Sei sulla pagina 1di 7

Conclusione:

Il linguaggio della preghiera

Uomo, se ancora rendi grazie a Dio per questo o quello,


non sei ancora libero dai limiti della tua debolezza ¹.
(Angelus Silesius, II Pellegrino cherubico, cit., I, p. 91.)

1. Pregare è invocare, supplicare, ringraziare. Parlare, quindi. Nel segreto dell'anima - in


solitudine; o insieme con altri - levando un canto di lode. Pregare è anche ascoltare, o solo
stare in attesa della Parola dell'Altro. Invero potrebbe apparire eccessivo a chi prega, anche
solo stare nell'attesa della Parola dell'Altro. E non perché intenda rispettare il Silenzio
dell'Altro. Bensì perché anche solo invocare, supplicare la Parola, è sentito come un atto di
tracotanza, quasi si volesse, pregando, legare l'Altro a sé, attraverso la Parola. Ma se è
l'Altro che viene alla Parola? che viene misteriosamente alla Parola? Certo, non ci si può far
trovare impreparati all'ascolto. Pregare è por si all'ascolto. Anche in assenza della Parola.

2. Pregare è invocare, supplicare. Chiedere, quindi. Ma non per ottenere. Neppure la Parola.
Neppure il perdono. Ma che chiedere è mai questo che nulla "vuole"? Non è forse presente,
in tutte le preghiere, la richiesta di "qualcosa"? Chiedere senza nulla volere? Chiedere senza
nulla chiedere? Invero s'invoca Dio per chiedergli ascolto, protezione, salvezza,
consolazione. Perdono. Per supplicare che parli, che si faccia sentire, che si avvicini. Si
chiede - per ottenere qualcosa. Perché si "vuole" qualcosa. E non v'è forse in questo
chiedere la caratteristica più propria della preghiera, la dichiarazione della propria miseria,
l'umiliazione di sé - minus quam cogitari potest - di fronte al maggiore d'ogni massimo? Non
è atto di superbia non chiedere? Non chiede chi sa di poter sostenere i pericoli, le angustie, i
mali della vita da solo. Chi ritiene di non aver bisogno d'aiuto.
No: chiedere senza nulla volere significa altro. Significa chiedere quello che viene concesso.
Da quod iubes. Di più: chiedere quanto è già concesso. Di più ancora: chiedere quanto, pur
essendo già concesso, resta comunque sempre "possibile", perché mai vincola Quegli che
concede. Chiedere dice qui: ringraziare. Ringraziare per quanto ci è già stato dato non solo
"prima" del nostro chiedere, ma "oltre" e "fuori" del nostro chiedere. Misero il nostro
chiedere, troppo misero rispetto a quanto è dato, donato, e alla sua possibilità: alla
possibilità del dono e del donare. Pregare è ringraziare supplicando.

3. Supplica è la preghiera dell'umiliazione totale, dell'assoluta spoliazione di sé, del proprio


esserci. Kenosi infinitamente lontana dalla morte e dal desiderio di morte. E non ci si
riferisce qui (anche superfluo dirlo) alla morte che l'uomo può darsi: questa non sarebbe
spoliazione di sé, ma l'espressione estrema dell'empietà, il disconoscimento radicale della
propria finitezza e dell'alterità dell'Altro; la forma estrema di quella hybris che pone il
"soggetto" come monade assoluta, da tutto sciolto, padrone di sé totalmente, della propria
vita e della propria morte. No: qui si fa riferimento alla morte implorata, al "nunc dimitte
servum tuum...". La supplica è infinitamente lontana anche dal chiedere la morte ut Unum
simus, per unirsi a Dio. Perché anche in questo pregare v'è hybris, la tracotanza del giudizio
che osa stabilire preferenze: a partire da sé e in relazione a sé. Hybris che nasce dalla
philautìa: dall'amore di sé. E in base a questo amore pretende di giudicare l'opera di Dio. Ma
pregare è supplicare ringraziando. Ringraziando per quello che è, che accade. Per tutto ciò
che è e che accade - senza distinguere. Per tutto ciò che essendo - resta possibile.

