Ispirato alla storia vera del soldato che avrebbe potuto fermare la
Seconda Guerra Mondiale
L’autore
È stato qualche istante dopo che avevamo ritrovato Big Black Jack, steso
sull’erba ai margini del bosco. E tra gli alberi avevamo intravisto il cratere
lasciato dalla bomba. Tutt’intorno gli alberi erano sradicati, inceneriti, ridotti
a monconi. Big Black Jack stava così immobile, senza neanche un segno sul
corpo. Avevo guardato i suoi occhi sbarrati. Nonno si era inginocchiato
vicino alla sua grande testa e gli aveva posato una mano sul collo. «Freddo»
aveva detto. «Freddo. Povero ragazzo mio. Povero ragazzo mio.» E si era
messo a piangere in silenzio, con tutto il corpo che tremava.
In quel momento non avevo pianto, però stavo per farlo ora in treno
ricordando tutta la scena, la gentilezza negli occhi di Big Black Jack e la
forza con cui avevo desiderato che respirasse ancora, che non stesse così
immobile. Ho sentito il cuore che mi si gonfiava di lacrime.
– Tutto a posto, piccolo? – ha chiesto lo sconosciuto, chinandosi verso di
me.
Mamma ha risposto di nuovo al posto mio, ma stavolta è stato un sollievo
perché, oltre al cuore, avevo anche la bocca piena di lacrime e non sarei
riuscito a parlare neanche volendo.
– Ci hanno bombardati – ha spiegato Mamma. – È un po’ scombussolato,
poverino.
– S’è rotto anche il braccio – ha detto l’uomo. – Com’è stato?
– A pallone – ha risposto Mamma. – Lui va matto per il pallone, vero,
Barney?
Ho fatto cenno di sì. Non riuscivo a fare altro.
– Abbiamo perso la casa – ha continuato Mamma. – A Mulberry Road.
Abbiamo perso tutto, praticamente, ma gli altri non sono messi meglio. Noi
siamo stati fortunati. Siamo ancora qui, no? –. Ha posato una mano sulla mia
e ha aggiunto: – Un braccio rotto è poca cosa, se ci pensi… Perciò, non
dobbiamo lagnarci, giusto? Non c’è motivo, no? Ringraziamo la nostra buona
stella. Ora ce ne andiamo da mia sorella giù in Cornovaglia, al mare, vero,
Barney? A Mevagissey, gran bel posticino. Niente bombe da quelle parti.
Solo mare, sabbia, sole, e un sacco di pesce. Pesce e patatine fritte. Noi ci
andiamo matti, vero, Barney? E anche zia Mavis ci piace tanto, vero?
In un certo senso era vero. Però non riuscivo ancora ad aprire bocca.
Mamma ha smesso di parlare e siamo rimasti seduti per un po’, mentre il
treno oscillava e sferragliava e il fumo passava davanti al finestrino. Il ritmo
si era fatto diverso, ancora più veloce, più veloce. Tatàn-tatàn, tatàn-tatàn,
tatàn-tatàn.
– Hanno colpito anche la cattedrale e il resto, sa? – ha detto a un certo
punto Mamma. – Non c’è rimasto quasi più niente in piedi. Un così bel posto,
antico. Quella bella guglia si vedeva da lontano un miglio. Che gli è saltato in
testa? È stata una gran cattiveria, dico io. Proprio una gran cattiveria.
– È vero – ha detto lo sconosciuto. – Per combinazione, conosco anch’io
Mulberry Road. Si può dire che ci sono cresciuto. E ho visto quello che gli
hanno fatto: ero da quelle parti dopo il bombardamento, a tirare fuori la gente
dalle macerie. Sono nella Protezione civile, responsabile Protezione
antiaerea. È questo che faccio –. Sembrava parlare a se stesso, pensando ad
alta voce, ricordando. – Protezione civile, avvistamento e spegnimento
incendi. Però una tempesta di fuoco mica la puoi spegnere. Era un inferno
quello, io c’ero. Ma non sono stato granché d’aiuto, vero?
È stato in quel momento che ho capito dove lo avevo già visto. Era il
volontario della Protezione antiaerea che stava sulle macerie, quello che mi
aveva riportato giù. Senza divisa e senza elmetto sembrava diverso. Però era
proprio lui. Ne ero sicuro. E ora mi fissava con aria accigliata, come se anche
lui mi avesse riconosciuto.
– Lei ha fatto il meglio che poteva – ha detto Mamma, che non si era
accorta di niente, armeggiando con i ferri da calza. – Vale per tutti, no? Il
Papà di Barney è lontano, oltreoceano con l’esercito. È nel genio militare e fa
del suo meglio. Come anche il Nonno di Barney che è rimasto a Coventry e
dice che vuol andare avanti come prima. Vende carbone, una piccola impresa
famigliare. «Le case vanno riscaldate» dice. «Le stufe vanno accese. Non si
possono scontentare i clienti.» «Ma se non è rimasta una casa in piedi!» dico
io. E lui: «Allora bisogna ricostruirle daccapo». Così è rimasto in città, per
fare il meglio che può, per fare la cosa giusta, è così che la pensa lui. E la
penso così anch’io. Nessuno può chiedere di più. Fa’ quello che ti sembra
giusto e non puoi sbagliare più di tanto. Basta che fai del tuo meglio. È quello
che dico sempre a Barney, vero, tesoro?
– Sì, Mamma – ho risposto, ritrovando la voce.
Ed era vero, Mamma me lo ripeteva sempre. E anche le maestre a scuola
mi dicevano più o meno la stessa cosa, quasi ogni giorno.
– Certe volte, però, – ha detto l’uomo lentamente, soprappensiero – il
problema è che il meglio non è abbastanza. A volte, quello che sembra giusto
in un certo momento poi si rivela sbagliato –. E si è appoggiato allo schienale
come se ne avesse abbastanza di tutte quelle chiacchiere. Mamma,
ovviamente, non l’aveva riconosciuto. Volevo avvisarla, ma non potevo farlo
con lui davanti.
Lo sconosciuto, intanto, si era voltato a guardare dal finestrino e per molto
tempo nessuno ha aperto più bocca.
Mi piacciono tanto i treni, in tutto e per tutto: i sibili, gli sbuffi, il ritmo, il
dondolio, il modo in cui sferragliano, fischiano e strepitano, il ruggito quando
irrompi in una galleria precipitando nell’oscurità rimbombante e poi di colpo,
senza preavviso, ti ritrovi fuori alla luce accecante del giorno, con i cavalli
che scappano al galoppo nei campi e le pecore e i corvi che si disperdono. Mi
piacciono tanto anche le stazioni: il viavai, gli sportelli che sbattono, il
ferroviere col suo berretto con la visiera che sventola la bandiera e la
locomotiva che soffia, aspettando il fischio. E poi, finalmente, ecco il segnale
e il ciuff ciuff ciuff.
Quando Papà era tornato a casa in licenza, gli avevo detto che da grande
volevo fare il macchinista. A Papà piaceva tanto trafficare con i motori:
generatori, motociclette, automobili… Sapeva aggiustare qualunque cosa.
