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Il libro

Sapete come si passa quasi tutto il tempo in guerra? Stai seduto ad


aspettare che succeda qualcosa e speri che non succeda. La cosa
peggiore è l’attesa. Nell’altra guerra passavamo il tempo acquattati nella
nostra buca, con addosso una fifa del diavolo, ad aspettare il prossimo
fischiabotto...
A volte ci raccontavamo delle storie e spesso lo facevamo al buio, in
trincea. Proprio come ora. Che ne dici, ragazzo? Tuo Nonno non è qui, e
io non sono certo bravo come lui a raccontare. Ma posso tentare, no?
Facciamo una prova. Però, mi spiace tanto, niente pirati, isole deserte,
folletti e compagnia bella. Non me la cavo tanto bene a inventare le
cose. Se ti va, posso raccontarti una storia vera, per di più una che non
ha mai sentito nessuno. Che ne dici? Ti piacciono le storie vere?
1940. Un treno viene attaccato dai bombardieri tedeschi. Nel buio di
una galleria, per sconfiggere la paura, uno sconosciuto racconta
qualcosa a Barney e alla sua mamma.
È la storia di un giovane soldato che, durante un’altra guerra, fece
quella che allora sembrava la cosa più giusta e che invece si sarebbe
rivelata il peggior errore della Storia: non uccidere Adolf Hitler.

Ispirato alla storia vera del soldato che avrebbe potuto fermare la
Seconda Guerra Mondiale
L’autore

È uno degli autori per l’infanzia più noti e premiati


nel mondo. Ha scritto oltre cento libri e vinto
numerosi e prestigiosi premi letterari. I suoi
romanzi sono stati adattati per il grande e il piccolo
schermo, oltre che per il teatro. Vive nel Devon, in
Inghilterra.
Per Il Battello a Vapore ha già pubblicato Verso
casa, Il bambino e il leone e Un elefante in
giardino.
Michael Morpurgo
IL RAGAZZO CHE NON UCCISE HITLER

Traduzione di Marina Rullo


PRIMA PARTE
Il treno delle 11:50 per Londra
1

Il treno era fermo in stazione e cominciavo a chiedermi se ci saremmo mai


mossi. Ero con Mamma. Ed ero stanco. Il braccio ingessato mi faceva male e
mi prudeva allo stesso tempo. Ricordo che Mamma si era già messa a
sferruzzare, con i ferri che ticchettavano veloci, in maniera automatica,
naturale. Appena si metteva seduta, attaccava a sferruzzare. Quella volta
erano calzini per Papà.
– Questo benedetto treno è in ritardo – ha detto. – Chissà perché?
L’orologio della stazione dice che è mezzogiorno passato da un pezzo. Mi sa
che c’è poco da meravigliarsi, vista la situazione –. Poi ha aggiunto una cosa
che mi ha sorpreso. – Se mi addormento butta un occhio alla valigia, Barney,
inteso? Tutto quello che ci resta al mondo è su quel portabagagli e non voglio
che qualcuno allunghi le mani.
Stavo giusto pensando che era una cosa strana da dire, visto che nello
scompartimento c’eravamo solo noi due, quando la porta si è aperta ed è
entrato un uomo che poi l’ha richiusa con forza. Non ci ha detto una parola, è
sembrato accorgersi appena della nostra presenza, si è tolto il cappello e,
dopo averlo messo sulla reticella accanto alla nostra valigia, si è sistemato nel
sedile di fronte. Ha dato un’occhiata all’orologio e ha aperto il giornale,
nascondendoci dietro il viso per un bel pezzo. A un certo punto, però, è stato
costretto a posarlo per soffiarsi il naso ed è stato allora che mi ha sorpreso a
fissarlo e mi ha fatto un cenno di saluto.
Era una persona d’aspetto molto curato, l’ho notato subito: dalle scarpe
tirate a lucido e i baffi spuntati, fino alla giacca e cravatta. Ho deciso
all’istante che non aveva l’aria del tipo che sgraffignava valigie. Eppure c’era
qualcosa in lui che mi pareva di riconoscere, avevo la sensazione di averlo
già visto da qualche altra parte. Forse mi sbagliavo. Forse era perché
sembrava più o meno della stessa età di Nonno e aveva lo stesso sguardo
indagatore.
L’uomo, però, era un tipo ordinato, mentre Nonno era tutto meno che
ordinato. Nonno era uno spaventapasseri, con quei capelli (i pochi che gli
erano rimasti) sempre arruffati e le mani e la faccia sporchi per via del
carbone che andava in giro a consegnare, e questo anche dopo che si era
lavato. Quell’uomo, invece, aveva le mani pulite compreso le unghie, curate
come tutto il resto.
– Spero di passare l’ispezione, ragazzo – ha detto con un’occhiata
eloquente.
Mamma mi ha dato una gomitata e si è scusata per la mia maleducazione,
poi mi ha detto: – Quante volte t’ho ripetuto di non fissare la gente, Barney?
Chiedi scusa al signore.
– Lasci stare, signora – è intervenuto lui. – Si sa come sono i bambini.
Sono stato bambino anch’io. Ormai sono passati tanti anni, ma lo sono stato
–. Poi, dopo qualche istante, ha aggiunto: – Scusi, signora, ma è questo il
treno per Londra, vero? Quello delle 11:50, giusto?
– Spero di sì – ha risposto Mamma, dandomi un’altra gomitata perché
continuavo a fissarlo. Non riuscivo a trattenermi. In quel momento, è passato
davanti al finestrino il capostazione, sventolando la bandiera verde e
soffiando nel fischietto con le guance così gonfie che la faccia gli era
diventata rotonda. «Come un pallone rosa» ho pensato. Un istante dopo
siamo partiti, il treno ha mandato uno sbuffo fiacco, svogliato, e s’è messo
lentamente in moto.
– Alla buon’ora – ha detto Mamma.
– Le spiace se faccio entrare un po’ d’aria, signora? – ha chiesto lo
sconosciuto. – Mi fa piacere una boccata d’aria fresca.
– Faccia pure – ha risposto Mamma. – È gratis.
Si è alzato, ha abbassato il finestrino facendolo scorrere di un paio di
tacche sulla guida di cuoio e si è rimesso seduto. Mi ha sorpreso un’altra
volta a guardarlo, ma stavolta mi ha sorriso. Così gli ho sorriso anch’io.
– Nove anni, giusto? – mi ha chiesto.
– Dieci – ha risposto Mamma al posto mio. – È un po’ piccolino per la sua
età, ma sta venendo su. E vorrei vedere! Mangia per quattro. Non so dove lo
mette tutto quello che mangia.
Parlava di me come Nonno parlava delle zucche dell’orto, senza fermarsi,
con la stessa gioia e fierezza, perciò non mi ha dato fastidio più di tanto.
Il treno ormai aveva acquistato velocità, aveva trovato il suo ritmo e
sembrava più felice. Tatàn-tatàn, tatàn-tatàn, tatàn-tatàn. Amavo quel
suono, amavo quel ritmo. Per un po’ siamo rimasti in silenzio. Lo
sconosciuto aveva riaperto il giornale e io guardavo fuori dal finestrino la
successione di strade bombardate che ci sfilavano davanti e pensavo alle
zucche di Nonno e alla baracca dell’orto saltata in aria durante il
bombardamento di due notti prima. Ricordavo l’espressione di Nonno mentre
guardava il cratere dove un tempo, tutti in file ordinate, crescevano i suoi
ortaggi, i cavoli e i porri e le pastinache. Quell’orto era l’unica cosa di Nonno
che si potesse dire ordinata. Quell’orto era la sua vita.
«Lo rifaccio daccapo, Barney» mi aveva detto con gli occhi pieni di
collera. «Vedrai se non lo faccio. Avremo tutte le carote, le cipolle e le patate
che ci servono. A quei mentecatti che hanno fatto questo disastro, non gliela
darò vinta.» Poi si era asciugato le lacrime con il dorso della mano, ed erano
lacrime di rabbia. «La sai una cosa, Barney?» aveva continuato. «È strano,
ma nell’altra guerra, in trincea, non li ho mai odiati. Erano solo Crucchi,
combattevano come noi. Ma stavolta è diverso. Hanno fatto quello che hanno
fatto a Coventry, la mia casa, la mia città, la mia gente. Li odio tutti e li odio
anche per quello che hanno fatto al mio orto. Non avevano nessun diritto.»
Mi aveva preso la mano, stringendola forte. L’aveva già fatto altre volte
quand’ero triste, invece adesso era lui a essere triste ed ero io che gli tenevo
stretta la mano per consolarlo.
Quando era toccata a Big Black Jack, però, non c’era stato verso di
consolarlo.
Durante l’incursione aerea eravamo rimasti tutta la notte giù nel rifugio di
Mulberry Road, stretti l’uno all’altro, consapevoli che la prossima bomba
poteva essere la nostra. Cercavamo di non pensarci, eppure stavamo tutti lì
con l’orecchio teso. A ogni bomba provavamo a convincerci che fosse
l’ultima. Ma non lo era mai. Nonno era la roccia a cui io e Mamma ci
eravamo aggrappati, mentre ci teneva stretti e cantava le sue canzoni
sovrastando i gemiti, i pianti e le grida con la voce forte e rauca, che
diventava ancora più forte ogni volta che le bombe si avvicinavano, ogni
volta che la terra tremava, ogni volta che il rifugio si riempiva di polvere.
Quando alla fine era suonata la sirena del cessato allarme e il terrore era
passato ed eravamo usciti dal rifugio (non so quante ore eravamo rimasti là
sotto), ci siamo ritrovati in un mondo di macerie e rovine, arroventato dagli
incendi. Mulberry Road, o quello che ne restava, era avvolta da un fumo acre
e soffocante che come una nebbia ci aleggiava intorno, fin sopra la testa. Non
c’era aria fresca da respirare, nessun cielo da guardare.
Sperando nell’impossibile, ci eravamo fatti strada fino a casa, in fondo alla
via. Però non avevamo più una casa. Non avevamo più un posto per noi. E
non era solo casa nostra a essere andata distrutta. Tutta la strada era
irriconoscibile, semplicemente non esisteva più. Era rimasto in piedi solo un
lampione, quello che stava dove prima c’era casa nostra e che di notte
illuminava la mia stanza. I nostri amici e vicini erano tutti lì, insieme a un
poliziotto e a un volontario della Protezione antiaerea, arrampicati sulle
macerie a raspare e a cercare. Mamma aveva detto che sarebbe rimasta per
vedere di recuperare qualcosa. Aveva chiesto a Nonno di portarmi via. Era
agitata, piangeva, e avevo capito che non mi voleva con lei. Ma da qualche
parte sotto le macerie c’era il mio trenino e l’autobus rosso a due piani che
avevo ricevuto a Natale e tutti i soldatini di latta che stavano sulla mia libreria
e anche la mia conchiglia speciale, quella di noce di mare trovata in spiaggia
a Bridlington.
Ero corso verso le macerie e avevo cominciato ad arrampicarmi a quattro
zampe. Volevo cercarli. Volevo trovarli. Dovevo farlo. Ma il volontario della
Protezione antiaerea mi aveva preso per un braccio e, sordo a tutte le mie
proteste, mi aveva riportato giù. «Il mio autobus» gridavo. «I miei soldatini,
le mie cose!»
«È troppo pericoloso, Barney» aveva detto Mamma, dandomi uno
scrollone per farmi ascoltare.
«Ora va’ con Nonno. Fa’ come ti dico, per favore, Barney. Troverò quello
che posso, promesso.»
Così Nonno mi aveva portato all’orto, tanto per vedere se era tutto a posto,
aveva detto. Io però sapevo che Mamma non mi voleva lì tra tutta quella
gente che piangeva. La signora McIntyre stava seduta sul marciapiede
davanti alla sua bottega, con le calze strappate e le gambe piene di sangue.
Guardava fisso nel vuoto e faceva scorrere tra le dita i grani del rosario,
muovendo le labbra in una preghiera silenziosa. Il signor McIntyre era da
qualche parte sotto le macerie, ma nessuno era ancora riuscito a trovarlo.
Non c’era tanta strada dall’orto al campo dove Nonno teneva Big Black
Jack, il nostro vecchio cavallo da tiro e anima gemella di Nonno da quando
Nonna era morta. E anche mia, se è per questo. Big Black Jack era il cavallo
con cui Nonno lavorava e parlava tutto il giorno tutti i giorni, mentre
andavano in giro per la città a consegnare il carbone, e qualche volta li
accompagnavo anch’io dopo la scuola e nei fine settimana. Non potevo
trasportare i sacchi di carbone perché erano troppo pesanti. Il mio lavoro era
piegare i sacchi vuoti per Nonno e sistemarli per bene, uno sull’altro nel retro
del carro, e badare che Big Black Jack avesse sempre biada nella sacca e
acqua nel secchio. Perciò, io e Big Black Jack eravamo grandi amici.
Lì per lì, sembrava tutto a posto: la vecchia capanna traballante ancora in
piedi, il secchio d’acqua vicino alla porta, la rete del fieno che pendeva
floscia. Ma di Big Black Jack neanche l’ombra.
Poi avevamo visto la recinzione in pezzi. Si era liberato, e con tutte quelle
bombe c’era poco da meravigliarsi. «È scappato da qualche parte» aveva
detto Nonno. «Ma starà bene. Quel cavallo sa badare a se stesso. Starà bene.
L’ha già fatto altre volte. Tornerà. Ritroverà la strada di casa, come sempre.»
Però io sapevo che lo diceva solo per tranquillizzarsi, sperando che fosse
vero, già pensando invece al peggio.
2

