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© 2020 People s.r.l.

Via Cavour, 6
21013 Gallarate (va)

Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-320-8933-2

Prima stampa: ottobre 2019


Ristampa: novembre 2019
Seconda ristampa: gennaio 2020

Progetto grafico:
Riccardo e Tommaso Catone

www.peoplepub.it
E POI BASTA
MANIFESTO DI UNA DONNA
NERA ITALIANA

di Espérance Hakuzwimana Ripanti


Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.

Derek Walcott, Amore dopo amore


A Nour,
Iris e Camille
e Ginevra.
In un mondo o nell’altro,
queste parole sono per voi.
Introduzione

Ho iniziato a pensare a questo libro nel momento esat-


to in cui ho messo piede nel mondo. Solo che allora non
potevo saperlo.
Questo testo è stato un bisogno, è nato da un’esigenza,
esattamente come tantissimi altri. Solo che il mio bisogno
sapeva di sale, di dolore e di fastidio. La necessità di uscire
dal vicolo cieco del “non puoi farci niente”, in cui non ho
mai voluto mettermi ma in cui mi sono sempre ritrovata.
Una condanna scritta in minuscolo, dove tutti mi hanno
sempre letto fino a quando non trovavano quello che cer-
cavano, solo quello che volevano.

Verso gli otto anni ho imparato a scrivere tutti i miei


nomi, uno dietro l’altro, e poi – per un periodo infinito –
ho smesso di farlo. Quando mi veniva chiesto perché, ri-
spondevo che erano troppo faticosi. Da scrivere, da dire,
da leggere, da vivere. Questo testo è nato lì: tra i corridoi
della “Emiliano Rinaldini”, in una ricreazione che così
lunga nella vita non l’ho più fatta, e un ritorno a casa con
gli occhi bassi. Nemmeno allora potevo sospettarlo.
Sapevo altre cose, però. Per esempio, che in pancia ave-
vo un sole che gli altri chiamavano Africa, e facevo di tutto
per farlo uscire e per farlo essere come gli altri, con la loro
stessa felicità, la loro stessa pelle chiara e quella sensazione
di non sentirsi mai diversi, a volte addirittura trasparenti.
Sapevo queste cose, ma non avevo le parole per nomi-
narle. Le ho cercate disperatamente nelle filastrocche, nel-
le canzoni che uscivano dallo stereo e nei libri della biblio-
teca comunale. Mi sono illusa che bastasse, e che se non
avessi fatto troppo rumore avrei potuto essere invisibile
anche io. E per un po’ così è stato.
Solo per un po’. Perché la realtà è venuta a chiedermi il
conto di qualcosa che non ho mai desiderato. Anche per-
ché sono sempre stati gli altri a desiderare e a pretendere
da me. Cose, risposte esatte, informazioni private e rac-
conti impossibili. Così, a sedici anni entrai in un limbo di
confusione e rabbia; macinavo chilometri nei corridoi di
un istituto tecnico e quando facevano l’appello i miei co-
gnomi erano puntati. E l’idea che quei punti stessero lì per
fermarmi sopra un registro e non solo mi calmava, giusto
il tempo di non permettermi di ribattere, di farmi vedere.
Io che volevo solo essere trasparente.
Finché ho potuto, sono riuscita a nascondermi dietro
a pile di libri e parole monche. Non trovavo quelle giuste
per definirmi, così mi sono fatta raccontare, intervistare,
etichettare e definire. Mi bastava, mi permetteva di conti-

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nuare ad andarmene in giro con gli occhi bassi e l’illusione
di passare inosservata.
Poi, a un certo punto, essere nera e donna è diventato
doloroso e ingombrante, faticoso, fuori luogo, pericoloso,
e tanto altro. Io che volevo solo restarmene sul parquet di
una camera in affitto a leggere tutti i libri del mondo, e il
mondo invece ha iniziato a disturbarmi per chiedermi chi
fossi, cosa volessi, per cosa avrei dovuto chiedere scusa e
quando me ne sarei andata.
C’è voluta un’irragionevole quantità di tempo. E den-
tro ci sono finiti vent’anni di diari scritti a mano o sui blog
aperti solo di notte, tantissime sconfitte, una lotta che du-
rerà per tutta la vita, un paio di rinascite mediche e molto,
tantissimo amore. Perché il sole ce l’ho ancora in pancia
ma mi ha lasciato lo spazio per respirare e il tempo per ca-
pire. Capire che non essere uguale agli altri può essere una
fortuna, e che le parole si possono inventare pur di stare
meglio. E ho compreso che da grande voglio fare questo:
inventare parole e metterle in fila per aiutare gli altri a re-
spirare, a camminare a testa alta. Me lo dicevo anche a
otto anni, ma allora non avrei mai immaginato che potesse
essere vero.

Però prima volevo mettere in chiaro qualcosa di oscuro


agli altri ma innanzitutto a me. Perché alla bambina che
sono stata, che ho realizzato l’unico sogno che abbiamo
espresso non potrei mai dirglielo senza questo testo. Non
sarebbe giusto per entrambe, per come ci siamo sentite,
per le domande che ci hanno fatto e che ci hanno fatto
sentire stupide, sole, minuscole, sbagliate e diverse.

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Allora questo testo è per noi, per i nostri otto anni, per
i sedici di rabbia, per i ventuno di fughe e i ventotto che
ci hanno viste arrivare, anche se non ci avremmo mai cre-
duto. Per chi ci assomiglia allo specchio e in mezzo alle
strade, per le vite in cui ci siamo sentite a disagio anche se
non avremmo dovuto. Per le perdite e per le vittorie che
nessuno immaginava.
Questo testo è per ogni singola volta in cui ci chiederan-
no ancora certe cose solo per il gusto di sapere, solo per ot-
tenere ciò che vogliono senza capire, senza saper ascoltare.
Un testo con dentro le parole che non siamo riuscite a
trovare prima. Con dentro la storia che abbiamo vissuto;
uguale e diversa da quella degli altri, da quella di tutti.
Una storia, bellissima e tremenda, finalmente raccontata
dalla parte giusta: la nostra.
Questo testo è per noi, Espérance Hakuzwimana Ripanti.
E poi basta.

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E POI BASTA
Come iniziano le cose

Ciao,
se ti scrivo è perché mi sento in pericolo.
E se mi sento in pericolo sono più che convinta che lo
siano tutte le persone che mi stanno accanto, che mi asso-
migliano o che mi ispirano.
Mi chiamo Espérance, ho ventisei anni, sono una don-
na e sono nera.
Se ti ho scritto è perché mi ispiri. O perché chi ti segue
mi ha indicato il tuo nome e mi ha detto che l’hai ispirato.
Per il lavoro che fai sui social, l’impegno che hai messo nel
trasmettere emozioni o informazioni, le passioni che hai
riacceso o i sorrisi che hai tirato fuori.
Ed è proprio per tutti questi motivi che ti chiedo un
favore. Una cosa piccola, praticamente potrebbe stare nel
palmo di una mano: racconta questa mia paura.
Che sia con un post su Facebook, con un libro che hai
letto, un film che hai visto, con una battuta, una fotografia,
delle storie su Instagram o qualsiasi altro mezzo ti possa
mettere in contatto con chi ti conosce, con chi ti sta accan-
to e chi ti ispira. Fallo nel modo che ti risulta migliore, e
solo se lo reputi realmente importante.

C’è una narrazione sbagliata e carica d’odio che sta ini-


ziando a rendere difficile la vita di chi, come me, in que-
sto Paese ci è cresciuto e vuole considerarlo “proprio”.
Perché, in chi non ha gli strumenti per comprendere e per
capire tutto, si sta insinuando l’idea che l’origine o il colo-
re di un corpo siano molto più importanti della sua dignità
e della sua vita. E non è giusto, è terrificante e soprattutto
non è una realtà con cui sono disposta a convivere.

Ti chiedo solo questo. Racconta questa mia paura e in-


sieme trasformiamola in forza. Fa’ luce su questa realtà
che è diventata ormai quotidiana per me e per un sacco di
altre vite, e che rimane sconosciuta agli altri.
Io sto usando tutta la voce che ho e anche il tempo, ma
non sono abbastanza. Con qualcosa di minuscolo possia-
mo fare folla, possiamo fare luce e cambiare le cose.
Questa volta per davvero.
Il mio nome è Espérance Hakuzwimana Ripanti.
Ho ventisei anni, abito a Torino e amo scrivere.
Per qualsiasi tipo domanda, sono qui.
Per qualsiasi gesto che farai, invece, grazie.

Torino, 4 giugno 2018

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Io non volevo fare l’attivista

Quando mi chiedono un parere – cosa si possa fare, dove


trovi la forza, con quale coraggio – io rispondo sempre così.
Io non volevo scendere in piazza in pieno agosto, io
non volevo parlare delle innumerevoli discriminazioni sul
territorio italiano, del senso di smarrimento, di ansia e di
paura che in pochi mesi si sono impadroniti del mio cor-
po solo per un semplice motivo. Io non volevo, io non ci
avevo mai pensato.
Ogni volta che in televisione o sui giornali mi è capitato di
guardare un attivista intento a urlare slogan col megafono,
arrabbiato e fiero, ho sempre provato rispetto e riverenza.
Eppure, alle manifestazioni ci sono stata. Contro la
scuola, ossia quel mondo che per tredici anni ha occupato
le mie giornate e impedito ai miei pensieri di incamminarsi
verso il futuro. Ma starmene ai lati del corteo era la scusa
per potermene andare via prima, con lo sguardo sempre
verso la fine e mai verso l’inizio. La mia voce bassa si na-
scondeva, per la vergogna, tra le frasi urlate dei miei com-
pagni di classe, che alle mie orecchie avevano un suono
lontano, non mio.
Era così anche alle assemblee di classe, nelle riunioni
condominiali, nei lavori di gruppo e in tutte le occasio-
ni in cui avrei potuto dire o fare qualcosa di grandioso e
memorabile ma preferivo starmene in disparte, non alzare
la mano, votare il silenzio. Non perché non avessi idee o
entusiasmo: semplicemente, mi vergognavo.
La vergogna, il pudore, il terrore di sbagliare e di fallire
sono state cose che mi hanno inseguito per anni e in cui
ancora oggi talvolta ricado nei periodi complicati.
Nelle aule e durante i cambi dell’ora tentavo sempre di
confondermi e, se non avevo un banco sopra le gambe e
un libro tra le mani, i pensieri li andavo a cercare nei rovi
del mio cervello. Piccoli boccioli tra le spine della realtà,
degli impegni e delle paure. Me ne stavo lì, in attesa di
trovare la spada giusta per fendere tutto quanto e uscirne
illesa. Altro che bella addormentata! Se mi fossi impegna-
ta davvero avrei trovato il coraggio per parlare, per tirare
fuori il meglio di me, farmi sentire. Però nel frattempo
aspettavo, mi graffiavo coi rovi più appuntiti e in silenzio
provavo a raccogliere il bello che rimaneva.

Io non volevo fare l’attivista.


E a dirla, ora, risulta quasi una frase stupida, piena di
falsa modestia e di un imbarazzo che da fuori sembra non
appartenermi. Però, davvero, io non volevo fare l’attivista.

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«Da grande voglio salvare il mondo»: sono certa di aver
scritto questa frase in un tema di quinta elementare, ma non
ho mai potuto verificarlo perché i temi allora non te li face-
vano portare a casa per sempre. Salvare da qualche parte
quell’incredibile atto di coraggio era una cosa che non avrei
mai fatto. Per pudore, l’ennesimo groviglio da disfare.
Però ricordo un pranzo tra i parenti e la risata di qual-
cuno che mi chiede «ma davvero hai scritto questo?», poi
un’ondata di rabbia, e la sensazione di aver bucato con
uno di quei rovi il mio cervello agitato e ferito.
Era uno di quei pensieri di una bambina che, come tut-
ti gli altri, credeva in qualcosa più grande di lei.
Scritto, calcato su un foglio a righe con la Replay blu
che se non stavi attento lasciava macchie dappertutto. E
forse quelle macchie sono rimaste su tutti i fogli a seguire
e anche su questi su cui sto scrivendo adesso.
Mi piace pensarla così. E mi piace l’idea di questo fo-
glio bianco macchiato all’infinito dall’inchiostro cancella-
bile. Perché ogni volta in cui mi chiedono un’opinione,
un parere, un commento sulle cose che accadono e non
si fermano mai, io vorrei ancora salvare il mondo con le
mie risposte e invece mi sembra di riempire dei quadretti
enormi e di calcare tutto in maniera eccessiva.

«Da grande voglio salvare il mondo» e ora che sono


grande ho capito che il mondo non è una cosa che si sal-
va, ma che si tenta di tenere al riparo. E io ci ho provato,
come i genitori della bella Rosaspina, ma alla fine il gro-
viglio me lo sono ritrovato ancora in testa e senza volerlo.

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Io non volevo fare l’attivista. E ogni volta che lo dico
in pubblico o davanti agli Estathé al limone che prendo
al bar vedo spalancarsi dei sorrisi di tenerezza e compas-
sione; quasi come se chi mi ascolta non ci credesse, non si
fidasse ma me lo lasciasse dire: un lasciapassare per le cose
intelligenti che sto per pronunciare, un cancello aperto sul
giardino delle risposte facili e delle soluzioni concrete che
dovrei dargli. Ma io non ho risposte, non ho soluzioni, ho
solo un residuo scarico di quella Replay che perdevo sem-
pre in fondo al mio Seven rosso, e giorni interi a scrivere in
matita o con le Bic dalla punta troppo grande che sui fogli
mica mi piacevano.

Poi è arrivata l’estate del 2018, e con lei un sacco di


cose che ho sempre saputo ma che ho cercato di ignorare
per un bel po’.
Poi essere nera è diventato un problema. Essere donna si
è trasformato in fatica, essere giovane in una lotta continua.
E non ho più potuto fare finta di niente.

«Da grande voglio salvare il mondo.»

Da grande voglio salvare il mondo?

È una domanda che mi sono fatta a dieci anni, a do-


dici seduta in presidenza, a sedici in una casa famiglia in
Romania, a venti in un’aula universitaria e a inizio feb-
braio 2018 davanti alla fotografia di Traini in tv, e che
infine ho ripetuto nella mia testa miliardi di volte, per
tutta l’estate seguente.

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La risposta tutte le volte era «no». Io da grande ho sem-
pre e solo voluto scrivere storie. Riuscire a farlo – possi-
bilmente bene – è un atto rivoluzionario e meraviglioso in
un mondo come il nostro, allo stremo delle forze. Però un
giorno ho capito che la mia parte non poteva più essere solo
quella. Non bastava più, anche perché l’alone dell’inchio-
stro della Replay dopo anni stava scomparendo del tutto.
No, da grande non salverò il mondo e molto proba-
bilmente non riuscirò mai ad accostare le mie scelte e le
mie azioni alla riverenza e al rispetto che provavo nei con-
fronti degli attivisti che vedevo in televisione o sul web
qualche anno fa.

La prima volta che ho visto una foto di me con un me-


gafono in mano ho fatto un balzo di qualche centimetro e
mi sono chiesta chi fosse quella ragazza.
Quando ho sentito la mia voce alta in piazza Castello a
Torino e dopo tutto quello che è accaduto, qualcosa den-
tro ha iniziato a vacillare.
Era estate, sedersi in piazza alle cinque del pomeriggio
era un incubo bollente e le persone che avevo accanto mi
stavano dando un’opportunità gigante.
Ho impiegato mesi a rendermi conto che qualcosa si
stava sgretolando, ne ho impiegati ancora di più a capire
che a farlo era il mio groviglio personale.

No, mi dispiace dirlo alla me di dieci anni, ma da gran-


de non salverò il mondo.
Però, recentemente, in un supermercato del mio quar-
tiere nella sezione cancelleria ho rivisto dopo anni una

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Replay di quelle che usavo alle elementari, e ho riportato
alla mente un po’ di ricordi. In questo modo, ho scoperto
che nella memoria le cose si spiegano meglio di quanto
possa sembrare. E anche se io nella mia storia non sono
Rosaspina, comunque un ruolo me lo voglio meritare. Chi
l’ha detto che i grovigli si possono districare solo con le
spade? Io ho scelto una biro. È vero, lascia il segno sulla
mano, e spesso anche sul foglio.

Io non voglio fare l’attivista, io non posso dare risposte,


io non ho soluzioni pronte. Del mondo capisco poco e
delle persone ancora meno.
Ho la possibilità di raccontare come mi sento, che cosa
vorrei cambiare e come non ho intenzione di essere trat-
tata. Sento la responsabilità di farlo per chi non ha voce,
per chi pensa di non avere niente da raccontare e anche
per chi, ancora, non sa come farlo. Ho la grande fortuna
di poterlo dire per me, per chi mi assomiglia senza saperlo.
Io non volevo fare l’attivista, volevo solo lasciare un’im-
pronta con una Replay su un altro foglio. Volevo solo usci-
re dal mio groviglio.

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Un giorno hanno fregato anche me

Carissimo amore,
sono ventun giorni che non scrivo e ora che ho un attimo
per farlo scrivo a te.
Non so se ti è arrivata la notizia: siamo in guerra.
Non ti allarmare, carissimo amore, abbiamo ancora l’e-
lettricità, la dispensa è piena e mamma guarda ancora la tv
tutti i pomeriggi. Papà, invece, il telegiornale non lo guarda
più. Non perché non ci sia, ma «non c’è niente di nuovo»
dice. E io non riesco a capire se quel nuovo che intende sia
quello di cui avremmo bisogno noi.
«Siamo in guerra.» La prima volta me lo sono detto a
bassa voce, mentre leggevo i titoli dei giornali. Non so se
dove sei tu certe cose si sanno, arrivano, ma qui i bambini
figli di stranieri non possono andare in mensa e mangia-
no panini freddi in stanze apposite. Quei figli di stranieri
per cui eravamo scesi in piazza l’anno scorso; ti ricordi che
ridere quando ci siamo guardati e ci siamo chiesti: «Ma scu-
sa, ma se sono nati qui, se sono cresciuti qui, che differenza
fa?». Eccola la differenza, un documento non recuperato e
la segregazione ai tempi degli youtuber e delle chiamate il-
limitate verso tutti. E come spieghi loro che di Favij, con il
compagno di classe, a mensa, non ne potranno parlare?
Vorrei raccontarti tantissime cose, carissimo amore. Per
esempio l’altra sera coi miei coinquilini ci siamo messi a
guardare le riprese del sindaco di Riace davanti a un corteo
mobilitatosi per lui. Erano in tantissimi, e quando qualcuno
ha urlato che arrivava da Milano mi è venuta la pelle d’o-
ca. Che di solito non mi viene mai ma quella volta sì. Poi
ho sbirciato i volti dei ragazzi con cui vivo, che guardavano
quelle scene con me: se ne stavano in silenzio con la bocca
semiaperta e tante cose negli occhi. Ci siamo sentiti parte di
qualcosa e ci siamo rammaricati per non aver pagato un pull-
man, essere scesi al Sud e cantare Bella Ciao come forse non
faremo mai o saremo costretti a rifare ancora e ancora. Sono
di ieri le notizie che forse Riace verrà sgomberata, svuotata
di nuovo. E sono ore che il mio cuore è in mille pezzi di car-
ta, e che su queste strade continua a piovere.
Piove così tanto che crollano le cose, come i ponti. Come
a Genova, dove ancora oggi, dopo due mesi, nessuno ha fatto
niente. Ti rendi conto? Niente di niente, e quando Gabriele
mi legge cosa lo Stato sta tentando di inserire nelle postille
dei decreti penso che più che aiutarci qui vogliano proprio
avvelenarci l’anima e non solo l’acqua che beviamo.
Vorrei anche dirti cose belle e dolorose insieme. Te la ri-
cordi Ilaria Cucchi? All’università al posto dei radicali leg-
gevo le notizie su suo fratello Stefano e tu mi esortavi a stare

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attenta. Ma io mi ero appena ripresa dal G8, e quella notizia
mi aveva trapassato. Qualcuno ha parlato, finalmente. Forse
il film che è uscito un mese fa ha fatto scattare qualcosa, o
forse no. Forse andare a dormire tutte le notti con un peso
del genere non è andare a dormire davvero, ma espiare le
colpe anche nel sonno, e forse dopo un po’ non ce la si fa più.
Bene, non sai quanto sono felice. Ora mancano solo Carlo,
Federico, David, Ilaria, Giulio e tutti gli altri.
Siamo in guerra, carissimo amore. Non ce lo diciamo e
non capisco il perché. Non ce lo diciamo e capisco il perché.
Ci trasciniamo stanchi e arrabbiati per le vie di queste città
e siamo così distanti. Ci occupiamo di noi e di chi amiamo
e poi chiudiamo la porta a chiave con tre mandate, e mor-
moriamo una preghiera: Speriamo che stanotte non venga-
no a prendere me. Quando invece ci hanno già presi tutti,
quando invece ci hanno già fregati tutti. Con la tv, con i
social, togliendo la Storia dall’esame di maturità, obbligan-
do i centri di accoglienza e antiviolenza a chiudere, mentre
fascisti, razzisti, omofobi scrivono sulle prime pagine quel-
lo che pensano, dicendoci che lo studio è utile sì ma fino a
un certo punto, con la mafia, con la corruzione, con la lotta
contro l’aborto, con le manovre finanziarie, ogni volta che
sparano a qualcuno per il colore della sua pelle, ogni volta
che attaccano la stampa, obbligandoci ad andarcene perché
non ci sono alternative, obbligandoci a restare perché non
abbiamo alternative.
Non ti allarmare, carissimo amore. Ogni giorno prendo
un autobus che mi porta al lavoro e faccio il mio dovere.
Non urlo, anche se vorrei farlo. Non scappo, anche se è il
mio primo pensiero al risveglio. Non mi metto a scuotere le

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spalle dei ragazzi che incrocio chiedendogli «ma voi non sta-
te male?». Non faccio niente di tutto questo; un po’ hanno
fregato anche me.
Non ti allarmare, carissimo amore. Il campionato va
sempre in onda, ho fatto il cambio degli armadi, continua-
no a dire che WhatsApp diventerà a pagamento ma nessu-
no ci crede e il Carrefour resta aperto ventiquattr’ore. In
Germania scendono in strada a migliaia, in Brasile le don-
ne non ci stanno, in Africa i cinesi ci stanno riprovando, e
quando mi chiedono chi sono faccio sempre una pausa prima
di rispondere.
Sarà una guerra lenta, questa. Ci stanno attaccando da
qualsiasi parte, ma è una guerra lentissima.
Abbiamo ancora la possibilità di scrivere quello che ci va,
i soldi sono al sicuro in banca e mamma una volta al mese
va dal parrucchiere per farsi la tinta e sentirsi più giovane.
Papà, invece, di casa non esce quasi più. Non perché non
abbia voglia, «non ne trovo il motivo» dice. E io non sono
ancora riuscita a capire se il motivo che intende lui sia lo
stesso di cui avremmo bisogno noi.
Per ora ti saluto.
Spero di poterti aggiornare al più presto, spero di poterti
stringere ancora, carissimo amore.

Un sorriso.
Con paura e libertà

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I MIEI SENTIMENTI
HANNO UN VALORE
«Ma sei sicura che sia il caso?»

Alle elementari le mie unghie iniziarono a spezzarsi


perché il mio corpo era carente di vitamina D. Il medico
che mi stava visitando mi guardò e per farmi capire mi
disse «ti manca il sole del tuo Paese, dobbiamo prenderci
cura delle tue unghie» poi mi strofinò le guance, i ricci
corti e crespi, e sparì dai miei ricordi. Me ne uscii da lì con
la mia mano dentro una mano più grande di cui mi fidavo
e un’orbita di domande in testa.

Un giorno, tra una lezione di musica e una di mate-


matica, qualcuno ci diede un seme, del cotone, un vaso
e della terra. «Abbiate cura delle vostre piante, ne siete
responsabili fino a quando non saranno abbastanza forti.»
Non superavo il metro e trenta, ero certa che quello fosse
un seme magico e le responsabilità mi mettevano ansia già
prima del 2001.
In ogni caso andai a casa e tentai.
L’emozione di una futura pianticella da annaffiare ogni
giorno durò ben poco e, non so come, la mia piantina riu-
scì a resistere. Sbocciò bellissima e rigogliosa, fino a quan-
do non mi dimenticai per due giorni della sua esistenza. A
nove anni il tempo è un concetto relativo, ma forse anche
da adulti.
Scoprii la mia piantina afflosciata su se stessa e aspettai
la sera per confessare piagnucolante il disastroso segreto a
mio padre. Mi venne detto che mi distraevo troppo spesso e
che avrei dovuto prendermi cura del mio compito anche se
si trattava solo di una pianta. Risposi con un mugolio, senza
trovare nulla di soddisfacente da dire per avere ragione.
Giorni dopo, in classe, nel bel mezzo della mia vergo-
gna, mi venne in mente quello che mi aveva detto il pedia-
tra alla fine di quella visita. Al termine delle lezioni corsi
a casa, cercai il davanzale più luminoso che ci fosse e ci
appoggiai la piantina ormai trapassata.
Sinceramente? Non si riprese mai.
Non mi ricordo cosa mi disse la maestra E. Probabilmente
non fu così grave. Però ricordo quello che mi venne det-
to da mio padre quando buttai via la mia pianta magica:
«Impara a prenderti cura delle cose, Esperance – con quel
suo accento sbagliato sul mio nome che mi faceva sentire
ancora più unica di quanto già non fossi – se ti prendi cura
delle cose, quelle durano per sempre».
Ho iniziato coi libri, poi sono arrivati i floppy disk, le
Staedtler che rubavo dalla scrivania di casa e le lettere
scritte a mano.

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Le piante non le ho più toccate. A volte negli anni ho
preso in cura cose che non avevano bisogno di me, altre mi
sono distratta e sono morte comunque, anche se ci tenevo
tantissimo.
Fatto sta che se penso a quando ho iniziato a tenere a
queste cose, a proteggerle, a prendermene cura, la prima
cosa che mi viene in mente è che mi hanno fatto sempre
prendere un sacco di sole.

«Impara a prenderti cura delle cose, Esperance: se ti


prendi cura delle cose, quelle durano per sempre.»

L’estate scorsa facevo cadere gli occhi e le labbra den-


tro a una vita ormai lontana e proprio quando ho scelto
di scendere in piazza, di alzare la voce, tra le cose non
dette da questa vita mi è stato chiesto dall’altra parte di
un telefono:

«Ma sei sicura che sia il caso?»


«Non ti sembra di esagerare?»
«Non è che soffri di una tua personale mania di perse-
cuzione razziale?»
«Se fossi stata bianca di sicuro non avresti fatto que-
sto casino.»
«Fai meglio a pensare alle cose davvero serie!»
«Esperance, lascia perdere, dai!»
«Cosa pensi di fare?»
«La tua famiglia cosa dice?»
«Ma sei sicura che sia il caso?»

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Queste e altre sono state le domande che mi sono state
poste non per forza da volti amici, da voci che conosco o
da amori incredibili o increduli. Spesso alcune di queste
frasi sono arrivate dai display che a un certo punto ho ini-
ziato a tenere accesi e aperti più dei libri, per un bisogno
di risposte che non si placava mai e per la costante sen-
sazione che stesse per accadere qualcos’altro di terribile.
la sensazione del rischio di qualcosa. Ogni giorno, ogni
ora, tutte le notizie potevano essere fondamentali, tasselli
in più in un mosaico di cui non comprendevo il disegno
generale e finale ma di cui avrei voluto sapere tutto; per
capirci qualcosa, per uscire dall’incubo.
Ogni tanto mi sono rifugiata in cucina o nella camera
dei miei coinquilini e, ad alta voce, ho letto loro le parole
che lampeggiavano dalle conversazioni di Messenger o di
Instagram. Un po’ per riderci su, un po’ per renderle più
leggere, digeribili al mio piccolo cuore e al mio piccolo or-
goglio. Loro, nonostante tutto il sole presente, faticavano
a crescere, a differenza del basilico sul davanzale.
Più delle parole degli altri, che non conoscevo, mi han-
no toccata i pensieri di chi avevo accanto, di chi mi ha
vista crescere, diventare negli anni, per poi riconoscermi,
sia per strada che negli scritti. Mi hanno toccato le frasi
pungenti e veloci, i messaggi vuoti, i silenzi di disaccordo
riempiti dalla mia ansia.
Così, ogni volta che mi è capitato che mi si avvicinasse
l’ombra dei pensieri di qualcuno, del pregiudizio di molti
e del desiderio di spegnermi degli assenti, ho ripensato
alla piantina afflosciata sul davanzale di camera mia.

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Un pensiero minuscolo, come le cose che hanno smos-
so i tempi per fare azioni grandiose. Così credo, o almeno
di questo mi sono voluta convincere.

Durante l’adolescenza The Butterfly Effect mi ha af-


fascinato così tanto che me lo porto addosso ancora
adesso.

«Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia


in grado di provocare un uragano dall’altra parte del
mondo.»

Mi ha sempre colpito per la potenza dell’immagine e


per il suo significato.
Eppure i miei pensieri non sono mai stati potenti, nem-
meno giganti, semmai ostinati. E forse la potenza reale
che mi ha permesso di sconfiggere la cattiveria degli sco-
nosciuti – che mi hanno scritto solo per ferirmi, o farmi
cambiare idea – stava proprio in una cosa piccola, come
il ricordo di un compito delle elementari e l’orgoglio che
cresce una volta scoperto il segreto.

«Ma sei sicura che sia il caso?»

Quando il cellulare mi ha rimandato indietro questa


domanda me ne stavo in piazza Carignano, e un uomo non
lontano da me stava leggendo un discorso potente in mez-
zo alla gente impegnata a non cedere, animata da un ri-
spetto che arrivava da un altro spazio e da un’altra epoca.

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E io, che avrei voluto piangere per una ragione minusco-
la, mi sono avvicinata stordita e stanca e sono stata travolta.

«Non ti sembra di esagerare?»

Eppure avevo detto che mi stava piacendo l’idea di


poter cambiare le cose anche grazie alla mia voce. Che ci
tenevo tantissimo.

«Quando avevo 13 anni ed ero intrappolata sotto le ma-


cerie in fiamme della mia scuola, ho continuato a spingere.
Ho continuato a muovermi per raggiungere la luce. E sono
sopravvissuta.»

«Non è che soffri di una tua personale mania di perse-


cuzione razziale?»

Ero nel bel mezzo di un’intervista, mi stavo riprenden-


do da delle domande fortissime appoggiate su un tavolo.
Mi stavo aprendo, mi stavo fidando.

«A tutti i presenti in questa sala, e a tutti coloro che ci


stanno ascoltando nel mondo, io ripeto le parole che mi ven-
nero dette tra le rovine di Hiroshima.»

«Se fossi stata bianca di sicuro non avresti fatto questo


casino.»

Avevo aperto la mia pagina Instagram dopo una discus-


sione lunghissima ed estenuante su Facebook. L’altro vo-
leva l’ultima parola a ogni costo. Io non avevo più le forze.

34
«Non arrendetevi! Continuate a spingere! La vedete la
luce? Strisciate verso di essa!»

«Fai meglio a pensare alle cose davvero serie!»

Ero al telefono e chi mi parlava aveva trent’anni più


di me. Ho riattaccato. Fuori quaranta gradi all’ombra, in
testa un temporale.

«Questa sera, quando marceremo per le vie di Oslo con le


fiaccole accese, lasciate che ciascuno segua l’altro fuori dalla
notte scura del terrore nucleare.»

«Esperance, lascia perdere, dai!»

Invece no. Invece no!

«Non importa quali ostacoli ci attendano, noi continue-


remo a muoverci e continueremo a spingere e continueremo
a condividere questa luce con gli altri.»

«Cosa pensi di fare?»

Una persona su tre, gli sguardi attenti alle mie reazioni.


Non lo sapevo, ma se non avessi fatto niente sarebbe stato
di sicuro peggio.

«Questa è la nostra passione e questo è il nostro impe-


gno, perché questo prezioso mondo, l’unico che abbiamo,
possa continuare a esistere.»

35
Sinceramente?
Se sia stato il caso e se lo sia tuttora io non lo so. So solo
che è bastato il battito di un discorso che arrivava diret-
tamente da Seoul per cambiare il tempo a Torino. E non
è stato niente di sconvolgente in fondo. Almeno non per
tutti. Forse solo per me.
Ho imparato ad accettare le nuvole e le loro ombre,
esattamente perché di seguito spuntano il sole e le cose
buone, inaspettate.
Come il mio cuore e il mio orgoglio piccoli, che adesso
stanno crescendo piano sul davanzale, accanto al basilico.
Germogli ostinati, foreste future.
Animale da palcoscenico

L’Italia ha un problema e non è l’immigrazione.


Il problema sono i ragazzi di seconda generazione che non
vengono presi in considerazione, né rappresentati.

Afroitalian Souls

«Buongiorno, mi chiamo Espérance Hakuzwimana


Ripanti, ho venticinque anni e fino agli otto ho pensato di
essere bianca.»

Il giorno più importante della mia vita è iniziato così.