Perciò era stato contento di sapere che avrei fatto il macchinista. Mi aveva
detto che la macchina a vapore era praticamente la più bella macchina che
l’uomo aveva mai costruito. Per me il semplice fatto di stare su un treno
quella mattina era già una consolazione. Forse perché non riuscivo a
togliermi di mente quella notte di terrore giù al rifugio o le scene spaventose
che avevo visto il giorno dopo: la signora McIntyre seduta sul marciapiede
con il rosario in mano e la sua bottega e la sua vita in pezzi, la nostra casa
distrutta e Nonno inginocchiato accanto a Big Black Jack. Il ritmo e il
dondolio del treno in qualche modo mi davano conforto, e mi facevano anche
venire sonno.
Al mio fianco, Mamma dormiva della grossa, con la testa che ciondolava e
pareva sul punto di cascare giù da un momento all’altro. Stringeva ancora in
mano i ferri da calza e il gomitolo di lana in grembo: un calzino di Papà
mezzo lavorato.
Così siamo rimasti solo io e lo sconosciuto seduto di fronte, che poi non
era per niente sconosciuto. Ogni tanto mi lanciava un’occhiata come se stesse
per farmi una domanda ma poi ci ripensasse. Alla fine si è chinato verso di
me e mi ha chiesto sottovoce: – Eri tu che ho portato giù dalle macerie dopo
il bombardamento, vero, ragazzo? A Mulberry Road.
Ho fatto segno di sì.
– Mi sembrava, non ho mai dimenticato una faccia – ha detto. – Allora, io
e te siamo bambini di Mulberry Road. Ricordo che mentre ti portavo giù ho
pensato che sembravi me alla tua età. Anch’io, da piccolo, una volta mi sono
rotto il braccio. Però non è stato giocando a pallone, io sono caduto dalla bici.
È bello rivederti. Sei la mia immagine spiccicata –. Mi ha sorriso con un
cenno di approvazione, poi ha continuato: – Tuo padre, dov’è che combatte?
Dove l’ha mandato l’esercito?
– In Africa – ho risposto. – Nel deserto. Si occupa dei carri armati, li fa
funzionare e quando si rompono li aggiusta. Dice che la sabbia entra
dappertutto. E dice pure che fa un sacco di caldo e ci sono milioni di mosche.
– È dove dovrei stare anch’io – ha detto l’uomo. – Una volta sono stato in
Sudafrica, un sacco di tempo fa. Con l’esercito. Ecco quello che dovrei fare:
combattere, come tuo padre. Ma non mi hanno voluto, per via di questa
gamba bacata –. Si è battuto una mano sul ginocchio. – È un ricordo
dell’ultima guerra. C’è ancora dentro un pezzo di granata, sai? Comunque,
dicono che ormai sono troppo vecchio. Quarantacinque anni? Troppo
vecchio? Sciocchezze… Così mi tocca stare nella Protezione civile, che
praticamente è come stare a casa con le mani in mano. Sono un volontario
della Protezione antiaerea adesso, buono solo a questo. Vado in giro con il
fischietto a dire alla gente di chiudere le tende quando c’è il coprifuoco.
Dovrei stare al fronte, invece. Io gliel’ho detto: dovrei stare al fronte, a fare la
mia parte, come tuo padre. Non sono troppo vecchio. Ce la faccio ancora a
correre. Ce la faccio a combattere, no? –. Gli tremavano le labbra. Capivo che
si sforzava di controllarsi e la cosa mi faceva un po’ paura. – Ma non mi
hanno dato retta – ha continuato. – «Stattene a casa,» hanno detto «hai già
fatto la tua parte. Hai le medaglie che lo provano» –. Ha distolto lo sguardo,
scuotendo la testa. – Medaglie… Non significano niente. Se solo sapessero…
Se solo sapessero.
Pensavo che non avrebbe detto altro, invece ha continuato. – Be’, alla fine,
ho fatto quello che dicevano. Non avevo scelta, no? Ma che aiuto puoi dare
con tutte quelle bombe che cadono, le case che saltano in aria, le scuole, gli
ospedali e tutte quelle persone ammazzate a centinaia? Ragazzini della tua
età, neonati… Li abbiamo tirati fuori a decine, quasi tutti morti. A che serve?
Bisogna combattere, invece. Dovevamo avere le armi per sparargli e tirarli
giù. Dovevamo avere degli aeroplani anche noi, e abbatterli. Ci hanno
mandato addosso centinaia di bombardieri, hanno messo a ferro e fuoco la
città e io stavo là a correre per le strade con il fischietto e a tirare fuori la
gente… –. Si è interrotto, troppo scosso per continuare.
Non sapevo cosa dire, perciò non ho detto niente e ho guardato fuori dal
finestrino. Il treno attraversava sferragliando la campagna, i pali del telegrafo
ci sfrecciavano davanti. Ne ho contati un centinaio prima di annoiarmi.
Gocce di pioggia scendevano lungo il vetro, rincorrendosi. Ho alzato gli
occhi alle nuvole, guardando il fumo del treno che si levava in alto e
diventava tutt’uno con loro: una grande nuvola ora a forma di leone ruggente,
ora di mappa d’Inghilterra, ora di gigante con un occhio solo. Un occhio
scuro, un occhio che si muoveva. Mi ci è voluto qualche istante per rendermi
conto che l’occhio del gigante era un aeroplano. Quando sono riuscito a
distinguerlo e ho capito cos’era, mi sono accorto di non riuscire più a vedere
in quella nuvola la faccia di un gigante. Era solo una nuvola da cui sbucava
un aeroplano.
È stato allora che ho sentito qualcosa pizzicarmi l’occhio. Ho capito subito
che era un granello di polvere entrato dal finestrino aperto. Sentivo che
pungeva. Ma, per quanto mi sforzassi di strofinare e battere le palpebre, non
c’era verso di farlo uscire. S’era andato a infilarsi in un punto interno
dell’occhio. Ho provato a toglierlo con il dito, ho continuato a battere le
palpebre, ma niente. Peggioravo solo le cose e mi faceva ancora più male.
A quel punto lo sconosciuto si è avvicinato e mi ha scostato delicatamente
la mano. – Così non serve a niente, ragazzo – ha detto. – Fa’ provare me, te lo
tolgo io. Ora sta’ fermo, da bravo. Tieni indietro la testa –. Mi aveva preso
per la spalla e mi teneva stretto. Poi con il pollice ha cercato di tenere aperta
la palpebra. Era difficile non tirarsi indietro, non muoversi, non chiudere gli
occhi. Sentivo l’angolo del suo fazzoletto sul bulbo oculare. Ho cominciato a
battere le palpebre. Non riuscivo a fermarmi. C’è voluto un po’, ma
all’improvviso era tutto finito. Lui si era rimesso seduto e, sorridendo, mi
mostrava con aria trionfante un granello nero sul fazzoletto.
– Visto? Quello che entra esce – ha detto. – Ora non avrai più fastidio –. E
quando ho provato a battere le palpebre ho capito che aveva ragione. Se n’era
andato. Ho continuato a controllare anche dopo, aprendo e chiudendo gli
occhi ogni tanto per sicurezza.
Era quello che stavo facendo quando, guardando dal finestrino, ho visto
l’aeroplano che scendeva dalle nuvole. Adesso era più basso e anche più
vicino. Un caccia! E puntava dritto su di noi!
– Spitfire! – ho gridato, battendo con il dito sul vetro. – Guarda! Guarda!
–. Mamma si è svegliata di colpo e tutti e tre ci siamo avvicinati al finestrino.
