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M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

Medardo Arduino Fabrizio Cortella

Della scienza nella ricerca storica


e dei ricercatori indipendenti.
Lettera aperta ai professionisti ed ai dilettanti del ramo

sull’opportunità di un chiarimento metodologico.

Questo è la scienza: un’esplorazione di nuovi modi per


pensare il mondo. È la capacità che abbiamo di rimettere
costantemente in discussione i nostri concetti. È la forza
visionaria di un pensiero ribelle e critico capace di
modificare le sue stesse basi concettuali, capace di
ridisegnare il mondo da zero.

Carlo Rovelli
fisico teorico quantistico
“HELGOLAND”.
ISBN 978 88 942950 7 8

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M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

Antefatto e pregiudiziali

Ho pensato che dovevo scrivere, con Fabrizio come al solito, questo sfogo, a
lungo represso, per esprimere nella libertà data dalla nostra Costituzione,
all’articolo 21, le mie personalissime opinioni su questo tema. La storia inizia circa
dieci anni fa, quando, cessata la professione, ho finalmente potuto interessarmi a
tempo pieno del mio più grande interesse, la mia “passione”, che coltivo per
“amore” della storia delle vicende umane. Il mio interesse è soprattutto per la storia
della cultura materiale e della cosiddetta “ricerca” in queste tematiche. Questo
interesse ha fatto di me, prima ricercatore poi operatore nel campo delle tecnologie
della meccanica, un ricercatore “amatoriale” nelle discipline della Cultura e delle
“Belle Arti”, ambiti che a tutt’oggi non hanno ancora perimetri precisi e i cui
operatori “professionisti” non dispongono e non sono vincolati dagli strumenti
legislativi costituzionali previsti per le “libere professioni”. Il primo quesito ancora
irrisolto, a mio avviso, è basilare: distinguere che cosa sono la scienza e i suoi
“strumenti procedurali” scientifici da che cosa non lo sono. Il secondo aspetto è
chiarire nel mare magnum delle attività “culturali” quali sono gli ambiti di
esclusiva pertinenza “professionale” e quali quelli di pertinenza anche
“amatoriale”, consentiti dalla libertà di espressione costituzionale. Nel comune
parlare, “amatoriale” è generalmente assimilato a “dilettante”, definizione che -pur
se in questo campo è sinonimo di amatore- è però un termine utilizzato con
significati sminuenti, di persona poco preparata, similmente all’uso generalizzato
di “idiota” (originalmente colui che parla il dialetto locale) inteso come buono a
nulla incompetente. Celiando, siccome parlo tre dialetti, dovrei sentirmi un idiota
al cubo mentre mi interesso di cose che per un’obsoleta tradizione e per una ancora
nebulosa legislazione in materia, sono state accaparrate, quasi fossero un diritto
esclusivo, da alcune categorie di letterati. Per cercare di superare questo stato di
cose, riprendo tematiche che ho già affrontato in passato su questo stesso
argomento, ancora incompiutamente risolto dopo quarant’anni da quando mi resi
conto che la questione esisteva ed aveva un certo peso.

Medardo Arduino

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M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

INDICE

A. Teoria vs prassi…………………………………4
4
A 0. Due esempi pratici della questione “teorica”………………
A 1-L’inquadramento teorico Premesse
di definizione e di metodo………………………………………. 13
A 1.1 Delimitazione degli ambiti……………………………… 13
A 1.2 Il divenire dello scibile umano e la
conseguente “specializzazione”…………………………….
16

B Scienza, storia e loro interazione,


una proposta organica interdisciplinare…………………. 17
B 1 La componente “materiale” della cultura
e della storia…………………………………………………… 17
B 2 La teoria di testimonianza di cultura
dei manufatti…………………………………………………..19
B 2.1 Premesse ad una teoria pertinente alla Storia………….19
B 2.2 Enunciati della teoria………………………………………….. 21
B 2.3 Le qualità invarianti del processo
Manifatturiero…………………………………………………. 23
B 2.3a L’ambiente………………………………………………. 23
B 2.3b Bisogno e requisiti funzionali………………………….. 24
B 2.3c Il progetto del manufatto………………………………. 25
B 2.3d L’orizzonte tecnologico……………………………….26
B 2.3e Corollari dell’orizzonte tecnologico…………………… 28
B 2.3f Proposizione conclusiva…………………………….. 29

C Delle metodologie………………………………….
30
C 1 Lo stato di fatto della ricerca storico archeologica… 30
C 2 Tipologie…………………………………………………… 36
C 2.1 Tipologie base………………………………………………. 36
C 2.2 Sottotipologie……………………………………………. 38

D Conclusioni…………………………………….. 39

Note………………………………………….…… 44
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A. Teoria vs prassi.
A 0 Due esempi pratici della questione “teorica”.
In assenza di un inquadramento teorico, la “lettura” dei lasciti di cultura
materiale del nostro passato è ancora condotta con metodi personali che
danno origine a interpretazioni troppo spesso opinabili, oggigiorno fraintese
come verità scientifiche. Un paio di esempi possono meglio di qualsiasi
preambolo chiarire la situazione.
Il primo caso è quello di un oggetto composito del quale gli esami di
laboratorio hanno fornito la datazione e la natura e provenienza del
componente determinante la funzione. Ė il caso dell’“ascia” del corredo
dell’Uomo del Similaun, ribattezzato Oetzi.
Quest’uomo preistorico possiede una attrezzatura mista di strumenti
litici e metallici, è vestito e calza stivali in corteccia di betulla. Aveva con se
un arco ligneo con faretra di frecce, un coltello di selce con manico e
fodero, di buona fattura come molti oggetti simili sparsi dappertutto in
Europa. Notevole è l’attrezzo immanicato più caratteristico, un oggetto
all’avanguardia della tecnica, costituito da un’impugnatura o manico di
legno ed una parte attiva o testa in rame quasi puro. A proposito di questo,
prima delle considerazioni tecniche una considerazione economica: Oetzi
deve saper far ben fruttare la sua abilità nel mestiere e si può permettere il
meglio per la massima resa del suo lavoro. L’attrezzo che possiede è molto
diffuso in vari territori Europei, con la stessa forma e le stesse soluzioni
realizzative, ma raro come quantità di ritrovamenti perciò rientra in una
tipologia caratteristica con evidenze di specializzazione costruttiva, perciò
un luogo d’origine specifico, e non può essere un prodotto del bricolage del
cacciatore. Il componente di pregio che determina la classificazione
tipologica è la testa, il codolo tagliente in rame. Osservando l’attrezzo si
può considerarne l’attitudine all’uso per cui è stato progettato e realizzato.
Il codolo metallico è di forma vagamente piramidale, con la sezione
longitudinale del lato largo di forma trapezoidale, mentre quella del lato
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minore è pressappoco un cuneo col vertice coincidente con la base


maggiore del trapezio. Il blocchetto di rame è fissato all’estremità del
manico dell’attrezzo con una guancia di legno stretta da una legatura. La
parte sporgente della testa dell’attrezzo offre il lato largo rastremato del
codolo in rame, che è la parte attiva affilata, tagliente quando maneggiata.
Sappiamo che il rame quasi puro è uno fra i metalli più duttili e malleabili:
con la cura del caso, il bordo, per una larghezza di pochi millimetri, può
essere martellato e lisciato con attrezzi di pietra fino ad avere all’estremità
uno spessore inferiore al decimo di millimetro, decisamente tagliente, come
dovevano esserlo i bisturi dei chirurghi citati nella stele di Hammurabi.
La foggia è apparentemente simile a quella delle scuri od asce,
tipologie di manufatti funzionali al taglio dei legnami ed ad usi in conflitti
militari, queste ultime realizzate però con occhio d’incastro su manici più
lunghi. Così foggiato l’utensile è un oggetto delicato, la parte attiva è
facilmente deformabile e non si presta affatto alla funzione delegata alle
asce o scuri da guerra il cui compito è di fare danno quando impattano un
corpo solido mediante un fendente vibrato con forza. Con tale gesto, il
codolo tagliente del nostro attrezzo, se il colpo è ben portato, penetrerebbe
profondamente in un materiale come il legno di uno scudo o fra le costole di
un nemico, rimanendone infisso e separandosi dal manico quando si cerca
di estrarlo, visto che il fissaggio è su piani inclinati in modo sfavorevole alla
stabilità, in altre parole il codolo in rame sguscerebbe dal suo fissaggio al
primo colpo, lasciando il “guerriero” con un inoffensivo pezzo di legno in
mano.
Consideriamo anche che, per colpire con un attrezzo lungo una
quarantina di centimetri, si deve entrare nella guardia dell’avversario, il
quale se ha anche un semplice randello lungo un metro e mezzo, sarà il
primo a colpire, e se è così pronto da intercettare proprio la “scure” la
scompone con un sol colpo. Oetzi è emblematico del Cuprolitico, la
transizione fra le Età della pietra e dei metalli: nonostante lo stereotipo
dell’uomo armato, non è un guerriero, è un cacciatore di stambecchi a
giudicare dal luogo e dall’ultimo pasto. Questo direbbe un’analisi struttural-
funzionale dell’attrezzo che, nel contesto ambientale delle Alpi, considerata
la poca vocazione agricola e l’evidente possibilità di essere una zona di
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caccia, si attaglia perfettamente ad un cacciatore del Cuprolitico visti anche


gli attrezzi e l’abbigliamento.
L’analisi della semplice facies, l’apparenza esteriore del manufatto, la
prassi che si generalizzò al nascere organico dell’Archeologia, ne ha fatto
invece il prototipo di un’arma. La metalloscopia ha rivelato che il codolo è
originario di Campiglia Marittima in Toscana, dove esemplari simili erano
classificati nella Cultura di Remedello. Portatori di questa cultura sarebbero
state anche le tribù di guerrieri vaganti venuti dal sud che avrebbero
scacciato i pacifici agricoltori delle pianure della Cultura Carpatico-
Danubiana dalle loro long houses, comportandosi allo stesso modo dei
“guerrieri predoni” di Remedello. I poemi epici classici devono aver
esercitato un forte influsso sulle interpretazioni degli archeologi che,
continuando una tradizione storiografica anche barocca, vedono guerrieri
dappertutto e la guerra una ragione di spostamenti di intere comunità. Una
visione meno “Omerica” potrebbe definire questi personaggi, armati con
attrezzi di fattura simile a quello di Oetzi, dei cacciatori seminomadi
stagionali che come lui usavano questo utensile per scuoiare le catture con
la dovuta perizia e attenzione per non danneggiare il valore delle pelli e
pellicce delle loro prede.
Depone a favore di questa ipotesi anche il fatto che Oetzi è stato trovato
solo. Se fosse stato un guerriero, specie se un arciere, sarebbe stato con dei
compagni e la slavina, di certo non leggera, ne avrebbe travolti parecchi. Un
evento meno violento avrebbe fatto si che i sopravvissuti, come sempre
succede, siano andati in aiuto degli infortunati. Oltre queste supposizioni c’è
il mare magnum delle sempre lecite opinioni personali. Concludendo, è
verosimile che nella prima Età del rame la selvaggina fosse abbondante e la
caccia un buon mestiere. Pelli e carni affumicate o salate possedevano un
elevato valore economico unitario ed erano valide merci di scambio con
altri alimenti e con i mercanti della metallotecnica centro-italiana prodotta
in serie nelle città Etrusche e Picene. Dopo l’attrezzo di Oetzi, eccezionale
perché conservava il manico ligneo, codoli in rame simili sono stati ritrovati
in Svizzera ed in Francia, tutti provenienti dalla Toscana. Un “made in
Italy” che il C14 data a 5500 anni fa, testimone, con elevato margine di
confidenza, di una attività manifatturiera che implica commercio a largo
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raggio, che antedata Remedello ed altre culture padane, ne cambia


