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L’uomo tornava sempre a casa verso le dieci del mattino, lo sguardo torvo, l’aria sospettosa,

apparentemente sfinito nelle membra dal pesante lavoro; ma aveva sempre negli occhi un che di cattivo, di
pronto a colpire, di insofferente. Anna lo aspettava sempre rapita come se dovesse arrivare un Dio e ogni
volta quella visione le raggelava il sangue. Sapeva che cosa l’attendeva: le solite querimonie, le solite
lamentele e soprattutto un a mancanza totale d’amore. Dio, in tutti quegli anni quante volte Anna aveva
sofferto di questo, giornalmente, puntualmente, si era sentita defraudata di tutto il suo cuore, del suo
spirito e persino delle sue idee. All’apparire di lui cessava in lei ogni fantasia, diventava piatta e consumata
come era lui, così improvvisamente il suo grembiulino di massaia diventava enorme, scarlatto per non
lasciare più posto nemmeno alla linea del suo corpo, si sentiva un essere informe, brutto, che correva da
una parte all’altra della casa nell’intento di tacitare quell’enorme bestione che era suo marito e che
sembrava avido di tutto ma incapace di dare una sia pur minima cosa.

Anna soffriva da tanto, troppo tempo e qualche volta le era venuta la tentazione di andarsene da quella
casa pestifera. Ma in fondo quel bestione lei l’amava, lo tollerava, lo voleva perché sapeva che lui aveva
bisogno di lei: ecco cosa le dava quell’uomo, il senso di essere utile a qualcuno e questa per lei era una
ragione di vita. Fatta giornalmente questa constatazione, Anna correva a preparargli la poltrona, poi le
pantofole e lui vi si adagiava stanco sfinito senza mai una parola per lei. Apriva meccanicamente il
televisore e vi si immergeva rimanendo muto per tutto il giorno. Quando Anna azzardava una domanda, lui
la zittiva subito, parendo che mettesse il video al di sopra di tutto e di tutti. Dio, come Anna soffriva di
questo! Era la sua una pure gelosia o era orgoglio ferito?

Così passavano i giorni, ma una mattina Anna si alzò a sedere sul letto e le parve che d’improvviso tutto
intorno a lei fosse chiaro; radunò le sue povere cose, mise le scarpe più belle; aprì cautamente la porta e se
ne andò, si, se ne andò per sempre. Dove non lo sapeva neppure lei, ma si ricordava di un vecchietto che le
aveva promesso protezione se in futuro ne avesse avuto bisogno. Ma poi? Eh si, poi avrebbero potuto
prenderla per l’amante di quell’uomo e questo non era bello, questo lei non lo voleva. Allora, allora di
scappatoie ce n’erano poche: ecco si, avrebbe potuto tornare indietro ma era tardi. A quell’ora “lui”
avrebbe già scoperto tutto. Dove andare, a chi rivolgersi, a chi raccontare che lei era una donna che non ne
poteva più di quella vita, che anche lei aveva bisogno d’amore? Una volta il suo medico le aveva detto che
l’Ottocento era finito da un pezzo, ma lei non se ne era offesa, aveva preso la battuta così, come una verità
assurda; adesso le tornava alla mente perché lei era ancora Ottocento, romantica, buona, fiduciosa nei
grandi amori. Contò. Di denaro ne aveva poco, ne aveva sempre avuto poco perché lui non gliene lasciava
mai per le sue bisogne. Con quello che aveva avrebbe potuto fare la carità ad un povero, niente più.

E difatti diede tutto a un barbone che si trovava sulla sua strada. Dio che leggerezza ora: finalmente senza
più nulla di suo, si sentiva libera, ricca, capace di ricominciare tutto da capo, non aveva più alcun tipo di
doveri, né il dovere principale di piacere a “lui”. Adesso finalmente capiva che di lui non gliene era mai
importato nulla, che era indipendente, attiva, capace di vivere. Così si trovò immensamente bella,
desiderabile, piacente. Si mise a correre per i campi come una bambina, si, perché “lui” non ne aveva mai
fatta una donna. Anna era bambina ma come tutte le bambine non sapeva vivere e così dolcemente ma
inevitabilmente Anna finì in un ospizio per persone abbandonate, sola e senza nessuno che venisse a
trovarla, perché nel frattempo “lui” era morto.

L’uomo – Racconti degli Anni Sessanta #AldaMerini

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