Da L'Acropoli 1/febbraio 2004
Diverse manifestazioni nel mondo hanno ricordato, nel corso del 2003, gli 80 anni compiuti da
György Ligeti; un anniversario che diventa occasione per una valutazione critica dell’intero suo
lavoro, dal momento che le notizie poco rassicuranti sullo stato di salute del compositore non
consentono di immaginare un significativo sviluppo della sua produzione.
Quasi vent’anni sono trascorsi dalla edizione del 1985 di “Settembre Musica”, la rassegna torinese
di musica contemporanea, dedicata quell’anno interamente al compositore ungherese; se allora si
era da poco manifestata una svolta nelle scelte stilistiche del musicista e, di conseguenza, era
impossibile comprendere appieno quanto le nuove esperienze musicali da cui Ligeti aveva tratto
ispirazione avrebbero caratterizzato in modo originale il suo progetto creativo, oggi si può in modo
più accorto proporre una valutazione sintetica della totalità di questa produzione, nel tentativo di
elaborare un giudizio estetico ma, soprattutto, di contestualizzare e valorizzare meglio
l’importanza di Ligeti nella cultura musicale del secondo Novecento.
E’ possibile avanzare alcune ipotesi in merito, a partire dalla rassegna monografica, dedicata
appunto agli 80 anni di Gyorgy Ligeti, organizzata dalla Associazione Milano Musica lo scorso
autunno. L’elaborazione del programma, che ha potuto, grazie alla trasmissione integrale dei
concerti via radio, essere apprezzata dagli appassionati di tutta Italia, rispondeva a una scelta
critica di grande sensibilità interpretativa e ha permesso, di conseguenza, una serie di riflessioni
rivelative.
La politica culturale seguita da Milano Musica in questi anni nelle proprie rassegne impedisce a
dire il vero di assumere in modo troppo rigido il concetto di “monografia”, in quanto l’intenzione
sempre presente ogni anno è quella soprattutto di stabilire relazioni e di contestualizzare la
ricerca musicale contemporanea in un ambito più ampio, teso a evidenziarne le interazioni con il
complessivo contesto culturale, senza peraltro cedere alla tentazione semplicistica di forzare
attraverso accostamenti inappropriati tale repertorio con la logica di consumo. Una volontà di
ampliare la fascia di pubblico interessata alla musica contemporanea – richiamando antichi fasti in
questo senso del panorama culturale milanese – cercando nel contempo di favorire un’attenzione
critica e di stimolare le capacità di ascolto del pubblico.
Date queste premesse, era evidente che l’anno dedicato a Ligeti non mirava
semplicemente a riproporre – in base a una semplice scansione cronologica –i diversi percorsi
compositivi esplorati dal musicista in quasi mezzo secolo di attività, quanto isolare alcuni momenti
significativi della sua produzione mostrandone la continuità con ricerche coeve, esaminarne i
legami con la tradizione, evidenziare gli stimoli che le composizioni ligetiane hanno sollecitato, nel
tempo, tra le generazioni più giovani di compositori.
Per valorizzare questi molteplici legami che la musica di Ligeti mantiene con il passato
musicale e le diverse forme espressive della musica d’oggi, era necessario meditare in modo
accorto sugli accostamenti più adatti da realizzare nei confronti delle diverse composizioni in
programma. A tal fine, era però necessario individuare i momenti decisivi nella carriera
compositiva di Ligeti, ciascuno dei quali potesse essere riferito a una particolare tematica propria
della ricerca musicale contemporanea; il programma di Milano Musica ha teso a focalizzarne
alcuni: il periodo ungherese, precedente la fuga dell’artista in Occidente; il rapporto comunque
stretto di Ligeti con la cultura musicale ungherese, da Bartok, ovviamente, sino alle altre
importanti personalità che fanno dell’Ungheria una delle nazioni più importanti per la musica
contemporanea (Kurtag, Eötvos); la musica di genere, nel caso specifico il quartetto d’archi e la
produzione per pianoforte; e, infine, ma non certo subordinato agli altri quale tema essenziale, il
rapporto di Ligeti con il repertorio classico e, in particolare, con la musica di Joahnnes Brahms.