– Non è uno Spitfire, ragazzo – ha detto l’uomo. – È un maledetto
Messerschmitt 109, ecco cos’è. Un caccia tedesco. E scende in picchiata per
attaccarci. Via dal finestrino! Subito!
3
– Si può dire che con Billy Byron ci conoscevamo praticamente da una vita –
ha cominciato lo sconosciuto. – Eravamo cresciuti insieme, io e Billy. Stessa
strada, stessa città, stesso orfanotrofio, stessa scuola elementare, St Jude. In
fondo a Mulberry Road.
– Ci va anche Barney alla St Jude – ha esclamato Mamma. – Non è vero,
Barney? O comunque ci andava.
– Pensa un po’ – ha detto l’uomo. – Quant’è piccolo il mondo! Buffo, no?
St Jude. Mulberry Road. Pare quasi destino che ci dovessimo incontrare.
Anche l’orfanotrofio si trovava da quelle parti. I bambini di Mulberry Road,
ci chiamavano.
– Quell’orfanotrofio me lo ricordo bene, lo conosco da un sacco di tempo
– ha continuato Mamma. – L’hanno buttato giù anni fa. Ci hanno costruito
sopra delle case e un negozio, la bottega della signora McIntyre. Ora però è
andata persa pure quella.
A un tratto il corridoio esterno è stato rischiarato dalla luce danzante di
una torcia. La porta scorrevole si è aperta e s’è sentita una voce: – Sono il
capotreno, signora. Giusto per controllare se tutto è a posto –. La torcia ha
illuminato lo scompartimento, poi si è soffermata per un istante sul viso del
capotreno e sul suo berretto con la visiera. – Non penso che resteremo
bloccati ancora molto.
– S’è fatto male qualcuno? Negli altri scompartimenti, dico? – ha chiesto
Mamma.
– Non credo – ha risposto l’uomo. – Non che io sappia, almeno.
– Quanto ci resteremo qua dentro? – ha chiesto Mamma. – Dobbiamo
prendere la coincidenza a Londra, sa, non possiamo fare tardi. Andiamo giù
in Cornovaglia.
– Beati voi – ha detto l’altro. – Forse un’ora, signora, non di più. Mi
spiace, ma il signor Hitler deve fare i suoi giochetti, no? Torno tra un po’.
Restate seduti.
Ed è sparito, chiudendosi la porta alle spalle e lasciandoci di nuovo
immersi nell’oscurità.
– Dov’ero rimasto? – ha ripreso lo sconosciuto. – Avevo appena
cominciato, giusto?
– All’orfanotrofio di Mulberry Road – ha detto Mamma.
– Giusto, eravamo lì. Papà mi ci ha messo quando mamma è morta, poi è
andato via e non l’ho più rivisto. Una liberazione, dico io. Quell’orfanotrofio
non era male: ci hanno dato un nome, un tetto sulla testa, qualcosa da mettere
in pancia. Ma poco altro. La notte si gelava e il mangiare faceva schifo. La
scuola però era un bel posto. Naturalmente, a noi dell’orfanotrofio ci
prendevano in giro da morire. I mocciosi di Mulberry Road, ci chiamavano.
Ma io e Billy ce ne infischiavamo. Sapete come si dice: «Le cattive parole
non rompono i denti». Facevamo tutto insieme, Billy e io: marinavamo la
scuola insieme, finivamo in castigo insieme, le prendevamo insieme. Lui si
poteva dire un cuorcontento, un compagnone. Già da allora andava matto per
il disegno. Uccelli, gli uccelli più di tutto. Merli, pettirossi, corvi. Li sapeva
disegnare tutti e pure le persone. Un po’ alla volta, ha disegnato quasi tutti in
quella scuola, anche i maestri, e certe volte ci sono rimasti male. Pensavano
che fosse un tipo impertinente, ma non era vero. Lui disegnava e basta.
Abbiamo finito la scuola nello stesso giorno e siamo anche andati via nello
stesso giorno. Abbiamo trovato lavoro insieme in un albergo, badavamo alla
caldaia e al giardino, davamo una mano a tinteggiare… lavoretti così. Ci
abitavamo anche in quell’albergo, in una stanzetta all’ultimo piano. Non ci
trattavano più da orfani, ma da schiavi. In due anni ci hanno dato le ferie una
volta sola. Un giorno e basta. Siamo andati a Bridlington.
– Ci siamo stati anche noi! – ho esclamato. – Ho una conchiglia di noce di
mare che ho trovato sulla spiag- gia –. E mi è tornata in mente la casa
distrutta dalle bombe e la mia conchiglia speciale e il mio autobus e i miei
soldatini di latta. Non avrei più rivisto niente.
– Abbiamo un sacco di cose in comune, io e te – ha proseguito lo
sconosciuto. – Bel posto Bridlington, eh? Mai mangiato pesce e patatine fritti
più buoni. Io e Billy siamo andati in spiaggia a guardare le onde, con la
voglia di partire, di vedere il mondo dall’altra parte del mare, oltre
l’orizzonte. Billy ha trovato nella sabbia un sassolino nero lucido e ha detto
che era il suo portafortuna. E, in effetti, bisogna dire che in vita sua ha avuto
sempre una gran fortuna. Ma sto correndo troppo.
A ogni modo, è stato dopo quel giorno di vacanza che abbiamo cominciato
a riflettere. Ne avevamo piene le tasche di lavorare come schiavi in
quell’albergo. Non ne potevamo più, sul serio. Poi, una domenica al parco,
vicino al palco della banda, ho incontrato un soldato. Be’, l’abbiamo
incontrato Billy e io. Suonava nella banda. Così ci siamo messi a
chiacchierare e lui ci ha raccontato che era stato in tutto il mondo con
l’esercito: Africa, Egitto, una volta perfino in Cina. E noi dov’eravamo stati?
A Bridlington. Billy non aveva famiglia, io neanche. Eravamo stufi di passare
il tempo a tenere accese caldaie, zappare giardini e verniciare porte per due
soldi. E quel soldato ci stava dicendo che nell’esercito potevi mangiare tutto
quello che ti pareva, roba buona, e pure gratis. Perciò, a farla breve, ci siamo
arruolati. Ci hanno dato una divisa e un fucile, ci hanno insegnato a marciare
avanti e indietro, a sparare un po’, a lucidare gli stivali e le mostrine, a tenere
tutto l’equipaggiamento in ordine, e poi si ricominciava a marciare avanti e
indietro. Però quel soldato del parco aveva ragione: il cibo era buono,
regolare e gratuito. E fare il soldato era cento volte meglio che sfacchinare
tutto il giorno. L’unico guaio è che c’era sempre qualcuno che ti sbraitava
contro dicendoti quello che dovevi fare e il più delle volte quello che non
dovevi fare. Un po’ come all’orfanotrofio, ora che ci penso. Comunque
avevamo un sacco di amici e Billy e io eravamo insieme. Era come un gioco,
insomma.
Poi, un bel giorno, ci hanno caricati su un treno, in divisa e fucile. E poche
ore dopo marciavamo per le strade, con la banda che suonava e tutti che ci
facevano festa e sventolavano bandiere. Ci pareva d’essere eroi, ecco. Poi
siamo saliti su una passerella e ci siamo imbarcati su una grande nave. «Ora
comincia l’avventura» pensavamo. Solo che appena la nave ha preso il largo
abbiamo cominciato a stare male da cani. Pure Billy che, però, non ha mai
smesso di sorridere. Era fatto così: il più allegro di tutti, sempre su di morale
e con la matita in mano. Non sapeva mettere due parole in fila, ma quanto gli
piaceva disegnare!