l’interpretazione culturale e rilocalizza l’origine del Cuprolitico. Purtroppo
dopo gli eclatanti titoli della stampa locale, nessuno ha più pensato, per
quanto ne sappiamo, di aggiornare i libri scolastici su cui studiano i nostri
figli e nipoti.
Proviamo ad analizzare ora un complesso architettonico, fingendo di
ignorare cosa su questo è già stato stampato. Si tratta di una costruzione
seminterrata, di pianta rettangolare con un lato di lunghezza doppia
dell’altro e di circa 2200 mq di superficie. Le descrizioni sono il risultato di
una visita incompleta dell’interno della costruzione e possono essere carenti
di qualche dettaglio. È posta sul fianco di una collina abitata, in basso ed in
prossimità delle mura urbiche della stessa epoca. Il trascorrere dei secoli
l’ha inglobata in superfetazioni e addizioni frontali, ma la tecnica esecutiva
la differenzia da queste. In origine aveva un lato lungo contro terra, e gli
altri due adiacenti interrati artificialmente fino a circa i quattro quinti
dell’altezza, per consentire l’apertura, verso la sommità della parete lunga,
di piccoli oblò per la ventilazione interna. Il lato con l’ingresso era a fronte
libero. L’interno, oggetto di restauri conservativi recenti, è interamente
realizzato in laterizio di dimensioni regolari e di apparente buona qualità per
il colore tendente al rosso bruno. Il congegno murale con allettamenti
regolari e abbastanza sottili è quello tipico della pratica della piena
romanità.
L’architettura consiste di tre vani eguali giustapposti per la lunghezza i
cui setti sostengono le volte a botte anch’esse in laterizio. Questi lunghi
“corridoi” con qualche apertura di intercomunicazione, sono divisi ciascuno
in dieci comparti eguali e regolari da una serie di diaframmi. Tutti i
diaframmi hanno un’ apertura ad arco tondo di egual luce allineata sull’asse
mediano del vano, che consente il passaggio di carriaggi. L’ambiente
ipogeo ha una particolarità distintiva: il pavimento è in leggera uniforme
egual pendenza in tutti i vani, la pendenza segue il lato lungo dell’edificio.
Negli interni, altro caso particolare, le membrature verticali e le volte non
sono intonacate, con i laterizi in faccia vista. L’intera pavimentazione in
pendenza è realizzata in conglomerato di malta impermeabile, il classico
opus signinum dell’edilizia romana, di circa una quindicina di centimetri di
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spessore, come evidenzia un piccolo saggio. L’impermeabilizzazione risale


per circa sessanta-settanta centimetri sui setti verticali e, di nuovo un’altra
situazione particolare, la sigillatura che sale sulle pareti, spessa circa quattro
dita, è accuratamente raccordata al pavimento con un raccordo concavo. Le
“celle” della parete lunga (a sinistra dell’ingresso) che ospita le piccole
prese d’aria esterna hanno il muro contro terra sigillato fino all’imposta
della volta.
Un paio di vani di destra in prossimità dell’entrata, hanno anch’essi i
muri intonacati con malta impermeabile fino all’imposta della volta e solo
su questi si notano i tipici depositi calcarei lasciati dall’acqua ferma.
In una delle prime sale è stata realizzata nel pavimento una canaletta
con sezione ad U larga circa una spanna di pianta circolare di circa tre metri
di diametro, con uno scarico in contropendenza verso il muro dell’entrata.
Nel cielo della cella attigua un foro di sezione circa quadrata, ora
tamponato, indicherebbe il passaggio di una canna fumaria piuttosto che di
una botola. Sulla parete opposta all’entrata, sul lato basso della pendenza
del pavimento, nello spigolo a destra rasoterra, si nota la presenza di fori
circolari tamponati in un piccolo settore di muratura oggetto di molti
interventi.
Questa architettura fa parte di una città-caserma che, dalle fonti scritte
ospitava un paio di legioni romane.
La lettura strutturata delle soluzioni applicate, tenuto in considerazione
l’orizzonte tecnologico romano, indicherebbe innanzitutto una destinazione
d’uso non abitativa ma piuttosto di un particolare magazzino in quanto non
è un luogo finestrato, è praticamente interrato e questa caratteristica è il più
antico modo per creare un ambiente coibentato con minime oscillazioni di
temperatura, un ambiente quale le attuali cantine. In cantina si conservano
gli alimenti, la partizione in 3 settori con muri di spina è una scelta di
razionalità strutturale per realizzare orizzontamenti di luce accettabile (le
volte sono in genere poco sfruttabili per l’immagazzinaggio), ma la
partizione in ben 30 ambienti escluderebbe la cantina per vini o per altri
alimenti conservati in contenitori specifici (doli, anfore, vasi, cassette, botti,
che esse stesse sono i separatori delle merci). La presenza delle grandi
aperture ad arco che caratterizza i diaframmi trasversali, non essendo un
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ambiente destinato alla frequentazione di masse di gente, può essere stata


realizzata per permettere il passaggio di carretti a mano, meno facilmente di
carri a trazione animale. Da questo la movimentazione si può pensare per
colli pesanti o per movimentazioni rapide di colli multipli. La
pavimentazione realizzata con una spessa sigillatura impermeabilizzante
risale per un modesto tratto sui muri, con un particolare raccordo sullo
spigolo pavimento-muro, del tutto simile a quelli prescritti come norma
igienica all’interno degli attuali ospedali. Tale accorgimento lascia pensare
a destinazioni d’uso che richiedano una buona pulizia del pavimento stesso.
Se colleghiamo questo fatto alla pendenza concorde del piano dei pavimenti
verso la parete di fondo l’insieme di queste soluzioni evidenzia
l’assolvimento del requisito di igienizzazione con frequenti lavaggi,
giustificato inoltre dalla presenza di aperture di scarico sul lato basso.
Questa funzione doveva essere determinante perché realizzare un unico
piano in pendenza diagonale in trenta vani giustapposti era una lavorazione
particolarmente impegnativa.
Essere un luogo di deposito di merci imballate di piccola o media
dimensione richiede, per ovvie ragioni di efficiente sfruttamento dei volumi,
di avere delle scaffalature. Queste erano necessariamente lignee per l’epoca,
ma per queste mancano i fori di incastro delle travi orizzontali, caratteristica
della maggioranza dei muri d’ambito dei magazzini a scaffali. Se non ci
sono tracce di scaffali un possibile uso di questo magazzino è per alimenti
non protetti in contenitori specifici. Alimenti non imballati erano in genere
le carni ovine, suine, bovine conservate mediante salatura o affumicatura.
Questi prodotti sono stati conservati da sempre in locali con poca luce,
areati ma non esposti ai venti, con moderata umidità. Tutte le fattorie
almeno fino al secolo scorso conservavano gli insaccati nei locali
seminterrati e freschi, generalmente appesi al soffitto con piccoli
accorgimenti per proteggerli dai roditori. Si sono ancora conservati alcuni di
questi attrezzamenti di cucine e dispense medioevali con piani di deposito
agganciati al soffitto o su alte gambe con un ostacolo costituito da lastre
imbutiformi di minima inclinazione rispetto all’orizzontale, girate intorno ai
sostegni e sufficientemente larghe da costituire un ostacolo invalicabile per i

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roditori. Nel nostro caso si può pensare ad apposite “spalliere” per prodotti
della macellazione, conservati direttamente in atmosfera.
Per quanto riguarda quest’ultima funzione, la canalizzazione circolare
che scarica proprio sul lato opposto alla pendenza, è con una certa evidenza
il luogo dove, (con una pratica ancora vista applicare nel primo dopoguerra)
venivano sgozzati i bovini e lasciati dissanguare a terra, la canalizzazione
aveva il chiaro scopo di evitarne lo spargimento incontrollato su tutto il
pavimento. L’architettura si può perciò ipotizzare con ragionevole margine
di confidenza come mattatoio e deposito di carni bovine e di altri grandi
mammiferi ungulati d’allevamento.
L’insieme delle scelte progettuali e delle tecnicità utilizzate rientra
coerentemente nel quadro dei “bisogni” logistici di una guarnigione di più
di ottomila uomini che devono essere “pronti a muovere” (perdura il detto
“armi e bagagli”) con un minimo preavviso, per ovvie ragioni strategiche.
Sappiamo che la logistica è stata l’arma vincente delle legioni romane, un
capace deposito di carni trattate è in quest’ottica un investimento razionale.
Questo impianto è praticamente l’unico che si è ben conservato perché
non utilizzato con funzioni degenerative a causa dell’obsolescenza, come
avvenne per la stragrande maggioranza delle realizzazioni antiche, essendo
decisamente ben realizzato e staticamente sicuro venne utilizzato come
“cantina” con destinazione d’uso generica fino a tempi recenti, essendo
pienamente rispondente ai principali requisiti funzionali fin dall’origine.

Non è un segreto che questa architettura unica sia a Fermo, ma se non


la si conosce e la si vuole visitare si deve acquistare il biglietto per la visita
guidata delle “Cisterne Romane di Fermo” o andare alla pagina web.
Ritengo che l’aver scambiato un mattatoio per una cisterna sia una
svista vecchia di qualche secolo, di un erudito in studi classici, che le
architetture le studiò sui libri limitandosi a considerare le facciate e qualche
inevitabile similitudine strutturale, opinione che è sempre rimasta tale per
non contestare qualcuno importante. Non intendo entrare in dettagliate
analisi di quanto ancora oggi, causa l’estremo conservatorismo delle
discipline umanistiche, viene scritto nonostante le evidenze, costringendo
gli autori a spiegazioni in deciso contrasto con i più semplici criteri
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economici e funzionali dell’edilizia e dell’idraulica. Una “cisterna” è, per


definizione, un contenitore per la raccolta dell’acqua piovana; per acque
sorgive il contenitore è generalmente detto serbatoio. Per questo le pareti
delle cisterne e dei serbatoi erano e sono impermeabilizzate fino ad un
ragionevole livello sopra quello di normale utilizzo. In passato le malte per
le murature avevano un alto contenuto di calce aerea (più economica di
quella idraulica) perciò non potevano essere a diretto e costante contatto con
l’acqua che le avrebbe depauperate e lentamente sciolte. Le calci idrauliche
erano parsimoniosamente impiegate quando strettamente necessario, ad
esempio per muri contro terra per evitare imbibimento, trafilamenti e
formazione di muffe. Per questo l’impermeabilizzazione con opus signinum
di questi ambienti è stata ristretta al pavimento ed alla base dei muri perché
dovevano essere lavati per i requisiti igienici di un deposito di alimenti non
inscatolati, mentre la parete con gli oblò di aerazione è stata
impermeabilizzata allo stesso modo probabilmente perché più a contatto
con gli agenti esterni. Nelle cisterne romane, per mezzo di dispositivi di
prelievo e scolmamento, l’acqua veniva a contatto solo con le pareti
impermeabilizzate. Utilizzando lo stesso criterio, nel caso questa
architettura fosse stata progettata per essere davvero un contenitore d’acqua,
il livello di utilizzabilità è di poco più di mezzo metro in altezza, perciò
grossomodo un migliaio di metri cubi contro una volumetria utile almeno
dieci volte superiore, per giunta con una immotivata e costosa serie di inutili
diaframmi che contrastavano il fluire del liquido, con un pavimento
inclinato difficile da tracciare e realizzare in quel labirinto di setti e di
alquanto dubbia utilità.
Da un punto di vista economico, da non dimenticare mai, si tratterebbe
di una realizzazione con il cosiddetto rapporto costi/benefici decisamente
deficitario. La struttura è ubicata alla base del recinto murato, nella zona più
bassa, e si sa, l’acqua naturalmente scende e non sale. Non è chiaro, essendo
la “cisterna” in basso, a chi dovesse servire, a meno di andare a prendere
l’acqua con i secchi. Per di più, il sottosuolo della città ospita parecchi pozzi
e tracce delle classiche tubazioni in piombo, quindi un altro tipo di
rifornimento idrico. La parte antica di Fermo è l’unica collina dei dintorni in
cui una falda permeabile consente la realizzazione di pozzi, una tale
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costosissima cisterna dalla volumetria sottoutilizzata sarebbe stata


pressoché inutile. Nel punto più alto della città, il Girifalco, esiste
effettivamente una cisterna antica, sono tre vani separati di modeste
dimensioni, con plafond di un solo metro e mezzo circa, il minimo per far
lavorare i muratori per una razionale utilizzazione, in un territorio che
mediamente raccoglie circa 70 centimetri annui di precipitazioni per mq.
Una ulteriore considerazione si deve fare a riguardo delle due celle che
pressappoco all’inizio del secolo scorso vennero effettivamente sfruttate
come serbatoio idrico (la città è scesa lungo il colle), per questa funzione
vennero impermeabilizzate le pareti fino alle volte e, anche se utilizzate solo
per una ventina d’anni, si notano, come già detto, le incrostazioni tipiche di
questa funzione. L“adattamento” alla funzione, che porta questi pochi vani
ad essere allestiti come le altre cisterne romane note e vicine come Chieti e
Ponza ad esempio, non è servito a far riflettere sull’opportunità di smentire
un superficiale giudizio vecchio di qualche secolo. Si conservano i reperti di
cultura materiale “…perché latori di un messaggio culturale importante….”,
come ho letto da qualche parte. Voler vedere in questo edificio romano un
irrazionale utilizzo di risorse pubbliche per una faraonica “cisterna” nella
parte bassa della città, per raccogliere una minima quantità di acqua piovana
oltretutto proveniente dalle strade, in un agglomerato urbano pieno di pozzi,
è un messaggio che va a tutto discapito della razionalità e del saper fare
della popolazione della Fermo d’età imperiale, o ci sbagliamo?

