Teoria e pratica
Michael Bonner
Introduzione
Con il termine jihad - dalla radice araba J.H.D. che denota lo “sforzo” - si intende lo sforzo tanto personale
quanto collettivo speso sulla via di Dio. Quando è accompagnato dalla frase fi sabil Allah, “sulla via di Dio”
(la frase è spesso sottintesa), jihad significa “combattere in nome di Dio”.
“Jihad” si riferisce prima di tutto ad un corpus di dottrina giuridica: tutti i manuali di diritto islamico classico
e la maggior parte delle grandi collezioni di hadith contengono un Kitab al-jihad (Libro del jihad). Benché gli
aspetti e i temi di base fossero presenti fin dalle origini, ad es. nel Corano e nei materiali della tradizione,
per Bonner il jihad quale dottrina e insieme di pratiche emerse solo verso la fine del sec. VIII a partire dai
dibattiti dei giuristi, a volte in disaccordo tra loro su varie questioni. In tal senso Bonner preferisce parlare al
plurale di “origini” del jihad. Una riflessione sul jihad deve tuttavia andare oltre l’aspetto giuridico
indagando le intenzioni degli individui che la compiono, la mobilitazione militare e l’autorità politica.
Ci troviamo dunque di fronte ad una nozione complessa che va indagata a partire dai diversi contesti storici
e geografici in cui è emersa. Si tratta però di un filo rosso nell’Islam fin dalle origini nonostante la più tarda
elaborazione dottrinale.
Nei materiali della tradizione e nei manuali di diritto, guerra e jihad vengono talvolta sovrapposti, talvolta
separati. La nozione di guerra è insita a quella di jihad ma le due non vanno confuse.
L’Islam nacque in un contesto sociale in cui la guerra - o almeno la pratica della violenza armata più o meno
organizzata (razzie etc.) – era un aspetto normale della vita quotidiana. Il valore militare era considerato la
virtù principale, seguito solo dalla generosità. Alcune parole arabe strettamente legate al jihad sono: ribat
(il fare guerra difensiva o la fortificazione dove si svolge questo tipo di guerra), ghazw o ghaza (razzia), qital
(il combattere), harb (guerra/combattimento, termine spesso descrittivo e meno connotato
ideologicamente). Questi termini, tuttavia, coprono spazi semantici molto ampi con significati che si
sovrappongono l’uno all’altro o che cambiano in momenti diversi nello spazio e nel tempo.
I materiali della tradizione, specie gli hadith, oppongono al “jihad autentico” il “mero combattere”
intrapreso senza preoccuparsi dei comandamenti divini e per amore dei beni terreni quali la gloria, il
bottino, il potere. Nella sua articolazione matura di fine sec. VIII, il jihad esortava i credenti a ottenere dei
meriti agli occhi di Dio attraverso lo sforzarsi e il fare guerra. Ciò non vuol dire però che la dottrina del jihad
avesse fondamentalmente degli obiettivi pratici o dei precisi avversari. Al contrario, tendeva a guardare
indietro nel tempo cercando di trovare dei modelli di comportamento in un passato idealizzato.
Chi è il nemico?
La risposta varia notevolmente nel tempo e nello spazio se si considerano i molteplici significati del termine
jihad, le diverse ramificazioni dell’Islam, il disaccordo tra i giuristi delle varie scuole di diritto. La tradizione
però individua due aspetti, uno “esterno” e uno “interno”, insiti alla nozione di jihad e presenti in eguale
misura fin dalle origini, anche nel Corano:
1. il jihad minore, rivolta verso l’esterno, è un’attività di questo mondo che comprende il
combattimento fisico dei nemici mosso dal “dovere” di diffondere l’Islam;
2. il jihad maggiore, o interiore, è una lotta contro il proprio io volta ad allontanare le cattive
inclinazioni personali, alla purificazione, alla ricerca del merito e della benedizione divina.