Per quanto riguarda il primo tema, esso è stato esplicitamente rivalutato nonostante le
dichiarazioni riduttive del musicista, che in un primo tempo aveva negato l’importanza della sua
attività compositiva relativa al periodo ungherese; è evidente infatti che, il clima di costrizione
diffusosi in Ungheria dopo la seconda guerra mondiale portasse il giovane Ligeti a compromessi
estetici che egli, una volta trovatosi in una situazione di totale libertà creativa, ha decisamente
rifiutato. Come però spesso accade, gli artisti non sono sempre i migliori esegeti di se stessi,
soprattutto quando riflettono sul loro periodo di formazione; diventa dunque una necessità – e
non una semplice curiosità archeologica – riesaminare con spirito nuovo questo repertorio
dimenticato, così come è stato realizzato nel corso della rassegna.
Bisogna però aggiungere che lo stesso Ligeti, a partire dal 1968, decise di ripubblicare i
lavori giovanili e da essi trasse, successivamente, spunti per nuove composizioni, per pianoforte
soprattutto. Alcuni hanno voluto individuare in questo recupero del periodo ungherese una prova
dello scetticismo sostanziale di Ligeti verso alcune derive dell’avanguardia musicale; sino ad
anticipare l’inizio della “fase diatonica” proprio alla fine degli anni ‘706. In realtà tale visione appare
riduttiva, tesa più a evidenziare differenze sulla base di una lettura retrospettiva e ideologica della
storia musicale recente, mentre è più utile, proprio per sottrarre il compositore ungherese a
qualsiasi ascendenza, avanguardistica o post- avanguardistica, sottolinearne la coerenza del
percorso compositivo, pur attraverso scelte stilistiche differenziatisi con gli anni.
Da questo punto di vista, l’altro brano del periodo ungherese, previsto nel secondo
concerto, ha fornito un importante e ulteriore tassello critico. Si tratta delQuartetto n°1, composto
tra il 1953 e il 1954 e che porta il titolo di “Metamorphoses nocturnes”; nello stesso concerto si
sono ascoltati anche il Quartetto n°2, del 1968 e ilQuartetto n°6 di Bela Bartok, del 1939. Un
accostamento dunque tra una composizione del periodo ungherese e, da una parte, un brano del
periodo di piena maturità del musicista, dall’altra composizione dell’autore per lui più importante
relativamente al primo periodo di attività.
I brani sono stati eseguiti dal Quartetto Arditti, sicuramente la formazione quartettistica più
prestigiosa per il repertorio contemporaneo, presenza abituale della rassegna milanese; la quale,
per chi la segue periodicamente, offre dunque anche una panoramica trasversale, nei diversi anni,
sulla composizione per quartetto nella musica contemporanea; un argomento affascinante, in
quanto tale organico è l’unico che, con estrema continuità, mantiene un legame diretto con il
repertorio classico ma contemporaneamente, ha espresso con frequenza le proposte più
innovative.
