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Gli autori

REED HASTINGS ha co-fondato Netflix nel 1997. È un filantropo


attivo nel settore educativo, membro dal 2000 al 2004 del California
State Board of Education e di varie organizzazioni in ambito didattico
tra cui DreamBox Learning, KIPP e Pahara, oltre che dei consigli di
amministrazione di Facebook e di Microsoft dal 2007 al 2012. Si è
laureato presso il Bowdoin College nel 1983 e ha conseguito un
master in Intelligenza artificiale presso la Stanford University nel
1988.

ERIN MEYER è l’autrice di The Culture Map: Breaking Through the


Invisible Boundaries of Global Business. Insegna all’INSEAD, una
delle più rinomate business school al mondo. I suoi contributi sono
apparsi su «Harvard Business Review», «Singapore Business
Times» e «Forbes.com». Nel 2013 è stata selezionata da Thinkers50
come una delle voci più influenti al mondo nel campo del business.
Ha ricevuto nel 2015 il Thinkers50 RADAR Award.
www.garzanti.it

facebook.com/Garzanti

@garzantilibri

www.illibraio.it

In copertina
Progetto grafico: © Two Associates
Adattamento: theWordlofDOT

Traduzione dall’inglese di
Sara Caraffini

Titolo originale dell’opera:


No Rules Rules. Netflix and the Culture of Reinvention

Copyright © 2020 by Netflix, Inc.

ISBN 978-88-11-81584-6

© 2020, Garzanti S.r.l., Milano


Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Prima edizione digitale: settembre 2020


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Indice

Introduzione

Sezione uno. PRIMI PASSI VERSO UNA CULTURA DI LIBERTÀ


E RESPONSABILITÀ
Prima create densità di talento…
1. Un ottimo posto di lavoro significa colleghi fantastici
Poi aumentate la sincerità…
2. Dite ciò che pensate (mantenendo una certa positività)
Ora cominciate a eliminare i controlli…
3a. Eliminate la policy relativa alle ferie
Continuate a eliminare i controlli…
3b. Eliminate approvazioni per trasferte e spese

Sezione due. PASSI SEGUENTI VERSO UNA CULTURA DI


LIBERTÀ E RESPONSABILITÀ
Aumentate la densità di talento…
4. Pagate il massimo livello retributivo per ciascun individuo
Aumentate la sincerità…
5. Aprite i registri contabili
Ora eliminate altri controlli…
6. Non servono approvazioni per decidere

Sezione tre. TECNICHE PER RAFFORZARE UNA CULTURA DI


LIBERTÀ E RESPONSABILITÀ
Aumentate al massimo la densità di talento…
7. Il Keeper Test
Aumentate al massimo la sincerità…
8. Un circolo di feedback
Ed eliminate quasi tutti i controlli!
9. Guidate con il contesto, non con il controllo

Sezione quattro. DIVENTARE GLOBALI


10. Apritevi al mondo!

Conclusione

Ringraziamenti

Bibliografia scelta
L’UNICA REGOLA È CHE NON CI SONO REGOLE
INTRODUZIONE
Reed Hastings: «Blockbuster è mille volte più grande
di noi», sussurrai a Marc Randolph quando entrammo
nella gigantesca sala riunioni al ventisettesimo piano
della Renaissance Tower di Dallas agli inizi del 2000.
Eravamo nel quartier generale di Blockbuster,
all’epoca un colosso da sei miliardi di dollari che
dominava il settore dell’intrattenimento domestico con quasi
novemila punti vendita sparsi per il mondo.
Il suo CEO John Antioco, considerato un abile stratega
consapevole che l’onnipresenza e la supervelocità di Internet
avrebbe stravolto l’industria, ci accolse con molta cortesia. Sfoggiava
un pizzetto sale e pepe e un completo costoso e appariva totalmente
rilassato.
Io, al contrario, ero un fascio di nervi. Marc e io gestivamo una
minuscola startup che avevamo fondato insieme due anni prima,
tramite la quale le persone potevano ricevere per posta i DVD
ordinati su un sito web. Avevamo cento dipendenti e soltanto
trecentomila abbonati e stavamo affrontando un periodo burrascoso.
Quell’anno le nostre perdite sarebbero ammontate a cinquantasette
milioni di dollari. Ansiosi di stipulare un accordo, avevamo lavorato
per mesi solo per far sì che Antioco rispondesse alle nostre
telefonate.
Ci sedemmo intorno a un enorme tavolo di vetro e dopo qualche
minuto di convenevoli Marc e io avanzammo la nostra proposta.
Suggerimmo che Blockbuster comprasse Netflix; dopo di che noi
avremmo sviluppato e gestito Blockbuster.com come la loro divisione
di noleggio di video online. Antioco ascoltò attentamente, annuendo
spesso, e poi chiese: «Quanto dovrebbe pagare Blockbuster per
comprare Netflix?». Quando sentì la nostra risposta – cinquanta
milioni di dollari – rifiutò categoricamente. Marc e io ce ne andammo,
avviliti.
Quella sera, quando andai a letto e chiusi gli occhi, immaginai tutti
i sessantamila dipendenti di Blockbuster che scoppiavano a ridere
per l’assurdità della nostra proposta. Era naturale che Antioco non
fosse interessato. Perché mai un’organizzazione potente come
Blockbuster, con milioni di clienti, ingenti profitti, un CEO di talento e
un brand che era sinonimo di home movies avrebbe dovuto essere
interessata a una fallita in difficoltà come Netflix? Cosa potevamo
mai offrire che loro non potessero fare da soli più efficacemente?
Ma a poco a poco il mondo cambiò e la nostra azienda rimase in
piedi e crebbe. Nel 2002, due anni dopo quell’incontro, quotammo
Netflix in borsa. Nonostante la nostra crescita, Blockbuster era
ancora cento volte più grande di noi (cinque miliardi di dollari contro
cinquanta milioni), e oltretutto apparteneva a Viacom, all’epoca la
principale società di media al mondo. Ciononostante, nel 2010
Blockbuster dichiarò fallimento e nel 2019 le rimaneva un solo
negozio aperto, a Bend, nell’Oregon. Non era riuscita a adattarsi al
passaggio dal noleggio di DVD allo streaming.
Il 2019 è stato un anno decisivo anche per Netflix. Il nostro film
Roma è stato candidato come miglior film e ha vinto tre Oscar, un
autentico trionfo per il regista Alfonso Cuarón, il che ha sottolineato
la trasformazione di Netflix in una società di intrattenimento a pieno
titolo. Da tempo eravamo passati dal servizio di DVD per posta a
diventare non solo un servizio di streaming via Internet con più di
167 milioni di abbonati in 190 paesi, ma anche un importante
produttore di serie televisive e film in tutto il mondo. Abbiamo avuto il
privilegio di lavorare con alcuni degli artisti più bravi al mondo, fra cui
Shonda Rhimes, Joel ed Ethan Coen e Martin Scorsese. Abbiamo
introdotto un nuovo modo di guardare e apprezzare grandi storie, il
che, nei suoi momenti migliori, è riuscito ad abbattere barriere e
arricchire vite.
Mi sento spesso chiedere: «Com’è successo? Come mai Netflix si
è ripetutamente adattata mentre Blockbuster, invece, non c’è
riuscita?». Il giorno in cui andammo a Dallas Blockbuster aveva tutti
gli assi in mano. Aveva il marchio, il potere, le risorse e le idee. Ci
batteva a mani basse.
All’epoca non risultava evidente nemmeno per me, ma noi
avevamo qualcosa che Blockbuster non aveva: una cultura che
attribuiva più valore alle persone che alle procedure, enfatizzava
l’innovazione piuttosto che l’efficienza e applicava pochissimi
controlli. La nostra cultura, che si prefissava di ottenere le massime
prestazioni attraverso la densità di talento e di fornire ai dipendenti
contesto invece di controllo, ci ha consentito di continuare a crescere
e cambiare mentre il mondo e le esigenze dei nostri abbonati si
trasformavano intorno a noi.
Netflix è diversa. È una cultura in cui la regola è la mancanza di
regole.

La Cultura Netflix è bizzarra

Erin Meyer: La cultura aziendale può essere un


lezioso acquitrino di linguaggio vago e definizioni
incomplete e ambigue. Quel che è peggio, i valori
espressi da un’azienda combaciano di rado con il vero
modo di comportarsi delle persone. Gli ingegnosi
slogan sui poster o nei report annuali si rivelano
spesso vuote parole.
Per molti anni una delle maggiori aziende statunitensi ha esposto
orgogliosamente la seguente lista di valori nell’atrio del suo quartier
generale: «Integrità. Comunicazione. Rispetto. Eccellenza». Quella
compagnia era la Enron. Si è vantata di coltivare nobili valori fino al
momento in cui è crollata nell’ambito di uno dei peggiori casi di frode
e corruzione aziendale della storia.
La Cultura Netflix, d’altro canto, è famosa – o famigerata, a
seconda del punto di vista – per dire le cose come stanno. Milioni di
persone nel campo del business hanno studiato il Netflix Culture
Deck, una serie di centoventisette diapositive originariamente
destinate a un uso interno ma che Reed ha condiviso su larga scala
su Internet nel 2009. Si dice che Sheryl Sandberg, direttrice
operativa di Facebook, abbia affermato che il Culture Deck
«potrebbe benissimo essere il documento più importante mai uscito
dalla Silicon Valley». Ho adorato il Netflix Culture Deck per la sua
sincerità e l’ho odiato per il suo contenuto.
Eccone un estratto, così che possiate capire come mai:
Sorvolando sulla questione di quanto sia corretto licenziare
dipendenti che lavorano sodo ma non riescono a svolgere un lavoro
eccezionale, queste diapositive mi parvero un esempio di cattiva
gestione. Violano il principio che la professoressa Amy Edmondson
dell’Harvard Business School definisce «sicurezza psicologica». Nel
suo libro del 2018, The Fearless Organization, spiega che se si
vuole incoraggiare l’innovazione è preferibile creare un ambiente in
cui le persone si sentono libere di sognare, si esprimono e corrono
rischi. Più sicura è l’atmosfera e maggiore sarà l’innovazione.
Apparentemente nessuno a Netflix aveva letto quel libro. Cercare
di assumere i migliori in assoluto e poi instillare timore nei propri
talentuosi dipendenti avvisandoli che verranno buttati nella discarica
del «trattamento di fine rapporto generoso» se non riescono a
eccellere? Suonava come un modo infallibile per uccidere qualsiasi
speranza di innovazione.
Ecco un’altra diapositiva tratta dalla presentazione:
Non assegnare giorni di ferie ai dipendenti sembrava del tutto
irresponsabile. È un ottimo modo per creare condizioni da fabbrica
sfruttatrice, dove nessuno osa prendersi un giorno libero. E
impacchettarlo per farlo sembrare un bonus aggiuntivo.
I dipendenti che vanno in ferie sono più felici, apprezzano
maggiormente il proprio lavoro e sono più produttivi. Eppure molti
lavoratori esitano a godere delle ferie loro concesse. Secondo una
ricerca effettuata da Glassdoor nel 2017, i lavoratori americani
hanno utilizzato solo il 54 per cento circa delle ferie a cui avevano
diritto.
È probabile che, se si elimina totalmente l’assegnazione delle
ferie, i dipendenti ne prendano ancora meno, a causa di un ben
documentato comportamento umano che gli psicologi definiscono
«avversione alla perdita». Noi esseri umani odiamo perdere ciò che
già abbiamo persino più di quanto amiamo ottenere qualcosa di
nuovo. Davanti alla prospettiva di perdere qualcosa faremo tutto il
possibile per evitare che succeda. Prenderemo quelle ferie.
Se non vi vengono assegnate le ferie non temete di perderle ed è
più probabile che non le utilizziate affatto. La regole «usale o
perdile» di molte politiche tradizionali suona come una limitazione,
ma in realtà incoraggia le persone a prendersi una pausa.
Ed ecco un’ultima diapositiva:

Naturalmente nessuno sosterrebbe apertamente un luogo di


lavoro basato su segreti e bugie, ma talvolta mostrarsi diplomatici è
preferibile al fornire opinioni schiette. Per esempio, quando un
membro del team in difficoltà ha bisogno di incoraggiamento o di
un’iniezione di fiducia. Tutti possiamo sostenere una «sincerità a
volte», ma una politica generale di «sincerità sempre» sembra un
ottimo modo per spezzare rapporti, annientare la motivazione e
creare un ambiente di lavoro sgradevole.
Nel complesso il Netflix Culture Deck mi è sembrato ipermachista,
eccessivamente conflittuale e apertamente aggressivo, forse un
riflesso del tipo di azienda che ci si potrebbe aspettare venga creata
da un ingegnere con una visione della natura umana in un certo
senso meccanicistica, razionalista.
Eppure, a dispetto di tutto ciò, un fatto è innegabile…
Netflix ha ottenuto uno straordinario successo
Nel 2019, diciassette anni dopo la quotazione in borsa di Netflix, il
prezzo delle azioni era salito da uno a trecentocinquanta dollari. Al
confronto, un dollaro investito nelle aziende dell’S&P 500 o nelle
maggiori aziende per l’indice NASDAQ quando Netflix è stata quotata
in borsa sarebbe salito a tre-quattro dollari nello stesso periodo.
Non è soltanto il mercato azionario ad amare Netflix, la amano
anche i consumatori e i critici. Le sue serie orignali quali Orange is
the New Black e The Crown sono fra le serie più amate del decennio
e Stranger Things è probabilmente la più seguita al mondo. Serie
internazionali come Elite in Spagna, Dark in Germania, The
Protector in Turchia e Sacred Games in India hanno alzato l’asticella
della narrazione nei paesi d’origine e dato vita a una nuova
generazione di star globali. Negli Stati Uniti, nel corso degli ultimi
anni, Netflix ha ottenuto più di trecento nomination agli Emmy e vinto
numerosi Oscar. Inoltre ha ricevuto diciassette candidature ai
Golden Globes, più di qualsiasi altro network o servizio di streaming,
e nel 2019 ha raggiunto il primo posto come azienda più stimata
d’America nella classifica annuale nazionale del Reputation Institute.
Anche i dipendenti amano Netflix. In un sondaggio condotto nel
2018 da Hired (un mercato dot-com per talenti tecnologici) i
lavoratori di questo settore l’hanno indicata come la prima realtà per
cui vorrebbero lavorare, superando così aziende quali Google
(secondo posto), la Tesla di Elon Musk (terzo posto) e Apple (sesto
posto). In un’altra classifica come «impiegato più felice» del 2018,
basata su più di cinque milioni di recensioni anonime da parte dei
dipendenti di 45.000 grandi aziende statunitensi stilata dallo staff di
Comparably, un sito su retribuzioni e carriere, Netflix è risultata la
seconda compagnia con i dipendenti più felici fra le varie migliaia
prese in esame. (Superata solo da HubSpot, una società di software
di Cambridge.)
Cosa più interessante di tutte, contrariamente alla stragrande
maggioranza delle compagnie che falliscono quando l’industria si
trasforma, Netflix ha reagito con successo a quattro enormi
transizioni nel campo dell’intrattenimento e del business. In soli
quindici anni è passata:
dai DVD per posta allo streaming di vecchi film e serie TV su
Internet;
dallo streaming di vecchi contenuti al lancio di nuovi contenuti
originali (quali House of Cards) prodotti da studi esterni;
dal trasmettere contenuti forniti da studi esterni in licenza a
realizzare uno studio proprio che ha creato serie TV e film
pluripremiati (quali Stranger Things, La casa di carta e La
ballata di Buster Scruggs);
da azienda operante esclusivamente in USA ad azienda globale
che intrattiene persone in centonovanta paesi.

Il successo di Netflix non è semplicemente insolito, è incredibile. A


quanto pare sta succedendo qualcosa di molto singolare che non è
accaduto a Blockbuster quando ha dichiarato bancarotta nel 2010.

Un diverso tipo di luogo di lavoro

La storia di Blockbuster non è anomala. La stragrande


maggioranza delle aziende fallisce quando il loro
settore si trasforma. Kodak non è riuscita a adattarsi al
passaggio dalle foto su carta al digitale. Nokia non è
riuscita a adattarsi al passaggio dai cellulari a
conchiglia agli smartphone, AOL a quello dall’accesso
a Internet via modem alla banda larga. Persino la mia prima ditta,
Pure Software, non è stata in grado di adattarsi ai cambiamenti nel
suo settore perché la cultura della nostra azienda non era
ottimizzata per l’innovazione o per la flessibilità.
Ho fondato Pure Software nel 1991. All’inizio avevamo una cultura
fantastica. Eravamo una dozzina di persone che stavano creando
qualcosa di nuovo e si divertivano un mondo. Come molte piccole
imprese avevamo pochissime regole o procedure che inibissero le
nostre azioni. Quando il nostro addetto al marketing decise di
lavorare dalla sua sala da pranzo, perché potersi riempire una
ciotola di cereali ogni volta che ne sentiva il bisogno «lo aiutava a
pensare», non dovette chiedere l’autorizzazione alla direzione.
Quando la nostra addetta alle strutture volle comprare quattordici
sedie da ufficio in tessuto leopardato per i membri del personale
perché erano in saldo all’Office Depot non fu costretta a compilare
un ordine d’acquisto o procurarsi il benestare del direttore
finanziario.
Poi Pure Software cominciò a crescere. Quando assumemmo
nuovi dipendenti alcuni fecero cose stupide che sfociarono in errori
che costarono denaro all’azienda. Ogni volta che succedeva mettevo
in atto una procedura volta a evitare che quello sbaglio si ripetesse.
Per esempio, un giorno il nostro addetto alle vendite, Matthew, andò
a Washington per incontrare un possibile cliente e visto che
quest’ultimo alloggiava al Willard InterContinental Hotel, un cinque
stelle, lo fece anche lui… a settecento dollari a notte. Quando lo
scoprii provai un senso di frustrazione. Chiesi al responsabile delle
risorse umane di stilare una procedura trasferte che indicasse
quanto potevano spendere i dipendenti in aerei, pasti e alberghi, e
richiedesse l’approvazione della direzione oltre un limite di spesa
preciso.
La responsabile del nostro settore finanze, Sheila, aveva un
barboncino nero che a volte portava in ufficio. Un giorno arrivai al
lavoro e scoprii che il cagnolino aveva rosicchiato il tappeto in sala
riunioni lasciandovi un grosso buco. Sostituire quel tappeto costò
una fortuna. Creai una nuova politica: niente cani al lavoro senza
una speciale autorizzazione da parte delle risorse umane.
Politiche e processi di controllo divennero così fondamentali per il
nostro lavoro che quanti erano bravi a colorare all’interno delle righe
vennero promossi, mentre i più indipendenti e creativi si sentirono
soffocare e andarono a lavorare altrove. Mi dispiacque vederli
andare via ma credevo che fosse quello che succede quando
un’azienda cresce.
Poi accaddero due cose. La prima fu che non riuscimmo a
innovare rapidamente. Eravamo diventati sempre più efficienti e
sempre meno creativi. Per poter crescere fummo costretti ad
acquistare altre società che avevano prodotti innovativi, il che portò
a una maggiore complessità del business, che a sua volta condusse
a un maggior numero di regole e procedure.
La seconda fu che il mercato passò da C++ a Java e per
sopravvivere fummo costretti a cambiare. Ma avevamo selezionato e
condizionato i nostri dipendenti a seguire la procedura, non a
pensare fuori dagli schemi o cambiare in fretta. Non riuscimmo a
adattarci e nel 1997 finimmo per vendere l’azienda al nostro
principale concorrente.
Con la mia creatura successiva, Netflix, speravo di promuovere
flessibilità, libertà dei dipendenti e innovazione anziché la
prevenzione di errori e il rispetto delle regole. Allo stesso tempo
capivo che, mentre un’azienda cresce, se non la si gestisce con
politiche o procedure di controllo scivolerà probabilmente nel caos.
Attraverso un’evoluzione graduale, nel corso di molti anni di
sperimentazione, trovammo un approccio capace di far funzionare le
cose. Se concedete ai dipendenti più libertà invece di sviluppare
procedure per impedire loro di esercitare la propria capacità di
giudizio, prenderanno decisioni migliori e sarà più facile farli sentire
responsabili. Questo crea anche una forza lavoro più felice e
motivata, oltre a un’azienda più agile. Ma per posare fondamenta
che consentano questo livello di libertà bisogna prima potenziare
altri due elementi:
+ Aumentare la densità di talento
Nella maggior parte delle aziende vengono messe in atto politiche e procedure
di controllo per gestire dipendenti che si comportano in modo approssimativo,
non professionale o irresponsabile. Ma se evitate o licenziate queste persone
non avete bisogno delle regole. Se create un’organizzazione composta
unicamente da persone altamente performanti potete eliminare quasi tutti i
controlli. Più denso è il talento, maggiore è la libertà che potete offrire.
+ Aumentare la sincerità
I dipendenti di talento hanno moltissimo da imparare l’uno dall’altro, ma i
normali protocolli di buona educazione spesso impediscono ai dipendenti di
fornire il feedback necessario per portare le prestazioni a un altro livello.
Quando i membri talentuosi del personale si abituano al feedback migliorano
tutti in ciò che fanno, mentre diventano implicitamente responsabili l’uno nei
confronti dell’altro, riducendo ulteriormente il bisogno di controlli tradizionali.
Una volta ottenute queste due cose potete…
- Ridurre i controlli
Cominciate strappando pagine dal manuale dei dipendenti. Procedure trasferte,
procedure spese e politiche ferie possono tutte sparire. In seguito, mentre il
talento diventa sempre più denso e i feedback più frequenti e schietti, potete
eliminare le procedure di approvazione in tutta l’azienda, insegnando ai vostri
dirigenti principi quali «Guidate con il contesto, non con il controllo» e
addestrando i dipendenti usando linee guida come «Non cercate di compiacere
il vostro capo».

Quando cominciate a sviluppare questo tipo di cultura si origina un


ciclo virtuoso. Eliminare i controlli crea una cultura di Libertà e
Responsabilità («Freedom & Responsibility», un’espressione che i
dipendenti di Netflix usano così tanto che ormai dicono solo «F&R»),
il che attrae i talenti migliori e rende possibili ancora meno controlli.
Tutto questo vi porta a un livello di velocità e innovazione che la
maggior parte delle aziende non può eguagliare. Ma non si può
raggiungere questo livello in un solo passaggio.
I primi nove capitoli di questo libro coprono l’approccio di
attuazione in tre fasi ciascuna di tre cicli, ognuno dei quali costituisce
una sezione. Il decimo capitolo esamina cosa è successo quando
abbiamo cominciato a esportare la nostra cultura aziendale in una
vasta gamma di culture nazionali, una transizione che ha condotto a
nuove interessanti e importanti sfide.
Naturalmente ogni progetto sperimentale include in sostanza sia
successi sia fallimenti. La vita a Netflix, come la vita in generale, è
un po’ più complicata di come suggerisce questo diagramma a forma
di tornado. Ecco perché ho chiesto a una persona esterna di
studiare la nostra cultura e scrivere questo libro con me. Volevo che
un esperto imparziale esaminasse da vicino come si realizza la
cultura nella realtà, giorno dopo giorno, tra le nostre mura.
Ho pensato a Erin Meyer, di cui avevo appena finito di leggere il
saggio The Culture Map. Docente presso la INSEAD business school
fuori Parigi, Erin era stata recentemente selezionata da Thinkers50
come una delle «business thinker» più influenti al mondo. Scrive
spesso delle sue ricerche sulle differenze culturali nei luoghi di
lavoro per l’«Harvard Business Review» e ho scoperto dal suo libro
che è stata anche un’insegnante volontaria dei Peace Corps in
Africa meridionale dieci anni dopo di me. Le ho mandato un
messaggio.

Nel febbraio del 2015 ho letto un articolo dell’«Huffington Post»


intitolato One Reason for Netflix’s Success – It Treats Employees
Like Grownups (Uno dei motivi del successo di Netflix: tratta i
dipendenti come persone adulte) che spiegava quanto segue:
Netflix presume che tu abbia una straordinaria capacità di
giudizio […] Ed è la capacità di giudizio la soluzione a quasi ogni
problema ambiguo, non la procedura.
Il rovescio della medaglia […] è che ci si aspetta che le persone
lavorino a un livello altissimo, altrimenti si vedono mostrare
rapidamente la porta (ricevendo una generosa liquidazione).

Sono diventata sempre più curiosa di scoprire come


un’organizzazione potesse operare con successo, nella vita reale,
seguendo questa metodologia. Una mancanza di procedure è
destinata a scatenare il caos, e mostrare la porta ai dipendenti che
non operano a un livello altissimo è destinato a instillare il terrore
nella forza lavoro.
Poi, qualche mese più tardi, un giorno mi sono svegliata e ho
trovato la seguente e-mail nella mia casella di posta:
Da: Reed Hastings
Data: 31 maggio 2015
Oggetto: Peace Corps e libro

Erin,
ho fatto parte dei Peace Corps Swaziland (1983-85). Adesso sono il CEO di
Netflix. Ho adorato il tuo libro e lo stiamo facendo leggere a tutti i nostri dirigenti.
Sarei felice di prendere un caffè con te, una volta o l’altra. Vengo spesso a
Parigi.
Com’è piccolo il mondo !
Reed

Reed e io ci siamo conosciuti; e in seguito lui mi ha proposto di


intervistare i dipendenti di Netflix per farmi un’idea di prima mano di
come sia davvero la Cultura Netflix e per raccogliere dati per
scrivere un libro con lui. Era l’occasione di scoprire come un’azienda
con una cultura diametralmente opposta a tutto quello che sappiamo
di psicologia, business e comportamento umano possa ottenere
risultati di tale rilievo.
Ho effettuato più di duecento interviste con dipendenti attuali e
passati di Netflix nella Silicon Valley, a Hollywood, San Paolo,
Amsterdam, Singapore e Tokyo, parlando con impiegati di ogni
livello, da dirigenti ad assistenti amministrativi.
In genere Netflix non crede nell’anonimato, ma ho insistito perché
durante le mie interviste tutti i dipendenti si vedessero offrire
l’opzione di restare anonimi. Quanti hanno scelto quell’opzione
vengono indicati in questo libro solo con un nome di fantasia.
Tuttavia, fedeli alla cultura della «sincerità sempre» di Netflix, molti
sono stati felici di condividere ogni genere di opinioni e aneddoti
sorprendenti e talvolta poco lusinghieri su sé stessi e il loro datore di
lavoro, pur essendo identificati chiaramente.

Dovete unire i puntini in modo diverso


Nel suo celebre discorso d’apertura all’università di Stanford,
Steve Jobs ha detto: «Non potete unire i puntini guardando avanti,
potete unirli solo guardando indietro. Quindi dovete confidare nel
fatto che i puntini si uniranno in qualche modo, nel vostro futuro.
Dovete confidare in qualcosa: il vostro fegato, il destino, la vita, il
karma, qualsiasi cosa. Questo approccio non mi ha mai tradito e ha
fatto tutta la differenza nella mia vita».
Jobs non è solo. Si dice che il mantra di sir Richard Branson sia
«A-B-C-D» (Always Be Connecting the Dots, Unisci sempre i puntini).
E David Brier e la rivista «Fast Company» hanno distribuito un video
affascinante che sostiene che il modo in cui uniamo i puntini
definisce il nostro modo di vedere la realtà e quindi di prendere
decisioni e giungere a conclusioni.
Lo scopo è incoraggiare le persone a mettere in dubbio come
vengono uniti i puntini. Nella maggior parte delle organizzazioni le
persone li uniscono nello stesso modo in cui chiunque altro fa e ha
sempre fatto. Questo preserva lo status quo. Ma un giorno arriva
qualcuno che li unisce in modo diverso, il che porta a una
comprensione del mondo totalmente diversa.
È questo che è successo a Netflix. A dispetto della propria
esperienza con Pure Software, Reed non si è esattamente prefissato
di creare un’azienda con un ecosistema unico. Ha invece cercato
una flessibilità organizzativa. Poi sono successe alcune cose che lo
hanno portato a unire i puntini della cultura aziendale in modo
diverso. Gradualmente, mentre questi elementi si assemblavano, è
riuscito, solo in retrospettiva, a capire cosa, a livello culturale, ha
contribuito a garantire il successo a Netflix.

In questo libro uniremo i puntini capitolo dopo capitolo,


nell’ordine in cui li abbiamo scoperti a Netflix.
Osserveremo inoltre quale ruolo svolgono nell’attuale
ambiente di lavoro di Netflix, cosa abbiamo imparato
lungo la strada e come potreste applicare la vostra
versione di libertà e responsabilità alla vostra
organizzazione.
SEZIONE UNO
PRIMI PASSI VERSO UNA CULTURA DI LIBERTÀ
E RESPONSABILITÀ
Prima create densità di talento…
1 ▶ Un ottimo posto di lavoro significa
colleghi fantastici

Poi aumentate la sincerità…


2 ▶ Dite ciò che pensate (mantenendo una certa positività)

Ora cominciate a eliminare i controlli…


3a. ▶ Eliminate la policy relativa alle ferie
3b. ▶ Eliminate approvazioni per trasferte e spese

Questa sezione dimostra come un team o un’organizzazione possano cominciare


ad attuare una cultura di libertà e responsabilità. Questi concetti si fondano l’uno
sull’altro. Benché si possa provare a implementare elementi di ciascun capitolo in
modo isolato, un simile approccio potrebbe rivelarsi rischioso. Una volta creata la
densità di talento potete dedicarvi senza rischi alla sincerità. Solo a quel punto
potete cominciare a eliminare senza rischi le politiche che controllano il personale.
PRIMA CREATE DENSITÀ DI TALENTO…
1.
UN OTTIMO POSTO DI LAVORO
SIGNIFICA COLLEGHI FANTASTICI

Negli anni Novanta mi piaceva noleggiare cassette


VHS dal Blockbuster vicino a casa mia. Ne prendevo
due o tre alla volta e le restituivo in fretta per evitare le
penali per i ritardi. Poi, un giorno, spostai una pila di
fogli dal tavolo in sala da pranzo e trovai la cassetta di
un film che avevo visto settimane prima dimenticando
poi di restituirla. Quando la riportai al negozio la commessa mi disse
a quanto ammontava la penale: quaranta dollari! Mi sentii molto
stupido.
In seguito la cosa mi fece riflettere. Blockbuster otteneva la
maggior parte dei profitti dalle penali per i ritardi. Se il vostro modello
di business dipende dal far sentire stupida la vostra base di clienti,
non potete certo aspettarvi di suscitare molta lealtà. Esisteva un altro
modo di consentire il piacere di vedersi film nel proprio salotto senza
infliggere il dolore di pagare un sacco di soldi quando ci si
dimenticava di restituirli?
Agli inizi del 1997, quando Pure Software fu acquisita, Marc
Randolph e io cominciammo a pensare di avviare un’attività di
noleggio film per posta. Amazon stava avendo fortuna con i libri,
perché non tentare con i film? I clienti avrebbero noleggiato cassette
VHS dal nostro sito web e avrebbero potuto restituirle per posta. Poi
scoprimmo che spedire la cassetta in ognuno dei due sensi sarebbe
costato quattro dollari. Non ci sarebbe certo stato un grosso
mercato, era troppo costoso.
Ma un amico mi parlò di una nuova invenzione chiamata DVD che
sarebbe uscita quell’autunno. «Sono come CD ma contengono un
film», spiegò. Corsi all’ufficio postale e mi spedii vari CD (non riuscii a
trovare un DVD per il mio test). La spedizione mi costò trentadue cent
per ogni CD. Poi tornai a casa mia a Santa Cruz ad aspettare
ansiosamente il loro arrivo. Due giorni più tardi vennero infilati nella
mia buca per le lettere, intatti.
Nel maggio del 1998 lanciammo Netflix, il primo negozio di
noleggio DVD online al mondo. Avevamo trenta dipendenti e 925
titoli, che corrispondevano quasi all’intero catalogo di DVD disponibili
all’epoca. Marc rimase l’amministratore delegato fino al 1999,
quando io lo sostituii e lui divenne uno dei nostri dirigenti.
Agli inizi del 2001 eravamo già arrivati a quattrocentomila abbonati
e centoventi dipendenti. Tentai di non replicare i maldestri tentativi di
leadership del mio periodo con Pure Software e anche se stavolta
evitammo di applicare regole e controlli eccessivi non riuscii a fare di
Netflix un posto di lavoro particolarmente attraente. Ma stavamo
crescendo, gli affari andavano a gonfie vele e lo stile di lavoro per i
nostri dipendenti era accettabile.

Lezioni imparate grazie a una crisi


Poi, nella primavera del 2001, arrivò la crisi. La prima bolla di
Internet scoppiò e decine di dot-com fallirono e scomparvero. Tutti gli
investimenti di capitale di rischio cessarono e ci ritrovammo
improvvisamente incapaci di accedere al capitale supplementare che
ci serviva per gestire l’attività, che era lungi dall’essere redditizia. Il
morale in ufficio era basso e stava per calare ulteriormente.
Dovevamo licenziare un terzo della nostra forza lavoro.
Mi sedetti a un tavolo con Marc e Patty McCord, che era venuta
via con me da Pure Software ed era a capo delle risorse umane, ed
esaminammo il contributo fornito da ciascun dipendente. Non ce
n’era nessuno dal rendimento palesemente scarso, così li
dividemmo in due gruppi: gli ottanta dipendenti dal rendimento più
alto che avremmo tenuto e i quaranta meno brillanti che avremmo
licenziato. Coloro che erano straordinariamente creativi, svolgevano
un ottimo lavoro e collaboravano bene con gli altri finirono subito
nella pila «da tenere». Il problema era che c’erano molti casi dubbi.
Alcuni erano colleghi e amici fantastici ma svolgevano un lavoro
adeguato piuttosto che magnifico. Altri lavoravano come pazzi ma
mostravano una capacità di giudizio altalenante e avevano spesso
bisogno di supporto. Altri ancora erano straordinariamente dotati e
altamente perfomanti ma anche lagnosi o pessimisti. Avremmo
dovuto mandare via la maggior parte di loro. Non sarebbe stato
facile.
Durante i giorni che precedettero i licenziamenti mia moglie
osservò come fossi teso, e aveva ragione. Temevo che la
motivazione nell’ufficio sarebbe scesa a picco. Ero convinto che, una
volta che avessi licenziato i loro amici e colleghi, gli impiegati rimasti
avrebbero pensato che la compagnia non era leale con i propri
dipendenti, il che avrebbe reso tutti furiosi. Cosa ancora peggiore, i
dipendenti che avremmo tenuto avrebbero dovuto sobbarcarsi il
lavoro di quelli licenziati, il che avrebbe sicuramente suscitato
risentimento. Eravamo già a corto di denaro, avremmo potuto
sopportare un ulteriore crollo del morale?
Il giorno dei licenziamenti arrivò e fu terribile come previsto. I
dipendenti che persero il lavoro piansero, sbatterono porte e
urlarono per la frustrazione. A mezzogiorno era tutto finito e io
aspettai la seconda metà della tempesta: la reazione negativa dei
dipendenti rimasti… Ma nonostante qualche lacrima e un palese
dispiacere regnava la calma. Poi, nel giro di poche settimane, per un
motivo che all’inizio non riuscii a capire, l’atmosfera migliorò
drasticamente. Eravamo in modalità taglio dei costi e avevamo
appena licenziato un terzo della forza lavoro, eppure l’ufficio vibrava
improvvisamente di passione, energia e idee.
Qualche mese dopo arrivarono le vacanze natalizie. I lettori di DVD
ebbero successo quel Natale, e all’inizio del 2002 la nostra attività
riprese a crescere rapidamente. All’improvviso stavamo sbrigando
molto più lavoro, con il 30 per cento di dipendenti in meno. Con mio
profondo stupore le stesse ottanta persone riuscivano a fare tutto
con una passione che sembrava più grande che mai. Lavoravano
più a lungo ma l’umore era alle stelle. Non erano soltanto i nostri
dipendenti a essere più felici. La mattina mi svegliavo e non vedevo
l’ora di andare in ufficio. All’epoca passavo sempre a prendere Patty
McCord per portarla al lavoro con me e quando mi fermavo davanti a
casa sua a Santa Cruz in pratica saltava dentro l’auto con un gran
sorriso. «Reed, cosa sta succedendo? È come essere innamorati?
Si tratta solo di qualche stramba sostanza chimica e questa
eccitazione è destinata a svanire?»
Aveva ragione, l’intero ufficio sembrava pieno di persone
follemente innamorate del proprio lavoro.
Non sono un sostenitore dei licenziamenti e per fortuna non
abbiamo mai più dovuto fare una cosa simile a Netflix, ma nei giorni
e nei mesi che seguirono quei licenziamenti del 2001 ho scoperto
qualcosa che ha completamente rivoluzionato il mio modo di
intendere sia la motivazione dei dipendenti sia la responsabilità della
leadership. Questo è stato un punto di svolta nella mia capacità di
comprendere il ruolo della densità di talento nelle organizzazioni. Le
lezioni che abbiamo imparato sono diventate le fondamenta di molto
di ciò che ha portato al successo di Netflix.
Ma prima di passare a descrivere queste lezioni dovrei presentare
adeguatamente Patty, perché per più di un decennio ha svolto un
ruolo fondamentale nello sviluppo di Netflix; la sua protetta, Jessica
Neal, dirige attualmente il nostro dipartimento delle risorse umane.
Ho conosciuto Patty McCord ai tempi di Pure Software. Nel 1994 di
punto in bianco telefonò in ufficio chiedendo di parlare con
l’amministratore delegato. All’epoca era mia sorella minore a
rispondere ai telefoni e me la passò. Patty era cresciuta in Texas,
cosa che colsi vagamente dal suo accento. Spiegò che stava
lavorando nel dipartimento delle risorse umane di Sun Microsystems
ma le sarebbe piaciuto venire a occuparsi di quelle di Pure Software.
La invitai a bere una tazza di caffè.
Durante la prima metà dell’incontro non riuscii a capire nulla di
quanto stava dicendo. Quando le chiesi quale fosse la sua filosofia
riguardo alle risorse umane affermò: «Credo che ogni individuo
debba poter tracciare una linea fra il proprio contributo all’azienda e
le proprie aspirazioni personali. In veste di capo della gestione del
capitale umano lavorerei con lei, il CEO, per aumentare il quoziente
di intelligenza emotiva della nostra leadership e migliorare il
coinvolgimento dei dipendenti». Cominciò a girarmi la testa. Ero
giovane e inesperto, e quando Patty smise di parlare replicai: «È
così che parlano tutti gli addetti alle risorse umane? Non ho capito
una sola parola. Se vogliamo lavorare insieme lei dovrà smettere di
parlare in quel modo».
Patty si offese e me lo disse apertamente. Quella sera, quando
rincasò e il marito le chiese come fosse andato il colloquio, rispose:
«Male. Ho litigato con l’amministratore delegato». Ma a me piacque
molto il modo in cui mi aveva detto esattamente cosa pensava, così
le diedi il posto e da allora siamo legati da una sincera e duratura
amicizia, sopravvissuta persino dopo che lei ha lasciato Netflix. In
parte può dipendere dal fatto che siamo così diversi: io sono un
secchione amante della matematica e un ingegnere informatico, lei è
un’esperta di comportamento umano e una brava oratrice. Quando
io guardo un team vedo numeri e algoritmi che collegano le persone
e le discussioni. Quando Patty guarda un team vede emozioni e
sottili reazioni interpersonali per me invisibili. Ha lavorato per me a
Pure Software fino alla vendita della società nel 1997 e ci ha
raggiunti a Netflix poco dopo il lancio.
Dopo i licenziamenti del 2001 abbiamo dedicato dozzine di viaggi
in auto al tentativo di capire come mai l’ambiente di lavoro fosse
drasticamente migliorato e come potevamo mantenere quell’energia
positiva. Siamo giunti alla conclusione che dietro i miglioramenti ci
fosse quello che Patty definiva un drastico aumento di «densità di
talento».

Densità di talento: le persone talentuose si rendono


più efficienti a vicenda
Ogni dipendente ha del talento. Quando eravamo in centoventi ne
avevamo alcuni estremamente dotati e altri moderatamente dotati.
Nel complesso avevamo una discreta quantità di talento distribuita in
tutta la forza lavoro. Dopo i licenziamenti, quando rimasero solo le
ottanta persone di maggior talento, avevamo una minore quantità di
talento complessiva ma quella per dipendente era maggiore. La
nostra «densità» di talento era aumentata.
Abbiamo scoperto che una organizzazione ad alta densità di
talento è una organizzazione per cui tutti vogliono lavorare. Le
persone altamente performanti prosperano in particolar modo in
ambienti caratterizzati da un’alta densità di talento complessiva.
I nostri dipendenti stavano imparando maggiormente l’uno
dall’altro e i team stavano ottenendo più risultati, più in fretta, il che
accresceva la motivazione e la soddisfazione individuali e portava
l’intera azienda a un maggior rendimento. Scoprimmo che essere
circondati dai migliori catapultava un lavoro già valido a un livello
completamente nuovo.
Cosa più importante di tutte, lavorare con colleghi davvero
talentuosi era elettrizzante, stimolante e molto divertente, cosa che
rimane valida anche oggi con settemila dipendenti, come lo era un
tempo quando ne contavamo solo ottanta.
Con il senno di poi mi resi conto che un team con un paio di
persone dalle prestazioni appena accettabili abbassa il livello di
prestazioni di ogni suo membro. Se avete un team composto da
cinque dipendenti straordinari e due accettabili questi ultimi

assorbono l’energia dei manager, che quindi hanno meno tempo


per le persone dalle prestazioni eccelse;
abbassano la qualità delle discussioni di gruppo, riducendo il QI
complessivo del team;
costringono gli altri a sviluppare modi per adeguarsi a loro,
riducendo l’efficienza;
spingono il personale che mira all’eccellenza ad andarsene;
mostrano al team che accettate la mediocrità, amplificando così
il problema.

Per chi è capace di prestazioni eccelse un ottimo posto di lavoro


non consiste in un ufficio sontuoso, una bella palestra o pranzi
gratuiti a base di sushi. Consiste nella gioia di essere circondati da
persone che sono sia talentuose sia collaborative. Persone che
possono aiutarti a migliorare. Quando ogni membro è eccellente la
performance subisce un’impennata via via che i dipendenti imparano
l’uno dall’altro e si motivano a vicenda.

La performance è contagiosa

Dai licenziamenti del 2001 Reed ha imparato che la performance,


sia buona sia cattiva, è contagiosa. Se avete dei dipendenti dalle
prestazioni accettabili questo fa sì che abbiano una performance
accettabile anche molti che potrebbero rivelarsi eccellenti. E se
invece avete un team composto esclusivamente da
persone altamente performanti ognuna di loro spinge
le altre a ottenere di più.
Il professor Will Felps dell’Università del Nuovo
Galles del Sud, in Australia, ha condotto
un’affascinante ricerca dimostrando che il
comportamento nell’ambiente di lavoro è contagioso.
Ha creato diverse squadre composte da quattro studenti universitari,
chiedendo a ciascuna di completare un compito di management in
quarantacinque minuti. Le squadre che avessero svolto il lavoro
migliore sarebbero state ricompensate con un premio di cento
dollari.
All’insaputa degli studenti alcuni team includevano un attore che
interpretava uno dei seguenti ruoli: uno «scansafatiche» che batteva
la fiacca, metteva i piedi sul tavolo e spediva SMS; un
«rompiscatole» che faceva commenti sarcastici e diceva cose come
«Mi prendi in giro?» e «Evidentemente non hai mai seguito un corso
di business»; o un «pessimista depresso» che aveva l’aria di
qualcuno a cui sia appena morto il gatto, si lamentava
dell’impossibilità di svolgere il compito assegnato, esprimeva dubbi
sulla possibilità di riuscire a vincere e talvolta posava la testa sulla
scrivania. L’attore si comportava in uno di questi modi senza far
capire al resto del gruppo che non era un normale studente.
Per prima cosa Felps scoprì che, persino quando gli altri membri
del team erano eccezionalmente talentuosi e intelligenti, il
comportamento negativo di un unico individuo riduceva l’efficacia
dell’intera squadra. In decine di test condotti per periodi della durata
di un mese, i gruppi con un membro dalle prestazioni scarse
ottenevano risultati peggiori di un enorme 30-40 per cento rispetto
agli altri.
Tali scoperte confutavano i risultati di ricerche risalenti a decenni
prima secondo cui i membri di un team si conformano ai valori e alle
norme del gruppo. Il comportamento di quell’unico individuo si
trasmetteva rapidamente ad altri membri del gruppo, anche se le
squadre restavano insieme solo per tre quarti d’ora. Come spiega
Felps: «Era davvero sorprendente come gli altri membri del team
cominciassero ad assumere le sue caratteristiche». Quando l’attore
era uno scansafatiche, il resto del gruppo perdeva interesse per il
progetto finché qualcun altro annunciava che il compito non era
importante. Se l’attore era un arrogante anche altri nel gruppo
cominciavano a dimostrarsi tali, insultandosi a vicenda e
pronunciando commenti sgradevoli. Quando l’attore si comportava
da pessimista depresso si avevano i risultati più lampanti in assoluto.
«Ricordo di aver guardato il video di uno dei gruppi», racconta Felps.
«Inizia con tutti i membri seduti con la schiena diritta, pieni di energia
ed elettrizzati dall’idea di svolgere quel compito potenzialmente
impegnativo. Alla fine hanno la testa letteralmente posata sulla
scrivania, sono accasciati.»

Felps ha dimostrato quello che Patty e io avevamo già


scoperto nel 2001. Se avete un gruppo con alcuni
individui dalla performance semplicemente accettabile
quest’ultima ha molte probabilità di diffondersi,
abbassando le prestazioni dell’intera organizzazione.
La maggior parte di noi ricorda momenti nella vita in
cui abbiamo visto di persona un chiaro esempio di questo
comportamento contagioso, come è successo a me quando avevo
dodici anni.
Sono nato nel 1960 nel Massachusetts. Ero un bambino normale
senza nessun particolare talento o abilità degna di nota. Quando
frequentavo la terza elementare ci siamo trasferiti a Washington. Lì
le cose sarebbero andate bene, e avevo un folto gruppo di amici, se
nel parco giochi della prima e seconda media non ci fosse stato un
ragazzo, Calvin, che cominciò a organizzare delle scazzottate. Non
che prendesse di mira o bullizzasse uno qualunque di noi ma questo
ragazzino, per il resto insignificante, creò uno schema di
comportamento che influenzò il modo in cui il resto di noi si
comportava e reagiva agli altri. Non volevo prendere parte, ma la
vergogna di non battermi sarebbe stata peggiore del partecipare. E
per tutto il giorno era davvero importante chi aveva vinto o perso. In
assenza di Calvin il nostro modo di reagire l’uno all’altro e di giocare
insieme sarebbe stato nettamente migliore. Quando mio padre ci
disse che saremmo tornati nel Massachusetts non vedevo l’ora di
partire.
Dopo i licenziamenti del 2001 ci siamo resi conto che anche a
Netflix avevamo una manciata di persone che avevano creato un
clima lavorativo sgradevole. Molti non erano bravi nel proprio lavoro
in una miriade di piccoli modi, il che suggeriva agli altri che una
performance mediocre era accettabile e abbatteva il livello di quella
di tutti nell’ufficio.
Nel 2002, freschi della nostra nuova consapevolezza di cosa
serva per creare un ottimo posto di lavoro, Patty e io prendemmo un
impegno. Da quel momento, il nostro obiettivo primario sarebbe
stato fare tutto il possibile per conservare la densità di talento con
tutti i benefici che comportava. Avremmo assunto i dipendenti
migliori in assoluto e offerto gli stipendi più alti del mercato.
Avremmo insegnato ai nostri manager come trovare il coraggio e la
disciplina necessari per mandare via qualsiasi dipendente che
mostrasse un comportamento indesiderabile o producesse
prestazioni di livello non esemplare. Mi focalizzai sul tentativo di
assicurarmi che Netflix vantasse come personale i dipendenti dalle
prestazioni migliori e più collaborativi sul mercato, dal receptionist al
team dirigenziale di più alto livello.

Il primo puntino
Questo è il puntino più essenziale per le fondamenta dell’intera
storia di Netflix.
Un luogo di lavoro rapido e innovativo è composto da quelli che
definiamo «colleghi fantastici»: persone di enorme talento, con
background e prospettive differenti, che sono straordinariamente
creative, svolgono quantità significative di lavoro importante e
collaborano in modo efficace. Per di più nessuno degli altri principi
può funzionare se non ci si assicura che questo primo puntino sia al
suo posto.
▶ CONCETTI CHIAVE DEL CAPITOLO 1
Il vostro obiettivo primario come leader è sviluppare un ambiente di lavoro
costituito esclusivamente da colleghi straordinari.
Colleghi straordinari svolgono quantità significative di lavoro importante e
sono eccezionalmente creativi e appassionati.
Rompiscatole, scansafatiche, persone dolci dalle prestazioni non sublimi o
pessimisti che fanno parte del team abbasseranno il livello di performance di
tutti.

Verso una cultura di libertà e responsabilità


Una volta che avete creato un’alta densità di talento ed eliminato le persone con
performance meno che eccezionali siete pronti a introdurre una cultura di sincerità.
Questo ci porta al Capitolo 2.
POI AUMENTATE LA SINCERITÀ…
2.
DITE CIÒ CHE PENSATE (MANTENENDO UNA CERTA
POSITIVITÀ)

Durante i miei primi anni come amministratore


delegato di Pure Software la tecnologia non
rappresentava un problema, ma ero ancora piuttosto
carente con la gestione del personale. Cercavo di
evitare i conflitti. Quando parlavo ai dipendenti di un
problema con sincerità, spesso rimanevano turbati,
quindi cercavo di aggirare le questioni spinose.
Faccio risalire all’infanzia questo tratto della mia personalità.
Quando ero bambino i miei genitori mi sostenevano, ma a casa
nostra non si parlava di emozioni. Non volevo turbare nessuno, così
evitavo qualsiasi argomento ostico. Non avevo molti modelli di
riferimento in fatto di sincerità costruttiva e mi ci è voluto parecchio
tempo per apprenderla.
Senza pensarci molto ho trasferito questo atteggiamento nel
lavoro. A Pure Software, per esempio, avevamo un senior leader
molto attento chiamato Aki che secondo me stava impiegando
troppo tempo a sviluppare un prodotto. Ero esasperato e turbato, ma
invece di parlare con lui stipulai un accordo con un team di ingegneri
esterno all’azienda per mettere in moto il progetto. Quando Aki lo
scoprì andò su tutte le furie. «Ce l’hai con me e invece di dirmi
semplicemente cosa provi agisci alle mie spalle?» mi chiese.
Aveva perfettamente ragione: avevo gestito il problema in modo
orrendo, ma non sapevo come parlare apertamente dei miei timori.
Lo stesso problema affliggeva la mia vita privata. Quando Pure
Software fu quotata in borsa, nel 1995, mia moglie e io eravamo
sposati da quattro anni e avevamo una figlia piccola. Avevo
raggiunto l’apice della mia vita professionale ma non sapevo come
essere un buon marito. L’anno seguente, quando Pure acquisì
un’altra azienda situata a quasi cinquemila chilometri di distanza, la
situazione divenne ancora più difficile. Passavo metà della settimana
fuori città, ma quando mia moglie esprimeva la sua frustrazione mi
difendevo dicendo che tutto ciò che facevo lo facevo per il bene della
famiglia. Quando gli amici le chiedevano: «Non sei entusiasta per il
successo di Reed?» le veniva voglia di piangere. Lei era distante da
me e io ce l’avevo con lei.
Il problema si risolse quando cominciammo ad andare da un
consulente matrimoniale, che ci fece parlare dei nostri motivi di
risentimento. Iniziai a vedere il nostro rapporto attraverso gli occhi di
mia moglie. A lei non interessava il denaro. Mi aveva conosciuto nel
1986 a una festa organizzata per il ritorno dei volontari dei Peace
Corps e si era innamorata del giovanotto che aveva appena
trascorso due anni a fare l’insegnante nello Swaziland. Adesso si
ritrovava legata a un uomo ossessionato dal successo negli affari. Di
cosa avrebbe dovuto essere entusiasta?
Fornire e ricevere feedback sinceri ci aiutò enormemente. Mi resi
conto che le avevo mentito. Mentre dicevo frasi come «La famiglia è
la cosa più importante, per me» non cenavo mai a casa e lavoravo a
tutte le ore del giorno e della notte. Ora capisco che le mie parole di
allora erano peggio di semplici frasi fatte: erano menzogne.
Imparammo entrambi cosa potevamo fare per diventare partner
migliori e il nostro matrimonio riprese vita. (Siamo sposati da
ventinove anni e abbiamo due figli adulti!)
In seguito ho cercato di impegnarmi a usare la stessa sincerità in
ufficio. Ho cominciato a incoraggiare tutti a dire esattamente ciò che
pensavano, ma sempre mantenendo una certa positività, non per
aggredire o ferire qualcuno ma per esternare sentimenti, opinioni e
feedback in modo da poterli affrontare.
Mentre cominciavamo a fornirci a vicenda una crescente quantità
di feedback sinceri ho notato che riceverli presentava un vantaggio
aggiuntivo: spingeva la performance nell’ufficio a nuovi livelli.
Uno dei primi casi è quello di Barry McCarthy, il primo direttore
finanziario di Netflix, dal 1999 al 2010, un magnifico leader dotato di
lungimiranza, integrità e una straordinaria capacità di aiutare
chiunque a capire a fondo la nostra situazione finanziaria, ma anche
un temperamento leggermente umorale. Quando la responsabile del
marketing, Leslie Kilgore, mi fece cenno del carattere lunatico di
Barry, la incoraggiai a parlarne con lui. «Digli esattamente quello che
hai detto a me», le consigliai, ispirato dalle mie esperienze con il
consulente matrimoniale.
Leslie è stata direttore marketing dal 2000 al 2012 e attualmente
fa parte del nostro consiglio di amministrazione. Ha un’aria
pragmatica e decisa, ma possiede un senso dell’umorismo caustico
e spesso sorprendente. L’indomani parlò con Barry facendo un
lavoro nettamente migliore di quello che avrei mai potuto fare io.
Trovò il modo di calcolare quanto ci stava costando la lunaticità di
Barry. Gli parlò usando il suo linguaggio finanziario, condendo la
comunicazione con un pizzico del proprio umorismo contagioso, e lui
rimase molto colpito. Tornò dal proprio team, riferì ai collaboratori il
feedback appena ricevuto e li pregò di avvisarlo quando il suo umore
cominciava a influire sulle loro azioni.
I risultati furono incredibili. Nelle settimane e nei mesi seguenti
molti membri del team finanze riferirono a me e a Patty del
miglioramento nella leadership di Barry, e quello non fu l’unico
vantaggio.
Dopo che Leslie aveva fornito un feedback costruttivo a Barry lui
fece altrettanto con Patty e poi con me. Vedendo come lui aveva
risposto positivamente al feedback di Leslie i membri del suo team
ebbero il coraggio di avvisarlo, con un pizzico di umorismo, quando
la sua lunaticità stava riaffiorando, e cominciarono a fornirsi
feedback reciproci più frequentemente. Non avevamo assunto
nessun nuovo talento né aumentato lo stipendio a nessuno ma
l’esercizio stava facendo crescere la densità di talento nell’ufficio.
Vidi che esprimere apertamente opinioni e feedback, invece di
sussurrarli alle spalle l’uno dell’altro, riduceva le pugnalate alle spalle
e ci consentiva una maggiore rapidità. Più le persone si sentivano
dire cosa potevano fare meglio, più tutti diventavano più bravi nel
proprio lavoro e migliori erano le prestazioni che riuscivamo a
ottenere come azienda.
Fu a quel punto che coniammo la frase: «Quando parlate dei
vostri colleghi, dite ciò che direste in loro presenza». Illustravo
questo comportamento come meglio potevo e ogniqualvolta
qualcuno veniva da me per lamentarsi di un collega gli chiedevo:
«Cosa ha detto l’interessato quando lo hai interpellato direttamente
sulla questione?» È un approccio piuttosto radicale. Nella maggior
parte delle situazioni, sia sociali sia professionali, le persone che
dicono sempre ciò che pensano vengono ben presto isolate, persino
escluse. A Netflix invece diamo loro spazio. A Netflix ci adoperiamo
affinché le persone si scambino continuamente feedback
professionali e costruttivi, a ogni livello e attraverso tutta
l’organizzazione.
Un impiegato del nostro team legale, Doug, ci ha fornito questo
esempio di sincerità in azione. È entrato nell’azienda nel 2016 e
poco dopo ha fatto un viaggio d’affari in India con un collega più
anziano di nome Jordan. «Jordan è il tipo di collega che porta dolci
fatti in casa alle persone il giorno del loro compleanno, ma è anche
assillante e impaziente», spiegò. Benché Jordan avesse sottolineato
il bisogno di valorizzare i rapporti umani e di cercare di stabilire
legami personali, quando arrivarono in India il suo comportamento
non si rivelò in linea con i suoi consigli:
Stavamo cenando in un ristorante su una collina, con vista su Mumbai, con una
fornitrice di Netflix chiamata Sapna, che ha una spiccata personalità e una
risata fragorosa. Ci stavamo divertendo un mondo ma ogni volta che la
conversazione si spostava su un argomento che non fosse il lavoro Jordan
assumeva un’aria irritata. Sapna e io stavamo ridacchiando per il fatto che il suo
bimbo di dieci mesi camminava già mentre mio nipote di diciassette mesi aveva
sviluppato una tecnica per spostarsi da seduto in modo da non dover usare le
gambe per fare nulla. Fu un magnifico momento di collaborazione, il genere di
legame che avrebbe sicuramente giovato agli affari, ma Jordan irradiava
frustrazione. Spostò indietro la sedia e continuò a guardare nervosamente il
cellulare come se quello potesse far arrivare più in fretta i caffè. Sapevo che il
suo comportamento stava nuocendo ai nostri sforzi.

In uno qualsiasi dei suoi posti di lavoro precedenti Doug non


avrebbe detto nulla, in ossequio ai valori del protocollo, della
gerarchia e della cortesia. E non si era ancora adattato abbastanza
alla cultura Netflix da rischiare di criticare apertamente il
comportamento del nuovo collega. Riuscì a racimolare il coraggio di
farlo solo una settimana dopo il loro ritorno a casa. «Cerchiamo di
adottare lo stile Netflix», si disse. Aggiunse Feedback dal viaggio in
India all’ordine del giorno del suo successivo meeting con Jordan.
La mattina del meeting Doug aveva lo stomaco sottosopra quando
entrò in sala riunioni. Il feedback era la prima voce all’ordine del
giorno. Chiese al collega se avesse qualche feedback per lui e
Jordan ne fornì alcuni, il che semplificò le cose. Poi Doug disse:
«Jordan, non mi piace fornire feedback, ma mentre eravamo in India
ho notato qualcosa che credo potrebbe aiutarti». Ecco come Jordan
ricorda il resto della conversazione:
Voglio essere chiaro, mi considero un vero asso nel creare rapporti. Ogni volta
che vado in India tengo un sermone a tutti i membri del team sull’importanza di
stabilire legami emotivi. Ecco perché il feedback di Doug mi ha colpito così a
fondo. Visto che ero stressato mi sono comportato come un robot, sabotando i
miei stessi obiettivi, senza nemmeno accorgermi del mio comportamento. Vado
in India ogni mese. Adesso non tengo più lezioni a nessuno prima della
partenza; inizio invece il viaggio dicendo ai colleghi: «Ehi, questo è il mio punto
debole! Se comincio a guardare l’orologio mentre Nitin ci sta facendo fare il tour
della città, datemi un bel calcio nello stinco! Poi vi ringrazierò».

Quando forniscono e ricevono feedback abitualmente, le persone


imparano più in fretta e sono più efficienti. L’unico aspetto negativo è
che Doug non abbia preso da parte Jordan per fornirgli quel
feedback durante la cena in India, così lui avrebbe forse potuto
salvare la serata.

Alta produttività + sincerità altruistica = produttività


estremamente elevata

Immaginate di partecipare a un meeting alle nove del


lunedì mattina con un gruppo di colleghi. State
sorseggiando una tazza di caffè e ascoltando il vostro
capo che ciancia dei suoi progetti per un imminente
retreat, quando la vocina nella vostra testa comincia a
urlare furiosamente perché non è d’accordo con quello
che lui sta dicendo. L’ordine del giorno che il vostro capo sta
delineando sembra destinato al fallimento e voi siete sicuri che il
programma che avete escogitato la sera precedente mentre
guardavate repliche di Grey’s Anatomy risulterebbe più efficace. Vi
chiedete se dovreste dire qualcosa ma esitate e ben presto il
momento giusto per farlo passa.
Dopo dieci minuti una vostra collega, spesso logorroica e ripetitiva
ma dotata di un ottimismo contagioso (e, come tutti sanno, molto
permalosa), comincia ad aggiornare il team sul suo più recente
progetto. La vocina nella vostra testa geme per la vacuità della sua
presentazione e l’inutilità di base del progetto stesso. Vi chiedete di
nuovo se dovreste dire qualcosa ma ancora una volta le vostre
labbra rimangono sigillate.
Quasi certamente vi sarà capitato di sperimentare momenti come
questo. Magari non restate sempre zitti ma spesso lo fate,
probabilmente per uno di questi motivi:

pensate che il vostro punto di vista non troverà alleati;


non volete essere considerati «difficili»;
non volete restare coinvolti in una discussione sgradevole;
non volete rischiare di turbare o irritare i colleghi;
temete di sentirvi accusare di non fare gioco di squadra.

Ma se lavorate a Netflix probabilmente fate sentire la vostra voce.


Durante la riunione mattutina dite al vostro capo che il suo progetto
per il retreat non funzionerà e che avete un’altra idea che secondo
voi si dimostrerà migliore. Dopo il meeting spiegate alla vostra
collega perché pensate che dovrebbe riconsiderare il progetto che
ha illustrato. E per buona misura, dopo esservi fermati alla macchina
del caffè, passate da un altro collega per dirgli che vi è sembrato
sulla difensiva quando gli è stato chiesto di spiegare una sua recente
decisione durante la riunione plenaria della settimana precedente.
A Netflix tacere quando non si è d’accordo con i colleghi o quando
si ha un feedback che potrebbe rivelarsi utile equivale a dimostrarsi
sleali nei confronti dell’azienda. In fondo significa che potreste
aiutare l’azienda ma state scegliendo di non farlo.
Quando ho sentito parlare per la prima volta della sincerità che
dominava a Netflix ero scettica. Netflix non promuove solo feedback
schietti ma anche feedback frequenti, il che, in base alla mia
esperienza, non fa che aumentare le probabilità che sentiate
qualcosa che può ferirvi. La maggior parte delle persone ha difficoltà
a ignorare le osservazioni scortesi, il che può causare una spirale
negativa di riflessioni. L’idea di una prassi che incoraggia le persone
a esprimere spesso feedback sinceri suonava non solo sgradevole
ma anche estremamente rischiosa. Eppure non appena ho
cominciato a collaborare con i dipendenti di Netflix ne ho visti i
benefici.
Nel 2016 Reed mi chiese di tenere il discorso d’apertura alla
conferenza trimestrale dei leader dell’azienda a Cuba. Era la prima
volta che svolgevo un lavoro per Netflix ma tutti i partecipanti
avevano già letto il mio libro, The Culture Map, e volevo presentare
qualcosa di nuovo. Lavorai parecchio per preparare una
presentazione su misura piena di nuovo materiale. Di solito quando
parlo davanti a un folto pubblico lo faccio con un contenuto ben
rodato, perciò quando salii sul palco sentivo il cuore battere più in
fretta del normale. I primi tre quarti d’ora andarono bene. I circa
quattrocento manager di Netflix giunti da tutto il mondo sembravano
interessati e ogni volta che facevo una domanda vedevo alzarsi
decine di mani.
Poi invitai i partecipanti a formare piccoli gruppi per cinque minuti
di discussione. Quando scesi dal palco per camminare fra loro,
sentendo stralci di conversazione, notai una donna che parlava in
modo concitato con un accento americano. Quando vide che la
guardavo mi fece cenno di avvicinarmi. «Stavo giusto dicendo ai
miei colleghi», spiegò, «che il modo in cui sta conducendo la
discussione dal palco contraddice il suo messaggio sulla diversità
culturale. Quando chiede dei commenti e chiama la prima persona
che alza la mano, sta allestendo proprio il tipo di trappola che il suo
libro ci sollecita a evitare, perché soltanto gli americani alzano la
mano, quindi soltanto gli americani ottengono una chance di
parlare.»
Fui colta alla sprovvista. Era la prima volta che qualcuno mi
forniva un feedback negativo nel bel mezzo di una presentazione e
davanti a un gruppo di altri partecipanti. Iniziai a provare un vago
senso di nausea, soprattutto quando mi resi conto che naturalmente
aveva ragione. Ebbi due minuti di tempo per correggere al volo la
rotta. Quando ricominciai a parlare proposi che ascoltassimo un
commento da parte di ogni stato rappresentato fra il pubblico, prima i
Paesi Bassi, poi la Francia, poi il Brasile, gli Stati Uniti, Singapore e il
Giappone. Funzionò a meraviglia e non avrei mai pensato di usare
quella tecnica in quel momento senza quel feedback.
L’episodio fissò il modello per altre interazioni successive. In
occasione di colloqui di lavoro con dipendenti di Netflix loro mi
fornivano feedback sulle mie azioni, a volte prima ancora che avessi
avuto l’occasione di porre una singola domanda.
Per esempio quando sono andata a fare un colloquio con Danielle
Crook-Davies, che lavora ad Amsterdam, lei mi ha accolto
cordialmente, mi ha detto che il mio libro le era piaciuto e poi, prima
che avessimo la possibilità di sederci, ha chiesto: «Posso fornirle
qualche feedback?». Successivamente mi ha detto che la lettrice
della versione audio era terribilmente scarsa e con il suo tono di
voce rendeva meno efficace il mio messaggio. «Spero che troverà il
modo di farlo registrare da capo. Il libro ha un contenuto fantastico
ma la voce rovina tutto.» Sono rimasta di stucco, ma a ben riflettere
ho capito che aveva ragione. Quella stessa sera ho fatto una
telefonata per cambiare l’audiolibro.
Un’altra volta, mentre effettuavo alcuni colloqui a San Paolo, un
manager brasiliano ha dato inizio alla sua con un amichevole: «Sarei
felice di fornirle un feedback». Avevamo avuto solo il tempo di
salutarci ma ho cercato di comportarmi come se trovassi normale la
cosa. Lui mi ha detto che l’e-mail di preparazione che avevo
mandato ai candidati era talmente strutturata da risultare autoritaria.
«Lei stessa ci ha detto, nel suo libro, che noi brasiliani preferiamo
spesso lasciare le cose più implicite e flessibili, ma non ha seguito il
suo consiglio. La prossima volta potrebbe mandare un’e-mail con i
temi ma senza domande specifiche. Otterrà una reazione migliore.»
Mi sono ritrovata a deglutire, a disagio, mentre questo manager
estraeva la mia e-mail per mostrarmi quali fossero le frasi
problematiche. Anche in quel caso il feedback mi ha aiutato. Durante
i viaggi successivi, prima di spedire un’e-mail preliminare l’ho
sempre fatta leggere al mio contatto locale, che spesso aveva idee
utili su come coinvolgere i candidati del posto.
Visti tutti i benefici dei feedback schietti potreste chiedervi come
mai nella maggior parte delle aziende ne forniamo e riceviamo così
pochi. Una rapida occhiata al comportamento umano ne spiega il
motivo.

Odiamo la sincerità (ma la vogliamo comunque)


Ben poche persone amano ricevere critiche. Ricevere brutte
notizie sul proprio lavoro genera un senso di insicurezza,
frustrazione e vulnerabilità. Il vostro cervello risponde al feedback
negativo con le stesse reazioni di attacco o fuga che si hanno
davanti a una minaccia fisica, rilasciando ormoni nel flusso
sanguigno, accelerando il tempo di reazione e intensificando le
emozioni.
Se c’è una cosa che odiamo più del ricevere critiche a tu per tu è
ricevere un feedback negativo davanti ad altri. La donna che mi ha
fornito un feedback nel bel mezzo del mio discorso di apertura (e
davanti ai suoi colleghi) mi ha aiutato molto. Aveva un suggerimento
che poteva essermi utile e che non poteva aspettare. Ma ricevere
feedback davanti al gruppo provoca segnali d’allarme nel cervello
umano. Il cervello è una macchina per la sopravvivenza e una delle
nostre tecniche di sopravvivenza di maggior successo è il desiderio
di trovare sicurezza nei numeri. Il nostro cervello è perennemente
all’erta per cogliere segnali di rifiuto da parte del gruppo, cosa che in
tempi più primitivi avrebbe portato all’isolamento e potenzialmente
alla morte. Se qualcuno mette in evidenza davanti agli altri un errore
che state facendo, l’amigdala, la parte del cervello più primordiale e
perennemente all’erta per scorgere eventuali pericoli, lancia un
avvertimento: «Questo gruppo sta per respingerti». In questa
situazione, il nostro impulso animalesco naturale è fuggire.
Allo stesso tempo una valanga di ricerche dimostra che ricevere
feedback positivi stimola il cervello a rilasciare ossitocina, lo stesso
ormone del benessere che rende felice una madre quando allatta il
suo bambino. Non stupisce che così tante persone preferiscano
distribuire complimenti invece di fornire feedback sinceri e costruttivi.
Eppure gli studi dimostrano che la maggior parte di noi capisce
istintivamente l’importanza di sentirsi dire la verità. In uno studio del
2014 la società di consulenze Zenger Folkman ha raccolto dati sul
feedback da più di mille persone. Si è scoperto che, a dispetto dei
benefici della lode, con un margine di circa tre a uno le persone
ritengono che il feedback correttivo migliori le loro prestazioni più di
quello positivo. La maggioranza dei soggetti ha affermato che il
feedback positivo non ha affatto un impatto significativo sul proprio
successo.
Ecco qualche altro dato statistico più eloquente che arriva dallo
stesso studio:

il 57 per cento degli intervistati sostiene che preferirebbe


ricevere feedback correttivo che feedback positivo;
il 72 per cento si dice convinto che la propria performance
migliorerebbe se ricevesse più feedback correttivi;
il 96 per cento si è detto d’accordo con il commento: «Il
feedback negativo, se fornito in maniera adeguata, migliora la
performance».

È stressante e sgradevole sentire che non stiamo facendo bene


qualcosa, ma dopo lo stress iniziale quel feedback aiuta davvero. La
maggior parte delle persone intuisce che un semplice loop di
feedback può aiutarla a diventare più brava nel proprio lavoro.

