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N° 14 / PRIMAVERA 2022 JACOBINITALIA.

IT

Le malelingue

DA JACOBIN MAGAZINE
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
12 euro
ESCI CON L’ESSENZIALE.

L’Essenziale. Ogni settimana tutto


quello che c’è da sapere sull’Italia.

IL SABATO IN EDICOLA. DALLA REDAZIONE DI


«Quando uso una parola»,
Humpty Dumpty disse in tono
piuttosto sdegnato, «essa significa
esattamente quello che voglio
– né di più né di meno».
«La domanda è», rispose Alice,
«se si può fare in modo che le parole
abbiano tanti significati diversi».
«La domanda è»,
replicò Humpty Dumpty,
«chi è che comanda – tutto qui».
Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie
LE MALELINGUE
3
La lingua

38
Editoriale

8
Il potere scorretta
e le parole dei colonizzati
Francesca De Rosa
Giusi Palomba

Da vicino
10
nessunə «Non si può
è normale

44
dire più niente»
Gaia Benzi e Francesca Coin
intervistano Vera Gheno Adil Mauro

L’eclisse La difesa
26 20

54 50
della parola dei privilegi
Donatella Di Cesare Claudia Boscolo

L’assalto al cielo
fu anche Discorsi d’odio
linguistico e silenzi razzisti
Jessica Caroline Edeme
Antonio Montefusco

La lingua è Il viaggio
32

64 60

un luogo di lotta delle parole


Filo Sottile Elisa Virgili

Il linguaggio
come alibi
Antonia Caruso
68
Fumetto
IL PURGATORIO
Il nüshu,
la lingua DELLA SINISTRA
delle oppresse STATUNITENSE
Assia Petricelli
Sergio Riccardi
Cavalcare la tigre

108 100
non significa domarla
Gli uomini
75

Natalie Shure
mi spiegano
la violenza
Comincia l’era
Marie Moïse
dell’instabilità
L’epoca Daniel Finn
84 80

intervista
del linguaggio Adam Tooze

assoluto
La politica
Gaia Benzi
122 non è il personale
Linguaggio, Liza Featherstone

(neuro)diversità,
inclusione Dalla post-politica
126

Fabrizio Acanfora all’iper-politica


Anton Jäger
Ascoltare con
88

gli occhi, parlare Piccolo spazio


132

con le mani pubblicità operaia


Costanza Giuliani Michael Grasso

La lingua I looser
92

135

del Terzo Reich del socialismo


Giuliano Santoro Eileen Jones
Citoyens
Desk Art director Jacobin Italia
Giulio Calella Alessio Melandri Rivista trimestrale
Salvatore Cannavò n. 14 - primavera 2022
Francesca Coin Web Master
Marie Moïse Matteo Micalella
Giuliano Santoro Autorizzazione del Tribunale di Roma
Lorenzo Zamponi Hanno SCRITTO n. 173/2018 rilasciata il 25/10/2018
IN QUESTO NUMERO
Redazione Fabrizio Acanfora
Gaia Benzi Claudia Boscolo Testata e articoli tradotti
Marco Bertorello Antonia Caruso da Jacobin Mag su licenza di
Danilo Corradi Francesca De Rosa Jacobin Foundation Ltd
Sara Farris Jessica Caroline Edeme 388 Atlantic Avenue
Simone Fana Vera Gheno Brooklyn NY 11217
Giacomo Gabbuti Costanza Giuliani United States
Piero Maestri Adil Mauro
Sabrina Marchetti Antonio Montefusco
Francesco Massimo Giusi Palomba Editore
Assia Petricelli Filo Sottile
Alberto Prunetti Elisa Virgili
Bruno Settis
Coordinamento Edizioni Alegre società cooperativa
COLLABORATORI con Jacobin MAG Circonvallazione Casilina, 72/74
Elisa Albanesi David Broder 00176 Roma
Simona Baldanzi www.edizionialegre.it
Wolf Bukowski Illustratori
Carlotta Caciagli Percy Bertolini
Francesco Campolongo Emanuele Cantoro Direttore responsabile
Salvatore Cannavò
Andrea Capocci Amalia Caratozzolo
Luca Casarotti Carla Indipendente
Nicola Carella La Tram
Chiuso in tipografia il 4 marzo 2022
Loris Caruso Martoz
Donatella Di Cesare Vitt Moretta
Lorenzo Declich Antonio Pronostico
Stampa
Michele Filippini Sergio Riccardi
Arti Grafiche La Moderna S.r.l.
Luca Giangregorio Valentina Sciutti
via Enrico Fermi, 13/17
Wissal Houbabi Virginia Taroni 00012 Guidonia Montecelio (Roma)
Stefano Iannillo
Emanuele Leonardi COPERTINA
Martina Lo Cascio Francesca Protopapa Distribuzione in libreria
Marco Marrone Messaggerie Spa
Porpora Marcasciano
Miguel Mellino
Giuseppe Montalbano Abbonamenti (4 numeri)
Lorenzo Paglione Digitale: 24 euro
Franco Palazzi Digitale + cartaceo: 36 euro
Selene Pascarella Spedizioni in paesi Ue: 20 euro
Luca Pisapia Spedizioni in paesi extra Ue: 35 euro
Simone Pieranni
Christian Raimo
Arianna Tassinari Info
Walter Bruno Toscano www.jacobinitalia.it
Wu Ming 1 info@jacobinitalia.it
Il potere
e le parole
O
gni conflitto sociale, ogni lotta che si ponga il problema di mettere in discus-
sione gli assetti dati di potere, è anche una battaglia attorno alla lingua: ri-
guarda come vengono definiti alcuni fenomeni, in che modo vengono iden-
tificati alcuni soggetti e descritti gli oggetti della posta in palio. Di questo
rapporto tra linguaggio e relazioni sociali, così aderente alle nostre esistenze
quotidiane da rischiare di essere dimenticato, si occupa questo numero di
Jacobin Italia. «L’ingiustizia discorsiva è quel fenomeno per cui le tue parole hanno meno
potere di essere ascoltate, di far accadere cose, di funzionare. Insomma, puoi fare meno
cose con le parole», dice la linguista Vera Gheno in apertura, dialogando con Gaia Benzi
e Francesca Coin. Subito dopo Donatella Di Cesare ci espone un terreno di conflitto forse
ancora più radicale, dal momento che, sostiene, oggi i discorsi (e le storie che contengono)
vengono svuotati dal codice tecnico-scientifico e dal rifugio nella finzione delle immagini.
Di codici e soggetti si occupa sempre Gaia Benzi, più avanti, facendo notare che da quando
i meccanismi di produzione si sono allargati al lavoro immateriale (in quella che alcuni
hanno chiamato la «svolta linguistica» dell’economia) la manipolazione di segni è divenuta
sempre più centrale.
Di lingua e del senso profondamente politico della nascita dei vocabolari si è occupato in
tempi non sospetti Antonio Gramsci: ce ne parla Antonio Montefusco. Filo Sottile analizza
i casi in cui, come è accaduto ai No Tav o alle nuove ondate transfemmiste, la guerriglia
linguistica permette di accrescere la consapevolezza, riprendersi spazio, costruire pensiero,
coesione e azione. Sono linguaggi, quelli che nascono ai margini e nel mezzo dei conflitti,
che devono sobbarcarsi il peso di nominare cose che probabilmente nei codici dei potenti
non esistono, come spiegano Francesca De Rosa e Giusi Palomba.
È evidente che conflitti del genere inneschino una reazione nella controparte. Accade
con la retorica strumentale della cosiddetta «cancel culture» fenomeno inesistente, o quan-
tomeno ingigantito, che pure appassiona molto gli opinionisti mainstream, secondo i quali
ormai «non si può dire più niente». Ne ricostruisce la genealogia Adil Mauro. Un fenomeno
analogo è accaduto in reazione alle sperimentazioni linguistiche che cercano di costruire
PRIMAVERA 2022

un linguaggio inclusivo, suscitando scandalo e allarmi presso gli stessi che (guarda un po’)
tengono le redini dei rapporti di forza, scrive Claudia Boscolo. Per non parlare dei libri di
testo scolastici, presi ad esempio da Jessica Caroline Edeme per analizzare il modo in cui
nel mondo della formazione si riproducono sfruttamento ed esclusione. Ma siccome ogni
parola assume senso in un determinato contesto, è possibile riutilizzarne alcune per scopi
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diametralmente opposti a quelli per i quali erano nate, sostiene Elisa Virgili nel suo articolo.
E Antonia Caruso si cimenta con il fenomeno reciproco: come parole e concetti partoriti in
contesti conflittuali diventano slogan pubblicitari o fattori di washing, per dare una mano
di vernice etica a pratiche disprezzabili. Marie Moïse analizza il linguaggio maschilista, vei-
colo di violenze e oppressioni. Fabrizio Acanfora spiega la relazione tra linguaggio e presun-
ta normalità nel mondo della neurodiversità. Costanza Giuliani dà conto della lingua delle
persone sorde, che contiene elementi inclusivi abbastanza sorprendenti e ignoti alle forme
espressive considerate «ordinarie». Giuliano Santoro si occupa di come i nazisti, infilandosi
nel linguaggio di tutti i giorni, arrivarono a rendere accettabile l’orrore e la prevaricazione.
Nell’inserto a fumetti, invece, Assia Petricelli e Sergio Riccardi raccontano la storia sorpren-
dente del nüshu, l’unica lingua al mondo creata e utilizzata soltanto da donne.
La sezione dedicata all’edizione statunitense di Jacobin si occupa invece delle difficol-
tà della sinistra socialista Usa dopo la vittoria di Joe Biden, con una selezione di artico-
li dal n. 44 di Jacobin Magazine. In una lunga intervista, Adam Tooze analizza il contesto
economico di questa fase e spiega per quale motivo la crisi pandemica è destinata a pro-
durre incertezze e squilibri più di quella finanziaria del 2008 dei mutui subprime. Nata-
lie Shure ragiona sui limiti dell’esperienza di Alexandria Ocasio-Cortez e la sua squad
progressista al Congresso, che hanno a che fare con la difficoltà di tenere insieme il piano
della crescita soggettiva dei movimenti e della sinistra nella società e l’agenda delle isti-
tuzioni con i suoi compromessi e i suoi rapporti di forza. C’è il rischio che si abbandoni
la sfera collettiva per rifugiarsi nel personale, riflette Liza Featherstone, e che per di più
questo riflusso si ammanti di finalità «politiche». Dopo l’era definita della post-politi-
ca, è l’analisi di Anton Jäger, ci troviamo in quella della iper-politica: tutto rischia di fini-
re in conflitti molecolari, divisivi e improduttivi dal punto di vista della crescita sociale.
Michael Grasso ripercorre l’epoca in cui i sindacati statunitensi provarono ad arginare la
controrivoluzione reaganiana investendo in spot televisivi che oggi, sui social, sono piccoli
fenomeni di culto (un po’ nostalgico). Ma la figura del socialista perdente ha nobili ascen-
denti: Eileen Jones ripercorre il modo in cui i fratelli Coen, nei loro film, ne hanno fatto un
tema ricorrente.
In questo numero abbiamo volutamente evitato di uniformare redazionalmente gli usi
delle desinenze rispettando le diverse scelte di chi scrive. Schwa, asterischi e altre soluzioni
sono infatti sperimentazioni che indicano un problema più che una soluzione. Non una
norma linguistica compiuta ma un posizionamento politico.
LE MALELINGUE
9
DA VICINO
POTERE E PAROLE

NESSUNƏ
È NORMALE
Le diversità non hanno spazio di parola, cioè non
possono parlare per sé, e spesso anche se parlano non
Illustrazione di La Tram

vengono ascoltate: da qui parte la linguista Vera Gheno


per ragionare di poteri e linguaggi al tempo dei social
10PRIMAVERA 2022
N. 14
11 LE MALELINGUE
V
era Gheno è una sociolinguista, accademica, saggista e tradut-
trice specializzata in comunicazione digitale. Si occupa da molti
anni di sessismo e di inclusività nella lingua italiana. È spesso
indicata tra coloro che promuovono l’uso dello schwa come de-
Gaia Benzi sinenza neutra da usare al posto del maschile sovraesteso, una
Francesca Coin scelta che è stata oggetto di accese critiche dal mondo della poli-
intervistano tica e dell’accademia mentre ha avuto un’accoglienza virale nelle
Vera Gheno
comunità Lgbtqi+. In quest’intervista le abbiamo chiesto le ra-
gioni per cui è importante lavorare per una società inclusiva in un contesto diseguale
come quello italiano, dove ogni tentativo di contrastare privilegi millenari viene accolto
con una levata di scudi.

Partiamo dall’inizio e cioè dalla relazione tra linguaggio e diseguaglianze. Cosa


c’entra il linguaggio con le diseguaglianze?
Per millenni, è stato dato per scontato che i poveri parlassero male. Nessuno si era mai
occupato delle competenze e delle capacità comunicative degli schiavi o dei paria nelle
culture ancora rigidamente divise in classi. Tra le tante cose che ancora oggi diamo per
scontate c’è che chi è povero per forza di cose comunichi peggio degli altri. La sociolingui-
stica, invece, si basa sull’idea che questa disparità di competenze non sia scontata. Negli
anni Sessanta del Novecento William Labov, uno dei padri della nostra disciplina, fu tra i
fondatori della sociolinguistica studiando il modo di comunicare degli afroamericani nei
ghetti delle grandi città degli Stati uniti. La conclusione di Labov era che a un contesto e a
un livello socioculturale deprivato di stimoli corrispondesse una comunicazione povera.
Quindi, quando non c’è esposizione a stimoli culturali variegati, in un contesto isolato e
senza relazioni diversificate, le competenze comunicative sono più scarse. Questo genera
un circolo vizioso: più le competenze comunicative sono scarse, minori sono le possibi-
lità di accedere a carriere lavorative e a scuole migliori. In Italia
forse non ce ne rendiamo conto, però in molti paesi il discrimi-
ne fra chi è dentro il sistema e chi è fuori si crea sin dalla scuola, Gaia Benzi è redattrice
quando esiste una discriminazione molto forte fra figli di poveri di Jacobin Italia e
e figli di persone più benestanti che possono scegliere scuole ricercatrice di storia
migliori. Se arrivi da un contesto socioculturale povero, le tue e letteratura. Ha
aspettative di successo e quindi anche di evoluzione sociale e scritto Tra prìncipi
culturale sono ridotte. Questo dato di fatto può essere sfruttato e saltimbanchi.
in vari modi: lo si può usare per confermare una visione classi- Medicina e
sta della società e abbandonare i poveri al loro destino, oppure letteratura nel Tardo
fare come ha fatto ad esempio Don Milani, che era convinto che rinascimento (Sue,
il mondo lo avrebbero rivoluzionato i poveri studiando. «Volete 2020). Francesca Coin,
PRIMAVERA 2022

fare la rivoluzione?», diceva, «Imbracciate la penna e il libro e sociologa all’Università


imparate a comunicare». di Lancaster, si
Uno dei motivi per cui mi piace la sociolinguistica è che si occupa di lavoro e
può partire da questa constatazione per far sì che gli stimoli diseguaglianze sociali.
Vera Gheno, linguista,
N. 14

insegna all’Università
di Firenze. Il suo ultimo
libro è Le ragioni
del dubbio. L’arte
di usare le parole,
(Einaudi, 2021).
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culturali arrivino anche laddove normalmente non arrivano, in modo da permettere
un’emancipazione, che non significa parlare bene, ma avere una proprietà comunicati-
va tale da farsi valere in una società che è fortemente incentrata sulla comunicazione.
Si parla spesso di società della comunicazione, ma chi non sa comunicare, in un certo
senso, rimane ai margini. Nella linea di pensiero di Don Milani si è innestato in seguito
Tullio De Mauro, che sentiva fortissimo il bisogno di un’educazione linguistica demo-
cratica che permettesse di agire con la lingua in tutti i contesti che servono nella vita, da
quello sentimentale a quello lavorativo a quello legale e così via.

In questo quadro generale, come si inserisce la questione specifica del linguaggio


inclusivo?
Secondo me uno dei problemi del presente è che siamo molto bravi a identifica-
re le diversità che ci interessano di più. C’è chi, ad esempio, si dedica alla relazione
fra etnie diverse, o fra religioni diverse, chi al mondo Lgbt+, chi alle disabilità e alla
neurodiversità, chi ai corpi non conformi e così via. L’errore in cui si può incorrere è
di non cogliere la situazione nella sua complessità, e una delle variabili che incrocia
tutte le altre è proprio quella della posizione sociale. C’è sempre il rischio ad esempio
di fare un femminismo solo bianco, benestante, borghese. E invece, come ci ricorda
Kimberlé Crenshaw con il concetto di intersezionalità, bisogna tenere insieme questa
complessità, per cui la questione di classe si incrocia con tutte le altre. La classe è
la variabile che porta più di tutte a discriminazioni all’interno della società. Bisogna
difendere con i denti l’idea di intersezionalità e puntare sempre l’attenzione sulla que-
stione di classe.

In un’intervista su Micromega Cinzia Sciuto ti ha chiesto se lo schwa rappresenta


una sorta di manifesto politico, e tu hai risposto: «Al momento sicuramente sì. Se io
apro un post su Fb scrivendo ‘Carə tuttə’ sto segnalando una mia precisa posizione
politica, sto dicendo fin dalla prima riga che mi pongo in una posizione di apertura
e accoglienza nei confronti di esigenze di cui riconosco la legittimità». A noi colpisce
come, sin dall’inizio, questo dibattito sia stato divisivo, come se dietro la questione
linguistica si celassero discriminazioni secolari che chi si trova in una posizione di
potere non vuole abbandonare. Il disconoscimento di queste istanze è tale che non
sempre vengono considerate legittime anche all’interno della stessa classe. Secondo
te perché?
Secondo me perché la nostra è una società tradizionalista, veteropatriarcale e an-
drocentrica, normalizzante e fondamentalmente tuttofoba, in maniera assolutamente
trasversale. C’è un immobilismo che è anche maggiore di quello di altre culture. C’è
prima di tutto un problema nel riconoscere cosa significhi avere un privilegio: quando
si parla di privilegio automaticamente ci si mette sulla difensiva. Un po’ come ogni volta
che faccio un post in cui parlo di una cattiva abitudine nelle relazioni e c’è sempre il
maschio che dice «Eh però le generalizzazioni… Eh però non tutti i maschi…», e così
via. Io non sono affatto misandrica, non è che ce l’abbia con gli uomini, però sarebbe il
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caso che il maschio bianco eterosessuale e cisgender riconoscesse una buona volta di
avere una posizione di privilegio. Non lo vuoi chiamare privilegio? Allora diciamo che
fai meno fatica – e storicamente hai sempre fatto meno fatica – a ottenere cose.

In Hate Speech. Il lato oscuro del linguaggio (Laterza, 2021), la filosofa del linguag-
gio Claudia Bianchi la definisce ingiustizia discorsiva…
Esatto. L’ingiustizia discorsiva è quel fenomeno per cui le tue parole hanno meno
potere di essere ascoltate, di far accadere cose, di funzionare. Insomma, puoi fare meno
cose con le parole. Bianchi fa l’esempio di Orgoglio e pregiudizio, il romanzo di Jane
Austen in cui la protagonista, Elizabeth, friendzona il cugino che la vorrebbe sposare,
però non glielo può dire direttamente ma con le parole concesse a una donna in quel
periodo storico. E il tizio continua a ignorarla dicendo: «Io lo so che voi donne fate fin-
ta di non volere una cosa, ma in realtà la volete»… E gliela mena per tre pagine. Ecco,
questo è un esempio di ingiustizia discorsiva: hai detto no, ma per gli altri è sì.

Negli ultimi tempi, i movimenti sociali antirazzisti e transfemministi hanno messo


in forte discussione l’antica struttura di potere maschile bianco etero cisgender che
per secoli si è definita universale. Questo ha provocato un forte backlash conservato-
re sui nomi da dare alle cose. Una virulenza che non si riesce a capire se non si parte
dal presupposto che la lingua è un campo di battaglia: come ripeti
spesso, «non esistono usi non politici della lingua». Ma in che sen-
L’INGIUSTIZIA DISCORSIVA so la lingua è sempre politica? E si può dire secondo te che questo
È QUEL FENOMENO contraccolpo riflette il timore maschile e bianco, etero cisgender
PER CUI LE TUE PAROLE di non essere più in controllo del mondo che per secoli ha domi-
HANNO MENO POTERE nato, soggiogato, comandato in modo unilaterale?
DI ESSERE ASCOLTATE, Una delle cose di cui i privilegiati della nostra società non si ren-
DI FAR ACCADERE COSE, dono conto è che, molto banalmente, le diversità non hanno spazio
DI FUNZIONARE di parola, cioè non possono parlare per sé, e spesso anche se parla-
no non vengono ascoltate. Da questo punto di vista la presenza dei
social network introduce una variabile molto interessante, perché
apre dei canali collaterali rispetto ai media mainstream che permettono ad attivistə di
vari contesti – attivistə trans, nerə e così via – di far sentire la loro voce in maniera non
mediata. Questo anche se il discorso pubblico è in mano fondamentalmente a maschi
bianchi eterosessuali cisgender di mezza età – vecchiotti, anzi – con qualche concessione
alle donne bianche di mezza età – prendete il modello della presidente del senato Maria
Elisabetta Alberti Casellati. Loro fanno e disfano il discorso pubblico, quindi se vogliono
inserire una persona trans, nera o neurodiversa come token (simbolo), per esempio in un
programma televisivo, lo fanno col preciso intento di dire «guardate come siamo attenti
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alla diversità». Abbiamo a che fare con un circolo vizioso, perché se la dirigenza del nostro
paese è fatta in un certo modo, se i media perpetuano un certo modello di società, di fa-
miglia, come si può immaginare che le diversità vengano accolte come qualcosa che può
arricchire la nostra società? Kübra Gümüsay, una bravissima attivista e scrittrice tedesca
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di origine turca, in Lingua e essere (Fandango Libri, 2021) paragona la lingua a un museo
dove ci sono due tipi di persone: i visitatori e quelli nelle teche. I visitatori sono gli inno-
minati perché, essendo normali, non hanno bisogno di essere definiti. Dentro alle teche
ci sono i divergenti, le persone strane, gli anormali, le diverse: la teca dei gay, la teca delle
lesbiche, la teca dei disabili, la teca dei neurodiversi, dei musulmani, delle donne musul-
mane e così via. Le persone dentro alle teche vengono appiattite sulle loro etichette e ci
si aspetta che vi si adeguino, che stiano lì buone a fare i neri, le lesbiche, i disabili e così
via. Quando però le persone dentro alle teche iniziano a voler uscire, a spingere contro
il vetro delle teche dicendo «Non sono solo nera, sono un essere umano, con tutta una
serie di caratteristiche!», oppure non corrispondono perfettamente alla loro etichetta – ad
esempio un ballerino di musica classica nero, oppure una musulmana punk – i normali
sono terrorizzati perché non capiscono più la realtà che l’etichetta descriveva così bene.
La nostra società è andata avanti per millenni in questo modo: da una parte i normali,
dall’altra i diversi. Maya De Leo in Queer. La storia culturale della comunità Lgbt+ (Einau-
di, 2021) spiega come la marca di normalità si sia spostata nel corso dei secoli. Il punto è
che i normali marcano i diversi, e i diversi devono stare «zitti e buoni», tanto per citare i
Måneskin. Se non stanno zitti e buoni e osano pensare di potersi nominare da sé invece
che essere eteronominati, sovvertono un ordine. Si può vedere questo discorso in azio-
ne nella risposta che ha dato Paolo d’Achille per conto dell’Accademia della Crusca sulla
questione asterischi e schwa: la sua conclusione è che questa cosa non si può fare; col
sorriso, ma dobbiamo prendere atto che alla fine va benissimo il maschile sovraesteso. Ho
la sensazione che sia la presa di posizione di una persona che ha scarsamente sofferto di
una sottorappresentazione linguistica, o che forse ha sempre considerato il suo punto di
vista non come uno dei punti di vista esistenti al mondo, ma come il punto di vista univer-
sale. Uno dei grossi problemi che abbiamo è proprio l’incapacità di relativizzare il proprio
punto di vista, ed è quello che secondo me la risposta pubblicata sul sito dell’Accademia
della Crusca (per la quale ho lavorato vent’anni e per cui nutro grande stima) non riesce a
fare, perché propone un punto di vista tradizionalista, senza rendersi conto che le comu-
nità transfemministe Lgbt+ internazionali lavorano sull’autorappresentazione linguistica
da decine di anni. Quindi, signori, arrivate un po’ a giochi fatti. Dopodiché neanch’io pen-
so che lo schwa o l’asterisco siano la soluzione migliore, perché hanno un sacco di difetti,
però sono un classico esempio di uso politico della lingua, per ribadire una posizione. Per
un certo tipo di establishment che i marginalizzati abbiano la faccia tosta di pensare di
modificare la lingua è gravissimo, fa paura.

La tua opera divulgativa, e in particolare il tuo ultimo libro, Le ragioni del dubbio (Ei-
naudi, 2021), sembrano comporre una sorta di manuale della comunicazione linguisti-
ca che ha come obiettivo individuare i principi guida di una corretta igiene della lingua
contro l’infodemia attuale. Ma come si fa a instaurare una comunicazione fruttuosa e
cooperativa quando tra parlanti ci sono squilibri di potere non riconosciuti? C’è o non c’è
possibilità di comprensione reciproca tra esponenti di minoranze oppresse e chi si osti-
na a non riconoscere il proprio privilegio e non ha fatto un lavoro preliminare su di sé?
LE MALELINGUE
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Io penso che quando si fa opera di divulgazione non si debba per forza puntare a
convincere chi la pensa in maniera radicalmente opposta. Ho la sensazione che la di-
vulgazione agisca su una fascia di mezzo, su quella che magari sente un disagio e può
beneficiare di un’indicazione per andare in una certa direzione, leggendo qualche libro
o frequentando qualche circolo e così via. Non bisogna pensare di «convertire» quelli
che hanno già trovato una collocazione. La speranza è che dando strumenti di decodi-
fica della realtà a chi vuole saperne di più, la parte più retriva piano piano si estingua,
fino a essere irrilevante dal punto di vista sociopolitico.
In fondo se ci pensate oggi essere razzisti è socialmente impresentabile. Ci sono an-
cora razzisti, ce ne sono eccome! Però sono poche le persone che lo esibiscono pubbli-
camente, perché si rendono conto che è disdicevole. Perfino certa destra estrema, che è
chiaramente razzista, lo dice solo fra le righe, e non direbbe mai «siamo razzisti»; dicono
siamo contro i migranti per questo o quello, ma non dicono mai «siamo razzisti». Qual-
cosa sta succedendo, c’è una pressione sociale tale per cui certe idee non si possono più
promulgare liberamente. E io penso che alla lunga, con pazienza, succederà un po’ per
tutte le diversità.
Quando faccio divulgazione non parto con l’idea di convincere, parto con l’idea di
informare e di far conoscere delle idee. Moltissime persone in realtà mi scrivono di-
cendo: «Sai, non avevo mai pensato di stare sovrapponendo la mia lettura a quella di
qualcun altro a cui invece potrei dare spazio». È un po’ la differenza fra il dire «so come
ti senti» e il dire «raccontami come ti senti». Anche quando si parla di neurodiversità, ad
esempio, spesso c’è il panel di persone neurotipiche che parlano dell’autismo, come fa
notare molto bene il mio amico studioso delle diversità Fabrizio Acanfora. È così che si
torna agli stereotipi, a farsi soverchiare dai bias e dall’abitudinarietà perché non si han-
no strumenti per andare oltre. Quello che si può fare in una società come quella italiana
è dare strumenti a chi li desidera e formare le nuove generazioni. Io non voglio andare
dai settantacinquenni convinti che la gente si svegli la mattina e diventi non-binary
perché è una moda. Voglio andare dai ragazzini e delle ragazzine che si svegliano ogni
mattina e che sentono che qualcosa non è come lo vorrebbero i loro genitori, anche se
quella cosa ancora non ha un nome.

Studiare la lingua significa studiare lo strumento con cui impariamo a conoscere


il mondo, analizzare le impalcature mentali che utilizziamo, spesso in maniera ir-
riflessa, per categorizzare la realtà. Lo scrittore italo-toghese Kossi Komla-Ebri, ad
esempio, ha coniato il neologismo imbarazzismi per definire le forme di razzismo
linguistico inconsapevole che caratterizzano la società italiana – anche quella che si
ritiene più illuminata e progressista – come segno del sostrato razzista in cui siamo
immersə tuttə volenti o nolenti…
PRIMAVERA 2022

Mi diceva Victoria Oluboyo, giovane attivista afrodiscendente italiana, che la prima


domanda tipica che le fanno molti è «Da dove vieni?», a cui lei risponde «Da Parma,
come i miei genitori». E allora l’interlocutore insiste, «No, ma da dove vieni veramen-
te?», con il sottointeso: «Sei nera, non puoi essere parmigiana». Da donna bianca penso
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che spesso non ci rendiamo conto di quanto sia piena di bias la domanda stessa, «da
dove vieni?», quando posta a una persona bipoc [acronimo per Black, Indigenous and
People of Color, Ndr]. L’altra cosa che mi ha raccontato è il suo orientamento in terza
media, quando la professoressa disse ai genitori di mandare Victoria in qualche scuola
professionalizzante, dando per scontato che, anche se aveva ottimi voti, essendo nera
non avrebbe fatto l’università. Non credo che la professoressa si rendesse conto di esse-
re razzista; probabilmente si considerava razionale, non razzista. Per questo far ragio-
nare le persone sui loro automatismi è importante.

In questo senso pensi che la lingua possa essere un canale d’accesso più facile di
altri per lavorare su pregiudizi e bias?
Sì, ma non solo, perché far capire a chi sta bene che c’è un problema nel modo in cui
utilizza la lingua è altrettanto importante che occuparsi, come faceva Don Milani, degli ul-
timi, spiegando loro che le parole non sono indifferenti, perché poi con le parole ti fregano.
Una delle cose belle del presente è che c’è tanta azione in contesti pop. Quando le spie
della necessità di un cambiamento arrivano nei telefilm riescono a raggiungere perso-
ne che magari nella loro vita non avrebbero mai frequentato un collettivo. Mi viene in
mente quello che sta facendo Shonda Rhimes con i suoi prodotti, che siano Quantico o
il medical drama Grey’s Anatomy. Per esempio, la stagione 17 di Grey’s Anatomy è stata
ambientata durante l’epidemia di Covid-19 e più volte i personaggi
principali sono tornati sul problema dei neri che non riuscivano ad
accedere alle cure di base perché non avevano copertura sanitaria, NEANCH’IO PENSO CHE
cosa che faceva sì che a morire fossero molti più neri che bianchi, LO SCHWA O L’ASTERISCO
molti più poveri che ricchi – e questo Rhimes, che è nera, credo ci SIANO LA SOLUZIONE
tenesse particolarmente a sottolinearlo. Ma ha fatto anche altre cose MIGLIORE: HANNO UN
assolutamente interessanti dal punto di vista sociologico e non cre- SACCO DI DIFETTI. PERÒ
do che lo faccia per tokenism, come invece fanno altri show. Un paio SONO UN ESEMPIO DI USO
di stagioni fa Rhimes aveva infilato nella serie un uomo trans mili- POLITICO DELLA LINGUA
tare che ha fatto un periodo di apprendistato all’ospedale, e nella
stagione di quest’anno c’è un personaggio non binario che si chiama
Kai: quando appare sullo schermo si capisce subito che è una persona fluida, anche se
non lo dice mai; e nell’economia della serie non si parla mai del suo essere persona non
binaria, lo è e basta. Questo è il genere di cose di cui abbiamo bisogno. Come quando
Loki, nella serie omonima, al suo alter ego femminile che gli chiede se avesse mai avuto
una principessa o un principe ad aspettarlo risponde a bit of both, «un po’ di entrambi».
Anche lì, il suo essere bisessuale, o forse pansessuale, non è un tema, ma una cosa alla
quale si accenna con grande familiarità. Il fatto che nei prodotti pop stiano arrivando
questi elementi di riflessione è sintomo di una società che sta cambiando e che può arri-
vare a far riflettere anche persone che normalmente non pensano a questi temi.

In rete assistiamo spesso a un uso delle parole estremamente aggressivo, che nella
realtà è ancora – per fortuna – assai più limitato. Dopo anni di dibattiti online e di
LE MALELINGUE
17
studio dei meccanismi che regolano questi scambi discorsivi, che relazione pensi ci
sia tra violenza verbale e vittimismo narcisistico – tipico dei social, ma non solo? E
come è possibile abitare un contesto tanto tossico come quello dei social media in-
staurando invece una comunicazione positiva – o generativa, come ti piace definirla?
Come facciamo a stupirci del tipo di dibattito che c’è sui social, quando veniamo
da cinquant’anni di polarizzazione del discorso pubblico? Anche le tribune televisive
funzionano così. Io non mi stupisco che la gente comune, cioè non professionisti della
parola, replichino questo modello. A me vengono a dire capra, ma da dove l’avranno
sentito «capra» usato come offesa? Non è che se lo sono inventato, l’hanno sentito da
Vittorio Sgarbi. C’è un’enorme responsabilità di chi ha finora tenuto e detenuto il di-
scorso pubblico, quindi giornali, intellettuali, figure di spicco e così via, che adesso
cascano dal pero dicendo che c’è tanta violenza sui social… Ma è esattamente la stessa
che avete perpetrato voi per decenni, in tutte le forme possibili! Soprattutto in televi-
sione, che ancora oggi, per molte parti della nostra società, è l’unico canale di infor-
mazione. È anche importante ricordare che noi abbiamo a che fare con generazioni a
cui nessuno ha insegnato a portare avanti un discorso pubblico. Nessuno ha insegnato
loro a difendere una posizione o a confutarla rimanendo in tema. La capacità argo-
mentativa è una competenza ben precisa che non si acquisisce naturalmente. Non è
un caso che si stia portando negli ultimi anni nelle scuole il dibattito regolamentato, un
tipo di esercizio che si basa sul difendere una tesi o un’antitesi con
la quale magari non sei nemmeno d’accordo senza scadere nell’in-
GIORNALI, INTELLETTUALI sulto, andare sul personale, eccetera. Forse ne vedremo i frutti nel
E CHI HA FINORA TENUTO 2050, perché richiede un cambio di mentalità. Io dei social network
E DETENUTO IL DISCORSO apprezzo la possibilità di far sentire la propria voce trasversalmen-
PUBBLICO ORA CASCANO te, ma quella voce pubblica va saputa usare. E l’unico modo per
DAL PERO DICENDO usare bene la voce pubblica è studiare. Mi viene in mente l’esem-
CHE C’È TANTA pio di Carlotta Vagnoli, femminista battagliera che qualche mese fa
VIOLENZA SUI SOCIAL è stata contestata da alcune attiviste nere perché nel suo libro non
asteriscava il termine ne*ra. Peccato però che mancasse il conte-
sto: Carlotta Vagnoli nel suo libro analizza anche l’hate speech e
lì riportava dei tweet molto violenti arrivati all’indirizzo di Carola Rackete, citandoli
direttamente. Nella mia linea di studi, se un testo è citato letteralmente va preservato:
io non asterischerei mai una citazione di questo tipo, al limite metterei un trigger war-
ning [avviso a chi legge, Ndr] in apertura o avrei l’accortezza di non leggerlo in pubbli-
co. Per me questa storia di Carlotta Vagnoli è un esempio di degenerazione di richieste
sacrosante. Non ha senso chiedere che vengano asteriscati i testi citati, così come non
ha senso sostituire la parola ne*ro in Mark Twain, perché per la realtà che descriveva
Mark Twain il termine ne*ro era legittimo, e sarebbe ridicolo rileggere Huckleberry Finn
PRIMAVERA 2022

con scritto «afroamericano», sarebbe una decontestualizzazione. Però a questo tipo di


discernimento si arriva in un modo solo, studiando. L’attivismo non va solo agito, va
anche studiato.
N. 14
18
Però qui si apre un’altra questione, perché non si può mettere un trigger warning
su tutto. O meglio, si può mettere su tutto ciò che sappiamo essere offensivo, ma ma-
gari altri termini risultano offensivi senza che lo immaginiamo e quindi il rischio di
ferire rimane. Forse, quindi, il privilegio è qualcosa che ciascuno verifica nei limiti in
cui ci riesce, ma poi bisogna aiutarsi.
Quello delle discriminazioni non è un insieme finito. Da persona non particolar-
mente discriminata – anche se sono arrivata al femminismo proprio da una storia di
discriminazioni lavorative in quanto donna – penso che la forma mentale corretta sia
quella della disponibilità all’ascolto come riflesso della nostra umanità. E la nostra
umanità non si vede al primo passaggio, quando magari sbagli a chiamare una diver-
sità, ma al secondo, quando l’altra persona ti dice: «Non mi chiamare così, per favore,
preferisco un altro nome». Lì puoi scegliere se tenere conto di quella segnalazione,
oppure fregartene e andare avanti per la tua strada. Quando ho incontrato Sofia Ri-
ghetti la prima volta, l’ho definita «disabile» e lei mi ha detto: «No, guarda, preferisco
la definizione person first, quindi persona con disabilità». A quel punto, quando ho
incontrato Fabrizio Acanfora ho detto «persone autistiche», e lui mi ha riposto: «Io pre-
ferisco identity first, quindi non persona con autismo ma autistico». Ho imparato a
tenere conto di queste preferenze. Quando Sofia Righetti mi ha fatto notare che avevo
detto carrozzella e non carrozzina le ho detto: «Scusami, non ci ho proprio pensato», e
ora ci faccio attenzione.
La chiave è l’ascolto, la possibilità di chiedere scusa e di cambiare. Che ne sapevo
io che trans, usato come sostantivo, per la comunità transgender è offensivo? Quan-
do mi ci hanno fatto ragionare ho iniziato a dire persona trans, uomo trans, donna
trans, ragazzo trans, e così via. Poi apri il giornale e c’è il titolatissimo professore di
linguistica al quale viene permesso di pubblicare in un articolo di giornale «il trans»
senza rendersi conto di rimarcare un privilegio, lui come tutta la filiera giornalistica a
cui non è venuto in mente di alzare il telefono e dire: «Professore, veramente il trans è
un’espressione offensiva, possiamo mettere la persona trans, glielo cambiamo noi». Ho
avuto una volta un dialogo con un maschio bianco – scusate se ribadisco – un signore
di una certa età, che ha detto: «E poi sta sigla Lgbtqi+… Non si può neanche dire!».
Basta dire Lgbt, non è che sia sconvolgente: lesbiche, gay, bisessuali e trans. Non mi
dite che Lgbt sia impronunciabile! È proprio il muro del patriarcato, la povera, povera
mascolinità fragile.

Come ne usciamo?
Alla fine, se uno ragiona in maniera intersezionale, siamo tutti diversi: come diceva
Franco Basaglia, «Visto da vicino nessuno è normale». Chi è che corrisponde a tutti i
parametri di normalità? Io ho i tatuaggi, anche se poi sono tristemente bianca, eteroses-
suale, cisgender di mezza età; ma almeno sono un’alleata. Viviamo in una società che fa
star male il novanta percento delle persone che non corrispondono a un certo canone e
quelle persone sono decise a farsi sentire sempre di più.
LE MALELINGUE
19
L’eclisse
POTERE E PAROLE

della parola
Chi dice che il vero terreno di scontro è il linguaggio non
esagera affatto: oggi i discorsi (e le storie che contengono)
vengono svuotati dal codice tecnico-scientifico
dei segni e dal rifugio nella finzione delle immagini
Illustrazione di Valentina Sciutti
20 PRIMAVERA 2022
N. 14
L
ockdown, immuni, tracciamento, Dad, call, cluster, infodemia, no
vax – l’elenco sarebbe lungo. Oltre ad aver sconvolto le nostre vite, la
pandemia ha fatto irruzione nel nostro vocabolario. Accanto all’ov-
via introduzione di termini specialistici si sono imposti neologismi
di ogni genere, calchi dall’inglese, acronimi e sigle. Per non parlare
poi di quelle parole il cui significato, prima più generico e neutra-
Donatella Di Cesare le, ha subito una torsione, o meglio, una distorsione, assumendo
sfumature inedite, connotati minacciosi. Riflettere su questo non è
uno sterile esercizio erudito. Non si tratta di limitarsi ad analizzare i cambiamenti. La que-
stione è eminentemente politica.
Il newspeak della pandemia è un linguaggio medico-pastorale nel cui caleidoscopio è
possibile non solo scorgere i volti della governance attuale, ma anche cogliere i rapporti di
forza che si vanno delineando. Non si esagera sostenendo che il vero terreno di scontro è
oggi più che mai il linguaggio. Sarebbe perciò sbagliato concepirlo come mero specchio
del reame, o peggio, come semplice arma di contesa. Molte rivendicazioni recenti, tra cui
quella un po’ deludente dello schwa, rischiano perciò, al di là del valore simbolico, di restare
senza effetti.

L’INTRECCIO TRA LINGUA E POTERE

Nessuno forse più di Walter Benjamin ci ha insegnato a guardare in tutta la sua profon-
dità politica il conflitto tra il potere della lingua e la violenza del parlante. Il capitalismo
avanzato non consiste solo in un sistema economico, né solo in una religione del debito, ma
anche nel degrado della lingua, che raggiunge il punto più basso della sua caduta. Che vuol
dire, però, degrado? Quello che ormai esperiamo quotidianamente, che viviamo e, anzi,
subiamo, senza che nessuna sperimentazione possa arginarlo?
Il problema non è solo culturale, come si sarebbe portati a credere, e non si riduce quindi
alla competenza grammaticale o alla quota di lessico che scuola e università insegnano.
Certo, non è difficile indovinare che cosa c’è dietro la cosiddetta movida violenta, in cui
si scarica un grande potenziale di rabbia in risse tra adolescenti. Chi è stato privato delle
parole per dire la propria tristezza, per articolare la propria frustrazione, per esprimere le
proprie sofferenze, talvolta insopportabili, finisce per ricorrere alle mani. Chi non ha i nomi
per il disagio lo agisce, lo volge in violenza, con ripercussioni spesso tragiche. È così che
periferie e margini vengono tagliati fuori dallo spazio pubblico dove riesce ad accedere chi
è in grado di parlare. D’altronde non è una novità. Già i greci sapevano bene che la parola
è un’arma in tempo di pace e che può esserci democrazia solo se ciascuno sa difendere la
propria causa. Se si traduce questo nello scenario attuale si può
dire che la menomazione della democrazia si desume dal degra-
PRIMAVERA 2022

do della lingua, dalla povertà del lessico, dal presente reiterato Donatella Di Cesare
che ha rimosso il passato e soprattutto abolito il tempo futuro. insegna filosofia
Passa da qui l’egemonia, per citare Antonio Gramsci, così attento teoretica alla Sapienza.
al tema della competenza linguistica nelle classi subalterne. Tra i suoi libri
Sulla vocazione
N. 14

politica della filosofia,


Il tempo della rivolta
(Bollati Boringhieri,
2018 e 2020) e Il
complotto al potere
(Einaudi, 2021).
22
Quel che però accade oggi va ben oltre lo scontro educativo-culturale. E supera anche
l’abuso e la manipolazione. Senza dubbio non capiremmo i nuovi e inquietanti fenome-
ni del negazionismo e del complottismo senza considerare ad esempio la figura del falso
profeta. È quel portavoce dell’inganno, alla Donald Trump, che si rivolge alle presunte vitti-
me per dire che sono state raggirate, ingannate, non solo dalla truffa della democrazia, ma
anche dai nemici lì fuori, gli stranieri che vogliono infiltrarsi nel corpo della nazione per
alterarlo. Si spaccia per guaritore e, mentre annuncia il supposto inganno, a ben guardare
abbindola e circuisce il proprio pubblico distorcendo le parole, gonfiandole di odio, riem-
piendole di allusioni e minacce. La sua lingua è quella che dice per poi negare di aver detto
e che penetra attraverso gli stilemi e slogan della propaganda.
Ma il grande pericolo oggi è la lingua vuota e meccanica della tecnica nelle cui sigle fa
inquietantemente capolino lo stato d’eccezione. A partire dall’acronimo Dpcm (Decreto
della presidenza del consiglio dei ministri) che è la cifra stessa dell’eccezione. Ma gli esempi
sarebbero innumerevoli. L’uso sconsiderato delle sigle la dice lunga su una politica ridotta
come mai a governance amministrativa che, quando può, lascia l’onere della decisione agli
«esperti» sanitari. Le sigle sono il riparo specialistico, la barriera burocratica per infondere
una patina di oggettività a scelte del tutto opinabili. Il potere degli uffici si amministra gra-
zie all’oscurità di quelle indecifrabili abbreviazioni che, in uno scenario kafkiano, fermano
davanti alla porta il cittadino sprovveduto. Così scuola e università sono state travolte dalla
Dad e da tutto il flusso inarrestabile di banali neologismi, insulsi anglicismi, astrusi termini
tecnici. È stato ed è un vero e proprio disastro annunciato.
Che cosa si nasconde però dietro gli pseudotecnicismi dall’apparenza specialistica, dal
tono quasi sacrale, riprodotti spesso per conformismo? Il punto non sta solo nella com-
prensibilità, né solo nel ruolo giocato dagli esperti. Perciò gli spiriti democratici che pro-
muovono la comunicazione non colgono nel segno. E anche i richiami dei puristi che vor-
rebbero arginare i termini inglesi imponendo, ad esempio, «clausura» al posto di lockdown,
fanno perdere di vista la complessità della questione. Il degrado attuale del linguaggio non
è che lo stadio ultimo di un processo descritto da Benjamin.