Era la prima volta che andavo per mare ma, credete a me, dopo quella
volta non l’ho più voluto vedere nemmeno dipinto! Non ti si ferma mai sotto
i piedi e ti fa rivoltare lo stomaco. Vi giuro che è stato un sollievo quando
dopo settimane di mare grosso abbiamo messo piede a terra e ricominciato a
marciare, anche se continuavano a sbraitarci contro dalla mattina alla sera.
Eravamo arrivati in Africa. In Sudafrica! Un bel po’ lontano da dove sta tuo
padre, ragazzo, ma pur sempre Africa. Stavamo davvero girando il mondo.
C’era un bel sole e, a parte le mosche e il mal di pancia, ci pareva di stare
nella bambagia.
– Come, nella bambagia? – ho chiesto, confuso. – Che vuol dire?
– È quando ti senti bene – ha spiegato. – Quando non hai niente di cui
preoccuparti. Eravamo contenti come una Pasqua, come fringuelli, stavamo
nella bambagia, come pascià, insomma. Eravamo in Africa come ci aveva
promesso quel soldato al parco. Abbiamo visto giraffe, leoni, elefanti…
animali di tutti i tipi. Il sole di laggiù, poi, dovresti vederlo al tramonto:
enorme, rosso fuoco, così vicino che ti pare quasi di poter allungare la mano
e toccarlo. Di combattimenti, però, neanche uno. Così ci facevano marciare di
più, ma avevamo comunque tanto tempo per scherzare e stare con le mani in
mano. Bei giorni quelli, a ripensarci ora. Tutto il cibo che volevamo, un sacco
di amici e il sole che ti scaldava le ossa. Billy disegnava tutto quello che gli
capitava a tiro, soprattutto animali, ma anche insetti, alberi, fiori, e poi
uccelli, ovviamente. Avvoltoi, aquile… Com’era felice quando se ne stava
seduto davanti alla tenda a disegnare. Gli album da disegno di Billy, be’,
dovresti proprio vederli. Dentro ci trovi tutta l’Africa.
Poi è arrivato il 1914 e ci siamo ritrovati su una nave a vapore che lasciava
Città del Capo e ci riportava a casa sul solito mare grosso. Tornavamo a casa
perché in Europa era scoppiata la guerra contro i tedeschi. Il Kaiser aveva
messo su un esercito enorme e aveva marciato sul Belgio. Così, per salvare il
piccolo, coraggioso Belgio toccava combattere il Kaiser. Servivano tutti i
soldati disponibili, noi compresi. Non avevamo paura. Più che altro, eravamo
elettrizzati. Niente più giornate con le mani in mano. Niente più marce avanti
e indietro senza motivo. Billy era entusiasta, non vedeva l’ora. Be’, la
pensavamo tutti come lui. Eravamo soldati, no? Quei Crucchi, ci pensavamo
noi a sistemarli in quattro e quattr’otto. Quanto tempo abbiamo passato a
ridere e cantare su quella nave! Quando non avevamo il mal di mare, almeno.
Nessuno sapeva quello che ci aspettava e, a pensarci bene, è stato meglio
così.
2
– Billy passava quasi tutto il tempo sul ponte della nave. «Se stai all’aperto,
non stai così male» diceva. Disegnava balene, delfini e altre cose. Ma i suoi
preferiti erano gli albatros, perché si libravano in aria e volteggiavano con le
ali che si muovevano appena. Restavano fermi apposta per lui, così erano più
facili da disegnare.
A ogni modo, non è passato molto che Billy ha dovuto mettere via l’album
da disegno perché, appena sbarcati, ci siamo messi subito in marcia attraverso
il Belgio. La guerra non stava andando bene, così ci avevano detto. E noi non
l’avevamo ancora vista con i nostri occhi. Eravamo ancora una banda di
mattacchioni che cantava e scherzava, Billy più di tutti. Eppure era anche un
soldato con i fiocchi, intelligente, mai un ritardo, mai un passo falso, sempre
il primo a offrirsi volontario anche per i lavori peggiori.
Ogni giorno, il rombo dei cannoni era sempre più vicino. Vedevamo
sfilarci davanti colonne di ambulanze cariche di feriti. E carri zeppi di mobili
e oggetti personali, a volte con una mucca o un cavallo legati dietro, e
famiglie intere che si trascinavano per la strada senza più forze, con i bambini
che piangevano. Scene da fare pietà, credetemi. Questo ha messo fine a tutti i
canti e le risate. Marciavamo attraverso paesi deserti e ridotti in macerie…
sul ciglio della strada carcasse gonfie di asini e cavalli. Una volta, in una
chiesa dal tetto scoperchiato, abbiamo visto centinaia di lettighe e bare vuote
accatastate contro un muro. E ormai lo sapevamo chi stavano aspettando.
Quando siamo arrivati all’accampamento, Billy ha tirato fuori l’album e
ha disegnato quelle bare. Niente più giraffe al galoppo e avvoltoi in cielo,
niente più tramonti, balene nell’oceano e albatros… Adesso era il viso di un
soldato ferito nel retro di un’ambulanza, una vecchia curva che tirava un
cavallo o una mucca lungo la strada. E poi una sera ha disegnato una
bambina, la bambina che gli avrebbe cambiato per sempre la vita, e senza
neanche sapere chi fosse e da dove venisse.
Stavamo marciando attraverso un paesino, un posto chiamato Poperinge,
nei dintorni di Ypres in Belgio, quando l’ha vista sul ciglio della strada. La
bambina stava seduta con le ginocchia strette tra le braccia e si dondolava,
piangendo sottovoce. L’abbiamo vista tutti passando. Era scalza, tremava e si
capiva che non le era rimasta dentro più nessuna speranza. Non era la prima
che vedevamo in quelle condizioni, ma lei sembrava così sola al mondo.
Billy stava marciando con gli altri, quando all’improvviso è uscito dai ranghi
ed è tornato indietro di corsa. Il Sergente l’ha richiamato urlando, ma lui non
ci ha fatto caso. La colonna ha rallentato e si è fermata, mentre il Sergente
continuava a imprecare e ci gridava di riprendere il passo. Siamo rimasti tutti
lì a guardare Billy che si era accovacciato vicino alla bambina e le parlava,
cercando di consolarla. Però non c’era verso. Allora Billy non ci ha pensato
su due volte e l’ha presa in braccio.
In quel momento è arrivato a cavallo il Maggiore, che gli ha ordinato di
mettere giù la bambina e di rientrare nella fila. Invece Billy è rimasto lì senza
fare una piega, mentre l’ufficiale dall’alto del cavallo sbraitava e gliene
diceva quattro.
«Cosa credi che stiamo qui a fare, soldato?» gridava. «Pensi che facciamo
da balia a questa gente? Se vuoi salvare quella ragazzina, se vuoi salvare tutti,
risparmia le forze per i tedeschi. È questo l’unico modo di salvare lei e
migliaia di bambini come lei. Ora mettila giù, soldato, e rientra nei ranghi.»
