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SINTESI DELLE ATTIVITA’ DI ESPLORAZIONE,

SVILUPPO E PRODUZIONE DEI GIACIMENTI


PETROLIFERI

a cura di Renzo Mazzei

Maggio 2009
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INDICE DEL TESTO
Pag.

SINTESI DELLE ATTIVITA’ DI ESPLORAZIONE, SVILUPPO E PRODUZIONE


DEI GIACIMENTI PETROLIFERI ………………………………………………….. 4

Il petrolio dall’antichità ad oggi ………………………………………………………. 4


Come si è formato il petrolio …………………………………………………………. 4
La migrazione del petrolio ……………………………………………………………. 5
Le trappole ……………………………………………………………………………. 6
Efficienza di accumulo ……………………………………………………………….. 7
Gli idrati di metano ………………………………………………………………........ 7

ESPLORAZIONE PETROLIFERA ………………………………………………….. 8


Esplorazione della trappola ………………………………………………………........ 10

LA PERFORAZIONE E IL COMPLETAMENTO DEI POZZI …………………….. 11


La perforazione ……………………………………………………………………….. 12
Pozzi deviati, orizzontali, multilateral ………………………………………………... 13
La perforazione offshore …………………………………………………………........ 14
Il completamento ……………………………………………………………………... 15

IL GIACIMENTO: SUE CARATTERISTICHE, COMPORTAMENTO IN FASE


PRODUTTIVA E RELATIVI STUDI ……………………………………………….. 17
Studi di giacimento ………………………………………………………………........ 20
Meccanismi naturali di produzione …………………………………………………… 20
Olio recuperabile ……………………………………………………………………… 21
Ottimizzazione della produzione ……………………………………………………... 23
Monitoraggio dei pozzi e del giacimento durante la produzione ……………………... 24
La decisione di abbandonare un giacimento ………………………………………….. 24

TECNICHE DI SVULUPPO DEI GIACIMENTI E TRATTAMENTO DEI FLUIDI


PRODOTTI …………………………………………………………………………… 25
Giacimenti a terra ……………………………………………………………………... 25
Giacimenti in mare ……………………………………………………………………. 25
Piattaforme offshore …………………………………………………………………... 26
Trattamento dei fluidi prodotti ………………………………………………………... 31
Trattamento dell’olio …………………………………………………………………. 31
Trattamento del gas …………………………………………………………………… 32

TRASPORTO DEGLI IDROCARBURI ……………………………………………... 33


Trasporto del greggio in condotta …………………………………………………….. 33
Trasporto del gas in condotta …………………………………………………………. 33
Tecniche di costruzione e posa delle condotte a terra ………………………………... 34
Tecniche di costruzione e posa delle condotte sottomarine ………………………….. 34
Trasporto del greggio via nave ……………………………………………………….. 35
Trasporto del gas via nave ……………………………………………………………. 36
Altri sistemi di trasporto del gas ……………………………………………………… 37

LO STOCCAGGIO DI GAS NATURALE IN SOTTERRANEO E SUE


PROBLEMATICHE ………………………………………………………………….. 38
BIBLIOGRAFIA ……………………………………………………………………………………….. 42

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INDICE DELLE FIGURE

Fig. 1 - Diagramma semplificato della generazione d’idrocarburi


Fig. 2 - Migrazione primaria e secondaria degli idrocarburi
Fig. 3 - Esempio di alcuni tipi di trappole
Fig. 4 - Varie tecniche di rilevamenti
Fig. 5 - Esempio di sezione sismica interpretata
Fig. 6 - Alcuni tipi di scalpelli usati nella perforazione dei pozzi
Fig. 7 - Esempi di pozzi deviati e orizzontali
Fig. 8 - Alcune tipologie di pozzi orizzontali multilateral
Fig. 9 - Schema di completamento di un pozzo: (a) singolo; (b) doppio
Fig. 10 - Schemi di completamento con pompa centrifuga, ESP (a sinistra) e gas lift (a destra)
Fig. 11 - Andamento della saturazione in acqua in funzione della pressione capillare e della
altezza sulla tavola d’acqua in un giacimento ad olio
Fig. 12 - Esempio di log interpretato
Fig. 13 - Curve di permeabilità relativa in sistemi gas/olio e acqua/olio
Fig. 14 - Esempio di pressione anomala (sovrappressione)
Fig. 15 - Giacimenti ad olio in cui il principale meccanismo di spinta è il gas in soluzione
(a sinistra) o la concomitante azione dell’acquifero e del gas cap (a destra)
Fig. 16 - Giacimenti ad olio che producono principalmente sotto l’azione di spinta del gas cap
( a sinistra) o dell’acquifero (a destra)
Fig. 17 - Esempio d’iniezione d’acqua periferica a linee radiali
Fig. 18 - Principali modelli d’iniezione in olio
Fig. 19 - Esempi di vari tipi di strutture di produzione off shore
Fig. 20 - Esempio di piattaforma fissa
Fig. 21 - Esempio di piattaforma a gravità
Fig. 22 - Piattaforma tipo compliant tower
Fig. 23 - Piattaforme TPL (Tension Leg Platform) (a sinistra) e Mini TPL (a destra)
Fig. 24 - Piattaforme SPAR (a sinistra) e Truss SPAR (a destra)
Fig. 25 - Impianti di produzione galleggianti tipo FPS (Floating Production System) (a sinistra)
e FPSO (Floating Production Storage & Offloading) (a destra)
Fig. 26 - Esempio di separatore trifase
Fig. 27 - Schema di colonna di strippaggio
Fig. 28 - Schema dei processi di trattamento cui è sottoposto un olio greggio a seconda delle
sue caratteristiche
Fig. 29 - Schema dei trattamenti effettuati ai vari tipi di gas prodotti
Fig. 30 - Esempio di condotta posata su fondali irregolari
Fig. 31 - Schema che illustra il ciclo di produzione e trasporto del GNL
Fig. 32 - Schema di un terminale di ricezione e rigassificazione del GNL
Fig. 33 - Esempio di stoccaggio di gas in giacimenti gassiferi esauriti
Fig. 34 - Schema di costruzione di una caverna artificiale per lo stoccaggio di gas in un
deposito salino

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SINTESI DELLE ATTIVITA’ DI ESPLORAZIONE, SVILUPPO E
PRODUZIONE DEI GIACIMENTI PETROLIFERI
di Renzo Mazzei

La parola “petrolio”, dal latino petrae oleum (olio di pietra), è un termine generico ed è
comunemente usato in modo intercambiabile con il termine “idrocarburi”. Il petrolio, infatti,
non è altro che una miscela d'idrocarburi (liquidi, gassosi e solidi), composti organici costituiti
da carbonio e idrogeno che contengono spesso nella loro molecola anche atomi d'azoto,
ossigeno, zolfo e altri elementi. Nel gergo petrolifero si chiama comunemente “olio” (greggio
in termini commerciali) la miscela d'idrocarburi liquidi alle condizioni ambientali normali e
“gas naturale” o semplicemente “gas” (il cui principale costituente è il metano), quella che alle
stesse condizioni è in fase gassosa.

Il petrolio dall’antichità a oggi


Il petrolio era conosciuto fin dall’antichità ed è citato da diversi autori antichi e nella Bibbia.
Esso era conosciuto in quanto in alcune parti del mondo sgorgava spontaneamente dal
sottosuolo ed era utilizzato per impermeabilizzare gli scafi delle barche, come conservante del
legno e delle pelli, come medicinale, come legante per l’edilizia (i mattoni con cui fu costruita
la città di Babilonia sono legati tra loro con il catrame), oltre che come combustibile e per
l’illuminazione. L’industria estrattiva moderna viene fatta coincidere con l’anno 1859, quando
il colonnello Edwin Drake perforò con successo il primo pozzo petrolifero ad Oil Creek, a valle
del villaggio di Titusville in Pennsylvania (USA). A quell’epoca il petrolio cominciò ad essere
utilizzato soprattutto per l’illuminazione. Infatti, un suo distillato, il cherosene, bruciato nel
“lume a petrolio”, determinò un incredibile boom economico in quanto forniva una fonte
d’illuminazione limpida e splendente, rispetto alle candele, che permetteva di prolungare la
giornata sia nelle fabbriche che nelle abitazioni.
Oggi il petrolio è importante soprattutto come fonte d’energia e come materia prima per
l’industria petrolchimica e nell’ultimo secolo ha sopravanzato tutte le altre fonti d’energia,
compreso il carbone che nel 1800 e per buona parte del 1900 aveva dominato lo scenario
energetico mondiale alimentando le macchine a vapore. Con l’avvento dei motori a
combustione interna, il petrolio ha preso rapidamente il sopravvento, grazie al maggior
potenziale energetico, ma soprattutto per le sue più agevoli facilità d’estrazione e trasporto e
per la maggiore flessibilità d’impiego.

Come si è formato il petrolio


E’ oggi ormai unanimemente accettata la tesi secondo cui esso ha avuto origine dalla
degradazione termica e microbica della materia organica, vegetale e animale, accumulata nel
corso delle ere geologiche sui fondali marini e lacustri insieme al fango che si è poi trasformato
in una roccia argillosa.
Cerchiamo ora di capire come si arriva al petrolio partendo dalla materia organica e come dopo
che si è formato va ad accumularsi in determinate parti della terra dando origine ai giacimenti.
In pratica sui fondali marini e lacustri nel corso di milioni d’anni va ad accumularsi, per
decantazione, una quantità di materiale fine fangoso portato in sospensione dalle acque torbide
e, sepolta insieme a tale materiale, si accumula anche una quantità di materia organica
costituita principalmente da plancton (piccoli organismi animali e vegetali che vivono in
sospensione nelle acque e che man mano che muoiono cadono sul fondo), ma anche da resti di
pesci e d'alghe e di piante provenienti dalla terraferma. Ciò che è importante è che tale materia
organica, una volta caduta sui fondali, non sia distrutta da organismi che vivono sul fondo
(vermi, lumache, gamberetti, ecc.) o da microbi che ne determinano la decomposizione e

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l’ossidazione, i quali comunque possono sopravvivere solo se l’ambiente è ricco d'ossigeno
(ossidante). La conservazione della materia organica è perciò legata a fattori che inibiscono
l’ossidazione, primo fra tutti la deposizione in condizioni anaerobiche (prive d’ossigeno)
caratteristiche delle acque stagnanti. Tipici esempi di tali condizioni si riscontrano oggi nel
Mar Nero, nel Golfo di Maracaibo in Venezuela, lungo le coste del Perù e della Penisola
Araba, al largo delle coste della Namibia e nei laghi dell’Africa centrale.
Nel corso di milioni d’anni strati fangosi contenenti materia organica si sono accumulati gli uni
sugli altri e, poiché i fondali tendono gradualmente a sprofondare per effetto della subsidenza,
la pila di sedimenti accumulati è venuta a trovarsi a diverse migliaia di metri di profondità e
quindi in condizioni d'alta pressione e temperatura. Durante un processo chiamato “diagenesi”
(in cui sono attivi processi geochimici e mineralogici) il materiale inorganico accumulato si è
trasformato in una roccia argillosa che in gergo petrolifero viene chiamata “roccia madre”,
mentre la materia organica ha subito una serie di trasformazioni che hanno portato alla
formazione di una sostanza solida ad alto peso molecolare chiamata kerogene. In seguito, con
l’aumento della temperatura il kerogene si è trasformato, per distillazione naturale, in
idrocarburi liquidi o gassosi a seconda dei gradi di temperatura raggiunti e della composizione
del kerogene di partenza.
E’ stato scientificamente provato che in un intervallo di temperatura compreso tra 80° C e 150°
C si ha generazione d'olio (tale intervallo è chiamato “finestra dell’olio”), mentre a temperature
superiori l’olio comincia a trasformarsi in gas (Fig. 1).

Fig.1 - Diagramma semplificato della generazione d’ idrocarburi.

La genesi del gas non è tuttavia dovuta solo a tale tipo di processo; esiste infatti nel mondo un
20 % di giacimenti di metano d'origine biogenica, generato cioè da batteri metanogenici
attraverso processi di fermentazione o di riduzione del biossido di carbonio, che possono
avvenire a temperature relativamente basse (ne è testimonianza quasi tutto il gas della Pianura
Padana e dell’Adriatico).

La migrazione del petrolio


Finora si è parlato del processo di genesi del petrolio avvenuto all’interno della roccia madre.
Ma non è qui che il petrolio deve essere ricercato in quanto in seguito a periodi di forte
sedimentazione e di subsidenza, il crescente carico geostatico provoca una progressiva
compattazione della roccia madre con conseguente riduzione del suo volume poroso. I fluidi in
essa contenuti vengono quindi parzialmente espulsi (prima l’acqua poi il petrolio che va via via
formandosi) e migrano in adiacenti strati rocciosi porosi e permeabili chiamati “roccia
serbatoio”. E’ questa la cosiddetta “migrazione primaria” in cui il flusso avviene

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prevalentemente in senso verticale ed è limitato a distanze non superiori a qualche centinaio
di metri (Fig 2).
Una volta raggiunti gli strati porosi e permeabili, gli idrocarburi continuano a muoversi
all’interno di essi sotto la spinta di galleggiamento e, correndo lungo piani inclinati, cercano di
risalire verso la superficie. Questa seconda fase migratoria, che è chiamata “migrazione
secondaria” e che è caratterizzata da un flusso prevalentemente laterale, può svilupparsi anche
su grandi distanze (talvolta superiori a 1.000 km) e s’interrompe solo quando gli idrocarburi
incontrano, durante il loro cammino, particolari configurazioni degli strati geologici chiamate
“trappole”, in grado d’intrappolarli e conservarli, altrimenti essi continueranno il loro cammino
fino in superficie e ivi si disperderanno dando origine a manifestazioni (Fig.2).

Fig. 2 - Migrazione primaria e secondaria degli idrocarburi.