MENO VOCABOLI, MENO SIGNIFICATI

Quel che si deve denunciare è l’eclisse della parola, il suo svuotamento. Da un canto
l’immagine audio-visuale, dall’altra il segno delineano la polarizzazione estrema, la vera
e propria schizofrenia quotidiana tra la calcolata applicazione tecnico-scientifica di segni
e lo smisurato consumo di immagini per rifugiarsi nella finzione. Ovviamente nessuno ci
costringe. Ma proprio questa apparentemente spontanea riduzione al silenzio rappresenta
il decisivo mutamento politico-linguistico di questi ultimi tempi in cui lo schermo va ormai
sostituendo sempre più lo spazio della pólis.
La parola svuotata è quella ridotta nel suo spessore semantico. Non solo, dunque, un nu-
mero più limitato di vocaboli, una scelta più ristretta di tempi, modi, sfumature, ma anche
una perdita di storia, un venir meno di quei significati che si sono andati sedimentando gra-
zie alle generazioni passate. E queste generazioni non sono tanto quelle dei vincitori, che
LE MALELINGUE
23
hanno inscritto la loro voce nella narrazione trionfante, quanto quelle dei vinti. Si spezza
così il filo con il passato. C’è però di più. La parola ridotta a semplice mezzo di scambio è
quella che si spaccia per neutrale. Come se non veicolasse nessun contenuto, come se non
orientasse il pensiero, come se non fosse già sempre un’articolazione del mondo in cui il
parlante è irretito. Articolazione non vuol dire concezione, né tanto meno ideologia. L’ar-
ticolazione è quella di una lingua storica che è diversa da un’altra non solo per i suoni, ma
appunto per i significati. Il mondo non è articolato allo stesso modo in swahili, in russo o in
portoghese. Le lingue non affermano nulla sul mondo – lo rendono possibile, lo dischiudo-
no ciascuna a suo modo. Non c’è ingenuità politica peggiore che pensare la lingua come un
semplice strumento, eventualmente modificabile e migliorabile. Quasi che i parlanti pre-
esistessero alla lingua e la usassero, come si usa un martello, per poi riporla. Al contrario
non c’è luogo in cui il potere si eserciti con più forza e con più pericolo. Non l’hanno detto
solo i filosofi, ma anche gli scrittori da Elias Canetti a George Orwell. La visione ottimistica e
strumentale del linguaggio impedisce di vedere la condizione di dissimmetria, sudditanza,
dominio in cui il parlante si trova.
Il rischio sarebbe quello di pensare la liberazione del parlante dal potere della lingua
attraverso un unico linguaggio artificiale che svincoli e affranchi dal peso della storia sedi-
mentata nei significati e da quella visione in cui il parlante è irretito. Che cosa sarebbe allo-
ra più auspicabile dell’attuale newspeak? I puristi reazionari puntano, com’è noto, l’indice
contro l’inglese. Come se il problema fosse davvero l’aumento dei prestiti stranieri da cui si
dovrebbe salvaguardare la lingua nazionale. In discussione non è l’inglese, bensì il globin-
glese, la neolingua del capitale e delle macchine, che da tempo guida la globalizzazione,
quell’inarrestabile processo di uniformazione linguistica del pianeta. Senza questa neo-
lingua la globalizzazione sarebbe impossibile. Dopo essersi insediati stabilmente in alcuni
ambiti, seguendo lo sviluppo dirompente della tecnica, i termini del globinglese invadono
spazi sempre più vasti della nostra vita. È un’iperproduzione: dopo essere stati confezionati,
vengono depositati nelle lingue, così come i rifiuti e le scorie della tecnica vengono abban-
donati nella natura. E la contaminazione qui non è meno grave.
Mentre si parla finalmente di altre estinzioni, di piante, di animali, di specie a rischio,
passa in genere sotto silenzio la perdita delle lingue che, pure, è inarrestabile. I popoli dell’A-
mazzonia non hanno subito solo la politica negazionista e genocidaria di Jair Bolsonaro,
prima e soprattutto durante la pandemia. Da decenni sono vittime non soltanto della de-
forestazione, ma anche di una meno evidente sottrazione delle proprie lingue che via via si
vanno estinguendo. Sennonché anche la perdita di una lingua parlata da pochi individui in
un angolo remoto è pur sempre la perdita di un modo di articolare il mondo, un depaupe-
ramento del patrimonio umano.
Per lo stesso motivo l’imporsi del globinglese, torre di Babele del ventunesimo secolo,
non è l’imposizione di uno strumento come un altro, bensì è il subdolo prevalere di una
PRIMAVERA 2022

visione del mondo. Per di più si tratta di una meccanica unità che connette il globo in nome
di uno svuotamento della parola. La marcia del newspeak, che avrebbe il compito di cancel-
lare ogni traccia di indeterminatezza, incomprensibilità, ma alla fin fine anche di alterità, è
l’uniformazione nel segno del vuoto, la costruzione di un’unità artificiosa e fittizia che non
N. 14
24
lascia spazio alle differenze. Così non si perde solo la storia, ma si riduce anche la parola a
semplice etichetta segnica. I due processi sono connessi. La parola ridotta a segno è quella
disincarnata, talmente lontana dall’oggetto che designa, da rimuoverlo. Proprio qui sta per
Benjamin la massima alienazione. Anche perché, mancando di profondità, questa paro-
la-segno riduce la possibilità di pensiero. Così viene esercitato il potere più infido e brutale.

IL COMUNISMO DELLA LINGUA

Come rispondere? Come può la violenza del parlante far fronte a questo potere? È inte-
ressante notare che anche filosofi francesi come Jacques Derrida, abbiano ripreso il termine
tedesco Gewalt, violenza appunto, che si oppone alla Macht, al potere della lingua. Due
vocaboli dal chiaro significato politico per indicare quel conflitto decisivo che troppo spes-
so passa inosservato. Si potrebbe immaginarlo come la battaglia tragica del parlante che
da solo tenta di inscrivere la propria individualità nella lingua e che, se non è l’eccezione
del poeta, finisce per naufragare. Simile è il caso del riformista forsennato che pretende di
modificare la lingua introducendo le novità che ritiene utili o eliminando le presunte im-
perfezioni. Come se la lingua non fosse già sempre espressione di una cultura egemone che
così non viene certo scalfita.
La via che indica Benjamin è ben diversa. E passa per l’alterità che attraversa il cuore
della lingua. Persino il globinglese del capitale e delle macchine è lingua dell’altro non nel
senso della proprietà, bensì solo della provenienza. Viene dall’altro, ma non è suo possesso.
Di più: la lingua interdice ogni proprietà privata. Il padrone, possessore, sovrano, è tale solo
in apparenza e può essere scalzato. Così quell’egemonia colonizzatrice, molto più insidiosa
e devastante di altre imprese capitalistiche, può essere fermata dai parlanti in un dialo-
go che va al di là dei confini della loro lingua. Solo così si smette di imporre agli altri quel
mondo depositato nella propria lingua come se fosse il mondo per eccellenza. Solo così si
salvaguardano le differenze e si difendono le lingue più marginali. E
soprattutto solo così si fluidifica l’articolazione irrigidita della lingua,
dove il potere si è consolidato. Certo ogni lingua pone limiti contro i SI PARLA FINALMENTE
quali si può urtare. Ma non sono muri, perché al contrario tutti sono DI ESTINZIONI, DI PIANTE,
solo ospiti, non proprietari. E semmai la lingua è un modello di ospi- DI ANIMALI, DI SPECIE
talità. Proprio perché è un’articolazione del mondo è importante però A RISCHIO. MA IN GENERE
che ci sia non una, bensì molte lingue, che tracciano altrettanti limiti. PASSA SOTTO SILENZIO
Ciascuna potrà dire allora quel che l’altra non ha ancora detto, o che L’INARRESTABILE
stava per dire. PERDITA DELLE LINGUE
Non abbiamo bisogno di un fantomatico paradiso comunicativo,
che a ben guardare finisce per rivelarsi il trionfo dell’inettitudine e del-
la passività. Benjamin vedeva nella traduzione un tikkun, una riparazione e ricomposizio-
ne, mentre nel tradurre inteso nel senso più esteso scorgeva un compito messianico. Oggi
possiamo dire che fronteggiare il potere del newspeak è possibile riscoprendo il comunismo
della lingua, che non è solo bene comune, e seguendo quel movimento di liberazione che
solo una politica del tradurre può disegnare.
LE MALELINGUE
25
L’assalto
Gramsci aveva
POTERE E PAROLE

capito che la

al cielo
«questione della
lingua» aveva a
che fare con la
formazione della

fu anche
classe dirigente. Per
questo motivo, agire
in questo campo

linguistico
significa
decidersi a sfidare
la «lava» della
battaglia politica
Illustrazione di
27 LE MALELINGUE
T
radotto da poco più di un mese nel carcere di San Vittore, Antonio
Gramsci scrive il 26 marzo 1927 alla sorella Teresina. Aveva ricevuto
una foto del nuovo nato, un nipote di nome Franco, e se ne congra-
tulava. Soprattutto, dalla foto il piccolo doveva sembrare, al carcera-
to, piuttosto vispo: «penso che parli già correntemente». La curiosità
dello zio si concentra sull’aspetto del piccolo (che rassomiglia poco
Antonio Montefusco alla famiglia) e sulla lingua. «Spero che lo lascerete parlare in sardo e
non gli darete dei dispiaceri a questo proposito», consiglia lo zio, che
si rammarica di non aver fatto lo stesso con la figlia del fratello Gennaro, Edmea, con la quale
intratteneva un rapporto quasi filiale: «Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha
messo una camicia di forza alla sua fantasia». L’errore non era da ripetere, per evitare il rischio
di un italiano appreso male a casa e un sardo imparato altrettanto male con altri bambini: «Ti
raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bam-
bini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente
naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro».
L’apprensione familiare di uno zio incerto del proprio destino carcerario apre uno squarcio
tutt’altro che banale sulle convinzioni di uno studioso che per lungo tempo si è interrogato
sulle questioni del linguaggio. Due mesi dopo, scrivendo alla cognata Tania Schucht, Gramsci
afferma addirittura che vorrebbe fare dello studio delle lingue la sua «occupazione predo-
minante»; lamenta, infatti, che gli è molto difficile farsi un piano di studio complessivo, che
pure aveva accarezzato da subito – e che invece riuscirà a portare avanti, elaborandolo in
quell’opera-mondo che furono i Quaderni del carcere – ed è per questo, anche per combattere
gli sbalzi d’umore e la noia della carcerazione, che vuole studiare «dopo il tedesco e il russo,
l’inglese lo spagnolo e il portoghese», di cui sapeva qualcosa, e infine il rumeno.
Questa sensibilità spiccata per le virtù del plurilinguismo, nonché questo interesse
specifico per lo studio concreto delle lingue, è fortemente presente in questa fase, quando
il dirigente comunista è ancora a San Vittore, e viene ribadito in più lettere. Ma da un certo
punto di vista, esso può sorprendere. Gramsci viene spesso arruolato tra i sostenitori di
un certo tipo di giacobinismo linguistico, convinto dell’esigenza di un’unificazione nazio-
nale a scapito dei dialetti, inevitabili portatori di un punto di vista ristretto e provinciale
sul mondo; una visione, questa, che fa il paio con la convinzione gramsciana che lo studio
sia «un mestiere, e molto faticoso» o ancora, che sia «un abito acquisito con lo sforzo, la
noia e anche la sofferenza» (Quaderno 12, § 2). Da qui a consi-
derarlo un antesignano di chi si batte contro l’impoverimento
della scuola, che sarebbe dovuto all’onda lunga del Sessantotto Antonio Montefusco
e delle sue derive pedagogiche, il passo è breve: lo hanno fat- insegna letteratura
to linguisti e studiosi di letteratura, che, allineando un piccolo latina medievale
gruppo di citazioni gramsciane, hanno cercato di presentare la all’Università Ca’
PRIMAVERA 2022

battaglia per un’educazione linguistica tradizionale, che difen- Foscari di Venezia.


desse il fortino dell’ortografia e della correttezza grammaticale, Si è occupato di
come una battaglia di sinistra. Le cose, in verità, sono un poco francescanesimo e
più complicate. dissenso religioso, e di
storia delle pratiche
N. 14

intellettuali nel
Medioevo. Ha curato
Italia senza nazione
(Quodlibet, 2019) e Le
Lettere di Dante (De
Gruyter, 2020).
28
IL MATERIALISMO DI GRAMSCI DI FRONTE ALLA LINGUA

La riflessione gramsciana sul linguaggio è materia incandescente: lo è, innanzitut-


to, per i suoi lettori, che difatti a questo tema hanno dedicato una discussione lunga
e aperta. A guardarla da lontano, oggi che è l’epoca del «nazismo grammaticale» dei
social network e dei meme che ridicolizzano l’uso di «qual è» con l’apostrofo, sembra
difficile capire quanto dovesse essere d’attualità riflettere sulle pagine del dirigente co-
munista all’ombra della messa sotto accusa della scuola autoritaria da parte di Lorenzo
Milani. Le idee di Gramsci erano diventate un fondamentale armamentario per la bat-
taglia linguistica democratica, portata avanti da Tullio De Mauro, che nel 1963 pubbli-
cava la Storia linguistica dell’Italia unita. In quel libro, la «questione della lingua» che
si era aperta all’epoca dell’unificazione veniva messa alla prova dell’analisi sociologica
e diventava argomento di discussione pubblica: solo Gramsci aveva visto e chiarito, nei
Quaderni del carcere, che in Italia, quando si parla di «quistione della lingua» si stanno
aprendo una serie di altri problemi: «la formazione e l’allargamento della classe diri-
gente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la mas-
sa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale» (Quaderni 29, § 3).
All’indomani della pubblicazione «critica» dei Quaderni nel 1975 (che sostituiva l’edi-
zione «antologica» curata da Palmiro Togliatti), Franco Lo Piparo pubblicava un saggio
celebre (Lingua intellettuali egemonia in Gramsci, Laterza, 1979) in cui si ipotizzava
che una delle categorie-chiave del pensiero politico gramsciano, «l’egemonia», era stata
definita a partire da concetti che provenivano dal dibattito linguistico, e più precisa-
mente dalle discussioni pubbliche di stampo risorgimentale – quando l’unificazione
politica mancava anche di unità linguistica – e dal dibattito scientifico, che aveva da
tempo messo al centro il problema del mutamento. La biografia gramsciana sembrava
orientare decisamente verso questa soluzione: prima di diventare un dirigente comuni-
sta e di abbandonare gli studi universitari, Antonio, studente all’Università di Torino, si
era fatto notare soprattutto nel corso di glottologia tenuto da Matteo Bartoli. L’impegno
nella linguistica storica fu concreto: nel 1912-1913 gli Appunti del corso di Bartoli ven-
nero stampati a partire proprio dalle note prese a lezione da Gramsci; e d’altronde, lo
stesso Bartoli si rammaricò che lo studente abbandonasse la carriera universitaria per
dedicarsi esclusivamente al giornalismo e soprattutto alla politica.
Incandescente, si è detto: perché questa lettura di un Gramsci innanzitutto «linguista» –
su cui De Mauro ha insistito fino a epoca recentissima – è talvolta sfociata nel tentativo di
renderlo un pensatore liberale. Lungi dall’essere una «crosta esteriore» (così, Lo Piparo, su
Critica marxista, 1987), il materialismo di Gramsci si conferma integrale e creativo anche di
fronte alle questioni della lingua e del linguaggio. È questo un prisma a più facce, comples-
so, che si intreccia a più livelli con la sua visione del mondo, della cultura, della filosofia del-
la praxis. Anche più di altri temi, questo è quello in cui la riflessione gramsciana è evidente-
mente al crocevia di correnti storiche di pensiero confliggenti (marxismo e idealismo, per
esempio), di esperienze concrete di tipo familiare e non solo, e infine di ampie discussioni
in un momento particolarmente vivace della storia del movimento operaio.
LE MALELINGUE
29
LA LINGUA DEI DOMINANTI E L’EGEMONIA CULTURALE

Sempre nel 1927, in un’altra lettera a Tania, Gramsci si era ripromesso di sviluppare una
riflessione sul dibattito che, nel Risorgimento, oppose Alessandro Manzoni – sostenitore di
un’opzione centralista che voleva risolvere l’unificazione linguistica dell’Italia con l’immis-
sione di maestri toscani nella scuola elementare – e il linguista Isaia Graziadio Ascoli, che in-
vece credeva che la lingua italiana si dovesse formare «da sé», una volta che gli scambi nella
penisola fossero diventati concreti e diffusi. Nei termini di Gramsci, Ascoli «non crede alle
egemonie culturali per decreto, non sorrette cioè da una funzione nazionale più profonda e
necessaria» (Quaderni, 23, 40). Antonio riscrive una nota che già aveva redatto nel quaderno
1, al paragrafo 73, in particolare, aggiunge in interlineo l’aggettivo «culturali»: è una variante
molto significativa. Da una parte, Gramsci sistematizza l’idea che l’unificazione linguistica
non può avvenire in una classica modalità giacobina «alla francese»: un’Accademia che pro-
duce un dizionario, fotografando la situazione linguistica, e una centralizzazione del para-
digma di prestigio su una città-capitale (Parigi). Quest’idea era stata importante nella tradi-
zione rivoluzionaria, e Gramsci la manterrà senz’altro come obiettivo generale; ma per la sua
realizzazione è innanzitutto importante che le classi subalterne condividano un progetto di
avanzamento culturale di massa che discende dalla classe egemone in un momento dato.
A questo punto, la domanda è: perché mai i subalterni dovrebbero aderire alla lingua della
classe dominante? Non rischiano di assumerne anche, negativamente,
il punto di vista sul mondo? Per Gramsci, l’obiettivo della lingua unica
GRAMSCI SOSTIENE non viaggia mai da solo. Esso è parte integrante di una partecipazione
CHE L’UNIFICAZIONE attiva delle classi dominate alle istituzioni e alla cultura egemoniche.
LINGUISTICA NON PUÒ La lingua, cioè, è parte integrante di questa partecipazione, che da at-
AVVENIRE DALL’ALTO, tiva può diventare creativa immettendo, tramite l’intellettualità orga-
CON L’ACCADEMIA nica espressa da quelle classi, novità e specificità derivate dalle proprie
CHE PRODUCE esperienze. Perché il linguaggio, nei Quaderni del Carcere, «contiene gli
UN DIZIONARIO elementi di una concezione del mondo e di una cultura». Conoscere
solo il dialetto significa per forza limitarsi a una «intuizione del mondo»
ristretta e provinciale, comunque al di fuori della possibilità di com-
prendere il dibattito e i movimenti del mondo su più larga scala. In questo senso si devono
intendere le «egemonie culturali»: nella misura in cui anche gli esclusi, tramite i propri in-
tellettuali organici, riescono ad appropriarsi e a trasformare la cultura dominante – e dun-
que soprattutto la lingua che la esprime. La battaglia per una lingua unica è, in verità, una
battaglia per la socializzazione dei saperi e per il superamento dell’individualismo culturale
dell’intellettuale borghese: «Creare una nuova cultura non significa solo fare individualmen-
te delle scoperte ‘originali’, significa anche e specialmente diffondere criticamente delle ve-
rità già scoperte, ‘socializzarle’ per così dire e pertanto farle diventare base di azioni vitali,
PRIMAVERA 2022

elemento di coordinamento e di ordine intellettuale e morale. Che una massa di uomini sia
condotta a pensare coerentemente e in modo unitario il reale presente è fatto ‘filosofico’ ben
più importante e ‘originale’ che non sia il ritrovamento da parte di un ‘genio’ filosofico di una
nuova verità che rimane patrimonio di piccoli gruppi intellettuali» (Quaderno 11, 12).
In questa visione, Gramsci sembra dare al dialetto la palma di una negatività non solo
N. 14

linguistica, ma addirittura di inferiorità culturale. Ma le cose sono di nuovo più complesse.


All’interno di una gamma di possibilità di accesso alle competenze linguistiche, Antonio dà
la priorità alla lingua nazionale; il problema non sta nei contenuti concreti veicolati dalla
comunicazione dialettale, ma dall’esclusione dal circuito della comunicazione culturale al
livello più alto. Il linguista Alessandro Carlucci ha ricordato di recente (Gramsci and Lan-
guages: Unification, Diversity, Hegemony, Brill, 2014) come Gramsci avesse utilizzato volen-
30
tieri il dialetto sardo per sensibilizzare le truppe militari della Brigata Sassari, che nel 1919
era stata inviata a Torino per reprimere i moti operai del Biennio rosso: la truppa venne
mandata via dalla città poco prima del grande sciopero in sostegno delle repubbliche sovie-
tiche di Russia e Ungheria, e il successo della campagna venne salutato con soddisfazione
nell’articolo I nostri fratelli sardi sull’Avanti! del 16 luglio. Pochi anni dopo (1922), sulla rivi-
sta poi diretta da Gramsci, L’Ordine nuovo, vennero pubblicati articoli in difesa delle mino-
ranze linguistiche (i francofoni in Val d’Aosta, i parlanti del gaelico, i germanofoni negli Stati
uniti, gli arabi nelle colonie francesi dell’Africa).

L’ASSALTO AL CIELO LINGUISTICO

Questi esempi fanno irrompere sul tavolo di lavoro del carcere la stratificazione del pen-
siero di un Gramsci immerso nel dominio della lotta. Se il professor Bartoli lo aveva dotato di
una strumentazione tecnica, capace di addentrarsi nelle concrete modalità con cui la lingua
cambia, sono le speranze della rivoluzione comunista a cavallo tra la rivoluzione russa, il
biennio rosso e l’instaurazione della nuova democrazia sovietica a dettare l’agenda culturale.
Il Gramsci «in carne e ossa» – sardo d’origine, e di nuovo bilingue (italiano-russo) nella fami-
glia acquisita – conosceva bene l’illusorietà di una lingua davvero integralmente unitaria. La
situazione della Russia sovietica era, essa stessa, difficilmente riducibile a un’unificazione;
e infatti Lenin, nelle Tesi sulla questione
nazionale del 1913, sostenne apertamen-
te una soluzione multilingue. Prima che per il movimento operaio, parlava d’altro. Come continua
Stalin si risolvesse a imporre una soluzio- a farlo oggi. Sorprendente Gramsci, tuttavia. Perché anche
ne coercitiva anche in questo ambito, la in questo caso è difficile considerarlo un antenato muto. In
linea sovietica e specificamente lenini- un articolo del 1918, per esempio, prendeva posizione con-
sta si caratterizzò come un tentativo di tro l’esperanto, un esperimento linguistico creato a tavolino
tenere insieme il diritto ad accedere alla che aveva conquistato il movimento operaio, e in particolare
lingua nazionale e la preservazione delle anarchico. Non era l’unico: anche gli scienziati avevano cre-
minoranze linguistiche. Le attività del- ato una lingua per la comunicazione internazionale. Non era
la Terza Internazionale appena fondata, un esperimento utile anche all’internazionalizzazione delle
con una febbrile e sistematica opera di lotte? Ma come si sarà capito, per Gramsci – come per Ascoli
traduzione, fanno comprendere la con- e per Lenin – il problema non stava nella possibilità di una
creta possibilità di costruire uno spazio lingua unica, ma nella sua essenza laboratoriale, che prefi-
che distingue processi di partecipazione gura un atto di coercizione votato al fallimento. Gramsci ci
culturale ed esigenze di comunicazione a avverte: «Non c’è nella storia, nella vita sociale, niente di fis-
più livelli. La consonanza con Gramsci è so, d’irrigidito, di definitivo. E non ci sarà mai. Nuove verità
totale, come mostrano soprattutto gli stu- accrescono il patrimonio della sapienza, nuovi bisogni, sem-
di di Giancarlo Schirru, e rende infondato pre superiori, vengono suscitati dalle condizioni nuove di
il tentativo di «demarxistizzarlo» anche su vita, nuove curiosità intellettuali e morali pungono lo spirito
questo piano. e lo obbligano a rinnovarsi, a migliorarsi, a mutare le forme
L’assalto al cielo dell’inizio del seco- linguistiche di espressione, prendendone da lingue stranie-
lo fu anche linguistico. Perché la lingua, re, facendo rivivere forme trapassate, cambiando significa-
to e funzioni grammaticali. E in questo continuo sforzo di
perfezione, in questo fluire di materia vulcanica liquefatta,
bruciano e si annichilano le utopie, gli atti arbitrari, le vane
LE MALELINGUE

illusioni, come quella dell’attuale lingua unica e dell’espe-


ranto» (Il Grido del Popolo, 16 febbraio 1918). Se vogliamo
cambiare la lingua, non possiamo sottrarci a sfidare la lava
della battaglia politica.
31
La lingua
LINGUE SUBALTERNE

è un luogo
di lotta
Schwa, asterischi, desinenze
in -x o -u: nessuna di queste
strategie è definitiva.
Illustrazione di Percy Bertolini

Ma stanno trovando
applicazione nelle periferie,
ai margini del potere
patriarcale. Ogni volta
che accade scandalizzano
i privilegiati
32PRIMAVERA 2022
N. 14
Le persone oppresse lottano con la lingua per riprendere possesso di sé,
per riconoscersi, per riunirsi, per ricominciare.
Le nostre parole significano, sono azione, resistenza.
bell hooks, Elogio del margine

C
hi combatte contro la rapina del capitale, contro l’oppressione
eterocispatriarcale, per l’autodeterminazione individuale, della
propria comunità e del territorio in cui vive, sa che la lingua è
anche un luogo di lotta. Mi sono imbattuta in questa espressione
quando ho letto per la prima volta Elogio del margine di bell ho-
oks. In quelle pagine è evidente lo sforzo dell’autrice di rendere il
Filo Sottile periodare, la sintassi, le frasi, persino le singole parole strumento
di analisi, atto rivendicativo, inno alla dignità di chi vive ai margi-
ni ed esortazione alla resistenza attiva. Uno sforzo linguistico che avevo avuto la fortuna
di osservare «dal vivo» già nella mia esperienza di attivista No Tav.

LA GUERRIGLIA LINGUISTICA DEI MOVIMENTI

Gli slogan più famosi del movimento aprono allo stesso tempo critiche all’esistente
e panoramiche su altri immaginari: le troviamo nel potere ambiguo ma solidamente
orientato al futuro di «a sarà düra», nell’implicita cura contenuta in «si parte e si torna
insieme», nel biasimo a un intero mondo economico sottinteso in «No Tav: né qui né
altrove», nel ribaltamento e nell’assunzione di responsabilità di «colpevoli di resistere».
Nell’esperienza di movimento mi sono immersa in un linguag-
gio che è allo stesso tempo strumento di indagine, di consape-
volezza, di difesa e di contrattacco. I proponenti l’opera scelgono Filomena «Filo» si
accuratamente le parole con le quali presentare e accompagnare definisce punkastorie
le proprie azioni. Un esempio fra molti possibili: nel 2011 il movi- per connotare la forma
mento era in un momento di particolare forza, risonanza e attrat- di teatro-canzone che
tiva, la controparte si trovava nella necessità di elaborare strategie porta in giro da oltre
che aggirassero le critiche dei tecnici, le barricate di carta e l’op- vent’anni. Ha scritto
posizione popolare. Scomposero il contestato progetto della trat- La mostruositrans.
ta internazionale e lo riproposero in un’altra veste. Non si trattava Per un’alleanza
di una nuova linea e nemmeno – così come richiede il movimento transfemminista fra
da decenni – dell’utilizzo della linea storica senza ulteriori tunnel le creature mostre
e cantieri, bensì dello sminuzzamento del progetto già bocciato (Eris, 2020) e Senza
PRIMAVERA 2022

dalla comunità No Tav. Quella frammentazione, detta anche «fa- titolo di viaggio
sizzazione», aveva per i proponenti diversi vantaggi. Da una parte (Alegre Quinto tipo,
provava a far inghiottire la devastante opera un pochino per volta 2021). Ha un blog:
ma, soprattutto, smontandone l’integrità, evitava di dover sotto- filosottile.noblogs.org
N. 14
34
porre l’intero disegno a una valutazione d’impatto ambientale che ne avrebbe sommato tutti
i danni. Sarebbero sembrate «solo piccole devastazioni» indipendenti l’una dall’altra. Telt, la
società incaricata di costruire l’opera, e il governo proposero ai media questa nuova incar-
nazione del progetto con un subdolo anglicorum: low cost. Metteva se non simpatia, almeno
sollievo: «è un’offerta. costa poco!». Si trattava di una balla ovviamente. Un chilo di spalla
bovina non costa di meno della stessa quantità di carne ridotta a tocchi, anzi. Il movimento
svelò le reali mire di cementificatori e devastatori e ribattezzò la manovra «spezzatino».
Un analogo disvelamento linguistico avvenne quando nel 2011 lo stato, a suon di
idranti, ruspe, lacrimogeni e manganelli, prese possesso della Libera repubblica della
Maddalena. Il popolo No Tav, che aveva potuto vedere in prima persona l’avanzata co-
loniale dispiegarsi in modalità guerra-lampo, seppe subito che quello che sorgeva al
posto di uno dei più entusiasmanti esperimenti di autogestione popolare degli ultimi
decenni non era lo sbandierato «cantiere», bensì un «fortino».
Il capitale e la sua espressione statuale muovono guerra. Una delle modalità di ri-
sposta è la guerriglia linguistica. Non è fine a sé stessa: permette di accrescere la con-
sapevolezza, riprendersi spazio, costruire pensiero, coesione e azione. Di recente un
sottogenere di questo scontro ha cominciato a far capolino per le strade con la guerri-
glia odonomastica. I territori che abitiamo sono in gran parte presidiati da fantasmi di
aristocratici, militari, capitani d’azienda, beniamini della patria. Riscrivere lo spazio,
liberare presenze, infestare le vie di spettri di donne, uomini e soggettività altre che
hanno messo in discussione le barriere di genere, di classe, di razza è un invito a deco-
lonizzare l’immaginario, a fare breccia nell’habitat, nello spazio sociale.
In ambito femminista c’è lo stesso sforzo. Manuela Manera in La lingua che cambia (Eris,
2021) racconta così uno dei casi più recenti ed eclatanti di questo conflitto sulle parole:

Fino a pochi anni fa in Italia la parola femminicidio non esisteva [...]. L’espressione indica
un fenomeno che, ovviamente, nella realtà esisteva già ma che ora, grazie a questa parola, noi
riconosciamo e descriviamo con più precisione, inquadrando questo crimine dentro a una cer-
ta cornice discorsiva [...]. Così quello che prima era definito «raptus di gelosia», «dramma per
troppo amore», «delitto passionale» [...] adesso è riconosciuto e classificato come femminicidio.
Non abbiamo cambiato solo le parole ma anche il nostro sguardo: ogni volta che usiamo questa
espressione ribadiamo il fatto che il problema della violenza contro le donne è una questione
sociale, non individuale.

La proposta, appunto, non è solo linguistica, si tratta di un approccio sistemico alla


questione della violenza di genere, e non sorprende che abbia avuto molti detrattori,
uomini nella pressoché totalità dei casi, decisi a difendere la posizione di privilegio che
il patriarcato ha loro assegnato. Si tratta spesso delle stesse persone che osteggiano il
tentativo di usare la lingua in maniera non sessista: l’adozione di stratagemmi lingui-
stici – spesso, ma non sempre, già previsti dalla lingua italiana – per evitare il maschile
universale, per declinare al femminile quando necessario e includere nel discorso le
soggettività non binarie.
LE MALELINGUE
35
In apertura della recente traduzione di Maria Nadotti per i tipi di Tamu del pamphlet
di bell hooks Feminism is for everybody leggiamo che

il femminismo è un movimento che mira a mettere fine al sessismo, allo sfruttamento ses-
suale e all’oppressione.

In quest’ottica è pacifico che anche la lingua diventi luogo di lotta e che le soggetti-
vità che il sessismo oscura rivendichino il loro spazio e forzino le maglie dell’esisten-
te anche sul terreno linguistico. Se quando parliamo di collettività non possiamo che
declinare al maschile, se in certe professioni e in certi ruoli non possiamo che vederci
degli uomini o ci pare opportuno «proteggere» le donne con appellativi maschili, se ci
sembra superfluo menzionare anche solo l’esistenza di persone che sfuggono alla logica
binaria ecco che ci stiamo facendo garanti del perpetuarsi del sessismo. Impegnarsi per
un uso non-sessista della lingua non solo restituisce spazio e dignità a chi ne è stato pri-
vato, è resistenza attiva tesa a modificare gli immaginari. Sempre bell hooks scrive che
«criticare le rappresentazioni sessiste senza offrire alternative è un intervento monco».
Schwa, asterischi, desinenze in -x o -u: nessuna di queste strategie è quella definitiva,
ma tutte stanno trovando applicazione nelle periferie, ai margini del potere patriarcale.
Quando riescono a contaminare ambiti più paludati ecco puntuale la levata di scudi.
Nel novembre scorso l’associazione antiabortista Pro Vita e Famiglia ha promosso una
petizione per impedire che il Liceo Cavour di Torino adottasse gli asterischi nei docu-
menti ufficiali. Nell’invitare alla sottoscrizione l’associazione scriveva:

Il pretesto è, come spesso accade, la lotta alle discriminazioni, che però diventa una volta
di più un cavallo di Troia per l’indottrinamento degli studenti con la nefasta ideologia gender.
L’asterisco, infatti, sembra solamente un segno grafico, ma dietro c’è molto di più: dietro c’è
il tentativo di annullare il maschile e il femminile, imponendo un’antropologia come minimo
controversa e su cui certamente non vi è condivisione.

Trovare soluzioni che sottolineano la pluralità dei soggetti coinvolti in un discorso


viene definito nefasto e ideologico (superfluo, ridondante, ridicolo, escludente per altre
realtà). È preferibile continuare a oscurare donne e soggettività non binarie dietro il
maschile universale.

ALTERNATIVE ALLA «LINGUA DEL PADRONE»

Viene definito «antropologia controversa» ogni modo di vivere il genere e l’umanità


che si discosta dal modus bianco, eterocis, borghese; la mancanza di «condivisione»
PRIMAVERA 2022

che si denuncia è nient’altro che resistenza all’appiattimento su quel canone imposto.


Il conflitto reale, evidente, è fra centro e periferie, fra chi difende un determinato pri-
vilegio, la semplicità di azione che ne deriva e chi – anche con le parole – costruisce
comunità in cui diventa possibile esistere.
N. 14
36
La situazione fa rima con la recente polemica attorno alla parlata romanesca di
Strappare lungo i bordi, la serie televisiva di Zerocalcare. Giusi Palomba su Valigiablu
l’ha inquadrata in una maniera che mi pare assai fertile:

[L]’antipatia, quando non la critica sfacciata a mezzo stampa, verso una parlata, un dialetto
o una lingua minoritaria, non è mai soltanto una questione di lingua. È anche una questione di
potere, di controllo; sicuramente di classe.

E ancora:

Una parlata, un accento, un dialetto è un codice, ma anche un luogo. E ciò che urta della
rappresentazione di Zerocalcare è che la periferia è protagonista autosufficiente, che non si
rappresenta necessariamente in contrasto, che ha trovato le sue maniere, di certo dolorose,
ingiuste e imperfette, e la sua ragione d’essere, senza sentirsi in dovere di dare spazio o impor-
tanza al centro, ai centri. Così distanti che non è più necessario nemmeno nominarli.

Considerazioni queste che ben si accoppiano alla questione degli usi non sessisti
della lingua. Nelle comunità femministe e queer già si comunica con queste attenzioni
e queste avvertenze e già si sperimentano alternative alla «lingua del padrone», per dirla
con Adrienne Rich. Ciò che è in gioco è la presenza, la riconoscibilità e la possibilità di
agire che nei centri di potere ci sono negate. Quando questa lingua minoritaria e in-
trinsecamente ribelle fa capolino fuori dalle periferie e dalle sacche di marginalità crea
spesso sconcerto, fastidio e reazioni scomposte. Se prolunghiamo le linee del discorso
diventa chiaro che da qui, dall’interno di queste comunità in lotta, ha davvero poco
senso parlare di «linguaggio inclusivo». Chi include chi?
Qui lo scrivo da persona non-binaria, da attivista transfemminista: non proviamo
alcun interesse a farci sussumere. Pretendiamo un uso
non sessista della lingua e di trovare riconoscimento
anche se non siamo maschi cis, ma non ci acconten- QUESTO LINGUAGGIO
tiamo di più corrette declinazioni di genere. Vogliamo CHE ABITIAMO
che a cambiare sia la sintassi della società. E IMMAGINIAMO,
Non ci interessano le soluzioni «low cost»: siamo QUESTO LINGUAGGIO
per «l’opzione zero» per quanto riguarda il sessismo e TRANSFEMMINISTA,
il sistema neoliberista, come lo siamo per l’aggressione È UNO DEI LUOGHI IN
delle grandi opere inutili, devastanti e imposte. CUI SI DISPIEGA LA LOTTA
E quindi sì, questo linguaggio che abitiamo e imma-
giniamo, questo linguaggio transfemminista, è uno dei
luoghi in cui si dispiega la nostra lotta. Ci troviamo qui ad affilare parole, concetti e solu-
zioni sintattiche per analizzare la società, svelare i modi della dominazione, denunciarla,
creare le condizioni per un’orizzontalità che sia negazione di ogni oppressione, permetterci
di maneggiare complessità e creare immaginari altri che sappiano orientare azioni che ci
diano forza e agibilità nell’immediato e ci liberino nel futuro. La lingua è un luogo di lotta.
LE MALELINGUE
37
La lingua
LINGUE SUBALTERNE

scorretta
dei colonizzati
Inventare un linguaggio, come accadeva
nelle piantagioni o come succede nei ghetti
metropolitani, è un atto che disturba. Perché
nell’idioma del colonizzatore mancano le parole
per descrivere ciò che si è perso per strada
Illustrazione di Vitt Moretta

S
i dice che «chi è padrone della lingua è padrone del mondo», che si
deve «padroneggiare una lingua», che «una lingua si deve domina-
re». Ma se il linguaggio dell’affermazione, in una società globaliz-
zata, è costruito totalmente sulla possibilità di padronanza, sulla
proprietà del linguaggio, cosa significa invece (r)esistere nella lin-
Francesca De Rosa gua del padrone?
Giusi Palomba Nell’uso delle persone schiavizzate, la lingua era corpo. Come ri-
corda lo scrittore martinicano Patrick Chamoiseau in un’intervista
del 2009 sulla rivista Le-Point, il linguaggio della resistenza dello schiavo «inizia in silenzio,
attraverso la memoria del corpo». Le persone lasciano la stiva della nave degli schiavi spez-
zate, al loro arrivo la loro lingua non servirà più a niente, ad attenderli troveranno il creolo,
dovranno ricostruirsi nella lingua del padrone.
Esiste un’intensa letteratura legata al mondo della piantagio-
ne in cui la ricerca delle lingue spezzate è una costante. Saidiya Francesca De
Hartman, ad esempio, in Perdi la Madre ci ricorda come l’altro- Rosa, assegnista di
ve venisse abbracciato dalle persone rese schiave «nei loro so- ricerca all’Università
gni, elaborato nei loro canti e immaginato come il loro futuro» Orientale di Napoli,
nella lingua che emergeva nel nuovo paese attraverso la com- è co-traduttrice di
PRIMAVERA 2022

binazione di vari elementi. Le persone non possedevano nulla, Laboratorio Favela di


e dal nulla creavano una lingua nuova a partire da quelle che Marielle Franco (Tamu,
avevano conosciuto, insieme a quelle che erano state obbligate 2021). Giusi Palomba ha
ad apprendere. Lo scrittore martinicano Édouard Glissant, che pubblicato articoli per
ha riflettuto a lungo sulla poetica della relazione, titolo di uno Valigia Blu, Menelique
N. 14

dei suoi capolavori, racconta che nel luogo chiuso della pian- e altre testate.
38
39 LE MALELINGUE
tagione, la parola è aperta. In quello spazio, le persone schiavizzate hanno fatto qualcosa
di imprevedibile. A partire dal solo potere della memoria, dalle tracce residue, dalla paro-
la necessaria all’esecuzione del lavoro, ingoiata, differita, mascherata, trattenuta hanno
composto linguaggi creoli e forme d’arte. Nelle lunghe notti hanno trasformato il silenzio
in grido, in una melodia «spezzata dai divieti, liberata dalla spinta dei corpi».
Nelle nuove terre, riaffiora la necessità di trovare ciò che è andato perso, e come ricorda
Patrick Chamoiseau, espressioni come la danza, la musica, il canto prima proibite, vengo-
no poi concesse dal padrone perché funzionali alla produttività nel lavoro. Il racconto che
ne seguirà, non è la parola comunitaria tramandata dal griot, importante figura sociale
dell’Africa Occidentale che custodisce la tradizione orale del suo popolo e lega le memo-
rie, ma è la parola nuova del corpo sopravvissuto che deve ricostruirsi e da solo suturare
le proprie ferite. Di questi nuovi racconti non tutto è comprensibile e la voce emerge in
continui processi di dissimulazione, imprevisti, che sfuggono alla lingua del padrone.

L’ORATURA

I saperi che testimoniano la situazione esistenziale della schiavitù vengono trasmessi at-
traverso racconti, proverbi, aneddoti, un patrimonio che porta Chamoiseau a dire: «Quando
mi guardo indietro per vedere cosa fa parte delle mie radici, non trovo
una biblioteca ma l’oraliture». Una narrazione orale collettiva che ha
então abro mais uma seguito i percorsi obbligati dalla mancanza di mezzi per tramandar-
gaveta/ à procura de um si, testimone di una disarmante inventiva e del flusso sotterraneo di
sentido/no formato circular esperienze riemerso in superficie in forme di scrittura inafferrabili, ri-
da oratura/ ottose al tentativo di lasciarsi incatenare e standardizzare.
porque a tradição não é feita Abbiamo chiesto a Raquel Lima, poeta, performer, attivista e dot-
só de livros fotos e palavras toranda, nata a Lisbona da madre angolana e padre di São Tomé e
por traduzir [...] Principe, ex colonie portoghesi, di parlarci di oratura, di poesia e del
Raquel Lima, Ingenuidade, rapporto tra parola scritta e parlata:
Inocência, Ignorância
L’oralità porta un carico di opacità che la scrittura non raggiunge, così
come l’oralità non raggiunge le dimensioni impenetrabili della scrittura. E
l’oratura vive nella tensione dialettica tra la scrittura che diventa oralità e l’oralità che diventa
scrittura. Questa relazione non è una mera questione di sostituzione o traduzione lineare, ma è
estremamente fertile. Ed è nella diversità delle forme scritte e orali che irrompono per conservare
la memoria, insistere sulle narrazioni, sottolineare valori e principi, difendere i diritti, raccontare
il mondo, accedere ad altre sfaccettature della storia che risiede la fertilità.

Raquel ci riporta il suo vissuto nella parola parlata, quella che scandiva le notti tra i
PRIMAVERA 2022

racconti letti da bambina con la madre e la sorella, «momenti di pura allegria, rituali». E la
poesia giunge per lei in modo intenso: «È venuta attraverso il rispetto per la presenza delle
parole negli spazi condivisi, comprendere che possono trasportare la forza di un momen-
to, essere il motore che influenza e dialoga con l’ambiente circostante, che lo traduce.
N. 14
40
Come un caleidoscopio capace di sintonizzare quello in cui credo con quello che sono, la
poesia è qualcosa a cui giungiamo, e che giunge a noi».
Riprendendo bell hooks, Raquel ci racconta il suo vivere nelle parole come campo di
battaglia, nella sua ricerca accademica, la relazione tra oratura, schiavitù, performance e
movimenti afrodiasporici le hanno permesso di capire aspetti della sua esperienza perso-
nale e allo stesso tempo la storia collettiva di resistenza e liberazione dell’esperienza nera.
Nemmeno bell hooks ha rinunciato a interrogarsi sulla perdita della lingua a partire dalla
tratta della schiavitù coloniale e ha guardato alla profonda connessione tra la lingua riap-
propriata dalla stiva della nave negriera che diventa altro sui nuovi territori e i vari linguag-
gi vernacolari utilizzati oggi dai Neri. Il rapporto tra lingua e linguaggio non è innocente,
«Avrei il coraggio di parlare all’oppresso e all’oppressore con la stessa voce?», si chiede bell
hooks guardando all’inglese standard degli Stati uniti. Sa che a essere problematica non è
la lingua in sé ma «ciò che gli oppressori ne fanno» e ci dice che dal margine la lingua può
fare davvero quello che vogliamo noi: avere una nuova grammatica, fare della lingua stan-
dard una lingua scorretta. La lingua del padrone può diventare una contro-lingua, spazio di
resistenza, di affettività capace di creare nuove comunità e dire che la solidarietà è ancora
possibile. Le voci fuorilegge sopravvivono nella lingua dell’oppressore.