È stato qualche istante dopo che avevamo ritrovato Big Black Jack, steso
sull’erba ai margini del bosco. E tra gli alberi avevamo intravisto il cratere
lasciato dalla bomba. Tutt’intorno gli alberi erano sradicati, inceneriti, ridotti
a monconi. Big Black Jack stava così immobile, senza neanche un segno sul
corpo. Avevo guardato i suoi occhi sbarrati. Nonno si era inginocchiato
vicino alla sua grande testa e gli aveva posato una mano sul collo. «Freddo»
aveva detto. «Freddo. Povero ragazzo mio. Povero ragazzo mio.» E si era
messo a piangere in silenzio, con tutto il corpo che tremava.
In quel momento non avevo pianto, però stavo per farlo ora in treno
ricordando tutta la scena, la gentilezza negli occhi di Big Black Jack e la
forza con cui avevo desiderato che respirasse ancora, che non stesse così
immobile. Ho sentito il cuore che mi si gonfiava di lacrime.
– Tutto a posto, piccolo? – ha chiesto lo sconosciuto, chinandosi verso di
me.
Mamma ha risposto di nuovo al posto mio, ma stavolta è stato un sollievo
perché, oltre al cuore, avevo anche la bocca piena di lacrime e non sarei
riuscito a parlare neanche volendo.
– Ci hanno bombardati – ha spiegato Mamma. – È un po’ scombussolato,
poverino.
– S’è rotto anche il braccio – ha detto l’uomo. – Com’è stato?
– A pallone – ha risposto Mamma. – Lui va matto per il pallone, vero,
Barney?
Ho fatto cenno di sì. Non riuscivo a fare altro.
– Abbiamo perso la casa – ha continuato Mamma. – A Mulberry Road.
Abbiamo perso tutto, praticamente, ma gli altri non sono messi meglio. Noi
siamo stati fortunati. Siamo ancora qui, no? –. Ha posato una mano sulla mia
e ha aggiunto: – Un braccio rotto è poca cosa, se ci pensi… Perciò, non
dobbiamo lagnarci, giusto? Non c’è motivo, no? Ringraziamo la nostra buona
stella. Ora ce ne andiamo da mia sorella giù in Cornovaglia, al mare, vero,
Barney? A Mevagissey, gran bel posticino. Niente bombe da quelle parti.
Solo mare, sabbia, sole, e un sacco di pesce. Pesce e patatine fritte. Noi ci
andiamo matti, vero, Barney? E anche zia Mavis ci piace tanto, vero?
In un certo senso era vero. Però non riuscivo ancora ad aprire bocca.
Mamma ha smesso di parlare e siamo rimasti seduti per un po’, mentre il
treno oscillava e sferragliava e il fumo passava davanti al finestrino. Il ritmo
si era fatto diverso, ancora più veloce, più veloce. Tatàn-tatàn, tatàn-tatàn,
tatàn-tatàn.
– Hanno colpito anche la cattedrale e il resto, sa? – ha detto a un certo
punto Mamma. – Non c’è rimasto quasi più niente in piedi. Un così bel posto,
antico. Quella bella guglia si vedeva da lontano un miglio. Che gli è saltato in
testa? È stata una gran cattiveria, dico io. Proprio una gran cattiveria.
– È vero – ha detto lo sconosciuto. – Per combinazione, conosco anch’io
Mulberry Road. Si può dire che ci sono cresciuto. E ho visto quello che gli
hanno fatto: ero da quelle parti dopo il bombardamento, a tirare fuori la gente
dalle macerie. Sono nella Protezione civile, responsabile Protezione
antiaerea. È questo che faccio –. Sembrava parlare a se stesso, pensando ad
alta voce, ricordando. – Protezione civile, avvistamento e spegnimento
incendi. Però una tempesta di fuoco mica la puoi spegnere. Era un inferno
quello, io c’ero. Ma non sono stato granché d’aiuto, vero?
È stato in quel momento che ho capito dove lo avevo già visto. Era il
volontario della Protezione antiaerea che stava sulle macerie, quello che mi
aveva riportato giù. Senza divisa e senza elmetto sembrava diverso. Però era
proprio lui. Ne ero sicuro. E ora mi fissava con aria accigliata, come se anche
lui mi avesse riconosciuto.
– Lei ha fatto il meglio che poteva – ha detto Mamma, che non si era
accorta di niente, armeggiando con i ferri da calza. – Vale per tutti, no? Il
Papà di Barney è lontano, oltreoceano con l’esercito. È nel genio militare e fa
del suo meglio. Come anche il Nonno di Barney che è rimasto a Coventry e
dice che vuol andare avanti come prima. Vende carbone, una piccola impresa
famigliare. «Le case vanno riscaldate» dice. «Le stufe vanno accese. Non si
possono scontentare i clienti.» «Ma se non è rimasta una casa in piedi!» dico
io. E lui: «Allora bisogna ricostruirle daccapo». Così è rimasto in città, per
fare il meglio che può, per fare la cosa giusta, è così che la pensa lui. E la
penso così anch’io. Nessuno può chiedere di più. Fa’ quello che ti sembra
giusto e non puoi sbagliare più di tanto. Basta che fai del tuo meglio. È quello
che dico sempre a Barney, vero, tesoro?
– Sì, Mamma – ho risposto, ritrovando la voce.
Ed era vero, Mamma me lo ripeteva sempre. E anche le maestre a scuola
mi dicevano più o meno la stessa cosa, quasi ogni giorno.
– Certe volte, però, – ha detto l’uomo lentamente, soprappensiero – il
problema è che il meglio non è abbastanza. A volte, quello che sembra giusto
in un certo momento poi si rivela sbagliato –. E si è appoggiato allo schienale
come se ne avesse abbastanza di tutte quelle chiacchiere. Mamma,
ovviamente, non l’aveva riconosciuto. Volevo avvisarla, ma non potevo farlo
con lui davanti.
Lo sconosciuto, intanto, si era voltato a guardare dal finestrino e per molto
tempo nessuno ha aperto più bocca.
Mi piacciono tanto i treni, in tutto e per tutto: i sibili, gli sbuffi, il ritmo, il
dondolio, il modo in cui sferragliano, fischiano e strepitano, il ruggito quando
irrompi in una galleria precipitando nell’oscurità rimbombante e poi di colpo,
senza preavviso, ti ritrovi fuori alla luce accecante del giorno, con i cavalli
che scappano al galoppo nei campi e le pecore e i corvi che si disperdono. Mi
piacciono tanto anche le stazioni: il viavai, gli sportelli che sbattono, il
ferroviere col suo berretto con la visiera che sventola la bandiera e la
locomotiva che soffia, aspettando il fischio. E poi, finalmente, ecco il segnale
e il ciuff ciuff ciuff.
Quando Papà era tornato a casa in licenza, gli avevo detto che da grande
volevo fare il macchinista. A Papà piaceva tanto trafficare con i motori:
generatori, motociclette, automobili… Sapeva aggiustare qualunque cosa.
Perciò era stato contento di sapere che avrei fatto il macchinista. Mi aveva
detto che la macchina a vapore era praticamente la più bella macchina che
l’uomo aveva mai costruito. Per me il semplice fatto di stare su un treno
quella mattina era già una consolazione. Forse perché non riuscivo a
togliermi di mente quella notte di terrore giù al rifugio o le scene spaventose
che avevo visto il giorno dopo: la signora McIntyre seduta sul marciapiede
con il rosario in mano e la sua bottega e la sua vita in pezzi, la nostra casa
distrutta e Nonno inginocchiato accanto a Big Black Jack. Il ritmo e il
dondolio del treno in qualche modo mi davano conforto, e mi facevano anche
venire sonno.
Al mio fianco, Mamma dormiva della grossa, con la testa che ciondolava e
pareva sul punto di cascare giù da un momento all’altro. Stringeva ancora in
mano i ferri da calza e il gomitolo di lana in grembo: un calzino di Papà
mezzo lavorato.
Così siamo rimasti solo io e lo sconosciuto seduto di fronte, che poi non
era per niente sconosciuto. Ogni tanto mi lanciava un’occhiata come se stesse
per farmi una domanda ma poi ci ripensasse. Alla fine si è chinato verso di
me e mi ha chiesto sottovoce: – Eri tu che ho portato giù dalle macerie dopo
il bombardamento, vero, ragazzo? A Mulberry Road.
Ho fatto segno di sì.
– Mi sembrava, non ho mai dimenticato una faccia – ha detto. – Allora, io
e te siamo bambini di Mulberry Road. Ricordo che mentre ti portavo giù ho
pensato che sembravi me alla tua età. Anch’io, da piccolo, una volta mi sono
rotto il braccio. Però non è stato giocando a pallone, io sono caduto dalla bici.
È bello rivederti. Sei la mia immagine spiccicata –. Mi ha sorriso con un
cenno di approvazione, poi ha continuato: – Tuo padre, dov’è che combatte?
Dove l’ha mandato l’esercito?
– In Africa – ho risposto. – Nel deserto. Si occupa dei carri armati, li fa
funzionare e quando si rompono li aggiusta. Dice che la sabbia entra
dappertutto. E dice pure che fa un sacco di caldo e ci sono milioni di mosche.
– È dove dovrei stare anch’io – ha detto l’uomo. – Una volta sono stato in
Sudafrica, un sacco di tempo fa. Con l’esercito. Ecco quello che dovrei fare:
combattere, come tuo padre. Ma non mi hanno voluto, per via di questa
gamba bacata –. Si è battuto una mano sul ginocchio. – È un ricordo
dell’ultima guerra. C’è ancora dentro un pezzo di granata, sai? Comunque,
dicono che ormai sono troppo vecchio. Quarantacinque anni? Troppo
vecchio? Sciocchezze… Così mi tocca stare nella Protezione civile, che
praticamente è come stare a casa con le mani in mano. Sono un volontario
della Protezione antiaerea adesso, buono solo a questo. Vado in giro con il
fischietto a dire alla gente di chiudere le tende quando c’è il coprifuoco.
Dovrei stare al fronte, invece. Io gliel’ho detto: dovrei stare al fronte, a fare la
mia parte, come tuo padre. Non sono troppo vecchio. Ce la faccio ancora a
correre. Ce la faccio a combattere, no? –. Gli tremavano le labbra. Capivo che
si sforzava di controllarsi e la cosa mi faceva un po’ paura. – Ma non mi
hanno dato retta – ha continuato. – «Stattene a casa,» hanno detto «hai già
fatto la tua parte. Hai le medaglie che lo provano» –. Ha distolto lo sguardo,
scuotendo la testa. – Medaglie… Non significano niente. Se solo sapessero…
Se solo sapessero.
Pensavo che non avrebbe detto altro, invece ha continuato. – Be’, alla fine,
ho fatto quello che dicevano. Non avevo scelta, no? Ma che aiuto puoi dare
con tutte quelle bombe che cadono, le case che saltano in aria, le scuole, gli
ospedali e tutte quelle persone ammazzate a centinaia? Ragazzini della tua
età, neonati… Li abbiamo tirati fuori a decine, quasi tutti morti. A che serve?
Bisogna combattere, invece. Dovevamo avere le armi per sparargli e tirarli
giù. Dovevamo avere degli aeroplani anche noi, e abbatterli. Ci hanno
mandato addosso centinaia di bombardieri, hanno messo a ferro e fuoco la
città e io stavo là a correre per le strade con il fischietto e a tirare fuori la
gente… –. Si è interrotto, troppo scosso per continuare.
Non sapevo cosa dire, perciò non ho detto niente e ho guardato fuori dal
finestrino. Il treno attraversava sferragliando la campagna, i pali del telegrafo
ci sfrecciavano davanti. Ne ho contati un centinaio prima di annoiarmi.
Gocce di pioggia scendevano lungo il vetro, rincorrendosi. Ho alzato gli
occhi alle nuvole, guardando il fumo del treno che si levava in alto e
diventava tutt’uno con loro: una grande nuvola ora a forma di leone ruggente,
ora di mappa d’Inghilterra, ora di gigante con un occhio solo. Un occhio
scuro, un occhio che si muoveva. Mi ci è voluto qualche istante per rendermi
conto che l’occhio del gigante era un aeroplano. Quando sono riuscito a
distinguerlo e ho capito cos’era, mi sono accorto di non riuscire più a vedere
in quella nuvola la faccia di un gigante. Era solo una nuvola da cui sbucava
un aeroplano.
È stato allora che ho sentito qualcosa pizzicarmi l’occhio. Ho capito subito
che era un granello di polvere entrato dal finestrino aperto. Sentivo che
pungeva. Ma, per quanto mi sforzassi di strofinare e battere le palpebre, non
c’era verso di farlo uscire. S’era andato a infilarsi in un punto interno
dell’occhio. Ho provato a toglierlo con il dito, ho continuato a battere le
palpebre, ma niente. Peggioravo solo le cose e mi faceva ancora più male.
A quel punto lo sconosciuto si è avvicinato e mi ha scostato delicatamente
la mano. – Così non serve a niente, ragazzo – ha detto. – Fa’ provare me, te lo
tolgo io. Ora sta’ fermo, da bravo. Tieni indietro la testa –. Mi aveva preso
per la spalla e mi teneva stretto. Poi con il pollice ha cercato di tenere aperta
la palpebra. Era difficile non tirarsi indietro, non muoversi, non chiudere gli
occhi. Sentivo l’angolo del suo fazzoletto sul bulbo oculare. Ho cominciato a
battere le palpebre. Non riuscivo a fermarmi. C’è voluto un po’, ma
all’improvviso era tutto finito. Lui si era rimesso seduto e, sorridendo, mi
mostrava con aria trionfante un granello nero sul fazzoletto.
– Visto? Quello che entra esce – ha detto. – Ora non avrai più fastidio –. E
quando ho provato a battere le palpebre ho capito che aveva ragione. Se n’era
andato. Ho continuato a controllare anche dopo, aprendo e chiudendo gli
occhi ogni tanto per sicurezza.
Era quello che stavo facendo quando, guardando dal finestrino, ho visto
l’aeroplano che scendeva dalle nuvole. Adesso era più basso e anche più
vicino. Un caccia! E puntava dritto su di noi!
– Spitfire! – ho gridato, battendo con il dito sul vetro. – Guarda! Guarda!
–. Mamma si è svegliata di colpo e tutti e tre ci siamo avvicinati al finestrino.
– Non è uno Spitfire, ragazzo – ha detto l’uomo. – È un maledetto
Messerschmitt 109, ecco cos’è. Un caccia tedesco. E scende in picchiata per
attaccarci. Via dal finestrino! Subito!
3

Lo sconosciuto ha afferrato Mamma e me spingendoci sul pavimento della


carrozza. Sopra la testa abbiamo sentito un rombo improvviso, un crepitio di
spari, uno schianto di vetri, urla, e il fischio del treno che filava a velocità
sempre più vertiginosa. Mi sono alzato in ginocchio per guardare quello che
stava succedendo, ma lui mi ha spinto un’altra volta a terra e mi ha tenuto
fermo. – Tornerà – ha detto. – Sta’ fermo dove sei, capito? –. Ci ha fatto
scudo con il suo corpo, circondandoci con le braccia, stringendoci a sé, con le
mani sulla nostra testa per proteggerci.
Aveva ragione lui. Pochi istanti e l’aereo era già tornato per un altro
attacco. Abbiamo sentito l’esplosione di una bomba e il ripetuto ta-ta-ta-ta-ta
degli spari, accompagnato dal fischio e il rombo dell’aereo che ci sorvolava.
Intanto il treno continuava la sua corsa, sempre più veloce, sempre più
veloce, finché siamo piombati nell’improvvisa oscurità di una galleria. I freni
sono entrati in azione con violenza e uno stridio così lacerante da ferirmi gli
orecchi. Siamo stati sbalzati uno addosso all’altro, finendo schiacciati metà
contro il sedile e metà sotto di esso. Lo stridio dei freni sembrava non finire
mai e il nostro compagno ha continuato a tenerci stretti finché, grazie al cielo,
il treno si è bloccato sibilando, lasciandoci sul pavimento, al buio. Pareva
quasi che noi e la locomotiva respirassimo all’unisono, affannati, cercando di
calmarci. La carrozza era avvolta da un’oscurità nera come la pece.
– Non mi piacciono le gallerie – ho detto, sforzandomi di non far capire
quanto fossi spaventato. – Quanto ci restiamo qua dentro, Mamma?
– In questo momento è il posto migliore, ragazzo – ha risposto lo
sconosciuto. – Qui siamo abbastanza al sicuro, questo è certo. Dobbiamo
ringraziare il macchinista. Resterà qua dentro tutto il tempo che ci vuole,
penso. Sta’ tranquillo.
Mi ha aiutato a rialzarmi e a mettermi seduto. Ho sentito Mamma che mi
circondava con un braccio. Sapeva quello che stavo provando. Non era
l’aereo tedesco o la sparatoria a spaventarmi, quello era stato divertente. Era
il buio, quel muro solido di tenebre che mi accerchiava, si chiudeva su di me,
mi avvolgeva. Mamma sapeva che non potevo sopportarlo, che di notte avevo
sempre bisogno di una luce accesa fuori dalla stanza, oltre a quella del
lampione in strada. Ho sentito un groppo di paura stringermi la gola e ho
cercato di mandarlo giù, ma quello ha continuato a tornare su come un
singhiozzo di terrore impossibile da trattenere.
– È il buio – ha spiegato Mamma. – A Barney non piace. Non gli è mai
piaciuto.
– Neanche a me – ha detto lo sconosciuto. E, mentre parlava, nell’oscurità
c’è stato un bagliore improvviso e una fiammella arancione ha illuminato la
sua faccia sorridente e poi tutta la carrozza. – Ogni tanto mi faccio una
tiratina di pipa – ha continuato. – E ho sempre i fiammiferi a portata di mano.
Swan Vestas, li conosci? Quelli con il cigno sulla scatola –. Me l’ha fatta
vedere. Quando l’ha scossa, ha fatto rumore. – Visto? Sono buoni, durano di
più –. Il panico che avevo dentro era improvvisamente sparito e sapevo che
non sarebbe tornato fintanto che il fiammifero fosse stato acceso.
– Il guaio, ragazzo, – ha continuato – è che ci toccherà stare qua dentro per
un pezzo, almeno credo. Fossi il macchinista, me ne starei buono e zitto in
galleria finché non avessi la certezza che quell’aereo… ma forse ce ne sono
due o anche di più, vai a saperlo… finché non fossi proprio sicuro che se n’è
andato via. Ci hanno visti entrare in galleria, no? Potrebbero essere ancora là
fuori ad aspettare che usciamo. Te l’ho detto, quello che entra esce, lo sanno
anche loro –. Ha avvicinato il viso al mio. – Il guaio, Barney, è che un
fiammifero non dura in eterno. Neanche gli Swan Vestas, che durano molto
più degli altri. Perciò, tocca economizzarli. Dopo questo, me ne restano
ancora… uno, due, tre, quattro. E questo qui già si sta spegnendo, vedi? Tra
un po’ mi toccherà soffiarci sopra per non bruciarmi le dita. Comunque, se tu
mi dici di accenderne un altro, lo faccio. Facile come bere un bicchier
d’acqua. Solo che non ce ne sarà bisogno, vero, ragazzo? Perché tu sai che
Mamma è qui e che anch’io sono qui. Perciò, non sei da solo. È questo il
guaio del buio. Ti fa sentire tanto solo, ma tu non lo sei, vero?
– Penso di no – ho risposto. Mi guardava dritto negli occhi. Era come se
volesse infondermi coraggio attraverso lo sguardo, attraverso il sorriso. Poi
ha soffiato sul fiammifero. Siamo ripiombati di colpo nel buio. Non mi
piaceva, ma in un certo senso non m’importava più, almeno non quanto avrei
immaginato o quanto m’importasse prima.
– Proprio un bravo ometto il mio Barney, vero? – ha detto Mamma.
– Può dirlo forte, signora. Davvero – ha risposto lo sconosciuto. – Però, mi
sa che è meglio chiudere il finestrino –. L’ho sentito alzarsi e tirare su il
vetro. – Non vogliamo riempire di fumo tutta la carrozza, no? Tra poco la
galleria ne sarà invasa.
– Il guaio è che tra un po’ moriremo di caldo qua dentro – ha detto
Mamma. – Però, ha ragione lei, meglio il caldo che il fumo.
Siamo rimasti seduti al buio in silenzio per un pezzo, credo. Poi lo
sconosciuto ha ripreso a parlare: – Bisogna trovare il modo di passare il
tempo – ha detto. – Lo sapete cosa facevamo in trincea nell’altra guerra?
Sapete come si passa quasi tutto il tempo in guerra? Stai seduto ad aspettare
che succeda qualcosa e speri che non succeda. La cosa peggiore è l’attesa.
Passavamo il tempo acquattati nella nostra buca con addosso una fifa del
diavolo ad aspettare il prossimo fischiabotto. Che brutta bestia erano. Oppure
la mattina presto aspettavamo l’ordine di preallerta. Dovevamo stare pronti in
preallerta, capite, perché ai Crucchi piaceva attaccare in quel momento lì.
Alle prime luci, ai primi raggi del sole tra la nebbia. E lo sapete cosa
facevamo certe volte? Ci raccontavamo delle storie e spesso lo facevamo al
buio, in trincea. Proprio come ora. Se vi va, possiamo provarci. Che ne dici,
ragazzo?
– Solo se sono emozionanti come quelle di Nonno, eh, Barney? – ha detto
Mamma, rispondendo per me come al solito. Però aveva ragione. Mi
piacevano tanto le storie, ma solo quelle scatenate, tipo naufragi, pirati, tesori,
maghi, folletti, lupi, tigri, storie di isole deserte e giungle e partite di
pallone… Nonno sapeva quello che mi piaceva e le storie le raccontava così
bene che ci credevo fino all’ultima parola e ogni volta che finivano ci restavo
male. In un modo o nell’altro, riusciva sempre a infilarci dentro un cavallo di
nome Big Black Jack o una partita di pallone con il Coventry in vantaggio, e
questa cosa mi piaceva da matti. Così le rendeva reali.
– Be’, tuo Nonno non è qui – ha detto lo sconosciuto – e io non sono certo
bravo come lui a raccontare. Ma ci posso provare, no? Facciamo una prova.
Però, mi spiace tanto, niente pirati, isole deserte, folletti e compagnia bella.
Non me la cavo tanto bene a inventare le cose. Se ti va, posso raccontarti una
storia vera, per di più una che non ha mai sentito nessuno. Che ne dici? Ti
piacciono le storie vere?
– Certo che sì – ha risposto Mamma ridendo. Ho intuito che stava per dire
qualcosa di imbarazzante prima ancora che aprisse bocca. – Il mio Barney va
matto per le storie. Qualche volta ne racconta qualcuna anche lui –. E mi ha
dato un colpetto con il gomito. – E ci sa pure fare, eh. Non storie vere,
naturalmente. Ogni tanto ci racconta qualche piccola frottola, vero, Barney?
Ma, in fondo è quello che facciamo tutti. Non dovremmo, ma è così. A ogni
modo, questa sua storia ci piacerebbe tanto sentirla, vero, Barney? Come dice
lei, ci farà passare il tempo mentre siamo bloccati qua dentro. Già si soffoca
di caldo…
– Va bene, allora – ha detto lo sconosciuto. – Ecco la mia storia. Be’, non
proprio la mia. Di un mio amico, penso che si potrebbe definirlo un amico
per la pelle. Lo conoscevo meglio di qualsiasi altra persona al mondo.
– Come si chiamava? – ho chiesto.
C’è stato un attimo di silenzio.
– William Byron – ha risposto. – Ma non era il suo nome vero; quello non
lo sapeva. Era il nome che gli avevano dato. Per gli amici era solo Billy. Per
tutti gli altri, Billy Byron.

Fine della Prima parte.


