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DONNE DETENUTE – PERCORSI EDUCATIVI DI LIBERAZIONE

Cap. 1.Il carcere “roba da maschi” ?

1.1 Donne per le donne: la difficile evoluzione dalla carità al diritto

Il silenzio delle donne nelle carceri ha radici lontane. Difficile sintetizzare la storia della criminalità
femminile e del suo trattamento, si tratta di un campo di indagine profondamente connesso con il ruolo
sociale della donna nelle diverse epoche. La delinquenza delle donne considerate “non pericolose, ma
eternamente pericolanti” è stata attribuita e associata a debolezza di intelligenza e volontà, squilibri; infatti
fragilità, vulnerabilità, sregolatezza e inferiorità sono le parole che più ricorrono nell'analisi della criminalità
femminile. I progetti in favore di coloro che furono sottoposte a procedimenti penali, che partirono intorno
all'800, vanno attribuiti all'impegno di altre donne che hanno lavorato alla trasformazione dei progetti
punitivi. Tra queste abbiamo Colbert di Maulévier, baronessa che non celò le condizioni disumane a cui le
donne autrici di reato erano costrette e sollecitò il governo affinché fosse aperta una struttura a gestione
interamente femminile. Colbert fu anche l'unica in Europa a dirigere un carcere femminile nel corso dell'800,
in grado di contenere oltre un centinaio di detenute. Ella insisteva sull'impartire un'istruzione a tutte
proponendo anche un regolamento interno, discusso punto per punto con le recluse e affidando alle stesse
incarichi di responsabilità; questo seguendo l'idea che imparare a leggere e scrivere avrebbe contribuito a
liberare le donne da uno status di minorità.
Il Codice Zanardelli del 1889, primo codice penale unitario, si dimostra neutrale in materia di parità/disparità
di genere, stabilendo in modo troppo vago che le donne dovevano essere detenute in “stabilimenti speciali”,
si ricorreva all'internamento prevalentemente per arginare miseria e passioni sregolate e il sistema era
finalizzato a “proteggere l'onore familiare” (l'adulterio, ad es, era considerato reato). Le “delinquenti”,
appartenenti per di più al sottoproletariato, erano considerate reiette in quanto incapaci di assolvere i compiti
che la natura aveva assegnato loro e l'istituzionalizzazione appariva quindi come un giusto destino.
All'epoca il sistema carcerario era articolato in: case di pena per i condannati a più di 2 anni, carceri
giudiziarie per le condanne inferiori ai 2 anni o in attesa di processo, case di custodia per i minori di 18. La
modalità di gestione delle strutture è indicativa, un ruolo di primo piano spetta alle religiose appartenenti ai
diversi ordini, segno questo che la delinquenza femminile meritava protezione, ravvedimento morale.
Tuttavia la cura offerta dalla religiose predisponeva un comportamento remissivo e oblativo delle detenute.
Questa esigenza di ravvedimento morale ha caratterizzato per molto temo la detenzione delle donne,
giustificando la presenza degli ordini religiosi tra le sbarre.
Indubbiamente sul profilo della donna delinquente pesarono le riflessioni di Cesare Lombroso, medico e
antropologo, che sviluppò una teoria globale della devianza femminile affidandosi al determinismo
biologico; la mentalità stereotipata di considerare le donne meno inclini alla violenza, incapaci di macchiarsi
di reati, trovò negli studi lombrosiani un fondamento. Lo studioso concentrò le sue tesi tentando di provare
scientificamente la debolezza e l'inferiorità intellettuale e psicologica delle donne, descrivendo la criminale
come soggetto irregolare. Tutto ciò andò a incidere sui processi di emancipazione, fino alla nascita della
criminologia femminista negli anni '70.

1.2 Il cambio di marcia e le perduranti resistenze

Nel nostro Paese, nel secondo 900 si scrissero pagine importanti per l'emancipazione femminile. Il biennio
45-46 segna un vero e proprio cambio di marcia indubbiamente favorito dalle conquiste di quegli anni: con
l'acquisizione del diritto di voto attivo e passivo, le donne ottennero piena cittadinanza e irruppero nella sfera
politica. Nello stesso periodo, in tutte le carceri della penisola esplosero rivolte in cui si rivendicava una
riforma che restituisse dignità ai reclusi. Il Parlamento non rimase indifferente e il 9 Luglio 1948 si ebbe
l'insediamento della Commissione Persico, incaricata di svolgere un'indagine nelle carceri, che si concluse
solo nel '50 con una relazione contente le proposte per una riforma. Si dovranno però attendere gli anni '70 e
gli ulteriori moti per arrivare a risultati concreti. L'ondata di proteste partì a Luglio 1968 da San Vittore a
Milano e si estese rapidamente; anche le donne vi presero parte e infatti nel 1973 le detenute di Rebibbia
salirono sul tetto in segno di protesta per chiedere un incontro col Ministro di Grazia e Giustizia.
Fu anche il periodo delle inchieste, come quella fatta da Ricci e Salierno che, non avendo ottenuto
autorizzazione all'ingresso nelle sezioni femminili, scelsero di occuparsi solo delle prigioni degli uomini; la
lacuna in questo settore venne colmato da Gabriella Parca, tra le fondatrici del mensile Effe, che gettò luce
sulle condizioni delle recluse. L'autrice poté visitare gli ambienti, interagire con i direttori, i giudici ma non
con le detenute, fu costretta a cercare le ex detenute.
Le 37 storie pubblicate raccontano che la maggior parte della popolazione femminile era formata da donne
poco scolarizzate perché provenienti dal sottoproletariato urbano, demotivate nello studio e nel lavoro,
inclini alla “sottomissione e all'accettazione acritica”. Si arrivò il 26 Luglio 1975 all'approvazione delle
Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, la
legge pose al centro il problema dell'umanizzazione del trattamento negli istituti, finalizzando il tempo
detentivo alla rieducazione del condannato e al suo reinserimento sociale, sostenendo quindi un modello
riabilitativo. L'introduzione di professionalità specifiche come quella dell'educatore ne furono la
dimostrazione più evidente; il regolamento penitenziario ridisegnò l'istituto come una realtà in grado di
offrire una seconda possibilità, puntando su un'apertura al territorio e ampliando l'offerta dei servizi. La
riorganizzazione degli Istituti, con l'esigenza di un progetto pedagogico, risentì della riflessione
sull'educazione degli adulti in quella che è stata definita “la stagione delle grandi utopie” (Dolci, Don Milani,
Freire). La legge 354 rappresentò in Italia segno di modernità penitenziaria. Il carcere diventa luogo di
educazione, conservando però una certa neutralità dato che tra le questioni aperte rimane la specificità di
trattamento per le donne, per le quali viene regolamentata solo la condizione di maternità. Si consentì infatti
alle detenute madri di tenere con sé i figli fino all'età di 3 anni disponendo nei reparti l'organizzazione di
appositi asili nido e servizi speciali per l'assistenza alle gestanti”. Furono le detenute politiche, molte delle
quali militanti nei gruppi extra-parlamentari di sinistra, ad avere il coraggio di denunciare i meccanismi di
potere che regolavano la vita carceraria, e che non erano stati risolti con la legge 354.
Altro passo nell'ottica di una risocializzazione del condannato fu la L. 663/1986, detta Gozzini, mediante la
quale si favorì la decarcerizzazione con la concessione di permessi e misure alternative, come la detenzione
domiciliare; una riforma importante questa, perché consentì a molte donne di ricostruirsi una vita, re-
incontrare la famiglia.

1.3 L'uguaglianza nel rispetto della differenza

E' comunque dopo gli anni Novanta del secolo scorso che viene riconosciuta una specificità di trattamento
tutelando i bisogni fisici, psicologici, professionali e sociali delle recluse. In merito vediamo la Quarta
Conferenza mondiale delle Organizzazioni delle Nazioni Unite (ONU) svoltasi a Pechino nel 1995 che
“smise di essere per le donne e cominciò a essere delle donne”, impegnando gli Stati a promuovere interventi
in materia di empowerment e di gender mainstreaming. La Conferenza è stata una vera e propria Piattaforma
di Azione finalizzata a valorizzare il contributo delle organizzazioni e dei gruppi femministi per il
cambiamento e per le azioni politiche finalizzate all'equità. Importanti documenti che ritroviamo in ambito
penitenziario sono: la relazione Women in Prison and the Children of Imprisoned Mothers, 2007, e le Regole
delle Nazioni Unite relative al trattamento delle donne detenute, note come Regole di Bangkok, con le quali
si rinnova l'invito agli Stati ad adottare politiche sensibili al tema dell'uguaglianza di genere.
In Italia la legislazione è stata soprattutto attenta a normare l'esercizio del diritto di maternità, con la presenza
di provvedimenti che riflettono quanto la cittadinanza delle donne sia stata legata per secoli alla loro
funzione di madri. Importante e imprescindibile il lavoro svolto dagli Stati Generali dell'esecuzione penale,
avviati a maggio 2015 dall'allora Ministro della giustizia Andrea Orlando, per mettere a punto un modello
“costituzionalmente orientato” di esecuzione delle pene e una modernizzazione del sistema penale. Alla
questione femminile sono state fornite una serie di raccomandazioni:
1. superare la concezione del trattamento come “correzione” passando a un paradigma risocializzante
(e non più medico)
2. non perimetrare ed esaurire la detenzione delle donne al solo problema della maternità, ma
considerare tutti glia spetti che incidono sulla vita reclusa
3. incentivare un maggior uso delle misure alternative
4. considerare l'assunzione di un'ottica di genere una prospettiva valida non solo per le donne, ma per il
carcerario nel suo complesso.
Per averne l'attuazione è stato proposto di istituire presso la Direzione generale per i detenuti, un “ufficio per
la detenzione femminile”che intervenga con azioni positive.
Martha Nussbaum ha considerato l'approccio centrato sui diritti precario o comunque non sufficiente perché
opinabile a livello intellettuale; essendo associato alle libertà politiche e civili tende a ignorare il peso delle
condizioni materiali, sociali e non è in grado di proteggere dalle eventuali forme di violenza.
In sintesi, emerge l'urgenza di focalizzare un modello di trattamento che tenga conto dei reali bisogni e delle
legittime aspettative delle donne nonché delle diverse culture di cui sono portatrici.
Emerge con chiarezza che le disparità che ancora si registrano non siano “semplicemente dovute a
un'incompiutezza delle leggi né a un deficit dei diritti acquisiti, ma a una condizione strutturale dei rapporti
di potere tra i sessi”. La reclusa porta con sé un immaginario che si carica di tutti gli stereotipi che
caratterizzano i percorsi femminili. Una prima questione è il concetto di vulnerabilità, al riguardo il Garante
Nazionale dei diritti delle persone detenute ha riconosciuto come “inadeguato e scorretto” ricondurre l'analisi
delle differenza femminile all'interno di una riflessione sulla vulnerabilità. L'obiettivo ambizioso di
un'educazione emancipatrice dovrebbe essere quello di insegnare alle donne ad autodefinirsi, anche in
ambito penitenziario, dove continuano a essere trattate come vulnerabili anche quando tali non sono; è un
lavoro complesso, in primis richiede di contrastare pregiudizi e discriminazioni che da sempre
accompagnano le autrici di reato in maniera più marcata rispetto agli uomini. Nel contesto italiano, le due
parole chiave che restituiscono al meglio la situazione sono residualità e neutralità, rivelando contraddizioni
e discrepanze. Il recente Rapporto curato dal Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) del 202,
che misura il modo in cui le credenze e le norme sociali ostacolano la parità di genere, documenta come ci
siano ancora problemi per quanto riguarda il raggiungimento dell'uguaglianza uomo-donna, anzi si registrano
segni di rallentamento e l'ambito penitenziario non ne è escluso. Anche il desiderio da parte dei poteri
pubblici di cancellare la libertà delle donne o viceversa proteggerla senza tener conto delle soggettività
consapevoli che vi sono, può essere visto come il segnale di una resistenza sorda al cambiamento, o
addirittura l'imporsi di nuove forme di paternalismo. È necessario perciò compiere una scelta di militanza,
andando a individuare fonti e progetti che hanno lavorato per la promozione di percorsi di empowerment,
rafforzando l'identità di genere, facendo del carcere un laboratorio dove contrastare
“deresponsabilizzazione”, “patologizzazione del disagiO” e soprattutto gli stereotipi sul maschile e
femminile.