Perché possa formarsi un accumulo petrolifero è quindi necessario che si verifichino le


seguenti condizioni:
• la presenza di rocce madri nel bacino di sedimentazione ricche di materia organica e
sufficientemente mature dal punto di vista termico, in grado di generare idrocarburi;
• la presenza di una roccia serbatoio porosa e permeabile in grado di contenere gli
idrocarburi;
• la presenza di una roccia impermeabile (tipo argilla o evaporite) al tetto della roccia
serbatoio (chiamata roccia di copertura) che ne garantisca la conservazione;
• la presenza di una trappola che arresti la migrazione degli idrocarburi.

Le trappole
Numerosi sono i tipi di trappole conosciute e in base alla forma e alle condizioni di formazione
vengono distinte in tre grandi gruppi: strutturali, stratigrafiche e miste (Fig. 3).
Le trappole strutturali si formano in seguito alla deformazione degli strati geologici causata
da tensioni nella crosta terrestre. Tipiche trappole strutturali sono le “anticlinali”, pieghe
positive a forma di cupola e le “chiusure per faglia”, in cui strati porosi e permeabili associati a
rocce di copertura vanno a contatto con strati di roccia impermeabile lungo un piano di faglia.
Le anticlinali sono le più facili da individuare, quindi sono anche le prime ad essere sfruttate in
un bacino sedimentario.
Le trappole stratigrafiche possono essere dovute a una variazione litologica laterale della
roccia serbatoio, in cui gli strati porosi e permeabili sono sostituiti (per sedimentazione) da
strati impermeabili oppure ad una interruzione della roccia serbatoio per erosione degli strati
dovuta ad un periodo d'esposizione in superficie e a un successivo ricoprimento con rocce
impermeabili.
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Le trappole miste sono quelle in cui la componente stratigrafica è associata a quella
strutturale.

Fig. 3 - Esempio di alcuni tipi di trappole.

Efficienza di accumulo
Un argomento molto dibattuto tra i geologi del petrolio riguarda lo studio dell’efficienza
d'accumulo nei bacini petroliferi, per stabilire quanto del petrolio generato dalla roccia madre
riesce in realtà ad accumularsi e a conservarsi nelle trappole e quindi è potenzialmente
scopribile.
E’ stato stabilito che di tutto il petrolio generato in un bacino sedimentario solamente una
quantità di poco superiore al 10 % riesce in definitiva ad accumularsi e conservarsi nelle
trappole. Infatti, circa il 25 % rimane, come olio residuo, nella roccia madre aderente ai grani
della roccia e del kerogene; il 50 % circa dell’olio espulso dalla roccia madre si perde durante
la fase di migrazione secondaria perché trattenuto dalle pareti dei pori della roccia veicolante
ed il 10 % si disperde in superficie evitando le trappole; quindi solo il 40 % dell’olio espulso
raggiunge le trappole. Inoltre, il 25 % dell’olio accumulato si perde in un lento processo
d’infiltrazione attraverso la roccia di copertura ed un 25 % del rimanente viene perso per
processi chimico-fisici e batterici. Nelle modellizzazioni di bacino, per eseguire previsioni
quantitative sui luoghi dove esistono maggiori probabilità di trovare giacimenti petroliferi, le
valutazioni sopra indicate sono tenute in debita considerazione in funzione delle caratteristiche
delle rocce madri e di quelle serbatoio presenti.

Gli idrati di metano


Un caso particolare d'accumulo di gas riguarda i cosiddetti “idrati di metano”, che sono
composti solidi simili al ghiaccio in cui le molecole d’acqua disposte in reticoli cristallini
presentano lacune nelle quali sono intrappolate le molecole di metano. Simili composti si
formano in presenza di elevate pressioni e/o basse temperature, condizioni che si riscontrano
oggi nei fondali oceanici e nel “permafrost” (strato di terreno permanentemente gelato tipico
delle aree a clima freddo delle alte latitudini). In tali ambienti sono stati valutati potenziali
energetici in metano che superano di gran lunga la somma di tutte le riserve di combustibili
fossili del mondo (olio, gas, carbone).

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ESPLORAZIONE PETROLIFERA

L’esplorazione petrolifera comprende una serie di attività che vanno dalla raccolta di dati e
informazioni riguardanti un bacino sedimentario, per verificarne l’eventuale potenzialità
petrolifera, ai rilevamenti geologici e geofisici a carattere regionale e di dettaglio, per
determinare la presenza di possibili trappole, fino alla perforazione del pozzo esplorativo che
può condurre alla scoperta di un giacimento.
Verificare le potenzialità petrolifere di un bacino sedimentario è molto importante (se non
ancora esplorato) prima di intraprendere qualsiasi attività di ricerca in una determinata zona, in
quanto è necessario conoscere se in quel determinato bacino ci sono state le condizioni
favorevoli sia per la genesi di idrocarburi, che per il loro accumulo.
E’ importante ricordare che non è raro incontrare in una stessa struttura più accumuli
d’idrocarburi, distanti tra loro in verticale alcune centinaia e talvolta anche più di mille metri,
appartenenti a epoche geologiche diverse e lontane tra loro decine se non centinaia di milioni
d'anni.
Una volta completati gli studi per verificare le potenzialità petrolifere di un bacino
sedimentario, i successivi studi saranno prevalentemente a carattere geologico e geofisico e
saranno mirati ad individuare la presenza di possibili trappole, determinanti per intrappolare gli
idrocarburi durante la loro migrazione. Infatti, ad oggi non esiste ancora una tecnologia in
grado di individuare direttamente un giacimento petrolifero e tutte le tecnologie disponibili, se
pur d'altissimo livello, sono mirate a ricostruire la configurazione geologica del sottosuolo ed a
individuare le possibili trappole. Sarà poi la perforazione di un pozzo a determinare se la
trappola esplorata è sede di un accumulo petrolifero e se in quantità economiche.
Anticamente i primi pozzi petroliferi furono ubicati in base esclusivamente a manifestazioni
d'idrocarburi in superficie. Successivamente, per individuare le zone favorevoli agli accumuli
furono determinanti i rilevamenti geologici di superficie. Ciò era però possibile solo in zone
dove le formazioni geologiche erano affioranti in quanto, studiandone le caratteristiche e la
loro giacitura in superficie, era possibile estrapolare la loro configurazione nel sottosuolo.
Quando le ricerche hanno cominciato a spostarsi in aree prive o lontane dagli affioramenti,
come le grandi pianure e in seguito le zone off shore, è stato indispensabile disporre di tecniche
e tecnologie che fossero in grado di permettere la ricostruzione del sottosuolo geologico per via
indiretta. Sono nate quindi le prospezioni geofisiche, che possono essere di tipo gravimetrico,
magnetometrico, magnetotellurico e sismico. Le prime tre sono indagini passive in quanto non
richiedono sorgenti d’energia artificiali e servono a dare alcune utili indicazioni soprattutto a
carattere regionale sull’assetto geostrutturale del sottosuolo, mentre le prospezioni sismiche,
per le quali è invece richiesta una sorgente d'energia in grado di generare onde acustiche che
penetrano nel sottosuolo, sono risultate determinanti per l’individuazione e la delimitazione
delle trappole (Fig. 4).
I rilevamenti gravimetrici consistono nella determinazione delle anomalie
dell’accelerazione di gravità terrestre (misurata in più punti di una determinata zona tramite
strumenti chiamati “gravimetri”), provocate da contrasti di densità tra corpi presenti nel
sottosuolo. Le misure gravimetriche sono eseguite in modo sistematico, in terra, in mare e per
via aerea, in punti regolarmente distribuiti su reticoli in grado di coprire l’intera area da
esplorare. Successivamente vengono costruite mappe, le cui curve rappresentano linee d'ugual
valore d'anomalia e che viste in un contesto regionale riproducono approssimativamente
l’andamento geostrutturale del sottosuolo.
I rilevamenti magnetometrici consistono nel misurare in una serie di punti, tramite
strumenti chiamati “magnetometri”, le anomalie locali del campo magnetico terrestre e sono
utilizzati già da diversi anni soprattutto per la ricerca dei minerali. Tuttavia essi sono utili
anche per le ricerche petrolifere in quanto consentono di ottenere informazioni sui caratteri
strutturali e sulla profondità del basamento cristallino, permettendo quindi di misurare
indirettamente lo spessore della serie sedimentaria giacente su di esso. Tali rilevamenti

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consentono inoltre di localizzare e dimensionare corpi vulcanici o plutonici entro la serie
sedimentaria.
I rilevamenti magnetotellurici consistono nel misurare le variazioni temporali del
campo elettromagnetico naturale. Essi si basano sul principio che le onde elettromagnetiche
a bassa

Fig. 4 - Varie tecniche di rilevamenti.

frequenza, chiamate anche magnetotelluriche, generate nella ionosfera (parte più alta
dell’atmosfera terrestre) e nella magnetosfera (regione dello spazio in cui è confinato il campo
magnetico terrestre), penetrando nei terreni del sottosuolo sono influenzate dalle anomalie di
resistività che producono un campo elettromagnetico secondario, le cui caratteristiche
dipendono dall’andamento della conduttività dei terreni. La definizione e la descrizione di tali
campi elettromagnetici secondari costituiscono un mezzo per conoscere l’assetto geostrutturale
del sottosuolo e soprattutto di differenziare, nei bacini sedimentari, rocce porose e permeabili
da rocce compatte, siano esse basaltiche, granitiche o massive tipo i calcari compatti e le
anidridi. I rilevamenti magnetotellurici sono stati un valido supporto nella valutazione
mineraria (dal punto di vista petrolifero) dei bacini sedimentari del Golfo del Messico e
dell’Atlantico settentrionale.

Fig. 5 - Esempio di sezione sismica interpretata.

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I rilevamenti sismici a riflessione sono, fra i metodi d’indagine geofisica, quelli che
vengono maggiormente utilizzati nelle ricerche petrolifere, in quanto permettono di ottenere
una ricostruzione piuttosto dettagliata della configurazione geologico-strutturale del sottosuolo
e quindi di individuare e delimitare le possibili trappole per gli accumuli di idrocarburi (Fig. 5).
Per la loro esecuzione essi utilizzano una sorgente d'energia, prodotta artificialmente, in grado
di generare onde elastiche (sismiche), che penetrando nel sottosuolo ritornano in superficie
riflesse da superfici di discontinuità rappresentate da strati geologici di diversa composizione e
registrate con opportuni sensori (Fig. 4).
Generalmente quale sorgente d'energia per i rilevamenti a terra vengono utilizzate cariche di
dinamite, che vengono fatte esplodere in pozzetti profondi da 3 m a 30 m perforati per
l’occasione oppure, in zone abitate o in ambienti protetti dal punto di vista ambientale, da
vibratori costituiti da veicoli pesanti che producono oscillazioni meccaniche e le trasmettono al
terreno per mezzo di piastre solidali a masse. Nei rilevamenti in mare, per non danneggiare la
fauna ittica, la sorgente d'energia è rappresentata da cannoni ad aria compressa che producono
un’iniezione improvvisa d’aria fortemente compressa (fino a oltre 170 bar) in mare ad una
profondità di 3 – 10 m o superiore.
I sensori utilizzati per la registrazione delle onde sismiche riflesse dagli strati geologici del
sottosuolo sono chiamati “geofoni”, nei rilevamenti a terra e “idrofoni”, in quelli in mare.
Registrando l’onda riflessa in superficie si è in grado di valutare il tempo da questa impiegato
per il percorso d'andata e ritorno e, conoscendo la velocità di trasmissione del suono attraverso
i vari strati attraversati, di risalire alla profondità della superficie riflettente e alla sua pendenza.
In un rilevamento sismico l’operazione di generazione dell’impulso e di registrazione dell’onda
riflessa viene ripetuta lungo profili tra loro allineati e perpendicolari (profili o linee sismiche 2
D), la cui interpretazione permette di generare mappe della configurazione degli strati
geologici del sottosuolo e quindi di individuare possibili trappole. Nei rilevamenti sismici a
terra i geofoni sono distesi sulla superficie del suolo mentre in quelli in mare gli idrofoni sono
montati entro un cavo galleggiante trainato da navi opportunamente attrezzate e mantenuto
stabilmente a profondità di 5 – 20 metri; un cavo sismico può essere lungo fino a 10 chilometri.
La tecnologia dei rilevamenti sismici si è perfezionata nel tempo permettendo di ottenere
risultati sempre più sorprendenti. Già da diversi anni sono comunemente utilizzati i
rilevamenti sismici 3D (tridimensionali), che attraverso un miglioramento nella tecnica
d'acquisizione (in cui generatori d’impulsi e sensori sono distribuiti all’interno di un’area
anziché lungo profili) permettono un’interpretazione in tre dimensioni. Se poi lo stesso
rilevamento è ripetuto nel tempo (a distanza di uno o più anni) in un giacimento in produzione,
si è in grado di rilevare eventuali variazioni in termini di saturazione in fluidi e della quota
della tavola d’acqua. Sono questi i rilevamenti sismici 4 D, in cui la quarta dimensione è
rappresentata dal tempo.
Attraverso elaborazioni speciali eseguite sui profili sismici registrati si è inoltre in grado, per
esempio tramite un’analisi delle anomalie d’ampiezza delle onde riflesse, di ottenere utili
informazioni qualitative sulla porosità della roccia serbatoio e, in particolari condizioni,
indicazioni sul contenuto in fluidi.
Per essere in grado d’interpretare i rilevamenti geofisici illustrati sopra, il geologo-geofisico
interpretatore deve avvalersi dei dati e delle conoscenze acquisite in pozzi già perforati nella
zona e/o di quelli d'aree affioranti ai margini dei bacini sedimentari. Per tale scopo possono
risultare utili anche i rilevamenti di superficie eseguiti con l’aiuto di foto aeree o satellitari.

