L’autore
Luca Scarlini
Luca Scarlini è scrittore, drammaturgo per teatri e musica, performance
artist, storyteller.
Insegna tecniche narrative presso la Scuola Holden di Torino. Voce di Radio
Tre, ha condotto il programma “Museo Nazionale” e curato mostre sulla
relazione tra arte, musica, teatro e moda.
Tra i suoi libri ricordiamo Lustrini per il regno dei cieli (Bollati Boringhieri),
Sacre sfilate, dedicato alla moda in Vaticano, e Un paese in ginocchio
(Guanda), La sindrome di Michael Jackson (Bompiani), Andy Warhol
superstar (Johan & Levi), Siviero contro Hitler e Memorie di un’opera d’arte
(Skira), Conosci Milano? (Clichy), Ziggy Stardust (add), Bianco tenebra
(Sellerio), Teatri d’amore (Nottetempo).
L’ULTIMA REGINA DI FIRENZE
Dello stesso autore presso Bompiani
www.giunti.it
www.bompiani.it
ISBN 978-88-587-8006-0
Sul cadere del mese di agosto del 1629, la città di Siena era in grande
movimento per l’imminente arrivo del nuovo governatore. Il principe Don
Mattias aveva diciassette anni: lo inviavano a guidare la città e a farsi le ossa
nell’amministrazione la nonna, Cristina di Lorena, e la mamma, Maddalena
d’Austria. La signora madre, sotto l’abito di gala, era una massaia rifinita,
con il pallino di far tornare i conti, fino all’ultimo zero, con absburgica,
micidiale precisione. Sotto il suo impero c’era ben poco da scialare: anzi, era
il regno del miccino, del risparmio portato allo spasimo del tormento. Al
maestro di casa che gli chiedeva otto letti dalla guardaroba di Pitti, per farci
dormire gli staffieri, “per basso servizio”, replicava che dormissero in due per
giaciglio, e che comunque quello spettava solo a chi aveva servizio di
palazzo. Gli altri per terra, o che si arrangiassero, che tanto erano giovani, e
potevano farlo. Per le due austere reggenti il ragazzo doveva studiare
l’organizzazione dello Stato, sotto la guida del suo mentore ufficiale, il balì
Giovanni Antinori, incaricato di sorvegliare da vicino il regale rampollo e di
riferire tutto quello che faceva.
La verità è che questi, assai stanco di ricevere lezioni di economia e di
governo ad ogni momento, voleva andare al corso a vedere le femmine, per
capire “quali possono andare a mostra e tenere tra le altre il primo loco”, per
poi passare alla commedia, dove apprezzava tutto: “e in particolare il Zanni
ridicolo, qual è bonissimo, non facendo più questa parte il Gonnella che di
presente fa il Pantalone e non si move bene”. Tra una caccia e una messa, il
bel Mattias godeva per la prima volta della libertà dalle sue due tutrici
severissime, che l’avevano fatto crescere in una specie di regime di stretta
sorveglianza. Scartava il suo focoso cavallino spagnolo, e lui si dava a
correre intorno a Piazza del Campo, come fanno i barberi quando c’è il palio.
Più tardi avrebbe messo la testa a partito, dilettandosi di soggetti gravi e
severi. Allora avrebbe commesso al miglior pittore che si trovasse in Siena,
Rutilio Manetti, un Dante e Virgilio negli Inferi, una composizione seria e
piena di pathos, che spesso rimirava alle pareti del suo studio.
PROLOGO II
LA PESTE ARRIVA A FIRENZE
“E te non vuoi che ti compri nulla?” “Perché siete tanto buono da pensare
a me, fatemi il piacere di portarmi una rosa, che in questi posti non ci fanno”.
Così Bella (anzi Bellinda, in chiave di domestica trasformazione) parla, nella
toscanissima quanto magnifica versione di Collodi, al padre mercante che sta
per mettersi in viaggio. È uno scambio simbolico di affetti con frutti e fiori,
secondo una consolidata retorica di comunicazione veicolata fin dai tempi
antichi dalla Chiesa; un fiorito dizionario scorre nel carteggio tra Galileo
Galilei e la figlia Virginia, nel chiostro suor Maria Celeste, presso le Clarisse
di San Matteo in Arcetri. La ragazza era figlia della padovana Marina Gamba,
con cui Galileo aveva vissuto a lungo more uxorio nella città degli studi,
regolarizzando soltanto dei rampolli nati l’agitato figlio Vincenzio, che gli
aveva dato non poche preoccupazioni. La ragazza era docile e di grande
intelligenza; era stata monacata con la sorella Livia (poi in ecclesia
Arcangela), gracile e malaticcia, che detestava l’essere suora in un luogo di
grande miseria, dove a malapena le sorelle avevano di che sfamarsi.
Galileo trae fuori da un panierino, dove è stata riposta con la massima
cura, involta nella bambagia, una rosa gialla tea, screziata di bianca e di
rosso, che gli ha recato l’uomo di fatica del convento. Lo scienziato sa che il
fiore è originario della Cina: è vecchio, malato, quasi cieco, guardato a vista
dopo la liberazione dal carcere, ma il gusto dell’osservazione non lo perderà
mai. “Caro padre, insieme a un poco di morselletti, a qualche pastina di
mandorla, e a un poco di panforte, vi ho mandato una rosa, unica fiorita
dall’arbusto per il clima stranamente dolce di questi tempi. Spero che vi rechi
piacere, vorrei sapere scrivere meglio e per questo vi chiedo di mandarmi un
manuale, come Il perfetto segretario, per esservi meno di peso con l’aridità
del mio semplice scrivere.” Galileo porta vicino agli occhi miopi la rosa, ne
odora il profumo delicato. Pensa alla figlia reclusa a poca distanza dall’asilo
della sua vecchiaia, che lei stessa ha contribuito a trovare per lui.
PROLOGO IV
LA ROVINA D’ALEMAGNA
Ferdinando aveva capito che a suo figlio piacevano le femmine, sia pure
per il dovere sacro della procreazione più che per il piacere, dal modo
ossessivo in cui guardava le sante, invece che i martiri più procaci (come
aveva sempre fatto lui fin dalla più tenera infanzia) nell’infinita collezione di
famiglia. Sempre quel suo figlio serio aveva espresso un clamoroso
apprezzamento per le sacre bellezze di Carlo Dolci, che poi era diventato il
suo pittore favorito. Specialmente lo intrigava la Maria Maddalena, con gli
occhi bassi. Una donna che aveva forme opime, appena nascoste da un abito
che sembrava fatto di velo, vedo e non vedo. Visto che era languido,
linfatico, spesso rapito in preghiera, il genitore pensò che fosse senz’altro il
momento di dargli moglie, così forse avrebbe sviluppato un maggior senso di
indipendenza dalla madre, dalle sue beghine e dalle loro micidiali preghiere,
e gli avrebbe fatto anche bene alla salute. Prima o poi sarebbe stato
Granduca, e con le preghiere la Toscana sarebbe andata poco lontana, ché già
di problemi economici ce n’erano tanti e il paese sembrava sempre più fuori
dalla realtà di un mondo che correva veloce.
Nel 1659 il gran Luigi firmò la pace dei Pirenei e allora il Granduca fu
risoluto che bisognasse legarsi col matrimonio di Cosimo alla corte di
Francia. Intanto regalava preziosi barili di vin santo, rare essenze della
farmacia di Pitti e di Santa Maria Novella, dolci squisiti fatti dalle monache
di clausura impacchettati in stoffe pregiate, destinati al Mazzarino, da cui in
definitiva tutto dipendeva. A corte agiva anche Atto Melani, che aveva
incantato Anna d’Austria cantando a turno con la divina Leonora Baroni le
arie di melanconia che tanto la intrigavano. Il cantante soprano di Pistoia,
spia di consumata abilità, aveva un ascendente notevole anche sul giovane
Luigi, pur perdendone poi il favore, quando anni dopo il sovrano scoprì che
gli leggeva le lettere. Parigi era piena di virtuose italiane, quasi tutte spie per
avere doppio, triplo e, perché no, quadruplo soldo per le parole pronunciate
con la loro lingua di miele. Ferdinando venne informato per tempo che il
miglior partito disponibile era Marguerite-Louise, figlia di Gaston d’Orléans,
da tempo in disgrazia per essere stato il capo della Fronda. Per qualche tempo
si era parlato del fatto che fosse promessa al Savoia, ma quello aveva
preferito una principessa inglese, per spendere meno di dote. Dal 1658 il
primo ministro di Toscana, Gondi, poneva infinite domande al Bonsi,
residente a Parigi, entusiasta della prospettiva, per parte sua, ché se le
trattative andavano avanti ci avrebbe guadagnato molto, anzi moltissimo. Nel
frattempo altri ambasciatori proponevano, come in un intermezzo
indemoniato d’opera buffa, principesse Stuart in esilio (ma nessun voleva
certo irritare Cromwell) e una rampolla di Sassonia era della partita, ma
aveva dichiarato chiaro e tondo che sarebbe rimasta luterana, e chi la sentiva
Vittoria? Un carnevale di principesse, millantate come belle e perfette, che
invece ovviamente avevano più di un difetto. Il sangue era andato in acqua a
generazioni intere di signorine clorotiche, rovinate dalla gotta che circolava
nel sangue dei cugini che continuavano spietatamente a sposarsi tra di loro e
a figliare creature rachitiche e stente. Il disgraziato Gaston, fonte di sciagura a
sé e agli altri, morì nel 1660: Marguerite era ormai come fosse figlia di
Mazzarino. Il genitore biologico aveva lasciato solo debiti, ma quello
adottivo aveva dei bei denari; la dote sarebbe stata però modesta, anche se le
discussioni tra gli ambasciatori furono micidiali, lunghissime, sulla
definizione dell’esatto quantitativo di quattrini.
Il Bonsi, infine, riuscì a far scattare l’imbambolato Cosimo: quella
femmina bionda e raffinata gli rimescolò finalmente il sangue, e poi tutti i
cerusici del regno di Francia garantivano che fosse una macchina perfetta per
fare figli, e questo avrebbe dato onore e gloria ai Medici. Prima di allora al
futuro Granduca non era mai importato cosa avesse indosso: ora il suo
cristiano sdegno per gli eccessi nella moda lasciò il posto a una frenesia di
acquisti. Il Bonsi era richiesto di acquistare galanterie di ogni tipo: guanti,
nastri, pizzi, merletti, scarpini. Dentro di sé il principe sapeva di essere poco
affascinante e pensava che l’investimento in moda avrebbe operato una
magia, gli avrebbe anche sfinato il doppio mento, e reso meno triste il
broncio dominato dai tumidi labbroni d’Absburgo. Lentamente si tramava il
disastro, e sull’ingenuo Cosimo si chiudeva il cappio della sua maggior
disgrazia. Anche se tutto si presentava sotto i migliori auspici, la nuova
regina di Firenze avrebbe non poco contribuito con i suoi capricci e le sue
follie al disastro finale della casata. Marguerite disse di sì, dopo aver sentito
l’augusto parere del cugino Luigi: un po’ le piaceva l’idea di essere regina,
ma non avrebbe mai potuto immaginare in che guai si sarebbe andata a
infilare.
LE EROTICHE E SCIENTIFICHE AVVENTURE DI FINCHIO E FAVA
IN TOSCANA & IN TURCHIA
“Charles, mon Charles, on est prisonniers d’amour, mais non est pas
ensemble dans la même prison.” Marguerite detesta Cosimo e le sue smanie
religiose, ha in orrore gli accoppiamenti con il Granduca, regolati da un
medico di corte che lo tocca subito sulla spalla quando viene, smorzando il
piacere nella preghiera, per dire che si congedi immantinente, e che non gli
passi in mente di avere un altro rapporto in sequenza con la moglie. In
corridoio lo attendono i frati, per ringraziare il signore, ché l’erezione è stata
salda e il seme copioso. Il marito è d’accordissimo con l’idea di non
spendersi troppo a letto. Anche se mangia come un bue, ed è ben in carne, è
stato spesso male e si ritiene estremamente cagionevole: troppo sesso lo
porterebbe a morte precoce. E poi lo scopo del suo avvicinarsi a Madame è
quello della procreazione: è ossessionato dalla discendenza, da avere al più
presto. Talvolta nella stanza in cui si ritira per meditare e pregare pensa al
potere maligno di Eros. È ossessionato dal destino di Carlo II di Gonzaga-
Nevers, che morì di colpo a Mantova nel 1665. Si sussurrò allora, tra corridoi
e anticamere, che l’avesse eliminato la duchessa Isabella d’Austria per
giacersi con il suo amante Bulgarini. Altri dicevano che, da sempre
preoccupato di perdere il vigore sessuale, si fosse invece avvelenato da sé con
una pozione rinvigorente di cui faceva troppo largo uso. In ogni caso era
morto a letto, di colpo, a fianco di una femmina nuda, senza potersi
confessare, e un’uscita dal mondo nel bel mezzo di una partita di sesso, senza
i suoi frati oranti e salmodianti, gli sembrava certo la via più dritta per
l’Inferno.
Marguerite è innamorata dell’immagine della Francia: ripete a tutti i nobili
che la incontrano alle feste di Pitti che Firenze le piacerebbe soltanto se fosse
in Francia, se Pitti si mutasse in Fontainebleau e Palazzo Vecchio in
Versailles. Un’attitudine che alla fine le mette contro l’intera corte. Le rimane
il suo seguito francese; poi in un giorno di fine autunno, quando il cielo ha il
colore di un mal di denti, giunge d’improvviso il suo bel cugino Carlo di
Lorena, senza il becco di un soldo, prestante e amante di uno stile di vita da
militare. Il nonno, squattrinato, ha venduto i feudi al gran Luigi; il giovane è
impetuoso, ha fatto proteste, ottenendo in cambio l’ingiunzione a lasciare per
sempre il territorio francese, mettendosi a vivere alla ventura, avendo come
unica prospettiva quella di fare l’uomo d’arme.
Cosimo non sa che tra i due cugini c’è del tenero, anche perché il
sentimento fino a quel momento è stato più fantastico che reale, ma gli
incontri fiorentini lo rafforzano alquanto. Madame in realtà si era accorta di
essere davvero follemente innamorata di lui nel momento stesso in cui aveva
iniziato il suo lungo viaggio verso Firenze. Aveva fatto il diavolo a quattro
per mandare a monte il matrimonio, ma Luigi era stato chiaro: o la Toscana o
il monastero, e lei era davvero mondana, le piacevano i vestiti, le carrozze
trainate dai bei cavalli, i gioielli. “Oh mon amour, tu es la vague, moi l’île
nue”, le stringe la mano come se volesse spezzarla, e non c’è nemmeno più la
signora d’Angoulême a temperare i bollenti spiriti della sua signora. Quanti
pianti, quanti lamenti: “Charles, mon Charles, mi spiano, mi controllano.
Quello spilorcio di mio marito mi conta le spese, mi rimprovera perché il mio
cuoco impiega troppo pollame per la fricassea: minable. La scorsa settimana
mi ha mandato un mercante di stoffe e voleva che prendessi solo una pezza o
due. Io, ovviamente, ho visto che erano belle e le ho prese tutte, poi mi
accusano di immoralità perché ricevo i miei paggi in camera quando voglio,
ma è l’uso di Versailles e non sarà colpa mia se questi fiorentini non hanno
mai girato il mondo”.
Pianse tutte le lacrime, quando Charles se ne andò, ma le era venuta la
scalmana. Cominciò a parlare male di tutti: disse che la piissima
Granduchessa madre Vittoria si teneva tutti quei frati per rifarsi degli anni di
castità che le aveva inflitto il gayissimo consorte Ferdinando. E allora la
signora di Urbino le scatenò contro marito e figliolo. Dopo un’estate di cacce
e festini, Marguerite rimase finalmente gravida, e così, non potendo darsi al
suo passatempo preferito di andare a cavallo, faceva passeggiate lunghissime
che stancavano tutti quelli del suo seguito, come se, nel suo cuor dei cuori,
cercasse di porre fine alla gravidanza. A quel punto, sempre più convinta che
Firenze fosse per lei un carcere a forma di reggia, si chiuse nelle sue stanze,
con le sue ancelle francesi. Cosimo era annichilito da questa situazione, a cui
non sapeva fare fronte. Il Granduca padre, più pratico, rimandò le demoiselles
a Paris, cariche di bei regali, sostituendole con signorine toscane di fiducia. Il
punto era che a Versailles si cominciava a mormorare sull’infelice mariage, e
senz’altro era meglio evitare, per quanto possibile, ragots et potins, ossia
chiacchiere e pettegolezzi, che avrebbero solo peggiorato la situazione.
VICINO AL CUORE SELVAGGIO: MARGUERITE-LOUISE SI
RIBELLA A COSIMO CONSORTE E AL SUOCERO FERDINANDO,
CHE LA RECLUDONO ALLA VILLA DI LAPPEGGI
Chez nous, chez nous, chez nous, chez nous. Marguerite-Louise ripeteva
quanto tutto ciò che trovava a Firenze le sembrasse ridicolo, e specialmente
quel suo lugubre marito, allocco senza garbo, che voleva accoppiarsi con lei
per produrre figli, ma non sapeva offrirle nessuna tenerezza. Florence c’est
pas la Renaissance, c’est un cauchemar. Piccole e soffocanti le stanze,
minuscoli i giardini, differenti i costumi, incomprensibili gli abiti, respingente
l’idioma, orribile la famiglia regnante. Diciamola tutta: a corte solo poche
dame parlavano francese, e d’altra parte lei padroneggiava poco l’italiano, se
non per i comandi più semplici alla servitù. E poi quella piccola nobiltà
grottesca così attaccata alle sue usanze e alle sue proprietà terriere! E quel
paese che era povero, eccome: nelle sue cavalcate intorno a Firenze ne aveva
visti di bambini sdentati, di vecchie farnetiche, di tuguri miserabili. Intorno a
lei il personale di servizio che aveva portato da Parigi si dedicava altrettanto
al gioco della maldicenza, ma spesso veniva individuato e denunciato al
Granduca e al di lui figlio. Ne seguivano vendette: dame, damigelle, maestri
di casa di Paris, tutti spediti di gran carriera a Livorno con biglietto di sola
andata per la Francia, e che non tornassero mai più, spioni e maldicenti.
Ferdinando che, senza dubbio, era dotato di grande savoir vivre, le allestiva
divertimenti, gite, cacce, trattenimenti, concerti, villeggiatura, ma otteneva
poca riconoscenza. Aveva più talento a trattarla di suo figlio Cosimo, certo,
ma comunque era sgradito a Madame, che aveva ben compreso che con lui
doveva trattare, per ottenere vittoria per i suoi capricci.