LA LINGUA IMPREVISTA

Queste voci, per Édouard Glissant, scandiscono il ritmo che va dal


sistema delle piantagioni ai «dedali di lamiere e cemento» nelle fave- Born with two tongues/ I
las e i barrios, negli slam e nei ghettos, nei suburbs e in tutte le peri- speak of/ Hablo de/ I write
ferie del mondo. Dagli spirituals al jazz, buguines e calipso, alla salsa of/ escribo de mi vida,
e al reggae. E dalla fine degli anni Sessanta, le espressioni artistiche cultura, colorada, pintada/
di rap danza, graffiti, slam e le voci di MCs e DJs divengono infatti la I painted a picture para
manifestazione delle culture urbane contemporanee e si legano alla que pueden ver that/ I am
poesia orale e alle sue infinite declinazioni. Mejiafricana/ (...)
Sono tracce presenti nelle espressioni che usano una lingua scor- Natasha Carrizosa -
retta o più di una lingua, proprio perché nelle lingue del colonizza- Mejiafricana
tore mancano le parole per descrivere ciò che si è perso per strada.
È un uso che sottolinea l’aver attraversato diversi territori fisici e se-
mantici, e disturba come una chiave nell’ingranaggio che vorrebbe
standardizzare oltre che i segni, le esperienze umane. Una perturbazione che si riconosce
nella scarsa accettazione dei dialetti e delle lingue minoritarie nella stessa Europa che è
solo la traccia della violenza coloniale scagliata oltremare. La tentazione di sopprimerla,
ma anche di differenziarne l’uso a seconda dei contesti da parte del potere, è destinata a
essere fallimentare, perché la lingua minoritaria porta con sé un desiderio di liberazione,
che è fuori controllo. Come ci racconta Raquel Lima «è impossibile separare chirurgica-
mente queste specifiche influenze e relazioni tra le lingue che abiti».
Fuori dalle logiche del monolinguismo e del monoculturalismo, Glissant ci insegna
che la sovversione non risiede nella giustapposizione delle lingue ma in quel movimen-
LE MALELINGUE
41
to di messa in relazione che accoglie l’altro senza forzature, garantendo a tutti «il diritto
all’opacità, ossia a non essere compreso totalmente e non comprendere totalmente l’al-
tro». E anche quando guarda all’Europa ossessionata dalle frontiere riesce a immaginare
territori in cui le diverse culture si intersecano senza prevalere l’una sull’altra, se solo si
riuscisse a riconoscere l’enorme fertilità delle sue lingue minoritarie, citando come esem-
pi il catalano e il basco. Difensore della creolizzazione ne definisce i processi culturali
tali solo se gli elementi messi in relazione sono eterogenei e «si intervalorizzano», senza
degradazione, in un continuo mischiarsi che è imprevedibile e che si allontana dalla pre-
vedibilità tanto voluta dal meticciato coloniale.

LA POÉSIE EST DANS LA RUE

Le manifestazioni di queste rimescolanze che hanno interessato e interessano anche


l’Europa di oggi, specie quando la lingua compie il viaggio all’inverso del colonizzatore e si
ripresenta, imprevista, dove non era attesa, spesso non sono ben tollerate. Quell’oratura che
continua a fluire e anche Raquel Lima vive nella poesia, nella poetry slam, nella spokenword,
ritorna per rimettere in dubbio, per riportare la frattura laddove si è cercato di nasconderla.
È ciò che è successo negli anni Settanta con i poeti della dub poetry, di cui riconoscia-
mo come capostipite l’artista e attivista Linton Kwesi Johnson. Il movimento poetico poli-
tico era espressione dell’esperienza dei giovani giamaicani arrivati in territorio britannico.
Come ci racconta Mara Surace nel suo Inglan is a bitch, una ricca biografia in italiano dedi-
cata a Linton Kwesi Johnson, il creolo giamaicano è un altro esempio
di come una lingua possa diventare strumento rivendicativo e uno dei
I is de red rebel/ woman/ tanti modi possibili di abitare il conflitto. Quando Linton Kwesi John-
accepting I madness/ son performa la sua Man Free e dice: Dem lack-him-up/ inna jail/ dem
declaring I song refuse/ fi give him bail/ But dem cant keep him doun/ sed dem cant keep
Jean «Binta» Breeze him doun (L’hanno rinchiuso/ in prigione/ hanno rifiutato/ di rila-
sciarlo su cauzione/ ma non lo possono abbattere/ ho detto che non
lo possono abbattere), sa che quella lingua, quelle rime, sono le uniche
in grado di descrivere davvero la brutalità della polizia e il razzismo della classe dirigente.
Linton Kwesi Johnson ha infuso la poesia di talento e passione politica, e la denuncia
di un’esclusione dallo spazio urbano delle metropoli britanniche. Sia dalle interviste a
Linton Kwesi Johnson, che dalle successive analisi dell’impatto sulle giovani generazio-
ni di Black British, emerge chiaramente la portata rivoluzionaria della dub poetry. Come
scrive Surace: «le affinità tra lingua creola e inglese hanno fatto sì che la prima sia stata
definita bad talk o baby talk e che sia stata percepita per secoli come una forma scorret-
ta dell’inglese; chi si esprimeva con questo idioma era immediatamente collegato a una
classe sociale disagiata». Ma grazie ai molti che fanno parte di quel movimento poetico/
PRIMAVERA 2022

rivendicativo, la situazione cambia e una generazione di giovani si è riappropriata di una


lingua che veniva continuamente screditata e derisa.

PARLARE DAI SUD GLOBALI AL SUD EUROPA


N. 14

Caterina de Jesus, 22 anni, brasiliana a Napoli, vive ai Quartieri Spagnoli. Era tra
quelle che con il microfono in mano improvvisava le sue rime nella manifestazione na-
poletana dopo l’uccisione brutale di George Floyd, alternando brasiliano e italiano. Per
42
lei il rap fa parte delle memorie della sua infanzia della favela, ne sottolinea il forte sen-
so di identificazione. È durante le proteste studentesche all’età di 16/17 anni che scopre
la sua voce. Ha partecipato e vinto diverse competizioni di slam, ci parla della libertà
dei Sarau (incontri artistici in cui è possibile unire più forme espressive), delle battaglie
di rap clandestine, in nessun circolo riconosciuto, delle battle con amici e delle rime
improvvise senza ora né luogo.
L’esperienza di Caterina ci è utile a comprendere che la lotta non si estingue una vol-
ta presa la parola. «Nei miei testi ho sempre parlato di femminismo, di disuguaglianza
sociale, di razzismo, di povertà» del suo essere una giovane nera periferica e l’impatto
che questo ha causato sulla sua vita, «l’enorme difficoltà per quelle come me di andare
all’università al contrario di un giovane figlio di papà». Definisce il suo stile aggressivo,
è la forma da lei scelta perché è il modo in cui queste oppressioni sono presenti dentro
di lei, «sono le cose che più mi fanno male. Capire sin da piccola cosa è la povertà, pren-
derne coscienza, è una cosa che mi lasciava profondamente arrabbiata».
Non aveva mai messo piede fuori dal Brasile e la nerezza vista qui in Italia le appare
diversa, multietnica. «Corpi Neri da parti diverse del mondo, ognuno con una percezio-
ne differente del proprio essere Nero e povero, a seconda del vissuto e della cultura».
Cate si chiede se un giorno i suoi testi potranno comprendere questa nuova realtà,
riuscire ad arrivare, come dice, «al ragazzo di Scampia, alla signora indiana alla fer-
mata dell’autobus, al giovane nero africano» e alle vite Nere in Italia accomunate dalla
ricerca di opportunità. E continua:«Veniamo trattati come scarto. Vorrei saper parlare
di badanti e babysitter che affollano la fermata del bus all’alba per
raggiungere le case dei ricchi, rivendicare la nostra presenza nel-
le università in cui siamo totalmente assenti, dire che quando una Muleque até te juro
donna migrante va in ospedale a partorire non verrà mai trattata Mas aqui o jogo é duro
come una donna italiana». Non è una sommatoria indistinta, ma Contra opressão deste sistema
l’esperienza di una femminista nera della periferia che si chiede Eu te mostro outro futuro
come farsi ascoltare, come risignificare questo suo nuovo stare e lo Caterina de Jesus
spazio della cittadinanza in un paese in cui si viene catalogati solo
come quelli che parlano male.
Dall’altro margine dell’Europa, Raquel Lima sembra accogliere queste riflessioni
quando sottolinea la sua fuga da ogni tipo di chiusura delle sue identità, e ci parla della
sua lotta costante verso la fluidità, «un meccanismo intuitivo di sopravvivenza alla ri-
cerca di maggiore libertà: fluidità poetica con testi sempre più attenti alle emozioni; flu-
idità accademica alla ricerca di una vicinanza epistemica per smantellare la colonialità
attraverso un’esperienza impegnata e incorporata; fluidità attivista nel comprendere
che la lotta è collettiva, è spazio di fiducia, di concertazione, comprensione. Di dissolu-
zione dell’io e di costruzione del noi».
Entrambe sembrano invitarci a non cadere nell’errore di ingabbiare le identità in uno
spazio chiuso di lingua e cultura. Perché i corpi e le poetiche dell’imprevisto, da secoli
abituati ad abbattere ogni tentativo di rigidità, resistono. Anche oggi in Europa, soprat-
tutto quando si parla di confini, di nazione e appartenenza.
LE MALELINGUE
43
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POTERE E PAROLE
Illustrazione di Martoz
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LE MALELINGUE
45
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i cosa parliamo quando parliamo della cosiddetta «cancel cultu-
re»? Siamo davvero davanti a un pericoloso tribunale del popolo
le cui aule si estendono per quanto sono vaste le piattaforme so-
cial? Per rispondere possiamo procedere con cautela, muovendo
i primi passi dai porti sicuri della conoscenza condivisa, ovvero
dizionari ed enciclopedie.
Adil Mauro Per Merriam-Webster, si tratta di una «pratica o tendenza a
impegnarsi nella cancellazione di massa per esprimere disap-
provazione ed esercitare pressione sociale». La Treccani parla di un «atteggiamento di
colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social media, nei confronti di personaggi
pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualche cosa di offensivo o politicamen-
te scorretto e ai quali vengono pertanto tolti sostegno e gradimento».
Eppure il viaggio nella cultura popolare di questo termine iniziò nel 1981 con una
canzone del gruppo funk statunitense Chic, «Your Love Is Cancelled». Una metafora
scelta dal chitarrista Nile Rodgers dopo un appuntamento rovinato dal comportamen-
to di una donna, «cancellata» per aver cercato di usare la sua celebrità per far liberare
un tavolo in un locale. Il verbo diventa popolare solo dieci anni più tardi, nei segmen-
ti di pubblico afroamericani, grazie all’iconico gangster movie del 1991 New Jack City,
quando lo sceneggiatore Barry Michael Cooper fece pronunciare al personaggio di We-
sley Snipes, un criminale senza scrupoli, la frase «Cancella quella stronza, ne comprerò
un’altra», lapidaria conclusione di un alterco con la fidanzata. Secondo la giornalista di
Vox Aja Romano: «Dato quanto sia usato frequentemente per ripudiare il sessismo, è
ironico che il concetto di ‘cancellare’ condivida il suo Dna con una battuta misogina».

BLACK TWITTER E CULTURA NERA

L’espressione, dopo esser stata ripresa nel corso degli anni da alcuni rapper (50 Cent
e Lil Wayne), ha raggiunto la popolarità nel dicembre del 2014 quando, durante il reali-
ty show Love and Hip Hop: New York, il produttore discografico Cisco Rosado scarica la
fidanzata Diamond Strawberry dicendole: «You’re cancelled».
La sua uscita è stata immediatamente adottata e si è evoluta in
quello che Clyde McGrady del Washington Post ha definito un Adil Mauro è
«grande incubatore della creatività»: Black Twitter, la comunità giornalista freelance.
afroamericana del social di notizie e microblogging. Dichiarare Ho scritto articoli e
qualcuno o qualcosa «cancellato» su Twitter non aveva l’obietti- realizzato contenuti
vo di dare vita a un boicottaggio. Era più che altro un modo per multimediali tra gli
dire al personaggio pubblico di turno: «Hai esagerato, smetto altri per L’Espresso,
di seguirti, non hai più il mio supporto». Sempre per McGrady Internazionale, Vice
PRIMAVERA 2022

«’cancellare’ qualcuno è più simile a cambiare canale – comu- Italia, Valigia Blu, e co-
nicandolo ai tuoi amici e follower – che chiedere all’emittente di condotto Italia Due su
cancellare il programma». Radio Popolare Roma.
N. 14
46
Il termine «cancel culture» ha implicazioni rilevanti per la definizione dei discor-
si dell’attivismo digitale e dei social media. In un saggio intitolato A brief etymology of
so-called “Cancel culture” Meredith D. Clark della University of Virginia si è interrogata
sull’evoluzione della prassi della responsabilità digitale attuata dal Black Twitter, traccian-
do la pratica del «call-out» sui social dalle sue radici nella tradizione vernacolare nera fino
alla sua indebita appropriazione nell’era digitale da parte delle élite sociali. Clark spiega
come Black Twitter abbia traslato l’espressione «essere cancellato» in un meme, ma «il
riferimento è stato successivamente colto da osservatori esterni, in particolare giornalisti
con una smisurata capacità di amplificare il (proprio) sguardo bianco. Politici, esperti,
celebrità, accademici e persone comuni allo stesso modo hanno narrativizzato la cancel-
lazione [...] associandola a un timore infondato della censura e del silenzio».
Cancel culture e call-out culture vengono spesso confuse non solo l’una con l’altra,
ma anche con le più ampie tendenze legate alla pubblica umiliazione, come parte di una
narrativa collettivizzata secondo cui tutte queste cose sono esempi di trolling e molestie.
I media hanno qualche volta definito questa narrativa collettivizzata «cultura dell’indi-
gnazione». Ma mentre call-out descrive un’azione senza caricarsi di connotati particolari,
o al limite richiama l’idea positiva di denuncia pubblica, se vogliamo di parresia, «cancel
culture» evoca qualcosa di più angosciante, l’ostracismo sociale come pratica.
Non si tratta perciò di idee intercambiabili, ma di realtà significativamente diverse.
La cultura del call-out è un concetto antecedente alla «cancel culture», con radici online
nei blog su Tumblr dei primi anni Dieci, come Your Fave is Problematic, e a partire da lì
si sono diffuse. Call-out è un termine nato all’interno dei fandom e l’approccio è stato
utilizzato dai fan di ogni tipo per criticare la cultura pop o personaggi pubblici. Nel
frattempo, la «cancel culture» è nata all’interno della cultura nera e sembra incanalare
i movimenti di emancipazione dei neri risalenti ai boicottaggi portati avanti dal movi-
mento dei diritti civili degli anni Cinquanta e Sessanta.
«Sebbene la terminologia della cancel culture possa essere nuova e maggiormente
applicabile ai social media tramite il Black Twitter, in particolare, il concetto di essere
cancellato non è nuovo alla cultura nera», spiega in un’intervista a Vox Anne Charity
Hudley, linguista dell’Università di California Santa Barbara. Hudley, che studia il ver-
nacolo nero e l’uso del linguaggio nelle conversazioni culturali, descrive la capacità di
«cancellare» come «un’abilità di sopravvivenza vecchia quanto l’uso del boicottaggio
da parte dei neri del Sud». Charity Hudley paragona l’atto di cancellare qualcuno a un
boicottaggio, ma di una persona piuttosto che di un business. A suo avviso promuove
anche l’idea che i neri dovrebbero avere il potere di rifiutare la cultura pop che diffonde
idee dannose. «Se non hai la capacità di fermare qualcosa con mezzi politici, quello che
puoi fare è rifiutarti di partecipare», spiega. Siamo abituati a pensare al boicottaggio
come qualcosa che riguarda un prodotto, o un’azienda, ma se andiamo alle origini del
termine, alla sua storia, vediamo che esso riguarda una persona, Charles Boycott, e alla
distruzione di legami sociali attorno a lui come metodo di lotta politica. Se l’ostraci-
smo anticamente era una condanna che proveniva dall’autorità, Boycott sperimenta
LE MALELINGUE
47
un ostracismo dal basso, promosso dalla Lega terriera irlandese. Per cui non deve stu-
pire né l’accezione che Hudley dà alla «cancellazione» né il fatto che si sia diffusa negli
Usa presso strati di popolazione marginalizzata.
Grazie ai social media, la cultura nera in particolare è diventata più riconosciuta
come una forza dominante dietro gran parte della cultura pop, capitalizzando la tra-
dizione dell’attivismo. Piattaforme come Twitter danno una voce collettiva più forte ai
neri e ai membri di altre comunità che sono state tradizionalmente tenute ai margini
delle conversazioni pubbliche, mentre piattaforme come YouTube e Netflix aiutano a
diversificare e a espandere i tipi di media e la cultura pop che consumiamo. E in una
società in cui la partecipazione culturale è sempre più democratizzata, diventa più im-
portante anche il rifiuto di partecipare.

LA FANTOMATICA DITTATURA DELLA «CANCEL CULTURE»

Un altro passaggio fondamentale per definire la «cancel culture» è la lettera aperta


del 7 luglio 2020 firmata da 150 intellettuali pubblicata sul periodico Harper’s Magazine.
«A Letter on Justice and Open Debate» non nomina direttamente la «cancel culture»,
ma il riferimento è chiaro, e come tale viene recepita nel dibattito che si scatena imme-
diatamente. Per tutti è la «lettera contro la cancel culture». Non è poi una circostanza
secondaria, per ammissione di uno degli stessi promotori della lettera, Thomas Chat-
terton Williams, che questa arrivi proprio quando si abbassa la prima ondata di proteste
divampate in tutti gli Stati uniti dopo l’uccisione di George Floyd.
Il testo mette in guardia da un clima sempre più ostile nei confronti del «libero scam-
bio di idee e informazioni» e descrive un mondo dominato da «un’intolleranza per le
opinioni diverse, l’abitudine alla gogna pubblica e all’ostracismo, e la tendenza a risol-
vere complesse questioni politiche con una vincolante certezza morale». La lettera si
conclude con un invito a «preservare la possibilità di essere in disaccordo in buona fede,
senza timore di catastrofiche conseguenze professionali».
La lettera rappresenta il definitivo stravolgimento dell’espressione «cancel culture»
anche da parte di illustri esponenti del cosiddetto campo progressista (uno dei firmata-
ri è Noam Chomsky). «Cancel culture» è ormai diventato ufficialmente uno spauracchio
bipartisan, ma saldamente in mano alle destre che terrorizzano l’opinione pubblica
prospettandole il rischio di una fantomatica dittatura dove «non si può più dire niente».
Termine ideale di questa traiettoria è il presidente Donald Trump, che in un discorso
pronunciato in occasione della Festa dell’Indipendenza mette in guardia contro «il to-
talitarismo della cancel culture», tirando in mezzo Black lives matter e in generale tutte
quelle categorie che compongono il suo solito pantheon di nemici politici.
È forse questa la responsabilità più grave dei firmatari della lettera: essersi prestati
PRIMAVERA 2022

alla criminalizzazione del dissenso politico che riduce l’attivismo, specialmente digita-
le, a folla inferocita e arrabbiata. E, oltre a ciò, l’aver, come è ormai evidente a quasi due
anni di distanza, favorito lo slittamento del discorso pubblico dalla brutalità poliziesca
N. 14
48
e dal razzismo sistemico verso un panico morale che annulla i rapporti di forza e le re-
sponsabilità strutturali, diretto in particolare proprio verso la comunità afroamericana.
Del resto alcuni tra i sostenitori di quel dibattito si sono poi dedicati ad appoggiare la
costruzione del pericolo «Critical race theory», senza scomporsi più di tanto di fronte
alle ondate censorie che hanno visto gli stati a guida Repubblicana promuovere leggi
liberticide in materia di libertà di espressione ed educazione.
«Nessuno sta bruciando Harry Potter in piazza, né Il racconto dell’ancella, Noam
Chomsky non resterà senza un editore, e Andrew Sullivan troverà un altro lavoro doma-
ni ma alcuni cambiamenti stanno avvenendo, ci sono ‘nuovi invitati alla festa’ e bisogna
tenerne conto», scriveva nel luglio del 2020 Claudia Durastanti su Internazionale.
Neanche troppo paradossalmente un anno e mezzo dopo la lettera aperta di Harper’s
Magazine a Nashville il pastore evangelico, trumpiano e complottista Greg Locke ha
organizzato un rogo di libri con i suoi fedeli dando alle fiamme anche Harry Potter di
J.K. Rowling, considerato un testo «satanico» e «massonico». Alla fine a bruciare i libri
della scrittrice, anche lei tra le firme della lettera di Harper’s Magazine, non sono state le
persone trans che ha preso ripetutamente di mira negli ultimi anni.
In fondo, come spiegava già due anni fa sempre Durastanti, «la cancel culture […] è
sempre stata straordinariamente simile a sé stessa e prevedibile nei suoi meccanismi,
ed è anche percentualmente contenuta rispetto ad altre forme di protesta e rivendica-
zione sociale. Mentre queste vanno avanti per strada e nel mondo,
la cancel culture vive su Twitter. Che è, e resta, un aspetto marginale
di come si gestisce il cambiamento politico». CHI SI ALLARMA PER LA
La «cancel culture» come ideologia e dispositivo retorico si è di- «CANCEL CULTURE» NON
mostrata – nelle mani della destra e della stampa di tutto il mondo DICE NULLA SULLE LEGGI
– un’arma formidabile per screditare, ingigantendo e in molti casi CENSORIE CONTRO
inventando di sana pianta polemiche risibili, le istanze delle perso- LIBERTÀ DI ESPRESSIONE
ne tenute ai margini della società: dalle comunità razzializzate ai ED EDUCAZIONE NEGLI
movimenti delle donne, passando per la comunità Lgbtq+. STATI REPUBBLICANI
Anche in Italia evocare la minaccia di una famigerata tirannia della
«cancel culture» è stata un’idea più che vantaggiosa per buona parte
della classe politica e del mondo dell’informazione, settori della nostra società abituati
da sempre a destreggiarsi tra arroganza e vittimismo. Pierluigi Battista ha commentato la
lettera di Harper’s Magazine affermando che «l’obiettivo è fare tabula rasa del passato, di
tutti gli autori di ieri non considerati ‘corretti’ agli occhi dell’‘inquisizione’ di oggi, che vede
nelle opinioni differenti il Male e in taluni simboli artistici e culturali, anche passati, una
minaccia», mentre Enrico Mentana, per non essere da meno, ha scritto che «bisogna avere
il coraggio di dirlo: per molti aspetti la cancel culture ricorda i roghi dei libri del nazismo».
Due istantanee grottesche che immortalano in maniera impietosa il livello a dir poco
infimo del dibattito pubblico su questi temi nel nostro paese, dove le iperboli perdono il
loro valore di amplificazione, anche solo per allarmismo, e si fanno descrizione, stigma
peggiorativo, lessico politico quotidiano.
LE MALELINGUE
49
La
POTERE E PAROLE

difesa
dei
privilegi In Italia i tentativi di inclusione
linguistica hanno suscitato una
reazione sproporzionata da parte
PRIMAVERA 2022

delle élite culturali e mediatiche.


Spesso sono gli stessi che nelle
università e nel dibattito pubblico
intavolano discorsi escludenti
50N. 14
I
l fatto che la civiltà occidentale sia intrinsecamente ingiusta verso le
minoranze, le donne e le persone Lgbtq è stato al centro del dibatti-
to sui curriculum accademici negli Stati uniti verso la fine degli anni
Ottanta del Novecento, inaugurando la discussione intorno al «po-
litically correct». Una panoramica sullo sviluppo della questione la
offre un articolo pubblicato su The New Times da Richard Bernstein
Claudia Boscolo nell’ottobre del 1990 dal titolo piuttosto eloquente: «The Rising He-
gemony of the Politically Correct». Bernstein in quell’articolo di ol-
tre trent’anni fa sosteneva già che «politically correct» era diventata un’espressione sarcasti-
ca utilizzata da conservatori e liberali classici per descrivere un fenomeno da loro percepito
come di crescente intolleranza e chiusura, una pressione a conformarsi a un’impostazione
radicale per evitare di venire accusati di sessismo, razzismo e omofobia.
Alla radice dell’adesione al linguaggio e ai contenuti del «politicamente corretto» ci
sarebbe quindi il timore di venire bollati come prevaricatori colonialisti, un atteggiamen-
to giudicato come codardo dalla parte più conservatrice statunitense, come mancanza
di coraggio intellettuale. La motivazione ideologica, che secondo alcuni commentatori
dell’epoca si nascondeva dietro le modifiche apportate ai corsi universitari, avrebbe avuto
nel lungo periodo l’esito di espungere dal discorso pubblico i termini che suscitano irri-
tazione o ritenuti offensivi verso le minoranze e che tuttavia, sempre dal punto di vista
di questi commentatori per lo più conservatori, veicolano un significato autentico. Con
la conseguenza che l’idea di purezza del discorso civile si sarebbe avviata verso morte
certa e le vittime designate di questo processo sarebbero stati gli studenti. L’appello stru-
mentale al danno causato alle giovani generazioni del resto non ha mai smesso di essere
utilizzato come colonna portante della battaglia contro il «politicamente corretto».
Quest’idea che l’appiattimento linguistico e i crescenti interdetti nel discorso pubblico
generino una cancellazione di punti di vista rimane ancora oggi una delle principali criti-
cità nella dinamica dell’inclusione. Cosa sia un discorso genuinamente inclusivo è senza
dubbio la questione più spinosa della nostra epoca, così impegnata a tutti i livelli – sco-
lastico, universitario, intellettuale, artistico – a garantire che ogni voce venga equamente
rappresentata e ogni versione di ogni storia adeguatamente fornita.
I sostenitori dell’idea che esista una cancellazione di una parte del discorso pubblico
affermano che linguaggio e contenuti inclusivi vanno a ledere ora la tradizione ora la rap-
presentazione di tutto lo spettro sociale, influenzato o penaliz-
zato dal cambiamento.
Claudia Boscolo è
Ph.D. in Italian alla LA DIFESA DELLA TRADIZIONE
Royal Holloway
University of London. In Italia il dibattito sul «politicamente corretto» negli ultimi
È docente di lingua e anni si è inasprito con l’intensificarsi della partecipazione pub-
letteratura italiana nei blica di componenti sociali emergenti, il cui attivismo continua a
licei. È responsabile suscitare reazioni e critiche. Il caso più recente è la petizione lan-
di redazione del sito ciata su Change.org da Massimo Arcangeli, ordinario di linguisti-
Ibridamenti, co-
editor di Scritture
di resistenza.
LE MALELINGUE

Sguardi politici dalla


narrativa italiana
contemporanea
(Carocci, 2014).
51
ca italiana all’Università di Cagliari, in cui si legge che «[s]iamo di fronte a una pericolosa
deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vor-
rebbe riformare l’italiano a suon di schwa. I promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le
insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l’uso della ‘e rovesciata’ non si po-
trebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabi-
li, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie
neuroatipiche». Spicca in questa frase l’utilizzo errato della formula «patologia neuroatipi-
ca», che stravolge il significato di neurodiversità, termine coniato proprio per evidenziare
che la differenza è ricchezza, oltre l’inquadramento patologico. In questa misconcezione
della divergenza come patologia risiede l’utilizzo strumentale della disabilità per screditare
un gruppo sociale. Ecco riemergere dal sottosuolo della storia l’idea di un potenziale danno
collaterale provocato dalla sperimentazione linguistica voluta da soggetti del tutto mino-
ritari: si legge infatti nel documento che i fautori dello schwa sono «una minoranza che
pretende di imporre la sua legge a un’intera comunità di parlanti e di scriventi».
Il linguista se la prende in particolar modo con l’abolizione del suffisso -trice sostituito
dal simbolo ə. Come spiega, il femminile dei sostantivi riferiti ad attività tradizionalmente
maschili sono frutto di un’elaborazione linguistica durata secoli. Si tratta di una difesa d’uffi-
cio della tradizione che non tiene conto dell’affacciarsi nel discorso pubblico di soggettività
altre rispetto al binarismo di genere, la cui esistenza e il cui apporto alla lingua, in quanto co-
munità di parlanti, sono cancellati in nome di un principio di autorità.
Ma ciò che fa indignare davvero il professore e i firmatari della peti-
I DIFENSORI DELLA zione è l’idea che lo schwa sia finito nei verbali redatti da una Commis-
TRADIZIONE NON sione per l’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore
TENGONO CONTO universitario di prima e seconda fascia. Poco importa che il simbolo
DELL’AFFACCIARSI NEL sia già stato adottato in via sperimentale in qualche scrittura burocra-
DISCORSO PUBBLICO DI tica e in altri atenei. Si è fatta strada l’idea che l’adozione di strategie di-
SOGGETTIVITÀ ALTRE scorsive rispettose dell’alterità costituisca invece una prassi top-down,
RISPETTO AL BINARISMO come se l’insegnamento della sintassi normativa a scuola non abbia
rappresentato a lungo l’imposizione dall’alto di una lingua artificiosa
e distante dalle parlate locali e dall’uso comune. La petizione bolla lo
schwa come «frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare
secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività». Eppure,
non è difficile percepire in questa posizione di apparente tutela della nostra lingua dalle
storpiature di fanatici il retropensiero di un’accademia arroccata davanti all’improvviso
indebolimento della sua autorevolezza. Questa petizione è tanto più straniante in quanto
formulata dallo stesso gruppo sociale, cioè l’élite culturale e accademica, che in altri paesi –
ad esempio gli Stati uniti – si è per decenni resa promotrice del «politicamente corretto». La
differenza di contesto sociale e culturale si dimostra quindi un fattore rilevante.
PRIMAVERA 2022

In Italia assistiamo a una graduale presa di coscienza del passato coloniale fascista
grazie all’introduzione – tardiva e maldestra – degli studi postcoloniali anche nelle no-
stre università, all’emergere delle istanze delle soggettività Lgbtq sollecitato dall’analisi
del discorso omo/transfobico sui social media e nelle realtà di attivismo del nostro paese,
N. 14
52
all’evoluzione delle lotte femministe in seguito al movimento globale di denuncia degli
abusi sessuali sui luoghi di lavoro, allo svelamento del grande non detto della disparità
salariale tra lavoro maschile e femminile: tutti fenomeni che si pongono all’intersezione
fra le battaglie civili dei gruppi tradizionalmente nascosti e le istanze di tutela sociale. In
generale, oggi in Italia essere di sinistra significa, molto più che altrove, accettare che seg-
menti di società rimasti a lungo privi di rappresentanza escano dalla marginalità, anche
partecipando al discorso pubblico. Ciò comporta una cessione di territorio delle classi e
del genere dominanti, se non in termini economici, certamente culturali.

IL PRINCIPIO DI AUTORITÀ MESSO IN DISCUSSIONE

La diffusione capillare del discorso sull’inclusione è avvenuta principalmente attraver-


so i nuovi media, in particolare tramite testate online e dibattito in rete, a volte con punte
di violenza verbale inaudita, tanto che la tematica dell’hate speech è divenuta centrale.
Di ciò si occupa ad esempio la Rete Nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni
d’odio, fondata fra gli altri dal linguista Federico Faloppa. Dagli studi di Faloppa emerge
che in Italia il «politicamente corretto» viene definito per lo più in accezione negativa con
i termini «piagnisteo», «buonismo», «conformismo». Nel corso dell’ultimo decennio si è
osservata una modifica dell’interazione fra l’élite culturale – specialmente accademica – e
quella mediatica, dovuta all’irrompere sulla scena di queste soggettività prima invisibili.
Ciò ha costretto a una ridefinizione del ruolo di gatekeeper del sapere tradizionale, con
l’apertura di tavoli di confronto attraverso l’inclusione. La diffusione di sperimentazioni
– non necessariamente riuscite – di linguaggio inclusivo ha prodotto una messa in discus-
sione del principio di autorità legato all’appartenenza istituzionale dei parlanti.
Anche se non siamo ai livelli di bullismo trumpiano, denunciati ad esempio da Meryl
Streep nel suo famoso discorso ai Golden Globes del 2017, in Italia la diffusione di tentati-
vi di inclusione linguistica ha suscitato una reazione sproporzionata da parte delle stesse
élite culturali e mediatiche mainstream.
In un articolo su Valigia Blu del 2020 dal titolo «Il politicamente corretto: un falso mito
creato dalla destra per attaccare la sinistra», Matteo Pascoletti scrive che sedersi a un ta-
volo per sfidare l’avversario e percepire il dibattito come un duello è una scelta culturale
tutt’altro che neutra: «La stessa composizione di quel tavolo incide a monte sulla natura
del dibattito che ne seguirà – così come chi scegliamo di escludere, e perché».
Mentre da un lato le élite storiche criticano o attaccano apertamente, come nel caso
della petizione di Arcangeli firmata da eminenti intellettuali, esperimenti linguistici in-
clusivi perché snaturerebbero la lingua e la tradizione, le stesse cerchie intavolano di-
battiti escludenti. Quanti sono i panel accademici e i comitati scientifici interamente
composti da uomini bianchi in cui magari si discute di scrittura femminile o di questioni
postcoloniali, senza coinvolgere in nessun modo i soggetti interessati alla discussione?
Tuttavia, c’è una parte rilevante di paese a cui questi gruppi dominanti non sono in
grado di parlare ma che essi giudicano dalle testate nazionali, sempre più chiuse in difesa
della lingua e dei ruoli tradizionali in chiave essenzialista.
LE MALELINGUE
53
Discorsi d’odio
LINGUE SUBALTERNE

e silenzi razzisti
In Italia si sottovaluta il ruolo del linguaggio e della
formazione nella riproduzione di esclusione e oppressione.
I libri scolastici, ad esempio, evitano di affrontare
il modo in cui le razze vengono storicamente costruite

L’
utilizzo della N-word in italiano non è grave tanto quanto lo è in
Illustrazione di Amalia Caratozzolo

lingua inglese. Sono soprattutto le persone razzializzate a sentirselo


ribadire, nella vita di tutti i giorni, così come sulle testate dei gior-
nali, in televisione e in radio. Eppure sono diversi anni che – final-
mente – anche in Italia le comunità razzializzate hanno cominciato
a rivendicare il termine e a sensibilizzare le persone (bianche) sul
Jessica Caroline Edeme suo impatto discriminante e oppressivo, indipendentemente dal
contesto e dall’intenzione con cui la parola viene pronunciata.
Del resto, l’Accademia della Crusca racconta che fino agli anni Settanta i termini
«neg*o», «nero» e «di colore» venivano impiegati quasi come sinonimi e con connota-
zioni di significato affine. Sarà solo grazie all’emancipazione
dei «Neri» americani dei primi anni Settanta che un gruppo ri-
stretto di traduttori comincerà a bandire la parola neg*o, pre- Jessica Caroline Edeme
ferendo tradurre il termine «Black» con «Nero». È da questo è laureata in politica e
movimento emancipatorio infatti che il concetto di «black- relazioni internazionali
ness» o «nerezza» acquisisce un’accezione di orgoglio, che si all’università di
PRIMAVERA 2022

esprime in slogan come «Black power» e «Black is beautiful». Aberdeen, in Scozia.


Ciò nonostante, la nuova consapevolezza del retaggio storico Ha scritto la sua
della parola non impedì la diffusione di «neg*o» nel contesto tesi sulle narrazioni
italiano, che infelicemente negli anni Ottanta circolava tra i dell’Altro coloniale nei
testi scolastici. Porta
N. 14

avanti un progetto di
ricerca con Soul
of Nations Foundation
e una campagna
sui diritti dell* rifugiat*
Lgbtiq+.
54
55 LE MALELINGUE
più importanti media nazionali che raccontavano i fenomeni migratori di allora e la
sempre maggiore presenza di migranti provenienti dall’Africa – ma non solo – in Italia.

ATTI LINGUISTICI DI SUBORDINAZIONE

Il 2021 è stato piuttosto florido sul fronte del linguaggio razzista in televisione. Han-
no attirato attenzione mediatica le parole della giornalista Alda D’Eusanio accusata di
aver utilizzato la N-word durante un intervento al Grande Fratello Vip, rischiando la
squalifica come era già accaduto a Fausto Leali, anche lui ex-concorrente del program-
ma. A marzo 2021 è protagonista di un altro infelice episodio l’attrice Valeria Fabrizi
che in risposta alla conduttrice che la elogiava per la sua bellezza in una foto da giova-
ne smentisce asserendo: «sembravo una neg*a». Nonostante l’indignazione generale
di milioni di persone nei giorni successivi, gran parte dell’opinione pubblica e di molte
testate di giornale ha giustificato l’attrice sulla base della sua anzianità (Fabrizi nasce
nel 1936); del resto, una volta si diceva così.
C’è anche chi, con l’intento di far riflettere sulla gravità dell’uso di questi termi-
ni, finisce per produrre l’effetto opposto. Ne sono esempio i presentatori di Striscia la
Notizia, Michelle Hunziker e Gerry Scotti, che nella puntata del 30 marzo 2021 ripro-
pongono un video di cinque anni prima del programma Giass in cui Paolo Kessisoglu
imita la deputata Laura Boldrini, al centro di alcune polemiche che la accusavano di
maltrattare la sua governante e una dipendente. Nello sketch, Kessisoglu ironizza sul
fatto che la deputata sia sempre concentrata sui «neg*i» e conclude rivolgendosi a un
bambino «nero» (un attore truccato e in black face) con: «Vai Congo!».
Figure come Vittorio Feltri hanno parlato a questo proposito di «censure» del lin-
guaggio. Secondo il giornalista la «gente normale» parla così, e bandire certi termini
implicherebbe un’operazione di pulizia linguistica. Tale affermazione si basa sull’illu-
sione che il linguaggio non sia in realtà un fattore centrale di creazione, mantenimento
e rinforzo delle identità e conseguentemente delle disparità sociali. Nel caso dell’hate
speech, i parlanti possono compiere azioni linguistiche direttamente persecutorie e
deumanizzanti, a discapito di singoli e/o comunità target (individuati in base a reli-
gione, etnia, identità di genere, orientamento sessuale). In altri casi i parlanti possono
compiere atti linguistici volti a incitare alla discriminazione, all’odio e alla violenza,
incoraggiando chi ascolta all’odio. In altri casi ancora i parlanti possono compiere atti
linguistici di subordinazione di carattere istituzionale, tramite i quali istituiscono o
rinforzano sistemi oppressivi piu ampi, catalogando individui e/o gruppi a un livello
di inferiorità e legittimandone l’emarginazione.
Secondo la teoria dello speech act di Austin, le convinzioni e le intenzioni di chi par-
la non sono fondamentali per la determinazione della potenza illocutoria di un atto
PRIMAVERA 2022

linguistico. Ne consegue, dunque, che il proferimento messo in atto da persone della


classe dominante risulti un atto di subordinazione. Chi parla, utilizzando strumenti
linguistici convenzionali connessi con atti di oppressione (come l’uso di locuzioni d’o-
dio in una società in cui vengono condivise ideologie e pratiche razziste nei confronti
N. 14
56
di gruppi non bianchi), in virtù del proprio status sociale valida la propria affiliazione
al gruppo dominante. A sua volta l’atto linguistico è legittimato per omissione dallə
interlocutorə, ovvero trova nuova approvazione nel silenzio di chi ascolta. Ovviamente
possono avere riserve nei confronti di un gesto linguistico d’odio, ma se non rese pub-
bliche tali omissioni di chi ascolta garantiscono al parlante l’autorità che necessita per
commettere un atto di subordinazione. Il silenzio si tramuta così in complicità.
La storia ci insegna che la lingua può essere impiegata come strumento di domi-
nio. Affinché si possa esercitare un dominio non è necessaria l’imposizione diretta,
essa può avvenire anche attraverso vie più subdole. Nel caso dell’Eritrea, per esempio,
prima dell’ascesa del fascismo, la lingua italiana fu usata come strumento di dominio
e di omogeneizzazione delle popolazioni locali, che sarebbero poi diventate adatte a
lavorare per lo stato dell’uomo bianco italiano.