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A 1-L’inquadramento teorico
Premesse di definizione e di metodo.

A 1.1 Delimitazione degli ambiti

Prima ancora che si autodefinisse Homo Sapiens, come spiegano gli


antropologi e gli studiosi della Preistoria, quale conseguenza della
inferiorità biologica rispetto ad altri animali del creato, l’uomo ha
“cerebralizzato” ovvero intellettualizzato applicando algoritmi di pensiero
per realizzare “estensioni” delle sue performances fisiche producendo
oggetti manufatti. Pare che tutto sia iniziato quando l’uomo si è accorto che
la mano entrava nel suo campo visivo ed aveva pure il pollice opponibile.
Da quel momento l’intellettualizzazione non si è mai fermata ed ha
consentito la nascita di ciò che chiamiamo Civiltà, sviluppandosi in tutte le
direzioni, occupandosi di una enormità di cose, apparentemente le più
disparate ed eterogenee. Gli ambiti e le realizzazioni dell’ingegno umano
non sono, ovviamente, risultati singoli indipendenti, ma i risultati di un
processo che è arrivato al presente attraverso una continua “evoluzione”. Al
contrario dei primi naturalisti i quali, mentre le catalogavano, pensavano
che le specie viventi fossero state create ad hoc da Dio, da Darwin in poi,
invece, le specie viventi sono state considerate evoluzione continua prodotta
da un algoritmo intrinseco in ciascun essere (più o meno il modello
matematico dell’universo contenuto nel D.N.A.). Algoritmo di invenzione
“divina” che ne mutava le caratteristiche per il miglior adattamento al
mutare delle condizioni ambientali. Anche l’evoluzione dei manufatti umani
è avvenuta in modo simile, ovviamente imperfetto e non divino, ed è
anch’essa il prodotto di un algoritmo costante nel tempo. Per chi voglia
approcciare in modo mirato lo studio dell’evoluzione dell’uomo mediante le
sue realizzazioni, è necessario discriminare in macro-gruppi anche i prodotti
dell’ingegno umano, delineandone le evoluzioni come fanno i naturalisti per
lo studio delle specie viventi. Si deve produrre cioè una discriminazione

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finalizzata ad inquadrare l’universo dei manufatti in insiemi


tipologicamente omogenei, perciò investigabili con strumenti metodologici
specifici utilizzabili dalle Discipline della ricerca conoscitiva nei vari
campi d’indagine. Si definisce perciò “campo” (perché non c’è espressione
nostra che meglio aderisca all’espressione internazionale domain),
quell’ambito circoscritto relativo alla ricerca della conoscenza ed alla sua
esposizione strutturata, riferito a quegli insiemi omogenei per tipologia di
contenuti che si differenzino da altri per le caratteristiche intrinseche e
specifiche delle conoscenze stesse e del modo di pervenirvi. Ne discende
che circoscritto ad un dato campo, l’apprendimento ovvero l’indagine
conoscitiva e la condivisione con altri delle conoscenze acquisite come del
loro insegnamento sia definibile “disciplina”.
Facciamo queste precisazioni perché oggi si fa un grande uso e forse
abuso del lemma “scientifico” per caratterizzare prassi e risultati che sono
ottenuti in modo differente da quelli che, almeno nella nostra esperienza
personale. erano generalmente intesi come attività, appunto, scientifiche.
Proponiamo la definizione di “discipline scientifiche” per tutte quelle
attività materiali e intellettuali caratterizzanti l’attività umana dell’Homo
Faber, (prendiamo in prestito tale categoria dall’antropologia culturale),
cioè i campi di quelle discipline che conducono alla realizzazione dei
manufatti mediante pratiche sia intellettuali perciò intangibili, ma normate e
ripetitive (ad es. gli algoritmi matematici) sia quelle meramente manuali. Le
discipline scientifiche, condizione necessaria ma non sufficiente, si
avvalgono della numerabilità delle grandezze come mezzo di valutazione
dei risultati qualitativi intrinseci ad un qualsivoglia processo o fenomeno
fisico, in riferimento a parametri condivisi (internazionalmente gli
“standards” come I.S.O, U.N.I, D.I.N ecc) che consentono di esprimere
valutazioni pressoché oggettive in tutto ciò che, essendo “materiale”
appartiene al campo della fisica dell’universo, ed è scientifico in quanto
oggettivamente misurabile.
Proponiamo la definizione di “discipline umanistiche” per tutte quelle
attività non “misurabili” scientificamente. Sono discipline umanistiche
quelle inerenti le attività intellettuali che, pur costituendo un bagaglio
conoscitivo indispensabile all’umanità, sono prodotti pertinenti l’Homo
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Cogitans (si tratta, stavolta, di una categoria inesistente in letteratura, da noi


introdotta al solo fine di illustrare la distinzione dialettica delle attività
principalmente manuali - dell’homo faber - da quelle principalmente
speculative - dell’homo cogitans- quali la filosofia, la visione artistica, la
visione poetica e l’immaginazione letteraria). L’esistenza di queste attività
nel campo delle discipline umanistiche è complemento irrinunciabile di
quell’insieme globale di ogni manifestazione dell’ingegno umano che sono
comprese e si esprimono nel vocabolo “cultura”.

Non riteniamo che “cultura” sia stata mai sinonimo o equivalente o


corrispondente di “scienza”, e che confonderle sia un errore pregiudiziale
in quanto la scienza è solo una parte della cultura. Rigettiamo l’attuale
definizione restrittiva di “cultura” così riassumibile: l’insieme di
conoscenze squisitamente intangibili dei campi linguistico, letterario e
talvolta artistico, nettamente separate dalle conoscenze tecnologiche,
considerate un campo di livello conoscitivo inferiore e il “manifattore”,
impersonato riduttivamente sempre e solo dalla figura dell’artigiano, il
detentore di un sapere pratico al di fuori della cultura stessa. Nel divenire
dell’uomo è stato il “saper fare” ( savoir faire oppure know how ) che ha
progressivamente liberato l’uomo dal solo e permanente assillo della
sopravvivenza, consentendogli di “pensare ad altre cose belle”. Aristotele
non avrebbe potuto filosofeggiare passeggiando sotto i portici di Atene
senza un ricco produttore o commerciante di beni materiali che lo
mantenesse.
Similmente non si devono confondere fra loro le due componenti
dell’”insieme cultura” cioè, come già detto, il campo scientifico col campo
umanistico, quest’ultimo inteso come l’insieme di conoscenze e di pratiche
intellettuali non direttamente e strettamente connesse alla “cultura
materiale”.
Questi due campi fanno un utilizzo nettamente differente delle
metodiche e delle parametrizzazioni. Ad esempio la profonda differenza
metodologica che corre fra una diagnosi medica ed una dissertazione
morale, la prima supportata da osservazioni di aspetti fisici e da esami di
laboratorio, la seconda da opinioni costruite sull’esperienza umana.
15
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

A 1.2 Il divenire dello scibile umano e la conseguente


“specializzazione”.

Una visione onnicomprensiva dettagliata ed esaustiva della storia


dell’uomo non è più raggiungibile da una sola mente. Ė perciò
indispensabile restringere il raggio d’azione personale per consentire la
“specializzazione” prestando attenzione a non causare, come spesso
avvenne ed avviene, confusione di campi e di ruoli specialistici. Tutte le
discipline concorrono all’insieme “cultura” perciò, nelle aree di contatto fra
i singoli campi, dovranno essere chiare le caratteristiche necessarie
all’”interfacciamento” anziché alla collisione dei risultati, soprattutto fra le
branche scientifiche ed umanistiche che hanno differenti metodi conoscitivi.
Per esemplificare: se guardiamo all’operato del più grande genio universale
del passato Leonardo, saremmo portati a pensare che disperse in ogni
direzione la sua intelligenza anziché concentrarla su una “specializzazione”.
Riteniamo invece che il genio di Vinci abbia operato in una sola
direzione: la Ricerca e che, per ottenere i risultati che sappiamo, abbia usato
un solo costante metodo logico di indagine “scientifica” in tutte le direzioni
della sua incessante ricerca; dall’ingegneria militare all’analisi
antropologica, dallo studio della meccanica del volo, a quello
dell’introspezione del carattere ovvero della personalità umana analizzando
gli indicatori che sono “dipinti sul volto”. Leonardo si è sempre misurato
con le manifestazioni della fisica che nelle sue leggi ineluttabili manifesta il
potere divino, l’unica entità in grado di perpetrare la trasformazione
dell’energia con rendimento uno. Verità che Lavoisier tentò di descrivere
con la frase “nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma” e che
Einstein cercò di dimostrare legando matematicamente il rapporto fra le
varie manifestazioni dell’energia. Le semplici equazioni di Lavoisier e
Einstein dimostrano che una unica legge universale produce tutte le
manifestazioni della fisica; forse Leonardo lo comprese, genio qual’era, e
utilizzò l’algoritmo logico che ne discende in tutte le direzioni delle
manifestazioni tangibili appunto della Fisica.

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M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

B - Scienza, storia e loro interazione, una proposta


organica interdisciplinare.

