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N. 5
COMITATO SCIENTIFICO
INTRODUZIONE
di Gianni Turchetta
GLI AUTORI
GIANNI TURCHETTA*
INTRODUZIONE
L’opera di Vincenzo Consolo e l’identità culturale del
Mediterraneo, fra conflitto e integrazione
1. Siciliano e milanese
Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e
girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare
in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne
nuove.
Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma
sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno
dei due sparisca.10
Consolo ha sempre in mente la Sicilia, ne parla sempre. Un po’ la
vuole, e un po’ però è lui il primo a non volerci tornare: la ama e non
la sopporta, la desidera e gli ripugna. Rappresentare la Sicilia da
lontano ha significato per lui anche vivere l’ossessione della Sicilia
nei termini, consapevolmente contraddittori di necessità del ritorno,
ma anche di impossibilità del ritorno. Significativamente, egli ha
reinventato il mito di Ulisse alla sua maniera, parlandoci di un Ulisse
che non ha più un’Itaca dove tornare, della quête ormai impossibile
di una patria e di un’origine che ormai non esistono più. Consolo è
ossessionato da questa sua patria che non è più quella di prima, che
non è più patria: ma parlando della Sicilia parla con ogni evidenza di
tutto un mondo dove la perdita delle radici è la regola, dove non è
più possibile affidarsi a un’appartenenza originaria, che rischia di
essere mistificata e mistificatoria.
Ma che Sicilia è la Sicilia di Consolo? Ancora una volta la
contraddizione è vitale: da un lato è una Sicilia costruita con
un’attenzione documentaria rigorosa. Da questo punto di vista,
Consolo si comporta in molti casi quasi come uno specialista, uno
storiografo di professione. Frequentando a lungo le sue carte ho
potuto vedere bene in che modo egli arrivasse a costruire i suoi testi
letterari, quasi sempre raccogliendo documenti e materiali vari per
anni. Nel caso del Sorriso dell’ignoto marinaio (la cui costruzione ha
richiesto tredici anni di lavoro) Consolo narra della cruenta rivolta
contadina di Alcàra Li Fusi, del maggio 1860, poi repressa con
violenza. Per ricostruirla non solo studia libri di storia, ma va in
archivio, cercando le carte di quella vicenda: si procura, per
esempio, i certificati di morte dei rivoltosi condannati alla fucilazione.
Quando infatti, alla fine del Sorriso, leggiamo proprio un certificato di
morte, quello del bracciante Peppe Sirna, non siamo davanti a
un’invenzione, ma a un documento autentico, che certo ha anche la
funzione simbolica di farci percepire il contrasto terribile fra la nuda
povertà di un certificato di morte, delle sue poche, gelide,
burocratiche parole, che sono un quasi-nulla, e la vigorosa intensità
della vita in corso, in particolare quella che avevamo percepito nel
cap. V, dove la rappresentazione passa proprio attraverso il punto di
vista di Peppe Sirna, messo in scena nelle sue fatiche, nelle sue
percezioni e nei suoi pensieri.
Consolo lavora così in molte occasioni: raccoglie i materiali come
uno storiografo e si confronta con la documentazione, nella sua
oggettività. Ma al tempo stesso non smette di mostrarci la
soggettività di ogni punto di vista e la prospetticità di ogni visione del
mondo. La Sicilia che egli rappresenta è del resto sì concretissima,
ma può essere anche sottoposta a una torsione mitizzante che la
rende persino fiabesca, come accade soprattutto in Lunaria, ma
anche in Retablo. In ogni caso, la sua Sicilia è, come dire?, una
Sicilia-Sicilia, fedele alla propria identità, ma al tempo stesso non
cessa di essere anche “altro”, di funzionare come una metafora ad
alta densità, dotata di una energica tensione generalizzante. Anche
la Sicilia di Consolo, com’era accaduto alla Lucania di Carlo Levi, si
fa intensa rappresentazione del Sud del mondo e dei processi di
modernizzazione che distruggono il mondo contadino: li vediamo
all’opera in Italia, ma anche in tante altre nazioni, soprattutto extra-
europee. Anche se ci parla di come i processi di modernizzazione
stiano distruggendo molte civiltà, in Consolo non c’è mai un
atteggiamento nostalgico, la facile retorica sui bei tempi andati. È
necessario ricordare, a questo proposito, come lo stesso pluri-
linguismo consoliano nasca dall’intenzione di conservare, attraverso
la letteratura, parole che rischiano di perdersi, e, attraverso le parole,
le culture, i punti di vista sul mondo, i modi di vita che esse portano
in sé. Nella scrittura di Consolo vi è insomma una grande
preoccupazione antropologica, oltre che storica, coerentemente con
la sua costante attenzione alla longue durée.