1.4 Per un approccio militante

Per chi voglia occuparsi di educazione in carcere la prima operazione da compiere è la decostruzione dei
luoghi comuni che con immotivata superficialità si associano a questa istituzione. Per cogliere l'anima del
penitenziario va superata una sorta di fascinazione: da un lato, dunque, la paura del diverso, di chi ha offeso
la società, dall'altra l'attrazione per un mondo sconosciuto che esercita una sorta di magnetismo.
Il penitenziario è un mondo complesso soprattutto per i rapporti in esso agiti: ci sono le recluse e le diverse
professionalità: gli agenti di polizia, i funzionari, gli assistenti sociali, gli insegnanti.. perciò è necessario
ascoltare le voci di chi quell'universo lo vive ogni giorno, è indispensabile presidiare i luoghi e mantenere un
dialogo costante con chi opera per la tutela dei diritti.
In Italia da segnalare l'operato degli attivisti-ricercatori dell'Associazione Antigone onlus che durante le
visite realizzare nell'ambito dell'Osservatorio sulle condizioni detentive fotografano anche la situazione delle
donne. Necessario considerare che ogni istituto interpreta e realizza le norme in base alle risorse interne e
territoriali disponibili e quindi, la qualità del trattamento varia da struttura a struttura. Si tratta di partire
dall'esperienza vissuta e, attraverso testimonianze orali e scritte di detenuti ed ex detenuti, offrire la
possibilità di osservare il carcere da una prospettiva interna. Parlando della detenzione femminile, è divenuta
oggetto di indagine in anni recenti a livello internazionale (1990,2001,2007) e molti di questi studi gettano
luce su pagine trascurate della storia delle donne. L'attivista Angela Davis, ad esempio, oltre a constatare e
ribadire quanto il carcere abbia riprodotto e rafforzato la struttura sessista della società, ha rilevato che le
detenute, ancora oggi, sono spesso costrette a subire diverse forme di violenza durante il periodo detentivo e
che il processo di marginalizzazione si acuisce per le donne di colore.
Condurre le analisi sulle condizioni detentive con “lo sguardo della differenza” significa non solo saper
cogliere gli effetti dei meccanismi afflittivi del dispositivo sulle donne, ma anche suggerire spunti e approcci
per “Pensare e praticare un carcere diverso”, per vedere anche l'aspetto di forza e le risorse che il femminile
sa mettere in campo.
Vediamo altre due esperienze che contribuiscono a scardinare le immagini stereotipate delle donne in
carcere:
1. “Ristretti Orizzonti”, testata giornalistica del 1998, la cui redazione è composta da detenuti/e di
Padova e Venezia e che effettua un'esplorazione attenta del mondo femminile tra le sbarre
2. “NOIDONNE”, un periodico che ha scandito un percorso giornalistico al femminile, promuovendo
uno sguardo di genere sulla realtà. Nella rubrica Parole detenute è possibile trovare punto di vista
degli esperti, ma anche storie e progetti realizzare tra le sbarre. Sono stati organizzati inoltre
laboratori in cui sono stati promossi i dibattiti più diversi, sempre centrati sui problemi del
femminile. NOIDONNE si rivela una fonte preziosa per chi vuole esplorare la condizione delle
donne in carcere provando a costruire percorsi di liberazione non solo dal reato, ma anche dalla
subalternità.
Il periodico sopra analizzato ci restituisce una modalità metodologica che possiamo caratterizzare con 4
termini:
• reti, stile che dovrebbe caratterizzare le iniziative
• tenacia
• determinazione
• narrazione, nelle donne è vivo il bisogno di raccontarsi per confrontarsi e provare a costruire insieme
una visione del mondo alternativa.

1.5 La storia e le storie: nota metodologica

Sono fonti interessanti anche i reportage fotografi, Corelli ha restituito con scatti in bianco e nero la
quotidianità carceraria delle donne, rivelando le contraddizioni di un sistema che difficilmente svela la sua
anima più profonda. Sulla stessa linea è Francesca Pompei, la quale ha esplorato nel 2020 le condizioni delle
donne recluse. In tempi recenti Mauro Palma, ora presidente del Garante Nazionale dei diritti delle persone
detenute o private della libertà personale, ha riproposto l'immagine del “mosaico interpretativo”,
sottolineando che le storie ci forniscono indicazioni di volta in volta sempre nuove “per trasformare il
carcere”. Da anni la ricerca pedagogica ha mostrato l'utilizzo delle storie individuali come strategia
formativa per l'emancipazione.
Scrive Simonetta Ulivieri: Riappropriarsi della parola ha sulle donne un effetto liberatorio e permette di
superare un senso di inferiorità cui è sempre stato educato il genere femminile.
Le storie si pongono come risorse educative, ma anche come veri e propri strumenti di indagine.
La scrittura tra le sbarre vanta lunga tradizione, ha costituito da sempre un'efficace difesa alla degradazione
intellettuale e morale della vita reclusa. Dal punto di vista pedagogico esse hanno un indiscusso valore
perché consentono di comprendere il carcere da un'ottica femminile per scoprire con le emozioni, le paure, le
risorse per la progettazione di percorsi educativi di liberazione.
Cap.2 – L'umanità femminile: le risorse per la rinascita

2.1 Nel tempo e nello spazio della pena

Le esperienze dimostrano come la pena sia un tempo e uno spazio in cui intervengono più variabili che non è
semplice definire e ricondurre alla dimensione pedagogica.
[Esperienza di una detenuta – descrive l'ambiente carcerario: frastuoni, urla e pianti. Volume alto delle tv,
stridolio dei letti, puzzo di spazzatura. Raggomitolata nel letto come nella pancia della madre, ma non pronta
a venire al mondo ma piuttosto a morire]
E' una delle tante testimonianze che tratteggia una condizione che lascia intendere quanto il carcere
rappresenti per la maggior parte delle donne un laboratorio di sofferenza, una “doppia pena”, piuttosto che un
dispositivo di empowerment per il proprio futuro. Il momento dell'ingresso è la prima presa d'atto che la
detenzione sarà una condizione molto pesante da sopportare, una “esperienza di sottrazione”; la donna viene
privata di tutti i suoi effetti personali. Questo atto è la prima mortificazione del sé, si viene spogliate per
essere tutte uguali e si lasciano fuori le esperienze che prima affollavano la quotidianità, impossibile non
abbrutirsi.
Ogni persona smarrisce la propria identità, si nega tutto ciò che aveva a che fare con il vissuto trascorso che
ha condotto al reato , anche l'universo emozionale è costretto e represso nelle maglie del penitenziario. Il
senso di colpa pervade al punto da compromettere la stessa cura di sé, il tempo della pena è un tempo
sospeso, pesante e il futuro immaginato è una tensione difficile da gestire. Lo spazio è ristretto, controllato;
le “camere di pernottamento” (denominazione subentrata nel 2017 per definire le celle), sono di pochi m²,
trascurate e con poco decoro. L'apertura è collocata in alto con le sbarre che fanno ombra sui muri grigi. Si è
costretti a sopportare rumori e odori di “un'umanità compressa” che creano ansia, si vive nell'attesa di un
colloquio, un permesso. Si è sempre sotto esame, dal momento che la concessione di opportunità è data dalla
condotta. Tutto ruota intorno alla carta: per accedere a qualsiasi attività o per esternare le proprie esigenze si
deve inoltrare una richiesta e anche questo genera dis-empowerment, passivizzazione.
L'esperienza detentiva costringe a misurarsi con le parti più profonde di sé e può trasformarsi in una palestra
per la costruzione di una nuova identità; quest'ultimo aspetto ci induce a riflettere sul tempo della pena come
un tempo restituito per la riprogettazione di sé, anche se si assiste spesso ad atteggiamenti rinunciatari.
È compito dell'educazione intervenire sui meccanismi di deresposabilizzazione pianificando interventi
educativi in grado di scommettere sulle risorse interiori che ogni donna possiede; cambiare rotta è una
scommessa pedagogica che richiede l'impegno di tutto il sistema, non solo del singolo operatore. Quello che
interessa evidenziare è come sia possibile riappropriarsi di una condizione minima di benessere e che cosa
insegni lo stare in carcere non solo alle donne. Importante evidenziare che la sociologia carceraria ha rilevato
che il penitenziario non è un universo omogeneo, c'è differenza tra gli Istituti e tra i territori in cui sono
collocati; la vita nelle Case di Reclusione (CR, persone condannate in via definitiva o sopra i 5 anni) è
diversa da quelle Circondariali (CC, inferiori ai 5 anni). Differenziate sono anche la disponibilità e le
pratiche professionali dei funzionari, degli agenti di polizia penitenziaria, psicologi, psichiatri, insegnanti.
Sul territorio nazionale gli istituti femminili sono 4: CC di Roma Rebibbia, CC di Pozzuoli, CR di Venezia e
CR di Trani; tali strutture ospitano meno di un quarto della popolazione detenuta femminile (le altre si
trovano in sezioni ricavate nei carceri maschili). Per la gestione degli istituti e delle sezioni femminili è
intervenuto un Regolamento per normare l'entrata e l'uscita dagli Istituti delle persone e delle cose, e
soprattutto l'organizzazione quotidiana della vita detentiva, secondo i bisogni della donna, tramite
concessioni che riguardano principalmente la cura della fisicità e degli spazi condivisi. Nella realtà
ovviamente subentrano criticità non sempre superabili, già solo il sovraffollamento è un problema non da
poco, che amplifica i problemi di relazione. D'altra parte nelle sezioni di piccole dimensioni, dove è
consentito avere vicini gli affetti, il rischio è quello dell'esiguità, della frammentazione e della dispersione
dei progetti. Variabilità numerica una delle criticità nella progettazione di interventi educativi .
La situazione si complica anche per ciò che concerne la salute, in molte sezioni mancano figure
specialistiche come i ginecologi e le lacune si registrano soprattutto nel campo della prevenzione di alcune
malattie come i tumori.

