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Il libro

L’ultima regina di Firenze


Scienziati e artisti strepitosi, cospiratori, paggi, bardasse, cardinali,
collezionisti maniaci, musici, mercanti. Erotomani, devotissimi, folli: sul
proscenio di Palazzo Pitti con i suoi segreti e delle infinite ville della dinastia,
in una Toscana che grazie al porto di Livorno è ancora crogiuolo di genti e di
idee, tra il ’600 e i primi anni del ’700 assistiamo alle vicende di personaggi
memorabili, tra cui spicca la grandiosità decadente di Gian Gastone.
Anarchico incoronato, toscano Eliogabalo, criticato dalla Storia e amatissimo
dal popolo, depresso e geniale, regina strepitosa di una corte di performer
sessuali, i “ruspanti”, dominati dalla sua anima nera Giuliano Dami, poco
prima di morire volle che le spoglie mortali di Galileo fossero trasferite in
Santa Croce. Il suo gesto lucidissimo annunciava il tempo nuovo
dell’Illuminismo, mentre la città apriva le prime logge massoniche.
Il fulgore rinascimentale della Firenze medicea è stato raccontato in ogni sua
piega. Assai meno si sa degli ultimi signori della città, le cui storie – narrate
in queste pagine come in una serie televisiva di assoluta bizzarria – sembrano
inventate: invece sono tutte rigorosamente documentate. Spesso i dettagli
arrivano da un quadro, una cantata, una glossa a un trattato scientifico, un
brandello di conversazione carpito a un diarista.
Al crocevia del destino, mentre l’Europa abbandonava con fatica le spoglie
dell’antico regime, Firenze fu il laboratorio di un’epoca di lancinanti
contraddizioni e ininterrotti splendori d’arte. Dopo anni di ricerche e grazie a
una scrittura capace di scavare nelle pieghe del tempo con spietatissima
pietas, questo libro di Luca Scarlini è un pirotecnico omaggio letterario alla
grandiosità e al disastro, alle meschinità e alle grandi passioni di un momento
storico irripetibile.

L’autore
Luca Scarlini
Luca Scarlini è scrittore, drammaturgo per teatri e musica, performance
artist, storyteller.
Insegna tecniche narrative presso la Scuola Holden di Torino. Voce di Radio
Tre, ha condotto il programma “Museo Nazionale” e curato mostre sulla
relazione tra arte, musica, teatro e moda.
Tra i suoi libri ricordiamo Lustrini per il regno dei cieli (Bollati Boringhieri),
Sacre sfilate, dedicato alla moda in Vaticano, e Un paese in ginocchio
(Guanda), La sindrome di Michael Jackson (Bompiani), Andy Warhol
superstar (Johan & Levi), Siviero contro Hitler e Memorie di un’opera d’arte
(Skira), Conosci Milano? (Clichy), Ziggy Stardust (add), Bianco tenebra
(Sellerio), Teatri d’amore (Nottetempo).
L’ULTIMA REGINA DI FIRENZE
Dello stesso autore presso Bompiani

La sindrome di Michael Jackson. Bambini, prodigi, traumi


In copertina: elaborazione digitale di immagini Shutterstock.
© Progetto grafico generale: Polystudio.
© Progetto grafico di cpertina: Francesca Zucchi.

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www.bompiani.it

© 2018 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani


Via Bolognese 165, 50139 Firenze - Italia
Piazza Virgilio 4, 20123 Milano - Italia

ISBN 978-88-587-8006-0

Prima edizione: agosto 2018

Prima edizione digitale: agosto 2018


PROLOGO I
IL RE-BAMBINO

Siena, 28 agosto 1629

Sul cadere del mese di agosto del 1629, la città di Siena era in grande
movimento per l’imminente arrivo del nuovo governatore. Il principe Don
Mattias aveva diciassette anni: lo inviavano a guidare la città e a farsi le ossa
nell’amministrazione la nonna, Cristina di Lorena, e la mamma, Maddalena
d’Austria. La signora madre, sotto l’abito di gala, era una massaia rifinita,
con il pallino di far tornare i conti, fino all’ultimo zero, con absburgica,
micidiale precisione. Sotto il suo impero c’era ben poco da scialare: anzi, era
il regno del miccino, del risparmio portato allo spasimo del tormento. Al
maestro di casa che gli chiedeva otto letti dalla guardaroba di Pitti, per farci
dormire gli staffieri, “per basso servizio”, replicava che dormissero in due per
giaciglio, e che comunque quello spettava solo a chi aveva servizio di
palazzo. Gli altri per terra, o che si arrangiassero, che tanto erano giovani, e
potevano farlo. Per le due austere reggenti il ragazzo doveva studiare
l’organizzazione dello Stato, sotto la guida del suo mentore ufficiale, il balì
Giovanni Antinori, incaricato di sorvegliare da vicino il regale rampollo e di
riferire tutto quello che faceva.
La verità è che questi, assai stanco di ricevere lezioni di economia e di
governo ad ogni momento, voleva andare al corso a vedere le femmine, per
capire “quali possono andare a mostra e tenere tra le altre il primo loco”, per
poi passare alla commedia, dove apprezzava tutto: “e in particolare il Zanni
ridicolo, qual è bonissimo, non facendo più questa parte il Gonnella che di
presente fa il Pantalone e non si move bene”. Tra una caccia e una messa, il
bel Mattias godeva per la prima volta della libertà dalle sue due tutrici
severissime, che l’avevano fatto crescere in una specie di regime di stretta
sorveglianza. Scartava il suo focoso cavallino spagnolo, e lui si dava a
correre intorno a Piazza del Campo, come fanno i barberi quando c’è il palio.
Più tardi avrebbe messo la testa a partito, dilettandosi di soggetti gravi e
severi. Allora avrebbe commesso al miglior pittore che si trovasse in Siena,
Rutilio Manetti, un Dante e Virgilio negli Inferi, una composizione seria e
piena di pathos, che spesso rimirava alle pareti del suo studio.
PROLOGO II
LA PESTE ARRIVA A FIRENZE

Appennino tosco-emiliano e Firenze, 10 agosto 1630

Bologna ribolliva di cadaveri marci, verdi, gonfi, puzzolenti che venivano


buttati in fretta e furia nelle fosse, per esser poi coperti di calce viva. Le
notizie che varcavano l’Appennino, in un agosto caldissimo e sfinente, con il
cielo bianco come una lastra di vetro incandescente, erano tragiche. Nel suo
palazzo a Piazza Maggiore il governatore felsineo, asserragliato tra una
schiera di frati oranti e benedicenti che nemmeno il crocifisso al collo salvava
dal morbo, temeva la carestia imminente: l’ordine pubblico era a repentaglio.
Nella città di qua dall’Appennino la paura si tagliava col coltello: le cronache
d’oltre Appennino erano sempre più nere, tremende, luttuose. All’inizio di
giugno in via del Garbo morirono, abbracciate strette nel letto, due sorelline,
e al Canto alla Briga due fratelli furono annotati come “de’ più brutti morti,
essendo divenuti verdi e tutti enfiati”. La puzza travolgeva i monatti, arruolati
negli strati più bassi della popolazione e spesso anche tra i galeotti, che
ottenevano in cambio dei loro servigi la libertà, sempre se sopravvivevano.
Essi dovevano portare alle nari una pezzuola bagnata d’aceto, per tenere
lontani i miasmi.
Il 14 giugno l’autorità fiorentina aveva bandito “la città di Bologna e il
suo contado” come luoghi pericolosi, infetti di peste: per tutti i cittadini di
quello sventurato luogo la porta era sbarrata. Tre gentiluomini scelti a sorte
dovevano sorvegliare all’esecuzione severa del bando, essendo dotati di
dodici armigeri “provvisionati”, ossia armati fino ai denti. Alla fine di luglio
si ebbero però i primi casi a Trespiano: una stretta rete venne chiusa intorno
alle case dei malati, soccorsi dall’autorità con i loro familiari, chiusi per
giorni. Speravano tutti che recassero qualche sollievo cure che talvolta erano
più dannose del male: la preghiera poco dava conforto contro il lavorio
indefesso dei microbi. L’avidità, come sempre, spalancò la porta al morbo,
che il magistrato cercava disperatamente di tenere lontano. Un venditore di
polli bolognese riuscì ad arrivare fino a Trespiano, eludendo i birri: un
contadino di nome Vieri si inchinò al potere dell’oro, che recava con sé il
fiato marcio della mortifera corruzione. L’emiliano fuggiasco si sentì male
mentre prendeva la via dei monti: si fermò pensando di tornare indietro,
arrivò alle pendici della città che era pomeriggio tardi. Vieri lo scacciò in
malo modo, gli disse non c’era posto, l’altro mostrò una somma favolosa,
quattrocento scudi: se fosse morto, i quattrini andavano alle figliole del
contadino, per far loro la dote e maritarle in modo conveniente, sempre se
sopravvivevano alla gran calamità. Come folle allora andò, con la moglie
Elisa, a trarre le materasse dall’armadio e le buttò a terra: l’emiliano si gettò
per il grande indolenzimento e mai più si rialzò. Il contadino era tramortito,
ma con la moglie si consigliò di andare dal curato, riportandone il parere di
star zitti e seppellirlo di notte nell’orto, ché chi dava ricetto agli infetti
infrangeva la legge e rischiava la vita. A maneggiar quel corpo enfio d’aria
guasta e di pus, che rumoreggiava sinistro quando veniva sbattuto senza tante
cerimonie nella buca, Vieri ebbe come il sentimento che non era una cosa
giusta, ma ormai era tardi. I bacilli, che proliferavano nello sporco delle
epidermidi sudate, dei pavimenti poco puliti, delle vesti lacere, poco più di
una trama di stracci, presto riportarono la vittoria: morì lui, la moglie e una
figlia. L’altra, stretti nella mano i quattrini della dote, venne portata dai
premurosi zii, che la alleggerirono del malloppo, nella loro casa di Fiesole.
Qui essa in poche ore morì, e dopo di lei i suoi avidi parenti, uno dopo l’altro,
tutti colti dall’estinzione con in mano il sacchetto dei denari, ricettacolo dei
più micidiali germi.
La peste entrò quindi in Firenze dalle pendici, dove specialmente grande
fu la strage. Il Magistrato della Sanità ebbe tutto il potere dal Granduca: tutti i
cittadini vennero arruolati in un esercito di pulizia, per tenere monda la strada
da ogni schifezza. Il lazzaretto venne posto nell’ospedale di Bonifazio, dove i
cadaveri a mucchi perpetuavano il contagio. Alle case degli ammalati di peste
venivano apposti alla porta due regoli dal color rosso sangue, con scritto
SANITÀ, a caratteri grossi e un po’ sgorbiati – ché molti dei monatti non
sapevano ben scrivere, e imitavano a caso delle lettere – mentre un araldo
girava per via annunciando pene severissime per chi entrasse nelle case
condannate: “a prendere qualsivoglia cosa, se non con il permesso
dell’autorità”. Non di meno i furti erano continui e del pari i contagi. Tra i
galeotti e i facinorosi si era creata la leva degli zolfatori, dai mantelli bianchi,
lordi di ogni materia bassa, che andavano in giro per la città a bruciare le
masserizie degli appestati: i loro roghi erano il maggior divertimento dei
perdigiorno, che urlavano oscenamente all’indirizzo delle fiamme, contenti in
buona sostanza di esser vivi. Sullo sfondo gli adepti della Misericordia, con il
gran cappuccio nero, intenti a trasportare con delle gran ceste ovali, non
essendo ancora invalsa in uso la barella, gli ammalati, che spesso urlavano
per il dolore dei bubboni, che esplodevano in un flusso osceno di pus e
sangue. Gran divertimento suscitava la piazza della forca, dove si
somministravano i tratti di corda e le impiccagioni; giravano come ossessi i
ladri, incatenati, costretti a cavalcare gli asini al contrario, frustati dagli
armigeri. Essi vomitavano, in quella corsa del gambero, anche l’anima, se
ancora l’avevano. Le risate erano stridule, sinistre: brigate si componevano
d’un subito, e poi si disperdevano, cantavano a sfregio la canzone della
maggiolata, ma distorta nelle parole e nell’armonia, sicché sembrava una
celebrazione infernale, tra le fiamme e le urla. Come voleva la tradizione, allo
scempio dei corpi seguì l’orgia senza fine, nel lazzaretto del Monastero di
San Francesco. La consolazione d’esser vivi e la fornicazione accadevano
l’una dopo l’altra, questione di minuti. I frati, quando non partecipavano alla
baldoria, ne erano orripilati; fu perciò stabilito che la Badia di Fiesole desse
albergo alle donne e San Domenico agli uomini, entrambi i ricetti guardati a
vista dagli armigeri. Lo Stato rischiò la bancarotta, per tutte le spese sostenute
durante il morbo. Il Magistrato ordinò un solenne Te Deum laudavit alla
Santissima Annunziata, a cui presenziò la famiglia granducale; era trascorso
più di un mese da quando si era dato l’ultimo caso di peste, in coincidenza
con la piena dell’Arno che il primo di febbraio aveva invaso la città da
Ognissanti fino a Porta al Prato, portando infine il vero freddo dopo un
autunno che non voleva mai finire, e diffondendo sempre più germi nefandi e
micidiali.
PROLOGO III
UNA ROSA IN PIENO INVERNO

Firenze, Villa Il Gioiello, maggio 1632

“E te non vuoi che ti compri nulla?” “Perché siete tanto buono da pensare
a me, fatemi il piacere di portarmi una rosa, che in questi posti non ci fanno”.
Così Bella (anzi Bellinda, in chiave di domestica trasformazione) parla, nella
toscanissima quanto magnifica versione di Collodi, al padre mercante che sta
per mettersi in viaggio. È uno scambio simbolico di affetti con frutti e fiori,
secondo una consolidata retorica di comunicazione veicolata fin dai tempi
antichi dalla Chiesa; un fiorito dizionario scorre nel carteggio tra Galileo
Galilei e la figlia Virginia, nel chiostro suor Maria Celeste, presso le Clarisse
di San Matteo in Arcetri. La ragazza era figlia della padovana Marina Gamba,
con cui Galileo aveva vissuto a lungo more uxorio nella città degli studi,
regolarizzando soltanto dei rampolli nati l’agitato figlio Vincenzio, che gli
aveva dato non poche preoccupazioni. La ragazza era docile e di grande
intelligenza; era stata monacata con la sorella Livia (poi in ecclesia
Arcangela), gracile e malaticcia, che detestava l’essere suora in un luogo di
grande miseria, dove a malapena le sorelle avevano di che sfamarsi.
Galileo trae fuori da un panierino, dove è stata riposta con la massima
cura, involta nella bambagia, una rosa gialla tea, screziata di bianca e di
rosso, che gli ha recato l’uomo di fatica del convento. Lo scienziato sa che il
fiore è originario della Cina: è vecchio, malato, quasi cieco, guardato a vista
dopo la liberazione dal carcere, ma il gusto dell’osservazione non lo perderà
mai. “Caro padre, insieme a un poco di morselletti, a qualche pastina di
mandorla, e a un poco di panforte, vi ho mandato una rosa, unica fiorita
dall’arbusto per il clima stranamente dolce di questi tempi. Spero che vi rechi
piacere, vorrei sapere scrivere meglio e per questo vi chiedo di mandarmi un
manuale, come Il perfetto segretario, per esservi meno di peso con l’aridità
del mio semplice scrivere.” Galileo porta vicino agli occhi miopi la rosa, ne
odora il profumo delicato. Pensa alla figlia reclusa a poca distanza dall’asilo
della sua vecchiaia, che lei stessa ha contribuito a trovare per lui.
PROLOGO IV
LA ROVINA D’ALEMAGNA

Ratisbona, giugno 1632 – luglio 1634

Lo sapevano da sempre, i Medici, che la via d’Alemagna non era foriera


di buone nuove, ma bisognava sempre tenere il piede in due staffe, e quindi
era necessario percorrerla e spesso. All’inizio degli anni Trenta, Francesco e
Mattias de’ Medici erano partiti dai “felicissimi stati del Serenissimo
Granduca”, come voleva la formula dell’epoca, per andare alla guerra. Erano
accompagnati dalla nonna Maria Maddalena d’Austria, madre del Granduca
Ferdinando. Lo scopo del viaggio era rafforzare il legame con la casa
d’Absburgo, incontrando il fratello della Granduchessa madre, imperatore, e
avviare i rampolli all’arte della guerra, sotto la guida accorta del Wallenstein,
che in quel tempo era celeberrimo condottiero, sfidando Gustavo Adolfo
Vasa, re di Svezia. Il popolo aveva applaudito la comitiva granducale che si
metteva in viaggio, stando ben lontana dai luoghi che si sapevano soggetti
alla peste. Eppure a Passau, in Baviera, alla signora venne un accidente. La
vecchia dama cominciò a lamentare che non aveva aria, e a niente valsero gli
interventi del medico, Giovanni di Niccolò Ronconi, che le fece invano un
salasso per contrastare il morbo. Le mancò il fiato, poi venne meno. Il
Granduca venne avvertito da un dispaccio dei fratelli, mentre si trovava alle
cacce nella tenuta di Artimino. Per volontà granducale, i fratelli vennero
inviati dall’imperatore a condolersi con lui della scomparsa dell’amata sorella
e madre. Il corpo venne accolto a Pratolino e portato in città tra un crescente
seguito: nel gelo più tagliente, la folla faceva ala in attesa di poter entrare a
San Lorenzo, dove la salma venne posta su un finissimo catafalco adorno di
teletta d’argento e nera. La gran massa radunata, provata dal freddo, era
prossima a soffocare: non pochi riportarono dalla cerimonia un gran malanno,
e qualcuno morì di micidiali flussioni e polmoniti fulminanti.
Malgrado il tristo segnale che aveva dato loro quel primo viaggio,
Francesco e Mattias, fattisi uomini d’arme, nel 1634 tornarono, contro ogni
logica, nelle terre e per le strade d’Alemagna. Si trovarono sotto le mura di
Ratisbona, posta sotto severo assedio, ma che non cedeva a nessun costo.
Pochi i soldati della città che erano stati catturati: i due rampolli granducali
agivano sotto il comando di Ferdinando III. Nei mesi precedenti erano stati
agli ordini di Wallenstein, eroe tragico e controverso, poi eliminato
dall’imperatore perché troppo era il suo potere. Poco prima di quei giorni era
successo il fattaccio imperiale nelle terre di Boemia, ma i due Medici, poco
avvezzi alla disciplina, si erano resi presto invisi al gran condottiero. Vi era
stato anzi il sospetto che questi volesse eliminarli, in un momento di sua crisi
personale con gli Absburgo. Perciò ai due era giunto l’ordine da Firenze, per
dispaccio segreto e cifrato, di andare al più presto a Innsbruck, presso la zia
madama Claudia, imperatrice, per divagarsi tra cacce e trattenimenti, ordigni
barocchi e danze, signorine e libagioni, tenendosi lontani dal pericolo.
Malgrado vari progetti di Wallenstein per macchine belliche risolutive, in
quel conflitto sfinente non cambiava niente, e i cittadini di Ratisbona
sembravano ridersela, avendo ammassato scorte di acqua e viveri bastevoli
per un tempo lunghissimo. Un nemico peggiore era però in agguato: la peste,
che era già comparsa, subdolamente. Per ora, segnalava il Guicciardini,
gentiluomo al seguito: “era morta tutta gente bassa, ma necessaria, cioè
mastri di stalla, garzoni di stalla, aiutanti di dispensa, di credenza, chi teneva
conto di biade, chi serviva la tavola dei gentiluomini”. I viveri aumentavano
di prezzo a vista d’occhio e gli “speditori” che li cercavano erano soggetti ad
attacco di soldatacci sbandati o di contadini fuori di sé per la fame, quando si
cominciava a mormorare con raccapriccio di scene di antropofagia tra il
basso popolo. Per questo i procacciatori dovevano essere accompagnati dagli
armigeri, se no non era detto che tornassero indietro tutti interi.
Mattias era sempre fuori, nel gelo, con un gran robone di pelliccia indosso
a ispezionare le truppe. Francesco, più pigro, preferiva stare al caldo nei suoi
quartieri, e questo lo tradì: il principe che amava la vita all’aperto non offrì
un facile bersaglio ai batteri; l’altro, invece, dava retta all’idea, tanto diffusa
quanto rovinosa, che vivere al caldo fosse il rimedio. Chiuso nella sua tenda,
di fronte a un gran braciere, imbandiva festini per i microbi. Una notte dormì
male, ebbe incubi ritornanti di acque chiare che si facevano di fiamma. La
mattina si svegliò confuso, disse al suo attendente di aver dei fignoletti
fastidiosi, delle bollicelle piene di un umore chiaro che lo turbavano e gli
davano molto da pensare. Mattias, di ritorno da una partita di caccia,
scherzava, minimizzava, lo derideva, ma infine giunse la febbre alta, il
delirio, la bava alla bocca. La spalla del signore fu scoperta e vi si trovarono
nodi neri e purulenti. Era la peste bubbonica. Il ragazzo fu isolato, messo in
quarantena, ma niente giovò, né balsami di scienza, né preghiere, né rimedi di
mediconi contadini che accorsero al campo quando si seppe che il principe
Medici era in fin di vita. Mattias pianse, dignitoso sulla sua cavalcatura, ma
dentro di sé sconvolto e come folgorato dalle saette della morte, che gli
rimbombavano nel cervello. Poi con la sua piccola corte seguì il re
d’Ungheria, mentre il cadavere chiuso in una bara di piombo, che non
spargesse il contagio, veniva avviato su un carro al ricovero dei frati
zoccolanti a Bolzano, in attesa di esatte istruzioni da Firenze su come sarebbe
dovuto accadere il rimpatrio della salma. Era finito in tragedia quello che era
iniziato come un bel gioco cavalleresco, in un dorato mattino di maggio:
“molte cattive notti ancora e incommode giornate abbiamo sofferto per la
stranezza del tempo. Ciò nondimeno non ci ha tolto l’animo di seguitar la
guerra, anzi, insanguinati (si puol dire) abbiamo preso animo e desideriamo
essere veri soldati”. Nelle arene di Alemagna si celava, in realtà, l’inizio della
fine per la casata fiorentina: ab Aquilone omne malum, il nord menava gramo
e portava disgrazia all’aristocrazia italiana. Lo aveva già dimostrato
ampiamente Alfonso II d’Este, quando scalmanato si era posto in groppa a un
enorme castrone a un torneo svolto a Blois, e la sua cavalcatura lo aveva
tradito precipitandogli addosso. Il risultato: una ferita incurabile all’inguine,
per cui anche lui era diventato castrone, da cui seguì la fine della stirpe degli
Este, malgrado le tre mogli che si susseguirono nel suo letto, e la devoluzione
di Ferrara allo Stato della Chiesa. Francesco de’ Medici moriva a Ratisbona,
la dinastia dopo questo lutto si perdeva, lentamente si sfaldava, stilla a stilla,
in una serie di matrimoni rovinosi che a tutti i costi non volevano essere
italiani. Nozze tedesche e francesi strepitosamente malintese e catastrofiche,
per cercare pateticamente di rimanere nel giro grande da cui la penisola era
ormai esclusa. Una partita in perdita, quindi, i cui esiti avrebbero avuto
ripercussioni a catena negli anni a venire.
TUTTO NEL MONDO È BURLA O DEL GRANDUCA FERDINANDO IN
COMMEDIA

Firenze, Palazzo Pitti, autunno 1642

Ferdinando de’ Medici sfoglia distratto il volume di una commedia, Li


buffoni, dedicata al Tedeschino, signor del Piacere. Si ricorda l’autrice:
Margherita Costa, cantatrice romana, chiacchierina, con la passione per
mettersi in mostra, le zinne sempre in fuori, aveva tenuto il diario del suo
viaggio ufficiale in terra d’Alemagna, nel 1628, che lo aveva condotto fino a
Praga, dove aveva incontrato il suo zio e imperatore Ferdinando d’Absburgo.
A lui aveva domandato come si fa a regnare, togliendosi dall’influsso fatale
delle femmine, sotto la cui sferza era cresciuto per tutta la vita. Dio che
brivido parlare tra maschi che non devono rendere conto a beghine furibonde:
ma lui era stato per tutta la vita come Ercole alla corte di Onfale,
impapocchiato di fili e tessuti, e ce ne aveva messo a trovare la sua via,
strappando tutte quelle stoffe fini e preziose che lo soffocavano. Al ritorno,
malgrado si fosse dedicato a un devoto pellegrinaggio a Loreto, aveva trovato
la mietitrice all’opera nel suo regno. La peste aveva ucciso un abitante su
dieci del Granducato. A differenza di sua madre e di sua nonna, che gli
tarpavano le ali e si erano nascoste in villa con i loro preti a dire giaculatorie
e sgranare rosari, il giovane Granduca si era subito mischiato al popolo,
insieme ai religiosi e ai funzionari più intraprendenti, e aveva portato
soccorsi. Aveva preso decisioni sensate come impedire l’ingresso agli
stranieri alla frontiera, ma il malanno si era sparso rapido e i rimedi
erboristici distillati dai medici erano largamente inefficaci.
Mentre il signore di Firenze sfoglia il libro, il suo segretario gli insinua
una diceria all’orecchio. A corte si mormora che quel testo abbia a che vedere
con lui, che addirittura satireggi la sua esistenza coniugale a fianco della
arcidevota Vittoria Della Rovere, che gli era stata promessa quando aveva
appena due anni, ma già da bambina senz’altro tendeva alla pinguedine, alla
bigotteria e all’autoritarismo nella sua triste e ventosa Urbino, di cui era la
lamentosa ultima erede. “Meo principe di Marocco è nato scimonito, Pedina e
Catorchia nani, Scatapocchio nanetto piccolissimo, Gobbo che fa quel che
dice il suo nome, il gobbo del violino.” Insomma, una fantasia di caramogi,
una ridda di pose scomposte, una sequenza di carnevale di creature minuscole
e deformi. Una miniatura come quei gioielli bizzarri e storti in avorio che
piacevano tanto alla sua augusta genitrice Maria Maddalena d’Austria.
L’autrice immagina che il protagonista abbia una moglie, la regina Marmotta,
che egli trascura, a favore della meretrice Ancroia, di cui è follemente
incapricciato, favorendo la sua compagnia di commedianti di pessima fama;
allora questa, sdegnata, fugge tornando dal padre suo, nel reame di Fessa. Il
titolo del regno è già un programma. La sagra del doppio senso, del bisticcio,
si stende per tutto il testo, che pure si compie in un lieto fine da morale della
favola: lo scriteriato monarca abbandona i buffoni, pazzi e istrioni che lo
contornano per tornare da sua moglie, al legittimo accoppiamento nel talamo
nuziale. Nel prologo c’è una disfida tra la Comedia Antica e la Buffoneria,
ma il Granduca lentamente scivola nel sonno: gli rimane però in testa un
dialogo che è come uno degli scambi che ormai riduce al minimo, con la sua
tediosa consorte Vittoria. “Io dico che non voglio più durarla così / Voglio
esser moglie”. Scaccia via quel ronzìo molesto che gli risuona in testa. Di
colpo si riprende dal torpore e scandisce leggendo nel vuoto della sua stanza:
“Sia maledetto chi mi fece dir di sì per una volta / sia maledetto chi fetti
principessa / e chi mi fece uccel della tua gabbia, portar voglio i calzoni / e
non v’havete a impicciare / se mi piace la zuppa o li buffoni”. Come fa a
venire in mente al segretario che quella vicenda scombiccherata lo riguardi?
A lui non piacciono certo meretrici, di cui il reame abbonda, ma piuttosto
maschi e ben dotati. La signora ha perduto una bambina, morta prima di
aprire gli occhi, a cui il prete non ha imposto nemmeno il nome. Da poco è
nato il primogenito, Cosimo, che in cuor suo egli chiama Cosimino, anche se
la moglie tempesta che non sta bene, che un nobile rampollo fin dai primi
giorni di vita deve comprendere la sua importanza, la dignità reale, il
trattamento regio, croce da portare per il nobile, in un mondo di serietà in cui
non esistono né diminutivi né vezzeggiativi. La partita ha una posta in gioco
grande: Ferdinando vuole che gli educatori del figlio siano scienziati, e
Vittoria, beghina infervorata, non concepisce altro che futuri sacerdoti.
Vedremo chi la vince: intanto non la toccherò più la signora, e a lungo, ché
altri oggetti muovono maggiormente il mio capriccio e di sicuro la tradirò, sì,
ma per la pelle di seta di un paggio. Forse questa commedia parla di me, in
cifra, ma con simpatia. L’importante è che rappresenti lei come una pazza
maniaca, fissata, invasata di superstizioni. Proprio come è, quella tediosa
donna che fa di tutto per rovinarmi la vita insieme a quei suoi preti spioni ed
è sempre allegra come un camposanto.
COVIELLO SBEFFEGGIA LA MORTE, E IL CARDINAL GIOVAN
CARLO APPLAUDE

Casino di San Marco, primavera 1642

“Eccote no smargiasso / lo protoquanqua de li spartegiacche / lo


capomastro de li squarciafamaro / lo maiorino de lo capoparte / quatto
nell’arte degli spezzacuolle / l’arcifanfaro vero delle brave / lo priore
dell’uomene valiente.” Salvator Rosa si dimena indiavolato sul palcoscenico
dello stanzone del Casino di San Marco, come se fosse uno dei più riusciti
demoni dei suoi quadri. Parla una lingua incomprensibile, un napoletano
denso e lutulento, spesse volte inventato, che pone il senso nascosto dietro
improvvise giravolte foniche: sembrano tutti anatemi del malocchio. Il
cardinale Giovan Carlo osserva il suo protetto con malcelato divertimento, e
ogni tanto scatta a ridere sgangheratamente: il Coviello è la maschera che già
a Roma, con scandalo non piccolo, parlando con lingua mordace della corte
papale, aveva indossato con clamore. La commedia improvvisa è il grido:
tutti coloro che fanno parte dell’Accademia dei Percossi debbono sottoporsi
ai rituali dell’Arte, ricamare su un canovaccio una rappresentazione della
vita, mettendo più che si possa gli avvenimenti della città e della corte.
Pittore, scrittore, l’artista riversa nel teatro la sua vena più fantastica,
provocatoria, immaginativa. Nessuno come lui sa sedurre e poi colpire: il
religioso, appassionato di belle femmine e di commedie, di opere d’arte e di
giardini, sogna che forse anche lui vorrebbe calcare le scene. Glielo
impedisce la pancia, e poi si muove male, sembra un orso: il male di famiglia,
che sia gotta o artrite, ha colpito anche lui. Ride anche quando il Coviello non
lo capisce proprio, ma le smorfie, sotto la maschera, danno conto delle
emozioni elementari di cui si tratta: fame, sesso, paura, morte. Coviello in
viaggio verso le isole del piacere, certo. Però lui e i suoi compagni sembra
che facciano i loro lazzi soprattutto con lo scopo di tenere lontana
l’estinzione, che tutti sanno che aspetta dietro a ogni cantone, nello spazio
scuro di un vicolo, dove meno uno se lo aspetta. Zitto, zitto, pensando a
questo tema continuo, ossessionante, dopo l’ennesimo scoppio di risate,
furtivamente il cardinale si tocca le parti intime, a mo’ di scongiuro. Poi,
quando la commedia finisce, batte le mani, però va subito via, come se
qualcosa lo avesse improvvisamente infastidito. Forse si è accorto infine che
in quella serata troppo si è parlato di morte e ora ha voglia di qualcosa di più
morbido e fresco, per toccare con mano che è ancora ben vivo.
PAVOLO È STRAZIATO DAL BOIA E DON PIERO MARIA DE’
MEDICI È GRAZIATO PER LO STESSO OMICIDIO DELLA BELLA
CORTIGIANA GINEVRA, DETTA LA ROSSINA

Canto alla Briga, 4 agosto 1649

L’impiccagione è sempre stato uno degli spettacoli di maggior successo, e


nell’estate affocata, con il cielo come una lastra di piombo, non si contavano i
popolani, a piedi, e i signori, in portantina, che si recavano al luogo dove il
boia esercitava il suo lavoro. Pavolo della Stalletta era reo di avere ucciso la
cortigiana Ginevra, detta la Rossina, e la sua servente, la Lindora, ma
l’istigatore di questo crimine era stato un Medici, cadetto certo, ma sempre
rampollo della dinastia granducale. La signora era brava massaia, perciò in
casa, in qualche anno del suo mestiere, aveva raccolto gioie, vasellame,
bicchieri, specchi, insomma, tutta la mercanzia che sta nella casa di una
signora. Troppa roba perché Pierino, delinquente nato fin dall’adolescenza,
non ci avesse a mettere gli occhi sopra. Cominciò a ronzare intorno alla casa,
come un moscondoro intorno al miele, e presto, insieme a Pavolo, fece il suo
piano. Nei giorni in cui gli ipocriti abbandonavano chiassi e bordelli per
andare a far processioni, divozioni e preghiere, intorno alla Quaresima, lui
pose d’assedio le due donne, con cortesie e sdolcinatezze. Prima stavano
sempre insieme, poi le femmine erano sparite, e di loro non si era saputo più
niente. Si era detto che si erano messe in viaggio, perché la Rossina era
impestata di mal francese e doveva far la cura delle acque ad Abano. La
verità però viene a galla: una collega della signora, a Ferrara, presso un ebreo,
aveva trovato argenterie appartenute alla sua amica. Andò dal bargello, dal
legato, da tutte le autorità cittadine per fare giustizia. Il nome Medici, però,
chiudeva ogni porta alla donna, perché di puttane nessuno aveva da
preoccuparsi, se non per intrattenersi con loro nell’alcova, e se una di loro
spariva, altre sarebbero arrivate alla bisogna dei maschi in calore. Infine la
cortigiana fiorentina a Ferrara tanto disse e strepitò, che ottenne il suo scopo.
Pavolo, per volontà del legato, venne accompagnato a Firenze con tutti gli
onori dal delegato di polizia Zampone, che tanto aveva fatto resistenza a far
l’indagine a Ferrara e che ora si pavoneggiava. Il boia lo impiccò e, nudo, lo
fece in quattro quarti, appendendone tre a Firenze, e mandandone uno per
memoria degli eventi nella città degli Este. Ebbe un attimo di esitazione
prima di prendere l’accetta in mano, domandò con voce stentorea se questo
non avrebbe offeso la vista delle signore presenti, ma il delegato di polizia
disse che la giustizia veniva prima di tutto. Nel frattempo Piero aveva avuto
un rabbuffo dal Granduca, e l’ingiunzione di lasciare per sempre la Toscana.
Senza lasciarsi impressionare dai predicozzi, con tutta calma aveva fatto i
bagagli, radunati i suoi denari ed era passato altrove a far del male, facendo
sempre parlare di sé per le sue azioni.
IL CARDINALE GIOVAN CARLO AMA LE FEMMINE E HA NEL
TEATRO DELLA PERGOLA UN SUO TRONO SEGRETO, CON CUI
FACILMENTE PUÒ PENETRARE NELLE VISCERE DELL’EDIFICIO

Firenze, Teatro della Pergola, 1650

Giovan Carlo, appassionato di feste e trattenimenti, è robusto e ha la


passione per le donne. L’Accademia degli Immobili, da lui capeggiata, è
composta di rampolli delle più nobili famiglie fiorentine. I nomi sono quelli
prevedibili: Ricasoli, Del Sera, Rinuccini, Franceschi, Strozzi e così via. Il
cardinale, amatore delle arti belle, gaudente e gonnelliere, era venuto in
soccorso all’accademia che non riusciva a trovare un luogo giusto per il
nuovo edificio teatrale, acquistando un tiratoio dall’Arte della Lana.
L’architettura era stata di suo gusto: “si rispondono tutte le parti ciascuna
verso di sé con mirabil disponimento e bellezza, di pittura e di colonne di
pietra in bell’ordine dorico e con nobile struttura disposte, le quali lasciano
sotto ampio sfogo per lasciar delle scalee”. Ora ha un’idea geniale, che molti
altri ricchi patroni dei teatri andranno a imitare, fino all’Italia unita. Sotto il
trono, che gli spetta come patrono di quelle sceniche adunanze, c’è un
passaggio sotterraneo che lo porta subito alla scena, dove può mettere con le
sue mani un manto protettivo sulle schiene sudate delle sue preferite
cantatrici e ballerine, raccogliendo pettegolezzi e dicerie, per poi almanaccare
sulle grazie delle più fascinose interpreti, risalendo infine senza essere visto
sul suo scranno. Giovan Carlo ha il culto delle femmine; all’attivo ha anche
un figlio illegittimo dalla bella Margherita Salvetti, consorte di Giannozzo
Cepparelli, un pupo “che gli rassomigliava assaissimo”. Si sussurra, anzi,
come si legge nelle pagine del diario del cavalier Francesco Settimanni, che
l’ecclesiastico fosse responsabile della morte di un cavaliere dal romanzesco
nome di Niccolò di Luca di Filippo della Luna, che gli insidiava la
compagna. Vuole la cronaca che il cardinale l’avesse invitato a cena nel
boschetto posto nel mezzo del vivaio di San Marco. Nell’idilliaco ambiente,
tanto a lui gradito per via delle molteplici presenze floreali, aveva teso, come
il velenoso ragno, la sua trappola. Il gentiluomo aveva la passione della
bottiglia, era cosa nota. Dopo aver molto bevuto, barcollando si alzò, e una
mano nemica lo accompagnò sopra il ponticello che dava su un laghetto e lo
spinse di sotto. Il poveretto morì annegato. Il cardinale Giovan Carlo,
ovviamente, si trovava a notevole distanza dal luogo del fatto, ma ebbe poi
vicinissima nel talamo la procace e sospirosa vedova.
Sempre il religioso libertino ebbe passione per gli scenici trattenimenti, e
quando fu presso a morire, nel delirio, gli dispiacque non poco che si
dovessero interrompere i preparativi per l’opera Amore vuole ingegno.
LE DELIZIE DEL CARNEVALE

Piazza Santa Maria Novella, 15 gennaio 1651

Berlingaccio quell’anno cadeva il 15 gennaio: a Firenze era in visita di


Stato il Duca di Modena, quindi a corte gli apparatori pensarono per ben
riceverlo di mettere in piedi un anfiteatro a Piazza Santa Maria Novella, per
allestirvi una caccia, che servisse a intrattenere degnamente l’illustre ospite e
la corte. La nobiltà ogni anno molto investiva nei carri allegorici e nelle
pubbliche rappresentazioni carnascialesche, chiamando a realizzare gli
allestimenti i maggiori artisti del momento. Una moltitudine accorsa gridava,
risate scomposte si diffondevano per tutta la piazza. Oltre venti cavalieri,
vestiti nelle fogge più assurde e ridicole, cominciarono a inseguire una
miriade di gatti liberati nell’arena. Gli gnaulii erano sinistri quando i cavalieri
inseguivano le bestie, ma non fecero che peggiorare quando cominciò ad
agire la masnada dei mastini, che fecero strage degli animali di cui
congiuravano l’estinzione. Poi lo spettacolo passò a numeri più forti: fece
sensazione un grosso lupo, esasperato dai cani che lo mordevano da ogni
parte, e che lottò senza risparmio. Fu poi il momento di un cervo, che lontano
dalle sue selve non sapeva dove ripararsi dalla muta feroce che lo inseguiva.
Entrò poi una vacca, che fu spacciata in un momento, e sembrò quasi offrirsi
in sacrificio al distinto pubblico. Ben diverso fu il numero del toro, che lottò
fino all’estremo: il suo spettacolo violento finalmente zittì il pubblico, che
fino ad allora si era dato a lazzi scomposti all’indirizzo dei cavalieri e degli
animali. Il possente bestione lasciò sull’arena molti cani e due cavalli,
sventrati dalle sue corna. Poi furono liberati i cinghiali, e infine fu il turno di
un orso, vegliardo e sfiatato, che ogni tanto si accasciava, e sembrava un
vecchio che chiedesse l’elemosina: ma i cacciatori non ebbero pietà. La gente
sciamò dall’arena in silenzio; qualcuno, addirittura, abbozzò un segno della
croce. Il Granduca fece poi ripulire rapidamente la piazza, per allestirvi la
mascherata dei caramogi, ossia nani, ridicolosi guerrieri in combattimento.
Era un trattenimento popolare: artigiani d’Oltrarno, con l’abito imbottito di
fieno e una casseruola in testa a mo’ di elmo. Nel pubblico c’erano solo
operaie e donne del popolo, prima imbarazzate da quell’insolito
trattenimento, e dall’essere al posto dove di solito stavano le dame, ma in
breve si rinfrancarono e presero coraggio, cominciando a berciare come
pazze. I caramogi cavalcavano a pelo, senza staffe, ronzini sfiniti, che
sembrava avessero bisogno delle grucce per sostenersi. I cavalieri si
sfidavano con le lance, e cadevano per terra, spesso tutti e due, tra le gran
risate delle signore e di loro stessi: tanto, tutti imbottiti com’erano, non
correvano il rischio di farsi male davvero. Quando eran seduti, i serventi
mettevano a fianco dei cavalli una scala, e quelli con tutta la dignità di un
vero cavaliere riguadagnavano la bestia. Le signore avevano nel frattempo
consumato la loro colazione fatta di salame e prosciutto e bevevano dal
fiasco, perché poche avevano portato da casa i bicchieri. Intorno all’arena era
tutto un pullulare di cartacce gialle che avevano fatto da piatto: i cavalieri dai
begli scarpini le pestavano a rischio di rovinarsi le calzature, quando, finito il
torneo, inseguivano le ragazze per finire bene la serata, tra motteggi e lazzi
dei più volgari e salaci.
IL CARDINALE GIOVAN CARLO COLTIVA I FIORI E AMA LE
GROTTE

Firenze, Casino degli Orti Oricellari, agosto 1655

“Nota di Anemini o Argemini da dimandarsi a Roma.


Anemone detta la bella Parigina
Anemone lionata di Fiandra
Le tre Anemone del Martelletti cioè la Sulfurea, la Sanguinea e la
Fiammeggiante
Anemone ranuncolo ermafrodito
La Grisì dal fiocco verde
Anemone bianca massima dello Sbardoni
Anemone orlata
Anemone rigata incarnatina
Anemone detta la bella Gaetana
Anemone detta la bella foglientina
Anemone detta la Carnea grossa, o la Carnea accesa.
E di tutte le sorte di Argemoni, li più stimati, come incarnatina rigata, la
bianca, la verde, la diavolessa, la coccinea rigata, et altre sorti nuove.”
Il cardinale Giovan Carlo ha trasformato il casino degli Orti Oricellari in
un giardino di rara bellezza. Ci sono fiori all’esterno, e altri, dipinti, alle
pareti, come l’opera squisita di Giovanna Garzoni, miniatrice finissima. Si sa
che la Chiesa nella sua vita è entrata per gradi, per vie dinastiche, non certo
per vocazione: doveva sposare la principessa Anna di Carafa Stigliano, a cui
era ufficialmente promesso, ma le cose andarono altrimenti. Per la sua
visione delicata e carnale a un tempo, botanica e libertinaggio erano presso a
poco la stessa cosa; già aveva unito i due temi nella villa di Mezzomonte,
all’Impruneta, che poi aveva venduto ai Corsini. Le signore hanno i nomi dei
fiori, e viceversa, le creature verdi prendono i tratti delle dame, le loro forme,
le idiosincrasie, e perfino i loro capricci. In un suo diario segnala l’exploit di
una meretrice al suo servizio, di cui segue divertito gli eccessi. “La
Brancicona è stata persa alcuni giorni; volendo, per quanto si discorre,
godersi in pace le carezze d’un oste, del quale è fieramente innamorata.”
Insomma le femmine restavano il suo interesse precipuo, a cui tornava con il
medesimo ardore. Ogni tanto poi, per variare, guardava il diavolaccio, in
veste di enorme zanzara, che aveva dipinto per lui il suo protetto Salvator
Rosa ne Le tentazioni di Sant’Antonio. Un brividino gli veniva, però poi
ricominciava con le femmine; sullo sfondo risuonava un canto dolcissimo di
voce e liuto. Dietro una tenda di broccato azzurro con lo stemma di famiglia
suonavano Panbollito, maestro del suo strumento, e così detto perché quello
era il suo cibo favorito, e il moro Giovannino, suo cantore di camera, che
nella voce cristallina aveva il segreto dell’incanto. Eppure, solo nell’ottobre
prima, gli era venuto un colpo, come registra puntualmente il Settimanni.
“Venne un accidente all’improvviso al Sig.r Card. Gio: Carlo de’ Medici,
onde perse in un subito la favella, ed il polso a causa de’ suoi gravi disordini
in ogni genere di vizio. Onde accorso il Ser.mo Granduca, S.A. medesima gli
raccomandava l’anima, e stette così alcune ore dopo le quali si riebbe.” Restò
deboluccio, anziché no, ma non venne meno alle sue vere passioni tra
accoppiamento clandestino con femmine e ibridazioni di piante. Nello
squisito casino, ricevuto in dono nel 1640 dal fratello Ferdinando, con cui in
gioventù aveva viaggiato in Italia e in Europa, aveva allestito una sciarada
d’immagini concettose. Il giardino era infatti sotto il segno di Polifemo,
dall’unico occhio. Però il riferimento è barocco, non omerico: sembra che a
suscitarlo fosse stata la lettura del poema squisito di Luis de Góngora, vertice
del concettismo. “Purpuree rose sopra Galatea / l’alba tra gigli candidi
disfoglia: / ma il suo colore amore non sapeva / se nivea porpora o neve
vermiglia.” Del ciclope si trova una gran statua, opera di Antonio Novelli. Il
gigante figurava essere il padrone di casa degli orti, invitando i visitatori ai
suoi antri, cui si accedeva per tramite di una “montagna di pietra forte”, in cui
l’artificio riproduceva esattamente la natura, fin nei minimi dettagli. Dentro si
passava all’improvviso dall’abbagliante luce esterna al buio, sulle pareti
affreschi perduti del Colonna e del Mitelli rappresentavano forse il bagno di
Diana. Musici e cantatrici si esibivano sulla “vaga loggia”, una struttura che
dava sull’Arno, dove si tenevano i trattenimenti per gli illustri ospiti. Le
signore, che fossero di stirpe borghese, nobile, o del mestiere della
Brancicona, venivano condotte verso la “stufa”, ossia il bagno caldo, dove le
ninfe dipinte dialogavano con quelle in carne e ossa. Se erano plebee questa
pratica permetteva al Granduca di avere corpi di femmina lindi e puliti, senza
dover sentire puzze sgradevoli.
LA CORTE SI DIVERTE: LA GUERRA DEGLI ANIMALI SUL
GHIACCIO

Ghiacciaie di Porta Pinti, 10 febbraio 1657

Il gelo da oltre un mese aveva reso le acque della ghiacciaia un’attrazione:


anche gli altri anni i ragazzacci della città andavano a giocarci, a rischio della
vita, ma mai come quest’anno. Perché la superficie spesso si rompeva, sul più
bello, e il malcapitato si ritrovava in acqua fino alla cintola, e nessuno voleva
aiutarlo, perché c’era da rischiare di finire tutti dentro, e di morirci insieme. E
c’era da rimetterci il bischero, perché l’acqua ghiaccia in quel modo brucia
come il fuoco, e può mettere a repentaglio la potentia coeundi e quella
generandi: un rischio che nessuno voleva correre, che se no si disfano i
patrimoni e vanno a farsi benedire le proprietà. Il disgraziato di turno si
doveva con fatica arrampicare fuori e poi, deriso e sbeffeggiato dagli altri,
correva subito a casa a cambiarsi, per non rischiare una polmonite o qualche
altro accidente peggiore. Il 10 febbraio cadeva Berlingaccio: l’ultimo giorno
di Carnevale. Quell’anno il freddo era estremo: perciò i rampolli di alcune
famiglie blasonate della città avevano progettato un divertimento di nuovo
genere. Intorno alla superficie gelata delle acque era stata eretta una tribuna,
per il comodo degli spettatori intervenuti: su quella stessa si sarebbe
rappresentata una partita di morte e di sangue. Una caccia di topi, gatti, lepri,
volpi e cani: insomma una apocalisse di animali, che si dessero la guerra
all’estremo, come si faceva per solito al serraglio di San Marco, in cui si
accorreva a vedere, nel bell’anfiteatro, combattimenti all’ultimo sangue di
orsi, leoni, tigri e leopardi. Poi, se le fiere erano troppo indomabili e i ruggiti
davano fastidio alle delicate orecchie, allora giungeva una gran macchina di
legno a forma di testuggine, guidata da quattro persone: dagli occhi si
potevano lanciare razzi per costringere gli animali a tornare alle loro tane
sotterranee. Gli animali feroci avevano dimora nel serraglio collocato vicino
all’ingresso del giardino di Annalena, a Palazzo Pitti: l’edificio era decorato e
aveva le statue dei due nani specialmente cari al cuore dei Medici: lo
sregolato Morgante e il savio Pietro Barbino. Le ghiacciaie erano gremite
all’inverosimile: chi non poteva entrare era assiepato fuori a vedere il gran
concorso di equipaggi e di abiti di lusso. Alle due e mezza arrivarono anche il
Granduca Ferdinando, con la sua consorte Vittoria. Iniziò la battaglia:
quaranta gatti inseguirono cento topi, circa. Le bestie squittivano, perché
scivolavano sul ghiaccio e non potevano restare ferme, ma riuscivano a
salvarsi dai felini inferociti, a cui, per far maggiormente divertire gli
spettatori, gli organizzatori del trattenimento avevano appiccicato con la pece
gusci di noce sotto le zampe, per cui le bestie cadevano, a ogni poco, e
facevano un chiasso indiavolato. Le signore urlavano per via di tutti quei topi
liberi, e si sarebbero messe volentieri le gonne in testa, se non avessero avuto
certezza di dar scandalo: gli zerbinotti avevano quindi doppio divertimento. I
mastini ebbero facile gioco, al loro turno: afferravano i gatti al collo e con
due strizzoni li facevano fuori. La superficie ghiacciata era ormai cosparsa di
gatti morti. Due gentiluomini se la fecero addosso dal gran ridere: il
rigagnolo giallo gli colava lungo le braghe alla spagnola, ma tutti si
divertivano tanto che nessuno ci fece gran caso. Seguirono le lepri e poi le
volpi che dettero filo da torcere ai grandi cani. Il Granduca, i figli e la corte si
ritirarono alle cinque: sulla ghiacciaia restavano infiniti corpi straziati, una
vendemmia di sangue che filtrava in qualche punto sotto il ghiaccio.
Giunsero gli spazzini con la ramazza, per mettere nei sacchi i corpi. Gosto, il
capo degli spazzini, commentava dentro di sé “quanto concio: che ben di dio,
la prossima estate le frutte saranno più polpose”.
LA PEGGIORE DELLE SCELTE: TRATTATIVE PER IL MATRIMONIO
DI COSIMO