Ancora quattro fiammiferi…
SECONDA PARTE
Billy Byron
1

– Si può dire che con Billy Byron ci conoscevamo praticamente da una vita –
ha cominciato lo sconosciuto. – Eravamo cresciuti insieme, io e Billy. Stessa
strada, stessa città, stesso orfanotrofio, stessa scuola elementare, St Jude. In
fondo a Mulberry Road.
– Ci va anche Barney alla St Jude – ha esclamato Mamma. – Non è vero,
Barney? O comunque ci andava.
– Pensa un po’ – ha detto l’uomo. – Quant’è piccolo il mondo! Buffo, no?
St Jude. Mulberry Road. Pare quasi destino che ci dovessimo incontrare.
Anche l’orfanotrofio si trovava da quelle parti. I bambini di Mulberry Road,
ci chiamavano.
– Quell’orfanotrofio me lo ricordo bene, lo conosco da un sacco di tempo
– ha continuato Mamma. – L’hanno buttato giù anni fa. Ci hanno costruito
sopra delle case e un negozio, la bottega della signora McIntyre. Ora però è
andata persa pure quella.
A un tratto il corridoio esterno è stato rischiarato dalla luce danzante di
una torcia. La porta scorrevole si è aperta e s’è sentita una voce: – Sono il
capotreno, signora. Giusto per controllare se tutto è a posto –. La torcia ha
illuminato lo scompartimento, poi si è soffermata per un istante sul viso del
capotreno e sul suo berretto con la visiera. – Non penso che resteremo
bloccati ancora molto.
– S’è fatto male qualcuno? Negli altri scompartimenti, dico? – ha chiesto
Mamma.
– Non credo – ha risposto l’uomo. – Non che io sappia, almeno.
– Quanto ci resteremo qua dentro? – ha chiesto Mamma. – Dobbiamo
prendere la coincidenza a Londra, sa, non possiamo fare tardi. Andiamo giù
in Cornovaglia.
– Beati voi – ha detto l’altro. – Forse un’ora, signora, non di più. Mi
spiace, ma il signor Hitler deve fare i suoi giochetti, no? Torno tra un po’.
Restate seduti.
Ed è sparito, chiudendosi la porta alle spalle e lasciandoci di nuovo
immersi nell’oscurità.
– Dov’ero rimasto? – ha ripreso lo sconosciuto. – Avevo appena
cominciato, giusto?
– All’orfanotrofio di Mulberry Road – ha detto Mamma.
– Giusto, eravamo lì. Papà mi ci ha messo quando mamma è morta, poi è
andato via e non l’ho più rivisto. Una liberazione, dico io. Quell’orfanotrofio
non era male: ci hanno dato un nome, un tetto sulla testa, qualcosa da mettere
in pancia. Ma poco altro. La notte si gelava e il mangiare faceva schifo. La
scuola però era un bel posto. Naturalmente, a noi dell’orfanotrofio ci
prendevano in giro da morire. I mocciosi di Mulberry Road, ci chiamavano.
Ma io e Billy ce ne infischiavamo. Sapete come si dice: «Le cattive parole
non rompono i denti». Facevamo tutto insieme, Billy e io: marinavamo la
scuola insieme, finivamo in castigo insieme, le prendevamo insieme. Lui si
poteva dire un cuorcontento, un compagnone. Già da allora andava matto per
il disegno. Uccelli, gli uccelli più di tutto. Merli, pettirossi, corvi. Li sapeva
disegnare tutti e pure le persone. Un po’ alla volta, ha disegnato quasi tutti in
quella scuola, anche i maestri, e certe volte ci sono rimasti male. Pensavano
che fosse un tipo impertinente, ma non era vero. Lui disegnava e basta.
Abbiamo finito la scuola nello stesso giorno e siamo anche andati via nello
stesso giorno. Abbiamo trovato lavoro insieme in un albergo, badavamo alla
caldaia e al giardino, davamo una mano a tinteggiare… lavoretti così. Ci
abitavamo anche in quell’albergo, in una stanzetta all’ultimo piano. Non ci
trattavano più da orfani, ma da schiavi. In due anni ci hanno dato le ferie una
volta sola. Un giorno e basta. Siamo andati a Bridlington.
– Ci siamo stati anche noi! – ho esclamato. – Ho una conchiglia di noce di
mare che ho trovato sulla spiag- gia –. E mi è tornata in mente la casa
distrutta dalle bombe e la mia conchiglia speciale e il mio autobus e i miei
soldatini di latta. Non avrei più rivisto niente.
– Abbiamo un sacco di cose in comune, io e te – ha proseguito lo
sconosciuto. – Bel posto Bridlington, eh? Mai mangiato pesce e patatine fritti
più buoni. Io e Billy siamo andati in spiaggia a guardare le onde, con la
voglia di partire, di vedere il mondo dall’altra parte del mare, oltre
l’orizzonte. Billy ha trovato nella sabbia un sassolino nero lucido e ha detto
che era il suo portafortuna. E, in effetti, bisogna dire che in vita sua ha avuto
sempre una gran fortuna. Ma sto correndo troppo.
A ogni modo, è stato dopo quel giorno di vacanza che abbiamo cominciato
a riflettere. Ne avevamo piene le tasche di lavorare come schiavi in
quell’albergo. Non ne potevamo più, sul serio. Poi, una domenica al parco,
vicino al palco della banda, ho incontrato un soldato. Be’, l’abbiamo
incontrato Billy e io. Suonava nella banda. Così ci siamo messi a
chiacchierare e lui ci ha raccontato che era stato in tutto il mondo con
l’esercito: Africa, Egitto, una volta perfino in Cina. E noi dov’eravamo stati?
A Bridlington. Billy non aveva famiglia, io neanche. Eravamo stufi di passare
il tempo a tenere accese caldaie, zappare giardini e verniciare porte per due
soldi. E quel soldato ci stava dicendo che nell’esercito potevi mangiare tutto
quello che ti pareva, roba buona, e pure gratis. Perciò, a farla breve, ci siamo
arruolati. Ci hanno dato una divisa e un fucile, ci hanno insegnato a marciare
avanti e indietro, a sparare un po’, a lucidare gli stivali e le mostrine, a tenere
tutto l’equipaggiamento in ordine, e poi si ricominciava a marciare avanti e
indietro. Però quel soldato del parco aveva ragione: il cibo era buono,
regolare e gratuito. E fare il soldato era cento volte meglio che sfacchinare
tutto il giorno. L’unico guaio è che c’era sempre qualcuno che ti sbraitava
contro dicendoti quello che dovevi fare e il più delle volte quello che non
dovevi fare. Un po’ come all’orfanotrofio, ora che ci penso. Comunque
avevamo un sacco di amici e Billy e io eravamo insieme. Era come un gioco,
insomma.
Poi, un bel giorno, ci hanno caricati su un treno, in divisa e fucile. E poche
ore dopo marciavamo per le strade, con la banda che suonava e tutti che ci
facevano festa e sventolavano bandiere. Ci pareva d’essere eroi, ecco. Poi
siamo saliti su una passerella e ci siamo imbarcati su una grande nave. «Ora
comincia l’avventura» pensavamo. Solo che appena la nave ha preso il largo
abbiamo cominciato a stare male da cani. Pure Billy che, però, non ha mai
smesso di sorridere. Era fatto così: il più allegro di tutti, sempre su di morale
e con la matita in mano. Non sapeva mettere due parole in fila, ma quanto gli
piaceva disegnare!
Era la prima volta che andavo per mare ma, credete a me, dopo quella
volta non l’ho più voluto vedere nemmeno dipinto! Non ti si ferma mai sotto
i piedi e ti fa rivoltare lo stomaco. Vi giuro che è stato un sollievo quando
dopo settimane di mare grosso abbiamo messo piede a terra e ricominciato a
marciare, anche se continuavano a sbraitarci contro dalla mattina alla sera.
Eravamo arrivati in Africa. In Sudafrica! Un bel po’ lontano da dove sta tuo
padre, ragazzo, ma pur sempre Africa. Stavamo davvero girando il mondo.
C’era un bel sole e, a parte le mosche e il mal di pancia, ci pareva di stare
nella bambagia.
– Come, nella bambagia? – ho chiesto, confuso. – Che vuol dire?
– È quando ti senti bene – ha spiegato. – Quando non hai niente di cui
preoccuparti. Eravamo contenti come una Pasqua, come fringuelli, stavamo
nella bambagia, come pascià, insomma. Eravamo in Africa come ci aveva
promesso quel soldato al parco. Abbiamo visto giraffe, leoni, elefanti…
animali di tutti i tipi. Il sole di laggiù, poi, dovresti vederlo al tramonto:
enorme, rosso fuoco, così vicino che ti pare quasi di poter allungare la mano
e toccarlo. Di combattimenti, però, neanche uno. Così ci facevano marciare di
più, ma avevamo comunque tanto tempo per scherzare e stare con le mani in
mano. Bei giorni quelli, a ripensarci ora. Tutto il cibo che volevamo, un sacco
di amici e il sole che ti scaldava le ossa. Billy disegnava tutto quello che gli
capitava a tiro, soprattutto animali, ma anche insetti, alberi, fiori, e poi
uccelli, ovviamente. Avvoltoi, aquile… Com’era felice quando se ne stava
seduto davanti alla tenda a disegnare. Gli album da disegno di Billy, be’,
dovresti proprio vederli. Dentro ci trovi tutta l’Africa.
Poi è arrivato il 1914 e ci siamo ritrovati su una nave a vapore che lasciava
Città del Capo e ci riportava a casa sul solito mare grosso. Tornavamo a casa
perché in Europa era scoppiata la guerra contro i tedeschi. Il Kaiser aveva
messo su un esercito enorme e aveva marciato sul Belgio. Così, per salvare il
piccolo, coraggioso Belgio toccava combattere il Kaiser. Servivano tutti i
soldati disponibili, noi compresi. Non avevamo paura. Più che altro, eravamo
elettrizzati. Niente più giornate con le mani in mano. Niente più marce avanti
e indietro senza motivo. Billy era entusiasta, non vedeva l’ora. Be’, la
pensavamo tutti come lui. Eravamo soldati, no? Quei Crucchi, ci pensavamo
noi a sistemarli in quattro e quattr’otto. Quanto tempo abbiamo passato a
ridere e cantare su quella nave! Quando non avevamo il mal di mare, almeno.
Nessuno sapeva quello che ci aspettava e, a pensarci bene, è stato meglio
così.
2

– Billy passava quasi tutto il tempo sul ponte della nave. «Se stai all’aperto,
non stai così male» diceva. Disegnava balene, delfini e altre cose. Ma i suoi
preferiti erano gli albatros, perché si libravano in aria e volteggiavano con le
ali che si muovevano appena. Restavano fermi apposta per lui, così erano più
facili da disegnare.
A ogni modo, non è passato molto che Billy ha dovuto mettere via l’album
da disegno perché, appena sbarcati, ci siamo messi subito in marcia attraverso
il Belgio. La guerra non stava andando bene, così ci avevano detto. E noi non
l’avevamo ancora vista con i nostri occhi. Eravamo ancora una banda di
mattacchioni che cantava e scherzava, Billy più di tutti. Eppure era anche un
soldato con i fiocchi, intelligente, mai un ritardo, mai un passo falso, sempre
il primo a offrirsi volontario anche per i lavori peggiori.
Ogni giorno, il rombo dei cannoni era sempre più vicino. Vedevamo
sfilarci davanti colonne di ambulanze cariche di feriti. E carri zeppi di mobili
e oggetti personali, a volte con una mucca o un cavallo legati dietro, e
famiglie intere che si trascinavano per la strada senza più forze, con i bambini
che piangevano. Scene da fare pietà, credetemi. Questo ha messo fine a tutti i
canti e le risate. Marciavamo attraverso paesi deserti e ridotti in macerie…
sul ciglio della strada carcasse gonfie di asini e cavalli. Una volta, in una
chiesa dal tetto scoperchiato, abbiamo visto centinaia di lettighe e bare vuote
accatastate contro un muro. E ormai lo sapevamo chi stavano aspettando.
Quando siamo arrivati all’accampamento, Billy ha tirato fuori l’album e
ha disegnato quelle bare. Niente più giraffe al galoppo e avvoltoi in cielo,
niente più tramonti, balene nell’oceano e albatros… Adesso era il viso di un
soldato ferito nel retro di un’ambulanza, una vecchia curva che tirava un
cavallo o una mucca lungo la strada. E poi una sera ha disegnato una
bambina, la bambina che gli avrebbe cambiato per sempre la vita, e senza
neanche sapere chi fosse e da dove venisse.
Stavamo marciando attraverso un paesino, un posto chiamato Poperinge,
nei dintorni di Ypres in Belgio, quando l’ha vista sul ciglio della strada. La
bambina stava seduta con le ginocchia strette tra le braccia e si dondolava,
piangendo sottovoce. L’abbiamo vista tutti passando. Era scalza, tremava e si
capiva che non le era rimasta dentro più nessuna speranza. Non era la prima
che vedevamo in quelle condizioni, ma lei sembrava così sola al mondo.
Billy stava marciando con gli altri, quando all’improvviso è uscito dai ranghi
ed è tornato indietro di corsa. Il Sergente l’ha richiamato urlando, ma lui non
ci ha fatto caso. La colonna ha rallentato e si è fermata, mentre il Sergente
continuava a imprecare e ci gridava di riprendere il passo. Siamo rimasti tutti
lì a guardare Billy che si era accovacciato vicino alla bambina e le parlava,
cercando di consolarla. Però non c’era verso. Allora Billy non ci ha pensato
su due volte e l’ha presa in braccio.
In quel momento è arrivato a cavallo il Maggiore, che gli ha ordinato di
mettere giù la bambina e di rientrare nella fila. Invece Billy è rimasto lì senza
fare una piega, mentre l’ufficiale dall’alto del cavallo sbraitava e gliene
diceva quattro.
«Cosa credi che stiamo qui a fare, soldato?» gridava. «Pensi che facciamo
da balia a questa gente? Se vuoi salvare quella ragazzina, se vuoi salvare tutti,
risparmia le forze per i tedeschi. È questo l’unico modo di salvare lei e
migliaia di bambini come lei. Ora mettila giù, soldato, e rientra nei ranghi.»
«Mi spiace, non posso, signore» ha risposto calmo Billy. «Combatterò i
tedeschi come dice lei, ma prima dobbiamo portare questa piccola a un
ospedale da campo. Sennò morirà. Ha bisogno di aiuto, signore, di un dottore.
E i dottori, noi ce li abbiamo, no? È debole come un gattino, signore. Non
posso lasciarla qui. Non ha più mamma e papà, è rimasta sola. Colpa di
questa guerra. Tutti dovrebbero avere una mamma, un papà e una casa. Lei
non ha più niente. Non è giusto, signore. Dobbiamo fare qualcosa. Non
possiamo abbandonarla qui, vero, signore?»
Quelle parole hanno ridotto il Maggiore al silenzio. Non ha più aperto
bocca, e neanche il Sergente. Così Billy ha raggiunto la colonna e ha portato
la bambina, avvolta nel pastrano militare, all’ospedale da campo più vicino,
continuando a parlarle per tutta la marcia. Quando i soldati hanno fatto sosta,
Billy ha adagiato la bambina su una lettiga e le ha tenuto stretta la mano per
qualche istante. Poi sono arrivati i barellieri e l’hanno portata nella tenda
ospedale.
Nessuno è riuscito a dimenticarla, men che meno Billy. È stata lei che lo
ha spinto a fare quello che poi ha fatto, ci diceva sempre. In parte erano state
le parole che quel giorno gli aveva gridato il Maggiore dall’alto del cavallo,
ma più di tutto era stata l’espressione negli occhi della bambina quando
l’aveva lasciata all’ospedale. Occhi pieni di dolore e disperazione. Se aveva
capito bene, e non poteva esserne certo, gli era parso che lei cercasse di dirgli
che si chiamava Christine. Era tutto quello che sapeva di lei. Durante le
settimane e i mesi seguenti non ha fatto che disegnarla, scrivendo il suo nome
sotto ogni ritratto. Più la disegnava e pensava a lei e parlava di lei, più si
convinceva di quello che doveva fare per Christine e per i bambini rimasti
orfani e soli al mondo a causa della guerra: avrebbe fatto di tutto per mettere
fine a quella guerra il più presto possibile, per impedire le sofferenze, per
fermare il dolore.
Poi, quasi senza accorgercene, ci siamo ritrovati al fronte, per la prima
volta in trincea. Le trincee, meno se ne parla e meglio è. Le talpe sono fatte
per vivere sotto terra, forse anche i vermi, ma gli uomini no. A essere sinceri,
all’inizio non è successo granché. Ogni tanto arrivava qualche proiettile e
c’erano sempre in agguato i cecchini, perciò bisognava tenere giù la testa.
Avevamo paura, certo. Sapevamo che là fuori, a poche centinaia di metri
nelle trincee dall’altra parte della terra di nessuno, c’erano i Crucchi pronti a
colpirci. Li sentivi che parlavano e ridevano, e certe volte ci arrivava anche la
musica che ascoltavano. Ma non li vedevamo mai e nessuno di noi era tanto
stupido da fare capolino per dare un’occhiata. I cecchini non aspettavano
altro. Il primo uomo che ho visto ammazzare è morto così. Harold Merton si
chiamava, me lo ricordo ancora. Aveva solo diciott’anni. Un tipo che parlava
poco, tranne quando cantava. Gli piaceva tanto cantare. A casa cantava nel
coro della chiesa. Veniva da Manchester; tifava per il Manchester United.
Aveva una gran bella voce. Un momento era lì che parlavamo, e il momento
dopo era morto.
Così, passavamo il tempo seduti in trincea a fumare Woodbines, a scrivere
lettere, a giocare a carte e a raccontarci storie, proprio come ora. Billy faceva
i suoi disegni, certe volte anche di noi, ed erano belli. E poi mangiavamo
stufato, stufato e ancora stufato. E pane e marmellata se eri fortunato.
Marmellata Ticklers. E dormivamo, o almeno ci provavamo. I Crucchi,
pareva che lo sapessero quando ci appisolavamo e ci mandavano subito un
fischiabotto a svegliarci. Naturalmente, dovevamo fare i turni di guardia e
ogni mattina all’alba stare pronti in preallerta sulla banchina di tiro. Era in
quel momento che ai Crucchi piaceva attaccare. All’alba, nella semioscurità,
nella foschia, alla prima luce del sole. Perciò dovevamo stare pronti,
baionette inastate, il colpo in canna. E Billy era sempre il primo, fuori dalla
trincea e su in banchina di tiro, pronto. Pareva quasi che ci sperasse
nell’arrivo dei Crucchi, che non vedesse l’ora di dargli addosso.
Certe notti, quand’era abbastanza buio, ci mandavano in perlustrazione
con un ufficiale, un sergente o un caporale. Dovevi arrampicarti sul
terrapieno, attraversare la terra di nessuno strisciando sulla pancia senza fare
rumore e poi cacciarti dentro il filo spinato e saltare giù nelle loro trincee.
Dovevi riuscire a catturarne uno per interrogarlo, era questo che ci avevano
ordinato. Se ti offrivi volontario, ti davano doppia razione di rum, ma
nessuno ci voleva andare lo stesso, a parte Billy, e il rum manco gli piaceva.
Solo la birra. Si offriva volontario tutte le volte, non gli dava nessun
problema. Billy il matto, lo chiamavano, ma lui se ne infischiava. Non era
matto, lo sapevamo tutti, non era matto per niente, e neanche coraggioso. Era
come aveva detto lui: voleva solo mettere fine a quella guerra il prima
possibile, così che nessun altro bambino restasse orfano come la piccola
Christine dei suoi disegni.
La prima volta che è suonato il fischietto e siamo usciti tutti insieme dalla
trincea tra il crepitio, lo scoppiettio e il martellamento di mitragliatrici e
fucili, sotto il fuoco dell’artiglieria, tra il fumo e le grida della battaglia, è
stato Billy che ci ha fatto da battistrada e noi gli siamo andati dietro.
Avevamo addosso una paura maledetta, e anche Billy, ma lui ci scherzava su,
diceva di avere in tasca il sassolino nero portafortuna di Bridlington e che
non gli sarebbe successo niente. Io credo, però, che avesse capito quello che
avevamo capito tutti: che non importava un fico secco se eri il primo o
l’ultimo a uscire dalla trincea, se andavi piano o di corsa. Una volta che ti
trovavi là fuori, in mezzo alla terra di nessuno, era solo questione di fortuna.
Schegge e proiettili, non li puoi schivare. O ti beccano o non ti beccano. O
crepi all’istante come Harold Merton o non crepi. Puoi cavartela senza un
graffio. O con una ferita da niente, ti fai mettere una pezza all’ospedale da
campo e, dopo che ti sei fatto qualche giorno di convalescenza, ti
rispediscono in prima linea. O magari ti becchi un “lasciapassare”, una di
quelle ferite gravi che ti fanno mandare subito a casa.
«Nelle mani di Dio», ecco come stavamo, diceva Billy. E se ti facevi
pigliare dall’angoscia non potevi vincere la guerra e farla finita. Bisognava
andare avanti. Vedevi morire gli amici, come il povero Harold, e ti venivano
gli incubi, la tremarella. Billy, invece, ogni volta che vedeva un ferito, ogni
volta che perdeva un compagno, si convinceva ancora di più che doveva
andare avanti, uccidere e catturare quanti più Crucchi possibile. Era quello
per lui l’unico modo di mettere fine alla guerra.
Poi è successo che anche lui s’è beccato un “lasciapassare”. È stato nella
battaglia della Somme, nell’ottobre del 1916. Una scheggia in una gamba.
All’ospedale da campo ha detto al dottore di mettergli due punti e via, così
poteva tornare subito in prima linea. Quando gli hanno risposto che non si
poteva, ha provato ad andarsene sulle sue gambe, ma l’hanno riportato
indietro. Il dottore ha detto che doveva tornare a casa, che era una brutta
ferita, profonda e pericolosa, e che aveva bisogno di un ospedale vero. Ed è
finita lì. Per un po’ Billy è rimasto in ospedale in Inghilterra, in una grande
casa in campagna, era nel Sussex, con i cervi nel parco davanti alla finestra e
i cigni sul lago. Passava il tempo a sperare che la gamba guarisse. Disegnava
i cervi, i cigni, i suoi compagni d’armi e poi ancora Christine, per ricordarsi
perché doveva tornare in trincea.
Quando dormiva, era la faccia della piccola Christine che vedeva sempre
in sogno. Voleva tornare in guerra e anche dai suoi compagni. Erano la sua
famiglia ora, la famiglia che non aveva mai avuto, e voleva stare con loro.
3