2.2 Il profilo delle “ragazze”

[testimonianza donna rom, 7a figlia, vive in un campo nomadi. Dovevano ricevere aiuti, case ma sono stati
abbandonati; dentro perché ha rubato.]
La maggior parte delle detenute appartiene alla fascia anagrafica tra i 25 e i 50 anni e proviene da contesti
segnati da violenza e marginalità, si tratta perlopiù di piccola criminalità frutto di percorsi di esclusione
sociale. Spesso sono straniere e provengono da Romania, Nigeria, Marocco, Bosnia Erzegovina, Brasile:
queste nazionalità rappresentano il 50% delle detenute straniere in Italia. Si può notare quindi come ognuna
sia portatrice di una storia diversa e che, quindi, ogni percorso richieda un'osservazione attenta. Molte donne
delinquono quasi per una sorta di ribellione alla precarietà, sono spesso vittime o complici di uomini che
decidono per loro, incapaci di liberarsi dal ricatto affettivo. Molte hanno subito violenze e abusi psichici e
sessuali; questo lo rivela anche Ida Del Grosso, ex direttrice di Rebibbia, che precisa come la violenza subita
generi altra violenza verso se stesse o verso le proprie compagne. Le azioni illecite conto il patrimonio (furto,
estorsione, sequestro di persona a fini economici), seguito dallo spaccio, costituiscono i motivi più diffusi di
condanna e questo comporta spesso pene brevi e ripetute permanenze (recidive). Rilevazione importante per
la progettazione di percorsi di responsabilizzazione è dare un significato al reato come gesto
consapevolmente agito e riconoscersi una responsabilità personale, ciò pone le donne in posizione sofferente
ma attiva, evita i processi di vittimizzazione che portano alla passività.
Sostiene Tamar Pitch che cominciando dalle donne è possibile vedere il carcere per quello che è: un deposito
di vite a perdere destinato perlopiù a chi proviene dalle fasce povere; nell'analisi dei reati si riflettono i
cambiamenti della società: questa epoca, caratterizzata da globalizzazione e multiculturalismo ha portato ad
un confine tra legalità, degrado sociale e illegalità sempre più labile, producendo “vite di scarto” segnate da
insicurezza. Dietro al dramma va perciò colta una denuncia sociale: quella della perdurante esistenza nelle
attuali società democratiche occidentali delle disuguaglianze.
Per le straniere la reclusione è ancor più penalizzante perché la lontananza dal paese d'origine, l'essere prive
della rete familiare, le rende portatrici di maggiore vulnerabilità e al momento dell'arresto sono infatti le più
smarrite. Il Regolamento (DPR 30/06/200) stabilisce che a ogni nuovo giunto, nel corso del primo colloquio,
debba essere consegnata una Carta (redatta in più lingue) con diritti e doveri dei detenuti e degli internati, dei
servizi riservati. Tuttavia è una prassi spesso dimenticata. Le differenze sono sempre state mal gestite e non
trattate, quando sarebbero potute diventare un punto di forza per la trasformazione del carcere.

2.3 L'esperienza vissuta: temi d'indagine

La progettazione di percorsi educativi richiede un'indagine esplorativa sulle modalità con cui le donne
affrontano l'esperienza di detenzione, su come reagiscono al dispositivo disciplinare. È possibile richiamare
l'immagine del patchwork: le tante storie singole vanno a comporre una storia più grande che ci restituisce
una nuova visione del femminile, un universo ricco di differenze, mostrando come il setting carcerario possa
essere considerato uno straordinario laboratorio per studiare le tematiche di genere. Lo hanno dimostrato le
ricerche compite in questi anni e le tante e diverse storie di vita raccolte; il tentativo è stato quello di
individuare, nella differenza delle storie, i temi centrali su cui ragionare.
Il carcere, definito dalle stesse recluse come “la peggiore simbolica periferia della società civile”, è una delle
probe della vita più difficili ed è complicato per tutte mettere in campo strategie di coping per non lasciarsi
annientare. Diventare “identità resilienti” è un obiettivo complesso, tuttavia le donne nel setting carcerario
dimostrano tenacia nel conservare la propria femminilità, nel rimarcarla.
Vi è la presenza di storie di resistenza ricche di sfumature che riflettono lo sforzo di adattarsi per non
smarrirsi, per conservare “l'essere presenti a se stesse”, lasciando intendere come il “secondo sesso” mostri
concreta ostinazione (ammirevole) nell'umanizzare e personalizzare la detenzione, a contrasto della
prigionizzazione. È perciò indispensabile indagare le strategie di resistenza dalle quali partire per attivare la
resilienza.
Le ricerche e le pratiche condotte negli ultimi anni permettono di individuare alcune costanti con l'obiettivo
di fornire stimoli utili per rimodulare le cosiddette attività trattamentali e sostenere i processi di
responsabilizzazione, permettendo alle autrici di reato di scommettere su quelle risorse personali che la pena
detentiva finisce per rinchiudere. Le ricerche internazionali hanno sistematizzato le strategie di coping in 2
categorie:
• auto-distrattive: forme che solitamente riempiono i tempi vuoti e impegnano la mente
• auto-distruttive: atti di autolesionismo, quando non si riesce a contrastare il meccanismo di
spersonalizzazione. In questo caso la lotta si può considerare persa perché si è smarrita la “pazienza
di vivere”

Ma cosa motiva le donne a resistere, a rimettersi in gioco, a scommettere su se stesse?


Nelle strategie di sopravvivenza e resilienza giocano un ruolo determinante le relazioni, ci si impegna per i
propri figli, per il compagno ecc, spesso le più anziane si prendono cura delle giovani. Non è certo possibile
argomentare i processi di resilienza prescindendo dalla dimensione corporea, il corpo è il primo a essere
invaso dagli effetti della reclusione perché è un ponte tra il “sentire” e il “dire. Proprio la centralità che esso
assume nel processo identitario è necessario parlare di embodiment, ovvero di esperienza incarnata.
Come ha insegnato Focault il dispositivo carcerario esercita il potere e il controllo in primis proprio sui corpi
per renderli docili e disciplinati; inoltre la reclusione procura disfunzioni sensoriali, motorie,percettive e sono
stati rilevati allucinazioni visive, auditive, tattili, difficoltà a camminare, leggere o scrivere, irregolarità nel
sonno e nel ciclo mestruale. Molti di questi effetti perdurano anche una volta usciti e non sono da escludersi
atti di autolesionismo.
Nella sezione Parole Detenute di NOIDONNE si legge: “il nostro corpo è come un dizionario pieno di
parole, una bomba esplosiva. È la merce di scambio di ogni piccola conquista o rivoluzione, la lavagna su cui
scriviamo le tappe dell'emancipazione”.
Si tratta di una testimonianza che rimanda a un dibattito antico: ribellione, rivoluzione, liberazione,
emancipazione ma anche seduzione, violenza, potere e il provare a riprendere il controllo, rispettarne le
esigenze diventa una sfida, un progetto. Queste riflessioni ci portano ad accennare ad un'altra questione, cioè
la presenza delle detenute trasgender: tali presenze, prevalentemente di nazionalità sudamericana,
destabilizzano l'organizzazione e l'architettura dei penitenziari in quanto mettono in discussione la
ripartizione binaria tra i due sessi. Nel testo non viene affrontato però il tema poiché sino a oggi le trasgender
hanno rappresentato una presenza irrisoria, gestita prevalentemente nelle sezioni maschili, tuttavia si può
sostenere che sono la tipologia di detenute tra le più a rischio di esclusione e marginalizzazione.
Si sono individuate 4 piste per lavorare sull'autodeterminazione delle donne per una progettazione di percorsi
educativi:
1. recupero di possibili espressioni di libertà
2. la riscoperta della bellezza come risorsa
3. la condizione di maternità, l'affettività negata e la nostalgia dell'amore
4. le forme di intimità e sorellanza

2.3.1 Sulla libertà

La sua negazione è l'essenza della pena, essa diventa un traguardo, l'obiettivo e il fine per cui resistere. I
laboratori narrativi promossi con l'associazione TrePuntoZero dalla realtà “NOIDONNE” ci aiutano
nell'esplorazione della libertà. L'antologia di racconti si intitola “A mano libera dentro e fuori” e raccoglie i
lavori degli incontri settimanali. È una riflessione che apre domande a cui non è semplice dare risposta,
sapendo che per molte donne la libertà p stato uno di quei valori che ha sempre rappresentato una difficile
conquista piuttosto che un diritto di cui godere. SI tratta di compiere una doppia esplorazione e cioè di
considerare la libertà da e la libertà di: se il carcere per quanto riguarda la prima “ripara” da contesti e
culture che hanno favorito l'agire criminoso, sulla seconda la riflessione è più complessa. Va ricordato,
assumendo lo sguardo pedagogico, che la libertà è concetto multidimensionale, comprende il lato esterno e
fisico quanto quello interno, del pensare e desiderare; questo si traduce nell'esercitare la propria autonomia.
Nel tempo recluso vanno quindi privilegiate quelle che Victor Frankl ha indicato come “attività centripete”
cioè che consentono di coltivare l'interiorità per ritrovare la parte di sé, quella che contrasta la disgregazione
dell'identità. Quindi tutte le attività che impegnano il pensiero possono essere preludio di libertà e spetta
all'educazione finalizzarle a un autentico processo di liberazione.
Si tratta, per le detenute, di darsi nuove possibilità, acquistando la giusta distanza dalla propria storia e dal
reato, provando a vagare con il pensiero.

