento è ancora aperta ed orientata, in


particolare, da tre teorie:

1. Purchasing power parity: parità del potere d’acquisto, anche detta legge del
prezzo unico. Supponiamo che ci siano due categorie di beni: beni commerciabili
e beni non commerciabili, in assenza di vincoli al commercio internazionale e al
netto del tasso di cambio, il prezzo dei beni commerciabili deve essere uguale in
tutti i Paesi. La parità può essere:
- Assoluta: i prezzi sono assolutamente uguali.

119
- Relativa: i prezzi differiscono di un fattore dovuto a ragioni istituzionali
(come l’esistenza di un dazio di importazione) ma il differenziale di prezzo è
costante.

2. Effetto Balassa-Samuelson: Partiamo da alcune assunzioni fondamentali:


- Due categorie di beni: commerciabili e non;
- Due Paesi di cui uno sviluppato e uno in via di sviluppo;
- Perfetta libertà di circolazione dei beni commerciabili → assenza di vincoli;
La prima conclusione immediata di queste assunzioni è la validità della
purchasing power parity: beni commerciabili hanno lo stesso prezzo in Paesi
diversi. Qual è, invece, la relazione tra i prezzi dei beni non commerciabili nei vari
Paesi?
Per capirlo, torniamo ai beni commerciabili: il Pvs ha una tecnologia meno
avanzata e una minore produttività per cui necessita di una maggiore forza lavoro
rispetto al Paese sviluppato per produrre il medesimo bene → ne deriva che
l’unico modo per il Pvs di competere è imporre un costo del lavoro più basso. I
salari più bassi non si limitano alla produzione dei beni commerciabili; essi si
riflettono anche negli altri settori, compreso quello dei servizi. Tuttavia, se, da un
lato, il prezzo dei beni commerciabili è uguale nei due Paesi data la legge del
prezzo unico, il prezzo dei beni non commerciabili è, invece, più basso nel Pvs →
Premessa effetto Balassa-Samuelson: il Paese sviluppato fissa prezzi più elevati
per i beni non commerciabili rispetto al Pvs.
Ora, assumiamo che il Pvs migliori, progressivamente, la sua tecnologia
produttiva. Con l’aumento della produttività, viene meno l’esigenza di competere
mediante salari al ribasso i quali, pertanto, aumentano tanto nel settore dei beni
commerciabili quanto in quello dei beni non commerciabili. Tuttavia, ancora una
volta, se il prezzo dei beni commerciabili resta uguale, il prezzo dei servizi,
invece, aumenta in conseguenza dell’aumento dei salari, determinando un
apprezzamento reale del tasso di cambio → Effetto Balassa-Samuelson.
L’effetto BS è importante perché ci consente di capire che l’apprezzamento non
dipende da una perdita di competitività o da un peggioramento nel settore dei beni
commerciabili; si tratta, piuttosto, di un apprezzamento fisiologico derivante da un
miglioramento interno del Paese per cui, in questo caso, non è necessario
intervenire con una politica del tasso di cambio.
N.B. Una delle critiche più importanti al Trattato di Maastricht si basa proprio
sull’effetto BS: il Trattato, rivolgendosi anche a Pvs, prevede, quali obiettivi,
un’inflazione bassa e cambi fissi. Tuttavia, come visto, un miglioramento

120
produttivo nei Pvs è inscindibile da un apprezzamento reale. L’unica soluzione
sarebbe continuare a tenere salari bassi mediante una politica recessiva.

3. Approccio intertemporale alla bilancia dei pagamenti: Assunzioni:


- Due periodi [1; 2]
- Due beni [𝑐 𝑛 = bene non-exchangeable; 𝑐 𝑒 = bene exchangeable]
- Un consumatore rappresentativo che massimizza l’utilità intertemporale nei
due periodi.

Problema di max dell’utilità:

Max 𝜇 (𝑐1𝑛 , 𝑐1𝑒 ) + 𝛽𝜇(𝑐2𝑛 , 𝑐2𝑒 )


Utilità logaritmica:
𝜇(𝑐𝑡𝑛 , 𝑐𝑡𝑒 ) = 𝛾 𝑙𝑜𝑔𝑐𝑡𝑛 + (1 − 𝛾)𝑙𝑜𝑔𝑐𝑡𝑒
• 𝛾 è il peso che diamo all’utilità del bene non commerciabile.
• 1 − 𝛾 è il peso che diamo al log del livello di consumo del bene
commerciabile.

Vincolo di bilancio:
𝑐2𝑒 + 𝑁2 𝑐2𝑛 𝑦2𝑒 + 𝑁2 𝑦2𝑛
𝑐1𝑒 + 𝑁1 𝑐1𝑛 + 𝑒 𝑛
= 𝑦1 + 𝑁1 𝑦1 +
1+𝑅 1+𝑅

=Y

Lagrangiana:

𝐿 = [𝛾 log 𝑐1𝑛 + (1 − 𝛾) log 𝑐1𝑒 ] + 𝛽 [𝛾 log 𝑐2𝑛 + ℎ − 𝛾 log 𝑐2𝑒 ]


𝑒 𝑛
𝑐2𝑒 + 𝑁2 𝑐2𝑛 𝑒 𝑛
𝑦2𝑒 + 𝑁2 𝑦2𝑛
− 𝜆 {𝑐1 + 𝑁1 𝑐1 + − (𝑦1 + 𝑦1 𝑁1 + )}
1+𝑅 1+𝑅

121
Abbiamo cinque condizioni: il consumo dei beni commerciabili nei periodi 1 e 2, il
consumo dei beni non commerciabili nei periodi 1 e 2 e, infine, il vincolo di bilancio.

Consumo del bene commerciabile nei due periodi:


𝜕𝐿 (1−𝛾)
𝑒 = 0
𝜕𝑐1 𝑐1𝑒
− 𝜆=0

𝜕𝐿 𝛽(1−𝛾) 𝜆
𝑒 = 0
𝜕𝑐2 𝑐2𝑒

(1+𝑅)
=0

𝛽 (1+𝑅)(1−𝛾) (1−𝛾) 𝑐2𝑒 1° RELAZIONE:


→ = → = 𝛽(1 + 𝑅) → condizione ottima di
𝑐2𝑒 𝑐1𝑒 𝑐1𝑒
consumo
intertemporale del bene
commerciabile

Consumo del bene non commerciabile nei due periodi:


𝜕𝐿 𝛾
𝑛 = 0
𝜕𝑐1 𝑐1𝑛
− 𝜆𝑁1 = 0

𝜕𝐿 𝛽𝛾 𝜆𝑁2
𝑛 = 0
𝜕𝑐2 𝑛 −
𝑐2 (1+𝑅)
=0

𝛽𝛾 (1+𝑅) 𝛽𝛾 (1+𝑅) 𝛾 𝑐𝑛2 𝑁 2°


→ = 𝜆→ = →
𝑐𝑛1
= 𝛽(1 + 𝑅) 𝑁1 → RELAZIONE:
𝑐2𝑛 𝑁2 𝑐2𝑛 𝑁2 𝑐𝑛1 𝑁1 2
scelta ottima
del consumo
del bene non
commerciabile
nei due periodi.

122
Consumo del bene commerciabile e del bene non commerciabile nel
primo periodo:
𝜕𝐿 (1−𝛾)
=0 =𝜆
𝜕𝑐1𝑒 𝑐1𝑒

𝜕𝐿 𝛾
=0 =𝜆
𝜕𝑐1𝑛 𝑐1𝑛 𝑁1

1−𝛾 𝛾 𝑁1 𝑐1𝑛 𝛾 3° RELAZIONE: proporzione


→ = → = →
𝑐1𝑒 𝑐1𝑛 𝑁1 𝑐1𝑒 (1−𝛾) ottima di consumo dei beni
commerciabili e non commerciabili
oggi.

A questo punto, risolviamo il vincolo di bilancio sfruttando le relazioni


calcolate. In particolare:

• 𝑐2𝑒 = 𝛽(1 + 𝑅)𝑐1𝑒 dalla 1° relazione

• 𝑁2 𝑐2𝑛 = 𝛽(1 + 𝑅)𝑁1 𝑐1𝑛 dalla 2° relazione


𝛾
= 𝛽(1 + 𝑅) 𝑐1𝑒
(1−𝛾)

𝛾
• 𝑁1 𝑐1𝑛 = 𝑐1𝑒 dalla 3° relazione
(1−𝛾)

𝛾 1 1 𝛾
• 𝑐1𝑒 + 𝑐1𝑒 + (1+𝑅) 𝛽 (1 + 𝑅 )𝑐1𝑒 + (1+𝑅) 𝛽 (1 + 𝑅 ) (1−𝛾) 𝑐1𝑒 = 𝑌
(1−𝛾)
𝛾 𝛾
• 𝑐1𝑒 (1 + +𝛽+𝛽 )=𝑌
1−𝛾 1−𝛾
𝛾
• 𝑐1𝑒 [(1 + 𝛽 ) (1 + )] = 𝑌
1−𝛾

1−𝛾
• 𝑐1𝑒 = 𝑌
1+𝛽

123
• VALUTAZIONI FINALI

Assumiamo che 𝛽 (1 + 𝑅 ) = 1 per cui non ci sono questioni relative a preferenze


intertemporali e tassi di interesse; ne deriva, dalla 1° condizione, che il consumo del
bene commerciabile è costante nei due periodi. Assumiamo, inoltre, che la
produzione del bene commerciabile nel primo periodo sia minore rispetto al secondo
periodo secondo le aspettative del consumatore.

𝛽 (1 + 𝑅 ) = 1
𝑐1𝑒 = 𝑐2𝑒
𝑦1𝑒 < 𝑦2𝑒
Nel primo periodo, il consumatore consuma più di quanto produce per cui “prende a
prestito” ovvero importa, generando, così, un deficit di current account. Nel secondo
periodo, il deficit viene compensato con un surplus di current account poiché si
consuma meno di quanto si produce (esportazioni). L’osservazione di questi dati
consente ai responsabili di politica economica di comprendere che lo squilibrio di
current account è, in realtà, fisiologico: esso deriva da una semplice anticipazione ad
oggi di una migliore situazione futura per cui non vi è necessità di intervento →
benign neglect (negligenza benevola).

Consideriamo, adesso, i beni non commerciabili:

𝛽 (1 + 𝑅 ) = 1
𝑐1𝑛 = 𝑐2𝑛
𝑦1𝑛 < 𝑦2𝑛
In questo caso, i beni non possono essere importati o esportati. Quindi, date le
assunzioni e, in particolare, le aspettative circa il livello di produzione, ci sarà un
aggiustamento dei prezzi tale che 𝑁1 aumenta e 𝑁2 diminuisce. Ma un aumento di 𝑁1
determina un aumento di 𝑐1𝑒 il che, a parità di produzione, ci riconduce al problema
precedente → deficit di current account successivamente compensato → non c’è
necessità di intervento.

124
Equazione che determina l’andamento del tasso di cambio reale:

1−𝛾
𝑠𝑡 𝑃𝑡 (𝑃𝑡𝑒 )𝛾 (𝑃𝑡𝑛 )1−𝛾 𝑃𝑡𝑒 (𝑃𝑡𝑛 (𝑃𝑡𝑒 )1−𝛾 ) 𝑁𝑡
𝑄𝑡 = ∗ = 𝑠𝑡 𝑒∗ 𝛾 𝑛∗ 1−𝛾 = 𝑠𝑡 𝑒∗ 𝑛∗ 𝑒∗ 1−𝛾 = ( ∗ )
𝑃𝑡 (𝑃𝑡 ) (𝑃𝑡 ) 𝑃𝑡 (𝑃𝑡 (𝑃𝑡 ) ) 𝑁𝑡

Tasso di cambio reale =1

𝑦1𝑛 < 𝑦2𝑛


𝑁1 ↑ 𝑁2 ↓
Come detto, ci sarà un aggiustamento dei prezzi che passa attraverso il prezzo
relativo del bene non commerciabile (rispetto al commerciabile) nel primo
periodo. Se aumenta 𝑁𝑡 , data l’equazione, c’è un apprezzamento reale che verrà
compensato con un deprezzamento futuro (→nessun intervento).

Conclusivamente: occorre o meno intervenire con una politica del tasso cambio?
La risposta non è chiara poiché apprezzamenti reali possono essere manifestazione
di problemi nel mercato del cambio o di una perdita di competitività ma possono
anche essere del tutto fisiologici.

125
Lezione 23 15/11/2018

AREE MONETARIE
OTTIMALI

Un’area monetaria è una forma estrema di regimi di cambi fissi e prevede l’adozione
di una moneta unica. La politica monetaria viene decisa congiuntamente dai Paesi
dell’unione monetaria.

Quali sono i vantaggi di una moneta comune?


Minore volatilità dei tassi di cambio e, quindi, prezzi più stabili. Il commercio interno
viene favorito, stimolando la crescita nel lungo periodo. Non ci sono costi per
cambiare la valuta.

Quali sono, invece, i costi di una moneta comune?


Vi sarà una politica monetaria comune e unica per tutta l’area monetaria il che può
divenire un problema a causa degli shock esogeni asimmetrici in Stati diversi:
supponendo di avere due Paesi A e B con valuta comune, nel paese A c’è uno shock
positivo (riallocazione della domanda internazionale) mentre in B uno negativo. Ad
esempio, se il paese A è specializzato nel produrre moto e B auto, un’ondata di
richieste per moto genera, per il paese A, un aumento della domanda e, quindi,
un’espansione con pressioni inflazionistiche. Al contrario, nel paese B ci sarà una
recessione. A questo punto, sorge spontanea una domanda: cosa deve fare la BC?
Deve abbassare il tasso d’interesse per evitare che la recessione abbia conseguenze
nel paese B? Ciò sicuramente avrebbe un effetto positivo nel paese in recessione ma,
d’altro lato, aumenterebbe l’inflazione nel paese A → Una politica espansiva
aumenta l’inflazione in un paese e quindi è contraria al mandato della BC ma una
politica restrittiva farà avere una recessione ancora più profonda al paese B.

Dunque, in presenza di shock asimmetrici molto frequenti la politica monetaria è


bloccata. In termini di tasso di cambio, il Paese che è in recessione potrebbe svalutare
perché la svalutazione rende le esportazioni più convenienti, generando un aumento
di domanda. Tuttavia, nel caso di paesi che hanno la stessa moneta, la svalutazione
(politica monetaria espansiva) diventa impossibile. Ecco perché la moneta unica non
appare una scelta ottimale in caso di shock frequenti. Tra l’altro, gli shock
asimmetrici possono verificarsi anche all’interno di uno stesso Paese poiché
quest’ultimo presenta aree diverse con specializzazioni diverse, così come mostrato
da Mundell in un famoso articolo del ’61: Mundell illustra il suo ragionamento nel
126
caso degli Stati Uniti e del Canada, differenziando regioni dell’Est specializzate
nell’industria automobilistica e regioni dell’Ovest specializzate nel settore del
legname → dati gli shock esogeni e la conseguente paralisi della PM, sembrerebbe
opportuno creare due diverse banche centrali con due diverse monete: una per i paesi
dell’Ovest (di Stati Uniti e Canada) e una per i paesi dell’Est (dei medesimi Stati).
Tuttavia, neppure Ovest ed Est sono zone omogenee: si potrebbe individuare, al loro
interno, un’ulteriore distinzione tra Nord e Sud, moltiplicando, ancora, la moneta.
Questo ragionamento, se estremizzato, condurrebbe ciascuna industria ad avere una
propria moneta, rendendo gli scambi impossibili. In conclusione, quindi, le frontiere
delle aree monetarie ottimali sono date dal trade-off tra due necessità: rispondere agli
shock asimmetrici e ridurre i costi di transazione.
Per due Paesi è conveniente entrare in un’unione monetaria se sono molto simili,
altrimenti c’è un’alta probabilità di shock asimmetrici. È, inoltre, conveniente se i due
Paesi commerciano tra loro perché, in questo modo, si riducono i costi di cambio tra
le valute. Tuttavia, anche laddove i due Paesi siano ragionevolmente diversi, se
funzionano gli altri canali di aggiustamento macroeconomici, può risultare
conveniente entrare in un’unione monetaria. I canali di aggiustamento sono:

• Svalutazione: tuttavia, come si è detto, non può essere utilizzata se c’è


un’unione monetaria.
• Migrazione dei lavoratori: consideriamo nuovamente uno shock positivo per
il Paese A e uno shock negativo per il Paese B. Come si può riequilibrare? B
avrà una disoccupazione più elevata perché l’output diminuisce. Se questi
disoccupati si trasferiscono nel paese A, in A i salari diminuiscono mentre
aumentano nel paese B → si genera equilibrio.
• Diversificazione dei portafogli: se i lavoratori del paese in recessione hanno
attività nel paese in espansione, il loro reddito non diminuisce di molto. Questo
canale è anche definito di risk sharing.
• Bilancio Federale: trasferimento di risorse dal paese in espansione a quello in
recessione (B contribuisce in minor misura al bilancio poiché la base
imponibile si riduce in recessione, per effetto della riduzione della produzione,
mentre A contribuisce maggiormente → trasferimento automatico di risorse).
• Politica fiscale discrezionale espansiva nei Paesi in recessione: è un canale
di difficile implementazione poiché comporta fare deficit e non tutti i paesi
possono permetterselo.
• Deflazione interna: quando i già citati canali non funzionano, l’unica
alternativa è abbassare i prezzi e i salari. I salari, però, spesso sono rigidi verso

127
il basso; in questo caso, l’aggiustamento passa necessariamente attraverso un
aumento della disoccupazione.

CRITICA DI STIGLITZ: L’Unione monetaria europea non è un’area


monetaria ottimale perché in caso di shock asimmetrici nessuno di questi canali
funziona: la migrazione dei lavoratori e la diversificazione del portafogli è residuale;
il bilancio federale non esiste; la politica fiscale discrezionale espansiva nei paesi in
recessione è possibile ma bisogna rispettare vincoli di bilancio molto stringenti.
L’unica possibilità è la deflazione interna ma, anche in questo caso, è un canale
complicato perché i salari sono molto rigidi verso il basso: sindacati molto forti,
mercati molto regolamentati (barriere all’ingresso elevate e prezzi molto forti),
contratti collettivi molto strutturati. Una ragione economica della rigidità salariale
risiede, poi, nella teoria dei salari di efficienza: abbassare di molto i salari non
incentiva i lavoratori e, quindi, può determinare un calo della produttività.
Alla luce di quanto detto, l’unica soluzione per Stiglitz è una disoccupazione elevata.
Il problema è che, se i Paesi con elevata disoccupazione prevedono un sistema di
sussidi per i disoccupati, vi saranno grandi uscite fiscali; ma siamo in area euro per
cui è necessario rispettare il rapporto deficit/pil → il risultato è che questi Paesi
potrebbero, addirittura, trovarsi a condurre una politica pro-ciclica ovvero una
politica fiscale restrittiva (data l’incapacità di far fronte ai sussidi) senza la possibilità
di attuare politiche redistributive a favore dei disoccupati. Dunque, saranno proprio
quest’ultimi a sopportare il maggior costo della recessione. In questo scenario, il
ruolo della BCE non aiuta poiché essa si prefigge un’inflazione bassa mentre non ha,
quale obiettivo prioritario, una bassa disoccupazione il che non fa che incentivare la
stessa. Infine, occorre osservare che l’area monetaria euro conduce alla svalutazione
competitiva sul costo del lavoro: in questo modo, infatti, si riduce il costo del
prodotto e si ha un aumento delle esportazioni → surplus di current account. Dunque,
tutti i Paesi in recessione cercheranno di esportare all’estero la loro recessione e a
riuscirci maggiormente saranno i Paesi con minore rigidità dei salari (ad ex.
Germania: sindacati meno rigidi → rapida ripresa economica post crisi 2007).

Dunque, un’unione monetaria è opportuna o no?


Dipende da quanto sono simili i Paesi; da quanto sono frequenti gli shock asimmetrici
e, ancora, da come funzionano bene i meccanismi di aggiustamento. In casi contrari,
il rischio di avere una PM unica è avere disoccupazione persistente.

128
Se due paesi adottano una moneta unica, la probabilità di shock asimmetrici
aumenta?
Si, poiché la moneta unica facilita gli scambi e scambi più facili incentivano la
specializzazione settoriale (si possono facilmente sfruttare economie di scala). Se un
Paese è meno efficiente ovvero sopporta costi elevati per la produzione di un bene,
può abbandonarlo e importarlo dall’estero, focalizzando, invece, l’attenzione sulla
produzione di un altro bene (in cui il Paese appare particolarmente efficiente).

Dunque, sarebbe più facile per un paese avere una moneta propria e svalutarla in caso
di recessione. Questo però presuppone che la svalutazione non abbia costi; in realtà
non è così.

Costi della svalutazione:

• Il prezzo della moneta nazionale diventa più basso. Si riduce il potere di


acquisto della moneta e tutte le materie prime importate si pagheranno di più. Il
costo di produzione aumenta e dunque aumenti dei prezzi finali. Il risultato è
inflazione più elevata. I lavoratori sono più poveri.
• Si riduce la competitività delle imprese perché ha costi maggiori. È possibile
che ci sia un aumento della disoccupazione.
• Se le imprese sono indebitate in valuta estera, se si svaluta il costo
dell’indebitamento è più alto.

Qual è il regime di cambio ottimale?


Regime di cambi flessibile
Costi: i tassi di cambio sono molto volatili e quindi più incertezza negli scambi
internazionali. Sono possibili svalutazioni competitive e quindi inflazione elevata.
Vantaggi: il tasso di cambio rappresenta uno strumento di aggiustamento
macroeconomico. Attraverso una PM espansiva è possibile un deprezzamento per
aumentare le esportazioni e quindi è possibile avere un aumento dell’output. Si può
fare PM.

Regime di cambi fisso


Costi: non si può fare PM, perché dipende completamente dal paese a cui viene
fissato il tasso di cambio. Se il tasso di cambio interno si riduce (deprezzamento), la
BC è obbligata ad intervenire. I cambi sono fissi nella misura in cui la BC è credibile
129
nel mantenerli. Se c’è qualche speculatore che si aspetta che il paese annuncerà un
riallineamento della parità centrale, allora potrà guadagnarci. I regimi di cambi fissi
sono più esposti a crisi valutarie: se c’è un paese con un’inflazione interna molto
elevata che ancora il tasso di cambio, si può guadagnare scommettendo sulla
svalutazione di questo paese.
Vantaggi: i prezzi sono più stabili, il commercio è favorito. La politica fiscale
espansiva aumenta la domanda aggregata e il tasso d’interesse. Se questo aumenta
allora si ha un apprezzamento. La BC deve intervenire con una politica espansiva.
Quindi la BC accomoda la PF espansiva. Questa è più efficace. I paesi che decidono
di ancorare il tasso di cambio sono quelli con inflazione elevata. Così facendo si
importa credibilità dal paese a cui si sta ancorando il tasso di cambio, che ha bassa
inflazione.

Area monetaria: è un cambio fisso più un meccanismo istituzionale che lo


garantisce. Rispetto al cambio fisso, comunque i paesi decidono la PM. Inoltre, si
riducono anche i costi di transazione. Non c’è la possibilità di crisi valutarie, perché
viene meno la possibilità di fare valutazioni o svalutazioni.