Firenze e Parigi, 1658-1659

Ferdinando aveva capito che a suo figlio piacevano le femmine, sia pure
per il dovere sacro della procreazione più che per il piacere, dal modo
ossessivo in cui guardava le sante, invece che i martiri più procaci (come
aveva sempre fatto lui fin dalla più tenera infanzia) nell’infinita collezione di
famiglia. Sempre quel suo figlio serio aveva espresso un clamoroso
apprezzamento per le sacre bellezze di Carlo Dolci, che poi era diventato il
suo pittore favorito. Specialmente lo intrigava la Maria Maddalena, con gli
occhi bassi. Una donna che aveva forme opime, appena nascoste da un abito
che sembrava fatto di velo, vedo e non vedo. Visto che era languido,
linfatico, spesso rapito in preghiera, il genitore pensò che fosse senz’altro il
momento di dargli moglie, così forse avrebbe sviluppato un maggior senso di
indipendenza dalla madre, dalle sue beghine e dalle loro micidiali preghiere,
e gli avrebbe fatto anche bene alla salute. Prima o poi sarebbe stato
Granduca, e con le preghiere la Toscana sarebbe andata poco lontana, ché già
di problemi economici ce n’erano tanti e il paese sembrava sempre più fuori
dalla realtà di un mondo che correva veloce.
Nel 1659 il gran Luigi firmò la pace dei Pirenei e allora il Granduca fu
risoluto che bisognasse legarsi col matrimonio di Cosimo alla corte di
Francia. Intanto regalava preziosi barili di vin santo, rare essenze della
farmacia di Pitti e di Santa Maria Novella, dolci squisiti fatti dalle monache
di clausura impacchettati in stoffe pregiate, destinati al Mazzarino, da cui in
definitiva tutto dipendeva. A corte agiva anche Atto Melani, che aveva
incantato Anna d’Austria cantando a turno con la divina Leonora Baroni le
arie di melanconia che tanto la intrigavano. Il cantante soprano di Pistoia,
spia di consumata abilità, aveva un ascendente notevole anche sul giovane
Luigi, pur perdendone poi il favore, quando anni dopo il sovrano scoprì che
gli leggeva le lettere. Parigi era piena di virtuose italiane, quasi tutte spie per
avere doppio, triplo e, perché no, quadruplo soldo per le parole pronunciate
con la loro lingua di miele. Ferdinando venne informato per tempo che il
miglior partito disponibile era Marguerite-Louise, figlia di Gaston d’Orléans,
da tempo in disgrazia per essere stato il capo della Fronda. Per qualche tempo
si era parlato del fatto che fosse promessa al Savoia, ma quello aveva
preferito una principessa inglese, per spendere meno di dote. Dal 1658 il
primo ministro di Toscana, Gondi, poneva infinite domande al Bonsi,
residente a Parigi, entusiasta della prospettiva, per parte sua, ché se le
trattative andavano avanti ci avrebbe guadagnato molto, anzi moltissimo. Nel
frattempo altri ambasciatori proponevano, come in un intermezzo
indemoniato d’opera buffa, principesse Stuart in esilio (ma nessun voleva
certo irritare Cromwell) e una rampolla di Sassonia era della partita, ma
aveva dichiarato chiaro e tondo che sarebbe rimasta luterana, e chi la sentiva
Vittoria? Un carnevale di principesse, millantate come belle e perfette, che
invece ovviamente avevano più di un difetto. Il sangue era andato in acqua a
generazioni intere di signorine clorotiche, rovinate dalla gotta che circolava
nel sangue dei cugini che continuavano spietatamente a sposarsi tra di loro e
a figliare creature rachitiche e stente. Il disgraziato Gaston, fonte di sciagura a
sé e agli altri, morì nel 1660: Marguerite era ormai come fosse figlia di
Mazzarino. Il genitore biologico aveva lasciato solo debiti, ma quello
adottivo aveva dei bei denari; la dote sarebbe stata però modesta, anche se le
discussioni tra gli ambasciatori furono micidiali, lunghissime, sulla
definizione dell’esatto quantitativo di quattrini.
Il Bonsi, infine, riuscì a far scattare l’imbambolato Cosimo: quella
femmina bionda e raffinata gli rimescolò finalmente il sangue, e poi tutti i
cerusici del regno di Francia garantivano che fosse una macchina perfetta per
fare figli, e questo avrebbe dato onore e gloria ai Medici. Prima di allora al
futuro Granduca non era mai importato cosa avesse indosso: ora il suo
cristiano sdegno per gli eccessi nella moda lasciò il posto a una frenesia di
acquisti. Il Bonsi era richiesto di acquistare galanterie di ogni tipo: guanti,
nastri, pizzi, merletti, scarpini. Dentro di sé il principe sapeva di essere poco
affascinante e pensava che l’investimento in moda avrebbe operato una
magia, gli avrebbe anche sfinato il doppio mento, e reso meno triste il
broncio dominato dai tumidi labbroni d’Absburgo. Lentamente si tramava il
disastro, e sull’ingenuo Cosimo si chiudeva il cappio della sua maggior
disgrazia. Anche se tutto si presentava sotto i migliori auspici, la nuova
regina di Firenze avrebbe non poco contribuito con i suoi capricci e le sue
follie al disastro finale della casata. Marguerite disse di sì, dopo aver sentito
l’augusto parere del cugino Luigi: un po’ le piaceva l’idea di essere regina,
ma non avrebbe mai potuto immaginare in che guai si sarebbe andata a
infilare.
LE EROTICHE E SCIENTIFICHE AVVENTURE DI FINCHIO E FAVA
IN TOSCANA & IN TURCHIA

Tra Firenze e Pisa, 1659

John Finch, affamato di conoscenza, lasciò la natia Inghilterra, dove


nacque da illustre prosapia, figlio dello speaker per la Camera dei Comuni,
per recarsi a studiare a Padova, e poi da lì a Firenze. Con lui era Thomas
Baines, che fu insegnante di musica al Gresham College, più grande d’età,
più piccolo per patrimonio, a cui egli votò eterno amore, nel corpo e nello
studio. Giunti a Pisa, anche se non avevano pubblicato nemmeno una riga
vennero subito scelti da Ferdinando II come docenti per le classi di anatomia,
e l’omosessualità non fu certo minor criterio di scelta. Fu chiaro però che,
all’uso toscano, i loro nomi erano impresentabili: i filologi mal intesero
Baines per Beans, ossia fagioli, e perciò venne ribattezzato Fava; ma con quel
termine si identifica tanto la mazza, quanto la persona sciocca e pronta a
essere gabbata.
I due insieme erano un’orchestra di dissezione anatomica, un meccanismo
di precisione incisoria, un carillon dello spolpamento: Ferdinando e il fratello,
il cardinal Leopoldo, ne rimasero incantati. Arrivarono a Firenze, preceduti
dalla fama di loro exploit a Padova. Finchio tagliava i corpi dei galeotti e dei
mori morti, gentilmente forniti dalle galere di Livorno. Fava sospirava e
tergeva la fronte all’amato con un fazzoletto della più fine batista. Teneva
sempre una bottiglietta con i sali, ma il suo amore non si spaventava per una
milza, un fegato o una bile. Li scavava con l’irruenza di un beccaio e con la
finezza di una ricamatrice. F&F erano mirabili, metaforici, inauditi: a Firenze
e a Pisa lordi di sangue uscivano dal laboratorio e correvano, mano nella
mano, a baciarsi in riva al fiume, dove qualche bizzoca si ritraeva biascicando
un santiddio nella bocca sdentata, invocando alternativamente il patrono San
Ranieri o San Giovanni, che scacciasse il demonio. A Santa Maria Nuova i
due potevano contare sull’aiuto di un grande tecnico olandese, Tilmann
Tructwijn, sul cui lavoro Finchio aveva basato la sua tavola anatomica
relativa agli “ordegni spermatici”.
I due correvano come belve nell’arena verso l’Accademia del Cimento,
luogo della ricerca scientifica tra i migliori in Europa, dove trovarono buona
accoglienza da alcuni e pessima da altri, e in specie nella coppia di
intellettuali Borelli/Oliva, gemelli nell’amore per la scienza e nella comune
provenienza meridionale. Essi esprimevano tutto il loro disprezzo, con parole
di fuoco verso gli anglici scienziati: “questi oltramontani che s’empiono la
bocca dei fatti nostri chiamandoci doppij, et artificiosi e fraudolenti fanno
come le puttane, ch’a tutte le femmine ch’incontrano l’ingiuriano bagascia”.
In buona sostanza dicevano anche che era inutile far vedere loro tavole e
analisi. I nemici per ulteriore scherno, ma sottovoce, chiamavano il Fava
Penis, rincarando la dose di doppi e tripli sensi, con un fuck you sullo sfondo.
Nel gennaio 1664, davanti al Granduca Ferdinando e al principe Leopoldo, si
tenne a Pisa la disfida tra i due gruppi intorno al nervo ottico dei grandi pesci,
dove gli studiosi si aggredirono a più non posso, rampognandosi senza pietà.
Eppure, malgrado le malvagità e i rancori tra scienziati, l’amore tra
Finchio e Fava rimaneva immutabile: tornati tra acclamazioni in Inghilterra,
dove entrambi ottennero la laurea in discipline di scienza, Finchio fu poi a
Costantinopoli come residente inglese, e si può solo immaginare l’harem di
nerboruti servi mori, pronti per le loro ricerche e per il piacere. Andando
avanti e indietro dalla Turchia, si fermavano a Livorno, visitavano la corte a
Firenze. Gli scienziati, tutte le volte che tornavano indietro, diventavano
verdi come il fiele. Infine, malgrado tutto l’amore, Baines morì a
Costantinopoli nel 1681: Finch lo notomizzò, subito, scoprendogli calcoli
gravi, grossi come noci, seppellì l’intestino marcio in terra turca e portò con
sé l’amato bene imbalsamato in una cassa di legno di ciliegio. Rimasto da
solo in Inghilterra, morì poi l’anno dopo, di dispiacere e solitudine. Gli era
passata anche la voglia di fare notomie. Lasciò un dettagliatissimo
testamento: in cambio dell’eredità cospicua che concedeva, si doveva
garantire un doppio sepolcro, per sempre mano nella mano nell’aldilà, al
Christ’s College: due cuori, un’anima, un bisturi, e così finirono le erotico-
scientifiche avventure di Finchio e Fava, in arte Penis.
COSIMO HA IL MORBILLO, TEME SENZA MOTIVO PER LA SUA
VITA, MA SI SPOSA COMUNQUE PER PROCURA CON
MARGUERITE-LOUISE

Parigi, Cappella del Louvre, 17 aprile 1661

Marguerite-Louise, dopo un iniziale entusiasmo, aveva provato in ogni


modo a rompere la parentela con i Medici: si era convinta che davvero
sarebbe andata a vivere in una famiglia di avvelenatori, bigotti, odiatori della
gioventù e della bellezza. Era sicura che sarebbe stata infelice per tutti gli
anni a venire: così aveva detto, cercando di non piagnucolare, a suo cugino il
Re Sole, domandando per pietà di poter tornare sulla sua idea di accettare
quell’incomodo parentado. Egli l’aveva accolta con affetto, ma senza
possibilità di discussione aveva stabilito che la disubbidienza avrebbe
generato un problema diplomatico assai grave. Insomma, ne andava
dell’onore della corona di Francia, e poi i Medici erano anche parenti, le
complicazioni si sarebbero raddoppiate. “Ma come, ma cousine, davvero non
capite che qui non sareste altro che una mia parente povera, costretta a vivere
in ristrettezze, di elemosine, vestiti smessi delle vostre parenti, nel disprezzo
e nella compassione generale? In Toscana sarete regina, comanderete, e poi la
regola la sapete: se dite di no a questo matrimonio vi aspetta il convento di
clausura.” Mais oui, Marguerite lo sa bene che il clima che domina alla corte
fiorentina è severo, però nella sua immaginazione la corona di brillanti e
pietre preziose in capo la fa ascendere su tutte le miserie umane che le
toccherà di vivere in una reggia provinciale, lontana dall’eccitazione delle
feste e dagli intrighi di Versailles. La sposa era rabbuiata in volto: le aveva
provate tutte e ora doveva arrendersi. Ma glielo avrebbe fatto vedere lei:
quelle nozze intanto erano sulla bocca di tutti. Nei mesi prima il Granduca si
era fatto fama di taccagno, e il suo rappresentante Piero Bonsi, cardinale di
Béziers, veniva preso apertamente in giro in tutta Versailles. Si diceva che
Cosimo vivesse in cucina con la servitù, risparmiando sul vino e sul vitto per
mettere insieme tanto da comprare un anellino di princisbecco per la
promessa sposa del suo signore, ché se attendeva un corredo dal suo
promesso sposo, sarebbe arrivata in Toscana nuda come Dio l’aveva fatta. Un
po’ in ritardo arrivarono finalmente i doni: c’era uno scatolino coperto di
pietre preziose, con un ritratto del principe grassoccio che campeggiava tra
diamanti, rubini e smeraldi. Ai regali si associarono gli atti irrevocabili:
Marguerite salutò la madre, si congedò da Charles – Carlo di Lorena –, il suo
vero amore, come aveva scoperto troppo tardi, non appena si era impegnata
con il Medici, che ormai detestava di tutto cuore pur non avendolo mai visto.
Il suo letto venne trasferito a Fontainebleau. Cercò di incatenarsi all’alcova,
ma non riuscì; in cambiò ebbe notti e giorni di feste, trattenimenti squisiti in
cui non mancava mai la musica di Jean-Baptiste Lully, come anche i gateaux
più sopraffini, che comparivano sulla tavola con la levità di personaggi di
Madame Leprince de Beaumont. Mademoiselle adorava quella musica, ma
Monsieur le musicien era fiorentino e questo ogni tanto la rabbuiava: quelle
fanfare seducenti erano in fondo il viatico alla Toscana. Infine quello che
doveva accadere fu: in una giornata fredda si tenne il matrimonio per procura
alla Cappella del Louvre. Bonsi officiava, il Duca di Guisa interpretava il
ruolo di Cosimo. Dentro di sé Marguerite si diceva: “sarebbe meglio lui,
anche se non è più di primo pelo, di quello sposo grassoccio e bigotto nel
reame di Toscana”. Meno male che essendo in lutto stretto per la morte di suo
padre Gaston, a quel rito parteciparono in pochi, tra cui la duchessa vedova di
Angoulême, che il gran Luigi aveva nominato sua ufficiale accompagnatrice.
Vi furono altre feste, gale, trattenimenti, ma infine il viaggio verso la Toscana
fu necessità. La ragazza si fermava ovunque, più del dovuto, e scorrazzava a
cavallo come una pazza per monti e valli, come se cercasse vie di fuga che
non potevano esserci, o sperasse di finire in un dirupo e morire da eroina
romantica, ma sapeva benissimo che la vita non l’avrebbe lasciata proprio
mai. In viaggio non voleva stare mai in carrozza: preferiva di gran lunga la
sua cavalcatura, come proprio non si addiceva a una signora. Ogni borgo
sull’itinerario provvedeva discorsi dei borgomastri, auguri dei villici, pranzi,
cene e altre cavalcate. Il suo grande amore, Charles, la raggiunse, avendo
corso tutta la Francia per giorni e notti: ne seguirono pianti, sospiri e
svenimenti. I due, guardati a vista, discorsero e giocarono al biliardo, ma il
lorenese, bestione, non riusciva a non sbadigliare per la stanchezza del lungo
viaggio. Marguerite ebbe la mosca al naso, lo criticò, gli ingiunse di andare a
letto, disse che quelle scene nuocevano al suo ruolo di eroina. Infine giunse il
momento di arrivare a Marsiglia: Marguerite aveva faccia storta e lunatica,
sembrava che avesse ingoiato un cedro con tutta la buccia. Sulla riva del
mare, dinanzi a una gran flotta di nove navi, era il principe Mattias, zio del
Granduca, che si profuse in cerimonie e celebrazioni. Un bell’uomo, esperto
di modi e maniere di corte, si vedeva che aveva corso il mondo. Egli era
circondato di nani, che apprezzava soprattutto quando erano di mostruose
fattezze, assurdi nel comportamento, stravaganti nel parlare. Marguerite-
Louise si figurò in sogno inseguita dai quei caramogi in veste di torturatori,
che si immaginava l’avrebbero braccata per tutta la corte, per farla ubbidire
alle bigotte regole di Cosimo, tra devozioni e cilici. Nel frattempo aveva
saputo che il suo futuro marito si era preso il morbillo, che la corte era in
ambascia per la sua sorte. Dentro la sua testolina capricciosa, Madame aveva
per qualche momento accarezzato il sogno di giungere a Firenze già vedova,
vestita di preziose gramaglie, con indosso una collana di perle nere, a triplo
giro. Incassata qualche briciola del tesoro dei Medici, che le spettava, sarebbe
tornata di corsa a convolare con il suo amato Charles, che era senza un soldo.
Quindi, con i quattrini di Firenze, si sarebbero dati al bel tempo. Sogni di
ragazza, ma invece: nulla. Cosimo era pavido, temeva la morte dietro ogni
angolo, ma era un bestione grande e grosso e, malgrado i suoi piagnistei,
aveva una salute di ferro e le avrebbe dato del filo da torcere.
COSIMO, APPENA RIPRESOSI DAL MORBILLO, CHE HA FATTO
MOLTO TRIBOLARE LA MADRE SUA VITTORIA, INCONTRA
ALFINE MARGUERITE-LOUISE, VERSO CUI SI DIMOSTRA FREDDO
E QUASI INDIFFERENTE

Empoli, Villa dell’Ambrogiana, 15 giugno 1661

La corte fiorentina era stata presa d’assalto dai preparativi: il Granduca


Ferdinando, uomo di mondo, aveva dichiarato a chiare lettere: era necessario
far sentire la fille de France a casa propria, era la cosa più importante. I sarti
erano impazziti da mesi a copiare abiti all’uso di Parigi, il maestro di danza
non riparava a dar lezioni: e comunque certe nobildonne fiorentine erano
rigide come fossero ventagli di stecche di balena. E poi c’era il problema che
pochissime mesdames sapevano la lingua: talons accolés, pieds sur la même
ligne, ici en demi-pointes, bras bas, petites poses, grands poses. Insomma
non sapevano niente della grande rivoluzione che il maestro Pierre
Beauchamp aveva portato nel mondo della danza, da quando era arrivato a
corte e aveva inventato le coreografie per il Re Sole.
Cosimo aveva avuto il morbillo, aveva gli occhi accalamarati, sua madre
insieme ad altre beghine si era installata lugubremente al capezzale del suo
letto, a dire preghiere per l’anima del suo diletto figliolo, come se fosse in fin
di vita, anche se i fisici dicevano che con un po’ di riposo e dieta leggera se la
sarebbe cavata in breve tempo. Comunque Cosimo non era insensibile affatto
a tutto quel compianto: dentro di sé sapeva che non stava morendo, ma che
piacere tutte quelle preghiere smozzicate a vegliare il suo sonno. Marguerite-
Louise aveva voglia di accoppiarsi con il suo sposo come di baciare in bocca
il demonio. Meno male che i cerusici di corte hanno detto che è meglio non
rischiare, la fille ha avuto il morbillo da bambina, ma non si sa mai quello che
può succedere con una ricaduta. In ogni caso Cosimo, tutto vestito di nero,
era un incrocio tra un beccamorto e uno stoccafisso. Si capisce l’etichetta, ma
più d’uno pensava: “la figliola l’è carina, ma perché non le dà un bacio quello
scimunito?”. Invece “Buongiorno, spero che abbiate fatto buon viaggio, vi
trovo in buona salute” e poi le passava un crocefisso da baciare e sembrava
che quella avesse visto un basilisco. Insomma, tutto quello che serviva per far
inviperire ancora di più una signora che viveva nel regno delle favole, che
sognava di essere la principessa di un reame da fiaba. Peraltro, siamo onesti,
aveva sperato che la bella galea del principe Mattias, dotata di ogni
immaginabile comodità, fosse almeno attaccata e depredata dai pirati.
Macché: un’acqua che era un olio, venti leggiadri come nella Primavera di
Botticelli. La natura fatalmente aveva congiurato a farla precipitare al più
presto nelle braccia di quel tanghero baciapile, educato dal suo precettore
Volumnio Bandinelli come se dovesse diventare santo. Marguerite-Louise
respirò profondamente; nel corso del primo incontro con il suo consorte
aveva già preso delle decisioni importanti. Vederlo il meno possibile, e
ottenere più che fosse in termini di libertà e indipendenza, questo lo scopo
che si delineò alla sua mente come il primo obiettivo della sua esistenza
futura. Madame d’Angoulême, custode sua, come dell’onore della corte di
Francia, le sussurrò all’orecchio di smetterla con quella faccia appesa, che
sembrava condannata al patibolo. Provasse casomai a fare qualche sorriso, a
esaminare con cipiglio meno fiero l’ambiente che la circondava.
Per una decisione del protocollo mediceo entrò a Firenze di notte, alla
chetichella: le parve un pessimo oroscopo. Ci fu poi qualche giorno più tardi
un ingresso trionfale, con feste, spettacoli, balletti a cavallo. E lei, nuova
Granduchessa, che di tanto in tanto faceva dei sorrisi distratti di cortesia.
MARGUERITE-LOUISE ASSISTE CON IL CONSORTE ALLA
RAPPRESENTAZIONE DE L’ERCOLE IN TEBE DI JACOPO MELANI

Firenze, Teatro della Pergola, 12 luglio 1661

Marguerite-Louise si è insediata a Palazzo Pitti: è contenta della sua


reggia, di cui non è mai sazia quando si tratta di vederne i tesori. È assai
delusa, ma d’altro canto se lo aspettava, del suo consorte. Questi in un mese
l’ha avvicinata tre volte, dopo essersi fatto annunciare in termini sbrigativi da
un usciere. Non è interessato ai preliminari, e nemmeno al seguito del sesso,
infila, su e giù, esce, rinfodera l’arnese nella braghetta: il confessore gli ha
spiegato che ogni segno di affetto è sospetto e degradante, agli occhi di Dio, e
lui si attiene al principio. Quella è una testolina vana, una regina del
capriccio, ci rimane male e giura vendetta. Con il consorte si reca a vedere
L’Ercole in Tebe, data in loro onore. L’opera le pare lunga, fuor di misura,
ma bella, piena di affetti e belle arie. Le damigelle del suo seguito hanno
imparato ad apprezzare la finezza fiorentina. Sono arrivate con la puzza sotto
il naso, dicendo tutte in coro chez nous, chez nous, e si sono rapidamente
ricredute. Ammirando il lusso, la ricchezza, le cerimonie, si è stemperato
qualcosa della malevolenza di Marguerite-Louise, che però vigila, guardinga,
in attesa di comprendere gli sviluppi del suo destino.
Sul palco del Teatro della Pergola, globi, nuvole, soli, stelle narrano il
mito del semidio. Ci si distrae a qualche aria di troppo, ma lo splendore
scenografico è assoluto. In una scena calano due barocche nuvole color di
rosa con a bordo la Gloria e la Virtù, a celebrare le glorie di Cosimo e
Marguerite-Louise. Madame pensa a quegli approcci goffi di Cosimo, da
orso, senza tenerezza, la sua stizza si rapprende, ma poi decide che per quei
primi tempi si farà sedurre dalle ricchezze dei Medici. Quanto le è piaciuta la
villa di Pratolino: è un luogo capriccioso, perfetto per chi come lei ha un
umor ballerino! Le piace moltissimo il gioco di far stancare le sue damigelle,
correndo per il giardino, come se fosse morsa dalla tarantola, e poi farle
accomodare su una panchina, una dopo l’altra, dove le signorine sono prese
in pieno dal getto d’acqua che è il segreto di quella villa di delizia, sempre
pronta a sorprendere chi la abita. Proprio come lei.
L’AMOUR, TOUJOURS L’AMOUR: MARGUERITE-LOUISE
D’ORLÉANS INCONTRA A PALAZZO PITTI IL SUO VERO AMORE
CARLO DI LORENA, IN FUGA DALLA FRANCIA. COSIMO È TARDO,
MA INFINE SI INFURIA

Firenze, Palazzo Pitti, autunno 1662

“Charles, mon Charles, on est prisonniers d’amour, mais non est pas
ensemble dans la même prison.” Marguerite detesta Cosimo e le sue smanie
religiose, ha in orrore gli accoppiamenti con il Granduca, regolati da un
medico di corte che lo tocca subito sulla spalla quando viene, smorzando il
piacere nella preghiera, per dire che si congedi immantinente, e che non gli
passi in mente di avere un altro rapporto in sequenza con la moglie. In
corridoio lo attendono i frati, per ringraziare il signore, ché l’erezione è stata
salda e il seme copioso. Il marito è d’accordissimo con l’idea di non
spendersi troppo a letto. Anche se mangia come un bue, ed è ben in carne, è
stato spesso male e si ritiene estremamente cagionevole: troppo sesso lo
porterebbe a morte precoce. E poi lo scopo del suo avvicinarsi a Madame è
quello della procreazione: è ossessionato dalla discendenza, da avere al più
presto. Talvolta nella stanza in cui si ritira per meditare e pregare pensa al
potere maligno di Eros. È ossessionato dal destino di Carlo II di Gonzaga-
Nevers, che morì di colpo a Mantova nel 1665. Si sussurrò allora, tra corridoi
e anticamere, che l’avesse eliminato la duchessa Isabella d’Austria per
giacersi con il suo amante Bulgarini. Altri dicevano che, da sempre
preoccupato di perdere il vigore sessuale, si fosse invece avvelenato da sé con
una pozione rinvigorente di cui faceva troppo largo uso. In ogni caso era
morto a letto, di colpo, a fianco di una femmina nuda, senza potersi
confessare, e un’uscita dal mondo nel bel mezzo di una partita di sesso, senza
i suoi frati oranti e salmodianti, gli sembrava certo la via più dritta per
l’Inferno.
Marguerite è innamorata dell’immagine della Francia: ripete a tutti i nobili
che la incontrano alle feste di Pitti che Firenze le piacerebbe soltanto se fosse
in Francia, se Pitti si mutasse in Fontainebleau e Palazzo Vecchio in
Versailles. Un’attitudine che alla fine le mette contro l’intera corte. Le rimane
il suo seguito francese; poi in un giorno di fine autunno, quando il cielo ha il
colore di un mal di denti, giunge d’improvviso il suo bel cugino Carlo di
Lorena, senza il becco di un soldo, prestante e amante di uno stile di vita da
militare. Il nonno, squattrinato, ha venduto i feudi al gran Luigi; il giovane è
impetuoso, ha fatto proteste, ottenendo in cambio l’ingiunzione a lasciare per
sempre il territorio francese, mettendosi a vivere alla ventura, avendo come
unica prospettiva quella di fare l’uomo d’arme.
Cosimo non sa che tra i due cugini c’è del tenero, anche perché il
sentimento fino a quel momento è stato più fantastico che reale, ma gli
incontri fiorentini lo rafforzano alquanto. Madame in realtà si era accorta di
essere davvero follemente innamorata di lui nel momento stesso in cui aveva
iniziato il suo lungo viaggio verso Firenze. Aveva fatto il diavolo a quattro
per mandare a monte il matrimonio, ma Luigi era stato chiaro: o la Toscana o
il monastero, e lei era davvero mondana, le piacevano i vestiti, le carrozze
trainate dai bei cavalli, i gioielli. “Oh mon amour, tu es la vague, moi l’île
nue”, le stringe la mano come se volesse spezzarla, e non c’è nemmeno più la
signora d’Angoulême a temperare i bollenti spiriti della sua signora. Quanti
pianti, quanti lamenti: “Charles, mon Charles, mi spiano, mi controllano.
Quello spilorcio di mio marito mi conta le spese, mi rimprovera perché il mio
cuoco impiega troppo pollame per la fricassea: minable. La scorsa settimana
mi ha mandato un mercante di stoffe e voleva che prendessi solo una pezza o
due. Io, ovviamente, ho visto che erano belle e le ho prese tutte, poi mi
accusano di immoralità perché ricevo i miei paggi in camera quando voglio,
ma è l’uso di Versailles e non sarà colpa mia se questi fiorentini non hanno
mai girato il mondo”.
Pianse tutte le lacrime, quando Charles se ne andò, ma le era venuta la
scalmana. Cominciò a parlare male di tutti: disse che la piissima
Granduchessa madre Vittoria si teneva tutti quei frati per rifarsi degli anni di
castità che le aveva inflitto il gayissimo consorte Ferdinando. E allora la
signora di Urbino le scatenò contro marito e figliolo. Dopo un’estate di cacce
e festini, Marguerite rimase finalmente gravida, e così, non potendo darsi al
suo passatempo preferito di andare a cavallo, faceva passeggiate lunghissime
che stancavano tutti quelli del suo seguito, come se, nel suo cuor dei cuori,
cercasse di porre fine alla gravidanza. A quel punto, sempre più convinta che
Firenze fosse per lei un carcere a forma di reggia, si chiuse nelle sue stanze,
con le sue ancelle francesi. Cosimo era annichilito da questa situazione, a cui
non sapeva fare fronte. Il Granduca padre, più pratico, rimandò le demoiselles
a Paris, cariche di bei regali, sostituendole con signorine toscane di fiducia. Il
punto era che a Versailles si cominciava a mormorare sull’infelice mariage, e
senz’altro era meglio evitare, per quanto possibile, ragots et potins, ossia
chiacchiere e pettegolezzi, che avrebbero solo peggiorato la situazione.
VICINO AL CUORE SELVAGGIO: MARGUERITE-LOUISE SI
RIBELLA A COSIMO CONSORTE E AL SUOCERO FERDINANDO,
CHE LA RECLUDONO ALLA VILLA DI LAPPEGGI

Firenze e Lappeggi, estate-inverno 1663

Chez nous, chez nous, chez nous, chez nous. Marguerite-Louise ripeteva
quanto tutto ciò che trovava a Firenze le sembrasse ridicolo, e specialmente
quel suo lugubre marito, allocco senza garbo, che voleva accoppiarsi con lei
per produrre figli, ma non sapeva offrirle nessuna tenerezza. Florence c’est
pas la Renaissance, c’est un cauchemar. Piccole e soffocanti le stanze,
minuscoli i giardini, differenti i costumi, incomprensibili gli abiti, respingente
l’idioma, orribile la famiglia regnante. Diciamola tutta: a corte solo poche
dame parlavano francese, e d’altra parte lei padroneggiava poco l’italiano, se
non per i comandi più semplici alla servitù. E poi quella piccola nobiltà
grottesca così attaccata alle sue usanze e alle sue proprietà terriere! E quel
paese che era povero, eccome: nelle sue cavalcate intorno a Firenze ne aveva
visti di bambini sdentati, di vecchie farnetiche, di tuguri miserabili. Intorno a
lei il personale di servizio che aveva portato da Parigi si dedicava altrettanto
al gioco della maldicenza, ma spesso veniva individuato e denunciato al
Granduca e al di lui figlio. Ne seguivano vendette: dame, damigelle, maestri
di casa di Paris, tutti spediti di gran carriera a Livorno con biglietto di sola
andata per la Francia, e che non tornassero mai più, spioni e maldicenti.
Ferdinando che, senza dubbio, era dotato di grande savoir vivre, le allestiva
divertimenti, gite, cacce, trattenimenti, concerti, villeggiatura, ma otteneva
poca riconoscenza. Aveva più talento a trattarla di suo figlio Cosimo, certo,
ma comunque era sgradito a Madame, che aveva ben compreso che con lui
doveva trattare, per ottenere vittoria per i suoi capricci.
Nella primavera del 1663 capì di essere incinta: da allora in poi si
scalmanò non poco. Dal momento in cui la levatrice le aveva garantito la
gravidanza, aveva fatto di tutto per rovinare la vita a quel ciccione bigotto.
Aveva chiesto di poter cavalcare, come suo solito, ma i medici le avevano
detto che questo avrebbe messo in discussione la gravidanza. E allora
camminava come una pazza, come se davvero volesse mettere a repentaglio
la creatura in arrivo.
Il 9 agosto 1663 nacque Ferdinando: Marguerite fu seccata assai della
italiana maniera di celebrarlo. Le campane di Palazzo Vecchio continuarono
a suonare a distesa per tre giorni, da Palazzo Pitti volavano monete verso i
poveri, e un risuonante Te Deum, in cui si alternavano sei cori, emanava dal
Duomo, in larghe e maestose onde. Marguerite dentro di sé pensava: “ouais,
l’enfant c’est joli, mais ici c’est la galère”. E poi dopo il parto, a cui aveva
assistito una levatrice parigina di sua fiducia, le era venuto un ascesso
maligno al petto, con un inizio di tubercolosi, che necessitò di lunghe cure.
Lettere ansiose andavano e venivano da Parigi: le Roi Soleil era piccatissimo
per le azioni della sua scalmanata cuginetta, ne andava della sua credibilità.
Inviò un suo emissario, il conte di Sainte-Même, che fece però solo danni e
aggravò la situazione, prendendo decisamente le parti di Marguerite,
strepitosa attrice all’occorrenza, scatenata contro i Medici maligni. Madame
aveva calcato la mano: si era dipinta come una carcerata nelle mani di una
famiglia di pazzi torturatori. Luigi era sempre più furibondo, esasperato:
rampognò il nobile inviato per la sua evidente inefficacia. Madame nel
frattempo era decisa al tutto e per tutto: diceva che i Medici la volevano
avvelenare, faceva cucinare il suo cibo solo da cuochi francesi, e lo faceva
assaggiare alle cameriste fidate prima di portarlo alla bocca, mandava a
Ferdinando liste di privilegi, che solo in piccolissima parte otteneva, e
soprattutto: dichiarava a ogni momento di non voler stare vicino a dove fosse
Cosimo. Se lui stava in salone, lei era in soffitta, e si scambiavano
rabbiosamente tra appartamenti d’estate e d’inverno. Lei lo insultava
continuamente, chiedeva a suo cugino in infinite lettere di tornare a Parigi,
ma in convento, ricevendo come risposta, secchissima, che casomai sarebbe
finita alla Bastiglia, murata a vita. Rovinò i festeggiamenti per il genetliaco di
Cosimo e lui per vendetta la rinchiuse, guardata a vista, alla villa di Lappeggi,
subito detta dal popolino alla peggio. Un luogo destinato a teatri di eccessi:
qui il fratello del Granduca, Francesco Maria, cardinale per nome, ma assai
più dedito a femmine, si dava a cacce e a bevute interminabili. Qui,
controllata da emissari del Granduca padre e figlio, sempre più ridicolizzato
in Francia e in Italia per questa sua infelice relazione in cui faceva sempre la
figura dell’allocco, la francese era il terrore delle sue dame di compagnia. In
Italia non si faceva esercizio fisico, la magrezza era vista piuttosto come una
forma di malattia, le signore erano intese come burrose, quando non opime,
dignitosamente assise sulle cadreghe nelle loro sale. Al più si faceva qualche
breve passeggiata nelle ore del fresco, ma giusto per dire il rosario.
Marguerite-Louise invece percorreva chilometri intorno alla villa, favorendo
le stradine più impervie e possibilmente con seri strapiombi improvvisi.
Alcune delle damine ne ebbero un tale strapazzo che ne rimasero seriamente
ammalate per mesi; implorarono il Granduca di dispensarle dal servire in
futuro quella pazza, mentre lei, sempre più infervorata, correva istericamente
da un luogo all’altro. Invece di signore, le dettero nel seguito dei
gentiluomini, soldati, agili nel corpo e nel movimento. Cosimo si sognava la
notte di essere costretto a seguirla, e l’adipe lo impediva nei movimenti. Nel
frattempo Madame distillava il suo tossicissimo veleno. Conoscendo quanto
Cosimo fosse bigotto scrisse a Parigi che riteneva il suo matrimonio nullo,
secondo ciò che aveva appreso dal suo confessore, perché vi era stata forzata
contro il suo volere. Questo suscitò mortali ansie, e notturni sudori freddi nel
Granduca. Cinque preti, tre frati e due legulei si presentarono la mattina
presto nella camera del signore, spiegando che la pretesa di quella insidiosa
francese era assurda, che era solo un’ennesima scusa per creare problemi.
Cosimo tirava il fiato, e poi però si terrorizzava di nuovo, chiamava altri
esperti ecclesiastici e laici. Insomma, guerra aperta, imbarazzi e una
montagna sempre più alta di ridicolo per i Medici, con risatine alle spalle
degli ambasciatori a tutte le corti d’Europa.
COSIMO FUGGE DALLE IRE DI MARGUERITE-LOUISE E SI RECA A
BOLOGNA DALLA PITTRICE PRODIGIO ELISABETTA SIRANI, A
CUI VUOLE COMMISSIONARE UN’OPERA

Bologna, 15 maggio 1664

Cosimo, dopo la nascita di Ferdinando, vide di nuovo la moglie nel suo


aspetto più usuale: quello di vipera stronfiante, sempre pronta a morderlo, a
deriderlo, a insultarlo. Il padre gli consigliò quindi, come faceva sempre nei
momenti di peggiore crisi coniugale, di rimettersi in viaggio, ché a distanza
tutta quella gragnuola di contumelie sarebbe stata senz’altro più facile da
gestire, meno molesta. A Bologna lo attendeva una famiglia di artisti, a cui
era previsto da tempo che rendesse visita. Il padre, Giovanni Andrea Sirani,
era stato primo assistente di Guido Reni, la madre, Margherita, da un mese
passava al setaccio la dimora vicino a Piazza Maggiore, alla ricerca di un
briciolo di polvere. La zia, Giacoma, nell’ampia cucina metteva sul fuoco
tutto quello che pensava avrebbe potuto dilettare un palato così esigente. Le
tre figlie Sirani dipingevano, disegnavano, cantavano, ricamavano: insomma
compivano tutte le attività che mandavano avanti la famiglia, visto che il
genitore era da tempo ammalato, e non più molto abile a rispettare le
scadenze di consegna. Anna Maria, Barbara, Elisabetta, ma la terza era la
reputata, quella in fama di genio, per cui il principe, in fuga dalle furie della
consorte, si recava nella città. L’enfant prodige del pennello aveva fatto il suo
mercato dipingendo dal vivo, di fronte ai suoi patroni, come se giocasse, e
quel movimento creativo non le costasse sforzo alcuno. Cosimo giunse con i
lunghi riccioli neri, scarpe luccicanti, un bastone alla mano, gioielli e spille
indosso, con un seguito non meno rutilante di lui. Domandò autorevolmente
di vedere le tele passate, che subito gli furono mostrate. Ingiunse anche che,
subito, la maestra Sirani dipingesse sotto ai suoi occhi la Giustizia assistita
dalla carità e dalla prudenza, commissionata da suo zio il cardinal Leopoldo.
Elisabetta ciangottava come un passerotto beneducato, nel mentre che con
pochi tocchi sicuri metteva al seno della Carità un puttino cicciottello, intento
a godere della sua virtù teologale. Uno scherzo, una magia: Cosimo le porse
complimenti formali: “siete davvero il più gran pennello di Bologna”. Prima
di aver lasciato le ordinatissime stanze della famiglia, le richiese una
Madonna con Gesù bambino. Elisabetta interruppe il suo gioco di pittrice,
inchinandosi graziosamente: “certo, Serenissimo, avrete presto mie notizie” e
intanto gli mostrava un disegno che aveva fatto di nascosto, con le fattezze
del futuro Granduca, come a offrirsi per futuri ritratti di corte. Mentre le
famiglia si inchinava, accompagnando l’augusto ospite alla porta, la pittrice
cambiò volto, smise quella faccia angelica, per far vedere la fatica che il suo
gesto pittorico le costava. Quello spettacolo però era solo per i suoi familiari,
mai per gli esterni. Elisabetta aveva su di sé gravato il peso della famiglia, ma
dopo quattordici anni senza vita che non fosse stare di fronte al cavalletto,
cominciò a star male, si gonfiò, sfigurò, morì ai suoi ventisette anni. La
famiglia, che non poteva ammettere (e in specie il padre) di averla fatta
morire per troppa fatica, insinuò che, per invidia, la ragazza-prodigio fosse
stata avvelenata dalla servetta della famiglia, che per i troppi maltrattamenti
aveva lasciato la famiglia poco prima della morte di lei. Si chiamava Lucia
Tolomelli: da questa accusa ebbe la vita rovinata per sempre.
PIÙ MITI CONSIGLI: MARGUERITE-LOUISE, RESA PIÙ
MALLEABILE DALLA SOLITUDINE, SI STUFA DI STARE A
LAPPEGGI E VUOLE TORNARE A PALAZZO PITTI

Lappeggi, 30 ottobre 1665

Marguerite-Louise si stufa, dopo un anno e mezzo, di stare a Lappeggi.


Passa due giorni e due notti a scrivere una lettera che sia abbastanza credibile,
ma non troppo morbida, e richiede ancora privilegi a suo suocero il
Granduca. Questi però non ha più voglia di perdere tempo e per questo rifiuta
di risponderle in merito a garanzie future di qualsiasi tipo. La francese, che
tutti a Firenze odiano ormai, per la quantità di problemi che crea, scrive che
torna senza condizioni. Parte per andarla a prendere a Poggio a Caiano la
Granduchessa Vittoria, che la detesta e la porta a esempio, nel circolo delle
sue devote dame, di tutto quello che una regina non dovrebbe mai fare nella
propria esistenza. Tutti contenti, allora, anche il Re Sole si complimenta per
lettera, alla Corte è tutto un fuoco di esultanza, ma Cosimo non si fida e
Madame anche a Pitti è guardata a vista. Intorno a lei persone prezzolate
fanno partire lettere proibite alla volta di Parigi; se le intercettano vengono
poi allontanate dalla corte. Una nuova gravidanza, per cui ormai è ridicola la
sua accusa di essere stata forzata a un coniugio che produce rampolli in salute
per la stirpe dei Medici, porta alla luce Anna Maria Luisa, l’11 agosto 1667.
Marguerite-Louise si ammala di nuovo, gravemente, di mali femminili, e
ricomincia a ringhiare: Cosimo viene mandato dal padre in viaggio all’estero,
per sottrarsi a una nuova, ennesima ordalia. Nel frattempo, tornata a Poggio a
Caiano, fa il diavolo a quattro. Si mormora di una sua relazione con gli
zingari accampati vicino alla villa. Sembra abbia chiesto loro, e specialmente
all’erculeo Zoltan (si vocifera che tra i due ci sia stato di più che le sole
parole) di aiutarla a fuggire verso Modena, per poi da lì tornare
rocambolescamente in Francia. Il complotto è sventato da occhiuti funzionari
di corte, mentre Cosimo, accompagnato dal solerte e geniale Lorenzo
Magalotti, va in gita in Inghilterra, in Olanda e in Spagna, per solito ben
comparendo in società. Addirittura a Cambridge e a Oxford viene salutato
come figlio di suo padre nelle vesti di protettore della scienza, perché i
sapienti locali hanno malinteso la sua posizione nei fatti di Galileo. Fuori
dallo strazio della relazione coniugale, Cosimo si ringalluzzisce: va perfino
dicendo in giro, senza costrutto, che vuole candidarsi al trono di Polonia.
Solo gli ambasciatori francesi non lo calcolano. Infine si reca a Parigi, dove il
re lo compensa per la precedente negligenza.
LA CORTE DEL PIDOCCHIO: FRANCESCO REDI GUARDA IL
MONDO DAVANTI ALLA LENTE DEL SUO MICROSCOPIO E LO
RIDUCE A UN BRULICHIO DI BATTERI E INSETTI

Firenze, Accademia del Cimento, 1665

Provando e riprovando, Francesco Redi tiene nascosto a tutti il suo amaro


segreto: è epilettico, e questo in un’epoca in cui il morbo sacro veniva
considerato una specie di pazzia diabolica, una tabe irriducibile dell’anima,
un difetto imperdonabile della persona. Il mal caduco era il segno rosso della
corruzione del sangue, del disastro familiare, anche peggio della sifilide:
alcuni scienziati dicevano senza giri di parole che essa era connessa a
innominabili incesti. Il gran parruccone dello scienziato nasconde tremiti e
spasmi indicibili. Ogni qual volta sente le avvisaglie del male corre via, verso
una sua stanza segreta in città, lontano dal palazzo dove anche i muri hanno
orecchi e molti gli sono nemici. Non ha preso moglie per non tramandare il
morbo, ma si trastulla volentieri con i ragazzi, che non corrono certo il rischio
di restare incinti. La sua smania di ricerca scientifica affronta lo scibile:
scrive di vipere, occhiali, palme, anguille, tumori, pedicelli, affronta anche la
lingua italiana al microscopio, ma fa gli scherzi alla Crusca, inventando
parole e autori inesistenti per corroborare le sue tesi. Certamente non rivolge
il suo sguardo acuto al cielo e cautamente rifiuta anche solo di immaginarsi di
dialogare di massimi sistemi dell’universo. Il signore e padrone Ferdinando
protegge la scienza, ma ha pur sempre consegnato Galileo all’Inquisizione.
Soprattutto, però, per sua personalissima passione, il suo interesse si rivolge
agli insetti, agli eczemi, alle pustole. La rogna, poi, lo attrae fuor di misura: il
gaudio è massimo, quando può osservare la pelle segnata dei forzati del
Bagno penale di Livorno. L’aveva ben visto lui che le mamme dei piccoli
figlioli traggon fuora con la punta degli spilli un non so che dalle più minute
bollicelle e questo tal non so che lo posano sull’unghia del dito pollice per
schiacciarlo e godere del suono di un piccolo scoppiettio. Esso rumore, è il
segno che un altro nemico sul corpo dei loro figlioli è stato debellato,
sconfitto. Il microscopio è la visione più bella del creato e cosa di meglio che
osservare un minuscolo bacherozzolino, somigliante in qualche parte alle
tartarughe, bianco di colore, con qualche fosco d’ombra sul dorso, snello e
agile al moto con sei piedi. Il Redi, gran protomedico del Granduca, lo fu con
gli opposti Ferdinando e Cosimo: sempre guardingo, intento a non tradirsi
nelle sue passioni. Intanto andava bramosamente in cerca di pellicelli e
chiedeva con insistenza ai rognosi dove gli prudesse di più la cute. In fondo
l’unica corte che davvero interessava al segaligno Redi non era quella di Pitti,
ma il reame del pidocchio e della cimice, in cui la natura trionfava contro le
pretensioni dei nobili di essere il centro del mondo, che invece in sostanza era
fatto di parassiti, piattole, croste, eczemi e pus, i veri e unici signori del
mondo. “Omne vivum ex ovo”, l’uovo è l’origine della vita, come scriveva
“l’immortale Guglielmo Arveo (ossia lo scienziato inglese William Harvey),
e le materie vischiose che danno la vita in spasmi di piacere gli interessavano
assai più delle disquisizioni della fede. Per questo parlava con quelle figure
che per tutti gli altri a corte erano inconcepibili: i più umili della società erano
per lui fonte di preziosa conoscenza. I votapozzi, che si occupavano di
svuotare il pozzo nero, erano una sua conversazione favorita. A loro egli
chiedeva cosa trovassero in quella ributtante materia. “Icchè la vole signore,
ci si trova la materia soda che l’è bona per concio e si vende ai contadini e
un’altra sostanza lenta e brodosa, detta acquastrone, che non è bona a nulla e
allora si butta in Arno”. Rabbridiva, lo scienziato, pensando a tutte quelle
cantine maleodoranti lungo l’Arno, in cui l’acqua via via diventava
imbevibile a causa del contatto con le acque nere. Però era anche contento per
via del fatto che, se non cambiavano le cose, presto avrebbe potuto studiare
come agiva il tifo. Come era successo nella tremenda epidemia del 1621.
D’altra parte il tanfo è il miglior compagno dello scienziato serio, come
aveva scoperto da giovane esaminando i calderoni in cui bollivano i bachi da
seta, che le persone tenevano nelle dimore proprie, ammorbando l’aria
propria e altrui.
Il Redi era bastian contrario, e non dispensava a caso ricette di costosi
elettuari: parlava casomai di diete e prevenzione, non somministrava a ogni
piè sospinto la triaca, il bolo armeno, l’olio contro veleno. Osservava che
nelle epidemie i poveri che non potevano pagarsi i mediconi alla moda
morivano meno dei ricchi a cui venivano inflitte cure assurde. Detestava le
superstizioni, non aveva problemi a confutare l’antica sapienza, non temeva
Aristotele, anche se, poiché Ferdinando era – novello Alessandro – il
monarca delle Indie, toccava proprio a lui ricoprire quel ruolo. Scriveva
volentieri di coloro che usando strumenti antichi portavano la natura davanti
al suo microscopio, come Jacopo Sozzi, il viperaio ufficiale del Granduca,
che somministrava il veleno dei rettili che raccoglieva. E intanto il Redi si
consuma gli occhi e tutto il corpo nella ricerca: “che magro, secco, inaridito e
strutto / potrebbe servire per lanternon da gondola”.
COSIMUS REX, IMPERATOR ETRURIAE

Palazzo Pitti, 26 maggio 1670

Infine lavorarono insieme apoplessia e idropisia: il Granduca Ferdinando


venne meno a primavera, dopo avere sofferto per qualche mese, e si spense
serenamente. Cosimo, sovrano di Toscana, sapeva benissimo che il suo
maggior potere avrebbe significato sempre nuove e più assurde pretese da
Marguerite-Louise. Perciò voleva Madame du Deffand a Firenze: la dama
saggia per eccellenza avrebbe placato il carattere impossibile della sua donna.
Il 24 maggio 1671 nacque l’ultimo figlio della coppia, Giovanni, ossia Gian
Gastone, in omaggio al nonno Orléans. Non che la scelta del nome, dovuta al
rispetto paterno, fosse tra le più felici, anzi sembrava quasi fatta apposta per
menare gramo. Il progenitore, per quanto sorrida radioso, nella sua
giovinezza, nel ritratto celebre di Van Dyck, era riuscito sì a mandare due
figlie sul trono, dei Medici e dei Savoia, ma era vissuto soprattutto tra colpi
di testa e vampate di vergogna. Aveva infatti sposato, senza permesso,
Margherita di Lorena, figlia del duca Francesco II. Il rito segreto si era
celebrato a Nancy nel 1631; il regale fratello Luigi XIII si era rifiutato di
riconoscere il coniugio. Poi, alla vittoria di Mazzarino, finiti i tumulti della
Fronda, di cui era considerato il capo e l’ispiratore, e fallito il complotto del
marchese Cinq-Mars, che avrebbe trasformato Gaston in luogotenente del
regno, il suo destino era stato quello di esiliato, in ristrettezze, nella sua
tenuta di Blois. Il Granduca Cosimo a questa cabala dei nomi non aveva
proprio pensato: e poi qualcosa a Madame doveva concedere ogni tanto. In
sostanza era sollevato: garantita la successione, ora l’incubo della consorte si
sarebbe attenuato, non avrebbe dovuto più dare retta a tutti i suoi capricci.
Madame, incapace di ricorrere a vecchi espedienti, giocò la carta sempre
valida del malanno. Scrisse al cugino che le mandasse un medico francese di
valore, che si sentiva morire, ed era certa di avere un cancro. Alliot Le Vieux,
cerusico di corte, malgrado la sua grande esperienza, venne sedotto dalla
magalda. Certificò: il tumore non c’era, ma ella “era ammalata all’anima”. Il
Granduca nuovo non volle in alcun caso permettere una cura per la dama in
terme su terra di Francia: anzi a tutti i costi decise di licenziare due
palafrenieri e un maestro di ballo, con cui si vedeva dappertutto con grande
scandalo. Il 20 dicembre 1672 Marguerite impetrò di potersi recare in
pellegrinaggio alla venerata Madonna della Cintola a Prato; essendo motivo
devoto ebbe un sì, accompagnato da un bel gioiello in dono, che il Granduca
avaro riteneva carissimo, ma sperava che avrebbe reso più trattabile sua
moglie. Invece: peggio che andar di notte. La signora, approfittando
dell’uscita da Firenze, si trasferì a Poggio a Caiano, chiedendo di non vedere
mai più Cosimo. Poi gli mandò una lettera dicendo che la loro vita insieme
era impossibile, infine tornò a chiedere, come unica soluzione, di poter
tornare in Francia, in convento. Allora il Granduca sigillò l’impossibile
consorte in una villa blindata, limitando moltissimo i suoi svaghi. Su
consiglio di Madame du Deffand, che non ne poteva più di troppo esercizio
fisico, le vennero ritirati anche i cavalli. Imprecò, fece scene, ma su questo
non ottenne attenzione. Pochi la visitavano: era guardata a vista, le sue
scalmane non erano più tollerate. Si sfogava in infinite passeggiate nel
perimetro della villa.
ASSAI PEGGIO PER IL PAGGIO: OVVERO BRUTO IN FUGA

