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La pubblicazione delle opere di Vincenzo Consolo nei Meridiani ne

ha sancito definitivamente la statura di “classico”, di scrittore


destinato a restare fra i grandi del secondo Novecento. La sua
scrittura nasce da una vocazione implacabile, tutta tesa verso
un’idea di letteratura come linguaggio tanto denso da sfidare la
consistenza stessa del reale. In questa prospettiva, Consolo
assegna alla letteratura una missione insieme impossibile e
necessaria, non solo estetica ma anche etica e politica. Per tutta la
vita egli ha parlato quasi solo della Sicilia: ma la sua Sicilia deve
essere collocata nel più ampio scenario del Mediterraneo, di uno
spazio dove da millenni le civiltà e le culture di tre continenti si sono
mescolate, integrate e scontrate. La straordinaria ricchezza multi-
linguistica e multi-culturale del Mediterraneo diventa così una
prospettiva privilegiata attraverso cui Consolo legge la storia e la
realtà. Non a caso egli è stato capace di cogliere già negli anni
Ottanta le dinamiche della migrazione, denunciando subito le
tragedie del mare nel Canale di Sicilia e non solo.
I saggi contenuti nel presente volume studiano in profondità, da
molte prospettive, i modi in cui Consolo ha indagato e rappresentato
la dimensione mediterranea, permettendoci di capire meglio una
realtà composita, che mette in questione ogni semplificazione
identitaria. Le sue pagine ci aiutano a fare i conti con la profondità
del nostro passato, la complessità del presente e le grandi questioni
del prossimo futuro.
Gianni Turchetta ha curato L’opera completa di Vincenzo Consolo per i Meridiani
Mondadori (2015; Premio Lions – Cesare Pavese 2016 per la prefazione e la
curatela) e edizioni di D’Annunzio, Pirandello, Campana. Ha pubblicato i volumi
Dino Campana, biografia di un poeta (1985, 19902, 20033), Gabriele d’Annunzio
(1990), La coazione al sublime (1993), Il punto di vista (1999), Critica, letteratura e
società (2003), “E questa storia che m’intestardo a scrivere”. Vincenzo Consolo e il
dovere della scrittura (2019). Ha scritto saggi sulla letteratura dell’800 e del ’900
(fra gli altri, su “Il Conciliatore”, Collodi, Salgari, Tozzi, Moravia, Cassola, Fortini,
Sciascia, Mastronardi, Testori, Consolo, Tadini, Elena Ferrante), sulla storia
dell’editoria italiana e sui media.
Il libro raccoglie le relazioni del Convegno di cui sopra. Questi gli autori e i titoli di
massima degli interventi: Gianni Turchetta (Università di Milano), Introduzione;
Dominique Budor (Université Sorbonne Nouvelle), «Gli inverni della storia» e le
«patrie immaginarie»; Sebastiano Burgaretta (Avola, SR, etnologo e docente),
L’illusione di Consolo tra metafora e realtà; Miguel Angel Cuevas (Universidad de
Sevilla), Due inediti e altre questioni consoliane a proposito del tempestosisissimo
Stefano D’Arrigo; Rosalba Galvagno (Università di Catania), Il «mondo delle
meraviglie e del contrasto». Il Mediterraneo di Vincenzo Consolo; Salvatore Maira
(Roma, scrittore e regista), Parole allo specchio; Nicolò Messina (Universitat de
València), Cartografia delle migrazioni in Consolo; Daragh O’Connell (University
College Cork), La notte della ragione. Fra poetica e politica in Nottetempo, casa
per casa; Marina Paino (Università di Catania), L’isola degli scrittori ulissidi; Carla
Riccardi (Università di Pavia), Da Lunaria alle Pietre di Pantalica: fuga e ritorno
alla storia?; Irene Romera Pintor (Universitat de València), All’ombra di Vincenzo
Consolo: esperienze a confronto; Corrado Stajano (Milano, giornalista e
scrittore), Vincenzo Consolo: storia di un’amicizia; Giuseppe Traina (Università di
Catania), Il tema arabo-mediterraneo nell’opera di Consolo.
MIMESIS / PUNTI DI VISTA
Testi e studi di letteratura italiana
contemporanea

N. 5

Collana diretta da Gianni Turchetta (Università degli Studi di Milano)

COMITATO SCIENTIFICO

Giuliana Benvenuti (Università di Bologna)


Luciano Curreri (Université de Liège, Belgio)
Tiziana de Rogatis (Università per Stranieri di Siena)
Stiliana Milkova (Oberlin College, Ohio, Stati Uniti)
Mauro Novelli (Università Statale di Milano)
Daragh O’Connell (University College Cork, Irlanda)
Isotta Piazza (Università di Parma)
Irene Romera Pintor (Universidad de Valencia, Spagna)
Giovanna Rosa (Università Statale di Milano)
Il volume è stato sottoposto a processo di peer review.
È stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze della mediazione
linguistica e di Studi interculturali dell’Università degli Studi di Milano.

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)


www.mimesisedizioni.it
mimesis@mimesisedizioni.it

Collana: Punti di vista, n. 5


Isbn: 9788857585543

© 2021 – MIM EDIZIONI SRL


Via Monfalcone, 17/19 – 20099
Sesto San Giovanni (MI)
Phone: +39 02 24861657 / 24416383
INDICE

INTRODUZIONE
di Gianni Turchetta

«GLI INVERNI DELLA STORIA» E LE «PATRIE IMMAGINARIE»


di Dominique Budor

L’ILLUSIONE DI CONSOLO TRA METAFORA E REALTÀ


di Sebastiano Burgaretta

DUE INEDITI E ALTRE QUESTIONI CONSOLIANE A PROPOSITO DEL


TEMPESTOSISISSIMO STEFANO D’ARRIGO
di Miguel Ángel Cuevas

IL «MONDO DELLE MERAVIGLIE E DEL CONTRASTO». IL MEDITERRANEO DI


VINCENZO CONSOLO
di Rosalba Galvagno

PAROLE ALLO SPECCHIO


di Salvatore Maira

CARTOGRAFIA DELLE MIGRAZIONI IN CONSOLO


di Nicolò Messina

LA NOTTE DELLA RAGIONE. FRA POETICA E POLITICA IN NOTTETEMPO, CASA


PER CASA
di Daragh O’Connell

L’ISOLA DEGLI SCRITTORI ULISSIDI


di Marina Paino

DA LUNARIA ALLE PIETRE DI PANTALICA: FUGA E RITORNO ALLA STORIA?


di Carla Riccardi

ALL’OMBRA DI VINCENZO CONSOLO: ESPERIENZE A CONFRONTO


di Irene Romera Pintor

VINCENZO CONSOLO: STORIA DI UN’AMICIZIA


di Corrado Stajano

IL TEMA ARABO-MEDITERRANEO NELL’OPERA DI CONSOLO


di Giuseppe Traina

GLI AUTORI
GIANNI TURCHETTA*
INTRODUZIONE
L’opera di Vincenzo Consolo e l’identità culturale del
Mediterraneo, fra conflitto e integrazione

1. Siciliano e milanese

Il libro che avete fra le mani nasce da un Convegno internazionale


tenutosi a Milano il 6 e 7 marzo 2019, presso l’Università degli Studi
di Milano, nella prestigiosa Sala Napoleonica di Palazzo Greppi.
Tenevo molto alla realizzazione di questo Convegno e ora sono
felice di aprire questo volume. Tornerò subito sull’importanza di
Consolo scrittore e intellettuale. Ma voglio anzitutto sottolineare fino
a che punto il sicilianissimo Vincenzo Consolo, (nato a Sant’Agata di
Militello il 18 febbraio 1933), che per tutta la vita ha parlato e scritto
quasi solo della Sicilia, avesse messo radici a Milano, dove ha
vissuto dal 1° gennaio 1968 (una data singolarmente simbolica) fino
alla morte, avvenuta il 21 gennaio 2012. Questo volume esce anche
ormai a ridosso del decennale della scomparsa, di cui intende aprire
le celebrazioni. Come molti altri scrittori siciliani, Consolo si è
trasferito a Milano: e come non pochi altri, Vittorini in testa, c’è
rimasto poi fino alla fine. È vero anche però che, in non pochi
momenti della sua vita, egli ha meditato seriamente sulla possibilità
di andarsene, di tornare in Sicilia, o quanto meno al sud, per vari
motivi: per nostalgia, forse per tutta la vita, ma fors’anche mai
convintamente; perché il sud avrebbe avuto bisogno di una guida
intellettuale (soprattutto all’indomani della morte di Sciascia, tra fine
anni Ottanta e inizio anni Novanta, anche per le sollecitazioni di
Goffredo Fofi, a sua volta tornato da Milano a Napoli); perché deluso
da un nord affarista e rapace, traditore della grande tradizione
illuminista (si veda Retablo), politicamente sempre più a destra
(soprattutto all’indomani dell’elezione di Formentini a Sindaco di
Milano, nel 1993), e poco dopo berlusconiano. Eppure, nonostante
tutto, Consolo alla fine è rimasto a Milano, per tante altre ragioni. E
dunque non si fa certo una forzatura considerandolo, così come tanti
altri meridionali diventati milanesi d’adozione (mi ci metto anch’io),
non solo siciliano, ma anche milanese. Certamente Milano ha dato
molto a Consolo. E d’altro canto Consolo ha ricambiato con una
fedeltà profonda, più di quanto potrebbe apparire a prima vista.
Era dunque doveroso che Milano, finalmente, gli dedicasse un
grande Convegno, e che questo Convegno non restasse solo un
evento, ma diventasse una tappa importante nella bibliografia critica
consoliana, diventata ormai molto ampia e ricchissima di contributi di
studiosi non italiani, o trasferiti da molto tempo in sedi estere. Prima
di entrare nel merito dell’argomento cui sono dedicati i saggi qui
raccolti, voglio ancora fare due osservazioni preliminari. La prima
riguarda la necessità di acquisire in pianta stabile Consolo alla
percezione diffusa della letteratura italiana contemporanea, a quello
che potremmo chiamare il senso comune o, se preferite, il canone.
La pubblicazione delle opere di Vincenzo Consolo nei Meridiani
Mondadori ne sancisce del resto definitivamente la statura di
“classico”, di scrittore destinato a restare. Sfruttando la prestigiosa
auctoritas di Cesare Segre: «Consolo è stato il maggiore scrittore
italiano della sua generazione»1, quella cioè degli anni Trenta. Segre
ha certo ragione, ma noi possiamo allargare anche di più la sua
affermazione, ribadendo, senza mezzi termini, che Consolo è tout
court uno dei massimi scrittori italiani del Secondo Novecento. La
seconda osservazione ha a che vedere con la scelta di inquadrare
Consolo in relazione all’identità mediterranea, o piuttosto all’intreccio
inestricabile di identità che caratterizza il Mediterraneo. Guardare a
Consolo da questa prospettiva significa certo, in prima
approssimazione, ribadire la costanza e la profondità dei suoi
discorsi sulla Sicilia: ma tenendo sempre presente che per Consolo
la Sicilia, come vedremo fra poco, è fisicamente centro e
simbolicamente luogo esemplare di una realtà più ampia e
complessa: quella appunto del Mediterraneo. Lo testimonia, fra, le
altre cose, anche l’importante antologia in lingua inglese degli scritti
di Consolo, Reading and writing the Mediterranean, curata da Norma
Bouchard e Massimo Lollini2. Allo stesso tempo, leggere Consolo
sub specie Mediterranei ha significato collocarsi in una specola
privilegiata, dalla quale egli appare fin dal primo momento in tutta la
sua complessità, di scrittore ma anche di intellettuale a tutto tondo,
impegnato senza tregua anche sul piano politico-culturale. Sarei
quasi tentato di parlare di una sorta di paradosso che governa il
lavoro di Vincenzo Consolo: ma credo sia più opportuno parlare di
una tensione costitutiva, che fa del resto tutt’uno con la sua
straordinarietà.

2. Sperimentalismo e eticità: fra scrittura e militanza

La scrittura consoliana nasce certo da una vocazione implacabile,


tutta tesa verso un’idea di letteratura come linguaggio speciale, tanto
denso da sfidare la concretezza stessa del reale. In questa
prospettiva, Consolo assegna alla letteratura una missione insieme
impossibile e necessaria, che ha una profonda valenza etica e
politica. Dopo la fine della stagione dell’engagement, Consolo chiede
alla letteratura di essere pienamente, ferocemente letteratura, di
distinguersi sempre dalle altre forme di comunicazione: comprese
quella della quotidiana battaglia politico-culturale, condotta
soprattutto sui quotidiani e in genere sui periodici a larga diffusione.
Questa duplicità gli consente di affiancare due operazioni molto
diverse, se non antitetiche: denunciare le ingiustizie del mondo, da
un lato, producendo parole che potrebbero, nonostante tutto,
contribuire a cambiarlo; ma anche, da un altro lato, valorizzare
senza sosta la bellezza e la ricchezza della vita. Non è certo un caso
che questa duplicità permei in profondità proprio la rappresentazione
della Sicilia, come mostra esemplarmente, fra gli altri, un romanzo-
romanzo come Retablo.
Se la scrittura propriamente letteraria è protesa verso la mission
impossibile di sfidare la densità delle cose e della realtà, d’altro
canto Consolo non smette di praticare senza sosta un’idea
fortemente militante del lavoro intellettuale, mediante il quale lo
scrittore, pur consapevole dei propri limiti, si batte per denunciare le
ingiustizie del mondo, intervenendo senza soluzione di continuità nel
dibattito culturale, in tutte le sedi disponibili. A fianco alla produzione
propriamente letteraria, Consolo ha così realizzato un’immensa
produzione saggistica e giornalistica, ancora pochissimo studiata, e
che è necessario indagare. Egli ha infatti collaborato per decenni
(dal 1966 al 2010) con numerosissime testate, fra le quali «L’Ora»,
«Il Messaggero», «La Stampa», il «Corriere della Sera», «l’Unità»,
«il Manifesto», «Repubblica», «L’Espresso». Solo una piccola parte
di questa produzione è stata raccolta e ripubblicata in volume: il che
equivale a dire che fra i lavori da fare ci sono non poche possibili
nuove edizioni. Per ora in volume troviamo anzitutto i magnifici
saggi, di impianto prevalentemente storico e letterario, raccolti in Di
qua dal faro3, un libro che a sua volta riprende altri più piccoli volumi
precedenti. Già questo volume affronta la storia, la cultura e la
letteratura siciliane in una prospettiva che si apre verso il
Mediterraneo tutto, anticipando prospettive di studio oggi molto
frequentate e ai quali certo il presente volume intende ricollegarsi.
Ma Di qua dal faro raccoglie solo una piccola parte della vasta
produzione saggistica di Consolo. Sul versante giornalistico,
possiamo leggere in volume anche un’antologia degli articoli
pubblicati sul quotidiano di Palermo «L’Ora» tra la fine degli anni
Sessanta e la metà degli anni Settanta4, durante la stagione
straordinaria della direzione di Vittorio Nisticò5. È poi disponibile una
scelta quasi completa dei suoi scritti sulla mafia6: dove, di nuovo,
emergono l’urgenza e la drammaticità di tematiche legate alla Sicilia
e al Meridione d’Italia, nella loro peculiarità ma anche nel loro più
ampio rapporto con i processi di modernizzazione della penisola. La
maggior parte degli scritti saggistici e militanti di Consolo resta però
sparpagliata nelle diverse sedi in cui è uscita e in una piccola
galassia di libretti di pressoché impossibile reperibilità. Consolo ha
svolto un’attività giornalistica di ampiezza e intensità davvero
straordinarie: mi permetto di rimandare, a questo proposito, alla
bibliografia da me curata per il Meridiano7, che nella sua (quasi)
esaustività consente di farsi un’idea precisa e fondata. E pensare
che alcuni critici hanno detto che Consolo era “pigro”: bibliografia
alla mano, pare proprio difficile sostenerlo! È vero solo, semmai, che
egli ha scritto un numero relativamente limitato di libri propriamente
di letteratura: questo è avvenuto proprio perché, quando scriveva
«letteratura», costruiva delle macchine semiotiche ed espressive di
natura assai diversa da quelle realizzate negli articoli e nei saggi,
macchine che chiedevano una costruzione lentissima, sviluppata nel
corso di anni interi. D’altro canto, per tutta la vita, o per lo meno dagli
anni immediatamente successivi all’esordio con La ferita dell’aprile8,
la scrittura letteraria è stata sempre affiancata da quella lato sensu
giornalistica. Già i volumi a nostra disposizione ci consentono di
cogliere fino a che punto Consolo fosse presente con grande
costanza nella vita pubblica e nella vita politica, sempre ben
salvaguardando la sua specificità di intellettuale, secondo un
modello che deriva dalla cultura francese, da Émile Zola e dallo
stesso Jean-Paul Sartre (entrambi citati più volte nei suoi scritti
militanti). Consolo era, insomma, un intellettuale sempre pronto a
parlare della realtà, del presente, della quotidianità, spesso toccando
temi caldi e problematici, con un coraggio e una spregiudicatezza
mai disponibili al compromesso, segnati da un’eticità rigorosissima,
senza incrinature. Per dirla in modo un po’ colloquiale: Consolo non
le mandava mai a dire, e questo, non lo si dimentichi, gli ha
procurato non poche ostilità, delle quali si curava poco o nulla.
Anche da questo punto di vista il suo esempio è davvero
ammirevole. Vorrei persino dire che, pur rifiutando sempre le non
poche sollecitazioni a scendere in politica9, a suo modo Consolo ha
sempre fatto politica, per quanto in maniera molto diversa e lontana
da quella dei politici professionali.

3. “Io non so che voglia sia questa”: l’ossessione della Sicilia

Cominciamo a dirlo con le sue parole:

Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e
girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare
in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne
nuove.
Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma
sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno
dei due sparisca.10
Consolo ha sempre in mente la Sicilia, ne parla sempre. Un po’ la
vuole, e un po’ però è lui il primo a non volerci tornare: la ama e non
la sopporta, la desidera e gli ripugna. Rappresentare la Sicilia da
lontano ha significato per lui anche vivere l’ossessione della Sicilia
nei termini, consapevolmente contraddittori di necessità del ritorno,
ma anche di impossibilità del ritorno. Significativamente, egli ha
reinventato il mito di Ulisse alla sua maniera, parlandoci di un Ulisse
che non ha più un’Itaca dove tornare, della quête ormai impossibile
di una patria e di un’origine che ormai non esistono più. Consolo è
ossessionato da questa sua patria che non è più quella di prima, che
non è più patria: ma parlando della Sicilia parla con ogni evidenza di
tutto un mondo dove la perdita delle radici è la regola, dove non è
più possibile affidarsi a un’appartenenza originaria, che rischia di
essere mistificata e mistificatoria.
Ma che Sicilia è la Sicilia di Consolo? Ancora una volta la
contraddizione è vitale: da un lato è una Sicilia costruita con
un’attenzione documentaria rigorosa. Da questo punto di vista,
Consolo si comporta in molti casi quasi come uno specialista, uno
storiografo di professione. Frequentando a lungo le sue carte ho
potuto vedere bene in che modo egli arrivasse a costruire i suoi testi
letterari, quasi sempre raccogliendo documenti e materiali vari per
anni. Nel caso del Sorriso dell’ignoto marinaio (la cui costruzione ha
richiesto tredici anni di lavoro) Consolo narra della cruenta rivolta
contadina di Alcàra Li Fusi, del maggio 1860, poi repressa con
violenza. Per ricostruirla non solo studia libri di storia, ma va in
archivio, cercando le carte di quella vicenda: si procura, per
esempio, i certificati di morte dei rivoltosi condannati alla fucilazione.
Quando infatti, alla fine del Sorriso, leggiamo proprio un certificato di
morte, quello del bracciante Peppe Sirna, non siamo davanti a
un’invenzione, ma a un documento autentico, che certo ha anche la
funzione simbolica di farci percepire il contrasto terribile fra la nuda
povertà di un certificato di morte, delle sue poche, gelide,
burocratiche parole, che sono un quasi-nulla, e la vigorosa intensità
della vita in corso, in particolare quella che avevamo percepito nel
cap. V, dove la rappresentazione passa proprio attraverso il punto di
vista di Peppe Sirna, messo in scena nelle sue fatiche, nelle sue
percezioni e nei suoi pensieri.
Consolo lavora così in molte occasioni: raccoglie i materiali come
uno storiografo e si confronta con la documentazione, nella sua
oggettività. Ma al tempo stesso non smette di mostrarci la
soggettività di ogni punto di vista e la prospetticità di ogni visione del
mondo. La Sicilia che egli rappresenta è del resto sì concretissima,
ma può essere anche sottoposta a una torsione mitizzante che la
rende persino fiabesca, come accade soprattutto in Lunaria, ma
anche in Retablo. In ogni caso, la sua Sicilia è, come dire?, una
Sicilia-Sicilia, fedele alla propria identità, ma al tempo stesso non
cessa di essere anche “altro”, di funzionare come una metafora ad
alta densità, dotata di una energica tensione generalizzante. Anche
la Sicilia di Consolo, com’era accaduto alla Lucania di Carlo Levi, si
fa intensa rappresentazione del Sud del mondo e dei processi di
modernizzazione che distruggono il mondo contadino: li vediamo
all’opera in Italia, ma anche in tante altre nazioni, soprattutto extra-
europee. Anche se ci parla di come i processi di modernizzazione
stiano distruggendo molte civiltà, in Consolo non c’è mai un
atteggiamento nostalgico, la facile retorica sui bei tempi andati. È
necessario ricordare, a questo proposito, come lo stesso pluri-
linguismo consoliano nasca dall’intenzione di conservare, attraverso
la letteratura, parole che rischiano di perdersi, e, attraverso le parole,
le culture, i punti di vista sul mondo, i modi di vita che esse portano
in sé. Nella scrittura di Consolo vi è insomma una grande
preoccupazione antropologica, oltre che storica, coerentemente con
la sua costante attenzione alla longue durée.
Parlando della Sicilia Consolo ci racconta una storia drammatica,
anche perché molte volte i cambiamenti sono parsi offrire delle
possibilità di rinnovamento, di liberazione, che poi però sono andate
perdute e hanno deluso. Al di qua e al di là della Storia, per Consolo
la Sicilia è però anche una densa metafora dell’ambivalenza della
vita. In fondo in Sicilia c’è tutto quello che si potrebbe desiderare per
essere felici: una cultura millenaria, con straordinari monumenti,
dalla protostoria alla Magna Grecia, dalla romanità al Medioevo, al
Barocco, al Liberty; una natura rigogliosa e varia; una cultura
stratificata e ricchissima; anche, perché no?, una cucina tra le più
raffinate del mondo. Detto in due parole, la Sicilia potrebbe forse
essere il migliore dei mondi possibili. Eppure per molti versi è quasi il
contrario: è un mondo tragicamente violento e corrotto, pieno di
orrori, tanto da rendersi persino proverbiale, visto che nel mondo
intero è proprio una parola siciliana, mafia, a indicare tutte le forme
di criminalità organizzata. Rispetto alla rappresentazione
dell’ambivalenza della Sicilia, Retablo11 è un testo esemplare: vi
troviamo deliziosi incontri tra amici e nuove amicizie che nascono;
ma al tempo stesso assistiamo alla rappresentazione di un orrore
innominabile, senza fine. Si pensi, fra le altre, alla scena delle
prostitute a cui per punizione viene tagliato il naso12. Una violenza
atroce, quella delle mutilazioni come pena legale, che si praticava
nel mondo passato, certo (e dunque… come idealizzarlo?): ma che
continua ad accadere ancora oggi in non poche parti del mondo…
La Sicilia appare dunque in Consolo come un luogo in cui vi è tutto il
male e tutto il bene, ed è di conseguenza anche per questo
un’immagine della vita tutta, un luogo «bellissimo e tremendo», per
riprendere un’espressione di Consolo stesso13. La Sicilia si fa
insomma metafora della vita, della sua bellezza straordinaria e della
sua terribile violenza, che convivono. D’altro canto, Consolo non
cade mai in un vizio tipico dei letterati: quello di collocare tutto in «un
tempo senza tempo», di parlare di ogni violenza e di ogni tristezza
come di qualcosa di eterno, segno di un destino immodificabile e
senza scampo. Non a caso del resto Consolo polemizza duramente
con chi, come Tomasi di Lampedusa, pensa che la Storia sia
inesorabilmente uguale a se stessa, che in essa «cambia tutto»
perché «non cambi niente». Tutt’al contrario, Consolo ci ricorda in
continuazione che i cambiamenti sono storicamente determinati: e
che quindi bisogna continuare a combattere per provare a cambiare.

4. “Non un paesaggio ma innumerevoli paesaggi”: il mosaico


Mediterraneo

Se la Sicilia funziona come chiave per la lettura del mondo tutto,


questo avviene anche e proprio perché la Sicilia è per Consolo una
sorta di sintesi del Mediterraneo, cioè di un’area talmente ricca sul
piano storico e culturale da poter valere come equivalente del
mondo tutto:
Perché è da qui che vogliamo partire, per un nostro viaggio, per una nostra
ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia,
da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per
conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio d’ogni
vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione.14

L’ambiguità sintattica, che permette di interpretare sia la Sicilia sia


il Mediterraneo come il “luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto,
d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione” finisce per ribadire sul piano
semantico la possibilità che la Sicilia sia una sorta di equivalente del
Mediterraneo tutto, con le sue caratteristiche di molteplicità e, di più,
di totalità. Già i saggi contenuti in Di qua dal faro15 vanno del resto,
fin dal titolo, in una direzione apertamente mediterranea. Il titolo
infatti evoca polemicamente un modo di dire dei Borboni, che con
l’espressione «Di là dal faro» designavano appunto la Sicilia, vista
dal continente, e più specificamente da Napoli, come la parte del
loro regno collocata al di là del faro di Messina: una regione a cui
guardavano evidentemente con sufficienza e distacco. La
prospettiva opposta, quella «di qua dal faro», implica invece uno
sguardo partecipe, ma al tempo stesso, mentre sottolinea la
centralità della Sicilia, intende sottolineare proprio la necessaria
apertura verso il Mediterraneo tutto: la Sicilia, dunque, come mondo
“altro”, ma emblematico di un mondo più vasto. Quanto ricco sia il
Mediterraneo di Consolo verrà mostrato con ampiezza e profondità
dai saggi qui raccolti. E voglio ricordare anche la recente uscita di
un’importante monografia di Ada Bellanova su La rappresentazione
degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, un volume che indaga
ampiamente la mediterraneità di Consolo16.
La dimensione mediterranea dell’opera di Consolo chiama in
causa, come accennato poco sopra, un’identità che va declinata su
una profondità storica straordinaria, plurimillenaria, di longue durée.
In questa chiave, la storia si fa antropologia, anche perché chiama in
causa gesti antichi, azioni che fondano le comunità umane: la
raccolta e la produzione dei cibi, la produzione di oggetti,
l’acquisizione delle risorse, e, in generale, quelle che potremmo
chiamare le azioni del lavoro umano. Non a caso, in Di qua dal faro
si trovano tante “storie” (straordinarie) che ci parlano direttamente di
queste azioni, di questi gesti: si pensi alle ricostruzioni della storia
dell’estrazione dello zolfo, una grande vicenda economica e
antropologica della storia italiana, o della pesca del tonno17. Certo il
Mediterraneo è uno spazio fortemente identitario. Ma si tratta di
un’identità caratteristicamente plurale, perché composta da un
mosaico complessissimo di tempi lingue culture etnie. Il
Mediterraneo è un piccolo mare, certo, ma che tocca in un piccolo
spazio tre continenti, in un’area segnata da una storia tanto antica
da configurarsi per molti aspetti come la culla non di una, ma di
molte civiltà. Ce lo ricordano, fra molte altre, le parole di uno dei più
grandi esperti di tutti i tempi della storia mediterranea, Fernand
Braudel:

Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma


innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà,
ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre. Viaggiare nel Mediterraneo
significa incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città
greche in Sicilia, la presenza araba in Spagna, l’Islam turco in Iugoslavia. Significa
profondare nell’abisso di secoli, fino alle costruzioni megalitiche di Malta o alle
piramidi d’Egitto. Significa incontrare realtà antichissime, ancora vive, a fianco
dell’ultramoderno: accanto a Venezia, nella sua falsa immobilità, l’imponente
agglomerato industriale di Mestre; accanto alla barca del pescatore, che è ancora
quella di Ulisse, il peschereccio devastatore dei fondi marini o le enormi petroliere.
Significa immergersi nell’arcaismo dei mondi insulari e nello stesso tempo stupire
di fronte all’estrema giovinezza di città molto antiche, aperte a tutti i venti della
cultura e del profitto, e che da secoli sorvegliano e consumano il mare.18

Lettore attento di Braudel, con ogni evidenza anche Consolo


colloca il Mediterraneo sotto il segno della pluralità, che ritroviamo in
tutti gli studi più autorevoli sul mare nostrum. Mi verrebbe persino da
dire che la stessa scrittura consoliana, così programmaticamente
plurale, intende in qualche modo echeggiare proprio quella pluralità.
Spazio millenario di intensi scambi e di ricchissima produzione
culturale, nel Mediterraneo culture diversissime si sono mescolate,
integrandosi prodigiosamente (si pensi alla civiltà arabo-sicula, o a
un fenomeno linguistico come il sabir, la lingua franca dei porti del
Mediterraneo, che mescola lingue romanze e lingue semitiche) o
tragicamente scontrandosi e combattendosi. Le scritture di Consolo
evocano continuamente lo spessore storico delle vicende che hanno
attraversato il Mediterraneo, proiettandole in modo sistematico
sull’attualità, e mostrando come la straordinaria ricchezza multi-
linguistica e multi-culturale del Mediterraneo possa costituire un
punto di riferimento per l’interpretazione della realtà contemporanea
e per l’individuazione di strategie di integrazione.
La forza del riferimento all’identità mediterranea sta anche nel
fatto che lo spazio del Mediterraneo rende problematiche molte
opposizioni che siamo soliti dare per scontate, a cominciare da
quelle, insieme geografiche e metaforiche, di nord vs sud e est vs
ovest. Ragionare in termini di mediterraneità significa così, di
necessità, fare sempre riferimento a un’identità composita, che nega
ogni semplificazione identitaria: proprio quel tipo di semplificazione
da cui derivano le elementari, forzatissime e opportunistiche
narrazioni sovraniste e populiste. Per sua stessa costituzione,
proprio l’identità mediterranea ci chiede continuamente di essere di
nuovo decifrata, ci impone di non smettere mai di fare i conti con
qualcosa che è sempre stata problematica, e che, per sovrapprezzo,
gli ultimi anni hanno, drammaticamente, reso ancora più
problematica e conflittuale. A questo proposito, è difficile trovare
parole più esatte di quelle di un altro gigante degli studi mediterranei,
Predrag Matvejević:

l’Europa, il Magreb e il Levante; il giudaismo, il cristianesimo e l’Islam; il Talmud,


la Bibbia e il Corano; Gerusalemme, Atene e Roma; Alessandria, Costantinopoli,
Venezia; la dialettica greca, l’arte, la democrazia; il diritto romano, il foro e la
repubblica; la scienza araba; il Rinascimento in Italia, la Spagna delle varie
epoche, celebri e atroci; gli Slavi del sud sull’Adriatico e molte altre cose ancora.
Qui popoli e razze per secoli hanno continuato a mescolarsi, fondersi e
contrapporsi gli uni negli altri, come forse in nessuna ragione di questo pianeta. Si
esagera evidenziando le loro convergenze e somiglianze, e trascurando invece i
loro antagonismi e le differenze.19

Fra conflitto e integrazione, appunto, come nel nostro titolo.