Chi detiene il potere?
La giurisprudenza musulmana delle origini fornisce una risposta: l’imam/califfo ovvero il capo dell’intera
comunità religiosa e politica musulmana. È necessaria la sua autorizzazione e la sua guida nelle operazioni
militari sia difensive che offensive.
Dipende da cosa si intende per giustizia. Il concetto di “guerra giusta” ha una lunga tradizione in Occidente;
quello di “guerra santa” invece deriva dalla dottrina e dall’esperienza cristiane, specialmente in relazione
alle crociate. È interessante notare come la maggior parte dei giuristi musulmani non prenda in
considerazione questioni di “giustizia” nella pratica del jihad in quanto ogni manifestazione di jihad
autentica è necessariamente santa e giusta. Furono i filosofi del Medioevo islamico, non i giuristi, a
discutere della guerra in termini di giustizia e ingiustizia, spesso distinguendo tra “guerra di giustizia” e
“guerra di jihad”.
La questione se il jihad debba essere una pratica individuale o collettiva è stata centrale per i giuristi in
quanto rispecchiava dei problemi concreti che i governi e i comandanti degli eserciti islamici dovettero
affrontare.
Una recente analisi che fa luce sul rapporto tra guerra e jihad, tra jihad maggiore e minore, tra jihad
individuale e collettiva, è quella proposta da Noth che individua due componenti insite alla nozione di jihad:
“guerra santa” e “lotta santa”. La guerra contro i nemici esterni deve impegnare la comunità musulmana
sotto il comando dell’imam/califfo perché questo tipo di sforzo bellico richiede risorse e struttura
organizzativa (guerra santa). Il jihad non può però ridursi a questo in quanto tale attività coinvolge anche
individui che si offrono come volontari, mossi dal desiderio di compiere atti meritori agli occhi di Dio (lotta
santa).
I. Il Corano e l’Arabia
Il Corano è sempre stato la fonte più importante della dottrina e della pratica del jihad, benché mai l’unica.
Nel Corano i termini arabi che derivano dalla radice J.H.D compaiono 41 volte, dei quali solo 10 si
riferiscono chiaramente alla condotta di guerra. Non sono dunque così numerosi. Nel Corano il termine
jihad si riferisce non tanto alla guerra quanto al discutere e allo sforzarsi con tutta la propria persona e le
proprie ricchezze in nome di Dio e della sua causa. Questo atteggiamento può includere il combattimento
vero e proprio, ma nella maggior parte dei casi non è ovvio che sia quello il significato reale del testo.
Nonostante ciò il combattere e il fare guerra costituiscono un tema centrale nel Corano.
Raccogliendo tutti i passaggi coranici che trattano della guerra e del jihad, ad una prima lettura emergono
difficoltà e ovvie contraddizioni. Le tematiche più importanti a riguardo sono le seguenti:
«Uccidete gli idolatri ovunque li troviate. Prendeteli, assediateli e tendete loro ogni sorta di insidie»;
Per far fronte a queste difficoltà riguardo la guerra e il jihad sono state adottate dagli storici e dai giuristi
diverse impostazioni e due di queste, in contrasto tra loro, sono le principali:
1. l’impostazione diacronica consiste nel collegare i vari passaggi coranici sul jihad, nell’ordine
tematico in cui sono messi qui sopra, alla narrazione cronologica dei racconti della comunità delle
origini e dei materiali della tradizione, specialmente Sira e maghazi. Questa presenta però
importanti limiti: a) con la teoria dell’abrogazione si finisce per considerare solo i versetti della
spada; b) risulta praticamente impossibile collocare con sicurezza gli allusivi versetti coranici sulla
guerra ai racconti sul profeta e sulla comunità delle origini;
2. l’impostazione sincronica consiste nell’identificare nel materiale coranico dei modelli che
rispecchiano e formano dottrine, motivazioni e visioni del mondo coerenti. Secondo Bonner però
sviluppare una dottrina coerente non è l’obiettivo del Corano.