4. Ma quando, pregando, invochiamo, supplichiamo, ringraziamo, come ci volgiamo, noi


uomini, all'Altro? In seconda persona, rivolgendosi all'Altro come a un Tu. Ma siamo noi, è il
nostro pensiero che nomina e definisce "Tu" l'Altro. Certo un Tu che è oltre ogni tu, che
eccede ogni nome e definizione. Un Tu altro, radicalmente altro, tuttavia "nostro". Perché è
"in relazione" a noi che il "Tu", questo Tu radicalmente altro, è un Tu. "In relazione" a noi
non significa "per" noi. Anche questo sarebbe troppo. II Tu può esser tale per sé. Perché
l'Altro può porsi, in quanto Altro, come "Tu". Come si diceva dal Silenzio può venire
misteriosamente la Parola. E sarebbe tradire questo mistero, chiedere qualcosa per se
stessi: la Parola viene a noi a partire da Lui, l'Impensabile, l'Incomprensibile: "Quiddam
maius quam cogitari potest".
Il linguaggio della preghiera è il linguaggio della finitezza consapevole. Del sapere che
nasce dal dolore: páthei máthos.

Zeus, quale che egli è mai,


se pure questo nome gli è gradito [...]

Ma chi devotamente il canto di vittoria


a Zeus intona, otterrà somma saggezza:
per lui che a saggezza avvia i mortali,
valida legge avendo fissato:
conoscenza attraverso dolore 2.
(Eschilo, Orestea)

1. LA PREGHIERA PAGANA

[...] ma la divinazione, che tu, amico, prediletto da Zeus, chiedi, non è lecito che tu
l'apprenda, né alcun altro degl'immortali [...] all'infuori di me, fra gli dei che vivono in eterno,
nessun altro avrebbe conosciuto il saggio pensiero di Zeus. [...]
Fra gli uomini colpirò l'uno, soccorrerò l'altro,
raggirando le molte stirpi degli uomini infelici.
E dalla mia voce trarrà vantaggio chiunque giunga
seguendo il grido e il volo degli uccelli fatidici;
questi trarrà vantaggio dalla mia voce, e non lo ingannerò.
Ma chi, fidando negli uccelli che cantano a vuoto, vorrà interrogare l'oracolo contro la mia
volontà,
e sapere più degli dèi che sempre sono,
dico, farà invano la strada, ed io mi terrò le offerte 3
(Inno ad Hermes)

5. Quale la più alta preghiera pagana? Quella che più nobilmente esprime la religiosità
pagana, l'umiltà e l'umiliazione dell'uomo dinanzi al suo dio, ai suoi dèi? e mostra insieme
quanto è duro e difficile pregare? e quanto insicuro, posto com'è sull'incerta soglia che
divide e unisce, separa e congiunge tempo e oltretempo, il destino mondano dell'uomo e
l'Altro e, ancora, l'uomo e la sua propria umiliazione? Quale?

L'Edipo a Colono di Sofocle 4 (Cito da: Sofocle, Edipo re, Edipo a Colono, Antigone)
La tragedia rende palese anzitutto questo: che la parola della preghiera non è solo voce, è
insieme gesto, azione. Un gesto, un'azione singolarissima - e per la forma, rituale, e ancora
perché è un singolo che pone in essere quel gesto - e tuttavia non isolata. La preghiera è
insieme singolare e plurale: di uno solo, anzi solissimo, e insieme corale.