«Mi spiace, non posso, signore» ha risposto calmo Billy. «Combatterò i
tedeschi come dice lei, ma prima dobbiamo portare questa piccola a un
ospedale da campo. Sennò morirà. Ha bisogno di aiuto, signore, di un dottore.
E i dottori, noi ce li abbiamo, no? È debole come un gattino, signore. Non
posso lasciarla qui. Non ha più mamma e papà, è rimasta sola. Colpa di
questa guerra. Tutti dovrebbero avere una mamma, un papà e una casa. Lei
non ha più niente. Non è giusto, signore. Dobbiamo fare qualcosa. Non
possiamo abbandonarla qui, vero, signore?»
Quelle parole hanno ridotto il Maggiore al silenzio. Non ha più aperto
bocca, e neanche il Sergente. Così Billy ha raggiunto la colonna e ha portato
la bambina, avvolta nel pastrano militare, all’ospedale da campo più vicino,
continuando a parlarle per tutta la marcia. Quando i soldati hanno fatto sosta,
Billy ha adagiato la bambina su una lettiga e le ha tenuto stretta la mano per
qualche istante. Poi sono arrivati i barellieri e l’hanno portata nella tenda
ospedale.
Nessuno è riuscito a dimenticarla, men che meno Billy. È stata lei che lo
ha spinto a fare quello che poi ha fatto, ci diceva sempre. In parte erano state
le parole che quel giorno gli aveva gridato il Maggiore dall’alto del cavallo,
ma più di tutto era stata l’espressione negli occhi della bambina quando
l’aveva lasciata all’ospedale. Occhi pieni di dolore e disperazione. Se aveva
capito bene, e non poteva esserne certo, gli era parso che lei cercasse di dirgli
che si chiamava Christine. Era tutto quello che sapeva di lei. Durante le
settimane e i mesi seguenti non ha fatto che disegnarla, scrivendo il suo nome
sotto ogni ritratto. Più la disegnava e pensava a lei e parlava di lei, più si
convinceva di quello che doveva fare per Christine e per i bambini rimasti
orfani e soli al mondo a causa della guerra: avrebbe fatto di tutto per mettere
fine a quella guerra il più presto possibile, per impedire le sofferenze, per
fermare il dolore.
Poi, quasi senza accorgercene, ci siamo ritrovati al fronte, per la prima
volta in trincea. Le trincee, meno se ne parla e meglio è. Le talpe sono fatte
per vivere sotto terra, forse anche i vermi, ma gli uomini no. A essere sinceri,
all’inizio non è successo granché. Ogni tanto arrivava qualche proiettile e
c’erano sempre in agguato i cecchini, perciò bisognava tenere giù la testa.
Avevamo paura, certo. Sapevamo che là fuori, a poche centinaia di metri
nelle trincee dall’altra parte della terra di nessuno, c’erano i Crucchi pronti a
colpirci. Li sentivi che parlavano e ridevano, e certe volte ci arrivava anche la
musica che ascoltavano. Ma non li vedevamo mai e nessuno di noi era tanto
stupido da fare capolino per dare un’occhiata. I cecchini non aspettavano
altro. Il primo uomo che ho visto ammazzare è morto così. Harold Merton si
chiamava, me lo ricordo ancora. Aveva solo diciott’anni. Un tipo che parlava
poco, tranne quando cantava. Gli piaceva tanto cantare. A casa cantava nel
coro della chiesa. Veniva da Manchester; tifava per il Manchester United.
Aveva una gran bella voce. Un momento era lì che parlavamo, e il momento
dopo era morto.
Così, passavamo il tempo seduti in trincea a fumare Woodbines, a scrivere
lettere, a giocare a carte e a raccontarci storie, proprio come ora. Billy faceva
i suoi disegni, certe volte anche di noi, ed erano belli. E poi mangiavamo
stufato, stufato e ancora stufato. E pane e marmellata se eri fortunato.
Marmellata Ticklers. E dormivamo, o almeno ci provavamo. I Crucchi,
pareva che lo sapessero quando ci appisolavamo e ci mandavano subito un
fischiabotto a svegliarci. Naturalmente, dovevamo fare i turni di guardia e
ogni mattina all’alba stare pronti in preallerta sulla banchina di tiro. Era in
quel momento che ai Crucchi piaceva attaccare. All’alba, nella semioscurità,
nella foschia, alla prima luce del sole. Perciò dovevamo stare pronti,
baionette inastate, il colpo in canna. E Billy era sempre il primo, fuori dalla
trincea e su in banchina di tiro, pronto. Pareva quasi che ci sperasse
nell’arrivo dei Crucchi, che non vedesse l’ora di dargli addosso.
Certe notti, quand’era abbastanza buio, ci mandavano in perlustrazione
con un ufficiale, un sergente o un caporale. Dovevi arrampicarti sul
terrapieno, attraversare la terra di nessuno strisciando sulla pancia senza fare
rumore e poi cacciarti dentro il filo spinato e saltare giù nelle loro trincee.
Dovevi riuscire a catturarne uno per interrogarlo, era questo che ci avevano
ordinato. Se ti offrivi volontario, ti davano doppia razione di rum, ma
nessuno ci voleva andare lo stesso, a parte Billy, e il rum manco gli piaceva.
Solo la birra. Si offriva volontario tutte le volte, non gli dava nessun
problema. Billy il matto, lo chiamavano, ma lui se ne infischiava. Non era
matto, lo sapevamo tutti, non era matto per niente, e neanche coraggioso. Era
come aveva detto lui: voleva solo mettere fine a quella guerra il prima
possibile, così che nessun altro bambino restasse orfano come la piccola
Christine dei suoi disegni.
La prima volta che è suonato il fischietto e siamo usciti tutti insieme dalla
trincea tra il crepitio, lo scoppiettio e il martellamento di mitragliatrici e
fucili, sotto il fuoco dell’artiglieria, tra il fumo e le grida della battaglia, è
stato Billy che ci ha fatto da battistrada e noi gli siamo andati dietro.
Avevamo addosso una paura maledetta, e anche Billy, ma lui ci scherzava su,
diceva di avere in tasca il sassolino nero portafortuna di Bridlington e che
non gli sarebbe successo niente. Io credo, però, che avesse capito quello che
avevamo capito tutti: che non importava un fico secco se eri il primo o
l’ultimo a uscire dalla trincea, se andavi piano o di corsa. Una volta che ti
trovavi là fuori, in mezzo alla terra di nessuno, era solo questione di fortuna.
Schegge e proiettili, non li puoi schivare. O ti beccano o non ti beccano. O
crepi all’istante come Harold Merton o non crepi. Puoi cavartela senza un
graffio. O con una ferita da niente, ti fai mettere una pezza all’ospedale da
campo e, dopo che ti sei fatto qualche giorno di convalescenza, ti
rispediscono in prima linea. O magari ti becchi un “lasciapassare”, una di
quelle ferite gravi che ti fanno mandare subito a casa.
«Nelle mani di Dio», ecco come stavamo, diceva Billy. E se ti facevi
pigliare dall’angoscia non potevi vincere la guerra e farla finita. Bisognava
andare avanti. Vedevi morire gli amici, come il povero Harold, e ti venivano
gli incubi, la tremarella. Billy, invece, ogni volta che vedeva un ferito, ogni
volta che perdeva un compagno, si convinceva ancora di più che doveva
andare avanti, uccidere e catturare quanti più Crucchi possibile. Era quello
per lui l’unico modo di mettere fine alla guerra.
