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PAOLO BAIOCCHI

Il diario
terapeutico
Raddoppia il potere di ogni terapia
Il diario terapeutico
Raddoppia il potere di ogni terapia

Di Paolo Baiocchi
© Gestalt Empowerment Italia srls

Gestalt Empowerment Italia srls


Via Rossetti 8
34135 Trieste
www.paolobaiocchi.com
Prologo
Verba volant, scripta manent.

Antico proverbio latino

I
n questo scritto voglio descrivere uno strumento che
ha rivoluzionato letteralmente la mia vita personale e
professionale: il diario terapeutico.

Le persone che si auto-realizzano scrivono organizzando


sulla carta pensieri e azioni.
Libri, lettere, aforismi, progetti: le librerie sono piene delle
opere lasciate da chi ha depositato in parole tesori di
esperienza. Sono tracce di vita vissuta, ma anche
riflessioni. Ma oltre che su carta scrivono anche in altri
luoghi. Nei luoghi dell’anima. Scrivono nel loro cuore e
nella propria carne. Scrivono nel cuore degli altri,
lasciando un segno profondo. Scrivono mediante i loro
comportamenti coerenti e organizzati.

Le persone che non si auto-realizzano invece pensano,


parlano e poi a volte fanno. Qualcuno a dire il vero fa poco.
Altri fanno molto ma in modo disorganizzato, abitudinario
e ripetitivo.

Il pensiero non scritto è pieno di insidie: molto spesso


diventa tortuoso e autoreferenziale. Le parole usate nei
dialoghi interpersonali non sono da meno: talvolta
decadono in chiacchiere e discussioni.

La scrittura permette di depositare pensieri e parole e di


ordinarli in sequenze logiche. Permette inoltre di superare
la trappola della dimenticanza e dell’accavallamento.
Chi scrive lascia traccia, chi non scrive rischia di disperdere
e dimenticare.

Chi scrive ha molte più possibilità di costruire rispetto a chi


non lo fa. Nessun architetto si presenta a una squadra di
muratori limitandosi a raccontare loro l’idea che ispira
l’edificazione della casa. Un architetto elabora un progetto
scritto, una serie di disegni e indicazioni precise e definite
che guideranno nei dettagli ogni singola azione costruttiva.
Sarà il progetto scritto a condurre i muratori, non le parole
o il pensiero dell’architetto. Anche quando l’architetto sarà
assente il progetto scritto e disegnato indicherà alle sapienti
mani dell’operaio cosa fare e cosa non fare, con esattezza e
precisione.

Erving Polster, nel suo libro “Ogni vita merita un romanzo”


racconta con dolore quanto spesso le persone non
apprezzino a sufficienza i lati poetici che l’esistenza offre.
Esistono persone che fanno della propria vita un romanzo
che hanno scritto in prima persona, altre purtroppo
vedono la vita trasformarsi in una storia che li riduce al
ruolo di comparse invece che di registi e primi attori.

Il grande genio letterario Luigi Pirandello, nel descrivere


magistralmente il relativismo psicologico, il sottostare di
ogni essere umano alla forza condizionante delle relazioni
sociali, illustra quanto facilmente un individuo corra il
rischio di ritrovarsi incarcerato in un personaggio scritto
dal mondo esterno. Imprigionato nelle proprie maschere
sociali, fallisce la difficile sfida del fare della propria vita il
romanzo a cui la propria anima anela. E che Abraham
Maslow indica con il termine psicologico “auto-
realizzazione”.

Solo chi scrive può coordinare il proprio agire concreto in


modo organizzato e razionale, in quanto vince una battaglia
contro un nemico tremendo e invisibile: i meccanismi di
difesa. Si tratta di fenomeni in grado di annullare la
volontà e distruggere i sogni di chi non scrive. E ciò può
incidere sulla vita di una persona per tutto l’arco della sua
esistenza.

La scrittura è all’origine della cultura umana. Arte e scienza


non sarebbero state possibili senza questa invenzione
straordinaria. Credo che l’unica altra scoperta di simile
portata sia il fuoco. Se scoprire il fuoco ci ha permesso di
dominare la natura, e ciò è all’origine della scienza,
l’intuizione della scrittura ci ha invece portati a far fiorire la
cultura, dotandoci di strumenti artistici ed esistenziali.
Capitolo 1

COS’È UN DIARIO TERAPEUTICO?

È
un diario molto diverso dal comune diario
narrativo, strumento di viaggio che accompagna la
vita di così tante persone.

Nel diario narrativo, una persona annota gli eventi salienti


della propria vita (oggi ho incontrato Maria, con la quale ho
avuto una storiellina quando avevo quattordici anni, e ho
percepito un balzo al cuore... ho visto che anche io non le sono
indifferente anche se ho visto evidenti segni del tempo sul suo
viso... come si invecchia... ecc.)

Nel diario terapeutico invece, ad esempio, una persona


annota i temi nevrotici che scopre di avere, immagina le
soluzioni ad essi e progetta un piano di azione concreto
che possa scandire il lavoro che costruirà le premesse per il
cambiamento.
Riassumendo:

1. Temi nevrotici
2. Soluzioni
3. Piano di azione concreto

Esempio

TEMA NEVROTICO

Quando ho un’idea ne parlo subito con gli altri per far


vedere che sono intelligente e per generare fascino.
La conseguenza negativa di ciò è che per non deludere gli
altri mi ritrovo con mille progetti attivi che non riesco a
portare a termine.

Nel mio caso, quando ho avuto l’idea di questo librettino


sul diario terapeutico avrei potuto dire a chiunque:
“Sapete che idea mi è venuta? Sto lavorando sul diario
terapeutico con tutti i miei pazienti. È una potenza! Ho
pensato che scriverò una dispensa (un libro, un articolo) su
questo tema!”

SOLUZIONE

Quando ho un’idea mi trattengo dal parlarne a stuoli di


persone e ne faccio menzione solo con una cerchia
ristretta, poi faccio un progetto scritto e inizio a realizzarla.
La rendo visibile solo dopo che il lavoro è compiuto.

PIANO DI AZIONE CONCRETO

Progetto una serie di azioni concrete che realizzano l’idea.


Si tratta di progettare non una singolo comportamento, ma
una vera e propria sequenza di azioni che permettano di
guidare, una ad una, le varie fasi di realizzazione del
progetto.

Esempio:

a) scriverò un bozza

b) la rivedrò con due amici fidati

c) la metterò in bella copia

d) la pubblicherò

e) soltanto allora ne parlerò con tutti.

Differenze tra diario terapeutico e diario


narrativo
In sintesi il diario narrativo fissa con le parole la vita già
vissuta, i suoi riverberi nell’anima e le relative riflessioni
personali.

Il diario terapeutico, invece, fotografa i temi personali


scottanti che la nostra coscienza seppellisce sotto le difese
psichiche per non soffrire. Inoltre sostiene la volontà nella
costruzione di un piano di azione volto al cambiamento.
Capitolo 2

COME HO SCOPERTO IL POTERE DEL DIARIO


TERAPEUTICO

I
l diario terapeutico non nasce da una mia idea. Ma
dalla disperazione, dal caso e dall’intervento fortunato
di un’amica.

Il problema

Di natura sono dotato di ben poca memoria. Dimentico una


marea di informazioni importanti. Questo difetto, per un
terapeuta che si occupa di ascoltare le difficoltà dei propri
pazienti, è un vero problema. Sono molto invidioso di tutti
quei colleghi e amici che, al contrario, ricordano con
esattezza date, impegni, avvenimenti e dettagli.

Spesso mi sono trovato imbarazzato con i miei pazienti


perché non ricordavo bene i loro temi e problemi. Mi è
capitato di aver condotto delle sedute brillantemente,
elaborando i temi emersi con destrezza, ipotizzando
progetti di trasformazione accurati e logici. Salvo poi, la
seduta seguente, ritrovarmi a non ricordare nulla di ciò che
era stato elaborato nella sessione precedente, se non in
modo vago e generico.

Sprovvisto della forza della memoria, talvolta ho condotto


sedute scollegate tra loro, correndo il rischio di trattare di
volta in volta temi diversi, sollecitati dal caleidoscopico
affaccendarsi degli eventi di vita dei pazienti. Come
vedremo, questa mia mancanza si alleava alla nevrosi del
paziente che, a questo punto, poteva sotterrare verità e
responsabilità personali.

Il tentativo fallimentare di risolverlo

Ho provato a compensare questa lacuna documentando


personalmente i temi emersi e gli obiettivi prefissati.
Essendo però disordinato e poco organizzato mi sono
spesso trovato ingolfato in decine di cartelle scritte o file
digitali.

L’intervento provvidenziale di un’amica

Un giorno ho raccontato il mio problema a un’amica, molto


acuta e piena di risorse. Lei sorrise e mi rispose in tutta
calma: “Perché non fai come il mio ginecologo? Lui fa
tenere una scheda ai pazienti ed è loro cura portarla a ogni
visita. Non tiene lui i dati, ma li fa tenere a noi!”

In un primo momento tale accorgimento mi sembrò più


assimilabile a un trucco per delegare la responsabilità e la
fatica del documentare i punti salienti del processo
terapeutico. Nei giorni a seguire, però, nella mia mente
iniziò ad affacciarsi una serie di ragionamenti:

• La storia di vita che trattiamo in seduta è di assoluta


proprietà del paziente e non mia

• È il paziente che deve prendere responsabilità dei suoi


obiettivi e non io

• Non avevo forse io scritto per anni obiettivi su dei diari?


E perché non farlo fare a loro? Nella mia storia scrivere
un diario di obiettivi era stato un capitolo fondamentale,
una vera e propria pietra miliare.

• Non sarebbe forse questo uno strumento importante per


la persona e non solo per la terapia?

• Non sarebbe questo un rituale importante da installare?

• Non sarebbe stata l’occasione di dare un primo grande


obiettivo al paziente, quello della responsabilità della
compilazione del diario?

• Non avrebbe inoltre liberato finalmente me dal peso del


ricordare non so quanti dettagli delle storie di vita?
Collocando tale responsabilità al legittimo proprietario,
che poi è colui che alla fine dei conti deve apprendere a
trarne profitto?

Nella mia mente cominciò a farsi strada l’idea di quanto


importante potesse essere la compilazione di un diario
terapeutico da parte del paziente.
Intuii già allora che la mia carenza di memoria avrebbe
potuto trasformarsi in un vantaggio paradossale, in quanto
mi stava portando a scoprire aspetti di valore ben più
grande di una semplice strategia per ricordare i temi emersi
in seduta.