– Ma quando è tornato al fronte, un mesetto dopo, tanti suoi compagni non


c’erano più. Mentre era via se l’erano passata brutta. Molti erano morti o
dispersi o feriti. Tante facce sparite, quasi metà della sua nuova famiglia
perduta per sempre. E Billy dava la colpa a se stesso. Avrebbe dovuto essere
lì a tenere gli occhi aperti per loro, invece di poltrire in un letto d’ospedale in
quella villona inglese. Il suo posto era lì con loro. E la sua ragione di
combattere adesso non era più solo la piccola Christine, ma anche i suoi
compagni, quelli rimasti. Non li avrebbe più abbandonati, per nessun motivo.
Così, quando nell’inverno del 1917, eravamo dalle parti di Passchendaele,
Billy è stato ferito di nuovo, stavolta con un proiettile in un braccio, e hanno
provato a rimandarlo in Inghilterra, lui se n’è andato dall’ospedale di notte,
mentre non c’era in giro nessuno. Quando i dottori se ne sono accorti, lo
hanno preso per un disertore e la polizia militare l’ha cercato per arrestarlo.
Alla fine l’hanno trovato dove meno se l’aspettavano: in trincea con gli altri.
Non puoi arrestare qualcuno per diserzione se ha disertato per tornare in
prima linea, no? Allora l’hanno lasciato dov’era.
Passavano i mesi e Billy sembrava sempre meno preoccupato di vivere o
di morire. Se qualcuno restava ferito nella terra di nessuno, lui andava a
prenderlo. Se la situazione si faceva disperata, tipo che i Crucchi stavano per
sfondare le linee e circondare i nostri, Billy continuava a combattere e gli altri
con lui. Ai Crucchi non gliel’avrebbe mai data vinta. Neanche quando le cose
andavano male e sembrava che prendessero il sopravvento. La primavera
dopo eravamo dalle parti di Cambrai, vicino a un canale, se ricordo bene. La
marea era cambiata. Stavamo vincendo. Stavamo avanzando. I Crucchi li
avevamo messi in fuga o così pensavamo. Ma i Crucchi non scappano tanto
facilmente. Dite quello che vi pare, ma se c’è una cosa che ho imparato in
guerra è che, quanto a coraggio, non erano da meno di noi. Anche se
battevano in ritirata, appena ne avevano l’occasione, si fermavano a
combattere.
A ogni modo, una mattina siamo rimasti “incartati”. Ci avevano bloccati
sotto il fuoco delle mitragliatrici. Non potevamo andare avanti e non
potevamo tornare indietro. Allora Billy dice che gli servono due uomini e che
gli altri devono restare dove sono e dare fuoco di copertura. Così vanno
avanti in tre, «per sistemare i Crucchi» dice lui. Ed è quello che succede.
Billy il matto parte alla carica con gli altri due e, non si sa come, nessuno
viene colpito. E poco dopo eccoli lì che lanciano bombe e granate nelle
trincee tedesche, la mitragliatrice smette di sparare e tac!, i Crucchi gettano la
spugna. Alzano le mani e si arrendono, in venti, forse trenta, e buttano a terra
i fucili, così come niente. Abbiamo fatto decine di prigionieri quel giorno e
nessuno di noi aveva un graffio addosso. Una gran botta di fortuna, se mi
permette l’espressione, signora.
Mamma non ha risposto e dal ritmo del suo respiro accanto a me ho capito
che dormiva della grossa. Anch’io avevo sonno, ma mi sforzavo di restare
sveglio. Avevo una gran voglia di sapere cos’altro sarebbe successo a Billy in
quella storia. Lo scompartimento era buio come la galleria fuori del
finestrino, ma non mi dava fastidio, ora non più.
– Mamma s’è addormentata, credo – ho detto.
– Vuoi che accenda un altro fiammifero, Barney? – mi ha chiesto. – O sei
tranquillo?
– Penso di sì – ho risposto. In effetti, ormai mi ero completamente
scordato del buio.
– Vuoi che finisca la storia, ragazzo? Non vogliamo svegliare Mamma,
vero?
– A Billy non hanno dato una medaglia per tutto quello che ha fatto? – ho
chiesto.
– Certo che sì – ha proseguito. – E non una sola. Di medaglie ne ha prese
tante. Come dicevano i suoi amici, bastava che starnutisse e gliene davano
una. Loro ci ridevano su e a volte lo prendevano in giro da matti. Ma lui non
ci faceva caso perché sapeva che sotto sotto erano orgogliosi di lui, perché
era uno di loro e non pretendeva di essere diverso, anche se era diventato
famoso. E lo era parecchio. La sua foto era finita sui giornali in più di
un’occasione. Ogni volta che gli davano una medaglia, lo riempivano di
attenzioni. Ma lui non ci badava e neanche i suoi compagni.
L’esercito voleva promuoverlo, dargli i galloni, nominarlo caporale. Ma
lui non voleva. Gli ha risposto: grazie tante, sto bene come sto. Da soldato
semplice, come i suoi compagni. Ma loro continuavano a riempirlo di
medaglie, che gli piacesse o no. A volte lo premiavano perché era uscito allo
scoperto sotto il fuoco nemico per salvare un compagno. E una volta è
successo che non c’erano abbastanza barellieri per trasportare i feriti più
gravi e lui s’è caricato un compagno sulla schiena e l’ha portato per più di tre
miglia fino all’ospedale da campo, con le granate che gli piovevano intorno.
Ha preso una medaglia anche per quello.
Però Billy non lo faceva per le medaglie. Voleva solo farla finita, mollare
la divisa e tornare al vecchio albergo a badare alla caldaia, a dormire nella
stanzetta fredda all’ultimo piano e riprendere in mano la matita.
Quell’albergo tanto odiato, ora gli pareva un paradiso. Voleva scordarsi tutto
dei combattimenti e delle trincee, tutto della piccola Christine sul ciglio della
strada e della tristezza nei suoi occhi. Non voleva più essere costretto a
pensare ai compagni stesi a terra che fissavano il cielo con occhi vuoti, occhi
che non vedevano. Non gli importava più niente di vivere o morire. Era
stanco, tanto stanco. Lo eravamo tutti. Volevamo solo che arrivasse la fine,
che arrivasse la pace. Prima succedeva e meglio era per tutte le piccole
Christine, per tutti i soldati, per tutti noi.
Ecco perché Billy ha fatto ciò che ha fatto quel giorno di fine settembre
del 1918, solo qualche settimana prima della fine della guerra, anche se
questo non poteva saperlo. Nessuno sapeva quando sarebbe finita, ma tutti
sapevamo che la pace non poteva essere lontana. Ogni giorno l’esercito era in
movimento, usciva dalle trincee dov’era rimasto bloccato tanto a lungo e
avanzava dappertutto, e dappertutto i Crucchi battevano in ritirata.
È successo dalle parti di un paesino chiamato Marcoing, non sono mai
sicuro di come si pronuncia, noi lo chiamavamo “Marcong”. È questo il
guaio con i nomi stranieri: i francesi, i belgi, non pronunciano le parole come
noi, il che è anche giusto, a pensarci bene. A ogni modo, noi e Billy stavamo
cercando di prendere quel paesino. Non lo sapevamo, ma i Crucchi si erano
piazzati bene nelle loro trincee, anche in mezzo alle case, o quello che ne
restava. E ci davano addosso con tutto quello che avevano, mitragliatrici,
fucili… Alcuni ragazzi sono stati colpiti subito, noialtri ci siamo messi al
riparo. Billy, no, naturalmente. Lui è strisciato verso la postazione nemica e
ha lanciato le sue bombe, facendo saltare in aria la mitragliatrice. Era ferito,
ma questo non l’ha fermato. A quel punto, infiammata dal suo esempio, tutta
la compagnia è saltata su per dare addosso ai Crucchi. Ci sono stati un sacco
di morti quel giorno, e non è stata una bella scena. Non lo è mai. Non dare
retta a chi ti dice che non è così, ragazzo.
La battaglia, però, non era ancora finita. Dovevamo attraversare il canale
per attaccare i Crucchi dall’altro lato. Dal canale non smettevano di
martellarci di colpi, ma Billy non ci badava. Continuava a fare il suo dovere.
Ha posato delle tavole di legno da una parte all’altra per costruire una specie
di ponte, così potevamo passare. Noi nel frattempo sparavamo, cercando di
far tenere ai Crucchi giù la testa. Ed è stato così che abbiamo attraversato il
canale, sulle tavole di Billy. Ma i Crucchi non avevano ancora finito. Ci sono
arrivati addosso da tutte le parti e hanno provato a respingerci.
Ma Billy, niente. Non aveva nessuna intenzione di ritirarsi. Così, noi e lui
abbiamo tenuto duro. Billy è stato ferito altre due volte, ma ormai non lo
fermava più nessuno. Avrebbe messo fine alla guerra in quel momento, anche
da solo se necessario, l’avrebbe fatta finita una volta per tutte. Ammazza o
fatti ammazzare, punto. E loro erano il nemico. Quando la guerra è finita puoi
anche metterti a discutere di quello che è giusto o sbagliato, ma nel mezzo
della battaglia i soldati non si fanno tante domande.
Quando una battaglia è finita, però… be’, è un altro paio di maniche. E a
quel punto era finita. C’erano morti e feriti dappertutto, certi erano nostri
ragazzi, ma la maggior parte erano dei loro. È in quel momento che ti rendi
conto di quello che hai fatto. Avevamo vinto, ma non aveva il sapore di una
vittoria, non è mai così. Non c’è nessuna gioia nel vincere. Nessun trionfo.
Provavamo solo un gran sollievo. Eravamo vivi, almeno per il momento.
L’avevamo scampata.
Avevamo preso dei prigionieri, parecchi, più di trenta, se mi ricordo bene.
Erano sfiniti, affamati, parevano fantasmi. Mi sa che avevamo tutti la stessa
faccia. L’ufficiale in comando si è arreso a Billy, gli ha fatto il saluto militare
e gli ha dato la pistola. Anche lui come noi sapeva che quella battaglia
l’aveva vinta Billy, praticamente da solo. Li abbiamo perquisiti per
controllare che non avessero armi nascoste, granate, coltelli. Non avevamo
niente da dirgli e loro non avevano niente da dirci. Gli abbiamo dato delle
sigarette. Non avevano un’aria così cattiva. Qualcuno era giovane, con la
faccia da ragazzino. Ti facevano anche un po’ pena. Intorno c’era silenzio, un
gran silenzio, come la calma dopo la tempesta.
A un certo punto, vediamo questo Crucco che sbuca dal fumo, a non più di
venti metri di distanza, con un fucile in mano, ma non puntato contro di noi,
solo in mano. Si gira e se ne va. Billy gli grida di fermarsi e quello obbedisce.
Ha una mezza dozzina di fucili puntati addosso, ma Billy ci dice di non
sparare. Gli punta la pistola contro e gli ordina di buttare a terra il fucile,
facendoglielo capire a gesti. L’altro resta lì come imbambolato. Un tipo
basso, senza elmetto, la divisa tutta infangata. Ci guarda fisso come se non ci
vedesse. Dalla faccia si capisce che sta solo aspettando il proiettile. Si scosta i
capelli neri dalla fronte con il palmo della mano e resta immobile con il fucile
al fianco. Non ha intenzione di metterlo giù e noi siamo pronti a sparargli. È
in quel momento che Billy parla.
«No» ci dice. «Non sparategli, ragazzi. Ci sono stati abbastanza morti per
oggi. Sono stati sconfitti. Sta tornando a casa, lasciatelo andare. Non ha
intenzione di spararci, non più. Questa guerra è finita e anche lui lo sa.» Poi è
andato verso il soldato e gli ha detto a voce alta: «Va’ a casa, Crucco, è finita.
La guerra è finita. Vattene, prima che ci ripensi».
Ha alzato la pistola e ha sparato in aria, mirando di proposito sopra la testa
del soldato. Il Crucco ha fatto solo un cenno, lo ha guardato per qualche
istante, ha messo giù il fucile, poi s’è girato ed è andato via. E noi l’abbiamo
guardato allontanarsi, contenti di non averlo ucciso, perché lo sapevamo tutti
che Billy aveva ragione, che non c’era motivo di ucciderne un altro. Quel
soldato che se ne andava, che tornava a casa, per noi voleva dire una cosa
sola: la guerra era finita e presto saremmo tornati a casa pure noi.
Billy s’è chinato a raccogliere la cartuccia. «È l’ultimo colpo che sparo in
questa guerra» ha detto. «Non è stato per rabbia e non ha ammazzato
nessuno. Voglio tenerlo sempre con me, per non dimenticare.»
Per quello che ha fatto quel giorno a Marcoing gli hanno dato la Victoria
Cross e non è una medaglia che danno con facilità. Chi la riceve è quasi
sempre già morto, ucciso in battaglia. A essere giusti, doveva esserlo anche
Billy. Ma, come diceva lui, aveva sempre in tasca il sassolino nero trovato in
spiaggia a Bridlington e Madama Fortuna era dalla sua parte. Dopo un
mesetto in ospedale, era di nuovo in gamba. Be’, più o meno. Da quel
momento ha sempre zoppicato un po’. A ogni modo, passata qualche
settimana, era a Buckingham Palace in gran forma e tirato a lucido per
ricevere la Victoria Cross, che gli è stata appuntata sul petto da re Giorgio V
in persona.
Il Re ha detto che era un grande eroe e che la Patria era orgogliosa di lui.
Ma Billy gli ha risposto che si sbagliava. «Per essere un eroe bisogna essere
coraggiosi, signore» gli ha detto. «E io non sono stato più coraggioso degli
altri.»
Voleva spiegargli che non l’aveva fatto per il Re e la Patria. Che aveva
fatto ciò che aveva fatto solo per la piccola Christine e per i compagni. Per
chiudere quella guerra e basta, non aveva in mente altro. Ma non ha avuto
abbastanza coraggio per dirlo al Re. E dopo se n’è sempre pentito.
Lo sconosciuto è rimasto in silenzio. Intuivo che Mamma dormiva ancora
della grossa, avvertivo il suo respiro regolare al mio fianco. Però, ora che la
storia era finita, o almeno così pensavo, sentivo l’oscurità tornare di colpo a
chiudersi su di me. Volevo che la storia andasse avanti per togliermi di testa
quelle tenebre. – È tutto qui? – ho chiesto.
In quel momento si è accesa una fiammella che ha rischiarato lo
scompartimento, illuminando il viso dell’uomo da sotto il mento. Ha
abbozzato un sorriso.
– Magari, ragazzo! – ha risposto. – C’è dell’altro, purtroppo, molto altro.
Ma sono rimasti solo tre fiammiferi.