Parlare di Mediterraneo, non a caso, significa così anche denunciare
la violenza che in questo spazio è stata e continua a essere
esercitata. Ce lo ricorda ancora Braudel, in un passo che Consolo ha
non a caso citato più di una volta: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è
cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie,
gli orrori e le santità degli universi concentrazionari”20. Consolo è
stato, non per caso, uno dei più lucidi e tempestivi nel cogliere le
nuove direzioni della violenza nel Mediterraneo, a cominciare da
quella esercitata sui migranti, su cui torneremo fra pochissimo. Pochi
come lui hanno capito subito, fin dagli anni Ottanta, che

Il Mediterraneo oggi, forse per la prima volta nella propria storia millenaria vede
intaccato il mito che costantemente lo ha accompagnato, quello della culla delle
culture, delle civiltà, delle tre grandi religioni monoteistiche, per vederlo sostituire
da un mito sommario, cumulativo, a grappolo, quasi, ed è quello che presenta il
Mediterraneo come un mare pericoloso21

La vibrata, lucida polemica di Andrea Gialloreto, Srećko Jurišić,


Eliana Moscarda Mirković ci riporta, dolorosamente, a un contesto
odierno dove purtroppo il confitto sembra prevalere sull’integrazione.
Non sono pochi gli scenari in cui il peggioramento e il degrado sono
tragicamente evidenti, è fin troppo facile ricordarli: a cominciare dalla
Siria, per proseguire con l’Algeria, la Libia, l’Egitto. Caterina Consolo
ricordava con rimpianto gli anni in cui lei e Vincenzo potevano
viaggiare da soli in vari paesi del Magreb, semplicemente
noleggiando una macchina e girando in tutta tranquillità. Difficile
immaginare oggi qualcosa di simile. Certo, il degrado dell’oggi
rimanda a tanti altri momenti e luoghi in cui sono prevalse la violenza
e la conflittualità. A questo proposito, è opportuno ricordare che la
tesi di laurea in Giurisprudenza di Consolo, discussa il 18 giugno
1960, si intitolava La crisi attuale dei diritti delle persone22. Una volta
di più, la prospettiva consoliana si mostra acutissima, sempre lucida
davanti alla realtà presente. Per vari aspetti risulta impressionante,
per la sua tempestività, l’insistenza di Consolo nel segnalare il
dramma dei migranti africani e la frequenza delle tragedie in mare
legate ai loro flussi attraverso il Mediterraneo, fin dagli anni Ottanta:
si pensi a un racconto come il Memoriale di Basilio Archita23, scritto
addirittura nel 1984, una data incredibilmente precoce. Già allora,
Consolo intuiva quanto Ian Chambers oggi può affermare senza
incertezze:
Il migrante moderno è colui che più intensamente delinea questa costellazione
[attuale dell’ordine planetario]. Sospeso nell’intersecarsi di un’espropriazione
economica, politica e culturale, è colui/colei che porta le frontiere dentro di sé. […]
Il/la migrante non è puramente un sintomo storico della modernità; piuttosto è
l’interrogazione condensata dell’identità vera e propria del soggetto politico
moderno.24

Va aggiunto peraltro che Consolo ha dato anche costante


attenzione alla pluri-direzionalità e periodicità dei flussi migratori. Si
pensi, in particolare, ai suoi ripetuti riferimenti all’emigrazione dei
siciliani in Tunisia: ancora oggi un quartiere di Tunisi si chiama
“Petite Sicile”. Proprio in Tunisia emigra, fra gli altri, il protagonista
Petro Marano al termine di Nottetempo, casa per casa25.
Vi proporrò ora, per avviarmi al termine del mio percorso, un
esempio molto caratteristico della capacità di Consolo di leggere
lucidamente, criticamente la realtà, e insieme però di fondere la
lettura del presente con la possibilità di attribuirgli, tramite la
tensione espressiva e la forza mitizzante della letteratura, una più
ampia dimensione simbolica: così da far convivere metafora e storia,
sperimentazione e tensione etica, poesia e politica, in una miscela
che non smette di essere rarissima. Certo, oggi abbiamo tutti
presente ciò che sta succedendo in Europa e nel mondo: dove
migliaia, centinaia di migliaia, milioni di persone migrano, si spostano
e spesso muoiono nel tentativo di emigrare. Moltissimi, lo sappiamo,
soccombono tragicamente nel canale di Sicilia e al largo delle coste
dell’Egeo, uccisi “dall’acqua”. In tempi molto lontani Consolo ha
cominciato a cogliere questo movimento che oggi è sotto gli occhi di
tutti e che ha preso proporzioni così ampie da diventare uno degli
argomenti centrali in discussione nell’agenda politica dell’Unione
Europea. Se ne parla tutti i giorni, e ci si scontra su questo: i muri, le
quote, i soldi alla Turchia e i ricatti di Erdogan, gli imbarazzi politici
della Merkel e di Macron, le polemiche di Salvini e di Meloni. Come
abbiamo visto, Consolo ha capito prestissimo la rilevanza del
fenomeno. È chiaro: egli guarda al presente, alla storia, al Meridione
nostro e al Meridione del mondo, cogliendo il suo e nostro presente
con rara tempestività e profondità, prima di tanti altri. Ma se
consideriamo questa sua percezione da un altro lato, ci
accorgeremo che, ben da molto prima, Consolo dà corpo anche a
un’ossessione letteraria, ben più antica, che lo rincorre fin dai
primissimi racconti (si veda Un sacco di magnolie, 195726) e poi
ricorrerà per tutta la sua carriera di scrittore: l’immagine del morto in
acqua e “per acqua”. Ben prima che le migrazioni nel Mediterraneo
diventassero cronaca quotidiana, Consolo riprende infatti più e più
volte l’immagine della Death by water della Waste Land di Thomas
Stearns Eliot, sezione IV, con la figura di Phlebas il fenicio, morto
nell’affondamento della sua nave. La forza mitizzante di lungo
periodo della letteratura diventa così a sua volta uno strumento
privilegiato per cogliere la realtà presente. Una volta di più, metafora
e storia si incontrano: così che l’ossessione letteraria fa tutt’uno con
la profondità e la lucidità nello scandaglio del reale. La grandezza di
Consolo sta anche qui.
I saggi raccolti nel presente volume concentrano l’attenzione su
un amplissimo ventaglio tematico relativo all’emergere, in molteplici
forme, delle questioni mediterranee in tutta l’opera di Consolo, sia
nelle opere propriamente letterarie, sia nelle prose saggistiche e
giornalistiche. Ma è noto che uno dei tratti caratteristici della scrittura
di Consolo sta anche nel rimescolare generi e stili. La ricchezza
della proposta interpretativa qui proposta vuole rispondere anche e
proprio sia alla pluralità così caratteristica della dimensione
mediterranea, sia alla pluralità che caratterizza costitutivamente la
scrittura di Consolo, e anche, più largamente, la sua fisionomia
intellettuale e umana. In pochi rapidi cenni, ricorderò ora che
Dominique Budor (Université Sorbonne Nouvelle), con“Gli inverni
della storia” e le patrie immaginarie, approfondisce il ruolo
dell’immagine di Milano, “patria immaginaria”, da un lato, e della
Francia da un altro. Sebastiano Burgaretta, con L’illusione di
Consolo tra metafora e realtà, mette a fuoco soprattutto la
produzione saggistica di Consolo dedicata alla Sicilia (includendovi
anche un testo peculiare per genere e per tono come La Sicilia
passeggiata), nell’ottica privilegiata del discorso sul Mediterraneo di
cui la Sicilia è centro e crocevia. Miguel Ángel Cuevas (Universidad
de Sevilla), in Della natura equorea dello Scill’e Cariddi:
testimonianze consoliane inedite su Stefano D’Arrigo, ripercorre il
rapporto profondo e per certi aspetti portante fra Consolo e l’autore
di Hocynus Orca, indagandone diramazioni letterarie e linguistiche.
Rosalba Galvagno (Università degli Sudi di Catania), con Il «mondo
delle meraviglie e del contrasto». Il Mediterraneo di Vincenzo
Consolo, delinea un denso e intenso ritratto del Mediterraneo
consoliano, che diventa una chiave privilegiata per delineare “il
destino, cioè il senso” della sua scrittura. Salvatore Maira, in Parole
allo specchio, ci regala un intenso, vivo ricordo, legato soprattutto
alla scrittura condivisa della sceneggiatura cinematografica derivata
da Il sorriso dell’ignoto marinaio: vicenda che diventa la specola per
guardare a Consolo da un punto di vista originale. Nicolò Messina
(Universitat de València) costruisce un’attenta Cartografia delle
migrazioni in Consolo: una questione cruciale, come abbiamo visto,
che Messina indaga a partire da un censimento pressoché completo
delle occorrenze della parola Mediterraneo e dei suoi derivati.
Facendo perno sull’antitesi fra conflitto e integrazione, Messina
mette a fuoco appunto “l’idea di un’identità del Mediterraneo,
esaltata proprio dalle migrazioni e dai suoi attori”27. Daragh
O’Connell (University College Cork), in La notte della ragione:
Nottetempo, casa per casa fra poetica e politica, studia nel dettaglio,
nella chiave qui proposta, il ruolo del secondo romanzo storico
consoliano, strategico anche perché, come ebbe a dire l’autore, nato
da “un sentimento nuovo di responsabilità all’indomani del vuoto
lasciato da Sciascia nel panorama della letteratura europea e
italiana”28. Marina Paino (Università degli Sudi di Catania), in La
scrittura e l’isola, indaga in profondità soprattutto le relazioni fra la
scrittura di Consolo, “i miti mediterranei del nostos e dell’isola” e “la
scrittura o meglio gli autori siciliani”29. Carla Riccardi (Università
degli Studi di Pavia), con Da Lunaria a Pantalica: fuga e ritorno alla
storia?, costruisce un denso percorso fra alcune opere consoliane,
lette come una “ricerca su come afferrare la realtà, la storia con tutta
la strumentazione che si vale di parole”30, in una fascinosa varietà di
generi e stili. Irene Romera Pintor (Universitat de València), in
All’ombra di Vincenzo Consolo: esperienze a confronto, rende conto
felicemente delle molte sfide poste dalla traduzione in spagnolo di
Consolo, nella consapevolezza dell’importanza delle traduzioni per
comunicare al pubblico del presente e del futuro l’“immensa
ricchezza culturale, linguistica e umana”31 della Sicilia, e del mondo,
che lo scrittore santagatese ha voluto trasmettere. Corrado Stajano,
con Un grande amico, ci offre un lucido e insieme toccante ricordo
delle tappe cruciali di una grande, profonda, amicizia, durata tutta
una vita, nelle sue complesse vicissitudini. Infine Giuseppe Traina
(Università degli Sudi di Catania), in Per un Consolo arabo-
mediterraneo, interpreta in modo articolato e persuasivo i diversi
modi, fra loro intrecciati, in cui Consolo ci parla della presenza
araba: quello “memoriale, di marca geografico-artistica”32; quello
storico-sociologico; quello più marcatamente letterario; quello
politico.
Per finire, il quadro che emerge ci mostra, se ce ne fosse stato
ancora bisogno, fino a che punto la scrittura di Consolo continui a
interrogare il nostro presente. Nei suoi testi balena del resto, con
grande forza, una percezione della Storia molto vicina a quella di un
altro autore a lui molto caro, Walter Benjamin: “La storia è oggetto di
una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma
quello pieno di «attualità»”33. Che scriva romanzi storico-metaforici,
testi dalla problematica identità di genere (come Lunaria o L’olivo e
l’olivastro), saggi o articoli di quotidiano, Consolo continua
comunque a mettere in questione il nostro presente, e a ricordarci
che la Storia è sempre adesso.

Ringraziamenti

Grazie all’Università degli Studi di Milano, che ha ospitato il


Convegno, e concesso i fondi di ricerca che hanno consentito la
pubblicazione del presente volume. Grazie al Rettore Elio Franzini,
ai colleghi Paola Catenaccio e Dino Gavinelli, che sono intervenuti
all’apertura del Convegno. Un ringraziamento speciale all’amico
Stefano Raimondi, che ha voluto con forza la collana in cui il volume
esce, e a Francesca Adamo, che con la consueta perizia ne ha
curato la redazione. Grazie di cuore a tutti i relatori, e anche ai non
pochi colleghi che avrebbero voluto partecipare al Convegno: non
era possibile invitare tutti, ma anche il desiderio di esserci è una
bella testimonianza dell’ammirazione e della passione che
circondano Consolo, in Sicilia, a Milano, e in molti altri paesi.
* Università degli Studi di Milano
1 C. SEGRE, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. CONSOLO, L’opera completa,
a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre,
Mondadori, Milano 2015, p. XI.
2 V. Consolo, Reading and writing the Mediterranean. Essays by Vincenzo
Consolo, a cura di N. Bouchard e M. Lollini, University of Toronto Press,
Toronto-Buffalo-London 2006.
3 V. Consolo, Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; ora in Id., L’opera
completa, cit., pp. 977-1260.
4 V. Consolo, Esercizi di cronaca, a cura di S. Grassia, Prefazione di S.S.
Nigro, Sellerio, Palermo 2013.
5 Di cui possiamo leggere il lucido e appassionato racconto in V. Nisticò,
Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’«Ora» di Palermo, Sellerio, Palermo
2001.
6 V. Consolo, Cosa loro, a cura di N. Messina, Bompiani, Milano 2017.
7 Bibliografia, Opere di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, L’opera completa,
cit., pp. 1481-1517.
8 La ferita dell’aprile, Milano, Mondadori, 1963; poi Torino, Einaudi, 19772; poi
Milano, Mondadori 19893 (con introduzione di G. C. Ferretti); ora in Consolo,
V., L’opera completa, cit., pp. 3-122.
9 In particolare nel 1988-1989, quando Consolo venne sollecitato a candidarsi
come indipendente nelle liste del PCI per le elezioni europee da Aurelio
Grimaldi prima, e poi dallo stesso Segretario del Partito Achille Occhetto; cfr.
G. Turchetta, Cronologia, in V. Consolo, L’opera completa, cit., p. CXXXIII.
10 V. Consolo, Comiso, in Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1988;
19902 (a cura e con introduzione di G. Turchetta, G.); ora in V. CONSOLO,
L’opera completa, cit., p. 632.
11 V. Consolo, Retablo, Palermo, Sellerio, 1987; ora a in V. CONSOLO, L’opera
completa, cit., pp. 365-475.
12 Ivi, p. 400.
13 V. Consolo, Viaggio in Sicilia, in Id., Di qua dal faro, Milano, Mondadori,
1999; poi in Id., L’opera completa, cit., p. 1224.
14 V. Consolo, La Sicilia passeggiata, ERI, Torino, 1991; poi con Prefazione di
G. Turchetta, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2021, p. 18.
15 Id. Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; ora in V. CONSOLO, L’opera
completa, cit., pp. 987-1260.
16 A. Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi
nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2021.
17 Un uomo di alta dignità, Introduzione a ‘Nfernu veru. Uomini & immagini dei
paesi dello zolfo, a cura di A. Grimaldi, Edizioni Lavoro, Roma 1985, pp. 9-
32, poi col titolo Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, cit., pp. 981-
1006; La pesca del tonno in Sicilia, in La pesca del tonno in Sicilia, con saggi
di R. Lentini, F. Terranova ed E. Guggino; schede di S. Scimè; glossario di M.
Giacomarra, Sellerio, Palermo 1986, pp. 13-30; poi in Di qua dal faro, cit., pp.
1007-1039.
18 F. Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni
(1985), trad. it. di E. De Angeli, Bompiani, Milano 1987, 20193, pp. 5-6.
19 P. Matvejević, Breviario mediterraneo (1987), trad. ital. di S. Ferrari,
Garzanti, Milano 1991, 20062, pp. 18-19.
20 F. Braudel, Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (1949), trad.
it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976, vol. I, pp. 921-922.
21 A. Gialloreto, S. Jurišić, E. Moscarda Mirković, Introduzione, in Oceano
Mediterraneo. Naufragi, esili, derive, approdi, migrazione e isole lungo le rotte
mediterranee della letteratura italiana, a cura di Id., Franco Cesati, Firenze
2020, p. 9.
22 Per ulteriori dettagli si veda G. Turchetta, Cronologia, in V. Consolo, L’opera
completa, cit., p. CV.
23 Uscito per la prima volta con il titolo Il capitano ordinò “buttateli agli squali”,
«L’Espresso», 3 giugno 1984, pp. 55-64, venne poi inserito con il titolo
Memoriale di Basilio Archita in Le pietre di Pantalica, cit., pp. 639-646. Per
ulteriori dettagli si veda G. Turchetta, Note e notizie sui testi, in V. Consolo,
L’opera completa, cit., pp. 1371-1372 e 1383.
24 I. Chambers, Mediterranean Crossings. The Politics of an Interrupted
Modernity (2007), trad. ital. di S. Marinelli, Le molte voci del Mediterraneo,
Raffaello Cortina Editore, Milano 2007, p. 7.
25 V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Milano, Mondadori, 1992; ora in V.
CONSOLO, L’opera completa, cit., p. 755.
26 Ora in V. Consolo, La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina,
Mondadori, Milano 2012, pp. 7-10.
27 Cfr. infra, p. 109.
28 Cfr. infra, p. 134.
29 Cfr. infra, p. 156.
30 Cfr. infra, p. 167.
31 Cfr. infra, p. 197.
32 Cfr. infra, p. 209.
33 W. Benjamin, Tesi di filosofia della Storia (1940), Tesi n. 14, in Id., Angelus
Novus. Saggi e frammenti (1955), trad. e introduzione di R. Solmi, Einaudi,
Torino, 1962, 19813, p. 83.
DOMINIQUE BUDOR*
«GLI INVERNI DELLA STORIA» E LE «PATRIE
IMMAGINARIE»

Il Meridiano pubblicato presso l’editore milanese Arnoldo


Mondadori, questo convegno organizzato nell’Università degli Studi
di Milano e la collaborazione con la Fondazione Arnoldo e Alberto
Mondadori depositaria del Fondo Consolo sono un opportuno segno
dell’importanza che, nel pensiero e nell’opera di Vincenzo Consolo,
ha rivestito la città di Milano, la «patria immaginaria» in cui il 1°
gennaio 1968 si trasferì definitivamente l’«emigrato» che aveva
lasciato la Sicilia. In questo saggio si intende, in una lettura critica
necessariamente organizzata secondo la cronologia della storia (S e
s), ripercorrere l’iter di vita e di scrittura, letterario e politico insieme,
che l’opera di Consolo delinea tra le speranze e «gli inverni della
Storia»1: vale a dire l’idea di Francia, il mito del Nord, l’avvenuta
smitizzazione della patria lombarda e il suo ulteriore sostituto, «la
Patria ritrovata»2 ovvero la Francia; con, sempre, il desiderio di
memoria mediterranea, perché le percezioni e le scelte di Consolo
iscrivono la cultura siciliana contemporanea in un rapporto più ampio
con l’antichità classica e con le culture, alternative per modo di dire,
dell’Islam o del mondo anglosassone. Le origini testuali del titolo
totalmente citazionale di questo intervento palesano inoltre quanto
l’“opera” di Consolo, tesa nella sua organica coerenza, implichi tutti i
testi suoi, al di là della loro specificità generica.

All’origine: I Miserabili e Judex


La primissima idea di Francia nasce in Consolo per via
dell’ambiente educativo. Evocando la sua infanzia in una famiglia
piccolo-borghese e in un piccolo paese dell’estrema provincia
siciliana, Consolo indica l’influenza di un cugino del padre, don
Peppino Consolo, «piccolo proprietario terriero, eccentrico e
libertario»:

il mio primo incontro con la letteratura francese è stato l’illuminante, il


folgorante, I Miserabili. […] E, come De Roberto diceva di Flaubert, questo mio
parente mi urlava, spronandomi a leggere: “Vittor Ugo, Vittor Ugo, non c’è che
lui!”3

Consolo, rivalutando i dati autobiografici a distanza di mezzo


secolo, conferma tanto l’entusiasmo del cugino per il libro
miticamente assunto dai proletari e dagli emarginati quasi a breviario
dell’insurrezione4 quanto lo choc provato dal giovanissimo lettore
ch’egli stesso fu per la sublimazione della miseria operata da Hugo
con la creazione dei personaggi di Cosette e Gavroche. Nel
romanzo di formazione dell’autore, ovvero La ferita dell’aprile, si
trova inoltre un’indicazione di come il francese, nel periodo delle
scuole medie in un Istituto gestito dai Salesiani, abbia costituito una
lingua di apertura alla diversità e alla realtà della vita rispetto
all’oppressione e alla chiusura del mondo cattolico e siciliano.
Mentre tutti i preti sono chiamati secondo la loro funzione (il signor
consigliere, il signor prefetto…) e quando solo quello che ha vissuto
la ritirata di Russia e che non ha l’accento siciliano viene chiamato
per nome (don Sergio), i chierici sono evocati così:

[…] e i chierici, quelli senza l’ordine / che giocavano un i giovanotti / sui 20 anni
che insegnavano / storia o geografia o francese/ e giocavano al pallone con i /
ragazzi […]5

E se l’aggiunta, presente in un foglio di quel quaderno manoscritto


che costituisce una prima redazione del capitolo II, nel momento in
cui del resto il romanzo si chiama ancora I padri putativi (1960 o
1961), sparisce nell’ultima versione del testo nel 1963 (forse nel filo
delle discussioni di Consolo con l’amico Basilio Reale e con Raffaele
Crovi della Mondadori), si può ritenere che la sua provvisoria
presenza abbia costituito, nella brutta copia e nella fase di volontaria
anamnesi, una necessaria inflessione di chiarimento e costruzione
del sé: certo, l’io narratore de La ferita dell’aprile, immerso nel
“mistilinguismo” usato dall’autore, palesa il passaggio dal
sanfratellano (lingua stramba, forestiera, estrema) – tramite il
siciliano – fino all’italiano, ma incarna soprattutto il rifiuto del codice
linguistico imposto e la scelta della diversità di fronte al conformismo
e all’autorità.
È risaputa, perché spesso ricordata da Consolo, l’importanza
ideologica o piuttosto etica di un altro ricordo francese: è la visione,
all’oratorio dei Salesiani dove si trovava il giovane Vincenzo con suo
fratello, del film di Louis Feuillade, Judex (realizzato nel 1917 per la
Gaumont a partire dalla sceneggiatura di Feuillade e Arthur
Bernède), visione interrotta dal bombardamento di fine maggio del
1943 a Sant’Agata di Militello. Mi limiterò qui a ripetere, perché l’ho
ampiamente analizzato altrove6, quanto i testimoni che
documentano la genesi de Lo spasimo di Palermo confermino il
ruolo fondante del protagonista Judex nella costituzione per il
giovane Vincenzo del mito del giustiziere. Ruolo strutturante anche
per lo scrittore che confronta le fissazioni ed eventuali fallacie della
sua memoria con la completezza simbolica dei significati del film,
fino ad approdare alla definizione del magistrato Paolo Borsellino,
ucciso dalla mafia con la sua scorta il 19 luglio 1992, come giudice-
eroe dei tempi moderni.
La forza dei due suggerimenti, I Miserabili e Judex, risulta
conforme alle condizioni di accesso a una controcultura intellettuale
e civile per certi giovani siciliani negli anni Trenta e Quaranta. Si
pensi all’impatto, esasperato dalla rarità degli spettacoli e in certi
casi pure dei libri, del Feu Mathias Pascal di Marcel L’Herbier per la
comprensione da parte di Leonardo Sciascia della nozione
pirandelliana di “maschera” o del dubbio sull’identità7, e pure, per
l’adolescente Goliarda Sapienza, al valore sessuato e politico dei
personaggi incarnati da Jean Gabin nei film del realismo poetico
francese8. Ma, per tornare a uno dei miti fondatori, Hugo, si
dovrebbe citare Sciascia, amico e maestro di Consolo fino al
cosiddetto «parricidio», in base certo – va precisato – a un dissenso
poetico e non di contenuti o di uso della penna-spada:

Oserei persino dire che chi ignora l’importanza dei Miserabili per la formazione
della coscienza individuale e collettiva di due o tre generazioni, non ha capito
niente dell’Europa.9

Sembra anche opportuno ricordare i due richiami a Victor Ugo /


Vittor Hugo ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Hugo viene citato
insieme a Proudhon a proposito della Trinacria e della proprietà
universale della Terra nel discorso che Interdonato rivolge a
Mandralisca, e poi insieme a D’Azeglio o Guerrazzi (detti autori di
«prosa larga») nella Memoria di Pirajno all’avvocato Interdonato10
per indagare quale poté essere la forza ispiratrice dello scrittore
francese. Ora, quando si rilegge la seconda epigrafe del Sorriso,
appare l’importanza del gioco delle «somiglianze» che Consolo,
mutuandolo da Sciascia, trasferisce a Mandralisca: «Mandralisca
capisce che quella somiglianza è il gioco degli specchi di una cultura
in cui tutti ci assomigliamo». Gianni Turchetta ha insistito sul
procedimento, riportandolo alla storia11, e Daragh O’Connell ha letto
in proposito il rapporto di ékphrasis tra parola e icona pittorica12. Ma
questo processo vale più ampiamente per tutte le forme anteriori di
intertestualità reperibili nell’ipertesto. Non si tratta solo delle tracce di
documentazione o fonti quando, alla fine degli anni Sessanta e poi
Settanta, gli intellettuali meridionali ripensano le vicende
risorgimentali (si veda, nella rigorosa edizione di Nicolò Messina,
l’ingente documentazione storica – storiografia e memorialistica –
riunita da Consolo13). Si tratta più che altro della forza generatrice
degli ipotesti. Come afferma Sciascia, «il giuoco delle somiglianze è
in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di
conoscenza»14: aiuta, per similarità e per differenza nelle tracce
reperibili, a leggere il rimosso politico tramite la profonda tessitura tra
Storia e letteratura, e non più secondo lo spostamento della Storia
verso la finzione come avveniva nel Neorealismo. Certo, Consolo
prende in considerazione i testi sul Meridione, da Carlo Levi a
Leonardo Sciascia, ma legge anche la letteratura straniera come
occasione di capire società diverse. Se Hemingway e Faulkner
permettono di cogliere più acutamente ciò che Corrado Stajano ha
chiamato l’«intelligenza delle cose e degli uomini»15 (qui, la sorte dei
proletari sfruttati, che sia nel Mississipi o nelle cave di estrazione
della pomice a Lipari), solo il romanzo di Hugo16 appare atto a
collegare l’insurrezione repubblicana a Parigi del 1832 con i moti
siciliani del 1860 (Alcàra Li Fusi, Bronte…). Hugo difatti aveva, in un
episodio perno del suo romanzo, sintetizzato la reale barricata del
chiostro Saint-Merry (5-6 giugno 1832) e quelle del 1848 (Faubourg
Saint-Antoine e Faubourg du Temple) per descrivere l’immaginaria
barricata parigina della rue de la Chanvrerie dove fa morire
Gavroche, al fine di produrre l’“idea” di barricata e, forse, un
embrione di educazione alla guerra urbana17. Secondo lo stesso
processo documentario e narrativo, Consolo intende attraverso le
vicende di ieri scavare nel profondo dei fenomeni storici e
manifestare il senso della realtà di oggi: il che, nel 1976, vale a dire
assumere criticamente le insurrezioni del Maggio ’68 in Francia e nel
mondo, gli scontri dell’autunno caldo, il terrorismo e gli anni di
piombo. Nasce allora una riflessione globale sull’uso della violenza e
sulla prospettiva rivoluzionaria attraverso una narrazione che, come
precisa Consolo, deve «coagulare l’idea del romanzo»18 per
produrre una potente «metafora» storica del presente.

La Sicilia, la Francia e Milano

Altri elementi della formazione di Consolo risultano essenziali. Nel


dopoguerra, al di là delle vicende personali che, dal 1946 all’inizio
degli anni Sessanta, quando Consolo inizia a scrivere La ferita
dell’aprile, fondano la maturazione della sua coscienza politico-
sociale e strutturano la sua cultura libresca e filmica, l’autore
condivide con molti intellettuali, scrittori e poeti del «gruppo
siciliano»19 (Sciascia in primis) una rilettura storica e storiografica
della Sicilia: contro la falsa rivoluzione dei Vespri, viene restaurata
un’immagine positiva dei Normanni (la monarchia degli Altavilla) i
quali ereditano ed esaltano la civilizzazione musulmana, «onde l’ora
solare della Sicilia»20. Attraverso i fatti di vita oppure gli scritti di
Miccicché, Amari, Navarro della Miraglia, Capuana e Verga, per
arrivare a De Roberto, Pirandello, Brancati, Vittorini e infine a
Lampedusa e a Sciascia, Consolo analizza come la Francia sia
diventata una «patria ritrovata»21. Cito:

Per bisogno o nostalgia dunque d’una mitica epoca felice, epoca d’armonia
sociale, di dialogo e reciproco scambio tra etnie, religioni, lingue, culture diverse (a
Palermo v’erano allora trecento moschee, chiese di rito greco e latino, sinagoghe
ebraiche), nacque, negli intellettuali siciliani moderni il vagheggiamento di
quell’immaginaria patria che fu la Francia. Desiderata anche perché vivevano in
un’isola di perenne infelicità sociale, di oscurantismo culturale, in una terra di
ribellismi popolari sempre ferocemente repressi e che nessun cambiamento
apportavano; desiderata, la Francia, per l’illuminismo, il giacobinismo, per la
Rivoluzione che là s’era compiuta.22

Questa definizione, anzi auto-definizione, di intellettuali


«moderni» e il riferimento all’Illuminismo fondano allora le speranze
del giovane autore quando, nel 1968, e dopo aver vinto il concorso
alla RAI, ha deciso di andare «a lavorare e vivere a Milano, la Milano
di Manzoni, ma anche di Verga, di Quasimodo, di Vittorini»23, come
detto in Memorie. L’espressione, nel suo aspetto cronologico,
delinea uno stato della coscienza desiderante di Consolo verso la
città, anziché un reale ritratto intellettuale e civile di essa. Consolo
giustifica così il suo trasferimento allorché Lucio Piccolo glielo
sconsiglia:

Non potevo dirgli [al barone Lucio Piccolo], soprattutto, che lì in Sicilia mi
sembrava tutto finito, senza speranza, che a Milano, al Nord avevo la sensazione
che tante cose si muovessero, che stesse per iniziare una nuova storia.24

Eppure, una fotografia privata scattata alla stazione di Milano e un


racconto inedito intitolato L’emigrante25 testimoniano di come sia
ormai distrutta la Milano popolare «della cristiana provvidenzialità del
Manzoni»26, la Milano dell’Illuminismo lombardo di Verri e Beccaria
intenta a costruire un sistema sociale più equo, e pure la Milano
dell’inurbamento industriale scelto e del grande Progetto di
ricostruzione postbellica. Certo, la coscienza civile di Consolo gli
permette, sin dai primissimi anni Settanta, di capire il processo di
distruzione di questa patria immaginaria che è stata per un tempo
Milano. Domina la violenta uniformità di pensiero della televisione
mainstream («Lavoro in una fabbrica d’armi» dice Consolo a Luciano
Erba a proposito della RAI); regna l’affaristica aziendale; il
sentimento di desolazione è incupito dall’amministrativo grigiore dei
quartieri del Centro; Milano subisce la segregazione sociale dei
dormitori e dei quartieri (si rilegga il racconto intitolato Porta
Venezia); i fascisti colpiscono i compagni (Il rito); la solidarietà dei
lavoratori si infrange (si veda Turi e l’egiziano in Un giorno come gli
altri)27. Alla generosità di cuore della «buona gente», si oppone la
vistosa opulenza e indifferenza civile degli «altri», come li chiamerà
Consolo nel 1993 nel momento dei funerali delle vittime della strage
mafiosa di via Palestro: gli altri, ovvero «quelli della borsa, delle
banche, dei titoli, della fabbrichetta, dell’azienda, della moda, della
Scala, del Piccolo, di Montenapo e dei mercanti d’arte»28.
Su Milano però, Consolo non smette di scrivere: «Ritorno a
Milano e scrivo, riverso nelle parole, nella scrittura, in racconti e
diari, cronache d’avventure sempre uguali e sempre nuove negli esiti
orrendi, pene e furori, rimpianti e denunzie, malinconie e
invettive»29. E scrive pure sulla Sicilia: non quella della memoria o
dell’ideale geografia letteraria ma quella reale in cui ridiscende, da
osservatore lucido, la Sicilia senza la quale non si può capire né
l’Italia né il Mediterraneo30. Consolo ha allora una scrittura che mira
ad agire, rifuggendo però tanto dal militantismo piatto dell’impegno
(l’écrivain engagé secondo Sartre e altri) quanto dalla letteratura
separata dalla realtà. Si sente radicato alla letteratura siciliana che
sta dalla parte del popolo (il poeta Ignazio Buttitta); egli interviene, si
cala nella storia da intellettuale, da saggista, da giornalista e da
cronista (dapprima per «L’Ora» di Palermo che durante gli anni
“ruggenti” suscita un giornalismo di indagine e di alto livello culturale,
e poi per le principali testate nazionali) – si rilegga però quello che
Consolo capisce dell’impotenza del giornalismo militante di fronte al
potere politico-mafioso a proposito dell’ammonimento ricevuto dal
giovane magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto, che poi venne
ucciso31.
In un tale contesto percettivo e analitico, quale segno o quale
speranza legata al mito francese permane? È, forse, l’esigenza di
esattezza che sottostà alla parola consoliana: una tensione verso
quella “geometricità” della lingua francese, già ammirata da Leopardi
e spesso invocata da Consolo,32 perché essa appare atta a portare
la lotta della parola contro la disgregazione della ragione e a favore
del «giusto»33.
Mentre, simultaneamente a questa volontà razionale di «chiarire»
la realtà storica in testi logico-comunicativi, si accentua la ricerca di
una forma letteraria diversa, che invita il lettore a leggere le parole e
a contemplare le immagini suggerite, sotto il segno del mito o della
narrazione poematica: Lunaria (si ricordi l’importanza del poeta
Lucio Piccolo per Consolo), Retablo, L’olivo e l’olivastro34.