Indossavo un paio di sandali comodissimi, una tutina che
sapeva di primavera e avevo i capelli rasati come i moicani
dei film che da piccola mi facevano sognare di nascosto.
Avevo un microfono in mano, un leggio sotto gli occhi:
davanti, una distesa di esperti, professionisti e scouter del
mondo dell’editoria. Il cuore a pezzi dalla gioia e dal ter-
rore, e una sola frase in testa con cui provare.
Così ho iniziato.
Avevo sette minuti di tempo per presentare un proget-
to, un pezzo di anima a cui stavo lavorando da mesi ma
di cui sotto sotto non ero pienamente convinta. Però ero
riuscita ad arrivare lì e da lì nessuno mi avrebbe cacciato.
Fiera, spaventata e fragile come una nocciolina, ho ini-
ziato a raccontare come fosse nata in me l’idea di una storia,
in un pullman notturno che da Napoli tornava a Torino. Ho
parlato, riso, sbagliato, emozionato il pubblico e letto ad
alta voce, e in tutto questo le luci del palco non mi permet-
tevano di vedere i volti di chi mi ascoltava. Faceva freddo
ed era giugno, sembrava sera e invece erano le 15:30 circa.
Alla fine di tutto sono scesa dal palco e un ragazzo con
cui avevo condiviso quattro anni della mia vita mi ha detto
«sei stata perfetta», e io gli ho creduto. Quella sera, incre-
dula e frastornata, seduta per terra da qualche parte, ho
guardato M. e gli ho detto: «Ma tu hai visto che in platea
erano tutti bianchi?».
Ognuno di noi nella vita ha avuto o avrà la fortuna di
incontrare almeno una volta una persona che saprà risol-
levarla. Con metodi poco ortodossi, con un tipo di affetto
strano, disegnato senza contorni ma comunque presente.
Quella persona per me è M. Cinque anni meno di me,
non mi ha mai abbracciato se non sotto mia minaccia, ci-
nico a livelli siderali ma anche la mia luce guida in un 2017
torbido e infinito.

38
«E quindi? Ti fai problemi per questa storia?» mi ha
risposto.
M. è sempre stato così: schietto e diretto, pieno di tagli e
salvifico in differita. Nel senso che il suo bene mi è arrivato
sempre a distanza, con un ritardo preciso ma inaspettato.
«Beh, sì.»
«Perché? – risponde, stupito alle mie parole bisognose
di conforto – alla fine hai fatto il loro gioco e hai vinto, no?».

Una delle prime cose che mi ha insegnato Anna è stata


saper riconoscere “quello sguardo”.
Mi ci sono voluti gli anni giusti, l’altezza adeguata per
raggiungerlo e la capacità di spazzare via la diffidenza o la
simpatia spontanea che mi viene fuori con certe persone
talvolta anche in fila alla cassa.
Sono dovuti passare sedici anni, ed è successo in terza
superiore, quando la docente di Economia mi aveva chie-
sto da dove venissi e di raccontarle la mia storia. Con una
smorfia impercettibile, dentro a una domanda stupida, nel
bel mezzo di un sorriso fuori luogo, l’ho riconosciuto. Si
era nascosto perfettamente per sedici anni e poi mi si è
palesato così: alla quarta ora, al terzo piano di un istituto
tecnico aziendale, durante la terza ora di Economia azien-
dale della mia vita, mentre la mia vicina di banco scriveva
i compiti sul suo diario.

Ho raccontato la mia storia così tante volte da averne


una versione che all’occorrenza parte in automatico dalle
mie labbra. Come un disco registrato, una filastrocca im-

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parata a memoria a cui non si trova più un senso. Un in-
volucro vuoto, una lista di fatti da elencare. Spesso chi mi
ascolta non se ne rende conto, ma quando giungo alla fine
del racconto ogni volta termino il fiato. Probabilmente
pensano che sia emozione, in realtà è desiderio di far stare
tutto dentro a una sola frase lunghissima. Senza dover ag-
giungere altro, spiegare altro, tirare fuori altro.
Ho imparato a farlo con i supplenti in quinta elemen-
tare, con gli sconosciuti sui mezzi, nei parchi mentre por-
tavo in giro i pensieri o i figli degli altri, in fila alla posta e
pure in attesa all’esame di Storia delle istituzioni politiche.
La domanda è più o meno la stessa, cambia di poco, e
poi c’è il silenzio, gli occhi fissi su di te e un faro puntato
addosso che sta a dirti «cosa aspetti? Inizia!».
Raccontarmi è sempre stata una recita, un bisogno degli
altri da soddisfare, l’esigenza di sapere perché mi trovassi
in quell’esatto posto. La giustificazione valida per farmi
restare, un lasciapassare per poter partecipare.
Loro curiosi, avidi di sapere. Io cavia, animale da
palcoscenico.
Crescere in un contesto in cui la tua storia è sempre
l’eccezione dell’eccezione, in cui chi ti ascolta non ha la
minima idea di dove sia il Ruanda e che cosa sia successo
nel 1994; in cui sei l’unico nero nella stanza, in casa, nel
Paese, nel raggio di chilometri; in cui devi spiegare che
l’italiano lo sai bene perché l’hai imparato sui banchi come
tutti, che la cittadinanza italiana ce l’hai perché ti hanno
adottato, che sì un diploma ce l’hai, che desideri andare
all’università, che hai aspirazioni lavorative e personali,
crescere in tutto questo è complesso.

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È articolato e difficile da riconoscere, assurdo e faticoso
da spiegare.
Ci ho impiegato sedici anni a capire che cosa fosse quella
sensazione di fastidio che mi colpiva ogni volta in cui mi chie-
devano «di dove sei?». Non tanto per la domanda in sé, ma
perché ogni volta che rispondevo «di un paese in provincia di
Brescia, di Flero, italiana, della Lombardia, del Nord Italia»,
la domanda fredda, diretta e senza sconti che arrivava subito
dopo è sempre stata un’altra. Quasi uguale, ma più sottile:

«Sì, ma di dove sei veramente?».

La miccia che scatena il disastro, la goccia che fa tra-


boccare il vaso, il punto di non ritorno. Da lì di solito ini-
zio a rispondere in fretta, per poter scappare in tempo.
A volte riesco a dire tutto in quattro frasi nette, altre
volte mi dilungo in una decina, che sbrodolano via il tem-
po ma non il fastidio. Capita anche che dica una frase e
non sorrida neanche; però quello ho imparato a farlo tar-
di, quando non mi va, quando non ci riesco, quando mi
stanco e inizio a stare male, quando non voglio farmi ve-
dere. O catturare.
L’Africa, la mia nascita, i genitori, un orfanotrofio, quel
genocidio, la fuga, un aereo, l’Italia, un centro accoglienza,
dei volontari, un affido, una casa, una famiglia adottiva.
Tredici pezzi per una storia che dura da ventotto anni. E
se anche bastassero per farsi una vaga idea, non sembrano
mai abbastanza per chi mi chiede di dove sono, come sono
arrivata fin qui, perché sembro uguale a loro anche se é evi-
dente che non lo sia e come faccio a essere così uguale a loro.

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Tredici pezzi per costruire una tana. Piccola o grande
in base alle occasioni, a chi mi trovo davanti, a chi mi
stringe le mani.
Come gli animali che si difendono dai predatori, che
non possono mai stare tranquilli, sempre pronti a un at-
tacco inaspettato o letale.

«Alla fine hai fatto il loro gioco e hai vinto, no?»


Il giorno più importante della mia vita ho costruito una
tana, perché sapevo che le persone venute ad ascoltare i
miei progetti per il futuro probabilmente avrebbero ten-
tato di catturarmi. E così è stato, in parte, e così mi sono
sentita e mi sento la maggior parte delle volte.
In quel pomeriggio di inizio giugno ho scoperto due
cose. La prima era che avevo un talento e non era solo una
mia impressione; la seconda era che il mio corpo, i miei
tredici pezzi e tutto quello che rappresentavano per gli al-
tri superavano di gran lunga il mio talento, l’interesse per
esso e l’attenzione verso i miei progetti futuri.
Ci sono rimasta così male che non sono riuscita a dirlo
nemmeno a M. e a tutte le vite che mi hanno tenuta in
piedi in quel pomeriggio e che erano felici per me, con me.
Ci ho provato per quel che ho potuto, ma a distanza di
settimane mi è risalita la stessa rabbia che a sedici anni mi
faceva macinare chilometri nei corridoi di scuola.
Non sapevo dare un nome a quella sensazione, non ri-
uscivo. Ma sapevo che quello che mi stava attraversando
sarebbe stato utile, in qualche modo si sarebbe trasformato.
Come quei dolori che prima o poi diventano lezioni di vita.

42
All’esame di quinta superiore, quando mi chiesero cosa
avrei voluto fare “dopo”, risposi «la facoltà di Lettere» e
il presidente di commissione fece quello sguardo. Ho ri-
pensato mille volte a quella mia risposta: avrei voluto dire
«scappare il più lontano possibile da tutto questo», ma la
mia tana non era ancora pronta. E non lo sarebbe stata
ancora per molto tempo.
Non lo è stata tutte le volte in cui per sicurezza mi hanno
chiesto i documenti in treno, in cui mi hanno invitato a rac-
contare la mia storia e prima di farmi prendere parola ave-
vano già preparato una scaletta con le cose che avrei dovuto
dire. Non lo è stata quando una mattina ho ricevuto una
proposta con cui mi veniva chiesto «stiamo cercando delle
storie forti, racconti che abbiano al loro interno la guerra:
come la tua storia». Non lo è stata quando una signora ac-
cigliata sul posto di lavoro mi aveva domandato perché non
sapessi la lingua del mio Paese e quando le avevo ritirato il
piatto aveva replicato stizzita: «Beh, è un po’ uno scandalo
che tu non abbia legami con la tua terra natia».

Animale da palcoscenico per platee che non ti assomi-


gliano, che non hanno niente a che fare con te, coi tuoi
sogni, il tuo talento, i tuoi pensieri, il tuo vissuto, le tue
capacità, il tuo dolore e la tua vita.
Un incubo ricorrente in cui continuo a spiegare, a par-
lare, a urlare e nessuno mi vede, mi riconosce, mi sente o
mi ascolta. Tutti fermi, imbambolati, pronti a scorgere le
mie bellissime ali, la mia prestanza fisica, i giochi meravi-
gliosi che la genetica ha realizzato con me, e come alla fine
io – per quanto sia simile a loro – non sia poi così simile a

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loro. E in tutto questo, la straordinaria fortuna è che loro –
soltanto loro – possono avere l’onore di darmi il permesso
di poterglielo raccontare. Loro curiosi e avidi senza prece-
denti, io animale da palcoscenico.

Raccontaci la tua vita.


Come sei riuscita a fare l’università?
Conosci la storia del tuo Paese?
Sì, italiana d’adozione però.
Siete così bravi, voi, a imparare in fretta le lingue.
Com’è stato essere africani in una famiglia italiana?
Che brava ragazza che sei diventata.
Resterai in Italia o tornerai a casa?
Come sei riuscita a integrarti bene.
L’Italia è il tuo Paese?
È uscito un documentario sul Ruanda, ti va di presentarlo?
Dev’essere stato difficile crescere in provincia di Brescia.
Hai sentito quello che è successo in Nigeria? Cosa ne pensi?
Hai subito del razzismo?
Conosci qualcuno che ha subito episodi di razzismo?
Ci racconti del razzismo?
Secondo te l’immigrazione è una cosa buona?
Però che bravi i tuoi genitori ad accoglierti, così piccola.
Cosa votate voi?
Ti va di raccontarci come ti senti in questo periodo?
Ti senti diversa, e in cosa ti senti diversa?
Sei mai tornata in Africa?
Perché non sei tornata in Africa?
Farai vivere qui i tuoi figli?
Ti senti più africana o italiana?

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Io a M. ho risposto che non lo sapevo che gioco avessi
fatto. Davanti alla possibilità di realizzare il mio sogno più
grande mi sono ritrovata in un campo sterminato di trap-
pole e l’unica cosa che sono riuscita a fare è stata ripetere
il mio disco registrato, la mia filastrocca imparata a me-
moria. Illudendomi che la tana fosse più vicina di quanto
sembrasse. Sperando che non mi chiedessero niente, che
non mi puntassero addosso niente.
Mi ero creduta predatore ed ero rimasta preda, animale
da palcoscenico per uno spettacolo che avevo scritto io ma
che avrebbero dovuto capire, guardare e giudicare loro.
Come sempre.
Io a M. non gliel’ho mai spiegato perché secondo me
non ho mai realmente vinto o meno. Anche perché le uni-
che cose che avrei voluto dirgli erano altre, prima tra tutte:
non partire, resta; mi sento un animale e non la smettono
di inseguirmi, e poi un’altra valanga di cose. La maggior
parte paure.
Invece l’ho abbracciato per mille secondi sotto il sole
imperdonabile di giugno e non l’ho più visto. Ci siamo
sentiti al telefono per un po’ e ogni volta in cui penso a
lui mi vengono in mente le cose che mi ha insegnato, e da
qualche parte qualcosa si trasforma. Mi piace pensare che
siano la mia rabbia, la delusione, la fatica e la tristezza che,
per qualche assurda legge non ancora scoperta, diventano
terra nutriente, sana. E che in un posto minuscolo della
mia testa diventano tana.

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Siamo fatti per pochi

Carissimo amore,
so che è trascorso del tempo dall’ultima volta che ti ho
scritto e mi dispiace che tra di noi e le nostre parole passino
tutti questi giorni.
Sono tempi in cui tutti quanti abbiamo un sacco di cose
da fare per sopravvivere.
L’altro giorno aspettavo l’autobus, e un signore indican-
domi una scritta in arabo mi ha chiesto cosa dicesse. Me l’ha
chiesto così, come se potessi saperlo, e io, come se lo sapes-
si davvero, gli ho risposto: «Siamo fatti per pochi». Lui ha
aperto un poco la bocca e ha detto solo «ah»; poi è arrivato
il 49 e sono andata via.
Io non lo so se lì da te i giornali arrivano ancora, se la
sera si accende la tv o se gli smartphone hanno il 4G e il
WiFi prende. E dato che nessuno ci racconta niente del po-
sto in cui stai, ti racconto cosa succede qui da noi.
Dall’altra parte dell’oceano – dove la metà delle famiglie
più una hanno un cognome italiano che ha sputato sangue
sui terreni delle fazende delle telenovelas di Rete4 – è salito
al potere il male assoluto, e quando ci penso se deglutisco mi
fa male la gola. Continuo a mormorare che veramente siamo
in tempi bui, ma le poesie di Brecht non bastano mai. Che
il cielo è grigio. Lo so, qui a Torino non è una novità, ma
tutto intorno ha iniziato a scurirsi da poco, eppure sembra
un’eternità.
A Novara gira voce che non ci si possa più vestire come
si vuole e che non si possano più legare le biciclette ai pali.
E quando ho letto questa notizia mi sono venuti in mente
I., che alla scuola dell’infanzia ci va vestita con una gonna
gialla e una maglietta con le paillettes, ed E., che in centro a
Brescia slega la sua bici per poi andarsene via cantandomi di
fisarmoniche e campi rom. Chi glielo dice a quelli di Novara
che la vita a volte è tutta lì, in quasi cinque anni di amore e
in una serenata alle tre del pomeriggio?
Oltre alle voci, girano anche fotografie e video di questa
parte di mondo; ieri a Napoli una donna stanca ha dato del-
lo scemo a un razzista che insultava fiero due vite arrivate
dal Pakistan con chissà già quante cose addosso; ché certi
bagagli sui tram non ci stanno mica, e questo tu lo sai. La fo-
tografia di Amal Hussain, morta a sette anni – pelle e ossa,
inerme e dannata – è forte come la fame in Yemen e il vuoto
di 10mila vittime, 50mila feriti e 2 milioni di rifugiati. E
lascia solo silenzio, come quello nelle valli del Trentino, del
Friuli e del Veneto, spoglie di alberi che avevano 150 anni;
prive di corrente per scaldarsi la notte, per cibarsi di giorno
e guardarsi negli occhi per dirsi «sto bene». E chi dovrebbe

48
proteggerci da tutto questo dice che è tutto sotto controllo,
e ci chiede di considerare l’idea di fare un figlio, e magari
un altro, magari un terzo, per guadagnarci un pezzo di terra
e non pensare. I femminicidi incessanti, i morti sul lavoro
a diciotto anni, le minacce via lettera ai sindaci, l’uranio
impoverito degli anni Novanta, la legge sul divorzio da ri-
vedere e i soldi che non ci sono e dove li andremo a trovare.
Carissimo amore, oggi ho poco tempo per scriverti. Ma
voglio dirti che ci sono anche cose belle qui. Ancora. Non le
vedo tutte, non le riesco a toccare, ma a tratti le posso senti-
re. Per questo a quell’uomo ho risposto così, che siamo fatti
per pochi; anche se l’arabo non lo so, a parte le parole nelle
canzoni di Ghali, e le cose che mi hanno spiegato A. e N.,
che mi traduceva i “ti voglio bene” e i pensieri.
Siamo fatti per pochi, carissimo amore. E quei pochi ci
sono, e in tasca si tengono il calco del nostro sorriso. A volte
te lo ridanno. A volte, tre anni dopo aver slegato la bici da
quel palo, ti scrivono dal nulla che si sposeranno. Altre an-
cora, le più belle, li scorgi aspettarti alla fermata della metro
verso la fine del giorno ed è solo gioia, voglia di vivere e un
gigante «ma gli altri che ne sanno?». Perché, seriamente: gli
altri che ne sanno?
Adesso scappo, carissimo amore. Ti scrivo così perché mi
illudo che questo messaggio ti arrivi presto. E presto arri-
verà; come i tempi migliori.

Un sorriso.
Con paura e libertà

49
NERI ITALIANI
Anna

Sono sempre stata una bambina timida. Anche se, one-


stamente, a riguardarmi indietro sarei più sincera se di-
cessi codarda.
E lo sono stata per tantissimi motivi, ma il principale si
chiama Anna.

C’è stato un periodo alle elementari in cui secondo le


mie maestre era stimolante rendere la conoscenza simile
a una gara. Loro facevano le domande e noi dovevamo
rispondere il più velocemente possibile. A geografia la ma-
estra G., con gli occhi truccati e l’accento caldo del Sud,
faceva cenno verso le mani alzate dei miei compagni e li
ascoltava con attenzione. Specialmente O. che sapeva tan-
tissime cose, perché suo padre tornava da viaggi che noi
nemmeno immaginavamo e le regalava tante cose, ma so-
prattutto degli occhi più grandi.
Da quel che ricordo, detestavo profondamente quei
momenti perché non ero in grado di alzare la mano. Non
che ignorassi le risposte: a volte – soprattutto quando si
parlava delle Marche – indovinavo prima degli altri, in si-
lenzio, dietro al banco.
Li detestavo e basta. Ancora di più quando a matema-
tica le risposte da dare erano i risultati delle tabelline che
non volevano entrarmi in testa, e tutto intorno era un af-
fannarsi, uno sgomitare, un far mostra di sé.
Non mi è mai piaciuto espormi, stare al centro di un’at-
tenzione che non volevo. Se mi capitava rispondevo con
una battuta fuori luogo, pagando il prezzo con un richia-
mo che barattavo felicemente con la risata di un mio com-
pagno di banco.

«Le maestre dicono che in classe sei esuberante.»

Meglio esuberante che nera.


Non lo dicevo mai ad alta voce, lo tenevo per me, ma
lo pensavo perché Anna me lo ripeteva in continuazione.

Da che io ricordi, nella mia testa c’è sempre stata un’a-


rea precisa che per motivi “astrali” e personali avevo deci-
so di chiamare Anna.
Forse perché è un nome palindromo, cortissimo e sem-
plice. O forse no, ma così è sempre stato, e così è rimasto
per tempo immemore.
Anna è stata una luce accesa accanto a un’uscita d’emer-
genza, una voce, un sibilo costante e fastidioso a cui sono riu-
scita a badare più volte di quante sperassi, di quante dovessi.

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Me la sono sempre immaginata piccola, Anna; bruna,
con gli occhi aperti in una fessura e la voce stridula. E
anche se è sempre stata solo nella mia testa, la mia convi-
venza con lei ha attraversato tutte le fasi umane possibili.
Poi, un giorno, è finita nel nulla.
Una compagna fedele, un’amica, un aiuto; una guida
in un marasma di situazioni che mi hanno portato a essere
una bambina come tutti, certo, però nata in Africa, adot-
tata, cresciuta nella provincia di Brescia, con la pelle nera.
Ha fatto sì che me ne rendessi conto quando, accanto
a mia madre, nella Coop di via Corsica, mentre mi acca-
rezzavano il volto, avevano chiesto con una voce troppo
alta a mia madre: «E poi quando cresce cosa farete?», e
mia madre offesa e incredula che aveva risposto «non è
mica un pacco!».
Mi ha fatto fare un passo indietro, quando ero in fila ad
aspettare il mio turno, e una donna con la figlia per mano
mi aveva indicato dicendo: «Guarda, guarda i capelli dei
neri che belli che sono» e avvicinandosi mi aveva chiesto
«posso toccare?» mentre lo stava già facendo.
Mi ha strappato una risata grazie a una vecchietta che,
su un autobus in un punto preciso di Brescia centro, mi
ha detto: «Quella è la statua di Garibaldi, ti racconto chi
è», e io a spiegarle che stavo andando in università, e lei a
insistere «brava, quindi la fate anche voi?».
Mi ha spiegato il dolore, ferendomi quasi a morte,
quando tenevo P. per mano respirando l’amore per la pri-
ma volta e due ragazzi, vedendoci, si erano guardati e pas-
sandoci accanto avevano sussurrato «che schifo, un bian-
co con una nera».

55
In questi e in tantissimi altri momenti Anna c’è sempre
stata, compagna fedele, amica giurata, aiuto, guida. E con
fermezza e costanza mi ha accompagnato dentro il mio
senso di spaesamento, una solitudine che non riuscivo a
spiegarmi, figuriamoci a raccontare.
Perché nella mia timidezza ostinata, nel mio terrore
di entrare nelle stanze, fare le file, stare sui marciapie-
di, alzare la mano, proporre un gioco, chiedere aiuto, c’è
sempre stata la convinzione che l’Africa dentro di me fos-
se un elemento che gli altri avrebbero dovuto valutare e
soppesare prima di potermi ascoltare, dare corda o anche
solo accettare.
L’Africa che avevo dentro e su tutta la pelle, che non
finiva mai e che non potevo nascondere. Nonostante
gli sforzi, le battute tra un capoluogo e un astuccio di
Spiderman e le risate degli altri che valevano milioni.
L’Africa che avevo dentro non poteva andare via, era
una macchia gigante. Colpa o miracolo, vanto o vergogna,
segreto o racconto, orgoglio o sfacelo, tutto in base a dove
mi trovavo, a come mi muovevo, se respiravo, quanto
spesso piangevo, quanto forte ridevo, dove correvo, quan-
to mangiavo, se chiedevo qualcosa, per cosa chiedevo scu-
sa, come dormivo o quanto camminavo, con chi giocavo o
a chi chiedevo indicazioni.
Una vita a ostacoli, in cui saltare non bastava mai. Un
continuo correre, trattenersi, evitare, sorridere, schivare,
accettare, dire grazie, non parlare, ridere, rifiutare e insie-
me, nel frattempo, saltare ostacoli.
Se ho imparato a farlo, è stato solo grazie ad Anna.

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Anna mi ha insegnato a capire subito le cose importanti.
Anna mi ha insegnato a stare all’erta.
Anna mi ha insegnato ad affinare i sensi, i sentimenti.
Anna mi ha insegnato a riconoscere le persone tra quel-
le che mi vedevano per quello che ero e quelle che mi
guardavano per come ero.
Anna mi ha insegnato ad avere cura, a stare in silenzio
e a riconoscere la paura.
Anna mi ha insegnato a dire grazie quando avrei vo-
luto mordere.
Anna mi ha insegnato a restare immobile quando le
mani degli sconosciuti mi toccavano, mi tastavano per ca-
pire se fossi vera, se fossi di carne, se fossi possibile.
Anna mi ha insegnato a cambiare i marciapiedi e le
strade quando, crescendo, hanno cominciato a fischiarmi,
a fare allusioni, a rincorrermi, a offendermi, a chiedermi
pompini, pompini nigeriani, africani.
Anna mi ha insegnato a fissare con ostinazione il foglio
quando in classe, a Storia, si parlava di schiavitù e colonialismo.
Anna mi ha insegnato a contare fino a tantissimo ogni
volta che qualcuno iniziava una frase con «visto che sei
africana…», o «ma tu da africana cosa ne pensi di…?».
Anna mi ha insegnato a contare fino all’infinito e oltre
ogni volta che qualcuno mi diceva «brava» perché andavo
all’università, perché sapevo parlare bene l’italiano, per-
ché non mi ero ficcata nei guai, perché «sei educata, per
bene, gentile… sei come noi».
Anna mi ha insegnato anche il sarcasmo e a rispondere
«Italia» quando mi chiedono da dove vengo e «bresciana»
quando insistono e non hanno intenzione di capire.

57
Appollaiata in una parte remota della mia testa, Anna
se n’è stata sempre all’erta. Lei egocentrica fino al midollo,
io troppo codarda per dirle «stai sbagliando».

«Capita quando meno te lo aspetti» mi ripeteva sempre.


Ed era vero. Quando pensavo di aver finito la mia cor-
sa a ostacoli, mi sedevo e mi ritrovavo dentro l’ennesima
lezione di geografia. Sempre la stessa, a distanza di anni.
Durante la quale la maestra G., ancora lì, con il mascara
colato e la voce rovente del Sud, ripeteva sempre le stes-
se domande all’infinito. E anche se, dopo anni, magari
la vita, i viaggi, le esperienze e gli studi le risposte me le
avevano date e pure giuste, io la mano non la alzavo mai
e poi mai.
Per via del rischio, dei «quanto sei brava», dell’esporsi,
dei sorrisi di pena e compassione, della sensazione di fasti-
dio che mi rimaneva addosso.
Perché una risposta sbagliata mi avrebbe potuto eti-
chettare lontano da loro in un secondo e una risposta giu-
sta avrebbe potuto elevarmi a qualcosa che mi dicevano di
essere ma a cui in fondo non credevano.

Anna è cresciuta nelle mie arterie, nell’acido lattico


e nelle bolle d’aria e di sgomento che scoppiavano tra
la bocca e lo stomaco. Compagna fedele, amica giurata,
aiuto, guida.
Una parte di me, ma con un limite tendente all’infini-
to. Perché il capoluogo delle Marche l’ho sempre saputo,
ma non l’ho mai detto ad alta voce. E, in fondo, mi è
sempre dispiaciuto.

58
Anna è andata via un giorno di fine luglio.
Il giorno in cui mi sono resa conto di non aver più biso-
gno di lei sono entrata in crisi e ho dimenticato alcune cose.
Come arrabbiarmi, dove voltarmi e il suono della mia
voce. Così la testa ha iniziato a girare.
Quando è accaduto stavo al mondo da ventisei inverni
lunghissimi. Interamente passati tra le cose della vita di
tutti e la mia personale corsa a ostacoli. È stato un addio
che andava avanti già da tempo, solo che ho fatto fatica a
riconoscerlo subito. E quando è successo – ovviamente –
ho avuto paura. Lei certa che non ce l’avrei mai fatta, io a
rimuginare su quello che sarebbe rimasto e stato.
Io e Anna ci siamo dette addio di lunedì, come le cose
scomode, ma senza farci male.
È successo mentre accendevo la videocamera del cellu-
lare e mi collegavo in diretta su Facebook, dopo una notte
nera e insonne inseguita da tantissime altre notti in bianco.
Io distrutta e viva per un miracolo e una forza scono-
sciuta, lei impreparata e sconvolta dal mio gesto. Assurdo,
coraggioso, fuori dai piani.
Ci ha provato a mettermi in guardia anche lì. Ci ha
provato a ricordarmi le regole, a dirmi «abbassa la voce,
non rispondere, non pretendere, sorridi, annuisci, subisci
e vattene via». Ci ha provato ma io ho non ho mollato la
presa. Perché non sapevo chi fossi: se gridavo rabbia usci-
va fuori bellezza e tutto girava ancora intorno alla stanza.
Anna mi ha protetto, mi ha aiutato, mi ha consigliato e av-
vertito, ha affinato i miei sensi e il senso di tutto in generale,
mi ha educato a come sarei dovuta essere per non avere pro-
blemi, per evitare discussioni e per essere voluta, accettata.

59
Compagna fedele, amica giurata, aiuto, guida. La mia
codardia, la mia timidezza, il mio pudore stellare e il non
volermi far vedere, ferire.
Anna mi ha aiutato a non correre rischi, a non osare.
Ma senza rendercene conto, la corsa a ostacoli straziante
che abbiamo portato avanti in questi anni, alla fine, ci ha
condotto fuori strada. E quando siamo riuscite a fermarci
era già troppo tardi: lei ostinata da questa parte del recin-
to; io di là, finalmente libera.

Se dicessi che la mia vita senza Anna è migliorata, men-


tirei. Da quando un lunedì sull’orlo di agosto ho scelto
di espormi, ho capito a cosa erano serviti gli avvertimen-
ti, la paura sotto pelle, i silenzi e i marciapiedi cambiati.
Eppure non sono tornata indietro, non ho cambiato idea
e di Anna ho tenuto una cosa, quella che mi spaventava di
più: l’Africa che avevo dentro.
Ma al posto di tenerla dentro, l’ho tirata fuori. E ho smes-
so di preoccuparmi del fatto che gli altri avrebbero potuto
accettarla o meno, ma ho iniziato ad accoglierla io per prima.
Gioia e passione, origine e cognome, narrazione e ri-
vincita, bellezza e fortuna, vita e amore, forza e coraggio.
L’Africa è su tutta la mia pelle che per fortuna non fini-
sce mai e che non posso nascondere. Una macchia curiosa
che si espande, che ho smesso di controllare. Un limite che
tendeva a infinito, che ho ridisegnato in amore.
E quando Anna torna – perché ogni tanto prova a tor-
nare, silenziosa e circospetta – tenta di dirmi cose che già
so e a cui ho scelto di non dare più un certo tipo di peso.

60
Non la caccio, la lascio appollaiata dove è sempre potuta
stare, però poi quando emerge quello che ho imparato mi
dice che non mi riconosce più. Lei risentita e vulnerabile;
io finalmente con la mano alzata per dire la mia.

Sono finite le corse a ostacoli, Anna.


Non inciampo più, non mi perdo più, non mi sbaglio
più adesso: puoi andare via.
Puoi andartene via per davvero, Anna, sono diventata
brava in geografia.

61
La mia Africa

Sono nata a settembre nel 1991, in Ruanda. Da una ma-


dre e da un padre come tutti e dalle coincidenze spaziali e
maledette che non mi hanno permesso di crescerci, né con
i miei genitori né nel mio Paese.
All’età di tre anni, quando già mi trovavo in un orfa-
notrofio gestito da un’associazione italiana, su tutto il ter-
ritorio ruandese è scoppiato il genocidio. Il più efferato
del XX secolo.
Ogni volta in cui parlo della mia storia, raccontarlo, citar-
lo, permettere alle persone di collegare la mia esistenza ai fatti
del 1994 è per me un senso di dovere, ma anche un bisogno.
Solo che io del Ruanda non ne ho sempre parlato.
Della guerra civile, del quasi milione di morti in meno
di cento giorni, delle conseguenze sul Paese e su di me,
della violenza e di altre cose non sono riuscita a parlarne
fin da subito.
Davanti alle lavagne, negli studi medici, in giro per l’I-
talia, durante le cene con gli sconosciuti, con gli amici o
sui bordi delle storie d’amore. Ho sempre preferito evita-
re. Per scoprire le origini degli altri e ridere di altro, par-
lare di altro, concentrarmi su diverse superfici e dettagli
lontani. Le madri, i lavori, i sogni, gli studi, i fratelli, i gusti
preferiti, le macchine, i voti, le relazioni, i viaggi, i passati
e le vite degli altri. Solo degli altri.
Sono sempre stata convinta che, fino a un certo pun-
to, avevo deciso io di non parlarne. Lo credevo. Però una
chiacchierata davanti a un gelato mi ha illuminato sulle
cose che i nostri occhi spesso non vedono ma che qualcun
altro invece sa e riconosce subito; un po’ come quel libro
con una volpe parlante e gli insegnamenti profondi e leg-
geri insieme.
Me ne stavo con le gambe incrociate e la schiena ap-
poggiata a un muro freddo. L’estate ancora non sembrava
voler arrivare e stranamente non avevo in mano un libro.
Parlavo col mio Principe Piccolo e Personale in uno di
quegli incontri in cui si ha l’impressione di avere in comu-
ne almeno già cinque vite e qualche avventura fuori porta;
magari su uno di quei pianeti a cui ancora nessuno ha dato
un nome e una posizione.
Si parlava del nostro percorso scolastico e io, fiera di far
parte di una delle ultime generazioni che avevano svolto
l’esame di quinta elementare, raccontavo serafica del mio
totale disastro nelle materie scientifiche già all’epoca.

«Che tema hai portato in storia te?»


«L’Africa. Pure in geografia.»

64
Ricordo ancora la ricerca svolta su un’enciclopedia a
volumi spuntata fuori da chissà dove. Forse dalla libre-
ria di mio padre, nel seminterrato che mi faceva paura
e sogno.