Esplorazione della trappola


Una volta individuata una possibile trappola attraverso i rilevamenti geofisici, per accertarsi se
essa contiene idrocarburi e in quantità economicamente sfruttabile, è necessario perforare un
pozzo esplorativo. Durante la perforazione possono verificarsi manifestazioni d'idrocarburi, sia
nei detriti di roccia rimossi dallo scalpello (cuttings) sia nel fango di circolazione utilizzato
durante la perforazione oppure nelle carote (campioni di roccia di forma cilindrica della
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lunghezza di alcuni metri) prelevate nel pozzo negli intervalli più interessanti per mezzo di
speciali scalpelli chiamati “carotieri”, ma esse sono solo indicative e non determinanti per
l’accertamento di un accumulo.
Al termine della perforazione e comunque prima dell’installazione della colonna di
rivestimento del pozzo, nel foro vengono registrati una serie di diagrammi (logs) di tipo
elettrico, acustico e radioattivo, attraverso la cui interpretazione si sarà in grado di determinare
la natura dei terreni attraversati e quella dei fluidi contenuti (Fig.12). Tuttavia per avere la
certezza che la trappola esplorata contiene idrocarburi è necessario eseguire delle prove di
produzione che, oltre a documentare la presenza d'idrocarburi attraverso l’erogazione in
superficie, permettono di misurare la pressione e la temperatura del giacimento e, registrando e
interpretando le variazioni di pressione sia in fase d'erogazione che durante la successiva
chiusura del pozzo, di valutare la permeabilità media della roccia serbatoio, l’indice di
produttività, la presenza d'eventuali barriere (faglie o variazione delle proprietà della roccia)
ad una certa distanza dal pozzo e, se la prova ha una durata superiore a un mese, di ottenere
indicazioni sul volume d'idrocarburi contenuto nella trappola.
Un altro importante test che viene normalmente eseguito nel pozzo al termine delle
perforazione è la cosiddetta “sismica di pozzo”, che serve a misurare la velocità delle onde
sismiche attraverso i vari strati geologici e che risulta determinante quando s’interpretano i
profili sismici per risalire alla profondità degli orizzonti riflettenti. La tecnica è piuttosto
semplice e consiste nel generare un’onda sismica tramite una sorgente d'energia artificiale
posta ad una certa distanza dal pozzo e nel misurare il tempo da questa impiegato per
raggiungere un geofono calato in profondità nel pozzo.
Dopo aver completato l’interpretazione dei logs e delle prove di produzione ed eseguite le
analisi di laboratorio sulle carote e sui fluidi erogati, si esegue una valutazione preliminare del
volume d’idrocarburi in posto e di quello che si pensa sia possibile produrre negli anni e se, in
base a calcoli economici la scoperta risulta interessante, si procede alla fase cosiddetta di
appraisal, consistente nella perforazione di uno, due o anche tre o quattro pozzi di conferma
ubicati in altre parti del giacimento e, se positivi, si passa alla fase di sviluppo e sfruttamento.
Si ricorda che la valutazione dell'economicità dello sfruttamento d'un giacimento petrolifero è
un fattore molto importante e deve avere un certo margine di sicurezza. A seconda delle
dimensioni e della complessità del giacimento, infatti, gli investimenti necessari per il suo
sfruttamento possono superare uno o più miliardi di euro.

LA PERFORAZIONE E IL COMPLETAMENTO DEI POZZI

Le operazioni di perforazione e completamento di un pozzo petrolifero consistono nello


scavare un foro nel sottosuolo di forma circolare e, se questo intercetta livelli produttivi,
completarlo per la produzione, dotandolo cioè di particolari attrezzature adatte a portare in
superficie gli idrocarburi.
Negli anni la ricerca si è spostata da configurazioni geologiche semplici e facili da raggiungere
a situazioni sempre più complicate o localizzate in ambienti ostili e di difficile accesso,
comprese le acque profonde. Ciò ha determinato l’evoluzione di tecniche e tecnologie di
perforazione e completamento dei pozzi che hanno raggiunto livelli altissimi.
Si pensi ad esempio alla tecnica di perforazione in deviato e in orizzontale per mezzo della
quale si possono raggiungere obiettivi localizzati a grandi profondità e a distanza di chilometri
dal punto di partenza, con la possibilità di manovrarli dalla superficie eseguendo le più
sofisticate operazioni a fondo pozzo, definibili “di alta chirurgia”. Si pensi anche alla
perforazione in acque profonde, cioè in fondali marini superiori a 1.000 m, con tutte le
problematiche legate alle condizioni meteo-marine e ai sistemi di ancoraggio adottati per
eseguire in piena sicurezza le perforazioni.

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La perforazione
L’operazione di scavo di un pozzo è realizzata con sistemi a rotazione utilizzando scalpelli di
varia forma a seconda del tipo di roccia da perforare, avvitati nella parte terminale di una
sequenza di tubi d'acciaio (aste), messi in rotazione da motori elettrici o a combustione interna
(Fig. 6). La perforazione è effettuata utilizzando una torre a traliccio, chiamata derrick o mast a

Fig. 6 - Alcuni tipi di scalpelli usati nella perforazione dei pozzi.

seconda del sistema adottato per il montaggio e lo smontaggio, che permette di manovrare le
attrezzature di perforazione e altro materiale all’interno del pozzo. Il moto rotatorio che
permette allo scalpello di frantumare la roccia è normalmente impresso su tutta la batteria di
perforazione per mezzo di un’asta motrice azionata tramite la tavola rotary (costituita da un
basamento fisso e da una piattaforma girevole azionata dai motori) oppure tramite
un’attrezzatura chiamata top drive (testa motrice) in cui il motore è inserito direttamente alla
testa dell’attrezzatura di perforazione, attraverso la quale viene iniettato anche il fango di
perforazione. Durante lo scavo infatti, è necessario pompare in modo continuo, attraverso le
aste e lo scalpello, del fango avente determinate caratteristiche di densità e viscosità, in grado
di portare in superficie i detriti di roccia (cuttings) grazie al flusso di ritorno che si genera alle
spalle della batteria di perforazione. Importante compito del fango di circolazione è anche
quello di raffreddare lo scalpello e soprattutto di creare, grazie al suo peso, una
contropressione verso gli strati geologici attraversati contenenti fluidi in pressione e quindi
evitare pericolose eruzioni (blow out). Per questo motivo il fango di perforazione deve essere
continuamente controllato sia per quanto riguarda le sue caratteristiche in termini di peso e
viscosità, sia per quanto riguarda il suo livello in pozzo, che può variare in funzione di
eventuali assorbimenti da parte degli strati geologici.
Recentemente, per imprimere il movimento rotativo allo scalpello è stato introdotto l’uso di
motori idraulici, posti a fondo pozzo al termine della batteria di perforazione, avvitati
direttamente sullo scalpello e azionati dalla pressione del fango. In tal caso la batteria rimane
ferma e ruota solo lo scalpello. Questo sistema di perforazione è generalmente utilizzato nei
tratti di forte deviazione o nei tratti orizzontali.
Per garantire la stabilità del pozzo e il completo isolamento idraulico dei vari strati attraversati,
al termine della perforazione il foro viene rivestito con un tubo d'acciaio (casing) e cementato
alle spalle con malta di cemento tramite una tecnica che prevede lo spiazzamento di questa
dall’interno del casing, dove era stata immessa in fase semifluida, verso le spalle ad opera del
fango in pressione. Poiché il raggiungimento dell’obiettivo minerario si realizza di solito
attraverso la perforazione di fori di diametro decrescente, anche i casing avranno un diametro
decrescente e saranno inseriti uno dentro l’altro in forma telescopica. La prima colonna, quella
più superficiale, viene chiamata “colonna d'ancoraggio” in quanto su di essa sono ancorate le
successive colonne di rivestimento, è fissata la testa del pozzo e sono montate le
apparecchiature di sicurezza chiamate BOP (Blow Out Preventer). La lunghezza di tale
colonna è variabile, in ogni caso deve essere tale da oltrepassare le falde acquifere d'acqua
dolce superficiali onde evitare il loro inquinamento e garantire la piena sicurezza contro le
massime pressioni previste a testa pozzo. La colonna più profonda, che generalmente
raggiunge i livelli produttivi, di solito non arriva fino in superficie ma è ancorata sulla parte

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terminale della colonna precedente per un tratto di circa 100 m; in tal caso essa è chiamata
liner.

Pozzi deviati, orizzontali, multilateral


Fra le tecniche e tecnologie maggiormente sviluppate nel campo della perforazione c’è
sicuramente quella riguardante i pozzi deviati, i pozzi orizzontali e quelli multilateral (più tratti
orizzontali a partire da uno stesso pozzo verticale) (Fig. 8).

Fig. 7 - Esempi di pozzi deviati e orizzontali.

La perforazione dei pozzi deviati si è resa necessaria per poter raggiungere località
inaccessibili oppure per superare incidenti verificatisi nel pozzo verticale, ma si è maggiorente
sviluppata per l’attività di ricerca off shore. Per poter mettere in produzione giacimenti
localizzati nel sottosuolo marino tramite piattaforme fisse o galleggianti, i pozzi di sviluppo
devono, infatti, necessariamente essere perforati in deviato, partendo a grappolo dalla
piattaforma stessa.
Secondo le esigenze un pozzo deviato può seguire diverse traiettorie: iniziare la deviazione a
partire da una certa profondità (KOP, Kick-Off Point) e continuare poi con una pendenza
costante (normalmente dai 30° ai 60°) fino all’obiettivo; iniziare la deviazione incrementando
continuamente e gradualmente la pendenza fino all’obiettivo (talvolta fino a 90°); deviare,
continuare in deviato fino ad una certa profondità e poi ritornare in verticale fino all’obiettivo;
raggiungere l’obiettivo seguendo una certa deviazione e poi perforare il livello mineralizzato
orizzontalmente per tratti compresi fra qualche centinaio di metri fino a oltre un chilometro
(Fig. 7).
Mentre la tecnica dei pozzi direzionati è stata adottata da lungo tempo, quella dei pozzi
orizzontali è relativamente recente essendosi sviluppata intorno alla metà degli anni ’80 del
secolo scorso ed è nata soprattutto con l’esigenza di aumentare la produttività dei pozzi in
rocce serbatoio a bassa permeabilità o costituite da livelli abbastanza estesi ma di spessore
relativamente piccolo. Oggi lo sviluppo di un giacimento con pozzi orizzontali è diventata
quasi una routine in quanto anche se più costosi essi presentano, oltre a quelli indicati sopra,
altri importanti vantaggi quali la sensibile riduzione del numero di pozzi, la possibilità di
operare mantenendo un salto di pressione tra giacimento e pozzo più basso evitando così la
formazione di coni d’acqua o di gas (nei pozzi ad olio con gas cap) che renderebbero
difficoltosa la produzione, aumentare l’area di drenaggio avendo maggiori probabilità di
intercettare zone fratturate (più permeabili).
Le tecniche utilizzate per eseguire la deviazione del pozzo nella direzione voluta sono diverse e
si sono evolute nel tempo parallelamente alla necessità di eseguire fori deviati sempre più

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Fig. 8 - Alcune tipologie di pozzi orizzontali multilateral (da Oilfield Review, Schlumberger).

complessi come i pozzi orizzontali e soprattutto quelli multilateral (Fig. 8). Tali tecniche
prevedono l’utilizzo di un attrezzo a forma di cuneo (wipstock) munito all’estremità superiore
di un collare all’interno del quale è inserito lo scalpello oppure l’utilizzo di uno scalpello
munito di un solo foro laterale attraverso il quale fuoriesce un getto di fango ad alta pressione
(jetting), che producendo un’azione di scavo lateralmente al pozzo indirizza il foro in quella
direzione per la successiva perforazione in deviato. Recentemente con l’introduzione dei
motori rotativi di fondo (PDM, Positive Displacement Motors) sono state introdotte tecniche di
deviazione più semplici che prevedono l’introduzione di una riduzione angolata montata tra il
PDM e lo scalpello (Steerable System). Gli Steerable systems prevedono inoltre l’installazione,
al di sopra del PDM, di un’attrezzatura di rilevazione continua di dati (MWD, Measurement
While Drilling) riguardanti l’inclinazione e la direzione del foro, la pressione, la temperatura,
ecc. e il loro invio in superficie. Recentemente, insieme al MWD è stata introdotta un’altra
attrezzatura, il LWD (Logging While Drilling), che permette la registrazione in continuo dei
logs (diagrammi) elettrici acustici e radioattivi capaci d’individuare i vari terreni attraversati e i
fluidi contenuti man mano che la perforazione procede.

La perforazione offshore
Nel campo tecnologico anche la perforazione in mare ha registrato notevoli progressi. Infatti,
spostandosi le ricerche petrolifere dalla terraferma a fondali marini sempre più profondi, è stato
necessario sviluppare tecniche e tecnologie sempre più complesse per raggiungere obiettivi
posti a migliaia di metri sotto i fondali marini.
Le prime perforazioni in mare in acque relativamente basse (fino a 50 m) furono eseguite con
impianti di perforazione montati su pontoni, che venivano rimorchiati sul sito di perforazione e
ivi fatti affondare fino a poggiare sul fondo allagando la parte di scafo galleggiante.
In acque più profonde, in ogni caso non oltre i 110 m circa, vengono utilizzate piattaforme di
perforazione autosollevanti chiamate Jack-up. Esse consistono in uno scafo galleggiante a
pianta triangolare o rettangolare dotate di lunghe gambe mobili poste ai vertici dello scafo. Le
gambe possono scorrere verticalmente e poggiando sul fondo permettono di sollevare lo scafo
con tutte le attrezzature di perforazione sopra il livello del mare. Al termine della perforazione
le gambe vengono sollevate e lo scafo può galleggiare ed essere trasportato su un nuovo sito.
Per profondità del mare superiori ai 100-110 m non è più possibile operare con impianti
appoggiati sul fondo, quindi sono state progettate piattaforme di perforazione galleggianti,
caratterizzate da strutture natanti sulle quali è montato l’impianto di perforazione. Tali strutture
devono essere mantenute il più possibile in posizione con sistemi di ancoraggio o di
posizionamento dinamico. Il collegamento tra l’impianto galleggiante e la testa del pozzo
fissata sul fondo è assicurata tramite una specifica tubazione chiamata marine riser.