I miti disfatti e «gli inverni della storia»

A Milano, di cui egli risente la “mutazione” (come diceva Pasolini),


dopo le elezioni politiche del 1996 in Lombardia, dopo la conclusione
in Riva degli Schiavoni della manifestazione di Bossi lungo il Po,
viene in mente a Consolo l’inizio del Riccardo III di Shakespeare. Lo
cita in apertura dell’articolo apparso in prima pagina su «L’Unità» del
15 settembre 1996 e intitolato appunto Gli inverni della storia:

Ormai l’inverno del nostro scontento


Si è fatto estate al bel sole di York.35

Solo che, rovesciandone l’ordine grammaticale («Lo scontento


ormai del nostro inverno»), Consolo definisce la nuova barbarie in
atto nella capitale lombarda:

Ma gli inverni climatici non sono che metafore degli inverni della storia, di quelle
tenebre fredde in cui tante volte si sono persi ragione, pietà, solidarietà, civile
convivere, regole e lingua. Sono questi gli inverni della prevalenza dei barbari,
delle devastazioni, delle carestie e delle pesti, gli inverni in cui emergono i feroci
egoismi, le violenze, le ingiustizie, le menzogne, i fanatismi, le demagogie […] 36

Consolo inoltre, in chiusura dell’articolo, squalifica il bel sole di


York e tenta di sperare vagamente in una utopica Repubblica del
Sole: vanno ovviamente notati il grido di scherno contro la bandiera
della Lega col Sole delle Alpi verde in campo bianco, issata in
conclusione della «rappresentazione» di Bossi, e la struggente
nostalgia della già citata «ora solare della Sicilia»37.
Lo Spasimo di Palermo, pubblicato nel 1998, esemplifica questo
disastro storico. È un libro denso di autobiografismo, il che importa
molto di più della sua qualifica generica: non è né un’autobiografia
per delega, in cui lo scrittore Gioacchino Martinez sarebbe in tutto
l’alter ego di Consolo, né un puro romanzo di finzione, in cui
andrebbe perso lo stretto legame tra le parole e le cose. Certo,
Consolo viene a Parigi quanto più spesso è possibile, dicendo, nel
periodo del berlusconismo trionfante, di voler «far l’esule» a Parigi (è
un mio ricordo personale sempre forte): egli è però ben consapevole
che tutti i segni di cultura (le biblioteche, i teatri…) e quelli di una vita
sociale popolare (la conversazione au café) che caratterizzavano la
città, sono ormai tracce senza autentico fondamento. Mi limiterò ora,
avendo più ampiamente sviluppato l’argomento in altra sede38, a
ribadire come l’appariscente e vacua mondanità della Parigi che
accoglie gli emigrati politici (quelli che hanno partecipato alla lotta
armata o quelli che sono solo stati compagni di strada) e
l’indifferenza civile di quelli che si sono individualmente riciclati da
libraio, insegnante, ecc. non corrisponda più all’immagine della
Francia che si cristallizzava nel mito del grande giustiziere da Balzac
a Feuillade. È fallita la generazione dei figli che credevano di aver
scelto l’azione. E, per quanto riguarda la generazione postbellica
degli scrittori (siciliani e no) che come arma politica avevano scelto
la penna, è ormai palese l’impotenza della letteratura di fronte alla
storia. Nei primi anni Sessanta, Sciascia, che trovava sempre nella
Francia un sostegno materiale (rifornirsi di libri) e intellettuale (il mito
stendhaliano della «douce France»), credeva ancora di poter
scrivere, da siciliano, di una Sicilia «narrabile e storicizzabile»39. Ma
dopo gli anni di piombo, dopo le stragi di mafia, dopo l’inizio della
berlusconizzazione della vita politica italiana, dopo la deformità
ideologica del Senatùr che distrugge la comunità (cioè la Lega Nord
di Bossi e la sua barbara invenzione di una “piccola patria” separata,
la Padania), lo scrittore Martinez/Consolo, sdoppiato
nell’autoriflessività del narratore, sa che, in Sicilia e in Italia, la parola
è inaudibile quando perfino l’eroe moderno (il giudice Paolo
Borsellino) paga con la vita l’essersi opposto al potere. L’epigrafe de
Lo Spasimo, in base a questa perdita collettiva e doppiamente
generazionale della ragione civile40, porta la dolorosa tensione tra
l’obbligo di agire raccontando (scrivere Lo Spasimo) e «la sconfitta,
la dimissione, l’abbandono della penna»41. L’explicit del testo apre al
silenzio. Silenzio non solo di Martinez, che non ha saputo allora, né
con il Verbo né materialmente, avvertire il giudice dell’attentato, ma
pure del fioraio, che incarna il popolo di Sicilia e d’Italia:

E fu in quell’istante il gran boato, il ferro e il fuoco, lo squarcio d’ogni cosa, la


rovina, lo strazio, il ludibrio delle carni, la morte che galoppa trionfante.
Il fioraio, là in fondo, venne scaraventato a terra con il suo banchetto, coperto di
polvere, vetri, calcinacci.
Si sollevò stordito, sanguinante, alzò le braccia, gli occhi verso il cielo fosco.
Cercò di dire, ma dalle secche labbra non venne suono. Implorò muto
O gran mano di Diu, ca tantu pisi,
cala, manu di Diu, fatti palisi!42

Ora, a quel punto della vita e dell’opera di Consolo, importa forse


modulare nel tempo – voglio insistere sulla storicità
dell’interpretazione – il significato della disposizione comunicativa
che lo scrittore, con dolore, applicava a se stesso dopo Lo Spasimo
di Palermo, chiamandola «afasia». Si deve rileggere l’Introduzione
scritta dall’autore per la pubblicazione in libro dell’Oratorio eseguito
nel 1998 al Teatro Verdi di Firenze:

Se non è più possibile la comunicazione, è necessario allora spostare la prosa


verso l’espressione, verso la forma poetica. È necessario annullare quello che
Nietzsche chiama lo spirito socratico e far irrompere lo spirito dionisiaco e
apollineo. E questo avviene nel coro greco o nel canticum latino. Siamo, per
essere più espliciti, al passaggio nella prosa dal dialogo tra narratore e lettore al
monologo del poeta. Siamo, come avviene nella estremizzazione di questo
Catarsi, ai suoni della natura, alle urla e al balbettio di Empedocle. Siamo
all’approdo nell’afasia, nel silenzio.43

Il fioraio de Lo Spasimo cerca di dire, ma non viene nessun


suono: è il silenzio. Tuttavia, se consideriamo il significato antico
dell’«afasia» (chiamato dal contesto in cui Consolo usa la parola),
numerose sono nell’opera le spie di una persistente lotta contro ciò
che era l’afasia ossia (cito la definizione della Treccani)
«l’atteggiamento di rinuncia degli scettici antichi ad affermare o
negare e quindi a giudicare, come conseguenza all’asserita
impossibilità di comprendere le cose, sia coi sensi sia con la
ragione.»44 A Valencia, nell’ottobre 2006, Consolo affermava: «Non
credo di non aver smesso la lotta, non sono alla fine della lotta.
Cerco di combattere ancora»45. Numerose difatti, sono le spie della
mantenuta volontà di capire e poi di dire, ma sono le spie della
ricerca di un dire diverso, ovvero posto sotto il segno della Poesia: il
che non significa necessariamente la fabbricazione di un poema in
versi: si riallaccia alla concezione antica del Poeta che agisce nella
polis con la parola (l’etimologia greca ci ricorda che poïein significa
fare). Andrebbero citati qui molti dei testi raccolti poi in La mia isola è
Las Vegas, che è una raccolta direttamente seguita da Consolo nel
2011. E basti rammentare come, senza che si perda la presenza alla
realtà sociale e politica (si pensi al progettato romanzo Amor sacro,
metafora storica dell’attualità), il ricorrente appello alla lezione di
Thomas Stearns Eliot, specie The Waste Land («mixing/ Memory
and desire», dice il poeta anglo-americano) possa significare l’infinito
ideale spazio della Poesia. Consolo, nella speranza che tutta la
letteratura sin dall’Odissea trovi nell’opera sua una vivente
accoglienza, non conferisce più al Verbo il senso corale della storia
ma vi iscrive la «metafora della vita, del viaggio della vita»46; e invita
il lettore a non smettere mai di voler sentire e non più capire. In
questa prospettiva, il canto di amore e di nostalgia per
l’incancellabile paese, la «Sicilia bedda» fattasi ormai nell’opera
erede di tutta la letteratura occidentale, incarna la Poesia.
Così, lo «smarrito ulisside»47 anela a ritrovare la patria, o almeno
non nega più di averla ritrovata. Cito dal quotidiano «La Sicilia»
(2004):

Sicilia, Sicilia mia, mia patria e mia matria, matria sì perché è lei che mi ha dato
i natali, mi ha nutrito, mi ha cresciuto, mi ha educato.48

* Université Sorbonne Nouvelle


1 V. Consolo, Gli inverni della storia, in «L’Unità», LXXIII, 320, 15 settembre
1996, p. 1.
2 Id., La Patria ritrovata: gli scrittori siciliani e la Francia, in Palermo-
Paris/Parigi-Palermo (Due capitali culturali fra il Settecento e il Duemila), a
cura di Paolo Carile, Laura Restuccia e Giovanni Saverio Santangelo,
Palumbo, Palermo 2002, p. 89.
3 Ibidem.
4 Victor Hugo, Les Misérables, IV-V.
5 Archivio Consolo, La ferita dell’aprile – MS, p. 15r. L’archivio Consolo (AC),
depositato a Milano presso la Fondazione Mondadori, è stato organizzato
dallo scrittore stesso con la sapiente collaborazione della moglie Caterina
Pilenga. Vanno quindi conservate dagli studiosi le denominazioni di
identificazione e ordinamento dei materiali all’interno dei faldoni, riprese poi
nella descrizione delle carte d’autore ad opera di Gianni Turchetta, curatore
del Meridiano.
6 Dominique Budor, Nell’officina di Vincenzo Consolo: il “dossier” de ‘Lo
spasimo di Palermo’, in Scrivere/riscrivere. Da Rousseau a Scabia,
«Autografo», XXVI, 59, a cura di Pietro Benzoni e Giovanni Battista
Boccardo, Interlinea Edizioni, Novara 2018, pp. 63-88.
7 Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora (Intervista di Marcelle
Padovani), Mondadori, Milano 1979, pp. 10-11 e 53-59.
8 Goliarda Sapienza, Io, Jean Gabin, Einaudi, Torino 2009 (ed. postuma).
9 Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora, cit., p. 57.
10 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, in L’opera completa, a cura e con
un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori (i
Meridiani), Milano 2015, cap. II, p. 160 e cap. VII, p. 223.
11 Gianni Turchetta, Note e notizie sui testi a Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit.,
p. 1307.
12 Daragh O’Connell, Consolo narratore e scrittore palincestuoso, in «Quaderns
d’Italià», 13, 2008, pp. 161-184.
13 Nicolò Messina, Per un’edizione critico-genetica dell’opera narrativa di
Vincenzo Consolo, ‘Il sorriso dell’ignoto marinaio’, Universidad Complutense
de Madrid, Madrid 2007, pp. 72-85.
14 Leonardo Sciascia, L’ordine delle somiglianze, in Opere. 1971-1983, a cura
di C. Ambroise, Bompiani, Milano 2001, p. 989.
15 Corrado Stajano, Due siciliani pazzi per un libro ‘unico’, in «Il Giorno», 30
novembre 1975.
16 Consolo legge o rilegge I Miserabili dopo la guerra anche se, come spesso
avviene per le opere letterarie presenti per “somiglianza” nella mente dello
scrittore durante l’ideazione della narrativa, il libro non è elencato nello
“scaffale” di libri consultati per Il sorriso.
17 Cfr. Thomas Bouchet, La barricade des ‘Misérables’, in La Barricade,
[online], Éditions de la Sorbonne, Paris 1997.
<http://books.openedition.org/psorbonne/1165>. ISBN: 9782859448516. DOI:
10.4000/books.psorbonne.1165
18 V. Consolo, Clausura de las jornadas, in Vincenzo Consolo: punto de unión
entre Sicilia y España, a cura di Irene Romera Pintor, Generalitat Valenciana
– Universitat de Valencia, Valencia 2007, p. 253.
19 L’espressione viene usata da Consolo in una discussione dopo la prima
edizione del Premio Brancati (a Zafferana Etnea alla fine dell’estate 1968)
con il giornalista de «Il Giorno», Corrado Stajano, che poi diventerà un suo
carissimo e fedele amico.
20 V. Consolo, La patria immaginaria, relazione letta in francese all’Académie
française in occasione della consegna del Prix Italiques, poi con il titolo I
Vespri, i paladini e la patria immaginaria, in «Stilos», 1° maggio 2001.
21 Ne La Sicilia come metafora, Sciascia documenta con precisione il mito della
Francia presso gli scrittori isolani, dall’epoca dell’Illuminismo in poi: Michele
Palmieri di Micciché fu autore di volumi stampati a Parigi (specie Mœurs de
la Cour et des Peuples des Deux-Siciles, 1837), lo storico Michele Amari
comprava a Parigi tutti i libri che gli servivano per La storia dei musulmani di
Sicilia (1854-1872), Navarro della Miraglia scrisse in francese Ces messieurs
et ces dames (1874) e stabilì il legame tra il naturalismo francese e quello
che diventò il verismo italiano. Cfr. Leonardo Sciascia, La Sicilia come
metafora, cit., pp. 53-59.
22 V. Consolo, La Patria ritrovata, cit., pp. 86-87.
23 Id., Memorie, in «Il Valdemone», I.1, febbraio 1990, pp. 7-9. Ora in La mia
isola è Las Vegas, Mondadori, Milano 2012, p. 138.
24 Id., Il barone magico. II [1988], in Le Pietre di Pantalica, in L’opera completa,
cit., p. 599.
25 Il racconto è riportato dal curatore del Meridiano, Gianni Turchetta. Cfr. Note
e notizie su ‘Le pietre di Pantalica’, in L’opera completa, cit., pp. 1378-1381.
26 V. Consolo, Ragione e smarrimento (Verga – Pirandello – Sciascia), in
Réalités et temps quotidien (Matériaux de la culture italienne contemporaine),
a cura di J.P. Manganaro et alii, L’Harmattan, Paris 2001, p. 130.
27 Id., Porta Venezia [con il titolo Una sera mediterranea, 1985], Il rito. In
memoria di Walter Rossi [1978], Un giorno come gli altri [1980]: ora in La mia
isola è Las Vegas, cit., pp. 111-116, 73-76 e 87-97.
28 Id., Quella buona gente e quella folla manzoniana, ne «L’Unità», anno 70, n.
180, martedì 3 agosto 1993.
29 Id., 29 aprile 1994: cronaca di una giornata, in «Nuove effemeridi», rassegna
trimestrale di cultura, VIII, 29, 1995/I, Guida, Palermo 1995, p. 4.
30 Id., Palerme très belle et très défaite, in Retrouver Palerme, «La pensée de
midi», 8, estate 2002, p. 107.
31 Id., Clausura de las jornadas, cit., p. 252.
32 Id., La metrica della memoria, in Vincenzo Consolo, éthique et écriture, sotto
la direzione di Dominique Budor, Presses Sorbonne nouvelle, Paris 2007, p.
23: «E non posso non esclamare: “Beati i francesi con la loro lingua unica,
geometrica o cartesiana! Che è segno, quella lingua, dell’esistenza e della
compiutezza di una società civile”».
33 Id., L’altra Sicilia. 16 maggio 1980, in Esercizi di cronaca, Sellerio, Palermo
2013, p. 19.
34 Lunaria (1985) paga il suo tributo al ritorno poetico e memoriale alla Sicilia,
cioè al mito; Retablo (1987) ricerca l’enigma della vita nel racconto favoloso o
mitologico delle divinità greche; ne L’olivo e l’olivastro (1994), narrazione
poematica, l’Ulisse moderno cerca nel mito mediterraneo un rimedio alla
difficoltà di narrare.
35 V. Consolo, Gli inverni della storia, cit.. Traduzione da W. Shakespeare,
Richard III, I. 1-2 (il Duca di Gloucester, solo per le strade di Londra): «Now is
the winter of our discontent/ Made glorious summer by this sun of York».
36 Id., Gli inverni della storia, cit.. Corsivo mio.
37 Cfr. supra, nota 18.
38 Dominique Budor, Nell’officina di Vincenzo Consolo: il “dossier” de ‘Lo
spasimo di Palermo’, cit.
39 V. Consolo, Sirene siciliane, in Di qua dal faro, in L’opera completa, cit., p.
1154.
40 Si potrà utilmente leggere, strutturato però da una lettura psicocritica legata
alla tematica dell’identità, il seguente articolo: Claude Ambroise, “Lo spasimo
di Palermo”, colloque Littérature et “temps des révoltes” (Italie, 1967-1980),
27, 28 et 29 novembre 2009, ENS LSH, Lyon 2009, http://colloque-temps-
revoltes.ens-lsh.fr/spip.php?article158
41 V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 971.
42 V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, in L’opera completa, cit., p. 971 e p.
974.
43 Id., Oratorio, Manni, Lecce 2002, pp. 7-8.
44 Afasìa, in Treccani. La cultura italiana – Vocabolario on line, 1,
https://www.treccani.it/vocabolario/afasia/#:~:text=di%20%E1%BC%80%2D
%20priv.,sensi%20sia%20con%20la%20ragione.
45 V. Consolo, Clausura de las jornadas, cit., p. 251.
46 Id., Lo spazio in letteratura, in Di qua dal faro, L’opera completa, cit., p. 1246.
47 Id., Le macerie di Palermo, «Diario», 16 novembre 2001, poi in La mia isola
è Las Vegas, cit., p. 190.
48 Id., La mia isola è Las Vegas, «La Sicilia», 15 agosto 2004, poi in La mia
isola è Las Vegas, cit., p. 215.
SEBASTIANO BURGARETTA
L’ILLUSIONE DI CONSOLO TRA METAFORA E
REALTÀ

C’è un libro di Vincenzo Consolo, La Sicilia passeggiata, che,


sebbene si presenti come opera minore, legata a un evento
occasionale1, riveste, come ha recentemente evidenziato Miguel
Ángel Cuevas2, un ruolo importante nel rapporto tra Consolo e la
Sicilia, e, aggiungo io, per estensione, tra Consolo e l’Italia, Consolo
e il mondo, in particolare per ciò che attiene al bacino del
Mediterraneo. Il ruolo di questo libro è lo stesso che è narrato e
descritto anche nelle due opere che – a parte il racconto La grande
vacanza orientale-occidentale3 – si configurano come viaggio dello
scrittore nell’isola. Scrive, infatti, Cuevas nella sua introduzione
all’edizione spagnola: «La Sicilia passeggiata è in effetti, per quanto
opera minore, un testo centrale, e non solo né principalmente sul
piano cronologico, fra le altre opere narrative: fra il sollievo erudito, il
balsamo sentimentale di Retablo e l’insanabile frattura, le
contemporanee lande desolate dell’Olivo e l’olivastro»4. È vero,
infatti, che nelle opere di Consolo si registra una tensione costante
«tra la volontà di intonare uno scongiuro propiziatorio e quella di
svelare le atrocità. Nella Sicilia passeggiata è la prima pulsione a
vincere»5. Anche Giuseppe Traina, già nel 2001, scriveva che «il
testo si potrebbe per certi versi considerare un incunabulo del
viaggio in Sicilia compiuto poi in L’olivo e l’olivastro ma fin dal titolo
rasserenante, dimostra – anche rispetto agli esiti di Retablo e Le
pietre di Pantalica – una disposizione d’animo meno direttamente
coinvolta negli scempi dell’attualità»6. La descrizione «procede dritta,
schivando le angustie dell’attualità, le ferocie mafiose palermitane, le
chimeriche disgregazioni siracusane, e si svolge scioltamente”, ha
scritto Salvatore Mazzarella, «con tono sereno e disteso, onirico»7. È
lo stesso Consolo, del resto, a precisare nella nota introduttiva
all’edizione del 1991, che il libro era nato

da una commissione e da una illusione… L’illusione mia, di mostrare – agli


stranieri soprattutto! –, contro quella negativa e sconveniente che la cronaca ogni
giorno ci consegna, una immagine positiva della Sicilia. Ho ripercorso così
brevemente… una Sicilia onirica, illusoria. Nell’illusione anche, prendendo a
metafora il mito di Persefone o Kore, che questa terra, la sua storia, possa, in una
prossima desiderata primavera, risorgere dalle tenebre dell’attuale inverno, dal
fondo dell’inferno8.

Intenzionalmente e significativamente perciò egli intitolò il testo,


nella prima edizione, Kore risorgente. L’illusione suscitata nello
scrittore da un fatto occasionale e documentata nel libro è in realtà
l’aspirazione costante, dolorosa che Consolo si portò dentro sino alla
fine; il desiderio, mai appagato, di vedere una buona volta in Sicilia
l’ulivo crescere e fruttificare in pace senza le briglie soffocatrici
dell’olivastro, di vedere la positività soppiantare la negatività, il bene
trionfare sul male. Quella di Consolo era una tensione dolorosa, che
angustiava l’uomo e che si trasferiva tormentosamente nelle pagine
delle sue opere con sempre maggiore intensità9. I suoi frequenti e
attivissimi ritorni nell’isola ne sono stati la spia evidente, come egli
stesso lasciò chiaramente intendere nelle pagine delle Pietre di
Pantalica: «Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in
Sicilia, di volerla girare e rigirare, di percorrere ogni lato, ogni capo
della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e
luoghi sperduti, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due
sparisca»10.
Una tensione dolorosa che era figlia dell’amore viscerale che lo
scrittore aveva per la Sicilia e la sua storia culturale, memoriale e
linguistica. Una storia che non perdeva occasione di rivisitare e
documentalmente illustrare sotto vari aspetti, tematiche e tradizioni
etnoantropologiche, cui prestava profonda attenzione. E io conservo
tanti bei ricordi di escursioni qua e là per l’isola. Mi ha fatto visitare,
con la sua sapiente guida, Palermo, i Nebrodi, Alcara Li Fusi, i resti
archeologici di Apollonia, il bosco della Miraglia con i luoghi descritti
e i linguaggi dei quali gli fu maestra la piccola Amalia11, Cefalù, la
stessa Sant’Agata Militello, Villa Piccolo a Capo d’Orlando, Santo
Stefano di Camastra, e poi ancora insieme Siracusa, Sortino,
Palazzolo Acreide, Cittadella dei Maccari, Eloro, Vendicari, Cava
d’Ispica, Noto, Serravento, Testa dell’Acqua, Cava Grande del
Cassibile, tutta la Montagna d’Avola con la delizia delle sue erbe
aromatiche, alcuni di questi luoghi anche ripetutamente. Era questa
la Sicilia, terra geograficamente e storicamente crocevia al centro di
quel Mediterraneo che Consolo amava e proponeva nel bene e nella
positività, senza tuttavia che il suo amore per l’isola facesse velo alle
realtà negative e atroci di cui è lontana portatrice, come invece
qualche benpensante in Sicilia gli rimproverava, tutt’altro anzi,
perché non smise mai di denunciare i mali di cui soffre la Sicilia.
Lo scrittore aveva chiara consapevolezza del positivo portato
storico-culturale e memoriale della gente dell’isola e ne ha dato
prova in molti testi di natura saggistica pubblicati nel corso degli anni
e poi riuniti in volumi, il più ricco dei quali è Di qua dal faro. In questo
sono confluiti, per esempio, con il titolo Uomini e paesi dello zolfo, lo
scritto Un uomo di alta dignità, che era stato pubblicato come saggio
introduttivo al volume curato da Aurelio Grimaldi ‘Nfernu veru12, La
pesca del tonno, già uscito con Sellerio13, Vedute dello Stretto di
Messina, anch’esso già uscito da Sellerio14, I pupi15, argomento,
questo, del quale si occupò più volte16, La rinascita del Val di Noto,
già uscito da Bompiani17. Tutti questi saggi sono incursioni in e
approfondimenti di alcuni aspetti della storia e della cultura della
Sicilia, che hanno la loro centralità nella matrice mediterranea della
civiltà e dell’evoluzione culturale dell’isola. Sono scritti solo
apparentemente d’occasione, perché lo scrittore è capace, ogni
volta, di trasformarli e funzionalizzarli positivamente all’interno della
sua ricerca – amorosa illusione – storico-memoriale18 e, perché no,
anche linguistica, stando ai documenti in essi studiati e citati, e ciò
anche a non voler considerare il valore fondante che la lingua e la
scrittura verticale, figlie della memoria storico-culturale, hanno in
tutta l’opera di Consolo. Nella nota conclusiva del volume Di qua dal
faro lo scrittore dichiara: «La scelta (dei testi) è dettata dalla
coerenza e dalla sequenza degli argomenti tra loro. Utile, questa
scelta, a dare ancora una mia idea della Sicilia»19. È la Sicilia
dell’olivo non sopraffatto dall’olivastro, la Sicilia che fa dire allo
scrittore, per bocca del pescatore messinese Placido Alessi:

Ora mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in
Contemplazione, statico e affisso a un’eterna luce, o vagante, privo di peso,
memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminati e vani, scale, fra mezzo a
chiese, palazzi di nuvole e di raggi. Mi pare (vecchiaia puttana!) ora che ho l’agio e
il tempo di lasciarmi andare al vizio antico, antico quanto la mia vita e pure avanti,
di distaccarmi d’ogni reale vero e di sognare20.

È la Sicilia degli «amici costanti lungo il tempo», che offrono


«conforto», quando si sente smarrito21. La Sicilia nella quale gli può
succedere «d’esser in un luogo in disparte, lontano dagli uomini che
mangiano pane, lontano dai Ciclopi, d’essere ai confini del mondo, in
un’isola di sopravvivenza d’una umana misura ormai perduta»22.
Una terra in disparte, come quella che nell’isola di Scheria permette
al re Alcinoo di coltivare, «lontano dall’incivile convivenza in una
terra in disparte, ai confini del mondo», oltre all’accoglienza di chi ha
bisogno, anche «l’esercizio della ragione, l’amore per il canto, la
poesia»23. In altri termini la Sicilia che porta i segni della sua antica
civiltà e che è da sempre crocevia e ponte per uomini in viaggio e
cammino all’interno del Mediterraneo, «la Sicilia incrocio e centro
d’ogni antica navigazione dell’uomo»24.
Di qua dal faro è il chiaro segnale del rovesciamento della
prospettiva dalla quale i Borboni guardavano – da Napoli – al Faro e
allo Stretto che separa la Sicilia dal continente. Consolo guarda,
posto “di qua dal faro”, facendo della Sicilia ciò che essa è realmente
stata in passato, collocata com’è al centro del Mediterraneo: l’asse
dal quale ruotare lo sguardo a 360 gradi, alla ricerca di quei contatti
e di quelle aperture che la storia non ha lesinato agli abitanti
dell’isola e che oggi si rendono necessari alla sopravvivenza di una
civiltà, giunta “alla fine”, come quella del mondo occidentale. Anche
in tempi epocali di “fine”, sembra voler dire lo scrittore, la Sicilia forse
non ha esaurito il suo ruolo storico25. E noi oggi siamo testimoni
dell’avverarsi di questo intimo desiderio dello scrittore. Stiamo,
infatti, assistendo, in questi anni, a una sorta di rinnovata funzione
mediatrice della Sicilia al centro del Mediterraneo. L’isola sta
ridiventando quella che è già “in costrutto”: ponte reale, oltre che, poi
anche, metaforico e letterario26. Questo, di fatto, ci insegna, che lo
vogliamo o no, il fenomeno epocale dei drammatici sbarchi nell’isola.
Questo ci è testimoniato dai tanti segnali positivi di ricerca scientifica
e di collaborazione culturale presenti nell’isola. Penso, per esempio,
al ruolo che da tanti anni riveste la Fondazione delle Orestiadi,
messa su da quel Ludovico Corrao che Consolo omaggia in Retablo,
penso al lavoro proficuo e mirato della casa editrice messinese
Mesogea, con la quale lo scrittore collaborò, penso all’attività
dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo, che in particolare con la
rivista bimestrale «Dialoghi mediterranei», grazie al lavoro del suo
fondatore Antonino Cusumano, spesso ricordato da Consolo,
contribuisce all’arricchimento del patrimonio culturale e scientifico
dei paesi mediterranei «considerati nella propria unità e diversità»,
aprendo spazi e occasioni di riflessione su argomenti strettamente
legati all’incontro dei vari popoli dell’area mediterranea sui diversi
aspetti relativi ai rapporti intrattenuti nel passato, nel presente e in
prospettiva, tra la Sicilia, l’Italia e l’Europa, da un lato, e il mondo
arabo-islamico, dall’altro27.

Il segreto del felice modello Mazara, che resiste al virus del


razzismo, è costituito dal lavoro e dalla cultura, un modello, ha
dichiarato il vescovo della città, Domenico Mogavero, «nato su
quello della Tunisia, quando ad andare lì erano i siciliani. E qui c’è
tolleranza, anche fra le religioni. Un clima che ormai non fa più
notizia ma che forse è il momento che torni a fare notizia»28. E qui è
il ruolo degli intellettuali chiamati a dover intervenire, come Consolo
non mancava di sottolineare già in una intervista del lontano 1992:

Penso a quando, nel 1968, i primi tunisini sbarcavano a Trapani. Nessuno si


accorgeva della presenza dei tunisini quando sui pescherecci o nelle vigne
servivano le loro braccia. Ma nei momenti di crisi, nei momenti in cui i lavoratori
locali sentivano la concorrenza dei tunisini, si scatenava una vera e propria caccia
all’immigrato, cui partecipavano “onesti cittadini”, per ripulire la città da
discriminazioni razziali… C’è nei letterati come una cautela, una reticenza, perché
“l’impegno” era prima connotato come schieramento politico a sinistra. Oggi, di
fronte a episodi di razzismo, nessuno interviene. Ci sono piuttosto interventi al
contrario, di rifiuto del “diverso”29.

Non perdeva occasione di denunciare la latitanza degli intellettuali


davanti a certe emergenze sociali. «Oggi gli intellettuali sono
pressoché distanti dall’impegno sociale; la parola stessa “impegno” è
ormai tabù, quasi scandalosa» dichiarava a Domenico Calcaterra30.
E a Roberto Andò: «Piango la scomparsa delle eccentricità
letterarie»31. Non mancò di intervenire energicamente e anche con
una punta di ironia Consolo, accendendo peraltro un vivace dibattito
sulla stampa del tempo32, nel 2004, alla notizia che una deputata
dell’Udc aveva proposto una legge regionale che istituisse un museo
dei migranti a Lampedusa. In anni nei quali si consumava, come
ancora oggi si consuma, la tragedia di tanti immigrati morti nelle
acque del Mediterraneo, Consolo bollò come retorica e ipocrita
quella proposta:

Cosa ci metterebbe dentro quel museo di Lampedusa la signora deputata


dell’Udc? Ci metterebbe tibie incrociate e teschi? … È retorica pensare a un
museo nel momento in cui il dramma dell’immigrazione terzomondista nel nostro
crasso e ameno Paese è in atto… Un monumento piuttosto a quella giovane
madre africana, alla madre africana che affida alle acque il corpicino del figlio
morto sulla carretta del mare durante il tragico viaggio della speranza33.

È altra, invece, non quella della retorica di circostanza, la Sicilia


amata, agognata, cercata da Vincenzo Consolo. È la Sicilia di cui
egli ha ripetutamente scandagliato la storica matrice mediterranea,
identificandone la vocazione geografica e storica di mesogea, di
terra di mezzo, il cui accesso non va negato a nessuno. Ecco quanto
ebbe a dichiarare Consolo sulla centralità della Sicilia nel lontano
dicembre del 1988:

Questa regione è la più periferica e insieme è al centro del Mediterraneo. Anche


per Goethe è una terra miracolosa: qui si sono incrociati tutti gli eventi. Si sono
svolte qui tragedie e cose sublimi. Il susseguirsi dei popoli ha portato una grande
infelicità sociale e insieme una grande ricchezza culturale34.
Rifacendosi, come già Sciascia, al pensiero di Américo Castro,
Consolo, nei suoi scritti, è più volte tornato a parlare della vocazione
storica alla convivenza tra popoli diversi sperimentata nell’isola in età
medievale. Soprattutto fu sotto la dominazione araba che si
registrarono, scrive,

lo spirito di tolleranza e la convivenza fra popoli di cultura, razza, religione diverse.


Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i
quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni
etnia vive nel rispetto di quella degli altri35.

La Sicilia, insomma, che, al di là delle metafore di ascendenza


omerica, ci porta alla realtà variegata del suo cammino storico. La
Sicilia che coltivava buoni rapporti col Maghreb. Citando Francesco
Gabrieli, Consolo evidenzia i rapporti

della Tunisia con la Sicilia, così vicine le due, geograficamente e


culturalmente, così uguali. E ricordava Gabrieli che, già sul finire della
dominazione araba in Sicilia, il grande letterato tunisino Ibn Rashîq faceva in
tempo a venire a chiudere la sua vita a Mazara, mentre sull’opposta sponda
tunisina, a Monastir, s’innalzava un mausoleo al giureconsulto mazarese,
all’Imàam al Màzari36.

L’incanto della tolleranza e della convivenza civile fu rotto poi dai


cristiani:

Culminò, l’intolleranza, con i re cattolici di Spagna, con la cacciata dall’Isola, nel


1492, dei Mori e degli Ebrei. Decadde Palermo, decadde la Sicilia, da quella sua
età dell’oro, da quel momento unico e irripetibile di equilibrio ateniese, di composta
e alta civiltà, dal momento in cui si entrò nell’età dei conflitti e si piombò in quella
paralisi culturale, e insieme sociale, storica, che, al di là dei tre secoli che Américo
Castro attribuisce alla Spagna, è durata in Sicilia sino a ieri, dura sino ad oggi37.

E il Mediterraneo divenne mare che conobbe migrazioni e


spostamenti di popoli «con ogni tipo di boat people, antico e
moderno, dai settemila cavalieri di Gerusalemme, che cacciati da
tutti i porti», ha scritto Francesco Merlo, «errarono dal 1522 al 1530,
alla famosa Exodus con a bordo 4515 profughi ebrei scampati ai
campi di concentramento nazisti. E fino alla nave Diciotti»38. S’era
rotto l’incanto, s’erano guastati i civili rapporti tra la Sicilia e i paesi
del Maghreb. Il ponte sul Canale di Sicilia, ponte umano già
rappresentato dal Boccaccio nella seconda novella della giornata
quinta del Decamerone, quella di Gostanza che ama Martuccio,
ebbe a subire scossoni e colpi che non sono finiti più, nel corso dei
secoli, fino ai nostri giorni. «Le cronache», ha scritto Consolo due
anni prima di morire,

ci dicono di disperati che cercano di raggiungere l’isola di Lampedusa.


Disperati che partono soprattutto dalla Libia, ma anche dalla Tunisia e dal
Marocco… Il governo italiano intanto non fa altro che promulgare leggi
xenofobe, razzistiche, di vero spirito fascistico. Di fronte a episodi di
contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di ribellioni, di fughe,
scontri con le forze dell’ordine, scioperi della fame, gesti di autolesionismo e
di tentati suicidi, di gravi episodi di razzismo e di norme italiane altrettanto
razzistiche si rimane esterrefatti. Ci ritornano allora le parole di Braudel39
riferite a un’epoca passata: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato,
rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce le miserie, gli errori e le santità
degli universi concentrazionari40.

A questo ponte distrutto e alla sua storia, in particolare quella dei


primi anni del XX secolo, che vide una folta immigrazione di siciliani
in Tunisia, Consolo ha dedicato un capitolo intero, riprendendo un
articolo pubblicato già sul «Messaggero»41; e ha dedicato anche il
testo di una conferenza tenuta, col titolo I muri d’Europa, agli
studenti dell’Università di Milano nella sede di via della Passione nel
2006 e successivamente ripresa al Palazzo Ducale di Genova, nel
giugno del 2009, nell’ambito degli incontri della manifestazione
«Mediterranea»42. E la Tunisia, oltre che terra amata dallo scrittore,
nel suo immaginario letterario è diventata anche terra d’esilio per
siciliani amanti della libertà, come l’anarchico Paolo Schicchi e il
protagonista di Nottetempo, casa per casa, Pietro Marano43.
Purtroppo il veleno che aveva intossicato le acque del
Mediterraneo s’era diffuso per osmosi all’intero mondo e dall’Egeo
era giunto fino alle acque della costa somala – amara ironia degli
stravolgimenti della storia – su di una nave greca, il cui capitano, in
anni recenti, ha fatto gettare in mare un gruppo di giovani clandestini
neri scoperti a bordo dell’imbarcazione; tragico e profetico prologo
consoliano, nel 1988, di quello che sarebbe stato, ed è ancora oggi,
il destino di tanti infelici che vogliono fuggire dalla guerra e dalla
fame e s’avventurano, in mano a criminali speculatori, nelle acque
del Mediterraneo, dove in gran parte lasciano la vita e il corpo in
quello che è diventato un cimitero subacqueo, da Mare Bianco, che
era, mare nero. Consolo prefigura tutto ciò nel racconto che
significativamente chiude Le pietre di Pantalica, quello che
nell’endiadi del titolo ho sempre pensato rechi un cordiale omaggio a
Basilio Reale44, amico e mentore di Vincenzo Consolo, che lo
scrittore mi fece conoscere un’estate a Capo d’Orlando. Al
«disincanto dello scrittore verso il degrado della civiltà
contemporanea» presente in questo libro aveva fatto riferimento
Flora Di Legami nella sua monografia dedicata a Consolo45. Della
cancellazione dei buoni rapporti tra popoli all’interno del
Mediterraneo Consolo avrebbe scritto poi nello Spasimo di
Palermo46, puntualizzando poi in un’intervista:

Con la citazione dell’Algeria, prendendo spunto dalla moschea che c’è a Parigi
e dalla sosta che fa il protagonista nel giardino della moschea, ho voluto dire della
distruzione della civiltà mediterranea, della cancellazione della nostra cultura, che
avviene in modo anche visibile e atroce, come appunto in Algeria o nella ex-
Jugoslavia47.

Sono stato personalmente privilegiato testimone48 di questo suo


disincanto, dell’amarezza che ne inficiava l’animo, della sua ansia di
vita nuova per la Sicilia, della sua attesa speranzosa di una
primavera, per così dire, “cerealicola” e “floreale” nella terra di Kore
e nell’Italia tutta, attesa speranzosa che purtroppo puntualmente
abortiva nella delusione, sino a fargli scrivere, in una pagina
dell’Olivo e l’olivastro, davanti a Palermo, centro aggregante e
sintesi della Sicilia della storia, contrapposta a quella appagante del
mito e del canto poetico: «Via via, lontano da quella città che ha
disprezzato probità e intelligenza, memoria, eredità di storia, arte, ha
ucciso i deboli e i giusti»49. La stessa Palermo, contraddittoria e
infelice di cui parla nel racconto Il boato di Santa Rosalia50.
Purtroppo, come per Sciascia la linea della palma s’era spostata a
nord51, così per Consolo, e in verità per tutti, i miasmi socio-
antropologici e politici, e dunque sostanzialmente culturali, di
Palermo e della Sicilia si erano propagati in tutto il paese,
raggiungendo quella Milano che, per Consolo, anni prima, era stata il
punto di un approdo culturale liberante e potenzialmente fecondo.
Scoraggiato dichiara, in occasione dell’uscita dello Spasimo di
Palermo:

Sciascia si riferiva solo alla mafia, mentre io sento questo spasimo (in
progressione, da Palermo alla Sicilia, al mondo) come distruzione della civiltà,
come passaggio epocale, perché questa grande rivoluzione tecnologica che ci
schiaccia e ci annulla è il mondo della sottocultura, dello spettacolo, della
canzonetta, dove nessuno è se non appare52.