2.3.2. La bellezza e l'essere forti

Bella è una parola carica di interpretazioni e di visioni del mondo, di cultura e per le donne si è spesso
trasformata nel dovere di piacere a tutti i costi e di essere riconosciute tali dallo sguardo maschile.
Quale bellezza è sperimentabile tra le sbarre? Quali sono le forme in cui si manifesta?
Nessun progetto di riabilitazione svolto per e con le detenute prescinde dalla bellezza che diventa ricerca
personale e collettiva, riflette il faticoso tentativo di imporsi sulla bruttezza e sulla miseria del luogo e di
opporsi all'annullamento della propria femminilità. Nella cura del corpo vi è la prima forma di reazione al
potere pervasivo del dispositivo disciplinare. La cura di sé, delle proprie cose, della cella, come accade nei
reparti e negli istituti femminili esprime la necessità di ritrovarsi nella spersonalizzazione. Le stesse celle
vengono personalizzate e ci si ingegna, per es, a costruire mensole con i pacchetti di sigarette, a volte si
riesce a ricoprirli con tessuti colorati; le donne scelgono come forma di resistenza la cura dell'ambiente e del
proprio aspetto fisico contrastando l'atto di spoliazione subito all'ingresso.
Nel DPR 230 del 200, art.36, si dispone il possesso di uno specchio infrangibile, l'acquisto di smalti,
shampoo colorati e in alcuni istituti c'è anche il parrucchiere (è però un servizio a pagamento e, quindi, non
per tutte). Tuttavia l'esser belle non si limita solo all'estetica, va intesa come forma più piena di benessere: si
ricavano rimedi contro la ritenzione idrica, i dolori mestruali, l'eccessivo aumento di peso quando il cibo
funge da riempitivo alla noia. C'è, più in generale, una bellezza che prescinde dalle difficoltà del contesto,
che racchiude il valore delle cose fatte e motiva all'impegno.

2.3.3. L'amore, la maternità e il tornare bambine

L'affettività tra le sbarre è tra le questioni più laceranti e meno risolte, la configurazione stessa del
dispositivo carcerario ne compromette il pieno esercizio. Le relazioni non agìte comportano squilibri,
alterazioni dell'umore, depressioni e aggravano il senso di colpa intaccando l'autostima. Pare che il carcere e
gli affetti costituiscano un binomio impossibile, farlo diventare possibile è una delle sfide più impegnative di
questi ultimi anni. Recentemente si è intervenuti con provvedimenti di ordine organizzativo rinnovando la
richiesta di dispositivi e spazi adeguatamente attrezzati, per garantire relazioni di qualità. In questi mesi di
emergenza sanitaria per Covid il problema è riesploso in tutta la sua drammaticità, per via dell'isolamento
forzato per rischio di contagio.
Nel penitenziario, le donne sanno coltivare sentimenti che sfuggono alle maglie del penitenziario, amicizie
particolari, innamoramenti fuori dagli schemi ed è proprio da questi rapporti speciali che spesso si trae
l'energia per andare avanti. Il femminile si distingue soprattutto per la condizione di maternità, più
drammatica e dirimente per l'identità personale; l'essere genitori in carcere non ha ancora trovato soluzioni
adeguate e anche in questo ambito si evidenzia che un approccio centrato sui diritti non è sufficiente a
garantire condizioni di benessere e tutela. Le detenute hanno figli “visibili” e “invisibili”, quest'ultimi sono
quelli che rimangono fuori dalle mura; il tempo di visita è consumato in tempi limitati e spazi controllati, non
consoni all'affettività. I “visibili” sono i minori che secondo legge possono rimanere con il genitore nelle
cosiddette Sezioni nido. Nel circuito penitenziario sono stati introdotti gli ICAM, Istituti a Custodia
Attenuata per Detenute Madri, dove il giudice può disporre la custodia cautelare o l'espiazione della pena.
[LEGGI BOX]
Questi nidi si riducono spesso a celle attrezzate con lettini a fianco della branda della mamma, specie nelle
piccole sezioni; fanno eccezione gli Istituti femminili dove il Nido rappresenta un reparto a sé, con comfort e
servizi consoni alla prima infanzia. Dal momento che le ansie identitarie derivanti dallo stato di detenzione
generano squilibri emotivi che producono atteggiamenti altalenanti, spesso all'eccessiva protezione verso il
figlio può corrispondere la completa delega della cura.
Il sentimento materno viene messo in difficoltà anche dal regresso infantilizzante proprio del penitenziario,
dove si è in qualche modo bambine poiché condizionate nelle scelte. Le diverse provenienze geografiche
qualificano diversamente anche la condizione di maternità, e andrebbero implementate iniziative che
rafforzano l'autostima anche attraverso il confronto tra i diversi vissuti, con il ricordo e la rielaborazione di
quelli che sono stati i momenti più significativi delle proprie esperienze di maternità.

2.3.4. Le forme di sorellanza

Su un sistema che basa la vita interna su regole e richieste che devono costantemente ricevere approvazione
dall'autorità e su un modello che privilegia gli strumenti della disciplina e della premialità, l'assumere
atteggiamenti di circostanza, imparare le regole del gioco, diventano compiti inevitabili. Se con gli uomini
predominano i codici della violenza, tra le donne le logiche sono diverse; esse sono più portate
all'introspezione, meno disposte ad affidarsi perché abituate alla cura, all'assistenza. L'opposizione tra le
recluse e le agenti di polizia penitenziaria non assume mai i toni delle sezioni maschili e anzi spesso si
sperimento climi collaborativi.
Le analisi pedagogiche offrono analisi sull'efficacia dei gruppi, sull'importanza di favorire dinamiche
relazionali costruttive, come contrastare le dinamiche anti-gruppo. Queste sono operazioni che si complicano
tra le sbarre; le dinamiche anti-gruppo che caratterizzano lo stare insieme forzato di persone diverse non solo
per percorsi di vita, ma anche per provenienza geografica, aumentano la sensazione di estraneità e
pregiudicano le possibilità di comprensione. Si arriva perfino a forme di bullismo. Le “concelline”, che nel
gergo carcerario significa “compagne di cella”, vengono avvertite come una minaccia alla propria
sopravvivenza, e un'altra difficoltà è data dalla discriminazione per i reati commessi (si tende a fare gruppo
secondo la stessa tipologia). È quindi un cammino lungo quello da percorrere per arrivare a percepire le
“altre” come “compagne”, con le quali dividere il peso della reclusione; il fare squadra diventa un traguardo
educativo. Inoltre osserviamo come da una parte vi sia un bisogno affettivo da colmare, che porta a
instaurare rapporti che possono sconfinare anche in qualcosa di più intimo di un'amicizia; dall'altra c'è il
riconoscersi nelle abitudini e tradizioni della propria etnia, il fare gruppo per tutelare la propria provenienza.
Spesso le donne si incontrano e si invitano nelle celle per la preparazione di cibi, pratica non autorizzata ma
tollerata; la preparazione del caffè è un vero e proprio rito che va a innestarsi nella routinaria quotidianità e
che diventa occasione di incontro. Il trovarsi a raccontare favorisce il superamento della paura e si torna con
la mente ai ricordi, al proprio paese.
C'è un'esperienza che più di altre si vuole valorizzare ed è quella della “battitura”, lo sbattere sulle sbarre
delle celle pentole, coperchi o qualunque arnese, ve ne sono 3 tipi: quella per protestare, quella degli agenti
per verificare l'integrità delle sbarre e quella per chi esce (battitura di felicità).