LA POTENTE PRESENZA DI CIÒ CHE È ASSENTE

Tra le cronache di razzismo quotidiano in Italia non emergono soltanto casi di omertà
individuale di fronte a un episodio razzista, ma anche di omertà collettiva. Infatti, sep-
pure i libri di testo su cui hanno studiato le generazioni di Fausto Leali e Valeria Fabrizi
non siano più quelli su cui studiamo oggi, è fin troppo frequente che i resoconti dei li-
bri di storia continuino a perpetuare una prospettiva italocentrica
alla storia del colonialismo del nostro paese. Sfogliando le pagine di
questi libri, non è infatti raro imbattersi in frasi come «L’Italia fu pri- IN FRANCIA E NEGLI USA
vata delle sue colonie in Africa con il Trattato di Parigi del febbraio GLI ITALIANI VENIVANO
1947». Una frase solo apparentemente oggettiva, che in realtà sotto- CHIAMATI «DAGOS», NOME
linea una condizione di privazione dell’Italia, ovvero un’ingiustizia. CHE EVOCAVA IL COLTELLO
Un altro aspetto che colpisce è il resoconto di molti testi sull’in- E CHE ALLUDEVA ALLA
tolleranza che gli italiani hanno storicamente subito nelle migrazio- PRESUNTA PROPENSIONE
ni all’estero. Durante il periodo dell’emigrazione di massa sotto il ALLA VIOLENZA
governo Giolitti, gli italiani in Francia e in America venivano additati
con denominazioni stigmatizzanti come «dagos» un termine che
evocava il coltello e che alludeva a una presunta propensione dell’italiano alla violenza.
Non si devono invalidare le reali difficoltà che le popolazioni italiane all’estero dovette-
ro affrontare, ma risulta difficile ignorare come gli italiani non siano tuttavia altrettanto
meticolosi nel riportare sui libri di testo, per esempio, la violenza che essi stessi inflissero
in Eritrea, in particolare attraverso i regolamenti del 1897 che enfatizzavano la presunta
superiorità europea, e la segregazione del 1905 basata sullo stesso presupposto razzista,
che proibiva i matrimoni misti non approvati dallo stato.
Alcuni testi propongono un parallelismo tra l’emigrazione italiana e le contempora-
nee ondate migratorie nel Mediterraneo. In un testo in particolare, l’immagine in bian-
co e nero degli emigrati italiani in partenza per New York City viene confrontata con una
fotografia contemporanea di migranti, perlopiù neri, su una barca. La condizione dell’e-
migrazione italiana non è visivamente così differente da quella africana; in entrambi i
LE MALELINGUE
57
casi, l’immagine trasmette una sensazione di «soffocamento», e il loro accostamento e
la loro vicinanza invitano alla riflessione. Ciò che emerge dal paragrafo è l’enfasi degli
autori sulle premesse della migrazione nel caso europeo, che non è ugualmente pre-
sente nella seconda metà del testo, quando debbono spiegare le ragioni dei movimenti
africani contemporanei. Gli europei sono descritti come alla ricerca di condizioni di
vita migliori e disposti a emigrare per lavorare in città più industrializzate. D’altra parte,
quando si parla di migrazione attuale nel Mediterraneo si insiste su dati numerici di
un rapporto Onu e sui paesi che accolgono le percentuali più alte di persone. La condi-
zione dei migranti africani viene completamente disumanizzata e ridotta a un elenco
di convenzioni internazionali sulle politiche migratorie. Questa narrativa semplicistica
e spersonalizzata dei soggetti coloniali e, più in generale, delle popolazioni africane,
omette di considerare le relazioni che esistono tra razza, immagine di sé e territorio.
Questa negligenza, in una prospettiva postcoloniale, è una mnemonica del passato
coloniale italiano non sufficientemente elaborato, messo a tacere, oppresso e rimosso
per decenni, che si riflette oggi nelle politiche migratorie contemporanee dell’Italia e
dell’Europa, come drammaticamente dimostrato dalla strage in atto nel Mediterraneo.
La pedagogia della storia dovrebbe concentrarsi sul fornire degli strumenti di analisi
del contemporaneo affinché le nuove generazioni non ripetano gli errori delle prece-
denti. Molti libri di storia continuano a perpetuare l’errore metodologico di chi cerca
una spiegazione ideologica al razzismo concentrandosi sullo stu-
dio della psicologia del pregiudizio. Concettualizzare il razzismo
MOLTI TESTI CONTINUANO come «paura» implica la formulazione di semplici prescrizioni po-
A TRATTARE IL RAZZISMO litiche che presumibilmente mirano a «curare» le credenze razziali
COME FORMA DI ISTERIA attraverso l’educazione. Tuttavia, il fatto che oggi il mondo sia più
E PAURA, IGNORANDO istruito che mai, eppure esistano sempre nuovi tipi di «pregiudizi»,
COME IL FENOMENO smentisce tale presupposto. La tendenza a sminuire il sentimento
SIA ISTITUZIONALIZZATO razziale italiano e attribuirlo a una forma d’isteria collettiva ver-
E STRUTTURALE so il nuovo e lo sconosciuto rimane l’interpretazione dominante.
Resoconti sul razzismo come strutturale o istituzionalizzato non
emergono tra i libri di storia analizzati, se non in un unico esempio
in cui il colonialismo viene descritto come intrinsecamente razzista e viene avanzata la
tesi che la persecuzione degli ebrei non sia avvenuta tra le «perplessità» o la semplice
«indifferenza» della popolazione italiana. È ciò che la studiosa Sharon Subreenduth
chiama «la potente presenza di ciò che è assente» (Insidious Colonialism in Post-Apar-
theid Education, 2013). Nel suo studio sulle insidiose manifestazioni del colonialismo
nell’educazione sudafricana post-apartheid, la studiosa conclude che l’omissione di
alcune componenti dalla narrazione assuma una funzione eccezionalmente potente.
Infatti, la continuità con le interpretazioni passate di una concettualizzazione ideolo-
PRIMAVERA 2022

gica del razzismo come xenofobia e comportamento individuale manifesto permette


alle narrative storiche di trascurare l’applicazione istituzionale della supremazia raz-
ziale – ad esempio quella imposta nelle colonie italiane di Eritrea ed Etiopia (cioè il
divieto di unioni miste).
N. 14
58
I curricula nazionali così come gli standard per l’insegnamento della storia sono
indubbiamente costretti a scendere a compromessi dati i tempi e i modi dell’apprendi-
mento obbligato. Dover affrontare la storia del XIX secolo in un tempo circoscritto, in
mezzo alle non poche difficoltà che lə insegnanti in Italia si ritrovano a gestire, significa
necessariamente operare compromessi se non omissioni, in particolare rispetto alla
storia e alla cultura dei cosiddetti popoli «altri». Purtroppo però è proprio all’interno di
tali compromessi che operano forme evolute della retorica egemonica. In particolare,
quando si parla di relazioni di mercato nelle sezioni dei libri dedicate all’insegnamen-
to dell’eredità coloniale globale e quindi del neocolonialismo, miopi interpretazioni
neoliberali continuano a essere dominanti. In un certo senso, l’arcaica dicotomia (cioè
l’alterità africana come selvaggia o primitiva, contro la benigna e «buona» attitudine
italiana, «the myth of the good Italian») si è mutata in un nuovo «mito» che contrappo-
ne l’essenzializzazione dell’esperienza della migrazione africana contemporanea alla
condizione dell’immigrato europeo e italiano, «operoso» e «perseguitato». In altre pa-
role, il migrante africano oggi viene identificato come una categoria omogenea, senza
distinzioni in termini di nazionalità, ragioni e modalità di migrazione, mentre gli euro-
pei sono rappresentati come un gruppo eterogeneo. Inoltre, dalle mie constatazioni, i
libri di testo non presentano alcuna evidente riflessione critica che metta in discussio-
ne l’essenza stessa del colonialismo nella sua storicità.
Partire da un cambiamento di linguaggio e da una cultura che ne sanzioni l’uso im-
proprio in contesti pubblici e non solo e che renda giustizia al vissuto e alle sensibilità
delle persone razzializzate è indubbiamente un primo passo necessario per interrom-
pere la violenza del linguaggio. Al contempo però tale cambiamento deve essere affian-
cato da una reale consapevolezza di chi è la classe dominante, partendo inevitabil-
mente dall’istruzione scolastica, in particolare lo studio della storia coloniale italiana.
Le politiche educative volte a promuovere la consapevolezza storico-politica dovreb-
bero insegnare che le identità sono storicamente costruite e dovrebbero ulteriormente
rendere «anomala» la bianchezza. Infatti, per il momento, l’Altro è l’unica entità raz-
ziale, mentre la bianchezza mantiene una posizione di neutralità, di «universalmente
umano». O come dimostra anche il commento della Fabrizi, la bianchezza mantiene
una posizione anche normativa, implicando la nerezza come una cosa negativa, «mac-
ché ero brutta».
I resoconti di ciò che consideriamo la conoscenza ufficiale sono intrinsecamente
permeati dalle tensioni e dai compromessi in cui la razza ha giocato un ruolo indi-
spensabile, che non può essere trascurato. Una maggiore consapevolezza linguistica va
quindi affiancata da elementi di inclusione e di evoluzione sociale reali. Il nostro paese
necessita di un cambiamento radicale che stia al passo con le sensibilità dei nostri
anni. Fare violenza linguistica non è soltanto utilizzare con disinvoltura la N-word in
diretta tv o fare dell’ironia su quanto la pelle più scura possa rendere bruttə, ma è an-
che raccontare la storia nazionale negando all’Altrə (colonizzatə e soggetto a violenza)
il suo punto di vista. Interrompere la violenza è combattere la potente presenza di ciò
che è assente.
LE MALELINGUE
59
Il viaggio
LINGUE SUBALTERNE

delle parole
Alcune espressioni hanno il potere di realizzare
un atto attraverso la loro enunciazione. Ma possono essere
spostate dal loro contesto, e trasformarsi: da insulto
a moto di autodeterminazione. Come è accaduto a queer

L
e parole sono come persone che viaggiano. Non turist* ma per-
sone che fanno viaggi lunghi, che migrano, per curiosità o necessi-
tà. Non viaggi di persone singole ma di gruppo, a volte organizzato
a volte meno, altre ancora viaggi di comunità che si riconoscono
come tali. Sono persone che a volte rimangono uguali a quando
sono partite altre diventano parte integrante del posto in cui si sono
Elisa Virgili trasferite e non si ricorda più da dove vengano.
La sociolinguistica è la disciplina che spiega questi fenomeni ri-
cordandoci prima di tutto che il linguaggio non è statico e immutabile ma dinamico e sog-
getto a cambiamenti (e allo stesso tempo soggetto che porta cambiamento). Questo non
significa che sia arbitrario e che ognun* possa imporre i cambiamenti che vuole e quando
vuole.
Basil Bernstein, ad esempio, descrive il linguaggio come un
insieme di regole a cui tutti i codici sociolinguistici devono sot- Elisa Virgili è
tostare. Quali di questi codici vengono effettivamente realizza- ricercatrice
ti, ovvero quali parole si usano, dipende a sua volta dai fattori indipendente. Si
culturali che agiscono attraverso i diversi rapporti sociali che si occupa di studi
PRIMAVERA 2022

sviluppano in contesti specifici. E allo stesso tempo rappresen- di genere, teorie queer
tano una gerarchia di relazioni tra chi parla. La forma linguistica e filosofia politica.
è insomma una conseguenza della forma sociale, e viceversa. Lo Fa parte del Centro
stesso Bernstein infatti ammette che la forma linguistica possa di ricerca Politesse
e della rete Gifts. Ha
N. 14

curato e tradotto Gaga


Feminism (Asterisco
edizioni, 2021).
60
modificare quella sociale in cui si è creata mettendo in atto un processo attraverso cui si
acquista una specifica identità culturale e, aggiungo io, di genere.
Il linguaggio forma identità individuali e collettive attraverso la narrazione pubblica del-
la nostra vita, nel modo in cui la racconta o non la racconta, con le parole che si usano per
definire le persone (compresi gli insulti), col genere grammaticale che viene utilizzato.

LA PERFORMATIVITÀ DEL LINGUAGGIO

Visto che nessun uomo è un isola, il più delle volte chi si sente esclus* anche dalle paro-
le si raccoglie in comunità che utilizzano un linguaggio specifico, un gergo, una modalità
linguistica che ha tra le sue caratteristiche la creazione o il consolidamento di un’identità di
gruppo che si basa sulla differenziazione dal resto della comunità (linguistica).
Il gergo può anche essere visto come una «controlingua» che esprime l’identità di una
controcultura o di una minoranza formatasi all’interno della società, può essere insomma
un segno di riconoscimento del gruppo stesso. È un linguaggio che può integrarsi o meno
con il resto della lingua, così come con il resto della comunità.
Il fatto che il cosiddetto processo di «degergalizzazione» vada a termine, ovvero che la
parola in questione esca dal gruppo ristretto, non significa necessariamente che questo
termine perda il suo stato nel gruppo sociale, ovvero che non venga più utilizzato da quel
gruppo per gli stessi propositi identificativi. L’identità
del gruppo si riconoscerà ancora in questa parola ma
sarà riconosciuta anche da altr*. L’infelicità è un male ereditario proprio
Ma da chi e perché abbiamo bisogno di essere ri- di tutti gli atti che hanno il carattere generale
conosciut* come soggetti e/o comunità? La filosofa del rituale o del cerimoniale,
Judith Butler, hegeliana di formazione, sostiene che tutti gli atti convenzionali.
il soggetto si formi nel riconoscimento dell’altro, che Vi sono più modi di violare il linguaggio
ha sempre bisogno di essere in relazione. Ma Butler, che semplicemente la contraddizione.
che si è formata anche con Michel Foucault, sa che le J.L. Austin
relazioni sono sempre relazioni di potere: il soggetto
è sempre soggetto a qualcosa/qualcuno e soggetto di
attraverso la sua capacità di agency, anche nel linguaggio. Un soggetto viene definito da una
parola e allo stesso tempo può definirsi scegliendo le parole che vuole.
Butler parla in questo senso di performatività del linguaggio, ovvero di come determina-
te espressioni linguistiche abbiano il potere di realizzare un atto nel momento in cui sono
enunciate, anzi proprio attraverso la loro enunciazione. Di fare cose con le parole, direbbe
il filosofo del linguaggio John Austin. La ripetizione, l’uso continuo, la citazione di queste
parole costruisce la realtà e i soggetti che la popolano, anche dal punto di vista dell’identità
di genere e anche in termini di esclusione: ciò che non è nominato non esiste e ciò che è
nominato attraverso epiteti dispregiativi è fuori dalla norma.
Il contesto preciso in cui viene pronunciata una frase è particolarmente importante per
la riuscita o meno del suo effetto performativo. Il contesto diventa parte dell’atto, il quale
non è quindi più responsabilità del singolo individuo. Jacques Derrida, nel saggio Firma
LE MALELINGUE
61
evento contesto cerca infatti di dimostrare che la forza di rottura con il contesto originario è
la parte importante e innovativa del concetto di performatività. Per Derrida ogni parola può
essere citata anche in contesti non adatti, ed è questo ciò che è fondamentale nel linguaggio
e che chiama iterabilità del segno linguistico.
Proprio il meccanismo dell’iterabilità permette a Butler di parlare di potenziale sovver-
sivo del linguaggio, perché nella citazione, nella ripetizione, c’è la possibilità di un cambia-
mento di significato, di una risignificazione del concetto che sta alla base dei movimenti.

STORTO E FELICE DI ESSERLO

Se le parole costruiscono i soggetti nella loro ripetizione, se io sposto la parola dal conte-
sto e posso decidere come usarla quella parola può fare un viaggio e da gergo sconosciuto
alla maggior parte divenire di uso comune, dando riconoscimento dall’esterno alla piccola
comunità che prima la utilizzava. Anche una parola utilizzata come insulto verso una sog-
gettività e/o il gruppo che questa rappresenta, può essere tolta da quel contesto e rivendi-
cata da quella comunità. Quando una comunità, un movimento, sposta un insulto da un
contesto a un altro riappropriandosene, produce un’azione politica molto efficace.
È quello che hanno fatto molti movimenti nell’ambito femminista e Lgbtq+. Non co-
nosco tutte le parole che hanno viaggiato tra diverse lingue e movimenti, tutte le lotte che
queste parole hanno fatto, ma posso portare alcuni esempi.
La prima parola che mi viene in mente è queer, ormai di uso ab-
NELLA CITAZIONE bastanza comune in Italia in ambito culturale/accademico e di movi-
E NELLA RIPETIZIONE, mento, ma anche mainstream (programmi e serie televisive ad esem-
SI TROVA LA POSSIBILITÀ pio). Il viaggio di questa parola è stato lungo, e non è ancora finito.
DI UN CAMBIAMENTO Inizia nel sedicesimo secolo quando comincia a essere usata nel senso
DI SIGNIFICATO di «strano, inusuale» per indicare una persona dallo stile di vita eccen-
CHE STA ALLA BASE trico. Nel diciannovesimo secolo assume un’accezione negativa, deni-
DEI MOVIMENTI gratoria e sessualmente connotata, così è stato anche nel ventesimo
secolo. Alla fine di quel secolo però questo termine da insulto diviene
strumento di autodeterminazione per una comunità che rivendica
una sessualità e un genere che sfugge alle regole dell’eteronormatività: è strano, storto, non
straight, ed è felice di esserlo ma anche discriminato e vuole denunciarlo a voce alta.
Così una comunità, un movimento, decide di riappropriarsi di quell’insulto, come ha
fatto il movimento Queer Nation. Allo stesso tempo anche un’altra comunità cerca di rom-
pere con il contesto originario in cui veniva utilizzata questa parola: quella accademica.
L’aggiunta del termine Theory è usualmente fatta risalire a una conferenza di Teresa de Lau-
retis del 1990 negli Usa che accosta in modo stridente l’insulto queer alla parola più classica
dell’accademia: teoria. Un decennio dopo il termine queer arriva fino in Italia, in un primo
PRIMAVERA 2022

momento proprio come Teoria Queer all’interno del mondo accademico con le prime tra-
duzioni di Eve Kosofsky Sedgwick e Judith Butler. C’è stata una rielaborazione teorica e,
seppur non ci siano dipartimenti dedicati, negli ultimi anni molt* studios* hanno dedicato
il loro lavoro a questa tematica e sono nati dei centri di ricerca (il centro Politesse di Verona,
N. 14
62
Cirque o la rete Gifts). Con il proliferare dell’elaborazione teorica nel contesto italiano, c’è
stato chi ha cominciato a chiedersi se e come si potesse tradurre questo termine nella no-
stra lingua. Alcuni studiosi hanno iniziato così a definire le loro ricerche «Teoria Frocia», in
linea con la risignificazione dell’insulto ma in modo un po’ lontano semanticamente.
Da un’indagine sullo sviluppo degli Studi queer in Italia condotta da Marco Pustianaz nel
2010 risulta che dopo i primi tentativi di traduzione ci si sia resi conto delle difficoltà e ora
è largamente preferito l’uso del termine queer in corsivo, per sottolineare che si tratta di un
inglesismo necessario. In parallelo questo termine ha viaggiato anche attraverso i movimen-
ti e le comunità che si riconoscono in questa parola. I termini queer e queerness hanno co-
minciato a diffondersi in questi ambiti forse qualche anno dopo rispetto all’Accademia e al
mondo dell’arte, ma molti sono ora i collettivi politici che si definiscono queer, e la lettera Q è
entrata anche nel più conosciuto acronimo Lgbt (ora Lgbtqia+). Molti sono anche quelli che
hanno scelto di tradurlo con «frocio/a», ma i problemi che si presentano sono simili a quelli
che ha incontrato il mondo accademico. Da un lato c’è infatti la non neutralità del genere
che è proprio un punto cardine della parola queer e dall’altro una questione altrettanto im-
portante sul portato teorico e politico di questa parola. Se sia i movimenti che l’elaborazione
teorica devono molto alle teorie e alle pratiche che con questa parola hanno viaggiato dagli
Stati uniti all’Italia è vero anche che erano già presenti in questo contesto sotto altri nomi.
Da una parte c’è quindi il riconoscimento di una genealogia del contesto delle lotte e delle
elaborazioni teoriche italiane, dall’altra
la consapevolezza che il prestito lingui-
stico non è statico ma con il suo arrivo Mackay Butch è «un’etichetta radicata nella storia lesbi-
muta significato e a sua volta porta un ca, che si riferisce a una persona di sesso femminile che si
cambiamento nel contesto in cui arriva, identifica con e/o esprime una mascolinità culturalmente
e soprattutto che chi parla sia un sogget- riconoscibile, e/o si identifica al maschile». In italiano un
to attivo in questo processo. Quello che suo corrispondente può essere individuato nei termini «ca-
chiamiamo oggi queer non è quello che mionara» o «maschia» o il meno connotato «lesbica masco-
rappresentava questa parola negli Stati lina». Ma questi termini non hanno mai assunto la stessa
uniti negli anni Novanta e nemmeno ora. portata identitaria che ha butch nel mondo anglofono, no-
Rimane la perdita della forza di rottu- nostante alcune soggettività/collettività abbiano usato e
ra che questa parola, nata come insulto, usino tali termini.
ha nel contesto italiano se non viene tra- Il sociolinguista Louis Deroy definirebbe questa scelta
dotta. Quant* ne conoscono l’origine e una distinzione tra «prestito di necessità» e «prestito di lus-
il significato letterale? Quanto abbiamo so». Questa distinzione si basa sul fatto che il prestito lingui-
perso a non fare un convegno di «teoria stico viene pensato come causato da uno stato di bisogno,
frocia»? Non ho una risposta a queste do- ovvero si prende in prestito ciò che manca. Secondo questo
mande ma se ora la maggior parte delle principio il prestito di necessità indica la ricezione di un
persone che rivendicano questa parola oggetto o di un concetto nuovi accompagnati dalla parola
la utilizzano in questo modo, tradurla sa- proveniente dalla lingua madre che li designa. I prestiti di
rebbe una forzatura. lusso invece provengono da ragioni sociali e culturali e non
Lo stesso vale per altri termini, tra da necessità, perché nella lingua in cui vengono accolti ci
tutti il termine butch. Come scrive Finn sarebbe già una parola da poter usare al posto del prestito.
La distinzione non è però così netta, non solo per le parole
che utilizziamo ma anche per la struttura grammaticale. In
questo senso anche asterisco o schwa sono pietre d’inciam-
LE MALELINGUE

po che ci ricordano che la lingua cambia ed è di chi la parla/


scrive, e mantenerla immutata non significa conservarne la
bellezza ma mantenere le norme di genere che quella lin-
gua rappresenta e performa.
63
Il linguaggio
POTERE E PAROLE

come alibi
Esiste una forma di washing, di pulizia superficiale, legata
al linguaggio: basta appropriarsi di alcune parole per darsi
una parvenza etica e impegnata. È anche ciò che fanno
gli esperti di marketing utilizzando slogan politici

D
omanda: che differenza c’è tra una candela e una candela fem-
minista?
Una risposta: nessuna.
Un’altra risposta: a una è stata attribuita arbitrariamente at-
traverso il linguaggio una caratteristica e all’altra no.
Un’altra risposta: è una domanda tendenziosa.
Antonia Caruso Un’altra risposta ancora: le condizioni di lavoro per cui una
candela femminista è stata fabbricata tutelando diritti, salari, con-
dizioni di lavoro delle donne (o delle persone di qualsiasi genere) che l’hanno creata.
Un’altra risposta ancora: la cera di cui è composta è stata
ottenuta avendo cura di non maltrattare le api o con procedi-
menti industriali o artigianali non inquinanti. Antonia Caruso è
Un’altra risposta: entrambe sono oggetti che possono essere scrittrice, editorialista
venduti e fabbricati da aziende, così come da piccole artigiane. e attivista trans/
Un’altra risposta: la candela femminista è una candela in- femminista. È autrice
PRIMAVERA 2022

serita in un contenitore di vetro (così da evitare l’increscioso di Lqbtqia+ (Eris


spargimento della cera) con sovrimpressa una scritta conside- edizioni, 2022). Ha
rata femminista da chi produce la candela. In genere frasi mo- da poco aperto la sua
tivazionali e aggressive sulle donne come persone forti, come casa editrice: Edizioni
Minoritarie.
64N. 14
Feminist AF (As Fuck), Burn the Patriarchy, Boss Lady can change the world, Badass.
Sono oggetti di uso domestico, se non proprio privato. Spesso hanno delle profuma-
zioni particolari. Tutte le candele femministe sono profumate ma non tutte le cande-
le profumate sono femministe. Vanno usate in momenti di relax, per ricaricarsi, quel
momento-tutto-per-sé nella retorica del self care come cura del corpo, che solo le self
loving women davvero sanno avere. È un momento di empowerment privato e bisogna
goderne. In questo caso l’inglese è la lingua di un certo femminismo liberal.
Quindi cos’è una candela femminista? È un oggetto, è merce, è simbolo, è politica, è
ornamento, è piacere olfattivo, è atmosfera.

GRIDO DI GUERRA

Cerco delle traiettorie.


A un certo punto a metà del ventesimo secolo le agenzie pubblicitarie hanno iniziato
a vendere il prodotto con una strategia di comunicazione che puntava più sui valori
legati al consumo di quel prodotto che al prodotto in sé. Emozioni personali, valori so-
ciali, sensazioni legate al corpo, al piacere, all’amore, alla forza, alla potenza.
Una ventina d’anni dopo dai movimenti sociali la forma dello slogan ha assunto
sempre più importanza nella comunicazione politica dal basso. Gli slogan erano già
usati nella propaganda di regime e in quella di partito ma questi erano forti, ironici,
trasgressivi.
Gli slogan sono semplici, si ricordano bene, sono già un meme, un elemento che si
diffonde autonomamente. L’origine etimologica di slogan infatti è nel gaelico «grido di
guerra».
«Il corpo è mio e lo gestisco io» è un elemento memetico (facilmente memorizzabile
per la rima). Due esempi con lo stesso incipit: «Fate l’amore non fate la guerra» (basato
sulla contrapposizione fare/non fare e il primo termine, quello proposto è già molto
positivo, per cui il secondo, quello ostracizzato, risulta ancora più negativo) e «Fate l’a-
more con il sapore» (basato sulla rima). Due ambiti completamente diversi in cui uno è
uno slogan politico e l’altro è un claim pubblicitario ma entrambi ugualmente efficaci.
La forma breve è uno dei possibili punti di incontro nel linguaggio tra politica e mar-
keting, da quando la comunicazione politica istituzionale ha iniziato a usare tecniche
pubblicitarie come lo storytelling.
Internet ha cambiato tutta la comunicazione. Ha messo in moto delle dinamiche
culturali fino a quel momento inedite. Qualsiasi elemento culturale, grafico, artistico,
politico può e poteva essere manipolato, deriso, risignificato, appiattito, deistituziona-
lizzato e disintermediato. Lo può diventare in una comunicazione non più dall’alto in
basso, cioè da gruppi editoriali a lettrici-lettori e spettatrici-spettatori. Chiunque può
arrivare a chiunque (tranne forse in Cina). Emerge così la figura del prosumer, che non
fruisce solo dei contenuti ma li crea e li distribuisce tramite alcune piattaforme private.
Tutto è un elemento condivisibile, ogni cosa è potenzialmente virale. Lo sono anche i
diritti civili ma ancora di più la lotta per i diritti civili.
LE MALELINGUE
65
Chi lotta per i diritti civili, soprattutto Lgbtqi+, è un target di mercato già pronto, ha
già una propria cultura codificata da cui attingere e ha già dei valori precisi da usare nel
marketing.
La classe media con un reddito abbastanza elevato da poter effettivamente spendere.
A questo punto dell’evoluzione della cultura, in cui la lotta per i diritti civili è sia
un valore che un meme, si sono create le condizioni per la comparsa sulla Terra della
Candela Femminista, così come della Candela Queer o della Candela Antirazzista (che
spero non sia mai bianca).
Più aumenta la complessità maggiore è la difficoltà di trovare un modo utile per rac-
chiuderla. Si può usare una parola sola, una parola contenitore, come intersezionale,
queer, trans.
Parole che contengono tante identità, tante pratiche e tante lotte ma che rischiano, a
seconda dei contesti, di ottenere l’effetto opposto, cioè di diventare
totalmente opache come delle pietre tombali. Ma una parola, una
QUALSIASI ELEMENTO sola parola, definita ed evocativa, è proprio quello che serve al mar-
CULTURALE, GRAFICO, keting. L’altra è distendere e scomporre ognuno di questi termini
ARTISTICO, POLITICO nei suoi elementi costitutivi. Si può dire «attenzione a genere, razza,
PUÒ ESSERE MANIPOLATO. classe, abilismo ecc.» o si può dire «Intersezionale».
SOPRATTUTTO La parola intersezionale viene coniata dall’attivista e giurista
DA QUANDO CIRCOLA Kimberlé Crenshaw già come termine necessario per indicare un
SU INTERNET particolare atteggiamento che tiene in considerazione non una sin-
gola oppressione ma il punto di incontro che ognun* di noi porta
dentro di varie oppressioni, quindi anche con un’autorialità preci-
sa. La parola queer nasce in ambito di movimento anti identitario, legato a quello per la
consapevolezza su Aids e Hiv, poi entrato nell’accademia nella formula di «teoria que-
er», fino a indicare l’intera popolazione Lgbtqia+ e in particolare dei prodotti culturali.
Per cui una serie TV definita queer può avere quasi indifferentemente personaggi lesbici
o gay o non binary, con un range di riferimento piuttosto ampio.
Molta politica è diventata pop, popolare, disintermediata, antigerarchica (anche se
poi l’accademia ci sta mettendo del suo per ristabilire certe gerarchie) e quindi riutiliz-
zabile, deformabile ecc.

IL WASHING NON LAVA, SERVE A COPRIRE

Alcune fonti come Wikipedia italiana indicano che il termine greenwashing, usato
per la prima volta nel 1986, sia stato creato sullo stampo di whitewash. C’entra par-
zialmente col razzismo perché viene usato anche per denunciare condizioni migliori
dei bianchi rispetto alle persone razzializzate, ma vuol dire imbiancare. In senso esteso
PRIMAVERA 2022

coprire qualcosa, nascondere, dare una patina di nuovo.


Se parliamo di economia e washing, una delle sfere semantiche a cui ci si ricollega
è quella del riciclo dei soldi sporchi, che in inglese è proprio Money laundering, lette-
ralmente lavaggio di soldi. Sempre in inglese si dice Wash your mouth out, quando si è
N. 14
66
detto qualcosa di offensivo. In italiano esiste la versione «lavati la bocca col sapone»,
dove il sapone diventa figurativamente la soluzione contro lo sporco.
Il washing insomma non è lavare via lo sporco, serve a coprirlo. È la patina di cera per
far sembrare nuove le mele.
Di qualsiasi colore sia, green, blue, pink, rainbow, il washing è solo una patina per pro-
porre dei valori di facciata, per far sentire chi consuma con la coscienza pulita. È un gioco
a due, chi produce e comunica e chi decide, più o meno consapevolmente, di fidarsi.
Le modalità di produzione, le condizioni di lavoro, i contratti, sono i presupposti per
cui un’azienda sia green, blue, pink o rainbow.
Considerando la struttura legata all’espressione dei social, che sono aziende private e
non solo luoghi pubblici, per esempio, possiamo notare che non permette un linguaggio
autodeterminato e ironico. Non si può scrivere frocio senza essere bannat*. Se proprio si
vuole parlare di «politicamente corretto» questa è un’applicazione pedissequa di un con-
trollo contro i discorsi d’odio che contempla il linguaggio con forme e usi molto esigui.
Contemporaneamente la destra, soprattutto l’estrema destra parlamentare, attra-
verso determinate parole sta facendo un washing democratico. Da anni si appropria
di parole come libertà, nell’accezione di libertà dalle regole, in un’ottica di deregola-
mentazione e privatizzazione sia del mercato che della sicurezza della cosa privata, in
contrasto con la cosa pubblica, che invece chiede, chiede e chiede. La libertà si chiede e
si chiede non per il pubblico e per la collettività ma dal pubblico e dalla collettività. Allo
stesso tempo alcune ricorrenze vengono considerate divisive, in un modo per cui dal
momento che si enuncia la divisività di qualcosa di fatto la si sta attuando.
Il linguaggio della destra è sempre prescrittivo e mai descrittivo. Qualsiasi cosa dica
sottintende ad altro.
La differenza maggiore e sostanziale di questo periodo di lotte politiche rispetto al pas-
sato, che pure avevano riflettuto a lungo sul linguaggio anche come sistema di oppressio-
ne o quantomeno come indicatore di un sistema di oppressione, è la quantità di informa-
zioni. Se da un lato il linguaggio si è appiattito su una polivalenza di mercato, dall’altro
chi fa attivismo e divulgazione online ha assunto una postura, diciamo, ortopedica, cioè
il compito di raddrizzare. E quindi la polivalenza memetica nonsense cede il posto a un
discorso preciso fatto di definizioni, spiegazioni, informazioni dettagliate, slogan. Una
concisione che vira spesso verso il marketing delle idee, di sé e del proprio capitale.
Eppure queer è proprio l’opposto di straight, queer è proprio l’opposto di ortopedia.
A questo punto non c’è una soluzione perché ci sono diversi contesti. Femminista è
ancora una donna che brucia i reggiseni, non si depila e odia gli uomini, ma è anche una
compagna che può scegliere di non portare il reggiseno, può scegliere di depilarsi e può
scegliere come rapportarsi a persone di genere maschile, ed entrambi i significati coe-
sistono nella società. Ogni parola, femminista, queer, intersezionale, può essere vuota,
stereotipizzata, negativa e positiva, ricca, potente. O può essere, come intersezionale,
del tutto incomprensibile proprio alle persone oppresse per genere, razza e classe.
Come si può evitare questa cosa? Con la confusione, con il caos, con la poesia, gli
eufemismi, i giri di parole, l’imprecisione, la vaghezza?
LE MALELINGUE
67
IL NÜSHU,
LA LINGUA
DELLE
OPPRESSE
L’unica lingua al mondo creata solo da
donne affonda le sue radici nella Cina
meridionale in un’epoca che va
dal Trecento e il Seicento dello scorso
millennio. Questo «segreto pubblico»
si è tramandato per secoli
e oggi è stato riscoperto

S
iamo nella contea di Jiangyong, una zona
rurale della Cina Meridionale, in un’epoca
lontana: secondo alcuni all’inizio della di-
nastia Qing (1644-1911 d.C.); secondo altri
prima, sotto i Ming (1368-1644); secondo
Assia Petricelli altri ancora in un tempo molto più remoto.
Sergio Riccardi Qui delle donne, costrette a vivere recluse,
sottomesse agli uomini, secondo i rigidi
principi del confucianesimo, prive del dirit-
to di istruzione, inventano una lingua e i caratteri per scriverla: è il
PRIMAVERA 2022

nüshu, l’unica lingua al mondo creata e utilizzata soltanto da donne.


L’antica pratica della fasciatura dei piedi conferisce loro un’anda-
tura oscillante, molto apprezzata dagli uomini, procurando al con-
tempo dolori lancinanti in conseguenza della deformazione delle
ossa. Le donne, i cui arti inferiori sono costretti in «graziose» scarpi-
ne di 7-10 centimetri, sono estremamente limitate negli spostamen-
N. 14

ti: non possono allontanarsi da casa, neanche per recarsi in visita


presso i propri familiari una volta sposate, né possono lavorare nei
campi. Vivono segregate nelle proprie abitazioni, dedicandosi alle
attività domestiche e alla cura dei figli. Osservano le Quattro Virtù:
«sii casta e arrendevole, pacata e virtuosa nei tuoi atti; tranquilla e
piacevole nelle parole; fine e misurata nei movimenti; perfetta nei
68
lavori manuali e nel ricamo». Il nüshu, tramandato nei secoli di ma-
dre in figlia, è il loro unico conforto e un atto di resistenza contro il
patriarcato che le opprime e le vuole mute.
396 caratteri con valore esclusivamente fonetico per 1500 parole,
con cui le abitanti dei villaggi contadini decorano ventagli e cinture,
riempiono pagine di diari alle quali affidano il racconto delle proprie
sofferenze, compongono canti da intonare durante i pochi momenti
di socialità concessi, per lo più legati a festività religiose e cerimonie
familiari, o per alleviare l’angoscia nella solitudine della dimora co-
niugale. Il nüshu non è soltanto un sistema di scrittura, ma un feno-
meno culturale complesso, dai caratteri unici, in cui anche l’oralità
riveste un ruolo importante. Un fenomeno che, a dispetto di quanto
molti credono, non era tenuto nascosto agli uomini. Giulia Falcini,
autrice de Il nüshu. La scrittura che diede voce alle donne, uno dei
due saggi in lingua italiana sull’argomento (l’altro è la traduzione
dell’importante lavoro di Zhao Liming, Il leggendario nüshu), lo de-
finisce «un segreto pubblico»: semplicemente gli uomini non se ne
interessavano, così come non si curavano del ricamo o del cucito,
poiché non riconoscevano alcun valore alle attività femminili.
Tra i numerosi riti che scandivano la vita delle ragazze, collega-
bili al nüshu, un particolare rilievo spettava al laotang, un legame
indissolubile, sancito da un patto scritto nella lingua delle donne,
che univa due donne dall’infanzia per tutta la vita, sulla base di un’af-
finità spirituale. Se il laotong era stabilito dai genitori e aveva come
principale finalità quella di stringere o rinsaldare relazioni sociali,
più libero era il legame tra le «sorelle giurate», un gruppo di ragazze,
di solito sette, appartenenti alla stessa generazione, che abitavano
vicino e imparavano insieme a scrivere e a leggere il nüshu. Quando
una di esse si sposava, le altre confezionavano per lei il Libro del ter-
zo giorno, così chiamato perché veniva consegnato tre giorni dopo
la cerimonia nuziale: un quaderno ottenuto rilegando con un nastro
sottili fogli di carta, rivestito con una copertina in stoffa, sulle cui
prime pagine le giovani trascrivevano canti nella lingua delle donne,
lasciando bianche quelle successive affinché la sposa potesse usarle
per esprimere pensieri e emozioni. Assia Petricelli è
Il nüshu smise progressivamente di essere tramandato a segui- insegnante di lettere
to dell’estensione del diritto all’istruzione alle donne nel 1907. Il nei licei, sceneggiatrice
Partito comunista lo credette un codice cifrato per lo spionaggio e documentarista.
internazionale e lo mise al bando durante la Rivoluzione culturale Sergio Riccardi insegna
come «lingua delle streghe». È stato riscoperto negli anni Ottanta Tecniche di Animazione
del Novecento, da quando è diventato oggetto di studio in ambito Digitale presso lo Ied
accademico. Oggi vive una sorta di rinascita: si è tornati a scriverlo e Roma e ha illustrato
a insegnarlo e rappresenta un’importante risorsa economica per le Salvo e le mafie, scritto
popolazioni della provincia dello Hunan, grazie alla sua capacità di da Riccardo Guido,
attirare turisti. che ha vinto il Premio
Dello straordinario patrimonio popolare e femminile, rappresen- Siani 2014 nella sezione
tato dai testi scritti nei secoli passati, però, resta poco, poiché era fumetto. Insieme
usanza bruciarli alla morte della donna a cui erano appartenuti. sono autori di Cattive
LE MALELINGUE

Quelli che sono arrivati fino a noi testimoniano di vite soffocate da ragazze (Sinnos 2014)
sofferenze altrimenti indicibili, in cui il suicidio era un’idea ricorren- che ha vinto il Premio
te, ma anche di una sorellanza e di un’ammirevole ostinazione, non Andersen, e di Per
solo a sopravvivere, ma a esistere, nonostante tutto. sempre (Tunuè 2020).
69
70 N. 14 PRIMAVERA 2022
73 LE MALELINGUE
O SOTTILE
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FILO
A TIT OLO
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SENZA
S Z TITOLO
IA GG IO
DII V
D VIAGGIO
CANZONI ENERI
STORIE
STORIE E EI G
E CANZONI
DAL M
DAL ARGINE D
MARGINE DEI GENERI

I CONFINI DI GENERE, COME QUELLI TRA NAZIONI,


SONO PRESIDIATI. VARCARLI È UN’IMPRESA.
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16 euro, 384 pagine

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NON BINARIE E QUEER HANNO NECESSITÀ DI PASSARE
COMUNQUE. COME? DA CLANDESTINE. E A VOLTE NEI
RETICOLATI RESTANO IMPIGLIATI BRANDELLI DI NOMI.

IN LIBRERIA
Gli uomini

POTERE E PAROLE
mi spiegano
la violenza
Dal mansplaining alla violenza domestica, il potere
maschile del linguaggio costruisce un sistema di verità
che annienta l’interlocutrice e la sua capacità di parola

N
el suo celebre saggio Gli uomini mi spiegano le cose (Ponte alle
grazie, 2017), Rebecca Solnit ripercorre l’eclatante vicenda che
l’ha condotta a scrivere. Nel corso di una festa un uomo ben più
anziano di lei chiede a Solnit se è vero che la donna abbia scritto
un paio di libri. Quando l’autrice rimarca di averne scritti ben più
di due e annuncia il tema del più recente – un saggio biografico sul
Marie Moïse fotografo Eadweard Muybridge – l’interlocutore la interrompe e le
domanda con supponenza: «Ha sentito parlare dell’importantissi-
mo libro su Muybridge che è uscito quest’anno?».
Il primo impatto con l’interrogativo che le ha appena chiuso la bocca la spiazza, e un
senso di inadeguatezza la pervade: «Ero così compresa nel ruolo di ingenua assegnatomi
da prendere tranquillamente in considerazione la possibilità
che un altro libro sullo stesso argomento fosse uscito in con-
temporanea con il mio ma che, non so come, mi fosse sfuggito». Marie Moïse, attivista,
Così mentre l’autrice cerca di mettere a freno i dubbi su sé stes- phd in filosofia politica,
sa, l’uomo si cimenta in una solenne quanto imprecisa recen- scrive di razzismo,
sione di un testo che di lì a poco si scoprirà non aver mai nem- femminismo e relazioni
meno sfogliato. Il libro molto importante di cui Solnit avrebbe di cura. È co-autrice
dovuto sapere, infatti, era quello che lei stessa aveva scritto, e il di Future. Il domani
saccente interlocutore ne stava sciorinando un’imprecisa sin- narrato dalle voci di
tesi letta sul New York Times. È a partire da questo episodio che oggi (Effequ, 2019)
e co-traduttrice di
Donne, razza e
classe di Angela Davis
LE MALELINGUE

(Alegre, 2018) e del


Manifesto della cura
di The Care Collective
(Alegre, 2021).
75
Solnit ispira un concetto quanto mai fortunato per rendere conto di una delle più letterali
affermazioni – parole che sono un atto in sé stesse – di potere maschile: il mansplaining.
Dalla fusione delle parole man (uomo) e explaining (spiegare), l’atteggiamento si
esercita attraverso un’infantilizzazione dell’interlocutrice, un’autoritaria definizione
della stessa come un «contenitore vuoto da riempire» di nozioni senza alcuna esigenza
di accertare la necessità reale e l’interesse dell’interlocutrice in tal senso. E soprattutto,
come sottolinea Solnit, senza mai sentirsi a disagio, né chiedere scusa se posti di fronte
al carattere ridondante o inopportuno dello spiegone. Il mansplaining si intreccia a un
ventaglio di pratiche linguistiche che marcano un atteggiamento verbale di superiorità e
sopraffazione sull’oggetto del discorso che viene così a marcare il proprio carattere uni-
laterale: interrompere, negare l’ascolto e il turno di parola, alzare la voce, accelerare il
ritmo dell’elocuzione, imporre la propria fisicità riducendo le distanze o attivando il po-
tere penetrante dello sguardo, capace di ridurre il soggetto di parola
a oggetto erotizzato. Atteggiamenti che nell’interlocuzione pubblica
IL LINGUAGGIO possono arrivare a forme ancora più esplicitamente aggressive come
COME POTERE l’uso di un lessico sessista, all’occasione marcato di quel sarcasmo
DI SUBORDINAZIONE che presume la complicità dell’interlocutrice, il suo coinvolgimento
PORTA LA NOZIONE nel piacere universale che la battuta sembrerebbe suscitare, mentre
DI VIOLENZA si cuce sul suo corpo l’abito femminile del minus habens, incapace di
OLTRE I CONFINI una visione autonoma del mondo, figuriamoci di una presa di parola.
DELL’AGGRESSIONE FISICA «Se solo potessi entrare in quel tuo cervello e capire cosa ti fa fare
queste cose folli e contorte», dice Gregory alla fidanzata Paula in Ga-
slight, il film che ha dato il nome a uno dei meccanismi di manipo-
lazione più terribili delle relazioni di abuso psicologico. «Gregory, stai cercando di dirmi
che sono pazza?» domanda lei disorientata. «È quello che sto cercando di non dire a me
stesso», risponde lui con distante fermezza. Le lampade a gas che danno il titolo alla pel-
licola premio Oscar del 1945 fanno riferimento allo stratagemma di Gregory interpretato
da Charles Boyer per indurre Ingrid Bergman nei panni di Paula alla dispercezione. A più
riprese l’uomo affievolisce le lampade a gas nell’abitazione della coppia e ogni volta che
la fidanzata lo nota, lui nega di averlo fatto, riconducendo lo sfalsamento percettivo di
Paula a una sua progressiva perdita di lucidità mentale. Il gaslighting è oggi annoverato
nella letteratura scientifica come una forma di abuso bianco, ovvero una di quelle forme
di condizionamento psicologico attraverso un uso sistematico della menzogna e della
distorsione dei fatti accaduti, fino a creare dispercezione e disappartenenza. Insieme alle
pratiche di umiliazione, minaccia, svalutazione, ricatto, colpevolizzazione, isolamento e
limitazione dell’espressione personale, sospetto e controllo, il gaslighting si annovera tra
quelle tattiche di manipolazione affettivo-relazionale che non lasciano segni visibili, né
una firma leggibile dell’artefice della violenza, ma il dolore di un alienante contrabbando
PRIMAVERA 2022

affettivo misto a espropriazione mentale ed esistenziale. Con le parole del lavoro clinico
di Pamela Pace: Un livido nell’anima (Mimesis, 2018).
La violenza psicologica si garantisce l’invisibilità grazie all’impiego del mezzo lingui-
stico, e sfugge in questo modo alla definizione comunemente accettata di violenza di ge-
N. 14
76
nere, che riconduce il suo artefice a colui che alza le mani, stupra e uccide – limitando
peraltro l’aggressione fisica al gesto che provoca lesione, lo stupro alla penetrazione che
forza la resistenza attiva e riconfigurando i femminicidi come «raptus di gelosia» ovvero
l’esito di un legittimo sentimento di possesso. Su questa definizione altamente circoscrit-
ta si costruisce – da sinistra a destra – il profilo dell’uomo violento secondo la retorica
della «mela marcia».
Come osserva la sociologa Sara Farris la lotta alla violenza sulle donne è stata a tutti
gli effetti integrata nel repertorio populista e nazionalista di estrema destra, rafforzando
il perimetro di eccezionalità della figura dell’uomo violento: la condanna pubblica della
violenza efferata è un efficace espediente di legittimazione a ogni posizione dello spet-
tro politico. Se dunque schierarsi contro stupri e femminicidi di per sé non distingue un
salviniano da un’attivista femminista, altra cosa invece è leggere la violenza al di fuori di
quel paradigma riduzionista – leggi: maschile – che confina la violenza a quella di un pre-
sunto caso d’eccezione, affermando implicitamente tutte le altre espressioni di violenza
maschile come la norma. Dalla Convenzione di Istanbul al Piano femminista contro la
violenza di Non una di meno, definire la violenza di genere come strutturale intende in-
vece riconoscerne la pervasività in ogni struttura sociale e politica, dalle più conservatrici
come la famiglia eterosessuale alle più progressiste come i movimenti sociali.

