Maggio 2009
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INDICE DEL TESTO
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INDICE DELLE FIGURE
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SINTESI DELLE ATTIVITA’ DI ESPLORAZIONE, SVILUPPO E
PRODUZIONE DEI GIACIMENTI PETROLIFERI
di Renzo Mazzei
La parola “petrolio”, dal latino petrae oleum (olio di pietra), è un termine generico ed è
comunemente usato in modo intercambiabile con il termine “idrocarburi”. Il petrolio, infatti,
non è altro che una miscela d'idrocarburi (liquidi, gassosi e solidi), composti organici costituiti
da carbonio e idrogeno che contengono spesso nella loro molecola anche atomi d'azoto,
ossigeno, zolfo e altri elementi. Nel gergo petrolifero si chiama comunemente “olio” (greggio
in termini commerciali) la miscela d'idrocarburi liquidi alle condizioni ambientali normali e
“gas naturale” o semplicemente “gas” (il cui principale costituente è il metano), quella che alle
stesse condizioni è in fase gassosa.
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l’ossidazione, i quali comunque possono sopravvivere solo se l’ambiente è ricco d'ossigeno
(ossidante). La conservazione della materia organica è perciò legata a fattori che inibiscono
l’ossidazione, primo fra tutti la deposizione in condizioni anaerobiche (prive d’ossigeno)
caratteristiche delle acque stagnanti. Tipici esempi di tali condizioni si riscontrano oggi nel
Mar Nero, nel Golfo di Maracaibo in Venezuela, lungo le coste del Perù e della Penisola
Araba, al largo delle coste della Namibia e nei laghi dell’Africa centrale.
Nel corso di milioni d’anni strati fangosi contenenti materia organica si sono accumulati gli uni
sugli altri e, poiché i fondali tendono gradualmente a sprofondare per effetto della subsidenza,
la pila di sedimenti accumulati è venuta a trovarsi a diverse migliaia di metri di profondità e
quindi in condizioni d'alta pressione e temperatura. Durante un processo chiamato “diagenesi”
(in cui sono attivi processi geochimici e mineralogici) il materiale inorganico accumulato si è
trasformato in una roccia argillosa che in gergo petrolifero viene chiamata “roccia madre”,
mentre la materia organica ha subito una serie di trasformazioni che hanno portato alla
formazione di una sostanza solida ad alto peso molecolare chiamata kerogene. In seguito, con
l’aumento della temperatura il kerogene si è trasformato, per distillazione naturale, in
idrocarburi liquidi o gassosi a seconda dei gradi di temperatura raggiunti e della composizione
del kerogene di partenza.
E’ stato scientificamente provato che in un intervallo di temperatura compreso tra 80° C e 150°
C si ha generazione d'olio (tale intervallo è chiamato “finestra dell’olio”), mentre a temperature
superiori l’olio comincia a trasformarsi in gas (Fig. 1).
La genesi del gas non è tuttavia dovuta solo a tale tipo di processo; esiste infatti nel mondo un
20 % di giacimenti di metano d'origine biogenica, generato cioè da batteri metanogenici
attraverso processi di fermentazione o di riduzione del biossido di carbonio, che possono
avvenire a temperature relativamente basse (ne è testimonianza quasi tutto il gas della Pianura
Padana e dell’Adriatico).
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prevalentemente in senso verticale ed è limitato a distanze non superiori a qualche centinaio
di metri (Fig 2).
Una volta raggiunti gli strati porosi e permeabili, gli idrocarburi continuano a muoversi
all’interno di essi sotto la spinta di galleggiamento e, correndo lungo piani inclinati, cercano di
risalire verso la superficie. Questa seconda fase migratoria, che è chiamata “migrazione
secondaria” e che è caratterizzata da un flusso prevalentemente laterale, può svilupparsi anche
su grandi distanze (talvolta superiori a 1.000 km) e s’interrompe solo quando gli idrocarburi
incontrano, durante il loro cammino, particolari configurazioni degli strati geologici chiamate
“trappole”, in grado d’intrappolarli e conservarli, altrimenti essi continueranno il loro cammino
fino in superficie e ivi si disperderanno dando origine a manifestazioni (Fig.2).
Le trappole
Numerosi sono i tipi di trappole conosciute e in base alla forma e alle condizioni di formazione
vengono distinte in tre grandi gruppi: strutturali, stratigrafiche e miste (Fig. 3).
Le trappole strutturali si formano in seguito alla deformazione degli strati geologici causata
da tensioni nella crosta terrestre. Tipiche trappole strutturali sono le “anticlinali”, pieghe
positive a forma di cupola e le “chiusure per faglia”, in cui strati porosi e permeabili associati a
rocce di copertura vanno a contatto con strati di roccia impermeabile lungo un piano di faglia.
Le anticlinali sono le più facili da individuare, quindi sono anche le prime ad essere sfruttate in
un bacino sedimentario.
Le trappole stratigrafiche possono essere dovute a una variazione litologica laterale della
roccia serbatoio, in cui gli strati porosi e permeabili sono sostituiti (per sedimentazione) da
strati impermeabili oppure ad una interruzione della roccia serbatoio per erosione degli strati
dovuta ad un periodo d'esposizione in superficie e a un successivo ricoprimento con rocce
impermeabili.
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Le trappole miste sono quelle in cui la componente stratigrafica è associata a quella
strutturale.
Efficienza di accumulo
Un argomento molto dibattuto tra i geologi del petrolio riguarda lo studio dell’efficienza
d'accumulo nei bacini petroliferi, per stabilire quanto del petrolio generato dalla roccia madre
riesce in realtà ad accumularsi e a conservarsi nelle trappole e quindi è potenzialmente
scopribile.
E’ stato stabilito che di tutto il petrolio generato in un bacino sedimentario solamente una
quantità di poco superiore al 10 % riesce in definitiva ad accumularsi e conservarsi nelle
trappole. Infatti, circa il 25 % rimane, come olio residuo, nella roccia madre aderente ai grani
della roccia e del kerogene; il 50 % circa dell’olio espulso dalla roccia madre si perde durante
la fase di migrazione secondaria perché trattenuto dalle pareti dei pori della roccia veicolante
ed il 10 % si disperde in superficie evitando le trappole; quindi solo il 40 % dell’olio espulso
raggiunge le trappole. Inoltre, il 25 % dell’olio accumulato si perde in un lento processo
d’infiltrazione attraverso la roccia di copertura ed un 25 % del rimanente viene perso per
processi chimico-fisici e batterici. Nelle modellizzazioni di bacino, per eseguire previsioni
quantitative sui luoghi dove esistono maggiori probabilità di trovare giacimenti petroliferi, le
valutazioni sopra indicate sono tenute in debita considerazione in funzione delle caratteristiche
delle rocce madri e di quelle serbatoio presenti.
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ESPLORAZIONE PETROLIFERA
L’esplorazione petrolifera comprende una serie di attività che vanno dalla raccolta di dati e
informazioni riguardanti un bacino sedimentario, per verificarne l’eventuale potenzialità
petrolifera, ai rilevamenti geologici e geofisici a carattere regionale e di dettaglio, per
determinare la presenza di possibili trappole, fino alla perforazione del pozzo esplorativo che
può condurre alla scoperta di un giacimento.
Verificare le potenzialità petrolifere di un bacino sedimentario è molto importante (se non
ancora esplorato) prima di intraprendere qualsiasi attività di ricerca in una determinata zona, in
quanto è necessario conoscere se in quel determinato bacino ci sono state le condizioni
favorevoli sia per la genesi di idrocarburi, che per il loro accumulo.
E’ importante ricordare che non è raro incontrare in una stessa struttura più accumuli
d’idrocarburi, distanti tra loro in verticale alcune centinaia e talvolta anche più di mille metri,
appartenenti a epoche geologiche diverse e lontane tra loro decine se non centinaia di milioni
d'anni.
Una volta completati gli studi per verificare le potenzialità petrolifere di un bacino
sedimentario, i successivi studi saranno prevalentemente a carattere geologico e geofisico e
saranno mirati ad individuare la presenza di possibili trappole, determinanti per intrappolare gli
idrocarburi durante la loro migrazione. Infatti, ad oggi non esiste ancora una tecnologia in
grado di individuare direttamente un giacimento petrolifero e tutte le tecnologie disponibili, se
pur d'altissimo livello, sono mirate a ricostruire la configurazione geologica del sottosuolo ed a
individuare le possibili trappole. Sarà poi la perforazione di un pozzo a determinare se la
trappola esplorata è sede di un accumulo petrolifero e se in quantità economiche.
Anticamente i primi pozzi petroliferi furono ubicati in base esclusivamente a manifestazioni
d'idrocarburi in superficie. Successivamente, per individuare le zone favorevoli agli accumuli
furono determinanti i rilevamenti geologici di superficie. Ciò era però possibile solo in zone
dove le formazioni geologiche erano affioranti in quanto, studiandone le caratteristiche e la
loro giacitura in superficie, era possibile estrapolare la loro configurazione nel sottosuolo.