Nella primavera del 1663 capì di essere incinta: da allora in poi si
scalmanò non poco. Dal momento in cui la levatrice le aveva garantito la
gravidanza, aveva fatto di tutto per rovinare la vita a quel ciccione bigotto.
Aveva chiesto di poter cavalcare, come suo solito, ma i medici le avevano
detto che questo avrebbe messo in discussione la gravidanza. E allora
camminava come una pazza, come se davvero volesse mettere a repentaglio
la creatura in arrivo.
Il 9 agosto 1663 nacque Ferdinando: Marguerite fu seccata assai della
italiana maniera di celebrarlo. Le campane di Palazzo Vecchio continuarono
a suonare a distesa per tre giorni, da Palazzo Pitti volavano monete verso i
poveri, e un risuonante Te Deum, in cui si alternavano sei cori, emanava dal
Duomo, in larghe e maestose onde. Marguerite dentro di sé pensava: “ouais,
l’enfant c’est joli, mais ici c’est la galère”. E poi dopo il parto, a cui aveva
assistito una levatrice parigina di sua fiducia, le era venuto un ascesso
maligno al petto, con un inizio di tubercolosi, che necessitò di lunghe cure.
Lettere ansiose andavano e venivano da Parigi: le Roi Soleil era piccatissimo
per le azioni della sua scalmanata cuginetta, ne andava della sua credibilità.
Inviò un suo emissario, il conte di Sainte-Même, che fece però solo danni e
aggravò la situazione, prendendo decisamente le parti di Marguerite,
strepitosa attrice all’occorrenza, scatenata contro i Medici maligni. Madame
aveva calcato la mano: si era dipinta come una carcerata nelle mani di una
famiglia di pazzi torturatori. Luigi era sempre più furibondo, esasperato:
rampognò il nobile inviato per la sua evidente inefficacia. Madame nel
frattempo era decisa al tutto e per tutto: diceva che i Medici la volevano
avvelenare, faceva cucinare il suo cibo solo da cuochi francesi, e lo faceva
assaggiare alle cameriste fidate prima di portarlo alla bocca, mandava a
Ferdinando liste di privilegi, che solo in piccolissima parte otteneva, e
soprattutto: dichiarava a ogni momento di non voler stare vicino a dove fosse
Cosimo. Se lui stava in salone, lei era in soffitta, e si scambiavano
rabbiosamente tra appartamenti d’estate e d’inverno. Lei lo insultava
continuamente, chiedeva a suo cugino in infinite lettere di tornare a Parigi,
ma in convento, ricevendo come risposta, secchissima, che casomai sarebbe
finita alla Bastiglia, murata a vita. Rovinò i festeggiamenti per il genetliaco di
Cosimo e lui per vendetta la rinchiuse, guardata a vista, alla villa di Lappeggi,
subito detta dal popolino alla peggio. Un luogo destinato a teatri di eccessi:
qui il fratello del Granduca, Francesco Maria, cardinale per nome, ma assai
più dedito a femmine, si dava a cacce e a bevute interminabili. Qui,
controllata da emissari del Granduca padre e figlio, sempre più ridicolizzato
in Francia e in Italia per questa sua infelice relazione in cui faceva sempre la
figura dell’allocco, la francese era il terrore delle sue dame di compagnia. In
Italia non si faceva esercizio fisico, la magrezza era vista piuttosto come una
forma di malattia, le signore erano intese come burrose, quando non opime,
dignitosamente assise sulle cadreghe nelle loro sale. Al più si faceva qualche
breve passeggiata nelle ore del fresco, ma giusto per dire il rosario.
Marguerite-Louise invece percorreva chilometri intorno alla villa, favorendo
le stradine più impervie e possibilmente con seri strapiombi improvvisi.
Alcune delle damine ne ebbero un tale strapazzo che ne rimasero seriamente
ammalate per mesi; implorarono il Granduca di dispensarle dal servire in
futuro quella pazza, mentre lei, sempre più infervorata, correva istericamente
da un luogo all’altro. Invece di signore, le dettero nel seguito dei
gentiluomini, soldati, agili nel corpo e nel movimento. Cosimo si sognava la
notte di essere costretto a seguirla, e l’adipe lo impediva nei movimenti. Nel
frattempo Madame distillava il suo tossicissimo veleno. Conoscendo quanto
Cosimo fosse bigotto scrisse a Parigi che riteneva il suo matrimonio nullo,
secondo ciò che aveva appreso dal suo confessore, perché vi era stata forzata
contro il suo volere. Questo suscitò mortali ansie, e notturni sudori freddi nel
Granduca. Cinque preti, tre frati e due legulei si presentarono la mattina
presto nella camera del signore, spiegando che la pretesa di quella insidiosa
francese era assurda, che era solo un’ennesima scusa per creare problemi.
Cosimo tirava il fiato, e poi però si terrorizzava di nuovo, chiamava altri
esperti ecclesiastici e laici. Insomma, guerra aperta, imbarazzi e una
montagna sempre più alta di ridicolo per i Medici, con risatine alle spalle
degli ambasciatori a tutte le corti d’Europa.
COSIMO FUGGE DALLE IRE DI MARGUERITE-LOUISE E SI RECA A
BOLOGNA DALLA PITTRICE PRODIGIO ELISABETTA SIRANI, A
CUI VUOLE COMMISSIONARE UN’OPERA
Tra Firenze e Arezzo, per una strada piena di polvere sollevata dal vento
insistente e cattivo, 23 luglio 1670
Cosimino moro era bello, con gli occhi allungati come Cleopatra, il
sorriso dolce, le labbra di melagrana. Era arrivato da Livorno, dove un
mercante ebreo l’aveva messo in vendita a caro prezzo. Di mano in mano era
arrivato fino a Palazzo Pitti, dove in quell’anno era inseparabile dal nuovo
Granduca. Cosimo era radioso di essere sempre seguito da quel bellissimo
giovine, in cui secondo le sue parole rifulgeva una santa disposizione. Egli
infatti lo aveva fatto battezzare “per salvargli almeno l’anima”, con il nome
che era stato per pochi giorni del suo fratellino, morto in culla. Il suo corpo di
gazzella aveva fatto gola a più d’uno, e due nobili a momenti si sfidavano a
duello per averlo, ma dopo che il ragazzo arabo era entrato sotto la protezione
del monarca avevano dovuto limitare le loro mire. Eppure la maldicenza si
era diffusa veloce a corte: “stai a vedere che sotto tutte quelle devozioni ha
ereditato le passioni del babbo, ma che a lui gli viene voglia solo con quelli di
pelle scura”. Marguerite-Louise, sempre pronta a cercare motivi per
diffamare il consorte, aveva cominciato a dire, nel suo eremo a Poggio a
Caiano: “c’est honteux, cet homme degueulasse c’est aussi ravi par son
mignon noir, enfin il à pris de son père”. Madame, ovviamente, non aveva
prove, parlava per il gusto della maldicenza, però quel bel ragazzo moro non
era un convertito come tutti gli altri alla corte dei Medici. Lo si vedeva
dappertutto, sorrideva aggraziato, si inchinava a tempo, con la grazia di un
ballerino: Cosimo a lungo lo ebbe presso di sé, in tutti i momenti del giorno,
per questo “le beau garçon noir s’appelle Cosimino di Camera, c’est toujours
avec mon mari, c’est scandaleux”.
BENEDETTO ZUCCHETTI VIENE IMPICCATO PER LADRO, E SI
CONFESSA SOLO NEL PUNTO ESTREMO, DOPO UN GRAN
LAVORIO DEI FRATI DEL CONFORTATORIO
Quando entrò nella Cappella del Conforto aveva in volto una grinta dura,
che faceva quasi spavento a chi gli era d’intorno. I fratelli della Compagnia
facevano di tutto per fargli confessare il suo delitto, ma quello niente, anzi di
più insisteva a dire che lui non ne sapeva niente, che era tutto un errore.
Diceva che l’anima sua non valeva un fico, che era inutile salvare quello che
nemmeno esisteva, che nostro signore non avrebbe certo perso tempo con lui.
Si scoprì che in gioventù era stato alla Quarconia, nella casa di San Filippo
Neri, dove si dava ricetto ai ragazzi di strada e a molti delle famiglie povere.
Venne chiamato il signor Filippo Franci, che ben lo conosceva. Questi quasi
lo implorò di confessare, ma quello duro, con una grinta tremenda, con sulla
faccia i segni del suo essere senza dio. Rifiutò di nominare il nome di Gesù,
di baciare la Bibbia, gettò via da sé la reliquia della Santa Croce, che prima
aveva fatto le mostre di domandare. Quando stava venendo il primo chiarore,
uno dei frati aprì la finestra della cappella e con la mano gli fece cenno che il
suo momento era venuto, e che non ci sarebbe stata altra dilazione. Era solo
di fronte all’eternità del nulla, se non confessava il suo peccato, e andava
incontro con l’anima monda al castigo. I raggi dell’alba lo riscossero a
comprendere appieno la situazione in cui si trovava, ma ancora meglio
operarono certe carte stampate, in cui erano raffigurati i tormenti dell’Inferno.
Nessun discorso l’aveva risvegliato, ma ora prese in mano quei fogli e li torse
da ogni parte: ci vollero due messe perché ammettesse i suoi peccati e che era
giusto il suo destino. Alla prima non prestò attenzione, ma alla seguente si
sciolse in lacrime e trovò il modo di parlare. I frati si asciugarono il sudore
dalla fronte, era da tempo che non affrontavano un caso tanto ostico, da
quando nel novembre dell’anno prima Faustina di Antonio Moschini da
Campiglia aveva fatto il diavolo a quattro, dicendo di essere stata costretta
alla confessione dai preti, alla fine si era confessata, ma c’erano voluti due
armigeri per staccarla dall’altare. Ora Benedetto era sereno: quando fu il
momento di andare alla forca, era ormai pacificato e morì con soddisfazione
di tutti.
FINALMENTE DOMENICA: MARGUERITE-LOUISE TORNA A
PARIGI
Leopoldo è agitato, freme. Cammina con indosso una gran vestaglia rosso
cardinale, che si potrebbe scambiare per l’abito del conclave, ai piedi
ricamatissime babbucce turche, nelle stanze del suo appartamento al
pianterreno di Palazzo Pitti. Gira intorno al fallo con sguardo goloso, tocca
con dita tremanti la catena di peni più piccoli che scorrono come ghirlanda
alla base del monumento, che è riuscito con il ricatto a strappare a una
congrega di eruditi finocchi a Roma per averlo tutto per lui, da guardare e
rimirare. Passa con il dito dove si vede che era attaccato il cazzo di coda, che
i maschi toccavano per chiedere grazia dell’impotenza e le femmine per
trovare un uomo ben dotato. La mazza è impressionante: un metro e quaranta
di marmo fine. Dolce al tocco, ma non caldo: il principe, con il muso lungo
da faina che ritrae il Baciccio, ha gli occhi lucidi di cupidigia, sogna come
sarebbe bello se quel membro fosse di carne tiepida o bollente, per estenuanti
partite di piacere. Si immagina nelle vesti di imperatore alla fine del
paganesimo, come Giuliano, contornato di paggi furenti e ben dotati che gli
ballano intorno, ebbri, menandosi mentre lui, baccante invasata, attende
ansioso che gli diano il loro seme. Nella Sala dell’ermafrodito il gran fallo è
al centro e tutti i visitatori dissimulano l’interesse, ma girano come mosche
intorno al gran miele di marmo. Fascino, si chiama in latino: perché da
questo gran membro marmoreo è impossibile distogliere gli occhi, ha un
potere di calamita: Leopoldo ha rimandato due volte la stesura di una lettera
urgente. Vorrebbe proporre una prova sperimentale all’Accademia del
Cimento: se sia possibile distogliere gli occhi da tanta grazia di Nostro
Signore. Lo eccitano le zampe leonine: gli fanno ricordare, a lui che opera per
associazioni erudite, i ruggiti del serraglio mediceo, che non c’è più, ma di
cui i vecchi serventi ancora echeggiano la sinistra presenza vicino alle mura
di Palazzo Vecchio. Gli eruditi gli dicono che la statua è una raffigurazione di
Mutinus Titinus, protettore dei riti nuziali. Beati i romani, che avevano
divinità così belle a vedersi, e a sentirsi, perché andavano toccate a lungo per
ottenere benedizione. Peccato che oggi i suoi concittadini siano bigotti e
bizzoche, e quel suo nipote, Cosimo, sembra un frate, sempre intento a
biascicare devozioni e litanie. Non saprebbero proprio apprezzare quel
miracolo di pietra pregiata: peccato che quando arrivano i cardinali tutta
questa meraviglia debba essere celata con una testa di cartapesta a forma di
leone, per nascondere lo scandalo della classica nerchia, che lui chiama
familiarmente Priapo, o anche Pri, se è particolarmente infervorato, quando
pensa che questi magici oggetti a Roma erano posti in luoghi esclusivamente
dedicati al piacere. L’unica cosa che gli dispiace è che in cima c’è incisa una
vagina, e il cardinale non aveva proprio voglia di toccarle quelle cose umide,
viscide e interne. Infatti tra tutte le sue riverite anticaglie giaceva sola e
abbandonata una collezione preziosa di piccoli uteri devozionali etruschi, che
proprio non gli interessavano. A lui gli oggetti piacevano ancora pieni di
rozza, ossia di terra, per poter scoprire da se stesso le fattezze di ciò che
aveva acquistato. Negli anni precedenti aveva istruito i mercanti a cercargli le
fattezze degli imperatori più sregolati, e come si erano dati da fare i romani a
proporgli oggetti di suo gusto. Il Falconieri gli scriveva, in orgasmo di
incassare la sua mercede, “questa settimana gli ho fatto portare un Caligula di
argento greco, medaglia doppia, sono rare cose e credo che il Serenissimo
Cardinale non se la lascerà sfuggire, il padrone ne domanda sei scudi, in ogni
modo vedrò di trattenerla finché lei comanderà”. Il suo principale faccendiere
gli aveva anche procurato il bellissimo Ermafrodito, pagato a caro prezzo con
un gruppo di altre statue la somma notevole di duemila scudi. Il Gottifredi gli
aveva proposto medaglie con l’effigie di Commodo, l’Agostini perfino
un’icona di Giuliano l’Apostata. Il cardinale si rimirava nella sua collezione
di despoti malvagi del passato e forse per un momento si sognava nella
porpora, re e signore di una pletora di membruti pretoriani. Il cardinale amava
anche, sfrenatamente, la sua Larva convivialis, uno scheletrino da tavola,
gioiello di fabbricazione romana in argento, come quello che teneva
Trimalcione sulla sua tavola nel Satyricon, perché un brivido di morte è
sempre necessario per poter gustare tutta questa traboccante pienezza di vita.
COSIMO CELEBRA TRIONFALMENTE I FESTEGGIAMENTI PER LA
VITTORIA SUI TURCHI A VIENNA
Cosimo manda messi nei vari appartamenti di Pitti e nelle ville circostanti,
raduna tutti nelle sue stanze: familiari, famigli, soprattutto teologi, frati, preti,
confessori, paggi, per annunciare la grandiosa novità. Non sta nella pelle: è in
piedi davanti a lui un tavolo con un orologio da notte, che gli è stato appena
portato dall’Opificio delle Pietre Dure. L’oggetto ha in cima un porcellino,
come quello della loggia del mercato, cioè un cinghiale, con due putti al
fianco. A lato compare un cofanetto rosseggiante di varie specie d’ambra,
della manifattura di Danzica, che ha un cervo come manico. Cosimo è sempre
più impaziente, maneggia con cura una serie di intagli di carta con
l’immagine del sacro cuore di Gesù, secondo la nuova moda alla francese,
lanciata da santa Marguerite Marie Alacoque. Maneggia le creazioni fragili e
squisite dell’olandese che aveva portato a Firenze dal suo viaggio giovanile,
Jan van Achelom, maestro nell’usare le forbici sul foglio. Il cuore è
sormontato dalla croce, circondato da tralci di spine e da due frecce che lo
trapassano, intorno una ghirlanda di passiflora, fiore della passione. Sul
tavolo davanti sta un involto di raffinata seta a disegni cachemire, che
racchiude qualcosa di quadrato e di morbido. La famiglia arriva alla
spicciolata, inchini, riverenze: Ferdinando ha mandato a dire che non ne
vuole sapere, che è troppo ammalato, ha una flussione. Rimane a letto a
Pratolino, e poi gli viene da ridere a pensare che il padre ha da poco
annunciato di voler aprire a Pitti un laboratorio per la produzione delle
camicie della modestia, che coprono l’apparato genitale. Un indumento da
mettersi quando si fanno i clisteri: “che quegli spezialacci non veggano
quello che non devono vedere”. Già, come se mostrare il sedere in famiglia
fosse mai stato un problema. E poi, da sempre, quando il padre si infervora
per sue mistiche scalmane sembra il matto dei tarocchi, meglio tenersi alla
larga.
“Il padre Francesco Sarmento, procuratore generale della provincia
gesuitica di Goa, mi ha fatto la grazia di inviarmi un cuscino appartenuto a
San Francesco Saverio, e mi ha illuminato sul mio dovere personale, e sul
nostro della casa Medici.” In uno dei suoi pellegrinaggi a Roma, Cosimo
aveva rimirato a lungo il braccio del santo, reliquia che si conserva alla
Chiesa del Gesù. Chiede silenzio, apre con discrezione il prezioso involto: ne
estrae un cuscino liso, in cui è facile vedere l’impronta di una testa: “questa
sacra reliquia fu l’origliere di San Francesco Saverio, essa entrerà nella parte
più preziosa e rara del tesoro dei Medici”. Gli astanti sono lievemente
interessati, ma Cosimo è infervorato, e prosegue: “come, come posso
ricompensare l’Ordine di questo prodigioso dono, che illumina il destino
della casa Medici?”. Chiama a sé Giovan Battista Foggini, scultore
prodigioso, e concerta di inviare un monumento enorme in India, a eterna
testimonianza della sua devozione. Il risultato è un mausoleo di pietre, con
quattro bassorilievi in bronzo alla base. Un trionfo dell’ingegnosità di
Foggini, che crea tutti pezzi componibili per poter affrontare l’immane
viaggio. Si loda l’opera alla corte, pur rimproverando a mezza bocca le folli
spese che questa impresa comporta: “l’esser fatto il monumento di pezzi
commessi e collegati con viti e chiavarde di ferro, che non solo le tengono
insieme, ma eziandio la fanno comparire d’un sol pezzo con un sol lavoro e
una invenzione così ingegnosa e nobile che in niun luogo veggonsi le
commettiture del tutto nascoste”. Solo una pietra è specialmente pregiata,
l’alabastro marino, poi per abbattere almeno un poco l’immane costo l’artista
ha scelto il bardiglio, il giallo di Siena e il verde tenero dell’Arno, che
costano assai meno del marmo di Carrara. Il Granduca chiede ai portoghesi di
poter mandare l’enorme carico senza pagare, ma domanda al suo residente a
Lisbona che questa cosa venga chiesta così, senza parere, perché se no ne
avrebbe vergogna.