Il loop di feedback: coltivare una cultura di sincerità

Nel 2003 la popolazione di Garden Grove, una piccola


comunità a sud di Los Angeles, in California, stava
affrontando il problema dell’allarmante frequenza di
incidenti che coinvolgevano auto e pedoni sulle strade
nei pressi di alcune scuole elementari. Le autorità
collocarono cartelli con il limite di velocità per indurre
gli automobilisti a rallentare e la polizia appioppò multe ai
trasgressori.
Il tasso di incidenti rimase pressoché invariato.
Gli ingegneri municipali tentarono un altro approccio installando
indicatori di velocità digitali, in altre parole «feedback per i guidatori»,
ognuno dei quali includeva un limite di velocità, un sensore radar e
un display con la scritta «La tua velocità». Gli automobilisti, nel
passare, ricevevano dati in tempo reale sulla loro velocità e su quella
che avrebbero dovuto tenere.
Gli esperti dubitavano che la cosa sarebbe servita. Tutti hanno un
tachimetro sul cruscotto. Inoltre la dottrina dell’applicazione della
legge ritiene da tempo che le persone obbediscano alle regole solo
quando affrontano alcune evidenti conseguenze per averle violate,
quindi perché gli indicatori avrebbero dovuto influenzare il
comportamento degli automobilisti?
Eppure accadde. Secondo gli studi gli automobilisti ridussero la
velocità del 14 per cento e in corrispondenza di tre delle scuole la
velocità media scese sotto il limite indicato. Il 14 per cento
rappresenta un grosso miglioramento data la semplicità e il basso
costo del feedback.
Un loop di feedback è uno degli strumenti più efficaci per
migliorare le prestazioni. Impariamo più in fretta e otteniamo più
risultati quando trasformiamo il fornire e ricevere feedback in una
componente costante del nostro modo di collaborare. Il feedback ci
aiuta a evitare malintesi, crea un clima di corresponsabilità e riduce il
bisogno di gerarchia e regole.
Eppure incoraggiare feedback schietti in un’azienda è molto più
difficile che installare segnali stradali. Per creare un’atmosfera di
sincerità è necessario indurre i dipendenti a rinunciare ad anni di
condizionamento e a salde convinzioni quali «Fornisci un feedback
solo quando qualcuno te lo chiede» e «Loda in pubblico, critica in
privato».
Quando devono decidere se fornire un feedback o meno le
persone sono spesso combattute fra due atteggiamenti contrastanti:
non vogliono ferire la sensibilità dei destinatari e vogliono aiutarli ad
avere successo. A Netflix l’obiettivo è aiutarsi reciprocamente ad
avere successo anche se questo significa che la sensibilità viene
talvolta ferita. Cosa più importante, abbiamo scoperto che nel giusto
ambiente, con il giusto approccio, possiamo fornire feedback senza
ferirla affatto.
Se volete sviluppare una cultura di sincerità nella vostra
organizzazione o nel vostro team potete compiere diversi passi, il
primo dei quali non è il più intuitivo. Potreste pensare che il primo
passo per coltivare la sincerità consista nell’iniziare dalla cosa più
facile: indurre il capo a fornire numerosi feedback al suo personale.
Raccomando invece di concentrarsi innanzitutto su qualcosa di ben
più difficile: indurre i dipendenti a fornire feedback schietti al capo.
La cosa può essere accompagnata da feedback da capo a
dipendente. Ma è quando i dipendenti cominciano a fornire feedback
sinceri ai propri capi che i grandi benefici della sincerità decollano
davvero.

Dite all’imperatore quando è nudo


Come molte altre persone, da bambino ho sentito raccontare la
celebre favola I vestiti nuovi dell’imperatore: narra di un uomo di
potere assai sciocco talmente convinto di indossare gli abiti più
eleganti mai confezionati da sfilare nudo davanti ai propri sudditi.
Nessuno osava sottolineare l’ovvio, tranne un bambino che non
capiva nulla di gerarchia, potere o conseguenze.
Più salite nell’organigramma, meno feedback ricevete e maggiori
probabilità avete di «andare al lavoro nudi» o commettere un altro
errore evidente per chiunque tranne che per voi. Questo non è solo
disfunzionale ma anche pericoloso. Se un assistente nell’ufficio
sbaglia un’ordinazione di caffè senza che nessuno glielo dica non è
grave. Se il Chief financial officer sbaglia una relazione finanziaria e
nessuno ha il coraggio di contestare la cosa, l’organizzazione entra
in crisi.
La prima tecnica utilizzata dai nostri manager per indurre i
sottoposti a fornire loro feedback sinceri consiste nell’accogliere
regolarmente il tema del feedback nell’ordine del giorno dei loro
meeting individuali con i membri del personale. Non chiedete
semplicemente un feedback ma dite e dimostrate ai dipendenti che è
previsto. Mettetelo come prima o ultima voce sull’ordine del giorno in
modo che sia ben distinto dalle vostre discussioni di tenore
operativo. Quando arriva il momento sollecitate e incoraggiate il
dipendente a fornire feedback a voi (il capo) e poi, se volete, potete
ricambiare dandone a lui.
L’atteggiamento che tenete mentre ricevete i feedback è un fattore
fondamentale. Dovete dimostrare al dipendente che non corre rischi
nel fornirli reagendo con gratitudine a ogni critica e, soprattutto,
fornendo «segnali di appartenenza» che, per usare la definizione di
Daniel Coyle nel suo libro The Culture Code, sono gesti che indicano
che «Il tuo feedback ti rende un membro più importante di questa
tribù» o «Sei stato sincero con me e questo non mette in alcun modo
a repentaglio il tuo impiego o il nostro rapporto; questo è il tuo
posto». Parlo spesso con il mio team dirigenziale della necessità di
mostrare «segnali di appartenenza» in situazioni in cui un
dipendente sta fornendo feedback al capo, perché un dipendente
abbastanza coraggioso da fornirne apertamente si chiederà
probabilmente se il suo capo se la prenderà con lui o se questo
danneggerà la sua carriera.
Un segnale di appartenenza potrebbe essere un piccolo gesto
come usare un tono di voce grato, avvicinarsi maggiormente a chi
parla o guardarlo dritto negli occhi. Oppure potrebbe essere più
ovvio, per esempio ringraziare l’interessato per il suo coraggio e
parlare di quel coraggio davanti all’intero team. Coyle spiega che la
funzione di un segnale di appartenenza «è rispondere all’antica e
onnipresente domanda che brilla nel nostro cervello: Siamo al sicuro
qui? Qual è il nostro futuro con queste persone? Ci sono pericoli in
agguato?». Più voi e gli altri nella vostra azienda reagite con segnali
di appartenenza a tutti i momenti di sincerità e più coraggiose
saranno le persone nella propria sincerità.

Ted Sarandos, il chief content officer, è un leader nel


team di Reed che sollecita apertamente i feedback e
mostra segnali di appartenenza quando li riceve.
È responsabile di ogni serie TV e di ogni film
disponibile su Netflix. Ha svolto un ruolo essenziale
nel dare nuova forma all’industria dell’intrattenimento
ed è spesso definito una delle persone più importanti di Hollywood.
Ted non è il tipico magnate dei media. Non ha finito il college e ha
acquisito la sua istruzione cinematografica lavorando in negozi di
videocassette dell’Arizona.
La rivista «Evening Standard», in un articolo del 2019, lo ha
descritto così:
Se Netflix dovesse produrre una miniserie su Ted Sarandos, il suo
multimilionario chief content officer, inizierebbe sicuramente con lui ragazzo
negli anni Sessanta seduto a gambe incrociate davanti al tremolio azzurrognolo
di uno schermo televisivo in un quartiere povero di Phoenix, Arizona,
indifferente al caos provocato dai quattro fratelli e sorelle che giocavano intorno
a lui. Passava ore e ore in quel modo, il palinsesto televisivo come unica
routine.
Da adolescente lavorò in un negozio di videocassette e durante le lunghe e
vuote ore diurne cominciò a passare in rassegna i novecento film disponibili.
Sviluppò così una conoscenza enciclopedica di film e televisione, oltre a un
ottimo istinto su cosa piaceva alla gente (qualcuno l’ha definito un «algoritmo
umano»). E poi dicono che troppa TV ti manda in pappa il cervello…

Nel luglio del 2014 Ted chiese a Brian Wright, un vicepresidente


senior di Nickelodeon, di occuparsi degli accordi per i contenuti per
ragazzi. (La prima cosa che rese famoso Brian a Netflix fu firmare il
contratto per una serie intitolata Stranger Things quando era lì solo
da pochi mesi.) Durante il suo primo giorno di lavoro a Netflix, Brian
vide Ted ricevere pubblicamente un feedback. Ecco il suo racconto:
Nei miei precedenti posti di lavoro tutto era imperniato su chi era in auge e chi
no. Fornire un feedback al capo o contraddirlo durante un meeting davanti ad
altre persone significava la morte politica. Ti avrebbero spedito in Siberia.
Lunedì mattina, il mio primo giorno di lavoro a Netflix, ero in stato di massima
allerta per cercare di scoprire quali fossero le prassi in vigore. Alle undici
partecipai al mio primo meeting guidato da Ted (il capo del mio capo, che dal
mio punto di vista è una superstar) con una quindicina di persone che
lavoravano a vari livelli dell’azienda. Ted stava parlando del lancio della
seconda stagione di The Blacklist. Un tizio gerarchicamente quattro livelli sotto
di lui lo interruppe a metà della sua argomentazione dicendo: «Ted, credo ti sia
sfuggito qualcosa. Hai frainteso l’accordo di licenza. Quell’approccio non
funzionerà». Ted rimase sulle sue posizioni ma il tizio non si arrese. «Non
funzionerà. Stai mischiando due relazioni diverse, Ted, hai capito male.
Dobbiamo incontrarci direttamente con la Sony.»
Non riuscivo a credere che quel tizio di basso livello affrontasse Ted Sarandos
davanti a un gruppo di persone. In base alla mia passata esperienza equivaleva
a un suicidio professionale. Rimasi letteralmente scandalizzato. Ero rosso in
faccia e avrei voluto nascondermi sotto la sedia.
Al termine del meeting Ted si alzò e gli posò la mano sulla spalla. «Splendida
riunione. Grazie per il tuo contributo odierno», disse con un sorriso. Fui talmente
stupito da restare letteralmente a bocca aperta.
Più tardi incontrai Ted nella toilette degli uomini. Mi chiese come stesse
andando il mio primo giorno di lavoro, così gli dissi: «Wow, Ted, non riuscivo a
credere a come quel tizio ti ha dato addosso durante il meeting». Parve non
capire. «Brian», mi disse, «il giorno in cui ti ritroverai a non esprimere il tuo
feedback per timore di diventare impopolare sarà il giorno in cui dovrai lasciare
Netflix. Ti assumiamo per le tue opinioni. Ogni persona in quella stanza ha la
responsabilità di dirmi francamente cosa pensa.»

Ted ha illustrato chiaramente i due tipi di comportamento


necessari a indurre i dipendenti a fornire feedback schietti al capo.
Non chiedete semplicemente un feedback ma dite e dimostrate ai
vostri dipendenti che ce lo si aspetta (come le istruzioni di Ted a
Brian). Poi, quando lo ricevete, reagite con segnali di appartenenza,
in questo caso la mano da lui messa sulla spalla del tizio al termine
del meeting.
Reed è un altro leader di Netflix che mostra spesso questi due
comportamenti, e in cambio riceve più feedback negativi di qualsiasi
altro leader della società. Ne è prova la sua valutazione complessiva
scritta, a cui chiunque può contribuire e nella quale lui riceve
costantemente più feedback di qualsiasi altro dipendente. Reed li
sollecita di continuo e vi reagisce scrupolosamente con segnali di
appartenenza, talvolta parlando addirittura in pubblico di come lo
abbia reso felice ricevere una critica. Ecco un paragrafo di un
promemoria da lui condiviso con tutti i dipendenti di Netflix nella
primavera del 2019:
Quello delle valutazioni 360 è sempre un periodo molto stimolante dell’anno.
Scopro che i commenti più utili per la mia crescita sono purtroppo i più dolorosi.
Quindi nello spirito di tali valutazioni grazie per avermi segnalato in modo
coraggioso e sincero: «Durante i meeting talvolta sorvoli alcuni argomenti o li
affronti frettolosamente quando sei impaziente oppure decidi che una
particolare voce sull’ordine del giorno non vale più il tempo… Allo stesso modo,
stai attento a non lasciare che il tuo punto di vista prevalga su qualsiasi altro. A
volte rendi impossibile il dibattito segnalando un allineamento quando non
esiste affatto». Così vero, così triste e così frustrante che io lo faccia ancora.
Continuerò a lavorarci. Spero che anche tutti voi abbiate ricevuto e fornito
feedback molto diretti e costruttivi.

Rochelle King ricorda chiaramente cosa significa fornire un


feedback costruttivo al CEO. Era il 2010 e lei lavorava come creative
product director a Netflix da circa un anno. Dipendeva da un
vicepresidente che lavorava per il chief product officer, che a sua
volta lavorava per Reed, quindi lei si trovava tre livelli sotto di lui. Il
suo aneddoto sulla sincerità nei confronti dei superiori a Netflix è
tipico:
Reed stava conducendo un meeting con venticinque responsabili, vicepresidenti
e alcuni membri del team dirigenziale. Patty McCord disse qualcosa con cui lui
non era d’accordo. Reed si irritò visibilmente con Patty e liquidò il suo
commento in modo sarcastico. Quando parlò ci fu questa sorta di sussulto
collettivo, pubblico, e un sommesso ansito. Forse Reed era troppo esasperato
per notare la reazione degli astanti, ma io sentii che quello non fu un momento
di grande leadership per lui.

Rochelle prese sul serio il principio di Netflix secondo cui non dire
niente in circostanze del genere sarebbe equivalso a slealtà. Passò
la serata a scrivere la seguente e-mail a Reed, rileggendola «cento
volte, perché anche se si tratta di Netflix, sembrava comunque
piuttosto rischioso». Ecco cosa scrisse infine:
Reed,
essendo stata fra il pubblico presente ieri nella stanza ho trovato sprezzanti e
irrispettosi i commenti da te rivolti a Patty. Sollevo la questione perché al retreat
dell’anno scorso hai sottolineato l’importanza di creare un ambiente in cui le
persone siano incoraggiate a parlare e contribuire alla conversazione (che sia
per dissentire o per svilupparla).
Ieri nella stanza avevamo un insieme eterogeneo di persone, direttori e
vicepresidenti, e qualcuno che non ti conosce a fondo. Il tono che hai usato con
Patty mi impedirebbe, se non ti conoscessi così bene, di esprimere
pubblicamente la mia opinione di fronte a te in futuro, per paura che tu possa
liquidare bruscamente le mie idee. Spero non ti dispiaccia sentirtelo dire.
Rochelle

Dopo avere ascoltato questo racconto ho ripensato a tutti i miei


lavori passati, da cameriera alla Sri Lanka Curry House a
responsabile della formazione in una grossa multinazionale a
direttrice di una piccola azienda di Boston a docente in una business
school. Ho tentato di rammentare se, in uno qualsiasi di quei ruoli,
avevo mai sentito qualcuno dire educatamente ma schiettamente al
capo dell’organizzazione che il suo tono di voce durante un meeting
era stato inappropriato. E la risposta è stata un grosso e sonoro NO!
Quando ho mandato un’e-mail a Reed chiedendogli se
rammentava l’episodio con Rochelle di cinque anni prima mi ha
risposto nel giro di pochi minuti.
Erin, ricordo la sala (King Kong) e dove ero seduto e dove si trovava Patty.
Ricordo di essermi sentito in colpa in seguito per come avevo gestito la mia
esasperazione.
Reed

Dopo qualche minuto mi ha inoltrato la sua copia dell’e-mail


inviatagli da Rochelle insieme con la risposta che le aveva mandato.
Rochelle, sono stato felice di ricevere quel feedback e ti prego, continua ad
avvisarmi se noti qualcosa che ti sembra inappropriato.
Reed

Il feedback di Rochelle era sincero però meditato e davvero inteso


ad aiutare Reed a migliorare. Ma il grosso rischio del creare un clima
di sincerità è rappresentato da tutti i modi in cui le persone possono
abusarne sia volutamente sia accidentalmente. Il che ci porta al
prossimo passo di Reed per sviluppare una cultura di sincerità sul
posto di lavoro.

Insegnate a tutti i dipendenti a fornire e ricevere


adeguatamente i feedback
Nel film vincitore di un Oscar A Star is born c’è una scena con
Bradley Cooper e Lady Gaga dove la sincerità mal applicata appare
in tutta la sua sgradevolezza.
Lady Gaga è immersa in una vasca da bagno piena di bolle. È
stata appena riconosciuta come un’autentica star della musica,
ricevendo tre nomination ai Grammy. Il suo mentore (e da breve
tempo anche marito) entra nel bagno dopo aver bevuto troppo e le
dice schiettamente cosa pensa della sua nuova canzone originale,
che ha appena cantato al Saturday Night Live.
Hai avuto le nomination ed è fantastico… Cerco solo di capire, tutto qua. Come
dice il testo del tuo brano «Perché mi giri intorno con un culo così?» (imita la
canzone, occhi alzati al cielo, lungo sospiro). Forse ti ho deluso. Sei
imbarazzante. Devo essere sincero con te.
Nonostante tutto quel parlare di feedback a Netflix, questo tipo di
sincerità non sarebbe tollerato. Un clima di sincerità non significa
che vale tutto. Le prime volte in cui i dipendenti di Netflix mi hanno
fornito un feedback sono rimasta talmente stupita da pensare che le
relative regole fossero qualcosa tipo: «Di’ quello che pensi, al
diavolo le conseguenze». Ma i manager di Netflix investono
parecchio tempo per insegnare agli impiegati il modo giusto e il
modo sbagliato di fornire feedback. Hanno documenti che spiegano
quale sia il feedback efficace. Hanno sezioni dei programmi di
formazione in cui le persone imparano a fornirlo e riceverlo e si
esercitano a farlo.
Potete farlo anche voi. Dopo aver esaminato tutti i materiali di
Netflix sulla sincerità e aver sentito decine di intervistati spiegare
come funziona, ho scoperto che le lezioni possono essere riassunte
con le «4 A».

Linee guida del feedback «4 A»

Fornire feedback
1. AIM TO ASSIST (Mirate ad aiutare): Il feedback deve essere
fornito con un intento positivo. Fornirlo con lo scopo di sfogare
la propria frustrazione, ferire volutamente l’altra persona o
agevolare i propri secondi fini di potere non è tollerato. Spiegate
chiaramente come uno specifico cambiamento nel modo di
comportarsi aiuterà l’individuo o l’azienda, non come aiuterà voi.
«Il modo in cui ti stuzzichi i denti durante i meeting con i partner
esterni è irritante» è un feedback sbagliato. Quello giusto
sarebbe: «Se smetti di stuzzicarti i denti durante i meeting con i
partner esterni è più probabile che loro ti vedano come un
professionista e vogliano stabilire con noi un solido rapporto».
2. ACTIONABLE (Attuabile): Il vostro feedback deve concentrarsi su
ciò che il destinatario può fare in modo diverso. Un feedback
sbagliato per me a Cuba si sarebbe limitato al commento: «La
sua presentazione sta minando i suoi stessi messaggi». Il giusto
feedback è stato: «Il suo modo di chiedere un suggerimento al
pubblico fa sì che soltanto gli americani partecipino». Sarebbe
stato persino meglio: «Se riesce a trovare il modo di ottenere
contributi dalle altre nazionalità presenti nella stanza la sua
presentazione risulterà più efficace».

Ricevere feedback
3. APPRECIATE (Mostrate apprezzamento): La naturale inclinazione
umana è a difendersi o addurre una scusa quando si ricevono
critiche; cerchiamo tutti, istintivamente, di proteggere il nostro
ego e la nostra reputazione. Quando ricevete un feedback
dovete combattere questa reazione naturale e chiedervi invece:
«Come posso mostrare apprezzamento per questo feedback
ascoltando con attenzione, riflettendo sul messaggio con mente
aperta ed evitando di mettermi sulla difensiva o arrabbiarmi?».
4. ACCEPT OR DISCARD (Accettate o respingete): Durante il vostro
impiego a Netflix riceverete una miriade di feedback da una
miriade di persone. Vi si chiede di ascoltarli tutti e riflettervi
sopra. Non vi si chiede di seguirli. Dite «Grazie» con sincerità.
Ma sia voi sia chi li fornisce dovete capire che la decisione di
reagire al feedback dipende interamente da chi lo riceve.

Nell’esempio all’inizio di questo capitolo, quando Doug


fornisce a Jordan un feedback su come modificare il
suo comportamento mentre lavora in India, possiamo
vedere un magnifico esempio delle «4 A». Doug notò
come l’approccio strettamente professionale di Jordan
stesse sabotando i suoi stessi obiettivi. Il suo scopo
era aiutare Jordan a migliorare e aiutare l’organizzazione ad avere
successo (Mirate ad aiutare). Il feedback da lui fornito era così
pratico che Jordan sostiene che adesso, ogni volta che lavora con
l’India, usa un approccio diverso (Attuabile). Jordan ha ringraziato
(Mostrate apprezzamento). Avrebbe potuto scegliere di respingere il
feedback ma in questo caso l’ha accettato dicendo: «Adesso non
tengo più lezioni a nessuno prima della partenza; inizio invece ogni
viaggio dicendo ai colleghi: “Ehi, questo è il mio punto debole! Se
comincio a guardare l’orologio mentre Nitin ci sta facendo fare il tour
della città, datemi un bel calcio nello stinco!”» (Accettate o
respingete).
La maggior parte delle persone, come Doug, trova particolarmente
difficile fornire feedback in tempo reale. Molti sono stati
profondamente condizionati ad aspettare il momento giusto e le
condizioni adatte prima di dire la verità, tanto che l’utilità del
feedback spesso scompare quasi del tutto. Questo ci porta alla terza
priorità necessaria a instillare una cultura della sincerità nel vostro
team.

Predicate il feedback ovunque, in qualsiasi momento


L’unica domanda rimasta è dove e quando fornire feedback, e la
risposta è ovunque e in qualsiasi momento. Questo potrebbe
significare fornirlo in privato, a porte chiuse. Erin ha ricevuto il suo
primo feedback davanti a un gruppetto di tre o quattro persone
durante un discorso di apertura. Anche questo va benissimo. Lo si
può persino urlare davanti a un gruppo di quaranta, se è lì che
risulterà maggiormente utile.
Rose, una vicepresidente del global communication team, ha
fornito un esempio:
I miei quaranta colleghi provenienti da tutto il mondo si erano riuniti per un
meeting di due giorni e io avevo sessanta minuti per presentare il piano di
marketing per il lancio della seconda stagione di Tredici.
Quando abbiamo trasmesso la prima stagione, il suicidio ha scatenato un
uragano di controversie pubbliche. Per la seconda volevo utilizzare un
approccio diverso e diffuso nella comunicazione di brand, il settore in cui ho
lavorato di più, ma non nella publicity tradizionale che aveva rappresentato la
norma a Netflix.
Il mio piano prevedeva di associarci con la Northwestern University per
commissionare uno studio indipendente sull’impatto della serie sugli spettatori
adolescenti. Netflix non avrebbe influenzato lo studio ma speravo che i dati
raccolti contribuissero a collocare meglio il lancio della seconda stagione.

La presentazione di sessanta minuti rappresentava l’unica chance


di Rose di convincere i colleghi del marketing, ma dopo quindici
minuti il pubblico stava invece chiedendo: «Perché vuoi investire
quel denaro quando non sai nemmeno quali saranno i risultati? Uno
studio può essere indipendente se lo finanziamo noi?». Lei si sentì
sotto attacco:
Percepivo ogni mano alzata come una sfida. Sembrava che tutti stessero
urlando: «Sai quello che fai?!». Mi sono accorta che parlavo sempre più in fretta
a ogni sfida e che l’esasperazione nella stanza stava montando. Più il gruppo
metteva in dubbio le mie affermazioni e più mi preoccupavo di non riuscire a
finire il mio discorso e più rapidamente parlavo.

Poi la sua collega e amica Bianca sventolò un braccio dal fondo


della sala offrendo un salvagente… in stile Netflix. «Rose! Non sta
funzionando! Stai giocandoti la sala! Sembri sulla difensiva! Stai
parlando troppo in fretta. Non ascolti le domande. Ti ripeti senza
replicare ai dubbi sollevati. Fai un bel respiro. HAI BISOGNO DELLA
SALA» disse ad alta voce.

In quel momento mi sono vista come mi stava vedendo il pubblico: senza fiato e
intenta a parlare più che ad ascoltare. Ho fatto un bel respiro. «Grazie, Bianca.
Hai ragione. Continuo a guardare l’orologio. Ho bisogno che tutti capiscano il
progetto. Sono qui per ascoltare e rispondere alle vostre domande. Torniamo
indietro. A chi non ho risposto?» Ho indirizzato diversamente la mia energia e
questo ha provocato un cambiamento in sala. I toni di voce si sono abbassati.
Le persone hanno cominciato a sorridere. L’aggressività è scomparsa. Ho
convinto il gruppo. La sincerità di Bianca mi ha salvato.

Nella maggior parte delle organizzazioni gridare critiche davanti a


un gruppo mentre chi parla è nel bel mezzo di una presentazione
sarebbe giudicato inopportuno e ben poco utile. Ma se riuscite a
diffondere un’effettiva cultura della sincerità tutti gli interessati
riconoscerebbero che questo feedback da parte di Bianca è stato un
autentico dono. L’intento di Bianca era solo quello di aiutare Rose a
raggiungere il suo obiettivo (Mirate ad aiutare). Ha proposto iniziative
precise che Rose poteva prendere per migliorare la propria
performance (Attuabile). Rose ha ricevuto il feedback ringraziando
(Mostrate apprezzamento). In questo caso ha seguito il consiglio di
Bianca e tutti ne hanno tratto beneficio (Accettate o respingete). Se
seguite il modello «4 A» il feedback può e dovrebbe essere fornito
esattamente quando e dove si rivelerà più utile.
In questo caso Bianca era animata da nobili intenzioni, ma in caso
contrario cosa sarebbe successo? Qualcuno con un conto da
regolare potrebbe fingere di seguire le linee guida «4 A» ma in realtà
voler sabotare il messaggio di Rose o ledere la sua reputazione. Se
la sincerità vi appare tuttora rischiosa è comprensibile. Questo ci
porta al consiglio finale per instaurare un clima di sincerità.

Chiarite e sottolineate la differenza fra essere


altruisticamente schietti e geni arroganti
Abbiamo lavorato tutti con persone che sono palesemente brillanti.
Conoscete il tipo: pieni di intuizioni straordinarie, eloquenti, capaci di
risolvere problemi al primo colpo. Più è denso il talento nella vostra
organizzazione e più persone di questo tipo avrete probabilmente
nel vostro team.
Ma con un sacco di persone brillanti in giro correte un rischio.
Talvolta quelle davvero talentuose si sentono ripetere da così tanto
tempo quanto sono fantastiche che cominciano a credersi migliori di
chiunque altro. Potrebbero sogghignare davanti a idee che giudicano
poco intelligenti, alzare gli occhi al cielo quando altri non riescono a
esprimersi in maniera articolata e offendere coloro che ritengono
meno dotati di loro. In altre parole, sono arroganti.
Se state promuovendo una cultura della sincerità nel vostro team
dovete sbarazzarvi delle persone arroganti. Molti potrebbero
pensare: “Visto che questo tizio è così brillante non possiamo
permetterci di perderlo”. Ma non importa quanto brillante sia questa
persona arrogante, se la tenete nel vostro team non potete
raccogliere i frutti della sincerità. Il costo dell’arroganza per un lavoro
di squadra efficace è troppo alto. I colleghi arroganti hanno alte
probabilità di dilaniare la vostra organizzazione dall’interno. E il loro
modo preferito per farlo è spesso pugnalare i colleghi al petto e poi
dire: «Volevo solo essere schietto».
Persino a Netflix, dove predichiamo «Niente geni arroganti», ci
ritroviamo spesso con un dipendente che trova difficile rispettare i
limiti. Quando succede una cosa simile dovete intervenire. Paula,
una original content specialist, ne era un esempio. Era
straordinariamente creativa e disponeva di un’ampia rete di contatti,
il che è un vantaggio enorme. Lavorava fino a tardi leggendo copioni
e immaginando come trasformare una potenziale serie TV in un
enorme successo. Cercava di vivere la Cultura Netflix mostrandosi
aperta e schietta in ogni situazione.
Spesso nei meeting Paula si esprimeva con foga, ripetendosi,
talvolta picchiando il pugno sul tavolo per sottolineare il concetto.
Sovrastava con la voce le persone se non stavano capendo quello
che voleva dire. Si mostrava anche molto efficiente, lavorando al
computer mentre altri parlavano, soprattutto se non era d’accordo
con le loro opinioni. Se le persone erano prolisse o lente ad arrivare
al punto le interrompeva per dirglielo, sul momento. Paula non aveva
l’impressione di dimostrarsi antipatica ma solo di vivere la Cultura
Netflix con i suoi feedback sinceri. Eppure, a causa del suo
comportamento difficile, non lavora più a Netflix.
Una cultura di sincerità non significa che potete dire ciò che
pensate senza preoccuparvi dell’impatto che avrà sugli altri. Anzi,
richiede che tutti meditino attentamente sulle linee guida delle «4 A».
Questo impone riflessione e talvolta preparazione prima di fornire il
feedback, oltre che monitoraggio e addestramento da parte dei
responsabili. Justin Becker, un engineering manager per il team
Playback API di Netflix, ha illustrato questo esempio in una
presentazione del 2017 intitolata Sono un genio arrogante?:
Quando lavoravo da poco a Netflix un ingegnere del mio gruppo ha commesso
un grosso errore nel mio settore di competenze e ha inviato un’e-mail che
eludeva la responsabilità e non faceva alcuna proposta per rimediare allo
sbaglio. Mi sono arrabbiato e l’ho chiamato con l’intento di metterlo sulla strada
giusta. Sono stato brusco e ho criticato le sue azioni. Non mi sono divertito a
farlo ma sentivo che stavo facendo una cosa positiva per l’azienda.
Una settimana più tardi il suo manager si è fermato inaspettatamente accanto
alla mia scrivania. Mi ha detto che sapeva del mio scambio di vedute con
l’ingegnere e non pensava che mi sbagliassi dal punto di vista tecnico, ma
sapevo che l’ingegnere era demotivato e improduttivo da quando avevo parlato
con lui? E il mio intento era forse quello di rendere improduttivo il suo staff? No,
certo che no. Il manager proseguì chiedendomi se pensavo che avrei potuto
dire all’ingegnere quello che dovevo dirgli in un modo che lo lasciasse ottimista
e motivato a rimediare all’errore. Certo, probabilmente avrei potuto. «Bene. In
futuro fai sempre così, per favore», mi ha detto. L’ho fatto.
La conversazione è durata meno di due minuti e si è rivelata immediatamente
efficace. Notate che non mi ha accusato di essere arrogante e mi ha invece
chiesto: 1) «Hai intenzione di danneggiare l’azienda?» e 2) «Sei in grado di
agire in modo professionale?» Esiste solo una risposta giusta a quelle
domande. Se avesse detto semplicemente: «Sei arrogante», io avrei potuto
ribattere: «No che non lo sono», ma facendomi invece delle domande ha
affidato a me l’onere di riflettere sulla risposta e ha provocato un attimo di
autoriflessione.

Justin aveva seguito parzialmente le linee guida «4 A» sul


feedback. Il suo intento era stato quello di aiutare l’ingegnere a
imboccare la strada giusta. Aveva sottolineato di avere in mente
l’interesse di Netflix. Forse il suo messaggio era addirittura attuabile.
Ma lui è comunque risultato arrogante perché ha anche violato la
prima regola della sincerità fornendo un feedback per sfogare la
propria esasperazione. Anche seguire altre linee guida generali sul
feedback critico come «Non esprimete mai critiche quando siete
ancora arrabbiati» e «Usate un tono di voce pacato quando fornite
un feedback correttivo» sarebbe potuto risultare utile.
Naturalmente a volte siamo tutti arroganti. Nel caso di Justin lui
aveva confuso la bruschezza con la sincerità. Justin è riuscito a
adattare il proprio comportamento. Oggi lavora ancora a Netflix.

Nel Capitolo 8 torneremo su questo argomento per


esplorare un altro paio di metodi che potete usare per
incoraggiare la sincerità nel vostro team. Nel frattempo
questo è…

Il secondo puntino
Se avete un gruppo di persone di enorme talento, attente e gentili
potete chiedere loro di fare qualcosa che non è affatto naturale ma
comunque incredibilmente utile per la rapidità ed efficacia di
un’azienda. Potete sollecitarle a fornirsi a vicenda una miriade di
feedback schietti e anche a sfidare l’autorità.
▶ CONCETTI CHIAVE DEL CAPITOLO 2
Grazie alla sincerità le persone altamente performanti diventano
eccezionalmente performanti. I frequenti feedback schietti aumentano in
maniera esponenziale la rapidità ed efficacia del vostro team o forza lavoro.
Preparateli alla sincerità dando spazio a momenti di feedback nei vostri
meeting regolari.
Insegnate ai dipendenti a fornire e ricevere feedback in maniera efficace,
seguendo le linee guida «4 A».
In veste di leader sollecitate frequentemente il feedback e reagite con segnali
di appartenenza quando lo ricevete.
Sbarazzatevi degli arroganti prima di tentare di instillare una cultura di
sincerità.

Dopo aver introdotto la densità di talento e la sincerità, siete pronti per iniziare a
eliminare i controlli e offrire maggiori libertà sul luogo di lavoro.

Verso una cultura di libertà e responsabilità


La maggior parte delle organizzazioni vanta una vasta gamma di procedure di
controllo per assicurarsi che i dipendenti si comportino in modi vantaggiosi per
l’azienda. I meccanismi di controllo includono politiche, procedure di approvazione
e supervisione dirigenziale.
Prima concentratevi sul creare un ambiente di lavoro ad alta densità di talento, poi
sviluppate una cultura di sincerità, assicurandovi che ognuno fornisca e riceva
parecchi feedback. Con un clima di sincerità il capo non è più il principale
responsabile del correggere il comportamento indesiderabile di un dipendente.
Quando l’intera comunità parla apertamente di quali comportamenti individuali
facciano progredire l’azienda e quali invece no, il capo non ha più bisogno di
essere attivo nella supervisione del lavoro di un dipendente.
Acquisiti questi due elementi, siete pronti per cominciare ad allentare i controlli.
Vedremo come nei Capitoli 3a e 3b.
ORA COMINCIATE A ELIMINARE I CONTROLLI…
3A.
ELIMINATE LA POLICY RELATIVA ALLE FERIE

Molto prima di Netflix credevo che il valore del lavoro


creativo non dovesse essere misurato in base al
tempo. È il retaggio di un’epoca industriale in cui i
lavoratori svolgevano compiti che oggi sono assolti
dalle macchine.
Se un manager veniva da me a dire: «Reed, voglio
promuovere Sherry perché lavora da matti» mi sentivo esasperato.
Cosa mi importa? Voglio che quel manager dica: «Promuoviamo
Sherry perché sta avendo un impatto enorme», non perché resta
inchiodata alla scrivania. E se Sherry sta facendo cose strabilianti
lavorando venticinque ore la settimana da un’amaca alle Hawaii?
Be’, diamole un grosso aumento! È preziosissima.
Oggi, nell’era informatica, quello che conta sono i risultati che
ottenete, non quante ore timbrate sul cartellino, soprattutto per i
dipendenti di aziende creative come Netflix. Non ho mai badato a
quante ore lavorano le persone. Quando si tratta di giudicare la
performance a Netflix, la quantità di lavoro è irrilevante.
Tuttavia fino al 2003 assegnavamo le ferie e tenevamo conto dei
giorni di vacanza, esattamente come ogni altra azienda che
conoscevo. Netflix stava seguendo il branco. Ogni dipendente aveva
diritto a un numero specifico di giorni di ferie all’anno, a seconda
dell’anzianità.
Poi il suggerimento di un dipendente ci spinse a cambiare. Questa
fu la sua osservazione:
Durante alcuni weekend lavoriamo tutti online, rispondiamo alle e-mail in orari
strani, ci prendiamo un pomeriggio libero per cose personali. Non teniamo conto
delle ore lavorate ogni giorno o ogni settimana. Perché teniamo conto dei giorni
di ferie ogni anno?
Non c’era una risposta. Un dipendente poteva lavorare dalle 9 alle
17 (otto ore) oppure dalle 5 alle 21(sedici ore). È una variazione del
100 per cento, eppure nessuno la monitorava. Quindi perché
dovrebbe interessarmi se un dipendente lavora cinquanta settimane
l’anno oppure quarantotto? È solo una differenza del 4 per cento.
Patty McCord suggerì di eliminare del tutto quella politica: «Diciamo
semplicemente che in materia di ferie la nostra policy è “vai in
vacanza”».
Mi piacque l’idea di dire alle persone che erano responsabili della
propria vita e potevano decidere quando lavorare e quando invece
fare una pausa. Eppure nessun’altra azienda che conoscevo lo
stava facendo. Ero preoccupato per i possibili risultati. In quel
periodo mi svegliavo spesso, la notte, a causa di due incubi.
Nel primo incubo è estate e io sono in ritardo a un meeting
importante. Mi infilo a tutta velocità nel parcheggio dell’azienda e
corro dentro l’edificio. I preparativi che devo fare sono immani,
servirà il contributo dell’intero ufficio. Mi fiondo oltre le porte
d’ingresso gridando nomi: «David! Jackie!», ma incontro un silenzio
di tomba. Perché non c’è nessuno? Alla fine trovo Patty nel suo
ufficio, con un boa di piume di struzzo bianche intorno al collo.
«Patty! Dove sono tutti?» ansimo, trafelato. Lei alza gli occhi dalla
scrivania con un sorriso. «Oh, ciao, Reed! Sono tutti in ferie!»
Ero molto preoccupato. Eravamo un piccolo gruppo di persone
con una miriade di cose da fare. Se due dei cinque membri del team
acquisto DVD si fossero presi un mese di vacanza in inverno la cosa
avrebbe messo in ginocchio l’ufficio. I dipendenti perennemente in
ferie avrebbero affossato l’azienda?
Nel secondo incubo è inverno e fuori c’è una tormenta, come
quelle che ero abituato a vedere nel Massachusetts da bambino.
L’intera forza lavoro è prigioniera in ufficio, con cumuli di neve che
bloccano l’ingresso. Ghiaccioli grandi come zanne di elefante
penzolano dal tetto. Il vento sferza le finestre. L’ufficio è gremito.
Alcune persone stanno dormendo sul pavimento della cucina, altre
fissano il proprio computer con sguardo vitreo. Sono furibondo.
Perché nessuno lavora? Perché sono tutti così stanchi? Cerco di
costringere i tizi addormentati sul pavimento a rimettersi al lavoro. Li
tiro in piedi, ma quando tornano verso le rispettive scrivanie
camminano come zombie. In un angolino della mente so perché
siamo tutti bloccati in questo edificio, stremati. Sono passati anni
senza che nessuno si prendesse delle ferie.
Temevo che le persone smettessero di andare in ferie se non
gliele avessimo assegnate preventivamente. Il nostro «Niente
politica ferie» si sarebbe trasformato in una «Politica niente ferie»?
Molte delle nostre principali innovazioni sono nate mentre la gente si
prendeva una pausa. Ne è un esempio Neil Hunt, che è stato il
nostro chief product officer per quasi vent’anni. È inglese e Patty lo
chiama «Cervello su un bastoncino» perché è alto un metro e
novantatré, magro come un chiodo e un vero genio. Neil ha
supervisionato molte delle innovazioni tecniche che hanno reso
Netflix ciò che è oggigiorno. Inoltre è un appassionato di vacanze
estreme.
In vacanza, spesso andava in luoghi isolati e ogni volta tornava
con una fantastica nuova idea su come far progredire l’attività. Una
volta lui e sua moglie hanno portato alcune seghe da ghiaccio sulle
montagne della Sierra Nevada settentrionale e hanno trascorso una
settimana a dormire negli igloo. Quando sono rientrati Neil si era
inventato un nuovo algoritmo matematico per migliorare il modo in
cui scegliamo i film da offrire ai nostri abbonati. Era la prova vivente
del motivo per cui le aziende ottengono benefici quando i dipendenti
vanno in ferie. Il tempo libero fornisce un’ampiezza di banda mentale
che vi consente di pensare in modo creativo e vedere il lavoro sotto
una luce diversa. Se lavorate sempre non avete la prospettiva adatta
per osservare il vostro problema con occhi nuovi.
Patty e io riunimmo il nostro team dirigenziale per discutere delle
due ansie contrastanti che mi occupavano la mente intanto che ci
preparavamo a sbarazzarci della nostra politica ferie. Decidemmo,
nonostante una certa trepidazione, di eliminarla ma solo in via
sperimentale. Il nuovo sistema avrebbe consentito a tutti i dipendenti
di prendersi una vacanza in qualsiasi momento e per tutto il tempo
che desideravano. Non vi sarebbe stato bisogno di chiedere
un’approvazione preventiva e né i dipendenti né i loro manager si
sarebbero sentiti chiedere o imporre di tenere conto dei giorni
trascorsi fuori ufficio. Spettava unicamente al dipendente decidere
se e quando aveva voglia di prendersi qualche ora, una giornata,
una settimana o un mese di ferie.
L’esperimento funzionò benissimo e ancora oggi operiamo in quel
modo, traendone una miriade di benefici. Le ferie illimitate
contribuiscono ad attirare e trattenere i migliori talenti, soprattutto
esponenti della generazione Z e millennial che si oppongono alla
pratica di timbrare il cartellino. Eliminare quella politica riduce anche
la burocrazia e i costi amministrativi di tenere conto di chi è fuori
ufficio e quando. Cosa più importante, la libertà dimostra ai
dipendenti che confidiamo nella loro capacità di fare la cosa giusta, il
che li incoraggia a comportarsi in modo responsabile.
Detto questo, se eliminate la politica ferie senza fare un altro paio
di passi fondamentali potreste vedere uno dei miei incubi
trasformarsi in realtà. Il primo passo dice che…

I leader devono dare l’esempio facendo molte


vacanze
Di recente mi sono imbattuto in un articolo dell’amministratore
delegato di una piccola azienda che ha tentato lo stesso
esperimento di Netflix in fatto di ferie, ma con molto meno successo.
Ha scritto:
Se prendo due settimane di ferie i miei colleghi penseranno che sono uno
scansafatiche? Va bene fare più vacanze del mio capo?… Lo capisco. Per
quasi un decennio la mia azienda ha offerto ferie illimitate. Quando siamo
arrivati ad avere quaranta dipendenti domande come queste hanno cominciato
ad aleggiare sotto la superficie. La primavera scorsa il mio team dirigenziale ha
deciso che era ora di mettere ai voti quella politica in modo che tutti i nostri
dipendenti potessero decidere. Quando infine il personale ha deciso di eliminare
le ferie illimitate in favore di una politica meglio definita basata sugli anni di
anzianità, non posso dire di essere rimasto sorpreso.

Io invece sono rimasto sorpreso. Le nostre ferie illimitate sono


talmente popolari che non riuscivo a immaginare che una cosa
simile potesse avvenire a Netflix. Per prima cosa mi sono chiesto: “Il
capo ha dato l’esempio prendendosi lunghe vacanze?”. Ho trovato la
risposta continuando a leggere l’articolo.
Persino in veste di CEO, con il nostro piano senza limiti, mi sono reso conto che
facevo soltanto due settimane di ferie l’anno. Con il nuovo piano (ferie definite)
ho intenzione di usare quasi tutte se non tutte le mie cinque settimane. Il timore
di perdere i giorni che mi sono «guadagnato» è la motivazione che mi spingerà
a usarli.

Se il CEO si concede solo due settimane di ferie, naturalmente i


suoi dipendenti sentiranno che il piano illimitato non concede loro
molta libertà. Si sentiranno inevitabilmente più a proprio agio con tre
settimane assegnate che con un numero indefinito e un capo che dà
l’esempio di prenderne solo due. In assenza di una politica precisa,
la quantità di ferie che le persone prendono riflette in larga parte
quella che vedono prendere al loro capo e ai colleghi. Ecco perché,
se volete eliminare la vostra politica ferie, dovreste cominciare
chiedendo a tutti i capi di concedersene parecchie e parlarne
spesso.
Patty ha sottolineato la cosa sin dall’inizio. Durante la riunione dei
dirigenti del 2003, quando decidemmo di avviare l’esperimento
niente-politica-ferie, sostenne che noi, il team dirigenziale, avremmo
dovuto fare lunghe vacanze e parlarne parecchio. In assenza di una
politica l’esempio dato dai capi avrebbe assunto un’enorme
importanza. Ci spiegò che voleva vedere le nostre cartoline
dall’Indonesia o dal lago Tahoe appese in tutto l’ufficio e che, quando
Ted Sarandos fosse tornato dalla vacanza di luglio nella Spagna
meridionale, si aspettava che tutti assistessero al suo slideshow con
settemila foto.
In mancanza di una politica fissa la maggior parte delle persone si
guarda intorno nel proprio dipartimento per capire i «limiti morbidi» di
cosa è accettabile. Mi è sempre piaciuto viaggiare e prima che
eliminassimo la nostra politica ferie ho sempre cercato di farlo
spesso, ma in seguito ho cominciato a parlare molto di più di quelle
vacanze a chiunque fosse disposto ad ascoltare.

Quando ho cominciato a collaborare con Reed mi


aspettavo che lui lavorasse come un pazzo ma, con
mio profondo stupore, ho scoperto che sembrava
andare spesso in vacanza. Non poté incontrarmi
mentre ero a Los Gatos perché stava facendo
escursionismo sulle Alpi, dopo avere passato una settimana in Italia
con la moglie si lamentò di avere il torcicollo a causa di cuscini molto
scomodi, e un ex dipendente mi raccontò che lui e Reed erano
appena tornati da una settimana di immersioni subacquee alle Fiji.
Secondo i suoi calcoli Reed si prende sei settimane di ferie l’anno e,
se vale la mia limitata esperienza, io aggiungerei «come minimo».
L’esempio fornito da Reed è fondamentale per il successo della
politica di ferie illimitate di tutta Netflix. Se l’amministratore delegato
non rappresenta un modello in tal senso il metodo non può
funzionare. Persino così il suo andare spesso in vacanza ha ottenuto
l’effetto desiderato in alcuni settori di Netflix ma in altri meno.
Quando i capi al di sotto di Reed non seguono il suo esempio,
spesso i loro diretti dipendenti mostrano una vaga somiglianza con
gli zombie dell’incubo di Reed.
Un esempio è Kyle, dirigente del marketing. Prima di unirsi a
Netflix faceva il giornalista; adora il brivido e la pressione del
lavorare con scadenze serrate: «Si è in piena notte, è appena
arrivata una notizia bomba. Il giornale andrà in stampa fra poche
ore. Non c’è nulla di più eccitante del ticchettio ansiogeno
dell’orologio e della soddisfazione di completare in poche ore un
progetto che avrebbe dovuto richiedere giorni». I figli di Kyle sono
ormai adulti. Lui è vicino alla sessantina e fino a poco tempo fa era a
capo di uno dei dipartimenti di Netflix con sede a Hollywood. A
Netflix ha continuato a lavorare come se avesse sempre una
scadenza imminente, così come tutte le altre persone del suo
dipartimento. Ha spiegato: «Lavoriamo tutti come pazzi ma è perché
siamo appassionati al nostro lavoro». Kyle non faceva molte
vacanze e non parlava molto di vacanze, ma a chi lavorava nel suo
dipartimento il suo messaggio giungeva forte e chiaro.
Donna, una manager del marketing, è stata un esempio di coloro
che si sono fatti venire l’esaurimento.
Secondo il suo Fitbit la notte precedente aveva dormito quattro ore
e trentadue minuti. Lavorare fino a notte fonda e alzarsi presto nel
tentativo di completare ciò che descriveva come «montagne di
lavoro incompleto» era lo status quo. Non prendeva ferie da quattro
anni, sin dalla nascita del primo dei suoi due figli. «Mi sono presa
qualche giorno per andare a trovare mia madre per il
Ringraziamento. Ho passato tutto il tempo a lavorare nella
lavanderia.»
Perché Donna non approfittava della libertà concessa ai
dipendenti di Netflix per prendersi più tempo libero? «Mio marito è
un artista nel campo dell’animazione, disegna cartoni animati. Sono
io quella che porta a casa il pane.» Lavorava così tanto perché era
quello che facevano il suo capo e ogni membro del suo team e non
voleva dare l’impressione di non star facendo la propria parte: «La
Cultura Netflix ha fantastici ideali, ma a volte il divario fra gli ideali e
la pratica è enorme e quello che dovrebbe colmarlo è la leadership.
Quando i leader non danno il buon esempio… capita ciò che è
successo a me».
Mentre Netflix cresce ci sono sempre più sacche in cui il modello
rappresentato da Reed e le istruzioni iniziali di Patty sembrano non
essere arrivate a destinazione. In questi team il «niente politica
ferie» somiglia leggermente a una «politica niente ferie». Ma molti
leader di Netflix stanno seguendo consapevolmente l’esempio di
Reed facendo lunghe vacanze e assicurandosi che tutti ne siano al
corrente. E quando lo fanno, i dipendenti sfruttano la libertà
concessa da Netflix in vari modi sorprendenti e vantaggiosi.
Greg Peters, che nel 2017 ha sostituito Neil Hunt come chief
product officer, rappresenta un valido esempio. Arriva in ufficio a
un’ora normale, le 8 del mattino, e se ne va alle 18 per rincasare in
tempo per cenare con i figli. Si premura di prendere lunghe vacanze,
incluse le visite alla famiglia della moglie a Tokyo, e incoraggia i suoi
dipendenti a fare altrettanto. «Quello che diciamo come capi è solo
metà dell’equazione», spiega. «I nostri impiegati guardano anche
quello che facciamo. Se io dico: “Voglio che troviate un equilibrio
sostenibile e sano tra lavoro e vita privata” ma rimango in ufficio
dodici ore al giorno, le persone mi giudicheranno dalle azioni, non
dalle parole».
Le azioni di Greg stanno inviando un messaggio forte e chiaro e i
suoi diretti dipendenti lo stanno sentendo.
John, un ingegnere che lavora nel team di Greg, è un ottimo
esempio. Guida una Oldsmobile degli anni Settanta bicolore,
marrone chiaro, con sedile anteriore a panchina in vinile, pannelli
color legno e un ampio vano posteriore. Ama la sensazione di venire
ritrasportato negli anni Settanta mentre guida fino al suo ufficio nel
quartier generale di Netflix, nella Silicon Valley. La Oldsmobile gli
fornisce lo spazio che gli serve per la sua mountain bike, la sua
chitarra, il suo cucciolo di Rhodesian Ridgeback e le sue gemelle di
sei anni. John si sente leggermente in colpa per il suo straordinario
equilibrio tra lavoro e vita privata:
Quest’anno ho già preso sette settimane di ferie e siamo solo a ottobre. I miei
capi prendono un sacco di ferie, ma dubito che sappiano mai quante ne ho
prese io. Nessuno l’ha mai chiesto né ha battuto ciglio. Vado in bicicletta, sono
un musicista e le mie figlie hanno bisogno di me. Penso spesso: “Sto facendo
tutti questi soldi… non dovrei lavorare di più?”. Ma faccio un’infinità di cose,
quindi mi dico che questo incredibile equilibrio tra lavoro e vita provata che ho…
va bene.

Altri membri del team di Greg hanno trovato modi creativi di


organizzare la propria vita che sarebbero impossibili con una politica
ferie tradizionale. Un senior software engineer, Sarah, lavora 70-80
ore a settimana, ma prende dieci settimane di ferie l’anno
(recentemente per un viaggio di interesse antropologico presso la
tribù Yanomami nell’Amazzonia brasiliana). Lei la considera una
rotazione di varie settimane di intenso lavoro seguite da una
settimana in cui fare qualcosa di totalmente diverso. «È questo
l’enorme vantaggio della libertà in fatto di ferie di Netflix», ha
spiegato. «Non il fatto che tu puoi prenderti più o meno giorni liberi,
ma che puoi organizzarti la vita in qualsiasi folle modo tu desideri, e
fintanto che fai un ottimo lavoro nessuno batte ciglio.»
Il comportamento del capo ha un’influenza tale da poter persino
spazzare via norme culturali nazionali. Prima di diventare chief
product officer Greg è stato per un certo periodo general manager di
Netflix a Tokyo. In Giappone uomini e donne d’affari sono famosi per
i lunghi orari di lavoro e le poche ferie. Ci sono storie su persone che
sono letteralmente morte per il troppo lavoro ed esiste persino una
parola, karoshi, per indicare il fenomeno. Il lavoratore giapponese
medio prende circa sette giorni di ferie l’anno e il 17 per cento non
ne prende affatto.
Una sera, davanti a birra e sushi, Haruka, una manager poco più
che trentenne, mi ha raccontato: «Prima di venire a Netflix ho
lavorato per un’azienda giapponese. Per sette anni sono andata al
lavoro alle 8 del mattino e ho preso l’ultimo treno per tornare a casa
poco dopo mezzanotte. In sette anni ho preso una sola settimana di
ferie e soltanto perché mia sorella si sposava negli Stati Uniti». La
sua esperienza è comune, in Giappone.
Andare a lavorare a Netflix le ha cambiato la vita. «Quando Greg
era qui lasciava l’ufficio prima dell’ora di cena, ogni giorno, e lo
stesso facevano gli altri dipendenti. Lui andava spesso in vacanza
sull’isola di Okinawa o a Niseko per portare i figli a sciare e quando
tornava mostrava le fotografie a tutti noi. Ci chiedeva delle nostre
vacanze, così abbiamo cominciato tutti a farle. Il mio principale
timore, se dovessi lasciare Netflix, è che dovrei tornare a una vita di
soffocanti lunghe giornate lavorative senza nessuna pausa, perché
Netflix offre questo incredibile equilibrio tra lavoro e vita privata.»
Greg, americano, è riuscito a indurre un intero ufficio di giapponesi
a lavorare e fare ferie come gli europei. Non ha fissato regole né
assillato. Ha semplicemente fornito un esempio di comportamento e
comunicato le aspettative.

Se volete eliminare la politica ferie nella vostra


azienda date il buon esempio. Persino a Netflix, dove
io do l’esempio prendendo sei settimane di ferie l’anno
e incoraggio il mio team dirigenziale a fare altrettanto,
la storia di Kyle e di Donna dimostra che per far sì che
il messaggio venga recepito servono esempi e
attenzione continui. Ma se voi e il vostro team dirigenziale incarnate
il modello che volete che i vostri dipendenti seguano non dovrete
preoccuparvi di far alzare dal pavimento della cucina degli zombie
che non prendono mai ferie.
Far dare il buon esempio alla leadership rappresenta solo la prima
fase di una efficace politica di ferie illimitate. L’altro timore che
affligge molti di coloro che pensano di applicarla è che i loro team
approfittino della libertà per prendersi mesi e mesi di ferie in
momenti scomodi, danneggiando il lavoro di squadra e
compromettendo gli affari. Questo ci porta al secondo passo
necessario. Compierlo vi aiuterà anche a risolvere il problema
rappresentato da leader della vostra azienda, come Kyle, che non
emulano l’abitudine dei superiori di fare lunghe vacanze e in tal
modo non riescono a ottenere un sano equilibrio tra lavoro e vita
privata nei propri team.

Stabilite e rafforzate il contesto per guidare il


comportamento
dei dipendenti
Nel 2007 Leslie Kilgore coniò l’espressione «Guidate con il
contesto, non con il controllo» (che esamineremo più a fondo nel
Capitolo 9) ma non seguivamo questo principio guida quando
abbiamo eliminato la politica ferie nel 2003. Ci basavamo solo sul
concetto che i capi devono fare molte ferie e parlarne parecchio.
Oltre a ciò non avevamo pensato molto alla necessità di prendere
iniziative specifiche o stabilire un contesto. Spiegammo alle persone
che non avremmo né fissato un preciso numero di giorni di ferie né
tenuto un conto di questi ultimi e chiudemmo lì la questione. Nel giro
di pochi mesi cominciammo ad avere problemi.
Eliminammo la nostra politica ferie nel 2003. Nel gennaio del 2004
un direttore del reparto contabilità venne nel mio ufficio a lamentarsi.
«Grazie alla tua brillante idea di eliminare la politica ferie quest’anno
chiuderemo i conti in ritardo.» Una dirigente del suo team, stanca di
dover sempre lavorare le prime due settimane di gennaio – il periodo
cruciale dell’anno per i contabili – aveva rivendicato il diritto di
prendersi quelle due settimane libere, seminando così il caos
nell’intero dipartimento.
Un altro giorno mi imbattei in una manager accanto alla ciotola di
frutta in cucina. Aveva gli occhi rossi e le guance chiazzate, come se
avesse pianto. «Reed, questa libertà di ferie mi sta uccidendo!» Il
suo team di quattro persone aveva un’importante scadenza
incombente. Una di loro avrebbe iniziato il congedo di paternità la
settimana seguente e adesso un’altra l’aveva avvisata che da lì a
due settimane sarebbe partita per una crociera di un mese nei
Caraibi. Lei non se la sentiva di dire di no a nessuno dei due. «È il
prezzo della libertà che offriamo», gemette.
Questo ci porta al secondo passo fondamentale per eliminare con
successo la politica ferie. Quando una policy viene eliminata, i
dipendenti non sanno come operare in sua assenza. Alcuni
rimangono paralizzati finché il capo non dice loro esplicitamente
quali azioni vanno bene; se non dite loro: «Prendetevi del tempo
libero», non lo fanno. Altri invece si sentiranno liberi di comportarsi in
modi totalmente inopportuni, per esempio prendendo le ferie in un
periodo che potrebbe nuocere al resto della squadra. Questo non
solo mina l’efficienza del team ma alla fine potrebbe indurre il
manager a levare le mani al cielo per la disperazione e licenziare
l’impiegato, il che non giova a nessuno.
In mancanza di una politica scritta, ogni manager deve prendersi il
tempo per parlare al team di quali comportamenti rientrano nei limiti
di ciò che è accettabile e appropriato. Il direttore contabilità avrebbe
dovuto sedersi con il suo team per spiegare in quali mesi ci si poteva
prendere le ferie e che gennaio era off limits per tutti i contabili. La
manager con gli occhi gonfi accanto alla ciotola di frutta avrebbe
dovuto lavorare con il team per fissare dei parametri per le ferie,
quali «Può andare in ferie solo un membro del team per volta» e
«Non creare eccessivi problemi al resto del gruppo prima di
prenotare la vostra vacanza». Più il manager si dimostra chiaro
quando fissa il contesto e meglio è. Quel direttore contabilità
potrebbe dire: «Siete pregati di dare un preavviso di almeno tre mesi
quando volete passare un mese fuori dall’ufficio, ma un preavviso di
un mese è solitamente sufficiente per una vacanza di cinque giorni».
Con l’ingrandirsi di una azienda si amplia la gamma di modi in cui i
capi fissano un contesto e danno un esempio comportamentale. A
causa della rapida crescita e del rapido cambiamento di Netflix è
facile sentirsi sopraffatti e sotto pressione. Qualsiasi manager che
non sia riflessivo e vigile può ritrovarsi rapidamente con uno stuolo di
persone come Donna nel proprio team. Kyle ha sbagliato non solo
nel non dare l’esempio prendendosi lunghe vacanze, ma anche nel
non aver fissato il contesto in merito alle ferie che si aspettava che il
suo team prendesse per mantenere un sano equilibrio tra lavoro e
vita privata. Ho affrontato questo tipo di scenario cercando di
stabilire il miglior contesto possibile per dare un esempio ai nostri
leader con i rispettivi team. Una delle principali occasioni di cui
approfitto per dare questo esempio è il nostro meeting trimestrale
che riunisce tutti i direttori e i vicepresidenti della compagnia (il 10-15
per cento dei dipendenti) quattro volte l’anno. Ogniqualvolta sento
circolare voci su persone che non prendono ferie capisco che è il
momento di inserire l’argomento nell’ordine del giorno di quella
riunione. Questo mi offre l’occasione di parlare del tipo di ambiente a
cui aspiriamo e offre ai nostri leader la possibilità di discutere, in
piccoli gruppi, delle tecniche che usano per ottenere un salutare
equilibrio tra lavoro e vita privata per i nostri dipendenti.

L’assenza di una policy relativa alle ferie aggiunge


valore
anche quando nessuno ne fa uso

Dopo che Netflix ha eliminato il controllo delle ferie


anche altre aziende hanno cominciato a farlo, per
esempio Glassdoor, LinkedIn, Songkick, HubSpot ed
Eventbrite nel settore tecnico, così come lo studio
legale Fisher Phillips, l’agenzia di pubbliche relazioni
Golin e quella di marketing Visualsoft, per citarne solo
alcune.
Nel 2014 il famoso imprenditore inglese Richard Branson ha
adottato l’eliminazione della politica sulle ferie per Virgin
Management. Ha scritto un articolo sulla sua decisione, spiegandola
come segue:
Ho scoperto cosa stava facendo Netflix quando mia figlia Holly ha letto il «Daily
Telegraph» e mi ha subito inoltrato l’articolo con un’e-mail chiaramente
entusiasta che diceva: «Papà, dai un’occhiata a questo». È qualcosa di cui
stavo parlando da tempo e credo che sarebbe una cosa molto in stile Virgin non
tenere traccia delle ferie delle persone. Poi lei ha aggiunto: «Ho un’amica la cui
azienda ha fatto la stessa cosa e apparentemente hanno registrato un netto
incremento sotto ogni aspetto: morale, creatività e produttività sono saliti alle
stelle». Inutile dire che sono rimasto molto incuriosito e volevo saperne di più.
È sempre interessante notare quanto spesso gli aggettivi intelligente e semplice
descrivano le innovazioni più geniali; be’, questa è indubbiamente una delle
iniziative più semplici e intelligenti di cui sento parlare da parecchio tempo a
questa parte, e sono felice di dire che abbiamo introdotto questa stessa (non)
politica nella nostra società madre sia in Gran Bretagna sia negli Stati Uniti,
dove le politiche ferie possono essere particolarmente draconiane.
Anche Trenton Moss, il CEO di Webcredible, ha smesso di
monitorare le ferie della sua azienda, spiegando come ciò attira
validi candidati e aumenta la soddisfazione dei dipendenti:
L’ethos di Netflix è che una superstar è meglio di due persone ordinarie. Noi
seguiamo il suo esempio. Attualmente c’è un’enorme richiesta di bravi esperti di
user experience, quindi tenersi stretti i dipendenti è una grossa sfida (eliminare
la politica ferie aiuta). I membri del nostro team vengono contattati
costantemente su LinkedIn e molti professionisti nel nostro settore sono
millennial dal piede lesto che amano i cambiamenti. Le ferie illimitate sono facili
da attuare: dovete solo creare un ambiente all’insegna della fiducia. Il nostro
viene costruito attraverso tre regole della compagnia: 1) agite sempre
nell’interesse dell’azienda; 2) non fate mai nulla che renda più difficile per gli
altri raggiungere i propri obiettivi; 3) fate tutto il possibile per raggiungere i vostri
obiettivi. A parte questo, quando si tratta di prendersi le ferie, il personale può
fare qualsiasi cosa voglia.

Un’altra compagnia, la Mammoth, ha scoperto qualcosa di


interessante quando ha deciso di adottare la politica di Netflix in via
sperimentale e valutare le reazioni. Il CEO Nathan Christensen ha
scritto:
Siamo un’azienda piccola e ci è piaciuta l’idea di una politica che esprime
fiducia nei nostri dipendenti e riduce la burocrazia. Abbiamo concordato di
provarla per un anno e poi rivalutare la cosa. Nel corso dell’anno la politica è
diventata uno dei benefit più apprezzati dai nostri dipendenti. In un sondaggio
da noi condotto poco prima di raggiungere il termine prefissato di un anno i
nostri impiegati hanno collocato le ferie illimitate al terzo posto fra i benefit che
offriamo, subito dietro l’assicurazione sanitaria e il piano pensionistico. Hanno
battuto l’assicurazione per la vista, l’assicurazione dentistica e persino lo
sviluppo professionale, che comunque occupavano ancora posizioni elevate.

I dipendenti di Christensen hanno apprezzato molto il benefit,


eppure non ne hanno approfittato: «Sotto la nuova politica hanno
preso grossomodo lo stesso numero di giorni di ferie di quelli presi
l’anno precedente (in media quattordici, con la maggior parte dei
nostri dipendenti che si è preso fra i dodici e i diciannove giorni
liberi)».
Netflix non tiene il conto dei giorni di ferie, quindi non esistono dati
su quanti i dipendenti ne stiano prendendo, ma una persona ha
cercato di indagare. Nel 2007 un giornalista del «Mercury News» di
San Jose, Ryan Blitstein, ha condotto una ricerca sull’argomento.
Una mattina è arrivato in ufficio, eccitato all’idea di fare uno scoop.
Sarebbe stato un articolo sulla Bay Area da prima pagina: La folle
politica ferie di Netflix! Ha chiesto a Patty: «Le persone si prendono
mesi di vacanza per andare a esplorare luoghi esotici? Riuscite
comunque a svolgere del lavoro?». Invece di rispondere lei ha
mandato un’e-mail ai dipendenti dicendo: «Sentitevi liberi di
chiacchierare con il giornalista che si aggira per l’ufficio». Blitstein è
rimasto seduto in mensa facendo una miriade di domande ai
dipendenti.
A fine giornata era avvilito. «Non c’è nessuna storia sensazionale
qui! Nessuno sta facendo qualcosa di insolito. Sa cosa mi hanno
detto i suoi dipendenti? Che adorano la politica ferie ma fanno le
vacanze come le hanno sempre fatte. Né più né meno. Non è affatto
uno scoop!»

Date libertà per ricevere responsabilità

Ho temuto chissà quali sconvolgimenti dopo che


abbiamo smesso di tenere il conto delle ferie, ma non
sono cambiate molte cose, a parte che le persone
sembravano più soddisfatte e che i nostri dipententi
più anticonformisti (come quella che voleva lavorare
ottanta ore la settimana per tre settimane di fila e poi
andare a visitare la tribù Yanomami nell’Amazzonia brasiliana),
apprezzavano in particolar modo la libertà. Avevamo trovato il modo
di dare ai nostri dipendenti altamente performanti un pizzico di
controllo in più sulla propria vita, e quel controllo faceva sentire tutti
un po’ più liberi. Vista la nostra alta densità di talento i nostri
dipendenti erano già coscienziosi e responsabili. Vista la nostra
cultura di sincerità se qualcuno abusava del sistema o approfittava
della libertà concessa altri glielo facevano notare direttamente e
spiegavano l’effetto indesiderabile delle sue azioni.
Più o meno nello stesso periodo è successo qualcos’altro che ha
rappresentato un’importante lezione. Sia Patty sia io notammo che le
persone sembravano mostrare un senso di proprietà leggermente
più spiccato, in ufficio. Si trattava solo di piccoli gesti, come il fatto
che qualcuno avesse iniziato a buttare via il latte nel frigorifero
quando andava a male.
Concedere più libertà ai dipendenti li aveva indotti a sentirsi
maggiormente padroni e a comportarsi in maniera più responsabile.
È a quel punto che Patty e io abbiamo coniato l’espressione «Libertà
e Responsabilità». Non è solo necessario possederle entrambe, una
conduce all’altra. Ho cominciato a rendermene conto. Libertà non è il
contrario di responsabilità come avevo pensato in precedenza, ma è
invece una strada che conduce fino a essa.
Tenendolo bene a mente ho cercato altre regole di cui potessimo
sbarazzarci. La politica trasferte e spese è stata quella successiva.
CONTINUATE A ELIMINARE I CONTROLLI…
3B.
ELIMINATE APPROVAZIONI PER TRASFERTE E SPESE

Nel 1995, prima di Netflix, uno dei direttori vendite di


Pure Software, Grant, entrò di corsa nel mio ufficio, le
orecchie rosso fiammanti, e sbatté la porta. Il nostro
manuale per i dipendenti affermava: Mentre si fa visita
a un cliente si può noleggiare un’auto o prendere un
taxi ma non entrambe le cose. «Ho noleggiato
un’auto! L’ufficio del cliente dista due ore di viaggio! Un taxi sarebbe
costato una fortuna. Quella era la cosa giusta da fare», spiegò.
«C’era un evento serale con un gruppo di clienti a quindici minuti dal
mio albergo, sapevo che tutti avrebbero bevuto così ho preso un
taxi. Adesso l’amministrazione non vuole rimborsarmi i quindici
dollari di taxi perché avevo un’auto a noleggio.» Era incavolato per
motivi di principio. «Avresti preferito che guidassi dopo aver
bevuto?!» Patty McCord e io passammo un’ora a cercare di capire
come renderci utili e riscrivere il manuale per future emergenze.
Qualche mese dopo, Grant diede le dimissioni. «Quando ho visto
come gli alti dirigenti passano il loro tempo ho perso fiducia
nell’azienda», affermò durante il colloquio di uscita.
Aveva ragione. A Netflix non volevo che nessuno perdesse tempo
con questo tipo di discussioni. E, cosa più importante, non volevo
che i nostri dipendenti di talento sentissero che regole insensate
stavano impedendo loro di usare il cervello per fare la cosa migliore.
Era un ottimo modo per uccidere le vibrazioni creative che rendono
innovativo un posto di lavoro.
Agli inizi di Netflix eravamo come ogni altra startup. Non c’erano
regole scritte che definissero chi poteva spendere quanto o in quali
alberghi alloggiare durante le trasferte. L’azienda era talmente
piccola che ogni acquisto importante veniva notato. I dipendenti
erano liberi di comprare ciò che serviva, ma se esageravano
qualcuno se ne accorgeva e correggeva il comportamento.
Nel 2004, però, eravamo una società quotata già da due anni. È
più o meno a quel punto che la maggior parte delle aziende comincia
a fissare politiche precise. Il nostro direttore finanziario, Barry
McCarthy, mi inviò un documento che illustrava la proposta di una
nuova politica spese e trasferte, che avrebbe rispecchiato il genere
di regole attualmente utilizzate dalla maggior parte delle aziende di
dimensioni medio-grandi. Elencava ogni genere di dettaglio: quali
livelli di manager potevano viaggiare in business class, quanto
poteva spendere ogni dipendente in articoli per l’ufficio senza
richiedere l’autorizzazione, le firme necessarie se si voleva comprare
qualcosa di costoso come un nuovo computer.
Avevamo da poco eliminato la politica ferie ed ero fermamente
contrario a introdurre qualsiasi nuovo processo di controllo.
Avevamo dimostrato che con i dipendenti giusti, un chiaro esempio
fornito dal management e una sufficiente creazione di contesto
potevamo cavarcela egregiamente anche senza tutte quelle regole.
Barry era d’accordo ma mi rammentò che avremmo dovuto stabilire
un contesto estremamente chiaro per aiutare i dipendenti a capire
come spendere i soldi della compagnia in modo oculato.
Convocai un meeting di tre giorni nella Half Moon Bay. L’ordine del
giorno prevedeva che discutessimo di come articolare linee guida di
spesa per i dipendenti in mancanza di una politica fissa.
Esaminammo una serie di casi. Alcuni erano chiarissimi. Se un
dipendente spedisce un pacco natalizio a un parente via FedEx non
dovrebbe far mandare il conto a Netflix. Ma trovammo ben presto
molte situazioni ambigue. Se Ted va a un party a Hollywood per
motivi di lavoro e compra una scatola di cioccolatini per il padrone di
casa, può addebitarla a Netflix? Se Leslie lavora da casa ogni
mercoledì, la carta per la sua stampante può essere considerata una
spesa di lavoro? E se sua figlia usa la stessa carta per un suo
saggio scolastico?
L’unica situazione su cui eravamo tutti d’accordo era che se un
dipendente deruba l’azienda dovrebbe perdere il posto, ma poi una
direttrice di nome Chloe disse: «Lunedì ho derubato l’azienda. Ho
dovuto lavorare fino alle undici di sera per finire un progetto. Non
avevo niente da dare ai miei figli per la colazione dell’indomani, così
ho preso quattro mini scatole di Cheerios dalla cucina». Be’, mi
sembrava ragionevole. Serviva solo a sottolineare perché fissare
regole e politiche non può mai funzionare davvero bene. La vita
reale presenta di gran lunga più sfumature di quelle che qualsiasi
politica potrebbe mai prendere in considerazione.
Proposi di chiedere semplicemente alle persone di spendere in
maniera frugale. I dipendenti dovrebbero riflettere attentamente
prima di comprare qualcosa, proprio come farebbero con il proprio
denaro. Scrivemmo quindi la nostra prima linea guida in merito alle
spese:

SPENDETE I SOLDI DELL’AZIENDA COME SE FOSSERO I VOSTRI

Ero molto soddisfatto. Ero frugale con i miei soldi e frugale con
quelli dell’azienda e presumevo che gli altri fossero come me, ma si
scoprì che non tutti erano altrettanto tirchi, e l’ampia varietà degli stili
di spesa fonte di problemi. Ecco un esempio fornito da David Wells,
che è entrato nel nostro gruppo come vice president of finance
proprio nel mezzo di queste discussioni nel 2004 e in seguito è stato
il nostro chief finance officer dal 2010 al 2019.
Sono cresciuto in una fattoria in Virginia in fondo a un miglio di strada sterrata,
piuttosto isolata e fuori mano. Il mio cane Starr e io passavamo le giornate
dando la caccia a coleotteri e giocando con i bastoncini sui duecento acri di
bosco che circondavano casa mia.
Non sono nato con la camicia e non ho bisogno di lussi. Quando Reed ha detto
di viaggiare come farei con i miei soldi per me significava viaggiare in classe
economica e alloggiare in alberghi modesti. Lavoro nel settore finanze e quello
mi sembrava fiscalmente responsabile.
Poco dopo l’introduzione della nuova politica fu organizzato un leadership
meeting in Messico. Salii sull’aereo e mentre mi dirigevo verso il mio posto in
classe economica vidi l’intero Netflix content team seduto in prima classe, a
rilassarsi con comode ciabattine da aereo. Quelli erano posti costosi e il volo da
Los Angeles a Città del Messico dura solo poche ore. Andai a salutarli e alcuni
di loro parvero imbarazzati. Ma è proprio questo il punto: non erano imbarazzati
perché viaggiavano in prima classe, erano imbarazzati per me, per il fatto che
un alto dirigente dell’azienda fosse seduto in economica!
Capimmo rapidamente che in realtà «Spendete i soldi dell’azienda
come se fossero i vostri» non rappresentava il modo in cui volevamo
che si comportassero i nostri dipendenti. Uno dei vicepresidenti, un
certo Lars, che riceveva uno stipendio consistente, scherzava
sempre sul fatto che a causa del suo amore per il lusso spendeva
quasi tutto quello che guadagnava. Il modo di spendere che
accompagna uno stile di vita di quel genere non è ciò a cui
miravamo.
Così semplificammo ulteriormente le linee guida su spese e
trasferte. Ancora oggi la totalità della politica trasferte e spese è
rappresentata da queste cinque semplici parole:

AGISCI NEL MIGLIOR INTERESSE DI NETFLIX

Così funziona meglio. Non è nell’interesse di Netflix che l’intero


content team viaggi in business class da Los Angeles al Messico.
Ma se dovete prendere un volo notturno da Los Angeles a New York
e tenere una presentazione l’indomani mattina sarebbe
probabilmente nell’interesse di Netflix se viaggiaste in business, così
da non avere le borse sotto gli occhi e non farfugliare quando arriva
il grande momento.