Quando le ricerche hanno cominciato a spostarsi in aree prive o lontane dagli affioramenti,
come le grandi pianure e in seguito le zone off shore, è stato indispensabile disporre di tecniche
e tecnologie che fossero in grado di permettere la ricostruzione del sottosuolo geologico per via
indiretta. Sono nate quindi le prospezioni geofisiche, che possono essere di tipo gravimetrico,
magnetometrico, magnetotellurico e sismico. Le prime tre sono indagini passive in quanto non
richiedono sorgenti d’energia artificiali e servono a dare alcune utili indicazioni soprattutto a
carattere regionale sull’assetto geostrutturale del sottosuolo, mentre le prospezioni sismiche,
per le quali è invece richiesta una sorgente d'energia in grado di generare onde acustiche che
penetrano nel sottosuolo, sono risultate determinanti per l’individuazione e la delimitazione
delle trappole (Fig. 4).
I rilevamenti gravimetrici consistono nella determinazione delle anomalie
dell’accelerazione di gravità terrestre (misurata in più punti di una determinata zona tramite
strumenti chiamati “gravimetri”), provocate da contrasti di densità tra corpi presenti nel
sottosuolo. Le misure gravimetriche sono eseguite in modo sistematico, in terra, in mare e per
via aerea, in punti regolarmente distribuiti su reticoli in grado di coprire l’intera area da
esplorare. Successivamente vengono costruite mappe, le cui curve rappresentano linee d'ugual
valore d'anomalia e che viste in un contesto regionale riproducono approssimativamente
l’andamento geostrutturale del sottosuolo.
I rilevamenti magnetometrici consistono nel misurare in una serie di punti, tramite
strumenti chiamati “magnetometri”, le anomalie locali del campo magnetico terrestre e sono
utilizzati già da diversi anni soprattutto per la ricerca dei minerali. Tuttavia essi sono utili
anche per le ricerche petrolifere in quanto consentono di ottenere informazioni sui caratteri
strutturali e sulla profondità del basamento cristallino, permettendo quindi di misurare
indirettamente lo spessore della serie sedimentaria giacente su di esso. Tali rilevamenti
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consentono inoltre di localizzare e dimensionare corpi vulcanici o plutonici entro la serie
sedimentaria.
I rilevamenti magnetotellurici consistono nel misurare le variazioni temporali del
campo elettromagnetico naturale. Essi si basano sul principio che le onde elettromagnetiche
a bassa
frequenza, chiamate anche magnetotelluriche, generate nella ionosfera (parte più alta
dell’atmosfera terrestre) e nella magnetosfera (regione dello spazio in cui è confinato il campo
magnetico terrestre), penetrando nei terreni del sottosuolo sono influenzate dalle anomalie di
resistività che producono un campo elettromagnetico secondario, le cui caratteristiche
dipendono dall’andamento della conduttività dei terreni. La definizione e la descrizione di tali
campi elettromagnetici secondari costituiscono un mezzo per conoscere l’assetto geostrutturale
del sottosuolo e soprattutto di differenziare, nei bacini sedimentari, rocce porose e permeabili
da rocce compatte, siano esse basaltiche, granitiche o massive tipo i calcari compatti e le
anidridi. I rilevamenti magnetotellurici sono stati un valido supporto nella valutazione
mineraria (dal punto di vista petrolifero) dei bacini sedimentari del Golfo del Messico e
dell’Atlantico settentrionale.
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I rilevamenti sismici a riflessione sono, fra i metodi d’indagine geofisica, quelli che
vengono maggiormente utilizzati nelle ricerche petrolifere, in quanto permettono di ottenere
una ricostruzione piuttosto dettagliata della configurazione geologico-strutturale del sottosuolo
e quindi di individuare e delimitare le possibili trappole per gli accumuli di idrocarburi (Fig. 5).
Per la loro esecuzione essi utilizzano una sorgente d'energia, prodotta artificialmente, in grado
di generare onde elastiche (sismiche), che penetrando nel sottosuolo ritornano in superficie
riflesse da superfici di discontinuità rappresentate da strati geologici di diversa composizione e
registrate con opportuni sensori (Fig. 4).
Generalmente quale sorgente d'energia per i rilevamenti a terra vengono utilizzate cariche di
dinamite, che vengono fatte esplodere in pozzetti profondi da 3 m a 30 m perforati per
l’occasione oppure, in zone abitate o in ambienti protetti dal punto di vista ambientale, da
vibratori costituiti da veicoli pesanti che producono oscillazioni meccaniche e le trasmettono al
terreno per mezzo di piastre solidali a masse. Nei rilevamenti in mare, per non danneggiare la
fauna ittica, la sorgente d'energia è rappresentata da cannoni ad aria compressa che producono
un’iniezione improvvisa d’aria fortemente compressa (fino a oltre 170 bar) in mare ad una
profondità di 3 – 10 m o superiore.
I sensori utilizzati per la registrazione delle onde sismiche riflesse dagli strati geologici del
sottosuolo sono chiamati “geofoni”, nei rilevamenti a terra e “idrofoni”, in quelli in mare.
Registrando l’onda riflessa in superficie si è in grado di valutare il tempo da questa impiegato
per il percorso d'andata e ritorno e, conoscendo la velocità di trasmissione del suono attraverso
i vari strati attraversati, di risalire alla profondità della superficie riflettente e alla sua pendenza.
In un rilevamento sismico l’operazione di generazione dell’impulso e di registrazione dell’onda
riflessa viene ripetuta lungo profili tra loro allineati e perpendicolari (profili o linee sismiche 2
D), la cui interpretazione permette di generare mappe della configurazione degli strati
geologici del sottosuolo e quindi di individuare possibili trappole. Nei rilevamenti sismici a
terra i geofoni sono distesi sulla superficie del suolo mentre in quelli in mare gli idrofoni sono
montati entro un cavo galleggiante trainato da navi opportunamente attrezzate e mantenuto
stabilmente a profondità di 5 – 20 metri; un cavo sismico può essere lungo fino a 10 chilometri.
La tecnologia dei rilevamenti sismici si è perfezionata nel tempo permettendo di ottenere
risultati sempre più sorprendenti. Già da diversi anni sono comunemente utilizzati i
rilevamenti sismici 3D (tridimensionali), che attraverso un miglioramento nella tecnica
d'acquisizione (in cui generatori d’impulsi e sensori sono distribuiti all’interno di un’area
anziché lungo profili) permettono un’interpretazione in tre dimensioni. Se poi lo stesso
rilevamento è ripetuto nel tempo (a distanza di uno o più anni) in un giacimento in produzione,
si è in grado di rilevare eventuali variazioni in termini di saturazione in fluidi e della quota
della tavola d’acqua. Sono questi i rilevamenti sismici 4 D, in cui la quarta dimensione è
rappresentata dal tempo.
Attraverso elaborazioni speciali eseguite sui profili sismici registrati si è inoltre in grado, per
esempio tramite un’analisi delle anomalie d’ampiezza delle onde riflesse, di ottenere utili
informazioni qualitative sulla porosità della roccia serbatoio e, in particolari condizioni,
indicazioni sul contenuto in fluidi.
Per essere in grado d’interpretare i rilevamenti geofisici illustrati sopra, il geologo-geofisico
interpretatore deve avvalersi dei dati e delle conoscenze acquisite in pozzi già perforati nella
zona e/o di quelli d'aree affioranti ai margini dei bacini sedimentari. Per tale scopo possono
risultare utili anche i rilevamenti di superficie eseguiti con l’aiuto di foto aeree o satellitari.
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La perforazione
L’operazione di scavo di un pozzo è realizzata con sistemi a rotazione utilizzando scalpelli di
varia forma a seconda del tipo di roccia da perforare, avvitati nella parte terminale di una
sequenza di tubi d'acciaio (aste), messi in rotazione da motori elettrici o a combustione interna
(Fig. 6). La perforazione è effettuata utilizzando una torre a traliccio, chiamata derrick o mast a
seconda del sistema adottato per il montaggio e lo smontaggio, che permette di manovrare le
attrezzature di perforazione e altro materiale all’interno del pozzo. Il moto rotatorio che
permette allo scalpello di frantumare la roccia è normalmente impresso su tutta la batteria di
perforazione per mezzo di un’asta motrice azionata tramite la tavola rotary (costituita da un
basamento fisso e da una piattaforma girevole azionata dai motori) oppure tramite
un’attrezzatura chiamata top drive (testa motrice) in cui il motore è inserito direttamente alla
testa dell’attrezzatura di perforazione, attraverso la quale viene iniettato anche il fango di
perforazione. Durante lo scavo infatti, è necessario pompare in modo continuo, attraverso le
aste e lo scalpello, del fango avente determinate caratteristiche di densità e viscosità, in grado
di portare in superficie i detriti di roccia (cuttings) grazie al flusso di ritorno che si genera alle
spalle della batteria di perforazione. Importante compito del fango di circolazione è anche
quello di raffreddare lo scalpello e soprattutto di creare, grazie al suo peso, una
contropressione verso gli strati geologici attraversati contenenti fluidi in pressione e quindi
evitare pericolose eruzioni (blow out). Per questo motivo il fango di perforazione deve essere
continuamente controllato sia per quanto riguarda le sue caratteristiche in termini di peso e
viscosità, sia per quanto riguarda il suo livello in pozzo, che può variare in funzione di
eventuali assorbimenti da parte degli strati geologici.
