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La microstoria

Ha origine da una riflessione sui giochi di scala che in Italia inizia negli anni 70. Si parte da due
principali laboratori, MICROSTORIE e QUADERNI STORICI diretti da CARLO GINZBURG e
GIOVANNI LEVI.
I microstorici non hanno redatto un manifesto, ma hanno costituito questo progetto soprattutto
tramite l’indagine empirica.
EDOARDO GRENDI è il primo a esprimere insoddisfazione verso i metodi storici del tempo, che da
un lato semplificavano con l’analisi ideologico politica marxista, e dall’altro avevano fiducia
nell’utilizzare macro categorie astratte. Fu lui ad esprimere inoltre la necessità di avvicinarsi
all’antropologia, a voler rendere l’oggetto di analisi della storia la rete dei rapporti personali.
Pochi anni dopo Carlo GINZBURG e Carlo PONI riprendono le fila di questa riflessione
metodologica propongono in un saggio “il Nome e il come” la storia come scienza del vissuto,
collegandosi con l’antropologia per misurarsi con i temi del privato e i comportamenti personali.
Si trattava quindi di seguire il filo dei nomi propri per cercare intorno ad essi il dipanarsi delle
ragnatele dei rapporti sociali del singolo e dei gruppi. Le indagini dovevano essere di lunga durata,
ravvicinate e dovevano riguardare fenomeni circoscritti, come il Menocchio di Ginzburg che parla
del mugnaio del 500 durante l’inquisizione.
Perché fare questo? Perché una documentazione statisticamente infrequente o marginale poteva
rivelare strategie o comportamenti taciute da altre fonti, oppure addirittura che potevano da esse
essere distorte nel dare un’ide di omogeneità non realistica. I casi marginali potevano quindi esse
spie o indizi di una realtà nascosta. In questo senso poteva essere vista anche come un risultato
delle suggestioni della scuola degli Annales, di storia dal basso, che risultava nell’emersione degli
strati subalterni invisibili.
Dopo il 92 con il collasso dei grandi partiti di massa del sistema politico italiano e finisce l’era della
microstoria concepita in maniera gerarchica, andando al di là di orizzonti ideologici precostituiti,
diventando oggetto di studio della microstoria non solo i comportamenti sociali individuali ma
anche le usanze e relazioni interpersonali con gli altri anche per raccontare guerre e battaglie, per
esempio tramite un diario o un carteggio epistolare. La cosa fondamentale è fare una giusta
contestualizzazione.
Ci sono 4 esigenze dell’esperienza microstorica:
1- RESTITUTIRE DENSITA’ AL PASSATO andando contro la dimensione etico politica della
storiografia e contro la storia quantitativa e modellizzante. Si tratta di andare a raccontare una
storia che non generalizza di fronte all’estrema complessità del reale. I percorsi storici non sono
lineari, vanno recuperati la complessità e la contraddittorietà dei fatti sociali. “COMPLICARE IL
QUADRO” per cogliere un passato fatto di sopravvivenze, anticipazioni, incertezze, cambiamenti.
2- RIQUALIFICARE IL CONTESTO perché l’esame di contesti concreti nella loro complessità fa
emergere nuovi terreni di indagine, contesti definiti e tendenzialmente limitati. Ma non si tratta
solo di una riduzione delle dimensioni dell’oggetto ma anche di una nuova condizione dello
sguardo. Si tratta di casi di studio da indagare in profondità per esempio…non di un’analisi delle
macro categorie omogenee. Quindi la riduzione di scala può risultare nella messa a fuoco della
storia dei piccoli e degli esclusi, persone che tramite quest’analisi recuperano peso e colore.
3- DARE ATTENZIONE ALL’AGENCY INDIVIDUALE, cioè allo spazio di manovra che il singolo ha nel
contesto in cui si muove. Quindi si guarda sia le strategie, le scelte e le pratiche individuali ma
anche il loro rapporto con la loro dimensione interazionale. Strutture sociali viste come reti di
relazioni, con un costante rinegoziare dei confini tra individui e gruppi, che quindi sono visti in
modo statico.
4- ESPLICITARE LE PROCEDURE: METODOLOGIA E NARRAZIONE nel senso che si abbandona
l’assertività onnisciente dello storico per un approccio sperimentale verso la ricerca storica, grazie
alla complementarietà tra consapevolezza teorica e lavoro empirico.

CI sono due approcci diversi nella microstoria, che non comunicano molto tra loro:
1- Quello sociale: il centro dell’analisi sono i comportamenti e le strategie di attori che
vengono inquadrati precisamente nelle reti di relazioni sociali, indagate anch’esse.
2- Quello culturale: il centro dell’analisi sono frammenti di comportamenti che rivelano il
significato culturale che gli attori attribuiscono al loro universo sociale.
E’ la contestualizzazione a fare la differenza e di fatto si tratta di due prospettive intrecciate tra
loro.

La microstoria e la dimensione globale. La storia globale ha dato vita negli ultimi decenni a
una proliferazione di pubblicazioni, ricerche, riviste, che analizzano la connessione tra varie
parti e culture del mondo per comprendere i fenomeni e le situazioni un tempo studiati come
realtà chiuse in se stesse. Questo sembra lontanissimo dalla microstoria ma non è proprio
così, esistono convergenze possibili:
1- Recuperare la dimensione umana e individuale in un racconto storico globale,
individuando maggiore spazio per la soggettività e l’agency individuale in un racconto
storico globale.
2- Ritornare alle fonti primarie tramite la microstoria, abbandonando il predominio delle
fonti secondarie.
3- Il recupero della microanalisi può risultare in una inferiore ossessione con l’analisi del
movimento che la storia globale tende ad avere. Con questa fissazione infatti viene
tralasciato tutto quanto risulti poco mobile o ai margini, quindi serve utilizzare la
microstoria nella storia globale per analizzare le specificità dei singoli contesti.
4- Storia globale innervata di una dimensione microanalitica come la storia dei mercanti
sefarditi livornesi studiati da Francesca Trivellato per individuare connessioni extra locali
ma anche quello dei contesti locali che mantengono proprie consistenti peculiarità.

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