Cosa potrebbe essere più allettante della possibilità di


spendere soldi che non sono vostri per comprare cose
che avvantaggiano voi e il vostro lavoro in qualsiasi
modo riteniate opportuno?
Pensate a tutte le possibilità. Fate un viaggio in
Thailandia per fare visita ai vostri colleghi e
partecipare ad alcuni meeting. Il clima di Bangkok vi gioverà e i
massaggi sono straordinari. Potreste sostituire la valigia cui si è rotta
una rotella durante il vostro ultimo viaggio di lavoro: quelle valigie
Tumi costano un occhio! Naturalmente di solito le aziende non
pagano i bagagli, ma è chiaramente a causa del viaggio di lavoro
che la valigia si è rotta, quindi la cosa si può giustificare.
D’altra parte, se siete il proprietario dell’azienda la stessa linea
guida di cinque parole potrebbe causarvi un’inattesa eruzione
cutanea. Permettere ai vostri dipendenti di andarsene in giro
spendendo i soldi della compagnia in qualsiasi modo vogliano,
senza richiedere autorizzazioni? È destinato a rivelarsi costoso,
potrebbe addirittura portare l’azienda alla bancarotta. Naturalmente
alcune persone sono oneste e frugali, ma la maggior parte cerca
sempre il modo di massimizzare il profitto personale.
Questa non è una semplice intuizione dettata dal pessimismo. Gli
studi dimostrano che più della metà della popolazione è pronta a
truffare il sistema per ottenere di più, se pensa che non verrà
scoperta.
Gerald Prucker, un ricercatore dell’Università di Linz, e Rupert
Sausgruber dell’Università di Economia di Vienna hanno condotto
uno studio per scoprire come avrebbero reagito le persone proprio in
uno scenario di questo tipo. Hanno messo in vendita dei quotidiani in
un distributore non sorvegliato. Il prezzo era chiaramente indicato e i
passanti che prendevano una copia avrebbero dovuto infilare i soldi
in una fessura. C’era un messaggio che sollecitava le persone
all’onestà. Circa due terzi di coloro che hanno preso il giornale non
l’hanno pagato. Sono un sacco di persone disoneste; sarebbe da
ingenui pensare che per voi lavori soltanto il terzo onesto.
Per quanto tutto questo possa suonare allettante e terrificante, il
mondo delle spese di Netflix è molto diverso dall’esperimento con i
quotidiani. E non è nemmeno divertente né spaventoso come
potreste immaginare. Questo a causa del contesto fissato
preventivamente e dei controlli effettuati in un secondo tempo. I
dipendenti dispongono di parecchia libertà nel decidere
autonomamente come spendere i soldi dell’azienda, ma non per
questo a Netflix regna il caos.

Fissate un contesto preventivo e controllate le spese


alla fine

I nuovi assunti a Netflix sono ansiosi di capire per


cosa dovrebbero o non dovrebbero spendere il denaro
e noi forniamo loro il contesto per fare scelte sagge.
Durante i suoi dieci anni come chief finance officer,
David Wells ha fissato il primo livello di contesto per le
future matricole del nostro «College dei nuovi dipendenti». Ha
illustrato la cosa nel modo seguente:
Prima di spendere del denaro immaginate che in futuro vi venga chiesto di stare
in piedi di fronte a me e al vostro capo per spiegare come mai avete scelto di
comprare proprio quel volo, il soggiorno in quell’albergo o quel cellulare. Se
siete in grado di spiegare senza il minimo imbarazzo perché quell’acquisto sia
nel miglior interesse dell’azienda allora non c’è bisogno di chiedere, procedete e
comprate. Ma se capite che vi sentireste leggermente a disagio nello spiegare
la vostra scelta lasciate perdere l’acquisto, consultate il vostro capo o scegliete
qualcosa di più economico.

Ecco cosa intendo con «contesto preventivo». La simulazione


mentale proposta da David non è un semplice esercizio di fantasia.
Se non state attenti con le spese probabilmente DOVRETE spiegarle.
A Netflix non è necessario compilare un ordine d’acquisto e
aspettare l’approvazione per comprare qualcosa. La comprate,
scattate una foto alla ricevuta e la presentate direttamente per il
rimborso. Ma questo non significa che nessuno badi a quanto
spendete. Il team finanze propone due tecniche alternative per
sradicare le spese non oculate. I manager possono scegliere quale
delle due seguire oppure possono abbinarle. Il primo metodo si
ispira all’etica di Libertà e Responsabilità («Freedom &
Responsibility», «F&R»), il secondo non cerca compromessi.
Ecco come funziona la cosa se il manager decide di ispirarsi a
F&R. A fine mese ogni manager riceve dal team finanze un link che
elenca tutte le ricevute per dipendente del periodo e può cliccare
sulle spese ed esaminarle per capire quanto ha speso ognuno. Patty
McCord, che ha scelto questa opzione mentre lavorava per Netflix, il
30 di ogni mese apriva diligentemente l’e-mail del settore finanze e
riesaminava con cura le spese di tutti i dipendenti del dipartimento
delle risorse umane. Spesso scopriva che le persone stavano
davvero spendendo troppo. Racconta un episodio del 2008 che ha
coinvolto Jaime, una reclutatrice del suo team:
Nel tardo pomeriggio di un venerdì mi stavo preparando a tornare a casa
quando un paio di ragazzi del settore prodotti sono venuti a prendere Jaime per
andare al Dio Deka, l’elegante ristorante greco con stella Michelin nella Silicon
Valley. «Andate a bere qualcosa insieme?» chiesi. Ma lei rispose: «No, andiamo
a fare un meeting con cena».
Il mese seguente, quando ricevetti l’elenco spese del mio team, vidi una
ricevuta del Dio Deka per 400 dollari presentata da Jaime. Lo trovai strano.
«Ehi, Jaime», chiesi, «questa è la ricevuta di quando sei uscita con i ragazzi del
settore prodotti qualche settimana fa?» Lo era! Lei spiegò che John aveva
ordinato una bella bottiglia di vino. «John e Greg amano il buon vino.» La cosa
mi fece andare su tutte le furie!
«Se quei ragazzi vogliono bere bottiglie di vino da cento dollari possono
benissimo farlo!» dissi. «Ricevono uno stipendio abbastanza alto da potersele
pagare da soli!»

A quel punto Patty fissò il contesto che Jaime aveva bisogno di


sentirsi spiegare.
«Puoi spendere questo genere di somma portando fuori a cena un candidato. E
se lui ordina una bottiglia di buon vino va benissimo. Fa parte del tuo lavoro. Ma
in questo caso abbiamo pagato perché voi beveste e cenaste fuori a spese
dell’azienda. È assurdo! Se vuoi andare a divertirti con i colleghi paghi tu. Se ti
serve un posto per un meeting prendi una sala riunioni. Questo comportamento
non è stato nell’interesse di Netflix! Usa il buon senso.»

Di solito dopo un paio di conversazioni che chiariscono il contesto


i vostri dipendenti capiranno come spendere oculatamente i soldi e
la cosa finirà lì. Quando i dipendenti si rendono conto che i manager
tengono d’occhio le spese probabilmente non testeranno troppo i
limiti. Questo è un modo di limitare le spese, ma molti manager di
Netflix preferiscono una versione più radicale di libertà e
responsabilità.
Per i dirigenti non disposti ai compromessi esiste un’altra strada,
che consiste nell’eliminare la trafila amministrativa di esaminare le
ricevute e lasciare al nostro reparto di revisione contabile interna il
compito di individuare eventuali abusi. Ma se gli abusi saltavano
fuori, per il dipendente in questione era finita.
Ecco come lo spiega Leslie Kilgore:
Il mio team marketing era perennemente in viaggio. Sceglieva autonomamente i
voli e gli hotel. Esaminai con loro un certo numero di possibili scenari per aiutarli
a fare scelte di spesa oculate. Se viaggiate in aereo di notte e dovete essere
operativi l’indomani mattina ha senso volare in business. Volare in economica
durante la notte per risparmiare denaro arrivando un giorno in anticipo è una
scelta migliore e Netflix pagherà la notte extra in hotel. Non è quasi mai
nell’interesse di Netflix che voliate in business per viaggi brevi.
Dissi che non avrei mai esaminato le loro note spese ma che il settore finanze
controlla il 10 per cento di tutte le spese ogni anno. Confido nella loro capacità
di comportarsi in modo frugale e meditato con i soldi della compagnia e se il
settore finanze riscontra irregolarità il dipendente viene subito licenziato. Non si
tratta di un avvertimento ma di «abusate della libertà e siete fuori», e in più
verrete usati come esempio di cosa non bisogna fare.

È questo il fulcro di F&R. Se i vostri dipendenti scelgono di


abusare della libertà che concedete loro dovete licenziarli e
licenziarli rumorosamente, in modo che gli altri capiscano le
conseguenze. In assenza di questa prassi la libertà non funziona.

Alcune persone imbroglieranno, ma i guadagni sono


superiori
alle perdite

Quando offrite la libertà, persino se stabilite un


contesto e chiarite le conseguenze dell’illecito una
ristretta percentuale di persone imbroglierà. Quando
succede non reagite in maniera eccessiva e non
fissate altre regole, limitatevi a gestire la situazione
singola e andate avanti.
Netflix ha avuto i suoi imbroglioni. Il caso più discusso ha
riguardato un dipendente di Taiwan che faceva parecchi viaggi di
lavoro e infilava fra di essi numerose vacanze di lusso a spese
dell’azienda. Il suo manager non controllava le sue ricevute e il
settore finanze non esaminò le sue spese per tre anni interi. Quando
infine fu scoperto aveva già speso più di centomila dollari per viaggi
personali. Inutile dire che fu licenziato.
Nella maggior parte dei casi i dipendenti non stanno tanto
truffando l’azienda quanto cercando di scoprire fin dove possono
spingersi. Il vice president of corporate operartions, Brent Wickens, è
responsabile di tutte le sedi dell’azienda sparse per il mondo. Una
primavera un membro del suo team, Michelle, fece diversi viaggi di
lavoro a Las Vegas. Brent faceva controlli a campione sulle spese
del suo dipartimento, ma solo poche volte l’anno.
Una notte non riuscivo a dormire così cliccai sul link dell’e-mail intitolata Spese
del dipartimento suddivise per dipendente. Diedi una rapida scorsa a un gruppo
di persone del mio team e saltò fuori qualcosa di insolito. Michelle aveva una
spesa di viaggio indicata come Cibo e drink presso il casinò Wynn di Las Vegas
per 1200 dollari. Erano parecchio cibo e parecchi drink per un viaggio di due
giorni! Così mi incuriosii e cominciai a esaminare le sue spese degli ultimi mesi.
Vidi diverse piccole voci che non sembravano regolari. Era andata a Boston per
un convegno, un giovedì, e aveva passato il weekend con la sua famiglia. Il
venerdì sera c’era una spesa al ristorante di 180 dollari. Aveva addebitato
all’azienda la sua cena di famiglia?
Aspettai che fossimo entrambi in ufficio prima di chiederle notizie di quegli
addebiti. Ma quando lo feci Michelle rimase impietrita. Non aveva nessuna
spiegazione. Nessuna scusa, nessun pretesto, niente da dire. La settimana
seguente la licenziai. Mentre metteva le sue cose negli scatoloni continuava a
ripetere che si trattava solo di un grosso errore. Mi sentivo malissimo e
continuavo a non capire bene cosa fosse successo. È andata a fare una
splendida carriera altrove. La libertà che offriamo non era adatta a lei.

Durante il successivo Quarterly Business Review (QBR), il meeting


consultivo trimestrale riservato ai dirigenti, la chief talent officer di
Netflix dell’epoca salì sul palco per raccontare la storia di Michelle ai
trecentocinquanta partecipanti, illustrando dettagliatamente l’illecito
senza però citare il nome o il dipartimento della donna. Chiese agli
astanti di riferire la vicenda ai rispettivi team in modo che tutti
capissero la gravità di questa condotta. Netflix porta alla luce questi
episodi in modo che altri possano trarne una lezione. Brent si sentiva
male per Michelle, ma capiva l’importanza di raccontare a tutti quello
che era successo. Senza questo grado di trasparenza, l’assenza di
approvazioni sui rimborsi spese non funziona.
La spesa più cospicua che deriva dalla libertà è probabilmente
rappresentata dal numero di persone che scelgono di volare in
business class. Netflix è teatro di dibattiti sull’opportunità di fissare
una politica che limiti i voli in business, ma gli alti dirigenti continuano
a preferire l’approccio attuale. David Wells, mentre era chief finance
officer, ha stimato che le spese di viaggio superano di circa il 10 per
cento quelle che si avrebbero se Netflix usasse un sistema di
approvazione formale. Ma secondo Reed quel 10 per cento è un
piccolo prezzo da pagare per i rilevanti guadagni che lo
accompagnano.

Grandi guadagni: gratuito, rapido e


(sorprendentemente)
parsimonioso

Ricordate Grant, il direttore vendite dei tempi di Pure


Software? Quando venne a lamentarsi della sua
ricevuta per il taxi era arrabbiato. Aveva l’impressione
che l’azienda gli avesse tarpato le ali con tutta quella
burocrazia, non riusciva a fare ciò che per lui era
giusto senza sentirsi frenato da una regola o una
procedura.
Mentre parlava mi resi conto che il problema riguardava tutta la
nostra forza lavoro. Immaginai le nostre centinaia di dipendenti come
passerotti desiderosi di volare, con enormi fasci di scartoffie che
ancoravano le loro ali alle scrivanie. Non era certo stata mia
intenzione uccidere la creatività e velocità dei dipendenti con la
burocrazia. Le procedure di spesa erano semplicemente sembrate
un valido modo di minimizzare i rischi e risparmiare soldi.
Ma è questo il messaggio più importante del presente capitolo:
anche se i vostri dipendenti spendono un po’ di più quando
concedete loro una certa libertà, il costo è comunque inferiore a
quello di avere un posto di lavoro dove non possono volare. Se
limitate le loro scelte costringendoli a mettere le crocette alle caselle
e chiedere l’autorizzazione non solo li esaspererete ma vi perderete
la velocità e la flessibilità che scaturiscono da un ambiente con uno
scarso livello di regole. Uno dei miei esempi preferiti risale al 2014,
quando un ingegnere assunto da poco notò un problema che
andava risolto.
La mattina di venerdì 8 aprile Nigel Baptiste, director of partner
engagement, arrivò all’ufficio di Netflix nella Silicon Valley alle 8.15
del mattino. Era una tiepida giornata di sole e Nigel fischiettava
mentre prendeva una tazza di caffè nella cucina al quarto piano per
poi tornare verso l’area dove lui e il suo team testano lo streaming di
Netflix su televisori prodotti da partner ufficiali come Samsung e
Sony. Ma quando arrivò al suo spazio di lavoro smise di fischiettare
e rimase impietrito. Quello che vide, o meglio non vide, lo gettò nel
panico. Ecco come ricorda l’episodio:
Netflix aveva investito una somma ragguardevole affinché i nostri clienti
potessero guardare House of Cards sui nuovi televisori 4K a ultra alta
definizione. Il problema era che fino a quel momento nessun televisore
supportava il 4K. Avevamo questo nuovo look supernitido, ma pochi potevano
vederlo. Il nostro partner Samsung aveva lanciato l’unico televisore 4K
attualmente sul mercato. Era un apparecchio costoso e non era chiaro se i
clienti l’avrebbero comprato. Il mio grosso obiettivo di quell’anno era collaborare
con Samsung per indurre una miriade di persone a guardare House of Cards in
4K.
Avevamo avuto un piccolo colpo di fortuna con i media quando il giornalista
Geoffrey Fowler, che all’epoca recensiva i prodotti high-tech per il «Wall Street
Journal» e contava circa due milioni di lettori, aveva accettato di testare House
of Cards sul nuovo televisore Samsung. La sua recensione avrebbe dovuto
essere fantastica perché il 4K decollasse. Giovedì gli ingegneri di Samsung
erano venuti nei nostri uffici con il televisore 4K e lo avevano controllato con i
miei per assicurarsi che il signor Fowler vivesse un’esperienza di visione
superlativa. Giovedì sera, testato l’apparecchio, eravamo andati tutti a casa.
Ma venerdì mattina, quando arrivai in ufficio, il televisore era scomparso. Dopo
le opportune verifiche interne capii che lo avevano gettato via insieme a una
serie di vecchi apparecchi che avevamo chiesto loro di eliminare.
Il problema era grave. Il televisore doveva arrivare nel salotto di Fowler entro
due ore. Era troppo tardi per chiamare quelli di Samsung. Avremmo dovuto
comprarne un altro entro le 10. Cominciai a telefonare a ogni negozio di
elettronica in città. Nei primi tre casi mi risposero: «Mi spiace, signore, non
abbiamo quel televisore». Il cuore mi martellava in gola. Non saremmo riusciti a
rispettare la scadenza.
Ero quasi in lacrime quando Nick, l’ingegnere con meno anzianità del nostro
team, arrivò di corsa in ufficio. «Niente paura, Nigel», disse. «Ho risolto tutto.
Ieri sera sono venuto qui e ho visto che il televisore era stato portato via. Non
hai risposto alle mie telefonate e ai messaggi, così sono andato al Best Buy di
Tracy, ho comprato lo stesso televisore e l’ho testato stamattina. È costato
duemilacinquecento dollari, ma ho pensato che fosse la cosa giusta da fare.»
Sono rimasto senza parole. Duemilacinquento dollari! Provate a immaginare un
giovane ingegnere che si sente autorizzato a spendere una cifra del genere
senza autorizzazione perché pensa che sia la decisione giusta. Fui assalito da
un’ondata di sollievo. Date tutte le politiche che richiedono molteplici firme una
cosa del genere non sarebbe mai potuta succedere a Microsoft, a HP o in
qualsiasi altra compagnia in cui io abbia lavorato.

Alla fine Fowler adorò lo streaming in alta definizione e nel suo


articolo pubblicato il 16 aprile sul «Wall Street Journal» scrisse: «In
ultra alta definizione persino l’imperturbabile Francis Underwood
suda. Ho notato il velo di sudore sul labbro superiore del
vicepresidente interpretato da Kevin Spacey mentre guardavo in
streaming House of Cards di Netflix».
Non voglio regole che impediscano ai dipendenti di prendere
tempestivamente decisioni sagge. La recensione di Fowler ha avuto
sia per Netflix sia per Samsung un valore centinaia di volte superiore
al costo di quel televisore. Nick ha avuto solo cinque parole per
guidare le sue azioni: «Agite nell’interesse di Netflix». E quella libertà
gli ha permesso di usare la propria capacità di giudizio per fare ciò
che era giusto per la compagnia. Ma la libertà non è l’unico
vantaggio dell’eliminare la politica spese. Il secondo è che la
mancanza di procedure accelera ogni cosa.

Man mano che le aziende crescono trasformandosi da


rapide e flessibili startup in organizzazioni mature,
creano spesso interi uffici per monitorare le spese dei
dipendenti, il che dà al management un senso di
controllo ma rallenta ogni cosa. Il director of product
innovation Jennifer Nieva fornisce un esempio
eloquente che risale ai tempi in cui lavorava alla Hewlett-Packard:
Mi piaceva lavorare alla HP ma in quella settimana del 2005 ero talmente
esasperata che mi usciva praticamente il fumo dalle orecchie.
Mi avevano chiesto di dirigere un grosso progetto ed era sottinteso sin dall’inizio
che avrei avuto bisogno di trovare vari consulenti esterni altamente specializzati
che collaborassero con me per sei mesi. Esaminai otto agenzie di consulenze e
ne scelsi una. Mi fecero un preventivo di duecentomila dollari per i sei mesi di
lavoro e non vedevo l’ora di cominciare. In quel momento i consulenti erano
disponibili, ma se avessi aspettato troppo a lungo sarebbero stati assegnati a un
altro cliente.
Seguii la procedura e inviai una richiesta di approvazione spesa all’ufficio
acquisti della HP, poi controllai il tutto. C’erano ben venti persone che avrebbero
dovuto apporre la loro firma prima che io potessi iniziare. Il mio capo, il capo del
mio capo, il capo del capo del mio capo, ma anche più di una dozzina di nomi
che non avevo mai sentito, persone che scoprii ben presto trovarsi nel nostro
ufficio acquisti di Guadalajara, in Messico.
Avrei perso i consulenti che avevo impiegato così tanto a trovare? Il mio capo
firmò, il suo capo e il capo del suo capo anche. Poi cominciai a telefonare al
reparto acquisti, prima ogni giorno e in seguito ogni ora. La maggior parte delle
volte non rispondeva nessuno. Alla fine chiamai una donna di nome Anna. Era
l’unica persona che rispondesse regolarmente al telefono, quindi sfoderai tutto il
mio fascino per convincerla ad aiutarmi. Ottenere l’autorizzazione richiese sei
settimane e io chiamai Anna così tante volte che, quando fece il passo
successivo nella sua carriera, mi chiese di scriverle una raccomandazione su
LinkedIn.

Pensate all’impatto sulla velocità organizzativa del fatto di avere


centinaia, forse migliaia di Jennifer che affrontano gli stessi ostacoli
ogni mese. La storia ha una seconda parte, più soddisfacente:
Nel 2009 sono entrata a Netflix come marketing manager. Dopo tre mesi ho
approntato una campagna di direct mailing da tre milioni di pezzi. Si era ai tempi
dei DVD e avremmo usato la posta ordinaria per inviare brochure con le foto dei
nostri film più popolari. Il progetto aveva un costo di base di quasi un milione di
dollari. Stampai il modulo d’ordine e cercai il mio capo. «Steve, come posso
avviare la procedura di approvazione per questa spesa di un milione?» chiesi
preparandomi psicologicamente al peggio. «Firmi il documento e lo rimandi via
fax al fornitore», mi rispose. Non sto scherzando. Rischiai di svenire.

Grazie agli esempi di Nigel e Jennifer possiamo vedere come una


semplice linea guida quale «Agite nell’interesse della compagnia»
fornisca ai vostri dipendenti sia la libertà di scelta sia la capacità di
muoversi rapidamente. Ma libertà e velocità non sono gli unici
benefici. Un terzo e più sorprendente vantaggio è che quando viene
eliminata la politica spese alcuni dipendenti spendono meno.
Claudio, un direttore dell’ufficio consumer insight che lavora a
Hollywood, ha fornito un esempio che ne illustra il motivo:
Il mio ruolo richiede di intrattenere i clienti. A Viacom, il mio posto di lavoro
precedente, esisteva una chiara procedura che spiegava in quale tipo di
ristoranti potevamo portarli, chi doveva pagare cosa e quanti alcolici l’azienda
era disposta a rimborsare. La cosa mi piaceva, mi dava la sicurezza di stare
rispettando le regole. La regola prevedeva che mentre cenavo con un cliente
potevo pagare solo la prima bottiglia di vino, così all’inizio del pasto dicevo:
«Viacom offre la cena e la prima bottiglia di vino, dopo di che ognuno paga i
propri drink». Conoscendo la regola a volte potevamo spendere fino al limite
ordinando aragosta e una bottiglia di vino particolarmente costosa. Ma la regola
era ben chiara sin dall’inizio, quindi potevamo adattarci.
Dopo poche settimane a Netflix mi stavo preparando per la mia prima cena con
un cliente. «Qual è la procedura spese per i pasti con i clienti?» chiesi alla mia
manager, Tanya. La sua risposta fu esasperante: «Non c’è nessuna politica.
Usa il buon senso. Agisci nell’interesse di Netflix». Ebbi l’impressione che
volesse mettere alla prova la mia capacità di giudizio.
Ero deciso a dimostrarle quanto potevo essere frugale. Ordinai una delle cene
più economiche sul menu e decisi di bere soltanto una birra (meno costosa del
vino). Al termine del pasto, quando vidi che i clienti si stavano preparando per
un giro di drink, trovai una scusa, pagai il conto e augurai la buonanotte. Non
avevo certo intenzione di pagare la loro baldoria.
Con il passare del tempo ho capito che Tanya non stava affatto cercando di
mettermi alla prova. Non controlla affatto le mie ricevute. Ma senza una regola
fissa non sai mai quando la tua capacità di giudizio verrà messa in dubbio. Mi
sento più sicuro attenendomi alla pratica di ordinare con prudenza che ho usato
quella prima sera. Niente aragosta né vino costoso.

La storia di Claudio dimostra il bizzarro impatto delle regole.


Quando le fissi, alcuni cercheranno con impegno un modo per
approfittarne. Se Viacom dicesse ai dipendenti: «Ordinate un solo
antipasto, una sola portata principale e una sola bottiglia di vino ogni
due persone», loro potrebbero ordinare caviale, aragosta e una
bottiglia di champagne. Rispetterebbe le regole ma sarebbe molto
costoso. Quando dite alle persone di agire nell’interesse
dell’azienda, ordinano Caesar salad, petto di pollo e un paio di birre.
L’azienda con procedure prestabilite non è necessariamente quella
che risparmia denaro.

Il terzo puntino

Una volta che avete una forza lavoro composta quasi


esclusivamente da persone altamente performanti
potete contare sul fatto che i dipendenti si comportino
in maniera responsabile. Una volta che avete
sviluppato una cultura di sincerità si daranno una
mano a vicenda e si assicureranno che le azioni dei
compagni di squadra siano in linea con gli interessi dell’azienda. A
quel punto potete cominciare a eliminare i controlli e concedere più
libertà. Potreste iniziare eliminando le politiche relative a ferie,
trasferte e spese. Questi elementi concedono alle persone un
maggiore controllo sulla propria vita e trasmettono il forte messaggio
che confidate nella capacità dei dipendenti di fare ciò che è giusto.
La fiducia che offrite instillerà a sua volta un senso di responsabilità
nella forza lavoro, portando tutti a provare un maggiore senso di
appartenenza.
▶ CONCETTI CHIAVE DEL CAPITOLO 3A
(FERIE)

Quando eliminate la politica ferie spiegate che non c’è alcun bisogno di
chiedere un’autorizzazione preventiva e che né i dipendenti né i manager
sono obbligati a tenere il conto dei giorni che passano fuori dall’ufficio.
Spetta solo al dipendente decidere se e quando desidera prendersi qualche
ora, un giorno, una settimana o un mese di vacanza.
Quando eliminate la politica ferie questo lascia un vuoto. A riempirlo è il
contesto che il capo fornisce al team. È necessario intavolare parecchie
conversazioni, mostrando ai dipendenti come prendere le decisioni relative
alle ferie.
L’esempio dato dal manager fungerà da guida di comportamento per i propri
dipendenti. Un ufficio senza politica ferie ma con un capo che non ne fa mai
avrà per risultato un ufficio che non va mai in vacanza.

▶ CONCETTI CHIAVE DEL CAPITOLO 3B


(TRASFERTE E SPESE)

Quando eliminate la politica trasferte e la politica spese incoraggiate i


manager a fissare preventivamente un contesto su come spendere denaro e
a controllare le ricevute degli impiegati in un secondo tempo. Se le persone
spendono troppo fissate più contesto.
Se rinunciate ai controlli sulle spese sarà necessario che il vostro
dipartimento finanze esamini ogni anno una certa percentuale di ricevute.
Quando scoprite degli illeciti, procedete al licenziamento e parlate
apertamente dell’illecito, persino quando l’interessato o l’interessata sono
straordinariamente performanti sotto altri aspetti. Questo è necessario per far
sì che gli altri capiscano le conseguenze di un comportamento
irresponsabile.
Con la libertà alcuni costi potrebbero aumentare, ma il prezzo di questo
incremento non è nemmeno lontanamente paragonabile ai guadagni che la
libertà garantisce.
Con la libertà di spesa i dipendenti saranno in grado di prendere decisioni
rapide per spendere soldi in modo da favorire l’azienda.
Senza i costi in termini di tempo e quelli amministrativi associati agli ordini di
acquisto e alle relative procedure sprecherete meno risorse.
Molti dipendenti reagiranno alla loro nuova libertà spendendo meno di quanto
farebbero in un sistema con regole fisse. Quando dite alle persone che vi
fidate di loro, vi dimostreranno quanto sono affidabili.

Verso una cultura di libertà e responsabilità


L’estate successiva alla nostra riuscita eliminazione della politica ferie mi stavo
preparando a una gara di corsa con il figlio undicenne di Patty McCord, Tristan.
Mentre ci allenavamo correndo lungo la costa di Santa Cruz mi ritrovai a riflettere
sulla mia esperienza di dieci anni prima a Pure Software.
Durante i primi due anni eravamo un piccolo gruppo che lavorava senza regole né
politiche fisse, ma nel 1996, in gran parte grazie ad acquisizioni, eravamo già
arrivati ad avere settecento dipendenti. Quando ne assumevamo di nuovi alcuni di
loro agivano in modo irresponsabile, facendoci perdere denaro. Reagimmo come
fa la maggior parte delle aziende: introducemmo politiche per controllare il
comportamento delle persone. Ogni volta che acquisivamo un’azienda, Patty
prendeva il loro manuale e il nostro e li fondeva.
Tutte queste regole fecero sì che andare a lavorare fosse meno divertente, e i
nostri dipendenti dallo spirito più libero, che erano anche i più innovativi,
lasciarono la Pure Software preferendo ambienti lavorativi più imprenditoriali.
Quanti scelsero invece di restare privilegiavano la familiarità e la continuità.
Appresero il rispetto delle politiche come massima virtù. Durante quelle lunghe
corse con Tristan mi resi conto che a Pure Software, senza pensarci troppo,
avevamo reso l’ambiente di lavoro a prova di tonti. Il risultato fu che soltanto i tonti
volevano lavorarci (be’, non proprio tonti, ma avete capito cosa voglio dire).
Quell’estate mi resi conto che Netflix era arrivata al punto in cui avrebbe
probabilmente imboccato la stessa strada di Pure Software, se non avessimo
contrastato attivamente la cosa. L’azienda si stava ingrandendo ed era sempre più
difficile per i nostri capi tenere conto di cosa stavano facendo tutti. Normalmente
quello sarebbe stato il momento di introdurre più politiche e procedure di controllo
allo scopo di affrontare la complessità che accompagna la crescita. Ma dopo il
successo dei nostri esperimenti con la politica ferie e con quella spese cominciai a
chiedermi se non potevamo invece fare l’esatto contrario. C’erano altre regole di
cui potevamo fare a meno? Invece di aumentare il controllo sui dipendenti mentre
ci ingrandivamo, potevamo incrementare la loro libertà?
Decidemmo che, invece di inserire più regole e procedure, avremmo fatto altre
due cose:

1. Avremmo trovato nuovi modi per aumentare la densità di talento. Allo scopo
di attirare e trattenere le persone migliori avremmo dovuto assicurarci di
offrire le forme di retribuzione più allettanti.
2. Avremmo trovato nuovi modi per aumentare la sincerità. Se volevamo
eliminare i controlli avremmo dovuto assicurarci che i nostri dipendenti
disponessero di tutte le informazioni necessarie per prendere decisioni valide
senza la supervisione dei dirigenti. Questo avrebbe richiesto di aumentare la
trasparenza organizzativa ed eliminare i segreti aziendali. Se volevamo che i
dipendenti prendessero autonomamente decisioni valide, avrebbero dovuto
essere a conoscenza tanto quanto le persone ai vertici cosa stava
succedendo nell’attività.
Questi due punti rappresentano gli argomenti dei prossimi due capitoli.
P.S. In gara Tristan mi ha fatto mangiare la polvere.
SEZIONE DUE
PASSI SEGUENTI VERSO
UNA CULTURA DI LIBERTÀ E RESPONSABILITÀ
Aumentate la densità di talento…
4 ▶ Pagate il massimo livello retributivo
per ciascun individuo

Aumentate la sincerità…
5 ▶ Aprite i registri contabili

Ora eliminate altri controlli…


6 ▶ Non servono approvazioni per decidere

Nella prossima sezione porteremo a un livello più profondo il processo di


creazione di una cultura di libertà e responsabilità. Nel capitolo sulla densità di
talento discuteremo delle procedure di retribuzione per attirare e trattenere i top
performer. Nel capitolo sulla sincerità passeremo dal parlare di fornire feedback
individuali sinceri, come trattato nel Capitolo 2, alla trasparenza organizzativa.
AUMENTATE LA DENSITÀ DI TALENTO…
4.
PAGATE IL MASSIMO LIVELLO RETRIBUTIVO
PER CIASCUN INDIVIDUO

Un venerdì del 2015 il manager of original content


Matt Thunell sentiva il cuore martellargli nel petto
mentre sfogliava un copione nuovo di zecca. Strizzato
in un tavolo d’angolo in un rumoroso locale alla moda
di Hollywood l’agente Andrew Wang stava
consumando il suo pranzo in silenzio mentre Matt
leggeva. Con mansioni che vanno dal selezionare sceneggiature al
produrre episodi pilota, Matt è famoso per essere uno dei dirigenti
creativi più dotati del settore. Una delle sue doti è la capacità di
instaurare legami con gli agenti giusti. Wang non aveva ancora
mostrato a nessuno la prima stesura di Stranger Things, ma visto il
loro ottimo rapporto passò a Matt il copione lì al tavolo del pranzo.
Matt tornò di corsa in ufficio e consegnò il documento a Brian
Wright (l’ex vicepresidente di Nickelodeon che abbiamo conosciuto
nel Capitolo 2), celebre in tutto il mondo della televisione per la sua
straordinaria capacità di intuire cosa il pubblico guarderà. «Quel
copione era magnifico», dice con entusiasmo Brian. «Splendidi
personaggi e un ritmo forsennato.» Le argomentazioni a sfavore che
altri avrebbero sollevato erano ovvie: «I protagonisti sotto i
quattordici anni sono troppo vecchi per i bambini e troppo giovani
per gli adulti, quindi privi di interesse per la maggior parte degli
spettatori»; oppure: «È ambientato negli anni Ottanta, perciò
interesserà solo una ristretta nicchia di pubblico». Brian era di
diverso avviso: «Tutti avrebbero guardato questa serie. Stranger
Things sarebbe diventato un enorme successo e Netflix lo avrebbe
prodotto».
Nella primavera del 2015 il soggetto era già stato comprato e la
scadenza incombeva, ma Netflix non aveva ancora un suo studio.
Successi come House of Cards e Orange Is the New Black erano
stati realizzati da altri studi e poi concessi in licenza esclusiva a
Netflix, che non aveva ancora cominciato a produrre contenuti in
proprio. Netflix stava entrando in una nuova fase. «Ted lo aveva
detto con chiarezza, avremmo prodotto in proprio le prossime serie
originali.»
A quel punto Netflix aveva soltanto una manciata di persone nel
team produzione, molte meno di quelle normalmente richieste da
uno studio. Ecco come Matt ricorda la situazione:
Siamo riusciti a produrre Stranger Things perché ogni membro del team era
straordinariamente capace. Rob è un negoziatore eccezionale, perciò quando
una delle star della serie non voleva firmare un contratto pluriennale lui seppe
esattamente cosa dire. Laurence era il responsabile delle finanze. Dovrebbe
badare ai soldi, ma svolgeva il proprio ruolo nel settore finanziario mentre
dedicava ogni altro istante a fungere anche da dirigente alla produzione,
occupandosi di questioni come affittare spazi in cui gli sceneggiatori potessero
lavorare. Laurence e Rob svolsero il lavoro di una ventina di persone.

Servì poco più di un anno per portare a termine la prima stagione


di Stranger Things, uscita il 15 luglio 2016. Pochi mesi dopo ebbe la
nomination come miglior serie drammatica ai Golden Globes.
Il successo di Netflix si basa su questo genere di storie
improbabili: piccoli team composti unicamente da persone con una
performance nettamente superiore alla media – quelli che Reed
definisce dream teams, team da sogno – che affrontano enormi
problemi spinosi. Riconsegniamo la parola a Matt:.
Nella maggior parte dei luoghi di lavoro ci sono alcuni dipendenti eccezionali e
alcuni semplicemente adeguati. Quelli adeguati vengono diretti dall’alto mentre
si conta sul fatto che le star diano tutto il possibile. A Netflix è diverso.
Coltiviamo un vivaio di eccellenze, dove tutti sono persone altamente
performanti. Partecipi a questi meeting ed è come se il talento e la potenza
cerebrale nella stanza potessero generare l’elettricità dell’ufficio. Le persone si
sfidano a vicenda, intavolando discussioni, e in pratica ognuno di loro è più
intelligente di Stephen Hawking. Ecco perché qui riusciamo a fare così tanto a
una velocità così incredibile. Dipende da questa densità di talento follemente
alta.
L’alta densità di talento a Netflix è il motore che guida il suo
successo. Reed ha imparato questa semplice ma fondamentale
strategia dopo i licenziamenti del 2001. Capire quali passi compiere
per attirare e trattenere i migliori talenti è stato più complicato.

Offrite stipendi da rockstar

Durante i primissimi anni di Netflix stavamo crescendo


rapidamente e avevamo bisogno di assumere più
software engineer. Forti della consapevolezza del fatto
che l’alta densità di talento avrebbe rappresentato il
motore del nostro successo, ci concentrammo nel
tentativo di trovare i top performer sul mercato. Nella
Silicon Valley molti di loro lavoravano per Google, Apple e Facebook
e venivano pagati profumatamente. Non disponevamo di risorse
finanziarie sufficienti per attirarne un numero cospicuo.
Ma come ingegnere conoscevo a fondo un concetto ben noto
nell’industria del software fin dal 1968 e definito «principio della
rockstar». Si basa su un famoso studio effettuato in un seminterrato
di Santa Monica. Alle 6.30 del mattino nove programmatori
neoassunti furono portati in una stanza con decine di computer.
Ognuno di loro si vide consegnare una busta beige che spiegava
una serie di compiti di codifica e debugging che avrebbero dovuto
completare al meglio delle loro capacità nelle due ore seguenti. Da
allora su Internet è stato scritto molto sui risultati dello studio.
I ricercatori si aspettavano di scoprire che i migliori dei nove
programmatori avrebbero avuto prestazioni due o tre volte superiori
a quelle dei colleghi considerati nella media. Ma i migliori dei nove,
tutti programmatori come minimo adeguati, superarono i peggiori in
maniera straordinaria. Il migliore in assoluto si rivelò venti volte più
rapido nella codifica, venticinque volte più rapido nel debugging e
dieci volte più rapido nell’esecuzione dei programmi rispetto al
programmatore con il punteggio più basso.
Il fatto che uno di questi programmatori ne surclassasse così
clamorosamente un altro fa ancor oggi scalpore nell’industria del
software, e i manager cercano di capire come alcuni programmatori
possano valere così tanto più dei colleghi perfettamente adeguati.
Con una somma fissa per gli stipendi e un progetto che avevo
bisogno di completare dovevo scegliere fra due possibilità. Potevo
assumere fra i dieci e i venticinque ingegneri nella media oppure
assumere un’unica «rockstar» e pagarla molto più di quanto avrei
pagato gli altri, se necessario.
Da allora ho capito che il miglior programmatore non vale dieci
volte il suo stipendio ma piuttosto cento. Bill Gates, con cui ho
lavorato quando sedevo nel consiglio di amministrazione di
Microsoft, si è spinto presumibilmente oltre. Viene spesso citato per
aver detto: «Un tornitore eccezionale ottiene un salario varie volte
superiore a un tornitore medio, ma uno scrittore di codici software
eccezionale vale diecimila volte il prezzo di uno scrittore di software
nella media». Nell’industria del software questo è un principio noto
(benché ancora molto dibattuto).
Cominciai a riflettere su dove al di fuori dell’industria del software
si applicasse questo modello. Il motivo per cui un ingegnere rockstar
è tanto più prezioso dei suoi colleghi non vale solo per la
programmazione. L’ingegnere informatico eccellente è
incredibilmente creativo e riesce a scorgere schemi concettuali che
ad altri sfuggono. Ha una prospettiva adattabile, perciò quando
rimane bloccato in un modo di pensare specifico dispone di metodi
per spingersi a guardare oltre. Sono le stesse doti necessarie in
qualsiasi lavoro creativo. Patty McCord e io cominciammo a
guardare in quali settori di Netflix potesse applicarsi il «principio della
rockstar». Dividemmo gli incarichi in ruoli operativi e ruoli creativi.
Se state assumendo qualcuno per una posizione operativa,
diciamo lavavetri, commesso di gelateria o autista, il migliore
potrebbe rendere il doppio di un collega nella media. Un commesso
di gelateria davvero bravo può probabilmente riempire il doppio o il
triplo del numero di coni riempiti da un commesso medio; un ottimo
autista potrebbe avere il 50 per cento in meno della media di
incidenti. Ma c’è un limite al valore che un commesso di gelateria o
un autista possono fornire. Per i ruoli operativi potete pagare un
salario medio e la vostra azienda funzionerà benissimo.
A Netflix non abbiamo molti incarichi di quel tipo. La maggior parte
dei nostri impieghi si basa sulla capacità di un dipendente di
innovare ed eseguire in maniera creativa. In tutti i ruoli creativi il
migliore è facilmente dieci volte migliore della media. Il miglior
addetto stampa può escogitare una campagna capace di attirare
milioni di clienti in più di quello medio. Tornando allo scenario di
Stranger Things, il rapporto di Matt Thunell con Andrew Wang e
molti agenti simili lo rende centinaia di volte più efficace di un
dirigente creativo che non vanta quei rapporti. La capacità di Brian
Wright di intuire che Stranger Things sarebbe stato un successo,
quando altri studi avrebbero pensato che protagonisti sotto i
quattordici anni non sarebbero diventati popolari, lo rende migliaia di
volte più prezioso di un vicepresidente contenuti che non possiede
quel sesto senso per i copioni. Questi sono tutti impieghi creativi e
seguono tutti il principio della rockstar.
Nel 2003 non avevamo molti soldi ma un sacco di risultati da
conseguire. Dovevamo riflettere attentamente su come spendere il
poco che avevamo. Decidemmo che per qualsiasi tipo di ruolo
operativo, dove c’era un chiaro limite a quanto poteva rivelarsi
eccellente il lavoro, avremmo pagato un prezzo di mercato medio.
Ma per tutti i ruoli creativi avremmo dato a un unico dipendente
superlativo lo stipendio al livello massimo, invece di usare la stessa
somma per assumere una dozzina o più di performer adeguati.
Questa decisione ci avrebbe portato a sviluppare una forza lavoro
snella. Avremmo fatto affidamento sulla capacità di un’unica persona
straordinaria di svolgere il lavoro di molte, ma l’avremmo pagata
assai profumatamente.
Da allora è in questo modo che assumiamo la maggior parte dei
dipendenti di Netflix. L’approccio si è rivelato straordinariamente
efficace. Abbiamo aumentato in maniera esponenziale la nostra
velocità di innovazione e il nostro output.
Ho inoltre scoperto che avere una forza lavoro snella presenta
anche vantaggi collaterali. Dirigere bene le persone è difficile e
richiede parecchi sforzi. Dirigere dipendenti dalla performance
mediocre è più difficile e porta via più tempo. Visto che manteniamo
piccola la nostra organizzazione e snelli i nostri team, ogni manager
ha meno persone da dirigere e quindi riesce a farlo meglio. Quando
quei team snelli sono costituiti unicamente da dipendenti dalla
performance eccezionale, i manager ottengono risultati migliori, i
dipendenti anche, e l’intero team lavora meglio e più in fretta.

Non è solo quanto pagate, ma anche come pagate

La strategia di Reed sembra fantastica, ma se gestite


una startup che nessuno ha mai sentito nominare
potreste benissimo chiedervi se dei top performer
sarebbero disposti a venire a lavorare per voi, anche
se siete pronti a pagare.
Le ricerche suggeriscono di sì. Un sondaggio
condotto da OfficeTeam nel 2018 ha chiesto a 2800 lavoratori quali
ragioni li avrebbero motivati a prendere le loro cose e lasciare il
posto di lavoro. Il 44 per cento circa degli intervistati, una
percentuale nettamente superiore a qualsiasi altra categoria, ha
affermato che sarebbe disposto a lasciare l’attuale impiego per uno
meglio pagato.
Se lavorate per una azienda piccola e sconosciuta e sperate di
applicare la teoria di Reed, probabilmente troverete la persona che
vi serve.
Ma non conta solo quanto pagate le persone, anche la forma di
pagamento è importante. Nella stragrande maggioranza delle
aziende gli impiegati generosamente retribuiti ricevono uno stipendio
più un bonus, versato se raggiungono una serie di obiettivi prefissati.
Una grossa fetta dello stipendio dei talenti migliori dipende dalla
performance.
Questo non è fantastico come potrebbe sembrare. Quando Reed
e Patty stavano cercando di capire come attirare delle rockstar a
Netflix avevano bisogno di differenziare la compagnia da quelle a cui
stavano rubando talenti. Elaborarono un piano che viene seguito
ancora oggi.
Immaginiamo che abbiate speso tutti i vostri risparmi per
sviluppare uno scooter ultramoderno che porterà le persone al
lavoro volando al di sopra del traffico. Trovate un esperto di
marketing di straordinario talento e volete scegliere un metodo di
retribuzione che possa motivarlo a lavorare sodo, fare del proprio
meglio e rimanere nell’azienda per anni. State valutando due
opzioni:
1. Versargli uno stipendio annuo di 250.000 dollari.
2. Versargli uno stipendio di 200.000 dollari più un bonus del 25
per cento basato sui risultati che ottiene.
Se siete come molti manager scegliereste l’opzione 2. Perché
mettere tutto quel denaro nello stipendio quando potreste usarlo per
fornire al neoassunto un incentivo a lavorare al meglio?
Le gratifiche basate sulla performance sembrano perfettamente
logiche. Una parte dello stipendio del dipendente è garantita e
un’altra parte (solitamente compresa fra il 2 e il 15 per cento ma che
può arrivare al 60 o addirittura all’80 per cento per i dirigenti di
massimo livello) è legata alla performance. Se crei un notevole
valore per l’azienda ottieni il tuo bonus, se invece non raggiungi gli
obiettivi non vieni pagato. Cosa potrebbe esserci di più logico? I
bonus legati alla performance sono utilizzati quasi universalmente
negli Stati Uniti e spesso altrove.
Ma Netflix non li utilizza.

I bonus nuocciono alla flessibilità

Scoprimmo che i bonus nuocciono agli affari nel 2003,


più o meno nello stesso periodo in cui mi imbattei nel
principio della rockstar. Patty McCord e io ci stavamo
preparando per un meeting settimanale di direzione.
Sull’ordine del giorno figurava una nuova struttura di
bonus per i dirigenti. Entusiasti di essere una
organizzazione adulta, volevamo offrire ai nostri manager più senior
il genere di pacchetti che avrebbero ottenuto altrove.
Passammo ore a cercare i giusti obiettivi di performance e a
tentare di collegarli allo stipendio. Patty suggerì di legare la gratifica
della chief marketing officer, Leslie Kilgore, al numero di nuovi clienti
che ci procuravamo. Prima di venire a Netflix Leslie aveva lavorato
per Booz Allen Hamilton, Amazon e Procter & Gamble. La sua
retribuzione in tutti quei posti era stata basata su precisi parametri,
con ricompense legate al raggiungimento di obiettivi prefissati, quindi
lei sembrava la persona adatta da cui iniziare. Scrivemmo i Key
Performance Indicators (KPIs, indicatori chiave di prestazione) per
calcolare quanti soldi extra avrebbe dovuto guadagnare se avesse
raggiunto gli obiettivi.
Al meeting mi congratulai con Leslie per le migliaia di nuovi clienti
che avevamo ottenuto di recente. Stavo per annunciare come la
cosa le sarebbe valsa un enorme bonus, se avesse continuato così,
quando lei mi interruppe. «Sì, Reed, è davvero notevole. Il mio team
ha fatto un ottimo lavoro. Ma il numero di clienti che ci procuriamo
non è un indicatore valido. In realtà non conta.» Passò poi a
mostrarci numericamente che, laddove i nuovi clienti erano stati
l’obiettivo principale dell’ultimo trimestre, ora era il tasso di
mantenimento clienti a contare davvero. Mentre ascoltavo provai
un’ondata di sollievo: per fortuna non avevo ancora collegato il suo
bonus al parametro di successo sbagliato.
Da quel colloquio con Leslie imparai che l’intero sistema si basa
sulla premessa che tu sia in grado di predire il futuro in maniera
affidabile e di fissare in qualsiasi momento un obiettivo che
continuerà a essere importante più avanti. Ma a Netflix, dove
dobbiamo saper modificare rapidamente la direzione in risposta a
cambiamenti rapidi, l’ultima cosa che vogliamo è che i nostri
dipendenti siano ricompensati in dicembre per aver raggiunto un
obiettivo fissato il gennaio precedente. Il rischio è che si concentrino
su un obiettivo preciso invece di individuare cosa è preferibile per
l’azienda nel momento attuale.
Molti dei nostri dipendenti a Hollywood arrivano da studi come
WarnerMedia o Disney, dove una grossa fetta della retribuzione dei
dirigenti si basa su specifici parametri di performance finanziaria. Se
quest’anno l’obiettivo è aumentare del 5 per cento il reddito
operativo, il modo per ottenere la gratifica – spesso pari a un quarto
dello stipendio annuo – è concentrarsi caparbiamente
sull’aumentarlo. Ma cosa succede se, allo scopo di risultare
competitivi dopo cinque anni, una divisione ha bisogno di cambiare
rotta? Cambiare rotta comporta investimenti e rischi che potrebbero
ridurre il margine di profitto dell’anno in corso. Il prezzo delle azioni
potrebbe scendere. Quale dirigente lo farebbe mai? Ecco perché
una compagnia come WarnerMedia o NBC potrebbe non essere in
grado di cambiare drasticamente quando cambiano i tempi, come a
Netflix abbiamo fatto spesso.
Inoltre non sono d’accordo con l’idea che se sventolate dei
contanti davanti ai vostri dipendenti altamente performanti loro si
impegnino di più. Le persone altamente performanti desiderano
avere successo per loro natura e convoglieranno tutte le risorse su
quello scopo, che abbiano un bonus sventolato davanti al naso o
meno. Mi piace citare queste parole dell’ex amministratore delegato
della Deutsche Bank John Cryan: «Non capisco perché mi sia stato
offerto un contratto che include un bonus perché vi assicuro che non
lavorerò più o meno sodo in un qualsivoglia anno, in un qualsivoglia
giorno, solo perché qualcuno mi pagherà di più o di meno».
Qualsiasi dirigente che valga il suo stipendio direbbe la stessa cosa.
Le ricerche confermano l’intuizione di Reed. Lo
stipendio variabile funziona per le mansioni di routine
ma di solito peggiora la performance per l’attività
creativa. Il professore della Duke University Dan Ariely
descrive quanto scoperto nell’affascinante studio da lui
scritto nel 2008:
Abbiamo assegnato agli ottantasette partecipanti una serie di task che
richiedevano attenzione, memoria, concentrazione e creatività. Abbiamo chiesto
loro, per esempio, di inserire pezzi di puzzle metallici in un’intelaiatura di
plastica e di lanciare palline da tennis contro un bersaglio. Abbiamo promesso
loro un pagamento se avessero svolto quei compiti in modo superlativo. A circa
un terzo degli esaminati è stato detto che avrebbero ricevuto una gratifica
modesta, a un altro terzo una gratifica media e al restante terzo che poteva
ottenerne una cospicua in base al livello di prestazione.
Abbiamo effettuato questo primo studio in India, dove il costo della vita è basso,
per poter dare alle persone somme di denaro per loro sostanziose ma entro i
limiti del nostro budget. La gratifica più bassa era di cinquanta cent,
l’equivalente di quello che i partecipanti potevano ricevere per un giorno di
lavoro, la più alta di cinquanta dollari, lo stipendio di cinque mesi.
I risultati furono inaspettati. Le persone a cui era stata offerta la gratifica media
non ebbero prestazioni né migliori né peggiori di quelle a cui si era offerta la più
bassa. Ma la cosa più interessante fu che il gruppo a cui si era promessa la
gratifica più alta ottenne risultati peggiori degli altri due gruppi in tutti i compiti.
Ottenemmo gli stessi risultati in uno studio effettuato al Massachusetts Institute
of Technology, dove agli studenti fu offerta la possibilità di ottenere una gratifica
cospicua (seicento dollari) o una più modesta (sessanta dollari) eseguendo un
compito che richiedeva alcune doti cognitive (sommare cifre) e un altro che
richiedeva solo una capacità meccanica (pigiare un tasto il più rapidamente
possibile). Scoprimmo che fintanto che il compito richiedeva solo abilità
meccanica le gratifiche funzionavano come previsto: più alta era la paga e
migliore era la performance. Ma quando invece includevamo un compito che
richiedeva un’abilità cognitiva seppure elementare, il risultato era lo stesso che
nello studio in India: l’offerta di una gratifica più alta portava a una prestazione
peggiore.

Questa scoperta è perfettamente logica. Il lavoro creativo richiede


che la vostra mente percepisca una certa libertà. Se parte di ciò su
cui vi concentrate è la possibilità che la vostra performance vi
garantisca o meno quel grosso assegno, non vi troverete nello
spazio cognitivo aperto in cui risiedono le idee migliori e le possibilità
più innovative. Otterrete risultati peggiori.

Ho scoperto che è vero, a Netflix. Le persone


dimostrano la massima creatività quando incassano
uno stipendio abbastanza alto da eliminare parte dello
stress domestico, ma si dimostrano meno creative
quando non sanno se otterranno o meno quell’extra.
All’innovazione giovano gli stipendi alti, non i bonus
basati sul merito.
La grossa sorpresa quando decidemmo di non versare bonus oltre
allo stipendio fu quanti talenti di massimo livello riuscimmo ad
attirare. Molti pensano che si perda competitività se non si offre una
gratifica, ma abbiamo scoperto che è vero il contrario: diventiamo più
competitivi nell’attirare i migliori perché mettiamo semplicemente tutti
quei soldi nello stipendio.
Immaginate di cercare lavoro e ricevere due offerte. Un posto vi
offre duecentomila dollari più un bonus del 15 per cento e un altro ve
ne offre duecentotrentamila. Quale scegliereste? Naturalmente
sceglierete sulla base del «Meglio un uovo oggi che una gallina
domani», ossia i duecentotrentamila. Sapete in anticipo quale sarà la
retribuzione, niente giochetti.
Evitando i bonus basati sulla performance potete offrire stipendi di
base più alti e trattenere i dipendenti altamente motivati. Tutto ciò
aumenta la densità di talento. Ma nulla la aumenta più del versare
stipendi alti e aumentarli con il passare del tempo per garantire che
rimangano al livello massimo.

Pagate stipendi più alti di quanto farebbe chiunque


altro
Poco dopo che ci impegnammo a pagare qualsiasi somma
necessaria per assumere e trattenere i dipendenti migliori, un
direttore del reparto ingegneria, Han, venne a dirmi che aveva
trovato un magnifico candidato per un posto vacante. Il candidato,
Devin, vantava una serie di competenze davvero rara che avrebbe
rappresentato un enorme vantaggio per il team, ma lo stipendio che
chiedeva era quasi il doppio di quello degli altri programmatori nel
team, persino più alto di quello dello stesso Han. «So che lui
sarebbe fantastico per Netflix, ma è giusto pagare così tanto?» si
chiedeva.
Gli feci tre domande.

1. Uno qualsiasi dei programmatori nel suo team era abbastanza


bravo da occupare il posto ad Apple che Devin aveva appena
lasciato? No.
2. Tre degli attuali dipendenti di Han sarebbero stati in grado,
insieme, di fornire lo stesso contributo che Devin avrebbe potuto
fornire? No.
3. Se con una bacchetta magica avesse potuto scambiare, in
silenzio e senza danni per nessuno, alcuni dei suoi attuali
programmatori con Devin, la cosa avrebbe giovato alla società?
Sì.

Suggerii che Han potesse facilmente permettersi di assumere


Devin. In futuro avremmo assunto meno programmatori e usato quel
denaro per pagare a Devin la cifra che chiedeva. Han assunse
un’aria pensierosa. «Al momento le capacità di Devin sono molto
richieste. Se intendiamo modificare la nostra strategia di assunzione
per pagarlo, voglio assicurarmi che gli diamo abbastanza non solo
per convincerlo ad accettare il lavoro ma anche per assicurarci che
non venga presto attirato da un’azienda concorrente che paga di
più.»
Decidemmo di vagliare il mercato per scoprire quanto i nostri
concorrenti sarebbero stati disposti a pagare per le capacità di
Devin, dopo di che gli avremmo offerto uno stipendio leggermente
superiore a quello nella fascia più alta.
In seguito il team di Devin ideò molte delle caratteristiche su cui si
fonda l’attuale piattaforma di Netflix. Volevo che tutti i nostri
dipendenti fossero decisivi come lo era stato lui, quindi decidemmo
di applicare lo stesso metodo per determinare lo stipendio di
chiunque venisse assunto in futuro.
Pagate il massimo livello retributivo per ciascun
individuo

Nella maggior parte delle aziende negoziare uno


stipendio è come comprare un’auto usata. Volete il
posto ma non sapete quale sia il massimo che la
società è disposta a pagare, così tentate di indovinare
cosa chiedere e cosa accettare. L’azienda approfitta
della vostra ignoranza per assumervi con lo stipendio
più basso possibile. È un ottimo modo di procurarsi un dipendente
per meno del suo valore, solo per vederselo sottrarre da un’altra
società a un prezzo più alto pochi mesi dopo.
Seguendo questa logica il libro Negotiating Your Salary: How to
Make $1000 a Minute (Negoziare il proprio stipendio: come
guadagnare $1000 al minuto) di Jack Chapman suggerisce il modo
migliore per stipulare un buon accordo con un nuovo datore di
lavoro:

RESPONSABILE DELLE ASSUNZIONI: Abbiamo strizzato il nostro


budget e scoperto che possiamo offrirle uno stipendio di 95.000
dollari l’anno! Siamo molto felici e speriamo che lo sia anche lei!

TU:(non parlare. Canticchia mentalmente una canzone. Conta le


macchie sul tappeto. Passa la lingua sull’apparecchio ortodontico)

RESPONSABILE: (adesso nervoso) Ma potremmo essere in grado di


salire a 110.000 dollari. Per noi non sarà facile, ma speriamo che
accetterà.

TU: (continua a canticchiare mentalmente)

Netflix, d’altro canto, vuole pagare uno stipendio capace di attirare


e trattenere talenti, quindi le nostre conversazioni con i dipendenti
mirano a chiarire (a) che abbiamo un’idea precisa di quanto il
possibile futuro dipendente potrebbe guadagnare in qualsiasi altra
azienda e (b) che lo pagheremo leggermente più di così.
Prendete l’esperienza di Mike Hastings (nessun rapporto di
parentela con Reed). Se andate sul sito di Netflix potreste chiedervi
come mai il film Okja vi venga consigliato. Succede perché ogni
serie e ogni film di Netflix sono stati inseriti in un gruppo di categorie.
Okja figura nelle seguenti: «Contro il sistema», «Intellettuale», «Ad
alto impatto visivo» e «Anticonformistico». Se guardate altri film
«Intellettuali», «Contro il sistema», vi verrà proposto Okja. Mike è
una delle persone che sta dietro a questo meccanismo.
Stava lavorando ad Ann Arbor, nel Michigan, per All-movie.com
quando sostenne un colloquio di lavoro per unirsi al team Netflix che
si occupa del tagging. Era ansioso di trasferirsi nella Silicon Valley,
«ma in California il costo della vita è talmente alto che non sapevo
quanto chiedere». Così lesse alcuni libri sulle trattative salariali e
parlò con un po’ di amici. Tutti gli raccomandarono di tenersi ben
stretta qualsiasi informazione precisa. «Probabilmente ti
sottovaluterai e Netflix cercherà di approfittarne», pronosticò un
amico. Con un convertitore salariale regionale Mike decise che, se si
fosse trovato con le spalle al muro, avrebbe chiesto il doppio di
quanto guadagnava al momento, «che sembrava parecchio».
Provò e riprovò come intendeva eludere educatamente tutte le
domande sullo stipendio, «ma durante il colloquio rivelai al mio
interlocutore quanto stavo guadagnando e quanto speravo di
guadagnare e poi mi presi mentalmente a calci durante tutto il
viaggio di ritorno fino al Michigan per essere stato così stupido». Era
steso sul letto ad Ann Arbor a fissare il suo poster di Hitchcock
preferito quando il reclutatore di Netflix telefonò. «Mi offrirono il 30
per cento in più dell’aumento del 100 per cento che avevo chiesto!
Devo aver sussultato in modo evidente perché il mio futuro capo
specificò: “Qui è lo stipendio al livello massimo per il tuo ruolo e le
tue capacità”.»

Restare al top
All’inizio un neoassunto si sentirà motivato dal suo stipendio al
livello massimo, ma presto le sue capacità aumenteranno e i
concorrenti inizieranno a chiamarlo offrendogli stipendi superiori. Se
il dipendente vale quello che costa, il suo valore di mercato salirà e il
rischio che lui si sposti aumenterà. Quindi è paradossale che quando
si tratta di adattare gli stipendi praticamente ogni società sulla terra
segua un sistema che ha molte probabilità di diminuire la densità di
talento, incoraggiando le persone a cambiare impiego. Ecco un’e-
mail del direttore delle pubbliche relazioni João che descrive il
problema da lui avuto nel posto di lavoro precedente:
Prima di Netflix lavoravo per un’agenzia pubblicitaria americana a San Paolo e
mi piaceva tantissimo. Era il mio primo lavoro dopo il college e davo tutto me
stesso. A volte dormivo sul pavimento della stanza delle fotocopie in ufficio per
non perdere minuti di lavoro con i viaggi da pendolare. Ebbi l’incredibile fortuna
di accaparrarmi quattro giganteschi clienti e nel giro di dodici mesi stavo
portando più affari di coloro che lavoravano per la società già da molti anni. Mi
colmava di entusiasmo fare carriera in quell’azienda che amavo. Sapevo che i
miei colleghi più anziani ricevevano uno stipendio cospicuo, il doppio o il triplo
del mio, e confidavo di ottenere, al momento della revisione annuale dei salari,
un grosso aumento che mi avrebbe avvicinato maggiormente al mio livello di
contributo.
A fine anno ricevetti la mia prima valutazione prestazioni, con feedback
nettamente positivi (98/100), e la società stava registrando l’annata più redditizia
di sempre. Non mi aspettavo di vedere raddoppiare lo stipendio, ma il mio capo
promise di prendersi cura di me. In un angolino della mente mi aspettavo un
aumento del 10-15 per cento.
Il giorno del meeting sull’aumento ero così eccitato che cantai accompagnando
la radio durante l’intero tragitto fino all’ufficio. Immaginate la mia delusione
quando il mio capo mi offrì un aumento del 5 per cento. A dire il vero scoppiai
quasi a piangere. La parte peggiore fu il modo in cui lui mi diede la notizia, con
un entusiastico «Congratulazioni!» e sottolineando che era l’aumento più
cospicuo che stava dando quell’anno. Risposi urlando mentalmente: “Mi prendi
per scemo?”.
In seguito il mio rapporto con il mio capo peggiorò sempre più. Continuai a
insistere per un aumento più ingente. Lui si lamentò che non voleva perdermi e
portò l’aumento dal 5 al 7 per cento. Inoltre disse che le mie aspettative erano
irragionevoli e ingenue e che nessuna società concede aumenti annuali più alti
di quello. Fu a quel punto che cominciai a cercare un altro lavoro.

João era estremamente prezioso per la sua azienda. Il suo capo lo


aveva assunto con uno stipendio che lo motivava, ma nel giro di un
solo anno i crescenti successi lo resero infinitamente più prezioso
per il suo datore di lavoro e attraente per i concorrenti. Perché il suo
capo gli offrì un aumento così palesemente inferiore al suo valore di
mercato?
La risposta a questa domanda è che quando arriva il momento
della revisione, invece di guardare quello che il dipendente vale sul
mercato la maggior parte delle aziende per determinare gli aumenti
utilizza «pool di aumento salariale» e «fasce di salario». Immaginate
che Babbo Natale abbia otto elfi, ciascuno dei quali guadagna
attualmente 50.000 dollari, e che ogni anno, il 26 dicembre, aumenti
il loro stipendio. Lui e Mamma Natale mettono da parte una grossa
somma di denaro per gli aumenti, diciamo il 3 per cento del costo
totale per gli stipendi (fra il 2 e il 5 per cento è lo standard per le
aziende americane). Ora, il 3 per cento di 400.000 dollari è 12.000.
Adesso Babbo Natale e sua moglie devono decidere come
suddividerli. Sugarplum Mary è l’elfo dalle prestazioni migliori, quindi
vogliono darle un aumento del 6 per cento, il che lascia 9.000 dollari
da spartire fra i suoi colleghi. Ma lei sostiene che se ne andrà se non
ne riceve uno del 15 per cento, il che riduce il monte a soli 4.500
dollari per altri sette elfi, tutti con numerose bocche elfiche da
sfamare. Babbo Natale deve punire tutti gli altri suoi piccoli aiutanti
per pagare a Sugarplum il suo valore di mercato. Questo è
probabilmente ciò che è successo a João. Presumendo che il suo
capo avesse un pool destinato agli aumenti del 3 per cento, il 5 per
cento da lui offerto era già estremamente generoso. Salire al 7 per
cento significava che il resto del team ne avrebbe gravemente
risentito. Dare a João lo stipendio aumentato del 15 per cento che lui
avrebbe potuto ottenere sul mercato aperto? Impossibile!
Le fasce di salario creano un problema simile. Diciamo che nel
laboratorio di Babbo Natale la fascia salariale per un elfo sia
compresa fra i 50.000 e i 60.000 dollari. Sugarplum viene assunta a
50.000 e nei primi tre anni Babbo Natale le aumenta lo stipendio del
5-6 per cento portandolo a 53.000, poi a 56.000 e infine a 58.800.
Ma, una volta arrivata al quarto anno, anche se adesso è più esperta
e altamente performante che mai, può ottenere solo un aumento del
2 per cento. È arrivata in cima alla sua fascia! È ora di cercare un
altro laboratorio, Sugarplum.
Le ricerche confermano ciò che João e Sugarplum sospettavano
già. Ottieni più soldi se cambi azienda che non se rimani dove sei.
Nel 2018 l’aumento salariale annuo medio per dipendente negli Stati
Uniti era del 3 per cento circa (5 per cento per i top performer). Per
un dipendente che ha lasciato il proprio lavoro per entrare in una
nuova azienda l’aumento medio è stato fra il 10 e il 20 per cento.
Rimanere nello stesso posto di lavoro è dannoso per il portafoglio.
Ecco cosa è successo a João:
Netflix mi ha assunto quasi al triplo del mio stipendio e mi sono trasferito a
Hollywood. Nove mesi dopo, gli aggiustamenti salariali erano l’ultima cosa a cui
stessi pensando. Sono andato al mio meeting settimanale con il mio capo
Matias, durante il quale camminiamo intorno al grande isolato dell’edificio di
Netflix a Hollywood. A un certo punto c’è un grosso raviolo al vapore con gli
occhi azzurri e la lingua rossa dipinto sul muro di un ristorante. Lì davanti Matias
ha detto che mi avrebbe dato un aumento del 23 per cento per mantenere il mio
stipendio al livello massimo. Sono rimasto talmente sconvolto da dovermi
sedere accanto al raviolo.
Ho continuato a mietere successi e sentivo di essere retribuito molto
generosamente. Un anno più tardi, all’epoca della revisione retributiva annuale,
mi sono chiesto se avrei ottenuto un altro enorme aumento. Matias mi ha
sorpreso di nuovo. Stavolta ha detto: «La tua performance è stata eccellente e
sono felice di averti in questo team. Il mercato per la tua posizione non è
cambiato molto, quindi quest’anno non progetto di darti un aumento». L’ho
trovato giusto. Ha sottolineato che se pensavo altrimenti dovevo portargli dati
che registrassero le attuali condizioni di mercato per la mia posizione.
Ancora oggi mi piace ripensare a cosa mi disse il mio primo capo, ossia che ero
ingenuo. Sapendo come funziona il mondo aziendale, mi rendo conto che aveva
ragione. Ero ingenuo quanto a comprensione delle procedure del business. Ma
d’altro canto non è ingenuo da parte di così tante società usare una procedura
di aumenti che spinge tutti i migliori talenti ad andarsene?

João ha perfettamente ragione. Allora come mai le aziende


seguono ancora i consueti metodi di aumento? La teoria di Reed è
che i pool di aumento e le fasce salariali utilizzati presso la maggior
parte delle società funzionavano bene quando un impiego durava
spesso per tutta la vita e il valore di mercato di un individuo non
aveva molte probabilità di schizzare alle stelle nel giro di pochi mesi.
Ma evidentemente queste condizioni non valgono più, data la
rapidità con cui oggigiorno le persone cambiano lavoro e data la
natura mutevole dell’economia moderna.
Ma il modello di retribuzione di Netflix è tanto insolito da risultare
di difficile comprensione.
Come si può pretendere che un qualsiasi manager sappia
costantemente qual è il top del mercato per ogni suo dipendente?
Bisognerebbe investire ore e ore ogni anno per fare imbarazzanti
telefonate a persone che conoscete a malapena per scoprire quanti
soldi stanno guadagnando loro e i subalterni. Il direttore dell’ufficio
legale di Netflix, Russell, ha scoperto che è frustrante come si
potrebbe immaginare:
Il membro più prezioso della mia squadra nel 2017 era un’avvocatessa di nome
Rani, trasferitasi dall’India alla California quando era adolescente. Sua madre
insegnava matematica a Stanford e suo padre era un celebre chef di cucina
innovativa indiana. Come avvocato Rani era in un certo senso l’incrocio fra un
matematico geniale e un cuoco geniale. Era in grado di gestire idee precise e
intricate come non avevo mai visto fare in vita mia. Possedeva questo sesto
senso che posso definire solo «finezza», il che la rendeva un eccellente
avvocato.
La assunsi con uno stipendio alto – che consideravo insuperabile – e il suo
primo anno di lavoro fu fantastico. Quando giunse l’ora degli aumenti mi trovai
di fronte a un problema. Contrariamente agli altri avvocati nel mio team Rani ha
un ruolo unico, quindi era difficile trovare riferimenti di mercato per la sua
posizione. Alcuni degli altri avrebbero ottenuto cospicui aumenti quell’anno –
fino al 25 per cento – a causa di evidenti dinamiche di mercato.
Passai ore e ore a cercare dati per Rani. Dopo parecchie ricerche chiamai
quattordici contatti in società diverse, ma nessuno di loro volle rivelarmi cifre
salariali. Così cominciai a telefonare a cacciatori di teste e alla fine ricevetti tre
cifre dai reclutatori. Erano molto diverse fra loro, ma la più alta superava solo
del 5 per cento quello che Rani stava già guadagnando. In base a quei dati, un
aumento del 5 per cento la collocava al livello massimo, quindi fu quello che le
diedi.
Ragazzi, quella sì che fu una giornata orrenda! Quando le comunicai l’entità del
suo aumento Rani cominciò a digrignare i denti ed evitò di guardarmi negli
occhi. Quando spiegai come ero arrivato a quella cifra spostò lo sguardo verso
la finestra, come se stesse già calcolando in quale società trasferirsi. Quando
smisi di parlare rimase a lungo in silenzio e poi, con un leggero tremito alla gola,
disse: «Sono delusa». Le suggerii, se pensava che l’aumento non rispecchiasse
il suo valore di mercato, di portarmi dei dati. Non lo fece.
Al successivo ciclo di valutazione retribuzioni implorai le risorse umane di
aiutarmi. Le cifre che scovarono erano quasi del 30 per cento più alte di quelle
cui ero approdato l’anno prima con le mie ricerche. Stavolta Rani si fece avanti
e chiamò i propri contatti. Mi diede i nomi di quattro persone che svolgevano il
suo stesso lavoro presso altre aziende con retribuzioni paragonabili a quelle che
le risorse umane mi avevano mostrato. L’anno prima l’avevo sottopagata perché
i dati in mio possesso non riflettevano adeguatamente la gamma effettiva.

