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ELEMENTI DI FILOSOFIA MORALE


PER UN’IDENTITÀ DELLA SINISTRA
di Andrea Zhok

I. Alle origini della sinistra


I.1. La crisi d’identità della sinistra e l’analisi di Giddens

Per intendere il senso di una visione “cosmopolita”, così


come proposta da autori quali Ulrich Beck e David Held, per il
progetto della sinistra politica è necessario aver chiara l’identità
di questo progetto, almeno nei suoi tratti di fondo. Le pagine che
seguono saranno dedicate a questa discussione di ordine
propedeutico.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a diversi tentativi di
pensare ‘oltre’ destra e sinistra, viste come contrapposizioni
datate. Se guardiamo, come caso esemplare, alla diagnosi di
Anthony Giddens in Beyond Left and Right (1994), 1
probabilmente la più nota ed influente analisi della crisi della
sinistra contemporanea, troviamo un quadro caratteristico che
merita di essere ricordato. Giddens critica la sinistra storica a
vari livelli.
In primo luogo egli rimprovera al socialismo un “modello
cibernetico” 2 della società, dove la guida centralizzata del
sistema e l’assunto della superiore razionalità della
pianificazione dovevano dominare la storia e la società. Per
Giddens tale modello sarebbe non solo inadeguato ad affrontare
l’odierna complessità sociale ed economica, ma sarebbe anche

1
Giddens A., Beyond Left and Right. The Future of Radical Politics,
Cambridge, Polity Press, 1994. I riferimenti sono alla traduzione italiana:
Oltre la destra e la sinistra, Bologna, Mulino, 1997.
2
Ivi, p. 15.
212

attivamente distruttivo verso il capitale sociale di relazioni


fornito dalla tradizione storica. 3 In quest’ottica egli contesta alla
tradizione socialista e comunista un carattere di ‘utopismo
mitico’, ‘messianico’ o ‘prometeico’ che avrebbe spinto verso
una palingenesi astratta.
Giddens poi solleva dubbi, pur senza sostanziarli in maniera
univoca, tanto verso l’autenticità dell’ispirazione democratica
della tradizione socialista, 4 che verso la sostenibilità della sua
ispirazione egalitaria, vista come confusamente gravitante
attorno ad un’istanza di “livellamento verso il basso”. 5 Ciò
sarebbe emblematicamente rappresentato dall’attribuzione alla
classe operaia del ruolo di protagonista della storia, attribuzione
erronea in quanto l’organizzazione in classi cui si rifaceva era
un fattore storico contingente, ora superato. 6
Infine, l’autore britannico dichiara fallimentare la soluzione
storica dello stato sociale, ultimo approdo riformista della
sinistra, cui egli attribuisce una natura burocratica, 7 incapace di
vera redistribuzione, 8 causa più che rimedio dell’emarginazione 9
in quanto creerebbe passività negli assistiti.
Quanto alla pars construens, Giddens sostiene che ci
ritroveremmo oramai in un’epoca della post-scarsità, 10 dove la
felicità non avrebbe alcuna speciale relazione con ricchezza e
potere. 11 In questo contesto i tempi sarebbero maturi per avviare
la creazione di una “democrazia dialogica” 12 che superi il
feticcio del “produttivismo” 13 e promuova il “cosmopolitismo
culturale”. 14

3
Ivi, p. 7.
4
Ivi, p. 79.
5
Ivi, p. 70-72.
6
Ivi, p. 177.
7
Ivi, p. 176.
8
Ivi, p. 185.
9
Ivi, p. 182.
10
Ivi, p. 126.
11
Ivi, p. 223.
12
Ivi, p. 24.
13
Ivi, p. 217.
14
Ivi, p. 140.
213

Ora, Giddens è autore serio, di cui non è possibile dar


veramente conto in poche righe. Per una piena argomentazione
delle tesi che abbiamo rapidamente richiamato, il lettore è
invitato a rivolgersi direttamente al testo citato. Ciò che però,
anche ad una lettura più estesa dei suoi testi, non può non
colpire chiunque si sia formato nella tradizione culturale della
sinistra storica è il carattere marcatamente “sovrastrutturale”,
soggettivistico e volontaristico delle proposte di Giddens, che
più che superare la tradizione della sinistra, sembrano perderne
di vista l’oggetto. Giddens, ci verrebbe da dire, non parla “oltre”
Marx o Gramsci, parla d’altro. È peraltro chiaro che questa
posizione non è dovuta nel suo caso a malizia o disonestà
intellettuale, quanto piuttosto alla profondità del coinvolgimento
dell’autore britannico in una tradizione che egli non riesce più a
percepire se non come compromessa ed asfittica. Coscienti che
tale smarrimento non ha ragioni accidentali, nel prosieguo
vogliamo dedicarci proprio ad un’opera di “distillazione mirata”
della tradizione della sinistra storica, cercando di recuperarne un
nocciolo teorico vitale, capace di invalidare (o di aggirare) le
contestazioni di Giddens e di coloro che le trovano convincenti.

I.2. Le intuizioni fondanti alle origini della sinistra storica

Come noto, la dicitura ‘sinistra’ trae origine dalla


collocazione fisica (rispetto al presidente) di giacobini e
montagnardi nell’assemblea nazionale insediata dalla
Rivoluzione Francese. L’origine del termine identifica dunque la
componente dell’assemblea maggiormente schierata a favore
dell’eguaglianza sociale e più radicalmente ostile all’Ancien
Régime. Ma quei tratti identificativi sono in parte divenuti
obsoleti con il progressivo venir meno dell’Ancien Régime. Per
trovare il reale punto di derivazione della ‘sinistra storica’
dobbiamo rivolgerci alla svolta che la riflessione di Karl Marx
dà alla tradizione del radicalismo egalitario. L’oggetto polemico
che caratterizza il pensiero marxiano non è più l’Ancien Régime,
ma il capitalismo, sistema di organizzazione sociale di cui non
sembra al momento di poter decretare l’obsolescenza.
214

A partire dalla morte di Marx e per gran parte del XX secolo


il dibattito intorno a cosa fosse ‘vivo o morto’ della proposta
marxiana ha occupato uno spazio enorme nel dibattito filosofico
e politico. Di questo dibattito, con particolare riferimento alla
sua fase terminale, oramai stantia e sclerotizzata, chi scrive
conserva un ricordo piuttosto distinto. Nelle pagine che seguono
non intendiamo riproporre l’ennesima versione del ‘Marx-
autentico-ma-frainteso’ di cui si sono riempite le biblioteche per
decenni, prima dell’oblio totale degli ultimi vent’anni. E tuttavia
crediamo che il significato della sinistra storica e delle sue
potenzialità contemporanee sia da rintracciare proprio in un
nocciolo centrale di argomenti recuperabili esplicitamente o
implicitamente nella lezione marxiana. Ciò che andiamo dunque
a proporre è l’isolamento di un nucleo di intuizioni fondamentali
che stanno alle origini della ‘sinistra storica’. Tale nucleo è la
matrice della sinistra storica e potrebbe essere chiamata
‘sinistra archetipa’ o ‘sinistra originante’, anche se nel prosieguo
preferiremmo menzionare tale nozione con la sola sigla S 0 , per
privarla di connotazioni. Con S 0 intendiamo un nucleo di idee
semplici, capaci di metterci di fronte al cuore, a nostro avviso
pienamente attuale, del progetto filosofico che giustifica
l’esistenza di una sinistra politica. Ci pieghiamo anticipatamente
sia all’obiezione che le tesi di S 0 non coprono tutte le forme
ideologiche che nel tempo sono state identificate come di
sinistra che all’obiezione che tali tesi possano risultare
controverse sul piano esegetico. Pur essendo certi del
radicamento storico e filologico di ciò che argomenteremo, il
nostro intento qui non è non è né filologico, né storico, ma
teoretico.