B 1 -La componente “materiale” della cultura e della


storia
Il divenire dell’uomo è raccontato dalla storia, disciplina precipua degli
storiografi che si avvalgono talvolta delle discipline scientifiche. Esse
offrono spiegazioni non esplicite ad una componente assolutamente
essenziale della storia dell’uomo, la “cultura materiale”. Col connubio di
queste due parole entrato nell’uso corrente nei due secoli scorsi, si
raccolsero e si strutturarono empiricamente quelle informazioni sull’Homo
faber essenzialmente contenute nella sola apparenza dei manufatti,
interpretata dalla formazione culturale e filtrata dalla sensibilità di chi se ne
occupava, pratiche empiriche utilizzate principalmente dalla nascente
archeologia. Nelle pubblicazioni spesso si contrabbandarono assunti
estemporanei o contingenti incapaci di “funzionare”, ovvero di riproporsi
sistematicamente sempre secondo la stessa aggregazione logica, per risultati
di una teoria (la cui definizione è la trattazione sistematica discendente da
principi dai quali si può ricavare un procedimento o metodologia atta ad
interpretare fatti o prevederne di nuovi). In altre parole all’analisi
sistematica, che produce risultati confrontabili, si sostituirono spesso
considerazioni eterogenee, frutti occasionali di pretese “teorie”, utilizzate
specialmente nella lettura delle componenti intangibili dei manufatti. In
sintesi opinioni personali fraintese spacciate per scientifiche.
Questa assenza di inquadramento del problema ovvero la mancanza di
uno strumento teorico chiaro, in passato permise che gli aspetti scientifici
insiti nella cultura materiale fossero stimati di esclusiva pertinenza delle
discipline umanistiche in quanto prodotti “dell’arte”, quasi che tale attività
creativa potesse essere svincolata dalla scienza e dalla tecnica. Infatti
l’insegnamento medio-superiore si articola sulla distinzione tra Istituti
tecnici, Licei classici, scientifici e artistici. Fino agli inizi degli anni ’60 del

17
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

secolo scorso, gli Istituti tecnici erano considerati produttori di un sapere di


rango inferiore ai licei, in quanto pur essendo diplomi quinquennali di
scuola media superiore con tanto di esame di stato, non consentivano
l’accesso alle discipline universitarie eccetto una. Attualmente
l’insegnamento universitario ancora colloca le discipline archeologiche
nella facoltà umanistica di Lettere e Filosofia. Tale semplificazione,
anch’essa testimonianza della cultura tardo barocca, continua a lasciare
spazio ad interpretazioni personali e, quindi, opinabili, in merito alla
componente funzionale, intangibile, di un manufatto; la cui caratteristica è
sì opera dello spirito creativo dell’uomo, ma non è un contenuto umanistico
perché è inscindibile dal contesto tecnologico-materiale. La possibilità di
realizzarne le componenti intangibili è consentita o condizionata da entità
materiche che sono misurabili scientificamente. Ciò è vero quando i
manufatti non sono “pezzi unici”, ma sono classificabili in “tipologie”
specifiche ovvero presentano qualità ricorrenti in soggetti sostanzialmente
simili fra loro.
Il legame fra la testimonianza fisica tecnologica della materia
“lavorata” e la testimonianza di aspetti, sempre legati al manufatto, ma
intangibili, è un legame sempre dimostrabile perché manufatti differenti fra
loro non possono essere latori degli stessi contenuti funzionali cioè di
destinazione d’uso (quindi requisiti intangibili) o viceversa. Ad esempio la
tipologia del colino e quella del mestolo si somigliano come forma, ma non
hanno funzioni scambiabili. Ė utile a questo punto inserire anche la casistica
dei prodotti solo intangibili, ma legati inscindibilmente ad uno specifico
manufatto. Consideriamo un forno domestico a microonde ovvero un
manufatto che è sempre accompagnato da un prodotto intangibile quale è il
manuale d’uso e manutenzione, “intangibile” perché costituito da sole
parole, ma non vivente di vita propria come un trattato di filosofia o un
romanzo, i quali invece non hanno alcun legame neppure con i supporti
materiali su cui sono impressi (stampati o registrati elettronicamente) Il
manuale, privo di senso se utilizzato senza il forno, in astracto, pur essendo
un prodotto intangibile non rientra nelle discipline umanistiche, ma in
quelle scientifiche. Un tipico caso di confine, l’eccezione che conferma la
regola, può essere la posata fornita a bordo dei voli di linea, recante
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M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

impresso il logo della compagnia aerea, immagine che non è collegata alla
funzione tipica dell’oggetto. Questo è un esempio per introdurre un tema
qui non sviluppato: quello della “tipologia” dei supporti fisici di contenuti
puramente intangibili e non legati al contesto materico. Infatti il logo è un
messaggio pubblicitario e non rientra nei tipici “requisiti estetici” di un
manufatto, quali sono, ad esempio, le forme o le decorazioni, così come le
cosiddette opere d’arte sono portatrici di messaggi minimamente relativi
alla materia. Tali tipologie non sono qui trattate perché in questo testo si
accennano solo le linee guida del processo metodologico. Esse sono
caratteristiche delle situazioni di sovrapposizione, che un informatico
definirebbe di “interfaccia” fra scienza e umanesimo, che dimostrano
quanto tali discipline non possono fare a meno l’una dell’altra e sono parti
inscindibili, ma distinguibili, dell’“insieme cultura”.

B 2 La teoria di testimonianza di cultura dei manufatti

B 2.1 Premesse ad una teoria pertinente alla Storia.


I manufatti sono l’esito tangibile di una serie di processi intellettuali e
quindi manuali di trasformazione della materia naturale, di conseguenza
sono latori anche di quantità significative di “storia”. Affinché le
interpretazioni di tali molteplici contenuti siano confrontabili e verificabili
da parte della comunità scientifica degli studiosi, devono scaturire da
algoritmi logici di analisi derivanti da una specifica teoria di carattere
scientifico. Un inquadramento teorico da cui discenda una metodologia
strutturata e condivisibile è il solo modo di superare i ricorrenti conflitti di
opinione fra gli operatori del settore, che insorgono proprio perché
svincolati da comuni parametri di riferimento. Riprendendo l’esempio della
medicina: una analisi strutturata secondo un protocollo vale la differenza di
verificabilità fra una diagnosi medica ed una sciamanica.
Questo fu il problema che io, Medardo, mi resi conto di dover
affrontare, mentre preparavo la tesi di laurea sui temi del restauro e del riuso
delle architetture del passato che ciascun progettista filtrava attraverso la
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M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

propria personalità, proponendo nel progetto “cosa” e “come” si doveva


conservare ovvero “restaurare”. Il restauro è una pratica tecnologica che
necessariamente inserisce alcune connotazioni tecniche odierne in un
contesto antico. Ciò è maggiormente evidente per le architetture, nella
“guerra” fra il “giallo” e il “rosso” dei progetti di restauro (cosa demolire e
cosa costruire): se un edificio antico è da restaurare, significa che non è più
funzionale, cioè non è più rispondente ai parametri odierni di fruibilità.
Nella maggioranza dei casi il manufatto, per frenarne l’obsolescenza, ha
subito nel corso dei secoli destinazioni d’uso degenerative che ne hanno
alterato l’impianto ed il messaggio originali. Concettualmente tali
operazioni non sono diverse da quelle del restauro di un vaso preistorico
rinvenuto in frammenti fra il materiale di riempimento di una buca, o del
restauro di un sarcofago romano adattato a vasca per abbeverare il bestiame.
Il quesito dell’operatore è “che cosa devo conservare e quali materiali
odierni devo utilizzare?” I diversi Enti di Stato preposti alla tutela dei beni
pervenutici dal passato si trovano nelle stesse condizioni dovendo emettere
un giudizio di merito.
La questione complessa per progettare un restauro architettonico è di
motivare in modo condivisibile quale testimonianza del passato ovvero
quale valore culturale deve essere principalmente conservato, eliminando o
quantomeno contenendo il naturale degrado dei materiali. La stessa logica
applicata ai macro-oggetti, deve valere per i micro-oggetti. Urbanistica e
architettura devono avere gli stessi principi concettuali applicati per il
restauro di un vaso antico, o per preservare Oetzi il cacciatore preistorico
conservato dal ghiaccio per 5500 anni sul Similaun. Vale a dire ripristinare
o mantenere con prodotti della tecnologia moderna la “leggibilità” di quei
valori di testimonianza ancora insiti nella materia.
Verso la fine del mio percorso accademico, approssimandomi alla
professione in un momento in cui era di grande attualità e si dibatteva la
questione del restauro per il riuso, il problema che mi posi fu quello di
individuare se e quali fossero i processi razionali che l’uomo organizzava
per la realizzazione di un manufatto. Inoltre, di verificare se questi processi
si fossero conservati nel tempo perché legati a meccanismi del pensiero
pressappoco costanti dal Paleolitico ad oggi, la cui consapevole reiterazione
20
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

era in grado di descrivere il divenire della civiltà dell’uomo, intesa come


l’accumulo razionale di esperienze volto a realizzare, con uno stesso
“algoritmo”, differenti tipologie di manufatti. L’eventuale esistenza di tale
“invariante” dell’agire umano, consentendo di inquadrare
sistematicamente il processo intellettuale sarebbe potuta essere la teoria di
riferimento.
L’idea mi venne quando usai le mani per bere ad una fontanella. Le
mani accostate e ricurve erano il prototipo “pensato” (differente dalle azioni
istintive) di quei piccoli contenitori artificiali sviluppati dall’Homo Faber
per assolvere alla stessa funzione. Immaginai quindi una serie eterogenea di
questi contenitori: tazze, boccali, bicchieri, coppe, nei materiali più diversi e
dalle forme più o meno elaborate, ma tutti adatti a soddisfare il “bisogno” di
bere. Immaginati tutti insieme, dai boccali ceramici preistorici alle coppe in
metalli preziosi, ai bicchieri in stile “minimal”, ne risultava chiara
l’appartenenza alla medesima “tipologia” funzionale: cioè, tutti ugualmente
pensati per consentire di bere, sebbene diversi per materiali, forme,
lavorazioni ed anche differenziati dal “gusto del bello”. Il processo per fare
il bicchiere, partendo dal desiderio di spegnere la sete adoperava sempre la
stessa sequenza concettuale sia nella cultura di Remedello sia negli opifici
odierni. Ciò che era cambiato relativamente all’uso di tali manufatti per
bere, erano i contenuti sia tecnologici sia intangibili delle differenti civiltà
di ogni luogo e di ogni tempo, oggettive testimonianze di cultura, di tutte le
varie “culture” di cui anche questo oggetto è latore. La cultura che diede
vita ad una specifica tipologia di oggetti prodotti allo scopo di bere
comodamente ovvero in senso generale i “bicchieri”, vi era, pertanto,
riflessa, diremmo connaturata al suo interno. Di conseguenza differenze fra
diversi tipi di bicchiere sono indicatrici delle varie società che, nel tempo e
nello spazio li produssero ed usarono.

B 2.2 Enunciati della teoria


Per leggere i contenuti trascendenti la mera materia dell’oggetto in
modo sufficientemente oggettivo, diremmo scientifico, è necessario un
processo deduttivo fondato su principi costanti e condivisi da cui
discendano le applicazioni metodologiche. Ragionare partendo dagli stessi
21
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

presupposti, è forse utile ricordarlo, non significa andare tutti in un’unica


direzione.

Il presupposto di una qualsivoglia analisi dei lasciti materiali del


passato è che questi ci possano parlare della loro esistenza nello scenario
umano del loro tempo, ma la condicio sine qua non della condivisibilità
della testimonianza è che il processo intellettuale di decodifica sia
oggettivato sulla base di un metodo di analisi critica Non sia, al contrario, il
risultato di un processo arbitrario, espresso soggettivamente dalla maggiore
o minore sensibilità personale, senza esplicitazione alcuna delle premesse
poste alla base del ragionamento. Qualsivoglia opinione è pur sempre lecita,
ma deve quantomeno contenere i presupposti di partenza per poter essere
vagliata criticamente. Un teorema è sempre costituito da due parti,
l’enunciato e la dimostrazione della tesi. Per leggere il messaggio
testimoniale di un manufatto è perciò necessario conoscere e percorrere
tutta la complessa catena di azioni oggi detta “ciclo di produzione ” che
hanno portato alla sua realizzazione e allo stato di fatto che è sotto i nostri
occhi.
Gli studiosi del divenire del genere umano affermano che l’uomo è tale
perché ha sviluppato la capacità di piegare alle proprie necessità ciò che lo
circondava realizzando, con le proprie capacità manuali e cerebrali, quei
“manufatti” od “estensioni” delle sue caratteristiche biomeccaniche, utili a
modificare a proprio vantaggio quello che l’ambiente naturale, governato
dalle immutabili leggi dell’universo, ha prodotto intorno a lui. Sappiamo
che al semplice sfruttamento di alcune proprietà meccaniche dei materiali
come reperiti in natura, fece seguito la realizzazione di appositi manufatti.
Era nata la cultura materiale, la prima e veritiera espressione dello spirito
creatore dell’essere umano. Veritiera ai fini testimoniali di una società
perché non è così facilmente modificabile come una fonte documentale
trascritta. Ai fini di questa teoria, di seguito esponiamo le “invarianti” del
processo di realizzazione di un bene, ovvero le componenti che ne fanno il
latore di un significato culturale.
B 2.3 Le qualità invarianti del processo manifatturiero
22
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

Il manufatto come già detto è prodotto da una sequenza ordinata


logicamente di fattori concorrenti alla sua realizzazione, di seguito vengono
definiti i fattori principali o sottoprocessi ed i fattori a corollario costituenti
la costante dei processi manifatturieri.