Procurarvi termini di paragone salariali per voi stessi o per il vostro


personale non richiede solo tempo e fatica, spesso impone anche di
telefonare alle vostre conoscenze per porre l’imbarazzante
domanda: «Quanto guadagni?».
Ma questa non è la sola preoccupazione. Quanto è costoso tutto
questo? Matias ha concesso a João un aumento del 23 per cento
che lui non aveva chiesto e a cui non stava nemmeno aspirando.
Russell ha riconosciuto a Rani un aumento del 30 per cento il
secondo anno. Quante società possono permettersi di dare aumenti
di questo tipo ai propri dipendenti? Il vostro margine di profitto non
dovrebbe essere stratosferico perché gli aumenti annuali non vi
mandino in bancarotta?

La risposta a questa domanda è sì. Eppure nel


complesso si tratta di un investimento redditizio.
In un ambiente di persone altamente performanti
pagare uno stipendio al livello massimo è più
conveniente, alla lunga. È preferibile pagare stipendi
leggermente più alti del necessario, concedere un
aumento prima che un dipendente lo chieda, e aumentare uno
stipendio prima che il dipendente cominci a cercare un altro lavoro,
per attirare e trattenere i migliori talenti sul mercato anno dopo anno.
Perdere persone e assumere sostituti è molto più costoso che non
pagare fin da subito un po’ più del necessario.
Alcuni dipendenti vedranno il proprio stipendio aumentare
drasticamente in breve tempo. Se il valore di mercato per uno di loro
cresce perché il suo insieme di competenze si amplia o c’è carenza
di talenti nel suo campo, facciamo salire anche il suo stipendio. I
salari di altri dipendenti potrebbero invece rimanere invariati per
anni, a dispetto del loro ottimo lavoro.
L’unica cosa che cerchiamo di evitare, ove possibile, è ridurre gli
stipendi se il valore di mercato scende (anche se potremmo farlo nel
caso qualcuno passi da una località all’altra). Quello sarebbe un
modo sicuro per ridurre la densità di talento. Se per qualche motivo
non potessimo permetterci il nostro costo del personale dovremmo
aumentare la densità di talento licenziando alcuni dipendenti,
riducendo così i nostri costi senza abbassare nessuno stipendio
individuale.
Scoprire quali sono i salari al livello massimo può richiedere molto
tempo, ma non quanto individuare e formare un sostituto quando i
vostri dipendenti migliori passano a un’altra azienda per guadagnare
di più. Anche se può rivelarsi arduo è compito di Russell (con l’aiuto
delle risorse umane) capire quanto altre aziende pagherebbero Rani.
È una responsabilità che lei dovrebbe condividere. Nessuno
dovrebbe conoscere il vostro valore di mercato meglio di voi
(soprattutto) e del vostro capo (in secondo luogo).
Ma c’è sempre una persona che probabilmente conosce il vostro
valore di mercato meglio di voi o del vostro capo. Ed è qualcuno con
cui vale la pena di parlare.

Quando chiamano i cacciatori di teste chiedete


«quanto?»

Torniamo per un attimo a Sugarplum Mary. Chi è


l’unica persona al mondo che ne conosce il valore
meglio di lei, di Mamma Natale e persino dello stesso
Babbo Natale? È il cacciatore di teste nel laboratorio
degli elfi in fondo alla strada. Per definizione quello
che offre è l’esatto valore di mercato di quel momento.
Se volete davvero sapere quanto valete parlate con loro.
I cacciatori di teste chiamano spesso i dipendenti di Netflix (e
probabilmente i vostri) cercando di convincerli a sostenere colloqui
per altre posizioni. Potete scommettere che l’azienda che assume ha
soldi ed è disposta a pagare. Cosa vi piacerebbe che facessero i
vostri dipendenti quando ricevono queste telefonate? Volete che si
portino il telefono in bagno e aprano il rubinetto mentre sussurrano
nel ricevitore? Se non avete fornito loro chiare istruzioni
probabilmente è proprio questo che fanno, e facevano la stessa
cosa a Netflix fino al 2003, quando l’azienda ha cominciato a
discutere dell’opportunità di pagare al massimo livello retributivo per
ciascun individuo.

Non molto tempo dopo, il chief product officer, Neil


Hunt, venne a riferire a Patty e me che uno dei suoi
ingegneri più preziosi, George, aveva ricevuto
un’offerta per un posto meglio retribuito a Google.
Eravamo entrambi contrari a offrire a George più soldi
perché rimanesse e pensavamo che fosse stato sleale
a sostenere un colloquio di lavoro alle nostre spalle. Quel
pomeriggio, durante il viaggio di ritorno a Santa Cruz, Patty esclamò,
sbuffando: «Nessun dipendente dovrebbe essere insostituibile!». Ma
durante la notte sia lei sia io cominciammo a riflettere su quanto
valore avrebbe perso la compagnia se George se ne fosse andato.
Quando, l’indomani mattina, Patty saltò sulla mia auto disse:
«Reed, durante la notte ho avuto un’illuminazione. Ci stiamo
comportando da stupidi! George non è affatto sostituibile». Aveva
ragione. Al mondo c’erano solo quattro persone che vantavano la
stessa conoscenza della programmazione con algoritmi, e tre di loro
lavoravano a Netflix. Se lasciavamo che lui se ne andasse, aziende
concorrenti avrebbero potuto prendere di mira gli altri due.
Riunimmo la prima linea del team dirigenziale – compresi Neil, Ted
Sarandos e Leslie Kilgore – per discutere di cosa fare con George in
particolare e con tutti i cacciatori di teste che inseguivano i nostri
talenti in generale.
Ted aveva una salda opinione basata sulla sua esperienza con un
precedente datore di lavoro. Ecco la sua storia:
Quando vivevo a Phoenix lavoravo per un distributore di home video con sede a
Houston. L’azienda mi offrì un posto come direttore di filiale nel centro di
distribuzione di Denver. Per me era una grossa promozione e dissi di sì. Mi
diedero un bell’aumento e accettarono di pagare la mia sistemazione a Denver
per sei mesi mentre vendevo la casa di Phoenix.
Ma dopo sei mesi a Denver non ero ancora riuscito a vendere la casa. Ero
finanziariamente sovraesposto. Affittai un orrendo appartamento a Denver con
mia moglie mentre ancora pagavo per questa grande casa a Phoenix in cui non
potevo abitare. Poi mi chiamò un cacciatore di teste di Paramount e risposi alla
telefonata solo perché ero infelice per la mia sistemazione. Mi offrì un impiego
ben più retribuito che mi avrebbe consentito di tornare a Phoenix. Ero felice del
mio lavoro di allora, ma quell’offerta risolveva tutti i miei problemi.
Andai a comunicare al mio capo che mi licenziavo. «Perché non ci hai detto che
non riuscivi a vendere la casa?» mi chiese. «Sei prezioso per noi. Possiamo
modificare il tuo contratto per tenerti!» Mi diedero un aumento equiparando il
mio stipendio a quello offertomi da Paramount e comprarono la mia casa di
Phoenix. Pensai: “Negli ultimi sei anni non ho mai risposto alla telefonata di un
cacciatore di teste e ora vedo che il mio valore di mercato ha continuato a salire
per tutto questo tempo. Sono stato sottopagato per anni perché pensavo che
intrattenere una discussione sul mio effettivo valore di mercato sarebbe stato un
atto di slealtà”.
Ero furioso con il mio capo. Avrei voluto chiedergli: “Se sapevi quanto valevo
perché non mi hai offerto la cifra corrispondente?”. Poi, quando sono cresciuto,
mi sono chiesto: “Perché mai avrebbe dovuto? È una mia responsabilità
scoprire quanto valgo e chiedere uno stipendio conforme!”.

Dopo aver raccontato questo episodio Ted aggiunse: «George ha


fatto bene a sostenere un colloquio con un concorrente per scoprire
quanto vale, e saremmo stupidi a non pagarlo al top del mercato, ora
che lo sappiamo anche noi. Inoltre, se ci sono altre persone nel team
di Neil a cui Google offrirebbe quello stesso posto dovremmo portare
il loro stipendio allo stesso livello. È quello il loro attuale valore di
mercato».
Leslie ci disse che stava già facendo quanto consigliato da Ted:
Ogni volta che assumo qualcuno gli dico di leggere Rites of Passage at
$100,000 to $1 Million+, che negli anni Ottanta e Novanta era il manuale per i
reclutatori di dirigenti. Vi spiega come scoprire il vostro valore di mercato e
come parlare con i reclutatori per ottenere quella cifra.
Dico a tutti i miei dipendenti: «Cercate di capire il vostro mercato, di capire il
libro, andate a conoscere questi reclutatori» e consegnò loro una lista di nomi di
reclutatori specializzati nei loro ruoli. Voglio che scelgano tutti attivamente di
rimanere, non che rimangano solo perché non hanno opzioni alternative. Se
siete abbastanza bravi da lavorare a Netflix siete abbastanza bravi da avere
altre opzioni là fuori. Se sentite di avere un’alternativa potete prendere la
decisione giusta. Lavorare a Netflix dovrebbe essere una scelta, non una
trappola.

Dopo aver ascoltato Ted e Leslie mi convinsi. I loro commenti


erano perfettamente in linea con la nostra politica di pagare tutti al
massimo. Decidemmo non solo di dare un aumento a George ma
anche che Neil doveva stabilire a chi altri nel suo team Google
avrebbe potuto offrire quel posto e aumentare anche a loro lo
stipendio. È questo il senso del pagare al top del mercato. Poi
spiegammo a tutti i nostri dipendenti che dovevano cominciare a
rispondere alle telefonate dei cacciatori e poi riferirci cosa avevano
scoperto. Patty sviluppò un database in cui ciascuno poteva inserire
i dati sul salario che apprendeva da telefonate e colloqui.
In seguito spiegammo a tutti i manager che non dovevano
aspettare che i dipendenti andassero da loro con l’offerta di un
concorrente, prima di offrire un aumento. Se non volevamo perdere
un dipendente e ne vedevamo salire il valore di mercato dovevamo
aumentarne lo stipendio di conseguenza.

In quasi ogni azienda al mondo sostenere un colloquio


per un altro lavoro susciterebbe rabbia, delusione o
ostilità nel vostro attuale capo. Più siete preziosi per il
vostro superiore e più lui si irriterà, e non è certo
difficile capire come mai. Quando un nuovo
dipendente superstar decide di andare a dare
un’occhiata a un lavoro in un’azienda in fondo alla strada, rischiate di
perdere il vostro intero investimento. Se durante il colloquio scopre
che la nuova posizione è molto più stimolante di quella che occupa
al momento perderete il dipendente o almeno il suo entusiasmo.
Ecco perché i manager in quasi tutte le società fanno sentire i
sottoposti dei traditori se parlano con reclutatori di altre aziende.
Netflix non la vede in questo modo. Il vicepresidente contenuti
Larry Tanz ricorda come ha imparato questa lezione. Era il 2017 e
Netflix aveva appena raggiunto il traguardo dei cento milioni di
abbonati. Lui si stava preparando per una grande festa all’Hollywood
Shrine Auditorium, dove si sarebbe esibito Adam Sandler. Stava
prendendo il cappotto per uscire quando squillò il telefono: «Era una
reclutatrice di Facebook che mi proponeva un colloquio. Trovavo
sbagliato anche solo parlarle, così mormorai che non ero
interessato».
Quattro settimane più tardi, Ted Sarandos, il suo capo, stava
fornendo un aggiornamento mensile al suo staff: «Il mercato si sta
scaldando e riceverete telefonate di reclutatori. Probabilmente da
Amazon, Apple e Facebook. E se non siete sicuri di venire
attualmente pagati al massimo livello retributivo dovreste rispondere
a quelle telefonate e scoprire quanto pagano per questi lavori. Se
scoprite che pagano più di quanto vi stiamo dando noi avvisateci».
Larry rimase stupito: «Netflix è probabilmente l’unica azienda in cui ti
incoraggiano a parlare con la concorrenza e persino ad andare ai
colloqui».
Poche settimane dopo, durante un viaggio a Rio, Larry ricevette
una seconda chiamata da Facebook. «Avevamo raggiunto la famosa
cantante brasiliana Anitta nel suo salotto per parlare dell’imminente
documentario Netflix su di lei, Vai Anitta. Per duecento milioni di
brasiliani lei è come Madonna e Beyoncé messe insieme, così
quando il mio cellulare vibrò non risposi.» Ma quando Larry sentì il
messaggio di Facebook richiamò. «Mi chiesero di andare da loro,
ma non vollero dirmi quale stipendio offrivano. Dissi che non stavo
cercando un nuovo lavoro, ma che sarei andato a parlare con loro.»
Larry avvisò il suo capo che intendeva presentarsi al colloquio.
«Già quello mi sembrava strano. Nella maggior parte delle società
andare a parlare con un concorrente è considerato sleale.»
Ricevette un’offerta di lavoro da Facebook per uno stipendio
superiore a quello che riceveva. Ted, come promesso, glielo
aumentò per equipararlo al valore corrente di mercato.
Adesso Larry incoraggia i suoi dipendenti a rispondere alle
telefonate dei reclutatori. «Ma non aspetto che vengano da me. Se
vedo che qualcuno potrebbe guadagnare di più altrove gli do subito
un aumento.» Per trattenere i vostri dipendenti migliori è sempre
preferibile dare loro un aumento prima che ricevano le offerte.
Naturalmente questo ha funzionato per Larry, che ha ottenuto uno
stipendio più alto, e per Ted, che ha trattenuto il talentuoso Larry. Ma
le istruzioni di Ted suonano estremamente rischiose. Quanti altri
hanno risposto alle telefonate, si sono innamorati del lavoro che
veniva offerto e hanno lasciato il suo team? Ecco come Ted spiega il
suo ragionamento:
Quando il mercato si scalda e i cacciatori chiamano, i dipendenti si
incuriosiscono. A prescindere da quello che dico, alcuni di loro faranno quelle
conversazioni e andranno a sostenere quei colloqui. Se non li autorizzo a farlo
ci andranno di nascosto e poi si licenzieranno senza darmi l’occasione di
trattenerli. Un mese prima che facessi quella dichiarazione abbiamo perso una
dirigente straordinaria di cui non sono riuscito a rimpiazzare le capacità.
Quando è venuta da me aveva già accettato l’altro posto. Non c’era nulla che io
potessi fare. Quando mi disse che aveva adorato lavorare a Netflix ma aveva
ricevuto un aumento del 40 per cento, ho avuto un tuffo al cuore. Avrei potuto
aumentarle lo stipendio se avessi saputo che il suo valore di mercato era
cambiato! Ecco perché voglio che i miei dipendenti sappiano che possono
parlare quanto vogliono con altre aziende, fintanto che lo fanno apertamente e
ci riferiscono cosa scoprono.

La domanda che oggi gli fanno i nuovi dipendenti è: «Ted, sei


sicuro di volere che io risponda a quella telefonata? Non è sleale?».
La sua risposta è la stessa sin da quando George è andato da Neil
con quell’offerta di Google: «È sleale fare le cose in modo furtivo e
nascondere con chi parlate, ma andare ai colloqui apertamente e
fornire a Netflix i dati salariali avvantaggia tutti noi».
A Netflix la regola quando i cacciatori telefonano è: «Prima di dire:
“No, grazie!” chiedete: “Quanto?”».

Il quarto puntino
Allo scopo di rafforzare la densità di talento nella vostra forza
lavoro, per tutti i ruoli creativi assumete un dipendente eccezionale
invece di dieci o più nella media. Assumete questa persona
straordinaria al top del suo valore di mercato, quale che sia.
Ritoccate il suo salario come minimo ogni anno per continuare a
offrirle più di quanto farebbero i concorrenti. Se non potete
permettervi di pagare i vostri dipendenti migliori al top del valore di
mercato, licenziate alcune delle persone meno favolose per potervi
riuscire. In questo modo il talento diventerà ancora più denso.
▶ CONCETTI CHIAVE DEL CAPITOLO 4
I metodi utilizzati dalla maggior parte delle aziende per remunerare i
dipendenti non sono l’ideale per una forza lavoro creativa, ad alta densità di
talento.
Suddividete la vostra forza lavoro in dipendenti creativi e dipendenti operativi.
Pagate i creativi al top del loro valore di mercato. Questo potrebbe significare
assumere un solo individuo eccezionale invece di dieci o più persone
adeguate.
Non assegnate gratifiche basate sulla performance. Mettete invece queste
risorse nello stipendio.
Insegnate ai dipendenti a sviluppare una propria rete di contatti e investire
tempo per scoprire il proprio valore di mercato – e quello del loro team – su
base continua. Questo potrebbe significare rispondere a telefonate di
reclutatori o persino andare a colloqui di lavoro in altre aziende. Ritoccate gli
stipendi di conseguenza.

Verso una cultura di libertà e responsabilità


Ora che la vostra densità di talento sta aumentando siete quasi pronti a
prendere misure drastiche per aumentare la libertà dei dipendenti. Ma prima
dovrete far salire la sincerità di una tacca.

Nella maggior parte delle aziende, alla maggioranza dei dipendenti, anche se di
enorme talento, non si possono concedere livelli significativi di libertà decisionale
perché non conoscono tutti i segreti della società che permettono ai vertici
dirigenziali di prendere decisioni informate.
Una volta che avete un’azienda piena di quelle rare persone responsabili che sono
fortemente motivate, consapevoli e disciplinate potete cominciare a rivelare loro
quantità di informazioni aziendali inaudite, il genere di conoscenze che la maggior
parte delle società tiene sotto chiave. Questo è l’argomento del Capitolo 5.
AUMENTATE LA SINCERITÀ…
5.
APRITE I REGISTRI CONTABILI

Nel 1989, dopo i Peace Corps ma prima di Pure


Software, ero un ingegnere del software ventinovenne
presso una startup che non riusciva a sfondare,
Coherent Thought. Un venerdì mattina, arrivando nel
mio cubicolo, vidi dietro la parete di vetro della sala
riunioni davanti alla mia scrivania gli alti dirigenti in
piedi accanto alla finestra, con la porta chiusa. A stupirmi fu la loro
perfetta immobilità. Durante un recente viaggio avevo osservato un
geco sul punto di essere divorato da un grande airone bianco: era
rimasto impietrito per il terrore, con una zampa a mezz’aria. Quei
manager gli somigliavano. Stavano muovendo freneticamente le
labbra ma per il resto erano perfettamente immobili. Perché non si
sedevano? L’immagine mi colmò di disagio e cominciai a
preoccuparmi.
Il lunedì mattina arrivai presto al lavoro e i manager erano già in
sala riunioni. Quel giorno erano seduti, ma ogni volta che qualcuno
apriva la porta per andare a prendere del caffè sentivo la paura
uscire dalla stanza. L’azienda era nei guai? Di cosa stavano
parlando?
Non lo so tuttora. Forse mi sarei spaventato se me lo avessero
detto, ma all’epoca provai un forte risentimento per il fatto che non si
fidassero abbastanza di me per dirmi cosa stava succedendo,
benché io facessi un gran lavoro e fossi dedito al successo della
società. Avevano un grosso segreto che stavano tenendo nascosto
all’intera forza lavoro.
Naturalmente abbiamo tutti dei segreti. La maggior parte di noi è
convinta che i segreti ci tengano al sicuro. Quando ero giovane
l’istinto mi sollecitava a tenere nascosta qualsiasi informazione
rischiosa o scomoda. Nel 1979, a diciannove anni, cominciai a
frequentare il Bowdoin College nel Maine, una piccola e accogliente
università. Per puro caso il mio compagno di stanza era un
californiano, Peter. All’inizio dell’anno accademico eravamo nella
camera del nostro dormitorio a piegare il bucato e lui menzionò con
nonchalance di essere vergine. Lo disse come se fosse la cosa più
naturale del mondo da rivelare, semplice come bere una tazza di
caffè. Ed eccomi lì, anch’io vergine e in preda a una profonda
vergogna all’idea che qualcuno lo scoprisse.
Quando lui me lo rivelò non riuscii a svelargli anch’io il mio
segreto. Ero troppo imbarazzato, persino di fronte alla sua sincerità.
Il mio silenzio, scoprii in seguito, gli rese difficile fidarsi di me durante
quei primi tempi. Come puoi fidarti di qualcuno quando percepisci
che ti sta nascondendo delle cose? Peter, d’altro canto, parlava
francamente dei suoi timori e dei suoi errori, e io ero sbigottito dalla
disinvoltura con cui portava tutto alla luce. Provai nei suoi confronti
una fiducia che non avevo mai sperimentato così in fretta.
Quell’amicizia mi trasformò perché vidi che rinunciare ai segreti e
parlare con trasparenza arreca incredibili vantaggi.
Non sto suggerendo che sia consigliabile o persino appropriato
parlare della vostra vita sessuale con i colleghi. Peter, naturalmente,
non era un collega di lavoro. Ma avere segreti al lavoro è ancora più
comune e più dannoso che in un pensionato universitario.

Secondo uno studio di Michael Slepian, un docente di


management alla Columbia Business School, in media
una persona ha tredici segreti, cinque dei quali non
sono mai stati rivelati ad anima viva. Un manager
medio, suggerirei io, ne ha persino di più.
Secondo Slepian, se somigliate a una persona
media ci sono il 47 per cento di probabilità che uno dei vostri segreti
riguardi un’occasione in cui avete abusato della fiducia altrui, più del
60 per cento di probabilità che riguardi una menzogna che avete
detto o un illecito finanziario che avete commesso e circa il 33 per
cento di probabilità che riguardi un furto, qualche tipo di relazione
nascosta o l’infelicità sul posto di lavoro. Sono parecchi contenuti
confidenziali da tenere per sé, e hanno un forte impatto psicologico:
stress, ansia, depressione, solitudine, scarsa autostima. Inoltre i
segreti occupano molto spazio nel nostro cervello. Uno studio ha
dimostrato che le persone passano il doppio del tempo a pensare ai
propri segreti rispetto a quello impiegato per trovare il modo di
nasconderli.
D’altra parte, quando condividete un segreto questo suscita un
enorme senso di fiducia e lealtà nel vostro interlocutore. Se vi rivelo
un mio enorme errore o condivido informazioni che potrebbero
minare il mio successo, voi pensate: “Be’, se mi ha raccontato una
cosa simile mi racconterebbe qualsiasi cosa”. La vostra fiducia in me
schizza alle stelle. Per suscitarla rapidamente non esiste modo
migliore del portare alla luce un presunto segreto.
Prima di proseguire dobbiamo trovare un’espressione migliore di
presunto segreto. Il problema con la parola segreto è che, una volta
che lo rivelate a qualcuno, non è più tale.

Stuff of secrets (materiale da segreti) = SOS


SOS sarà il nostro termine (non un termine usato da Netflix) per
indicare informazioni che normalmente scegliereste di mantenere
segrete perché sarebbe pericoloso divulgarle. Condividerle potrebbe
condurre a un giudizio negativo, rischiare di turbare le persone,
causare caos o troncare un rapporto. In caso contrario non
proveremmo l’impulso di tenerle nascoste.
Informazioni SOS sul posto di lavoro potrebbero essere cose quali:

state considerando l’ipotesi di una riorganizzazione e alcune


persone potrebbero perdere il lavoro;
avete licenziato un dipendente ma spiegarne il motivo
danneggerebbe la sua reputazione;
avete una cosiddetta «ricetta segreta», ossia informazioni che
non volete arrivino ai vostri concorrenti;
avete commesso un errore che potrebbe nuocere alla vostra
reputazione, forse rovinarvi la carriera;
due leader sono in conflitto e se i rispettivi team lo scoprissero
ne scaturirebbe inquietudine;
i dipendenti potrebbero finire in prigione se rivelassero a un
amico determinati dati finanziari.
Le organizzazioni sono piene di SOS. Ogni giorno i manager
combattono con la domanda: «Dovrei dirlo al mio team? E se sì, con
quali rischi?». Ma anche tacere comporta dei rischi, come
dimostrano la paura e il calo di produttività vissuti da Reed molti anni
fa a Coherent Software.

Praticamente tutti i manager amano l’idea della


trasparenza, ma se avete davvero intenzione di creare
un ambiente ad alta condivisione la prima cosa da fare
è individuare i segnali sparsi per il vostro ufficio che
potrebbero accidentalmente suggerire che da voi i
segreti non mancano. Una volta sono andato a trovare
l’amministratore delegato di un’altra azienda della Silicon Valley. Lui
parla molto dell’importanza della trasparenza organizzativa e i
giornali hanno pubblicato articoli sugli audaci passi che sta facendo
per aumentare la sincerità sul posto di lavoro.
Quando sono arrivato ho preso l’ascensore fino all’ultimo piano del
quartier generale della società. L’assistente mi ha accompagnato
lungo un corridoio silenzioso. L’ufficio del CEO si trovava sull’angolo.
La porta era aperta (visto che lui sostiene di seguire una «politica di
porte aperte») ma lì davanti sedeva una segretaria che dava
l’impressione di fargli la guardia. Sono sicuro che quest’uomo aveva
un valido motivo per concedersi un tranquillo ufficio d’angolo con
una porta che lui chiude a chiave la sera e una guardiana che si
assicura che nessuno si infili dentro inosservato. Ma quell’ufficio
grida: «Qui dentro abbiamo dei segreti!».
Ecco perché io non ho un mio ufficio e nemmeno un cubicolo con
cassetti che si chiudono. Durante il giorno mi capita di occupare una
sala riunioni per qualche discussione, ma la mia assistente sa di
dover fissare la maggior parte dei miei meeting negli spazi lavorativi
altrui. Cerco sempre di andare negli spazi lavorativi della persona
con cui devo parlare, invece di farla venire da me. Una delle cose
che preferisco sono i meeting-passeggiata, durante i quali incrocio
spesso altri dipendenti che si incontrano in riunione all’aperto.
Non si tratta solo degli uffici: qualsiasi area chiusa a chiave è
simbolo di cose nascoste e significa che non ci fidiamo gli uni degli
altri. Durante una delle mie prime visite nella nostra sede di
Singapore ho visto che ai dipendenti erano stati assegnati degli
armadietti in cui potevano chiudere a chiave le loro cose quando
tornavano a casa la sera. Ho insistito perché ci sbarazzassimo delle
serrature.
Ma questi tipi di segnali non bastano, da soli. È compito dei leader
vivere il messaggio di trasparenza condividendo quanto più possibile
con tutti. Cose grandi, cose piccole, belle o brutte che siano: se il
vostro primo istinto è condividere la maggior parte delle informazioni,
gli altri faranno lo stesso. A Netflix lo definiamo sunshining, «dare
sempre visibilità», e ci sforziamo di farlo spesso.

La prima volta che ho incontrato Reed per iniziare le


interviste per questo libro mi aspettavo di farlo in una
sala riunioni con una porta o in un angolino tranquillo
dove avrebbe potuto rispondere a domande anche
indiscrete. Invece mi ha portato su una terrazza, dove
ci siamo seduti a un tavolo a portata d’orecchio di
chiunque. Reed ha raccontato aneddoti vivaci su uno dei suoi primi
lavori come venditore di aspirapolvere porta a porta, sulle
scazzottate fatte alle scuole medie, su un grave incidente d’auto
mentre lui e una ex ragazza attraversavano l’Africa in autostop e
sulle prime difficoltà del suo matrimonio. Altre persone passavano
spesso accanto al nostro tavolo senza che lui abbassasse
minimamente la voce.
Pochi mesi più tardi gli ho mandato la bozza del primo capitolo di
questo libro per avere un feedback. La settimana dopo, durante
un’intervista nella sede di Netflix ad Amsterdam, un manager ha
fatto riferimento a un passaggio specifico di quella prima stesura.
Devo aver assunto un’aria sconcertata perché lui ha spiegato:
«Reed ha mandato quel capitolo a tutti».
«A tutti i dipendenti di Netflix?» ho chiesto.
«Be’, non proprio a tutti, solo ai settecento manager di più alto
livello. Voleva mostrarci a cosa state lavorando voi due.»
Non appena terminata l’intervista ho preso il telefono mentre in
testa mi scorreva la conversazione che avrei avuto con Reed: “Cosa
ti è saltato in mente? Non puoi mandare dei capitoli non finiti a
centinaia di persone! Non ho ancora verificato le fonti”. Ma mentre
componevo il numero ho immaginato la sua risposta: “Non vuoi che
mandi in giro capitoli non finiti? Perché?”. Al che mi sono resa conto
di non avere una risposta convincente.

Sapere quando condividere


L’idea della trasparenza è fantastica. Non sentite mai dei leader
dire che promuovono la segretezza aziendale. Ma la trasparenza
non è priva di rischi. Con il suo istinto per la condivisione, Reed ha
mandato un capitolo non finito a settecento persone. Decine di quei
settecento manager sarebbero potuti venire da me a lamentarsi dei
miei errori. Non è successo, ma sarebbe potuto succedere.
Ci sono dei motivi per tenere dei segreti e spesso non è affatto
chiaro quando è preferibile essere trasparenti e quando invece
tacere. Per cercare di capire come Reed arrivi a prendere decisioni
l’ho sottoposto a un test, che adesso condivido con voi.
Ho presentato quattro scenari che potrebbero indurre a tenere un
segreto e gli ho chiesto di scegliere fra le risposte alternative,
illustrare il suo ragionamento e narrare dilemmi simili tratti dalla vita
reale a Netflix.
Potete rispondere anche voi al quiz. Prima di leggere la risposta di
Reed chiedetevi cosa fareste voi e perché, poi scoprite se siete
d’accordo con lui.

Un quiz per Reed (e per voi)


SCENARIO 1:
INFORMAZIONI CHE SAREBBE ILLEGALE FAR TRAPELARE

Siete il fondatore di una startup con cento dipendenti. Avete sempre creduto nella
trasparenza aziendale, insegnando al vostro staff a capire i conti economici e
mettendo a loro disposizione tutte le informazioni finanziarie e strategiche. Ma la
prossima settimana la vostra azienda verrà quotata in borsa e le cose
cambieranno. Da allora in poi, se rivelaste le vostre cifre trimestrali alla forza
lavoro prima di comunicarle a Wall Street e un vostro dipendente le riferisse a un
amico, le azioni della compagnia potrebbero crollare e chi ha parlato potrebbe
finire in prigione per insider trading. Cosa fate?
a. Continuate a condividere tutte le cifre trimestrali, ma solo DOPO averle
comunicate a Wall Street.
b. Continuate a comunicare al personale tutte le cifre prima che a chiunque altro,
ma sottolineate che se rivelassero queste informazioni potrebbero finire in
prigione.

RISPOSTA DI REED: ELIMINATE L’OMBRELLO

La mia risposta allo Scenario 1 è (b): continuate a


rivelare ai dipendenti i dati finanziari trimestrali prima
di annunciarli pubblicamente, avvertendoli delle terribili
potenziali conseguenze di una fuga di notizie.
Ho sentito parlare per la prima volta della gestione
«a libro aperto» nel 1998. Netflix aveva un anno di vita
e io partecipavo a un corso di sviluppo della leadership all’Aspen
Institute. C’erano dirigenti di diverse aziende e discutemmo di varie
letture stimolanti, fra cui un caso di studio su un manager di nome
Jack Stack.
Jack, un manager di Springfield, Missouri, ridà vita con successo a
un impianto di manifattura un tempo appartenuto alla International
Harvester. L’impianto sta per essere chiuso ma lui raccoglie fondi e
organizza un leveraged buyout, un’acquisizione con capitale di
prestito. Poi, nel tentativo di motivare la sua forza lavoro, si prefigge
due obiettivi:

1. Creare una cultura professionale di trasparenza finanziaria,


rendendo visibile ogni aspetto dell’attività a ogni dipendente.
2. Investire una cospicua quantità di tempo e sforzi per insegnare
a ogni membro del personale a leggere e capire, nel dettaglio, i
report operativi e finanziari settimanali.

Jack insegna ai suoi dipendenti, dall’ingegnere di grado più alto al


più umile lavoratore nella linea di montaggio, a leggere i report
finanziari dell’azienda. Istruisce persone senza un’istruzione
superiore sui particolari del conto economico, una cosa che, in molte
aziende, parecchi vicepresidenti altamente istruiti non sanno fare
bene. Poi fornisce dati operativi e finanziari settimanali a tutti i
dipendenti della ditta in modo che possano vedere come
l’organizzazione procede e come il loro lavoro contribuisce al
successo. Questo suscita nella forza lavoro passione, senso di
responsabilità e senso di appartenenza superiori a quelli in cui
avrebbe potuto sperare. Negli ultimi quarant’anni l’azienda ha
ottenuto un incredibile successo.
Quando abbiamo discusso di quel caso ad Aspen uno degli altri
dirigenti non era d’accordo con l’approccio di Jack: «Il mio lavoro è
tenere un ombrello sopra i miei dipendenti per proteggerli da
questioni che non c’entrano nulla con le loro mansioni. Assumo
ciascuno di loro perché faccia qualcosa in cui eccelle e che ama
fare. Non voglio che debbano sprecare ore a sentir parlare di dettagli
finanziari a cui non sono interessati e che non rappresentano il loro
punto di forza».
Io replicai: «Questo Jack è riuscito a instillare un senso di
appartenenza portando le persone a capire i motivi dietro il lavoro
che stanno facendo. Non voglio che i miei dipendenti sentano che
stanno lavorando per Netflix, voglio che sentano che sono parte di
Netflix». A quel punto decisi che se lavorate per Netflix nessuno vi
terrà un ombrello sopra la testa. Vi bagnerete.
In ufficio cominciammo a tenere meeting «plenari» ogni venerdì.
Patty McCord saliva in piedi su una sedia come un banditore per
attirare l’attenzione generale, e poi ci spostavamo nel parcheggio,
l’unico posto in cui avessimo abbastanza spazio per tutti i
dipendenti. Io distribuivo copie del conto economico e infine
esaminavamo i dati settimanali. Quante spedizioni avevamo
effettuato? Qual era il ricavo medio? A che livello riuscivamo a
soddisfare le richieste dei clienti per la loro prima e seconda scelta di
film? Creammo anche un documento di strategia pieno di
informazioni che non volevamo che i nostri concorrenti sapessero e
lo appendemmo alla bacheca accanto alla macchina del caffè.
Rendemmo pubbliche queste informazioni per suscitare fiducia e
senso di appartenenza nei nostri dipendenti, nella speranza di
ottenere dalla forza lavoro la stessa reazione che aveva ottenuto
Jack Stack. E funzionò. Chiusi l’ombrello e nessuno gemette. Da
allora tutti i risultati finanziari, così come quasi ogni informazione su
cui i rivali di Netflix amerebbero mettere le mani, sono a disposizione
di tutti i nostri dipendenti. Particolarmente degno di nota è il
documento di quattro pagine Strategy Bets («Scommesse
strategiche») sulla homepage dell’intranet dell’azienda.
Il mio scopo era indurre i dipendenti a sentirsi proprietari
dell’azienda e, di conseguenza, aumentare il livello di responsabilità
che si assumevano per il suo successo. Ma rivelare loro i segreti di
Netflix ha dato anche un altro risultato: ha reso più intelligente la
nostra forza lavoro. Quando i dipendenti di basso livello si vedono
consentire l’accesso a informazioni solitamente riservate a dirigenti
di alto livello, fanno più cose in autonomia. Lavorano più in fretta
senza fermarsi a chiedere informazioni e approvazioni. Prendono
decisioni migliori senza aver bisogno di suggerimenti dall’alto.
Nella maggior parte delle aziende i manager di alto livello, senza
nemmeno rendersene conto, limitano le capacità e l’intelligenza della
propria forza lavoro tenendo nascoste informazioni finanziarie e
strategiche. Benché quasi tutte le società dichiarino di voler conferire
autonomia alle persone, nella stragrande maggioranza di esse il
vero empowerment è solo una chimera perché ai dipendenti non
vengono fornite abbastanza informazioni perché possano prendere
alcuna iniziativa. Jack Stack l’ha spiegato bene:
Il problema più dannoso nel campo degli affari è la mera ignoranza di come
funzionino. Ciò che vediamo è un enorme ammasso di persone che vanno a
una partita di baseball senza che nessuno spieghi loro quali sono le regole.
Quella partita è il business. Le persone cercano di andare dalla prima base alla
seconda, ma non sanno nemmeno come ciò si inserisca nel quadro generale.
Se un manager non sa quanti clienti l’azienda si è procurata nelle
ultime settimane e mesi e quali discussioni di strategia sono
attualmente in corso, come può sapere quante persone può
permettersi di assumere? Deve chiederlo al suo responsabile. Se il
suo responsabile non sa di quanto sta crescendo l’azienda non può
prendere una valida decisione, quindi deve rivolgersi al proprio
superiore. Più dipendenti a tutti i livelli capiscono la strategia, la
situazione finanziaria e il contesto quotidiano di cosa sta
succedendo, e più diventano bravi nel prendere decisioni informate
senza coinvolgere quanti sono gerarchicamente sopra di loro.
Jack Stack, naturalmente, non è l’unico leader di un’azienda
privata che condivide tutti i dati finanziari con la forza lavoro. È
quando una azienda diventa quotata in borsa che i manager di più
alto livello cominciano a dire: «Ora dobbiamo crescere e stare più
attenti con le informazioni. Dobbiamo evitare i rischi e assicurarci
che nessun segreto finisca nelle mani sbagliate».
Questo ci riporta allo Scenario 1, in merito al quale il mio consiglio
è: non aprite l’ombrello solo perché la vostra azienda è quotata in
borsa. Ho affrontato lo stesso dilemma del manager fittizio del quiz
di Erin dopo l’offerta pubblica iniziale di Netflix nel 2002. Un venerdì
sono passato a prendere Patty per andare al lavoro e lei ha detto in
tono desolato: «In OGNI altra azienda quotata in borsa solo pochi
insider di massimo livello vedono le relazioni trimestrali prima che
vengano comunicate a Wall Street. Se quelle informazioni trapelano
il dipendente finirà in PRIGIONE! Cosa facciamo?».
Ma io ero deciso. «Se cominciassimo di colpo a nascondere dati
finanziari ai dipendenti quale impressione daremmo? Che i nostri
dipendenti sono degli estranei nella loro stessa azienda!» replicai.
«Non diventeremo più riservati mentre cresciamo. Sai cosa ti dico?
Faremo l’esatto contrario. Ogni anno faremo uno sforzo per
diventare più audaci e condividere ancora più informazioni di prima.»
Siamo forse l’unica azienda quotata in borsa che condivide
internamente i risultati finanziari nelle settimane che precedono la
chiusura del trimestre. Li annunciamo a un QBR con i nostri circa
settecento manager. Il mondo finanziario lo considera avventato ma
non c’è mai stata una fuga di notizie. Il giorno in cui ci sarà
(immagino che succederà) non avremo una reazione eccessiva, ci
limiteremo ad affrontare quell’unico caso e proseguiremo con la
trasparenza.
Per i nostri dipendenti la trasparenza è ormai il principale simbolo
di quanto confidiamo nella loro capacità di agire in modo
responsabile. La fiducia che dimostriamo di avere in loro genera a
sua volta sentimenti di appartenenza, dedizione e responsabilità.
Quasi ogni giorno un nuovo dipendente mi dice quanto è
sbalordito dalla trasparenza a Netflix, il che mi riempie di gioia. Per
esempio Spencer Wang, il vice president of investor relations and
corporate development che un tempo faceva l’analista a Wall Street,
ha fatto circolare questo racconto sulla sua prima settimana di lavoro
da noi:
Netflix, naturalmente, è un’azienda basata sugli abbonamenti, quindi per
calcolare i nostri profitti si moltiplica il prezzo medio di un abbonamento (che
chiunque conosce) per il numero di abbonati. Questo numero è top secret
finché non lo annunciamo pubblicamente una volta a trimestre. Qualsiasi
investitore che lo ottenga in anticipo potrebbe usarlo illecitamente per comprare
o vendere azioni Netflix e fare parecchi soldi. Se qualcuno di Netflix lo rivela
rischia di finire in prigione.
Erano le otto di un lunedì mattina di marzo. Ero appena stato assunto e mi
sentivo leggermente intimidito, stavo cercando di farmi un’idea del posto. Ho
preso un caffè, mi sono seduto alla scrivania e ho acceso il computer. Lì, nella
mia casella postale, c’era un messaggio intitolato Aggiornamento quotidiano
abbonati 19 marzo 2015. Illustrava dettagliatamente con grafici e dati quanti
nuovi abbonati si erano iscritti il giorno prima, per paese.
Avevo il cuore in gola. Dati così sensibili avrebbero davvero dovuto viaggiare
attraverso la posta elettronica regolare? Mi sono avvicinato il computer al petto
e mi sono appoggiato al muro, in modo che nessuno potesse sbirciare da sopra
la mia spalla.
Più tardi il nostro chief finance officer, il mio manager, si è fermato accanto alla
mia scrivania. Gli ho mostrato l’e-mail. «Questo è utilissimo ma anche
pericoloso, se ci fossero fughe di notizie. Quante persone la ricevono?» ho
chiesto. Mi aspettavo che replicasse: “Reed, tu e io. Punto”, invece la sua
risposta fu pazzesca. «Qualsiasi dipendente può chiedere di riceverla. È
disponibile per chiunque sia interessato.»

Naturalmente la trasparenza, come tutti i nostri principi culturali a


Netflix, a volte non funziona. Nel marzo 2014 un director of content
acquisition ha scaricato risme di dati confidenziali e le ha portate con
sé quando è andato a lavorare per la concorrenza, il che ha
provocato emicranie e cause legali e ha consumato un sacco del
nostro tempo. Ma quando un unico dipendente abusa della vostra
fiducia, occupatevi del caso individuale e raddoppiate il vostro
impegno a proseguire con la trasparenza con gli altri. Non punite la
maggioranza per il comportamento sbagliato di pochi.

SCENARIO 2:
POSSIBILE RISTRUTTURAZIONE ORGANIZZATIVA

State discutendo con il vostro capo, al quartier generale, di una possibile


ristrutturazione organizzativa che causerebbe il licenziamento di diversi project
manager del vostro team. A questo punto ne state solo parlando e c’è il 50 per
cento di probabilità che non succeda. Lo dite subito ai vostri project manager o
aspettate di essere sicuri?
a. Lasciate che il tempo faccia il suo corso. Non c’è alcun bisogno di causare
stress adesso. Inoltre se lo dite oggi, i vostri project manager cominceranno
probabilmente a cercare un nuovo lavoro e rischierete di perdere ottimi dipendenti.
b. Optate per un compromesso. Siete preoccupati che i vostri dipendenti vengano
colti troppo alla sprovvista se li licenziate senza preavviso, eppure non volete
nemmeno spaventarli senza motivo. Accennate che ci sono cambiamenti nell’aria
senza specificare cosa sta succedendo in realtà. Quando venite a sapere che
un’altra azienda sta assumendo project manager lasciate con discrezione
l’annuncio sulle loro scrivanie così che possano cominciare a valutare altre
opzioni.
c. Dite loro la verità. Sedetevi con loro e spiegate che c’è il 50 per cento di
probabilità che alcuni dei loro posti vengano eliminati nel giro di sei mesi.
Sottolineate che li apprezzate enormemente e sperate che rimangano, ma che
preferite essere trasparenti in modo che dispongano di tutte le informazioni
necessarie per riflettere sul proprio futuro.

RISPOSTA DI REED: SCROLLATE IL PANIERE

La mia risposta allo Scenario 2 è (c): dite tutta la


verità.
Nessuno vuole sentirsi dire che esiste la possibilità
di perdere il lavoro. L’idea del cambiamento è sempre
destabilizzante e spesso angosciante, anche se è una
piccola variazione come essere trasferiti in un altro reparto o sentirsi
chiedere di lavorare in un altro ufficio. Se lo dite alle persone prima
di esserne certi provocherete ansia, il che porterà a distrazione e
inefficienza, e magari spronerà i dipendenti a cercare lavoro altrove.
Perché rompere le uova nel paniere prima di essere sicuri?
Ma se volete costruire una cultura di trasparenza e non parlate del
possibile cambiamento finché non è deciso dimostrerete ai vostri
dipendenti che siete degli ipocriti di cui non ci si può fidare. Predicate
la trasparenza e poi sussurrate alle loro spalle. Il mio consiglio è di
tendere decisamente verso la trasparenza. Procedete e scrollate il
paniere. Alcune uova potrebbero rompersi, ma va bene così. Una
volta che le cose si sistemano la fiducia in voi crescerà.
Certo, ogni caso è leggermente diverso dagli altri e a Netflix
ciascun dipendente ha un’opinione diversa su simili situazioni così
delicate emotivamente. A volte condividiamo le informazioni e le
persone ne sono felici, a volte invece rimpiangono che non le
abbiamo tenute per noi. Abbiamo chiesto agli impiegati di Netflix, se
lo volevano, di fornire una risposta alla domanda dello Scenario 2 ed
ecco due esempi.
La prima risposta, quella del vice president of digital products Rob
Caruso, è stata simile alla mia, soprattutto perché lui aveva
sperimentato di persona le conseguenze della vita in un’azienda che
non condivide apertamente le informazioni sensibili:
Prima di entrare in Netflix lavoravo a HBO come vicepresidente prodotti digitali.
A HBO non importa a quale livello arrivi, hai sempre l’impressione che ci siano
altre cinque porte chiuse che non riuscirai mai ad aprire. Tutte le discussioni
strategiche vengono rivelate solo in base alla necessità. E nella stragrande
maggioranza delle situazioni i manager di più alto livello ritengono che non sia
necessario che tu sappia. Non sto criticando HBO, credo sia un approccio
aziendale piuttosto diffuso.
Un giorno di dicembre avevamo una grossa scadenza e arrivai al lavoro così
presto che regnava un silenzio di tomba. Ricordo che c’era brutto tempo e mi
ero messo un vecchio paio di scarpe da ginnastica invece delle solite scarpe
eleganti a causa del fango misto a neve nelle strade. Quando entrai in ufficio
trovai sulla mia scrivania un biglietto che mi chiedeva di passare nell’ufficio del
presidente della divisione, appena fossi arrivato. La cosa mi rese nervoso
perché non mi avevano mai convocato a un meeting senza preavviso. Pensai
subito che non avrei dovuto mettere quelle vecchie scarpe da ginnastica.
Il presidente era seduto nel suo ufficio con un altro tizio dall’aria molto cordiale
che mi fu presentato come il mio nuovo responsabile. Quando lo disse provai
una fitta di apprensione: cosa significava per me e il team? Dopo dieci minuti
capii che era una splendida notizia. Nessuno era stato licenziato e il nuovo
responsabile era magnifico. Il messaggio dell’azienda era: «Vogliamo investire
nel vostro reparto e abbiamo assunto un nuovo leader che può davvero alzare il
livello delle vostre iniziative».
Ma lasciando quell’ufficio sentii, invece dell’euforia che avrei dovuto provare,
un’amara sensazione di sfiducia. Non avevo nemmeno saputo che si stesse
discutendo della cosa. Quante persone sapevano che era in corso la ricerca di
un nuovo responsabile e non me l’avevano detto? Era solo l’ennesimo segreto
dei manager di alto livello che mi faceva sentire un estraneo nella mia stessa
organizzazione.
La reticenza era talmente onnipresente che quando lasciai HBO per passare a
Netflix ebbi un grosso shock.
Non dimenticherò mai il mio primo Netflix Quarterly Business Review (QBR). Mi
trovavo a Netflix solo da una settimana circa. Entrai nell’auditorium da solo. Non
conoscevo quasi nessuno e mi aspettavo lo stesso genere di presentazione
stereotipata che aveva caratterizzato i meeting dirigenziali nei miei precedenti
posti di lavoro. In quel grande auditorium c’erano quattrocento manager e dopo
un breve saluto di Reed le luci sul palco si spensero e apparve una diapositiva
bianca su cui era scritto in lettere maiuscole nere:

ANDRETE IN PRIGIONE SE FATE TRADING


USANDO QUESTE INFORMAZIONI…
O SE LO FA IL VOSTRO AMICO.
CONFIDENZIALE. NON CONDIVIDETELO.

Il vice president of finance Mark Yurechko saltò sul palco con un gran sorriso. Ci
illustrò la situazione finanziaria trimestrale, l’andamento dei prezzi delle azioni e
come si aspettava che le cifre di quel giorno influissero sul prezzo delle azioni.
Nei miei decenni di lavoro per altre aziende non avevo mai visto niente di simile.
Solo pochi dirigenti di massimo livello erano al corrente di quel tipo di dati.
Nel corso delle ventiquattro ore seguenti vennero messi sul tavolo i particolari
delle questioni strategiche oggetto di dibattito – comprese riorganizzazioni e altri
grossi cambiamenti che Reed e il suo team stavano considerando – e ne
discutemmo divisi in piccoli gruppi. Pensavo: “Oddio, è tutto condiviso così
apertamente!”.
Netflix tratta i dipendenti come adulti in grado di gestire informazioni difficili e a
me questo piace moltissimo. Suscita un’enorme dedizione e approvazione nei
dipendenti. Per lo Scenario 2 scelgo la risposta (c): condividete. Dite la verità a
quei dipendenti. Potrebbero spaventarsi, ma almeno sanno che siete sinceri con
loro. E questo è molto importante.
Il pensiero di Rob è in linea con il mio e ho sorriso orgoglioso
quando l’ho sentito. Ma la seconda risposta, quella di Isabella, la
project manager of original content, è più interessante perché
dimostra che le decisioni legate alla trasparenza sono solitamente
difficili e non esistono risposte perfette. Ecco cosa ha detto:
Mi sono trovata quasi nell’esatta situazione descritta nello Scenario 2. Quello
che ho imparato è che per quanto la trasparenza suoni fantastica spesso è di
gran lunga meglio non sapere.
Per darvi un po’ di contesto dirò che mio marito e io stavamo cercando da
quattordici mesi una nuova casa vicino alla sede di Netflix a Los Angeles, così
da ridurre il percorso dei miei spostamenti quotidiani. Finalmente, dopo aver
visitato un centinaio di case che non andavano bene, avevo trovato quella dei
miei sogni, il genere di abitazione con un open space in cui dalla cucina al
pianterreno puoi parlare con qualcuno nella camera al piano di sopra senza
pareti che blocchino la comunicazione. Lì avrei potuto cantare qualcosa a mia
figlia mentre sparecchiavo la tavola e lei era a letto.
Amavo il mio lavoro e lo facevo bene. Mi stavo occupando del talk show di
Chelsea Handler. Di solito pubblichiamo tutta una stagione di un programma
Netflix insieme, ma Chelsea veniva trasmesso tre volte la settimana e dopo ogni
registrazione avevamo ventiquattro ore di tempo per farla tradurre in una serie
di lingue diverse e metterla on line. Il mio ruolo consisteva nel gestire il tutto.
Poi, un giorno, il mio manager Aaron inserì sul mio calendario un meeting
intitolato Il futuro.
Eravamo seduti nella sala riunioni Out of Africa, che è tutta gialla: pareti,
tappeto, moquette e poltroncine gialli. Aaron mise una poltroncina davanti a me
e disse: «Non c’è ancora niente di definitivo, ma esiste una probabilità su due
che il ruolo di gestione del programma che svolgi venga eliminato. Stiamo
parlando di una ristrutturazione in cui il tuo ruolo potrebbe scomparire, ma lo
saprò soltanto fra sei-dodici mesi». Cominciò a girarmi la testa. Il tappeto giallo
si trasformò nel soffitto giallo e facevo fatica a mettere a fuoco il viso di Aaron.
Andai in crisi. Lasciammo che la casa andasse a un altro offerente. Come
potevo acquistare una casa quando rischiavo di perdere il lavoro? Poi mi
arrabbiai. Perché Aaron aveva dovuto causarmi un simile stress per qualcosa di
totalmente ignoto? La sera guardavo la televisione con i miei due figli. Quando
compariva il logo di Netflix invece di provare l’orgoglio di un tempo mi sentivo
pervadere da ansia e risentimento. La cosa stupida fu che il mio ruolo NON
venne eliminato, fu solo unito con un altro. Avevo rinunciato alla casa e passato
tutti quei mesi di stress per niente.
Ecco perché voto per (a). Perché rovinare la vita ai tuoi dipendenti senza
motivo?
Isabella ha ragione a dire che è stressante scoprire che potresti
perdere il lavoro e frustrante scoprire in seguito che hai passato tutte
quelle notti insonni per niente. Ma a dispetto del suo voto per la
risposta (a) credo che il suo racconto serva solo a sottolineare la
validità della risposta (c): condividete.
Provate a immaginare che la situazione si sia sviluppata in modo
diverso. Supponete che Aaron avesse deciso di non dirle niente
prima di esserne sicuro e lei avesse acquistato la casa. Poi
immaginate che Isabella, concluso il trasloco, un giorno fosse
arrivata al lavoro per sentirsi dire da Aaron: «Mi dispiace tanto! Il tuo
ruolo è stato eliminato e tu sei stata licenziata». Si sarebbe infuriata
perché lui aveva discusso, senza informarla, di questioni che
avrebbero influito sulla sua vita.
A Netflix non ci occupiamo della vostra situazione abitativa o di
qualsiasi altro aspetto importante della vostra vita, ma è compito
nostro trattarvi da adulti e fornirvi tutte le informazioni di cui
disponiamo in modo che possiate prendere decisioni informate.
Detto questo, la trasparenza è la nostra linea guida ma non siamo
puristi. Ho un Documento Google che è condiviso solo con i miei sei
dipendenti diretti. Possiamo scrivervi qualsiasi cosa, incluso per
esempio Preoccupazioni per la performance di Ira, e non è
accessibile al resto dell’azienda. Ma questi casi sono rari. In
generale, quando in dubbio, cerchiamo di rendere pubblico quel che
succede il prima possibile per creare adesione e aiutare le persone a
capire che, anche se la situazione cambierà di continuo, almeno
saranno tenute informate.
SCENARIO 3:

COMUNICAZIONE A SEGUITO DI UN LICENZIAMENTO

Avete deciso di licenziare un membro senior del team marketing, Kurt. È un gran
lavoratore, gentile e nel complesso efficiente, ma ogni tanto diventa verbalmente
maldestro, facendo gaffe e mettendo nei guai l’azienda sia quando si rivolge ai
dipendenti sia quando parla all’esterno. Il costo di questa condotta è diventato
troppo alto.
Quando gli dite che ha perso il lavoro rimane devastato. Vi spiega quanto è legato
all’azienda, ai suoi dipendenti e all’ufficio. Vi chiede di dire a tutti che ha deciso lui
di andarsene. Come comunicherete il suo licenziamento al personale?
a. Dite tutta la verità a coloro che trarranno vantaggio dal conoscerla. Mandate
un’e-mail ai colleghi di Kurt a Netflix spiegando che Kurt, per quanto un gran
lavoratore, gentile ed efficiente, a volte diventa verbalmente maldestro, facendo
gaffe e mettendo nei guai l’azienda. Il costo è diventato così alto che avete deciso
di licenziarlo.
b. Raccontate solo parte della verità. Informate il team che Kurt se n’è andato ma
non avete la libertà di discutere i dettagli. Non lavora più lì. Che importanza hanno
i motivi? Non infierite e salvaguardate la sua reputazione.
c. Annunciate che Kurt ha deciso di andarsene perché voleva trascorrere più
tempo con la sua famiglia. Ha lavorato con impegno per voi, l’avete già licenziato,
non avete bisogno anche di umiliarlo.

RISPOSTA DI REED: LASCIATE LE INFIORETTATURE ALLA MUSICA

La mia risposta allo Scenario 3 è (a): dite tutta la


verità.
Manipolare il messaggio per mettere
l’organizzazione, voi stessi o un altro dipendente in
una luce migliore di quella reale è una prassi talmente
diffusa nel mondo del business che molti leader non si
rendono nemmeno conto di farlo. Abbelliamo la realtà rivelando solo
alcuni fatti, dando rilievo agli aspetti positivi, minimizzando quelli
negativi, tutto nel tentativo di plasmare la percezione altrui.
Ecco un altro paio di esempi di questo comportamento che
potreste riconoscere:
«Dopo aver ricoperto un ruolo importante nell’ufficio di Ramon,
Carol è alla ricerca di un’opportunità per mettere a frutto le sue
capacità amministrative in un altro settore.»
Traduzione: «Ramon non vuole più Carol nel suo team. Qualcun
altro è disposto ad accoglierla così non saremo costretti a
licenziarla?».
«Allo scopo di aumentare le sinergie aziendali Douglas passerà
ad assumere un ruolo di sostegno a Kathleen. I team di qualità
che lavorano per loro uniranno le forze per affrontare la
stimolante sfida di potenziare le vendite dell’organizzazione.»
Traduzione: «Douglas è stato retrocesso a lavorare per
Kathleen. Tutti i suoi dipendenti diretti verranno inglobati
nell’ufficio di Kathleen».

Edulcorare la verità è uno dei modi più diffusi in cui i leader


erodono la fiducia. Non lo ripeterò mai abbastanza: non fatelo. I
vostri dipendenti non sono stupidi. Quando cercate di abbellire le
cose lo capiscono, e questo vi fa sembrare degli impostori. Parlate
chiaramente senza cercare di far sembrare positive le situazioni
negative e loro capiranno che dite la verità.
Capisco che possa essere difficile. Qualsiasi capo che cerchi di
essere più trasparente impara presto che talvolta il vantaggio di
portare i problemi alla luce contrasta con quello di tutelare il diritto
alla privacy di un individuo. Sono entrambi importanti. Ma quando
qualcuno viene licenziato tutti vogliono capire come mai. Prima o poi
l’accaduto salterà fuori. Se però spiegate chiaramente e
sinceramente perché avete licenziato qualcuno i pettegolezzi
cessano e la fiducia aumenta.
Diversi anni fa vivemmo una sgradevole esperienza quando
licenziammo uno dei nostri alti dirigenti per la mancanza di
trasparenza nelle sue comunicazioni. Jake era candidato a una
promozione quando alcuni membri del suo team vennero a dirci che
era stato poco trasparente nei confronti del team e che secondo loro
non reagiva bene ai feedback. Fornirono esempi di occasioni in cui
gli avevano fornito un feedback sincero e lui aveva reagito in
maniera ambigua o offensiva. Un esempio in particolare ci parve
specialmente inappropriato. Quando il suo responsabile e le risorse
umane cercarono di parlare con lui, Jake fornì una versione ancora
più manipolata della situazione, perdendo la fiducia delle persone
con cui lavorava a più stretto contatto.
Quando lo licenziò, il suo manager ebbe un tipico momento di
dubbio. Doveva mandare un’e-mail spiegando in maniera
trasparente cos’era successo oppure doveva permettere a Jake di
andarsene in silenzio, magari affermando che avevamo tutti deciso
di comune accordo che era giunta l’ora di un cambiamento?
Ma la trasparenza è l’unica risposta adeguata ai nostri principi,
così il manager di Jake scrisse a chi lavorava con quest’ultimo la
seguente e-mail (questa è una versione condensata).
Carissimi,
con sentimenti contrastanti ho deciso di licenziare Jake.
Era un candidato interno a una promozione per un ruolo dirigenziale di alto
livello. Mentre effettuavamo la dovuta valutazione per la promozione mi sono
state riferite alcune altre informazioni secondo cui Jake non ha mostrato
costantemente le doti di leader che esigiamo o ci aspettiamo.
Nello specifico è ormai chiaro che Jake non è stato sincero con noi su un
importante problema con i dipendenti che ha influito sul business, e questo
nemmeno quando è stato interpellato direttamente.
Jake ha avuto un impatto rilevante durante i suoi tanti anni qui a Netflix e per
alcuni questo sarà uno shock. Ha lavorato molto e bene. Ma sono sicuro che i
feedback da me raccolti siano chiari e ci hanno condotto alla necessità di fare
questo cambiamento.

Naturalmente c’è sempre il rischio di essere troppo sinceri quando


si rivelano i motivi del licenziamento di qualcuno. È importante
rispettare la dignità della persona che se ne va così come prendere
in considerazione le specificità culturali dei diversi paesi quando si
stabilisce quanto rivelare. Raccomando ai nostri manager di cercare
di essere il più trasparenti possibile e di chiedersi se potrebbero
rispondere affermativamente alla domanda: «Mi sentirei a mio agio
mostrando al diretto interessato l’e-mail che ho spedito?».
In questo caso le azioni di Jake avevano avuto luogo in ufficio.
Quando si tratta di parlare apertamente dei problemi personali di un
dipendente la situazione si complica ancora di più. E in questi casi
consiglio un approccio diverso.
Nell’autunno del 2017 uno dei nostri leader, che a nostra insaputa
lottava con l’alcolismo, ebbe una ricaduta durante un viaggio d’affari.
Andò subito in riabilitazione. Cosa dovevamo dire al suo staff?
Secondo il suo manager avremmo dovuto attenerci alla Cultura
Netflix e rivelare la verità a tutti, mentre le risorse umane
sostenevano che lui avrebbe dovuto avere il diritto di scegliere cosa
rivelare delle proprie sfide personali. In questo caso fui d’accordo
con le risorse umane. Quando si tratta di problemi personali il diritto
alla privacy di un individuo prevale sul desiderio di trasparenza di
un’azienda. In quel caso non abbiamo scelto la via più trasparente
ma nemmeno abbiamo edulcorato la realtà. Abbiamo detto a tutti
che si era preso due settimane di ferie per motivi personali. Spettava
a lui fornire ulteriori dettagli, se sceglieva di farlo.
In generale credo che se il dilemma è legato a un episodio
avvenuto sul posto di lavoro tutti dovrebbero esserne informati, ma
se è invece collegato alla situazione personale di un dipendente
spetta a lui rivelare i dettagli, se lo desidera.
SCENARIO 4:

QUANDO COMBINATE CASINI

Siete di nuovo il fondatore di una startup con cento dipendenti. È un lavoro arduo
e, a dispetto dei vostri sforzi, commettete una serie di gravi errori. Il più notevole è
che assumete e licenziate cinque diversi direttori vendite in cinque anni.
Continuate a pensare di aver trovato un buon candidato ma ogni volta, quando
cominciate a lavorare insieme, vi rendete conto che il neoassunto non possiede le
caratteristiche necessarie per svolgere il lavoro. Vi rendete conto che queste
assunzioni errate dipendono interamente da un vostro errore di giudizio. Lo
ammettete con i vostri dipendenti?
a. No! Non volete che il gruppo perda fiducia nelle vostre capacità di leader. Alcuni
dei vostri dipendenti migliori potrebbero addirittura licenziarsi per cercare un
manager migliore. D’altra parte chiunque può vedere che un quinto direttore
vendite è appena stato licenziato. Dovete dire qualcosa, ma vi limitate a poche
parole su quanto sia difficile trovare direttori vendite capaci. Concentrate i vostri
sforzi per trovarne uno eccezionale al giro successivo.
b. Sì! Volete incoraggiare il vostro staff ad assumersi dei rischi e a considerare gli
errori una parte inevitabile di quel processo. Inoltre parlare apertamente dei vostri
errori spinge gli altri a fidarsi maggiormente di voi. Durante il successivo meeting
aziendale dite al gruppo come vi imbarazza aver sbagliato per la quinta volta con
l’assunzione e la gestione del direttore vendite.

RISPOSTA DI REED: SUSSURRATE LE VITTORIE E GRIDATE GLI ERRORI

La mia risposta allo Scenario 4 è (b): sì! Ammettete di


aver commesso un errore.
Agli inizi della mia carriera, nei primi tempi di Pure
Software, ero troppo insicuro per parlare apertamente
dei miei passi falsi con i colleghi e ho imparato una
lezione importante. Stavo commettendo molti errori di
leadership e la cosa mi pesava molto. Oltre alla mia generale
incompetenza nel gestire le persone, avevo effettivamente assunto e
licenziato cinque direttori vendite in altrettanti anni. Nei primi due
casi potei incolpare la persona da me assunta, ma quando si giunse
al quarto e quinto fallimento era ormai chiaro che il problema ero io.
Una cosa che ho sempre fatto è anteporre l’azienda a me stesso.
Sicuro che la mia incompetenza nuocesse all’organizzazione, andai
dal consiglio di amministrazione e, come se mi trovassi in un
confessionale, riferii dettagliatamente le mie inadeguatezze e offrii le
mie dimissioni.
Ma il consiglio di Pure non le accettò. Dal punto di vista finanziario
l’azienda stava andando bene. Il consiglio concordava sul fatto che
avevo commesso errori nel gestire le persone, ma sostenne che se
avesse assunto una persona nuova anch’essa avrebbe fatto degli
sbagli. Durante quel meeting accaddero due cose affascinanti. Una
fu che, come previsto, provai un immenso sollievo perché avevo
detto la verità ed ero stato sincero sui miei errori. L’altra fu più
interessante: il consiglio di amministrazione parve credere
maggiormente nella mia leadership una volta che mi ero aperto e
mostrato vulnerabile.
Tornai in ufficio e durante il successivo meeting con tutti i
dipendenti feci la stessa cosa. Illustrai i miei errori nel dettaglio ed
espressi il mio rammarico per aver nociuto all’azienda. Stavolta non
solo provai un sollievo ancora più intenso e consolidai la fiducia dello
staff nei miei confronti, ma le persone cominciarono anche a
raccontarmi ogni genere di sbagli che avevano commesso, sbagli
che fino a quel momento avevano nascosto sotto il tappeto. La cosa
diede loro sollievo, migliorò i nostri rapporti e mi fornì ulteriori
informazioni perché potessi svolgere un lavoro più efficace nel
gestire l’attività.
Nel 2007, quasi un decennio dopo, entrai nel consiglio di
amministrazione di Microsoft. Steve Ballmer, l’amministratore
delegato dell’epoca, è un uomo grande e grosso, chiassoso e
cordiale. Parlava con la massima trasparenza dei suoi errori dicendo
frasi tipo: «Guarda qui, guarda cosa ho combinato». Questo me lo
fece sentire vicino. Che tipo sincero e riflessivo! E capii che è un
normale comportamento umano provare una maggiore fiducia verso
chi è sincero in merito ai propri errori.
Da allora, ogni volta che sento di aver commesso uno sbaglio ne
parlo in maniera esauriente, pubblica e ripetuta. Ho ben presto
capito che il principale vantaggio di mettere in luce gli errori di un
leader è che incoraggia tutti a considerare normale il fatto di
commetterli. Questo a sua volta incoraggia i dipendenti a correre
rischi quando il successo non è certo… il che porta a una maggiore
capacità di innovazione in tutta l’azienda. Aprirsi con gli altri crea
fiducia, cercare aiuto potenzia l’apprendimento, ammettere gli errori
favorisce la comprensione, parlare pubblicamente dei fallimenti
incoraggia i vostri dipendenti ad agire in modo coraggioso.
Ecco perché, quando si tratta dello Scenario 4, non ho alcuna
riserva. L’umiltà è importante in un leader e modello di
comportamento. Quando ottenete un successo parlatene
sommessamente o lasciate che siano altri a menzionarlo al posto
vostro. Ma quando invece commettete un errore ditelo in modo
chiaro e forte, così che tutti possano imparare e trarre profitto dai
vostri sbagli. In altre parole, sussurrate le vittorie e gridate gli errori.

Reed parla così spesso e apertamente dei suoi errori


in veste di CEO di Pure Software che si direbbe abbia
vissuto un’unica gigantesca catastrofe, a dispetto del
fatto che il fatturato annuale raddoppiò per quattro
anni consecutivi prima che Morgan Stanley quotasse
in borsa l’azienda nel 1995; due anni dopo fu venduta
per settecentocinquanta milioni di dollari, parte dei quali andarono a
Reed e costituirono il capitale iniziale di Netflix.
La ricerca conferma le affermazioni di Reed sulle conseguenze
positive del fatto che un leader parli apertamente dei propri errori.
Nel suo libro Osare in grande. Come il coraggio della vulnerabilità
trasforma la nostra vita in famiglia, in amore sul posto di lavoro
Brené Brown spiega, sulla base dei propri studi qualitativi, che
«amiamo vedere la nuda verità e la sincerità nelle altre persone ma
abbiamo paura di consentire loro di vederle in noi. […] La
vulnerabilità è coraggio in te e inadeguatezza in me».
Anna Bruk e il suo team presso l’università di Mannheim in
Germania si sono chiesti se sarebbe stato possibile replicare le
scoperte di Brown a livello quantitativo. Hanno chiesto ai soggetti di
immaginarsi in una vasta gamma di situazioni di vulnerabilità, per
esempio essere i primi a scusarsi dopo un acceso litigio e
ammettere con il vostro team di aver commesso un grave errore al
lavoro. Quando le persone si immaginavano in quelle situazioni
tendevano a credere che mostrare vulnerabilità le facesse apparire
«deboli» e «inadeguate», ma quando invece immaginavano qualcun
altro nelle stesse situazioni avevano maggiori probabilità di
descrivere come «desiderabile» e «positivo» questo atteggiamento.
Ha concluso che la sincerità in merito agli errori giova a relazioni,
salute e prestazioni lavorative.
Esistono però anche ricerche che mostrano che, se qualcuno è
già considerato poco efficace, portando alla luce i propri errori riesce
solo a rafforzare quell’opinione. Nel 1966 lo psicologo Elliot Aronson
condusse un esperimento. Chiese ad alcuni studenti di ascoltare le
registrazioni di candidati che si sottoponevano a un colloquio per
entrare in un team che avrebbe partecipato a una gara di quiz. Due
di loro dimostravano la propria intelligenza rispondendo
correttamente alla maggior parte delle domande, mentre altri due
davano risposte esatte solo il 30 per cento delle volte. Poi un gruppo
di studenti sentiva il frastuono di stoviglie infrante seguito dalla voce
di uno dei candidati intelligenti che diceva: «Oddio, mi sono
rovesciato il caffè sul vestito nuovo». Un altro gruppo di studenti,
dopo lo stesso rumore, udiva uno dei candidati mediocri dire che
aveva versato il caffè. In seguito gli studenti dissero di apprezzare
ancora di più il candidato intelligente dopo che aveva ammesso di
aver combinato un pasticcio, ma per il candidato mediocre valeva
l’esatto contrario: affermarono di apprezzarlo ancora meno dopo
averlo sentito in una situazione di vulnerabilità.
Questa tendenza ha un nome: effetto pratfall. È la tendenza
dell’attrattiva di qualcuno ad aumentare o diminuire dopo che ha
commesso un errore, a seconda della sua capacità percepita di
riuscire bene in generale. In uno studio condotto dalla professoressa
Lisa Rosh del Lehman College una donna si presentava senza
menzionare le proprie credenziali o il titolo di studio ma raccontando
di come, la notte precedente, era rimasta sveglia per badare al suo
bimbo malato. Le servirono mesi per riacquistare credibilità. Se la
stessa donna veniva invece presentata come vincitrice di un premio
Nobel, quando raccontava di essere rimasta in piedi tutta la notte
con il figlioletto suscitava reazioni di affetto ed empatia nel pubblico.
Quando abbinate i dati al consiglio di Reed scoprite quale
insegnamento si può trarre: un leader che si sia dimostrato
competente e sia apprezzato dal suo team susciterà fiducia e
incoraggerà ad assumere rischi quando mette ampiamente in luce i
propri errori. La sua azienda ne trarrà beneficio. L’unica eccezione è
rappresentata da un leader che non abbia ancora dimostrato il
proprio valore né suscitato fiducia. In questi casi vi converrà ottenere
fiducia nella vostra competenza prima di gridare i vostri errori.