La prima scena di questa preghiera tragica è l'ingresso di Edipo in un luogo sacro. Un atto
sacrilego, che Edipo compie inconsapevole. Stanco di vecchiezza e per il lungo trascinarsi,
esule, di città in città, si è seduto su una pietra nel sacro recinto dedicato a Poseidone e
Prometeo, presso la "porta bronzea", baluardo di Atene. Edipo si volge alle «dolci figlie della
Tenebra antica (archaìou Skótou)», e ad Atena: invoca pietà - non è più l'Edipo che fu.
Anche agli abitanti del luogo chiede d'esser pietosi con lui. Per vaticini e cenni degli dèi,
massime di Apollo, sa d'esser giunto alla terra ove i suoi giorni e le sue pene termineranno.
Che non lo scaccino, e gli permettano di parlare con Teseo, il loro re. Ora Edipo è già oltre le
sue azioni e il suo destino. Sa che le sue azioni più che compierle, le ha patite. La sua vita è
stata meno sua che del destino: «nulla scelsi di mia volontà», dice. Ora che è oltre se
stesso, ora che non è più l'Edipo che fu, può dichiararsi bierós ed eusebés, sacro e pio,
nómo katharós, puro dinanzi alla legge; ora può anche vedere oltre il tempo, predire a Tesco
i benefici che avrà la sua terra accogliendolo per l'ultima dimora. Ma proprio in questo
medesimo "ora", quando, sebbene ancora nel tempo, e gli oltre il tempo, torna irruente il
tempo a possederlo nella figura di Ismene, la figlia sorella. Ismene narra a Edipo gli eventi
ultimi, la guerra fratricida dei suoi due figli maschi, Eteocle e Polinice, che si contendono il
trono di Tebe. Di nuovo il passato precipita su di lui. Ma non è solo la memoria del parricidio
e delle nozze incestuose. E a memoria di un più recente passato che travolge Edipo il
ricordo la d'essere stato scacciato dalla Città da Creonte, senza che i figli maschi, desiderosi
solo di succedergli al trono, lo difendessero. Catturato dal tempo, Edipo è di nuovo preda
dell'odio. Chiede pietà per sé. ma è impietoso verso gli altri, verso i suoi figli-fratelli. Non
vede che è la sua disgrazia, il suo destino, che trabocca su di loro. Ripete per sé le parole di
Antigone - «non vedrai tra gli uomini chi possa salvarsi se un dio lo trascina» (cf. vv. 252-
254 e vv. 997-998) -, ma non per Polinice, che pur invoca Aidós, la Clemenza che divide con
Zeus il trono: non per Polinice, che pur sa, ma non oppone al genitore, che la sua via,
sventurata e nefasta gli è stata assegnata «dal padre e dalle sue Erinni». Trascinato dal
pantocrate tempo, Edipo torna a essere l'Edipo che fu, e scaccia il figlio. Torna a identificarsi
col suo destino mondano.

Nella tragedia s'intersecano due piani: l'umano e il divino. La preghiera rappresenta il


passaggio dall'uno all'altro. Passaggio che avviene nel tempo. Perché è nel tempo che il
tempo viene superato, oltrepassato. Nel tempo: la preghiera, quindi, resta sempre esposta
all'insidia del tempo. Edipo, l'Edipo orante, sacro e pio, puro dinanzi alla legge, è sempre in
pericolo, pronto a dimenticare il divino per l'umano. Pericolo tanto maggiore, quanto più
Edipo è prossimo al suo superamento.