Conseguenza ne fu che, sul piano creativo, lo scrittore si ritrovò


senza il tessuto memoriale del luogo e perciò afasico, mentre, sul
piano personale e civile, si ritrovò davanti agli stessi mali sociali e
politici che soffocavano la Sicilia. Percepiva Milano e il suo
decadimento culturale e civile come la proiezione geometrica dei
mali siciliani nell’Italia tutta, di cui Milano era stata il cuore pulsante,
giusta la storica tradizione degli illuministi lombardi di ogni tempo, da
Beccaria a Manzoni a Dossi, fino all’amato Vittorini, a Sereni e al lui
caro Leonardo Mondadori.
Crimine organizzato, mala politica, nuovi fascismi rampanti, forme
variegate di irrazionalismo caratterizzano il panorama nel quale
l’ombra della Sicilia si è estesa a tutta la nazione. In Nottetempo,
casa per casa tutto ciò è evidenziato in modo chiarissimo, ed è lo
stesso Consolo a dichiarare in un’intervista: «La questione
dell’irrazionalismo delle neometafisiche sembra essere di grande
attualità. In un periodo di crisi delle ideologie e delle relative
estetiche, questo ritorno all’irrazionale non lascia prefigurare nulla di
buono»53. E in un’altra intervista, con riferimento alla metafora del
presente insita nella storicità d’inizio Novecento di Nottetempo, casa
per casa, dichiara:
Un’alienazione dolorosa percorre quegli anni: sono tempi di sradicamento… Nel
quotidiano smarrimento trionfano gli squadristi, i più umani soccombono al
carnefice, i politici rincorrono utopie… Oggi l’Italia ha subito tali scosse in termini di
classe, cultura, politica ed economia da ricordare quella del ’20. Ciò si traduce,
ripeto, in perdita di sé, incapacità di sopportazione del reale, che genera nevrosi e
barbarie54.

Scrisse al riguardo Oreste del Buono: «Vincenzo Consolo sa che


quanto avviene in Sicilia, avviene anche a Milano, avviene in tutto il
mondo. Lui scrive della Sicilia, perché ci è nato e perché la Sicilia è
così bella, eccessiva ed esemplare anche nell’orrore»55. Consolo
stesso dichiara nel 1988: «Non è migliorata Milano. Qui tutto è
merce, denaro, falsi valori. Milano ha grandi responsabilità. Da
Milano partono i messaggi. Milano è un pezzo d’America. Ci sono i
giornali, c’è la televisione, uno strumento con cui si persuadono le
masse»56. E oggi noi possiamo aggiungere: c’è la rete telematica,
che consente a chicchessia di lasciarsi piacevolmente persuadere
dal primo villan che parteggiando viene e che perciò stesso diviene
un Marcello57. Conferma tutto quanto Lo Spasimo di Palermo, che
Massimo Onofri definì «tutto il romanzo della Sicilia, dell’Italia – tra
Milano e Palermo – degli ultimi cinquant’anni: a complicare di un
capitolo nuovo quella controstoria d’Italia letteraria e civile che ci ha
affidato tanta letteratura siciliana»58. Luca Canali, definendo l’ultimo
romanzo di Consolo «il più bello forse, e il più compatto dei libri»
dello scrittore di Sant’Agata Militello, riscontrò in esso «il quadro
‘nero’ della società italiana (da Palermo a Milano) »59. È poi lo
stesso scrittore a dichiarare:

È un libro estremo, è l’esito o l’esodo di tutto il mio percorso letterario… Questo


libro riassume la storia di un uomo nell’arco di cinquant’anni, a partire dal
dopoguerra con l’orrore dei bombardamenti, la violenza dei tedeschi, dei razzisti, e
arriva sino ai giorni nostri, nel ’92… Ho guardato a questo cinquantennio come a
una perdita, a un’età di orrori, di dolore, un cinquantennio anche di violenza dalle
forze che non amano la civiltà, che agiscono solo per i propri interessi. Parlo delle
responsabilità di chi ha amministrato, di chi ha diretto i fili della nostra vita e ha
deciso per la nostra vita. E quindi parlo di Milano, parlo di Palermo, parlo di Parigi,
di questo nostro contesto60.
Per bocca del protagonista, Chino Martinez, lo scrittore consuma
tutta la sua delusione nei riguardi della scrittura e in particolare del
romanzo, genere letterario ormai inadeguato di fronte alla realtà di
degradazione in cui versa la società. Sono vari i luoghi del libro
significativi al riguardo:

Non scrivo più nemmeno dediche61; sai bene che non sono più uno scrittore, se
mai lo sono stato62; ho assoluta ripugnanza, in questo stordimento, nell’angoscia
mia e generale63; sarebbe riuscito forse a scrivere d’una realtà storica… fuori da
ogni invenzione, finzione letteraria. Aborriva il romanzo, genere questo scaduto
corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti erano i suoi in una diversa lingua,
dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio64.

Quello dello Spasimo di Palermo è un urlo d’amore che porta


Consolo a fare finalmente i conti con Milano, divenuta metafora
dell’Italia intera e perciò oggetto di ricerca poetico-creativa, come lo
era stata la Sicilia. E attraverso la città lombarda, che già fu «antitesi
al marasma, cerchia di rigore, civile convivenza»65, lo scrittore,
servendosi di Chino Martinez, fa i conti con l’Italia del nostro tempo,
confessandosi in una sorta di esame di coscienza storico-
generazionale («è debolezza d’un vecchio, desiderio estremo…»66),
nel quale non può non sentirsi coinvolto ogni lettore sensibile e
attento. La Milano con cui si confronta l’alter ego di Consolo è quella
dell’omologazione e della corruzione: «Illusione infranta, amara
realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso
dall’acque infette… palazzo della vergogna, duomo del profitto,
basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e
dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria… stadio della merce e
del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità»67. Non è più la
Milano di Vittorini, nella quale il giovane scrittore aveva sperato più
di trent’anni prima. È invece la Milano della logica dell’avere e non
dell’essere, arrasso dalla quale era fuggito Fabrizio Clerici, il
protagonista di Retablo. «Oggi la Milano dei miei sogni, delle mie
aspettative è una città irriconoscibile, per dirla con Rushdie. Una
città centrale della menzogna»68. Una Milano omologata a Palermo,
alla Sicilia, all’Italia tutta, quella che non ha potuto conciliare a sé lo
spirito critico e irrequieto, si direbbe pasoliniano, «irriducibile
all’utile» di Vincenzo Consolo. Tutto il Paese ridotto ad un unicum di
corruzione e di degrado: «In questo Paese, in quest’accozzaglia
d’assolvenza, dove lo stato è occupato da cosche o segrete sette di
Dévorants… dove tutti ci impegnamo, governo e cittadini, ad eludere
le leggi, a delinquere, e il giudice che applica le leggi ci appare come
un Judex, un giustiziere insopportabile, da escludere, rimuovere. O
da uccidere»69. L’impossibilità di scrivere un romanzo storico-
metaforico su Milano, sperimentata o patita per anni dallo scrittore, si
è mutata nella realtà di un rapporto d’amore sofferto – «Addio ai
luoghi del dolore e dell’affetto»70 –, maturato e approdato
compiutamente alla pagina, pur nei modi dell’invettiva pasoliniana,
soltanto quando la città lombarda è diventata come tutte le altre città
e, in virtù dei suoi mezzi produttivi, forse peggiore delle altre. Di un
Paese tale ormai Milano, più che Palermo, è divenuta metafora.
Ecco perché, non essendo stato Consolo ad “andare” a Milano, è
stata questa, ormai irrimediabilmente mutata, ad “andare” da lui. Da
questa odiosamata Milano lo scrittore, attraverso il protagonista del
romanzo, dolorosamente si congeda, invocando la compagnia e
l’assistenza degli spiriti magni che fecero grande la città e che da
tempo costantemente lo confortano71.
Ebbero un bel dire quanti si indignarono davanti alla
dichiarazione, che Consolo fece sulle pagine del «Messaggero»72, di
voler lasciare Milano in caso di vittoria della Lega di Bossi alle
elezioni amministrative del 20 giugno 1993.

Una dichiarazione che… potrà apparire a chi legge… insensata, carica di


esibizionismo, di prevenzione e presunzione, inopportunamente provocatoria, ma
credo che essa possa trovare una sua motivazione e legittimità nel fatto che altri
intellettuali milanesi – editori, scrittori, giornalisti ben più autorevoli e famosi di me
– hanno dichiarato la loro simpatia e adesione politica allo schieramento della
Lega Nord e quindi, implicitamente, la loro soddisfazione e felicità nel trovarsi a
vivere in una Milano amministrata da domani dai leghisti73.

Dichiarava che se ne sarebbe andato specificando: «Me ne


andrò, voglio chiarire, non in quanto militante dell’altro schieramento
politico… ma in quanto cittadino di Milano, in quanto lavoratore, in
quanto, è la parola che si usa, un intellettuale»74. E ancora
precisava, data l’omologazione socio-culturale e civile del Paese
tutto: «Non si è più di nessun luogo. E, d’altra parte, credo che oggi
non si possa più fuggire da nessun luogo, penso che siamo
prigionieri, a Milano, a Roma, a Palermo, della stessa realtà, affetti
tutti dallo stesso male. La mia dichiarazione di lasciare Milano era un
gesto simbolico di protesta»75. Il gesto, è chiaro, di un uomo libero,
di uno abilitato a scrivere: «Solo pochi scrittori, solo pochi isolati,
“non protetti”, hanno sentito il dovere morale di parlare, di battersi
per la verità e la giustizia… Lo scrittore rimane solo. Quando Zola
affermava reiteratamente “sono uno scrittore libero”, “sono uno
scrittore solo” affermava. O solo perché libero»76.
La libertà e il coraggio di elevare una simile protesta, che «irritò e
inquietò tanta gente»77, gli venivano dall’essere, nonostante egli se
ne schermisse, un seguace degli scrittori-intellettuali che osavano
partecipare alla vita del Paese con la scrittura cosiddetta
d’intervento; dall’essere una persona nella quale non c’era
separazione fra l’uomo e lo scrittore, una persona che, nonostante la
forza, e in virtù anzi, dei suoi mezzi linguistici, meditava e pesava
bene le parole, prima di parlare e scrivere. Una persona che, davanti
a quella che i benpensanti gli rimproveravano come una
contraddizione evidente la sua scrittura e i suoi interventi pubblici, da
una parte, e l’essere pubblicato dalla casa editrice acquisita dal
fondatore di Forza Italia, dall’altra, ebbe a confidarmi testualmente:
«Jano, bisogna imparare a sapere sputare nel piatto in cui si
mangia, se si vuole conservare la libertà personale». Questo era
Consolo. E a proposito di “contraddizioni” rinfacciate a grandi
scrittori, non posso qui sottacere quanto testualmente mi disse,
durante una sua visita ad Avola, a una mia esplicita domanda circa il
suo «contraddisse e si contraddisse», Leonardo Sciascia: «Dissi
questa battuta per gli stupidi»78, per coloro, insomma, che non
sanno cogliere la portata, a volte profetica, di determinate
dichiarazioni e che si soffermano a guardare non la luna ma il dito
che la indica, spesso con esiti di insipienza socio-culturale che porta
alla miopia politica e apre strade a scenari regressivi di demagogia,
populismi, razzismi e titillamenti di pancia delle cosiddette masse,
come quelli che sono sotto gli occhi e sulla pelle di tutti nell’Europa
di oggi.
La battuta dello scrittore di Racalmuto mi riportò alla mente il
saggio di Miguel de Unamuno Sobre la consecuencia la sinceridad,
col quale il filosofo e scrittore basco nel 1906 combatteva contro
l’ipocrisia e il perbenismo utilitario di certi intellettuali del suo tempo.
«Essere coerente», scriveva il pensatore basco, «suole significare,
la maggior parte delle volte, essere ipocrita. E questo arriva ad
avvelenare le sorgenti stesse della vita morale intima»79… «È
ridicolo, sommamente ridicolo, chiedere coerenza a un pensatore
puro»80. E ancora nel saggio Mi religión affermava: «Il mio più
grande impegno è inquietare il mio prossimo»81, la mia religione,
insomma, è inquietare gli altri. Nella determinazione di Sciascia e di
Consolo ravviso lo stile e la determinazione dell’intellettuale puro che
fu Unamuno. E un intellettuale vero non può non essere un
pensatore puro. Sciascia e Consolo lo furono entrambi ed entrambi
ne pagarono il prezzo. Consolo, ha scritto Concetto Prestifilippo,

non esercitava diplomazie linguistiche. Non operava concessioni. Non salvava


potentati. Non blandiva accademie. I suoi interventi potevano irritare, non essere
condivisi ma erano sempre onesti, veri82. Consolo era un irregolare, non era
irreggimentabile, era un eccentrico. Non gli hanno perdonato la sistematica
diserzione delle adunate, delle parate. Un conto che ha pagato caro a Milano e
anche in Sicilia83. Un intellettuale contro. Questo è stato il suo paradigma
esistenziale84.

Le parole che chiudono Fuga dall’Etna sono emblematiche a tale


riguardo: «La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste
nell’oppormi al potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che
è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte,
le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro
tempo»85.
Con Lo Spasimo di Palermo, ultima opera fondamentale, che
chiude la trilogia aperta da Nottetempo, casa per casa, passando
per L’olivo e l’olivastro, la furia verbale ch’era finita in urlo, come s’è
detto, s’era dissolta nel silenzio86, un silenzio che fu al tempo stesso
metafisico e reale. Ma poiché «anche il silenzio è dolore»87, pur non
credendo più nel romanzo, Consolo non rinuncia tuttavia alla
scrittura e alla denuncia di uomo libero e solo. Ha giustamente
osservato Massimo Onofri che «l’afasia cui ci si riferisce non ha né
una valenza psicologica né estetica, ma solo storica ed
antropologica. Anzi: è proprio a questo livello che la ricerca di
Consolo e la sua storia di scrittore sembrano caricarsi di futuro»88
Se il narratore tacque, l’uomo che nel suo intimo coltivava, contro
ogni evidenza – spes contra spem – la speranza nella linfa nuova
che dal Mediterraneo sarebbe venuta all’Italia e all’Europa intera,
non cessava di intervenire in pubblico. «La speranza non bisogna
mai perderla, aveva dichiarato in un’intervista, io credo nella forza
della storia. Malgrado i momenti bui, la storia si schiarisce. Viene la
luce. Citando il poeta spagnolo Machado: desperados, esperamos,
todavía»89.
Sperava, Consolo, sperava, per esempio, nelle nuove energie
vitali che, in tempi di decadimento e di barbarie come quelli che
registra attualmente la società del mondo occidentale, sarebbe
venuta a noi dai paesi del Maghreb, a rinvigorire e temprare le
nostre membra esauste e svigorite dagli eccessi dell’opulenza e
dell’irrazionalità. In più d’una occasione ebbe ad auspicare che entro
pochi anni i figli e i nipoti degli immigrati di questi nostri anni
avrebbero potuto scrivere la loro letteratura, che sarebbe stata
anche la nostra. Cosa che realmente si sta verificando da qualche
tempo a questa parte. Riferendosi a Ben Jelloun, così annotava lo
scrittore: «E noi aspettiamo in Italia una voce come la sua che venga
dal Maghreb, a far esplodere la nostra lingua, che venga ad
arricchire il nostro romanzo»90. In una intervista a Gianni Bonina
Consolo dichiarava:

Nel nostro contesto le voci nuove possono essere quelle di quanti arrivano qui e
diventano, se non in questa generazione forse nella prossima, italianofoni,
portando fantasia e immaginazione, come è successo in Francia e in Inghilterra.
Speriamo che i figli dei nostri clandestini possano arrivare ad esprimersi e
diventare scrittori e poeti, arricchendo così la nostra letteratura. Nella quale vedo
un prosciugamento senza rimedio91.

Alla luce di queste affermazioni, come non pensare al lavoro


svolto in anni recenti in Italia dal giovane scrittore congolese Jadelin
Mabiala Gamgbo, autore del romanzo Rometta e Giulieo e, insieme
con Piersandro Pallavicini, curatore dell’antologia L’Africa secondo
noi92, nonché a quello di tanti altri autori immigrati?93 Allora,
possiamo arguire, sarà salva la nostra società, perché sarà garantita
la salvezza di una memoria storica di ampia matrice mediterranea
che oggi traballa e rischia di essere cancellata definitivamente. La
nostra società tutta ha bisogno di nuova linfa culturale, senza
preclusioni di ordine storico né geografico né etnico. È una
prospettiva nuova, oggi per molti scandalosa, sulla quale è
necessario riflettere, per sottrarsi ai condizionamenti
dell’unidimensionalità alla quale ci costringe la realtà del mondo
contemporaneo. Si tratta di una proiezione razionale dell’ethos
profondo dello scrittore, che in Di qua dal faro è calibrata in modi e
termini non metaforici, come nelle opere narrative, ma comunicativi,
quelli propri della scrittura d’intervento. Ne viene fuori un sostanziale
atto di fiducia nelle possibilità dell’uomo, quasi una sorta di profezia,
che supera di fatto, lungo il percorso di un «orizzonte colloquiale»,
come l’ha definito Giulio Ferroni, i tratti, per così dire, pessimistici
che porta con sé il tono alto, elaborato, solenne, talora tragico, di
quell’articolato e sofferto poema narrativo che è tutta l’opera
narrativa di Consolo94. A ragione Gianni Turchetta, a conclusione del
suo saggio introduttivo al Meridiano Mondadori con l’opera omnia
dello scrittore, ha sottolineato che il disincanto e le delusioni non
hanno impedito a Consolo di coltivare

l’intensità del suo amore per il mondo… Il progressivo incupirsi della sua visione
non deve indurci a sottovalutare un altro aspetto fondamentale delle sue scritture:
l’instancabile, attentissima, partecipe valorizzazione degli infiniti aspetti del mondo,
e più ancora dei soggetti che lo abitano, che giorno per giorno lo fabbricano95.

Sperava Consolo, sperava e credeva nella poesia, per lui la forma


più alta di espressione creativa, quella cui era maggiormente votato
e con cui – quasi antico aedo, erede anche della memoria popolare
della gente di Sicilia – chiude Lo Spasimo di Palermo, in un
disperato urlo catartico, a somiglianza dell’Empedocle della sua
pièce Catarsi, con una preghiera, quella preghiera alla quale egli, in
Chino Martinez96, alla fine approda, realizzando un passo avanti
rispetto allo Sciascia, che, alla fine del Cavaliere e la morte, s’era
fermato muto davanti alla soglia del mistero del tempo97. Sperava
Consolo, sperava e confidava nei giovani, come dimostra il sostegno
dato negli anni a tanti di loro, fra cui Aurelio Grimaldi, Roberto Andò,
Roberto Saviano e altri. E nella società di oggi sono i giovani a dare i
segnali forti del cambiamento. Quando mai era successo che un
italiano figlio di immigrati magrebini riempisse il Forum di Assago,
strapieno di giovani, come ha fatto l’estate scorsa il rapper, figlio di
tunisini, Ghali Andouni?98 E come non segnalare, a proposito di
giovani artisti legati all’immigrazione magrebina, i nomi della
cantautrice italiana ma di origine marocchina Malika Ayane e quello
dell’italo-egiziano Alessandro Mahmood99, che, segno dei tempi
nuovi, ha vinto il festival di Sanremo 2019, con tutto lo strascico di
polemiche che in ambito politico e mediatico ne è seguito100 e a
conferma, come ha sottolineato più d’uno e come sosteneva
Consolo, che l’incontro di culture differenti genera bellezza; nomi,
tutti questi, di giovani tra i tanti in cui sperava Consolo. E sappiamo
tutti quanta influenza abbia il mondo della musica e dello spettacolo
in genere nell’incontro tra i giovani di ogni latitudine, oltre ogni limite
e pregiudizio culturale.
Sperava Consolo, e alimentava la speranza degli altri. Voglio
ricordare, al riguardo, il mio ultimo incontro con lui, nell’aprile del
2011, nella sua casa di Sant’Agata Militello. Ero andato a trovarlo
insieme con Nino De Vita, ed egli, che recava evidenti nel fisico i
segni della malattia che lo stava divorando, ci parlava del suo
romanzo in programma, ambientato, precisava, nel Seicento e al
quale, ripeteva, stava lavorando, come mi aveva in precedenza
anche per telefono più volte confermato. E io, forse più per
sostenerlo che per intimo convincimento, pensando oltretutto ai
tempi lunghi della gestazione dei suoi romanzi, lo incoraggiavo e lo
spronavo, come avevo sempre fatto con lui nel corso degli anni. E
lui: «Sì, Jano, scriverò, scriverò…». Illusione che tra metafora e
realtà lo accompagnò sino alla fine per la fiducia che egli aveva nella
scrittura, in virtù della testimonianza civile di cui per lui la scrittura
letteraria era portatrice. E un sospetto, in verità, mi portai dentro alla
fine di quell’incontro: che fosse stato lui a sostenere e confortare me
con la naturale empatia, con la pietas umana e l’amicizia che mi
aveva sempre dimostrato e confermato nel corso degli anni, al punto
di non vergognarsi di versare lacrime, in mia presenza,
accarezzando le pietre dell’antica Eloro, come stesse accarezzando
delle persone, di quelle che, ebbe a dirmi, andando poi via dal sito
archeologico e chiedendomi sommessamente scusa, erano passate
e vissute tra quelle antiche pietre101.

1 Il libro fu pubblicato nel 1990 in occasione della 42° sessione del “Premio
Italia” della RAI, che si tenne in Sicilia. Il saggio di Consolo si intitola Kore
risorgente. La Sicilia tra mito e storia, in Vincenzo Consolo, Cesare De Seta,
Sicilia teatro del mondo, fotografie di Giuseppe Leone, ERI, Torino 1990).
L’anno successivo l’opera fu pubblicata in edizione economica col titolo La
Sicilia passeggiata, ERI, Torino 1991.
2 Cfr. V. Consolo, Sicilia paseada, Ediciones Taspiés, Granada 2016, pp. 9-14.
3 V. Consolo, La grande vacanza orientale-occidentale, in «Alias», 7 agosto
1999, pp. 12-13; poi in un volumetto autonomo in trentaduesimo, Dante &
Descartes, Napoli 2001.
4 V. Consolo, Sicilia paseada, cit., p. 12.
5 Ivi, p. 13.
6 Giuseppe Traina, Vincenzo Consolo, Cadmo, Fiesole 2001, p. 32.
7 Salvatore Mazzarella, Dell’olivo e dell’olivastro, ossia d’un viaggiatore, in
«Nuove Effemeridi», a. VIII, n. 29, p. 58.
8 V. Consolo, La Sicilia passeggiata, cit., p. 5.
9 Cfr. Sebastiano Burgaretta, L’illusione di Consolo e la Sicilia paseada, in
«Notabilis». a. IX, n. 3, maggio-giugno 2018, pp. 26-28.
10 V. Consolo, Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1988, p. 179.
11 Ivi, pp. 154 ss.
12 V. Consolo, Aurelio Grimaldi (a cura di), ‘Nfernu veru. Uomini e immagini dei
paesi dello zolfo, Edizioni Lavoro, Roma 1985; poi in V. Consolo, Di qua dal
faro, Mondadori, Milano 1999.
13 V. Consolo, La pesca del tonno in Sicilia, Sellerio, Palermo 1986; poi in V.
Consolo, Di qua dal faro, cit.
14 V. Consolo, Vedute dello Stretto di Messina, Sellerio, Palermo 1986.
Sull’attenzione dello scrittore allo Stretto di Messina cfr. V. Consolo, Nuccio
Rubino (a cura di), Fra contemplazione e paradiso. Suggestioni dello Stretto,
Sicania, Messina 1988; poi in V. Consolo, Di qua dal faro, cit.
15 Era uscito sul «Messaggero» del 30 novembre 1993.
16 Cfr. V. Consolo, Così la Sicilia ingrata tradì il paladino Mimmo, in “Il
Messaggero”, 8 gennaio 1995; Id., Retablo siciliano, in Sebastiano
Burgaretta, Retablo siciliano. I colori dell’epos nella Casa-museo “Antonino
Uccello”, catalogo dell’omonima mostra tenutasi al Museo Teatrale alla Scala.
Museo Teatrale alla Scala, Milano 1997, pp. 17-20.
17 V. Consolo, La rinascita del Val di Noto, introduzione al volume fotografico di
Giuseppe Leone, Il barocco in Sicilia. La rinascita del Val di Noto, Bompiani,
Milano 1991; poi in V. Consolo, Di qua dal faro, cit.
18 Cfr. Miguel Ángel Cuevas, Introdución, in V. Consolo, A este lado del faro,
Editorial Parténope, Valencia 2008, p. 10.
19 V. Consolo, Di qua dal faro, Mondadori, Milano, p. 283.
20 V. Consolo, Nuccio Rubino (a cura di), Fra contemplazione e paradiso.
Suggestioni dello Stretto, cit., p. 7.
21 V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Mondadori, Milano 1994, p. 106.
22 Ivi, p. 113.
23 Ivi, p. 18.
24 V. Consolo, Di qua dal faro, cit., p. 39.
25 Cfr. Sebastiano Burgaretta, I saggi di Consolo, un commento ai suoi
romanzi; in «Stilos», 23 novembre 1999.
26 Cfr. Sebastiano Burgaretta, La parola che salva, in «Annali 12», a. XX, 2003,
Centro Studi Feliciano Rossitto, Ragusa 2004, pp. 298-299; Id., Il beato
Antonio Etiope, profeta dell’accoglienza, nel rinnovato culto degli avolesi, in
Id., Uomini e santi, Armando Siciliano Editore, Messina-Civitanova Marche in
corso di stampa, pp. 102 ss.
27 Mariza D’Anna, I “dialoghi mediterranei”, in «La Sicilia», 13 settembre 2018.
28 Gioacchino Amato, Attenti al rischio intolleranza; il virus sta sconvolgendo la
natura del popolo siciliano, in «la Repubblica», 21 agosto 2018.
29 V. Consolo, Luigi Manconi (a cura di), Perché non ha senso essere razzisti,
in «Sette» del «Corriere della Sera», 26 novembre 1992, p. 38.
30 Domenico Calcaterra, Vincenzo Consolo. Le parole, il tono, la cadenza,
Prova d’autore, Catania 2007, p.174.
31 Roberto Andò, Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura, in
«Nuove Effemeridi», cit., p. 12.
32 V. Consolo, Ai disperati non servono musei, in «la Repubblica», edizione di
Palermo, 22 agosto 2004.
33 Cfr. Antonino Cusumano, I migranti senza valigie nelle stanze della memoria,
in «Dialoghi Mediterranei», n. 35, gennaio 2019.
34 Giovanna Giordano, “Il libro? Deve ferire”, in «Giornale di Sicilia», 24
dicembre 1988.
35 V. Consolo, Di qua dal faro, cit., p.213.
36 Ivi, p. 215.
37 Ivi, p. 239.
38 Francesco Merlo, La nave della resistenza, in «la Repubblica», 23 agosto
2018.
39 Fernand Braudel, Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, vol. I,
Einaudi, Torino 1976, pp. 921-922.
40 V. Consolo, Il Mediterraneo tra illusione e conflitto nella storia e in letteratura,
in Gaetano Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per
costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, in «Fogli
d’informazione», terza serie, nn. 13-14, gennaio-giugno 2010, p. 7.
41 V. Consolo, Di qua dal faro, cit., pp. 217-222; cfr, inoltre, Flaviano Pisanelli,
Alfonso Campisi (a cura di), Memorie e racconti del Mediterraneo:
l’emigrazione siciliana in Tunisia tra il XIX e il XX secolo, Mc éditions, Tunisi
2015, A. Campisi, Il pericolo è alle “nostre porte”. L’invasione siciliana in
Tunisia tra il XIX e il XX secolo, in «Dialoghi mediterranei»,
www.istitutoeuroarabo.it, n. 33, settembre 2018.
42 Cfr. I muri d’Europa, in www.nuovosoldo.it.
43 Cfr. V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Mondadori, Milano 1992,
pp.173-175; cfr. Giuseppe Traina, Vincenzo Consolo, cit., p. 33.
44 V. Consolo, Memoriale di Basilio Archita, in Id., Le pietre di Pantalica, cit., pp.
187-195. Il racconto, ispirato a un fatto di cronaca, era già uscito, quattro anni
prima, con il titolo E il capitano ordinò: buttateli agli squali! in «L’Espresso», 3
giugno 1984, pp. 55-64.
45 Flora Di Legami, Vincenzo Consolo, Pungitopo, Marina di Patti 1990, p. 43.
46 V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Mondadori, Milano 1998, pp. 40-41.
47 Gianni Bonina, In nome della nostra legge, in «La Sicilia», 27 settembre
1998.
48 Cfr. Sebastiano Burgaretta, L’illusione di Consolo, cit.
49 V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit., p. 125.
50 V. Consolo, Il boato di Santa Rosalia, in «L’Unità», 6 agosto 1998.
51 Leonardo Sciascia, La palma va a nord, Gammalibri, Milano 1982.
52 Gianni Bonina, art. cit.
53 Gianfranco Marrone, Consolo risveglia l’eco di parole dimenticate, in
«L’Ora», 14 aprile 1992.
54 Cesare Medail, C’era il diavolo a Cefalù. Ma poi arrivò Mussolini, in «Il
Corriere della Sera», 21 marzo 1992.
55 Oreste del Buono, Sicilia con furore, in “Panorama», 16 ottobre 1988, p. 137.
56 Andrea Rossi, Il “contastorie” del bel tempo che fu, in «Grazia», 30 ottobre
1988, p. 97.
57 Dante Alighieri, Purgatorio, VI, vv. 125-126.
58 Massimo Onofri, I miracoli della poesia, in «Diario della settimana», 7 ottobre
1998.
59 Luca Canali, Che schiaffo la furia civile di Consolo, in «L’Unità», 7 ottobre
1988.
60 Dalla registrazione del discorso che Consolo tenne ad Avola l’11 dicembre
1998, in occasione della presentazione, da me organizzata, dello Spasimo di
Palermo. Cfr. anche L. Faraci, Ho scritto il romanzo per narrare le nostre
perdite, in «La Sicilia», 13 dicembre 1998.
61 V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 37.
62 Ivi, p. 91.
63 Ivi, p. 88.
64 Ivi, p. 105.
65 Ivi, p. 91.
66 Ivi, pp. 127-128.
67 Ibidem.
68 Concetto Prestifilippo, Parole contro il potere. Vincenzo Consolo, ritratti e
lezioni civili, Navarra Editore, Marsala 2013, p. 69.
69 Ivi, pp. 129-130.
70 Ivi, p. 93.
71 Cfr. Sebastiano Burgaretta, Il Gran Lombardo schiavo dell’utile, in «La
Sicilia», 10 dicembre 1998.
72 V. Consolo, Tu non mi avrai, città dei leghisti, in «Il Messaggero», 20 giugno
1993.
73 V. Consolo, Fuga dall’Etna, Donzelli Editore, Roma 1993, p. 5.
74 Ivi, p. 4.
75 Ivi, pp. 68-69.
76 V. Consolo, Di qua dal faro, cit., p. 197; cfr. N. Messina, Consolo fra scrittura
letteraria e “di presenza”, in Irene Romera Pintor, España e Italia:el Siglo XX,
Fundación Updea Publicaciones, Madrid 2018, pp. 133 ss.
77 V. Consolo. Fuga dall’Etna, cit., p. 69.
78 Cfr. Sebastiano Burgaretta, La nota dissonante, in «Il Giornale di Scicli», 9
febbraio 2003.
79 Miguel de Unamuno, Ensayos, tomo I, Aguilar, Madrid 1966, p. 849.
80 Ivi, p. 855.
81 Miguel de Unamuno, Ensayos, tomo II, Aguilar, Madrid 1966, p. 373.
82 Concetto Prestifilippo, op. cit., p. 8.
83 Ivi, p. 12.
84 Ivi, p. 13.
85 V. Consolo, Fuga dall’Etna, cit., p. 70.
86 Cfr. la nota n. 59.
87 Cfr. l’epigrafe in esergo con la citazione dal Prometeo incatenato di Eschilo.
88 Massimo Onofri, Nel magma italiano: considerazioni su Consolo scrittore
politico e sperimentale, in A A. V V. Per Vincenzo Consolo, a cura di Enzo
Papa, Manni, San Cesario di Lecce 2004, p. 66.
89 Concetto Prestifilippo, op. cit, p. 27.
90 V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., p. 235.
91 Gianni Bonina, art. cit.
92 Piersandro Pallavicini, Jadelin Mabiala Gangbo (a cura di), L’Africa secondo
noi, Edizioni dell’Arco, Pavia 2002.
93 C’è da segnalare che da una ventina d’anni si va sviluppando in Italia una
letteratura che è opera di immigrati che scrivono adottando la lingua italiana.
Tra di essi sono Pap Khouma, Saidou Moussa Ba, Mohamed Bouchane,
Mbacke Gadji, Amara Lakhous, Igiaba Scego e altri.
94 Cfr. Sebastiano Burgaretta, I saggi di Consolo, un commento ai suoi
romanzi, in «Stilos», art. cit.
95 Gianni Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera
completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta, e con uno
scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. LXXIV.
96 V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 131.
97 Leonardo Sciascia, Il cavaliere e la morte, Adelphi, Milano 1988, pp. 90-91.
98 Cfr. Luigi Bolognini, Ghali:“Dovrei esser pieno di amici, invece ne ho persi la
metà, in «la Repubblica», 11 settembre 2018, p. 35; Idem, Ghali a San Vittore
“Voglio dare voce a chi non ce l’ha”, in «la Repubblica», 15 marzo 2019; Gino
Castaldo, Lasciatemi cantare, sono un italiano di nome Ghali, in « la
Repubblica», 29 dicembre 2018, p. 34.
99 Cfr. Carlo Moretti, Mahmood “Faccio Morocco pop nel segno di mio padre”,
in «la Repubblica», 6 febbraio 2019, p. 32.
100 Cfr., fra l’altro, Andrea Laffranchi, Mahmood: italiano al 100°/° cresciuto in
periferia tra i cantautori di mamma e la musica araba di papà, in «Corriere
della Sera», 11 febbraio 2019, p. 13; R. Franco, Sanremo, polemiche e veleni
sulla finale. E la politica “sale” sul palco dell’Ariston, Ivi, p. 12; Silvia
Fumarola, Sanremo, Mahmood l’italiano trionfo che spacca la politica, in «la
Repubblica», 12 febbraio 2019, p. 2; Luigi Bolognini, Nella periferia di
Mahmood “È il mio mondo, io resto qui”, in «la Repubblica», 18 febbraio
2019, p. 18; Giuseppe Videtti, Come va, come va, come va?, in «il Venerdì di
Repubblica», 5 aprile 2019, pp. 16-23; Luca Valtorta, Mahmood. Ecco il tour;
in «la Repubblica», 21 aprile 2019, pp. XXIV-XXV.
101 Cfr. Sebastiano Burgaretta, Alle soglie del témenos, in Massimo Maugeri (a
cura di), Letteratitudine 3, LiberAria Editrice, Bari 2017, p. 350, poi in Id., Alle
soglie del témenos, le fate editore, Ragusa 2021; Id., L’illusione di Consolo e
la Sicilia paseada, cit., p. 28.
MIGUEL ÁNGEL CUEVAS*
DUE INEDITI E ALTRE QUESTIONI CONSOLIANE
A PROPOSITO DEL TEMPESTOSISISSIMO
STEFANO D’ARRIGO