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Gli impianti di perforazione galleggianti si dividono in due grandi categorie: gli impianti
semisommergibili e le navi di perforazione, entrambi capaci di ospitare un cantiere di
perforazione autonomo e alloggi per il personale.
Gli impianti semisommergibili sono costituiti da una grande piattaforma collegata a scafi
zavorrabili, mentre le navi di perforazione sono delle navi trasformate oppure costruite
appositamente per tale uso e sono caratterizzate dall’avere nel baricentro un’apertura (moon
pool) su cui viene installata la torre di perforazione. Sia le piattaforme semisommergibili sia le
navi di perforazione hanno sistemi di ancoraggio fissi, con cavi e catene, fino profondità del
mare di circa 1.000 m, mentre per profondità superiori (superiori anche a 3.000 m) per
mantenere la posizione essi sono muniti di sistemi di posizionamento dinamico, consistenti in
coppie di propulsori ad elica posti a poppa, a prua e sulle fiancate, mantenuti sempre in
funzione e regolati da un sistema elettronico di controllo.

Il completamento
Una delle fasi più interessanti dei pozzi petroliferi è senz’altro quella riguardante il loro
completamento, dotando cioè i pozzi di particolari attrezzature necessarie per consentire la
produzione in superficie degli idrocarburi.
Il completamento di un pozzo può essere eseguito sia in foro scoperto sia in foro tubato. Nel
primo caso il casing è fissato nello strato di copertura della formazione produttiva, la quale
quindi rimane priva di rivestimento; è questo il caso di formazioni dure e fratturate che
sarebbero danneggiate se interessate da rivestimenti e cementazioni. Nel secondo caso, che è il
più frequente, anche la formazione mineralizzata è coperta da casing e cemento e garantisce
una maggiore sicurezza del foro e un maggior controllo della produzione. In tal caso però è
necessario ristabilire la comunicazione tra formazione mineralizzata e foro, che è effettuata
tramite un attrezzo, chiamato “fucile”, munito di cariche esplosive ad alta penetrazione
collegate a contatti elettrici in superficie, che permette di eseguire una serie di fori (spari) nel
casing e nel cemento. Di solito un pozzo petrolifero è dotato di una batteria di produzione

Fig. 9 - Schema di completamento di un pozzo: (a) singolo; (b) doppio.

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consistente in una stringa di tubi (tubing) calata in pozzo fino alla formazione produttiva,
munita di valvole e di una particolare attrezzatura (packer), che fissata alle pareti del casing
assicura il completo isolamento tra l’intervallo produttivo e il soprastante tratto di foro (di
solito riempito di fango di completamento) permettendo ai fluidi di fluire in superficie
attraverso il tubing. Tramite l’introduzione di più di un packer in uno stesso foro è anche
possibile produrre in modo selettivo da più intervalli agendo semplicemente su valvole di
fondo manovrate dalla superficie oppure di produrre da più livelli contemporaneamente
inserendo fino a tre tubing di produzione nel pozzo (accoppiati ad altrettanti packer) (Fig. 9).
In presenza di formazioni poco consolidate è possibile che si verifichi della produzione di
sabbia insieme agli idrocarburi che, oltre a creare erosioni alle attrezzature, può accumularsi
sul fondo del pozzo fino a soffocarlo, impedendo la produzione. In tal caso, per prevenire
l’ingresso di sabbia in pozzo il completamento deve prevedere l’inserimento di speciali filtri a
fondo pozzo, spesso combinati con sistemi di consolidamento costituiti da sabbia drenante
rivestita di resine (gravel-pack).
Nei pozzi ad olio non più in grado di produrre spontaneamente per abbassamento della
pressione, il completamento deve prevedere l’introduzione di sistemi di sollevamento
artificiale costituiti da pompe di vario tipo (tra le più comuni ricordiamo quelle ad astine e
quelle centrifughe ad immersione, ESP) o da un’apparecchiatura chiamata gas lift; quest’ultima
apparecchiatura consiste nell’effettuare una iniezione di gas in pressione nel tubing ad una
certa profondità per mezzo di tubini, che produce un alleggerimento della colonna di fluido,
favorendo quindi l’erogazione (Fig. 10).

Fig. 10 - Schemi di completamento con pompa centrifuga, ESP (a sinistra) e gas lift (a destra)
(da M. Economides e al., Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani).

Il completamento di un pozzo prevede l’installazione in superficie della “croce di produzione”


o “albero di Natale” (Christmas tree), che oltre a sostenere la batteria di produzione è munita di
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valvole d'intercettazione manovrabili manualmente oppure idraulicamente o
pneumaticamente, che permettono sia la chiusura e l’apertura del pozzo che la regolazione del
flusso.

IL GIACIMENTO: SUE CARATTERISTICHE, COMPORTAMENTO IN


FASE PRODUTTIVA E RELATIVI STUDI

Come detto precedentemente un giacimento petrolifero è un accumulo d’idrocarburi


verificatosi milioni d’anni fa in corrispondenza di una particolare configurazione degli strati
geologici chiamata “trappola” in seguito a lenti processi di deposizione della materia organica
in fondali marini o lacustri, di trasformazione causata soprattutto dalla temperatura e di
migrazione. Un giacimento può essere formato da un accumulo di gas, d’olio o di entrambi e
può trovarsi a profondità comprese tra qualche centinaio di metri e oltre 6.000 m.
Gli idrocarburi sono contenuti nei pori della roccia serbatoio, che può essere costituita da
sabbie più o meno consolidate, da arenarie o da calcari e dolomie porose e che presenta, nella
sua parte sommitale, strati di roccia impermeabile costituita da argilla o evaporiti (salgemma o
anidride), che ne assicurano la copertura impedendo agli idrocarburi di fuggire.
Gli idrocarburi migrati nella trappola, essendo leggeri si sono accumulati nella sua parte più
alta spiazzando l’acqua (che può essere più o meno salata) che si trovava nei pori della roccia
fin dal momento della formazione. Si formerà quindi all’interno della trappola una
stratificazione di fluidi, con gli idrocarburi (gas o olio) in alto e l’acqua in basso.
Se l’accumulo è costituito da olio saturo o soprassaturo, che contiene cioè una quantità di gas
disciolto pari al livello di saturazione, una parte del gas potrà liberarsi ed accumularsi nella
parte più alta della trappola dando origine a una cappa di gas (gas cap). Avremo in questo caso
una stratificazione di tre fluidi, con il gas in alto, l’acqua in basso e l’olio che occupa una
posizione intermedia. Il contatto tra questi fluidi sarebbe netto se essi fossero contenuti
all’interno di un unico spazio vuoto, per esempio a forma di campana; poiché invece essi sono
contenuti in un mezzo poroso, molto spesso costituito da pori e canalicoli di livello
microscopico, il contatto tra i fluidi (a causa dei fenomeni capillari) sarà sempre sfrangiato,
presenterà cioè un intervallo (chiamato zona di transizione) in cui due fluidi saranno
contemporaneamente presenti allo stato mobile (Fig. 11).

Fig. 11 - Andamento della saturazione in acqua in funzione della pressione capillare e


dell’altezza sulla tavola d’acqua in un giacimento ad olio.

Dobbiamo precisare che nella parte della trappola in cui si è verificato l’accumulo petrolifero i
pori della roccia non sono stati riempiti al 100 % di idrocarburi, ma sulle loro pareti e in quelli

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di piccolissime dimensioni è rimasta aderente una pellicola d’acqua (che resterà però
immobile durante la produzione) che viene chiamata “acqua irriducibile”.
Poiché gli idrocarburi sono contenuti nei pori della roccia, l’accumulo potrà quindi risultare più
o meno consistente in funzione, oltre che della grandezza della trappola e della quantità di
idrocarburi migrati, del suo grado di porosità e di saturazione in acqua.
Oltre a essere porosa una roccia serbatoio deve possedere un’altra importante proprietà, la
permeabilità, che indica il grado di intercomunicazione esistente tra i pori. Tale proprietà
esprime la capacità di un fluido di muoversi all’interno dei pori e di fluire dalla roccia serbatoio
verso il pozzo produttore quando sottoposta ad un gradiente idraulico (cioè ad una differenza di
pressione tra il giacimento e il pozzo).
La porosità, che viene espressa come percentuale di vuoti (pori) sul volume totale di roccia,
può essere misurata sperimentalmente in laboratorio su campioni di roccia (carote) prelevati
nel pozzo oppure per via indiretta tramite la registrazione di diagrammi (logs) acustici e
radioattivi eseguita in pozzo al termine della perforazione. Tali logs misurano alcune proprietà
fisiche della roccia dalle quali si ottengono, attraverso una serie di calcoli, i valori di porosità
(Fig 12).

Fig. 12 - Esempio di log interpretato.

La permeabilità (che è espressa in darcy dal nome dell’ingegnere francese che per primo studiò
nel 1856 il movimento dei fluidi nei mezzi porosi) invece, essendo un parametro dinamico
risulta difficilmente misurabile tramite logs (come per la porosità) eseguiti in condizioni
statiche; essa viene quindi misurata sperimentalmente in laboratorio su campioni di roccia. E’
possibile tuttavia ottenere la permeabilità della roccia anche per via indiretta, attraverso
l’interpretazione delle prove di produzione eseguite nei pozzi. Misurando infatti la caduta di
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pressione in un livello in prova oppure il tempo di risalita della pressione quando lo stesso
viene chiuso alla produzione, è possibile risalire alla sua permeabilità media.
Quando si parla di permeabilità s’intende il suo valore assoluto, cioè come se la roccia fosse
saturata da un solo fluido. Poiché la roccia è sempre saturata da almeno due fluidi (gas, olio e
acqua), è importante conoscere la permeabilità effettiva ad un fluido in presenza di un altro
fluido. In laboratorio, comunque, viene misurato un altro parametro, la permeabilità relativa,
che è il rapporto tra quella effettiva e quella assoluta e che risulta molto utile per gli studi di
giacimento (Fig.13).

Fig. 13 - Curve di permeabilità relativa in sistemi gas/olio e acqua/olio

Conoscere il grado di saturazione in acqua della zona mineralizzata è inoltre molto importante
per poter stabilire quanto volume di roccia è realmente occupato dagli idrocarburi. Tale
parametro viene ricavato tramite i logs elettrici registrati in pozzo attraverso i quali,
immettendo corrente elettrica nello strato, si è in grado di misurare la resistività della roccia
impregnata di fluidi e di risalire al valore di saturazione in acqua, ricordando che gli
idrocarburi sono resistivi (cioè impediscono il passaggio di corrente), mentre l’acqua salata è
conduttiva.
L’accumulo d’idrocarburi, una volta formato, è rimasto indisturbato per milioni d’anni e si
trova in condizioni di pressione e temperatura diverse a seconda della profondità in cui giace.
Normalmente la temperatura, al di sotto di uno strato superficiale variabile da 15 a 130 m,
aumenta di 3 gradi C ogni 100 m, mentre la pressione, detta “pressione di strato” o “pressione

Fig. 14 - Esempio di pressione anomala (in questo caso sovrappressione)

dei pori”, se in condizioni idrostatiche normali equivale al peso di una colonna d’acqua
esercitato dalla superficie fino alla profondità in cui viene misurata (per esempio a 1.000 m si
avranno circa 100 bar). Ci sono tuttavia casi in cui, per varie cause, la temperatura e la
pressione possono trovarsi in condizioni anomale (Fig. 14).

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Gli idrocarburi contenuti in un giacimento possiedono alcune proprietà chimico-fisiche,
quali densità, viscosità, compressibilità, fattore di volume, solubilità del gas nell’olio, punto di
bolla (per l’olio) e punto di rugiada (per il gas), che sono caratteristiche di quel dato fluido e
rimangono immutate fintantoché la pressione e la temperatura non variano. Quando il
giacimento comincia a produrre e la pressione diminuisce, le sue condizioni risultano
perturbate e le proprietà indicate sopra subiscono quindi delle modifiche. Per conoscere come
tali proprietà varieranno al variare della pressione è necessario campionare il fluido (alla
condizioni di giacimento) e sottoporlo in laboratorio ad una serie di test (analisi PVT) per
conoscere appunto come le proprietà chimico-fisiche variano al variare della pressione, del
volume e della temperatura. I risultati di tali test sono molto importanti sia per gli studi di
giacimento sia per la progettazione degli impianti di processo.

Studi di giacimento
Quando un giacimento viene scoperto è necessario effettuare studi di giacimento per poter
stabilire il volume d'idrocarburi presenti e quanti se ne potranno recuperare (infatti non tutti gli
idrocarburi contenuti possono essere prodotti).
Gli studi di giacimento comprendono due parti sequenziali e tra loro interdipendenti: lo studio
geologico e lo studio dinamico.
Lo studio geologico consiste nel definire la geometria del giacimento, le variazioni litologiche
e petrofisiche della roccia, la presenza di faglie e fratture, ecc. e nella valutazione del volume
d’idrocarburi in posto.
Lo studio dinamico, comunemente eseguito tramite modelli matematici, serve invece a definire
il piano di sviluppo (comprendente il numero di pozzi, la loro ubicazione e le portate da
adottare) e nel prevedere un profilo di produzione per tutta la vita produttiva, in definitiva
quanti idrocarburi verranno recuperati.
Ulteriori importanti indicazioni che lo studio dovrà fornire, oltre a quelle per la progettazione
degli impianti di trattamento, sono relative ad eventuali futuri investimenti necessari per
progetti di miglioramento del recupero.
Il volume d’idrocarburi in posto si ottiene dal prodotto tra il volume di roccia lorda (ricavato
dalla mappa strutturale), il rapporto netto/lordo (rapporto tra roccia porosa e permeabile e
roccia lorda, cioè comprensiva degli interstrati impermeabili), la porosità, e la saturazione in
idrocarburi, dividendolo poi per il fattore di volume, definito in laboratorio attraverso le analisi
PVT (che serve a convertire il volume d’idrocarburi dalle condizioni di giacimento a quelle
standard di superficie). Quando viene costruito il modello matematico i parametri indicati
vengono introdotti tenendo conto della loro variabilità. Essendo stato il giacimento suddiviso
nel modello matematico in tanti blocchetti, a ciascuno di questi verranno assegnati i relativi
valori di profondità, spessore, rapporto spessore netto/lordo, porosità, saturazione in
idrocarburi e permeabilità, conformemente ai risultati del modello geologico. Nel modello
verranno inoltre introdotti gli altri parametri ottenuti dalle analisi chimico-fisiche di laboratorio
e dai risultati delle prove di produzione.
Uno dei vantaggi dei modelli matematici è quello di investigare diverse ipotesi di sviluppo, in
termini di numero di pozzi, ubicazione e portate, per poter essere in grado di selezionare quella
più conveniente sia dal punto di vista economico che operativo. Il risultato della simulazione è
quello di ottenere una previsione di produzione del giacimento per tutta la sua vita produttiva,
in termini di portata, pressione, rapporto gas/olio di produzione, water cut (quantità d’acqua
prodotta assieme agli idrocarburi) e rapporto gasolina/gas (giacimenti a gas con condensati).