Bonner propone dunque un’analisi tematica che consideri lo sforzo bellico e il jihad nel Corano alla luce
dell’importanza attribuita a due tematiche complementari: dono e reciprocità da un lato, lotta e
ricompensa dall’altro. Il Corano infatti esorta ripetutamente i credenti a dare generosamente e a spendere
le loro vite e i loro beni “sulla via di Dio”.
Dono e reciprocità
Gli atti di generosità avevano un’importanza enorme nell’Arabia preislamica: chiunque fosse in possesso di
un surplus economico aveva l’obbligo di donarlo ad una persona di rango sociale inferiore. Nel Corano Dio
fa dono ai credenti del suo surplus, un dono che essi non potranno mai ricambiare e che quindi li obbliga a
imitare il suo gesto donando a loro volta ai poveri e ai bisognosi. La reciprocità e la solidarietà sono i
principi che regolano l’economia coranica. Nel rapporto tra donatore e ricevente, così come in quello tra
Dio e credente, non ci si aspetta mai che il dono venga reso al donatore originale.
Lotta e ricompensa
Nel Corano la ricompensa divina è offerta gratuitamente, ma Dio calcola il valore del premio basandosi sullo
sforzo compiuto e promette una ricompensa più grande ai credenti che combattono, che spendono tutti
loro stessi e i loro beni sulla sua via.
Il Corano incoraggia la circolazione dei beni nella società attraverso la pratica costante della
generosità/elemosina e della posizione privilegiata che la solidarietà occupa nell’economia coranica e
islamica. Questa “economia dell’elemosina” non è un’alternativa alla pratica della violenza rivolta verso
l’esterno ma è un contrappeso costante e necessario alla violenza. Generosità e lotta, reciprocità e
ricompensa non possono esistere l’una senza l’altra.
II. Muhammad e la sua comunità
Nei generi letterari della Sira, dei maghazi e dell’hadith, il jihad e il combattere sono due tematiche di
grande importanza.
I racconti della Sira e dei maghazi descrivono innumerevoli scorrerie intraprese allo scopo di procurarsi un
bottino e infliggere danno al nemico, incursioni che fanno parte della quotidianità dell’Arabia del tempo.
Attraverso la figura del profeta come guida religiosa e politica però, come dimostrano diverse allusioni e
citazioni al Corano, molte delle azioni militari assumono lo stato di jihad. In questi racconti non si riscontra
ancora il contrasto tra “jihad autentica” e “mero combattere”, né si fa riferimento al “jihad maggiore” quale
lotta contro il proprio io.
Tutte le principali raccolte di hadith comprendono una parte o un capitolo intitolato Libro del jihad, ma
anche quelle non organizzate tematicamente contengono materiali sul jihad. I temi principali relativi al
jihad che compaiono negli hadith sono i seguenti:
Molti hadith che si esprimono sul jihad hanno dato luogo a notevoli dibattiti tra i giuristi su più questioni sia
pratiche che teologiche. Una questione ampiamente dibattuta che negli hadith trova risposte diverse e
contrastanti è ad esempio se i combattenti sulla via di Dio possano/debbano percepire un salario.
IV. Il martirio
Lo zelo col quale i guerrieri musulmani delle prime conquiste si sacrificavano derivava dal fatto che a coloro
che morivano in battaglia era stato promesso il Paradiso. Per chi sopravviveva invece il premio erano la
gloria e il bottino.