Congedati tutti, Cosimo si inginocchia e prega. Si sogna re delle Indie
cattoliche, in una visione di marmi dai colori accecanti, con Shiva sostituito
da San Giovanni e Vishnu da Sant’Eugenio, patroni di Firenze, mentre san
Zanobi assume le vesti di Ganesh. Sopra ai santi, mentre Cresci e Onnione
cantano in hindi le glorie medicee, vortica Francesco Saverio che lo prende
con sé per ascendere in cielo, mentre risuona una musica dolce, come di
flauti, sempre più veloce. Santo finalmente anche lui, lontano dalle misere
cure terrene, il Medici volteggia per l’aria fine. Cosimo & Saverio sono una
cosa sola, un supereroe mistico, che dove passa per i suoi magici poteri
converte calmucchi e giavanesi, nipponici e circassi. Già che l’India aveva
dimostrato di apprezzare lo stile delle produzioni medicee: il commesso di
pietre dure aveva trionfato alla corte dei Moghul: tante creazioni dell’Opificio
delle Pietre Dure erano state allestite nelle sala delle udienze del Forte rosso
di Delhi, e avevano lasciato il segno persino nel Taj Mahal. Sogni di gloria,
ma presto la dolce imago mistica si scontra con l’amara realtà. Sei sono gli
anni per la costruzione dell’opera, con varie interruzioni per via della
mancanza dei soldi, cronico problema del governo di Cosimo, come Foggini
scrive alla segreteria granducale, dicendo che sta sulle spese, che non può
proseguire i lavori. Partono infine da Livorno quarantacinque casse (più altre
dieci, con tre destinate ai Teatini), insieme a Placido Francesco Ramponi,
ingegnere nella Galleria dei Lavori e Simone Fanciullacci, lavoratore di
pietre dure. Il primo aveva speciale incarico dal Granduca di redigere un
diario, in cui si descrivono i lunghi sei mesi di viaggio e l’allestimento del
gran manufatto alla chiesa del Bom Jesus di Goa, dalla metà di settembre, in
tempo per essere pronti per la festa del santo patrono, che è il 2 dicembre.
Ramponi e il suo collega, con gran provvista di semi di fiori e frutti, con
animali e stoffe, pietre preziose e no, dopo due anni di viaggio tornano a
Livorno e trovano ad accoglierli il Gran Principe Ferdinando. Cosimo esulta:
medita insieme al suo frate confessore alcantarino, severissimo, sul cartiglio
scelto per comparire sul bronzo: maior in occasu, ossia maggiore, ma al
tramonto, e gli sembra che quella frase iettatoria abbia a che vedere con i casi
suoi e con quelli del suo regno.
IL PUNGIGLIONE D’AMORE: FERDINANDO, SIA PURE AVVERTITO,
SI IMPESTA DI SIFILIDE
Cosimo aveva scarsa simpatia verso gli ebrei: dopo che Marguerite-Louise
era tornata in Francia, snocciolò una serie di editti restrittivi, uno peggio
dell’altro. Vietati tutti i rapporti sessuali tra ebrei e cristiani, proibito per i
secondi servire nelle case dei primi, interdetta ogni forma di comunicazione,
abborrita la copula giudaica con le prostitute in terra di Toscana. Le spie
proliferavano, facendo segno all’autorità di venire a prendere, per fare a
mezzo della multa, che rapidamente passava da cinquanta a cinquecento
scudi. Ora Cosimo era contento, perché da poco era venuto a sapere dai suoi
frati di un ragazzo ebreo, dottissimo nelle sacre materie, che si pensava
sarebbe diventato rabbi della comunità. Questi invece aveva cambiato parere
e viveva da qualche mese alla Casa dei Catecumeni. Qui aveva da poco avuto
il battesimo nella vera fede. A Livorno aveva fatto una predica in Duomo, in
cui aveva commosso tutti, parlando del mistero della Santissima Trinità e
dell’orribile errore degli ebrei che per santo miracolo era stato illuminato ad
abbandonare. Il Granduca aveva fatto una preghierina, presa la sua croce da
collo preferita, il rosario, e si era apprestato con due suoi ministri a recarsi
alla cerimonia. “Tu non sarai più Moisè di Alessandro Leon, ma Paolo
Sebastiano Medici, avrai il nome della dinastia che regge Firenze e che ti sia
d’augurio alla tua opera di apostolato per convertire quelli del tuo popolo,
schiavi di una dottrina falsa e bugiarda.” Il Granduca aveva istituito pensioni,
premi per chi si faceva cristiano nel suo regno: non pochi erano gli impostori
che fingevano di esser giudei o turchi, o che tornavano più volte nella città,
con diversi travestimenti, per vedere di raccogliere più denari. Nessun
investimento spirituale fu però più efficace di quello sullo zelante apologeta:
egli cercò, a rischio di botte e punizioni dai suoi antichi correligionari, di
convertire più persone che potesse. Non indietreggiò nemmeno di fronte alla
falsità più patente: in un caso scrisse che il mercante di stoffe Sabato Pacifici,
detto Piacevolino, a cui era stato alle calcagna per lungo tempo, ammalato
gravemente, avesse urlato, nell’agonia, “datemi il mio Gesù, voglio il mio
Gesù”, e Paolo subito, forzando la realtà, lo aveva messo nelle liste dei suoi
correligionari che aveva convertito al vero Verbo del Signore. Nel 1736
pubblicò un libro destinato a larga diffusione, che mise a punto
l’antisemitismo italiano: Riti e costumi degli ebrei confutati. In queste pagine
trasuda un odio inestinguibile: continua è la descrizione delle strade sporche
del ghetto, della puzza acre di sterco che permane nelle strade per via
dell’allevamento massiccio delle oche nelle cantine, cibo kasher per
eccellenza. Da costoro infatti ebbe nome quella via dietro il Duomo che è
loro dedicata. Nelle pagine del nuovo Medici compaiono una fila disperante
di gobbi, storpi, deformi, degna di Bosch. Quella visione dà testimonianza
dell’abitudine a sposarsi tra cugini, per mantenere in famiglia il patrimonio,
che spesso, malgrado la sporcizia, era immenso. Specialmente, tuonava
contro la pratica dell’amidà, quella micidiale sequenza di maledizioni, che in
sinagoga gli ebrei lanciano contro i loro nemici, ossia tutto il mondo. Paolo
girava come un ossesso per il reame dei Medici a cercare ebrei da convertire,
e nel frattempo scriveva parole di piombo, pesanti come un macigno, contro i
suoi antichi correligionari. “Non si può tollerare l’abuso degli ebrei nella
dogana di Firenze che, per estrarre le loro merci, proferiscono il Santissimo
Nome in vano e hanno l’abito indegno, l’insolenza e la temerità di giurare
frequentemente e a ogni piccola congiuntura che loro davanti agli occhi si
rappresenti.” Tutto il giorno nelle vie del ghetto si sentivano risuonare rosari
di giuramenti: “per la vita mia, per la vita tua, per i santi sefarimmi, per la
santa torah”. Balle, miserabili balle. Spergiuri, bugiardi, truffatori, i giudei
erano sempre pronti a ingannare i goym, che in piazza li disprezzavano, ma
poi venivano di nascosto nel dedalo tortuoso di via delle Oche a chiedere
denari in prestito, ma che per carità non si sapesse, ne andava della
riputazione. Le signore mandavano le serve a chiedere amuleti al rabbi per
non restare incinte dell’amante, che al marito non gli veniva più duro dopo un
colpo apoplettico e altri figlioli non ne potevano proprio avere. O invece, se
erano sterili, domandavano pozioni e sciroppi per restare incinte subito, al
limite meglio di due gemelli, così si risolveva il problema dell’eredità. I
vecchi mandavano a cercare da chi si occupava d’alchimia l’oro potabile,
polvere disciolta in liquore, che sanava da ogni male e garantiva prestazioni
sessuali da giovinotti anche ai moribondi decrepiti che con le mani adunche
nella braghetta tentavano di risvegliare l’antico alleato della loro lussuria. Le
loro mogli cercavano pomate miracolose per stirarsi le mille rughe e le eterne
zampe di gallina intorno agli occhi. Altri, più preda di chimere, chiedevano
l’interpretazione della Clavicola di Salomone, per trovare tesori segreti e
uscire da una miseria senza speranza, non considerando quella che si vedeva
intorno nel ghetto. Tornava spesso un erotico fantasma nei discorsi del
popolino: lo sanno tutti che per via del cibo kasher gli ebrei ce l’hanno
sempre in tiro, col fatto che sono tutti circoncisi durano di più dei cristiani e
si offrono a pagamento come prostituti a preti corrotti e a suore in calore per
orge in convento, come era accaduto nel Monastero di San Martino alla
Scala, dove la madre badessa, insieme a un prete computista, responsabile
dell’accesso al parlatorio del convento, era sempre a caccia di falli grossi per
orge notturne lunghe e sfinenti. E se poi c’era qualche frutto indesiderato,
chiamavano Ester, la levatrice ebrea, con la faccia che sembrava una strega
del sabba, a risolvere il problema. Paolo Medici odiava specialmente quella
che definiva la loro lingua orrenda, quell’idioma che a Livorno si chiama
“bagitto”: “perché essi ebrei hanno una maledizione di Dio, che in
qualsivoglia Città ove stanno, corrompono quella lingua che peraltro è ben
parlata: con la loro ingrata favella si fanno conoscere per ebrei”.
Cosimo chiedeva ai suoi frati dei progressi di quel catecumeno a cui aveva
dato il suo nome e tutti erano entusiasti della sua determinazione, dell’alto
punteggio delle sue conversioni. Fanatico, ma anche vanesio, passava ogni
tanto alla chiesa dell’Annunziata a vedere il busto di Vitale Medici, un altro
convertito illustre, e del figlio suo Alessandro, opera distinta del grande
scultore Francesco Mochi. E invece, era venuto antipatico a tanti, anche a
corte, e quindi non toccò al Foggini di scolpirlo. Invece fu il pontefice a
ordinargli, quando morì, in riconoscimento del suo straordinario fervore, un
tabernacolo all’altar maggiore nella chiesa dell’Immacolata Concezione ai
Prati di Castello in Roma. Sempre meglio di niente.
MARGUERITE-LOUISE DA PARIGI BUSSA A QUATTRINI E
MINACCIA, CHIEDE AL FIGLIO FERDINANDO DI RUBARE
QUALCHE GIOIELLO DEI MEDICI, MA QUELLO È MESSO PEGGIO
DI LEI, E SEMPRE MENDICA DI AVERE DENARI DAL PADRE
AVARO
Anna Maria Luisa era una donna alta, aveva voce fonda di contralto,
dignitosa, di modi autoritari. Si presentò in Duomo accanto al padre, in attesa
di convolare in terra di Alemagna con l’elettore Giovan Guglielmo. Aveva
indosso un gran vestito di broccato bianco, con gioie di ogni tipo, occhi e
capelli neri come la notte, di tanto in tanto dava in risate sguaiate. Fin
dall’infanzia ne aveva fatta una passione, per le gemme: nel ritratto che le
aveva fatto il Sustermans, all’età sua di tre anni, aveva una croce di diamanti
e rubini, e le rosse pietre comparivano anche sullo smaniglio, che domina il
quadro. Infine aveva trovato marito, e non era stato facile, per niente. Ormai
la ragazza aveva ventitré anni e per i criteri dell’epoca era né più né meno
una vecchia zitella. La quantità dei rifiuti che aveva ricevuto era notevole:
Spagna, Portogallo, Francia avevano detto picche. Come premio di
consolazione Versailles aveva ribadito che il Re Sole l’aveva lodata, ma era
stata sua madre a buttare tutto per aria. Lei aveva a sua volta rifiutato di
prendere anche in considerazione di sposare il duca di Modena o di Parma:
che umiliazione accettare per ripiego dei principotti italiani, che avrebbero
vanificato le sue aspirazioni di grandezza. E poi suo padre non avrebbe mai
accettato: già sputava bile perché il Savoia aveva ricevuto, nell’accordo con
l’imperatore, il sospiratissimo “Trattamento regio”, che gli permetteva di
essere chiamato re. Chiedeva all’imperatore conto di come un Duca potesse
avere più potere di un Granduca: dico, ognuno al suo posto. Gli ambasciatori
di Firenze dovevano venire in ordine dopo quelli della Serenissima. Francia o
Impero erano le due uniche possibilità: l’Absburgo, non volendo irritare il
Granduca, affrettò il matrimonio con l’Elettore Palatino di Düsseldorf, inviso
al Re Sole, ma infine l’accordo si fece. Anna Maria Luisa era sposa: Cosimo
sperava in un esercito di nipotini, per ripopolare lo sguarnito albero
genealogico dei Medici, ché il tempo correva e lui vedeva la reggia di Pitti
spopolata e una dinastia nemica insediata al posto della sua. La signora si
mise in viaggio con il fratello Gian Gastone, che parlava tedesco, il 6 maggio,
ed ebbe la ventura di incontrare suo marito a Innsbruck, come non era
previsto. Il secondo matrimonio fu sotto il simbolo del sole d’Absburgo, nella
loro città di elezione: i doni per la sposa furono molti, uno indesideratissimo.
Già la prima notte, infatti, il marito, che si rivelò affettuoso e prodigo verso la
consorte, le passò il morbo che gli bruciava il corpo. La sifilide divenne parte
del corredo di Anna Maria Luisa, e malgrado cure, fattucchierie, terme,
unguenti e balsami, di figlioli non fu proprio il caso di parlare. In cambio il
Granduca ebbe il desiderato Trattamento regio: fu suo genero ad adoperarsi
presso l’imperatore perché quel prezioso diploma giungesse a Firenze, ma
non fu senza numerosi incomodi e un oneroso conto da pagare.
LA VOLIERA DI GIAN GASTONE
All’angolo tra via degli Arazzieri e via Larga in antico era stata collocata
una colonna celebrativa. Venne rimossa quando giunse in trionfo Maria
Maddalena d’Austria, moglie di Cosimo II. Nella ricchissima corte di
beghine e devoti che stanno al seguito del Granduca, si distingue per
parlantina e insistenza Filippo Pizzichi, che sa come cavare dal monarca,
angosciato per la mancanza di eredi al Granducato, bel denaro sonante e
cantante. Egli lo convince che su quella struttura debba essere posta una
statua benaugurante di Sant’Antonino che benedice la città: senz’altro
l’Altissimo in cambio provvederà alla grazia, di cui tutti sentono la
mancanza, che Ferdinando e Violante abbiano finalmente rampolli, figli,
prole, e specialmente di sesso maschile, ché con le femmine Medici al
problema non si rimedia, se no Cosimo, come spesso ha pensato, si
risolverebbe a chiedere che il nuovo Granduca sia Anna Maria Luisa, che ha
l’istinto del comando. Il costo dell’operazione è elevato, e per questo Pizzichi
chiede di poter raccogliere elemosine. Si adopera in tutta la città, compie una
discreta vendemmia, fa porre in piedi la colonna, ma la statua rimane a terra:
nel frattempo si costruisce una bella casa in via Larga, con tutti i più moderni
conforti. Violante vorrebbe dare il capo nel muro, perché per l’ennesima
volta è diventata oggetto di una barzelletta, di un lazzo burlesco, mentre
aggraderebbe così tanto di sparire da queste forme di morbosa attenzione.
Infine lo scandalo peggiora: una mattina compare un distico perfetto, quanto
crudele, che spiega a chiaro titolo come quella del faccendiere sia una truffa
bella e buona ai danni dei creduli e della cittadinanza. “Pizzichi mio, a
ingravidar donne / ci voglion cazzi e non colonne”: Violante piange,
disperata, quando è sola, di notte, non si fa vedere nemmeno dalle sue
cameriste più fidate. Quando una signora, picchiata gravemente dal marito, le
si rivolge per aiuto, risponde che anche lei ha ferite, e profonde, che deve
sempre sforzarsi di camuffare dietro un sorriso. Però il Granduca precipita
ancora al peggio il dolore della tedeschina, quando poco dopo ha l’idea di
indire tre giorni di clamorose messe di suffragio in molte chiese fiorentine per
impetrare la fertilità della sposa, rivelando così al mondo l’amara condizione
di sterilità in cui si trova. Ma si sa, il Granducato per Cosimo viene prima di
tutto.
MARGUERITE-LOUISE, DOPO AVER FATTO FUOCO E FIAMME, E
MOLTO AVER INTRIGATO NELL’OMBRA, SI TRASFERISCE A
SAINT-MANDÉ. MENOPAUSA E BENEFICIENZA, LENTAMENTE,
ENTRANO NELLA SUA VITA
Bello era bello, ma sempre con un che di losco e di infido: e d’altra parte
oltre all’avvenenza non aveva altro capitale. Aveva capito da subito che lo
doveva far fruttare, al massimo. Il padre, Agnolo, era ciabattino,
“meschin’arte”, come si diceva all’epoca; la madre, Catera, figlia ultima di un
fabbro spiantatissimo e troppo prolifico. Quindi per il bel Giulianino, che era
nato nelle terre di lavoro, da innaffiare con il sudore della fronte, a Mercatale
Val di Pesa, non c’era che fare il contadino, sotto la guida dello zio Piero.
Ma questi operava nella tenuta del cavalier Marmi, mentre la mamma si
dava a chiedere l’elemosina, e batteva raminga le campagne per raccogliere
erbe e legna. Le fascine furono per Giuliano la sua insegna di battaglia: dopo
che il fascino gli aveva conquistato il cuore e il sedere di Gian Gastone, si
fece uno stemma con tre mucchi di legno, ricordando le sue origini
miserabili, in effigie, a sfregio di tutti quelli che gli volevano male, che erano
già tanti.
Prima, però, aveva capito che l’unica cosa che gli serviva nel fare il
contadino era ancheggiare lascivamente sulla zappa e sulla vanga, facendo il
meno possibile. Per primo lo adocchiò Marione, il sovrintendente delle
coltivazioni dei marmi, che ci mise poco a capire con chi aveva a che fare.