Recentemente, per imprimere il movimento rotativo allo scalpello è stato introdotto l’uso di
motori idraulici, posti a fondo pozzo al termine della batteria di perforazione, avvitati
direttamente sullo scalpello e azionati dalla pressione del fango. In tal caso la batteria rimane
ferma e ruota solo lo scalpello. Questo sistema di perforazione è generalmente utilizzato nei
tratti di forte deviazione o nei tratti orizzontali.
Per garantire la stabilità del pozzo e il completo isolamento idraulico dei vari strati attraversati,
al termine della perforazione il foro viene rivestito con un tubo d'acciaio (casing) e cementato
alle spalle con malta di cemento tramite una tecnica che prevede lo spiazzamento di questa
dall’interno del casing, dove era stata immessa in fase semifluida, verso le spalle ad opera del
fango in pressione. Poiché il raggiungimento dell’obiettivo minerario si realizza di solito
attraverso la perforazione di fori di diametro decrescente, anche i casing avranno un diametro
decrescente e saranno inseriti uno dentro l’altro in forma telescopica. La prima colonna, quella
più superficiale, viene chiamata “colonna d'ancoraggio” in quanto su di essa sono ancorate le
successive colonne di rivestimento, è fissata la testa del pozzo e sono montate le
apparecchiature di sicurezza chiamate BOP (Blow Out Preventer). La lunghezza di tale
colonna è variabile, in ogni caso deve essere tale da oltrepassare le falde acquifere d'acqua
dolce superficiali onde evitare il loro inquinamento e garantire la piena sicurezza contro le
massime pressioni previste a testa pozzo. La colonna più profonda, che generalmente
raggiunge i livelli produttivi, di solito non arriva fino in superficie ma è ancorata sulla parte
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terminale della colonna precedente per un tratto di circa 100 m; in tal caso essa è chiamata
liner.
La perforazione dei pozzi deviati si è resa necessaria per poter raggiungere località
inaccessibili oppure per superare incidenti verificatisi nel pozzo verticale, ma si è maggiorente
sviluppata per l’attività di ricerca off shore. Per poter mettere in produzione giacimenti
localizzati nel sottosuolo marino tramite piattaforme fisse o galleggianti, i pozzi di sviluppo
devono, infatti, necessariamente essere perforati in deviato, partendo a grappolo dalla
piattaforma stessa.
Secondo le esigenze un pozzo deviato può seguire diverse traiettorie: iniziare la deviazione a
partire da una certa profondità (KOP, Kick-Off Point) e continuare poi con una pendenza
costante (normalmente dai 30° ai 60°) fino all’obiettivo; iniziare la deviazione incrementando
continuamente e gradualmente la pendenza fino all’obiettivo (talvolta fino a 90°); deviare,
continuare in deviato fino ad una certa profondità e poi ritornare in verticale fino all’obiettivo;
raggiungere l’obiettivo seguendo una certa deviazione e poi perforare il livello mineralizzato
orizzontalmente per tratti compresi fra qualche centinaio di metri fino a oltre un chilometro
(Fig. 7).
Mentre la tecnica dei pozzi direzionati è stata adottata da lungo tempo, quella dei pozzi
orizzontali è relativamente recente essendosi sviluppata intorno alla metà degli anni ’80 del
secolo scorso ed è nata soprattutto con l’esigenza di aumentare la produttività dei pozzi in
rocce serbatoio a bassa permeabilità o costituite da livelli abbastanza estesi ma di spessore
relativamente piccolo. Oggi lo sviluppo di un giacimento con pozzi orizzontali è diventata
quasi una routine in quanto anche se più costosi essi presentano, oltre a quelli indicati sopra,
altri importanti vantaggi quali la sensibile riduzione del numero di pozzi, la possibilità di
operare mantenendo un salto di pressione tra giacimento e pozzo più basso evitando così la
formazione di coni d’acqua o di gas (nei pozzi ad olio con gas cap) che renderebbero
difficoltosa la produzione, aumentare l’area di drenaggio avendo maggiori probabilità di
intercettare zone fratturate (più permeabili).
Le tecniche utilizzate per eseguire la deviazione del pozzo nella direzione voluta sono diverse e
si sono evolute nel tempo parallelamente alla necessità di eseguire fori deviati sempre più
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Fig. 8 - Alcune tipologie di pozzi orizzontali multilateral (da Oilfield Review, Schlumberger).
complessi come i pozzi orizzontali e soprattutto quelli multilateral (Fig. 8). Tali tecniche
prevedono l’utilizzo di un attrezzo a forma di cuneo (wipstock) munito all’estremità superiore
di un collare all’interno del quale è inserito lo scalpello oppure l’utilizzo di uno scalpello
munito di un solo foro laterale attraverso il quale fuoriesce un getto di fango ad alta pressione
(jetting), che producendo un’azione di scavo lateralmente al pozzo indirizza il foro in quella
direzione per la successiva perforazione in deviato. Recentemente con l’introduzione dei
motori rotativi di fondo (PDM, Positive Displacement Motors) sono state introdotte tecniche di
deviazione più semplici che prevedono l’introduzione di una riduzione angolata montata tra il
PDM e lo scalpello (Steerable System). Gli Steerable systems prevedono inoltre l’installazione,
al di sopra del PDM, di un’attrezzatura di rilevazione continua di dati (MWD, Measurement
While Drilling) riguardanti l’inclinazione e la direzione del foro, la pressione, la temperatura,
ecc. e il loro invio in superficie. Recentemente, insieme al MWD è stata introdotta un’altra
attrezzatura, il LWD (Logging While Drilling), che permette la registrazione in continuo dei
logs (diagrammi) elettrici acustici e radioattivi capaci d’individuare i vari terreni attraversati e i
fluidi contenuti man mano che la perforazione procede.
La perforazione offshore
Nel campo tecnologico anche la perforazione in mare ha registrato notevoli progressi. Infatti,
spostandosi le ricerche petrolifere dalla terraferma a fondali marini sempre più profondi, è stato
necessario sviluppare tecniche e tecnologie sempre più complesse per raggiungere obiettivi
posti a migliaia di metri sotto i fondali marini.
Le prime perforazioni in mare in acque relativamente basse (fino a 50 m) furono eseguite con
impianti di perforazione montati su pontoni, che venivano rimorchiati sul sito di perforazione e
ivi fatti affondare fino a poggiare sul fondo allagando la parte di scafo galleggiante.
In acque più profonde, in ogni caso non oltre i 110 m circa, vengono utilizzate piattaforme di
perforazione autosollevanti chiamate Jack-up. Esse consistono in uno scafo galleggiante a
pianta triangolare o rettangolare dotate di lunghe gambe mobili poste ai vertici dello scafo. Le
gambe possono scorrere verticalmente e poggiando sul fondo permettono di sollevare lo scafo
con tutte le attrezzature di perforazione sopra il livello del mare. Al termine della perforazione
le gambe vengono sollevate e lo scafo può galleggiare ed essere trasportato su un nuovo sito.
Per profondità del mare superiori ai 100-110 m non è più possibile operare con impianti
appoggiati sul fondo, quindi sono state progettate piattaforme di perforazione galleggianti,
caratterizzate da strutture natanti sulle quali è montato l’impianto di perforazione. Tali strutture
devono essere mantenute il più possibile in posizione con sistemi di ancoraggio o di
posizionamento dinamico. Il collegamento tra l’impianto galleggiante e la testa del pozzo
fissata sul fondo è assicurata tramite una specifica tubazione chiamata marine riser.
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Gli impianti di perforazione galleggianti si dividono in due grandi categorie: gli impianti
semisommergibili e le navi di perforazione, entrambi capaci di ospitare un cantiere di
perforazione autonomo e alloggi per il personale.
Gli impianti semisommergibili sono costituiti da una grande piattaforma collegata a scafi
zavorrabili, mentre le navi di perforazione sono delle navi trasformate oppure costruite
appositamente per tale uso e sono caratterizzate dall’avere nel baricentro un’apertura (moon
pool) su cui viene installata la torre di perforazione. Sia le piattaforme semisommergibili sia le
navi di perforazione hanno sistemi di ancoraggio fissi, con cavi e catene, fino profondità del
mare di circa 1.000 m, mentre per profondità superiori (superiori anche a 3.000 m) per
mantenere la posizione essi sono muniti di sistemi di posizionamento dinamico, consistenti in
coppie di propulsori ad elica posti a poppa, a prua e sulle fiancate, mantenuti sempre in
funzione e regolati da un sistema elettronico di controllo.