Tra Firenze e Arezzo, per una strada piena di polvere sollevata dal vento
insistente e cattivo, 23 luglio 1670

Facile quando uno è paggio, giovane e bello, robusto e in salute, affrontare


i rovesci della sorte e se bisogna, per gli stessi motivi, cercare con leggerezza
sventata nuove collocazioni professionali. Ma quando tutta la bellezza è
usata, la giovinezza ormai è spenta, e il trascorrere del tempo ha lasciato
segni inequivocabili di vizio e deboscia sulla tessitura un tempo radiosa del
volto, oggi macchiata, la situazione è assai più grama. Bruto Annibale della
Molara era stato il mignon di Ferdinando II de’ Medici per oltre vent’anni.
Era arrivato da Roma a Firenze che era un fiore e ne era ripartito di gran
carriera che sembrava più vecchio di suo padre, un giovane Matusalemme: i
Medici lo avevano strizzato come un limone, altroché. Una carriera di
servizio, la sua. Paggio di valigia, che accompagnava la corte nelle ville,
paggio di portiera, che accoglieva gli ospiti a Pitti, paggio rosso, paggio nero,
cavallerizzo di campagna: aveva salito tutta la scala della paggeria, brillando
agli occhi della corte, che prevedibilmente lo odiava. Come raccontava don
Pio Rossi, la Paggeria di Palazzo Pitti era in sostanza una “scuola di servitù”,
dove i nobili diventavano perfetti cortigiani, si apprendevano le arti della
guerra e, se c’era qualcuno che avesse talento intellettuale o letterario, poteva
studiare per essere buon segretario o consigliere, diplomatico o poeta
encomiastico. Così nel frattempo si tenevano sotto controllo i rampolli delle
famiglie aristocratiche più agitate, e in specie di quelle nostalgiche
dell’esperienza repubblicana o animatrici di fronde antimedicee. Tutti i paggi
venivano educati insieme, con la stessa severità. Bambini di otto anni e
giovanotti di venti si ritrovavano a subire la stessa disciplina. L’istruzione,
assai approfondita anche nelle materie umanistiche, si svolgeva in un corso
che al minimo durava quattro anni. La verità però era che i paggi imparavano
anche a bestemmiare, qualcuno anche a blasfemare, venendo sedotti da eresie
ultramontane: l’omosessualità era pratica comune, ma vigeva che vi fosse
controllo severo sugli allievi. Ferdinando invece, da Granduca, girava appena
coperto da una gran veste da camera ricamata all’uso di Spagna, guardando
con golosità gli ultimi arrivi di Francia e di Spagna, i rari tedeschi, così ben
piantati e succosi, i romani, i marchigiani, i veneti: tutti quelli a cui volentieri
avrebbe somministrato la sua personale educazione, a colpi di dolce e vecchio
su e giù. Cosimo III, conoscendo bene le scorribande di suo padre, che ne
combinò più di quante ne fece Spillo, scrisse un puntiglioso Capitoli e le
Ordinazioni per la migliore educazione de’ suoi Paggi (1670), per dare
norme, ostacoli e regolamenti, specialmente puntualizzando che il vizio
ermafrodita era cosa orribile e nefanda, ma tra la pagina e i letti la distanza
era grande, incolmabile. Se il Granduca era decisamente omosessuale, i
rampolli delle famiglie minori, tutti, e gli interessati al genere, delle stirpi
maggiori, costituivano una riserva di carne fresca, un harem personale, una
panoplia di culi e cazzi pronti all’uso. E a Ferdinando piacevano proprio i
ragazzi: secondo i modi di dire del suo tempo era quindi un ben convinto
gufo, uno strigide rapace a caccia di colombe sode e polpose.
Fino ai trentasei anni Bruto era stato nel ruolo di servente personale del
signore, con cui certo si trastullava notte e dì, ma aveva anche svolto compiti
complessi di collegamento tra il suo signore e il centro di ricerche scientifiche
dell’Accademia del Cimento. Oltre che ben dotato, dolce al tocco, attento
all’igiene, era matematico, e costruttore di strumenti scientifici, cosa che gli
dava un tratto specialmente desiderabile nel mondo di Ferdinando, in cui la
ricerca era al centro degli interessi del signore del regno, insieme al sesso che
inverava nella pratica ciò che aveva vagheggiato nella teoria. Ora, invece,
tutto volge al peggio per lui. Francesco Redi, scienziato, medico di corte, suo
antico amante, il 23 luglio 1670 lo raccomanda al fratello Giovanni Battista,
che dimora ad Arezzo. Lo lega all’ex preferito una catena di “vere
obbligazioni”, piacevoli memorie di “affettuosa amicizia”. Insomma, un
messaggio di aiuto per un ex bello, ancora piacente, ma senza più lo
splendore inequivocabile della giovinezza, che si appresta ad affrontare un
declino senza rimedio, in solitudine e in miseria, deriso per il suo passato di
Granduchessa e con le smanie impossibili di recuperare uno status perduto
per sempre. Redi, che nel Bacco in Toscana si definisce “segaligno e
freddoloso”, tutto osserva con il suo occhialetto irriverente, e nella corte
medicea, in cui continue scattano le trappole per i malcapitati che credono ai
falsi amici, subito allontanati dalla corte, riesce a restare a galla quarant’anni,
osservando, senza commentare, gli stravizi del Granduca Ferdinando e le
inimicizie acerrime dei suoi rivali. Bruto era stato solo il più fortunato di una
lunga serie di cagne, bardasse, puttane o sbarbati, insomma giovanotti
effeminati che facevano da donna alla corte medicea per uomini più grandi
d’età appassionati di carni tenerelle, nella città cula, secondo la vulgata
tempio omosessuale per antonomasia in Europa. Le vice fiorentin, ossia
l’esaltazione sodomita, furoreggiava: i lessici di tutte le lingue registravano
quella passione divorante. In tedesco i gay erano Florenzer e la penetrazione
anale Florenzier. San Bernardino da Siena, gran maestro dell’omofobia nel
Rinascimento, diceva che i bambini dovevano essere portati via da Firenze a
tre anni, perché a sette qualcuno gli avrebbe già rotto le crespe, e poi non ci
sarebbe stata più salvezza.
La parte di dietro, dal Rinascimento, a Firenze era comunque favorita di
gran lunga anche nei rapporti eterosessuali, perché più peccaminosa, e perché
allontanava il rischio, sempre ben presente, di gravidanze indesiderate. La
città aveva un attivissimo corpo di Ufficiali dell’Onestà, che tormentavano
omosessuali (ma solo quelli poveri o invisi al regime) e prostitute, redigendo
precise cronache, dense di dettagli, che sembrano intese alla copiosa
masturbazione di lettori morbosi a venire. Le signore erano spesso poco
gradite dai membri dell’élite e per questo, giustamente, esse si sfogavano in
devozioni e complotti, altrettanto furenti le une e gli altri. Gli sbarbati
sfidavano i precetti del tempo per cui l’omosessualità doveva essere
accompagnata alla procreazione con malcapitate dame: coloro invece erano
solo dediti, scandalosamente, alla passione prezzolata per il proprio sesso.
Era tutto un notturno ed erotico minuetto a Palazzo Pitti, in cui danzavano
figure di seduzione, spesso di origine aristocratica. Creature squisite, bionde e
more, chiamate il Poledrino, ossia il conte Piero Visconti, il Rossino, che era
poi un prete, il priore Luigi Rucellai, detto poi anche per le sue manfrine
“gatta morta”, senza scordare il più famoso, Bechino, che alla gloria del
secolo si chiamava Domenico Barberini: “il più bel giovane che avesse
Firenze in quei tempi”. Coiffati, leccati, rasati, se riuscivano ben vestiti, dai
lunghi capelli, dalle labbra un poco tinte di carminio. Insomma, sirene pronte
all’uso di ogni grande, medio o piccolo del regno, purché dotato di denaro. Se
le sue guardie scoprivano due dei paggi a letto, Ferdinando, sempre pronto,
correva all’agone, dicendo che lo avvertissero, notte o dì, che aveva il nervo
(come amava chiamarlo, mentre lo trastullava, massaggiandosi con una
pomata opera del semplicista di corte, in cui si sentiva forte l’essenza di
verbena) sempre pronto, se si trattava di bardasse. Ferdinando molto amava
mettersi in scena: al pittore di corte Sustermans chiese di essere ritratto in
abito di turco, ma si mise in posa anche quando gli venne il vaiolo, ché infine
la faccia gli era venuta rugosa come la buccia di un cedro della villa di
Castello.
Morto il Granduca, la prima cosa fu cacciare il paggio (che in realtà si
chiamava Michele Tommaso Melchiorre Baldassarre), o meglio creare le
condizioni perché se ne andasse. Egli prese la via da solo, in omaggio al suo
lignaggio. Rivendicò di essere Bruto Annibale, in omaggio al cognome della
famiglia sua Annibali, stirpe romana che aveva dato cardinali e comandanti.
Fu affare di un momento. Cosimo, appena preso il potere, mandò il bargello
nei suoi appartamenti a Palazzo Pitti, ma nel frattempo Bruto se ne era già
andato per suo conto. Aveva fatto i suoi ultimi addii, raccolto le sue
scarabattole, ma solo quelle che stavano in un sacco: aveva dovuto scordarsi
molti regali preziosi di Ferdinando, d’oro e d’argento. I preziosi del
mantenuto per Cosimo andavano tutti in omaggio all’altare della Madonna
dell’Impruneta, per espiazione delle perversioni del genitore. Poi, con il capo
coperto di cenere, via, andare. Il Granduca Cosimo gli consigliò, in un breve
biglietto, gelido come un gran soffio di tramontana, di andare in monastero a
pentirsi o di dedicarsi a opere di bene, ma sapeva che le sue erano parole al
vento.
Vittoria aveva investito molto sul figlio: da quando l’aveva ritenuto in età
di ragionare, a sei anni, gli aveva detto che suo padre era schiavo sessuale di
quel ragazzo. Che doveva odiarlo, come lei. Cosimo era ubbidiente: appena
insediato aveva dato disposizioni, mantenendo però con il vecchio paggio
contatti formali e vagamente cortesi: dopo tutto l’infelice toy boy matematico
era ancora formalmente al suo servizio. Tanto per suo padre non aveva mai
avuto trasporti: un libertino, senza Dio, protettore degli scienziati
dell’Accademia del Cimento che mettevano in discussione i dogmi di Santa
Madre Chiesa, e poi ossessionato come una scimmia in calore dal sesso con
tutti i figlioli e in specie con quel ragazzo che si era poi fatto uomo e sempre
incombeva nella vita di corte. Cosimo, da quando aveva saputo dal suo padre
spirituale come venivano al mondo i figlioli, aveva interesse
all’accoppiamento, ma solo con il santo scopo della riproduzione, non certo
per il piacere in sé. Almeno così gli piaceva di raccontarsi, anche se poi
quando gli veniva il prurito, qualche giro con la bella Leonilda lo faceva, per
poi correre subito dopo dal padre confessore. Un pater, due gloria, ma il
prete era più possibilista di lui. Meglio dare al mondo figliol di puttane che
spargere il seme secondo il turpe modello di Onan. Da quell’atto orribile di
generazione futura non poteva venirne. Mano sul cuore, orazioni, promesse e
tutto andava a posto. E poi glielo diceva anche il Redi: semen retentum
semper venenum: vostra eccellenza si deve sfogare qualche volta, se no le
viene qualche brutto malanno.
Cosimo sapeva di dovere una vendetta a sua madre. Vittoria era granitica
nella sua risoluzione: soprattutto non poteva perdonare a Bruto di averla resa
ridicola. Anni prima la dama aveva chiesto al predicatore di San Lorenzo di
pronunciare un’orazione fiammeggiante contro la sodomia, nei giorni di
quaresima in cui il Granduca andava in chiesa regolarmente per un suo
improvviso slancio di devozione. Questi aveva effettuato debitamente il suo
compito, anche dietro l’impulso di una lauta mancia, sbraitando in pulpito di
fiamme dell’Inferno, baratri di orrore che si aprivano sotto i piedi dei malvagi
fanatici del sedere. Il Granduca ci aveva messo poco a capire l’antifona, ma
anche che il religioso troppo sculettava e si dimenava come una cantatrice
dell’Accademia degli Immobili. La soluzione fu presto trovata: egli mandò
Bruto a sedurre il frate, savonaroliano nell’abito ma non nel carattere, che era
anzi assai licenzioso, e ci mise poco a cedere alle grazie del mignon.
Compiuta la propria missione, il Granduca aveva chiamato il religioso a corte
per ringraziarlo della predica. “Vi ho mandato uno speciale regalo, per le
vostre fiammeggianti parole sull’abuso della carne, ne sarete stato contento,
visto che lo avete gradito a fondo.” Il religioso, in trappola, arrossì fino al
midollo e, prima che scattassero peggiori rappresaglie, fuggì dalla città,
subito, come si trovava.
Vittoria venne apertamente derisa nei circoli che sapevano; questa fu
l’ultima goccia. Da allora in poi Bruto divenne la sua ossessione: pregava che
andasse in rovina, che morisse per eczema, di sifilide terziaria o per qualche
altro schifoso morbo, che se lo prendesse la peste. Allora lo circondò di una
rete di spie, raccolse ogni tipo di prova contro di lui, continuò a indottrinare il
figlio sul bisogno di celere vendetta non appena il padre fosse morto, o
almeno gravemente ammalato. L’ultima dei Della Rovere non era mai
riuscita a tollerare che suo marito Ferdinando fosse così omosessuale da non
avere vergogna di sé e dei suoi amanti. In una sera di gran vento, la signora si
era proposta a lui, nei suoi appartamenti, per avere il sigillo a un suo progetto
contro gli uomini che amavano i loro simili. Aveva stilato, con l’aiuto dei
suoi preti più severi, un elenco di persone scandalosamente devote al proprio
sesso a Firenze, e chiedeva severi provvedimenti. Il consorte, regalmente,
aggiunse il suo nome alla lista, in cima, a caratteri capitali. Mentre la signora
sbraitava di roghi per i reprobi, lui gettò la carta nel fuoco, dicendo con un
sorrisetto di scherno che così, almeno in modo simbolico, la sua smania di
incinerimento sarebbe stata soddisfatta.
Un pomeriggio, la Granduchessa entrò non attesa nelle stanze del marito.
Trovò Ferdinando, tutto rosso in volto, disteso supino, che veniva montato da
Bruto, a cui disse: “non smettere sciocco, che ora è il più bello”. Lungi dal
vergognarsi, il re scacciò la moglie importuna e spiona, mentre Bruto
continuava a pompare, e da allora, per sedici anni, non la toccò, non volle
eredi. Solo molto più tardi acconsentì a una notte di sesso con la devotissima
Vittoria, nel frattempo assai ingrassata e per lui sempre meno desiderabile,
che si presentò in vesti di Maria Maddalena. Il Granduca, che in quel
teologico travestimento provava ancora maggior ripugnanza per lei, cercava
di diventar abile alla pugna procreativa, menandosi l’arnese con fisso in testa
il pensiero del caro Bruto, come era bello e sodo e affascinante, con quel suo
accento romano strascicato, quando giunse a Firenze nel fiore dei suoi sedici
anni. Compiuto, a malincuore, il suo dovere coniugale, sperava che lei fosse
subito pregna, meglio ancora se di due gemelli, ma ci vollero invece, per
scherno della sorte, più sedute, con tutti quei confessori a dirgli che la “via
naturale”, ossia la pesante braciola della moglie, era da preferire al membro
caldo, odoroso e tornito del paggio, che ricercava subito non appena uscito da
quelle stanze del coniugale dovere, con in bocca un saporaccio di fiele. Alla
fine, dopo tanti anni nacque Francesco Maria, a distanza di diciotto anni dal
fratello.
Ora Bruto pone il cappello sul volto, non si sa mai che qualcuno lo
riconosca, e lo prenda a male parole o lo riempia di botte, anche se i Medici
gli hanno garantito la loro protezione. Non ha mai pensato al futuro, ora il
presente non gli sorride. Ha avuto il suo ruolo come nota a margine della
Storia, che ora lo spazza via, senza riguardi. Si è inquartato, ha mangiato
troppo, gli occhi hanno perso luce, sono opachi come quelli torbidi del
Medici. Ma lui è pronto a tutto, e Arezzo ormai si intravede sullo sfondo di
un cielo color grigio.
In fuga da Firenze il nobiluomo della Molara si dette a una vita inquieta,
mutando di loco in loco, al seguito del fratello, che era alla ricerca di un
vescovado e lo ottenne infine, dopo non pochi maneggi, sia pure nella
periferica Vercelli. Smanioso di trovare un impossibile posto che lo riportasse
agli splendori di Palazzo Pitti, cercava ovunque: infine decise,
incredibilmente, di tornare all’antico mestiere di famiglia, si fece soldato, ma
con poca fortuna. Morì solo, come un cane, in un letto pieno di pulci,
ignorato dai più, lui, che era stato per due decenni la vera regina di Firenze.
Cosimo divenne Granduca, con la moglie che lo odiava sempre di più e i tre
figli, nati, a distanza gli uni dagli altri, nei rari momenti di rappacificazione:
Ferdinando, Anna Maria Luisa e Gian Gastone.
COSIMINO TROPPO PRONTO: MARGUERITE-LOUISE TROVA UN
NUOVO MOTIVO DI INSULTO PER IL SUO CONIUGE

Firenze, Palazzo Pitti, Estate 1671

Cosimino moro era bello, con gli occhi allungati come Cleopatra, il
sorriso dolce, le labbra di melagrana. Era arrivato da Livorno, dove un
mercante ebreo l’aveva messo in vendita a caro prezzo. Di mano in mano era
arrivato fino a Palazzo Pitti, dove in quell’anno era inseparabile dal nuovo
Granduca. Cosimo era radioso di essere sempre seguito da quel bellissimo
giovine, in cui secondo le sue parole rifulgeva una santa disposizione. Egli
infatti lo aveva fatto battezzare “per salvargli almeno l’anima”, con il nome
che era stato per pochi giorni del suo fratellino, morto in culla. Il suo corpo di
gazzella aveva fatto gola a più d’uno, e due nobili a momenti si sfidavano a
duello per averlo, ma dopo che il ragazzo arabo era entrato sotto la protezione
del monarca avevano dovuto limitare le loro mire. Eppure la maldicenza si
era diffusa veloce a corte: “stai a vedere che sotto tutte quelle devozioni ha
ereditato le passioni del babbo, ma che a lui gli viene voglia solo con quelli di
pelle scura”. Marguerite-Louise, sempre pronta a cercare motivi per
diffamare il consorte, aveva cominciato a dire, nel suo eremo a Poggio a
Caiano: “c’est honteux, cet homme degueulasse c’est aussi ravi par son
mignon noir, enfin il à pris de son père”. Madame, ovviamente, non aveva
prove, parlava per il gusto della maldicenza, però quel bel ragazzo moro non
era un convertito come tutti gli altri alla corte dei Medici. Lo si vedeva
dappertutto, sorrideva aggraziato, si inchinava a tempo, con la grazia di un
ballerino: Cosimo a lungo lo ebbe presso di sé, in tutti i momenti del giorno,
per questo “le beau garçon noir s’appelle Cosimino di Camera, c’est toujours
avec mon mari, c’est scandaleux”.
BENEDETTO ZUCCHETTI VIENE IMPICCATO PER LADRO, E SI
CONFESSA SOLO NEL PUNTO ESTREMO, DOPO UN GRAN
LAVORIO DEI FRATI DEL CONFORTATORIO

Firenze, Cappella del Conforto, 26 marzo 1672

Quando entrò nella Cappella del Conforto aveva in volto una grinta dura,
che faceva quasi spavento a chi gli era d’intorno. I fratelli della Compagnia
facevano di tutto per fargli confessare il suo delitto, ma quello niente, anzi di
più insisteva a dire che lui non ne sapeva niente, che era tutto un errore.
Diceva che l’anima sua non valeva un fico, che era inutile salvare quello che
nemmeno esisteva, che nostro signore non avrebbe certo perso tempo con lui.
Si scoprì che in gioventù era stato alla Quarconia, nella casa di San Filippo
Neri, dove si dava ricetto ai ragazzi di strada e a molti delle famiglie povere.
Venne chiamato il signor Filippo Franci, che ben lo conosceva. Questi quasi
lo implorò di confessare, ma quello duro, con una grinta tremenda, con sulla
faccia i segni del suo essere senza dio. Rifiutò di nominare il nome di Gesù,
di baciare la Bibbia, gettò via da sé la reliquia della Santa Croce, che prima
aveva fatto le mostre di domandare. Quando stava venendo il primo chiarore,
uno dei frati aprì la finestra della cappella e con la mano gli fece cenno che il
suo momento era venuto, e che non ci sarebbe stata altra dilazione. Era solo
di fronte all’eternità del nulla, se non confessava il suo peccato, e andava
incontro con l’anima monda al castigo. I raggi dell’alba lo riscossero a
comprendere appieno la situazione in cui si trovava, ma ancora meglio
operarono certe carte stampate, in cui erano raffigurati i tormenti dell’Inferno.
Nessun discorso l’aveva risvegliato, ma ora prese in mano quei fogli e li torse
da ogni parte: ci vollero due messe perché ammettesse i suoi peccati e che era
giusto il suo destino. Alla prima non prestò attenzione, ma alla seguente si
sciolse in lacrime e trovò il modo di parlare. I frati si asciugarono il sudore
dalla fronte, era da tempo che non affrontavano un caso tanto ostico, da
quando nel novembre dell’anno prima Faustina di Antonio Moschini da
Campiglia aveva fatto il diavolo a quattro, dicendo di essere stata costretta
alla confessione dai preti, alla fine si era confessata, ma c’erano voluti due
armigeri per staccarla dall’altare. Ora Benedetto era sereno: quando fu il
momento di andare alla forca, era ormai pacificato e morì con soddisfazione
di tutti.
FINALMENTE DOMENICA: MARGUERITE-LOUISE TORNA A
PARIGI

Villa di Poggio a Caiano, 10 giugno 1675

Quanto ci era voluto: una vera e propria questione di Stato. Comunque,


senza l’intervento della vecchia Madame du Deffand, che ne morì, per gli
stenti di un viaggio interminabile, in una calura tremenda e vischiosa, la cosa
non sarebbe mai accaduta. Luigi teneva ferma la sua risposta negativa alla
preghiera di ritorno in Francia e Cosimo era terrorizzato da questa
prospettiva, ma era anche esausto dei continui scandali. Inviò poi il vescovo
di Marsiglia a verificare se davvero non ci fosse modo di trovare una via alla
convivenza. Il primate certificò ormai impossibile la relazione tra i due
coniugi. Infine il Sole di Versailles volle accordare clemenza: la separazione
tanto temuta dal monarca avvenne. Fu meno indegna però di tanti aspetti di
una convivenza impossibile. Non che mancassero i momenti di scontro: ben
se ne accorse il tesoriere Bernardi, che proponeva di dare l’equivalente degli
arredi in moneta italiana. Ella si prese tutto, altroché, e sostituì nottetempo
l’argenteria con maiolica di minor valore, passando gli ultimi giorni a Poggio
a Caiano in una dimora più che francescana, quasi spoglia, avendo già
provveduto a imballare gli oggetti più preziosi. L’appannaggio che Cosimo le
assegnava non era certo misero: sessantacinquemila scudi per il primo anno e
ottantamila franchi per gli anni seguenti, in più ottomila scudi per le spese di
viaggio e trasferimento, che in buona parte lei dette per elemosina e mancia,
tant’è che prima di andare bussò a quattrini al Malvezzi, suo carceriere,
dicendo che non poteva certo fare il viaggio senza danari. In cambio la firma
di Marguerite-Louise era apposta sotto una dichiarazione che la vincolava a
tenere buona condotta, a non parlare male dei Medici (e specialmente del
consorte) a Parigi, pena la decadenza del vitalizio che tanto le premeva. La
suocera non la volle vedere, i figli li chiamò a Poggio a Caiano, per
abbracciarli e vedere se avevano ben imparato le danze francesi che aveva
loro insegnato. Non ebbe speciale affetto nemmeno per Ferdinando. Egli
aveva qualcosa della irrequietezza della madre, ma temperato da un grande
amore per le arti; però la genitrice sembrava non poter troppo prendere
interesse alle passioni del suo rampollo: capiva che avevano in comune una
sensibilità inquieta, ma senz’altro non voleva farsene carico. Già troppo
complicata era la sua, di esistenza. La recita da grande attrice riuscì alla
perfezione: stampò sulla faccia un’aria di martire, dei primi tempi del
Cristianesimo. Malgrado tutte le sue precauzioni, Cosimo per il popolo aveva
la figura di un abietto tormentatore. Eppure, in qualche modo, malgrado tutto,
le portava ancora un qualche affetto: le espresse i migliori auguri che non
facesse cattivi incontri in mare, visto che era guerra in corso tra Francia e
Spagna. Da Livorno, e questa volta spronando gli equipaggi delle navi e i
destrieri, Madame guadagnò Parigi, dove era stato scelto per lei il distinto e
severo ambiente del convento di Montmartre. Quando la seppe al porto,
Cosimo tirò un sospiro di sollievo, ma anche in segregazione Madame ebbe
modo negli anni seguenti di dargli filo da torcere. Prima di partire tentò un
ultimo colpo: gli mandò il suo padre confessore, dicendo di poter chiedere
perdono per tutto il male che aveva recato, se anche il consorte faceva lo
stesso. Cosimo non cadde nel tranello: non aveva alcuna intenzione di
assumersi colpe, nemmeno minime; per lui tutto era accaduto per la cattiva
disposizione d’animo di sua moglie. Per reazione a quella partenza, che
malgrado ogni sua precauzione era fonte di eterno disdoro, per qualche
tempo, lui, che la consorte aveva sempre visto come il carattere dell’avaro in
commedia, e pur predicando a tutti la necessità del cristiano rigore e
dell’ascetica meditazione, si dette alla pazza gioia. Volle mense e banchetti,
imbandigioni e cerimonie, menù rari e ricercati, spezie costose dall’Oriente,
chiese serventi da altri parti del mondo. Ebbe, in scambio con beni preziosi
del Granducato, calmucchi, indiani e perfino due groenlandesi, che in riva
all’Arno boccheggiavano per il gran bollore, ma compivano perfettamente i
loro gesti da serventi, appresi alla corte di Danimarca. In un delirio di
capponi che dovevano pesare venti libbre, di dolcezze sepolte nel rosolio, di
ghiacci di ogni colore e sapore, divenne spropositatamente grasso. I medici
gli dettero pillole, ma solo dopo qualche tempo si affidò all’unico rimedio
pietistico che conoscesse, la più severa devozione, subito pentendosi di
questo suo periodo dedicato all’opulenza, in cui tutti lo criticavano, nella
Toscana un tempo felice, come propagandatore di un rigore assoluto, che egli
era il primo a non rispettare.
IL PRINCIPE LEOPOLDO, CARDINALE, SQUISITO COLLEZIONISTA,
AMMIRA IL SUO GRAN FALLO

Firenze, Palazzo Pitti, estate 1675

Leopoldo è agitato, freme. Cammina con indosso una gran vestaglia rosso
cardinale, che si potrebbe scambiare per l’abito del conclave, ai piedi
ricamatissime babbucce turche, nelle stanze del suo appartamento al
pianterreno di Palazzo Pitti. Gira intorno al fallo con sguardo goloso, tocca
con dita tremanti la catena di peni più piccoli che scorrono come ghirlanda
alla base del monumento, che è riuscito con il ricatto a strappare a una
congrega di eruditi finocchi a Roma per averlo tutto per lui, da guardare e
rimirare. Passa con il dito dove si vede che era attaccato il cazzo di coda, che
i maschi toccavano per chiedere grazia dell’impotenza e le femmine per
trovare un uomo ben dotato. La mazza è impressionante: un metro e quaranta
di marmo fine. Dolce al tocco, ma non caldo: il principe, con il muso lungo
da faina che ritrae il Baciccio, ha gli occhi lucidi di cupidigia, sogna come
sarebbe bello se quel membro fosse di carne tiepida o bollente, per estenuanti
partite di piacere. Si immagina nelle vesti di imperatore alla fine del
paganesimo, come Giuliano, contornato di paggi furenti e ben dotati che gli
ballano intorno, ebbri, menandosi mentre lui, baccante invasata, attende
ansioso che gli diano il loro seme. Nella Sala dell’ermafrodito il gran fallo è
al centro e tutti i visitatori dissimulano l’interesse, ma girano come mosche
intorno al gran miele di marmo. Fascino, si chiama in latino: perché da
questo gran membro marmoreo è impossibile distogliere gli occhi, ha un
potere di calamita: Leopoldo ha rimandato due volte la stesura di una lettera
urgente. Vorrebbe proporre una prova sperimentale all’Accademia del
Cimento: se sia possibile distogliere gli occhi da tanta grazia di Nostro
Signore. Lo eccitano le zampe leonine: gli fanno ricordare, a lui che opera per
associazioni erudite, i ruggiti del serraglio mediceo, che non c’è più, ma di
cui i vecchi serventi ancora echeggiano la sinistra presenza vicino alle mura
di Palazzo Vecchio. Gli eruditi gli dicono che la statua è una raffigurazione di
Mutinus Titinus, protettore dei riti nuziali. Beati i romani, che avevano
divinità così belle a vedersi, e a sentirsi, perché andavano toccate a lungo per
ottenere benedizione. Peccato che oggi i suoi concittadini siano bigotti e
bizzoche, e quel suo nipote, Cosimo, sembra un frate, sempre intento a
biascicare devozioni e litanie. Non saprebbero proprio apprezzare quel
miracolo di pietra pregiata: peccato che quando arrivano i cardinali tutta
questa meraviglia debba essere celata con una testa di cartapesta a forma di
leone, per nascondere lo scandalo della classica nerchia, che lui chiama
familiarmente Priapo, o anche Pri, se è particolarmente infervorato, quando
pensa che questi magici oggetti a Roma erano posti in luoghi esclusivamente
dedicati al piacere. L’unica cosa che gli dispiace è che in cima c’è incisa una
vagina, e il cardinale non aveva proprio voglia di toccarle quelle cose umide,
viscide e interne. Infatti tra tutte le sue riverite anticaglie giaceva sola e
abbandonata una collezione preziosa di piccoli uteri devozionali etruschi, che
proprio non gli interessavano. A lui gli oggetti piacevano ancora pieni di
rozza, ossia di terra, per poter scoprire da se stesso le fattezze di ciò che
aveva acquistato. Negli anni precedenti aveva istruito i mercanti a cercargli le
fattezze degli imperatori più sregolati, e come si erano dati da fare i romani a
proporgli oggetti di suo gusto. Il Falconieri gli scriveva, in orgasmo di
incassare la sua mercede, “questa settimana gli ho fatto portare un Caligula di
argento greco, medaglia doppia, sono rare cose e credo che il Serenissimo
Cardinale non se la lascerà sfuggire, il padrone ne domanda sei scudi, in ogni
modo vedrò di trattenerla finché lei comanderà”. Il suo principale faccendiere
gli aveva anche procurato il bellissimo Ermafrodito, pagato a caro prezzo con
un gruppo di altre statue la somma notevole di duemila scudi. Il Gottifredi gli
aveva proposto medaglie con l’effigie di Commodo, l’Agostini perfino
un’icona di Giuliano l’Apostata. Il cardinale si rimirava nella sua collezione
di despoti malvagi del passato e forse per un momento si sognava nella
porpora, re e signore di una pletora di membruti pretoriani. Il cardinale amava
anche, sfrenatamente, la sua Larva convivialis, uno scheletrino da tavola,
gioiello di fabbricazione romana in argento, come quello che teneva
Trimalcione sulla sua tavola nel Satyricon, perché un brivido di morte è
sempre necessario per poter gustare tutta questa traboccante pienezza di vita.
COSIMO CELEBRA TRIONFALMENTE I FESTEGGIAMENTI PER LA
VITTORIA SUI TURCHI A VIENNA

Duomo di Firenze, settembre 1683

Cosimo è fuori di sé, da quando il giorno prima ha ricevuto il corriere da


Vienna che le truppe del Sobieski hanno sbaragliato le armate guidate da
Kara Mustafa, che andava incontro al suo amaro destino a Belgrado, dove
sarebbe stato punito della sua sconfitta con la decapitazione. Ha mandato a
chiamare il cardinale per organizzare subito un Te Deum trionfale in Duomo:
i suoi provveditori razzolano la campagna per cercare un numero sempre
maggiore di voci bianche. Il maestro del coro deve faticare non poco per
imporre l’ubbidienza ai nuovi arrivati. Il Granduca arriva con la famiglia al
gran completo: tutti in abito di gala. La miracolosa Vergine dell’Annunziata
viene rivelata agli astanti e poi seguono gran fuochi di artificio da Palazzo
Vecchio. A Porta al Prato viene creato un fortino di legno, dove i turchi sono
assediati dalle truppe di Leopoldo, che lanciano granate e fuochi. Il popolo si
spaventa, Cosimo è contento che si possano immedesimare nel furore della
battaglia, avendo però sollievo, che tutto fosse già terminato e consegnato
alla Storia. Nei giorni seguenti c’è il funerale per i morti di Vienna, con un
fortino di legno, trofei e cannoni. Le musiche risuonano e intanto i giovani
nobili e borghesi finiscono di allestire in Piazza della Signoria una gran
macchina con sopra dipinte in chiaroscuro le fasi dell’assedio. Infine, davanti
a San Lorenzo, viene allestita una grande scenografia con sopra quattro
turchi, schiacciati dalla Fede trionfante. Dentro c’è un meccanismo segreto
per cui, a un comando, i senza dio saltano in aria. Cosimo per una volta
sorride, contento che il suo popolo provi le sue stesse emozioni di fronte a
quello spettacolo per palati forti. Nell’aria acre di polvere da sparo ritorna
con il suo seguito a Palazzo Pitti, stanco per le tante emozioni. Qualche
tempo dopo riceve in dono centocinquanta turchi dall’imperatore, catturati
all’assedio di Buda: gli servono per i lavori di manutenzione, a Firenze e a
Livorno. Mentre sfilano, a capo chino, macilenti, il Granduca pensa: “presto
sarete tutti cristiani” e si immagina in Duomo a presiedere al loro battesimo
in pompa magna. Però lo sa che quei pagani sono come muli, sanno solo
ripetere con la voce strascicata e gli occhi a terra: “star nato turco, voler
morire turco”. Sono sicuri che se disubbidiscono ai comandamenti
dell’Alcorano, e alle regole dettate dal loro Papasso, li coglierà subito la
folgore. Per questo Cosimo, che pure vorrebbe convertirli tutti, in fondo in
fondo li stima.
COSIMO HA I SUOI SANTI, COSIMO HA I SUOI FRATI

San Cresci in Valcava, Borgo San Lorenzo, 1686

Cosimo non sta in sé dalla gioia: sembra un bambino di fronte ai regali di


Natale. Finalmente anche lui ha i suoi beati: già, la famiglia Medici, con tutto
quel Neoplatonismo e quel Rinascimento, che a lui non lo avevano mai
convinto, aveva più che altro prodotto Veneri e Primavere. Creature belle a
vedersi, certo, ma equivoche e anche un po’ sotto il segno del demonio. Fin
da bambino, tutte le volte che vedeva quella bellezza in carne dipinta dal
Botticelli in equilibrio instabile sopra la conchiglia, gli si rimescolava lo
stomaco, aveva come un colpo al cuore e poi si faceva il segno della croce. E
invece per una dinastia per bene è importantissimo avere i propri santi in
regola: se ce l’hanno perfino quei libertini dei Gonzaga, quel Luigi che a lui è
sempre sembrato la camerierina del Sant’Uffizio, tutto mossette e smorfie!
Ora ce l’ha anche lui finalmente il martire di famiglia, e ne ha trovati due in
un colpo solo e seri, virili, altro che moderne ballerinette gesuite, due martiri
dei primi tempi eroici della fede, molto più rari e pregiati: San Cresci e
Sant’Onnione. Il Gondi, sagace e a caccia di quattrini granducali, quando è
tornato dalla terra di Francia, dove era residente di Toscana, un giorno ha
detto al Granduca in intimo colloquio a Pitti che nelle sue proprietà in
Mugello c’erano le ossa di due santi martiri, dimenticati da secoli. “Mie,
mie”, Cosimo urla come un pazzo; per una volta, lui sempre così trattenuto, è
in orgasmo, sbava al pensiero dei costosi reliquiari da coprirsi di gemme delle
Indie. Le reliquie del 300 d.C., dei primi tempi della Fede, sono la più ghiotta
delle prede; quindi di corsa in Mugello. Eppure fa freddo, tira una tramontana
tremenda, ma il Granduca, sempre ipocondriaco e prono alla melanconia, ora
sembra tornato un ragazzino, e urla ai postiglioni: “veloce, più veloce”.
Arrivato a destinazione, la cappella si rivela per quello che è: poco più che
una rovina di pietre dirupate, ma le ossa ci sono, debitamente tirate a lucido
dai serventi del Gondi e messe sopra un panno di lino tessuto con filo d’oro
sotto un tabernacolo di campagna, e per lui luccicano come oro. La leggenda,
di limitatissima notorietà generale, dimenticata anche da molti locali, la
spiega per filo e per segno il Gondi, che si è ben documentato. Cresci,
sant’uomo, aveva prestato le proprie cure alla figlia di Onnione, comandante
della prigione in cui era detenuto per la sua fede, il quale per questo con la
rampolla era stato improvvisamente folgorato al verbo di Cristo. Fuggendo i
due verso il Mugello, il futuro martire aveva miracolato una figura di
passaggio: Cerbone, figlio della vedova Panfila, portandosi dietro anche un
catecumeno dal mirabile nome di Emptio. Presi dalla milizia, decapitati per
aver rifiutato di rendere omaggio agli idoli pagani, restava Cerbone a far la
conta dei teschi e a costruire l’altare posto simbolicamente, per vendetta,
sopra il capitello dell’antico tempio di Esculapio.
Il culto dei due santi non attecchì, né in Mugello né a Firenze, malgrado
l’insistenza delirante di Cosimo, perché la riscoperta di queste due figure era
palesemente sotto il segno dell’assurdo. Il Granduca, una volta di più, nelle
accademie di tutta Italia, veniva rappresentato nella figura del credulo
bigotto, di colui che si beve qualsiasi cosa e si accontenta di spiegazioni
superficiali. Eh già, infatti non tornava proprio un bel niente, a partire dalla
data, che oscillava pericolosamente tra il 249 e il 250 dopo Cristo. I nostri
santi, peraltro, sarebbero stati quindi uccisi in una mattanza di martiri, in cui
era ben difficile distinguere le singole ossa. Il Granduca convocò tutti i
teologi di corte, che scrivessero subito gli atti delle grandezze dei santi,
mandò maestranze e architetti a restaurare la cappellina. L’arcivescovo
Morigia dette il suo consenso e subito i Medici chiesero le indulgenze per la
data del martirio. Uno zelo così maniaco che ci fu perfino un frate servita che,
disgustato di questa sinistra carnevalata, denunciò il fatto sacro come
incredibile e l’insistenza di Cosimo come maniacale, ma venne subito
mandato in esilio. Invece l’oratoriano Giacomo Laderchi, prezzolato
adeguatamente da Palazzo Pitti, scrisse a tambur battente un gran tomo di
pagine duecento circa per dimostrare che sì, proprio loro, i dimenticati Cresci
e Onnione, erano i veri martiri medicei. Anche se molti derisero Cosimo, lui
era contento. Ogni anno il 7 agosto faceva una bella gita al fresco, alle
pendici dei monti, pregava per i suoi privati martiri, mangiava la ricotta
fresca col miele che veniva recata dai suoi sudditi fedeli, che gli volevan
bene, perché anche loro erano devoti come lui. I villici infatti erano molto più
seri dei cittadini: in campagna non c’erano frammassoni, finocchi eruditi, visi
celati, serpi in seno che si trovavano dappertutto nella corte. Il Granduca
pregava, respirava l’aria balsamica, e mangiava: gli scorrevano le lacrime agli
occhi, dalla contentezza.
Poi, per le confessioni, le devozioni e le mortificazioni, via di corsa alla
Villa dell’Ambrogiana, a Montelupo. Non gli bastavano più i domenicani, i
francescani erano fuori moda, i trinitari troppo interessati al soldo. Per
Cosimo ogni preghiera doveva essere all’ultimo grido della penitenza. E
nessuno lo puniva meglio degli elegantissimi alcantarini: un ordine recente,
fondato a metà Cinquecento, dal nobile Pedro de Alcantara, della potente
famiglia spagnola dei Sarabia, che veniva dal mondo dei francescani. Si era
segnalato in specie per l’eloquenza visionaria, che traeva ispirazione dai libri
profetici della Bibbia; la sua canonizzazione era recente: solo nel 1669 era
stato iscritto nel novero dei santi, insieme a Maria Maddalena de’ Pazzi, da
papa Clemente IX. Lo scopo della sua vita era stata la definizione di regole
sempre più severe e restrittive della devozione, a cui contribuì con le sue
Costituzioni della più stretta osservanza. Fu sostenitore dalla prima ora del
verbo di Teresa d’Avila, che come lui voleva portare sempre maggiore
durezza nel Carmelo. Il Granduca si avvicinò a questi religiosi rigorosissimi
dopo una malattia che aveva fatto a molti temere per la sua salute: un travaso
di bile nera, che molto aveva fatto sperare Marguerite-Louise a Parigi.
Madame, baccante ebbra, di cui nella reclusione conventuale si narravano a
ripetizione scandali erotici con bei garzoni, annunciò a tutti, sbraitando come
era suo stile, che come vulture post mortem dell’odiato coniuge sarebbe
tornata in Toscana per cacciarne i bigotti. Mal gliene incolse, perché Cosimo,
che la faceva spiare e masochisticamente leggeva con gioia le cronache degli
eccessi della dama, con la dieta pitagorica consigliata dal Redi si riprese
rapidamente, mandò a chiedere ragione al Re Sole di perché sua cugina
volesse la sua morte, ma quello, duro, rispose che la smettesse con questa sua
ostinazione a tenere sotto controllo chi più non era nella sua vita, altrimenti
questa era prova certa di alienazione mentale. Cosimo ci rimase male, ma
incassò il colpo, fece costruire a Montelupo, senza badare a spese, una chiesa
dedicata ai santi Quirico, Lucia e Pietro d’Alcantara, con belle tele di Luca
Giordano. I frati ispanici erano come Carmen, calienti, prendevano fuoco per
nulla, e in varie occasioni Cosimo dovette intervenire a sedare litigi teologici,
che si trasformavano in vere e proprie risse di calci e pugni. Una volta
dovette arrivare a placare gli animi addirittura il celebrato teologo Padre
Segneri, il quale fece capire in tornite parole latine, che o cambiavano
registro oppure finiva, con effetto immediato, il loro lauto appannaggio
mediceo. A corte tutti commentavano che quegli spagnoli erano pazzi,
maniaci e costavano un sacco di quattrini (una fortuna: duecento scudi
all’anno), ma Cosimo era contento solo con loro. Gli davano tante di quelle
penitenze, per le rare notti inquiete in cui il diavolo lo visitava e la preghiera
non effettuava il consueto miracolo. Allora faceva scorrere freneticamente la
mano sulle sue parti basse, pensando, per un più sicuro effetto, alla Fidalma,
bella morona, soda come una forma di cacio pecorino, quando l’aveva
sverginato, a quattordici anni, su consiglio del medico di corte, Francesco
Redi, che lo vedeva troppo gonfio e a rischio di apoplessia. Biascicava a voce
bassissima peccati compiuti e altri sognati, e il confessore gli metteva la
cenere sul capo e gli infliggeva esercizi spirituali di ogni genere, sempre più
severi. Edificato, commosso dall’oratoria profetica dei padri, per qualche ora
Cosimo scordava il problema che più gli bruciava: la mancanza di eredi
presentabili e la fine della dinastia, di cui non aveva saputo, malgrado i suoi
innumerevoli sforzi, perpetuare il nome.
L’ODORE DELL’INDIA: COSIMO MANDA UN MONUMENTO DI
DEVOZIONE COSTOSISSIMO DALL’ALTRA PARTE DEL MONDO ED
È CONTENTO

Firenze, Palazzo Pitti, estate 1686

Cosimo manda messi nei vari appartamenti di Pitti e nelle ville circostanti,
raduna tutti nelle sue stanze: familiari, famigli, soprattutto teologi, frati, preti,
confessori, paggi, per annunciare la grandiosa novità. Non sta nella pelle: è in
piedi davanti a lui un tavolo con un orologio da notte, che gli è stato appena
portato dall’Opificio delle Pietre Dure. L’oggetto ha in cima un porcellino,
come quello della loggia del mercato, cioè un cinghiale, con due putti al
fianco. A lato compare un cofanetto rosseggiante di varie specie d’ambra,
della manifattura di Danzica, che ha un cervo come manico. Cosimo è sempre
più impaziente, maneggia con cura una serie di intagli di carta con
l’immagine del sacro cuore di Gesù, secondo la nuova moda alla francese,
lanciata da santa Marguerite Marie Alacoque. Maneggia le creazioni fragili e
squisite dell’olandese che aveva portato a Firenze dal suo viaggio giovanile,
Jan van Achelom, maestro nell’usare le forbici sul foglio. Il cuore è
sormontato dalla croce, circondato da tralci di spine e da due frecce che lo
trapassano, intorno una ghirlanda di passiflora, fiore della passione. Sul
tavolo davanti sta un involto di raffinata seta a disegni cachemire, che
racchiude qualcosa di quadrato e di morbido. La famiglia arriva alla
spicciolata, inchini, riverenze: Ferdinando ha mandato a dire che non ne
vuole sapere, che è troppo ammalato, ha una flussione. Rimane a letto a
Pratolino, e poi gli viene da ridere a pensare che il padre ha da poco
annunciato di voler aprire a Pitti un laboratorio per la produzione delle
camicie della modestia, che coprono l’apparato genitale. Un indumento da
mettersi quando si fanno i clisteri: “che quegli spezialacci non veggano
quello che non devono vedere”. Già, come se mostrare il sedere in famiglia
fosse mai stato un problema. E poi, da sempre, quando il padre si infervora
per sue mistiche scalmane sembra il matto dei tarocchi, meglio tenersi alla
larga.
“Il padre Francesco Sarmento, procuratore generale della provincia
gesuitica di Goa, mi ha fatto la grazia di inviarmi un cuscino appartenuto a
San Francesco Saverio, e mi ha illuminato sul mio dovere personale, e sul
nostro della casa Medici.” In uno dei suoi pellegrinaggi a Roma, Cosimo
aveva rimirato a lungo il braccio del santo, reliquia che si conserva alla
Chiesa del Gesù. Chiede silenzio, apre con discrezione il prezioso involto: ne
estrae un cuscino liso, in cui è facile vedere l’impronta di una testa: “questa
sacra reliquia fu l’origliere di San Francesco Saverio, essa entrerà nella parte
più preziosa e rara del tesoro dei Medici”. Gli astanti sono lievemente
interessati, ma Cosimo è infervorato, e prosegue: “come, come posso
ricompensare l’Ordine di questo prodigioso dono, che illumina il destino
della casa Medici?”. Chiama a sé Giovan Battista Foggini, scultore
prodigioso, e concerta di inviare un monumento enorme in India, a eterna
testimonianza della sua devozione. Il risultato è un mausoleo di pietre, con
quattro bassorilievi in bronzo alla base. Un trionfo dell’ingegnosità di
Foggini, che crea tutti pezzi componibili per poter affrontare l’immane
viaggio. Si loda l’opera alla corte, pur rimproverando a mezza bocca le folli
spese che questa impresa comporta: “l’esser fatto il monumento di pezzi
commessi e collegati con viti e chiavarde di ferro, che non solo le tengono
insieme, ma eziandio la fanno comparire d’un sol pezzo con un sol lavoro e
una invenzione così ingegnosa e nobile che in niun luogo veggonsi le
commettiture del tutto nascoste”. Solo una pietra è specialmente pregiata,
l’alabastro marino, poi per abbattere almeno un poco l’immane costo l’artista
ha scelto il bardiglio, il giallo di Siena e il verde tenero dell’Arno, che
costano assai meno del marmo di Carrara. Il Granduca chiede ai portoghesi di
poter mandare l’enorme carico senza pagare, ma domanda al suo residente a
Lisbona che questa cosa venga chiesta così, senza parere, perché se no ne
avrebbe vergogna.
Congedati tutti, Cosimo si inginocchia e prega. Si sogna re delle Indie
cattoliche, in una visione di marmi dai colori accecanti, con Shiva sostituito
da San Giovanni e Vishnu da Sant’Eugenio, patroni di Firenze, mentre san
Zanobi assume le vesti di Ganesh. Sopra ai santi, mentre Cresci e Onnione
cantano in hindi le glorie medicee, vortica Francesco Saverio che lo prende
con sé per ascendere in cielo, mentre risuona una musica dolce, come di
flauti, sempre più veloce. Santo finalmente anche lui, lontano dalle misere
cure terrene, il Medici volteggia per l’aria fine. Cosimo & Saverio sono una
cosa sola, un supereroe mistico, che dove passa per i suoi magici poteri
converte calmucchi e giavanesi, nipponici e circassi. Già che l’India aveva
dimostrato di apprezzare lo stile delle produzioni medicee: il commesso di
pietre dure aveva trionfato alla corte dei Moghul: tante creazioni dell’Opificio
delle Pietre Dure erano state allestite nelle sala delle udienze del Forte rosso
di Delhi, e avevano lasciato il segno persino nel Taj Mahal. Sogni di gloria,
ma presto la dolce imago mistica si scontra con l’amara realtà. Sei sono gli
anni per la costruzione dell’opera, con varie interruzioni per via della
mancanza dei soldi, cronico problema del governo di Cosimo, come Foggini
scrive alla segreteria granducale, dicendo che sta sulle spese, che non può
proseguire i lavori. Partono infine da Livorno quarantacinque casse (più altre
dieci, con tre destinate ai Teatini), insieme a Placido Francesco Ramponi,
ingegnere nella Galleria dei Lavori e Simone Fanciullacci, lavoratore di
pietre dure. Il primo aveva speciale incarico dal Granduca di redigere un
diario, in cui si descrivono i lunghi sei mesi di viaggio e l’allestimento del
gran manufatto alla chiesa del Bom Jesus di Goa, dalla metà di settembre, in
tempo per essere pronti per la festa del santo patrono, che è il 2 dicembre.
Ramponi e il suo collega, con gran provvista di semi di fiori e frutti, con
animali e stoffe, pietre preziose e no, dopo due anni di viaggio tornano a
Livorno e trovano ad accoglierli il Gran Principe Ferdinando. Cosimo esulta:
medita insieme al suo frate confessore alcantarino, severissimo, sul cartiglio
scelto per comparire sul bronzo: maior in occasu, ossia maggiore, ma al
tramonto, e gli sembra che quella frase iettatoria abbia a che vedere con i casi
suoi e con quelli del suo regno.
IL PUNGIGLIONE D’AMORE: FERDINANDO, SIA PURE AVVERTITO,
SI IMPESTA DI SIFILIDE