Meccanismi naturali di produzione


La produzione di un giacimento petrolifero è detta primaria se essa avviene grazie all’energia
propria del sistema sfruttando la pressione. L’insieme delle forze che agiscono sugli
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idrocarburi, in grado di provocarne il movimento attraverso la roccia serbatoio verso il pozzo
vengono chiamati meccanismi di spinta o semplicemente meccanismi di produzione. Tali
meccanismi comprendono: la compattazione della roccia al diminuire della pressione,
l’espansione degli idrocarburi contenuti, l’espansione del gas di cappa (se presente),
l’espansione del gas disciolto nell’olio, l’espansione dell’acquifero sottostante all’accumulo e
l’espansione dell’acqua interstiziale (acqua irriducibile).
Spesso più meccanismi contribuiscono contemporaneamente alla produzione, ma generalmente
si è soliti indicare quello prevalente. Possiamo avere quindi giacimenti che producono per
semplice espansione, che consentono recuperi molto bassi (2-5 %) nei giacimenti ad olio e
molto alti (80-90 %) nei giacimenti a gas (in quanto il gas è un fluido molto comprimibile ed
espandibile); giacimenti che producono per l’espansione del gas disciolto, in cui
l’abbassamento della pressione provoca la liberazione del gas disciolto e il relativo
spiazzamento dell’olio dai pori nei quali è contenuto (tale meccanismo permette recuperi pari
al 15-20 % dell’olio in posto); giacimenti che producono per spinta del gas cap, in cui il gas di
cappa espandendosi esercita un’azione di spinta sull’olio sottostante verso i pozzi produttori
(tale meccanismo permette recuperi pari al 25-30 %); giacimenti che producono per
l’espansione dell’acquifero, quando l’acquifero sottostante è molto esteso (tale meccanismo
risulta di solito il migliore e permette un recupero pari al 30-50 % dell’olio in posto, mentre nei
giacimenti a gas il recupero sarà inferiore rispetto a quelli che producono per semplice
espansione in quanto si avrà anche produzione d’acqua insieme al gas (Figg. 15 e 16).

Fig. 15 - Giacimento ad olio in cui il principale meccanismo di spinta è il gas in soluzione (a sinistra)
o la concomitante azione dell’acquifero e del gas cap (a destra) (da N. J.Clark, SPE 1960 ).

Olio recuperabile
Come abbiamo visto il recupero primario d’olio dai giacimenti è di solito piuttosto basso, sia
perché una parte rimane aderente ai grani della roccia sia perché abbassandosi troppo la
pressione questa può raggiungere un valore corrispondente al punto di bolla (valore al di sotto
del quale il gas disciolto nell’olio si libera e può fluire nel pozzo riducendo la portata d’olio
fino a farla scomparire), sia perché alcune aree di giacimento a bassa permeabilità possono
essere aggirate dal fronte d’acqua spiazzante.

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Fig. 16 - Giacimento ad olio che produce principalmente sotto l’azione di spinta del gas cap (a
sinistra) o dell’acquifero (a destra) (da N.J. Clark, SPE 1960).

Normalmente per aumentare il recupero d’olio si interviene con sistemi di recupero secondario,
iniettando gas o acqua in fase immiscibile nel giacimento in modo da restaurare in parte
l’energia dissipata durante la produzione.
L’iniezione di gas viene effettuata iniettando gas nella parte sommitale della trappola in modo
da creare una cappa di gas come nel caso di un gas cap naturale.
L’iniezione d’acqua (che è la tecnica più comunemente usata) può essere effettuata
direttamente nell’acquifero, in una zona periferica (se la roccia è abbastanza permeabile) e in
questo caso si creerà una condizione simile al meccanismo di spinta naturale dell’acquifero
(Fig 17). Se invece il giacimento è molto esteso e la roccia serbatoio poco permeabile,

Fig 17- Esempio d’iniezione d’acqua periferica a linee radiali.

l’iniezione d’acqua nell’acquifero risulterebbe inefficace per mantenere la produzione a livelli


economici. L’iniezione d’acqua viene allora effettuata nella zona ad olio, con pozzi dedicati
distribuiti secondo schemi da scegliere fra quelli chiamati pattern d’iniezione (Fig. 18).

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Fig. 18 – Principali modelli d’iniezione in olio.

L’acqua utilizzata per l’iniezione può essere reperita da un livello contenente acqua soprastante
o sottostante al livello produttivo, ma non in comunicazione idraulica con esso, dal mare se il
giacimento è ubicato offshore o si trova vicino alla costa oppure da corsi d’acqua. Prima di
essere iniettata l’acqua dovrà essere filtrata, per rimuovere eventuali parti solide, disaerata e
trattata con prodotti chimici, per impedire la precipitazione di sali e la formazione di colonie
batteriche, che andrebbero ad ostruire i pori della roccia.

Ottimizzazione della produzione


Per aumentare la produttività dei pozzi in giacimenti costituiti da roccia compatta a bassa
permeabilità spesso s’interviene acidificando e fratturando la roccia serbatoio tramite
l’iniezione di soluzioni acide ad altissima pressione e aumentando il numero di spari (fori sulla
colonna di rivestimento del pozzo) nell’intervallo produttivo.
Se nei giacimenti ad olio i pozzi non sono più in grado di produrre spontaneamente si
interviene, come già detto, installando nei pozzi sistemi di sollevamento artificiale che possono
essere costituiti da pompe oppure da un’apparecchiatura chiamata gas lift.
I giacimenti a gas producono invece sempre spontaneamente sfruttando unicamente la
pressione. Per ottenere il massimo recupero è necessario imporre un valore di pressione a
fondo pozzo il più basso possibile. In tal caso però la pressione di produzione potrebbe
risultare inferiore a quella della rete di trasporto, per cui il gas prodotto dovrà essere compresso
prima di essere immesso nella rete, tramite centrali di compressione (piuttosto costose), la cui
realizzazione dovrà essere valutata economicamente in relazione all’incremento di recupero
ottenibile.

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Monitoraggio dei pozzi e del giacimento durante la produzione
Durante la sua vita produttiva un giacimento viene monitorato periodicamente e
sistematicamente sia per aggiornare il modello matematico costruito sia per accertare situazioni
anomale nella produzione. Bisognerà quindi, oltre alle portate e alla pressione, monitorare il
rapporto gas/olio di produzione (rapporto tra gas e olio prodotti), il rapporto acqua/olio o
acqua/gas, che talvolta risultano anomali e possono causare indesiderate produzioni di gas (nei
pozzi ad olio) o d’acqua. La produzione indesiderata di gas e d’acqua, se non sono accertate
adeguatamente le cause e non sono adottate le relative azioni correttive, possono
compromettere sia la vita dei pozzi sia quella del giacimento.
Per accertare le cause di produzioni anomale vengono utilizzati speciali strumenti chiamati
“log di produzione”, tramite i quali è possibile rilevare i punti d’entrata e la percentuale dei
fluidi indesiderati e le variazioni delle saturazioni in fluidi nel livello produttivo; fra tali log
ricordiamo il flowmeter, il gradiomanometro e il Thermal Decay Time-TDT, ecc.
Per ottenere un controllo continuo della pressione, della temperatura e della portata a fondo
pozzo le batterie di produzione vengono sempre più spesso dotate di sensori che permettono la
misurazione in modo continuo di tali parametri. Attualmente è in fase di sperimentazione la
tecnologia chiamata lab-on-a-chip che permette, oltre che di misurare in situ i parametri
indicati sopra, di eseguire le più sofisticate analisi di laboratorio.

La decisione di abbandonare un giacimento


Alla domanda “quando un giacimento viene abbandonato?” sembra ovvio poter rispondere
“quando tutti gli idrocarburi sono stati prodotti”. Ciò sarebbe vero se gli idrocarburi fossero
contenuti in una grande cisterna dalla quale attingere fintantoché essa ne contiene. Ma
sappiamo invece che gli idrocarburi sono contenuti in un mezzo poroso insieme ad altri fluidi e
che alla fine della produzione una parte di essi rimane aderente ai pori della roccia o
immobilizzata in aree di giacimento poco drenate.
Normalmente un giacimento dovrebbe essere abbandonato quando i costi relativi all’estrazione
sono superiori ai ricavi. Prima di prendere una tale decisione bisognerà però cercare di attuare
tutte le tecniche e tecnologie disponibili mirate ad un miglioramento del recupero, dopo averne
valutato la fattibilità da punto di vista economico.
Fra le tecniche da attuare per ottenere un ulteriore incremento di recupero ci sono quelle
cosiddette di “recupero terziario” (enhanced oil recovery) che fino ad oggi sono state
scarsamente utilizzate perché piuttosto costose, ma che in regime di prezzi del petrolio alti
potrebbero garantire ritorni economici interessanti. Tali tecniche hanno in definitiva lo scopo di
recuperare un’addizionale quantità d’olio che tramite le tecniche illustrate sopra non sarebbe
assolutamente possibile. Esse sono mirate a recuperare una parte dell’olio residuo migliorando
il rapporto di mobilità tra olio e acqua attraverso il riscaldamento del livello produttivo con
vapore d’acqua o con altri sistemi, l’iniezione di polimeri per rendere l’acqua di strato più
densa, l’iniezione di gas miscibili all’olio come anidride carbonica, metano o azoto, o
l’iniezione di soluzioni alcaline che tendono a modificare la tensione interfacciale tra olio e
acqua.
La decisione di abbandonare o meno un giacimento, oltre che per motivi economici, talvolta
può essere presa per motivi politici o strategici, per esempio perché si hanno interessi futuri
nell’area o perché s’intendono utilizzare gli impianti costruiti per altri futuri progetti.

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TECNICHE DI SVILUPPO DEI GIACIMENTI E TRATTAMENTO DEI
FLUIDI PRODOTTI

La fase di sviluppo di un giacimento petrolifero prende avvio al termine della fase esplorativa
dopo che, in base a studi di giacimento e di fattibilità, è stata riconosciuta l’economicità di un
suo sfruttamento.
Un giacimento può trovarsi in terra oppure in mare (off shore). Nel tempo sono state sviluppate
tecniche e tecnologie sempre più sofisticate per poter mettere in produzione giacimenti
localizzati in ambienti sempre più ostili e in acque sempre più profonde.
Con lo sviluppo di un giacimento si da il via ad una serie d’investimenti, piuttosto ingenti, e che
crescono in funzione della profondità del giacimento e dell’ambiente in cui si trova. Tali
investimenti comprendono: la perforazione e la messa in produzione di tutti i pozzi previsti nel
piano di sviluppo e la relativa connessione con le strutture di produzione; la costruzione degli
impianti per il trattamento dei fluidi prodotti (per portarli a specifica per la
commercializzazione) e di quelli per lo stoccaggio (se il prodotto è un greggio); la costruzione
di eventuali impianti per progetti di recupero secondario (giacimenti a olio); la costruzione di
strutture di carattere logistico quali uffici, officine, sale tecniche, laboratori, alloggi per il
personale, ecc. e, se il giacimento è a terra la costruzione di strade, eventuali aeroporti o
eliporti. Altri impianti necessari comprendono i generatori di energia elettrica, l’eventuale
centrale di compressione (per giacimenti a gas), necessaria quando la pressione del giacimento
risulterà inferiore a quella della rete di trasporto o il sistema di sollevamento artificiale (per
giacimenti a olio) necessario quando i pozzi non saranno più in grado di produrre
spontaneamente.

Giacimenti a terra
Se il giacimento è a terra gli impianti e le strutture menzionati sopra vengono dislocati in modo
che la zona residenziale sia posta ad una distanza di sicurezza dall’area impianti e sopravvento
rispetto ai venti dominanti. Le aree di competenza degli impianti vengono invece suddivise in
lotti per tipologia impiantistica.
I pozzi possono essere perforati tutti in verticale, se l’area in superficie corrispondente al
giacimento è accessibile e possono essere distanziati uno dall’altro da qualche centinaio di
metri a oltre un chilometro a seconda delle caratteristiche del giacimento e del piano di
sviluppo. Molto spesso tuttavia può risultare conveniente, anche per esigenze di carattere
logistico e ambientale, accorpare i pozzi di sviluppo in una o più postazioni (clusters),
perforando da queste i pozzi in deviato sull’obiettivo profondo. Ciò facilita e ottimizza tutte le
operazioni sia nella fase iniziale di perforazione e completamento dei pozzi sia nella successiva
fase di vita produttiva, con notevole risparmio sui costi operativi.

Giacimenti in mare
L’attività di sfruttamento dei giacimenti in mare è molto più recente rispetto a quella a terra.
Essa nasce alla metà del secolo XX, ma ha cominciato a svilupparsi intensamente a partire dagli
anni ’70 con la messa in produzione di numerosi giacimenti soprattutto nel Golfo del Messico e
nel Mare del Nord. Inizialmente le tecnologie per lo sfruttamento di giacimenti in mare sono
state sviluppate per profondità dell’acqua contenute entro i limiti della piattaforma continentale
(cioè fino a circa 200 m). Spingendosi la ricerca in acque sempre più profonde (superiori anche
a 2.000 metri), è stato necessario studiare e sviluppare tecniche e tecnologie sempre più
sofisticate in grado di mettere in produzione giacimenti localizzati a tali profondità.