Il completamento
Una delle fasi più interessanti dei pozzi petroliferi è senz’altro quella riguardante il loro
completamento, dotando cioè i pozzi di particolari attrezzature necessarie per consentire la
produzione in superficie degli idrocarburi.
Il completamento di un pozzo può essere eseguito sia in foro scoperto sia in foro tubato. Nel
primo caso il casing è fissato nello strato di copertura della formazione produttiva, la quale
quindi rimane priva di rivestimento; è questo il caso di formazioni dure e fratturate che
sarebbero danneggiate se interessate da rivestimenti e cementazioni. Nel secondo caso, che è il
più frequente, anche la formazione mineralizzata è coperta da casing e cemento e garantisce
una maggiore sicurezza del foro e un maggior controllo della produzione. In tal caso però è
necessario ristabilire la comunicazione tra formazione mineralizzata e foro, che è effettuata
tramite un attrezzo, chiamato “fucile”, munito di cariche esplosive ad alta penetrazione
collegate a contatti elettrici in superficie, che permette di eseguire una serie di fori (spari) nel
casing e nel cemento. Di solito un pozzo petrolifero è dotato di una batteria di produzione
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consistente in una stringa di tubi (tubing) calata in pozzo fino alla formazione produttiva,
munita di valvole e di una particolare attrezzatura (packer), che fissata alle pareti del casing
assicura il completo isolamento tra l’intervallo produttivo e il soprastante tratto di foro (di
solito riempito di fango di completamento) permettendo ai fluidi di fluire in superficie
attraverso il tubing. Tramite l’introduzione di più di un packer in uno stesso foro è anche
possibile produrre in modo selettivo da più intervalli agendo semplicemente su valvole di
fondo manovrate dalla superficie oppure di produrre da più livelli contemporaneamente
inserendo fino a tre tubing di produzione nel pozzo (accoppiati ad altrettanti packer) (Fig. 9).
In presenza di formazioni poco consolidate è possibile che si verifichi della produzione di
sabbia insieme agli idrocarburi che, oltre a creare erosioni alle attrezzature, può accumularsi
sul fondo del pozzo fino a soffocarlo, impedendo la produzione. In tal caso, per prevenire
l’ingresso di sabbia in pozzo il completamento deve prevedere l’inserimento di speciali filtri a
fondo pozzo, spesso combinati con sistemi di consolidamento costituiti da sabbia drenante
rivestita di resine (gravel-pack).
Nei pozzi ad olio non più in grado di produrre spontaneamente per abbassamento della
pressione, il completamento deve prevedere l’introduzione di sistemi di sollevamento
artificiale costituiti da pompe di vario tipo (tra le più comuni ricordiamo quelle ad astine e
quelle centrifughe ad immersione, ESP) o da un’apparecchiatura chiamata gas lift; quest’ultima
apparecchiatura consiste nell’effettuare una iniezione di gas in pressione nel tubing ad una
certa profondità per mezzo di tubini, che produce un alleggerimento della colonna di fluido,
favorendo quindi l’erogazione (Fig. 10).
Fig. 10 - Schemi di completamento con pompa centrifuga, ESP (a sinistra) e gas lift (a destra)
(da M. Economides e al., Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani).
Dobbiamo precisare che nella parte della trappola in cui si è verificato l’accumulo petrolifero i
pori della roccia non sono stati riempiti al 100 % di idrocarburi, ma sulle loro pareti e in quelli
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di piccolissime dimensioni è rimasta aderente una pellicola d’acqua (che resterà però
immobile durante la produzione) che viene chiamata “acqua irriducibile”.
Poiché gli idrocarburi sono contenuti nei pori della roccia, l’accumulo potrà quindi risultare più
o meno consistente in funzione, oltre che della grandezza della trappola e della quantità di
idrocarburi migrati, del suo grado di porosità e di saturazione in acqua.
Oltre a essere porosa una roccia serbatoio deve possedere un’altra importante proprietà, la
permeabilità, che indica il grado di intercomunicazione esistente tra i pori. Tale proprietà
esprime la capacità di un fluido di muoversi all’interno dei pori e di fluire dalla roccia serbatoio
verso il pozzo produttore quando sottoposta ad un gradiente idraulico (cioè ad una differenza di
pressione tra il giacimento e il pozzo).
La porosità, che viene espressa come percentuale di vuoti (pori) sul volume totale di roccia,
può essere misurata sperimentalmente in laboratorio su campioni di roccia (carote) prelevati
nel pozzo oppure per via indiretta tramite la registrazione di diagrammi (logs) acustici e
radioattivi eseguita in pozzo al termine della perforazione. Tali logs misurano alcune proprietà
fisiche della roccia dalle quali si ottengono, attraverso una serie di calcoli, i valori di porosità
(Fig 12).
La permeabilità (che è espressa in darcy dal nome dell’ingegnere francese che per primo studiò
nel 1856 il movimento dei fluidi nei mezzi porosi) invece, essendo un parametro dinamico
risulta difficilmente misurabile tramite logs (come per la porosità) eseguiti in condizioni
statiche; essa viene quindi misurata sperimentalmente in laboratorio su campioni di roccia. E’
possibile tuttavia ottenere la permeabilità della roccia anche per via indiretta, attraverso
l’interpretazione delle prove di produzione eseguite nei pozzi. Misurando infatti la caduta di
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pressione in un livello in prova oppure il tempo di risalita della pressione quando lo stesso
viene chiuso alla produzione, è possibile risalire alla sua permeabilità media.
Quando si parla di permeabilità s’intende il suo valore assoluto, cioè come se la roccia fosse
saturata da un solo fluido. Poiché la roccia è sempre saturata da almeno due fluidi (gas, olio e
acqua), è importante conoscere la permeabilità effettiva ad un fluido in presenza di un altro
fluido. In laboratorio, comunque, viene misurato un altro parametro, la permeabilità relativa,
che è il rapporto tra quella effettiva e quella assoluta e che risulta molto utile per gli studi di
giacimento (Fig.13).
Conoscere il grado di saturazione in acqua della zona mineralizzata è inoltre molto importante
per poter stabilire quanto volume di roccia è realmente occupato dagli idrocarburi. Tale
parametro viene ricavato tramite i logs elettrici registrati in pozzo attraverso i quali,
immettendo corrente elettrica nello strato, si è in grado di misurare la resistività della roccia
impregnata di fluidi e di risalire al valore di saturazione in acqua, ricordando che gli
idrocarburi sono resistivi (cioè impediscono il passaggio di corrente), mentre l’acqua salata è
conduttiva.
L’accumulo d’idrocarburi, una volta formato, è rimasto indisturbato per milioni d’anni e si
trova in condizioni di pressione e temperatura diverse a seconda della profondità in cui giace.
Normalmente la temperatura, al di sotto di uno strato superficiale variabile da 15 a 130 m,
aumenta di 3 gradi C ogni 100 m, mentre la pressione, detta “pressione di strato” o “pressione
dei pori”, se in condizioni idrostatiche normali equivale al peso di una colonna d’acqua
esercitato dalla superficie fino alla profondità in cui viene misurata (per esempio a 1.000 m si
avranno circa 100 bar). Ci sono tuttavia casi in cui, per varie cause, la temperatura e la
pressione possono trovarsi in condizioni anomale (Fig. 14).
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Gli idrocarburi contenuti in un giacimento possiedono alcune proprietà chimico-fisiche,
quali densità, viscosità, compressibilità, fattore di volume, solubilità del gas nell’olio, punto di
bolla (per l’olio) e punto di rugiada (per il gas), che sono caratteristiche di quel dato fluido e
rimangono immutate fintantoché la pressione e la temperatura non variano. Quando il
giacimento comincia a produrre e la pressione diminuisce, le sue condizioni risultano
perturbate e le proprietà indicate sopra subiscono quindi delle modifiche. Per conoscere come
tali proprietà varieranno al variare della pressione è necessario campionare il fluido (alla
condizioni di giacimento) e sottoporlo in laboratorio ad una serie di test (analisi PVT) per
conoscere appunto come le proprietà chimico-fisiche variano al variare della pressione, del
volume e della temperatura. I risultati di tali test sono molto importanti sia per gli studi di
giacimento sia per la progettazione degli impianti di processo.
Studi di giacimento
Quando un giacimento viene scoperto è necessario effettuare studi di giacimento per poter
stabilire il volume d'idrocarburi presenti e quanti se ne potranno recuperare (infatti non tutti gli
idrocarburi contenuti possono essere prodotti).
Gli studi di giacimento comprendono due parti sequenziali e tra loro interdipendenti: lo studio
geologico e lo studio dinamico.
Lo studio geologico consiste nel definire la geometria del giacimento, le variazioni litologiche
e petrofisiche della roccia, la presenza di faglie e fratture, ecc. e nella valutazione del volume
d’idrocarburi in posto.