Belle nuit, ô nuit d’amour

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann, libretto di Jules Barbier

Venezia, Canal Grande, febbraio 1688

Ferdinando aveva di nuovo bisogno disperato di fuggire da Firenze; suo


padre era in partenza per la Casa Santa di Loreto, dove portava suo fratello
Gian Gastone tra gran fumigare di incensi, accompagnato da frati, preti,
bizzoche e devoti della corte, a far preghiera perché il suo matrimonio
tedesco, che nasceva sotto i peggiori auspici, con una pazza che dimorava in
Boemia, voluto ad ogni costo da Anna Maria Luisa e da Cosimo, sulla base di
improbabili calcoli dinastici, andasse bene e ne venissero figli a profusione,
desiderio improbabile data la natura esplicita del rampollo. Eppure, malgrado
il sontuoso dono portato dal Granduca, un gran candelabro d’oro di dieci
chili, finemente cesellato, l’atmosfera generale, come c’era da immaginarsi,
era lugubre anziché no.
Voleva scappare da Firenze, da quell’aria che sapeva di medicina, di
disastro, di perdita e di fine. La sua meta fu Venezia: lo attraeva il Carnevale,
la sregolatezza, le prostitute al Ponte delle Tette, le marchette, il gioco del
faraone al ridotto, le commedie, i casotti dei burattini, i castrati, l’opera, i
concerti, insomma tutto. Per qualche ora avrebbe potuto perdere traccia di se
stesso, che in fondo era quello che più gli importava, non avendo intorno
tutto quell’esercito di frati, preti e bizzoche che erano in buona sostanza tutte
spie di suo padre. Non poteva più tollerare le sue ramanzine, la voce
impastata di reprimenda, le profezie di morte e rovina, se non si applicava
subito alla procreazione. Per fare quel tanto sospirato viaggio a Venezia,
aveva firmato un patto: al ritorno avrebbe sposato Violante.
Questa volta era incappato nel fascino di una donna. Una dama della
Serenissima, in odore di cortigiana, anche se d’alto bordo, che egli divideva,
però, con l’arcilibertino Carlo di Gonzaga-Nevers, fanatico di signore in
carne, quando non di donne-cannone e ciccione oversize che teneva, a
dispetto della sua magrissima moglie, nell’harem personale di Casale
Monferrato, salvo poi esibirle a Venezia per il Carnevale. Perciò, avendo dato
nel capriccio al Gran Principe, ce la immaginiamo formosa e procace come
piacevano all’ultimo duca di Mantova. Ferdinando, schifato dalla melassa di
bontà della sua buonissima consorte, sempre pronta a esercitare la virtù della
pazienza, si prese fortemente di una dama che tutto basava sull’eros e sul
cambiare di parere, respingendolo più di quanto non lo accettasse.
Capricciosa, mutevole come il cielo al crepuscolo sulla laguna. Eppure,
malgrado le avesse esibito doni, le avesse offerto libagioni, non aveva
ottenuto che un qualche distaccato cenno d’affetto. Il principe ne aveva tratto
l’oroscopo che lei amasse il Gonzaga e non lui, anche se quello che avevano
da offrire era circa lo stesso. Eppure, no. Non era quello il punto. La dama,
che ci immaginiamo nobildonna dedita al libertinaggio, come l’incantevole
Cecilia Tron che qualche anno più tardi furoreggiava per calli e campielli,
mentre al teatro incidevano sul muro “e brava la Trona / la vede el palco in
teatro più caro de la mona”, disse chiaramente che lei aveva problemi fisici e
per le numerose obbligazioni che la legavano alla casa Medici, per nessun
motivo avrebbe voluto arrecargli danno. Ma Ferdinando era scalmanato, le
toccava il seno, le baciava le mani, si inginocchiava, faceva scene da
damerino come non aveva mai fatto nella sua vita. Alla fine lei calò le carte:
“io sono malata, se ci amiamo stanotte sarete costretto a soffrire per sempre”.
Questa complicazione accese ulteriormente il fuoco del principe, il quale
pensò a intrighi romanzeschi, ad alibi cavallereschi, e per questo ancora di
più volle a tutti i costi possederla. Al che la dama sospirò, cedendo: “sia
come sia, ma non dite che non vi avevo avvertito”. Il pungiglione d’amore
aveva avvelenato il Granduca, che aveva contratto, nella città delle
cortigiane, adattissima a tale scopo, la sifilide che avrebbe finito di rovinare
tutto. A lui, a Violante, di cui poco e niente gli caleva, e infine alla dinastia.
Intanto il nostro, contento, tornava a Pitti con pochissima voglia
dell’imminente coniugio, che cercò a ogni buon conto di rimandare.
COSIMO DÀ IL SUO COGNOME A UN RABBINO CHE SI È
CONVERTITO. ADOTTATO DAL GRANDUCA, QUESTI DERIDE GLI
EBREI, CHE FIERAMENTE DETESTA, PER I LORO USI E COSTUMI
CHE TROVA RIPROVEVOLI

Firenze, Palazzo Pitti, 13 giugno 1688

Cosimo aveva scarsa simpatia verso gli ebrei: dopo che Marguerite-Louise
era tornata in Francia, snocciolò una serie di editti restrittivi, uno peggio
dell’altro. Vietati tutti i rapporti sessuali tra ebrei e cristiani, proibito per i
secondi servire nelle case dei primi, interdetta ogni forma di comunicazione,
abborrita la copula giudaica con le prostitute in terra di Toscana. Le spie
proliferavano, facendo segno all’autorità di venire a prendere, per fare a
mezzo della multa, che rapidamente passava da cinquanta a cinquecento
scudi. Ora Cosimo era contento, perché da poco era venuto a sapere dai suoi
frati di un ragazzo ebreo, dottissimo nelle sacre materie, che si pensava
sarebbe diventato rabbi della comunità. Questi invece aveva cambiato parere
e viveva da qualche mese alla Casa dei Catecumeni. Qui aveva da poco avuto
il battesimo nella vera fede. A Livorno aveva fatto una predica in Duomo, in
cui aveva commosso tutti, parlando del mistero della Santissima Trinità e
dell’orribile errore degli ebrei che per santo miracolo era stato illuminato ad
abbandonare. Il Granduca aveva fatto una preghierina, presa la sua croce da
collo preferita, il rosario, e si era apprestato con due suoi ministri a recarsi
alla cerimonia. “Tu non sarai più Moisè di Alessandro Leon, ma Paolo
Sebastiano Medici, avrai il nome della dinastia che regge Firenze e che ti sia
d’augurio alla tua opera di apostolato per convertire quelli del tuo popolo,
schiavi di una dottrina falsa e bugiarda.” Il Granduca aveva istituito pensioni,
premi per chi si faceva cristiano nel suo regno: non pochi erano gli impostori
che fingevano di esser giudei o turchi, o che tornavano più volte nella città,
con diversi travestimenti, per vedere di raccogliere più denari. Nessun
investimento spirituale fu però più efficace di quello sullo zelante apologeta:
egli cercò, a rischio di botte e punizioni dai suoi antichi correligionari, di
convertire più persone che potesse. Non indietreggiò nemmeno di fronte alla
falsità più patente: in un caso scrisse che il mercante di stoffe Sabato Pacifici,
detto Piacevolino, a cui era stato alle calcagna per lungo tempo, ammalato
gravemente, avesse urlato, nell’agonia, “datemi il mio Gesù, voglio il mio
Gesù”, e Paolo subito, forzando la realtà, lo aveva messo nelle liste dei suoi
correligionari che aveva convertito al vero Verbo del Signore. Nel 1736
pubblicò un libro destinato a larga diffusione, che mise a punto
l’antisemitismo italiano: Riti e costumi degli ebrei confutati. In queste pagine
trasuda un odio inestinguibile: continua è la descrizione delle strade sporche
del ghetto, della puzza acre di sterco che permane nelle strade per via
dell’allevamento massiccio delle oche nelle cantine, cibo kasher per
eccellenza. Da costoro infatti ebbe nome quella via dietro il Duomo che è
loro dedicata. Nelle pagine del nuovo Medici compaiono una fila disperante
di gobbi, storpi, deformi, degna di Bosch. Quella visione dà testimonianza
dell’abitudine a sposarsi tra cugini, per mantenere in famiglia il patrimonio,
che spesso, malgrado la sporcizia, era immenso. Specialmente, tuonava
contro la pratica dell’amidà, quella micidiale sequenza di maledizioni, che in
sinagoga gli ebrei lanciano contro i loro nemici, ossia tutto il mondo. Paolo
girava come un ossesso per il reame dei Medici a cercare ebrei da convertire,
e nel frattempo scriveva parole di piombo, pesanti come un macigno, contro i
suoi antichi correligionari. “Non si può tollerare l’abuso degli ebrei nella
dogana di Firenze che, per estrarre le loro merci, proferiscono il Santissimo
Nome in vano e hanno l’abito indegno, l’insolenza e la temerità di giurare
frequentemente e a ogni piccola congiuntura che loro davanti agli occhi si
rappresenti.” Tutto il giorno nelle vie del ghetto si sentivano risuonare rosari
di giuramenti: “per la vita mia, per la vita tua, per i santi sefarimmi, per la
santa torah”. Balle, miserabili balle. Spergiuri, bugiardi, truffatori, i giudei
erano sempre pronti a ingannare i goym, che in piazza li disprezzavano, ma
poi venivano di nascosto nel dedalo tortuoso di via delle Oche a chiedere
denari in prestito, ma che per carità non si sapesse, ne andava della
riputazione. Le signore mandavano le serve a chiedere amuleti al rabbi per
non restare incinte dell’amante, che al marito non gli veniva più duro dopo un
colpo apoplettico e altri figlioli non ne potevano proprio avere. O invece, se
erano sterili, domandavano pozioni e sciroppi per restare incinte subito, al
limite meglio di due gemelli, così si risolveva il problema dell’eredità. I
vecchi mandavano a cercare da chi si occupava d’alchimia l’oro potabile,
polvere disciolta in liquore, che sanava da ogni male e garantiva prestazioni
sessuali da giovinotti anche ai moribondi decrepiti che con le mani adunche
nella braghetta tentavano di risvegliare l’antico alleato della loro lussuria. Le
loro mogli cercavano pomate miracolose per stirarsi le mille rughe e le eterne
zampe di gallina intorno agli occhi. Altri, più preda di chimere, chiedevano
l’interpretazione della Clavicola di Salomone, per trovare tesori segreti e
uscire da una miseria senza speranza, non considerando quella che si vedeva
intorno nel ghetto. Tornava spesso un erotico fantasma nei discorsi del
popolino: lo sanno tutti che per via del cibo kasher gli ebrei ce l’hanno
sempre in tiro, col fatto che sono tutti circoncisi durano di più dei cristiani e
si offrono a pagamento come prostituti a preti corrotti e a suore in calore per
orge in convento, come era accaduto nel Monastero di San Martino alla
Scala, dove la madre badessa, insieme a un prete computista, responsabile
dell’accesso al parlatorio del convento, era sempre a caccia di falli grossi per
orge notturne lunghe e sfinenti. E se poi c’era qualche frutto indesiderato,
chiamavano Ester, la levatrice ebrea, con la faccia che sembrava una strega
del sabba, a risolvere il problema. Paolo Medici odiava specialmente quella
che definiva la loro lingua orrenda, quell’idioma che a Livorno si chiama
“bagitto”: “perché essi ebrei hanno una maledizione di Dio, che in
qualsivoglia Città ove stanno, corrompono quella lingua che peraltro è ben
parlata: con la loro ingrata favella si fanno conoscere per ebrei”.
Cosimo chiedeva ai suoi frati dei progressi di quel catecumeno a cui aveva
dato il suo nome e tutti erano entusiasti della sua determinazione, dell’alto
punteggio delle sue conversioni. Fanatico, ma anche vanesio, passava ogni
tanto alla chiesa dell’Annunziata a vedere il busto di Vitale Medici, un altro
convertito illustre, e del figlio suo Alessandro, opera distinta del grande
scultore Francesco Mochi. E invece, era venuto antipatico a tanti, anche a
corte, e quindi non toccò al Foggini di scolpirlo. Invece fu il pontefice a
ordinargli, quando morì, in riconoscimento del suo straordinario fervore, un
tabernacolo all’altar maggiore nella chiesa dell’Immacolata Concezione ai
Prati di Castello in Roma. Sempre meglio di niente.
MARGUERITE-LOUISE DA PARIGI BUSSA A QUATTRINI E
MINACCIA, CHIEDE AL FIGLIO FERDINANDO DI RUBARE
QUALCHE GIOIELLO DEI MEDICI, MA QUELLO È MESSO PEGGIO
DI LEI, E SEMPRE MENDICA DI AVERE DENARI DAL PADRE
AVARO

Parigi, Convento di Montmartre, dicembre 1688 – giugno 1689

Marguerite-Louise doveva ben figurare come le altre principesse, quando


si recava a corte. Per questo era così spendacciona, dispensava ancora più
soldi, e presto si ritrovava al verde, senza il becco di un quattrino. Cominciò a
scrivere lettere minatorie al marito a Firenze e a convocare tutti i giorni il
residente toscano a Parigi, lo Zipoli, che a breve non ne potè più e implorò di
potersene tornare in Toscana, per sfuggire ai tormenti di quell’arpia.
In ogni sua missiva inviata a Firenze ribatteva sul tasto che preferiva,
come un’ossessa: “non è colpa mia, consorte, se la vostra politica ha reso la
vostra regione un deserto, e se io scampo la vita come una miserabile, nella
mia terra d’origine dove tutti giudicano di voi e della vostra miserabilità, nel
mentre che mi trovo povera come mai fui nella mia vita. Chiederò al re, mio
cugino, di poter scontare un prestito sulla dote. Ho venduto la collana di
perle, ora devo impegnare quella di diamanti, mi è testimone Zipoli”. Nel
frattempo il corrispondente toscano, con uno stratagemma, e un bagaglio
leggerissimo, aveva ripreso la via di Firenze, dove era arrivato, sano e salvo,
dopo un mese di viaggio, sfuggendo finalmente le ire della signora.
Marguerite scriveva al figlio a cui era più affezionata, Ferdinando, e gli
chiedeva di implorare per lei il padre dal cuore di pietra, e che se non riusciva
ad avere denari, almeno rubasse qualche gioiello dello sterminato tesoro dei
Medici, che tanto quell’avaraccio di suo padre non se ne sarebbe nemmeno
accorto. Però il rampollo, che ci mise mesi a rispondere a quella richiesta
imbarazzante, era più spiantato della madre, e aveva una battaglia aperta con
il genitore, a cui non voleva mai dare udienza, affidandosi per questo al suo
evirato cantore favorito, Cecchino de Castris, che riuscì a stabilire un accordo
tra quei due che non riuscivano in alcun modo a comunicare. Cosimo le
provò tutte per non pagare, ma infine dovette ubbidire obtorto collo alle
richieste del residente francese a Torino, che giunse a Pitti recando un chiaro
protocollo nelle sue mani di ciò che il re gli aveva ordinato. Infine il
Granduca disse di essere pronto a “bevere l’amaro calice”, ma non certo
subito e, con arte consumata, si dette a quello che più lo animava, la
possibilità della dilazione e del ritardo. Marguerite-Louise imprecava e lui
mandava messaggi anodini: “purtroppo le finanze… in effetti vorrei
saldare… non manca molto a quando potrò spiccare la lettera di credito…”.
Nel frattempo Madame nelle lettere esplodeva di stizza, rabbia, ira. Infine
ebbe i suoi ventimila scudi, Marguerite-Louise, ma quando le arrivarono,
aveva fatto tanti di quei debiti che si preparò subito, come una guerriera
implacabile, a ricominciare le sue richieste al Granduca, che aveva strategie
sempre più sofisticate per ritardare, dilazionare, rimandare, sperando, poco
cristianamente, che il Signore chiamasse a sé la sua indomabile consorte.
VIOLANTE CONVOLA CON FERDINANDO E SCOPRE, SUBITO, CHE
SUO MARITO AMA DI PIÙ CHIUNQUE CHE NON SIA LEI: E IN
SPECIE GLI EVIRATI CANTORI DELLA SUA CORTE A PRATOLINO

Firenze, Cappella di San Lorenzo, 9 gennaio 1689

Se il buongiorno si vede dal mattino, l’ingresso di Violante il 29 dicembre


del 1689 a Firenze era proprio sotto una cattiva stella. Faceva freddo; dopo
un mese di viaggio la principessa Wittelsbach avrebbe voluto vedere il volto
del suo promesso, ma quello era troppo impegnato a darsi a un ultimo viaggio
di piacere, che aveva contrattato, strenuamente, con il padre, in cambio
dell’adesione a un matrimonio che in nessun modo voleva. Mandò quindi
avanti suo fratello Gian Gastone ad accoglierla a Porta San Gallo e questi
fece debitamente il suo compito, ben districandosi nel cerimoniale e
nell’etichetta. A Palazzo Pitti si ritrovò sola, non avendo per la giovane età
(quindici anni), una sua propria corte, non fosse per la balia, luterana in
segreto, che era una donna assai saggia e le era fedelissima. Si dette subito a
ben apprendere la lingua; comprese che il suocero, così devoto, avrebbe
potuto essere suo alleato. Infine il principe arrivò: bello, charmant, ostico.
Guardò subito di malocchio quella signorina elegante, ma non troppo bella, di
cui al suo seguito ribaldo dette presentazione come di un viso da pecora.
Violante si sentì giudicata da tutti, quando venne portata sotto un baldacchino
dai rampolli della nobiltà toscana: il corteo fu lungo. L’orazione in chiesa
venne tenuta dal celebre padre Morigia e poi negli applausi generali il
Granduca le mise in testa la corona che era appartenuta a Cosimo I.
Ferdinando sapeva essere tagliente: rispettò il cerimoniale, ma ai suoi
ragazzacci diceva: ha un profilo di pecora. E meno male che non trapelò
subito una sua prerogativa inquietante, di cui, malgrado lei si guardasse bene
dal parlare, qualcosa si venne a sapere. Era infatti, nella sua maniera,
veggente: ma non le comparivano i morti, bensì i vivi, che vivevano
lontanissimi. Tra di essi la suocera famosa, che mai incontrò di persona. Essa
entrava nella sua mente in certe notti senza luna, e la fustigava parlando un
basso dialetto bavarese, come una donna che aveva visto al mercato, dicendo
che a Firenze il suo destino sarebbe stato di amarezze e morte. Sapeva lei
quanto avesse dovuto lottare con la tentazione di disperarsi. Sempre la
preghiera l’aveva sorretta e il frate confessore le aveva spiegato che quella
virtù, per quanto imbarazzante, doveva venire da Dio e che avrebbe saputo un
giorno, per illuminazione, come avrebbe potuto usarla per il bene del
prossimo. Intanto aveva già troppe difficoltà a padroneggiare i
complicatissimi usi e costumi di una corte sempre divisa tra opposte tensioni.
Una delle sue visitatrici oniriche l’avvertì con insistenza che gli anni prossimi
per lei sarebbero stati di dolore e devozione: il primo perché maltrattata dal
consorte, la seconda come via per trovare un ruolo nella sua nuova patria.
L’oracolo fu fedele: a lei Ferdinando preferì a letto l’evirato cantore
Cecchino de Castris, e poi la bella Bambagia, interprete di canzonette. Forse
per questo non era contenta, la tedeschina, alla prima del Greco in Troia alla
Pergola, in onore della nuova coppia regale: le sembrava che tutti gli
interpreti potessero essere amanti del suo difficile amore.
Violante per molti decenni a venire fu al centro di ogni pubblica
devozione: per questo in breve il suocero sviluppò per lei una profonda e
radicata affezione. In quella reggia di Pitti spesso così ostile trovò un
compagno in Gian Gastone, a cui prese subito grande affetto, tentando di
medicare la sua cupa melanconia. Facevano giochi da bambini: domino,
bandierina, poi un poco di merenda, e un silenzio lieto a due, nella luce
meridiana di Boboli, finalmente liberi da tutte le malignità che li
circondavano. Per qualche ora di nuovo felicemente bambini, prima che il
tempo e il suo alleato più fedele, il disinganno, li inchiodasse alle loro dure
responsabilità terrene.
COSIMO COMMISSIONA LA MORTE: IL PITTORE GIUSEPPE
NICOLA NASINI DIPINGE LE QUATTRO GRANDI TELE DEI
NOVISSIMI PER L’APPARTAMENTO PRIVATO DEL GRANDUCA

Firenze, Palazzo Pitti, gennaio 1690

Cosimo legge contento le notizie di morti e cadaveri: ha un sussulto


quando sente che in Arno, poco fuori di Porta San Frediano, al Pignone, è
stata ritrovata la salma di un turco schiavo chiuso in un sacco. L’avevano
portato per venderlo, ma si era ammalato e i proprietari non volevano pagare
gabella, quindi se ne sono disfatti forse quando era ancora vivo. Ascolta il
bargello, mentre dà i dettagli del ritrovamento; d’altra parte egli spasima per
scheletri e cadaveri da poter ammirare a ogni momento. Commissiona quindi
a Giuseppe Nicola Nasini, architetto primario della Casa Serenissima,
amiatino di origine, a cui aveva pagato gli studi a Roma con Ciro Ferri e un
lungo soggiorno di studio a Venezia, quattro grandi tele dette dei Novissimi,
nate per essere incorniciate dagli ornati eleganti del Foggini nel Salone del
Trucco in Palazzo Pitti, dove si trovava l’alcova granducale, vicino alla
stanza della stufa.
Il soggetto dei lavori, a cui l’artista attese con il cugino Tommaso, era:
Morte, Giudizio, Inferno e Paradiso: Nasini era uno specialista del tema,
trattato anche da suo padre nel santuario della Madonna di San Pietro a
Piancastagnaio, sulle sue montagne. Dagli usi veneziani giungeva invece
l’idea dei gran teleri, difficili da collocare, che a Firenze non si erano visti,
fino a quel momento. Per Cosimo è la scusa perfetta per un’orgia senza
ritegno di cadaveri, corpi mozzati, ma specialmente scorticati, spellati, senza
scordare anche creature ancora oscenamente semivive, ma già dimoranti nel
regno della morte. Specialmente si esaltava alla rappresentazione della Morte
del ricco e la morte del povero, cupissimo spettacolo di lugubri monatti
intenti a spostare e rimuovere cadaveri, nel momento in cui tutta la realtà era
solo un grande sterminio per via di una maligna pestilenza. Cosimo sempre
godeva a pensare quanto la sua anima si sarebbe rivelata monda alla bilancia
di precisione del paragone divino, mentre i reprobi della sua famiglia (quasi
tutti, a parte la sua devotissima madre, requiemaeternam) sarebbero filati
dritti all’Inferno, per la somma di tutti i loro ributtanti peccati, che si
aggiungevano sempre alla stessa materia: “abuso della carne”, scialo e spreco
dei sensi. Tra gli stucchi, con un carattere “alto quattro soldi”, il Foggini
aveva vergato di sua mano il monito di tutto il lavoro: et in Aeternum.
Appena morto Cosimo, con rapida decisione, i sinistri teleri vennero trasferiti
alla chiesa di San Francesco a Siena, ritoccati dal pittore Giuseppe Mazzuoli,
che era dovuto intervenire a rimettere a posto le parti più danneggiate, e poi
sempre più allontanati alla vista, fino a che nell’Ottocento, divenuta la chiesa
prima ricovero ospedaliero e poi riparo di soldati, vennero messi dietro l’altar
maggiore, e infine qualcuno li eliminò addirittura, dandoli alle fiamme, forse
considerandoli, né più né meno, l’opera di uno jettatore.
IL FETORE DEL TEMPO, L’UMANO CROLLO, L’IMMANE
SCHIANTO: COSIMO AMMIRA L’OPERA DI GAETANO ZUMMO,
CEROPLASTA

Firenze, Palazzo Pitti, dicembre 1691

Cosimo non riusciva a resistere al fascino della decomposizione: la morte


lo ossessionava, e la teneva a bada, giorno per giorno, in una battaglia senza
esclusione di colpi, insieme ai suoi frati, in un profluvio di orazioni e
devozioni. Eppure continuava a pensarci: chiamava il Redi, medico di corte,
di cui diffidava in parte, perché assai poco religioso, però nessuno come lui
sapeva raccontare di come i corpi si disfanno. Egli aveva infatti scritto parole
definitive contro la generazione spontanea, dimostrando che i vermi non
venivano dalla materia organica, ma la usavano casomai come sostrato. Il
banchetto smodato degli invertebrati eccitava cupamente il Granduca, niente
gli dava più contentezza che pensare all’olocausto del corpo che la natura
aveva creato ad maiorem gloriam Dei.
Chi però dava più gioia al Granduca nella sua funeraria passione era il
maestro della cera, Gaetano Zummo. Di lui, siciliano di pelle scura, si diceva
che fosse di ascendenza moresca, rampollo di una schiava o addirittura in
odore di negromanzia. Di questo non si poteva parlare, ma il tema era
presente eccome negli interessi dei committenti fiorentini, se no non
esisterebbero quadri come L’evocazione delle forze demoniache per la
preparazione di un filtro d’amore di Alessandro Rosi o L’evocazione di
demoni di Pier Dandini, vero e proprio sabba di orrorifiche fattezze. Il
ceroplasta aveva vinto il cuore del Granduca con l’agghiacciante Testa di
scorticato, che aveva fatto piangere di commozione Cosimo. Quanta
precisione in quella carne che diventava osso, che si poliva fino all’estremo
del bianco finale, che avrebbe fatto la sua figura nella valle di Giosafatte,
quando finalmente sarebbe arrivato l’Armageddon e poi tutti puniti. Che
splendore di titoli: La Corruzione I e II, le agghiaccianti Consequenze della
sifilide, così ricorrenti nella famiglia Medici, peraltro, da far sì che la statua di
cera fosse un po’ la ripetizione artistica di quello che si poteva ammirare dal
vivo, nei corpi marchiati dalla vérole dei familiari. Cosimo e il figlio
Ferdinando volevano entrambi questi incantevoli teatrini dell’orrore, in cui il
tempo si svelava come vanità, belletto, in attesa della finale palingenesi. Nel
frattempo Cosimo pensava a quanto era buono, perché aveva preso da sua
mamma Vittoria, fiore di virtù e devozione, e una lacrimuccia gli spuntava al
margine del ciglio. E poi a breve c’era un nuovo trasporto funebre, e quello sì
che gli piaceva: si compiaceva con se stesso di aver sostituito i trattenimenti
mitologici dei Medici, così discutibili, con decorose funebri pompe,
catafalchi. Le lacrime, anche se di convenienza, lo esaltavano. Come era stato
bello e commovente quando era morta mamma Vittoria. La cerimonia era
cominciata alle ore ventiquattro con cavalli e cavalieri con la torcia in mano,
poi era stata portata la croce di San Lorenzo, poi c’erano i domenicani e i
francescani. L’indagine autoptica sul cadavere della genitrice, l’apertura, lo
svuotamento e la ricucitura era stata esaltante, e che bello vedere il corpo che
si sfaceva, poco a poco, sentire quel lezzo pesante, prova di vera devozione,
diffuso nella chiesa, e lui capiva subito chi erano i veri devoti alla dinastia,
vedendo chi stava più vicino al catafalco, senza fare tante scene, chi evitava
di mettere sempre mano alla boccettina di profumi.
ANNA MARIA LUISA TROVA FINALMENTE MARITO, CHÉ SE NO
VIENE CERTIFICATA COME ZITELLA, E DIVENTA LA REGINA DI
DÜSSELDORF

Firenze, Duomo, 29 aprile 1691

Anna Maria Luisa era una donna alta, aveva voce fonda di contralto,
dignitosa, di modi autoritari. Si presentò in Duomo accanto al padre, in attesa
di convolare in terra di Alemagna con l’elettore Giovan Guglielmo. Aveva
indosso un gran vestito di broccato bianco, con gioie di ogni tipo, occhi e
capelli neri come la notte, di tanto in tanto dava in risate sguaiate. Fin
dall’infanzia ne aveva fatta una passione, per le gemme: nel ritratto che le
aveva fatto il Sustermans, all’età sua di tre anni, aveva una croce di diamanti
e rubini, e le rosse pietre comparivano anche sullo smaniglio, che domina il
quadro. Infine aveva trovato marito, e non era stato facile, per niente. Ormai
la ragazza aveva ventitré anni e per i criteri dell’epoca era né più né meno
una vecchia zitella. La quantità dei rifiuti che aveva ricevuto era notevole:
Spagna, Portogallo, Francia avevano detto picche. Come premio di
consolazione Versailles aveva ribadito che il Re Sole l’aveva lodata, ma era
stata sua madre a buttare tutto per aria. Lei aveva a sua volta rifiutato di
prendere anche in considerazione di sposare il duca di Modena o di Parma:
che umiliazione accettare per ripiego dei principotti italiani, che avrebbero
vanificato le sue aspirazioni di grandezza. E poi suo padre non avrebbe mai
accettato: già sputava bile perché il Savoia aveva ricevuto, nell’accordo con
l’imperatore, il sospiratissimo “Trattamento regio”, che gli permetteva di
essere chiamato re. Chiedeva all’imperatore conto di come un Duca potesse
avere più potere di un Granduca: dico, ognuno al suo posto. Gli ambasciatori
di Firenze dovevano venire in ordine dopo quelli della Serenissima. Francia o
Impero erano le due uniche possibilità: l’Absburgo, non volendo irritare il
Granduca, affrettò il matrimonio con l’Elettore Palatino di Düsseldorf, inviso
al Re Sole, ma infine l’accordo si fece. Anna Maria Luisa era sposa: Cosimo
sperava in un esercito di nipotini, per ripopolare lo sguarnito albero
genealogico dei Medici, ché il tempo correva e lui vedeva la reggia di Pitti
spopolata e una dinastia nemica insediata al posto della sua. La signora si
mise in viaggio con il fratello Gian Gastone, che parlava tedesco, il 6 maggio,
ed ebbe la ventura di incontrare suo marito a Innsbruck, come non era
previsto. Il secondo matrimonio fu sotto il simbolo del sole d’Absburgo, nella
loro città di elezione: i doni per la sposa furono molti, uno indesideratissimo.
Già la prima notte, infatti, il marito, che si rivelò affettuoso e prodigo verso la
consorte, le passò il morbo che gli bruciava il corpo. La sifilide divenne parte
del corredo di Anna Maria Luisa, e malgrado cure, fattucchierie, terme,
unguenti e balsami, di figlioli non fu proprio il caso di parlare. In cambio il
Granduca ebbe il desiderato Trattamento regio: fu suo genero ad adoperarsi
presso l’imperatore perché quel prezioso diploma giungesse a Firenze, ma
non fu senza numerosi incomodi e un oneroso conto da pagare.
LA VOLIERA DI GIAN GASTONE

Firenze, Palazzo Pitti, estate 1691

Gian Gastone nella famiglia ha da tempo fama di pazzo, di malato di


mente, si sussurra che al primo quarto di luna dia fuori di sé, che abbai al
cielo, lo si figura come una creatura della notte, un licantropo perfino. Però,
quando è lucido, parla a tono, sa quel che si dice e quel che si fa. Tutti
dicono, chiaro e tondo, che da quel babbione un sovrano non si avrà: egli
però ha il suo metodo nell’alterazione. Paolo Segneri, teologo, casuista, uomo
di raffinato pensiero cristiano, scrive al di lui padre: “sono molto sorpreso che
il principe abbia perso la fiducia in tutti. Ma come può perderla nel suo
confessore? Non so se questi lo ha messo in guardia contro il rimuginare in se
stesso i suoi pensieri. Non tralascio mai di pregare per lui, come vostra
altezza mi ha richiesto: però bisogna che si aiuti anche da sé”. Selvatico, ama
poco mescolarsi agli altri Medici, fugge dai sudditi, che hanno d’altra parte
poco interesse in lui. Solo Violante, per il suo istinto di compassione, gli è
vicino, lo interroga sulle sue passioni, sulle sue ansie, ma è ritroso, anche con
lei, si apre solo a tratti. Vive in un suo quartiere isolato sopra il Palazzo di
Pitti, dove si dedica a ciò che davvero gli dà gioia. Gli uccelli, ma per ora non
quelli dei maschi, che guarda comunque volentieri. Investe invece tutto ciò
che ha in rarità ornitologiche. Canticchia i nomi delle bestie che lo rallegrano:
cacatua moluccensis, e si indirizza a un gran pappagallo dritto sopra il suo
trespolo. Poi intona phoenicopterus ruber, che è un fenicottero di cattivo
umore, dispettoso e bisbetico, che becca tutti quelli che gli si avvicinano. Tre
gli esemplari di chrysolophus pictus, ossia il policromo fagiano delle Indie,
che veniva diffuso dalla Cina e aveva trovato larga diffusione tra le delizie
cinesi a Versailles. Arrota in bocca le parole, le gode una ad una, quando si
slancia sulla Nycticorax Nycticorax, ossia il corvo di notte, di cui lo seduce il
nome. Gli sembra che almeno quella bestia possa scappare dalla gabbia,
anche se lui da bravo heautontimorumenos la prigione se l’è scelta da sé.
Tutti gli piacciono gli uccelli, a parte quelli necrofori. Per questo ha rifiutato
un magnifico esemplare di avvoltoio capovaccaio, di cui però assapora
quell’appellativo che gli sembra dichiarazione fatale di una funzione senza
scampo: “neophron percnopterus”. Cerca di carezzare quell’elmo durissimo
che ha in testa il casuarius casuarius, che è poi uno struzzo, che non vola, ma
corre velocissimo, anche se gli hanno detto che quell’animale ama poco le
smancerie e può ribellarsi in malo modo. Talvolta, in mezzo a tutti quegli
uccelli, gli pare di essere un felino, ma solo per quanto è selvatico, mai e poi
mai attaccherebbe le sue creature. Gli sovviene di un quadro dello Scacciati
che recava questo cartiglio burlesco: “signor Priore, il povero gatto Mico
detto Mascherino essendo inquisito di ladro, si ritrova in angusto carcere con
sola cipolla da mangiare, e chiede grazia della vita”. Ma Gian Gastone sa
benissimo che grazia non c’è, né può esservi, per lui. Si ritrova nella sua
esistenza una persecuzione che è poi in buona sostanza la vita stessa,
complicata sequenza di trappole senza rimedio, né scopo, che ci invischia
sempre più nei suoi oscuri giochi. Il giovane sa che tra poche ore ci sarà la
luna, e che non sarà più padrone di sé. Chiede al suo famiglio un innaffiatoio
piccolo di maiolica e si dedica a dare acqua a piante tropicali che cresce nelle
sue stanze, per conforto, ristoro e nutrimento dei suoi uccelli. Qui stagna un
odore che sta tra il pollaio e la giungla. Visto che spesso le specie mal
tollerano il cibo locale, si fa mandare dall’Oriente semi che poi pianta nelle
sue stanze, e sorride quando i suoi uccelli ne strappano i fiori o le foglie,
testimonianza perfetta del suo amore. Gli altri nella famiglia lo deridono un
po’, ma anche si preoccupano per lui, lo vedono troppo orso. Lo invitano a
Pratolino a vedere le commedie, lo zio Francesco Maria gli insegna a giocare
alla bassetta; questo lo sveglia dal torpore, ma la sua passione per il gioco si
fa troppo accesa, perde come un matto e vuole perdere ancora, e gli altri
giocatori, per riguardo ai Medici, si allontanano dal gioco, perché non debba
diventare una situazione grave.
CAZZI E COLONNE: IL RIMEDIO DI FILIPPO PIZZICHI CONTRO
L’ESTINZIONE DELLA DINASTIA MEDICI

Firenze, via degli Arazzieri, 14 aprile 1694

All’angolo tra via degli Arazzieri e via Larga in antico era stata collocata
una colonna celebrativa. Venne rimossa quando giunse in trionfo Maria
Maddalena d’Austria, moglie di Cosimo II. Nella ricchissima corte di
beghine e devoti che stanno al seguito del Granduca, si distingue per
parlantina e insistenza Filippo Pizzichi, che sa come cavare dal monarca,
angosciato per la mancanza di eredi al Granducato, bel denaro sonante e
cantante. Egli lo convince che su quella struttura debba essere posta una
statua benaugurante di Sant’Antonino che benedice la città: senz’altro
l’Altissimo in cambio provvederà alla grazia, di cui tutti sentono la
mancanza, che Ferdinando e Violante abbiano finalmente rampolli, figli,
prole, e specialmente di sesso maschile, ché con le femmine Medici al
problema non si rimedia, se no Cosimo, come spesso ha pensato, si
risolverebbe a chiedere che il nuovo Granduca sia Anna Maria Luisa, che ha
l’istinto del comando. Il costo dell’operazione è elevato, e per questo Pizzichi
chiede di poter raccogliere elemosine. Si adopera in tutta la città, compie una
discreta vendemmia, fa porre in piedi la colonna, ma la statua rimane a terra:
nel frattempo si costruisce una bella casa in via Larga, con tutti i più moderni
conforti. Violante vorrebbe dare il capo nel muro, perché per l’ennesima
volta è diventata oggetto di una barzelletta, di un lazzo burlesco, mentre
aggraderebbe così tanto di sparire da queste forme di morbosa attenzione.
Infine lo scandalo peggiora: una mattina compare un distico perfetto, quanto
crudele, che spiega a chiaro titolo come quella del faccendiere sia una truffa
bella e buona ai danni dei creduli e della cittadinanza. “Pizzichi mio, a
ingravidar donne / ci voglion cazzi e non colonne”: Violante piange,
disperata, quando è sola, di notte, non si fa vedere nemmeno dalle sue
cameriste più fidate. Quando una signora, picchiata gravemente dal marito, le
si rivolge per aiuto, risponde che anche lei ha ferite, e profonde, che deve
sempre sforzarsi di camuffare dietro un sorriso. Però il Granduca precipita
ancora al peggio il dolore della tedeschina, quando poco dopo ha l’idea di
indire tre giorni di clamorose messe di suffragio in molte chiese fiorentine per
impetrare la fertilità della sposa, rivelando così al mondo l’amara condizione
di sterilità in cui si trova. Ma si sa, il Granducato per Cosimo viene prima di
tutto.
MARGUERITE-LOUISE, DOPO AVER FATTO FUOCO E FIAMME, E
MOLTO AVER INTRIGATO NELL’OMBRA, SI TRASFERISCE A
SAINT-MANDÉ. MENOPAUSA E BENEFICIENZA, LENTAMENTE,
ENTRANO NELLA SUA VITA

Convento di Montmartre e Convento di Saint-Mandé, gennaio-settembre


1693

Al convento tutti avevano capito che Marguerite-Louise aveva una tempra


d’acciaio, e che piuttosto sarebbe morta, prima di dare in un lamento o di
vedere disattesa la sua radicale volontà. Altrettanto era chiaro che aveva il
talento di uno stratega antico: che avrebbe potuto sgominare in campo aperto
l’esercito del re Dario. Aveva specialmente sullo stomaco la nuova badessa,
Madame d’Harcourt, di cui si era fatta subito una nemica. Questa un giorno
ebbe l’ardire di rimproverarla, e la Granduchessa la inseguì con in mano
un’ascia e una pistola, urlandole contro che era una poco di buono e che le
avrebbe fatto vedere lei, mentre l’altra scappava per il lungo corridoio in
cerca di aiuto dalle consorelle. Si era fissata di voler tornare al più presto al
Luxembourg, ma ancora vi erano impedimenti. In quell’anno di cambiamenti
Madame ebbe l’avvisaglia della menopausa che giungeva, per cui si mise
l’anima in pace sulla ricerca affannosa di bei ragazzi plebei, non si sa poi se
per erotico passatempo, o per il gusto di far del male a Cosimo, che per tutti
quegli anni le aveva messo alle calcagna spie di ogni tipo. In ogni caso, prima
di quel giorno, aveva ancora un bel po’ da scapricciarsi. Le lettere che
scriveva all’odiato consorte erano del tenore di quelle che avrebbe vergato
una santa: “sto con le mie sorelle, e il tempo che ho lo passo negli ospedali e
nelle opere pie. Voglio servire i malati, ma non a Parigi, dove ho troppe
distrazioni mondane, ma bensì nelle province, dove nessuno si ricordi il mio
nome, e dove la mia umiliazione in Dio sia più compiuta e perfetta. Sono
stufa del mondo, che mi ha dato solo delusioni”. Il Granduca sarà stato
tedioso, ma non era certo sciocco: questa smania di abiurare il suo splendente
passato poco gli tornava e gli puzzava di falso lontano dieci miglia.
Acconsentì a farla andare a Saint-Mandé, poco fuori Parigi, ma con patti
severi: sempre accompagnata, e che non potesse uscire in viaggio dalla
dimora conventuale, se non con un permesso scritto del re. Ci volle
l’intervento del celebre predicatore, il padre La Chaise, perché il gran Luigi si
convincesse a dare il suo permesso. Quando giunse nella sua nuova comunità
si prese il gusto di interpretare un ruolo che fino a quel momento le era
mancato: la moralizzatrice. Già, nel suo nuovo luogo di dimora, la badessa
fuggiva per un mese sfruttando la protezione di un travestimento maschile,
mentre le converse saltavano ogni notte il muro del convento per raggiungere
il loro innamorato di turno. La riforma delle religiose non escludeva certo che
avesse per amante un frate sfratato, certo Bonaventura, ma era un legame
tenue, che presto le venne a noia. Comunque il fatto di esser diventata la
badessa de facto di quel luogo, per la prima volta dopo anni di furore, la
placò un poco verso il suo antico marito, che sempre detestava, ma che
sempre meno ricordava, se non per lanciargli strali. Il suo consorte, poi,
aveva ben altro di cui occuparsi: nella notte del secondo giorno dell’anno,
qualcuno aveva lordato di merda una statua della Madonna: crimine grave,
esecrando. Per scoprire chi ne fosse l’autore, i magistrati offrivano al popolo
da 200 a 300 scudi di ricompensa, ma nessuno aveva elementi sicuri. Cosimo,
sconvolto fin nell’intimo delle sue fibre da questo evento, ordinò una
processione di espiazione alla fine del mese.
LA CARRIERA DI UN LIBERTINO: ENTRA IN SCENA IL BEL
GIULIANO DAMI

Mercatale Val di Pesa e Firenze, 1695-1697

Bello era bello, ma sempre con un che di losco e di infido: e d’altra parte
oltre all’avvenenza non aveva altro capitale. Aveva capito da subito che lo
doveva far fruttare, al massimo. Il padre, Agnolo, era ciabattino,
“meschin’arte”, come si diceva all’epoca; la madre, Catera, figlia ultima di un
fabbro spiantatissimo e troppo prolifico. Quindi per il bel Giulianino, che era
nato nelle terre di lavoro, da innaffiare con il sudore della fronte, a Mercatale
Val di Pesa, non c’era che fare il contadino, sotto la guida dello zio Piero.
Ma questi operava nella tenuta del cavalier Marmi, mentre la mamma si
dava a chiedere l’elemosina, e batteva raminga le campagne per raccogliere
erbe e legna. Le fascine furono per Giuliano la sua insegna di battaglia: dopo
che il fascino gli aveva conquistato il cuore e il sedere di Gian Gastone, si
fece uno stemma con tre mucchi di legno, ricordando le sue origini
miserabili, in effigie, a sfregio di tutti quelli che gli volevano male, che erano
già tanti.
Prima, però, aveva capito che l’unica cosa che gli serviva nel fare il
contadino era ancheggiare lascivamente sulla zappa e sulla vanga, facendo il
meno possibile. Per primo lo adocchiò Marione, il sovrintendente delle
coltivazioni dei marmi, che ci mise poco a capire con chi aveva a che fare.
“Palle, te tu se’ sprecato ne’ campi, tu sa fare meglio artre cose.” Ormai
vecchio lo zio, il ragazzo si rimise alla marcia di avvicinamento per Firenze:
a dorso di mulo raccoglieva immondizie e svuotava pozzi neri. Era bello sì,
d’estate seminudo sempre, si strappava qualcosa dei suoi stracci per fare
vedere le cosce sode e per qualcuno anche l’effluvio rivoltante del suo
mestiere era un pimento erotico. Passò quindi da un prete miserabile, che lo
affamava, al voluttuoso messer Bernardo, che lo cacciò perché non era abile a
servire a tavola, anche se era un genio a lanciare sorrisi lascivi, sguardi in
tralice, colpi d’occhio che significavano la disponibilità a tutto. Però era
ancora coperto di stracci, la madre e le sorelle andavano per legna, il fratello
minore agli Innocenti, e per lungo tempo ce lo lasciò, salvo poi farlo mandare
al carcere di Portoferraio, perché lo ricattava.
Il Cancelliere Fabbrini lo tenne per poco a servizio, perché il bel
vagheggino non aveva voglia di guidare il cavallo. Malgrado il suo poco
talento, la sua malevolenza, la mancanza di volontà, ascendeva sempre più
veloce verso la collina di Palazzo Pitti, a colpi d’anca. Fu poi dal Cavalier
Lenzoni in Santa Croce, che gli faceva recitare il ruolo di contadino
d’Arcadia. In seguito il Marchese Capponi, al Fondaccio di Santo Spirito, gli
mise un completo all’ussara, che gli sottolineava i taurini attributi, di cui
usava con parsimonia, non volendo dar troppo spazio al maleducatissimo
ragazzo che a ogni prestazione sbraitava per una maggiore mercede. Infine
arrivò Gian Gastone: Cupido incoccò e ferì a morte il figlio del Granduca.
Urlò per avere il bel garzone dal Capponi e poi via verso la Germania, dove
lo attendeva un matrimonio grottesco e sgraditissimo, che lo avrebbe
deportato nelle fangose campagne di Boemia.
Eccolo lì: anima nera, Seiano, prima marchetta di Toscana, cazzo e culo
del Granduca. In quattro stagioni di letto e moine era già presso la famiglia
Medici, ma anni dovevano correre prima che arrivasse al suo vero potere. Al
grande letto dove, allestiti da lui, si accoppiavano maschi e femmine detti
ruspanti, perché per la loro ginnastica erano pagati in ruspi, monete sonanti.
Divenne così potente che tutti a Firenze lo odiarono, senza rimedio. Quando
Gian Gastone salì sul trono, tutto il potere fu nelle sue mani; il Granduca,
ebbro di vino e di sesso, lasciava correre, gli affidava tutto.
LORENZO MAGALOTTI SCRIVE PROFUMATAMENTE ALLA
CONTESSA OTTAVIA STROZZI

Firenze, Palazzo Strozzi, 5 luglio 1695

Lorenzo Magalotti è stato segretario dell’Accademia del Cimento, e ha


redatto il testo simbolico di quell’esperienza: i Saggi di naturali esperienze,
in cui la sua penna perfetta era al servizio di esperimenti, tra matematica e
fisica, geometria e idraulica. Ormai ha quasi sessant’anni e dialoga volentieri
con le signore di temi apparentemente più leggeri e che gli permettono invece
di esprimere la sua filosofia. “Ella vuole che io scriva de’ Buccheri. Non è
così? Bisognerà dunque che io scriva tutto quello che io so de’ Buccheri. Oh
Dio, signora Marchesa, io non potrò farle la mia corte. Non le par egli che,
dovendo io trattare magistralmente de’ Buccheri, volesse la buona creanza,
non che la gentilezza e la galanteria, che io m’introducessi col fare un gran
complimento co’ suoi?”. Nell’epoca preigienica gli odori dei corpi sono
aggressivi, aspri, spesso insopportabili. Perciò, come spiega lo scrittore,
benedetta è la nuova voga del vaso di terra profumata, che solo con qualche
goccia d’acqua produce un leggiadro odore. Quei vasi rossi vengono da
lontano, dal Portogallo (tipo di Estremoz), dal Messico (gran fabbricazione
nei conventi di Guadalajara), come dal Cile e dal Perù. Magalotti è convinto
che ogni profumo sappia risvegliare l’anima, nelle sue virtù di memoria,
evocazione e invenzione. Considera che l’atto di usare il naso, appendice non
troppo fortunata in quei tempi, possa stabilire una dimensione mistica di sé.
Egli, da par suo, in un’epoca che è a metà tra l’antico e il moderno, annuncia
i tempi a venire, quando un biscotto aprirà la chiave di un universo. La
marchesa Strozzi riceve le lettere e sorride, non tutto capisce, ma le pare che
quei discorsi, apparentemente oziosi, abbiano qualcosa di categorico, di
importante.
IL BOIA MALTRATTA FRANCESCA DI MATTEO, INFANTICIDA

Firenze, Forche di Porta alla Croce, 23 luglio 1695

Francesca era bella e quieta: veniva dal territorio di Pisa, aveva


ventiquattro anni ed era nel fiore dell’età sua. Venne impiccata perché aveva
commesso infanticidio; non si sapeva nemmeno se avesse battezzata la sua
creatura, cosa che rendeva il suo delitto anche più grave, agli occhi della
giustizia di Dio. Entrò in cappella per il confortatorio, tranquilla, ché quasi
non si sentiva la sua voce. Era dolente, afflitta, disperata, a voce bassa, spesso
inudibile, accusava coloro che chiamava i suoi traditori, come se la sua
tremenda azione si fosse data per via dell’operato di altri da lei stessa. Non
voleva all’inizio confessarsi, ma si limitava a scuotere la testa, come se il
peso che la opprimeva le impedisse perfino di parlare. Infine rese la
confessione, piena e totale, del misfatto suo, operato per miseria e ignoranza.
Poi fu svuotata, al punto che non poteva muoversi: ogni tanto anzi si
addormentava, come se la sua anima infine reclamasse il riposo che un lungo
tempo senza sonno le aveva tolto. A mezza strada fu collocata su una sedia,
dove per un poco svenne. Il carnefice le chiese la mancia per risparmiarle il
peggio, ma lei non aveva un soldo. Quindi, infuriato, prima di porre il cappio
insaponato al suo collo esile, la picchiò, forte, sfogò su di lei il suo
temperamento iracondo. Lei taceva, mentre lui la prendeva a calci,
forsennato, finché il popolo che assisteva non cominciò a urlargli contro e
intervennero gli armigeri a sedare quell’energumeno, che era noto per la
crudeltà del suo carattere. Quando Francesca venne tolta dal cappio aveva la
faccia tutta pesta, era piena di segni e di lividi, della sua fresca giovinezza
non era rimasta traccia: un frate venne a chiudergli un occhio, e biascicò un
requiem aeternam.
IL PRINCIPE DI CARNEVALE: FERDINANDO SI RIBELLA