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Piattaforme offshore
L’attività di sfruttamento dei giacimenti in mare richiede la costruzione di piattaforme, capaci
di contenere l’impianto di perforazione, i pozzi (che devono essere perforati in deviato) e le
teste pozzo, gli impianti di processo per il primo trattamento dei fluidi prodotti (gli impianti di
trattamento vero e proprio e lo stoccaggio dell’olio di solito vengono dislocati a terra sulla costa
e sono collegati al sistema produttivo della piattaforma tramite condotte sottomarine), gli
impianti ausiliari e di sicurezza e gli alloggi per il personale.
Se il giacimento si trova a profondità dell’acqua moderate (non superiori a 400 m) le
piattaforme sono generalmente costituite da strutture rigide appoggiate e ancorate sul fondo,
mentre per profondità superiori esse devono essere lasciate libere di oscillare in risposta alle
sollecitazioni ambientali; per cui generalmente sono galleggianti e sono ancorate al fondo con
sistemi di ancoraggio fissi o dinamici (Fig. 19).

Fig. 19 - Esempi di vari tipi di strutture di produzione off shore.

Le piattaforme rigide constano di una struttura di sostegno, generalmente reticolare, chiamata


jacket, costituita da elementi tubolari saldati assieme, su cui viene fissata la struttura contenente
tutti gli impianti e gli alloggi chiamata topside (tale struttura viene mantenuta ad una certa
distanza dalla superficie dell’acqua onde evitare le azioni del moto ondoso). Una moderna
struttura di topside comprende un modulo principale (deck), nel quale sono generalmente
contenuti i vari impianti disposti su più piani, sul quale viene fissato successivamente il modulo
alloggi, comprendente anche le sale comuni, in cui trovano sistemazione fino a 150 persone.
Sopra il modulo alloggi viene realizzato il ponte elicotteri (helideck), utilizzati per il
trasferimento del personale. Lateralmente sul deck e in posizione sottovento ai venti dominanti,
viene fissata la torcia o fiaccola, costituita da un traliccio metallico avente una certa lunghezza,
che serve a bruciare il gas in caso di emergenza o durante la messa in marcia dell’impianto. Sia
il jacket sia i vari moduli della piattaforma vengono costruiti separatamente a terra in cantieri
allestiti appositamente e vengono poi caricati su chiatte o bettoline e trasportati sul luogo di
installazione (Fig. 20).
Interessante è la tecnica di varo e installazione del jacket. Esso viene trasportato in orizzontale
sulla bettolina e viene varato sul sito d’installazione mediante un’operazione detta di “lancio”.
Durante tale operazione la bettolina viene opportunamente zavorrata in modo da farla inclinare
di qualche grado verso poppa. A questo punto il jacket viene spinto da martinetti idraulici e

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fatto scorrere sulle guide dove si trova collocato sulla bettolina fino a che cade in mare. Il
jacket può galleggiare grazie a dei serbatoi provvisori aderenti alla struttura (rimossi
successivamente) chiamati “cilindri di spinta” (buoyancy tanks) che, allagati in modo
differenziato permettono al jacket, prima di posizionarsi in assetto verticale e poi di affondare
in tale posizione fino a toccare il fondo. Il jacket viene successivamente reso stabile con il
fondo tramite una serie di pali di fondazione costituiti da elementi tubolari di grande diametro
(lunghi talvolta anche più di 100 m), infissi tramite battipali subacquei azionati idraulicamente.
L’installazione del deck e degli altri moduli sul jacket viene effettuata con l’utilizzo di potenti
mezzi navali dotati di coppie di gru che lavorano in tandem, capaci di sollevare il deck (e poi gli
altri moduli) dalla bettolina e posizionarli sul jacket.

Fig 20 – Esempio di piattaforma fissa (da F. Pallavicini, Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani).

Per particolari tipi di ambiente, come il Mare del Nord o zone artiche, in alternativa al jacket in
traliccio di acciaio, possono essere costruite strutture di supporto cosiddette “a gravità” molto
pesanti, realizzate in cemento armato, che aderiscono sul fondo per effetto del proprio peso. La
base di tali supporti è molto massiccia e di grandi dimensioni e molto spesso consente anche lo
stoccaggio dell’olio prodotto grazie ai serbatoi ricavati all’interno delle celle della struttura
basale (Fig. 21).

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Fig. 21 - Esempio di piattaforma a gravità (da F. Pallavicini, Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani).

Le strutture a gravità vengono costruite in bacini di carenaggio di grandi dimensioni; vengono


poi trasferite in galleggiamento (grazie alla base stagna) in un’area di mare protetta, dove
tramite navi gru vengono installati i moduli di topside sulla struttura. La piattaforma completa
viene poi rimorchiata in galleggiamento fino al sito di installazione e affondata in modo lento e
controllato allagando i serbatoi stagni. Le strutture a gravità sono molto robuste e possono
reggere anche l’urto di iceberg.
Per profondità dell’acqua superiori a 400 m fino a oltre 2.000 m, non è più possibile usare le
stesse strutture rigide adottate per i bassi fondali, per cui è stato necessario studiare nuovi
tipi di piattaforme, che pur mantenendosi ancorate al fondo, siano libere di subire leggeri
spostamenti adattandosi al moto ondoso.
Le strutture di topside rimangono più o meno uguali per qualsiasi tipo di piattaforma; mentre
cambia invece, a seconda della profondità dell’acqua, delle dimensioni del giacimento e
dell’ambiente, la parte di sostegno del topside che si trova a contatto col mare.
Per fondali non superiori a 600 m (talvolta anche fino a 900 m) è ancora possibile costruire
piattaforme simili a quelle tradizionali (in quanto anch’esse fissate al fondo), ma molto più
snelle e costituite da due parti: una parte inferiore più corta fissata sul fondo con sistemi
tradizionali e una parte superiore, più lunga, appoggiata su quella inferiore, collegate da
complessi sistemi di stabilizzazione, che permettono una parziale flessione della struttura e la
rendono adatta a resistere alle sollecitazioni laterali del moto ondoso. Tali strutture vengono
chiamate Compliant Tower, cioè “torri adattabili” (Fig. 22).

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22 – Compliant tower (da F. Pallavicini, Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani

Per profondità dell’acqua superiori sono stati studiati vari tipi di strutture galleggianti come: le
TLP (Tension Leg Platform) e le Mini TLP, la cui parte galleggiante è ancorata sul fondo con
tiranti verticali (Fig. 23); le piattaforme SPAR e Truss SPAR (Fig. 24), in cui la parte
galleggiante è costituita da una torre cilindrica di circa 25 m di diametro, alta 200-250 m, che
galleggia in assetto verticale grazie alla opportuna predisposizione dei compartimenti stagni ed
è ancorata con un sistema di ormeggi costituito da cavi disposti in modo radiale attorno alla
torre.

Fig. 23 - Piattaforma TLP (a sinistra) e Mini TLP (a destra) (da F. Pallavicini, Enciclopadia.
degli Idrocarburi Treccani).

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Fig. 24 - Piattaforma SPAR (a sinistra) e Truss SPAR (a destra) (da F. Pallavicini, Enciclopedia
degli Idrocarburi Treccani).

Tutti i tipi di piattaforme descritti finora consentono di portare i pozzi con le loro teste pozzo
sulla piattaforma e da qui operarli durante tutta la vita produttiva. In alternativa, esistono altri
tipi di sistemi di produzione galleggianti, che non consentono però di portare i pozzi e le teste
pozzo in superficie, ma devono essere abbinati a sistemi di produzione sottomarina, dove le
teste pozzo sono fissate sul fondo del mare. In questo caso i pozzi vengono perforati e
completati precedentemente e vengono collegati con l’unità di produzione galleggiante,
chiamata FPS (Floating Production System) tramite tubazioni rigide o flessibili (riser), che
servono a portare i fluidi prodotti dalle teste pozzo sottomarine fino agli impianti di superficie.
L’unità FPS viene inoltre collegata con i sistemi di produzione sottomarina da una tubazione
flessibile, chiamata umbilical, in cui si trovano i cavi elettrici, scorrono i fluidi idraulici che
servono a controllare le teste pozzo dalla superficie ed eventuali sostanze chimiche necessarie
durante l’avviamento dei pozzi. Le unità FPS sono mantenute in posizione tramite cavi e catene
ancorati al fondo oppure tramite sistemi di posizionamento dinamico.

Fig. 25 - Impianto di produzione galleggiante tipo semisommergibile FPS (a sinistra) e FPSO


(a destra) (da F. Pallavicini, Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani).

Queste unità di produzione non dispongono di alcuna capacità di stoccaggio. Per evitare di
costruire tubazioni per l’esportazione di non facile realizzazione e di costo elevato, molto

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spesso esse vengono abbinate a mezzi di stoccaggio (navi cisterna) e ad una boa di
caricamento ormeggiate nei pressi della FPS.
In alternativa alla FPS spesso vengono utilizzate petroliere convertite per questo uso o navi
costruite appositamente, in cui trovano alloggio, oltre agli impianti di perforazione e
produzione, anche il sistema di stoccaggio dell’olio. Tali unità di produzione, stoccaggio e
caricamento vengono chiamate FPSO (Floating Production Storage & Offloading) (Fig. 25).

Trattamento dei fluidi prodotti


Gli impianti di trattamento necessari per rendere i fluidi prodotti trasportabili e commerciabili
sono diversi a seconda che si tratti di olio o di gas.

Trattamento dell’olio
Se il fluido prodotto è un greggio è necessario, prima di tutto, disidratarlo e degassarlo, cioè
togliere l’acqua prodotta assieme all’olio ed il gas in esso disciolto. Per fare questo si usano di
solito separatori trifase, speciali apparecchiature tramite le quali è possibile separare
contemporaneamente dall’olio sia l’acqua sia il gas (Fig. 26).

Fig. 26 – Esempio di separatore trifase (da Rojey e Jaffret, Ed. Tecnip, 1977).

L’acqua può essere presente sia come acqua di condensa sia come acqua di strato e può
presentarsi sia in forma libera sia sotto forma di emulsione.
Quando è presente un’emulsione olio-acqua, prima della separazione occorre rompere tale
emulsione per portare l’acqua allo stato libero. Ciò si ottiene addizionando all’olio prodotti
chimici ad azione disemulsionante o tramite riscaldamento. La disidratazione può essere
ottenuta anche sottoponendo l’emulsione ad un campo elettrico (15.000 – 20.000 volt), che
provoca la collisione e la coalescenza delle goccioline d’acqua disperse, consentendo la
separazione dell’acqua per gravità.
Poiché l’acqua di strato prodotta insieme all’olio, essendo salata può lasciare in sospensione
nell’olio dei cristalli di cloruro di sodio, il greggio prodotto deve essere desalificato. Le
apparecchiature utilizzate per tale processo sono simili a quelle utilizzate per la disidratazione
elettrostatica, avendo l’accorgimento di aggiungere acqua dolce per sciogliere i cristalli di sale
in sospensione; l’acqua arricchita di sale verrà poi separata dall’olio.

Fig. 27 – Schema di una colonna di strippaggio.

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Un altro importante processo di trattamento che normalmente i greggi prodotti devono subire è
quello della desolforazione. Molto spesso infatti i greggi contengono disciolte percentuali di
idrogeno solforato, gas tossico molto corrosivo, che deve essere eliminato. Il processo di
desolforazione più usato è il cosiddetto “strippaggio”, in cui vengono utilizzati speciali
recipienti cilindrici verticali (stripping tower), all’interno dei quali del gas dolce viene fatto
gorgogliare in controcorrente attraverso il greggio, sottraendogli l’idrogeno solforato (Fig. 27).
Dopo aver subito i vari trattamenti il greggio normalmente viene stoccato in serbatoi cilindrici
in acciaio, pronto per essere trasportato (Fig. 28).

Fig. 28 - Schema dei processi di trattamento cui è sottoposto un olio greggio a seconda delle sue caratteristiche.

Trattamento del gas


Se il fluido prodotto è gas, esso può contenere acqua (sia sotto forma di condensa sia di strato),
idrocarburi pesanti e superiori (chiamati genericamente gasoline), gas inerti come anidride
carbonica e azoto e gas tossici come l’idrogeno solforato; prima di essere commercializzato il
gas deve quindi essere disidratato, degasolinato e addolcito.
Il processo di semplice disidratazione può essere effettuato tramite impianti al glicol, avendo
tale prodotto la proprietà di assorbire l’umidità del gas.
Per limitate quantità di gas la semplice disidratazione può essere effettuata anche tramite
impianti che utilizzano membrane polimeriche aventi la proprietà di essere permeabili all’acqua
e relativamente impermeabili al gas.

Fig. 29 - Trattamenti effettuati ai vari tipi di gas naturale prodotti.

Per gas contenenti sia acqua sia discrete quantità di gasolina, la disidratazione e il
degasolinaggio possono essere effettuati contemporaneamente, utilizzando impianti cosiddetti
“a letto solido”, che sfruttano le proprietà adsorbenti di alcune sostanze solide, come allumina
attiva e silica gel, che grazie a tale proprietà trattengono sia l’acqua sia la gasolina. La
separazione tra acqua e gasolina risulta poi facilitata grazie alla diversa densità dei due fluidi.
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La disidratazione e il contemporaneo degasolinaggio possono essere effettuati anche tramite
separatori a bassa temperatura chiamati LTS (Low Temperature Separator). Il gas all’ingresso
del LTS viene fatto espandere repentinamente attraverso una valvola di controllo; a causa
dell’espansione (per effetto Joule-Tomson) il gas si raffredda favorendo la condensazione sia
dell’acqua sia della gasolina, che vengono separate dal gas nel LTS.
I processi di addolcimento sono mirati a rimuovere dal gas l’idrogeno solforato e l’anidride
carbonica che, oltre ad essere tossico il primo, provocano corrosione nelle tubazioni. Gli
impianti utilizzati per tale processo fanno venire a contatto, in appositi recipienti (colonne)
soluzioni acquose a base di ammina, che grazie alle loro proprietà basiche assorbono sia
l’idrogeno solforato sia l’anidride carbonica (Fig. 29).