130
Lezione 24 21/11/2018

CRISI VALUTARIE
Le crisi valutarie sono molto più frequenti nei paesi che adottano regimi di cambi
fissi. Questi regimi, infatti, sono molto più esposti ad attacchi speculativi. Come si
spiega ciò? Ci sono tre diversi modelli che tentano di spiegare il perché delle crisi
valutarie nei regimi di cambio fissi.

MODELLO CLASSICO (DI PRIMA GENERAZIONE-KRUGMAN)

Supponiamo che il Messico fissi il tasso di cambio con il dollaro. Normalmente il


tasso di cambio viene fissato perché si ha un’elevata inflazione interna e una PM
poco credibile per cui si cerca di “importare” credibilità, ancorando la propria valuta
a quella di un Paese con bassa inflazione. Queste situazioni, però, possono innescare
crisi valutarie. Per comprenderne la ragione, osserviamo il tasso di cambio reale:
𝐸𝑃
TASSO DI CAMBIO REALE =
𝑃∗

I prezzi in Messico sono più elevati rispetto agli Stati Uniti (P > P*) perché, come
detto, vi è un’inflazione elevata. Data la relazione, questo determina un
apprezzamento reale del tasso di cambio: acquistare i beni domestici diventa più
costoso per cui → vi è un aumento delle importazioni dall’estero a dispetto delle
esportazioni che, invece, si riducono (IM>EX). Ovviamente, ciò determina un
peggioramento della bilancia commerciale e, in particolare, un deficit di current
account. Va, poi, detto che per importare è necessaria valuta estera quindi l’aumento
delle importazioni genera, a sua volta, un aumento della domanda domestica di
dollari. In questo contesto, se la BC non intervenisse (e, quindi, se il mercato del
tasso di cambio fosse flessibile) la moneta messicana si deprezzerebbe in risposta alle
tante vendite di pesos in cambio di dollari. La BC messicana deve, allora, intervenire
acquistando pesos mediante la vendita delle proprie riserve in dollari. In questo
modo, infatti, la BC farà aumentare la domanda di valuta messicana, evitandone il
deprezzamento. È chiaro che il tasso di cambio può essere difeso e mantenuto fisso se
e solo se la BC ha a disposizione un ammontare sufficiente di riserve in valuta estera.
D’altronde, fissare il tasso di cambio significa anche e soprattutto impegnarsi a
mantenerlo tale, intervenendo laddove necessario. Nel momento in cui la BC non ha
più riserve di valuta estera a disposizione, non può più intervenire e il tasso fisso non
può più essere mantenuto tale. La prima conseguenza è un deprezzamento massiccio
131
della moneta messicana. Se le persone si aspettano che la BC stia per terminare le
riserve e dichiarare il tasso fluttuante, iniziano a vendere la propria valuta domestica
secondo una logica molto vicina alla cosiddetta “corsa agli sportelli”. Ciò determina,
per l’appunto, un grande deprezzamento della moneta e una riduzione sempre più
veloce delle riserve di valuta estera possedute dalla Banca Centrale. In questo
contesto è anche possibile assistere ad attacchi speculativi da parte di individui che
cercano di lucrare sulle aspettative di riduzione del prezzo della valuta.

Ma in che modo si attacca la Banca Centrale?

• Vendite allo scoperto: posizione short su una valuta → si prendono a prestito


monete messicane, si vende short al prezzo attuale; dopo un mese, la BC
svaluta, si acquista moneta sul mercato a prezzo svalutato e si restituisce il
prestito. Ad esempio, si prendono a prestito 100 pesos e si vendono in cambio
dollari; poi la BC svaluta e il prezzo dei pesos si riduce per cui si acquistano gli
stessi 100 pesos con meno dollari di quanti ottenuti in precedenza e si
restituisce il prestito: la differenza tra i dollari ottenuti inizialmente e i dollari
spesi successivamente costituisce il guadagno.
QUINDI, vendita short: vendo senza avere oggi (ovvero prendendo a prestito)
e incasso il prezzo oggi; per restituire quello che ho venduto senza averlo lo
ricompro sul mercato dopo la svalutazione della BC, quindi ad un prezzo molto
più basso → guadagno.
La vendita allo scoperto è, sostanzialmente, una scommessa basata sulle
aspettative poiché la BC potrebbe tranquillamente non svalutare e, in quel
caso, ci sarebbe una perdita.
• Prendere a prestito moneta domestica: ci si indebita in pesos per poi
convertirli in dollari. Ad esempio, prendo a prestito 100 pesos e li converto in
dollari; se la BC svaluta, per riacquistare i pesos e restituire il prestito, dovrò
pagare meno dollari di quanti ottenuti in precedenza, data la riduzione di
prezzo dei pesos. Quindi, il guadagno è dato dal fatto che per restituire la
somma avuta a prestito pago molto meno la mia valuta.

Il risultato è, in entrambi i casi, un attacco al regime fisso, una svalutazione e, quindi,


una situazione di instabilità. L’attacco speculativo ha successo quando è coordinato
tra molti speculatori e quando la BC non ha disposizione molto riserve. Il modello
classico mostra come un Paese con cambio fisso, inflazione elevata e current account
negativo possa essere soggetto ad attacchi speculativi. Tuttavia, le crisi valutarie del
92-93 mostrano come gli stessi attacchi possano verificarsi anche in un Paese con
current account in pareggio, inflazione bassa e sufficienti riserve di valuta estera. Il
132
verificarsi di crisi anche in questi Paesi apparentemente “al riparo” ha reso necessaria
una seconda generazione di modelli.

MODELLI SELF-FULFILLING (DI SECONDA GENERAZIONE)


Crisi Valutarie 92-93

Sono modelli basati sulle aspettative: l’aspettativa di una svalutazione genera, di per
sé, la svalutazione (stesso meccanismo del modello Barro-Gordon). Se ci sono
aspettative inflazionistiche, l’inflazione sarà più elevata già oggi in virtù della
contrattazione salariale. L’aumento dei prezzi genera un deficit di current account e
una recessione interna. La risposta della BC alla recessione è una politica monetaria
espansiva ovvero immissione di nuova moneta in circolazione con conseguente
svalutazione. Dunque, le stesse aspettative hanno generato l’inflazione e, poi,
condotto alla svalutazione → modello di crisi auto realizzativa: la crisi è il
risultato delle aspettative.
Quanto detto finora può essere ugualmente affermato mediante l’osservazione del
tasso d’interesse interno:
(1+𝑖∗𝑡 )𝐸𝑡
Uncovered interest parity: (1 + 𝑖𝑡 ) = 𝑒
𝐸𝑡+1

Le aspettative di svalutazione, infatti, portano ad un aumento del tasso d’interesse


nominale e a una recessione interna. Quindi, anche da questa prospettiva, la banca
centrale dovrà attuare una politica espansiva, generando svalutazione → realizzazione
delle aspettative.

MODELLO “CRISI GEMELLE” (DI TERZA GENERAZIONE)

Crisi bancarie e crisi valutarie sono correlate: crisi bancarie possono generare crisi
valutarie e viceversa.

Crisi bancaria → Crisi valutaria


Uno degli obiettivi prioritari della BC è quello di garantire stabilità finanziaria. Se vi
è una crisi bancaria ovvero un blocco del sistema interbancario, la BC agisce da
prestatore di ultima istanza, prestando e fornendo liquidità al fine di garantire la
continuità del sistema di pagamenti. Ma immettere nuova liquidità equivale ad una
politica monetaria espansiva la quale, inevitabilmente, genererà una svalutazione
ovvero un deprezzamento della valuta nazionale. Il ruolo della stabilità finanziaria
133
della BC, dunque, si rivela incompatibile con il mantenimento del tasso di cambio
fisso. Estendendo il discorso, anche una semplice aspettativa di crisi bancaria può
tradursi in un’aspettativa di svalutazione. E un’aspettativa di svalutazione può
tradursi in un’effettiva svalutazione già oggi: crisi valutaria come conseguenza di una
crisi bancaria.

Crisi valutaria → Crisi bancaria


Una crisi valutaria può generare una crisi bancaria poiché, se la BC svaluta, sorge un
problema rispetto all’indebitamento in valuta estera delle banche: se la BC svaluta, il
costo reale di quanto deve essere restituito dalle banche è più alto. In altre parole,
tutte le banche che si sono finanziate in valuta estera devono restituire delle somme
più alte e potrebbero non avere sufficienti fondi per restituire il debito. Ciò può
portare a fallimenti bancari a catena, interruzione del credito e recessione interna.
Dunque, non solo crisi bancaria ma anche crisi reale interna.

*Spiegazione modello di crisi auto realizzativa: come un’aspettativa di svalutazione


può tradursi nella convenienza per la BC a svalutare*

134
135
Lezione 25 22/11/2018

LA CRISI FINANZIARIA DEL 2007


(Parte 1: Aspetti microeconomici.)

GREAT MODERATION: Così viene definito il periodo precrisi, durato all’incirca


15 anni, caratterizzato da una crescita stabile nonché da recessioni molto brevi. Sono
state elaborate diverse teorie per cercare di comprendere il perché della “grande
moderazione” ovvero le ragioni di una crescita così stabile. Molti sostengono che si
sia trattato, semplicemente, di fortuna ovvero di una casuale assenza di grandi shock
esogeni macroeconomici. Altri, invece, hanno attribuito la crescita allo sviluppo della
teoria economica e, in particolare, agli artefici di questo sviluppo, i macroeconomisti,
finalmente in grado di individuare il giusto comportamento per la minimizzazione
delle fluttuazioni economiche. Molti altri hanno invece reclamato l’importanza delle
politiche di Washington consensus policy come, ad esempio, la liberalizzazione degli
scambi finanziari e del commercio internazionale, la privatizzazione delle imprese
pubbliche, la disciplina fiscale o, ancora, la deregolamentazione dei mercati. E,
ancora, secondo altri la diversificazione delle economie ha determinato una minore
vulnerabilità delle stesse rispetto a shock settoriali (granular theory) da cui un periodo
di stabilità.
Quale sia, effettivamente, la spiegazione della great moderation, ancora oggi, non è
chiaro. Fatto sta che, ad un certo punto, il periodo di crescita cessa, si arresta, per fare
spazio a quella che è identificabile come la più profonda crisi della storia del
capitalismo occidentale.

CRISI DEL 2007: L’origine della crisi finanziaria del 2007 deve essere ricercata nel
mercato dei mutui immobiliari statunitensi e, in particolare, nel mercato dei mutui
subprime ovvero mutui concessi a soggetti con elevato rischio di insolvenza.
L’aspetto interessante è che, in realtà, i mutui subprime rappresentavano solo una
piccolissima parte dell’intero mercato dei mutui americani; eppure la crisi di una
piccola parte del mercato di un solo Paese è stata in grado di generare una crisi
globale. Come è stato possibile? E, soprattutto, perché le banche hanno concesso
mutui a debitori subprime?
Partiamo dal presupposto che in un sistema creditizio ben funzionante, i mutui
dovrebbero essere concessi in base alla capacità del debitore di ripagare il mutuo con
i propri redditi futuri. Nel momento in cui il debitore non gode di questa credibilità, si
ricerca una garanzia secondaria ovvero il collateral. Il collateral è un bene reale (o
136
finanziario) concesso in garanzia del puntuale pagamento di un debito: se il debitore
non paga, il creditore può rivalersi sul bene. Un debitore si definisce subprime
quando il credito viene concesso dalla banca esclusivamente o prevalentemente in
base al collateral il che è, esattamente, ciò che è accaduto durante la great
moderation. In questo periodo, molte persone intenzionate ad acquistare una casa e
sprovviste della credibilità necessaria, chiedevano prestito alle banche, fornendo
come collateral la stessa casa che intendevano acquistare: laddove il debitore non
avesse pagato, la banca avrebbe sempre potuto rivalersi sulla casa. È stata
esattamente questa logica a spingere le banche a concedere mutui a tutti, anche al
100% del prezzo della casa. Per esse erano convenienti anche i mutui al 100% poiché
la great moderation viveva un forte aumento dei prezzi delle case; e gli aumenti dei
prezzi delle case significavano un aumento del collateral ovvero del valore del bene
che veniva loro fornito in garanzia.
Il problema nacque nel momento in cui i prezzi delle case iniziarono a scendere e la
bolla immobiliare scoppiò. “Bolla immobiliare” perché i prezzi erano saliti a livelli
eccessivamente elevati: non solo essi non erano più in linea con i fondamentali del
mercato ma comprare una casa era diventato praticamente impossibile per qualsiasi
famiglia media americana. Ciò determinò, quindi, un’inversione di tendenza: le
persone smisero di acquistare case i cui prezzi, di conseguenza, iniziarono a scendere.
I mutui al 100% diventarono un cattivo affare per le banche, le quali, in particolare, si
trovarono ad affrontare il problema dei mutui underwater: supponiamo che una
famiglia avesse un mutuo per centomila euro, ipotecato al 100%; supponiamo, poi,
che in seguito al pagamento di un anno di rate, il valore della casa scendesse a
ottantamila euro → la famiglia, sostanzialmente, si ritrovava con un mutuo di
centomila euro per una casa che ne valeva soltanto ottantamila. È esattamente ciò che
accadde con lo scoppio della bolla immobiliare. Ovviamente, in una situazione del
genere, tutte le famiglie iniziarono a dichiarare default sul mutuo, consegnando, di
fatto, la casa alla banca; le rate già pagate venivano semplicemente considerate come
delle rate d’affitto. Questa è la ragione per cui, generalmente, non si concede mai un
mutuo al 100% del prezzo: per evitare che le persone dichiarino default sul mutuo
con cotanta facilità. Ad ogni modo, una volta dichiarato default, alle banche non restò
che cercare di vendere le case. Ma collocare, contemporaneamente, tutte le case sul
mercato non fece che incentivare il crollo dei prezzi delle stesse. In altre parole, le
banche iniziarono ad avere delle perdite generate dal mancato recupero credito.

→ Crisi bancaria → Crisi del mercato azionario → Crisi dell’economia reale.

Iniziò, così, la crisi che coinvolse non solo le banche che avevano concesso i mutui
ma anche tante altre istituzioni finanziarie: le banche, infatti, non mantenevano in
137
portafoglio i mutui; una volta estesi, li cartolarizzavano e li vendevano → così,
numerose istituzioni finanziarie entrarono in crisi per aver acquistato titoli derivati
che avevano come asset sottostante i mutui subprime.

I titoli subprime erano, peraltro, titoli molto complessi ed era difficile valutarne il
rischio. Proprio per l’incapacità di valutare il rischio di questi titoli e, quindi, degli
altrui portafogli, le banche iniziarono ad interrompere i loro prestiti reciproci. In altre
parole, ci fu un blocco del mercato interbancario dovuto all’incapacità di misurare il
rischio di controparte: nessuna banca intendeva prestare denaro a chi avesse concesso
mutui subprime o acquistato titoli subprime ma il punto era proprio l’impossibilità di
capire chi effettivamente l’avesse fatto.
La crisi bancaria determinò, così, l’insolvenza di numerose istituzioni finanziarie;
insolvenza dettata non solo dall’acquisto dei titoli subprime ma anche dal fatto che i
medesimi acquisti erano avvenuti facendo leverage (il che amplificò le perdite). Solo
alcune di queste istituzioni furono, però, salvate mediante ricapitalizzazione con soldi
pubblici (bailout). La Lehman Brothers fu lasciata fallire.
A partire da questo fallimento, il mercato interbancario collassò completamente. Le
banche cercarono, allora, di finanziarsi mediante la vendita degli asset che avevano
ancora mercato. Tutte le banche cercarono di vendere i pochi asset “buoni” posseduti
per fare cassa → ciò, ovviamente, portò ad una riduzione dei prezzi degli asset. Così,
la crisi bancaria si trasformò in una crisi dell’intero mercato azionario con
conseguenze negative generalizzate. Gli americani, avendo molti dei loro portafogli
investiti in mercati azionari, subirono un forte shock di reddito. In generale, per gli
imprenditori divenne impossibile ottenere credito → il che portò ad una riduzione
degli investimenti. Analogamente, divenne più difficile avere credito anche per i
consumatori → per cui si ridussero gli acquisti di beni durevoli, si ridusse la domanda
e, con essa, il PIL. La crisi coinvolse, così, l’intera economia reale.
Ma come avvenne il contagio internazionale?
I canali di trasmissione della crisi furono molteplici. Anzitutto, un canale finanziario:
molte istituzioni finanziarie erano esposte ai titoli tossici basati su mutui subprime;
non solo istituzioni americane ma anche europee (tutti avevano acquistati i titoli
perché avevano rating elevati ed erano, fino al crollo dei prezzi, un buon affare).
Ma ci furono anche altri canali di contagio. Ad esempio, la vendita massiccia degli
“asset buoni” da parte di banche e istituzioni americane determinò un crollo di prezzi
degli asset che coinvolse, inevitabilmente, anche gli altri paesi. Ancora, la crisi
determinò una riduzione del consumo americano, delle importazioni e, quindi, della
domanda degli altri Paesi. Ci fu, poi, un “sudden stop” di capitali, ovvero una brusca
interruzione dei flussi di capitali tra Paesi. Molte banche americane avevano

138
sussidiare in Pvs. Con la crisi, si interruppe il flusso di credito da parte delle banche
americane verso le sussidiarie che, quindi, incontrarono grandi difficoltà nel
finanziarsi.

In definitiva, con la crisi del 2007, le BC si dovettero sostituire ai mercati


interbancari fornendo esse stesse liquidità a tassi d’interessi molto bassi, quasi a costo
zero. Furono integrate politiche monetarie non convenzionali e, in particolare,
interventi di quantitative easing. Molti paesi fecero, poi, PF in deficit, generando una
crisi del debito sovrano.

Le cause della crisi.


Spiegazione politica → Bill Clinton

Molti sostengono che Bill Clinton sia stata una delle cause scatenanti della crisi del
2007, data la sua pressione politica per l’estensione dei mutui a categorie
svantaggiate che non godevano della credibilità necessaria per accedere al mercato
dei mutui. Fannie Mae e Freddie Mac sono due istituzioni finanziarie che, al tempo,
utilizzavano i soldi pubblici per acquistare titoli cartolarizzati dalle banche. La
pressione politica di Clinton consisteva nel concedere più soldi a queste due
istituzioni di modo che esse potessero acquistare più titoli. Più titoli venivano
acquistati, più le banche avevano soldi per estendere altri mutui. Terminati i clienti
prime, i mutui sarebbero stati concessi anche ai clienti subprime (comprese le
categorie svantaggiate - tanto, dopo l’estensione dei mutui subprime, quest’ultimi
venivano cartolarizzati in titoli acquistati, per l’appunto, da Fannie Mae e Freddie
Mac).

Spiegazione economica → 4 elementi che hanno determinato la crisi:

• Compensazione dei manager


• Cartolarizzazione
• Acquisti con leverage
• Fairvalue accounting

Meccanismo di compensazione dei manager e cartolarizzazione: quando la banca


estende un mutuo, essa non guadagna soltanto grazie al tasso d’interesse ma anche
grazie ai costi di accensione del mutuo. Quest’ultimi rappresentano costi fissi nonché
139
profitti short-term per le banche. Quindi, più mutui si estendono → più la banca
incassa costi fissi → più si fanno profitti short-term → più aumenta il prezzo delle
azioni delle banche.

Ora, se c’è un meccanismo di compensazione dei manager che dipende dalla


performance short-term della banca, ovvero se parte di questa compensazione
dipende da quanto aumenta il valore azionario della banca, è ovvio che i manager
cerchino di massimizzare il suddetto valore azionario puntando sui profitti short-term,
ovvero cercando di raccogliere più clienti per aumentare i profitti derivanti dai costi
di sottoscrizione. Questo schema, utilizzato ai tempi della crisi del 2007, era
conveniente perché i mutui estesi dalle banche venivano, poi, cartolarizzati; si creava,
cioè, un titolo derivato successivamente venduto in modo tale che il rischio non fosse
più nel portafoglio bancario.
Le pratiche utilizzate per la vendita dei mutui erano molteplici. Anzitutto, molti
mutui erano sottoscritti con obbligo di rinegoziazione. Vendere questi mutui era, in
realtà, molto semplice data la scarsa competenza finanziaria generale: di fronte a
mutui con pagamenti bassi e rinegoziazione dei tassi dopo quattro o cinque anni, le
persone acquistavano con facilità il mutuo, attratte dai pagamenti bassi, intenzionate
ad acquistare casa e convinte dai manager che il tasso di interesse non sarebbe
aumentato. Venduti i mutui, le banche massimizzavano i loro profitti, non tanto
perché alla rinegoziazione avrebbero potuto aumentare il tasso di interesse, quanto
piuttosto per i costi di sottoscrizione incassati ad ogni rinegoziazione.
Un altro strumento utilizzato era il contratto equity withdrawal. Questi contratti
permettevano di prendere a prestito somme aggiuntive dando come garanzia
l’aumentato valore di mercato della casa. Ad esempio, se si possedeva un mutuo a tre
anni su una casa e il valore della casa aumentava, aumentava, conseguentemente,
anche il valore del collateral per cui la banca proponeva un prestito al possessore del
mutuo per il valore aggiunto e allo stesso tasso d’interesse del prestito iniziale. In
questo modo, aumentava la fragilità delle famiglie mentre le banche aumentavano i
propri profitti short-term.

Come anticipato, però, l’estensione dei mutui non era dettata esclusivamente dalla
massimizzazione dei profitti short-term ma anche dalla possibilità per le banche di
redistribuire il rischio dei mutui mediante cartolarizzazione. La cartolarizzazione di
mutui e prestiti consentiva di creare nuovi strumenti finanziari (ABS, MBS, CDO,
CMO) basati sui flussi di pagamento di un pacchetto di mutui. In altre parole, si
creavano titoli aventi come sottostante flussi di pagamento di mutui diversi (alcuni
subprime, altri no) in modo tale da diluire il rischio dei subprime (ad esempio, si
prendevano dieci mutui prime, uno subprime e si creava un nuovo titolo). I titoli così
140
creati (ABS o CMO), erano poi divisi in tranche senior e junior, ciascuna vendibile
singolarmente. I primi flussi di pagamento derivanti da mutui venivano utilizzati per
pagare le tranche senior le quali, pertanto, erano più sicure rispetto alle tranche
junior, pagate successivamente.
Era, inoltre, possibile che una tranche senior di una CMO fosse unita ad un’altra
CMO (ovvero ad un altro titolo). Operazioni di questo genere non facevano che
complicare ancor di più i titoli: era difficile capire quale fosse l’asset di riferimento
nonché il rischio connesso al titolo. In realtà, le banche agivano in questo modo di
proposito, per mascherare i titoli rischiosi. Di fatti, le agenzie di rating non avevano
idea di cosa stessero valutando. Tuttavia, prima del 2007, fintanto le cose andavano
bene e i prezzi delle case salivano, i titoli si vendevano facilmente sul mercato e i
flussi di pagamento arrivavano tanto dai mutui prime quanto dai subprime. Le
agenzie, allora, non sapendo cosa e come valutare, prendevano semplicemente atto di
queste circostanze ed attribuivano rating elevati ai titoli. Questo fino a quando le
banche non iniziarono a subire perdite: a quel punto, si resero conto di essere troppo
esposte a titoli di cui non capivano nulla e, soprattutto, immaginarono che anche le
altre banche si trovassero nella stessa situazione → da qui, la sfiducia nella
controparte e il blocco del mercato interbancario. D’altronde le continue operazioni
di cartolarizzazione e impacchettamento dei titoli avevano fatto sì che un’istituzione
finanziaria si trovasse ad acquistare titoli basati su mutui subprime senza neppure
esserne cosciente: i rischi erano correlati → Tutti, in un modo o nell’altro, erano
esposti allo stesso rischio che, una volta verificato, avrebbe generato i suoi effetti
negativi nei confronti di tutti → crisi globale.
Nel momento in cui le banche adottano il meccanismo di cui si è, finora, parlato
(estensione del mutuo → cartolarizzazione → vendita), esse perdono l’incentivo a
fare monitoring del rischio perché il suddetto rischio non è più insito nel portafoglio
bancario. Senza operazioni di monitoring, il rischio aumenta e si diffonde. C’è, in
tutto questo, un problema di moral hazard: le banche estendono eccessivamente i
mutui perché consapevoli che, in caso di default, non saranno loro a subirne le
conseguenze.