Fine della Seconda parte


Ancora tre fiammiferi…
TERZA PARTE
Uno sguardo che uccide
1

– Mi sa che tua Mamma dorme –. Lo sconosciuto ha parlato sottovoce,


chinandosi verso di me. – Non vorrei svegliarla, sai?
– Non dormo per niente – ha risposto Mamma, aprendo gli occhi. – Non
mi sono persa una parola. Per essere una bella storia è bella, però non ci ha
raccontato cos’è successo a questo suo amico, questo Billy, dopo che la
guerra è finita.
Il fiammifero si stava esaurendo. L’uomo l’ha spento scuotendo la mano e
lo scompartimento è ripiombato nel buio. – Ci stavo arrivando – ha
continuato. – Volevo solo essere sicuro che non vi eravate addormentati e che
non stavo parlando da solo.
– Quanto ci restiamo in questa galleria, Mamma? – ho chiesto. Il buio
aveva ricominciato a darmi sui nervi. Appena il fiammifero si era spento,
l’oscurità era diventata così fitta, così impenetrabile. E io sapevo che
restavano solo tre fiammiferi. – Quanto ancora, Mamma?
– Finché non possiamo uscire al sicuro, penso – ha risposto. – Quell’aereo
non può farci niente qua dentro, giusto, Barney? Siamo al sicuro come a casa
–. Mi ha dato un colpetto rassicurante sulla mano e poi l’ha stretta. – Non è
vero, signore?
– Anche di più, spero – ha detto lui. – Di questi tempi le case non sono più
tanto sicure, almeno non a Coventry, non so se mi spiego.
– Parole sante – ha detto Mamma. – Anche il Papà di Barney è stato
nell’altra guerra, sa. Non in trincea come lei e quel Billy. È stato in Palestina,
con i cavalli. Li conosce bene i cavalli. Nessuno sapeva farci come lui con
Big Black Jack. Papà ci sa proprio fare con i cavalli, vero, Barney? C’è
cresciuto in mezzo, andava in giro a portare il carbone con il Nonno di
Barney. Ha preso anche qualche medaglia. Non la Victoria Cross come quel
suo amico, eh. Comunque, sono andate tutte perse nel bombardamento,
insieme al resto. Siamo rimasti con quello che abbiamo addosso e qualche
cianfrusaglia in quella valigia sopra il sedile. Però siamo ancora vivi, e ce ne
sono tanti a Coventry che non possono dire lo stesso.
– Proprio vero – ha detto lo sconosciuto. – Nessuno ha idea di quanti sono
rimasti uccisi. Migliaia di persone, poco ma sicuro.
– Non ci posso pensare – ha continuato Mamma. – Cambiamo discorso,
eh? Non mettiamo angoscia al bambino. Allora, cos’è successo a quel suo
Billy quand’è tornato a casa dalla guerra? Dov’è ora? S’è arruolato un’altra
volta come il Papà di Barney? Io non volevo, sa. Ormai ha passato i quaranta.
«Sei troppo vecchio» gli ho detto, ma lui non ha sentito ragioni –. Ho
avvertito un tremito nella sua voce e ho sentito che apriva la borsa: sapevo
che stava tirando fuori il fazzoletto. E anche il nostro compagno di viaggio
doveva averlo capito, perché ha ripreso subito la storia.
– Certo che Billy voleva tornare nell’esercito, ma loro non l’hanno preso
per via della gamba malata. Quelle vecchie ferite non guarivano mai del tutto.
E poi dicevano che era troppo vecchio e non volevano dichiararlo abile. Lui
ci ha provato e riprovato, gli ha fatto vedere la Victoria Cross, la Medaglia al
Valor Militare e la Medaglia al Merito, tutte quante. Ma non c’è stato verso.
L’hanno scartato e basta. E posso dirvi che Billy c’è rimasto male più che per
qualsiasi altra cosa gli fosse capitata. E aveva tutte le ragioni, credetemi,
perché di tornare al fronte aveva più motivo lui di chiunque altro in tutto il
Paese, perché, per come la vedeva Billy, quella guerra era solo colpa sua.
– Che vuol dire? – ha chiesto Mamma. – Com’è possibile? È tutta colpa di
quel verme di Hitler, lo sappiamo tutti.
Per un po’ lo sconosciuto è rimasto in silenzio. – Ha ragione, ma è proprio
qui il problema. È meglio se vi racconto com’è andata, com’è che ci
ritroviamo in questa galleria e siamo in guerra e cosa c’entra Billy in tutto
questo –. Per un pezzo è sembrato riflettere su quello che doveva dire, poi ha
ripreso a parlare.
– Be’, dopo che la guerra è finita, s’è scoperto che Billy Byron era il
soldato semplice più decorato di tutto l’esercito inglese, un grand’eroe che
aveva fatto questo e quello. Tutti gli facevano un sacco di feste, ma lui voleva
solo essere lasciato in pace. Il più coraggioso dei coraggiosi, lo chiamavano i
giornali, ma lui sapeva che non era così, che i più coraggiosi dei coraggiosi
non erano mai tornati a casa e non avevano mai portato una medaglia sul
petto. Gli hanno chiesto di portare la bara del Milite Ignoto all’Abbazia di
Westminster alla presenza del Re e di centinaia di migliaia di persone.
Quand’è stato alla parata, con le sue medaglie sul petto, tutto l’esercito era
orgoglioso di lui, tutto il reggimento e anche i suoi compagni. Billy però non
si sentiva orgoglioso. Non riusciva a togliersi dalla testa quello che aveva
passato, le uccisioni e i morti. Ogni cosa glielo ricordava. Ogni volta che
vedeva un soldato o un marinaio che chiedeva l’elemosina a un angolo di
strada, magari senza gambe o cieco o tutt’e due le cose, ogni volta che vedeva
passare una donna vestita a lutto, gli tornava in mente tutto quello che non
voleva ricordare.
Per un po’ è rimasto nell’esercito, perché era la sua famiglia e non voleva
abbandonarla, ma alla fine ha deciso che era ora di lasciarsi l’esercito alle
spalle, anche se i giornali con le loro interviste non volevano mollarlo.
L’esercito ci ha provato e riprovato a convincerlo a restare, ma lui ormai ne
aveva piene le tasche. Ha riconsegnato la divisa e se n’è andato. Ha tenuto
solo qualche ricordo. Ha messo da parte poche cianfrusaglie di guerra e le ha
nascoste in una grossa scatola di latta per i biscotti: le foto dei suoi compagni,
le medaglie, il sassolino nero portafortuna, la pistola che l’ufficiale tedesco
gli aveva consegnato il giorno dopo la battaglia di Marcoing e l’ultima
cartuccia usata… cose da cui non voleva separarsi. Dentro quella scatola di
latta non ci guardava quasi mai, voleva dimenticare e andare avanti con la
vita, ma allo stesso tempo voleva ricordare. Aveva tenuto da parte anche i
suoi album da disegno e pure quelli erano pieni di ricordi.
È tornato all’albergo, perché il lavoro non era facile da trovare e qualsiasi
lavoro era meglio che niente, anche quello all’albergo. Purtroppo ha scoperto
che era stato chiuso. Poi ha sentito dire che c’era lavoro in una fabbrica di
macchine a Coventry, così ci è andato e lì ha avuto fortuna. Ha cercato di
farci l’abitudine, ma il problema è che la guerra gli era rimasta in testa: le
scene e i rumori e gli odori, e la tristezza. È lo stesso per tutti noi che siamo
stati al fronte. Non dimentichi, non puoi. Vorresti ma non riesci. Billy
passava le notti sveglio e rivedeva nella mente gli occhi della bambina. Certe
volte si sorprendeva a dire il suo nome a voce alta. «Christine, Christine.» La
disegnava spesso e non smetteva di chiedersi cosa le fosse successo, se fosse
sopravvissuta alla guerra, se avesse trovato un posto dove vivere, qualcuno
che le volesse bene. Si sforzava di non disegnare più quei ricordi di guerra e
se ne andava per le vie di Coventry a disegnare la gente, i bambini per strada,
i gatti, la cattedrale, i piccioni. Aveva una passione particolare per i piccioni.
Ma anche quando stava seduto davanti alla cattedrale dove ce n’erano sempre
tanti, a volte si ritrovava a disegnare un carro armato, una pistola, un
ospedale da campo… e, alla fine, Christine, sempre la piccola Christine. Non
riusciva a trattenersi, a quanto pare.
In fabbrica, naturalmente, era subito corsa voce che Billy Byron era un
eroe di guerra, qualcuno aveva visto la sua foto sul giornale. E, per un po’,
questo lo ha allontanato dagli altri. Quasi tutti erano stati in guerra come lui e
volevano dimenticare. Perciò, quando hanno accettato il fatto che un collega
aveva ricevuto la Victoria Cross e hanno capito che Billy voleva solo
continuare a lavorare e vivere una vita tranquilla, nessuno s’è più interessato
alle sue medaglie. Era quello che Billy voleva: essere lasciato in pace e basta.
Passavano gli anni e, che fosse al lavoro o nella sua stanza, Billy si
ritrovava sempre più spesso a pensare alla piccola Christine. Era
sopravvissuta? Cosa le era successo? Doveva scoprirlo, doveva sapere.
Aveva giurato di non tornare mai più sui campi di battaglia in Francia e
Belgio. Non voleva più rivederli, ma sapeva che il posto da cui cominciare la
ricerca era quello dove l’aveva vista per l’ultima volta.
Così, durante la sua settimana di ferie nell’estate del 1924, ha preso ed è
partito per Ypres in Belgio, a cercare l’ospedale da campo di Poperinge, dove
aveva visto per l’ultima volta Christine, tanti anni prima.
2

– Ha girato in lungo e in largo le strade di ciottoli, si è fermato nei caffè, non


ha mai smesso un istante di cercarla. Ma lei non c’era più, naturalmente, e
nemmeno l’ospedale da campo. A essere sinceri, non ricordava neanche bene
dove si trovasse un tempo. La città era stata ricostruita. A parte la piazza
centrale e i caffè, niente era più come prima. Ovunque andasse, Billy faceva
vedere a tutti il ritratto di Christine. Ha fatto il giro di tutti i paesi dei dintorni
chiedendo se qualcuno avesse incontrato un’orfanella con quel nome.
Ovunque andasse, vedeva cimiteri con file e file di croci, a migliaia. Ha
ritrovato la tomba di Harold Merton e si è fermato lì sotto la pioggia cercando
di ricordare il suo viso. Non ci è riuscito, ma ricordava il momento in cui era
morto. Ovunque solo trincee e crateri di bombe e tante case in macerie.
Comunque, erano tutti impegnati nella ricostruzione, e nei campi dove un
tempo c’erano solo trincee, filo spinato e fango ora cresceva di nuovo l’erba.
C’erano mucche al pascolo e pecore. Questo gli ha dato coraggio. Gli ha
ridato speranza. Però nessuno aveva sentito parlare di Christine, nessuno la
riconosceva in quei ritratti. Billy era deluso, ma non si sorprendeva più di
tanto. Alla fin fine, erano solo disegni, non fotografie, e ritraevano una
bambina. E Christine non era più una bambina ormai.
Era l’ultimo giorno e Billy stava seduto al tavolino di un caffè nella piazza
di Ypres a bere un boccale di birra. Ricordava sempre con piacere la birra
della guerra. Un piatto di uova e patatine con un boccale di birra erano
praticamente l’unico ricordo davvero felice della sua vita di soldato. Aveva
tirato fuori l’album e stava disegnando un gatto che lo guardava seduto ai
suoi piedi, quando s’è accorto che qualcuno alle sue spalle stava osservando
il disegno. Era la cameriera. La donna gli ha chiesto in un inglese stentato se
fosse un artista.
«Non proprio» ha risposto lui e, in quel mentre, il vento ha sfogliato le
pagine dell’album fino a un disegno di Christine che Billy aveva fatto quella
mattina, ritraendola come l’aveva vista l’ultima volta sulla lettiga, e sotto
aveva scritto il suo nome.
La cameriera si è chinata a guardare meglio. «Chi è questa Christine?» ha
chiesto.
«Solo una bambina che conoscevo. È stato tanto tempo fa, durante la
guerra. Era orfana, credo. Io ero nell’esercito. L’ho portata in ospedale.»
La donna ha continuato a guardare i disegni per un bel pezzo, voltando le
pagine, e si capiva che era sempre più interessata. Alla fine ha detto
sottovoce: «Le ha fatto tanti ritratti. Questa ragazzina forse io la conosco. Se
non mi sbaglio, andavamo a scuola insieme al convento, dopo la guerra. Sì,
questa è Christine, Christine Bonnet. Sono sicura. L’ha disegnata molto
bene».
«La conosce!» ha esclamato Billy. «Dov’è? Sa dove abita?»
«Dove abita, no. Non ci frequentiamo più, ma credo che insegnasse nella
nostra scuola. Forse ci lavora ancora. Non so.»
Quel pomeriggio stesso Billy stava davanti al cancello della scuola.
Quando l’ha vista venire verso di lui in bicicletta, l’ha riconosciuta subito.
«Ciao, Christine» ha detto. «Chissà se ti ricordi ancora di me.» E ha
cercato di spiegarsi, inciampando nelle parole che gli uscivano dal cuore.
Sulle prime, lei è rimasta interdetta. Non si ricordava di lui, non proprio, però
ricordava un soldato che la portava lungo la strada e l’ospedale da campo con
i dottori e poi il convento, dove si erano presi cura di lei fino alla fine della
guerra. Camminavano insieme e parlavano. Billy aveva ritrovato la sua
Christine.
A farla breve, per cinque anni di seguito lui è tornato a trovarla d’estate e
lei è andata a trovarlo a Coventry. Si sono sposati e sono stati felici. Tutti e
due avevano i loro momenti di tristezza, tutti e due erano soli al mondo, ma
trovavano conforto l’uno nell’altra. Qualche tempo dopo, Christine ha avuto
un posto da insegnante a Coventry e ben presto i suoi bambini, come diceva
lei tutta orgogliosa, sono stati gli unici in tutto il paese che sapevano contare
fino a dieci in fiammingo, la sua lingua. Lei e Billy avrebbero voluto dei figli,
ma non sono venuti. Eppure, erano felici. Erano ancora vivi, al contrario di
tanti amici che non c’erano più, avevano una casa e un lavoro. Ed erano lì
l’uno per l’altra. Poi, però, la vecchia guerra è tornata a ossessionare Billy e
in un modo che non si sarebbe mai aspettato o immaginato.
A questo punto lo sconosciuto si è fermato e ha fatto un gran respiro,
come se non volesse più continuare.
– Ossessionare come fanno gli spettri? È una storia di fantasmi? – ho
chiesto. – Mi piacciono un sacco le storie di fantasmi.
– Zitto, Barney – ha detto Mamma. – Non interrompere il signore.
– No, ragazzo – ha continuato lui. – Mi spiace, niente fantasmi in questa
storia. Anche se in un certo senso si può veramente chiamarla un’ossessione,
un’ossessione in carne e ossa, ed è cominciata al cinema. A Billy e Christine
piaceva andare al cinema, era il loro passatempo preferito, soldi permettendo.
Più di tutti gli piacevano i film d’avventura. Christine aveva una cotta per un
grande attore di Hollywood di nome Douglas Fairbanks Junior.
– Piace anche a me – è intervenuta Mamma. – Gran bell’uomo.
– Proprio quello che pensava Christine. Non si perdeva neanche un film
dove recitava lui. A ogni modo, un sabato pomeriggio, passando davanti al
cinema, era il Roxy, vedono il suo nome in locandina: Robinson Crusoe,
nell’interpretazione di Douglas Fairbanks Junior. Così hanno comprato il
biglietto e sono entrati.
In sala era buio e la maschera li ha accompagnati ai loro posti. Sullo
schermo scorreva già il notiziario. A un certo punto è scoppiato un gran coro
di fischi e versacci e quando Billy e Christine si sono messi seduti hanno
capito il perché. Eccolo là sullo schermo, Adolf Hitler, il Führer tedesco, che
si scalmanava come al solito in una delle sue sparate e sproloquiava fuori di
sé. Billy l’aveva sentito tante volte alla radio, come tutti d’altronde, e ogni
volta cambiava canale perché sapeva che metteva Christine di cattivo umore.
Ma al cinema non poteva cambiare canale. Volenti o nolenti, dovevano
restare seduti ad ascoltarlo.
Naturalmente, né lui né Christine capivano quello che diceva, ma come gli
altri afferravano il succo del discorso dal tono isterico, dallo sguardo pieno
d’odio e da quei pugni agitati minacciosamente in aria. Il Führer era in divisa
su un palco a qualche grande adunata illuminata dalle torce, come tante già
viste, affollate di migliaia e migliaia di soldati con lo stesso elmetto a secchio
di carbone che Billy ricordava bene dopo tanti anni di guerra. La folla
pendeva dalle sue labbra come ipnotizzata. E alla fine gli gridava parole di
approvazione. Parevano impazziti, adoranti. Tutti con il braccio alzato nel
saluto nazista e le loro voci riecheggiavano come un tuono. Hitler se ne stava
lì beato col pollice infilato nella cintura e rispondeva al saluto, passando in
rassegna le truppe e guardandosi intorno con l’aria di un imperatore romano.
A Billy e Christine si era gelato il cuore. Hitler ha zittito la folla con la
mano e ha continuato il suo sproloquio, sottolineando ogni frase con gesti
convulsi. Ma la gente del Roxy non è riuscito a zittirla. Tutti ridevano forte e
lo pigliavano in giro facendogli il verso. E dopo un po’ anche Billy e
Christine hanno cominciato a ridere, decisi anche loro a non farsi spaventare
da quel pazzo scatenato.
Poi è successa una cosa improvvisa: è andato via il sonoro e sono rimaste
solo le immagini. Hitler ha perso la parola. Sullo schermo è rimasta solo la
sua faccia contorta di rabbia che sputava odio in silenzio. E in qualche modo
quelle parole senza suono facevano più paura che mai. Nel cinema è sceso un
gran silenzio. Guardando quel viso, Billy non ha avuto più bisogno della voce
per capire quello che voleva dire, quello che aveva in testa. La faccia diceva
tutto. Gli occhi dicevano tutto. Quegli occhi scuri dallo sguardo fisso che ora
guardavano dritto Billy e solo lui. Era questa la sensazione che Billy provava
e in quegli occhi riusciva a leggerci tutte le peggiori intenzioni del mondo.
Era uno sguardo che uccide.
È stato in quel preciso istante, quando i loro sguardi si sono incrociati nel
cinema, che Billy s’è reso conto di averlo già incontrato, non sullo schermo,
ma faccia a faccia. E quando Hitler ha alzato una mano per scostarsi i capelli
dalla fronte, ha capito subito chi era e dove si erano incontrati e ha ricordato
tutto quello che era successo tra loro.
Christine gli si è aggrappata al braccio e ha distolto lo sguardo dallo
schermo, nascondendo il viso nella sua spalla. Billy s’è accorto che anche gli
altri provavano la stessa emozione. Era paura. Quella che ti abbranca corpo e
anima e non ti molla. Niente più fischi, urla, risate. Era come se in quel
cinema tutti aspettassero con il fiato sospeso quello che sarebbe successo,
tremando d’orrore al pensiero, ma sapendo che niente poteva evitarlo perché
quell’uomo, quell’Hitler, l’avrebbe fatto comunque succedere. Billy però
sapeva di più. Continuava a fissare quegli occhi senza riuscire a distogliere lo
sguardo e si chiedeva se quello che gli passava per la testa era vero. Ma più
guardava quegli occhi e più si convinceva che sì, era vero, senza ombra di
dubbio. Quell’uomo, quel guerrafondaio, stava su quello schermo a sputare
odio solo perché Billy gli aveva risparmiato la vita tanti anni prima, alla
battaglia di Marcoing.
Lo sconosciuto è rimasto in silenzio. Il treno ansava come se stesse
ascoltando insieme a noi. Come se volesse saperne di più. Nel silenzio della
carrozza, l’oscurità era tornata a chiudersi su di me. Ho afferrato Mamma per
la mano e l’ho stretta forte.
– Questa poi! – ha esclamato lei. – Chi ci crederebbe?
– Se ci credeva Billy, ci credo anch’io – ha risposto l’uomo.
– Può accendere un altro fiammifero? – ho chiesto. – Fa sempre più buio
qua dentro.
Ho sentito che armeggiava con la scatola e l’apriva. Avrei dato non so
cosa per un po’ di luce.
– Ecco qua – ha detto. Ha strofinato il fiammifero una, due volte. Una
scintilla. Ma niente luce. – La terza volta è quella buona – ha mormorato.
Ed è stato così. La fiammella si è accesa, illuminandogli il viso,
illuminando l’oscurità e scacciandola via.
3