GRAMMATICA DELLA VIOLENZA MASCHILE

Nel suo recente saggio Lo stile dell’abuso. Violenza domestica e linguaggio (Treccani,
2021), la linguista Raffaella Scarpa propone una lettura della violenza maschile in una
relazione di continuità con la nozione di potere, attraverso le lenti del linguaggio. Nell’in-
terpretazione della studiosa, il linguaggio non è da intendersi solo come mezzo o come
codice del potere maschile, né da limitarsi alle sole espressioni apertamente lesive come
insulti, espressioni d’odio o minacce: al contrario, assumendo il linguaggio come dimen-
sione stessa del potere capace di generare di per sé la subordinazione, Scarpa fa eccedere
la nozione di violenza rispetto alle dimensioni istituzionalizzate e identificabili come tali,
per coglierne le movenze nell’ambito che per eccellenza si è sottratto alla lettura del pote-
re: il privato domestico. Scarpa definisce il linguaggio come potere domestico, ovvero un
insieme di atti linguistici di subordinazione, la cui analisi permette di portare alla luce le
istanze più profonde del soggetto di potere. Il linguaggio rivela infatti che il soggetto del
potere maschile si caratterizza per un preciso stile linguistico, la cui efficacia è il risultato
di una combinazione di tratti linguistici adoperati in sinergia. Dalla manipolazione al pla-
gio, dalla menzogna alla coercizione, la stilistica dell’abuso definisce una vera e propria
grammatica dell’assoggettamento capace di produrre uno stato mentale di assedio, equi-
parabile agli esiti delle torture. Gli obiettivi dell’abuso linguistico vanno progressivamen-
te dalla destabilizzazione e annullamento della personalità al sabotaggio della capacità di
percepire e discernere, fino a impedire l’azione e ridurre al silenzio.
Attraverso il linguaggio l’abusante costruisce infatti un vero e proprio sistema di verità
(e la relativa linea di demarcazione rispetto a ciò che è falso), entro il quale opera uno
LE MALELINGUE
77
svuotamento e nuova riconfigurazione dell’identità della persona abusata. Altrimenti
detto, il potere dell’abusante risiede nella capacità di condizionare il rapporto dell’assog-
gettata al proprio sé, attraverso un ventaglio di determinazioni linguistiche che vanno
dal tu sei al tu non sei. «Sei bellissima», «più di tutte» e «tutta mia»: superlativi assoluti,
iperboli e intensificatori di significato, soprattutto nella fase iniziale della relazione, in-
ducono nella donna un’adesione a una rappresentazione di sé come un emblema, una
versione esemplare di sé, riconoscendo all’abusante il potere di connotare l’altra, ovvero
consentirle di essere qualcosa, e nient’altro al di là di ciò che asserisce «la persona che più
ti desidera al mondo».
La normalizzazione di questi tratti dello stile abusivo nel lessico dell’amore romantico
contribuisce alla sua efficacia e al mascheramento di quella fase iniziale di fidelizzazione e
ottenimento manipolatorio del consenso che viene definita love bombing: il linguaggio en-
fatico accerchia l’identità dell’abusata e apre la strada al futuro vocabolario della sua nega-
zione sistematica: dall’ideale di femminilità alla demonizzazione assoluta il passo è breve.
La contrapposizione tra il tu sei e il tu non sei, aggiunge Scarpa, agisce attraverso un’omis-
sione strategica del non, che permette di giustapporre definizioni contraddittorie in forme
implicite, ancora una volta funzionali al disorientamento: da «sei eccezionale» a «sei come
tutte le altre», senza dover ammettere alcun errore di valutazione. Come si osserva nei lavori
di ricerca, una marcata verbosità e reiterazione smodata delle argomentazioni inducono in
chi ascolta uno stato di soggezione e sfinimento. Fino a esperire incapacità di decodifica
autonoma dei messaggi e di codifica delle proprie percezioni. Nelle parole di una delle testi-
monianze riportate: «era capace di convincermi che una parete bianca fosse nera».
L’attribuzione unilaterale dall’esterno di qualità e proprietà (come la successiva nega-
zione) agisce su un oggetto che sulla base dell’atto linguistico stesso si presume neutro e
bisognoso di definizione. Si tratta secondo Scarpa di un meccanismo che rinchiude l’a-
busata in una «gabbia linguistica» inducendola al silenzio nei termini di un’«impotenza
appresa». Il silenzio allora non equivale a tenere chiusa la bocca contro la propria volontà,
ma a una nuova identità dell’abusata come disabilitata al discorso, incapace di parlare.
«Tu sbagli», «non hai capito» e «non capisci niente»: in stato di shock, l’angoscia e la con-
fusione mentale sono assunti come evidenze della propria inabilità, di fronte a cui non
resta che assumere il sistema di verità dell’abusante.
La grammatica dell’abuso corrisponde anche al potere di generare per via linguistica
dei falsi elementi di realtà. Menzogna e manipolazione sono in grado di muoversi in siner-
gia per alterare gli eventi in tutte le dimensioni temporali, distorcendo i fatti del passato,
i nessi logici di causa effetto ed elevando a verità incontrovertibile delle argomentazioni
autoevidenti («è oggettivamente giusto, sano e naturale così»), o ancora, generando fu-
turi dettagliati di elementi favolistici privi di alcuna base materiale di realizzazione. Ogni
livello temporale dell’alterazione costituisce una dimensione, altra, parallela, entro cui
PRIMAVERA 2022

circoscrivere la capacità di azione della persona assoggettata e tenerla sotto controllo. «Tu
mi fai uscire di testa», «con le tue pretese hai rovinato tutto» e «per aver detto, compiuto,
o anche solo pensato di farlo: è colpa tua». A corroborare il travisamento è la «pratica
dell’accusa perpetua», con argomentazioni di colpevolezza, spesso arricchite di citazioni
N. 14
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funzionali all’autorevolizza del discorso: «lo dicono tutti», «lo dici tu stessa». Un articolato
apparato fraseologico paralizza l’assoggettata fino a disinnerscarne la capacità di agire.
Il potere maschile del linguaggio scorre lungo il filo del discorso che connette il man-
splaining alla grammatica della violenza domestica, come poli di un continuum che pro-
cede dal pubblico al privato, come dall’uso all’abuso di un medesimo stile. Sulla base
dello stesso paradosso il linguaggio diviene il mezzo di annientamento dell’interlocutrice,
inducendo un senso di inadeguatezza e illegittimità a rivestirne il ruolo, fino a disattivare
la stessa capacità di parola autonoma. Una spirale a intensità progressiva procede ad anse
sempre più strette, a frasi sempre più intrusive e debilitanti, nel disconoscere l’altra come
soggetto di discorso su sé stessa e sul mondo, tantomeno sulla realtà del potere a cui si ri-
trova subalterna. Dall’uso all’abuso un medesimo stile marca il potere del linguaggio ma-
schile di trasformare le donne in «testimoni inattendibili» della loro propria esperienza
di violenza. In un rapporto di tacita complicità il discorso pubblico
sulla violenza condanna la pratica abusiva mentre ne normalizza i
suoi impieghi quotidiani a bassa intensità, insieme agli esiti desta- IL POTERE MASCHILE
bilizzanti che raggiungono lo spazio privato passando per la porta DEL LINGUAGGIO SCORRE
di ingresso. LUNGO IL CONTINUUM
Non è certa di aver capito, non è sicura che abbia senso ciò che ha CHE PROCEDE DAL
in testa, anzi forse è timida di suo: non restano che tali rappresenta- PUBBLICO AL PRIVATO
zioni di sé per colei che non ha legittimità di nominare il potere che DISABILITANDO LA
la priva di parola. Vuole solo rovinargli la vita, attirare l’attenzione e SUBALTERNA AL DISCORSO
un po’ di fama: è una pazza allucinata colei che evade dalla gabbia
linguistica con il proprio vissuto di violenza, e forse ancora latita nel
dargli un nome, oppure ha osato dichiararsi libera, di definirlo tale. «Non è sessismo»,
«sono un padre di famiglia», «non l’ho mai toccata con un dito», «ma si rende conto di
come ci si possa sentire a essere accusati così?». Il repertorio dell’autoassoluzione varia
dal minimizzare al negare l’evidenza fino al rappresentarsi come vittima della situazione,
di una congiura o persino della propria violenza – l’innominabile forza che se proprio non
si può smentire ha comunque agito sul soggetto dall’esterno avendo la meglio, innanzi-
tutto, su di lui. È oggettivo: la subalterna non può parlare. E dovresti saperlo.

NOTE PER UNA STILISTICA DELLA SORELLANZA.

Questa è la lingua dell’oppressore, ma ne ho bisogno per parlarti. Non ho altro modo


per dirtelo, correrò il rischio. Non è colpa tua e non è vero che non sei abbastanza forte da
sopportare. È che certe cose non si sopportano! C’è un’attesa senza fine in fondo al respiro
che ti manca. È l’attesa di vederti restituire a te stessa. Ed è proprio questa la tua magnifica
forza. È la vitalità che a ogni colpo, sfinita, trovi il modo di rigenerare. Nutre il tuo sogno
di riscatto ma anche il suo statuto di vittima del mondo (che governa), che non ha alcu-
na intenzione di sanare. Con il suo rituale di morte ti blocca il respiro per poi mollare la
presa e rivitalizzarsi della tua forza di desiderare la vita. Ho trovato la chiave che mi avevi
lasciato sotto lo zerbino, c’era scritto proteggiti. Ti aspetto qui.
LE MALELINGUE
79
L’EPO
POTERE E PAROLE

CA
In un mondo governato da algoritmi informatici,
sbagliare a nominare qualcosa o qualcuno
cancella la sua presenza dal database

DEL LIN
della realtà. Per questo motivo le battaglie
sul linguaggio sono oggi tra le più radicali

GUAG
GIO AS
SOLUTO
80PRIMAVERA 2022
N. 14
S
iamo circondati da stimoli. Si tratta per lo più di segni convenzionali,
parole appartenenti a una o due lingue al massimo, immagini facil-
mente interpretabili o semplici simboli, spesso combinati fra loro a
comporre impulsi audiovisivi di vario genere. Ci siamo abituati alla
loro presenza nelle nostre strade sotto forma di luci intermittenti
e scritte lampeggianti, accompagnate da musiche e jingle, annunci
Gaia Benzi registrati, voci meccaniche, e in anni recenti abbiamo imparato a
non fare caso al loro equivalente online, allenando lo sguardo a farsi
strada in una selva di video automatici e molesti pop-up.
Senza che ce ne accorgessimo, gli stimoli sono diventati i padroni incontrastati della no-
stra attenzione, investita da un flusso ininterrotto di informazioni che buca l’occhio e la
mente a ogni ora di veglia.
Se è vero che il linguaggio, insieme al fuoco, è lo strumento tecnologico originario, ciò
che ci ha permesso di non soccombere alle asperità del mondo malgrado la nostra totale
assenza di dotazioni atte allo scopo (zanne, artigli, squame mimetiche e così via), non do-
vrebbe sorprenderci che, esattamente come il fuoco, si sia sviluppato e diversificato tanto.
Ciononostante, la moltiplicazione incontrollata che ha investito la comunicazione negli ul-
timi decenni ha qualcosa di peculiare rispetto alle epoche precedenti, difficile da ignorare
ed estremamente disturbante.
Durante la pandemia si è diffuso l’utilizzo del termine infodemia per definire la sovrap-
produzione di informazioni su un determinato argomento, talmente soverchiante da ren-
dere difficile se non impossibile distillarne gli aspetti essenziali e interpretarli correttamen-
te. Tuttavia, il fenomeno è noto da tempo. Era il lontano 1989 quando Richard Saul Wurman
pubblicava il saggio Information Anxiety, in cui faceva la sua apparizione per la prima volta
l’espressione information overload, «il prodotto del sempre più ampio divario tra ciò che
si è capito e ciò che, invece, si pensa di aver capito […] il buco nero che divide i dati dalla
conoscenza».
Sovraccarico cognitivo ne è la traduzione italiana, condizione mentale annoverata tra gli
effetti collaterali della dipendenza online: il cervello va in tilt, incapace di processare ciò che
incamera, e allo stesso tempo ne vuole ancora, in un circolo vizioso in cui il male e la sua
cura sembrano avere la stessa forma.

L’INFLAZIONE DEL SEGNO

Sono tutte definizioni, nuove e provvisorie, che provano a inquadrare se e in che direzio-
ne le nostre menti stiano evolvendo in relazione alle tecnologie informatiche e al bombar-
damento costante di dati che hanno prodotto. Franco Bifo Berardi la chiama «inflazione del
segno»: una polisemia incontrollata, che amplia talmente tanto i
margini della semiotica da far smarrire ogni punto di riferimento
Gaia Benzi è redattrice e riesce nel paradossale compito di distruggere quella stessa co-
di Jacobin Italia municazione che dovrebbe in teoria garantire.
e ricercatrice di storia La crescita esponenziale, degenerata e perversa della comu-
e letteratura.
Ha scritto Tra prìncipi
e saltimbanchi.
LE MALELINGUE

Medicina e
letteratura nel Tardo
rinascimento
(Sue, 2020).
81
nicazione contemporanea sembra condividere più di un’eco con la natura fagocitante del
capitalismo, e in particolare con la smania iperproduttiva della sua variante neoliberista.
Nella sua inesorabile avanzata l’ansia predatoria del capitale divora, distrugge e consuma
ogni cosa: risorse, persone e persino parole. Da quando i meccanismi di produzione si sono
allargati al lavoro immateriale, «il centro motore dell’intera produzione sociale coincide
sempre più con la produzione di segni – portatori di significato, di status, di stimolazione.
Non le cose, ma i segni sono l’oggetto della produzione, dello scambio, della contrattazio-
ne, dell’accumulazione, e soprattutto del consumo. Economia e semiotica sono sempre più
strettamente intrecciate», spiega sempre Bifo in Come si cura il nazi (Tlon, 2021).
Il nesso tra produzione e linguaggio è dunque strutturale, e rende l’uno il riflesso dell’al-
tra. Ne dà una buona descrizione il filosofo Federico Campagna, il quale sostiene che l’u-
manità si trovi oggi nell’epoca del linguaggio assoluto, leggendo il mondo in cui viviamo
come prodotto della tecnica intesa in senso heideggeriano: un modello di conoscenza che
riduce ogni cosa al suo valore strumentale, a mezzo per raggiungere un fine, a fondo di
riserva da cui estrarre profitto all’interno di un apparato produttivo. Per colonizzare ogni
anfratto del mondo, la tecnica ha bisogno di inserire gli elementi che lo compongono nella
grande catena di montaggio della realtà, dove tutto l’esistente, animato e inanimato, è eti-
chettato e messo sul nastro trasportatore del profitto senza fine, e cose e persone esistono
solo in quanto disponibili a essere sfruttate.

UN PROBLEMA ONTOLOGICO
NEI SOCIAL NETWORK
GLI UTENTI LAVORANO In questo quadro, il linguaggio è la tecnologia par excellence, brac-
AL PERFEZIONAMENTO cio armato della tecnica che permette al mondo di essere spacchet-
DELLA PROPRIA IDENTITÀ tato e suddiviso in categorie precise, immediatamente utilizzabili.
PER ADATTARLA ALLE Tra le varie forme di linguaggio, quello che senza dubbio esprime al
CATEGORIE PREDISPOSTE meglio l’attitudine iper-estrattivista del tardo capitalismo e vi si adatta
DAI MOTORI DI RICERCA con maggiore aderenza è il linguaggio informatico, la cui impalcatura,
fondata sul codice binario, simboleggia l’unica condizione di abitabi-
lità del mondo concessa agli enti nel regno della tecnica: essere o non
essere utile al capitale. 1 o 0.
Anche Stefania Consigliere, in Favole del reincanto (DeriveApprodi, 2020), segnala con
forza la «propensione alla totalizzazione dell’esistente» tipica del sistema di dominio pro-
dotto dalla modernità, e la collega a un pensiero binario che è maschera di un monismo
omologante per cui il reale è sempre completamente appropriabile. Ma la corrispondenza
tra codice binario e pensiero binario non è soltanto una felice coincidenza verbale, buo-
na per ricamarci sopra qualche metafora. La connessione tra linguaggio informatico e lin-
guaggio verbale – ovverosia le lingue propriamente dette, quelle che parliamo abitualmente
PRIMAVERA 2022

– è oggetto di studi approfonditi e fulcro di una disciplina, la linguistica computazionale,


nata esattamente per soddisfare questa esigenza. Affinché il linguaggio informatico possa
rispecchiare la realtà è necessario che quest’ultima sia descritta in maniera puntuale, un
compito assolto dalle cosiddette ontologie informatiche o formali: rappresentazioni condi-
N. 14
82
vise tra uomo e macchina degli enti che compongono il mondo, definiti secondo i concetti
di categoria e relazione e basate su una serie di vocabolari controllati. A scrivere le ontologie
sono ovviamente esseri umani, con tutto il loro carico di parzialità, pregiudizi e bias; alla
macchina spetta invece il compito di farle dialogare tra loro e utilizzarle per compiere le
singole operazioni informatiche attraverso set di istruzioni denominati algoritmi. Per fare
un esempio molto concreto delle interazioni tra ontologie e algoritmi, basti pensare a come,
sui social network, siano gli utenti stessi a collaborare al perfezionamento delle ontologie
spacchettando la propria identità tra bio e tag in modo da adattarla alle categorie predi-
sposte dai motori di ricerca e agli strumenti di profilazione della raccolta dati pubblicitaria.
Il cancro del linguaggio denunciato da Bifo, l’intreccio mortale fra economia e semiotica,
diventa in questo modo la logica conseguenza di una realtà completamente sovrapponibile
alla struttura reticolare del database, dove il singolo dato, se isolato, perde di senso, e lo ac-
quista solo se inserito in una serie ben definita – la catena di montaggio – in relazione con
altri dati: più sono i dati connessi tra loro, più l’algoritmo funziona meglio; più un’ontologia
è in relazione con le sue omologhe, più la parola stessa con cui si esprime acquista signifi-
cato e consistenza.
Nel mondo del linguaggio assoluto e totalizzante descritto da Consigliere e Campa-
gna, se un ente non può essere nominato, semplicemente, non esiste: le parole non ser-
vono più a descrivere l’essenza di una cosa, ma la sua presenza – il suo status – all’interno
di una serie produttiva. Secondo questa
logica, non solo le cose, ma anche le
persone vengono schiacciate sull’eti- capisce nemmeno perché alcune battaglie per cambiare
chetta a cui sono associate dall’algorit- determinati elementi del linguaggio giuridico-ammini-
mo chiamato a categorizzare la natura strativo – l’accesso alla cittadinanza – o del linguaggio
del loro transito su questo pianeta. Così verbale – dai femminili professionali all’introduzione di
ad esempio alcune saranno, per privile- desinenze e pronomi neutri per le persone non-binary,
gio di nascita, «cittadini» e «cittadine», così come molte altre battaglie sul lessico derubricate a
altre «immigrati» regolari, altre ancora questioni di «politicamente corretto» – siano oggi così di-
«clandestini» e «clandestine», tutti tag rimenti, e capaci di suscitare uno scontro tanto violento
differenti a cui corrispondono diversi all’interno della società. In un mondo governato dagli al-
diritti e diverse opportunità. Il risultato goritmi informatici, l’inesistenza ontologica di qualcosa
è che, a quelle che in origine sarebbe- o qualcuno o la sua misclassificazione a livello verbale è
ro dovute essere categorie ontologiche infatti capace di negargli totalmente agency e legittimità,
nate per soddisfare le esigenze della di cancellare la sua presenza dal database della realtà.
burocrazia anagrafica degli stati na- A questo male ontologico, metafisico in senso proprio,
zione, sarà indissolubilmente legata la che attanaglia il linguaggio sono state proposte varie so-
percezione dell’umanità stessa – dello luzioni: c’è chi vede nella rassegnazione consapevole,
status di essere umano pieno e com- cioè nella sottrazione totale alla logica produttiva, l’unica
pleto – degli individui da parte della possibilità di cura, chi cerca nuove energie nella potenza
società. immaginifica del reincanto, chi addirittura pensa che ogni
Se non si comprende questo ele- soluzione politica non possa prescindere da un’alternativa
mento strutturale e costrittivo, non si cosmogonica radicale che sottragga al linguaggio potere
sulla realtà, ricominciando a esplorare i territori dell’in-
distinzione. Ma a prescindere da quali sentieri ci con-
durranno al di fuori del frastuono semantico in cui siamo
LE MALELINGUE

immersi, il primo passo non potrà che essere una riappro-


priazione e decostruzione radicale del linguaggio come
strumento fondamentale dell’azione umana.
83
Linguaggio,
LINGUE SUBALTERNE

(neuro)diversità,
inclusione
Il linguaggio deve riuscire a comprendere tutte
le espressioni della natura umana, altrimenti sarà sempre
un mezzo di espressione del potere, uno strumento
di conservazione del privilegio di una parte della società

I
l linguaggio umano è un sistema di comunicazione estremamente
Illustrazione di Carla Indipendente

complesso. Attraverso il linguaggio l’essere umano è in grado tra-


smette emozioni e concetti astratti, condivide significati simbolici at-
tribuendo arbitrariamente un senso a suoni, gesti e segni che, di per
sé, potrebbero non aver alcun significato. Il linguaggio non è soltanto
un mezzo attraverso il quale trasmettiamo informazioni, ma possie-
Fabrizio Acanfora de un potere trasformativo in grado di modificare la realtà interiore
ed esteriore di individui e gruppi sociali. Ci permette di costruire con-
cetti, di elaborare pensieri complessi, contribuisce alla formazione delle nostre identità per-
sonali e di quelle di gruppo. Con le parole definiamo oggetti e creiamo categorie nelle quali
infiliamo anche le persone, semplificazione necessaria di realtà complesse.

DIRITTO ALL’AUTORAPPRESENTANZA

Attraverso la creazione di categorie la nostra mente dà un senso a una realtà che altri-
menti percepirebbe come caotica e indefinibile. Ma non sempre generalizzare è semplice,
soprattutto quando questo meccanismo viene applicato alle persone e alla loro complessi-
tà, alle aspirazioni, ai desideri e alle necessità di ciascuna. Le
etichette che utilizziamo per definire gli esseri umani hanno
conseguenze dirette sulla loro vita. Se definisco come inca- Fabrizio Acanfora è
PRIMAVERA 2022

pace una persona disabile fin da bambina, se la descrivo at- stato costruttore di
traverso una visione deficitaria di alcune sue caratteristiche e clavicembali. Collabora
rappresento la sua esistenza come una serie infinita di limiti con l’Istituto catalano
e ostacoli insormontabili, sto creando una descrizione che di musicoterapia ed
avrà un impatto su di lei. La persona disabile potrebbe finire è coordinatore del
N. 14

per identificarsi in quella particolare narrazione creata per lei Master in Musicoterapia
dall’esterno; potrebbe responsabilizzare sé stessa, il proprio all’Università di
corpo, i propri sensi o la propria mente per quelle barriere di Barcellona. Il suo ultimo
cui, invece, è responsabile una società normocentrica e neuro- libro è In altre parole.
tipica che non ritiene urgente trasformare i privilegi di alcuni Dizionario minimo di
in diritti di tutte e tutti. diversità (Effequ, 2021).
84
85 LE MALELINGUE
Oppure, la persona potrebbe non identificarsi con la rap-
presentazione che la società fa di lei e ribellarsi, potrebbe vo-
ler gridare che il modo in cui altri individui (da una posizio-
ne privilegiata e senza preoccuparsi di interpellarla) hanno
deciso come debba essere descritta, non le sta bene. Quella
persona vorrebbe poter esprimere un diritto che la maggio-
ranza «normale» esercita abitualmente senza doverci nem-
meno pensare: il diritto di autorappresentanza, la facoltà di sociologa autraliana Judy Singer alla fine
decidere come essa debba essere rappresentata nel mondo. degli anni Novanta) esprime la naturale
Quante volte siete state descritte con parole che vi hanno differenziazione tra un cervello e l’altro, tra
causato dolore o rabbia, descrizioni di voi che avete vissuto i sistemi nervosi di tutte le persone. Siamo
come ingiuste, sbagliate? Adesso immaginate di dover vivere tutte e tutti neurodiversi perché non esiste
in un mondo che vi vede costantemente così, come voi non un cervello esattamente uguale all’altro,
sentite di essere, e provate a sentire per un momento come pur condividendo caratteristiche comuni.
potrebbe essere la vostra vita. Come vivreste se ogni giorno La maniera in cui il nostro sistema ner-
leggeste che siete un cumulo di deficit, che non possedete voso si organizza durante il suo sviluppo
empatia, che dovete modificare la vostra natura se volete es- fa sì che percepiamo ed elaboriamo la re-
sere membri a tutti gli effetti della società? A me capita quoti- altà in modi differenti, e che reagiamo a
dianamente quando mi leggo nelle descrizioni sempre defici- ciò che percepiamo ed elaboriamo espri-
tarie dell’autismo, per esempio. Descrizioni che attribuiscono mendo comportamenti diversi. Le per-
un valore negativo alle differenze neurologiche in quanto non sone che seguono uno sviluppo neurolo-
conformi allo standard neurotipico, o che fanno uso di un lin- gico comune alla maggioranza vengono
guaggio del dolore secondo cui la mia vita (e quella delle altre definite neurotipiche, mentre quelle il cui
persone autistiche e delle nostre famiglie) sarebbe solo un’e- sviluppo neurologico diverge dalla media
terna valle di lacrime e ostacoli insormontabili. (che è un puro concetto statistico e non
esprime un giudizio di valore) vengono
VARIETÀ NON DIVERSITÀ definite neuroatipiche o neurodivergenti.
Il concetto di neurodiversità ci permet-
La questione gira intorno al concetto di diversità, che trop- te di spostare lo sguardo dai deficit (reali
po spesso viene osservato da un’ottica comparativa; si pensa o presunti) alle differenze, dai limiti alle
alla diversità come a una categoria opposta a quella di nor- possibilità, provando a ridurre lo stigma
malità, ma non è così. È sufficiente considerare la definizione sociale e l’aura di negatività che da sem-
di biodiversità per comprendere quanto in realtà diversità pre accompagna le persone autistiche.
non significhi «diverso da», ma indichi varietà di caratteristi- L’importanza delle definizioni non va
che. E questa molteplicità di caratteristiche riguarda anche sottovalutata. Continuare a definire la
l’organizzazione neurologica delle persone, per cui se la bio- disabilità e le neurodivergenze in base ai
diversità definisce la naturale varietà di organismi in un eco- deficit, presunti o reali che siano, allonta-
sistema, la neurodiversità (concetto reso noto dall’attivista e na la società dalla presa di responsabilità
PRIMAVERA 2022

necessaria a permettere la reale conviven-


za di tutte le differenze. Una persona che
utilizza una carrozzina per muoversi, non è responsabile di trovarsi davanti a una scalinata
che le impedisce l’accesso a un edificio. Quella scalinata, costruita da persone che non hanno
considerato che esistono esseri umani che non si muovono utilizzando le proprie gambe, di
N. 14

fatto disabilita la persona con determinate caratteristiche. La società la rende disabile.


Dire che le persone autistiche hanno deficit nell’area sociale, ad esempio, equivale a dire
che l’unica modalità possibile di socializzazione è quella che segue le regole della maggioranza.
Stabilire un valore di superiorità per un funzionamento neurologico rispetto a un altro significa
di fatto escludere quello percepito come inferiore. Un esempio banale ma esplicativo è quello
dello sguardo. Caratteristica nota e comune a molte persone nello spettro autistico è quella di
86
avere un contatto oculare peculiare o spesso del tutto assente. Questo sembrerebbe dovuto a
una di quelle famose differenze di organizzazione del sistema nervoso di cui parlavo prima, che
fa percepire lo sguardo diretto come minaccioso, creando ansia e distraendo. Per le persone
neurotipiche – la maggioranza – guardarsi negli occhi è invece fondamentale per stabilire un
contatto diretto durante la conversazione. Se una persona autistica (o chiunque abbia difficoltà
a sostenere lo sguardo dell’interlocutore) si reca a sostenere un colloquio di lavoro e non ricor-
da di dover fingere guardando l’interlocutore negli occhi, se non ricorda di attivare artificial-
mente questo meccanismo di sottomissione per cui deve adottare la modalità comunicativa
della maggioranza, verrà con buona probabilità scartata. Questa è disparità di opportunità.
La mancanza di reciprocità nella società normocentrica in cui viviamo esclude chiunque
non si conformi a un concetto di normalità che, lungi dall’essere un semplice strumento de-
scrittivo della realtà, è mezzo prescrittivo e stabilisce i requisiti di ammissione alla categoria
della maggioranza.

LINGUA NORMOCENTRICA E LINGUA UNIVERSALE

La lingua di questa società è per forza di cose anch’essa normocentrica, non tiene conto
delle differenti caratteristiche delle persone, non considera le categorie minoritarie per-
ché è stata sviluppata da una comunità che ha escluso le minoranze anche non nominan-
dole, oppure creandone una rappresentazione negativa, difettosa, paurosa.
Descrivere la diversità fisica, neurologica o sensoriale
come qualcosa di mostruoso, come una tragedia, qualcosa
da tenere lontana, la esclude. Non descrivere affatto alcune COME VIVRESTE SE OGNI
categorie di persone che reclamano attenzione, respingere GIORNO LEGGESTE CHE
le richieste di una revisione del linguaggio che possa final- SIETE UN CUMULO DI
mente comprendere anche le loro istanze e dar loro una DEFICIT, CHE PER ESSERE
visibilità nella narrazione collettiva, come ad esempio per PARTE DELLA SOCIETÀ
le persone non binarie, dimostra semplicemente quanto DOVETE MODIFICARE
l’autorappresentanza sia ancora oggi un privilegio, ossia un LA VOSTRA NATURA?
diritto garantito solo ad alcune persone a discapito di altre.
La lingua dev’essere universale, nel senso che deve esse-
re strumento di tutte le persone, per questo non non mi piace particolarmente la definizione
di linguaggio inclusivo. Il linguaggio dovrebbe essere inclusivo sempre, perché se la realtà che
esso descrive non è quella che le persone vivono si genera un cortocircuito. Parlare di linguag-
gio inclusivo lascia supporre che possa continuare a esistere una lingua che esclude, specchio
di una società benaltrista e normocentrica, e accanto a esso ci sia un linguaggio di nicchia
rispettoso e utilizzato da persone che invece prestano attenzione le une alle altre.
Il linguaggio deve riuscire a comprendere tutte le espressioni della natura umana, altri-
menti sarà sempre un mezzo di espressione del potere, di conservazione del privilegio di una
parte della società a discapito di tutte quelle persone etichettate come inferiori, non degne,
non abbastanza «normali» da far parte della comunità. L’attenzione alla fluidità con cui la
società muta nel tempo e alle esigenze di rappresentatività di tutte le minoranze, la garanzia
di accessibilità per le persone che hanno modalità percettive o che si esprimono con mo-
dalità differenti rispetto alla maggioranza, è il primo passo verso una società plurale in cui
l’uguaglianza di opportunità corrisponda al rispetto per la diversità e per le caratteristiche
LE MALELINGUE

individuali. Una società in cui non sia più necessario praticare un’inclusione spesso paterna-
listica e caritatevole perché, anche attraverso l’uso di una lingua che rappresenti tutte, tutti
e tuttǝ, quell’inclusione forzata verrà sostituita da una reale, reciproca convivenza di tutte le
differenze che ci caratterizzano.
87
88 N. 14 PRIMAVERA 2022 Illustrazione di Emanuele Cantoro LINGUE SUBALTERNE

MANI
OCCHI,
CON LE
CON GLI
PARLARE
ASCOLTARE
La lingua dei segni che utilizzano le persone sorde
offre l’opportunità di una comunicazione prima neutra
e dopo dettagliata, attenta alle diversità. Esattamente
ciò che non avviene nella lingua degli udenti

Q
uando si parla di linguaggi inclusivi, non si può ovviamente non
menzionare la lingua dei segni. Per poterne parlare in termini com-
prensibili e il più possibile veritieri però dobbiamo velocemente
mettere a punto una sorta di vocabolario comune, o meglio di le-
genda.

Costanza Giuliani UNA LINGUA NATURALE

Forse non è ancora di pubblico dominio, infatti, che le lingue dei segni sono lingue natu-
rali, e dunque nascono, si sviluppano e cambiano come tutte le altre lingue in relazione al
contesto ambientale e culturale. Esistono lingue dei segni diverse in stati diversi, più o meno
ogni nazione ha la sua. In Italia abbiamo la Lis lingua dei segni italiana (Lis non è un acroni-
mo, è proprio il nome di questa lingua, così, tutto di seguito).
Va da sé dunque che quando parliamo di lingua dei segni non ci riferiamo a un linguaggio
prodotto in laboratorio con finalità comunicativo/inclusive per persone disabili. In quanto
lingue a tutti gli effetti, esattamente come le lingue vocali, vivono di vita propria, attraversa-
no e partecipano dei cambiamenti della società, disegnano lo sguardo sul mondo che ogni
lingua porta in sé, crescono, cambiano e si trasformano, si arricchiscono di lessico e abban-
donano ciò che non serve perché desueto. Esistono dialetti così come diversi registri liguisti-
ci, slang, parlato colloquiale, fino al più formale.
Per alcune persone resta ancora un mistero come questo possa accadere e non riescono
a lasciar andare quest’idea romantica di un linguaggio universale fatto di gesti che tutte le
persone al mondo possano capire.
In genere, quando mi capita di svelare questo segreto la reazione più comune è «Che pec-
cato! Non sarebbe stato meglio se fosse stata pensata come universale?».
Poiché negli anni ho vissuto questi momenti di epifania una quantità innumerevole di
volte ho imparato a gestire le diverse emozioni che risposte del genere mi suscitano: frustra-
zione, per lo più, per la mancanza di visibilità e di riconoscimento di questa lingua e soprat-
tutto della comunità che la parla, la comunità sorda (di cui fanno parte anche persone udenti
come me che conoscono e usano la Lis); empatia, perché di fronte a chi mi dice con estre-
mo rammarico che è davvero un gran peccato che non ci sia una
possibilità di comunicazione universalmente valida io immagino
Costanza Giuliani la difficoltà della comunicazione umana tutta, della mancanza di
ha studiato filosofia visibilità e del senso di appartenenza immediato nei linguaggi che
del linguaggio e esprimiamo.
linguistica, è interprete La delusione, ecco, la posso capire. Un po’ come dire, non ce
Italiano/Lis e viveversa l’abbiamo fatta neanche questa volta! Come sarebbe riposante
e docente di tecniche avere una lingua unica condivisa e per lo più inclusiva!
LE MALELINGUE

di interpretariato nei Ma abbandonare l’idea dello strumento artificiale e della sua


corsi per diventare universalità e abbracciare invece quella della naturalità del lin-
interprete di lingua dei guaggio umano in tutte le sue forme, non rende questa lingua
segni. nello specifico meno inclusiva di per sé.
89
È necessario cambiare prospettiva e osservare le cose per quello che sono: la Lis ad esem-
pio è la lingua della comunità sorda italiana, espressione di una determinata cultura e attiva
in una determinata società. L’inclusione sociale che essa permette a chi la parla, è quella
determinata dalle scelte politiche dei governi che ci guidano.
Come lingua, è ciò che nasce dall’esigenza naturale di comunicazione di persone che de-
vono usare il loro canale integro per potersi esprimere, quello visivo-gestuale.
Come lingua, permette la completa espressione del sé, e la possibilità di dire, raccontare,
insegnare, parlare di sentimenti, astrazioni, ragionamenti complessi, fare arte.
Se viene impedito a questa lingua di essere paritaria alle altre, di poter essere utilizzata
e visibile in ogni contesto e, soprattutto, se non vengono forniti servizi e accessibilità piena
alla vita sociale in tutti i suoi aspetti, l’inclusione comunicativa si limita ad ambiti ristretti e
al buon cuore di qualche istituzione o qualche singola persona più «illuminata».
Senza dilungarmi su aspetti più pratici di questa mancanza di parità sociale a livello quo-
tidiano, per dare un’idea accenno solo al fatto che non è prevista la presenza di un interprete
di lingua dei segni in moltissime istituzioni pubbliche: ospedali, uffici comunali, enti previ-
denziali, e così via.
Ci sono situazioni particolari e casi pilota sul territorio italiano ma per lo più le persone
sorde si auto-incaricano di procurarsi un interprete quando ne hanno necessità. Spesso l’ac-
cessibilità ai servizi pubblici è relativa alla disponibilità economica individuale.
D’altra parte lo stato italiano è stato l’ultimo in Europa, e uno degli
ultimi nel mondo, a riconoscere la Lis come lingua, venendo meno per
LE PERSONE SORDE anni anche alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla disabilità, rati-
SI AUTO-INCARICANO ficata in Italia nel 2009, che sanciva l’obbligo di riconoscimento delle
DI PROCURARSI UN lingue dei segni nei vari paesi di appartenenza. La Lis in Italia è stata
INTERPRETE. SPESSO riconosciuta nel 2021, dopo anni di lotte!
L’ACCESSIBILITÀ AI SERVIZI Probabilmente è ancora presto per poter registrare dei cambiamenti
PUBBLICI È RELATIVA ALLA importanti. Lentamente qualcosa si muove e resiste la determinazione
DISPONIBILITÀ ECONOMICA di veder crescere spazi reali di accessibilità e inclusione.
Di fatto però, aver considerato la lingua dei segni negli anni un mero
strumento di comunicazione per persone disabili ha decisamente li-
mitato la sua portata inclusiva oscurando la cultura della minoranza linguistica che la parla.

VISIVA DUNQUE MENO MANIPOLABILE

Io non sono sorda, e non entro dunque nell’ambito della disabilità vissuta ed esperita in
prima persona da un punto di vista individuale o sociale. Fin troppe persone udenti, non
appartenenti alla comunità sorda per altro e forti della propria cultura dominante e della fa-
cilità di risonanza immediata della propria voce, si sono arrogate il diritto di parlare a nome
PRIMAVERA 2022

di chi neanche in molti casi ha avuto la possibilità di sapere che si parlasse per loro.
Quella vissuta dalla comunità sorda, come spesso accade per le minoranze linguistiche, è
a tutti gli effetti una storia di dominanza culturale.
Quello che posso esprimere invece è un punto di vista più linguistico, e accennare alla di-
versità di questa lingua che in quanto tale, in quanto lingua, porta con sé una significazione
N. 14

del reale profondamente diversa da quella abituale. La lingua dei segni è una lingua visiva
e dunque la rappresentazione del mondo che ne consegue è fatta in qualche modo di una
materia diversa.
Vedere il mondo e significarlo attraverso movimento e vista anziché suono, fa sì che le
cose tutte (persone comprese) permangano in un aspetto di «concretezza» maggiore. Come
già detto questo non ha niente a che vedere con un’impossibilità di astrazione, spesso infatti
90
le lingue dei segni (considerate linguaggi/codici) sono state banalizzate e relegate a un mon-
do di espressione meramente iconica per cui è possibile «segnare» solo cose che hanno una
forma (bicchiere, albero, o qualsiasi altra cosa vi sia venuta in mente). Quello che intendo
per maggior permanenza è che in qualche modo con meno facilità le cose che si «vedono»
(concretamente o astrattamente) sono manipolabili.
Lo sguardo su ciò che descrivo in quanto visto è per lo più privo di giudizio. Non voglio e
non posso in nessun modo dire che le persone sorde o segnanti in generale siano esenti da giu-
dizio/pregiudizio, piuttosto che la cultura visiva che sottende questa lingua è una cultura per
cui ciò che vedo lo vedo per quello che è, linguisticamente parlando, dunque culturalmente.
È famoso nella comunità dei sordi l’esempio per cui se incontro una persona che non
vedo da un po’ di tempo e la trovo ingrassata, se glielo faccio notare nella mia lingua e
cultura udente è una scortesia ma se lo dico nella lingua e cultura dei segni è una mera co-
statazione, né bella né brutta: ti «vedo» ingrassata, prendo atto. Punto. Ovviamente con il
tono del caso cambia l’intenzione comunicativa anche in Lis, ma quello che di base resta
diverso è la dicibilità di ciò che vedo per come lo vedo. Non ho bisogno di sovrastrutturare
questa esperienza.
Personalmente trovo tutto ciò estremamente rilassante. Come anche l’assenza di genere lin-
guistico, in una visione quindi non necessariamente dicotomica o automaticamente binaria.
Ora, detta così ha del sensazionale e l’affermazione andrebbe inquadrata in un contesto
socio-linguistico appropriato e dovrebbe
essere supportata da esempi e ricerche
che però al momento sono ancora del tut- sé. Il nostro «buongiorno a tutte e tutti» che consideria-
to assenti. Per chi se lo stesse chiedendo, mo prova di grande inclusione è in qualche modo già su-
inoltre, specifico subito che non manca in perato (lo era già, lo è sempre stato) in una lingua visiva
Lis la nomenclatura completa della fluidi- che nell’utilizzare i segni (le parole) per dire «buongiorno
tà del genere per la definizione del sé. a tutt*» intende automaticamente «buongiorno a tutte le
Vorrei però che fosse chiaro che la lin- persone presenti», al di là della composizione specifica
gua dei segni è una lingua senza scrittura della platea a cui mi riferisco: ci sei, esisti, sei qui (fisica-
propria. Esiste il sign-writing (un sistema mente o meno), buongiorno a te.
di trascrizione in simboli) ma non è quo- Se nomino un meccanico, un docente, o un parrucchiere
tidianamente utilizzato dalle persone se- uso accanto al segno specifico che indica il mestiere il se-
gnanti per cui si usa la lingua scritta della gno «persona» (chi conosce la Lis abbia pietà e sorvoli sul
nazione in cui si vive. manierismo).
Questo fa sì che, insieme all’appar- Non posso ovviamente garantire in nessun modo che
tenenza a uno stesso territorio e a una l’immagine che si forma dietro agli occhi di chi vede segnare
stessa società, le due culture, quella della «meccanic* persona» sia quella di un uomo o di una donna.
lingua visiva e quella della lingua vocale/ Come sempre è la cultura in cui si vive che fa la differenza
scritta, si intersechino profondamente, così come la realtà concreta delle cose per cui se per tutta
con tutto ciò che ne consegue nella rap- la vita ho incontrato solo meccanici uomini perché di fatto
presentazione del mondo. è un mestiere difficilmente accessibile alle donne, con tutta
Ma quello che per me resta interes- probabilità vedrò un uomo.
sante è il portato della lingua visiva in In una conversazione con una persona qualsiasi, uomo,
donna, trans, non binaria, non ho bisogno di chiedere quale
pronome utilizzare, perché non c’è. Siamo tutt* fatt* della
stessa materia. Ti “vedo” e tanto basta.
LE MALELINGUE

La possibilità che questa lingua offre di una rappresen-


tazione prima neutra e poi dettagliata è ciò che auguro ai
nostri sguardi. L’esatto contrario di quello che accade nella
nostra storia udente.
91
La lingua
POTERE E PAROLE

del Terzo Reich


Appiattimento del discorso, militarizzazione del quotidiano,
esaltazione della tradizione in sprezzo al proletariato
urbano, predilezione per il parlato: il taccuino di un filologo
sulle parole del nazismo ha ancora oggi molto da dirci

J
Illustrazione di Virginia Taroni

ean Améry, scrittore ebreo e austriaco, dopo l’Anschluss del 1938


fugge in Belgio e si unisce alla Resistenza. Nel 1943 la sua brigata
partigiana ripara in un’abitazione confinante con un appartamen-
to abitualmente occupato da soldati nazisti. Si ritrova muro a muro
coi carnefici. Un giorno, i ribelli fanno troppo rumore. La cosa di-
sturba la pennichella pomeridiana di un soldato del Terzo Reich,
Giuliano Santoro dall’altra parte del pianerottolo. Allora quest’ultimo bussa alla por-
ta. Trafelato e ancora mezzo addormen-
tato, il nazista invoca un po’ di quiete. Il partigiano è spaventato
ma anche interdetto. La confusione lo assale quando si accor- Giuliano Santoro,
ge che il nemico della porta accanto parla il dialetto della sua giornalista, lavora
regione. Quell’accento lo riporta per le strade della sua terra. È al Manifesto. È autore,
incredibilmente tentato di rispondergli. Di farsi riconoscere. Di tra le altre cose, di Un
parlare con la stessa cadenza. Perché quello sconosciuto com- Grillo Qualunque e
paesano con la divisa dell’esercito del male, quel milite ignoto Cervelli Sconnessi
ritrovato nel mezzo degli orrori della Seconda guerra mondiale, (Castelvecchi, 2012
gli ispira «familiare cordialità». In fondo, non dovrebbe essere e 2014), Guida alla
PRIMAVERA 2022

così complicato: «Non sarebbe stato sufficiente apostrofarlo Roma ribelle (Voland,
nella sua, nella mia lingua, per poi celebrare tra compatrioti con 2013), Al palo della
una bottiglia di buon vino una festa di riconciliazione?», si chie- morte (Alegre Quinto
de Améry confessando la sua debolezza al richiamo dell’Heimat. Tipo, 2015).
92 N. 14
93 LE MALELINGUE
L’aneddoto rimanda esplicitamente all’identità territoriale, all’irrazionale sentimento
di complicità che la lingua comune può scatenare anche in situazioni estreme. Tuttavia,
potrebbe essere utilizzato anche per capire come il linguaggio costruisca familiarità e
spazi comuni, cameratismo e derive inattese. Lo spazio della comunicazione e dei codici
condivisi rischia di cancellare le più scontate soglie di attenzione. È pericoloso, dunque,
perché ci fa accettare cose che in altri contesti avremmo considerato irricevibili.