Il termine arabo shahid (martire/testimone) compare frequentemente nel Corano riferito a Muhammad, il
testimone per eccellenza, o come attributo di Dio (Dio è testimone di ogni cosa). Nel Corano però non viene
detto esplicitamente che lo shahid sia colui che muore in battaglia. È la tradizione, in particolare l’hadith, a
sviluppare una dottrina dettagliata del martirio. I martiri vengono ammirati dalla tradizione come esempi di
coraggio, di impegno costante (jihad) e di interiorizzazione individuale delle norme. Nei diversi hadith:
Mentre sciiti e kharijiti erano inclini a riconoscere lo stato di martire a coloro che morivano in battaglia
contro i ribelli e i miscredenti, tra i sunniti vigevano opinioni contrastanti. Lo sciismo in quanto minoranza
riserva grande importanza al martirio mettendo l’accento sulla sofferenza, la morte, la redenzione. Secondo
gli sciiti i martiri per eccellenza sono i membri della famiglia degli imam, discendenti di ‘Ali. Husayn, ucciso a
Karbala nel 680, è considerato “martire dei martiri”.
Poiché nel martirio era fondamentale l’intenzione, risultava impossibile stabilire chi lo fosse e chi no. Si
concordava dunque che, poiché solo Dio ha piena coscienza dell’intenzione del guerriero, tutti i morti in
battaglia dovessero essere seppelliti come vengono sepolti i martiri. I giuristi musulmani inoltre si
dichiaravano contrari ad un attacco del singolo volto al sacrificio fine a se stesso, benché non la
considerassero una forma di suicidio.
Oltre ai martiri morti in battaglia (considerati martiri sia di questa vita che dell’aldilà) i giuristi
riconoscevano altre categorie di martiri non combattenti (martiri solo dell’aldilà) ad esempio le donne che
morivano di parto o coloro che morivano di cause naturali mentre compievano atti meritori, specie l’hajj.
Infine un’altra categoria del martirio, ritenuta la più importante specie dagli asceti, riguardava i guerrieri sul
fronte del jihad maggiore, contro i propri istinti.
La dottrina islamica del martirio è l’espressione di un’esperienza monoteista e mediorientale condivisa (già
l’epopea di Gilgamesh, infatti, assegna ai caduti in battaglia un posto privilegiato nell’aldilà) ma l’insistenza
sul fatto che “il Paradiso è all’ombra delle spade”, come afferma un famoso hadith, la differenzia dalle
versioni cristiana ed ebraica, che insistono invece sulla passività e sulla nonviolenza.
L’epoca dei grandi martiri cristiani era finita all’inizio del sec. IV con la conversione dell’imperatore
Costantino e la fine delle persecuzioni. Con le conquiste islamiche e le crociate però il tema del martirio
riemerse con forza. Specialmente in Andalusia verso la metà del sec. IX si verificarono una serie di decessi
che, a seconda dei punti di vista, potevano essere considerati casi di martirio o di suicidio di massa. Questi,
noti come “neomartiri”, erano martiri passivi, diversi dai martiri aggressivi delle crociate.
La diversa concezione di martirio tra Cristianesimo e Islam si basa su una diversa concezione di violenza. Se
nell’Occidente cristiano la violenza è tendenzialmente associata al male, dunque al peccato, nel mondo
musulmano la questione è più complessa. La violenza è sì associata al male ma è anche legittimata e
lodevole se spesa sulla via di Dio. In questo senso la dimensione violenta - decontestualizzata rispetto allo
schema a cui siamo abituati di bene/male e giusto/sbagliato - è costitutiva e fondante per le nozioni di jihad
e martirio.
Gli equilibri tra percettori delle tasse e contribuenti iniziarono a modificarsi con l’aumento delle
conversioni: se da un lato esse portavano ad un minor afflusso di entrate, dall’altro aumentavano le reclute
all’interno dell’esercito. I guerrieri musulmani iniziarono a perdere la loro posizione privilegiata e la società
di conquista smise di esistere, ma produsse comunque delle conseguenze durature:
“Il bottino che Allah concesse al Suo Inviato, sugli abitanti delle città, appartiene ad Allah e al Suo Inviato, ai
[suoi] familiari, agli orfani, ai poveri e al viandante diseredato, cosicché non sia diviso tra i ricchi fra di voi.