Il Quartetto n°1 è opera importante in quanto rappresenta al meglio, all’interno della fase
ungherese, quella parte di repertorio non rivolta alla tradizione folklorica, ma tesa a proporre
nuove soluzioni compositive. E’ una composizione nella quale il richiamo a Bartok è esplicito e
immediatamente evidente, al contrario delle opere future, nelle quali il rapporto con la tradizione
si manifesta con l’allusione e non con una esplicita ripresa stilistica. Pure, anche in questa
architettura bartokiana, Ligeti manifesta già alcuni criteri compositivi che saranno propri delle sue
opere future; ciò significa che il richiamo a Bartok negli anni precedenti il 1956 non era solo un
espediente per produrre ricerca innovativa senza incorrere nelle censure del regime, ma
rappresenta il vero fondamento della concezione compositiva di Ligeti, in grado di motivare sia la
piena appartenenza dell’artista alla tradizione dell’avanguardia europea, sia la sua posizione in
parte non omologata all’interno di questa. Come è stato giustamente notato, dalla constatazione
che Ligeti, ma anche Lutoslawski, sono due compositori “che non hanno condiviso l’esperienza
seriale e che si collocano nell’orbita di Bartok, seguono importanti conseguenze per una possibile
storiografia della musica moderna. L’analisi dei modi di ricezione dell’opera di Bartok permette
sempre infatti di rompere la rigida bipartizione tra avanguardia strutturalista, rima dodecafonica
poi seriale, e neoclassicismo, da Strawinsky a Hindemith, istituzionalizzatasi a torto o a ragione
sulle basi della filosofia della musica moderna adorniana. Questi compositori e il nesso
problematico che si manifesta nel loro rapporto di ricezione rinviano a un’altra tradizione, a un
pensiero musicale laterale, in cui sono essenziali l’eruzione sonora, una agonica irritante fino ai
movimenti meccanici, la fusione degli elementi musicali in musica timbrica. Da questo punto di
vista Bartok, insieme a Satie e a Varèse, può essere annoverato tra gli Urphanomene della musica
post seriale”9. La modalità compositiva bartokiana più evidente nel Quartetto n°1 è il principio
della variazione continua10; Ligeti lo ripropone senza partire però da alcun tema specifico; ogni
variazione rappresenta invece lo sviluppo di una particolare concezione stilistica che acquista
autonomia all’interno dei movimenti ma, allo stesso tempo, impone un’unica logica formale
all’intera composizione. Ed è proprio il principio della variazione continua a contraddistinguere in
modo più significativo il periodo maturo di Ligeti e a realizzare una coerente continuità fra tale
periodo e quello successivo “diatonico”. I famosi tessuti sonori, ottenuti dalla fitta trama di
elementi melodici, timbrici e ritmici, in cui tracce sonore apparentemente disarmoniche e
comunque disomogenee riescono a produrre un effetto d’insieme di grande coerenza e
suggestione, nel loro stendersi in ampi spazi attraverso microvariazioni che, in lassi di tempo
variabili, realizzano un mutamento costante rispetto alla situazione iniziale (creando una sorta di
“movimento statico” più volte rivendicato da Ligeti), è sicuramente uno sviluppo coerente del
principio della variazione continua.
Il confronto col Quartetto n°2 del 1968, eseguito nel corso della stessa serata, ha permesso
di verificare le ipotesi avanzate sopra. L’interesse stava nel fatto che, per stessa ammissione di
Ligeti, tale composizione è di ispirazione bartokiana, senza che il riferimento al maestro risulti
immediatamente evidente11. Anche in questo caso ogni movimento tende ad identificarsi con una
particolare cifra stilistica, pur cercando di manifestare un principio comune12; in alcuni casi i
rimandi a Bartok sono maggiormente riconoscibili (il “pizzicato” dello Scherzo), in altri si tratta di
allusioni più sottili: certo uso dei fortissimi o di sonorità gutturali, come pure, negli episodi di
estrema lentezza, quasi di stasi temporale, il ricordo di alcune atmosfere ombrose di Bartok, quali,
ad esempio, il mesto del Quartetto n°6.
E’ stata veramente una scelta felice quella di far ascoltare, nello stesso concerto, non
il Quartetton°2 o il Quartetto n°3 di Bela Bartok, esplicitamente citati da Ligeti come suoi modelli
per il suo primo quartetto; bensì il n°6, l’ultima composizione scritta da Bartok in Europa, tra le
opere più pessimiste del compositore, iniziata poco prima dello scoppio della seconda guerra
mondiale, quando Bartok temeva di non potere tornare più in Ungheria, e decise di emigrare negli
Stati Uniti. Le situazioni che si succedono nel quartetto sono varie, ma prevale proprio la tonalità
espressiva del mesto a caratterizzare drammaticamente l’opera, e che ricompare nei diversi
movimenti; esplicitando quella “grande forma”, quell’unità nelle diverse situazioni stilistiche, più
volte – come abbiamo visto – richiamata da Ligeti.
