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STORIA CONTEMPORANEA

Corso monografico

ALLEGATO 3: “IL SESSANTOTTO SEQUESTRATO”

Introduzione. Milan Kundera parla di “Occidente sequestrato” in riferimento all’Europa centro-


orientale sotto al controllo dell’URSS, un sequestro che va dal 1945 e termina col crollo del muro di Berlino.
Tuttavia il 1968 rappresenta un anno importante e per molti versi uno spartiacque. Uno spartiacque fra un
periodo di speranza, iniziato con la primavera di Praga per passare a uno drammatico, con l’invasione e un
cupissimo inverno.

Infatti, per la storia successiva dell’Europa è particolarmente rilevante quello che avviene in
Cecoslovacchia o in Polonia, più che a Roma, Berlino e Parigi: i rivolgimenti, i traumi e i processi che
segnano questi paesi. Qui hanno luogo eventi che non trovarono negli studenti e negli intellettuali dei
movimenti studenteschi dell’occidente quel solidale sostegno che sarebbe stato necessario. Movimenti,
che pur mossi da ragioni ed emozioni innovatrici e antiautoritarie rimasero lontani da quel che succedeva
nell’Europa centro-orientale, privilegiando l’asse con i fermenti degli Stati Uniti, rafforzato dalla comune
protesta contro la guerra del Vietnam, integrato con ingannevoli miti latino americani e con una lettura
idealizzata e a tratti rovesciata della rivoluzione culturale cinese.

Giorgio Bocca ritrova come massimo elemento caratterizzante della generazione del ’68
“l’interesse ai problemi e ai poveri del mondo”. Tuttavia bisognerebbe dire che non proprio di tutto il
mondo. Perché per l’invasione della Cecoslovacchia non ci fu una mobilitazione, non fu prestata molta
attenzione a quel che avveniva in Polonia, e nemmeno in Jugoslavia.
Dopo la morte di Stalin nel 1953 in Europa orientale il sistema sovietico precipitò in una profonda
crisi di legittimazione. La Germania dell’Est la Boemia si ribellarono, e sebbene furono velocemente
repressi, furono i primi segnali per i capi del partito della necessità di un cambiamento. Con l’attacco di
Nikita Chruscev a Stalin in occasione del XX congresso del Pcus nel febbraio 1956 crollò il progetto di un
accelerato mutamento della società da realizzarsi mediante l’adozione di un unico modello e si aprì così la
strada dello sviluppo di vie nazionali al socialismo.

Insomma, in Europa centro orientale i partiti comunisti andavano proponendo nuovi modelli e
modifiche al modello comunista sovietico, analogamente, se vogliamo a quanto accadeva anche in Italia.
Ma a differenza che in Italia, in questi paesi, e in particolare in Cecoslovacchia, il processo di
destalinizzazione era incompleto, e l’impunità di cui ancora godevano i responsabili dei crimini dell’epoca
staliniana portò i giovani a protestare, e a queste proteste consegue una sempre più intensa repressione
nei loro confronti. In queste proteste sventolavano slogan come “Viva l’Urss, ma che si mantenga da sola”
“se stai zitto va tutto bene, se parli sei fritto” “vogliamo un partito nuovo”

La dirigenza politica si trovava ad affrontare il fondamentale dilemma di come criticare le


deformazioni stalinista e salvaguardare allo stesso tempo l’immagine del partito, facendo in modo che non
venisse associata alla figura di Stalin e lo fecero lasciando maggiore autonomia ai partiti satelliti, pur
cercando di garantire il nucleo centrale dell’ideologia.

Nei vari paesi del blocco si avviarono tentativi da parte dei partiti comunisti di promuovere nuove e
autentiche forme di socialismo. Le modalità di destalinizzazione, tuttavia, furono notevolmente diverse nei
vari satelliti. In Ungheria, in Polonia furono intrapresi programmi riformistici moderati entro limiti
accettabili per i sovietici. In Cecoslovacchia, invece, respingendo ogni accusa di stalinismo procedono sulla
consueta strada.
CECOSLOVACCHIA, la Primavera di Praga.

In Cecoslovacchia, la decisione di non intraprendere nessun percorso di riforme, sarà presa da un


partito comunista, incarnato nel leader della vecchia guardia Novotny, che era ancora nostalgico.

L’impunità dei crimini staliniani, e la divagante crisi economica saranno alla base di fermenti
popolari, tanto che il partito sarà costretto a dare delle concessioni, come maggiore liberalizzazione, e
attenuazione della censura.