Villa di Pratolino, gennaio 1696

“Troppe volte mi deste la vostra parola, padre, di finanziarmi viaggi e


spettacoli. Ci avete messo anni solo a mantenere la promessa di mandarmi a
Venezia, quando altri principi italiani, e di casate ben minori della nostra,
sono già stati alla mia età a Parigi, e anche a Vienna e voi stesso avevate già a
lungo viaggiato per tutta Europa, tra Londra e Amsterdam. Continuate a dire
che sono troppo leggero e che non vi fidate di me. Ripetete a quei vostri frati
impiccioni, che sono preda di ogni tentazione. Non sono mica come il
Sant’Antonio del quadro del Manetti, che non alza la testa dal suo gran
librone, quando il diavolo viene a offrirgli un paio di occhiali e gli
scampanella in faccia senza ritegno. In pratica in cambio di questa piccola
concessione di andare nella laguna mi avete fatto firmare un impegno di
buona condotta, e avete preteso che al ritorno andassi in sposo a Violante.
Ora che sono maritato, e ci voglio tornare, per il carnevale, a Venezia, mi
lesinate i quattrini, mi mandate un frate a farmi la ramanzina, come se fossi
ancora ragazzo, via.” Il Gran Principe alza la penna dal foglio, si leva in
piedi, osserva dopo molto tempo il gran quadro dell’Allegoria dell’ignoranza
di Livio Mehus, un virtuoso di cui ha chiesto al suo procacciatore di
raccogliere al più possibile quadri e disegni, in cui una creatura tonda che ha
un po’ del Sileno butta a terra una donna che tiene nelle mani una tavolozza e
fa piazza pulita di tutti i simboli della cultura. Riflette sul destino delle arti e
sulla spilorceria di suo padre che gli impedisce di mantenere le cose come
vorrebbe, di avere alla sua corte tutti gli artisti che desidera. Si sa che il
Granduca mio padre odia i comici dell’arte, che gli sembrano suoi personali
nemici, né più né meno serventi del diavolo. Lui e i suoi preti spie si fanno in
quattro per censurare, cancellare, rimuovere dal teatro quello che gli sembri
scandaloso, ossia praticamente tutto. Anche l’opera gli piace poco, ma la
commedia è la sua bestia nera. Quanti capocomici sono andati da Ferdinando
a chiedere udienza, perché per carità potesse aiutarli, ma egli ha potere solo
nel suo reame immaginario di Pratolino. Lì comici e cantori sono sempre
intenti ad allietarlo, ma non può far niente per quelli che vanno in piazza
Pitti: i censori di suo padre sono sempre all’erta alla ricerca dello scandalo,
che facilmente trovano in ogni operistica rappresentazione. È inviperito, e in
primo luogo che suo padre continui sempre a lesinargli l’appannaggio e sia
troppo contento di Violante, che per lui è bruttina e insipida, con quel collo
lungo fino all’esagerazione: un cigno mostro. Avendo sempre negli orecchi le
urla stridule di Marguerite-Louise, sua passata consorte, quella madonnina
infilzata tedesca al padre gli sembrava l’ideale, la perla sulla terra. Eppure
all’inizio aveva avuto non pochi dubbi: non è che la ragazza mi porterà in
famiglia l’orribile eresia del luteranesimo, che con tutto quel suo fare da
beghina sia una spia del nemico sotto mentite spoglie? Babbo, babbo, ma
vuoi che a me possa interessare degli avvisi di Lutero e in lei tutta quella
remissività? Quei centrini a punto in croce, quei rosoli dolci che fanno cariare
i denti, le marmellate di rabarbaro all’uso di Alemagna, che mi stomacano
soltanto all’idea? Ho bisogno di ben altro io, di sapori più forti, di risate più
sgangherate, di bocche aperte nel bacio, non come la sua che la tien chiusa
come una tagliola, di gambe spalancate al mio sovrano capriccio. E in questo
momento, quando non riesco a prendere sonno, la notte mi carezza Cecchino,
che a corte tutti chiamano De Castris, per via di quello che gli manca: per me
è più bello un suo mignolo malandrino, rispetto a tutta Violante con quei
lineamenti scialbi e insipidi. Quando lo vedo di fronte a me, ripeto quello che
mi disse il Gaddi quando ebbe a commentare i suoi meriti: “di tutto quore
gl’è proprio bello: oh cazzo”. A me più delle femmine piacciono le voci
d’angelo, e quella di Cecchino si scioglie nell’aria, nell’atmosfera tersa di
Pratolino, quando intona una cantata di Vivaldi. Allora lui è il mio ninnolo
d’avorio, la mia consolazione, la mia assicurazione contro la noia che mi
infligge quella mia consorte teutonica, che deve sempre dimostrare a tutti
d’essere la più buona. Ma d’altra parte che altro potrebbe fare: è bruttina,
insignificante e per di più anche sterile, il che rende la sua presenza a Firenze
ridondante, se non offensiva. Dicono che l’avrei ridotta così io per via del
mal francese, ma mi sembrano proprio esagerazioni. Cecchino l’aveva
raccontata bene la millantata gravidanza, ultimo appiglio della speranza dei
Medici: “onde tutte le loro speranze sono ite in fumo e li novellisti sono
restati, per la loro ingordigia di cicalare, con un palmo di naso”. La sua
placidità mi irrita, mi tormenta. Babbo, babbino, io non ho voglia di parlare
con te, parla con Cecchino, che fa anche rima. Non puoi capire come mi
diverte che tu sia costretto a discorrere con un eunuco cantore, che non ha
mai fatto mistero della sua attività come prostituto. Una creatura che tu
disprezzi e che volentieri faresti esorcizzare dai tuoi frati, che scacceresti dal
regno. Tu con tutta la moralità, non puoi farci niente, ti tocca parlare con lui
se vuoi discorrere con me, che per te sarò sempre di nebbia e senza corpo. I
miei musici eunuchi sono tanti, e io chiedo al Gabbiani, mio pittore di
camera, di fargli il ritratto e di rappresentarli con grande fasto. I castrati sono
la mia corte: le loro ugole argentine annunciano il mio regno. Sono un re da
palcoscenico: mi incanta il melodramma all’eroica e sogno di essere il Gran
Tamerlano che ha musicato il maestro Scarlatti: di conquistare popoli, stirpi e
imperi. Almeno lo farò in teatro, se non nella tediosa realtà dei fatti.
VINCENZIO VIVIANI DEDICA UN PALAZZO AL CULTO DEL SUO
MAESTRO GALILEO E LO ANNUNCIA AL MONDO

Firenze, Palazzo dei Cartelloni, via Sant’Antonino, maggio 1697

Galileo a Firenze non aveva ancora ricevuto l’attenzione di un busto o di


un monumento, malgrado fossero passati tanti anni dal clamoroso processo.
Per questo il suo devoto allievo Vincenzio Viviani decise di pensarci lui, ché
non era possibile aspettare che se ne occupasse la corte. Anni prima aveva
comprato, con i denari che gli erano giunti per le sue benemerenze
scientifiche da parte di Luigi XIV, un gruppo di case, vicine a Santa Maria
Novella, affidandone la ristrutturazione al suo amico Giovan Battista Nelli.
Non bastava certo un’icona, sulla facciata, che pure era condizione necessaria
del suo eterno amore e rispetto, ma non sufficiente. Serviva il riepilogo delle
glorie maggiori del suo maestro, che fossero eternate nero su bianco, nel
marmo. Il busto magnifico che domina la facciata era opera del Foggini, che
aveva tratto ispirazione da una terracotta dal vero del 1610 di Giovanni
Caccini. Da qui l’idea dei cartelloni: due lunghi papiri di pietra sbattuti in
faccia alla città. Pochi sapevano leggere in quella straduzza popolare, dove di
dimore di lusso, fin dal Medio Evo, se ne erano sempre viste poche. Però nel
giorno in cui i teli vennero rimossi dalla facciata, fu lo stesso ricercatore a
raccontare, a chi voleva ascoltarlo, e non pochi erano i popolani che si
fermavano. “Il mio maestro Galileo fece la scoperta del cannocchiale, con cui
si poteva vedere lontano, cambiando per sempre il destino dei commerci e
delle guerre. In omaggio alla casata dei Medici dedicò il ritrovamento di
alcuni pianeti, scrisse delle macchie solari, della longitudine in mare, del
moto dei proiettili e di mille altre cose.” La gente in breve ha fatto l’abitudine
ai cartelloni, che sono la prova più concreta, nella forma irripetibile
dell’architettura parlante, dell’amore dello scienziato per il suo maestro.
LA CORTE DELLA SCROFA

Reichstadt, Boemia, dicembre 1697

A me è sempre piaciuto il bello, più maschile, che femminile, ovvio, l’ho


dimostrato a tutti dalla mia più tenera infanzia. Quando andai a Livorno la
prima volta, rimasi molto colpito dalla leggiadria dei marinai delle galere dei
Cavalieri di Santo Stefano: la Capitana e la Padrona pullulavano di bei
ragazzi muscolosi, che avevano il petto nudo e abbronzato al sole. Ancor di
più mi piacevano gli schiavi mori che abbondavano nella città di mare.
Comunque l’armonia, la linearità dei tratti la apprezzo volentieri e di una
donna rispetto sempre l’intelligenza e lo spirito. Se questa corte boema fosse
stata una piccola Versailles tedesca di provincia, chissà, a mia moglie mi
sarei anche potuto affezionare. Invece mi è toccato un palazzo che è un
porcile e una moglie che è una scrofa, che grugnisce qualche parola
inintelligibile e che mi chiede sempre di montarla, con un’insistenza orrenda
quanto quel suo naso carnoso da maiale e quegli occhietti piccoli, dove la
pupilla giallastra è annegata nel grasso. Non avevo voluto dar retta agli
avvertimenti di mio fratello, il Gran Principe, uno iettatore, altroché: “vi
potrei dimostrare che la Germania è sterile per la nostra casa. Andate,
sposatevi, fate buon viaggio, ma non posso prevedere che vi troverete la
felicità”. Invece aveva ragione lui. Quando ci siamo sposati a Düsseldorf, io e
la scrofa, quel ruffiano del vescovo coadiutore di Osnabrück, tutto in pompa
magna, vestito di raso pavonazzo che pareva una gallina faraona, ha avuto
pure il coraggio di chiedermi la mancia, e cospicua anche, per restaurare le
vetrate antiche della cattedrale. Io mi sono messo a balbettare, che è la mia
strategia per uscire di imbarazzo, ma i soldi da dare a lui non mi
sconvolgevano quanto la faccia di lei, unta, lustra, come una fetta di
finocchiona, l’espressione ebete, demente, la scucchia, unico punto sporgente
nel grasso, che sembrava un’arma d’offesa rivolta contro di me. Poi mentre il
vescovo blaterava di Italia e Germania unite, di numerosa prole, fu peggio,
perché pensai alla braciola in mezzo alle gambe e mi venne da vomitare.
Giulianino, che pratica anche le femmine, mi aveva istruito che bisogna
metterci prima dentro un dito, fare su e giù, portarlo al naso dilatando le froge
dal piacere, fingendo anche se puzza di cadavere d’appestato marcio e
purulento che sia un grato odore. Io ero pronto a giocare a carte scoperte, a
fare un patto con lei, che da vicino, peraltro, era assai più grassa di quello che
si potesse credere, con la ciccia che le strabordava da tutte le parti. Bevo tutto
il sangue di toro che riesco senza vomitare, ti monto due volte in una notte,
resti incinta e chi si è visto si è visto. Poi se vuoi possiamo fare a metà dei
ragazzi, ho anche dei cugini bastardi nel mio seguito, che alla lontana mi
somigliano. Se resti gravida di uno di loro, meglio, che la famiglia si allarga e
non ci sono più problemi con l’eredità dei Medici che per babbo Cosimo è
una vera e propria ossessione, e poi quello mi rovina la vita con le sue manie.
Per me la famiglia può finire, non se ne può più di tutte queste coppie
malmaritate costrette ad accucciarsi in fretta come cani ringhiosi nelle grandi
alcove di palazzi gelidi e senza amore, per prolungare un’infelicità senza fine
né scopo, nel gran teatro del mondo, in attesa di fare sesso, appena possibile,
con creature che più aggradano loro e seminare, se gli piacciono le femmine,
bastardi con i labbroni tumidi della dinastia. A lei interessa in realtà solo
cavalcare; il suo salotto è la stalla dei cavalli, dove voleva che avesse luogo il
nostro duello d’amore. La prima notte aveva fatto buttare dai suoi famigli,
zotici come lei, uno stramazzo sulla paglia lorda di sterco e si spogliava
strappandosi da dosso i vestiti sudati da cavallerizza. Biascicava in un italiano
aberrante: “tu sente odore di cavalla in calore, molto erotico” e i famigli in
cerchio che battevano le mani e incitavano in quel loro dialetto spaventoso.
Forse la cavalla mi avrebbe attratto, ma non la scrofa. Ma no: mi facevano
schifo entrambe, mentre occhieggiavo volentieri il suo palafreniere, un
contadinone dagli occhi castani, che non era per niente insensibile ai miei
sguardi. Le dissi che lì non mi era possibile, che mi sarei preso una malattia
di reni, che sono tanto delicato, e che ne sarei morto. Inviperita si era
ricoperta alla peggio, insultandomi in quel suo dialetto rauco e volgare, ché
sembrava una strega intenta a lanciare il malocchio. Ma lei mi si strusciava
sempre contro, tutte le volte che poteva. Non potevo leggere un momento,
che lei subito arrivava canticchiando con quella sua faccia unta di salame,
sbattendomi in faccia la braciola. Babbo, mi hai condannato al gelo eterno. Al
disdoro senza rimedio. E tutto per i quattrini: perché non volevi investire
nemmeno un soldo su di me, e volevi che sposassi una signora che avesse una
dote eccellente. Dio sa che la lettura mi era necessaria per non impazzire, in
quel regno dell’eterno inverno di squallore e dell’eterno calore vaginale della
mia scrofa consorte. Nel nostro palazzotto squinternato, e pieno di crepe, con
certi spifferi che danno al cervello, oltre a lei la cosa peggiore è l’esterno.
Campi color di mota, verdi come il corpo marcio di un appestato e altrettanto
pieni di vermi, e intorno casupole, orti, terreni a perdita d’occhio, che davano
solo cavoli cappucci, con cui fare quei crauti acidi, che mi disgustano solo
alla vista, di cui la mia consorte ovviamente si empie ogni giorno come un
porco, facendo colare come verde bava la salamoia dall’angolo della sua
bocca porcina. E su questo regno miserabile, escrementum mundi, domina la
sinistra befana, che tutti vuole conculcare e a tutti vuole comandare e si crede
la signora del mondo, per queste quattro zolle ridicole che tiene in Boemia.
Tutto meschino, miserabile e il clima repellente: sempre pioggia, poi neve e
nebbia, nevischio. Orribile, ma niente in confronto con i pochi raggi di sole,
che scatenano immediatamente la foia della mia principessa scrofa, che non è
certo cibo da pigliarsi dodici mesi in un anno, anzi meno la vedo e meglio
sto. Meno male che ho il mio seguito da Firenze, ci posso giocare ai tarocchi
e puntare pochi soldi per volta, tanto mi fanno sempre vincere. E poi c’è
Giuliano: bocca di giglio, labbra di granato, alito di paradiso, corpo di
gazzella, sogno dei sogni. Ho insistito con il marchese Capponi, che non me
lo voleva dare per paggio. E come avrei fatto in questo inverno dell’anima?
Con la scrofa che mi si struscia contro, con quell’afrore selvaggio di cavalla,
dopo che cavalca come una pazza su e giù per le colline, anche se il ghiaccio
ricopre tutto. Non è nella mia natura augurarle di rompersi il collo, ma se non
ci fosse più, come vedovo sarei nella condizione ideale. Potrei dire al babbo
che dopo la morte della mia adorata Anna Maria Francesca io voglio prendere
i voti come frate a Vallombrosa, così finalmente mi lascerebbe in pace con
tutte quelle sue scalmane di aver figli Medici, e si sa che in convento, con la
debita discrezione, i maschi non mancano mai. Potrei fare monaco anche
Giuliano e potremmo dividere una cella in due, per fare il nostro comodo. Il
babbo aveva detto che mi voleva prete e tanto meglio sarebbe stato per me.
Così al massimo le donne le avrei viste in confessione, se avevano da dirmi
qualcosa, e io sarei stato sempre accomodante. “Peccato, signora, ma veniale,
di intenzione, quattro pater e due gloria.”
Quando pronuncio il nome della mia consorte, che il ministro Martelli ha
ribattezzato il metallo più duro, mi sale alla bocca la bile nera, mi viene da
vomitare, ma tanto è inutile che sogni. Quella mi resterà attaccata addosso
fino alla fine dei giorni con il suo afrore marcio di vecchia cavalla, e ogni
giorno io ho più nausea e rancore per quella intrigante di mia sorella, la
regina di Düsseldorf, che mi ha messo in questa bella situazione,
architettando un matrimonio disastroso. Non ci voleva molto a capire quello
che era successo al marito precedente: il conte palatino Filippo di Neuburg.
Lui due figlie è riuscito a metterle insieme, ma quando ha capito che a lei
interessano solo gli animali, le bestie e che gli esseri umani la disgustano, si è
depresso, si è dato al bere, finché gli è scoppiato il fegato. È che io mi fido
troppo, e lei fa la generalessa. Ha preso il posto di mia nonna e ora mio padre
lo comanda a bacchetta lei. Le piace l’intrigo più del matrimonio o
dell’amore, e il vecchio babbeo si fa rigirare in punta di dita. Mio padre è
ossessionato dalla regalità, non vive senza almanaccare di possibili regni
immaginari da mettere sotto le palle medicee, quando tutti in Europa
deridono la sua smania di non voler riconoscere che la Toscana ormai non
conta un fico. Perché la scrofa aveva sposato un Sassonia-Lauenburg, e
avendo lui due figlie, l’eredità era andata all’Elettore di Sassonia, ma c’era
sempre la speranza di una rivendicazione futura che riscaldava il Granduca
tra una devozione e l’altra. Alla scrofa chiedo di passare almeno l’inverno a
Praga, dove ci sono teatri, accademie, palazzi di gran principi dell’impero.
Macché, lei vuole a ogni costo vivere solo in questa stamberga accanto ai
suoi cavalli: mamma era così elegante quando scappava alle Cascine per
cavalcare, mentre questa contadina pazza in vesti da amazzone è brutta,
sgraziata, miserevole. Ho provato a dedicarmi alla caccia, ma con nessun
costrutto; mi sono spesso trovato al suo fianco, mentre era con la faccia
sporca di polvere, presa da frenesia quando aveva avvistato un cinghiale, con
la figlia più grande che veniva a ruota e applaudiva alquanto. La sua piccola
corte campagnola le andava sempre dietro tutte le volte che cambiava di
fattoria, “per correre dietro alla lepre”. A me però tutta quella pratica di
caccia sembra solo un diporto da barbari, un trattenimento da cannibali, un
abbagliamento della ragione. Avevo anzi rischiato grosso una volta che,
accecato dalla luce che rifletteva sulla neve, mi ritrovai in una posa di
starnotti e a momenti mi impallinavano sul didietro, per via della mia
sbadataggine. Io la caccia non l’ho mai tollerata, fin da bambino. Quando
avevo dieci anni circa, il cavalier Salviati era stato incaricato di farmi da
maestro nelle vicende di caccia, ma l’esperimento, volto contro gli starnotti,
per cui si richiedeva molta flemma, era stato un totale fallimento. Almeno
potessimo lavorare insieme all’altra sua grande passione: la costruzione dei
palazzi. Con il mio gusto potrei facilmente aiutarla, per gli interni come per
gli esterni. Soffoco, ho bisogno d’aria.
IL PRINCIPE DELLE TAVERNE

Praga, Isola di Kampa, Taverna del Leone, marzo 1698

Anche se è in un postaccio, frequentato da barcaioli e facchini, si vede che


è una persona fine: ha una camicia di batista, i pizzi sono lavoro accurato di
una sartina di Fiandra, di quelle che perdono gli occhi al Beghinaggio a forza
di cucire iniziali in bianco su bianco, al mignolo ha un anello con il sigillo
rosso con le sei palle rosse medicee su fondo oro. Però, però, mentre l’acqua
fa un rumore d’inferno, e i locali chiamano infatti questa corrente che
alimenta i mulini il fiume del Diavolo, ha la faccia stravolta, gli occhi in
fuori, la bava alla bocca, le gote grassocce gonfie come se lo avessero
picchiato. Gli stivali che sono di cuoio di Spagna, morbidissimi, sono tutti
inzaccherati. Continua a dire mamma, mamma, mamma. Però non l’ha
praticamente mai vista sua madre, la nonna le diceva che era posseduta dal
diavolo e che pregava notte e giorno con i numerosi preti della sua corte per
salvare la sua anima perduta. Per capire la sua effigie, per mendicare una
carezza dipinta, nel gelo delle sale senza amore di Palazzo Pitti, da bambino
si era arrampicato nelle soffitte: in tutta la reggia i suoi ritratti erano stati
rimossi dal padre che ne odiava la memoria. Lo aveva visto, infine, quel
quadro, coperto di polvere e ragnatele, ma questo ancora di più gli aveva fatto
capire che la perdita era irrimediabile e che quello che restava di sua madre
era telaccia dipinta, colore raggrumato coperto di sporcizia. Era tornato giù in
lacrime, tutto sporco, con le ginocchia sbucciate, e aveva balbettato ogni sorta
di scusa incoerente per quella sua scappata, prendendosi comunque una
buona dose di sculaccioni dalla governante.
Giuliano gli arriva alle spalle: è vestito di tutto punto alla francese, la
barbetta curata, ha indosso i guanti rossi del suo signore (“poi te li rendo”,
chissà poi chi gli ha permesso di usare il tu), sembra che abbia un belletto
sulle labbra, che brillano innaturalmente vivide nel semibuio. Prima era
sparito per andare a pagare il barone Cunex, che aveva vinto oltre cento
zecchini al figlio del Granduca, e per saldare gli altri creditori in attesa. Al
gioco del faraone come sempre il suo signore aveva perso molto. “I ragazzi
nuovi son già qui, quanti ne vuoi?” Praga è città ideale per procurare bei
maschi; tra gli studenti poveri dell’università e i cacciatori di fortuna, i
contadini e i facchini, è una vera e propria miniera di corpi robusti come
piacciono a lui. Gian Gastone si riprende faticosamente dallo stupore, indotto
da quel vino rosso denso e pesante che lega la lingua e blocca i muscoli. Gli
piace più per il nome che per il gusto: Sangue di Toro, ma non smetterebbe
mai di tracannarlo. Insieme butta giù una quantità infinita di pepe lungo col
comino e di pane per bere alla tedesca: cibi che a Firenze non avrebbe
nemmeno dato ai suoi cani. Chissà poi perché non gli viene mai in mente il
nome con cui lo chiamano qui quel pane: com’era già, brezen, brezl, brazzer?
Che lingua assurda: lui l’ha imparata anni fa, ma solo per far contento il
precettore. Mai nella vita gli sarebbe venuto in mente di doverla usare
davvero tutti i giorni. Meno male che dopo il quinto bicchiere tutto diventa
più vago, meno opprimente e anche l’idioma germanico può tornare fluente.
“Was willst du?” In un sussurro il servo ripete la sua proposta e indica in
fondo alla stanza, dove ci sono tre ragazzi. La taverna è piena del fumo di
pipe, ma non ci sono canti, solo, ogni tanto, scoppi di litigio, in tedesco e in
boemo, che il grosso oste placa con due scrolloni. Il signore tira
faticosamente su le spalle, si raddrizza. Prima finisce l’ultimo sorso di vino.
Che amaro, se lo deve ricordare che questo Sangue di Toro va consumato
subito, appena l’oste lo serve nei boccali di ceramica, ché poi, se rimane
troppo all’aria, prende di medicina. “Mi si dà dell’altezza reale, non del tu,
anche all’osteria e anche se sono ubriaco.” Giuliano fa la parodia di un
inchino, poi sibila tra i denti “è da un bel po’ che al tuo sedere gli do del tu”.
Il principe sembra che abbia sentito l’ingiuria, ma non lo guarda male, fa uno
sguardo languido, ora è pronto. “Nome e segno zodiacale, da sinistra a
destra.” “Hannes, toro, Peter, pesci, Adam, ariete.” Gian Gastone svolge un
libretto consunto, lo guarda a lungo: “Marziali l’astrologo di corte ha scritto
che l’ariete è il segno perfetto: io sono libero e leggero, lui è forte e radicato,
descrivimelo, lo sai che per me gli astri sono più importanti dei segni
esteriori”. “Alto, biondo di capelli, solido.” “Cosa hai da fare quel ghigno, lo
hai già provato?” “Sì, per vostra eccellenza questo e altro, è proprio solido.”
“La domanda più importante: è amoroso?” “No, è spiccio, ma quelli bruschi a
vostra eccellenza, insomma a te, piacciono di più. Lo dovrete lavare però
bene e a fondo, sa di selvatico come un caprone.” “Lo lavo io, con il sapone
di Castiglia, fatto con quell’erba che nasce nelle dune vicino al mare, basta
che non si metta a protestare.” “Figurati, ubbidienti come agnellini, sono già
pagati bene tutti e tre: se prendi Adam, gli altri due vengono con me e con il
Marmugi palafreniere.” Gian Gastone si alza, barcolla non poco, ma tiene
lontano Giuliano con un cenno della mano. Con studiatissima lentezza, dirige
lo sguardo verso l’ariete, che gli sorride. I denti li ha tutti, anche se sporchi e
coperti da una patina verde come fossero alghe della Moldava, ma ha un
labbro spaccato, e lui subito immagina la rissa in cui ha fatto a botte, e un po’
gli viene duro. Immagina sia accaduto con un altro Adam, forse del cancro,
che andrebbe bene anche lui e forse ora li vorrebbe tutti e due, uno davanti e
uno di dietro. O forse gli piacerebbe che lo picchiasse, qui, alla taverna, e che
spaccasse il labbro anche a lui. “Was du tust?” “Non stare a parlarci, questo
zuccone non lo sa il tedesco, parla solo quel dialettaccio boemo, però il suo lo
sa fare. Lasciagli una piccola mancia, e basterà.” Il principe raspa dentro una
borsina di seta che gli pende al collo. Ne recupera un fiorino; con molta
lentezza va verso Adam, a cui passa di soppiatto la moneta. Questi gli fa
cenno di precederlo: è stato istruito a puntino. Sa che il principe ha un
appartamento per il suo comodo sopra la taverna, con tre stanze di seguito, a
telescopio; in una sta lui con il suo segno zodiacale del giorno e nelle altre
due i suoi cortigiani con altri a cui si accompagnano. A Gian Gastone piace
ogni tanto di guardare con il cannocchiale di Galileo le monte altrui, per
vedere quello spettacolo che tanto lo entusiasma e lo distrae finalmente per
qualche attimo dal peso orribile del sé. Lo entusiasma quel gesto liberatorio
che non produce finalmente eredi necessari, che non salva regni in pericolo.
Lo entusiasma quella schiavitù dello stantuffo, riprodotta nelle fattezze altrui,
alterate dall’esercizio pesante, monotono e rivelatorio del piacere.
GIAN GASTONE FUGGE DALLA BOEMIA, DISGUSTATO DA SUA
MOGLIE, DAL PAESAGGIO E DA SE STESSO, E SI RECA A PARIGI A
TROVARE LA MADRE

Parigi, maggio 1698

“Maman, maman, maman!” Gian Gastone, appena arrivato a Parigi, in


fuga dall’odiata dimora della Boemia e dalla detestata moglie, furente alla sua
scomparsa, si presenta ai rappresentanti della sua famiglia come Jean Gaston,
fa adeguate riverenze, parla bene il francese, ha sempre paura di mancare in
qualche parte il complesso cerimoniale di Versailles. Si precipita dalla madre,
che lo guarda con una espressione mista di sorpresa e di fastidio. Tutto le
serviva meno che suo figlio, di cui conosce i vizi e le follie, in mezzo ai piedi.
Proprio nel momento in cui dopo tutte le sue scalmane ha deciso che, dopo
tutto, nell’età matura è giunto il momento di dedicarsi alla carità, a soccorrere
i poveri, stando con altre beghine a meditare su nostro signore Gesù Cristo,
perché la fine è vicina.
Nel viaggio il principe ha già avuto la sua bella ramanzina dalla sorella
Anna Maria Luisa. L’Elettrice era a Aix-la-Chapelle a far la cura dei bagni,
rimedio reputato per quella fertilità tanto agognata. Il problema a dire il vero
era dell’Elettore, che si dava al bel tempo con femmine varie, per cui anche la
sorella era impestata di sifilide. C’era poco da sperare: il benefico liquore non
avrebbe risolto quello che le era capitato: si trattava di lue e c’erano ben
poche speranze di mettere al mondo figlioli. Non di meno si dava a cure e
rimedi di ogni tipo, nonché a orazioni continue in proprio, e affidate a
religiosi di fiducia. Se il seme malato del marito riusciva a colpire il
bersaglio, ne venivano poi aborti spontanei, e maggior dolore di quanto già
non ne fosse, per l’augusta coppia.
Maman peraltro a malapena dette un bacio a Gian Gastone, non gli fece
avere regali, neanche dei rinfreschi per il viaggio di ritorno, che caldeggiò
avvenisse subito, immediatamente. Non prestò al figlio nemmeno i suoi
adorati cavalli, che il giorno prima l’avevano portata ad altra meta. “Mon fils,
debbono riposarsi, i miei destrieri”. Madame era assai più serena di un tempo,
per via dell’eredità cospicua che nel 1696 aveva ricevuto alla morte della
sorella, la Duchessa di Guisa. Dopo l’eredità aveva potuto essere ripristinata,
entro certi limiti, alle grandezze del suo rango, con carrozze, equipaggi, abiti
e accessori. Questo non le impediva certo di maltrattare il marito tutte le volte
che se ne dava l’occasione. Cosimo, frustrato nelle sue smanie di controllo,
irritatissimo per la scappata di Gian Gastone, da Firenze tempestava,
mandava dispacci e lettere, chiedeva al suo rappresentante a Parigi di andare
a parlare con il principe e fargli capire subito quale tremendo danno stesse
arrecando all’immagine dei Medici, che il Granduca preservava con tanta
attenzione.
La verità era che fuori dalla corte della scrofa, che compariva ora solo nei
suoi incubi, però con regolarità, Gian Gastone sapeva perfettamente
comportarsi. Beneficiò peraltro del caso per cui era in quei giorni ospite
anche il Duca di Parma, che pareva un orso alla fiera, goffo oltre ogni limite,
e imbarazzante a sé e agli altri. Il Re Sole gli disse, come era prassi, che non
erano solo cugini, ma anche intimi amici. Quando si congedarono lo regalò di
una spada incrostata di pietre preziose e di un suo ritratto, dal fiero cipiglio,
certo, ma in cornice di diamanti. Maman gli disse che gli dava il suo affetto, e
punto. Contava che questo gli sarebbe senz’altro stato prezioso assai più dei
clamorosi gioielli del re. La dama era sollevata di poter tornare al suo ruolo di
madrina della beneficenza; e non poteva certo farsi carico di quel figlio che
quasi non conosceva, ma la cui presenza, ben lo sapeva, era foriera di
problemi e ulteriori screzi con il Granduca, che da parte sua si sforzava solo
di dimenticare, una volta per tutte, tra un pater e un gloria. Al figlio,
amareggiato, restava solo di riguadagnare la Boemia, passando per la via
d’Olanda. Ogni giorno che il viaggio progrediva, aumentavano nei suoi occhi
le lacrime e sembrava invecchiare a vista d’occhio, al pensiero dell’orribile
mondo di fango e disgrazia a cui stava, sia pure con grande lentezza di
viaggio, inesorabilmente ritornando.
COSIMO SMANIA PER IL TRATTAMENTO REGIO. A ROMA, CON
SUO GIUBILO, OTTIENE DI ESSERE CANONICO LATERANENSE, E
DICE LA SUA PRIMA MESSA

Roma, San Giovanni in Laterano, 1° giugno 1700

Cosimo faceva incubi sempre più orrendi, con il Duca di Savoia avvolto,
come aculei di istrice, delle palle dei Medici, che gliele lanciava in faccia e lo
lacerava terribilmente nel volto e nelle mani. Gli urlava, con voce di strige,
“non avrai il Trattamento regio, è un’eresia, io lo merito, io sarò l’Italia, tu sei
il re di un mondo che muore, dovresti star zitto”, poi il Granduca si svegliava
di soprassalto con le tempie bagnate di sudore gelido. Negli ultimi tempi
perdeva uno dopo l’altro tutti quelli che gli volevano un po’ di bene, il Redi,
poi il teologo Pennoni; il regno era un intrico di problemi senza soluzione.
Infine per avere almeno una soddisfazione nell’esercizio di un potere che gli
dava solo ambasce, ebbe l’idea di utilizzare l’anno santo, che faceva confluire
a Roma persone da tutta Europa, per riconfermare il suo prestigio. Già l’anno
prima aveva mandato l’ambasciatore Vitelli, per ringraziare di alcune
concessioni per l’Ordine di Santo Stefano. Solo a Roma, per i molteplici
servizi resi, Cosimo poteva avere il Trattamento regio che tanto agognava. Il
15 maggio del 1700 mosse con un seguito di oltre sessanta persone alla volta
di Roma. Voleva l’incognito, aveva scelto il curioso nome di Conte di
Pitigliano, certo non pensando che il paese nel grossetano era noto
popolarmente come Piccola Gerusalemme, perché aveva permesso un nutrito
insediamento ebraico. Giunto alla riva, si recò alla Villa Medici, dove prese
dimora. Devoto maniacale, non gli mancava alcuna reliquia nell’elenco di
quelle che voleva baciare. Esse erano però altissime e solo i canonici
lateranensi avevano il diritto di salire sulle tribune e di vedere da vicino i
sacri resti. Impetrò al papa la grazia di essere fatto canonico lateranense, tanto
rispetto alla moglie da oltre venti anni era come se fosse vedovo. Ottenuto il
beneplacito, ebbe un brivido quando indossò la pianeta e si sciolse in lacrime:
era il più bel Trattamento regio che avesse ricevuto nella sua vita. Il papa gli
permise di benedire oltre cinquantamila fedeli, nelle feste del giubileo.
Cosimo alzò il braccio ed era sul punto di svenire, di perdersi, ma fu felice,
come mai prima, come di rado dopo.
BARTOLOMEO BIANCHINI SI RAMMARICA DI AVER ACCETTATO
DI LAVORARE PER IL BEY RAMADAN A TUNISI, LASCIANDO
FIRENZE, MA POI TROVA IL MODO DI METTERE A FRUTTO
L’ESPERIENZA IN ORIENTE

Tunisi, Quartiere del Bardo, Palazzo del Bey, febbraio 1701

Bartolomeo Bianchini deve prendere gli oggetti preziosi, i soldi, e


scappare, come è vestito, da Tunisi, pena la vita. Nel 1698 era arrivato a
Firenze, in cerca di aiuto presso la corte dei Medici, Ramadan, il cadetto del
bey Mohammed, che era stato spodestato. Cosimo odiava i musulmani, ma
nella sua testa devota pensava sempre che sarebbe stato utile avere alleati in
partibus infidelium, quando finalmente avesse potuto reclamare il ruolo di re
di Gerusalemme, che credeva gli spettasse per via dell’antico possesso pisano
in Terra Santa. Malgrado i suoi strepiti e lamenti, il possedimento, prestigioso
per quanto virtuale, andò invece a quei maledetti Lorena, che via via gli
prendevano tutto quello che pensava e sperava suo. L’alto dignitario tunisino
ebbe un appartamento fastoso in Palazzo Vecchio, e un cicerone, dotto e
sagace, chiamato Domenico Cantieri. Per cinque lunghi mesi tutti a Firenze
poterono apprezzare il bel profilo del moro, che partecipava volentieri a
banchetti, cacce e ai cortei di carnevale. Egli concepì un amore per la pittura
occidentale, vietatissima dagli imam al suo paese, come esempio di blasfema
venerazione delle immagini. Nel 1698 suo fratello Mohammed divenne re;
Ramadan allora agitò il fazzoletto sulla galea in partenza da Livorno. Con sé
aveva portato un “consesso di begli ingegni”, artisti che aveva apprezzato nel
suo soggiorno fiorentino, e specialmente Bartolomeo, pittore e musicista, che
in una persona poteva fare i servizi di due. All’artista non era sembrato vero
di poter lasciare Firenze, dove gli pareva gli mancasse l’aria, e di non avere
possibilità di carriera. Un re orientale era una promessa di generosità, di
riscatto dal tran tran di una serie di committenze minori. Finita l’eccitazione
del viaggio, al palazzo del bey aveva capito che non erano tutte rose e fiori,
ma il signor Ramadan era così accomodante… Invece i sapienti dicevano che
la pittura italiana di Bartolomeo era un’offesa all’Alcorano, ai pilastri stessi
della fede di Maometto. Insomma, la figurazione fu fatale al bey, accusato di
esserci occidentalizzato e forse perfino convertito (raccapriccio!) all’orrendo
errore cristiano. Dopo la battaglia di Susa, in cui venne sconfitto dal nipote
Molath, il bey fuggì sulla meravigliosa carrozza, dono di Cosimo, decorata
dal Bimbi con ricchezza di fiori, frutti e animali su un bel fondo oro. Il mezzo
di locomozione andò distrutto e Bianchini riparò faticosamente a Livorno per
il rotto della cuffia, senza un soldo, un gioiello, un drappo prezioso, nessuno
dei doni che il bey gli aveva fatto. Dopo che si fu insediato alla Volta dei
Peruzzi, si trovò coperto di debiti. Furibondo con i maomettani cominciò a
dipingere quadri oltraggiosi, dove rappresentava il peggio dei popoli che
aveva incontrato. Il Gran Principe Ferdinando, curioso dei fatti turcheschi,
volle vedere quelle opere e gli chiese di temperare la sua ira, e commissionò
al pittore dodici tavole, destinate a Poggio a Caiano; poi riempì di simili
soggetti anche i palazzi di altri nobili fiorentini. Malgrado tutte le maledizioni
e il rancore, per casa sua dipinse un gran quadro con le lotte che si facevano
nel cortile del palazzo di Tunisi: i visitatori ne erano ammirati.
IL GRAN PRINCIPE FERDINANDO OSSERVA LA GAZZA
AMMAESTRATA DI ALESSANDRO MAGNASCO, DI CUI HA
COMMISSIONATO LA REALIZZAZIONE, E NE RICAVA UNA
MORALE

Villa di Pratolino, primavera 1704

Quello che mi piace di più in questa tela è il fatto che tutto sia così
provvisorio e come spazzato dal vento del destino. Nella mia esistenza tutto è
stato preordinato, da prima che nascessi. Posso ben agitarmi, dare in
scalmane, far da matto, amare castrati e cantatrici, sdegnare mia moglie,
palpare i miei serventi turchi, perfino digrignare i denti, se mi viene il
capriccio, ma mio padre non mi prende comunque sul serio. Mi taccerebbe di
matto, o di ingenuo, se gli dicessi che preferirei, le mille volte, essere zingaro,
come queste creature che vivono nelle rovine, alla inclemenza del tempo ed
esposti alle angherie dei birri e dei briganti. Essi però possono trovare il
momento della poesia di cui nella mia vita è gran mancanza, quando
osservino le prodezze e le evoluzioni della gazza ammaestrata, che sa parlare
e cantare, e per loro è in primo luogo fonte di reddito, e poi di meraviglia. Le
loro vite umili si interrompono, appena per un attimo, dal continuo
affaccendarsi, per scampare la giornata, per giungere all’esito dei propri
compiti. Ferdinando non si fa illusioni: la tedeschina non lo capirà mai. Anzi,
quando lui accenna, nei rari momenti di comunicazione intima, a queste sue
fantasie, lei, come al solito, distoglie lo sguardo e si fa il segno della croce. Il
Genovese, messer Magnasco, non può certo parlare con me di cose così
private. Però, in quei suoi occhi aguzzi, mi pare che intenda qualche cosa: mi
domanda se la tela è di mia soddisfazione. Mentre si inchina a terra,
immagino cosa proverei a essere lui. A girare di corte in corte, ramingo come
un vagabondo, avendo come soli amici alcuni suoi colleghi, ma dovendo
schivarne altri, maligni e nemici. Il Gran Principe ha un brivido profondo
lungo la schiena: l’effetto del mal d’amore, che tanti anni prima ha concepito
a Venezia. Al crepuscolo l’artrite morde, a fondo, e la possibilità di avere un
figlio che salvi la stirpe dei Medici è ormai una ubbia, una chimera. E lui
pensa all’altro se stesso, al pittore ramingo che qualche volta vorrebbe essere.
Egli, preso congedo, si è diretto a Bologna per un’altra commissione, con
negli occhi un’ombra di felicità per il lavoro da compiere.
MEMENTO MORI. GIOVANNI BATTISTA FAGIUOLI VEDE UN
ACROBATA CADERE IN PIAZZA DELLA SIGNORIA E LO
RACCONTA A CORTE

Firenze, Palazzo Pitti, 8 marzo 1704

Signori, il mestiere mio è pressoché quello del giullare, in queste sale. Da


me ci si attendono facezie, scherzi, motti, e prese in giro. Oggi invece
annuncio fatti gravi, che mi hanno lasciato tramortito, di cui non mi so
rendere ragione. Carlo di Domenico Larini, suddito del regno di Parma, con il
fratello doveva correre rapido su una corda robusta tesa tra i merli di Palazzo
Vecchio e il Canto della Tabaccheria. Suo fratello ha fatto il tragitto in modo
preciso: sembrava ballasse. Tutto il pubblico era con il cuore in gola, e poi ha
sbattuto le mani e tanto quando il ragazzo è arrivato all’altro capo, e giù da
basso i suoi compari facevano cappello, che era ben pieno di monete, date dai
ricchi e dai poveri, secondo la loro possibilità. Carlo, il suo minor fratello,
cadde invece, subito, perché si imbrogliò con le due torce che teneva in
mano. Molti si misero le mani sugli occhi, ma in specie il fratello suo, che gli
aveva dato di codardo, e lo aveva spinto con la forza a salire sulla corda,
anche se quello non aveva voglia, e aveva protestato di non essere altrettanto
abile. Ventun anni sono pochi davvero per morire, ma il popolino aveva
subito capito che sarebbe andato a finire tutto male. Al momento in cui il
ragazzo si mise sulla corda, passò un mortorio: un cadavere che andava alla
sepoltura, accompagnato da bizzoche che biascicavano preghiere. Cattivo
auspicio, e il corpo che volava gli si schiantò accanto. Meno male che a
Firenze abbiamo tanti frati e preti sempre a disposizione, che nel moto
precipite rovinoso, nel mentre che cadeva, il ragazzo, quasi fanciullo, ebbe
almeno trenta assoluzioni e arrivò a terra, sfracellato sì, ma mondo del
peccato mortale. Molte donne svennero, in piazza e alle finestre delle case, e
gli uomini andarono via in silenzio, pieni di confusione. Io lo vidi
privatamente nella Misericordia, quel povero corpo straziato. Si riconobbe
che era caduto in piedi, perché aveva uno stinco di una gamba rotto, e gli era
uscito fuori l’osso, rotto il fil delle rene in più luoghi e salve braccia e testa.
Un vento tremendo è passato sulla piazza e ci ha lasciato senza fiato: un
gioco è finito in tragedia, una vita in morte, requiem aeternam.
GIAN GASTONE TORNA A FIRENZE, CON LA CODA TRA LE
GAMBE, SUA MOGLIE RIMANE IN BOEMIA, PER SEMPRE; IN RIVA
ALL’ARNO IL FIGLIO DEL GRANDUCA DIVENTA UN TRISTE
ANEDDOTO DI FOLLIA

Firenze, Palazzo Pitti, giugno 1705

La scrofa era volgare come sempre, ma non era stupida e senz’altro non
aveva più voglia di perdere tempo: quando Gian Gastone tornò per
l’ennesima volta da Praga, ubriaco, a implorare biascicando che lei
mantenesse il patto e venisse a Firenze con lui, perché nella cupa Boemia il
Medici sarebbe morto, lei si ribellò. Il papa in persona, per le preghiere di
Cosimo, era entrato nella partita e aveva chiesto all’arcivescovo di Praga di
fare una reprimenda alla riottosa signora. A quel punto la principessa-
amazzone di Sassonia-Lauenburg vuotò il sacco e fece partire dispacci di
fuoco. Perché mai sarebbe dovuta venire a Firenze, tanto figlioli quel suo
marito attratto solo dal dare il didietro a qualsiasi contadino non ne avrebbe
fatti; nei tristi anni della loro vita insieme, l’aveva avvicinata poche volte, e
sempre con fatica. La signora, con malagrazia, diceva che se non si trattava di
impotentia coeundi, di natura squisitamente psicologica, poco ci mancava.
Nella lunga missiva faceva la triste cronaca di tutti i rimedi proposti dai
medici per risolvere il problema: nel 1700 un ritardo mestruale aveva fatto
sperare nell’arrivo dell’erede, ma invece niente: era solo un malanno della
signora. Il medico dei Medici aveva raccomandato la balneazione e di bere le
acque acidule di Egra, presso Verona. A lui così sarebbe cresciuto il vigore,
mentre esso sarebbe diminuito alla principessa, credendo i canali ostruiti per
la di lei pienezza. L’ultima lettera della signora è clinica, e getta una luce
livida sulla vicenda di coppia: “del principe suo consorte diversi atti
conosciuti all’amore e al fine coniugale non troppo confacenti, sia perché il
principe suo consorte a motivo della frigidità, e impotenza, non ha capacità di
generare, il che prova perché nello spazio di due mesi, che ha coabitato col
suo consorte, non ha egli potuto, se non una sola volta, procurare il debito
matrimoniale ed essa in tutto il tempo di questo matrimonio mai ha provato
alcun senso dell’effusione del seme generativo per parte del suo consorte.
Egli non è naturalmente in grado di avere successione, e quindi lei, la
principessa, non aveva alcun rimorso alcuno di essere la causa di estinzione
della famiglia”. Quindi non capiva perché doveva venire a Firenze, a far finta
e a perdere tempo; poi almeno sarebbe uscito dalla sua vita, quell’orrendo
Giuliano Dami, che a Reichstadt le aveva creato non pochi problemi con le
sue ribalderie. Cosimo ebbe un mancamento quando lesse la lettera
dell’arcivescovo di Praga, però lo sapeva. Qualche tempo prima aveva scritto
in una lettera al suo riottoso figlio: “è altresì verissimo che non stando ella
con la moglie, e anco nel tempo più proprio o tenendola esacerbata, è
moralmente impossibile che io possa avere dei nipotini”. Allora il vecchio
Granduca, all’orlo della disperazione, esausto per tutte le inutili rampogne
inviate al figlio Gian Gastone, chiamò a Pitti il suo cardinal fratello
Francesco Maria. Era ormai chiaro che il quieto vivere a cui teneva tanto per
il lardoso germano, che tutti chiamavano il Cardinal Cuccagna, per la sua
passione della crapula, era finito per sempre. Avrebbe dovuto all’istante
lasciare la porpora, scardinalarsi, sposare chi si trovava sul mercato e fare un
erede presto, anzi subito, e che fosse maschio, anzi meglio due, che con la
salute non si sa mai, e poi fosse mai che ne venisse un altro a cui non
piacevano le femmine. Tutto questo al real fratello non era nel suo genio: gli
era sempre piaciuta la vita comoda, e ora addio bevute, orge, pranzi, cacce e
danze. Lasciare la corte campagnola di Lappeggi per passare a quella
imbalsamata di Pitti, con quel suo fratello sempre a biascicare rosari, proprio
ora che la sua carriera ecclesiastica aveva preso la via e il re di Spagna gli
aveva promesso, quando si liberava, l’arcivescovado di Toledo, ghiottissima
preda per prebende, titoli, benefizi e parrocchie. E non aveva nemmeno
bisogno di recarvisi di persona, poteva fare le orge come sempre a Lappeggi
e ricevere i soldi per tramite di ambascerie, insomma il suo ideale. E poi in
fondo Francesco Maria se lo ripeteva, dentro di sé: chissà se era in grado,
aggravato di carne e malanni come era, di eseguire l’ordine del fratello,
procreare e salvare il Granducato dalle brame di Vienna. Era un rotolo di
salsiccia, pieno di acciacchi e di malanni, il sangue gli era andato in acqua,
gli occhi erano abbottati, circondati da un’occhiaia fonda e nera. Tutti lo
guardavano con apprensione mentre scatarrava, a lungo. Un tempo non ci
sarebbero stati problemi: prima di avvolgerlo di cinque strati di grasso, il
batacchio funzionava a dovere; si sapeva che di figlioli ce n’erano, ma
illegittimi, e prole di contadine con i labbroni dei Medici non potevano certo
essere gli eredi del trono dei Medici. Ora era un vecchio apoplettico, strafatto
dal diabete e con il cuore malandato. Mentre gli proponevano gli elettuari più
inverosimili, e suo fratello si era risolto a domandare grazia per lui in
ginocchio sui ceci alla Madonna dell’Impruneta per garantire una balda
erezione al fratello, i congiunti gli rimbombavano nel cervello come zanzare
moleste: “riguardatevi, voglio un cuginino, un nipotino, un eredino”. Come
se quella creatura in ino fosse facile da produrre; a lui sembrava una cosa
insormontabile. Nelle corti italiane e a San Pietro la notizia fece scalpore:
tutti sapevano che i Medici erano alla frutta, ma questo voleva dire che ormai
avevano scelto un finale intinto di grottesco.
Gian Gastone ormai occupava un angolo lontano della mente del
Granduca. Cosimo, che ogni giorno faceva una ramanzina al fratello,
dicendogli di riguardarsi, coprirsi, curarsi, andare a letto presto, camminare
nei giardini di Pitti, bere l’ovo appena svegliato e mandare giù palline di
carne cruda, mandandogli a ogni piè sospinto il cerusico di corte. In quanto a
Gian Gastone si era ripetuto, seguendo sulla mappa d’Europa il viaggio del
figlio, di non aggredirlo quando arrivava. E invece non appena fu nel palazzo,
con quel suo orrendo Giuliano, lo chiamò a rapporto, infliggendogli una serie
infinita di contumelie. Sfuggito alla minaccia dell’amazzone pazza, alle terre
fangose di Boemia, non era certo felice nei luoghi della sua infanzia. A
trentasette anni sembrava un vecchio decrepito, era gonfio, la pelle del viso
era tutta sciupata e nella faccia, come di Pierrot moribondo, galleggiavano
due occhi attoniti, come uova affrittellate senza tuorlo, perennemente
atteggiati in posa di sorpresa. Tenne una corte piccola, ma ormai era in tutto e
per tutto schiavo di Giuliano, anima nera. Suo padre fece le mostre di
scordarsi di lui, gli tagliò i viveri, lasciandogli ben piccolo appannaggio, ma i
serventi facevano a gara per ricordare quella presenza stravagante, che da
problema insolubile si stava trasformando in aneddoto capriccioso. Di notte il
rampollo granducale andava da solo all’Isolotto, alle Cascine e
all’Argingrosso, luoghi desolati in cui voleva sperdersi nelle tenebre,
lasciando dietro di sé i suoi fidi, per godersi il piacere di rimirare da solo la
luna, come un poeta romantico tedesco a venire. Guardava fuori, come un
uccello prigioniero della sua gabbia, dalla finestra del suo appartamento.
Mandava a comprare oggetti paradossali: una partita di scope per spazzare gli
uffici dei senatori dalle ragnatele, un mannello di canzoni stampate per
mandarle a ministri presuntuosi, che imparassero almeno quella cultura
popolare, visto che di sapienza classica non ne avevano. Insomma, era
diventato una barzelletta, e quando usciva a cavallo, cadendo a destra e
manca perché sempre ubriaco, aveva dietro un codazzo di persone che lo
acclamavano tutte le volte che riusciva a rimettersi in piedi da solo. Eppure in
tutta quella rovina, spesso era acuto, brillante, quando il cervello gli si
snebbiava. Allora vedeva bene come nessun altro la rovina prossima del
Granducato.
COSIMO RICERCA QUADRI IN INGHILTERRA, PAESE DI CUI HA
SEMPRE AMMIRATO L’ORDINE E DI CUI FANTASTICA DI AVERE
LA POTENZA SUL MARE