Queste considerazioni relative agli anni ungheresi del compositore ci consentono, dunque,
di ipotizzare una continuità, nel senso di uno sviluppo delle intuizioni iniziali, con la produzione più
matura; non è corretto dunque, interpretare la riscoperta che lo stesso compositore ha realizzato
di questo repertorio a partire dagli anni ’70 – dopo averne più volte negato recisamente il valore –
come la conferma di un aspra critica alle passate concezioni di avanguardia. Come infatti non
esiste cesura netta fra le composizioni fino al 1956 e quelle degli anni ’60, così non si manifesta
rottura poetica rispetto alle opere degli anni successivi. Non si vuole qui negare l’esistenza di una
svolta avvenuta sul piano della tecnica compositiva e delle scelte stilistiche, che è ineccepibile e
che lo steso Ligeti ha messo in rilievo valutando in modo sereno le nuove procedure adottate e le
esperienze da cui ha tratto ispirazione (dalla produzione del compositore americano Conlon
Nancarrow, a un nuovo approfondimento etno musicologico non solo delle consuete tradizioni
ungheresi e rumene, ma anche di culture extraeuropee, quali la musica dei Carabi e quella della
Repubblica centraficana); non è condivisibile però interpretare questo mutamento come un
abbandono o una critica alla propria passata poetica che, pur con nuovi mezzi espressivi, si ritrova
invece tutta intera nella nuova fase. L’errore insito in questa lettura impedisce, innanzitutto, di
comprendere in modo adeguato la produzione degli anni ’60 e ’70; il rischio è infatti quello di
intenderle in modo monolitico, valutandole come un insieme di opere volte tutte a uno stesso fine,
quello di costituire una vasta tessitura micropolifonica. In effetti, le numerose e abili descrizioni
che la letteratura su Ligeti ha prodotto nel descrivere la complessa trama musicale creata dal
compositore, rischia di realizzare, nell’ascolto, una tensione tesa tutta a individuare la stessa cifra
stilistica, evidenziando meno le differenze tra un brano e l’altro e fornendone, quindi, una
valutazione riduttiva. E’ stato corretto quindi, da parte degli organizzatori della rassegna,
concentrare questa fase (diventata celebre anche grazie alle colonne sonore di alcuni film di
Stanley Kubrick) in un numero ridotto di concerti e avvicinare fra loro, prescindendo dall’esatta
cronologia, composizioni di periodi differenti. Tale scelta ha infatti consentito una migliore
riflessione su alcuni capolavori storici di Ligeti, quali, ad esempio, Aventures, Nouvelles Aventures e
il Kammerkonzert. Questi lavori, tutti realizzati negli anni ’60, evidenziamo aspetti differenti; nella
prime due composizioni una declamazione fortemente mossa e coinvolgente ha lo scopo di
sconcertare lo spettatore e di aggredirlo con suoni gutturali, fortemente distaccati fra loro ed
evidenziati ritmicamente, sostanzialmente urtanti e respingenti; un’espressività molto diversa dal
classico tessuto sonoro, teso a creare un amalgama che riduce lo spazio fra gli esecutori e gli
ascoltatori. Tale analisi non costituisce però una contraddizione nella poetica di Ligeti, in quanto
permette di evidenziare un elemento drammaturgico nel suo comporre, proprio anche dei più
famosi brani strumentali. Inoltre, le parole prive di qualsiasi contesto utile per evidenziare il loro
valore semantico, appaiono anche in questo caso come i singoli elementi di una trama sonora il
cui insieme trascende i significati particolari per realizzare un effetto più ampio, ad esse
parzialmente estraneo. Il Kammerkonzert, invece, realizza l’unità non attraverso una
sovrapposizione magmatica di spazi sonori estesi, ma con la sovrapposizione di voci e timbri dei
singoli strumenti, che rimangono però fortemente distinguibili. In altre parole, mentre nella
tessitura ligetiana più nota si fa a un certo punto indistinguibile il passaggio dalle singole trame al
risultato del tutto, nel Kammerkonzert l’impressione di omogeneità totale non annulla la singolarità
dei percorsi strumentali dei vari solisti.