2.4. “Donne si diventa”: per una nuova identità


Dopo aver riflettuto sull'esperienza vissuta, sulle forme di resilienza, le forme di sorellanza, è possibile
affrontare la questione della ricostruzione del sé. Questa è una riflessione che si colloca sullo sfondo delle
teorie nell'ambito dell'Educazione degli adulti, che hanno dimostrato la relazione tra adultità e cambiamento.
Per le detenute riprendere in mano la propria vita e provare a ricostruire il proprio percorso comporta
lavorare e affrontare alcuni nodi problematici. Molte di loro vivono lo stigma di essere delle ragazze
“sbagliate”unita al senso di fallimento.
L'uscire dai ruoli imposti dal dispositivo disciplinare, se accompagnato dalla progettualità educativa, può
favorire un'azione decostruttiva: il rischio è il ricorrere ad un'immagine standardizzata, enfatizzando fragilità
e sottostimando la forza istintuale e il fatto che la reclusione possa liberare energie profonde per riprendersi
la vita. Nel confronto spietato cui costringe il tempo della pena, si rivedono comportamenti e si scoprono
modalità del proprio essere che prima erano sconosciuti. A chi educa è richiesta la capacità di aprire
prospettive con la pratica dell'ascolto attivo, favorendo nelle detenute una ricomposizione tra l'immagine
reale, ideale e sociale.
Va evitato il rischio di rifugiarsi in un falso sé, rifuggendo dalla presa di coscienza e va invece sostenuto un
profondo processo di rimessa in discussione, valutando quale siano le reali risorse per il cambiamento.
Importante fare due considerazioni per quanto riguarda le donne detenute: la prima è che la maggior parte di
chi affronta l'esperienza detentiva oggi proviene da percorsi marcati di marginalità e disuguaglianze, da
infanzie segnate da abbandoni e abusi; la seconda è che proprio per l'eterogeneità di provenienze è richiesta
una differenziazione di trattamento che valorizzi le diversità e le renda patrimonio comune. In questo senso il
periodo di detenzione dovrebbe favorire una presa di coscienza, una riflessione su chi sono state e sulle
aspettative.
Per sostenere il percorso di autoconsapevolezza è importante promuovere il narrarsi, esercizio grazie al quale
le detenute riconoscono le proprie potenzialità, riscoprono la voglia di tornare a studiare e i sogni per il
futuro. Importanza notevole assume anche il gioco (giocare è una dimensione costitutiva dell'essere umano)
e infatti non è un caso che molti progetti nel penitenziario abbiamo dimostrato il valore della ricreazione; con
le attività di musica, teatro, e tutte le attività che stimolano la creatività si sperimenta un “vedersi dentro”.
Possiamo quindi ritrovare delle parole fondamentali per significare il percorso identitario delle donne
recluse, parole di cui l'educazione deve farsi portatrice e sostenitrice:
– Attivazione (vs. apatia del penitenziario)
– Resilienza (vs fragilità)
– Adultità (vs. minorazione del sé)
– Memoria (vs, oblio, grazie anche al raccontarsi)
– Coscientizzazione (vs. inconsapevolezza, di chi si è, dell'errore fatto e di chi potremmo essere)
– Decisionalità (vs. rassegnazione)

Cap. 3 - Per una nuova vita: quale genere di educazione?


3.1. La sfida della specificità: criticità e opportunità

Vanno svolte considerazioni sulle finalità e sulla legittimità di una pedagogia penitenziaria che sempre più è
chiamata a rivedere metodi e contenuti considerando a tutti gli effetti il detenuto come un soggetto attivo
della comunità dove dovrà poi essere inserito. È con la legge 354/1975 che sono state coinvolte le diverse
professionalità che compongono le equipe e i Gruppi di osservazione e trattamento (GOT) affinché possa
essere assolto il mandato educativo. Innanzitutto si tratta di lavorare per un carcere che sia
“responsabilizzante” contro uno “paternalista” che induce a forme di passivizzazione. Dopodiché è
necessario delineare il trattamento, dove per trattamento si intendono tutte quelel pratiche volte a far sì che il
periodo passato in carcere possa davvero tradursi in una revisione critica della propria storia e in una
riprogettazione di essa. Aiuto e cambiamento sono i due elementi cardine su cui impostare le attività.
Centrale è l'osservazione scientifica della personalità, attività che si avvia all'inzio dell'esecuzione della pena
e che è distesa nel tempo per registrare l'evoluzione della personalità in rapporto al grado di adesione alle
offerte trattamentali. Tale attività prevede acquisizioni documentali lo svolgimento di colloqui.
Componenti dell'équipe: direttore dell'istituto, educatore (dal 2010 denominato “funzionario della
professionalità giuridico-pedagogica), i servizi sociali e possono farne parte altri soggetti come lo psichiatra
e il rappresentante della polizia penitenziaria.
Compito: elaborazione di un programma attraverso la “relazione di sintesi” che è poi sottoposta al vaglio del
magistrato di sorveglianza.
Gruppo di osservazione e trattamento (GOT): formato dagli stessi membri dell'équipe e da tutti coloro che
possono offrire una consulenza sul percorso detentivo (operatori socio-sanitari, volontari, insegnanti). È qui
che si condivide s i formalizza l'idea di “buon detenuto” e di una revisione critica riuscita. Dagli anni 90 del
secolo scorso, Tamar Pitch ha individuato e analizzato due modelli di intervento: il Justice Model – più
centrato sullo standard maschile- e il Care Model – orientato di più alla presa in carico e alla riabilitazione.
Questo secondo modello ha orientato le pratiche italiane, tuttavia non è esente dal rischio di una rieducazione
risolta nei termini di minorazione o deresponsabilizzazione e si dovrebbe pertanto far sì che tutto ciò che è
offerto sia in realtà scelto, per superare la passivizzazione. Inoltre si potrebbe lavorare sull'organizzazione
interna stessa del penitenziario; al riguardo gli Stati Generali hanno suggerito di istituire commissioni
formate dalle stesse detenute per avere rilevazioni reali sui bisogni. Altro aspetto analizzato per superare
questa passività e la chiusura che ne consegue lo troviamo nella Relazione al Parlamento che il Garante
Nazionale ha redatto nel 2019, nella quale ha richiesto una evoluzione del carcere in un “complesso
residenziale speciale” in grado di aprirsi alla città con:
– spazi di lavoro sia all'esterno che all'interno del carcere
– spazi di formazione
– spazi di creatività
– spazi di attività sportiva per curare il proprio corpo
– spazi sociali
– spazi residenziali per superare la catena tradizionale di cella-corridoio-sezione-braccio
Un disegno questo ampiamente articolato che però trova difficile applicazione ancora oggi nelle carceri.

3.2. Professionalità a sistema: continuità e discontinutià

Il carcere è un setting complesso anche per chi è chiamato a intervenirvi professionalmente, infatti di un
sistema basato su regole rigide e norme di sicurezza rimangono tutti “prigionieri”. Tuttavia se vogliamo che
le attività svolgano il ruolo per cui sono pensate sarebbe necessario allestirle in un setting dove le diverse
professionalità abbiano modo di confrontarsi. Questa collaborazione tra professionisti ha una serie di
vantaggi:
1. un lavoro condiviso contiene maggiormente il pain of punishment (la sofferenza insita alle istituzioni
totali)
2. rafforzamento della componente “materna”
3. un approccio di questo tipo favorisce il lavoro degli educatori, figura che in carcere più che in altri
contesti ha faticato a imporsi come professionista.
Nel tempo il lavoro dell'educatore si è delineato come complesso e segnato da ambiguità, in bilico tra
l'esercizio delle norme rigide e la capacità di umanizzarle per contrastare vulnerabilità e resistenze. Mancano
inoltre, e sono invece fondamentali, percorsi formativi in itinere dell'educatore, necessari non solo per
l'aggiornamento delle competenze professionali ma anche per rinforzare la motivazione necessaria a operare
in contesti così complessi. Altro dato da mettere in evidenza sono gli elementi di criticità che compromettono
l'operare tra le sbarre rischiando di far scivolare la professione educativa in un ruolo tecnico, dove
prevalgono le esigenze di sicurezza a discapito delle istanze formative. È quello che è accaduto negli ultimi
mesi in cui è stata avanzata una proposta di legge che vorrebbe assimilare il ruolo degli educatori a quello del
personale tecnico di vigilanza.
Non dobbiamo però dimenticarci l'importanza del compito dell'educatore nel penitenziario, professionista
che varcando la soglia del carcere porta non solo il suo sapere ma anche la sua persona, professionista che
osserva in profondità, sospende il giudizio e fa appello alle risorse presenti e alle qualità personali. É
richiesta un'esemplarità che affatica, toglie il sonno, pone in crisi le certezze che richiede di accettare il
fallimento, di rinunciare a essere demiurghi ma allo stesso tempo esserci sempre. [box “a colloquio con
un'educatrice”]

3.3. Le ritualità virtuose: nel segno della gratuità

[racconto di una detenuta che parla di Antonia, una volontaria]


Cosa caratterizza il ruolo del volontario? Possiamo individuare quattro parole: ritualità, continuità,
generosità, speranza.
Il volontario è colui che non fa mai mancare la sua presenza, il mancare a un appuntamento produce infatti
stress, insicurezza e sfiducia nel detenuto mentre all'opposto l'esserci infonde benessere e speranza, crea un
ponte con il fuori. Molte delle esperienze educative più significative sono partite proprio da attività di
volontariato. In Italia il fenomeno è più ampio rispetto ad resto d'Europa, ed è stato regolamentato da
provvedimenti legislativi e da una legge specifica, 266/91, “legge quadro sul volontariato”.
L'autorizzazione per l'accesso all'istituto è nominativa ed è rilasciata ai singoli; si accede con una domanda
presentata al direttore dell'istituto che, dopo aver valutato la compatibilità delle iniziative proposte con il
percorso trattamentale generale dell'istituto, esprime parere sull'istanza e la trasmette al magistrato di
sorveglianza.
Queste attività si muovono lungo 3 direzioni: umanizzare la detenzione, promuovere progetti finalizzati
(attività sportive, culturali..) e favorire il reinserimento nella società. Anche il lavoro di riconoscimento della
tutela della funzione genitoriale è stato svolto grazie al contributo degli organismi associativi. Durante
l'emergenza sanitaria poi, è apparso chiaro quanto i volontari abbiano saputo assolvere la funzione
costituzionale della pena, chiedendo diritti e lottando per la loro applicazione (avanzate proposte concrete
come l'uso di tecnologie per supplire alla distanza fisica e svolgere alcune attività).
[box Leda Colombini e box la voce dei volontari]

3.4. L'apprendimento verso nuove sfide

E' storia più recente la frequenza ai corsi universitari, con l'attivazione di veri e propri Poli ora presenti in
molti penitenziari italiani. È chiaro che si tratta di una scuola che per l'età, la condizione e i vissuti di chi vi
partecipa, richiede didattiche diverse, con le diverse discipline in dialogo e con un ponte con la vita reale.
Servono docenti qualificati ma anche creativi, meno ligi ai programmi ministeriali perché attenti ai bisogni
specifici degli utenti. Per le detenute questo si traduce nel darsi un'altra occasione che risolve il rimpianto di
non avercela fatta e la scuola diventa il dispositivo che libera energie e pensieri per il futuro. L'insegnante ha
un lavoro pedagogico da svolgere, ha a che fare con un'ampia gamma di sentimenti dove deve gestire quelli
negativi (frustrazione, sconforto) e accogliere quelli positivi ( riconoscenza, felicità per gli obiettivi
raggiunti).