«E alle medie?»
«Una relazione sul colonialismo.»
«E alle superiori?»
«Ho creato una tesina bellissima! Pensa, ho parlato
dell’Africa tramite le emozioni umane. Da qualche parte
dovrei avercela ancora…» Anche se alla fine rimane tutta
nella mia testa.

Ricordo che avevo guardato sospettosa il mio Principe


Piccolo e Personale: stava ridendo tantissimo, non capivo
né il perché né se lo stesse facendo di me.

«Mi fa ridere il fatto che dici di sentirti più italiana


che africana ma poi, a ogni occasione, hai portato l’Africa
come argomento per parlare di te!»

Quello è stato un momento-diamante.


Metto il suffisso “diamante” alle cose, agli avvenimenti
e alle persone che mi toccano i pensieri e mi cambiano gli
occhi anche solo per un po’.
Ho sempre creduto di non essere mai appartenuta
all’Africa. Invece alla fine l’ho costantemente cercata e
trovata. Non quella degli altri, la mia.
Il mio Principe Piccolo e Personale mi stava regalando
una sensazione grande, come quella dei cerchi perfetti di-

65
segnati a mano che ti lasciano addosso un senso di appa-
gamento che non capisci ma vivi.
Che io avessi sempre avuto l’Africa in testa, da qualche
parte, era una cosa che non mi spiegavo, che non capivo,
e da quel momento non ho potuto fare altro che viverla.
Sbagliata forse, ma per la prima volta disegnata da me.

Vivere l’Africa non è facile. Soprattutto se sei una ra-


gazza di vent’anni, cresciuta nella pianura padana, com-
pletamente estranea alle tue origini e con alle spalle anni
di resistenza.
Se resistere all’Africa è stata una scelta, una possibilità,
essere africana (in parte, a metà, di origine, grazie a una
discendenza e tutte le altre possibilità che la vita mi ha
donato e tolto) non lo è stato. E proprio nello spazio man-
cante che questa realtà mi ha lasciato, uno spazio che non
esiste, lì ho scagliato le mie domande.
Quando N. mi parla delle ricerche che gli scienziati ne-
gli anni hanno portato avanti e realizzato, i numeri e i dati
con cui mi descrive e mi racconta le scoperte e le sconfitte
mi si parano davanti agli occhi come muri giganti che non
sempre riesco a scavalcare.
Per me vivere l’Africa è sempre stato come cercare di
comprendere le galassie. Un giorno grazie a una risata
ho capito che avrei dovuto scavalcare muri fatti non solo
di nomi e di dati, ma di domande, di pregiudizi, carte,
differenze e diffidenze, tradizioni e distanze che non mi
appartenevano, che si trovavano in un altro pianeta, che
forse avevo già visitato o forse no, a cui forse appartene-
vo. O forse no.

66
Uno di quei pianeti a cui ancora nessuno aveva dato un
nome perché avrei dovuto darglielo io, a cui nessuno ave-
va dato una posizione perché avrei dovuto trovarla io. Ma
per tutto questo, il mio Principe Piccolo e Personale una
risposta non ce l’aveva. Mi ha lasciato una risata e poi mi
ha detto «sarà divertente» e «sei già a buon punto».
Sul divertente a volte ho dei dubbi, ma quella volta ho
preferito non aggiungere altro.
Su dove sono nel percorso, invece, qualcosa su cui ri-
dere ce l’ho. In un miliardo di possibilità, l’Africa nella
mia vita non è stata solo un punto. Però, tra i muri che
scavalco, i dati che mi segno, le domande che mi fanno, i
pregiudizi che le soffocano, le carte, le differenze e tutto il
resto, sto provando a capire se ci sia spazio.
Per farla mia, prima del resto. Per essere me, prima di tutto.

67
RAPPRESENTANZA
E NARRAZIONE
Bubu

Il giorno più triste della mia vita è stato quando ho


perso Bubu.
Avevo ventiquattro anni, una confusione interiore spet-
tacolare e almeno otto esami in sospeso all’università.
Erano arrivati i giorni del rientro a casa, dopo due anni
da fuori sede e centinaia di birre e di persone mandate giù
“alla goccia”.
Erano arrivati i giorni della resa dei conti per vedere
cosa fossi riuscita a combinare, dopo essermene andata
urlando che avrei cambiato il mondo in qualche maniera.
Arrogante come si è arroganti quando si viene da ven-
tuno anni di sogni accesi. Quell’estate avevo lasciato scivo-
lare un trasloco rimasto in sospeso mentre mi innamoravo
per l’ennesima volta e, di nuovo, la cosa di cui mi occupa-
vo maggiormente era fermare il tempo tra i vicoli arancio-
ni di Brescia e dei suoi laghi. Quando arrivò settembre col
suo strascico di responsabilità, per la mia disattenzione e
alcuni accordi mancati, al ritorno camera mia era più di-
sordinata e vuota del solito.

In seconda asilo la mia migliore amica aveva i capelli


biondi e gli occhi furbi di chi avrebbe tagliato il mondo
in due, e quando giocavamo finivamo sempre per litigare
perché volevamo vincere entrambe ogni volta, e allora sua
madre ci offriva la merenda nel salone della sua cascina e
facevamo pace con la bocca sporca di marmellata.

Alle elementari mi piaceva P. perché aveva i capelli neri


e liscissimi, faceva ridere gli altri e i suoi fratelli erano la
sua fotocopia sputata. I. mi piaceva perché il colore della
sua pelle faceva da contrasto con i suoi nei scuri e giganti e
i quaderni che compilava profumavano esattamente come
lei. Se avessi dovuto scegliere li avrei sposati entrambi, con
fratelli non miei come testimoni e le promesse scritte su
quei fogli a righe.

A dieci anni il mio migliore amico era un bibliotecario


di nome Matteo, aveva i capelli ricci e arruffati, la voce
profonda e svolgeva il Servizio Civile. Di lui mi piacevano
le mani lunghe che afferravano i volumi più alti dagli scaf-
fali della sezione “Bambini e ragazzi”. Mi salutava sempre
e d’estate tornava a casa, lasciandomi da sola a scegliere
cosa leggere. Anche per questo l’estate, per me, è sempre
stata un grosso problema.

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In terza media avevo una migliore amica, con cui stavo
ore al telefono fisso come forse due tredicenni di ora non
saprebbero fare. Andavamo in giro per i parchetti del pa-
ese in cui siamo cresciute a sognare le fughe, a ridere dei
ragazzi più grandi e a scrivere manifesti di amicizia eterna
e senza pregiudizi. È stata la prima persona che è riuscita
a disegnarmi su un foglio bianco esattamente per quella
che ero; i miei capelli com’erano, la mia pelle com’era, le
mie labbra com’erano. Poi siamo cresciute, sono arrivati
i cellulari e forse abbiamo smesso di dirci le cose sulle al-
talene a cinque minuti da casa. A volte, ancora adesso, mi
mancano lei e i suoi disegni.

Alle superiori avevo un gruppo di studio. Eravamo sei


ragazze in totale che si ospitavano a turno in casa per stu-
diare e ridere. Quando ripenso a quei giorni, ci ricordo
libere e felicissime, con i problemi dei quindici anni, le
paure del futuro e i nomi dei ragazzi che ci piacevano sulle
labbra. Ero con loro quando l’Italia aveva vinto i mondiali
del 2006: Brescia non è stata mai più così bella.

L. aveva i capelli rossi, le lentiggini, una madre au-


straliana e un modo di ridere che mi rattoppava il cuore
ogni volta in cui me lo scucivo in qualche modo. L’avevo
conosciuta in una vacanza studio e ci eravamo ritrovate
per caso dietro ai banchi dell’università. Io avevo scelto
Lettere perché dicevo a tutti che non avevo avuto altra
scelta, lei perché a Storia della lingua se ne stava in prima
fila e guardava male chiunque disturbasse.

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Quando ho cambiato facoltà e mi si strappavano i pen-
sieri tra Economia politica e Sociologia ho pensato spesso
alla sua risata. Un giorno l’ho vista a Torino a una fermata
del tram 3. Io filo, lei ago. Ancora a distanza di anni.

Nel 2013 ho vissuto con altre quattro persone, una


femmina e tre maschi. Le ore passate in casa mi ricordava-
no le scuole medie, ma non avevo la testa per pretendere
da chi mi stava attorno una coerenza con le nostre carte
d’identità. Se qualcuno mi prendeva in giro mandavo giù
il boccone, esattamente come se fossero spinaci. Non mi
sono mai piaciuti ma non sono mai riuscita a dire di no.
Per una questione di educazione. Ho iniziato a dire “non
mi piacciono” soltanto ad anni di distanza. Ancora ricor-
do la sensazione di libertà.

A ventiquattro anni, nel bel mezzo di una notte inson-


ne, ho navigato così tanto per il web che mi sono persa
al largo di un video di cui avevo capito poco ma che mi
ha lasciato tanto. C’era una donna che parlava, e parlava
di un libro che non avevo mai sentito. Il giorno dopo mi
sono fiondata in una libreria e, una volta tornata al chiu-
so, ho letto così a lungo da far passare le giornate intere,
ero così felice da non star più nella pelle. Una pelle iden-
tica a quella della donna nel video, e per la prima volta
pure alla mia.

Nell’autunno del 2018 dopo miliardi di titubanze e pa-


ranoie coloratissime mi sono decisa a frequentare un grup-
po di ragazzi adottati adulti. È stata un’esperienza trauma-

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tica e straordinaria che mi ha permesso tante cose e più di
tutte la consapevolezza.
Durante il primo o il secondo incontro ci è stato chiesto
di portare, per raccontarci, un oggetto appartenuto alla
nostra infanzia e che per noi simboleggiasse quegli anni
pieni di domande, rifiuti, paure e omissioni.
Ricordo che ho passato intere ore a pensarci, e le po-
che volte in cui ho raccontato a qualcuno del “compito”
che mi attendeva, alla domanda «e tu cosa porterai?» non
sapevo rispondere. Non osavo. Terrorizzata com’ero dalla
realtà, preferivo divagare, andare oltre; «alla fine qualcosa
troverò» mi dicevo.
Poi è arrivato il giorno. Uscivo da una notte insonne
trascorsa a parlare dei pezzi di vita da spedire su Marte
con N. Quando è toccato a me, mi si sono riempiti gli
occhi di mare.
Per quel fatto che sono una persona sensibile e per
tutte le volte che sono riuscita a galleggiare in mezzo a
certi ricordi.
Non ho portato un oggetto, nemmeno un simbolo o
una foto; eppure ho deciso che l’unica cosa che avrei po-
tuto fare sarebbe stato parlarne.

Che fosse sabato lo ricordo con precisione, i sabati nel-


la mia testa sembrano sempre estati infinite con le braccia
aperte verso la domenica; un principio di abbraccio, di
miracolo. Ricordo anche che era venuto buio presto e per
un bambino è simbolo di inverno e pochissime ore a di-
sposizione per sgarrare con gli orari davanti alla tv. Quel

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sabato mio padre mi aveva portato all’Ikea. Sulla Toyota
Corolla bianca, in una di quelle gite di fine settimana in cui
lui doveva andare a recuperare pezzi di mobili e io intanto
mi rifacevo gli occhi davanti alle installazioni delle came-
rette che non avrei avuto mai.
Ero tornata a casa senza un letto a castello ma con una
bambola di pezza: Bubu.
Non so da dove sia uscito fuori quel nome. All’epoca
mi piacevano i nomi corti e rifiutavo il mio, lunghissimo,
arrivato da chissà dove. Bubu mi andava a genio, aveva un
bel suono e per me era tutto.
Era di pezza, indossava una maglietta bianca a righe
rosse e una salopette di jeans che ho tentato di tenergli
addosso per tutto il tempo che ho potuto. Se gli si toglie-
vano i vestiti era completamente nuda, a parte un paio di
mutande colorate di bianco, rigorosamente a vita alta.
Dettagli inutili e vivi, che per una bambola qualunque
probabilmente sarebbero potuti essere di scarsa impor-
tanza, ma per me non lo erano allora, figuriamoci adesso.
Bubu era una bambola di pezza, era un maschio ed
era nero.
Un pezzo singolo di un intero stock riversato dentro un
cesto enorme ai miei occhi di bambina. Io avevo scelto lui,
esattamente uguale a tutti gli altri ma precisamente mio.
Mio perché mi aveva chiamato, perché uguale a me.
Avevamo gli stessi capelli ricci, corti e ingestibili, gli
stessi occhi neri messi sopra una faccia tonda e la stessa
pelle nera, simile a quella di nessun altro nei paraggi.
A dire il vero io, di altre bambole, ne avevo già ricevu-
te. Nei miei ricordi di prima infanzia so di aver condiviso

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migliaia di giocattoli con altri bambini in un orfanotro-
fio, poi all’asilo, nei luoghi di vacanza e nei corridoi del-
le ricreazioni, insieme a quelli regalatimi dalle babysitter
o dagli amici di famiglia. Sono certa di aver ricevuto dei
regali una volta arrivata in quella che è stata in un cer-
to senso casa mia per quattordici anni: bambole, peluche
(ricordo un Babbo Natale inquietante che mi regala uno
scoiattolo buffissimo, io che piango terrorizzata e la mia
diffidenza iniziale verso quel dono), Barbie, Polly Pocket,
Cucciolotti e chi più ne ha più ne metta. Ma niente di tutto
questo è mai stato come Bubu.

La prima volta in cui mi ero resa conto dell’importanza


che quella bambola di pezza aveva per me, N. e M. – i
miei cugini ora uomini in altri mondi che non conosco –
si erano messi a giocare passandoselo sopra la mia testa.
Era partito tutto con una risata; che fossimo in centro a
Brescia o nella loro casa in montagna, la mia gioia nel ve-
derli, nello stare con loro era tale che la nostra separazione
mi lasciava sempre un magone enorme e la voglia di tor-
nare indietro.
Era partito tutto con una risata, e poi non ebbero inten-
zione di smettere. Io sì e iniziai a protestare.
È un’immagine limpida nella mia testa perché il mio
cuore mi aveva detto «difendilo come se fosse tuo fratel-
lo» e il cervello – già allenato – lo aveva seguito. Mi ero
battuta, o forse semplicemente ero andata a piagnucolare
tra i grandi che giocavano a briscolone e parlavano di po-
litica, o di quelle cose che ignoravo come ogni bambino.
Qualche richiamo e Bubu era tornato a me.

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Fu come se mi fosse tornato un braccio, un polmone
sano, la voce, la mia arteria principale.
Quando nasci in un Paese ma la vita mette sul tuo per-
corso scelte difficili, capitare dall’altra parte del mare e dei
giochi di potere può essere grazia o condanna. Ma quando
hai cinque anni non lo puoi capire fino in fondo. Qualcosa
ti dice che sei stata fortunata, che avrai un senso di gra-
titudine che crederai perenne e che tutto quello che non
ti farà sentire a tuo agio in verità è colpa di un cervello
troppo lento e di un cuore che si riempie troppo spesso di
acqua, come una spugna.

Sono nata in Ruanda e per adozione sono cresciuta in


Italia, senza sconti e piena di vantaggi.
Sono cresciuta in pianura, con più esattezza nella bassa
bresciana, in un paese di quasi novemila abitanti che l’I-
schiano Scalo di Ammaniti in confronto è il Paradiso, o
forse no, fatto sta che io l’ho vissuta così.
Sono nata in Ruanda e questo mi ha dato una pelle nera
e meravigliosa. E che sia meravigliosa ci sono voluti anni
per capirlo, che fosse nera poche chiacchiere e un passo
fuori dal cancello di legno davanti allo scivolo di cemento.
Solo che tra le scelte, le guerre, i bisogni e le emergenze,
la vita si era dimenticata di mettermi un cuscinetto tra la
grazia infinita della mia fortuna e la condanna fastidiosa
dell’essere me: un mio simile.

Qualcuno che mi somigliasse.


Perché F. era stupenda, giuro. E quando iniziavamo a
giocare a carte o al gioco dell’oca mi sentivo uguale a lei,

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ma poi litigavamo e la cattiveria dei bambini ti colpisce lì
dove il dolore batte già abbastanza, dove già ti sei tortura-
to in abbondanza.
«Sì ma tanto tu non sei mica mia sorella» e no, non lo ero.
Ché quei capelli biondi me li sognavo la notte, e pure la mar-
mellata dappertutto. Quella di albicocca che mi piaceva da
matti. O quella di more, che se non avesse fatto schifo, che se
non fosse stato strano l’avrei spalmata sulle sue guance per
renderla un Otello femmina e gelosa solo delle cose belle.
Per poi chiederle: «Adesso siamo o non siamo sorelle?».

Qualcuno che mi vedesse.


Come quella volta che I. in un esercizio dentro a uno
stupido cerchio mi aveva detto che se fossi stata un ma-
schio mi avrebbe sposato. E io mi ero stupita, non capivo.
Perché nella mia testa avrei dovuto essere bianca e carina
per far venire la voglia a qualcuno di scrivermi un bigliet-
to, figuriamoci sposarmi. E invece sarebbe potuto essere
più facile del previsto, più facile di tutto.

Qualcuno che mi capisse.


Al mio bibliotecario non lo chiesi mai, se in uno di quei
libri che prendeva dallo scaffale, dal suo sapere, ci fosse
un libro con un protagonista come me. Non ho mai pre-
teso che fosse l’eroe, il cattivo o la principessa: mi sarebbe
bastato scorgerlo, anche in una sola riga. La Disney mi
ha fatto aspettare diciotto anni per rendermi felice e ci è
riuscita una volta sola, con una principessa di nome Tiana;
ma era già passato troppo tempo e le estati a fissare gli
scaffali di metallo erano già volate via.

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Qualcuno che mi disegnasse.
Esattamente come S., ma che riuscisse a vedere il mio
corpo cambiare, le mie linee allargarsi e prendere una tan-
gente lunga chilometri, con altre origini.

Qualcuno che mi spiegasse a cosa appartenessi.


E se davvero avrei dovuto appartenere a qualcosa e se
sì a che cosa. Come nel 2006, quando in una strada gigan-
te avevo festeggiato innamorata di De Rossi e Barzagli e
qualcuno a dirmi che «no, tu non puoi festeggiare perché
non sei dei nostri».

Qualcuno che mi aspettasse.


Come un ritorno continuo e infinito, in cui il tempo e le
esperienze ci passano in mezzo, ma alla fine dirsi «sono qui»
può essere una toppa che ti mette a posto le giornate bucate.

Qualcuno che mi facesse sentire a casa.


O almeno in un posto in cui per entrare non devi chie-
dere «permesso», e quando qualcosa non ti va o qualcuno
ti offende per quello che sei e non puoi cambiare, per uno
scherzo che non ti fa ridere, non devi chiuderti dietro le
porte senza chiave e sperare che ti lascino stare.

Qualcuno che mi somigliasse.


E a cui aspirare, per un libro scritto, per essere una
protagonista come le altre, per essere reale come un
esempio o una sorella maggiore. Come Igiaba (Scego) e
Angela (Davis), Toni (Morrison) e Esther (Elisha), Loretta
(Grace), Tayari (Jones), Zadie (Smith), Flora (Nwapa),

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Yaa (Gyasi), Tezetà (Abraham), Lupita (Nyong’o),
Whoopi (Goldberg), Vera (Songwe), Serena (Williams),
Chimamanda (Ngozi Adichie), Taiye (Selasi), Ayòbámi
(Adébàyò), Viola (Davies), Beyoncé e tutte le altre.

Bubu per me è stato bambola e fratello, amico e consiglie-


re, compagno di storie, una spalla (pur sempre di pezza) su
cui piangere, un confidente fidato e una ninna nanna morbi-
da. Madre e figlio, gioco e ispirazione, alleato e compagno.
È sempre stato con me, l’ho portato ovunque. Su un tra-
ghetto in Grecia col mal di mare e la voglia di tornare a casa,
in montagna in un campo estivo da animatrice nascosto dai
bambini curiosi, a Trento e a Ferrara, nelle borse, negli zaini,
sotto al cuscino o sulla scrivania mentre leggevo. Ha sempre
vegliato su di me e mi ha sempre ricordato che non ero sola,
che qualcuno c’era, che lui capiva con il suo silenzio di stoffa
macchiata dalle mie lacrime e dalla distrazione, dalla fretta e
dal mio volerlo tenere sempre al sicuro. Pensiero fisso prima
delle partenze e ossigeno nei rientri peggiori.
La mia fotocopia, la mia risposta, il mio specchio, un
pezzo della mia anima sperduta, proprio come Nemo. In
un oceano pieno di corpi tutti bianchi, tutti uguali, lui è
stato per me il Martin che non ha mai smesso di trovarmi.

Quando lo persi non dovetti spiegare nulla ai miei geni-


tori: capirono. Capì mio padre, soprattutto.
Che nella confusione di un trasloco, in cui un sacco del-
la spazzatura era stato scambiato per un contenitore di og-

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getti di poco valore, aveva fatto inciampare la mia ultima
speranza dentro la parola discarica. Si fiondò ma tornò a
mani vuote. E il mio silenzio dei giorni successivi non ven-
ne ingozzato di domande, alle mie lacrime venne portato
rispetto. Per qualcosa che loro non comprendevano ma
che accettavano, forse per una delle prime volte.
Il mio assurdo passaggio all’età adulta che la vita aveva
deciso di assegnarmi.

Così, a distanza di anni, in uno stanzone che quando


parlavi la voce rimbombava anche se le parole che usavi
erano piccole, ho salutato Bubu.
Gli ho detto addio come si dice addio a un fratello, a
una madre, a un compagno di giochi, a un confidente, a
qualcuno che ti ha visto crescere e a qualcuno che ti ha
permesso di diventare.
Anche lì, nessuno dei ragazzi adottati accanto a me fece
domande.
Anche lì, dal mio dolore è nata una forma di rispetto
generale fatta di comprensione e generoso silenzio.

Quando penso a Bubu mi piace pensare che ci ritrove-


remo da qualche parte. Dentro a un libro, negli occhi di
mio figlio, in una sala piena o, come quella volta in Grecia,
in fondo al mare.
Come se tornasse a me, e di nuovo: una parte di braccio,
un polmone sano, la mia voce e la mia arteria principale.

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«Ciao, sorella»

M. mi ha detto che non sa se ce la fa, intanto lavora coi


bambini e dimentica le chiavi a casa.
A. mi ha insegnato che attivismo e amicizia vanno di
pari passo e spaccano il mondo.
F. ha gli occhi grandi dei bambini pieni di speranza, e
con le parole cura le persone.
W. la prima volta stava su un palco e io sotto, a Milano;
sono andata a dirle grazie perché le sue rime sono state casa.
S. ha lo sguardo di chi si è fatta avanti per difendere
chi l’ha messa al mondo, e spesso poi è riuscita anche a
voltarsi per guardarla negli occhi.
M. una volta mi ha messo suo figlio di pochi mesi in
braccio e lì ho capito che avevamo molto più in comune di
un viaggio ad alta quota e di una fuga.
H. M. mi ha detto «io ci sono» nel momento esatto in
cui avrei voluto sentirmelo dire e ha capito che essere figli
è una catastrofe.
G. del suo nome ha fatto un soprannome dolcissimo
ma le sue radici si vedono da chilometri.
I. e quella volta a guardarsi tutto Il signore degli anelli
nella versione integrale e la mattina dopo il tajin col cous
cous e molto altro.
S. l’ho sempre incrociata nei corridoi delle superiori e
adesso è in giro per il mondo a far vedere quanto vale.
A. è l’unico che sa recitare le poesie di Montale sul lun-
go Po facendomi piangere di gioia e meraviglia.
G. è tutte le mie speranze in miniatura.
P. mi ha detto che ha un figlio, ed essere una madre
nera oggi è faticoso ma bellissimo e speciale.
T. mi ha insegnato il valore della musica nelle parole
dalle casse da cui è sempre uscito.
R. mi ha insegnato ad amare i miei capelli indomabili,
quasi come i suoi: ricci e splendidi, ma soprattutto nostri.
A L. scriverò i discorsi che farà davanti alla Commissione
delle Nazioni Unite, e ogni volta che glielo dico ride.
S. dietro ai banchi di scuola sembra un uomo e in mez-
zo alla strada uno dei bimbi sperduti di Peter Pan.
E. nello schermo faceva la violoncellista: non la co-
nosco, ma mi ha dimostrato che un’altra televisione in
Italia è possibile.
A. mi scriveva in privato per dirmi come la pensava e
poi mi diceva «ciao, vado a lavoro e sono felice».
T. interpretava una bibliotecaria sulla Rai e mi è parso
bellissimo e perfetto.
B. voleva fare il medico, scattare un sacco di fotografie
e poi tornare nella terra di suo padre.

84
Con T. ridevamo perché ci scambiavano dicendoci che
fossimo simili; sapeva ridere meglio di me, e pure ballare.
H. mi ha ricordato il potere delle poesie.
E. mi ha risposto «Congo» quando le ho chiesto da
dove venisse, invece io volevo solo sapere che autobus
avesse preso; ci siamo state subito simpatiche.
A. ha un fratello che non ci sta e ogni volta vorrebbe
tornare a casa, però a casa per davvero.
S. mi ha chiesto aiuto per la sua tesi, e dalle sue due
lingue ho imparato a comunicare il bene.
A. è tornato dall’Erasmus e tra qualche anno sarà a
Bruxelles.
A. mi ha insegnato a fare i caffè macchiati, la storia del-
la Romania e a farmi valere.
S. ha visto la mia stessa pianura, studia fuori e ogni vol-
ta che la sento è un respiro di battaglia con lo stesso accen-
to e la stessa forza.
U. mi ha raccontato le feste che faceva in Pakistan e
cosa gli mancava, ma al lavoro, in cucina, sembrava sem-
pre al suo posto.
Quando G. mi ha detto che era in maternità ho detto
«oh», e poi ho ripensato a come da piccole fossimo state
simili in tante cose.
A. è la sorella maggiore che non ho mai avuto, e lo ca-
pisco quando mi guarda le spalle e mi dice «ce la faremo».
M. una sera si è fermata da me per un bicchiere d’acqua
e mi ha mostrato il fuoco che si è portata dietro dalla Siria.
M. ama i libri per ragazzi, adesso forse ne scrive uno e
ci metterà dentro un po’ di sé.

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F. mi ha insegnato i cori delle manifestazioni e al Gay
Pride di Torino mi ha fatto ridere e ballare come se ci
fossimo solo noi.
E. ha scritto una lettera agli italiani come lei e adesso dalla
Germania mi manda le foto di quello che vede dalla finestra.
Ogni volta che sento I. al telefono so di avere un fra-
tello maggiore nato nel paese accanto al mio, e che adesso
sta a Roma.
E. ha fondato un’azienda da sola, per far ritrovare l’orgo-
glio a tutte e tutti, dice, e da lontano so che ci sta riuscendo.
J. l’ho conosciuta in piazza, per caso, e il suo sorriso e
l’amore per la sua terra mi sono sembrati incalcolabili.
N. scrive con ordine e ovunque può tutto quello che
vorrei leggere sempre su come mi sono sentita negli ultimi
ventotto anni.
L. ha due sorelle, l’amore per il cibo e lo sguardo lucido
su dove vive e da dove viene.
W. ha deciso di essere sincero, perché chi amava era
importante tanto quanto la sua fede.
M. mi ha detto che non fotografa da un po’ e io spero
che ricominci, perché se lo fa e lo vedi è fortuna.
S. appoggia l’accento di casa sulle ultime parole, non se
ne accorge mai ed è meraviglioso per questo.
O. sa che ogni pezzo che scriverà verrà contestato già dal
titolo, ma non smette mai ed è bravissima anche per questo.
M. lo incrocio in centro in bicicletta e non so mai capa-
citarmi di quanto sia intelligente e educato.
C. ancora non lo sa ma ha alle spalle dei genitori stra-
tosferici, o forse i suoi «no» convinti sono già un preludio
di vittoria.

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L. che a diciassette anni stava a metà strada tra due ter-
re, due strade e due vite e ha scelto la famiglia.
J. un giorno mi ha raccontato il giro dell’economia dalle
sue parti e gli ho chiesto cosa ci facesse ancora qui; mi ha
risposto che prima studia poi cambia le cose, e io gli ho
creduto tantissimo.
D. ha una vita e una voce che dai fogli e dai microfoni
ti rimangono addosso e non ti lasciano più.
R. quando commenta l’attualità ti taglia e ti cuce i pensie-
ri, e fa bene e fa male ma lo fa sempre e non perde un colpo.
L. una volta mi ha chiesto dei libri per suo fratello pic-
colo e spero di realizzare una lista che si rinnovi sempre.
M. a sedici anni era come volevano che fosse, poi si è ripre-
so ed è diventato splendido e pieno di domande ad alta voce.
P. ha una madre che le insegna chi è, senza vergogna e
col mento altissimo, per dare un’occhiata alle stelle.
I. è tutto quello che sarei voluta diventare prima che lei
mi chiedesse «quando lo vinci lo Strega?».
A. M. ha scritto una tesi che dovrebbe essere imparata
a memoria dagli addetti ai lavori, e da Forlì mi regala
sogni e certezza.
S. fa la maestra d’asilo, ha una storia normale e pazze-
sca, due figli e la forza che forse un giorno avrò anch’io.
S., che ho svegliato per tantissime mattine, se ne andava
in giro senza documenti e quella volta, in piazza S. Carlo,
che stava bene me l’ha detto in spagnolo.
E. ha fatto mille cose, tra cui mettere al mondo due
figlie che mi fanno ridere spesso.
M. è consigliere comunale e ti viene da ascoltarla per-
ché sa cos’è la fiducia e lo racconta in due lingue.

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A. mi ha scritto «proviamo a fare qualcosa di diverso» e
io le ho detto che forse era arrivato il momento.

Tutti loro, dall’Etiopia, il Marocco, il Libano, il Ruanda,


l’Etiopia, la Somalia, il Perù, la Tunisia, la Moldavia, la
Repubblica Dominicana, l’Eritrea, la Polonia, il Brasile, la
Romania, la Germania, l’Egitto, la Cina, l’Uganda, l’India,
lo Sri Lanka, il Congo, il Togo, il Bangladesh, il Burkina
Faso, il Libano, la Nigeria, la Siria, il Camerun, il Pakistan,
il Venezuela, l’Algeria, il Mali.
E dall’Italia, soprattutto dall’Italia.

A mia madre piaceva fare la spesa alla Coop di via


Corsica a Brescia e spesso mi chiedeva di accompagnar-
la, per poterla aiutare e per stare insieme. Fare la spesa è
una delle cose che ancora oggi da adulta non ho capito se
mi piaccia o no; spesso le necessità mi portano a smettere
di pensarci su. Anche quando ero piccola e dubbiosa di
tutto, mi facevo convincere e nel giro di mezz’ora la gigan-
tesca scritta Coop di via Corsica troneggiava sopra un edi-
ficio. La mia mente di bambina la ricorda davvero enorme
e piena di luci, anche se degli altri negozi non c’è traccia.
Chissà cosa fa la mente per imprimerti immagini speci-
fiche e appannare poi tutto il resto. Forse è solo una que-
stione di spazio e, in fondo, sono felice delle scelte della
mia memoria interna.
L’ultima volta in cui ci sono entrata probabilmente avrò
avuto sedici anni. Ora quando torno da quelle parti ci pas-
so spesso davanti ma di solito sto parlando con qualcuno,

88
sono al telefono, leggo un libro, sono intenta a cantare le
canzoni della scuola materna o a capire quanto sono in
ritardo per l’appuntamento doveroso che mi ha riportato
in quelle zone.
La Coop di via Corsica è stata per me un simbolo, un
punto di riferimento, un appiglio e un luogo da cui parti-
re. Esattamente da lì una rotonda mi ha sempre condotto
sull’unica strada diritta e continua che mi portava in ca-
mera mia falciando i campi e la mia possibilità di fuga; da
lì ci volevano cinque minuti a piedi per raggiungere casa
di Stefi, l’unica amica reale e tangibile negli anni della mia
adolescenza e degli spazi stretti chiusi a chiave per non
farci entrare nessuno, e spesso da lì sono partita per le va-
canze dopo un ultimo rifornimento di vivande e giornali.
Un punto esatto nella mia mappa piena di collegamenti
incerti e non marcati.
Per me, da piccola, poter andare alla Coop di via Corsica
divenne qualcosa di molto simile a un’ossessione. Fu per il
tempo di un periodo indecifrabile ma che conservo, inde-
lebile, nella mia testa. Ricordo che tentavo di cogliere ogni
possibilità e mi infilavo in auto piena di speranza, cercando
di non darlo troppo a vedere. Impaziente e preoccupata,
uno stato d’animo e d’ansia che continuo a ritrovare negli
angoli delle memorie che non sono andate perse.
Adesso, a distanza di anni, mi chiedo se qualcuno se ne
fosse mai accorto di quell’entusiasmo ingiustificato di una
bambina nell’andare a comprare dado da brodo e pasta
Barilla. Probabilmente no, come sono andate perse per stra-
da molte cose che ho deciso di raccogliere con calma, insie-
me alla convinzione che prima poi mi sarebbero tornate utili.