B 2.3a-L’ambiente
La produzione di un manufatto con caratteristiche funzionali dovute
all’”ingegno” umano è nata e si è sviluppata quale reazione dell’Homo
Faber a mitigare avverse condizioni ambientali o per potenziare
insufficienti caratteristiche della sua macchina fisica, in entrambi i casi per
consentirgli un certo controllo dell’ambiente in cui si trovava a vivere. Il
contesto ambientale è il primo elemento condizionante l’attività
manifatturiera e da qui si deve iniziare l’analisi. Ambiente è il palcoscenico,
entro cui l’uomo interpreta l’affascinante racconto della sua storia, una
scena formata sia dal contesto territoriale naturale sia da tutte quelle
trasformazioni del medesimo che sono generalmente definite
antropizzazione. Questo scenario che definiamo ambiente è perciò tutto
l’insieme di condizionamenti e di stimoli, naturali o indotti dall’uomo stesso
sullo scenario fisico e intellettuale in cui si muove nel preciso momento
storico nel quale produce un determinato manufatto. Ai fini delle analisi
della cultura materiale, se lo scorrere del tempo e l’evoluzione umana
possono essere considerate un film, l’ambiente è il fermo immagine che
consente di analizzare fin nei minimi particolari l’inquadratura, di scendere
nell’analisi di singoli dettagli dell’immagine con uno zoom o di risalire alla
visione d’insieme con il pan.
Si può quindi definire che: l’ambiente è il generatore dei bisogni e,
perciò, l’elemento iniziatore del processo che porta alla produzione di un
manufatto atto a soddisfare quel particolare bisogno. Per questo l’oggetto
riassume in sé ed è latore di una parte dei contenuti rappresentativi di una
specifica epoca storica ovvero della cultura che vi opera.

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M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

B 2.3b Bisogno e requisiti funzionali.


Il Bisogno, nel suo significato giuridico e nel suo risvolto economico, è
quell’insieme di stimoli, indotti dall’ambiente sui componenti di una
collettività, che spinge lo “spirito creatore” dell’uomo a realizzare manufatti
che soddisfino direttamente quel bisogno. Un bisogno è ben manifesto e
quindi oggettivabile e attribuibile ad una società quando è una percezione
condivisa da gruppi di individui dello stesso ambiente. Per fabbricare un
qualsivoglia manufatto con una destinazione d’uso volta a soddisfare un
bisogno, è necessario un processo mentale che attraverso l’analisi
consapevole del bisogno ambientale, definisca una serie di requisiti
concettuali in modo compiuto ed espresso (cioè comunicabile e
condivisibile) queste saranno le “qualità” ovvero i requisiti funzionali del
manufatto. Tali requisiti sono gli informatori del successivo processo di
realizzazione del manufatto. Questi requisiti sono espressione anche non
materica (quindi intangibile) della cultura che li realizza e si possono
evincere ex post dall’analisi delle caratteristiche sia formali sia strutturali
dei prodotti appartenenti ad una stessa tipologia.

Si può definire che dal bisogno promanano i “requisiti funzionali” da


rispettare per la manifattura dell’oggetto. In virtù di queste caratteristiche
l’oggetto assume un valore ofelimo (secondo la terminologia di V.Pareto) e
viene riconosciuto quindi come un “bene economico” dotato di un valore
quantificabile all’interno di una comunità antropica.
Il successivo passaggio dal bisogno all’oggetto avviene attraverso il
processo mentale di trasformazione dei singoli requisiti funzionali in
altrettante soluzioni applicative atte a realizzare un manufatto capace di
soddisfare i requisiti stessi.

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M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

B 2.3c Il progetto del manufatto


Un manufatto è la trasformazione della materia esistente in matura in
un insieme fisico variamente complesso, foggiato in modo tale da essere
impiegato per soddisfare un bisogno. Ciò è il risultato di un processo
razionale non casuale, ma voluto e ripetitivo, volto a dare alla materia nuove
forme, meglio rispondenti ai requisiti funzionali di una società in continuo
mutamento.
Il progetto, nell’accezione più generale del temine, è l’insieme dei
percorsi creativi della mente umana che, partendo dai requisiti funzionali di
un manufatto, “prefigura”, prima di realizzarlo, l’insieme delle azioni
mentali e manuali e dei loro risultati attesi, che determineranno le
caratteristiche del manufatto finale.
Tale progetto non è da intendersi il complesso di documenti con i quali
tramite un’elaborata serie di convenzioni, si definiscono tutti gli aspetti di
un manufatto. Progetto nella nostra teoria è il pensiero che predefinisce e
comanda le azioni materiali (dette operazioni o lavorazioni) mirate ad
ottenere le singole modificazioni della materia per lavorarla
progressivamente conducendola alla consistenza dell’oggetto finito. Un
primordiale esempio, anche se non fu il primo progetto dell’essere umano, è
l’amigdale di selce; talvolta ottenuta con una sola percussione, ben studiata,
sulla goccia naturale di quel minerale.
Assodata l’indispensabilità di un progetto per realizzare un manufatto,
quando esso si arricchisce di complessità, nasce l’opportunità di utilizzare il
cumulo di conoscenze già disponibili sul tema, per l’ovvia possibilità di
utilizzare esperienze pregresse. Si riutilizzano per un nuovo progetto le
conoscenze già maturate nella constatazione razionale delle interazioni
causa-effetto delle azioni progettate e dell’effetto da esse ottenuto. Questo
complesso di nozioni accumulate è definito Esperienza ed è legato
all’insieme di materie e di processi relativi già noti.
Tali processi comportano altresì la conoscenza degli effetti ricavabili
con gli ausili meccanici o fisici progettati e costruiti in passato o anche

25
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

realizzati ad hoc, quali ad esempio gli attrezzi o i cicli termici, ovvero quei
sottoprocessi di realizzazione noti e applicabili a materiali disponibili in
quella precisa epoca storica. Tale complesso di nozioni accumulate, definito
“esperienza”, viene a costituire il limite o confine del sapere specifico entro
il quale può svilupparsi un progetto e ne condiziona lo sviluppo. Con
un’espressione sintetica, esso è realizzato con conoscenze disponibili entro
l’ orizzonte tecnologico di cui il manufatto è uno dei riflessi materiali.

B 2.3d L’orizzonte tecnologico


Orizzonte Tecnologico è l’insieme accessibile delle pratiche esecutive,
delle attrezzature, delle materie grezze e/o dei manufatti semilavorati, in
altre parole l’insieme complessivo del saper fare e delle disponibilità dei
materiali e delle fonti energetiche, tramite i quali si può realizzare
nell’oggetto che si va a produrre, la capacità di soddisfare l’originale
requisito funzionale. (In questo momento dell’analisi non si rileva la
maggior o minor efficienza con cui il prodotto assolve ai requisiti).
L’orizzonte tecnologico è, perciò, l’elemento informatore del progetto e
quindi dell’oggetto manufatto, e discrimina manufatti con la stessa funzione
di culture od epoche diverse. Come l’orizzonte geografico è l’elemento di
separazione fra il paesaggio visibile e quello che , noto od ignoto che sia,
esiste ma non è visibile, l’orizzonte tecnologico separa le tecnologie
accessibili in un determinato contesto temporale e geografico da quelle
inaccessibili, seppur talvolta note, per tutta una serie di ragioni intuibili,
come i costi, le limitazioni di trasportabilità, le limitazioni di conoscenze
necessarie per la manipolazione, le limitazioni forzose all’accessibilità etc.
Esso, salvo alcuni casi particolari ed auto-esplicativi quali le opere d’arte
figurativa, diventa l’elemento determinante per caratterizzare ogni tipologia
di manufatto e perciò l’indicatore più “pesante” nella formulazione della
complessa amalgama di conoscenze e comportamenti che definiamo
cultura. La lettura combinata delle “fattezze” esteriori e di quelle intrinseche
del manufatto consente di risalire, come postulato in apertura, dalla
consistenza del manufatto finito alle fasi di realizzazione, poi all’idea
progettuale quindi alle originarie specifiche funzionali, “emanazione
26
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

culturale” dell’ambiente che ha prodotto il bisogno. Il ciclo concettuale


invariante per la realizzazione di un manufatto è riassumibile dalla sequenza
sottostante che può essere percorsa in entrambe le direzioni, dall’ambiente
all’oggetto e da questo all’ambiente.

AMBIENTE
|
BISOGNO

|
REQUISITI FUNZIONALI

REQUISITI ESTETICI
|
PROGETTO
|
ORIZZONTE TECNOLOGICO

suoi corollari.
|
MANUFATTO

Per completare correttamente la sequenza progettuale, occorre


introdurre una serie di nuovi requisiti non direttamente attinenti
all’efficienza operativa ovvero puramente funzionale del manufatto, ma
legati invece a quelle particolari esigenze intangibili che l’esprit createur
dell’uomo aggiunge ai requisiti meramente funzionali. Si tratta di quegli
aspetti “figurativi” o formali nella materia, che aggiungono ai requisiti
funzionali un quid la cui percezione visiva o tattile lo rende più attrattivo: i
requisiti estetici, che andremo, quindi, a definire come corollari della
funzione-base dei requisiti.

27
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

B 2.3e Corollari dell’Orizzonte tecnologico


B 2.3e-1 I requisiti estetici trascendono la mera funzione ma
“arricchiscono” il valore del bene. Sono generalmente definibili “artistici” ,
e riflettono un particolare aspetto della cultura di una società
Anche questi requisiti, non strettamente funzionali, sono sempre in
relazione stretta e biunivoca con il manufatto, quindi indicatori anch’essi
della Cultura che lo produce.
Tale insieme contiene un particolare caso limite costituito, come
precedentemente accennato dalle “grandi opere d’arte” nelle quali il valore
immateriale di testimonianza del bene, pur rientrando nel ciclo
sopradescritto trascende largamente quello delle tecnicalità dell’esecuzione
in favore dell’originalità. Tecnicalità riferibili ad un orizzonte materiale e
culturale accessibile da molti operatori, ma con risultati disomogenei tanto
che per le grandi opere d’arte, si parla solitamente di unicum, ovvero di
esemplari non classificabili entro standard tipologici.
Nella presente trattazione il vocabolo “orizzonte” è stato usato per
indicare tutto ciò che è noto ovvero fa parte dell’esperienza ed è accessibile
per la trasformazione. Una ulteriore attività umana è quella di rendere
accessibili, trasportandoli da un territorio ad un altro, materiali e pratiche
tecnologiche, con quel processo di scambio di beni che è definito
commercio. Il commercio è perciò un corollario dell’Orizzonte tecnologico
B2.3.e-2 L’orizzonte Tecnologico come definito, ingloba nella
definizione di “insieme accessibile” anche l’attività che consente di
ampliare i suoi stessi contorni mediante gli scambi commerciali cioè
l’orizzonte commerciale.
Il commercio, come è facilmente intuibile amplia il panorama delle
disponibilità, perciò è stato usato di nuovo il termine “orizzonte”
In conclusione solo l’insieme delle conoscenze sopra descritte
“leggibili” in un manufatto, semplice o complesso che sia, può
rappresentare compiutamente la Cultura che lo produce. L’analisi strutturata
di queste componenti, e conseguentemente la metodologia d’indagine così
28
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

indirizzata è l’unica che può, oggettivando le valutazioni, superare la


vetero-cultura della analisi ristretta alle facies cioè del considerare
preponderante se non esaustivo il mero aspetto esteriore di un manufatto,
metodo che ha per secoli caratterizzato riduttivamente sia la storia dell’arte
e dell’architettura sia dell’archeologia.