Poi è successo che anche lui s’è beccato un “lasciapassare”. È stato nella
battaglia della Somme, nell’ottobre del 1916. Una scheggia in una gamba.
All’ospedale da campo ha detto al dottore di mettergli due punti e via, così
poteva tornare subito in prima linea. Quando gli hanno risposto che non si
poteva, ha provato ad andarsene sulle sue gambe, ma l’hanno riportato
indietro. Il dottore ha detto che doveva tornare a casa, che era una brutta
ferita, profonda e pericolosa, e che aveva bisogno di un ospedale vero. Ed è
finita lì. Per un po’ Billy è rimasto in ospedale in Inghilterra, in una grande
casa in campagna, era nel Sussex, con i cervi nel parco davanti alla finestra e
i cigni sul lago. Passava il tempo a sperare che la gamba guarisse. Disegnava
i cervi, i cigni, i suoi compagni d’armi e poi ancora Christine, per ricordarsi
perché doveva tornare in trincea.
Quando dormiva, era la faccia della piccola Christine che vedeva sempre
in sogno. Voleva tornare in guerra e anche dai suoi compagni. Erano la sua
famiglia ora, la famiglia che non aveva mai avuto, e voleva stare con loro.
3
– Coraggio, tesoro, va tutto bene, vedi? – ha detto Mamma. – Non c’è niente
da preoccuparsi –. Invece, c’era eccome, perché la luce già tremolava. E a un
certo punto s’è spenta del tutto. – Vada avanti con la storia, signore – ha detto
Mamma. – A Barney piace tanto, vero? Lo fa stare meglio.
– Come vuole, signora – ha risposto lui e ha ripreso a raccontare.
– Billy aveva visto abbastanza. S’è alzato ed è uscito dal cinema. Christine
gli è andata dietro. È tornato a casa senza dire una parola. S’è messo in
poltrona e ha passato la sera a fissare il fuoco in silenzio. Non ha toccato
cibo. Christine ha avuto il buonsenso di non chiedergli niente. Ogni tanto a
Billy capitava di comportarsi a quel modo. Poi, quando gli passava, sulle sue
botte di malumore ci scherzava su, «le sue paturnie» le chiamava. Quando si
sentiva così, voleva essere lasciato in pace. Prima o poi gli passava e tornava
quello di prima. Christine ormai c’era abituata. Sapeva che a ossessionarlo
era la guerra. Faceva di tutto per tirarlo su di morale, anche se non c’era
verso.
Questa volta, però, si capiva che era una cosa diversa. Le paturnie di Billy
sono andate avanti per giorni e poi settimane, tanto a lungo che Christine ha
cominciato a chiedersi se sarebbero mai finite. Ha pensato che forse era il
caso di chiamare il medico, ma poi non se l’è sentita. L’avrebbe turbato
ancora di più e Billy lo era già abbastanza.
È stato solo un mesetto dopo che, una notte, Billy le ha finalmente
raccontato cosa l’aveva ridotto a quel modo. Stavano a letto al buio, fianco a
fianco, sapendo che l’altro non riusciva a dormire e a un certo punto Billy se
n’è uscito fuori dicendo: «Era lui, Christine. Sullo schermo, quella sera al
Roxy. Non ci si può sbagliare. Quegli occhi li riconoscerei ovunque. Chi se li
dimentica? Mi ha guardato dallo schermo come ha fatto tanti anni fa
quand’eravamo in guerra. Hai visto come s’è tolto i capelli dalla fronte? Fa
sempre così, no? Non ho mai visto nessuno farlo a quel modo. Era lui. Lo so
che era lui. Era Hitler».
Christine non capiva di cosa stesse parlando. Da quando stavano insieme,
ormai dieci anni e passa, Billy non aveva quasi mai accennato alla guerra.
Nessuno dei due l’aveva fatto. Naturalmente, lei sapeva delle medaglie e di
come Billy fosse stato famoso ai suoi tempi e ne era fiera, molto più di lui,
ma quelle medaglie non le aveva mai viste né aveva mai chiesto di vederle.
Anche loro erano state messe da parte come gli altri ricordi e la guerra non
veniva quasi più nominata. Parlare di quei giorni spaventosi non avrebbe
fatto altro che riportarli alla mente. E tutti e due volevano solo vedere svanire
i ricordi. Guardare al futuro, dimenticare il passato. Era come un tacito
accordo stabilitosi tra loro negli anni: non parlare più della guerra. Ma ora,
per la prima volta, Billy lo aveva infranto.
«C’è una cosa che devo dirti, che devo farti vedere» le ha detto. Ha acceso
la luce e s’è alzato, poi ha tirato fuori da sotto il letto la scatola di biscotti in
cui teneva le poche cianfrusaglie della guerra: le foto dei suoi compagni, la
pistola tolta all’ufficiale tedesco che si era arreso alla battaglia di Marcoing, il
sassolino nero portafortuna di Bridlington che portava sempre in tasca e che
lo aveva protetto. C’erano anche le sue medaglie e l’ultima cartuccia che
aveva usato, il colpo d’avvertimento sparato sopra la testa del soldato
tedesco. Un soldato allora sconosciuto, ma ora non più.
Ha messo tutte le medaglie sul letto, di fronte a Christine. «Questa è la
Victoria Cross» le ha spiegato. «Non sembra granché, vero? Non brilla come
le altre. Anche il nastro non è niente di che, eppure è quella che ha fatto più
chiasso. Me l’hanno data, me l’ha data il Re in persona, per una battaglia alla
fine della guerra, dalle parti di un paesetto chiamato Marcoing o quel poco
che era rimasto in piedi. Be’, la battaglia era finita e io e i ragazzi avevamo
fatto il nostro dovere. C’erano un sacco di morti e feriti, nostri e loro, ma di
più i loro, e avevamo preso decine di prigionieri. Comunque, all’improvviso,
tra il fumo che si dirada vediamo questo Crucco, a non più di una decina di
metri da noi, con il fucile in mano. E io dico ai ragazzi di non sparare ché lui
non ha l’aria di volerci sparare. E restiamo così, noi che guardiamo lui e lui
che guarda noi. C’era tanto silenzio, Christine. Il silenzio dopo la battaglia è
il silenzio più profondo che c’è. Nessuno di noi muoveva un muscolo e
nemmeno lui, nessuno. Nessuno parlava. Stavamo fermi lì, come in un sogno,
come fuori dalla realtà. E a un certo punto io sparo un colpo in aria e gli
faccio segno di andare via, di tornare a casa. Lui fa di sì con la testa, si scosta
i capelli dalla fronte e se ne va. Era proprio lui, Christine. Era Adolf Hitler, ti
giuro che era lui. Quella sera al cinema ho guardato bene i suoi occhi sullo
schermo ed erano gli stessi occhi. Quell’Hitler non ti guarda allo stesso modo
degli altri. Ti guarda come se non ti vedesse e quel Crucco faceva lo stesso.
Quegli occhi non li ho mai dimenticati. Era lui, non c’è dubbio. Lo sai che
significa, Christine? Che gli avrei potuto sparare su due piedi e farlo fuori
una volta per tutte, e ora invece quell’uomo ci sta trascinando in un’altra
guerra. Senti quello che dice. Lo so che sarà così.»