“Palle, te tu se’ sprecato ne’ campi, tu sa fare meglio artre cose.” Ormai
vecchio lo zio, il ragazzo si rimise alla marcia di avvicinamento per Firenze:
a dorso di mulo raccoglieva immondizie e svuotava pozzi neri. Era bello sì,
d’estate seminudo sempre, si strappava qualcosa dei suoi stracci per fare
vedere le cosce sode e per qualcuno anche l’effluvio rivoltante del suo
mestiere era un pimento erotico. Passò quindi da un prete miserabile, che lo
affamava, al voluttuoso messer Bernardo, che lo cacciò perché non era abile a
servire a tavola, anche se era un genio a lanciare sorrisi lascivi, sguardi in
tralice, colpi d’occhio che significavano la disponibilità a tutto. Però era
ancora coperto di stracci, la madre e le sorelle andavano per legna, il fratello
minore agli Innocenti, e per lungo tempo ce lo lasciò, salvo poi farlo mandare
al carcere di Portoferraio, perché lo ricattava.
Il Cancelliere Fabbrini lo tenne per poco a servizio, perché il bel
vagheggino non aveva voglia di guidare il cavallo. Malgrado il suo poco
talento, la sua malevolenza, la mancanza di volontà, ascendeva sempre più
veloce verso la collina di Palazzo Pitti, a colpi d’anca. Fu poi dal Cavalier
Lenzoni in Santa Croce, che gli faceva recitare il ruolo di contadino
d’Arcadia. In seguito il Marchese Capponi, al Fondaccio di Santo Spirito, gli
mise un completo all’ussara, che gli sottolineava i taurini attributi, di cui
usava con parsimonia, non volendo dar troppo spazio al maleducatissimo
ragazzo che a ogni prestazione sbraitava per una maggiore mercede. Infine
arrivò Gian Gastone: Cupido incoccò e ferì a morte il figlio del Granduca.
Urlò per avere il bel garzone dal Capponi e poi via verso la Germania, dove
lo attendeva un matrimonio grottesco e sgraditissimo, che lo avrebbe
deportato nelle fangose campagne di Boemia.
Eccolo lì: anima nera, Seiano, prima marchetta di Toscana, cazzo e culo
del Granduca. In quattro stagioni di letto e moine era già presso la famiglia
Medici, ma anni dovevano correre prima che arrivasse al suo vero potere. Al
grande letto dove, allestiti da lui, si accoppiavano maschi e femmine detti
ruspanti, perché per la loro ginnastica erano pagati in ruspi, monete sonanti.
Divenne così potente che tutti a Firenze lo odiarono, senza rimedio. Quando
Gian Gastone salì sul trono, tutto il potere fu nelle sue mani; il Granduca,
ebbro di vino e di sesso, lasciava correre, gli affidava tutto.
LORENZO MAGALOTTI SCRIVE PROFUMATAMENTE ALLA
CONTESSA OTTAVIA STROZZI
Cosimo faceva incubi sempre più orrendi, con il Duca di Savoia avvolto,
come aculei di istrice, delle palle dei Medici, che gliele lanciava in faccia e lo
lacerava terribilmente nel volto e nelle mani. Gli urlava, con voce di strige,
“non avrai il Trattamento regio, è un’eresia, io lo merito, io sarò l’Italia, tu sei
il re di un mondo che muore, dovresti star zitto”, poi il Granduca si svegliava
di soprassalto con le tempie bagnate di sudore gelido. Negli ultimi tempi
perdeva uno dopo l’altro tutti quelli che gli volevano un po’ di bene, il Redi,
poi il teologo Pennoni; il regno era un intrico di problemi senza soluzione.
Infine per avere almeno una soddisfazione nell’esercizio di un potere che gli
dava solo ambasce, ebbe l’idea di utilizzare l’anno santo, che faceva confluire
a Roma persone da tutta Europa, per riconfermare il suo prestigio. Già l’anno
prima aveva mandato l’ambasciatore Vitelli, per ringraziare di alcune
concessioni per l’Ordine di Santo Stefano. Solo a Roma, per i molteplici
servizi resi, Cosimo poteva avere il Trattamento regio che tanto agognava. Il
15 maggio del 1700 mosse con un seguito di oltre sessanta persone alla volta
di Roma. Voleva l’incognito, aveva scelto il curioso nome di Conte di
Pitigliano, certo non pensando che il paese nel grossetano era noto
popolarmente come Piccola Gerusalemme, perché aveva permesso un nutrito
insediamento ebraico. Giunto alla riva, si recò alla Villa Medici, dove prese
dimora. Devoto maniacale, non gli mancava alcuna reliquia nell’elenco di
quelle che voleva baciare. Esse erano però altissime e solo i canonici
lateranensi avevano il diritto di salire sulle tribune e di vedere da vicino i
sacri resti. Impetrò al papa la grazia di essere fatto canonico lateranense, tanto
rispetto alla moglie da oltre venti anni era come se fosse vedovo. Ottenuto il
beneplacito, ebbe un brivido quando indossò la pianeta e si sciolse in lacrime:
era il più bel Trattamento regio che avesse ricevuto nella sua vita. Il papa gli
permise di benedire oltre cinquantamila fedeli, nelle feste del giubileo.
Cosimo alzò il braccio ed era sul punto di svenire, di perdersi, ma fu felice,
come mai prima, come di rado dopo.
BARTOLOMEO BIANCHINI SI RAMMARICA DI AVER ACCETTATO
DI LAVORARE PER IL BEY RAMADAN A TUNISI, LASCIANDO
FIRENZE, MA POI TROVA IL MODO DI METTERE A FRUTTO
L’ESPERIENZA IN ORIENTE
Quello che mi piace di più in questa tela è il fatto che tutto sia così
provvisorio e come spazzato dal vento del destino. Nella mia esistenza tutto è
stato preordinato, da prima che nascessi. Posso ben agitarmi, dare in
scalmane, far da matto, amare castrati e cantatrici, sdegnare mia moglie,
palpare i miei serventi turchi, perfino digrignare i denti, se mi viene il
capriccio, ma mio padre non mi prende comunque sul serio. Mi taccerebbe di
matto, o di ingenuo, se gli dicessi che preferirei, le mille volte, essere zingaro,
come queste creature che vivono nelle rovine, alla inclemenza del tempo ed
esposti alle angherie dei birri e dei briganti. Essi però possono trovare il
momento della poesia di cui nella mia vita è gran mancanza, quando
osservino le prodezze e le evoluzioni della gazza ammaestrata, che sa parlare
e cantare, e per loro è in primo luogo fonte di reddito, e poi di meraviglia. Le
loro vite umili si interrompono, appena per un attimo, dal continuo
affaccendarsi, per scampare la giornata, per giungere all’esito dei propri
compiti. Ferdinando non si fa illusioni: la tedeschina non lo capirà mai. Anzi,
quando lui accenna, nei rari momenti di comunicazione intima, a queste sue
fantasie, lei, come al solito, distoglie lo sguardo e si fa il segno della croce. Il
Genovese, messer Magnasco, non può certo parlare con me di cose così
private. Però, in quei suoi occhi aguzzi, mi pare che intenda qualche cosa: mi
domanda se la tela è di mia soddisfazione. Mentre si inchina a terra,
immagino cosa proverei a essere lui. A girare di corte in corte, ramingo come
un vagabondo, avendo come soli amici alcuni suoi colleghi, ma dovendo
schivarne altri, maligni e nemici. Il Gran Principe ha un brivido profondo
lungo la schiena: l’effetto del mal d’amore, che tanti anni prima ha concepito
a Venezia. Al crepuscolo l’artrite morde, a fondo, e la possibilità di avere un
figlio che salvi la stirpe dei Medici è ormai una ubbia, una chimera. E lui
pensa all’altro se stesso, al pittore ramingo che qualche volta vorrebbe essere.
Egli, preso congedo, si è diretto a Bologna per un’altra commissione, con
negli occhi un’ombra di felicità per il lavoro da compiere.
MEMENTO MORI. GIOVANNI BATTISTA FAGIUOLI VEDE UN
ACROBATA CADERE IN PIAZZA DELLA SIGNORIA E LO
RACCONTA A CORTE
La scrofa era volgare come sempre, ma non era stupida e senz’altro non
aveva più voglia di perdere tempo: quando Gian Gastone tornò per
l’ennesima volta da Praga, ubriaco, a implorare biascicando che lei
mantenesse il patto e venisse a Firenze con lui, perché nella cupa Boemia il
Medici sarebbe morto, lei si ribellò. Il papa in persona, per le preghiere di
Cosimo, era entrato nella partita e aveva chiesto all’arcivescovo di Praga di
fare una reprimenda alla riottosa signora. A quel punto la principessa-
amazzone di Sassonia-Lauenburg vuotò il sacco e fece partire dispacci di
fuoco. Perché mai sarebbe dovuta venire a Firenze, tanto figlioli quel suo
marito attratto solo dal dare il didietro a qualsiasi contadino non ne avrebbe
fatti; nei tristi anni della loro vita insieme, l’aveva avvicinata poche volte, e
sempre con fatica. La signora, con malagrazia, diceva che se non si trattava di
impotentia coeundi, di natura squisitamente psicologica, poco ci mancava.
Nella lunga missiva faceva la triste cronaca di tutti i rimedi proposti dai
medici per risolvere il problema: nel 1700 un ritardo mestruale aveva fatto
sperare nell’arrivo dell’erede, ma invece niente: era solo un malanno della
signora. Il medico dei Medici aveva raccomandato la balneazione e di bere le
acque acidule di Egra, presso Verona. A lui così sarebbe cresciuto il vigore,
mentre esso sarebbe diminuito alla principessa, credendo i canali ostruiti per
la di lei pienezza. L’ultima lettera della signora è clinica, e getta una luce
livida sulla vicenda di coppia: “del principe suo consorte diversi atti
conosciuti all’amore e al fine coniugale non troppo confacenti, sia perché il
principe suo consorte a motivo della frigidità, e impotenza, non ha capacità di
generare, il che prova perché nello spazio di due mesi, che ha coabitato col
suo consorte, non ha egli potuto, se non una sola volta, procurare il debito
matrimoniale ed essa in tutto il tempo di questo matrimonio mai ha provato
alcun senso dell’effusione del seme generativo per parte del suo consorte.
Egli non è naturalmente in grado di avere successione, e quindi lei, la
principessa, non aveva alcun rimorso alcuno di essere la causa di estinzione
della famiglia”. Quindi non capiva perché doveva venire a Firenze, a far finta
e a perdere tempo; poi almeno sarebbe uscito dalla sua vita, quell’orrendo
Giuliano Dami, che a Reichstadt le aveva creato non pochi problemi con le
sue ribalderie. Cosimo ebbe un mancamento quando lesse la lettera
dell’arcivescovo di Praga, però lo sapeva. Qualche tempo prima aveva scritto
in una lettera al suo riottoso figlio: “è altresì verissimo che non stando ella
con la moglie, e anco nel tempo più proprio o tenendola esacerbata, è
moralmente impossibile che io possa avere dei nipotini”. Allora il vecchio
Granduca, all’orlo della disperazione, esausto per tutte le inutili rampogne
inviate al figlio Gian Gastone, chiamò a Pitti il suo cardinal fratello
Francesco Maria. Era ormai chiaro che il quieto vivere a cui teneva tanto per
il lardoso germano, che tutti chiamavano il Cardinal Cuccagna, per la sua
passione della crapula, era finito per sempre. Avrebbe dovuto all’istante
lasciare la porpora, scardinalarsi, sposare chi si trovava sul mercato e fare un
erede presto, anzi subito, e che fosse maschio, anzi meglio due, che con la
salute non si sa mai, e poi fosse mai che ne venisse un altro a cui non
piacevano le femmine. Tutto questo al real fratello non era nel suo genio: gli
era sempre piaciuta la vita comoda, e ora addio bevute, orge, pranzi, cacce e
danze. Lasciare la corte campagnola di Lappeggi per passare a quella
imbalsamata di Pitti, con quel suo fratello sempre a biascicare rosari, proprio
ora che la sua carriera ecclesiastica aveva preso la via e il re di Spagna gli
aveva promesso, quando si liberava, l’arcivescovado di Toledo, ghiottissima
preda per prebende, titoli, benefizi e parrocchie. E non aveva nemmeno
bisogno di recarvisi di persona, poteva fare le orge come sempre a Lappeggi
e ricevere i soldi per tramite di ambascerie, insomma il suo ideale. E poi in
fondo Francesco Maria se lo ripeteva, dentro di sé: chissà se era in grado,
aggravato di carne e malanni come era, di eseguire l’ordine del fratello,
procreare e salvare il Granducato dalle brame di Vienna. Era un rotolo di
salsiccia, pieno di acciacchi e di malanni, il sangue gli era andato in acqua,
gli occhi erano abbottati, circondati da un’occhiaia fonda e nera. Tutti lo
guardavano con apprensione mentre scatarrava, a lungo. Un tempo non ci
sarebbero stati problemi: prima di avvolgerlo di cinque strati di grasso, il
batacchio funzionava a dovere; si sapeva che di figlioli ce n’erano, ma
illegittimi, e prole di contadine con i labbroni dei Medici non potevano certo
essere gli eredi del trono dei Medici. Ora era un vecchio apoplettico, strafatto
dal diabete e con il cuore malandato. Mentre gli proponevano gli elettuari più
inverosimili, e suo fratello si era risolto a domandare grazia per lui in
ginocchio sui ceci alla Madonna dell’Impruneta per garantire una balda
erezione al fratello, i congiunti gli rimbombavano nel cervello come zanzare
moleste: “riguardatevi, voglio un cuginino, un nipotino, un eredino”. Come
se quella creatura in ino fosse facile da produrre; a lui sembrava una cosa
insormontabile. Nelle corti italiane e a San Pietro la notizia fece scalpore:
tutti sapevano che i Medici erano alla frutta, ma questo voleva dire che ormai
avevano scelto un finale intinto di grottesco.
Gian Gastone ormai occupava un angolo lontano della mente del
Granduca. Cosimo, che ogni giorno faceva una ramanzina al fratello,
dicendogli di riguardarsi, coprirsi, curarsi, andare a letto presto, camminare
nei giardini di Pitti, bere l’ovo appena svegliato e mandare giù palline di
carne cruda, mandandogli a ogni piè sospinto il cerusico di corte. In quanto a
Gian Gastone si era ripetuto, seguendo sulla mappa d’Europa il viaggio del
figlio, di non aggredirlo quando arrivava. E invece non appena fu nel palazzo,
con quel suo orrendo Giuliano, lo chiamò a rapporto, infliggendogli una serie
infinita di contumelie. Sfuggito alla minaccia dell’amazzone pazza, alle terre
fangose di Boemia, non era certo felice nei luoghi della sua infanzia. A
trentasette anni sembrava un vecchio decrepito, era gonfio, la pelle del viso
era tutta sciupata e nella faccia, come di Pierrot moribondo, galleggiavano
due occhi attoniti, come uova affrittellate senza tuorlo, perennemente
atteggiati in posa di sorpresa. Tenne una corte piccola, ma ormai era in tutto e
per tutto schiavo di Giuliano, anima nera. Suo padre fece le mostre di
scordarsi di lui, gli tagliò i viveri, lasciandogli ben piccolo appannaggio, ma i
serventi facevano a gara per ricordare quella presenza stravagante, che da
problema insolubile si stava trasformando in aneddoto capriccioso. Di notte il
rampollo granducale andava da solo all’Isolotto, alle Cascine e
all’Argingrosso, luoghi desolati in cui voleva sperdersi nelle tenebre,
lasciando dietro di sé i suoi fidi, per godersi il piacere di rimirare da solo la
luna, come un poeta romantico tedesco a venire. Guardava fuori, come un
uccello prigioniero della sua gabbia, dalla finestra del suo appartamento.
Mandava a comprare oggetti paradossali: una partita di scope per spazzare gli
uffici dei senatori dalle ragnatele, un mannello di canzoni stampate per
mandarle a ministri presuntuosi, che imparassero almeno quella cultura
popolare, visto che di sapienza classica non ne avevano. Insomma, era
diventato una barzelletta, e quando usciva a cavallo, cadendo a destra e
manca perché sempre ubriaco, aveva dietro un codazzo di persone che lo
acclamavano tutte le volte che riusciva a rimettersi in piedi da solo. Eppure in
tutta quella rovina, spesso era acuto, brillante, quando il cervello gli si
snebbiava. Allora vedeva bene come nessun altro la rovina prossima del
Granducato.
COSIMO RICERCA QUADRI IN INGHILTERRA, PAESE DI CUI HA
SEMPRE AMMIRATO L’ORDINE E DI CUI FANTASTICA DI AVERE
LA POTENZA SUL MARE
“Cecchino, amore mio, lo so che sono l’Orfeo dei Principi, perché suono
bene la spinetta, e so ben cantare, ma io che c’entro nei fatti del signor
Scarlatti?” Ferdinando, dopo vari anni di collaborazione con il maestro
palermitano, a cui aveva chiesto musiche sacre e profane per il suo teatro
nella reggia immaginaria di Pratolino, inclusa l’opera Il Gran Tamerlano, ora
è stanco di lui e vuol cambiare. Il compositore aveva una gran famiglia, e vari
rovesci di fortuna; lo affliggeva ora forse il venir meno di una collaborazione
che era stata altrettanto continua con il cardinale Ottoboni a Roma. Rovesci e
spese lo avevano messo sul lastrico. Il tenore della lettera era sul disperato:
“Alto, Reale e Vero Signore, io devo renderle palese la mia presente
condizione, che, rendendomi libero da ogni impegno d’attual servizio ed in
arbitrio di me stesso, nondimeno esposto a incerta Provvidenza umana, è
insufficiente a reggere il grave peso di numerosa famiglia che, quantunque
vestita del manto della virtù, è ignuda d’ogni soccorso e mercé, che
l’occasioni d’esercitarle in proprio sovvenimento da per tutto mancano o per
la fatale costituzione dei tempi o per la propria sfortuna, che quasi sempre
nasce gemella di lei. Chiedo umilmente perdono del modo estensivo con cui
riveremente gl’espongo le mie suppliche”. Ferdinando pensa che il tono è
ricattatorio, lagnoso, piagnisteo e lui invece è solo dalla parte di quelli che
sanno ridere di sé anche nelle disgrazie loro. Chiama Cecchino per calcolare
quale può essere un dono in denaro accettabile da mandare per suo tramite al
compositore a Roma. Non si può certo fare carico della sua famiglia: ha
cercato di sbolognarli anche quel suo figlio Domenico, bravo non dico di no,
ma scrive una musica tanto difficile per le tastiere che proprio non fa per lui.