II. La matrice filosofico-morale della sinistra storica

II.1. Storicismo non utopistico

La sinistra storica ha spesso brandito immagini


suggestive e stilemi teleologici (il ‘sol dell’avvenir’, la società
comunista come paradiso in terra) con finalità retoriche, volte a
muovere gli animi e a dare qualcosa di afferrabile al pensiero
215

popolare. Questa dimensione demagogica del pensiero di


sinistra è tollerata, ma non giustificata dall’approccio marxiano .
Come noto, Marx cercò strenuamente di separare la propria
visione dal tradizionale comunismo utopistico. Il comunismo
marxiano come sedicente ‘socialismo scientifico’ doveva
caratterizzarsi per il suo ancoramento storico. Più che di aver
ecceduto con abbellimenti retorici, Marx è stato accusato per la
scarsezza di dettagli nel rappresentare la società comunista.
Paradossalmente egli è stato accusato di utopismo proprio per
ciò: avrebbe sollevato gli animi in una direzione il cui punto
d’arrivo non era ben chiaro neppure a lui. Ora, però, una delle
poche ‘definizioni’ di comunismo che Marx si concede lo
descrive come “il movimento reale che supera (aufhebt)
l’odierno (jetzig) stato di cose.” 15 Il senso di questa espressione
è che la prospettiva di ciò che lui chiama comunismo consta del
superamento (Aufhebung, non mero ‘abbattimento’) di quello
stato di cose storicamente dato, che egli chiama ‘capitalismo’.
Ciò significa che il telos di tale progetto politico non è il
raggiungimento di uno stato di cose prefigurato, il che in
un’ottica storicista sarebbe un’operazione insensata, una
finzione retorica. Ciò che muove il processo non è un desiderio
suggestivo, ma la ricerca di soluzione a problemi intrinseci ad
un processo storico reale. I tratti positivi della meta derivano
perciò tutti da negazioni determinate di tratti reali del suo
obiettivo polemico. In tutto ciò ogni elemento utopico o
messianico ha e non può che avere carattere accidentale o
propagandistico.

II.2. Razionalismo come critica storica

Nascendo come critica di uno specifico status quo la


riflessione marxiana e quella della sinistra storica si collocano
15
„ Der Kommunismus ist für uns nicht ein Zustand, der hergestellt werden
soll, ein Ideal, wonach die Wirklichkeit sich zu richten haben [wird]. Wir
nennen Kommunismus die wirkliche Bewegung, welche den jetzigen
Zustand aufhebt. Die Bedingungen dieser Bewegung ergeben sich aus der
jetzt bestehenden Voraussetzung.“ - Die Deutsche Ideologie, in Marx/Engels
Gesamtausgabe (d’ora in poi MEGA), Detler Verlag, Glashütten im Taunus,
1970, Sez. I, vol. I, p. 25.
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nell’ingrata posizione di chi non può evitare il ricorso ad una


dimensione razionale e riflessa. Diversamente dalla destra, la
sinistra non può permettersi il lusso di cavalcare le dinamiche
storiche esistenti, eventualmente giustificandone a posteriori la
presunta saggezza (o giustizia). D’altro canto il razionalismo
storicistico che definisce S 0 non è concettualmente affine al
razionalismo positivista, non rivendica cioè una ragione
autosufficiente ed antitetica a pulsioni, passioni, tradizioni. La
ragione storica che Marx, in dipendenza da Hegel, sostiene è
ragione che mira alla sintesi di passioni e costumi, emozioni ed
abitudini, in diretta contrapposizione con quel modello di
razionalità astratta che si interpreta come contrapposto alla
dimensione sensibile e vitale. Il modello di razionalismo
costruttivista che un grande autore liberale come Hayek ascrive
al socialismo, 16 criticandone giustamente l’astrattezza, non
appartiene se non per equivoco alla matrice della sinistra storica.
Il razionalismo S 0 ha però un altro grave problema, di
ordine operativo: esso deve rivolgersi (per ragioni che vedremo)
a moltitudini popolari che non erano, né generalmente sono,
specificamente formate all’uso articolato della ragione riflessa.
Questo fu per Marx ed i suoi seguaci il primo e fondamentale
problema politico: l’“educazione del popolo”. Questa attività si
dispiegò nella faticosa istituzione di presidi territoriali dove
poter far circolare le idee e discuterle, istituzione, si noti di
passaggio, sprezzantemente dismessa dalla ‘nuova sinistra’ negli
ultimi decenni, a favore di format comunicativi unidirezionali
(televisione). È utile ricordare che il primo compito di tale
attività formativa era la presa di coscienza del lavoratore.
Per ‘lavoratore’ si intende colui il quale vive del proprio
lavoro, di contro a chi vive prevalentemente dei frutti del
capitale. E per ‘presa di coscienza del lavoratore’ si deve
intendere la comprensione della comunanza di posizione sociale
e storica di tutti i lavoratori in quanto tali. Questo era il senso
primario dell’espressione ‘coscienza di classe’. Si noti che tale
coscienza, nella misura in cui fu raggiunta, lo fu faticosamente e
non fu mai qualcosa di ovviamente dato insieme all’entità
16
Hayek F., Legge, legislazione e libertà, Saggiatore, Milano 1989, pp. 13-
72.
217

sociale ‘proletariato industriale’. Questo punto andrebbe


rammentato più spesso di fronte agli odierni piagnistei relativi
alla scomparsa dell’operaio-massa, che avrebbe avuto, si ritiene,
ovvio e spontaneo accesso alla ‘coscienza di classe’.
Collocarsi in una dimensione di razionalismo riflesso che
si vuole estesa alle maggioranze popolari è posizione nata per
essere una “porta stretta”, al limite dell’impercorribilità. Donde
la tendenza, forse fatale, a cercare scorciatoie didascaliche,
semplificazioni retoriche, alleanze contingenti con correnti di
pensiero di successo (il positivismo, l’evoluzionismo, ecc.). Ma
ogni qual volta la sinistra si permette di far leva su slogan
riusciti o mode comportamentali per ottenere maggiore ascolto
imbocca una strada tendenzialmente autodistruttiva, al cui fondo
può esserci magari una vittoria elettorale, ma al prezzo di
perdere per strada la propria ragion d’essere. Costitutivamente la
sinistra non parla alla ‘pancia’ del paese. In quest’ottica il
problema del rapporto tra ‘intellettuali e popolo’ è un problema
che caratterizza nel profondo la sinistra storica. 17 Questo tema di
fondo, molto più di ogni questione particolare relativa ai modelli
economici da perseguire, è ciò che ha posto e pone le più grandi
difficoltà al progetto storico della sinistra: questo punto coincide
con il problema classico, ma quanto mai attuale, della
democrazia intesa in senso reale (wirklich) e non meramente
formale. 18 La domanda di fondo è: in che misura è possibile
condurre ad un livello di giudizio riflesso che sia all’altezza
della propria collocazione storica (e dei suoi problemi) una
maggioranza di uomini e donne che non fanno dell’attività
intellettuale il proprio mestiere? Perché la democrazia sia tale il
δήμος che esercita il κράτος, deve poter giungere a deliberazioni
razionali e nella misura in cui ciò non avviene le virtù della
democrazia non sono chiaramente separabili da quelle
dell’estrazione a sorte. Credere nella possibilità di una
democrazia reale, nella possibilità di condurre l’umanità ad un

17
Cfr. Gramsci A., Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Editori
Riuniti, Roma 1971.
18
Cfr. Marx K., Zur Judenfrage, in MEGA, sez. I, vol. 1, pp. 589-590; Zur
Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie, in Marx/Engels Werke (d’ora in poi
MEW), Dietz Verlag, Berlin, 1976, vol. 1, pp. 248 e 321 sgg.
218

piano di ragione riflessa all’altezza dei problemi del proprio


tempo è precisamente una fede laica, un ‘ottimismo della
volontà’ che appartiene alla matrice della sinistra storica.

II.3. Egalitarismo del riconoscimento

Uno degli elementi più generalmente riconosciuti come


caratterizzanti la sinistra storica è la sua dimensione egalitaria;
tale tratto è però anche frequentemente frainteso, persino
all’interno della sinistra stessa.
Marx spende molte pagine nel prendere le distanze
dall’idea di un egalitarismo inteso come livellamento od
uniformazione. La sua idea guida di eguaglianza, che certamente
deve non poco alla lezione hegeliana, è quella per cui “io sono
come l’altro” nella misura in cui io posso apprezzare il suo
riconoscimento o soffrire il suo disconoscimento. Questa
dinamica di mutuo riconoscimento, che ciascuno conosce nel
proprio intorno familiare e comunitario, viene poi estesa
presuntivamente al genere umano in quanto tale. Solo a partire
dall’idea che il mutuo riconoscimento è il fondamento
dell’eguaglianza si può intendere il senso specifico della
contestazione marxiana al sistema capitalistico: il dominio delle
transazioni economiche sulle interazioni umane produce una
sistematica cancellazione dello spazio del riconoscimento
interpersonale. 19 Le relazioni di ordine monetario sono
‘democratiche’ precisamente nel senso livellante e de-
individualizzante di cui è stato ricorrentemente accusato il
marxismo: quale che sia l’origine di un capitale (pecunia non
olet) e quale che sia la qualità umana di chi lo detiene, il capitale
esercita comunque il suo potere sovrano ed anonimo sulle
relazioni, sostituendosi alla valutazione di meriti e demeriti
personali. Per Marx il significato profondo del superamento
dell’epoca del dominio del capitale sta nel recupero di una
dimensione in cui il riconoscimento o disconoscimento
reciproco può avvenire senza la mediazione corrosiva e
fuorviante dei rapporti di potere economico.
19
Marx K., Ökonomisch-Philosophische Manuskripte (1844), MEGA, sez. I,
vol. 3, pp. 145 sgg.
219