Non colsi però fino in fondo il potere straordinario del


diario. Non subito. Lo scoprii dopo, strada facendo,
utilizzandolo negli anni con tutti i miei pazienti.
Capitolo 3

A COSA SERVE IL DIARIO TERAPEUTICO

I
l diario terapeutico ha tre principali funzioni:

a) a s s i s t e l a m e m o r i a , s o t t r a e n d o a l l ’o b l i o l a
consapevolezza dei temi e degli obiettivi personali

b) radiografa gli atteggiamenti esistenziali positivi e


negativi del paziente

c) allena la volontà del paziente

Documentazione dei temi emersi in seduta

Questa funzione per certi versi è la più ovvia e visibile,


immediatamente intuitiva.
Quasi tutti noi scattiamo fotografie e filmiamo attimi di vita
per tenerne memoria. Annotiamo su memo, diari, agende e
quaderni gli obiettivi per organizzarci. Nessun contabile
sognerebbe di tenere a mente i termini numerici mediante i
quali sviluppa il proprio lavoro.

Nel caso della psicoterapia e dello sviluppo personale non


si tratta soltanto di combattere un normale decadimento
delle informazioni legato ai processi di dimenticanza
fisiologica o di mantenere traccia di quantità esorbitanti di
dati.

È piuttosto una battaglia contro i meccanismi di difesa.


Anzi, una vera e propria guerra per mettere al sicuro
informazioni preziose, che potrebbero cadere preda del
fenomeno dell’oblio. I meccanismi di difesa funzionano
tutti grazie al potere della mente di generare la
dimenticanza, in svariate forme.

Facciamo degli esempi.

La rimozione è come mettere un dato sotto il tappeto, la


proiezione è collocarlo addosso ad altre persone,
l’introiezione è nascondere il fatto che altre persone
abbiano un certo difetto assimilandolo in noi stessi, come
se fosse nostro (e occultando quindi la vera origine di
quella negatività) ecc.

Quando si attivano i meccanismi di difesa? Come


funzionano? Si innescano quando le situazioni di vita
sollecitano un livello emozionale troppo intenso per la
persona. Entrano in funzione sopra una certa soglia di
“voltaggio emozionale”. Pur essendo attualmente
s p rov v i s t o d i c o n o s c e n z e r i g u a rd o a l l e a t t u a l i
testimonianze scientifiche, non dubito che la ricerca in
campo neuropsicologico evidenzierà che i meccanismi di
difesa sono in grado di liberare neuro-molecole che
alterano le percezioni, proprio come fanno le droghe
psicotrope.

Dal punto di vista fenomenologico e clinico i meccanismi di


difesa generano il fenomeno della dimenticanza e dello
spostamento dell’attenzione da ciò che genera angoscia
ad altro.

Cosa succede quindi in terapia? Quando in seduta viene


toccato un tema angosciante o molto stimolante, il paziente
riesce nel difficile compito di divenirne consapevole e
affrontarlo perché riceve una forza addizionale: quella
generata dall’alleanza terapeutica. Come ci hanno
magistralmente insegnato Carl Rogers e Martin Buber. E’
sbagliato, profondamente sbagliato, pensare che il paziente
aumenti la sua consapevolezza soltanto per la bravura
cognitiva del terapeuta, che grazie alla formazione è in
grado di “leggere” con chiarezza i temi del primo. Si tratta
di un vero e proprio aumento della energia affettiva del
sistema generato tra la coppia paziente - terapeuta,
possibile soltanto quando si genera una condizione di
reciproca fiducia e amore.

La vera domanda é infatti: “Ma perché il paziente non ci è


arrivato da solo?”
E poi potremmo chiederci ancora: “Ma se il paziente
sapesse come aumentare il proprio livello di energia,
benessere e forza, potrebbe “vedere” maggiormente i
propri temi nevrotici? La risposta è assolutamente
affermativa. Se la forza psichica di un individuo aumenta,
parimenti aumentano le sue potenzialità di “vedere con
chiarezza” se stesso.

Ulteriore risposta a questa domanda viene dalla comune


esperienza di quello che succede dopo la seduta, quando
il paziente ritorna nella sua vita lasciando alle spalle la
confortante relazione con terapeuta.

Molto comunemente infatti, in un secondo momento,


quando il soggetto si trova da solo, la mancanza di tale
sostegno può causare un innalzamento dell’angoscia. Cosa
accade allora? Si attivano i meccanismi di difesa del
paziente che riportano la sua mente a uno stato di relativa
e apparente quiete e lucidità, pagando però un tremendo
prezzo per questa truccata serenità con la dimenticanza;
costo a volte adeguato e conveniente da pagare, a volte
troppo caro e controproducente.

Il diario terapeutico è una preziosa risorsa in grado di


risolvere il problema della dimenticanza in quanto
permette di documentare con grande efficacia temi
nevrotici, difetti, emozioni, traumi, conflitti, dinamiche ecc.
che emergono via via nelle sedute.

Impedisce alle difese di riportare sotto la soglia


dell’attenzione il materiale sottratto all’inconscio.
La bottiglia e il latte

Prima di passare ai punti successivi, è bene notare che ci


sono due grandi categorie di lavoro che si effettuano
mediante il diario terapeutico:

a) sul contenuto

b) sul contenitore

La nostra mente è sempre affascinata dal contenuto e


spesso si dimentica del contenitore. Siamo attenti alle
nostre emozioni, ai pensieri, ai traumi, ai problemi, ai
conflitti, alle relazioni di amore.

Quando ci riferiamo alla documentazione dei temi che


emergono in seduta, stiamo parlando appunto dei vari
contenuti che il paziente vuole gestire.

Molto spesso però succede che il paziente dimentica che


lui è il contenitore di tutti questi processi interiori. O
meglio, come afferma Roberto Assaggioli, che la sua
volontà è il contenitore di tutti fenomeni mentali. Ed essa è
spesso debole.

In psicoterapia della Gestalt viene data molta attenzione al


livello esistenziale: in esso troviamo:

a) la consapevolezza di ciò che ci succede


b) le modalità di gestione dei fenomeni mentali, corporei
e comportamentali. Vale a dire come maneggiamo
interiormente i contenuti che si presentano.

Fritz Perls, nel suo primo libro “L’io, la fame e


l’aggressività”, parlò appunto delle funzioni dell’io,
conferendo ad esse grande importanza e ponendo l’accento
sulla relazione che contraggono con le emozioni e i bisogni.
Lo stesso dicasi di quella corrente della psicologia
coordinata da Heinz Hartmann, chiamata appunto
“Psicologia dell’Io”.

Dove si allena e potenzia la volontà?


La volontà, quella vera, si allena soltanto da soli.
La grande fregatura, che genera disperazione in
generazioni e generazioni di genitori, terapeuti e
insegnanti, è che non si può potenziare, se non in parte, la
volontà di nessun altra persona all’interno della relazione
interpersonale.

Spesso infatti i genitori cercano modi relazionali per aiutare


i figli a diventare responsabili, indipendenti e autonomi.
Cercano nuove forme di amore e comunicazione per
sostenerli ad accrescere la volontà. Lo stesso fanno gli
psicoterapeuti con i loro pazienti.
Questo tentativo è spesso destinato al fallimento e in certi
casi può diventare addirittura paradossale.

Perché?
Per sviluppare la propria volontà, una persona deve
ritirarsi in un unico luogo: la relazione che ogni persona ha
con se stessa. Deve tentare di praticare l’auto-
contenimento. Deve restare da sola e provare a reggere le
emozioni, le pulsioni e i pensieri con la sola forza della
propria coscienza.

Quando l’IO tenta di contenere il ME si genera lo sviluppo


della volontà.

La volontà è come una bottiglia e le emozioni sono come il


latte.

Quando il contenitore è debole o traumatizzato i fenomeni


mentali ed emotivi sono come “lasciati a se stessi” e quindi
diventano agitati e disordinati. Come analogamente accade
a una bottiglia che ha delle falle: il latte fuoriesce,
straborda e di disperde al di fuori del contenitore. In questo
caso si sperimentano angoscia, perdita di controllo,
confusione e senso di grande debolezza e vulnerabilità.

Le persone con la bottiglia piena di buchi cercano qualsiasi


modo per farsi contenere dagli altri.

Spesso usiamo le relazioni per tamponare i buchi della


nostra bottiglia. Chi ci ama, accoglie le nostre emozioni in
eccesso e le ospita temporaneamente, mettendo al servizio
i propri atteggiamenti esistenziali costruttivi per gestire i
problemi di cui esse sono l’effetto. In questo modo il “latte”
viene contenuto e la persona che si è espressa, cercando
rifugio nell’altro, si sente al sicuro, protetta e ritorna
temporaneamente ad essere lucida. Questo processo però,
ha dei prezzi e delle conseguenze. Se un individuo indugia
eccessivamente sul conforto che si origina dalle relazione
con gli altri per gestire le proprie emozioni, rischia di
diventarne dipendente, in quanto, quando ritorna ad
essere solo, i “buchi della bottiglia” si riaprono e le
emozioni straripano nuovamente.

Quando siamo nel nostro “sé sociale”, cioè in relazione,


non possiamo veramente concentrarci sul lavoro sacro del
tappare i buchi della nostra bottiglia, poiché il latte viene
contenuto dalla bottiglia delle persone con le quali ci
stiamo connettendo.

Per poter sviluppare la volontà, bisogna quindi resistere al


desiderio di mettere il nostro latte nelle bottiglie degli altri.
Bisogna analizzare e localizzare i buchi del nostro
contenitore, trovare i pezzi di vetro mancanti e incollarli. In
questo modo, pian piano, costruiamo una struttura efficace
di gestione dei nostri contenuti emozionali, energetici,
mentali e istintivi.

Non a caso, infatti, la vera maturazione e l’intero processo


di individuazione prevede che una persona si stacchi dai
genitori e dalla famiglia per tentare l’autonomia. Finché i
genitori mettono la loro bottiglia al servizio del figlio la
volontà di costui rimarrà debole, bisognosa e dipendente.

E, allora, la relazione di amore con i genitori, i terapeuti, gli


amici, non ha più nessun senso? Assolutamente no.
Nella relazione con gli altri, se è di buona qualità, un
individuo riceve sostegno e ispirazione.