89
In un’infanzia in cui le tradizioni non mi sono mai en-
trate particolarmente sotto pelle, ho scelto di legarmi ai
riti. Più piccoli e umili, praticamente ignorati e molto si-
mili a come si sentivano i miei sentimenti all’epoca. E il
rito della spesa alla Coop era minuscolo e modesto pro-
prio come piaceva a me.
Il parcheggio, le borse di plastica, la moneta nel carrel-
lo, i biscotti, i surgelati, la carne e infine l’edicola coi libri
dentro a un posto in cui vendono da mangiare. Nel 1997
mi sembrava una cosa senza senso, crescendo non ho an-
cora capito ma l’ho accettato.
Tra i riti, i sedani crudi che mi disgustavano già allora e
i guanti di plastica con cui si sono divertiti tutti a gonfiare
le teste di galletti immaginari senza bocca e senza occhi,
per caso mi distrassi un attimo e mi ritrovai a fianco di una
figura leggendaria e spaventosa.
Leggendaria perché un uomo così alto io non l’avevo
visto mai, spaventosa perché aveva la pelle del mio stesso
identico colore.

«Ciao, sorella.»

Due parole, un saluto e tutto il terrore del mondo che


mi fece muovere le gambe magre per ritrovare il carrello
di mia madre. Non so se mi chiese dove fossi finita, con
quello sguardo che solo le madri hanno e che ti riempie
il corpo di sensi di colpa e “prometto che non lo faccio
più”. Non so nemmeno quanto ci impiegammo a ritornare
a casa, con i riti compiuti all’incontrario come ogni volta,
anche se da allora non sarebbe stato più come prima.

90
Sia chiaro. Sapevo di non essere l’unica persona nera
al mondo.
Arrivare in un Paese straniero con altri bambini esat-
tamente uguali a me mi ha aiutato subito a capirlo. È
stato naturale quanto inutile da dover spiegare perché
ovvio. Una certezza che hai in fondo allo stomaco e che
la vita non ti dovrebbe mai tirare fuori a forza perché è
tua e dei tuoi simili.
Dovrebbe perché il destino, i fatti, una guerra, le sue
conseguenze e un tipo di emergenza che spero di non ri-
conoscere più nella mia vita hanno scombussolato i piani.
E quella certezza è stata strappata via, piano, in silenzio,
come quando togli un cerotto vecchio ma non hai il co-
raggio di strappare tutto e subito, così usi il metodo degli
“strappetti” per non sentire troppo dolore. Un susseguir-
si di tentativi incerti e piccoli, che se quando ero piccola
aumentavano l’agonia alla mia pelle già guarita da setti-
mane, alla mia consapevolezza hanno tolto piano piano la
protezione. E una consapevolezza senza protezione, col
tempo, diventa fragile.
Mia madre adottiva era bianca, mio padre adottivo è
bianco, mia sorella maggiore e adottiva è bianca con le
lentiggini e le macchie sulla schiena, i miei cugini che mi
hanno amato e presa in giro per un’infanzia intera sono
bianchi e tutti con le stesse gengive; i miei compagni di
ogni classe dalle elementari al master sono stati bianchi
(fatta eccezione per due persone in un ciclo di studi lungo
quasi ventun anni), lo sono state le mie maestre e i miei
docenti, lo era la panettiera de “Il Fornaio” a cinque mi-
nuti a piedi dalle scuole, il prete che non mi faceva fare il

91
chierichetto, l’autista dello scuolabus che prendevo e che
poi ho smesso «per questioni personali», la cuoca della
mensa dell’asilo che faceva la pasta al pesto più buona del
mondo, il notaio di mio padre, la bidella delle medie che
ci dava i buffetti e i consigli in anticipo sulla vita, il biblio-
tecario, il mio pediatra con il camice macchiato di sugo
e pure la signorina allo sportello dell’autostrada che non
andava mai verso il mare.
Sono cresciuta tra persone bianche, in una tonalità che
non mi apparteneva perché opposta alla mia ma anche
l’unica. E in tutto quel bianco mi ci sono tuffata come
“un chicco d’uvetta in bicchiere di latte”. Pensando che
fosse normale. E lo era: perché non avevo alternativa, non
conoscevo altro, la mia consapevolezza aveva ricevuto fin
troppi strappetti e preferivo non pormi il problema di
sentirmi diversa.
Poi però quell’uomo nella corsia dei surgelati mi aveva
detto «ciao, sorella» e la mia testa, per un periodo indeci-
frabile, aveva continuato a ripetersi quella frase cercando-
ne un senso. Magari un inizio, o almeno una fine.
Per me poter andare alla Coop di via Corsica divenne
una fissa incontrollabile, un’ossessione preoccupante di
cui non riuscivo e non potevo parlare a nessuno. So di
aver passato del tempo a contare le perline di legno di
camera mia alternando i numeri alle risposte che avrei
potuto dare a quell’uomo se mi avesse rivolto di nuo-
vo la parola. Fremevo al solo desiderio di ripetere i riti
piccoli e umili per sbucare fuori dalla mia agitazione pe-
renne e rivederlo, scorgerlo anche solo pochi secondi e
trovare le parole giuste.

92
C’era un’altra persona come me. C’era un’altra perso-
na come me ed era adulta, grande. C’era un’altra persona
come me ed era adulta e non era lontana, non se ne stava
in Africa, ma alla Coop di via Corsica!
Non che ci avessi mai particolarmente pensato. Era già
abbastanza complicato doversi ricordare tutti i giovedì la
cartelletta di catechismo, imparare le divisioni, non far no-
tare troppo a quel bambino che mi piaceva e non piangere
davanti a T. che mi prendeva sempre in giro per i capelli e
per la pelle con una cattiveria studiata.

«Ciao, sorella.»
Ma dimmi tu: ce ne sono altri qui? Come te?
«Ciao, sorella.»
Ma tu mi chiami perché sei davvero mio fratello?
«Ciao, sorella.»
Siamo davvero sporchi come dice T. della quarta A?
«Ciao, sorella.»
Ma tu vivi in Africa? Cosa ci fai qui? Quanto è lontana?
Quanto ci vuole? È come da qui al mio Paese?
«Ciao, sorella.»
Mi ci puoi portare? Ci si può andare?

Solo che io «ciao, sorella» non lo rividi più. O forse,


come mi raccontai e raccontai di notte a Bubu in quei
giorni e mesi, non prestai abbastanza attenzione. Forse le
volte in cui tornai alla Coop di via Corsica l’avevo perso di
vista, ero intenta a cercare qualcosa tra gli scaffali o forse
semplicemente non voleva farsi vedere da me perché sa-

93
peva che l’avrei riempito di domande stupide e difficili.
Probabilmente andò così e così pensai per molto tempo.
E per molto tempo smisi di cercare qualcun altro come
me, qualcuno che avesse in comune con me qualcosa in
più della cartella di catechismo, la cotta feroce per quel
bambino che faceva ridere tutte o l’odio spudorato per la
matematica.
Per un tempo infinito pensai di essere l’unica e non
me ne preoccupai. Coprendo così la mia consapevolezza
con un altro cerotto, più grande, più difficile da togliere.
Tant’è che dovettero passare anni prima che me ne accor-
gessi. Perché crescendo io, di altre persone come «ciao,
sorella», ne incontrai, ma col tempo iniziai ad averne pau-
ra, a esserne diffidente. Non mi fermavo più, non mi in-
teressava più. Avevo altre cose da fare, da tenere in piedi,
da costruire. Guardarmi allo specchio non doveva essere
un momento per capire come stesse quella ferita ancora
aperta ma un’opportunità per nasconderla meglio. Per na-
scondermi meglio.

«Ciao, sorella» divenne una cosa che iniziava a irritar-


mi. Spesso agli amici che condividevano con me le verifi-
che disastrose di matematica finanziaria o il corso di teatro
della domenica sera ho detto, ridendo, che io quei «ciao,
sorella» non li sopportavo. Non li potevo sentire perché io
non ero la «ciao, sorella» di nessuno, io non assomigliavo
a nessuno tanto meno agli sconosciuti che incontravo per
strada; io non avevo in comune niente con nessuno, figu-
riamoci le origini. Per la città, sui mezzi, in viaggio, fuori
dai supermercati, sulle vie del centro, in spiaggia. Li ho

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evitati per anni quei «ciao, sorella». Li ho evitati con un
sorriso garbato, la voglia di scappare il più lontano possi-
bile e qualche parte del corpo che pulsava incessantemen-
te e faceva male. La mia ferita aperta, forse il cuore.

Poi è successo.
Esattamente come quando accadde davanti al bancone
dei surgelati, accadde di nuovo.
La prima volta so di per certo che mi trovavo a Brighton
ed era stato così fragile che non ci avevo quasi fatto caso.
Poi a Bologna, in piazza Verdi, seduta per terra a prende-
re un cappuccino con una schiuma infinita e la voglia di
restarci. Poi Torino ha aperto la diga della Dora e mi ha
permesso di tuffarmici e rendermene conto insieme al web
che mi ha dato i remi per poterci navigare in mezzo.

Prima di «ciao, sorella» io non pensavo e non crede-


vo di potermelo permettere. Dopo quell’incontro, dopo
il dolore profondo di non aver potuto approfittare subito
della possibilità che il destino aveva messo ad asciugare
al sole per me, ho continuato a ripetermi che non bastava
pensarci o crederci.
Una gabbianella circondata da gatti che l’hanno soste-
nuta, amata, ascoltata, a volte aiutata, accompagnata e te-
nuta in vita ma che ancora non aveva volato perché non ci
aveva mai pensato, non ci aveva mai creduto.

Ho incominciato a capire di poter volare quando ho


conosciuto scrittori afrodiscendenti come Toni Morrison,
Teju Cole, Ta-Nehisi Coates e Chimamanda Ngozi

95
Adichie. Avevo vent’anni e mi ero chiesta se in Italia ci
fosse qualcosa di simile, e quando l’ho trovato è stato il
primo passaggio.
La televisione e le riviste erano ancora accecanti e lon-
tanissime da me, non le guardavo mai perché sapevo che
qualcosa mi avrebbe dato fastidio. Ho iniziato a navigare
in rete e ho provato a digitare parole come “black italian”
e “afroitaliano”, termini che avevo sentito per sbaglio alla
fine di una conferenza e che mi avevano incuriosito e inor-
ridito insieme. Troppo simili ad “afroamericano”, troppo
copiati, troppo lontani. Non potevano essere miei e non
lo sarebbero mai stati, ma potevano essere un piccolo
inizio, un piccolo “strappo”. Uno di una lunga serie per
quel cerotto enorme che negli anni non ho tolto ma co-
perto sempre di più. Per farlo davvero però, per togliermi
davvero quel cerotto, per capire quanto fosse bello essere
gatti ma che potersi riconoscere e sentire gabbianella lo sa-
rebbe stato di più, ho avuto bisogno di persone reali. Vite,
esperienze, testimonianze, narrazioni oltre una pagina che
si può ricaricare, un’intervista limitata e limitante e una
visione piena di parole vuote.
Alla mia consapevolezza, gli “strappetti” li hanno dati
persone che nemmeno sanno quanto io sia grata a loro,
ragazzi che mi hanno seguito nelle idee folli e mi hanno
ascoltato fino alle tre del mattino, ragazze che mi hanno
insegnato a non vergognarmi, ad amarmi con tutto quello
che ho, uomini che mi hanno dato risposte grandi che devo
ancora capire e donne che ho iniziato a chiamare «zia» in
automatico, perché lo facevano tutti ed era vero. Esseri
umani, esseri straordinari nella vita di tutti giorni. La stes-

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sa vita a cui chiediamo di rappresentarci, di raccontarci
per quello che siamo e non più e solo per forza da dove
veniamo, di rendersi conto di quello che sappiamo fare, di
rispettarci, di ascoltarci quando abbiamo qualcosa da dire
e di lasciarci in pace se non ci va di farci interrogare.
Ogni persona che mi ha permesso di togliere un pezzo
di quel cerotto, mi ha riportato al bancone dei surgelati e
mi ha permesso di rispondere a quel «ciao, sorella» con
quattro parole: «Allora non sono sola».
Ogni volta in un modo e in un contesto diverso, ma
comunque valido. Valido e bellissimo.
Perché non ci saranno mai abbastanza riviste, mai abba-
stanza personaggi televisivi o attori dei film, protagonisti
di libri, compagni di classe, docenti, panettieri, preti, auti-
sti, cuochi, notai, bidelli o bibliotecari simili a me, simili a
me per davvero, che mi faranno smettere di dire «grazie».
La gratitudine che provo è grande quanto la gigantesca
scritta Coop di via Corsica e forse pure di più. E ovunque
sarò la vedrò sempre, e dove c’era il cerotto la ferita ha
iniziato a fare meno male. Forse perché sto capendo tutto,
magari ho iniziato a volare.

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Di chi sei figlia, tu?

Carissimo amore, rieccomi. Rieccoci.


Ieri alla televisione hanno detto dove hanno portato al-
cuni di voi, e il mio cuore è caduto dalla gioia prima e dallo
spavento poi.
Non pensavo fossi così lontano, non pensavo potessi fini-
re in un posto del genere. Che poi, mi dicono che probabil-
mente non dovrei nemmeno crederci. Ma avere un posto in
cui pensarti mi fa stare meglio, mi fa respirare un po’ di più.
Ho ricevuto la tua lettera ma molte parole erano can-
cellate. Che avessi fretta l’ho capito dalle lettere lasciate a
metà, che non potessimo sapere tutto – forse – è una novità.
Vuoi sapere come vanno le cose qui, è l’unica cosa che mi
chiedi e provo a risponderti. Tenterò sempre di farlo. Anche
se onestamente non so bene cosa dirti. O meglio, la verità
sta nelle mani di chi raccoglie le notize, mentre i cattivi di
questa storia dicono che quelli là sono inutili: «pennivedo-
li» e «puttane», li hanno chiamati. Che poi la prima è una
parola bellissima, buffa, la seconda no (e lo schiaffo di tuo
padre, quella volta a cena a fare i cretini ripetendo le cose dei
grandi, secondo me te lo ricordi ancora).
Oltre alle tue lettere forse inizieranno a controllare anche
altre cose. Vedi i programmi utili alla tv (i pochi rimasti), chi fi-
schia dissenso giù per strada, il valore delle lauree e dei sacrifici
che sono stati fatti per una stanza doppia fuori sede, un libro da
trenta euro per quell’esame a scelta e quella foto da incornicia-
re, che solo foto non è ma lo sa soltanto chi ci sta dentro.
Domenica scorsa un uomo – chissà perché poi sono sempre
uomini adulti e lontanissimi da me – mi ha chiesto di chi fossi
figlia e ho risposto di nessuno. E lui ha detto che era impossi-
bile. E forse impossibile lo è davvero, carissimo amore.
Ma come si fa a vivere in un mondo in cui a chi ha attra-
versato il mare si vieta di imparare una lingua, avere una
residenza e la possibilità di rimanere? Mi chiedo io, dopo
tutto quel sale un po’ di dolce non lo possiamo concedere?
Come si fa a vivere in un posto in cui le donne vengono arse
vive e ci si sbrana per sapere chi ha appiccato il fuoco, o se la
sua carta d’identità vale tanto o vale poco?
Eppure chi ha paura dei decreti scende in piazza, ma nes-
suno ne parla. Capisci il dramma, carissimo amore? Non ne
parlano. Degli scarabocchi di legge adultocentrici, dei me-
diatori a rischio, del coraggio di certi sindaci e della vergo-
gna che dovrebbero averne altri, delle donne insultate alle
poste perché portano il velo o di chi non si sa se sia più
povero o solo. Non se ne parla e non sai che mal di testa ho.
Quando ti hanno portato via e mi hai scritto «torno pre-
sto» lo sapevo che non saresti tornato presto. Ma sapevo an-

100
che come reagire, come rispondere alle domande degli altri in
classe e chi chiamare dall’ufficio quando sarebbe andata male.
Ché male sta andando male, e questo lo sappiamo sia lì
che qui. Ma lì, da voi, è tutta un’altra cosa. Qui da noi a
volte sembra solo una commedia brutta, una farsa scolorita.
Come si fa a vivere in un mondo in cui le cose che suc-
cedono sono così assurde che sembrano finte? «Abbiamo
bisogno di verità» mi ha detto a un certo punto quell’uomo
grande, lontanissimo da me. E io lo credevo davvero, di non
essere figlia di nessuno. Ma poi la tua lettera mi è arrivata
censurata, gli anni di Amadou Jawo mi sono sembrati così
pochi, al Viminale proiettano Sulla mia pelle e qualcuno
oserà mancare e forse no. Forse figlia di qualcosa lo sono.
«Io sono figlia dei libri che ho letto e delle cose che mi sono
accadute» gli ho risposto così. Ma avrei voluto aggiungere che
sono anche figlia dei semafori verdi, di un oratorio in centro a
Brescia, di un’adozione andata male, della Terza guerra mon-
diale che lui dice stia per iniziare ma che secondo me è già qui
dentro e ha spostato tutti gli organi, di mia madre per sei mesi,
di chi mi ha ospitato sul divano, dei suoi baci, di Bologna e del
lungomare di Sant’Elpidio, di chi mi ha aspettato invano, di
Battisti di sicuro e di Tenco ancora di più, dell’Africa in qual-
che modo, dei miei padri spariti nel nulla e della forza che…
Lo dico a te, però. Perché serve. E se lo cancelleranno col-
ma gli spazi come vuoi, tanto te lo ripeterò quando tornerai.
Lo dico a te, però dai. Perché saperlo serve, carissimo
amore, saperlo serve a noi.

Un sorriso incensurabile.
Con paura e libertà

101
NERI & ITALIANI
State dicendo: «Siccome ci sono i barconi, siccome ci sono gli
stupratori, anche tu bambino, adolescente che sta studiando con i
nostri nipoti e i nostri figli, anche tu sei nel mucchio!»
Il messaggio implicito, e non dico neanche subliminale, perché
ormai diventa palese, è: non mi importa se è buono o cattivo, è
nero: non lo voglio! Quando il messaggio deve essere: non mi
importa se è bianco o è nero: deve essere per bene. Perché su
questo non si scherza. Attenzione, possiamo chiamarlo Ugo o
Massimiliano ma si chiama razzismo quello che sta iniziando a
girare in questo Paese. Mi riferisco alla fascia di età che sta tra
l’infanzia e l’adolescenza dove si sviluppa lo spirito critico.
Quanto rancore state seminando nelle menti di questi ragazzi, di
questi bambini, che investimento fate sul loro futuro?
Ricordatevi che il contrario dell’integrazione è la disintegrazione.

Pier Luigi Bersani, intervento alla Camera


sul decreto sicurezza (novembre 2018).
Ovetto kinder

Nera per fortuna. Nera per un caso. Nera per una con-
giunzione astrale, per il sole, per l’amore e per lo spazio e
il tempo che sono stati dalla mia.
Nera per l’Africa. Però la tua, ché la mia non la conosco
ma non me la spiegherai tu.
Nera per il colore che non è come la notte, non è come
la pece e nemmeno come l’ebano. Piuttosto scura come
il legno, che non si spezza mai, che galleggia e sopporta
tutto, anche voi. Soprattutto voi, che non sapete mai rac-
contarmi, che non sapete mai descrivermi e allora faccio
io, non vi scomodate, non vi preoccupate. Nera per le
sfumature; che non sono tutte uguali, e ho dovuto im-
pararlo, perché in televisione, sulle riviste e nei libri il
vostro bianco acceca, tutto questo vostro bianco acceca.
Nera per le sfumature che, guardate un po’, cambiano
tra i vari Paesi; che, guarda un po’, cambiano pure tra i
figli, tra i fratelli. Nera che «ciao Africa» lo tieni per te e
usi un nome, perché ce l’ho e lo sa di essere lungo ma è
molto, molto bello. Nera per le forme. Per le labbra, per
le gambe, per i fianchi che si addormentano comodi su
di un sedere grande e per le nuvole sulle unghie. Nera
che mi potete guardare, che vi potete stupire quanto vo-
lete, ma sappiate che non sono il vostro biglietto aereo
per le terre che avete visto nei documentari la domenica
pomeriggio o sui siti porno. Nera e bella. Ma non per i
lineamenti, il trucco, lo stile e lo slang mezzo america-
no, e nemmeno per i colori sgargianti che «a voi stanno
così bene!» o per quel modo di muoverci che abbiamo
solo noi. Nera e bella perché credibile e incredibile,
perché semplice, perché in pigiama faccio ridere e con
i tacchi tenerezza, come gli altri, più degli altri. Nera e
bella perché non voglio sapere di essere sexy, attraente,
provocante, diversa, esotica, fantastica; voglio sapere di
essere io. E io sono tantissime cose, oltre che nera. Nera
senza tradizione, con un nome che è un cognome e solo
una lingua come madre. Che dell’Africa ho solo i geni
e manco li vedo, tu come fai? Che per l’Africa ho solo
i sogni, tu perché non la vuoi? Nera per comodità, per
fare prima. Nera e derisa. Nera e desiderata. Nera e dif-
fidente, nera e ambita. Nera che «avrei bisogno di una
ragazza come te per il mio progetto» e non capire chi sta
giocando a cosa. Nera e innervosirsi, fidarsi, rimanerci
male, stupirsi, sincerarsi e perdersi. Nera e rassegnata, e
sul piede di guerra, e col terrore di fare la vittima, pron-
ta a urlare per il fastidio, pronta a ridere per l’ennesima
battuta. Nera che «tu non capisci che un po’ mi fa male».

108
Nera che «che palle, che esagerata che sei! Si sta scher-
zando, non vedi?». Nera che mi dispiace. Nera che «ne
stai parlando troppo». Nera che non potete farci niente.
Che questa pelle non la cambio, ma tranquilli, non cam-
bio nemmeno voi, non vi contamino, non vi contagio e
non vi tocco. Nera che chi se ne frega. Anche se l’italiano
lo so davvero, e pure bene; anche se soffro il mal di mare
e su un barcone penso che non ci sarei mai riuscita, altro
che «mamma mia che coraggiosi tu e tutti gli altri!» (ma
io e tutti gli altri chi, scusate?). Nera che «non ti posso
assumere perché sai: non vorrei che i miei clienti non si
trovassero a proprio agio». Nera e negra. Smettendo di
rimanerci male quando qualcuno lo dice in mia presenza
e dirlo pure io: «NEGRA!». Con la erre marcata che sa
di forza e di cattiveria. La vostra, perché io cattiva con
voi mai e forte non lo so; ma spesso lo dimentico e voi
con me. Nera che chi se ne frega, ancora. Anche se a fre-
garmi ci pensate sempre voi. Nera che chi se ne frega, per
forza. Anche se a volte invece me ne frego così tanto che
faccio esattamente come voi. Divento esattamente come
voi. E mi spavento, cerco uno specchio, mi ritrovo e mi
tranquillizzo.
Nera per fortuna, dicevo. Nera di fortuna, non so se
mi spiego. Di fortuna, mica di rabbia. Che se il nero stes-
se bene con tutto io nelle stanze, nei negozi, in strada, di
notte, al mare, a scuola, al parco, al cinema, in piazza e in
treno dovrei stare bene con voi. Vorrei stare bene con me.
Invece no. Perché a volte me lo dimentico, ma per fortuna
sono nera. Non per voi, non per me. Solo per fortuna.

109
«Espi, tu sei come gli ovetti Kinder!»
«Cioé?»
«Praticamente sei nera fuori ma bianca dentro!»
Ma.

«Sì, praticamente è come se fosse italiana.»


«In che senso, mi scusi?»
«Eh sì, lei è nera però ha tutte le caratteristiche delle
persone italiane.»
Però.

110
Rabbia italiana

Io cerco sempre di scrivere secondo il principio dell’iceberg


[…] i sette ottavi di ogni parte visibile sono sempre sommersi.
Tutto quel che conosco è materiale che posso eliminare,
lasciare sott’acqua, così il mio iceberg sarà sempre più solido.
L’importante è quel che non si vede. Ma se uno scrittore omette
qualcosa perché ne è all’oscuro, allora le lacune si noteranno.

Ernest Hemingway

Tra tutte le cose che possono capitare nella vita – traslo-


chi, trenta e lode, una prima alla Scala, il concerto del tuo
cantante preferito, cambiare il percorso di studi, una sera
al luna park, imparare una nuova lingua e innamorarti –,
ecco, tra tutte le cose, nonostante tutto quello che nei vari
passaggi si può portare avanti o perdere per strada, ci sono
avvenimenti che rimangono appiccicati addosso, altri in-
vece no. Possono essere attimi come cadute improvvise,
frammenti di discorsi, consegne di diplomi o vittorie gua-
dagnate. Sono cose che in un modo o nell’altro, da un pas-
saggio all’altro, ci portiamo dietro e lentamente iniziano a
diventare parte di noi. Indistintamente.
Di queste cose – frammenti, attimi, parti di discorsi,
ricordi –, credevo di averne pochissime.
Mi sono spostata da una città all’altra, da un gruppo di
studio all’altro, da una camera in affitto all’altra senza mai
pensare di essermi lasciata indietro qualcosa o di essermi
caricata un peso troppo grande.
Qualche mese fa, però, durante uno di quei festival in
cui mi invitano per raccontare la mia esperienza, un mo-
deratore che aveva davvero voglia di ascoltare le mie ri-
sposte alle sue domande mi ha chiesto una cosa semplice,
quasi banale.
In quella chiacchierata in plenaria non ero sola. Con
me c’erano altre quattro donne di origini straniere, quasi
tutte nate e cresciute in Italia. Ognuna con la sua storia,
con il suo bagaglio ma soprattutto con il suo sguardo di-
retto, fiero verso le risposte che dava.
Quando è arrivato il mio turno di rispondere ho finto di
avere un piccolo problema con il microfono. I miei modi
per perdere tempo sono sempre stati scontati e imbaraz-
zanti, eppure mi hanno sempre aiutato.
Non mi sono mai sentita indifesa come in quel momento.
Non ho mai desiderato sparire così, all’istante.
Il moderatore con gli occhi all’ascolto e il sorriso aperto
come le finestre mi ha ripetuto la domanda: «Qual è stata

112
la tua esperienza di crescere in un contesto completamen-
te differente da quelle che sono le tue origini, Esperance?
E come ti senti ora a riguardo? Cosa avresti da dire?».

La prima volta in cui ho desiderato sparire è stata du-


rante una sessione di capricci per qualcosa di piccolo e
stupido o grande e gravissimo. Probabilmente era un gior-
no di festa perché nella stanza non c’erano solo i miei ma
anche gli zii più stretti e i cugini annessi. La mia famiglia si
riuniva per le feste comandate e per i compleanni di ogni
componente; qualche volta mancavano uno o due membri
per impegni vari o immaginari ma ritrovarsi, nei miei ri-
cordi d’infanzia, era sempre bello.
Tutti erano intervenuti e io ero rimasta muta, come muta
sono rimasta moltissime altre volte negli anni a venire.
«Smettila di piangere così, guardati: sembri una scimmia.»
A dirlo potrebbe essere stata mia madre, con la sua
frangia nera e i ricordi incastrati nelle pieghe della poltro-
na come briciole; T., con le sue porte sbattute e le lentiggi-
ni anche sui pensieri; o magari uno dei miei cugini, che si
divertivano a chiamarmi «orango» nei loro pochi anni in
più, ma di certo più sicuri dei miei.
A dirlo potrebbe essere stato chiunque, ma la cosa im-
portante è che successe, e subito dopo scoppiò una risata
così forte e così profonda che scoprii il termine “estraneo”.
È accaduto molte altre volte. Magari non a parole ma con
risatine soffocate, magari non a gesti ma con sguardi pieni
di giudizio, magari non in silenzio ma con offese urlate da
auto in corsa. In anticipo sui tempi, senza saperlo nominare.

113
Quando la mia famiglia aveva riso al paragone della
mia faccia in lacrime con quello di una scimmia; quando
uno sconosciuto ne aveva fatto il verso guardandomi in
faccia durante l’attesa del mio gelato alla crema; quando
una donna aveva borbottato la parola “animale” mentre
mi sedevo accanto a lei; quando in un’assemblea di istituto
un rappresentante degli studenti aveva detto che «gli stra-
nieri, i neri e i rumeni secondo me se ne devono andare via
da scuola»; quando in prima media, in un gruppo misto, i
più grandi mi avevano guardato e detto «chi? La negra?»,
indicandomi.
È accaduto in molte altre occasioni e ogni volta sapevo
cosa fosse, ma non che avesse un nome.
Quando, anni dopo, davanti a un tavolino sbilenco in
centro a Torino incrociai A., provai a tirare fuori quella
sensazione.

«Quella che tu non sai definire è rabbia.»


«Come, rabbia? No, no, io non sono arrabbiata, io mi
sento estranea.»
«No, Esperance, è rabbia, fidati.»

«Io sono arrabbiata.»

Ho amato il moderatore con il sorriso aperto come le fi-


nestre perché non si è mosso, non ha detto nulla. Ha chiu-
so un poco gli occhi e ha continuato ad ascoltarmi.
Ero arrabbiata perché in ventisette anni quella per me
era una delle primissime volte in cui non ero l’unica. Ero

114
arrabbiata perché ci avevo impiegato tutti quegli anni a
capire che quel sentirmi “estranea”, in cui mettevo tutte
le mie domande senza risposte, in realtà è sempre stato
un contenitore molto più grande di quello che credevo.
Dentro custodiva solitudine, disagio, incomprensione, ri-
cerca, incapacità di esprimersi, tristezza, bisogno di rife-
rimenti, frustrazione, desiderio di somigliare a qualcuno,
mancanza di riferimenti e fastidio, estraneità e rabbia.
«Io sono arrabbiata perché crescere in un posto in cui
per anni e anni sei sempre l’unica nera della scuola, dell’au-
tobus, del quartiere, della piscina e dell’oratorio pesa.»
Pesa e non hai i mezzi per poterlo esprimere, e non sai
a chi guardare, a chi chiedere cosa e come averlo. Pesa
perché l’unico modo in cui ti senti sempre è in difetto,
perché la tua diversità non si può nascondere e te la fanno
vedere sempre.
Perché quando entri nelle sale d’attesa speri sempre di
non essere notata, e in silenzio ti auguri di trovare qualcuno
come te. Ma qualcuno come me non c’è stato quasi mai.
Perché agli occhi degli altri rappresenti solo un gruppo
etnico, alieno, lontano ed esotico. E davanti allo specchio
sei sempre sola e i tuoi occhi, la tua bocca, le tue linee e i
tuoi capelli invece non sono rappresentati da nessuno.
Ho detto tutto questo e altro, e quando ho smesso di
parlare davanti al pubblico e al moderatore dal sorriso
aperto come le finestre, il microfono con cui avevo perso
tempo qualche minuto prima era umido all’altezza della
mia mano, e il silenzio aveva un sapore di rispetto e com-
prensione. Lo stesso silenzio di quando avevo raccontato
di Bubu, e forse pure un po’ più grande.

115
Finita la conferenza, qualcuno mi si è avvicinato per dir-
mi «grazie, brava, complimenti, che persona meravigliosa che
sei». Ho sorriso e me ne sono tornata a casa di T., che mi ospi-
tava su un’isola che non avevo visto prima, con gli occhi un
po’ più vuoti e il cielo sopra la testa come alleato. Io che come
lui non potevo sparire, io che come lui mi potevo arrabbiare.

Le mail dal Cile di E., quella volta a Gardaland a


vent’anni, i poster in una stanza doppia dietro la stazione
di Trento, il bacio di quella mattina, quel 28 che quasi non
ci credevo, i salti di gioia il giorno della prima comunione,
il mio pesce rosso Holden II, nascondermi con F. a sei
anni nelle stanze dell’oratorio, Ferrara, Ferragosto al mon-
te della Maddalena, l’ultimo film visto al cinema.
Ognuna di queste cose, insieme a molte altre, negli anni
hanno aggiunto o tolto solidità al mio iceberg personale.
Ma la maggior parte della gente ne intravede appena una
parte, del resto io soltanto ora sto scoprendo insieme gioie
e dolori. E tra tutti questi sentimenti, non sono mai riusci-
ta a riconoscere e trascrivere la mia rabbia, che ha lasciato
sparsi lacune e domande, vuoti e scontri.
Il giorno in cui ho capito che la mia estraneità era solo
un pezzo di ghiaccio conficcato male da qualche parte, tra
la pianura padana e il cuore, ho ringraziato Hemingway,
un altro paio di scrittori e pure le lacrime che mi sono
scese sotto un cielo alleato.
Per un attimo, per un solo lunghissimo attimo, alla so-
litudine, ai riferimenti, alle mancanze e a cosa somigliavo,
non ci ho più pensato. Potevo piangere e somigliare solo a
me. Finalmente arrabbiata e in salvo.

116
DONNA E NERA
Gabbia

A volte, nel letto, mezza nuda e ancora incosciente per


il poco sonno, mentre il mondo non mi vede, mi guardo e
scorgo uno spettacolo. Di carne e ossa, lividi e smagliatu-
re, voglie sulla pelle, ma soprattutto di amore.
È un attimo che, però, più sono cresciuta meno è du-
rato. Soprattutto nelle ultime estati, quelle che mi hanno
concesso i vestiti leggeri e colorati che ho indossato al me-
glio prima di uscire.