Lo studio dinamico, comunemente eseguito tramite modelli matematici, serve invece a definire
il piano di sviluppo (comprendente il numero di pozzi, la loro ubicazione e le portate da
adottare) e nel prevedere un profilo di produzione per tutta la vita produttiva, in definitiva
quanti idrocarburi verranno recuperati.
Ulteriori importanti indicazioni che lo studio dovrà fornire, oltre a quelle per la progettazione
degli impianti di trattamento, sono relative ad eventuali futuri investimenti necessari per
progetti di miglioramento del recupero.
Il volume d’idrocarburi in posto si ottiene dal prodotto tra il volume di roccia lorda (ricavato
dalla mappa strutturale), il rapporto netto/lordo (rapporto tra roccia porosa e permeabile e
roccia lorda, cioè comprensiva degli interstrati impermeabili), la porosità, e la saturazione in
idrocarburi, dividendolo poi per il fattore di volume, definito in laboratorio attraverso le analisi
PVT (che serve a convertire il volume d’idrocarburi dalle condizioni di giacimento a quelle
standard di superficie). Quando viene costruito il modello matematico i parametri indicati
vengono introdotti tenendo conto della loro variabilità. Essendo stato il giacimento suddiviso
nel modello matematico in tanti blocchetti, a ciascuno di questi verranno assegnati i relativi
valori di profondità, spessore, rapporto spessore netto/lordo, porosità, saturazione in
idrocarburi e permeabilità, conformemente ai risultati del modello geologico. Nel modello
verranno inoltre introdotti gli altri parametri ottenuti dalle analisi chimico-fisiche di laboratorio
e dai risultati delle prove di produzione.
Uno dei vantaggi dei modelli matematici è quello di investigare diverse ipotesi di sviluppo, in
termini di numero di pozzi, ubicazione e portate, per poter essere in grado di selezionare quella
più conveniente sia dal punto di vista economico che operativo. Il risultato della simulazione è
quello di ottenere una previsione di produzione del giacimento per tutta la sua vita produttiva,
in termini di portata, pressione, rapporto gas/olio di produzione, water cut (quantità d’acqua
prodotta assieme agli idrocarburi) e rapporto gasolina/gas (giacimenti a gas con condensati).
Fig. 15 - Giacimento ad olio in cui il principale meccanismo di spinta è il gas in soluzione (a sinistra)
o la concomitante azione dell’acquifero e del gas cap (a destra) (da N. J.Clark, SPE 1960 ).
Olio recuperabile
Come abbiamo visto il recupero primario d’olio dai giacimenti è di solito piuttosto basso, sia
perché una parte rimane aderente ai grani della roccia sia perché abbassandosi troppo la
pressione questa può raggiungere un valore corrispondente al punto di bolla (valore al di sotto
del quale il gas disciolto nell’olio si libera e può fluire nel pozzo riducendo la portata d’olio
fino a farla scomparire), sia perché alcune aree di giacimento a bassa permeabilità possono
essere aggirate dal fronte d’acqua spiazzante.
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Fig. 16 - Giacimento ad olio che produce principalmente sotto l’azione di spinta del gas cap (a
sinistra) o dell’acquifero (a destra) (da N.J. Clark, SPE 1960).
Normalmente per aumentare il recupero d’olio si interviene con sistemi di recupero secondario,
iniettando gas o acqua in fase immiscibile nel giacimento in modo da restaurare in parte
l’energia dissipata durante la produzione.
L’iniezione di gas viene effettuata iniettando gas nella parte sommitale della trappola in modo
da creare una cappa di gas come nel caso di un gas cap naturale.
L’iniezione d’acqua (che è la tecnica più comunemente usata) può essere effettuata
direttamente nell’acquifero, in una zona periferica (se la roccia è abbastanza permeabile) e in
questo caso si creerà una condizione simile al meccanismo di spinta naturale dell’acquifero
(Fig 17). Se invece il giacimento è molto esteso e la roccia serbatoio poco permeabile,
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L’acqua utilizzata per l’iniezione può essere reperita da un livello contenente acqua soprastante
o sottostante al livello produttivo, ma non in comunicazione idraulica con esso, dal mare se il
giacimento è ubicato offshore o si trova vicino alla costa oppure da corsi d’acqua. Prima di
essere iniettata l’acqua dovrà essere filtrata, per rimuovere eventuali parti solide, disaerata e
trattata con prodotti chimici, per impedire la precipitazione di sali e la formazione di colonie
batteriche, che andrebbero ad ostruire i pori della roccia.
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Monitoraggio dei pozzi e del giacimento durante la produzione
Durante la sua vita produttiva un giacimento viene monitorato periodicamente e
sistematicamente sia per aggiornare il modello matematico costruito sia per accertare situazioni
anomale nella produzione. Bisognerà quindi, oltre alle portate e alla pressione, monitorare il
rapporto gas/olio di produzione (rapporto tra gas e olio prodotti), il rapporto acqua/olio o
acqua/gas, che talvolta risultano anomali e possono causare indesiderate produzioni di gas (nei
pozzi ad olio) o d’acqua. La produzione indesiderata di gas e d’acqua, se non sono accertate
adeguatamente le cause e non sono adottate le relative azioni correttive, possono
compromettere sia la vita dei pozzi sia quella del giacimento.
Per accertare le cause di produzioni anomale vengono utilizzati speciali strumenti chiamati
“log di produzione”, tramite i quali è possibile rilevare i punti d’entrata e la percentuale dei
fluidi indesiderati e le variazioni delle saturazioni in fluidi nel livello produttivo; fra tali log
ricordiamo il flowmeter, il gradiomanometro e il Thermal Decay Time-TDT, ecc.
Per ottenere un controllo continuo della pressione, della temperatura e della portata a fondo
pozzo le batterie di produzione vengono sempre più spesso dotate di sensori che permettono la
misurazione in modo continuo di tali parametri. Attualmente è in fase di sperimentazione la
tecnologia chiamata lab-on-a-chip che permette, oltre che di misurare in situ i parametri
indicati sopra, di eseguire le più sofisticate analisi di laboratorio.
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TECNICHE DI SVILUPPO DEI GIACIMENTI E TRATTAMENTO DEI
FLUIDI PRODOTTI
La fase di sviluppo di un giacimento petrolifero prende avvio al termine della fase esplorativa
dopo che, in base a studi di giacimento e di fattibilità, è stata riconosciuta l’economicità di un
suo sfruttamento.
Un giacimento può trovarsi in terra oppure in mare (off shore). Nel tempo sono state sviluppate
tecniche e tecnologie sempre più sofisticate per poter mettere in produzione giacimenti
localizzati in ambienti sempre più ostili e in acque sempre più profonde.
Con lo sviluppo di un giacimento si da il via ad una serie d’investimenti, piuttosto ingenti, e che
crescono in funzione della profondità del giacimento e dell’ambiente in cui si trova. Tali
investimenti comprendono: la perforazione e la messa in produzione di tutti i pozzi previsti nel
piano di sviluppo e la relativa connessione con le strutture di produzione; la costruzione degli
impianti per il trattamento dei fluidi prodotti (per portarli a specifica per la
commercializzazione) e di quelli per lo stoccaggio (se il prodotto è un greggio); la costruzione
di eventuali impianti per progetti di recupero secondario (giacimenti a olio); la costruzione di
strutture di carattere logistico quali uffici, officine, sale tecniche, laboratori, alloggi per il
personale, ecc. e, se il giacimento è a terra la costruzione di strade, eventuali aeroporti o
eliporti. Altri impianti necessari comprendono i generatori di energia elettrica, l’eventuale
centrale di compressione (per giacimenti a gas), necessaria quando la pressione del giacimento
risulterà inferiore a quella della rete di trasporto o il sistema di sollevamento artificiale (per
giacimenti a olio) necessario quando i pozzi non saranno più in grado di produrre
spontaneamente.
Giacimenti a terra
Se il giacimento è a terra gli impianti e le strutture menzionati sopra vengono dislocati in modo
che la zona residenziale sia posta ad una distanza di sicurezza dall’area impianti e sopravvento
rispetto ai venti dominanti. Le aree di competenza degli impianti vengono invece suddivise in
lotti per tipologia impiantistica.
I pozzi possono essere perforati tutti in verticale, se l’area in superficie corrispondente al
giacimento è accessibile e possono essere distanziati uno dall’altro da qualche centinaio di
metri a oltre un chilometro a seconda delle caratteristiche del giacimento e del piano di
sviluppo. Molto spesso tuttavia può risultare conveniente, anche per esigenze di carattere
logistico e ambientale, accorpare i pozzi di sviluppo in una o più postazioni (clusters),
perforando da queste i pozzi in deviato sull’obiettivo profondo. Ciò facilita e ottimizza tutte le
operazioni sia nella fase iniziale di perforazione e completamento dei pozzi sia nella successiva
fase di vita produttiva, con notevole risparmio sui costi operativi.
Giacimenti in mare
L’attività di sfruttamento dei giacimenti in mare è molto più recente rispetto a quella a terra.