Questa è una fase nella quale si scovano, all’esterno,


mediante i neuroni specchio e il processo di imitazione, i
pezzi di vetro per costruire la propria bottiglia.

Se per poter trovare i pezzi di vetro mancanti dobbiamo


stare in relazione, per poter saldarli nella nostra bottiglia
dobbiamo fare un passo di distanza dai nostri “maestri”. La
costruzione vera e propria, infatti, si fa fuori dalla
relazione con gli altri. Si compie quando si entra nella
relazione con se stessi.

Insomma tra l’essere con gli altri e l’essere da soli è


auspicabile si sviluppi una danza continua, una sorta di
continuo migrare tra due poli che assume la forma di una
doppia ellisse che ricorda il simbolo dell’infinito:

A B

A. nella relazione con gli altri si apprende come essere


contenuti (si reperiscono per imitazione i “pezzi di
vetro” mancanti alla “bottiglia”)
B. nella relazione con se stessi, da soli, si apprende ad
auto - contenersi (si applicano e fissano i “pezzi di
vetro” nella propria “bottiglia”)

Queste due fasi, in un essere umano sano, si alternano


all’infinito, perché ci sono sempre nuove forme di
contenimento affettivo che si possono imparare per
espandere la nostra volontà, stabilizzarla e renderla
amorosa e potente.

Nel diario terapeutico, quindi, viene compiuto un lavoro


sul “latte” quando si memorizzano su carta i temi che via
via emergono, ma, al tempo stesso, il terapeuta può
dedicarsi ad un lavoro altrettanto potente e necessario, cioè
la costruzione e il potenziamento della “bottiglia”.

In questo caso il diario terapeutico sostiene in primo luogo


il fatto che il paziente (assistito dal terapeuta) effettui:

• lo studio delle funzioni della volontà

• il loro allenamento

In secondo luogo il diario è efficacemente in grado di


promuovere:

• il lavoro solitario che il paziente deve assolutamente


compiere se vuole sviluppare tali funzioni. Il diario diventa
quindi anche un vero e proprio laboratorio personale di
sviluppo della volontà.
Capitolo 4

LA RADIOGRAFIA DELLA RELAZIONE


COSCIENZA-ORGANISMO

N
el tempo ho scoperto che il diario terapeutico
permette di fare contatto con un aspetto della
persona che non è possibile cogliere altrimenti in
seduta: quello che si manifesta quando la persona
abbandona l’identità sociale e assume la propria identità
interiore.

Mi spiego.
Quando siamo in relazione con qualcuno, noi attiviamo la
nostra identità sociale. Quando invece siamo da soli con noi
stessi, questa identità lascia il posto a ciò che noi siamo
senza maschere sociali: la relazione verticale esistente tra la
coscienza e l’organismo.
Luigi Pirandello, in “Uno, Nessuno e Centomila”, illustra
quanto ogni individuo sia intrappolato nelle identità che
inevitabilmente costruisce nelle relazioni con gli altri.
Il diario terapeutico va fatto compilare quando il paziente,
finita la seduta, si raccoglie per dieci, venti minuti nella sala
di aspetto e scrive, a caldo, le cose fondamentali emerse
nella seduta con il terapeuta.

In questo momento egli è solo con se stesso.


Alcune persone sono molto affabili con gli altri, ma poi
sono spietate con se stesse. Altre si prendono cura degli
altri, per poi, però, trascurare se stesse.
Il diario terapeutico fotografa in modo preciso e scientifico
le modalità mediante le quali l’Io della persona tratta
l’organismo.

Per ottenere questo risultato la consegna da dare al


paziente è la seguente:

“La seduta dura un’ora, poi lei si sieda nella sala d’aspetto e
compili il diario terapeutico relativamente ai temi che
abbiamo discusso in seduta. Lo faccia subito dopo la seduta.
Porti sempre con sé il diario terapeutico quando viene in
seduta, perché la prossima volta leggerà rapidamente quello
che ha scritto. Ha a sua disposizione al massimo una facciata
per seduta. Non compili su questo diario annotazioni
riguardanti altri giorni della settimana, ma soltanto il
resoconto delle sedute”.

Da come scriverà il diario, da cosa annoterà e da cosa non


annoterà, diventerà possibile scorgere gli atteggiamenti che
sono invisibili nella dinamica terapeutica, quando il
paziente mette in gioco la sua identità sociale.
Perché quando egli è da solo, le falle della “bottiglia” si
riaprono, in quanto vengono meno i “pezzi di vetro” che
sono stati messi in gioco dal terapeuta. Se il paziente fosse
in grado di tappare quelle falle autonomamente, lo scritto
lo rivelerebbe. Parimenti, quando la volontà ne è
sprovvista, tale mancanza brilla dunque, per assenza, nelle
parole riportate nel diario.

Il terapeuta, con la sua capacità di lettura, può a questo


punto rendersi conto dei “pezzi di vetro” mancanti.

È vedere l’invisibile.

La prima volta che mi resi conto di questo fenomeno ebbi


un brivido di gioia. La stessa percezione che probabilmente
sperimenta un archeologo quando, in una piramide già
perlustrata invano da mille altri colleghi, trova la stanza
segreta dove c’è la tomba del faraone.

Lo studio degli atteggiamenti esistenziali


negativi e positivi
Quando feci utilizzare il diario terapeutico, dopo un pò di
tempo, venni attraversato da un pensiero che mi sembrò
profondamente illuminante: mi resi conto che era possibile
compiere una attenta analisi di quali atteggiamenti, positivi
e negativi, essi avessero verso se stessi. Trovai un modo per
radiografarli, deducendoli da come le persone riportavano
e descrivevano quanto fatto nelle sedute precedenti.
Divenne per me finalmente possibile compiere un’attenta
analisi di quali atteggiamenti essi avessero verso se stessi.

Ad esempio alcuni riportavano con accuratezza i temi


nevrotici che avevamo scoperto la seduta precedente, ma
non progettavano alcuna ipotesi di cambiamento.
Annotavano il problema ma nulla più. La loro mente non
immaginava in alcun modo possibilità concrete di
trasformazione. Mi resi conto che delegavano a me il
reperimento delle soluzioni, delle ipotesi di trasformazione
e spesso la responsabilità dell’intero cambiamento! In
questi casi emergeva in modo evidente e tangibile che la
loro mente non era proattiva, cioè non si preoccupava
del prendersi cura del processo di soluzione ai loro
problemi.

Rimasi ancora più sconvolto dalla percentuale di persone


che non ricordavano nemmeno i temi e le problematiche
emerse nella seduta precedente. Non sono non costruivano
progetti per trasformare i problemi, ma dimenticavano
totalmente il frutto delle elaborazioni della seduta della
settimana prima.

Diviene possibile comprendere facilmente, in questi casi,


quanto le persone siano condannate a vivere dei sentimenti
di impotenza e sconforto.

Le persone che, al contrario, hanno costruito in se stesse la


capacità di immaginare il cambiamento, sanno di poter
contare sulla forza della propria mente. Non hanno paura
del loro mondo interiore e anche se hanno problemi e
stress sanno di poterli trasformare in occasioni di sviluppo
e crescita.

Quando però una persona non ha nel proprio repertorio


tali atteggiamenti costruttivi o sono presenti atteggiamenti
di auto accusa, auto odio e auto disprezzo, teme
profondamente l’attivarsi di emozioni negative o di sintomi.
Ne consegue automaticamente l’attivazione dello stato di
auto-denigrazione che si ripercuote negativamente
sull’organismo, riaccendendo daccapo le emozioni negative
originarie.

Molto spesso queste persone tentano di controllare le


emozioni di disagio, ma falliscono, in quanto questo
atteggiamento, generalmente, impedisce alle emozioni di
fare il loro corso naturale. Il fallimento del controllo
riverbera ulteriormente in senso negativo, diventando un
secondo innesco allo stato di auto-denigrazione. Questo
comporta l’amplificazione delle emozioni negative di
partenza.

Quindi, quando mancano gli atteggiamenti esistenziali


positivi, le persone si odiano e si disprezzano. Avviene nel
momento in cui riscontrano in se stesse la presenza dei
temi nevrotici, dei sintomi che sfuggono al loro controllo,
dei propri limiti e delle proprie emozioni di disagio.

Questo ovviamente realizza una grossa difficoltà a gestire i


temi di cui essi soffrono. Come affermato da Paul
Watzlavick nel suo libro “Change”, il vero problema non
risiede tanto nel problema quanto nel tentativo erroneo di
risolverlo.

Gli atteggiamenti esistenziali positivi

Gli atteggiamenti mentali costruttivi non sono connaturati


all’essere umano. O, meglio, lo sono soltanto in potenza.
Come il linguaggio.

A differenza delle altre specie, gli esseri umani hanno il


potere connaturato di acquisire il linguaggio, ma ciò si
sviluppa soltanto se il cucciolo umano viene stimolato, in
tal senso, all’interno di un contesto dove gli adulti parlano
tra loro e si relazionano verbalmente con affetto al
bambino.

Come hanno dimostrato molti studi scientifici, si apprende


a parlare se tale funzione è stata stimolata accuratamente.
Perché la parola si sviluppi è necessario un ulteriore
ingrediente. L’amore.

Se un cucciolo viene amato e gli si parla, apprenderà con


gioia e facilità a parlare.
Se invece il linguaggio è associato all’odio e al disprezzo,
tale funzione risulterà molto più difficile da sviluppare. Una
buona affettività e un buon livello di stimolazione da parte
dell’ambiente sono fattori decisivi per accrescere questa
funzione.
Allo stesso modo per poter sviluppare le funzioni mentali
che sono necessarie per il cambiamento terapeutico è
necessario aver avuto altre persone che ci hanno stimolato
a farlo.

Le funzioni mentali legate al potere di cambiare maturano


in chi ha avuto la fortuna di essere stato in relazione con
persone che avevano già ben consolidati gli atteggiamenti
esistenziali positivi ed erano quindi portatrici di modalità
culturali esistenzialmente valide.

Coloro che al contrario manifestano atteggiamenti mentali


negativi non hanno avuto questa fortuna. Anzi, di solito è
possibile riscontrare l’opposto. Il quadro più frequente è ri-
scontrare nella storia personale la presenza di genitori
assenti, violenti, disprezzanti e privi di messaggi di
valorizzazione.