Titoli acquistati con leverage: il leverage amplifica i guadagni quando i prezzi


salgono ma amplifica anche le perdite nel momento in cui i prezzi scendono. Dato un
tasso di rendimento pari a k, se si investe capitale proprio R, si guadagna Rk. Fare
leverage, però, vuol dire investire non solo capitale proprio ma anche capitale preso a
prestito per cui il guadagno sarà:
𝐷
[R + (R – i) ]K
𝐾

141
𝐷
Dove indica quanto si prende a prestito rispetto al capitale proprio (leverage).
𝐾
Ad esempio, se si investe capitale proprio per 100 euro e il tasso di interesse
dell’investimento (k) è pari al 3% → si guadagna il 3% della somma investita. Ma se
si investono 100 euro presi a prestito ad un tasso di interesse (i) dell’1% → si
guadagnerà solo il 2% (k-i). La leva finanziaria permette, quindi, di investire di più
ed aumentare i profitti. D’altro canto, però, se l’investimento smette di pagare, non
solo si ha una perdita dovuta al mancato rendimento dell’impiego ma si ha
un’ulteriore perdita dovuta alla necessità di restituire le somme prese a prestito → le
perdite si amplificano.
C’è anche un problema connesso a K. In una situazione in cui i prezzi delle azioni
scendono, molti crediti sono non performing e, dunque, il valore dell’attivo delle
banche diminuisce, la leverage, ovvero il capitale presto a prestito rispetto al capitale
proprio, aumenta; esponendosi maggiormente al prestito, il rischio delle banche
aumenta. Dunque, per mantenere lo stesso profilo di rischio, le banche devono fare
deleveraging: ridurre gli impieghi. Si introducono, così, dei movimenti prociclici.
Soprattutto se ci sono dei coefficienti di regolamentazione massimi per il leverage, le
banche sono obbligate a fare deleveraging in recessione il che aggrava ancora di più
la crisi. La situazione è, quindi, complicata: da un lato fare leverage amplifica le
perdite il che rende sensato imporre dei coefficienti massimi; d’altro lato, però, la
regolamentazione impone un aggiustamento prociclico, obbligando le banche a
ridurre gli impieghi in recessione e, quindi, amplificando quest’ultima.

Fairvalue accounting: valutare gli asset ai prezzi di mercato significa amplificare la


crisi perché le banche devono necessariamente compiere aggiustamenti prociclici,
ovvero ridurre gli impieghi in caso di crisi. D’altra parte, però, iscrivere le voci al
costo storico equivale a non dare al bilancio alcun potere informativo perché esso non
dice nulla sul valore del rischio banca. Non è chiaro, quindi, quale sia il
comportamento ottimale.

142
Lezione 26 27/11/18

LA CRISI FINANZIARIA DEL 2007


(Parte 2: Aspetti macroeconomici.)

Finora sono stati analizzati gli aspetti microeconomici della crisi finanziaria
(estensione dei mutui, cartolarizzazione, acquisti col leverage e fairvalue accounting).
Cerchiamo, ora, di indagare gli aspetti macroeconomici.

Nel 2001, con lo scoppio della “bolla di Internet”, prese piede negli Stati Uniti
d’America la crisi della new economy. Il Nasdaq, ovvero l’indice dei principali titoli
tecnologici della borsa americana, era iniziato a crescere a partire dal 1999 in un
crescendo strepitoso durato fino alla primavera del 2000: a questo punto, però,
l’incanto si spezza e il Nasdaq inizia a precipitare. È così che si apre negli States un
periodo di grande recessione in risposta al quale la FED decide di attuare una forte
politica espansiva: i tassi di interesse scendono a livelli esageratamente bassi e
vengono mantenuti tali anche nel momento in cui il Paese inizia ad uscire dalla
recessione. Tassi di interesse bassi, ovviamente, inducono a prendere a prestito,
incentivando, quindi, acquisti con leverage e bolla speculativa. Proprio per questo,
molti hanno ritenuto Greenspan, allora presidente della FED, causa della crisi
finanziaria sostenendo che egli avesse mantenuto tassi di interesse troppo bassi per
troppo tempo, preoccupandosi solo del rischio di deflazione e non anche di
alimentare, in questo modo, una bolla speculativa. Greenspan, tuttavia, si difese
sostenendo che non vi erano ragioni per aumentare i tassi di interesse. Questo per
diversi motivi:

• Assenza di pressioni inflazionistiche: l’obiettivo principale della BC deve


essere quello di evitare l’inflazione; se non ci sono pressioni inflazionistiche,
aumentare i tassi serve solo ad indurre artificialmente una recessione (che era
l’ultima cosa da fare dopo la crisi del 2001). Ma perché non c’erano pressioni
inflazionistiche?
Semplicemente, per l’apertura dei mercati → relazione tra globalizzazione ed
inflazione: l’apertura determina maggiore concorrenza e la concorrenza è una
spinta al ribasso dei prezzi.

• Efficienza dei mercati: Greenspan credeva nella teoria dell’efficienza dei


mercati il cui corollario è l’inesistenza delle bolle speculative: i mercati sono
efficienti e qualsiasi aumento del livello dei prezzi riflette i fondamentali del
143
mercato (ad esempio, esso riflette nuove informazioni circa un aumento della
redditività delle imprese). Si tratta, in questo caso, di una difesa derivante
dalla sua impostazione culturale.

• Difficile identificazione delle cause degli aumenti di prezzo: Greenspan


credeva nell’efficienza dei mercati ma, in realtà, pur volendo ammettere
l’esistenza di bolle speculative, egli sottolinea l’impossibilità per la BC di
distinguere aumenti di prezzo dovuti all’aumento di credito (derivante, a sua
volta, dalla politica monetaria espansiva) da aumenti dovuti ad altri fattori
(quali la maggiore redditività delle imprese). Di fronte a questa impossibilità,
Greenspan sostiene l’irragionevolezza di usare i prezzi delle azioni come
target di politica monetaria. In definitiva, quindi, non è ragionevole fare
targeting sugli asset prices.

Occorre, però, evidenziare che non tutti identificavano Greenspan quale causa dei
tassi di interesse troppo bassi. Vi è, di fatti, un altro gruppo di spiegazioni;
spiegazioni basate sui cosiddetti “global imbalances” → i tassi d’interesse bassi sono
l’effetto di squilibri globali e, in particolare, di uno squilibrio: il deficit di current
account americano finanziato costantemente da altri Paesi. Si tratta, dunque, di un
afflusso di capitali negli Stati Uniti che ha mantenuto il tasso di interesse
eccessivamente basso.

Ma perché tutti volevano acquistare i titoli americani?

• Teoria asset shortage: Molti Paesi, specialmente PVS, erano sprovvisti di sistemi
finanziari sufficientemente sviluppati per cui avevano carenza di titoli finanziari in
grado di incontrare le preferenze di tutti gli investitori interni; da ciò, nasceva
l’esigenza di rivolgersi ad un Paese estero per reperire titoli poco rischiosi in cui
investire. Il Paese estero cui rivolgersi era dato, per l’appunto, dagli Stati Uniti,
tipicamente percepiti come il Paese più sicuro.

• Strategia di accumulo: La teoria dell’asset shortage, basata sull’assenza di titoli,


è stata però criticata poiché molti degli acquisti di titoli provenivano, in realtà, da
BC estere e ciò suggeriva un altro tipo di spiegazione: strategia di accumulo di
riserve. Le BC, acquistando titoli americani, accumulavano riserve in dollari.
È possibile individuare due spiegazioni ad una simile strategia.
Anzitutto, per mantenere il tasso di cambio fisso: Paesi che ancorano la loro valuta
a quella americana, non possono mantenere il cambio fisso se non hanno
sufficienti riserve in dollari.

144
Altra ragione che spingeva le BC estere ad accumulare riserve di valuta americana
era la volontà di sottrarsi al FMI: le riserve venivano utilizzate in caso di crisi,
eliminando, quindi, la necessità di chiedere prestiti al FMI. Chiedere prestiti al
FMI, infatti, equivaleva a rinunciare alla propria politica monetaria, date le rigide
condizioni legate alla concessione dei prestiti.

Va detto che anche questa spiegazione è, in realtà, stata criticata. Anzitutto perché,
se gli acquisti rientravano in una specifica strategia delle BC, viene da chiedersi
perché essi siano sempre avvenuti in modo lento e progressivo. Senza contare, poi,
che i titoli presentavano prezzi elevati e rendimenti bassi il che rendeva questa
strategia estremamente onerosa.

• Strategia di crescita cinese: Ad acquistare i titoli americani era ed è


principalmente la Cina. Da un lato ciò dipende dal suo grande risparmio interno;
dall’altro, però, acquistare titoli americani rientra in una precisa strategia di
crescita: in questo modo, infatti, la Cina è in grado di mantenere il tasso di cambio
dollaro-yuan artificialmente basso e, quindi, di rendere le esportazioni cinesi
estremamente convenienti.

Le risposte di politica economica dei Paesi.

• Politiche monetarie espansive con i=0, ZIRP: In particolare, dato il blocco


del mercato interbancario, sono state integrate strategie di quantitative easing
volte a ripulire gli attivi bancari e, in generale, a riattivare il canale del credito.
• Stimoli fiscali: Ci sono stati massicci interventi fiscali attuati in forme diverse
a seconda del Paese (in alcuni Paesi tasse più basse, in altri investimenti più
elevati). Molti identificavano questa situazione (caduta massiccia della
domanda) come ideale per fare PF. Non solo perché vi erano rischi di
deflazione e la deflazione, tipicamente, rende più efficace la PF ma anche
perché i rischi di crawling out erano ridotti. Di fatti, più c’è crawling out,
ovvero più crescono i tassi di interesse come effetto della PF, meno vi saranno
effetti reali. Dunque, in caso di espansione fiscale, gli effetti reali dipendono
dall’elasticità ovvero da quanto varia il tasso di interesse in risposta alla PF.
Ma attuare politiche monetarie particolarmente espansive, così come stavano
facendo le BC, riduce i rischi di crawling out e, dunque, aumenta l’efficacia
delle PF.
In conseguenza degli stimoli fiscali, molti Paesi Europei si sono trovati con un
deficit e un debito crescente. In realtà però, al di là degli stimoli fiscali, la
145
recessione genera, di per sé, un aumento di deficit e debito per effetto degli
stabilizzatori automatici: se c’è una caduta dell’attività economica, vi è,
conseguentemente, anche una base imponibile più bassa il che significa minore
raccolta fiscale e minori entrate per lo Stato (primo stabilizzatore); inoltre, la
recessione determina aumenti della disoccupazione, conseguentemente dei
sussidi di disoccupazione e, in generale, delle prestazioni sociali (secondo
stabilizzatore). In definitiva, il mix creato dagli interventi espansivi di PF e
dall’effetto degli stabilizzatori, ha determinato l’aumento di deficit e debito in
molti Paesi Europei. In realtà a determinare quest’aumento è stato anche un
terzo elemento il quale, peraltro, si configura come ulteriore intervento di
politica economica: il bail-out.
• Programmi di bail-out: Molte Paesi non si sono limitati ad interventi di
concessione del credito ma, per l’appunto, si sono impegnato anche in
programmi di bail-out. Basti pensare al Regno Unito ove vi è stato un
intervento incredibilmente forte di ricapitalizzazione delle banche. Ma, in
generale, molti sono stati i Paesi Europei che hanno attuato nazionalizzazioni o
ricapitalizzazioni bancarie. Il bail-out è una politica con effetti redistributivi
importanti: si utilizzano soldi pubblici, ovvero soldi raccolti con la fiscalità
generale o mediante l’accumulo di debito, per riparare le perdite delle banche.
Come si può giustificare il bail-out? In termini redistributivi, la politica di bail-
out è necessaria per tirar fuori il Paese dalla recessione. Di fatti, il fallimento di
una sola banca può determinare fallimenti a catena nonché il blocco del
mercato interbancario; ma il mercato interbancario è fondamentale per uscire
dalla recessione: se non vi è credito per gli imprenditori, non ci sono più
investimenti; d’altro canto, non vi è credito neppure per i consumatori il che ci
porta ad un calo della domanda. Dunque il mercato del credito è cruciale per la
ripresa del Paese.
Inoltre, non è detto che il bail-out bancario si a favore di soli e pochi individui:
se l’azionariato della banca è molto concentrato, effettivamente vengono
utilizzati i soldi pubblici per salvare un gruppo molto ristretto di persone (i
proprietari della banca). Ma se, invece, l’azionariato è molto diffuso e, quindi,
molto soggetti sono esposti al rischio creato dalle banche, il problema
redistributivo è molto meno evidente.

È chiaro a questo punto come la crisi finanziaria si sia trasformata per molti Paesi in
una crisi del debito sovrano. Le motivazioni principali sono tre:
o Per effetto degli stabilizzatori automatici.
o Per l’attuazione di politiche fiscali espansive correttive.
o Per operazioni di ricapitalizzazione bancaria.
146
Problemi ulteriori generati dalla crisi.

Spinta protezionistica: è possibile che, in seguito alla crisi, si cerchi una ripresa
della domanda interna imponendo costi all’esterno (ad esempio riducendo il
commercio con l’estero o tenendo artificialmente basso il valore del tasso di cambio).
Così, molti Paesi hanno deciso di chiudersi agli scambi con l’estero nonché alle
migrazioni dei lavoratori (Elezione Trump).

Isteresi della disoccupazione: Quando la disoccupazione è molto elevata, ad


esempio in recessione, ci mette tempo per diminuire. Quali sono le possibili cause?

1) Innanzitutto, c’è una fascia d’età in cui se vi è disoccupazione oggi,


difficilmente ci sarà occupazione in futuro. Una persona anziana che perde il
proprio lavoro ha scarse probabilità di trovare una nuova occupazione.
2) Restare disoccupati per lungo tempo, peraltro, genera un perdita di skills
ovvero un’obsolescenza delle competenze individuali che riduce la produttività
degli individui.
3) Teoria dei segnali → un’impresa difficilmente assume una persona rimasta
disoccupata per un certo periodo di tempo a causa di un’asimmetria
informativa: l’impresa non può sapere se la lunga disoccupazione dal periodo
di crisi o da incapacità lavorative.
N.B. Per la stessa ragione, il reddito di cittadinanza può peggiorare le
prospettive di impiego di chi lo percepisce. Un’impresa, infatti, potrebbe non
vedere di buon occhio un individuo disoccupato che percepisce questo reddito
4) In presenza di tassi di interesse molto bassi, le imprese sono incentivate ad
investire, sostituendo il lavoro col capitale.
5) Visione capitalistica di Schumpeter: distruzione creatrice → nell’economia,
vi sono continuamente nuovi prodotti e nuovi servizi; così, le imprese che
producono prodotti innovativi crescono a discapito delle imprese che
producono prodotti obsolescenti che vanno fuori mercato. Dunque, il problema
è che ci sono continuamente lavoratori espulsi dai settori in declino e lavoratori
che sono, invece, richiesti dai settori in espansione. Si pone, allora, un
problema di politica economica: gestire la riallocazione dei lavoratori.

147
Lezione 27 28/11/18

Martina Mele

POLITICA DELL’OCCUPAZIONE

Occupati: persone che lavorano

Attivi

Disoccupati: persone che non hanno


Popolazione in età lavorativa un’occupazione ma la ricercano e
sono disponibili a lavorare.
Inattivi Disoccupati scoraggiati: persone
che sono rimaste molto tempo senza
occupazione e hanno smesso di
cercarla.

𝐷𝑖𝑠𝑜𝑐𝑐𝑢𝑝𝑎𝑡𝑖
• Tasso di disoccupazione =
𝑇𝑜𝑡.𝑎𝑡𝑡𝑖𝑣𝑖

𝑂𝑐𝑐𝑢𝑝𝑎𝑡𝑖
• Tasso di occupazione =
𝑇𝑜𝑡.𝑝𝑜𝑝𝑜𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑒𝑡à 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑎𝑡𝑖𝑣𝑎

𝑇𝑜𝑡.𝑎𝑡𝑡𝑖𝑣𝑖
• Tasso di attività =
𝑇𝑜𝑡.𝑝𝑜𝑝𝑜𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑒𝑡à 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑎𝑡𝑖𝑣𝑎

N.B. Tasso di disoccupazione e tasso di occupazione non sono l’uno l’opposto


dell’altro; essi hanno denominatori diversi e, di fatti, danno informazioni di tipo
differente.

148
Analizziamo, anzitutto, le dinamiche del tasso di disoccupazione. Per farlo,
supponiamo che il tasso di disoccupazione si riduca;
Inattivi
ciò non dipende, necessariamente, da una riduzione
del numero di disoccupati e, quindi, da una
transizione disoccupati→ occupati; può dipendere
anche da una transizione disoccupati→ inattivi:
persone in cerca di lavoro, smettono di cercare
Occupati Disoccupati un’occupazione. Viceversa, gli occupati possono
perdere il lavoro (→disoccupati) e, addirittura,
smettere di cercarlo (→ inattivi). In particolare,
quest’ultima circostanza si verifica in fasi recessive poiché il peggioramento della
situazione economica può scoraggiare i disoccupati che, quindi, smettono di cercare
lavoro. Infine, gli inattivi possono iniziare a cercare lavoro (→disoccupati). Ciò
avviene, invece, in una fase di espansione poiché, di fronte al miglioramento della
situazione macroeconomica, gli individui ripongono maggiore fiducia nella ricerca
lavorativa. È anche possibile, sebben più raro, che una persona inattiva inizi
direttamente a lavorare (→occupato).
Ulteriore circostanza che può verificarsi è l’isteresi: disoccupati che restano tali per
un lungo tempo. O, analogamente, la trappola dell’inattività: più si è inattivi, più vi è
il rischio di permanere nell’inattività. Infine, è anche possibile che un occupato
mantenga la propria occupazione nel tempo.
Ad ogni transazione è associata
una probabilità.
Probabilità che gli occupati al tempo t,
restino tali anche al tempo t+1. La matrice
delle probabilità fornisce un’idea dei flussi
Occupati t+1 che avvengono nel mercato del lavoro.
Occupati
T 90 %

Focalizziamo, ora, l’attenzione sul tasso di occupazione. Anzitutto, occorre


evidenziare che, anche laddove una persona risulti occupata da un punto di vista
statistico, possono sempre verificarsi fenomeni che rendono labile il confine tra
occupazione e disoccupazione. Fenomeni quali la sottoccupazione: persone che
149
lavorano meno di quanto vorrebbero; ad esempio, coloro che hanno un’occupazione
part-time ma vorrebbero lavorare full-time. E, ancora, il lavoro informale e non
ufficiale (lavoro nero): persone che, pur lavorando, non risultano occupate poiché
sprovviste di contratto lavorativo o, comunque, di una regolazione della loro
condizione professionale. Come detto, circostanze di questo genere possono falsare i
dati relativi all’occupazione. Si pensi, per l’appunto, al lavoro nero: le indagini sulla
forza lavoro sono indagini campionarie basate su un questionario ed è ovvio che un
lavoratore sprovvisto di regolazione lavorativa, di fronte al suddetto questionario,
dichiarerà di non lavorare e, magari, anche di non essere in cerca di lavoro, risultando
disoccupato o inattivo.

Altro aspetto fondamentale relativamente ai mercati del lavoro è che essi sono, in
genere, molto segmentati: cioè ci sono mercati molto specifici (per specifiche
occupazioni, competenze o caratteristiche personali) per cui avrebbe molto più senso
osservare tassi di disoccupazione specifici (o per specifiche figure professionali o per
caratteristiche personali). Ad esempio, tasso di disoccupazione maschi-femmine, per
fasce d’età o, ancora, per settori industriali.

Negli ultimi anni, vi è stato un importante contributo che ha determinato un cambio


di impostazione nell’osservazione del mercato del lavoro: non occorre semplicemente
osservare gli aggregati per capire il funzionamento del mercato del lavoro; occorre
guardare al tasso di disoccupazione come al risultato netto di un processo continuo e
costante di creazione e distruzione di posti di lavoro. Ci sono continuamente e
costantemente settori in declino e settori in espansione nell’economia e,
conseguentemente, lavoratori espulsi e nuovi posti creati. Quindi, in qualsiasi
momento, vi sono imprese che falliscono e licenziano e imprese che, invece,
assumono.

Dunque, è interessante osservare il processo che conduce alla costruzione degli


aggregati e non solo all’aggregato finale. L’evidenza empirica che ha reso importante
il suddetto contributo è che il tasso di creazione netta di posti di lavoro è di un ordine
di grandezza più basso rispetto alla creazione lorda: quest’ultima è più grande perché
non si considerano le distruzioni dei posti (ecco perché è importante guardare ad
entrambi i processi).

L’aspetto più importante è la gestione della riallocazione dei lavoratori dai settori in
declino a quelli in espansione: più la riallocazione è facile, meno vi sarà
disoccupazione. Proprio per questo, la sfida nell’economia è avere istituzioni che
riescano a realizzare la riallocazione in tempi rapidi e in modo efficiente.

150
Differenza mercato del lavoro americano ed europeo.

In recessione, le imprese americane tendono ad aggiustare la forza lavoro attraverso


un aumento della job destruction: aumento della distruzione dei posti di lavoro. Lo
stesso risultato viene raggiunto dalle imprese europee mediante una riduzione della
job creation: ovvero una riduzione dei nuovi posti di lavoro creati.
La differenza di comportamento deriva dalla diversa regolamentazione dei mercati: in
America è più facile licenziare perché ci sono meno vincoli legati al licenziamento
contrariamente a quanto accade in Europa.

La disoccupazione non dipende solo dai licenziamenti quindi ma anche dalla


creazione di nuovi posti per cui non ha alcun senso pensare di ridurre la stessa
mediante una riduzione dei licenziamenti. In Italia si è affrontata la questione quando
si è parlato di ridurre i vincoli legati al licenziamento. La premessa della riforma era:
minori vincoli, minori costi attesi di licenziamento per l’imprenditore. Questo costo
assume rilievo nel momento in cui l’imprenditore deve decidere se assumere o meno
nuovi lavoratori: un costo più basso favorisce nuove assunzioni e, quindi, la crescita.