6. Edipo orante e supplicante sa che tutto è rimesso agli dei. Il suo stesso ingresso a
Colono, nel recinto sacro, l'ospitalità di Teseo, la sua morte vicina - così come la sua vita
trascorsa. Sa, e vaticina; dice a Teseo a chi dovrà rivelare i segreti che negli ultimi attimi di
vita gli comunica. Chiede, quindi, alle figlie di lavarlo e di vestirlo di vesti incontaminate, poi
le allontana. Il solo Tesco, già una volta sceso agl'Inferi a rapire Persefone, lo accompagna.
Ma anche lui alla fine si copre gli occhi, come accecato da troppa intensa luce - luce senza
luce, phós apheggés? - e, prostrato a terra, prega in una medesima preghiera (en tautó
lógo) Gea e gli dèi d'Olimpo.
Edipo muore solo. Una solitudine difficile - se a lungo ha indugiato. «Edipo, perché
indugiamo ad andare? Già da tempo tu ritardi». Ma anche dopo le parole del dio, Edipo si
volge al mondo: il pensiero delle figlie non l'abbandona; chiede a Teseo di rinnovare la
promessa di proteggerle. Quindi si avvia all'ultimo passo. Senza gemiti, senza dolori di
malattia: «degno di meraviglia, se mai altro mortale» - così nel racconto del nunzio. Ma
come è morto nessuno può dirlo, tranne Teseo. Ma cosa dice Teseo? Alle figlie piangenti,
che già il corifeo aveva cercato di confortare, invitandole a sopportare nobilmente la sorte
divina e a pensare che di nulla potevano biasimarsi, Teseo rivolge il rimprovero di
lamentarsi: «per coloro cui è grazia la notte sotterranea piangere è disonore» (vv. 1751-
1753). Il corifeo guarda ancora con l'occhio del mondo, Teseo con quello divino. Teseo dice
quello stesso che in precedenza aveva espresso il coro, con parole che improntano tutta la
cultura greca: «Non essere nati è condizione che tutte supera; ma poi una volta apparsi,
tornare colà donde si venne, è certo il secondo bene» (vv. 1224-1227).
I riti lustrali indicano la necessità di purificarsi dal "sé", dalla finitezza e dalla negatività del
"sé". La morte è il ritorno alla Tenebra antica, al Sacro - oltre l'uomo e oltre il divino. La
preghiera pagana dà voce a questa nostalgia.
Non dà ragione, però, del pianto umano, umanissimo, di Antigone e Ismene. Di nuovo
l'umiltà si muta nel suo contrario, nella hybris di parlare al mondo con la voce di Dio. Teseo
che rimprovera le infelici figlie di Edipo è meno pietoso del Corifeo, che parla parole umane.
Umane, ma non solo umane. Invero, la preghiera pagana tradisce la finitezza del finito
proprio nel punto in cui sembra raggiungerla. La cultura greca - quindi anche la sua
preghiera - conosce la vita finita solo come momento o parte della Vita infinita.

2. LA PREGHIERA CRISTIANA

Veramente egli si rivolge a te, quando tu cerchi lui, non quando cerchi suo tramite
qualcos'altro 5 (Agostino, Commento ai Salmi)

7. Al Getsemani Gesù va per pregare. La preghiera esige solitudine - lui stesso aveva
ammonito di pregare di nascosto-; ma pur appartandosi, vuole con sé i suoi discepoli; gli
restano accanto Pietro e i due figli di Zebedeo. Prima di allontanarsi anche da loro, dice:
«L'anima mia è triste sino alla morte; restate qui e vegliate con me». Quindi prostrato a terra,
supplica: «Padre mio se è possibile, passi da me questo calice. Però non come voglio io, ma
come vuoi tu» (Mt 26, 36 39). È il Figlio dell'Uomo che prega. Il Figlio che - per ripetere
Paolo - «pur essendo in forma di Dio, non reputò rapina essere eguale a Dio, ma svuotò se
stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini»(Fil 2, 6-7). L'umanità di
Cristo è totale: si prostra a terra, si umilia al Padre. Si è tanto svuotato della sua natura
divina, da attribuire anche al Padre un carattere umano: la volontà. E da questa volontà ora
si libera. Si vuole liberare. È la seconda e più difficile kenosi. Non la rinuncia al mondo - la
tentazione di Satana è vinta da un pezzo -, ma alla propria volontà. A se stesso. Che questa
seconda kenosi, questa kenosi della stessa kenosi, sia dura e difficile, lo mostra il fatto che
per ben tre volte prega, prostrato a terra, il Padre. La vicinanza dei discepoli gli è di conforto,
sono la testimonianza della sua umanità. Ma i discepoli cedono al sonno. «Lo spirito è
pronto, ma la carne è debole» (Mt 26, 41), osserva. Gesù parla certo ai discepoli, ma la loro
vicinanza non avrebbe significato alcuno, se Gesù non parlasse anche a se stesso. Non
sarebbe compiutamente uomo, se l'affermazione non valesse anche per lui, Gesù. Nella
preghiera si mostra con dolore, nel dolore, che l'unione dello spirito con la carne è perfetta,
incompiuta. Nel passaggio dal tempo all'eterno, il tempo resiste, fa peso. E la preghiera è il
superamento del tempo nel tempo. Gesù, il Figlio divino che s'è fatto uomo, è la
testimonianza più alta che non si prega in Dio. Per questo la sua sofferenza è reale. Si
prega fuori di Dio; nel tempo. Ma tendendo a ciò che è oltre il tempo. Questa tensione non è
già l'oltre, anche se anticipa il fuori. Nella preghiera cristiana l'umano, umanissimo pianto di
Antigone e di Ismene è totalmente accolto e compreso. Umano, umanissimo - ma non
"troppo umano": perché non dimentica per l'uomo Dio.