Gli è venuto il mal di testa per cercare di padroneggiarla. Va bene signor
Scarlatti, tanto sono gli ultimi quattrini, ormai il libretto di Dionisio re del
Portogallo, a firma di Antonio Salvi, ha già preso la via di Bologna, per
arrivare nelle mani di Giacomo Perti, maestro di cappella di San Petronio e
soprattutto scapolo, devoto e frate laico, che almeno non mette al mondo tutti
quei figlioli da sfamare. “Vero Cecchino mio, che il maestro Giacomo è
sposato solo con la musica, e partorisce opere e oratori, non mica rampolli? E
poi il maestro Scarlatti sembra non voler capire che siamo ormai nell’epoca
degli eunuchi trionfanti e per il serraglio dei miei musici ci vogliono più arie
e meno recitativi accompagnati per far sentire la bravura del maestro”. I
virtuosi sono tanti e tutti devono ben comparire e figurare, e poi bisogna
regalarli, dargli galanterie e confetti, rosoli e confetture, e stare attenti a non
fare preferenze che poi si litigano come pappagalli. “Naturalmente, amore
mio, questo non riguarda te e nessuno di loro si azzarderebbe a mancarti di
rispetto, però sono davvero incontentabili: gli dai uno e vorrebbero cento. E
poi tutti quegli odii e quei ripicchi: solo tu sei sempre buono con me”. Stringe
a sé Cecchino, lo bacia a lungo, poi si rimette a posto la parrucca, mentre
guarda l’eunuco che se ne va con i denari per Scarlatti, ripensa a quando gli
era capitato di leggere la lettera del contralto di Palermo, il Pistocchino, che
si lamentava di aver cantato poco in un mottetto di Scarlatti eseguito alla
Santissima Annunziata. “Matteo ha cantato troppo e poco si sentiva, ed io
troppo poco che tanto volentieri mi sentivano. Poi con Cecchino siamo andati
a tenere Accademia da Raffaello Torrigiani. E tutti, cavalieri e dame, che ve
n’era una quantità, mi fecero un applauso terribile a distinzione e questi sono
i miei regali. Eccole qui le mie glorie merdose; lo Scarlatti ne ha avuto una
tabacchiera d’oro, di valuta 18 o 20 doppie, io niente; Matteo regali in tante
volte da Cecchino, e io niente di niente.” L’Orfeo dei Principi paragona le
voci che hanno cantato per lui e nessuna è più suadente di quella del suo
amore quando lo bacia, lento e piano, e gli canticchia all’orecchio un suo
personalissimo mottetto d’amore.
LO SPAGNOLO DIPINGE SCENE VOLGARI DI GRAN VIVACITÀ PER
IL GRAN PRINCIPE
Lo Spagnolo si chiamava così per via degli abiti attillati, al gusto d’Iberia,
che a Bologna, sua città natale, spesso si vedevano per via degli studenti che
venivano al collegio, per studiare legge alla rinomata università. Aveva un
carattere burlesco, che subito incontrò nella fantasia al Gran Principe; a una
riunione di accademici aveva fatto una caricatura specialmente acida del
Malvasia, e questi aveva fatto fuoco e fiamme contro di lui. Dalla sua città
Ferdinando lo aveva chiamato a Livorno, perché dipingesse per lui. Al
committente piaceva che l’artista realizzasse una pittura carnale, disegnando
con la stessa sensualità poppe di femmine e sagome di animali. Non appena
giunse, come prima prova gli venne richiesta una Natura morta con
cacciagione e fucile. Ferdinando era impaziente: aveva dato ordine che
venisse preparato per il pittore un gran tavolo pieno di selvaggina e pesci, con
la regola che al massimo ci mettesse un giorno per la realizzazione. Lo
Spagnolo era destro, sapeva cavare il massimo partito dai rami lustri e dalle
stoviglie, a contrasto con le carni delle bestie. Il Gran principe comandò che
egli realizzasse due dipinti, nel tempo di un giorno, e per uno il soggetto era
un preparato per il cacciucco, zuppa livornese di prodigiosa densità, che dalla
fine del Cinquecento aveva incontrato nella fantasia del palato mediceo. “Si
preparino, in diverse positure, due scorfani, una trota di mare, un pesce
nocciolo, un dentice, un’orata, un totano con due altri pescioli, un’ostrica
aperta et una serrata et un gambero di mare, con una mezza tellina aperta et
una chiusa.” Infine le carni, di porco e di pesce, andavano ai cortigiani, i quali
si buttarono su quel banchetto come se non ci fosse da anni cibo nella città
labronica. Lo Spagnolo si ripromise di farne un quadro che recasse come
titolo La festa della porchetta, sullo sfondo di una fiera di paese piena di
gonzi e ribaldi.
Il Gran Principe era nella città sul mare a festeggiare il Carnevale; si
vedeva camminare alla Marina, con a fianco un bel servo moro, detto per
comodità Alì, come tutti gli altri che lo avevano preceduto. Molto gli
piacevano le scene di vita quotidiana, che avessero nel racconto una vivezza
che toccava il crudo. Il meccanismo dei quadri, magistrali, era sempre lo
stesso, che i contemporanei avevano ribattezzato con il termine tenebrismo,
che voleva essere ironico, ma era anche assai preciso. Una scena scura, dai
colori di marrone e nero, in cui emergeva un dettaglio vivido, un lampo di
luce. Subito il maestro di casa doveva appendere al muro, dove la parete
avesse più gioco alla luce, i suoi molti quadri “di soggetto piacevole e
volgare”.
Nella povera stanza ci sono soltanto una spinetta e due manifesti di teatro;
forse il mestiere della signora è quello di canterina. In un’altra tela la
sguattera attende come fosse un compito religioso, con gesti compresi della
sua importanza, a lavare i piatti. Intorno a lei nel silenzio, in bell’ordine,
pentole e padelle. Diabolico, quasi, è il caos che l’artista ha dipinto nella
scena della Fiera di Sant’Antonio a Poggio a Caiano, brulicante di animali e
contadini, come quello che in primo piano guarda con occhi maliziosi una
bella figliola. E poi quel meraviglioso cortile in ombra, con un uomo che
piscia appoggiato al muro, un gatto bianco maligno che sbuca da un
finestrino, e due donne che attendono a lavare i panni, una parte dei quali
sono già tesi su un’altana invasa dal sole. Ferdinando gode di questi istanti di
verità dei corpi che brillano alle pareti, prima di prepararsi a scendere
controvoglia a Pitti per incontrare il padre, che gli sembra venirgli incontro in
una soffocante, densissima nube di incenso.
LO SPOSO MARCIO: FRANCESCO MARIA SI DECOMPONE A VISTA
ED ELEONORA LUISA GONZAGA DI GUASTALLA SI RIBELLA AL
SUO AMARO DESTINO
Carissima Maddalena,
quanto mi ci è voluto a raggiungerti, in questo tuo guardatissimo ritiro
spirituale, ho dovuto chiedere a lungo al Granduca e per suo tramite
domandare uno speciale permesso e dispensa all’arcivescovo Tommaso
Bonaventura della Gherardesca. Per averlo, ho dovuto far dire dalla
principessa Violante, mia buona amica e confidente, che pensavo di
convertirmi, che forse ero pronto come la regina Cristina di Svezia e Nicolò
Stenone ad abbracciare la fede cattolica. L’emissario del patriarca, un pretino
dal collo della tonaca tutto liso, dalle mani ghiacce come la morte, mi
continuava a ripetere, guardando per terra le formiche: “mi raccomando,
vostra eccellenza, non dite parole fuori di regola e misura, non parlate
d’amore, non fate accenno a passati piaceri”. E quali? Già, quelli dello
sguardo: quando ti vidi per la prima volta a Lucca, e io viaggiavo felice, da
giovanotto, nelle terre di Etruria sotto il nome finto di Oldenburg e avevo due
persone del mio seguito. Ora sono re e sono arrivato con altri centoventuno
tra cortigiani e serventi, ma non sono certo più contento di allora, anzi.
Nemmeno il paesaggio dell’Italia mi toglie la melanconia. Avevi allora la
bocca rossa come una melagrana, i denti bianchi, splendenti. Sorridevi sulle
mura, ti dondolavi al braccio di una tua amica, facevi finta di non vedermi,
ma invece mi seguivi con lo sguardo. Cherie, cherie. Toujours cherie.
Sognasti di diventare regina di Danimarca, io avrei voluto, ma ti mancavano i
quarti e non me la sentivo certo di sfidare il mio popolo. Nemmeno volevo
illuderti. Mi hanno dato in moglie due tedescone, brave donne non dico di no,
ma noiose come l’autunno a Elsinore. Con Luisa ho fatto quattro figli, con
Anna Sofia tre. Il solito lavoro di un re: lasciare un’eredità di figli sperando
che qualcuno di loro risulti almeno sensato, che non faccia danni al paese,
che non compia scelte sbagliate nella guerra che combattiamo contro i
tedeschi, che durerà decenni, secoli. Quella era la prosa germanica della mia
vita e tu eri la poesia italiana: eri stata il mio Grand Tour d’amore. Eppure
più che altro ho potuto pascere solo gli occhi nelle tue bellezze: tu non hai
voluto più vedere le mie. Ti mandai un ritratto pieno di pietre preziose e lo
respingesti, ti amai da lontano ed ebbi sempre in mano il severo crocifisso di
legno che mi mandasti, in scambio della raffigurazione delle mie fattezze. I
miei confidenti mi dissero che la badessa non credeva alla tua religiosità,
dubitava del fatto che tu fossi entrata in convento da grande, a ventitré anni.
Invece, nessuna prova ti ha fermato: sei diventata maestra di spiritualità.
Facevi fiori di stoffa per la chiesa, poi hai imparato a fare angeli di cartapesta,
figure di stucco, festoni di gesso, ti sei data al ricamo e a ricopiare sacri testi.
Non voglio turbarti nel tuo ritiro, ma venire a te è una necessaria visita al
fantasma della mia giovinezza: so che tu soprattutto compiangi il mio destino
di luterano, per cui andrò senz’altro all’Inferno. Quando mi hai visto hai
sollevato il velo, io ti avrei dato volentieri un bacio casto, da fratello, ma tu
stessa mi hai allontanato con lo sguardo, senza nemmeno il bisogno di fare un
gesto con la mano. Accanto a te c’era una suora vecchia, dallo sguardo
aguzzo, ma non sapeva il francese: perciò poteva solo spiare i nostri sguardi,
ma ci avrebbe visto riverenza, non desiderio. Ho voluto compiere un
colloquio con il mio passato ipotetico, con quella primavera del desiderio che
avevo sempre immaginato albergare in terra di Toscana, per me luogo
dell’amore, che invece ora scopro patria dei bigotti, peggio che al mio paese.
Tu mi guardi severa e mi congedi, mi dici che se mai posso tornare per
vedere il sepolcro di Maria Maddalena de’ Pazzi, e chiedere alla santa
l’ispirazione per fare il gran cambiamento. Io lo so che in tutti i conventi del
Carmelo a Firenze le tue sorelle si sono unite nella preghiera per salvarti dalle
tentazioni del luterano. “Changez d’avis, mon cher, ou pour vous sera la
damnation”, ma “ma soeur ma religion est la plus proche à la catholique, on
verra bien”. Sulla carrozza da Borgo Pinti verso Palazzo Salviati sono triste,
poi mi rassereno. Già si annunciano le danze di stasera a Palazzo Pitti,
giocherò al lanzichenecco e ballerò fino al mattino, e dolcemente mi scorderò
di quello che poteva essere e che non fu.
IL CACCIUCCO DEL GRAN PRINCIPE: GIUSEPPE MARIA CRESPI
DIPINGE A LIVORNO, PER IL CARNEVALE
Il Gran Principe, quando non aveva denari per recarsi dalla sua adorata a
Venezia, trascorreva il Carnevale a Livorno, di cui amava la vivacità, il mare,
il gusto di dare feste animate, il poter giocare liberamente alle carte, il
passaggio di bei mori e di signore libertine. Tutte cose che lo rallegravano e
subito lo disponevano al buonumore, lontano dalla musoneria della corte
paterna. Intorno a sé aveva il suo proprio seguito, spesso composto da
scioperati di ogni tipo, sempre pronti a intrattenerlo, a blandirlo, a divertirlo.
Lo Spagnolo arrivava da Bologna, dove la sua fama era sempre maggiore:
Giuseppe Maria Crespi, il cui nomignolo era dato dagli abiti di gusto
ispanico, diffusi nella sua città dagli studenti del Collegio Maggiore di San
Clemente degli Spagnoli, aveva ormai la reputazione di essere uno dei
maggiori artisti del tempo suo. Come voleva la sua reputazione, egli fu
rapidissimo, incontrando il desiderio del suo augusto committente.
Ferdinando gli dette due giorni: uno per dipingere un quadro di pesci, e
l’altro per un’imbandigione di caccia. I cibi erano già preparati su un gran
tavolo con begli oggetti: quando l’artista aveva finito gli ingredienti erano in
dono alle persone del seguito, che avidamente li prendevano. Il pittore
mantenne il suo impegno: nella prima delle due opere il risultato fu
l’illustrazione del cacciucco. Il pittore aveva la lingua svelta come il
pennello, e l’ironia non gli faceva difetto: si dice che a matita schizzasse i
volti dei cortigiani più avidi mentre prendevano i soggetti delle sue opere,
come se non ci fosse un domani, come se le imbanditissime mense del Gran
Principe dovessero improvvisamente svuotarsi. L’augusto committente
rideva: meglio i parassiti e lo spreco, che l’eterna quaresima di Pitti. Quando
il Carnevale fosse finito, il Gran Principe sarebbe tornato a Pratolino, dove
l’attendeva l’altro suo pittore di corte. Lissandrino Magnasco metteva in
forme sulla tela il suo umor nero: dipingeva fratacchioni lugubri e puzzolenti
che si scaldavano i piedi sudici a una stenta fiamma, mangiando i poveri
avanzi di una questua infelice e miserabile. Il figlio del Granduca amava
specialmente quelle scene di quaccheri e di ebrei di sinagoga, dove quelle
persone devote di una fede oscura galleggiavano sullo sfondo di muri
lebbrosi, stanze cieche, luoghi oscuri dell’immaginazione.
L’ESTASI DEL NERO BIANCO: LA PREDA PIÙ GHIOTTA TRA I
CONVERTITI DEL GRANDUCA
Nei quattro anni precedenti della sua esistenza il dolore totale l’aveva fatta
da padrone. Il futuro non le era mai balenato nel cervello: contava solo
l’istante, il momento, il presente. Il suo amato bene, Ferdinando, aveva patito
una sofferenza senza rimedio, lunga, terribile, con qualche momento di
remissione e infiniti spasmi di un’agonia mortale. Infine, dopo averla
allontanata per tanto tempo, l’aveva ammessa presso di sé, nei mesi vicini
alla sua dipartita, mentre insultava sempre di più i cerusici che non gli
apportavano sollievo e gli imponevano dolorosi salassi e cauteri. In quel
momento aveva ritrovato il senso di un legame, che per lei era stato centrale
dal primo momento, ma che per il suo consorte solo nella malattia si era
rinsaldato davvero. Prima c’erano stati troppi cortigiani, libertini, scioperati,
parassiti, castrati, cantatrici a mettere a prova la pazienza della tedeschina, e a
far da schermo con quell’uomo bello e distante, che non l’aveva mai davvero
apprezzata e che fino ad allora mai l’aveva ammessa alla sua vera confidenza.
A Pratolino, nel lettuccio della sua stanza di fortuna rischiarata dalle luci del
camino, aveva pianto tutte le lacrime e pregato tutte le sue orazioni, ma alla
fine era a casa, a fianco del suo amore. Da lì fräulein spediva a Pitti bollettini
medici con notizie di aggravamenti, risalite, consulti, pareri, e intanto il suo
bel Ferdinando si spegneva, e l’unica cosa che poteva fare era impedire le vie
di accesso alla sua stanza ai castrati e alle cantatrici, a Cecchino e alla
Bambagia, smaniosi di avere un’ultima mercede, due soldi di mancia, prima
che tutto finisse. Eppure, malgrado ogni cura, Ferdinando era sempre più
dolorante, tra riprese illusorie e ricadute mordaci. Come commentava quando
era in buona, nei rari momenti di quiete del male, “sono come un bicchiere in
equilibrio sull’acquaio”. Bastava un niente ed era di nuovo in quella
sofferenza cieca, a cui i medici non riuscivano a porre rimedio. Di notte non
c’era riposo: urla e lamenti spezzavano la quiete, e Violante era la prima ad
accorrere. Gli proponeva la preghiera come rimedio e il consorte, affranto,
qualche volta accettava il rimedio.
Dopo la morte di Ferdinando, dopo le esequie grandi, il cordoglio e le
lacrime, fu il ballo degli equivoci. Tutti le si inchinavano in modi sempre più
distratti e frettolosi. Appena usciva dalle sale di Pitti, sentiva chiaramente i
cortigiani parlottare: “ma allora, la tedeschina quando parte? Non si sarà mica
messa in testa di rimanere qui per sempre?”. Violante ora forzatamente
doveva pensare al futuro, che aveva sempre rimandato. Aveva fisso in testa di
farsi da parte, ma Monaco non le arrideva, sperava che Cosimo il taccagno
avrebbe calcolato che a rimandarla in Baviera spendeva di più che a tenerla
presso di sé. Per questo sperava in un cantuccio in Toscana, al caldo e al sole.
Nella sua terra d’origine avrebbe fatto una vita da parente povera, in una
stanza periferica e umida del palazzo dei Wittelsbach a Monaco, finché non
avrebbe preso la via di un pensionato per dame, nelle austere sale di un
convento. Senza il sole di Toscana, sarebbe morta di tedio: il suo futuro le si
presentava oscuro. Cosimo, in udienza, le promise una villa: le si fermò il
cuore. “Il mio bel Pratolino in cui vedrò sempre il fantasma sorridente di
Ferdinando, che tanto amava quei luoghi.” E invece no: la dimora prevista era
Lappeggi, dove le mura trasudavano ancora della morchia lurida della corte
libertina di Francesco Maria. Fece buon viso a cattivo gioco: sorrise come al
solito. Si risolse a chiedere in primo luogo una bella imbiancatura, poi,
sorridente come sempre, commentò che almeno, dopo tutti gli sconquassi per
la morte del suo amore, avrebbe avuto un po’ di quiete. Risolse di allontanare
le dame del suo seguito, tenendone solo due, povere e bisognose, come atto
di carità. Con lei c’era la sua anziana balia, severa, ma affettuosa, che recava
con sé, sigillato, da sempre, il suo segreto: essere una luterana in terra di
bigotti cattolici. In tutti quegli anni a corte, era riuscita a non perdersi mai, a
non dar confidenza, a non parlare con nessuno, se non con la sua cara
padrona. Con pochi bauli, tenendo solo gli oggetti necessari, si mise in
viaggio, trovando ad accoglierla i contadini che erano a servizio della villa.