La curva di beveridge è un altro strumento interpretativo molto importante,


conseguenza del diverso modo di intendere il mercato del lavoro.

Vacancies

Unemploy

151
Modelli di matching nel mercato del lavoro: l’incontro tra l’impresa che cerca
nuovi lavoratori e gli individui che cercano lavoro (coprire una vacanacies). La curva
è decrescente: se ci sono molte vacancies, ci saranno meno disoccupati. A tal
proposito, si dice che “il mercato è largo”. Viceversa, il mercato sarà stretto.

Supponiamo di avere due Paesi A e B.


Nel Paese A, il mercato del lavoro
funziona meglio: a parità di posti di
lavoro messi a disposizione, in A ci sono
meno disoccupati. Dunque, il matching
B
funziona meglio nel Paese A.
A

Supponiamo che, oggi, l’Italia si trovi


nel punto C. Supponiamo, poi, che ci sia
una recessione. Come cambia la curva di
beveridge? Le possibilità sono due:

1. Sebbene la recessione, il
B funzionamento del mercato del lavoro non
cambia: le imprese assumono meno, i
A
disoccupati aumentano e, dunque, ci si
sposta in B ma non ci sono variazioni
circa la modalità di funzionamento del
mercato (la curva può essere vista come
misura di efficienza del mercato).
2. Il funzionamento peggiora: supponiamo che la recessione dipenda da una
carenza di domanda di automobili prodotte solo in una regione del Paese
(shock localizzato della domanda). Questo può determinare un peggioramento
del processo di matching, perché?
Scarsa mobilità dei lavoratori: imprese che cercano lavoratori ma non si
trovano nell’area interessata dallo shock; lavoratori espulsi dal settore e
divenuti disoccupati a causa dallo shock ma non sono disposti a spostarsi →
impossibilità di matching → peggioramento → la curva si sposta verso l’alto.

152
MODELLO NEOCLASSICO DEL MERCATO DEL LAVORO
Salario
Disoccupazione
creata S

W’

Inattivi: persone che al salario


prevalente sul mercato preferiscono il
W* tempo libero.

Forza Lavoro

Tot. Forza
lavoro

Da cosa dipende la disoccupazione in questo modello?

La disoccupazione si crea laddove il salario presente sul mercato sia più elevato del
salario di equilibrio (w’>w*). Ciò accade quando l’offerta di lavoro (da parte dei
lavoratori) è superiore alla domanda di lavoro.
L’offerta di lavoro è funzione crescente del salario: gli individui sono disposti a
lavorare di più con un salario più elevato. Per comprenderne la ragione, si pensi ad un
modello di scelta intertemporale tra lavoro e tempo libero: lavorare di più consente di
guadagnare e consumare di più ma, d’altra parte, determina anche una perdita di
utilità derivante da una riduzione del tempo libero a disposizione; quindi, aumenti del
salario compensano la sostituzione del tempo libero con lavoro.
Al contrario, la domanda di lavoro da parte delle imprese è una funzione decrescente
dei salari: più sono costosi i lavoratori, meno le imprese tenderanno ad assumere.
Quindi, di fronte ad un salario più elevato rispetto a quello d’equilibrio, si determina
un divario tra l’offerta e la domanda di lavoro: quel divario rappresenta, esattamente,
la disoccupazione creatasi.
153
Posto che un salario più elevato crea disoccupazione, sorge un’altra domanda:
perché il salario è più elevato? Individuiamo tre possibilità:

1. Salario minimo: le istituzioni possono fissare un salario minimo più elevato


del salario di equilibrio.
2. Salari d’efficienza: per le imprese non sempre è un buon affare pagare poco i
lavoratori; salari bassi, infatti, potrebbero determinare un calo di produttività.
Dunque, le imprese potrebbero fissare salari più elevati per indurre un maggior
“effort” nei lavoratori e, di conseguenza, aumentare la produttività.
3. Modelli insider/outsider: Gli insider sono coloro che hanno un’occupazione,
differentemente dagli outsider. Abbassare i salari determina un aumento degli
insider ovvero delle persone occupate: è, quindi, un beneficio per gli outsider
ma un sacrificio per gli insider che subiscono il costo di nuove assunzioni
mediante una riduzione salariale. Tuttavia, i sindacati dei lavoratori,
rappresentanti gli insider, potrebbero chiedere aumenti salariali a discapito
degli outsider. La funzione di utilità dei sindacati, infatti, concerne
esclusivamente l’utilità degli occupati e non di tutta la popolazione.

In definitiva, è possibile che salari più elevati siano il risultato di una contrattazione
tra imprese e sindacati.

CLASSIFICAZIONE DELLA DISOCCUPAZIONE

Disoccupazione di
Disoccupazione
piena occupazione
Disoccupazione Disoccupazione classica
d’equilibrio keynesiana

1. Disoccupazione di piena occupazione: Piena occupazione → tutti gli attivi,


ovvero tutti coloro che sono disposti a lavorare, lavorano. Anche in questa
circostanza, però, la disoccupazione non può mai scendere zero a causa della
cosiddetta “disoccupazione frizionale”: si tratta di una disoccupazione fisiologica
derivante dal necessario lasso temporale che intercorre tra la fine e l’inizio di un
nuovo lavoro. Dal momento in cui si inizia a cercare lavoro a quando lo si trova,
154
c’è bisogno di tempo; tempo durante il quale le persone risultano, inevitabilmente,
disoccupate. Tutto ciò è fisiologico, normale, per cui non richiede alcun intervento
di politica economica (in genere, si considerano, quali fisiologici, tassi di
disoccupazione del 3-5%).
2. Disoccupazione d’equilibrio: Disoccupazione in corrispondenza di un equilibrio
macroeconomico. Dipende dalla struttura del funzionamento del mercato del
lavoro.
3. Disoccupazione keynesiana: Disoccupazione derivante da una carenza di
domanda aggregata e prezzi rigidi. Prezzi rigidi e domanda insufficiente, infatti,
fanno si che le imprese non assumano, generando disoccupazione.
4. Disoccupazione classica: Disoccupazione derivante da una carenza di offerta
aggregata. Uno shock d’offerta negativo porta ad un aumento dei prezzi. Se i
prezzi aumentano, il salario reale diminuisce e per le imprese diviene più
conveniente assumere per cui la domanda di lavoro aumenta. La disoccupazione
classica si crea quando questo meccanismo di aggiustamento non funziona. Ciò
avviene in presenza di meccanismi automatici come l’indicizzazione dei salari
nominali per cui all’aumentare dei prezzi, aumentano anche i salari nominali e,
quindi, i salari reali restano immutati. Lo stesso, però, può avvenire anche in
assenza di meccanismi automatici, per effetto dei sindacati e delle loro
negoziazioni di aumenti salariali.

Gli interventi di politica economica nei quattro scenari sono differenti:

1. Per quanto concerne la disoccupazione di piena occupazione, si è detto che essa è


fisiologica per cui non richiede alcun intervento.
2. La disoccupazione d’equilibrio può essere ridotta migliorando il potenziale
produttivo e, quindi, in generale, mediante politiche dell’offerta.
3. In caso di disoccupazione keynesiana, la soluzione migliore è attuare politiche
keynesiane: se il problema è una domanda aggregata insufficiente, la soluzione è
uno stimolo della stessa mediante politiche fiscali o monetarie espansive.
4. Infine, nel caso della disoccupazione classica, occorre rendere i salari
maggiormente flessibili, ad esempio eliminando l’indicizzazione dei salari.

155
Lezione 28 29/11/18

MODELLO WAGE-SETTING
PRICE-SETTING

È un modello di determinazione del salario reale di equilibrio e del livello di


disoccupazione di equilibrio. Esso supera la logica del modello neoclassico del
mercato del lavoro poiché presenta elementi diversi: contrattazione salariale tra
sindacati e imprenditori; potere monopolistico delle imprese per cui il prezzo è un
mark-up rispetto al costo marginale.
Si tratta di un modello a due equazioni:

➢ Wage-setting: mostra il modo in cui sono fissati i salari.


➢ Price-setting: mostra il modo in cui sono fissati i prezzi.

La disoccupazione è la variabile chiave.

PS:

𝑃 − 𝑤 𝑎 = 𝛽0 − 𝛽1𝜇

𝑤 𝑎 rappresenta il salario atteso. Quindi, supponendo che vi siano solo costi legati alla
forza lavoro, 𝑃 − 𝑤 𝑎 rappresenta il mark-up atteso delle imprese ed è funzione
decrescente del livello di disoccupazione: se la disoccupazione è elevata, il margine si
riduce. Ciò avviene in recessione quando la domanda aggregata è bassa e le imprese,
per continuare a stare sul mercato, riducono i prezzi e, di conseguenza, il loro
margine di guadagno. Al contrario, in una fase espansiva dell’economia, le imprese
possono permettersi un più ampio margine.

WS:

𝑤 − 𝑃𝑎 = 𝛾0 − 𝛾1 𝜇

𝑃𝑎 rappresenta il livello atteso dei prezzi. 𝑤 − 𝑃𝑎 rappresenta il salario reale atteso


ed è funzione decrescente del livello di disoccupazione: un livello di disoccupazione
più elevato equivale ad un minore potere contrattuale dei sindacati e, quindi, a salari
reali più bassi.
156
Equilibrio di lungo periodo (aspettative razionali): gli individui non commettono
errori sistematici ma, anzi, si comportano come se conoscessero perfettamente il
funzionamento dell’economia; se l’economia è rappresentata da un modello, quindi,
essi si comportano come se conoscessero perfettamente il modello. Dunque, le
aspettative sono coerenti con il modo in cui funziona l’economia:

𝑃 = 𝑃𝑎

𝑤 = 𝑤𝑎

Da cui:

𝑃 − 𝑤 = 𝛽0 − 𝛽1 𝜇
𝛽0 + 𝛾0 Disoccupaz.
𝑤 − 𝑃 = 𝛾0 − 𝛾1 𝜇 𝛽0 − 𝛽1 𝜇 ∗ = −𝛾0 + 𝛾1 𝜇 ∗ 𝜇∗ =
𝛽1 +𝛾1 di equilibrio

𝛾1 è la sensibilità del salario reale al


𝑤⁄
livello di disoccupazione; 𝛾0 , invece,
𝑃 rappresenta altri fattori che influiscono
PS
sulla contrattazione del salario reale
come, ad esempio, sussidi, potere
sindacale o, ancora, salario minimo.
Supponiamo che vi sia un aumento del
salario minimo → ciò determina un
WS’ aumento del salario reale atteso e

attribuisce un maggiore potere


contrattuale ai lavoratori,
WS
influenzando, quindi, la contrattazione
→ ci sarà un aumento dei salari e,
𝜇∗ 𝜇
quindi, di 𝛾0 → ciò determina un
aumento del livello di disoccupazione
di lungo periodo come mostrato nel grafico. Lo stesso avviene laddove vi sia un
aumento dei sussidi di disoccupazione → si ha un aumento di 𝛾0 , una crescita della
disoccupazione e salari reali più elevati.

𝛽1 è la sensibilità del mark-up delle imprese al livello di disoccupazione.


𝛽0 , invece, rappresenta fattori autonomi che influenzano il margine di un’impresa
(come, ad esempio, il prezzo delle materie prime). Supponiamo che aumenti il prezzo
delle materie prime → ciò determina un aumento dei costi per l’impresa e una
riduzione del mark-up → vi è, dunque, un aumento di
157
𝛽0 → che determina, anche in questo caso, un aumento del livello di disoccupazione
d’equilibrio.

𝑤⁄ PS
𝑃
PS’

WS

𝜇∗ 𝜇′ 𝜇

Equilibrio di breve periodo: per calcolare la soluzione di breve periodo, occorre


risolvere il seguente sistema a due equazioni:

𝑃 − 𝑤 𝑎 = 𝛽0 − 𝛽1 𝜇

𝑤 − 𝑃𝑎 = 𝛾0 − 𝛾1 𝜇

Per facilitare la risoluzione, aggiungiamo e sottraiamo alle due equazioni,


rispettivamente, il livello dei salari e il livello dei prezzi; dunque, il sistema diventa:

𝑃 − 𝑤 + 𝑤 − 𝑤 𝑎 = 𝛽0 − 𝛽1 𝜇 𝑃 − 𝑤 = 𝛽0 − 𝛽1 𝜇 − (𝑤 − 𝑤 𝑎 )

𝑤 − 𝑃 + 𝑃 − 𝑃𝑎 = 𝛾0 − 𝛾1 𝜇 𝑤 − 𝑃 = 𝛾0 − 𝛾1 𝜇 − (𝑃 − 𝑃𝑎 )

Da cui:

𝛽0 − 𝛽1𝜇 − (𝑤 − 𝑤 𝑎 ) = −𝛾0 + 𝛾1 𝜇 + (𝑃 − 𝑃𝑎 )

𝛽0 +𝛾0 𝑤−𝑤 𝑎 𝑃−𝑃𝑎 𝑤−𝑤 𝑎 +𝑃−𝑃𝑎 𝛽0 +𝛾0


𝜇= − − 𝜇 = 𝜇∗ − poiché 𝜇 ∗ =
𝛽1 +𝛾1 𝛽1 +𝛾1 𝛽1 +𝛾1 𝛽1 +𝛾1 𝛽1 +𝛾1

158
Ai fini della discussione del modello, assumiamo, per semplicità, 𝑤 − 𝑤 𝑎 = 𝑃 − 𝑃𝑎
→ P e w si muovono in modo proporzionale: variazioni di prezzo e variazioni di
salario sono correlate, si muovono insieme. Ne deriva:
2(𝑃−𝑃𝑎 ) 1 𝛽1 +𝛾1
𝜇 = 𝜇∗ − 𝜇 − 𝜇 ∗ = − (𝑃 − 𝑃𝑎 ) con 𝜗 =
𝛽1 +𝛾1 𝜗 2

L’equazione scritta è una curva di Phillips: è possibile ridurre il livello di


disoccupazione al di sotto del livello d’equilibrio di lungo periodo soltanto mediante
una sorpresa inflazionistica ovvero in caso di prezzi più elevati rispetto a quelli attesi
(ad esempio con una politica monetaria espansiva). C’è, quindi, una relazione inversa
tra disoccupazione e inflazione.

Il modello WS-PS è uno strumento interpretativo importante che consente di


condurre notevoli analisi, giungendo a previsioni che, spesso, sono anche
empiricamente verificate. Consideriamo, ad esempio, una misura di politica
economica quale la deregolamentazione dei mercati. Il modello suggerisce qual è
l’effetto finale della deregolamentazione: essa determina una riduzione del potere
monopolistico delle imprese e del loro mark-up → c’è, dunque, una riduzione di 𝛽0
→ e una riduzione del livello di disoccupazione d’equilibrio.
Altra ipotesi che si può considerare concerne la struttura delle contrattazione
salariale: da un lato, è possibile che vi sia una contrattazione centralizzata a livello
nazionale, ad esempio mediante un sindacato nazionale; dall’altro è possibile una
contrattazione decentralizzata con sindacati settoriali che contrattano salari solo per
lo specifico settore. Una contrattazione centralizzata è associata a livelli più bassi di
disoccupazione. Di fatti, è possibile che il sindacato centralizzato dia un maggior
peso al livello di disoccupazione aggregato, negoziando, quindi, meno aumenti
salariali. In questo modo il sindacato internalizza il costo della disoccupazione,
determinando una riduzione della stessa. Al contrario, un sindacato settoriale che è
preoccupato solo di un settore ristretto, può ricercare degli aumenti salariali a
discapito dei disoccupati (se l’impresa sostiene un costo salariale maggiore è,
ovviamente, meno propensa ad assumere).
Altro caso è l’isteresi della disoccupazione: il modello può, infatti, essere modificato
al fine di prendere in considerazione anche questo fenomeno. L’idea di base è che i
disoccupati di lungo periodo non abbiano lo stesso peso dei disoccupati di breve
periodo nella contrattazione salariale → dunque, è possibile modificare il modello
tenendo conto della suddetta differenza di peso o, addirittura, assumendo che i
disoccupati da lungo tempo non incidano in alcun modo sulla contrattazione (si tratta,
159
analiticamente, di escluderli da quel fattore che abbiamo definito 𝛽1 𝜇 e che ci
suggerisce come la disoccupazione incide sulla contrattazione).

NAIRU: tasso di disoccupazione in corrispondenza del quale l’inflazione non


accelera. Se c’è una disoccupazione elevata, i salari diminuiscono dato il minore
potere contrattuale dei sindacati; di conseguenza, si riducono anche i prezzi.
Viceversa, se la disoccupazione è bassa, i salari aumentano e, conseguentemente,
anche i prezzi fissati dalle imprese. L’idea del nairu è che esista un livello di
disoccupazione di equilibrio ove salari e prezzi non crescono.

Costruiamo un modello con una curva di Phillips accelerata al fine di stabilire la


relazione tra nairu e livello di produttività aggregata.

∆𝑤 = ∆𝑃𝑎 + 𝑎 − 𝑏𝜇 → È una wage-setting scritta in termini di variazioni. Il salario


aumenterà più del livello atteso dei prezzi nel caso in cui la disoccupazione sia bassa;
la bassa disoccupazione aumenta il potere di contrattazione e quindi le variazioni
salariali rispetto alle variazioni di prezzo.

∆𝑃𝑎 = 𝛷(𝐿)∆𝑃 → Φ(L) è il lag operator: le variazioni attese dei prezzi dipendono
dalle variazioni di prezzo che si sono verificate in passato.

∆𝑃 = ∆𝑤 − ∆𝛾 → ∆𝛾 rappresenta le variazioni di produttività. Le variazioni di


prezzo dipendono da variazioni salariali meno variazioni di produttività.

Dalle tre equazioni:


∆𝛾−𝑎
∆𝑃 + ∆𝛾 = ∆𝑃 + 𝑎 − 𝑏𝜇 → 𝜇∗ = NAIRU: disoccupazione d’equilibrio
𝑏

Un aumento di produttività aggregata riduce la disoccupazione d’equilibrio; a parità


di numero di lavoratori, l’imprese produce di più. Se aumenta la produttività (a parità
di salari), i prezzi si riducono. Quindi aumenta la produzione senza generare
inflazione e ciò si traduce in una riduzione del tasso di disoccupazione di equilibrio.

È possibile chiarire l’effetto della produttività sul livello di disoccupazione anche


mediante il modello WS-PS:

↑ ∆𝛾 → ↑ 𝛽0 → ↑ (𝑃 − 𝑤 𝑎 ) → ↓ 𝜇.

160
Lezione 29 05/12/18

MODELLI DI MATCHING
È una classe di modelli utilizzata moltissimo non solo per descrivere l’equilibrio del
mercato del lavoro ma anche per altri mercati. In un modello di matching, il prezzo
non è determinato dall’incrocio tra domanda e offerta (come avviene normalmente
nel modello marshalliano) ma anche da fattori più sofisticati quale la contrattazione
salariale tra lavoratori ed imprese.

Primo elemento fondamentale del modello è la funzione di matching che può essere
intesa quale funzione di produzione poiché indica la creazione di nuovi posti di
lavoro. Gli input della funzione sono le vacancies (posti di lavoro resi disponibili
dalle imprese) e i disoccupati:

M(V,U)

La funzione di matching è funzione crescente di entrambi gli input: maggiore è il


numero dei disoccupati, ovvero degli individui disposti a lavorare, maggiore sarà il
numero di matching ovvero di vacancies coperte; d’altra parte, maggiori vacancies,
ovvero maggiori offerte di lavoro da parte delle imprese, aumentano la possibilità di
matching con persone non occupate che sono in cerca di lavoro. La funzione di
matching è, inoltre, omogenea di grado 1: i rendimenti di scala sono costanti per cui
raddoppiando gli input, raddoppia l’output.
N.B. La medesima funzione può essere indicata anche nel seguente modo: M(V,eU)
dove “e” indica l’effort ovvero lo sforzo fatto dai lavoratori per trovare
un’occupazione.

Prima di procedere con l’analisi del modello di matching, introduciamo il tasso di


separazione (separation rate), assumendolo, per semplicità, esogeno. Posto che in
ogni momento ci sono individui occupati (N), il tasso di separazione indica con che
probabilità le persone occupate diventeranno disoccupate, separandosi, per l’appunto,
dall’impresa. L’idea è che in ogni momento ci siano persone che vengono licenziate,
che vanno in pensione o che, semplicemente, decidono di abbandonare il proprio
lavoro.

N(s) → tasso di separazione: numero di persone che, in ogni momento, diventano


disoccupate.

161
(lato imprese)

Nel modello di matching, le imprese decidono se cercare o meno lavoratori; esse


decidono, quindi, se aprire o meno nuove vacancies. La funzione di matching misura
l’efficienza del mercato del lavoro poiché, date le vacancies aperte dalle imprese,
essa ci suggerisce quante delle stesse sono state coperte. Se la vacancy viene coperta,
l’impresa guadagna una maggiore produttività grazie al nuovo lavoratore ma deve,
d’altra parte, sostenere il costo del salario. Dunque:

𝝅𝒆 = 𝒑𝒓𝒐𝒅𝒐𝒕𝒕𝒐 𝒂𝒈𝒈𝒊𝒖𝒏𝒕𝒊𝒗𝒐 − 𝒘 → beneficio netto per l’impresa se la vacancy


viene coperta.

𝝅𝒖 = 𝒉 → beneficio fisso per l’impresa se la vacancy non viene coperta; potrebbe


essere zero o, anche, un valore positivo.

𝝅𝒆 − 𝝅𝒖 → surplus che ottiene l’impresa se riesce a coprire la vacancy rispetto ad


una situazione di non copertura;

Nel decidere se aprire o meno una nuova vacancy, l’impresa cerca di massimizzare il
suo profitto atteso per cui osserva il surplus che otterrebbe dalla copertura della
vacancy rispetto alla situazione di non copertura. Tuttavia, occorrere costruire un
vero e proprio programma di massimizzazione che consideri anche il fatto che una
vacancy, una volta aperta, potrebbe richiedere tempo prima di essere coperta
(probabilità di coprire la vacancy); senza contare che, anche una volta trovato il
nuovo lavoratore, come si è detto, quest’ultimo potrebbe separarsi dall’impresa dopo
un certo periodo (tasso di separazione).
𝑀(𝑉,𝑈) 𝑉 𝑈 𝑈
= 𝑀 ( , ) = 𝑀 (1, ) → probabilità di coprire la vacancy ovvero di
𝑉 𝑉 𝑉 𝑉
trovare un lavoratore. Questa stessa probabilità può anche essere scritta come
funzione decrescente della labor market tightness. Innanzitutto, la
labor market tightness indica quanto è largo o stretto il mercato ed è:
𝑉
𝜗= .
𝑈

• Se 𝜗 è elevato: ci sono molte imprese che cercano lavoratori ma pochi


disoccupati per cui il mercato è molto largo.
• Se 𝜗 è basso: ci sono poche imprese che cercano lavoratori e molti disoccupati
per cui il mercato è molto stretto.

162
Alla luce di quanto detto, non stupisce che la probabilità di coprire la vacancy sia
funzione decrescente della labor market tightness:

𝑚(𝜗) < 0

• Se 𝜗 è elevato:ci sono pochi disoccupati per cui la probabilità di coprire una


vacancy è più bassa.
• Se 𝜗 è basso: ci sono molti disoccupati per cui la probabilità di coprire una
vacancy è elevata.