LA LINGUA DEL TERZO REICH

Negli stessi anni in cui Amery combatte il nazismo. Victor Klemperer si aggira per le
strade di Dresda. Cristiano-protestante di origini ebraiche, Klemperer era nato nel 1880,
da una famiglia borghese dalla quale sarebbe uscito anche il cugino Otto Klemperer, di-
rettore d’orchestra tra i più grandi della sua generazione, celebrato soprattutto come in-
terprete delle sinfonie di Mahler. Victor, dal canto suo, aveva prestato servizio nell’eser-
cito prussiano come artigliere sul fronte occidentale della Prima guerra mondiale. Era
stato docente di filologia romanza al politecnico di Dresda fino al 1935, per effetto delle
leggi di Norimberga era stato escluso dall’insegnamento. Aveva sposato una donna pro-
testante e si era convertito alla chiesa luterana, cosa che lo salverà dalle deportazioni.
Sotto la persecuzione nazista mette a frutto esperienza di vita e formazione accademica
di filologo per appuntarsi tutti gli scivolamenti linguistici che ave-
vano accompagnato l’ascesa al potere del nazismo.
LA PROPAGANDA NAZISTA La sua capacità di tenere conto delle chiacchiere in birreria e del-
SI INSINUA NELLE PAROLE la pubblicistica del periodo sono raccolte nei suoi Diari e nel saggio
DI TUTTI I GIORNI, in forma di racconto in prima persona La lingua del Terzo Reich
LADDOVE LA SOGLIA (Giuntina, 1999). Sono pagine che forniscono una preziosa indica-
DELL’ATTENZIONE È BASSA zione di metodo e che ricostruiscono in presa diretta l’importan-
E SI TENDE A DARE TUTTO za del linguaggio nelle relazioni sociali. «Le parole possono essere
PER ASSODATO come minime dosi di arsenico – annota Klemperer – ingerite senza
saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tem-
po ecco rivelarsi l’effetto tossico. Se per un tempo sufficientemente
lungo al posto di eroico e virtuoso si dice ‘fanatico’, alla fine si crederà veramente che un
fanatico sia un eroe pieno di virtù e che non possa esserci un eroe senza fanatismo». Sia
chiaro: la diffusione dell’arsenico linguistico avviene dall’alto, dalle posizioni di forza e
comando. Ma interroga il modo in cui successivamente si diffonde nella società dispie-
gando le sue tossine.
Così come Amery si scopre esposto e indotto in tentazione dal linguaggio del suo
compaesano, la lingua del Terzo Reich si insinua nelle parole di tutti i giorni, laddove
la soglia dell’attenzione è bassa e si tende a dare tutto per assodato. L’orrore si infila
PRIMAVERA 2022

nelle pieghe della normalità. Il taccuino di Klemperer, che pure era un liberale con-
servatore lontano da ogni radicalismo, ha una carica conturbante perché mette in di-
scussione le parole della vita quotidiana, cioè le cose che diamo per scontate. Klem-
perer si cimenta con un potere che non vuole solo controllare il comando politico,
N. 14
94
vuole decidere il mutamento della società tedesca ed europea. La modernità del na-
zismo e delle sue tecniche linguistiche sta nella sua capacità di condizionare il pen-
siero non soltanto con la repressione ma mettendo le persone nella condizione di fare
esattamente quello che i nazisti vogliono. Qui la lingua ha un’importanza decisiva.
Innanzitutto, le cose devono essere semplici. O almeno tali devono apparire. Ogni di-
scorso corrente deve liberare il popolo dalla fatica del pensiero. «Il nazismo si insinuava
nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma
delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate
meccanicamente e inconsciamente», scrive Klemperer. E ancora: «Ho scartabellato ri-
viste giuridiche e farmaceutiche – racconta – Ho letto romanzi e poesie (quelli che po-
tevano uscire in quegli anni), ho ascoltato parlare gli operai mentre spazzavo le strade
o lavoravo in fabbrica: sempre, nei testi stampati e nel linguaggio parlato, nelle persone
colte e in quelle ignoranti ho trovato lo stesso cliché, lo stesso registro. E perfino in
coloro che erano le vittime più perseguitate e che necessariamente dovevano essere
nemici mortali del nazismo, perfino fra gli ebrei, dappertutto, nei loro discorsi, nelle
loro lettere e anche nei loro libri finché poterono pubblicarli, altrettanto onnipossente
quanto povera, resa anzi onnipossente dalla sua povertà, regnava la Lti». Dove Lti sta
per Lingua Tertium Imperii, espressione che il filologo usa sarcasticamente. Perché altra
caratteristica del nazismo consiste nell’appropriarsi della finta neutralità del linguaggio
burocratico abusando di sigle, acronimi e neologismi tecnici.
L’altro ingrediente della tragica efficacia del linguaggio nazista è la colonizzazione
della sfera civile da parte di quella militare. La macchina bellica si impossessa della
società. Nella mobilitazione bellica generale sfuma ogni distinzione tra sfera milita-
re e vita civile. Da qui, osserva Klemperer, deriva la proliferazione, ingiustificata e ir-
razionale, della categoria di «eroismo». «Nella Prima guerra mondiale c’era stato un
eroismo civile, dietro il fronte – scrive – Ma ora esiste ancora un ‘dietro il fronte’? C’è
ancora un’esistenza civile?». L’eroismo nazista deforma e pregiudica la categoria stes-
sa dell’ardimento perché sotto il Terzo Reich il (molto presunto) eroismo diventa kit-
sch, ostentato e dunque osceno. Leggiamo ancora il quaderno del filologo: «L’eroismo
è tanto più autentico e significativo quanto più è silenzioso, quanto meno pubblico ha,
quanto meno redditizio è per l’eroe medesimo, quanto meno decorativo è. Quel che
io critico nel concetto nazista dell’eroe è il suo essere costantemente collegato all’a-
spetto decorativo, è il suo carattere millantatore. Il nazismo non ha mai conosciuto
un eroismo vero e onesto, quindi ne ha falsato e discreditato il concetto in generale».
Il linguaggio del nazismo è povero e piatto, il che stupisce ancora di più se si considera
la proliferazione espressiva e comunicativa (i giornali, le sperimentazioni artistiche, le
opere letterarie) che caratterizzarono la Germania fino all’apice espressivo della Repub-
blica di Weimar. «Bisogna tener conto di questa straordinaria ricchezza, fiorente fino al
1933, poi repentinamente svanita, per comprendere a fondo la povertà di quella schia-
vistica uniformità che è la caratteristica principe della Lti». Questa povertà rimanda
all’esaltazione del discorso orale. Tutto deve ricordare l’enfasi e l’esaltazione emotiva
e irrazionale dei discorsi di Hitler o delle perorazioni radiofoniche di Goebbels. Così,
LE MALELINGUE
95
dopo il fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944, Goebbels scrive che l’attentato al
Führer si spiegava solamente con il «prevalere delle forze di un diabolico intelletto su
quelle dell’istinto».

LA REITERAZIONE OSSESSIVA DI CONCETTI E PAROLE

«La Lti non faceva alcuna distinzione tra lingua scritta e lingua parlata. Anzi, tutto
in lei era discorso, doveva essere allocuzione, appello e incitamento». Inoltre, come è
noto, la propaganda ha bisogno di ripetere le cose fino a farle diventare plausibili. Alla
contrazione dei significati corrisponde la reiterazione ossessiva di concetti e parole: il
ritmo del tamburo è una delle metafore concrete che accompagnano la vita quotidiana
nella Germania nazista. Quella che Klemperer chiama «schiavistica uniformità» non ha
l’obiettivo di creare la violenza sistematica di tutti. Serve a legittimare la violenza del po-
tere fino a mettere le masse in condizione di tollerare, di considerarlo un esito normale,
lo sterminio industriale e organizzato.
Il tedesco medio cui il nazismo si riferisce magari vive in città, ma secondo l’ideolo-
gia del regime deve farlo rimpiangendo le radici contadine. Come era già accaduto al
fascismo, anche il nazismo odia le città e guarda alle popolazioni urbane con diffidenza
e timore. Dal punto di vista linguistico, Klemperer riconosce questo atteggiamento dalla
frequenza con cui Goebbels menziona l’«asfalto». La pavimentazione urbana per ec-
cellenza, espressione della modernità, diventa il contraltare del «suolo», simbolo della
purezza razziale e della semplicità delle tradizioni. «Berlino è il mostro d’asfalto, i suoi
giornali ebraici, prodotti abborracciati della ‘Journaille ebraica’, sono organi dell’asfalto,
la bandiera rivoluzionaria del partito nazionalsocialista dovrà ‘conficcarsi potentemen-
te nell’asfalto’, ‘l’ebreo con le sue frasi fatte e le ipocrite promesse ha asfaltato’ la strada
per la depravazione (rappresentata dal pensiero marxista e apolide). Il ritmo rapinoso
di questo ‘mostro d’asfalto ha reso l’uomo senza cuore e senz’anima’, perciò qui vive una
‘massa informe di anonimo proletariato mondiale’ e il proletario berlinese è ‘un rappre-
sentante dell’assenza di patria’».
E quando il ministro della propaganda deve blandire le popolazioni urbane colpi-
te dai bombardamenti dell’aprile 1944, ha bisogno di ricordare loro che sotto l’asfalto
c’è proprio il sacro suolo del Reich: «Con profondo rispetto verso questo indistruttibile
ritmo della vita e questa incrollabile volontà di vivere della popolazione delle nostre
grandi città, che pur stando sull’asfalto non può aver perso le sue radici come un tempo
spesso ci hanno voluto far credere alcuni libri, certamente ben intenzionati ma eccessi-
vamente teorici... Qui la forza vitale del nostro popolo è ancorata altrettanto saldamen-
te che nel mondo contadino tedesco».
Questa mitizzazione delle origini contadine, della purezza organica e dei costumi
PRIMAVERA 2022

dei tempi pre-moderni, si ritrova anche in un manualetto distribuito dall’Ordine dei


farmacisti che accarezza la diffidenza verso la scienza e la medicina. «È innegabile che
in larghissimi strati del nostro popolo ci sia un’intima avversione verso l’assunzione di
preparati medicinali chimici – recita il testo – Perciò negli ultimi tempi si è ridestato,
N. 14
96
trovando un’accoglienza favorevole, il desiderio che vengano prescritte sostanze medi-
camentose naturali, non prodotte da laboratori e fabbriche. Per ognuno di noi, erbe e
misture di erbe provenienti dai nostri prati, dai nostri boschi, rappresentano qualcosa
di familiare e di genuino. Il loro impiego in medicina conferma un successo terapeutico
tradizionale che risale alla notte dei tempi, e l’idea che siano connesse con ‘sangue e
suolo’ rafforza la fiducia nelle erbe ‘di casa nostra’».

CONTAGIARE I DISCORSI MEDI

E dunque appiattimento del livello del discorso, militarizzazione strisciante, esalta-


zione delle supposte origini agresti in sprezzo al proletariato urbano, predilezione per le
invettive e il linguaggio parlato. Tutto ciò sopravvive nelle forme reazionarie post-mo-
derne, di certo non sovrapponibili e forse neppure paragonabili a quelle nazifasciste.
Gettò un ponte tra quei tempi e quelli presenti J. G. Ballard. Era il 1969, e quest’altro
sopraffino osservatore e narratore degli orrori della gente comune, della paura che nel
divenire massa di una classe indistinta accomunata dal concetto di popolo (parola della
quale Klemperer annota la ripetizione ossessiva nei documenti e nei discorsi nazisti),
avrebbe scritto della caratteristica nazista di contagiare i discorsi medi. Già nel numero
5 di Jacobin Italia, il filosofo della politica Lorenzo Bernini si era prodotto in una preci-
sa disquisizione scatologica sulla relazione tra la retorica di Matteo
Salvini e la merda. Ballard sottolinea il carattere «escrementizio» dei
discorsi di Hitler. «Quello che è interessante nel linguaggio con cui QUELLA CHE KLEMPERER
Hitler ha scelto di descrivere le sue ossessioni: un approccio preva- CHIAMA «SCHIAVISTICA
lentemente escrementizio, si deve supporre, data la sua incessante UNIFORMITÀ» NON HA
preoccupazione per la ‘pulizia’», scrive Ballard sulla rivista di fanta- L’OBIETTIVO DI CREARE
scienza New Worlds. «Le argomentazioni usate contro gli ebrei non LA VIOLENZA DI TUTTI.
sono quasi mai sociali, economiche o politiche – prosegue Ballard – SERVE A LEGITTIMARE
Hitler preferisce concentrarsi quasi esclusivamente su questa tron- LA VIOLENZA DEL POTERE
fia retorica biologica. Evitando di razionalizzare i propri pregiudizi,
egli è riuscito così a sfruttare una zona di inquietudini ed incertezze
molto più profonde. Una zona oltretutto che i suoi seguaci non avrebbero mai portato
del tutto alla luce del sole. Nella logica indiscutibile della psicopatologia, gli ebrei sono
diventati il capro espiatorio di tutti i terrori connessi allo svezzamento e all’apprendi-
mento dell’uso del gabinetto. Il continuo ricorrere di termini quali sporcizia, abiezione,
ascesso ostile, fremito rinforza senza sosta queste sensazioni lungamente represse di
colpa e di desiderio».
Qui sta secondo Ballard la medietà del fondatore del nazismo e della sua lingua, il
suo essere non l’eccezione ma in tragica sintonia con i fantasmi piccolo borghesi e con
le parole che essi esprimono: «Hitler è figlio delle biblioteche di consultazione, dei ma-
nuali fai-da-te, dei giornali di massa, del nuovo vocabolario di violenza e sensazionali-
smo che essi hanno creato. Hitler è stato lo psicopatico mezzo colto che era aiutato dai
ricchi sistemi di comunicazione del ventesimo secolo».
LE MALELINGUE
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98 N. 14 PRIMAVERA 2022 THE LEFT IN PURGATORY
IL PURGATORIO
DELLA SINISTRA
STATUNITENSE
Dopo l’inferno dell’epoca trumpiana, le nuove forze
socialiste emerse negli ultimi anni, sulla spinta
dei movimenti sociali e il successo di Bernie Sanders,
si interrogano sul da farsi e sulla fase attuale

XXXXXXXX XXXXXXX XXXXXXXXX


99
100 N. 14 PRIMAVERA 2022 THE LEFT IN PURGATORY
CAVALCARE
LA TIGRE
NON SIGNIFICA
DOMARLA Un bilancio dell’esperienza di Alexandria Ocasio-Cortez
e della sua «squad» non può prescindere dal contesto:
il rapporto tra movimenti e istituzioni, tra agenda del
palazzo e tempi di costruzione della sinistra nella società

O
ttobre 2019. Seduto nella sala d’aspetto di un ospedale di Las Vegas,
dove era ricoverato il suo capo, il vice direttore della campagna di
Bernie Sanders, Ari Rabin-Havt, era convinto che quello fosse l’ul-
timo atto. Dopo un’ascesa alle presidenziali nel 2016 che ha del leg-
gendario, in cui il senatore del Vermont era stato capace di alimen-
tare un entusiasmo per le idee radicali che la sinistra statunitense
Natalie Shure non vedeva da decenni. La sua seconda volta, però, si era fermato
a malapena al 15 per cento. Un amaro sondaggio pubblicato a fine
settembre dal Des Moines Register lo dava al quarto posto, con Elizabeth Warren che si avvi-
cinava sempre di più al primo posto. La campagna sembrava al tramonto, poi il sole è calato
davvero: durante una raccolta fondi in Nevada Sanders ha fatto il gesto insolito di chiedere
una sedia e ha scoperto di aver avuto un attacco di cuore. Un infarto non è il massimo
a settantotto anni, soprattutto se stai correndo per contendere la carica istituzionale più
potente del mondo.
Chiunque abbia ancora sul computer un adesivo con scritto «Solidarity forever» può
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
raccontare cos’è successo dopo. Il team di Biden ha ricevuto una chiamata dalla deputata
Alexandria Ocasio-Cortez che annunciava che avrebbe appoggiato Sanders alle primarie
presidenziali democratiche, insieme alle deputate Rashida Tlaib e Ilhan Omar. Rabin-Havt e
un collega chiesero subito all’ospedale di trasportare tavoli e sedie al capezzale del senatore
per prendere accordi per l’evento del gran ritorno sulla scena di Sanders, da tenere nel Que-
ens, il distretto di Ocasio-Cortez. Il vento ha ricominciato a sof-
fiare: il senatore del Vermont ha ottenuto più voti degli avversari
Natalie Shure è in Iowa e New Hampshire, il Nevada è stato una vittoria assoluta.
produttrice tv e scrive Oggi Rabin-Havt ricorda quella telefonata come un punto di
per Atlantic, Slate svolta: «Da quel momento abbiamo cominciato solo a salire», rac-
e Pacific Standard. conta al telefono. «Bisogna riconoscere a Ocasio-Cortez di aver
La traduzione è di fatto una scelta coraggiosa, in un momento in cui non era poli-
Riccardo Antoniucci. ticamente vantaggioso appoggiare Sanders. Era letteralmente il
101
momento più rischioso, e loro si sono fatte avanti». Ero d’accordo con lui. Avevo assistito a
quegli eventi dai telegiornali, avevo visto queste giovani donne di colore elette poco prima
grazie all’ondata politica che Sanders aveva messo in moto schierarsi apertamente con il mo-
vimento al momento del bisogno, con l’obiettivo di cambiare la politica americana. Non pos-
so negare di essermi commossa.
Purtroppo non è stato abbastanza. Dopo un breve periodo di grazia, il cui apice è stato
un evento in Nevada dove Ocasio-Cortez aveva infiammato la platea di Las Vegas Strip par-
lando della diffusione dello spagnolo negli Usa, la fortuna ha ripreso a girare. Joe Biden ha
vinto in South Carolina e da allora praticamente non ha smesso più di vincere. Poche setti-
mane dopo Sanders si è ritirato lasciando alla deriva gran parte della giovane e combattiva
coalizione che lo aveva sostenuto.
Due anni dopo, le prospettive della nuova sinistra americana non sono ancora chiare. Vi-
sti i limiti naturali della durata della vita umana, possiamo escludere una campagna Bernie
2024. Ma quanto al post-Bernie, la base sta perdendo fiducia in quelli che sembravano i suoi
diretti successori, la trentaduenne Ocasio-Cortez e l’altra manciata di progressisti riuniti
attorno a lei al Congresso.

L’ORGANIZZAZIONE DEL CONTRO-POTERE

«The squad» («la Squadra»), questo soprannome scelto per descrivere la mezza dozzina
di deputati della sinistra del Partito democratico eletti tra il 2018 e il 2020 in diversi distret-
ti dopo essersi presentati come alternativa progressista a qualche marionetta liberista, è
un appellativo irritante ma utile. Ocasio-Cortez è di gran lunga la più famosa del gruppo,
perché si è dichiarata apertamente socialista e ha sconfitto alle primarie un veterano dei
Democratici come Joe Crowley.
La storia politica di «Aoc» ormai è nota: trasferitasi dal Bronx alla periferia da bambina,
ha frequentato l’Università di Boston e ha fatto uno stage nel team del
senatore del Massachusetts Ted Kennedy. Fino alla candidatura per
«AOC» HA USATO il Congresso, dieci anni più tardi, la sua traiettoria professionale era
IL SUO APPARTAMENTO stata più o meno quella di un qualsiasi millennial di sinistra in una
NEL QUEENS COME grande città. Finito il college si è trasferita dalla madre nel Bronx, dove
QUARTIER GENERALE, ha alternato il lavoro da cameriera ad altri nel settore creativo e del
MENTRE DI NOTTE no-profit. Nel 2016 è diventata organizzatrice territoriale per la cam-
CONTINUAVA A LAVORARE pagna presidenziale di Bernie Sanders, scoprendo l’impegno politico
COME BARISTA radicale. Sembra però sia stata la battaglia contro la costruzione di un
oleodotto nella riserva indiana di Standing Rock, tra Nord e Sud Dako-
ta, a spingerla a candidarsi alla Camera. Ha messo in piedi una cam-
pagna low cost, usando come quartier generale il suo appartamento nel Queens mentre di
PRIMAVERA 2022

notte continuava a lavorare come barista. Ora, arrivata al suo terzo anno di attività politica,
si dice non abbia ancora ripagato il suo debito studentesco.
Ocasio-Cortez si è unita ai Democratic Socialists of America (Dsa) durante quella prima
campagna per il Congresso. Fino a quel momento non aveva mostrato alcun legame con il
N. 14
102
socialismo, tanto che alcuni scettici ipotizzarono che, più che profonde convinzioni ideo-
logiche, a motivarla fosse soprattutto la prospettiva di beneficiare del lavoro del gruppetto
di volontari del Dsa territoriale. È significativo, in questo senso, il fatto che, nella sua prima
intervista sul New Yorker, alla domanda su quali fossero i suoi eroi politici Ocasio-Cortez ab-
bia tirato fuori Bobby Kennedy. Ma è vero anche che molti dirigenti dei Dsa dell’epoca erano
appena entrati nelle fila della sinistra, e che in molti in assemblea votarono per sostenerla.
La campagna di Aoc, dicevano, avrebbe costruito la capacità organizzativa e dato ai nuovi
arrivati qualcosa su cui affilare i denti, oltre a rappresentare un valido antidoto contro la
retorica del «sostenitori di Bernie tossicamente bianchi». La scelta si è rivelata saggia: Oca-
sio-Cortez è diventata la seconda portavoce nazionale più importante dei Dsa e ha legato
indissolubilmente il suo nome a quel simbolo. Appartengono all’organizzazione anche altre
due deputate e un deputato della cosiddetta «Squad»: Rashida Tlaib, Cori Bush e Jamaal
Bowman, rappresentanti rispettivamente di Detroit, St. Louis e Bronx.
Quella vittoria contro un decano dei Democratici nel distretto del Queens-Bronx ha fat-
to fare a Ocasio-Cortez il giro del mondo. Il New York Times ha scritto che si trattava della
«sconfitta più significativa per un Democratico in carica da oltre dieci anni, che avrà riper-
cussioni sull’intero partito e sul paese», ma anche di «un vivido segnale di cambio della
guardia». E il trumpiano New York Post in copertina urlava «allarme rosso». La nonchalance
con cui Aoc all’epoca rispondeva alle molte critiche alla sua affiliazione socialista ricalcava
la strategia di Sanders. Rispondeva di vo-
lere semplicemente «quel livello minimo
di dignità per cui nessuno in America sia muscoli contro l’establishment Democratico. In un video
troppo povero per vivere in questo pae- diventato virale della sua campagna, realizzato da una
se. Questo è il socialismo democratico società di produzione fondata da membri dei Dsa, diceva
nel 2018», come ha dichiarato a Business per esempio: «È tempo di riconoscere che i Democratici
Insider. Alcuni osservatori, come Eric Le- non sono tutti uguali». Quando lo sfidante Crowley le ha
vitz della New York Magazine ipotizzava- teso una trappola chiedendo se lo avrebbe appoggiato nel
no che Aoc avrebbe riportato a sinistra i caso avesse vinto le primarie, lei ha evitato di dire di sì e
liberal impegnati in battaglie sull’identi- ha risposto che avrebbe lasciato decidere il movimento
tà che trovavano respingente la figura di dietro a lei. La prima settimana di lavoro al Congresso Aoc
Bernie e del suo universo decisamente ha preso parte alla protesta del Sunrise Movement che ha
troppo «bianco»: Se i Bernocrati presen- occupato l’ufficio dello speaker Nancy Pelosi per chiedere
teranno candidati forti, non bianchi e/o ai Democratici di mettere il clima al primo posto del pro-
donne che definiscono la giustizia raz- gramma. Poco dopo ha presentato la proposta di Green
ziale e di genere in termini economici, New Deal.
allora potranno usare il desiderio della L’attenzione mediatica che è stata riservata ad Aoc e
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
base Democratica di cambiare la com- al resto della «Squad», smisurata rispetto a quella data a
posizione demografica degli eletti come quasi tutti gli altri deputati alla prima elezione nella sto-
uno strumento per trasformare l’orienta- ria degli Stati uniti, per le organizzazioni che li sostengono
mento ideologico del partito». ha rappresentato un grande vantaggio. Come mi ha spie-
E per ottenere questo risultato, Oca- gato Alexandra Rojas, fondatrice del gruppo dei Justice
sio-Cortez è stata pronta a sfoderare i Democrats, uno dei principali motivi per partecipare alla
primarie Democratiche per la sinistra è usare i seggi in
parlamento come un pulpito per aumentare il sostegno a
«grandi idee» come il Green New Deal e la sanità pubblica
universale, spostando quindi quanto più possibile a sinistra
il baricentro politico del partito. «Quando ti trovi di fronte
una barriera come questa, penso che la cosa migliore sia
chiedere direttamente al popolo americano cosa pensa».
103
«Le deputate della Squad stanno spostando l’asse culturale dalla questione di quanto si
impegnano gli americani per ottenere i cambiamenti che vogliono a quanto sia corrotto il
sistema che li blocca. E non credo che il sistema potrà cambiare senza fare pressione sulle
istituzioni. In fin dei conti, stiamo trasformando il Partito democratico perché in questo
momento è la migliore opportunità, nel nostro sistema bipartitico, per portare avanti l’a-
genda progressista e cambiare concretamente la vita dei lavoratori».
C’è un problema però: non si riuscirà mai a far coincidere esattamente il mandato di
funzionare da megafono dei grandi temi del movimento, da un lato, e quello di agire come
una cinghia di trasmissione per far avanzare l’agenda della sinistra nelle istituzioni dall’al-
tro. Per gli elettori e gli alleati, che credono che le idee dei candidati siano quelle che dicono
al megafono e che le loro azioni debbano essere di rottura con istituzioni inerti al cambia-
mento, lo scarto tra queste due funzioni può essere disorientante. Per Michael Kinnucan,
attivista dei Dsa, Ocasio-Cortez e le altre star della «Squad» parlano a una platea molto più
ampia di qualsiasi collegio elettorale organizzato, perciò possono rappresentare strumenti
utili nella strategia di organizzazione del contro-potere (basti guardare alle frotte iscritti ai
Dsa arrivati grazie a Sanders e Aoc), ma il problema è che è un po’ come cavalcare una tigre:
«Ti muovi velocemente, ma sarebbe una follia pensare di controllarla».

#FORCETHEVOTE

Non che non ci abbiano provato, a domare la tigre. All’inizio dell’anno scorso, Aoc e il
resto della «Squad» hanno scatenato le ire degli YouTubers di sinistra e dei loro sostenitori
rifiutando di aderire alla campagna #ForceTheVote, che chiedeva di non votare la Democra-
tica Nancy Pelosi come speaker della Camera per costringere i Democratici a mandare in
aula la legge sulla sanità pubblica Medicare for All. I sostenitori di questa strategia, come l’ex
addetta stampa di Sanders Briahna Joy Gray, pensavano che la «Squad» e i loro alleati al Con-
gresso avrebbero potuto trasformare quell’occasione in uno spettacolo mediatico virale che
avrebbe dato slancio alla campagna del Medicare for All e inchiodato al muro i Democratici
centristi che non erano disposti ad approvare la legge nemmeno con la pandemia in corso.
L’acceso dibattito che ne è scaturito, tutto incentrato sul senso di un voto procedurale
come quello per il presidente della Camera, ha assunto dimensioni smisurate rispetto alle
potenzialità dei rappresentanti della sinistra al Congresso. Chi dubitava dell’utilità della
campagna #ForceTheVote sosteneva che il senso di avere rappresentanti di sinistra nelle
cariche pubbliche è far sì che influiscano sulle leggi reali, non solo sullo zeitgeist culturale:
Medicare for All non aveva nemmeno passato un processo di validazione, in aula avrebbe
perso per più di un centinaio di voti e la sconfitta avrebbe affossato tutto l’attivismo che
aveva animato il movimento. Se infatti consideriamo valida la teoria di Gray per cui «in fin
dei conti la motivazione morale di un’azione non richiede alcuna giustificazione strategi-
PRIMAVERA 2022

ca», allora eleggere un deputato al Congresso potenzialmente è utile quanto un crowdfun-


ding per una campagna pubblicitaria che veicoli opinioni di sinistra.
Forse #ForceTheVote è diventato quel catalizzatore di critiche che è stato non tanto per lo
specifico delle sue richieste, quanto per il timore che l’elemento distintivo di Bernie Sanders,
N. 14
104
la sua politica radicale anti-establishment, si stesse perdendo nella realpolitik del Congresso.
Ora, al di là degli argomenti della sinistra, il fatto che sei giovani deputati alle prime armi non
siano riusciti a ribaltare da soli un sistema sanitario da 3,5 trilioni di dollari entro la scadenza
del loro primo mandato non significa necessariamente che abbiano tradito la causa e siano
diventati delle spie neoliberali. La tesi per cui Ocasio-Cortez è stata addomesticata e coop-
tata dal Partito democratico si basa su una serie di ragionamenti. In poco più di due anni, la
deputata socialista è passata dal partecipare all’occupazione simbolica dell’ufficio di Nancy
Pelosi con il Sunrise Movement a regalare la riconferma alla speaker della Camera (che ave-
va chiamato «mamma orso» in un’intervista) senza ricavarne nulla di utile in cambio. Altra
prova portata a suo sfavore, il fatto di aver licenziato il suo primo staff dei Justice Democrats
ed essersi circondata da collaboratori standard di Capitol Hill. Nel 2018 aveva dato l’endor-
sement alla collega radicale Cori Bush, nel 2020 no. Durante il suo secondo mandato, dicono
ancora i critici, Aoc ha twittato pochissimo sul Medicare for All e al contrario ha offerto una
parte del suo piccolo bottino fondi ai centristi che correvano nei seggi degli Stati in bilico,
anche se presumibilmente i donatori che avevano contribuito alla campagna speravano di
finanziare una voce critica contro il potere, non qualcuno che avrebbe stornato i soldi ad
altri. Alcuni retroscena sulla campagna presidenziale di Sanders dicono che Aoc avrebbe
fatto meno eventi di quelli previsti dal suo team, risentita per il fatto che si era scelto di pub-
blicizzare l’endorsement fatto da Joe Rogan [commentatore televisivo di arti marziali miste
e popolare podcaster di idee libertarie, il suo podcast di successo The Joe Rogan Experience
è stato al centro di critiche nel 2021 perché diffondeva scetticismo sui vaccini anti-Covid,
Ndt] a Sanders e dopo aver ricevuto varie critiche per i contenuti dei suoi discorsi elettorali.
Per Rabin-Havt, tutte queste accuse sono solo «una vagonata di merda». In ogni caso,
la demonizzazione di Ocasio-Cortez per «aver lavorato all’interno del sistema» da parte di
alcuni fan di Sanders evita di porsi il problema che lo stesso Sanders è un senatore indi-
pendente che è stato per la maggior parte della sua carriera relativamente in armonia con
l’establishment Democratico.
Giusta o no, l’idea che Aoc e il resto della «Squad» si siano rassegnati
allo status quo e abbiano relegato nel limbo la richiesta fondamentale L’ESSERE MEGAFONO
del movimento progressista statunitense, il Medicare for All, ha conti- DEI MOVIMENTI
nuato a circolare. Il comico Jimmy Dore (tra i primi a intervistare Aoc E L’AGIRE COME CINGHIA
a metà del 2017, all’epoca della sua prima candidatura) ha infiammato DI TRASMISSIONE
i suoi circa ottocento mila spettatori parlando di #FraudSquad e arri- DELLA SINISTRA
vando a dire che «Aoc è il motivo per cui in America non c’è l’assisten- NELLE ISTITUZIONI
za sanitaria pubblica gratuita». NON COINCIDONO
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
IL CASO BOWMAN

A fine 2021 il malcontento contro la «Squad» in alcune aree della sinistra è esploso quan-
do Jamaal Bowman, uno dei sei deputati progressisti al Congresso e rappresentante del di-
stretto a cavallo tra il Bronx e la contea di Westchester, ha votato per finanziare il progetto
missilistico Iron Dome di Israele e ha fatto parte di una delegazione di funzionari statuni-
105
tensi che ha incontrato il primo ministro israeliano di destra Naftali Bennett. La sezione Dsa
di Madison, Wisconsin, ha chiesto l’espulsione di Bowman dall’organizzazione, sostenendo
che le sue azioni erano nocive per la causa della liberazione palestinese. Si sono associate
alla richiesta un’altra trentina di sezioni, ma alla fine il comitato politico nazionale del Dsa,
dopo un colloquio con lo stesso Bowman, ha votato per non espellerlo.
L’esplosione di questo caso ha messo in luce la diversità di visioni all’interno dei Dsa
sulla strategia elettorale. Per David Duhalde, attivista di lunga data, quando si tratta di
ricoprire incarichi pubblici è necessaria una certa dose di flessibilità. «Per gente come me
l’obiettivo è vincere, costruire potere con gli eletti per portare avanti le nostre politiche,
lavorare alle coalizioni per aumentare il peso dei Dsa, non fare i tribuni dell’organizzazio-
ne». Naturalmente, può capitare che gli eletti riescano a fare entrambe le cose. Era questo
il modello tradizionale dei partiti della classe operaia del resto (sia socialdemocratici che
comunisti): ci si aspettava che gli eletti seguissero la linea dei partiti di appartenenza su
determinate questioni chiave e in caso contrario potevano essere sanzionati. Nella storia
degli Stati uniti se ne trovano un precedente o due. Come il caso di Kshama Sawant, eletta
al consiglio comunale di Seattle nel 2014, che da allora ha difeso in modo lodevole gli inte-
ressi dei lavoratori della sua città come membro del partito Alternativa Socialista. Sawant
si è schierata con #ForceTheVote, rispettando la linea della sua organizzazione.
I Democratic Socialists of America, però, non sono un partito ma un’organizzazione
molto più decentralizzata degli altri gruppi della costellazione della sinistra americana. Le
sezioni territoriali dei Dsa godono di autonomia e molto è lasciato alla discrezione dei sin-
goli membri. Il risultato di questa struttura è che gli oltre cento iscritti ai Dsa eletti negli
uffici statali e locali, o quelli con incarichi significativi nei consigli comunali in grandi centri
urbani come Chicago e New York, a volte prendono posizioni che si trovano selvaggiamente
in contrasto con quelle dell’organizzazione. Senza una svolta verso il centralismo demo-
cratico, non sorprende che il vuoto dei meccanismi formali di attribuzione della respon-
sabilità venga riempito da una girandola di dichiarazioni pubbliche e
indignazione.
I DEMOCRATIC II primo problema è che questi continui contraccolpi rabbiosi e lo
SOCIALISTS OF AMERICA spettacolo mediatico che ne segue rischiano di allontanare i progres-
NON SONO UN PARTITO, sisti come Bowman dai Dsa e dalle sue priorità. Espandere l’influen-
MA UN’ORGANIZZAZIONE za elettorale guadagnando seggi in organi legislativi più alti o in più
PIÙ DECENTRALIZZATA distretti significa indiscutibilmente conquistare un numero sempre
DEGLI ALTRI GRUPPI maggiore di elettori, come anche fondare sempre nuove coalizioni con
DELLA SINISTRA USA altre forze politiche.
Bowman è un attivista per la scuola pubblica e sostenitore del Me-
dicare for All, ma è anche un rappresentante di uno dei distretti più
ebraici del paese. Secondo una fonte vicina al suo staff, all’epoca della polemica riceveva
PRIMAVERA 2022

cinque chiamate al giorno che lo esortavano a sostenere Israele in vista del voto per l’Iron
Dome, e neanche una sulla Palestina.
Il compito dei leader, naturalmente, è sopportare le pressioni esterne. I membri che
hanno chiesto l’espulsione di Bowman sostengono che una strategia elettorale come quella
N. 14
106
articolata da Duhalde corre il rischio di diluire l’agenda della sinistra, di tarparle le ali sul
nascere. I Dsa non sono proprietari di Bowman, che da parte sua del resto non avrebbe
mai firmato un impegno a conformarsi a tutte le risoluzioni approvate dall’organizzazione.
Perciò i Dsa non possono realmente sanzionarlo. Tuttavia, si dice, potrebbero comunque
prendere una posizione di principio e tagliare i legami con lui, anche se il finanziamento
all’Iron Dome è passato con oltre quattrocento voti. Insomma, possono rifiutarsi di salire a
cavallo della tigre e cercarsi un altro mezzo di trasporto.

CON E OLTRE LA «SQUAD»

Il vero problema della «Squad» potrebbe non essere il fatto che i suoi appartenenti non
sono abbastanza di sinistra, ma invece che la sinistra negli Stati uniti è ancora piuttosto
debole. Al Congresso sono in sei, e anche sui posti di lavoro e nelle comunità non sono in
molti a soffiare sul fuoco della lotta di classe.
Una volta Dustin Guastella (dirigente sindacale dell’organizzazione più grande degli
Usa, la Teamsters, e collaboratore di Jacobin) mi ha detto che «di fatto, dato il livello rela-
tivamente basso di organizzazione politica e civile negli Stati uniti non abbiamo alterna-
tive. Non è un segreto. Gli unici movimenti sociali di massa che hanno avuto successo in
questo paese, come il movimento operaio e il movimento per i diritti civili, sono stati in
grado di consolidare il loro potere quan-
do al Congresso c’erano maggioranze in
sintonia con loro». abbonati a Jacobin non sono abbastanza. È fin troppo
Ma questa condizione è ancora lon- chiaro che rosicchiare una parte della base Democratica
tana, e raggiungerla sarà impossibile preesistente è una strategia che ha dei limiti, e che quasi
senza una strategia più ampia. Ogni tutti i frutti più a portata di mano sono già stati colti.
socialista democratico alla Camera fi- In definitiva, Ocasio-Cortez e la «Squad» sembrano aver
nora rappresenta un distretto urbano sposato le tesi espresse da Levitz sul New York: hanno reso
profondamente Democratico, dove la politica progressista radicale più popolare all’interno del
abitano giovani professionisti istruiti Partito democratico, combinando appelli basati sull’identi-
(la demografia da cui la nuova sinistra tà con una robusta analisi di classe che ha spinto a sinistra
americana lotta per emanciparsi dal molti liberal. Ma ci sono poche prove che siano stati in gra-
2016) e non ci è voluto molto a con- do di estendere la base oltre questo terreno.
vincerli a spodestare un qualunque Per dirlo in altri termini, l’idea ottimista che voleva la
dinosauro moderato in carica. È chiaro «Squad» come una versione alternativa all’universalismo
che il successo della «Squad» dipen- di Sanders si basa su un presupposto che finora non si è
de anche dall’aver sfidato i Democra- avverato. Sul piano elettorale, la sfida della sinistra non è
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
tici da sinistra e corteggiato una base ottenere più voti nei distretti già profondamente Demo-
di professionisti in declino. Questi sei cratici, ma vincere in quelli contesi o apertamente Re-
deputati hanno cambiato il panorama pubblicani, obiettivo che solo la prima campagna di San-
politico, ma per instaurare un welfa- ders è riuscita a sfiorare. Se i legami della «Squad» con i
re universale servirà un movimento Dsa si rafforzeranno o si indeboliranno in futuro dipende
ampio della working class: i freelance dalla nostra capacità di attingere proprio a quella magia
della campagna di Sanders del 2016 che ha affascinato la
giovane Alexandria Ocasio-Cortez e tanti altri come noi
in tutto il paese.
Aoc ha aiutato a rinvigorire il nostro movimento una
volta, in un momento cruciale in cui la sinistra ne aveva
davvero bisogno. Speriamo sia al nostro fianco anche nella
prossima battaglia.
107
Adam Tooze è uno dei massimi esperti sul modo in cui
le crisi economiche ridefiniscono di volta in volta il mondo.
Qui spiega come la crisi pandemica è destinata ad avere
maggiori conseguenze di quella finanziaria del 2008

COMINCIA L’ERA
DELL’INSTABILITÀ
PRIMAVERA 2022
N. 14
108
THE LEFT IN PURGATORY
A
dam Tooze è il principale esperto di crisi economiche e di come
abbiano plasmato il mondo moderno. In questa intervista spiega
perché la pandemia trasformerà la politica globale ancor più del
crack finanziario del 2008, inaugurando un’epoca di instabilità
Daniel Finn
intervista Prima della pandemia molti avevano previsto un altro crollo
Adam Tooze finanziario come quello del 2008. Invece è scoppiata una cri-
si molto diversa. Nel suo libro L’anno del rinoceronte grigio lei
nota come la minaccia di una pandemia scatenata da una malattia infettiva fosse sta-
ta identificata da tempo dagli esperti e dagli organi di controllo. Cosa ci dice del siste-
ma mondiale il fatto che non sia stata adottata alcuna misura di prevenzione contro
la minaccia pandemica?
In parte la ragione è insita nella natura stessa della minaccia. Le epidemie appar-
tengono alla stessa famiglia del cambiamento climatico: sono rischi poco comuni. Ciò
non toglie che l’argomento abbia saturato per decenni il discorso scientifico, ben prima
che la minaccia diventasse concreta. Ma il fatto è che cose come queste vanno al di là
dell’immaginazione di chi passa il tempo a ragionare sui potenziali rischi finanziari.
Proprio ora siamo in pieno dibattito per convincere i regolatori finanziari e i banchieri
centrali a interiorizzare questioni come il cambiamento climatico all’interno dei loro
sistemi.
Il sociologo Niklas Luhmann a questo proposito direbbe che l’efficienza dei sistemi
moderni dipende in larga misura dalla loro ottusità. È quello che permette loro di fun-
zionare in modo efficiente: i problemi possono essere contemplati solo se rientrano nel
codice del sistema, e allora vengono affrontati in modo iperefficiente. Invece il rischio
climatico e quello pandemico sfuggono alle griglie, sono difficili da circoscrivere.
Volendo scendere più nel concreto, prima del 2020 tutti gli studi sul rischio pandemi-
co tendevano a considerare un’epidemia come un problema dei paesi poveri. Come sot-
tolinea Andreas Malm nel suo pamphlet Corona, Climate, Chronic Emergency [tradotto
in italiano da Ponte alle grazie, Ndr] la portata gigantesca della risposta data dal mondo
a questa crisi dipende molto dal fatto che ha coinvolto i paesi ricchi, che hanno dovuto
salvarsi. Lo shock del 2020 ha colpito nel giro di pochi mesi prima la Cina, poi l’Europa
e gli Stati uniti, tre realtà che insieme rappresentano il 60% del Pil globale.
Si può aggiungere anche una terza spiegazione, più banale. Il sistema fondato sull’e-
conomia di mercato ha difficoltà a internalizzare una ester-
nalità come questa. E questa è stata un’esternalità non solo
Daniel Finn è editor per gli attori privati che generano sistematicamente rischi di
di Jacobin magazine. mercato (lo sviluppo immobiliare, l’espansione urbana o il
Ha scritto One man’s complesso agroindustriale alimentare) ma anche per gli stati
PRIMAVERA 2022

terrorist: a political nazionali, che fino a quel momento avevano liquidato questo
history of the Ira tipo di rischi come un problema di qualcun altro. Così ades-
(Verso, 2019). Adam so ci ritroviamo un’agenzia dell’Onu come l’Organizzazione
Tooze è professore di Mondiale della Sanità (Oms) che è grottescamente sottofi-
storia alla Columbia
N. 14

University. Il suo
ultimo libro è L’anno
del rinoceronte grigio
(Feltrinelli, 2021).
La traduzione è di
Riccardo Antoniucci.
110
nanziata rispetto ai bisogni del sistema globale. Sono rimasto sbalordito quando ho
appreso che il budget annuale dell’Oms è inferiore a quello di alcuni ospedali di New
York. Certo, si tratta di istituzioni che fanno cose diverse, ma è chiara la sproporzione di
risorse tra la medicina privata altamente capitalizzata, da un lato, e la salute pubblica
globale dall’altro.
Facciamo un esempio recente. Quello più determinante negli ultimi trent’anni è, ov-
viamente, l’assoluta passività e negligenza con cui i paesi ricchi hanno risposto all’e-
pidemia di Hiv/Aids nell’Africa sub-sahariana, che è stata semplicemente lasciata al
suo destino. Ci sono volute milioni di vittime prima che la politica sulla diffusione dei
farmaci contro l’Hiv cambiasse, e peraltro le case farmaceutiche continuano a fare re-
sistenza.

Nelle prime fasi della pandemia qualcuno aveva previsto che il Covid sarebbe stato
l’equivalente cinese di Chernobyl. Due anni dopo questa previsione si è rivelata sba-
gliata: invece di perdere legittimità a causa dei passi falsi della prima fase pandemi-
ca, il governo comunista cinese si è rafforzato, giocando sul contrasto con i risultati
ottenuti dai governi occidentali. Secondo lei perché la Cina è stata più efficace nell’af-
frontare il virus?
La salute pubblica è uno dei principi su cui si fonda il regime comunista cinese. È
una delle grandi promesse fatte alla popolazione fin dall’epoca
maoista. Già negli anni Ottanta i primi studi della Banca Mondiale
sulla Cina, quando il paese iniziava ad aprirsi all’Occidente, hanno DATO IMPRESSIONANTE
confermato nettamente questa tesi: Cina e India erano entrambe DI QUESTA CRISI È LA
estremamente povere, ma la Cina aveva raggiunto standard sanitari RAPIDITÀ CON LA QUALE
ed educativi simili a quelli dei paesi a medio reddito. HA INTERROTTO IL LAVORO
Parte dell’impegno comunista per la salute pubblica è prende- E I CONTATTI SOCIALI.
re molto seriamente il rischio di epidemie. Anche se inizialmente i E QUELLA CON LA QUALE
cinesi non sono riusciti a capire l’importanza di questo particolare QUESTI SONO RIPRESI
focolaio a causa di problemi con la catena di tracciamento, non c’è
mai stato un momento in cui Pechino abbia confuso il Covid con
una semplice influenza, per dire.
Il termine di paragone pertinente per valutare l’efficacia cinese rispetto ai paesi occi-
dentali è l’identificazione del rischio, una volta che era diventato evidente. Certo, resta
la questione di come mai il sistema di monitoraggio cinese abbia fallito, ma a partire dal
20 gennaio 2020 l’epidemia è stata riconosciuta pubblicamente e la risposta è stata più
forte di quella di qualsiasi altro stato. A febbraio noi dormivamo sonni profondi, mentre
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
avremmo dovuto capire che se Pechino chiudeva i collegamenti con Wuhan avremmo
dovuto farlo anche noi, da Tokyo, a Londra a New York o Los Angeles. Avremmo dovuto
immediatamente attivare un intenso sistema di monitoraggio negli aeroporti.
Quando Pechino si è messa in moto abbiamo visto all’opera una macchina coerente
garantita dagli investimenti fatti dal Partito comunista cinese negli ultimi dieci o quin-
dici anni per il mantenimento, l’espansione e la modernizzazione del suo apparato, in
111
una società enorme e in rapida trasformazione. Era facile immaginare che il partito co-
munista sarebbe stato reso obsoleto dai processi di urbanizzazione e di mobilità sociale
colossali attraversati dalla Cina negli ultimi anni. Invece l’apparato è riuscito a tenere
il passo con le trasformazioni e far sì che le strutture di partito mantenessero la presa
sulla società. I nuovi complessi residenziali di lusso hanno al loro interno cellule del
Partito comunista con membri attivi.
È questa la macchina che si è messa in moto con lo scoppio della pandemia, secon-
do un processo analogo a quello avvenuto in vari stati occidentali tra gli anni Novanta
e gli anni Zero. Processi che tendevano a rivitalizzare e riorientare le forme di gestione
della cosa pubblica, per esempio attraverso lo sviluppo di un approccio basato su «fa-
miglie di problemi» e schemi comuni. Il Partito comunista cinese ha fatto questo salto
su una scala ancora più vasta, oltre ad aver sviluppato assiduamente le sue ramifica-
zioni nella società.
Solitamente la Cina viene dipinta come un gigantesco monolite omogeneo, ma in
realtà è un’enorme massa di localismi e particolarismi, con lingue regionali forti e un
senso di identità regionale pronunciato. Una delle cose che ha aiutato il governo a rea-
lizzare l’isolamento di Wuhan e dell’Hubei, per esempio, è stato il fatto che gli abitanti di
quella regione parlano con un accento piuttosto marcato, quindi è facile identificarli e
metterli in quarantena. Tanto che a febbraio 2020 Pechino ha dovuto contrastare il pro-
cesso che aveva avviato e inviare ordinanze anti-discriminazione
ai comitati locali del partito che avevano adottato metodi piuttosto
NON SIAMO DI FRONTE invasivi di sorveglianza e isolamento delle persone sospettate di
A UN REVIVAL DELLA provenire dai luoghi dell’infezione.
SOCIALDEMOCRAZIA, A tutto ciò va aggiunto un sistema efficace di contenimento del
MA DAVANTI A UNO virus, che nella sua prima variante era meno infettivo di quanto
STRANO IBRIDO sia ora. Solo adesso sappiamo che per contagiarsi bisogna essere
MOSTRUOSO: LA POLITICA all’interno e respirare gli uni sugli altri, mentre all’aperto o in strada
FRANKENSTEIN non ci si ammala. Durante la prima ondata non lo sapevamo, ma la
scelta del distanziamento sociale ha bloccato la diffusione del virus
già a metà febbraio.