Così, «tempestosissimo», a delineare, a tratteggiare nell’aggettivo


l’uomo e l’opera, Vincenzo Consolo nominò Stefano D’Arrigo, nel
nostro primo scambio epistolare, nel 20001, quando seppe della mia
intenzione – più volte successivamente abbandonata e ripresa – di
provare a tradurre Horcynus Orca2. L’evidente riferimento erano i
vortici della bufera linguistica che chiameremo scill’eccariddesca:
ché da sempre Consolo si era posto davanti all’impasto verbale
darrighiano come si trattasse d’una materia di «natura acquorea»3;
ma d’acque «fervorose», «ribollenti» come sono sulla linea del
duemari4, lo scill’e cariddi appunto5 (e anche con quei due aggettivi
si riferì qualche volta Consolo a D’Arrigo6). L’occasione per una
messa a fuoco della questione è nel saggio I ritorni del ’97, incluso
poi in Di qua dal faro: nel quale si accenna pure alla pubblicazione
su «Il menabò di letteratura», nel ’60, di un centinaio di pagine de I
giorni della fera, la prima versione edita (ma già seconda, dopo La
testa del delfino7) dell’Horcynus, e alla vis polemica ovvero
insofferenza vittoriniana nei confronti dell’uso letterario dei dialetti
meridionali. Vi si legge anche, ne I ritorni, dell’asse «sperimentale»
Gadda-Pasolini all’interno del quale si muove la ricerca di D’Arrigo, il
cui linguaggio,

Si ha l’impressione che […] riproduca ed esalti il linguaggio di una realtà mobile,


equorea qual è lo Scill’e Cariddi, in cui lo iato, per l’incessante furia distruttiva della
natura, si è fatto più vasto, più profondo: lo iato fra mito e storia, natura e cultura,
individuo e società. Riproduce ed esalta insomma, D’Arrigo, il linguaggio della
paura […].8

Consolo aveva conosciuto l’opera di D’Arrigo tramite il numero 3


del «Menabò», anzi forse è meglio dire tramite Vittorini tout court:
cioè da una visuale inevitabilmente vittoriniana. Quasi trent’anni
dopo, intervistato nel ‘89, dichiarerà: «Sono stato un po’ vittima di un
mito che aveva creato Vittorini, nella sua rivista il “Menabò”»9: il
nobile mito – «utopico», «generoso» nell’aggettivare apotropaico
consoliano10 – dell’autore de Le città del mondo sulla sanatrice
trasformazione industriale del Sud, della sua lingua, della letteratura
che ne doveva rispecchiare la realtà.
Dopo aver letto I giorni della fera, e il corredo di commenti
vittoriniani, sul «Menabò», l’apprendista scrittore incontra D’Arrigo
alla libreria D’Anna, a Messina. Ne parlerà più volte, Consolo, di
quest’incontro; in una tra le ultime, addirittura rimescola alquanto i
dati (ovvero i titoli del romanzo darrighiano):

Là, nella libreria D’Anna, incontrai, nell’estate del ’61, Stefano D’Arrigo. Un
uomo inquieto, in fuga, mi sembrò […]. «Devo andare al Faro, ad Acqualatroni, per
verificare alcune parole, alcuni modi di dire» comunicò a Giulio [D’Anna]. Ed io,
facendomi ardito, gli parlai del suo I giorni della fera, apparso nel «Menabò» 3 di
Vittorini e Calvino l’anno prima. E dissi del Glossario e della Notizia su di lui stilata
da Vittorini, in cui diceva che non aveva nessuna simpatia per i dialetti meridionali,
ché essi erano poco raccomandabili ai fini d’uno sviluppo moderno della lingua e
della letteratura… / «Ah, questo fiorentino, questo “rondista”! Non ha capito, non
ha capito! Vedrà, vedrà… I giorni della fera è diventato ora un’altra cosa, ora si
chiama Horcynus Orca, vi lavoro e vi lavoro da anni, come un dannato…» / E mi
disse poi […] di andarlo a trovare, se fossi capitato qualche volta a Roma. E così
feci, l’andai a trovare, in via Dell’Assietta […]. Mi fece accomodare nello studio,
dove, sulle pareti, erano appesi i fogli delle bozze del suo grande romanzo, fogli a
cui erano incollate lunghe strisce di carta che arrivavano fino a terra, dov’erano le
aggiunte, le varianti. Rimase in silenzio per più di mezz’ora. Poi, D’Arrigo,
cominciò a parlare, e fu un flusso inarrestabile di ricordi, di sentimenti e di
risentimenti. / «Ma tu – mi disse – perché non scrivi? In Sicilia, basta grattare con
le mani e si trovano storie straordinarie». Mi trattenni per pudore dal dirgli che
stavo lavorando a un romanzo, in cui, nonostante la diffidenza di Vittorini, mi aveva
guidato la sua lezione insieme a quella di Gadda, di Pasolini…11
Proprio sul quaderno che contiene la prima versione manoscritta
di questo romanzo, I padri putativi, titolo provvisorio de La ferita
dell’aprile, si legge l’abbozzo (anzi gli abbozzi) di una lettera a
D’Arrigo, titubante e spinta insieme:

Egregio Signore D’Arrigo, / spero che si ricordi ancora di me e del nostro


incontro alla libreria D’Anna di Messina. Naturalmente mi sono afret è chiaro che
[//] Egregio Signor D’Arrigo, [/] spero tanto che si ricordi di me. Evidentemente ↑è
chiaro che↑, d[D]opo il nostro incontro alla libreria D’Anna di Messina, mi sono
premurato a rileggere ancora una volta i due capitoli del suo romanzo. Se le
aggrad † … † [<a>] 12, nella sua risposta (chiedo molto?) potrà porgermi delle
precise domande per avere dei giudizi non critici ↑di critico↑, ma da[i] un comune
lettore che si sforza di essere attento, [.] e che, per giunta, penso, è cresciuto nello
stesso ambiente di chi scrive. È inutile dirLe che una sua risposta mi farebbe
oltremodo contento [.] perché mi riallaccia [allaccia] all’ambiente di chi pensa, mi
Le porgo gli auguri per il nuovo anno e per l’affermazione e il successo del suo
romanzo [/] Distinti saluti [/] Enzo Consolo13

Tornando al «Menabò», era stato proprio Vittorini, pur senza far


riferimento a sperimentalismi di sorta, chi con quella Notizia aveva
collocato D’Arrigo sullo stesso schieramento di Gadda o Pasolini14; e
forse aveva anche involontariamente fornito Consolo della
segnaletica occorrente al proprio percorso, avviando il giovane
scrittore alla consapevolezza dell’asse di cui si diceva. Pasolini
stesso aveva abbinato il proprio nome a quello dell’autore del
Pasticciaccio, in un intervento su «Città aperta» nel ’58:

Parlando di Gadda su «Vie Nuove» […] [vi] trovavo […] dei tipi diversi […] di
usare il dialetto […] [tra cui] «una serie di tipi d’uso dialettale di specie verghiana:
implicanti cioè una regressione dell’autore nell’ambiente descritto, fino ad
assumerne il più intimo spirito linguistico, mimetizzandolo incessantemente, fino a
fare di questa seconda natura linguistica una natura primaria, con la conseguente
contaminazione».
Questa la formula definitoria, che, mentre descrive solo in parte Gadda,
descrive me interamente.15

Con queste premesse circa la comune appartenenza ad un filone


di letteratura sperimentale più volte dichiarata16, misurando le
distanze con la mole dell’Horcynus, Consolo ne ha sempre però fatto
i conti, in un’altalena che va dall’incalzare dell’ipoteca vittoriniana
alla decisa ammirazione: quello di D’Arrigo è sì romanzo importante,
ma «mancato»17 – si legge in un’intervista del ’90 – oppure invece il
«libro assoluto»18 – in un’altra del ’92 – di un «grande scrittore»19 –
ancora un’intervista, nel ’77. Un’alternanza che si può ben
riassumere nell’inopinata paronomasia tra un «poderoso romanzo
Orcynus Orca»20 (senza h, nel ’75) e un «ponderoso romanzo
Horcynus Orca»21 (nel ’94).
Proprio l’intervento del ’75, una sorta di breve reportage-intervista
su «L’Ora» di Palermo, merita particolare attenzione. Intanto, dal
confronto tra la stampa e un dattiloscritto non datato rinvenuto
nell’archivio consoliano, intitolato La vita e l’Orca22, si evince che il
testo per «L’Ora» era stato parzialmente redatto (tutta la seconda
parte) già nel ’73. Questa prima, ma praticamente identica redazione
del testo che due anni dopo comparirà sul giornale palermitano, è
preceduta nel dattiloscritto da una specie di introibo lirico che occupa
una cartella e mezza. Si tratta di un vero e proprio omaggio all’opera
di D’Arrigo, intriso di parafrasi e citazioni (dalla cronaca del Villani
alle raccolte del Pitrè), di passi letterali de I giorni della Fera ed
allusioni a dei versi di Codice siciliano23, in una scrittura ritmica che
in chiusura si articola formalmente – appunto – in versi; ma è nel
contempo la messinscena di un microcosmo messinese nel quale un
ragazzo di nome Stefano vagheggia di penetrare nei segreti delle
acque dello scill’e cariddi; lo trascrivo per intero:

Il vento correva per lo Stretto inventando spume, spirali, colombelle, onde sui
chiari capelli scarmigliati, screziature negli occhi acquamarina delle donne. Dina e
Clarenza, fanciulle d’oro, tra il leone e il gallo, con tocchi di campana all’erta
richiamano gli Alaimi (…briga e travaglia / A chi Messina vuol guastare24). [/] Città
precaria, coloniale, di colonia dell’esistere. Tornavano i giorni fermi di luglio con
fondali stupefatti d’Antonello e castelli incantati sopra l’acqua, notti coi fuochi sui
colli di San Rizzo. [/] All’arena, don Venerando impreca, grida, piange per la morte
a tradimento degli eroi a Roncisvalle. Gorgoglia il riso in gola a donna Giovanna
tra il fumo dei piatti di pescestocco a’ ghiotta. [/] Da lontri e feluche, con fare greco
ammaliano il pescespada a fiore d’acqua, gridano: «Manosso, stringhela, manono,
mancato!»25 [/] Lu mari è vecchiu assai. Lu mari è amaru. A lu mari vôi truvari
funnu?26 [//] Nelle notti d’agosto, negli smalti bizantini di Ganzirri, si gonfiano le
cozze ai raggi della luna. Alle fontane di Giostra e di Zaera, furiosamente litigano
le donne. [/] Ad Acqualatroni… «Dopo la Grande Guerra le fere rispuntarono in
quei paraggi di mare nel ’35, sulla scia delle navi che navigando verso l’Abissinia
tagliavano per lo stretto»27. [/] E poi quella striscia di mare fu un inferno con fere e
bestine camicienere e l’Orca che tutto distrusse e tutto divorò. [/] E di nuovo nella
città di mare, nel cortile di sterro e palizzate vorticavano bambini appesi alle corde
della giostra. I pescatori di Pace, Paradiso e Contemplazione tiravano nelle
sciabiche gli ultimi cadaveri in divisa. [/] La lingua di mare tra Scill’e cariddi,
profondo, abissale, canale e oceano, ritorna teatro, di vita e morte, amore,
disperazione, speranza, storia e mito. Le reme correvano impassibili, dall’una
all’altra sponda, e i bastardelli. «Questi bastardelli – chi ci bazzica lo sa e quelle
abitué del passo di mare dovevano saperlo bene – sono spurghi e rifiuti della
corrente-madre, sia calante sia montante, correntelle di verso snaturato, che dalla
rema viva che le figlia, si girano all’indietro zigzagando fresche, fresche nella rema
morta; di là ritornano28 al punto di partenza, quindi ne ripartono, andando e
venendo, sempre sull’orlo, fuoriletto, diramandosi come canaletti navigabili per
velieruzzi, barcacce e caicchi, ma dove anche una lancia rispettabile come la
palamitara si porta comoda». [/] Stefano si muoveva incantato per la città, i giorni,
le lunghe notti, per le strade, il porto, le battigie. S’inventava i nomi delle vie,
piazza del Popolo la chiamava Stellaria, per la poca luce e lo sfavillio di stelle: [/]
Sirio in questa notte [/] e tu che pensi ai chiari [/] vapori d’ottobre [/] spiumi lieve [/]
come i volatili d’Africa [/] sulle vigne basse del litorale… [/] E s’accaniva all’enigma
del mare-madre: cercò nelle reliquie dissotterrate del parlare stratificato dei
pescatori pelli-squadra la chiave del mistero.

Della prima metà del testo stampato su «L’Ora», invece, oltre a


qualche frase e proverbio marinaro, non ci sono tracce precedenti
nel dattiloscritto: vi si accenna (e siamo tra le prime prove di un
binomio che diventerà di casa nella poetica consoliana) alla
tensione, o meglio al divaricamento verso la natura o verso la storia
nella letteratura e nell’arte siciliane, rispettivamente – e
schematicamente, come lo stesso Consolo riconosce29– della zona
orientale od occidentale dell’isola: un discorso, sulle dichiarate orme
di Américo Castro, parzialmente mutuato da Leonardo Sciascia e
Sebastiano Addamo30. D’Arrigo, quindi, orientale, «marino (e non
perché il suo romanzo si svolge sullo stretto)» – tiene a chiarire
Consolo – si troverebbe tra quegli scrittori «che per varie ragioni
hanno dovuto fare i conti con la natura prima ancora che con la
storia», i quali non possono dare «che opere i cui temi sono il mito,
l’epos, la bellezza, il dolore, la vita, la morte…»31. E aggiunge, in
una prima fulminea prefigurazione delle Vedute dello Stretto di
Messina, il saggio del 1988:

una città come Messina […] al limite e al confine, distrutta, ricostruita e


ridistrutta da terremoti, ci sembra un luogo dove la vita tende a svolgersi dentro un
mero spazio vitale. E figurarsi poi la vita di quella città invisibile e mobile che si
stende sullo stretto, quella dei pescatori della costa calabra, e della costa siciliana,
di Scilla e Cariddi, Scill’e Cariddi, anzi, arcaica e sempre uguale, vecchissima e
sempre nuova, piccola e vastissima, come il mare. […] su questo mare, su queste
acque […] si svolge il romanzo di D’Arrigo.32

Procede Consolo nel suo percorso sul romanzo presentando le


«femminote» (le donne di Bagnara Calabra, non certo della
palermitana Isola delle Femmine, come la sintomatica disattenzione
redazionale del «Menabò» annotava nel controverso glossario che
accompagna I giorni della fera33), tra di esse «la potente magara
Ciccina Circè»34. E conclude, per l’appunto, in un ammaliante salto
simbolico-etimologico:

Il viaggio di ritorno di ‘Ndrja Cambria diventa […] viaggio verso la morte. Ma


viaggio anche verso la verità, l’origine della vita. Orcynus [senza la h del titolo, non
si dimentichi] è anche orcio, grembo materno, liquido refugio, mare, principio e fine
della vita.35

Così, il viaggio finisce – chiosa ancora Consolo – «sullo stretto,


striscia di mare, […] iato, rottura “naturale” tra una terra e le altre, tra
una “storia” e le altre […]». Anche il viaggio del lettore dentro il
romanzo, di quel concreto lettore che ne scrive per «L’Ora» di
Palermo, nel testo darrighiano «immers[o], come in un’avventura […]
eccezionale e affascinante.»36
Fuori dalla malia, dalla magaria, anni dopo, l’autore del Sorriso
continua a misurare le distanze tra il proprio risalire l’etimo, per dirla
gaddianamente, e il modo in cui D’Arrigo rinviene e reinventa
un’«ancestrale memoria […] in quel linguaggio di scill’e cariddi»37,
ben consapevole che ambedue i processi, anche se per vie del tutto
diverse, puntano (per restare nell’immaginario marino e in parole
ancora gaddiane) «contro corrente […] col perforante vigore
d’un’anguilla o di certi pesci anadromi che sanno chilometrare
all’insù, su, su, su, fino a ribevere le linfe natali […].»38 Ma qui, in
questo riflettere di Consolo sulla dizione darrighiana, non assistiamo
più ad alcun movimento altalenante, ma a un vero e proprio
spostamento, a un cambio di rotta. Sempre nel lungo articolo del ’75
su «L’Ora» leggiamo di una lingua

che è il dialetto proprio dei pescatori dello Stretto, gergo, suono e


atteggiamento, assunti e reinventati dall’autore con conoscenza e sapienza
magistrale e resi con ritmo e musicalità complessa, larga, polifonica.
Una lingua che è ammiccante, allusiva, ora tenera e carezzante, ora dura e
sentenziosa, che procede circolarmente, per accumuli, e arriva fino al cuore delle
cose.39

Nel ’77, rispondendo a delle domande sulla propria operazione


linguistica nel Sorriso in confronto a quella dell’Horcynus, asserisce:

l’operazione linguistica non si può, è chiaro, staccare dalla realtà, dalla materia
trattata. Ora, credo che quella di D’Arrigo sia una realtà che appartiene
all’eventografia, mentre quella mia alla storiografia. Questo vuol dire che D’Arrigo
tratta di temi assoluti, eterni […] mentre io tratto di temi temporali […] che egli
quindi si serve di simboli, mentre io di metafore; che egli crede nel romanzo, nella
letteratura, nella scrittura, mentre io [ne] dubito […]. D’Arrigo, nel dilemma tra il
vivere e lo scrivere, ha scelto coraggiosamente, totalmente lo scrivere.40

Soltanto quattro anni ancora e, in uno straordinario saggio su


Antonello da Messina del ’81, il linguaggio dell’Horcynus,
«approssimato, accumulato e fermentato», linguaggio «del lirismo e
del pathos», della «trepidazione», «procede verso la realtà per
accumulo e lenta progressione – per chiarimenti, ritorni, soste,
ripetizioni, diminutivi, vezzeggiativi – senza mai raggiungerla.»41
Sarà quest’interpretazione a farsi strada nei successivi interventi
consoliani, l’identificazione in D’Arrigo di un’abnorme
«superfetazione linguistica», del suo aggirarsi propiziatorio attorno e
dentro a un «linguaggio non storico, ma esistenziale, materno»42; di
questa specie, appunto, di «grande Orca linguistica, […] con l’infinita
iterazione e deformazione lessicale – parole composte […] indugi,
divagazioni […] che quasi mai si ricongiungono col referente»43.
Così, con queste ultime considerazioni, o giudizi che dir si voglia,
siamo tornati al punto di partenza, cioè al saggio del ’97 I ritorni.
Nell’88 però Consolo aveva forse scritto, nel racconto Fra
Contemplazione e Paradiso – due delle località tra Messina e Torre
Faro già presenti nell’inedito del ’73 – (intitolato Scilla e Cariddi in
stampe posteriori) una specie di misurato, minimale centone di
motivi darrighiani, chissà se una discreta e muta offerta: un testo
sovrabbondante di ammiccamenti all’Horcynus, a cominciare dal
lessico marinaresco, dove si tenga conto che alcuni dei termini usati
nel racconto erano stati sottolineati dal giovane lettore sul testo de I
giorni della fera, segnandone probabilmente la scoperta, nell’uso
letterario almeno: così per lontro, palamidara, draffinera44 (lontru,
palamitara, traffinera in D’Arrigo45); il breve accenno alle bagnarote
(le femminote dell’Horcynus); le liti con i pescatori dell’altra sponda
dello Stretto; il fascino dell’orologio del Duomo di Messina…46
Tuttavia Consolo, memore magari dell’impegnativissima
lungaggine di una tra le ultime sequenze dell’Horcynus, in cui il
narratore mima per ben centosessantasei pagine il procedere
titubante dell’ecolalia quasi afasica di uno dei personaggi47, in sede
di valutazione continua a prendere le distanze rispetto allo sgorgare
delle parole darrighiane, «ammassantesi attorno al referente, alla
realtà, senza mai combaciare con essa»48. Lo si direbbe infatti
reduce ancora di talune remore vittoriniane; ed ecco la conclusione
della sua analisi:

Siamo qui ancora, in questo scrittore di assoluta vocazione e dedizione


letteraria, nella sfiducia nei confronti della storia, siamo nel pessimismo, nel
fatalismo verghiano. […] Siamo qui ancora nella siciliana non speranza […]49.

Parole che sembrerebbero un ammonimento, alla maniera del


moralismo progressivo di Vittorini; che però invece forse altro non
sono che una formula scaramantica, un modo di scongiurare i propri
fantasmi: quelli che – fatta eccezione per i testi d’intervento – lo
porteranno all’estenuazione nell’ultima stagione della sua scrittura.
In una delle fasi di queste, diciamo, manovre d’approccio al silenzio
narrativo, tanto corteggiato (in una sorta di aporia: perché, costruito
a parole, diventa racconto, flebile affabulazione) epperò fatalmente
raggiunto, nel ’93 aveva affermato:

Ha spazzato, spazza l’uragano ogni possibilità di rappresentare


«immediatamente» la realtà. Spazza finanche la realtà (non parliamo della verità)
spacciando per realtà quella fata morgana che ci restituisce la pagina stampata o
lo schermo opalescente, facendo credere che l’unico vero linguaggio sia il fischio
continuo e assordante della comunicazione […]50.

L’unica possibilità rimasta allo scrittore, conclude, è


«risacralizzare il linguaggio, […] riaccostarlo, per renderlo irriducibile,
al linguaggio liturgico dei poemi.»51
Della siciliana, verghiana non speranza, parlava Consolo in
quell’ultimo cedimento all’intonazione vittoriniana. Qualche anno
dopo, nel 2000, in un’intervista intitolata, si direbbe a mo’ quasi
d’occhiello, La Sicile entre utopie et désillusion, si legge, tra le ultime
risposte:

D’un côte, certains écrivains […] ont choisi une langue rationnelle et
comunicative qui exprimait l’espoir de la naissance d’une société plus civilisée.
D’autres écrivains ont préféré s’exprimer dans une langue que j’appelle «du
désespoir», une langue très expressionniste. De Verga jusqu’à Gadda, en passant
par Pasolini, Meneghello ou D’Arrigo, les écrivains qui ont choisi cette option
forment une tradition à laquelle je suis heureux d’appartenir.52

In Fuga dall’Etna Consolo si chiedeva, nei modi di


un’interrogazione retorica, ma chiusa dalle parentesi: «(che sia
questa la letteratura, la narrativa: una infinita digressione affabulante
per sfuggire a una risposta logica e immediata?)»53. Tolto quel velo
d’ironia, revocata l’interdizione, ecco quindi un approdo, un ritorno
forse, un nostos anch’esso: ecco Vincenzo Consolo dalle parti del
«movimento digressivo»54 dell’infedele Stefano D’Arrigo.
Diamo però un ultimo sguardo indietro, torniamo alle origini. Già il
primo romanzo, quella Ferita a proposito della quale lo scrittore
tirocinante si trattenne per pudore dal dire a D’Arrigo che lo aveva
guidato la sua lezione, in chiusura, proprio nell’explicit, presenta un
particolare non trascurabile. Secondo i diversi testimoni precedenti la
stampa, non può essere che all’ultimo momento, sul definitivo
dattiloscritto di lavoro redazionale non rinvenuto, quando Consolo
modifica la frase finale, che da «Così girai tanti anni per i paesi,
all’isole, sulle montagne, fino a Messina»55, diventa «Così girai tanti
anni per i paesi, all’isole, sulle montagne, alle marine, dal comune di
Alì fino a Messina»56. Alì Marina, paese natio di Stefano D’Arrigo, è
una piccola località sulla costa ionica, qualche decina di chilometri a
sud del capoluogo messinese, assolutamente decentrato rispetto
alla geografia finzionale de La ferita dell’aprile. Quando traducevo il
romanzo, chiesi a Consolo il motivo di questa presenza, è propro il
caso di dire, fuori luogo: in modo alquanto elusivo mi rispose che la
parola alì era carica di suggestive sonorità ispano-arabe57. Quale
che fosse il motivo, il testo veniva arricchito (anche dalle assonanze
marine-comune), marcato metricamente da un endecasillabo: DAL-
CO-MÚ-NE-DIA-LÍ-FI-NOA-MES-SÍ-NA. Proprio su quella linea
sperimentale del Pasolini che sigillava l’ipotesi mimetica di Ragazzi
di vita pure con un endecasillabo: «che arava col suo rombo
l’orizzonte»58. Ora, e chiudo con una domanda pasolinianamente «a
canone sospeso»59: che questo giro «alle marine» donde il nome di
Alì diventa centro e perno ritmico di un verso di commiato, non sia,
anche, un pudico privato ammiccamento al «tempestosissimo»,
«insormontabile» D’Arrigo?

* Universidad de Sevilla
1 Nella minuta della lettera, anziché «tempestosissimo» si legge
«insormontabile» (due cartelle dattiloscritte, apertura e chiusura manoscritte
a biro nera, datate «Milano, 23 luglio 2000», conservate presso l’Archivio
Vincenzo Consolo nella Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori di Milano
(d’ora in poi AVC). Questo contributo integra, assieme a nuovi sondaggi e
testimonianze, delle osservazioni presenti in Miguel Ángel Cuevas, Consolo e
la bufera linguistica di Stefano D’Arrigo, in Id., et al. (eds.), España e Italia: un
viaje de ida y vuelta. Studia in honorem Manuel Carrera Díaz, EUS, Sevilla
2020, pp. 113-122.
2 Cfr. Francesca Boarini, Da Camilleri a D’Arrigo: un colloquio con Moshe
Kahn, in «Quaderni camilleriani», 3, 2017, pp. 36-45, p. 44; cfr. anche
l’intervista di Davide Orecchio, Moshe Kahn: come ho tradotto «Horcynus
Orca», in «Nazione indiana», 29-9-2016. Mie versioni castigliane di diverse
pagine del romanzo di D’Arrigo nel film documentario Messina di Benjamin
Geissler, coproduzione italo-tedesca partecipata dalla Sicilia Film
Commission della Regione Siciliana, 2016.
3 V. Consolo, Lasciò il mare per la terra, l’esistenza per la storia, in «Il
Messaggero», 18-11-1981; ora in L’ora sospesa e altri scritti per artisti, a cura
di Miguel Ángel Cuevas, Le Farfalle, Catania 2018, pp. 104-109, p. 105.
4 Di fronte alle 71 occorrenze del sostantivo unico con cui si dà nome nel
romanzo all’incontro-scontro tra Tirreno e Ionio nello Stretto di Messina, il
sintagma descrittivo “due mari” ricorre solo 21 volte; l’edizione di riferimento
di Horcynus Orca (Mondadori, Milano1975) resta quella curata da Walter
Pedullà (Rizzoli, Milano 2003; ora Rizzoli [BUR], Milano 2017).
5 Invece, il nome alternativo ricorre sempre così, staccato e in minuscolo, ben
225 volte.
6 Cfr. V. Consolo, Quei libri «veri» in uno scrigno [in morte di Fausto
Flaccovio], in «L’Ora», 30-9-1989.
7 Cfr. l’introduzione di Walter Pedullà a Stefano D’Arrigo, I fatti della fera (a
cura di Andrea Cedola e Siriana Sgavicchia, Rizzoli, Milano 2000), la
versione del ’61, bozza del testo definitivo.
8 V. Consolo, I ritorni, in «Quaderni del Dipartimento di Scienze dell’Antichità
dell’Università di Padova», 2, 1997, pp. 7-29.; confluito in Di qua dal faro,
Mondadori, Milano 1999; ora in L’opera completa, a cura di Gianni Turchetta,
Mondadori, Milano 2015, pp. 1114-1121; la citazione a pp. 1119s.
9 M. De Martino, Incontro con Vincenzo Consolo, in «Malvagia. Trimestrale
della cultura sommersa», 31, 1989, pp. 3-8, p. 4.
10 Cfr. V. Consolo, Da Siracusa alle città del mondo, in AA. VV., Letture critiche.
Siracusa come un’infanzia, Istituto Superiore di Studi Umanistici, Siracusa
2006, pp. 35-41, p. 39. Dopo un’allusione di passaggio (nell’81) allo
«scontroso coltivatore di miti, malcelato amatore di canti di sirene […]
d’attivismo e industria per l’uomo […] [che] invece […] distruggeva per
sempre un mondo e lasciava […] i detriti d’una cultura ormai defunta» (La
casa di Icaro, confluito ne Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1988; ora
in L’opera completa, cit., pp. 582-589, p. 584), si direbbe che è proprio in
questo saggio del 2006 dove Consolo tira le somme rispetto al «mito» in
questione, ovvero con un Vittorini che «arriva fino alla bestemmia letteraria [:]
“il nostro schifosissimo Verga, il più reazionario tra gli scrittori moderni” scrive
in Le due tensioni» (ivi, p. 41). La posizione prospettivista vittoriniana è
schiettamente definita nella citazione, tratta sempre dal libro postumo, di
seguito riportata: «“ciò che interessa l’autore non è una mimesi della realtà
[…], ma una utilizzazione della realtà che possa rendere inmediatamente,
subito, e costituire subito, per le forze storiche, un’arma, uno strumento di
trasformazione, o insomma una chiamata a trasformare”», ibidem). Forse già
il Consolo dei primi ’60, ma certo lo scrittore maturo si trova senz’altro più
vicino allo sperimentalismo della poetica mimetica pasoliniana: «[…]
nell’immergermi nel mondo dialettale […] porto con me una coscienza che
giustifica la mia operazione […] coscientemente politica […] [che] in me,
scrittore, non può che farsi mimesis linguistica, testimonianza, denuncia,
organizzazione interna della struttura narrativa secondo un’ideologia
marxista, luce interna. Mai però letteratura di fiancheggiamento all’azione,
edificante, prospettivistica. L’ottimismo, la speranza aprioristica sono sempre
dati superficiali […]» (Pier Paolo Pasolini, La mia periferia [intervista], in
«Città aperta», 7-8, 1958, pp. 30-32; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte,
a cura di Walter Siti et al., Mondadori, Milano 1999, vol. II, pp. 2727-2733, p.
2733). Ancora nel 2004 (nel convegno di studi Per i 70+1 anni di V.C.,
all’Università di Siviglia), con intonazione affabile, sovveniva a Consolo delle
«[…] isole lombarde, isole linguistiche che Vittorini aveva mitizzato in
Conversazione in Sicilia. […] Vittorini mitizza questi luoghi lombardi, con la
sua idea della Lombardia siciliana in contrapposizione alla concezione
verghiana del fatalismo, della passività del mondo contadino siciliano. […] Mi
raccontava un collaboratore di Vittorini che […] quando sono arrivati in una di
queste isole lombarde, Sperlinga, dice: – Adesso incontriamo delle persone
alte, con gli occhi azzurri! – Appena entrano in paese incontra dei vecchietti
gobbi, piccolini. Questa è la mitizzazione vittoriniana della Lombardia siciliana
attiva e intraprendente, non più passiva e rassegnata come i personaggi di
Verga” (V. Consolo, Conversazione a Siviglia, a cura di Miguel Ángel Cuevas,
LetteredaQalat, Caltagirone 2016, pp. 65ss.). Tra le carte custodite nell’AVC,
un breve testo (due cartelle dattiloscritte datate «Milano, 22.6.2005») dal
titolo La «Conversazione» illustrata, sull’edizione del ’53 (Bompiani, Milano)
del romanzo vittoriniano; prendendo lo spunto dal bianco e nero delle
fotografie del libro, il discorso si tinge in chiusura di toni ben più cupi: «È il
contrasto, caro, nobile Vittorini, tra il bianco luminoso della nostra speranza,
della nostra utopia, e il nero catramoso della inaccettabile realtà […]. E oggi
più che mai, più che nel 1953.»
11 V. Consolo, Per Giulio D’Anna, in AA. VV., Giulio D’Anna aeropittore
mediterraneo, a cura di Anna Maria Ruta, Eidos, Palermo 2005, pp. 7s. Cfr.
Id., Alla libreria D’Anna conobbi Stefano D’Arrigo, in AA. VV., Giulio D’Anna.
Sessant’anni di editoria da Messina a Firenze, a cura di Sergio Palumbo,
Pungitopo, Marina di Patti 1991, p. 20. La frequentazione di casa D’Arrigo
rese possibile in effetti che Consolo fosse a conoscenza del work in progress
dell’ «amico», come lo chiama in un intervento del ‘69 su «L’Ora» che funge
appunto da indizio di questa privilegiata conoscenza; vi si legge che nel
«romanzo […] I giorni della fera, uscito in parte in una rivista, si accenna, in
una scena […]» – ed ecco che la scena di cui si riporta in seguito una
citazione letterale non corrisponde ai frammenti pubblicati sul «Menabò» (cfr.
Id., Appunti per un ritratto dell’uomo politico messinese, in «L’Ora», 31-3-
1969; ora in Id., Esercizi di cronaca, a cura di Salvatore Grassia, Sellerio,
Palermo 2013, pp. 213-216, p. 214).
12 La desinenza di «aggrada» è congetturale: non si riesce a capire
integralmente gli ultimi grafemi della sequenza, né a fornirvi di conseguenza
una lectio adeguata; ma il significato della congettura si addice alla stesura
alternativa del passo sul verso della cartella precedente: «Se le fa piacere
avere il giudizio di un comune lettore che si sforza di essere attento, nella
Sua risposta potrà rivolgermi delle precise domande. È inutile dirle che tutto
questo ↑una sua lettera↑ mi renderebbe oltre modo ↑farebbe↑ contento.»
13 Un’immagine del recto della cartella può ora vedersi in Gianni Turchetta, «E
questa storia che m’intestardo a scrivere». Vincenzo Consolo e il dovere
della scrittura, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 2019, p. 12.
Una descrizione del quaderno manoscritto in Gianni Turchetta, Note e notizie
sui testi, in V. Consolo, L’opera completa, cit., p. 1288. I padri putativi
costituisce l’abbozzo dei primi capitoli (I e II, metà di III, IV e una sequenza di
V) del romazo di esordio di Consolo. Il manoscritto è custodito presso l’AVC.
14 E[lio] V[ittorini], Notizia su Stefano D’Arrigo, in «Il menabò di letteratura», 3,
1960, pp. 111s.
15 Pier Paolo Pasolini, La mia periferia, cit., p. 2729.
16 Cfr. p. e. V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la
storia, Donzelli, Roma 1993, p. 15; Annagrazia D’Oria, La lingua della
scrittura. [Intervista] a Vincenzo Consolo, in «L’immaginazione», 191, 2002,
pp. 1-3, p. 3.
17 Maria Giulia Minetti, Conversazione in Sicilia [intervista con V. C.], in
«L’uomo Vogue», 213, 1-12-1990, pp. 117-119, pp.118s.
18 V. Consolo, Cerco parole non imposte dal potere, in «Giornale di Sicilia», 20-
5-1992; ora in AA. VV., Scrittore di impegno civile, «A Sud’Europa»
[monografico dedicato a V. C.], VI, 4, 30-1-2012, pp. 12s., p. 13.
19 Andrea Genovese, «…Uscire fuori dal romanzo, fuori dalla letteratura, fuori
dalla scrittura…», in «Uomini e libri», marzo-aprile 1977.
20 V. Consolo, Un moderno Ulisse tra Scilla e Cariddi, in «L’Ora», 22-2-1975;
ora in «L’illuminista», XI, 25-26, 2009, pp. 249-254, p. 249.
21 Id., Cara orca, non morire fra Scilla e Cariddi, in «Il Messaggero», 4-8-1994.
22 Dattiloscritto parzialmente inedito custodito presso l’AVC; 5 cartelle numerate
scritte solo sul recto, non datato (ma del ’73); dalla cartella 2, interventi
manoscritti a biro nera che correggono il testo in vista della pubblicazione sul
giornale, tra cui un «Nel ’73» a sostituire un cassato «Giorni fa»; i capoversi
qui trascritti in cartelle 1s. Una riproduzione anastatica del testo può ora
leggersi sul sito www.vincenzoconsolo.it; nella cartella 1, appunti di mano di
Caterina Pilenga Consolo contengono delle informazioni non del tutto esatte.
23 All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1957; nuova ed. a cura di Silvio Perrella,
Mesogea, Messina 2015. Consolo quasi mai si sofferma sulla silloge
darrighiana, pur dichiarando di aver «seguito il lavoro [di D’Arrigo] fin dalla
prima edizione scheiwilleriana di Codice siciliano» [2ª ed. Mondadori, Milano
1978] (cfr. Ma io D’Arrigo lo stimavo, in «La Stampa», 6-2-1993).
24 Due ultimi versi della «canzonetta» riportata da Giovanni Villani nella
trecentesca Nuova cronica (libro settimo, cap. LXVIII).
25 ‘Al largo, verso terra, a destra, a sinistra’. Con ogni probabilità, Consolo
riprende la citazione (tra l’altro, non letterale) da Giuseppe Pitrè (Usi e
costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Pedone Lauriel, Palermo
1889, vol. III, pp. 508s.), che riproduce un lungo brano di Giuseppe La Farina
(Messina e i suoi monumenti, Fiumara, Messina 1840, pp. 150s.) sulla pesca
del pesce spada. Sul «fare greco» di questi modi e parole cfr. Pitrè (ivi, pp.
506s.) che cita tra le altre le testimonianze di Mongitore e Fazello.
26 Questa breve sequela proverbiale passa nell’articolo per «L’Ora» del ’75, ma
con la svista fumo anziché funnu; «L’illuminista» non corregge il refuso.
27 Nell’originale, «Stretto» (cfr. S. D’Arrigo, I giorni della fera, in «Il menabò»,
cit., pp. 7-109, p. 7).
28 Nell’originale, «tornano» (cfr. ivi, p. 40).
29 «[…] questa non è che una semplicistica classificazione nella quale […] la
realtà scappa da tutte le parti. / Tuttavia […]» (V. Consolo, Un moderno
Ulisse, cit.; «L’illuminista», cit., p. 250). Questo «tuttavia» conosce particolari
sviluppi, per esempio nelle pagine di Lasciò il mare per la terra (cit., pp.
104s.) e nella Prefazione a Basilio Reale, Sirene siciliane. L’anima esiliata in
«Lighea» di Tomasi di Lampedusa (Sellerio, Palermo 1986, pp. 9-14;
confluito col titolo Sirene siciliane in Di qua dal Faro, cit.; ora in L’opera
completa, cit., pp. 1151-1157, pp. 1154s.).
30 «Sciascia, sintetizzando Castro dice […] descrivibile “una vita che si svolge
dentro un mero spazio vitale”. E ci soccorre anche Addamo scrivendo: “…
Nella prevalenza della natura c’è esattamente il limite della storia”» (Id., Un
moderno Ulisse, cit.; «L’illuminista», cit., p. 250).
31 Ibidem.
32 Ibidem. Cfr. Id., Prefazione, in Nuccio Rubino, Vedute dello Stretto di
Messina [fotografie], Sicania, Messina 1988; confluito in Di qua dal faro, cit.;
ora in L’opera completa, cit., pp. 1040-1065.
33 Glossario (a cura della redazione), in «Il menabò», cit., pp. 109-111, p. 110.
D’altronde, l’identificazione del Paese delle Femmine con Scilla viene
smentita già nelle prime pagine de I giorni della fera, laddove si presentano
come gruppi umani diversi, anzi contrapposti, «femminoti» e «scilloti» (cfr. I
giorni della fera, cit., pp. 16s.).
34 V. Consolo, Un moderno Ulisse, cit.; «L’illuminista», cit., p. 251.
35 Ibidem. Solo in questa occasione la versione su rivista rispetta l’originale del
’75, dove il titolo del romanzo è sempre Orcynus Orca.
36 Ibidem.
37 Id., Tra Scilla e Cariddi, in «Corriere della Sera», 18-4-90.
38 Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana [1957], testo
a cura di G. Pinotti, Garzanti, Milano 1987, p. 39. Si confronti l’estro
digressivo dell’ingegnere, con quanto Consolo ebbe a raccontare a proposito
della propria memoria ed esperienza linguistica: «[…] ho concepito, diciamo,
questa che in termini di agricoltura si chiama chimera, ho fatto questa sorta di
innesto arcano, d’innesto impossibile […]: cioè, una scrittura espressiva, non
più comunicativa, cercando di riportare alla luce la memoria linguistica della
mia terra, dove c’è un giacimento linguistico straordinario; perché da lì sono
passate tutte le dominazioni, lasciando i loro segni, […] dal greco al latino
all’arabo allo spagnolo. Io ho cercato veramente di scavare filologicamente in
questa profondità, in questi giacimenti per riportarli alla luce e allargare lo
strumento linguistico centrale; e non solo dal punto di vista dei significati,
anche nei significanti, cioè, nel suono della frase che organizzo in senso
ritmico-poetico, questi innesti danno più profondità che non la scrittura
comunicativa. […] Io mi ricordo che mia madre diceva calasìa, che voleva
dire “bellezza”, veniva dal greco kalós. Poi ho capito che era una parola
antichissima e, letteralmente, bella» (V. Consolo, Conversazione a Siviglia,
cit., pp. 33ss.).
39 Id., Un moderno Ulisse, cit.; «L’illuminista», cit., p. 252.
40 Andrea Genovese, «…Uscire fuori dal romanzo, fuori dalla letteratura, fuori
dalla scrittura…», cit.
41 V. Consolo, Lasciò il mare per la terra, cit., p. 105. Cfr. Maria Giulia Minetti,
Conversazione in Sicilia, cit., pp.118s.
42 V. Consolo, Cerco parole non imposte dal potere, cit., p. 13.
43 Id., I ritorni, cit., p. 1119.
44 Id., Fra Contemplazione e Paradiso, in Id., Nuccio Rubino, Fra
Contemplazione e Paradiso. Suggestioni dello Stretto [fotografie], Sicania,
Messina 1988, pp. 7-13; confluito col titolo Scilla e Cariddi in Neró metallicó,
Il melangolo, Genova 1994, pp. 7-22, pp. 11s.
45 Stefano D’Arrigo, I giorni della fera, cit., pp. 8, 10, 13).
46 Cfr. V. Consolo, Fra Contemplazione e Paradiso, cit., pp. 14s., 20s.; S.
D’Arrigo, Horcynus Orca, cit. [Rizzoli, 2003], p. e. pp. 35-41, 162-164, 408.
47 Ivi, pp. 828-993; sono proprio le pagine la cui stesura costituisce la parte più
cospicua della riscrittura del romanzo tra il ’61 e il ’75, del passaggio cioè da I
fatti della fera a Horcynus Orca.
48 V. Consolo, A Messina parla l’eterno terremoto, in «Corriere della Sera», 8-1-
1991.
49 Id., I ritorni, cit., p. 1120.
50 Id., Il poema che non c’è, in «L’Espresso», 7-2-1993.
51 Ibidem.
52 Fabio Gambaro, Vincenzo Consolo. La Sicile entre utopie et désillusion, in
«Magazine littéraire», 393, 2000, pp. 98-101, p. 100; poi in Id., L’Italie par ses
écrivains, Liana Levi, Paris 2002, pp. 35-54, p. 54.
53 V. Consolo, Fuga dall’Etna, cit., p. 8.
54 Id., I ritorni, cit., p. 1119.
55 Così sul dattiloscritto precedente quello redazionale di La ferita dell’aprile,
DS2, p. 137 (AVC).
56 Id., L’opera completa, cit., p. 121.
57 Cfr. M.Á. Cuevas, Introducción. Sobre el lugar y la naturaleza de la herida, in
V. Consolo, La herida de abril, Traspiés, Granada 2013, pp. 9-14, p. 11.
58 Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita [1955], Einaudi, Torino 1979, p. 201.
59 Cfr. Id., La fine dell’avanguardia [1966], in Empirismo eretico [1972]; ora in
Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., vol. I, pp. 1400-1428, p. 1425ss.
ROSALBA GALVAGNO*
IL «MONDO DELLE MERAVIGLIE E DEL
CONTRASTO»
Il Mediterraneo di Vincenzo Consolo