Prendete quello che il Messaggero vi dà e astenetevi da quel che vi nega e temete Allah. In verità Allah è
severo nel castigo.” (COR 59:7)
La geografia
La natura territoriale della dottrina del jihad esige che si faccia la guerra per difendere i territori sotto
controllo islamico e incoraggia l’acquisizione di nuove terre attraverso la guerra di conquista. L’ambizione
non era convertire popoli o individui ma espandere il governo di Dio. Poco dopo le prime conquiste i giuristi
islamici iniziarono a rappresentare il mondo suddividendolo in dar al-Islam (lett. “casa dell’Islam”) e dar al-
harb (lett. “casa delle guerre”).
I rapporti tra i musulmani e i seguaci di religioni con libri sacri (che anche i musulmani riconoscevano per
rivelati, cioè ebrei, cristiani e zoroastriani) erano regolati dalla dhimma. Si trattava essenzialmente di un
patto di protezione per cui agli abitanti del luogo veniva assicurata protezione e libertà di culto (ed essi
riconosciuti come dhimmi) in cambio del pagamento della jizya. Anche con l’aumento delle conversioni,
soprattutto sotto gli abbasidi, i principi della dhimma continuarono ad essere rispettati (con alcune
eccezioni di violenza contro i non musulmani, quali il massacro degli ebrei di Granada nel 1064):
- la conversione non poteva essere forzata ma costituiva una possibilità presentata agli abitanti dei
territori assoggettati;
- la protezione significava che gli altri monoteisti non potevano essere ridotti in schiavitù;
- ai non musulmani era proibito cavalcare, portare armi, costruire nuove chiese.
Le radici giuridiche della dhimma erano inseparabili da quelle del jihad: se con i non musulmani che erano
nati nel dar al-Islam sussisteva uno stato di relativa libertà e continua negoziazione, coloro che vivevano nei
territori non assoggettati erano identificati con il nemico e fortemente stereotipati (soprattutto l’Impero
Bizantino era visto come il nemico per eccellenza).
In generale la dhimma garantì condizioni migliori di quelle che sperimentarono i musulmani (mudéjares) nei
territori spagnoli cristiani con la Reconquista. Entro il 1526 la pratica dell’Islam venne messa fuorilegge in
tutta la Spagna ed entro il 1611 vennero espulsi anche i convertiti (moriscos), provocando un esodo di
musulmani.
Tra i primi giuristi a partecipare alla battaglia sotto gli Omayyadi ci sarebbe stato il siriano Makhul, a cui è
attribuita l’affermazione che descrive il jihad come un obbligo per ogni musulmano maschio abile. L’idea
che combattere il jihad spettasse a ciascun individuo divenne motivo di controversie nel mondo arabo. La
discussione da quel momento si ebbe soprattutto intorno alla natura del dovere stabilito dal jihad: spettava
a tutti? E, in particolare, spettava a ciascun individuo?
Sotto gli Abbasidi la frontiera arabo-bizantina vide un pullulare di studiosi guerrieri, i tre personaggi
principali furono fautori di tre approcci al jihad che rappresentavano a loro volta tre atteggiamenti distinti
verso il problema dell’imitazione e dell’autorità:
1. al-Fazari, autore del “Kitab al-siyar” (“Libro del diritto di guerra”, commistione tra maghazi e
hadith) unì l’imitazione dell’attività bellica del profeta all’idea che lo studioso di religione ha il
diritto dell’esercizio di autorità anche a spese del califfo/imam;
2. ‘Abdallah ibn al-Mubarak, redattore di un “Libro del jihad” (raccolta di hadith), ricreò la comunità
delle origini nel presente storico attraverso l’internalizzazione della norma: la comunità nasce dallo
sforzo individuale verso la salvezza. Di qui l’accento sul martirio, l’intenzione, l’offrirsi volontario;
3. Ibn Adham, portò all’estremo l’attenzione alla purezza dell’intenzione: i suoi discepoli, chiamati “i
devoti rigoristi della via ardua”, intrapresero una sorta di ascetismo che li portò ad ignorare non
solo l’autorità politica ma anche la comunità e ad avere unicamente emulazione e devozione per
l’asceta maestro.