Si potrebbe affermare che nella propria identità intima una


persona tratta se stessa come è stata trattata nell’infanzia
dai genitori.

Se nei suoi primi dodici anni di vita ha avuto genitori


trascuranti, da adulto sarà portato a non prendersi cura di
se stesso, e la sua coscienza tenderà ad essere poco in
contatto con le emozioni del cuore e i bisogni del corpo.

Se ha respirato un clima di violenza, sarà duro con se


stesso, controllante e rigido
Se nella relazione primaria con gli adulti era palpabile un
clima di critica e giudizio, diverrà accusatorio e
autopunitivo ecc.

Molto semplicemente potremmo affermare che un


individuo, quando è da solo, tratta se stesso come fu
trattato da bambino dagli adulti significativi. Gli
atteggiamenti interiori altro non sono che lo specchio delle
comunicazioni e dello stile relazionale prevalente che,
durante l’infanzia dell’individuo, esisteva in famiglia tra
madre e bambino, padre e bambino e tra madre e padre.
Una persona fa a se stessa, ripetendo all’infinito, quello che
gli è stato fatto nel passato durante la fase di imprinting.

Come vedremo in un prossimo capitolo, la relazione


terapeutica può cambiare le sorti scritte nelle memorie
affettive da questo primo, intenso imprinting.
Capitolo 5

LA TERAPIA ESISTENZIALE.
CAMBIARE GLI ATTEGGIAMENTI ESISTENZIALI
PER POTENZIARE LA VOLONTÀ

L
a relazione terapeutica per un individuo è sempre
un’occasione per scoprire tali schemi negativi,
metterli in discussione, aprirsi a nuovi schemi
relazionali positivi e costruttivi, sostituire i vecchi con i
nuovi.

Scoprire gli schemi negativi

Un buon terapeuta aiuta il paziente a diventare


consapevole degli atteggiamenti mentali negativi. Per
quanto possa sembrare strano, questi comunemente non
sono evidenti per la persona. Sono talmente radicati, datati
e consueti da diventare abitudini inconsapevoli. A ben
pensare sono la rappresentazione interiore del clima
familiare nel quale uno è stato allevato. Il terapeuta ha la
possibilità di far notare al paziente quanto siano distruttivi
e inutili, indicandoli con delicatezza, ad uno ad uno, nel
corso delle sedute.

Metterli in discussione

Una volta mostrati, quando la persona ne ha preso


consapevolezza, si tratta di far notare quanto tali
meccanismi siano dannosi e quindi da estirpare: un
giardiniere riserverebbe questo trattamento alle erbacce
nella cura di un giardino. Il modo migliore per metterli in
crisi è notare le conseguenze nefaste che da essi si
originano e la loro inutilità funzionale.

Aprirsi a nuovi atteggiamenti costruttivi e


positivi

Le modalità positive di relazione di un terapeuta maturo


sono per il paziente una delle più potenti chiavi di cambia-
mento, una sorta di re-imprinting, che permette di lasciar
andare atteggiamenti distruttivi e acquisire atteggiamenti
costruttivi.

Il terapeuta trasmette tali atteggiamenti sotto forma di


comunicazione e modalità relazionali. Nel far questo
mostra da fuori ciò che il paziente dovrà imparare a fare da
dentro, quando sarà solo con se stesso, nella sua vita
quotidiana.

Senza questo contagio relazionale non è di solito possibile


che il soggetto apprenda come interiorizzare gli atteggia-
menti costruttivi. Non li può inventare dal nulla. Sono il
frutto di secoli di acculturazione esistenziale umana.
Neanche il terapeuta li ha inventati dal nulla. Non sono
quasi mai farina del suo sacco. Lui stesso li ha appresi dai
propri terapeuti e maestri.

Per quel che mi riguarda, il piccolo tesoro esistenziale sul


quale so di poter contare oggi è maturato lentamente, nu-
trito all’interno della relazione che ho avuto con le “grandi
persone” che mi hanno amato.

Primo fra tutti Claudio Naranjo, che con grande pazienza


nel corso di un quarto di secolo mi ha permesso di nutrirmi
della sua presenza.
Non avrò mai abbastanza parole per ringraziare Claudio dei
doni ricevuti in tanti anni di amorosa cura.

In secondo luogo percepisco l’influenza di Paolo Quattrini,


la cui genialità è secondaria soltanto alla generosità con la
quale regala se stesso.

Un incontro di incredibile forza e ispirazione mi è stato


dato da Erving e Miriam Polster, dai quali ho appreso in
grande misura la gentilezza e dolcezza delle funzioni di
comprensione e registrazione.

La lista continuerebbe a lungo, elencando le pietre miliari


del mio cammino, ma voglio nominare chi sta all’origine di
tutto questo percorso. Mi riferisco a quattro persone: mio
padre Aldo e mia madre Edvina, innanzitutto, che pur nelle
loro difficoltà mi hanno offerto il primo esempio di amore e
costruttività.
E i miei secondi genitori Edi ed Emi.
Emi ed Edi, due persone senza figli che quando ero piccolo
si sono innamorati di me e io di loro. Speciali in quanto a
generosità e maturità esistenziale. Nella loro casa avevo
rifugio e conforto e grazie a loro ho scoperto, con
meraviglia e gratitudine, il potere della rielaborazione
costruttiva degli eventi difficili, attraverso gli atteggiamenti
esistenziali positivi.

Il lavoro solitario del diario terapeutico

Il diario terapeutico assiste con grande efficacia il faticoso


lavoro che il paziente deve compiere dello smontare
schemi avvelenanti e assorbire schemi nutrienti.

Esso sostiene inoltre il difficile passaggio


dell’interiorizzazione. Permette di prendere una vera e
propria regia della storia della propria vita.

Si tratta di fare da soli, per puro atto di intenzionalità e


volontà, quello che il terapeuta (o altre persone con
atteggiamenti di alto valore esistenziale) ha trasmesso nella
relazione mediante comunicazioni costruttive e proattive.

Il diario terapeutico, quindi, guida la coscienza del paziente


a ripetere all’infinito gli schemi di relazione interiore
positivi, finche essi non divengono delle nuove abitudini
sane.
È in questo passaggio che la scrittura, forse la più grande
invenzione dell’umanit à, r innova il suo potere
dispensandone un frammento all’individuo che la pratica.
Capitolo 6

COSA SI FA IN PRATICA.
LE ISTRUZIONI CHE IL TERAPEUTA DÀ AL
PAZIENTE

I
l terapeuta, rispetto al diario, dopo aver dato la
consegna iniziale deve seguire i seguenti passi in tutte
le sedute:

a) accertarsi che il paziente lo compili con regolarità

b) farlo leggere nei primi minuti della seduta

c) usare sette punti di controllo per valutare gli


atteggiamenti esistenziali del paziente

d) notare se il paziente usa correttamente tutti i sette


punti di controllo e dove si interrompe la sequenza

e) far notare gli atteggiamenti negativi, metterli in


crisi e off rire gli atteg giamenti costruttivi
corrispondenti
I sette punti di controllo del diario terapeutico

Esistono sette grandi zone da controllare mentre si ascolta


la lettura di un diario terapeutico.

Il diario terapeutico va fatto leggere a ogni singolo incontro.


Il paziente porta con sé il diario e, nei primi cinque minuti,
gli viene chiesto di leggere il resoconto che ha compiuto
delle sedute precedenti (come vedremo in un prossimo
capitolo, si possono far leggere da una a cinque sedute
precedenti).

Terapeuta: “Buongiorno. Prenda il suo diario terapeutico e


legga che cosa ha annotato della sua ultima seduta (o delle sue
ultime sedute)”.

Mentre il paziente legge, il terapeuta osserva quanto scritto


da sette punti di vista: sono i sette controlli del diario
terapeutico.
Ogni controllo rappresenta un modo per valutare se il
paziente usa degli atteggiamenti mentali negativi o positivi,
in sette principali aree.

I sette controlli sono progressivi, dal primo al settimo, e


bisogna intervenire in modo sequenziale: se ad esempio si
evidenziano atteggiamenti negativi sia nel secondo
controllo che in quelli successivi, bisogna intervenire
soltanto sulla modificazione degli atteggiamenti del
secondo controllo, trascurando in quella seduta gli altri.
Questo accorgimento rispetta due principi fondamentali
della terapia, o dell’arte del cambiamento, utili a non
sovraccaricare di informazioni la coscienza della persona:

1) agire sempre su di una cosa alla volta.

2) avanzare dal livello più semplice al livello più


complesso.

I sette punti di controllo sono sette diversi ruoli che il


paziente deve saper assumere per utilizzare la propria
volontà in modo costruttivo.

Come preannunciato, esiste una sequenza ordinata di


utilizzo di questi ruoli, che non può essere invertita in
nessun elemento, pena una caduta di efficacia del potere
dell’intenzionalità cosciente.
Primo ruolo: Analista

In questo livello, la persona è come un esperto conoscitore


che sa denominare e comprendere le connessioni tra i vari
pezzi di informazione.
Una buona analisi consiste nell’assegnare con lucidità un
nome ai problemi che si presentano nella vita.

Non basta dare un nome generico. Bisogna comprendere


un problema alla luce dei bisogni personali che rimangono
insoddisfatti.

Un’altra caratteristica della buona analisi è la prima perso-


na. Questo significa leggere i problemi come bisogni ai quali
l’individuo deve trovare una propria risposta, assumendo
su di sé la responsabilità del reperimento di soluzioni.

Una cattiva analisi, invece, si sofferma troppo sulle cause,


diventando psicologismo o filosofia. Ci sono persone che
fanno delle lunghissime dissertazioni sulle cause, volando
come falene impazzite tra logiche familiari, psicologiche,
sociali e politiche. Ma poi, non appena hanno finito di
discutere dei massimi sistemi, non accennano a elaborare
nessuna forma di soluzione, progetto o iniziativa che li
riguardi. Come se la comprensione fosse già risolutiva in sé.

Un’altra forma di cattiva analisi è quella che si focalizza


sulle colpe, proprie o degli altri. Ci sono persone che
analizzano, con dettaglio, ogni torto subito, per poter
puntare un dito sugli altri e chiedere continui risarcimenti.
Sono spesso iper-analitici e ossessivamente attenti alla
misura di ciò che hanno dato e ciò che hanno ricevuto.