Santo pellegrinaggio, rito, esperienza spirituale è il


viaggio di Ibn Giubayr, ma è anche discesa nella memoria,
ritorno alle sorgenti della religione e della cultura islamiche,
passaggio nella luce del rapimento e dell’abbandono,
rimpatrio, ingresso nel Palazzo del dominio musulmano. Ed
è insieme scoperta dell’ignoto, odissea nel mare degli
incanti e dei disastri, processo di conoscenza e
arricchimento, rischio e felice compimento nella patria
dell’identità e della certezza. È un viaggio nello spazio e nel
tempo, nel presente e nelle stratificazioni della storia,
nell’esplicito e nel mistero. È infine, e per noi soprattutto,
peregrinazione nel mondo delle meraviglie e del contrasto,
nella variegata civiltà mediterranea […]1.

Risale al 2016 un’elegante plaquette, pubblicata dalle edizioni


dell’Asino, intitolata Mediterraneo. Viaggiatori e migranti, dove sono
raccolti cinque testi già editi di Vincenzo Consolo: Armonia perduta.
Il viaggio iniziatico di Ulisse nei mari dell’immaginario tratto dal
secondo capitolo di L’olivo e l’olivastro (1994); La Sicilia e la cultura
araba; Ibn Giubayr; Il ponte sul canale di Sicilia; Uomini sotto il sole,
tratti dal volume Di qua dal faro (1999).
Il libretto riporta in quarta di copertina, accanto a un breve profilo
biobibliografico dell’autore, un breve frammento del saggio del 1996
dedicato a Ibn Giubayr, frammento che si può considerare, insieme
a quello citato in epigrafe, una puntuale e sintetica illustrazione del
tema di questo Convegno e, si parva licet, del mio stesso intervento:
E buttò il bastone ed ivi si fermò, come fa il viaggiatore che si consola del
ritorno. Sono le eterne e sempre attuali parole, in questo nostro tempo soprattutto,
in questo nostro Mediterraneo di conflitti, di spoliazioni territoriali, di negazioni
d’identità, di migrazioni e di diaspore, di ognuno che, esule per desiderio di
conoscenza o per costrizione, ritrova la sua terra, il suo cielo, la sua casa2.

Il Mediterraneo è qui al centro della riflessione di Consolo, quel


Mediterraneo nelle cui sponde è da sempre iscritto il destino della
Sicilia. Gianni Turchetta, in disaccordo con una lettura siculo-centrica
di Di qua dal faro, scrive giustamente che «La prospettiva “di qua dal
faro” […], mentre sottolinea la centralità della Sicilia, intende
sottolineare anche la necessaria apertura verso il Mediterraneo tutto.
[…]». D’altronde lo stesso Consolo affermava: «“C’è poi il mare, il
Mediterraneo, a cui tanto dobbiamo e che invece abbiamo sempre
negato: forse perché atavicamente è stato associato alle invasioni,
alle aggressioni; o forse per quello strano condizionamento che ci
spinge a guardare verso nord invece che verso sud”»3.
Proprio quest’ultima frase «guardare verso nord invece che verso
sud», ha attirato la mia attenzione poiché l’educazione di tante
generazioni di italiani e, a maggior ragione, di siciliani, a partire dalla
prima metà degli anni Sessanta è stata effettivamente orientata a
dirigere lo sguardo verso l’Europa del Nord. Ebbene la scrittura di
Vincenzo Consolo ha modificato questo sguardo, insegnando a
riscoprire in primo luogo la Sicilia nel, e del Mediterraneo. Non che
prima l’insegnamento scolastico e accademico non documentasse
queste nostre origini mediterranee, ma, stando alle parole di
Consolo, si tratta piuttosto della prospettiva da cui bisogna guardare
a queste origini, per la quale occorre un aggiustamento e perfino un
rovesciamento dello sguardo, come insegna a fare ad esempio
Edward Said nel suo celebre Orientalism del 19784, e come hanno
cominciato a illustrare, in relazione all’opera del Nostro, i lavori di
Norma Bouchard e Massimo Lollini, che sono stati tra i primi a
indagarne la prospettiva mediterranea5.
Ora, proprio per cercare di accogliere il tema di questo Convegno,
di privilegiare cioè la scrittura più intenzionalmente civile, impegnata,
quella che un tempo si chiamava scrittura militante, e non
esclusivamente letteraria, desidero avanzare un’ipotesi. Credo sia
difficile scindere nettamente le due pratiche di scrittura in quanto
strettamente imbricate, proprio perché gli scritti militanti, e perfino
d’occasione, finiscono fatalmente col ricorrere alla scrittura poetica,
con un minor grado di opacità e di complessità certo, ma comunque
sottoposti a un pur minimo trattamento letterario6. E viceversa la
scrittura prettamente finzionale (letteraria) è sempre intessuta con la
scrittura della storia. Non a caso lo scrittore ha definito i suoi
romanzi, romanzi storico-metaforici. Basta leggere, a conferma, i
testi d’occasione raccolti a cura di Miguel Ángel Cuevas in L’ora
sospesa e altri scritti per artisti7, o anche quelli raccolti a cura di
Nicolò Messina in La mia isola è Las Vegas8. Si potrebbe obbiettare
che Consolo è stato giornalista, ma anche i testi scritti per «L’Ora» di
Palermo raccolti in Esercizi di cronaca non sono soltanto gli articoli
di un cronista o di un inviato, ma veri e propri «esercizi di stile»9.
Il titolo che ho scelto per il mio intervento è tratto dal già citato
saggio del 1996 dedicato al poeta granatino Ibn Giubayr10, dove
viene descritto un Mediterraneo medievale nel quale si staglia una
Sicilia che vive ancora in una sorta di età dell’oro permessa dalla
pax normanna, erede di quella cultura musulmana di cui il
viaggiatore arabo-andaluso va alla ricerca desideroso di raggiungere
la «patria dell’identità e della certezza». Ed è proprio da un
passaggio di questo mirabile testo che ho tratto la frase «mondo
delle meraviglie e del contrasto».
L’endiadi antitetica «mondo delle meraviglie e del contrasto»
riferita al Mediterraneo o, con ripetizione sinonimica «mare degli
incanti e dei disastri» presente un po’ più avanti nello stesso brano,
si riscontra, con infinite variazioni, in numerose pagine dello scrittore
siciliano, attribuita anche a situazioni e luoghi diversi dal
Mediterraneo, sì da costituirsi in una forma, una figura retorica
precisamente, la figura dell’Antitesi, secondo l’impeccabile analisi
avanzata da Roland Barthes:

Le poche centinaia di figure proposte, nel corso dei secoli, dall’arte retorica,
costituiscono un lavoro classificatorio destinato a nominare, fondare, il mondo. Di
tutte queste figure una delle più stabili è l’Antitesi; essa ha la funzione evidente di
consacrare (e addomesticare) con un nome, con un oggetto metalinguistico, la
divisione dei contrari, e in questa divisione la sua stessa irriducibilità. L’Antitesi
separa da sempre; in tal modo essa fa appello a una natura dei contrari, e questa
natura è feroce. Lungi dal differire per la sola presenza o assenza di un semplice
tratto (come accade ordinariamente nell’opposizione paradigmatica), i due termini
di un’antitesi sono marcati l’uno e l’altro: la loro differenza non viene da un
movimento complementare, dialettico (vuoto contro pieno): l’antitesi è lo scontro di
due pienezze, messe ritualmente di fronte come due guerrieri tutti armati: l’Antitesi
è la figura dell’opposizione data, eterna, eternamente ricorrente: la figura
dell’inespiabile. Ogni associazione di due termini antitetici, ogni mescolanza, ogni
conciliazione, in una parola ogni passaggio del muro dell’Antitesi costituisce una
trasgressione; certo la retorica può inventare di nuovo una figura destinata a
nominare il trasgressorio; questa figura esiste: è il paradossismo (o accostamento
di parole): figura rara, è l’ultimo tentativo del codice per domare l’inespiabile11.

Bisogna allora analizzare le svariate forme di questa Antitesi per


cercare di delinearne il destino, cioè il senso, nella scrittura di
Vincenzo Consolo. Qui mi limiterò a commentarla solo in alcune
descrizioni della Sicilia mediterranea, per la quale lo scrittore si è
ispirato, com’è noto, all’Odissea12.
Ora, è sotto gli occhi di tutti che i conflitti nel Mediterraneo, e nel
mondo intero, si radicalizzano sempre più; il «disastro» rischia di
diventare sempre più inarrestabile, irreversibile e dunque inespiabile:

Vado in Sicilia e ne fuggo ogni volta, ritorno a Milano, la città dove da sempre,
fuggendo dal sud, si sono rifugiati poeti e scrittori, artisti, credendo trovarvi, via
dalla periferia, da una mediterranea deriva, vicino a un centro d’Europa, per
illuministici retaggi, per eredità di probo governo, decenza civile, rispetto di leggi e
diritti; […].13

Tuttavia, per analizzare e per opporsi al disastro Consolo ha


“scritto”, suggerendo anche una possibile via di riparazione che mi
piace definire, secondo quel procedimento analitico messo a punto
da Freud in Costruzioni nell’analisi14, come la via archeologica alla
restituzione e alla costruzione. Un lavoro di costruzione che si può
fare solo a partire dal riconoscimento e quindi dal recupero dei resti,
delle rovine, dei frammenti di storia, di lingua e di linguaggi che
ancora sopravvivono in mezzo al disastro, e da una ritrovata pietas
nei confronti dei migranti che popolano sempre più il nostro
Mediterraneo e l’intero pianeta. Questo sembra essere il messaggio
più profondo e drammatico dello scrittore trasmesso, tra gli altri, nel
magnifico Memoriale di Basilio Archita, l’ultimo racconto di Le pietre
di Pantalica, un toponimo quest’ultimo che, come sottolinea
Turchetta, significa: “tutta pietra”15.
Orbene, un testo tra i più paradigmatici per illustrare
efficacemente il «mondo delle meraviglie e del contrasto» o il «mare
degli incanti e dei disastri», è L’olivo e l’olivastro, nel quale si
susseguono, per ognuno dei diciassette capitoli di cui è composto,
delle singolari descrizioni di alcune città della Sicilia, visitate dal
narratore-viaggiatore durante uno dei suoi ritorni nell’isola.
L’originalità di queste descrizioni, che possono benissimo servire da
Baedeker per esplorare una Sicilia inedita e ignorata perfino dagli
stessi siciliani, consiste principalmente nella visione doppia e
antitetica di ciascuna di esse, come di due città contrapposte fatte di
bellezza e di orrore. L’esempio sicuramente tra i più poetici ed
emblematici di questa Antitesi è Palermo bellissima e disfatta, un
testo capitale sul quale però non potrò qui soffermarmi. Mi
soffermerò invece principalmente sulla città di Milazzo, con qualche
cenno finale alle città di Noto e di Gela.
Ho scelto Milazzo per due motivi, perché questa cittadina della
costa tirrenica della Sicilia fa con Consolo il suo secondo ingresso
nella grande letteratura siciliana. L’aveva prima introdotta Federico
De Roberto nel romanzo L’illusione, dove la protagonista, Teresa
Uzeda, la definisce spregiativamente un «paesuccio»16, mentre lo
Scripteur ne esalta la spiaggia, l’architettura, la campagna. L’altra
motivazione riguarda invece la lunga e apparente digressione sui
gelsomini che mi ha spinto ad analizzare la massiccia presenza di
questi soavissimi fiori mediterranei nell’intero terzo capitolo di L’olivo
e l’olivastro. In altri termini, mi sono chiesta con quale logica venisse
incastonato il brano sui gelsomini, dopo il racconto dell’esplosione
della raffineria di Milazzo posto ad incipit del capitolo:

Nella terra e nel mare che vapora, nel tempo fermo, nell’ora del torpore s’udì il
boato, si vide la colonna di denso fumo levarsi fino al cielo. Uscirono tutti dalle
case, corsero allo stabilimento. E furono al recinto, ai cancelli urla e clamori,
invocazioni per quelli che dentro lavoravano. Mancarono all’appello i morti
carbonizzati.
“Esplode la raffineria, inferno a Milazzo.”17
Subito dopo aver dedicato alla descrizione dei gelsomini e della
loro raccolta alcune righe all’interno della descrizione della città
antica, il testo prosegue col racconto dei gelsomini:

A Milazzo doveva aspettare tanto tempo il treno che l’avrebbe riportato a casa.
Girava allora per il paese, visitava il castello, le mura saracene, sveve e aragonesi,
i torrioni dai cui spalti pendevano in passato le gabbie con le teste mozze, la grotta
di Polifemo, visitava il porto, il Borgo, le chiese, i conventi. Vedeva dall’alto del
promontorio la vasta piana irrigata dal Mela ricca di agrumi, ulivi, viti, orti. Ricca di
gelsomini. Tra sènie e gèbbie, sotto palme e cipressi, era il basso verde di quel
fiore che all’apparire del sole schiudeva la corolla, liberava, spandeva il suo
profumo d’arancio e di nardo. Allora, nel crepuscolo mattutino, quando erba e
foglie eran pregne di rugiada, schiere di donne avanzavano tra le file dei cespugli,
piegate, il grembiule a sacca, a staccare i boccioli delicati. Seguivan le bambine,
come spigolatrici, a cogliere qua e là le residue gemme, assonnate, rosse le
mani.18

E di nuovo il gelsomino viene evocato nell’ultima parte del


racconto, dove è descritta, in contrapposizione alla città antica la
nuova infernale Milazzo: «Sulla piana dove pascolavano gli armenti
del Sole, dove si coltivava il gelsomino, è sorta una vasta e fitta città
di silos, di tralicci, di ciminiere che perennemente vomitano fiamme e
fumo, una metallica, infernale città di Dite che tutto ha sconvolto e
avvelenato: terra, cielo, mare, menti, cultura».19
Sicché il gelsomino costituisce il Leitmotiv dell’intero racconto, il
rappresentante metaforico di un’opposizione che unisce e che divide
la città odierna (del 4 giugno 1993 è l’esplosione della raffineria di
Milazzo e del 1994 la pubblicazione de L’olivo e l’olivastro) da quella
antica. Non solo, ma a partire dalla presenza e dal destino del
gelsomino a Milazzo, lo sguardo del narratore si allarga, per
tracciare la storia di questo profumatissimo fiore venuto in Sicilia
dalla Persia nella prima metà del Cinquecento, al Mediterraneo
occidentale e mediorientale attraverso la trascrizione della voce
Gelsomino dall’Enciclopedia italiana Treccani (1932), e della voce I
gelsomini tratta da Natura viva. Una Enciclopedia sistematica del
regno vegetale (Vallardi 1966). L’area mediterranea evocata nel
racconto, nella quale è presente il gelsomino, interessa infatti la
Sicilia, l’Arabia, il Portogallo, la Spagna, Malta. E la cosa
estremamente interessante, ai fini della singolarissima operazione di
scrittura di Consolo, è che la mappa geografica dei luoghi del
gelsomino scaturisce da una semplice lista delle loro varianti
geografiche (diatopiche) presa in prestito dal Dizionario trilingue
illustrato di Filippo Maria Provitina. Si tratta dunque di una mera
nominazione, prossima all’enumerazione, cioè all’altra capitale figura
retorica della scrittura di Consolo, già ampiamente studiata dalla
critica: «Gersuminu – Gersuminu a sponsa – Gersuminu d’Arabia –
Gesiminu – Gesiminu d’Arabia – Gesiminu di Portugallo – Gesiminu
di Spagna – Giasiminu – Giasiminu d’Arabia – Giasiminu di Malta –
Giasiminu di Spagna (Filippo Maria Provitina, Flora Sicula,
Dizionario trilingue illustrato, Edizioni Keragrafica, 1990)»20.
Chiude quindi l’excursus scientifico sui gelsomini un brevissimo
racconto intorno al destino economico della loro raccolta nella piana
di Milazzo: «Le distillerie della piana estraevano dal fiore l’essenza
pregiata che esportavano per i profumieri d’Inghilterra, di Francia.
Ma un giorno le raccoglitrici, per il basso salario, incrociarono le
braccia e fecero cadere a terra il gelsomino delicato, che il sole
appassì e fece nero»21.
Dal racconto del gelsomino si passa poi, senza soluzione di
continuità, al racconto omerico della discesa di Ulisse nell’Erebo,
della profezia di Tiresia e prima di quella di Circe, riguardo ai luoghi
in cui l’eroe sarebbe approdato e dei pericoli che avrebbe incontrato
(l’insidia delle Sirene, il passaggio fatale tra lo scoglio di Scilla e il
gorgo di Cariddi) e, infine, dell’episodio della strage delle vacche
sacre del Sole. Questo è il punto nevralgico dell’intero capitolo,
autentica citazione intertestuale o palinsestica, per dirla con l’autore,
suscitata innanzi tutto dall’identificazione del narratore con la
profezia di Tiresia e di Circe, cioè, fondamentalmente, con la
«molestia» perpetrata dai compagni di Ulisse contro le vacche del
Sole in un preciso luogo del Mediterraneo omerico, nella «bellissima
piana di Mylai»:

Nel regno dei morti, nell’Erebo, nella dimora di Ade e della fanciulla rapita
alla madre, l’ombra del tebano Tiresia, del cieco indovino, predice all’eroe, a
Ulisse infelice, i luoghi in cui sarebbe approdato, i pericoli che avrebbe
incontrato prima di giungere in patria, nella pietrosa Itaca22. Sarebbe giunto, il
reduce d’Ilio, insieme ai compagni, nella piana dove al pascolo stavano le
sacre vacche del Sole. E anche Circe possente, la maga regina dell’isola Eea,
indica all’amato straniero la rotta e gli approdi lungo il ritorno, e ne rivela le
insidie, i rischi mortali. Rivela l’insidia delle Sirene, il passaggio fatale tra lo
scoglio di Scilla e il gorgo di Cariddi e l’approdo, scansato l’agguato, nell’isola
detta Trinachía.

… là numerose
pascolano le vacche e le pingui greggi del Sole…
Se queste le lasci illese e pensi al ritorno,
potrete ancora arrivare ad Itaca, pur subendo sventure;
se però le molesti, allora prevedo rovina per te,
per la nave e i compagni…23

Malgrado le predizioni, gli avvenimenti, malgrado le preghiere, gli


ammonimenti del capitano, gli stolti marinai, approdati nella terra del Sole,
uccidono le vacche intoccabili, scannano e scuoiano gli animali migliori. Allora
Ulisse e i compagni videro e udirono quanto di più orrido, di più
raccapricciante si potesse immaginare: pelli che strisciano per terra, lacerti di
carne che mugghiano, urlano di dolore e furore. Lasciata l’isola, passati
ancora, Ulisse e i compagni, tra Scilla e Cariddi, andranno incontro alla rovina
totale. Solo l’eroe potrà approdare alla terra dei Feaci, raggiungere poi l’Itaca
dei suoi affetti e del suo potere.24

La trama omerica, filo conduttore di L’olivo e l’olivastro25, viene


qui associata alla strage di Milazzo tramite un audace ed esattissimo
parallelismo di parole e di cose, nel quale non mancherà più avanti
di essere di nuovo nominato il gelsomino, che serve così a mettere
in risalto l’Antitesi tra l’antica e la nuova Milazzo. L’assurda e violenta
contraddizione che divide la città viene infatti enfatizzata mediante
l’accostamento dell’episodio omerico dell’uccisione delle vacche
sacre del Sole e l’attuale città di Dite, dove l’esplosione della
raffineria provoca una strage simile a quella consumatasi nel
racconto omerico, e che distrugge anche il gelsomino.
Si configura già qui, attraverso l’avventura (o la disavventura) del
gelsomino, la singolare figura a tre punte (o corni) dell’Antitesi
consoliana, per cui avremo, da un lato, il corno positivo della figura, il
fiore che profumava «la vasta piana irrigata dal Mela ricca di agrumi,
ulivi, viti, orti. Ricca di gelsomini», anche se minacciato di
appassimento dallo sciopero delle raccoglitrici («Ma un giorno le
raccoglitrici, per il basso salario, incrociarono le braccia e fecero
cadere a terra il gelsomino delicato, che il sole appassì e fece nero»)
e, dall’altro, la distruzione totale, la scomparsa del fiore causata
dall’edificazione della nuova infernale città di Dite. Volendo
schematizzare, avremo: gelsomino profumato vs gelsomino
appassito, nero ║ gelsomino scomparso: (A vs B║B)26:

Sulla piana dove pascolavano gli armenti del Sole, dove si coltivava il
gelsomino, è sorta una vasta e fitta città di silos, di tralicci, di ciminiere che
perennemente vomitano fiamme e fumo, una metallica, infernale città di Dite che
tutto ha sconvolto e avvelenato: terra, cielo, mare, menti, cultura.
− Mi sono sentito come sfiorato da un alito di drago. Ero sopra una passerella di
ferro, un’impalcatura fra due cisterne, sono riuscito appena ad aggrapparmi e a
non cadere per il violento spostamento d’aria.
− Se l’esplosione fosse avvenuta mezz’ora prima o dopo, non all’ora della
mensa, ci sarebbe stata un’ecatombe.
Sperano ora i superstiti che le nere pelli dei compagni striscino, svolazzino nelle
notti di rimorsi e sudori dei petrolieri, urlino le membra di dolore e furore nei sogni
dei ministri.27

L’insolito e sorprendente accostamento tra la tappa mitica di


Ulisse nella piana di Trinachía e la tappa storica del nostro
viaggiatore a Milazzo fa meglio risaltare le attuali e tragiche
«molestie», inflitte a quella che fu la fertile e ridente piana di Mylai, i
disastri ambientali cioè causati dalla installazione della raffineria,
disastri analoghi a quelli occorsi negli altri due poli del cosiddetto
triangolo della morte in Sicilia: Augusta e Siracusa. Il messaggio
civile, politico, etico e poetico di Consolo è, a riguardo, chiarissimo,
come due secoli prima lo era stato quello di Leopardi e più vicino a
noi quello di Sciascia e Zanzotto, per citare solo tre auctoritates. Alle
ragioni dell’ottimismo tecnologico e del cinismo o dell’ignoranza della
politica, Consolo risponde con la ragione del mito e della poesia,
cioè con una delle più profonde elaborazioni simboliche intorno alla
violenza e alla bellezza, che costituiscono quel patrimonio
archeologico che bisogna recuperare e riattivare come antidoto al
disastro.
Ora, in che modo questo messaggio viene veicolato nel nostro
racconto, che mescola senza imbarazzo attualità storica, citazioni
dotte (scientifiche), mitopoiesi? In che modo allora si saldano
l’episodio poetico della strage delle vacche sacre del Sole e quello
reale e attuale della strage di Milazzo? In due modi
fondamentalmente: attraverso la collocazione dei due tragici eventi
nello stesso luogo, la piana di Milazzo, accogliendo lo scrittore la
tradizione letteraria che colloca le mitiche vacche nella bellissima
piana di Mylai («In che luogo pascolavano le mitiche vacche? È
certo che non esiste una geografia reale dell’Odissea, ma un’antica
tradizione, che va da Timeo, a Ovidio, a Plinio, ad Appiano, le
colloca nella bellissima piana di Mylai»)28. E mediante l’adibizione di
alcuni lessemi, sintagmi (e frasi) identici o sinonimi nei due rispettivi
racconti: «urla e clamori», «morti carbonizzati», «nere pelli»,
«striscino», «svolazzino», «urlino le membra di dolore e furore» nella
narrazione dell’esplosione della raffineria. «Pelli», «strisciano»,
«lacerti di carne», «urlano le membra di dolore e furore» nella
narrazione dell’episodio omerico.
E a sostegno della bellezza e della fertilità di un tempo di questa
«amenissima piana», il racconto cita un’altra fonte scientifica, un
testo di uno studioso milazzese dell’Ottocento: Giuseppe Piaggia
(Milazzo 1821 – Palermo 1871), storico e pioniere di studi etno-
antropologici29:

“Tutta l’estensione del Promontorio verdeggiante in vari punti di vigne, e i suoi


uliveti, e le sue case vagamente sparse per ogni dove; tutta l’estensione
dell’amenissima Piana, coi suoi fiumi, coi poggetti, e i colli e le valli, e i monti che
la circondano; tutte le isole Eolie, sollevate su un mare in varie direzioni
biancheggiante di candide vele, davano agli occhi sì d’armonia e di contrasto, che
non debba reputarsi cieco d’amor patrio, se i cittadini di Milazzo additino questo
monte, come a uno de’ più incantevoli teatri dell’intera Sicilia” scriveva nel secolo
scorso lo storico Piaggia dopo aver costeggiato su una barca, da oriente a
occidente, il promontorio che lungo si stende sul mare.
Ai milazzesi è stato distrutto per sempre, verso la fine degli anni Cinquanta,
quell’“incantevole” teatro, come è stato distrutto agli augustani, ai siracusani, ai
gelesi.30

Ma una trama più enigmatica affiora nella citazione omerica: una


trama erotica, sarebbe più esatto dire un enjeu libidico, che permette
di approfondire la figura di quel «mare degli incanti e dei disastri»
che è il Mediterraneo. Nell’intertesto omerico sono citate alcune
figure femminili mitologiche ricorrenti nei testi di Consolo: Persefone,
«la fanciulla rapita alla madre», Circe, «la maga regina», le Sirene
insidiose, lo scoglio Scilla e il gorgo Cariddi, potenze femminili dalle
quali l’eroe deve separarsi dopo averne conosciuto la seduzione
mortale, le lusinghe perigliose, la minaccia di annientamento; figure
eminenti della mitologia mediterranea, che incarnano, almeno in
questo luogo preciso del testo omerico e di quello consoliano,
l’oggetto interdetto (o impossibile) per il cui possesso o godimento
Ulisse per primo è disposto a rischiare e da cui paradossalmente
perfino Circe lo mette in guardia, così come farà Tiresia nell’Erebo.
Ma i compagni di Ulisse, sordi all’ammonimento del loro capitano,
faranno razzia delle vacche sacre del Sole, andando così incontro
alla morte, pagheranno cioè per avere molestato31 un oggetto
proibito, intoccabile.
Parallelamente, la stessa trasgressione si produce nella cittadina
di Milazzo, dove la tracotanza del progresso finisce col “molestare”
una natura che non deve essere violata, come il «Promontorio
verdeggiante» e l’«amenissima Piana» di Milazzo che, come gli
armenti del dio Sole, dovevano essere intoccabili, e sono stati invece
devastati e avvelenati dalla costruzione della moderna città di Dite e
dall’esplosione della raffineria. Molestare la terra e il mare con una
industrializzazione violenta e contro natura equivale
fantasmaticamente a violare un corpo che, nell’immaginario della
cultura mediterranea è figurato, com’è noto, dal corpo materno.
È frequente nei testi di Consolo il riferimento alla madre e alle
madri del Sud, alla “emancipata” madre vittoriniana ad esempio, e
alla madre più profondamente arcaica dell’antropologia siciliana e
mediterranea. A questo riguardo bisogna menzionare Sciascia, ma
anche Pirandello, e più di ogni altro Federico De Roberto. Nei testi di
Consolo si configura a sua volta un immaginario materno
assolutamente originale e forse più consapevole rispetto a quello dei
suoi Maîtres. Ricordo qui solo due immagini, tra le numerose, che
rinviano a questo immaginario anch’esso marcato dall’Antitesi,
rammentando che un capitolo di L’olivo e l’olivastro è dedicato
proprio alla madre.
La prima immagine, disforica, di questa Antitesi è figurata
dall’espressione «una mediterranea deriva», metaforizzazione della
perigliosa terra d’origine (della terra in cui si è nati), che condanna i
figli alla deviazione, al trascinamento altrove, alla fuga («Vado in
Sicilia e ne fuggo ogni volta, ritorno a Milano, la città dove da
sempre, fuggendo dal sud, […])32.
L’altra immagine del “materno”, euforica questa volta, è tratta dal
saggio Uomini sotto il sole, dedicato a Ghassan Kanafani, dove si
accenna a un romanzo dello scrittore palestinese intitolato La madre
di Sa’d, Umm Sa’d, sul cui titolo Consolo scrive: «In quest’ultimo
racconto, la terra, la patria, si fa madre, si fa umm: nessuna parola,
fra quelle che conosciamo che indicano la nostra genitrice, ci è mai
sembrata, col suo suono di singhiozzo trattenuto, più di questa:
intensa, profonda, e insieme più dolce, più avvolgente»33.
Due opposte immagini dunque, due opposte correnti − di
massima attrazione e di massima repulsione, di dolcezza e di
violenza −, investono la figura della «genitrice», per usare il termine
stesso dello scrittore34, che è forse alla base della fondamentale
figura consoliana dell’Antitesi, un’Antitesi sui generis, a tre punte,
come abbiamo visto. Nel caso che riguarda quest’ultima, si può già
osservare come i due corni dell’opposizione («deriva» e «dolcezza»)
non rimangano nettamente distinti, separati dalla canonica
opposizione dei due termini della figura retorica, ma si fondano e si
confondano, come spesso accade nella scrittura dell’agatese35. Un
altro esempio citatissimo dalla critica illustra meravigliosamente
l’ambigua Antitesi consoliana. Si tratta appunto della figura
(metafora) dell’olivo e dell’olivastro, una curiosa coppia antitetica che
discende dall’Odissea, posta in epigrafe al volume eponimo e citata
al suo interno nel secondo capitolo dedicato a Ulisse quando,
spossato e lacero, sbarca nell’isola dei Feaci:

Ulisse ha toccato il punto più basso dell’impotenza umana, della vulnerabilità.