Il quinto puntino
Se avete i migliori dipendenti sul mercato e avete istituito una
cultura di feedback sincero, rivelare i segreti dell’azienda aumenta il
senso di appartenenza e la dedizione. Se confidate nel fatto che i
vostri dipendenti gestiranno in modo appropriato le informazioni
sensibili, la fiducia da voi dimostrata susciterà un senso di
responsabilità e loro vi dimostreranno quanto sono affidabili.
▶ CONCETTI CHIAVE DEL CAPITOLO 5
Per creare una cultura di trasparenza considerate quali segnali inviate.
Sbarazzatevi di uffici chiusi, assistenti che fungono da guardiani e spazi
chiusi a chiave.
Aprite i registri contabili ai vostri dipendenti. Insegnate loro a leggere il conto
economico. Condividete informazioni finanziarie e strategiche sensibili con
tutti i dipendenti dell’azienda.
Quando prendete decisioni che influiranno sul benessere dei vostri
dipendenti, quali riorganizzazioni o licenziamenti, confidatevi presto con loro,
prima che le cose siano definitive. Questo provocherà qualche ansia e
distrazione, ma la fiducia che creerete compenserà ampiamente gli
svantaggi.
Quando la trasparenza è in conflitto con la privacy dell’individuo seguite
queste linee guida: se le informazioni riguardano qualcosa accaduto sul
posto di lavoro scegliete la trasparenza e parlate sinceramente dell’episodio;
se invece riguardano la vita privata di un dipendente dite alle persone che
non spetta a voi condividerle e che possono interpellare direttamente
l’interessato, se vogliono.
Se vi siete già dimostrati competenti parlare apertamente e ampiamente dei
vostri errori – e incoraggiare tutti i vostri leader a fare altrettanto – accrescerà
la fiducia, la buona volontà e l’innovazione in tutta l’azienda.

Verso una cultura di libertà e responsabilità


Adesso che avete alta densità di talento, sincerità e trasparenza organizzativa, e
avete già fatto qualche esperimento con libertà simboliche (per esempio
eliminando i limiti alle ferie e le politiche trasferte e spese) siete pronti a portare la
libertà a un livello ancora superiore. L’argomento del prossimo capitolo – Non
servono approvazioni per decidere – non può essere attuato se non avete già
affrontato quelli dei capitoli precedenti. Purché abbiate già svolto il lavoro
preliminare, il prossimo capitolo è quello che ha maggiori probabilità di aumentare
innovazione, velocità e soddisfazione dei dipendenti in tutta l’azienda.
ORA ELIMINATE ALTRI CONTROLLI…
6.
NON SERVONO APPROVAZIONI PER DECIDERE

Nel 2004 eravamo ancora solo un’azienda di noleggio


postale di DVD e Ted Sarandos era responsabile
dell’acquisto di tutti i DVD. Decideva se dovevamo
ordinare sessanta copie di un nuovo film oppure
seicento, che poi sarebbero state mandate ai nostri
clienti.
Un giorno era appena uscito un nuovo film sugli alieni che
secondo Ted sarebbe stato un successo. Stavamo prendendo un
caffè insieme mentre lavorava sul modulo d’ordine, così mi chiese:
«Quanti dovrei ordinarne, secondo te?».
«Oh, dubito che diventerà molto popolare» replicai. «Prendine
solo qualcuno.» Nel giro di un mese il film era richiestissimo e noi
avevamo finito le scorte. «Perché non hai preso più copie di quel film
sugli alieni, Ted?!» esclamai.
«Perché tu mi hai detto di non farlo!» protestò lui.
Fu allora che cominciai a capire i pericoli della piramide
decisionale standard. Io sono il capo e ho salde opinioni che
condivido senza problemi, ma non sono la persona più adatta per
stabilire quanti film ordinare o per prendere tante altre importanti
decisioni quotidiane a Netflix.
«Ted», gli dissi, «il tuo lavoro non è farmi contento o prendere la
decisione che pensi approverei. È fare quello che è giusto per il
business. Non ti autorizzo a lasciarmi mandare in rovina questa
azienda!»
Nella maggior parte delle società il manager si trova lì per
approvare o bloccare le decisioni dei dipendenti. Questo è un modo
infallibile per limitare l’innovazione e rallentare la crescita. A Netflix
ripetiamo sempre che va benissimo non essere d’accordo con il
proprio manager e realizzare un’idea che non approva. Non
vogliamo che le persone accantonino un’ottima idea solo perché il
manager non ne riconosce la bontà. Ecco perché diciamo:

NON CERCATE DI COMPIACERE IL VOSTRO MANAGER.


CERCATE DI FARE QUELLO CHE È MEGLIO PER L’AZIENDA.

C’è tutta una mitologia che narra di amministratori delegati e altri


leader di alto livello talmente attenti ai dettagli del business da
rendere straordinario il loro prodotto o servizio. La leggenda di Steve
Jobs dice che il suo micromanagement rese l’iPhone un prodotto
superlativo. Talvolta i capi dei principali network e studi
cinematografici prendono numerose decisioni sul contenuto creativo
dei loro progetti. Alcuni dirigenti arrivano addirittura a vantarsi di
essere dei «nanomanager».
Naturalmente nella maggior parte delle aziende, persino quelle i
cui capi non si dedicano al micromanagement, i dipendenti cercano
di prendere le decisioni che hanno le maggiori probabilità di essere
appoggiate dal capo. La nozione diffusa è che i manager siano più
esperti perché sono arrivati al top. Se tenete alla vostra carriera e
non volete essere accusati di insubordinazione, ascoltate
attentamente quello che il capo ritiene preferibile e seguite quella
linea di condotta.
Noi non emuliamo questi modelli di approccio dall’alto perché
crediamo di essere più rapidi e innovativi quando i dipendenti
dell’intera società prendono decisioni autonome. A Netflix ci
impegniamo perché tutta l’azienda sviluppi buone capacità
decisionali e ci vantiamo di quante poche decisioni prendano i
manager di più alto livello.
Qualche tempo fa Sheryl Sandberg, di Facebook, mi ha affiancato
in ufficio per una giornata intera. Ha partecipato a tutti i miei meeting
e incontri a tu per tu. È una cosa che faccio ogni tanto con altri
dirigenti della Silicon Valley in modo che possiamo imparare
osservandoci in azione reciprocamente. In seguito, durante il nostro
debriefing, Sheryl ha detto: «La cosa straordinaria è stata rimanere
seduta con te tutto il giorno e vedere che non hai preso nemmeno
una decisione!».
Ne sono stato felice perché è esattamente lo scopo a cui miriamo.
Il nostro modello di processo decisionale distribuito è diventato un
fondamento della nostra cultura e uno dei motivi principali per cui ci
siamo ingranditi e abbiamo innovato così in fretta.

Quando abbiamo cominciato a lavorare su questo


libro ho chiesto come Reed avrebbe trovato il tempo di
collaborare con me. Ha risposto: «Oh, posso dedicare
al progetto tutto il tempo che ritieni necessario».
Sono rimasta stupita. Dato il ritmo di crescita di
Netflix come poteva non essere oberato di impegni?
Eppure
Reed crede così fermamente nel processo decisionale distribuito
che, in base al suo modello, solo un CEO che non sia impegnato sta
davvero facendo il suo lavoro.
L’attività decisionale diffusa può funzionare solo in ambienti ad alta
densità di talento e alti livelli di trasparenza aziendale. Senza questi
elementi l’intera premessa vi si può ritorcere contro. Una volta che
questi elementi sono stati introdotti siete pronti a eliminare controlli
che non sono semplicemente simbolici (come il monitoraggio delle
ferie) ma che hanno anche il potere di aumentare drasticamente la
velocità di innovazione in tutto il vostro business. Paolo Lorenzoni,
un esperto di marketing che ha lavorato per Sky Italia prima di
passare alla sede di Netflix ad Amsterdam, dimostra questo principio
paragonando il suo vecchio posto di lavoro e il nuovo:
Sky è stata l’unica rete italiana a trasmettere Il Trono di Spade. Il mio capo mi
chiese di trovare alcune idee promozionali per la serie e a me ne venne in
mente una fantastica.
Se avete visto Il Trono di Spade sapete dell’enorme barriera di ghiaccio che
protegge il paese. Una larga parte della serie è ambientata lassù, dove fa molto,
molto freddo. Questo mi diede l’idea per la pubblicità.
Quattro amici stanno bevendo qualcosa all’esterno in una tiepida serata a
Milano. Il sole sta tramontando e loro sorseggiano Bellini in bicchieri da
champagne. Sono in maglietta e si trovano in un cortile. Dalle finestre della casa
dietro di loro si vede il riflesso dello schermo televisivo. Uno di loro guarda
l’orologio e, vedendo che sta per cominciare Il Trono di Spade, dice ridendo: «Ci
conviene entrare. L’inverno sta arrivando» (doppia strizzatina d’occhio). Due dei
suoi amici prendono in fretta le loro cose, neanche loro vogliono perdersi la
puntata, ma il quarto non capisce. «Cosa vuoi dire? Fa caldo!» Gli altri tre
ridono della sua ignoranza. Apparentemente lui non ha Sky e non sa di quella
barriera di ghiaccio. «Devi saperlo per non fartelo scappare!» gli dicono.
Tutti coloro su cui testammo l’idea la adorarono. Ma a Sky tutto doveva essere
approvato dal CEO, che fu l’unico a non capire. Stroncò l’idea in circa tre minuti
e mezzo.

Paolo venne assunto a Netflix per promuovere i programmi


destinati agli spettatori italiani. Era sicuro che la popolare serie
originale Netflix Narcos sarebbe stata un enorme successo.
Racconta la storia del signore della droga colombiano Pablo
Escobar, un bell’uomo con una pettinatura anni Ottanta e folti baffi.
«A dispetto di tutte le cose deplorevoli che fa ti ritrovi a tifare per lui»,
spiega Paolo. «Gli italiani, che amano i telefilm sulla mafia, lo
avrebbero adorato. Dopo decine di notti insonni passate a fare su e
giù nel mio appartamento sviluppai un progetto su come conquistare
tutta l’Italia: lo vedevo con tale chiarezza che riuscivo a sentirne il
sapore. Sarebbe stato costoso e avrei dovuto usare l’intero budget
del marketing per l’Italia.»
Ma Paolo si chiese se il suo nuovo capo, il vice president of
marketing Jerret West, un americano che viveva a Singapore,
avrebbe approvato la sua idea. Lui avrebbe ottenuto l’autorizzazione
del management a procedere?
Jerret doveva venire ad Amsterdam. Ormai avevo dedicato settimane alla mia
proposta e se lui l’avesse bocciata sarebbe stato tutto tempo sprecato. Lavorai
giorno e notte lunedì, martedì e mercoledì scrivendo la perorazione più
convincente che riuscii a escogitare. A mezzogiorno di giovedì la inserii in un’e-
mail indirizzata a Jerret. Prima di spedirla sussurrai al mio computer: «Ti prego,
fa’ che Jerret dica di sì».
Il giorno del meeting ero talmente nervoso che dovetti infilarmi le mani in tasca
per farle smettere di tremare, ma Jerret passò quasi tutta la riunione a parlare di
assunzioni. Ero talmente stressato che riuscivo a stento ad ascoltarlo. Feci un
bel respiro e mi lanciai. «Jerret, voglio assicurarmi che abbiamo il tempo di
discutere della mia proposta per Narcos.»

Non riuscì a credere alla risposta di Jerret:


«C’è qualche elemento di cui volevi discutere? La decisione spetta a te, Paolo.
Posso fare qualcosa per aiutarti?» Fu uno di quei momenti in cui si accende la
lampadina: Ci sono! A Netflix se esponi l’intero contesto della tua decisione hai
svolto il lavoro di base. Non hai bisogno di approvazioni. Spetta a te. Sei tu a
decidere.

Le persone desiderano lavori che li facciano sentire padroni delle


proprie decisioni e se li trovano sono felici. Sin dagli anni Ottanta la
letteratura sul management è stata piena di istruzioni su come
delegare di più e «responsabilizzare i dipendenti in modo che
possano prendere decisioni da soli». Il ragionamento è esattamente
quello riferito da Paolo. Più le persone si vedono riconoscere il
controllo sui propri progetti, più se ne sentono padroni e più sono
motivate a fare il miglior lavoro possibile. Dire ai dipendenti cosa fare
è molto antiquato, porta a gridare: «Micromanager!», «Dittatore!» e
«Despota!».
Ma nella maggior parte delle aziende, a prescindere dal livello di
autonomia concessa ai dipendenti perché fissino i propri obiettivi e
sviluppino le proprie idee, quasi tutti concordano sul fatto che spetta
al capo assicurarsi che il suo team non prenda decisioni stupide che
causerebbero uno spreco di denaro e di risorse. E se siete voi il
capo il mantra di Reed, «Non cercate di compiacere il vostro capo»,
può suonare non solo strano ma decisamente spaventoso.

Avete un’alta densità di talento e sincerità:


siete pronti ad allentare davvero i controlli?
Immaginate questo scenario. Ottenete un ruolo manageriale di
altissimo livello in un’azienda all’avanguardia e dallo sviluppo rapido.
Siete ben pagati e vi viene assegnato un team di cinque collaboratori
molto esperti e dediti. Va tutto bene… tranne che per un piccolo
monito. Questa società è nota per assumere solo i migliori in
assoluto e licenziare chi non fa un lavoro sublime. Vi sentite
sottoposti a un’immensa pressione.
Ora, non siete un micromanager. Sapete come portare a termine
un progetto senza dover necessariamente suggerire ai vostri
collaboratori quale penna prendere e quale telefonata fare. In effetti
sull’ultimo posto di lavoro eravate celebrati per il vostro stile di
leadership che responsabilizzava i collaboratori.
Una mattina un membro del team, Sheila, viene da voi con una
proposta. Ha avuto un’idea innovativa su come far progredire il
business e vuole abbandonare il progetto che le avete suggerito.
Sheila vi piace, ma pensate che questa idea si rivelerà un fiasco. Se
le consentite di passare quattro mesi a lavorare su un progetto che
secondo voi probabilmente fallirà, che figura farete con il vostro
capo?
Illustrate, con passione, tutti i motivi per cui siete contrari all’idea,
ma avete sempre cercato di dare più autorità al vostro staff, quindi
lasciate la decisione a Sheila. Lei vi ringrazia e dice che rifletterà su
tutte le vostre argomentazioni. Una settimana più tardi fissa un altro
incontro e stavolta annuncia: «So che non sei d’accordo, ma ho
intenzione di seguire questa nuova idea perché credo che porterà a
maggiori guadagni. Avvisami se vuoi capovolgere la mia decisione».
Cosa fate?
A questo punto la trama dello scenario immaginario si infittisce.
Dopo un paio di giorni un altro dipendente viene a sottoporvi un’idea
a cui vuole dedicare metà del proprio tempo lavorativo; siete convinti
che nemmeno questa avrà successo. E, pochi giorni dopo, una terza
persona avanza una richiesta simile. Tenete alla vostra carriera e a
quella dei vostri dipendenti quindi non potete non sentire il fortissimo
impulso di dire loro che queste non sono le iniziative su cui
lavoreranno.

Il nostro mantra è che i dipendenti non hanno bisogno


dell’approvazione del capo per andare avanti (ma
dovrebbero informarlo di cosa sta succedendo). Se
Sheila viene da voi con una proposta che ritenete
destinata a fallire dovete rammentare a voi stessi
perché Sheila sta lavorando per voi e perché avete
pagato il massimo livello retributivo per assumerla. Fatevi queste
quattro domande:

Sheila è una dipendente straordinaria?


Credete che possieda una buona capacità di giudizio?
Credete che sia in grado di avere un impatto positivo?
È abbastanza brava per far parte del vostro team?
Se rispondete di no a una qualsiasi di queste domande dovreste
sbarazzarvi di lei (vedete il prossimo capitolo, dove imparerete che A
una performance adeguata è corrisposto un trattamento di fine
rapporto generoso). Se invece la risposta è sì, fatevi da parte e
lasciate che decida da sola. Quando i manager escono dal ruolo di
«chi approva le decisioni» l’intero business accelera e l’innovazione
aumenta. Ricordate quanto tempo ha passato Paolo a prepararsi per
ottenere l’approvazione di Jerret e poter quindi attuare la sua nuova
idea? Se Jerret avesse bocciato l’iniziativa Paolo avrebbe dovuto
rinunciare a una proposta in cui credeva per cominciare a esplorare
altre strade. Tutto il tempo da lui investito, per non parlare della forza
della sua idea, sarebbero andati sprecati.
Naturalmente non tutte le decisioni che i vostri dipendenti
prendono avranno successo. E quando il capo evita di mettere il
veto alle decisioni, probabilmente i fallimenti aumenteranno. Ecco
perché è così difficile lasciare che Sheila prosegua con la sua idea
quando siete convinti che non funzionerà.

Cosa beviamo a Netflix


Qualche anno fa stavo partecipando a un convegno a Ginevra.
Seduto al bar sentii due CEO parlare della sfida dell’innovazione.
Uno di loro era uno svizzero che gestisce un’azienda di articoli
sportivi. «Una dei miei manager ha suggerito di inserire una pista per
i rollerblade nei nostri negozi in modo da attirare i giovani clienti
sottraendoli alla concorrenza online», raccontò. «Nella nostra
azienda abbiamo bisogno di questo nuovo modo di pensare. Ma
subito dopo aver fatto la proposta lei stessa ha iniziato a fare marcia
indietro. Non avremmo abbastanza spazio! Sarebbe troppo costoso!
Potrebbe rivelarsi rischioso! Nel giro di due minuti aveva liquidato
l’idea. Non l’ha mai sottoposta al suo capo per chiedere un consiglio.
Tutti nella nostra azienda sono così avversi a rischiare!
L’innovazione non ha chance.»
L’altro CEO, un americano a capo di una catena di negozi di
abbigliamento, annuì. «Nei nostri cubicoli abbiamo appeso striscioni
con la scritta Dieci minuti per innovare. Il problema è che stiamo tutti
lavorando troppo per avere il tempo di escogitare nuovi modi di fare
le cose. Quindi sto cercando di dare a tutti il tempo di riflettere e
basta. Inizieremo con i “Venerdì per l’innovazione” durante i quali,
una volta al mese, tutti i dipendenti si dedicheranno a escogitare
grandi idee. Lavoriamo tutto il giorno nel mondo di Google,
compriamo articoli da Amazon, ascoltiamo musica su Spotify, ci
facciamo portare da autisti Uber in appartamenti Airbnb e passiamo
le serate guardando film su Netflix, ma non riusciamo a capire come
queste aziende della Silicon Valley riescano a muoversi così in fretta
e a innovare così rapidamente.
«Qualsiasi cosa stiano bevendo a Netflix», concluse, «è quello
che dobbiamo bere anche noi.»
Fu una cosa buffa da sentire. Cosa stiamo bevendo a Netflix? I
nostri dipendenti sono bravi ma quando entrano in ufficio si
preoccupano di ridurre al minimo i fallimenti quanto la manager con
l’idea della pista per i pattini. Non abbiamo venerdì per l’innovazione
né striscioni che la promuovano. E i nostri dipendenti hanno molto
da fare tanto quanto il CEO della catena di abbigliamento.
La differenza è la libertà decisionale che forniamo. Se i vostri
dipendenti sono straordinari e date loro la libertà di attuare le idee
brillanti in cui credono, l’innovazione verrà da sé. Netflix non opera in
un mercato in cui l’errore può provocare conseguenze drammatiche,
come la medicina o l’energia nucleare. In alcuni settori prevenire
l’errore è fondamentale. Noi operiamo in un mercato creativo. La
nostra grande minaccia alla lunga non è commettere un errore, ma
la mancanza di innovazione. Il rischio che corriamo è quello di non
riuscire a escogitare idee creative su come intrattenere i nostri clienti
diventando quindi irrilevanti.
Se sperate che il vostro team sia capace di maggiore innovazione,
insegnate ai dipendenti a cercare modi per far progredire il business
e non modi per compiacere i rispettivi capi. Insegnate al vostro staff
a sfidare i manager proprio come ha fatto Sheila: «So che non sei
d’accordo, ma ho intenzione di seguire questa nuova idea perché
credo che porterà a maggiori guadagni. Avvisami se vuoi
capovolgere specificamente la mia decisione». Allo stesso tempo
insegnate ai vostri leader a non capovolgere decisioni come quella di
Sheila, nemmeno a fronte del proprio scetticismo e lunga esperienza
su cosa ha funzionato in passato. A volte il dipendente fallirà e il
capo sarà tentato di dire: «Te l’avevo detto» (ma non lo farà!). Altre
volte il dipendente avrà ragione a dispetto delle riserve del suo capo.
Un esempio perfetto arriva da Kari Perez, una direttrice nel nostro
reparto comunicazione responsabile della brand awareness di Netflix
in America Latina. È messicana, ma vive a Hollywood.
Verso la fine del 2014 Netflix era ancora piuttosto sconosciuta in Messico.
Avevo una visione precisa su come cambiare la cosa. Volevo posizionare Netflix
come promotrice di contenuti messicani locali, benché non avessimo ancora
nessun titolo originale messicano.
L’idea era quella di premiare dieci grandi film messicani di quell’anno, con
famosi registi messicani e in cui recitavano celebrità locali. Avremmo anche
selezionato una giuria composta da dieci celebrità messicane come Ana de la
Reguera (la star di telenovelas diventata attrice di Narcos) e Manolo Caro (il
famosissimo regista apparso di recente sulla copertina di «Vanity Fair» con
indosso uno smoking spiegazzato e steso fra due bellissime attrici), allo scopo
di far conoscere meglio il nostro brand al pubblico che queste celebrità
influenzavano.
Sia le celebrità del mondo del cinema sia i giurati avrebbero sponsorizzato sui
social media il proprio film preferito, incoraggiando tutti a votare su Twitter,
Facebook e LinkedIn. Le due pellicole più votate avrebbero ottenuto un
contratto di distribuzione internazionale di un anno con Netflix. Avremmo
concluso l’iniziativa con una grande festa invitando tutte le personalità di spicco
del Messico.
Ma al mio capo Jack l’idea non era piaciuta affatto. Perché spendere tutto quel
tempo e denaro per film che non erano nemmeno realizzati da Netflix? Cosa
ancora peggiore, avevamo tentato qualcosa di simile in Brasile, associandoci
con alcuni festival cinematografici, e l’iniziativa non aveva ottenuto i risultati
sperati. Jack continuava ad affermare pubblicamente, durante i meeting, che se
la responsabilità finale fosse stata sua saremmo dovuti passare sul suo
cadavere per farlo.
Ma io ci credevo. Ero pronta a fare quella scommessa e, in caso di insuccesso,
la responsabile sarei stata io. Ascoltai attentamente i dubbi di Jack e decisi di
collaborare con influencer e partner del posto invece che con i festival
cinematografici per evitare una replica del fiasco brasiliano. Naturalmente fa
paura procedere quando sai che il tuo capo è convinto che la tua decisione sia
sbagliata.
Non avrei dovuto preoccuparmi. La conferenza stampa per il lancio e l’evento
conclusivo della competizione furono gremiti di giornalisti e nelle settimane
precedenti la gara esplose su Twitter. La giuria di celebrità promosse
freneticamente il messaggio tramite Facebook e Twitter. Anche produttori,
registi e attori lanciarono le proprie campagne, il che fece del Prêmio Netflix una
piattaforma essenziale per l’industria cinematografica messicana indipendente.

Migliaia di persone votarono. Fu un momento fondamentale per tutti noi.


All’improvviso tutti conoscevano il brand Netflix. Capii che era stato un successo
quando alla festa di premiazione arrivarono influencer di alto profilo fra cui la
figlia del presidente messicano Enrique Peña Nieto, e poi una delle più famose
attrici messicane viventi, Kate Del Castillo, comparve sul tappeto rosso, portata
da un aereo privato noleggiato da niente meno che il mio (non più scettico)
manager!
Durante il meeting successivo del team Jack si alzò in piedi davanti a tutti per
annunciare che si era completamente sbagliato: era stata una magnifica
campagna.

Allo scopo di incoraggiare i nostri dipendenti come Kari e i


rispettivi manager come Jack a sposare la causa della
sperimentazione utilizziamo l’immagine delle scommesse. Questo
spinge i dipendenti a considerarsi imprenditori, che non possono
avere successo senza qualche fallimento. L’esempio di Kari e quello
di Paolo (qualche pagina più indietro) rispecchiano la vita quotidiana
a Netflix. Vogliamo che tutti i dipendenti scommettano su ciò in cui
credono e tentino cose nuove, persino quando il capo o altri trovano
insignificanti le loro idee. Quando alcune di queste scommesse non
si rivelano vincenti ci limitiamo a risolvere i problemi che ne derivano
il più rapidamente possibile e a discutere di cosa abbiamo imparato.
Nel nostro business creativo la rapidità di ripresa rappresenta il
modello migliore.

Passi da intraprendere prima (e dopo) che avete


scommesso
Da decenni l’attitudine a fare scommesse è collegata allo spirito
imprenditoriale. Nel 1962 Frederick Smith scrisse un articolo per il
suo corso di economia a Yale delineando l’idea di un
servizio di consegna entro le ventiquattro ore
dall’acquisto. L’idea era che si potesse spedire un
pacchetto dal Missouri il martedì e avere la certezza,
pagando abbastanza, che sarebbe arrivato in
California il mercoledì. Secondo la leggenda, Smith
ottenne un «buono» e il professore gli spiegò che per
meritare un voto migliore l’idea doveva essere realizzabile. Se il
professore di Smith fosse stato il suo capo avrebbe sicuramente
stroncato l’intera innovazione.
Smith, tuttavia, era un imprenditore e quell’articolo per Yale
divenne la base per FedEx, da lui fondata nel 1971. Era anche uno
scommettitore: una volta, agli inizi, dopo che una banca aveva
rifiutato di estendere un prestito essenziale, portò gli ultimi
cinquemila dollari dell’azienda a Las Vegas e ne vinse ventisettemila
giocando a blackjack per coprire i ventiquattromila dollari spesi in
benzina. Naturalmente Netflix non incoraggia i dipendenti ad andare
al casinò, ma cerca di instillare in loro un po’ dello spirito di Frederick
Smith. Come ricorda Kari:
Quando ho cominciato a lavorare a Netflix Jack mi ha spiegato che dovevo
immaginare che mi fosse stata consegnata una pila di fiches che potevo
puntare su qualsiasi scommessa in cui credessi. Avrei avuto bisogno di lavorare
molto e riflettere attentamente per assicurarmi di fare le migliori scommesse
possibili, e lui mi avrebbe mostrato come riuscirvi. Alcune scommesse si
sarebbero rivelate perdenti e alcune vincenti. La mia performance sarebbe stata
giudicata, alla fin fine, non sulla base del fatto che una qualsiasi scommessa
fosse fallita o meno, ma sulla mia capacità complessiva di utilizzare quelle
fiches per far progredire il business. Jack chiarì che a Netflix non perdi il posto
perché fai una scommessa che non ha successo. Lo perdi invece per non aver
usato le tue fiches per far ottenere grandi risultati o per aver mostrato sempre
una scarsa capacità di giudizio nel corso del tempo.

Jack spiegò a Kari: «Non ci aspettiamo che i dipendenti ottengano


l’approvazione del loro capo prima di prendere decisioni, ma
sappiamo che per prendere le decisioni giuste serve un’ottima
comprensione del contesto, il feedback di persone con prospettive
diverse e conoscere tutte le opzioni». Se qualcuno usa la libertà
concessagli da Netflix per prendere decisioni importanti senza
sollecitare le opinioni di altri, Netflix la ritiene una dimostrazione di
scarsa capacità di giudizio.
Poi Jack illustrò a Kari il ciclo di innovazione di Netflix, un modello
di lavoro che poteva seguire per essere sicura di fornire alle
scommesse la massima probabilità di successo. Il principio «Non
cercate di compiacere il vostro capo» funziona al meglio se i
dipendenti si attengono a questo semplice modello in quattro
passaggi.

Il Ciclo di innovazione di Netflix


Se avete un’idea in cui credete fortemente:

1. «Stimolare il dibattito» o «condividere» l’idea.


2. Per una grande idea, testatela.
3. In veste di responsabile di progetto fate la vostra scommessa.
4. Se ha successo festeggiate. Se fallisce datele visibilità.

Passaggio 1 del Ciclo di innovazione: stimolare il


dibattito…

L’esigenza di incoraggiare le opinioni divergenti è


scaturita dalla débâcle di Qwikster, il più grande errore
nella storia di Netflix.
Agli inizi del 2007 offrivamo un unico servizio per
dieci dollari che abbinava la spedizione di DVD e lo
streaming. Ma era evidente che i video in streaming
sarebbero diventati sempre più importanti, mentre le persone
avrebbero guardato sempre meno i DVD.
Volevamo poterci concentrare sullo streaming senza che i DVD ci
distraessero, così mi venne l’idea di scindere le due operazioni:
Netflix avrebbe funzionato in streaming mentre avremmo creato una
nuova società, Qwikster, per gestire il mercato dei DVD. Con due
aziende distinte avremmo fatto pagare otto dollari per ciascun
servizio, separatamente. Per i clienti che volevano sia DVD sia
streaming significava un aumento di prezzo a sedici dollari. La nuova
disposizione avrebbe permesso a Netflix di concentrarsi sulla
costruzione dell’azienda del futuro senza essere gravata dalla
logistica della spedizione dei DVD, che rappresentava il nostro
passato.
L’annuncio provocò un’autentica rivolta tra gli abbonati. Non solo il
nostro nuovo modello era molto più costoso, ma imponeva anche
agli abbonati di gestire due siti web e due abbonamenti invece di
uno. Nel corso dei trimestri seguenti perdemmo milioni di abbonati e
il valore delle nostre azioni scese di più del 75 per cento. Tutto
quello che avevamo costruito stava crollando a causa di una mia
decisione sbagliata. Fu il punto più basso della mia carriera,
un’esperienza che non voglio certo ripetere. Quando mi scusai con
un video su YouTube apparivo così stressato che a Saturday Night
Live mi presero in giro.
Ma quell’umiliazione rappresentò un utile campanello d’allarme
perché in seguito decine di manager e vicepresidenti di Netflix
cominciarono a farsi avanti per dire che non avevano creduto
nell’idea. Uno spiegò: «Sapevo che sarebbe stato un disastro, ma ho
pensato che Reed ha sempre ragione, così sono stato zitto». Un
dirigente del reparto finanze concordò: «Lo trovavamo folle, perché
sapevamo che una cospicua percentuale di nostri abbonati pagava i
dieci dollari ma non usava nemmeno il servizio DVD. Perché Reed
dovrebbe fare una scelta che farebbe perdere soldi a Netflix? Ma
tutti gli altri sembravano approvare l’idea, così l’abbiamo fatto anche
noi». Un altro manager disse: «Ho sempre odiato il nome Qwikster,
ma nessun altro si è lamentato, così non l’ho fatto nemmeno io».
Infine un vicepresidente mi disse: «Sei così convinto quando credi in
qualcosa, Reed, che ho pensato che non mi avresti sentito. Avrei
dovuto stendermi sui binari urlando che secondo me non avrebbe
funzionato, ma non l’ho fatto».
La cultura di Netflix aveva portato i nostri dipendenti a pensare
che nonostante si parlasse sempre di sincerità, le divergenze
d’opinione non erano sempre le benvenute. Fu a quel punto che
aggiungemmo un nuovo elemento alla nostra cultura. Adesso
diciamo che è sleale verso Netflix, quando non siete d’accordo con
un’idea, non esprimere quel dissenso. Tacendo la vostra opinione
state implicitamente scegliendo di non aiutare la compagnia.
Perché tutti sono rimasti zitti quando hanno visto Reed
pilotare la nave verso la tempesta di Qwikster?
Parte del motivo è il nostro naturale desiderio umano
di conformarci. C’è un divertente video in stile candid
camera che mostra tre attori in ascensore che danno
la schiena alla porta. Una donna entra nell’ascensore
e all’inizio sembra perplessa. Perché queste persone sono voltate
dalla parte sbagliata? Ma poi, un po’ alla volta, pur palesemente
convinta che quello che stanno facendo sia bizzarro, comincia a
voltarsi anche lei. Gli esseri umani sono molto più a proprio agio
quando si adeguano al comportamento del gregge. In molti aspetti
della vita, non è una cosa negativa. Ma questo può spingerci ad
assecondare o persino appoggiare attivamente un’idea che l’istinto o
l’esperienza ci dicono essere folle.
L’altra parte del motivo è che Reed è il fondatore e il CEO. Questo
complica ancor più le cose perché anche quello di seguire i nostri
leader e imparare da loro è un atteggiamento ben radicato in tutti
noi. Nel libro di Malcolm Gladwell, Fuori classe. Storia naturale del
successo, scopriamo che un grave incidente aereo si è verificato
quando il personale della Korean Air si è trattenuto dal dire al
comandante che c’era un problema perché voleva mostrare rispetto
verso la sua autorità. È una tipica tendenza umana.
Pochi mesi dopo, una volta passata la crisi di Qwikster, al termine
di un retreat settimanale per lo staff direttivo, tutti si sedettero in
cerchio e dissero a turno cosa avevano imparato. Jessica Neal, una
vice president in human resources che oggi è diventata chief talent
officer, ricorda: «Reed ha parlato per ultimo e si è messo a piangere,
raccontando come si sentiva in colpa per aver messo l’azienda in
quella situazione, quanto aveva imparato e quanto era grato a tutti
noi per essere rimasti al suo fianco. Fu un momento molto
commovente che probabilmente non capita con la maggior parte dei
CEO delle altre aziende».

Non posso prendere le decisioni migliori se non ricevo l’imput di


parecchie persone. Ecco perché adesso io e chiunque altro a Netflix
cerchiamo attivamente prospettive diverse prima di prendere
qualsiasi decisione importante. Lo chiamiamo
«incoraggiare le opinioni divergenti». Normalmente
cerchiamo di non usare troppe procedure, ma questo
principio specifico è talmente importante che abbiamo
sviluppato vari sistemi per assicurarci che le opinioni
divergenti vengano ascoltate.
Se siete un dipendente di Netflix e avete una
proposta create un documento condiviso che spiega l’idea e sollecita
il contributo di decine di vostri colleghi. Loro lasceranno
elettronicamente al margine del vostro documento dei commenti che
tutti possono vedere. Basta una lettura per farsi un’idea di una vasta
gamma di punti di vista discordi e concordi. Per esempio, si veda il
documento seguente, che discute dei download di Android Smart.
In alcuni casi un dipendente che propone un’idea apre un foglio
elettronico condiviso chiedendo alle persone di assegnare all’idea un
voto che va da -10 a +10, con relativa spiegazione e commento. È
uno splendido modo di scoprire chiaramente quanto sia profondo il
dissenso e avviare il dibattito.

Prima di un importante meeting dirigenziale ho distribuito un


documento che delineava la proposta di aumentare di un dollaro il
prezzo dell’abbonamento Netflix insieme a un nuovo modello a
prezzi differenziati. Varie decine di manager hanno fornito voto e
commento. Eccone alcuni in formato condensato:

Alex -4 Fare due cambiamenti in una volta sola è una


brutta idea.
Dianna 8 Il tempismo è perfetto subito prima un grosso
lancio di mercato.
Jamal -1 Prezzi differenziati certi sono la mossa giusta.
Credo che la cifra non sia quella giusta per
quest’anno.

Il sistema del foglio elettronico è un modo semplicissimo per


raccogliere consensi e opinioni divergenti, e quando il vostro team è
composto esclusivamente da persone altamente performanti fonisce
un contributo di inestimabile valore. Non è un voto o una procedura
democratica, non è previsto che sommiate i numeri e calcoliate la
media, ma fornisce brillanti intuizioni di ogni genere. Io lo uso per
raccogliere feedback sinceri prima di prendere qualsiasi decisione
importante.
Più siete attivi nello stimolare il dibattito, più incoraggiate la cultura
di esprimere apertamente il disaccordo, e migliori saranno le
decisioni prese nella vostra azienda. Questo vale per qualsiasi
società di qualsiasi dimensione in qualsiasi settore.

… O «condividere» l’idea
Per iniziative più piccole non avete bisogno di andare in cerca di
opinioni divergenti, ma sareste comunque saggi a informare tutti di
quanto state facendo e farvi un’idea di come la vostra iniziativa sarà
accolta. Torniamo alla vostra dipendente Sheila, venuta da voi con
un’idea a cui siete contrari. Dopo aver spiegato perché non siete
d’accordo potete suggerirle di «condividere» l’idea con i colleghi e
altri capi della compagnia. Questo significa che Sheila organizza vari
meeting durante i quali illustra la sua proposta e intavola dibattiti allo
scopo di testare a fondo il suo modo di pensare e raccogliere un
gran numero di opinioni e spunti prima di prendere una decisione.
«Condividere» è un modo per incoraggiare le opinioni divergenti che
si concentra più sull’incoraggiamento che sulle opinioni divergenti.
Nel 2016 ho fatto un’esperienza personale in cui «condividere»
l’idea mi ha spinto a cambiare opinione su qualcosa.
Fino a quel momento avevo creduto fermamente che le serie TV e
i film per bambini non avrebbero portato nuovi abbonati a Netflix né
indotto a restare quelli che già avevamo. Chi mai si abbona a Netflix
spinto da un programma per bambini? Ero convinto che gli adulti
scegliessero Netflix perché amano i nostri contenuti, mentre i loro
figli guardano semplicemente qualsiasi cosa proponiamo. Così
quando cominciammo a produrre programmi originali ci
concentrammo sui contenuti per adulti. Per i bambini continuammo a
comprare in licenza programmi da Disney e Nickelodeon. E quando
ne distribuimmo di nostri non vi investimmo molto denaro, non
quanto Disney. Il team contenuti bambini si oppose a questo
approccio. «Sono la futura generazione di clienti Netflix»,
sostenevano. «Vogliamo che amino Netflix quanto i loro genitori.»
Volevano che cominciassimo a produrre anche contenuti originali per
ragazzi.
Non la giudicavo una grande idea ma la «condivisi» comunque.
Durante la successiva riunione per rivedere l’attività trimestrale
sistemammo i nostri quattrocento dipendenti di più alto livello intorno
a sessanta tavoli, in gruppi di sei o sette. Ricevettero una piccola
scheda con il tema da discutere: Dovremmo spendere più denaro,
meno denaro o non spendere affatto in contenuti per ragazzi?
Vi fu uno tsunami di opinioni a favore della necessità di investire.
Una direttrice, che è anche una mamma, salì sul palco per dichiarare
appassionatamente: «Prima di lavorare qui mi sono abbonata a
Netflix solo perché mia figlia potesse guardare Dora l’esploratrice. Mi
interessa molto di più cosa guardano i miei figli che non cosa guardo
io». Un padre salì per annunciare: «Prima di entrare in Netflix mi
sono abbonato solo perché potevo fidarmi dei contenuti per i miei
figli». Poi spiegò il motivo: «Mia moglie e io non guardiamo la TV, ma
mio figlio sì. Su Netflix non c’è pubblicità come sulla TV via cavo e
nessun pericolo per mio figlio come quando naviga su YouTube. Ma
se non fosse andato matto per quanto Netflix stava offrendo avrebbe
smesso di guardarla e noi avremmo cancellato l’abbonamento». Uno
dopo l’altro i nostri dipendenti salirono sul palco per dirmi che mi
sbagliavo. Ritenevano che i programmi per ragazzi fossero
fondamentali per la nostra base di abbonati.
Nel giro di sei mesi assumemmo un nuovo vice president of kids
and family programming proveniente da Dream-Works e
cominciammo a produrre i nostri contenuti d’animazione. Dopo due
anni avevamo triplicato l’offerta per i bambini e nel 2018 avevamo
ricevuto tre nomination ai premi Emmy per le nostre serie originali
per ragazzi Alexa & Katie, Le amiche di mamma e Una serie di
sfortunati eventi. A oggi abbiamo vinto più di una dozzina di Daytime
Emmy per serie come Mr. Peabody e Sherman: La serie e
Trollhunters: I racconti di Arcadia.
Se non mi fossi preso il tempo di «condividere» l’idea, nulla di tutto
questo sarebbe potuto succedere.

Passaggio 2 del Ciclo di innovazione: per una grande


idea,
testatela

La maggior parte delle aziende di successo effettua


ogni genere di test per scoprire come e perché i clienti
si comportano in un certo modo e di solito i risultati di
questi test influenzano la strategia. La grossa
differenza a Netflix è che i test vengono effettuati
anche quando i responsabili sono fermamente contrari
all’iniziativa. La storia dietro il ritardo di Netflix nell’offrire il download
ne è un chiaro esempio.
Nel 2015 se prendevate un aereo e volevate guardare la vostra
serie Netflix preferita durante il volo non potevate farlo. Non c’era
modo di scaricare il contenuto sul vostro cellulare o su qualsiasi altro
dispositivo. Netflix era tutto streaming live su Internet. Se non
avevate Internet non avevate Netflix. Amazon Prime offriva il
download, così come YouTube in alcuni paesi, quindi il tema era
molto caldo, a Netflix.
Neil Hunt, all’epoca chief product officer, era contrario all’idea.
Sarebbe stato un progetto imponente, avrebbe impegnato una gran
quantità di tempo e avrebbe rappresentato una distrazione dalla
missione centrale di far funzionare meglio lo streaming anche con
connessioni di bassa qualità. Inoltre Internet sarebbe diventato più
rapido e onnipresente, quindi il servizio sarebbe diventato di mese in
mese meno utile. C’è un intervista con un giornale inglese dove Neil
spiega che il download aggiunge una notevole complessità alla
vostra vita: «Dovete ricordarvi che volete scaricare una certa cosa.
Non sarà istantaneo, dovete avere il giusto spazio sul vostro
dispositivo, dovete gestirlo, e non sono sicuro che le persone siano
davvero così motivate e che valga la pena di fornire quel livello di
complessità».
Neil non era l’unico a essere contrario al download. Durante gli
incontri con i dipendenti Reed si sentiva spesso chiedere perché
quel servizio non fosse disponibile. Ecco le sue risposte alle
domande in un documento del 2015 accessibile a tutti i dipendenti
Netflix:
Domanda di un dipendente: Ora che altri servizi stanno investendo sul
download offline pensi che il fatto che Netflix rifiuti di fornire questo servizio avrà
un impatto negativo sulla qualità del brand percepita?
Risposta di Reed: No. Presto annunceremo i nostri primi accordi di streaming
wi-fi gratuito sugli aerei. Siamo concentrati sullo streaming e più l’offerta di
Internet si amplierà (aerei eccetera) meno forte sarà il desiderio di download da
parte dei consumatori. I nostri concorrenti saranno costretti a continuare a
supportare per anni un caso d’uso di download sempre più ridotto. Otterremo un
grosso vantaggio quanto a percezione della qualità del brand su questo fronte.
Domanda di un dipendente: In questo documento si dice che non offriamo la
funzionalità di download e visualizzazione a causa del costo dei contenuti.
Potremmo comprarlo solo per le serie e i film migliori e offrirlo solo a coloro che
hanno il piano di abbonamento più costoso?
Risposta di Reed: Pensiamo che con il passare del tempo lo streaming arriverà
ovunque, compresi gli aerei. Le complessità del download in fatto di esperienza
utente rischiano di far sì che solo l’un per cento degli abbonati lo voglia
utilizzare, quindi stiamo evitando questo approccio. Abbiamo deciso di preferire
l’utilità alla complessità.

I pezzi grossi, Neil e Reed, si espressero contro l’idea


pubblicamente e privatamente. Nella maggior parte delle aziende ciò
avrebbe chiuso la discussione. Ma Todd Yellin, vice president of
product che lavorava per Neil, aveva dei dubbi. Parlò con Zach
Schendel (senior user experience researcher) dell’opportunità di
effettuare alcuni test per verificare se le affermazioni di Neil e Reed
erano fondate. Ecco come Zach rievoca la vicenda:
Pensai: “Neil e Reed sono contrari all’idea. Va bene testarla?”. In uno qualsiasi
dei miei posti di lavoro precedenti non sarebbe stata una mossa saggia. Ma la
leggenda vuole che a Netflix siano soprattutto i dipendenti meno senior a
ottenere risultati sbalorditivi nonostante la posizione occupata nella gerarchia
dell’azienda. Lo tenni bene a mente e andai avanti.
Negli Stati Uniti YouTube non era disponibile per il download ma lo era in alcuni
luoghi come India e Sudest asiatico. Era interessante perché Netflix si stava
preparando a una massiccia espansione internazionale nel gennaio 2016 e quei
paesi sarebbero stati importanti per noi. Decidemmo di effettuare ricerche in
India e in Germania per scoprire quale percentuale di abbonati usava la
funzione di download. In India avremmo intervistato utenti di YouTube, in
Germania utenti di Watchever (una piattaforma di tipo simile) e negli Stati Uniti
utenti di Amazon Prime (perché quest’ultima offriva il download).
Scoprimmo che negli Stati Uniti il 15-20 per cento di utenti di Amazon Prime
utilizzava la funzione di download. Era una percentuale nettamente più alta
dell’un per cento stimato da Reed, pur rappresentando palesemente una
minoranza.
In India le nostre ricerche dimostrarono che più del 70 per cento dei clienti di
YouTube usava la funzione download. Era un numero enorme! Le risposte più
comuni includevano: «Faccio un viaggio di novanta minuti per andare e tornare
dal lavoro, a bordo di un’auto con altre persone, quindi passo un’ora e mezzo
nel traffico ogni giorno. Lo streaming sul cellulare non è abbastanza rapido a
Hyderabad, quindi scarico tutto quello che guardo». Un altro caso, inaudito negli
Stati Uniti: «Internet nel mio ufficio è abbastanza rapido per lo streaming ma a
casa mia no, quindi scarico tutti i miei programmi in ufficio e li guardo a casa la
sera».
I tedeschi non devono affrontare né i problemi di traffico né i lunghi spostamenti
da pendolari degli indiani, ma nemmeno in Germania Internet è ovunque
affidabile come negli Stati Uniti. «Quando guardo un programma nella mia
cucina si ferma ogni pochi minuti per caricarsi», spiegò un tedesco, «quindi lo
scarico in soggiorno, dove Internet è più rapido, per poterlo poi guardare mentre
cucino.» La Germania si collocava fra gli Stati Uniti e l’India.

Zach illustrò i risultati al suo capo, Adrien Lanusse, che a sua volta
le riferì al proprio capo, Todd Yellin, che le consegnò al suo capo
Neil Hunt che le passò al suo, Reed, che dichiarò che lui e Neil si
erano sbagliati e che, vista la sua prevista espansione
internazionale, Netflix avrebbe fatto meglio a lavorare sulla
funzionalità di download.
«Voglio essere chiaro», conclude Zach, «io non sono nessuno
nell’azienda, sono un semplice ricercatore. Eppure sono riuscito a
oppormi a una opinione dichiaratamente sostenuta dagli alti vertici, e
a suscitare entusiasmo per questo servizio. Ecco com’è Netflix.»
Adesso Netflix offre il download.

Passaggio 3 del ciclo di innovazione: in veste di


persona
responsabile del progetto fate la vostra scommessa

Stimolate il dibattito. Condividete l’idea. Testatela.


Sembra molto simile alla costruzione del consenso,
ma non lo è. Con la costruzione del consenso il
gruppo decide; a Netflix una persona consulta colleghi
di rilievo ma non ha bisogno di ottenere l’approvazione
di nessuno prima di procedere. Il nostro ciclo di
innovazione a quattro passi è un processo decisionale individuale
con il ricorso a input.
Per ogni decisione importante c’è sempre una chiara persona
responsabile del progetto che vanta una totale libertà decisionale.
Nello scenario di Erin questa persona è Sheila. Non spetta al suo
manager né a uno qualunque dei suoi colleghi decidere. Lei
raccoglie opinioni e sceglie da sola. Poi è l’unica responsabile del
risultato finale.
Nel 2004 la chief marketing officer Leslie Kilgore ha introdotto una
prassi per sottolineare che la persona responsabile del progetto è
l’unica responsabile della decisione. Nella maggior parte delle
aziende tutti i contratti importanti vengono firmati da qualcuno che
occupa un’alta posizione. Con l’incoraggiamento di Leslie una sua
dipendente, Camille, ha cominciato a firmare tutti gli accordi con i
media per i quali era la persona responsabile. Un giorno il nostro
general counsel è andato da Leslie a dire: «Non hai firmato tu
questo enorme contratto con Disney! Perché sopra c’è il nome di
Camille?». Ecco come ha risposto Leslie:
La persona che conosce a fondo il contratto deve essere quella che ne è
responsabile e lo firma, non il responsabile di un reparto o un vicepresidente.
Questo toglierebbe la responsabilità del progetto alla persona che dovrebbe
firmarlo. Ovviamente guardo anch’io questi contratti. Ma Camille va fiera di ciò
che ha ottenuto. Questa è una cosa sua, non mia. È psicologicamente coinvolta
nel progetto e io voglio che lo rimanga. Non intendo toglierle il ruolo mettendo il
mio nome sul contratto.

Leslie aveva ragione e oggi seguiamo il suo esempio in tutta


l’azienda. A Netflix non c’è niente per cui serva la firma del
management. Se sei tu la persona responsabile del progetto ne
assumi il controllo e firmi tu il documento.

Quando si legge di libertà e responsabilità a Netflix è


facile perdersi nell’incantevole idea della libertà senza
considerare debitamente il peso della responsabilità
che l’accompagna. Essere la persona responsabile
del progetto e firmare i propri contratti è un esempio
emblematico. Anche se Reed non intende certo
suscitare paura e angoscia nei suoi dipendenti, parte del motivo per
cui F&R funziona così bene è che le persone sentono il peso della
responsabilità che accompagna la libertà e di conseguenza fanno
sforzi supplementari.
Fra le tante persone che mi hanno parlato della pressione
psicologica che accompagna la prerogativa di firmare i propri
contratti figura Omarson Costa, uno dei primi dipendenti di Netflix
Brasile. Il suo racconto riguarda i suoi primi giorni di lavoro, quando
era business development director:
Lavoravo a Netflix solo da poche settimane quando ricevetti un’e-mail dal
reparto legale che diceva: «Omarson, hai l’autorità per firmare contratti e
accordi per Netflix in Brasile».
Pensai che avessero dimenticato una parte del messaggio e risposi subito.
«Fino a quale somma? Se supero quel limite a chi devo chiedere
l’approvazione?»
La risposta fu: «Lo stabilisce la tua capacità di giudizio».
Non capivo. Stavano dicendo che potevo firmare accordi per milioni di dollari?
Come possono conferire così tanto potere a un unico dipendente in America
Latina che conoscono solo da poche settimane?
Ero sbalordito e spaventato! Si fidavano di me, quindi il mio giudizio sarebbe
dovuto essere estremamente acuto e le mie decisioni frutto di ricerche
impeccabili. Avrei preso decisioni per il mio responsabile, per il manager del mio
responsabile, per il responsabile del manager del mio responsabile e per tutta
Netflix, autonomamente, senza bisogno di approvazioni. Provai un senso di
responsabilità misto a paura che non avevo mai provato prima! Quella
sensazione mi spinse a lavorare con maggiore impegno di quanto non avessi
mai fatto in vita mia, ad assicurarmi che ogni contratto da me firmato portasse
risultati positivi per tutta l’azienda.

Il senso di responsabilità provato dai dipendenti di Netflix è spesso


forte. Diego Avalos, director of international originals, rimase di
stucco quando nel 2014 passò da Yahoo all’ufficio di Netflix a
Beverly Hills:
Ero nuovo a Netflix e il mio manager mi chiese di concludere l’acquisizione di un
film che stavamo comprando per tre milioni di dollari. A Yahoo persino un
impegno da cinquantamila dollari richiedeva la firma del chief finance officer o
del general counsel. Sebbene lì fossi stato un direttore non avevo mai firmato
nessun accordo.
Avevo organizzato tutte le trattative ma quando il mio capo disse: «Firma tu il
contratto», fui assalito dall’ansia. Era sbalorditivo. E se fosse andato male? E se
avessi perso il mio lavoro perché commettevo un errore? Netflix credeva in me
e mi considerava un collega di valore, e così mi aveva messo un cappio intorno
al collo, che avrei potuto usare per impiccarmi involontariamente. Dovetti uscire
dall’ufficio e andare a fare una passeggiata perché avevo le palpitazioni.
In seguito, dopo che l’ufficio legale esaminò il documento e me lo consegnò da
firmare, mi sudavano le mani quando vidi il mio nome sotto l’apposita riga.
Quando tirai fuori la penna mi tremava la mano. Non riuscivo a credere che mi
stessero dando una simile responsabilità.
Allo stesso tempo mi sentivo in qualche modo liberato. Uno dei motivi per cui
avevo lasciato Yahoo è che non mi sentivo responsabile di nulla. Anche se
potevo aver avuto un’idea e avviato un’iniziativa, dopo che veniva approvata da
una miriade di persone non la sentivo più mia. Se falliva pensavo: “Be’, trenta
persone l’hanno approvata! Non è colpa mia!”.
Ho impiegato circa sei mesi ad abituarmi a questa caratteristica di Netflix. Ho
imparato che non conta ottenere la perfezione. L’importante è muoversi in fretta
e imparare da quanto stiamo facendo. Mi trovo in un luogo in cui posso
assumermi la responsabilità delle mie decisioni. È tutta la carriera che mi
preparo a questo ruolo. Di recente ho firmato un accordo multilivello da cento
milioni di dollari, e non mi pare più terrificante. È magnifico.
Spesso le persone di talento trovano liberatorio essere
responsabili di un progetto e molte entrano a Netflix proprio per
questa libertà. Alcuni, come Diego, lo trovano più spaventoso che
rassicurante. In tal caso imparano a adattarsi o voltano pagina.

Passaggio 4 del ciclo di innovazione: se ha successo


festeggiate,
se fallisce datele visibilità

Se l’iniziativa di Sheila ha successo mostrate


chiaramente che siete felici. Potreste darle una pacca
sulla schiena, offrirle un bicchiere di champagne o
portare fuori a cena l’intero team. Decidete voi come
festeggiare. L’unica cosa che dovete fare è mostrare,
preferibilmente in pubblico, che siete contenti che lei
sia andata avanti nonostante i vostri dubbi e offrire un chiaro «Tu
avevi ragione! Io avevo torto!» per mostrare a tutti i dipendenti che
va bene opporsi all’opinione del responsabile.
Se invece l’iniziativa di Sheila fallisce, il modo in cui reagite voi, in
veste di responsabile, è ancora più importante. Dopo un fiasco tutti
osserveranno il vostro comportamento. Una possibile linea di
condotta sarebbe punire, rimproverare o mortificare Sheila. Nell’800
a.C. i mercanti greci le cui attività fallivano erano costretti a restare
seduti nella piazza del mercato con una cesta sopra la testa. Nella
Francia seicentesca chi aveva fatto bancarotta veniva esposto nella
piazza cittadina e se non voleva finire direttamente in prigione
doveva sopportare l’onta di indossare una cuffia verde ogni volta che
usciva in pubblico.
Nelle aziende odierne le persone tendono a essere più discrete
riguardo al fallimento. In veste di responsabile potreste guardare
Sheila in tralice, sospirare e sussurrare: «Be’, sapevo che sarebbe
successo». Oppure potreste metterle una mano sulla spalla e dire in
tono cordiale: «La prossima volta segui il mio consiglio». In
alternativa potreste tenerle una breve lezioncina su tutti i progetti che
l’azienda ha bisogno di realizzare e su quale peccato sia aver
sprecato tempo su un fallimento così chiaramente prevedibile. (A
questo punto a Sheila una cesta in testa o una cuffia verde
cominceranno ad apparire piuttosto allettanti.)
Se adottate una di queste strategie una cosa è certa: non importa
cosa direte in futuro, tutti nel team sapranno che «Non cercate di
compiacere il vostro capo» è una battuta, che tutto il vostro parlare
di fiches e scommesse è una farsa e che in fondo vi preoccupate più
della prevenzione degli errori che dell’innovazione.
Suggeriamo invece una reazione in tre fasi:

1. Chiedete cosa si è appreso dal progetto.


2. Non fatene una tragedia.
3. Chiedete di mettere in luce il fallimento.

1. Chiedete cosa si è appreso dal progetto


Spesso Il fallimento di un progetto rappresenta un passo
essenziale per arrivare al successo. Un paio di volte l’anno, durante i
nostri meeting sui prodotti, chiedo a tutti i nostri manager di riempire
un semplice modulo che illustra le loro scommesse degli ultimi anni
ripartite in tre categorie: scommesse coronate da successo,
scommesse non riuscite e scommesse dall’esito ancora incerto. Poi
ci dividiamo in piccoli gruppi per discutere delle voci di ogni categoria
e di cosa abbiamo imparato da ogni scommessa. Questo esercizio
rammenta a tutti che il loro ruolo è di attivare idee coraggiose e che,
come parte di quel processo, alcune iniziative non avranno un esito
positivo. Vedono che scommettere non è una questione di successi
e fallimenti individuali quanto piuttosto un processo di
apprendimento che, nel complesso, catapulta in avanti il business.
Inoltre aiuta i nuovi dipendenti ad ammettere pubblicamente di aver
combinato una valanga di casini, come facciamo tutti.

2. Non fatene una tragedia

Se fate una tragedia per una scommessa che non ha funzionato,


nessuno si assumerà in futuro rischi. Le persone capiranno che
predicate il processo decisionale condiviso, ma non lo mettete in
pratica. Chris Jaffe, assunto nel 2010 come director of product
innovation, ricorda chiaramente un’occasione in cui
Reed non ha fatto una tragedia dopo che lui aveva
sprecato centinaia di ore di talento e risorse su una
sua scommessa fallita:
Nel 2010 si potevano trasmettere i programmi televisivi sui
computer ma non c’erano molte smart TV. Se volevate vedere un
programma Netflix in streaming sul vostro televisore dovevate farlo attraverso
una PlayStation o una Wii.
Volevo che le persone frugassero nei ripostigli, tirassero fuori i loro vecchi
apparecchi Wii e cominciassero a guardare Netflix in streaming. Questo
avrebbe portato Internet in salotto in un modo che la maggior parte dei nostri
abbonati non aveva mai sperimentato. Decisi di dedicare un team di miei
designer e ingegneri a migliorare l’interfaccia di Netflix sulla Wii. Quella attuale
era troppo basica. Sotto la mia supervisione il mio gruppo dedicò migliaia di ore
a sviluppare qualcosa di più complesso e, secondo me, attraente per gli utenti. Il
team ci lavorò a tempo pieno per un intero anno. Chiamammo il progetto
Explorer.
Alla fine testammo la nuova interfaccia su duecentomila utenti Netflix. Le notizie
che ricevemmo mi fecero sentire male. La nuova interfaccia stava spingendo i
consumatori a usare MENO l’interfaccia Wii! Pensavamo che si trattasse di un
bug nel sistema, così controllammo tutto e lanciammo di nuovo il test. Stesso
risultato. Gli utenti preferivano la versione originale, più semplice.
Ero arrivato a Netflix da poco. Prima di quel progetto avevo realizzato un’unica
innovazione di successo, e ora quel flop gigantesco. Avevamo un meeting
trimestrale con Reed chiamato Scienza dei consumatori. I product manager
sarebbero saliti sul palco per fornire un aggiornamento sulle rispettive
scommesse sui prodotti. Cosa aveva funzionato? Cosa no? Cosa avevamo
imparato? Erano presenti tutti i miei pari, oltre a tutti i miei superiori (il mio capo
Todd Yellin, il suo capo Neil Hunt e Reed).
Non sapevo cosa sarebbe successo. Reed mi avrebbe rimproverato per aver
sprecato migliaia di ore e centinaia di migliaia di dollari? Neil si sarebbe
imbarazzato? Todd avrebbe rimpianto di avermi assunto?
A Netflix parliamo di dare sempre visibilità alle scommesse fallite, il che significa
parlare apertamente e pubblicamente delle cose che sono andate male. Avevo
visto alcuni capi parlare dei propri errori con una tale energia e trasparenza che
decisi di puntare sul mio fallimento non solo un po’ di luce bensì la luce di un
grosso faro.
Salii sul palco. La stanza era immersa nel buio. Mostrai la mia prima diapositiva
su cui campeggiava una scritta in lettere maiuscole rosse: EXPLORER: UNA MIA
GRANDE SCOMMESSA FALLITA.
Parlai del progetto, illustrando dettagliatamente ogni fase che aveva o non
aveva funzionato e spiegando che la scommessa era stata al 100 per cento
mia. Reed fece alcune domande e parlammo di quali sezioni del progetto
avevano portato al fiasco. Poi mi chiese cosa avevamo imparato. Gli risposi che
avevamo imparato che la complessità uccide il coinvolgimento dell’utente.
Quella, fra parentesi, è una lezione che adesso l’intera azienda capisce, e
grazie al progetto Explorer.
«D’accordo, è molto interessante. Teniamolo a mente», concluse Reed. «Bene,
quel progetto è concluso. Qual è il prossimo?»

Diciotto mesi più tardi, dopo aver conseguito alcuni successi,


Chris fu promosso a vice president of product innovation.
La reazione di Reed è l’unico tipo di reazione di leadership che
incoraggi il pensiero innovativo. Quando una scommessa fallisce il
manager deve stare attento a esprimere interesse per le lezioni che
se ne possono trarre, ma nessuna condanna. Tutti i presenti in
quella stanza se ne andarono con due importanti messaggi. Primo,
se fate una scommessa e fallisce, Reed vi chiederà cosa avete
imparato. Secondo, se tentate qualcosa di grosso e non funziona
nessuno urlerà, e voi non perderete il posto.

3. Chiedete di dare visibilità al fallimento

Se fate una scommessa e fallisce è importante parlare


apertamente e frequentemente dell’accaduto. Se siete
il capo chiarite che vi aspettate che tutte le
scommesse non riuscite vengano illustrate in maniera
aperta e dettagliata. Chris avrebbe potuto nascondere
il fiasco, dare la colpa a qualcun altro o puntare il dito
per difendersi, invece ha dimostrato un enorme coraggio e capacità
di leadership affrontando di petto la scommessa dall’esito
sfavorevole.
Così facendo non ha aiutato solo sé stesso ma tutta Netflix. È
fondamentale che i vostri dipendenti sentano continuamente parlare
delle scommesse altrui che sono fallite, così da venire incoraggiati a
farne di loro (che naturalmente potrebbero fallire). Senza questo non
potete sviluppare una cultura di innovazione.
A Netflix cerchiamo di puntare un faro su ogni scommessa non
riuscita. Incoraggiamo i dipendenti a scrivere documento sinceri
spiegando con sincerità l’accaduto per poi illustrare le lezioni
imparate. Ecco una versione condensata di una comunicazione di
questo genere. Per puro caso è stata scritta anch’essa da Chris
Jaffe ma diversi anni dopo, nel 2016, dopo un altro progetto non
riuscito chiamato Memento. Questo documento viene spesso
distribuito fra i dipendenti di Netflix come esempio di come dare
visibilità per iscritto a una scommessa persa.
Aggiornamento Memento - Product Management team:
ChrisJ
Circa 18 mesi fa ho presentato un memo al meeting sulla strategia dei prodotti
illustrando un’idea per includere metadati supplementari a livello titoli come
biografie degli attori e titoli correlati nella nostra esperienza di riproduzione su
secondo schermo.
Dopo a un acceso dibattito ho deciso di proseguire con il progetto. Siamo
passati a creare l’esperienza Memento su cellulari Android. Il progetto ha richiesto
più di un anno. Nel settembre scorso avevamo una build di release che abbiamo
lanciato in un piccolo test.
In febbraio ho concluso che non dovessimo proseguire e ho messo fine al
progetto
È importante sottolineare che la decisione di proseguire con Memento e
continuare a investire su di esso è sempre stata unicamente mia. Questo risultato
e il risultante costo sono una mia completa responsabilità. Avervi investito più di
un anno per poi decidere di non lanciarlo ha sprecato tempo e risorse ma ha
anche consentito di fare un’esperienza di apprendimento. Alcuni degli
insegnamenti che ne ho ricavato:

Seguire questo progetto ha avuto un preciso costo opportunità che, di


conseguenza, ci ha rallentato su un’importante innovazione per cellulari. Ho
decisamente dimostrato una carenza in fatto di leadership e senso delle
priorità.
Avrei dovuto riflettere maggiormente sulla limitata capacità di ricavare
informazioni utili dalla limitata popolazione che usa il secondo schermo.
Credo di avere immaginato che si sarebbe ampliata.
Avrei dovuto riflettere più a fondo sul suggerimento scaturito dal meeting
sulla strategia iniziale che Darwin avrebbe rappresentato una piattaforma test
più adatta per questa idea. Questo mi rammenta che devo essere aperto a
mettere in dubbio i miei preconcetti.
Quando ho deciso di proseguire con il progetto dopo il meeting sulla strategia
dei prodotti avrei dovuto produrre un nuovo memorandum per discutere
dell’idea del lancio con una netta opposizione. Questo non combaciava con il
nostro approccio all’innovazione prodotti: non è il modo in cui facciamo le
cose qui.
Quando mi sono dedicato al progetto avrei dovuto capire che il suo valore
stava diminuendo e mettervi fine mesi fa. L’alto numero di crash registrati a
settembre avrebbero dovuto rappresentare per me un chiaro segnale che era
tempo di smettere di lavorarvi. La fine sembrava sempre vicina, il che era
un’illusione. Come spesso succede.
Quando date visibilità alle vostre scommesse fallite vincono tutti.
Voi vincete perché le persone capiscono di potersi fidare del fatto
che dite la verità e vi assumete la responsabilità delle vostre azioni.
Il team vince perché impara dalle lezioni ricavate dal progetto. E
l’azienda vince perché tutti vedono chiaramente che le scommesse
fallite sono parte integrante di un ciclo di innovazione di successo.
Non dovremmo avere paura dei nostri fallimenti. Dovremmo
conviverci serenamente.

E dare maggiore visibilità agli errori!


Per usare la terminologia dell’ultimo capitolo, a Netflix
una scomessa calcolata che fallisce non è un SOS
(materiale da segreti) come un vero e proprio errore.
Quando Chris ha parlato delle proprie scommesse non
riuscite, Explorer e Memento, non aveva nulla per cui
sentirsi imbarazzato. Stava facendo esattamente quello che gli
chiedeva Netflix: pensare in maniera audace e puntare le sue fiches
su idee in cui credeva. In questo contesto non è così difficile salire
sul palco o mandare un memorandum che dice: «Guardate, ho fatto
questa scommessa e i risultati non sono stati quelli sperati».
Ma quando fate un vero errore la cosa può rivelarsi altamente
imbarazzante, soprattutto se quell’errore suggerisce una grave
mancanza di giudizio o negligenza.
Quando l’errore imbarazzante è grosso, la tentazione di prendere
le distanze da esso è notevole. Questo non è raccomandato, a
Netflix. Per sopravvivere a un grosso errore dovete dargli ancora più
visibilità. Parlatene apertamente e verrete perdonati, almeno le
prime volte. Se invece nascondere i vostri errori sotto il tappeto o
continuate a commetterli (cosa che avete maggiori probabilità di fare
se state negando la loro realtà) il risultato finale sarà molto più serio.
Yasemin Dormen, un’esperta di social media turca che vive ad
Amsterdam, ha mostrato chiaramente di capire questa regola
quando ha descritto un errore da lei commesso mentre promuoveva
la quarta stagione della serie Netflix di grande successo Black
Mirror:
In Black Mirror c’è un personaggio di nome Waldo che è un orsetto blu dei
cartoni animati. La quarta stagione doveva essere trasmessa dal 29 dicembre
2017, quindi escogitai un piano natalizio per promuoverla.
Avremmo inviato un misterioso messaggio promozionale a centinaia di abbonati
all’equivalente turco di Reddit da parte di «iamwaldo». Il contenuto sarebbe
stato criptico e allettante: «Sappiamo cosa stai combinando. Stai a vedere cosa
faremo noi». Speravo che le persone reagissero twittando ai loro amici: «Waldo
è tornato?» e «È uscita la quarta stagione di Black Mirror?». Ero ansiosa di
vedere il buzz positivo che avrebbe provocato.
Il mio grosso errore fu quello di non «condividere» l’idea con nessuno. Ero
impegnata a prepararmi per una settimana di vacanza con la mia famiglia. Non
informai i miei colleghi degli uffici PR in altri paesi. Non stimolai il dibattito con il
team communications di Netflix. Organizzai semplicemente la cosa e poi andai
in vacanza in Grecia con mio padre.
Il 29 dicembre papà e io eravamo in un museo di Atene ad ascoltare una guida
turistica quando il mio cellulare ha cominciato a ronzare come un ossesso. I
miei colleghi sparsi per il mondo stavano impazzendo per il messaggio di
«iamwaldo» che arrivava dalla Turchia e per la tempesta mediatica che stava
causando. «Siamo noi?» chiedeva un messaggio. Cominciai una frenetica
ricerca sul cellulare e vidi che i media turchi stavano impazzendo.

Il blog di tecnologia Engadget spiegò l’accaduto in questo modo:


Questa è la stagione di campagne promozionali su Internet minacciose e
invadenti. Netflix ha spaventato gli utenti dell’equivalente turco di Reddit, Ekşi
Sözlük, inviando loro messaggi promozionali diretti che volevano accendere i
riflettori sul debutto della quarta stagione di Black Mirror. I messaggi da parte di
«iamwaldo» (un riferimento all’episodio della seconda stagione della serie, Vota
Waldo!) sono arrivati in piena notte e suonavano quasi come una minaccia:
«Sappiamo cosa stai combinando. Stai a vedere cosa faremo noi», dicevano.

La gaffe arrivò persino sui media britannici: «Quarta stagione di


Black Mirror: RABBIA degli spettatori per “trovata di marketing da
pelle d’oca”». Il titolo del sito di notizie Express tuonava: «Non è
divertente!». Yasemin ha rammentato l’intera dolorosa esperienza:
Provai un tremendo tuffo al cuore. Avevo lo stomaco sottosopra. Questo errore
era al 100 per cento mio. Avevo organizzato la campagna senza «condividerla»
con nessuno. I miei colleghi erano furiosi e il mio capo sconcertato.
Mio padre mi prese da parte. Ero praticamente in lacrime mentre gli spiegavo
l’accaduto. «Credi che ti licenzieranno?» mi chiese stupito. E la cosa mi fece
ridere. «No, papà! A Netflix non vieni licenziato per cose del genere. Veniamo
licenziati per non aver corso rischi, per non aver fatto mosse audaci. Oppure
perché non parliamo apertamente della cosa quando combiniamo guai.»
Naturalmente non commetterò più l’errore di non «condividere» un altro evento
mediatico. Quello potrebbe farmi licenziare.
Passai il resto della vacanza illustrando apertamente quale errore avevo
commesso e cosa ne avevo imparato. Scrissi memo e feci decine di telefonate.
Passai l’intera vacanza così, senza godermi appieno le spiagge greche.