(lato lavoratori)

Anche i lavoratori, come le imprese, cercano di massimizzare il loro surplus. Ma qual


è il surplus dei lavoratori? Così come le imprese devono decidere se cercare o meno
lavoratori, questi ultimi devono decidere se iniziare o meno a cercare
un’occupazione. Se decidono di cercare un’occupazione e la trovano, essi
guadagneranno, ovviamente, il salario. Laddove non la trovino, invece, riceveranno
un sussidio di disoccupazione.

𝑴𝒆 = 𝒘 → Se trovano un’occupazione: salario

𝑴𝒅 = 𝒅 → Se non trovano un’occupazione: sussidio d’occupazione

𝑴𝒆 − 𝑴𝒅 → Surplus del lavoratore: ciò che guadagna essendo occupato meno ciò
che avrebbe guadagnato se fosse stato disoccupato.

Anche in questo caso, nella massimizzazione del profitto, occorrerà prendere in


considerazione il tasso di separazione nonché la probabilità di trovare un nuovo
lavoro; probabilità che dipende dall’efficienza del mercato del lavoro ovvero dalla
sua capacità di creare nuovi matching.
𝑀(𝑉, 𝑈)
= 𝜗𝑚(𝜗) > 0
𝑈
La probabilità di trovare lavoro è una funzione crescente della labor matket tighness.

• Se 𝜗 è elevato: ci sono molte imprese che cercano lavoratori per cui la


probabilità di trovare lavoro è elevata.
• Se 𝜗 è basso: ci sono poche imprese che cercano lavoratori per cui la
probabilità di trovare lavoro è bassa.

163
In questo modello il salario viene determinato dalla contrattazione tra lavoratori ed
imprese. In particolare, si assume un nash bargaining tra lavoratori ed imprese:
quest’ultimi, cioè, si dividono il surplus derivante dalla creazione di un nuovo
matching.
𝜸
𝒘 = 𝐀𝐫𝐠 𝐦𝐚𝐱 (𝑴𝒆 − 𝑴𝒅 ) (𝝅𝒆 − 𝝅𝒖 )𝟏−𝜸 con 𝛾= potere contrattuale dei
𝒘
lavoratori.

La soluzione del problema di nash bargaining è il salario che massimizza il surplus


congiunto di lavoratori ed imprese, tenuto conto dei poteri di contrattazione.

Equilibrio del modello:


𝑠𝑁 = 𝑈𝜗𝑚(𝜗)

L’equilibrio è dato dal punto di incontro tra i posti di lavoro distrutti e posti di lavoro
creati.

w
Curva dei
salari

Curva di domanda
del lavoro

Comportamento delle imprese: se i salari sono bassi, per le imprese è più conveniente
assumere nuovi lavoratori; dunque, più bassi saranno i salari, più le imprese
apriranno nuove vacancies e più 𝜗, il rapporto tra vacancies e disoccupati, sarà
elevato. → curva di domanda del lavoro decrescente.

Comportamento dei lavoratori: se 𝜗 è elevato, è elevata anche la probabilità di


trovare un lavoro; ovviamente, la maggiore facilità con cui un disoccupato può
164
trovare lavoro si traduce in un maggiore potere contrattuale e, quindi, in salari più
elevati → curva dei salari crescente.

Infine, calcoliamo il tasso di disoccupazione nel modello:

𝑈 𝑈 1 𝑠
𝜇= = = =
𝑈+𝑁 𝑈𝜗𝑚(𝜗) 𝜗𝑚(𝜗) 𝑠 + 𝜗𝑚(𝜗)
𝑈+ 1+
𝑠 𝑠
Il tasso di disoccupazione 𝜇 è funzione decrescente di 𝜗: se 𝜗 aumenta, la probabilità
di trovare lavoro aumenta per cui 𝜇 diminuisce.

STATICA COMPARATA

1. Aumento della produttività del lavoro:

L’impresa apre una nuova vacancy che


w
viene coperta creando un nuovo matching
S → la produttività dell’impresa aumenta e,
con essa, il surplus dell’impresa
derivante dal matching → cresce, quindi,
il valore atteso di una vacancy e, in
D’ conseguenza, le imprese aprono più
vacancies. A parità di salario, ci saranno
più vacancies per cui 𝜗 sarà più alto.
D Ma se le vacancies aumentano vuol dire
che aumenta la richiesta di lavoratori da
𝜗 parte delle imprese (D si sposta verso
l’alto in D’) → cresce il potere
contrattuale dei lavoratori e con esso i
salari. Infine, il tasso di disoccupazione
decresce in conseguenza dell’aumento di
𝜗.

165
2. Aumento dei sussidi di disoccupazione:

w S’ A parità di vacancies, se aumentano i


sussidi, aumenta anche il potere
S contrattuale dei lavoratori per cui ci
saranno salari più elevati per qualsiasi
livello di 𝜗 (spostamento di S verso
l’alto in S’). L’equilibrio si sposta:
mentre 𝜗
aumenta il salario d’equilibrio mentre
si riduce; in conseguenza della
riduzione di 𝜗, la disoccupazione
D
aumenta.
𝜗

3. Riduzione dei costi di licenziamento:

Ridurre i costi di licenziamento equivale


a ridurre i costi attesi dell’impresa in
w caso di shock di domanda negativi; gli
S
shock, infatti, causerebbero una
recessione in conseguenza della quale
l’impresa sarebbe costretta a ridurre la
propria produzione e licenziare
lavoratori. Dunque, ridurre i costi
D’ licenziamento significa ridurre il costo
atteso di una recessione per l’impresa. La
D
consapevolezza di un basso costo di
licenziamento, ovviamente, porta le
imprese a ricercare più lavoratori, ovvero
𝜗
ad aprire più vacancies (D si sposta in
D’) → il mercato, dunque, diventa più
largo → i salari aumentano → la
disoccupazione si riduce.

166
4. Migliore funzionamento delle agenzie di collocamento:

w S’ Se le agenzie di collocamento
funzionano meglio, vengono creati più
S posti di lavoro (più matching) →
aumenta la probabilità di trovare lavoro
per i disoccupati ma anche la probabilità
di trovare lavoratori per le imprese.
D’
Dunque, da un lato, il lavoratore trova
D più facilmente un’occupazione per cui
aumenta il suo potere contrattuale e con
esso i salari (la curva dei salari S si sposa
verso l’alto in S’). D’altra parte,
𝜗 l’impresa ha maggiore probabilità di
trovare lavoratori per cui è più propensa
a ricercarli ovvero ad aprire vacancy (la
curva di domanda di lavoro D si sposta
anch’essa verso l’alto in D’). In
conseguenza di questi movimenti, i salari
sicuramente aumentano; non è invece
chiaro l’effetto su 𝜗 e, dunque, sulla
disoccupazione poiché esso dipende
dalla struttura del mercato.

167
POLITICHE DELLA DOMANDA DI LAVORO
(Volte a ridurre la disoccupazione)

1. Posti di lavoro assistiti


2. Riduzione costo di lavoro
3. Diminuzione orario lavorativo

1) Politiche che cercano di ridurre o assorbire la disoccupazione mediante una


creazione diretta di posti di lavoro da parte dello Stato come, ad esempio, la
politica dei lavori socialmente utili. Questi lavoro sono, tipicamente, a salario
molto basso e mirano al raggiungimento di un duplice obiettivo: da un lato, come
detto, ridurre la disoccupazione; dall’altro, fornire competenze ai lavoratori,
soprattutto se si tratta di disoccupati di lungo periodo, evitando l’obsolescenza
delle stesse competenze.
Quali sono i problemi connessi ai posti di lavoro assistiti?
- I salari, come detto, sono molto bassi per cui i lavoratori potrebbero scegliere
di non lavorare → la disoccupazione non si riduce.
- Le competenze fornite da questi lavori potrebbero non coincidere con i settori
che si espanderanno maggiormente in futuro.
- Non è detto che il posto di lavoro assistito migliori l’occupabilità poiché riduce
la credibilità dei lavoratori agli occhi delle imprese; ciò avviene, soprattutto,
nel caso in cui un disoccupato di lungo periodo si ritrovi, improvvisamente, ad
occupare un posto di lavoro assistito che fornisce competenze differenti dalla
sue competenze di partenza (ovvero quelle legate alla professione che egli
svolgeva prima di divenire disoccupato). Il periodo di disoccupazione unito al
posto di lavoro assistito può generare un’obsolescenza delle competenze
originarie il che, ovviamente, disincentiva le imprese ad assumere il lavoratore.
Ma, al di là delle perdita effettiva delle competenze, ciò che conta è l’effetto
segnale: una lunga disoccupazione tende a persistere perché segnala, agli occhi
dell’impresa, scarse competenze. In realtà, l’impresa non è in grado di stabilire
se il segnale coincide con la realtà, ovvero se il disoccupato è o meno poco
competente, ma, nel dubbio, difficilmente deciderà di assumerlo.
In definitiva, i posti assistiti non sono una buona idea anche perché sono
programmi temporanei: si corre il rischio di ridurre la disoccupazione oggi per poi
aumentarla per molti periodi futuri (fino a quando queste persone non saranno
pensionate).
168
2) Se il costo del lavoro è molto elevato, i lavoratori poco qualificati difficilmente
troveranno occupazione; saranno assunti solo lavoratori ad elevata produttività.
Ridurre i costi del lavoro, mette le imprese in condizioni di assumere anche
lavoratori con skills più basse; ciò, ovviamente, riduce la disoccupazione.
L’efficacia dipende dall’elasticità di domanda e offerta di lavoro. Effetti aggregati:
- Meno entrate fiscali: sono politiche costose
- Inefficienza dinamica: se i lavoratori sono meno qualificati, la produttività
aggregata si riduce e ciò può ridurre la crescita nel lungo periodo.

3) Se per legge si stabilisce un orario massimo settimanale lavorativo, è possibile


occupare più persone: riduzione della disoccupazione. Problemi:
- Non è detto che l’impresa decida di assumere nuovi lavoratori perché il costo
di una nuova assunzione si divide in costi variabili e costi fissi. Assumere
nuovi lavoratori significa sostenere maggiori costi fissi.
- La produttività potrebbe diminuire data la sostituibilità tra persone: le persone
potrebbero avere una produttività differente (esempio: una persona che lavora
per 10h potrebbe sviluppare ed avere una manualità maggiore rispetto a due
persone che lavorano per 5h).

169
Lezione 30 06/12/18

POLITICHE DELLA DOMANDA DI LAVORO


pt.2

Costi di licenziamento

Un aumento dei costi di licenziamento è in grado di ridurre la disoccupazione?


Analizziamone gli effetti.
Se per le imprese è più costoso licenziare, esse, ovviamente, tendono a non farlo. Si
crea, così, una protezione dei posti di lavoro esistenti che rende l’occupazione più
stabile. Inoltre, maggiori costi di licenziamento conferiscono ai lavoratori un
maggiore potere contrattuale per cui essi godranno anche di salari più elevati.
D’altro canto, però, va detto che aumentare i costi di licenziamento significa ridurre il
margine d’azione delle imprese in caso di shock esogeni negativi. Il licenziamento
diviene un strada non percorribile per cui il costo atteso di aprire nuove vacancies,
ovvero di ricercare nuovi lavoratori da assumere, aumenta. Le imprese apriranno,
allora, meno vacancies determinando, così, una minore creazione di posti di lavoro.
In definitiva, un aumento dei costi di licenziamento, da un lato, riduce il processo di
distruzione di posti di lavoro ma, dall’altro, riduce anche il processo di creazione
degli stessi. Ad essere più stabile non sarà solo l’occupazione ma anche la
disoccupazione che diverrà mediamente più lunga. Se i disoccupati tendono a restare
tali, per fenomeni di isteresi, la loro possibilità di trovare un lavoro si riduce ancora di
più, rischiando, in questo modo, addirittura un aumento della disoccupazione.
Dunque, è necessaria una particolare attenzione rispetto ad una politica del genere
poiché essa si configura quale politica redistributiva che favorisce, si, gli occupati,
conferendogli maggiori certezze e salari più elevati, ma sfavorisce anche i
disoccupati, riducendo le loro possibilità di assunzione e generando rischi di aumento
della disoccupazione.

Qual è l’effetto dell’aumento dei costi di licenziamento sull’economia di mercato


intesa quale processo di “distruzione creatrice” così come teorizzato da
Schumpeter?

Schumpeter descrive il funzionamento di un’economia di mercato come un processo


di “distruzione creativa”: con lo sviluppo dell’economia, vi sono continuamente

170
cambiamenti ed innovazioni. Le imprese innovative assumono forza lavoro giovane
con competenze altamente specifiche in settori innovativi e si caratterizzano sempre
più per un’elevata produttività, scalzando, in questo modo, le imprese tradizionali
caratterizzate, invece, da una forza lavoro di età mediamente più elevata e con
competenze in settori tradizionali, scarsamente innovativi. Il risultato di questo
processo è un aumento della produttività aggregata: le imprese innovative
guadagnano quote di mercato sulle imprese tradizionali proprio perché esse, come
detto, godono di una produttività maggiore.

In quest’ottica, come operano aumenti dei costi di licenziamento?

Aumenti dei costi di licenziamento, da un lato, limitano l’uscita delle imprese


tradizionali dal mercato: se è più difficile licenziare, queste imprese assorbiranno,
comunque, molta forza lavoro (tradizionale). Dall’altro, però, limitano anche la
crescita delle piccole imprese innovative per le quali diventa difficile creare nuovi
posti ed innovare la propria forza lavoro.
Il processo di distruzione creativa viene, dunque, limitato: si rallenta tanto l’uscita di
imprese in declino quanto la crescita di imprese innovative. Ulteriore effetto degli
aumenti di costo è una continuità del capitale umano all’interno delle imprese la
quale continuità, di sicuro, incide positivamente sulla produttività aggregata; tuttavia,
l’effetto più rilevante all’interno dell’economia resta la limitazione del processo
schumpeteriano, limitazione che riduce fortemente la produttività aggregata.

Infine, occorre osservare che a sopportare il costo di questa limitazione, saranno


soprattutto i lavoratori giovani con competenze specifiche in settori innovativi data
l’impossibilità, o comunque la difficoltà, per le imprese innovative di creare nuovi
posti di lavoro.

• ↑ costi di licenziamento → può ↑ la disoccupazione

→ di sicuro ↓ la produttività aggregata

Pensare ad una riduzione della disoccupazione mediante una riduzione dei


licenziamenti, dunque, non ha molto senso. La chiave è gestire la riallocazione della
forza lavoro da settori in declino a settori in espansione; aumentare i costi di
licenziamento rende più difficile questa riallocazione poiché impedisce nuove
assunzioni. Non a caso, le economie che crescono maggiormente sono quelle che
riescono a riallocare la propria forza lavoro in maniera dinamica.

171
Un esempio di politica in grado di rendere l’economia più dinamica è la sostituzione
del controllo giuridico sulla legittimità dei licenziamenti con un’indennità: posto che
il giudice è competente a valutare la legittimità dei licenziamenti economici,
l’impresa può sottrarsi al controllo pagando un’apposita indennità per il
licenziamento. L’impresa, quindi, non deve più chiedere il “consenso” per il
licenziamento, è sufficiente che essa paghi un costo. Ciò rende l’economia più
dinamica. Di fatti, in un sistema in cui è presente un controllo giuridico, il costo del
licenziamento per l’impresa è incerto; l’impresa potrebbe anche non poter licenziare.
Dunque, in un sistema di questo genere, fissare un costo, certo per legge, significa
ridurre i costi di licenziamento poiché elimina l’incertezza per le imprese, facilita i
licenziamenti e, con essi, le assunzioni.

Sussidi di disoccupazione.
Il sussidio è un sostegno al reddito di persone prive di occupazione. Per capire come
deve essere strutturato un sussidio, occorre considerare tre dimensioni:

• Ammontare: Quanti soldi occorre conferire?


• Durata: Per quanto tempo?
• Condizioni: A quali condizioni?
Innanzitutto, i sussidi non devono essere particolarmente favorevoli e duraturi poiché,
altrimenti, genererebbero la cosiddetta “trappola della disoccupazione”: sussidi molto
generosi per molto tempo disincentivano la ricerca attiva di un lavoro da parte dei
disoccupati; quest’ultimi, infatti, si sforzano molto meno per trovare un’occupazione,
finendo col non trovarla e rischiando di restare disoccupati per lungo tempo.
È, inoltre, opportuno che i sussidi vengano condizionati. Il modello scandinavo, ad
esempio, condiziona la concessione di sussidi alla ricerca attiva di un lavoro.
Tuttavia, un sistema del genere richiede un costante monitoraggio da parte delle
istituzioni il che è possibile in una piccola economia come quella scandinava ma
diventa estremamente oneroso nonché complicato in una grande economia
caratterizzata da un enorme numero di disoccupati.
Un’altra possibilità è rendere i sussidi “a tempo”: nei primi sei mesi viene, ad
esempio, conferita una determinata cifra poi ridotta nei tempi successivi fino ad
essere azzerata. Si tratta di un incentivo, ovvero di un meccanismo in grado di
velocizzare la ricerca di un lavoro. Anche in questo caso, però, si corre il rischio che i
disoccupati riducano la ricerca attiva di un lavoro soltanto agli ultimi giorni, in vista
dell’azzeramento del sussidio.
172
Una soluzione a queste problematiche non sembra essere neppure la riduzione
dell’importo dei sussidi poiché sussidi troppo bassi potrebbero generare bad
matchings: dato lo scarso ammontare dei sussidi, il disoccupato accetta lavori per i
quali non è qualificato; ciò genera non solo una perdita di benessere per il lavoratore
ma anche una perdita di produttività per l’impresa. Infine, data la scarsa generosità
dei sussidi e, conseguentemente, il poco potere contrattuale dei lavoratori, anche i
salari di quest’ultimi saranno più bassi.

Viene, dunque, da chiedersi quale sia il sistema ottimale.


Il modello tipico è la flex security la quale rappresenta, da un lato, un sistema di
flessibilità per le imprese con bassi costi di licenziamento e, dall’altro, un sistema di
sicurezza per i lavoratori, in grado di garantire sussidi generosi e duraturi ma
condizionati alla ricerca attiva di un’occupazione.
La flessibilità prevede bassi costi di licenziamento di modo che le imprese possano
attuare rapidi aggiustamenti in caso di shock esogeni negativi. Essa comporta, inoltre,
un miglioramento della produttività aggregata perché favorisce la crescita delle
imprese innovative e l’uscita dal mercato delle imprese obsolete. Tuttavia, va anche
detto che essa aumenta il rischio di disoccupazione per i lavoratori. Di fatti, la
continua riallocazione della forza lavoro aumenta la probabilità di essere licenziati e,
dunque, favorisce continui cambi di occupazione. In altre parole, il lavoro diventa
meno stabile ed è necessario fornire continui sussidi tra un cambio e l’altro
d’occupazione. La chiave è, ancora un volta, condizionare i sussidi. Ma, come si è
detto, ciò richiede l’istituzione di un’agenzia di collocamento che sia pronta a
monitorare costantemente la ricerca attiva di lavoro, prevedendo sanzioni nel caso in
cui essa non avvenga. Ancora una volta, quindi, si tratta di porre in essere un sistema
troppo costoso, possibile solo in situazioni di bassa disoccupazione.

Reddito di cittadinanza.

Il reddito di cittadinanza si configura quale sussidio di disoccupazione poiché


concesso a persone monoreddito. Così com’è stato proposto, il reddito di cittadinanza
sembrerebbe essere particolarmente generoso non solo dal punto di vista dell’importo
ma anche dal punto di vista temporale, essendo pensato per una durata indefinita. È,
inoltre, previsto un meccanismo sanzionatorio. Tuttavia, la credibilità della sanzione
appare discutibile poiché ad essere sanzionato non sarà colui che non ricerca
attivamente un’occupazione bensì colui che la rifiuta; ovvero colui che, per
l’appunto, rifiuta una valida e congrua offerta di lavoro. E di qui si apre,
inevitabilmente, un problema di tipo giudiziario: ogni singola sospensione del reddito
di cittadinanza dovuta ad un rifiuto di un’offerta di lavoro dovrà essere sottoposta al

173
TAR, il che, inutile dire, genera enorme incertezza. L’alternativa sarebbe tipizzare
alcune ipotesi ovvero compiere una lista delle offerte di lavoro ritenute “congrue”.
Ma, in realtà, anche in questo caso, non si eliminerebbe l’incertezza della sanzione; e
se la sanzione è incerta, il reddito di cittadinanza diviene un sussidio indeterminato il
cui rischio tipico, come si è precedentemente visto, è la persistenza della
disoccupazione.

Cassa integrazione.
Innanzitutto, la cassa integrazione prevede che i lavoratori ricevano denaro nel caso
in cui essi vengano licenziati dalla loro azienda a causa di forti shock negativi della
domanda. Qual è il problema di un trasferimento monetario di questo genere?

Il punto di tutta la questione è che la cassa integrazione, in teoria, dovrebbe essere


pensata per tempi brevi. Il meccanismo dovrebbe essere abbastanza semplice: vi è
un’azienda che vive un momento negativo dovuto a un forte calo della domanda per
cui essa necessita temporaneamente di un numero inferiore di lavoratori; lo Stato
decide, allora, di sostenere i suddetti lavoratori fornendogli un salario ridotto. Ma i
lavoratori continuano a restare legati all’impresa; ci si aspetta, infatti, che essa, prima
o poi, si riprenda e riassuma i lavoratori licenziati. Ma è efficace un meccanismo del
genere? E, soprattutto, è opportuno che i lavoratori restino legati all’impresa pur
essendo, ormai, disoccupati?

La risposta sembrerebbe essere negativa. La soluzione migliore sembrerebbe, infatti,


un licenziamento effettivo da parte delle imprese di modo che i disoccupati ricevano
un sussidio condizionato alla ricerca di una nuova occupazione. Mantenere dei
lavoratori legati ad un’azienda ormai in declino non ha molto senso; si ritarda,
semplicemente, il momento in cui questi stessi lavoratori si dovranno cercare una
nuova occupazione col rischio, però, che, quando ciò avverrà, essi saranno ormai
anziani e difficilmente troveranno un lavoro. In quest’ottica, la cassa integrazione
diventa una sorta di prepensionamento.

È piuttosto evidente come la cassa integrazione si opponga al modello della flex


security: la prima favorisce la permanenza dei lavoratori presso l’impresa, sebbene
quest’ultima sia destinata a morire; la seconda, invece, favorisce il licenziamento
nell’ottica di nuove possibilità e opportunità.
In questo scenario, il reddito di cittadinanza si colloca in una posizione intermedia:
esso è, sicuramente, più vicino alla flex security e appare, invece, inconciliabile con
la cassa integrazione.