«E com’è là fuori?» mi chiede G., a distanza di chilo-


metri e di baci lontanissimi.
«Qui fuori è un circo» gli rispondo di fretta. «Fuori è
un delirio, è una sfilata continua, una presa in giro sfian-
cante e una sofferenza cieca.» Riapro la conversazione e
penso: qui fuori il mio corpo non è al sicuro. E mi è sembra-
to di urlare, ma non sono riuscita a scriverlo.
Qui fuori è un incubo, una condanna scritta in grassetto.
Ho avuto la netta sensazione di essere in pericolo in quan-
to bambina, ragazza e donna tante volte. Molte più di quelle
che la mia testa ha elaborato e il mio cuore riconosciuto.
In una realtà ovattata come quella che ti costruisce ad-
dosso la provincia, il mondo pericoloso della città sembra
un racconto terrificante ma sempre lontano. La fine dei
miei anni Novanta è stata segnata dalla paura della droga
nei bagni delle scuole medie; i predatori sessuali avevano
portato il terrore nella generazione prima, quella dei tren-
tacinquenni che ora sono genitori e le foto dei loro figli
sul web le mettono censurate, con quei «non si sa mai» di
sottofondo sentiti mille volte, insieme alle raccomandazio-
ni che si sono trascinati dietro trasformandosi in mantra.

Nella mia infanzia la netta differenza di possibilità e di


permessi tra me e i miei amici o cugini maschi è stata sem-
pre molto evidente; soprattutto tra le mura di casa.
Sono cresciuta con T. che era di undici anni più grande,
e i nostri interessi e bisogni erano differenti. Metterli sulla
bilancia dell’equità sarebbe stato complicato per me e stu-
pido per lei. Due cugini maschi, i compagni di classe e la
realtà di un paesino di provincia mi hanno però spiegato
le regole del gioco, e sono state subito chiare, a differenza
di quello che mi girava per la testa.
Mio padre tirava fuori dei «fa’ attenzione» in corsi-
vo a cui non ho mai saputo dare un sentimento preciso.
Preoccupazione, di sicuro anche stanchezza, tantissima.
Mia madre spalancava gli occhi e mi lasciava sulla scri-
vania libri di donne arabe incastrate in matrimoni violenti

120
o che parlavano dell’infibulazione nell’Africa subsaharia-
na. Era il suo modo per dirmi di stare attenta, mettendomi
all’erta e lasciandomi una manciata di incubi.
Ad oggi penso che i miei genitori si siano concentrati
sul grado giusto di pericolo, senza mai sospettare la possi-
bilità che io potessi essere al centro di un bersaglio speci-
fico ma poco riconoscibile.
Ricordo solo una frase, un accenno, da parte di mio
padre, mentre me ne stavo a gambe incrociate sul parquet
di camera mia. Dopo l’ennesima discussione che portava il
timbro dei miei quattordici anni. Io in lacrime e senza pa-
zienza; lui seduto alla mia scrivania e senza forze, a riviver-
si l’adolescenza della seconda figlia a distanza di dieci anni
dalla prima, senza armi con cui combattere e lo schermo
del mio computer portatile a separarci.
«Io te lo dico, ma penso che tu già lo sappia: nella vita
dovrai fare attenzione non solo una volta, ma due, tre, se
necessario, Esperance.»
Con quel suo modo di pronunciare il mio nome usan-
do un accento spostato e una cadenza che ancora, anche
dopo anni, sa di mare e di colline verdi.
Non lo capii; probabilmente mi interessai al termine di
quella discussione, alla possibilità di tornare alle mie cose.
Strano tutto il tempo che la realtà ti mette sul piatto ma tu
inizi ad avere fame con anni di ritardo.

Capii le parole di mio padre quando alla fermata


dell’autobus 10, che mi portava a scuola, in una mattina
come le altre, una macchina grigia accostò proprio lì da-
vanti. Con un incedere lento e sospetto.

121
Nel sonno mattutino e nella voglia di saltare una lezio-
ne noiosa, col mio mp3 stavo scegliendo la colonna sonora
del viaggio, per questo non me ne resi conto subito.
Del 10 neanche l’ombra ma la macchina grigia si fermò,
alla mia altezza. Che non aveva intenzione di muoversi, lo
percepii immediatamente.

Quando leggo articoli, testimonianze e racconti di ra-


gazze, donne che sono state infastidite, pedinate, molesta-
te – o peggio – da uno sconosciuto, ogni volta mi ritrovo
ad annuire automaticamente sentendo un’ondata di calore
montarmi nel petto.
So cosa raccontano e so cosa hanno provato e senti-
to. Lo so dal profondo e lo so da quando ho imparato
a riconoscere quella sensazione di disgusto, di disagio, di
fastidio che mi nasce da qualche parte nella pancia e dà un
sapore alla mia saliva. Un sapore spesso amaro, che se ne
va via solo dopo molto tempo.
Racconti, esperienze, testimonianze, libri, interviste
e tutto il materiale possibile negli ultimi anni hanno ini-
ziato a invadere i miei schermi e le mie serate. Avevo bi-
sogno di ritrovarmi in quella sensazione, avevo bisogno
di sentirmi capita, di avere un riscontro, di centellinare
tutti i sentimenti che avevo messo da qualche parte per
affrontarli poi. Quello stesso identico “poi” che è venu-
to al mondo verso le 7:40 di una mattina del 2008, con
io che avevo il sonno in faccia e il silenzio di un paese
ignaro di tutto.

122
La macchina grigia stette davanti a me per minuti. Il
suo conducente azionò i fari per richiamare la mia at-
tenzione, suonò il clacson scuotendo la mia indifferen-
za forzata e quando abbassò il finestrino capii che i miei
sensi all’erta non si stavano sbagliando: «Ciao bella, ti va
di salire?». Non ero sola alla fermata, ma di sicuro stava
parlando con me.

Nelle testimonianze delle ragazze che sono state pe-


dinate o infastidite c’è sempre un momento in cui lo
sguardo, le parole, il racconto assorbe una nota simile al
sarcasmo, allo stupore, quasi incredulità. A volte è imper-
cettibile, ma se hai subito e vissuto qualcosa del genere sai
che quella nota è il tuo appiglio alla realtà. Perché che un
uomo, di prima mattina, accosti a una fermata dell’auto-
bus approcciandosi a una studentessa e proponendole di
salire sul suo mezzo può essere solo una cosa che accade
in una realtà parallela.

«No, grazie.»
«Dai, vieni con me, sei così bella: ci divertiamo.»
«No, grazie.»

Il 10 arrivò e mi ci fiondai dentro come fosse una zat-


tera. A scuola seguii le lezioni, risi, probabilmente ritirai
un altro 3 in matematica e rifeci il percorso al contrario
per mangiare, studiare, leggere, stare al pc e poi dormi-
re. Tutto come ogni giorno, tutto come sempre. Eppure

123
qualcosa aveva iniziato a insidiarsi. Prima minuscolo, tra
i fogli protocollo e gli squilli di mia madre. Poi piano pia-
no crebbe, e quando me ne accorsi aveva macchiato gli
specchi, mi faceva inciampare spesso e poi respirare pia-
no, pianissimo.

L’ho capito una notte di Capodanno che erano sbarre.


A piedi, sullo stradone, disperata e libera per aver com-
preso la fine di un amore impossibile, con i fari delle mac-
chine in festa che mi accecavano. Si accostarono a me per
sei volte, una dopo l’altra. I loro conducenti tutti a chie-
dermi la stessa cosa, alcune volte dolcemente, altre volte
insultando la mia pelle. Lo raccontai a voce solo una volta;
quando finii mi sentii stanchissima.
La mia gabbia non ha sbarre, non ha confini e nemmeno
serrature. Non era un messaggio da mandare a G. dall’al-
tra parte della pianura padana, ma scriverlo faceva bene
comunque.
L’ho scritto in un pomeriggio di pianto e frustrazione.
Agitata come non mai, in allerta, con l’orecchio teso verso
i passanti per strada e le notizie sugli schermi che lampeg-
giavano tragedie e mancate scuse.

La mia gabbia sono le strade, gli sguardi, «certo che le


nere sono proprio belle!», le piazze, le hall degli uffici e degli
studi, i sedili dei tram, gli sguardi, i posti vuoti accanto al
mio, le porte dei negozi, «sei uguale a Rihanna», le risatine,
i telegiornali, gli sguardi, la bellezza esotica, «sei nigeria-
na?», i soldi e i biglietti da visita con dietro i numeri d’al-
bergo in tasca mentre cerchi di portare duecento euro a casa,

124
le spallate, «ciao bella», «sei uguale a Skin», le frecciatine,
gli editoriali, gli sguardi, «lo sai che ho letto che le nere sono
fantastiche a letto?», scoprirsi vulnerabili, il fastidio, l’agi-
tazione, gli sguardi, i pensieri, «ehi, pantera!», «assomigli
a Beyoncé», «quanto fai per un pompino?», le paranoie, gli
sguardi, «sembri la modella: Naomi Cambpell!», gli sguar-
di, la paura. Gli sguardi.

Se potessi, se davvero potessi, da quella gabbia ci usci-


rei anche adesso; senza passare dal via, in qualsiasi modo,
pagando tutto, qualsiasi prezzo.
Ma il problema è che lì dietro mi ci ha messo chi mi
vede e non mi guarda. Una differenza piccola e sottile,
che mi ha insegnato anni fa Anna e che ancora oggi per-
siste. E la ritrovo nelle domande scomode, negli approc-
ci improbabili, nelle offese che gli uomini che incontro
credono complimenti, nelle battute e nelle risatine, ogni
volta che il mio corpo viene associato a quello di chiun-
que altra basta che sia donna, basta che sia nera. Una
sensazione che ho ritrovato, quando meno me lo aspet-
tavo, anche a lavoro, quando degli sconosciuti hanno
scommesso davanti a me sul mio Paese di provenienza
e si sono messi a ridere davanti al mio sguardo impas-
sibile, infastidito. L’Italia non mi dà alternative: o sono
una sportiva, o canto benissimo, o mi prostituisco. Per la
maggior parte mi prostituisco; e se sono alla fermata di
un autobus, appena uscita dal Pam, mano nella mano col
mio ragazzo, in compagnia di un bambino o al telefono,
non cambia: sono nera e quindi prostituta, e quindi di-
sponibile, desiderosa, accessibile.

125
Ci ho impiegato parecchio tempo a capirlo. Mi sono ser-
viti gli occhi grandi che a volte ho, la passione per i libri e un
ripasso profondissimo di storia del colonialismo italiano. È
stato doloroso e dovuto. Ho fatto fatica, mi sono martoriata
di domande e dubbi e, peggio ancora, mi sono sentita piccola
e livida, usata, marchiata da un destino già disegnato da chi
nella storia ha voluto raccontare la donna nera dimentican-
dosi delle sfumature, della sua vera bellezza e del suo sapere.
Quei contorni marcati che mi hanno affibbiato in stra-
da, a scuola, al lavoro e in giro sono nati come segni e poi
sono diventati sbarre.
Quando me ne sono accorta, ormai il problema era di-
ventato un altro.
Perché il punto è che io voglio uscire.
Dal circo in cui o mi si vuole nera e prostituta, nera e
povera, nera e bisognosa o mi si vuole nera, acculturata,
con la risposta pronta solo secondo i canoni di chi intervi-
sta e racconta, sceglie e seleziona; solo secondo i gusti e i
desideri degli altri ma mai, mai secondo i miei.
Voglio scappare dal delirio in cui ci si dimentica che ho
un nome, una storia e in cui il colore della mia pelle e la
mia provenienza definiscono i miei desideri sessuali. Dalla
sfilata quotidiana in cui cammino a testa alta perché se mi
distraggo per un attimo non lo so e non lo voglio sapere.
Mi rendono inquieta e incredula tutta questa mancanza
di intelligenza e tatto e questa abbondanza di ignoranza
umana e storica. Mi tolgono le forze, il fiato e mi lasciano
un dolore spontaneo e indistruttibile che provo ogni volta
in cui torno a casa. O vado in centro, al mercato da un’a-
mica, in stazione, a casa di N. o a teatro.

126
A un certo punto Angela Davis nel suo Donne, razza e
classe, spiegando magistralmente la situazione quotidiana
delle afroamericane in un passato che ha lasciato strasci-
chi, dice una cosa potentissima, in un trafiletto che ho fat-
to mio sin dalla prima volta in cui l’ho letto:

«Le donne di colore hanno dovuto sviluppare una vi-


sione più ampia della società di qualunque altro gruppo
sociale: devono infatti avere a che fare e comprendere uo-
mini bianchi, donne bianche e uomini di colore. E devono
venire a patti con se stesse.»

Mio padre e Angela Davis mi hanno messo in guardia


da me e da tutto quello che sono, che non potrò essere e
sarò per sempre per gli altri. Il primo, in tempi non sospet-
ti; la seconda, quando meno me lo aspettavo.
Ho fatto mie le loro parole. Le ho letteralmente tatuate
all’altezza dello sterno ma sul lato della pelle che non si
vede, dentro: così le posso guardare solo io.
Le ho estrapolate, forgiate con tutte le cose che mi sono
accadute e sono diventate parte di me. Hanno riempito i
silenzi che avrei voluto spaccare con le cose che non ho
mai raccontato ai miei coinquilini, a G., a M. e a tutti gli
uomini grandi e piccoli che mi hanno portato cose buone
nella vita. Per non parlare di quelli che mi hanno dato baci
e sogni puliti. Penso di non essere mai riuscita a scavalcare
le loro gelosie o le loro preoccupazioni cieche se non per
qualche secondo. Non ho mai voluto rischiare di farli sen-
tire in colpa o di sentirmici io quando mi dicevano «non è
che ti sembra di esagerare con questo fatto che sei nera?».

127
Ho preso quelle parole e le ho fatte mie, anche perché
è stato ed è difficile ogni volta spiegare a una mia coetanea
o a una donna più grande di me che io so, percepisco e
riconosco il tipo di approccio che mi stanno dedicando in
mezzo a uno stradone di sabato pomeriggio o alla fermata
dell’autobus. Io so che non è solo perché sono donna e
giovane ma anche perché sono nera. E questo attira un’i-
gnoranza e una violenza che non si possono spiegare se
non le hai vissute in prima persona ed esistono, sono reali,
le vedo precisamente negli occhi di certi uomini. E i loro
«succede a tutte, guarda che è sempre così, anche a me
accade, anche con me fanno così», per starmi accanto e
per dirmi «noi ci siamo, noi sappiamo cosa passi», a volte
non bastano e non sai come dirlo, e ti senti dare dell’esage-
rata da chi speravi ti potesse capire. E invece, forse, capire
tutto non può.

È sempre sfiancante stare dietro le sbarre.


È come cercare di scappare: magari ci riesci e poi, ap-
pena raggiunta la strada della libertà, qualcuno accosta e
ti chiede «quanto fai?».
Con gli anni ho imparato a rispondere, a mandare giù la
saliva amara, a non prendermela sempre, a capire che non
avevo colpe e che Angela insieme ad altri mi aveva dato un
appiglio solido e altre risposte che semino in giro, speran-
do che possano mettere radici e libertà. O almeno qualco-
sa di molto simile e forte uguale. Solo per consentirmi di
superare tutto, di venire a patti con quello che sono senza
morire un po’ dentro e sempre. Per provare a stare meglio,
per consentirmi di dire «esco quando voglio».

128
Permesso (ballata per ragazza nera)

I.

Devi essere educata


devi chiedere permesso
ti hanno detto così
così hai fatto.
Devi essere educata
devi chiedere permesso
a casa, in strada, dal medico
con gli altri, per gli altri, ma prima di tutto per te
(per te).
Se piangi, se ridi, se soffri
quando piangi, quando ridi, quando sbagli
devi essere educata
devi chiedere permesso
per entrare, per dire
per pensare, per essere,
ma prima di tutto per te
(per te).

II.

Non è anche questa casa mia?


hai chiesto e non capivi.
Non sono anche queste le mie strade?
Il mio banco, il mio supermercato, il mio medico, il mio
spazio, il mio futuro?
Non sono anche queste cose mie?
hai chiesto e già piangevi
la risposta era sì ma se l’è presa il vento
ma non avevi ancora i mezzi adatti
e nemmeno le tue ali
te le hanno rubate
te le hanno bruciate
come i sogni, certi pensieri.
Dicevi grazie e ti toglievano dai libri
chiedevi scusa e ti schiarivano la pelle
urlavi per favore e ti cambiavano l’umore
stavi zitta e ti tenevano le spalle
per non correre
per non ridere
per non arrivare mai.

130
III.

Devi essere educata


devi chiedere permesso
altrimenti sei esagerata, sempre
a evitare ogni rischio, ovunque
o non morirti accanto, dentro.
Perché non è ancora la tua via, anche se dicono il contrario
e i manichini non ti somigliano, le riviste ti escludono,
le polemiche ti usano, i giornali ti aggrediscono e gli amori
ti feriscono subito dopo i baci
ma guai a te se glielo dici
guai a te se glielo fai notare
guai a te se provi a esistere.

IV.

Devi essere educata


devi chiedere permesso
sì, grazie, sono d’accordo
per favore, adesso posso?
Devi essere educata
devi chiedere permesso
perché ti vogliono toccare
perché ti devono spiegare
catturare, illudere, circoscrivere e trasformare
sezionare, giudicare, descrivere e offendere
e tu devi essere educata

131
e tu devi chiedere permesso
perché è colpa tua e di ciò che hai addosso
del sangue e dei chilometri
del dio che non hai e della violenza
della madre di tua madre
e dei tuoi capelli
del tuo nome e di come parli
ma come, adesso parli?

V.

Figlia disperata, senza generazione


etichetta facile, non addomesticabile
foglia d’autunno, fenomeno da baraccone
sensuale come poche, irreprensibile
perché è colpa tua e di ciò che hai addosso
e poi sei difficile
per questo da educare
per questo senza permesso
e poi sei incredibile
e ti amo e ti venero
ti disegno e ti compongo
ti ricordo e per te intono un inno
qualcosa
per cui cantare
con cui gioire
qualcosa
che duri nel tempo

132
che passi tra il vento
tra le battaglie a venire e le vittorie minuscole
per i figli dei tuoi figli
la neve sulle labbra e i coriandoli.

VI.

Perché non sei stata ma sarai


perché hai resistito e crollerai
per poi ricominciare
per poi resistere
e ancora amare
senza essere educata
senza chiedere permesso.

133
Dove siamo finiti?

«La cosa più difficile in questo periodo di merda è essere noi.»

Me l’hai detto una sera, al bar. Prima che licenziassero tua


madre, che portassero via quel signore anziano del quarto pia-
no e poi tuo padre. Io giocavo con il vetro appannato della
bottiglia di birra e ho sorriso come una scema, come sempre.
Perché hai sempre detto cose forti nei momenti più leggeri e
viceversa. L’altra notte ci ho pensato. E non ho ancora smesso.

Carissimo amore,
ho cercato dappertutto un pezzo di carta e del tempo, ma
sono riuscita a fermarmi solo ora. La tua risposta mi è arri-
vata dieci giorni fa ma non ci ho capito niente di niente. Sui
fogli hanno lasciato solo la tua firma e i baci che mi mandi
da ovunque sei. Sì, ma dove sei? E poi, come stai? Come
stai? Stai bene? Stai bene? Stai bene? Quando mi hai detto
«ciao» l’ultima volta col tuo solito modo di fare adulto mi
hai chiesto una promessa, mi hai detto di non piangere e
di raccontarti tutto. Dimmi cosa succede e poi lotta, amore
mio. E allora io te lo dico cosa succede, anche se lo cancel-
leranno di sicuro. E allora io continuo a lottare, anche se…
Hanno sequestrato una ragazza questa settimana. In
Kenya. Si chiama Silvia, nelle foto che hanno morbosamente
distribuito sugli schermi sorride tantissimo ed è circondata
da vite che ci assomigliano; forse vite un po’ meno consape-
voli delle nostre. Si è scatenata una bufera senza didascalie
e nessuno ci ha più capito niente; e se il caos genera mostri,
qui a volte i mostri scrivono sui giornali o sono al governo.
È stata la settimana in cui gli uomini si ricordano delle
donne che si ricordano degli uomini che dimenticano le don-
ne; e non gli va, perché li rende vulnerabili. E non capisco
il perché, ma da queste parti esserlo non è ancora un super
potere. Comunque tra slogan, commenti, battute, insulti,
paure e testimonianze ho messo il silenzioso e ho pensato a
quella volta in cui hanno detto a S. che non era abbastanza
maschio perché aveva pianto per la paura. Aveva nove anni
e se lo ricorda ancora. Con tutto il valore delle lotte che du-
rano da secoli, ho scelto di non mettermi da nessuna parte
e ascoltare il silenzio. Perché non si sente niente, amore, lo
sai? Se scendi in strada non si sente niente. Se tendi un at-
timo l’orecchio, le televisioni sono le ultime cose che riman-
gono accese, anche per ore. Urlano che, anche se le vogliono
boicottare, le recite scolastiche di Natale le faremo tutti –
anche se non ci crediamo, anche se siamo grandi. Urlano che
se Londra chiude la porta con tre mandate resteremo al fred-

136
do per i prossimi diecimila inverni, che la Russia è sempre
la più furba di tutti, che Medici Senza Frontiere aveva un
piano strategico e malvagio per portare l’HIV, la tubercolosi
e la meningite qui da noi – come se non ci fossero bastati i
NoVax, le donne stuprate che mettono al mondo miracoli,
cacciate però dalle corsie degli ospedali. Come se non ci ba-
stassero i gilet gialli oltralpe, le case di moda razziste che
chiedono scusa solo per paura di perdere entrate, i forti, i po-
tenti che continuano a prenderci in giro e le leggi presentate
o approvate in Parlamento per disintegrare concetti come
famiglia e accoglienza, amore e solidarietà, rispetto, verità.
«La cosa più difficile in questo periodo di merda è essere noi.»
Amore mio grandissimo, me lo vuoi dire cosa intendevi
di preciso con quel “noi”? Noi chi? Noi giovani? Noi italiani
di nome, di fatto, di studio, di dialetto, di musica, cibo, detti,
mode, vita, anche se per “loro” no? Noi con la pelle diversa –
che poi diversa da chi? Da cosa? Noi che sappiamo tre lingue
perché a furia di sentirci dire che dovevamo farci capire poi
ci siamo dimenticati di vedere se loro avessero capito noi?
Noi che non ci arrendiamo? Noi che per farlo ce ne siamo
andati via? Noi che i documenti li abbiamo sempre dietro
per sicurezza? Noi che ci siamo nascosti a casa di amici? Noi
senza risposte? “La generazione sbagliata”? “La generazione
fregata”? Noi che per informarci il web e per amarci ancora
i baci? Noi che abbiamo sempre mal di testa? Noi che vole-
vamo solo dire la nostra?
Sarebbe bellissimo sentire la tua risposta o anche solo
voltarmi e trovarti qui, in camera, con gli occhi grandi e la
musica alta. Adulto e bellissimo, bellissimo e adulto. Invece
niente, e forse proprio per questo ho deciso di incomincia-

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re a lottare. A modo mio. Come una scema, come sempre.
Ho iniziato ad attaccare dei biglietti minuscoli sul percorso
casa-lavoro. Sopra ci ho scritto una domanda e il mio nume-
ro di telefono. Se mai qualcuno mi risponderà, amore mio
grandissimo, te lo farò sapere.
Se mai qualcuno mi risponderà, amore mio stupendo,
avremo un punto da cui partire.
Forse potremo farti tornare.

Con paura e libertà

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UN CHICCO D’UVETTA
DENTRO A UNA TAZZA DI LATTE
Storie

Tutti i bambini mitizzano la loro nascita. È un tratto


universale. Volete conoscere qualcuno? Mente, anima e cuore?
Chiedetegli di raccontarvi di quando è nato. Ciò che ne
ricaverete non sarà la verità, sarà una storia.
E niente è più rivelatore di una storia.

Diane Setterfield, La tredicesima storia,


Milano, Mondadori 2013.

In terza elementare scrivevo filastrocche in rima baciata


per i miei compagni di classe. Cose tipo Simone-limone,
Nicola-coca cola, Marta-scoperta, e via così. Avevo un
quadernino ad anelli in cui tracciavo queste filastrocche
semplici e dolcissime e ogni tanto, quando trovavo corag-
gio, le consegnavo ai diretti interessati e dai loro sguardi
capivo se il mio sogno di diventare scrittrice potesse avere
un senso anche nelle vite degli altri.

Nell’estate tra la seconda e la terza media, in una classe


che mi vedeva quel tanto che le permettevo di scorgermi,
con il mio spirito da “desidero che tutti si vogliano bene”
decisi di inventarmi una storia collettiva. Si chiamava Vespa
o qualcosa del genere, e la protagonista era una grande fa-
miglia composta dai miei compagni di classe, ognuno con
il suo ruolo e il suo posto nel mondo. Per un po’ “Vespa”
divenne il mio soprannome tra le lezioni di algebra e le pri-
me di storia che mi insegnarono davvero qualcosa.

In uno dei cento giorni che separavano me e i miei


compagni di interrogazioni programmate dalla maturità,
mi misi alla lavagna e, per ognuna delle vite in cui ero in-
ciampata e di cui mi ero ricreduta per cinque anni, imma-
ginai un futuro improbabile, divertente e leggero.

Ho fatto così con la maggior parte delle persone in-


contrate. Il gruppo di studio del biennio, la squadra di
pallavolo, la compagnia di teatro amatoriale, i compagni
dell’università, il primo amore, gli amici al master, gli sco-
nosciuti sui mezzi pubblici.
Ho sempre scritto storie.
Mi sono sempre divertita a raccontarne gli inizi. Il mio
hard disk ha una cartella piena di incipit di racconti e libri
che probabilmente non nasceranno mai, ma la sensazione
che ogni volta provo nel cominciare una storia è unica. E
pure più bella del continuare, dell’arrivare alla fine.

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Dei primi cinque anni della mia vita non so nulla, que-
sto è perché sono stata data in affido, e poi adottata da una
famiglia bresciana dopo il mio arrivo in Italia.
Della mia storia personale dico sempre poco e, se lo
faccio, lo racconto come se fosse una di quelle cantilene
infinite e fastidiose.
Infinite perché finché esisto la mia storia può crearsi,
può disfarsi, però resta lì e non si sposta. Semplicemente è.
Fastidiosa perché è sempre stato complesso e faticoso rac-
contare qualcosa di cui non conoscevo l’inizio e quel poco
che avevo si trascinava dietro buchi di trama dolorosi, giganti.
Ancora prima di essere una ragazzina del mini-volley o
un’adolescente arrabbiata, sono stata me. Ed essere me ha
significato starmene da sola senza una risposta alla doman-
da più semplice del mondo: «Di dove sei?».
Anzi: «Di dove sei veramente?».

Non è facile andarsene in giro per le strade di un Paese


composto da domande invadenti e insistenti. Significa che
da tutta la vita mi ritrovo a dover rispondere almeno cin-
que volte a settimana alle stesse identiche questioni.

Di dove sei? Da dove vieni? Che origini hai? Di dove


sono i tuoi genitori? Da che Paese arrivi? Da quanto sei
qui? Quando sei arrivata?

A volte ci sono dei giri di parole lunghissimi. Spesso


gli sconosciuti iniziano a voler sapere partendo dalla mia
lingua – che poi è anche la loro. Quella che usano per fer-
marmi, chiedermi, interpellarmi, infastidirmi e invadermi:

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Oh, come parli bene l’italiano! Come mai sai così bene l’ita-
liano? Oddio, come l’hai imparato così bene? Complimenti
per il tuo italiano! Che brava che sei a sapere così bene una
lingua come la nostra: è difficile, sai?
Sono stata così spesso riempita di domande personali
che la sensazione che mi è rimasta dell’infanzia è quella di
dover essere sempre pronta. Con le orecchie semichiuse
abituate alle domande scontate e la bocca impastata per
le risposte automatiche. Anni. Anni a ripetere sempre le
stesse cose, a restare in superficie, a non sapere cos’altro
dire, a non riuscire a rifiutarmi.
Anni a snocciolare i miei dati personali come perle, gra-
ni di un rosario recitato senza fede. Una dietro l’altra, le
informazioni della mia vita, fuori da me e dentro gli occhi
di chi chiedeva tanto per sapere, per capire, per accertarsi.
La volta in cui mi azzardai a chiedere a un adulto per-
ché tutti volessero sempre sapere da dove arrivassi, la ri-
sposta che mi venne data mi rimbomba nelle orecchie an-
cora adesso: «Sono curiosi, vogliono sapere di te».
La maggior parte delle persone che ho incontrato e mi
hanno chiesto di dove fossi non ha voluto sapere da che
Paese arrivassi, in quale parte della pianura padana fossi
capitata per crescere e perché il mio accento sghembo sia
così marcato. La loro vera domanda, che mi perseguita da
anni, è un’altra: «Di dove sei veramente?».
Come a dire «ok, parli l’italiano, mangi italiano, ti vesti
come me, ascolti la mia stessa musica, fai il mio stesso cor-
so, leggi libri interessanti, conosci gli orari degli autobus,
sai riconoscere i nomi delle piazze e sembri a posto, però
non mi basta».

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E non gli basta di solito perché non è abituato, perché
non è informato, perché probabilmente non è mai uscito
dalla provincia – la stessa in cui sono cresciuta io. Non gli
basta probabilmente perché ha bisogno di prove inconfu-
tabili, di certezze, di fogli, documenti, dichiarazioni uffi-
ciali che non posseggo ma senza i quali non sono credibile.
Invece della gita a S. Anna di Stazzema alle medie, di
quando L. mi ha quasi baciato, delle corse in montagna
d’estate e poi acqua e menta per tutti, delle felpe rubate in
giro e le risate da animatrice, non chiedono mai. Di tutto
questo non vogliono sapere e non chiedono mai.

Di dove sei? Da dove vieni? Che origini hai? Di dove


sono i tuoi genitori? Da che Paese arrivi? Da quanto sei qui?
Quando sei arrivata? No, sul serio: di dove sei veramente?

Ma ecco, questo io non lo so.


Ho sempre scritto storie ma la mia non sono in grado di
scriverla. La parte più bella, quella che ho sempre amato
inventare e scrivere, che di solito mi permette di capire
tutto quello che ci sarà dopo, nella mia, di storia, non c’è.
L’ho capito un giorno di fine marzo, su un’auto bian-
ca che mi portava dalla pianura padana alle spiagge delle
Marche.
E il problema, forse, era tutto lì.

Io, che sono stata adottata, per un po’ non ho potuto


dirlo a nessuno: era evidente. Quando ero piccola è sem-
pre stata una realtà schiacciante, chiarissima, soffocante.

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La prima persona a cui lo dissi per davvero aveva gli
occhi chiari, i capelli lunghissimi e di notte, dopo i baci,
brillava sul cuscino.
«Ah, ma dai?» mi rispose.
Fu sorpresa e di riflesso anche io. Non sapeva niente di
me, mentre io, forse, lo avevo dimenticato. Tra le macerie
e i papaveri della mia adozione non avevo mai trovato quel
sentimento: lo stupore.
Quando una cosa ce l’hai sotto gli occhi da sempre ti
disabitui a pensarci, a parlarne; la dai quasi per scontata
e quando la recuperi, a distanza di anni, ti rendi conto
che il valore che ha acquisito negli anni va al di là di
qualsiasi cosa.
Lo stupore degli occhi chiari di G. e il mio li ho riposti
in un luogo sicuro, permettendo ai miei ventun anni di
scorrere ancora per un po’. Solo per un po’.

Ho riscoperto il valore della mia adozione seduta a un


tavolo di legno che per un anno, una volta a settimana, ho
raggiunto superando i controviali di Torino, il silenzio del
presente e gli occhi azzurri di un amore irripetibile.
Mi sedevo, salutavo altre vite fatte di ferro e di vetro, e
per cinque minuti scrivevamo tutto quello che volevamo.
Di ciò che ci era successo in quel giorno, in quella settima-
na o negli ultimi cinque anni di sfide e grazie.
Durante una lezione di autobiografia in corso Taranto
ho scoperto di non essere mai stata figlia, e che non lo
sarò mai.
Sedendomi e parlando con A. e con le altre donne inte-
re e spezzate ho raccolto dal nulla quello stupore.

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I miei ventiquattro anni l’hanno tirato fuori a forza e io,
debole e confusa, ho ceduto. E cedere è stata la cosa più
straordinaria e tragica che potesse accadermi.
Mi sono lasciata andare e sono diventata un fiume in piena.
E sono stati ricordi, domande, dubbi, dolori ovunque,
pensieri e parole; come quelli di Battisti ma più forti, in-
delebili, miei.
In una stanza al secondo piano di un edificio illuminato
al neon ho iniziato a spiegarmi e a spiegare.
Il senso di smarrimento di non sapere mai da dove ini-
ziare e se mai sarei finita.
Parlare della mia adozione è sempre un continuo espor-
re ad altri la mia visione personale di un processo profon-
do e complesso, intimo e atroce.
Le cose belle che mi ha dato: i libri, la scrittura, il sen-
so del dovere, il mare, le pareti di legno, il catechismo, la
scuola. E le cose brutte da cui tento ancora di scappare.
Ho scritto tutto dentro a un quaderno Pigna con la co-
pertina bordeaux, il mio colore fortunato. Perché di fortu-
na ho avuto tanto bisogno, e l’ho avuta.