Essa nasce alla metà del secolo XX, ma ha cominciato a svilupparsi intensamente a partire dagli
anni ’70 con la messa in produzione di numerosi giacimenti soprattutto nel Golfo del Messico e
nel Mare del Nord. Inizialmente le tecnologie per lo sfruttamento di giacimenti in mare sono
state sviluppate per profondità dell’acqua contenute entro i limiti della piattaforma continentale
(cioè fino a circa 200 m). Spingendosi la ricerca in acque sempre più profonde (superiori anche
a 2.000 metri), è stato necessario studiare e sviluppare tecniche e tecnologie sempre più
sofisticate in grado di mettere in produzione giacimenti localizzati a tali profondità.
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Piattaforme offshore
L’attività di sfruttamento dei giacimenti in mare richiede la costruzione di piattaforme, capaci
di contenere l’impianto di perforazione, i pozzi (che devono essere perforati in deviato) e le
teste pozzo, gli impianti di processo per il primo trattamento dei fluidi prodotti (gli impianti di
trattamento vero e proprio e lo stoccaggio dell’olio di solito vengono dislocati a terra sulla costa
e sono collegati al sistema produttivo della piattaforma tramite condotte sottomarine), gli
impianti ausiliari e di sicurezza e gli alloggi per il personale.
Se il giacimento si trova a profondità dell’acqua moderate (non superiori a 400 m) le
piattaforme sono generalmente costituite da strutture rigide appoggiate e ancorate sul fondo,
mentre per profondità superiori esse devono essere lasciate libere di oscillare in risposta alle
sollecitazioni ambientali; per cui generalmente sono galleggianti e sono ancorate al fondo con
sistemi di ancoraggio fissi o dinamici (Fig. 19).
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fatto scorrere sulle guide dove si trova collocato sulla bettolina fino a che cade in mare. Il
jacket può galleggiare grazie a dei serbatoi provvisori aderenti alla struttura (rimossi
successivamente) chiamati “cilindri di spinta” (buoyancy tanks) che, allagati in modo
differenziato permettono al jacket, prima di posizionarsi in assetto verticale e poi di affondare
in tale posizione fino a toccare il fondo. Il jacket viene successivamente reso stabile con il
fondo tramite una serie di pali di fondazione costituiti da elementi tubolari di grande diametro
(lunghi talvolta anche più di 100 m), infissi tramite battipali subacquei azionati idraulicamente.
L’installazione del deck e degli altri moduli sul jacket viene effettuata con l’utilizzo di potenti
mezzi navali dotati di coppie di gru che lavorano in tandem, capaci di sollevare il deck (e poi gli
altri moduli) dalla bettolina e posizionarli sul jacket.
Fig 20 – Esempio di piattaforma fissa (da F. Pallavicini, Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani).
Per particolari tipi di ambiente, come il Mare del Nord o zone artiche, in alternativa al jacket in
traliccio di acciaio, possono essere costruite strutture di supporto cosiddette “a gravità” molto
pesanti, realizzate in cemento armato, che aderiscono sul fondo per effetto del proprio peso. La
base di tali supporti è molto massiccia e di grandi dimensioni e molto spesso consente anche lo
stoccaggio dell’olio prodotto grazie ai serbatoi ricavati all’interno delle celle della struttura
basale (Fig. 21).
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Fig. 21 - Esempio di piattaforma a gravità (da F. Pallavicini, Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani).
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Per profondità dell’acqua superiori sono stati studiati vari tipi di strutture galleggianti come: le
TLP (Tension Leg Platform) e le Mini TLP, la cui parte galleggiante è ancorata sul fondo con
tiranti verticali (Fig. 23); le piattaforme SPAR e Truss SPAR (Fig. 24), in cui la parte
galleggiante è costituita da una torre cilindrica di circa 25 m di diametro, alta 200-250 m, che
galleggia in assetto verticale grazie alla opportuna predisposizione dei compartimenti stagni ed
è ancorata con un sistema di ormeggi costituito da cavi disposti in modo radiale attorno alla
torre.
Fig. 23 - Piattaforma TLP (a sinistra) e Mini TLP (a destra) (da F. Pallavicini, Enciclopadia.
degli Idrocarburi Treccani).
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Fig. 24 - Piattaforma SPAR (a sinistra) e Truss SPAR (a destra) (da F. Pallavicini, Enciclopedia
degli Idrocarburi Treccani).
Tutti i tipi di piattaforme descritti finora consentono di portare i pozzi con le loro teste pozzo
sulla piattaforma e da qui operarli durante tutta la vita produttiva. In alternativa, esistono altri
tipi di sistemi di produzione galleggianti, che non consentono però di portare i pozzi e le teste
pozzo in superficie, ma devono essere abbinati a sistemi di produzione sottomarina, dove le
teste pozzo sono fissate sul fondo del mare. In questo caso i pozzi vengono perforati e
completati precedentemente e vengono collegati con l’unità di produzione galleggiante,
chiamata FPS (Floating Production System) tramite tubazioni rigide o flessibili (riser), che
servono a portare i fluidi prodotti dalle teste pozzo sottomarine fino agli impianti di superficie.
L’unità FPS viene inoltre collegata con i sistemi di produzione sottomarina da una tubazione
flessibile, chiamata umbilical, in cui si trovano i cavi elettrici, scorrono i fluidi idraulici che
servono a controllare le teste pozzo dalla superficie ed eventuali sostanze chimiche necessarie
durante l’avviamento dei pozzi. Le unità FPS sono mantenute in posizione tramite cavi e catene
ancorati al fondo oppure tramite sistemi di posizionamento dinamico.
Queste unità di produzione non dispongono di alcuna capacità di stoccaggio. Per evitare di
costruire tubazioni per l’esportazione di non facile realizzazione e di costo elevato, molto
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spesso esse vengono abbinate a mezzi di stoccaggio (navi cisterna) e ad una boa di
caricamento ormeggiate nei pressi della FPS.
In alternativa alla FPS spesso vengono utilizzate petroliere convertite per questo uso o navi
costruite appositamente, in cui trovano alloggio, oltre agli impianti di perforazione e
produzione, anche il sistema di stoccaggio dell’olio. Tali unità di produzione, stoccaggio e
caricamento vengono chiamate FPSO (Floating Production Storage & Offloading) (Fig. 25).
Trattamento dell’olio
Se il fluido prodotto è un greggio è necessario, prima di tutto, disidratarlo e degassarlo, cioè
togliere l’acqua prodotta assieme all’olio ed il gas in esso disciolto. Per fare questo si usano di
solito separatori trifase, speciali apparecchiature tramite le quali è possibile separare
contemporaneamente dall’olio sia l’acqua sia il gas (Fig. 26).
Fig. 26 – Esempio di separatore trifase (da Rojey e Jaffret, Ed. Tecnip, 1977).
L’acqua può essere presente sia come acqua di condensa sia come acqua di strato e può
presentarsi sia in forma libera sia sotto forma di emulsione.
Quando è presente un’emulsione olio-acqua, prima della separazione occorre rompere tale
emulsione per portare l’acqua allo stato libero. Ciò si ottiene addizionando all’olio prodotti
chimici ad azione disemulsionante o tramite riscaldamento. La disidratazione può essere
ottenuta anche sottoponendo l’emulsione ad un campo elettrico (15.000 – 20.000 volt), che
provoca la collisione e la coalescenza delle goccioline d’acqua disperse, consentendo la
separazione dell’acqua per gravità.
Poiché l’acqua di strato prodotta insieme all’olio, essendo salata può lasciare in sospensione
nell’olio dei cristalli di cloruro di sodio, il greggio prodotto deve essere desalificato. Le
apparecchiature utilizzate per tale processo sono simili a quelle utilizzate per la disidratazione
elettrostatica, avendo l’accorgimento di aggiungere acqua dolce per sciogliere i cristalli di sale
in sospensione; l’acqua arricchita di sale verrà poi separata dall’olio.
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Un altro importante processo di trattamento che normalmente i greggi prodotti devono subire è
quello della desolforazione. Molto spesso infatti i greggi contengono disciolte percentuali di
idrogeno solforato, gas tossico molto corrosivo, che deve essere eliminato. Il processo di
desolforazione più usato è il cosiddetto “strippaggio”, in cui vengono utilizzati speciali
recipienti cilindrici verticali (stripping tower), all’interno dei quali del gas dolce viene fatto
gorgogliare in controcorrente attraverso il greggio, sottraendogli l’idrogeno solforato (Fig. 27).
Dopo aver subito i vari trattamenti il greggio normalmente viene stoccato in serbatoi cilindrici
in acciaio, pronto per essere trasportato (Fig. 28).
Fig. 28 - Schema dei processi di trattamento cui è sottoposto un olio greggio a seconda delle sue caratteristiche.
Per gas contenenti sia acqua sia discrete quantità di gasolina, la disidratazione e il
degasolinaggio possono essere effettuati contemporaneamente, utilizzando impianti cosiddetti
“a letto solido”, che sfruttano le proprietà adsorbenti di alcune sostanze solide, come allumina
attiva e silica gel, che grazie a tale proprietà trattengono sia l’acqua sia la gasolina. La
separazione tra acqua e gasolina risulta poi facilitata grazie alla diversa densità dei due fluidi.