Sulla base di queste valutazioni, non ha alcun senso contrapporre in modo netto a tali
composizioni la produzione successiva di Ligeti, in quanto è sempre stata presente, nel suo
comporre, l’esigenza di dare vita a una determinata concezione del suono attraverso forme
espressive radicalmente differenti. E’ tale esigenza è ugualmente presente anche nella fase più
tarda. Semmai è doveroso interrogarsi sulle ragioni che lo hanno condotto a non riconoscersi più
in certe modalità espressive fino allora adottate. Nel 1981, appena uscito da un periodo di
difficoltà compositiva, Ligeti affermò: “Non è una crisi personale, piuttosto penso sia la crisi di tutta
la generazione a cui appartengo, quella che nella seconda metà degli anni Cinquanta a Darmstadt,
Colonia o in qualsiasi altro posto ha sviluppato qualcosa di nuovo e di originale. A poco a poco si
presenta per noi il pericolo dell’accademismo. Personalmente, essendo un antiaccademico, io
vorrei combattere in me questo pericolo, ossia non vorrei continuare a comporre secondo i
vecchi clichés dell’avanguardia, ma nemmeno ricadere in un ritorno ai vecchi stili. Io cerco, proprio
negli ultimi anni, di trovare anzitutto una risposta per me, una musica che non sia una
rimasticatura del passato, neppure del passato dell’avanguardia”13. Tali dichiarazioni sono
importanti, innanzitutto perché permettono di distinguere le motivazioni di Ligeti da quella dei
teorici del post-moderno, nel momento in cui afferma di non volere proporre “rimasticature del
passato”; dall’altra perché individua l’esaurirsi di alcuni moduli stilistici secondo una logica
evolutiva in base alla quale non esistono dogmi estetici insuperabili. La necessità di modificare
l’atteggiamento stilistico non è quindi contro il passato, ma contro una negazione del carattere
storico della ricerca musicale, che impedisce trasformazioni. In realtà, come ha affermato in modo
puntuale Ivanka Stoianova, Ligeti ha anticipato in modo straordinario il principio in base al quale si
è sviluppata la musica nuova: “la più radicale trasformazione che ha rivoltato da cima a fondo il
modo di pensare la musica nel corso degli ultimi trent’anni non riguarda il tipo di scrittura (seriale,
aleatoria, stocastica, multipla, processi produttivi, ecc.), ma il materiale sonoro”14. Quindi la svolta
stilistica non nasce da alcuna improvvisa conversione, ma matura all’interno di un’esigenza poetica
che era propria del compositore già nei primi anni della sua attività, e che ne precisa la posizione
“non allineata” nel gruppo della avanguardia. Egli non ha mai pensato all’avanguardia come a una
nuova scrittura, ma come esplorazione continua del materiale sonoro, addirittura anticipando, pur
in composizioni solo orchestrali, ricerche timbriche che diverranno comuni con la successiva
sperimentazione elettronica15. Non era quindi una critica al proprio passato di ricerca, ma la
necessità di sperimentare nuovi modi di manipolazione de3lla materia sonora a partire da nuove
esperienze stilistiche.
Non a caso Ligeti non solo ha sempre rifuggito atteggiamenti dogmatici rispetto alle
modalità di scrittura, ma pure non si è mai concentrato sulle singole forme musicali in modo
circoscritto; ogni scelta – dal quartetto. al pianoforte, all’orchestra al piccolo organico – era una
tappa successiva nella manipolazione del materiale sonoro; tanto che è più opportuno leggere i
brani in una sequenza orizzontale, a prescindere dall’organico, e non verticale (la produzione per
quartetto, quella per pianoforte, ecc.). Come è stato felicemente scritto: “Tuttavia non si può
schematizzare la sua produzione in base alla caratteristica dei generi, né riassumerla in gruppi
formali. E’ consigliabile invece seguire un altro procedimento: la prospettiva strutturale, in base ai
caratteri espressivi e alla tipologia delle composizioni. Ciò non tanto in riferimento alla singola
opera, ma in relazione all’opera complessiva e alle sue parti viste nella loro unità storico –
sistematica”16.