– Coraggio, tesoro, va tutto bene, vedi? – ha detto Mamma. – Non c’è niente
da preoccuparsi –. Invece, c’era eccome, perché la luce già tremolava. E a un
certo punto s’è spenta del tutto. – Vada avanti con la storia, signore – ha detto
Mamma. – A Barney piace tanto, vero? Lo fa stare meglio.
– Come vuole, signora – ha risposto lui e ha ripreso a raccontare.
– Billy aveva visto abbastanza. S’è alzato ed è uscito dal cinema. Christine
gli è andata dietro. È tornato a casa senza dire una parola. S’è messo in
poltrona e ha passato la sera a fissare il fuoco in silenzio. Non ha toccato
cibo. Christine ha avuto il buonsenso di non chiedergli niente. Ogni tanto a
Billy capitava di comportarsi a quel modo. Poi, quando gli passava, sulle sue
botte di malumore ci scherzava su, «le sue paturnie» le chiamava. Quando si
sentiva così, voleva essere lasciato in pace. Prima o poi gli passava e tornava
quello di prima. Christine ormai c’era abituata. Sapeva che a ossessionarlo
era la guerra. Faceva di tutto per tirarlo su di morale, anche se non c’era
verso.
Questa volta, però, si capiva che era una cosa diversa. Le paturnie di Billy
sono andate avanti per giorni e poi settimane, tanto a lungo che Christine ha
cominciato a chiedersi se sarebbero mai finite. Ha pensato che forse era il
caso di chiamare il medico, ma poi non se l’è sentita. L’avrebbe turbato
ancora di più e Billy lo era già abbastanza.
È stato solo un mesetto dopo che, una notte, Billy le ha finalmente
raccontato cosa l’aveva ridotto a quel modo. Stavano a letto al buio, fianco a
fianco, sapendo che l’altro non riusciva a dormire e a un certo punto Billy se
n’è uscito fuori dicendo: «Era lui, Christine. Sullo schermo, quella sera al
Roxy. Non ci si può sbagliare. Quegli occhi li riconoscerei ovunque. Chi se li
dimentica? Mi ha guardato dallo schermo come ha fatto tanti anni fa
quand’eravamo in guerra. Hai visto come s’è tolto i capelli dalla fronte? Fa
sempre così, no? Non ho mai visto nessuno farlo a quel modo. Era lui. Lo so
che era lui. Era Hitler».
Christine non capiva di cosa stesse parlando. Da quando stavano insieme,
ormai dieci anni e passa, Billy non aveva quasi mai accennato alla guerra.
Nessuno dei due l’aveva fatto. Naturalmente, lei sapeva delle medaglie e di
come Billy fosse stato famoso ai suoi tempi e ne era fiera, molto più di lui,
ma quelle medaglie non le aveva mai viste né aveva mai chiesto di vederle.
Anche loro erano state messe da parte come gli altri ricordi e la guerra non
veniva quasi più nominata. Parlare di quei giorni spaventosi non avrebbe
fatto altro che riportarli alla mente. E tutti e due volevano solo vedere svanire
i ricordi. Guardare al futuro, dimenticare il passato. Era come un tacito
accordo stabilitosi tra loro negli anni: non parlare più della guerra. Ma ora,
per la prima volta, Billy lo aveva infranto.
«C’è una cosa che devo dirti, che devo farti vedere» le ha detto. Ha acceso
la luce e s’è alzato, poi ha tirato fuori da sotto il letto la scatola di biscotti in
cui teneva le poche cianfrusaglie della guerra: le foto dei suoi compagni, la
pistola tolta all’ufficiale tedesco che si era arreso alla battaglia di Marcoing, il
sassolino nero portafortuna di Bridlington che portava sempre in tasca e che
lo aveva protetto. C’erano anche le sue medaglie e l’ultima cartuccia che
aveva usato, il colpo d’avvertimento sparato sopra la testa del soldato
tedesco. Un soldato allora sconosciuto, ma ora non più.
Ha messo tutte le medaglie sul letto, di fronte a Christine. «Questa è la
Victoria Cross» le ha spiegato. «Non sembra granché, vero? Non brilla come
le altre. Anche il nastro non è niente di che, eppure è quella che ha fatto più
chiasso. Me l’hanno data, me l’ha data il Re in persona, per una battaglia alla
fine della guerra, dalle parti di un paesetto chiamato Marcoing o quel poco
che era rimasto in piedi. Be’, la battaglia era finita e io e i ragazzi avevamo
fatto il nostro dovere. C’erano un sacco di morti e feriti, nostri e loro, ma di
più i loro, e avevamo preso decine di prigionieri. Comunque, all’improvviso,
tra il fumo che si dirada vediamo questo Crucco, a non più di una decina di
metri da noi, con il fucile in mano. E io dico ai ragazzi di non sparare ché lui
non ha l’aria di volerci sparare. E restiamo così, noi che guardiamo lui e lui
che guarda noi. C’era tanto silenzio, Christine. Il silenzio dopo la battaglia è
il silenzio più profondo che c’è. Nessuno di noi muoveva un muscolo e
nemmeno lui, nessuno. Nessuno parlava. Stavamo fermi lì, come in un sogno,
come fuori dalla realtà. E a un certo punto io sparo un colpo in aria e gli
faccio segno di andare via, di tornare a casa. Lui fa di sì con la testa, si scosta
i capelli dalla fronte e se ne va. Era proprio lui, Christine. Era Adolf Hitler, ti
giuro che era lui. Quella sera al cinema ho guardato bene i suoi occhi sullo
schermo ed erano gli stessi occhi. Quell’Hitler non ti guarda allo stesso modo
degli altri. Ti guarda come se non ti vedesse e quel Crucco faceva lo stesso.
Quegli occhi non li ho mai dimenticati. Era lui, non c’è dubbio. Lo sai che
significa, Christine? Che gli avrei potuto sparare su due piedi e farlo fuori
una volta per tutte, e ora invece quell’uomo ci sta trascinando in un’altra
guerra. Senti quello che dice. Lo so che sarà così.»
Christine ha fatto di tutto per convincerlo che si sbagliava. Poteva essere
un altro, gli ha detto. Magari uno che gli assomigliava soltanto. Era passato
tanto tempo. La memoria gioca brutti scherzi. Non devi pensare a queste
cose, va a finire che ti ammali. E poi non è detto che ci sarà un’altra guerra,
tu che ne sai? Nessuno può saperlo.
Nelle settimane successive, Billy ha fatto il possibile per crederle. Era
quello che voleva più di ogni altra cosa al mondo. Si è sforzato di togliersi
quell’idea dalla testa, ma non ci è riuscito. Con gli occhi della mente non
faceva che vedere e rivedere quel filmato del cinema. Ogni volta che sentiva
quella voce alla radio, ogni volta che guardava un notiziario, era sempre più
convinto di avere ragione. Ogni volta che vedeva una foto di Hitler sul
giornale e si trovava davanti quegli occhi, sapeva che non c’erano dubbi. Per
quanto Christine cercasse di farlo ragionare e gli ripetesse che non poteva
essere vero, lui sapeva che era così e insisteva. Alla fine, lei ha capito che non
c’era verso di fargli cambiare idea.
Allora ha cercato di spiegargli che, se anche le cose stavano così, non era
certo colpa sua: lui aveva solo fatto quello che gli sembrava giusto in quel
momento e provare compassione era sicuramente una cosa buona, anche
verso un nemico. E poi come poteva sapere che quel soldato al quale aveva
risparmiato la vita sarebbe diventato un mostro? Ma niente di quello che
diceva riusciva a farlo stare meglio. Ormai a Billy non era rimasto che
aggrapparsi a una sola debole speranza: la possibilità che quel Crucco fosse
qualcun altro. Un uomo basso, con i capelli neri e uno strano modo di
scostarli dalla fronte e due occhi scuri che ti guardavano fisso, ma comunque
un’altra persona. «Chissà, chissà» continuava a ripetersi Billy. «Magari
Christine ha ragione.» La mente poteva giocargli brutti scherzi. In fin dei
conti, come diceva lei, era passato tanto tempo.
Ma anche quell’ultimo barlume di speranza gli è stato tolto. Una mattina
che era andato in biblioteca per restituire dei libri, gli è cascato l’occhio su un
titolo sopra uno scaffale. Adolf Hitler.
Ha preso il libro e l’ha aperto. Al centro c’era qualche pagina di foto. E
davanti a una in particolare, il cuore ha cominciato a battergli più forte. Era la
foto di un gruppo di soldati tedeschi durante la guerra, tutti in posa col
berretto in testa sullo sfondo di un muro di mattoni, con l’espressione seria e
lo sguardo verso l’obiettivo.
Billy ha riconosciuto subito Adolf Hitler, il più basso di tutti, un po’ in
disparte alle spalle degli altri.
Il Crucco al quale aveva salvato la vita. Sotto la foto c’era il suo nome:
Caporale Adolf Hitler. Ora non c’erano più dubbi. Era lui.

Fine della Terza parte


Ancora due fiammiferi…
QUARTA PARTE
Un’aquila nella neve
1

– Tornando a casa dalla biblioteca con il libro in mano, Billy è passato


davanti al chiosco dei giornali alla stazione. C’era uno strillone che gridava i
titoli di testa: «Hitler marcia sull’Austria! Hitler invade l’Austria!».
Billy si è bloccato in mezzo alla strada, ormai convinto di essere l’unico
responsabile di qualsiasi azione di Hitler passata o futura. Avrebbe potuto
fermarlo vent’anni prima alla battaglia di Marcoing, ma non l’aveva fatto. E
ora sapeva, come tanti altri, che prima o poi Hitler avrebbe rivolto la sua
attenzione all’Inghilterra. Era solo questione di tempo.
– E ci aveva visto giusto, no? –. Mamma ha parlato all’improvviso
nell’oscurità, interrompendo lo sconosciuto. Credevo si fosse riaddormentata,
ma mi sbagliavo. – Voglio dire, pensandoci bene, se quel suo amico, quel
Billy… Billy Byron si chiamava, giusto? Se avesse premuto il grilletto quel
giorno, magari ora non saremmo in guerra e il Papà di Barney non starebbe a
combattere nel deserto, non ci sarebbe stato Dunkerque e neanche il
bombardamento di Londra o Coventry. Tutti quei morti. È solo colpa sua, di
quel verme schifoso di Hitler. Avremmo ancora una casa e Nonno avrebbe
ancora il suo cavallo adorato, il suo Big Black Jack. Un proiettile, non
serviva altro, un solo proiettile e non sarebbe successo niente, giusto? Mi
scusi se glielo dico, non voglio essere scortese, ma è sicuro che questa storia
sia vera? Perché a me, se lo vuole sapere, pare campata in aria. Non è che
accenderebbe un altro fiammifero, per favore? Non riesco più a trovare i ferri
–. Stava cercando a tentoni sul sedile accanto a me. – Quand’è che questo
benedetto treno si muove?
Ho sentito la scatoletta di fiammiferi che si apriva. L’uomo ha cercato di
accenderne uno, ma dopo una scintilla si è spento. – Questo non va, deve
avere preso umidità. Questi fiammiferi in genere sono affidabili, ma non c’è
problema – ha detto, anche se per me il problema c’era. – Ecco qua –. Ha
continuato a strofinare e alla fine, con mio grande sollievo, il fiammifero si è
acceso. Mamma ha ritrovato quasi subito i ferri: erano scivolati tra i sedili.
Mi stavo godendo ogni istante di quel fiammifero, tremando al pensiero di
quando si sarebbe spento. Ne era rimasto uno solo, stava già bruciando in
fretta, e io avevo bisogno della storia per non pensarci.
– Allora è proprio vera tutta questa storia? – ho chiesto. – Che è successo?
Cos’è successo dopo?
– Certo che è vera, ragazzo. Magari non fosse così – ha risposto l’uomo
sottovoce. – Per Billy era come una maledizione che da quel momento gli è
pesata addosso in ogni istante di ogni giorno della vita. Non ne ha mai parlato
con nessuno, a parte Christine. Ma tutti, anche i suoi amici, capivano che non
era più lo stesso, si vedeva che era pieno di tristezza, che aveva un problema.
Naturalmente, sapevano che era stato in guerra, quello che aveva fatto e le
cose che aveva visto. C’erano stati quasi tutti e avevano visto le stesse cose e
anche loro volevano dimenticare.
Lo sconosciuto ha scosso il fiammifero per spegnerlo. Siamo ripiombati
nell’oscurità, un’oscurità più nera che mai. Ma io avevo deciso che non
dovevo più preoccuparmene, dovevo solo ascoltare la storia, perdermici
dentro.
– Gli amici di Billy alla fabbrica, loro capivano – ha continuato l’uomo. –
O almeno così credevano. Anche loro, come Christine, si sforzavano di
tirarlo su di morale, ma il più delle volte lo lasciavano in pace. Sapevano che
era meglio così. Billy continuava ad andare in fabbrica tutte le mattine, come
al solito, faceva il suo lavoro e la sera tornava a casa da Christine, ma il
pensiero di quello che aveva fatto, o non aveva fatto, non gli usciva mai di
mente, neanche per un istante.
Lui non ne parlava più, neanche a casa. Si teneva tutto dentro, mentre una
settimana dopo l’altra, un mese dopo l’altro, dall’Europa arrivavano notizie
sempre più brutte. Cosa avrebbe fatto Hitler? Quale altro Paese avrebbe
invaso? Quando sarebbe venuto il nostro turno? La gente non parlava d’altro
in quei giorni. Tutti s’erano accorti che Billy era cambiato. Pareva che ora
vivesse in un mondo tutto suo, lontano dagli amici e dai compagni di lavoro,
lontano perfino da Christine, senza più la voglia di scherzare sulle sue
“paturnie” come un tempo. Lui e Christine avevano smesso di andare al
cinema, non uscivano quasi mai. Aveva smesso addirittura di disegnare, non
aveva più ripreso in mano i suoi album neanche una volta e Christine sapeva
che era un gran brutto segno. Gli piaceva tanto disegnare. Ma ora non più.
Ormai tutti i giorni erano giorni di “paturnie” e Billy non pareva in grado di
tirarsene fuori.
Christine, però, non si è data per vinta. Sperava che un giorno Billy
sarebbe riuscito a lasciarsi alle spalle la tristezza e tornare l’uomo che
conosceva, l’uomo che amava, l’uomo che era convinta fosse ancora dentro
di lui, quello che le aveva salvato la vita da piccola e aveva fatto solo quello
che credeva giusto e ora stava soffrendo per questo.
Poi è arrivato il settembre del 1938, un paio d’anni fa, sembra ieri!, e il
Primo Ministro Chamberlain va a trovare Hitler nella sua casa di montagna,
Berghof la chiamano, in un posto di nome Berchtesgaden nelle Alpi bavaresi,
e fa di tutto per stringere un accordo con lui. Ve lo ricordate? Be’, ormai lo
sappiamo tutti, e dovevamo saperlo anche allora, che non si può fare un patto
con il diavolo. Così il nostro Chamberlain torna a casa qualche giorno dopo
tutto sorridente, sventolando un pezzo di carta e dicendo al mondo intero che
tutto sarebbe filato liscio come l’olio, che aveva sistemato le cose con Hitler e
che per noi sarebbe stato un «tempo di pace». Bella pace che ci siamo
ritrovati, eh? Ci abbiamo voluto credere, certo, ma tanti di noi non ci hanno
creduto, e Billy Byron meno di tutti.
– Be’, a quel Chamberlain non gli ho creduto manco io – è intervenuta
Mamma, infervorata. – E, se è per questo, nemmeno il Papà di Barney e il
Nonno. Se vuole sapere la mia, quell’uomo era proprio rincitrullito per
credere a Hitler a quel modo. Ma Nonno dice che non si può dare la colpa a
Chamberlain come non si può incolpare la povera gallina quando quella furba
della volpe fa la posta al pollaio. L’unica maniera di salvare le galline è
tenere lontana la volpe o, meglio ancora, darle la caccia e ammazzarla. Ed è
quello che dobbiamo fare. È quello che il Papà di Barney sta facendo. Gli dà
la caccia. Quel furbastro di Hitler tra poco lo conciamo noi per le feste, vero,
Barney?
– Be’, è curioso che lei dica così – ha continuato l’uomo. – Perché è
proprio quello che Billy aveva in mente. Più ci pensava, e non pensava ad
altro in quei giorni, più si convinceva che doveva raddrizzare l’errore fatto
tanti anni prima. Naturalmente, il problema è che non sapeva cosa fare, e
neanche se poteva davvero fare qualcosa. Gli restava solo la speranza di
avere preso un granchio e che quel Crucco a cui aveva salvato la vita fosse
un’altra persona, uno che semplicemente assomigliava a Hitler.
Poi, come un fulmine a ciel sereno, nell’ufficio del direttore della fabbrica
Standard dove lavora Billy arriva una telefonata. Billy è in pausa e se ne sta
per i fatti suoi quando va a cercarlo il signor Bennet, il direttore. È tutto
agitato. Dice a Billy che lo vogliono subito al telefono, è un’emergenza. Così
Billy corre su in ufficio, pensando che Christine ha avuto un incidente o s’è
sentita male e sta in ospedale. Tant’è che quando arriva al telefono s’è già
fatto venire il mal di fegato. La voce gli è familiare. È di qualcuno che
conosce, ma non riesce ad associarci un nome o una faccia, non riesce a
capire chi è.
«William Byron? E lei il signor Byron?» chiede l’uomo all’altro capo del
filo. «Scusi il disturbo, ma c’è qualcosa che devo comunicarle.» E Billy è
ancora lì che si sforza di dare un viso a quella voce e, alla fine, è la voce
stessa che si presenta e lui non crede alle proprie orecchie. «Sono il Primo
Ministro Chamberlain, signor Byron. Ho bisogno di parlarle di una questione
di una certa importanza.»
2