Io, che sono stata adottata, per un po’ non ho potuto


dirlo a nessuno: era palese. E sotto la luce chiara dell’ovvio
mi sono sentita invasa, senza la possibilità di raccontarmi.
Quando sono uscita da quel cono di luce e dalla pro-
vincia, ho recuperato piano piano il mio posto.
Una conquista, ma come tutte le cose di questo tipo
ovviamente ha avuto un prezzo. E per molto tempo, per
così tanto tempo che a volte mi sembra che duri ancora,
non sono stata in grado di farla mia.

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L’adozione mi ha dato una cosa grande, e lo stupore
è stato scoprire che non esisteva una parola definita per
poterla esprimere. Poteva solo essere. E insieme a lei, io
sono stata.
La consapevolezza di essere una ragazza adottata mi ha
anche fatto perdere la strada. E ogni volta rincasare è stata
un’impresa. Ma quando ho iniziato a capire che ogni rien-
tro sarebbe stato un pezzo, non l’ultimo sforzo, ho perso
la vita per qualche secondo, ho ridato un senso alle lacri-
me e ho detto «ci sto».
Per assenza di alternative, perché non so chi sono, non
so a cosa appartengo, non ho ancora capito cosa di me
appartenga alle mie origini e quanto invece a tutto quello
che c’è stato dopo.

«Ci sto.»

Consapevole che sarà una sofferenza, che spesso faran-


no i complimenti agli attori sbagliati di questa partita, che
non saprò rispondere a molte domande, ma quelle che mi
faranno più male verranno sempre da me.
Ok, ci sto. Perché mi manca un pezzo ed è l’incipit
della mia storia, e magari non lo troverò mai ma vale la
pena provarci.
Perché un pezzo mi fa mancare e in certi momenti non
lo riesco a superare e quanto fastidio, che maledetto dolore.
Ok, ci sto. Anche per tutte le volte che, senza conoscere
e senza sapermi, mi è stato detto «un giorno ti passerà,
non sei riconoscente abbastanza, quando avrai la tua fami-
glia andrà meglio, riconciliati e sii meno rancorosa, prova

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ad andare avanti, almeno hai avuto una famiglia» e altre
amenità del genere.

L’adozione mi ha dato una cosa grande: alcuni giorni


la chiamo condanna, altri gratitudine. Esattamente per
le cose che si aspettano tutti ma pure per altre che han-
no portato nuvole nere dove tutti si aspettavano il sole.
Quando ho compreso anche questo era un pomeriggio di
fine maggio, lontanissima da corso Taranto ma con la for-
za giusta per liberare Battisti, gli anni senza stupore e il
presente.

Grazie a mia madre che mi ha messo al mondo.


Grazie a mio padre che si è preso cura di me finché
ha potuto, e poi ha messo insieme cuore e chilometri per
portarmi in un orfanotrofio.
Grazie alle inservienti, agli operatori, ai volontari, ai
medici e a tutti quelli che mi hanno mantenuto in vita.
Grazie a chi ha scelto che dovevo salvarmi e vivere il
più a lungo possibile, portandomi via dall’orrore.
Grazie a chi ha improvvisato un centro accoglienza per
me e per i miei compagni di viaggio.
Grazie a chi senza ricevere nulla in cambio ha scelto
di darci vestiti, da mangiare, da bere, giochi, tempo per
ridere, vacanze al mare, gite in piscina, tempo per ballare.
Grazie per averci poi scelti nelle vostre vite per sempre,
nonostante tutto quanto, e quanto è costato lo so solo io.
Grazie perché le storie sono un modo per dire agli altri
«guardami», e mentre ti stanno guardando si fermano, ti

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ascoltano, ci pensano, e se accade è fatta. Anche se accade
solo con una persona, è vita.
Ma sopra ogni cosa grazie a me.
Perché ho sempre scritto storie.

150
Io non ho scelto

È da tutta la vita che sono una persona nera.


Non l’ho scelto ma so benissimo cosa vuol dire. Spesso
però sono gli altri a non saperlo, a dimenticarlo.
Sono nera, italiana, donna, e scrivo.
Quando penso a me, alla mia persona, non so e non so
riconoscere quale aggettivo tra queste definizioni sareb-
be più importante mettere prima e quale dopo. Perché
oltre a essere nera, italiana, donna e scrittrice, sono an-
che giovane, e innamorata, stanca di tante cose, spaven-
tata da molte altre, speaker radiofonica, appassionata di
cose come la montagna o il gelato alla crema e orgogliosa
dei miei amici, ritardataria, avida lettrice, insonne, amica
e zia acquisita.
Sono tante cose, tante che perdo il conto ogni volta e
in certi sogni mi stupisco di tutto ciò che sono stata e che
potrei essere ancora.
Io sono tante cose ma, nella realtà di un 2019 italiano
e privo di un futuro illuminato, prima di tutto mi ricordo
che sono una donna, nera e italiana. Ed è faticoso, scon-
certante, fastidioso e snervante.
La prima volta in cui l’ho capito è stato bellissimo per-
ché avevo quattordici anni e finalmente mi ero liberata di
Anna, del senso di colpa che risuonava in un «ciao» e ave-
vo smesso di sentirmi gatto.
Quella gabbianella impacciata ma pur sempre consa-
pevole che un giorno avrebbe potuto volare. Con i suoi
Zorba personali che stavano sugli scaffali e tanto coraggio
da vendere e tanto altro da ritrovare.
Ci sono stati scogli, incontri, scontri, confronti e dialo-
ghi che si sono aperti sempre di più, un po’ come le mie
vocali in base alle città in cui sono andata a vivere. Per
perdermi e riscoprirmi, e poi perdermi ancora e capirmi
da capo.
All’inizio è stato bello e liberatorio. Poi ha incomincia-
to a essere problematico, come quelle cose che si sentono
solo sottopelle e non si sa come renderle reali, trasformar-
le in pensieri.
Poi hanno iniziato a chiedermi la mia storia in una ma-
niera più insistente del solito con dei sorrisi giganti, le mani
sulle spalle e frasi che risuonavano più o meno come «stai
tranquilla, vorremmo che raccontassi la tua testimonianza
perché è bella ed è utile per noi». Di sbarchi non si par-
lava ancora, ma il diverso stava iniziando a essere un tema
di cui discutere nelle classi delle superiori e io, che stavo
chiudendo certi capitoli, sono stata al gioco. Ci ho scritto
anche una tesina sopra, ma i miei sentimenti a riguardo

152
li ho compresi solo io. Poco male, alla fine a diciott’anni
scrivevo qualsiasi cosa e solo per me.
Le cose hanno iniziato a incrinarsi quando sottopelle la
sensazione iniziò a bruciare seriamente. Tanto che il fasti-
dio era diventato prurito incessante e per non grattarmi do-
vevo concentrarmi ma non riuscivo a dire niente. Sono stati
anni faticosi, la rabbia si era trasformata in chiusura erme-
tica, e a ogni persona che tentava di dirmi quanto fossero
belli i miei capelli, se poteva toccarli, o quanto fosse bella
la mia pelle e che anche lei desiderava averla esattamente
così, rispondevo «no» secchi come certe poesie che avevo
in testa. Scostante e in torto, senza possibilità di dialogo.
Il bruciore è diventato dolore vero e proprio quando
mi sono trovata a grattarmi ferocemente senza render-
mene conto. Nel mentre spiegavo a più persone, in più
occasioni, che certe domande forse è meglio non farle,
perché senza rendersene conto si può offendere e non
sempre la curiosità fa del bene a tutti, soprattutto a chi
la subisce. Come risposta ho avuto sconcerto e diniego.
«Irriconoscente» mi hanno detto e mostrato a gesti. Mi
faceva male tutto.
Più sono cresciuta, più sono venuta a contatto con per-
sone differenti, le più disparate. Ognuna di esse ha quasi
sempre ritenuto di avere il diritto di dirmi come la pensava
sul mio fatto di essere giovane, di essere donna, di essere
italiana e di essere nera. Quando nessuno glielo aveva mai
chiesto. Quando io volevo solo essere me.
Io sono tante cose. Tutte bellissime e faticose, molte
di più di quelle che le persone sono abituate a pensare o
anche solo a immaginare.

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Spesso questo non conta e non interessa, ma ferisce.
Me, mica gli altri. Me che non so come dirvelo e quindi
rimane lì. Incastrato sottopelle insieme a miliardi di paro-
le, di risposte e di verità scomode e inascoltate.
Come certe storie.

Io non ho scelto di essere scrittrice né donna, figuria-


moci essere nera. Lo porto con me e basta.
Ho impiegato tanto tempo a imparare ad allacciarmi
le scarpe. Alla scuola materna me ne andavo in giro nelle
mie sneakers a strappo e tenevo dentro tutta la vergogna
piccola di un gesto semplice che non mi riusciva mai.
Poi, dopo qualche presa in giro e l’orgoglio buttato dal-
la finestra, ho chiesto a un adulto di aiutarmi. Di avere
pazienza per qualche ora e farmi vedere, rivedere, rivedere
e rivedere ancora. Così ho imparato a fare quel fiocco che
adesso mi riesce anche a occhi chiusi, appena sveglia, in
piena notte o sulla soglia delle fughe e delle vittorie.
Adesso provate a immaginare che io, dopo anni, ab-
bia di nuovo disimparato e che non sappia come uscire di
casa perché l’unico paio di scarpe che ho sono quelle con
le stringhe lunghe, che si possono usare solo se allacciate
bene ma che – ancora – io non sia in grado di farlo per
niente. Immaginate che debba uscire immediatamente,
che sia in ritardo, oppure che per fatti miei, bellissimi e
assurdi, abbia l’impellente bisogno di farmi una corsa.
E mentre sono lì che cerco una soluzione sulla porta
appaiono amici, sconosciuti, parenti, conoscenti. Mi sor-
ridono, mi salutano e sono tutti scalzi. Immaginate poi
che tutti, all’improvviso e senza che nessuno gliel’abbia

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chiesto, si mettano a discutere davanti a me su come si
dovrebbero allacciare le scarpe, sulle teorie, su quali tec-
niche dovrei usare, con quale velocità. Perché ci tengono,
mi dicono, e non vogliono che mi senta l’unica a non saper
allacciare le scarpe. Anzi, vogliono che io impari ad allac-
ciarmi le scarpe benché loro non le abbiano mai indossate
per tutta la vita. Qualcuno per assurdo mi si avvicina e
taglia i lacci, qualcun altro li annoda, qualcuno mi dice a
bassa voce di smetterla di lamentarmi per il mio non saper
allacciare le scarpe ché «non è un problema così grave,
no?», un altro azzarda che potrei rinunciare a uscire e un
altro, facendogli eco, che se ho bisogno di andare a cor-
rere forse devo prima risolvere i miei problemi personali.
Le mie scarpe sono ancora slacciate e davanti a me, scalzi,
continuano tutti a discutere: «Ma non pensi di stare esage-
rando con questa storia? Se davvero vuoi uscire impara ad
allacciarti le scarpe e vai, se davvero vuoi uscire magari è
meglio uscire scalzi, o con un altro paio di scarpe».
E a ognuno di loro dico sì, anche se a correre, scalza,
non ci posso andare e quelle sono le uniche scarpe che ho.
So già che sarà una corsa a ostacoli in cui mi sembrerà
sempre di essere in un ritardo pazzesco. Anche se forse
io sono già avanti, sono già arrivata. Sono così avanti che
per me la gara che gli altri stanno correndo è già iniziata,
è già finita.

Io non ho scelto di essere nera né di nascere donna,


figuriamoci di voler scrivere. L’ho sempre fatto e basta.
A otto anni, dopo un pomeriggio passato a rileggere
Roald Dahl o le avventure di Valentina, ho detto a me stes-

155
sa che sarei diventata la migliore scrittrice nera italiana del
mondo. Ero convinta di dover sbaragliare una fila infinita
di altre concorrenti ma ogni volta in cui andavo in una
qualsiasi biblioteca non riuscivo a trovare nomi e biografie
che mi mostrassero il futuro che sognavo. Testarda e osti-
nata ho continuato a cercare e quando ho spostato il bino-
colo oltreoceano l’ho scovata, la mia Terra personale fatta
di autrici e autori con cui condividevo i nomi difficili da
pronunciare e qualche pezzo di dna sparso e perso negli
anni. Ho dovuto aspettare anni per trovare qualcosa nello
scaffale sotto la voce “Letteratura italiana” e quasi sempre
accanto c’era aggiunto “della migrazione”. Come se fuori
da quella definizione non ci potesse essere niente.
Le bambine come me nei libri italiani scappavano sempre
e solo dalle guerre, non sognavano di diventare giornaliste o
pompieri ma solo medici per salvare i loro popoli dalle epi-
demie o studentesse in qualche Paese all’estero per poi tor-
nare a casa a fare qualcosa, “la differenza”. Anche crescendo
i racconti sono sempre stati quelli: amori impossibili perché
non tollerati dai genitori, storie difficili senza nessun tipo di
formazione, resoconti superficiali di ascese e ricadute o dida-
scalie di situazioni che invece avrebbero potuto scardinare,
scoperchiare, dare un valore e offrire nuove visioni e realtà.
Io volevo altre storie. Storie vere, storie forti, non manipola-
te, non scritte solo per vendere, per moda, per inseguire un
trend, per non lasciarsi scappare un’opportunità che poi si ri-
vela vuota, dimenticabile. Io volevo (e voglio) storie più simili
alle mie, così ho incominciato a scriverle e a riscriverle perché
qualcosa di me aveva intuito che forse sarebbero potute es-
sere le prime, e proprio per questo dovevano essere perfette.

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Storie di bambine nere che si fanno le treccine e soffro-
no per non essere come gli altri; storie di bambini adottati
che si chiedono a chi assomigliano davvero e poi crescono
e capiscono; storie di ragazzi di altre origini che vogliono
tornare a casa o restare e cambiare qualcosa; di genitori
impauriti che provano a fare domande magari sbagliate
ma pur sempre ci provano; di un presente incapace che
prova a nascondere risposte che urlano tutto e della forza
di una nuova generazione con la voce giusta: alta, nitida,
vera. Fiera.
A quella bambina di otto anni non posso dire che ce
l’ho fatta, ma che sono sulla buona strada, sì. E la cosa
meravigliosa che le posso dire ancora è che non sono sola,
a differenza di come pensavamo nei pomeriggi del 1999.
Quella che immaginavamo come una gara all’ultimo san-
gue con mille altre concorrenti, in verità è una camminata
bellissima, con una città vecchia alle spalle e un panorama
futuro e straordinario davanti.

Io non ho scelto di scrivere né di essere nera, figuriamo-


ci essere donna. Lo sono e basta.
A. non ha scelto di amare i ragazzi, come M. si è ritro-
vata senza la vista; F. ha amato i capelli lunghi della sua
ragazza di anni fa e ora, quando tiene lui per mano e lo
guarda, rinasce; I. quando le dicono che è una rom di mer-
da risponde ballando e mi ha insegnato a trovare anche i
miei passi; M. quando è diventata madre da giovane mi ha
fatto spaventare ma poi l’ho vista e ho capito, e R. quan-
do ha compreso di essere un maschio se l’è detto prima
di tutto dentro e poi l’ha detto anche al mondo. Quanti

157
esempi semplici ci sarebbero e ci sono ancora, quante sto-
rie e quante vite ho incrociato e ho compreso a fondo solo
dopo averle toccate di mano mia. Eppure avendole com-
prese e avendole raccontate a mia volta, non sono mie.
Non sono la mia storia.
La mia storia è mia. Come lo è la storia di chi è omoses-
suale, ragazzo padre, disabile, di etnia romanì, transessua-
le, di religione musulmana, cieco, apolide, figlio di meri-
dionali o bisessuale.
A volte, quando ci penso, chiudo gli occhi e ringrazio il
mondo intero e i libri che ho in camera. Per avermi permes-
so di conoscere quelle storie, di ascoltarle, farle in un certo
senso mie e condividerle in qualche modo. Altre volte mi
arrabbio e vorrei avere il potere di cambiarne piccole parti
e alcuni finali. Ma non essendo mie non posso e non dovrei.
Io sono responsabile solo della mia storia, di come la
racconto, di cosa ne faccio e di come la trascino per il
mondo. Perché in ogni caso, per tutta la vita, resterà mia
e solo mia. Potranno emozionarsi quelli che la leggono o
immedesimarsi quelli che in piccoli aspetti la comprendo-
no; potranno capirla le persone che la vivono insieme a
me grazie a una percentuale alta di cose in comune. Ma
comunque anche loro avranno dei pezzi diversi dentro
ai loro racconti. Magari avranno genitori con i loro stessi
occhi, compagni di classe che non li hanno lasciati soli al
tavolo della mensa in terza elementare e fratelli maggiori
che non li hanno presi in giro per il loro modo di piangere.
La mia storia è mia e quanto ci ho sofferto e riso su lo so
solo io, e quello che scelgo di raccontare appartiene a me
e può essere capito e non capito, condiviso o non condivi-

158
so, vissuto o non vissuto ma comunque, alla fine, rimane
mio. E se una cosa è tua vuol dire che ce l’hai dentro e con
te cresce, soffre, si trasforma e ti trasforma. Il mio essere
donna mia ha trasformato; il mio essere donna e nera mi
ha formato negli insulti, negli approcci sessuali degli altri,
nel disprezzo, nel pregiudizio e nella mancata considera-
zione. La mia storia è mia, ed è donna; come la parola,
come la rivoluzione e la resistenza. E anche per questo mi
piace da morire.

159
Antirazzista wannabe: suggerimenti

Dire «io non vedo nessun colore/siamo tutti uguali»


non fa di voi degli antirazzisti. Semmai delle persone che
hanno bisogno di un salto dall’oculista.
Aver offerto da mangiare alla mensa dei poveri nel
Capodanno del 2017 ricevendo un sacco di complimen-
ti e di ringraziamenti non fa di voi degli antirazzisti.
Soprattutto se poi vi siete vantati di tutto quanto.
Se una persona di origine straniera cerca di spiegarvi
cosa ne pensa del razzismo in Italia e voi che non sie-
te di origine straniera rispondete «sì, magari hai ragio-
ne, però…», non siete antirazzisti. State solo ignorando
qualcuno che ne sa più di voi su una realtà che non vi
riguarda.
Dichiarare apertamente che la parola “negro” per voi
non è un insulto, perché avete un conoscente di origine
africana o afrodiscendente che una volta vi ha detto che
per lui non è un problema che la usiate, non fa di voi de-
gli antirazzisti: vi rende dannatamente ciechi davanti alla
sensibilità del singolo, ponendo ogni persona nera in un
calderone indefinito in cui uno vale tutti.
(È vero, la parola “negro” si trova sulla Treccani e quin-
di fa parte della lingua italiana. Ma anche le parole “figlio”
e “puttana” si trovano tranquillamente sul dizionario,
eppure conosciamo tutti il significato che hanno quando
vengono utilizzate insieme, nella stessa frase.)
Annoverare l’amico di origine africana di seconda ele-
mentare o il cognato della figlia della vostra prozia che
ha il padre brasiliano non fa di voi degli antirazzisti. Solo
delle persone con – forse – una buona memoria.
Quell’unica volta che siete andati alla manifestazione
contro il razzismo, «già nel 1983», quando ancora di razzi-
smo non se ne parlava e voi siete stati i primi fra tanti, non
fa di voi degli antirazzisti. Probabilmente dei nostalgici.
Dire «io sono sposato con una donna/un uomo afri-
can*/brasilian*/rumen*/cinese/peruvian*» non fa di voi i
detentori della verità assoluta rispetto alle sensazioni e al
vissuto dei vostri coniugi. Anzi: spesso, per come raccon-
tate determinate situazioni personali, dimostrate dichiara-
tamente che non siete antirazzisti.
Essere potenzialmente vittima di razzismo non fa di voi
degli antirazzisti.
Se la domenica a messa fate delle donazioni per la rac-
colta di cibo e vestiti per i migranti appena arrivati nella
vostra parrocchia, ma quando per strada incontrate uno
“straniero” scansate voi e i vostri figli «perché non si sa
mai», non siete degli antirazzisti.

162
Organizzare una manifestazione/evento/dibattito/
chiacchierata pubblica sulle discriminazioni e sulla migra-
zione è potenzialmente una buona cosa. Tuttavia, invitare
una persona di origine straniera lasciandole uno spazio in
cui poter esporre solamente il pacchetto unico della sua
esperienza (fuga più viaggio più arrivo in Italia più inte-
grazione) non fa di voi degli antirazzisti, ma dei portatori
sani di una narrazione limitata, stantia.
Se vedete una coppia dai palesi tratti somatici e origini
diverse che per strada si tiene per mano, e guardandola
pensate o le fate notare «Uhh! Una coppia mista, che bel-
li!», rendetevi conto che siete invadenti, superficiali e for-
se anche fuori strada. Se poi una scena del genere la rac-
contate dal vivo o sui social senza chiedere il permesso dei
soggetti commentando «che bella l’integrazione!», «così si
combatte il razzismo», «se Salvini vede questa cosa schiat-
ta», sappiate che non siete antirazzisti. Ma maleducati.
Se una ragazza italiana e nera o di origine straniera cer-
ca di spiegarvi cosa significa vivere le molestie a sfondo
sia sessista che razziale e voi – specie se donne – dite che
alla fine è la stessa cosa per tutte, sappiate che non siete né
femministe, né antirazziste. E molto probabilmente non
conoscete né cosa sia il femminismo intersezionale né la
storia coloniale italiana e i danni che ha portato e trascina-
to con sé nell’immaginario dell’uomo e della donna africa-
na e straniera sul nostro territorio.
Scrivere o rispondere «io sono stato bullizzato perché
gay/merdionale/italiano all’estero/madre single/basso/
grasso/storpio/cieco/figlio unico/povero etc…» mentre si
sta parlando apertamente e chiaramente di antirazzismo

163
non vi esclude dall’esperienza e dalla testimonianza sulle
discriminazioni ma non vi rende automaticamente antiraz-
zisti. Piuttosto benaltristi.
Realizzare un panel/dibattito/conferenza/workshop/
dialogo in cui il tema è “I nuovi razzismi” o “Le nuove
discriminazioni razziste” o ancora “Il pericolo delle ag-
gressioni di deriva fascista e razzista” o qualcosa di simile,
invitando a discutere sul palco persone benestanti e cauca-
siche, non fa di voi degli antirazzisti. Ma dei professionisti
senza credibilità alcuna.
Adottare dei bambini a distanza (magari in qualche
Paese del terzo mondo) dando dieci euro al mese all’as-
sociazione x, fermare una madre di origine straniera sui
mezzi o per strada facendole i complimenti per la bellezza
del suo bambino e poi asserire in altre occasioni «eh, però
è vero che questi spacciano, che la sera se li incroci per
strada fanno paura, che è meglio che vengano controllati,
che forse nei Paesi da cui arrivano non sanno bene che qui
le cose sono diverse» non fa di voi degli antirazzisti. Forse
delle persone con cui voler avere poco a che fare.
Tirare fuori la carta del “razzismo al contrario” per di-
fendervi non fa di voi degli antirazzisti, semmai degli igno-
ranti. E crea imbarazzo profondo, sappiatelo.
Le persone di origine straniera, quelle di prima, secon-
da e terza generazione, adottate a livello internazionale,
con uno dei due genitori stranieri o di origine straniera
non hanno sempre voglia di raccontare le loro storie, come
sono arrivate qui, come si trovano in Italia, cosa pensano
della situazione politica, come affrontano gli atti di razzi-
smo, se vivono il razzismo, quante volte hanno denuncia-

164
to, a chi hanno chiesto aiuto e come stanno ora. Se queste
sono le prime cose che vi vengono in mente da chiedere
loro al posto di cosa fanno, che sogni hanno, che lavoro
svolgono o vorrebbero fare, quanti anni hanno, che talenti
hanno, chi sono, cosa le fa ridere e cosa piangere, cosa
pensano dell’economia italiana, che musica ascoltano,
dove hanno viaggiato e via dicendo, allora state sbagliando
qualcosa. E di sicuro non fa di voi degli antirazzisti, anzi.
Idolatrare un personaggio pubblico di origini straniere
per le meravigliose prestazioni nel suo campo e redarguirlo
ogni volta in cui si esprime in merito a temi di politica, razzi-
smo, cittadinanza o attualità, affermando paternalisticamen-
te che «dovrebbe pensare a fare le sue cose e non occuparsi
di questioni italiane che non lo riguardano», non vi rende né
degli antirazzisti né dei fan degni di essere considerati tali.
Dire «io sono stato in Africa, ho visto il Paese y, il Paese
x, il Paese z, ci ho vissuto e so cosa significa, com’è, cosa
è diventata e come si vive» non fa di voi automaticamente
degli antirazzisti. Forse, sotto certi aspetti, dei presuntuosi.
Quando un’abitudine, un dettaglio fisico, un’espres-
sione, un modo di fare di una persona di origine straniera
vi affascinano, vi incuriosiscono o vi stupiscono, invadere
verbalmente o fisicamente l’intimità o lo spazio della perso-
na interessata per avere risposte, conferme o sorprese non
fa di voi degli antirazzisti ma dei maleducati. Di nuovo.
Fare insinuazioni sulla situazione mentale, personale ed
emotiva di una persona di origine straniera che sta cercando
di spiegarvi cosa sia una discriminazione non fa di voi degli
antirazzisti. Piuttosto persone che non sanno né gestire un
confronto né rispettare la sensibilità e la privacy altrui.

165
Insegnare ai vostri figli con parole dolci la favola del
«siamo tutti uguali», «non ci sono differenze», «abbiamo
tutti gli stessi diritti», dei migranti che devono scendere
dalle navi, mostrando a tutti, poi, tronfi di orgoglio, quan-
to sia stata brava la vostra prole a comprendere il messag-
gio, non fa di voi degli antirazzisti. Soprattutto se poi date
del «rom di merda» all’uomo che vedete per strada o alla
donna sul bus che chiedono l’elemosina.
Se sui social usate hashtag tipo #accoglienza, #accoglia-
molitutti, #portiaperti, #restiamoumani, però poi rimane-
te silenziosamente o internamente interdetti davanti a un
dottore o a un postino di origine straniera, non siete anti-
razzisti. Siete solo ipocriti.
Decantare in pubblico la straordinaria bellezza delle
svariate e irriducibili influenze che i popoli mediterranei
si sono passati, tralasciati e donati, e poi in altre occasioni
affermare che i musulmani comunque vivono indietro nel
tempo e sono incivili non fa di voi degli antirazzisti.
Se incontrate un adulto con un bambino dai tratti so-
matici diversi dai suoi e date per scontato che il bambino
in questione sia stato adottato, dato in affido o che l’adulto
sia il suo babysitter, siete maleducati. Ancora. E ovviamen-
te non siete antirazzisti.
Usare il termine “integrazione” come fosse la manna
dal cielo e la soluzione a tutti i mali non fa di voi degli
antirazzisti. Semmai delle persone con un vocabolario ve-
ramente povero.
Andare in un Paese dell’Africa a fare volontariato, scat-
tarsi fotografie con i bambini del posto e poi scrivere nella
caption delle foto di Facebook o di Instagram «anche se

166
non hanno niente mi hanno insegnato l’importanza di sor-
ridere davanti alle piccole cose» in teoria vi fa violare un
paio di leggi sulla privacy dei minori e, in più, dimostra che
vi siete dimenticati che la dignità umana si dovrebbe rispet-
tare ovunque. E no, questo non fa di voi degli antirazzisti.

Questi suggerimenti elencati e altri (troppi altri) arriva-


no tutti da esperienze reali, raccontate e vissute, e molti ne
mancano e molti ancora verranno fuori col tempo.
Ogni frase, ogni esperienza riportata, dura o faticosa
da accettare non è un riferimento a ciò che io personal-
mente intendo e definisco come vero e proprio compor-
tamento razzista. Vorrei essere il più chiara possibile su
questo punto.
Avrei potuto fare un elenco di cose che vengono rico-
nosciute da me e da altri come razziste. Ma non era e non
sarà mai il mio intento; perché troppo semplice, scontato
e risaputo.
Il razzismo a cui mi riferisco va combattuto all’interno
delle pieghe insospettabili in cui si nasconde o in cui ten-
ta di camuffarsi e si confonde. Ed è facilissimo trovarlo
nell’“antirazzismo wannabe” che ha invaso l’Italia e i suoi
abitanti alla ricerca di mezzi per rispondere a questi tempi
e questi temi complessi.
Domande sbagliate, pregiudizi, convinzioni dettate da
ignoranza, mancanza di conoscenza storica, povertà di
mezzi e un’attualità preoccupante che determinano pro-
fondamente la nascita di queste situazioni che sono più
comuni di quello che si possa pensare.

167
Queste trappole difficilmente riconoscibili ovviamen-
te non rendono chi ci cade automaticamente una persona
razzista. Ma rischiano di allentargli decisamente la strada
per giungere preparato a una battaglia che chi la vive in
prima persona combatte tutti i giorni e con tutte le forze
che ha. E sicuramente non ha intenzione di sprecare tem-
po dietro a certi errori piccoli ma fastidiosi, che si potreb-
bero “correggere” con semplice ascolto e rispetto.

168
«Vi auguro il coraggio di restare soli»

Carissimo amore,
ho le mani congelate, la dispensa è sempre meno piena
e dicono che l’inverno sia arrivato per davvero. Lo aspetta-
vamo da settimane ed erano settimane che non ti scrivevo.
Scusami. Ma c’è stato il Natale, ci sono state le feste e alcune
famiglie hanno fatto finta che non fosse cambiato niente; a
pensarci è stato triste e dolce insieme, fortissimo e assurdo.
Non ti scrivo da così tanto tempo che ho dimenticato
come si fa, cosa si prova. Mi fa male la mano e questo pezzo
di carta sporco è tutto quello che ho trovato.
L’altro giorno ho capito una cosa e poi ho avuto la nausea
per ore. Pulivo i pavimenti del negozio e di corsa è entrato
un uomo alto, terrorizzato; «Sono qui! Sono dappertutto!»
urlava, e indicava un punto, fuori. Io non sapevo cosa fare;
S. è uscito dal retro, scocciato dal chiasso. L’uomo indicava
la vetrina ma noi non vedevamo nulla. «Sono qui, sono
loro che rovineranno tutto!» L’abbiamo lasciato urlare;
non è il primo che fa così, «e non sarà nemmeno l’ultimo»
dice S. Negli ultimi tempi sono tutti impazziti, negli ultimi
tempi sono tutti diventati strani. Prima di uscire ha rubato
un fiore e non ha detto niente. Era ancora spaventato e io
non avevo ancora capito.
Carissimo amore, ieri il sindaco di Riace ha tenuto un
discorso pieno di coraggio. Mi è arrivato tramite il cellulare
e sta passando come un tam tam, un segnale di fumo più
forte della nebbia e più grande di noi. Ci ha chiesto di avere
il coraggio di restare da soli, e quando l’ho letto, e poi riletto,
e riletto ancora ho provato caldo e poi gioia e poi paura.
Caldo perché ai piani alti passano le manovre per salvare
in corner le decisioni sull’economia, anche se hanno messo
i nostri diritti e i nostri risparmi all’angolo. Ed è uno schifo
totale. Perché nessuno ci ha insegnato a essere giovani, e
adulti non ci vogliono far diventare, gli anziani chiamano
i carabinieri per non essere soli durante le feste e dall’altra
parte dell’oceano i grandi giocano a fare i piccoli e fermano
tutto quanto per un capriccio, per barriere che se fossero di
Lego sarebbero più serie.
Ho provato anche gioia perché un bambino è nato in
Libia ed è arrivato in questa terra sano e salvo, da cosa anco-
ra non lo sappiamo bene. Ma aveva sangue sulla pelle e aria
nei polmoni – e aria nei polmoni. Mio carissimo amore, sono
stata felice perché da qualche parte alcuni sindaci si stanno
rifiutando e se gli rispondono che è illegale non si spostano,
restano immobili e nel giusto. E mi è venuto in mente quan-
do mi hai detto di non smettere; di non smettere mai anche
se ci fosse stato buio, anche se saresti stato lontano, anche se

170
il lavoro, anche se l’affitto, la stanchezza, il sonno, gli altri
a cui rispondere e tutto il resto. Io non smetto anche se ho
paura, anche se fa freddo, anche se la luce va via e i botti di
Capodanno sembravano i rumori di un assedio a cui stiamo
assistendo senza dire niente, senza fare niente.
E poi ho avuto paura, mio grandissimo amore, perché
ogni volta che ti scrivo sono una nave di volontari che vaga
per dodici giorni nel mare aspettando che qualcuno apra i
porti; sono una ragazza chiamata negra; sono un ragazzo
che si fa cucire dentro a un materasso per attraversare un
confine, un commesso insultato senza motivo, un calciatore
che non sa perché deve giustificarsi, uno studente senza spe-
ranze, un laureato senza esperienza, uno sgomberato senza
alternative, un orfano senza giustizia, un ingegnere scam-
biato per tossicodipendente o un padre che viene chiamato
«scimmia» davanti ai suoi figli.
È davvero questo il posto per cui mi chiedi di restare, di
lottare? Me lo sono domandata per così tanto tempo che ero
certa di avere la risposta. Poi quell’uomo entrato in negozio
urlando se n’è andato e ha ripetuto la stessa scena nel nego-
zio di fronte. Stavolta, però, lui e il suo sguardo terrorizzato
non indicavano il vuoto, indicavano la nostra vetrina. Era
come se mi fissassero: indicavano me, amore. «Sono qui,
sono loro che rovineranno tutto!»
Allora ho capito. Siamo noi che siamo dappertutto! Ho
capito cosa intendeva quell’uomo – e come lui non siamo i
primi, ma forse saremo gli ultimi.
Io non voglio rovinare niente. Anzi. Io voglio sistemare
tutto quanto perché è buio, perché sei lontano, perché l’affit-
to, perché il freddo, gli anziani soli, i giovani senza speranza,

171
i botti che sembra di stare in guerra e noi che non diciamo
niente, e noi che non facciamo niente.
Volevo solo augurarti buon anno ovunque tu sia, dolcis-
simo amore, dirti che sono molto forte anche se ho le mani
congelate, anche se non mangio quasi mai, anche se non ci
sei. Sarà un inverno lungo, un dolore lancinante e continuo,
ma ripareremo tutto, te lo prometto. E quando tornerai sarà
tutto al suo posto, o almeno io.
Con paura e libertà
PS: ti ho trascritto un pezzo bellissimo del discorso di
Mimmo Lucano; leggilo se puoi, magari la sera prima di an-
dare a dormire. A me sta salvando qualcosa che ho dentro.