La soluzione che fu accettata dalla maggioranza fu la dottrina del fard ‘ala l-kifaya, ovvero la dottrina
dell’obbligo collettivo che venne articolata da al-Shafi’i, che visse in Iraq e fu tra i fondatori della
giurisprudenza islamica. Secondo questa dottrina, a ogni momento dato il dovere di partecipare al jihad si
può considerare adempiuto se un numero sufficiente di musulmani volontari si impegnano a praticarlo.
Diventa un obbligo del singolo soprattutto in caso di un’emergenza militare di difesa.
Tipi di jihad nelle provincie di frontiera del mondo islamico delle origini
La coesione che si ebbe con la dottrina dell’obbligo collettivo fu in gran parte formale; i governi
continuarono a dover rispondere all’esigenza del reclutamento e molti dotti continuarono ad arruolarsi e
sostenere diverse visioni. Ovunque l’insistenza sul jihad perse centralità con la professionalizzazione
dell’esercito. In territori differenti si ebbero spesso declinazioni diverse del jihad:
- in Africa del Nord (scuola malichita) il jihad venne dichiarato sotto gli Aghlabidi allo scopo della
conquista della Sicilia. Sotto i Fatimidi il jihad fu un potente strumento di propaganda nel tentativo
di espandersi in Palestina e Siria;
- in Spagna ebbe successo il jihad di al-Fazari e prese piede la figura del califfo-ghazi;
- in Asia centrale si ebbe un numero notevole di volontari nel IX-X sec, la cui purezza dell’intenzione è
incerta, e gli studiosi ebbero ruoli sia politici che militari, soprattutto di esortazione e predicazione.
N.B. Alla base del disaccordo sulla natura del jihad si nascondevano motivazioni e tensioni politiche ed
economiche. La difficoltà era armonizzare i requisiti stabiliti dal Corano e dall’economia del dono con le
esigenze pratiche della conquista e dell’impero. Il jiahd rimase strettamente legato alla componente della
“carità”.
Il califfato omayyade
Una tesi di Blankinship vede il jihad come base ideologica per tutta l’impresa di conquista omayyade. Se la
tesi del jihad come ideologia imperiale pecca di presupporre l’esistenza di uno stato centralizzato d’altra
parte risulta verosimile se si pensa all’importanza dell’attività legislativa dell’impero omayyade, soprattutto
in tema di diritto di guerra. Il jihad sotto gli Omayyadi fu punto basilare anche delle opposizioni:
a. gli sciiti fecero ampio uso del lessico del jihad e del martirio e con il passare del tempo svilupparono
una propria dottrina del jihad. I giuristi duodecimani definirono “ribelli” tutti gli oppositori dei
Dodici Imam. Con la morte/scomparsa dell’imam per gli sciiti divenne impossibile dichiarare e
compiere il jihad;
b. i kharijiti mostrarono fin da subito una propensione forte alla violenza e alla guerra contro gli
infedeli (kuffar): aderivano alla dottrina per cui il jihad è un dovere individuale, proclamarono il
jihad come uno dei Pilastri della Fede e si definirono shurat (lett. “venditori”) poiché avevano
venduto la propria anima in cambio della ricompensa divina promessa nel Corano.