La buona analisi non insiste sulle cause, ma sui bisogni in-


soddisfatti presenti nel problema trattato. Non si occupa di
trovare le responsabilità degli altri ma le chiavi di
risoluzione che, al contrario, possono essere utilizzate
autonomamente.
Secondo ruolo: Architetto

In questo livello la persona progetta un piano che prevede


la realizzazione concreta e tangibile della soluzione. Un
architetto non costruisce materialmente la casa, ma scrive,
disegnando un progetto. Il progetto è una forma ordinata
che garantisce alla futura costruzione di esercitare delle
azioni che siano funzionali. Ad esempio una casa garantisce
degli spazi che hanno delle funzioni diverse: il soggiorno, la
cucina, le stanze da letto, il bagno, la cantina, il guardaroba
sono luoghi che servono a soddisfare bisogni diversi. Non
mettiamo il water in un stanza da letto, quantomeno in
cucina, proprio per separare il sonno e la ristorazione dalle
funzioni di igiene.

Non è scontato utilizzare la propria mente per progettare le


forme di arrivo. Le persone che si fermano al livello
dell’analista possono denominare con esattezza tutti i loro
problemi, le cause di essi e le emozioni di sofferenza che da
essi scaturiscono. Ma non sognano le forme di arrivo, non
progettano le stanze della nuova casa.

Una delle più grandi menti contemporanee che


rappresenta il potere del ruolo dell’architetto è stato Ingvar
Kamprad, il fondatore di IKEA.
Quale segreto gli ha permesso di diventare uno degli
uomini più ricchi del mondo? Ha abbattuto i costi dei
mobili di ogni casa facendo compiere il trasporto e il
montaggio ai clienti. Come ha potuto compiere questo
ardito passaggio e avere successo?
Mediante progetti cosi ben dettagliati da essere alla porta-
ta di tutti.
Chiunque è in grado di montare un mobile dell’IKEA per-
ché l’architetto ha costruito disegni molto chiari che
indicano con esattezza e precisione la sequenza degli atti
che gli operai dovranno eseguire. Un capolavoro
progettuale.

Il progetto deve essere fatto nella mente, prima dell’azione,


se non si vuole che gli operai disperdano, inutilmente,
energia, nel fare e disfare la costruzione, procedendo per
costosissimi tentativi.

Qualsiasi trasformazione, per essere di successo, va


studiata al tavolo progettuale mediante il potere
dell’immaginazione creativa.
Se una mente immagina la scena finale, visualizzando lo
stato che avrà quella situazione non appena il problema
sarà pienamente risolto, una buona parte del lavoro è già
compiuta.

Se poi, analogamente a un progetto di montaggio di un


qualsiasi mobile IKEA, la mente immagina le singole azioni
da compiere, per giungere a quella scena finale, il gioco è
fatto. Il progetto è pronto per essere consegnato al
prossimo ruolo della volontà: l’operaio.
Terzo ruolo: Operaio

L’architetto ha disegnato il progetto della casa di cui si ha


bisogno. Gli operai a questo punto, e solo a questo punto,
entrano in azione. Compiono delle azioni concrete,
finalizzate a mettere in terra quanto finora si trovava nelle
regioni astratte della mente. Costruiscono, utilizzando la
materia, ciò che l’architetto ha immaginato, utilizzando le
idee e i principi. Gli operai devono seguire, con attenzione,
il progett,o, in ogni sua fase e devono verificare se il frutto
del loro lavoro soddisfa quanto immaginato e disegnato
dall’architetto.

Non viene chiesto al singolo operaio di conoscere il piano


globale della casa: un idraulico potrebbe non sapere nulla
dei circuiti elettrici di cui si occuperà un altro operaio
specializzato.

Viene chiesto di rispettare con precisione l’ordine della


sequenza progettuale.

Fuor di metafora, in questa fase si tratta di agire. Non a


casaccio e non in soluzione unica, come coloro che giocano
a “o la va o la spacca”, mediante comportamenti azzardati
con cui sperano di ottenere risultati immediati in modo
impaziente e immaturo.

Si tratta di un lavoro di costruzione, paziente e certosino.


Quarto ruolo: Cuoco

Questo personaggio è fondamentale per l’autostima.


Bisogna nutrire l’autostima, cioè il valore. Per questo è
necessario dare da mangiare all’analista, all’architetto, agli
operai e a tutte le figure della volontà. Si tratta di dare
valore ai risultati degli sforzi, a tutti gli sforzi. E non dare da
mangiare alimenti tossici.

Una casa, per essere terminata, spesso richiede un anno di


lavoro, compiuto da una squadra di operai coordinata da
un architetto. Quando si dà loro da mangiare?

Ogni giorno, pranzo e cena.

Non soltanto quando la casa è finita. Altrimenti dopo pochi


giorni il lavoro si fermerebbe per l’eccessivo indebolimento
delle persone che lo svolgono.

Fuor di metafora, il cuoco è la figura centrale per la


costruzione dell’autostima e rappresenta la funzione
esistenziale di registrazione dei successi e delle esperienze
positive.

Offre alla mente e al cuore il nutrimento del valore che si


sprigiona dal lavoro compiuto dall’analista, dall’architetto,
dagli operai e da tutti gli altri ruoli interiori.

Anche il cuoco ha bisogno di mangiare e nutrire se stesso.


Quinto ruolo: Maestro delle Siepi

Perché il bagno è separato dalla cucina e dalla stanza da


letto da un muro? Perché il water non è messo nella stessa
stanza dove si mangia? Dobbiamo separare gli ambienti,
per garantire delle funzionalità diverse, e far sì che queste
ultime non interferiscano una con l’altra.

Molto spesso, quando si fa un complimento a qualcuno, la


risposta che si riceve in cambio è: “Si, ti ringrazio, però...”
seguita dalla elencazione di uno o più difetti, errori e
paragoni con situazioni ideali non ancora raggiunte. La
mente umana non comprende quanto i fenomeni mentali
negativi possano contaminare in un attimo quelli positivi.
Nel nostro cervello il “negativo” cioè quelle esperienza di
insuccesso, ferita, delusione, ecc. hanno un potere circa 10
volte maggiore delle esperienze positive.

Basti pensare a quanto una esperienza di tradimento,


umiliazione o ingiustizia possano cancellare in un attimo
tante azioni positive compiute nei nostri confronti da
un’altra persona. Chi non ha sviluppato il ruolo del
Maestro delle Siepi è condannato a registrare nel tempo
una maggioranza di memorie negative che tenderanno a
portare la persona in uno stato di paura, depressione,
cinismo e sfiducia. Non a casa in Italia su 60 milioni di
persone si annoverano 11 milioni di persone che assumono
antidepressivi.

Il cuoco ha preparato una pietanza per dare da mangiare


all’operaio, che ha fatto il lavoro, ma, immediatamente, un
“giudice” mette, nello stesso piatto, un topo morto.

Non si può nutrire l’autostima se non si sa utilizzare la


funzione della “separazione” che in questo manualetto ho
indicato metaforicamente con il ruolo del Maestro delle
Siepi.

Il Mastro delle Siepi, nella costruzione dell’autostima


operata dal cuoco, ha il compito di tenere separate le due
situazioni. Il cuoco deve servire il cibo sano e fresco
derivato dal frutto del lavoro degli altri ruoli. Un piatto di
spaghetti per gli operai, un piatto di minestra per l’analista
e una bistecca per l’architetto.

Il “topo morto”, cioè le cose che sono andate male, gli


errori, gli insuccessi, i fallimenti, le delusioni, vanno invece
date al ruolo successivo, il Maestro dell’Errore.
Per far questo il Maestro delle Siepi deve prendere il “topo”
e metterlo con determinazione in un altro recipiente, in
modo che esso possa essere gestito in una sede diversa da
quella nella quale ci si nutre.
Sesto ruolo: Maestro dell’Errore

Questo ruolo è uno tra i meno diffusi nella socio-cultura


imperante. Il sistema nel quale cresciamo è incredibilmente
giudicante e punitivo nei confronti degli errori e degli
aspetti difettosi del carattere umano.

Da una mia personale ricerca, compiuta su circa 35.000


persone trattate in terapia individuale o di gruppo, posso
affermare che solo un misero 5% delle persone è di fatto in
grado di utilizzare la funzione esistenziale di rielaborazione
degli errori. La maggior parte della gente non regge la
cosiddetta “ferita narcisistica” che si accompagna al
fallimento dei progetti o alla colpa di aver maltrattato in
qualche modo un’altro individuo. Nella mente delle
persone il meccanismo di difesa della proiezione e della
giustificazione sono di fatto ipertrofici e inconsapevoli.

Anche il sistema scolastico tradizionale manca quasi


totalmente della zona emozionale della gestione degli
errori.
Il Maestro dell’Errore è un campione di compassione e
verità.

Guarda in faccia le cose per quello che sono perché sa che,


soltanto osservando accuratamente gli errori, diventa
possibile estrapolare, con precisione, la direzione dello
sviluppo. Come fa un maestro di sci a capire quale esercizio
dare al suo allievo?
Guarda gli errori, da essi deriva il livello in cui l’allievo si
trova e da ciò elabora il correttivo giusto, mirato e calibrato.
Non darebbe da fare, a un principiante, gli stessi esercizi
che riserva a un campione. Perché i due si trovano su due
diversi livelli di maturazione, rispetto allo sci.

Come fa il maestro a vederlo?


Fa sciare l’allievo per trenta metri sulla pista e lo osserva
con attenzione. Studia con attenzione gli errori.
Progetta poi gli esercizi e le azioni che sono in grado di
correggerli.

In questo controllo, il terapeuta deve osservare se il


paziente è attento a cogliere i propri errori e assumerli. O
se, per difendersi dalle emozioni negative, li proietta
addosso agli altri, addossando ad altre persone o a fattori
esterni la colpa dei propri insuccessi.

Per gestire gli errori è quindi necessario avere un grande


livello di accettazione amorevole e smettere di punirsi
quando si fallisce o si feriscono le persone.
Bisogna poi esporsi alla verità e scoprire la natura
dell’errore. Vederne le conseguenze.

Il Maestro dell’Errore non lavora da solo: si avvale di altri


ruoli presenti nella coscienza. Ricorre all’Analista. Poi, una
volta compresa la natura dell’errore, chiede all’Architetto di
progettare un piano per la costruzione delle azioni corrette.
Ricorre poi agli Operai, che mettano in azione il nuovo
progetto.
Il Maestro dell’Errore deve essere dotato di una virtù:
l’umiltà. Per vedere gli errori, capirne la natura e
progettare le dovute correzioni, raramente si procede da
soli. Chi ha sviluppato questo ruolo è sempre il grado di
chiedere, ad altre persone, pareri e consulenze e non teme
le critiche.