3.4.1. La storia scolastica di Renata

Tra le tante storie viene riportata quella di Renata, il cui racconto viene fatto dalla sua insegnante (per via
delle restrizioni covid). Con lei gli insegnanti sono stati veri e propri “agenti di cambiamento”.
Siamo a Rebibbia, Renata è una detenuta rom ed è in carcere perché ha rubato, è di origine bosniaca ed è in
Italia da quando ha 7 anni, fuori dal carcere ha 6 figli e un ex marito. Arrivata in carcere non sapeva
nemmeno l'italiano perciò il suo percorso è stato molto impegnativo. Inizialmente una professoressa le
insegna il disegno e le tecniche pittoriche con risultati eccellenti; successivamente Renata si avvicina alla
filosofia, studia kierkegaard e marx e si interessa al tema della giustizia sociale. Inizia a sviluppare un forte
senso di responsabilità nei confronti delle scuola, tanto che nel 2017-18 non sentendosi pronta per il diploma
preferisce ritirarsi ed approfondire alcune materie. Partecipa con entusiasmo all'insegnamento di Arte in cui
si fanno pitture e sculture, le sue rappresentano i suoi rimpianti: nei disegni e nei calchi troviamo spesso
donne incinte, condizione che lei non ha vissuto al meglio e per la quale non si è mai prodigata. Per la
maturità decide di affrontare il tema del viaggio e la migrazione e supera la proba con una votazione finale di
86/100. Renata credendo fortemente nel progetto scolastico ha poi iniziato a spronare le sue connazionali a
frequentarla, per lei raggiungere il titolo è stato una scelta di vita e di valori. Le restano pochi anni alla
libertà e si sta concentrando nel dare continuità a questo processo di rinascita che ha iniziato dietro le sbarre.

3.5. Il lavoro per la dignità, oltre gli stereotipi

In un'analisi sul femminile recluso non è possibile non svolgere considerazioni su ciò che può rappresentare
il lavoro in termini di empowerment. I lavori femminili si sono infatti distinti da quelli maschili per difficoltà
di accesso, minore autonomia, peggiori condizioni salariali.. e matrimonio e maternità hanno contribuito a
condizionare questo aspetto sociale. L'Ordinamento penitenziario con la legge 354/75 ha regolamentato la
materia lavoristica, stabilendo che i metodi devono riflette il più possibile quelli della società libera.
Obiettivo è far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata con un corredo di competenze e
capacità utili ad agevolare il reinserimento. Si tratta spesso di attività ascrivibili al “casermaggio interno”, si
svolgono per brevi periodi e a rapida turnazione; ci si può occupare della pulizia delle zone comuni, di
raccogliere le richieste degli alimenti presso i rifornitori, con attività di cucina e lavanderia. Lavori che,
tuttavia, sono distanti dalle attività esterne, aspetto che solleva dubbi sulla valenza rieducativa. Non è
ovunque così, l'analisi delle diverse realtà ci restituisce una situazione a macchia di leopardo: vi sono istituti
in cui potenziando il rapporto con il territorio si riescono a realizzare progetti con attività lavorative
risocializzanti, altre dove invece prevalgono le attività stereotipare sopra citate. Nel progettare è quindi
necessario tener conto di 2 dimensioni correlate: la possibilità per le recluse di acquisire competenze
spendibili una volta rientrare nella società, e l'insistere sulla valenza sociale, culturale ed etica dell'attività
lavorativa per farne una palestra di formazione.

3.6. Appunti per la progettazione educativa

Assumere lo sguardo pedagogico significa allora considerare il carcere un “territorio educante” dove
promuovere progetti ed esperienze in grado di modificarne dli assetti. L'educazione si trova a essere
perimentata da regole e norme non scritte, e il non sentirsi al sicuro è condizione che accomuna le detenute
quanto gli operatori, che sperimentando l'incertezza devono essere pronti a mettersi in gioco come persone e
come professionisti, imparando a gestire stress ed emozioni. Dal momento che non può essere un percorso
neutrale, la prospettiva educativa privilegiata è quella emancipativo-trasformativa. Per molte il periodo
trascorso tra le mura può essere davvero un'occasione di riscatto e non solo dal reato commesso, infatti c'è
chi in carcere è entrata con un'identità legata al genere, alla etnia e ha saputo poi trasformare se stessa e
orientarsi differentemente. Affinché ciò avvenga è necessario partire non dagli errori ma dalle risorse e dalla
aspettative; questo ci riposta a Martha Nussbaum che ha sostenuto l'approccio centrato sulle capacità umane,
su ciò che si è in grado di fare e di essere.
[riporta delle testimonianze di detenute che elogiano l'educazione e i progetti a cui hanno partecipato] →
emerge come queste detenute abbiano riconsiderato la reclusione come spazio e tempo per ritrovare il
coraggio di mettersi in discussione.
Un'attenta progettualità deve promuovere nelle donne:
– un profilo emotivo, restituendo alle emozioni un ruolo di primo piano
– un profilo cognitivo, favorire l'apprendimento di skills per il reinserimento
– un profilo etico, per far acquisire la responsabilità del proprio agire.

Oltre che di cambiamento, è importante che la reclusione diventi tempo di cura, riferendoci ad una cura etica
e umana dove si privilegia l'ascolto attivo e lo spazio per l'incontro.
Necessario un'educazione interculturale, data l'eterogeneità delle detenute, che si ponga l'obiettivo di
promuovere la conoscenza reciproca e il dialogo. Nella relazione educativa si richiedono inoltre:
– empatia (per non ridurre la personalità delle autrici di reato a un solo aspetto)
– immaginazione (per esplorare soluzioni inedite e trovare percorsi autentici)
– bellezza (progetti che esprimono bellezza liberano forte carica trasformativa)

Per arrivare a ciò, sarebbe opportuno seguire un iter metodologico che vede:
– realizzazione di un questionario di ingresso con domande sui contenuti dell'attività proposta, per
individuare bisogni e desideri delle partecipanti
– formare gruppi eterogenei per provenienza e livello di scolarizzazione
– concentrare gli incontri in un tempo contenuto per evitare abbandoni
– inserire in ogni progetto il momento della restituzione per confrontarsi
– svolgere monitoraggio in itinere e in uscita.

Cap. 4 – Nell'attesa di un nuovo giorno: esperienze e progetti liberanti

4.1. Cambiare rotta per un diverso rapporto tra il dentro e il fuori

In quest'ultimo periodo di emergenza sanitaria si sono riaccesi i riflettori sul carcere, la pandemia ci a
costretto a “rieducarci” ai rapporti sociali ma soprattutto si è acuito il problema delle disuguaglianze. Inoltre
sono riemerse in modo più eclatante le criticità del mondo penitenziario: il sovraffolamento, l'urgenza di un
incremento delle attività risocializzanti e l'isolamento affettivo. È interessante valutare, guardando alla
decarcerizzazione come a un obiettivo di lungo periodo, quali azioni positive possano essere messe in campo
per promuovere percorsi di liberazione non solo dal reato. Le possibilità esistono, soprattutto se si decide di
investire di più sull'educazione: il rischio di fronte alle emergenze, come quella del virus, è assumere
atteggiamenti difensivi rinunciando a trasformare la crisi in opportunità ed è in queste situazioni che la
Pedagogia può svolgere un ruolo attivo e propositivo e concorrere alla “rimozione degli ostacoli”. Se è vero
che ogni istituto penitenziario è un mondo a sé, è parimenti vero che il carcere appartiene al territorio in cui è
inserito ed è proprio attraverso iniziative educative che vedano il coinvolgimento attivo delle comunità che è
possibile abbassare i “ponti levatoi”, creando un rapporto sempre più fecondo tra il dentro e il fuori.
La Fondazione Emanuela Zancan ha messo a punto un modello-concetto di welfare generativo, per assumere
una prospettiva orientata a valori quali la solidarietà, la responsabilità e l'uguaglianza. In questa visione il
carcere è inteso non come istituzione totale, bensì sociale, in una progettualità integrata con le comunità
locali.
Un altro studioso, Sergio Tramma, nel suo testo Pedagogia della contemporaneità, ha sostenuto la necessità
di un “epidemia educativa” in cui non si deve ricerca il “paziente zero” ma il “medico zero”, cioè
l'esperienza esemplare, la buona pratica (un'educazione che può avvenire grazie a molti strumenti: esempio,
testimonianza di esperienze..). Questo presuppone che ci si predisponga alla ricerca, osservando con
attenzione le “buone” pratiche educative, per farne il punto di partenza e un possibile piano di riforma. La
finalità è provare a tratteggiare un progetto pedagogico che tenga conto delle educazioni di cui nel contesto
penitenziario si sente maggiormente necessità: emotivo-affettiva, estetico-artistica..