Il califfato abbaside
La crisi militare sotto gli Abbasidi portò molti califfi a partecipare di persona alle guerre contro Bisanzio:
l’esigenza era di spingere all’arruolamento e di avere delle truppe fedeli prima di tutto al califfo (cosa non
scontata in un periodo in cui forti erano le idee di al-Fazari). I califfi cercarono progressivamente di
conquistarsi il favore degli studiosi-guerrieri. Mentre gli Omayyadi avevano posto le basi del diritto islamico
di guerra, gli Abbasidi facevano guerra seguendo le norme stabilite dai dottori della legge. La figura del
califfo-ghazi ci viene raccontata nei panegirici con enfasi sulla sua persona, il suo impegno, la natura
supererogatoria dei suoi sforzi, i suoi viaggi e la sua “onnipresenza”. Rimase presente anche con la
professionalizzazione dell’esercito.
Nella seconda metà del XI sec. nel Sahara occidentale si sviluppò il movimento sunnita (scuola malichita)
austero degli Almoravidi. La loro espansione li portò a divenire i padroni di tutta la Spagna islamica e fu
rafforzata dal jihad. Il nome degli Almoravidi, al-Murabitun, significa letteralmente “coloro che effettuano il
ribat”. Lo studio del termine ribat ha a che fare con la trasformazione di una pratica sociale. Nell’uso
corrente ribat denota un’attività molto simile a jihad, mentre in passato era associato ad un tipo di edificio
collegato a pratiche ascetiche, e nel Corano ha il significato di “annodare”. È probabilmente da quest’ultimo
significato che gli Almoravidi presero il nome, in riferimento al legame che li univa, un legame religioso che
comprendeva sia pratica ascetica che guerra. Il termine ribat si trova anche in Asia Centrale in riferimento
alle fortificazioni, e non è forse un caso che proprio qui fiorì il sufismo.
Durante le crociate fu centrale la figura dei sultani-ghazi Nur al-Din e Salah al-Din. Saladino mantenne
l’alleanza con gli studiosi guerrieri e usufruì di un esercito formato dalla cavalleria di schiavi turchi e
volontari civili. Le crociate segnarono l’emergere di Siria ed Egitto come un centro unitario di potere e di
produzione culturale nel mondo islamico. La contro-crociata si svolse contemporaneamente al “revival
sunnita” che unì l’ideologia del jihad con un atteggiamento rigorista verso i dissidenti musulmani
(soprattutto sciiti), venendo a significare meno tolleranza per espressioni di fede non ortodosse e meno
libertà di pensiero. In quegli anni Ibn Taymiyya (scuola hanbalita) parlò di jihad anche nell’ambito del diritto
pubblico come lotta agli “eretici” e ai loro costumi e repressione dei dhimmi.
Secondo una tesi di Wittek i primi Ottomani si dedicarono esclusivamente all’attività bellica di frontiera,
nota come ghaza (una iscrizione a Bursa definisce Orkhan “signore degli orizzonti”). Gli obiettivi erano
contemporaneamente bottino, espansione e religione (una guerra santa contro i cristiani). La “tesi ghaza”
implica che gli Ottomani fossero spinti per lo più da una singola forza ideologica. Negli ultimi decenni la tesi
è stata per questo motivo rivista e diversi sono stati i contributi:
- gli Ottomani combattevano in realtà spesso anche al fianco di cristiani e portavano avanti pratiche
non “ortodosse”;
- c’è una differenza tra l’ideologia ghaza (comprensiva) dal jihad (insieme di norme formulate da
giuristi) almeno nella teoria;
- l’Anatolia non era solo una terra “incivilizzata” segnata da vandalismo e saccheggi, si aveva la
presenza di élite, soprattutto nei grandi centri urbani.
Il pericolo più grande della tesi-ghaza è certamente l’essenzialismo: essa fa dell’impero ottomano e dello
stesso Islam la conseguenza storica o l’espressione di una singola ideologia.