174
Lezione 31 11/12/18

POLITICHE DELLA CRESCITA


Quando si parla di crescita si fa, inevitabilmente, riferimento al PIL e, in particolare,
al PIL procapite, considerato quale obiettivo fondamentale da ciascun Paese. Occorre,
tuttavia, tener presente che ciò che interessa realmente non è la crescita del prodotto
interno lordo quanto, piuttosto, lo sviluppo e il miglioramento delle condizioni di
vita. Il PIL viene semplicemente utilizzato come indicatore ma, di per se, non è una
misura dello standard di vita o del benessere di una determinata area geografica; o
meglio, il PIL è una misura parziale e imprecisa. Vi sono diversi fattori che
rendono il PIL una misura imprecisa:

• Esternalità: Se l’economia cresce è perché produce di più; ma una maggiore


produzione accresce anche l’inquinamento. Esternalità come l’inquinamento,
però, non sono considerate nei conti nazionali.
• Disuguaglianze: Può accadere che la crescita del PIL non sia omogenea per
cui la ricchezza non si distribuisce in maniera uniforme nella popolazione. In
realtà, la crescita del PIL potrebbe, addirittura, incrementare le disuguaglianze.
• Home production: Nei conti nazionali non viene considerato il prezzo dei
beni e servizi prodotti a casa: si considera esclusivamente il prezzo degli input
acquistati e non anche il prezzo della manodopera come avviene, ad esempio,
al ristorante. La conseguenza è che Paesi con un basso livello di home
production avranno un PIL più elevato. Se c’è un spostamento da produzioni
domestiche a produzioni di mercato, c’è anche una crescita del PIL ma, alla
fine, non vi è un reale miglioramento delle condizioni di vita: è solo una
differenza contabile dovuta alla mancata contabilizzazione dell’home
production (analogo discorso può essere fatto anche per altri servizi quali, ad
esempio, il baby sitting). Similmente, il passaggio da un bene fornito dallo
Stato ad un bene fornito dal mercato determina un aumento del PIL senza un
effettivo miglioramento dello standard di vita: le produzioni pubbliche sono
conteggiate al prezzo degli input mentre le produzioni di mercato al prezzo di
mercato.
• Economia sommersa: Non tutte le attività economiche sono contabilizzate. È
il caso delle cosiddette “attività sommerse” ovvero attività legali svolte da
soggetti non autorizzati a farlo: ad esempio, si pensi ad un venditore che
dichiara solo una parte di ciò che vende; la parte restante, non dichiarata, non
compare nelle statistiche nazionali ma, in realtà, rientra nell’economia

175
nazionale. Queste circostanze rendono il PIL una misura imprecisa così come,
anche, le attività illegali le quali per legge non possono essere dichiarate.
• Utilizzo di risorse naturali: Nei processi produttivi, vengono utilizzate delle
risorse scarse in natura. Tuttavia, nella contabilità nazionale, si considera
esclusivamente il risultato del processo produttivo e non anche la riduzione
delle risorse naturali a disposizione. Aumenti del PIL, quindi, possono anche
indicare una diminuzione delle suddette risorse e, conseguentemente, minori
possibilità di crescita in futuro (sviluppo sostenibile).

Alla luce di quanto detto, è stato anche proposto un indicatore alternativo al PIL:
human devolopment index (indice dello sviluppo umano) costruito tenendo presente
tutti gli elementi problematici appena esposti.

[Decrescita felice: Posta la parzialità del PIL, l’idea della “decrescita felice” è che
ad una riduzione del PIL possa, addirittura, corrispondere un aumento del benessere
della popolazione. Occorre tener presente, però, che, nel lungo periodo, un
miglioramento del benessere della popolazione senza crescita è impossibile.]

Rapporto crescita-disuguaglianza.
1. Effetto della crescita sulla disuguaglianza: contributo classico → Kuznes
curve.

Disug.
La relazione tra disuguaglianza e PIL è data da
una curva ad U. Il modello di riferimento alla
base della Kuznes curve è la transazione da
un’economia rurale ad un’economia
manifatturiera: una società in cui le attività
economiche sono basate sull’agricoltura è una
società essenzialmente ugualitaria poiché le
Pil tecnologie di produzione sono le stesse.
La disuguaglianza aumenta nel momento in cui c’è una transazione verso
un’economia manifatturiera caratterizzata da innovazioni tecnologiche: gli operai del
settore riescono ad appropriarsi di maggiori rendite rispetto agli agricoltori poiché
impiegati nel settore a produttività più elevata. Tuttavia, quando le tecnologie si
diffondono per cui vi è una transazione completa verso il settore manifatturiero, con
pochissimi impiegati nel settore agricolo, le disuguaglianza si riducono nuovamente.

176
Contributi moderni → Modelli Schumpeteriani → Distruzione creatrice: settori
tradizionali in declino, settori innovativi in espansione → riallocazione del
potere di mercato così come della forza lavoro.

Le imprese innovative richiedono personale con alte qualifiche e pagano,


conseguentemente, salari più elevati. Al contrario, lavoratori con basse qualifiche
avranno, non solo, salari più bassi ma troveranno sempre più difficile occuparsi (ci
sarà, infatti, un aumento dei licenziamenti dei suddetti lavoratori al fine di creare
posti di lavoro per coloro che sono maggiormente qualificati). Si crea, così, una
polarizzazione della forza lavoro: da un lato, salari elevati per lavoratori con tante
skills e dall’altro salari bassi per lavoratori con poche skills. Ciò crea, chiaramente,
una disuguaglianza di reddito crescente.
In generale, le rendite sono più elevate nei settori innovativi il che porta a maggiori
rendite per coloro che hanno le competenze per partecipare al processo innovativo
→ polarizzazione → disuguaglianza.
A tal proposito, si è recentemente sviluppato un dibattito circa l’intelligenza
artificiale e l’impatto dei big data nell’economia: molti sono preoccupati che
l’utilizzo di automazione nei processi di produzione, automazione generata dalle
nuove applicazioni di intelligenza artificiale nonché dalle nuove applicazioni
statistiche, possa determinare un’amplificazione della polarizzazione e, dunque,
un’ulteriore crescita delle disuguaglianze. Si tratta, in sostanza, di una rivitalizzazione
del dibattito luddista: operai che distruggevano le macchine, identificandole quale
causa del proprio licenziamento. L’idea dell’attuale automazione industriale è
esattamente la stessa: automatizzare i processi produttivi porta, da un lato, alla
distruzione di molteplici ruoli lavorativi richiedenti basse competenze; dall’altro, in
linea con l’ottica schumpeteriana, porta alla creazione di nuovo ruoli richiedenti alte
competenze. Ciò, come visto, incentiva la disoccupazione dei lavoratori scarsamente
qualificati, la polarizzazione e la disuguaglianza. Per molti la soluzione sarebbe uno
schema di reddito minimo universale; tuttavia, il problema di una simile soluzione è
la sostenibilità fiscale nonché politica: il supporto a politiche redistributive non è così
semplice da trovare.

2. Effetto della disuguaglianza sulla crescita: la disuguaglianza favorisce o limita


il processo di crescita economica? In realtà non è chiaro poiché ci sono
argomentazioni in entrambe le direzioni:

• La disuguaglianza limita il processo di crescita: Se vi è un elevato livello di


disuguaglianza, l’ accesso all’istruzione è limitato: vi sono poche persone che
177
possono permettersi un livello avanzato di istruzione e questo limita il
potenziale innovativo dell’economia. Lo stesso discorso può essere fatto per
quanto concerne il capitale: innovazione, infatti, non è soltanto concepire
un’idea grazie ad un elevato livello di istruzione ma anche avere la possibilità
di realizzarla. Tuttavia, l’accesso al credito, così come l’accesso all’istruzione,
è limitato per coloro che hanno meno fondi di partenza. Ciò significa che, al di
la dell’istruzione e delle competenze, la disuguaglianza limita anche la
possibilità di iniziare processi produttivi che implementino le nuove idee.

• La disuguaglianza favorisce il processo di crescita: Una delle ragioni chiave


è data dagli incentivi: se l’innovazione non viene premiata, non vi è incentivo
all’innovazione. La disuguaglianza è il perfetto incentivo poiché dà il senso di
remunerazione. In altre parole, le persone ricercano innovazioni per avere uno
status più elevato che viene consentito proprio dall’esistenza di disuguaglianza.
Ulteriore ragione è che la disuguaglianza consente una maggiore
accumulazione di capitale e l’accumulazione di capitale favorisce la crescita di
lungo periodo.

Convergenza.
Ci sono due idee di convergenza:

• Beta convergenza: i Paesi più poveri crescono più rapidamente dei Paesi più
ricchi. Questa convergenza può anche essere intesa come relazione tra
disuguaglianza tra Paesi e crescita.
La ragione principale per cui il Paese più povero cresce più rapidamente risiede
nell’imitazione tecnologica: esso può crescere imitando le innovazioni
tecnologiche create e attuate dai Paesi più ricchi che hanno già vissuto la
crescita. La crescita più rapida, però, può anche essere una conseguenza dei
foreign direct investment: un Paese più avanzato può decidere di aprire una
filiale in un Paese più povero, trasferendo, così, mediante un investimento
diretto, la tecnologia all’estero.
Empiricamente, però, non vi sono grandi argomentazioni che dimostrino la
beta-convergenza; affinché essa sia valida, occorre premere su altre
caratteristiche individuali dei Paesi → in altre parole, la beta convergenza
esiste solo all’interno di gruppi ristretti di Paesi con caratteristiche omogenee
(convergence club); ad esempio paesi che hanno infrastrutture, istituzioni o,
ancora, livelli di istruzione simili.
178
• Sigma convergenza: Diminuzione della varianza della distribuzione del PIL in
un gruppo di Paesi → Immaginando di scrivere la distribuzione statistica del
PIL di un gruppo di Paesi e di calcolarne la varianza, la sigma convergence
indica una riduzione della suddetta varianza a seguito della quale si ha una
distribuzione più concentrata e livelli di PIL dei Paesi più simili tra loro.
Vi sono modelli di crescita che hanno come conseguenza questa riduzione:
Paesi poveri che raggiungono i livelli di PIL dei Paesi più ricchi.

La differenza tra beta e sigma convergence è data, esclusivamente, dal modo in cui si
misura il ravvicinamento tra Paesi; ovvero il modo in cui si analizza il processo di
raggiungimento che va dai Paesi più poveri a quelli più ricchi: nella beta-convergence
questo processo si misura mediante i differenziali dei tassi di crescita; nella sigma-
convergence, invece, come riduzione della varianza della distribuzione del PIL.

Growth accounting (contabilità della crescita): è un contributo classico della


teoria della crescita, il cui obiettivo è cercare di capire da cosa dipendano gli aumenti
del PIL. La growth accounting si basa su una funzione di produzione aggregata:

𝑌𝑡 = 𝐹(𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 , 𝐴𝑡 )

La funzione di produttività aggregata, a sua volta, si basa su tre elementi: capitale,


lavoro e tecnologia. A partire dalla suddetta funzione, è possibile fare tre assunzioni
sul modo in cui la tecnologia influenza il processo produttivo:

1. 𝑌𝑡 = 𝐹(𝐴𝑡 𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 )→ Harrod-neutral technology (capital-saving): se migliora la


tecnologia, si riduce il fabbisogno di capitale nel processo produttivo.

2. 𝑌𝑡 = 𝐹(𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 𝐴𝑡 )→ Solow-neutral (labor-saving innovation): se migliora la


tecnologia, si reduce il fabbisogno di forza lavoro nel processo produttivo.

3. 𝑌𝑡 = 𝐴𝑡 𝐹(𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 )→ (𝐴𝑡 )→ Total factor productivity: la tecnologia non è


specificamente relativa né al capitale né alla forza lavoro.

179
Focalizziamo l’attenzione sulla TFP, cercando di scrivere la relazione in termini di
variazione nel tempo:

𝑌𝑡̇ = 𝐴̇𝑡 𝐹 (𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 ) + 𝐴𝑡 𝐹𝐾 (𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 )𝐾̇𝑡 + 𝐴𝑡 𝐹𝑁 (𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 )𝑁̇𝑡

Dove 𝑌𝑡̇ è la derivata della produzione rispetto al tempo. Derivata la funzione di


produzione, il nostro obiettivo è calcolare le determinanti del tasso di crescita. Il tasso
di crescita di una variabile, in un modello continuo, può essere scritto come la
variazione percentuale. E la variazione percentuale si ottiene dividendo la variazione
(derivata della funz. di produzione) per il livello:

𝑌𝑡̇ 𝐴̇𝑡 𝐹 (𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 ) 𝐴𝑡 𝐹𝐾 (𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 )𝐾̇𝑡 𝐴𝑡 𝐹𝑁 (𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 )𝑁̇𝑡


= + +
𝑌𝑡 𝑌𝑡 𝑌𝑡 𝑌𝑡

Possiamo sostituire 𝑌𝑡 = 𝐴𝑡 𝐹(𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 ) nel primo termine in modo tale da ottenere:

𝑌𝑡̇ 𝐴̇𝑡 𝐴𝑡 𝐹𝐾 (𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 )𝐾̇𝑡 𝐴𝑡 𝐹𝑁 (𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 )𝑁̇𝑡


= + +
𝑌𝑡 𝐴𝑡 𝑌𝑡 𝑌𝑡
𝐴̇𝑡
𝑔= indica il tasso di crescita della tecnologia ovvero il progresso tecnologico.
𝐴𝑡
Tuttavia, nel nostro modello, la crescita del PIL pro capite non dipende soltanto dalla
crescita della tecnologia ma anche dall’accumulazione di capitale e dalla crescita
della forza lavoro. Per ottenere il tasso di crescita del capitale e della forza lavoro,
moltiplichiamo e dividiamo secondo e terzo termine, rispettivamente, per il capitale e
la forza lavoro iniziali:

𝑌𝑡̇ 𝐾𝑡 𝐾̇𝑡 𝑁𝑡 𝑁̇𝑡


= 𝑔 + 𝐴𝑡 𝐹𝐾 (𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 ) + 𝐴𝑡 𝐹𝑁 (𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 )
𝑌𝑡 𝑌𝑡 𝐾𝑡 𝑌𝑡 𝑁𝑡

𝐾̇𝑡 𝑁̇𝑡
: tasso di crescita del capital mentre; : tasso di crescita della forza lavoro.
𝐾𝑡 𝑁𝑡

Ora, assumiamo di essere in concorrenza perfetta. 𝐴𝑡 𝐹𝐾 (𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 ) è la derivata della


funzione di produzione rispetto al capitale ovvero il prodotto marginale del capitale.
In concorrenza perfetta, il prodotto marginale del capitale deve essere uguale al costo
marginale del capitale che definiamo 𝑐𝑘 . Quindi: 𝑐𝑘 = 𝐴𝑡 𝐹𝐾 (𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 ).
Analogamente, prodotto marginale del lavoro deve essere uguale al costo marginale
del lavoro ovvero al salario per cui 𝑤𝑡 = 𝐴𝑡 𝐹𝑁 (𝐾𝑡 , 𝑁𝑡 ).
180
Sostituendo:

𝑌𝑡̇ 𝐾𝑡 𝐾̇𝑡 𝑁𝑡 𝑁̇𝑡


= 𝑔 + 𝑐𝑘 + 𝑤𝑡
𝑌𝑡 𝑌𝑡 𝐾𝑡 𝑌𝑡 𝑁𝑡
𝑁𝑡
Definiamo 𝑙𝑛 = 𝑤𝑡 → questa quantità viene specificamente definita: “labor share
𝑌𝑡
of income” e rappresenta la percentuale di prodotto utilizzata per remunerare la forza-
lavoro. Ad esempio, supponendo di avere un’economia con un PIL=20'000 euro, 10
lavoratori ed un salario w=1000, la labor share of income è pari al 50% perché il 50%
del reddito viene utilizzata per remunerare i lavoratori. Analogamente, definiamo
𝐾
𝑙𝑘 = 𝑐𝑘 𝑡 . Quindi:
𝑌𝑡

𝑌𝑡̇ 𝐾̇𝑡 𝑁̇𝑡


= 𝑔 + 𝑙𝑘 + 𝑙𝑛
𝑌𝑡 𝑌𝑡 𝑌𝑡

Questa relazione è la conseguenza di due assunzione: TFP e concorrenza perfetta. La


crescita può dipendere da progresso tecnologico, accumulazione di capitale e crescita
della forza lavoro. L’esercizio di growth accounting è cercare di decomporre la
crescita del PIL nelle tre componenti. Ora: il PIL è facilmente osservabile dalla
contabilità nazionale; tasso di crescita del capitale e della forza-lavoro possono essere
calcolati mediante l’utilizzo di appositi modelli così com’è possibile calcolare 𝑙𝑘 e 𝑙𝑛 .
Ciò che invece non appare calcolabile è il progresso tecnologico che, dunque, può
essere calcolato per differenza. Qual è il risultato di questo esercizio di contabilità?
Tipicamente, g è la variabile determinante del processo di crescita e, dunque, del PIL.
“g” è il tasso di crescita di 𝐴𝑡 ovvero della TFP. Ma occorre sottolineare che la TFP
(produttività totale dei fattori) non riguarda esclusivamente le innovazioni
tecnologiche ma tutto ciò che eccede gli input di lavoro e capitale; ad esempio
l’istruzione, la ricerca ma anche la regolamentazione ove non si intende
esclusivamente la regolamentazione del mercato bensì anche la regolamentazione
delle innovazioni intesa, quindi, quale appropriabilità dell’innovazione (frame work
legale).

181
Lezione 32 12/12/18

POLITICHE DELLA CRESCITA


Modelli di crescita esogena

Modello Harrod-Domar. Partiamo da tre assunzioni:


- Economia con due fattori di produzione complementari: capitale e lavoro.
- La crescita della forza lavoro (𝐿𝑡 ) dipende da fattori demografici.
- La crescita del capitale (𝐾𝑡 ) dipende dal risparmio nell’economia.

Data la complementarietà dei fattori di produzione, la funzione di produzione è:

𝑌𝑡 = min (𝐴𝑡 𝐾𝑡 , 𝐿𝑡 𝐵𝑡 )

Le possibilità sono tre:

1. Se il capitale cresce più velocemente della forza lavoro, è un’economia in cui


non c’è abbastanza forza lavoro per il capitale.
2. Se la forza lavoro cresce più rapidamente del capitale, nell’economia c’è
troppa forza lavoro.
3. Capitale e forza lavoro crescono in egual misura: equilibrio.

In realtà, la terza possibilità rappresenta un caso residuale, l’equilibrio rappresenta un


caso residuale. Molto più probabile è una crescita non bilanciata dei fattori di
produzione la cui conseguenza è un’economia permanentemente in disequilibrio.

Il modello Harrod-Domar è stato il primo contributo in materia; esso presenta


elementi importanti quali l’accumulazione di capitale e la crescita della forza lavoro
intesi come fattori determinanti della crescita; tuttavia, appare insufficiente nella
spiegazione data la previsione di un disequilibrio sussistente.

Modello di Solow. Solow parte dal contributo Harrod-Domar, sviluppando, però,


delle assunzioni leggermente diverse e superando il limite della crescita bilanciata
quale caso residuale. Assunzioni:

- I fattori di produzione sono sostituibili tra loro.


- Non solo i fattori sono sostituibili ma sono anche a rendimenti marginali
decrescenti.
- Il risparmio e la crescita demografica sono fattori esogeni.

182
Funzione di produzione:
(1−𝛼)
𝑌𝑡 = 𝐴𝑡 𝐾𝑡𝛼 𝐿𝑡

La conclusione del modello di Solow deriva da un’assunzione chiave: rendimenti


marginali decrescenti del capitale. Il capitale si accumula poiché genera un
rendimento; inizialmente, vi è un incentivo all’accumulo poiché più piccolo è lo stock
di capitale, più elevati sono i rendimenti generati. Tuttavia, al crescere dello stock di
capitale accumulato, si giunge ad un punto in cui i rendimenti al margine iniziano a
decrescere per cui continuare ad accumulare capitale diviene sconveniente. → Il
capitale raggiunge, così, un stato stazionario in cui è costante. Questa è l’idea alla
base del modello di Solow: data la produttività marginale decrescente dei fattori di
produzione, è conveniente accumularli solo fino ad un certo punto (stato stazionario)
oltre il quale diviene sconveniente.

Risoluzione del modello.


Per semplicità, risolviamo il modello assumendo un livello di tecnologia costante
ovvero assenza di progresso tecnologico (A=1) per cui:
(1−𝛼)
𝑌𝑡 = 𝐾𝑡𝛼 𝐿𝑡

Definiamo, innanzitutto, gli elementi del modello.

- Variazione percentuale della forza lavoro → Tasso di crescita esogeno della


forza lavoro:

𝐿̇𝑡
=𝑛
𝐿𝑡
- Variazione percentuale del capitale → Processo di accumulazione del capitale →
per capire come avviene l’accumulo, occorre partire, anzitutto, dal risparmio:

𝑆𝑡̇ = 𝜎𝑌𝑡

Nel modello di Solow, il risparmio è esogeno: si risparmia una quota fissa (𝜎) di
quanto si produce. Il modello descrive un’economia chiusa ove c’è solo consumo
o risparmio per cui il consumo sarà dato da ciò che non si risparmia:
𝐶𝑡 = (1 − 𝜎)𝑌𝑡 .
In un’economia chiusa il risparmio è uguale all’investimento, dunque:
183
𝐼𝑡 = 𝜎𝑌𝑡

Posto ciò, la variazione percentuale del capitale al tempo t è:

𝐾̇𝑡 = −𝛿𝐾𝑡 + 𝐼𝑡

La variazione, che descrive l’evoluzione del capitale, dipende da un


deprezzamento 𝛿 (in ogni periodo, una quota dello stock di capitale si distrugge) e
da tutto quello che viene risparmiato per poi essere rinvestito, contribuendo, così,
a formare lo stock di capitale.

Definiti gli elementi, è necessario trasformare il modello in variabili procapite


(dividendo per la forza lavoro poiché assumiamo che tutta la popolazione lavori).
Partiamo dal capitale.
𝐾𝑡
𝑘𝑡 =
𝐿𝑡

𝑘𝑡 rappresenta il capitale procapite. Determiniamo la variazione percentuale del


capitale procapite (𝑘̇𝑡 ):

𝐾̇𝑡 𝐾̇𝑡 𝐿𝑡 − 𝐾𝑡 𝐿̇𝑡 𝐾̇𝑡 𝐾𝑡 𝐿̇𝑡


𝑘̇𝑡 = = = −
𝐿𝑡 𝐿2𝑡 𝐿𝑡 𝐿𝑡 𝐿𝑡

Usando le relazioni precedentemente definite:


𝐾̇𝑡 −𝛿𝐾𝑡 +𝐼𝑡 𝐾̇𝑡 −𝛿𝐾𝑡 +𝐼𝑡
(= 𝑘̇𝑡 ) = − 𝑘𝑡 𝑛 → (= 𝑘̇𝑡 ) = − 𝑘𝑡 𝑛
𝐿𝑡 𝐿𝑡 𝐿𝑡 𝐿𝑡

𝐼𝑡
𝑘̇𝑡 = −𝛿𝑘𝑡 + − 𝑘𝑡 𝑛 → variazione percentuale del capitale procapite
𝐿𝑡

L’obiettivo è definire tutto rispetto a variabili procapite, anche il PIL:


(1−𝛼)
𝑌𝑡 𝐾𝑡𝛼 𝐿𝑡
𝑦𝑡 = = = 𝑘𝛼
𝐿𝑡 𝛼 (1−𝛼)
𝐿𝑡 𝐿𝑡

Il reddito procapite è uguale al capitale procapite elevato ad 𝛼:

184
𝑦𝑡 = 𝑘𝑡𝛼

Infine, definiamo l’investimento procapite:


𝐼𝑡 𝜎𝑌𝑡 𝛼
𝑖𝑡 = = = 𝜎𝑦𝑡 = 𝜎 𝑘𝑡
𝐿𝑡 𝐿𝑡
𝛼
𝑖𝑡 = 𝜎𝑘𝑡

Torniamo, allora, alla variazione percentuale del capitale procapite:


𝐼𝑡
𝑘̇𝑡 = −𝛿𝑘𝑡 + − 𝑘𝑡 𝑛
𝐿𝑡
𝐼𝑡 𝛼
Come visto = 𝑖 = 𝜎𝑘𝑡 quindi è possibile sostituire ed ottenere:
𝐿𝑡

𝛼
𝑘̇𝑡 = 𝜎𝑘𝑡 − (𝛿 + 𝑛)𝑘𝑡

n (𝛿 + 𝑛)𝑘𝑡

Rappresentazione

Grafica:

k
k*

Dati i rendimenti marginali decrescenti, esisterà uno stato stazionario oltre il quale il
capitale procapite smette di accumularsi per cui la sua variazione è pari a zero: 𝑘̇𝑡 =
1
𝛼 (𝛿+𝑛)𝛼−1
0→ 𝜎 𝑘𝑡 = (𝛿 + 𝑛)𝑘𝑡 → 𝑘𝑡∗ = : capitale procapite stazionario.
𝜎

Il capitale procapite cresce fino a quando non si raggiunge lo stato stazionario; a quel
punto, smette di crescere e si ancora al livello 𝑘𝑡∗ per cui il capitale 𝐾𝑡 cresce allo
stesso tasso di crescita della forza lavoro 𝐿𝑡 .