Questo è peraltro il senso che sottende ad un’altra, ben


nota, definizione marxiana della società comunista come “la
società in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione
necessaria per il libero sviluppo di tutti”. 20 Alla base di questo
egalitarismo sta l’intuizione del senso relativo e non autonomo
delle ascrizioni di valore e merito agli individui in una comunità.
La base intuitiva in questione è quella che Marx menziona
quando dice che il superamento del capitalismo deve condurre
ad una società dove vige il principio, riecheggiante gli Atti degli
Apostoli (At 4, 35): “da ciascuno secondo le sue capacità, a
ciascuno secondo i suoi bisogni”. 21 Nella visione S 0 questo
principio di distribuzione ideale si radica nella consapevolezza
che ogni virtù, eccellenza o grandezza individuale sussistono in
ultima istanza soltanto per una comunità di riconoscitori.
L’intelligenza del genio, la velocità dell’atleta o il coraggio
dell’eroe non sono attributi assoluti, ma qualità
comparativamente superiori all’interno della comunità di
riferimento (al limite, la comunità umana in quanto tale). Non si
valuta la velocità di un atleta in rapporto ad un levriero o
l’intelligenza di uno scacchista in rapporto ad un computer: la
qualità è apprezzata nella misura in cui inerisce alla comunità
umana. Ed in un sistema di scambi economici, le qualità
comparativamente migliori possono (idealmente) ottenere
riconoscimenti maggiori, ed eventualmente maggiori onori,
poteri o ricchezze. La coscienza di questa origine
necessariamente relazionale della valorizzazione non giustifica
un artificiale livellamento delle qualità, ma esige la
preservazione di una coscienza di dipendenza (una
responsabilità) verso gli altri di chi ha comparativamente una
collocazione migliore. Questo è un tema classico, che percorre
l’intera storia dell’umanità: i comparativamente ‘migliori’
20
„An die Stelle der alten bürgerlichen Gesellschaft mit ihren Klassen und
Klassengegensätzen tritt eine Assoziation, worin die freie Entwicklung eines
jeden die Bedingung für die freie Entwicklung aller ist.“ Marx K., Manifest
der kommunistischen Partei, in MEGA, sez. I, vol. 6, p. 546.
21
„[E]rst dann kann der enge bürgerliche Rechtshorizont ganz überschritten
werden und die Gesellschaft auf ihre Fahne schreiben: Jeder nach seinen
Fähigkeiten, jedem nach seinen Bedürfnissen! “ - Marx K., Kritik der
Gothaer Programm, in MEW, vol. 19, p. 21.
220

(άριστοι) finiscono ricorrentemente per ritenersi estranei al


destino dei rimanenti membri della propria comunità. La
coscienza dell’illegittimità di questa collocazione è la base
dell’egalitarismo del riconoscimento che Marx supporta. La
comunità dei potenziali riconoscitori è ciò che giustifica le
differenze nel riconoscimento ed eventuali distribuzioni
differenziali di poteri o beni. Perciò tali distribuzioni devono
rimanere subordinate alle sorti e volontà della comunità dei
riconoscitori. Questa concezione di eguaglianza ha conseguenze
dirette sul senso e i limiti del principio di proprietà.
Il tema della fondazione dei diritti di proprietà è tema
ampiamente dibattuto, che qui non possiamo trattare
estesamente, 22 tuttavia una breve nota, alla luce di quanto
appena detto, è opportuna. Il diritto di proprietà, per quanto
possa radicarsi in impulsi primari di dominio, possesso o
affezione, non è da questi legittimato. Il diritto di proprietà è una
sanzione pubblica in cui la collettività ritiene di tutelare
l’inviolabilità del possesso di alcuni beni rispetto a pretese altrui
di appropriazione o uso. Per quale ragione la collettività ritiene
opportuno stabilire tale diritto? In ultima istanza perché
tutelando il diritto di proprietà si riducono i conflitti e si
incentivano gli investimenti. In assenza di una tutela del diritto
di proprietà la possibilità del conflitto tra rivendicazioni
contraddittorie è ubiqua e c’è ridotto interesse ad investire
lavoro e/o risorse in quanto il destino del processo di
investimento ed il godimento dei suoi frutti sono incerti. Tutte le
grandi operazioni storiche di ‘privatizzazione’, come il caso
emblematico delle enclosures inglesi, sono state motivate come
razionalizzazioni che avrebbero consentito agli uomini di buona
volontà di investire sulle loro proprietà migliorandone
l’efficienza economica ed arricchendo così la comunità stessa.

22
Sul tema del diritto di proprietà si possono vedere utilmente : Munzer S., A
Theory of Property, Cambridge University Press, 1990; Becker L. C.,
Property Rights. Philosophical Foundations, London, Routledge & Kegan
Paul, 1977; Carter A., The Philosophical Foundations of Property Rights,
Harvester Wheatsheaf, London 1989. Per una versione più estesa delle
argomentazioni critiche qui sopra si veda Zhok A., Lo spirito del denaro e la
liquidazione del mondo, Milano, Jaca Book, 2006, p. 268 sgg.
221

Va qui osservato che la dipendenza della proprietà dalla


sanzione collettiva è solo un fatto sociale e come fatto non
consente di per sé che se ne deducano imperativi morali (“no
ought from is”). Ma tale fatto inserito nella cornice morale
dell’egalitarismo del riconoscimento implica che la proprietà sia
giustificata solo nella misura in cui la sua tutela plausibilmente
migliori le prospettive di benessere della comunità tutta che quel
diritto sancisce. Il mio diritto alla mia proprietà non è fondato in
me, ma dipende moralmente da una sanzione sociale che deve
consentire alle mie qualità di estrinsecarsi (“da ciascuno
secondo le sue capacità”) in vista di un beneficio comune (“a
ciascuno secondo i suoi bisogni”).

II.4. Moralità laica

Il quarto ed ultimo tratto che possiamo porre come


caratterizzante di S 0 è una specifica dimensione di moralità
individuale. Particolari elaborazioni filosofiche a parte, tutte le
forme storiche di moralità implicano almeno una forma di
rispetto per l’altro e la capacità di contenere le pulsioni
immediate di autoappagamento. Spesso questi tratti sono
giustificati da una qualche visione teologica, ma nella visione S 0
tale giustificazione avviene su di un piano prettamente laico,
che, pur non esigendo una visione atea, può fare a meno di
giustificare le ragioni morali con posizioni teistiche. In
quest’ottica l’agente concepisce il dispiegarsi della sensatezza
delle azioni sul piano della storia, vista come dimensione
intersoggettiva ed intergenerazionale. Tale prospettiva può
motivare sia il differimento dell’appagamento egotistico (in
vista di ‘alter ego’ a venire), sia il sostegno ad una qualche
versione della ‘regola aurea’ della reciprocità. In ciò la visione
S 0 si colloca in una tradizione morale classica, per certi versi
affine alle visioni greco-romane antecedenti all’imporsi del
cristianesimo. Tali istanze di moralità personale traggono
specifica forza dall’egalitarismo del riconoscimento di cui sopra,
che consente di concepire un’attribuzione di valore a ciò che va
al di là di quanto ciascuno potrà far proprio durante la sua
esistenza: i confini della mia vita non sono i confini del senso
222

della mia vita, e ciò senza dover ‘aggirare’ i confini della mia
vita con assunti teologici come l’immortalità dell’anima.
Questi tratti morali che caratterizzano la matrice della
sinistra storica si stagliano in violento contrasto non tanto con il
conservatorismo tradizionale, quanto con la visione liberista
della cosiddetta Nuova Destra. Tale visione ha ipostatizzato una
versione di comodo della ‘mano invisibile’ di Adam Smith
facendone un formula di autoassoluzione morale. L’idea di
effetto economico preterintenzionale, secondo cui non dobbiamo
la nostra cena alla benevolenza del macellaio, ma alla sua cura
del proprio interesse, 23 si è trasformata in una visione in cui la
moralità personale può essere retrocessa a questione privata da
gestire nel foro interiore, irrilevante per il buon andamento di
economia e società.
Si noti infine come l’alleanza strumentale che la sinistra
storica ha talora intrattenuto con il naturalismo positivistico,
abbia condotto a volte ad una situazione paradossale, dove una
morale in prima persona, rigorosa al limite del moralismo,
doveva convivere con una morale in terza persona ‘lassista’ o
‘buonista’. Infatti, l’idea positivista di una riconduzione
dell’azione umana a determinazioni causali di origine
ambientale ha talvolta prodotto una visione indulgente nei
giudizi morali su terzi, di cui si poteva rivendicare
l’irresponsabilità.
Questa prospettiva tuttavia è ingiustificabile in una
cornice teorica che supporti l’egalitarismo del riconoscimento, e
questo a prescindere da una soluzione del tema del libero
arbitrio. Infatti, ammettiamo senz’altro che condizioni sociali ed
educative abbiano influenza sulla tenuta morale dei
comportamenti umani. La domanda cui dobbiamo rispondere sul
piano morale è la seguente: secondo quali criteri vorrebbe
ciascuno essere giudicato (come ego anonimo, avvolto da un