Gli individui, che invece sono intrappolati negli


atteggiamenti esistenziali negativi, non sopportano le
critiche altrui, non chiedono pareri e preferiscono cullarsi
nel sogno nevrotico che li rappresenta già perfetti, giusti,
amorevoli e saggi.
Settimo ruolo: Fratello

Questo è il ruolo finale. Il Fratello aiuta le altre persone a


costruire lo stesso potere che egli stesso ha ottenuto, grazie
ai sei punti di controllo precedenti.
Non si tratta soltanto di condividere i frutti del proprio la-
voro, ma aiutare gli altri a diventare capace di arrivare agli
stessi risultati.

In altre parole, il terapeuta, in questo livello, controlla il li-


vello di generosità della persona.
Cosa c’entra questo con la volontà individuale?
Molto più di quanto, a prima vista, sembri.

Tutti i grandi leader, scienziati, artisti, manager, insegnanti


ecc. hanno uno spiccato senso sistemico. Non utilizzano la
propria volontà soltanto per se stessi, ma votano la propria
forza a qualcosa di superiore e più grande. Includendo, nel
proprio lavoro, altre persone, che aiutano a diventare forti.

Molte volte si nota che i pazienti, a causa della sofferenza e


della cattiva educazione, si sono chiusi in sé stessi,
aderendo, pian piano, a una visione egocentrica e a volte
cinica della vita. Non si tratta, in questo livello, di rendere i
pazienti altruisti per farli aderire e adattare a valori
ideologici di nessun genere, quanto di sostenere, in loro, gli
atteggiamenti sistemici che sono indispensabili per la piena
maturazione della loro volontà e per l’armonia della loro
identità.
Se una persona, infatti, è troppo egoista, nel tempo non
manca di produrre, in chi lo circonda, una reazione
difensiva. Questa reazione finisce poi per riverberare con
grande negatività sull’individuo, provocando l’arrestarsi
delle potenzialità di sviluppo della sua volontà.

Privato della possibilità di aprire sempre più profonde ed


intense occasioni di scambio, egli si trova senza la materia
prima, necessaria per edificare una volontà sempre più
articolata ed efficiente.

La generosità è la virtù esistenziale che induce negli altri la


fiducia, la predisposizione ad aprirsi e donare a loro volta i
propri tesori esistenziali. Che potranno poi essere
interiorizzati dall’individuo con i primi sei ruoli.
Capitolo 7

IL PRIMATO DELLA VOLONTÀ

P
iù che un processo miracolistico, dove si arriva ad
uno sblocco, o alla guarigione di ferite del passato,
spesso il processo terapeutico ha le fattezze di una
costruzione.
Come in ogni altro processo di apprendimento la persona
deve costruire in sé delle abilità, delle competenze nuove.

E da dove si comincia?

Dalla volontà.

Comunemente le persone non hanno sviluppato la propria


volontà a sufficienza. La conseguenza di ciò è la perdita di
controllo sulla propria mente, sulle proprie emozioni ed
impulsi. Non si tratta di un controllo simile a quello di un
gerarca nazista. Ma di una forma di contenimento affettivo
che ricordano piuttosto quella di un buon padre o di una
buona madre sui propri figli.
Quando, nel buddismo, si parla di sviluppare ed accrescere
l’amore per se stessi, si parla proprio di questo. Le persone
non sanno dominare la propria mente e le proprie
emozioni perché non hanno sviluppato sufficiente amor
proprio e forza interiori.

Non sanno essere gentili, accettanti e comprensive nei con-


fronti di se stesse cosi come non sanno gestire, controllare
e canalizzare le proprie pulsioni.

Avere una forte volontà significa saper dominare


amorevolmente alcuni fondamentali processi interiori, che
altro non sono che le funzioni che ho rappresentato,
metaforicamente, nel capitolo precedente sui sette ruoli.

Vediamoli:

a) creare degli obiettivi


b) immaginare creativamente
c) agire con costanza senza perdere la direzione
d) nutrirsi delle esperienze positive
e) separare i contenuti mentali
f ) rielaborare gli errori
g) condividere con generosità con altre persone

Come se non bastasse, queste semplici funzioni, non


soltanto sono poco sviluppate, ma la persona è ignara di
tale mancanza o debolezza.
Come mai una persona non si rende conto del fatto che il
suo Io, la sua Volontà è debole e di fatto necessiterebbe di
essere sviluppata?
Questo accade perché i meccanismi di difesa sono spesso
all’opera; notare lo stato di povertà esistenziale sarebbe
troppo doloroso e minaccerebbe la stabilità psichica.

In questo modo l’individuo è esistenzialmente debole ma


non sa di esserlo.

Nella relazione terapeutica la debolezza della volontà


spesso rappresenta il vero ostacolo o per lo meno il primo
impedimento allo sviluppo della guarigione, del
cambiamento e della crescita personali.
Capitolo 8

IL DIARIO TERAPEUTICO COME ANTIDOTO AI


MECCANISMI DI DIFESA

I
meccanismi di difesa, cosi come sono stati descritti da
Anna Freud e da generazioni di psicanalisti e psicologi,
si fondando sul meccanismo dell’oblio selettivo.

Lo scopo di un meccanismo di difesa è far scomparire dalla


coscienza un contenuto che potrebbe disturbare la lucidità.
Piuttosto che mettere in sovraccarico la coscienza, che
deve gestire le complesse sfide della vita, la mente è
strutturata per nascondere tutto ciò che la potrebbe
distogliere dal delicato compito di gestire le difficoltà del
quotidiano. Questo meccanismo non è perfetto, ma di fatto
funziona in ogni persona.

Ho sempre creduto che la famosa affermazione di Cristo,


riguardante la trave negli occhi, volesse indicare quanto i
meccanismi di difesa, in ogni essere umano, siano la fonte
della cecità psicologica che impedisce di scorgere con
chiarezza la verità delle cose:
“Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo
fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio
tuo? O, come potrai tu dire a tuo fratello: “Lascia che io
ti tolga dall’occhio la pagliuzza”, mentre la trave è
nell’occhio tuo? Ipocrita, togli prima dal tuo occhio la
trave, e allora ci vedrai bene per trarre la pagliuzza
dall’occhio di tuo fratello”.

(Matteo 7:3-5)

Quando Franco Battiato, nella sua canzone “Centro di


gravità permanente” parafrasando George Ivanovic
Gurdijeff asserisce:

Cerco un Centro di Gravità Permanente che non mi


faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente...

Avrei bisogno di...

Non ho dubbio si riferisca allo stesso fenomeno: la realtà


non è la stessa, se vista con occhi puri, o filtrati dal
meccanismo di difesa. Quando un meccanismo di difesa si
attiva, ecco che gli occhi percepiscono più le forme da esso
generate che non i fatti reali, e ciò realizza una distorsione
del significato che essi assumono per l’individuo.

Nel mio caso, essendo io un carattere “seduttivo-


ottimista”, sono stato per anni vittima di un autoinganno,
che mi vedeva molto più capace di quanto fossi in realtà.
Credevo di avere controllo e consapevolezza.
Mi ci sono voluti degli anni, per capire che i sogni che io
perseguivo, convinto di farcela, erano di fatto irrealizzabili.
Promettevo a me stesso molto più di quanto non potessi
mantenere.

Era cattiva fede?


Era un modo per manipolare le persone?
No, di fatto questo meccanismo mi causava terribili sensi di
colpa, in quanto credevo, ogni volta, veramente di
farcela a mantenere le promesse.

Ma di fatto poi fallivo e instancabilmente, come se nulla


fosse, ripetevo lo schema: un altro sogno altisonante, le
promesse, l’entusiasmo, lo slancio iniziale, la caduta di
motivazione, l’affacciarsi di un altro sogno, la nuova
intenzione, le nuove promesse, il nuovo entusiasmo. E cosi
via.

Ovviamente non tutta la mia vita si è svolta all’interno di


questo schema, altrimenti non mi sarei laureato, non avrei
potuto mantenere economicamente la mia famiglia e sari
fallito come professionista, ma posso testimoniare di essere
caduto in questo abbaglio percettivo migliaia di volte,
pagando prezzi salati di continuo.

Mi resi conto di questo meccanismo lentamente, mano a


mano che, grazie alla mia psicoterapia personale, compiuta
prevalentemente all’interno del programma Sat, sotto la
sapiente guida di Claudio Naranjo, appresi a osservare le
difese psichiche che mi ingannavano e le loro conseguenze
nefaste. È stato attraverso la meditazione Vipassana che ho
lentamente appreso ad osservare quanto i meccanismi di
difesa prendessero il sopravvento su di me. Portandomi a
rimangiare gli scopi che mi prefiggevo, dimenticandomi di
perseguirli per dedicarmi ad attività abitudinarie, di
conforto o lasciandomi catturare da piaceri compensatori.

Mano a mano che la mia volontà e la mia coscienza,


rafforzate dalla terapia, dalla meditazione e dalla
maturazione legata all’età, si potenziavano e risvegliavano,
sempre più mi resi conto di quanto questo meccanismo
fosse universale. Affliggeva la quasi totalità dei miei
pazienti, che il più delle volte ne erano completamente
inconsapevoli, proprio come era stato per me.

Scoprendo questo meccanismo, attivo in me e negli altri,


mi chiesi come trovare un rimedio.

Av e n d o s c o p e r t o c h e l a m i a m e n t e n o n e r a
sufficientemente degna di fiducia, in quanto poteva essere
facilmente manipolata percettivamente dai meccanismi di
difesa, pensai al vecchio detto latino:

Verba volant, scripta manent

iniziai così, un giorno, a scrivere su di un foglio di carta i


miei obiettivi. Piegai un foglio A4 fino a ricavarne un
opuscoletto di 8 pagine, lo rilegai e scoprii che era possibile
tenerlo sempre nella tasca posteriore dei pantaloni, in
quanto esso presentava le dimensioni di un portafoglio.
Da quel giorno, per lunghi anni, appresi a tenere una lista
di obiettivi scritti su questo diarietto.

Quando mi si profilava un obiettivo, invece di mandarlo a


mente, lo annotavo lì.