8. Sulla Croce l'ultima parola fu un grido. L'ultimo, l'eschaton, riattualizza l'origine, il mistero
dell'origine: I'abbandono. Anche la forma della voce - il grido - è significativa. Fa segno alla
parola iniziale, alla prima parola che non fu per comunicare, per partecipare; fu espressione
di meraviglia, di stupore: stupore davanti all'esserci, al proprio esserci: Dio altro da Dio. Un
grido: più che una voce modulata nel tempo, un'esclamazione. Il tuono che squarcia il
Silenzio del Sacro, che divide l'Indivisibile.
La preghiera pagana celebra il ritorno all'Indistinzione del Sacro; la preghiera cristiana soffre
il mistero della nascita, prim'ancora che del cosmo, di Dio, del Deus-Trinitas. Perché con il
Figlio è nata la Trinità. E il grido dell'ora nona contiene, tiene insieme, in sé, il dolore della
nascita e la gioia della salvazione. Anche dopo la kenosi della kenosi, dopo la rinuncia del
Figlio a se stesso, l'abbandono resta. Resta il Figlio, l'umanità del Figlio. Custodia delle
lacrime di Antigone e Ismene. Testimonianza che pianto e dolore per la morte non sono
vergogna.

9. L'ultimo, l'éschaton, riattualizza l'origine; non ripete, però. Nel próton v'era la kenosi, non
la kenosi della kenosi. L'ultimo mantiene, conserva la differenza tra il possibile massimo –
"quiddam maius quam cogitari potest" - e il possibile minimo - "quiddam minus quam cogitari
potest". Per questo è grido di sofferenza, oltreché di gioia. La gioia della custodia, della
salvezza del finito, è - essa medesima, e cioè: proprio questa gioia e non altra - sofferenza
del finito: perché quello che è serbato è il finito, l'imperfezione, e pur il male, che dal finito e
dall'imperfezione deriva.

Questa indissolubile unione di gioia e dolore, di dolore e gioia, caratterizza la preghiera


cristiana. Che è e resta parola umana che trascende il tempo, ma nel tempo. Perciò sempre
distante dalla Verità. Infinitamente lontana. Mai parola di Verità O meglio, parola di Verità
solo in quanto si riconosce differente dalla Verità. La Verità è meta, scopo, termine della
parola. Il genitivo resta oggettivo, non si muta in soggettivo.
Pia è solo quella parola che si riconosce sempre lontana dal Vero, pur nella prossimità
estrema ad esso, empia quella che presume di essere la parola della Verità.

10. È qui, forse, la risposta alla domanda con cui chiudevamo il capitolo sulla libertà e la
servitù: perché dopo Mr 5, 45, Mr 10, 34-39? Perché dopo l'accoglienza di tutti, e buoni e
malvagi, e giusti e ingiusti, sotto un unico cielo, ancora la spada che separa la figlia dalla
madre, il figlio dal padre, la nuora dalla suocera? Perché dopo l'amore della conciliazione
totale ancora l'odio che divide - fosse pur solo l'odio dell'odio, la divisione dalla divisione?
L'accoglienza per quanto sia ampia, resta sempre manchevole. Perché manchevole è il
finito. E anche se tutte le finitezze venissero accolte in una Totalità armonica e conciliante,
resterebbero tutte finite e la Totalità stessa sarebbe, nonché perfetta, la somma di tutte le
imperfezioni: l'imperfettissimo. Perfetto è solo l'Infinito - ma d'Infinito abbiamo solo un'idea
negativa. Perché l'Infinito, in quanto tale, non si dà mai in idea. In immagine. In icona. Non
ha forma, l'Infinito, che possa contenerlo. E tuttavia l'idea, la forma, l'icona finita dell'Infinito,
nonché essere respinta, è pienamente assunta, e celebrata, e lodata, nella preghiera
cristiana, che per il Sacro non dimentica il Divino - come per il Divino non dimentica il Sacro.