23
“It is not from the benevolence of the butcher, the brewer, or the baker, that
we can expect our dinner, but from their regard to their own interest.” (Smith,
An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, Libro I,
Cap. II, § 2) – In realtà, le tesi smithiane a supporto del funzionamento della
‘mano invisibile’ hanno un senso molto più circoscritto e qualificato di quelle
neoliberiste.
223

rawlsiano velo di ignoranza circa la possibilità di essere mai tra i


giudicati)? Se un soggetto volesse accogliere l’idea
deresponsabilizzante di un determinismo dell’esperienza passata
dovrebbe anche accettare l’idea che le proprie azioni sono
semplicemente fatti tra altri fatti. Dunque le sue azioni non
possono essere mai sensatamente sottoposte a riconoscimento,
positivo o negativo che sia. Ma in una comunità definita dalla
potenzialità di mutuo riconoscimento, tale soggetto si pone per
ciò stesso come estraneo al consesso umano. Ciò implica che il
prezzo da pagare per l’esenzione da ogni possibile colpa morale
è la possibilità di essere trattato dalla comunità di appartenenza
come un non-soggetto, che non può rivendicare per sé dignità o
diritti. Per una visione S 0 tale opzione è comunque inaccettabile:
nessun membro della società può essere definito al di fuori della
potenzialità del riconoscimento, e per ciò stesso, salvo anomalie,
nessun uomo va esentato da imputabilità morale. Si noti che
questa posizione non vieta di operare politicamente per ridurre
tratti ‘criminogeni’ propri di certi ambienti e di certe dinamiche
sociali, giacché l’assunto di imputabilità morale non esige che il
soggetto sia esente da influenze materiali: basta che esse non
siano compiutamente determinanti. 24

Ora, i quattro aspetti qui sopra brevemente tratteggiati


caratterizzano a nostro avviso un nocciolo filosofico-morale
fondativo di ciò che è stato il percorso della sinistra storica, un
nocciolo da cui non ci si può discostare senza perdita di identità.
Tuttavia, la natura stessa dei tratti in questione esige che per
essere pienamente qualificati essi debbano applicarsi ad un
oggetto storico specifico. Questo oggetto è ciò che Marx
descrive come il funzionamento del capitale, che illustreremo
brevemente. Per farlo tuttavia ci discosteremo dal linguaggio
marxiano, logorato da un prolungato abuso e che potrebbe
perciò coprire più che svelare l’oggetto della descrizione.

24
Per una discussione più ampia di questa tesi si veda Zhok A., Il concetto di
valore: dall’etica all’economia, Mimesis, Milano, 2001, pp. 107-119.
224

III. La pratica monetaria come catalizzatore dello


scambio competitivo

III.1. La natura dello scambio competitivo

Il capitalismo è la versione sistemica, maturata a partire


dal XVIII secolo, di un’operazione antropologicamente diffusa
in tempi e luoghi diversi: lo scambio competitivo. La nozione di
scambio in generale ricomprende molte forme di interazione,
incluse le transazioni di dono, che hanno una dinamica
radicalmente difforme dallo scambio competitivo. Il carattere
‘competitivo’ dello scambio competitivo è rappresentato dal
fatto che ciascun transattore cerca di ottimizzare il profitto della
sua transazione: non si tratta semplicemente di ottenere un
beneficio dallo scambio, ma di ottenere il massimo beneficio
che l’accordo con la controparte consente. Questo punto può
essere colto reinterpretando la nozione microeconomica di
‘surplus del consumatore’, per cui ogni transazione volontaria
produce per definizione un guadagno (surplus) per ciascuno dei
transattori, giacché ciascuno accetta volontariamente la
transazione solo se può uscirne meglio di come ci è entrato. Il
‘surplus’ è la differenza tra ciò che il transattore di fatto
percepisce e il livello al di sotto del quale non acconsentirebbe
più alla transazione. Ciò significa che all’interno di ogni
transazione volontaria c’è, per ciascun transattore, un’escursione
tra il ricavo minimo che la rende accettabile ed un massimo
ricavo possibile, determinato dal ricavo minimo accettabile per
la controparte.
Dalla constatazione che ogni scambio volontario genera
un vantaggio (soggettivamente percepito) per ciascun transattore
sembra di poter concludere prima facie che ogni estensione ed
intensificazione degli scambi volontari debba aumentare i
benefici dell’insieme dei transattori. Secondo un modello
utilitarista: quante più transazioni in un gruppo, tante più sono le
unità di ‘utilità’ (piacere, soddisfazione) che si generano in quel
gruppo (mercato, società).
Sotto queste premesse, il ruolo della pratica monetaria si
chiarisce: essa funge da catalizzatore dello scambio competitivo.
225

Il denaro, in particolare attraverso le sue funzioni di medio di


scambio, riserva di valore, ed unità di misura del valore,
consente di estendere ed intensificare le transazioni volontarie
rispetto alla forma primitiva del baratto in natura. 25
È importante notare come lo scambio, anche nella sua
forma competitiva, sia un tratto antropologico profondo, che
spontaneamente emerge e ricerca forme che lo facilitino. In
questo senso la nascita del denaro non è una singolarità storica,
ma soddisfa esigenze radicate e tende a ricostituirsi ogni qual
volta, per qualche ragione, esso venga meno (i detenuti,
deprivati in carcere dell’uso del denaro, ricreano una valuta
locale in sigarette o simili).
Finora siamo di fronte ad un panorama panglossiano,
dove la pratica monetaria farebbe da acceleratore della
produzione di felicità in senso utilitarista (unità di
‘soddisfazione’ soggettiva). Non tutto però va come ci si
potrebbe augurare. Schematicamente, possiamo ricordare due
problemi che ineriscono nell’estensione ed intensificazione degli
scambi competitivi; li chiameremo rispettivamente 1) il
problema dell’esclusione e 2) il problema della miopia del
transattore.

III.1.1. Il problema dell’esclusione. Supponiamo di


partire da un sistema ideale dove beni e capacità sono distribuiti
in modo perfettamente uniforme tra tutti i transattori. La
reiterazione delle transazioni genera naturalmente alcune
divergenze di profitto e dunque di disponibilità di ricchezza: non
tutti traggono identico profitto dalle transazioni cui partecipano.
Ora, però, ogni disparità di ricchezza produce a sua volta una
disparità di ‘potere contrattuale’: chi ha di più ha
tendenzialmente minor urgenza di trarre benefici da ulteriori
transazioni ed è perciò nelle condizioni di imporre a chi ha più
urgenza condizioni comparativamente più favorevoli a sé. In
linea di principio e tendenzialmente ogni disparità di ricchezza
crea disparità di potere contrattuale che a loro volta generano
ulteriori disparità di ricchezza. Questa tendenza alla
25
Per un esame della genesi storica, delle funzioni e dello sviluppo della
pratica monetaria si veda Zhok (2006), pp. 33-37; 173-312.
226

divaricazione nelle condizioni economiche dei transattori


attraverso la reiterazione sistematica delle transazioni è inscritta
in ogni sistema di scambio competitivo. Di primo acchito,
questa creazione di disparità si potrebbe ritenere un problema
trascurabile, nella misura in cui, comunque, finché si tratta di
scambi volontari ogni scambio accettato volontariamente porta
per definizione qualche vantaggio a ciascuno dei contraenti.
Ergo, si potrebbe dire che, per quanto gli scambi possano
generare disparità, per definizione essi comunque generano una
crescita dell’utilità complessiva.
In questo ragionamento c’è tuttavia un punto cieco: non
ogni riduzione dei margini di guadagno è possibile, anche
quando accettare la transazione sia vantaggioso rispetto a non
parteciparvi. Siccome, al di sotto di una certa soglia, i bisogni di
ciascun transattore sono inelastici, un transattore si può trovare
nella condizione in cui ogni esito sia per lui perdente: l’agente
economico può raggiungere un livello di potere contrattuale
troppo basso per consentirgli di partecipare al gioco delle
transazioni. In parole povere, il soggetto non ha più abbastanza
da offrire per ricevere in cambio di che sostentarsi e dunque
viene escluso dal sistema delle transazioni (sottoccupazione,
disoccupazione, emarginazione). Ciò significa che in un sistema
di scambi competitivi sistematici vi è la tendenza continua a
generare degli esclusi dal gioco economico, i quali, in assenza di
correttivi estranei al sistema degli scambi, non hanno altra
scelta che soccombere o uscire dal consesso sociale in varie
forme (barbonismo, criminalità, ecc.).