– Billy non riusciva a credere che era il Primo Ministro in persona. Non
sapeva cosa dire. Non trovava più le parole.
«Come saprà anche lei, signor Byron» ha detto Chamberlain «poco tempo
fa ho incontrato Hitler nella sua casa di montagna in Germania. Mentre
eravamo insieme, mi ha raccontato una storia incredibile, che ho motivo di
credere vera e che ho promesso di riferirle al mio rientro, visto che la
riguarda da vicino. Hitler mi ha raccontato che, alla fine dell’ultima guerra,
un soldato inglese gli ha risparmiato la vita nella battaglia di Marcoing, così
ha detto, nel settembre del 1918. Un momento che non ha mai dimenticato.
Tempo dopo, grazie a una fotografia su un giornale, ha scoperto che il soldato
inglese responsabile di quell’atto di clemenza era proprio lei, signor Byron.
L’ha riconosciuta da una foto in cui riceve la Victoria Cross da Sua Altezza il
Re. Me l’ha fatta vedere lui stesso. La conserva ancora. Poi mi ha portato nel
suo studio e mi ha fatto vedere un quadro alla parete. È un suo ritratto, signor
Byron, mentre trasporta a spalla un ferito verso un ospedale da campo, credo
sia stato dipinto da un artista italiano, ho dimenticato il nome. È anche un bel
quadro, datato 1918. Ho avuto poi conferma che lei ha effettivamente portato
un uomo in ospedale in quel modo e sono certo che quanto Hitler mi ha
raccontato è verosimile. Lei si trovava alla battaglia di Marcoing, non è
così?».
«Sì, signore» risponde Billy.
«È stato per quello che ha ottenuto la Victoria Cross, dico bene?»
«Sì, signore.»
«E sono nel giusto se dico che lei ha effettivamente salvato la vita a un
soldato tedesco in quella battaglia?»
«Sì, signore» dice Billy.
«Come pensavo. Bene, il Cancelliere tedesco Hitler mi ha pregato di dirle
che le è infinitamente grato e di porgerle i suoi ringraziamenti e auguri. Devo
dirle, signor Byron, che quello che lei ha fatto nel 1918, quel suo atto di
clemenza, potrebbe essere stato di grande aiuto nel mantenere la pace a
vent’anni di distanza. Parlare di quel giorno e di come lei gli ha risparmiato la
vita ha messo Hitler di buon umore. Sono lieto di informarla che ha avuto
parole di ammirazione e rispetto per lei e l’esercito inglese, cosa che è stata di
grande aiuto nel portare le nostre discussioni verso una migliore intesa e in
ultimo, come io credo, a un esito positivo. È probabile che con quel suo atto
di pietà lei abbia contribuito alla causa della pace. La saluto, signor Byron, e
la ringrazio.»
Ed è finita lì. Ha riattaccato.
Come potete immaginare, quel giorno Billy è rincasato dalla fabbrica
stordito, con le ali ai piedi e il cuore raggiante, pieno di nuove speranze.
D’accordo, il Crucco che aveva salvato era proprio Hitler ma, tutto sommato,
forse, dico forse, non era poi così importante. Forse tanti anni prima aveva
davvero fatto la cosa giusta. E magari Hitler non era quell’orco che Billy e gli
altri credevano. Anche lui aveva un cuore. Forse sarebbe stato davvero un
«tempo di pace» come Chamberlain ci aveva promesso e, se le cose stavano
così, era anche merito del soldato semplice Billy Byron.
– Chamberlain gli ha telefonato sul serio? – lo ha interrotto Mamma. –
Come fa a saperlo? Che ne sa se è vero?
– Perché me l’ha raccontato Billy in persona – ha risposto il nostro
compagno di viaggio. – E Billy non dice bugie. Come ho detto, lo conosco
bene. Lo conosco da una vita. È uno che si fa i fatti suoi, ma non dice bugie.
Non s’inventa le cose. Non è da lui.
– La storia finisce così? – ho chiesto, allora. A essere sinceri, ero deluso.
Non m’interessava più di tanto se la storia fosse vera o falsa, ma mi
piacevano i finali emozionanti e finire con una telefonata non era proprio il
massimo dell’emozione, poco importa se a farla era stato un Primo Ministro o
chissà chi.
Ma la cosa più importante è che mi ero ricordato che era rimasto un solo
fiammifero e il treno era ancora bloccato nell’oscurità della galleria. Avevo
bisogno che la storia andasse avanti, che fosse più lunga. Mi serviva qualcosa
per togliermi quell’oscurità dalla mente.
– No, non finisce così – ha risposto l’uomo. – Però sarebbe stato il finale
migliore, vero, ragazzo? E vissero tutti felici e contenti. In tempo di pace…
niente più guerre. Era questo il finale che voleva Billy, che volevamo tutti.
Magari potessi tirare fuori un lieto fine apposta per te. Invece le cose non
sono andate così, lo sapete. Capita spesso. Altrimenti, Coventry non sarebbe
stata bombardata e la vostra casa starebbe ancora in piedi e non saremmo qui
e io non starei raccontando questa storia. Forse non è il finale che vorresti,
ragazzo, ma ti prometto una cosa: non sarà il finale che ti aspetti.
È rimasto in silenzio per qualche istante prima di riprendere la storia. – A
ogni modo, pareva che le cose si sarebbero sistemate sul serio, almeno per un
po’. Dopo quella telefonata Billy era tornato quasi se stesso. Aveva
ricominciato a disegnare, soprattutto uccelli e in particolare un picchio che
andava sempre nel suo giardino, bianco e nero con una chiazza rosso fuoco
sulla pancia. Christine era al settimo cielo per quel cambiamento. Il vecchio
Billy era tornato.
Hanno ripreso ad andare al cinema. Il problema era che ogni volta c’era
uno di quei notiziari con i soldati tedeschi in marcia, a migliaia, e sullo
schermo c’era sempre Hitler, che non parlava certo di pace. Eppure, Billy
continuava a sperare per il meglio. Come tutti noi, d’altronde. Ma a un certo
punto… quand’era?… l’anno scorso a marzo, nel 1939, Hitler marcia col suo
esercito sulla Cecoslovacchia e la invade e Billy capisce quello che capivamo
tutti: quei soldati con gli stivaloni non si sarebbero fermati lì. Ormai tutti
c’eravamo resi conto che quel pezzo di carta che Chamberlain aveva
sventolato in aria non valeva niente. Ci avevano presi per il naso. Avevamo
creduto quello che volevamo credere, quello che Hitler voleva farci credere.
Ma dopo l’invasione della Cecoslovacchia abbiamo capito la verità. Abbiamo
capito quello che stava per succedere. La questione non era più se ci sarebbe
stata una guerra, ma quando.
Billy e Christine continuavano a vedere Hitler al cinema: Hitler che
agitava il pugno contro il mondo intero, Hitler lo sbruffone, lo spaccone,
l’attaccabrighe, Hitler pieno di minacce. Billy guardava le infinite parate di
soldati che marciavano con il passo dell’oca, i carri armati che sfilavano, i
cieli pieni di aerei da combattimento e il Führer che si crogiolava, sempre più
assetato di potere. E sapeva, come ora sappiamo tutti, di avere davanti un
tiranno, un uomo malvagio con una sola cosa in mente: fare la guerra,
conquistare e distruggere.
L’unico pensiero di Billy era che quell’uomo andava fermato, che
vent’anni prima aveva fatto la cosa sbagliata e che ora doveva fare quella
giusta. Doveva rimediare al suo errore. Così ha deciso una volta per tutte di
agire. Ha pensato alle migliaia, forse milioni, di piccole Christine al mondo.
Stava per succedere di nuovo quello che era già successo nella Prima Guerra
Mondiale. Doveva fermare il dolore prima che cominciasse. Non aveva
scelta.
È partito da solo, senza dire una parola a Christine. È uscito di casa una
mattina presto come per andare al lavoro, ma nella borsa non aveva il pranzo.
Aveva altre cose. Il passaporto, i documenti, un po’ di soldi e, nascosta nel
doppiofondo della valigia, la pistola che teneva nella scatola di latta sotto il
letto. Nella tasca della giacca, il sassolino nero portafortuna di Bridlington.
Aveva con sé anche la sua scatola di matite e l’album, e uno sgabellino
pieghevole fissato alla valigia. Era tutto quello di cui aveva bisogno.
Ogni cosa faceva parte del piano, di cui aveva pensato e ripensato ogni
dettaglio. Però sapeva che per farlo funzionare gli serviva una gran fortuna.
Aveva lasciato un messaggio sulla mensola del caminetto spiegando a
Christine che aveva qualcosa da fare, qualcosa che non poteva essere
rimandato, e che sarebbe tornato, grosso modo, entro un paio di settimane. Le
chiedeva di andare in fabbrica ad avvisare il signor Bennet che per qualche
tempo non sarebbe andato al lavoro per via di quella gamba zoppa ancora
dolorante e di scusarsi con lui. Lei non doveva preoccuparsi, aveva scritto.
Sarebbe tornato e le voleva bene. L’aveva sempre amata e avrebbe continuato
ad amarla, per sempre.
3

– Quella mattina Billy ha preso il treno a Coventry, sapendo perfettamente


quello che doveva fare. Aveva ricavato tutte le informazioni possibili dalla
biblioteca e dai giornali. Sapeva dove andare: era stato abbastanza semplice
scoprirlo. Aveva deciso che il posto migliore era dalle parti della casa in
montagna di Hitler, il Berghof, vicino Berchtesgaden, dov’era stato
Chamberlain. Aveva visto delle fotografie del posto e di Hitler che portava a
spasso il cane nella neve, con le montagne e le foreste sullo sfondo. Aveva
letto che il Führer ci andava ogni volta che poteva. Ma di preciso come
dovesse essere fatto, dove e quando… Billy sapeva che quello dipendeva
dalla sua fedeltà al piano, dal fato e dalla sua stessa pazienza. Lui sapeva solo
che doveva essere fatto, doveva provarci, senza preoccuparsi delle
conseguenze.
Così ha preso il treno per Londra e poi il traghetto sulla Manica per Calais.
Non ha dubitato neanche un istante che quella fosse la cosa giusta da fare ma,
guardando dalla poppa della nave le bianche scogliere di Dover, gli era
venuto da chiedersi se le avrebbe mai più riviste. «Poco probabile» si era
detto. Per lui era come trovarsi di nuovo a oltrepassare i limiti, stringendo i
denti per fare il proprio dovere. Sapeva che le probabilità di sopravvivenza
erano poche. «Quel che sarà, sarà» pensava. Il mal di mare gli era venuto in
aiuto, dopo tanti anni si era scordato com’era. A ogni rollio della nave gli si
rivoltava lo stomaco. Quanto sarebbe stato meglio se fosse rimasto a casa! La
vista della costa francese gli ha tirato su il morale, ma le onde hanno
continuato a fare su e giù finché la nave non è entrata in porto.
I funzionari della dogana francese hanno dato solo un’occhiata di sfuggita
a lui e al passaporto e, nel giro di poco tempo, era a Parigi e poi sul treno per
Monaco di Baviera. Alla frontiera tedesca, nel cuore della notte, è stato un
altro paio di maniche. Una guardia ha interrogato tutti i passeggeri e ha
controllato scrupolosamente passaporti e documenti. Le sue domande
sembravano cortesi, ma Billy avvertiva in ognuna una sfumatura di minaccia.
«Come mai lei viene in Germania? Per quale motivo?»
«Sono un artista» ha risposto Billy. «Vado a fare un giro nelle Alpi per
disegnare le montagne, la natura, gli uccelli.»
La guardia ha chiesto di vedere i suoi disegni.
Billy gli ha mostrato l’album.
L’altro è sembrato soddisfatto, perfino colpito. «Belli,» ha detto «molto
belli. Le piaceranno le nostre montagne, sono bellissime, le più belle del
mondo. E ora la valigia, per cortesia. Devo controllarla».
Billy l’ha aperta, col cuore che gli rimbombava nelle orecchie.
La guardia ha tirato fuori per prima la scatola di matite e l’ha aperta. Poi il
pigiama, i calzini e il resto dei vestiti, controllandoli con attenzione. Ha tirato
fuori tutto, svuotando completamente la valigia, poi ne ha tastato la base. Il
doppiofondo dove Billy aveva nascosto la pistola attaccandola con il nastro
adesivo era proprio lì, sotto le sue dita indagatrici.
In quegli istanti il tempo pareva essersi dilatato, tanto che gli istanti erano
diventati minuti. Alla fine, la guardia è sembrata soddisfatta. «Lei viaggia
leggero» ha detto. «Benvenuto in Germania. Heil Hitler!»
Ed è finita lì. Billy ha ripreso a respirare.
La stazione di Monaco era piena di soldati, piena di poliziotti. C’era così
tanta gente in divisa, perfino qualche bambino. E poi svastiche ovunque,
indossate al braccio, appese agli edifici. Da qualche parte c’era una banda
militare che suonava, il rimbombo dei tamburi e il fragore dei piatti
riecheggiava per tutta la stazione. «Tamburi di guerra» pensava Billy. Più si
guardava intorno e più si rendeva conto che quella era una nazione pronta per
la guerra, in marcia. E questo lo ha convinto ancora di più a mettere in pratica
quello che aveva in mente.
È rimasto a Monaco solo lo stretto necessario. Avvertiva dappertutto occhi
che lo spiavano. Da Monaco ha preso una corriera per le montagne. Ha
affittato una stanza in un paesino tranquillo trovato sulla mappa, a poche
miglia dalla casa di Hitler, abbastanza lontano, almeno così sperava, da non
suscitare sospetti. Sapeva che l’importante era riuscire a passare inosservato,
cosa per niente facile. Si vedeva lontano un miglio che era straniero, inglese,
e turista. Allora ha cominciato a recitare la parte che gli serviva: si è tenuto
alla larga dal Berghof ed è uscito ogni giorno col suo sgabello per mettersi a
disegnare nei paraggi, finché la gente ha fatto l’abitudine a vederlo in giro,
chino sul suo album da disegno.
Anche di sera passava il tempo a disegnare nel caffè del paese, fumando la
pipa e bevendo birra. Il suo album era pieno di schizzi delle montagne, dei
paesani, delle case coperte di neve, della chiesa, dei cervi che aveva
avvistato, delle lepri, delle aquile. La gente era abbastanza cordiale, ogni
tanto qualcuno gli offriva perfino da bere. Parevano incuriositi dai suoi
disegni, una volta si era fermato anche il poliziotto del paese. Erano tutti
contenti quando riconoscevano una casa, specie se era la loro, o qualche
paesano, soprattutto se erano loro stessi o uno della famiglia. Molti
ammiravano apertamente il suo lavoro e si sforzavano di parlargli in un
inglese stentato. Ma la faccia di Hitler era sempre lì che lo fissava dalla
parete del caffè. Ogni volta che Billy la guardava, anche se si sforzava di
evitarlo, avvertiva correre tra loro una specie di intesa.
Dopo qualche tempo Billy ha cominciato ad andare più lontano nella neve,
ogni giorno un po’ più vicino al Berghof, ma chi lo guardava lo vedeva
sempre seduto sul suo sgabello a disegnare. Spesso c’erano delle aquile che
volteggiavano in cielo, riempiendo l’aria con il loro verso chiaro e acuto, così
aveva sempre qualcosa da disegnare e da far vedere ai paesani al rientro la
sera. Mentre disegnava, però, non smetteva di guardarsi intorno in cerca del
posto più adatto per fare quello che era venuto a fare e passava lunghe ore al
gelo ai margini della foresta, a poco più di un miglio dal Berghof arroccato in
cima a una collina sull’altro lato della valle. La casa era più grande e
imponente, più maestosa di quanto aveva immaginato dalle foto. E c’erano
anche più guardie, quasi tutte in divisa nera. Vedeva il viavai della strada, le
macchine, i camion, i soldati, ma di Hitler nessun segno. Se c’era, non usciva
mai di casa.
Mentre passava il tempo a guardare le aquile e a disegnarle, il suo unico
pensiero era cosa avrebbe fatto quando sarebbe venuta l’ora, quanto tempo
ancora doveva aspettare e se Hitler sarebbe mai arrivato. Tutte le sere, mentre
disegnava nel bar, teneva l’orecchio teso per sentire se qualcuno nominava il
Führer. Aveva imparato un po’ di tedesco, dai prigionieri dell’ultima guerra,
non molto ma quanto bastava per capire il succo del discorso, abbastanza per
dire grazie e per favore: danke, bitte, bitte schön. Sentiva spesso fare il nome
di Adolf Hitler, era sulla bocca di tutti.
Poi una sera, dopo una settimana circa, sembrava che tutti al caffè
parlassero solo “der Führer”. Indicavano la foto sulla parete e cercavano di
dire qualcosa a Billy. C’era una grande eccitazione nella loro voce,
un’eccitazione nuova. Stava per succedere qualcosa. Era lì, Billy ne era
sicuro. L’uomo che aspettava era arrivato. Era venuto il suo momento. Era
l’ora.
4