185
Dunque, l’investimento procapite, in stato stazionario, è esattamente quello che serve
a rimpiazzare il capitale distrutto per deprezzamento e a dotare la nuova forza lavoro
di capitale. Esso, quindi, è la somma di due fattori:

𝑖𝑡 = 𝑛𝑘𝑡 + 𝛿𝑘𝑡

𝛿𝑘𝑡 rappresenta il capitale distrutto mentre 𝑛𝑘𝑡 rappresenta la crescita della forza
lavoro; entrambe devono essere compensate da 𝑖𝑡 .

Supponiamo che vi sia un aumento del tasso di risparmio 𝝈. Che succede?

n B

Se aumenta il risparmio, aumenta l’accumulo di capitale per cui vi è una crescita


temporanea dell’economia. Quest’ultima cresce fino a raggiungere un nuovo stato
stazionario, caratterizzato da un livello di capitale procapite più elevato, ove si ancora
nuovamente (passaggio da A a B). A questo punto, il capitale torna a crescere al
medesimo tasso della forza lavoro. L’aumento del risparmio, quindi, non determina
un aumento della crescita di lungo periodo ma solo di breve periodo.

Ora, aggiungiamo una nuova assunzione al modello di Solow; supponiamo che vi sia
progresso tecnologico:

𝐴̇𝑡
=𝑔
𝐴𝑡

Definiamo, inoltre, 𝑘𝑡 , non più come capitale pro capite, ma come capitale per unità
di lavoro effettivo:

186
𝐾𝑡
𝑘𝑡 =
𝐴 𝑡 𝐿𝑡

Con passaggi analoghi a quelli precedentemente compiuti, è possibile ottenere la


variazione percentuale del capitale per unità di lavoro effettivo:
𝛼
𝑘̇𝑡 = 𝜎𝑘𝑡 − (𝛿 + 𝑛 + 𝑔)𝑘𝑡

Cosa cambia rispetto all’ipotesi di assenza del progresso tecnologico?


Come si è visto, in assenza di progresso tecnologico, si raggiunge uno stato
stazionario ove il capitale procapite è costante e il capitale cresce allo stesso tasso di
crescita esogeno della forza lavoro.
Anche in presenza di progresso tecnologico si raggiunge uno stato stazionario.
Tuttavia, in questo caso, a rimanere costante è il capitale per unità di lavoro effettivo;
il capitale pro capite, invece, cresce al tasso di crescita esogeno della tecnologia
mentre il capitale cresce al tasso di crescita combinato di tecnologia e forza lavoro.

In definitiva, si può dire che il modello di Solow non spiega realmente la crescita ma,
piuttosto, la descrive poiché esso dipende interamente da due fattori esogeni: crescita
della forza lavoro e miglioramento tecnologico. Dunque, anche questo modello, così
come il modello Harrod-Domar, appare insufficiente sebbene fornisca un’importante
implicazione di politica economica (l’aumento del risparmio ha soltanto effetti di
breve periodo). Esso si limita a descrivere la crescita, non ad indagarne le ragioni.

L’obiettivo della crescita è un miglioramento delle condizioni di vita. In termini di


modello, un miglioramento delle condizioni di vita si traduce nella massimizzazione
del consumo di lungo periodo. Arriviamo, allora, al modello di Ramsey che supera il
modello di Solow in quanto considera esplicitamente il consumo come risultato di
una massimizzazione intertemporale (endogenizza il consumo).
Il modello di Ramsey è interessante perché illustra un trade-off fondamentale nel
processo di crescita:
- Se 𝜎 è molto basso, il consumo è elevato per cui vi sono poche risorse destinate
all’investimento e, conseguentemente, un accumulo scarso di capitale.
- Se 𝜎 è molto elevato, il consumo è scarso per cui vi sono elevate risorse destinate
all’investimento e, conseguentemente, un elevato accumulo di capitale a discapito,
però, dei consumatori.

187
Supponiamo che il livello di consumo debba essere ottimale → per cui cerchiamo di
risolvere 𝜎 come il livello che massimizza il consumo di lungo periodo (in stato
stazionario):

𝜎̂ = 𝐴𝑟𝑔𝑚𝑎𝑥 {(1 − 𝜎)𝑦𝑡 }

1
(𝛿+𝑛)𝛼−1
Ricordiamo che: 𝑦𝑡 = 𝑘𝑡𝛼 e 𝑘𝑡∗ = (capitale procapite in stato stazionario).
𝜎
𝛼
(𝛿+𝑛)𝛼−1
Noi stiamo considerando il consumo di stato stazionario per cui: 𝑦𝑡 = . Da
𝜎
ciò:
𝛼 𝛼
𝜎̂ = 𝐴𝑟𝑔𝑚𝑎𝑥 {(1 − 𝜎)𝜎 −𝛼−1(𝑛 + 𝛿)𝛼−1}

FOC → derivata dell’espressione rispetto a 𝜎̂ → 𝜎̂ = 𝛼 → livello di risparmio


ottimale è quello che massimizza il consumo procapite di stato stazionario.

Determiniamo il prodotto marginale del capitale: derivata della funzione rispetto al


capitale.

𝑘𝑡 𝛼−1
𝑀𝑃𝐾 = 𝛼𝑘𝑡𝛼−1 𝐿1−𝛼
𝑡 = 𝛼( ) = 𝛼𝑘𝑡𝛼−1
𝐿𝑡
1
(𝛿+𝑛)𝛼−1
Ricordiamo che 𝑘𝑡∗ = (il denominatore è 𝛼 e non più 𝜎 poiché abbiamo
𝛼
endogenizzato livello di consumo che è, in questo caso, ottimale: 𝜎̂ = 𝛼). Quindi:
1 𝛼−1
(𝛿 + 𝑛)𝛼−1
𝑀𝑃𝐾 = 𝛼𝑘𝑡𝛼−1 = 𝛼[ ] = 𝛿+𝑛
𝛼

Quindi se 𝜎 massimizza il consumo di lungo periodo, la produttività marginale del


capitale è 𝑀𝑃𝐾 = 𝛿 + 𝑛.

Assumiamo ora che vi sia concorrenza perfetta per cui prodotto marginale = costo
marginale.

𝑐 𝑘 = 𝑅 + 𝛿 → costo marginale del capitale.

𝑀𝑃𝐾 = 𝛿 + 𝑛 → prodotto marginale del capitale

Ne deriva:
188
𝑛 = 𝑅 → Golden rule della crescita: la crescita ottimale si ha quando il tasso di
interesse reale eguaglia il tasso di crescita della popolazione.

Assumiamo, ancora, che vi sia progresso tecnologico. Il prodotto marginale diventa:

𝑀𝑃𝐾 = 𝑛 + 𝛿 + 𝑔

Mentre la golden rule della crescita diventa:

𝑛+𝑔 = 𝑅

Qual è l’intuizione del modello di Ramsey?


Come anticipato, il trade-off tra consumo e accumulo di capitale: se la golden rule
non è verificata, vuol dire che si stanno accumulando livelli o troppo elevati o, al
contrario, troppo bassi di capitale. Accumulare troppo capitale porta ad un consumo
troppo basso nel breve periodo per cui diminuisce il benessere dei consumatori. Al
contrario, accumulare bassi livelli di capitale riduce l’output di lungo periodo così
come il consumo di lungo periodo.

N.B. La convergenza è una conseguenza del modello di Solow (Paesi poveri crescono
più velocemente dei Paesi ricchi). Perché? Rendimenti marginali crescenti: i Paesi
più poveri accumulano più rapidamente perché il rendimento è più alto. In un
importante contributo classico, Mankiw-Romer e Weil hanno osservato come, nel
modello di Solow, non vi sia convergenza per cui esso sembrerebbe non descrivere
bene il processo di crescita; tuttavia, gli stessi hanno sottolineato che, estendendo il
modello di Solow anche al capitale umano (accanto a lavoro e capitale fisico),
diviene possibile osservare e descrivere anche il processo di convergenza.

189
Lezione 33 13/12/18

POLITICHE DELLA CRESCITA


Modelli di crescita endogena

Modelli di crescita endogena → modelli in cui la crescita è spiegata all’interno del


modello:

• Modello di Romer
• Modello di Barro e Sala-i-Martin
• Modello di Aghion e Howitt

Modello di Romer: primo modello di crescita endogena → tentativo di spiegare la


crescita attraverso la funzione di produzione stessa, senza richiamare un fattore
esterno: l’accumulazione di capitale genera esternalità positive e l’esternalità
positive generano la crescita. Dunque, l’idea alla base del modello è che l’accumulo
di capitale da parte di un’impresa generi benefici non solo per quest’ultima ma anche
per tutte le altre imprese, ovvero per l’economia complessivamente intesa.
L’implicazione è che il rendimento sociale del capitale sia più alto del rendimento
individuale del capitale. Per comprendere a pieno l’idea alla base del modello di
Romer, si pensi a due tipiche esternalità positive:

o Esternalità di rete: essa si genera quando il beneficio che un individuo trae


dall'utilizzo di un bene cresce al crescere del numero di utilizzatori di quello
stesso bene. Ad esempio, si ha un’esternalità di rete laddove molti individui
utilizzino lo stesso sistema operativo poiché, in questo modo, essi hanno la
possibilità di interagire, scambiando e condividendo files.
o Learning by doing: l’implementazione di una nuova tecnologia da parte di
un’impresa consente ai lavoratori di imparare e conoscere quella stessa
tecnologia. Ciò vuol dire che, in caso di mobilità dei lavoratori, le tecnologie e
le conoscenze si diffonderanno anche in altre imprese, generando benefici
anche per il resto dell’economia.

Dunque, il processo di accumulazione di capitale da parte di un’impresa, grazie ad


esternalità di questo genere, determina aumenti di produttività aggregata (rendimenti
del capitale a livello aggregato crescenti) e benefici per l’intera economia.

190
Occorre, tuttavia, sottolineare che la singola impresa decide quanto capitale
accumulare in base al proprio prodotto marginale e non in base al prodotto del
capitale a livello aggregato (che è, ovviamente, più elevato rispetto a quello della
singola impresa). In altre parole, l’impresa considera se stessa e non anche gli effetti
benefici del proprio accumulo sul resto dell’economia per cui, in mancanza di
incentivi, essa accumulerà troppo poco capitale. Da ciò cresce l’importanza della
politica economica il cui compito è quello di allineare l’incentivo individuale
all’incentivo pubblico: essa deve, in altri termini, incentivare l’accumulazione di
capitale poiché altrimenti le imprese ne accumulerebbero troppo poco.

Che differenza c’è tra capitale umano e esternalità positive?

Il modello di Solow può essere esteso considerando un fattore di produzione


aggiuntivo quale il capitale umano. Il capitale umano ha rendimenti marginali
decrescenti e viene remunerato sul mercato. Quindi, l’accumulo del capitale umano
dipende, si, dalle scelte individuali dell’impresa ma viene remunerato. E la
remunerazione stessa viene presa in considerazione dall’impresa nel momento in cui
compie le proprie scelte. È esattamente in questo che si differenzia il modello di
Romer: vi sono delle esternalità positive ma le stesse esternalità positive, ovvero i
benefici sociali derivanti dall’accumulo di capitale, non sono remunerate. Dunque, la
chiave del modello, la ragione per cui vi è crescita endogena, risiede nella differenza
tra il rendimento individuale e il rendimento sociale del capitale, non considerato
dall’impresa nel momento in cui compie le proprie scelte.

Modello di Barro e Sala-i-Martin: “one production function, one growth


model”→ Dietro una funzione di produzione, c’è sempre un modello di crescita:

𝑌𝑡 = 𝐴𝑡 𝐺𝑡1−𝛼 𝑘𝑡𝛼 (L=1)

Il modello evidenzia l’importanza della spesa pubblica e, in particolare, della spesa


pubblica in infrastrutture, suscettibile di generare aumenti della produttività
aggregata. Si pensi alle infrastrutture fisiche: la costruzione di nuove strade, ad
esempio, facilita il commercio e genera possibilità di crescita. Il problema è che le
infrastrutture pubbliche costano; di fatti, esse richiedono risorse raccolte mediante la
fiscalità generale sottratte, quindi, all’accumulazione di capitale. Vi sarà, allora, un
livello ottimo di tassazione, in grado di massimizzare la crescita di lungo periodo.
Prima di procedere alla determinazione della tassazione ottimale, supponiamo che vi
sia bilancio in pareggio per cui la spesa pubblica è soltanto un prelievo sulla
produzione al tasso τ:
𝐺𝑡 = 𝜏𝑌𝑡
191
Supponiamo, inoltre, che la spesa pubblica sia tutta produttiva. Dunque, stiamo
assumendo che, a parità di stock di capitale, la spesa pubblica aumenti la produttività
aggregata. Il problema, come detto in precedenza, è il trade-off: un aumento di τ,
aumenta il prelievo e, quindi, la produttività ma, d’altra parte, riduce l’accumulazione
di capitale. Occorre, quindi, determinare il punto di ottimo tra spesa pubblica e
accumulazione di capitale.
Sostituiamo, anzitutto, G nella funzione di produzione:

𝑌𝑡 = 𝐴𝑡 [𝜏𝑌𝑡 ]1−𝛼 𝑘𝑡𝛼


1 1−𝛼
[1−(1−𝛼)]
→ 𝑌𝑡 = 𝐴𝑡 𝜏 (1−𝛼)𝑘𝑡𝛼 → 𝑌𝑡𝛼 = 𝐴𝑡 𝜏 (1−𝛼)𝑘𝑡𝛼 → 𝑌𝑡 = 𝐴𝑡 𝜏
𝛼 𝛼 𝑘𝑡

I rendimenti del capitale sono costanti quindi, ancora una volta, il modello della
crescita è endogeno: la crescita è sostenuta di per sé, non vi sono più rendimenti
decrescenti del capitale. (È esattamente la stessa logica alla base del modello di
Romer; tuttavia, in questo caso, anziché assumere esternalità positive dovute
all’accumulazione di capitale, assumiamo che la crescita generi, di per sé, maggiori
risorse le quali aumentano la produttività grazie ad una maggiore spesa pubblica).
Ora, assumendo concorrenza perfetta, in equilibrio, la produttività marginale del
capitale deve essere uguale al costo marginale del capitale (𝑀𝑃𝐾 = 𝑐 𝑘 ).
Calcoliamo MPK (derivata della funzione di produzione rispetto al capitale al netto
delle tasse):
𝜕𝑌 (1−𝛼)
1−𝛼
(1−𝛼)
1−𝛼
𝑀𝑃𝐾 = (1 − 𝜏) = (1 − 𝜏)𝐴𝑡 𝜏 𝛼 = (1 − 𝜏)𝐴𝑡 𝜏 𝛼
𝜕𝑘
Ricordiamo che 𝑐 𝑘 = 𝑅 + 𝛿. Quindi la condizione di equilibrio è:
1−𝛼
(1 − 𝜏)𝐴(1−𝛼)
𝑡 𝜏 𝛼 =𝑅+𝛿

Ora, introduciamo alcuni elementi, a partire dall’ottimizzazione intertemporale dei


consumatori:
𝑐𝑡+1 1 + 𝑅
=
𝑐𝑡 1+𝜌

Definiamo “g” il tasso di crescita dell’output. Immaginiamo, inoltre, che vi sia,


sempre, accumulazione di capitale ed economia chiusa:

𝑘𝑡+1 = (1 − 𝑔)𝑘𝑡 + 𝐼𝑡

𝐼𝑡 = 𝑆𝑡
192
In queste circostanze, g è anche il tasso di crescita del consumo e del capitale
(sentiero di crescita bilanciata). Per cui:
𝑐𝑡+1 1+𝑅
=1+𝑔 → 1+𝑔=
𝑐𝑡 1+𝜌

In termini approssimativi:

𝑔≅𝑅−𝜌

Ma dalla condizione di equilibrio:


1−𝛼
(1−𝛼)
𝑅 = (1 − 𝜏)𝐴𝑡 𝜏 𝛼 −𝛿

Quindi, possiamo determinare il tasso di crescita d’equilibrio g:


1−𝛼
(1−𝛼)
𝑔 ≅ (1 − 𝜏)𝐴𝑡 𝜏 𝛼 − (𝛿 + 𝜌)

𝜏∗ 𝜏

Inizialmente, al crescere della tassazione, il tasso di crescita aumenta. Tuttavia, si


giunge ad un punto in cui ulteriori aumenti di tassazione determinano una riduzione
del tasso di crescita. Ci sarà, quindi, una soluzione interna del livello di tassazione
che massimizza il tasso di crescita dell’economia.
Massimizziamo,allora, il tasso di crescita dell’economia rispetto all’aliquota fiscale 𝜏:
1−𝛼 1 − 𝛼 1−𝛼−1
max 𝑔 : 𝐴𝑡 [−𝜏 𝛼 + (1 − 𝜏)( )𝜏 𝛼 ] = 0
𝜏 𝛼

193
1−𝛼 1−𝛼 1−𝛼 1 1−𝛼
𝜏 = ( 1 − 𝜏 )( ) → 𝜏 [1 + ]= → 𝜏[ ] =
𝛼 𝛼 𝛼 𝛼 𝛼

𝜏 ∗ = 1 − 𝛼 → livello ottimo di 𝝉 che massimizza g

In definitiva, la tassazione sottrae risorse all’accumulazione di capitale per cui vi


sono due possibili strade:
o accumulare capitale per crescere.
o tassare per incrementare la spesa pubblica e, conseguentemente, la produttività
in modo tale da crescere.
Scegliere il livello ottimo di 𝜏 significa scegliere il perfetto punto di incontro ovvero
l’utilizzo ottimale delle due opzioni, il quale dipenderà, chiaramente, dai parametri
della funzione di produzione.

N.B. Occorre osservare che, nella presentazione del modello, si è compiuta


un’assunzione fondamentale: una spesa pubblica totalmente produttiva per cui si
poneva, quale unico problema, quanto prelevare per incrementare la spesa pubblica e,
non anche, come utilizzare il prelievo. Nella realtà, non sempre la spesa pubblica è
totalmente produttiva. È chiaro che, laddove la spesa pubblica sia improduttiva,
diviene maggiormente conveniente lasciare che il capitale venga accumulato. Altra
assunzione importante concerne l’assenza di debito. Se vi fosse debito, infatti, si
porrebbe un’ulteriore domanda: quanto è ottimale fare debito?
Dunque, in assenza di assunzioni di questo genere, il problema tende a complicarsi
sebbene l’idea di fondo resti la stessa.

Differenza col modello di Romer circa le conclusioni di politica economica: Per


quanto i due modelli siano simili, essi si differenziano per il ruolo assunto dalla spesa
pubblica. Nel modello di Romer, le imprese hanno un rendimento individuale più
basso del rendimento sociale motivo per cui accumulano troppo poco capitale;
occorre, allora, incentivarle ad accumulare capitale privatamente. Al contrario, nel
Modello di Barro e Sala-i-Martin, il ruolo dello Stato è quello di provvedere
direttamente, mediante la spesa pubblica, ad infrastrutture pubbliche.
Dunque, in un caso, la crescita viene realizzata mediante investimenti pubblici,
nell’altro mediante politiche pubbliche che incentivano l’accumulazione privata di
capitale: ad ogni modo, si tratta di un processo che, in ultima analisi, dipende
fortemente dall’autorità di politica economica, ovvero lo Stato.

Modelli Schumpeteriani: Ancora una volta, si tratta di modelli endogeni per cui
incrementi della produttività derivano da fattori interni, in particolare fattori
194
d’ispirazione schumpeteriana: l’economia cresce grazie a guadagni di produttività e i
guadagni di produttività, a loro volta, derivano dal processo innovativo attuato dalle
imprese. Un’impresa che innova, si appropria delle rendite derivanti dal processo
innovativo; ciò incentiva la stessa ad innovare. Dunque, il progresso tecnico è una
conseguenza del processo innovativo delle imprese e dipende fortemente dal fatto che
le imprese possano appropriarsi delle rendite derivanti dalle stesse innovazioni.

Modello di Aghion-Howitt (modello schumpeteriano): Il processo di crescita


dipende dalle rendite derivanti dalle innovazioni. Un’impresa può utilizzare un
lavoratore direttamente per produrre o, al contrario, per fare ricercare e perseguire
l’innovazione. Chiaramente, i lavoratori che si occupano della ricerca hanno un
outcome incerto poiché non è detto che riescano a trovare un’innovazione. Dunque,
se l’impresa adotta pochi lavoratori impegnati nella produzione e, per la maggior
parte, ricercatori che, però, non riescono ad innovare, essa perderà in termini di
produttività. D’altro canto, va detto che laddove i ricercatori riescano ad innovare, vi
sarà un grande beneficio in termini di produttività per l’impresa.
È chiaro, quindi, il trade-off dell’impresa: qual è il livello ottimale di lavoratori che
devono fare ricerca? Dal suddetto livello, dipenderà anche il tasso di crescita
aggregato dell’economia: di fatti, più le imprese fanno ricerca, più vi sono
innovazioni; più vi sono innovazioni, più la produttività è alta e l’economia cresce.

𝐿 = 𝑋+𝑁

• 𝐿: Forza lavoro totale che può essere impiegata direttamente nella produzione
o, al contrario, in R&D (research and development).
• 𝑁: Quota di lavoratori impegnati nella ricerca.
• 𝑋: Quota di lavoratori impegnati direttamente nella produzione.