III.1.2. Il problema della miopia del transattore. Il


secondo punto problematico nel sistema degli scambi
competitivi è legato alla difficoltà di concepire lo scambio
volontario, anche nelle sue condizioni migliori, come un atto in
cui le reali poste in gioco possano essere consapevolmente
oggetto di transazione. In altri termini, per valutare il sistema
delle transazioni come collettivamente razionale dovremmo
poter assumere che i benefici previsti dai singoli transattori
possano essere senz’altro sommati (come nell’utilitarismo di
Bentham) in un beneficio complessivo. Ma, anche assumendo
227

facoltà di giudizio e disponibilità informative ottimali in tutti i


transattori, ciò non è mai realmente possibile. Esiste infatti una
divergenza strutturale tra gli elementi di scelta che possono
essere a disposizione dei singoli transattori in ciascuna
transazione e i risultati dell’insieme delle transazioni. Questo
tema è frequentemente trattato in economia sotto la voce di
‘esternalità’, ma ha in effetti una portata molto più strutturale di
quanto si ritenga generalmente. 26
In sostanza il punto è che l’esito di una transazione
attuale, e a maggior ragione dell’insieme delle transazioni che
stanno occorrendo simultaneamente alla mia, può produrre un
mutamento delle condizioni che motivano razionalmente la mia
scelta attuale. In pratica, a causa delle scelte stesse che vengono
effettuate, il sistema di condizioni in ragione di cui noi
elaboriamo le nostre scelte viene falsificato. In ciò rientrano i
casi classici di esternalità, cioè di effetti involontari di scelte di
mercato che ricadono su terzi: si devia un fiume per alimentare
una centrale elettrica e ciò ha l’effetto involontario di ridurre la
produzione agricola di una regione a valle.
In tali casi si ritiene che, almeno in linea di principio, sia
sempre possibile ‘internalizzare’ l’esternalità: ci può essere una
libera transazione tra le istanze della produzione elettrica e di
quella agricola e chi ha maggiori margini di guadagno può
compensare l’altro. 27 Il problema tuttavia ha una valenza molto
più generale ed irriducibile. Di fatto nessun singolo transattore
ha il dominio sugli effetti preterintenzionali cui, con la sua
decisione attuale, sta contribuendo. Ciascun piccolo azionista
può agire prudentemente vendendo azioni della cui solidità non
è certo, l’insieme dei piccoli azionisti incerti possono contagiarsi
reciprocamente minando la solidità di azioni sane. Oppure:
ciascun automobilista acquista un’automobile per andare più
rapidamente rispetto ai mezzi pubblici; l’insieme degli
automobilisti produce condizioni permanenti di traffico che

26
Il lavoro migliore per intendere in modo non restrittivo il senso strutturale
delle ‘esternalità’ è Hirsch F. Social Limits to Growth, Routledge, 1977 [tr.
it.: I limiti sociali allo sviluppo, Bompiani, 2001].
27
Coase R.H., “The Problem of Social Cost”, in Journal of Law and
Economics, 3, 1960, pp. 1-44.
228

rallentano sia le automobili che i mezzi pubblici. Questo tipo di


effetti preterintenzionali non è episodico, ma sistematico e fa sì
che sia impossibile assumere che il margine di beneficio (utilità)
che ciascuno si attende dalla propria individuale transazione sia
semplicemente sommabile con l’utilità attesa dagli altri.
Il meccanismo di eterogenesi dei fini è ubiquo nella
storia, economica e non, ed ha implicazioni molto più capillari
di quanto si creda generalmente. Nel caso specifico del sistema
degli scambi generalizzati, almeno due ulteriori istanze
macroscopiche vanno ricordate.

III.1.2.1 Come noto, un’infinità di beni e funzioni che


nascono storicamente come miglioramenti più o meno effimeri
per le élite divengono nel tempo fattori produttivi impliciti, di
cui diviene impossibile fare a meno. Questo fattore è spesso
menzionato con compiacimento da autori liberali come segno
del carattere progressista del capitalismo: “Il lavoratore
americano medio” – scriveva von Mises nel dopoguerra – “gode
oggi di amenità per le quali Creso, Crasso, i Medici, e Luigi
XIV lo avrebbero invidiato”. 28 Indubbiamente Carlo Magno non
disponeva di beni che oggi un lavoratore medio può permettersi
come l’uso di veicoli a motore, il telefono, servizi odontoiatrici
o educativi (era sostanzialmente analfabeta). Ma è anche vero
che oggi un cittadino normale che non disponesse di nessuno di
quei beni, lungi dall’aspirare alla corona, sarebbe plausibilmente
un emarginato, finendo per essere escluso dal mercato del lavoro
e, in assenza di correttivi, dalla società tout court. Non si tratta
di negare il miglioramento connesso a molti progressi
tecnologici e sociali, ma si tratta di notare come essi tendano a
trasformarsi in necessità richieste per essere parte del consesso
sociale e produttivo, che perdono perciò il loro carattere di lusso
e divengono ‘beni difensivi’, cioè beni necessari per difendersi
da problemi che precedentemente non sussistevano. Ogni bene
difensivo indispensabile è qualcosa che aumenta i bisogni da
appagare per non essere esclusi dal sistema e dunque aumenta lo
spazio delle condizioni che possono condurre all’uscita dal
28
Mises L. von, Human Action. A Treatise in Economics, New Haven, Yale
University Press 1949, p. 265.
229

sistema (l’emarginazione di chi non ha abbastanza da offrire per


ottenere in cambio abbastanza da vivere).

III.1.2.2 La seconda dinamica preterintenzionale che di


solito viene trascurata dalle analisi economiche riguarda
l’ordinamento dei rapporti intersoggettivi.
In primo luogo, una dinamica competitiva in cui sia in
gioco la possibilità dell’esclusione dal consesso sociale è un tipo
di gioco in cui nessuno può permettersi di perdere e che produce
di per sé meccanismi in cui cooperazione e compassione
vengono subordinati al successo competitivo: nei sistemi dove
domina lo scambio competitivo le persone che svolgono attività
affini, lungi dal farne viatico per la scoperta di affinità umane,
tendono a temere chi abbia talenti ed attività ad essi prossimi.
In secondo luogo, il successo di mercato, richiesto in
qualche misura a tutti, non è garante di alcuna virtù distinta dal
successo stesso. Anche nel caso idealmente virtuoso del
‘vincitore’ in un mercato perfetto (il self made man), ciò che
determina il successo di mercato di un bene o servizio non è la
significatività del suo contributo alla comunità, ma
l’accessibilità del prodotto ad un grande numero di fruitori.
Scoperte, creazioni ed invenzioni che diano contributi
riconosciuti come profondi e importanti, ma che non siano
facilmente fruibili da una moltitudine, sono fallimenti sul piano
del mercato (e ciò viene fatto talora passare per un tratto
‘democratico’ del mercato). Ciò comporta una divergenza
fondamentale tra la direzione assiologica verso cui spinge il
meccanismo di mercato e gli indirizzi di valore che gli ordinari
giudizi sociali auspicano.
In terzo luogo, come notavamo in precedenza, il fattore
decisivo che predice le possibilità di successo economico non è
il possesso di una specifica virtù soggettiva, ma il possesso di
una pregressa posizione di forza economica: il miglior predittore
di successo economico è la disponibilità di un’ampia base
finanziaria già disponibile. E questo rimane vero, anche laddove
tale base sia, eventualmente, di origine del tutto estranea al
merito (ereditaria, illegale, fortuita, ecc.).
230