Da Pitti si era portata l’elenco delle preziosità orientali che il suo amore
aveva raccolto con tanta cura. Leggeva attentamente, finché le lacrime le
velavano lo sguardo: “due ventagli senza cannuccie di carta pecora bianca,
miniatovi d’acquerello della China, in uno una battaglia di soldati a cavallo e
nell’altro un porto di mare con più vasselli e sulla riva vari uomini, una
bussola da navigare, segnata con parole cinesi, entro una scatola di legno
tonda”. Poi prendeva il regesto e lo teneva stretto a sé, e lo baciava, tenendolo
stretto al petto.
A Lappeggi non arrivarono i crapuloni e le contadine-cortigiane di
Francesco Maria; giunsero invece, con il capo avvolto nel velo dell’umiltà,
molte persone che venivano da Pratolino. L’elenco artistico del Gran Principe
era lunghissimo; e lei dava sempre udienza a chi con lui aveva avuto legami.
Avrebbe potuto serrare tutto, in omaggio al lutto stretto che le imponeva la
sua condizione di vedova, ma le sarebbe sembrato meschino. Gli artisti
principali del consorte erano già stati subito ricollocati, chiamati a Pitti, o
congedati e già diretti ad altre corti. I più miseri invece erano ancora
raminghi. Però, anche se il talento non aveva mai baciato quei postulanti alla
reggia di Parnaso o nei praticelli d’Arcadia, con qualche briciola del suo
appannaggio Ferdinando riusciva a nutrirli e a dare loro un tetto. Per regale
imposizione il Gran Principe non avrebbe mai potuto esercitare il suo talento
di musico, e allora che godessero del suo quelli che avevano qualche qualità,
anche minima, dell’arte. Violante voleva essere tranquilla, dedicarsi finché
era bella la stagione a passeggiate nel giardino, leggere all’ombra dei pioppi
qualche bel romanzo della Biblioteca Blu, cullarsi con l’amata idea
dell’estinzione. Invece presto il personale rustico della dimora deve darsi da
fare e lei ispezionare le stanze della magione, che è graziosa nella sua
decadenza campagnola, ma ha dei problemi pratici non piccoli. E poi i
quattrini son pochi, però si ingegna a farli fruttare. L’acquerellista flebile, il
poeta eterno inedito e la cantatrice sfiatata, però, da parte loro si devono dare
da fare: preparare i letti, i camini, la tavola. Insomma, in breve, Violante
dirige come domestici un esercito di artisti improbabili, per la perfezione
casta e francescana della sua Lappeggi. Cene e pranzi parchi, ma illuminati
da candelabri solenni, con i riflessi di pere e susine magnifiche dei campi
della villa che sarebbero piaciute al Bimbi come soggetti da ritrarre. Una
contadina maestra nelle ottave rime, la Menica, incanta in poesia la sua corte
improvvisata: eppure basta quel poco di felicità rustica a farle parlar male
dietro dalle ciane di Pitti. “Guardala quella vipera: faceva tanto la santarellina
a svuotare pitali e medicare piaghe di Ferdinando e ora si dà al bel tempo.”
Violante sente quelle voci di veleno solo alla lontana, filtrate da una delle sue
dame che, una volta alla settimana, si reca alla reggia per visitare sua madre.
Attonita, fa come quella farfalla che assume il color della foglia perché non la
notino i suoi predatori. L’autunno dorato sulle colline fiorentine cede infine il
passo al maltempo. “Baturla”, dice la rubiconda contadina che fa da
dispensiera, ossia la Dianira, “signoria la venga dentro che tra poco l’è
buriana.” Violante si mette indosso una veste di lana da camera verde antico,
più pesante, eppure ha comunque i brividi. Lindora, la camerista, corre e urla
“Ciapo, Cecchino, chiudete le finestre, che il vento spacca tutto”. Violante si
siede su un canapè dalle stoffe verdine, e legge il biglietto che le invia il
suocero. Cosimo le scrive che la sua amatissima figlia, ossia per lei la
dispotica cognata, è di ritorno a Firenze.
Violante lo sa che suo suocero le vuole bene, che pregherà per la sua
felicità, che riconosce che è sempre stata buona e amorosa, ma nella battaglia
delle vedove, lei ha perso in partenza. Anna Maria Luisa torna in volata da
Düsseldorf, dove è morto il suo caro Giovanni Guglielmo, carica di oggetti
preziosi di corallo, avorio e ambra e lussuose gramaglie, trapunte d’argento.
Prima di lei sono arrivate casse e bauli di splendori che ha sottratto dalla
collezione dell’Elettore, lasciando a bocca asciutta nipoti e cugini, che le
lanciano dietro fiorite maledizioni. “Vi piacevano tutte quelle meraviglie? Ve
le dovevate prendere prima, ora faranno parte del tesoro dei Medici”,
ridacchia sotto cappotto. Quanto ci ha messo a imballare tutto, quando il cuor
del suo cuore non era ancora mancato al mondo, ma in queste cose non si è
mai pronti abbastanza, anche perché poi le funebri pompe pretendono infinita
attenzione, tempo e devozione. Quando l’Elettore era morto, lei aveva già da
tempo inviato i primi colli in riva all’Arno, e gli altri erano pronti alla
spedizione. Ha al seguito una corte larga e nutrita di servi e cortigiani,
damine e damazze; si aspetta di essere subito di nuovo al potere a Firenze sul
suo anziano padre, che la teme come il fuoco e le ubbidisce a bacchetta in
tutte le sue risoluzioni. La signora di Monaco ha fama di essere buona,
caritatevole, di far molte beneficienze, ma qualche pensiero contro
l’invadente cognata l’avrà pur formulato: con il suo ritorno finiva di colpo la
sua presenza in città. Sia come sia, Violante ormai è risoluta, e appena finisce
il temporale che squassa le colline con rimbombi tremendi, prenderà la via di
Palazzo Pitti e sarà quello che sarà.
IL RITRATTO DI ELEONORA, REGINA PER UN GIORNO
Tutta la vita di Cosimo era stata una grandiosa cerimonia per ingraziarsi
Dio, per ottenere quello che aveva sempre bramato, malgrado tutti gli
scombussolamenti continui della sua esistenza, che avrebbe voluto quieta, ma
senz’altro non lo fu: la buona, la perfetta morte. Il 22 settembre 1723 venne
scosso da una violentissima e squassante agitazione, tremava tutto, aveva il
parletico: quella scomposta danza di gesti era l’avviso imminente della fine. I
preti capirono che stava finendo la loro epoca d’oro e allora si dettero da fare
come poterono per far continuare la vita del loro massimo protettore. Niente
venne lasciato intentato: preghiere, devozioni, la Madonna dell’Impruneta in
viaggio verso Firenze, il corpo della Beata Maddalena de’ Pazzi esposto. E
poi novene, litanie, rosari: fu una salva inverosimile di ora pro nobis, salva il
nostro caro Granduca, significando così, fa che sia ancora questo un secondo
Stato della Chiesa, una pacchia per ogni ordine monastico. Il Granduca ebbe
a scegliere come proprio confessore monsignor Frosini, arcivescovo di Pisa.
Questi disse che il monarca morente non aveva alcun bisogno di guida: la sua
morte era già perfetta sotto il segno di Cristo, e ad essa era stata votata la sua
vita intera. Nell’agonia il Granduca pensava che finalmente nostro Signore
gli avrebbe riconosciuto quel Trattamento regio che tanto lo aveva fatto
penare; poi riprendeva una sua interna giaculatoria e le pompe terrene gli
parevano vanità di vanità. A fianco del letto troneggiava la macchina in
argento, che recava in ciascuna delle nicchie un santo, e ruotando portava di
fronte agli occhi del malato il patrono del giorno. Il Nunzio dette per conto
del papa la benedizione in articulo mortis. Non si contarono i panegirici, le
messe cantate, le celebrazioni, per il morto Granduca, pompe funebri perfette
con la campana di Palazzo Vecchio impazzita. Venne tanto popolo a vedere il
cadavere: però ridevano e cantavano e, soprattutto, volevano sincerarsi che
Cosimo il bigotto fosse davvero morto e che un po’ di quei preti e
fratacchioni parassiti andassero finalmente via dalla Toscana, che da tanto
tempo era soffocata per il troppo incenso. Gian Gastone, infine, contro ogni
aspettativa prese il potere. E già si sapeva chi sarebbe stato il suo ministro:
Giuliano Dami, manipolatore e suo padrone. Il Granduca si nascondeva
spesso agli occhi dei sudditi, ma prendeva decisioni che annunciavano un
chiaro cambio di rotta nel Granducato: nel 1724 ruppe la regola severa che
voleva impediti per oltre un anno i teatri, dopo la morte del Granduca. Invece
quell’anno, al Teatro del Cocomero, gli Accademici Infuocati ebbero il
permesso di chiamare i comici all’improvviso, che il nuovo Granduca voleva
trovassero dimora fissa in quello stanzone, da cui voleva interrotta la pratica
dell’opera lirica.
ANNI RUSPANTI: GIAN GASTONE GRANDUCA, GIULIANO
DESPOTA
Gian Gastone era stato per tanto tempo recluso, in una sua piccola corte a
Pescia, con Giuliano, l’amore dei suoi occhi, che gli faceva da mezzano e
amministratore. Schiantato dal fallimento del matrimonio, dal momento in
cui era tornato dalla Boemia era stato più che altro intento a scomparire, e
nella quiete della campagna pistoiese aveva lentamente trovato se stesso. La
consorte e il suo fangoso reame erano poco più che un brutto sogno; il bere
continuo e il sesso coi maschi lo cullavano nel desiderato oblio. Solo negli
ultimi tempi il padre gli aveva chiesto di sostituirlo in assemblee, in cui si era
ben contenuto. Il figlio minore del Granduca aveva il vizio del bere, ma non
era certo sciocco. Quando era in sé, parlava bene, era logico, capiva gli
sviluppi del reame che nelle sue mani sarebbe andato comunque verso
l’estinzione. Nel frattempo si era preso le sue soddisfazioni: aveva parlato
chiaro con la generalessa che gli aveva rovinato la vita. Anna Maria Luisa era
caduta in disgrazia, e le era stato fatto comprendere che le conveniva meglio
dedicarsi alle opere di carità, che non cercare di impicciarsi degli affari di
Stato. Nella sua stanza non era gradita, quella virago. Non voleva né poteva
occuparsi di udienze; per questo ruolo aveva richiamato Violante da Siena,
dove aveva dato ottima prova di sé come governatrice. L’Elettrice odiava il
tempo presente, e ora giocava a fare suo padre, tra novene, devozioni e rosari,
ma sempre minore era il fervore intorno a lei, sostenuta solo da pochi
fedelissimi. Infine, il Granduca fu sempre più a letto, per la maggior parte
della sua vita: anzi, per meglio dire, tra le trine c’era una figura con un gran
parruccone sporco per tralice, con indosso una camicia da notte sporca,
ovunque tracce di vino e vomito. A fianco all’alcova un cimitero di bottiglie
di Chianti, ovunque tracce dei corpi che nella notte erano passati nell’alcova,
per intrattenere il re, o per divertirsi da se stessi, mentre lui dormiva quel suo
pesante sonno vinoso. I ruspanti venivano e andavano: per le loro esibizioni
erano pagati in ruspi, ossia in fiorini, da Giuliano, che li aveva come propria
personale guardia. Però erano riottosi, infidi, sempre pronti a far la spia e a
ribellarsi, e poi litigiosi, volevano sempre di più, ma il Dami li conosceva
bene, uno per uno, li aveva presi nei bassifondi della città e nei fondi delle
campagne, sapeva i loro segreti sporchi, cominciava a credere di essere
intoccabile. Questo in specie da quando gli aristocratici, che avevano bisogno
di lui, gli mandavano regali e cercavano il suo parere, quando si trattava di
avere una firma dal Granduca. Gian Gastone aveva deciso, per non soffrire
più, che i confini del suo regno fossero quelli della sua alcova. I rari visitatori
ammessi al suo capezzale erano soffocati dalla puzza: il Granduca non
tollerava mai che le finestre venissero aperte e quindi la stanza era
completamente inondata di rose, per cercare di coprire quel lezzo persistente,
che non passava nemmeno se le persone si portavano alla nari l’essenza di
spirito di melissa o il sacchetto di tela tessuto dalle monache, con dentro la
verbena essiccata.
CONCERTO INTIMO DA CAMERA PER IL GRANDUCA GIAN
GASTONE
Morto anche Gian Gastone, resta solo lei, e deve badare a tutto, con i suoi
pochi fidi, mentre quei Lorena malcreati cacciano il naso per ogni dove e
fanno inventari dettagliatissimi per prendere tutto quello che possono, prima
che il Patto di Famiglia sia compiuto. L’accordo finale sarà firmato a Vienna,
il prossimo 31 ottobre, ma la formula ormai le è fissa nella mente: “gallerie,
quadri, biblioteche, statue, gioie ed altre cose preziose: non ne sarà nulla
trasportato fuori della Capitale e dello stato del Gran Ducato”. C’è voluto
tanto per definirla: ha sentito il parere dei maggiori studiosi di legge della
facoltà di Pisa. Anna Maria Luisa da qualche tempo fa i conti: con i suoi
segretari e l’aiuto della più fidata domestica, depone sul suo scrittoio le sue
gioie, che sono molte e preziose. In specie è appassionata delle “galanterie
gioiellate”, tabacchiere, ciotoline in pietre dure con montatura di oreficeria,
soprammobili figurati, avori tedeschi, ambre del Baltico, sigilli, boccettine,
vasetti con fiori, ciondoli di perla in forma di ape, altri simboli medicei, tanti
Agnus Dei, ossia crocifissi in corallo, che vengono dalle terre di Sicilia, una
Annunciazione, in cornice d’oro contornata di diamanti. Il lavoro è sfinente,
ma è fondamentale essere precisi, e riportare ogni singola voce. Dopo una
settimana di revisione del suo personale tesoro, a cui sono legate belle
memorie della sua vita da signora di Düsseldorf, siamo a settecentottantanove
voci, e ancora non è iniziata la sequenza dei monili, degli anelli, dei bracciali.
Ogni sua età aveva visto riprodotti gioielli di ogni tipo, e specialmente dopo
le nozze tedesche: il suo amato Wilhelm le aveva regalato oggetti
preziosissimi, lavorati in fogge perfette. Le importava però, specialmente, di
averne moltissimi, il più possibile rutilanti e splendidi: le venne presto anche
la passione per i nuovi orecchini di Parigi, a pendaglio con pietre sfaccettate,
dal seducente nome di girandoles, per via degli effetti di luce che
producevano. Aveva con sé pietre importanti anche quando si dedicava a uno
dei suoi passatempi favoriti, in cui poteva essere per un giorno signora e
padrona delle sue terre. Ossia la caccia al cervo, di cui era franca virtuosa: un
ritratto che ci resta la figura in tenuta da amazzone, con un épagneul bianco e
arancione e un levriere slanciato. Soprattutto alla principessa preme che non
entrino nelle sue stanze, che sono ben guardate da cameriste e armigeri,
quell’orribile Giuliano e quella sua sozza madre, ceffo di strega. Tutto deve
essere scritto, e se lei muore, o perde la coscienza di sé, e qualcosa manca, lei
ha già fornito al prefetto di palazzo un documento in cui risulta che quei due
schifosi, e i loro famigli, devono essere ritenuti i responsabili. Anna Maria
Luisa si calma, poi ripensa a colui che era il suo confidente, nel mondo delle
gioie e di tutto quello che luccicava. Quando le era piaciuto di collezionare
argenti, aveva invaso le camere della reggia di Düsseldorf; scrivendo allo zio,
il cardinale Francesco Maria, commentava: “fo conto che la mia inclinazione
finirà presto, perché le stanze sono ben provviste, allora si ritornerà alle gioie,
che tengono meno luogo”. Di recente ha chiesto al suo gentiluomo di camera
di poter vedere la meravigliosa corona granducale che il Bilivert aveva
disegnato per Francesco I, in un tripudio di diamanti, smeraldi e rubini. Le
pietre che il Granducato aveva raccolto erano leggendarie, come il gran
diamante del Serenissimo Granduca, dal peso di centotrentotto carati. Ogni
tanto si interrompeva, quando i suoi famigli le venivano a sussurrare negli
orecchi le ultime scalmane del suo infelice fratello. Allora aveva bisogno di
vedere i suoi gioielli favoriti: le perle scaramazze, dove la concrezione
stravagante della natura, che aveva qualcosa dell’immodestia clamorosa di
una notte di alcova, diventava nel lavoro degli artefici opera di perfezione.
Galli, draghi, pavoni, elefanti e sirene, senza scordare Marte e Venere. Sono
opere mirabili, il serraglio della sua immaginazione, che la placano per un
attimo, con il loro incanto, mentre nella sua testa scorre, per frammenti,
l’immane patrimonio dei Medici, come sulla lastra di una lanterna magica.