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La disidratazione e il contemporaneo degasolinaggio possono essere effettuati anche tramite
separatori a bassa temperatura chiamati LTS (Low Temperature Separator). Il gas all’ingresso
del LTS viene fatto espandere repentinamente attraverso una valvola di controllo; a causa
dell’espansione (per effetto Joule-Tomson) il gas si raffredda favorendo la condensazione sia
dell’acqua sia della gasolina, che vengono separate dal gas nel LTS.
I processi di addolcimento sono mirati a rimuovere dal gas l’idrogeno solforato e l’anidride
carbonica che, oltre ad essere tossico il primo, provocano corrosione nelle tubazioni. Gli
impianti utilizzati per tale processo fanno venire a contatto, in appositi recipienti (colonne)
soluzioni acquose a base di ammina, che grazie alle loro proprietà basiche assorbono sia
l’idrogeno solforato sia l’anidride carbonica (Fig. 29).
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Fig. 30 – Esempio di condotta posata su fondali irregolari (da R. Bruschi, Enciclopedia Idrocarburi Treccani).
centinaia di persone che lavorano a ciclo continuo su 24 ore per preparare e saldare i tubi e
calarli via via in mare.
La tecnica più comunemente usata per la posa in mare è quella cosiddetta a “S”, così chiamata
per la forma tipica che la condotta assume lungo la campata di varo. Man mano che la condotta
scorre verso il fondale viene sostenuta tramite tensiometri e clampe scorrevoli applicati
longitudinalmente alla condotta.
Per la posa in acque molto profonde, che richiederebbe l’applicazione di forze longitudinali
sempre più crescenti, creando perciò problemi al sistema di ancoraggio e posizionamento della
nave, viene usato il metodo di posa cosiddetto a “J”, caratterizzato da una rampa di varo
pressoché verticale. Tale metodo è stato usato tra il 2000 e il 2002 nella installazione di due
condotte sottomarine da 24 pollici ciascuna (61 cm) di diametro nel Mar Nero a profondità di
oltre 2.000 metri, per una lunghezza di circa 350 km.
Per le condotte di modesto diametro fino a 14 - 16 pollici (35,6 - 40,6 cm) i tubi possono essere
saldati insieme a terra e avvolti su un tamburo. Durante la posa, effettuata con navi posatubi
appositamente attrezzate per questa funzione, la tubazione viene svolta dal tamburo,
raddrizzata e calata in mare.
Le condotte, sia in terra che in mare, vengono collaudate riempiendole di acqua e
pressurizzandole al di sopra del valore di pressione di esercizio, svuotandole poi e asciugandole
con aria compressa, azoto o tramite vuoto pneumatico. Le pressioni usate per il trasporto vanno
dai 75 ai 100 bar per le condotte a terra, mentre per quelle in mare oscillano tra 200 e 300 bar.
Durante tutta la vita le condotte devono essere continuamente ispezionate, sia esternamente (in
mare tramite robot) sia internamente introducendo nella condotta, attraverso stazioni di lancio e
ricezione, speciali attrezzature chiamate pig spinte dal fluido stesso che viene trasportato.
Vengono utilizzati pig calibratori per ottenere dettagli sulla parete interna, pig magnetici e a
ultrasuoni per verificare il grado di corrosione, pig per rilevare eventuali fessure e pig per
identificare falle o crepe.
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riguarda la sicurezza e la tutela dell’ambiente, imposti da accordi internazionali ed europei
(per il Mediterraneo). Le navi moderne devono infatti essere provviste di intercapedini o
cisterne adibite allo zavorramento (con acqua), in modo che la zavorra non vada a contatto con
le cisterne del carico, devono avere il doppio scafo (che in caso di incidenti rappresenta una
garanzia) e devono avere attrezzature adatte per il lavaggio delle cisterne (eseguito durante il
viaggio di ritorno) e lo smaltimento dei reflui.
Anche i terminali di carico/scarico devono avere attrezzature adeguate per garantire la
sicurezza e la tutela dell’ambiente, che tuttavia non ancora tutti i paesi hanno adottato.
Uno dei principali problemi provocati dal traffico petrolifero marittimo sono le cosiddette
“maree nere”, che a differenza di quello che si pensi non sono tanto generate da cause
accidentali (come l’affondamento di una petroliera), ma piuttosto da versamenti di routine
dovuti al lavaggio delle cisterne, a perdite durante le operazioni di carico/scarico, ecc.
Nella fase di carico il sistema di pompaggio si trova a terra presso il terminale, mentre in quella
di scarico è la nave stessa che provvede, attraverso il suo sistema di pompaggio a bordo, allo
scarico del greggio nei serbatoi di stoccaggio allocati nei pressi del terminale. Il sistema di
pompaggio a bordo è dimensionato in modo da poter eseguire lo scarico in una ventina di ore
(solitamente il 5 % all’ora del carico). Le petroliere sono munite di un sistema di riscaldamento
a serpentina posto nella parte bassa delle cisterne, nelle quali viene fatto circolare vapore, che
serve a riscaldare il greggio prima dello scarico. Tale riscaldamento (fino a circa 50° C), che
solitamente viene attivato prima di arrivare al terminale, produce una riduzione di viscosità del
greggio facilitando le operazioni di pompaggio.
Durante il viaggio di ritorno verso i terminali di carico, per ottenere una maggiore stabilità le
petroliere vengono zavorrate pompando acqua di mare nelle apposite intercapedini adibite a
tale uso; la zavorra viene eliminata prima di eseguire il caricamento.
Esistono 5 tipologie di petroliere, suddivise in base alle dimensioni e alla capacità di trasporto:
le Panamax aventi capacità da 55.000 a 70.000 tpl (tonnellate di petrolio lorde), adatte per
l’attraversamento del Canale di Panama; le Aframax da 75.000 a 120.000 tpl, con sei classi
tariffarie, adatte per il trasporto a breve e medio raggio; le Suezmax da 120.000 a 200.000 tpl,
adatte per il trasporto attraverso il Canale di Suez; le VLCC (Very Large Crude Carrier) per il
trasporto di grandi volumi di greggio (da 200.000 a 320.000 tpl), adatte per lunghe distanze; le
ULCC (Ultra Large Crude Carrier) da oltre 320.000 tpl, che però possono accedere solo a
pochi porti e sono poco flessibili.
La flotta petrolifera mondiale (se si escludono le navi di piccola stazza, cioè inferiore a 10.000
tpl) è di circa 3.500 unità, con una capacità complessiva di trasporto di poco inferiore ai 300
milioni di tpl.
Per la sicurezza dei mari norme internazionali hanno stabilito un piano di dismissione di tutte
le navi vecchie e la graduale sostituzione con nuove navi provviste di doppio scafo e munite di
tutte le attrezzature necessarie per la tutela dell’ambiente. Per quanto riguarda l’Europa ed in
particolare il Mediterraneo, dove oggi transitano giornalmente oltre 8 milioni di barili di
greggio (con una previsione a 10 milioni nel prossimo decennio) sono state decise restrizioni
ancora più rigide, che impediscono il transito di navi costruite prima del 1982 che abbiano
raggiunto un’età di 23 anni (anziché 28 come precedentemente previsto) e la messa in mora
entro il 2010 delle altre grandi navi (oltre 250.000 tpl) sprovviste di doppio scafo.
Fig. 31 – Schema che illustra il ciclo di produzione e trasporto del GNL (da C. Alimonti, Enciclopedia
degli Idrocarburi Treccani).
Durante il trasporto tuttavia è inevitabile che a causa dello scambio termico tra l’interno e
l’esterno dei serbatoi si verifichi una vaporizzazione del GNL liberando gas. Tale
vaporizzazione risulta comunque contenuta in 0,1 – 0,2 % del carico e il gas vaporizzato può
essere utilizzato per i servizi di bordo e per la propulsione della nave se questa impiega turbine
a vapore. Se invece la nave impiega motori diesel il gas vaporizzato (al netto dell’utilizzo per i
servizi di bordo) viene ri-liquefatto sulla nave.
A parte i costi del trasporto, i costi che incidono maggiormente sulla tecnica GNL sono quelli
relativi agli impianti per la liquefazione e quelli per lo stoccaggio e la riconversione in gas. I
rigassificatori sono costituiti semplicemente da sistemi di riscaldamento del GNL ad acqua o
ad aria. Attualmente sono allo studio tecniche per convertire direttamente il GNL in gas
evitando i costi per lo stoccaggio (Fig. 32).
Fig. 32 - Schema di un terminale di ricezione e rigassificazione del GNL (da C. Alimonti, Enciclopedia
degli Idrocarburi Trecccaani)
Anche i paesi ricchi di gas e che sono esportatori utilizzano la tecnica degli stoccaggi, per
fornire gas senza interruzione alle aree maggiormente industrializzate rispettando le variazioni
di richiesta orarie, giornaliere e stagionali, evitando così la costruzione verso tali aree di
gasdotti di grande capacità di trasporto, che ovviamente avrebbero un basso coefficiente di
utilizzazione per buona parte dell’anno (a fronte di grossi investimenti).