Diagramma originale
nella tesi di laurea
dell’algoritmo di
correlazione

B 2.3f Proposizione conclusiva Il meccanismo sistemico o teorico che


correla e sequenzia le definizioni dei contenuti sopra trattati, descrive ogni
processo produttivo, esplicita cioè il funzionamento di un percorso logico
che non varia al variare dei contenuti specifici. In ciò ha le caratteristiche
dell’algoritmo e può rientrare nei contesti delle teorie scientifiche
È ovvio, che anche la lettura delle componenti di testimonianza di un
manufatto così strutturata non possa essere esente, come tutte le operazioni
intellettuali, da approssimazioni, tanto quanto le misurazioni “scientifiche”
di caratteristiche fisiche non sono esenti dal livello di accuratezza o
precisione degli strumenti di misura utilizzati.

29
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

C Delle metodologie

C 1 Lo stato di fatto della ricerca storico archeologica.


La trattazione teorica di cui sopra è ovviamente un contributo e non la
soluzione miracolosa al difficile problema del riequilibrio della situazione
di fatto delle pratiche correnti nei settori della ricerca storica ed
archeologica. I suoi operatori, in genere, si occupano autonomamente di
argomenti la cui risoluzione con le sole conoscenze individuali
implicherebbe la padronanza della totalità delle conoscenze accumulate;
sarebbe, perciò, praticabile con efficacia solo da “tuttologhi” quale fu
Leonardo ai suoi tempi. Il valore fondamentale di un riferimento teorico e
delle relative metodologie è quello di poter oggettivare, in base a criteri
condivisi, soprattutto le decisioni degli organismi delegati alla tutela dei
beni di cultura materiale, spesso oggetto di contestazioni per l’apparente
arbitrarietà di alcune di queste.
La storia ha diviso in evi il suo divenire, come l’archeologia ha
individuato insiemi tipologici classificati, secondo l’impiego dei materiali,
per formulare cronologie relative dalla preistoria, fino alle soglie della
storia.
A causa di una impostazione vetero-culturale, la storia è stata redatta
quasi esclusivamente sulla base dei soli documenti scritti, ambiziosamente
definiti “fonti storiche”. Proponiamo di adeguare questo schema ereditato
dall’Umanesimo alle attuali conoscenze globali ed alla inequivocabile
constatazione che, grazie anche alla fulminea circolazione delle notizie,
specialmente per il tramite del Web, e all’immediato confronto delle
informazioni, oggi si può pervenire ad una visione meglio ragionata.
Sappiamo bene che i cronisti dei sistemi quali le signorie e le
monarchie del passato, si sono comportati nei confronti dei loro datori di
lavoro e privilegi, come agisce l’avvocato difensore di chi commise un
crimine: la sua professionalità lo porta a rappresentare ai giudicanti una
visione personalizzata dei fatti che metta il suo cliente nella miglior luce
possibile.
30
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

Gli storici di professione sanno bene che i falsi documenti sono una
realtà da non trascurare; perciò, le nuove metodologie dovrebbero essere più
realisticamente legate alle testimonianze concrete della cultura materiale
che, per gli impliciti contenuti di natura economica, non si presta a quelle
interpretazioni di parte, generalmente espressione del potere egemone che
ne ha condizionato la redazione, con la stessa facilità di molte categorie di
documenti storici. Un filosofo dell’Ottocento affermò che la storia viene
(ri)scritta per giustificare il presente anziché per ricordare il passato. Se la
storia può essere revisionata con difficoltà per le epoche recenti, sulle quali
influiscono ancora i pesanti condizionamenti del presente, la preistoria e la
storia degli evi remoti possono essere rivedute e criticate con metodologie
più aggiornate e con principi più funzionali della sola analisi, ormai
alquanto sclerotizzata, delle fonti documentarie
Un documento scritto, per quanto chiaro nel contenuto, non può essere
decontestualizzato dall’ambiente (geografico e storico, ma anche socio-
economico) in cui è nato né, di conseguenza, può essere considerato la fonte
principale, se non addirittura l’unica, per la storia del summenzionato
contesto. Soltanto il serrato raffronto fra le testimonianze di cultura
materiale e la relativa documentazione scritta è il percorso che meglio può
approssimare una realtà storica. Leggere in una chronica medievale che
qualcuno “cinse di robuste mura la città” è una semplice informazione;
scovare in archivio il rendiconto delle spese per l’acquisto dei materiali
necessari a realizzarle possiede un valore di gran lunga maggiore, ma pur
con alto grado di credibilità questa informazione è pur sempre ipotetica: è
soltanto rinvenendo le tracce materiali di tali “robuste mura”, nelle
fondazioni o nei palesi reimpieghi in altri edifici, che si ottiene la “prova
provata” di quanto scritto e la documentazione cartacea assume il valore di
fonte storica certa. In altre parole, solamente la testimonianza materiale è
sempre probante del documento, o di quella parte di esso che le è concorde,
e mai il contrario.
Questa concordanza dovrebbe essere risolutiva, ma il conservatorismo
storiografico, quasi mai per problemi di oggettività storica, è portato a
chiudere gli occhi anche sulle evidenze materiali. Fu il caso nel 1980 di
un’esperienza personale con la scoperta di un documento Trecentesco su
31
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

uno degli edifici simbolo di Torino, la “casaforte” medievale nota come


Palazzo Madama. Il precedente edificio altomedievale, una manica
appoggiata alla porta romana, venne ampliata e ristrutturata portandola
all’attuale volumetria. L’ampliamento avvenne all’inizio del Trecento per
volontà di un Pinerolese, ma, senza prove, lo stesso fu attribuito ad un
Savoia e datato al Quattrocento. Nonostante il ritrovamento, quarant’anni
fa, di una rendicontazione dei lavori con l’indiscutibile corrispondenza di
elementi inconfondibili di dettaglio, ancora oggi le strutture del Palazzo
hanno una storia medievale contraddittoria e nebulosa (1).
La possibilità di fruire di esami di laboratorio scientifici, ausilio
determinante per la cultura materiale, ma tuttora non coperto da protocolli
metodologici riguardanti soprattutto l’utilizzo degli esiti, sta producendo
rari vantaggi nonostante un impiego intensivo degli esami stessi. La
disponibilità di referti di laboratorio, oggettivi per definizione, ha dato ad
alcuni “utilizzatori” successivi l’illusoria sensazione di operare in modo
scientifico, quando invece sono i soli operatori di laboratorio a farlo. Le
personali interpretazioni, spesso improprie, di aspetti di tecnologia
manifatturiera stanno provocando le stesse interpretazioni fuorvianti che le
trascrizioni posteriori dei testi degli autori classici indussero nei primi
archeologi “dilettanti”. Sul tema, questa è l’autorevole opinione del prof.
Adriano La Regina che così si esprime: “In questo caso, come in tanti altri,
discipline diverse hanno creato sistemi autonomi con forme di conoscenza
non assimilabili: nessuno di essi può contribuire a verificare la
rappresentazione degli altri, né trova alcuna possibilità di conferma al di
fuori della propria sfera. (2).

La spiegazione è necessariamente insita in esempi, a cui ricorriamo


come fanno gli autori delle definizioni nei dizionari. Gli esempi successivi
non ne riportano volutamente l’autore in quanto servono ad evidenziare dei
problemi e non a cadere in un inutile finger pointing.
Ė ben noto che l’abate che trovò Golasecca nel 1822 confuse un
agglomerato proto-urbano della prima Età del ferro col cimitero di una
battaglia fra Roma e Annibale. Più sottile, e all’apparenza ininfluente, è
l’espressione “curvato a vapore” in un saggio sui carri da guerra italici per
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M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

indicare il processo di incurvatura artificiale di stanghe di carro in legno,


qualche millennio prima che Denis Papin inventasse la caldaia a vapore.
In un minuzioso lavoro di documentazione di manufatti da cucina
dell’Età del bronzo, sono state prodotte interessantissime tabelle riportanti i
titoli delle leghe di rame impiegate, gli spessori dei laminati e le tracce delle
operazioni di formatura. Nella trattazione, l’autore sottintende che questi
stessi manufatti possano essere prodotti indifferentemente nelle praterie
dell’Europa centro-orientale come nelle colline dell’Italia centrale. Nel
farlo, non prende in considerazione le complessità del ciclo di produzione
che vanno dalla selezione dei materiali metalliferi al processo di fusione dei
grezzi, dalla riduzione in lamine sottili, alla imbutitura dei semilavorati ed
alla finitura, anche a scopi decorativi.
Un etruscologo ha poi etichettato questi oggetti, un secchiello e una
pentola, come “contenitori indifferenziati di liquidi”, ignorando i contenuti
tecnologici pratici molto differenti fra le due tipologie di manufatti. Questi
contenitori hanno in realtà “destinazioni d’uso” e “requisiti funzionali”
piuttosto differenti. Accomunandoli, se ne perde l’alto livello di
“specializzazione” che manifesta la cultura che li ha prodotti, sia dal punto
di vista manifatturiero, sia dal punto di vista della ricerca dell’efficienza
economica della produzione.
Tale complesso processo, che necessita di un notevole e secolare
accumulo di esperienze specifiche, presuppone anche l’esistenza di “filiere”
mercantili e tecniche di supporto quale la filiera relativa agli attrezzi da
lavoro, ai materiali per realizzarli, alla disponibilità di operatori per ripararli
quando usurati o rotti. Tutti questi fattori conducono necessariamente alla
concentrazione di esperienze in luoghi “specializzati” perché l’esistenza di
un produttore di attrezzi è giustificata soltanto da un bacino adeguato di
acquirenti, allora come oggi (ad esempio, l’orologeria meccanica in
Svizzera).
Nessuno può essere “tuttologo”, perciò il calderaio preistorico, del
quale si apprezza e si descrive solo la capacità dell’effetto finale come
toreuta, è molto meno probabile che risieda in una prateria semidesertica
piuttosto che nei pressi o entro un agglomerato urbano cinto da mura, dove
esistono “la massa critica” dei potenziali acquirenti (i mercanti) e la pronta
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M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

disponibilità delle materie prime (colà immagazzinate come scorte); in un


agglomerato urbano, sono anche attive le filiere dell’indotto dei produttori
di attrezzature e di materiali accessori, non ultima quella negletta dei
carbonai per la produzione del combustibile indispensabile alle lavorazioni
a caldo.
Considerando infine che, per divenire un calderaio, in quei tempi era
necessaria una gran quantità di nozioni pratiche raggiungibile solo con
lunghi apprendistati, da tutto ciò si potrebbe localizzare l’opificio (il luogo
di produzione specializzata e continuativa proto-industriale) in una “città”
centro-italiana piuttosto che in una “bottega artigianale” aggregata “armi,
bagagli e scorte” ad una tribù di pastori seminomadi ungheresi, che alla fin
fine, ha un mercato ristretto al capotribù ed al suo clan, quantificabile in un
corredo di pentole “extralusso” al decennio.
L’ultima considerazione riguarda il differente grado di antropizzazione
di un qualunque territorio lungo l’arco del tempo ovvero la maggiore o la
minore facilità di rinvenire i manufatti, che non implica, come per la flora,
che siano nati nel luogo di ritrovamento. Infatti, i territori centro-italiani
hanno avuto una diversa intensità d’uso rispetto a quelli centro-europei. I
nostri hanno ospitato sia i “burini” (i conduttori dell’aratro), sia i “bifolchi”
(addetti allo stallaggio dei buoi da lavoro) dalle Età dei metalli fin quasi ai
giorni nostri, sono questi operatori agricoli che hanno contribuito
largamente quanto inconsciamente ai primi “scavi” archeologici quando
intraprendevano il laborioso lavoro di dissodamento degli arativi. Purtroppo
la pseudo cultura, in Età barocca, dei rampolli di famiglie facoltose,
totalmente discosta dalla realtà sociale del loro tempo, generalmente
indirizzata alle “belle lettere” e all’insegnamento, ha trasformato i nomi di
queste professioni in significati degenerativi ponendoli nel dimenticatoio
insieme col fatto che hanno probabilmente alienato con ri-usi utilitaristici
ciò che rinvennero nei lavori.
In questi territori, i luoghi più rispettati erano i cimiteri, perciò li
ritroviamo con una certa frequenza; le situazioni residenziali, mantenutesi
anch’esse per millenni nello stesso luogo, sovrapponendosi l’una all’altra,
hanno cancellato in massima parte le tracce precedenti, salvo casi