Yasemin ha poi fatto una fulgida carriera a Netflix. Cinque mesi


dopo l’errore «iamwaldo» fu promossa senior marketing manager,
vedendo così aumentare le sue responsabilità del 150 per cento, e
diciotto mesi dopo divenne director of marketing.
Le lezioni che non solo Yasemin ma l’intero team marketing di
Netflix imparò dal suo errore furono la cosa più importante. «Quando
assumiamo nuove persone per il team marketing abbiamo una serie
di casi storici che esaminiamo insieme per insegnare loro cosa non
fare. La campagna turca per Black Mirror è uno dei nostri casi di
studio preferiti, tutti ne parlano», spiega Yasemin. «Dimostra con
estrema chiarezza l’importanza di “condividere” e cosa succede
quando non lo fai. Ma ha anche aiutato tutti noi nel marketing a
rammentare che il nostro scopo a Netflix è creare momenti di gioia.
Quindi non organizzate una campagna che sia inquietante. Non
cercate di spaventare il pubblico per indurlo a guardare i nostri
programmi. Una buona campagna dovrebbe essere invece
attraente, allegra e divertente.»

Il sesto puntino
Se avete stabilito saldamente un’alta densità di talento e la
trasparenza organizzativa, ora è possibile un processo decisionale
più rapido e innovativo. I vostri dipendenti possono sognare in
grande, testare le proprie idee e attuare scommesse in cui credono,
persino andando contro chi è gerarchicamente superiore a loro.
▶ CONCETTI CHIAVE DEL CAPITOLO 6
In un’azienda rapida e innovativa le responsabilità di decisioni fondamentali,
che richiedono ingenti spese, dovrebbero essere condivise tra i dipendenti a
tutti i livelli e non assegnate in base allo status gerarchico.
Perché questo funzioni il leader deve comunicare al suo staff il principio di
Netflix «Non cercate di compiacere il vostro capo».
Quando nuovi dipendenti entrano nell’azienda dite loro che hanno una
manciata di fiches metaforiche con cui fare scommesse. Alcuni azzardi
funzioneranno e altri invece falliranno. La performance di un dipendente
verrà giudicata sulla base del risultato complessivo delle sue scommesse,
non sui risultati di una sola.
Per aiutare i dipendenti a fare buone scommesse incoraggiateli a stimolare il
dibattito, a «condividere» l’idea e, nel caso di grosse scommesse, a testarle.
Insegnate ai vostri dipendenti che, quando una scommessa fallisce,
dovrebbero dare completa visibilità.

Verso una cultura di libertà e responsabilità


La vostra azienda sta adesso beneficiando grandemente di una cultura di libertà e
responsabilità. Vi state muovendo più in fretta, state innovando di più e i vostri
dipendenti sono più felici. Ma mentre l’organizzazione cresce potreste scoprire che
è difficile conservare questi elementi culturali su cui avete investito con tanta
attenzione.
È quello che è successo a noi a Netflix. Fra il 2002 e il 2008 abbiamo posato le
fondamenta per la maggior parte degli aspetti delineati nei primi sei capitoli di
questo libro. Ma con decine di nuovi dipendenti in arrivo da altre aziende
settimanalmente, il processo di adeguamento al modus operandi di Netflix è
diventato ancora più difficile.
Per questo motivo abbiamo introdotto una serie di tecniche utilizzabili da tutti i
nostri manager per assicurare che elementi fondamentali quali la densità di
talento, la sincerità e la libertà persistano nonostante i cambiamenti e la crescita.
Queste tecniche costituiscono l’argomento della Sezione 3.
SEZIONE TRE
TECNICHE PER RAFFORZARE UNA CULTURA DI
LIBERTÀ E RESPONSABILITÀ
Aumentate al massimo la densità di talento…
7 ▶ Il Keeper Test

Aumentate al massimo la sincerità…


8 ▶ Un circolo di feedback

Ed eliminate quasi tutti i controlli!


9 ▶ Guidate con il contesto, non con il controllo

Questa sezione si concentra su tecniche pratiche che potete attuare nel vostro
team o organizzazione allo scopo di rafforzare i concetti di cui abbiamo parlato
nelle prime due sezioni. Nel Capitolo 7 esploreremo il Keeper Test, il sistema
principale utilizzato da Netflix per incoraggiare i manager a mantenere un’alta
densità di talento. Nel Capitolo 8 esamineremo due procedure che incoraggiano
frequenti e costanti feedback fra capi, dipendenti e colleghi. Nel Capitolo 9
studieremo come adeguare il vostro stile di management per fornire una maggiore
libertà decisionale alle persone che guidate.
AUMENTATE AL MASSIMO LA DENSITÀ DI
TALENTO…
7.
IL KEEPER TEST

Era la settimana tra Natale e Capodanno del 2018 e a


Netflix avevamo parecchie cose da festeggiare. Le
ultime sei settimane erano state fra quelle di maggior
successo nella storia dell’azienda. Ero al settimo cielo
quando chiamai Ted Sarandos per congratularmi con
lui.
In novembre il team di Ted aveva lanciato Roma, un film scritto e
diretto da Alfonso Cuarón che seguiva la vita della domestica di una
famiglia borghese messicana. Roma fu definito un capolavoro dal
«New York Times» e decretato il miglior film Netflix originale di tutti i
tempi. In seguito vinse un Oscar per la miglior regia e uno come
miglior film in lingua straniera.
Poche settimane più tardi il team di Ted distribuì Bird Box, un
thriller in cui Sandra Bullock interpreta una donna costretta a
effettuare un viaggio pericoloso con i figli – bendati lungo un fiume
impetuoso – per salvare le loro vite. Il film fu lanciato il 13 dicembre
e nel giro di sette giorni più di 45 milioni di account Netflix lo
guardarono, la migliore prima settimana di sempre per un prodotto
originale Netflix.
«Sono state sei settimane davvero straordinarie!» dissi a Ted. «Sì,
abbiamo tutti scelto bene!» replicò lui. Devo essere sembrato
perplesso perché spiegò: «Be’, tu hai scelto me e io ho scelto Scott
Stuber. Scott ha scelto Jackie e Terril. Jackie e Terril hanno scelto
Roma e Bird Box. Questo è saper scegliere!».
Aveva ragione. Con il nostro modello di processo decisionale
condiviso se scegliete le persone migliori in assoluto e loro scelgono
le persone migliori in assoluto (e così via lungo la catena),
succederanno cose fantastiche. Ted lo definisce la «gerarchia della
scelta» e rappresenta il fulcro di una forza lavoro basata su un’alta
densità di talento.
Scegliere può sembrare prevalentemente una questione di
assunzioni. In teoria un’organizzazione potrebbe limitarsi a scegliere
con cura e questi dipendenti ben scelti prospererebbero in eterno. La
realtà è più problematica. Per quanto possiate stare attenti, a volte
commetterete errori nell’assumere, a volte le persone non
cresceranno quanto avevate sperato e a volte la vostra azienda avrà
bisogno di cambiamenti. Per ottenere il più alto livello di densità di
talento dovete essere preparati a compiere scelte difficili. Se
prendete sul serio l’obiettivo della densità di talento dovete abituarvi
a fare qualcosa di ben più arduo: licenziare un bravo dipendente
quando pensate di poterne ottenere uno eccezionale.
Uno dei motivi per cui in molte aziende questo è così difficile è che
i leader ripetono continuamente ai dipendenti: «Siamo una famiglia».
Ma un ambiente di lavoro ad alta densità di talento non è una
famiglia.

Essere una famiglia significa rimanere insieme a


dispetto
della «performance»

Per molti secoli quasi tutte le attività furono gestite da


famiglie, quindi non stupisce che la metafora più
utilizzata dai CEO per indicare la propria azienda sia la
famiglia. La famiglia rappresenta appartenenza,
conforto e dedizione ad aiutarsi a vicenda nel tempo.
Chi non vorrebbe che i propri dipendenti provassero
un profondo affetto e lealtà verso la società per cui lavorano?
Gli addetti al ricevimento clienti all’ingresso dei Walmart furono
incoraggiati per decenni a considerarsi parte della famiglia Walmart;
durante il tirocinio si sentivano dire che dovevano accogliere
chiunque come fosse un ospite a casa loro.
L’ex vice president of engineering di Netflix, Daniel Jacobson,
lavorò per un decennio alla National Public Radio (NPR) di
Washington prima di trascorrere altrettanti anni a Netflix. Ecco come
ha spiegato i benefici dell’ethos familiare della NPR:
Ho cominciato a lavorare alla NPR verso la fine del 1999, ero il primo software
engineer a tempo pieno assunto online. Quando sono arrivato là ero
gasatissimo. Coloro che desiderano lavorare per NPR ne condividono la
missione e ne ammirano la dedizione alle notizie e all’informazione. Quella
comunanza d’intenti sfociava in una cultura che talvolta ti faceva sentire più in
famiglia che su un posto di lavoro. Era molto allettante e instaurai una miriade di
stretti legami con i colleghi.
La NPR aveva una così forte cultura familiare che molte persone la
trasformarono nella loro vera famiglia. Una delle sue «madri fondatrici», Susan
Stamberg, aveva creato una lista dei dipendenti che si erano incontrati a NPR e
che si erano sposati . La NPR è un’organizzazione relativamente piccola e la
lista di coppie formatesi lì era piuttosto lunga.

Daniel ricorda inoltre che alcuni suoi colleghi dicevano: «Se rimani
alla NPR per tre anni ci rimani per la vita».
Naturalmente le famiglie non offrono solo amore e lealtà. Nelle
famiglie ci tolleriamo a vicenda e sopportiamo stranezze ed
eccentricità perché ci siamo impegnati a sostenerci l’un l’altro nel
tempo. Quando qualcuno della famiglia si comporta male, non fa il
proprio dovere o non è in grado di adempiere alle proprie
responsabilità troviamo il modo di arrangiarci. Non abbiamo
alternative. Siamo costretti a stare insieme. Essere una famiglia
significa questo.
La seconda parte del racconto di Daniel sulla NPR mostra qual è il
problema quando si trattano i dipendenti di un’azienda come una
famiglia:
La cultura della NPR presenta molti vantaggi e per la NPR va bene così. Ma
dopo un po’ ho cominciato a notare i problemi che nascono quando si applica
un ethos familiare sul posto di lavoro. Nel mio team c’era un software engineer,
Patrick, che pur essendo esperto non possedeva le capacità per fare bene il
proprio lavoro. Aveva continuamente bisogno di tempo supplementare per
completare i suoi progetti e spesso nel suo codice c’erano bug significativi o
problemi. A volte era necessario includere altri ingegneri nei suoi progetti per
assicurarsi che il lavoro venisse svolto efficacemente.
Patrick aveva un atteggiamento fantastico, il che complicava la situazione.
Voleva fare la cosa giusta e voleva dimostrare di poter agire in maniera
indipendente. Desideravamo tutti che ce la facesse e cercavamo occasioni che
fossero adeguate alle sue limitate capacità. Ma la qualità del suo lavoro non
reggeva il confronto con quella dei colleghi. Ogni giorno ero costretto a
preoccuparmi per lui mentre non dovevo preoccuparmi per loro. Era una
persona adorabile, ma i risultati non arrivavano.
Patrick occupava così tanto del mio tempo, e così tanto del tempo del team, che
doveva correggere i suoi errori, che divenne un autentico problema. I migliori
ingegneri del team erano spesso esasperati e aspettavano il mio intervento.
Temevo che alcuni di loro si irritassero a tal punto da cercare lavoro altrove.
Mi rendevo conto che il team sarebbe stato molto più efficiente senza Patrick,
anche se non avessi potuto sostituirlo con qualcun altro. Parlai con il mio capo
che mi incoraggiò a cercare mansioni diverse che potessero beneficiare dei
punti di forza di Patrick proteggendo gli altri dai suoi punti deboli. L’eventualità di
licenziarlo non era nemmeno contemplata. Non avevamo motivo di licenziarlo,
non aveva fatto niente di sbagliato. L’organizzazione era una tale famiglia che la
reazione fu: «È uno di noi. Siamo tutti sulla stessa barca. Ci adegueremo».

Da famiglia a team

Ai primi tempi di Netflix anche i nostri manager


lavoravano in modo da creare un ambiente familiare.
Ma dopo i licenziamenti del 2001, quando vedemmo la
performance migliorare drasticamente, ci rendemmo
conto che la famiglia non è una metafora adatta per
descrivere una forza lavoro ad alta densità di talento.
Volevamo che i dipendenti si sentissero impegnati, interconnessi e
parte di un tutto più grande, ma non volevamo che vedessero il
proprio impiego come un accordo a vita. Un lavoro dovrebbe essere
qualcosa che fate per il magico periodo di tempo in cui siete la
persona migliore per quel lavoro ed esso rappresenta la posizione
migliore per voi. Quando smettete di imparare o di eccellere è il
momento di lasciare il posto a una persona più capace e di trovare
un lavoro più adatto a voi.
Ma se Netflix non era una famiglia cosa eravamo? Un gruppo di
individui che badavano a loro stessi? Non era certamente quello che
volevamo. Dopo averne parlato a lungo, Patty suggerì di pensare a
Netflix come una squadra sportiva professionistica.
Inizialmente non ci sembrò un concetto molto profondo: la
metafora della squadra è quasi trita come quella della famiglia, per
un’azienda. Ma mentre lei continuava a parlare cominciai a capire
cosa intendesse:
Ho appena guardato Bull Durham con i miei figli. In una squadra di baseball
professionistica i giocatori sono legati da ottime relazioni. Sono molto uniti, si
sostengono a vicenda. Festeggiano insieme, si consolano a vicenda e
conoscono il modo di giocare dei compagni così bene che possono agire come
un tutt’uno senza bisogno di parlare. Ma non sono una famiglia. Il coach
scambia e vende giocatori per tutto l’anno allo scopo di assicurarsi di avere
sempre il migliore in ogni ruolo.

Patty aveva ragione. A Netflix voglio che ogni manager diriga il


proprio reparto come le migliori squadre professionistiche, lavorando
per suscitare forti sentimenti di dedizione, coesione e collaborazione
senza smettere di prendere decisioni difficili per assicurarsi che ogni
ruolo sia ricoperto dal miglior giocatore.
Una squadra professionistica rappresenta una valida metafora per
l’alta densità di talento, perché gli atleti di squadra:

esigono l’eccellenza, contando sul fatto che l’allenatore si


assicuri che in ogni ruolo ci sia sempre la persona migliore;
si allenano per vincere, aspettandosi di ricevere feedback
schietti e continui dal coach e dai compagni su come migliorare
il proprio gioco;
sanno che sforzarsi non basta, riconoscendo che se hanno un
rendimento da serie B nonostante uno sforzo da serie A
verranno ringraziati e sostituiti rispettosamente con un altro
giocatore.

In una squadra ad alto rendimento, collaborazione e fiducia


funzionano bene perché tutti i membri sono eccezionalmente dotati
sia in ciò che fanno sia nel collaborare con gli altri. Perché un
individuo sia considerato eccellente non può essere solo sublime nel
gioco, deve essere anche altruista e anteporre la squadra al proprio
ego. Deve sapere quando passare la palla, come aiutare i compagni
di a dare il meglio e riconoscere che l’unico modo per vincere è
vincere insieme. Questo è esattamente il tipo di cultura che
volevamo per Netflix.
Fu a questo punto che cominciammo a dire:
SIAMO UNA SQUADRA, NON UNA FAMIGLIA
Per essere una squadra vincente dobbiamo avere i migliori
giocatori per ogni ruolo. Il vecchio concetto è che un dipendente
debba fare qualcosa di sbagliato o essere inadeguato per perdere il
lavoro. Ma in una squadra sportiva professionistica o olimpica i
giocatori capiscono che il ruolo dell’allenatore è fare un upgrade, se
necessario, per passare da un livello buono a un livello eccezionale.
I membri della squadra si giocano la conferma a ogni partita. Per
persone che ritengono la sicurezza dell’impiego più importante del
vincere campionati, Netflix non rappresenta la scelta giusta e
cerchiamo di essere chiari e non dare giudizi, al riguardo. Ma per chi
ritiene importante giocare in squadre vincenti la nostra cultura offre
una splendida occasione. Come qualsiasi squadra che compete con
successo ai massimi livelli, instauriamo rapporti profondi e teniamo
gli uni agli altri.

Il Keeper Test
Naturalmente i manager di Netflix, come tutte le brave persone,
vogliono sentirsi a proprio agio con le loro scelte. Perché non si
sentano in colpa licenziando qualcuno che apprezzano e rispettano
è necessario che siano motivati dal desiderio di aiutare
l’organizzazione e che riconoscano che a Netflix sono tutti più felici e
produttivi quando c’è una star in ogni ruolo. Quindi chiediamo al
manager: per l’azienda sarebbe meglio se tu licenziassi Samuel e
cercassi una persona più capace? Una risposta affermativa sarebbe
un chiaro segnale del fatto che è ora di cercare un altro giocatore.
Incoraggiamo anche tutti i manager a valutare regolarmente ogni
loro dipendente e assicurarsi di avere la persona migliore in ogni
ruolo. Per aiutarli a dare giudizi parliamo del Keeper Test:

SE UN MEMBRO DEL VOSTRO TEAM DOVESSE DIMETTERSI DOMANI


CERCHERESTE DI FARGLI CAMBIARE IDEA? OPPURE ACCETTERESTE LE
SUE DIMISSIONI, MAGARI CON UN PIZZICO DI SOLLIEVO? NEL SECONDO
CASO DOVRESTE RICONOSCERGLI SUBITO UNA LIQUIDAZIONE E
CERCARE UNA STAR, QUALCUNO PER CUI SIETE DISPOSTI A LOTTARE.
Cerchiamo di applicare il Keeper Test a chiunque, compresi noi
stessi. Per l’azienda sarebbe meglio se ci fosse qualcun altro a
ricoprire il mio ruolo? Lo scopo è eliminare qualsiasi possibile senso
di vergogna associato al licenziamento da Netflix. Pensate a uno
sport olimpico di squadra come l’hockey. Essere esclusi da una
squadra è molto deludente, ma prevale l’ammirazione per il coraggio
e la bravura dimostrati inizialmente, quando si è entrati a farne parte.
Quando qualcuno viene licenziato a Netflix speriamo che accada la
stessa cosa. Rimaniamo tutti amici e nessuno si deve vergognare.
La stessa Patty McCord ne è un esempio. Dopo aver lavorato con
lei per più di un decennio cominciai ad avere la sensazione che
sarebbe stato meglio per noi avere qualcuno di nuovo nel suo ruolo.
Le rivelai questi miei dubbi e parlammo di cosa mi aveva portato a
nutrirli. Dalla chiacchierata emerse che Patty voleva lavorare meno,
quindi lasciò Netflix in termini amichevoli. Dopo sette anni siamo
ancora ottimi amici e ci consultiamo informalmente.
Per fare un altro esempio, Leslie Kilgore fu incredibile per noi
come direttrice generale marketing e fondamentale nella nostra
cultura, nella nostra battaglia con Blockbuster e nella nostra crescita
complessiva. Era ed è una magnifica stratega. Ma con l’uscita di
House of Cards fu chiaro che il nostro futuro dipendeva dalla
promozione di contenuti originali e non solo dall’acquisizione di titoli
esterni e capii che ci serviva qualcuno con una vasta esperienza
negli studi hollywoodiani, anche per compensare la mia scarsa
competenza di show business. Così licenziai Leslie, ma lei era
disposta a far parte del nostro consiglio di amministrazione, quindi è
diventata uno dei miei capi e da molti anni è un magnifico
consigliere.
Quindi il Keeper Test è reale e tutti i nostri manager a ogni livello
dell’azienda lo usano sistematicamente. Quindi dico ai miei superiori
e ai miei consiglieri di amministrazione di non riservarmi un
trattamento speciale. Non dovrebbero aspettare che io fallisca per
sostituirmi. Dovrebbero sostituirmi non appena avranno un
potenziale CEO che probabilmente si rivelerà più efficace. Trovo
motivante dover giocare per tenermi stretto il mio ruolo ogni trimestre
e cerco di migliorare costantemente per rimanere in testa.
A Netflix potreste lavorare duramente per dare il
meglio, dedicarvi anima e corpo al successo
dell’azienda, ottenere ottimi risultati e poi, un bel
giorno andate al lavoro e boom! siete disoccupati. Non
perché ci sia stata un’inevitabile crisi finanziaria o
corposi licenziamenti imprevisti ma perché i vostri
risultati non sono stati formidabili come il vostro capo aveva sperato.
La vostra performance non supera la sufficienza.
Nell’introduzione abbiamo esaminato alcune delle diapositive più
discusse del Netflix Culture Deck che spiegano la filosofia di Reed:
Queste diapositive pongono interrogativi difficili. Per assicurarci
che Reed vi risponda daremo al resto del presente capitolo una
forma di intervista.

Un’intervista con Reed


Domanda 1
Secondo l’ex Chief product officer di Netflix Neil Hunt, la formula
«Siamo una squadra, non una famiglia» è stata causa di grandi
dibattiti all’interno di Netflix sin dall’inizio. Ecco come lo ricorda:
Nel 2002 Reed organizzò un leadership meeting fuori sede a Half Moon Bay,
dove sottolineò che dovevamo ripetere continuamente lo stesso rigoroso
esercizio svolto da lui e Patty mentre si preparavano ai licenziamenti.
Dovevamo chiederci regolarmente quali dipendenti non rappresentassero più la
scelta migliore per la loro posizione. Se non riuscivano a diventare la «scelta
migliore» dopo aver ricevuto il feedback, avremmo dovuto trovare il coraggio di
licenziarli.
Fui colto alla sprovvista. Parlai al gruppo della differenza fra pinguini ed elefanti.
I pinguini abbandonano i membri del gruppo che sono deboli o in serie difficoltà
laddove gli elefanti si radunano intorno a loro per aiutarli a rimettersi in forze.
«Mi stai dicendo che sceglieremo di essere pinguini?» chiesi.
Reed, non ti preoccupi che Netflix rappresenti i crudeli pinguini
dell’aneddoto di Neil? Perdere il lavoro è terribile. Influisce sulla
situazione finanziaria, la reputazione, le dinamiche familiari e la
carriera dell’interessato. Le persone che hanno il permesso di lavoro
rischiano di essere rimpatriate a causa della perdita dell’impiego. Tu
naturalmente sei molto ricco, quindi perdere lo stipendio non ti
causerebbe molte difficoltà, ma non si può dire lo stesso per la
maggior parte dei tuoi dipendenti.
È giusto licenziare persone che stanno facendo del proprio meglio
ma non riescono a produrre risultati straordinari?

Risposta 1

Paghiamo i nostri dipendenti al massimo livello


retributivo per ciascun individuo, quindi molto bene.
L’accordo prevede, fra le altre cose, che faranno parte
della squadra fino a quando saranno i migliori per quel
ruolo. Si rendono conto che i bisogni della nostra
azienda cambiano rapidamente e che noi esigiamo
una performance straordinaria. Quindi ogni dipendente che sceglie
di entrare nel team Netflix decide di sottoscrivere la nostra filosofia
fondata sulla ricerca dell’alta densità di talento. Siamo trasparenti in
merito alle nostre tattiche e molti dipendenti sono contenti di trovarsi
circondati da colleghi di così alta qualità e felici di affrontare, in
cambio, un certo rischio di carriera. Altre persone possono preferire
una sicurezza lavorativa a lungo termine e scelgono di non venire a
Netflix. Quindi sì, considero giusto il nostro approccio. È anche molto
gradito alla maggior parte dei nostri dipendenti.
Quindi, considerato che le nostre aspettative di performance sono
così elevate, riteniamo giusto retribuire adeguatamente coloro che
licenziamo per permettergli di avviare nuovi progetti. Versiamo a
chiunque licenziamo una liquidazione generosa, sufficiente per
prendersi cura di sé e della famiglia finché non trova un altro
impiego. A ogni licenziamento offriamo lo stipendio di vari mesi (dai
quattro per un non dirigente ai nove per un vicepresidente). Ecco
perché diciamo:

A UNA PERFORMANCE ADEGUATA È CORRISPOSTO


UN TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO GENEROSO

A qualcuno questo sembrerà proibitivo. E probabilmente lo


sarebbe, se non fosse per i nostri sforzi di eliminare procedure di
controllo non necessarie.
In molte aziende degli Stati Uniti quando un manager decide di
licenziare qualcuno è tenuto ad avviare una procedura chiamata
Performance Improvement Plan o PIP (Piano di miglioramento della
performance), nel cui ambito deve documentare di aver condotto
incontri settimanali con il dipendente distribuiti su vari mesi,
dimostrando per iscritto che il lavoratore non è riuscito a raggiungere
gli obiettivi nonostante i feedback. I PIP aiutano di rado i dipendenti a
migliorare e ritardano di diverse settimane il licenziamento.
Sono stati inventati per due ragioni. La prima è tutelare i
dipendenti dal rischio di perdere il lavoro senza ottenere feedback
costruttivi e l’opportunità di migliorare. Ma grazie alla nostra cultura
della sincerità gli impiegati di Netflix ricevono giornalmente tanto
feedback. Prima di essere licenziato, un dipendente si è sentito dire
con chiarezza e ripetutamente cosa fare per migliorare.
La seconda ragione è mettere l’azienda al riparo da un’eventuale
causa legale. Noi chiediamo ai dipendenti in uscita di firmare un
accordo con il quale si impegnano a non citarci, se vogliono ricevere
la generosa liquidazione che offriamo. Quasi tutti accettano l’offerta.
Ottengono una somma cospicua e possono concentrarsi sul passo
successivo della propria carriera.
Naturalmente i PIP sono costosi. Avviare una procedura PIP di
quattro mesi significa dover pagare lo stipendio di un dipendente
poco produttivo per quel periodo, oltre che dover implementare e
documentare un processo che richiede un dispendio di tempo
considerevole per i suoi responsabili e per l’ufficio delle risorse
umane. Invece di destinare quel capitale a un prolungato processo di
PIP datelo al dipendente sotto forma di corposo pacchetto
liquidazione immediato, ditegli che vi dispiace che la cosa non abbia
funzionato e augurategli buona fortuna con la sua avventura
successiva.

Domanda 2

Nel film Hunger Games c’è una scena in cui la


protagonista adolescente Katniss, interpretata da
Jennifer Lawrence, è in piedi su una piccola
piattaforma, in tuta mimetica, ed esamina gli avversari.
Ventiquattro giovani fra i dodici e i diciotto anni sono
stati sorteggiati per un evento televisivo in cui devono
combattere gli uni contro gli altri. Solo uno di loro vincerà e tutti gli
altri moriranno. Se volete sopravvivere dovete uccidere gli avversari.
Quando ho iniziato i colloqui a Netflix mi aspettavo che l’atmosfera
somigliasse molto a quella di Hunger Games. Ogni giocatore
professionista sa che affinché qualcuno vinca altri devono perdere: il
vostro posto ve lo dovete conquistare.
Inoltre avevo letto di pratiche simili utilizzate in passato da aziende
come Microsoft e che molti pensano siano state la causa di una
nociva competizione interna. Per esempio, fino al 2012 i manager di
Microsoft erano tenuti a stilare una classifica dei dipendenti in base
alla loro performance e venivano incoraggiati a licenziare quelli che
figuravano negli ultimi posti.
In un articolo di «Vanity Fair» intitolato Microsoft Lost Decade (Il
decennio perduto di Microsoft) il giornalista Kurt Eichenwald ha
citato le parole di un ex dipendente:
Se facevi parte di un team di dieci persone, il primo giorno entravi sapendo che,
a prescindere dalla bravura di ognuno, due persone avrebbero ricevuto
un’ottima recensione, sette ne avrebbero ricevuta una mediocre e una ne
avrebbe ottenuta una pessima. Questo induce i dipendenti a concentrarsi sulla
competizione fra di loro invece che su quella con le altre aziende.
Un ingegnere di Microsoft avrebbe dichiarato:
Le persone sabotavano apertamente gli sforzi altrui. Una delle cose più
preziose che ho imparato è stata come dare l’impressione di essere gentile
mentre tenevo nascoste ai colleghi le informazioni sufficienti a far sì che non mi
superassero in classifica.

Perché la squadra-e-non-famiglia di Netflix avrebbe dovuto essere


diversa? Mi aspettavo di scoprire i suoi dipendenti impegnati a
graffiarsi e pugnalarsi alle spalle per tenersi aggrappati al proprio
posto. In realtà durante i miei colloqui non è emerso nulla di simile.
Reed, visto quanto è difficile ottenere e mantenere un posto nella
squadra di Netflix ,come riuscite a evitare la competizione interna?

Risposta 2

Quella di incitare involontariamente la competizione


interna è un’autentica preoccupazione per aziende
come la nostra che cercano di aumentare la propria
densità di talento. Molte hanno messo in atto
procedure e regole per incoraggiare i manager a
sbarazzarsi di dipendenti mediocri e sono scivolate in
sistemi che alimentano senza volerlo la competizione interna. Il
peggiore è la pratica del cosiddetto «stack ranking» (classificazione
forzata), noto anche come «curva di vitalità» o più colloquialmente
come «rank and yank» (classifica ed elimina).
L’articolo di «Vanity Fair» citato da Erin delinea una versione di
classifica forzata. Anche General Electrics e Goldman Sachs hanno
tentato di applicarne alcune varianti per aumentare la densità di
talento. Jack Welch, forse il primo CEO a utilizzare questo metodo,
incoraggiò notoriamente i manager di General Electrics a stilare ogni
anno una classifica e a licenziare il 10 per cento più scarso per
mantenere alti i livelli di performance
Nel 2015 il «New York Times» ha riferito che General Electrics,
come già Microsoft nel 2012, ha abbandonato quel metodo di
valutazione. Com’è prevedibile, la classifica forzata nuoce alla
collaborazione ed elimina l’entusiasmo di fare parte di una squadra
altamente produttiva.
Incoraggiamo i nostri manager ad applicare con regolarità il
Keeper Test, ma stiamo molto attenti a evitare quote prestabilite di
licenziamenti o sistemi di classificazione. Innanzitutto «Classifica ed
elimina» o «Dovete licenziare l’X percento dei vostri dipendenti»
sono proprio il tipo di procedure basate su regole fisse che tentiamo
di evitare. Cosa più importante, questi metodi spingono i manager a
licenziare i dipendenti mediocri, scoraggiando contemporaneamente
il lavoro di squadra. Voglio che i nostri migliori dipendenti competano
con i concorrenti di Netflix, non fra loro. Utilizzando un approccio
«classifica ed elimina», si favorisce la densità di talento rispetto a
una maggiore collaborazione.
Per fortuna non è necessario scegliere fra alta densità di talento e
alto livello di collaborazione: con il Keeper Test possiamo ottenere
entrambe le cose. Questo perché c’è un unico aspetto essenziale
che ci differenzia da una squadra sportiva professionistica: nella
squadra di Netflix non c’è un numero fisso di ruoli. Non giochiamo
seguendo un manuale e non poniamo limiti al numero di giocatori in
squadra. Un dipendente non è costretto a perdere perché l’altro
vinca. Anzi, maggiore è l’eccellenza del team, più risultati
conseguiamo. Più risultati conseguiamo e più cresciamo. Più
cresciamo, più ruoli aggiungiamo alla nostra squadra. Più ruoli
aggiungiamo, maggiori saranno le possibilità per i dipendenti
migliori.

Domanda 3

Un numero del settimanale di attualità «The Week»


del novembre 2018 includeva un articolo intitolato
Netflix’s Culture of Fear (La cultura della paura presso
Netflix). Cita Rhett Jones del sito web di tecnologia
Gizmodo, secondo il quale a Netflix pervadono
«brutale sincerità, gergo da iniziati e costante paura».
Meno di un mese prima Shalini Ramachandran e Joe Flint avevano
scritto un articolo sul «Wall Street Journal» basato su interviste con
dipendenti di Netflix: «A un meeting di dirigenti addetti alle pubbliche
relazioni di Netflix nella tarda primavera, uno di loro ha affermato di
recarsi in ufficio ogni giorno con il timore di essere licenziato».
Anch’io ho scoperto nel corso delle mie interviste che alcuni
dipendenti di Netflix parlavano apertamente del costante timore di
perdere il posto. Una di loro era Marta Munk de Alba, una
reclutatrice dell’ufficio di Amsterdam. È una psicologa che nel 2016
si è trasferita dalla Spagna ai Paesi Bassi per entrare nel team
risorse umane di Netflix. Ecco il suo racconto:
Durante i primi mesi di lavoro ero terrorizzata all’idea che i miei colleghi
scoprissero che non ero all’altezza del loro dream team e che avrei perso il
lavoro. Vedevo da vicino la qualità dei miei colleghi. Pensavo: “Posso davvero
lavorare qui? Quanto impiegheranno a capire che sono un’impostora?”. Ogni
mattina alle 8 entravo in ascensore e quando premevo il pulsante era come
premere un grilletto. Mi si bloccava il respiro. Ero sicura che una volta giunta al
mio piano, le porte si sarebbero aperte e avrei visto il mio capo lì, in attesa di
licenziarmi.
Pensavo che perdendo il posto avrei perso la più grande occasione della mia
vita. Lavoravo come una pazza, fino a notte fonda, imponendo una pressione su
me stessa come non avevo mai fatto prima. Ma la paura persisteva.

Derek, attualmente un direttore a Netflix, ha fornito un altro


esempio:
Durante il mio primo anno a Netflix mi chiedevo ogni giorno se sarei stato
licenziato. Per nove mesi non ho svuotato gli scatoloni perché ero sicuro che se
lo avessi fatto, avrei immediatamente perso il posto. Non ero soltanto io. I miei
colleghi parlavano continuamente del Keeper Test. Che fossimo in un taxi o
fuori a pranzo, il principale argomento di conversazione era sempre la paura di
perdere il lavoro: chi era stato licenziato di recente, chi pensavamo che lo
sarebbe stato, se noi rischiavamo il licenziamento. Solo quando il mio capo mi
promosse a direttore capii che i miei timori erano infondati.

È evidente che il Keeper Test aumenta la densità di talento ma


genera anche ansietà. I dipendenti provano sensazioni che vanno da
una «leggera preoccupazione» a un «terrore occasionale» di essere
esclusi dal team.

Reed, cosa stai facendo per evitare che pervada una cultura
basata sulla paura a Netflix?

Risposta 3
Imparando a fare kayak nelle rapide, ti insegnano a
tenere d’occhio sia l’acqua calma e limpida, sia il
vortice pericoloso da evitare. Gli esperti hanno
confermato che maggiore attenzione si presta al
prolema da evitare, maggiori saranno le probabilità di
incapparci. Allo stesso modo, a Netflix comunichiamo
ai dipendenti che è meglio concentrarsi sull’apprendimento, sul
lavoro di squadra e sui risultati. Se le persone vivono nel terrore
costante di essere licenziate (così come gli atleti sono ossessionati
dal pericolo di un infortunio), non riusciranno a lavorare con
spensieratezza e sicurezza, causando quegli stessi problemi che
cercavano di evitare.

Suggerire il Keeper Test


Ci sono due approcci che incoraggiamo a Netflix per ridurre al
minimo la paura in ufficio.
Il primo approccio prevede che, qualora un dipendente provi un
senso di ansia come quello descritto da Marta e Derek, è
incoraggiato a suggerire il Keeper Test. Questo metodo funziona
quasi sempre.
Durante il prossimo incontro one-to-one con il tuo capo, prova a
chiedere:

SE IO STESSI PENSANDO DI ANDARMENE


COSA FARESTI PER FARMI CAMBIARE IDEA?

Dalla risposta ricevuta capirai esattamente la tua situazione. Chris


Carey è un senior tools engineer presso l’ufficio Netflix nella Silicon
Valley e uno dei tanti che pongono la domanda con regolarità:
Se poni la domanda del Keeper Test al tuo capo, ti puoi aspettare tre risposte
diverse. Uno, il tuo capo potrebbe rispondere che farebbe di tutto per tenerti. In
quel caso, ogni timore relativo alla tua performance scomparirà subito.
Sicuramente una reazione positiva.
Due, il tuo capo potrebbe fornirti una risposta incerta con un chiaro feedback su
come migliorare. Anche questa è una reazione positiva perché ti aiuta a capire
cosa devi fare per eccellere nel tuo ruolo.
Tre, se il tuo capo pensa che non farebbe il possibile per tenerti, potrebbe aver
notato qualcosa di negativo nella tua performance a cui prima non prestava
troppa attenzione. Porre la domanda può incutere timore. Anche questa è
sicuramente una reazione positiva perché ti spinge a valutare se questo lavoro
sia davvero il più adatto alle tue competenze ed elimina spiacevoli sorprese nel
caso in cui una mattina scoprissi di aver perso il lavoro.

Quando Chris ha cominciato a lavorare a Netflix si è riproposto di


utilizzare l’accenno del Keeper Test ogni anno a novembre, in modo
da non essere mai colto di sorpresa.
Sono un programmatore di software e sono contento di passare il 95 per cento
del mio tempo a testa bassa sul codice. Dopo un anno di lavoro a Netflix ero
soddisfatto della mia vita lavorativa. Chiesi al mio capo: «Paul, ti batteresti per
tenermi se ti dicessi che voglio andarmene?». La sua risposta fu un sonoro sì, il
che fu magnifico.
In seguito ereditai un progetto che consisteva anch’esso nella scrittura di un
codice, ma alcuni dipendenti Netflix usavano già il tool che stavo sviluppando.
Paul mi suggerì in diverse occasioni di organizzare alcuni focus group con utenti
interni, ma soffro di una leggera ansia sociale, per cui invece di seguire il suo
suggerimento preferii usare il mio intuito su come migliorare il prodotto.
Arrivò novembre. Feci di nuovo a Paul la domanda sul Keeper Test. In quel
caso la sua risposta fu meno positiva: «Al momento non so se mi batterei per
tenerti. Potresti tornare al tuo lavoro precedente in cui eccellevi, ma questo
ruolo richiede che tu interagisca maggiormente con i nostri utenti. Se vuoi
mantenere questo ruolo, dovrai organizzare focus group e fare presentazioni.
Tutto ciò ti costringerà a uscire dalla tua comfort zone e non so se riuscirai a
farlo.
Decisi di correre il rischio. Lavorai molto. Seguii un corso on-line sulle
presentazioni e feci pratica con i miei vicini. Il giorno della mia prima
presentazione a Netflix mi alzai alle sei, pedalai sul monociclo per quattro ore,
feci una doccia ed entrai direttamente in sala riunioni per la mia presentazione
delle undici. Il mio scopo era eliminare l’ansia con l’esercizio fisico e non
concedermi il tempo di diventare troppo nervoso. Per i focus group tentai altri
metodi, come mostrare dei video prima del dibattito per ridurre al minimo la
quantità di tempo che avrei dovuto passare parlando davanti al gruppo.
Era soltanto maggio ma rimisi il Keeper Test tra i punti di discussione. Volevo
capire se stessi rischiando di perdere il posto. «Ti batteresti per tenermi?» chiesi
a Paul.
Lui mi guardò dritto negli occhi e rispose: «Sei straordinario per il 90 per cento
di questo lavoro. Sei innovativo, meticoloso e lavori duro. Per il restante 10 per
cento sei riuscito ad assimilare i feedback e sei migliorato molto. Puoi
continuare a fare il possibile per interagire maggiormente con i nostri utenti
interni, ma stai svolgendo un ottimo lavoro. Se mi dicessi che vuoi andartene,
farei di tutto per convincerti a restare».

Tutte e tre le volte in cui Chris ha posto la domanda ha ottenuto


informazioni importanti. La prima risposta lo ha appagato ma non ha
aggiunto molto valore. La seconda è stata la più stressante ma gli ha
fornito un chiaro piano d’azione. La terza l’ha rassicurato sul fatto
che i suoi sforzi stessero dando i loro frutti.
La seconda tecnica che usiamo per placare il timore di perdere il
posto è il «Colloquio di uscita».

Colloquio di uscita
Non c’è nulla di più inquietante che scoprire che membri del tuo
team sono scomparsi dalla squadra senza alcuna spiegazione sulle
motivazioni o su quanto preavviso abbiano ricevuto. La maggior
preoccupazione delle persone quando sentono che un collega è
stato licenziato è non sapere se l’interessato abbia ricevuto feedback
o sia stato allontanato all’improvviso.
Yoka, una content specialist nel nostro ufficio di Tokyo, racconta
un aneddoto particolarmente rilevante perché per tradizione le
aziende giapponesi offrono un impiego a vita. Persino oggi accade di
rado che qualcuno venga licenziato in Giappone. Molti dei nostri
dipendenti locali non hanno mai assistito al licenziamento di un
collega.
La collega a me più vicina, Aika, lavorava per un uomo di nome Haru che non
era affatto un buon capo. Aika e tutto il suo team stavano soffrendo sotto il
management di Haru. Io speravo che succedesse qualcosa ma quando Haru
perse il posto la mia reazione mi stupì.
Una mattina arrivai in ufficio un po’ più tardi del solito. Era gennaio e le strade
erano innevate. Aika corse alla mia scrivania, rossa in volto. «Hai sentito cosa è
successo?» Jim, il capo di Haru, era giunto in volo dalla California e aveva
incontrato Haru di buon’ora, quando ancora non c’era nessun altro in ufficio.
Quando Aika arrivò, Haru era già stato licenziato e stava riempiendo i suoi
scatoloni prima di salutare. Ormai era finita e non l’avremmo più rivisto.
Scoppiai in lacrime. Non eravamo molto affiatati, ma non potei fare a meno di
pensare: «E se arrivassi io in ufficio trovando qualcuno in attesa di
licenziarmi?». L’unica cosa che volevo scoprire era se Haru aveva ricevuto dei
feedback. E se sì, come lo avevano avvertito? Era stato preparato a
quell’evenienza?

Quando succede qualcosa di spiacevole, la migliore reazione è


fare luce sulla situazione in modo che tutti possano affrontarla
apertamente. Se scegli di spiegare esattamente cosa è successo, la
chiarezza e la sincerità elimineranno ogni timore del gruppo.
Torniamo alla storia di Yoka:
Scoprii che ci sarebbe stato un meeting alle 10 per il team di Haru e chiunque
altro avesse lavorato con lui o avesse domande da fare. Una ventina di persone
si riunirono intorno a un grande tavolo ovale, tutte molto silenziose. Jim illustrò
dettagliatamente i punti di forza e i problemi di Haru e spiegò perché pensava
che lui non rappresentasse più la scelta migliore per quel ruolo. Restammo
seduti in silenzio per un po’. Jim chiese se vi fossero domande. Alzai la mano e
chiesi quanto feedback avesse ricevuto Haru e se fosse rimasto stupito. Jim
riferì le conversazioni che lui e Haru avevano avuto nelle settimane precedenti.
Disse che Haru era molto turbato e che, nonostante tutti i feedback, sembrava
leggermente stupito.
La sua risposta aiutò a tranquillizzarmi e anche a farmi riflettere su come gestire
le mie emozioni. Chiamai la mia manager in California per dirle che se mai
avesse pensato di dovermi licenziare, avrebbe dovuto dirmelo chiaramente. Le
promisi che se mai dovrà darmi il benservito non ne rimarrò affatto sorpresa.

Meet-ing come quello organizzato da Jim aiutano chi ha lavorato a


stretto contatto con un dipendente licenziato a elaborare l’accaduto e
ottenere risposte alle proprie domande.

Il conteggio finale

La maggior parte delle aziende fa il possibile per


ridurre al minimo il ricambio dei dipendenti. È costoso
trovare e formare nuovi dipendenti, quindi è opinione
condivisa che sia più economico tenersi stretti gli
attuali membri della squadra piuttosto che trovarne di
nuovi. Ma Reed non presta molta attenzione al tasso
di turnover, convinto che i costi relativi alle nuove assunzioni non
siano importanti quanto assicurarsi che in ogni posizione ci sia la
persona giusta.
Quindi, data tutta l’attenzione riservata al Keeper Test, quanti
dipendenti licenzia davvero Netflix ogni anno?
Secondo lo Human Capital Benchmarking Report della Society for
Human Resource Management il tasso di turnover annuale medio
per le aziende americane negli ultimi anni è stato di circa il 12 per
cento di turnover volontario (persone che scelgono spontaneamente
di lasciare l’azienda) e del 6 per cento involontario (persone
licenziate), per un totale medio di ricambio annuale pari al 18 per
cento. È importante notare che per le aziende tecnologiche il totale
si aggira intorno al 13 per cento e nel settore dei media e
dell’intrattenimento all’11 per cento.
Nel corso dello stesso periodo il ricambio volontario a Netflix è
rimasto stabile sul 3-4 per cento (notevolmente al di sotto della
media del 12 per cento, il che significa che non molti scelgono di
andarsene) e quello involontario sull’8 per cento (il che significa che
a Netflix vengono licenziate il 2 per cento di persone in più del 6 per
cento medio), per un totale di ricambio annuale dell’11-12 per
cento… più o meno nella media del settore. A quanto pare sono
molti i dipendenti che i manager di Netflix farebbero di tutto per
tenere.

Il settimo puntino

Il Keeper Test ha contribuito ad aumentare la densità


di talento a Netflix portandola a un livello non comune
nelle altre aziende. Se ogni manager riflette
attentamente e con regolarità per determinare se ogni
membro del team rappresenti davvero la scelta
migliore per un particolare ruolo sostituendo chiunque
non lo sia, la produttività dell’intera organizzazione aumenterà
notevolmente.
▶ CONCETTI CHIAVE DEL CAPITOLO 7
Allo scopo di incoraggiare i vostri manager a giudicare severamente la
performance, insegnate loro a usare il Keeper Test: «Quale dei miei
dipendenti farei di tutto per tenere se mi dicesse che vuole andarsene per
svolgere un lavoro simile in un’altra azienda?».
Evitate i sistemi di «stack ranking», poiché creano competizione interna e
scoraggiano la collaborazione.
Per una cultura altamente produttiva, la metafora della squadra sportiva
professionistica è più calzante di quella della famiglia. Abituate i vostri
manager a creare un ambiente che promuova dedizione, coesione e
collaborazione all’interno del team, oltre che a continuare a prendere
decisioni difficili per assicurarsi che ogni ruolo sia ricoperto dal miglior
giocatore.
Quando capite di dover licenziare qualcuno, invece di inserirlo in un
programma PIP, una pratica umiliante a livello personale e costosa a livello
aziendale, prendete tutto quel denaro e datelo al dipendente sotto forma di
generosa liquidazione.
Lo svantaggio di una cultura a elevata produttività è che i dipendenti temono
che il loro posto sia a rischio. Per ridurre la paura, incoraggiateli ad
accennare al Keeper Test con i loro manager: «Cosa faresti per farmi
cambiare idea se stessi pensando di licenziarmi?».
Quando un dipendente viene licenziato parlate apertamente dell’accaduto
con il vostro staff e rispondete sinceramente alle loro domande. Questo
diminuirà il loro timore di essere i prossimi e aumenterà la loro fiducia
nell’azienda e nei suoi manager.

Verso una cultura di libertà e responsabilità


Avete implementato il Keeper Test. Congratulazioni! Adesso avete una forza
lavoro altamente produttiva sotto ogni punto di vista che è l’invidia dei vostri
concorrenti. Con una densità di talento così elevata la vostra azienda è destinata a
crescere e quando nuovi dipendenti si uniscono al team dovrete aiutarli a adattarsi
alla vostra cultura lavorativa. A Netflix, la crescita dell’azienda ha dimostrato
quanto fosse difficile mantenere l’alto livello di sincerità che rappresenta una delle
basi fondamentali del nostro successo. La sincerità è come andare dal dentista:
non è una cosa che piace a tutti. Nel prossimo capitolo esamineremo un paio di
semplici tattiche per fare in modo che la vostra azienda mantenga alti livelli di
sincerità.
AUMENTATE AL MASSIMO LA SINCERITÀ…
8.
UN CIRCOLO DI FEED-BACK

C’è una linea guida di Netflix che, se praticata alla


lettera, costringerebbe chiunque a essere o
radicalmente schietto o radicalmente silenzioso: «Dite
degli altri solo ciò che direste in loro presenza». Meno
parliamo alle spalle delle persone, più eliminiamo i
pettegolezzi che creano inefficienza e sentimenti
negativi, e più possiamo lavarci le mani delle sgradevolezze
generalmente definite «politiche da ufficio». Mentre ero a Netflix ho
tentato di giocare secondo le regole della cultura e questa in
particolare si è rivelata più difficile da seguire di quanto non
sembrasse.
Stavo effettuando alcune interviste nella Silicon Valley. Informati
dal PR manager Bart, la maggior parte degli intervistati aveva una
miriade di aneddoti e opinioni da fornire. Heidi rappresentò
l’eccezione. Quando arrivai era in piedi davanti alla sua scrivania e
stava parlando con due colleghi; distolse lo sguardo come se non si
aspettasse di vedermi, costringendomi a tentare di attirare la sua
attenzione. Il suo atteggiamento era ben più che distaccato,
rasentava l’ostilità. Rispose alle mie domande a monosillabi.
Terminai l’intervista in anticipo.
Mentre aspettavo l’ascensore con Bart ci consultammo. «È stato
inutile. Era chiaramente impreparata e non aveva voglia di parlare
con me», mi lamentai. A metà frase vidi con la coda dell’occhio Heidi
che passava nel corridoio adiacente a poco più di un metro da noi.
Non so se avesse sentito cosa avevo detto ma quello non impedì a
una scritta al neon di lampeggiarmi nel cervello: “DITE DEGLI ALTRI
SOLO CIÒ CHE DIRESTE IN LORO PRESENZA”. Questo elemento della
Cultura Netflix si stava rivelando di difficile applicazione. I più
passano gran parte della giornata a parlare alle spalle di qualcun
altro. Me compresa, a quanto pare.
Chiesi a Bart quale sarebbe stata la corretta reazione Netflix. Non
avrei certo potuto concludere la conversazione dicendo a Heidi:
«Grazie per gli otto minuti che mi hai dedicato, ma non ti eri
palesemente preparata e davi l’impressione di non essere
interessata».
Bart mi guardò come se stessi fingendo di essere ciò che in realtà
non ero. «Non lavori per Netflix, e con Heidi hai fatto e farai solo
un’intervista, quindi il tuo feedback non aiuterebbe il progetto. Se tu
lavorassi per Netflix e dovessi incontrarla di nuovo cercheresti di
fornirle un consiglio prima della prossima intervista, probabilmente
segnando un incontro di feedback nella sua agenda», rispose. Poi
mi mostrò chi invece era la persona più adatta a farlo. «Avrò bisogno
che lei venga intervistata da altri studiosi e giornalisti, in futuro. Le
darò io il feedback.»
Ma non tutti a Netflix sono a proprio agio come Bart nel fornire
feedback.

Andare dal dentista

Dire che la compagnia apprezza profondamente la


sincerità è una cosa, ma mantenerla mentre l’azienda
cresce, nuove persone entrano a farne parte e i
rapporti si moltiplicano è più difficile. Il problema mi è
apparso chiaro durante un colloquio a tu per tu con un
direttore che lavorava a Netflix da quasi un anno.
«Quando sono stato assunto», spiegò, «tutti hanno detto che avrei
ricevuto una gran quantità di feedback, ma sono qui da un po’,
ormai, e non ne ho ricevuti affatto.»
Stavo ancora pensandoci quando andai dalla mia dentista per una
visita di controllo. Mi diede un colpetto brusco su un molare. «Devi
venire qui per controlli più regolari, Reed. Ci sono alcuni punti in
fondo a cui non arrivi con lo spazzolino.»
La sincerità è come andare dal dentista. Anche se incoraggiate
tutti a spazzolarsi i denti ogni giorno, alcuni non lo fanno e quelli che
lo fanno potrebbero comunque tralasciare i punti scomodi. Non
posso garantire che la sincerità che incoraggiamo sia consuetudine
ogni giorno, ma posso assicurare che abbiamo messo in atto
meccanismi regolari in grado di garantire che vengano forniti i
feedback più essenziali. Nel 2005 ci concentrammo sul tentativo di
trovare strumenti su cui i dipendenti potessero contare per fornire e
ricevere feedback sinceri che non scaturissero naturalmente nel
corso delle attività quotidiane.
La scelta ovvia sarebbero state le valutazione annuale delle
prestazioni. Oggigiorno è di moda eliminarle, ma nel 2005 quasi ogni
azienda le usava. Con questo sistema il manager mette per iscritto
punti di forza e punti deboli del dipendente, insieme a un voto
complessivo sulla performance, e organizza colloqui individuali per
esaminare la valutazione.
Siamo stati contrari alla valutazione annuale delle prestazioni sin
dall’inizio. Il primo problema è che il feedback va in una sola
direzione, verso il basso. La seconda difficoltà è che si ottiene il
feedback solo da una persona, il proprio capo. Questo è nettamente
contrario alla nostra atmosfera basata sul credo «Non cercate di
compiacere il vostro capo». Voglio che le persone non ricevano
feedback solo dai loro superiori diretti ma da chiunque abbia un
feedback da fornire. Il terzo problema è che di solito le aziende
basano le valutazioni su obiettivi annuali, ma a Netflix dipendenti e
relativi manager non fissano obiettivi annuali o indicatori chiave di
prestazione. Similmente, molte aziende usano le valutazioni per
determinare aumenti di stipendio, ma a Netflix basiamo gli stipendi
sul mercato, non sulle prestazioni.
Cercammo un meccanismo capace di incoraggiare tutti a fornire
feedback a qualsiasi collega volessero, che riflettesse il livello di
sincerità e trasparenza che stavamo cercando di coltivare e fosse
coerente con la nostra cultura di libertà e responsabilità. Dopo aver
molto sperimentato abbiamo ora due procedure che utilizziamo
regolarmente.

1. Dichiara il tuo nome: un tipo diverso di valutazione


complessiva scritta
Quando abbiamo testato per la prima volta le valutazioni
complessive annuali scritte le abbiamo effettuate come le
effettuavano tutti. Ogni dipendente sceglieva un piccolo gruppo di
persone da cui voleva ricevere il feedback e costoro compilavano il
rapporto in maniera anonima, assegnando al dipendente un
punteggio compreso fra 1 e 5 in una determinata serie di categorie e
aggiungendo commenti. Per i commenti utilizzammo un formato
«Comincia a, Smetti di, Continua a» per assicurarci che le persone
non si limitassero a darsi una pacca sulla spalla a vicenda ma
fornissero feedback concreti, attuabili.
Alcuni membri del team di management pensavano che, data la
nostra cultura di sincerità, non avessimo bisogno di offrire la
possibilità di mantenere l’anonimato, ma io lo ritenevo importante.
Vista tutta la sincerità che regnava in ufficio, se qualcuno preferiva
non fornire a un collega feedback schietti durante l’anno doveva
esserci un motivo. Forse si temevano possibili conseguenze.
Pensavo che offrendo l’opzione dell’anonimato avremmo creato un
formato più sicuro e permesso alle persone di fare commenti con più
agio.
Ma la prima volta che oganizzammo le valutazioni complessive
avvenne una cosa strana: la nostra cultura prese il sopravvento.
Alcune persone, fra cui Leslie Kilgore, si sentivano troppo a disagio
a lasciare commenti senza menzionare il proprio nome. «Sembrava
un controsenso sollecitare per tutto l’anno i nostri dipendenti a darsi
feedback reciproci direttamente e poi, al momento delle valutazioni,
fingere che i commenti arrivassero da una fonte riservata», spiegò
Leslie. «Tutto quello che stavo scrivendo l’avevo già detto agli
interessati. Feci solo quello che sembrava naturale, dato il nostro
clima: misi il feedback per iscritto e lo firmai.»
Quando mi collegai per lasciare il mio feedback ad altri mi sentii
anch’io a disagio sapendo che potevo dire qualsiasi cosa volessi
senza che nessuno vedesse che arrivava da me. Il tutto aveva un
che di insincerità e segretezza in netto contrasto con la cultura che
stavo tentando di coltivare.
Quando ricevemmo le nostre valutazioni complessive, quell’anno,
e io cominciai a leggere i commenti lasciati per me dai nostri
dipendenti, il mio disagio in merito all’anonimato aumentò. Forse le
persone temevano che, se avessero lasciato feedback troppo
specifici o concreti avrei riconosciuto l’autore, così mascherarono i
loro commenti rendendoli ambigui. Alcuni erano talmente vaghi che li
capivo a stento:
«Smetti di mandare messaggi contraddittori su determinate questioni.»
«Smetti di apparire insensibile quando respingi un’idea che non ti torna.»

Non capivo a cosa si stessero riferendo queste persone. Quel


feedback non era sicuramente attuabile. Come avrebbe mai potuto
essemi d’aiuto? Visto che non sapevo da chi arrivavano i commenti
non potevo dare seguito alla cosa chiedendo chiarimenti. Inoltre
l’anonimato incoraggiava alcune persone a sfogarsi in modi cattivi e
sarcastici che non erano utili a nessuno. Una manager mi mostrò un
commento che aveva ricevuto: «Hai meno entusiasmo di Ih-Oh». (Ih-
Oh è l’asino perennemente depresso amico di Winnie the Pooh.) A
cosa potrebbe mai servire questo commento?

L’approccio di Leslie alla fine prevalse. La seconda


volta che Netflix organizzò la valutazione complessiva
una maggioranza di dipendenti, di propria iniziativa,
scelse di aggiungere il proprio nome, tanto che risultò
facile identificare la minoranza che preferì invece
rimanere anonima. «Se chiedevi a sette persone di
fornirti un feedback e cinque di loro lasciavano il proprio nome, era
facile indovinare chi degli altri due avesse detto cosa», ha ricordato
Leslie.
Alla terza occasione tutti scelsero di firmarsi. «Parve preferibile,
tutto qui», ha dichiarato lei. «Le persone andavano direttamente alla
scrivania di chi aveva fornito il feedback e intavolavano una
conversazione. Questi colloqui finirono per rivelarsi molto più utili di
qualsiasi giudizio espresso per iscritto nella valutazione vera e
propria.»
Leslie, Reed e il team di management non notarono nessuna
significativa perdita di sincerità quando i feedback cessarono di
essere anonimi. Secondo Leslie è «perché Netflix aveva già investito
così tanto tempo nel creare una cultura di sincerità». Molti
sostengono che la qualità dei feedback fu più alta perché le persone
sapevano che i commenti sarebbero stati riconosciuti come opera
loro.
Eccone uno ricevuto da Reed durante una recente valutazione
complessiva. È sostanzialmente uguale alla lamentela giuntagli nel
2005, ma stavolta la persona fornisce esempi specifici e si firma, il
che rende concrete e attuabili le sue osservazioni:
A volte sei troppo sicuro di te – persino aggressivo – nel sostenere una certa
posizione e sprezzante verso le prospettive diverse dalla tua. Ho avuto questa
impressione quando stavi sostenendo la necessità di trasferire in Giappone i
nostri dipendenti di Singapore che lavoravano sulla Corea. È di enorme valore
che tu ponga la domanda e sia disposto a fare cambiamenti drastici, ma durante
l’intero processo di valutazione sembri già deciso a ottenere un certo risultato
finale e sprezzante verso le argomentazioni contrarie. Ove

Ricordo esattamente le conversazioni cui si riferisce


Ove, perciò posso modificare in meglio il mio
atteggiamento nelle situazioni future. Cosa più
importante, sapendo chi ha lasciato il feedback sono
riuscito a rivolgermi a lui per ottenere ulteriori
informazioni.
Adesso organizziamo ogni anno feedback complessivi scritti,
chiedendo a ognuno di firmare i propri commenti. Non sollecitiamo
più i dipendenti ad assegnarsi a vicenda un punteggio compreso fra
1 e 5, visto che non colleghiamo il procedimento ad aumenti,
promozioni o licenziamenti. Lo scopo è aiutare tutti a migliorarsi, non
inserirli in determinate caselle. L’altro grosso miglioramento è che
adesso ognuno può fornire feedback a tutti i colleghi che vuole e a
qualsiasi livello dell’organizzazione, non solo ai collaboratori diretti,
ai diretti superiori o a qualche collega che abbia sollecitato un
suggerimento. La maggior parte dei dipendenti di Netflix li fornisce
ad almeno dieci colleghi, spesso a trenta o quaranta. Sul mio report
del 2018 ho ricevuto commenti da settantuno persone.
Cosa più importante, i feedback complessivi aperti generano un
dibattito prezioso. Io riferisco sistematicamente i commenti che
ricevo ai miei collaboratori diretti, che a loro volta riferiscono i propri
feedback ai rispettivi team, lungo l’intera catena. Questo non solo
rafforza il senso di trasparenza ma crea anche una «responsabilità
dal basso verso l’alto» in base alla quale il team si sente
incoraggiato a far presente al manager un comportamento sbagliato
ricorrente.
A Ted Sarandos piace raccontare questo aneddoto sul bungee
jumping per dimostrare il valore della cosa:
Nel 1997, quando lavoravo a Phoenix prima di Netflix, partecipai a uno di quegli
eventi di lavoro che includono alcuni meeting ma anche attività che
incoraggiano il gruppo a instaurare legami e divertirsi. Dietro il ristorante, nel
parcheggio, c’era un impianto di bungee jumping. Per quindici dollari potevi
saltare giù da una gru, davanti a tutti. Nessuno lo stava facendo, ma io decisi di
provare. In seguito l’uomo che la gestiva mi chiese: «Perché non rifarlo? Le
lascio fare un secondo salto gratis?». La cosa mi incuriosì. «Perché vuole
offrirmelo?» chiesi. Rispose: «Perché voglio che tutti i suoi colleghi la guardino
a bocca aperta dal ristorante vedendo che è felice di rifarlo. Se vedono che la
cosa non fa poi così paura saranno disposti a tentare anche loro».

È esattamente per questo che voi, in veste di leader, dovete


condividere con i rispettivi team le vostre valutazioni complessive,
soprattutto i commenti davvero sinceri sulle cose che fate male.
Dimostra a tutti che fornire e ricevere feedback chiari e attuabili non
fa poi così paura.

Oggi questa è una prassi regolare per i manager di


Netflix. Larry Tanz, vice presidente of content (lo
stesso che andò al colloquio di lavoro a Facebook
dopo che Ted sollecitò il proprio team a rispondere alle
telefonate dei reclutatori) racconta un altro aneddoto
su un sorprendente meeting con Ted durante le sue
primissime settimane a Netflix nel 2014:
Negli ultimi cinque anni avevo lavorato con l’ex CEO di Disney Michael Eisner.
Diciamo semplicemente che quanti di noi facevano parte dello staff di Michael
non gli fornivano molti feedback negativi diretti. Là il capo poteva essere
schietto con te, ma qualsiasi feedback nella direzione contraria era
praticamente inaudito.
Nel mio secondo meeting dello staff di Ted, Ted iniziò rammentando a noi dodici
che di lì a qualche mese ci sarebbero state le valutazioni complessive scritte e
che tutti dovevamo prendere l’abitudine di fornirci feedback sinceri a vicenda.
«Anche se non lavorate insieme», spiegò, «dovete essere abbastanza legati per
fornire critiche sincere con regolarità. Abbiamo appena terminato un giro di
valutazioni complessive con lo staff di Reed. Vi leggo i feedback che ho
ricevuto.»
Rimasi perplesso. Cosa stava facendo Ted? In vita mia non avevo mai avuto un
manager che mi riferiva cosa i suoi pari e i suoi superiori stavano dicendo di lui.
Pensai che avrebbe fatto una selezione di cosa dirci e che avremmo sentito una
versione riveduta e corretta. Poi lui cominciò a leggere riga per riga i feedback
ricevuti da Reed, David Wells, Neil Hunt, Jonathan Friedland e tutti gli altri. Non
lesse molti commenti positivi, anche se dovevano essercene. Riferì invece in
dettaglio tutti i commenti rivolti a ottenere un miglioramento fra cui:

Quando non rispondi alle e-mail del mio team questo risulta
gerarchico e scoraggiante, anche se so che non è così che
lavori né pensi. Forse è perché dobbiamo stabilire più fiducia,
ma ho bisogno che tu sia più generoso con il tuo tempo e le tue
conoscenze, in modo che il mio team possa servire meglio la
tua organizzazione.
I tuoi dissidi da «vecchia coppia sposata» con Cindy non sono il
miglior esempio di relazione tra dirigenti. Dovrebbero esserci più
ascolto e comprensione su entrambi i versanti.
Smetti di evitare l’aperto conflitto all’interno del team, non fa che
inasprirsi altrove per poi riaffiorare ingigantito. I semi del
fallimento di Janet e il dramma del ruolo di Robert sono stati
piantati più di un anno fa. Sarebbe stato preferibile affrontarli
direttamente e di petto allora, piuttosto che far soffrire tutti e far
crollare il morale.
Ted lesse queste voci come se stesse leggendo una lista della spesa. Pensai:
“Wow, riuscirei a essere abbastanza coraggioso da condividere i feedback con il
mio staff?”.

A quanto pare sì. «Sin da quel meeting mi sforzo di presentare


come modello per il mio team quello che ha fatto Ted con noi, non
soltanto in occasione delle valutazioni complessive scritte ma anche
in qualsiasi momento in cui qualcuno mi fornisca un feedback rivolto
a ottenere un miglioramento. E ho suggerito che i leader che
lavorano per me facciano la stessa cosa con i rispettivi team.»
Anche se l’esercizio delle valutazioni complessive scritte ha
generato regolari feedback sinceri e molti scelgono di discutere dei
feedback dopo l’uscita dei rapporti, questo non garantiva che si
stessero davvero svolgendo colloqui onesti. Se Chris-Ann scrive
nella sua valutazione a Jean-Paul che il suo sussurrare durante le
riunioni con i clienti sta nuocendo alle sue vendite, ma Jean-Paul
non parla mai del commento con Chris-Ann o chiunque altro, questo
rimane segreto. La procedura seguente di Reed è stata introdotta
per ovviare a questo problema.

2. Valutazioni complessive dal vivo

Nel 2010 avevamo già istituito, con enorme successo,


la nostra versione della procedura di valutazioni
complessive scritte. Ma, visti gli altri passi da noi fatti
per aumentare la trasparenza in tutta l’azienda,
sentivo che avremmo potuto spingerci oltre, così
cominciai a effettuare qualche esperimento per
scoprire se aumentare la trasparenza nel mio team dirigenziale
avrebbe contribuito a diffonderla nell’intera azienda. La prima cosa
che tentai fu un esercizio con i miei dipendenti diretti.
Ci riunimmo nel vecchio edificio di Netflix nella Silicon Valley al
numero 100 di Winchester Circle, in una stanza piccola e situata a
un piano alto chiamata The Towering Inferno. Leslie e Neil si misero
in coppia e raggiunsero un angolo della stanza, Ted e Patty si
sistemarono in un altro e così via. L’attività somigliava un po’ allo
speed-dating, solo che era speed-feedback. Ogni coppia aveva a
disposizione qualche minuto per fornirsi feedback reciproci in base al
metodo «Comincia a, Smetti di, Continua a», dopo di che tutti
ruotavamo formando nuove coppie. In seguito ci riunimmo tutti e otto
per riferire cosa avevamo appreso. L’esercizio a coppie andò
benissimo, ma la discussione di gruppo rappresentò di gran lunga la
parte più importante della sessione.
Così la volta successiva passammo direttamente alla discussione
di gruppo. Decisi di fare questo secondo esercizio durante una cena
senza avere nient’altro all’ordine del giorno, in modo che non
avessimo fretta. Ci incontrammo in un ristorante chiamato Plumed
Horse a Saratoga, un pittoresco paesino a breve distanza dall’ufficio.
Quando arrivammo gli alberi erano ornati di lucine simili a lucciole in
una foresta. Entrando scoprimmo che il ristorante era solo
apparentemente piccolo: in realtà vantava un enorme salone che
portava a una tranquilla saletta riservata.
Ted si offrì di iniziare. Ognuno di noi, a turno, gli fornì un feedback
usando «Comincia a, Smetti di, Continua a». All’epoca lui era uno
dei pochi dipendenti che lavoravano a Los Angeles e una volta la
settimana raggiungeva la Silicon Valley. Ogni mercoledì entrava di
corsa in ufficio e cercava di stipare le discussioni di tre giorni in sei
ore. David, Patty e Leslie gli fornirono tutti e tre feedback su come
risultasse frenetico per tutti gli altri quel suo unico giorno in ufficio.
«Quando vai via, il mercoledì pomeriggio, sembra che sia passata
una barca a idrogetto lasciandosi dietro una gigantesca scia»,
spiegò Patty. «È stressante e caotico per l’intero ufficio.»
Avevo avuto intenzione di parlare della cosa a Ted, ma ormai non
ce n’era più bisogno. Dopo quella sessione riorganizzò la propria
agenda in modo da venire nella Silicon Valley per periodi più lunghi e
per gestire più cose al telefono prima delle sue visite. Capì come le
sue azioni stessero disturbando tutti gli altri e parlarne apertamente
lo aiutò a trovare una soluzione migliore.
Le valutazioni complessive dal vivo sono così utili perché i singoli
diventano responsabili davanti al team del proprio comportamento e
delle proprie azioni. Vista la libertà che concediamo ai dipendenti,
abbinata al generale clima «Non cercate di compiacere il vostro
manager», questa corresponsabilità fornisce una rete di sicurezza. Il
capo non dice al dipendente cosa fare, ma se il dipendente agisce in
modo irresponsabile riceverà il feedback dal gruppo.
Poi toccò a Patty. Neil le disse: «Durante i nostri meeting parli
talmente tanto che non riesco a infilare una sola parola. La tua
passione risucchia tutta l’aria». Ma quando girammo intorno al tavolo
Leslie rivelò di non essere d’accordo: «I commenti di Neil mi
stupiscono. Penso che tu dia molto spazio all’ascolto e ti assicuri
sempre che tutti abbiano a disposizione lo stesso lasso di tempo per
parlare».
Al termine della serata ognuno fornì una breve sintesi delle
principali lezioni imparate. Patty disse: «Quando ho un meeting con
persone più riservate, come Neil, compenso il loro silenzio parlando
di più. Quando invece mi incontro con altre persone loquaci, come
Leslie, non ho quel problema. Nel mio team ho molte persone più
taciturne che non parlano affatto durante i meeting. Comincerò a
lasciare liberi gli ultimi dieci minuti di ogni meeting da mezz’ora
perché gli altri possano parlare. Se nessuno lo farà rimarremo seduti
in silenzio».
Essendo io stesso loquace non sapevo nemmeno che qualcuno
percepisse Patty come una persona che monopolizzava la scena.
Non sarei stato in grado di fornirle un simile feedback perché ciò non
caratterizza le mie interazioni con lei. Questo dimostra perché è così
importante che i dipendenti ricevano feedback non solo dal proprio
manager ma anche dai colleghi. La sessione aiutò me, e tutti i
partecipanti, a capire le tensioni del team in modi nuovi e inaspettati.
Vidi che la cena rappresentava per tutti noi un modo per capire
meglio le dinamiche interpersonali che forgiavano la nostra efficacia
complessiva e per lavorare insieme allo scopo di migliorare la nostra
collaborazione.
Di lì a breve molti membri del mio staff svolsero lo stesso esercizio
con i rispettivi team e alla fine questa prassi divenne comune in tutta
l’azienda. Non è obbligatoria. Potete incontrare un dipendente Netflix
che non è mai stato a una valutazione complessiva dal vivo. Ma i
nostri manager hanno trovato il metodo così vantaggioso che oggi la
stragrande maggioranza dei team si esercita in qualcosa di simile
almeno una volta l’anno. Ormai capiamo piuttosto bene la procedura
e in realtà non è così difficile da attuare, fintanto che fissate il
contesto e avete un ottimo moderatore. Se volete tentarla ecco
alcuni suggerimenti:
DURATA E LOCATION: Una valutazione complessiva dal vivo richiederà diverse
ore. Fatela durante la cena (o almeno assicuratevi che includa un pasto) e con
un gruppo ristretto. A volte abbiamo sessioni con dieci o dodici persone, ma otto
o meno sono più gestibili. Per un gruppo di otto vi serviranno circa tre ore, un
gruppo di dodici potrebbe richiederne fino a cinque.
METODO: Tutti i feedback dovrebbero essere forniti e ricevuti come un
commento attuabile che segue le linee guida «4 A» delineate nel Capitolo 2. Il
leader dovrà spiegarlo in anticipo e monitorarlo durante la sessione. Il feedback
positivo attuabile (Continua a…) va benissimo, ma tenetelo a bada. Una
suddivisione valida è rappresentata da 25 per cento di feedback positivo e 75
per cento di feedback per migliorare (Comincia a… e smetti di…). Qualsiasi
banalità non attuabile («Trovo che tu sia un collega fantastico» o «Adoro
lavorare con te») andrebbe scoraggiata ed eliminata.
PER INIZIARE: Le primissime interazioni di feedback stabiliranno il tono della
serata. Scegliete un destinatario di feedback capace di riceverne di difficili con
apertura mentale e riconoscenza. A fornire il feedback scegliete qualcuno
capace di essere severo seguendo le linee guida «4 A». Spesso il manager
sceglie di essere il primo a riceverli.