Le strutture geologiche in cui viene effettuato lo stoccaggio possono essere rappresentate da:
• giacimenti di gas o di olio esauriti o semiesauriti;
• acquiferi (strutture geologiche aventi caratteristica di trappola ma contenenti acqua);
• cavità ricavate entro depositi salini;
• miniere abbandonate (molto più raramente).
Più del 70 % dello stoccaggio di gas viene effettuato nei giacimenti esauriti o semiesauriti
gassiferi, sia perché questi richiedono minori investimenti, sia perché in essi è garantita la
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tenuta avendo già contenuto gas. I risparmi sugli investimenti per tali tipi di stoccaggi sono
relativi ai costi esplorativi, praticamente inesistenti e alla possibilità di utilizzo sia di pozzi
esistenti (anche se dovranno essere ricompletati ad hoc) sia di impianti di trattamento già
costruiti e che dovranno subire solo piccole modifiche.
Lo stoccaggio negli acquiferi è invece più costoso in quanto richiede alti costi esplorativi per la
ricerca della trappola e test approfonditi per verificare la tenuta della copertura, per la
perforazione di tutti i pozzi necessari, oltre che per la costruzione degli impianti di superficie
(centrali di compressione e di trattamento).
Lo stoccaggio nelle cavità saline è abbastanza costoso (in rapporto al basso volume di gas che
permette di stoccare), specialmente se le cavità non sono preesistenti cioè generate per lo
sfruttamento del cloruro di sodio. Se devono essere create appositamente si dovranno adottare
tecniche particolari che consistono nell’effettuare una iniezione in modo continuo di acqua
dolce nella formazione salina tramite un pozzo e nell’asportazione attraverso lo stesso della
salamoia che via via si forma; in tal modo verranno a formarsi delle caverne artificiali
oblunghe a forma di pera (Fig. 34).
Fig. 34 - Schema di costruzione di una caverna artificiale per lo stoccaggio di gas in un deposito salino
(da G. Altieri, Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani).
Gli stoccaggi nelle cavità saline, pur avendo una bassa capacità di immagazzinamento,
permettono di ottenere una risposta immediata e vengono soprattutto impiegati nei casi di
emergenza e quando ci sono improvvise richieste di gas ma per brevi periodi.
Fra gli investimenti da considerare nei vari tipi di stoccaggio c’è quello relativo ad un certo
volume di gas inattivo (cushion gas), che rimane immobilizzato durante tutto il periodo in cui
il giacimento viene utilizzato per lo stoccaggio. Il cushion gas ha la funzione di garantire il
mantenimento di una certa pressione e quindi la produttività dei pozzi ed evitare l’avanzamento
della tavola d’acqua. Il cushion gas potrà essere recuperato solo quando il giacimento non sarà
più utilizzato per lo stoccaggio. La capacità di stoccaggio da considerare di un giacimento sarà
quindi quella relativa alla quantità di gas che realmente può essere movimentato durante un
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ciclo completo di stoccaggio (iniezione/erogazione) e che viene normalmente chiamato
working gas (vedi Fig. 33).
Lo stoccaggio di gas nei giacimenti esauriti o semiesauriti risulta facilitata se questi sono di
natura volumetrica (non presentano cioè una forte spinta prodotta dall’acquifero sottostante). In
questo caso durante la fase di riempimento (iniezione) sarà richiesta una quantità minore di
energia (pressione), in quanto non sarà necessario fare arretrare il fronte d’acqua avanzato
durante la fase di erogazione come negli altri casi.
Gli studi di giacimento per gli stoccaggi vengono effettuati con l’ausilio di modelli matematici,
i quali ovviamente risulteranno più attendibili (almeno per i primi cicli di iniezione/erogazione)
per i giacimenti esauriti e semiesauriti in quanto hanno la possibilità di essere tarati in base al
comportamento del giacimento durante la sua vita produttiva. Tramite tali modelli è possibile
effettuare simulazioni dinamiche ipotizzando diversi scenari, per verificare come il giacimento
possa rispondere a cicli alternati di iniezione/erogazione variando il numero di pozzi, il tipo,
l’ubicazione e il completamento. E’ importante sottolineare che se il giacimento è stato in
produzione esso ha fornito una quantità di gas in un certo numero di anni, mentre, in caso di
stoccaggio, allo stesso giacimento viene richiesto di poter assorbire e verosimilmente restituire
importanti volumi di gas in un arco di tempo limitato (5-6 mesi per l’iniezione e altrettanti per
l’erogazione). Quindi è molto importante che tali giacimenti abbiano adeguate caratteristiche,
presentino cioè buona porosità e permeabilità, siano piuttosto omogenei e per essi sia stato
predisposto un adeguato numero di pozzi, con tubing di grandi dimensioni (se non addirittura
pozzi orizzontali), oltre che il mantenimento di un certo valore di pressione, che tuttavia non
potrà superare i limiti stabiliti in base a test o per legge.
Per determinare il fabbisogno di gas stoccato è necessario conoscere la vendita annuale e i
relativi profili mensili e giornalieri per uso industriale, termoelettrico e civile (sia per uso
domestico che per riscaldamento), oltre che il profilo mensile e giornaliero dei volumi
approvvigionati nel corso dell’anno. Per quanto riguarda la vendita annuale e il profilo mensile
le maggiori incertezze sono legate all’uso civile per riscaldamento, in quanto dipendente
dall’andamento climatico. Il fabbisogno viene quindi stimato sia in termini di volumi di gas
necessari che di massima portata giornaliera, considerando sia un andamento termico normale
che un andamento particolarmente freddo registrati su un arco temporale di 30-50 anni a
seconda del paese.
Il profilo dell’approvvigionamento nel corso dell’anno è funzione naturalmente oltre che dei
contratti di importazione anche della flessibilità dei campi di produzione nazionali (se
esistenti); ovviamente per ridurre le necessità da gas stoccato si cercherà di utilizzare la
massima erogabilità dai campi nazionali durante il periodo invernale.
I sistemi di stoccaggio sono collegati alla rete principale di trasporto del gas (che opera a
livello nazionale), costituita da tubi di grande dimensione, capace di trasportare ingenti volumi
di gas e operata a pressioni che possono superare i 75 bar, a differenza della rete di
distribuzione (quella che opera a livello locale) che è costituita da tubi di piccole dimensioni e
che è operata a pressioni molto più basse (massimo 5 bar). Lo scopo principale dello
stoccaggio è quello di garantire il cosiddetto “bilanciamento della rete”, cioè il mantenimento
nei gasdotti di un livello minimo di pressione grazie a un adeguato volume di gas, chiamato
line-pack che assicura un flusso ininterrotto. In caso di reti di trasporto molto estese, costituite
da tubi di grande diametro, il contributo del line-pack in termini di richiesta di punta
giornaliera può raggiungere livelli significativi (alcune decine di milioni di metri cubi, a fronte
di un abbassamento di pressione di qualche bar). Normalmente il line-pack viene utilizzato
negli orari di massimo consumo per uso civile (mattina e sera) e viene ricostituito durante le
ore notturne.
Nel mondo ci sono oggi oltre 580 siti di stoccaggio, di cui più del 70 % negli Stati Uniti e gli
altri in Europa, Russia e Canada: la disponibilità mondiale di stoccaggio è pari a 286 miliardi
di m3 di working gas, con una portata di punta giornaliera a massimo invaso di 5 miliardi di
m3/giorno. Poiché nel trentennio 2000-2030 è prevista una crescita del consumo di gas del
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2,4 % all’anno, passando da circa 2500 miliardi di m nel 2000 a circa 5000 miliardi di m
nel 2030, si prevede anche una crescita della capacità di stoccaggio. Al 2010 la capacità di
stoccaggio per Europa e Stati Uniti (per Russia e ex paesi dell’Est non si hanno dati attendibili)
dovrebbe essere pari a circa 350 miliardi di m3 di working gas e a circa 6 miliardi di m3/giorno
di portata di punta.
CV di Renzo Mazzei
Renzo Mazzei si è laureato in Scienze Geologiche presso l’Università di Pavia ed ha operato
in Eni Divisione Esplorazione e Produzione da 1957 al 1997, ricoprendo varie posizioni: da
geologo dell’Esplorazione a Esperto di giacimenti di olio e gas in Italia e all’estero, ad Areal
Manager del Reservoir Engineering Dpt.
E’ stato per alcuni anni segretario del Comitato Nazionale Italiano per i Congressi Mondiali del
Petrolio. E’ autore di articoli pubblicati su riviste nazionali e internazionali. Recentemente ha
fatto parte del Comitato di Coordinamento per la preparazione dell’Enciclopedia degli
Idrocarburi Treccani, curando in particolare il primo volume.
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