A questa prima abitudine ne aggiunsi un’altra: al mattino


ripassavo gli obiettivi scritti per concentrare la mia
intenzionalità sullo scopo di raggiungerli per poi,
sadicamente, cancellarli, tagliandoli con un segno netto
della penna, le volte che li avevo “chiusi” la giornata
precedente. Devo ammettere che l’atto del cancellare
l’obiettivo, una volta raggiunto, dal diario, è deliziosamente
gratificante.

Queste due abitudini, se perseguite con costanza, portano


un individuo a rendersi conto delle sue reali capacità di
gestione del tempo, delle energie e risorse.
Se si ha coraggio di verificare con attenzione quanto si pro-
gramma e quanto si realizza, nel tempo, si può pervenire a
una percezione lucida di cosa è veramente in nostro potere
e cosa non lo è.

Scripta manent significa che le cose scritte non vengono


cancellate, in quanto i meccanismi di difesa, che possono
modificare le percezioni mentali, non sono dotati del
potere magico di cancellare l’inchiostro dalla carta.

Operando in questo modo, in un momento successivo, mi


resi conto che il problema che avevo studiato non era il
primo. Ne esisteva uno ancora più profondo e nascosto: mi
auto-ingannavo nella fase di progettazione: nel mio caso
valevano i proverbi popolari:

• avere occhi più grandi dello stomaco

• fare il passo più lungo della gamba

che appunto indicano la tendenza a immaginare di avere


più possibilità di quante non se ne abbiano in realtà. Mi resi
poi conto di un altro fenomeno ancora più profondo: tutti
questi slanci verso nuovi progetti e obiettivi altro non erano
che uno scappare dalle mie emozioni di dolore rimosse.

Nel tempo, appresi a farmi un’idea più realistica delle mie


possibilità e questo mi permise di migliorare la mia fase di
progettazione: conoscendo il meccanismo illusorio che mi
aveva dominato, sapevo che dovevo architettare obiettivi
più a portata di quelli che la mia mente immaginava
possibili. Per poter garantire l’efficacia e mettermi al riparo
dalle emozioni negative che normalmente si attivavano
quando devo poi fare i conti con la realtà.
Capitolo 9

L A M E TA D I AG N O S I E I L P R O G E T T O
TERAPEUTICO : IL META TEMA

C
ome abbiamo visto nei capitoli precedenti, il diario
terapeutico serve sia a studiare l’interazione tra
coscienza e organismo che a sostenere lo sviluppo
degli atteggiamenti esistenziali di valore.

Ma non è tutto.
Nel tempo ho appreso un ulteriore modo per utilizzarlo.

Il paziente annota i temi che emergono in ogni seduta,


grazie all’interazione con il terapeuta.
Da come li annoterà, e da come si appresterà a gestirli,
diverrà possibile radiografare e diagnosticare gli atteggia-
menti esistenziali utilizzati, validi o meno, nei sette punti di
controllo descritti nei capitoli precedenti.

In questo modo si studia l’interazione che una persona ha


con se stessa, e si può generare un progetto di sviluppo dei
sette ruoli, di cui si avvale una volontà forte e sana.
Si studia quella che abbiamo chiamato metaforicamente la
“bottiglia”: si vede se ha buchi e fratture e si progettano i
“pezzi di vetro” da incollare per stabilizzarla e aumentare il
suo potere contenitivo.

E il “latte”?
Cioè i temi nevrotici, le emozioni, le ferite, le pulsioni, i
filtri, la storia del paziente insomma?

Esiste un ulteriore livello di studio.


Riguardante stavolta il contenuto e non il contenitore.
Si tratta di un meta–tema.
Cioè un tema che si trova tra i temi che usualmente escono
e che non sarà mai espresso in una singola seduta.
Un tema che anche un terapeuta di grande maturità fa
difficoltà a vedere mentre sta svolgendo il suo lavoro.

Il diario terapeutico, ancora una volta, può offrire


un’angolatura percettiva di straordinaria efficacia. La
documentazione dei temi emersi può essere utilizzata per
giungere a un livello di profondità diagnostica altrimenti
quasi impossibile.

Il problema nella diagnosi dei temi

Il campo percettivo di una seduta riguarda alcuni temi che


emergono e vengono messi a fuoco dalla collaborazione tra
due menti: quella del paziente e quella del terapeuta.
Il terapeuta ha il vantaggio di avere delle conoscenze
professionali che permettono di vedere le situazioni di vita
del paziente dall’angolazione di un e sper to di
problematiche umane.

La mente del paziente ha invece lo svantaggio dell’essere


irretita dai meccanismi di difesa: le emozioni di disagio
tipiche dello stress li attivano e ciò intacca notevolmente la
lucidità.

La focalizzazione dei temi avviene molto grazie allo


sguardo lucido, esperto e meno coinvolto del terapeuta.

Nonostante questo sostegno al reperimento dei temi


centrali, molte volte il processo terapeutico si arresta e la
coppia terapeuta - paziente si attesta su di un livello di
stabilizzazione. In questi casi il fenomeno più frequente è il
seguente: il paziente arriva in terapia e inizia a raccontare
gli eventi salienti che gli sono successi durante la settimana.

Ho chiamato questo comune frangente: subire la settima-


na del paziente.

Il lavoro terapeutico non si arresta del tutto: si elaborano


piccole cose, si analizzano situazioni problematiche
marginali, si parla di soluzioni e scaramucce relazionali.
Molto spesso i temi trattati tendono a ripetersi e il processo
si arena, dando origine a una sotterranea percezione di
impotenza e inutilità delle elaborazioni terapeutiche.

Tra terapeuta e paziente non viene però intaccata di solito


la qualità amorosa della relazione: il paziente percepisce di
essere accettato, accolto, compreso. Gode dell’alleanza e
del fatto che in quel luogo sicuro può aprirsi in tutta
sicurezza, esprimere le proprie emozioni e ricevere
sostegno incondizionato.

Si verifica però un fenomeno di adattamento che fa sparire


la percezione di freschezza, nell’accezione del termine che
fu conferita da Erving Polster: il vitale e vibrante slancio
che caratterizza le esperienze vissute pienamente.

Non è raro notare che la freschezza è abbastanza comune


nelle prime sedute, quando il processo è energetico e lo
sguardo del terapeuta è lucido e attento. Per poi svanire
lentamente con il prosieguo della terapia.

Come mai allora con il tempo, invece di approfondire la


relazione e il rapporto, si rischia, paziente e terapeuta, di
riparare e accucciarsi nel comodo rifugio della relazione di
alleanza terapeutica?

Ci sono più fattori in gioco che concorrono a generare


questo fenomeno:

• il primo è rappresentato dai meccanismi di difesa


del paziente. Essi provoc ano un continuo
spostamento dell’attenzione verso temi marginali
e generano l’oblio di quelli rilevanti.

• Il secondo è che il paziente ha scoperto i limiti del


terapeuta e lo sta manipolando perché diventi
“buono”, cioè non solleciti, più di tanto, i temi che
generano sofferenza.

• Il terzo è che il terapeuta ha anch’egli dei


meccanismi di difesa e, tenere il paziente “sotto
torchio”, sollecita le sue emozioni di disagio,
attivandoli.

Come tra il potere politico e quello economico a volte si


genera collusione, cioè delle alleanze sotterrane invisibili al
popolo, anche tra l’inconscio del terapeuta e quello del
paziente può verificarsi un’alleanza nevrotica, invisibile alla
coscienza del terapeuta. In questa situazione di collusione
nevrotica potremmo metaforicamente immaginare i
meccanismi di difesa di uno colloquiare con quelli
dell’altro:

“Senti un po’, mettiamoci d’accordo... io ti prometto di essere


carino, darti tanta stima e affetto... tu però non mettermi in
contatto con la verità delle mie mancanze e difetti perso-
nali... accettami per quello che sono... non sono perfetto... ti
prego... sii buono e schierati dalla mia parte...”

Se i meccanismi di difesa del terapeuta sono più forti della


sua consapevolezza, allora la sua coscienza, nel non
rendersi conto di questa alleanza collusiva, porta
l’elaborazione terapeutica del paziente allo stallo e si
verifica il tanto conosciuto e temuto fenomeno
dell’impasse.
Di fatto, il paziente non è affatto contento di riuscire a
circuire il terapeuta, e, se la sua manipolazione inconscia
riesce, ciò comporta una graduale perdita di stima nei suoi
confronti. Il paziente alla fine non perdona il terapeuta che
non ha avuto la forza e il coraggio di portarlo a lavorare su
quei temi che, pur dolorosi, sono attivi al di sotto dei suoi
meccanismi di difesa.

E invece ama e si affeziona a quel terapeuta che, pur


spietatamente, ha la forza di spingerlo sempre alle sue
Colonne d’Ercole, per costringerlo a prendersi carico di
quei dolori e problemi profondi che aspettano di essere
risolti per generare vera maturazione e realizzazione.

Nel tempo il terapeuta, che accetta il patto collusivo


inconscio, è destinato a perdere autorevolezza e diventare
una sorta di amichevole confidente.

Come evitare questa trappola?

Negli anni ho trovato una strategia molto efficace in questo


senso, che utilizzo con grande successo.

Il diario terapeutico riporta con esattezza tutti i temi usci-


ti nelle varie sedute.
Un giorno chiesi a un paziente di leggere non quanto
compiuto nell’ultima seduta ma nelle ultime cinque
sedute.

Ascoltai con attenzione i temi, e mi resi conto che il


meccanismo dell’oblio mi aveva fatto dimenticare una
buona parte di essi.
La lettura del resoconto delle sedute è però in grado di
ripristinare, spesso con esattezza e dettagli, la memoria di
buona parte del materiale emerso.

Accadde, però, una cosa ancora più importante: ebbi, ad


un certo punto, la percezione che ci fosse un collegamento
tra i temi emersi.
Un filo rosso li univa in un disegno più ampio.

Un meta–tema!

Un tema invisibile che faceva da cornice a tutti gli altri.

Spesso il meta–tema non viene dichiarato dal paziente e


non viene scorto dal terapeuta. Per poterlo focalizzare è
necessario comporre, come in un puzzle, diversi elementi,
per lasciare che si formi un disegno più grande.

Nessuna tessera del mosaico ha in sé la forma compiuta del


disegno che concorre a comporre. Ogni singola tessera
mostra delle forme riconoscibili, ma, di fatto, non indica
che un mero frammento dell’insieme a cui appartiene.