- in Algeria contro l’occupazione francese varie forze, principalmente reti di confraternite mistiche, si
unirono sotto la guida dell’emiro ‘Abd al-Qadir. Egli cercò di accentrare il potere nelle sue mani
richiamandosi a un Islam rigoroso fondato sulla shari’a;
- nel Caucaso con l’avanzata russa si formò un movimento di resistenza che includeva il jihad e si
richiamava alla shari’a, capitanato da Shamil (riconosciuto imam del Daghestan);
- in Egitto il jihad venne proclamata anche mediaticamente e la resistenza si raccolse attorno a
Ahmad ‘Urabi. Lo sforzo si esaurì presto per dar spazio ad una resistenza laica e nazionalista.
Nel frattempo in India numerosi pensatori (il più famoso fu Sayyid Khan) riconsiderarono il ruolo e la natura
del jihad, con l’obiettivo di includerlo in un processo che portasse alla modernità. Ciò portò all’adozione di
una versione liberale dell’antico jihad “interiore”, intesa come sforzo personale. Il jihad maggiore sarebbe
stato da applicare solo in caso di impossibilità nel praticare la propria fede (cosa che in India non si dava,
concedendo gli inglesi libertà di culto).
L’esperienza indiana si allargò e numerosi pensatori, chiedendosi cosa stesse all’origine della supremazia
occidentale e perché i musulmani fossero rimasti “indietro” (situazione ribaltata rispetto a quella
medievale), portarono avanti un lavoro esegetico volto a sostenere una nuova idea di jihad, meno bellicosa,
più difensiva e votata ad inserirsi nel contesto di una modernità plasmata dallo stato-nazione. Risultato di
questa tendenza di pensiero fu l’elaborazione di una dottrina di diritto internazionale, un “diritto islamico
delle nazioni” che collocava su base pacifica le relazioni tra stati islamici e non. La conseguenza più
importante di questa dottrina fu l’importanza acquisita dall’apparato statale.
L’idea di uno stato laico fu opposta da pensatori islamisti quali Sayyid Qutb. Questi additarono la crescente
perdita di valori all’interno dell’Islam (come al suo tempo aveva fatto Ibn Taymiyya) e descrissero il
presente e governanti come Nasser come fautori di una nuova Jahiliyya. La jihad cui si richiamavano
tornava a essere anche offensiva e obbligo individuale. Nel 1966 Sayyid Qutb venne impiccato; i gruppi
islamisti che si formarono successivamente ne conservarono il messaggio radicalizzandosi anche
maggiormente.
Il jihad oggi
“Accetto l’etichetta di terrorista, se questa sta a significare che incuto il terrore a un sistema parziale che esercita un
potere iniquo e ad una perversione proteiforme […] La mia lotta finirà solo con la morte o la follia” – dichiarazione di
Kamel Daoudi nel 2002, sospettato di voler far saltare in aria l’ambasciata USA a Parigi
Nel passare a una dimensione globale il jihad sembra essere provata dei contesti e degli obiettivi
tradizionali. Il nemico è passato negli ultimi decenni da interno ad esterno, identificandosi con l’Occidente e
con il suo simbolo per eccellenza, gli Stati Uniti.
Le azioni terroristiche sono descritte con il lessico del martirio tradotto nel linguaggio della cultura di massa.
Alle pratiche violente i gruppi terroristici odierni hanno aggiunto i bombardamenti suicidi (e in generale atti
di violenza contro la propria persona), che hanno in realtà scarso fondamento nella pratica e nella dottrina
islamiche (soprattutto in ambiente sunnita): anche il jihad interiore non comprendeva atti di auto-violenza.
I guerrieri del jihad contemporaneo sono di frequente giovani che in partenza non hanno una conoscenza
approfondita del Corano (in ogni caso, un atteggiamento islamico fondamentalista di solito non si basa solo
sul Corano ma anche su un mitico racconto delle origini). I giovani jihadisti spesso mostrano segni di
sofferenza psicologica/sociale. L’io dei combattenti odierni sembra spesso violentemente diviso tra
un’identità islamica e una europea o americana.