CATERA DAMI FUGGE CON I SACCHI PIENI E CON LEI VANNO VIA
LE FIGLIE E I FAMIGLI, MENTRE GIULIANO, A SUO RISCHIO, SI
ATTARDA DI UN GIORNO
Catera è vecchia, da anni; a molti sembra che non sia mai stata giovane,
ma è sempre lesta nella gamba e nella mano. È svelta nel fisico, piccolina, ma
le son sempre piaciuti i maschi grossi, come al suo Giuliano. Una volta uno,
Marione, becero, sporco e tardo di comprendonio, ma grosso come l’Ercole
di Pratolino, se lo sono perfino litigato lei e il figliolo. Da tempo però ha
rinunciato a velleità amatorie, le basta pascersi gli occhi di muscoli, quando
vengono i contadini a portare le verdure e i pastori con i formaggi involti
nelle foglie di vite. La sua età è segreto di Stato, ma la mappa disegnata dalle
rughe sulla cartapecora della faccia dichiara che ha cinquantacinque anni,
forse sessanta, gli occhi però splendono ancora di cupidigie senza nome. È
vestita da domestica, ma alla reggia non ha mai fatto la serva: è solo un
costume comodo per andare e venire nelle stanze senza dare nell’occhio. È
sempre stata lei a tenere la contabilità di Giuliano, ma quando gli zeri sono
diventati troppi hanno preso un ebreo convertito, Samuele, che le ruba un
tanto, ma almeno tiene tutto in ordine, preciso e pulito. A lei sembrava di
impazzare con tutti quei numeri, che non l’hanno mai convinta; le interessa
solo quello che si può toccare con le proprie mani. Tanto la sua natura è di
gazza: ama quello che luce, l’oro e l’argento. Non si contano negli anni le
galanterie che ha rubato a Palazzo Pitti. Gian Gastone non la voleva al suo
cospetto, la chiamava strega, ma quando era ubriaco con la parrucca lorda di
vomito, che russava scomposto con intorno due contadini, o stallieri o
palafrenieri, insomma bassa gente con cui si rotolava volentieri, lei e una
figlia entravano nella gran camera, dove aleggiava un odore rivoltante, e a
gesti lei indicava all’altra cosa fosse meglio e più pregiato mettersi nella
scarsella. Una scorreria rapida: un minuto, poco più. Poi, di gran carriera, via
verso Isacco Spizzichino, al Ghetto, che rigirava nelle sue mani diafane, che
sembravano d’avorio, tutti i ninnoli e diceva: “Signora Caterina, sappiamo
tutti e due da dove vengono questi oggetti, ma quelli con lo stemma non li
posso proprio prendere, che da me viene il bargello, messer Lorenzo. Quel
figlio di un cane, senza Dio, anche se gli do ogni mese molti scudi e gli
mando gratis una ragazza a settimana dalla casa di Borgo Pinti per il suo
piacere (e Dio sa quanto mi costano, quelle signorine del bordello), deve far
finta di fare vere indagini a mio carico, e questo sigillo con le palle non lo
posso prendere. Dovete fare più attenzione, vanno bene solo oggetti che non
abbiano indicazione di proprietà”. Caterina si schermiva dicendo che lei e la
figlia Giovanna, sempre pregna perché si accoppiava con il primo soldato
quando era ubriaca, non avevano mai tempo di badare ai dettagli e avevano
paura che le scoprissero: per questo qualche volta prendevano senza
accorgersene oggetti compromessi dal sigillo mediceo. Il loro terrore era che
si accorgesse dei loro traffici Anna Maria Luisa, quindi dovevano essere nella
stanza quando lei non era a palazzo, o di notte, facendo piano, quasi senza
respirare. Lei e i suoi familiari non potevano pensare di prendere nemmeno
un oggetto dell’Elettrice, tutto schedato, catalogato, nel minimo dettaglio.
“Stupida Catera, contadina senza cervello, cosa vai a pensare, ora?” I
ricordi non servono a niente, bisogna correre. Lo sa che tutto è finito, la
prossima settimana il rappresentante dei Lorena entra a Palazzo Pitti. Restano
le ore del requiem aeternam per Gian Gastone, un giorno al più, poi Anna
Maria Luisa arriva con gli armigeri e la sbatte in galera, lei e tutte le figliole,
e per Giuliano, forse, c’è anche il plotone di esecuzione. Aria, via: in un
soffio lei e le figliole devono riempire tutti i sacchi che hanno portato: dieci,
decide che al massimo possono stare nella stanza trenta minuti. Vi mettono
dentro tende preziose di broccato di Lione, vesti da camera di seta tutte lorde,
tabacchiere veneziane di smalto, monete d’argento austriache, ruspi
abbandonati tra le coltri. Giuliano non è voluto venire, dice che quella camera
ormai gli fa paura, e cerca di avere salve le case e i borghi che ha avuto in
dono. Oggi starà tutto il giorno dal notaro, ma per Catera, madre saggia, è
stupido, la carta non vale gli oggetti preziosi, gli ori e gli argenti che gli ebrei
possono rivendere e se a Firenze il mercato è saturo dei loro furti, si può
andare a Livorno o fingere un pellegrinaggio a Roma, e cercare le vie del
ghetto, dove ci sono i parenti di Spizzichino, per cui si è fatta fare, a ogni
buon conto, una lettera di raccomandazione. Le fantesche hanno aperto di
loro iniziativa la finestrona grande, entra finalmente un po’ d’aria, è
caldissimo e il lezzo della stanza del malato è tangibile, i muri sono pieni di
macchie, soprattutto di vino, per terra ci sono qua e là particelle minime di
vetro che brillano al sole, resto dei bicchieri sbattuti contro il muro, tra avanzi
di cibo. Catera è calma, lucida, ieratica: dirige senza parole l’orchestra delle
figlie gazze ladre, la Giulianina si mette a guardare dei finissimi ninnoli
tedeschi d’avorio, col gesto imperioso la madre le intima di far presto. Passi
nel corridoio: è il momento di scappare, con i sacchi pesanti in spalla
prendono una porticina che porta al cortile delle carrozze, dove le attende un
carro e la via per un convento sulle montagne pistoiesi. Hanno dato un obolo
importante alle sorelle e per qualche tempo possono stare tranquille, poi, tra
un anno, cominceranno a tornare in città, vestite da contadine e da legnaiole,
e intanto possono mandare in ghetto i famigli delle buone suorine, con cui
fanno a mezzo delle vendite (anzi sessanta a Catera e quaranta alla madre
badessa, la signora Eloisa, a cui i quattrini non bastan mai). Poi la vita sarà
meno colorata, forse le toccherà perfino qualche lavoro al convento, ma a
raccogliere la legna in montagna non ci torna più. Non ci sarà splendore, ma
finalmente tranquillità. Sul carro tira il fiato, in collina l’aria si fa pungente, e
lei pensa al focolare in cui passerà i suoi ultimi anni, finalmente senza
correre, nascondersi, senza più paura. Con Giuliano ha detto parole chiare e
poche: ora dobbiamo separarci, non venire da noi, scappa e ci rivedremo tra
un anno da ora. Esci dal Granducato, e noi cureremo tutto e ti manderemo
lettere: i Lorena avranno altro da fare che star dietro a te, e Anna Maria Luisa
si è data come compito di salvare il patrimonio d’arte. Devi diventare un
brutto ricordo, un proverbio corrotto di malanni passati: e sparire sullo
sfondo. Poi finalmente saremo ricchi e ci godremo il frutto di tutto questo
nostro affanno.
ESEQUIE DI GIAN GASTONE
S’è fatto un carnoval, se voi sapeste Sì tribolato maghero e tapino, Che più si
rise al tempo della peste.
Cominciò senz’un becco d’un quattrino E così terminò: poi non s’è visto Un
calcio, ch’abbia garbo, né un festino.
Polvere alla polvere, cenere alla cenere, maschere alle maschere. Polvere
siamo e polvere torneremo. Abbiamo oltraggiato il volto datoci da Dio e la
nostra vita eterna sarà una punizione senza fine nell’inferno dei nostri peccati
senza remissione. Il gioco di scena della vita si è risolto in un minuetto di
spettri e resta solo l’ultima fantasima nella casa dei Medici: Anna Maria
Luisa, magra, dritta, dignitosa, splendente con indosso tutti i simboli di un
passato al tramonto. L’esistenza sregolata di Gian Gastone è terminata e alla
sua dipartita ha atteso infaticabile solo lei, ultima sopravvissuta
dell’ecatombe dinastica dei Medici. Dietro il trasporto, in un’alba livida di
pioggia, in un gran vento che curva le cime degli alberi e annuncia l’arrivo
dei Lorena, già introdotti dal loro plenipotenziario, principe di Craon, grezzo,
contadino, privo di gusto, c’è solo lei, in gramaglie, schiena dritta, sguardo
impassibile. Recita le preghiere e biascica a voce bassa un rosario tante volte
pronunciato di rimpianti e recriminazioni: “non mi hai mai voluto dare retta,
mi hai sempre creduto nemica, sciocco, guarda come ti sei ridotto. Hai
cominciato subito male, quando sei diventato Granduca. Il babbo ci aveva
messo tanto a ribadire che ai Medici spettava il Trattamento regio e tu invece
ricevevi chiunque in disordine, alla buona, come se fossi un sensale di paese,
che doveva giudicare quanti cavalli comprare alla fiera. Quante volte te l’avrò
ripetuto che era necessario far aspettare molto in anticamera, che non dovevi
subito rispondere sì a tutte le richieste, che poi erano sempre di soldi. Il tuo
problema era che non volevi mai essere solo con te stesso: chiunque ti
aggradava, pur di non ritrovarti di fronte allo specchio. Certe volte poi in
pubblico bamboleggiavi in modo indecente: come quando vennero a trovarti i
Riccardi, con il loro figlio Cosimino, e ti mettesti a fare le capriole con lui,
che non si capiva chi era il bambino tra voi e quei ruffiani ci si sono fatti fare
il quadro con quella scena a tua eterna onta. Ma eri già schiavo di Giuliano,
anima dannata, e della tua spoglia mortale, del bisogno di farti castigare ogni
giorno nel sedere, ebbro di vinaccio del contado, tra il vomito che ti pulivi
con la parrucca lorda come il tuo vestito per offrire poi il deretano a uno di
quei villani che arrivavano tutti i giorni a frotte, esibendo già all’ingresso la
loro insolente ricchezza genitale. Me lo ricordo quando ti eri chiuso nella tua
stanza per mesi: riuscii a entrare con l’inganno e c’era una puzza da
stomacare; sembrava che lì dentro ci vivesse una carogna che continuava a
vivere da morta. Tu mi scacciasti, poi piangevi, hai vomitato, e mi hai
abbracciato con un filo di bava che ti cadeva all’angolo destro della bocca.
Quante lacrime e parole incomprensibili, per dire che mi volevi bene, ma eri
prigioniero di Giuliano e del tuo corpo fragile, con l’anima in subbuglio,
quando compariva ancora, nel mosaico turpe di piaceri insensati, che per
qualche momento davano requie al disastro della tua vita. Da domani con i
soldati andrò a Palazzo Pitti in ogni anfratto a cacciare anche gli ultimi
ruspanti, che non hanno ancora capito l’antifona. Molti sono andati via
subito, altri, pazzi, credono ancora di avere privilegi, altri ancora si sono
annidati nelle soffitte dove si trova il ritratto lordato dal tempo di nostra
madre, hanno cambiato vesti, fingendo di essere camerieri o addetti al
giardino, ma io li riconosco subito, perché in quei loro volti gonfi per il
troppo bere e mangiare, per il sesso furtivo negli anfratti delle scale o nel tuo
gran lettone circolare, hanno le stimmate del vizio. E invece, mio caro
fratello, loro se ne andranno e con loro purtroppo anche la tua memoria:
troppo è stato il tuo libertinaggio, troppo il vino e il vomito: per salvare il
nome dei Medici dovremo cancellarti dalla storia, trasformarti in una
barzelletta, in un caso pietoso. Il letto enorme, che il tuo Giuliano ti aveva
fatto creare, è già dato alle fiamme”. Pensa Anna Maria Luisa: lei non è
maschio, che se no le cose per i Medici sarebbero andate in modo ben
diverso, perché lei l’istinto di comandare ce l’aveva eccome. Se suo fratello
le avesse dato retta, avrebbe trovato lei il modo di fargli far figli somiglianti,
senza toccare le femmine: se proprio tu Gian Gastone non ce la facevi a
sfiorare la contadinaccia boema, si poteva sempre far accoppiare con qualche
figlio illegittimo, che avesse almeno i labbroni dei Medici, senza i quali si
capiva che la famiglia non c’entrava niente. Si era pentita di averla scelta così
grezza e violenta, ma almeno dava garanzie di figliare bene, una cosa
sommamente desiderabile in una famiglia impestata di sifilide e segnata a
fuoco dalla sterilità.
Anna Maria Luisa ripensa a quando erano venuti a Firenze quei francesi
che avevano messo un casotto sotto le logge dei Trabanti, per mostrare il
Teatro Naturale del Mondo, dove “in prospettive si vedeva il Cielo, la Terra,
il Far della Luna Nuova fino all’ultimo quarto, le stelle, l’acque, montagnie,
rocche, città, castella, posti di mare con molti bastimenti come se fosse
presente al fatto; il sole come nascosto dal Orizonte, il levare e il tramontare
del Medesimo, et ogni due giorni mutavano nuove di città, cosa non mai più
vista a Nostri Tempi et si pagava un paolo per entrarvi”. Immagini mirifiche,
presentate in modo ingenuo nel cartellone fuori dalla baracca, un panorama
del mondo, in cui l’unica presenza che mancava era quella dei Medici e
Firenze in quelle proiezioni già sembrava luogo senza la sua stirpe. Intorno a
quel disastro della Storia, faceva i suoi numeri d’acrobazia l’uomo senza
braccia, che con i piedi faceva quello che gli altri fanno con le mani. Lei
sapeva già come sarebbe andata a finire, da quando le dissero che il marito
l’aveva impestata di sifilide. Per tempo aveva lasciato disposizioni chiare: il
corpo dopo la sua morte non doveva essere aperto, non voleva che, anche
post estinzione, il mondo sapesse della sua gran vergogna.
La tristezza va bene, ma che conta il rancore, a che serve il rimpianto?
Ogni passione è spenta: rimane il fatto che lei sarà l’ultima della stirpe di
Cosimo, che le restano ancora bei momenti per testimoniare della passata
grandezza della famiglia, per cancellare con la massima cura ogni traccia
dell’impero dell’orrendo Dami. Così, ne è consapevole, getterà alle ortiche
anche la memoria del suo amato fratello, ma non si può fare altrimenti. I
Medici prima di tutto, e quel momento di follia corporale, di abbrutimento
dell’anima, doveva essere minimizzato, quasi cancellato, al più presto. E poi
che contava, in secoli di storia gloriosa?
Sei mesi di tempo per realizzare le funebri pompe, che si sarebbero
inaugurate il 9 ottobre a San Lorenzo. Con l’architetto Giovan Filippo Giarrè
progetta un tempio ad ottagono, tessuto di drappi bianchi e neri. E poiché è
un funerale in effigie, devono esserci quadri e sculture che celebrano le gesta
dell’ultimo Granduca, e ci sarà un libro per descrivere tutto quell’apparato. Il
padrone nuovo, Francesco Stefano, è a combattere il turco, ma arriverà, con
quella sua moglie dagli occhi di astore, Maria Teresa, che già dal ritratto si
capisce che quando è passata a Firenze con i suoi serventi austriaci e lorenesi
è andata in tutti gli anfratti di Palazzo Pitti a cercarsi oggetti preziosi da
portare a Vienna. E senz’altro la coppia dei giovani Granduchi Francesco
Stefano e Maria Teresa non sarà meno avida. Anna Maria Luisa pensa a dove
poter nascondere quei gran piatti d’argento con soggetti della storia medicea,
donati al Granduca dal cardinale Lazzaro Pallavicini. Il principe di Craon
dice che quelle non sono opere dei grandi maestri, ma solo oggetti di lusso, e
che perciò i Lorena hanno diritto a prenderli e a fonderli. D’improvviso si
ricorda il soggetto di uno di questi manufatti preziosi, che l’aveva colpita
nella fantasia. Recava il titolo: La Toscana riceve l’omaggio dei quattro
Continenti, anche se la regione era ormai l’ombra di se stessa. I forestieri si
lamentavano che le strade erano rotte e dirupate; anche il porto di Livorno,
che era stato il maggior centro di scambi del Mediterraneo, languiva, i
briganti spadroneggiavano sulla Cassia e sulle altre vie consolari: altro che i
continenti che rendevano omaggio. In quel piatto colpivano i pellerossa, con
le teste cariche di piume e in mano una testa mozzata e un’iguana. Ben
l’aveva capito lei, che aveva vissuto nelle brume del Nord, che la Toscana
ormai era una nota a margine nei giochi d’Europa, anzi, le seccava
ammetterlo, ma l’arrivo dei Lorena voleva dire entrare a far parte
dell’Impero, e portare un po’ d’aria fresca alle casse della regione. Ma quella
dolce demenza d’immagine, nei piatti d’argento, quel credere tutto ancora
rimasto com’era in tempi più felici, quel fittizio omaggio delle potenze
remote del Mondo, quel credere all’arte come a una forma di salvezza, ancora
la seduce; l’Elettrice chiude gli occhi, dopo avere ammirato lo splendore delle
funebri pompe di cui ha curato attentamente la regia. Sa che tra poco tocca a
lei: non è mai stata brava con il disegno, ma da tempo ha schizzato con cura
uno schema che vuole dare al più presto all’architetto di corte, per non
arrivare impreparata a morire. Vuole il soffitto parato di pesanti teli neri, e lei
finalmente in trono, almeno da morta, regina cadavere del suo disastrato
regno morto. A fianco doppieri di ceri altissimi, una grande scalinata, e in
basso il pubblico festante, ma anche spaventato da due grandi scheletri, che
reggono altri lumi enormi. Le morti secche fanno capire a tutti che “non c’è
medicina, non giova la china / per questa carogna / morire bisogna”, ma
almeno tutti sono contenti. Anna Maria Luisa lo sa che lei comunque morirà
in grazia di Dio, che è la principessa saggia, che ha salvato le opere d’arte a
Firenze. Però, che amarezza, se fare il Granduca fosse toccato a lei, se avesse
avuto gli attributi; rimugina, dispiaciuta, ed è come se sapesse che tra qualche
anno ci sarà uno storico prezzolato dai Lorena, Jacopo Riguccio Galluzzi, che
scriverà centinaia di pagine per dire che da Ferdinando II in poi era stato uno
spettacolo di follia, un panopticon di demenza e presunzione, un penoso
defilé di ambizioni sbagliate, di sogni storti e ridicole chimere. Le verrebbe
da piangere, ma lo sa qual è il suo ruolo: schiena dritta e aspetto regale: in
fondo è lì a commemorare l’ultima regina di Firenze, e poco conta se sia Gian
Gastone o lei stessa. Requiem aeternam.