Firenze, Palazzo Pitti, 1705

Cosimo voleva a tutti i costi per le due collezioni un autoritratto di Sir


Godfrey Kneller, che furoreggiava presso la corte di Guglielmo III e della
regina Maria. I monarchi lo avevano onorato con una catena d’oro, che
recava una gran medaglia con la testa laureata. L’artista era stato in Italia per
il consueto viaggio di istruzione, e ne aveva riportato una passione per lo stile
del Maratta. In cambio della desiderata opera, inviò un quadro di Carlo Dolci
e quattro casse di vino, tra secco e dolce. Smaniava di avere maggiori notizie
del pittore, e per questo uno storico dell’arte britannico, Bainbrigg
Buckeridge, redasse appositamente un testo da inviare al Granduca. Allo
stesso tempo ordinava numerose tele dell’altro maggior pittore d’Albione del
momento: sir Peter Lely, per tramite del suo emissario a Londra, Jacopo
Giraldi. Egli aveva dipinto in serie, con il suo studio, centinaia di ritratti,
soprattutto specializzandosi in due tipi: i condottieri (a Greenwich) e le belle
donne (a Hampton Court). Al Granduca molto piacevano le cose inglesi; ben
si ricordava del viaggio in Albione nel 1669, che aveva compiuto a fianco di
Lorenzo Magalotti. Ogni tanto nel cuore della notte sognava di essere come
Carlo II, che aveva conosciuto, insieme a Samuel Pepys, gran diarista, che lo
definiva “uomo allegro e affascinante” a capo di un vasto impero, di una
flotta dinamica di militari e mercanti; poi si risvegliava e la chimera presto
svaniva, ma si segnava di richiedere altri quadri di artisti britannici importanti
al Giraldi, che subito gli mandava notizie.
ALESSANDRO SCARLATTI, DISPERATO PER ROVESCI DI
FORTUNA, CHIEDE DENARI AL GRAN PRINCIPE FERDINANDO

Villa di Pratolino, 17 aprile 1707

“Cecchino, amore mio, lo so che sono l’Orfeo dei Principi, perché suono
bene la spinetta, e so ben cantare, ma io che c’entro nei fatti del signor
Scarlatti?” Ferdinando, dopo vari anni di collaborazione con il maestro
palermitano, a cui aveva chiesto musiche sacre e profane per il suo teatro
nella reggia immaginaria di Pratolino, inclusa l’opera Il Gran Tamerlano, ora
è stanco di lui e vuol cambiare. Il compositore aveva una gran famiglia, e vari
rovesci di fortuna; lo affliggeva ora forse il venir meno di una collaborazione
che era stata altrettanto continua con il cardinale Ottoboni a Roma. Rovesci e
spese lo avevano messo sul lastrico. Il tenore della lettera era sul disperato:
“Alto, Reale e Vero Signore, io devo renderle palese la mia presente
condizione, che, rendendomi libero da ogni impegno d’attual servizio ed in
arbitrio di me stesso, nondimeno esposto a incerta Provvidenza umana, è
insufficiente a reggere il grave peso di numerosa famiglia che, quantunque
vestita del manto della virtù, è ignuda d’ogni soccorso e mercé, che
l’occasioni d’esercitarle in proprio sovvenimento da per tutto mancano o per
la fatale costituzione dei tempi o per la propria sfortuna, che quasi sempre
nasce gemella di lei. Chiedo umilmente perdono del modo estensivo con cui
riveremente gl’espongo le mie suppliche”. Ferdinando pensa che il tono è
ricattatorio, lagnoso, piagnisteo e lui invece è solo dalla parte di quelli che
sanno ridere di sé anche nelle disgrazie loro. Chiama Cecchino per calcolare
quale può essere un dono in denaro accettabile da mandare per suo tramite al
compositore a Roma. Non si può certo fare carico della sua famiglia: ha
cercato di sbolognarli anche quel suo figlio Domenico, bravo non dico di no,
ma scrive una musica tanto difficile per le tastiere che proprio non fa per lui.
Gli è venuto il mal di testa per cercare di padroneggiarla. Va bene signor
Scarlatti, tanto sono gli ultimi quattrini, ormai il libretto di Dionisio re del
Portogallo, a firma di Antonio Salvi, ha già preso la via di Bologna, per
arrivare nelle mani di Giacomo Perti, maestro di cappella di San Petronio e
soprattutto scapolo, devoto e frate laico, che almeno non mette al mondo tutti
quei figlioli da sfamare. “Vero Cecchino mio, che il maestro Giacomo è
sposato solo con la musica, e partorisce opere e oratori, non mica rampolli? E
poi il maestro Scarlatti sembra non voler capire che siamo ormai nell’epoca
degli eunuchi trionfanti e per il serraglio dei miei musici ci vogliono più arie
e meno recitativi accompagnati per far sentire la bravura del maestro”. I
virtuosi sono tanti e tutti devono ben comparire e figurare, e poi bisogna
regalarli, dargli galanterie e confetti, rosoli e confetture, e stare attenti a non
fare preferenze che poi si litigano come pappagalli. “Naturalmente, amore
mio, questo non riguarda te e nessuno di loro si azzarderebbe a mancarti di
rispetto, però sono davvero incontentabili: gli dai uno e vorrebbero cento. E
poi tutti quegli odii e quei ripicchi: solo tu sei sempre buono con me”. Stringe
a sé Cecchino, lo bacia a lungo, poi si rimette a posto la parrucca, mentre
guarda l’eunuco che se ne va con i denari per Scarlatti, ripensa a quando gli
era capitato di leggere la lettera del contralto di Palermo, il Pistocchino, che
si lamentava di aver cantato poco in un mottetto di Scarlatti eseguito alla
Santissima Annunziata. “Matteo ha cantato troppo e poco si sentiva, ed io
troppo poco che tanto volentieri mi sentivano. Poi con Cecchino siamo andati
a tenere Accademia da Raffaello Torrigiani. E tutti, cavalieri e dame, che ve
n’era una quantità, mi fecero un applauso terribile a distinzione e questi sono
i miei regali. Eccole qui le mie glorie merdose; lo Scarlatti ne ha avuto una
tabacchiera d’oro, di valuta 18 o 20 doppie, io niente; Matteo regali in tante
volte da Cecchino, e io niente di niente.” L’Orfeo dei Principi paragona le
voci che hanno cantato per lui e nessuna è più suadente di quella del suo
amore quando lo bacia, lento e piano, e gli canticchia all’orecchio un suo
personalissimo mottetto d’amore.
LO SPAGNOLO DIPINGE SCENE VOLGARI DI GRAN VIVACITÀ PER
IL GRAN PRINCIPE

Livorno, febbraio 1708

Lo Spagnolo si chiamava così per via degli abiti attillati, al gusto d’Iberia,
che a Bologna, sua città natale, spesso si vedevano per via degli studenti che
venivano al collegio, per studiare legge alla rinomata università. Aveva un
carattere burlesco, che subito incontrò nella fantasia al Gran Principe; a una
riunione di accademici aveva fatto una caricatura specialmente acida del
Malvasia, e questi aveva fatto fuoco e fiamme contro di lui. Dalla sua città
Ferdinando lo aveva chiamato a Livorno, perché dipingesse per lui. Al
committente piaceva che l’artista realizzasse una pittura carnale, disegnando
con la stessa sensualità poppe di femmine e sagome di animali. Non appena
giunse, come prima prova gli venne richiesta una Natura morta con
cacciagione e fucile. Ferdinando era impaziente: aveva dato ordine che
venisse preparato per il pittore un gran tavolo pieno di selvaggina e pesci, con
la regola che al massimo ci mettesse un giorno per la realizzazione. Lo
Spagnolo era destro, sapeva cavare il massimo partito dai rami lustri e dalle
stoviglie, a contrasto con le carni delle bestie. Il Gran principe comandò che
egli realizzasse due dipinti, nel tempo di un giorno, e per uno il soggetto era
un preparato per il cacciucco, zuppa livornese di prodigiosa densità, che dalla
fine del Cinquecento aveva incontrato nella fantasia del palato mediceo. “Si
preparino, in diverse positure, due scorfani, una trota di mare, un pesce
nocciolo, un dentice, un’orata, un totano con due altri pescioli, un’ostrica
aperta et una serrata et un gambero di mare, con una mezza tellina aperta et
una chiusa.” Infine le carni, di porco e di pesce, andavano ai cortigiani, i quali
si buttarono su quel banchetto come se non ci fosse da anni cibo nella città
labronica. Lo Spagnolo si ripromise di farne un quadro che recasse come
titolo La festa della porchetta, sullo sfondo di una fiera di paese piena di
gonzi e ribaldi.
Il Gran Principe era nella città sul mare a festeggiare il Carnevale; si
vedeva camminare alla Marina, con a fianco un bel servo moro, detto per
comodità Alì, come tutti gli altri che lo avevano preceduto. Molto gli
piacevano le scene di vita quotidiana, che avessero nel racconto una vivezza
che toccava il crudo. Il meccanismo dei quadri, magistrali, era sempre lo
stesso, che i contemporanei avevano ribattezzato con il termine tenebrismo,
che voleva essere ironico, ma era anche assai preciso. Una scena scura, dai
colori di marrone e nero, in cui emergeva un dettaglio vivido, un lampo di
luce. Subito il maestro di casa doveva appendere al muro, dove la parete
avesse più gioco alla luce, i suoi molti quadri “di soggetto piacevole e
volgare”.
Nella povera stanza ci sono soltanto una spinetta e due manifesti di teatro;
forse il mestiere della signora è quello di canterina. In un’altra tela la
sguattera attende come fosse un compito religioso, con gesti compresi della
sua importanza, a lavare i piatti. Intorno a lei nel silenzio, in bell’ordine,
pentole e padelle. Diabolico, quasi, è il caos che l’artista ha dipinto nella
scena della Fiera di Sant’Antonio a Poggio a Caiano, brulicante di animali e
contadini, come quello che in primo piano guarda con occhi maliziosi una
bella figliola. E poi quel meraviglioso cortile in ombra, con un uomo che
piscia appoggiato al muro, un gatto bianco maligno che sbuca da un
finestrino, e due donne che attendono a lavare i panni, una parte dei quali
sono già tesi su un’altana invasa dal sole. Ferdinando gode di questi istanti di
verità dei corpi che brillano alle pareti, prima di prepararsi a scendere
controvoglia a Pitti per incontrare il padre, che gli sembra venirgli incontro in
una soffocante, densissima nube di incenso.
LO SPOSO MARCIO: FRANCESCO MARIA SI DECOMPONE A VISTA
ED ELEONORA LUISA GONZAGA DI GUASTALLA SI RIBELLA AL
SUO AMARO DESTINO

Villa di Lappeggi, febbraio 1709

La sposa, Eleonora Luisa, è giovane, fresca, forse non troppo avvenente,


ma in lei è il fiore della giovinezza e nessuno ne discute, la sua carne è
morbida, sugosa e aranciata come la polpa della zucca barucca nei suoi
territori a margine di Mantova. Il marito, Francesco Maria, invece è vecchio,
obeso, apoplettico, gonfio, idropico, lento nel movimento, ha il fiato cattivo, i
denti guasti. Ha bevuto tutte le cantine dei Medici, che erano ben fornite, ma
lui, con il suo seguito rustico, è riuscito a finire anche le annate più vecchie,
anche quelle che erano andate in aceto, si è scolato il vino dimenticato del
Rinascimento. Ha anche mangiato come Pantagruele tutta la cacciagione che
i suoi servi hanno procurato in Toscana e altrove, cibi cucinati in salse
elaborate e pesantissime, poi si è rimpinzato di dolci fino a esplodere,
prediligendo la schiacciata con l’uva, che colava lentamente zucchero
vischioso dalla sua bocca precocemente sdentata. Lei ha ventitré anni, lui ne
ha quarantanove ed è la rappresentazione esatta del nobile debosciato che ha
mandato in rovina il proprio corpo. Collassa tra colpi di sonno per
l’andamento del diabete, si accascia, poi si riprende, se la fa addosso. Lei
aveva capito subito come andava l’antifona, quando dopo aver intravisto il
futuro consorte aveva visitato Palazzo Medici Riccardi, dove Luca Giordano
aveva raffigurato il suo futuro marito da giovane, quando ancora aveva le
gambe e non due tronchi spugnosi e pieni di ulcere e vesciche, che trascinava
stancamente dal letto alla poltrona. Chissà, forse non le sarebbe piaciuto
nemmeno allora, ma almeno se l’avesse incontrato quando era come
nell’affresco, il fatto di salvare la dinastia producendo figli le sarebbe parso
meno ridicolo, non così grottesco. Tanto più che lui aveva finto per tutta la
vita di occuparsi di religione, dedicandosi invece solo ai piaceri della carne.
Per dinastia era diventato cardinale e ora era stato anche scardinalato,
ridicolmente, perché Cosimo, il Granduca suo fratello, non voleva correre il
rischio che la corona andasse a Gian Gastone, omosessuale oltre ogni limite e
contrario alla prosecuzione della stirpe.
Lei viene da una schiatta povera, va bene, ma onorata: non ha attraversato
gli Appennini per farsi deridere, né per farsi schiava sessuale di uno sposo
mostro e vizioso. Lo sa che la cognata del suo malaugurato consorte odiava
quel luogo, che non per caso a corte era ribattezzato alla peggio. Non che
l’edificio fosse brutto: l’aria era irrespirabile per via della corte libertina che
il cardinale teneva accanto a sé. Il suo religioso marito aveva sempre avuto
ben poco di mistico, e sarebbe stato meglio che avesse scambiato la tonaca
con Cosimo. Lui sì che stava bene solo in Vaticano sui ceci, nel fiorire dei
cilici, e Firenze gli sembrava Sodoma & Gomorra, infestata di finocchi senza
ritegno e megere urlanti: ebrei, massoni, prostitute e streghe, tutte creature di
una sua personale e sgraziatissima Apocalisse. L’unica cosa che al religioso
piaceva del suo stato, oltre che di accoppiarsi, quando la polvere di corno di
rinoceronte riusciva a farglielo venire duro, con le contadine e le pastore e
darsi alla crapula eterna, era fare ecclesiastici intrighi. Da quando ebbe la
porpora infinite furono le lettere che scrisse per sapere se e quali benefici
potevano toccargli; abile nel muovere le pedine al conclave, voleva soltanto
tornare di corsa a Lappeggi. L’orgia era il suo clima naturale, la passione
predominante; anche se lui era sempre più in affanno: asmatico, coperto di
ciccia, sorridente ancora, ma in difficoltà con il movimento della mano che
cercava il pisello rattrappito sotto la coltre di grasso che gli impediva di
vederlo. Teneva sempre presso di sé, per i casi estremi, il preparato con il
verme di gusano del Perù, per farselo venire duro, e le contadine facevano
buon viso a cattivo gioco. La sua bocca lasciava uscire un fiato fetido che
rivoltava: ma in cambio arrivavano nelle povere case polli, cacciagione, vino.
Eleonora Luisa, quando arrivò alla villa, fu ancora più orripilata dal suo
destino: come si faceva a copulare con quella massa di grasso putrido?
Meglio suora, meglio zitella a cavarsi gli occhi a cucire in un beghinaggio. E
invece, quel mostro buttava giù sacchetti di monete per aizzare alla lotta i
suoi palafrenieri, voleva intorno a sé servi maschi in veste di femmina e
femmine in veste di maschi, organizzava orge continue. Tutto, pur di non
pensare a sé e alla rovina del suo corpo gonfio e sfigurato. La ragazza aveva
schifo di quell’atmosfera di decadenza: sapeva che la famiglia Medici era alla
fine, ma lì non c’era nemmeno la dignità del crepuscolo: tutto rotolava in un
rumore assordante di rutti e scoregge. La villa sentiva già di morte, si capiva
che dopo la fine del cardinale tutto sarebbe andato in rovina presto, e lei era
giovane, le scorreva il sangue nelle vene, era terrorizzata di venire a far parte,
come regina del disastro, di quella rovina di corpi e dinastie. Non voleva
chiudersi in un sepolcro, non le arrideva certo il convento, aveva in testa
mille pensieri vaghi, ma tutti portavano a una stessa dolce parola: fuga, per
trovare uno della sua età. Per accettare di copulare con il vecchio, chiese
consulto a un medico. Meglio agire tenendo lui sotto, che il movimento gli
era fatale, era cosa di poco momento, e tutto finiva subito. Il cardinale non
era certo vergine, si sapeva che aveva almeno due figli illegittimi, ma quelli
nella partita dinastica non contavano proprio. L’importante era che restasse
subito pregna e poi ognuno poteva vivere per conto proprio. Lei non sarebbe
stata costretta a dimorare a Lappeggi e le si sarebbe subito aperta la via di un
bell’appartamento a Palazzo Pitti, anche più grande se per ventura avesse
scodellato due gemelli.
Restano le cronache del tentativo di accoppiamento, ripetuto varie volte,
sotto controllo medico e vissuto da Eleonora come un incubo. Il dottore di
corte dispensava polvere di gusano, ungeva di unguenti e manipolava con le
mani inguantate il membro che non voleva saperne di restare su, e si
rintanava nelle pieghe della ciccia, poi venne in soccorso all’elefantiaco
sposino con un preparato corroborante estremo, ventidue rossi d’uovo, con
dentro un liquore infuocato. Infine le copule ci furono, ma stente e senza
fortuna. Un anno dopo, nel 1710, il cardinale scardinalato morì, sbavando
giallo, sputando bile verde, scoreggiando e ruttando indegnamente. Non c’è
da stupirsi che Eleonora fosse sconvolta da quell’umano disastro. Visse
qualche anno a Pitti come vedova, facendo il diavolo a quattro e reclamando
continuamente maggiore attenzione dal fratello del suo defunto sposo. Poi si
dette a far sesso senza precauzioni, ebbe figli con uomini diversi, purché
fossero robusti e in salute, anche se di umilissima estrazione, e morì demente
a Padova, in fama di ninfomania, ancora ricordando lo scorno di quella
orribile sequenza di giornate a Lappeggi con quel vecchio molle, che non
riusciva a fare il suo dovere di maschio, cercando di salvare i Medici e la loro
dinastia, di cui a lei non importava un fico.
FEDERICO IV DI DANIMARCA FA VISITA AL FANTASMA DEL SUO
ANTICO AMORE, MADDALENA TRENTA, ORA SUOR MARIA
MADDALENA

Borgo Pinti, Monastero di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, primavera


1709

Carissima Maddalena,
quanto mi ci è voluto a raggiungerti, in questo tuo guardatissimo ritiro
spirituale, ho dovuto chiedere a lungo al Granduca e per suo tramite
domandare uno speciale permesso e dispensa all’arcivescovo Tommaso
Bonaventura della Gherardesca. Per averlo, ho dovuto far dire dalla
principessa Violante, mia buona amica e confidente, che pensavo di
convertirmi, che forse ero pronto come la regina Cristina di Svezia e Nicolò
Stenone ad abbracciare la fede cattolica. L’emissario del patriarca, un pretino
dal collo della tonaca tutto liso, dalle mani ghiacce come la morte, mi
continuava a ripetere, guardando per terra le formiche: “mi raccomando,
vostra eccellenza, non dite parole fuori di regola e misura, non parlate
d’amore, non fate accenno a passati piaceri”. E quali? Già, quelli dello
sguardo: quando ti vidi per la prima volta a Lucca, e io viaggiavo felice, da
giovanotto, nelle terre di Etruria sotto il nome finto di Oldenburg e avevo due
persone del mio seguito. Ora sono re e sono arrivato con altri centoventuno
tra cortigiani e serventi, ma non sono certo più contento di allora, anzi.
Nemmeno il paesaggio dell’Italia mi toglie la melanconia. Avevi allora la
bocca rossa come una melagrana, i denti bianchi, splendenti. Sorridevi sulle
mura, ti dondolavi al braccio di una tua amica, facevi finta di non vedermi,
ma invece mi seguivi con lo sguardo. Cherie, cherie. Toujours cherie.
Sognasti di diventare regina di Danimarca, io avrei voluto, ma ti mancavano i
quarti e non me la sentivo certo di sfidare il mio popolo. Nemmeno volevo
illuderti. Mi hanno dato in moglie due tedescone, brave donne non dico di no,
ma noiose come l’autunno a Elsinore. Con Luisa ho fatto quattro figli, con
Anna Sofia tre. Il solito lavoro di un re: lasciare un’eredità di figli sperando
che qualcuno di loro risulti almeno sensato, che non faccia danni al paese,
che non compia scelte sbagliate nella guerra che combattiamo contro i
tedeschi, che durerà decenni, secoli. Quella era la prosa germanica della mia
vita e tu eri la poesia italiana: eri stata il mio Grand Tour d’amore. Eppure
più che altro ho potuto pascere solo gli occhi nelle tue bellezze: tu non hai
voluto più vedere le mie. Ti mandai un ritratto pieno di pietre preziose e lo
respingesti, ti amai da lontano ed ebbi sempre in mano il severo crocifisso di
legno che mi mandasti, in scambio della raffigurazione delle mie fattezze. I
miei confidenti mi dissero che la badessa non credeva alla tua religiosità,
dubitava del fatto che tu fossi entrata in convento da grande, a ventitré anni.
Invece, nessuna prova ti ha fermato: sei diventata maestra di spiritualità.
Facevi fiori di stoffa per la chiesa, poi hai imparato a fare angeli di cartapesta,
figure di stucco, festoni di gesso, ti sei data al ricamo e a ricopiare sacri testi.
Non voglio turbarti nel tuo ritiro, ma venire a te è una necessaria visita al
fantasma della mia giovinezza: so che tu soprattutto compiangi il mio destino
di luterano, per cui andrò senz’altro all’Inferno. Quando mi hai visto hai
sollevato il velo, io ti avrei dato volentieri un bacio casto, da fratello, ma tu
stessa mi hai allontanato con lo sguardo, senza nemmeno il bisogno di fare un
gesto con la mano. Accanto a te c’era una suora vecchia, dallo sguardo
aguzzo, ma non sapeva il francese: perciò poteva solo spiare i nostri sguardi,
ma ci avrebbe visto riverenza, non desiderio. Ho voluto compiere un
colloquio con il mio passato ipotetico, con quella primavera del desiderio che
avevo sempre immaginato albergare in terra di Toscana, per me luogo
dell’amore, che invece ora scopro patria dei bigotti, peggio che al mio paese.
Tu mi guardi severa e mi congedi, mi dici che se mai posso tornare per
vedere il sepolcro di Maria Maddalena de’ Pazzi, e chiedere alla santa
l’ispirazione per fare il gran cambiamento. Io lo so che in tutti i conventi del
Carmelo a Firenze le tue sorelle si sono unite nella preghiera per salvarti dalle
tentazioni del luterano. “Changez d’avis, mon cher, ou pour vous sera la
damnation”, ma “ma soeur ma religion est la plus proche à la catholique, on
verra bien”. Sulla carrozza da Borgo Pinti verso Palazzo Salviati sono triste,
poi mi rassereno. Già si annunciano le danze di stasera a Palazzo Pitti,
giocherò al lanzichenecco e ballerò fino al mattino, e dolcemente mi scorderò
di quello che poteva essere e che non fu.
IL CACCIUCCO DEL GRAN PRINCIPE: GIUSEPPE MARIA CRESPI
DIPINGE A LIVORNO, PER IL CARNEVALE

Livorno, 7 febbraio 1708

Il Gran Principe, quando non aveva denari per recarsi dalla sua adorata a
Venezia, trascorreva il Carnevale a Livorno, di cui amava la vivacità, il mare,
il gusto di dare feste animate, il poter giocare liberamente alle carte, il
passaggio di bei mori e di signore libertine. Tutte cose che lo rallegravano e
subito lo disponevano al buonumore, lontano dalla musoneria della corte
paterna. Intorno a sé aveva il suo proprio seguito, spesso composto da
scioperati di ogni tipo, sempre pronti a intrattenerlo, a blandirlo, a divertirlo.
Lo Spagnolo arrivava da Bologna, dove la sua fama era sempre maggiore:
Giuseppe Maria Crespi, il cui nomignolo era dato dagli abiti di gusto
ispanico, diffusi nella sua città dagli studenti del Collegio Maggiore di San
Clemente degli Spagnoli, aveva ormai la reputazione di essere uno dei
maggiori artisti del tempo suo. Come voleva la sua reputazione, egli fu
rapidissimo, incontrando il desiderio del suo augusto committente.
Ferdinando gli dette due giorni: uno per dipingere un quadro di pesci, e
l’altro per un’imbandigione di caccia. I cibi erano già preparati su un gran
tavolo con begli oggetti: quando l’artista aveva finito gli ingredienti erano in
dono alle persone del seguito, che avidamente li prendevano. Il pittore
mantenne il suo impegno: nella prima delle due opere il risultato fu
l’illustrazione del cacciucco. Il pittore aveva la lingua svelta come il
pennello, e l’ironia non gli faceva difetto: si dice che a matita schizzasse i
volti dei cortigiani più avidi mentre prendevano i soggetti delle sue opere,
come se non ci fosse un domani, come se le imbanditissime mense del Gran
Principe dovessero improvvisamente svuotarsi. L’augusto committente
rideva: meglio i parassiti e lo spreco, che l’eterna quaresima di Pitti. Quando
il Carnevale fosse finito, il Gran Principe sarebbe tornato a Pratolino, dove
l’attendeva l’altro suo pittore di corte. Lissandrino Magnasco metteva in
forme sulla tela il suo umor nero: dipingeva fratacchioni lugubri e puzzolenti
che si scaldavano i piedi sudici a una stenta fiamma, mangiando i poveri
avanzi di una questua infelice e miserabile. Il figlio del Granduca amava
specialmente quelle scene di quaccheri e di ebrei di sinagoga, dove quelle
persone devote di una fede oscura galleggiavano sullo sfondo di muri
lebbrosi, stanze cieche, luoghi oscuri dell’immaginazione.
L’ESTASI DEL NERO BIANCO: LA PREDA PIÙ GHIOTTA TRA I
CONVERTITI DEL GRANDUCA

Villa di Castello, inverno 1709

Meno male che Marguerite-Louise era via da tanti anni, se no chissà


quanto quella strega si sarebbe divertita a stigmatizzare la nuova passione del
suo bigotto consorte. “Mais oui, maintenant on à le noir-blanc, c’est comme
aux temps de Cosimino di Camera, c’est honteux, c’est scandaleux”, ma
ormai Madame da tanto tempo era in terra di Francia, e Cosimo tra i
convertiti che manteneva a schiere con una pensione granducale (e non si
contano gli impostori che sfruttavano questa sua propensione, rovinosissima
per le casse dello Stato) poteva scegliere come preferito chi più gradiva.
Nessuno era più perfetto per illustrare la sua mirabile vocazione di Benedetto
Silva, “negro bianco d’Angola” che era giunto come gran curiosità nella
fittissima wunderkammer cattolica del Granduca. Per tramandare ai posteri
quelle fattezze, il monarca commissionò subito un ritratto, da incorniciare per
la Villa di Castello. Il nostro reca nella sinistra una freccia, ed è vestito con
un drappo a simulare il suo originario costume africano, la mano destra è
poggiata mollemente sul fianco, lo sguardo è fisso sullo spettatore. Otto anni
dopo al signore restava la curiosità per quella cattolica meraviglia della
natura, perciò chiese al Tempesti, finissimo maestro del pastello, di farne
un’altra rappresentazione. Ormai Benedetto era diventato un perfetto
gentiluomo di campagna toscano, solo la sua espressione era assai più spenta,
aveva perduto lo slancio del suo profilo di guerriero, a forza di devozioni e
rosari si era annoiato, e trascorreva il tempo senza più essere oggetto di
speciale attenzione da parte di colui che aveva operato la sua conversione.
LA MONARCHIA VEGETALE: IL MIO REGNO È UNA SUSINA, IL
MIO REGNO È UNA PESCA

Villa della Topaia, primavera 1710

Il Granduca aveva sviluppato una grande passione per frutti e piante,


quando il Redi lo aveva sottoposto a severa dieta pitagorica, dopo gli stravizi
seguenti all’abbandono da parte di Marguerite-Louise. Dopo il travaso di
bile, ebbe sempre più passione agli incroci, alle delicatezze, al mangiare
fragole a dicembre e cavoli neri ad agosto. Alla Topaia aveva radunato tutta
la sua sapienza in materia, per la sua propria meditazione, e teneva un pittore,
che la rendesse in quadri, in grandi tavole delle primizie del Granducato.
“Bimbi, mi raccomando il cartiglio, voglio che si capisca la potenza del mio
regno dai suoi frutti: tutti dicono che la Toscana è inaridita, che la mia
politica economica è rovinosa, e che mi interesso solo di devozioni,
mandando in malora i campi, e invece non è vero: sono tutte bugie degli
invidiosi, dicerie messe in giro ad arte da quelli di Vienna, che mi vogliono
prendere il regno. Su, ripetiamo le specie delle pesche da inserire nel
cartiglio: “Maddalena bianca e rossa, Sant’Jacopo, Lucchese, Moscada,
Mandorla, Noce”. Cosimo si interrompe nella sua litania ortofrutticola: pensa
che ormai le susine sono pronte, così come le mele e i cedri, i limoni, con le
loro sorelle le lumie, le pere di ogni forma e colore, i fichi, verdini e dottati,
con la loro goccia di immacolata dolcezza. Bartolomeo Bimbi è pronto a ogni
suo ordine: più lo Stato si impoverisce e più il pittore crea tableaux
grandissimi, estremi, fuori di misura, con tutte le dovizie del regno. Il
Granduca è ansioso: ormai bisogna passare ai frutti e alle verdure singole, che
hanno come regola quella di essere di dimensioni eccezionali, eccessive,
mostruose. “Bimbi, bisogna dipingere subito lo smisurato cavolo di libbre 7,
il cedro spongino di libbre 7 e once 4, il popone di Ponte a Cappiano di 29
libbre e mezzo, il popone cotignolo di 26 libbre del Marchese Capponi, il
cardo maggiore dei frati alcantarini, il tartufo di Castel Leone, il cavolfiore
del Canonico Venuti, di libbre 18, l’immenso cespuglio di spighe di
Francesco Magnelli, 180 spighe da un solo chicco di grano.” La voce del
Granduca scandisce puntigliosamente le informazioni e gli oggetti: presto,
che quelle meraviglie della natura del suo regno non abbiano ad andare a
male, a guastarsi per il caldo, per il gelo e per i mille accidenti della natura.
Cosimo dispone i quadri uno accanto all’altro alla Topaia, un buen retiro a
sua misura, in campagna, dove leggere e meditare, cui aveva dato nome “villa
della fruteria”, per ribadirne il carattere di scrigno di frutta rare e preziose:
rimira questi oggetti fuori di misura della provvidenza, testimonianza di come
il Granducato sia baciato dalla benedizione divina, per via del suo indefesso
impegno per la diffusione della fede. Eppure, il suo occhio va alle
manifestazioni più inverosimili della grazia di Dio. Garofani e girasoli hanno
dimensioni mostruose: sembrano invasori da remote galassie. Gli animali
invece vanno all’Ambrogiana, per Cosimo, per poter essere dipinti, ossia
affidati al trattamento del pennello del Bimbi, devono essere rapaci maligni,
oppure creaturine malaticce, deperite, destinate a breve vita. Lo entusiasma la
vitellina a due teste, nata a Filicaia nel podere di Calappiano, che veniva
nutrita con il latte da una bocca e il liquido le usciva dall’altra. Visse due
giorni e il Bimbi le fece due quadri, per poi correre a San Casciano Val di
Pesa a ritrarre l’agnellino dal doppio capo destinato anche quello a
brevissima quanto travagliata vita. L’unico rimprovero vero, al suo pittore
favorito, il Granduca gliel’ha rivolto quando ha mancato di ritrarre quel
giovane di venticinque anni, che “era congiunto per l’ombellico al suo
gemello, petto a petto”; uno di loro camminava e parlava e l’altro gli pendeva
addosso, senza riuscire ad arrivare alle ginocchia dell’altro. Nel giardino della
Topaia, cattolicissimo orto botanico, non si trova una Flora o una Pomona,
secondo la tradizione medicea, ma invece un santo povero, di origine
francese, Saint Fiacre, patrono degli ortolani e dei giardinieri, di cui firma
una mirabile statua il Piamontini. Volendo celebrare un territorio sempre più
avaro di frutti, il Granduca fa dipingere dal suo pittore preferito una
teratologia senza rimedio, una galleria di fantasime biologiche, botaniche e
naturalistiche, che dimorano ora al piano superiore della villa di Poggio a
Caiano.
VIOLANTE, VEDOVA, IN BALÌA DEGLI EVENTI

Firenze e Lappeggi, inverno 1716

Nei quattro anni precedenti della sua esistenza il dolore totale l’aveva fatta
da padrone. Il futuro non le era mai balenato nel cervello: contava solo
l’istante, il momento, il presente. Il suo amato bene, Ferdinando, aveva patito
una sofferenza senza rimedio, lunga, terribile, con qualche momento di
remissione e infiniti spasmi di un’agonia mortale. Infine, dopo averla
allontanata per tanto tempo, l’aveva ammessa presso di sé, nei mesi vicini
alla sua dipartita, mentre insultava sempre di più i cerusici che non gli
apportavano sollievo e gli imponevano dolorosi salassi e cauteri. In quel
momento aveva ritrovato il senso di un legame, che per lei era stato centrale
dal primo momento, ma che per il suo consorte solo nella malattia si era
rinsaldato davvero. Prima c’erano stati troppi cortigiani, libertini, scioperati,
parassiti, castrati, cantatrici a mettere a prova la pazienza della tedeschina, e a
far da schermo con quell’uomo bello e distante, che non l’aveva mai davvero
apprezzata e che fino ad allora mai l’aveva ammessa alla sua vera confidenza.
A Pratolino, nel lettuccio della sua stanza di fortuna rischiarata dalle luci del
camino, aveva pianto tutte le lacrime e pregato tutte le sue orazioni, ma alla
fine era a casa, a fianco del suo amore. Da lì fräulein spediva a Pitti bollettini
medici con notizie di aggravamenti, risalite, consulti, pareri, e intanto il suo
bel Ferdinando si spegneva, e l’unica cosa che poteva fare era impedire le vie
di accesso alla sua stanza ai castrati e alle cantatrici, a Cecchino e alla
Bambagia, smaniosi di avere un’ultima mercede, due soldi di mancia, prima
che tutto finisse. Eppure, malgrado ogni cura, Ferdinando era sempre più
dolorante, tra riprese illusorie e ricadute mordaci. Come commentava quando
era in buona, nei rari momenti di quiete del male, “sono come un bicchiere in
equilibrio sull’acquaio”. Bastava un niente ed era di nuovo in quella
sofferenza cieca, a cui i medici non riuscivano a porre rimedio. Di notte non
c’era riposo: urla e lamenti spezzavano la quiete, e Violante era la prima ad
accorrere. Gli proponeva la preghiera come rimedio e il consorte, affranto,
qualche volta accettava il rimedio.
Dopo la morte di Ferdinando, dopo le esequie grandi, il cordoglio e le
lacrime, fu il ballo degli equivoci. Tutti le si inchinavano in modi sempre più
distratti e frettolosi. Appena usciva dalle sale di Pitti, sentiva chiaramente i
cortigiani parlottare: “ma allora, la tedeschina quando parte? Non si sarà mica
messa in testa di rimanere qui per sempre?”. Violante ora forzatamente
doveva pensare al futuro, che aveva sempre rimandato. Aveva fisso in testa di
farsi da parte, ma Monaco non le arrideva, sperava che Cosimo il taccagno
avrebbe calcolato che a rimandarla in Baviera spendeva di più che a tenerla
presso di sé. Per questo sperava in un cantuccio in Toscana, al caldo e al sole.
Nella sua terra d’origine avrebbe fatto una vita da parente povera, in una
stanza periferica e umida del palazzo dei Wittelsbach a Monaco, finché non
avrebbe preso la via di un pensionato per dame, nelle austere sale di un
convento. Senza il sole di Toscana, sarebbe morta di tedio: il suo futuro le si
presentava oscuro. Cosimo, in udienza, le promise una villa: le si fermò il
cuore. “Il mio bel Pratolino in cui vedrò sempre il fantasma sorridente di
Ferdinando, che tanto amava quei luoghi.” E invece no: la dimora prevista era
Lappeggi, dove le mura trasudavano ancora della morchia lurida della corte
libertina di Francesco Maria. Fece buon viso a cattivo gioco: sorrise come al
solito. Si risolse a chiedere in primo luogo una bella imbiancatura, poi,
sorridente come sempre, commentò che almeno, dopo tutti gli sconquassi per
la morte del suo amore, avrebbe avuto un po’ di quiete. Risolse di allontanare
le dame del suo seguito, tenendone solo due, povere e bisognose, come atto
di carità. Con lei c’era la sua anziana balia, severa, ma affettuosa, che recava
con sé, sigillato, da sempre, il suo segreto: essere una luterana in terra di
bigotti cattolici. In tutti quegli anni a corte, era riuscita a non perdersi mai, a
non dar confidenza, a non parlare con nessuno, se non con la sua cara
padrona. Con pochi bauli, tenendo solo gli oggetti necessari, si mise in
viaggio, trovando ad accoglierla i contadini che erano a servizio della villa.
Da Pitti si era portata l’elenco delle preziosità orientali che il suo amore
aveva raccolto con tanta cura. Leggeva attentamente, finché le lacrime le
velavano lo sguardo: “due ventagli senza cannuccie di carta pecora bianca,
miniatovi d’acquerello della China, in uno una battaglia di soldati a cavallo e
nell’altro un porto di mare con più vasselli e sulla riva vari uomini, una
bussola da navigare, segnata con parole cinesi, entro una scatola di legno
tonda”. Poi prendeva il regesto e lo teneva stretto a sé, e lo baciava, tenendolo
stretto al petto.
A Lappeggi non arrivarono i crapuloni e le contadine-cortigiane di
Francesco Maria; giunsero invece, con il capo avvolto nel velo dell’umiltà,
molte persone che venivano da Pratolino. L’elenco artistico del Gran Principe
era lunghissimo; e lei dava sempre udienza a chi con lui aveva avuto legami.
Avrebbe potuto serrare tutto, in omaggio al lutto stretto che le imponeva la
sua condizione di vedova, ma le sarebbe sembrato meschino. Gli artisti
principali del consorte erano già stati subito ricollocati, chiamati a Pitti, o
congedati e già diretti ad altre corti. I più miseri invece erano ancora
raminghi. Però, anche se il talento non aveva mai baciato quei postulanti alla
reggia di Parnaso o nei praticelli d’Arcadia, con qualche briciola del suo
appannaggio Ferdinando riusciva a nutrirli e a dare loro un tetto. Per regale
imposizione il Gran Principe non avrebbe mai potuto esercitare il suo talento
di musico, e allora che godessero del suo quelli che avevano qualche qualità,
anche minima, dell’arte. Violante voleva essere tranquilla, dedicarsi finché
era bella la stagione a passeggiate nel giardino, leggere all’ombra dei pioppi
qualche bel romanzo della Biblioteca Blu, cullarsi con l’amata idea
dell’estinzione. Invece presto il personale rustico della dimora deve darsi da
fare e lei ispezionare le stanze della magione, che è graziosa nella sua
decadenza campagnola, ma ha dei problemi pratici non piccoli. E poi i
quattrini son pochi, però si ingegna a farli fruttare. L’acquerellista flebile, il
poeta eterno inedito e la cantatrice sfiatata, però, da parte loro si devono dare
da fare: preparare i letti, i camini, la tavola. Insomma, in breve, Violante
dirige come domestici un esercito di artisti improbabili, per la perfezione
casta e francescana della sua Lappeggi. Cene e pranzi parchi, ma illuminati
da candelabri solenni, con i riflessi di pere e susine magnifiche dei campi
della villa che sarebbero piaciute al Bimbi come soggetti da ritrarre. Una
contadina maestra nelle ottave rime, la Menica, incanta in poesia la sua corte
improvvisata: eppure basta quel poco di felicità rustica a farle parlar male
dietro dalle ciane di Pitti. “Guardala quella vipera: faceva tanto la santarellina
a svuotare pitali e medicare piaghe di Ferdinando e ora si dà al bel tempo.”
Violante sente quelle voci di veleno solo alla lontana, filtrate da una delle sue
dame che, una volta alla settimana, si reca alla reggia per visitare sua madre.
Attonita, fa come quella farfalla che assume il color della foglia perché non la
notino i suoi predatori. L’autunno dorato sulle colline fiorentine cede infine il
passo al maltempo. “Baturla”, dice la rubiconda contadina che fa da
dispensiera, ossia la Dianira, “signoria la venga dentro che tra poco l’è
buriana.” Violante si mette indosso una veste di lana da camera verde antico,
più pesante, eppure ha comunque i brividi. Lindora, la camerista, corre e urla
“Ciapo, Cecchino, chiudete le finestre, che il vento spacca tutto”. Violante si
siede su un canapè dalle stoffe verdine, e legge il biglietto che le invia il
suocero. Cosimo le scrive che la sua amatissima figlia, ossia per lei la
dispotica cognata, è di ritorno a Firenze.
Violante lo sa che suo suocero le vuole bene, che pregherà per la sua
felicità, che riconosce che è sempre stata buona e amorosa, ma nella battaglia
delle vedove, lei ha perso in partenza. Anna Maria Luisa torna in volata da
Düsseldorf, dove è morto il suo caro Giovanni Guglielmo, carica di oggetti
preziosi di corallo, avorio e ambra e lussuose gramaglie, trapunte d’argento.
Prima di lei sono arrivate casse e bauli di splendori che ha sottratto dalla
collezione dell’Elettore, lasciando a bocca asciutta nipoti e cugini, che le
lanciano dietro fiorite maledizioni. “Vi piacevano tutte quelle meraviglie? Ve
le dovevate prendere prima, ora faranno parte del tesoro dei Medici”,
ridacchia sotto cappotto. Quanto ci ha messo a imballare tutto, quando il cuor
del suo cuore non era ancora mancato al mondo, ma in queste cose non si è
mai pronti abbastanza, anche perché poi le funebri pompe pretendono infinita
attenzione, tempo e devozione. Quando l’Elettore era morto, lei aveva già da
tempo inviato i primi colli in riva all’Arno, e gli altri erano pronti alla
spedizione. Ha al seguito una corte larga e nutrita di servi e cortigiani,
damine e damazze; si aspetta di essere subito di nuovo al potere a Firenze sul
suo anziano padre, che la teme come il fuoco e le ubbidisce a bacchetta in
tutte le sue risoluzioni. La signora di Monaco ha fama di essere buona,
caritatevole, di far molte beneficienze, ma qualche pensiero contro
l’invadente cognata l’avrà pur formulato: con il suo ritorno finiva di colpo la
sua presenza in città. Sia come sia, Violante ormai è risoluta, e appena finisce
il temporale che squassa le colline con rimbombi tremendi, prenderà la via di
Palazzo Pitti e sarà quello che sarà.
IL RITRATTO DI ELEONORA, REGINA PER UN GIORNO

Firenze, Palazzo Pitti, gennaio 1717

Eleonora Gonzaga di Guastalla, clamorosa vedova, si aggirava con fare da


padrona nelle sale di Pitti. Spesso chiedeva udienza al suo augusto suocero,
per ottenere soddisfacimento dei suoi capricci. Questi spesso si faceva
negare, altre volte non le concedeva ascolto. In un caso però le fu favorevole
Violante, malgrado il suo profilo fosse più di imbarazzo che di vantaggio alla
corte: il Granduca accettò l’idea della nuora, che venisse commissionato un
suo ritratto, perché, anche se in un ruolo accessorio, era pur sempre membro
della famiglia Medici e mancava alla statistica. Venne prescelta all’impresa
Giovanna Marmocchini Fratellini, abilissima pastellista, che poco più che
bambina era stata individuata da Vittoria Della Rovere per il suo talento e da
lei protetta. Violante l’aveva poi presa al suo servizio: era stata lei a
commissionarle tutte quelle immagini di signore medicee che adornavano la
villa di Lappeggi. L’artista, abituata ai capricci delle sue auguste modelle,
con Eleonora aveva avuto supplementari difficoltà. La signora aveva
l’argento vivo addosso, non riusciva in alcun modo a stare ferma. Ne risultò
un’immagine viva, certo, ma anche la testimonianza di una persona inquieta,
quasi frenetica, per certo inseguita da suoi personalissimi fantasmi. Tanti anni
dopo l’artista, che rimase sempre nelle grazie di Violante, venne da lei inviata
a Venezia, per realizzare il ritratto di Teresa Cunigonda Sobieska, principessa
di Polonia. Riuscì a parlare con la grande Rosalba Carriera, maestra del
ritratto a pastello; mentre la dama le spiegava quanto fosse difficile ritrarre
certe nobildonne, poco sicure di sé e del proprio ruolo, di colpo le si palesò
alla memoria l’infelice Eleonora, di cui negli anni seguenti a poco a poco si
perse la memoria. Quando, all’arrivo dei Lorena, se ne andò da palazzo, con
un magro soldo, era l’ombra di se stessa, già in fama di avventure con valletti
e stallieri, subito risucchiata dalla polvere del tempo.
LA SOSTA DI VIOLANTE