Le valutazioni complessive dal vivo funzionano grazie alla nostra


alta densità di talento e alla politica «Niente geni arroganti». Se i
vostri dipendenti sono immaturi, hanno un atteggiamento negativo o
mancano della sicurezza di sé necessaria per mostrarsi vulnerabili in
pubblico, potreste non essere pronti a organizzare questi eventi. E
persino se invece lo siete vi servirà un buon moderatore che si
assicuri che tutti i feedback rientrino nell’intelaiatura delle «4 A» e
intervenga se qualcuno dice qualcosa di inopportuno.
Scott Mirer, vice president of device partner ecosystem, ha parlato
di un episodio durante il quale qualcuno ha superato i limiti nel corso
delle valutazioni complessive dal vivo del suo team, ma lui non è
riuscito ad affrontare la cosa in tempo reale. Questo tipo di
situazione è raro ma pericoloso, quindi il leader deve essere pronto
a reagire:
Avevo invitato il mio team di management di nove persone alla cena delle
valutazioni complessive dal vivo. Abbiamo un manager molto simpatico di nome
Ian, che stava fornendo feedback a una collega di nome Sabina, a cui disse: «Il
modo in cui lavori mi ricorda il film Donne sull’orlo di una crisi di nervi».
Accompagnò la frase con un sorriso e lei annuì e prese appunti. In quel
momento non mi resi conto – come credo non abbia fatto nessun altro membro
del team – di quanto fosse inopportuna la dichiarazione, perché la lasciammo
tutti correre. Una settimana più tardi scoprii che Sabina era rimasta turbata per
giorni. «Non è altruistico né utile usare paragoni dalla forte connotazione di
genere quando si fornisce un feedback», confidò a una collega.

Se qualcuno abbandona le linee guida di feedback «4 A» per


parlare in modo sarcastico, aggressivo o generalmente poco utile
durante le valutazioni complessive dal vivo, il leader deve intervenire
per correggere il commento in tempo reale. Questa situazione è
particolarmente importante perché abbiamo lavorato a lungo con i
nostri leader per assicurarci che tutti si sentano inclusi e per capire
come certi commenti estemporanei possono alimentare pregiudizi
anche inconsciamente. Scott ha perso l’occasione di farlo, ma in
questo caso la cultura di sincerità dell’azienda ha risolto il problema.
Chiamai Sabina e le chiesi scusa per non aver notato quanto era stato
inappropriato il commento di Ian, ma lei mi disse che non era più turbata. Aveva
già parlato con Ian, lui le aveva chiesto scusa e si erano incontrati per più di
un’ora per risolvere la cosa. Quindi anche se fu un momento catastrofico della
cena di valutazione, nel complesso ritengo che abbia giovato al loro rapporto.
Da allora sono molto più attento a intervenire quando un feedback comincia a
passare il segno.

Umiliazione? Isolamento da parte del gruppo?


Esposizione pubblica? Se mentre leggevate le ultime
pagine vi sono venute in mente queste espressioni
sappiate che non siete i soli.
La maggioranza dei dipendenti Netflix accede
trepidante alla sua prima valutazione complessiva dal
vivo. Il vice president of content Larry Tanz (l’uomo rimasto scioccato
nel sentire Ted riferire al team i feedback ricevuti nella propria
valutazione) ha spiegato così quell’esperienza:
Venire esaminati pubblicamente può sembrare come un’autentica tortura. Ogni
volta che vado a una valutazione complessiva dal vivo sono nervoso. Ma una
volta che inizi capisci che andrà benissimo. Visto che tutti stanno guardando, le
persone si premurano di risultare generose e cooperative nel loro modo di
fornire riscontri, con l’intenzione di aiutarti a riuscire nel tuo intento. Nessuno
vuole metterti in imbarazzo o attaccarti. Se qualcuno passa il segno riceve quasi
sempre un feedback immediato sul proprio feedback: «Ehi, questo non è utile!».
Se la sessione dal vivo va bene tutti ricevono molti consigli severi, quindi tu non
ti distingui dagli altri. Quando infine arriva il tuo turno potresti trovare difficile
sentire ciò che le persone hanno da dire, ma questo è uno dei più grandi doni
che puoi ricevere per migliorare la tua vita.

Quasi ogni dipendente Netflix ha un aneddoto su come una


valutazione complessiva dal vivo lo abbia aiutato. Alcuni
considerano quelle serate un modo gradevole di instaurare legami
con i colleghi, altri le apprezzano quasi quanto Reed apprezza le sue
visite annuali dal dentista. Sanno che è una cosa utile ma la temono
finché non finisce. Sophie, una communications manager francese
che lavora nell’ufficio di Amsterdam, rientra nella seconda categoria:
Come la maggior parte dei francesi elaboro un’argomentazione come ci hanno
insegnato a fare a scuola: introduco il principio da dimostrare, costruisco la
teoria, affronto qualsiasi obiezione all’argomentazione e poi arrivo alle
conclusioni. Introduzione, tesi, antitesi, sintesi, ecco come noi francesi
impariamo a svolgere l’analisi nel corso di diversi anni di scuola.
Gli americani imparano spesso «Vai dritto al punto e non perdere il filo». Un
francese pensa: “Come puoi arrivare al punto quando non hai illustrato la tua
tesi?!”. Ma Netflix è un’azienda americana, io ho un manager americano e la
maggior parte dei miei colleghi è americana. A mia insaputa, per loro il mio
approccio alla comunicazione non stava funzionando come desideravo.
Era il novembre del 2016 e il mio manager aveva organizzato un evento di
valutazioni complessive dal vivo per il team. Ci trovavamo in una sala privata
dell’hotel Waldorf Astoria di Amsterdam per una cena di quattro portate. Era
letteralmente una notte buia e tempestosa ed eravamo in una sala decorata in
stile medievale dove l’unica luce era quella fornita da un grande lampadario di
cristallo appeso sopra un grosso tavolo di legno rettangolare. Ero nervosa, ma
mi ero tranquillizzata ripensando a tutto ciò che ero riuscita a fare durante il
poco tempo da me trascorso a Netflix. Ero convinta di essere palesemente una
«collega straordinaria».
Quando giunse il mio turno di ricevere feedback la mia collega Joelle esordì
dicendomi che dovevo migliorare le mie doti di comunicazione, sottolineando
che perdo l’attenzione dell’ascoltatore e impiego troppo tempo per arrivare al
punto. Pensai: “Io? Scarse doti di comunicazione? Sono una specialista della
comunicazione! La mia dote principale è la capacità di comunicare!”. Trovavo
assurdo quel feedback, così mi preparai a confutarlo.
Ma poi gli altri miei colleghi americani, uno dopo l’altro, mi fornirono il feedback:
molte cose carine ma anche «Sei troppo teorica», «I tuoi messaggi non sono
abbastanza precisi», «Il tuo modo di scrivere non tiene alta l’attenzione di chi
legge». Dopo la quinta persona avrei voluto dire: “Va bene, ho afferrato il
messaggio! Non c’è bisogno di coalizzarsi per darmi addosso”. Arrivati alla
settima persona cominciai a mettermi sulla difensiva. Ero tentata di dire: “Ehi,
americano, prova a lavorare in un’azienda francese e vedi se apprezzano il tuo
stile di scrittura!”.

Ma persino per Sophie l’utilità del ricevere feedback compensò il


disagio provato durante la serata:
Quella cena di due anni fa ha rappresentato il più importante momento di
crescita dell’ultimo decennio, per me. Ho fatto enormi passi avanti. Ho imparato
ad alternare fra gli schemi di comunicazione americani e quelli francesi, il che è
molto difficile, ma i miei colleghi si sono congratulati con me in più recenti
sessioni di valutazioni dal vivo. Ho odiato quella serata al Waldorf, ma senza di
essa non avrei superato, alla fine, il Keeper Test. Dubito che senza di essa sarei
ancora qui a Netflix.

Questo è il classico tipo di risposta che ottenete quando chiedete


ai dipendenti Netflix cosa si prova a vedere trascinate sul tavolo
della cena, mentre tutti ascoltano, le vostre «aree di miglioramento».
Spesso l’esperienza è fonte di disagio, ma alla fin fine potenzia la
vostra prestazione. E nel caso di Sophie potrebbe averle salvato il
posto.

L’ottavo puntino
Se prendente seriamente la necessità della sincerità dovete
introdurre alcune procedure per garantirla. Con solo due
procedimenti istituzionali potete assicurarvi che ognuno a intervalli
regolari ottenga feedback sinceri per migliorare.
▶ CONCETTI CHIAVE DEL CAPITOLO 8
La sincerità è come andare dal dentista. Anche se sollecitate tutti a
spazzolarsi i denti ogni giorno, alcuni non lo fanno. Quanti lo fanno
potrebbero comunque non arrivare ai punti scomodi. Un appuntamento
approfondito ogni sei-dodici mesi assicura denti puliti e feedback chiari.
Le valutazioni delle prestazioni non sono il meccanismo migliore per creare
un ambiente di lavoro sincero, soprattutto perché di solito il feedback va in
un’unica direzione (verso il basso) e arriva solo da una persona (il manager).
Una valutazione complessiva scritta rappresenta un valido meccanismo per i
feedback annuali. Ma evitate l’anonimato e i punteggi, non collegate i risultati
ad aumenti o promozioni e aprite i commenti a chiunque sia pronto a farli.
Le valutazioni complessive dal vivo sono un’altra procedura efficace.
Riservate loro varie ore fuori dall’ufficio. Fornite istruzioni chiare, seguite le
linee guida «4 A» e usate il metodo di feedback «Comincia a, Smetti di,
Continua a» con circa il 25 per cento di feedback positivi e il 75 per cento di
migliorativi, tutti attuabili e niente banalità.

Verso una cultura di libertà e responsabilità


Una volta attuato il sistema del Keeper Test avrete ottenuto un alto livello di
densità di talento nel vostro ufficio. Adesso, con l’introduzione delle procedure di
feedback complessivi scritti e dal vivo, non avete solo un clima di sincerità in tutto
l’ufficio, avete anche istituzionalizzato strumenti per assicurare che i dipendenti
stiano parlando apertamente e onestamente l’uno con l’altro. Con tutta questa
densità di talento e sincerità potete adesso dedicare il vostro tempo a insegnare ai
vostri leader a rinunciare a qualsivoglia controllo a cui ancora non vogliono
rinunciare. Nel Capitolo 6 abbiamo parlato della libertà decisionale, quindi a livello
concettuale la vostra forza lavoro è pronta. Ma per sviluppare un vero ambiente di
libertà e responsabilità dovrete insegnare a tutti i manager della vostra azienda a
guidare con il contesto, non con il controllo. Questo è il tema del prossimo
capitolo.
ED ELIMINATE QUASI TUTTI I CONTROLLI!
9.
GUIDATE CON IL CONTESTO, NON CON IL CONTROLLO

Adam Del Deo, director of original documentary


programming di Netflix, si sentiva nauseato quando
riagganciò il telefono. In piedi nell’atrio del Washington
School House Hotel di Park City, nello Utah, si
appoggiò alla parete, trasse un profondo respiro e
chiuse gli occhi. Quando li riaprì, il suo collega Rob
Guillermo, senior counsel, era fermo accanto a lui. «Ehi, Adam, va
tutto bene? Hai avuto notizie dell’offerta per Icarus?»
Stavano partecipando al Sundance Film Festival nel gennaio del
2017. Il giorno prima avevano visto un documentario, Icarus, sullo
scandalo del doping russo. Secondo Adam era uno dei migliori
documentari che avesse mai visto:
Segue la folle storia di un giornalista che lavora in Colorado, Bryan Fogel, che è
anche un ciclista e vuole fare un esperimento per vedere se riesce a doparsi,
farla franca come Lance Armstrong e mostrare gli enormi progressi che il
doping gli consente di fare in una gara ciclistica. Attraverso un contatto riesce
ad arrivare al capo del programma antidoping della Russia, tale Rodchenkov,
che accetta di aiutarlo. Diventano amici via Skype. Ma durante l’esperimento di
Bryan la Russia viene accusata di dopare i suoi atleti olimpici, ed è stato proprio
Rodchenkov a dirigere quel programma di doping (in parallelo al suo
programma antidoping!). L’uomo fugge dalla Russia e si nasconde in casa di
Fogel, temendo che Putin voglia ucciderlo.
Sarebbe impossibile inventare una storia del genere. Il film ti cattura.

Adam voleva disperatamente che Netflix si aggiudicasse quel


documentario. Girava voce che anche Amazon, Hulu e HBO lo
volessero. Quella mattina lui aveva offerto due milioni e mezzo di
dollari – una somma enorme per un documentario – ma aveva
appena saputo che l’offerta era troppo bassa. Doveva offrire tre
milioni e mezzo? Quattro? Nessun documentario era mai stato
pagato così tanto. Lui e Rob stavano discutendo dell’offerta quando
Ted Sarandos entrò nell’atrio dall’attigua sala per la colazione. Gli
parlarono della situazione di Icarus e lui chiese cosa intendevano
fare. Ecco come Adam rammenta quella conversazione:
«Forse saliremo a 3,75 o quattro milioni, ma è una somma enorme da offrire per
un documentario. Rivoluzionerebbe completamente il mercato», dissi,
osservando Ted per vedere la sua reazione.
Lui mi guardò dritto negli occhi e chiese: «Be’, è “il” documentario?». Fece le
virgolette con le dita, come per segnalare qualcosa di importante. La domanda
mi rese nervoso. Per me era il documentario, ma lo era anche per lui? «Tu cosa
ne pensi, Ted?» replicai.
Si avviò verso la porta, con la chiara intenzione di non rispondere alla domanda.
«Ascolta», disse, «non importa cosa penso io. Sei tu l’esperto di documentari,
non io. Paghiamo TE per prendere queste decisioni. Ma chiediti se è il
documentario. Sarà un enorme successo? Verrà nominato agli Oscar come
Super Size Me o Una scomoda verità? Se la risposta è no, quella è una somma
troppo alta. Se invece è il documentario dovresti pagare qualsiasi cifra
necessaria: quatto milioni e mezzo, cinque. Se è il documentario procuratelo.»

Dieci anni prima, nel 2007, Leslie Kilgore aveva coniato una frase
che è ormai usata in tutta Netflix per descrivere esattamente cosa ha
fatto Ted mentre attraversava l’atrio dell’albergo: «Guida con il
contesto, non con il controllo». Quasi in qualsiasi altra azienda, con
così tanto denaro in ballo, il manager di grado più alto sarebbe stato
chiamato in causa e avrebbe controllato le trattative. Ma la
leadership a Netflix non funziona così. Come Adam ha spiegato:
«Ted non intendeva prendere quella decisione al posto mio, ma ha
fissato un ampio contesto per aiutarmi ad allineare il mio modo di
pensare alla strategia dell’azienda. il contesto da lui fornitomi ha
rappresentato il punto di partenza della mia decisione».

Controllo vs. contesto


Quasi tutti conoscono la leadership condotta attraverso il controllo.
Il manager approva e dirige le iniziative, le azioni e le decisioni del
team. Talvolta può controllare le decisioni dei dipendenti tramite una
supervisione diretta, dicendo loro cosa fare, controllando spesso e
correggendo qualsiasi lavoro non sia come lui lo desidera. Altre volte
potrebbe cercare di concedere una maggiore autorità ai dipendenti
evitando una supervisione diretta ma attuando invece procedure di
controllo.
Molti capi usano spesso le procedure di controllo per concedere al
dipendente una certa libertà di affrontare come preferisce
un’incombenza riservando comunque al superiore l’opportunità di
controllare cosa viene fatto e quando. Per esempio la manager
potrebbe istituire una procedura come il Management per Obiettivi,
in cui collabora con il dipendente per fissare indicatori chiave di
prestazione; poi monitora i progressi a intervalli regolari giudicando
la prestazione finale dell’individuo in base al fatto che raggiunga o
meno gli obiettivi prefissati nei tempi stabiliti e rispettando il budget.
Potrebbe anche cercare di verificare la qualità del lavoro dei
dipendenti stabilendo procedure di riduzione errori quali controllare il
lavoro prima che vada al cliente o approvare gli acquisti prima che
vengano fatti gli ordini. Queste sono tutte procedure che permettono
a un manager di concedere una certa libertà mentre esercita
comunque un notevole controllo.
Guidare con il contesto, d’altra parte, è più difficile, ma concede
nettamente più libertà ai dipendenti. Fornite tutte le informazioni
possibili in modo che i membri del vostro team prendano ottime
decisioni e portino a termine il proprio lavoro senza supervisione o
procedure che controllino le loro azioni. Il vantaggio è che la persona
si allena a prendere decisioni e in futuro potrà prendere decisioni
migliori in autonomia.
Guidare con il contesto non funziona a meno che non abbiate già
creato le giuste condizioni. E il primo requisito è l’alta densità di
talento. Se avete mai diretto qualcuno, anche solo i vostri figli o un
operaio in casa vostra, capirete come mai.
Immaginate, per esempio, di essere il genitore di un sedicenne
che ama disegnare anime in stile giapponese, risolvere complessi
problemi di sudoku e suonare il sassofono. Ultimamente ha anche
cominciato ad andare a feste con amici più grandi di lui, il sabato
sera. Gli avete già detto che non volete che beva alcolici e poi guidi
o che salga su un’auto guidata da qualcuno che ha bevuto, ma ogni
volta che esce vi preoccupate. Ci sono due modi diversi in cui potete
affrontare il problema.
1. Decidete a quali feste può andare vostro figlio (e a quali no) e
monitorate le sue azioni mentre è alla festa. Se vuole uscire il
sabato sera c’è una procedura da seguire. Prima lui deve
spiegarvi chi ci sarà e cosa faranno. Poi voi dovete parlare con il
genitore proprietario della casa in cui si terrà il party. Durante
quella conversazione verificate che sia presente un adulto e se
ci sarà alcol disponibile. In base a tali informazioni decidete se
vostro figlio può andare o meno. Quando gli date l’approvazione
inserite comunque un localizzatore sul suo cellulare per
assicurarvi che quella sia davvero l’unica festa a cui va. Questo
sarebbe guidare con il controllo.
2. Il secondo modo consisterebbe nello stabilire un contesto in
modo che voi e vostro figlio siate allineati. Gli parlate del motivo
per cui i teenager bevono e dei pericoli associati alla guida in
stato di ebbrezza. Nella sicurezza della vostra cucina versate in
bicchieri tipi diversi di alcolici e spiegate quale quantità di
ciascuno di essi sarebbe necessario bere per diventare alticcio,
ubriaco o totalmente sbronzo e come ciò influisca sull’efficacia
nella guida (e sulla salute in generale). Gli mostrate un filmato
educativo su YouTube sulla guida in stato d’ebbrezza e tutte le
relative conseguenze. Una volta che vedete che capisce
chiaramente la gravità dei pericoli associati al guidare dopo aver
bevuto, lo lasciate andare a qualsiasi festa desideri senza
alcuna procedura o supervisione che limiti le sue azioni. Questo
sarebbe guidare con il contesto.

Con ogni probabilità la scelta che fate dipenderà da vostro figlio.


Se in passato ha dimostrato una scarsa capacità di giudizio e non vi
fidate di lui potreste optare per il controllo. Se invece lo sapete
assennato e affidabile potete fissare il contesto e contare sul fatto
che lui si comporti in modo sicuro. Così facendo lo preparate a
prendere non solo sagge decisioni il sabato sera, ma anche
decisioni responsabili nella miriade di situazioni allettanti o
influenzate dai suoi pari che dovrà affrontare negli anni a venire.
Se avete un figlio responsabile l’opzione 2 potrebbe sembrare la
risposta ovvia. Chi mai vuole essere un genitore dispotico e perché
non bisognerebbe volere che un teenager si assuma la
responsabilità della propria sicurezza? Ma in molte situazioni la
scelta non è così chiara. Considerate uno scenario diverso:
Siete la matriarca di una Downton Abbey dei giorni nostri (una
famiglia aristocratica con accento snob, vagonate di conflitti e un
sacco di soldi). I vostri figli ormai adulti verranno a casa vostra per
un mese di vacanza e avete assunto qualcuno perché prepari la
cena. La vostra è una famiglia complicata quando si tratta di cibo:
una persona è diabetica, un’altra vegetariana e una terza sta
seguendo una dieta a basso contenuto di carboidrati. Voi sapete
come e cosa cucinare per tutti, ma come se la caverà questa nuova
cuoca che non conosce la vostra famiglia? Ancora una volta potete
scegliere fra due opzioni.

1. Le fornite una tabella di marcia culinaria e una serie di ricette


specificando esattamente cosa cucinare ogni sera. Spiegate
quale quantità di ogni pietanza preparare e sottolineate quando
un ingrediente deve essere sostituito con un altro. Chiedete di
poter assaggiare ogni piatto del menu prima che venga servito
per assicurarvi che i condimenti siano giusti e la pietanza sia
cucinata perfettamente. Lei non deve fare altro che seguire le
vostre istruzioni. Naturalmente è la benvenuta se vuole fornire
sue ricette, deve solo ottenere la vostra approvazione prima di
prepararle. Questo sarebbe guidare con il controllo.
2. Parlate con lei dettagliatamente delle varie esigenze alimentari
della vostra famiglia. Spiegate i principi di una dieta a basso
contenuto di carboidrati e cosa può mangiare e non mangiare
una persona diabetica. Le mostrate ricette che avete usato con
successo in passato, quali non sono invece riuscite e i diffusi
surrogati che avete provato. Spiegate che ogni pasto dovrebbe
includere alcune proteine per tutti, un’insalata e almeno un
piatto di verdure. Voi due vi allineate perfettamente su cosa
renderà ogni pasto un successo, poi le chiedete di trovare
ricette e scegliere da sola cosa cucinare. Questo sarebbe
guidare con il contesto.

Con l’opzione 1 sapete cosa vi verrà servito e siete sicuri che la


vostra famiglia lo apprezzerà. Avete eliminato quasi ogni possibilità
che la vostra cuoca fallisca o addirittura commetta un qualsiasi
errore. Quindi se avete una cuoca con poca esperienza, che appare
a disagio se deve prendere iniziative autonome, non sembra
abbastanza intraprendente da trovare valide ricette e non sono
disponibili persone sicuramente più capaci, l’opzione 1 sarà la scelta
giusta per voi. L’opzione 2 è semplicemente troppo rischiosa.
L’opzione 2, tuttavia, diventa interessante se vi fidate della
capacità di giudizio e abilità della persona che avete assunto. Una
cuoca esperta darà il meglio di sé grazie alla libertà di scegliere e
provare per conto suo le ricette. Sarà in grado di fornire scelte
culinarie più innovative di quanto potreste fare voi. E se commette
errori ne trarrà insegnamento e alla fine della vacanza il vostro
settore ricorderà i favolosi banchetti da lei preparati.
Quindi la prima domanda che dovete porvi quando scegliete se
guidare con il contesto o con il controllo è: «Qual è il livello di densità
di talento del mio staff?». Se i vostri dipendenti hanno difficoltà
dovrete monitorarne e controllarne il lavoro per assicurarvi che
prendano le decisioni giuste. Se invece avete un gruppo di persone
altamente performanti con ogni probabilità brameranno la libertà e
daranno il meglio di sé se le guidate con il contesto.
Ma decidere se guidare con il contesto o con il controllo non è solo
questione di densità di talento. Dovete anche considerare la vostra
attività e cosa state tentando di ottenere.

La sicurezza prima di tutto?


Date un’occhiata a questi ritagli di giornale dedicati a due aziende
che in anni recenti hanno avuto successo. Considerate quale
azienda avrebbe maggiori probabilità di trarre vantaggio dalla
leadership tramite il controllo (con supervisione e/o procedure di
riduzione errori) e – presumendo un’alta densità di talento – quale
trarrebbe invece vantaggio dalla leadership tramite il contesto.
Cominciamo da ExxonMobil. Ecco un breve estratto dal loro sito
web:
Dal 2000 abbiamo ridotto di oltre l’80 per cento l’indice di frequenza di incidenti
con perdita di ore lavorative fra la nostra forza lavoro. Sebbene questo numero
stia calando, si verificano ancora incidenti legati alla sicurezza. Siamo
profondamente addolorati dal fatto che due lavoratori a contratto siano rimasti
uccisi in due distinti incidenti collegati alle operazioni di ExxonMobil nel 2017.
Un incidente si è verificato su un sito di perforazione a terra e l’altro in una
raffineria durante attività edilizie. Abbiamo svolto accurate indagini sulle cause e
i fattori che hanno contribuito a provocarli per impedire eventi simili in futuro e
per condividere i risultati. Abbiamo inoltre formato gruppi di lavoro intersettoriali,
con rappresentanti di industrie petrolifere, del gas e di altro tipo quali il
Campbell Institute at the National Safety Council, per meglio comprendere i
segni predittori di gravi infortuni e decessi. Continueremo a promuovere una
cultura di sicurezza prima di tutto per i dipendenti e i subappaltatori di
ExxonMobil finché non raggiungeremo il nostro obiettivo, un posto di lavoro in
cui Nessuno Si Fa Male.

Il secondo esempio è il gigante americano del commercio al


dettaglio Target. Nel 2019 «Fast Company» l’ha definita l’undicesima
azienda più innovativa del mondo. Ecco uno stralcio dell’articolo:

L’apocalisse della vendita al dettaglio ha colpito duramente


molti giganti della grande distribuzione: J.C. Penney, Sears e
Kmart hanno risentito della crescita dell’e-commerce, che ha
ridotto l’affluenza nei superstore. Ma di fronte a queste sfide
Target si è agilmente adattata alle preferenze del
consumatore moderno. La compagnia vanta una rete di più
di 1800 negozi in tutti gli Stati Uniti, di dimensioni varie, dal
gigantesco SuperTarget ai punti vendita più piccoli e flessibili nei centri urbani,
che si rivolgono alle specifiche esigenze di quei clienti. Il brand ha anche
investito nella propria presenza online, con un sito web massiccio, spedizioni in
giornata o entro due giorni che gli permettono di competere con Amazon, e
l’opzione di ordinare articoli online che si possono andare a ritirare il giorno
stesso in negozio.
Quando si deve decidere se guidare con il contesto o con il
controllo la seconda domanda chiave da porsi è se il vostro scopo è
la prevenzione di errori o l’innovazione.
Se vi concentrate sull’eliminare gli errori allora è meglio il controllo.
ExxonMobil opera in un mercato in cui la sicurezza è essenziale. I
suoi siti richiedono centinaia di procedure di sicurezza per ridurre al
minimo il rischio di infortuni. I meccanismi di controllo sono una
necessità quando state tentando di gestire proficuamente
un’operazione pericolosa con il minor numero di incidenti possibile.
Similmente, se state gestendo un reparto di pronto soccorso
ospedaliero e fornite alle infermiere meno esperte il contesto per
prendere decisioni autonome senza nessuna supervisione, alcune
persone potrebbero morire. Se producete aeroplani e non avete una
miriade di procedure di controllo che garantiscono che ogni
componente sia assemblata in modo perfetto la possibilità di
incidenti mortali aumenta. Se vi occupate di lavare le finestre dei
grattacieli, avete bisogno di regolari ispezioni di sicurezza e liste di
controllo giornaliere. Guidare con il controllo è ottimo per prevenire
gli errori.
Ma se, come Target, avete come obiettivo l’innovazione,
commettere un errore non è il rischio principale. Il grosso rischio è
diventare irrilevanti perché i vostri dipendenti non producono grandi
idee per reinventare il business. Anche se molti punti vendita
tradizionali hanno cessato l’attività mentre un sempre maggior
numero di persone fa acquisti online, per Target la priorità è stata
quella di escogitare nuovi modi per attirare i clienti nei suoi negozi.
Numerose attività hanno le stesse priorità di Target. Che inventiate
giocattoli per bambini, vendiate cupcake, creiate abbigliamento
sportivo o gestiate un ristorante di cucina fusion, l’innovazione è uno
dei vostri obiettivi primari. Se avete dipendenti ad alto rendimento è
preferibile guidare con il contesto. Per incoraggiare il pensiero
originale non dite ai dipendenti cosa fare né costringeteli a barrare
caselle. Fornite loro il contesto per sognare in grande, l’ispirazione
per pensare in modo diverso e lo spazio per commettere errori lungo
la strada. In altre parole, guidate con il contesto.
O come ha detto molto più poeticamente Antoine de Saint-
Exupéry, l’autore di Il piccolo principe:
Se vuoi costruire una barca,
non radunare uomini
per raccogliere legna, suddividere il
lavoro, e dare ordini.
Insegna loro a bramare
il vasto e sconfinato mare.

Per quanto io ami questo brano – lo citiamo in fondo al


nostro memorandum sulla cultura Netflix – mi rendo
conto che ad alcuni lettori potrebbe sembrare ben
poco pratico. E questo mi porta alla terza condizione
essenziale che dovete aver creato per poter guidare
con il contesto. Oltre all’alta densità di talento (la prima
condizione) e a un obiettivo di innovazione invece che di
prevenzione errori (la seconda), avete anche bisogno di lavorare
(ecco la terza) in un sistema autonomo con «accoppiamento lasco».

Autonomia o dipendenza?
Sono un ingegnere del software e gli ingegneri del software
parlano di «accoppiamento stretto» e «accoppiamento lasco» per
indicare due diversi tipi di progettazione del sistema.
Un sistema strettamente accoppiato è quello in cui le varie
componenti sono intrecciate in modo complesso. Se volete
apportare un cambiamento in un’unica area del sistema dovete
tornare indietro e modificare le fondamenta, il che influisce non solo
sulla sezione che dovete cambiare ma sull’intero sistema.
Per contrasto, un sistema di progettazione lascamente accoppiato
presenta meno interdipendenze fra le varie componenti, create in
modo che ciascuna possa essere adattata senza bisogno di tornare
a modificare le fondamenta. Ecco perché gli ingegneri del software
amano l’accoppiamento lasco: possono apportare una modifica a
una parte del sistema senza alcuna ripercussione per le altre.
L’intero sistema è più flessibile.
Le organizzazioni sono costruite un po’ come programmi
informatici. Quando una compagnia è strettamente accoppiata le
grosse decisioni vengono prese dal grande capo e spinte giù verso i
vari settori, creando spesso interdipendenze tra le varie aree del
business. Se si verifica un problema a livello dipartimentale, deve
tornare fino al capo che sovrintende a tutti i dipartimenti. Nel
frattempo, in un’azienda lascamente accoppiata, un singolo manager
o dipendente è libero di prendere decisioni o risolvere problemi,
sicuro nella consapevolezza che le conseguenze non si
ripercuoteranno su altri reparti.
Se i leader ai vari livelli della vostra società hanno
tradizionalmente guidato con il controllo, potrebbe essersi creato
spontaneamente un sistema strettamente accoppiato. Se state
dirigendo un reparto (o un team all’interno di un reparto) in un
sistema di questo tipo e decidete che vi piacerebbe cominciare a
guidare i dipendenti con il contesto, potreste scoprirvi intralciati
dall’accoppiamento stretto. Visto che tutte le decisioni importanti
vengono prese al vertice, potreste voler assegnare il potere
decisionale ai vostri dipendenti ma non essere in grado di farlo
perché qualsiasi decisione importante deve essere approvata non
solo da voi ma anche dal vostro capo e dal suo.
Se già fate parte di un sistema strettamente accoppiato potreste
dover lavorare con i capi ai vertici dell’azienda allo scopo di
modificare l’intero approccio organizzativo prima di provare a
guidare con il contesto a un livello più basso. Persino con un’alta
densità di talento, e con l’innovazione come obiettivo, se non
risolvete questo problema guidare con il contesto potrebbe rivelarsi
impossibile.
Ormai dovrebbe essere piuttosto chiaro che a Netflix, con il nostro
modello del «responsabile di progetto», abbiamo un sistema
lascamente accoppiato. L’attività decisionale è altamente diffusa e
abbiamo poche procedure di controllo, regole o politiche
centralizzate. Questo consente un alto livello di libertà agli individui,
concede una maggiore flessibilità a ogni reparto e accelera l’attività
decisionale in tutta l’azienda.
Se state avviando una vostra azienda e l’innovazione e la
flessibilità sono i vostri obiettivi, cercate di tenere decentralizzata
l’attività decisionale, con poche interdipendenze tra le funzioni, allo
scopo di alimentare un accoppiamento lasco sin dall’inizio. Sarà
molto più difficile introdurlo una volta che la vostra organizzazione si
è assestata su una struttura strettamente accoppiata.
Detto questo, l’accoppiamento stretto presenta almeno un
importante beneficio organizzativo. In un sistema strettamente
accoppiato il cambiamento strategico viene facilmente trasmesso a
tutta l’organizzazione. Se il CEO vuole che tutti i reparti si concentrino
sulla sostenibilità e l’approvvigionamento etico può controllare la
cosa attraverso la propria attività decisionale centralizzata.
Con l’accoppiamento lasco, invece, il rischio di disallineamento è
alto. Chi può dire che un determinato reparto non anteporrà il basso
costo alla protezione dell’ambiente o dei lavoratori sfruttati facendo
deragliare l’intera organizzazione? Se il capo del dipartimento ha
una fantastica visione per contribuire alla nuova strategia ma ogni
membro del team decide autonomamente a quali progetti dedicarsi,
ognuno potrebbe imboccare una direzione diversa. Se volete
trasformare rapidamente in realtà quella visione dipartimentale,
buona fortuna.
Questo ci porta al quarto e ultimo requisito essenziale per guidare
con il contesto.

La vostra organizzazione è allineata?

Se l’accoppiamento lasco deve funzionare con


efficacia attraverso grosse decisioni prese a livello
individuale, allora il capo e i dipendenti devono
trovarsi perfettamente d’accordo sulla loro
destinazione. L’accoppiamento lasco funziona solo se
esiste un chiaro contesto condiviso fra il capo e il
team. Quell’allineamento di contesto spinge i dipendenti a prendere
decisioni che appoggiano la missione e la strategia dell’intera
organizzazione. Ecco perché a Netflix il mantra è:

ALLINEATI MA AUTONOMI

Per capire cosa comporta tutto ciò torniamo a Downton Abbey,


dove i vostri familiari stanno aspettando la cena. Se avete dedicato
abbastanza tempo ad assicurarvi che voi e la vostra cuoca siate
totalmente allineate su quali tipi di cibo faranno felice la vostra
famiglia, chi mangia cosa e perché, quali porzioni lei dovrebbe
tagliare e quali tipi di alimenti vanno serviti al sangue, medi o ben
cotti, la vostra cuoca ad alto rendimento sarà pronta a scegliere e a
cucinare i pasti senza supervisione.
Tuttavia, se assumete una cuoca ad alto rendimento e le lasciate
campo libero per cucinare ciò che vuole, ma non le avete riferito che
la vostra famiglia odia il sale e che qualsiasi condimento per insalata
contenente zucchero verrà rifiutato da tutti, è probabile che i vostri
familiari schizzinosi non apprezzeranno il pasto loro servito. In
questo caso la colpa non è della cuoca ma vostra. Avete assunto la
persona giusta, ma non avete fornito abbastanza contesto. Le avete
concesso parecchia libertà, ma voi due non eravate allineate.
Naturalmente in un’azienda non si tratta di un’unica cuoca che
cucina per un’unica famiglia. Ci sono invece vari strati di leadership,
il che rende più complicato creare allineamento.
Nelle pagine seguenti esamineremo come il contesto venga
stabilito efficacemente nell’intera organizzazione quando tutti i leader
sono concentrati sul tentativo di creare allineamento. Il CEO fornisce
il primo livello di contesto: è lui che crea le condizioni favorevoli
iniziali in tutta l’azienda. Quindi cominceremo da lì con Reed.

Allinearsi con una stella polare

Uso una manciata di metodi per fissare il contesto in


tutta la compagnia, ma le mie piattaforme primarie
sono il nostro E-Staff (Executive Staff, staff
dirigenziale) e i nostri meeting Quarterly Business
Review (QBR, «Meeting consultivi trimestrali»). Alcune
volte l’anno riuniamo tutti i capi dell’azienda (il 10-15
per cento al vertice dei dipendenti) che arrivano da ogni angolo del
mondo. Si inizia con una lunga riunione o cena con la mia mezza
dozzina di sottoposti diretti, come Ted e Greg Peters e il nostro capo
delle risorse umane, Jessica Neal. Poi passo una giornata con l’E-
Staff (tutti i vicepresidenti e i loro superiori) e successivamente
abbiamo due giorni di presentazioni, condivisioni e dibattiti nei
meeting QBR (tutti i direttori e i loro superiori, circa il 10 per cento
dell’intera forza lavoro).
L’obiettivo primario di queste riunioni è assicurarsi che tutti i capi
della compagnia siano altamente allineati con quella che chiamo la
nostra Stella Polare, ossia la direzione generale verso cui ci stiamo
muovendo. Non abbiamo bisogno di essere allineati su come ogni
reparto intende arrivare a destinazione – quello lo lasciamo alle
singole aree – ma dobbiamo assicurarci che stiamo tutti andando
nella stessa direzione.
Prima e dopo i QBR rendiamo disponibili per ogni dipendente varie
decine di pagine di memorandum di Documenti Google, spiegando
tutto il contesto e il contenuto che abbiamo condiviso in quei
meeting. Tali informazioni non vengono lette solo dai partecipanti ai
QBR ma anche da persone a ogni livello dell’azienda, inclusi
assistenti amministrativi, coordinatori del marketing e via dicendo.
Negli intervalli fra i QBR organizzo continue riunioni individuali per
farmi un’idea di quanto siamo davvero allineati e capire dove manca
il contesto. Una volta l’anno ho un incontro di trenta minuti con ogni
direttore, il che ammonta a circa duecentocinquanta ore di meeting
con persone situate fra i tre e i cinque livelli sotto di me
nell’organigramma. Inoltre ogni trimestre incontro ogni
vicepresidente (due-tre livelli sotto di me) per un’ora, il che si traduce
in altre cinquecento ore di meeting annuali. Quando Netflix era più
piccola mi incontravo più frequentemente con ciascuno, ma dedico
ancora circa il 25 per cento del mio tempo annuale a tutti questi
meeting.
Le riunioni a tu per tu mi aiutano a capire meglio il contesto in cui i
nostri dipendenti stanno lavorando e mi mostrano se ci sono aree in
cui la nostra leadership non è allineata in modo che io possa
rivisitare i punti chiave durante il ciclo successivo di meeting QBR.
Ecco un esempio del marzo del 2018, quando visitai il nostro
ufficio di Singapore. Durante un colloquio individuale di trenta minuti
con un direttore del reparto sviluppo prodotti, lui menzionò tra le altre
cose che il suo team stava lavorando, come richiesto, su un piano
quinquennale di conteggio del personale. Rimasi stupito. Un piano
quinquennale può sembrare una banalità, ma nella nostra industria
dinamica non ha senso. È impossibile sapere dove si troverà fra
cinque anni un’azienda come la nostra. Cercare di indovinare e fare
piani intorno a tali deduzioni è destinato a vincolarla e a impedirci di
adattarci rapidamente.
Esaminai la questione e scoprii che uno dei nostri dirigenti
strutture stava chiedendo alle persone in varie nostre sedi di
comunicargli le cifre sul conteggio del personale previsto per il 2023.
Quando gli parlai mi spiegò che in alcune delle nostre sedi sparse
per il mondo avevamo esaurito lo spazio per uffici molto più in fretta
del previsto e la cosa aveva causato perdite di denaro. «Se io avessi
un piano assunzioni quinquennale potrei procurarmi lo spazio
migliore al prezzo più vantaggioso e non commettere lo stesso
errore dell’ultima volta. Ecco perché ho chiesto a ognuno dei vari
reparti di svilupparne uno», dichiarò.
Avrei voluto dirgli: “Tonto che non sei altro! Non anteporre la
prevenzione errori alla flessibilità! La tua è una completa perdita di
tempo. È impossibile ottenere una qualsiasi accuratezza con un
piano simile. Annulla subito questo progetto”. Ma ciò avrebbe
significato guidare con il controllo.
Rammentai invece a me stesso quello che dico spesso ai capi
all’interno dell’azienda:
SE I TUOI DIPENDENTI FANNO QUALCOSA DI SCIOCCO, NON PRENDERTELA
CON LORO. CHIEDITI INVECE QUALE CONTESTO HAI MANCATO DI FISSARE. SEI
ABBASTANZA ELOQUENTE E MOTIVANTE NELL’ESPRIMERE I TUOI OBIETTIVI E
LA TUA STRATEGIA? HAI SPIEGATO CHIARAMENTE TUTTI I PRESUPPOSTI E I
RISCHI CHE AIUTERANNO IL TUO TEAM A PRENDERE VALIDE DECISIONI? TU E I
TUOI DIPENDENTI SIETE ALTAMENTE ALLINEATI SU VISIONE E OBIETTIVI?

Nel caso del dirigente strutture ho detto ben poco, sul momento. È
lui il responsabile di progetto quando si tratta di scegliere lo spazio
per uffici, non io.
Ma la conversazione mi ha fatto capire che dovevo fissare un
contesto migliore in tutta la nostra azienda. Se una persona è
disallineata con la nostra strategia, ce ne saranno altre cinquanta
sulla stessa barca. Aggiunsi l’argomento a un imminente meeting
QBR, durante il quale parlai con tutti i nostri capi del motivo per cui a
Netflix preferiamo sempre pagare di più per l’opzione che ci
consente una maggiore flessibilità, sapendo che non possiamo – e
non dovremmo – cercare di prevedere quale aspetto assumerà il
nostro business lungo la strada.
Naturalmente ogni situazione è diversa e in ogni business
abbiamo bisogno di essere previdenti. Durante quel QBR
discutemmo fino a dove dovremmo spingerci allo scopo di rimanere
flessibili. Fornii alcune analisi che mostrarono come non eravamo
riusciti a prevedere la nostra crescita in passato e come spesso le
migliori opportunità non si possano prevedere. Intavolammo
discussioni a piccoli gruppi esaminando casi passati in cui avremmo
potuto pagare di più per un’opzione che ampliava la scelta futura o
meno per un’opzione che riduceva la flessibilità. Discutemmo di
quanta flessibilità ci serviva nel nostro business e quanto avremmo
dovuto essere disposti a pagarla.
Quelle conversazioni non portarono a una conclusione o a una
regola precise, ma attraverso i dibattiti tutti i nostri capi si allinearono
chiaramente con l’idea che prevenire errori o risparmiare soldi con
piani a lunga scadenza non rappresenta il nostro obiettivo primario.
La nostra Stella Polare è creare un’azienda che sia in grado di
adattarsi rapidamente quando si presentano opportunità impreviste e
le condizioni del business cambiano.
Naturalmente l’amministratore delegato di qualsiasi
organizzazione fornisce solo il primo strato di creazione del contesto.
A Netflix quasi ogni manager, a ogni livello, deve imparare a guidare
con il contesto quando entra nell’azienda. Melissa Cobb, nel team di
Ted, ha fornito un esempio che dimostra come il creare un contesto
funzioni in tutta l’organizzazione.

L’allineamento è un albero, non una piramide

Melissa Cobb, vice president of original animation, ha


lavorato per Fox, Disney, VH1 e DreamWorks prima di
entrare in Netflix nel settembre del 2017. A
DreamWorks fu la producer della trilogia candidata
agli Oscar di Kung Fu Panda. Dopo ventiquattro anni
in ruoli di leadership usa due metafore, la piramide e
l’albero, per aiutare i manager che entrano nel suo team a capire la
differenza fra un ruolo di leadership tradizionale e la guida con il
contesto di Netflix. Ecco cosa racconta:
L’attività decisionale in ogni organizzazione in cui io abbia lavorato prima di
Netflix era strutturata come una piramide. Visto che lavoravo per dei network ho
operato nel campo della produzione di film e serie televisive. Alla base della
piramide avevamo un gruppo di quarantacinque-cinquanta di coloro che
chiamiamo dirigenti creativi. Ciascuno di loro era responsabile di uno o più
show. Per esempio, mentre ero alla Disney abbiamo prodotto L’uomo di casa
con Chevy Chase e il dirigente creativo responsabile dello show era sul set ogni
giorno per approvare le pagine, i costumi e tutti i piccoli dettagli. Molti piccoli
particolari di ogni show erano curati alla base della piramide.

Ma se saltava fuori qualcosa di importante, per esempio qualcuno che voleva


cambiare un passo significativo del dialogo nell’introduzione dello show, di
quello si doveva occupare un livello più alto della piramide. Il dirigente creativo
diceva: «Oh, non so bene cosa ne penserà il mio capo, proviamo a chiamarlo».
Telefonava al suo manager, uno dei circa quindici direttori al livello successivo
della piramide. «Cosa ne pensi? Possiamo apportare questa modifica al
dialogo?» Nella maggior parte dei casi il direttore approvava il cambiamento
oppure, talvolta, lo bocciava.
Ma se la modifica era più cospicua del sostituire poche battute di dialogo, per
esempio tagliare un’intera scena, il direttore poteva dire: «Be’, non sono sicuro
di cosa direbbe il mio capo. Ho bisogno di verificare con lui». La questione
veniva poi spinta su verso il livello successivo della piramide, dove avevamo
mezza dozzina di vicepresidenti. Il direttore chiamava il suo manager e
chiedeva: «Cosa ne pensi? Possiamo tagliare questa scena?». Poi quel
vicepresidente approvava o respingeva la modifica.
Se succedeva qualcosa di ancora più grosso – per esempio uno degli attori
abbandonava il set oppure l’intero copione andava riscritto – la questione
doveva salire fino a uno dei pochi vicepresidenti senior al livello seguente. E per
qualcosa di davvero grosso – come lo sceneggiatore che si ammala e la
necessità di approvarne in gran fretta uno nuovo – magari si doveva salire fino
al CEO seduto nel minuscolo triangolo in cima alla piramide.

La struttura decisionale piramidale sperimentata da Melissa nella


sua azienda precedente è facilmente riconoscibile nella
maggioranza delle organizzazioni, a prescindere dal settore o
dall’ubicazione. O il capo prende la decisione e la spinge giù per la
piramide perché venga attuata oppure quelli ai livelli inferiori
prendono le decisioni minori ma delegano le questioni più corpose ai
superiori.
Ma a Netflix, come abbiamo illustrato, è il responsabile di progetto
a prendere le decisioni, non il capo, il cui compito è fissare il
contesto che spinge il team a prendere le decisioni migliori per
l’organizzazione. Se seguiamo questo sistema di leadership dal CEO
fino al responsabile di progetto vediamo che non funziona tanto
come una piramide quanto piuttosto come un albero, con il CEO
seduto all’altezza delle radici e il responsabile di progetto su fra i
rami più alti a prendere decisioni.
Melissa ha fornito un approfondito esempio di come fissare il
contesto funzioni dalle radici dell’albero fin su ai rami più alti. Nel suo
schema dell’albero qui sopra potete vedere i vari livelli di contesto
fissati a partire da Reed e attraverso Ted Sarandos, la stessa
Melissa e Dominique Bazay (una direttrice che lavora per lei), e
come tutto questo contesto influisca infine sulla decisione presa dal
responsabile di progetto Aram Yacoubian. Vediamo ora come fissare
il contesto in ciascun punto abbia creato allineamento in tutta
l’organizzazione.

Reed alle radici: diventate globali


Nell’ottobre del 2017 Melissa ha partecipato al suo primo QBR,
dove Reed ha presentato informazioni sulla futura espansione
globale di Netflix. Ecco come lo ricorda:
Lavoravo a Netflix da meno di un mese. La seconda settimana di ottobre ci fu il
mio primo QBR al Langham Huntington Hotel di Pasadena. Avevo cercato di
farmi un’idea di come funzionasse Netflix e tutti continuavano a dirmi che al
QBR tutto avrebbe avuto un senso, perciò ascoltai attentamente quando Reed
salì sul palco.
Durante i suoi quindici minuti di discorso spiegò: «Nell’ultimo trimestre l’80 per
cento della nostra crescita è stata generata al di fuori gli Stati Uniti ed è proprio
là che dovremmo concentrare le nostre energie. Più della metà dei nostri
abbonati proviene attualmente da altri paesi e questo numero aumenterà di
anno in anno. È lì che si trova la grande crescita. La crescita internazionale è la
nostra priorità».

Reed passò poi a elencare su quali paesi i capi di Netflix


avrebbero dovuto concentrarsi più massicciamente (inclusi India,
Brasile, Corea, Giappone) e perché (i motivi sono riportati qui sotto).
Quel messaggio ha contribuito a dare conferma al ragionamento di
Melissa su come sviluppare la strategia per il proprio reparto. Reed,
però, non è il suo superiore diretto. Lei lavora per Ted Sarandos.
Poco dopo il QBR ha avuto un colloquio individuale con Ted, che ha
aggiunto il proprio contesto al messaggio di Reed.

Ted Sarandos sul tronco: rischiate molto, imparate


molto
Prima del loro colloquio one-to-one Ted aveva già parlato con
Melissa di alcune delle principali opportunità di crescita
internazionale. L’India è un enorme mercato di crescita per Netflix.
Giappone e Corea hanno ecosistemi particolarmente fertili per lo
sviluppo di contenuti. Il Brasile ha solo una sede Netflix minuscola
ma più di dieci milioni di abbonati. Quando però Ted e Melissa si
sono seduti a discutere verso la fine di ottobre del 2017, lui non ha
parlato di quello che le persone a Netflix sapevano, ma di tutte le
cose che ancora non sapevano:
Ascolta, Melissa, siamo a un punto di svolta per Netflix. Abbiamo
quarantaquattro milioni di spettatori negli Stati Uniti. La grossa crescita sarà
internazionale e abbiamo molto da imparare. Non sappiamo se gli abitanti
dell’Arabia Saudita guardano più o meno TV durante il Ramadan. Non sappiamo
se gli italiani preferiscono documentari o commedie. Non sappiamo se gli
indonesiani hanno maggiori probabilità di guardare film da soli nella propria
camera o riunendosi intorno al televisore di famiglia. Se vogliamo avere
successo dobbiamo aumentare le nostre conoscenze internazionali.

Melissa conosceva già il concetto di «scommessa» come viene


usato in Netflix e la conseguenza implicita che alcune scommesse
avranno successo e altre no. Quello che l’analogia con il gioco
d’azzardo non catturava era l’aspetto fondamentale
dell’apprendimento dalle sconfitte. Questo ci porta al contesto fissato
da Ted:
Mentre il tuo team acquista e crea contenuti in giro per il mondo dobbiamo
essere totalmente concentrati sull’apprendimento. Dovremmo essere disposti a
correre rischi maggiori in paesi dall’alto potenziale di crescita come India o
Brasile, così da imparare di più su questi mercati. Cerchiamo di ottenere
qualche vittoria, ma anche qualche grossa e disastrosa sconfitta da cui
imparare come riuscire meglio la volta seguente. Dovremmo chiederci
costantemente: «Se compriamo questo show ed è un fiasco, cosa
impareremo?». Se c’è qualcosa di grosso da imparare procediamo e facciamo
la scommessa.

Il contesto fornito da Reed e Ted congiuntamente ha aiutato


Melissa a sviluppare il contesto da lei fissato con il suo team di
contenuti per bambini e famiglie durante la successiva riunione
settimanale.

Melissa Cobb su un grosso ramo: portate igloo e


capanne
di fango a Bangkok
I precedenti datori di lavoro di Melissa come Disney e
DreamWorks sono noti a livello globale e distribuiscono contenuti
guardati in ogni angolo del pianeta, eppure lei pensava che Netflix
avesse una chance di distinguersi non solo come brand globale ma
anche come piattaforma globale:
A livello mondiale la maggior parte dei bambini guarda contenuti provenienti dal
proprio paese o serie e film che arrivano dagli Stati Uniti, ma sentivo che per
essere internazionali come Reed aveva delineato al QBR potevamo fare di
meglio.
Volevo che la lista di show per ragazzi su Netflix fosse come un villaggio
globale. Quando Kulap, di dieci anni, che vive in un grattacielo di Bangkok, si
sveglia la domenica mattina e accende Netflix, volevo che vedesse non solo
personaggi thailandesi (quelli sono già sui suoi canali televisivi locali) o
statunitensi (quelli sono sulla stazione Disney via cavo) ma anche una vasta
gamma di beniamini televisivi e cinematografici provenienti da tutto il mondo.
Lei dovrebbe poter scegliere fra serie ambientate in baite coperte di ghiaccio in
Svezia e altre nel Kenya rurale. Le storie non dovrebbero semplicemente
parlare di bambini provenienti da una vasta gamma di paesi, quello può farlo la
Disney. Dovrebbero avere l’aspetto e suscitare le sensazioni che ottieni solo
quando queste serie davvero arrivano da ogni parte del mondo.
Nel mio team discutemmo parecchio delle possibilità di successo di una simile
strategia. I bambini avrebbero guardato personaggi così drasticamente diversi
da loro? Non lo sapevamo.
Ecco dove entrò in scena il contesto fissato da Ted. Come lui aveva
sottolineato, quelle erano le domande a cui avremmo cercato di rispondere e
dovevamo essere pronti a perdere le nostre scommesse, purché sfociassero in
un chiaro apprendimento. Arrivammo tutti a un accordo. Avremmo fatto un
tentativo e imparato con il tempo.

Durante questo incontro Melissa trovò un allineamento con i suoi


sei dipendenti diretti, fra cui Dominique Bazay, la direttrice il cui team
acquista i contenuti per bambini in età prescolare.

Dominique Bazay su un ramo di medie dimensioni:


con l’animazione mirate in alto
Dopo quel meeting con Melissa, Dominique rifletté parecchio su
come tradurre in realtà il sogno di Melissa sul «villaggio globale».
Quali show doveva offrire Netflix per incoraggiare Kulap a guardare
programmi televisivi creati in Svezia e in Kenya? Secondo lei
l’animazione era la miglior risposta alla domanda, il che portò al
contesto da lei fissato con il proprio team.
La Peppa Pig dei cartoni animati parla spagnolo come uno spagnolo, turco
come un turco e un giapponese perfetto. L’animazione fornisce un’opportunità
per la programmazione internazionale che i live action non possono fornire.
Quando Una strega imbranata con l’attrice Bella Ramsey viene trasmesso in un
nuovo paese, lo spettatore deve guardarlo doppiato o sottotitolato. I bambini
odiano i sottotitoli e Bella appare strana quando parla in portoghese o tedesco.
Le voci non si adattano all’immagine e questo influisce sulla qualità
dell’esperienza dello spettatore. Ma Peppa, come tutti i personaggi dei cartoni
animati, parla sempre la lingua degli spettatori. Il bambino coreano e il bambino
olandese si sentono connessi a lei nello stesso modo.
Se la programmazione per bambini di Netflix doveva essere la variegata
piattaforma di cui parlava Melissa, secondo me dovevamo mirare in alto.
Discussi con il mio team del fatto che per tutti i programmi di animazione che
compravamo, a prescindere dal paese di provenienza, la qualità dell’animazione
doveva essere abbastanza alta per essere considerata del massimo livello dalle
nazioni più esigenti. Se, per esempio, una serie di animazione arriva dal Cile,
non dovrebbe essere di qualità solo abbastanza alta per lo spettatore cileno più
critico, ma anche di qualità abbastanza alta per diventare un successo nel
Giappone ossessionato dagli anime.

Fu con tutto questo contesto – fornito da Reed, Ted, Melissa e


Dominique – che l’allora manager of content acquisition Aram
Yacoubian, seduto in una piccola sala riunioni al centro di Mumbai,
valutò lo show che stavano cercando di vendergli, Il piccolo grande
Bheem.

Aram Yacoubian su un ramo piccolo: grandi lezioni


da
Il piccolo grande Bheem
Quando Aram vide la versione originale dell’adorabile serie
animata Il piccolo grande Bheem pensò che sarebbe stata un
enorme successo in India:
Il protagonista è questo bimbo in un piccolo villaggio indiano la cui sconfinata
curiosità e straordinaria forza fisica lo portano a vivere avventure di ogni genere.
È come un Braccio di Ferro bebè e indiano. È basato su Bheem, un
personaggio mitologico del poema epico sanscrito Mahābhārata, noto in tutta
l’India. Per me era evidente che gli indiani avrebbero adorato quello show.

Ma nutriva ancora seri dubbi sul fatto che rappresentasse o meno


una valida scommessa per Netflix. La sua prima preoccupazione
riguardava la qualità dell’animazione:
Le serie indiane tendono ad avere un budget limitato. La qualità dell’animazione
era abbastanza alta per diventare popolare sulla TV indiana, ma pensai a quello
su cui ci eravamo accordati Dominique e io. Volevamo assicurarci che la qualità
fosse abbastanza alta non solo per il paese d’origine ma anche per il mondo
intero. Sapevo che, se intendevamo comprare quella serie, avremmo dovuto
investire il doppio o il triplo di quello che si spende normalmente su
un’animazione indiana per ottenere la qualità che stavamo cercando.

Questo portò alla sua seconda preoccupazione:


Erano un sacco di soldi da investire in una serie indiana. Per recuperare
l’investimento avremmo dovuto avere un sacco di bambini sparsi per il mondo
che la guardavano. Ma in tutta la storia della televisione e dello streaming
pochissimi programmi indiani avevano mai ottenuto un’enorme popolarità al di
fuori dell’India. Ciò era dovuto ai bassi budget ma anche alla convinzione che lo
storytelling fosse troppo localmente specifico per il pubblico globale. Esisteva la
diffusa convinzione che le serie indiane non viaggiassero lontano.

La terza preoccupazione di Aram era la mancanza di dati storici


sulle serie per bambini in età prescolare, persino all’interno
dell’India:
Il piccolo grande Bheem è destinato a bambini piccoli e fino ad allora non c’era
quasi nessuna serie per bambini in età prescolare realizzata in India, per lo
streaming o la televisione. Questo perché le società di misurazione degli ascolti
indiane non valutano questi programmi, che quindi non possono essere
monetizzati. In India esisteva un pubblico per una programmazione destinata a
bambini così piccoli? La storia non poteva fornire una risposta.

Tutto questo non sembrava far ben sperare per Il piccolo grande
Bheem. «L’intera storia e tutti questi motivi mi stavano dicendo di
non realizzare la serie», spiega Aram. Ma rifletté anche sul contesto
fissato per lui dai capi di Netflix:
Reed ha sottolineato che l’espansione internazionale rappresenta il nostro
futuro e l’India un mercato di crescita chiave. Il piccolo grande Bheem è una
serie magnifica per un mercato chiave.
Ted ha mostrato che, quando si tratta di paesi come l’India, abbiamo talmente
tanto da imparare che dovremmo correre grossi rischi, fintanto che il potenziale
di apprendimento risulta chiaro. Nel caso di Il piccolo grande Bheem quello che
avremmo imparato dalla scommessa era evidente. Il contesto fissato da Ted era
sufficiente per farmi dire: «Va bene, anche se questa serie si rivela un fiasco
colossale sto tentando tre cose diverse che forniranno tutte a Netflix
informazioni preziose».
Melissa ha reso evidente che volevamo serie per bambini provenienti da tutto il
mondo che fossero profondamente locali in fatto di argomento e trama per
costituire la nostra lista di programmi. Il piccolo grande Bheem era
profondamente indiano e aveva elementi capaci di attirare bambini di ogni parte
del mondo.
Dominique e io avevamo concordato sul bisogno di dare la priorità
all’animazione per le nostre grandi scommesse internazionali e sul fatto che
l’animazione doveva essere di alta qualità. Il piccolo grande Bheem era una
serie animata che grazie a un investimento finanziario poteva arrivare all’alta
qualità di cui avevamo bisogno.

In coerenza con questo contesto Aram prese la sua decisione.


Comprò Il piccolo grande Bheem e diede dei soldi ai creativi locali
perché migliorassero l’animazione. La serie fu lanciata a metà aprile
del 2019 e nel giro di tre settimane divenne una delle serie animate
provenienti da qualsiasi parte del mondo più viste di Netflix. Finora è
stata guardata da più di ventisette milioni di spettatori.
Quando l’ho intervistato, Aram ha chiarito il grosso vantaggio
dell’attività decisionale diffusa quando i manager guidano con il
contesto.
A Netflix sono una delle persone più adatte per decidere quali contenuti per
bambini comprare in India perché conosco come le mie tasche il mercato
indiano dell’animazione e i modelli di visione familiare indiani. Ma è solo con la
trasparenza organizzativa, una tonnellata di contesto e un alto allineamento fra
me e la leadership che posso prendere le decisioni migliori per avvantaggiare la
nostra organizzazione e gli spettatori di Netflix sparsi per il mondo.

La decisione di Aram di comprare Il piccolo grande


Bheem fornisce un chiaro esempio di come funzioni a
Netflix la strategia di guidare con il contesto. Ogni
capo, a partire da me nelle radici e passando per
Dominique a livello del ramo intermedio fissa un
contesto che permea la decisione di Aram. Ma è lo
stesso Aram, in veste di responsabile di progetto, a decidere quali
serie comprare.
Questo caso, come avrete notato, non è affatto unico. In tutto il
libro abbiamo raccontato aneddoti su dipendenti di livello più basso
che prendono decisioni finanziarie da vari milioni di dollari senza
chiedere l’approvazione del capo. Gli estranei all’azienda spesso
non riescono a capire come questo possa funzionare in
un’organizzazione finanziariamente responsabile. La risposta è
semplice: grazie all’allineamento.
Benché Netflix conceda ai dipendenti molta libertà finanziaria, gli
investimenti seguono lo stesso contesto descritto da Melissa. Ted e
io siamo allineati su quanto l’area contenuti investirà per acquistare
film e serie durante un certo trimestre. Poi Ted fa scendere a cascata
la cosa, fornendo a Melissa il contesto su quale somma il suo
gruppo dovrebbe investire nella programmazione per ragazzi e
famiglie. In seguito lei si allinea con ognuno dei suoi direttori su
quanto dovrebbero investire in ogni categoria specifica. Quando
Aram ha deciso di fare un’offerta per Il piccolo grande Bheem e
anche di investire parecchi soldi per migliorare la qualità
dell’animazione, non stava spendendo denaro a casaccio. Stava
applicando il contesto finanziario che Melissa e Dominique avevano
fissato per lui.

Icarus – la scena finale

Quando abbiamo lasciato Adam Del Deo era fermo


nel Washington School House Hotel a cercare di
decidere se fare una grossa scommessa su un film
che portava il nome di un uomo che era volato così
vicino al sole da sciogliere le proprie ali di cera.
Ted aveva fissato un chiaro contesto. Se Icarus non
era destinato a diventare un enorme successo Adam non avrebbe
dovuto puntarvi sopra molti soldi. Lui aveva già offerto due milioni e
mezzo di dollari e i soliti sospetti, da Amazon a Hulu, stavano
anch’essi fiutando in giro. Se quella somma non era sufficiente e
quel documentario non era «il documentario» lui doveva lasciar
perdere. Ma se invece credeva che Icarus sarebbe diventato un
enorme successo doveva puntare parecchio, scommettere qualsiasi
cifra necessaria per procurarlo a Netflix.
Adam era davvero convinto che Icarus sarebbe diventato un
enorme successo, così fece la scommessa. Netflix lo pagò 4,6
milioni di dollari, una cifra senza precedenti, e cominciò a
trasmetterlo nell’agosto del 2017.
Nei primi mesi il documentario stentò a decollare. Nessuno lo
stava guardando. Adam era distrutto:
Dieci giorni dopo il lancio di Icarus partecipammo a un team meeting durante il
quale esaminammo i dati di ascolto per i nuovi contenuti e io rimasi devastato
dalle cifre così basse. I miei colleghi confidano nella mia capacità di prevedere il
numero di spettatori di un film, la discussione pubblica che ne scaturirà e la resa
nel periodo degli Oscar. La mia reputazione si basa su quella fiducia. Sentivo di
aver commesso un enorme errore che non avrebbe potuto non minare la fiducia
dei colleghi nel sottoscritto.

Poi accadde qualcosa che cambiò tutto. Nel dicembre del 2017 il
Comitato olimpico internazionale diffuse un rapporto che annunciava
che la Russia era stata bandita dai Giochi e citava Icarus come la
prova principe. Rodchenkov apparve alla trasmissione 60 Minutes,
dove si disse convinto che almeno venti paesi stessero ricorrendo al
doping nello stesso modo. Poi Lance Armstrong annunciò
pubblicamente il proprio apprezzamento per Icarus. All’improvviso
tutti stavano parlando del documentario e i numeri schizzarono alle
stelle.
Nel marzo 2018 Icarus fu candidato all’Oscar come miglior
documentario. Ecco come Adam ricorda la cerimonia:
Ero sicuro che non avremmo vinto. Quando l’attrice Laura Dern si accinse ad
annunciare il nome del vincitore sussurrai al mio capo Lisa Nishamura: «Non ce
la faremo. Vincerà Visages villages. Ma poi, come al rallentatore, sentii Laura
Dern dire: «Il vincitore è… Icarus!». Bryan Fogel stava correndo verso il palco.
Qualcuno lanciò un grido di gioia dalla galleria. Rimasi talmente sopraffatto che
se non fossi stato seduto sarei caduto a terra.

Mentre andava al party che seguiva la cerimonia si imbatté in Ted,


che si congratulò con lui:
Chiesi: «Ricordi la nostra conversazione al Sundance, Ted?». Lui mi fece un
gran sorriso e replicò: «Sì… era “il documentario”».
Il nono puntino

In un’organizzazione lascamente accoppiata, dove la


densità di talento è alta e l’innovazione rappresenta
l’obiettivo principale, un approccio tradizionale
orientato al controllo non rappresenta la scelta più
efficace. Invece di cercare di ridurre al minimo gli
errori attraverso supervisione o procedura,
concentratevi sul fissare un chiaro contesto, creare allineamento con
la Stella Polare fra capo e team e concedere al responsabile di
progetto la libertà di decidere.

▶ CONCETTI CHIAVE DEL CAPITOLO 9


Per guidare con il contesto dovete avere un’alta densità di talento, avere
come obiettivo l’innovazione (non la prevenzione di errori) e operare in un
sistema lascamente accoppiato.
Una volta che questi elementi sono al loro posto, invece di dire alle persone
cosa fare allineatevi perfettamente con loro fornendo e illustrando tutto il
contesto che permetterà loro di prendere buone decisioni.
Quando uno dei vostri dipendenti fa qualcosa di stupido non dategli la colpa,
chiedetevi invece quale contesto avete mancato di fissare. Siete abbastanza
eloquenti e motivanti nell’illustrare i vostri obiettivi e la vostra strategia? Avete
spiegato chiaramente tutti i presupposti e i rischi che aiuteranno il vostro
team a prendere valide decisioni? Voi e i vostri dipendenti siete altamente
allineati su visione e obiettivi?
Un’organizzazione lascamente accoppiata dovrebbe somigliare a un albero
più che a una piramide. Il capo si trova all’altezza delle radici, reggendo il
tronco di manager senior che sostengono i rami esterni dove vengono prese
le decisioni.
Capite che state guidando felicemente con il contesto quando i vostri
subalterni muovono la squadra nella direzione desiderata usando le
informazioni ricevute da voi e da quelli intorno a voi per prendere da soli
ottime decisioni.

Il significato di libertà e responsabilità


Abbiamo ormai osservato come si possono creare gli elementi
fondanti di densità di talento e sincerità e poi cominciare a eliminare
politiche e procedure per offrire ai dipendenti maggiore libertà e al
contempo creare un ambiente sempre più rapido e flessibile.
Abbiamo osservato più di una dozzina di politiche e procedure che la
maggior parte delle società ha ma Netflix no. Fra di esse figurano:

Policy relative alle ferie


Approvazioni per le decisioni
Policy relative alle spese
Piani di miglioramento della performance
Procedure di approvazione
Pool destinati agli aumenti
Indicatori chiave di prestazione
Management per obiettivi
Policy relative alle trasferte
Decisioni prese da un comitato
Approvazione contratti
Fasce salariali
Gradi di remunerazione
Gratifiche basate sulla performance

Questi sono tutti modi per controllare le persone più che per
ispirarle. Non è facile evitare il caos e l’anarchia quando eliminate
questi controlli, ma se sviluppate il senso di autodisciplina e
responsabilità di tutti i dipendenti, li aiutate ad accumulare
abbastanza conoscenze per prendere buone decisioni e sviluppate
una cultura del feedback per stimolare l’apprendimento rimarrete
sbalorditi da quanto può rivelarsi efficiente la vostra organizzazione.
Questo è di per sé un motivo sufficiente per sviluppare una cultura
di libertà e responsabilità, ma questi non sono certo gli unici
vantaggi. Oltre a questo:

Alcune delle voci dell’elenco qui sopra reprimono l’innovazione.


Policy relative a ferie, trasferte e spese possono condurre al tipo di
ambiente altamente regolato che scoraggia il pensiero creativo e fa
scappare i dipendenti più innovativi.
Altre voci di questo elenco rallentano l’attività. Policy relative alle
approvazioni, decisioni prese da un comitato e approvazione dei
contratti pongono davanti ai vostri dipendenti ostacoli che
impediscono loro di procedere spediti.
Molte di queste voci impediscono all’organizzazione di cambiare
rapidamente quando l’ambiente si trasforma. Le gratifiche basate
sulla performance, il management per obiettivi e gli indicatori chiave
di prestazione spingono i dipendenti a rimanere su un sentiero
prefissato, rendendo difficile l’abbandonare rapidamente un progetto
per dedicarsi a un altro, laddove i piani di miglioramento
performance (insieme a qualsiasi procedura di assunzione e
licenziamento) complicano il rapido ricambio di dipendenti quando
l’attività richiede modifiche.
Se il vostro obiettivo è costruire un’organizzazione più creativa,
veloce e flessibile sviluppate una cultura di libertà e responsabilità
stabilendo le condizioni necessarie per poter eliminare queste regole
e procedure.
Abbiamo iniziato questo libro con un paio di domande: Perché così tante
aziende come Blockbuster, AOL, Kodak e la mia prima impresa, Pure Software,
non sono riuscite a adattarsi e innovare rapidamente mentre l’ambiente intorno
a loro si trasformava? Come possono le organizzazioni diventare più creative e
agili allo scopo di raggiungere i propri obiettivi?
Nel 2001 a Netflix abbiamo iniziato il nostro viaggio verso quella che alla fine del
2015 era già diventata una cultura di libertà e responsabilità altamente
sintonizzata. Avevamo trasformato con successo Netflix da un’impresa di DVD
per posta a una azienda di streaming che creava serie televisive pluripremiate
come House of Cards e Orange Is the New Black. Il prezzo delle nostre azioni
era salito dai circa otto dollari del 2010 ai centoventitré di fine 2015 e nello
stesso periodo la nostra base utenti era passata dai venti ai settantotto milioni.
Dopo questo notevole successo negli Stati Uniti abbiamo iniziato la nostra sfida
culturale successiva: l’espansione internazionale. Fra il 2011 e il 2015 abbiamo
cominciato a entrare in alcuni paesi, uno alla volta. Nel 2016 abbiamo fatto il
grande salto, arrivando in centotrenta paesi in un giorno solo. La nostra cultura
ci ha condotto al successo. Ma a quel punto ci chiedevamo: La nostra cultura
aziendale funzionerebbe in giro per il mondo? Questo è l’argomento del
Capitolo 10.
SEZIONE QUATTRO
DIVENTARE GLOBALI
10.
APRITEVI AL MONDO!