Per confermare come, a partire dal superamento di tale periodo di crisi creativa, le novità
stilistiche abbiano contribuito ad alimentare una poetica comunque rimasta coerente, è possibile
fare riferimento alla letteratura pianistica di Ligeti; in questo caso, il principale interprete delle
composizioni pianistiche di Ligeti, Pierre-Laurent Aimard, ha proposto a Milano l’integrale dei tre
libri degli Etudes. L’interesse, in questo caso, sta nel fatto che si tratta di composizioni scritte tra il
1985 e il 1994; un arco di tempo molto lungo, che permette dunque di valutare l’evolversi del
processo creativo in più di un decennio. Nello stesso tempo, però, trattasi di un periodo tutto
interno alla nuova fase creativa di Ligeti. Tuttavia il nuovo repertorio non muta la tendenza di
Ligeti a ricercare sempre la materializzazione sonora di una unità organica, pur non suggerendo
più l’immagine di perpetuum mobile, di superficie marina17 , cerca comunque di espriemere il
movimento continuo, il segreto dell’unità del mondo, in una costante dialettica fra le parti e il tutto
che, di volta in volta, esalta il quadro d’insieme che ne emerge o la potenzialità delle singole voci
che la compongono. Questa ricerca, sostanzialmente, è stata affrontata da Ligeti in due modi:
attraverso composizioni omogenee, tese a realizzare una trama continua in cui l’orecchio dello
spettatore è coinvolto in questo continuo annodarsi e slegarsi di figure, oppure attraverso una
organicità che, in modo più classico, coinvolge i diversi movimenti di un brano.
Proviamo a confrontare fra loro due affermazioni del compositore, apparentemente
opposte, con le quali presenta il quartetto del 1968 e gli studi pianistici, tutte riportate nel
catalogo. In merito al Quartetto n°2, scrive Ligeti: “I cinque movimenti sono connessi tra di loro in
modo sotterraneo, ci sono corrispondenze segrete…; tutti i movimenti sono, per così dire, presenti
in ogni movimento”18. In merito invece agli Etudes, lo stesso compositore afferma: “Studi nel
senso pianistico del termine […] essi partono sempre da una semplice idea centrale e conducono
dalla semplicità alla estrema complessità”19. La differenza non potrebbe essere più pronunciata,
laddove nel primo caso si tende alla omogeneizzazione, nel secondo alla concentrazione
autonoma del singolo studio. Poiché però, nelle intenzioni dell’autore, la composizione intende
esplorare a fondo, in tempi differenziati, tutte le possibilità espressive connesse al virtuosismo
pianistico, è chiaro che tende a ricercare comunque una totalità espressiva, una visione globale,
non più da presentarsi sincronicamente e polifonicamente, bensì attraverso un confronto
meditato delle diverse parti esecutive. In altri termini, Ligeti non vuole esprimere, attraverso i vari
movimenti, un’impressione particolare, che caratterizzi la singola opera rispetto alle altre
composizioni, ma cerca invece di rivelare la dimensione della totalità mettendo dialetticamente in
rapporto le sue stesse parti. Non pare condivisibile quindi il passo in cui, nelle pur pregevoli note
di presentazione al concerto, si afferma che gli Etudes di Ligeti sono “potenzialmente eseguibili
anche singolarmente”20; si perderebbe in questo caso l’intenzione complessiva, l’architettura
mobile che costituisce il senso dello stesso gesto compositivo. Sembra quasi che Ligeti voglia
fondare un sistema, che non è però, hegelianamente, chiuso in sé stesso, autoreferenziale e
teleologico, bensì aperto, in quanto la processualità risulta fine a se stessa; come si può notare da
i numerosi inizi che sembrano evocare un suono già presente da tempo, oppure i finali in cui il
direttore continua per un breve arco di tempo a dirigere il silenzio, ad indicare che non di
conclusione si trattava, bensì di un frammento di movimento infinito. E Riccardo Muti, nell’ultimo
concerto, ha magistralmente sottolineato questo aspetto nella esecuzione di Lontano (1967).