Come una bestia ora, nuda e martoriata, trova riparo in una tana, tra un olivo e un
olivastro (spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del selvatico e del
coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio d’una biforcazione di
sentiero e di destino, della perdita di sé, dell’annientamento dentro la natura e
della salvezza in seno a un consorzio civile, una cultura), si nasconde sotto le
foglie secche per passare la notte paurosa che incombe.36

Nella conversazione con Mario Nicolao, identificando in tre punti


essenziali la riflessione sull’olivo, Consolo riporta un’altra bella
variazione della medesima figura: una straordinaria mise en abyme
dell’albero dell’olivo attraverso una frase di Paul Claudel: «La racine
de l’Odyssée c’est un olivier»; e anche il rinvio al pirandelliano olivo
saraceno: «In lui [in Ulisse] il ‘selvatico’ e il ‘coltivato’ non si
combattono: al contrario, si completano». Nell’Odissea moderna
invece «è avvenuta la separazione tra il selvatico e il coltivato.
L’olivastro ha invaso il campo». Donde «l’erranza» cui è condannato
il moderno Ulisse:

CONSOLO: […]. Casualmente nasciamo in un’Itaca dove tramiamo i nostri affetti,


dove piantiamo i nostri olivi, dove attorno all’olivo costruiamo il nostro talamo
nuziale, dove generiamo i nostri figli. “La racine de l’Odyssée c’est un olivier” dice
Paul Claudel.

NICOLAO: C’è un ulivo anche alla base della nostra odissea odierna.

CONSOLO: Alla base della nostra odissea moderna credo che ci sia solo
l’olivastro, l’olivo selvatico: tempeste e naufragi, inganni e oblii, mutazioni,
regressioni, perdite. C’è il ritorno del barbarico e mostruoso mondo dei Ciclopi o
dei pirandelliani Giganti della montagna (anche lì, la soluzione del mito è nella
comparsa di un olivo saraceno). […].
L’ulivo e l’oleastro, o l’olivo e l’olivastro (nella dizione più esatta che suggerisce
Nencioni) che spuntano da uno stesso tronco. “In lui il ‘selvatico’ e il ‘coltivato’ non
si combattono: al contrario, si completano. Essi si uniscono in lui armoniosamente
come il ceppo materno e quello paterno: come l’olivo selvatico e quello coltivato
spuntano dallo stesso tronco per offrirgli riparo nella boscaglia feacia ed aiutarlo a
rinascere” scrive la Bonnafé [L’olivier dans l’Odissée]. Ecco, nell’odissea moderna
è avvenuta la separazione tra il selvatico e il coltivato. L’olivastro ha invaso il
campo. Ulisse non può più seppellirsi sotto le sue foglie, dormire, morire e
rinascere. Raggiunta Itaca, si accorge che l’isola è ormai distrutta, che lì ormai né
Penelope né Telemaco lo attendono. Ed è costretto a ripartire condannato
all’erranza. L’ambigua profezia di Tiresia, racchiusa nel doppio senso di ex alòs,
prende allora il solo significato che la morte per lui verrà dal mare, la sua sarà una
morte per acqua.37
L’Antitesi consoliana risulta così formata da due opposti corni, di
cui però uno è, a sua volta, duplice, più precisamente biforcuto,
rappresentando i due rami di questa biforcazione la natura e la
cultura; l’annientamento e la salvezza, secondo la definizione dello
scrittore sopra citata38.
L’altro corno dell’Antitesi è costituito invece da un elemento
esclusivamente negativo (disforico) e affatto separato dall’altro,
biforcuto, come se ci fosse appunto un invalicabile muro a dividerli.
Da un lato dunque abbiamo un’Antitesi a vasi comunicanti (olivo e
olivastro), dall’altro un polo solo negativo, l’olivastro, che in nessun
modo può più entrare in un rapporto, per quanto contradditorio, col
suo opposto (avremo dunque il seguente schema: olivo-vs-olivastro
║ olivastro).
Ora, Consolo vorrebbe scegliere, e di fatto sceglie, malgrado
l’apparente pessimismo, la tradizionale Antitesi, dove i due termini si
alternano e si confondono talvolta, ma è lucido abbastanza per
riconoscere che quella concordia discors, che pure faceva parte
ancora di un’armonia del mondo, compresa quella barocca, oggi non
è più possibile, perché nella modernità ha prevalso soltanto il
selvatico, il mostruoso (l’impossibile?):

Nella modernità, le colpe non sono più soggettive, ma oggettive, sono della
storia. I mostri non sorgono più dal mare, dalla profondità del subconscio, ma sono
mostri concreti, reali, che tutti noi abbiamo creato (tutti noi abbiamo scatenato le
guerre, creato i campi di sterminio, le pulizie etniche, lasciamo morire per fame la
stragrande maggioranza dell’umanità…). Nessun viaggio penitenziale e liberatorio
è ormai possibile. Itaca non è più raggiungibile. Questo, secondo me, lo scrittore
oggi ha il compito di dire, di narrare. Narrare oggettivamente, in terza persona, dei
mostri, delle mostruosità che abbiamo creato, con cui, privi ormai di memoria, di
rimorso, privi dell’assillo di raggiungere una meta, da alienati, felicemente
conviviamo. E veniamo alla mia Itaca, alla mia Sicilia. Durante la lontananza di
ognuno che se n’è da lì partito, come tu dici, quell’Isola è stata distrutta dal potere
politico-mafioso, su cui tanto ha indagato e dolorato Leonardo Sciascia.
Nell’Odissea mi sembra di aver colto un senso del mito di Scilla e Cariddi, della
“rovina immortale”, dei due mostri supremi acquattati alla porta dell’Isola. Mi
sembrano i due mostri, la zoomorfizzazione del cavallo di legno, il suo
contrappasso.39
E sempre intorno ai mostri della modernità, sui quali Consolo è
uno degli scrittori che più schiettamente hanno riflettuto nell’ultimo
scorcio del Novecento, con Calvino e Zanzotto, va ricordata una
variazione su tema, che parla dei mitologici, onirici, o inconsci mostri
che abitano i «regni dell’olivastro», opposti a quelli reali del nostro
presente, esibendo perfino un nutrito numero di precursori che oggi
bisognerebbe forse rileggere come antesignani della scrittura del
disastro:

Non riesco a lasciare questa città del disinganno, dell’utopia crollata, della
mediocrità più squallida, della nevrosi e dell’aggressività, del deserto d’ogni gioia,
d’ogni bellezza, perché non c’è più un’Itaca dove ridurmi e conciliarmi, in cui
ricomporre l’armonia perduta, non c’è più espiazione e liberazione dalle colpe
dopo il lungo racconto di mostri, di malìe e di tempeste; perché i mostri non
abitano più nel nostro subconscio, nei nostri sogni, non abitano più in ignote
dimore, abissi marini o caverne etnee, non sono dei mondi pre-civili, dei regni
dell’olivastro, ma sono della nostra storia, del nostro tempo, sono reali e ovunque
presenti, sono quelli che ci hanno predetto Kafka, Baudelaire, Eliot, Joyce, Camus,
Pirandello, tutti i poeti-profeti, sono quelli comparsi ieri ad Auschwitz, Hiroshima,
Siberia, quelli comparsi oggi a Sarajevo, in Ruanda, in tanti altri luoghi di morte e
di massacro; sono quelli che, dopo cinquant’anni, minacciano di ricomparire,
ahinoi, in Italia…40

Per chiudere cito rapidamente ancora qualche esempio di questa


complessa Antitesi attraverso cui Consolo ha identificato e ricostruito
la storia del Mediterraneo.
Il primo riguarda la città di Noto, visitata dal viaggiatore in
compagnia di Iano, il poeta Sebastiano Burgaretta. L’ho scelto sia
perché anche qui si può facilmente identificare la figura dell’Antitesi
a tre punte, sia perché tale figura si avvale di un mirabile intertesto,
consoliano questa volta, estratto da Lunaria, che focalizza una
particolare immagine della luna, la luna malata, la luna che si sfalda,
mutuata a sua volta da L’esequie della luna di Lucio Piccolo.
L’immagine infatti che interessa Consolo, per parlare di Noto, è
esattamente quella dello sfaldamento, dello sgretolamento. Ma, in
passato, Noto seppe reagire alla distruzione provocata dal
devastante terremoto del 1693 con una coraggiosa iniziativa di
ricostruzione:
Ricostruirono in quel barocco di lingua ispanica e romana tradotto nel dialetto
concitato e colorito di Sicilia, in quelle architetture che sembrano concretizzazioni
di sogni, realizzazioni di fantastiche utopie; sembrano, nei loro incredibili
movimenti, nelle apparenti instabilità, nei capricciosi ornamenti, una provocazione,
una sfida a ogni futuro sommovimento della terra, a ogni ulteriore terremoto; e,
insieme, le facciate di chiese e conventi, nel loro gonfiarsi e afflosciarsi come vele,
nel loro “ondeggiare e traballare a guisa di mare”, sembrano la rappresentazione,
la pietrificazione, l’immagine apotropaica o scaramantica del terremoto stesso,
della natura, dell’esistenza: la distruzione volta in costruzione, la paura in
coraggio, l’oscuro in luce, l’orrore in bellezza, l’irrazionale in fantasia creatrice,
l’anarchia incontrollabile della natura nella leibniziana, illuministica anarchia
prestabilita, il caos in logos.41

Mentre un’inarrestabile sfaldamento minaccia nel nostro presente


la stupenda città barocca:

Ma Noto ha perso la sua sfida con la natura, con il tempo. Il suo tufo dorato si è
corroso, sfaldato, le sue architetture di stupore si sono incrinate, i fregi son crollati
per vecchiezza, inquinamento, incuria, per le infinite, ricorrenti scosse del suolo.
Si aggirava il viaggiatore insieme a Jano fra chiese e palazzi e conventi
pericolanti, imbracati, puntellati da fitti tubi di ferro, da tavole e travi, invasi nelle
fenditure, nelle crepe, nei làstrici, nelle logge evacuate, da cespugli di rovi, da
edere, fichi selvatici.

Inoltre, la malinconica traversata di Noto provoca nel viaggiatore


l’insorgenza del ricordo di una rappresentazione di Lunaria cui egli
aveva assistito nella cittadina barocca qualche anno prima, ricordo
che gli fa assimilare la malattia della luna alla malattia di cui soffre la
città, trasformandola in una «marcia scenografia teatrale»:

Nella via Nicolaci, tra le quinte dei palazzi e il fondale della facciata concava
della chiesa di Montevergine, sotto le mensole di festoni, di grifi, leoni, cavalli,
chimere, grottesche dei balconi di palazzo Villadorata, ricordò che dentro, nel
vasto salone, aveva assistito anni prima alla rappresentazione di un’operetta
barocca, una favola in cui si narrava di un viceré malinconico e d’una luna che si
sfalda e che cade.

Ma la Luna la Luna la Luna


La maculata Luna è dissonanza,
è creatura atonica, scorata,
caduta dalla traccia del suo cerchio,
vagante negli spazi desolanti.

Così gli appariva Noto, una malata. Melanconica luna, una livida crosta che
crepa e che si sfalda, si sparpaglia in brandelli di garze, cartoni come una
dimenticata marcia scenografia teatrale,42

L’ultima parte del racconto si chiude con un curioso ma


significativo episodio. Al «cancro», alla fatiscenza del Collegio dei
Gesuiti, un’antica costruzione adibita ora a edificio scolastico, si
oppone un personaggio, un preside, malato di «cancro», che regala
ai visitatori la storia del liceo scritta da lui, traendola da una pila di
libri sepolti da calcinacci:

Entrarono nell’atrio del Collegio dei Gesuiti ch’era diventato la sede d’un liceo,
un vasto edificio sulla via principale puntellato da travi. Dentro era tutto disfatto,
corroso, divorato dal cancro, invaso dalle erbe, sepolto dalla polvere del tufo.
All’improvviso apparve sulla soglia un uomo, il viso deturpato dal cancro, che
guardò sorpreso gli intrusi. Era il preside della scuola. Il suo unico scopo, la sua
lotta era ormai quella di tornare in questa vecchia sede, di ottenerne l’agibilità. Era
risentito con le autorità comunali, regionali, statali. Condusse i visitatori in una buia
stanza e regalò loro la storia del liceo, scritta da lui, che trasse da una pila di libri
sepolti da calcinacci.43

Quali sono qui le tre punte dell’Antitesi? La città di Noto prima del
terremoto opposta a quella del dopo terremoto, entrambe opposte
allo sfaldamento attuale della città (Noto prima del terremoto vs Noto
dopo il terremoto ║ sfaldamento attuale di Noto). Sfaldamento
associato metaforicamente alla malattia della luna, cioè al suo
disfacimento per abbandono, incuria ecc., che reagisce però col
significativo dono della storia del liceo scritta dal preside.
Più difficile distinguere la struttura dell’Antitesi nel racconto di
Gela, la città ripetutamente citata dalla critica come una delle più
irredimibili della devastata Sicilia, simile a tante città del
Mediterraneo distrutte da inarrestabili guerre. Ricordo che in anni
non lontani era invalsa nel discorso quotidiano dei siciliani
l’espressione “sembra Beirut”, “siamo a Beirut”, per indicare
l’estremo degrado in cui precipitava l’isola a causa della mafia. Non
a caso, forse, Consolo si serve di un’immagine mediorientale per
descrivere la città del petrolchimico: una «vasta landa saudita» dove
sorgono i primi euforici insediamenti industriali che hanno distrutto,
come solo un terremoto può fare, la stratificazione archeologica della
città, trasformandola in un «inferno d’oggi», in una Metanopoli da cui
fuggire, come il «pittore di Gela emigrato a Monza che dipingeva fiori
e bimbe, e quindi stanco, chiusosi in se stesso, si mise a dipingere
teste senza volto, bimbi senz’occhi, donne con forbici alla gola»:

Più avanti, nella vasta landa saudita, sono le teste d’ariete, i lunghi colli delle
pompe che vanno su e giù come in un movimento vano e inarrestabile, gli astratti,
metafisici ingranaggi di cui nessuno sa l’origine e il fine. Qui è il teatro dell’abbaglio
e dell’inganno, del petrolio favoloso, la trovatura nelle tombe greche, nelle cisterne
saracene delle credenze popolari; qui il Gela 1, Gela 2, Gela 3… accesero Mattei
di forza e di speranza, lo spinsero alla sfida dell’ENI statuale al duro capitalismo
dei privati, al Gulf Italia Company, alla Montecatini, infusero volenterosa poesia,
retorica industriale, lombarda e progressiva allo scrittore Vittorini, posero sopra le
facce malariche dei contadini i bianchi caschi di plastica operaia.
Da quei pozzi, da quelle ciminiere sopra templi e necropoli, da quei sottosuoli
d’ammassi di madrepore e di ossa, di tufi scanalati, cocci dipinti, dall’acropoli sul
colle difesa da muraglie, dalla spiaggia aperta a ogni sbarco, dal secco paese
povero e obliato partì il terremoto, lo sconvolgimento, partì l’inferno d’oggi. Nacque
la Gela repentina e nuova della separazione tra i tecnici, i geologi e i contabili
giunti da Metanopoli, chiusi nei lindi recinti coloniali, palme, pitosfori e buganvillee
dietro le reti, guardie armate ai cancelli, e gli indigeni dell’edilizia selvaggia e
abusiva, delle case di mattoni e tondini lebbrosi in mezzo al fango e all’immondizia
di quartieri incatastati, di strade innominate, la Gela dal mare grasso d’oli, dai
frangiflutti di cemento, dal porto di navi incagliate nei fondali, inclinate sopra un
fianco, isole di ruggini, di plastiche e di ratti; nacque la Gela della perdita d’ogni
memoria e senso, del gelo della mente e dell’afasìa, del linguaggio turpe della
siringa e del coltello, della marmitta fragorosa e del tritolo.
Ricordò il naufrago, il reduce smarrito, l’amico, pittore di Gela emigrato a
Monza, sempre sopra i treni, che dipingeva fiori e bimbe, e quindi stanco, chiusosi
in se stesso, si mise a dipingere teste senza volto, bimbi senz’occhi, donne con
forbici alla gola. Lo curò il medico con la pittura, spingendolo a far affiorare sulla
tela tutta l’angoscia, la paura.44

Dunque, nonostante questo inferno è possibile una via d’uscita,


flebile anche qui, ma essenziale, vitale: la pittura, l’arte creativa, la
metafora: «Lo curò il medico con la pittura, spingendolo a far
affiorare sulla tela tutta l’angoscia, la paura».
* Università degli Sudi di Catania
1 V. Consolo, Ibn Giubayr (1996), in Id., Di qua dal faro (1999), in Id., L’opera
completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto
di Cesare Segre, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2016, p. 1199, corsivi miei.
Tutte le citazioni sono tratte da questa edizione. Su Ibn Giubayr cfr. la bella
voce di Francesco Gabrieli, in Enciclopedia dell’Arte Medievale (1996).
2 V. Consolo, Mediterraneo. Viaggiatori e migranti, Edizioni dell’asino, Roma
2016, p. 22; Id., L’opera completa, cit., p. 1202. I versi riportati in corsivo
appartengono, come suggerisce lo stesso Consolo, al poeta Ibn Himar-Bariqi
(morto nel 580), uno dei più grandi scrittori della Poesia Araba.
3 V. Consolo, L’opera completa, cit., p. 1451. La citazione all’interno del brano
riportato è tratta da Alessandro Censi, La Sicilia nella prospettiva della
memoria, «Giornale di Brescia», 3 novembre 1999.
4 Edward Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, tr. it. di Stefano
Galli, Feltrinelli (Universale economica Saggi; 1999 Campi del sapere),
Milano 2013.
5 Norma Bouchard, Massimo Lollini (a cura di), Reading and Writing the
Mediterranean. Essays by Consolo. Toronto: University of Toronto Press,
2006. Norma Bouchard, Vincenzo Consolo’s Mediterranean Journeys: from
Sicily to the Global Souths, in Sicily and the Mediterranean, Migration,
Exchange, Reinvention, eds. Claudia Karagoz, Giovanna Summerfield,
Palgrave Macmillan, New York, 2015, pp. 195-215. Massimo Lollini, Intrecci
mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo, in
«Italica», volume 82, Number 1, Spring 2005, pp. 24-43.
6 Già nell’ultimo decennio del secolo scorso Consolo aveva identificato la
tragedia delle migrazioni, un fenomeno epocale che oggi nessuno può più
disconoscere. In un saggio del 1991 compreso nella sezione Sicilia e oltre
della raccolta Di qua dal faro scrive ad esempio che è proprio un racconto
letterario, Uomini sotto il sole dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani,
che gli permette di scivolare «in un discorso storico, politico» intorno al
problema dei profughi di Palestina, dal momento che la letteratura stessa non
è altro che discorso storico e politico: «Ci accorgiamo di essere scivolati in un
discorso storico, politico, partendo da un discorso letterario. Ma cos’è la
letteratura, la narrativa soprattutto, con la sua scrittura in prosa più o meno di
comunicazione, immediatamente o mediatamente, se non politica? Politica
nel senso che nasce, essa letteratura, da un contesto storico e sociale e ad
esso si rivolge? E si rivolge naturalmente con linguaggio suo proprio, col
linguaggio letterario (leggeremmo, se no, trattati di storia, perorazioni
politiche, relazioni giornalistiche…). Linguaggio che fa sì che il fatto narrato
sia quello storico, sia quello politico, ma insieme sia altro oltre la
significazione storica; altro nel senso della generale ed eterna condizione
umana. Linguaggio che muovendo dalla comunicazione verso l’espressione
attinge quindi alla poesia. […]. Ghassan Kanafani, prima o al di là d’essere
stato il palestinese di Acri, l’esule di Damasco e di Beirut, il militante del
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ucciso, per questo, nel
1972 in un attentato, è uno scrittore, e di prim’ordine. Assieme al poeta
Mahmud Darwish, è fra le voci più alte, non solo della letteratura palestinese,
ma di tutta l’odierna cultura araba» (V. Consolo, Uomini sotto il sole (1991), in
Id., L’opera completa, cit. p. 1205, corsivo mio)
7 V. Consolo, L’ora sospesa e altri scritti per artisti, a cura di Miguel Ángel
Cuevas, Le Farfalle, Valverde 2018.
8 V. Consolo, La mia isola è Las Vegas, a cura di Nicolò Messina, Mondadori,
Milano 2012.
9 V. Consolo, Esercizi di cronaca, a cura di Salvatore Grassia, prefazione di
Salvatore Silvano Nigro, Sellerio, Palermo 2013.
10 Ibn Jubayr. Viaggiatore e letterato musulmano andaluso (Valenza 1145-
Alessandria 1217).
11 Roland Barthes, S/Z (1970), Einaudi, Torino 1973, p. 30.
12 «L’eredità mediterranea della cultura europea è al centro della riflessione
dello scrittore siciliano Vincenzo Consolo che nell’esperienza di Odisseo ha
trovato l’immagine più vera e rappresentativa della violenza che pervade il
presente. Il viaggio di Odisseo diventa la metafora che consente a Consolo di
ritrovare nel mito e nella letteratura un senso drammatico e complesso
dell’esistenza personale e collettiva, non più legato ad alcuna ideologia di
progresso della civiltà mediterranea. Il lavoro di Consolo è quello che
vichianamente rimane proprio della poesia, un lavoro di scavo archeologico
alla ricerca di strati linguistici, parole incerte strappate ad un denso silenzio,
tracce opache di un oscuro senso dell’umano». Massimo Lollini, Intrecci
mediterranei, cit., p. 25.
13 Cfr. V. Consolo, 29 aprile 1994: cronaca di una giornata, in «Nuove
Effemeridi». Rassegna trimestrale di cultura, Anno VIII, n. 29, 1995/I, pp. 4 e
6.
14 Sigmund Freud, Costruzioni nell’analisi (1937), in Id., Opere, vol. XI,
Boringhieri, Torino 1970, pp. 541-552.
15 Cfr. G. Turchetta, Note e notizie sui testi, in V. Consolo, L’opera completa,
cit., p. 1373.
16 Federico De Roberto, L’illusione, in Id., Romanzi Novelle e Saggi, a cura di
Carlo Alberto Madrignani, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1984, p. 49.
17 V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, cit., p. 772.
18 Ivi, p. 773.
19 Ivi, p. 776.
20 Ivi, p. 774. Consolo aveva già scritto in Lunaria: «annerando […] passiscon
sfrigolando i gelsomini», Id., L’opera completa, cit. p. 274.
21 Ibidem.
22 Sintomatica citazione quest’ultimo sintagma dal sonetto A Zacinto, con
moderna variante «pietrosa» rispetto all’arcaico «petrosa» del sonetto
foscoliano. Consolo infatti, come Foscolo e a differenza dell’Ulisse omerico,
non bacerà la sua Itaca.
23 Odissea, XII, 127-128, 137-140. La traduzione utilizzata da Consolo è quella
di Giuseppe Aurelio Privitera, Mondadori – Fondazione Valla, Milano 1981-
1986.
24 V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, cit., cit., p. 775.
25 Si leggerà a riguardo V. Consolo, Mario Nicolao, Il viaggio di Odisseo,
Introduzione di Maria Corti, Bompiani, Milano 1999.
26 Il segno ║ indica qui precisamente il muro invalicabile dell’Antitesi, mentre il
segno vs (versus) indica la tradizionale opposizioni dei suoi due termini.
27 V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, cit., p. 776.
28 Ivi, p. 775.
29 Ivi, p. 1421, nota 8. Delle belle pagine ha dedicato alla Milazzo de L’Olivo e
l’olivastro Roberta Delli Priscoli, Il mare, l’isola, il viaggio negli ultimi libri di
Vincenzo Consolo, in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e
organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVIII congresso dell’ADI –
Associazione degli Italianisti (Padova, 10-13 settembre 2014), a cura di
Guido Baldassarri, Valeria Di Iasio, Giovanni Ferroni, Ester Pietrobon, Adi
editore, Roma 2016, pp. 1-10. Url = http://www.italianisti.it/Atti-di-Congresso?
pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=776 [data consultazione:
24/02/2019]
30 Ivi, pp. 775-6.
31 Nell’Odissea: σίνηαι, XII, 139, che si oppone ad ασινέας [intatte, le vacche],
XII, 137. Il verbo σίνομαι (σίνω att.) (indouropeo tuin, lat. Tinea), significa
propriamente: “rodere”, “rosicchiare” se si tiene conto della sua origine
indoeuropea.
32 V. Consolo, 29 Aprile 1994: cronaca di una giornata, cit., corsivi miei.
33 V. Consolo, Uomini sotto il sole, in Id., L’opera completa, cit., p. 1206.
34 Va ricordato che Consolo è uno dei rari, anzi rarissimi, scrittori italiani, ad
avere usato il termine «matria» al posto di «patria», cfr. Rosalba Galvagno,
«Sicilia, Sicilia mia, mia patria e mia matria» Variazioni consoliane sulla
Sicilia, e altro in «OBLIO» – Periodico trimestrale on-line – Anno II, n. 6-7 –
Settembre 2012, pp. 43-49.
35 Come ho cercato di dimostrare in un lavoro precedente a proposito della
figura del limen: «Una delle figure del limen, forse la figura princeps della
costruzione poetica di Consolo, deriva dalle sue origini geografiche, o meglio
dalla ricostruzione immaginaria che egli fa di tali origini. Si tratta di quella
zona liminare tra un oriente e un occidente della Sicilia, calcolata a partire dal
suo luogo di nascita, Sant’Agata di Militello, un paese adagiato sulla costa
tirrenica, nel messinese. Egli nasce dunque «alla confluenza di due regni,
dove si perdono, sfumano, si ritraggono in una sommessa risacca le onde
lunghe della natura e della storia. Lasciando, su questa remota spiaggia
dell’incontro, segni indistinguibili e confusi» (V. Consolo, Memorie, in La mia
isola è Las Vegas, a cura di Nicolò Messina, Mondadori, Milano 2012, p.
137). Tuttavia «questa remota spiaggia, limen, finisterre, ma anche luogo
sgombro, vergine è una terra da cui rinascere, ricominciare, un porto da cui
salpare per inediti viaggi» (ivi, pp. 137-138). Cfr. Rosalba Galvagno, La
grande vacanza orientale-occidentale, in Geografie della modernità letteraria,
Atti del Convegno internazionale della Mod (Perugia, 10-13 giugno 2015), a
cura di Siriana Sgavicchia, Massimiliano Tortora, ETS, Pisa 2017, vol. 2, p. 2.
36 V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, p. 767, corsivo mio.
37 V. Consolo, M. Nicolao, Il viaggio di Odisseo, cit., pp. 24-26.
38 V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, cit., p. 767.
39 V. Consolo, M. Nicolao, Il viaggio di Odisseo, cit., p. 22.
40 Cfr. V. Consolo, 29 aprile 1994: cronaca di una giornata, cit., p. 6.
41 V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, cit., p. 846.
42 Ivi, pp. 846-847.
43 Ivi, p. 847, corsivi miei.
44 Ivi, pp. 816-817.
SALVATORE MAIRA
PAROLE ALLO SPECCHIO

La lettura de Il sorriso dell’ignoto marinaio, apparso da pochi


giorni nelle librerie, fu un’esperienza singolare. Frequentando i testi
della neoavanguardia, mi ero imbattuto nell’idea di incremento di
vitalità, come una delle funzioni più peculiari della letteratura e in
particolare della poesia. Era un concetto che m’interessava per
molteplici motivi, ma non mi era mai successo, prima del romanzo di
Consolo, di sperimentarlo come impulso emotivo prima ancora che
concettuale, di sentire la brezza di un movimento interno scaturito fin
dalle prime pagine. L’incremento di vitalità, si diceva, derivava da
una riflessione leopardiana. La lessi e sentii di essermi avvicinato a
quel misterioso e insondabile passaggio che ci traghetta dalle parole
alle immagini e viceversa.

1 Feb. 1829. Dalla lettura di un pezzo di vera, contemporanea, poesia, in versi


o in prosa (ma più efficace impressione è quella de’ versi), si può, e forse meglio,
(anche in questi sì prosaici tempi) dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che
essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca per
così dire; e ci accresce la vitalità. Ma rarissimi sono oggi i pezzi di questa sorta.
Nessuno del Monti è tale.

Anche qui un sorriso, che collega per rifrazione, percorsi, testi,


immagini, e persone dovrei aggiungere, perché chiamai Consolo,
che non conoscevo, e gli dissi che volevo fare un film dal Sorriso.
Non si lasciò impressionare dalla spudoratezza della richiesta,
esordire con un film tratto da un romanzo di successo così
complesso, allora avevo realizzato solo un breve film sperimentale, e
fin da questa prima telefonata si stabilì tra noi un rapporto fraterno.
Riuscimmo ad avere un contratto per la sceneggiatura da parte
della RAI e cominciammo a scrivere a casa mia a Roma, dove Enzo
sarebbe venuto da Milano per qualche giorno al mese.
All’inizio il lavoro di scrittura procedeva con tale naturalezza che
credemmo di poter finire in poche settimane. Ma non fu così.
Quando eravamo già a metà del copione, nacque tra noi una
difficoltà paradossale, un rovesciamento di ruoli. Avevo dato per
scontato infatti che Enzo, in quella tensione che si stabilisce di solito
tra regista e autore del romanzo che partecipa alla sceneggiatura,
avrebbe resistito ad ogni proposta di modifica, cercando di rimanere
legato alla testualità del romanzo il più possibile, mentre io avrei
tirato dalla parte opposta. A sciogliere cioè la struttura della
narrazione in una forma più lineare, facendo ricorso a tutto
l’armamentario della drammaturgia cinematografica.
Accadde invece che Enzo, preso forse dalla novità
dell’esperienza, era disponibile a una parziale scomposizione della
struttura in senso più ‘’cinematografico’’, che significava in questa
prima fase colmare le ellissi e definire più realisticamente l’identità
dei personaggi, ed io invece cominciai a resistere, aggrappandomi al
romanzo, perché dentro il testo sentivo una forza e una tensione che
perdevano efficacia quando il racconto per immagini diventava
rappresentazione del dramma. Era un tema che conoscevo bene e
che avrei a lungo studiato in seguito. Proprio in quei giorni, un mio
amico, che era stato uno degli sceneggiatori dell’ultimo film di De
Sica tratto da una novella di Pirandello, mi raccontò che quando il
lavoro non procedeva, erano tre o quattro sceneggiatori, De Sica
decideva di sospendere e tornare a leggere la novella di Pirandello,
come se solo lì, in quelle poche pagine, avrebbero trovato la
risposta.
Successe così che coinvolsi Enzo in una sorta d’indagine, a cui si
appassionò fin da subito, per individuare l’omologia filmica del
Sorriso.
Impresa ardua sempre, ma ancora di più se riferita al Sorriso. Ne
parlammo anche con Francesco Rosi, grande estimatore del
romanzo. Gli chiesi ad esempio come realizzare la citazione
dell’Abba.
– Posso mettere in scena gli scontri tra garibaldini e borboni, –
dissi,- ma è una rappresentazione diretta e non una citazione. Rosi
mi suggerì di stampare in bianco e nero le scene di battaglia del
Gattopardo e inserirle nel film come fossero filmati di repertorio. La
soluzione mi sembrò da prima brillantissima, ma ripensandoci,
sostituire un documento d’epoca col brano di un film sull’epoca, non
mi convinceva.
Mi venne anche il dubbio, devo confessarlo, che la stessi facendo
troppo lunga, e che sarebbe stato meglio arrivare ad una prima
stesura anche con qualche semplificazione di troppo, per cercare
dopo, a copione finito, di innescare l’altra riflessione. Ma il caso mi
tolse questa incertezza. Accompagnai Enzo ad un incontro con
Sciascia, e parlando come sempre prima di politica e poi di
letteratura, durante la conversazione Sciascia invitò Enzo a leggere
Simenon. Lui si negò in modo netto. Bisogna anche dire che allora in
Italia Simenon era popolare solo per i seriali di Maigret, Adelphi non
aveva ancora ripubblicato i romanzi maggiori non più ristampati da
Mondadori. Enzo invece amava molto a Sangue freddo.1 Mi parlò
spesso della struttura del libro e della tecnica compositiva che
ammirava. Nel romanzo di Capote, pensai, è lo scrittore il
protagonista, egli non descrive la realtà cruda e feroce, non scrive
sulla realtà, ma scrive la realtà.
Più avanti avrei capito meglio le ragioni di questo fastidio di Enzo
per Simenon. Se nel Sorriso la trama degli eventi è già antefatto,
appendice, citazione di un articolo, di una memoria, di una cronaca,
nei romanzi successivi la scrittura tende a inabissare la narrazione,
la comprime in uno strato semicosciente da dove ci parla per flash
visivi improvvisi o per echi sonori che affiorano in superficie,
seminando tracce di narrazione il cui tessuto va ricomposto dal
lettore. In seguito Enzo mi disse, sintetizzo, che la storia, il dramma,
la trama, l’intreccio erano per lui come un tributo al neocapitalismo,
che programmaticamente voleva negare.
Fui insomma riconfermato nell’idea che la sceneggiatura non
dovesse normalizzare il Sorriso, farne cioè una narrazione
organizzata per rendere più efficace la sua fruizione, l’illustrazione
per quadri di un’azione drammatica. Questo mi suggerivano i seriali
di Simenon, i gialli politici dello stesso Sciascia ma soprattutto la
grande produzione di film tratti da romanzi. Tra il ‘75 e il ‘76
diventarono film romanzi di ogni genere e valore (due dello stesso
Sciascia).
Da Il deserto dei tartari, Il garofano rosso, Cadaveri eccellenti,
Caro Michele, L’Agnese va a morire, L’Innocente, Todo Modo, Cuore
di cane (Lattuada da Bulgakov), a La Divina creatura di Zuccoli,
Giovannino di Patti, Oh Serafina di Berto, La banca di Monate di
Chiara, Mimì bluette di Guido da Verona, Sandokan, La donna della
domenica ed altri. Ma quello che consideravo a me più vicino non
era italiano: mi riferisco a La marchesa von O che Éric Rohmer
trasse dal racconto di Heinrich von Kleist.
Con Enzo concordavamo che nella maggior parte dei casi il
rapporto tra film e romanzo era quasi sempre illustrativo e descrittivo
e che il film non reinventava una forma, sia pure autonoma o lontana
dalla storia del romanzo. La nostra ricerca-indagine, che aveva
sospeso il lavoro di scrittura, andava avanti e decidemmo di
percorrere la strada più ovvia, un grande romanzo, un grande film, la
Sicilia. C’era poco da scegliere: I Malavoglia e La Terra trema.
Ma un ostacolo inatteso, quasi un puntiglio, ci impediva di andare
avanti. Non accettavamo pacificamente l’ostilità e l’incomprensione
di Verga verso il cinema. Uno scrittore che aveva attraversato tutti i
generi del racconto, ponendosi in termini moderni il problema del
rapporto tra l’opera e il pubblico, tra le mode letterarie e la letteratura
stessa, tra autore e materia narrata, tra narrativa e teatro, tra teatro
e musica, come mai, ci chiedevamo, non avesse capito il cinema, al
contrario di Pirandello.
Al punto che nel giustificare il suo reiterato rifiuto di intervenire
direttamente nelle sceneggiature tratte dai suoi racconti, dei quali
pure cedeva i diritti di sfruttamento, scrisse che per lui era
«questione di probità letteraria». Qualcosa di cui vergognarsi da
parte di uno scrittore, se alla fine cedendo alle pressioni butta giù
uno schema per una sceneggiatura, e solo quello, scrive «Ma vi
prego e vi scongiuro di non dir mai che io abbia messo le mani in
questa manipolazione culinaria delle mie cose»2.
Eppure non gli era mancata una certa duttilità professionale
quando, nel passaggio da racconto a dramma di Cavalleria
rusticana, non aveva esitato a trasferire da un personaggio all’altro il
maggior peso drammaturgico, per accrescere il ruolo destinato alla
Duse.3
L’ipotesi che il rifiuto del cinema, del nuovo, coincidesse con
l’eclissi letteraria dell’ultimo ventennio, che vede un Verga
melanconico e incupito, era verosimile quanto naturale, ma la lettura
del carteggio su quel periodo ci diceva il contrario.
Pur odiando il cinematografo non fa che occuparsene
quotidianamente e freneticamente. E se da un lato mette a
disposizione l’intera sua opera per le riduzioni cinematografiche,
dall’altro non fa che sputare veleno, magari mentre suggerisce lui
stesso, indicazioni e spunti per nuove riduzioni. Ma perché
costringersi a questo disagio? Chi lo obbliga? L’amore. Fa tutto a
beneficio di un’ex amante, una nobildonna milanese, la contessa
Dina Castellazzi, che vive a Milano e che, trovandosi in precarie
condizioni economiche, si adopera con ogni mezzo per smerciare
diritti di sfruttamento cinematografico delle opere di Verga e si offre
di scriverne lei stessa le sceneggiature.