Christine ha fatto di tutto per convincerlo che si sbagliava. Poteva essere
un altro, gli ha detto. Magari uno che gli assomigliava soltanto. Era passato
tanto tempo. La memoria gioca brutti scherzi. Non devi pensare a queste
cose, va a finire che ti ammali. E poi non è detto che ci sarà un’altra guerra,
tu che ne sai? Nessuno può saperlo.
Nelle settimane successive, Billy ha fatto il possibile per crederle. Era
quello che voleva più di ogni altra cosa al mondo. Si è sforzato di togliersi
quell’idea dalla testa, ma non ci è riuscito. Con gli occhi della mente non
faceva che vedere e rivedere quel filmato del cinema. Ogni volta che sentiva
quella voce alla radio, ogni volta che guardava un notiziario, era sempre più
convinto di avere ragione. Ogni volta che vedeva una foto di Hitler sul
giornale e si trovava davanti quegli occhi, sapeva che non c’erano dubbi. Per
quanto Christine cercasse di farlo ragionare e gli ripetesse che non poteva
essere vero, lui sapeva che era così e insisteva. Alla fine, lei ha capito che non
c’era verso di fargli cambiare idea.
Allora ha cercato di spiegargli che, se anche le cose stavano così, non era
certo colpa sua: lui aveva solo fatto quello che gli sembrava giusto in quel
momento e provare compassione era sicuramente una cosa buona, anche
verso un nemico. E poi come poteva sapere che quel soldato al quale aveva
risparmiato la vita sarebbe diventato un mostro? Ma niente di quello che
diceva riusciva a farlo stare meglio. Ormai a Billy non era rimasto che
aggrapparsi a una sola debole speranza: la possibilità che quel Crucco fosse
qualcun altro. Un uomo basso, con i capelli neri e uno strano modo di
scostarli dalla fronte e due occhi scuri che ti guardavano fisso, ma comunque
un’altra persona. «Chissà, chissà» continuava a ripetersi Billy. «Magari
Christine ha ragione.» La mente poteva giocargli brutti scherzi. In fin dei
conti, come diceva lei, era passato tanto tempo.
Ma anche quell’ultimo barlume di speranza gli è stato tolto. Una mattina
che era andato in biblioteca per restituire dei libri, gli è cascato l’occhio su un
titolo sopra uno scaffale. Adolf Hitler.
Ha preso il libro e l’ha aperto. Al centro c’era qualche pagina di foto. E
davanti a una in particolare, il cuore ha cominciato a battergli più forte. Era la
foto di un gruppo di soldati tedeschi durante la guerra, tutti in posa col
berretto in testa sullo sfondo di un muro di mattoni, con l’espressione seria e
lo sguardo verso l’obiettivo.
Billy ha riconosciuto subito Adolf Hitler, il più basso di tutti, un po’ in
disparte alle spalle degli altri.
Il Crucco al quale aveva salvato la vita. Sotto la foto c’era il suo nome:
Caporale Adolf Hitler. Ora non c’erano più dubbi. Era lui.
– Billy non riusciva a credere che era il Primo Ministro in persona. Non
sapeva cosa dire. Non trovava più le parole.
«Come saprà anche lei, signor Byron» ha detto Chamberlain «poco tempo
fa ho incontrato Hitler nella sua casa di montagna in Germania. Mentre
eravamo insieme, mi ha raccontato una storia incredibile, che ho motivo di
credere vera e che ho promesso di riferirle al mio rientro, visto che la
riguarda da vicino. Hitler mi ha raccontato che, alla fine dell’ultima guerra,
un soldato inglese gli ha risparmiato la vita nella battaglia di Marcoing, così
ha detto, nel settembre del 1918. Un momento che non ha mai dimenticato.
Tempo dopo, grazie a una fotografia su un giornale, ha scoperto che il soldato
inglese responsabile di quell’atto di clemenza era proprio lei, signor Byron.
L’ha riconosciuta da una foto in cui riceve la Victoria Cross da Sua Altezza il
Re. Me l’ha fatta vedere lui stesso. La conserva ancora. Poi mi ha portato nel
suo studio e mi ha fatto vedere un quadro alla parete. È un suo ritratto, signor
Byron, mentre trasporta a spalla un ferito verso un ospedale da campo, credo
sia stato dipinto da un artista italiano, ho dimenticato il nome. È anche un bel
quadro, datato 1918. Ho avuto poi conferma che lei ha effettivamente portato
un uomo in ospedale in quel modo e sono certo che quanto Hitler mi ha
raccontato è verosimile. Lei si trovava alla battaglia di Marcoing, non è
così?».
«Sì, signore» risponde Billy.
«È stato per quello che ha ottenuto la Victoria Cross, dico bene?»
«Sì, signore.»
«E sono nel giusto se dico che lei ha effettivamente salvato la vita a un
soldato tedesco in quella battaglia?»
«Sì, signore» dice Billy.
«Come pensavo. Bene, il Cancelliere tedesco Hitler mi ha pregato di dirle
che le è infinitamente grato e di porgerle i suoi ringraziamenti e auguri. Devo
dirle, signor Byron, che quello che lei ha fatto nel 1918, quel suo atto di
clemenza, potrebbe essere stato di grande aiuto nel mantenere la pace a
vent’anni di distanza. Parlare di quel giorno e di come lei gli ha risparmiato la
vita ha messo Hitler di buon umore. Sono lieto di informarla che ha avuto
parole di ammirazione e rispetto per lei e l’esercito inglese, cosa che è stata di
grande aiuto nel portare le nostre discussioni verso una migliore intesa e in
ultimo, come io credo, a un esito positivo. È probabile che con quel suo atto
di pietà lei abbia contribuito alla causa della pace. La saluto, signor Byron, e
la ringrazio.»
Ed è finita lì. Ha riattaccato.
Come potete immaginare, quel giorno Billy è rincasato dalla fabbrica
stordito, con le ali ai piedi e il cuore raggiante, pieno di nuove speranze.
D’accordo, il Crucco che aveva salvato era proprio Hitler ma, tutto sommato,
forse, dico forse, non era poi così importante. Forse tanti anni prima aveva
davvero fatto la cosa giusta. E magari Hitler non era quell’orco che Billy e gli
altri credevano. Anche lui aveva un cuore. Forse sarebbe stato davvero un
«tempo di pace» come Chamberlain ci aveva promesso e, se le cose stavano
così, era anche merito del soldato semplice Billy Byron.
– Chamberlain gli ha telefonato sul serio? – lo ha interrotto Mamma. –
Come fa a saperlo? Che ne sa se è vero?
– Perché me l’ha raccontato Billy in persona – ha risposto il nostro
compagno di viaggio. – E Billy non dice bugie. Come ho detto, lo conosco
bene. Lo conosco da una vita. È uno che si fa i fatti suoi, ma non dice bugie.
Non s’inventa le cose. Non è da lui.
– La storia finisce così? – ho chiesto, allora. A essere sinceri, ero deluso.
Non m’interessava più di tanto se la storia fosse vera o falsa, ma mi
piacevano i finali emozionanti e finire con una telefonata non era proprio il
massimo dell’emozione, poco importa se a farla era stato un Primo Ministro o
chissà chi.
Ma la cosa più importante è che mi ero ricordato che era rimasto un solo
fiammifero e il treno era ancora bloccato nell’oscurità della galleria. Avevo
bisogno che la storia andasse avanti, che fosse più lunga. Mi serviva qualcosa
per togliermi quell’oscurità dalla mente.