IL TRASPORTO DEGLI IDROCARBURI


Il trasporto degli idrocarburi è una voce molto importante nella valutazione dell’economicità di
un progetto di sviluppo di un giacimento petrolifero e possiamo dire che esso è parte integrante
del progetto stesso. Infatti, per poter affermare di aver scoperto un giacimento è necessario
dimostrare che esso è economicamente sfruttabile ed il costo del trasporto del fluido dal
giacimento ai luoghi d’utilizzo e di commercializzazione molto spesso incide fortemente
sull’economicità del progetto, specialmente se il giacimento si trova in zone remote.
Tradizionalmente quando si parla di trasporto idrocarburi, ci si riferisce a quello effettuato in
condotta (pipeline) e a quello via mare con navi cisterna (petroliere e metaniere). Bisogna
tuttavia fare una netta distinzione fra condotte a terra e condotte sottomarine e fra fluidi
trasportati (gas o greggio), in quanto sia i due ambienti sia i due fluidi presentano
problematiche di trasporto diverse.
Il trasporto di idrocarburi in condotta, utilizzato a partire dal 19° secolo e affermatosi dalla
metà del 20° secolo, ha sviluppato tecniche e tecnologie di costruzione, di posa e di gestione di
alto livello e nello stesso tempo ha generato elevati livelli di sicurezza. Generalmente il
trasporto in condotta presenta costi d’investimento piuttosto alti, bilanciati però da costi
operativi relativamente bassi. Esso non è molto conosciuto dall’opinione pubblica, in quanto
non interferisce con attività umane. Per chi opera nell’industria del petrolio, le condotte
rappresentano tuttavia un investimento da gestire con cura in quanto elementi portanti della
politica energetica di uno stato.

Trasporto del greggio in condotta


Il trasporto del greggio in condotta viene effettuato prevalentemente su percorsi a terra e serve
a collegare aree di intensa utilizzazione o terminali petroliferi di caricamento delle petroliere
con zone continentali di produzione remote.
Il trasporto in condotta di greggio in ambiente sottomarino è di solito limitato a pochi casi e
comunque per distanze moderate e su fondali relativamente piatti, in quanto le condotte
richiedono l’installazione di stazioni di pompaggio intermedie.

Trasporto del gas in condotta


Il trasporto del gas in condotta è stato fino a poco tempo fa l’unico mezzo per veicolare ingenti
quantità di gas (anche attraverso gasdotti sottomarini di grande lunghezza come quelli, per
esempio, tra il Nord Africa e la Sicilia), presentando quello con navi cisterna problematiche e
costi eccessivi. Questo fatto aveva infatti limitato, fino a poco tempo fa, lo sviluppo anche di
grossi giacimenti di gas dislocati in zone troppo lontane dai luoghi di utilizzo (per esempio il
North Field in Qatar, il più grosso del mondo, che scoperto negli anni sessanta dello scorso
secolo è rimasto inutilizzato per oltre trenta anni). Cresciuto il mercato del gas e migliorate le
tecniche di trasformazione e trasporto, anche la veicolazione del gas con navi cisterna sta
diventando una valida alternativa al trasporto in condotta, presentando grossi vantaggi
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soprattutto di carattere strategico, potendo un paese importatore differenziare le importazioni
da più aree.

Tecniche di costruzione e posa delle condotte a terra


Prevedono lo scavo di una trincea lungo un percorso predefinito (profonde generalmente un
paio di metri), la saldatura con sistemi automatici o semiautomatici di tubi lunghi mediamente
12 metri uno dopo l’altro sul bordo della trincea e la posa successiva sul fondo di stringhe
lunghe alcune centinaia di metri tramite macchine di sollevamento-posa adeguate, aventi bracci
laterali e contrappesi, che operano in modo coordinato per evitare curvature eccessive (tali
stringhe vengono poi collegate l’una all’altra con saldature a mano eseguite direttamente in
trincea).
Lungo il tracciato della condotta (quando questa è piuttosto lunga) devono essere previste
stazioni di pompaggio intermedie per il greggio o di compressione (meno frequenti) per il gas,
per sopperire alle perdite di pressione che avvengono lungo il percorso, dovute soprattutto
all’attrito del fluido trasportato con le pareti dei tubi.
Particolarmente importanti sono gli studi da eseguire durante la progettazione delle condotte
per stabilire il diametro (che può superare il metro), lo spessore dei tubi (da 12 mm a 20 mm
per le condotte a terra, da 15 mm a 35 mm per le condotte sottomarine) e il materiale (acciai
speciali) da usare, in funzione della quantità e del tipo di fluido da trasportare, della pressione
di esercizio e delle sollecitazioni previste.
Particolare cura è richiesta soprattutto nella scelta e nella progettazione del tracciato, onde
evitare zone franose, zone di faglia e pendii pericolosi e, se non evitabili, prevedere opere
adeguate per impedire danneggiamenti della condotta. Interessanti le tecniche usate per gli
attraversamenti di strade, autostrade, ferrovie e corsi d’acqua, che di solito prevedono la
costruzione di micro tunnel e la contemporanea installazione della condotta usando macchine
speciali.
Le condotte, come già detto, sono composte da tubi in acciaio e prevedono, soprattutto contro
la corrosione, una protezione esterna cosiddetta passiva, costituita da una guaina in asfalto,
polietilene, ecc. ed una protezione attiva, costituita da anodi sacrificali in zinco o alluminio.
Inoltre, esse prevedono un rivestimento interno in resine epossidiche per ridurre l’attrito tra il
fluido trasportato e la parete di acciaio e un ulteriore rivestimento in cemento armato per
fornire il peso necessario alla sua stabilità nel letto di posa e una protezione meccanica contro
interferenze esterne.

Tecniche di costruzione e posa delle condotte sottomarine


Le condotte sottomarine vengono invece di solito adagiate sul fondo e non interrate. Esse
vengono interrate solo nelle zone di raccordo con la costa o per brevi tratti sul fondale, dove ci
sono particolari problemi.
Non potendosi avvalere di visioni dirette, di carte topografiche di dettaglio e di foto aeree come
sulla terraferma, la fase conoscitiva dei fondali si affida soprattutto a sistemi strumentali e
tecnologie sofisticate. La caratterizzazione morfologica, geotecnica e fisica del fondale viene di
solito derivata da indagini geofisiche e da prove penetrometriche e per i dettagli si affida a
minisommergibili e foto del fondale.
Uno dei principali problemi delle condotte sottomarine riguarda (per fondali particolarmente
irregolari) i tratti che rimangono sospesi fra due zone di cresta, che devono essere completate
con opere di sostegno (Fig. 30).
La parte più interessante dal punto di vista tecnologico delle condotte sottomarine riguarda la
fase di posa, che richiede l’uso di mezzi specifici, le navi posatubi, di notevoli dimensioni e
costi, che sono delle vere e proprie officine di lavoro galleggianti, dove trovano alloggio anche

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Fig. 30 – Esempio di condotta posata su fondali irregolari (da R. Bruschi, Enciclopedia Idrocarburi Treccani).

centinaia di persone che lavorano a ciclo continuo su 24 ore per preparare e saldare i tubi e
calarli via via in mare.
La tecnica più comunemente usata per la posa in mare è quella cosiddetta a “S”, così chiamata
per la forma tipica che la condotta assume lungo la campata di varo. Man mano che la condotta
scorre verso il fondale viene sostenuta tramite tensiometri e clampe scorrevoli applicati
longitudinalmente alla condotta.
Per la posa in acque molto profonde, che richiederebbe l’applicazione di forze longitudinali
sempre più crescenti, creando perciò problemi al sistema di ancoraggio e posizionamento della
nave, viene usato il metodo di posa cosiddetto a “J”, caratterizzato da una rampa di varo
pressoché verticale. Tale metodo è stato usato tra il 2000 e il 2002 nella installazione di due
condotte sottomarine da 24 pollici ciascuna (61 cm) di diametro nel Mar Nero a profondità di
oltre 2.000 metri, per una lunghezza di circa 350 km.
Per le condotte di modesto diametro fino a 14 - 16 pollici (35,6 - 40,6 cm) i tubi possono essere
saldati insieme a terra e avvolti su un tamburo. Durante la posa, effettuata con navi posatubi
appositamente attrezzate per questa funzione, la tubazione viene svolta dal tamburo,
raddrizzata e calata in mare.
Le condotte, sia in terra che in mare, vengono collaudate riempiendole di acqua e
pressurizzandole al di sopra del valore di pressione di esercizio, svuotandole poi e asciugandole
con aria compressa, azoto o tramite vuoto pneumatico. Le pressioni usate per il trasporto vanno
dai 75 ai 100 bar per le condotte a terra, mentre per quelle in mare oscillano tra 200 e 300 bar.
Durante tutta la vita le condotte devono essere continuamente ispezionate, sia esternamente (in
mare tramite robot) sia internamente introducendo nella condotta, attraverso stazioni di lancio e
ricezione, speciali attrezzature chiamate pig spinte dal fluido stesso che viene trasportato.
Vengono utilizzati pig calibratori per ottenere dettagli sulla parete interna, pig magnetici e a
ultrasuoni per verificare il grado di corrosione, pig per rilevare eventuali fessure e pig per
identificare falle o crepe.

Trasporto del greggio via nave


Il trasporto di greggio via nave prende avvio a partire dai terminali di caricamento posti nei
pressi della costa (talvolta off shore), dove il greggio proveniente dai giacimenti in produzione,
dopo aver subito i relativi trattamenti, viene stoccato in serbatoi cilindrici in acciaio, aventi la
capacità di contenere una quantità di greggio pari a circa 10 giorni di produzione (per sopperire
a eventuali disguidi nel trasporto cisterniero ed evitare interruzioni della produzione).
Fondamentalmente la tecnica costruttiva delle petroliere è rimasta pressoché immutata negli
anni per quanto riguarda l’allocazione delle cisterne. Esse sono parte integrante della nave e
sono allocate nella stiva; sono suddivise da compartimentazioni longitudinali e trasversali,
hanno intercapedini per lo zavorramento e paratie stagne. Quello che sta cambiando nella
tecnica costruttiva ed in parte è già avvenuto, sono gli accorgimenti adottati per quanto

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riguarda la sicurezza e la tutela dell’ambiente, imposti da accordi internazionali ed europei
(per il Mediterraneo). Le navi moderne devono infatti essere provviste di intercapedini o
cisterne adibite allo zavorramento (con acqua), in modo che la zavorra non vada a contatto con
le cisterne del carico, devono avere il doppio scafo (che in caso di incidenti rappresenta una
garanzia) e devono avere attrezzature adatte per il lavaggio delle cisterne (eseguito durante il
viaggio di ritorno) e lo smaltimento dei reflui.
Anche i terminali di carico/scarico devono avere attrezzature adeguate per garantire la
sicurezza e la tutela dell’ambiente, che tuttavia non ancora tutti i paesi hanno adottato.
Uno dei principali problemi provocati dal traffico petrolifero marittimo sono le cosiddette
“maree nere”, che a differenza di quello che si pensi non sono tanto generate da cause
accidentali (come l’affondamento di una petroliera), ma piuttosto da versamenti di routine
dovuti al lavaggio delle cisterne, a perdite durante le operazioni di carico/scarico, ecc.
Nella fase di carico il sistema di pompaggio si trova a terra presso il terminale, mentre in quella
di scarico è la nave stessa che provvede, attraverso il suo sistema di pompaggio a bordo, allo
scarico del greggio nei serbatoi di stoccaggio allocati nei pressi del terminale. Il sistema di
pompaggio a bordo è dimensionato in modo da poter eseguire lo scarico in una ventina di ore
(solitamente il 5 % all’ora del carico). Le petroliere sono munite di un sistema di riscaldamento
a serpentina posto nella parte bassa delle cisterne, nelle quali viene fatto circolare vapore, che
serve a riscaldare il greggio prima dello scarico. Tale riscaldamento (fino a circa 50° C), che
solitamente viene attivato prima di arrivare al terminale, produce una riduzione di viscosità del
greggio facilitando le operazioni di pompaggio.
Durante il viaggio di ritorno verso i terminali di carico, per ottenere una maggiore stabilità le
petroliere vengono zavorrate pompando acqua di mare nelle apposite intercapedini adibite a
tale uso; la zavorra viene eliminata prima di eseguire il caricamento.
Esistono 5 tipologie di petroliere, suddivise in base alle dimensioni e alla capacità di trasporto:
le Panamax aventi capacità da 55.000 a 70.000 tpl (tonnellate di petrolio lorde), adatte per
l’attraversamento del Canale di Panama; le Aframax da 75.000 a 120.000 tpl, con sei classi
tariffarie, adatte per il trasporto a breve e medio raggio; le Suezmax da 120.000 a 200.000 tpl,
adatte per il trasporto attraverso il Canale di Suez; le VLCC (Very Large Crude Carrier) per il
trasporto di grandi volumi di greggio (da 200.000 a 320.000 tpl), adatte per lunghe distanze; le
ULCC (Ultra Large Crude Carrier) da oltre 320.000 tpl, che però possono accedere solo a
pochi porti e sono poco flessibili.
La flotta petrolifera mondiale (se si escludono le navi di piccola stazza, cioè inferiore a 10.000
tpl) è di circa 3.500 unità, con una capacità complessiva di trasporto di poco inferiore ai 300
milioni di tpl.
Per la sicurezza dei mari norme internazionali hanno stabilito un piano di dismissione di tutte
le navi vecchie e la graduale sostituzione con nuove navi provviste di doppio scafo e munite di
tutte le attrezzature necessarie per la tutela dell’ambiente. Per quanto riguarda l’Europa ed in
particolare il Mediterraneo, dove oggi transitano giornalmente oltre 8 milioni di barili di
greggio (con una previsione a 10 milioni nel prossimo decennio) sono state decise restrizioni
ancora più rigide, che impediscono il transito di navi costruite prima del 1982 che abbiano
raggiunto un’età di 23 anni (anziché 28 come precedentemente previsto) e la messa in mora
entro il 2010 delle altre grandi navi (oltre 250.000 tpl) sprovviste di doppio scafo.