11. Ma la kenosi non sarebbe kenosi se il Figlio, nell'essere compiutamente, perfettamente


uomo, non fosse insieme (bama, simul) Figlio di Dio, Dio egli stesso. La sua preghiera, la
preghiera del Figlio dell'uomo, non può essere scissa dalla sua Parola, da sé come Parola di
Dio. E qui, nella differenza infinita tra il "quiddam maius quam cogitari potest" e il "quiddam
minus quam cogitari potest", tra il possibile maggiore di ogni massimo e il possibile minore
d'ogni minimo, si scorge il misterioso legame, l'incomprensibile identità. Cristo è più che
l'identità di due nature, due sostanze, due persone: è l'identità dell'estrema perfezione e
dell'umiliazione estrema. Identità della differenza. E cioè: Verità, assoluta Verità - ma come
domanda. Il Figlio divino, la Verità del Padre si presenta all'uomo interrogando, interrogando
se stessa, e gli altri su se stessa: «E voi chi dite che io sia?».
È la domanda che chiede anzitutto ascolto. Non è tracotanza umana porsi all'ascolto della
Parola, perché l'ascolto è richiesto da Dio che presenta la sua Verità, Se stesso, come
domanda. Né è tracotanza umana affermare che l'ascolto è richiesto da Dio stesso che si
presenta in forma di domanda - perché questa domanda d'ascolto nonché consolare,
inquieta. Inquieta anche là dove consola, mettendo in forse ogni certezza e, non meno, ogni
dubbio, essendo più certa d'ogni certezza, e più dubbiosa d'ogni dubbio. Chi, all'ascolto di
questa domanda, la comprende, non è più quello che era. La domanda lo coinvolge,
l'estranea da sé. Questa domanda inquieta tutto l'essere di chi l'ascolta.
Pregare in Cristo è corrispondere a tale inquietudine. È farsi inquieto di tale inquietudine.
Farsi - o esser fatto?
Già: la domanda di Gesù, ma non meno il suo ascolto, non sono in nostro potere. Possiamo
averla sentita mille e mille volte, questa domanda, senza mai averla veramente ascoltata;
possiamo esserci messi all'ascolto, con le migliori intenzioni, le nostre intenzioni, e mai
averla udita. E allora: chi prega nella preghiera?
Il Dio possibile non concede riposo, non concede certezze, identità. Neppure quella dell'io
che dice "Tu". Pronunziato il "Tu", questo Tu, l'io che prega diviene domanda a se stesso. A
quale intimità con l'"io" è giunto il "Tu"? L'ombra del Sacro abbraccia Dio e uomo: al Deus
absconditus corrisponde l'ego absconditus.
La domanda di Gesù porta alla parola l'approssimarsi di Dio all'uomo e insieme l'infinita
distanza dell'uomo da Dio. È la Parola di Dio che dona all'uomo la consapevolezza della sua
finitudine. È Dio che si rivela all'uomo come bisogno, esigenza. La presenza di Dio, del Dio
possibile, è la presenza non di un'assenza, ma di una mancanza - e di una sofferenza. Di
un'infinita nostalgia. Ma è questa nostalgia che ci "salva". Che salva la nostra "finitezza": che
serba, custodisce questa finitezza e la riscatta- la riscatta nella sua immanente "negatività".
Non la redime, la custodisce riscattandola. E così "ci" salva: salva "noi" anche dalla
consolante certezza - umana, troppo umana: ancora una forma di hybris - dell'escatologia
della redenzione. Che vogliamo dire con ciò?
Che Cristo è soglia; anche quando la varchi, resta soglia. Nessun cammino nella preghiera è
definitivo, né in salita: dall'uomo a Dio, né in discesa: da Dio all'uomo. Il Dio possibile resta
possibile. Anche nell'essere, nel darsi - nel venire all'uomo in forma di domanda e, quindi,
chiedendo e donando ascolto. L'ascolto della sua Parola: E voi chi dite che io sia?

Potrebbero piacerti anche