Ma il vero cambiamento avverrà con il ricambio generazionale che avverrà dentro al partito, che si
fa portatrice della voce degli intellettuali, una voce che grida al cambiamento, alla democrazia e alla cesura
col passato e con Stalin. È importante il fatto che a dare via alla primavera di Praga non fu il partito dall’alto,
ma l’intellighencja dal basso, dagli intellettuali e dagli artisti.

La tensione cresce sino alla manifestazione del 31 ottobre 1967 dispersa brutalmente dalla polizia.
La repressione è durissima e numerosi intellettuali cecoslovacchi inviano un appello all’opinione pubblica
del mondo libero. Il testo denunciava che una caccia alle streghe di carattere spiccatamente fascista è stata
lanciata contro l’intera comunità degli scrittori e che cercavano una solidarietà che fosse primariamente
spirituale, per poi chiedere con l’appello a protestare (protestate!). Ma le risposte dal mondo occidentale
furono raggelanti, fra chi parlava di falso, di provocazione, chi di fraintendimenti e di sopravvalutazione
della libertà in Occidente.
In Cecoslovacchia, per la prima volta le nuove generazioni, i giovani e gli studenti erano critici
rispetto al socialismo e non era più possibile contenere l’opposizione, poiché la repressione violenta
avrebbe solo reso più evidente la mancanza di legittimazione della classe dirigente.

Gli eventi giunsero a un punto critico nel dicembre del ’67, quando Breznev, segretario del Pcus, si
recò in visita a Praga ma non appoggiò Novotny, il quale venne definitivamente isolato nel gennaio ’68 e
sostituito alla guida del partito da Dubcek, grazie al quale prese avvio il vero processo di riforme, la vera
primavera di Praga.

La primavera di Praga, che fiorisce sotto Dubcek, lo fa sotto 3 punti di vista in particolare. Sul piano
culturale, con l’abolizione della censura e liberalizzazione dell’informazione, su un piano politico che
puntava a una sintesi fra socialismo e democrazia, oltre che attraverso una nuova Costituzione, n vista di un
“socialismo dal volto umano”, e su un piano economico, procedendo a un tentativo di sintesi fra economia
di mercato e pianificazione. Queste spinte e questo coinvolgimento sfoceranno nella manifestazione del 1
maggio, un evento spontaneo e politicamente corretto, senza violenza e con la maggior parte degli slogan
dai toni ironici e allegri.

Tuttavia, i partiti comunisti degli altri paesi satelliti non approvano questa nuova via intrapresa dalla
Cecoslovacchia, e quando anche Mosca non tollerò più la via intrapresa da Dubcek, Breznev decide di
mettere fine all’esperimento cecoslovacco. E lo fa il 20 e 21 agosto ’68 quando i carri armati di cinque paesi
del patto di Varsavia (URSS, Polonia, Ungheria, Bulgaria e Germania) invadono il paese e sanciscono in
modo definitivo che il socialismo reale non è riformabile.

Segue, da parte del partito comunista cecoslovacco, un congresso straordinario, e clandestino, il 22


agosto, che ribadisce la sua fedeltà al “nuovo corso” e al prolungarsi della resistenza. Una resistenza che
procede, anche attraverso scioperi studenteschi, fra i quali il 16 gennaio ’69, il drammatico gesto dello
studente Jan Palach che si dette fuoco in piazza San Venceslao a Praga, un gesto teso a risvegliare la gente
del paese, e che fu seguito da altri studenti.
Eppure la sinistra occidentale continua ad essere sorda, chiusa in un’incomprensibile insensibilità.
Questo, forse, perché il movimento studentesco, anche in Italia, era figlio di un’ideologia comunista e finì
col rinchiudersi in essa. Quindi questo riformismo centro-orientale veniva visto come espressione della
volontà di reintrodurre il capitalismo se non anche di un’involuzione antisocialista. Infatti, all’indomani
dell’invasione troviamo in molti volantini di sinistra la contemporanea condanna dell’intervento sovietico
che del nuovo corso, dell’imperialismo sovietico e del revisionismo cecoslovacco. Questa stessa
contraddizione, queste perplessità la provò lo stesso partito in Italia, pur se in misura diversa a seconda
della fazione (psi/psiup/psu….). ma fino ad allora, recita un volantino “Praga è sola”.