Queste dinamiche, ed altre simili che potrebbero essere


ricordate, 29 contribuiscono a delineare una situazione, nota, ma
spesso rimossa, tale per cui il funzionamento del sistema di
scambio generalizzato, se lasciato al proprio sviluppo spontaneo,
tende ad erodere costantemente la dimensione del valore
personale (il valore che fonda il mutuo riconoscimento).
In sintesi, il sistema dello scambio competitivo
generalizzato, diversamente da quanto promette prima facie,
comporta processi preterintenzionali di erosione assiologica, di
esclusione e destabilizzazione sociale, e anche di logoramento
ambientale (di cui non abbiamo parlato). Ciò non significa che
l’evoluzione delle dinamiche di capitale siano sempre
‘malvagie’. Non è così, come Marx per primo ebbe modo di
riconoscere: il sistema degli scambi competitivi è un potente
modernizzatore e produce società più plurali e dinamiche
rispetto alle società tradizionali. Ciò è stato oggetto di
apprezzamento nel pensiero della sinistra, mentre è stato
contestato dal conservatorismo classico alla Burke. Il problema
di fondo tuttavia sta nel fatto che gli aspetti degenerativi, che
sovente albergano nella dinamica spontanea del capitale, non
sono sanati né corretti dal sistema degli scambi stesso. La tesi
della capacità autocorrettiva del mercato è invece la tesi portante
della visione liberista, che ha fatto gli sforzi più eroici per
sostenere che tale capacità di autocorrezione sia sempre più
efficace di qualunque intervento centralizzato. In verità, la
possibilità di sussistenza di un sistema di mercato integralmente
scevro da un ruolo statale non è mai stata realisticamente
sostenuta: le tesi più radicali convergono nella rivendicazione di
uno ‘stato minimo’, dai contorni abbastanza vaghi da consentire
infinite modulazioni. 30 Lo ‘stato minimo’ è l’Utopia della
destra: pur non essendo mai esistito storicamente esso
rappresenta un ‘desideratum’ cui approssimarsi ‘per quanto

29
Cfr. Zhok (2006), pp. 313 sgg.
30
Il locus classicus nella moderna teoria politica per l’idea di ‘stato minimo’
è Nozick R., Anarchy, State and Utopia (Basic Books, New York 1974) dove
lo stato viene ridotto alla sua funzione di agenzia difensiva a tutela del diritto
di proprietà, funzione plausibilmente coperta da strutture come esercito,
polizia, e magistratura.
231

possibile’. Si tratta di sostituire ‘ovunque possibile’ procedure


centralizzate con procedure di mercato, assumendo che le
seconde siano intrinsecamente più efficienti. Quanto esteso sia
poi questo ‘possibile’ è lasciato alla contesa politica. Questa
natura utopica della destra liberista produce esiti pericolosi, per
intendere i quali dobbiamo gettare un rapido sguardo alla
tendenza espansiva delle funzioni di mercato.

III.2. La dinamica espansiva della pratica monetaria

Come dicevamo, il denaro tende a rinascere dalle sue


ceneri, anche quando viene abolito, in quanto rappresenta un
potente catalizzatore della funzione antropologica di scambio. In
linea di principio ogni bene o servizio che abbia utilità e sia
scarso (cioè abbia fabbisogno superiore alla disponibilità) può
divenire oggetto di transazione, può essere ‘messo sul mercato’.
Ed in verità nella storia dell’umanità ben poche cose si sono
sottratte di volta in volta alla compravendita: è stato possibile
comperare servizi di difesa militare (mercenari), esseri umani
(schiavitù), testimonianze in tribunale (sicofanti), atti pubblici
(es.: le sportulae della Roma imperiale), cariche pubbliche (es.: i
suffragia della Roma imperiale), privilegi fiscali e servizi
giudiziari (es.: i dorophagoi basilees di cui parla Esiodo), ecc.
Nonostante in questi e molti altri casi si siano viste le
conseguenze esiziali di un’estensione illimitata delle pratiche di
compravendita, la tendenza espansiva ad assorbire nel sistema di
vendita sempre ulteriori entità è costitutiva della pratica
monetaria. Il denaro è potere d’acquisto generico, dunque è un
potere che non ha predeterminato in sé a quali oggetti possa
applicarsi, perciò ogni qualvolta vi sia interesse nei confronti di
un bene o servizio è naturale (in assenza di vincoli extra-
economici) essere propensi a farne oggetto di compravendita.
Che poi l’ingresso di certi beni sul piano della compravendita
possa avere effetti preterintenzionali dannosi viene considerato
dai fautori delle capacità autoregolative del mercato come
qualcosa di sanabile con ulteriori atti di compravendita. In
sostanza, se una certa pratica produce involontariamente un
problema, si potrà sempre generare sul mercato un servizio
232

acquistabile che sana quel problema (bene difensivo). Ora, sul


piano logico questo ragionamento dimostra solo come sia
concepibile che il mercato offra correttivi adeguati, non
dimostra né che sia davvero in grado di farlo, né che i costi di
produrre il problema per poi risolverlo siano inferiori a quelli di
impedire a monte al problema di generarsi. La letteratura sui
fallimenti del mercato (market failures) è amplissima e non è
opportuno soffermarcisi, tuttavia è interessante segnalare il
modo in cui la tendenza espansiva della pratica monetaria sia
all’origine di quello specifico fallimento del mercato in cui ora
ci ritroviamo.
Ciò che chiamiamo ‘finanza’ è semplicemente l’insieme
degli strumenti che sviluppa le funzioni del denaro al di là della
sua dimensione primaria di valuta corrente. La finanza crea
nuove forme di riserva del valore (risparmio) e di investimento.
In questo senso la finanza non è più facilmente abolibile di
quanto lo sia il denaro in quanto tale. Come nel gioco dello
scambio competitivo l’utilizzo del denaro crea un livello di
efficienza superiore rispetto allo scambio pre-monetario, così
l’utilizzo di strumenti finanziari crea un livello di efficienza
economica superiore alla pratica monetaria elementare.
L’utilizzo di questi strumenti garantisce un’accelerazione nel
dispiegarsi dei processi transattivi, che è ciò che chiamiamo
crescita. È importante notare che ogni qualvolta un bene o
servizio che non era sul mercato diviene oggetto di
compravendita, ciò viene letto come crescita economica. Se la
nonna tiene i nipotini gratuitamente, ciò pertiene ad
un’economia del dono econometricamente irrilevante, ma nel
momento in cui la nonna venisse pagata per tenere i nipotini,
questo verrebbe computato come crescita economica.
Ora, ciò che è importante notare è come il nesso tra
crescita economica ed uso del denaro sia a doppio taglio. Da un
lato, il denaro e la finanza consentono accumulazioni e
concentrazioni di risorse che fungono da acceleratori della
crescita, cioè della disponibilità complessiva di potere
d’acquisto. Dall’altro, e simmetricamente, la crescita è
necessaria affinché sia ragionevole investire risorse (che è il
cuore della finanza). Se immaginiamo un mondo in cui per
233

decreto divino si potesse essere certi che non vi sarà più crescita,
per ciò stesso l’intero orizzonte degli investimenti tenderebbe ad
estinguersi, giacché non ci sarebbe ragione di attendersi che il
denaro impiegato abbia una rendita diversa da quello meramente
conservato. Se poi addirittura un secondo decreto divino
imponesse la decrescita, allora anche il senso del risparmio (la
funzione di riserva di valore) ne risulterebbe minacciato: questo
è ciò che succede nel caso delle grandi inflazioni, in cui nessuno
vuole detenere a lungo moneta in quanto la promessa di acquisto
futuro che essa fa si affievolisce progressivamente.
Questo ha una semplice implicazione: il sistema dello
scambio competitivo non soltanto tende ad autoalimentarsi in
quanto si presenta ai transattori come il modo economicamente
efficiente di risolvere nuovi problemi, ma esercita una costante
pressione affinché la crescita degli scambi avvenga, perché,
come una bicicletta, esso sta in piedi solo fino a quando avanza.
Negli sviluppi che hanno portato alla presente crisi
finanziaria troviamo esemplificati tutti i tratti caratterizzanti
della pratica monetaria che abbiamo menzionato. L’origine della
crisi, come noto, sta negli squilibri generati dal sistema
finanziario USA. Qui, in primo luogo, si sono visti gli effetti
della pressione inderogabile verso la crescita. Lo sfondo in cui
ciò avviene è quello di un’economia dove, a partire dalla fine
degli anni ’70, il potere d’acquisto della classe media rimane
sostanzialmente fermo a fronte di aumenti enormi nei redditi del
10% più ricco della popolazione. 31 Questo tipo di incremento
nella forbice dei redditi produce tipicamente un doppio effetto: i
consumi della maggioranza tendono a stagnare, mentre la
minoranza benestante ha un crescente surplus di risparmio da
investire. Ma la possibilità di investire esige crescita e perché
crescita vi sia devono esserci consumi diffusi. Per uscire da
questo cortocircuito, senza toccare la forbice reddituale, la
soluzione è stata, da un lato di facilitare il credito al consumo e
dall’altro di consentire investimenti ad alto rischio e bassa
garanzia (come gli oramai celebri mutui subprime). A questa