172
RESTO O VADO VIA
Casa tua non è il posto dove atterri; è quello da cui decolli.
Non è possibile scegliersi una casa, come non lo è scegliersi
una famiglia. Nel poker ti toccano cinque carte.
Tre le puoi scambiare ma due te le devi tenere:
la famiglia e la terra in cui sei nato.

Tayari Jones, Un matrimonio americano, Vicenza,


Neri Pozza 2018

Perhaps my biggest problem with coming from countries


is the myth of going back to them. I’m often asked if I plan to
“go back” to Ghana. I go to Accra every year, but I can’t “go
back” to Ghana. It’s not because I wasn’t born there.
My father can’t go back, either. The country in which he was
born, that country no longer exists. We can never go back
to a place and find it exactly where we left it. Something,
somewhere will always have changed, most of all, ourselves.
[…] The myth of national identity and the vocabulary of
coming from confuses us into placing ourselves into mutually
exclusive categories. In fact, all of us are multi-local, multi-
layered. To begin our conversations with an acknowledgement
of this complexity brings us closer together, I think, not further
apart. So the next time that I’m introduced, I’d love to hear
the truth: «Taiye Selasi is a human being, like everybody here.
She isn’t a citizen of the world, but a citizen of worlds. She is a
local of New York, Rome and Accra».

Taiye Selasi, Don’t ask where I’m from, ask where I’m a local,
TEDTalk, ottobre 2015.
Forse i figli dei tuoi figli

«Io non so se ci voglio stare in questo Paese.»


Ho pronunciato queste parole fissando un cartellone
pubblicitario e col cielo grigio della città in cui vivo da
quattro anni in attesa di qualcuno. Ero al telefono con
un’amica, uno di quei pezzi di anima che la vita ti mette
sul percorso, e ascoltando la mia voce ho avuto paura.
Avevo ventisei anni, ero appena uscita da un perio-
do tremendo e mi sentivo soffocare. All’epoca lavoravo
come commessa in una libreria del centro. Un posto in
cui ho ricordato il significato dei libri scolastici di storia
e geografia e la bellezza del libro come oggetto, come
mezzo di conoscenza e di ribellione. Mesi intensi, edu-
cativi ma anche difficilissimi. Intere mattine e pomeriggi
in cui sono entrata in un negozio con la certezza di poter
cambiare le cose ma, mentre il quartiere di San Salvario
mi passava davanti agli occhi con i suoi mondi e le sue
domande, io mi barricavo dietro un bancone verde mela
parlando di libri e sconti senza preoccuparmi minima-
mente del mondo fuori.
Era stata una bambina, che a malapena ci arrivava a
quel bancone, a farmi capire che in realtà mi stavo solo
nascondendo. A cosa stavo rinunciando, che me ne stavo
già andando.

Sono cresciuta senza un vero e proprio concetto di casa.


Casa come rifugio, casa come riparo, come ritorno,
luogo sicuro, focolare, certezza indissolubile e culla delle
proprie origini.
Sono cresciuta e sono diventata un’adulta a pezzi per
via dei viaggi che ho fatto, degli aerei presi, le stanze cam-
biate, i muri a cui mi sono dovuta abituare, le cucine in cui
non ho mangiato, i bagni in cui sono stata male e gli in-
gressi in cui mi sono fermata per ritrovarmi, per salvarmi.
Sono diventata un essere umano raro e diverso grazie
alle finestre da cui ho pregato e provato a scappare, ai giar-
dini in cui ho giocato da sola, ai vialetti in cui sono stata
accolta a braccia aperte e anche alle televisioni accese sui
documentari, sui talk show e sui telegiornali delle nove.
Per me casa non è l’Africa in cui sono nata per caso e
nemmeno l’Italia in cui sono cresciuta a stento. Non sono
nemmeno le parole scritte sulla carta d’identità o le caselle
sulla nazionalità che ho segnato per tranquillizzare chi mi
doveva assumere, conoscere, valutare, premiare.
Ci sono concetti complicatissimi da spiegare in un mon-
do fatto di etichette, quadrati, contenitori e contenuti.

178
Solo che io non sono una marmellata. Non sono nemme-
no un barattolo dei peperoni sott’olio che prepara la non-
na di N. e per cui soffro di una dipendenza preoccupante.
Fa sorridere e preoccupare, fa pensare e infuriare.
Questo assurdo desiderio di tutti di voler sapere come mi
sento, dove sono e come mi sentirei se fossi dove non po-
trò stare mai.
Una storia è una storia; ognuno ha la sua, piena di chi-
lometri e di rinunce, di chiavi perse e di porte spalancate.
La mia è piena di fughe e zero ritorni. Ho scelto di scriver-
la così perché per ora mi sta bene addosso.
E quando mi chiedono «tornerai mai a casa?» l’unica
cosa che mi viene da dire è «scusi, ma per “casa” cosa in-
tende?». E non c’è ironia, non c’è strafottenza e nemmeno
arroganza, come a volte mi è stato sottolineato.
Io non rido quando mi rendo conto che non appar-
tengo a nessun luogo. Non mi sento superiore a nessuno
e non penso di aver vinto niente. Anzi, in realtà ho perso
così tanti pezzi per strada che la fatica di non guardarmi
indietro a ogni passo è fortissima, ma se mi permette di
evitarmi le domande stupide e scomode degli sconosciuti
e dei curiosi allora vado dritta e non ci penso.

«Scusi, ma per “casa” cosa intende?»

L’ho chiesto a una donna che mi ha rimproverato il fatto


di non aver conservato la lingua del mio Paese d’origine.
Io che, senza armi e senza colpe, sono arrivata in pianu-
ra padana con mille suoni in testa e l’unico che mi è rima-
sto assomiglia più a delle urla di terrore che a un dialetto.

179
Non l’ho detto a un amico che senza pesi sul cuore mi ha
invitato a tornarmene indietro «visto che hai così paura di
girare per le strade italiane». Come prima reazione ho riso
e poi ci ho pensato su. E mi è venuta in mente la signora di
via Bosca a Flero che nelle gelide mattine di quel febbraio
di inizio 2000 mi lanciava le pile scariche dei suoi teleco-
mandi per farmi capire che non voleva vedermi sulla sua
strada. Quella che facevo sempre, che mi portava a scuola.

L’ho urlato al mio primo amore ormai appannato quan-


do mi ha proposto entusiasta di andarci insieme «a casa
mia», come fosse un’avventura, un viaggio di piacere. Ci ho
pensato spesso a quell’istante e adesso, ogni volta in cui me
lo chiedono, rispondo che se non torno è perché il posto in
cui sto adesso ha ancora un paio di cose da dovermi spie-
gare. Non sempre capiscono, ma capisco io. E tanto basta.

«Scusi, ma per “casa” cosa intende?»

Ho abitato in sei città diverse; ho dormito, mangiato e


riso in tredici spazi tra case, stanze e appartamenti; ho pre-
so tutti i treni dei pendolari, delle vacanze di due giorni,
degli studenti fuori sede, dei fuggitivi, dei viaggi di lavoro,
dei baci da recuperare; ho imparato a dire “ragazza” in al-
meno nove dialetti italiani e a volte quando dico all’amore
«sono arrivata» mi confondo e devo guardare fuori dalla
finestra per capire dove di preciso.
Perché casa non è una residenza che non riesco a cambia-
re perché ogni volta in cui entro nell’anagrafe del mio quar-
tiere vengo scambiata per una straniera senza permesso di

180
soggiorno. Non è una nazionalità certificata che davanti a un
curriculum brucia e che svanisce di fronte alla tua fototes-
sera sempre troppo ingombrante, troppo evidente, troppo
nera. E non è nemmeno la prima e unica lingua con cui dici
sempre «scusa» o «grazie», una cadenza che fa ridere tutti
e un po’ salva anche se non mi appartiene, figuriamoci la
capacità di costruire frasi e discorsi, ragionamenti e pensieri;
la maggior parte delle volte so già che non verranno capiti.
Casa è troppo complesso come concetto per qualcuno
che vuole solo sapere da dove vengo e perché sono dove
non dovrei essere ma sto.
È una parola vuota che non si può riempire a forza con
tutte le cose che mi sono saltate addosso e capitate, con le
targhette sulle buche delle lettere, le bollette della luce che
ho pagato e le cene che mi ha preparato chi mi conosceva,
chi mi amava.
La mia idea di casa è incontenibile, senza fine. Priva dei
bordi che chi mi ha incontrato ha cercato inutilmente di
farmi disegnare, reduce orgogliosa delle ore della scuola
materna a uscire dalle righe spesse e nere.
Una gara impossibile, una sfida senza senso, la ricerca
di una risposta che non c’è. Come l’isola di Peter Pan e la
ragione nelle cause perse delle vite di tutti.
Io, che non ho una casa, lo sto accettando.
Mi stanno aiutando le vite che incontro ai binari delle
stazioni di mezza Italia, nelle riunioni dei progetti in cui
credo, in fondo alle mie lacrime abbondanti e nei libri che
leggo e che mi leggono.
Non appartengo a qualcosa di preciso, non mi definisco
niente se non me, non accetto etichette, e se le trovo è per

181
non rischiare di finire nella raccolta indifferenziata delle
testate giornalistiche nazionali o delle conferenze piene di
polvere in superficie.
Non sono niente di già scritto, già detto e già visto, e
mi piace così. E me lo ricorda il tatuaggio che ho fatto nel
2013, incosciente, innamorata e spaventatissima dalla vita
e non da un ago pieno di inchiostro. E ogni volta, anche se
sbiadito, alla fine delle docce, dell’amore e degli specchi,
lo guardo e so che è esattamente lì che deve stare.
Ho perso le risposte pronte nei traslochi, ho smesso di
accontentare gli altri dicendo «sì, no, forse, italiana, mezzo
e mezzo, ruandese, afroitaliana, non lo so, sto cercando di
capirlo» e ho sostituito tutto col silenzio. A volte seguito
da altre domande, altre volte no.

Me l’ha insegnato una bambina di nemmeno otto anni


che un giorno, fierissima e spavalda, è entrata in libreria
e mi ha chiesto un consiglio per un libro nuovo e bello.
Entusiasta, con lo zaino di scuola, una madre imbarazzata
accanto lei, preoccupata di sbagliare, con una confusione
di titoli e autori in testa e me, felice.

«Cosa vorresti leggere?»


«Ce l’avete qualcosa per la sua età sulla nostra terra?»
mi chiede la madre che si fa avanti. «Il Perù» aggiunge,
abbassando la voce.
«Nella mia lingua però, mamma: in italiano!» aggiunge
e annuisce la figlia. E i suoi occhi mi fissano, pieni di spe-
ranza e desiderio.

182
Che non avessi intenzione di rimanere in questo Paese,
l’ho ripetuto altre centinaia di volte. Sempre più affranta,
sempre più convinta. Davanti alle edizioni speciali del te-
legiornale; mentre leggevo fatti di cronaca inquietanti; alla
fine di giornate in cui solo per stare in piedi facevo fatica;
ogni volta in cui mi sono dovuta trattenere per decoro, gen-
tilezza, educazione; quando sono stata offesa, derisa, igno-
rata o sottovalutata; in mezzo a discussioni sterili e fuori dai
circoli in cui altri hanno parlato al mio posto, scelto al mio
posto, sentenziato al mio posto, rappresentato al mio posto.
Perché è troppo difficile, perché è una guerra quotidia-
na ed estenuante, perché io lotto, mi batto, denuncio, mi
arrabbio ma sembra che gli altri vincano sempre.
Così, una voce minuscola e fastidiosa mi ha detto «vat-
tene», mi ha detto «che senso ha?», «ti sembra il caso?»,
«pensa a te», «sii egoista», «salvati».
Perché è anche vero che tra dieci anni le cose saranno
migliori, di queste battaglie forse non se ne sentirà nem-
meno più parlare, sarà tutto un brutto ricordo e i miei figli
avranno una prospettiva più limpida, migliore. Il punto
è che io sono qua adesso, tra dieci anni non lo so. E che
ai miei improbabili, contaminati, meticci, rivoluzionari,
ostinati, assurdi, inclusivi, non sostenibili e graziati figli le
cose potranno andare meglio, io lo spero, ma non so come
potranno andare a me. Eppure lo vorrei sapere.
Avrei voluto saperlo anche dietro il bancone verde mela
de “La libreria centrale” quando uno sguardo pieno di
speranza e desiderio mi ha fatto capire che è tutto inutile.
Che il mondo è andato avanti. Oltre le mie paure e le eti-
chette, oltre i confini e gli indirizzi, la voce “nazionalità”,

183
le vostre domande, i cori negli stadi, l’ordine dei giornali-
sti, i dibattiti nei talk show, il fascismo di ritorno, le Ong e
gli sbarchi, il doppio turno del razzismo e me. Il mondo è
andato avanti e pure io. Ho cambiato casa ancora, dormo
in un altro letto, l’orologio su cui inseguo il tempo non è
più quello della prima comunione, le persone che abbrac-
cio adesso hanno nuove fossette, l’ultimo treno che ho
preso era vuoto, la prossima città che vedrò non so dove
sia, ogni tanto sogno in francese, ho visto un documenta-
rio russo in lingua originale e non ci ho capito niente, ho
riso in spagnolo come mi ha insegnato S. e a volte amo in
una lingua che nessuno sa tradurre.
Avrei voluto saperlo prima, che non era un problema.
Non avere una casa, una lingua corrispondente, un pa-
trimonio genetico sufficiente, il giusto nome sui documen-
ti, il colore della pelle che si aspettano gli altri dopo averti
parlato al telefono, le iniziali del cognome che combaciano
e altri miliardi di cose.
Avrei voluto saperlo prima perché forse, ora, non desi-
dererei così tanto scappare, trovare il senso, pensare a me,
salvarmi. Ogni giorno della mia vita, ogni ora e alla fine di
ogni giornata.
Come un mantra al contrario che non calma ma porta
inquietudine.

184
Staremo in piedi

Carissimo amore,
come stai? A cosa stai pensando? Stai tornando?
Qui il sole soffoca e illumina le stanze senza aria; apria-
mo le finestre solo dopo le sei del pomeriggio perché è l’ora
in cui la gente smette di sparare, di sperare e di sparire. Ti
ricordi? Una volta correvamo fuori, prendevamo due birre
giù all’angolo e andavamo al fiume sperando si trasformasse
in mare. Ma erano anni fa, avevamo quarant’anni in due e ci
divertivamo a incrociare i dati delle nostre carte di identità.
Noi che le avevamo, noi che non dovevamo sparare a nessu-
no, sperare in niente e sparire da nessuna parte. Era l’happy
hour e ora quello che di felice ci rimane lo nascondiamo
in soffitta, così mi ha detto tua madre ieri. Sono andata a
trovarla, sai? Mi manchi così tanto che sono andata a cer-
carti da lei. Le ho portato le lettere che mi scrivi, che loro
censurano ma che ci tengono in vita. L’ho trovata stanca,
stravolta, tua madre; sembra passata sotto uno di quei treni
perduti a vent’anni e che ora è ripassato per suo figlio, ma
suo figlio sei tu e tu non ci sei, e sembra che non ci sia più
niente, nemmeno noi.
«Quando sorridi mi ricordi perché era felice» mi ha detto
così, carissimo amore. Lei e la testardaggine, le mani giunte
in chiesa, i pensieri sempre raccolti, in ordine insieme alle la-
crime. Lei che la prima volta che mi vide mi domandò subito
«ma con quei capelli come fai?». Lei che hai amato e odiato
così tanto, così a fondo, che la sai a memoria, che ti ho sem-
pre invidiato, perché vi siete dati alla luce e meritati e avuti.
L’ho trovata più assente del solito, coi capelli sciolti, ad-
dormentati sulle spalle. Mi ha salutato piano e poi ha rico-
minciato a fare quello che stava facendo senza dire niente.
E meno diceva più io mi arrabbiavo, e meno parlava più
mi faceva male la testa. Sono giorni, amore, che la testa mi
esplode e dentro qualcosa si spegne, piano. «Sarà il tempo,
sarà che sei triste, in fondo lo siamo un po’ tutti.»
Ma io a tua madre volevo dire che non sono triste; volevo
dirle che sono ferita a morte. Ché ogni notizia che ci arriva
sbiadita è una pallottola e questo corpo ne è ormai pieno, e
non so come si possa fare, non lo riesco a capire.
L’altro giorno, fuori da una pizzeria, una donna di origine
straniera è stata aggredita perché probabilmente ha pronun-
ciato male la parola “grazie” (bang!); un uomo di cinquan-
tatré anni è stato aggredito e minacciato solo perché ama un
altro uomo (bang!); al governo giocano con le vite degli al-
tri disegnandole su Paint o raccontandole con Movie Maker
(bang!); la foresta amazzonica vista dall’alto è una striscia
che di verde ha solo i ricordi (bang!); sono morte altre 170

186
persone in mare, in un altro weekend di sole, con un unico
modo di annegare (bang!); nei centri di accoglienza ci sono
i coprifuoco e mi chiedo cosa significhi “accoglienza” adesso
(bang!); un ragazzo è stato ritrovato morto dopo essere stato
fermato dalla polizia e Ilaria ha già detto la sua – che poi è
la nostra e sappiamo già come andrà (bang!).
Quanto può resistere un corpo? Quante pallottole servono
per costringerlo a cedere, a lasciar perdere, a smettere? Quante,
mio grandissimo amore? Continuo a chiedermelo e me lo sono
chiesto per tutto il tempo in cui sono rimasta a casa di tua ma-
dre, con le sue spalle che urlavano qualcosa ma non riuscivo a
sentire e con qualcosa in fondo alla gola, o forse era il cuore.
Prima di andarmene dai pavimenti che per te erano sabbie
mobili e da cui hai cercato in tutti modi di fuggire, ho scelto
di fare un salto in quella che era camera tua. Ci sono entrata
e subito mi sono ricordata di quanto tempo ci abbiamo pas-
sato dentro a fare gli scemi, a cercare il tabacco, a scambiarci
le felpe, a fare progetti, a immaginare le vite degli altri e pure
la nostra tra cinque anni, a fare l’amore, a stare su Netflix e
sui siti in streaming, a urlarci di tutto, a scriverci addosso, a
cantare in playback, a ballare in bianco, a sognare in nero e a
giocare, a crescere e tutte quelle cose nostre.
Prima di andarmene dai soffitti che ti hanno inghiottito
mille volte senza mai diventare cielo, ho scelto di fare un
salto in quella che è ancora camera tua. E lo è ancora anche
se il letto non è come lo lasciavi sempre, l’aria non sa di
polvere, i libri sono sugli scaffali e la scrivania non porta
il tuo passaggio. Mi sono voltata e tua madre era lì, con la
spalla appoggiata allo stipite, i capelli ancora addormentati
e quelle lacrime sempre raccolte, in ordine.

187
«Tornerà, lui torna sempre.»
(Bang!)
«Gli faccio trovare la stanza a posto. Ogni giorno gliela
pulisco, così quando sarà potrà metterla sottosopra e farmi
arrabbiare.»
(Bang!)
Me l’ha detto indicando il varco davanti a noi, e dopo
se n’è andata. Allora poi me ne sono andata pure io, amore
mio meraviglioso. E sulla strada del ritorno, nonostante gli
elicotteri, i radar, gli agenti in uniforme, le vie del centro
vuote, i negozi sventrati e le luci spente, il mal di testa mi
era passato e, forse, pure la rabbia. E sulla strada del ritorno,
nonostante le pallottole, le ferite aperte e nessuno che mi
veniva in soccorso, ho capito una cosa.
Ho capito che finché saremo in grado di aspettare, di cre-
dere, di rifare il letto per qualcuno pur sapendo che è stupi-
do, di amare così tanto da rimpiangere le arrabbiature, di
accontentarci di lettere censurate o di un treno che ci ha tra-
volti senza ucciderci, finché saremo in grado di non cedere,
di continuare, di non smettere, noi staremo in piedi.
Non sarà facile, ma staremo in piedi.
Farà un male cane, ma staremo in piedi.
Penseremo di non farcela, ma staremo in piedi.
Magari non servirà a niente, ma staremo in piedi.
E io voglio che tu mi possa trovare così quando tornerai
da noi, mio carissimo amore.
In piedi, con i capelli assurdi e la felicità appiccicata in faccia.

Con paura e libertà

188
PS: non te l’ho mai detto, adesso l’unica buca che viene
considerata dalle poste è quella che sta vicino al fiume; ogni
volta che ti spedisco una lettera poi corro alla nostra panchi-
na e ne bevo una alla tua. Rossa, ovviamente. Sei la mia ora
più felice di tutte.

189
Pausa.
Lampioni

[...] io mi accorgo che si è giocato troppo forte per i nostri


nervi e così anche la Sylvia che mi scrive un letterone che mi farà
piangere e bestemmiare. Dice che abbiamo pagato troppo caro il
prezzo per la ricerca della nostra autenticità, che tutto quanto
abbiamo fatto era giusto e lecito e sacrosanto perché lo si è
voluto e questo basta a giustificare ogni azione, ma i tempi sono
duri e la realtà del quotidiano anche e ci si ritrova sempre a far i
conti con qualche superego malamente digerito; che è stata tutta
un’illusione, che non siamo mai state tanto libere come ora che
conosciamo il peso effettivo dei nostri condizionamenti.

Pier Vittorio Tondelli, Altri libertini, Milano, Feltrinelli 1980.

Io non mi do pace perché sono in pericolo, perché fac-


cio fatica, perché ho paura. Perché potrei essere io, perché
potrebbe essere lui, lei, voi, noi e nessuno ne parla, perché
il giornalismo è in picchiata, perché siamo in guerra, per-
ché resistere è fatica e scriverne una corsa a occhi chiusi in
mezzo a un’autostrada.
Io non mi do pace perché qualcuno esce di casa e for-
se non ci torna o almeno non intero, non completamente
sano. Perché qualcuno prende una mazza da baseball e si
diverte, perché ho paura – ancora –, perché essere onesti
non paga, essere forti non paga ed essere diverso, stranie-
ro, nero ti frega.
Io non mi do pace perché alla fine delle feste la gente
viene picchiata, perché qualcuno si sta mettendo d’accor-
do per trovare un modo pur di stare al sicuro. E non è
giusto, non ha senso e siamo già scappati via da tanto, da
tutto e non ci hanno mai chiesto come stessimo, se avessi-
mo voluto restare, e non tornare.
Io non mi do pace perché qualcuno si sta girando
dall’altra parte, e dall’alto chiudono i porti, i ponti e le
menti. Perché ho paura – l’ho già detto, vero? –, e quando
mi dite che non devo, ne ho ancora di più. Mi dite che
devo pensare al bello ma io non lo so più, perché bella
sono anche io, anche noi, ma ci state distruggendo.
Io non mi do pace a costo di non dormire più, a costo
di dormire in piazza. Col rischio di perdere la voce per
dirvi la verità, l’udito per ascoltare tutto quello che avrete
da rispondere, il tatto per toccare tutti i nervi scoperti, la
vista perché vi vengo a guardare in faccia, la vita perché ve
lo vengo a dire in faccia. Non vincerete voi.
Perché io sono lui, lei, loro ma soprattutto noi. E noi
siamo tantissimi e umani, e spaventati sì ma anche forti,
e chiari e scuri; i nostri figli di domani, i vostri stranieri
di ieri.

194
Ci stiamo ritrovando e riconoscendo e poi ci organiz-
zeremo. Sdoganeremo le vostre bugie di zucchero, abbat-
teremo i muri che avete messo in giro. Quelli di cemento,
perché per quelli che avete in testa non c’è più nulla da
fare, non vogliamo averci a che fare.
Vi rideremo in faccia, vi baceremo in bocca, combat-
teremo per qualsiasi cosa, per qualunque causa, per chi è
come noi ma soprattutto per chi non lo è.
Alzeremo i canti e le mani solo per abbracciarci, ci in-
contreremo, vi daremo fastidio e vi provocheremo fino allo
sfinimento, fino all’ascolto. Ci informeremo e ve lo faremo
sapere, imparando tutte le lingue e tutti i dialetti, se sarà
necessario. Ci uniremo, lo stiamo già facendo, e quando
saremo ancora di più leggeremo, impareremo a scrivere
meglio, a resistere meglio, a esistere meglio. Ma non per
voi, per noi che siamo io, lui, lei, loro e tutti gli altri.
Io non mi do pace perché sono esausta e ho paura – an-
cora? Sì: ancora. Ma non smetterò mai di prendere questo
sentimento e trasformarlo in meraviglia; ieri che era mar-
tedì, oggi che è domenica, domani che sarà ancora estate
o già gennaio, tra cento giorni o quando non sapremo se e
cosa sarà peggio.
Mi fido di noi come mi fido dei lampioni delle città
che si accendono sempre nel momento giusto, la sera,
per fermare la notte.
Possiamo fermare la notte, la paura, e dare vita a tutto ciò
che resta. Sarà mondo e vita, sarà vittoria. Comunque nostra.

195
E ti vengo a cercare

Carissimo amore,
mi sono persa. Sono andata così lontano da me che a un
certo punto mi sono dovuta fermare, mi sono dovuta ritrovare.
Sono stati i mesi dello stallo e delle risposte che hanno
smesso di arrivare. Ho atteso così tanto una tua lettera che
a un certo punto ci ho rinunciato. Ogni giorno davanti alla
buca delle lettere, ogni giorno al nostro posto a sperare, a
trattenere il fiato e poi ricevere un’altra delusione.
Dove sei finito, amore? Ti ricordi quando a ottobre mi hai
detto «ti farò sempre sapere come sto»? Come stai? Dove sei?
I mesi sono corsi via e io non ho avuto la forza di stargli dietro.
L’ultima volta in cui ho acceso la tv metà dei canali non
funzionavano e al posto dei conduttori e delle pubblicità
c’era una musica d’attesa. La stessa che abbiamo ascoltato
per ore quando abbiamo portato tuo padre in ospedale, con
l’infermiere che evitava i nostri sguardi e l’odore di morte
sulle poltrone. Quando l’ho riconosciuta ho spento subito e
probabilmente ho cominciato a spegnermi anche io.
«Devi andare a cercarlo», «Dovresti scoprire dove sta»,
«Mettiti in contatto con lui», «Non puoi pensare che sia an-
cora vivo», «E se non ti risponde più?».
I pochi che sono restati qui sono rimasti solo per fare do-
mande, per dare suggerimenti e per ferirmi.
Ma io mi ferisco già da sola, carissimo amore. Come dice-
vi tu e ti arrabbiavi e piangevo e ti arrabbiavi e mi scusavo e
ti scusavi e ci amavamo.
Ogni giorno mi sveglio e leggo i giornali; i pochi che re-
stano, che resistono. Anche le edicole hanno chiuso e il sito
dell’Ansa è pieno di ban pubblicitari, gatti randagi una vol-
ta carini e video di propaganda che non dicono niente.
Ogni giorno mi sveglio e leggo i giornali, mangio qual-
cosa, consolo tua madre, aspetto le nove ed esco di casa a
cercare qualcosa. O. mi ha detto che l’ultimo colloquio l’ha
fatto a gennaio e fuori adesso ci sono mille gradi e mi chiede
«ora come faccio?». Ma io non so cosa rispondergli.
All’ufficio di collocamento una ragazza mi ha chiesto «tu
cosa vorresti fare?». Ma io non so cosa rispondere.
Vorrei scappare. Vorrei andarmene il più lontano possi-
bile da qui.
Vorrei respirare, ma a questo giro per davvero.
Vorrei studiare per diciotto anni e poi avere la certezza di
fare quello che sogno; vorrei essere onesta e gentile e vorrei
che lo fossero anche le persone attorno a me; vorrei che i
bambini a Taranto nascessero sani e che in Sudan la smet-
tessero di aspettare le nostre armi, che cose come l’aborto e
l’amore per il proprio corpo fossero indiscutibili, che L. la

198
smettesse di mangiarsi le unghie e le possibilità, che Notre
Dame fosse ancora e sempre Notre Dame e il ponte Morandi
uno sbaglio da cui ricominciare, da cui imparare. Vorrei po-
ter mettere giù dei piani e su famiglia, le paure in soffitta e le
speranze in cucina, o in sala, nei parchetti di provincia, dal
medico o anche in fila alle poste. Tutto tranne che in valigia.
E vorrei difendere i miei diritti e non i loro confini; i pri-
mi perché si danno sempre per scontati, gli altri perché solo
quelli che li hanno messi li hanno davvero capiti.
Avrei voluto dire questo, carissimo amore. Invece ho
guardato la ragazza e le ho risposto «qualsiasi cosa». E poi
l’ho fissata, sono caduta nella sua bocca e una voce greve e
disperata mi ha detto «scappa». Ha detto proprio così, amo-
re: «Scappa». E la voce era la sua, era la tua, era quella di
mio padre sparito chissà dove, quella della prof di italiano
delle medie mentre spiegava Montale, quella di Paolini a te-
atro, di quel tuo amico in Brasile in fuga in anticipo, di J. che
non sapeva scegliere, del tuo vicino col tricolore sulle spalle,
di tutte le maestre del mondo, degli autisti degli autobus, di
quel presentatore che mi faceva ridere sempre, e pure la mia.
E niente, alla fine l’ho fatto, amore: me ne sono andata.
Questa lettera te la spedisco prima di partire, ti scriverò
in viaggio. Ho dato un bacio a tua madre, ho annaffiato le
piante, ho preso una biro nera, un cellulare vecchio e tutte le
forze. Non c’è niente di peggio che desiderare la rivoluzione e
guardarla dagli spalti, gioire per gli altri e pregare per sé stessi.
Io voglio gioire con te, carissimo amore.
E ti vengo a cercare, come diceva Battiato. Ti vengo a
cercare, ti trovo e sistemiamo tutto. Questa vita che ci ha
fregato, questo mondo brutto.

199
Perdonami se ho fatto passare così tanto tempo per capir-
lo. Io non posso aspettarti, io non voglio immaginarti, posso
solo venire da te e con te combattere.
Sto arrivando, aspettami.

Con paura e libertà

200
ELOGIO A CLAUDIA RANKINE
Mandiamo giù di continuo cose che non vogliamo.
Non appena senti o vedi un momento ordinario, tutti i suoi sco-
pi sottesi, tutti i significati nascosti dietro gli istanti più recon-
diti, fin dove riesci a vedere, vengono messi a fuoco. Aspetta un
attimo, hai sentito, hai detto, hai visto, hai fatto questo? Poi la
voce che hai in testa ti dice muta di abbandonare il senso di im-
potenza perché coesistere non dovrebbe essere un’aspirazione.

Claudia Rankine, Citizen. Una lirica americana,


Roma, 66thand2nd 2017
Corpi

2 giugno 2018 – REGGIO CALABRIA


Sacko Soumaila, di 29 anni, originario del Mali, sinda-
calista e bracciante, viene raggiunto da un colpo di fucile
sparato da lunga distanza mentre tenta di recuperare le
lamiere per aiutare un amico nella costruzione di una casa.

8 giugno 2018 – VARESE


Luis Enrique, di 24 anni, cittadino italiano di origini ci-
lene, adottato, viene bloccato mentre tenta di salire su un
autobus per un viaggio di lavoro perché, per via del colore
della pelle, la sua cittadinanza italiana non è stata ritenuta
credibile dall’autista.

15 giugno 2018 – NAPOLI


Un uomo algerino di 53 anni sta attraversando le strisce pe-
donali ma un’auto non si ferma. Tre uomini a bordo dell’auto
scendono, lo insultano e lo colpiscono più volte con una lama.
16 giugno 2018 – MILANO
Assane Diallo, 54 anni, buttafuori di origine senegalese,
viene ucciso in strada con dodici colpi di pistola: muore.
L’assassino, prima di sparare, diceva «io sono il nipote di
Mussolini». I giornali non si sbilanciano sul movente.

17 giugno 2018 – ROMA


Un cittadino indiano di 34 anni, riunito al parco in-
sieme ad altre famiglie, viene aggredito da un gruppo di
italiani minorenni. Prima lo insultano con frasi razziste,
poi i presenti (donne e bambini) vengono colpiti da sputi
e di seguito il giovane viene picchiato più volte con un
tirapugni.