In termini generali, si può paragonare l’impatto economico globale della crisi del
2020 con quella del 2008?
L’impatto iniziale della crisi del Covid è stato molto più selvaggio, molto più dram-
matico e molto più esteso. Il 2008 non è stata tanto una crisi finanziaria globale, ma
più che altro una crisi finanziaria nordatlantica, che ha sconvolto alcune zone dell’eco-
nomia dei paesi dell’Atlantico del Nord. Quello che è successo nel 2020 invece è stato
molto più ampio e ha colpito la gran parte della forza lavoro globale. In India la disoccu-
PRIMAVERA 2022

pazione è aumentata di oltre il 20%, dato certificato; in Cina i numeri sono meno sicuri,
ma considerando la situazione precaria dei tantissimi lavoratori migranti il 20% sembra
una percentuale ragionevole per descrivere la situazione. Nel 2008 non era successo
nulla di simile.
N. 14
112
È stato stimato che la seconda settimana di aprile del 2020 il Pil globale sia sceso del
20%. È stata la contrazione più grave nella storia del capitalismo, che non si era verifi-
cata né nel 1929, né nel 1907 o nel 1893. Non c’è nulla nella storia del capitalismo che
possa essere paragonato allo shock pandemico.
Un altro dato impressionante di questa crisi è la sua rapidità, in parte dovuta alla sua
natura di portare le persone a interrompere il lavoro e i contatti sociali, nella maggior
parte dei casi volontariamente. Quasi tutti i dati, specialmente per le economie avanza-
te, suggeriscono che il fenomeno aveva cominciato a capitare anche prima che i governi
varassero le restrizioni. Lo stop è stato volontario non nel senso che tutti hanno potuto
liberamente ritirarsi nel comfort delle loro case ben arredate e dedicarsi a nuovi hobby,
ma perché le persone hanno dovuto fare una scelta obbligata, valutando quale fosse la
cosa più sicura da fare.
La ripresa, poi, è stata relativamente rapida. Naturalmente anche perché è stato mes-
so in campo il più grande stimolo combinato fiscale e monetario della storia, soprat-
tutto negli Stati uniti dove in media i sussidi hanno sostituito completamente i redditi
familiari, specialmente quelli relativamente bassi. Negli Usa i sussidi sono stati così in-
genti che il reddito disponibile è salito proprio in una fase di crisi del mercato del lavoro.
Entrambi questi fenomeni hanno contribuito a rendere la situazione incredibilmente
inedita. Gli Stati uniti hanno avuto un rimbalzo economico superiore agli standard, anche
se adesso la ripresa si sta dimostrando
un po’ più deludente delle aspettative.
Dopo il 2008 il recupero è stato lento e lo stimolo monetario) a livello globale le disuguaglianze
prolungato, anzi da un certo punto di si sono aggravate.
vista non siamo mai tornati alla crescita
pre-2008. Questa volta è diverso. C’erano un paio di punti che ho trovato particolar-
È diversa anche l’esperienza delle mente sorprendenti nella sua analisi della prima fase
economie a basso reddito e dei mercati della crisi del 2020. Il primo è che a fine marzo, quando
emergenti. La crisi del 2008 non le ha la maggior parte delle persone si stava ancora ripren-
colpite neanche lontanamente quanto dendo dalla notizia della pandemia, i mercati finan-
quella del 2020. A trainarle, all’epoca, ziari già pensavano alle opportunità di guadagno. Lei
era stato il boom cinese durato fino fa l’esempio degli investitori che hanno puntato sulla
al 2014, che coinvolse anche il Brasi- compagnia di navi da crociera più grande perché pre-
le. Questa volta, invece, le economie vedevano che sarebbe stata l’unica a sopravvivere alla
a basso reddito e quelle dei merca- crisi. Il secondo punto riguarda le banche centrali, che
ti emergenti sono state colpite tanto hanno trovato più facile giustificare la loro risposta alla
quanto i paesi ad alto reddito, e per loro pandemia come un modo per sostenere le forme più
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
la ripresa è stata molto più lenta. Se speculative di attività del settore privato, invece di rico-
possiamo dire che nei paesi ricchi le di- noscere che stavano fornendo sostegno agli stati, da cui
sparità di reddito sono diminuite l’an- in definitiva dipende l’intero tessuto sociale.
no scorso (certamente è successo negli Le banche centrali hanno iniziato a intervenire davvero
Stati uniti, nonostante i benefici esorbi- solo nella seconda settimana di marzo 2020. La crisi finan-
tanti garantiti ai più abbienti attraverso ziaria è scoppiata veramente solo il lunedì 9 marzo. A metà
di quella settimana, i mercati erano così in subbuglio che le
banche centrali, guidate dalla Federal Reserve, hanno mes-
so in campo interventi inediti. A fine mese la Fed acquistava
tra 75 e 80 miliardi di dollari al giorno di asset, cioè un milio-
ne di dollari al secondo: tutti i giorni, per settimane e mesi.
In prima istanza l’acquisto riguardava i buoni del Te-
soro, ovvero il debito pubblico. Lo hanno fatto anche la
113
Banca d’Inghilterra e la Banca centrale europea. Appa-
rentemente la strategia è chiara. È successo negli anni
Quaranta, quando le banche centrali hanno aiutato i go-
verni a mettere in atto una politica espansiva per fare la
guerra e gestirne poi le conseguenze.
Non ci sarebbe bisogno di dire altro. Il fatto però è che
i banchieri centrali oggi negano di aver adottato questa
strategia. Certo, ammettono che i loro istituti stanno L’idea di fondo è stata messa in luce
comprando debito pubblico, e riconoscono che i gover- chiaramente da Daniela Gabor, grande
ni hanno avviato una politica fiscale generosa perché economista critico macrofinanziario. Il
necessaria nella contingenza, ma si rifiutano di vedere debito pubblico ha tre facce. Innanzi-
un legame tra le due cose. E se gli chiedessimo perché tutto è un modo per finanziare la spesa
stanno comprando buoni del tesoro la risposta sarebbe: pubblica: esistono diversi modi per far-
«Per la stabilità finanziaria». La stabilità finanziaria è un lo e il debito è uno di questi. In secondo
eufemismo usato per assicurarsi che nessun investitore luogo, il debito pubblico è qualcosa in
privato, per quanto speculativo sia, subisca perdite così cui investono i fondi pensionistici, cioè
grandi da far crollare il sistema. investitori a lungo termine che hanno
Ora, quali sono gli investitori che rischiano queste bisogno di beni sicuri. Terzo, oggi il
perdite? Sono gli hedge fund, che si imbarcano in scom- debito pubblico è anche il carburante
messe tecniche piuttosto complicate sull’evoluzione dei della speculazione finanziaria a breve
debiti pubblici. Qualcuno, una volta, ha descritto questa termine. Uno dei temi del mio saggio
attività come quella di una persona che si guadagna da è proprio cercare di districare queste
vivere raccogliendo sigarette mezze fumate davanti a tre funzioni tra loro. Due di queste po-
un rullo compressore. I margini sono minuscoli, ma se trebbero essere considerate come po-
si prende in prestito abbastanza denaro il guadagno è tenzialmente afferenti a una politica
grande. Il problema però è che quando sbagli la scom- fiscale di stampo progressista, mentre
messa rischia di venire giù l’intera piramide del credito. la terza no.
È questo crollo che le banche centrali hanno impedito. Cosa ha a che fare tutto ciò con l’in-
debitamento privato e con le crociere?
Gli investitori detengono debito pub-
blico come una sorta di salvadanaio di liquidità. È un modo per ottenere denaro rapi-
damente guadagnando un po’ di interessi man mano. Nella crisi del 9 marzo 2020, le
azioni private e il debito privato sono stati pesantemente svenduti. I gestori di fondi
che gestiscono gli investimenti dei ricchi si sono trovati di fronte a richieste di liquidità,
perché la gente ha cominciato a ritirare i suoi soldi dai fondi di investimento.
È come se tutti corressero in banca per ritirare i depositi. Per accontentare tutti, i ge-
stori di fondi d’investimento devono ottenere rapidamente liquidità, ma non possono
vendere azioni perché sarebbe un disastro, perderebbero un sacco di soldi. Così hanno
PRIMAVERA 2022

cominciato a vendere titoli di stato americani, più stabili, e questo ha destabilizzato il


mercato obbligazionario. Quando la Fed se n’è accorta ha detto: «Ok, ci sono due modi
in cui potremmo stabilizzare il mercato dei titoli». Uno è comprare titoli, l’altro è cercare
di stabilizzare i mercati degli asset privati, perché è lì che si è creato il panico. Hanno
provato a fare entrambe le cose: sono intervenuti per stabilizzare anche i mercati del
N. 14

debito privato facendo promesse senza precedenti.


A quel punto, anche le imprese che si trovavano all’estremità più rischiosa della crisi,
come le compagnie di crociera appunto, hanno intuito la possibilità di indebitarsi. Poi,
naturalmente, si è aperta la questione di quali condizioni e quali aziende rappresentas-
sero la scommessa migliore per gli investitori privati. Gli investitori hanno scommesso
sulle aziende che pensavano sarebbero sopravvissute: ovviamente ci sarebbe stata una
114
crisi di sistema, quindi aveva senso puntare sulle aziende che sembravano più adatte a
sopravvivere alla selezione darwiniana. Ecco quello che è successo a partire da marzo
2020, ed è proseguito in modo abbastanza sistematico.
Io l’ho definita «politica Frankenstein». Non si tratta, infatti, di un revival della social-
democrazia anni Quaranta o Cinquanta, ma è uno strano ibrido mostruoso. Un mostro
che ha gli arti del classico interventismo keynesiano della metà del secolo scorso avvita-
te su un corpo uscito direttamente dal mondo finanziarizzato del XXI secolo.
Un altro esempio di questa condizione è una cosa che è avvenuta su Reddit. Un grup-
po di persone ha deciso di rivendere i suoi assegni di sussidio pandemico sul mercato
azionario, per fare più soldi. Molti radicali oggi chiedono che i cittadini possano aprire
un conto nelle banche centrali. In pratica dicono: «Perché aspettare? Possiamo farlo da
soli. Voi mi date un assegno di stimolo e io so dove metterlo. Non farò l’idiota e non andrò
a spenderlo in paccottiglia di plastica cinese. Lo metterò nel mercato azionario, che pa-
rallelamente voi vi impegnate a stimolare, e così diventerò ricco». E il cerchio si chiude.

Nel suo libro lei cita Daniela Gabor anche in riferimento al «Wall Street Consen-
sus», che ha assicurato che ci fosse abbastanza credito disponibile per i mercati emer-
genti nonostante la crisi. Come si differenzia questo modello dal vecchio Washington
Consensus, e quali sono le sue implicazioni politiche?
È uno slittamento sottile e in continuo mutamento, che prende
forme sempre diverse. Esiste per esempio il «Cornwall Consensus»,
che ci crediate o no, che prende il nome dal vertice del G7 dell’esta- ORA CHE IN GERMANIA
te scorsa. Tutti questi concetti cercano di afferrare qualcosa, qual- I LIBERALDEMOCRATICI
cosa che ha a che fare con la sfera globale in modo preminente. HANNO OTTENUTO
Prima parlavamo degli interventi della Federal Reserve nei mer- IL MINISTERO DELLE
cati finanziari americani. Il Washington Consensus era un insieme FINANZE, LA POSIZIONE
di prescrizioni valide per tutto il mondo, che diceva come regola- DEI PAESI COSIDDETTI
re la bilancia dei pagamenti e i conti finanziari delle economie dei FRUGALI SI RAFFORZERÀ
mercati emergenti. Penso che della teoria di Daniela Gabor va man-
tenuta soprattutto l’idea dello scostamento del sistema attuale ri-
spetto a un regime che era orientato a disciplinare la sovranità per adattarsi a un quadro
dettato da norme di condotta finanziaria e da modalità di integrazione con l’economia
globale prestabilite a Washington. Per «Washington», naturalmente, si intende il Tesoro
degli Stati uniti, il Dipartimento di stato degli Stati uniti, il Fondo Monetario Internazio-
nale (Fmi) e la Banca Mondiale, istituzioni tutte con base a Washington. È avvenuto uno
spostamento da quel quadro stabile, verso un insieme di modelli definiti dagli interessi
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
di persone che si trovano a quattro ore di un treno da Wall Street.
Quello che Wall Street vuole adesso non è la classica politica fiscale di austerità, an-
che se il presupposto è sempre quello. Quello che le interessa principalmente è che il
Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale funzionino quasi come consulen-
ti di gestione, per sostenere e ridurre i rischi dell’indebitamento dei mercati emergenti
e dei paesi a basso reddito. Lo spostamento è da un mondo in cui l’obiettivo primario
115
era quello di disciplinare gli stati sovrani indebitati (come nel caso dell’Argentina, che
è il fossile del Washington Consensus, e finisce ancora in prima pagina per questo, a
volte) a un modello in cui l’obiettivo è organizzare il sostegno pubblico per la riduzione
dei rischi dei prestiti privati. Questo da un lato. Dall’altro lato si punta a rendere gli stati
sovrani più resistenti, proprio perché in questo modo possono fare più debito.
Tutto ciò implica un grande mercato obbligazionario in valuta nazionale ad alto fun-
zionamento. Non si corre più il rischio futile di prendere prestiti in dollari. Si prende
invece a prestito denaro in valuta locale, e finché i tassi di interesse sono bassi gli inve-
stitori stranieri accettano di farsi carico dei rischi connessi a questa scelta.
La domanda allora è: come si fa a dotare la banca centrale e il ministero delle finanze
indonesiano, per dire, delle attitudini e delle capacità necessarie a essere un gestore cre-
dibile di un tale sistema di indebitamento? Da un lato, si possono accumulare ingenti
riserve di valuta estera per attutire le svalutazioni. Dall’altro, si fa adottare all’Indonesia
un regime finanziario abbastanza allineato con i criteri di Maastricht stabiliti dagli eu-
ropei nel 1992: limiti al debito, limiti al deficit e così via. Ecco un tipico esempio di Wall
Street Consensus.
Il punto è creare facilitazioni tra i grandi creditori di Wall Street e i governi locali, con
l’intermediazione del Fmi e della Banca mondiale che li accelerano e li rendono adatti a
ricevere il capitale globale. Ora, per funzionare tutto ciò richiede la collaborazione delle
élite locali, molte delle quali comunque si sono formate negli Stati
uniti o nelle università europee. Ma non siamo più al modello dei
NEGLI USA LA SALDATURA «Chicago Boys», qui si tratta di una fusione molto più ampia tra élite
TRA RETORICHE finanziarie dei mercati emergenti e le loro controparti occidentali.
REAZIONARIE HA FATTO Nel 2020 avevamo previsto una crisi, ma non si è presentata
IN MODO CHE CHE LIBERAL come ce l’aspettavamo. C’è stata una crisi di salute pubblica e un
E ANTIRAZZISTI VENISSERO disastro macroeconomico nelle economie dei mercati emergenti,
CONSIDERATI ma non si è verificato un disastro dei mercati finanziari, anche per-
AGENTI DEL PCC ché il sistema si è dimostrato resistente agli scossoni. Se si leggono
le pubblicazioni del Fmi e della Banca dei regolamenti internazio-
nali si vede che anche loro riconoscono che è nato un nuovo mo-
dello svincolato dalle nostalgie del Washington Consensus, che richiede a volte ai paesi
interventi abbastanza seri per mantenere la loro redditività come debitori all’interno
del sistema. È così che si è riuscito a evitare lo scoppio di una nuova crisi finanziaria o
di una crisi globale del debito nel 2020.

Pensa che le scelte attuali dei leader europei, dopo lunghi tira e molla e politi-
che del rischio calcolato, rappresentino oggi una rottura chiara e duratura rispetto
all’approccio adottato durante la crisi dell’Eurozona?
PRIMAVERA 2022

È troppo presto per dirlo. È ancora tutto da decidere. Ci sono due punti di vista
diversi in Europa in questo momento. Da una parte c’è chi pensa che nel 2020 si sia
aperta una porta verso un nuovo modello, dall’altra c’è la coalizione degli stati cosid-
detti «frugali». Soprattutto ora che in Germania i liberaldemocratici hanno ottenuto
N. 14
116
il ministero delle finanze la loro posizione senza dubbio si rafforzerà. Questo secon-
do gruppo sostiene che le politiche adottate durante la pandemia sono temporanee
e giustificate solo dalla straordinarietà della situazione. La Corte Suprema tedesca ha
scolpito nel marmo questa tesi affermando che la pandemia è l’unica giustificazione
per cui si può accettare il programma di acquisto come quello messo in campo dalla
Banca centrale europea.
Nel 2022 si aprirà la guerra contro questa politica della Bce. Sarà senz’altro un tema
politicamente caldo in Europa ed è difficile dire cosa abbia da offrire la posizione con-
servatrice quanto a visione realistica del futuro del continente. Se considerano la con-
dizione attuale soltanto come un accidente straordinario, come pensano di gestire le
finanze barcollanti dell’Unione? Finora i conservatori hanno evitato di rispondere.
Esiste chiaramente un percorso di creazione di una vera capacità fiscale europea,
oltre che di una Banca centrale europea che possa finalmente agire come una normale
banca centrale. Certo, la Bce sarebbe afflitta da tutti i problemi delle banche centrali
nelle economie capitaliste dinamiche e instabili, ma almeno non dovrebbe affrontare
la difficoltà aggiuntiva dei vincoli del trattato Ue. Questa è il grande tema della politica
europea dei prossimi due anni.

Venendo agli Stati uniti, nel suo libro segnala come siano avvenuti due eventi stra-
ordinari nella crisi politica vissuta dal Paese nel 2020. La prima è la crisi stessa, con
Donald Trump che nega la legittimità dell’elezione di Joe Biden. La seconda è l’idea
che gli esiti della crisi sarebbero stati molto diversi se a vincere le elezioni fosse stato
Bernie Sanders invece di Biden...
Penso che il primo punto fosse insito nella stessa vittoria di Donald Trump nel 2016.
Non è stata affatto una sorpresa. Il comportamento di Trump è indice di una crisi pro-
fonda delle istituzioni americane da cui non siamo ancora usciti.
Ottimisticamente si potrebbe dire che comunque i vari poteri degli Stati uniti hanno
fatto il loro dovere, quando sono stati chiamati in causa sulla scena politica. Ma una del-
le cose sorprendenti del 2020 è stato proprio il fatto che siano stati chiamati in causa: i
tribunali, i grandi imprenditori e, come sappiamo adesso, i militari dietro le quinte (ne-
anche tanto). Dopo tutto, abbiamo vissuto in una situazione in cui i vertici militari degli
Stati uniti hanno dovuto dire pubblicamente che non si aspettavano di venire coinvolti
nel processo democratico americano. È stato un rifiuto molto significativo. La visione ot-
timista dice che è successo quello che è successo, ma alla fine i paletti della democrazia
hanno tenuto, l’establishment li ha fatti rispettare. Mi sembra un test del tutto inadeguato
per giudicare la solidità delle istituzioni americane, perché Biden è quello che è. Era il
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
candidato più mainstream che il Partito democratico potesse avere. Non è chiaro come
sarebbero andate le cose se ci fosse stato qualcun altro, uno come Bernie Sanders per
esempio. Vale la pena ricordare che siamo di fronte a un limite strutturale. Se Sanders
avesse vinto le primarie democratiche, ci sono tutte le ragioni per credere che sarebbe
sceso in campo nella corsa presidenziale un terzo candidato, un miliardario che avrebbe
drenato una parte significativa di voti e reso l’esito elettorale praticamente imprevedibile.
117
Non è un caso che sia stato Biden a vincere la nomination.
La grande ricchezza americana ha esercitato un potere di
veto contro Sanders: non gli si poteva permettere di corre-
re e vincere, neanche contro Trump.
Questa storia ha messo in luce i limiti della politica
democratica negli Usa. È probabile che, costretti a sce-
gliere, i ricchi avrebbero preferito finanziare Trump ri-
spetto a Sanders. Non ne abbiamo la certezza, perché segretario di stato nel 2011, e l’esercito
non siamo arrivati a questo punto, ma il fatto che non ci americano ha cominciato a muoversi in
siamo arrivati non è un caso. quella direzione dal 2013-2014, quando
la stagione della guerra globale al ter-
Quanto ha accelerato la pandemia il riequilibrio dei rorismo ha cominciato a entrare in fase
rapporti di forza tra Cina e Stati uniti? calante.
Lo ha fatto in modo evidente: l’economia cinese è Trump ha ereditato questa tendenza,
cresciuta molto velocemente e la crisi ha dimostrato le ma sicuramente gli ha impresso un’ac-
profonde fragilità della politica interna americana. Pen- celerazione. La crisi dell’ordine politico
so che la cosa di gran lunga più significativa sia però il interno negli Stati uniti si è tradotta in
fatto che la crisi interna dell’ultima fase dell’ammini- un’escalation di retorica anticinese a
strazione Trump si sia riversata su un’escalation esterna molti livelli. Si è prodotta una saldatu-
nelle relazioni tra Stati uniti e Cina. L’iniziativa è venuta ra tra retorica anticinese e retorica re-
da parte americana ma sembra aver scatenato un effetto azionaria e repressiva sulle questioni
domino. I Democratici si sono buttati a capofitto nella interne agli Stati uniti, per cui i liberal
logica dell’escalation, ed era certamente una tendenza di Hollywood e il movimento antirazzi-
soggiacente che si può far risalire già ai primi anni della sta americano sono diventati «agenti»
presidenza Obama, con il fallimento della prima visita in del Partito comunista cinese. L’attacco
Cina nel 2009. Da quel momento le tensioni sono sempre ai liberal e alla sinistra non è una sor-
aumentate. Lo spostamento dell’attenzione americana presa, ma lo è stata di più la pressione
verso l’Asia è stato sancito da Hillary Clinton quando era esercitata dall’amministrazione Trump
sulle aziende statunitensi. Il procurato-
re generale William Barr ha rivolto mi-
nacce dirette nei confronti della lobby commerciale cinese.
Stiamo assistendo a una profonda spaccatura all’interno della struttura di potere de-
gli Stati uniti, tra la sicurezza nazionale e l’apparato di governo economico-finanziario
da un lato, e dall’altro potenti e ben radicati interessi economici per cui il rapporto con
la Cina è essenziale. Gli eventi del 2020 hanno spinto questa tensione ancora più in alto.
È stato difficile per Biden fare marcia indietro su questo crinale, e Pechino ha iniziato
a reagire, ha raccolto il guanto di sfida. Gli Stati uniti hanno dichiarato una sorta di guer-
ra economica alla Cina fatta di sanzioni alle loro aziende tecnologiche per tracciare un
PRIMAVERA 2022

confine nel settore tecnologico che la Cina non deve attraversare. Ovviamente, questo
è inaccettabile per Pechino.
Quello a cui assistiamo adesso è uno spostamento sempre più forte dal soft all’hard
power. Quando gli Usa si sono ritirati dall’Afghanistan ho scritto un articolo per con-
testare l’idea che quello fosse l’inizio di un’era post-americana: bastava considerare il
N. 14

budget del Pentagono e il suo impegno verso opzioni militari su larga scala e ad alta
tecnologia. La retorica sulla competizione nucleare sfoderata dal Capo di Stato Maggio-
re Mark Milley non ha fatto che confermare questa tesi. È chiaro che stiamo andando
in questa direzione ed è molto difficile vedere come si possa far quadrare la profonda
integrazione della finanza e delle catene di approvvigionamento con la corsa agli arma-
menti nucleari tra Cina e Stati uniti.
118
Lei ha esposto un quadro sconfortante della vaccinazione globale, per quello che
racconta delle capacità del sistema mondiale. Molti di noi hanno una certa familia-
rità con le inefficienze della campagna vaccinale, ma è sconvolgente leggere che uno
qualsiasi degli stati del G20, forse eccetto soltanto il Sudafrica e l’Argentina, sarebbe
stato in grado di prendere un prestito abbastanza grande da pagare l’intero program-
ma di vaccinazione globale a tassi di interesse negativi. Era una mossa giustificata
anche dal calcolo più cinico e interessato, ma si è deciso di non farla.
È assolutamente sconcertante, considerando anche gli appelli disperati venuti non
solo dalle Nazioni Unite ma anche dal Fmi. La vaccinazione globale è stata il primo
punto all’ordine del giorno delle riunioni del Fmi per tutto l’anno scorso. Si sarebbero
potute guadagnare decine di trilioni di dollari di Pil globale sviluppando un programma
di vaccinazione di tutto il pianeta che anche le stime più alte suggeriscono non sarebbe
costato più di un centinaio di miliardi di dollari. Di questo parliamo: abbiamo le cono-
scenze scientifiche e vaccini che funzionano, eppure tutto ciò non sta accadendo.
Alcuni amici giornalisti investigativi che hanno lavorato sulle decisioni dell’Europa
durante la pandemia dicono che è la lobby farmaceutica a volere che le cose restino
come sono. Il che non è meno sconcertante, perché significa che avremmo il paradosso
di un interesse minuscolo che paralizza un intero sistema. Quanto può valere la pro-
prietà intellettuale dei vaccini di Pfizer o Moderna? Forse 10 miliardi di dollari ciascuno
al massimo. Parliamo di una differenza di mille volte, tra i 10 mi-
liardi di dollari che potrebbero essere a rischio nei bilanci di Pfizer
e Moderna e i 10 trilioni di dollari in gioco nell’economia globale. LA SCORSA PRIMAVERA
C’è un gruppo consistente di studiosi della School of Law di Yale È ANDATO IN FUMO IL
specializzato proprio in giustizia sanitaria. Il gruppo è nato origi- 20% DEL PIL MONDIALE.
nariamente per l’Hiv/Aids ma ora si concentra sui vaccini. Hanno L’INCAPACITÀ DI AGIRE
chiesto conto ai funzionari dell’amministrazione Biden, e alla fine SUI VACCINI CI ESPONE
pare che semplicemente nessuno nel governo americano si stia po- ALLA POSSIBILITÀ
nendo la questione. CHE IL CROLLO SI RIPETA
Se si accetta che, in definitiva, esiste una lobby che blocca un
processo globale, la domanda è: perché non si fa pressione politi-
ca per scavalcarla? Perché non si va semplicemente a chiedere alle case farmaceutiche
qual è il loro prezzo per cambiare idea? Perché non compriamo direttamente le aziende,
visto l’interesse generale in gioco? E non sto parlando dell’interesse generale dell’uma-
nità, in modo astratto: intendo proprio l’interesse di BlackRock, per dire, o di qualun-
que altro investitore istituzionale con la forza di comprare intere aziende. Ma nessuno
si pone veramente la questione. È il fallimento di una logica che potrebbe essere de-
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
scritta come sistemica, e che ci riporta in qualche modo al punto di partenza. Alla base
non c’è tanto un conflitto di interessi chiaro, quanto uno scollamento. Semplicemente
non ci sono più gruppi di interesse organizzati che si contendono l’egemonia.
Gli interessi sociali appaiono relativamente insignificanti all’interno del quadro ge-
nerale, incomparabili con i bilanci di alcune grandi aziende con esperienza nel settore
specifico. Ma la posta in gioco in questa partita è letteralmente l’accumulazione capi-
119
talistica globale e, naturalmente, la sopravvivenza dei 7,8 miliardi di abitanti di questo
pianeta. Perché, non ce lo dimentichiamo, basta che questo virus muti due o tre volte
in una direzione sbagliata e ci ritroveremo ad affrontare una minaccia ben più grave.
Per la teoria della crisi questo è un dilemma cruciale. Non sono convinto che esista-
no modelli adatti per dare una risposta certa: non esistono modelli adatti per valutare
una situazione in cui l’intera sopravvivenza del pianeta è appesa a un trial di fase tre
condotto in un laboratorio californiano da due case farmaceutiche. Perché è così che i
mercati hanno letto la situazione dell’autunno del 2020. Lo squilibrio tra mezzi e fini è
incomparabile.
Da un punto di vista più generale, la situazione conferma qualunque teoria o ipotesi
critica sulla profonda irrazionalità, incoerenza e incapacità del sistema in cui viviamo
di perseguire interessi generali di fronte a una crisi generale. Qualsiasi teoria della crisi
degna di questo nome, da Karl Marx in poi, parte da questo assunto. Ma dimostrarlo
effettivamente nella pratica, in relazione alla minaccia specifica attuale, capirne la logi-
ca e non venire semplicemente travolti dallo sconcerto è un’altra cosa, ed è la sfida che
dobbiamo affrontare oggi.
La crisi del Covid è molto più difficile da spiegare dei problemi del clima. Non è dif-
ficile capire la difficoltà del mettere d’accordo gli interessi capitalisti per adottare una
risposta comune al cambiamento climatico, ma il problema che abbiamo di fronte ora
è molto più urgente. Dopo tutto, la scorsa primavera è andato in
fumo il 20% del Pil mondiale. Bisogna spingere molto in là i modelli
NON BISOGNA di previsione climatici per trovare scenari così gravi. Ma è successo
CONFONDERE l’anno scorso, e l’incapacità di agire con determinazione sui vaccini
LE MACCHINAZIONI ci espone alla possibilità che il crollo si ripeta non tra vent’anni, ma
DELL’ÉLITE BANCARIA quest’inverno.
DEL 2020 CON
LE POLITICHE Questa analisi sulla mancanza di interessi sociali ben defi-
DI METÀ NOVECENTO niti mi porta all’ultima domanda che volevo farle. Alla fine di
Shutdown lei sostiene che, considerando la quantità di crisi so-
vrapposte che affrontiamo, in un’altra epoca ci saremmo dovuti
realisticamente attendere lo scoppio di una rivoluzione. Forse non in tutti i paesi,
ma certamente da qualche parte nel mondo. Eppure la rivoluzione non sembra per
niente all’ordine del giorno. Secondo lei, una politica di riforme radicali spinta da
forze di sinistra è anch’essa una scommessa troppo azzardata in questa situazione,
considerando che le figure dominanti, per il momento, sembrano essere i riformatori
conservatori di stile bismarckiani (politici o banchieri centrali) che cambiano tutto
perché nulla cambi? Pensa che il progetto di riforma dall’alto, che ha avuto il suo
apice a metà del ventesimo secolo, possa avere successo in assenza di una pressione
PRIMAVERA 2022

organizzata per la riforma dal basso, o della minaccia di una rivoluzione?


È una domanda assolutamente fondamentale, che ha a che fare con le forti ambizio-
ni riformatrici di programmi come il Green New Deal per esempio, che ovviamente si
rifà in misura considerevole alla memoria del primo New Deal degli anni 30-50. È im-
N. 14
120
portante ricordare però quanto fosse diverso all’epoca il rapporto di forza tra le classi.
È uno dei messaggi del mio libro: attenzione a non confondere le straordinarie mac-
chinazioni dell’élite bancaria del 2020 con le politiche della metà del ventesimo secolo.
L’apparenza può essere la stessa, e a volte anche il funzionamento, ma la sostanza è
completamente diversa, perché i rapporti di forza di classe sono estremamente diver-
si. La condizione di possibilità per un agire così spregiudicato da parte delle banche
centrali è proprio la mancanza di ogni timore di classe. Dopo tutto, la ragione per cui
le banche centrali sono state rese indipendenti e plasmate da programmi conservatori
negli anni Ottanta è stata proprio la contestazione di classe e la possibilità che l’infla-
zione potesse diventare uno strumento incontrollato di redistribuzione della ricchezza.
Oggi non rischiamo niente del genere, i banchieri centrali sono liberi di fare quello che
vogliono.
Tornando alla domanda, è importante distinguere due cose: da un lato c’è l’idea che il
cambiamento e la riforma possano avvenire solo se guidati da una spinta dal basso ver-
so l’alto, e dall’altro lato l’idea che il cambiamento possa avvenire solo se è spinto dalle
forze sociali. Dobbiamo fare i conti, infatti, con la possibilità che il cambiamento possa
essere guidato da altre coalizioni di forze sociali. Dico questo in parte sulla base dei
brillanti saggi di Melinda Cooper sul contraccolpo fiscale conservatore negli Stati uniti
durante gli anni Settanta. L’autrice mostra come sia un errore pensare al neoliberismo
negli Stati uniti semplicemente come
una forza antidemocratica, perché uno
dei suoi meccanismi chiave era la mo- La coalizione che si riconosce in Biden è composta da
bilitazione di massa della classe media persone istruite e medio borghesi. Cosa si può fare con
proprietaria, in particolare in Califor- questa coalizione? Difficilmente una politica molto ra-
nia, dove già all’epoca è stato approvata dicale, ed è improbabile che sia una politica fortemente
una legge sul pareggio di bilancio. redistributiva.
Quel tipo di politica bismarckiana Allargando lo spettro, date le sfide che stiamo affron-
non è priva di mobilitazione sociale. tando e i mezzi tecnocratici a nostra disposizione, quali
Otto von Bismarck stesso sentiva di combinazioni tra le diverse coalizioni di classe e quali
aver messo insieme una coalizione di strumenti è possibile produrre? Questo è lo spazio all’in-
classe abbastanza potente, composta terno del quale lavoriamo, ed è più complesso che una
da una parte dai contadini e dall’altra semplice opposizione tra alto e basso, tra tecnocrazia e
dalla borghesia nazionalista, e in que- movimento di massa.
sto modo è riuscito ad aggirare i liberali La partita si sta giocando in questo modo proprio ora
di sinistra e allo stesso tempo a conte- al Congresso degli Stati uniti, sul tema del cambiamento
nere l’influsso del partito socialdemo- climatico. Come si fa a mettere insieme una coalizione
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
cratico sulla nascente classe operaia che funzioni politicamente ed economicamente e por-
tedesca. ti a casa la riduzione delle emissioni di CO₂ necessarie
La domanda da farsi, in realtà (e per evitare il disastro? La questione non si può ridurre
penso questo sia il punto centrale di soltanto al contrasto tra riforme dall’alto e pressione
ogni politica riformista costruttiva) è dal basso, o all’opposizione tra riforma e rivoluzione. La
«qual è la coalizione sociale attuale?». pressione può venire dal centro o dai lati del sistema so-
ciale. Ci sono prospettive politiche molto più realistiche
di quella, remota, della rivoluzione, che possono produr-
re cambiamenti reali adesso. Forse possiamo essere tutti
d’accordo sul fatto che la questione più urgente oggi è
costruire una coalizione sociale capace di trasformare la
lotta contro la crisi in una politica di riforme orientate al
futuro.
121
LA POLITICA
THE LEFT IN PURGATORY

NON È
IL PERSONALE
Lo dicono i movimenti femministi: il «personale è politico».
Dunque, i problemi delle donne devono essere affrontati
collettivamente. Fuori da quel contesto, questo slogan
rischia di assecondare la deriva verso l’individualismo

U
tilizzi ancora «persona di colore» invece di Bipoc [Black, Indige-
nous, & People of Color, Ndt]? Attento al tuo linguaggio, è violento.
La peggiore cosa che puoi fare al mondo è avere un bambino. In
realtà, è addirittura peggio servire in tavola un tacchino, special-
mente se posti la foto sui social, che è a sua volta più grave che
mangiare il tacchino stesso dato che stai promuovendo l’idea che
Liza Featherstone consumare carne sia alla moda, nonostante gli effetti disastrosi
sull’ambiente.
Giudicare ed essere giudicati è estenuante. Forse guardi lo sport e i programmi di in-
trattenimento come una scappatoia dalla sfera politica. Rischi di sbagliare ancora. Devi
sostenere esclusivamente squadre e celebrità con le corrette opinioni politiche e che
compiono azioni individuali inattaccabili. Tra questi di certo
non troviamo Kyrie Irving, per esempio, la star dell’Nba che ha
fatto notizia per aver rifiutato il vaccino anti-covid, o Tom Bra- Liza Featherstone
dy, il campione di football amico di Donald Trump. è editorialista di
Probabilmente stai seguendo il messaggio secondo cui – non Jacobin Magazine,
importa quanto possa sembrare personale o irrilevante – tutto giornalista freelance e
PRIMAVERA 2022

ciò che fai e dici è politico. Questo tratto della politica odierna è autrice
opprimente per la maggior parte di noi, che cerchiamo sempli- di Selling Women
cemente di superare la giornata. Ma, anche se nessuno è perfet- Short: The Landmark
to, probabilmente non saremo noi il bersaglio dell’ira collettiva. Battle for Workers
’Rights at Wal-Mart
N. 14

(Basic Books, 2005).


La traduzione
è di Emily Zendri.
122
Colpire noi stessi e i nostri simili per errori individuali è un diversivo allo sguardo verso
le persone che causano realmente i problemi del mondo: la classe dirigente.
La cosa ancora peggiore è che questa ossessione verso le implicazioni politiche di ogni
azione individuale non ci fa vedere il nostro potenziale collettivo.
Lo studio di un politologo del Wellesley College ha rilevato che gli americani bianchi
più sensibili e preoccupati per l’ingiustizia e le disuguaglianze razziali classificano le ri-
sposte «ascoltare le persone di colore» ed «educare me stesso sulla questione del razzi-
smo» come più importanti del «portare problemi di razzismo all’attenzione dei funzionari
eletti» o dei votanti.
È abbastanza evidente che in questi tempi stiamo prendendo la politica troppo sul
personale.

ORIGINI RADICALI

L’idea per cui «il personale è politico» è stata un’intuizione brillante. Durante la secon-
da ondata del movimento femminista, alla fine degli anni Sessanta e inizio Settanta, le
donne si riunivano in gruppi di autocoscienza per parlare delle loro vite. Le discussioni
sul sesso, sul lavoro domestico e di cura o sulle gravidanze indesiderate hanno aiutato le
donne a comprendere la loro collettiva mancanza di potere, portandole ad agire e a orga-
nizzarsi per ottenere cambiamenti sociali.
La fondatrice del movimento femminista radicale noto con il nome Redstockings,
Kathie Sarachild, ha scritto che questa iniziale presa di coscienza ci ha portato a «com-
piere azioni politiche su aspetti della nostra vita di donne che non avremmo mai pen-
sato potessero essere affrontati politicamente, ma che pensavamo di dover gestire al
meglio da sole». Molti degli avanzamenti del femminismo della seconda ondata, com-
presi il diritto all’aborto, l’accesso al controllo delle nascite e l’integrazione delle donne
in alcuni ambiti professionali, sono il frutto di tale presa di coscienza. Processo che
ha condotto alla stesura di alcuni dei classici del femminismo, tra cui The Dialectic of
Sex di Shulamith Firestone e The Myth of the Vaginal Orgasm di Anne Koedt, entrambi
pubblicati nel 1970.
L’intuizione che il personale fosse politico caratterizzò l’intero movimento femminista:
dal saggio di Jane O’Reilly sulla rivista femminista Ms., «Click! The Housewife’s Moment
of Truth» [«Click! Il momento di verità della casalinga», Ndt], per protestare ed esigere l’e-
mendamento sulla parità dei diritti, all’organizzazione e alla presa di parola delle donne
contro la cultura dello stupro.
Nel contesto del femminismo degli anni Settanta, «il personale è politico» significava
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
che i problemi che le donne credevano di vivere in solitudine – una retribuzione disu-
guale, la mancanza di accesso a settori dominati dagli uomini (dalla medicina all’edilizia)
o episodi di violenza domestica – non erano fallimenti personali ma conseguenze di un
sistema patriarcale e dunque problemi che richiedevano un’azione collettiva.
Chiaramente, dato l’ethos individualista della società dei consumi, il concetto iniziò a
evolversi rapidamente. Lo schema e l’intuizione dei gruppi di autocoscienza femministi
123
sono stati rapidamente ripresi dalle comunità hippie nei loro «gruppi di incontro», poiché
le classi medie cercavano comprensibilmente di liberarsi dall’alienazione della società
borghese. Ma invece di lavorare per costruire nuovi assetti economici e sociali, hanno cer-
cato di liberarsi come individui. Questa nuova concezione della pratica dell’autocoscien-
za è stata rapidamente assorbita anche da Madison Avenue [famosa via di Manhattan in
cui nei primi anni Venti nacque l’industria pubblicitaria, Ndt], che ha sviluppato gruppi
di discussione per ottenere informazioni sulle donne, non per favorire la loro organizza-
zione, ovviamente, ma per vendere loro prodotti.

LA PALUDE DEL MORALISMO

Oggi, l’idea che «il personale è politico» si è sviluppata ulteriormente. Invece di credere
che le nostre esperienze individuali condivise con gli altri possano costituire la base per
l’azione collettiva, crediamo che «la politica è il personale», una perversione neoliberista
di un’idea che è stata progettata per essere collettiva.
«Il personale è politico» ha aiutato le donne a capire che un fidanzato violento o un
capo che fa mobbing non era né colpa loro né un problema che dovevano affrontare da
sole, ma piuttosto un problema politico con soluzioni politiche. Ma l’idea che «la politi-
ca è il personale» fa il contrario. Prende il nostro impulso politico, il nostro desiderio di
analizzare il mondo in termini politici e cambiarlo, e lo rivolge verso
il privato.
LA DERIVA MORALISTA In un mondo in cui «la politica è il personale», diventa importante
È PROFONDAMENTE esibire la propria integrità politica. Mettere nel proprio giardino un
ANTI-COLLETTIVA cartello con scritto «In questa casa, crediamo». Iniziare una riunione
E ANTI-MAGGIORITARIA, del consiglio aziendale con un ringraziamento alla terra. Sembrano
DAL MOMENTO CHE cose innocue, ma il corollario di tutta questa integrità individuale è
LA BONTÀ È TOTALMENTE andare a caccia dei cattivi. Quando «la politica è il personale», dob-
INDIVIDUALE biamo lavorare per identificare quegli individui che incarnano tutto
ciò che è politicamente scorretto – magari qualcuno che ha fatto un
«brutto tweet» – e punirlo come tale.
Ultimamente lo spettacolo dell’accanimento è quasi quotidiano negli ambienti di si-
nistra, nonostante sia consapevolezza diffusa che sia poco utile per far avanzare la nostra
battaglia politica. Di recente un podcaster di sinistra ha fatto un tweet dicendo di tro-
vare il comico Dave Chappelle [al centro di polemiche per alcuni suoi spettacoli comici
considerati omo e transfobici, Ndt]… divertente. La reazione è stata veloce e furiosa; da
allora ha lasciato Twitter dopo aver ricevuto minacce di violenza su sua moglie e i suoi
figli. Animato dalla missione di trovare le persone cattive e denunciarle, Twitter ha portato
persone a perdere il lavoro, a rompere amicizie e a una serie di disagi.
PRIMAVERA 2022

Ma nella cancel culture è tutto giustificato perché, come ha osservato Natalie Wynn nel
suo programma YouTube ContraPoints, non è solo l’azione o l’offesa che è negativa e deve
essere cancellata, ma è la persona stessa. Mentre il cristianesimo ci spinge ad «amare il
peccatore, ma odiare il peccato», i seguaci de «la politica è il personale» assumono una vi-
N. 14
124
sione più protestante: sei predestinato a essere buono o cattivo e le tue azioni dimostrano
semplicemente se fai o meno parte degli eletti.
Sui social media, gli eletti godono di una ricompensa – sotto forma di Like – per la
condanna dei cattivi. E i cattivi vengono puniti attraverso la citazione di loro tweet con
osservazioni che mostrano quanto sono cattivi.
Ogni sistema di credenze ha i suoi rituali, e questi sono quelli che alimentano l’idea per
cui «la politica è il personale».
La deriva moralista di questo tipo di politica è profondamente anti-collettiva e an-
ti-maggioritaria, dal momento che la bontà è totalmente individuale. Questa bontà si po-
trebbe anche considerare come una qualità utile alla competizione, un «bene posiziona-
le» – termine che, nel gergo economico, si riferisce a una cosa che ha valore perché è rara,
come suggerisce il titolo del libro di Catherine Liu sulla politica della classe professiona-
le-manageriale, Virtue Hoarders. Come la carta igienica in pandemia, la bontà individuale
in questo clima è precaria e difficile da trovare.