31
Phillips K., Wealth and Democracy, Broadway Books, New York 2002, p.
111 e 153. Cfr. Greider W., One World, Ready or Not, Penguin Press,
London, 1997, pp. 74-5.
234

dinamica se ne deve aggiungere una seconda: per evitare freni


alla crescita sono state esercitate sul piano politico potenti
pressioni per allentare regolamentazioni finanziarie esistenti o
per bloccare l’introduzione di nuove regole, necessarie per far
fronte all’innovazione finanziaria. Questa tendenza è motivata
dal fatto che ogni ostacolo al libero sviluppo delle transazioni è
un ostacolo nella competizione con concorrenti meno disposti
alla regolazione. 32 Di fatto, ogni regolamentazione ed intervento
statale sottrae al mercato un’area in cui potrebbe espandersi e
quindi opera, in maggiore o minore misura, come un freno alla
crescita, il che in un sistema di scambio competitivo, dove
vantaggi relativi possono essere determinanti, rappresenta un
problema. Anche se a lungo termine tali freni possono impedire
ai sistemi di schiantarsi, ciò non toglie che a breve termine essi
si presentino solo come ostacoli alla crescita. Ed è al breve
termine che guardano i mercati e quella politica che è da essi
condizionata.
In questo contesto, si è assistito a partire dalla seconda
metà degli anni 1990 ad una crescita di dimensioni e velocità del
sistema finanziario, e di un simultaneo incremento di turbolenze
e squilibri, secondo la nota dinamica delle bolle finanziarie. 33
All’aumento dei rischi il sistema finanziario ha reagito, nella
logica dei ‘beni difensivi’, introducendo strumenti di cosiddetta
‘finanza derivata’ come swap o futures, cioè contratti che
consentono di assicurarsi rispetto ad incertezze del mercato. Ma
a loro volta tali ‘assicurazioni’, in quanto titoli, sono beni che
possono venire comprati, venduti, scomposti in parti da vendere
32
Vedi Krugman P., The Return of Depression Economics and the Crisis of
2008, Penguin Books, London 2008, pp. 162 sgg. e Onado M., I nodi al
pettine. La crisi finanziaria e le regole non scritte, Bari, Laterza 2009, pp. 18
sgg.
33
La dinamica delle bolle finanziarie è quella che Keynes chiamava del
‘beauty contest’, del concorso di bellezza dove vince chi indovina quale
concorrente gli altri giudicheranno essere più bella. Sul piano finanziario, la
metafora significa che è controproducente soffermarsi a valutare le
potenzialità reali di un’azienda, ma è solo essenziale intuire quali saranno i
giudizi degli altri probabili acquirenti di quel titolo. Questa dinamica genera
fatalmente uno scollamento tra economia reale e finanziaria, consentendo
bolle speculative, dove il mercato è euforico e si scommette sulla possibilità
di trovare un successivo compratore disposto a pagare di più.
235

a diversi acquirenti, ecc. (securitisation). Queste operazioni


hanno aumentato esponenzialmente le dimensioni e la
complessità del sistema, che è divenuto sempre meno
trasparente e controllabile. Ad un certo punto, inevitabilmente,
lo scollamento tra economia reale e rendite del capitale
finanziario è apparso eccessivo per alimentare prospettive di
crescita ulteriori. Questa è la situazione presentatasi alla fine del
2007. Ancora nel 2008 il valore totale della finanza diretta e
derivata rappresentava approssimativamente 14 volte il PIL
mondiale. 34 Naturalmente quando le aspettative di crescita
crollano, il mercato entra in crisi, il credito si contrae, le aziende
riducono gli investimenti o falliscono, ed i consumi di riducono,
il che peggiora ulteriormente le aspettative.

IV. La sinistra come risposta storica e come ideale


normativo

Giunti a questo punto proviamo a ritornare per un


momento alle obiezioni iniziali che Giddens muoveva alla
sinistra storica. Ad alcune delle obiezioni di Giddens le pagine
precedenti hanno già dato implicitamente risposta. Ad altre,
come le critiche allo stato sociale, riteniamo di non dover dare
qui risposta, perché non mettono davvero in questione l’identità
politica della sinistra. Ci vogliamo invece soffermare
criticamente solo su tre delle obiezioni alla sinistra storica che
caratterizzano l’approccio di Giddens, quelle che ci sembrano
più generali ed influenti:
1) l’aver promosso l’idea di un controllo centralizzato,
cibernetico alla produzione e della società.
2) l’aver proposto una visione illuminista, prometeica, che
avrebbe contribuito alla destabilizzazione della società ed al
logoramento degli ordinamenti fiduciari tradizionali.
3) l’aver affidato dogmaticamente il ruolo di protagonista
emancipatore della storia al proletariato, nella cornice di una

34
Blundell-Wignall A., Atkinson P., “Global SIFIs, Derivatives and
Financial Stability”, in OECD Journal – Financial Market Trends, n. 1, 2011.
236

filosofia della storia messianica, che annunciava il necessario


avvento della palingenesi dell’uomo.

Ad 1) Che la visione S 0 esiga una gestione integralmente


centralizzata dell’economia e della società è senz’altro falso. Ciò
che è richiesto è il controllo democratico sull’economia. Ciò
implica almeno tre cose diverse: una regolamentazione delle
pratiche economiche, un contenimento delle loro tendenze
intrinseche (in particolare l’espansione indefinita e l’esclusione
dei transattori ‘perdenti’), ed una correzione degli esiti
preterintenzionali socialmente sgraditi. Qui il punto inderogabile
è la natura univoca del controllo: la sovranità democratica e le
sue istituzioni devono controllare e non essere controllati dai
meccanismi di mercato. Non c’è alcuno spazio di mediazione tra
il controllo da parte del mercato e quello da parte delle
istituzioni democratiche: se il mercato può entrare da qualche
pertugio nel controllo delle istituzioni democratiche (come nel
ruolo dei finanziamenti privati ai partiti in occasione delle
elezioni) si può stare certi che esso troverà il modo di espandere
la propria influenza in modo via via incontrollabile. La
questione qui non ha niente a che vedere con il problema della
cosiddetta ‘economia mista’. Ogni ordinamento economico della
storia dell’umanità è stata un’economia mista, nel senso che
tanto il ‘mercato’ (scambi competitivi individuali) che lo ‘stato’
hanno giocato un ruolo. In alcuni casi, dall’antico Egitto
all’Unione Sovietica, la dimensione del libero mercato è stata
marginalizzata, senza però mai scomparire. Il controllo non
equivale alla sostituzione della pratica dello scambio
competitivo con una pratica distributiva centralizzata, né
equivale ad una sostituzione della produzione privata basata
sulla domanda con una produzione pianificata. Il punto chiave
sta nella sottrazione del funzionamento delle dinamiche
democratiche, politiche nel senso più ampio, all’influenza dei
meccanismi di mercato. Ciò implica che, in linea di principio, il
ricorso al denaro non debba essere fattore rilevante né per la
conquista del potere politico, né per la formazione delle
coscienze civili, né per la partecipazione alla vita pubblica.
L’obiettivo qui è un isolamento della sfera del politico (nel
237

senso delle ‘sfere di giustizia’ di Walzer) dalla sfera


dell’economico: il potere politico non deve potersi trasformare
in disponibilità economica, il potere economico non deve potersi
trasformare in influenza politica.

Ad 2) Che la sinistra storica, sullo stesso piano del


liberismo, abbia alimentato la disgregazione dei legami sociali
sembra singolarmente forzato. È vero che alcune ramificazioni
della sinistra storica hanno accentuato le critiche alla famiglia
patriarcale e alla dimensione pregiudiziale di alcune tradizioni,
soprattutto di ordine religioso. Tuttavia è ben difficile ascrivere
le dinamiche di frammentazione sociale oggi imperanti a tali
rivendicazioni della ragione critica. L’impatto
dell’economicismo liberale è consistito nell’imporre relazioni
competitive capillari, nel promuovere la flessibilizzazione
d’impiego e la mobilità territoriale dei lavoratori,
nell’identificare il cittadino con il consumatore, nell’alimentare
modelli antropologici individualisti, ecc. A fronte di queste
tendenze strutturali le istanze razionaliste ed emancipative della
sinistra tradizionale paiono insignificanti come spinte
all’anomia.
Il senso rivoluzionario del pensiero marxiano non
appartiene ad una dimensione esistenziale ma storica: la
rivoluzione appariva a Marx come la forma in cui il compito
specifico del superamento dell’ordinamento capitalistico poteva
essere realizzato. Ciò ha davvero poco a che fare con il
movimentismo soggettivistico ed umorale che ha alimentato,
soprattutto dopo il 1968, alcune frange minoritarie della sinistra:
per Marx la rivoluzione era giustificata nella misura in cui
rappresentava la soluzione di un problema storico, non come
atteggiamento psicologico di permanente insubordinazione.
In verità la matrice teorica della sinistra, con il suo
ancoramento storico, rappresenta un baluardo contro il carattere
oggettivamente eversivo del neoliberismo, il quale mina
costitutivamente ogni equilibrio tradizionale, istituzionale ed
ambientale. L’obiettivo storico primario della “sinistra
archetipa” è il controllo del sistema degli scambi competitivi,
tendenzialmente onnivoro ed incontinente. In questo senso, pur
238

non condividendo l’idea conservatrice della positività di ogni


preservazione dello status quo, tuttavia la sinistra può
perfettamente porsi come difesa (qualificata) delle istanze della
tradizione e dell’ambiente.