La primavera di Praga, più la rivolta ungherese del 1956, più il movimento polacco Solidarnosc del
1980/81 sono la massima espressione di resistenza contro l’egemonia sovietica. Il processo di riforme
cecoslovacco, che mirava a trovare un equilibrio fra socialismo e garanzia delle libertà civili, è inoltre
considerati come l’ultimo tentativo di operare una trasformazione radicale in senso socialista all’interno del
blocco sovietico. Dopo la sua repressione da parte delle truppe del patto di Varsavia nel 1968 le
trasformazioni del sistema furono concepite esclusivamente nei termini di un graduale miglioramento
dell’ordine esistente. Gli storici hanno elaborato però un quadro molto più sfumato. Infatti, la primavera di
Praga fu una vicenda nella quale si intersecarono le ambiguità del periodo post-stalinista e al tempo stesso
audaci prospettive riformistiche si mescolano a un atteggiamento ispirato a uno scetticismo anti utopistico.
Il socialismo democratico si scontrava con la dittatura burocratica. Gli storici tendono quindi considerare la
primavera di Praga come un laboratorio nel quale molteplici attori operarono perseguendo scopi diversi.

Anna bravo, Parigi ama i fatti, Praga le oppone i fatti.

Cosa vogliono i ragazzi della primavera di Praga? Il ristabilimento dei diritti civili e politici, libertà
culturale e religiosa, democrazia, migliori livelli di vita, fine dello sfruttamento economico praticato
dall’Urss e l’avvicinamento all’Europa.
Il comunismo di Parigi non è il comunismo, dei socialismi reali, né quello dei partiti di sinistra, è un
comunismo inventato, idealizzato, un patchwork in cui si cuciono insieme concetti e temi delle più diverse
origine. Mentre il comunismo di Praga è un’altra cosa, può essere un nemico, i carri armati, i gulag, le
polizie segrete. La censura, la burocrazia e la paura.

LA POLONIA, Solidarnosc.

A metà degli anni ’60 in polonia l’influenza americana, e in genere anglosassone, sulla cultura
giovanile era molto più forte che non su quella italiana. La scena del rock era piuttosto ricca e variegata e
comunque assai vivace. Nell’aprile ’67 arrivarono a Varsavia anche i Rolling Stones, che suonarono canzoni
allora considerate trasgressive. Il soggiorno nella capitale degli Stones, e lo stesso fatto di suonare davanti a
un pubblico di giovani e adolescenti, diventò presto occasione per scontri di piazza tra ragazzi e polizia.
Niente di politico, ma pur sempre un primo segnale di impazienza e voglia di trasgressione.

In effetti, l questione politica fu sollevata a metà anni sessanta, nel 1965, da due ricercatori
universitari, Kuron e Modzelewski, che scrissero una “lettera aperta al partito” dove denunciano il potere
della burocrazia nel comunismo polacco, la precoce fine della prima rivoluzione antiburocratica e la
necessità di proseguirla, il passaggio dalla crisi economia del sistema a una crisi sociale generale e
concludeva con un programma basato sulla reale attuazione della democrazia operaia. Quell’impazienza e
frustrazione già mostrata dai giovani di Varsavia, veniva così ancora alimentata e a loro si aggiungevano
intellettuali, scrittori, professori, stanchi che gli spazi della libertà di parole si stava sempre più
restringendo.

L’occasione anche per questa categoria di manifestare la propria impazienza ci sarà nel 1967, con
un evento al quale si fa risalire l’inizio del ’68 polacco. la messa in scena di un dramma teatrale di primo
ottocento (gli avi di Adam Mickiewicz) rappresentato al teatro di Varsavia, durante il quale gli applausi e le
acclamazioni ai passaggi più fortemente anti russi trasformarono progressivamente le rappresentazioni in
un’occasione di protesta, tanto da portare il governo a mettervi fine. Decisione che a sua volta portò, il 30
gennaio, a una protesta di 200 studenti, repressa con violenza.