4.2.1. In biblioteca

Per indagare il rapporto sempre più fecondo tra biblioteca e carcere è necessario richiamare il nuovo profilo
identitario delle cosiddette public libraries, veri e propri presidi di democrazia che nei territori di confine
diventano:
– una palestra di cittadinanza, favorendo l'incontro tra culture diverse e contribuendo a rafforzare
l'identità individuale e collettiva
– lo spazio dell'altrove, nutrono l'immaginario attraverso la lettura dei testi
– un dispositivo di trasformazione in quanto favoriscono esperienze collettive
L'avere a disposizione un luogo dove poter leggere in tranquillità, lontano dai rumori dei reparti, ha
rappresentato una forma di evasione. L'intervista a Stefania Murari, in forza al servizio biblioteche in carcere
di Roma Capitale, ha rivelato aspetti interessanti: le detenute vi accedono a volte sena troppo interesse, nella
maggior parte dei casi si tratta di una scoperta. A poco a poco però il libro può diventare un compagno e la
biblioteca un vero e proprio spazio di socialità, dove non solo leggere ma anche scambiarsi riflessioni,
lasciare messaggi per le compagne. Gli interessi letterari poi svelano le priorità di un percorso di
“rigenerazione identitaria”, tra queste:
– il non lasciarsi inghiottire/annullare dal dispositivo disciplinare
– il non soffocare la propria femminilità
– l'essere “buone madri”, nonostante la detenzione
tra le richieste di prestito figurano manuali di benessere e alimentazione per prendersi cura di sé, testi di
letteratura per l'infanzia.
È proprio da queste riflessioni che ha preso le mosse la prima iniziativa: il progetto con i silent books.
Attuato nel 2018 si è proposto un circolo di lettura con testi speciali, appunto i silent books o wordless
picture books;in essi lo sviluppo della storia è affidato alle sole immagini e l'assenza di parole favorisce la
pluralità delle interpretazioni. Nessun ruolo di superiorità da parte di chi padroneggia lo strumento
linguistico, ma un “leggere insieme”. Sperimentazione è la prima parola da associare a questo progetto dai
diversi obiettivi educativi:
– evadere da un mondo scandito da quotidianità routinare
– riscoprire l'infanzia come categoria esistenziale (i silent books sono infatti nati per l'uso con i
bambini)
– rinforzare i percorsi di responsabilizzazione e coltivare uno sguardo positivo sulla vita
Il raccontarsi è fluito spontaneo, con l'emergere di paure, costrizioni, rimpianti e progetti, la scelta dei libri è
stata orientata a temi vicini al sentire delle detenute offrendo diversi percorsi per:
– provare a essere un gruppo con una forma di “sorellanza” diversa, carica di significati simbolici
– guardare l'infanzia allo specchio ricordandosi bambine e riscoprendosi madri
– dare nuovi significati al senso di appartenenza
– trovare la forza di rialzarsi dopo una caduta per imprimere un nuovo ritmo alla propria esistenza
Prossimità è la seconda parola, significativo infatti anche il nome scelto dal gruppo “la fortuna delle
coccinelle”; l'esperienza ha rivelato l'esigenza delle partecipanti di costruire modelli alternativi per evitare
che qualcuno rimanesse indietro e non potesse partecipare a questa corsa alla vita.
Continuità, terza parola, termine ostico in carcere a fronte della ripetitività delle pratiche routinarie e che si è
concretizzato nella richiesta delle detenute di una riedizione; l'anno successivo ci sono stati nuovi ingressi
ma anche ritorni.
Resilienza, quarta, durante il momento del fare si sono condivise esperienze e suggestioni, il maggior
coinvolgimento è stato favorito dall'allestimento di un laboratorio creativo dove le partecipanti hanno potuto
gustare anche sensazioni olfattive, compiere laboratori artistici con la tecnica dell'acquerello.
Speranza, ultima parola, questa esperienza ha rappresentato non solo una novità nella vita reclusa ma anche
un modo diverso di stare insieme.
Un'altra modalità sempre legata al raccontarsi è quella sperimentata attraverso l'esperienza delle Human
library, dette biblioteche viventi. Rappresentano una maniera inusuale di leggere un testo, si tratta di
sfogliare non libri di carta ma umani, cioè ascoltare le persone che raccontano la loro storia.

4.2.2. Sul palco


C'è infine un altro modo di raccontarsi che è importante valorizzare nei percorsi di liberazione, ed è quello
che impegna e donne nell'attività teatrale. Protette dal ruolo di attrici, le recluse svelano il loro temperamento
e scoprono potenzialità e recitare un testo assume una funzione catartica: ci si libera dal sé che ha portato al
reato per assumerne uno nuovo. In Italia è nato un vero e proprio Coordinamento Nazionale del Teatro in
Carcere, attivo pressoché in tutte le regioni. Con la messa in scena dello spettacolo il carcere si apre al
territorio e le attrici sperimentano un dentro che è già un fuori, perché hanno di fronte un pubblico che è
entrato per vederle agire.
Nel libro viene valorizzato il progetto di teatro sociale “Le Donne del Muro Alto”, la promotrice-regista e
drammaturga Francesca Tricarico ha accolto la sfida dal 2013 iniziando a lavorare con le ragazze considerate
più “pericolose”, quelle dei circuiti dell'Alta Sicurezza della Casa Circondariale di Roma Rebibbia. Nel
lavoro di Francesca ci si focalizza su:
– la riscrittura dei classici, selezionati tra quelli che possono suscitare emozioni forti e favorire il
rispecchiamento
– il coinvolgimento attivo di tutte le partecipanti
– la valorizzazione della dimensione corporea

A chi opera tra le sbarre è richiesta “forza”, è questo il termine scelto dalla regista per significare un'attività
caratterizzata da una passione e una dedizione non comuni. Negli spettacoli si affrontano tutte le
contraddizioni della vita reclusa, si estremizzano.
Nell'operare di Tricarico c'è soprattutto un appello alla società, a non voltare lo sguardo a ciò che avviene
“dentro”, c'è la consapevolezza che sia importante comunicare con l'arte e la poesia messaggi scomodi.
Vengono riportati 3 spettacoli significativi:
– Amleta: attraverso la riscrittura della tragedia shakespeariana si è indagato cosa significhi sentirsi
un'identità subordinata. Esistere, scegliere, sbagliare, pagare perché si è state la moglie di, la sorella
di o la figlia di. Nello spettacolo si rappresenta il dolore di appartenere a certe famiglie e la fatica di
liberarsene.
– Ramona e Giulietta: racconta l'amore tra due donne in prigione, denunciando il mancato esercizio
dell'affettività e della sessualità tra le sbarre, lanciando anche una provocazione, visto che proprio
nella Casa Circondariale di Roma Rebibbia è stata celebrata la prima unione civile
– Donna che visse per un sogno: non un classico, ma un testo altrettanto forte e significativo. Nel
romanzo si racconta la vicenda di Marie Gouze detta Olympe de Gouges, la quale morì ghigliottinata
per aver speso la propria esistenza a realizzare i sogno di una società di individui liberi e uguali nella
Parigi di Roberspierre e del Terrore. La vicenda della protagonista si intreccia con le voci delle altre
donne, Olympe rappresenta un'icona del femminismo, quindi la scelta di rivisitare questo testo ha
assunto un significato speciale.

La scommessa della regista è ambiziosa: far sì che anche le detenute attraverso la scrittura degli spettacoli e
il loro ruolo possano esprimersi su temi significativi e provino a offrire il loro contributo al dibattito del
vivere civile.

4.3.1. Per una nuova Lei: conoscenza, cura e benessere

L'ambito sanitario nel penitenziario è uno dei più critici. Per le donne tra le sbarre è difficile assicurare gli
stessi standard sia nella prevenzione sia nell'assistenza; proprio per questo si è deciso di valorizzare un
percorso formativo, Il Corpo Femminile: Sessualità e Prevenzione, di cui è stata ideatrice e responsabile la
dott.ssa Bertoldini, ginecologa. Questo si è svolto presso il carcere di Venezia con la finalità di perseguire un
benessere psico-fisico delle recluse partendo dalla conoscenza del proprio corpo. Ha coinvolto, nel 2018,
circa 18 detenute prevalentemente rom e sinti e ha trattato e sviluppato: la storia della sessualità dal 900 ai
giorni nostri, le malattie sessualmente trasmissibili, i tumori femminili e gli strumenti di prevenzione. Si
sono anche affrontati quei passaggi che caratterizzano le vite femminili: gravidanza, travaglio, parto e
puerperio. Le tematiche non sono state trattate solo dal punto di vista medico ma hanno consentito incursioni
nella letteratura, nella poesia e nelle arti, con testi e immagini evocative. Non è mancata la collaborazione del
personale di sorveglianza che si è sempre fatto carico di aiutare le volontarie pubblicizzando gli incontri e
sollecitando la frequenza. Le partecipanti, inizialmente molto timide, hanno poi invece mostrato interesse
crescente e vivace e si sono potuti fare raffronti tra realtà molto diverse riguardo al parto e alle differenti
condizioni di medicalizzazione.
Sempre nella direzione del benessere è stato allestito un laboratorio di narrazione sul tema del cibo “una
cucina di storie”, dove le ricette sono state associate a esperienze significative della propria esistenza , e ai
racconti si sono affiancati film e la discussione per aprirsi. Progetto che è stato sospeso per il Covid.

4.3.2 Lieviti per nuovi fermenti di vita

La prima associazione che si è portati a fare quando si accosta il carcere alla panificazione è quella di
un'attività intramuraria che può offrire alle detenute un mezzo di sostentamento e nel contempo una
distrazione nel tempo sospeso. I laboratori di lsa di Meo, esperta delle tecniche di panificazione, tiene da
diversi anni a Roma Rebibbia, portano nel penitenziario sapienza e bellezza. Il titolo scelto per il laboratorio
è “tutta l'umanità è nel pane”, perché nel ritrovarsi insieme a impastare con ingredienti semplici ma
essenziali, ciascuna con le proprie differenze e percorsi biografici, può non solo resistere e contrastare la
spersonalizzazione, ma anche recuperare quel lievito di vita che è spesso la molla per cambiare.
Fare il pane, come insegna Elsa, esula dalla pura tecnica, p un modo di guardare il mondo attraverso la
mitologia, la storia, l'antropologia; nella preparazione le culture si mescolano , così come l'acqua con la
farina. Nessun obbligo alla partecipazione, il corso ha però visto il coinvolgimento non solo delle recluse ma
anche delle insegnanti e delle agenti attratte dalla bellezza dei manufatti e così si sono alternati momenti di
spensieratezza ad altri più riflessivi.