Funzione di produzione (con rendimenti decrescenti):

𝑌 = 𝐴𝑋𝛼 (𝛼 < 1)

Data una probabilità λ di innovare, 𝛾 > 1 è il parametro che ci fornisce l’aumento di


produttività nel caso in cui vi sia innovazione. Per comprendere quale sia il livello
ottimale di lavoratori da utilizzare nella produzione, scriviamo la funzione di profitto
dell’impresa data dalla produttività aggiuntiva meno il costo del lavoro:

𝜋(𝛾) = 𝛾𝐴𝑋𝛼 − 𝜔𝑋

Il salario 𝜔, uguale per lavoratori impegnati nella produzione e ricercatori, può essere
scritto anche in termini di profitto atteso dell’innovazione:
195
𝜔 = 𝜆 𝜋(𝛾)

Ora, risolviamo il problema di massimizzazione del profitto dell’impresa rispetto al


livello ottimo di lavoratori impegnati nella produzione:

𝑚𝑎𝑥 𝜋(𝛾): 𝛾𝐴𝑋𝛼 − 𝜔𝑋 = 0


𝑋
1
𝜔 𝛼−1
𝛼𝛾𝐴𝑋 (𝛼−1) − 𝜔 = 0 → 𝑋∗ = ( )
𝛼𝛾𝐴

Sostituiamo il livello ottimo 𝑋 ∗ nella funzione di profitto:


(𝛼−1) 𝜔
𝜋 ∗(𝛾) = 𝑋 ∗ [𝛾𝐴𝑋 ∗ − 𝜔] → 𝜋 ∗ (𝛾) = 𝑋 ∗ [𝛾𝐴 − 𝜔]
𝛼𝛾𝐴

1−𝛼
𝜋 ∗(𝛾) = 𝑋 ∗𝜔 → profitto ottimo in corrispondenza della scelta ottima di
𝛼
lavoratori impegnati nella produzione.

Ricordiamo che:
1−𝛼
𝜔 = 𝜆𝜋(𝛾) → 𝜔=𝜆 𝑥 ∗𝜔
𝛼

1 𝛼
𝑥∗ = → livello ottimo di lavoratori impegnati nella produzione
𝜆 1−𝛼

1 𝛼
𝑁∗ = 𝐿 − → livello ottimo di lavoratori impegnati nel processo
𝜆 1−𝛼
innovativo18

Infine, possiamo calcolare il tasso di crescita dell’economia:

𝑔 = 𝜆 (𝛾 − 1)𝑁

L’economia cresce se ci sono incrementi di produttività e, se ci sono incrementi di


produttività, il guadagno è (𝛾 − 1). Gli incrementi di produttività dipendono
positivamente dalla probabilità di innovare (𝜆) e da quanti lavoratori sono destinati
all’innovazione (𝑁). Di fatti la probabilità è per ogni unità di lavoratore impegnato:
più ci sono lavoratori più 𝜆𝑁 sarà elevato. Quindi tutto dipende dalla funzione di
produzione, dalla probabilità di innovare e da quanto è grande la forza lavoro.

18
L’allocazione ottimale di X e N dipende esclusivamente dalla probabilità che si verifichi l’innovazione 𝜆 e
non anche dalla produttività aggiuntiva 𝛾.

196
Conclusioni di politica economica derivanti dal modello:
• Il processo di innovazione si realizza con le imprese che innovano e si
appropriano delle rendite derivanti dalle innovazioni. Occorre, quindi,
incoraggiare le imprese ad innovare, anche se si pone al riguardo un problema
di incoerenza temporale: la politica ottimale ex-ante è diversa dalla politica
ottimale ex-post. Si pensi, ad esempio, al sistema dei brevetti.
Ex-ante: è ottimale dire alle imprese che, in caso di innovazioni, esse avranno
il massimo vantaggio possibile derivante dall’innovazione. Ad esempio,
estendendo il periodo in cui il brevetto garantisce monopolio e, dunque, il
periodo in cui nessun’altro potrà usufruire della nuova tecnologia. La
completa appropriabilità delle rendite derivanti dall’innovazione, spinge le
imprese verso l’innovazione e determina, quindi, maggiori innovazioni.
Ex-post: Una volta che le innovazioni sono state realizzate, però, è ottimale
diffondere la conoscenza in modo tale da creare vantaggi per tutti.
L’appropriabilità completa delle rendite, infatti, crea un monopolio per
l’innovatore e determina una perdita di benessere per i consumatori costretti a
pagare prezzi più alti. Ex-post, quindi, sarebbe ottimale revocare il brevetto al
fine di diffondere i benefici dell’innovazione. Ma se l’impresa si aspetta la
revoca del brevetto, non innoverà per cui ci saranno meno innovazioni e una
minore crescita di lungo periodo.
• Se gli incrementi di produttività e, dunque, la crescita derivano dal processo
innovativo, occorre favorire le imprese innovative e non rallentare il processo
di “distruzione creatrice” schumpeteriano: in quest’ottica alcune politiche volte
ad aiutare e sostenere imprese in declino, qual è, ad esempio, la politica della
cassa integrazione, non hanno senso poiché si limitano a ritardare l’uscita dal
mercato delle suddette imprese, rallentando il processo innovativo.

New growth theory: Le nuove teorie della crescita, diversamente dalle altre, non
si limitano a considerare la funzione di produttività aggregata; esse considerano
elementi aggiuntivi suscettibili di influenzare la crescita di lungo periodo.
Ragioniamo, ad esempio, su due possibili elementi: il ruolo del commercio
internazionale e dei fattori geografici.

1. Il commercio internazionale favorisce la crescita: perché?

197
Innanzitutto, per istinto di sopravvivenza: l’apertura dei mercati internazionali
alimenta fortemente la concorrenza e la concorrenza, a sua volta, spinge le
imprese ad innovare per rimanere competitive.
Inoltre, l’apertura dei mercati determina un aumento delle rendite derivanti
dalle innovazioni. Di fatti, una volta che l’impresa riesce a realizzare
un’innovazione, venderà in un mercato molto più ampio.
Un ulteriore meccanismo derivante dall’apertura dei mercati che favorisce la
crescita è il trasferimento delle tecnologie da un Paese all’altro.
Infine, occorre ricordare le economie di scala: la possibilità di vendere in più
mercati favorisce, infatti, il raggiungimento di economie di scala, aumenta
l’efficienza produttiva e determina, così, una maggiore crescita di lungo
periodo.

2. Fattori geografici: Vi è un’intera classe di modelli basata sul trade-off tra


agglomerazione e dispersione dell’attività produttive.
Vi sono elementi che suggeriscono come economie di agglomerazione,
caratterizzate da imprese vicine tra loro, favoriscano la crescita. Più si creano
mercati unici, più è facile sfruttare i vantaggi derivanti dall’agglomerazione
industriale (economie di scala); d’altro canto, però, va anche detto che mercati
unici aumentano la probabilità di shock asimmetrici settoriali e nazionali.
Ad essere vantaggiosa, poi, è anche la vicinanza ai consumatori. Di fatti, se vi
sono produzioni concentrate ma mercati dispersi e se i costi di trasporto sono
elevati, i prodotti arriveranno comunque a prezzi elevati ai consumatori.
In conclusione, c’è una continua tensione tra agglomerazione e dispersione.
I fattori geografici possono spiegare perché alcuni Paesi o alcune zone di un
Paese crescono maggiormente rispetto ad altri: si pensi, ad esempio, a Paesi
con bassi costi di trasporto; essi, differentemente da Paesi o zone con elevati
costi di trasporto, possono permettersi di agglomerare le attività produttive,
sfruttandone tutti i vantaggi derivanti quali le economie di scala.

198
Lezione 34 18/12/18

POLITICHE DELLA CRESCITA


New growth theory

Le nuove teorie della crescita, diversamente dalle altre, non si limitano a considerare
la funzione di produttività aggregata; esse considerano elementi aggiuntivi suscettibili
di influenzare la crescita di lungo periodo.

Il ruolo delle istituzioni.


Si tratta di vincoli creati dall’uomo in grado di condizionare le interazioni tra
individui. Molte istituzioni giocano un ruolo fondamentale nella crescita di lungo
periodo. L’idea di base è che migliori sono le istituzioni, maggiori sono le risorse che
possono essere incanalate per investimenti di lungo periodo poiché minori sono le
risorse impiegate per sopperire a problemi causati da cattive istituzioni.
Consideriamo alcuni elementi istituzionali che condizionano la crescita economica:

Burocrazia → corruzione (red tape): Taluni burocrati hanno il potere di negare una
licenza o rallentare processi amministrativi. Dunque, essi potrebbero approfittarsene,
estorcendo denaro in cambio dell’avvio della procedura burocratica.

Contract enforcement: Efficienza dei tribunali nel far rispettare i contratti. In un


famoso studio di Shleifer e collaboratori, si cerca di quantificare il tempo impiegato
dai tribunali per far rispettare un contratto. È chiaro come il tempo impiegato e,
dunque, l’efficienza dei tribunali possa influenzare la crescita di lungo periodo: se i
tribunali non sono efficienti, diviene difficile e costoso far rispettare i contratti,
motivo per cui ne verranno conclusi di meno; dunque, ci saranno minori investimenti
e ciò si rifletterà, inevitabilmente, sulla crescita di lungo periodo.

Regolamentazione dei mercati: La regolamentazione crea delle barriere all’ingresso


per coloro che vogliono entrare nel mercato; barriere quali, ad esempio, la
concessione licenze o il pagamento di somme alle autorità pubbliche. Maggiori
barriere creano, quindi, una maggiore protezione. Ciò, ovviamente, favorisce coloro
che sono già presenti sul mercato, incrementando le loro rendite a causa di una scarsa
concorrenza. D’altro canto, sfavorisce i consumatori che, proprio a causa della scarsa
concorrenza, si ritroveranno a sostenere prezzi più elevati.
Va detto, inoltre, che un mercato fortemente regolamentato ostacola il processo
innovativo: le imprese, infatti, si sentono protette dalla scarsa concorrenza; esse non
temono un’uscita dal mercato e, conseguentemente, non sentono alcuno stimolo
199
all’innovazione. Nel lungo periodo, questo si traduce in una minore crescita. È chiara,
quindi, l’importanza della deregolamentazione.
Quello appena descritto è solo uno dei due aspetti che caratterizza la relazione tra
concorrenza e regolamentazione; altro aspetto concerne le rendite: una maggiore
competizione, riduce le rendite derivanti dall’innovazione; d’altro canto, però, una
competizione pressoché inesistente annulla quasi del tutto l’innovazione.

Rischio di espropriazione: possibilità che uno Stato espropri un’attività economica.


Nel contributo di Shleifer, La Porta e Vishny precedentemente citato, viene
individuato un importante fattore storico connesso all’esistenza di istituzioni
maggiormente favorevoli alla crescita di lungo periodo: le legal origins (origini
legali) e, in particolare, la differenza tra Paesi con una tradizione di common law
(Inghilterra, Stati Uniti) e Paesi con una tradizione di civil law (Francia, Italia).
Qual è la differenza tra le due tradizioni giuridiche?
La civil law si caratterizza per l’esistenza di moltissime leggi scritte; essa, inoltre,
vive un forte controllo statale e, di conseguenza, una maggiore regolamentazione.
Nell’ambito della common law, invece, vi sono pochissime leggi scritte coincidenti
con i fondamentali principi generali del diritto. Un ruolo fondamentale è assegnato
alla giurisprudenza. Si tratta di Paesi orientati alla protezione dei diritti di proprietà
individuale e alla risoluzione delle liti. Essi, quindi, hanno performance di crescita
migliori poiché le istituzioni favoriscono l’attività economica individuale al contrario
di ciò che avviene nei Paesi tradizionalmente caratterizzati dalla civil law, ove il forte
controllo statale sfavorisce l’attività economica individuale e la crescita.
Questa teoria ha dato origine a un dibattito tuttora in corso: la legal origins si
configura davvero quale unico fattore in grado di influenzare la qualità delle
istituzioni?
Innanzitutto, vi sono Paesi, quali l’India o la Cina, che hanno tradizioni legali
difficilmente orientabili nell’ambito di questa classificazione. Ulteriore problematica
riguarda il possibile disallineamento tra legge e consuetudine: non sempre il
funzionamento delle istituzioni riflette quanto previsto dalla legge scritta.
Infine, non si può non considerare che, secondo questa teoria, la crescita dipende
esclusivamente da un fattore storico, non soggetto a cambiamenti, il che non spiega
perché alcuni Paesi, ad un certo punto, inizino a crescere. → teoria limitata.

Teoria della distanza dalla frontiera - Acemoglu, Zilibotti.

Non è detto che vi sia una tipologia di istituzioni universalmente associata ad una
crescita maggiore. Tutto dipende dal livello di sviluppo del paese: vi sono istituzioni
non adatte a Paesi tecnologicamente avanzati che, invece, funzionano bene in Paesi

200
distanti dalla frontiera tecnologica. Ciò dipende dal fatto che i Paesi
tecnologicamente arretrati crescono attraverso l’imitazione dei Paesi più avanzati
mentre quest’ultimi possono crescere solo mediante l’innovazione. Dunque essi
beneficiano di istituzioni diverse: Paesi più distanti dalla frontiera devono godere di
istituzioni che facilitino l’imitazione, ad esempio favorendo il trasferimento
tecnologico o, ancora, riducendo la protezione dei brevetti; nei Paesi alla frontiera,
invece, le istituzioni devono favorire le innovazioni mediante la detassazione degli
investimenti in ricerca e sviluppo o, ancora, incrementando la protezione della
proprietà intellettuale. In definitiva, le istituzioni sono proporzionali al livello di
sviluppo dei Paesi.
Interessante anche il ruolo dell’istruzione rispetto a questa teoria. In Paesi distanti
dalla frontiera, appare più opportuno incentivare l’istruzione di base (scuola
elementare, media e superiore). Al contrario, in Paesi alla frontiera, è meglio investire
in istruzione universitaria e post universitaria.

Il ruolo della ricerca e sviluppo: L’innovazione dipende da quante risorse sono


destinate a ricerca di base e ricerca applicata. Più vi sono investimenti, più vi sarà
innovazione e crescita nel lungo periodo. Dunque, la detassazione degli investimenti
e il finanziamento della ricerca di base sono entrambe politiche che, nel lungo
periodo, possono determinare una crescita.
Un altro aspetto importante concerne, come detto, la protezione e la legge sui
brevetti. Di fatti, la tecnologia, nel lungo periodo, si migliora non solo mediante gli
investimenti in ricerca e sviluppo ma anche mediante istituzioni in grado di
proteggere la proprietà intellettuale. Più si proteggono i diritti degli innovatori,
assicurando la lunghezza del monopolio, più vi saranno rendite elevate ed incentivi
all’innovazione. D’altro canto, però, una maggiore protezione impedisce la diffusione
delle innovazioni, favorevole alla crescita. C’è, quindi, un trade-off da considerare.

Il ruolo dello Stato imprenditore: Da un lato, nessuno contesta l’opportunità di


investimenti pubblici in infrastrutture fisiche (infrastrutture complementari): essi
incrementano il commercio, ampliano i mercati e, quindi, determinano crescita.
Dall’altro, però, si contesta il ruolo attivo dello Stato. Per quanto vi siano esempi
storici di crescita elevata associata ad un ruolo attivo dello Stato, quest’ultimo è
molto rischioso poiché, quando si parla di decisioni pubbliche, ovvero prese da un
soggetto eletto, non è detto che esse siano orientate al profitto di breve periodo e alla
crescita di lungo periodo. Le politiche potrebbero essere orientate, piuttosto, alla
massimizzazione del consenso elettorale e della probabilità di rielezione. In
quest’ottica, un soggetto pubblico potrebbe, ad esempio, essere meno orientato a

201
massimizzare i profitti e più orientato a massimizzare l’occupazione data la capacità
di quest’ultima di attirare consensi.

Il ruolo dei mercati finanziari: qual è l’influenza dei mercati finanziari sulla
crescita di lungo periodo? E quali sono i canali attraverso cui esercitano
quest’influenza?

- Il primo canale è dato dal costo del capitale.


La crescita dipende dall’accumulazione di capitale (modello di Solow); per
accumulare capitale, è necessario che i mercati finanziari funzionino adeguatamente:
più è basso il costo del capitale, più vi saranno investimenti di lungo periodo.
Dunque, politiche volte ad abbassare il costo del capitale, favoriscono gli
investimenti, l’accumulazione di capitale e, conseguentemente, la crescita.

Come si può ridurre il costo del capitale?

• PM espansiva: riduce il costo del finanziamento per le imprese.


• PF: detassazione degli investimenti o riduzione degli interessi sui mutui.
• Intervento diretto dello Stato: concessione di fondi.
• Intervento indiretto dello Stato: garanzie pubbliche agli investimenti.
Il problema della concessione di fondi (intervento diretto) è che essa rappresenta
una redistribuzione arbitraria; nel decidere a chi concedere fondi, infatti, si compie
una scelta arbitraria basata su previsioni: ad esempio, si finanzia un settore poiché
si prevede che da esso deriveranno i maggiori aumenti di produttività. In questo
modo, però, si falsa anche la concorrenza poiché taluni settori sono favoriti
rispetto ad altri. Al contrario, una garanzia pubblica è meno forte rispetto ad un
investimento diretto, anche se i problemi di opportunità sono gli stessi: la scelta
circa i destinatari delle garanzie potrebbe sembrare una politica di redistribuzione
e, dunque, un favore politico.
Ad ogni modo, la concessione di garanzie appare particolarmente opportuna per le
start up ovvero per le nuove imprese che cercano di affermarsi sul mercato con
tecnologie ed idee nuove. Si tratta, infatti, di imprese rischiose poiché non è facile
capire se le nuove tecnologie saranno o meno in grado di affermarsi. Per questa
ragione, le start up hanno spesso problemi di accesso al mercato del credito.
(Modello schumpeteriano: le imprese innovative si affermano, crescono e
aumentano la produttività aggregata; tuttavia, questo processo necessità di
capitale; se le piccole imprese non hanno accesso al credito, non hanno capitale e,
conseguentemente, si inceppa il processo di distruzione creatrice. Da ciò la
necessità di fornire garanzie alle nuove piccole imprese tecnologiche.)

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• Deregolamentazione dei mercati finanziari: una maggiore regolamentazione
aumenta i costi operativi di finanziamento che deve sopportare una banca. Ci sarà,
quindi, un spread più elevato tra il costo a cui si finanzia la banca e il costo a cui
essa finanzia gli imprenditori. Lo spread più elevato determina, a sua volta, un più
elevato costo di finanziamento per cui vi sarà una minore domanda di fondi e di
investimenti; conseguentemente, una minore accumulazione di capitale e, infine,
una minore crescita di lungo periodo.
Dunque, deregolamentare significa ridurre i costi operativi per la banca, favorire
l’accesso al credito e la crescita (tipica argomentazione Washington consensus).
D’altro canto, però, va detto che un’eccessiva deregolamentazione aumenta il
rischio sistemico; ciò genera una maggiore volatilità macroeconomica e può
portare ad una riduzione degli investimenti e della crescita di lungo periodo.
In definitiva, non è del tutto chiaro se la deregolamentazione sia o meno
opportuna.

- Il secondo canale è dato dal livello di risparmio interno.


Se i mercati finanziari sono aperti, non necessariamente risparmio ed investimento
coincidono. Eppure, per quanto possano discostarsi, è stato osservato che, nella
maggior parte dei casi, essi continuano ad essere vicini. Sono, dunque, correlati
(home buys): più alto è il risparmio interno, più alto è l’investimento interno. Per
avere un investimento interno più alto, quindi, si può aumentare il risparmio
interno, ad esempio aumentando il risparmio pensionistico. Il problema delle
politiche di aumento del risparmio interno è la loro impopolarità: un aumento del
risparmio, equivale ad una riduzione del consumo di breve periodo (per spostare il
consumo ad un periodo futuro) e, dunque, del consenso elettorale.

- Il terzo canale è l’allocazione del capitale.

Se il sistema finanziario funziona correttamente è in grado di allocare il risparmio


al suo utilizzo migliore: l’allocazione del capitale al suo uso più produttivo
determina, di per sé, una crescita di lungo periodo. Ciò, però, non sempre è vero:
ad esempio, spesso le attività innovative sono le più redditizie ma anche le più
rischiose, motivo per cui non ricevono fondi; ancora, spesso i fondi vengono
impiegati in investimenti speculativi che non hanno nessuna ricaduta reale
sull’aumento di produttività.

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Rapporto politiche di breve e lungo periodo.
Ci sono delle interazioni fondamentali tra politiche di breve periodo, volte alla
riduzione di fluttuazioni cicliche, e politiche di lungo periodo, volte ad
incentivare il trend di crescita del GDP e di altre importanti variabili. Di fatti, per
quanto le suddette politiche siano slegate tra loro, le decisioni di breve periodo
sono in grado di influenzare la crescita di lungo periodo. Perché?

1. Come si è anticipato in precedenza, una minore volatilità macroeconomia


(riduzione delle fluttuazioni), di per sé, determina una maggiore crescita poiché
riduce i comportamenti prudenziali e favorisce gli investimenti di lungo
periodo. Di fatti, una maggiore volatilità genera incertezza, portando ad un
aumento del risparmio e ad una riduzione di consumi e investimenti.
2. Un ulteriore ragione è data dall’isteresi della disoccupazione: una recessione
prolungata equivale ad una aumento della disoccupazione; più i disoccupati
restano tali, meno sono occupabili. Ne deriva che una recessione oggi può
determinare una disoccupazione di lungo periodo. Dunque, le politiche
anticicliche di breve periodo sono fondamentali per ridurre la disoccupazione e
aumentare l’output di lungo periodo.
3. Infine occorre ricordare il processo schumpeteriano: in recessione, se non vi è
un adeguato finanziamento per le imprese innovative, essere non sono in grado
di crescere; più si prolunga la recessione, più si rallenta il processo di
distruzione creatrice.

Conclusivamente, la teoria della crescita è stata e continua ad essere tuttora uno dei
campi maggiormente caratterizzati da ricerca e sperimentazione. Vi sono disparate e
molteplici teorie circa i fattori in grado di influenzare la crescita di lungo periodo. Il
problema di tutta questa letteratura sta nella sua difficile identificazione empirica; in
altre parole, determinare il rapporto di causa-effetto tra i suddetti fattori e la crescita è
praticamente impossibile. Consideriamo il ruolo delle istituzioni di cui si è
precedentemente parlato: sono le istituzioni che determinano la crescita o è la crescita
che determina istituzioni migliori? Sono i Paesi ricchi che, in quanto tali, hanno dato
vita a delle istituzioni migliori o, al contrario, sono quest’ultime che, già esistenti,
hanno creato ricchezza per il Paese? Non è facile dare una risposta; non è facile
stabilire gli effetti di fattori determinanti la crescita quali, per l’appunto, le istituzioni.
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Si pensi, ad esempio, alla Cina. Essa sta crescendo moltissimo seppur caratterizzata
da un sistema democraticamente carente. Molti si aspettano che, prima o poi, il
processo di crescita determini l’affermarsi di una classe media che reclamerà un
sistema maggiormente democratico. In questo caso, quindi, sarebbe la crescita a
determinare istituzioni migliori e non il contrario: come detto, il rapporto di causa-
effetto non è del tutto chiaro.

N.B. Letture consigliate: gli effetti delle politiche del mercato del lavoro sulla
crescita; effetti di fattori storici e geografici sulla crescita.

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