Siena, 12 aprile 1717

La corte dell’Elettrice è maggiore per numero di quella del Granduca. Per


Violante e per il suo piccolo seguito rustico quasi non c’è posto: si fatica a
trovare una stanza adeguata a Pitti. I famigli impazziscono per le richieste:
“accendete il fuoco, rifate il letto, portatemi il cioccolatte, la corrispondenza,
avvertitemi quando arriva la sarta per la prova dell’andrienne, che è tanto
delicata, e che deve essere esatta a come l’ha proposta Madame Dancourt
sulla scena di Parigi”. Pitti è un serraglio isterico di principesse vedove,
un’uccelliera di corvidi e dame in gramaglie. Delle tre quella che si comporta
peggio è Eleonora di Guastalla, che in cambio del suo grottesco tentativo di
salvare la dinastia accoppiandosi con il cardinale Francesco Maria si è
guadagnata sgomitando un posto a corte. Spesso è ubriaca, beve e nemmeno
di nascosto: quando madama l’Elettrice necessita di troppa attenzione, sbraita
in dialetto basso mantovano: “quand’al parla al par che la g’abia un struns in
boca, facia smorta, figa torta, a’t vedi gnanca un prete en mesa a la nev”.
Insomma tutto un gergo da facchini di cui sembra assoluta padrona e signora.
Quando l’Elettrice le fa troppa ombra allora scatta in corretto italiano.
“Signora, fate loco ai miei servidori.” “Non sono comoda, al momento,
madama.” “Ne pagherete pegno vivaddio.” “Le vostre pretensioni mi fanno
ridere.” Violante tace e osserva; sa benissimo che tutto quello che dice
verrebbe usato contro di lei, che le italiane si unirebbero subito, anche se si
odiano, contro l’intrusa alla prima osservazione. Cosimo si mette le mani nei
capelli. La tedeschina vuole levarsi da quel ginepraio, da quel nido di vipere
stronfianti, visto che l’Elettrice, per far capire che tra loro non c’è
comunanza, le si rivolge solo in tedesco, con frasi banali, pronunciate come
se fossero staffilate: “er findet nicht, dass das Klima wunderbar ist”, “Heute
bin ich müde, ich gehe früh ins Bett”. E allora ha un’idea luminosa. A una
riunione di famiglia afferma: “me ne andrò, ma dopo aver compiuto un voto
che ho dichiarato alla Madonna dell’Impruneta quando si è ammalato il
povero Ferdinando: voglio andare alla Casa di Loreto”. L’Elettrice è
dispiaciuta, sa che suo padre dirà senz’altro di sì a un tal devoto proposito, e
questo vuol dire che la tedesca le starà sul gobbo chissà quanto. Sei dame
anziane, qualche cavaliere vecchio, insieme a suocero e nuora, si mettono in
viaggio. Alla santa dimora Cosimo si ricorda di quando i suoi avi volevano
riprendere Gerusalemme, o di come si fossero fissi nel pensiero di portare a
Firenze il Santo Sepolcro, azione evidentemente impossibile, ma alquanto
gloriosa. Sogni di gloria di altre epoche, in cui i Medici hanno fantasticato di
creare proprie colonie nel Nuovo Mondo. E in effetti gli riuscì, per pochi
anni, a Olinda nel Brasile di avere qualche metro di terra colonizzata,
assediato peraltro dagli indiani. Ma ormai che vuoi colonizzare, c’è piuttosto
da tenere l’anima coi denti, altroché. Le devozioni si compiono, si parla di
proseguire il pellegrinaggio per Roma, ma il Granduca non paga più le spese,
quindi si tornerà a Firenze. Piano, però, che Violante non ha fretta e che
quando vede un bel paesino si ferma, anche più di un giorno. Infine la
comitiva, dopo un tempo lungo, torna a Firenze, e ringraziati i santi, la
Madonna e Gesù per il viaggio compiuto sani e salvi, Violante per la prima
volta è tornata ragazza. Non le pesa il futuro, non ci vuole proprio pensare.
Tornata a Pitti, mentre l’Elettrice la guarda sempre più in cagnesco, si
consola sfogliando di nascosto la Corona poetica intessuta alle sue glorie da
Ludovico degli Oddi, arciprete della Cattedrale di Perugia, in Arcadia, nella
Colonia Augusta, Learco Piseatico. In quei versi viene portata addirittura a
modello da seguire.
Di Fortuna e del Carcere Terreno
I beni e i tanti don, che il volgo apprezza,
Si com’idoli suoi, calca, e disprezza.
Già, che tosto nel Suol’ manca e vien meno
L’alma non cura alle degn’opre avvezza
O qual’ombra, che fugge in un baleno,
onde per VOI, GRAN DONNA, io vedo istrutto
L’uman desire, e gl’intelletti ignari,
A pregiar di virtù solo il bel frutto.
E se il ciel pose in voi doni sì rari,
Lo fè perché quaggiù volle che tutto
Da voi senno e bontade il mondo impari.
Alla fine il Granduca cede al suo buonsenso, e non dà ragione alla figlia,
che vorrebbe subito la partenza di Violante per la sua Monaco, a cui non la
lega più niente. Vedova del Gran Principe, ella invece ha come destinazione,
in corsa, Siena, di cui le viene affidato il governo. Non è Firenze, è un luogo
più piccolo, ma non è troppo lontano e in ogni caso non è come il rimpatrio
nei geli d’Alemagna, tra le occhiate ironiche dei parenti, con un appannaggio
minimo, visto che i suoi genitori sono morti da tanto tempo. Tutto è meglio
che tornare al freddo del cuore della corte di Monaco.
Il seguito la contorna nella carrozza chiusa, scorrono San Casciano, Colle,
Poggibonsi, ci si ferma a cambiare i cavalli, a rinfrescarsi, a ristorarsi alle
stazioni di posta. La primavera stenta a superare un inverno lungo e bisbetico,
che è stato votato alla malattia e alla morte. Lettere continuamente si
scambiavano dai due lati delle Alpi. Se avesse avuto un figlio maschio,
sarebbe toccato all’Elettrice stare in qualche villa discosta dalla città a rodersi
l’anima. Invece Ferdinando è morto, e le ha attaccato la malattia per cui non è
riuscita, malgrado tutte le sue preghiere, le cure, i bagni di acque termali, ad
avere figli. “Lue celtica invecchiata con gonorrea, somministratele dal suo
consorte, vi sia ancora presentemente accompagnata una importunissima e
fastidiosa affezione degli ipocondrj. E vostra altezza se saprà ben regolarsi
con allegria di cuore, e vorrà governarsi con piacevolezza di medicamenti
non violenti, ma bensì, gentili ed appropriati, ella potrà godere lunghezza di
vita. Con questo però, che ella tenga per fermo, che secondo lo stato delle
cose passate e presenti, egli è impossibile che anco per l’avvenire ella di
quando in quando non abbia a sentire qualche comportabile travagliuccio di
qualche sorte.”
Hanno poco da parlare i medici di allegria di cuore, c’è davvero poco da
ridere. Teufel, anzi vorrebbe dire scheiße, ma l’educazione che le ha impartito
a corte la severa baronessa Simeoni le impedisce anche di pensarle, certe
parole. Comportabile la lue con gonorrea vecchia sarà per il medico di corte,
perché quando cambia il tempo, sente a fondo il morso dell’artrite che la fa
sobbalzare, un cerchio la prende alla testa, il cuore batte all’impazzata e non
trova conforto in niente, se non nella preghiera. Nella carrozza entra uno
spiffero gelato, Violante sa cosa sia il portamento: si mette in posa da parata,
si concentra sui suoi punti negativi e positivi. Sa bene che ha il naso aquilino,
troppo longo è il collo da cigno, vizzo prima del tempo, denti storti, e per
questo le hanno insegnato fin da piccola che è buona pratica tenere la bocca
chiusa; a forza di farlo le è venuto un sorriso da ghigliottina, una fessura
senza espressione. I capelli sono cenerini, di un bel biondo, et assai fini, belli
gli occhi blu cielo e le mani, le gambe sono il suo punto di forza, ma con tutti
quei vestimenti gli arti inferiori non li noterà nessuno. L’artrite è un chiodo
conficcato nella schiena: si sforza di fissare il sorriso ufficiale che adotterà
per tutto il giorno, fino a sera, in una serie massacrante di corvées. Nelle sue
vesti brune, aveva almeno potuto impedire tutto il carnevale che per solito
l’avrebbe accolta: “chiedo che siano osservate tutte le buone costituzioni per
la prammatica del vestire”. Gliele aveva cantate chiare ai senesi nella lettera
inviata alla Balìa della città qualche giorno prima del suo arrivo: niente
manifestazioni goliardiche. Comunque, però, i festeggiamenti sarebbero stati
sfinenti. La Fonte Gaia zampilla vino, Violante guarda distratta la sua nuova
dimora, mentre esplode il Te Deum in Duomo. Dentro di sé è risoluta: non
avrà corte, due donne di servizio e un cuoco: poco più. Niente accademie,
speciale tradizione del luogo, niente veglie di racconto, pochi teatri. Si gode
un poco i musi lunghi dei notabili locali, che speravano nella novella fenice
degli ingegni che avrebbe rilanciato la città, in un fuoco di fila di
trattenimenti e galà, che avevano già dato al tintore da rinfrescare i vestiti
tenuti troppo a lungo in naftalina. Il palio la interessa, ma ha troppa paura che
i cavalli si facciano male e allora non assiste, chiede alle serventi di averne
una fedele cronaca. Resterà nei suoi appartamenti a controllare i conti dello
Stato, a diminuire le tasse, a stabilire elemosine per i poveri vergognosi, a
perseguire i funzionari corrotti e a rifiutare di firmare ordini di morte. Mentre
è sempre implacabile con chi truffa lo Stato, evade le tasse, con coloro che
non affrontano i propri debiti. Soprattutto niente visite ai conventi, che le
mettono una melanconia senza rimedio: ha passato anni, per compiacere
Cosimo a Firenze, a impegnarsi in ogni devozione, tra chiese e cappelle, ma
ora basta, vuole un poco di quiete, per sé. Lo sa già che per il suo andar poco
in chiesa l’accuseranno di essere luterana, ma potranno scatenarsi a mandare
spie su spie e non troveranno niente. E lei di vedere quelle brave suorine, che
hanno già mandato un enorme panforte ripieno da scoppiare di melone
candito come presente e di farsi ossequiare da quei fratacchioni oziosi, loro
colleghi, non ha proprio voglia. A ben pensarci, è vero che in città è pieno di
bigotti e bizzoche, come si racconta in quella commedia, il Don Pilone del
Gigli, che qualche anno fa aveva messo a rumore la città, che troppo bene si
era riconosciuta nella trama, anche se si diceva che l’ambientazione era “in
una città della Francia, che non importa qual sia”.
A Firenze, lentamente, si scorderanno di lei, ma lei non dimenticherà mai
la città sull’Arno: sa però che Anna Maria Luisa farà di tutto per cancellare le
sue tracce. Per questo ha già scelto di non stare sempre a Siena e di dimorare
più vicina, alla villa di Lappeggi, non si sa mai che succeda qualche accidente
al Granduca, che è vecchione o, Dio ne scampi, all’Elettrice Palatina. Scaccia
i pensieri dalla mente come mosconi molesti, ma non era buona e devota,
cosa le viene in mente? Però allora toccherebbe a lei di governare. Sorride
dentro di sé, in cielo si apre un breve squarcio di sole, poi tutto torna grigio.
CONGEDO CON VELENO: MARGUERITE-LOUISE LASCIA IL
MONDO, CON UN ULTIMO PENSIERO MALIGNO PER COSIMO, CHE
NON VUOLE IN ALCUN MODO ABBIA A RALLEGRARSI TROPPO
DELLA SUA DIPARTITA

Parigi, Picpus, 19 settembre 1721

Marguerite-Louise era stata contenta del suo nuovo stato, in cui la


larghezza dei mezzi le permetteva di scapricciarsi assai, ma poi, a poco a
poco aveva iniziato a occuparsi di carità, cosa che prima le era sempre
risultata assai tediosa. Fu comunque in buona salute fino al 1712. In quel
giorno, stando al Palais Royal in conversazione, mentre era per annusare una
presa di tabacco, fu presa da paralisia. La parte sinistra del suo corpo era
perduta, ma lei era indomita. Sfidava apertamente il suo fisico debole, che
l’aveva infine tradita, proprio nel momento in cui la sua anima capricciosa
aveva trovato requie nella carità e nell’esercizio continuo della beneficienza.
Volle già quello stesso inverno uscire nel freddo, quando nel gennaio la
Senna era gelata e tutti stavano rintanati vicini al focolare. Nel 1713,
malgrado assumesse in gran quantità un elettuario di cui erano ingredienti la
polvere di vipera e l’ambra, le si chiuse definitivamente un occhio, si
accentuò la rigidità; ciò accadde in contemporanea con la sospirata morte di
suo figlio Ferdinando, di cui ormai a malapena ricordava i tratti. Sempre più
male in arnese, ebbe il permesso di acquistare una casa a Place Royale, dove
trascorse gli anni seguenti in sempre maggior rovina del corpo, ma lucida e
presente a se stessa. Quando qualcuno voleva ascoltare la sua storia, lei era
sempre pronta: Cosimo nelle sue parole compariva in una luce così sinistra da
parere un servente del maligno, o direttamente Satana, in persona. Spesso la
visitava, per contarla nelle sue opere di beneficienza, Madame, la madre del
Reggente di Orléans, con cui era cresciuta, e che in verità un poco di bene
glielo voleva davvero. Marguerite-Louise rimase male solo quando Atto
Melani le fece capire, con parole dolci, che la sua malattia in Toscana non
faceva né caldo né freddo, anzi che nessuno a Firenze la ricordava più.
Proprio come a Parigi, dove era ormai rimossa dalle conversazioni, visto che
molti pensavano che fosse morta da tempo. Si ricordarono di lei a Versailles
solo quando qualcuno ebbe l’idea di mandarle, per esporle vari
ammaestramenti, la principessa di Valois, che partiva per l’Italia, onde
convolare con il Duca di Modena. Con l’occhio buono che lampeggiava di
sarcasmo, non la volle ricevere, ma le mandò a dire di stare attenta a non fare
come lei, a non tornare indietro nello scandalo, se no l’avrebbero chiamata la
seconda Marguerite-Louise. Quando sentì che era per morire, fece l’ultimo
tiro all’odiato Cosimo, che aveva lordato la sua giovinezza. Nel testamento,
malgrado le promesse fatte tanti anni prima, di lasciare tutto ai figli, designò
come propria erede la lontana parente Madame d’Epinoy. Morì ghignando:
Cosimo sarebbe stato costretto a un processo lungo e sfinente per riavere
quello che gli spettava. Fu sepolta nel cimitero di Picpus, nel convento della
Madonna di Lepanto, dove passò buona parte dei suoi ultimi anni. Di fronte
alla sua tomba, mai frequentata da nessuno negli anni a venire, nel tempo
della rivoluzione vennero sepolte varie vittime della ghigliottina: André
Chénier, le carmelitane di Compiègne. Cosimo, desolato dell’ultimo tiro della
sua antica consorte, la celebrò comunque con una messa solenne alle
Cappelle in San Lorenzo, ma lui non presenziò. Al suo posto c’era Gian
Gastone in trono, che già varie volte aveva delegato in sua vece negli affari di
governo: insieme a lui, su un palco più piccolo, Eleonora e Violante.
L’Elettrice era indispettita di quell’inutile fasto: dal primo momento aveva
detto chiaro e tondo al padre che non avrebbe presenziato, tanto era una pura
formalità.
COSIMO, POCO COMPIANTO DAI CITTADINI DI TOSCANA, MA
MOLTISSIMO DAI PRETI E DAI FRATI, A CUI DETTE INFINITI
DANARI, FINALMENTE FA QUELLO PER CUI SI È PREPARATO
TUTTA LA VITA: MUORE

Firenze, Palazzo Pitti, 31 ottobre 1723

Tutta la vita di Cosimo era stata una grandiosa cerimonia per ingraziarsi
Dio, per ottenere quello che aveva sempre bramato, malgrado tutti gli
scombussolamenti continui della sua esistenza, che avrebbe voluto quieta, ma
senz’altro non lo fu: la buona, la perfetta morte. Il 22 settembre 1723 venne
scosso da una violentissima e squassante agitazione, tremava tutto, aveva il
parletico: quella scomposta danza di gesti era l’avviso imminente della fine. I
preti capirono che stava finendo la loro epoca d’oro e allora si dettero da fare
come poterono per far continuare la vita del loro massimo protettore. Niente
venne lasciato intentato: preghiere, devozioni, la Madonna dell’Impruneta in
viaggio verso Firenze, il corpo della Beata Maddalena de’ Pazzi esposto. E
poi novene, litanie, rosari: fu una salva inverosimile di ora pro nobis, salva il
nostro caro Granduca, significando così, fa che sia ancora questo un secondo
Stato della Chiesa, una pacchia per ogni ordine monastico. Il Granduca ebbe
a scegliere come proprio confessore monsignor Frosini, arcivescovo di Pisa.
Questi disse che il monarca morente non aveva alcun bisogno di guida: la sua
morte era già perfetta sotto il segno di Cristo, e ad essa era stata votata la sua
vita intera. Nell’agonia il Granduca pensava che finalmente nostro Signore
gli avrebbe riconosciuto quel Trattamento regio che tanto lo aveva fatto
penare; poi riprendeva una sua interna giaculatoria e le pompe terrene gli
parevano vanità di vanità. A fianco del letto troneggiava la macchina in
argento, che recava in ciascuna delle nicchie un santo, e ruotando portava di
fronte agli occhi del malato il patrono del giorno. Il Nunzio dette per conto
del papa la benedizione in articulo mortis. Non si contarono i panegirici, le
messe cantate, le celebrazioni, per il morto Granduca, pompe funebri perfette
con la campana di Palazzo Vecchio impazzita. Venne tanto popolo a vedere il
cadavere: però ridevano e cantavano e, soprattutto, volevano sincerarsi che
Cosimo il bigotto fosse davvero morto e che un po’ di quei preti e
fratacchioni parassiti andassero finalmente via dalla Toscana, che da tanto
tempo era soffocata per il troppo incenso. Gian Gastone, infine, contro ogni
aspettativa prese il potere. E già si sapeva chi sarebbe stato il suo ministro:
Giuliano Dami, manipolatore e suo padrone. Il Granduca si nascondeva
spesso agli occhi dei sudditi, ma prendeva decisioni che annunciavano un
chiaro cambio di rotta nel Granducato: nel 1724 ruppe la regola severa che
voleva impediti per oltre un anno i teatri, dopo la morte del Granduca. Invece
quell’anno, al Teatro del Cocomero, gli Accademici Infuocati ebbero il
permesso di chiamare i comici all’improvviso, che il nuovo Granduca voleva
trovassero dimora fissa in quello stanzone, da cui voleva interrotta la pratica
dell’opera lirica.
ANNI RUSPANTI: GIAN GASTONE GRANDUCA, GIULIANO
DESPOTA

Firenze, Palazzo Pitti, appartamenti di Gian Gastone, novembre 1724

Gian Gastone era stato per tanto tempo recluso, in una sua piccola corte a
Pescia, con Giuliano, l’amore dei suoi occhi, che gli faceva da mezzano e
amministratore. Schiantato dal fallimento del matrimonio, dal momento in
cui era tornato dalla Boemia era stato più che altro intento a scomparire, e
nella quiete della campagna pistoiese aveva lentamente trovato se stesso. La
consorte e il suo fangoso reame erano poco più che un brutto sogno; il bere
continuo e il sesso coi maschi lo cullavano nel desiderato oblio. Solo negli
ultimi tempi il padre gli aveva chiesto di sostituirlo in assemblee, in cui si era
ben contenuto. Il figlio minore del Granduca aveva il vizio del bere, ma non
era certo sciocco. Quando era in sé, parlava bene, era logico, capiva gli
sviluppi del reame che nelle sue mani sarebbe andato comunque verso
l’estinzione. Nel frattempo si era preso le sue soddisfazioni: aveva parlato
chiaro con la generalessa che gli aveva rovinato la vita. Anna Maria Luisa era
caduta in disgrazia, e le era stato fatto comprendere che le conveniva meglio
dedicarsi alle opere di carità, che non cercare di impicciarsi degli affari di
Stato. Nella sua stanza non era gradita, quella virago. Non voleva né poteva
occuparsi di udienze; per questo ruolo aveva richiamato Violante da Siena,
dove aveva dato ottima prova di sé come governatrice. L’Elettrice odiava il
tempo presente, e ora giocava a fare suo padre, tra novene, devozioni e rosari,
ma sempre minore era il fervore intorno a lei, sostenuta solo da pochi
fedelissimi. Infine, il Granduca fu sempre più a letto, per la maggior parte
della sua vita: anzi, per meglio dire, tra le trine c’era una figura con un gran
parruccone sporco per tralice, con indosso una camicia da notte sporca,
ovunque tracce di vino e vomito. A fianco all’alcova un cimitero di bottiglie
di Chianti, ovunque tracce dei corpi che nella notte erano passati nell’alcova,
per intrattenere il re, o per divertirsi da se stessi, mentre lui dormiva quel suo
pesante sonno vinoso. I ruspanti venivano e andavano: per le loro esibizioni
erano pagati in ruspi, ossia in fiorini, da Giuliano, che li aveva come propria
personale guardia. Però erano riottosi, infidi, sempre pronti a far la spia e a
ribellarsi, e poi litigiosi, volevano sempre di più, ma il Dami li conosceva
bene, uno per uno, li aveva presi nei bassifondi della città e nei fondi delle
campagne, sapeva i loro segreti sporchi, cominciava a credere di essere
intoccabile. Questo in specie da quando gli aristocratici, che avevano bisogno
di lui, gli mandavano regali e cercavano il suo parere, quando si trattava di
avere una firma dal Granduca. Gian Gastone aveva deciso, per non soffrire
più, che i confini del suo regno fossero quelli della sua alcova. I rari visitatori
ammessi al suo capezzale erano soffocati dalla puzza: il Granduca non
tollerava mai che le finestre venissero aperte e quindi la stanza era
completamente inondata di rose, per cercare di coprire quel lezzo persistente,
che non passava nemmeno se le persone si portavano alla nari l’essenza di
spirito di melissa o il sacchetto di tela tessuto dalle monache, con dentro la
verbena essiccata.
CONCERTO INTIMO DA CAMERA PER IL GRANDUCA GIAN
GASTONE

Firenze, Palazzo Pitti, alcova di Gian Gastone, primavera 1725

“Galuppino, Galuppino, che lo vuoi un altro quattrino?” Il musico


veneziano, svelto nella figura, sul volto un sorriso malandrino, è alla spinetta,
quella di fabbricazione tedesca, tutta tralci di vite e pampini d’uva. Accenna
un’arietta dalla sua opera La fede nell’incostanza, ossia gli amori rivali, che
due stagioni prima è andata in scena al Teatro San Samuele, senza però
garantirgli il ruolo di primo operista della Serenissima, che senza dubbio,
almeno lui ne è sicuro, gli spetta. Nel frattempo si è impelagato con la corte
del Granduca: ha suonato in un’Accademia a Palazzo Pitti, i nobili lo hanno
applaudito e regalato e quel Giuliano poi lo ha preso per mano. “Da come
sbatteva le mani la corte devi essere bravo, ma io di musica non capisco
nulla. Però di una cosa invece sono esperto: e quella tua faccina, Buranello,
piacerà molto a Gian Gastone. Non ti impressionare: è in disordine, qualche
volta è sporco, ma è sempre molto generoso con chi sta con lui.” Il Buranello,
detto così per via della sua isola d’origine, si trova nell’alcova da due
settimane, qualche volta il Granduca lo vuole a letto, e altre invece alla
spinetta. Gli piace che dia il ritmo, con dei brani indiavolati, quando lo monta
il ragazzo nuovo che sta nel lettone: il musico viene pagato a metri, più suona
la tastiera e più scudi arrivano. Riceve più monete per le note che per il letto,
ma anche quelle corvées sono ben ricompensate. Il veneto pensa al
nobiluomo Grimani, che non gli conferma il suo nuovo ingaggio per l’opera,
tanto le dita vanno anche se non sono collegate al cervello. Ora deve
accompagnare le prodezze del Montino (nomina sunt omina), un pastore di
Marradi che sa di pecore e alpeggio, e ha un enorme batacchio tra le gambe.
Si lavora il Granduca da un’ora, e ancora non gli basta, si vede che ci ha
preso gusto. Giuliano passa vicino alla spinetta e gli dà una moneta: il
Buranello si alza dallo sgabello, si inchina al Granduca, che emerge dai fumi
dell’orgia e dell’alcol. “Galuppino, Galuppino, che lo vuoi un altro
quattrino?”, dice con voce impastata. Il musico si inchina, esce dall’alcova,
sussurra a Giuliano che l’indomani deve partire per Bologna, che trovi un
altro musico per il concerto intimo da camera del Granduca.
GIAN GASTONE DÀ UN BALLO PER LA NOBILTÀ NELLA SUA
CAMERA DA LETTO

Firenze, Palazzo Pitti, alcova di Gian Gastone, inverno 1727

Ogni giorno è uguale all’altro, come il sudario di una vita da cadavere,


come l’abito di un corpo malridotto che non vuole saperne di morire, e tutti
iniziano allo stesso modo, facendo finta che i problemi del Granducato siano
scomparsi, e che sia giunto finalmente per il Granduca il tempo di divertirsi,
dopo una vita di punizioni inflitte dal padre e dalla famiglia. Tra i suoi odi
più tenaci c’erano le famiglie prime dell’aristocrazia fiorentina; spesso dava
dei balli nella sua stanza, dopo le due di notte, quando per sua personalissima
usanza aveva deciso che dovesse essere il tempo della sua cena, che voleva
consumare da solo, nascosto agli occhi degli altri. Le puttane di ambo sessi,
per sfregio dell’aristocrazia, le chiamava marchese, contesse e baronesse.
“Oh, madama Rottincula, dovete stare più attenta quando vi accompagnate
con Gosto fattore, che ha in mezzo alle gambe di che nuocervi.” “Oh, messer
del Mazzapicchio ungete il vostro stemma con il burro che risulti meno aspro
al didietro di chi incontrate.” Dava il via alle orge di maschi e femmine, sul
suo letto o per terra, al muro o nel vano dei finestroni, e sovente si limitava
ad osservare, talvolta si addormentava, talaltra lo spettacolo gli suscitava
maggiore interesse. “Cavaliere Sempreinpiedi, su salutate come si conviene il
didietro della baronessa Madida.” Aveva un bell’insistere Violante che quel
macabro carnevale finisse: non appena la signora distoglieva lo sguardo, o
doveva partire per un viaggio, i saggi avvertimenti della dama si scioglievano
nella rugiada della notte e tutto ricominciava, come prima, in attesa del
sospirato ultimo giorno, della fine di quel logorio continuo della vita, che non
gli dava requie.
GIAN GASTONE STREPITA CONTRO VIOLANTE MORIBONDA E
MORTA: ORMAI NON VUOLE PIÙ VEDERE ALTRE DIPARTITE,
ATTENDE SOLO LA SUA DI CUI VEDE LO SPETTRALE
SPETTACOLO

Firenze, Palazzo Pitti, maggio 1731

Alle pareti brilla la fiamma oscura di un’opera di Lissandrino Magnasco,


il pittore di cui aveva nutrito una passione comune con il suo fratello morto.
La gran scena cupa della sinagoga lo attrae e lo interessa straordinariamente,
quando è lucido. Gian Gastone è circondato dai ruspanti, nella sua stanza da
letto, guarda un medaglione con il profilo di Violante, che lei gli aveva
donato tanti anni prima, quando era arrivata da Monaco alla corte dei Medici.
Le aveva voluto bene, e lei era stata tanto buona con lui, ma ormai tutto è
finito: cenere alla cenere, polvere alla polvere. Ormai il suo parere è risoluto:
ha un piede nella fossa e per nessun motivo vuole vedere i morti o i
moribondi; gli basta di sentire la puzza della sua propria carogna, che lo
ammorba sempre più, nei momenti in cui non è stordito dall’alcol, o da
qualche ruspante che lo martella, ma se ne accorge sempre meno. Ha rifiutato
alla tedesca di andare nella sua stanza, poco prima che morisse, per un ultimo
saluto; le aveva mandato lettere, ambasciate, insinuazioni, rammarichi,
cordogli. Quando le hanno detto che infine era morta, dopo avere tanto patito,
era stato secco, quasi duro, si era limitato a commentare: “tra poco tocca a
me, requiemaeternam”. Alle insistenze che si recasse almeno alle esequie, o
all’inizio del corteo, che partiva da Palazzo Pitti, aveva dato fuori da matto, e
lo avevano sedato con una tisana ai fiori di papavero. Due giorni dopo il
corteo funebre non riusciva a trovare la via per partire da Pitti; per colpa di un
maestro di camera inetto i ritardi si accumulavano e il feretro di Violante si
trovava proprio sotto la finestra del Granduca, che si intratteneva con i suoi
ruspanti, in conversazione e a raccontare novelle. Egli disse più volte a bassa
voce che portassero via quell’obbrobrio, quell’abominio, che gli toglieva il
fiato. Passando i minuti la sua voce crebbe di tono, di volume, mentre urlava
ormai, senza freno: “puttana, muori per sempre una buona volta, sparisci
dalla mia vista baldracca tedesca, torna a Babilonia meretrice” e intanto gli
veniva la bava alla bocca e piangeva, riconoscendo nelle lacrime tutte le
gentilezze di cui la tedeschina l’aveva fatto oggetto. Per porre fine a quello
scempio verbale, il corteo infine si mise in moto, ma a strappi, a salti, come
se fosse un vecchio demente ammalato di parletico, e intanto Gian Gastone
continuava a maledire per il divertimento dei ruspanti. Violante aveva infine
preso la via per quella che aveva scelto come ultima dimora: il monastero di
Santa Teresa in Borgo la Croce, ma nemmeno da morta riuscì ad avere
quiete, visto che i Lorena vollero riportate le sue ossa nella cappella. Infine il
maestro di camera riuscì nel compito non facile di metterlo a letto e tirò il
fiato per il sollievo. Gian Gastone piangeva a calde lacrime: “a me toccherà
assai di peggio, a me toccherà quel che c’è di più brutto, sarò solo come un
cane, al centro dell’odio universale, io che non ho seminato che amore, è
troppo ingiusto”. Biascicava le parole, parlava con voce strozzata, ma la sua
paura si capiva anche troppo bene. Tra poco sarebbe toccato a lui, e il silenzio
del tempo si sarebbe richiuso con lo schianto secco di una tagliola sulla sua
carcassa.
GIULIANO DEVE RESPINGERE CON LA FORZA I RUSPANTI CHE
PREMONO ALLE PORTE DI PALAZZO PITTI

Firenze, Palazzo Pitti, inverno 1731

Giuliano è in piedi di fronte al portone di Palazzo Pitti. È uscito di corsa


dagli agi della sua stanza, dov’era nel suo letto privato con la bella Zita, una
morona del Mugello fresca e soda come una forma di pecorino, che negli
ultimi giorni è il suo passatempo, per togliersi dalla bocca quel sapore di forte
che Gian Gastone gli lascia appiccicato, quando lo chiama nelle lunghe notti
senza sonno, e qualche volta vuole che sia lui a toccarlo, non i ruspanti, se no
si dà a una bizza senza fine. Ha i capelli al vento, al collo una sciarpa blu con
ricamate le palle dei Medici. Da tempo il bel paggio ha il volto segnato dalle
preoccupazioni, gli occhi appesantiti da tante veglie dietro al Granduca che
ormai gli dà più pene che avesse un figliolo schiavo del vizio del gioco, che
si rovinasse ogni sera al tavolo del faraone, tra mazzieri e puttane. Giuliano è
sciupato, ha perso peso, è tirato come una corda di violino, ha la faccia torva:
ora strilla come un’aquila, insulta il suo esercito del sesso, uno ad uno, rotea
nelle mani una spada come se fosse un cavaliere cristiano contro i mori,
rinfaccia a tutti quello che ha fatto per loro, che li ha tratti dalla nera miseria
in cui si trovavano, che li ha rivestiti, sfamati, coperti d’oro. Si sente come
Orlando che ha visto quando è arrivato a Firenze al teatro dei burattini. I
ruspanti si ammucchiano al portone di Palazzo Pitti e strepitano; tra di loro è
quel facinoroso di Antonio Carleschi, ben piantato e belloccio, che comincia
a interessare troppo a Gian Gastone. Sono due settimane che i ruspanti non
hanno visto il Granduca, farnetico da far paura, temono che sia morto e che la
loro pappatoria, l’unico momento di bella vita in un’esistenza di stenti, sia
finita per sempre. Il Dami ha gli occhi iniettati di sangue, sullo sfondo
occhieggia la madre Catera, magra come un chiodo, scura come l’inferno,
pronta a chiamare gli armigeri se vede la mala parata. Quella donna è l’anima
nera di un’anima nera: i due si rispecchiano in una vertigine rapace,
nemmeno uno spicciolo possibile del tesoro dei Medici sfugge alla loro
attenzione. Gli fa cenno di spicciarsi ché la situazione può precipitare da un
secondo all’altro e i ruspanti tutti insieme si possono fare ariete per entrare di
forza a Palazzo Pitti, e darsi a ruberie di ogni sorta. Sembra che la donna lo
rimproveri con lo sguardo: “potevi intervenire prima, no?”. Il maggiordomo
di palazzo, con la livrea, dice all’orecchio della donna se è il caso di chiamare
gli armigeri. E quella annuisce, secca, che non si sa mai. Avrebbe voluto
pensarci prima, ma quei mosconi si sono presentati tutti insieme, a caccia
degli ultimi spiccioli da mungere. Lo sanno bene che quando Gian Gastone
sarà morto per loro non resterà che prendere la via: finita la bella vita, tocca
tornare a lavorare o a chiedere l’elemosina, o a rubare. Anna Maria Luisa
negli ultimi tempi ha riguadagnato un poco per volta potere a corte, lo ha
detto chiaro e tondo: guerra ai ruspanti. E loro non lo sopportano questo stato
di cose, schiumano dalla rabbia, minacciano con lo sguardo e le parole chi li
ha reclutati, li ha vestiti, sfamati. Ma nel mestiere loro, di gigolò da palazzo,
la fedeltà è merce rara. Giuliano urla sempre di più: “via, bestie senza
cervello. Non sapete quel che vi fate. Il Granduca è ammalato, gravemente,
ma tra poco vi richiamerà. Non vi preoccupate dei vostri ruspi, vi saranno
dati anche senza arrivare sul gran lettone della Sala Bianca”. I ruspanti urlano
tutti insieme: le bocche sono tese: “già, e chi ce lo dice che il Granduca un è
morto, e che te un tu sei con quella strega della tu’ mamma a riempire i
sacchi d’oro. Si vole anche noi la nostra parte. Egoista, non ti puoi tenere
tutto per te e per la tua famiglia”. Giuliano, per la prima volta, si pente di tutti
quegli anni trascorsi per monti e campagne a cercare bei figlioli robusti per le
brame di Gian Gastone. Pensa se non sarebbe stato meglio essere solo lui a
godersi il vomito del Granduca, ma no, lo sai, da solo non ce l’avrebbe fatta.
Entro un mese gli avrebbe torto il collo con le sue mani, quando con la bocca
impastata lo implorava, a ogni momento del giorno e della notte, quando si
risvegliava da un sogno orrorifico ricorrente in cui sua sorella Anna Maria
Luisa, in forma di topo dai denti aguzzi, gli rodeva il cuore e lo scherniva dei
titoli più orrendi, allora era tutto un belato: “Giulianino, Giulianino”. Gli
chiedeva di prenderlo da dietro e versargli il vino direttamente in gola dalla
fiasca di porcellana, così almeno per un’ora si scordava della melanconia che
gli mangiava il cuore. Negli ultimi tempi l’atto del sesso gli era impossibile:
lo faceva fare da uno dei ruspanti, di cui nemmeno chiedeva il nome. Nei
momenti in cui era lucido, diceva che voleva prendere sonno, e non svegliarsi
mai più. “Poche chiacchiere figlioli, o ve n’andate con le buone dal piazzale,
o vi cacciano a pedate i soldati della guardia, o peggio.” Al che uno, più
sfacciato degli altri, urla: “ma son ruspanti anche quelli, un ci si fa mica
guerra tra colleghi”. Gli armigeri accelerano il passo, i cento intrattenitori
sessuali del Granduca si dileguano; Giuliano è stanco, la voce gli trema, “non
vi ci rifate o è peggio per voi: il Granduca sta male, se ci sarà ancora da stare
nel lettone, i miei servi vi avvertiranno, ma dovete essere pronti a lasciare
tutto per sempre senza storie, perché quello che succederà un si può
prevedere”. Un gran refolo di tramontana spazza via gli ultimi importuni;
Catera gli fa cenno di entrare. Giuliano si affretta, il mantello gli svolazza
intorno, per Gian Gastone prova pietà. La porta pesante si chiude, sua madre
gli sussurra in un orecchio, il Granduca lo reclama, ha avuto ancora il suo
incubo, va consolato.
ANTONIO COCCHI OSPITA NEL SUO PALAZZO LE PRIME
ADUNANZE DELLA MASSONERIA A FIRENZE

Firenze, Piazza Santa Croce, primavera 1732

“Meno male che sono stato in Inghilterra e ho imparato qualcosa della


lingua, che il rituale ha dei passi difficili assai, e non tutto è ben tradotto in
latino, per cui certe volte la cerimonia riesce più difficile che studiare la
radice dei morbi e la loro cura. Via, Cecco, Ciapo, oscurate le finestre come
abbiamo detto, che nessuno deve vedere i nostri sacri atti, che in questa città
le ciane e i riboboli non vedono l’ora che di fare pettegolezzi.” Antonio
Cocchi, medico e scienziato, si rigira nelle mani una medaglia che ha fatto
coniare il conte di Sackville, presidente della Loggia Aurora, primo raduno di
frammassoni a Firenze. Quello era un uomo di teatro, più avvezzo alle grazie
delle ballerine che al rigore della scienza, però i simboli li conosceva
benissimo. Sul verso di quel simbolo dei Liberi Muratori stava infatti
Arpocrate, dio del silenzio, a cui tutti i confratelli erano votati, per non tradire
i segreti del culto. In mano aveva la cornucopia, ai piedi tutti i simboli dei
muratori: la squadra, il compasso, una pietra cubica. Sopra era incisa la scritta
ab origine, per dire che evidente era il rimando alla fede antica dei miti, di un
tempo più felice e non schiavo della Chiesa, delle beghine e dei bigotti. Il
dottore pensa che la partita non è senza rischi, ma che senz’altro deve essere
giocata: uno dopo l’altro entrano gli adepti. Tutti parlano a voce bassa: “chi
ha orecchie da udire, oda”, questa è la parola d’ordine. Poi bisogna portare la
mano alla guancia e tendere il dito verso l’alto. Gli ospiti sono delle più
diverse nature, professioni e intenti. Ci sono preti e frati: il Maggi, il Dal
Nero, il Vanneschi, il Martini cerusico, il Crudeli poeta, che viene da Poppi.
Tutti per motivi diversi vanno a corte, sanno che il Granduca è in pessime
condizioni, e che questo tempo di attesa del nuovo despota è snervante.
Chissà se sarà tollerante come Gian Gastone, o fanatico come il suo babbo. Il
futuro lo dirà, a noi intanto di apprendere al meglio i sacri riti e di aiutare i
confratelli che vengono dall’estero a questa capitale dell’autunno, dove tutto
è sospeso, appeso a un filo, dove ogni cosa può sparire con un colpo di tosse
della Storia.
ESECUZIONE DI ANTONIO DI FRANCESCO CARLESCHI, RUSPANTE

Firenze, Forche di Porta la Croce, 3 agosto 1734

Antonio di Francesco Carleschi era bello, prestante, violento. Fu


impiccato e squartato in una giornata di gran caldo. Aveva ucciso, dopo
averla sedotta, una donna che faceva la rivenditrice al mercato di San Piero.
L’aveva puntata da tempo quella donna, le ronzava intorno tra i banchi,
perché aveva saputo che lei e il marito tenevano in casa degli averi, su cui
voleva mettere le mani. Antonio aveva il coltello facile, e non per la prima
volta il suo nome era stato associato a risse. Era riuscito a penetrare nella
casa, aveva ferito il marito di lei, intervenuto, accecandolo da un occhio, poi
aveva arraffato le cose preziose ed era fuggito alla Compagnia del Bechella,
in Palazzuolo, dove venne preso poi dai birri. Questo era accaduto nel
gennaio prima; la giustizia era stata lenta a fare il suo corso. Già, l’assassino
era un ruspante, nelle grazie di Gian Gastone, ma infine non era bastata
quella protezione sovrana. Anzi in città si mormorava che Giuliano Dami,
anima nera, avesse approfittato di quel delitto per liberarsi di un rivale che si
faceva pericoloso, per via del suo bel faccino. In ogni caso Antonio per due
volte venne salvato dalla grazia arrivata dal papa, all’ultimo secondo. Allora,
per mandare a effetto la punizione, il terzo tentativo accelerò sensibilmente il
processo: la gita dalla cappella, dove ebbe il confortatorio alle forche, si
svolse in un meno di un’ora. L’assassino era calmo, fece quello che gli si
chiedeva e non alzò mai la voce. I cavalli lo squartarono, dopo impiccato: i
suoi quarti penzolarono dalle forche fino al 9 agosto, quando essendo ormai
troppo il puzzo che emanavano, vennero tolti e buttati nella solita fossa
comune, coperti di calce viva.
GIAN GASTONE REGALA UN ARCHIBUGIO A CARLO DI BORBONE,
CANDIDATO AL TRONO DEI MEDICI, E QUESTI LO USA PER
ANDARE A CACCIA DENTRO LE MURA DI PALAZZO PITTI

Firenze, Palazzo Pitti, aprile 1735

“Oddio gli è impazzato!”, il maestro di camera corse come un ossesso


verso la sala da ricevere, da dove provenivano gli spari. Gian Gastone aveva
da poco ricevuto uno dei candidati al trono di Toscana; essendo oggi calmo,
lucido, aveva deciso di fare a questo pretendente, che sembrava avere buone
possibilità di vittoria, un dono simbolico. Un fucile piccolo, cesellato alla
perfezione, con figure di puttini e amorini: passò nelle mani del figlio di
Elisabetta Farnese e Filippo V di Spagna. Il Granduca aveva detto a un
famiglio di indicare al nobile dove recarsi per le cacce, ma quello aveva già
deciso per proprio conto. A passo di carica aveva preso la via della sala da
ricevere dove si trovava uno degli arazzi magnifici dello Stradano, nati per
celebrare le glorie venatorie di Cosimo I e per essere collocati nella villa di
Poggio a Caiano. Visto che l’arma era carica, egli non fece altro che sparare
agli animali tessuti, lasciando l’arredo in pessime condizioni. Infine il
maestro di camera riuscì a raggiungerlo, e con deferenza, guardando a terra,
gli domandò: “per favore, signore, datemi il fucile”, con voce ossequiosa.
Quello, reso folle dall’implicita rampogna contenuta nella voce del
sottoposto, ebbe uno scatto d’ira, fece per alzare la mano contro di lui, poi si
fermò. Afferrando stretto il calcio del fucile, se ne andò di corsa dalla stanza.
Il domestico, tergendosi il sudore con la mano: “gli è pazzo come il su’
babbo, che si fa cantare tutti i giorni le arie dal musico Farinelli, per placare
l’ansia che gli sconvolge la mente, ma lui l’è d’una specie più violenta e
imprevedibile. Speriamo che un sia lui il novo signore, che sennò gli è
buriana”.
NELLA CHIESA DI SANTA CROCE PER VOLONTÀ DI GIAN
GASTONE SI INAUGURA IL MONUMENTO A GALILEO, DOVE
VIENE TRASLATA LA SALMA DELLO SCIENZIATO

Firenze, chiesa di Santa Croce, 12 marzo 1737

Babbo, son presso a morire, e di tutto il disamore che mi hai portato,


voglio almeno in parte ricompensarti. Sempre mi ripetesti che la protezione
dei Medici a Galileo era un’onta sulla casata, e che quel suo allievo, il
Viviani, era da tenere a bada, perché era ossesso dal celebrare il suo maestro,
come aveva già fatto in quel suo Palazzo dei Cartelloni, quando invece la
ribellione a Santa Madre Chiesa sarebbe stata da tacere. Quante volte me lo
avevi ripetuto: i Medici non debbono per alcun motivo occuparsene. Eppure,
già venti anni fa era uscito un volume degli scritti, che prima l’Inquisizione
aveva voluto a ogni costo condannare. Lo so che l’iscrizione del Viviani era
troppo accesa, e che per questo hanno preferito un testo meno filosofico di
Simone di Bindo Peruzzi, però la statua c’è e tutti la vedono, davanti al
sepolcro di Michelangelo. Galileo aveva pur scritto di voler essere sepolto là,
ma aveva dovuto aspettare tanto, e l’avevano messo come ospite sgradito in
una stanzina nascosta della Cappella Medicea. Avrei voluto essere presente io
stesso a questo evento, ma non mi reggo in piedi e hanno fatto una cerimonia
sobria, per evitare scandali. Però gli scienziati della città c’erano tutti, e molti
erano venuti da Pisa, a celebrare questo evento per cui Firenze non è più la
città delle bizzoche, ma un possibile luogo della ragione. Ce ne vorrà del
tempo, ma è un inizio: con le sue ossa hanno messo quelle del Viviani; a me
piace fantasticare che gli scienziati abbiano in cielo un dialogo per continuare
a compiere ciò che più loro piaceva: il gioco del provare e del riprovare. Nel
corteo funebre, qualcuno ha tratto una reliquia per sé, come se Galileo fosse il
santo della scienza, pronto a operare miracoli della ragione. Mi hanno detto
che a fianco alla bara hanno messo i resti della sua figliola monaca, bene, che
almeno in quella famiglia, con tutte le loro difficoltà, si volevano bene. Non
come noi, che proprio non ci siamo mai capiti. Babbo, puoi rimproverarmi
quanto ti pare, non ti sento. A momenti, ed è un sollievo, non mi ricorderò
nemmeno più la tua faccia, anche se morire mi è difficile, come mi è costato
tanta fatica vivere.
I MEDICI STILANO LA RELAZIONE CLINICA DELL’ULTIMA
MALATTIA DI GIAN GASTONE

Firenze, Palazzo Pitti, primavera 1737

Tutti i medici del Granducato si erano pronunciati: dopo tante illazioni,


tutti gli specialisti stabilirono che si trattava, con una certa sicurezza, di
problemi renali seri. Il sovrano soffriva gravemente di anuria: fatale era stata
la scarsezza delle urine, emesse con gran difficoltà, e a stilla a stilla, e con
replicato sforzo convulsivo. Agli occhi aveva una flussione continua, assai
dolorosa, che i dottori associavano alla gotta, lo stomaco era compromesso.
Negli ultimi tempi Gian Gastone non aveva potuto prendere cibo che non
fosse freddo: ogni cosa calda gli dava patimenti terribili. Per alcuni egli era
“da porre nel novero degli uricemici, per obesità e litiasi, con complicanze
idronefritiche e anuria calcolosa”, sempre più grasso per l’alimentazione
sregolata e la vita estremamente sedentaria, esibiva dolori che sembravano
indicare la presenza di calcoli. Sei chirurghi capeggiati da Niccolò Gualtieri
stesero il testo dell’autopsia del sovrano, segnalando l’origine dei malanni
che avevano amareggiato gli ultimi anni di vita al signore. “Tutti gli
integumenti e tutte le viscere contenute nel torace e nel basso ventre furono
vedute generalmente occupate da una perfettissima pinguedine. Apertosi il
cranio fu osservato il cervello, ed il cerebello senza alcuna lesione, il tutto
d’ottimo colore e d’ottima sostanza. Il cuore era di una mole considerabile,
ma aveva una fibra languida e floscia. Il fegato era di costituzione non
cattiva, se non che la cistifellea era affatto vota, e senza una gocciola di bile,
gli intestini medesimi erano affatto voti, siccome ancora le arterie e le vene.
Nel destro uretere, quattro dita lontano dall’imboccatura della vescica ne fu
trovato uno, a cui parve convenisse il nome di pietra, poiché arrivava al peso
di undici danari e cinque grani.” Una simile oppressione al fisico giustificava
a pieno le allucinazioni che lo agitavano di notte, quando urlava che qualcuno
lo stringeva alla gola, che due mani di acciaio gli impedivano di respirare.
L’IMPERO DELLA GAZZA: ANNA MARIA LUISA FA L’INVENTARIO
DELLE SUE GIOIE

Firenze, Palazzo Pitti, estate 1737

Morto anche Gian Gastone, resta solo lei, e deve badare a tutto, con i suoi
pochi fidi, mentre quei Lorena malcreati cacciano il naso per ogni dove e
fanno inventari dettagliatissimi per prendere tutto quello che possono, prima
che il Patto di Famiglia sia compiuto. L’accordo finale sarà firmato a Vienna,
il prossimo 31 ottobre, ma la formula ormai le è fissa nella mente: “gallerie,
quadri, biblioteche, statue, gioie ed altre cose preziose: non ne sarà nulla
trasportato fuori della Capitale e dello stato del Gran Ducato”. C’è voluto
tanto per definirla: ha sentito il parere dei maggiori studiosi di legge della
facoltà di Pisa. Anna Maria Luisa da qualche tempo fa i conti: con i suoi
segretari e l’aiuto della più fidata domestica, depone sul suo scrittoio le sue
gioie, che sono molte e preziose. In specie è appassionata delle “galanterie
gioiellate”, tabacchiere, ciotoline in pietre dure con montatura di oreficeria,
soprammobili figurati, avori tedeschi, ambre del Baltico, sigilli, boccettine,
vasetti con fiori, ciondoli di perla in forma di ape, altri simboli medicei, tanti
Agnus Dei, ossia crocifissi in corallo, che vengono dalle terre di Sicilia, una
Annunciazione, in cornice d’oro contornata di diamanti. Il lavoro è sfinente,
ma è fondamentale essere precisi, e riportare ogni singola voce. Dopo una
settimana di revisione del suo personale tesoro, a cui sono legate belle
memorie della sua vita da signora di Düsseldorf, siamo a settecentottantanove
voci, e ancora non è iniziata la sequenza dei monili, degli anelli, dei bracciali.
Ogni sua età aveva visto riprodotti gioielli di ogni tipo, e specialmente dopo
le nozze tedesche: il suo amato Wilhelm le aveva regalato oggetti
preziosissimi, lavorati in fogge perfette. Le importava però, specialmente, di
averne moltissimi, il più possibile rutilanti e splendidi: le venne presto anche
la passione per i nuovi orecchini di Parigi, a pendaglio con pietre sfaccettate,
dal seducente nome di girandoles, per via degli effetti di luce che
producevano. Aveva con sé pietre importanti anche quando si dedicava a uno
dei suoi passatempi favoriti, in cui poteva essere per un giorno signora e
padrona delle sue terre. Ossia la caccia al cervo, di cui era franca virtuosa: un
ritratto che ci resta la figura in tenuta da amazzone, con un épagneul bianco e
arancione e un levriere slanciato. Soprattutto alla principessa preme che non
entrino nelle sue stanze, che sono ben guardate da cameriste e armigeri,
quell’orribile Giuliano e quella sua sozza madre, ceffo di strega. Tutto deve
essere scritto, e se lei muore, o perde la coscienza di sé, e qualcosa manca, lei
ha già fornito al prefetto di palazzo un documento in cui risulta che quei due
schifosi, e i loro famigli, devono essere ritenuti i responsabili. Anna Maria
Luisa si calma, poi ripensa a colui che era il suo confidente, nel mondo delle
gioie e di tutto quello che luccicava. Quando le era piaciuto di collezionare
argenti, aveva invaso le camere della reggia di Düsseldorf; scrivendo allo zio,
il cardinale Francesco Maria, commentava: “fo conto che la mia inclinazione
finirà presto, perché le stanze sono ben provviste, allora si ritornerà alle gioie,
che tengono meno luogo”. Di recente ha chiesto al suo gentiluomo di camera
di poter vedere la meravigliosa corona granducale che il Bilivert aveva
disegnato per Francesco I, in un tripudio di diamanti, smeraldi e rubini. Le
pietre che il Granducato aveva raccolto erano leggendarie, come il gran
diamante del Serenissimo Granduca, dal peso di centotrentotto carati. Ogni
tanto si interrompeva, quando i suoi famigli le venivano a sussurrare negli
orecchi le ultime scalmane del suo infelice fratello. Allora aveva bisogno di
vedere i suoi gioielli favoriti: le perle scaramazze, dove la concrezione
stravagante della natura, che aveva qualcosa dell’immodestia clamorosa di
una notte di alcova, diventava nel lavoro degli artefici opera di perfezione.
Galli, draghi, pavoni, elefanti e sirene, senza scordare Marte e Venere. Sono
opere mirabili, il serraglio della sua immaginazione, che la placano per un
attimo, con il loro incanto, mentre nella sua testa scorre, per frammenti,
l’immane patrimonio dei Medici, come sulla lastra di una lanterna magica.
CATERA DAMI FUGGE CON I SACCHI PIENI E CON LEI VANNO VIA
LE FIGLIE E I FAMIGLI, MENTRE GIULIANO, A SUO RISCHIO, SI
ATTARDA DI UN GIORNO

Firenze, Palazzo Pitti, estate 1737

Catera è vecchia, da anni; a molti sembra che non sia mai stata giovane,
ma è sempre lesta nella gamba e nella mano. È svelta nel fisico, piccolina, ma
le son sempre piaciuti i maschi grossi, come al suo Giuliano. Una volta uno,
Marione, becero, sporco e tardo di comprendonio, ma grosso come l’Ercole
di Pratolino, se lo sono perfino litigato lei e il figliolo. Da tempo però ha
rinunciato a velleità amatorie, le basta pascersi gli occhi di muscoli, quando
vengono i contadini a portare le verdure e i pastori con i formaggi involti
nelle foglie di vite. La sua età è segreto di Stato, ma la mappa disegnata dalle
rughe sulla cartapecora della faccia dichiara che ha cinquantacinque anni,
forse sessanta, gli occhi però splendono ancora di cupidigie senza nome. È
vestita da domestica, ma alla reggia non ha mai fatto la serva: è solo un
costume comodo per andare e venire nelle stanze senza dare nell’occhio. È
sempre stata lei a tenere la contabilità di Giuliano, ma quando gli zeri sono
diventati troppi hanno preso un ebreo convertito, Samuele, che le ruba un
tanto, ma almeno tiene tutto in ordine, preciso e pulito. A lei sembrava di
impazzare con tutti quei numeri, che non l’hanno mai convinta; le interessa
solo quello che si può toccare con le proprie mani. Tanto la sua natura è di
gazza: ama quello che luce, l’oro e l’argento. Non si contano negli anni le
galanterie che ha rubato a Palazzo Pitti. Gian Gastone non la voleva al suo
cospetto, la chiamava strega, ma quando era ubriaco con la parrucca lorda di
vomito, che russava scomposto con intorno due contadini, o stallieri o
palafrenieri, insomma bassa gente con cui si rotolava volentieri, lei e una
figlia entravano nella gran camera, dove aleggiava un odore rivoltante, e a
gesti lei indicava all’altra cosa fosse meglio e più pregiato mettersi nella
scarsella. Una scorreria rapida: un minuto, poco più. Poi, di gran carriera, via
verso Isacco Spizzichino, al Ghetto, che rigirava nelle sue mani diafane, che
sembravano d’avorio, tutti i ninnoli e diceva: “Signora Caterina, sappiamo
tutti e due da dove vengono questi oggetti, ma quelli con lo stemma non li
posso proprio prendere, che da me viene il bargello, messer Lorenzo. Quel
figlio di un cane, senza Dio, anche se gli do ogni mese molti scudi e gli
mando gratis una ragazza a settimana dalla casa di Borgo Pinti per il suo
piacere (e Dio sa quanto mi costano, quelle signorine del bordello), deve far
finta di fare vere indagini a mio carico, e questo sigillo con le palle non lo
posso prendere. Dovete fare più attenzione, vanno bene solo oggetti che non
abbiano indicazione di proprietà”. Caterina si schermiva dicendo che lei e la
figlia Giovanna, sempre pregna perché si accoppiava con il primo soldato
quando era ubriaca, non avevano mai tempo di badare ai dettagli e avevano
paura che le scoprissero: per questo qualche volta prendevano senza
accorgersene oggetti compromessi dal sigillo mediceo. Il loro terrore era che
si accorgesse dei loro traffici Anna Maria Luisa, quindi dovevano essere nella
stanza quando lei non era a palazzo, o di notte, facendo piano, quasi senza
respirare. Lei e i suoi familiari non potevano pensare di prendere nemmeno
un oggetto dell’Elettrice, tutto schedato, catalogato, nel minimo dettaglio.
“Stupida Catera, contadina senza cervello, cosa vai a pensare, ora?” I
ricordi non servono a niente, bisogna correre. Lo sa che tutto è finito, la
prossima settimana il rappresentante dei Lorena entra a Palazzo Pitti. Restano
le ore del requiem aeternam per Gian Gastone, un giorno al più, poi Anna
Maria Luisa arriva con gli armigeri e la sbatte in galera, lei e tutte le figliole,
e per Giuliano, forse, c’è anche il plotone di esecuzione. Aria, via: in un
soffio lei e le figliole devono riempire tutti i sacchi che hanno portato: dieci,
decide che al massimo possono stare nella stanza trenta minuti. Vi mettono
dentro tende preziose di broccato di Lione, vesti da camera di seta tutte lorde,
tabacchiere veneziane di smalto, monete d’argento austriache, ruspi
abbandonati tra le coltri. Giuliano non è voluto venire, dice che quella camera
ormai gli fa paura, e cerca di avere salve le case e i borghi che ha avuto in
dono. Oggi starà tutto il giorno dal notaro, ma per Catera, madre saggia, è
stupido, la carta non vale gli oggetti preziosi, gli ori e gli argenti che gli ebrei
possono rivendere e se a Firenze il mercato è saturo dei loro furti, si può
andare a Livorno o fingere un pellegrinaggio a Roma, e cercare le vie del
ghetto, dove ci sono i parenti di Spizzichino, per cui si è fatta fare, a ogni
buon conto, una lettera di raccomandazione. Le fantesche hanno aperto di
loro iniziativa la finestrona grande, entra finalmente un po’ d’aria, è
caldissimo e il lezzo della stanza del malato è tangibile, i muri sono pieni di
macchie, soprattutto di vino, per terra ci sono qua e là particelle minime di
vetro che brillano al sole, resto dei bicchieri sbattuti contro il muro, tra avanzi
di cibo. Catera è calma, lucida, ieratica: dirige senza parole l’orchestra delle
figlie gazze ladre, la Giulianina si mette a guardare dei finissimi ninnoli
tedeschi d’avorio, col gesto imperioso la madre le intima di far presto. Passi
nel corridoio: è il momento di scappare, con i sacchi pesanti in spalla
prendono una porticina che porta al cortile delle carrozze, dove le attende un
carro e la via per un convento sulle montagne pistoiesi. Hanno dato un obolo
importante alle sorelle e per qualche tempo possono stare tranquille, poi, tra
un anno, cominceranno a tornare in città, vestite da contadine e da legnaiole,
e intanto possono mandare in ghetto i famigli delle buone suorine, con cui
fanno a mezzo delle vendite (anzi sessanta a Catera e quaranta alla madre
badessa, la signora Eloisa, a cui i quattrini non bastan mai). Poi la vita sarà
meno colorata, forse le toccherà perfino qualche lavoro al convento, ma a
raccogliere la legna in montagna non ci torna più. Non ci sarà splendore, ma
finalmente tranquillità. Sul carro tira il fiato, in collina l’aria si fa pungente, e
lei pensa al focolare in cui passerà i suoi ultimi anni, finalmente senza
correre, nascondersi, senza più paura. Con Giuliano ha detto parole chiare e
poche: ora dobbiamo separarci, non venire da noi, scappa e ci rivedremo tra
un anno da ora. Esci dal Granducato, e noi cureremo tutto e ti manderemo
lettere: i Lorena avranno altro da fare che star dietro a te, e Anna Maria Luisa
si è data come compito di salvare il patrimonio d’arte. Devi diventare un
brutto ricordo, un proverbio corrotto di malanni passati: e sparire sullo
sfondo. Poi finalmente saremo ricchi e ci godremo il frutto di tutto questo
nostro affanno.
ESEQUIE DI GIAN GASTONE

S’è fatto un carnoval, se voi sapeste Sì tribolato maghero e tapino, Che più si
rise al tempo della peste.
Cominciò senz’un becco d’un quattrino E così terminò: poi non s’è visto Un
calcio, ch’abbia garbo, né un festino.