Prima di concludere, è necessario soffermarsi sul modo singolare con cui la musica di Ligeti
tende a rapportarsi alla tradizione, sempre traendo spunto dalla felice intuizione con cui è stata
concepita la rassegna milanese; anche questo modo di relazionarsi al passato musicale, rimane
identico durante l’intera carriera di Ligeti. La scelta di Milano Musica è stata quella, da una parte, di
valorizzare la pratica dell’allusione, ossia quei richiami al passato che l’ascoltatore percepisce al di
là del riferimento al brano specifico; il concerto tenutosi nella suggestiva sede della basilica di San
Lorenzo alle colonne prevedeva, da parte del gruppo strumentale Mala Punica, un’esecuzione
alternata di composizioni di Paolo da Firenze (esponente di quella ricerca musicale gotica fiorita a
Pisa negli anni intorno al concilio del 1409), con quelle degli altri grandi maestri ungheresi della
ricerca musicale contemporanea (György Kurtag e Peter Eötvös), dove protagonista strumentale
era il cimbalon, ad indicare questo comune trarre spunto di una scuola nazionale dalle origini più
antiche (in merito alla documentazione possibile) della storia musicale occidentale21.
L’altra scelta è stata quella di privilegiare un solo compositore del repertorio classico; dalle
diverse scelte possibili si è optato felicemente per Johannes Brahms. Il senso di tale accostamento
si è rivelato appieno nell’ultimo concerto, che ha coinciso con l’inaugurazione della stagione
sinfonica dell’Orchestra Filarmonica del Teatro alla Scala. La straordinaria sensibilità interpretativa
di Muti è stata capace di valorizzare al massimo, nell’unità del concerto, gli aspetti che
suggeriscono un rimano tra Ligeti e Brahms. Come abbiamo già accennato sopra, Muti ha esaltato
al massimo il concetto di continuum o di ad libitum, insito nei due classici di Ligeti eseguiti quella
serata,Ramifications (1968/69) e Lontano (1967). Il brano più significativo per potere suggerire
suggestive analogie era proprio la Seconda sinfonia in re maggiore opo.73 di Johannes Brahms; e
Muti ha, dal punto di vista intepretativo, sottolineato proprio questi aspetti. Una volta di più
dimostrando – anche a proposito delle polemiche che hanno interessato in questo periodo il
teatro alla Scala – come il senso delle propria progettualità artistica stia in una volontà di offrire
occasioni di conoscenza e di crescita culturale per il pubblico, con un atteggiamento quasi
didattico. Non solo Muti si è confermato tra i più grandi interpreti brahmsiani (e in questi anni ha
condotto la Filarmonica della Scala da livelli ad esecuzioni di assoluta eccellenza in tale repertorio),
ma ha voluto orientare la propria interpretazione in sintonia con le finalità culturali del concerto.
Una delle caratteristiche peculiari della Sinfonia n° 2 sta nel fato che i primi due movimenti non
appaiono momenti espressivi in opposizione, ma suggeriscono anzi una continuità elegiaca di
tono pastorale che sembra ricercare, direbbe Ligeti, la stessa dimensione spirituale in tutti i
movimenti. Brahms forza in modo evidente la struttura della forma sonata, con la ripetizione per
ben tre volte, in tutto il primo movimento, della lunga esposizione. Si ha quindi una dilatazione e
una modificazione degli stessi temi prima ancora che inizino le variazioni; secondo un dinamismo
che non obbedisce alla semplice logica della successione delle singole parti ma, ancora in analogia
con Ligeti, appartiene alla dimensione del suono in quanto tale, e conduce Brahms a dilatare i
tempi, in oltre venti minuti di movimento.
E’ abbastanza evidente, a questo punto, come proprio Ligeti sia tra i grandi compositori
della seconda metà del XIX secolo a lasciare più tracce di sé, a poter vantare, se non eredi, un
numero comunque amplio di giovani compositori che alla sua lezione si richiamano. La rassegna
milanese ha proposto degli accostamenti interessanti, proseguendo un percorso con le precedenti
edizioni di carattere non monografico, tese a delineare nel modo più chiaro possibile le diverse
proposte stilistiche della musica d’oggi22. Sono stati eseguiti i nuovi lavori di Stefano Gervasoni e
Alessandro Solbiati. Dal punto di vista della vicinanza a Ligeti, particolare impressione ha suscitato
ilQuartetto n°3 di Giovanni Verrando, anche in questo caso per il fine lavoro degli interpreti,
il Quartetto Arditti, i quali, nel consigliare al compositore alcune soluzioni interpretative23 hanno
voluto esaltare la continuità con le altre composizioni in programma.