Trasporto del gas via nave


Le crescenti richieste di gas e le previsioni di un suo utilizzo sempre più massiccio, anche
perché costituisce una fonte di energia abbastanza pulita, hanno spinto le compagnie petrolifere
e di trasporto a migliorare le tecniche e le tecnologie di trasporto via nave di questo prodotto in
modo da poter competere, anche dal punto di vista economico, con il trasporto in condotta. Le
tecniche finora utilizzate sono state: quella del trasporto del gas compresso (CNG, Compressed
Natural Gas) e quella del trasporto del gas liquefatto (LNG, Liquefied Natural Gas; in italiano
GNL, Gas Naturale Liquefatto).
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La tecnica di trasporto CNG è la più antica e presenta costi relativamente più bassi rispetto
alla GNL; permette però di trasportare minori quantità di gas, su distanze inferiori e soprattutto
risulta più pericolosa, dovendo il gas essere trasportato in navi cisterna a pressioni comprese tra
200 e 250 bar (tecniche più moderne permettono comunque di abbassare tale valore di
pressione raffreddando il gas fino a – 30° C).
La tecnica di trasporto GNL è senz’altro oggi quella maggiormente utilizzata, in quanto
permette di trasportare ingenti quantità di gas (avendo un fattore di riduzione di 610 volte,
rispetto alle 200-250 volte del CNG). Essa consiste nel liquefare il gas con sistemi di
refrigerazione multipli o in cascata a – 162° C e nel trasportarlo a tale temperatura e a
pressione atmosferica con navi cisterna adeguate, aventi serbatoi ben coibentati (Fig. 31).

Fig. 31 – Schema che illustra il ciclo di produzione e trasporto del GNL (da C. Alimonti, Enciclopedia
degli Idrocarburi Treccani).

Durante il trasporto tuttavia è inevitabile che a causa dello scambio termico tra l’interno e
l’esterno dei serbatoi si verifichi una vaporizzazione del GNL liberando gas. Tale
vaporizzazione risulta comunque contenuta in 0,1 – 0,2 % del carico e il gas vaporizzato può
essere utilizzato per i servizi di bordo e per la propulsione della nave se questa impiega turbine
a vapore. Se invece la nave impiega motori diesel il gas vaporizzato (al netto dell’utilizzo per i
servizi di bordo) viene ri-liquefatto sulla nave.
A parte i costi del trasporto, i costi che incidono maggiormente sulla tecnica GNL sono quelli
relativi agli impianti per la liquefazione e quelli per lo stoccaggio e la riconversione in gas. I
rigassificatori sono costituiti semplicemente da sistemi di riscaldamento del GNL ad acqua o
ad aria. Attualmente sono allo studio tecniche per convertire direttamente il GNL in gas
evitando i costi per lo stoccaggio (Fig. 32).

Fig. 32 - Schema di un terminale di ricezione e rigassificazione del GNL (da C. Alimonti, Enciclopedia
degli Idrocarburi Trecccaani)

Altri sistemi di trasporto del gas


Un sistema allo studio per il trasporto del gas, in alternativa al CNG e al GNL, è il cosiddetto
GTS (Gas To Solid), cioè la trasformazione del gas in idrati di metano (solidi), il trasporto di
questi come tali e la successiva riconversione in gas nelle aree di ricevimento.
Altre tecniche riguardano invece la trasformazione del gas in un’altra forma di energia,
trasportando e utilizzando poi questa come tale. Ci riferiamo alle tecniche GTL (Gas To
Liquid), cioè alla trasformazione del gas in combustibili di sintesi come il cherosene, la nafta e
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il gasolio (nel 2004 due di tali impianti erano in produzione rispettivamente in Sud Africa e
in Malaysia) o in prodotti chimici come il metanolo e il dimetiletere e quelle GTW (Gas To
Wire) alla trasformazione cioè del gas in energia elettrica e al relativo trasporto di questa via
cavo.
Sia per quanto riguarda il GTL che il GTW si tratta in genere di quantitativi di gas limitati e
dispersi (generalmente in forma di gas associato all’olio) che normalmente vengono bruciati in
fiaccola e il cui utilizzo attraverso un’altra forma di trasporto sarebbe difficoltosa e non
economica.

LO STOCCAGGIO DI GAS NATURALE IN SOTTERRANEO E SUE


PROBLEMATICHE

Lo stoccaggio di gas in sotterraneo è un argomento di grande attualità in quanto esercita un


ruolo determinante nello sviluppo del mercato del gas e nella sua stabilizzazione. Lo
stoccaggio di gas inoltre è importante sia per la regolazione stagionale delle forniture di gas sia
per il mantenimento delle riserve strategiche. Ma che cosa è in realtà lo stoccaggio? Esso non è
altro che l’immagazzinamento in strutture geologiche del sottosuolo di una quantità di gas
importato in eccesso durante il periodo di minor consumo (solitamente l’estate), per essere poi
utilizzata nel periodo di maggior consumo (l’inverno) (Fig. 33).

Fig. 33 – Esempio di stoccaggio di gas in giacimenti gassiferi esauriti.

Anche i paesi ricchi di gas e che sono esportatori utilizzano la tecnica degli stoccaggi, per
fornire gas senza interruzione alle aree maggiormente industrializzate rispettando le variazioni
di richiesta orarie, giornaliere e stagionali, evitando così la costruzione verso tali aree di
gasdotti di grande capacità di trasporto, che ovviamente avrebbero un basso coefficiente di
utilizzazione per buona parte dell’anno (a fronte di grossi investimenti).
Le strutture geologiche in cui viene effettuato lo stoccaggio possono essere rappresentate da:
• giacimenti di gas o di olio esauriti o semiesauriti;
• acquiferi (strutture geologiche aventi caratteristica di trappola ma contenenti acqua);
• cavità ricavate entro depositi salini;
• miniere abbandonate (molto più raramente).
Più del 70 % dello stoccaggio di gas viene effettuato nei giacimenti esauriti o semiesauriti
gassiferi, sia perché questi richiedono minori investimenti, sia perché in essi è garantita la
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tenuta avendo già contenuto gas. I risparmi sugli investimenti per tali tipi di stoccaggi sono
relativi ai costi esplorativi, praticamente inesistenti e alla possibilità di utilizzo sia di pozzi
esistenti (anche se dovranno essere ricompletati ad hoc) sia di impianti di trattamento già
costruiti e che dovranno subire solo piccole modifiche.
Lo stoccaggio negli acquiferi è invece più costoso in quanto richiede alti costi esplorativi per la
ricerca della trappola e test approfonditi per verificare la tenuta della copertura, per la
perforazione di tutti i pozzi necessari, oltre che per la costruzione degli impianti di superficie
(centrali di compressione e di trattamento).
Lo stoccaggio nelle cavità saline è abbastanza costoso (in rapporto al basso volume di gas che
permette di stoccare), specialmente se le cavità non sono preesistenti cioè generate per lo
sfruttamento del cloruro di sodio. Se devono essere create appositamente si dovranno adottare
tecniche particolari che consistono nell’effettuare una iniezione in modo continuo di acqua
dolce nella formazione salina tramite un pozzo e nell’asportazione attraverso lo stesso della
salamoia che via via si forma; in tal modo verranno a formarsi delle caverne artificiali
oblunghe a forma di pera (Fig. 34).

Fig. 34 - Schema di costruzione di una caverna artificiale per lo stoccaggio di gas in un deposito salino
(da G. Altieri, Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani).

Gli stoccaggi nelle cavità saline, pur avendo una bassa capacità di immagazzinamento,
permettono di ottenere una risposta immediata e vengono soprattutto impiegati nei casi di
emergenza e quando ci sono improvvise richieste di gas ma per brevi periodi.
Fra gli investimenti da considerare nei vari tipi di stoccaggio c’è quello relativo ad un certo
volume di gas inattivo (cushion gas), che rimane immobilizzato durante tutto il periodo in cui
il giacimento viene utilizzato per lo stoccaggio. Il cushion gas ha la funzione di garantire il
mantenimento di una certa pressione e quindi la produttività dei pozzi ed evitare l’avanzamento
della tavola d’acqua. Il cushion gas potrà essere recuperato solo quando il giacimento non sarà
più utilizzato per lo stoccaggio. La capacità di stoccaggio da considerare di un giacimento sarà
quindi quella relativa alla quantità di gas che realmente può essere movimentato durante un
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ciclo completo di stoccaggio (iniezione/erogazione) e che viene normalmente chiamato
working gas (vedi Fig. 33).
Lo stoccaggio di gas nei giacimenti esauriti o semiesauriti risulta facilitata se questi sono di
natura volumetrica (non presentano cioè una forte spinta prodotta dall’acquifero sottostante). In
questo caso durante la fase di riempimento (iniezione) sarà richiesta una quantità minore di
energia (pressione), in quanto non sarà necessario fare arretrare il fronte d’acqua avanzato
durante la fase di erogazione come negli altri casi.
Gli studi di giacimento per gli stoccaggi vengono effettuati con l’ausilio di modelli matematici,
i quali ovviamente risulteranno più attendibili (almeno per i primi cicli di iniezione/erogazione)
per i giacimenti esauriti e semiesauriti in quanto hanno la possibilità di essere tarati in base al
comportamento del giacimento durante la sua vita produttiva. Tramite tali modelli è possibile
effettuare simulazioni dinamiche ipotizzando diversi scenari, per verificare come il giacimento
possa rispondere a cicli alternati di iniezione/erogazione variando il numero di pozzi, il tipo,
l’ubicazione e il completamento. E’ importante sottolineare che se il giacimento è stato in
produzione esso ha fornito una quantità di gas in un certo numero di anni, mentre, in caso di
stoccaggio, allo stesso giacimento viene richiesto di poter assorbire e verosimilmente restituire
importanti volumi di gas in un arco di tempo limitato (5-6 mesi per l’iniezione e altrettanti per
l’erogazione). Quindi è molto importante che tali giacimenti abbiano adeguate caratteristiche,
presentino cioè buona porosità e permeabilità, siano piuttosto omogenei e per essi sia stato
predisposto un adeguato numero di pozzi, con tubing di grandi dimensioni (se non addirittura
pozzi orizzontali), oltre che il mantenimento di un certo valore di pressione, che tuttavia non
potrà superare i limiti stabiliti in base a test o per legge.
Per determinare il fabbisogno di gas stoccato è necessario conoscere la vendita annuale e i
relativi profili mensili e giornalieri per uso industriale, termoelettrico e civile (sia per uso
domestico che per riscaldamento), oltre che il profilo mensile e giornaliero dei volumi
approvvigionati nel corso dell’anno. Per quanto riguarda la vendita annuale e il profilo mensile
le maggiori incertezze sono legate all’uso civile per riscaldamento, in quanto dipendente
dall’andamento climatico. Il fabbisogno viene quindi stimato sia in termini di volumi di gas
necessari che di massima portata giornaliera, considerando sia un andamento termico normale
che un andamento particolarmente freddo registrati su un arco temporale di 30-50 anni a
seconda del paese.
Il profilo dell’approvvigionamento nel corso dell’anno è funzione naturalmente oltre che dei
contratti di importazione anche della flessibilità dei campi di produzione nazionali (se
esistenti); ovviamente per ridurre le necessità da gas stoccato si cercherà di utilizzare la
massima erogabilità dai campi nazionali durante il periodo invernale.
I sistemi di stoccaggio sono collegati alla rete principale di trasporto del gas (che opera a
livello nazionale), costituita da tubi di grande dimensione, capace di trasportare ingenti volumi
di gas e operata a pressioni che possono superare i 75 bar, a differenza della rete di
distribuzione (quella che opera a livello locale) che è costituita da tubi di piccole dimensioni e
che è operata a pressioni molto più basse (massimo 5 bar). Lo scopo principale dello
stoccaggio è quello di garantire il cosiddetto “bilanciamento della rete”, cioè il mantenimento
nei gasdotti di un livello minimo di pressione grazie a un adeguato volume di gas, chiamato
line-pack che assicura un flusso ininterrotto. In caso di reti di trasporto molto estese, costituite
da tubi di grande diametro, il contributo del line-pack in termini di richiesta di punta
giornaliera può raggiungere livelli significativi (alcune decine di milioni di metri cubi, a fronte
di un abbassamento di pressione di qualche bar). Normalmente il line-pack viene utilizzato
negli orari di massimo consumo per uso civile (mattina e sera) e viene ricostituito durante le
ore notturne.
Nel mondo ci sono oggi oltre 580 siti di stoccaggio, di cui più del 70 % negli Stati Uniti e gli
altri in Europa, Russia e Canada: la disponibilità mondiale di stoccaggio è pari a 286 miliardi
di m3 di working gas, con una portata di punta giornaliera a massimo invaso di 5 miliardi di
m3/giorno. Poiché nel trentennio 2000-2030 è prevista una crescita del consumo di gas del

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2,4 % all’anno, passando da circa 2500 miliardi di m nel 2000 a circa 5000 miliardi di m
nel 2030, si prevede anche una crescita della capacità di stoccaggio. Al 2010 la capacità di
stoccaggio per Europa e Stati Uniti (per Russia e ex paesi dell’Est non si hanno dati attendibili)
dovrebbe essere pari a circa 350 miliardi di m3 di working gas e a circa 6 miliardi di m3/giorno
di portata di punta.

CV di Renzo Mazzei
Renzo Mazzei si è laureato in Scienze Geologiche presso l’Università di Pavia ed ha operato
in Eni Divisione Esplorazione e Produzione da 1957 al 1997, ricoprendo varie posizioni: da
geologo dell’Esplorazione a Esperto di giacimenti di olio e gas in Italia e all’estero, ad Areal
Manager del Reservoir Engineering Dpt.
E’ stato per alcuni anni segretario del Comitato Nazionale Italiano per i Congressi Mondiali del
Petrolio. E’ autore di articoli pubblicati su riviste nazionali e internazionali. Recentemente ha
fatto parte del Comitato di Coordinamento per la preparazione dell’Enciclopedia degli
Idrocarburi Treccani, curando in particolare il primo volume.

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