Quando nel 1983 mi trasferii nello Swaziland come


volontario dei Peace Corps quella non era la mia
prima esperienza internazionale ma fu quella che mi
insegnò di più. Impiegai solo poche settimane per
rendermi conto che il modo in cui capivo la vita e la
accostavo era molto diverso da quello delle persone
che avevo intorno.
Ne ebbi un esempio durante il primo mese passato a insegnare
matematica a studenti delle superiori sedicenni. Gli alunni della mia
classe erano stati selezionati in base alle loro spiccate capacità
matematiche e li stavo preparando per gli imminenti esami pubblici.
Durante un test settimanale presentai loro un problema che, per quel
che avevo capito del loro insieme di competenze, avrebbero dovuto
saper risolvere:
Una stanza misura 2 metri per 3. Quante piastrelle da 50
centimetri servono per coprire il pavimento?
Nemmeno uno dei miei studenti fornì la risposta giusta e la
maggior parte di loro lasciò lo spazio in bianco.
L’indomani scrissi la domanda sulla lavagna e chiesi chi voleva
rispondere. Gli studenti strusciarono i piedi sul pavimento e
guardarono fuori dalla finestra. Mi accorsi di arrossire per
l’esasperazione. «Nessuno? Nessuno è in grado di rispondere?»
chiesi, incredulo. Avvilito mi sedetti dietro la cattedra e aspettai una
reazione. Fu a quel punto che Thabo, uno studente alto e zelante,
alzò la mano dal fondo dell’aula. «Sì, Thabo, ti prego, spiegaci come
risolvere questo problema», dissi, saltando in piedi speranzoso. Ma
invece di rispondere lui chiese: «Mr Hastings, signore, la prego,
cos’è una piastrella?».
I miei studenti vivevano prevalentemente in tradizionali capanne
rotonde il cui pavimento era fatto di fango o cemento. Non potevano
rispondere alla domanda perché non sapevano cosa fosse una
piastrella. Non avevano modo di capire cosa si stesse chiedendo
loro di calcolare.
Da questa precoce esperienza, e da molte altre che seguirono,
imparai che non potevo trasferire direttamente il mio stile di vita nella
cultura di un altro luogo. Per risultare efficace dovevo riflettere su
quali modifiche avrei dovuto effettuare per ottenere i risultati sperati.
Così nel 2010, quando Netflix ha cominciato a espandersi a livello
internazionale, ho riflettuto a fondo sull’eventualità che la cultura
aziendale dovesse anch’essa adattarsi per avere successo in giro
per il mondo. A quel punto i nostri metodi di management si erano
già pienamente sviluppati e stavano ottenendo risultati così validi
che ero restio ad apportare modifiche significative. Ma non sapevo
se il nostro feedback schietto, l’ethos con poche regole e le tecniche
del Keeper Test sarebbero risultate efficaci in altri paesi.
Esaminai un’altra azienda che era già internazionale e aveva
scelto un approccio chiaro. Come noi, Google andava fiera di
possedere una forte cultura aziendale, ma invece di adattare la
propria cultura a quella dei paesi in cui entrava preferiva assumere
chi le era idoneo. Cercava di assumere in tutto il mondo dipendenti
che fossero «Googler», individui la cui personalità si adattava alla
cultura aziendale, a prescindere dal paese in cui vivevano o da cui
provenivano.
Riflettei anche su un problema che avevo avuto nel 1988, quando
avevo lavorato per un anno alla Schlumberger a Palo Alto. È una
grossa multinazionale francese, eppure la cultura aziendale nella
sede della Silicon Valley era stata palesemente importata dalla
Francia. Tutti i capi dei dipartimenti erano espatriati francesi e, se
volevi avere successo, dovevi imparare a navigare nei sistemi
decisionali e negli schemi gerarchici provenienti dal quartier
generale di Parigi. C’erano programmi di formazione per i neoassunti
su come dibattere con efficacia e come analizzare le situazioni
usando un approccio basato sui principi, così tipico della cultura
francese.
Sia Google sia Schlumberger sembravano aver conseguito il
successo mantenendo una cultura aziendale uniforme in giro per il
mondo, così, con solo un pizzico di trepidazione, pensai che
potevamo fare la stessa cosa. Come Google avremmo cercato di
assumere i più adatti a noi, scegliendo in ogni paese individui che
fossero attirati dalla cultura aziendale che avevamo passato così
tanto tempo a coltivare e che fossero a proprio agio con essa. E
come Schlumberger avremmo addestrato i nostri nuovi dipendenti
internazionali a capire lo stile Netflix e ad applicarlo al loro lavoro.
Allo stesso tempo avremmo cercato di essere umili e flessibili,
modificando la nostra cultura a mano a mano e imparando da ogni
paese in cui saremmo entrati.
Nel 2010 iniziammo il processo di internazionalizzazione, aprendo
prima nel vicino Canada e un anno dopo in America Latina. Fra il
2012 e il 2015 penetrammo più in profondità in Europa e Asia-
Pacifico. Durante quel periodo aprimmo quattro sedi regionali a
Tokyo, Singapore, Amsterdam e San Paolo. Poi, nel 2016, facemmo
un grande balzo internazionale e rendemmo la nostra piattaforma
disponibile in un totale di centontrenta nuovi paesi in un giorno solo.
L’espansione fu un enorme successo e nel corso di soli tre anni
vedemmo la nostra base di abbonati non statunitensi schizzare da
quaranta a ottantotto milioni.
Durante quegli stessi tre anni raddoppiammo il numero di
dipendenti Netflix complessivi, la maggior parte dei quali ancora
stanziati negli Stati Uniti ma con background sempre più variegati.
Aggiungemmo l’inclusione come uno dei nostri valori culturali,
capendo che il nostro successo sarebbe dipeso da quanto i nostri
dipendenti rispecchiavano i vari tipi di pubblico che stavamo
cercando di raggiungere e dalla capacità delle persone di vedere la
propria vita e le proprie passioni rispecchiate dalle storie che
raccontavamo. Nel 2018 abbiamo assunto il nostro primo
responsabile delle strategie di inclusione, Vernā Myers, perché ci
aiutasse a identificare i nostri dipendenti sempre più eterogenei e a
imparare da loro.
Mentre aumentavamo le nostre operazioni in altri paesi non
impiegammo molto a capire che alcuni aspetti della nostra cultura
aziendale avrebbero funzionato egregiamente in giro per il mondo.
Con mio enorme sollievo, la libertà grazie a cui i nostri dipendenti
davano il meglio negli Stati Uniti parve dai primi segnali funzionare
ovunque. Gli appartenenti ad alcune culture hanno avuto qualche
difficoltà in più a entrare nell’ordine di idee di prendere decisioni
senza consultare un manuale o chiedere l’approvazione, ma una
volta che capiscono come fare adorano l’autonomia e la mancanza
di regole tanto quanto i californiani. Non sono soltanto gli americani
ad amare il fatto di avere il controllo della propria vita e del proprio
lavoro. Non è un tratto culturale specifico.
Alcune altre componenti della nostra cultura sono risultate meno
facili da esportare. Un problema è stato il Keeper Test. Abbiamo
presto scoperto che, benché possiamo seguire in ogni paese il
nostro mantra «A una performance adeguata è corrisposto un
trattamento di fine rapporto generoso», quello che è considerato
generoso negli Stati Uniti sembra spesso micragnoso – se non
illegale – in alcuni paesi europei. Nei Paesi Bassi, per esempio,
l’entità del trattamento di fine rapporto richiesto dalla legge dipende
dalla lunghezza del rapporto di lavoro con l’azienda. Perciò abbiamo
dovuto adattarci. Quindi adesso se licenziamo qualcuno che è
rimasto con noi per diversi anni, «A una performance adeguata è
corrisposto un trattamento di fine rapporto ancor più generoso». Il
Keeper Test e tutti gli elementi che lo accompagnano possono
funzionare a livello internazionale, ma richiedono un adeguamento
alle pratiche e alle leggi locali sull’impiego.
Oltre ad acquisire questi insegnamenti che si manifestarono
subito, vista la velocità con cui ci stavamo espandendo nel mondo e
l’importanza della nostra cultura aziendale per il nostro successo,
volevo che facessimo tutto il possibile per capire la cultura dei paesi
in cui stavamo entrando e per individuare le somiglianze e le
potenziali sfide fra il contesto locale e la Cultura Netflix. Ero convinto
che la semplice consapevolezza avrebbe dato vita a discussioni
importanti e avrebbe alla fine migliorato la nostra efficacia.

Entra in scena la mappa culturale


Più o meno in quel periodo un manager del nostro reparto risorse
umane mi ha prestato il libro di Erin, The Culture Map, che delinea
un sistema per confrontare una cultura nazionale con un’altra su una
serie di scale comportamentali. Esamina questioni quali il grado a
cui i dipendenti si rimettono al capo e come vengono prese le
decisioni in varie parti del mondo, il modo in cui instauriamo fiducia
nelle varie culture e, cosa più importante per noi a Netflix, quanto le
persone tendano a essere sincere oppure diplomatiche con i
feedback critici.
Ho letto un po’ riguardo alle scale. Il framework si basava su
un’enorme mole di ricerche e mi è parso saldo e al contempo
semplice. Ho condiviso The Culture Map con il mio team dirigenziale
e qualcuno ha suggerito che esaminassimo le «mappe» culturali per
i vari paesi delle nostre sedi regionali, le confrontassimo fra loro,
come nel grafico sottostante, e discutessimo di cosa secondo noi
rivelavano.
L’esercizio per molti di noi fu un’autentica rivelazione. Il framework
offriva una spiegazione convincente per diversi aspetti che avevamo
già riscontrato, per esempio il motivo per cui la nostra esperienza
con i feedback nei Paesi Bassi si era rivelata quasi diametralmente
opposta alla nostra esperienza in Giappone (parametro 2 nel
grafico). Decidemmo di riunire il nostro team dirigenziale per
mappare la nostra cultura aziendale sulle stesse tabelle, dopo di che
avremmo potuto paragonarla con le culture nazionali in cui stavamo
lavorando.
Come ho già menzionato, prima del QBR organizziamo il nostro
meeting E-Staff per tutti i vicepresidenti e loro superiori. In quello del
novembre 2015 abbiamo diviso i sessanta partecipanti in dieci
gruppi da sei e guidato una sessione di due ore durante la quale
abbiamo lavorato su tavole rotonde per mappare la nostra cultura
aziendale sulle tabelle di The Culture Map.
Ogni gruppo ha mappato la cultura aziendale in modo
leggermente diverso, ma sono emersi dei tratti comuni, come potete
vedere dai tre esempi seguenti:

Gruppo 1:
Gruppo 2:

Gruppo 3:
Poi abbiamo raccolto e studiato le mappe dei dieci gruppi e le
abbiamo unite in un’unica mappa di cultura aziendale Netflix, che
aveva questo aspetto:
Poi, usando lo strumento Mappatura Paese di Erin abbiamo
paragonato la nostra mappa della Cultura Netflix con quella di
ognuno dei paesi in cui erano situati i nostri centri regionali.
Mentre studiavamo le mappe ci siamo resi conto che alcuni dei
problemi che stavamo riscontrando nelle nostre sedi regionali erano
dovuti a differenze culturali. Per esempio, sia i Paesi Bassi sia il
Giappone rientrano nel versante consensuale della tabella
sull’attività decisionale (parametro 4). Questo spiegava perché molti
dipendenti nei nostri uffici di Amsterdam e di Tokyo avessero avuto
difficoltà con il modello «responsabile di progetto», in cui c’è sempre
un unico individuo responsabile di una decisione (Capitolo 6).
Concentrandoci sul parametro dall’alto verso il basso, che misura
quanto una cultura si rimetta all’autorità, abbiamo visto che Netflix si
posizionava a destra dei Paesi Bassi (che abbiamo scoperto essere
uno dei paesi più egalitari del mondo) e a sinistra di Singapore (più
gerarchico). Questo ci ha aiutato a capire perché i nostri dipendenti
olandesi non avevano alcun problema ad andare contro i
suggerimenti dei rispettivi capi mentre quelli singaporiani
richiedevano molto più incoraggiamento per prendere una decisione
se il capo non era d’accordo.
Restammo anche colpiti dalla dimensione della fiducia (parametro
5), dove la Cultura Netflix era palesemente più orientata verso la
mansione di quasi ogni cultura locale in cui stessimo entrando. Il
grafico sottostante si concentra su quella dimensione specifica,
quindi potete vedere qual è il problema. Abbiamo aggiunto la
posizione degli Stati Uniti perché interessante.
A Netflix abbiamo sempre dato importanza al valore del tempo. La
stragrande maggioranza dei meeting dura trenta minuti e in genere
pensiamo che la maggior parte degli argomenti, persino quelli
importanti, possano essere discussi esaurientemente in quel lasso di
tempo. Cerchiamo di essere cordiali e collaborativi ma prima di
questo esercizio di mappatura culturale evitavamo di dedicare molto
tempo alle conversazioni non legate al lavoro. Il nostro obiettivo
erano l’efficienza e la rapidità, non il passare del tempo a
chiacchierare bevendo una tazza di caffè. Ma assumendo sempre
più dipendenti sparsi per il mondo abbiamo scoperto che la nostra
ossessione di dedicare ogni singolo minuto al compito da svolgere ci
stava danneggiando in una miriade di modi diversi. Ecco un esempio
pertinente fornito da uno dei nostri primissimi dipendenti in Brasile.
Leonardo Sampaio, business development director for Latin
America, è entrato in Netflix nell’ottobre del 2015:
Dopo decine di colloqui via telefono e video sono stato nella Silicon Valley per
un’intera giornata di colloqui individuali. Il reclutatore mi ha accompagnato in
una sala riunioni e fra le nove e le dodici ho avuto sei colloqui di trenta minuti
con ogni genere di persone interessanti che sarebbero in seguito diventate miei
colleghi. La mia tabella di marcia prevedeva solo una pausa pranzo di mezz’ora.
In Brasile il pranzo è un momento in cui fare amicizia con i colleghi. È un
momento in cui mettere da parte il lavoro e riuscire a conoscersi al di fuori delle
mansioni che dobbiamo svolgere. La fiducia che instauriamo durante questi
momenti di pausa è fondamentale per la collaborazione. Sono anche questi
rapporti che, per un brasiliano, rendono piacevole andare al lavoro. Mi ha
stupito che al pranzo fossero riservati solo trenta minuti e mi sono chiesto chi
sarebbe venuto a farmi compagnia.
Una donna che non conoscevo è entrata nella sala riunioni in cui ero seduto. Mi
sono alzato per salutarla. Forse era la mia commensale. Ha detto in tono
gentile: «Sarah mi ha chiesto di portarle il pranzo, spero le piaccia». In un
sacchetto c’era un pasto squisito che includeva un paio di insalate, un panino e
della frutta. La donna mi ha chiesto se mi serviva altro per sentirmi a mio agio e
dopo che ho risposto di no se n’è andata, e io sono rimasto seduto da solo a
mangiare. Ora so che per gli americani pranzare durante la giornata lavorativa è
solo un altro compito da svolgere, ma per un brasiliano venir lasciato solo a
consumare il pranzo era scioccante. Ho pensato: “Almeno il tizio che diventerà il
mio capo non verrà a chiacchierare con me, a chiedere come sto e domandarmi
della mia vita in Brasile? Presumo sia questo che intende Netflix quando dice
che siamo una squadra e non una famiglia”.
Naturalmente non sono rimasto solo a lungo perché trenta minuti passano in
fretta ed è arrivata la persona seguente che dovevo incontrare.

Quando ho sentito questo racconto ho provavo un certo disagio.


«Siamo una squadra, non una famiglia» significa che aspiriamo ad
alte prestazioni, non che dedichiamo ogni singolo minuto al lavoro,
che evitiamo di conoscerci a vicenda o che non teniamo alle persone
con cui lavoriamo. La maggior parte degli americani che affronta
un’intera giornata di colloqui accoglierebbe con gioia trenta minuti di
solitudine a pranzo per ripassare i propri appunti, ma ora capisco
che per i nostri candidati brasiliani venir lasciati soli durante un pasto
sembra maleducato. Adesso quando i nostri colleghi brasiliani
vengono a farci visita rammentiamo l’importanza di investire più
tempo per arrivare a conoscerli a livello personale e sappiamo anche
chiedere loro di aiutarci a modificare il nostro approccio per
instaurare rapporti quando negoziamo con dei fornitori in Brasile.
Avere davanti la mappa culturale ci ha aiutato a essere più
preparati e più efficienti non solo in questa situazione ma anche in
molti altri momenti importanti. Molta della consapevolezza che
abbiamo ricavato dall’esercizio di mappatura culturale ha portato a
discussioni critiche che hanno a loro volta condotto a soluzioni non
così difficili.
Ma non tutti gli elementi evidenziati sulle mappe culturali sono stati
facili da affrontare. La dimensione legata alla sincerità, quella
indicata come parametro «Valutazione» sulla mappa culturale, ha
portato a continue sfide grandi e piccole. Ha costruito la nostra
consapevolezza delle differenze, ma cosa fare in merito a queste
ultime era tutt’altro che evidente.

Il concetto di sincerità cambia notevolmente da un


paese all’altro
Come può dirvi chiunque abbia lavorato a livello internazionale, il
feedback efficace in un certo paese non funziona necessariamente
in un altro. Per esempio, il feedback correttivo diretto fornito da un
capo tedesco potrebbe sembrare gratuitamente brusco negli Stati
Uniti, laddove la tendenza di un americano a fornire abbondanti
feedback positivi potrebbe risultare eccessiva e ipocrita in Germania.
Questo perché i dipendenti in diverse parti del mondo sono
condizionati a fornire feedback in modi nettamente diversi. Il
manager thailandese impara a non criticare mai un collega
apertamente o davanti ad altri, mentre il manager israeliano impara
a essere sempre sincero e comunicare esplicitamente il messaggio.
I colombiani vengono abituati ad ammorbidire messaggi negativi con
parole positive, i francesi invece a criticare appassionatamente e
fornire con parsimonia i feedback positivi. Le posizioni della cultura
aziendale di Netflix e delle culture locali in cui sono situati i suoi uffici
principali si dispongono più o meno in questo modo:

Quando si tratta di fornire critiche i Paesi Bassi hanno una delle


culture più dirette del mondo. Il Giappone è altamente indiretto.
Singapore è uno dei paesi dell’Asia orientale più diretti, ma
comunque sul versante indiretto di una scala mondiale. La media
statunitense è leggermente più a sinistra del centro. Il Brasile (con
forti differenze regionali) è giusto un pizzico più diretto di Singapore.
Le posizioni di Netflix provengono dall’esercizio di mappatura
culturale condotto da Reed nel 2015.
Uno dei parametri per il posizionamento dei paesi su questa scala
è legato al linguaggio che le persone usano quando esprimono
critiche. Culture più dirette tendono a usare quelli che i linguisti
definiscono upgrader, parole che precedono o seguono il feedback
negativo e lo rafforzano, quali assolutamente, totalmente o
fortemente: «Questo è assolutamente inappropriato» o «Questo è
totalmente scorretto». Per contrasto, culture più indirette usano più
downgrader, parole che attenuano la critica quali circa, un poco,
appena appena, forse e leggermente. Un altro tipo di downgrader è
un deliberato understatement quale: «Ancora non ci siamo», quando
in realtà intendete dire: «Non siamo nemmeno vicini al nostro
obiettivo».
I giapponesi, che rappresentano la cultura più indiretta fra quelle
dei paesi dove Netflix ha una sede, tendono a usare una miriade di
downgrader quando forniscono feedback negativi. Ma questa non è
l’unica tecnica che utilizzano per addolcire la critica. Spesso il
feedback è comunicato implicitamente e a stento espresso ad alta
voce. Quando Netflix ha aperto in Giappone nel 2015 non ha
impiegato molto a capire che i feedback espliciti, frequenti e spesso
diretti verso l’alto che il suo management si aspettava non
risultavano né naturali né facili per i dipendenti locali appena assunti.
La vice president of business and legal affairs Josephine Choy
(americana di origini asiatiche) ricorda un’esperienza in particolare:
Ero una delle prime dipendenti di Tokyo e, nelle mie vesti di capo del settore
legale per il Giappone, il mio primo dovere fu assumere un team di
professionisti. Cercai giapponesi che fossero bilingui (giapponese/inglese) e
sembrassero incarnare la cultura Netflix o almeno esserne attratti.

Le assunzioni andarono lisce, ma le sfide non tardarono. Una


delle prime fu che durante i difficili momenti in cui si parlava di un
problema o un errore lo staff di Josephine sembrava discutere
apertamente della situazione ma le informazioni più importanti le
infilava astutamente fra le righe. Josephine spiega:
Normalmente in inglese usiamo il soggetto seguito da un verbo e un oggetto.
Raramente lasciamo implicito il soggetto, altrimenti la frase non ha senso. Ma in
giapponese la sintassi è flessibile. Soggetto, verbo e oggetto sono facoltativi. In
giapponese è possibile avere una frase rappresentata soltanto da un nome.
Spesso la frase potrebbe iniziare con il tema principale, seguito da un po’ di
contenuto, e con il verbo in fondo. Talvolta il parlante presume che tutti
sappiano qual è il soggetto, quindi lo omette. E questo aspetto della lingua
giapponese si presta perfettamente a una cultura che tende a evitare i conflitti.
In queste occasioni dovete valutare cosa sta venendo detto nel contesto per
capire chi ha fatto cosa.

Per esempio, quando nel team di Josephine qualcuno


commetteva un errore o una scadenza non veniva rispettata
usavano tecniche linguistiche in stile giapponese per non puntare il
dito persino mentre parlavano in inglese.
In un meeting, quando si parlava di qualcosa che era andato storto, il mio team
usava spesso la forma passiva. Potevano dire: «Gli asset non sono stati creati e
quindi lo spot non è potuto andare in onda» o «L’approvazione non è stata
concessa, quindi si è diffuso un certo stupore e la fattura non è stata pagata». In
questo modo evitavano di mettere in imbarazzo qualcuno dei presenti o di
attribuire esplicite responsabilità mentre facevano una discussione totalmente
sincera.
Questo significava anche che io, essendo l’unica non giapponese, dovevo
spesso fermarli per poter capire cosa stava succedendo. «Aspettate, chi non ha
creato gli asset? Noi o l’agenzia?» A volte una costruzione passiva sembrava
alludere a qualcosa che io avevo mancato di fare ma che nessuno osava
evocare. «Aspettate, avrei dovuto dare io l’approvazione? È stata colpa mia? E
come posso rendermi utile?»

Questa tendenza a parlare e leggere fra le righe è particolarmente


diffusa quando si forniscono feedback correttivi, si esprime
disaccordo o si comunicano impressioni negative. Comunicare
indirettamente un messaggio sgradevole consente a chi fornisce il
feedback di mantenere un rapporto armonioso con chi lo riceve.
Nella cultura giapponese il feedback costruttivo esplicito viene
comunicato di rado, e sicuramente non a chi si trova su un livello
gerarchico più alto. Josephine ricorda le difficoltà sorte la prima volta
che ha sollecitato il feedback di uno dei suoi dipendenti giapponesi:
Una delle prime persone da me assunte a Tokyo è stata un’avvocatessa
inquadrata come direttore di nome Miho. Una volta conclusa l’assunzione
iniziale fissai un meeting individuale settimanale. Per il primo inviai un ordine del
giorno e l’ultima voce in elenco era il feedback. L’incontro andò benissimo finché
non arrivammo a quello. «Come sai», le dissi, «Netflix ha una cultura di
feedback e sincerità. Vorrei cominciare chiedendo il tuo feedback. Com’è stato il
processo di assunzione? Posso modificare il mio aprroccio in qualche modo per
diventare un capo più efficace per te?»

Avendo già usato lo stesso metodo con decine di dipendenti negli


Stati Uniti Josephine non si aspettava affatto quello che successe a
quel punto:
Miho mi guardò e le lacrime cominciarono a solcarle le guance. Non per paura o
rabbia, ma piuttosto per qualcosa tipo “Oddio, il mio capo mi sta chiedendo di
darle un feedback. Sta succedendo!”. Disse: «Oh… mi spiace. Sto piangendo.
Voglio davvero fare questa cosa, solo che non so come farla. Non forniamo
feedback come questo al capo, qui in Giappone».
Decisi di avviare la procedura con delicatezza. «Stavolta comincio io. Il mio
feedback per te è che quando mando ordini del giorno per i meeting, in futuro,
puoi aggiungere quello che vuoi alla lista degli argomenti da discutere.» Si
asciugò gli occhi e ribatté: «Va bene, quello è un feedback utile. Lasci che ci
pensi su e al prossimo incontro le darò il mio».

Per Josephine fu un’esperienza illuminante.


Ovviamente so che i giapponesi sono meno diretti degli americani e fornire
feedback a un superiore potrebbe aver complicato ulteriormente la cosa, ma
non ero preparata a quella reazione. Dopo un po’ di pratica Miho cominciò a
fornirmi feedback chiari e attuabili nei nostri incontri a tu per tu, quindi quello fu
un evidente successo.

Ma indurre i dipendenti giapponesi a fornirsi feedback ad hoc a


vicenda durante un meeting o una presentazione si stava
dimostrando più arduo. Dopo tentativi ed errori i capi di Netflix
impararono alcune lezioni chiave su come creare con successo una
consuetudine di sincerità non solo in Giappone, ma anche in molte
altre culture meno dirette sparse per il mondo. La prima lezione fu la
necessità quando si ha a che fare con culture meno dirette di
aumentare il numero di momenti di feedback formali.

Nelle culture meno dirette aumentate i momenti di


feedback
formali
Vista la sfida rappresentata dai feedback nell’ufficio di
Tokyo un gruppo di manager negli Stati Uniti tentò un
esperimento per cercare di indurre i dipendenti
giapponesi a fornire feedback del tipo «4 A». Volarono
dalla California in Giappone per una riunione speciale
incentrata sul feedback. Il manager dei contenuti
giapponesi Yuka, che vi prese parte, la ricorda così:
Quattro capi americani di Netflix vennero a Tokyo per guidare una sessione su
come fornire e ricevere feedback. Rimasero in piedi sul palco fornendosi
feedback correttivi a vicenda e reagendo a quelli che ricevevano. Raccontarono
aneddoti su occasioni in cui avevano ricevuto feedback severi da parte di altri
colleghi americani, cosa avevano provato e quale impatto positivo avessero
avuto su di loro.
Alla fine applaudimmo educatamente, ma eravamo tutti d’accordo sul fatto che
la cosa non ci aiutava minimamente. Un americano che fornisce feedback a un
altro americano in inglese non rappresenta la sfida, lo abbiamo già visto decine
di volte. Quello che avevamo bisogno di vedere era un giapponese che forniva
feedback a un altro giapponese (preferibilmente in giapponese) in un modo che
risulti appropriato, rispettoso e non tale da minare il loro rapporto. È quello il
passaggio che ci mancava.

È stato il chief product officer, Greg Peters, a trovare un approccio


migliore. È sposato con una donna giapponese e parla fluentemente
la lingua, il che è uno dei motivi per cui gli ho chiesto di trasferirsi a
Tokyo e aprire l’ufficio regionale nel 2015. Ecco come ricorda la
cosa:
Mi trovavo in Giappone da circa sei mesi e nonostante una miriade di
incoraggiamenti c’era ben poco feedback estemporaneo in ufficio. Quando
arrivò il momento delle valutazioni complessive non nutrivo molte aspettative.
Effettuammo quella scritta e poi ne organizzammo una dal vivo, che
rappresenta una delle attività meno giapponesi che si possano immaginare:
fornire feedback sinceri a un collega e un superiore davanti a un gruppo. Ma
sapevo che c’erano alcune componenti della cultura in grado di rendere
possibile quel feedback di gruppo. La maggior parte dei giapponesi si dedica ai
preparativi in maniera estremamente meticolosa. Se fissi aspettative chiare
faranno tutto il possibile per adeguarvisi. Se dici a un team giapponese: «Vi
prego di prepararvi per questo e queste sono le istruzioni che seguiremo»,
riuscirà quasi sempre a eccellere.
I risultati furono davvero notevoli. Durante il processo di valutazione
complessiva i giapponesi nel mio team fornirono feedback di qualità migliore
rispetto a quelli forniti dai miei team negli Stati Uniti negli anni precedenti. I
commenti erano sinceri e ben strutturati. Le raccomandazioni erano attuabili e
loro non usarono mezzi termini. Ricevettero i feedback con eleganza e palese
apprezzamento.
In seguito, quando parlai con molti di loro, spiegarono: «Ci hai detto che faceva
parte del nostro lavoro. Ci hai spiegato cosa fare e come farlo. Ci siamo
preparati e alcuni di noi hanno fatto persino delle prove. Volevamo essere sicuri
di dimostrarci all’altezza delle aspettative tue e di Netflix».

Quello che abbiamo imparato da questa esperienza, e che in


seguito abbiamo scoperto essere vero non solo in Giappone, ma
anche nella maggior parte delle culture in cui il feedback negativo
diretto è meno agevole e meno diffuso, è che chiedere ai dipendenti
di fornire feedback ad hoc a pari grado e superiori in momenti
informali di solito non funziona. Ma se invece organizzate eventi più
formali, segnando i feedback sull’ordine del giorno, fornendo
istruzioni su come prepararsi e una chiara struttura da seguire,
potete ottenere con altrettanta efficacia tutti i feedback utili
disponibili.
Josephine lo ha imparato sia dalla propria esperienza con Netflix
in Giappone sia dal successivo ruolo come guida di team in Brasile e
Singapore:
Adesso dico ai colleghi di Netflix che dirigono dipendenti in qualsiasi sede in cui
la cultura è meno diretta che negli Stati Uniti: «Praticate il feedback fin da subito
e spesso. Segnatelo sull’ordine del giorno del maggior numero di meeting
possibile per eliminarne lo stigma. Le primissime volte in cui fornite feedback
menzionate delicatamente piccole cose di facile attuazione. Invece di diminuire
la quantità di momenti di feedback formali aumentateli e al contempo investite
del tempo anche nell’instaurare rapporti. È improbabile che vi siano molti
feedback informali e spontanei, ma potete trarre numerosi benefici dalla
sincerità altruistica inserendo i feedback nell’ordine del giorno e concedendo
alle persone lo spazio per prepararli».

Creare numerosi momenti di feedback formali è la prima lezione che


i manager di Netflix hanno imparato per realizzare una cultura di
sincerità in giro per il mondo. La seconda lezione è…
Imparate a adattare il vostro stile e parlate, parlate,
parlate
Quando Netflix ha aperto una sede in Giappone, Josephine, Greg
e il resto del team dirigenziale erano in stato di massima allerta per
individuare le differenze culturali che potevano influire sull’efficacia
del loro lavoro; sapevano che la cultura giapponese era diversa. Ma
quando Netflix è passata a Singapore le differenze culturali
risultavano meno evidenti e quindi i capi furono meno attenti. Molti
trovarono i colleghi singaporiani, con il loro inglese perfetto e le
passate esperienze lavorative con gli occidentali, così familiari nel
loro approccio che non si preoccuparono troppo della cultura. Ma
poi, lentamente, le differenze cominciarono ad affiorare.
La marketing coordinator Karlyne Wang, passata a Netflix da HBO
Asia nell’ottobre del 2017, ha fornito un esempio molto specifico:
La nostra assistente amministrativa se n’è andata e la sostituisco
temporaneamente io. La settimana scorsa sull’agenda di due miei colleghi
americani di alto livello era segnata una telefonata con un partner esterno. Non
l’avevo programmata io. Gli americani si sono alzati di buon’ora, ma il partner
non ha chiamato.
In seguito i due americani mi hanno contattata separatamente. I loro messaggi
mi hanno reso talmente furibonda che li ho ignorati e non ho risposto. Sono
stata costretta ad andare a fare una passeggiata, durante la quale mi sono
detta: “Cerca di essere il più aperta possibile. Calmati, è il loro modo di scrivere.
Forse non si rendono conto che i loro messaggi risultano sgarbati. Forse non
sanno che effetto le loro parole hanno sulla gente. Queste sono brave persone.
So che lo sono”.

Mentre Karlyne raccontava questa storia divenni sempre più


curiosa di scoprire come fossero stati odiosi questi americani. Forse
non si trattava di un malinteso culturale ma di un semplice
comportamento scorretto. Lei ripescò uno dei messaggi offensivi:
Karlyne – Ci siamo alzati presto per la telefonata ma i partner non si sono fatti
sentire. Avremmo potuto usare quello spazio per un’altra chiamata. Potresti per
favore cercare di chiedere conferma per tutte le telefonate il giorno prima e
cancellarle dall’agenda se vengono annullate?

Ai miei occhi americani questo messaggio non appariva né


sgarbato né inappropriato. Nell’interesse del lavoro lo scrivente
esponeva un problema e una soluzione attuabile. Non rimproverava
Karlyne. Spiegava in quale cambiamento comportamentale sperava
e diceva «per favore». Mi chiedevo se la reazione di Karlyne fosse
culturale o dipendesse da una sua eccessiva suscettibilità.
Mostrai uno screenshot del messaggio a molti altri dipendenti
Netflix singaporiani per ottenerne l’input. Sette su otto concordarono
con la reazione di Karlyne: il messaggio era sgarbato. Uno di loro
era il programmatic manager Christopher Low.
CHRISTOPHER: Per un singaporiano questo messaggio è aggressivo. È molto
autoritario. Ecco la situazione. Fai A. Fai B. Se ricevessi un messaggio del
genere proverei la sensazione che questa persona mi stesse urlando contro. La
parte peggiore è dove scrive: «Avremmo potuto usare quello spazio per un’altra
telefonata». È una frase superflua, la cosa era già sottintesa nella prima
affermazione, menzionarla in maniera esplicita è gratuitamente scortese. Mi
chiederei cosa possa aver provocato una reazione così cattiva.
ERIN: Hai l’impressione che il mittente sia disinteressetamente sincero?
CHRISTOPHER: Credo che l’occidentale pensi: “Ho bisogno di fare questa cosa
in fretta e assicurarmi di essere chiaro, non voglio sprecare minuti inutilmente”.
Ma per un singaporiano equivale a un calcio. Non risulta disinteressato, è
scioccante.
ERIN: Cosa avrebbe potuto fare il mittente per comunicare lo stesso messaggio
senza risultare maleducato o offensivo?
CHRISTOPHER: Avrebbe potuto usare un tono più personale, magari dicendo:
“Ehi, so che lì a Singapore è piena notte, mi spiace farti iniziare la giornata con
una brutta notizia”. Oppure avrebbe potuto non attribuire colpe dicendo: “Non è
dipeso da te, non sei stata tu a organizzare la chiamata”. Avrebbe potuto farlo
sembrare meno un ordine. “So che sei indaffaratissima. Mi chiedo se riusciresti
ad aiutarci con questa faccenda, in futuro.” Sarebbe stato utile aggiungere un
tocco orientato sul rapporto personale, per esempio un emoji amichevole,
magari.

Christopher ha sottolineato che non sono soltanto gli americani a


doversi adattare.
Non fraintendetemi! In veste di dipendenti di un’azienda con il quartier generale
negli Stati Uniti anche noi dobbiamo sforzarci di adattarci. La reazione
immediata del singaporiano potrebbe essere quella di sentirsi paralizzato o
furioso. Ma per avere successo a Netflix dobbiamo modificare la nostra
reazione. Dobbiamo rammentare a noi stessi che in altri paesi questo
comportamento è appropriato e poi avviare un dialogo. Karlyne dovrebbe
prendere il telefono e parlare apertamente con chi le ha inviato il messaggio.
Dovrebbe dire: “Capisco che sia successa questa cosa e ti abbia esasperato,
ma il tuo messaggio mi ha molto turbato”. Potrebbe anche spiegare le differenze
culturali: “Forse è un problema culturale. So che spesso qui a Singapore siamo
meno diretti nel fornire feedback e più sensibili quando li riceviamo”. Con un
dialogo aperto e discussioni trasparenti possiamo vivere la cultura Netflix e al
tempo stesso divenire sempre più abili nel fornire e ricevere feedback insieme
con i nostri colleghi sparsi per il mondo.

Le istruzioni di Chris riassumono la seconda lezione


che abbiamo imparato. Data l’importanza della
sincerità per Netflix i dipendenti con culture meno
dirette devono abituarsi sia a fornire sia a ricevere
feedback con una franchezza a cui potrebbero non
essere avvezzi. Questo richiede di enfatizzare più
volte il modello di feedback «4 A» delineato nel Capitolo 2. Richiede
di parlare apertamente delle differenze culturali e di formare e
assistere i nostri team globali affinché considerino il feedback diretto
non come uno schiaffo ma come un modo per migliorare. Per
esempio, nel nostro ufficio di San Paolo c’è un meeting settimanale
sulla cultura aziendale aperto a qualsiasi dipendente voglia
partecipare. Fornire e ricevere feedback è una delle voci più
frequenti all’ordine del giorno.
Ma imparare a promuovere la sincerità in giro per il mondo non è
una strada a senso unico. Quando si collabora con culture meno
dirette, al quartier generale abbiamo imparato a essere più vigili e a
cercare di calibrare la nostra comunicazione in modo che risulti utile
per il destinatario e non venga respinta solo per come è formulata. I
consigli di Chris sono semplici e chiunque debba fornire feedback a
un collega in una cultura meno diretta dovrebbe seguirli. Siate più
gentili. Sforzatevi maggiormente di non attribuire colpe. State attenti
a dare al feedback la forma di un suggerimento e non di un ordine.
Aggiungete un tocco basato sul rapporto personale come un emoji
sorridente. Sono tutte cose che possiamo fare per rendere i nostri
messaggi più appropriati al contesto entro cui stiamo lavorando.
La lezione più importante che abbiamo imparato è che, a
prescindere dal vostro luogo di provenienza, quando si tratta di
superare differenze culturali conviene parlare, parlare, parlare. Uno
dei modi più efficaci per migliorare nel fornire feedback a una
controparte internazionale è porre domande e mostrarsi curiosi
verso la cultura dell’interlocutore. Se dovete fornire un feedback a
una controparte in un altro paese, chiedete innanzitutto a un collega
fidato originario della stessa nazione: «Questo mio messaggio suona
aggressivo?» e «Qual è l’approccio migliore nella vostra cultura?».
Più domande poniamo e più curiosi ci mostriamo, più bravi
diventeremo tutti nel fornire e ricevere feedback in giro per il mondo.
Allo scopo di fare le domande giuste e capire le risposte che
otteniamo dal mondo è importante ricordare un ultimo principio
interculturale…

Tutto è relativo

Come con ogni aspetto di carattere culturale, quando


si tratta di fornire feedback in giro per il mondo tutto è
relativo. I giapponesi considerano i singaporiani
gratuitamente diretti, gli americani li trovano invece
poco chiari e poco trasparenti. I singaporiani entrati a
Netflix restano scioccati dalla brutale franchezza dei
colleghi americani. Per molti olandesi, al contrario, gli americani a
Netflix non sono particolarmente diretti.
Netflix, nonostante le sue aspirazioni multinazionali, continua ad
avere una cultura largamente americanocentrica. E quando si tratta
di fornire feedback negativi gli americani sono più diretti di quanto
non avvenga in altri contesti culturali, ma notevolmente meno diretti
degli olandesi. La director of public policy olandese, Ise, che ha
cominciato a lavorare per Netflix ad Amsterdam nel 2014, spiega la
differenza in questo modo:
La Cultura Netflix è riuscita a creare un ambiente in cui il feedback è frequente e
attuabile. Eppure quando un americano fornisce un feedback, persino a Netflix,
inizia quasi sempre sottolineando cosa c’è di positivo nel tuo lavoro prima di dirti
quello che vuole davvero dire. Gli americani imparano cose come “Fornisci
almeno tre elementi positivi con ogni elemento negativo” e “Fai notare ai
dipendenti quando fanno le cose bene”. Questo lascia sconcertata una persona
olandese, che vi fornirà feedback positivo o negativo, ma molto probabilmente
non entrambi nella stessa conversazione.

A Netflix Ise ha imparato in fretta che il modo di fornire feedback


che risulterebbe naturale e rilassato nella sua cultura olandese era
troppo diretto per i suoi collaboratori americani:
Donald, il mio collega americano trasferitosi di recente nei Paesi Bassi, doveva
guidare un meeting ad Amsterdam. Sette partner non di Netflix avevano preso
aerei e treni da vari angoli d’Europa per partecipare. Il meeting andò benissimo.
Donald si rivelò eloquente, preciso, persuasivo e palesemente preparato. In
varie occasioni, tuttavia, mi accorsi che gli altri partecipanti volevano
condividere la loro prospettiva ma non avevano l’opportunità di farlo perché lui
parlava troppo.
Dopo il meeting mi disse: «Credo sia andato benissimo. Che impressione hai
avuto?». Quello mi parve il momento ideale per fornire il feedback sincero di cui
ci parlano sempre i capi di Netflix, così mi lanciai: «Stinne è venuta sin qui dalla
Norvegia per partecipare alla riunione, ma tu hai parlato talmente tanto che non
è riuscita a dire una sola parola. Abbiamo chiesto a queste persone di prendere
aerei e treni e poi non hanno avuto il tempo di parlare. Non abbiamo sentito
tutte le opinioni che avrebbero potuto aiutarci. Hai parlato per l’80 per cento del
tempo, rendendo arduo per chiunque altro dire qualcosa».

Stava per passare alla parte del feedback in cui forniva


suggerimenti attuabili per un futuro miglioramento quando Donald
fece qualcosa che secondo Ise è tipico degli americani:
Prima ancora che finissi di parlare lui gemette e parve mortificato. Attribuì una
connotazione decisamente troppo severa al mio feedback, come gli americani
fanno spesso. Disse: «Oddio, mi dispiace tanto di avere rovinato tutto». Ma non
aveva «rovinato tutto». Non era questo che avevo detto. Il meeting era stato un
successo e lui aveva dimostrato di rendersene conto quando aveva
commentato: «È andato benissimo». C’era soltanto questo singolo aspetto che
non era positivo e pensavo che capirlo potesse aiutarlo a migliorare.
È questo che mi esaspera dei miei colleghi americani. Per quanto spesso
forniscano feedback e per quanto siano ansiosi di sentirne, se non cominci
dicendo qualcosa di positivo pensano che l’intera faccenda sia stata un disastro.
Non appena una persona olandese inizia dall’aspetto negativo l’americano
affossa la critica pensando che l’intera cosa sia andata in malora.

Nei suoi ultimi cinque anni a Netflix Ise ha imparato molto su come
fornire feedback a colleghi di altre nazionalità, soprattutto americani:
Ora che capisco meglio queste tendenze culturali fornisco feedback con la
stessa frequenza, ma penso attentamente al destinatario del messaggio e a
come adattare quest’ultimo per ottenere i risultati in cui spero. Con culture meno
dirette inizio cospargendo il terreno con qualche disinvolto commento positivo e
parole di apprezzamento. Se il lavoro è stato nel complesso valido lo sottolineo
subito, in tono entusiasta. Poi passo al feedback con «qualche suggerimento» e
concludo con «Questa è solo la mia opinione, per quel che vale» e «Puoi
prenderla o lasciarla». Questo elaborato balletto è piuttosto divertente dal punto
di vista di un olandese… ma ottiene indubbiamente i risultati desiderati!

Le parole di Ise riepilogano le strategie apprese da Netflix per


promuovere la sincerità quando ha aperto uffici in giro per il mondo.
Quando state guidando un team globale, quando parlate via Skype
con i vostri dipendenti di culture diverse, le vostre parole verranno
ingigantite o rimpicciolite a seconda del contesto culturale del vostro
ascoltatore. Quindi dovete essere consapevoli. Dovete essere
strategici. Dovete essere flessibili. Con un pizzico di informazioni e
un pizzico di sottigliezza potete modificare il feedback per il vostro
interlocutore allo scopo di ottenere i risultati che vi servono.

Personalmente ho molto apprezzato l’approccio


sincero utilizzato da Ise quando ha fornito il feedback
a Donald. Mirava ad aiutare. È stata chiara su quale
comportamento ha ridotto il successo del meeting. Il
feedback era attuabile.
Quello che le è mancato è la sensibilità globale. A
dispetto della sincerità la sua tecnica di feedback ha portato a un
malinteso. Il messaggio che lei voleva comunicare era che il meeting
era stato fantastico e Donald avrebbe dovuto lasciare più spazio agli
altri per rendere il meeting successivo persino migliore. Il modo in
cui ha comunicato il messaggio ha invece indotto Donald a credere
che il meeting fosse stato un disastro. Se lui fosse stato brasiliano o
singaporiano avrebbe probabilmente lasciato la riunione
aspettandosi di essere licenziato la settimana seguente.
E questo ci porta a…

L’ultimo puntino… per ora


Quando fornite feedback a chi proviene dalla vostra stessa cultura
usate l’approccio «4 A» illustrato nel Capitolo 2, ma quando fornite
feedback in giro per il mondo aggiungete una quinta A.

Le «4 A» sono:

Aim to assist (Mirate ad aiutare)


Actionable (Attuabile)
Appreciate (Mostrate apprezzamento)
Accept or decline (Accettate o respingete)

Diventano 5 con l’aggiunta di:

Adapt (Adattate) il vostro modo di comunicarlo e la vostra


reazione alla cultura con cui state lavorando per ottenere i
risultati che vi servono.

Abbiamo ancora molto da imparare su come integrare la nostra


cultura aziendale con il crescente numero di nostri uffici sparsi per il
mondo. Durante la maggior parte dei QBR abbiamo almeno una
discussione imperniata sulla cultura aziendale. Visto che la
maggioranza della nostra crescita futura avverrà al di fuori degli Stati
Uniti concentriamo sempre di più queste discussioni su come far
funzionare i nostri valori in un contesto globale. Quello che abbiamo
imparato è che per integrare la vostra cultura aziendale in giro per il
mondo dovete, soprattutto, essere umili, essere curiosi, e dovete
ricordarvi di ascoltare prima di parlare e di imparare prima di
insegnare. Con questo approccio non potrete fare a meno di
diventare ogni giorno più efficienti in questo mondo multiculturale
sempre affascinante.
▶ CONCETTI CHIAVE DEL CAPITOLO 10
Mappate la vostra cultura aziendale e confrontatela con le culture dei paesi in
cui vi state espandendo. Per una cultura di libertà e responsabilità la sincerità
richiederà un’attenzione supplementare.
In paesi meno diretti attuate meccanismi di feedback più formali e inserite il
feedback nell’agenda con maggiore frequenza, perché gli scambi informali
avverranno meno spesso.
Con culture più dirette parlate apertamente delle differenze culturali così che
il feedback venga recepito come nelle intenzioni.
Fate dell’ADATTABILITÀ la quinta A del vostro modello di sincerità. Discutete
apertamente di cosa significa la sincerità in diverse parti del mondo.
Collaborate per scoprire come entrambe le parti possano adattarsi per dare
vita a questo valore.
CONCLUSIONE
Vicino alla casa in cui sono cresciuta a Minneapolis
c’è un lago dalla circonferenza di quasi cinque
chilometri chiamato Bde Maka Ska. Nei caldi sabati
estivi orde di cittadini ne affollano le piste da jogging, i
pontili e le spiagge. Nonostante l’affollamento è
sorprendentemente tranquillo perché ci sono
parecchie regole a guidare le azioni di tutti. I pedoni non possono
camminare sulle piste ciclabili. Le biciclette procedono solo in senso
orario. Non si può fumare da nessuna parte. Non si può nuotare oltre
le boe contrassegnate. Rollerblade e monopattini possono accedere
solo alla pista ciclabile e non a quella da jogging. I podisti possono
usare solo la pista a loro destinata. Queste regole sono ben note e
rigorosamente osservate, creando un rifugio di organizzazione e
quiete.
Se Netflix ha una cultura di libertà e responsabilità, il Bde Maka
Ska ha una cultura di regole e procedure.
Per quanto questa cultura «regole e procedure» possa risultare
pacifica, sono presenti anche alcuni svantaggi. Se avete bisogno di
raggiungere in bicicletta un punto che richiederebbe solo un breve
tragitto in senso antiorario non potete farlo, dovete procedere in
senso orario lungo tutto il lago. Se volete attraversare il lago a nuoto
verrete fermati da un bagnino su una barca e riportati a riva. Non
importa se sapete nuotare bene: non è consentito. La cultura è stata
sviluppata per fornire pace e sicurezza al gruppo più ampio, non
libertà al singolo.
«Regole e procedure» è un paradigma così familiare per
coordinare il comportamento di gruppo che non ha quasi bisogno di
spiegazioni. Cominciando dall’asilo, quando la signora Sanders ha
fatto sedere tutti i bambini di cinque anni sul tappeto verde e
spiegato dettagliatamente cosa eravate autorizzati e non autorizzati
a fare, stavate già imparando regole e procedure. In seguito, quando
avete accettato quel primo lavoro sparecchiando i tavoli nel locale
specializzato in noodles accanto al centro commerciale e avete
imparato quali colori di calzini potevate e non potevate mettere sotto
la divisa e quanto sarebbe stato detratto dal vostro stipendio se
mangiavate un biscotto durante il turno, il vostro apprendistato in
regole e procedure è proseguito.
L’approccio «regole e procedure» rappresenta da secoli il modo
principale per coordinare il comportamento di gruppo. Ma questo
non è l’unico modo e non è soltanto Netflix a usare un metodo
diverso. Da diciannove anni abito a nove minuti di auto dall’Arc de
Triomphe di Parigi. Salendo in cima al monumento si gode di una
vista spettacolare sulla celebre Avenue des Champs-Elysées, la
torre Eiffel e la basilica del Sacro Cuore, ma la cosa più
impressionante è il gigantesco anello di traffico che gira intorno
all’arco, noto come «l’Étoile» o «la Stella». A volte Reed definisce
libertà e responsabilità come operare sul ciglio del caos. Il traffico
dell’Étoile ne è una perfetta rappresentazione.
Ogni minuto centinaia di auto sgorgano dai dodici viali a più corsie
che convergono nella rotonda a dieci corsie priva di segnaletica. Le
moto sfrecciano fra gli autobus a due piani. I taxi si immettono
aggressivamente nel traffico per far scendere i turisti nel centro. Le
auto si lanciano, spesso senza mettere la freccia, verso il viale
desiderato. Nonostante l’enorme massa di veicoli e persone c’è
soltanto un’unica regola basilare che guida tutto il traffico: una volta
che siete sulla rotonda dovete dare la precedenza a quanti entrano
da una qualsiasi delle dodici strade che vi sfociano. A parte questo
dovete sapere dove volete andare, concentrarvi sulla meta e usare
al meglio la vostra capacità di giudizio. Con ogni probabilità
arriverete a destinazione rapidamente e incolumi.
La prima volta che salite in cima all’Arc de Triomphe e vedete il
tumulto sottostante, i vantaggi di operare con così poche regole non
appaiono evidenti. Perché non collocare una dozzina di semafori
intorno alla rotonda per costringere le auto ad aspettare il proprio
turno? Perché non contrassegnare le corsie e fornire severe
restrizioni su chi può spostarsi dove in quale momento?
Secondo mio marito Eric, che è francese e gira in auto intorno
all’Arc de Triomphe quasi quotidianamente da decenni, ciò
rallenterebbe tutto. «L’Étoile è straordinariamente efficiente. Per un
guidatore esperto non esiste modo più rapido per andare dal punto A
al punto B», sostiene. «Inoltre, il sistema consente un’estrema
flessibilità. Potresti immetterti nella rotonda con l’intenzione di uscire
sugli Champs Elysées solo per vedere un autobus turistico che
blocca la strada. Non c’è bisogno di farsi prendere dal panico. Puoi
cambiare tragitto sul momento. Puoi uscire su Avenue de Friedland
o Avenue Hoche, oppure puoi continuare a percorrere l’Étoile
qualche altra volta finché l’autobus non è passato oltre. Quasi
nessun altro metodo ti permette di cambiare tragitto così in fretta
durante il viaggio.»
Ora che avete letto questo libro avete visto che, quando guidate
un team o dirigete un’azienda, dovete scegliere fra due alternative.
Potete usare il metodo del Bde Maka Ska, lavorando per controllare i
movimenti dei vostri dipendenti con regole e procedure, oppure
potete attuare una cultura di libertà e responsabilità scegliendo
velocità e flessibilità e offrendo una maggiore libertà ai vostri
dipendenti. Ognuno dei due approcci presenta dei vantaggi. Quando
avete iniziato questo libro sapevate già coordinare un gruppo di
persone tramite regole e procedure, ora sapete anche come farlo
tramite libertà e responsabilità.

Quando scegliere regole e procedure?

La rivoluzione industriale ha alimentato la maggior


parte delle economie di successo nel mondo negli
ultimi trecento anni, quindi è naturale che i paradigmi
di management delle manifatture ad alto volume di
produzione e basso livello di errori siano arrivate a
dominare le pratiche organizzative del business. In un
ambiente manifatturiero si cerca di eliminare la variazione e la
maggior parte degli approcci di management sono stati elaborati con
questo obiettivo in mente. È davvero un segno di eccellenza quando
un’azienda riesce a produrre un milione di dosi di penicillina o
diecimila automobili identiche senza errori.
Forse è per questo che, durante l’era industriale, molte delle
migliori aziende hanno operato come orchestre sinfoniche, mirando
a sincronicità, precisione e perfetta coordinazione. Invece degli
spartiti e di un direttore sono state procedure e policy a guidare il
loro lavoro. Anche oggi, se state dirigendo una fabbrica, gestendo un
ambiente ad alto rischio sicurezza, o volete che lo stesso oggetto
venga prodotto identico con grande affidabilità, una sinfonia di
«regole e procedure» rappresenta la via da imboccare.
Persino a Netflix abbiamo sacche dell’azienda in cui sicurezza e
prevenzione errori sono i nostri obiettivi primari e lì delimitiamo
un’area per assemblare una piccola orchestra sinfonica che suona
«regole e procedure» con un ritmo perfetto.
Si prendano, per esempio, la sicurezza dei dipendenti e le
molestie sessuali. Quando si tratta di proteggere i nostri dipendenti
dagli infortuni o dalle molestie investiamo nella prevenzione errori
(formazione) e nelle hotline; abbiamo salde procedure per garantire
che si indaghi adeguatamente su tutte le denunce e usiamo principi
di miglioramento procedure per far scendere a zero il tasso di
incidenti.
Similmente, in altri momenti in cui commettere un errore
causerebbe una catastrofe scegliamo regole con procedure. Un
esempio sono le informazioni finanziarie che ogni trimestre
comunichiamo a Wall Street. Immaginate che pubblichiamo i nostri
dati finanziari e poi dobbiamo fare marcia indietro e spiegare:
«Aspettate, ci siamo sbagliati. I profitti sono inferiori a quanto
abbiamo dichiarato». Sarebbe un disastro. Un altro esempio è la
privacy dei dati dei nostri abbonati. E se qualcuno hackerasse il
nostro sistema, rubasse informazioni su quello che stanno
guardando i nostri singoli utenti e le pubblicasse su Internet?
Sarebbe una catastrofe.
In casi scelti come questi, in cui la prevenzione degli errori è
palesemente più importante dell’innovazione, abbiamo numerosi
controlli, processi e procedure per assicurarci di non combinare
pasticci. In questi casi vogliamo che Netflix sia come un ospedale
dove ci sono cinque persone a verificare che il chirurgo stia
operando il ginocchio giusto. Quando un errore sfocerebbe in un
disastro scegliamo regole con procedure.
Tenendo bene a mente tutto questo potete considerare con cura il
vostro obiettivo prima di decidere quando optare per libertà e
responsabilità e quando invece regole con procedure
rappresenterebbe una scelta migliore. Ecco una serie di domande
che potete porvi per scegliere il giusto approccio:
State lavorando in un settore in cui la salute o la sicurezza dei
vostri dipendenti o clienti dipendono dal fatto che tutto fili liscio?
Se sì, scegliete regole e procedure.
Un errore avrebbe conseguenze catastrofiche? Scegliete regole
e procedure.
State gestendo un ambiente manifatturiero in cui avete bisogno
di fabbricare un prodotto costantemente identico? Scegliete
regole e procedure.

Se state gestendo un pronto soccorso, testando aerei, dirigendo


una miniera di carbone o consegnando medicinali d’emergenza a
cittadini anziani, regole con procedure rappresenta la strada da
imboccare. Questo è da secoli il modello di coordinamento scelto
nella maggior parte delle organizzazioni e, per alcune, continuerà a
rappresentare la scelta migliore.
Ma quanti tra voi stanno invece operando nell’economia creativa,
dove innovazione, velocità e flessibilità sono le chiavi del successo,
dovrebbero considerare l’ipotesi di scartare l’orchestra per
concentrarsi invece sul suonare un tipo diverso di musica.

È jazz, non una sinfonia


Persino durante l’era industriale c’erano sacche dell’economia,
come le agenzie pubblicitarie, in cui il pensiero creativo portava al
successo e che sono riuscite a operare sul ciglio del caos. Tali
organizzazioni costituivano solo un’esigua percentuale
dell’economia. Ma adesso, con la crescente importanza della
proprietà intellettuale e dei servizi creativi, la percentuale
dell’economia che dipende dal fatto di alimentare inventiva e
innovazione è molto più alta e in continuo aumento. Eppure la
maggior parte delle aziende segue ancora i paradigmi della
rivoluzione industriale che hanno dominato la creazione di ricchezza
negli ultimi trecento anni.
Nell’odierna era dell’informazione, in molte aziende e molti team
l’obiettivo non è più la prevenzione degli errori e la replicabilità, anzi,
è la creatività, la velocità e l’agilità. Nell’era industriale lo scopo era
ridurre al minimo la variazione, ma nelle aziende creative odierne è
essenziale massimizzarla. In queste situazioni il rischio più grande
non è commettere un errore o perdere uniformità, bensì non riuscire
ad attirare i talenti migliori, a inventare nuovi prodotti o a cambiare
rapidamente direzione quando l’ambiente si trasforma. Uniformità e
ripetitività hanno maggiori probabilità di annientare il pensiero
innovativo che non di portare profitti alla vostra azienda. Una miriade
di piccoli errori, per quanto talvolta dolorosi, aiutano l’organizzazione
a imparare in fretta e rappresentano una componente essenziale del
ciclo di innovazione. In tali situazioni regole e procedure non
rappresentano più la risposta migliore. Non mirate a un’orchestra
sinfonica. Lasciatevi alle spalle direttore d’orchestra e spartiti. Create
invece un gruppo jazz.
Il jazz enfatizza la spontaneità individuale. I musicisti conoscono la
struttura generale del brano ma hanno la libertà di improvvisare, fare
riff, creare musica incredibile.
Naturalmente non potete limitarvi a eliminare le regole e le
procedure, dire al vostro team di essere una jazz band e pretendere
che lo diventi. Senza le giuste condizioni si scatenerà il caos. Ma
adesso, dopo aver letto questo libro, avete una mappa. Una volta
che cominciate a sentire la musica restate concentrati. La cultura
non è qualcosa che potete costruire e poi ignorare. A Netflix
discutiamo costantemente della nostra cultura e ci aspettiamo che
continui a evolversi. Per creare un team che sia innovativo, rapido e
flessibile, non siate troppo rigidi. Incoraggiate il cambiamento
costante. Operate un po’ più vicino al ciglio del caos. Non fornite
spartiti né costruite un’orchestra sinfonica. Impegnatevi nel creare un
ambiente più simile al jazz e assumete il tipo di dipendenti che
desiderano far parte di una band capace di improvvisare. Quando
tutti gli elementi si uniscono, la musica è magnifica.
RINGRAZIAMENTI
In tutto questo libro abbiamo esplorato il valore della densità di
talento e della sincerità. Anche la sua creazione si è basata su
questi due elementi.
Un sentito grazie al nostro straordinario dream team, a partire
dall’agente letteraria Amanda «Binky» Urban, che ha trovato
promettente un precoce abbozzo del libro e ci ha guidato nella
creazione della proposta del volume e oltre. Grazie alla nostra
editrice alla Penguin, la leggendaria Ann Godoff, che ha sempre
creduto fermamente in questo progetto e lo ha guidato dal suo primo
respiro al completamento.
Grazie per l’aiuto editoriale a David Champion, che ha amato il
manoscritto come se fosse suo e ha editato ogni capitolo, spesso
diverse volte, con la massima cura finché non era all’altezza dei suoi
esigentissimi standard. Grazie a Des Dearlove e Stuart Crainer che
hanno avuto il coraggio di fornire feedback severi e sinceri in un
momento in cui eravamo in difficoltà. La loro franchezza potrebbe
benissimo aver salvato questo libro. Grazie a Elin Williams, che ha
fornito suggerimenti sulle versioni iniziali dei capitoli prima che
fossimo pronti a mostrarle a chiunque altro, e in seguito ha limato lo
stile, eliminando paragrafi superflui e aiutandoci a mantenere nitidi i
nostri messaggi. Un grazie speciale a Patty McCord, che è stata
fondamentale per lo sviluppo della cultura aziendale di Netflix e ha
passato ore e ore con noi, raccontandoci più volte aneddoti risalenti
agli inizi.
Un gigantesco grazie ai più di duecento dipendenti Netflix, passati
e presenti, che hanno gentilmente condiviso con noi le loro storie
che sono poi diventate le fondamenta di questo libro. È grazie alla
loro narrazione generosa, trasparente e pittoresca che questo libro
ha preso vita. Un grazie speciale ai colleghi di Netflix Richard Siklos,
Bao Nguyen e Tawni Argent, che sono stati parte integrante del
progetto sin dai primissimi giorni.
È naturalmente un classico ringraziare i familiari alla
fine di un libro, ma un paio dei miei hanno svolto un
ruolo più attivo di quanto non succeda di solito. Grazie
a mia madre, Linda Burkett, che ha meticolosamente
vagliato ogni stesura di ogni capitolo durante lo
sviluppo del manoscritto, eliminando frasi sconnesse,
trovando virgole smarrite e in generale rendendo più leggibili i
passaggi. Grazie ai miei figli, Ethan e Logan, che durante l’intero
processo di stesura hanno fatto di ogni giorno una gioia. Un enorme
grazie a mio marito e socio d’affari Eric, che non solo ha fornito
costante amore e sostegno durante l’intera stesura del libro, ma ha
passato centinaia di ore a leggere, rileggere e rileggere ancora ogni
sezione, fornendo costanti consigli e suggerimenti.

Soprattutto grazie alle centinaia di manager di Netflix


che nel corso degli ultimi vent’anni hanno contribuito
allo sviluppo della nostra cultura aziendale. Questo
libro non descrive qualcosa che ho scoperto durante
profondi e tranquilli momenti di riflessione, ma
qualcosa che abbiamo scoperto tutti insieme,
attraverso energici dibattiti, infinite esplorazioni e una serie di
tentativi ed errori. È grazie alla vostra creatività, al vostro coraggio e
alla vostra intraprendenza che la Cultura Netflix è quella che è oggi.
BIBLIOGRAFIA SCELTA
Introduzione
Amy C. Edmondson, The Fearless Organization: Creating
Psychological Safety in the Workplace for Learning, Innovation,
and Growth, Wiley, Hoboken 2019.
Glassdoor Survey Finds Americans Forfeit Half of Their Earned
Vacation/Paid Time Off, «Glassdoor», About Us, 24 maggio 2017,
www.glassdoor.com/about-us/….
Netflix Ranks as #1 in the Reputation Institute 2019 US RepTrak
100, «Reputation Institute», 3 aprile 2019,
www.reputationinstitute.com/about-ri/….
Timothy Stenovec, One Huge Reason for Netflix’s Success,
«HuffPost», 6 dicembre 2017, www.huffpost.com/entry/….

Prima create densità di talento…


1. Un ottimo posto di lavoro significa colleghi
fantastici
Will Felps et al., How, When and Why Bad Apples Spoil the Barrel:
Negative Group Members and Dysfunctional Groups, in
«Research in Organizational Behavior», 27 (2006), pp. 175-222.
370: Ruining it for the Rest of Us, sito This American Life, 14
dicembre 2017, www.thisamericanlife.org/370/….

Poi aumentate la sincerità…


2. Dite ciò che pensate (mantenendo una certa
positività)
Daniel Coyle, The Culture Code: The Secrets of Highly Successful
Groups, Bantam Books, New York 2019.
Charlotte Edwardes, Meet Netflix’s Ted Sarandos, the Most Powerful
Person in Hollywood, «Evening Standard», 9 maggio 2019,
www.standard.co.uk/tech/….
Thomas Goetz, Harnessing the Power of Feedback Loops, «Wired»,
19 giugno 2011, www.wired.com/2011/….
Jack Zenger e Joseph Folkman, Your Employees Want the Negative
Feedback You Hate to Give, sito «Harvard Business Review», 15
gennaio 2014. hbr.org/2014/01/your-employees-want-the-
negative-feedback-you-hate-to-give.

Ora cominciate a eliminare i controlli…


3a. Eliminate la policy relativa alle ferie
Rich Bellis, We Offered Unlimited Vacation For One Year. Here’s
What We Learned, sito «Fast Company», 2 novembre 2015,
www.fastcompany.com/3052926/….
Ryan Blitstein, At Netflix, Vacation Time Has No Limits, sito «The
Mercury News», 21 marzo 2007, www.mercurynews.com/2007/….
Richard Branson, Why We’re Letting Virgin Staff Take as Much
Holiday as They Want, sito Virgin, 27 aprile 2017,
www.virgin.com/richard-branson/….
Jermaine Haughton, «Unlimited Leave»: How Do I Ensure Staff
Holidays Don’t Get out of Control?, 16 giugno 2015,
www.managers.org.uk/insights/….
Josh Millet, Is Unlimited Vacation a Perk or a Pain? Here’s How to
Tell, sito CNBC, 26 settembre 2017,
https://www.cnbc.com/2017/09/26/is-unlimited-vacation-a-perk-or-
a-pain-heres-how-to-tell.html.

Ora continuate a eliminare i controlli…


3b. Eliminate approvazioni per trasferte e spese
Gerald J. Pruckner e Rupert Sausgruber, Honesty on the Streets: A
Field Study on Newspaper Purchasing, «Journal of the European
Economic Association», 11 (2013), n. 3, pp. 661-679.
Aumentate la densità di talento…
4. Pagate il massimo livello retributivo per ciascun
individuo
Dan Ariely, What’s the Value of a Big Bonus?, sito di Dan Ariely, 20
novembre 2008, danariely.com/2008/11/20/what’s-the-value-of-a-
big-bonus/.
Cynthia Kong, Quitting Your Job, sito di Robert Half, 9 luglio 2018,
www.roberthalf.com/blog/….
Moira Lawler, When to Switch Jobs to Maximize Your Income, sito
Monster.com, https://www.monster.com/career-
advice/article/switch-jobs-earn-more-0517.
John Lucht, Rites of Passage at $100,000 to $1 Million+: Your
Insider’s Strategic Guide to Executive Job-Changing and Faster
Career Progress, The Viceroy Press, New York 2014.
Clive Thompson, Coders: Who They Are, What They Think and How
They Are Changing Our World, (Bill Gates, citato nel Capitolo 6),
Picador, London 2019.
Ben Luthi, Does Job Hopping Increase Your Long-Term Salary?, sito
Chime, 4 ottobre 2018, www.chime.com/2018/….
H. Sackman et al., Exploratory Experimental Studies Comparing
Online And Offline Programing Performance, in «Communications
of the ACM», gennaio 1968, pp. 3-11,
https://dl.acm.org/doi/10.1145/362851.362858.
James Shotter, Laura Noonan e Ben McLannahan, Bonuses Don’t
Make Bankers Work Harder, Says Deutsche’s John Cryan, sito
CNBC, 25 novembre 2015, www.cnbc.com/2015/….

Aumentate la sincerità…
5. Aprite i registri contabili
Elliot Aronson et al., The Effect of a Pratfall on Increasing
Interpersonal Attractiveness, «Psychonomic Science», 4 (1966), n.
6, pp. 227-228.
Brené Brown, Daring Greatly: How the Courage to Be Vulnerable
Transforms the Way We Live, Love, Parent, and Lead, Penguin
Random House Audio Publishing Group, New York 2017 (tr. it. di
P. Bassotti, Osare in grande: come il coraggio della vulnerabilità
trasforma la nostra vita in famiglia, in amore e sul posto di lavoro,
Ultra, Roma 2017).
A. Bruk, S.G. Scholl e H. Bless, Beautiful Mess Effect: Self–other
Differences in Evaluation of Showing Vulnerability, «Journal of
Personality and Social Psychology», 115 (2018), n. 2, pp. 192-
205, https://doi.org/10.1037/pspa0000120.
Georgette Jasen, Keeping Secrets: Finding the Link Between Trust
and Well-Being, «Columbia News», 19 febbraio 2018,
news.columbia.edu/news/keeping-secrets-finding-link-between-
trust-and-well-being.
A. Mukund e A. Neela Radhika, SRC Holdings: The «Open Book»
Management Culture, CLEO, sito Rutgers, gennaio 2004,
https://cleo.rutgers.edu/articles/src-holdings-the-open-book-
management-culture/.
Lisa Rosh e Lynn Offermann, Be Yourself, but Carefully, «Harvard
Business Review», ottobre 2013, hbr.org/2013/10/be-yourself-but-
carefully.
Michael L. Slepian et al., The Experience of Secrecy, «Journal of
Personality and Social Psychology», 113 (2017), n. 1, pp. 1-33.
Emily Esfahani Smith, Your Flaws Are Probably More Attractive
Than You Think They Are, «The Atlantic», 9 gennaio 2019,
https://www.theatlantic.com/health/archive/2019/01/beautiful-
mess-vulnerability/579892.

Ora eliminate altri controlli…


6. Non servono approvazioni per decidere
Helen Daly, Black Mirror Season 4: Viewers RAGE over “Creepy
Marketing” Stunt “Not Cool”, sito Express.co.uk, 31 dicembre
2017, www.express.co.uk/showbiz/….
Jon Fingas, Maybe Private “Black Mirror” Messages Weren’t a Good
Idea, Netflix, sito Engadget, 29 dicembre 2017,
https://www.engadget.com/2017-12-29-maybe-private-black-
mirror-messages-werent-a-good-idea-netfl.html.
Malcolm Gladwell, Outliers: Why Some People Succeed and Some
Don’t, Little Brown & Co., New York 2008 (tr. it. Fuori classe. Storia
naturale del successo, Mondadori 2009).
Not Seen on SNL: Parody of the Netflix/Qwikster Apology Video, sito
The Comic’s Comic, 3 ottobre 2011,
http://thecomicscomic.com/2011/10/03/not-seen-on-snl-parody-of-
the-netflixqwikster-apology-video.

Aumentate al massimo la densità di talento…


7. Il Keeper Test
Kurt Eichenwald, Microsoft’s Lost Decade, «Vanity Fair», 24 luglio
2012,
https://www.vanityfair.com/news/business/2012/08/microsoft-lost-
mojo-steve-ballmer.
Jodi Kantor e David Streitfeld, Inside Amazon: Wrestling Big Ideas in
a Bruising Workplace, «The New York Times», 15 agosto 2015,
www.nytimes.com/2015/….
Shalini Ramachandran e Joe Flint, At Netflix, Radical Transparency
and Blunt Firings Unsettle the Ranks, «The Wall Street Journal»,
25 ottobre 2018, www.wsj.com/articles/….
Society for Human Resources and Management, Benchmarking
Service, sito SHRM, dicembre 2017, https://www.shrm.org/hr-
today/trends-and-forecasting/research-and-
surveys/Documents/2017-Human-Capital-Benchmarking.pdf.
Staff di «The Week», Netflix’s Culture of Fear, «The Week», 3
novembre 2018, www.theweek.com/articles/….

Aumentate al massimo la sincerità…


8. Un circolo di feedback
A. A. Milne e Ernest H. Shepard, The House at Pooh Corner, E.P.
Dutton & Company, New York 2018 (tr. it. di L. Spagnol, La strada
di Winnie Puh, Salani, Milano 2019).
Ed eliminate quasi tutti i controlli!
9. Guidate con il contesto, non con il controllo
Staff di Fast Company Staff, The World’s 50 Most Innovative
Companies of 2018, «Fast Company», 20 febbraio 2018,
www.fastcompany.com/most-innovative-companies/….
Antoine de Saint-Exupéry et al., The Wisdom of the Sands,
University of Chicago Press, Chicago 1979.
Vitality Curve, Wikipedia, Wikimedia Foundation, 5 novembre 2019,
en.wikipedia.org/wiki/Vitality_curve.

10. Apritevi al mondo!


Erin Meyer, The Culture Map: Breaking through the Invisible
Boundaries of Global Business, PublicAffairs, New York 2014.

Per vedere le mappe presentate in questo capitolo e per creare le


proprie mappe culturali aziendali si veda www.erinmeyer.com/tools.
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