Giovanni Carosotti
1 Armando Gentilucci, György Ligeti oggi, in AA.VV., Ligeti, Torino 1983, p.58
2 György Ligeti, La mia posizione di compositore oggi, in AA.VV., Ligeti, cit., p.3. Il testo è stato
ripubblicato anche in Ligeti, catalogo del 12° Festival di Milano Musica, p.24.
3 Id.
4 Vi sono delle eccezioni, come la presunta citazione mozartiana nel primo movimento
del Kammerkonzert fur 13 Instrumenten, rispetto alla quale il compositore non ha mai chiarito se
trattasi di un riferimento voluto o di semplice causalità.
5 Cit. da O.Nordwall, György Ligeti, eine Monographie, Main 1971, p.141; il passo è riportato in
Gianmario Borio, L’eredità bartokiana nel “Secondo Quartetto” di Ligeti. Sul concetto di tradizione nella
musica contemporanea, nota 14, p.66, in AA.VV, Ligeti, cit.
6 E’ la tesi espressa nel catalogo della rassegna da Claudio Tempo, il quale peraltro si richiama a
un precedente giudizio di Wolfgang Schreiber. La spiccata teatralità di alcune opere degli anni ’70,
il carattere di evento proprio di alcune composizioni, anticiperebbero questa svolta che, nelle
considerazioni più diffuse, andrebbe invece fatta risalire all’opera Le grande macabre, composta tra
il 1974 e il 1977.
7 Tali informazioni sono state fornite dallo stesso Ligeti nel corso di una conversazione tenuta nel
1968 al Sudwestfunk di Baden Baden con Josef Hausler. Parte del testo, cui si è fatto riferimento in
queste righe, è riportato nel saggio di E.Restagno, Ouverture, in AA.VV., Ligeti, cit.
8 C.Sini, Variazioni sulle composizioni a cappella, all’origine della musica di György Ligeti, in Ligeti, cit.,
p. 21.
9 Gianmario Borio, L’eredità Bartokiana del Secondo Quartetto di Ligeti. Sul concetto di tradizione nella
musica contemporanea, nota 10, in AA.VV., Ligeti, cit., p.165.
11 Dopo aver definito la composizione “un piccolo omaggio a Bartok”, Ligeti aggiunge: “Non è la
musica ad essere citata, bensì l’habitus, l’aura di questa musica, all’interno di un contesto che ha
assunto caratteri totalmente diversi”. Cfr. Ligeti, cit., p.52.
13 Da un colloquio con M.Lichtenfeld, “Neue Zeitschrift fur Musik, n°142, p.471; citato in Monika
Lichtenfeld, Da „Le Grand Macabre“ alla „Tempesta“, in AA.VV., Ligeti, cit., pp.47-48.
14 I. Stoianova, Ramificazioni timbriche e forma-movimento, in AA.VV., Ligeti, cit., p.20.
15 Cfr. ibid., p.21.
16 Wolfgang Schreiber, Ogni pezzo un microcosmo. Sul rapporto fra generi musicali, forma e moduli
stlistici in Ligeti, in AA.VV., Ligeti, p.44.
17 L’immagine è suggerita dallo stesso Ligeti; cfr. E.Restagno, Ouverture, cit., p.6; altre volte Ligeti
ha proposto la figura del cristallo liquido; cfr. I.Stoianova, cit., p.25.
19 Ibid., pag.70.
20 Angela Ida De Benedictis, Una tastiera tra viaggi, limiti e ludica semplicità, in Ligeti, catalogo
della12° Festival di Milano Musica, cit., pag.68.
21 E’ da sottolineare il grande lavoro di ricerca realizzato in Ungheria, fin dai tempi della
Repubblica socialista, per lo riscoperta del repertorio meno frequentato, come testimoniano le
numerose pubblicazioni della etichetta discografica Hungaroton. Questa preziosa attività di
documentazione, ha prodotto eccellenti risultati, sia dal punto di vista compositivo sia da quello
interpretativo.