34
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

eccezionali come Pompei o Frattesina in cui i cataclismi naturali hanno


cristallizzato la situazione in una sorta di gigantesco fermo-immagine.
Molto diversa è la condizione delle pianure quali il grande Alföld
ungherese, percorse dai mercanti che barattavano con i pastori, i quali non
sono usi ad arare Perciò, un oggetto casualmente finito una spanna
sottoterra durante una sosta della tribù, lì si conserva anche per cinquemila
anni.
Le analisi scientifiche di laboratorio sono importantissime ma, essendo
i diretti indicatori di una sola parte dell’orizzonte tecnologico, restano mute
se slegate dallo studio strutturale e funzionale del manufatto e, in
particolare, delle tecniche esecutive che ne hanno permesso la realizzazione:
tecniche e forme da cui si evincono i condizionamenti dei requisiti d’uso
(far bollire l’acqua sul fuoco piuttosto che raccogliere e trasportare acqua da
bere).
Inoltre, esistendo tipologie di manufatti con eguale funzione, ma
realizzate anche in terrecotte, occorre interrogarsi su quali potevano essere
le ragioni funzionali per farli in metallo, comparando pesi, durate,
maneggevolezza e resistenza meccanica della realizzazione metallica contro
quella ceramica. Infine, lo studio si completa esaminando la scelta,
economicamente alternativa, tra il metallo e la ceramica perché un oggetto
più costoso di un altro diventa automaticamente “bello” e “prezioso” ed
assurge a ricercato simbolo di status sociale. Poiché, ad esempio, in passato,
gli opifici della Valtrompia produssero per l’esportazione canne di pistola
“alla morlacca” di foggia gradita in Nordafrica, poi ageminate in loco dagli
acquirenti medesimi, è verosimile che anche i toreuti italiani dell’Età del
bronzo, decorassero i prodotti con le icone gradite al loro “mercato di
riferimento” oppure, in alternativa, che preparassero i punzoni
successivamente utilizzati dai loro clienti transalpini sulle superfici nude

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M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

C 2 Tipologie

La soluzione metodologica più semplice è l’introduzione della


classificazione tipologica dei manufatti. Adottare una tale tassonomia, a
nostro avviso, non imbriglia affatto la sensibilità personale del ricercatore
ma, anzi, la amplifica perché egli non corre più il rischio di “perdersi”
esaminando un oggetto come se fosse un unicum.

Il lemma “tipologia” abbraccia una categoria quanto mai vasta di


significati specifici. Ai fini dell’inquadramento metodologico di una “teoria
di testimonianza di cultura”, l’universo dei manufatti analizzabili con
metodi scientifici può essere catalogato in due grandi raggruppamenti
tipologici. La caratteristica fondamentale di tale classificazione è che ogni
manufatto apparterrà a entrambi i criteri, in quanto espressione di due
contemporanee “testimonianze”: quella meramente fisica che discrimina la
componente materiale (metallo, legno, pietra etc.) e, dall’altro lato, quella
intangibile e funzionale: che definiamo discriminanti di base.
Il quadro tipologico sarà perciò formato da una matrice
multidimensionale, in linguaggio informatico, una Base Dati Relazionale.
La matrice, legando inscindibilmente entrambe le tipologie allo stesso
oggetto, permette un approccio analitico integrato e, nel contempo, consente
indagini specifiche in relazione alla singola tipologia, chiaramente nel
rispetto delle procedure peculiari di ciascuna.

C 2.1 - Tipologie-base.
Quanto finora illustrato, è rappresentabile nella seguente matrice (fig
1), i cui assi X e Y rappresentano i “messaggi di testimonianza”, cioè le
tipologie contenute in qualunque manufatto dell’homo faber.

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M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

Mater
A

MATERIALI COSTITUTIVI
Mater
Manufatto
B M B-2

Mater Manufatto
C M C -3

Mater M = nome noto


D del manufatto

Funz 1 Funz 2 Funz 3 Funz 4

REQUISITI FUNZIONALI

Solo apparentemente statica, la matrice diviene relazionale


semplicemente inserendo un asse cronologico. L’acquisita tridimensionalità
consente di osservare perfettamente l’evoluzione della cultura attraverso la
storia di ciascun manufatto, preferendone, all’occorrenza, il profilo
funzionale piuttosto che quello dei materiali. Inoltre, la matrice a tre
dimensioni evidenzia immediatamente le discontinuità dovute alla comparsa
di nuove tipologie indotte da scoperte od invenzioni (dalla lucerna alla
lampadina ad incandescenza fino al led). Tale principio è anche applicabile,
per comodità di consultazione e di indagine, a matrici “in parallelo”
costruite per aree geografiche delimitate da confini naturali difficilmente
sormontabili che, per determinate epoche, hanno agito da elemento di
separazione fra interpretazioni diverse della relazione materia/funzione e dei
relativi percorsi evolutivi.
Non si ritiene necessario produrre qui una nuova classificazione che,
data la vastità del campo, sarebbe comunque vaga. Le sue linee guida sono
37
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

state già tracciate, ma non sistematizzate, dalle classificazioni della


preistoria in “età” relative alle tipologie dei materiali, mentre le tipologie
funzionali sono già empiricamente espresse dal “nome” dei manufatti. Il
terzo asse del tempo viene costruito adottando una cronologia relativa la cui
sequenza è scandita dai casi notevoli di manufatti datati con assoluta
certezza dagli esami di laboratorio o, usando altre modalità, datati con un
elevatissimo grado di confidenza.

C 2.2 - Sottotipologie.
L’evoluzione socio-culturale ha prodotto una diversificazione, definita
“ramificazione”, che ha indotto variazioni nei requisiti funzionali le quali, a
loro volta, hanno generato varianti sempre nuove dei manufatti divenuti
ormai obsoleti. Ad esempio, le “fasi” di una cultura classificate dagli
archeologi con strutture di sigle alfanumeriche, esprimono in sostanza le
differenze in una miscellanea di sottotipologie di entrambe le tipologie-
base.
Ciascuna tipologia base possiede, ovviamente, tutta la serie di tipologie
specifiche che sono sostanzialmente quelle già presenti nelle descrizioni dei
prodotti dell’uomo,ovvero le differenti denominazioni delle materie e dei
manufatti.
Come per la teoria evolutiva di Darwin, le linee guida per la
discriminazione delle tipologie sono organizzabili per famiglie evolutive
delle tipologie-base.
Riprendendo l’esempio del manufatto per bere, avremo classificazioni
tipologiche dei vari materiali ceramici e metallici a cui si aggiungono le
sottofamiglie delle terrecotte e dei vetri e, per i metalli, delle varie leghe.
Nelle tipologie funzionali avremo i bicchieri, le tazze, i boccali e via
discorrendo, indicatori specializzati del tipo di liquido contenuto e delle
occasioni, private o pubbliche, in cui venivano usati.

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M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

D - Conclusioni.

A quarant’anni di distanza, si tenta nuovamente di ridurre l’arbitrarietà


delle valutazioni sul significato di “bene” relativamente ai lasciti materiali
del passato, il nostro petrolio, visto che di questi beni il nostro sottosuolo è
ricco, nonostante millenni di prelievi e di più o meno consapevoli
distruzioni. L’archeologia nacque, come racconta Marek, quando il cavalier
d’Aucubierre si mise a disseppellire statue romane a Pompei. Divenne poi il
passatempo di personaggi eruditi che potevano permettersi di farlo per il
solo gusto di riportare alla luce affascinanti oggetti di un passato poco o per
nulla noto. In realtà, coloro i quali riportano alla luce scheletri e corredi
esistono da quando si usano le sepolture, ma la “categoria” ha un altro
nome, tombaroli, e un fine opposto a quello degli archeologi attuali. Ciò
non solo nella Valle dei Re, ma anche qui da noi.
Come altrove, nelle nostre regioni, i primi Cristiani, per contrastare il
paganesimo, smantellarono templi e mausolei e ne utilizzarono i materiali
per edificare chiese e monasteri, reputando la distruzione di vestigia pagane
un’azione meritoria verso Dio. Nonostante ciò, nelle Marche, il sottosuolo
continua a restituire testimonianze di un passato splendido, pur se il
ritrovamento casuale di inumazioni esista, per logica, probabilmente da ben
due millenni. Alle sue origini ottocentesche, l’archeologia per diletto o per
lucro, ma sempre per passione, venne praticata da persone che avevano
un’istruzione “classica” i quali, conoscendo appunto gli autori classici,
furono in grado di delineare i primi abbozzi di datazione.
Sulla scia delle opinioni di Joachim Winckelmann e del suo “elleno-
centrismo assoluto”, gli eruditi dilettanti introdussero in archeologia il
vezzo di utilizzare tutto il campionario dei nomi in lingua greca per
identificare le terrecotte nostrane, abitudine snob che si diffuse a tutti gli
oggetti rinvenuti sottoterra ad eccezione, ma non sempre, del bucchero.
Usare un vocabolo esotico, che l’uomo di media cultura non capisce, ma
intuisce essere importante (“necropoli” è più fascinoso di “cimitero”) ha
creato l’illusione di penetrare scientificamente la Preistoria, soprattutto da
quando si è potuto contare sui risultati dei primi esami di laboratorio. È

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M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

innegabile che questi oggetti sono stati sapientemente e meritoriamente


estratti dal sottosuolo dagli archeologi, ma troppo spesso sono stati da essi
mal interpretati per la mancanza di specifiche conoscenze sulle tecnologie
dei processi produttivi, sulle implicazioni logistico-economiche e, alla fin
fine, culturali: come, ad esempio, distinguere il rame dal bronzo, ma non il
ferro dall’acciaio.
Perdura, così, il dogma che “tutto il bello non può venire che dalla Grecia”
nella lettura socio-culturale dei reperti nostrani: forse, perché studiare il
Greco antico costò così tanta fatica che richiede un’adeguata ricompensa?
L’esotismo di certe interpretazioni spesso opinabili, ma consolidate da
parecchi decenni, vengono talvolta smentite dai risultati di “esami
scientifici”, come per la scure di Oetzi. Ciononostante, sono nostre
esperienze dirette e recentissime, perdura il dogma che “solo gli archeologi
sono gli specialisti in grado di sapere e capire” e, perciò, in grado di
affrontare e individuare “scientificamente i contenuti culturali dei quali i
reperti sono latori”. È esplicativa la pagina del Ministero dell’Istruzione -
Ministero dell’Università e della Ricerca (3):
ALLEGATO 2 REQUISITI DI CONOSCENZA, ABILITÀ E COMPETENZA
DELLA FIGURA PROFESSIONALE DELL’ARCHEOLOGO:
0.2 Compiti e attività specifici della figura professionale dell’Archeologo
L’Archeologo svolge attività di individuazione, ricerca, conoscenza, educazione,
formazione, protezione, tutela, gestione, valorizzazione, comunicazione,
promozione, divulgazione, progettazione, programmazione, (ben 14 attività
ciascuna molto complessa n.d.r.) inerenti i beni archeologici nella loro più ampia
valenza di bene d’interesse, contesto, sito e paesaggio antropizzato. Tali attività
sono finalizzate alla ricostruzione storica e culturale delle società del passato,
sulle basi di fonti di diversa natura che sono uniche e irripetibili, nonché alla
tutela, protezione, valorizzazione e fruizione dei beni e dei contesti che formano
l’oggetto di queste attività, come secondo gli specifici dettami della L. 110/2014
art.1. E’ una professione di elevato contenuto intellettuale e di notevole
complessità, che si svolge sia presso enti pubblici e privati sia come lavoro
autonomo. Essa richiede una formazione culturale, scientifica, metodologica
tecnica e etica specifica, ottenuta mediante percorsi di istruzione, formazione e
aggiornamento a carattere teorico e pratico.