– Così, quando è uscito il giorno dopo, si è portato dietro come al solito


l’album e lo sgabello, ma per la prima volta ha messo anche la pistola nella
giacca. Ha aspettato un’eternità nascosto tra gli alberi, non vedendo l’ora,
desiderando con tutte le forze che Hitler uscisse a passeggio.
Invece non è arrivato. Sono arrivate solo le nuvole, avanzando dalla valle,
nuvole gigantesche che in poco tempo hanno avvolto gli alberi, la casa, le
montagne.
Ha continuato ad aspettare, un giorno dietro l’altro. Ma Hitler non arrivava
mai. Billy era sempre più deciso a resistere, a qualunque costo, in barba alle
nuvole fitte, alla neve che fioccava e al gelo. Non avrebbe mollato proprio
ora. Non gli era mai venuto il dubbio che non fosse la cosa giusta da fare.
L’unico suo dubbio era se Hitler sarebbe mai arrivato, se avrebbe avuto
l’occasione di fare quello per cui era venuto. Ha scoperto che concentrarsi sui
disegni delle aquile lo aiutava a passare il tempo, a dimenticare il freddo, ad
addolcire la delusione.
Poi, un pomeriggio, Hitler è finalmente arrivato e, quand’è successo, Billy
non era pronto.
L’aquila che stava disegnando, e che da un po’ volteggiava in alto sulle
cime dei monti, era improvvisamente scesa in picchiata e si faceva sempre
più vicina, sempre più vicina, con gli artigli aperti, pronti a uccidere. Billy
non si è accorto della lepre finché l’aquila non gli è arrivata quasi addosso,
planando nella neve aperta, a pochi metri da dove era seduto. Non era mai
stato così vicino a un’aquila in vita sua e, passata la sorpresa, si è messo a
disegnarla in fretta per non perdere quel momento.
Poi, da qualche parte, un cane ha cominciato ad abbaiare. L’aquila si è
alzata in aria, muovendosi a fatica con il corpo della lepre tra gli artigli. Un
cane avanzava a balzi nella neve, verso l’aquila, verso Billy, con il pelo del
collo irto. Era un enorme pastore tedesco che ringhiava e latrava con fare
terrificante, minaccioso.
È stato allora che Billy ha alzato gli occhi e ha visto Hitler con il berretto
con la visiera e il lungo cappotto nero. Era ancora lontano. Stava
passeggiando sulla strada e con lui c’erano sei o sette uomini in divisa, due
dei quali stavano caricando il fucile. Stava succedendo tutto troppo in fretta e
in maniera molto diversa da come Billy si era aspettato, però ha mantenuto il
sangue freddo. Non si sarebbe lasciato fermare dal cane, né dalla vista dei
fucili. Avrebbe agito. Doveva. Era l’occasione che aveva tanto aspettato.
È uscito con calma dal folto degli alberi ed è rimasto lì, sul pendio coperto
di neve, con la pistola dietro la schiena, pronto. In attesa. Sulla neve ai suoi
piedi, dove l’aquila aveva ucciso la preda, c’era una chiazza di sangue. Hitler
era ancora a un centinaio di metri con i suoi soldati e alcuni di loro si sono
messi a correre verso Billy. Lui aspettava, aspettava. Doveva essere il più
vicino possibile. Non doveva mancare il bersaglio.
Anche il cane, però, si avvicinava sempre di più, abbaiando furiosamente,
ringhiando. Billy aveva aspettato troppo. In un lampo, il cane gli è saltato
addosso e lo ha buttato a terra. È finito steso nella neve con il cane sopra di
lui che, invece di morderlo come si era aspettato, si era messo a leccargli la
faccia. Billy aveva ancora la pistola in mano. La stringeva forte. Poteva
ancora farcela, se il cane si fosse tolto di mezzo. Ma i soldati lo avevano già
circondato. Troppo tardi, troppo tardi. All’ultimo minuto ha gettato la pistola
nella neve, spingendola giù, il più a fondo possibile. Poi gli hanno tolto il
cane di dosso e lo hanno tirato su senza tanti complimenti.
Pochi istanti dopo Hitler era lì davanti a lui e lo fissava negli occhi. Billy
ha capito subito che lo aveva riconosciuto. Nessuno dei due ha detto una
parola, sono rimasti così per qualche istante, riconoscendosi, ricordando.
Billy avvertiva nella neve sotto il piede la forma della pistola.
I due soldati lo tenevano per le braccia come in una morsa. Hitler li ha
allontanati con un gesto. Poi ha fatto solo un cenno con la testa, si è girato e
se n’è andato. Il cane, intanto, si era messo ad annusare la neve ai piedi di
Billy, più interessato al sangue della lepre che al resto. Billy è rimasto
dov’era, con la pistola sotto il piede, finché non hanno richiamato il cane. A
quel punto si è ritrovato solo sulla collina a guardare Hitler che si
allontanava, proprio come aveva fatto vent’anni prima, sapendo in cuor suo
che non avrebbe potuto ucciderlo in quel momento più di quanto non avesse
fatto allora.
Lo sconosciuto è rimasto in silenzio per un po’ e si è schiarito la gola.
– Be’, questo è quanto, più o meno – ha continuato. – Billy è tornato a
casa da Christine e non ha detto a nessun altro, a parte lei, dov’era stato e
cosa aveva cercato di fare. Lei ha detto che aveva provato a fare la cosa
giusta, ma che se ci fosse riuscito sarebbe stata la cosa sbagliata. E lui sapeva
che aveva ragione.
– Allora, come fa a conoscere questa storia se Billy non l’ha raccontata a
nessuno? – ho chiesto.
– Ah, be’, ti piacerebbe saperlo, eh? – ha risposto lo sconosciuto con tono
misterioso. – È sveglio il suo ragazzo, signora. Proprio come Billy. Sei anche
tu un ragazzino di Mulberry Road, proprio com’eravamo noi. Per questo ti ho
raccontato tutta questa storia. Come dicevo, non la conosce nessuno, a parte
noi tre, e ovviamente Billy e Christine. E a lui non darebbe nessun fastidio
che la conoscessi anche tu. Anzi, penso che gli farebbe piacere. È così che
continuiamo a vivere, no? Attraverso le nostre storie.
– Tutta colpa di quel maledetto cane – ha detto Mamma. – Non ci posso
credere. Se non avesse buttato a terra Billy, a quest’ora Hitler sarebbe morto
e questa guerra non ci sarebbe mai stata. A me i cani non sono mai piaciuti,
specie i pastori tedeschi. Sono più lupi che cani, quelli.
– Ora proviamo a fare un pisolino, eh? – ha detto lo sconosciuto nel buio.
– È rimasto solo un fiammifero. Meglio non sprecarlo, no? Anche se penso
che ormai ve la caverete pure senza. Tra poco saremo fuori da qui.
– Bella storia, signore – ho detto. Non ha risposto. Poi ci siamo messi a
dormire. Non so per quanto tempo.
Siamo stati svegliati da un sobbalzo del treno e, dopo qualche istante,
siamo ripartiti. All’improvviso ci siamo ritrovati all’aperto, fuori dalla
galleria. Il macchinista andava piano, «per prudenza» ho pensato, guardando
dal finestrino per vedere se c’erano altri caccia in volo. Niente. Anche le
nuvole s’erano diradate. Il cielo era azzurro limpido.
– Dov’è andato ora? – ha detto Mamma all’improvviso.
Lo sconosciuto non c’era più. Il sedile di fronte a noi era vuoto. Io e
Mamma ci siamo guardati. – Sarà andato in bagno – ha detto lei. Ma lo
sconosciuto non è più tornato. Qualche minuto dopo il capotreno ha aperto la
porta dello scompartimento.
– Arriviamo a Londra con un po’ di ritardo – ha detto. – Tutto a posto qui?
– Quell’uomo che stava con noi – ha chiesto Mamma. – L’ha visto?
– Quale uomo? – ha risposto il capotreno. – Quando sono passato prima,
eravate solo in due. Non c’era nessun uomo.
Allora mi sono ricordato del cappello che lo sconosciuto aveva messo
sulla reticella vicino alla nostra valigia. Ho alzato lo sguardo. Non c’era più.
– Era qui – ha insistito Mamma. – C’era, non è vero, Barney?
– Certo – ho risposto. – Certo che c’era.
Il capotreno ci ha fissati con un sopracciglio alzato, come se ci avesse dato
di volta il cervello. – Se lo dice lei, signora, se lo dice lei… Ora scusatemi,
ma ho un lavoro da fare –. Ed è uscito, richiudendosi la porta alle spalle.
Io e Mamma ci siamo guardati. – Ci ha raccontato quella storia, no? – ho
detto. – Su Hitler, sul fatto che Billy non l’aveva ucciso in guerra quando
poteva farlo, quando doveva farlo, e che poi è andato in Germania con la
pistola per ucciderlo in montagna e l’aquila e tutto il resto. Ce l’ha raccontato
lui, no? Non è stato tutto un sogno, vero, Mamma?
Lei si è chinata a raccogliere qualcosa da terra. Era la scatoletta di
fiammiferi Swan Vestas. L’ha aperta: dentro c’erano quattro fiammiferi usati
e uno ancora nuovo, e non è tutto: c’era anche un sassolino nero. E una
cartuccia usata. Mamma ha acceso il fiammifero. – Fiammiferi veri – ha
detto. – Era tutto vero. Non era un sogno, Barney, non era un sogno.

Fine della Quarta parte


Niente più fiammiferi…
Epilogo

Io e Mamma non abbiamo parlato d’altro per tutto il viaggio fino a Londra e
poi in Cornovaglia. Era come se avessimo fatto lo stesso sogno, identico in
ogni minimo particolare. Ma sapevamo tutti e due che non era stato un sogno,
era impossibile. Avevamo come prova la scatoletta di Swan Vestas.
Quando siamo arrivati a Mevagissey quella sera tardi, non abbiamo potuto
fare a meno di parlare subito a zia Mavis dello sconosciuto sul treno e della
storia straordinaria che ci aveva raccontato. Dovevamo dirlo a qualcuno. Le
abbiamo fatto vedere la scatoletta di fiammiferi, il sassolino nero portafortuna
di Bridlington e la cartuccia usata. Zia Mavis non è mai stata una grande
ascoltatrice, ma stavolta ha ascoltato fino alla fine con gli occhi sempre più
sgranati.
Quando abbiamo finito, s’è alzata in silenzio ed è andata alla credenza in
cucina. È tornata con un giornale e l’ha aperto sul tavolo davanti a noi,
lisciando le pagine con le mani. – Il giornale di stamattina – ha detto. –
Guardate.
Morto a Coventry eroe della Prima Guerra Mondiale, diceva il titolo. E
sotto c’era la faccia del nostro compagno di viaggio che ci guardava dalla
foto.
Mamma ha letto l’articolo con la voce ridotta a un bisbiglio. – William
(Billy) Byron, Victoria Cross, Medaglia al Merito, Medaglia al Valor
Militare, tra i soldati più decorati della Grande Guerra, è tra le vittime della
recente incursione aerea della Luftwaffe su Coventry. Nell’attacco è rimasta
uccisa anche sua moglie Christine, insegnante in una scuola comunale. Byron
prestava servizio nella Protezione civile e, dopo essere stato impegnato
giorno e notte nell’estrarre le vittime dalle macerie, ha fatto ritorno a casa
scoprendo che anch’essa era stata colpita. È rimasto ucciso nel crollo di un
muro, mentre tentava di ritrovare il corpo della moglie. Lavorava alla
fabbrica d’automobili Standard di Coventry. Aveva quarantacinque anni.
Postfazione

Henry Tandey è giustamente ricordato come un eccezionale combattente


della Prima Guerra Mondiale. Ma il suo eroismo si intreccia a una vicenda
che, se davvero autentica, rappresenta uno dei grandi “Cosa sarebbe successo
se…” della storia: momenti cruciali in cui una sola decisione è in grado di
cambiare per sempre il corso degli eventi.
Nato nel 1891, Henry era figlio di uno scalpellino e di una lavandaia.
Dopo che il padre James ha avuto un contrasto con il proprio genitore, la
famiglia sembra avere attraversato un periodo critico. Si dice che James
avesse un carattere irascibile, forse influenzato dall’abuso di alcol. Sappiamo
che Henry ha trascorso qualche tempo in un orfanotrofio, ma non ne
conosciamo il motivo.
Da adulto, Henry pesava appena 53 kg ed era alto 165 cm. Si è arruolato
nell’esercito nel 1910, forse per sfuggire alla difficile situazione famigliare o
al massacrante e noioso lavoro di fuochista di caldaia presso l’hotel
Leamington o forse per semplice spirito di avventura. Non lo sappiamo con
certezza perché Henry non ha mai tenuto un diario. Se pure ha scritto delle
lettere a casa, nessuna di esse è arrivata fino a noi. Ciò che sappiamo di lui è
ricavato dalle interviste per la stampa, dai dispacci militari e dalle
onorificenze ricevute.
Soprannominato Zucca, ha iniziato la sua carriera militare come soldato
semplice nel reggimento Green Howard, con il quale ha combattuto nella
battaglia di Ypres dell’ottobre 1914. Quando il reggimento è stato rilevato il
20 ottobre, su 1000 uomini 700 risultavano morti o gravemente feriti. Henry
aveva portato in salvo diversi feriti bloccati in edifici sotto il fuoco
dell’artiglieria, limitandosi poi a commentare: “Abbiamo avuto fortuna.
Siamo riusciti a recuperare tutti senza neanche una perdita”.
Verso la fine dell’estate del 1918 Henry è stato ferito tre volte e il suo
nome è comparso in diversi dispacci militari. Poi, in uno slancio di eroismo
senza pari da parte di un soldato, Henry Tandey ha conquistato le tre più alte
onorificenze militari in altrettante azioni di guerra condotte nell’arco di sei
settimane.
La prima è stata la Medaglia al Merito. Henry era alla testa di una squadra
di dinamitardi. Quando i soldati davanti a lui erano rimasti bloccati dal fuoco
tedesco, aveva guidato due volontari in campo aperto, arrivando alle spalle
del nemico. Avevano preso d’assalto una postazione di mitragliatrici e
catturato venti prigionieri.
La seconda onorificenza è stata la Medaglia al Valor Militare ottenuta “per
la dimostrazione di grande eroismo e attaccamento al dovere”. Billy era
“uscito sotto un pesante fuoco d’artiglieria e aveva recuperato un uomo
gravemente ferito, trasportandolo sulla schiena” e salvando altri tre soldati. Il
giorno dopo si era offerto volontario per guidare l’assalto a una trincea. Un
ufficiale tedesco gli aveva “sparato a bruciapelo, mancandolo” e “il soldato
semplice Tandey con grande sprezzo del pericolo” aveva messo in fuga il
nemico.
Il 28 settembre del 1918 è stata la volta della massima onorificenza inglese
assegnata per il valore “di fronte al nemico”: la Victoria Cross. Nella Prima
Guerra Mondiale hanno prestato servizio circa nove milioni tra inglesi e
cittadini del Commonwealth. Sono state assegnate solo 628 Victoria Cross,
perlopiù a ufficiali. Il plotone di Henry era finito sotto il fuoco delle
mitragliatrici nel tentativo di attraversare un ponte di legno su un canale.
Henry era avanzato strisciando sotto i colpi e aveva sostituito le assi
danneggiate, per poi guidare l’assalto che avrebbe ridotto al silenzio le armi
nemiche. Più tardi, accerchiato e in condizioni di inferiorità numerica, aveva
guidato otto uomini in una carica alla baionetta, spingendo trentasette
tedeschi nelle mani delle truppe inglesi.
Aveva guadagnato le tre medaglie al Valor Militare con il suo nuovo
battaglione nel reggimento del Duca di Wellington. Un suo superiore aveva
commentato ironicamente che il coraggio di Henry non poteva essere
adeguatamente ricompensato perché aveva già ottenuto tutte le medaglie
disponibili!
Dopo la guerra Henry è rimasto nell’esercito. L’unico evento degno di
nota della sua esperienza post-bellica è stata la promozione a caporale,
annullata dopo un anno per sua stessa richiesta. Non ne conosciamo il
motivo.
Nel 1926 si è trasferito di nuovo a Leamington, dove ha condotto una vita
anonima. Per i successivi trentotto anni ha lavorato come usciere presso la
fabbrica automobilistica Standard Motor Company. Durante la Seconda
Guerra Mondiale, ha lavorato part-time come Commissario di leva per
l’esercito e Vigile del servizio antincendi a Coventry. Si è sposato, ma non ha
avuto figli. È morto nel dicembre del 1977.
È vero che Henry Tandey si è trovato davanti al mirino Adolf Hitler ferito
sul fronte occidentale della Prima Guerra Mondiale? Non lo sapremo mai con
certezza. “Ho preso la mira, ma non potevo sparare a un uomo ferito, così
l’ho lasciato andare” raccontava Henry.
È risaputo che Hitler possedesse la copia di un quadro di Fortunino
Matania, commissionato dal reggimento Green Howard nel 1923. Henry vi è
raffigurato mentre trasporta sulle spalle un compagno d’armi ferito.
Nel 1938 Hitler ha raccontato al Primo Ministro britannico Neville
Chamberlain il motivo per cui possedeva quel ritratto di Henry: “Quell’uomo
è arrivato così vicino a uccidermi che ho pensato di non rivedere più la
Germania. È stata la Provvidenza a salvarmi dai colpi che quei ragazzi ci
sparavano addosso con precisione impressionante”. Poi ha chiesto a
Chamberlain di portare i suoi ringraziamenti a Henry. “Dicono che ho
incontrato Adolf Hitler. Forse hanno ragione, ma io non me lo ricordo” è
stata la reazione di questi.
Nel 1940, dopo che i tedeschi hanno bombardato Coventry, Henry ha
lavorato al recupero delle vittime dalle macerie. La stampa dell’epoca ha
riportato questo suo commento: “Non mi piaceva sparare a un uomo ferito,
ma se avessi saputo chi sarebbe diventato quel caporale, ora darei dieci anni
di vita per aver avuto cinque minuti di chiaroveggenza al momento giusto”.
Qualcuno ha espresso dubbi sul fatto che Hitler potesse davvero
riconoscere da lontano il suo “salvatore”, probabilmente inzaccherato di
fango. È credibile che ne ricordasse il viso a vent’anni di distanza? Se,
tuttavia, è vero che un soldato inglese gli ha risparmiato la vita quando era
ferito, quale migliore strumento del Fato, dal punto di vista di Hitler, del
soldato semplice più decorato dell’esercito?
Questa storia è stata confermata tante volte e altrettante volte è stata
smentita, ma il soldato semplice Henry Tandey sarà ricordato per sempre
come “il soldato che non uccise Hitler”.
Ringraziamenti

Questo libro è dedicato al soldato semplice Henry Tandey, decorato con la


Victoria Cross.
Ed ecco il perché. Molte mie storie sono ispirate alla vita della gente, a
verità scritte o ricordate, e forse questa lo è più di tutte. Se non avessi
scoperto, grazie a Michael Foreman, la storia straordinaria della vita e la
morte di Walter Tull, il primo ufficiale nero arruolato nell’esercito inglese,
sicuramente non avrei mai scritto A Medal for Leroy. Se non avessi
incontrato un vecchio soldato della Prima Guerra Mondiale che era stato al
fronte con i cavalli, in cavalleria, non avrei mai scritto War Horse. Se in un
museo di Ypres non mi fossi imbattuto in una lettera ufficiale dell’esercito
alla madre di un combattente della stessa guerra per informarla che il figlio
era stato fucilato all’alba per codardia, non avrei mai raccontato la storia del
Soldato Pace. È stata una medaglia commemorativa del siluramento del
Lusitania nel 1915 e della conseguente tragica perdita di vite, più di mille
anime, a darmi l’idea di raccontare la storia di un sopravvissuto come ho fatto
in Ascolta la luna.
Scrivo romanzi, ma romanzi che affondano le radici nella storia, nelle
persone che hanno fatto la nostra storia, che hanno combattuto e spesso perso
la vita nelle nostre guerre. Persone reali vissute ed esistite in un’altra epoca,
sovente tra pericoli enormi e terribili affrontati con inimmaginabile coraggio.
La mia sfida di scrittore è stata quella di riuscire a immaginare quel coraggio,
di rivivere nella mente, per quanto possibile, cosa avevano provato.
Perciò, quando Dominic Crossley-Holland, produttore di documentari
storici per la BBC, mi ha raccontato la storia straordinaria della vita e i tempi
di Henry Tandey, il soldato semplice più decorato della Prima Guerra
Mondiale, ho voluto approfondire i motivi che avevano spinto Tandey ad
agire. Ed è ciò che ho fatto, ma senza scriverne la biografia. A questo
avevano già pensato. La mia idea è stata, piuttosto, quella di prendere spunto
dalla sua vita per un racconto di fantasia che portasse la sua storia oltre la
storia, nel tentativo di riflettere sulla vera natura del coraggio e sul dilemma
in cui potremmo trovarci scoprendo che fare la cosa giusta potrebbe anche
rivelarsi la cosa peggiore della nostra vita.
Dal momento che le vicende di Henry Tandey sono così intimamente
legate a questo romanzo, mi è sembrato giusto includere anche la storia vera
della sua vita, così come ci è nota.

Michael Morpurgo
16 febbraio 2015
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere
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Il ragazzo che non uccise Hitler


di Michael Morpurgo
Titolo dell’opera originale: An Eagle in the Snow
© 2015 Michael Morpurgo per il testo.
© Translated under licence from HarperCollinsPublishers Ltd.
The author asserts the moral right to be identified as the author of this work.
© HarperCollinsPublishers 2015 per il layout della copertina.
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© 2016 Foto Scala, Firenze/bpk, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und
Geschichte, Berlin per l’immagine della casa.
© Shutterstock per le immagini dell’apparato.
© 2016 EDIZIONI PIEMME S.p.A.
Ebook ISBN 9788858515945

COPERTINA || ART DIRECTOR: FERNANDO AMBROSI | PROGETTO


GRAFICO: © HARPERCOLLINSPUBLISHERS 2015 | GRAPHIC
DESIGN: SARA STORARI
«L’AUTORE» || © RICHARD CANNON
Indice

Il libro
L’autore
Frontespizio
PRIMA PARTE. Il treno delle 11:50 per Londra
1
2
3
SECONDA PARTE. Billy Byron
1
2
3
TERZA PARTE. Uno sguardo che uccide
1
2
3
QUARTA PARTE. Un’aquila nella neve
1
2
3
4
Epilogo
Postfazione
Ringraziamenti
Copyright

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