Ad 3) Che l’emancipazione dell’umanità sia stata


affidata al proletariato è un elemento teorico che non appartiene
alla matrice fondativa delle ragioni della sinistra, ma solo alla
strategia politica tratteggiata da Marx. Come tale, si tratta di
un’analisi contingente ed inessenziale. Ciò che è essenziale è il
ruolo non del proletariato, ma del lavoro, contrapposto alla
rendita. Protagonista del superamento del dominio del capitale
non è un ceto specifico, la cui costituzione storica è contingente,
ma sono i lavoratori, nel senso specifico di coloro i quali vivono
del proprio lavoro. 35
Quanto alla filosofia della storia sottesa al progetto della
sinistra storica, vi appartiene sì una dimensione ideale, ma, in
senso proprio, non una dimensione utopica, né messianica. Non
può esserci messianismo in quanto, in uno storicismo immanente
come quello di Marx nessun soggetto può garantire dall’interno
della storia la necessità metafisica di certi sviluppi storici. Ciò
peraltro è univocamente esemplificato dal fatto che né Marx né i
marxisti si siano limitati ad attendere che la necessità storica si
compisse, ma hanno cercato attivamente di portarne alla luce
certi risvolti. E non c’è neppure utopismo, nel senso specifico
che non si è mai trattato di sovraimporre un’immagine ideale al
mondo storico, ma di scoprire dall’interno della storia il suo
senso, con particolare riferimento al problema del superamento
del capitalismo.
Si può tuttavia individuare l’origine di questo
fraintendimento nello specifico carattere di necessità che nella
riflessione marxiana connette struttura economica e
sovrastruttura culturale. Il nesso tra struttura e sovrastruttura,
infinitamente discusso e continuamente frainteso, è un nesso

35
La traduzione di Arbeiterklasse con “classe operaia” è un significativo
infortunio concettuale: il lavoratore (Arbeiter) non è marxianamente solo
l’operaio (Handwerker), anche se Marx riteneva che gli operai proletarizzati
fossero nel suo presente storico la leva per la rivoluzione dei lavoratori.
239

particolare, la cui natura si può ricavare (non senza controversie)


dalle analisi di Marx e di pensatori successivi come Gramsci.
La sovrastruttura ha una dipendenza di tipo necessario
rispetto alla struttura, tuttavia non si tratta di una necessità di
ordine causale. La struttura definisce condizioni di possibilità
perché la sovrastruttura possa emergere, ed in questo senso la
condiziona in modo necessario, ma non la causa. Questo
significa che istanze di ordine culturale dipendono per le
possibilità della loro nascita, diffusione ed impatto da un
sostegno economico, nello stesso senso in cui un pensiero ha
bisogno per nascere e svilupparsi del sostentamento di un corpo
vivente. Tale dipendenza, tuttavia, non essendo di causalità
efficiente, non vieta al prodotto culturale, una volta venuto alla
luce, di dispiegare i suoi effetti sull’ordinamento strutturale da
cui è emerso, così come un pensiero può influire sul corpo
vivente in cui si è manifestato. Quando questo nesso di necessità
non causale viene interpretato in senso causale ne emerge una
visione economicista, da Marx contestata, per cui il prodotto
culturale (il pensiero) finirebbe per essere un mero effetto
epifenomenico dei processi metabolici necessariamente
sottostanti (“l’uomo è quello che mangia”).
Una corretta valutazione del senso della struttura per la
sovrastruttura deve però anche indurre a vedere come l’impatto
e la diffusione di certe idee non siano indipendenti da specifiche
condizioni strutturali. Questa consapevolezza sembra essere
carente in Giddens. Ad esempio, quando questi rivendica la
necessità di “superare il produttivismo”, come atteggiamento
culturale diffuso e nocivo, egli tratta il produttivismo come una
sorta di errore accidentale, un vizio della mente correggibile con
un riorientamento della volontà. Giddens non vede o non vuol
vedere che la resilienza del produttivismo non deriva da virtù
intrinseche al concetto, ma dalla sua funzionalità al carattere
competitivo della produzione rivolta al mercato. Parimenti i
problemi che si oppongono all’implementazione della
“democrazia dialogica” auspicata da Giddens non possono
essere superati con un cambiamento d’atteggiamento
individuale: pensare in questo modo significa aver perduto
contatto con il migliore patrimonio concettuale della sinistra.
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Il senso di promessa implicito nella “sinistra archetipa”


non sta nella previsione di un luogo ideale da raggiungere, ma
nell’apertura storica di nuove possibilità attualmente sbarrate
dalle dinamiche del capitale. È questo il senso in cui Marx parla
del superamento del capitalismo come della fine della
“preistoria dell’umanità”: 36 un inizio, non una fine della storia.
Peraltro, il carattere di realismo storicista della sinistra
archetipa non ne sospende affatto un tratto di idealità
ineludibile, un tratto che si sottrae costitutivamente alla
possibilità di un fallimento in senso meramente empirico. Una
volta identificate le ‘contraddizioni’ implicite nel dominio del
sistema degli scambi competitivi, una moltitudine di indirizzi da
perseguire si presentano all’analisi storica e politica. In alcuni
casi le prospettive per un’implementazione fattiva di tali
indirizzi sono di una complessità disperante e la visione di un
preciso percorso destinato al successo, indisponibile. Ciò
rimanda ad una dimensione etica, necessariamente implicita
nella prospettiva aperta dalla sinistra archetipa: che il percorso
operativo per condurre a certi soluzioni appaia arduo o
scoraggiante non comporta alcuna invalidazione della necessità
etica di quelle soluzioni. La differenza con una prospettiva
utopistica è però netta: qui non si tratta di desiderare la
realizzazione di uno stato di cose meramente immaginato, ma di
desiderare il superamento specifico dei problemi generati da uno
stato di cose reale. Con un esempio che abbiamo davanti agli
occhi: in un’ottica coerente con la prospettiva S 0 un obiettivo
come lo smantellamento di tutte le istituzioni finanziare private
“troppo grandi per fallire” deve essere perseguito, trattandosi di
entità che necessariamente sfuggono ad ogni controllo
democratico. È un fatto che allo stato presente sia difficile
persino concepire un chiaro percorso politico al cui termine stia
tale esito, tuttavia ciò non toglie nulla alla necessità etica di tale
specifica e niente affatto utopica istanza.
In quest’ottica, si deve anche leggere il senso di ciò che
la sinistra tradizionale chiamava internazionalismo e che oggi

36
“Mit dieser Gesellschaftsformation schließt daher die Vorgeschichte der
menschlichen Gesellschaft ab.” - Marx K., Zur Kritik der politischen
Ökonomie, in MEW, vol. 13, p. 9.
241

può trovare una nuova veste semantica sotto la voce


‘cosmopolitismo’. Diversamente da come la intende Giddens
una democrazia cosmopolita non è un semplice desideratum
sociologico, e se così fosse sarebbe un’idea velleitaria. Le
ragioni fondamentali del cosmopolitismo sono le stesse
dell’internazionalismo che fu. I punti di forza del sistema degli
scambi competitivi sono la sua possibilità di estendersi senza
una direttiva centrale e la spinta ad indurre tutti a partecipare
alla ‘corsa agli armamenti’ della competizione economica,
giacché chi vi si sottrae non perde solo benessere, ma vede
minacciata letteralmente la propria vita. L’unione di questi due
fattori rende l’odierno sistema globalizzato degli scambi
competitivi inattaccabile da parte di organismi di un ordine di
grandezza nazionale. Questa dinamica era peraltro ben presente
già nella seconda metà dell’800 e la promozione da parte di
Marx della dimensione internazionale del movimento dei
lavoratori mirava proprio a farvi fronte. Lo scoppio della prima
Guerra Mondiale rappresentò la prima clamorosa sconfitta per
l’internazionalismo socialista, subordinando la sorte comune dei
lavoratori a istanze nazionaliste e scioviniste. La situazione
odierna non è più promettente di allora, per le istanze di
un’umanità svincolata dalle appartenenze a gruppi in
competizione economica globale. Ciò però non sottrae affatto
necessità ideale alle ragioni di un nuovo internazionalismo, che
nella forma di un “modello cosmopolita di democrazia”, 37 deve
porsi come ideale regolativo, inderogabile per una prospettiva di
sinistra.

37
Held, D., “Democracy and the New International Order”, in Cosmopolitan
Democracy. An Agenda for a New World Order, a cura di Archibugi D. &
Held D., Polity Press 1995, p. 106.

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