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SAPER DONARE ALLA VITA

HOC HABEO QUADCUMQUE DEDI - IO HO QUEL CHE HO DONATO

La frase, conosciuta come una delle più celebri del grande poeta Gabriele D’Annunzio e scolpita a caratteri cubitali sulla facciata del Vittoriale, risale in realtà ad
un epoca ben più remota. È stata infatti coniata dal latino Rabirio, vissuto nel Primo secolo avanti Cristo e citato da Seneca nel sesto libro del De Beneficiis.

A primo acchito, questo motto colpisce per la sua apparente contraddittorietà. Come è possibile, viene infatti da chiedersi, dichiararsi possessori di ciò che in
realtà non ci appartiene più?

A seguito di un’analisi più approfondita, però, ecco che la vera natura della citazione ci illumina e ci stupisce, rimandandoci inevitabilmente ai messaggi
contenuti nelle più celebri opere di filosofia orientali - quali, ad esempio, il Tao Te Ching e il Lieh Tzu – e del Vangelo.

Dire che possediamo solo ciò che abbiamo donato significa infatti affermare che è solo nel momento in cui accettiamo di lasciare andare quello che riteniamo
nostro, che ne diventiamo padroni.

Questo ragionamento vale tanto per i beni materiali quanto per le persone e gli affetti.

Identificati con l’Ego, siamo portati a pensare che tutto ciò che entra a far parte delle nostre vite in qualche modo ci appartenga.

Così facendo, gli oggetti che ci circondano – automobili, vestiti, smartphone, ecc.. – e le persone che frequentiamo – i nostri genitori, nostra moglie, nostro
marito, i nostri figli – diventano un’estensione di noi, elementi che l’Ego utilizza per rafforzare il senso d’identità, così utile a darci tutte quelle apparenti
certezze che servono a garantire stabilità e sicurezza alla nostra esistenza e a tenere lontano quel senso di smarrimento e di caos che ci avvolge quando ciò che
diamo per scontato ci viene sottratto.

Questo meccanismo ci porta ad illuderci di possedere tutti quegli elementi: la realtà, però, è che siamo noi ad essere posseduti da loro.

Che cosa succede, infatti, quando qualcosa che riteniamo nostro ci viene portato via? Veniamo assaliti da emozioni distruttive quali la rabbia, la tristezza, la
frustrazione e l’angoscia. Ci sentiamo smarriti, destabilizzati, vittime dell’ingiustizia.

La perdita di ciò che crediamo appartenerci ci ferisce in profondità, perché è come se – metaforicamente – ci venisse strappato via un arto: con la perdita
dell’oggetto o della persona, una parte di noi se ne va via con esso.

Ed è a questo punto, che la frase di Rabirio acquista chiarezza: soltanto accettando di non possedere nulla, possiamo liberarci dal meccanismo perverso che ci
conduce a provare tutte le spiacevoli sensazioni legate alla perdita.

Per farlo, dobbiamo sempre tenere presente che siamo giunti su questo pianeta completamente svestiti, e così ce ne andremo. Dobbiamo comprendere che
tutto ciò che la vita riserva viene concesso sotto forma di prestito. Dobbiamo imparare a lasciare andare ciò che sentiamo nostro, accettando con serenità che
un giorno non lo sarà più e ricordandoci che, più cercheremo di stringerlo a noi, più ci scivolerà tra le dita.
In altre parole, dobbiamo imparare a donare alla vita con serenità, senza contrastare lo scorrere degli eventi e accettando la transitorietà di tutte le cose, noi
stessi compresi.

Così facendo, ci libereremo dalle preoccupazioni e diventeremo davvero padroni della nostra esistenza, vivendo costantemente nell’abbondanza che
caratterizza le menti capaci di entusiasmarsi per le piccole cose e di godere incessantemente del momento presente.

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