– No, non finisce così – ha risposto l’uomo. – Però sarebbe stato il finale
migliore, vero, ragazzo? E vissero tutti felici e contenti. In tempo di pace…
niente più guerre. Era questo il finale che voleva Billy, che volevamo tutti.
Magari potessi tirare fuori un lieto fine apposta per te. Invece le cose non
sono andate così, lo sapete. Capita spesso. Altrimenti, Coventry non sarebbe
stata bombardata e la vostra casa starebbe ancora in piedi e non saremmo qui
e io non starei raccontando questa storia. Forse non è il finale che vorresti,
ragazzo, ma ti prometto una cosa: non sarà il finale che ti aspetti.
È rimasto in silenzio per qualche istante prima di riprendere la storia. – A
ogni modo, pareva che le cose si sarebbero sistemate sul serio, almeno per un
po’. Dopo quella telefonata Billy era tornato quasi se stesso. Aveva
ricominciato a disegnare, soprattutto uccelli e in particolare un picchio che
andava sempre nel suo giardino, bianco e nero con una chiazza rosso fuoco
sulla pancia. Christine era al settimo cielo per quel cambiamento. Il vecchio
Billy era tornato.
Hanno ripreso ad andare al cinema. Il problema era che ogni volta c’era
uno di quei notiziari con i soldati tedeschi in marcia, a migliaia, e sullo
schermo c’era sempre Hitler, che non parlava certo di pace. Eppure, Billy
continuava a sperare per il meglio. Come tutti noi, d’altronde. Ma a un certo
punto… quand’era?… l’anno scorso a marzo, nel 1939, Hitler marcia col suo
esercito sulla Cecoslovacchia e la invade e Billy capisce quello che capivamo
tutti: quei soldati con gli stivaloni non si sarebbero fermati lì. Ormai tutti
c’eravamo resi conto che quel pezzo di carta che Chamberlain aveva
sventolato in aria non valeva niente. Ci avevano presi per il naso. Avevamo
creduto quello che volevamo credere, quello che Hitler voleva farci credere.
Ma dopo l’invasione della Cecoslovacchia abbiamo capito la verità. Abbiamo
capito quello che stava per succedere. La questione non era più se ci sarebbe
stata una guerra, ma quando.
Billy e Christine continuavano a vedere Hitler al cinema: Hitler che
agitava il pugno contro il mondo intero, Hitler lo sbruffone, lo spaccone,
l’attaccabrighe, Hitler pieno di minacce. Billy guardava le infinite parate di
soldati che marciavano con il passo dell’oca, i carri armati che sfilavano, i
cieli pieni di aerei da combattimento e il Führer che si crogiolava, sempre più
assetato di potere. E sapeva, come ora sappiamo tutti, di avere davanti un
tiranno, un uomo malvagio con una sola cosa in mente: fare la guerra,
conquistare e distruggere.
L’unico pensiero di Billy era che quell’uomo andava fermato, che
vent’anni prima aveva fatto la cosa sbagliata e che ora doveva fare quella
giusta. Doveva rimediare al suo errore. Così ha deciso una volta per tutte di
agire. Ha pensato alle migliaia, forse milioni, di piccole Christine al mondo.
Stava per succedere di nuovo quello che era già successo nella Prima Guerra
Mondiale. Doveva fermare il dolore prima che cominciasse. Non aveva
scelta.
È partito da solo, senza dire una parola a Christine. È uscito di casa una
mattina presto come per andare al lavoro, ma nella borsa non aveva il pranzo.
Aveva altre cose. Il passaporto, i documenti, un po’ di soldi e, nascosta nel
doppiofondo della valigia, la pistola che teneva nella scatola di latta sotto il
letto. Nella tasca della giacca, il sassolino nero portafortuna di Bridlington.
Aveva con sé anche la sua scatola di matite e l’album, e uno sgabellino
pieghevole fissato alla valigia. Era tutto quello di cui aveva bisogno.
Ogni cosa faceva parte del piano, di cui aveva pensato e ripensato ogni
dettaglio. Però sapeva che per farlo funzionare gli serviva una gran fortuna.
Aveva lasciato un messaggio sulla mensola del caminetto spiegando a
Christine che aveva qualcosa da fare, qualcosa che non poteva essere
rimandato, e che sarebbe tornato, grosso modo, entro un paio di settimane. Le
chiedeva di andare in fabbrica ad avvisare il signor Bennet che per qualche
tempo non sarebbe andato al lavoro per via di quella gamba zoppa ancora
dolorante e di scusarsi con lui. Lei non doveva preoccuparsi, aveva scritto.
Sarebbe tornato e le voleva bene. L’aveva sempre amata e avrebbe continuato
ad amarla, per sempre.
3
Io e Mamma non abbiamo parlato d’altro per tutto il viaggio fino a Londra e
poi in Cornovaglia. Era come se avessimo fatto lo stesso sogno, identico in
ogni minimo particolare. Ma sapevamo tutti e due che non era stato un sogno,
era impossibile. Avevamo come prova la scatoletta di Swan Vestas.
Quando siamo arrivati a Mevagissey quella sera tardi, non abbiamo potuto
fare a meno di parlare subito a zia Mavis dello sconosciuto sul treno e della
storia straordinaria che ci aveva raccontato. Dovevamo dirlo a qualcuno. Le
abbiamo fatto vedere la scatoletta di fiammiferi, il sassolino nero portafortuna
di Bridlington e la cartuccia usata. Zia Mavis non è mai stata una grande
ascoltatrice, ma stavolta ha ascoltato fino alla fine con gli occhi sempre più
sgranati.
Quando abbiamo finito, s’è alzata in silenzio ed è andata alla credenza in
cucina. È tornata con un giornale e l’ha aperto sul tavolo davanti a noi,
lisciando le pagine con le mani. – Il giornale di stamattina – ha detto. –
Guardate.
Morto a Coventry eroe della Prima Guerra Mondiale, diceva il titolo. E
sotto c’era la faccia del nostro compagno di viaggio che ci guardava dalla
foto.
Mamma ha letto l’articolo con la voce ridotta a un bisbiglio. – William
(Billy) Byron, Victoria Cross, Medaglia al Merito, Medaglia al Valor
Militare, tra i soldati più decorati della Grande Guerra, è tra le vittime della
recente incursione aerea della Luftwaffe su Coventry. Nell’attacco è rimasta
uccisa anche sua moglie Christine, insegnante in una scuola comunale. Byron
prestava servizio nella Protezione civile e, dopo essere stato impegnato
giorno e notte nell’estrarre le vittime dalle macerie, ha fatto ritorno a casa
scoprendo che anch’essa era stata colpita. È rimasto ucciso nel crollo di un
muro, mentre tentava di ritrovare il corpo della moglie. Lavorava alla
fabbrica d’automobili Standard di Coventry. Aveva quarantacinque anni.
Postfazione
Michael Morpurgo
16 febbraio 2015
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Il libro
L’autore
Frontespizio
PRIMA PARTE. Il treno delle 11:50 per Londra
1
2
3
SECONDA PARTE. Billy Byron
1
2
3
TERZA PARTE. Uno sguardo che uccide
1
2
3
QUARTA PARTE. Un’aquila nella neve
1
2
3
4
Epilogo
Postfazione
Ringraziamenti
Copyright