25 giugno 2108 – GIUGLIANO (NA)


Munkail Kailu Osman, 37 anni, di origini ghanesi con
regolare permesso di soggiorno, viene accusato di dete-
nere armi clandestine e aggredito in casa da tre carabi-
nieri, due marescialli e un appuntato. Si scopre che tre
carabinieri hanno prodotto prove false per incastrare un
migrante qualsiasi e accusarlo di terrorismo. I tre vengono
sospesi dall’Arma.

29 giugno 2019 – TRENTO


Un dipendente di origini straniere chiede al proprio
datore di lavoro un giorno di malattia. «Brutta razza…
Vengo a casa tua… Ti mangio… Ti brucio vivo, islamico
di merda… Stai attento a uscire di casa… Allah di merda,
io ti do fuoco… Ti mando Casa Pound… per rapirti, ti
bruciano vivo, ti mangiano… Sei un Allah di merda, che

206
muoia tutta la tua razza… Ti posso anche ammazzare,
adesso che è andato su Salvini… Stai attento a uscire di
casa stasera che prepariamo le ronde fuori di casa tua!»

2 luglio 2018 – SASSARI


Una ragazza nigeriana viene picchiata mentre fa la fila
al bancomat da un ragazzo che le strappa di mano il ban-
comat, lo spezza e le scaglia per terra il cellulare, rompen-
dolo. Le tira i capelli e la fa cadere sul marciapiede. «Ci
sono prima io, tornatene al tuo Paese!»

17 luglio 2018 – ROMA


Un uomo di 59 anni, italiano, spara a una bambina rom
di 14 mesi, tenuta in braccio dalla madre. La bimba rischia
la paralisi. «Volevo solo provare la pistola, non ho mirato
contro quelle persone.»

22 luglio 2018 – EBOLI


Un cittadino marocchino con un grave problema fisico
si avvia al pronto soccorso. Due infermieri, un maschio e
una femmina, invece di soccorrere il ragazzo, lo deridono
e lo sottopongono a un interrogatorio. Viene spedito alla
guardia medica a due chilometri di distanza, senza riceve-
re alcuna visita.

27 luglio 2018 – CASSOLA (VI)


Un operaio di 33 anni, originario di Capo Verde, si tro-
va su una pedana mobile, sospeso a sette metri di altezza,
quando viene colpito da un’arma da fuoco. L’uomo che lo
ha colpito dichiara di aver mirato a un piccione.

207
29 luglio 2018 – APRILIA (LT)
Un uomo di 43 anni, di origini marocchine, viene inse-
guito in auto da due 40enni italiani. I due sono convinti
che sia un ladro, lo inseguono fino a quando non esce di
strada. Lo aggrediscono e viene ritrovato senza vita sul ci-
glio della strada dai carabinieri.

10 agosto 2018 – LADISPOLI (RM)


Alcuni minorenni di origine straniera giocano a calcio
sulla spiaggia, tre ragazze si avvicinano e una di loro prende
il pallone e glielo squarcia. Alle proteste di uno dei ragazzi
la risposta è: «Stai zitto sporco negro! Tu sei una scimmia!».

15 agosto 2018 – FALERNA (CZ)


Un ragazzo di origine dominicana viene insultato e
picchiato a colpi di spranga da un gruppo di persone in
un ristorante sul lungomare. «Caccialo via, questo ne-
gro di merda, non può fare come a casa sua, qui siamo in
Calabria, picchialo!»

17 agosto 2018 – SASSARI (SS)


Bamba, 23 anni, di origine senegalese, prova a chiedere
il mese di ferie che gli spetta da contratto. Gli rispondo-
no «no, perché solo gli italiani hanno le ferie. I senegale-
si, cinesi, bengalesi, filippini non possono avere lo stesso
trattamento».

22 agosto 2018 – MILANO MARITTIMA (RA)


Una famiglia venezuelana soggiorna in hotel, rilascia
una recensione negativa e l’hotel replica: «Avete ragione,

208
perché a casa vostra in Africa non avete neanche da man-
giare». A una settimana di distanza, l’hotel tenta di fare un
nuovo addebito alla famiglia.

22 agosto 2018 – VASTO (CH)


A. H., di 35 anni, viene aggredito da tre uomini a calci e
pugni. Il venditore ambulante si è rifiutato di donare l’in-
casso della giornata ed è stato aggredito e derubato.

30 agosto 2018 – FIRENZE


Treno regionale Pisa-Firenze. Un ragazzo di origine
africana urta distrattamente un passeggero che lo ricopre
di epiteti: «Brucia», «Muori».

209
Male trasparente

«Non ti posso baciare: hai le labbra troppo grandi.»

Mi piaceva da matti. Avevo dodici anni e mezzo e per


tantissimo tempo sono stata convinta che fosse vero.

«E di chi è figlia questa negretta qui?»

Uno dei primissimi ricordi che ho, legati al paese in cui


sono cresciuta. Non ho avuto una risposta pronta allora,
non ce l’ho nemmeno ora.

«Selvatica!»

All’epoca non capivo e ancora adesso faccio fatica.


Comunque certi appellativi ti rimangono appiccicati ad-
dosso e ti formano, anche se non lo vuoi.
«Uè, Africa!»
«Uè, Senegal!»
«Uè, Ringo!»

E ogni altra volta in cui qualcuno ha cercato di fare


il simpatico con me tentando un approccio. Da piccola
non ho mai saputo rispondere, oggi dico solo «no» e tutto
quello che viene dopo non conta più.

«No, tu non giochi più con noi perché sei negra!»

Festa di compleanno, stavamo giocando a pallavolo in


giardino, mi tolsero la palla con questa scusa.

«Vedrai, le cose cambieranno con il tempo. Di sicuro i


figli dei tuoi figli non avranno questi problemi e non do-
vranno più lottare per questo.»

Sono felicissima all’idea che i miei figli potranno vive-


re meglio i loro tempi, ma io vivo adesso e non mi va di
aspettare.

«Non puoi scrivere un tema in cui dici che il razzismo


è tutto sbagliato!»

Avrebbe dovuto insegnarmi italiano e storia. Invece


mi dava 5 nei temi e saltava i paragrafi “noiosi” di storia.
Avevo quattordici anni e dirmi che non sapevo scrivere
fece risvegliare una rabbia sotterranea.

212
«No, questa non la voglio perché è negra. Dai, portate-
mi da un’altra.»

Festa studentesca, un ragazzo visibilmente ubriaco


mi guarda e pronuncia questa frase rivolto ai suoi amici.
Come se non fossi lì davanti a lui a sentire quelle esatte
parole. A tratti, minuscoli e impercettibili, fa ancora male.

«Al telefono sembravi diversa.»

Ogni volta che mi dicono questa cosa mi chiedo sempre


se il problema sia la voce che li confonde o la mia pelle
che li spiazza. La risposta la so sempre, ma ogni volta non
riesco a crederci.

«L’hai detto con un po’ troppa… troppa… troppa…”


«Troppa?»
«Rabbia.»

Scambio di commenti avvenuto a seguito di un mio


post polemico pubblicato sulla mia pagina personale.

«Fammi indovinare, dal tuo viso devi essere… senega-


lese? Dai tuoi occhi devi essere… nigeriana? Con questo
corpo sarai di sicuro congolese!»

All’inizio, quando accadeva, immaginavo di essere


segretamente originaria di altri Paesi, ma così facendo il
cuore saltava un battito e aprivo piccole crepe. Quando
ho smesso, ho iniziato a rispondere educatamente, chie-

213
dendo di smetterla. Di contro mi è stato domandato di
rivelare le mie origini. Ho smesso di farlo quando mi sono
resa conto che chi sono, lo devo ricordare solo a me, e gli
altri potrebbero anche finirla di pensare di star giocando
alla lotteria.

«Uh, adesso che ci sei possiamo fare battute razziste?»

E ogni volta in cui sono stata zitta ho dato il consenso


pur essendo consapevole che mi faceva male ma non sa-
pendo come difendermi.

«Non posso assumerti perché, sai com’è, i miei clienti


potrebbero rimanerci male.»

Cercavo un lavoro, era estate, ero sfinita e avevo finito


molte altre cose. Ci ero rimasta male anche io ma non ave-
vo trovato le parole per dirlo.

«Comunque i neri puzzano. Cioè, tu no, ma i neri in


generale puzzano.»

Quando chiesi a casa se lavasse meglio la doccia o la


vasca da bagno non spiegai a fondo il motivo di quella do-
manda. Ma la risposta rincuorò i miei pochi anni e quella
convinzione terrificante.

«Ehi, senti, ma non è che hai l’aids o cose del genere?


Visto che sei dell’Africa, sai, vorrei essere sicuro.»
Un ragazzo con cui sono uscita qualche volta mi ha
chiamato nel bel mezzo della notte per farmi solo questa
unica domanda. Poi ha riattaccato.

Ci sono certe parole, certi toni che sembrano innocui


e leggeri e invece sono male trasparente. Chi li pronuncia
non li vede ma si appiccicano, rimangono e non se ne van-
no. A volte per un po’, altre volte mai. Non c’è una cura;
continueranno a essere e a esserci, ma segnarli da qualche
parte, renderli reali nel loro dolore, per quanto possa sem-
brare poco è già qualcosa. Un esercizio di memoria, una
sofferenza necessaria.
Per riuscire a respirare un po’ più a fondo, poi. Senza
essersene liberati ma consapevoli che anche se permango-
no possono stare al loro posto.
Ho un cassetto pieno dei miei “mali trasparenti”.
Questi sono solo alcuni, i più grandi e i più piccoli. Quelli
che se ne sono andati e quelli che ancora mi fanno saltare
un battito. Ci sono, li odio, mi spezzano quando non lo
voglio, si rigenerano e non so mai spiegarli.
Li ho messi qua per ricordarmi, per ricordargli che anche
se non li so dire li posso scrivere. E io, che prima di capire le
cose le devo scrivere, forse, piano piano, li sto accettando.
Sono partita

Carissimo amore,
sono nel panico. E lo so che iniziare una lettera così non
è il massimo, ma voglio essere sincera con te come non sono
riuscita a esserlo con me ultimamente.
Quando ho salutato tua madre le ho detto che avevo una
bussola con me, ma lei non ha riso. L. mi ha guardato dalla
casa sull’albero che gli hai costruito e non mi ha detto nien-
te, credo fosse arrabbiato o qualcosa del genere; non ho avu-
to tempo di capirlo, K. mi ha chiamato e mi ha detto di fare
in fretta. Non l’ho salutata, casa mia; non ho salutato i miei
che mi pensano in biblioteca o in giro, non ho salutato la
nostra panchina e nemmeno le scuole medie dove ho capito
le prime cose di me che davano fastidio agli altri.
Sono salita su un autobus quando è sceso il buio e sono
saliti 38°C, le zanzare mi divoravano pure i dubbi e non
sapevo dove stessi andando. Mi sono fidata delle parole di
K. e del mio istinto sbilenco. Se ci fossi stato tu mi avresti
detto «aspetta l’occasione giusta, non buttarti solo perché
hai fretta!». Ma la mia non è stata fretta, amore, il mio è
stato bisogno di fare qualcosa, di correre verso qualcosa,
di raggiungerlo, e una volta trovato venire da te e salvarti.
Amarti.
Sono ore caldissime e quest’autobus attraversa i campi,
supera i ponti che riconosco e che appartengono ai paesini
con nomi mai sentiti, tremila abitanti, una piazza e l’orato-
rio e i grattacieli delle metropoli che si vedono in lontanan-
za. Ogni tanto accendo il cellulare e leggo le notizie, chiu-
do tutto poco dopo e metto su della musica tirando fuori
una playlist magica, come quando eravamo tornati dal mare
esausti e felici. E il sole sulle tue guance e il sale tra i miei
capelli, che erano grovigli, che ti ricordavano i fusilli.
I miei compagni di viaggio non parlano mai e se lo fanno
è solo di quello che accade fuori dai finestrini. L’unica volta
in cui mi hanno rivolto la parola era quasi l’alba, non hanno
chiesto il mio nome ma dove stessi andando. «Dove state
andando voi» ho risposto subito. «A combattere?» mi ha
apostrofato un ragazzo con la pelle bruciata dal sole e un
ciondolo di legno al collo. «A combattere» e ho annuito in
preda dal panico.
Carissimo amore, sono andata via, sono scappata, non ho
salutato mia madre, ho Pavese nello zaino, non so se sarò
all’altezza e sto andando a combattere. Sto venendo dove
sei tu, ovunque tu possa essere. Sulla linea di un confine che
nessuno di questi ragazzi sa né dove inizia né dove finisce,
ma solo che esiste e che bisogna andarci, a combattere.

218
E ci vado anche io. Con te, per te, per me. Per una ra-
gazza di trentun anni che è stata arrestata per aver salvato
quaranta vite in mare; per Cori Gauff che ha quindici anni e
gareggerà a Wimbledon e io l’ho vista in foto di sfuggita, ed
è uguale a L. quando è felice; per V. e i suoi ventitré mesi ri-
masti sul bordo di un fiume gigante, sul bordo di un mondo
illegale; per F. che l’hanno obbligata a dire cose orribili per
cancellarle dalla testa chi l’ha messa al mondo e dargliene
un altro che però non era il suo; per chi si ammazza sui so-
cial, per chi si ammazza per i social; per Walid al Rashid che
regala spettacoli di teatro ai bambini siriani, e anche per tua
madre che quando le ho detto «vado» ha pianto un «resta»
arreso e silenzioso.
Sono in viaggio da cinque giorni ma sembrano due setti-
mane e il tempo mi sfugge, come mi cadevano dalla bocca le
parole e le pastiglie per addormentarmi. E tu ridevi, ridevi e
mi davi della sbadata e io ci rimanevo male ma un’ora dopo
stavo sognando. Qui è sempre alba, qui è sempre notte, dalle
bocche dei miei compagni di viaggio la realtà mi sembra im-
possibile e il futuro è una massa grigia senza regole. Ponte,
campo, notte, oratorio, giorno, fiume, tramonto, autostrada,
pomeriggio, piazza, sera, bar, alba, grattacielo. Ogni tanto ci
si ferma, si aprono le porte e qualcuno sale, qualcuno scen-
de; nel flusso silenzioso chi resta si sgranchisce le gambe, si
riempie i polmoni di cose varie e poi ripartiamo senza certi
pensieri, abbandonati sul ciglio della strada.
Quando ho chiesto a K. dove sarei dovuta scendere mi
ha dato la stessa risposta del ragazzo col ciondolo di legno a
forma di Africa: «Lo capirai da sola».

219
Così da allora non ho più chiesto niente e ho guardato i
campi che diventavano colline e poi montagne e poi altri mi-
lioni di paure. Sembra che non stiamo andando da nessuna
parte e sono nel panico. Sembra che questo viaggio sia inu-
tile, ma non scendo. So che arriverò da te, carissimo amore.
Ed è l’unica cosa per cui scelgo di restare, ed è l’unica cosa
che scelgo di sapere.

Con paura e libertà

220
I libri degli altri

C’è questa cosa che ogni tanto insieme a qualche mio


amico ho fatto, quando stavamo intorno a un tavolo pie-
no di cose o in giro per le strade della vita e delle coinci-
denze. Stilare la lista delle cose che ci piacciono di più,
delle cose che ci tengono in vita, a cui non potremmo
mai rinunciare, che ci fanno capire che abbiamo un senso
ricordandoci chi siamo.
L’ultima volta che sono stata completamente d’accordo
con la mia lista personale era notte fonda e con tre persone
che mi avevano salvata da un precipizio fatto di vuoti sta-
vamo andando alla basilica di Superga con le nostre forze,
sulle nostre gambe.
Al primo posto della mia lista ho sempre messo la voce
“leggere”. E se dovessi spiegare ora il perché, per assurdo,
non riuscirei a trovare le parole adatte.
Leggere è stata la mia fuga, il mio riparo e la mia libertà.
I libri che ho letto sono stati i miei genitori, la mia edu-
cazione, i miei amici, il mio primo amore, la mia autosti-
ma, i miei confessori e tutto quello che ho sempre e solo
sognato da quando ricordo, da quando leggo.
Leggere è tutto quello che ho e, ancora prima della
scrittura, è l’unica cosa certa che voglio avere sempre, ac-
canto, sul comodino, in fondo al letto, a casa di chi amo,
sui mezzi, prima di partire e anche nello zaino, alle sei del
mattino, col freddo che mi taglia la faccia, una canzone
che so solo io nelle orecchie e poche cose certe.
Leggere è la mia cosa certa, è la mia porta aperta sul
mondo, sugli altri e su tutto quello che non so.
Proprio per questo ho deciso di fare una breve lista dei
libri che mi hanno letteralmente salvato la vita in questi
ultimi anni. Testi che mi hanno permesso di scrivere que-
sto, di testo, di capirmi, di accettarmi, ritrovarmi, nascon-
dermi, stare con gli altri, sfogarmi, spiegarmi e amarmi. E
visto che non ho mai capito le persone che si tengono per
sé le letture, i film, gli album che reputano tra i migliori in
circolazione, io continuo a sperare che un giorno cambino
idea e nel frattempo ecco a voi la mia famiglia di carta e
libertà: corretele incontro, ha un sacco di cose da dirvi.

Ta-Neihsi Coates, Tra me e il mondo, Torino, Codice


edizioni 2015.
La lettera di un padre afroamericano al figlio adole-
scente sull’importanza e il valore del corpo nero. Una
dichiarazione d’amore disarmante, con una lucidità con-
temporanea spaventosa. Nell’America di Trump e nell’e-

222
poca del suprematismo bianco dilagante, una boccata
d’aria sulla finestra dell’amore incondizionato. Potente,
educativo, attuale.

Éric-Emmanuel Schmitt, La parte dell’altro, Roma,


Edizioni e/o 2001.
Se Adolf Hitler nel 1918 avesse superato il test dell’Ac-
cademia dell’arte, noi oggi chi saremmo? E l’Europa? E le
idee che di lui e di noi abbiamo? Un’ucronia che scaraventa
addosso la straordinaria bellezza del libero arbitrio e del-
le conseguenze delle scelte di mente e cuore. Spiazzante,
commovente fino all’ultima pagina, incredibile.

Ryszard Kapuściński, Ebano, Milano, Feltrinelli 2000.


Un puzzle di reportage di alcuni spazi e di alcune realtà
dell’Africa indomabile e incontenibile. Una testimonian-
za meravigliosa, la penna acuta e attenta di un giornalista
meritevole, il libro che mi ha fatto fare pace con la mia len-
tezza e tutto quello che ci ho lasciato dietro. Esplicativo,
limitato ma non limitante, utile.

Alice Zeniter, L’arte di perdere, Torino, Einaudi 2018.


Il libro-risposta per tutte le volte che ci si è sentiti chie-
dere «ma ti senti più italiano/a o più ruandese?». Le pro-
tagoniste di questo romanzo appartengono a tre genera-
zioni; l’ultima è una figlia che si sente francese, normale
ed esattamente uguale agli altri. Una volta tornata nell’Al-
geria dei suoi antenati, riscopre e scoperchia le verità e i
legami profondi con una terra che l’ha sempre guidata e le
è sempre appartenuta. Splendido, rigenerante, vero.

223
Claudia Rankine, Citizen. Una lirica americana, Roma,
66thand2nd 2017.
Un giorno mi sono svegliata con la piena consapevo-
lezza che il colore del mio corpo avrebbe dovuto superare
ostacoli impercettibili che non avrei mai potuto scavalca-
re ma che avrei dovuto subire per sempre. Dopo qualche
tempo, su una rivista ho letto il titolo di questo libro e
sono corsa in libreria a cambiarlo. So ancora che il colore
del mio corpo dovrà superare ostacoli impercettibili, ma
Citizen mi ha insegnato che non sono sola e che un giorno
potrò smettere di avere paura. Devastante, salvifico, mio.

Lilian Thuram, Le mie stelle nere. Da Lucy a Barack


Obama, Torino, Add editore 2009.
«Sapete dirmi il nome di uno scienziato nero? Di un
esploratore nero? Di un filosofo nero? Di un faraone
nero?» L’ex calciatore francese Thuram ha deciso di rac-
contare i ritratti di uomini e donne di origine africana che
sono sfuggiti dal vittimismo e da un certo tipo di narrazio-
ne sia razzista che antirazzista e li ha raccolti in una testi-
monianza storica e importantissima. Per chi non si è mai
visto rappresentato né raccontato come avrebbe voluto e
da chi avrebbe voluto, questo testo è una piccola finestra di
possibilità e speranza. Educativo, rincuorante, immediato.

Daniele Scaglione, Rwanda. Istruzioni per un genocidio,


Modena, Infinito 2010.
Il testo che mi ha spiegato meglio tutto quello che è suc-
cesso quando avevo tre anni, e mi ha parlato dei muri e del-
le vite attorno a me, pronte a sacrificarsi e a proteggermi. Il

224
genocidio più efferato del XX secolo e una storia violenta e
assurda tanto ignorata quanto importante. Necessario, un
buon punto di partenza per capire questa vicenda, forte.

Alessandro Leogrande, La frontiera, Milano, Feltrinelli


2015.
Quando nel 2013 affondarono 368 persone nel
Mediterraneo io non avevo ancora le parole giuste e il mio
cuore si stava formando. Alessandro Leogrande invece era
ancora e, in anticipo sui tempi, ha raccontato la “traversa-
ta” più triste e famosa della nostra storia con una delica-
tezza e una bravura agghiaccianti. Alessandro Leogrande
non c’è più, leggerlo è una lotta silenziosa che possiamo
portare avanti anche a suo nome. Soprattutto a suo nome.
Indispensabile, premonitore, atroce.

Zoya Barontini, Cronache dalla polvere: un mosaic no-


vel sul cuore di tenebra del colonialismo italiano, Firenze-
Milano, Bompiani 2019.
Una delle cose che ho imparato dell’Italia, il mio Paese,
è che prima o poi dovrà sedersi a un tavolo e fare i conti
con la sua storia e le azioni del passato che ha rimosso
e insabbiato. Leggere Cronache dalla polvere è il primo
passo che un collettivo fuori dal normale può permette-
re e riesce a farci fare. Una narrazione corale, spaventosa,
inaccettabile e vera che porta alla luce come tutte le conse-
guenze di quel rimosso si riversino nelle nostre strade e nei
pregiudizi di cui siamo vittime, in un modo o nell’altro.
Obbligatorio, attuale, una testimonianza di cui si ha pro-
fondamente bisogno.

225
Zadie Smith, Denti bianchi, Milano, Mondadori 2005.
Un romanzo pioniere, una dichiarazione d’amore sgan-
gherata e imperfetta. Due amici, due famiglie, diverse ori-
gini, diverse religioni, la guerra alle spalle e Londra davanti
agli occhi. Una storia di amicizia e battaglia, la prima volta
in cui ho letto la parola “multiculturalismo” e ho trattenu-
to il fiato per paura che qualcuno me la cancellasse dalla
testa. È rimasta, mi ha fatto bene, come tutta la bibliogra-
fia della Smith. Intimo, educativo, da avere in libreria.

Francesca Melandri, Sangue giusto, Milano, Rizzoli 2017.


Quando la Storia bussa insistentemente alla porta della
tua storia personale è necessario capire, ricostruire un viag-
gio. Un ragazzo dalla pelle ambrata bussa alla porta di una
donna romana da generazioni; le dice «sei mia zia» e una
voragine profonda vent’anni si apre sul pianerottolo. Ne
incontri pochi che riescono a raccontare la storia e l’amore
tra le pagine come ci riesce Francesca Melandri. Per fortu-
na lei lo sa, e scrive. Amatissimo, spiazzante, utile a chi non
è arrivato agli ultimi capitoli di Storia alle superiori.

Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso, Salvezza, Milano,


Feltrinelli 2018.
Ho fatto fatica a fidarmi delle graphic novel fino a
quando non mi hanno parlato di storie vere e coloratissi-
me. Bonaccorso disegna e gli occhi prendono vita, Rizzo
racconta e a un certo punto sei certo di aver imparato a
fare un massaggio cardiaco. Sull’Aquarius. In alto mare.
Con un groppo in gola e le storie di chi fugge e chi soccor-
re che ti rimangono incastrate in fondo alle orecchie prati-

226
camente per sempre. Un pezzo di giornalismo di cui c’era
bisogno, una ventata di speranza che adesso è arancione
come i giubbotti da salvataggio. Utile, chiaro, con una sua
certa idea di grazia e di grazie.

Michela Marzano, L’amore che mi resta, Torino, Einaudi


2017.
Un libro che mi ha spiegato che per essere figlia non
basta solo essere amati ma c’è bisogno anche di saper
amare. La storia di una figlia che non ci è riuscita e di una
madre che non sa spiegarsi il perché. L’adozione narrata
tra le righe di un dolore che non esce mai quanto do-
vrebbe e invece aiuterebbe a capire, a curare. Salvifico,
straziante, bellissimo.

Annalena Benini, La scrittura o la vita. Dieci incontri


dentro la letteratura, Milano, Rizzoli 2018.
Quando ho letto questo testo a un certo punto, verso
l’inizio, ho iniziato a piangere. Ero triste perché sapevo di
aver iniziato un libro che mi avrebbe distrutto e gratificato
e che non avrei mai voluto terminare. Dieci interviste a
dieci vincitori del Premio Strega. Dieci chiacchierate con
vite che sono la mia. Quelle di visionari, fantasiosi, imper-
fetti, assurdi, straordinari esseri umani che hanno capito
che tutto sarebbe stato o scrivere o vivere. E hanno scelto
di fare la prima cosa per riuscire a portare a casa anche
la seconda. Bello, intimo, utile per tutte le volte in cui mi
sono detta o sentita dire che scrivere non mi avrebbe por-
tata da nessuna parte.
È iniziata la battaglia

Carissimo amore,
hanno detto che per vincere la battaglia più bella che esi-
sta dovremo essere in tanti.
Dovremo scrivere il nostro nome, metterci tutto quello
che siamo e che poi passeranno a prenderci. Anche se stiamo
facendo altro, anche se diciamo di non avere tempo, voglia,
coraggio o forze. Dicono che gli altri sono già sul campo,
dicono che ci stanno già aspettando.

Ci sarà Daisy, che appena finisce di gareggiare come me-


glio può agli europei dice che ci raggiungerà; ci sarà Hamed,
che ci sta aspettando sul marciapiede: sa che arriveremo
presto e stavolta non gli succederà nulla; Mamdou dice che
appena stacca il turno al bar si fa trovare da qualche parte;
Cissé, Dieng e Davide appena si riprendono ci fanno sapere
e se riescono passano; ha detto così pure Ousmane, che ha
imparato a giocare a Lupus in fabula: è l’unico gioco in cui
accetta di essere accusato per finta; ci sarà anche Konate: ha
scritto che se magari ha bisogno in cucina (anche se non sia-
mo bravi come lui), ci chiama; ci sarà Ibrahima che, ridendo,
ha detto che se ha bisogno di medicine o di cure verrà da noi,
altro che ASL; e pure Lenine, che prima di raggiungerci ha
chiesto se ci sarebbero stati dei piccioni, gli abbiamo detto di
no e ha risposto che verrà.
A vincere la battaglia più assurda che hanno inventato do-
vremo essere in tanti, dovremo essere tutti, così ci hanno detto.
Anche chi è stato minacciato con un coltello o con una
scacciacani nel posto in cui doveva sentirsi al sicuro, anche
chi stava tornando a casa da lavoro e ha dovuto schivare dei
sassi, chi non ha capito e si è ritrovato nel corpo dei proietti-
li, chi non ha avuto tempo prima di e si è trovato un pugno
addosso, un cane addosso, dell’odio addosso. Anche chi non
ha compiuto nemmeno quindici anni e ha già subito, e si è
convinto di essere nel momento sbagliato, nel Paese sbaglia-
to, nel corpo sbagliato.
Scusateci per il ritardo, Jerry, Emmanuel, Mohamed,
Abba; allora non lo sapevamo neanche ma adesso ci siamo,
siamo pronti per davvero.
Scusaci per il ritardo, Idi; lo sappiamo che non hai avuto
il tempo di combattere ma ora ci attrezziamo, troviamo il
ponte più bello di Firenze e gli diamo il tuo nome.
Scusaci per il ritardo, Soumaila; i tuoi amici finiranno di
costruire quella casa come hanno promesso; anche se – lo
sappiamo – chiamarla «casa» è un sacrilegio, anche se – lo
sappiamo – chiamarla ancora «casa» è un privilegio.

230
Scusaci per il ritardo, Assane; noi non siamo i nipoti di
nessuno, ma forse saremmo potuti essere i tuoi: combattere-
mo come tali.
Scusaci per la paura, Hady.
Scusaci per la distrazione, Osman.
Scusateci, Amadou, Aladjie, Moussa, Abu, Ali e tutti gli
altri, e i troppi altri.
Abbiamo capito che è arrivato il momento.
Perché questa battaglia è per noi che abbiamo un nome
ma anche il terrore di venire rimandati indietro.
Noi che abbiamo un nome ma tanto per voi “migrante”
va bene, “senegalese” va bene, “ghanese”, “nigeriano”, “ex-
tracomunitario”, “uomo di colore”, “spacciatore”, “musul-
mano”, “donna di colore”, “irregolare”, “prostituta” o “di
origine africana” vanno sempre bene.
Questa battaglia è per Hamed, Sheila e Ayed che avevano
una voce eppure non avete avuto intenzione di dargliela.
Ma verremo a prendercela, a prenderci.
Uno per uno. Maria, Davide, Ibrahim, Singh. Ci ricono-
sceremo, ci chiameremo coi nomi che hanno omesso, raccon-
teremo la storia di cui ci hanno privato e ci daremo un’esi-
stenza più bella di quella in cui ci sparano, dei giornali in cui
ci ignorano e delle teste che non ci vedono.

Passeranno a prenderci.
E sarà il viaggio più bello, Dembo; perché senza insulti
o pugni, Fouad; perché fuori dai furgoni e lontano dagli in-
cidenti, senza calci in faccia e con i sottotitoli per tutti. Così
umano che potremo commuoverci e rivedere le stelle; potre-
mo avere di tutto, un indirizzo e uno stipendio; leggeremo

231
libri e scriveremo articoli, rideremo a voce alta, avremo un
nome e un senso; sapremo aspettare, sapremo capire e pren-
deremo la scelta giusta, una casa nostra, e poi l’uscita, e poi
anche la parola.

«Scrivere è come combattere.»

Sono arrivati tutti.


Siamo pronti tutti, amore, ti va di vincere?

232
Ringraziamenti

Grazie a mia madre, non ti ho mai conosciuta ma insieme ai


miei nomi mi hai dato alla luce. Sarai gratitudine in eterno.
Grazie a N. per essere stato il primo ad aver letto, per avermi
raggiunto in piazza.
Grazie a Emanuele per avermi detto «scrivi», a Pedro che ave-
va già visto tanto e a Nicola che ci ha sempre messo la musica sotto.
Grazie a Margherita, Giò e Roberta per essermi madri, so-
relle, colonne portanti.
Grazie a Teresa, Gabriele, Michele, Valerio e Luca: siete sta-
ti la famiglia più bella di sempre.
Grazie ad Adriano, mio editor di questo mare sconfinato
che è la vita. A Matteo e Stefano, voi lo sapete. Grazie a Pietro
e la sua famiglia. Grazie a Federica “Feffe” e Ilenia per i fili del
telefono che ci hanno unite. E a Enrico per le birre nei parchetti
di Flero, l’amore che hai per Giulia e quelle lettere dal Cile.
Grazie ad Aroti, Ian e Massi che sanno dove finiscono i miei
pensieri, fratelli maggiori recuperati per fortuna.
Grazie a tutti gli altri, sapete chi e ci siete, solo che ho scelto
di tenervi nella tasca interna del mio giubbotto.
Indice

Introduzione 9

E POI BASTA

Come iniziano le cose 9


Io non volevo fare l’attivista 17
Un giorno hanno fregato anche me 23

I MIEI SENTIMENTI HANNO UN VALORE

«Ma sei sicura che sia il caso?» 29


Animale da palcoscenico 37
Siamo fatti per pochi 47

NERI ITALIANI

Anna 53
La mia Africa 63
RAPPRESENTANZA E NARRAZIONE

Bubu 71
«Ciao, sorella» 83
Di chi sei figlia, tu? 99

NERI & ITALIANI

Ovetto Kinder 107


Rabbia italiana 111

DONNA E NERA

Gabbia 119
Permesso (Ballata per ragazza nera) 129
Dove siamo finiti? 135

UN CHICCO D’UVETTA
DENTRO A UNA TAZZA DI LATTE

Storie 141
Io non ho scelto 151
Antirazzista wannabe: Suggerimenti 161
«Vi auguro il coraggio di restare soli» 168

RESTO O VADO VIA

Forse i figli dei tuoi figli 177


Staremo in piedi 185

Pausa

Lampioni 193
E ti vengo a cercare 197
ELOGIO A CLAUDIA RANKINE

Corpi 205
Male trasparente 211
Sono partita 217
I libri degli altri 221
È iniziata la battaglia 229

Ringraziamenti 233
Finito di stampare per conto di People s.r.l.
nel mese di gennaio 2020
da Grafica Veneta S.p.A.
Stabilimento di Trebaseleghe (pd)

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