Giovanni Battista Fagiuoli, Rime piacevoli, 1729

Firenze, Basilica di San Lorenzo, 9 ottobre 1737

Polvere alla polvere, cenere alla cenere, maschere alle maschere. Polvere
siamo e polvere torneremo. Abbiamo oltraggiato il volto datoci da Dio e la
nostra vita eterna sarà una punizione senza fine nell’inferno dei nostri peccati
senza remissione. Il gioco di scena della vita si è risolto in un minuetto di
spettri e resta solo l’ultima fantasima nella casa dei Medici: Anna Maria
Luisa, magra, dritta, dignitosa, splendente con indosso tutti i simboli di un
passato al tramonto. L’esistenza sregolata di Gian Gastone è terminata e alla
sua dipartita ha atteso infaticabile solo lei, ultima sopravvissuta
dell’ecatombe dinastica dei Medici. Dietro il trasporto, in un’alba livida di
pioggia, in un gran vento che curva le cime degli alberi e annuncia l’arrivo
dei Lorena, già introdotti dal loro plenipotenziario, principe di Craon, grezzo,
contadino, privo di gusto, c’è solo lei, in gramaglie, schiena dritta, sguardo
impassibile. Recita le preghiere e biascica a voce bassa un rosario tante volte
pronunciato di rimpianti e recriminazioni: “non mi hai mai voluto dare retta,
mi hai sempre creduto nemica, sciocco, guarda come ti sei ridotto. Hai
cominciato subito male, quando sei diventato Granduca. Il babbo ci aveva
messo tanto a ribadire che ai Medici spettava il Trattamento regio e tu invece
ricevevi chiunque in disordine, alla buona, come se fossi un sensale di paese,
che doveva giudicare quanti cavalli comprare alla fiera. Quante volte te l’avrò
ripetuto che era necessario far aspettare molto in anticamera, che non dovevi
subito rispondere sì a tutte le richieste, che poi erano sempre di soldi. Il tuo
problema era che non volevi mai essere solo con te stesso: chiunque ti
aggradava, pur di non ritrovarti di fronte allo specchio. Certe volte poi in
pubblico bamboleggiavi in modo indecente: come quando vennero a trovarti i
Riccardi, con il loro figlio Cosimino, e ti mettesti a fare le capriole con lui,
che non si capiva chi era il bambino tra voi e quei ruffiani ci si sono fatti fare
il quadro con quella scena a tua eterna onta. Ma eri già schiavo di Giuliano,
anima dannata, e della tua spoglia mortale, del bisogno di farti castigare ogni
giorno nel sedere, ebbro di vinaccio del contado, tra il vomito che ti pulivi
con la parrucca lorda come il tuo vestito per offrire poi il deretano a uno di
quei villani che arrivavano tutti i giorni a frotte, esibendo già all’ingresso la
loro insolente ricchezza genitale. Me lo ricordo quando ti eri chiuso nella tua
stanza per mesi: riuscii a entrare con l’inganno e c’era una puzza da
stomacare; sembrava che lì dentro ci vivesse una carogna che continuava a
vivere da morta. Tu mi scacciasti, poi piangevi, hai vomitato, e mi hai
abbracciato con un filo di bava che ti cadeva all’angolo destro della bocca.
Quante lacrime e parole incomprensibili, per dire che mi volevi bene, ma eri
prigioniero di Giuliano e del tuo corpo fragile, con l’anima in subbuglio,
quando compariva ancora, nel mosaico turpe di piaceri insensati, che per
qualche momento davano requie al disastro della tua vita. Da domani con i
soldati andrò a Palazzo Pitti in ogni anfratto a cacciare anche gli ultimi
ruspanti, che non hanno ancora capito l’antifona. Molti sono andati via
subito, altri, pazzi, credono ancora di avere privilegi, altri ancora si sono
annidati nelle soffitte dove si trova il ritratto lordato dal tempo di nostra
madre, hanno cambiato vesti, fingendo di essere camerieri o addetti al
giardino, ma io li riconosco subito, perché in quei loro volti gonfi per il
troppo bere e mangiare, per il sesso furtivo negli anfratti delle scale o nel tuo
gran lettone circolare, hanno le stimmate del vizio. E invece, mio caro
fratello, loro se ne andranno e con loro purtroppo anche la tua memoria:
troppo è stato il tuo libertinaggio, troppo il vino e il vomito: per salvare il
nome dei Medici dovremo cancellarti dalla storia, trasformarti in una
barzelletta, in un caso pietoso. Il letto enorme, che il tuo Giuliano ti aveva
fatto creare, è già dato alle fiamme”. Pensa Anna Maria Luisa: lei non è
maschio, che se no le cose per i Medici sarebbero andate in modo ben
diverso, perché lei l’istinto di comandare ce l’aveva eccome. Se suo fratello
le avesse dato retta, avrebbe trovato lei il modo di fargli far figli somiglianti,
senza toccare le femmine: se proprio tu Gian Gastone non ce la facevi a
sfiorare la contadinaccia boema, si poteva sempre far accoppiare con qualche
figlio illegittimo, che avesse almeno i labbroni dei Medici, senza i quali si
capiva che la famiglia non c’entrava niente. Si era pentita di averla scelta così
grezza e violenta, ma almeno dava garanzie di figliare bene, una cosa
sommamente desiderabile in una famiglia impestata di sifilide e segnata a
fuoco dalla sterilità.
Anna Maria Luisa ripensa a quando erano venuti a Firenze quei francesi
che avevano messo un casotto sotto le logge dei Trabanti, per mostrare il
Teatro Naturale del Mondo, dove “in prospettive si vedeva il Cielo, la Terra,
il Far della Luna Nuova fino all’ultimo quarto, le stelle, l’acque, montagnie,
rocche, città, castella, posti di mare con molti bastimenti come se fosse
presente al fatto; il sole come nascosto dal Orizonte, il levare e il tramontare
del Medesimo, et ogni due giorni mutavano nuove di città, cosa non mai più
vista a Nostri Tempi et si pagava un paolo per entrarvi”. Immagini mirifiche,
presentate in modo ingenuo nel cartellone fuori dalla baracca, un panorama
del mondo, in cui l’unica presenza che mancava era quella dei Medici e
Firenze in quelle proiezioni già sembrava luogo senza la sua stirpe. Intorno a
quel disastro della Storia, faceva i suoi numeri d’acrobazia l’uomo senza
braccia, che con i piedi faceva quello che gli altri fanno con le mani. Lei
sapeva già come sarebbe andata a finire, da quando le dissero che il marito
l’aveva impestata di sifilide. Per tempo aveva lasciato disposizioni chiare: il
corpo dopo la sua morte non doveva essere aperto, non voleva che, anche
post estinzione, il mondo sapesse della sua gran vergogna.
La tristezza va bene, ma che conta il rancore, a che serve il rimpianto?
Ogni passione è spenta: rimane il fatto che lei sarà l’ultima della stirpe di
Cosimo, che le restano ancora bei momenti per testimoniare della passata
grandezza della famiglia, per cancellare con la massima cura ogni traccia
dell’impero dell’orrendo Dami. Così, ne è consapevole, getterà alle ortiche
anche la memoria del suo amato fratello, ma non si può fare altrimenti. I
Medici prima di tutto, e quel momento di follia corporale, di abbrutimento
dell’anima, doveva essere minimizzato, quasi cancellato, al più presto. E poi
che contava, in secoli di storia gloriosa?
Sei mesi di tempo per realizzare le funebri pompe, che si sarebbero
inaugurate il 9 ottobre a San Lorenzo. Con l’architetto Giovan Filippo Giarrè
progetta un tempio ad ottagono, tessuto di drappi bianchi e neri. E poiché è
un funerale in effigie, devono esserci quadri e sculture che celebrano le gesta
dell’ultimo Granduca, e ci sarà un libro per descrivere tutto quell’apparato. Il
padrone nuovo, Francesco Stefano, è a combattere il turco, ma arriverà, con
quella sua moglie dagli occhi di astore, Maria Teresa, che già dal ritratto si
capisce che quando è passata a Firenze con i suoi serventi austriaci e lorenesi
è andata in tutti gli anfratti di Palazzo Pitti a cercarsi oggetti preziosi da
portare a Vienna. E senz’altro la coppia dei giovani Granduchi Francesco
Stefano e Maria Teresa non sarà meno avida. Anna Maria Luisa pensa a dove
poter nascondere quei gran piatti d’argento con soggetti della storia medicea,
donati al Granduca dal cardinale Lazzaro Pallavicini. Il principe di Craon
dice che quelle non sono opere dei grandi maestri, ma solo oggetti di lusso, e
che perciò i Lorena hanno diritto a prenderli e a fonderli. D’improvviso si
ricorda il soggetto di uno di questi manufatti preziosi, che l’aveva colpita
nella fantasia. Recava il titolo: La Toscana riceve l’omaggio dei quattro
Continenti, anche se la regione era ormai l’ombra di se stessa. I forestieri si
lamentavano che le strade erano rotte e dirupate; anche il porto di Livorno,
che era stato il maggior centro di scambi del Mediterraneo, languiva, i
briganti spadroneggiavano sulla Cassia e sulle altre vie consolari: altro che i
continenti che rendevano omaggio. In quel piatto colpivano i pellerossa, con
le teste cariche di piume e in mano una testa mozzata e un’iguana. Ben
l’aveva capito lei, che aveva vissuto nelle brume del Nord, che la Toscana
ormai era una nota a margine nei giochi d’Europa, anzi, le seccava
ammetterlo, ma l’arrivo dei Lorena voleva dire entrare a far parte
dell’Impero, e portare un po’ d’aria fresca alle casse della regione. Ma quella
dolce demenza d’immagine, nei piatti d’argento, quel credere tutto ancora
rimasto com’era in tempi più felici, quel fittizio omaggio delle potenze
remote del Mondo, quel credere all’arte come a una forma di salvezza, ancora
la seduce; l’Elettrice chiude gli occhi, dopo avere ammirato lo splendore delle
funebri pompe di cui ha curato attentamente la regia. Sa che tra poco tocca a
lei: non è mai stata brava con il disegno, ma da tempo ha schizzato con cura
uno schema che vuole dare al più presto all’architetto di corte, per non
arrivare impreparata a morire. Vuole il soffitto parato di pesanti teli neri, e lei
finalmente in trono, almeno da morta, regina cadavere del suo disastrato
regno morto. A fianco doppieri di ceri altissimi, una grande scalinata, e in
basso il pubblico festante, ma anche spaventato da due grandi scheletri, che
reggono altri lumi enormi. Le morti secche fanno capire a tutti che “non c’è
medicina, non giova la china / per questa carogna / morire bisogna”, ma
almeno tutti sono contenti. Anna Maria Luisa lo sa che lei comunque morirà
in grazia di Dio, che è la principessa saggia, che ha salvato le opere d’arte a
Firenze. Però, che amarezza, se fare il Granduca fosse toccato a lei, se avesse
avuto gli attributi; rimugina, dispiaciuta, ed è come se sapesse che tra qualche
anno ci sarà uno storico prezzolato dai Lorena, Jacopo Riguccio Galluzzi, che
scriverà centinaia di pagine per dire che da Ferdinando II in poi era stato uno
spettacolo di follia, un panopticon di demenza e presunzione, un penoso
defilé di ambizioni sbagliate, di sogni storti e ridicole chimere. Le verrebbe
da piangere, ma lo sa qual è il suo ruolo: schiena dritta e aspetto regale: in
fondo è lì a commemorare l’ultima regina di Firenze, e poco conta se sia Gian
Gastone o lei stessa. Requiem aeternam.
GLI ULTIMI MEDICI – ALBERO GENEALOGICO
PERSONAGGI E INTERPRETI

I Medici
Anna Maria di Sassonia-Lauenburg (1672-1741), Granduchessa di Toscana
Anna Maria Luisa de’ Medici (1667-1743), Elettrice Palatina
Claudia de’ Medici (1605-1648), arciduchessa d’Austria
Cristina di Lorena (1565-1637), Granduchessa di Toscana
Cosimo de’ Medici, detto Cosimino (1639), Principe di Toscana morto in culla
Cosimo III de’ Medici (1642-1723), Granduca di Toscana
Eleonora Luisa Gonzaga di Guastalla (1686-1742), Principessa di Toscana
Ferdinando de’ Medici (1663-1713), Gran Principe di Toscana
Ferdinando II de’ Medici (1610-1670), Granduca di Toscana
Francesco de’ Medici (1614-1634), Principe di Toscana
Francesco Maria de’ Medici (1660-1713), cardinale
Gian Gastone de’ Medici (1671-1737), Granduca di Toscana
Giovan Carlo de’ Medici (1611-1663), cardinale
Giovanni Guglielmo II di Wittelsbach-Neuburg (1658-1716), Elettore Palatino
Leopoldo de’ Medici (1617-1675), cardinale
Mattias de’ Medici (1613-1667), governatore di Siena
Marguerite-Louise d’Orléans (Margherita Luisa, 1627-1693), Granduchessa di Toscana e
cugina del Re Sole Luigi XIV
Violante Wittelsbach di Baviera (1673-1731), Gran Principessa di Toscana
Vittoria della Rovere (1622-1694), Granduchessa di Toscana

Cadetti, ministri, ambasciatori & cortigiani dei Medici


Giovanni Antinori, balivo di Siena
Volumnio Bandinelli (1598-1667), teologo e pedagogo di Cosimo III
Bernardi, tesoriere del Granduca
Piero Bonsi (1631-1703), rappresentante a Parigi e vescovo di Beziers
Domenico Cantieri, cicerone del bey Ramadan a Firenze
Giovan Battista Gondi (1589-1664), primo segretario e consigliere di Stato
Marchese Malvezzi, ciambellano di Marguerite-Louise
Conte Martelli, ambasciatore fiorentino a Vienna
Alessandro Medici, figlio di Vitale Medici (v.)
Paolo Sebastiano Medici (nato Moisè di Alessandro Leon, 1671-1738), convertito al
cattolicesimo
Don Piero (o Pietro) Maria de’ Medici (1592-1654), detto il Popolano, figlio naturale del
principe Pietro de’ Medici
Vitale Medici (nato Yehi’el da una famiglia ebrea benestante di Pesaro, 1559-prima del
1635), Medici per concessione del suo padrino Ferdinando
Domenico Zipoli, ambasciatore toscano residente a Parigi

Re & imperatori, principi & principesse, nobili, ambasciatori & ministri


Anna d’Austria (Anna d’Absburgo, 1601-1666), regina di Francia
Marc-Antoine de Beauvau di Craon (1679-1754), principe
Ferdinando Capponi, marchese
Anna Carafa della Stadera (1607-1644), principessa di Stigliano (promessa a Gian Carlo
de’ Medici)
Carlo (Charles) di Lorena (1643-1690), duca, innamorato di Marguerite-Louise
Carlo I di Guisa (1571-1640), duca
Carlo II di Gonzaga-Nevers (1629-1665), duca di Mantova e del Monferrato
Carlo di Borbone (1716-1788), re di Spagna (col nome di Carlo III) e pretendente al trono
dei Medici
Cinq-Mars (Henri Coiffier de Ruzé d’Effiat, 1620-1642), marchese
Cristina di Svezia (1626-1689), regina
Cunex, barone tedesco residente a Praga
Niccolò di Luca di Filippo della Luna (1610-1643), cavaliere, ultimo esponente della sua
casata
Madame d’Epinoy (Elisabetta Teresa di Lorena, 1664-1748), nobildonna e principessa per
matrimonio
Madame du Deffand (Marie-Anne de Vichy Chamrond, 1697-1780), marchesa e scrittrice
Federico IV (1671-1730), re di Danimarca
Ferdinando II d’Absburgo (1578-1637), imperatore
Filippo di Neuburg (Filippo Guglielmo Augusto del Palatinato-Neuburg, 1668-1693),
principe e conte
Francesco Stefano di Lorena (1708-1765), imperatore (col nome di Francesco I) e primo
Granduca di Toscana del casato Lorena
Gaston d’Orléans (1608-1660), duca, fratello di Luigi XIII di Francia
Giovanni III Sobieski (1629-1696), re di Polonia
Gustavo Adolfo II Vasa (1594-1632), re di Svezia
Isabella Clara d’Austria Gonzaga (1629-1685), duchessa di Mantova e del Monferrato
Jacopo Giraldi (1663-1732), emissario di Cosimo III a Londra
Cavalier Lenzoni, nobile fiorentino
Luigi XIV, detto il Re Sole (1638-1715), re di Francia
Margherita di Lorena (1615-1672), consorte di Gastone duca d’Orléans e madre di
Marguerite-Louise
Maria Teresa d’Austria (1717-1780), imperatrice
Giulio Raimondo Mazzarino (1602-1661), cardinale e Primo Ministro di Luigi XIV di
Francia
Ramadan (Romdhane Bey El Mouradi, ?-1699), fratello del bey di Tunisi Mohammed
Carlo Sackville (1710/11-1769), conte di Middlesex, frammassone
Sainte-Même, conte, scudiero di Gaston d’Orléans
Federica Simeoni, baronessa, istitutrice di Violante di Baviera
Teresa Cunegonda Sobieska (1676-1730), principessa di Polonia
Ottavia Strozzi (Ottavia di Scipioni Renzi, 1658-1708), marchesa romana
Principessa di Valois (Carlotta Aglae d’Orléans, 1700-1761), moglie del duca di Modena e
Reggio Francesco III

Amanti, marchette, serventi, acrobati, attori & procacciatori di opere


d’arte
Adam, Hannes, Peter, amanti praghesi di Gian Gastone
Agostini, mercante d’arte
Bambagia, interprete di canzonette, amante di Ferdinando de’ Medici
Bonaventura, frate sfratato amante di Marguerite-Louise
Domenico Barberini, detto il Bechino, amante di Gian Gastone
Carlo Bulgarini (?-dopo il 1685), conte, amante di Isabella d’Austria
Antonio Carleschi, ruspante
Cosimino, detto di Camera, moro, protetto di Cosimo III
Giuliano Dami (1683-1750), paggio di Gian Gastone
Bruto Annibale Della Molara (1640-1672), favorito di Ferdinando II de’ Medici
Antonio Falconieri, mercante d’arte
Fidalma, concubina di Cosimo III
Ginevra, detta la Rossina, cortigiana
Gottifredi, mercante d’arte
Carlo di Domenico Larini (1683-1704), acrobata
Lindora, servente della cortigiana Ginevra
Leonilda, concubina di Cosimo III
Montino, pastore di Marradi amante di Gian Gastone
Filippo Pizzichi, cortigiano di Cosimo III
Luigi Rucellai, detto il Rossino, priore, amante di Gian Gastone
Benedetto Silva, nero albino angolano
Piero Visconti, detto il Poledrino, conte, amante di Gian Gastone
Zita, amante di Giuliano Dami

Artisti
Pierre Beauchamp (1636-1705 ca.), ballerino, coreografo e maestro di danza alla corte di
Luigi XIV
Bartolomeo Bianchini (1634-1710), pittore
Giovanni Bilivert (1585-1644), pittore
Bartolomeo Bimbi (1648-1729), pittore
Giovanni Battista Caccini (1556-1613), scultore e architetto
Rosalba Carriera (1675-1757), maestra del ritratto a pastello
Giuseppe Maria Crespi, detto Lo Spagnolo (1665-1747), pittore
Pier Dandini (1646-1712), pittore
Carlo Dolci (1616-1686), pittore
Ciro Ferri (1634-1689), pittore
Giovan Battista Foggini (1652-1725), scultore prodigioso
Anton Domenico Gabbiani (1652-1726), pittore di camera
Giovanna Garzoni (1600-1670), pittrice e miniaturista
Giovan Battista Gaulli, detto il Baciccio (1639-1709), pittore
Giovan Filippo Giarrè (?-dopo il 1791), architetto
Luca Giordano (1634-1705), ritrattista di Francesco Maria de’ Medici
Sir Godfrey Kneller (1646-1723), pittore ritrattista
Sir Peter Lely (1618-1680), pittore
Alessandro (Lissandrino) Magnasco (1667-1749), pittore di corte
Rutilio Manetti (1571-1639), pittore
Carlo Maratta (o Maratti, 1625-1713), pittore e restauratore
Giovanna Marmocchini Fratellini (1666-1731), abilissima pastellista
Giuseppe Mazzuoli (1644-1725), scultore
Livio Mehus (1627-1691), pittore barocco
Francesco Mochi (1580-1654), scultore
Giuseppe Nicola Nasini (1652-1736), pittore
Giovan Battista Nelli (1661-1725), architetto
Pietro Novelli (1603-1647), pittore e architetto
Giuseppe Piamontini (1664-1742), scultore
Salvator Rosa (1615-1673), pittore e poeta
Alessandro Rosi (1627-1697), pittore
Elisabetta Sirani (1638-1665), pittrice
Justus Sustermans (1597-1681), pittore
Domenico Tempesti (1652-1718), finissimo maestro del pastello
Gaetano Zummo (o Zumbo, 1656-1701), ceroplasta

Musici
Leonora Baroni (1611-1670), cantante e musicista
Carlo Maria Michele Angelo Broschi, detto Farinelli (1702-1782), cantante castrato
Cecchino, detto de Castris (1650-1724), cantore eunuco
Baldassarre Galuppi, detto il Buranello (1706-1785), compositore e organista
Jean-Baptiste Lully (1632-1687), compositore, musicista e ballerino
Gaetano Majorano, detto il Caffarelli (1710-1783), cantante castrato
Giovannino, moro, cantore di camera
Atto Melani (1626-1714), soprano
Panbollito, maestro di Liuto
Giacomo Perti (1661-1756), maestro di cappella
Francesco Pistocchi, detto il Pistocchino (1659-1726), contralto
Alessandro Scarlatti (1660-1725), compositore
Medici, scienziati & scrittori
Alliot Le Vieux, cerusico di corte, medico personale di Anna d’Austria regina di Francia
Thomas Baines (1622-1680), scienziato
Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679), scienziato
Bainbrigg Buckeridge (1668-1733), storico dell’arte
Antonio Cocchi (1695-1758), medico e scienziato
Margherita Costa (?-1657), attrice e scrittrice
Tommaso Crudeli (1702-1745), poeta e massone
Ludovico degli Oddi, in Arcadia Learco Piseatico, poeta
Giovan Battista Fagiuoli (1660-1742), commediografo e poeta
John Finch (1626-1682), scienziato
Galileo Galilei (1564-1642), scienziato
Jacopo Riguccio Galluzzi (1739-1801), storico al servizio dei Lorena
Girolamo Gigli (1660-1722), commediografo e saggista
Luis de Góngora (1561-1627), poeta e drammaturgo
Niccolò Gualtieri, medico chirurgo
Jeanne-Marie Leprince de Beaumont (1711-1780), favolista
Lorenzo Magalotti (1637-1712), saggista, segretario dell’Accademia del Cimento
Lodovico Martini, medico, fisico e cerusico
Antonio Oliva (1624-1679), scienziato e teologo
Samuel Pepys (1633-1703), politico e scrittore
Simone Bindo Peruzzi (1696-1759), scrittore
Placido Francesco Ramponi, ingegnere nella Galleria dei Lavori
Francesco Redi (1626-1698), scienziato e scrittore
Giovanni di Niccolò Ronconi, medico
Antonio Salvi (1664-1724), librettista
Nicolò Stenone (Niels Steensen o Nicolaus Steno, 1638-1686), anatomista e geologo
Evangelista Torricelli (1608-1647), scienziato
Tilmann Tructwijn, anatomista
Vincenzio (o Vincenzo) Viviani (1622-1703), matematico e fisico

Religiosi & teologi


San Bernardino da Siena (Bernardino degli Albizzeschi, 1380-1444), teologo
Tommaso Bonaventura della Gherardesca (1654-1721), arcivescovo e conte
Filippo Franci (1625-1694), fondatore dell’ospedale fiorentino di S. Filippo Neri
Francesco Frosini (1654-1733), arcivescovo di Pisa
Madame d’Harcourt, abbadessa di Montmartre
François d’Aix de La Chaise, gesuita e confessore di Luigi XIV di Francia
Giacomo Laderchi (1678-1737), prete oratoriano e storico della Chiesa
Giacomo Antonio Morigia (1633-1708), arcivescovo e teologo di Cosimo III
Lazzaro Pallavicini (o Pallavicino, 1602-1680), cardinale
Sebastiano Pennoni (?-1699), teologo particolare di Cosimo III
Francesco Sarmento, procuratore generale della provincia gesuitica di Goa
Paolo Segneri (1624-1694), teologo
San Francesco Saverio (Francisco de Jasso Azpilicueta Atondo y Aznares de Javier, 1506-
1552), gesuita e missionario
Suor Maria Maddalena Trenta (1670-1740), nobildonna lucchese

Condottieri
Oliver Cromwell (1559-1658), condottiero e politico
Kara Mustafa (1635-1683), generale ottomano e uomo di Stato
Albrecht von Wallenstein (1583-1634), generale

Figli, madri & mogli, padri & mariti


Catera Dami, madre di Giuliano Dami
Livia Galilei (suor Arcangela, 1601-1659), figlia di Galileo
Vincenzio Galilei (1606-1649), figlio di Galileo
Virginia Galilei (suor Maria Celeste, 1564-1642), figlia di Galileo
Marina Gamba (1570-1612), compagna e convivente di Galileo
Margherita Salvetti, consorte di Giannozzo Cepparelli e madre di Alberto, figlio naturale
del cardinale Giovan Carlo de’ Medici
Giovanni Andrea, Margherita, Giacoma, Anna Maria e Barbara Sirani, rispettivamente
padre, madre, zia e sorelle di Elisabetta Sirani

Birri, assassini & infanticidi, rei giustiziati, commercianti, lavoratori &


plebei
Dianira, contadina-dispensiera a Villa Lappeggi
Ester, levatrice ebrea del Ghetto
Simone Fanciullacci, lavoratore di pietre dure
Faustina di Antonio Moschini (?-1671), giustiziata
Francesca Di Matteo (?-1695), infanticida
Gosto, capo degli spazzini
messer Lorenzo, bargello
Marmugi, palafreniere
Menica, contadina-poetessa a Villa Lappeggi
Sabato Pacifici, detto Piacevolino, mercante di stoffe
Jacopo Sozzi, viperaio ufficiale del Granduca
Isacco Spizzichino, mercante al Ghetto
Pavolo della Stalletta, giustiziato per l’uccisione della cortigiana Rossina
Lucia Tolomelli, servetta dei Sirani accusata di aver avvelenato Elisabetta
Vieri, la moglie Elisa e le figlie, contadini di Trespiano
Zampone, delegato di polizia
Zoltan, zingaro di Poggio a Caiano
Benedetto Zucchetti (?-1672), impiccato per furto
BIBLIOGRAFIA

Tutti i libri di questa bibliografia sono stati importanti per qualche aspetto
delle numerose storie qui raccontate, ma è da segnalare come due,
specialmente, siano stati di guida alla scrittura: il classico della storiografia
Gli ultimi Medici (1962), di Harold Acton, e il magnifico romanzo di Anna
Banti, La camicia bruciata (1973).

TESTI

Carriera, Rosalba, Lettere. Diari. Frammenti, a cura di Bernardina Sani,


Olschki, Firenze 1985

Degli Oddi, Ludovico, Corona poetica intessuta alle glorie dell’altezza reale
della serenissima Violante Beatrice di Baviera gran principessa di
Toscana. In occasione del suo viaggio per la S. Casa di Loreto, Ciani e
Sebastiano Amati stamp. vesc., Perugia, 28 maggio 1714

Fagiuoli, Giovanni Battista, La commedia che non si fa, a cura di Orietta


Giardi e Maria Russo, Bulzoni, Roma 1993

Id., Prose, Marescandoli, Lucca 1741

Galilei, Virginia, Lettere, a cura di Bruno Basile, Salerno Editrice, Roma


2002

Gigli, Girolamo, Don Pilone. La sorellina di Don Pilone. Il Gorgoleo, a cura


di Mauro Manciotti, Silva Editore, Genova 1963

Id., Il gazzettino, a cura di Ettore Allodoli, Carabba, Lanciano 1913


Id., La scuola delle fanciulle ovvero il Pasquale, a cura di Antonio Di Preta,
Le Monnier, Firenze 1973

Lopriore, Giuseppe Italo, Le Satire di Salvator Rosa, La Nuova Italia, Firenze


1950

Magalotti, Lorenzo, Lettere odorose, a cura di Enrico Falqui, Bompiani,


Milano 1943

Id., Saggi di naturali esperienze, a cura di Teresa Poggi Salani, Longanesi,


Milano 1976

Id., Saggi di naturali esperienze, a cura di Enrico Falqui, Sellerio, Palermo


2001

Ombrosi, Luca, Vite dei Medici sodomiti, a cura di Alberto Consiglio, Canesi,
Roma 1965

Redi, Francesco, Consulti medici, a cura di Giorgio Colli, Boringhieri, Torino


1958

Id., Scritti di botanica, zoologia e medicina, a cura di Piero Polito,


Longanesi, Milano 1975

Rosa, Salvator, Poesie e lettere inedite, a cura di Uberto Limentani, Olschki,


Firenze 1950

Viviani, Vincenzio, Vita di Galileo, a cura di Bruno Basile, Salerno Editrice,


Roma 2001

STUDI

AA.VV., Alessandro Magnasco, Electa, Milano 1996

AA.VV., Al servizio del Granduca. Ricognizione di cento immagini della


gente di corte, a cura di Silvia Meloni Trkulja, CentroDi, Firenze 1980

AA.VV., Anna Maria Luisa de’ Medici. Elettrice Palatina, a cura di Anita
Valentini, Edizioni Polistampa, Firenze 2009

AA.VV., Archivio del Collezionismo Mediceo, volume III, Rapporti con il


mercato romano, a cura di Miriam Fileti Mazza, Ricciardi, Milano-Napoli
1998

AA.VV., Arte e Politica. L’Elettrice Palatina e l’ultima stagione della


committenza medicea in San Lorenzo, a cura di Monica Bietti, Sillabe,
Livorno 2014

AA.VV., Bartolomeo Bimbi. Un pittore di piante e animali alla corte dei


Medici, a cura di Lucia Tongiorgi Tomasi e Silvia Meloni Trkulja, Edifir,
Firenze 1998

AA.VV., Buffoni, villani, giocatori alla corte dei Medici, a cura di Anna
Bisceglia, Matteo Ceriana, Simona Mammana, Sillabe, Livorno 2016

AA.VV., Curiosità di una reggia. Vicende della Guardaroba di Palazzo Pitti,


CentroDi, Firenze 1979

AA.VV., Fascinazione ottomana nelle collezioni statali fiorentine dai Medici


ai Savoia, a cura di Giovanna Damiani e Mario Scalini, Sabanci
Universitesi, Istanbul 2004

AA.VV., “Filosofico umore” e “meravigliosa speditezza”. Pittura


napoletana del Seicento dalle collezioni medicee, a cura di Elena
Fumagalli, Firenze Musei – Giunti, Firenze 2007

AA.VV., Firenze e l’Inghilterra. Rapporti artistici e culturali dal XVI al XX


secolo, a cura di Mary Webster, con scritti di Anna Maria Crinò e schede
di Marilena Mosco, CentroDi, Firenze 1971

AA.VV., Francesco Redi, un protagonista della scienza moderna.


Documenti, esperimenti, immagini, a cura di Walter Bernardi e Luigi
Guerrini, Olschki, Firenze 1999

AA.VV., Gian Gastone (1671-1737). Testimonianze e scoperte sull’ultimo


Granduca dei Medici, a cura di Monica Bietti, Giunti, Firenze 2008
AA.VV., Giuseppe Maria Crespi 1665-1747, a cura di Andrea Emiliani, con
scritti di Andrea Emiliani, Silvia Evangelisti, Angelo Mazza, Giordano
Viroli, Credito Romagnolo, Bologna 1990

AA.VV., Giuseppe Maria Crespi nei musei fiorentini, CentroDi, Firenze


1993

AA.VV., Gli ebrei in Toscana dal Medio Evo al Risorgimento. Fatti e


momenti, Olschki, Firenze 1980

AA.VV., I gioielli dell’Elettrice Palatina al Museo degli Argenti, a cura di


Maria Sframeli, CentroDi, Firenze 1988

AA.VV., Incisori toscani del Seicento al servizio del libro illustrato, a cura di
Artemisia Calcagni Abrami e Lucia Chimirri, CentroDi, Firenze 1987

AA.VV., Itinerario di Firenze barocca, a cura di Marilena Mosco, CentroDi,


Firenze 1974

AA.VV., I volti del potere. La ritrattistica di corte nella Firenze granducale,


a cura di Caterina Caneva, Giunti, Firenze 2002

AA.VV., Livio Mehus. Un pittore barocco alla corte dei Medici, a cura di
Marco Chiarini, Sillabe, Livorno 2000

AA.VV., Lo spettacolo meraviglioso. Il Teatro della Pergola e l’opera a


Firenze, Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Roma – Pagliai
Polistampa, Firenze 2000

AA.VV., Natura viva in Casa Medici, a cura di Marilena Mosco, CentroDi,


Firenze 1985

AA.VV., Omaggio al Granduca. Memorie dei piatti d’argento per la festa di


San Giovanni, a cura di Rita Balleri e Maria Sframeli, Sillabe, Livorno
2017

AA.VV., Rituale, cerimoniale, etichetta, a cura di Sergio Bertelli e Giuliano


Crifò, Bompiani, Milano 1985
AA.VV., Rutilio Manetti, a cura di Alessandro Bagnoli, con scritti di Cesare
Brandi e Piero Torriti, CentroDi, Firenze 1978

AA.VV., Vivere a Pitti. Una reggia dai Medici ai Savoia, a cura di Sergio
Bertelli e Renato Pasta, Olschki, Firenze 2003

Acton, Harold, Gli ultimi Medici, Einaudi, Torino 1962

Agazzi, Nicoletta, Un ritratto inedito di Anna Maria Luisa de’ Medici


Elettrice Palatina, in “Aurea Parma”, maggio-agosto 2004, pp. 239-244

Aliverti, Maria Ines, Anni di apprendistato di Giovan Battista Fagiuoli, in


“Quaderni di Teatro”, n. 7, marzo 1980 (numero speciale Il teatro dei
Medici), pp. 229-237

Balestracci, Duccio, Violante Beatrice gran principessa di Baviera. Vita e


storia di una donna di confine, Protagon, Siena 2010

Banti, Anna, La camicia bruciata, prefazione di Attilio Bertolucci,


Mondadori, Milano 1979

Bellesi, Sandro, Diavolerie, magie, incantesimi nella pittura barocca


fiorentina, Giovanni Pratesi Antiquario, Firenze 1997

Id., Duchi e granduchi medicei in una serie di terrecotte fiorentine del primo
Settecento, Giovanni Pratesi Antiquario, Firenze 1997

Id., I marmi di Giuseppe Piamontini, Polistampa, Firenze 2008

Bernardi, Walter, Il paggio e l’anatomista, Le Lettere, Firenze 2008

Bono, Salvatore, Schiavi. Una storia mediterranea. XVI-XIX secolo, Il


Mulino, Bologna 2016

Borroni Salvadori, Fabia, Committenti scontenti. Artisti litigiosi nella Firenze


del ’700, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 29.
Bd., H. 1 (1985), pp.129-158

Campinoti, Veronica, Tra Studio e Corte: John Finch, Thomas Baines e la


Toscana, in Abbri, Ferdinando – Bucciantini, Massimo, Toscana Europa.
Nuova scienza e filosofia tra ’600 e ’700, Franco Angeli, Milano 2006, pp.
149-175

Capecchi, Gabriella, La collezione di antichità del Cardinale Leopoldo dei


Medici. I marmi, in “Atti e memorie dell’Accademia toscana di Scienze e
Lettere La Colombaria”, XLIV, n.s. XXX, 1979, pp. 125-145

Casciu, Stefano, I turchi del Gran Principe Ferdinando de’ Medici, in


“Bollettino Amici di Palazzo Pitti”, 2002, pp. 43-46

Chiti, Ugo, Nero cardinale, con scritti di Arnaldo Bruni, SEF, Firenze 2015

Ciabani, Roberto, Torturati, impiccati, squartati. La pena capitale a Firenze


dal 1423 al 1759, Bonechi, Firenze 1994

Cipolla, Carlo M., I pidocchi e il Granduca, Il Mulino, Bologna 1979

Ciuffoletti, Zeffiro – Pietrosanti, Susanna, Le cacce dei Medici, Vallecchi,


Firenze 1992

Conforti, Claudia, Cosimo III patrono d’arte a Goa. La tomba di S.


Francesco Saverio di Giovanni Battista Foggini, in Lo specchio del
principe: mecenatismi paralleli. Medici e Moghul, Edizioni dell’Elefante,
Roma 1991

Conti, Giuseppe, Amori e delitti di nobiltà e di plebe, Vallecchi, Firenze 1922

Id., Firenze dai Medici ai Lorena, Bemporad, Firenze 1909

Conticelli, Valentina, Il taccuino di Sir Roger Newdigate. Gli Uffizi e la


Tribuna nelle carte di un viaggiatore del Grand Tour (1739-1774), in
“Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, LVII, 2015, pp.
91-127

Di Domenico, Cristina – Lippi, Donatella, I Medici. Una dinastia ai raggi x,


Nuova Immagine Editoriale, Firenze 2005

Emiliani, Andrea, Giuseppe Maria Crespi, con scritti di Silvia Evangelisti,


Giordano Mazza, Andrea Viroli, Nuova Alfa – Credito Romagnolo,
Bologna 1990

Fabbri, Maria Cecilia – Grassi, Alessandro – Spinelli, Riccardo, Volterrano.


Baldassarre Franceschini (1611-1690), Edifir, Firenze 2013

Fabbri, Mario, Alessandro Scarlatti e il principe Ferdinando de’ Medici,


Olschki, Firenze 1961

Fakhr ad-Din al-Man II, Viaggio in Italia, a cura di Maria Alberti, Jouvence,
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Zocchi, Valdo, Salvator Rosa a Firenze, Istituto Professionale Leonardo da


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RINGRAZIAMENTI

Si ringraziano Silvia Alessandri – Biblioteca Ugo Procacci, Opificio delle


Pietre Dure, Firenze; Massimo Grigò, Giovanni Guerrieri, Ilaria Della
Monica, Carmine Ignozza – Biblioteca delle Oblate, Firenze; Silvia
Mascalchi, Annibale Pavone, Cristina Ricotti, Stefania Ricci, Rodolfo
Sacchettini e l’Associazione Teatrale Pistoiese; un grazie anche a Riccardo
Spinelli, per i numerosi suggerimenti.
Un ringraziamento particolare, infine, a Simona Carlesi, per l’aiuto nelle
ricerche, spesso alquanto complesse, in biblioteche e archivi.
INDICE

Prologo I – Il re-bambino
Prologo II – La peste arriva a Firenze
Prologo III – Una rosa in pieno inverno
Prologo IV – La rovina d’Alemagna
Tutto nel mondo è burla o del Granduca Ferdinando in commedia
Coviello sbeffeggia la morte, e il cardinal Giovan Carlo applaude
Pavolo è straziato dal boia e Don Piero Maria de’ Medici è graziato per lo stesso omicidio
della bella cortigiana Ginevra, detta la Rossina
Il cardinale Giovan Carlo ama le femmine e ha nel Teatro della Pergola un suo trono
segreto, con cui facilmente può penetrare nelle viscere dell’edificio
Le delizie del Carnevale
Il Cardinale Giovan Carlo coltiva i fiori e ama le grotte
La corte si diverte: la guerra degli animali sul ghiaccio
La peggiore delle scelte: trattative per il matrimonio di Cosimo
Le erotiche e scientifiche avventure di Finchio e Fava in Toscana & in Turchia
Cosimo ha il morbillo, teme senza motivo per la sua vita, ma si sposa comunque per
procura con Marguerite-Louise
Cosimo, appena ripresosi dal morbillo, che ha fatto molto tribolare la madre sua Vittoria,
incontra alfine Marguerite-Louise, verso cui si dimostra freddo e quasi indifferente
Marguerite-Louise assiste con il consorte alla rappresentazione de L’Ercole in Tebe di
Jacopo Melani
L’amour, toujours l’amour: Marguerite-Louise d’Orléans incontra a Palazzo Pitti il suo
vero amore Carlo di Lorena, in fuga dalla Francia. Cosimo è tardo, ma infine si infuria
Vicino al cuore selvaggio: Marguerite-Louise si ribella a Cosimo consorte e al suocero
Ferdinando, che la recludono alla villa di Lappeggi
Cosimo fugge dalle ire di Marguerite-Louise e si reca a Bologna dalla pittrice prodigio
Elisabetta Sirani, a cui vuole commissionare un’opera
Più miti consigli: Marguerite-Louise, resa più malleabile dalla solitudine, si stufa di stare a
Lappeggi e vuole tornare a Palazzo Pitti
La corte del pidocchio: Francesco Redi guarda il mondo davanti alla lente del suo
microscopio e lo riduce a un brulichio di batteri e insetti
Cosimus Rex, Imperator Etruriae
Assai peggio per il paggio: ovvero Bruto in fuga
Cosimino troppo pronto: Marguerite-Louise trova un nuovo motivo di insulto per il suo
coniuge
Benedetto Zucchetti viene impiccato per ladro, e si confessa solo nel punto estremo, dopo
un gran lavorio dei frati del confortatorio
Finalmente domenica: Marguerite-Louise torna a Parigi
Il principe Leopoldo, cardinale, squisito collezionista, ammira il suo gran fallo
Cosimo celebra trionfalmente i festeggiamenti per la vittoria sui turchi a Vienna
Cosimo ha i suoi santi, Cosimo ha i suoi frati
L’odore dell’India: Cosimo manda un monumento di devozione costosissimo dall’altra
parte del mondo ed è contento
Il pungiglione d’amore: Ferdinando, sia pure avvertito, si impesta di sifilide
Cosimo dà il suo cognome a un rabbino che si è convertito. Adottato dal Granduca, questi
deride gli ebrei, che fieramente detesta, per i loro usi e costumi che trova riprovevoli
Marguerite-Louise da Parigi bussa a quattrini e minaccia, chiede al figlio Ferdinando di
rubare qualche gioiello dei Medici, ma quello è messo peggio di lei, e sempre mendica di
avere denari dal padre avaro
Violante convola con Ferdinando e scopre, subito, che suo marito ama di più chiunque che
non sia lei: e in specie gli evirati cantori della sua corte a Pratolino
Cosimo commissiona la morte: il pittore Giuseppe Nicola Nasini dipinge le quattro grandi
tele dei Novissimi, per l’appartamento privato del Granduca
Il fetore del tempo, l’umano crollo, l’immane schianto: Cosimo ammira l’opera di Gaetano
Zummo, ceroplasta
Anna Maria Luisa trova finalmente marito, che se no viene certificata come zitella, e
diventa la regina di Düsseldorf
La voliera di Gian Gastone
Cazzi e colonne: il rimedio di Filippo Pizzichi contro l’estinzione della dinastia Medici
Marguerite-Louise, dopo avere fatto fuoco e fiamme, e molto aver intrigato nell’ombra, si
trasferisce a Saint-Mandé. Menopausa e beneficienza, lentamente, entrano nella sua vita
La carriera di un libertino: entra in scena il bel Giuliano Dami
Lorenzo Magalotti scrive profumatamente alla contessa Ottavia Strozzi
Il boia maltratta Francesca Di Matteo, infanticida
Il principe di Carnevale: Ferdinando si ribella
Vincenzio Viviani dedica un palazzo al culto del suo maestro Galileo e lo annuncia al
mondo
La corte della scrofa
Il principe delle taverne
Gian Gastone fugge dalla Boemia, disgustato da sua moglie, dal paesaggio e da se stesso, e
si reca a Parigi a trovare la madre
Cosimo smania per il Trattamento regio. A Roma, con suo giubilo, ottiene di essere
canonico lateranense, e dice la sua prima messa
Bartolomeo Bianchini si rammarica di aver accettato di lavorare per il bey Ramadan a
Tunisi, lasciando Firenze, ma poi trova il modo di mettere a frutto l’esperienza in
Oriente
Il Gran Principe Ferdinando osserva La gazza ammaestrata di Alessandro Magnasco, di cui
ha commissionato la realizzazione, e ne ricava una morale
Memento mori. Giovanni Battista Fagiuoli vede un acrobata cadere in Piazza della Signoria
e lo racconta a corte
Gian Gastone torna a Firenze, con la coda tra le gambe, sua moglie rimane in Boemia, per
sempre; in riva all’Arno il figlio del Granduca diventa un triste aneddoto di follia
Cosimo ricerca quadri in Inghilterra, paese di cui ha sempre ammirato l’ordine e di cui
fantastica di avere la potenza sul mare
Alessandro Scarlatti, disperato per rovesci di fortuna, chiede denari al Gran Principe
Ferdinando
Lo Spagnolo dipinge scene volgari di gran vivacità per il Gran Principe
Lo sposo marcio: Francesco Maria si decompone a vista ed Eleonora Luisa Gonzaga di
Guastalla si ribella al suo amaro destino
Federico IV di Danimarca fa visita al fantasma del suo antico amore, Maddalena Trenta,
ora suor Maria Maddalena
Il cacciucco del Gran Principe: Giuseppe Maria Crespi dipinge a Livorno, per il Carnevale
L’estasi del nero bianco: la preda più ghiotta tra i convertiti del Granduca
La monarchia vegetale: il mio regno è una susina, il mio regno è una pesca
Violante, vedova, in balìa degli eventi
Il ritratto di Eleonora, regina per un giorno
La sosta di Violante
Congedo con veleno: Marguerite-Louise lascia il mondo, con un ultimo pensiero maligno
per Cosimo, che non vuole in alcun modo abbia a rallegrarsi troppo della sua dipartita
Cosimo, poco compianto dai cittadini di Toscana, ma moltissimo dai preti e dai frati, a cui
dette infiniti danari, finalmente fa quello per cui si è preparato tutta la vita: muore
Anni ruspanti: Gian Gastone Granduca, Giuliano despota
Concerto intimo da camera per il Granduca Gian Gastone
Gian Gastone dà un ballo per la nobiltà nella sua camera da letto
Gian Gastone strepita contro Violante moribonda e morta: ormai non vuole più vedere altre
dipartite, attende solo la sua di cui vede lo spettrale spettacolo
Giuliano deve respingere con la forza i ruspanti che premono alle porte di Palazzo Pitti
Antonio Cocchi ospita nel suo palazzo le prime adunanze della Massoneria a Firenze
Esecuzione di Antonio di Francesco Carleschi, ruspante
Gian Gastone regala un archibugio a Carlo di Borbone, candidato al trono dei Medici, e
questi lo usa per andare a caccia dentro le mura di Palazzo Pitti
Nella chiesa di Santa Croce per volontà di Gian Gastone si inaugura il monumento a
Galileo, dove viene traslata la salma dello scienziato
I medici stilano la relazione clinica dell’ultima malattia di Gian Gastone
L’impero della gazza: Anna Maria Luisa fa l’inventario delle sue gioie
Catera Dami fugge con i sacchi pieni e con lei vanno via le figlie e i famigli, mentre
Giuliano, a suo rischio, si attarda di un giorno
Esequie di Gian Gastone

Gli ultimi Medici – albero genealogico


Personaggi e interpreti
Bibliografia
Ringraziamenti

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