4.4. Reti per l'empowerment al femminile

È stato dimostrato che la gestione di un lavoro in forma autonoma può costituire una modalità efficace per il
superamento dei problemi di integrazione umana e di socializzazione propri delle ex detenute inserite in
contesti professionali di tipo tradizionale e che vada pertanto sostenuta e incentivata la possibilità che la
donna sviluppi proprie idee e progettualità imprenditoriali, anche in forma associativa (con altre compagne di
sventura).
Si tratta di promuovere attività lavorative dove detenute ed ex detenute possano essere coinvolte in modo
attivo e creativo, rafforzando consapevolezza, autonomia e proattività.
Esperienza di SIGILLO, finalizzata a promuovere un'azione di sistema che ha inteso “sviluppare
l'imprenditorialità femminile contribuendo a creare legami con il territorio”, ha radunato diverse realtà già
operanti negli Istituti e ha previsto una serie di azioni per trasferire competenze dirigenziali alle figure
quadro delle cooperative, e avviare alla formazione professionale le detenute. L'iniziativa più rappresentativa
perché è riuscita a scardinare stereotipi rivisitando alcune attività tradizionali come quelle sartoriali e che
inizialmente ha aderito alla rete di SIGILLO, è Made in carcere, un vero e proprio brand dal 2007 dedicato
alla produzione di oggetti “sostenibili”. Nel laboratorio sartoriale organizzato nella sezione femminile del
carcere di Lecce e di Trani, si realizzano borse di stoffa ma anche accessori e gadget personalizzati, tutti
composti da materiale di recupero. L'ideatrice è Luciana delle Donne, le ragazze coinvolte nella celta del
nome hanno voluto dimostrare che, nonostante la condizione vissuta per i loro errori, sono ora in grado “di
fare bene”. La parola d'ordine è efficienza. Il ritmo è serrato come si addice alle aziende competitive sul
mercato, ma la cura resta artigianale. Si è riusciti a creare rete, fra organizzazioni no profit e profit,
annoverando tra i committenti realtà importanti come Actionaid, Trenitalia, L'Oreal.
Conosciamo meglio Luciana: l'anno della svolta è il 2014, Luciana lascia il mondo della finanza perché non
si sente più “al posto giusto al momento giusto. Ha sempre avuto la passione di costruire strumenti e attrezzi
da lavoro, passione che porta anche nella nuova avventura in cui si scontra presto con le difficoltà del
carcere. Gli esordi non sono semplici, dopo 6 mesi di formazione per la realizzazione di un collo di camicia
da brevettare, le 15 donne coinvolte in quel progetto escono per indulto, vanificando l'investimento sulle
risorse umane. Così Luciana impara che il frequente turnover doveva tradursi nel dare la possibilità alle
donne in stato di detenzione di acquisire competenze tecniche e di vita dirottando verso altri settori
l'investimento. L'obiettivo non doveva essere più seguire la moda, ma realizzare oggetti utili e magari
riutilizzabili. Nasce una comunicazione sociale legata alle aziende che sostengono l'iniziativa acquistando i
gadget.

Il modello di economia riparativa e generativa

Il modello “Made in carcere” è un modello di economia rigenerativa che fa bene a tutti, è quello di un
impresa sociale in grado di promuovere benessere a persone svantaggiate con l'obiettivo di coniugare buon
senso e creatività, dimostrando attraverso la raccolta di tessuti in esubero per le aziende che il bello esiste e
va ricercato ovunque. Si offre una seconda chance a donne e tessuti.
Alle donne sono stati consegnati tessuti di recupero affinché attraverso la loro capacità e creatività
riacquistassero vita, trasformati in manufatti dotati di eleganza e bellezza. Sono stati coinvolti anche i ragazzi
minori in stato di detenzione ai quali è stato chiesto di realizzare con ingredienti biologici di prima qualità un
prodotto d'eccellenza scoprendo sapori e odori della materia prima locale.
Sono nate così le “Scappatelle”, biscotti vegano certificati bio; dal 2016 l'attività di questa realtà si estende
coinvolgendo diverse regioni. Oggi infatti è attiva in 6 Istituti Penitenziari.
La Maison, ovvero un lavoro di qualità che genera benessere

Essere una Maison tra le sbarre, cosa significa? Saper mettere cura non solo nel prodotto, ma anche nelle
postazioni di lavoro, diffondere bellezza. Sono stati creati ambienti dove le detenute possono trascorrere
momenti di condivisione, come la sala lettura e la sala riunioni, e anche una palestra per attività come lo
yoga. La Maison è quindi un luogo di bellezza dove imparare a prendersi cura di sé, quella cura che diventa
esperienza educativa con i manufatti.

Innovare i processi per resistere all'emergenza

Durante il periodo del lockdown il team di Made in carcere ha riflettuto sulla propria identità di impresa per
far fronte all'emergenza Covid. Sono state così confezionate mascherine, innovative ed ecologiche, da
riutilizzare come bandane dopo l'emergenza, o portafiltro riutilizzabili. Made in carcere già a Marzo 2020
aveva donato oltre 10.000 mascherine a diverse realtà del territorio nazionale.
Da Giugno 2020 è stato avviato il progetto BIL (Benessere interno Lordo), con lo scopo di influire in
maniera sistematica sullo stile di vita delle persone (in stato di detenzione e non) trasferendo capacità
creativa, consapevolezza e dignità, acquisibili attraverso un'attività lavorativa. Il progetto si è sviluppato su 3
regioni: Puglia, Basilicata e Campania, coinvolgendo 65 soggetti detenuti in attività formative
professionalizzanti nei settori tessile, food e agricoltura. Gli obiettivi sono ambiziosi: si vuole stimare il
social impact generato dall'attività Made in carcere su più livelli, valutando sia variabili tangibili come quelle
relative alla salute e all'abbattimento della recidiva, sia intangibili come il senso di realizzazione personale.
Sono state avviate collaborazioni e partnership.

4.5. Riprogettare gli spazi: dall'Istituto alla Casa

Durante l'indagine si è accennato allo stato materiale delle strutture , spesso fatiscenti e si è visto quanto gli
spazi determinino la qualità della detenzione. L'architettura delle prigioni per lunghi anni si è conformata agli
intenti correttivi e punitivi dell'istituzione, le planimetrie hanno rimarcato l'esigenza di controllo e
sorveglianza. Nella Relazione al Parlamento del 2019 curata dal Garante Nazionale dei diritti delle persone
detenute o private della libertà personale, ci si è soffermati sull'importanza di “ripartire dal luogo”. Negli
istituti femminili negli ultimi anni la minore pericolosità delle donne ha maggiormente favorito l'apertura
delle celle regolata dal provvedimento di sorveglianza dinamica, consentendo così alle detenute di tessere
relazioni non solo con le “concelline”, ma anche con le altre dei reparti, anche se ovviamente si è ancora
lontani dall'aver risolto la legittima e umana esigenza di affettività.
La responsabilizzazione della persona detenuta, il suo percorso di risocializzazione non può non passare
anche per ambienti pedagogicamente progettati; vivere in un luogo che esprime bellezza, cura, armonia,
induce comportamenti virtuosi e sviluppa sentimenti di appartenenza che dispongono alla
responsabilizzazione. Gli Istituti a Custodia Attenuata per Detenute Madri (ICAM), sono ancora solo 5 su
tutto il territorio nazionale e le Case famiglie protette solo 2 (queste strutture rappresentano una modalità di
esecuzione della pena per donne con figli/e da 0 a 10 anni).
La casa di Leda, casa famiglia protetta, è un bene confiscato con sede nel quartiere EUR che può ospitare 6
donne in pena alternativa alla detenzione o agli arresti domiciliari, e 8 minori 0-10 anni; le prime due
detenute provenienti da Roma Rebibbia sono entrate nel marzo 2017. Le ospiti sono seguite da educatori
professionali e operatori, gli ingressi avvengono su segnalazione e su richiesta inoltrata dai servizi della
giustizia; il servizio viene organizzato rispettando quanto stabilito dalla normativa: garantire la
socializzazione dei bambini e delle loro madri e intervenire su vari livelli. In primis si assicura al bambino
un'infanzia serena con la presenza rassicurante della madre e una serie di attività di cura. Si sostiene poi la
donna nel suo ruolo genitoriale , si lavora per rafforzare la relazione madre-figlio anche tramite la rete
integrata di servizi. Sono previsti spazi per le attività ludiche, di studio e all'aperto.
Ultimamente sono state avanzate alcune proposte chiedendo l'intervento finanziario dello Stato nella
costruzione e nell'avvio di questa realtà, contrariamente a quanto previsto dalla normativa che ha stabilito il
“senza oneri per lo Stato”.
Altro progetto che guarda al benessere dei bambini e delle loro madri è il M.A.MA (Modulo per l'affettività e
la maternità): si tratta di una vera e propria Casa dell'Affettività, luogo di incontro tra detenute e famiglie,
caldo, non asettico, per permettere alle donne di consumare un pasto con i propri cari e trascorrere un tempo
libero e sereno dai meccanismi dell'istituzione totale. Il prototipo,un prefabbricato di 28 mq posizionato in
un'area verde protetta, è dotato degli ambienti essenziali allo svolgimento delle attività tipiche della vita
domestica. Aver scelto il simbolo della casa non è stato casuale.

4.6. Donne e giustizia, giustizia alle donne

È innegabile che le molte proteste che hanno animato nella primavera del 2020 i penitenziari, così come le
molte iniziative di solidarietà promosse, hanno richiamato nuovamente l'urgenza di individuare per
l'esecuzione della pena soluzioni altre dal carcere. La legge delega 103 del Giugno 2017, aveva tentato di
inaugurare un diverso approccio all'esecuzione della pena, e ad essa sono seguiti 3 d.lgs con i quali è stata
data attuazione soltanto a una parte dei punti della legge delega, escludendo quelli relativi alla revisione di
modalità, presupposti e procedure di accesso alle misure alternative. Tuttavia non si è rovesciato il
“paradigma carcero-centrico” e, quindi, la necessità di riforma rimane.
È importante evidenziare tutte le iniziative che hanno registrato la partecipazione attiva della popolazione
detenuta nel contrasto al diffondersi del virus, si tratta di iniziative che hanno insegnato che il carcere non è
solo quello delle rivolte ma un luogo che deve essere parte attiva della comunità. A questo proposito è
possibile fare delle raccomandazioni:
– sostituire alla cultura della premialità quella dei diritti
– recuperare il materno come cura e apertura
– puntare nei percorsi di formazione professionale, sull'imprenditorialità femminile
– ripensare e riprogettare gli spazi
– diffondere percorsi scolastici

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