Ho appreso così a mettere molta attenzione a questa


pratica. Di tanto in tanto chiedo alla persona:
“Prenda il suo diario terapeutico e legga le ultime cinque
sedute”

Poi, senza intervenire, ascolto in silenzio ogni dettaglio


mentre recluto quanti più ricordi dell’esperienza delle
sedute compiute. Metaforicamente, colloco questi temi uno
vicino all’altro, come se fossero in un campo di calcio e io
salissi su di un elicottero, per poterli osservare dall’alto,
tutti assieme.

Quando i temi sono tutti posizionati a terra, e io li sto


guardando in modo panoramico, mi pongo la seguente
domanda:

“Che cosa collega tra di loro tutti questi temi?”

Permetto alla mia mente quindi di provare diverse ipotesi


di collegamento e connessione.

La buona notizia, e esorto il lettore a compiere questo


esercizio almeno una volta, è che non mi è mai successo di
rimanere senza risposte. Il collegamento, ad un certo
punto, si manifesta, e si scorge il meta–tema.

Sono questi momenti di grande lucidità e presenza. Si ha


l’impressione di riprendere in mano le redini del processo.
Come terapeuta, ho sempre sentito, in questi casi, di
riconquistare il controllo della situazione, sfuggendo
all’oblio causato dall’effetto neuro-chimico di irretimento
prodotto dai meccanismi di difesa.

Comunicare il meta–tema al paziente ottiene spesso un


effetto sorpresa. Da un lato sollecita a quest’ultimo il
contatto con delle verità dolorose, ma l’angoscia che ne
deriva viene rapidamente compensata dalla percezione di
direzione e rilevanza esistenziale, recuperata da questo tipo
di lavoro terapeutico. Un’altra fonte di rassicurazione e
piacere viene generata dal processo di ridefinizione
dell’autorevolezza del terapeuta. Egli ribadisce il suo
coraggio ad essere un buon Virgilio che non teme l’inferno
del paziente e lo guida con determinazione in quei luoghi
che, pur essendo meta obbligata, egli eviterebbe di buon
grado.

Oggi, grazie al conforto dato da questa strategia, so che


posso sempre riprendere in mano la dinamica terapeutica,
anche quando, inconsapevolmente, cado nel confortante
limbo della collusione inconscia generato dai meccanismi
di difesa miei e suoi.

Proprio grazie al diario terapeutico.

Ho notato che, al contrario di quanto mi accade con i temi


che emergono di seduta in seduta, che faccio difficoltà a
ricordare, la mia mente presenta una particolare capacità
di memorizzare il meta–tema, che raramente dimentico.

A volte un pescatore non riesce a ricordare con esattezza


cosa gli aveva consegnato il mare nei vari giorni, ma nella
sua mente rimane impresso a fuoco il momento in cui, al
suo amo, ha abboccò uno squalo o un tonno.
Capitolo 10

IL META–TEMA E IL PROGETTO TERAPEUTICO

S
e lo studio dei ruoli della volontà rappresenta un
enorme avanzamento verso la gestione efficace delle
sedute, la ricognizione del meta–tema rappresenta
un secondo grande passo in avanti nel processo
terapeutico, relativo alla consapevolezza delle cause
centrali della sofferenza del paziente.

Esiste inoltre un altro importante livello da considerare: la


costruzione di un progetto terapeutico di grande qualità.

Il progetto terapeutico è la costruzione sia di un obiettivo di


arrivo che risolva il tema di partenza, sia del cammino
concreto necessario a raggiungerlo.

Mettere in cantiere un progetto terapeutico in grado di


modific are il met a–tema, signific a garantire un
cambiamento di entità tale da generare una trasformazione
radicale della vita della persona.
Come abbiamo visto, nella prima parte di questo lavoro,
ogni singolo tema può essere elaborato dal ruolo
dell’architetto e lavorato da quello dell’operaio.

Il progetto di trasformazione del meta–tema permette un


enorme risparmio di energia, in quanto i risultati ottenuti
non mancano di riversare grandi dosi di energia e
consapevolezza nel seguente lavoro di risoluzione di tutti
gli altri temi emersi.

In un albero ci sono foglie, rametti, rami principali e


tronco. Occuparsi dei dettagli, cioè delle foglie o dei
rametti, non ha la stessa efficacia del lavoro compiuto alla
radice. Tanto più ci si avvicina alla base dell’albero, tanto
più l’effetto benefico si diffonde in ogni direzione.

Il progetto terapeutico, compiuto alla luce del meta–tema,


riguarda spesso le fondamenta dell’identità della persona;
una trasformazione in questo livello non manca di
apportare soddisfazione profonda, energia, stabilità e
spesso stimola la rinascita di slanci vitali prima bloccati.
Capitolo 11

PRENDERE LA REGIA DEL PROPRIO ROMANZO


DI VITA

A
bbiamo visto che il diario terapeutico serve ad
annotare i temi nevrotici, scoprire gli
atteggiamenti esistenziali positivi e negativi e a
sviluppare la volontà.

Quando una persona allena veramente i sette ruoli della


volontà e perviene a una massa critica di atteggiamenti
esistenziali positivi, la sua “bottiglia” si potenzia, si allarga e
diviene capace di ospitare sempre più “latte”.

Come per magia, le emozioni negative si calmano, la mente


resta sempre più lucida, la memoria si potenzia e la
persona aumenta le proprie capacità di apprendere.

Il potere di incidere sui problemi aumenta


progressivamente e con esso l’autostima.
I t e m i n e v ro t i c i t r a s f o r m a t i d ive n go n o r i s o r s e
preziosissime, amici intimi e fedeli con i quali si è condiviso
la trincea della sofferenza e che abbiamo sottratto al
destino negativo ai quali erano condannati.

I meccanismi di difesa, prima attivi nel fronteggiare la


sofferenza, possono allentare la presa, in quanto emozioni
positive sempre più intense di amore, fiducia, speranza e
forza permettono all’Io di approfondire la sua conoscenza
del mondo interiore.

Nel corpo e nel cuore, gli effetti benefici di questo lavoro


interiore non tardano a dare i propri frutti. Slanci vitali
prima tenuti a bada dalle difese si liberano, apportando
nuove energie e desideri.

Un essere umano fiorisce, matura, si sviluppa e integra


sempre nuove parti di sé in modo armonico.

Arriva, così, un giorno, in cui il frutto di tutto questo lavoro


permette la connessione piena con le zone più intime
dell’essere, che nelle varie tradizioni spirituali vengono
chiamate con nomi diversi: Vero Sé, Io essenziale, Anima,
Spirito, Essenza.

Questa commovente e fertile connessione con la parte più


intima e profonda di un essere umano è all’origine di ogni
processo creativo ed artistico. Ed è da questo tipo di
contatto che si origina l’intuizione di ciò che veramente ha
senso di essere vissuto per quell’individuo. Abraham
Maslow colloca questo tipo di fenomeni nell’ultimo gradino
della sua famosa piramide dei bisogni, nel livello che
chiama dell’Autorealizzazione: se uno sente di dover
suonare un violino, altro non può fare che suonare un
violino. Se invece è più incline a disegnare case, sarà bene
che diventi architetto, ingegnere o geometra. Ognuno
idealmente dovrebbe poter giungere a conoscere e seguire
le proprie attitudini e vocazioni.

Si liberano quindi i più potenti “sogni nel cassetto” che


l’anima di una persona ha in serbo e si manifestano con
chiarezza la direzione e il senso esistenziale in essi
contenuti.

Non si svelano soltanto senso e direzione, ma è anche la


volontà a rinforzarsi: potenziata dal lavoro precedente, ben
sa di poter contare sulle proprie risorse concrete che
permettono di realizzare ciò che lo spirito indica. Slancio e
ispirazione si coniugano in un fertile dialogo tra pensieri,
emozioni e spinte istintive.

In questa fase, matura e consapevole, il diario terapeutico


diviene non più uno strumento di allenamento, come è
stato per anni, ma il libretto di un regista creatore. Il
copione che prepara il mettere nel mondo ciò che l’anima
ha considerato sensato. In esso l’individuo annota i propri
sogni e descrive i propri progetti, preparando nei dettagli
ciò che, con le proprie risorse, sa di poter realizzare
concretamente nella vita.
È una fase esaltante in cui una persona diventa regista della
propria vita, che si trasforma in un’opera d’arte
sviluppandosi tra presente e futuro.
CONCLUSIONI

I
n questo libro, ho descritto, in modo semplice e
metaforico, uno strumento che ha portato alla mia vita
personale e professionale un grande regalo in termini
di potenzialità concrete di cambiamento e di chiarezza di
direzione.

Spero vivamente di aver stimolato il lettore a tentarne l’uso.

A un terapeuta, auguro di trovare la forza di sperimentare il


diario terapeutico con i propri pazienti. Suggerisco di fare
una prova della durata di un mese, facendo leva su di un
pizzico di disciplina. E poi lasciare ai risultati concreti la
parola.

A un lettore generico, consiglio l’uso personale del diario,


annotando i propri obiettivi, e indagando da sé la relazione
che la propria volontà contrae con la mente, il cuore e il
corpo. Si tratta di essere onesti nel valutare gli
atteggiamenti esistenziali positivi o negativi che via via si
riscontrano, rileggendo quanto si annota della propria vita
personale e professionale.

I sette punti di controllo possono inoltre essere dei validi


punti di riferimento per lo studio di se stessi.

Una variante possibile è estendere a un amico caro la


riflessione su questi temi e procedere insieme, unendo le
forze e trovando il tempo per leggere i reciproci diari,
scambiandosi impressioni sui temi, sugli atteggiamenti e sui
sette ruoli.

Buon lavoro

Paolo Baiocchi
Informazioni sull’autore

Paolo Baiocchi
Medico psichiatra, psicoterapeuta, direttore dell’Istituto
Gestalt Trieste, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia
della Gestalt per medici e psicologi con autorizzazione
ministeriale.
Autore del modello Comunicazione Sana, insegnato in tre
diverse Università Italiane e del libro “La comunicazione
affettiva e il contatto umano”.
Fondatore del metodo Gestalt Empowerment diffuso in
quattro paesi nel mondo: Italia, Chile, Messico e Spagna e
autore del libro “Gestalt Empowerment. Manuale per una
rivoluzione culturale”
Fondatore del metodo di rinforzo dell’Io “Le dodici
Meditazioni” e del programma on line relativo.

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