[…] non posso, non posso far altro per te che lasciar fare, – le scrive – e darti
carta bianca… metto a tua disposizione quelli dei miei drammi, novelle e romanzi
che ti servono, e facciamoli pure cinematografare, ben inteso a tuo totale
beneficio, che io non voglio nulla ed è cosa tua…4

Aggiungendo subito dopo che il cinematografo serve per


«abbrutire il pubblico e accecare la gente».
Ci sembrava di esserci infilati in una complicata e forse inutile
digressione, ma non era così. Comunque l’ipotesi che Verga non
scrivesse più perché immerso nel fardello del suo malinconico
tramonto non ci convinceva e avanzai ad Enzo un’altra ipotesi.
Che altro poteva scrivere, dissi in un’infervorata discussione, se
non una replica stanca di qualcosa di già sperimentato? Aveva
cominciato a sedici anni, affrontando subito la scrittura come
professione. Era passato attraverso il romanzo storico-patriottico, il
romanzo d’appendice, la novella feuilleton d’amore patria e morte, il
romanzo epistolare della monacata per forza, la novella scapigliata e
metropolitana, il racconto sociale e contadino; aveva descritto tutti i
tipi umani e gli ambienti, gli aristocratici, i borghesi, i contadini, gli
artigiani erranti per le campagne, i barbieri, le prostitute, i piccoli
malavitosi di Milano come i briganti delle campagne siciliane, ma
forse solo con I Malavoglia, e in parte Mastro Don Gesualdo, aveva
capito che i grandi scrittori non scrivono romanzi, ma inventano ogni
volta il romanzo, e lui non poteva replicare se stesso.
Enzo trovò molto suggestiva l’ipotesi, ma decidemmo insieme di
metterla da parte perché ci avrebbe portato ancora più lontano.
Trovammo un altro labile indizio. Nella lettera a Dina prima citata
c’è una notazione buttata lì per caso che ci fa sospettare che Verga
del cinema potesse avere una visione più lucida di quello che a
prima vista potrebbe sembrare.

Vedi se riesce a te, rileggendo l’argomento che avrete scelto d’accordo, e


mettendoti anche in ciò d’accordo con loro. La spiegazione scritta, come dici, poi
tra quadro e quadro, la metteranno loro, che sanno come va preso il loro
pubblico.5

«Loro» quindi, possiedono gli strumenti retorici ed espressivi


specifici di quel mezzo, attraverso i quali sanno come raggiungere
quel pubblico che conoscono, che è certamente diverso dal pubblico
dei lettori. Si riaccese la speranza di scoprire il vero motivo del
rifiuto, ma la lettura ulteriore del carteggio ci lasciò perplessi.
In una nota contenuta nella lettera del 25 aprile del 1912,
leggiamo che Verga esclude perentoriamente i due romanzi maggiori
dal materiale cinematografabile.
Ci sentimmo in una situazione paradossale, cercavamo di cogliere
il segreto del passaggio dal romanzo al film proprio dal romanzo che
Verga aveva interdetto al cinema.
Ricordo ancora con nostalgia di come Enzo era emotivamente
coinvolto da questa nostra piccola inchiesta e di come lo
commuoveva questo mischiare letteratura e vita di un scrittore che
forse amava più d’ogni altro, tanto che un giorno mi disse di avere la
sensazione a volte che lo stavamo evocando. La ricerca prosegue e
si arriva finalmente a scorgere qualche barlume.
Che cosa manca al cinema secondo Verga per avere la stessa
dignità artistica della letteratura? Per eguagliare, per esempio, gli
esiti de I Malavoglia?
Lo dice indirettamente lui stesso, con molta fretta, ma con grande
lucidità, quando rifiuta di intervenire direttamente nelle sceneggiature
poiché, sostiene, andrebbe sciupato «dall’ingrossamento
fotografico» il quadro originale, da lui spesso disegnato «di scorcio,
di sottinteso quasi, con sobria pennellata […]»6.

«di scorcio, di sottinteso quasi».


E a quel punto pensai, e fu un’illuminazione, al saggio di Giacomo
Devoto sui Malavoglia, da cui era scaturita una polemica con Leo
Spitzer, come alla soluzione, forse, dell’enigma.7
Secondo il discorso di Devoto nella narrativa classica si assiste
«all’alternarsi di discorsi diretti, discorsi indiretti, e costrutti indiretti
liberi», e individua l’originalità della scrittura dei Malavoglia nella
compresenza all’interno della stessa frase di differenti piani stilistici,
che ne fanno il primo romanzo moderno della letteratura italiana, o
comunque l’iniziatore di una tradizione che aveva definitivamente
superato Manzoni e la tradizione classica.
Non è possibile in breve descrivere l’analisi sofisticatissima e
tecnicamente complessa del Devoto, cerco di riassumere le
conclusioni di quelle parti del suo discorso che interessano.
Egli dimostra che ci sono costrutti che producono immagini o gesti
non descritti, e descrizioni che producono parole non dette, «di
scorcio e di sottinteso», evocati facendo ricorso alla partecipazione
del lettore che con un suo intervento completa il racconto.
L’insieme delle citazioni del coro interno, infine, forma, nell’arco
dell’intero romanzo, una sorta di flusso sonoro evocato, alluso, oltre
il senso letterale del frammento.
Il trasferimento dalla suggestione visiva a quella sonora è
continuo e spesso riguarda lo stesso periodo.
In altri casi il rapporto immagine-parola (enunciata o suggerita)
diventa il principio generatore dell’intero brano.
Il coro parla di scorcio, perché non denuncia se stesso come
interlocutore, ma entra nel flusso dell’enunciato di sottinteso, e nel
mezzo dell’effetto. Dice il Devoto:

Non è il parlato inorganico che spiega la struttura del periodo, ma il parlato


dell’attore «inalveato» nel racconto, al di là dei limiti assegnati al personaggio.8
‘Ci siamo’ abbiamo detto e infatti le riflessioni di Devoto ci portano
dritto al film di Visconti, e alle note nelle quali racconta il suo
personale incontro con Verga, e l’origine della sua prima ispirazione
del film.

[…]
la potenza e la suggestione del romanzo verghiano appaiono tutte poggiate sul
suo intimo e musicale ritmo: e che la chiave di una realizzazione cinematografica
de I Malavoglia è forse tutta qui, cioè nel tentare di risentire e di cogliere la magia
di quel ritmo, un ritmo che dà il tono religioso e fatale dell’antica tragedia a questa
umile vicenda della vita quotidiana.
[…]

Non sembri strano che, parlando di una eventuale realizzazione


cinematografica, io insista tanto su elementi sonori quali il fragore del mare, il
suono della voce di Rocco Spatu, o l’eco del rumore del carro di compare Alfio che
non si ferma mai…9

Certo Visconti non poté presagire il saggio che Devoto avrebbe


scritto qualche anno dopo, ma forse Devoto subì il fascino della
lettura viscontiana. Con una certa esultanza conclusi che non fu per
un’insofferenza senile che Verga avversò il cinema, ma perché, sia
pure oscuramente, ne ebbe un’intuizione così profonda da intuirne la
sua momentanea imperfezione: non era sonoro, e non consentiva
ancora una rappresentazione di scorcio e di sottinteso.
Enzo rimase esterrefatto dall’ipotesi, ma contento di aver
ristabilito la genialità di Verga anche in questo specifico aspetto. E
ancora più lo divertiva il paradosso che Verga rifiutasse il cinema
perché non era ancora sonoro, e Pirandello, che lo studiò e praticò
con entusiasmo, lo comincia a rifiutare quando diventa sonoro.

Eravamo alla fine della nostra inchiesta e potevamo ritornare al


Sorriso. Enzo mi chiese quale film della grande tradizione avrei
voluto fare io, e quando risposi Hiroshima mon amour (1959), che
quel giorno era in programmazione in un cineclub, andammo a
vederlo. Rimase molto colpito da come l’elemento letterario entrava
nel linguaggio e nello stile visivamente solenne di Resnais
conservando una sua energia autonoma, quasi una sua purezza.
– Benissimo, – mi disse Enzo fregandosi le mani. – Ora il
problema è tutto tuo, perché devi chiedere a te stesso che tipo di film
ti ha ispirato il Sorriso.- E mi lasciò solo per qualche giorno, contento
di poter accogliere i numerosi inviti che il successo del romanzo gli
procurava.
Dopo questa intensa incubazione mi fu chiaro in poco tempo
quale Sorriso volevo fare. Le figure restavano figure, il loro essere
personaggi viveva sottotraccia. L’aspetto iconico assorbiva la
narrazione, la teatralità dei dialoghi e delle situazioni era denunciata,
a volte tragica e sobria, a volte volutamente declamatoria, spesso
ironica. Immagine e parola, storia e illusione, il rantolo del cavatore
di pietra può essere carico di senso come un verso. Ho ritrovato il
senso di questo progetto stilistico, che sviluppai nel dettaglio, nelle
parole di Gianni Turchetta nell’introduzione al Meridiano, quando
parla di «consapevolezza metalinguistica» e soprattutto di «strategia
dell’addensamento».10
Enzo condivise con entusiasmo l’impostazione, riprendemmo a
scrivere e in pochi giorni la sceneggiatura fu completata.
Ma il film non si fece, era troppo costoso per non essere un film
commerciale, questa fu la sentenza. Forse si aspettavano uno
sceneggiato risorgimentale. D’altra parte di quel tipo di cinema a cui
il nostro progetto faceva riferimento si avrà un’idea solo nell’82 con
l’uscita del film di Peter Greenaway Il mistero dei giardini di Compton
House, tanto per citare l’esempio più vistoso.
Cinema che nemmeno dopo è stato possibile praticare nel nostro
paese.
Ci rimanemmo così male che del Sorriso non parlammo più fino al
dicembre del 2000, all’anteprima milanese del mio film Amor nello
specchio, storia della scrittura di una commedia di Giovan Battista
Andreini, capocomico del ‘600. Alla fine della proiezione, che data la
vicenda del film ebbe luogo al Piccolo, Enzo mi venne incontro e mi
sussurrò “Mi sembrava di vedere Il sorriso” 11
Concludo con una nota scherzosa, come era del resto il tratto più
autentico della nostra amicizia. Un anno prima della sua scomparsa,
nel corso di una telefonata, mi lamentavo con lui di molti giovani
autori contemporanei così presi dalla cosiddetta proprietà di
linguaggio che la loro prosa risultava piatta e priva di tensione e due
giorni dopo riconobbi la sua calligrafia su una lettera senza mittente.
Dentro c’era mezzo foglio di carta velina che ancora conservo, con
un breve elenco.

1 Truman Capote, A Sangue freddo, Garzanti, Milano 1966.


2 La lunga e controversa vicenda dei rapporti di Verga con il cinema e del ruolo
avuto dalla sua amica Dina in tutte le decisioni, i rifiuti, i ripensamenti, sono
stati ricostruiti in un esemplare saggio di Sebastiano Gesù e Nino Genovese,
Verga e il cinema:«Castigo di Dio» o «San Cinematografo», che introduce il
volume Verga e il Cinema, curato dagli stessi per Giuseppe Maimone
Editore, Catania 1996.
3 Cfr. il saggio di E. Comizio, Cavalleria rusticana tra novella, film, teatro e
musica, in Gesù e Genovese, op. cit.
4 Ivi, p. 14.
5 Ivi, p. 16. La lucidità di Verga non è cosa da poco se si pensa che ancora nel
1970 Giorgio Bassani denunciò Vittorio De Sica e Ugo Pirro, rispettivamente
regista e sceneggiatore del Giardino dei Finzi Contini, film che vinse l’Oscar
di quell’anno come miglior film straniero, poiché tradiva, secondo lo scrittore,
il romanzo.
6 Ivi, p. 10
7 Giacomo Devoto pubblicò un breve saggio (I piani del racconto in due
capitoli dei «Malavoglia», in «Bollettino del Centro di Studi Filologici e
Linguistici Siciliani», II, 1954), successivamente raccolto in Id., Nuovi Studi di
Stilistica, Le Monnier, Firenze 1962, al quale Leo Spitzer rispose
polemicamente con L’originalità della narrazione nei «Malavoglia», apparso
su «Belfagor», XI, 1956.
8 G. Devoto, I piani del racconto in due capitoli dei «Malavoglia», in Id., Nuovi
Studi di Stilistica, cit., p. 204.
9 L. Visconti, in Stile italiano del Cinema, Guarnati, Milano 1941, pp. 78-79.
10 G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera
completa, a cura di G. Turchetta e con un saggio introduttivo di C. Segre,
Milano, Mondadori, 2015, pp. XXV e XXX.
11 Il film è stato realizzato nel 1999, ed è ispirato al testo omonimo di G.B.
Andreini (1622) di cui ho curato insieme a Michela Borracci la prima edizione
moderna (Bulzoni, Roma 1997).
NICOLÒ MESSINA*
CARTOGRAFIA DELLE MIGRAZIONI IN CONSOLO

Prima di entrare nel vivo della riflessione proposta sarà forse


opportuno delinearne la genesi e precisarne il senso del titolo.
Nessuno ignora in quale contesto i singoli contributi di questo
volume siano stati concepiti e formulati: un contesto mondiale,
europeo, italiano, in cui, prima che vi irrompesse con forza
devastante la nuova peste del secolo, la scena politica era dominata
dall’emergenza di migrazioni bibliche dipinte con strumentali tinte
diavolesche. Quello italiano, soprattutto, forse decifrabile con minori
ambiguità dalla prospettiva del relativo distanziamento che implica di
per sé la diaspora, la condizione – sia concesso l’ossimoro – di
migrante residente: mia e di tanti altri, di Consolo stesso anche, che
non di rado – giacché di diaspora si è detto – giocherellava con il
suo cognome di ascendenza ebraica.
Ecco, allora, che ben volentieri – ripensando alle preoccupazioni
sue assillanti, le più acute almeno degli ultimi dieci anni di vita, ai
suoi j’accuse inascoltati – ho colto la sollecitazione a riflettere
sull’identità culturale mediterranea, enfatizzando l’alternativa tra
conflitto e integrazione, e risolvendola decisamente, in chiave
consoliana, nell’unico modo storicamente sperimentato e possibile:
con uno sbocco naturaliter interculturale. D’altronde, il Mediterraneo
– nell’ottica dello scrittore – non è che spazio comune, dalla
propensione irrefrenabile al movimento; spazio intessuto di rotte che
da sempre s’intersecano; intreccio e crogiolo di popoli e culture che
da sempre si ibridano e nell’ibridazione si arricchiscono ed evolvono.
Di qui l’idea di un’identità del Mediterraneo, esaltata proprio dalle
migrazioni e dai suoi attori, coincidente per Consolo – direi – con il
movimento ininterrotto, l’incontro, la convivenza degli esseri umani,
degli individui, dei popoli. Un movimento che – come per Ulisse – ha
avuto la sua molla nella ricerca dell’altro da sé, nell’esplorazione di
altri mondi, nella ricerca di una vita migliore: una spinta, quest’ultima,
che più d’ogni altra distingue forse il migrante dal viaggiatore.
Senza volare alto, queste note intendono disegnare una carta –
questo il primo senso di “cartografia” – su cui indicare le tante pagine
consoliane che veicolano questi movimenti umani. Certo, di fronte a
lettori specialisti, è grande il rischio di sfondare porte aperte. Ma vale
pur sempre la pena di correrlo, giacché l’intento è quello di
(ri)percorrere in compagnia gli itinerari tracciati da Consolo nelle
esperienze vissute dai suoi personaggi o alter ego; più
precisamente, quello di proporre una prima ricognizione “mirata” tra i
suoi vari scritti che potrà arricchirsi in modo collaborativo: insomma,
un’ipotesi di lavoro in fieri.
Lo scopo ultimo sarebbe la definizione di un catalogo delle pagine
specifiche che hanno a che vedere con il tema “migrazioni”,
sottolineo “specifiche”, perché chi non sarà d’accordo che l’intera
opera di Consolo è “migrante”? Di un Autore che è lui stesso migrato
e – direi – ha “coltivato” la migrazione per tutta la vita: nello spazio e
nel tempo, nella stessa trasmigrazione di generi letterari della sua
scrittura?
Da parte mia, da filologo coi piedi per terra, proporrò qui – di
questa cartografia – solo un primo delineamento, apponendovi
qualche postilla.

A una prima ricognizione del materiale, da un lato distinguerei gli


affioramenti “occasionali” della tematica: come per lo più nelle opere
di maggior respiro narrativo, quelle inserite nel Meridiano che – da
quando è uscito – è testo di riferimento obbligato per lo studio di
Consolo1. Dall’altro, le messe a fuoco “intenzionali”, mirate: come in
certi racconti (Le pietre di Pantalica, La mia isola è Las Vegas), in
certe pagine di taglio saggistico e giornalistico: saggi sciolti o raccolti
in volume (ad es. quelli di Di qua dal faro), articoli scritti per diverse
testate. Ambito, questo, nel quale i documenti sembrano abbastanza
numerosi.
A proposito degli interventi puntuali su giornali e riviste metto
subito le mani avanti per la mia condizione, per così dire, defilata, di
studioso “fuori d’Italia”: sono immaginabili le difficoltà aggiuntive che
ne derivano. In effetti, se il pescare nel mare di internet dà buoni
risultati ricorrendo agli archivi storici sempre più spesso predisposti
dai periodici e accessibili, tuttavia esso non potrà mai sostituire la
consultazione de visu dell’archivio personale dell’Autore (per fortuna
ora ospitato dalla Fondazione Mondadori e posto sotto la sua tutela),
né quella sempre de visu di altre fonti. È la forza, il vantaggio della
cosiddetta autopsìa codicum. Ne andrebbe, insomma, della
completezza in tutti i sensi, di corpus e di analisi. Pertanto, su questo
fronte dovrò sorvolare. D’altra parte, buon metodo suggerisce di
adottare prudenza, soprattutto in contemporaneistica, in cui spesso
certe affermazioni tassative possono essere smentite dai fatti (sia
azioni non calcolate che nuovi documenti rinvenuti).
Nel disegnare la carta geopolitica – questo l’altro senso della
“cartografia” annunciata – cercherò di coniugare geografia e
cronologia. Perciò, per non smarrirmi, mi avvarrò del sempre efficace
“filo d’Arianna” cronologico.
Anticipando le conclusioni – ma qui non c’è suspense da salvare
– in questa mappa non ci sono cartigli di hic sunt leones o in partibus
infidelium. È una mappa che spazia a raggera dall’ònfalo della
Sicilia, nome che alla Vittorini «suona meglio del nome Persia o
Venezuela» e, a un tempo, terra che alla Sciascia è metafora del
Mediterraneo e del mondo: dal sud dell’isola al nord dell’Italia e
dell’Europa (Svizzera, Germania, Belgio)2, ma anche all’ovest delle
Americhe, «Soprana» e meridionale (Nottetempo, casa per casa3 e
La mia isola è Las Vegas4), al sud dell’Africa maghrebina (Tunisia,
soprattutto: Di qua dal faro5) e del cosiddetto Corno (lo specchio
d’acqua antistante la Somalia: Le pietre di Pantalica, Memoriale di
Basilio Archita6), all’Oriente della Grecia imbarbarita al pari della
Sicilia (il capitano della nave su cui è imbarcato Basilio Archita7), al
Medio Oriente del Kuwait di Ghassan Kanafani (Di qua dal faro,
Uomini sotto il sole8), agli antipodi dell’Australia (gli eoliani di E Ciro
vide Anna Magnani9).

Cominciamo allora la nostra rassegna! La prima presa di


coscienza del problema, delle sue dimensioni, delle conseguenze
disgregatrici per la società meridionale, risalirà ai primi anni da
studente universitario a Milano. Siamo all’inizio degli anni Cinquanta.
Consolo alloggia prima al Collegio Augustinianum (via Lodovico
Necchi, 1), poi – sempre in zona – in una pensione familiare di
piazza S. Ambrogio10 (gestita ora dai toscani Dell’Amore di Grandi
carriere di vecchi amici11; ora dalla signorina Colombo di Genova,
Fenicia d’Occidente12 o, per l’alter ego Ciccio Aricò, di Alèsia al
tempo di Li Causi13).
Un’immagine gli resta impressa in quella piazza «dei destini
incrociati», la sede del COI (Centro Orientamento Immigrati) con il
viavai incessante di arrivi e partenze di diseredati centro-meridionali
e la caserma della Celere scelbiana dalla quale non di rado escono
altri centro-meridionali14. In quel momento Consolo è fervente lettore
di letteratura, ma non scrive ancora. Traccia dell’impatto bruciante di
quella esperienza resterà – a distanza di tanti anni – in vari racconti
di datazione diversa confluiti nel suo ultimo libro, La mia isola è Las
Vegas, della cui curatela ho avuto la ventura di occuparmi. Il più
antico risale al 1978 (quindi, a circa 25 anni dopo): Grandi carriere di
vecchi amici15; gli altri – già citati – sono più tardi, del 2004: Genova,
Fenicia d’Occidente16; e del 2007: Alesia al tempo di Li Causi17.
Il flusso di migranti, l’estenuante emorragia di energie, sono per
ora visti dall’osservatorio di Milano nella fase di arrivo alla
destinazione finale o di tappa intermedia di smistamento verso altre
mete. Ma quando Consolo torna in Sicilia alla sua Sant’Agata – sono
i secondi anni Cinquanta18 – la prospettiva cambia, ma non la
sostanza del fenomeno. Consolo si dà per cinque anni
all’insegnamento nelle scuole Agrarie dei Nebrodi (Mistretta,
Caronia), e si rende perfettamente conto dell’assurdità del suo ruolo:
insegnare a giovani destinati a trovare sbocco lavorativo, non nelle
attività di una campagna nel frattempo abbandonata dai genitori già
emigrati, ma anch’essi a loro volta proprio nell’inevitabile
emigrazione.
È una realtà di graduale, inesorabile spopolamento che s’impone
anche a un maestro elementare della provincia di Caltanissetta
(Delia), compagno di scuola e amico fraterno di Leonardo Sciascia
e, più tardi, anche dello stesso Consolo: Stefano Vilardo, che intorno
a quegli anni Sessanta registra con un Gelosino delle interviste a
emigrati di Delia in Germania. Si direbbe una sorta di effetto Danilo
Dolci (col quale – sia detto en passant – ho collaborato negli anni
Settanta): il Dolci di Conversazioni (1962), Racconti siciliani (1963),
Chi gioca solo (1966), Conversazioni contadine (1966)19.
Le interviste di Vilardo, trascritte e riplasmate in poemetti narrativi
dalla lingua originalmente mescidata, prefate da Leonardo Sciascia
in chiave gramsciana, vedranno la luce nel 197520, ma una plaquette
di undici componimenti esce prima – curiosa coincidenza – nello
stesso numero della rivista in cui Consolo pubblica l’embrione del
suo intramontabile Sorriso21.
L’amarezza provata dal Consolo insegnante si riversa tale e quale
nell’Antonio Crisafi dell’incipit di La pallottola in testa del 1996,
personaggio che si sente quasi la controfigura del professor
Bernardino Lamis della novella L’eresia catara (1905) di Luigi
Pirandello22. Antonio Crisafi è – con le dovute tare – un emblema del
percorso biografico-lavorativo del Consolo di quel periodo. Nel
racconto si accenna a un «romanzetto d’ambiente contadino», al
posto vinto alla RAI di Milano, alle difficoltà d’inserimento nella
redazione culturale: insomma, sono le vicissitudini dei suoi anni
Sessanta (1963, La ferita dell’aprile; 1968, la presa di servizio a
Milano), l’incubazione siciliana (i contatti e le collaborazioni con
«L’Ora» di Vittorio Nisticò23, la frequentazione di Leonardo Sciascia
che nel 1965 Consolo riesce finalmente a far incontrare con Lucio
Piccolo, ecc.), poi la nuova, definitiva migrazione al nord.
Una volta tornato a Milano, Consolo è preso certo dalle attività di
funzionario RAI addetto ai programmi culturali, ma non
acriticamente: taccerà l’azienda di «fabbrica d’armi» e nel racconto
l’ambiente conflittuale è ben descritto24. Ma non dimentichiamo che
in quello scorcio di anni Sessanta si compirà la gestazione e uscirà –
è stato appena detto accennando a Tutti dicono Germania Germania
di Stefano Vilardo – l’Ur-Sorriso di «Nuovi Argomenti» (1969), cioè il
racconto eponimo, primo disvelamento del futuro Il sorriso dell’ignoto
marinaio (1976). Né dimentichiamo che un anno prima, a metà
gennaio 1968, la terra trema nella Valle del Belice e che la catastrofe
naturale ne determina un’altra sociale: una nuova migrazione biblica
verso il nord, l’ulteriore spopolamento, l’ennesimo dissanguamento
socioeconomico del sud.
I due fatti sono legati al riaccendersi dell’interesse consoliano per
le migrazioni. Ciò sarà più agevolmente comprensibile per il secondo
evento citato, il terremoto, che implica ondate di nuovi arrivi a
Milano. Meno, forse, per il primo, l’apparire del Sorriso primigenio.
Cominciamo perciò proprio dalla tradizione testuale di questo libro
ampiamente studiata nella mia edizione25 e, in particolare, dal
quaderno denominato Ms2, databile per vari indizi tra il 1968 (post
quem) e il 1971 (ante quem)26. In esso non solo sono tràditi lacerti
del Sorriso, come ad es. l’attestazione vetustiore dell’invito a
Palazzo Mandralisca del cap. I, e appunti di dati informativi
preparatori sul Mandralisca, Cefalù et similia27; ma anche materiali
che riguardano Aleister Crowley28, proprio il satanista di Nottetempo,
in quel momento messo però a fuoco solo per un reportage del
197129.
Inoltre, quel che più interessa ora, il quaderno Ms2 tramanda
quattro carte o fogli (24-27, recto e verso) con appunti preparatori di
un «Articolo Pioltello Limito», così annunciato (mano di Caterina
Pilenga) in copertina. Si tratta della griglia di domande e risposte, e
di altri dati riguardanti un’inchiesta su una comunità di originari di
Pietraperzia (Enna), emigrati tutti a Pioltello Limito (Milano)30.
Nello stesso quaderno (c. 23v), si notano poi, nella metà alta una
probatio pennae/calami in rosso, in quella bassa, sempre a biro
rossa, un appunto – dato curioso, e importante anche per la
datazione di Ms2! – di cui è protagonista Mario Soldati31. È l’incipit
del secondo comma di un articolo, Una ragazza e un poeta, scritto
per «L’Ora» (7 gennaio 1969), facente parte della rubrica Fuori casa
tenuta da Consolo per il giornale palermitano della sera dal dicembre
1968 al maggio 196932, e ripresa tutta in Esercizi di cronaca33,
donde si possono anche rilevare altri articoli attinenti al nostro
argomento.
È una sorta di galleria di personaggi che si barcamenano a Milano
tra attività diverse: Giuseppe Tuccio, fra l’insegnamento di disegno e
la pittura (Una musica stonata, 30 dicembre 1968); Gaetano
Manusè, un bancarellista con ambizioni di editore, che in effetti
pubblicò nel 1975 un’edizione da bibliofili del Sorriso che si ferma al
Cap. II ed è corredata da una incisione di Guttuso (L’arabo di
Caropepe, 3 febbraio 1969); Franco Trincale, il cantastorie che
traduce dal siciliano (Il cantastorie, 17 febbraio 1969) e poi si adatta
all’italiano veicolare del suo nuovo uditorio per cantare storie nuove,
le cronache operaie (Le avventure del “folkronista”, 24 febbraio
1969)34.
Tornando ora all’altro fatto rilevante degli ultimi anni Sessanta, il
terremoto, che comporta – ripeto – una recrudescenza delle
migrazioni, mi sono imbattuto in una chicca pubblicata nel sito web
ufficiale di Consolo, curato con amorevole solerzia da Claudio
Masetta35. Si tratta del paginone interno di una rivista, «Nuovo Sud»
(maggio 1969, datazione apposta da Caterina Pilenga), intitolato: Un
terremotato a Milano. È un racconto scandito sotto l’apparente forma
di otto didascalie numerate, collegate in rapporto biunivoco ad
altrettante fotografie di Ferdinando Scianna. Me ne sono occupato
estesamente in un volume offerto a un consolista illustre, Giulio
Ferroni36.
Vediamone almeno le prime tre scansioni:

[1] Sono nato a Salaparuta, di anni ventitré. Imparai il meccanico a Salemi,


sono pratico di Vespe e di Lambrette. Non mi ricordo niente, ho visto il cielo solo
per un attimo, sentii la gran tronata, e il muro che si aprì, le femmine sembravano
caprette di Natale. La zappa l’ho lasciata a chi la vuole, con la meccanica si
poteva espatriare.
[2] Salaparuta è vicina a Gibellina, poste su due colline. Le due case più alte
erano il castello e la madrice; al castello ci andai per qualche anno, per
frequentare la scuola elementare. C’erano i posti bui coi fantasmi, tutte le scritte
sporche sopra i muri.
[3] Anche a Milano ci sono posti bui; non so se i fantasmi. In questi sotterranei,
alla Stazione, i treni che passano di sopra fanno un rintròno come il terremoto.

Da un’apposita collatio non è difficile vederci le movenze della


pagina iniziale di L’olivo e l’olivastro (1994):

Sono nato a Gibellina, di anni ventitré. Imparai il meccanico a Salemi, non mi


ricordo niente, sentii un gran boato e il tetto che s’aprì, ho visto il cielo per un
attimo, le stelle. La zappa l’ho lasciata a chi gli pare, con la meccanica si può
espatriare.
Stava Gibellina sopra la timpa tutt’attorno al castello e alla chiesa, a San Nicola.
Al castello ci andai per la scuola: c’erano dammusi, catoi murati, passi e sospiri,
voci di spirti, d’anime legate.
Anche qui, in questi sotterranei alla stazione, i treni fanno un rintrono come il
terremoto.37

A distanza di cinque lustri, le presunte didascalie sono state


svincolate dalle foto, hanno conquistato piena autonomia narrativa,
sono state riplasmate secondo i moduli stilistici di Consolo, non
ultimo l’essenzializzazione.
Fin qui – a voler immaginare la carta geopolitica delle migrazioni
secundum Consolo – i testimoni scritti passati in rassegna
disegnerebbero e ribadirebbero lo scontato asse Sicilia-Milano con
vettori a raggera verso il Piemonte, la Svizzera, la Francia, il Belgio,
la Germania. È la mappatura dei movimenti e delle relative indagini
statistico-sociologiche del tempo.
Negli anni Settanta della scrittura consoliana, da un lato – nel
Sorriso (1976) – la migrazione stricto sensu è quella ottocentesca
dell’esilio degli anti-assolutisti, liberali e antimoderati38, in primis di
Giovanni Interdonato e altri (si chiamerebbero oggi migranti politici,
rifugiati, profughi?) in partenza per Malta: altro toponimo da
aggiungere alla nostra carta. Dall’altro – nel racconto del 1978 Amor
di madre è anche vendetta – la Germania fa da sfondo alla storia
tragica dell’emigrato di Licata a Colonia, che torna in Italia per
uccidere il giovane che ha investito incidentalmente la madre, poi
deceduta39. Sul filo della riflessione consoliana, al figlio vendicativo,
a questo Giuseppe Lombardo:

Non sono bastati […] gli anni passati in Germania, […] non sono bastati la
moglie tedesca e i tre figli […] a fargli capire che […] per ridare giustizia a
chiunque colpito da ingiustizia, nella società, c’è un organo istituito, che morte
contro morte, infine, non è giustizia, ma primordiale, barbarica vendetta.40

Nei successivi anni Ottanta di scrittura di Consolo risaltano


quattro racconti. Aprirei con L’emigrante, che calamita l’attenzione
più per la sua storia esterna che interna. In fondo riprende la
medesima narrazione sullo scenario già minutamente descritto in
precedenza: l’arrivo dei migranti a Milano Centrale, via Lambrate, il
tragitto in tram Servizio Speciale fino a Piazza S. Ambrogio, al COI,
l’impatto con la città tentacolare. Ma è not