IL PERSONALE PUÒ ANCORA ESSERE POLITICO

È incoraggiante, tuttavia, che il vecchio spirito di coscienza collettiva secondo cui «il
personale è politico» sia ancora vivo.
Le campagne elettorali socialiste di
massa degli ultimi anni, per esempio,
hanno aiutato molti a comprendere – e fallimenti personali ma a quelli del sistema che ora lotta
ad affrontare – i fattori strutturali che si per trasformare.
celano dietro i propri problemi indivi- I migliori leader politici del movimento socialista in
duali. Quando la deputata Alexandria questo momento sono quelli che, come Bernie Sanders o
Ocasio-Cortez era, citando le sue parole, Alexandria Ocasio-Cortez, aiutano le persone a connette-
«una cameriera molestata sessualmen- re le loro esperienze personali a un movimento politico e
te» che non guadagnava abbastanza per a una soluzione politica.
vivere e non aveva assistenza sanitaria, L’organizzazione degli inquilini parla con gli affittuari dei
credeva davvero di non meritare uno problemi che vivono con i loro proprietari e li aiuta a supe-
stipendio maggiore o cure mediche gra- rare la sensazione di impotenza e rassegnazione mostrando
tuite. Aveva interiorizzato l’ideologia del loro che tutti gli altri inquilini nell’edificio hanno gli stessi
neoliberismo per cui se sei povero è per- problemi. È così che si costruisce lo sciopero degli affitti –
ché hai fallito come individuo. Semplice- e qualsiasi altra azione collettiva – ed è così che le persone
mente non ce l’hai fatta. combattono la classe dominante e vincono. È l’unico modo.
Come ha raccontato Alexandria Oca- Quando i promotori del disegno di legge Medicare for
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
sio-Cortez, la campagna elettorale per All parlano con le persone dei loro problemi di salute in-
Bernie Sanders, che chiedeva un mondo dividuali, queste cominciano a rendersi conto che l’assi-
diverso, le ha fatto capire che era un es- stenza sanitaria a scopo di lucro sta rovinando le loro vite.
sere umano che meritava una vita con- Il personale è ancora politico, e l’intuizione ci fa avan-
fortevole e che le difficoltà che ha dovu- zare e ci politicizza. Ma ciò non significa che la tua prefe-
to affrontare non erano dovute ai propri renza per un film Marvel rispetto a un altro sia politica, né
che boicottare singole persone significhi compiere un’a-
zione politica. È solo in quanto parte di un movimento che
produciamo un qualsiasi cambiamento politico.
Come mi ha detto una volta l’attivista per il clima, Bill
McKibben: «Quando le persone chiedono: Cosa posso fare
come individuo per salvare il pianeta? Io rispondo sempre:
La cosa migliore che puoi fare è essere meno individuo».
125
DALLA
THE LEFT IN PURGATORY

POST-POLITICA
ALL’IPER-POLITICA
Siamo passati dalla padella della fine della storia
(e del trionfo degli automatismi tecnocratici) alla brace
della disseminazione ossessiva e molecolare di discorsi
che si proiettano in forme spettacolari e nel breve periodo

A
metà del suo memoir Gli anni, Annie Ernaux disegna il panorama
politico della metà degli anni Novanta:

Si diffondeva un clima d’escatologia politica. Si annunciava l’avvento di


un «nuovo ordine mondiale». La fine della Storia era vicina, la democrazia
si sarebbe propagata su tutto il pianeta. [...] La parola «lotta» era stata scre-
Anton Jäger ditata, quasi puzzasse di un marxismo ormai messo in ridicolo, il termine
«difesa» designava innanzitutto quella dei consumatori.

Nata in una famiglia operaia nel 1940, alla fine degli anni 2000 la scrittrice francese era già
diventata tra le più celebrate in patria. Uscita nel 2008, questa sua «autobiografia collettiva»
sulla società francese del dopoguerra è apparsa poco prima del
fallimento di Lehman Brothers. La traduzione italiana è arrivata
nel 2015, quando il decennio «populista» si avviava al tramonto. Anton Jäger sta
Il lavoro di Ernaux è la diagnosi di un mondo chiuso in cui svolgendo un dottorato
le persone si sono ritirate nel privato e la politica è relegata in alla University
secondo piano e il potere l’hanno preso i tecnocrati. Quelli erano of Cambridge sul
PRIMAVERA 2022

gli anni in cui Tony Blair sosteneva che opporsi alla globalizza- populismo nella storia
zione era come opporsi al cambiamento delle stagioni, e in cui statunitense.
entrava nel dizionario tedesco il termine Alternativlosigkeit, «as- La traduzione è
senza di alternative». di Riccardo Antoniucci.
N. 14
126
«Non sapevamo dire se ci sentissimo più logorati dai media con i loro sondaggi, quanta
fiducia le ispirano i seguenti personaggi, i loro commenti formulati con superiorità, i politici
che promettevano di aumentare i posti di lavoro, tappare i buchi di bilancio – o dalle scale
mobili della stazione sempre fuori servizio», scrive Ernaux.
Dopo dieci anni di disordini populisti, questa testimonianza appare oggi insieme fami-
liare e inaudita. I processi di rapida individualizzazione e di declino delle istituzioni col-
lettive diagnosticati dall’autrice non si sono più arrestati. Salvo poche eccezioni, la base
dei partiti politici continua a erodersi. Le associazioni non hanno più guadagnato iscritti,
le chiese non hanno più riempito i banchi di fedeli e i sindacati non sono resuscitati. In
tutto il mondo, la società civile è ancora impantanata in una crisi profonda e prolungata,
l’azione politica (o presunta tale) è monopolizzata dai flash mob, da Ong e da filantropie va-
rie fondate su mandati democratici esili e basi associative inesistenti. La sociologa politica
americana Theda Skocpol parla, giustamente, di una combinazione tra «teste senza corpo»
e «corpi senza testa».
D’altra parte, difficilmente si ritrova tale e quale al giorno d’oggi quella miscela di diffi-
denza e apatia così caratteristica degli anni Novanta descritti da Ernaux. Il presidente Joe
Biden è stato eletto con un’affluenza elettorale da record; il referendum sulla Brexit è stato
il più grande voto democratico nella storia della Gran Bretagna. Le proteste di Black Li-
ves Matter hanno organizzato eventi di massa, molti dei principali brand mondiali hanno
indossato il cappello dell’uguaglianza razziale, adattando i loro marchi. Piattaforme come
TikTok, YouTube e Twitter sono piene di contenuti politici: dai vlogger americani che reci-
tano opuscoli socialisti fino agli influencer francesi di destra che urlano contro i rifugiati.
Una nuova forma di «politica» avanza sui campi dell’Nba e della Nfl americane, nelle serie
Netflix e nei modi in cui le persone si descrivono sui social.
A destra, molti sostengono che la società sia come sopraffatta da un affaire Dreyfus per-
manente, che avvelena le cene di famiglia, gli aperitivi tra amici e i pranzi di lavoro. I cen-
tristi, invece, finiscono preda della nostalgia per l’epoca precedente alla nuova iper-politica
odierna, una nostalgia per la post-storia degli anni Novanta e Duemila, quando i mercati e
i tecnocrati erano gli esclusivi depositari di ogni politica.
L’era della «post-politica» si è chiaramente conclusa. Eppure, invece di vedere risorgere
la politica del ventesimo secolo, con la correlata rinascita dei partiti di massa, dei sindacati
e delle lotte dei lavoratori, attualmente viviamo in una situazione che sembra aver saltato
un passaggio.
Chi ha iniziato a fare politica nell’epoca della crisi finanziaria ricorderà bene la fase in
cui non si poteva definire più niente come scelta politica, nemmeno le politiche di austeri-
tà. Oggi invece tutto è politico, e con accanimento. Tuttavia, nonostante selvagge passioni
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
stiano superando e plasmando alcune delle istituzioni più potenti dell’Occidente (in parti-
colare negli Stati uniti), sono pochissime le persone realmente coinvolte in quel tipo di con-
flittualità organizzata tra gruppi di interessi che definiva la politica nel suo senso classico
novecentesco. Il sentimento antipolitico, inoltre, non è affatto diminuito. L’ibrido risultante
si dimostra stimolante e allo stesso tempo esasperante, ma non ha prodotto la rinascita
della politica di classe che la sinistra populista prospettava.
127
Per capire questo passaggio dalla post-politica all’iper-politica vale la pena allora riepilo-
gare i tratti essenziali dell’interregno che ci stiamo lasciando alle spalle.

LA POLITICA DOPO IL 2008

L’era glaciale che aveva seguito il crollo del Muro di Berlino ha cominciato lentamente a
scongelarsi. Da Occupy Wall Street negli Usa al 15M in Spagna alle mobilitazioni anti-au-
sterity in Gran Bretagna, in tutto l’Occidente hanno cominciato a emergere movimenti che
ancora una volta sollevavano lo spettro del conflitto tra interessi organizzati. Questi movi-
menti, tuttavia, non nascono nei regni formali della politica. La retorica del «né di destra
né di sinistra» è stata talvolta descritta come antipolitica, ma ha senz’altro il merito di aver
segnato la fine di un’era di consenso allineato.
Nell’esplosione populista sono proliferate le alternative organizzative al vecchio model-
lo di partito di massa. Movimenti, Ong, multinazionali e società di sondaggi mascherate
da gruppi politici come Extinction Rebellion o il Brexit Party offrono modelli più flessibili
rispetto ai partiti della classe operaia di un tempo, percepiti come pachidermi sia dai po-
litici che dai cittadini. Chi un tempo avrebbe aderito a un partito ora si può risparmiare di
entrare in associazioni impersonali e dai tempi lenti, e i politici possono godere di un minor
grado di opposizione rispetto ai congressi di partito.
Strane nuove forme hanno preso il posto del partito di massa. I co-
siddetti partiti digitali, dalla France Insoumise e Podemos, a sinistra,
I PARTITI DIGITALI a La République en Marche di Emmanuel Macron al centro o il Movi-
PROMETTONO MENO mento 5 Stelle con collocazione politica amorfa promettono meno bu-
BUROCRAZIA E PIÙ rocrazia, più partecipazione e politica orizzontale. In realtà, hanno per
PARTECIPAZIONE. MA lo più concentrato il potere nelle mani dei loro fondatori. Il candidato
HANNO CONCENTRATO dell’estrema destra francese Éric Zemmour va ai talk show dei millen-
IL POTERE NELLE MANI nial, mentre i politici olandesi tengono discorsi in streaming su Twitch.
DEI LORO FONDATORI Come veicoli, i partiti stanno lentamente morendo o sono sostituiti da
organizzazioni di quadri, mentre il resto del partito viene trasformato
in una tribuna.
In Gran Bretagna, il Brexit Party è stato almeno più onesto. Si è affermato come un’a-
zienda già prima delle elezioni del 2018 e poi ha continuato ad agire sulla scena come un
partito serio solo nella misura in cui era vantaggioso per la carriera personale del suo leader
Nigel Farage. Tutte queste organizzazioni rivendicavano radici in strati della società senza
politicizzazione, ma nessuna di esse ha spinto i suoi sostenitori a intraprendere quello che
potrebbe essere descritto come impegno politico classico.
Una forza trainante di questo nuovo movimentismo è stato senza dubbio l’opportuni-
smo elettorale. Per la maggior parte dei partiti europei, la conversione recente al modello
PRIMAVERA 2022

del movimento avviene sullo sfondo di un duplice declino, degli iscritti e dell’elettorato. Il
Belgio è un esempio significativo di questa tendenza. I cristiano-democratici fiamminghi
avevano 130.000 membri nel 1990, ora ne contano appena 43.000. Nello stesso periodo, i
socialisti belgi sono crollati da 90.000 a 10.000 iscritti, il partito socialdemocratico tedesco è
N. 14
128
passato da un milione nel 1986 a poco più di 400.000 nel 2019, mentre i membri del partito
laburista olandese sono scesi da oltre 100.000 nel 1986 a 41.000 nel 2021.
La storia è simile un po’ ovunque: l’ex partito di massa sopravvive come fornitore di poli-
tica (ciò che gli scienziati politici chiamano il «fattore di produzione» della democrazia), ma
al suo interno è divorato da specialisti della comunicazione e burocrati. Nel suo romanzo
Ernaux racconta che la sede del Partito socialista francese, che aveva votato nel 1981, nel
2017 è stata messa in vendita dopo il crollo verticale dei socialisti alle presidenziali.
Per certi versi la Gran Bretagna ha rappresentato un’eccezione alla regola. Con la leader-
ship di Jeremy Corbyn il Partito laburista ha visto una crescita esponenziale degli iscritti,
passati da poco più di 150.000 con il segretario precedente Ed Miliband ai quasi 600.000.
Parliamo non di semplici sostenitori, ma di iscritti con diritto di voto, quindi in grado di
incidere sulla scelta dei rappresentanti del partito, anche se magari non partecipano rego-
larmente alle riunioni di sezione. È chiaro che un tale processo di ripoliticizzazione pianta
semi politici, tanto che persino i conservatori britannici si sono convinti a usare argomen-
tazioni progressiste: Boris Johnson ora chiede esplicitamente un ritorno al «conservatori-
smo di una sola nazione», ovvero al tradizionale scetticismo dei Tory verso il libero mercato.
Anche il Covid ha contribuito a mandare in frantumi il consenso neoliberale. I governi di
tutto il mondo occidentale si stanno avvicinando ai livelli di debito pubblico della Seconda
guerra mondiale: da Singapore a Budapest, gli argini dell’austerità fiscale si sono rotti. Tut-
tavia, con l’eccezione della Cina, gli Stati
hanno assunto un ruolo curiosamente
duplice in questo processo. Le politiche Nel frattempo, le forme di mobilitazione popolare che han-
di welfare del ventesimo secolo sono state no storicamente stimolato la creazione di uno Stato sociale
un programma sperimentale di economia sono risultate discontinue e ostacolate dai quadri di partito.
mista che andava di pari passo con lo svi- Non sorprende che, sempre in Gran Bretagna, la con-
luppo nazionale. Spronati dall’alleanza, trorivoluzione dell’attuale leader laburista Keir Starmer
fragile ma organizzata, tra mondo del la- abbia messo nel mirino proprio i dirigenti: se il partito
voro e piccole imprese, gli Stati hanno in- deve essere trasformato in un altro veicolo della politica
vestito in servizi pubblici a lungo termine, di professione, allora gli iscritti vanno privati del loro po-
nell’elettrificazione delle aree rurali e nella tere, incentivati ad andarsene o espulsi. Il processo è ben
costruzione di dighe, strade, ponti e infra- avviato: oltre 150.000 persone hanno lasciato i laburisti
strutture. Nelle fasi più ambiziose di que- britannici nell’ultimo periodo.
sto periodo storico, il denaro pubblico ve- La lezione da trarre da tutto ciò, per i populisti di sini-
niva speso per costruire beni pubblici con stra, è piuttosto amara. Mentre la maggior parte delle svolte
scarso coinvolgimento del settore privato. a sinistra degli ultimi anni (da Syriza a Podemos alla Fran-
Questa economia dei beni pubblici fi- ce Insoumise) hanno cercato di esprimersi sotto forma di
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
nora è stata completamente assente nella nuove organizzazioni, il corbinismo è stato probabilmente
lotta al Covid. Invece la politica ha scelto l’ultimo sforzo per rivitalizzare gli agonizzanti partiti operai
di sostituire la mano invisibile del mer- del passato.
cato con la mano invisibile dello Stato, Il leader socialista fiammingo Conner Rousseau ha ce-
arbitro che occasionalmente assiste i gio- lebrato la «fresca atmosfera da start-up» che caratterizza
catori ma raramente partecipa al gioco. il suo partito, vantandosi del numero di follower su Insta-
gram. I partiti sono alla continua ricerca di social media
manager e usano gli influencer per diffondere i loro mes-
saggi. Macron ha invitato all’Eliseo due vlogger di YouTu-
be. In ultima analisi, i nuovi partiti digitali e i movimenti
che li hanno generati più che una negazione dell’economia
postindustriale sono state sue dirette espressioni: altamen-
te informali, effimeri, riuniti intorno a start-up o imprese
129
mordi e fuggi. Non sorprende che i bassi costi di creazione
di questi progetti siano eminentemente compatibili con gli
stili di vita mobili della classe media connessa.
I cittadini globali costretti a vagare da un impiego a tem-
po determinato all’altro trovano più difficile costruire rela-
zioni durature sul posto di lavoro, e trovano un ambiente
sociale più affidabile nella cerchia più ristretta della fami-
glia, degli amici e delle amicizie online. La solidarietà è re- Riprendendo il concetto elaborato da
legata tra due opposti, quello concreto della famiglia come Deleuze e Guattari, il teorico politico Paolo
fondo di garanzia personale e quello astratto dell’agorà di- Gerbaudo ha descritto i nuovi movimenti
gitale che ognuno di noi si costruisce su misura. di protesta come «corpi senza organi». Ser-
Questo elemento della scelta volontaria trova una chiara rati e muscolari, ma senza metabolismo
risonanza nel perenne stato d’animo contestatario divenuto interno, soggetti a una costante costipazio-
endemico nella politica del mondo contemporaneo. All’ap- ne e impotenza. Non è una sorpresa vedere
parenza le proteste di Black Lives Matter e di QAnon, come che una forma così fluida di autoritarismo,
l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio, sembrano avere poco che consente ai presidenti di cancellare le
in comune. In termini morali sono certamente due univer- elezioni e scavalcare i parlamenti, vada a
si separati (il primo è un movimento di protesta contro la braccetto con le economie di servizi sta-
violenza della polizia e contro il razzismo, il secondo è os- gnanti di oggi. Un’epoca di contratti di la-
sessionato dal complottismo e dalla teoria falsa della frode voro in continuo cambiamento e di lavoro
elettorale negli Stati uniti). Dal punto di vista organizzativo, autonomo sempre più diffuso non stimola
tuttavia, i due movimenti sono simili: non hanno elenchi di legami duraturi all’interno delle aziende:
membri, hanno difficoltà a imporre la disciplina ai seguaci e negli ultimi anni, circa il 4% degli america-
non si formalizzano in organizzazioni. Come sciami vagan- ni ha lasciato il lavoro per occuparsi ai pro-
ti, presentano ai loro aderenti due versioni speculari di eroi- pri investimenti in criptovaluta. Al posto
smo individualista: diventare i guerriglieri antifascisti della del partito di massa è arrivata una curiosa
zona autonoma di Capitol Hill, oppure l’agente segreto che combinazione orizzontale e gerarchica,
svela una cospirazione oscura ordita da Washington. con i leader che gestiscono il loro gruppet-
to di lealisti senza mai adottare una linea
chiara o una disciplina di partito.
Questo tipo di leaderismo era già riconosciuto da autori come Elias Canetti nella sua
opera Massa e potere, originariamente concepito nella Vienna tra le due guerre. Questo clas-
sico della saggistica politica è stato scritto in reazione alle grandi rivolte operaie degli anni
Trenta. Il movimento operaio tra le due guerre provocò un’aggressiva controreazione di de-
stra che prese la forma del fascismo, il cui punto d’arrivo alla fine è stata l’opposizione tra i
due movimenti di massa organizzati del fascismo e del comunismo.
Più che una «massa» in movimento, le truppe di QAnon di oggi e le proteste contro le
restrizioni della pandemia assomigliano a sciami: un gruppo che risponde a stimoli brevi
PRIMAVERA 2022

e potenti, guidato da influencer carismatici e da demagoghi digitali e che ha la forza di in-


dignare l’opinione pubblica, di pungere qua e là ma poco altro. Chiunque oggi può unirsi a
un gruppo di Facebook simpatizzante di QAnon: sui social, del resto, il prezzo di adesione è
molto basso e i costi di uscita sono ancora più bassi.
I leader possono naturalmente cercare di dettare una coreografia a questi sciami, usando
N. 14

tweet, apparizioni televisive, o reti di bot russi, ma questa coreografia non evoca alcuna or-
ganizzazione durevole. È un cambiamento decisivo ma molto instabile rispetto alla demo-
crazia di massa dei partiti. Mentre i partiti del dopoguerra avevano una squadra affiatata di
centrocampisti e difensori, i nuovi partiti populisti sono costruiti principalmente intorno ai
fantasisti e ai centravanti. Come sottolinea Gerbaudo, gli «iperleader» contemporanei sono
animali mediatici nati.
130
Non è chiaro come questo populismo sarà incanalato nella nuova era del protezionismo
pubblico-privato. Di certo, più l’attività di «governo» viene delegata alle banche centrali, più
la politica economica si basa su semplici trasferimenti di denaro e meno i socialisti hanno
da offrire in quanto a filosofia alternativa («Vota con i tuoi dollari o euro», sembra essere
il mantra del futuro). Finché le banche centrali potranno mantenere determinati livelli di
consumo dei cittadini attraverso i trasferimenti di denaro, l’enorme divario di disuguaglian-
ze, la cannibalizzazione dei servizi pubblici e il decadimento delle infrastrutture sociali po-
tranno andare avanti indisturbati. Invece di rinvigorire lo stato di benessere del dopoguer-
ra, la pandemia avrebbe potuto aprire la porta a un «progetto pubblico-privato disinibito»,
come ha scritto Adam Tooze. La corsa al vaccino è stata un monumento di questa impresa:
lo Stato versa denaro mentre le aziende progettano e producono. È vero che questa po-
trebbe essere la fine del neoliberismo, ma è altrettanto vero che qualsiasi cosa verrà dopo
rischia di essere ancora più confusa.
Eppure, la vera lezione dell’era «post-politica» è che non si può alla lunga escludere del
tutto dalla sfera pubblica un minimo di riflessione sui fini collettivi. In mancanza di una
rinascita delle organizzazioni di massa, questa riflessione può avvenire solo a livello discor-
sivo, sull’agorà mediatica: ogni evento viene esaminato per il suo carattere ideologico, pro-
duce controversie tra argomentazioni e campi sempre più chiaramente delineati sulle piat-
taforme social, amplificati da media di parte. È un processo che tende a politicizzare quasi
tutto, ottenendo però ben pochi risultati. Possiamo definirlo come
un periodo di transizione dalla post-politica all’iper-politica, o come
il rientro della politica nella società. Tuttavia la nuova iperpolitica si IL MONDO DEI SOCIAL
distingue anche per un’attenzione specifica ai costumi interpersonali, SEMBRA QUELLO
per un moralismo accentuato e l’incapacità di pensare la dimensione CHE MARK FISHER
collettiva della lotta. DEFINIVA «STALINISMO
Gran parte del mondo dei social appare quello che Mark Fisher SENZA UTOPIA»:
definiva «stalinismo senza utopia»: un’etica ascetica con norme alta- UN’ETICA ASCETICA PRIVA
mente giudicanti sull’impegno interpersonale, rigida applicazione di DI PROGETTO UTOPICO
costumi tradizioni e astensione dal libertinismo (tutto ciò oggi è me-
diato dalle nuove piattaforme digitali), ma senza il calcolo utopico che
giustificava la crudeltà del commissario del popolo o del funzionario sovietico.
In questo senso, si può dire che l’«iperpolitica» è quello che accade quando finisce la
post-politica, qualcosa che assomiglia al gesto di premere furiosamente sull’acceleratore
mentre il serbatoio è vuoto. La domanda su quello che la gente possiede o su che potere ha
vengono ormai soppiantate dalla domanda su chi o cosa sono le persone, in un processo
che sostituisce gli scontri di classe con un collage di identità e morali.
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
Niente di tutto ciò basta comunque a cancellare il fatto indiscutibile che la «post-politica»
stia finendo. Si è spenta «l’escatologia politica» di cui parlava Ernaux nel 2008. Allo stesso
tempo esiste una nuova iper-politica che sembra offrire una debole alternativa alla politica
che ci era familiare nel ventesimo secolo. Ernaux lo riconosce alla fine del suo libro, quando
invita i lettori a «salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più», mantenendo viva
la memoria di un mondo che non può essere recuperato, ma che non è del tutto perso.
131
PICCOLO
THE LEFT IN PURGATORY

SPAZIO
PUBBLICITÀ
OPERAIA Proprio all’inizio della controrivoluzione reaganiana,
i sindacati Usa provarono a utilizzare gli spot televisivi
per rafforzarsi ed entrare nell’immaginario collettivo.
Quei video adesso sono oggetti di culto su YouTube

N
egli abissi di YouTube si nascondono un paio di spot televisivi
sgranati degli anni Settanta che raccontano la storia degli sforzi
del movimento operaio per rimanere culturalmente rilevante agli
albori della controffensiva padronale. Nel primo un gruppo mul-
tietnico di lavoratrici dell’International Ladies’ Garment Workers’
Union (Ilgwu) intona una melodia che sembra riecheggiare da
Michael Grasso generazioni di operaie passate: «Cerca l’etichetta del sindacato! /
Quando compri / Un cappotto, un vesti-
to o una camicetta! / Ricorda che da qualche parte / Il nostro
sindacato cuce / Il nostro stipendio serve / A dare da mangiare Michael Grasso
ai bambini / E a gestire la casa!». è senior editor
La pubblicità e il suo jingle all’epoca erano così pervasivi che di We Are the
ne venne fatta la parodia ovunque, da Saturday Night Live – con Mutants, web
Bill Murray e Gilda Radner dell’American Dope Growers’ Union magazine sulla cultura
PRIMAVERA 2022

che cantavano: «Cerca l’etichetta sindacale!» – alle trame delle pop e underground
sitcom dell’epoca sulla sindacalizzazione in serie come Wkrp della Guerra fredda.
in Cincinnati. Le generazioni successive avrebbero potuto co- La traduzione è di
noscere la pubblicità guardando la sitcom degli anni Novanta Giuliano Santoro.
N. 14
130
Boy Meets World [andata in onda in Italia con il titolo Conoscere, che fatica! all’interno del
contenitore Rai Solletico!, Ndt] o la sua apparizione durante un’interruzione pubblicitaria
in una delle rare copie sopravvissute del famigerato Star Wars Holiday Special del 1978.
Il secondo video, per l’American Federation of State, County and Municipal Employees
(Afscme), è una riedizione scherzosa di un vero spot pro-sindacato degli anni Settanta
che, decenni prima di finire su YouTube, era stato mandato in onda dalle stazioni tele-
visive locali, troppo volgare per la diffusione via etere. Nello spot la narrazione originale
è stata sostituita dalla voce di una periferia dalla forte inflessione Teamster che racconta
agli spettatori l’importanza dei membri del sindacato Afscme per il funzionamento della
società – lo scherzo in questa versione è che la voce aggiunta parla in modo selvaggia-
mente profano e stereotipicamente volgare della classe operaia: «C’è un sindacato là fuori
chiamato Afscme, e si stanno spaccando le palle per te, facendo un sacco di lavoro di
merda che date per scontato!».
Questi due messaggi pro-sindacato – uno serio e sentimentale, uno parodico ed esi-
larante – restituiscono la testimonianza di un’era in cui il sindacato statunitense era
potente, influente e profondamente radicato nel tessuto della società. Tanto da potersi
promuovere sulle frequenze nazionali con jingle accattivanti, in mezzo agli spot delle pa-
tatine e della birra Budweiser.
In entrambi gli spot, i membri del sindacato cercano di ricordare al telespettatore a
casa che le vittorie dei sindacati sono vittorie per i lavoratori, le lavoratrici, i consumatori
e le consumatrici nel loro complesso. E che traguardi del genere possono essere cancellati
se i sindacati non continuano a combattere. All’inizio di una delle pubblicità di Ilgwu,
sentiamo una voce dire:

Molte di noi facevano parte dell’International Ladies’ Garment Workers’ Union, ma mol-
ti dei nostri lavori sono scomparsi. Molti dei vestiti che gli statunitensi comprano per le
donne e i bambini sono d’importazione. Vengono prodotti all’estero. Quando il lavoro viene
svolto qui, possiamo sostenere le nostre famiglie, pagare le tasse e comprare merci che ven-
gono prodotte da altri americani.

E mentre la narrazione scherzosa è tremendamente esagerata, la vera pubblicità con-


tiene immagini di membri del sindacato al lavoro ovunque in prima linea, in lavori essen-
ziali, a dimostrazione di quanto siano fondamentali socialmente: squadre di riparazione
stradale («Tappiamo le buche della strada in modo da non rovinare la tua macchina»), le
guardie agli incroci («Ci sono delle ragazze là fuori che impediscono ai tuoi figli di essere
investiti») e operatori della pulizia urbana («Assicurati che i tuoi bambini non bevano
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
piscio da nessuna fottuta fontanella»).
Tuttavia, il rapporto tra televisione e movimento operaio era tutt’altro che facile, anche
allora. Proprio nel periodo in cui questi annunci erano in heavy-rotation, nel 1980, era in
corso un grande sciopero della Screen Actors Guild (Sag) e della Federazione americana
degli artisti televisivi e radiofonici. Anch’esso riguardava il futuro: aveva a che fare con il
ruolo che gli attori e le attrici avrebbero avuto con l’introduzione delle nuove tecnologie
131
di intrattenimento come la tv via cavo e l’home video. L’attore Ed Asner, membro di spicco
della Sag e personaggio conosciuto del Mary Tyler Moore Show, era un portavoce de facto
dei lavoratori e delle lavoratrici in sciopero, il che nel 1981 contribuì a portarlo alla guida
dell’organizzazione. Ma la sua ascesa agli albori dell’era Reagan potrebbe aver portato
all’imminente cancellazione di Lou Grant, una serie televisiva che affrontava le questioni
sociali del giorno da sinistra.
Come si è visto nei mesi scorsi con la minaccia di scioperi della Iatse, la International
Alliance of Theatrical Stage Employees, i lavoratori e le lavoratrici dell’industria cinema-
tografica e televisiva sono ancora sfruttati, mentre la pandemia ha messo chi lavora dietro
le quinte degli spettacoli in difficoltà per turni precari.
Gli attivisti sindacali sapevano che, in un’America sempre più dominata dalla tele-
visione, era vitale per la loro sopravvivenza essere presenti sulle onde radio, via cavo e
satellitari in rapida espansione. In una conferenza stampa del 1984
menzionata in un articolo del New York Times dello stesso anno, il
QUESTI SPOT EVOCANO presidente dell’Afl-Cio Lane Kirkland diceva della tv: «Se non sei su
QUALCOSA NELLA quella scatola, non esisti».
PSICHE DEI LAVORATORI Naturalmente, col mandato di Kirkland negli anni Ottanta e No-
STATUNITENSI: vanta si è verificato il rapido crollo dei posti di lavoro nel settore
PERMETTONO DI TORNARE manifatturiero statunitense, nonché una delle più grandi campagne
AL TEMPO IN CUI ESISTEVA governative orchestrate per far fallire un sindacato nella storia del
IL MOVIMENTO OPERAIO mondo: il fuoco unilaterale di Ronald Reagan contro lo sciopero a
gatto selvaggio dei controllori di volo del sindacato Patco.
Gli spot pubblicitari sindacali, con l’umile estetica dell’Ilgwu e gli
slogan di Afscme, una rarità anche negli anni Settanta, scomparvero presto dall’etere. Nel
1980, gli spot prodotti dai sindacati servivano semplicemente a propagandare gli endor-
sement elettorali dei sindacati, senza dire nulla sul ruolo effettivo dei lavoratori nella vita
di tutti i giorni. Le adesioni al sindacato crollarono. Quella trovata di Afscme fu abba-
stanza divertente e tagliente da finire nelle cassette videoregistrate che si scambiavano
negli analogici anni Ottanta e Novanta. Con YouTube, affamato di contenuti e online a
metà degli anni 2000, nel 2007 è diventato uno dei primi successi virali. Nei commenti di
YouTube sotto tutti questi vecchi spot sindacali si possono leggere numerosi, divertenti,
toccanti, e tragici tributi dei membri del sindacato ai loro compagni e alle loro compagne.
È chiaro che questi spot evocano ancora qualcosa nella psiche dei lavoratori statunitensi.
Possiamo tornare indietro, al tempo in cui esisteva il movimento operaio, in declino ma
consapevole che se non avesse combattuto avrebbe visto travolte le sue conquiste dalla
valanga di ristrutturazioni aziendali e globalizzazione in arrivo.
Qualunque sia il fascino puramente nostalgico di questi spot, i membri del sindacato
lo ricordano come segno del panorama culturale di quei tempi e si connettono a esso a
PRIMAVERA 2022

un livello emotivo profondo.


C’è da stupirsi se, in un’era di ritrovata sinistra politica, tutti desideriamo essere come
i lavoratori e le lavoratrici dell’Afscme: «Persone che lavorano e che pagano le tasse come
te [che] non si bevono le cazzate di nessuno»?
N. 14
132
I LOOSER

THE LEFT IN PURGATORY


DEL SOCIALISMO
Avevate mai notato che il Drugo ne «Il Grande Lebowski»
rievoca i suoi trascorsi nei movimenti degli anni Sessanta?
Non è l’unico caso in cui i fratelli Coen infilano nei loro film
le vite dei naufraghi della storia della sinistra statunitense

P
ochi registi hanno fatto riferimento alla storia del socialismo sta-
tunitense nei loro film in modo così esplicito come Joel ed Ethan
Coen. In un film dei fratelli Coen capita di trovare riferimenti di
passaggio alla componente trotskista degli shachtmaniti, come in
A proposito di Davis, o una menzione casuale, come ne Il grande
Lebowski, di un personaggio che afferma di essere stato uno degli
Eileen Jones autori del manifesto degli Students for a demoratic society – o, come
chiarisce il Drugo, della «dichiarazione di Port Huron originale. Non
la seconda bozza compromessa».
I Coen fanno film sul fallimento americano: crimini falliti; carriere incerte; governo, po-
lizia e sistema giudiziario irrimediabilmente incompetenti; relazioni familiari disastrose;
e vite amorose che implodono. Il fallimento della capacità dei socialisti e comunisti sta-
tunitensi di incunearsi in modo duraturo in una nazione tincerata nel conservatorismo, è
un fenomeno che li attira come una calamita: dopotutto siamo l’unico paese nel mondo
occidentale dove un partito di lavoratori non ha mai preso piede.
I due film dei fratelli Coen che si concentrano in modo più
esplicito su questo particolare fallimento sono Barton Fink (1991), Eileen Jones si
ambientato poco prima dell’ingresso degli Stati uniti nella Secon- occupa di critica
da guerra mondiale, e Ave, Cesare! (2016), ambientato agli inizi de- cinematografica per
gli anni Cinquanta, al culmine del maccartismo. In questi film, i Jacobin Magazine.
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
Coen ci mostrano l’impasse che blocca lo sforzo politico razionale. Ha scritto il libro
Entrambi i film usano inoltre la stessa immagine simbolica: scogli Filmsuck Usa. Insegna
giganti che resistono al martellamento delle onde dell’oceano. alla University of
Barton Fink (John Turturro), un drammaturgo di New York California, Berkeley.
chiaramente modellato sul socialista Clifford Odets, è convinto La traduzione è di
che la sua nuova commedia di successo Bare Ruined Choirs pre- Giuliano Santoro.
135
annunci l’inizio di qualcosa di estremamente importante, «un nuovo teatro vivente – di,
su e per l’uomo comune!». Questa retorica non era insolita durante il periodo del Fronte
popolare. Eppure Fink, proprio come Odets quando si trovò al brindisi di Broadway, non
può resistere all’offerta della Capitol Pictures a Hollywood «per riscattare tutto con un po’ di
soldi – colpirli con un sacco di soldi».
La prima immagine del suo soggiorno da incubo in California è una spiaggia assolata ma
desolata, dove un’onda si schianta contro un masso enorme, simbolicamente inamovibile.
È la manifestazione visiva di un caso epico di blocco dello scrittore che si verifica subito
dopo l’arrivo di Fink a Hollywood. Si scopre che Fink è incapace di scrivere una sceneggia-
tura che sia all’altezza del suo ideale di «teatro per le masse», soddisfacendo al tempo stesso
uno studio di Hollywood che cerca di distribuire in serie nell’intero paese e ciò «che pensa
Barton Fink» sul mondo intero.
Fink non è neppure in grado di sfornare semplicemente il «wrestling» stereotipato ed
estremamente popolare che gli viene richiesto. Peggio ancora, Fink non riesce a impara-
re nulla dall’amichevole, loquace «uomo comune» della vita reale che ha effettivamente
esperienza di wrestling e vive nella stanza accanto dell’inquietante e squallido residen-
ce in cui alloggia per evitare la cooptazione borghese nelle sistemazioni più lussuose di
Hollywood. Il nome del suo vicino è Charlie Meadows (John Goodman). Charlie lavo-
ra come rappresentante di assicurazioni e continua a dire: «Potrei raccontarti io alcune
storie...» poco prima che Fink lo interrompa sempre per fargli una
predica compiaciuta su una nuova forma teatrale creata apposta per
I FILM DEI COEN persone come lui. Quando Charlie alla fine rivela un’identità oscura
RACCONTANO e doppia del serial killer e aspirante fascista Karl «Madman» Mundt,
IL CROLLO DEL SOGNO che sembra prendere di mira Barton Fink, lui gli chiede lagnandosi:
AMERICANO. DENTRO «Perché io, Charlie?». «Perché non ascolti», risponde Charlie in uno
AL QUALE AVVENGONO dei momenti più inquietanti del film.
LE SCONFITTE Gran parte del blocco di Barton Fink dipende dal suo elitarismo
DELLA SINISTRA non elaborato e da come vive nella sua testa, intellettualizzando tutti
gli aspetti della vita in un modo che lo separa inevitabilmente dalle
stesse persone che afferma di voler rappresentare. Il disprezzo di Fink
per il cinema è, ironia della sorte, in parte il suo disprezzo per le masse che amano il cinema.
In Ave, Cesare!, ambientato all’epoca della lista nera negli anni Cinquanta, i comunisti
di Hollywood tengono i loro incontri segreti in una magnifica casa sulla spiaggia con vista
su due immensi scogli che sporgono sul Pacifico. Come gli Hollywood Ten, sono quasi tutti
sceneggiatori di successo. Ma qui in realtà hanno commesso ciò per cui il Comitato per le
attività antiamericane della Camera li ha accusati di fare nella vita reale: infarcire di propa-
ganda comunista i loro copioni.
La «propaganda» è così debole e vaga, tuttavia, da far scambiare a questi «comunisti» il
PRIMAVERA 2022

più mite liberalismo per rabbioso radicalismo. Uno di loro rievoca, con un sorrisetto com-
piaciuto di trionfo, un film che hanno fatto su «una corsa elettorale ribaltata in cui Gus
viene eletto sindaco. Immagino che abbiamo fatto cambiare molte idee».
Tuttavia, tramite il loro progetto di rapire la famosa star del cinema Baird Whitlock (Ge-
N. 14
136
orge Clooney) e trattenerlo in cambio di un enorme riscatto che investiranno in Unione so-
vietica, i comunisti sono convinti di intraprendere un’azione significativa per la rivoluzione
negli Stati uniti. Sono ottimisti al punto di firmare la loro richiesta di riscatto «The Future».
Ma ci sono interpretazioni alternative del «futuro» in Ave, Cesare!. C’è quella offerta dal
dirigente di una società di produzione di aeromobili Lockheed che sta cercando di convin-
cere il fixer dello studio, Eddie Mannix (Josh Brolin), a lasciare la sua azienda ormai «con-
dannata». Ed Eddie è decisamente tentato, alla ricerca di un via d’uscita da una carriera ad
alta pressione che comporta la supervisione di una serie di film (e personalità) in uno stato
di caos perpetuo.
Ma non sono solo le magagne di produzione a tenere Eddie sveglio la notte: è il suo ruolo,
come dirigente dello studio, nel guidare le stesse speranze e sogni che i suoi film suscitano
nel pubblico statunitense. E per Eddie, questa è una responsabilità infernale. Nel tenta-
tivo di gestire la ricezione dell’epopea biblica Ave, Cesare! – che, se ben condotto, offrirà
all’America profonda sia sesso che violenza, insieme a una virtù ipocrita redentrice – Eddie
organizza un incontro con ogni rappresentante delle varie religioni giudaico-cristiane del-
la nazione: un rabbino, un prete cattolico, un pastore protestante e così via, con risultati
prevedibilmente discordanti. Eddie è un fantastico rappresentante dell’americano medio.
Combina il duro lavoro che distrugge l’anima a tentativi disperati di redimersi con la vita
familiare e una sorta di set di credenze religiose (o almeno «edificanti»), rappresentando la
maggior parte delle vite americane.
A questo punto, all’inizio degli anni
Cinquanta il sistema degli studios per il intitolato «Kapital, con la K!». Sostiene in modo persuasivo:
quale Eddie lavora stava già iniziando a «Questi comunisti hanno capito anche cosa succede qui in
fallire su più fronti. Non è stata solo la te- questo studio», ovvero lo sfruttamento dei lavoratori per
levisione a uccidere il business, ma anche generare enormi profitti di padroni e manager degli stu-
l’azione anti-trust del governo che ha pri- dios. Eddie torna immediatamente alla brutalità, prenden-
vato gli studios delle loro catene di cinema. do a schiaffi Whitlock e dicendogli di stare zitto e di fare il
Inoltre, per via del maccartismo, c’è suo lavoro, proprio come «il regista, lo sceneggiatore, la sce-
stata la perdita di cervelli e talento a causa neggiatrice e il ragazzo che tiene la lavagna degli applausi».
della blacklist, per cui alcuni dei migliori Per quanto tormentato dalle prospettive future, Eddie
sceneggiatori, registi e attori di Hollywo- respinge violentemente l’intuizione di Whitlock che il co-
od sono stati esclusi dalla professione per munismo potrebbe aver capito tutto, del resto anche i co-
almeno un decennio. Infine, cosa peggio- munisti della casa sulla spiaggia che abbiamo visto sono un
re di tutte, il pubblico di massa iniziava a gruppo inetto e poco pratico. Eddie sceglie il diavolo che
frammentarsi nelle mutevoli condizioni conosce: i film. La sua fede fondamentale nel capitalismo,
del secondo dopoguerra, rendendo an- così come la sua religiosità, si combinano per rendere i film
IL PURGATORIO DELLA SINISTRA STATUNITENSE
cora più difficile per gli Eddie del settore la scelta inevitabile, perché, come dice con entusiasmo alla
prevedere cosa «la gente» sarebbe andata fine, «La gente non vuole i fatti, vuole credere!».
a vedere. Quando Baird Whitlock viene Sono i limiti del «futuro» in Ave, Cesare! che compongo-
finalmente liberato dai suoi rapitori mar- no la situazione. Sembra che non ci siano grandi opzioni
xisti, torna alla reclusione che gli è con- sul tavolo per Eddie o chiunque altro. Se queste sono le tue
geniale, pieno di entusiasmo per un libro scelte, tenderai a seguire, per quanto riluttante, Lockheed o
il mondo del cinema.
Le persone sotto il capitalismo hanno paura di legare il
loro futuro a un movimento che attualmente non è poten-
te e non sembra destinato a diventare potente mangiando
tramezzini con le dita a Malibu. Come aggirare l’impasse
degli scogli immobili? I film dei fratelli Coen non ce lo dico-
no perché, ovviamente, non lo sanno neanche loro.
137
Iscriversi al Club dei Giacobini che si costituì nella Francia
rivoluzionaria nel 1790 costava 36 lire.
Associarsi alla nostra avventura giacobina costa 36 euro.
Vi chiediamo di farlo da subito, di restare connessi
al nostro sito e di seguire le tracce della congiura
su Facebook e Twitter @JacobinItalia

DC S
Digitale:
24 euro
Digitale + Carta:
36 euro

Spedizioni in paesi Ue: 20 euro


Sostenitore:
da 50 euro

Spedizioni in paesi extra Ue: 35 euro

www.jacobinitalia.it
!Il movimento femminista progredisce quando un maschio o una
femmina di qualsiasi età lavorano a mettere fine al sessismo.
Quel lavoro non richiede necessariamente che entriamo in
un’organizzazione; possiamo lavorare a favore del femminismo lì
dove siamo. Possiamo cominciare a lavorare sul femminismo a casa,
proprio dove viviamo, educando noi stessi e i nostri cari ."

ELOGIO DEL MARGINE IL FEMMINISMO


/ SCRIVERE AL BUIO È PER TUTTI

bell hooks, Maria Nadotti bell hooks

TAMU EDIZIONI è un progetto editoriale


indipendente e collettivo che pubblica libri
su temi postcoloniali, femministi ed ecologisti.
La casa editrice nasce dalla Libreria Tamu,
il mondo visto da sud
dal 2018 spazio di incontro e dibattito
su mediterraneo, medio oriente e altri sud,
nel centro storico di Napoli. tamuedizioni.com
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Tute, traumi
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ad alcuni homeless tossicodipendenti che per aver
ferito la coppia di cui vi parlerò nelle prossime pagine.
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