In questa direzione, una università promette nella pubblicità del proprio


biennio di Laurea in Archeologia(4) :

40
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

“I laureati dovranno dimostrare di possedere capacità di analisi e sintesi sulle


principali problematiche poste dallo studio del mondo antico, dalla preistoria
all'età medievale, padroneggiando in autonomia la combinazione delle discipline
di carattere storico-artistico, archeologico e filologico con l'uso della più
avanzata strumentazione tecnica”.
È il profilo professionale e di ricercatore di Leonardo da Vinci!
Meno eclatante e, forse, più realistico è ciò che una università politecnica
promette ai suoi iscritti (5): “Certo non tutti gli ingegneri aerospaziali arrivano
a progettare un velivolo innovativo o a partecipare all'impresa entusiasmante
della discesa di una sonda interplanetaria su un pianeta lontano. Ma è indubbio
che questa laurea apre la strada verso ambienti ingegneristici "di frontiera", dove
si pongono le basi più avanzate delle nuove tecnologie. Per fare solo qualche
esempio, nell'ambito dell'ingegneria aeronautica e spaziale si applicano e
perfezionano le filosofie della progettazione multidisciplinare.”

Le espressioni in grassetto illuminano emblematicamente il problema di


definire che cosa si intende per formazione in un ateneo umanistico ed in
uno scientifico. Il conflitto è tra un’illusoria “tuttologia” espressa dalla
frase: “padroneggiando in autonomia la combinazione delle discipline di
carattere storico-artistico, archeologico e filologico” della facoltà di Lettere
e Filosofia, contro la visione più “pragmatica” e meno “classicistica” di uno
dei più quotati politecnici d’Europa: “si applicano e perfezionano le
filosofie della progettazione multidisciplinare”.

Forse, il conservatorismo delle facoltà umanistiche, non si è ancora accorto


che sapere il Greco antico non è più un fattore discriminante fra gli
acculturati e gli idioti, che i dogmi sono privilegio esclusivo delle religioni e
che, nell’immensità dell’universo del sapere, non possono più esistere
singole persone che padroneggiano una disciplina in autonomia. Ma, di
questo, pare si rendano conto solo le università politecniche.

La Costituzione, prevedendo un Esame di Stato, per l’iscrizione agli albi


professionali, smentisce implicitamente che un diploma di laurea possa
essere condizione sufficiente per l’esercizio di una libera professione in
campo scientifico. Di conseguenza, un diploma di laurea in archeologia non
certifica che il detentore sia di per sé abilitato all’esercizio di quella
professione descritta nel testo ministeriale. Invece, anche senza esame di
stato, la “professione di archeologo” (con il cumulo di responsabilità e di
poteri che la legislazione attribuisce a tale categoria), è esercitabile da
41
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

chiunque abbia frequentato corsi, non necessariamente accademici, o anche


solo compulsato pubblicazioni, purché un qualche funzionario pubblico lo
certifichi. Lo Stato, con l’esame di abilitazione, garantisce i cittadini
riguardo ad una serie di professioni scientifiche, ma ancora non garantisce
sé stesso su quella che deve tutelare i suoi beni culturali.
Esiste, infatti, da qualche tempo una Associazione Nazionale Archeologi
che possiede un Elenco, e non già un Albo, ad iscrizione volontaria, ma si
può fare l’archeologo anche senza detta iscrizione.
Condividiamo pienamente il fatto che scavare, fare stratigrafie, catalogare e
custodire (i restauratori hanno altra abilitazione specifica) sia una
professione difficile e carica di responsabilità. Condividiamo pienamente
che i funzionari addetti alla tutela dei Beni Materiali di contenuto culturale
abbiano il potere di impedirne la possibile distruzione fisica, ma riteniamo
che tale doverosa tutela non sia arbitrariamente estendibile anche al loro
studio teorico né che il poterne parlare e scrivere sia riservato ai soli
“professionisti specializzati”, come si legge in qualche documento:
procedendo in linea di principio, dovremmo pretendere dal primo cittadino
del nostro comune una laurea in “sindacologia”. Gli archeologi sono, al
momento, categoria associativa priva di un esame di Stato di abilitazione e
nonostante la mancanza di ciò, la mansione consente comunque di imporre
ad altri il divieto alla pubblicazione nei propri studi delle immagini relative
ai beni custoditi nei musei.
Quando la scienza avrà realizzato un apparecchio che permetta di
misurare oggettivamente la “bellezza” di un dipinto, magari analizzando le
onde cerebrali emesse dagli spettatori, discriminandone i campi di
frequenza e rappresentandoli statisticamente in un grafico, allora anche il
“bello” sarà scientificamente misurato. Fino a quel momento, tutte le letture
e le interpretazioni, logiche o intuitive che siano, dei contenuti intangibili di
un artefatto umano, sono da considerare “libere espressioni del pensiero” e
come tali liberamente esprimibili ai sensi della Carta Costituzionale.
Nessuno può essere l’indiscusso custode di pensieri né, soprattutto, il
censore preventivo dell’interpretazione dei “messaggi culturali di cui un
reperto è latore”, perché essi non sono stati ancora fissati oggettivamente in
un protocollo diagnostico (ammesso che sia possibile farlo) al pari di quelli
in uso nella medicina contemporanea.
Riconosciuto il ruolo fondamentale dell’archeologo nel portare alla luce
i reperti e tutelarli, auspichiamo che gli operatori del settore ed il
Legislatore, si rendano conto che comprendere il valore di testimonianza di
cui detti beni sono latori è talmente complesso da richiedere la
42
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

progettazione e la normazione di “filosofie della progettazione


multidisciplinare”. Per quanto riguarda la libera fruizione del patrimonio dei
musei pubblici, quindi del popolo italiano, auspichiamo altresì che
esprimere i propri convincimenti su di un manufatto o richiamarlo a
corollario di altre tesi, sia un’attività liberamente praticabile da chiunque
ritenga di essere in grado di farlo, naturalmente fatti salvi i casi di uso a fini
denigratori od offensivi dell’oggetto stesso o di persone, come è
giuridicamente normato da sempre, e non solo per i reperti di cultura
materiale.
Sarà il fruitore di queste “letture” a giudicarle, in piena libertà, quanto
lo è l’estensore di comunicarle. Se l’autore, professionista od amatore che
sia, definisce “tamburo”, e scrive che lo si suonava alla festa del villaggio
villanoviano, ciò che si rivela essere una pignatta, ad essere danneggiata
sarà l’immagine dell’autore, non certo quella del reperto.
Non è una novità che la storia di tesi oggi abbandonate, ma ritenute veritiere
per secoli, e che, a loro volta, ne avevano sostituite altre ritenute veritiere
per millenni, siano anch’esse un capitolo ben noto della Storia (ancora nel
XII secolo la storia iniziava dalla data della creazione di Adamo ed Eva). Di
conseguenza, non è irrazionale accettare che possano esistere interpretazioni
alternative su questi temi, siano esse tesi strutturate o semplici opinioni. È
dalla breccia di Porta Pia che, dalle nostre parti, non si pubblica più “con
l’approvazione de’ superiori”: non è proprio il caso di tornare a quelle
pratiche!

43
M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

NOTE
(1) Cfr. M. Arduino in a.a. v.v. “ Castrum in Castro Porte Fibellone” in -Torino
Nel Basso Medioevo castello uomini oggetti-. -Assessorato per la cultura Musei
civici- Catalogo dell’omonima mostra in Palazzo Madama. Curatori S.Pettinati,
R.Bordone. Torino 1980-
Cito l’argomento come esempio della problematicità totalmente estranea alla
ortodossia della ricerca storica, a riguardo delle difficoltà di accettazione di
elementi che introducono la necessità di rivedere situazioni storiche “assestate”,
generalmente ritenute immodificabili dagli storici di professione. In questo caso si
tratta di una indiscutibile prova materiale che avrebbe portato un secolo indietro la
costruzione di un edificio emblematico e significativo della storia del Piemonte
medievale: il Castello di Torino, noto come Palazzo Madama.
L’edificio medievale che ancora oggi si vede oltre la quinta scenica Juvarriana,
si riteneva (ancora per molti rimane tale) edificato nel XV sec da Ludovico di
Savoia. I rendiconti di costruzione tenuti dal “Clavarius” di Tommaso d’Acaia
Pinerolese, (a quel tempo appena ritrovati da F. Monetti, ibidem), per mezzo dei
quali feci una ricostruzione analitica, dimostravano, per totale rispondenza ad
elementi esistenti, che la costruzione venne invece realizzata giusto un secolo
prima, (l’analisi venne effettuata sulle bozze della traduzione, prima della
pubblicazione).
La datazione al quattrocento, introdotta nella metà dell’ Ottocento, aveva chiari
intendimenti politici nel celebrare la presenza sabauda, volutamente unica attrice
nella formazione dello stato piemontese. Nonostante le evidenze strutturali, dovetti
esprimere la scoperta in formula dubitativa, nel testo del catalogo, per non
sollevare “vespai” fra l’amministrazione in carica, organizzatrice della mostra, e un
esponente dell’opposizione autore di saggi sul tema, situazione ovviamente non
cercata dagli organizzatori. Tale empasse conservatrice derivò dal fatto che troppo
si era già scritto a riguardo, perciò indiscutibilmente “assestato”, soprattutto da
parte di figure autorevoli della cultura pedemontana, in quanto il Palazzo Madama
è uno dei cardini della datazione in cronologia relativa della “austera e
conservatrice architettura del quattrocento piemontese”. Il Castello, quando
riconosciuto essere realizzato un secolo prima, avrebbe costretto ad una corposa
revisione storica soprattutto del livello culturale della società del Basso medioevo
pedemontano.
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M.Arduino, F.Cortella – Della ricerca storica.

Gli esperti, sostenitori della storia “tradizionale”, chiusero entrambi gli occhi
non solo sulla completa rispondenza del complesso planivolumetrico alle Note
Spese, ma anche a dettagli inequivocabili nelle stesse, come la evidentissima
presenza di frontoni d’età romana in marmo alla base della torre sedecagona destra
utilizzati come supporto della muratura, che il Libro Spese indica rimosse dalla
“Porta Marmorea” della città (crollata in seguito ai prelievi e ora scomparsa) per
essere utilizzate nelle “torri nuove”; per spostare tali pesantissimi monoliti venne
allestito addirittura uno speciale “arcicarro”.

(2)https://archive.org/stream/AdrianoLaRegina.IlGuerrieroDiCapestranoELeIscrizi
oniPaleosabelliche/2.Capestrano_djvu.txt
(3)(https://dger.beniculturali.it/professioni/elenchi-nazionali-dei-professionisti/)
accesso 03/03/2021.

(4)https://web.uniroma2.it/it/contenuto/archeologia__filologia__letterature_e_stori
a_dell__antichitr_a_a__2020-2021 ( accesso 01/10/2021)

(5)https://didattica.polito.it/laurea/ingegneria_aerospaziale/it/presentazione
(accesso. 3/3/2021)

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