Ma ormai, era partito l’innesco, la protesta si estende velocemente da Varsavia a Poznan, a Lodz, a
Danzica, a Cracovia… e le sue ragioni sono sostenute su foglietti battuti a macchina che vengono affissi negli
atenei o passano di mano in mano. La tensione giunge dunque al culmine nelle settimane di marzo con
un’ampia e diffusa mobilitazione degli studenti e con un’ondata repressiva che li colpisce in modo
durissimo insieme a molti docenti. Espulsioni, arresti, persecuzioni, e nonostante varie iniziative di
solidarietà da parte della chiesa polacca, o della stampa cecoslovacca dall’occidente nessuno batteva un
colpo. In Italia, infatti, la stampa ne parlava timidamente, e con un certo squilibrio a favore del regime,
erano pochi i messaggi di solidarietà e provenivano dalle università. Il regime, il partito, denunciava questi
giovani contestatori come figli di papà, antisemiti e “giovani mangiatori di banane” (simbolo di merce rara e
di lusso). Inoltre, puntava il dito contro i docenti con l’accusa di deviare e plasmare le opinioni politiche
della gioventù. Così sembrò terminare con una sconfitta irreversibile il ’68 polacco: le carceri si riempirono
di giovani e per moltissimi docenti intellettuali non rimase che la scelta dell’esilio.

Almeno fino a quando nel 1976 all’indomani di un aumento dei prezzi scoppia una serie di scioperi
sostenuto dal comitato di difesa degli operai. Grazie a questo evento emerge un elemento che era
mancato nel ’68 polacco, ovvero il collegamento fra parti diverse della società contro il servilismo. Nel
1980 con la stagione del Solidarnosc.

di Lech Wales e l’elezione a pontefice di Karol Wojtyla nel 978 (e il suo ritorno in patria l’anno
dopo) si innesca nel paese una nuova effervescenza e fiducia in sé. La repressione non si placa, furono molti
gli arresti ma inizia il cammino che porterà nel 1989 al ritorno della democrazia. La Polonia divenne allora
un grave problema per il movimento comunista internazionale: laboratorio di una nuova strada per uscire
dall’immobilismo del blocco sovietico, ma anche la prima rimessa in discussione integrale delle sue basi
ideali stesse. Il nuovo papa si affermò invece subito come una figura molto importante nell’apostolato e
nella riaffermazione dei fondamenti del cattolicesimo, e da una rinnovata interpretazione «sociale» de
Cristianesimo.

Il papa cominciò fin dall’inizio del suo pontificato a viaggiare in vari paesi del mondo, e a far sentire
dovunque con forza la rinnovata presenza della Chiesa cattolica. Il principale nemico del cattolicesimo fu
identificato nel comunismo, piú per il suo carattere ateo che per l’aspetto oppressivo; tant’è vero che il
fascismo, per esempio in Cile, non attirò i fulmini del papa.

Nel maggio del 1981, un turco, militante di un gruppo terrorista di destra, sparò un colpo di pistola
al papa, e per poco non lo uccise. Il peso di Wojtyła nella sconfitta del comunismo non può essere
quantificato, ma certamente non è stato secondario, a cominciare dalla sua nativa Polonia.

Bauman “non c’è posto per la generazione dei giovani socialisti, per la loro sensibilità morale, per il
loro turbolento dinamismo sociale. Dunque il sistema ne ha paura” (e lo scredita accusandolo di essere
trozkista e antisemita, oltre a reprimerlo con la violenza che porterà al fallimento della prima ondata di
proteste).

In Jugoslavia, nelle università, si accese una protesta studentesca volta a restituite all’università la
sua funzione creatrice e autonoma nella società, funzione fino ad ora troppo soggetta ai diversi interessi
politici. Alla lunga però la complessità del ’68 jugoslavo con sotterranei conflitti e divaricazioni fanno
emergere un risveglio dei nazionalismi e dei particolarismi sempre più percepibile negli anni successivi. Una
insofferenza tra i diversi componenti nazionali destinata a occupare pienamente la scena nei primi anni
novanta ma avvertibile sin da ora. Per questo si parla del ’68 come laboratorio jugoslavo, che sarà alla base
di un’esplosione delle nazioni e della violenza che non si vedeva in Europa dalla seconda guerra mondiale.
La caduta del comunismo si risolse in una tragedia per la Iugoslavia. La Iugoslavia rimaneva segnata
da profondissime differenze fra le diverse repubbliche che componevano la federazione: distanze fra i livelli
di reddito, diversità linguistiche e soprattutto religiose, che il comunismo aveva nascosto.

La Iugoslavia esisteva come Stato unitario dal 1918, e quello che era stato fatto per creare un’unità
nazionale era ancora poco. Così le differenze fra le tradizioni, le appartenenze e gli interessi locali non
avevano trovato un’espressione, né la possibilità di confrontarsi liberamente. Con il declino del comunismo,
veniva a mancare il collante ideologico che aveva tenuto insieme comunità molto diverse fra loro.

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