GLI ULTIMI MEDICI – ALBERO GENEALOGICO
PERSONAGGI E INTERPRETI
I Medici
Anna Maria di Sassonia-Lauenburg (1672-1741), Granduchessa di Toscana
Anna Maria Luisa de’ Medici (1667-1743), Elettrice Palatina
Claudia de’ Medici (1605-1648), arciduchessa d’Austria
Cristina di Lorena (1565-1637), Granduchessa di Toscana
Cosimo de’ Medici, detto Cosimino (1639), Principe di Toscana morto in culla
Cosimo III de’ Medici (1642-1723), Granduca di Toscana
Eleonora Luisa Gonzaga di Guastalla (1686-1742), Principessa di Toscana
Ferdinando de’ Medici (1663-1713), Gran Principe di Toscana
Ferdinando II de’ Medici (1610-1670), Granduca di Toscana
Francesco de’ Medici (1614-1634), Principe di Toscana
Francesco Maria de’ Medici (1660-1713), cardinale
Gian Gastone de’ Medici (1671-1737), Granduca di Toscana
Giovan Carlo de’ Medici (1611-1663), cardinale
Giovanni Guglielmo II di Wittelsbach-Neuburg (1658-1716), Elettore Palatino
Leopoldo de’ Medici (1617-1675), cardinale
Mattias de’ Medici (1613-1667), governatore di Siena
Marguerite-Louise d’Orléans (Margherita Luisa, 1627-1693), Granduchessa di Toscana e
cugina del Re Sole Luigi XIV
Violante Wittelsbach di Baviera (1673-1731), Gran Principessa di Toscana
Vittoria della Rovere (1622-1694), Granduchessa di Toscana
Artisti
Pierre Beauchamp (1636-1705 ca.), ballerino, coreografo e maestro di danza alla corte di
Luigi XIV
Bartolomeo Bianchini (1634-1710), pittore
Giovanni Bilivert (1585-1644), pittore
Bartolomeo Bimbi (1648-1729), pittore
Giovanni Battista Caccini (1556-1613), scultore e architetto
Rosalba Carriera (1675-1757), maestra del ritratto a pastello
Giuseppe Maria Crespi, detto Lo Spagnolo (1665-1747), pittore
Pier Dandini (1646-1712), pittore
Carlo Dolci (1616-1686), pittore
Ciro Ferri (1634-1689), pittore
Giovan Battista Foggini (1652-1725), scultore prodigioso
Anton Domenico Gabbiani (1652-1726), pittore di camera
Giovanna Garzoni (1600-1670), pittrice e miniaturista
Giovan Battista Gaulli, detto il Baciccio (1639-1709), pittore
Giovan Filippo Giarrè (?-dopo il 1791), architetto
Luca Giordano (1634-1705), ritrattista di Francesco Maria de’ Medici
Sir Godfrey Kneller (1646-1723), pittore ritrattista
Sir Peter Lely (1618-1680), pittore
Alessandro (Lissandrino) Magnasco (1667-1749), pittore di corte
Rutilio Manetti (1571-1639), pittore
Carlo Maratta (o Maratti, 1625-1713), pittore e restauratore
Giovanna Marmocchini Fratellini (1666-1731), abilissima pastellista
Giuseppe Mazzuoli (1644-1725), scultore
Livio Mehus (1627-1691), pittore barocco
Francesco Mochi (1580-1654), scultore
Giuseppe Nicola Nasini (1652-1736), pittore
Giovan Battista Nelli (1661-1725), architetto
Pietro Novelli (1603-1647), pittore e architetto
Giuseppe Piamontini (1664-1742), scultore
Salvator Rosa (1615-1673), pittore e poeta
Alessandro Rosi (1627-1697), pittore
Elisabetta Sirani (1638-1665), pittrice
Justus Sustermans (1597-1681), pittore
Domenico Tempesti (1652-1718), finissimo maestro del pastello
Gaetano Zummo (o Zumbo, 1656-1701), ceroplasta
Musici
Leonora Baroni (1611-1670), cantante e musicista
Carlo Maria Michele Angelo Broschi, detto Farinelli (1702-1782), cantante castrato
Cecchino, detto de Castris (1650-1724), cantore eunuco
Baldassarre Galuppi, detto il Buranello (1706-1785), compositore e organista
Jean-Baptiste Lully (1632-1687), compositore, musicista e ballerino
Gaetano Majorano, detto il Caffarelli (1710-1783), cantante castrato
Giovannino, moro, cantore di camera
Atto Melani (1626-1714), soprano
Panbollito, maestro di Liuto
Giacomo Perti (1661-1756), maestro di cappella
Francesco Pistocchi, detto il Pistocchino (1659-1726), contralto
Alessandro Scarlatti (1660-1725), compositore
Medici, scienziati & scrittori
Alliot Le Vieux, cerusico di corte, medico personale di Anna d’Austria regina di Francia
Thomas Baines (1622-1680), scienziato
Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679), scienziato
Bainbrigg Buckeridge (1668-1733), storico dell’arte
Antonio Cocchi (1695-1758), medico e scienziato
Margherita Costa (?-1657), attrice e scrittrice
Tommaso Crudeli (1702-1745), poeta e massone
Ludovico degli Oddi, in Arcadia Learco Piseatico, poeta
Giovan Battista Fagiuoli (1660-1742), commediografo e poeta
John Finch (1626-1682), scienziato
Galileo Galilei (1564-1642), scienziato
Jacopo Riguccio Galluzzi (1739-1801), storico al servizio dei Lorena
Girolamo Gigli (1660-1722), commediografo e saggista
Luis de Góngora (1561-1627), poeta e drammaturgo
Niccolò Gualtieri, medico chirurgo
Jeanne-Marie Leprince de Beaumont (1711-1780), favolista
Lorenzo Magalotti (1637-1712), saggista, segretario dell’Accademia del Cimento
Lodovico Martini, medico, fisico e cerusico
Antonio Oliva (1624-1679), scienziato e teologo
Samuel Pepys (1633-1703), politico e scrittore
Simone Bindo Peruzzi (1696-1759), scrittore
Placido Francesco Ramponi, ingegnere nella Galleria dei Lavori
Francesco Redi (1626-1698), scienziato e scrittore
Giovanni di Niccolò Ronconi, medico
Antonio Salvi (1664-1724), librettista
Nicolò Stenone (Niels Steensen o Nicolaus Steno, 1638-1686), anatomista e geologo
Evangelista Torricelli (1608-1647), scienziato
Tilmann Tructwijn, anatomista
Vincenzio (o Vincenzo) Viviani (1622-1703), matematico e fisico
Condottieri
Oliver Cromwell (1559-1658), condottiero e politico
Kara Mustafa (1635-1683), generale ottomano e uomo di Stato
Albrecht von Wallenstein (1583-1634), generale
Tutti i libri di questa bibliografia sono stati importanti per qualche aspetto
delle numerose storie qui raccontate, ma è da segnalare come due,
specialmente, siano stati di guida alla scrittura: il classico della storiografia
Gli ultimi Medici (1962), di Harold Acton, e il magnifico romanzo di Anna
Banti, La camicia bruciata (1973).
TESTI
Degli Oddi, Ludovico, Corona poetica intessuta alle glorie dell’altezza reale
della serenissima Violante Beatrice di Baviera gran principessa di
Toscana. In occasione del suo viaggio per la S. Casa di Loreto, Ciani e
Sebastiano Amati stamp. vesc., Perugia, 28 maggio 1714
Ombrosi, Luca, Vite dei Medici sodomiti, a cura di Alberto Consiglio, Canesi,
Roma 1965
STUDI
AA.VV., Anna Maria Luisa de’ Medici. Elettrice Palatina, a cura di Anita
Valentini, Edizioni Polistampa, Firenze 2009
AA.VV., Buffoni, villani, giocatori alla corte dei Medici, a cura di Anna
Bisceglia, Matteo Ceriana, Simona Mammana, Sillabe, Livorno 2016
AA.VV., Incisori toscani del Seicento al servizio del libro illustrato, a cura di
Artemisia Calcagni Abrami e Lucia Chimirri, CentroDi, Firenze 1987
AA.VV., Livio Mehus. Un pittore barocco alla corte dei Medici, a cura di
Marco Chiarini, Sillabe, Livorno 2000
AA.VV., Vivere a Pitti. Una reggia dai Medici ai Savoia, a cura di Sergio
Bertelli e Renato Pasta, Olschki, Firenze 2003
Id., Duchi e granduchi medicei in una serie di terrecotte fiorentine del primo
Settecento, Giovanni Pratesi Antiquario, Firenze 1997
Chiti, Ugo, Nero cardinale, con scritti di Arnaldo Bruni, SEF, Firenze 2015
Fakhr ad-Din al-Man II, Viaggio in Italia, a cura di Maria Alberti, Jouvence,
Roma 2013
Jarro (Giulio Piccini), Storia aneddotica dei teatri fiorentini, vol. I, Il Teatro
della Pergola, Bemporad, Firenze 1912
Minucci Del Rosso, Paolo, La giovinezza del principe D. Mattias de’ Medici
in Siena, Stabilimento Tipografico C. Nava, Siena 1895
Monaci Moran, Lucia, La sala dei Novissimi, già Salone del Trucco, in
AA.VV., Palazzo Pitti. La Reggia rivelata, Giunti, Firenze 2003, pp. 316-
327
Russo, Maria, Come cambia la faccia della morte. Le pompe funebri medicee
nei diari di G.B. Fagiuoli, in “Medioevo e Rinascimento”, 1992, pp. 275-
292
Id., La visita di Maria Vittoria della Rovere alla Madonna della Cintola di
Prato. 16 ottobre 1636, in “Corriere italiano”, n. 302, 29 ottobre 1893
Id., Una festa alle diacciaie di Pitti. 10 febbraio 1657, in “Corriere italiano”,
n. 35, 28 febbraio 1892
Id., Un pievano falso monetario che tradisce i suoi complici. 16 ottobre 1671,
in “Corriere italiano”, n. 290, 16 ottobre 1892
Scarlini, Luca, Lustrini per il regno dei cieli, Bollati Boringhieri, Torino
2008
Sodini, Carla, L’Ercole Tirreno. Guerra e dinastia medicea nella prima metà
del Seicento, Olschki, Firenze 2001
Id., Giovan Carlo de’ Medici. Un principe tra doveri e piaceri, in Fasto di
corte. La decorazione murale nelle residenze dei Medici e dei Lorena, vol.
II, L’età di Ferdinando II de’ Medici (1628-1670), a cura di Mina Gregori,
Edifir, Firenze 2006
Prologo I – Il re-bambino
Prologo II – La peste arriva a Firenze
Prologo III – Una rosa in pieno inverno
Prologo IV – La rovina d’Alemagna
Tutto nel mondo è burla o del Granduca Ferdinando in commedia
Coviello sbeffeggia la morte, e il cardinal Giovan Carlo applaude
Pavolo è straziato dal boia e Don Piero Maria de’ Medici è graziato per lo stesso omicidio
della bella cortigiana Ginevra, detta la Rossina
Il cardinale Giovan Carlo ama le femmine e ha nel Teatro della Pergola un suo trono
segreto, con cui facilmente può penetrare nelle viscere dell’edificio
Le delizie del Carnevale
Il Cardinale Giovan Carlo coltiva i fiori e ama le grotte
La corte si diverte: la guerra degli animali sul ghiaccio
La peggiore delle scelte: trattative per il matrimonio di Cosimo
Le erotiche e scientifiche avventure di Finchio e Fava in Toscana & in Turchia
Cosimo ha il morbillo, teme senza motivo per la sua vita, ma si sposa comunque per
procura con Marguerite-Louise
Cosimo, appena ripresosi dal morbillo, che ha fatto molto tribolare la madre sua Vittoria,
incontra alfine Marguerite-Louise, verso cui si dimostra freddo e quasi indifferente
Marguerite-Louise assiste con il consorte alla rappresentazione de L’Ercole in Tebe di
Jacopo Melani
L’amour, toujours l’amour: Marguerite-Louise d’Orléans incontra a Palazzo Pitti il suo
vero amore Carlo di Lorena, in fuga dalla Francia. Cosimo è tardo, ma infine si infuria
Vicino al cuore selvaggio: Marguerite-Louise si ribella a Cosimo consorte e al suocero
Ferdinando, che la recludono alla villa di Lappeggi
Cosimo fugge dalle ire di Marguerite-Louise e si reca a Bologna dalla pittrice prodigio
Elisabetta Sirani, a cui vuole commissionare un’opera
Più miti consigli: Marguerite-Louise, resa più malleabile dalla solitudine, si stufa di stare a
Lappeggi e vuole tornare a Palazzo Pitti
La corte del pidocchio: Francesco Redi guarda il mondo davanti alla lente del suo
microscopio e lo riduce a un brulichio di batteri e insetti
Cosimus Rex, Imperator Etruriae
Assai peggio per il paggio: ovvero Bruto in fuga
Cosimino troppo pronto: Marguerite-Louise trova un nuovo motivo di insulto per il suo
coniuge
Benedetto Zucchetti viene impiccato per ladro, e si confessa solo nel punto estremo, dopo
un gran lavorio dei frati del confortatorio
Finalmente domenica: Marguerite-Louise torna a Parigi
Il principe Leopoldo, cardinale, squisito collezionista, ammira il suo gran fallo
Cosimo celebra trionfalmente i festeggiamenti per la vittoria sui turchi a Vienna
Cosimo ha i suoi santi, Cosimo ha i suoi frati
L’odore dell’India: Cosimo manda un monumento di devozione costosissimo dall’altra
parte del mondo ed è contento
Il pungiglione d’amore: Ferdinando, sia pure avvertito, si impesta di sifilide
Cosimo dà il suo cognome a un rabbino che si è convertito. Adottato dal Granduca, questi
deride gli ebrei, che fieramente detesta, per i loro usi e costumi che trova riprovevoli
Marguerite-Louise da Parigi bussa a quattrini e minaccia, chiede al figlio Ferdinando di
rubare qualche gioiello dei Medici, ma quello è messo peggio di lei, e sempre mendica di
avere denari dal padre avaro
Violante convola con Ferdinando e scopre, subito, che suo marito ama di più chiunque che
non sia lei: e in specie gli evirati cantori della sua corte a Pratolino
Cosimo commissiona la morte: il pittore Giuseppe Nicola Nasini dipinge le quattro grandi
tele dei Novissimi, per l’appartamento privato del Granduca
Il fetore del tempo, l’umano crollo, l’immane schianto: Cosimo ammira l’opera di Gaetano
Zummo, ceroplasta
Anna Maria Luisa trova finalmente marito, che se no viene certificata come zitella, e
diventa la regina di Düsseldorf
La voliera di Gian Gastone
Cazzi e colonne: il rimedio di Filippo Pizzichi contro l’estinzione della dinastia Medici
Marguerite-Louise, dopo avere fatto fuoco e fiamme, e molto aver intrigato nell’ombra, si
trasferisce a Saint-Mandé. Menopausa e beneficienza, lentamente, entrano nella sua vita
La carriera di un libertino: entra in scena il bel Giuliano Dami
Lorenzo Magalotti scrive profumatamente alla contessa Ottavia Strozzi
Il boia maltratta Francesca Di Matteo, infanticida
Il principe di Carnevale: Ferdinando si ribella
Vincenzio Viviani dedica un palazzo al culto del suo maestro Galileo e lo annuncia al
mondo
La corte della scrofa
Il principe delle taverne
Gian Gastone fugge dalla Boemia, disgustato da sua moglie, dal paesaggio e da se stesso, e
si reca a Parigi a trovare la madre
Cosimo smania per il Trattamento regio. A Roma, con suo giubilo, ottiene di essere
canonico lateranense, e dice la sua prima messa
Bartolomeo Bianchini si rammarica di aver accettato di lavorare per il bey Ramadan a
Tunisi, lasciando Firenze, ma poi trova il modo di mettere a frutto l’esperienza in
Oriente
Il Gran Principe Ferdinando osserva La gazza ammaestrata di Alessandro Magnasco, di cui
ha commissionato la realizzazione, e ne ricava una morale
Memento mori. Giovanni Battista Fagiuoli vede un acrobata cadere in Piazza della Signoria
e lo racconta a corte
Gian Gastone torna a Firenze, con la coda tra le gambe, sua moglie rimane in Boemia, per
sempre; in riva all’Arno il figlio del Granduca diventa un triste aneddoto di follia
Cosimo ricerca quadri in Inghilterra, paese di cui ha sempre ammirato l’ordine e di cui
fantastica di avere la potenza sul mare
Alessandro Scarlatti, disperato per rovesci di fortuna, chiede denari al Gran Principe
Ferdinando
Lo Spagnolo dipinge scene volgari di gran vivacità per il Gran Principe
Lo sposo marcio: Francesco Maria si decompone a vista ed Eleonora Luisa Gonzaga di
Guastalla si ribella al suo amaro destino
Federico IV di Danimarca fa visita al fantasma del suo antico amore, Maddalena Trenta,
ora suor Maria Maddalena
Il cacciucco del Gran Principe: Giuseppe Maria Crespi dipinge a Livorno, per il Carnevale
L’estasi del nero bianco: la preda più ghiotta tra i convertiti del Granduca
La monarchia vegetale: il mio regno è una susina, il mio regno è una pesca
Violante, vedova, in balìa degli eventi
Il ritratto di Eleonora, regina per un giorno
La sosta di Violante
Congedo con veleno: Marguerite-Louise lascia il mondo, con un ultimo pensiero maligno
per Cosimo, che non vuole in alcun modo abbia a rallegrarsi troppo della sua dipartita
Cosimo, poco compianto dai cittadini di Toscana, ma moltissimo dai preti e dai frati, a cui
dette infiniti danari, finalmente fa quello per cui si è preparato tutta la vita: muore
Anni ruspanti: Gian Gastone Granduca, Giuliano despota
Concerto intimo da camera per il Granduca Gian Gastone
Gian Gastone dà un ballo per la nobiltà nella sua camera da letto
Gian Gastone strepita contro Violante moribonda e morta: ormai non vuole più vedere altre
dipartite, attende solo la sua di cui vede lo spettrale spettacolo
Giuliano deve respingere con la forza i ruspanti che premono alle porte di Palazzo Pitti
Antonio Cocchi ospita nel suo palazzo le prime adunanze della Massoneria a Firenze
Esecuzione di Antonio di Francesco Carleschi, ruspante
Gian Gastone regala un archibugio a Carlo di Borbone, candidato al trono dei Medici, e
questi lo usa per andare a caccia dentro le mura di Palazzo Pitti
Nella chiesa di Santa Croce per volontà di Gian Gastone si inaugura il monumento a
Galileo, dove viene traslata la salma dello scienziato
I medici stilano la relazione clinica dell’ultima malattia di Gian Gastone
L’impero della gazza: Anna Maria Luisa fa l’inventario delle sue gioie
Catera Dami fugge con i sacchi pieni e con lei vanno via le figlie e i famigli, mentre
Giuliano, a suo rischio, si attarda di un giorno
Esequie di Gian Gastone