Parlando della Sicilia Consolo ci racconta una storia drammatica,
anche perché molte volte i cambiamenti sono parsi offrire delle
possibilità di rinnovamento, di liberazione, che poi però sono andate
perdute e hanno deluso. Al di qua e al di là della Storia, per Consolo
la Sicilia è però anche una densa metafora dell’ambivalenza della
vita. In fondo in Sicilia c’è tutto quello che si potrebbe desiderare per
essere felici: una cultura millenaria, con straordinari monumenti,
dalla protostoria alla Magna Grecia, dalla romanità al Medioevo, al
Barocco, al Liberty; una natura rigogliosa e varia; una cultura
stratificata e ricchissima; anche, perché no?, una cucina tra le più
raffinate del mondo. Detto in due parole, la Sicilia potrebbe forse
essere il migliore dei mondi possibili. Eppure per molti versi è quasi il
contrario: è un mondo tragicamente violento e corrotto, pieno di
orrori, tanto da rendersi persino proverbiale, visto che nel mondo
intero è proprio una parola siciliana, mafia, a indicare tutte le forme
di criminalità organizzata. Rispetto alla rappresentazione
dell’ambivalenza della Sicilia, Retablo11 è un testo esemplare: vi
troviamo deliziosi incontri tra amici e nuove amicizie che nascono;
ma al tempo stesso assistiamo alla rappresentazione di un orrore
innominabile, senza fine. Si pensi, fra le altre, alla scena delle
prostitute a cui per punizione viene tagliato il naso12. Una violenza
atroce, quella delle mutilazioni come pena legale, che si praticava
nel mondo passato, certo (e dunque… come idealizzarlo?): ma che
continua ad accadere ancora oggi in non poche parti del mondo…
La Sicilia appare dunque in Consolo come un luogo in cui vi è tutto il
male e tutto il bene, ed è di conseguenza anche per questo
un’immagine della vita tutta, un luogo «bellissimo e tremendo», per
riprendere un’espressione di Consolo stesso13. La Sicilia si fa
insomma metafora della vita, della sua bellezza straordinaria e della
sua terribile violenza, che convivono. D’altro canto, Consolo non
cade mai in un vizio tipico dei letterati: quello di collocare tutto in «un
tempo senza tempo», di parlare di ogni violenza e di ogni tristezza
come di qualcosa di eterno, segno di un destino immodificabile e
senza scampo. Non a caso del resto Consolo polemizza duramente
con chi, come Tomasi di Lampedusa, pensa che la Storia sia
inesorabilmente uguale a se stessa, che in essa «cambia tutto»
perché «non cambi niente». Tutt’al contrario, Consolo ci ricorda in
continuazione che i cambiamenti sono storicamente determinati: e
che quindi bisogna continuare a combattere per provare a cambiare.
Il Mediterraneo oggi, forse per la prima volta nella propria storia millenaria vede
intaccato il mito che costantemente lo ha accompagnato, quello della culla delle
culture, delle civiltà, delle tre grandi religioni monoteistiche, per vederlo sostituire
da un mito sommario, cumulativo, a grappolo, quasi, ed è quello che presenta il
Mediterraneo come un mare pericoloso21
Ringraziamenti
[…] e i chierici, quelli senza l’ordine / che giocavano un i giovanotti / sui 20 anni
che insegnavano / storia o geografia o francese/ e giocavano al pallone con i /
ragazzi […]5
Oserei persino dire che chi ignora l’importanza dei Miserabili per la formazione
della coscienza individuale e collettiva di due o tre generazioni, non ha capito
niente dell’Europa.9
Per bisogno o nostalgia dunque d’una mitica epoca felice, epoca d’armonia
sociale, di dialogo e reciproco scambio tra etnie, religioni, lingue, culture diverse (a
Palermo v’erano allora trecento moschee, chiese di rito greco e latino, sinagoghe
ebraiche), nacque, negli intellettuali siciliani moderni il vagheggiamento di
quell’immaginaria patria che fu la Francia. Desiderata anche perché vivevano in
un’isola di perenne infelicità sociale, di oscurantismo culturale, in una terra di
ribellismi popolari sempre ferocemente repressi e che nessun cambiamento
apportavano; desiderata, la Francia, per l’illuminismo, il giacobinismo, per la
Rivoluzione che là s’era compiuta.22
Non potevo dirgli [al barone Lucio Piccolo], soprattutto, che lì in Sicilia mi
sembrava tutto finito, senza speranza, che a Milano, al Nord avevo la sensazione
che tante cose si muovessero, che stesse per iniziare una nuova storia.24
Ma gli inverni climatici non sono che metafore degli inverni della storia, di quelle
tenebre fredde in cui tante volte si sono persi ragione, pietà, solidarietà, civile
convivere, regole e lingua. Sono questi gli inverni della prevalenza dei barbari,
delle devastazioni, delle carestie e delle pesti, gli inverni in cui emergono i feroci
egoismi, le violenze, le ingiustizie, le menzogne, i fanatismi, le demagogie […] 36
Sicilia, Sicilia mia, mia patria e mia matria, matria sì perché è lei che mi ha dato
i natali, mi ha nutrito, mi ha cresciuto, mi ha educato.48
Ora mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in
Contemplazione, statico e affisso a un’eterna luce, o vagante, privo di peso,
memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminati e vani, scale, fra mezzo a
chiese, palazzi di nuvole e di raggi. Mi pare (vecchiaia puttana!) ora che ho l’agio e
il tempo di lasciarmi andare al vizio antico, antico quanto la mia vita e pure avanti,
di distaccarmi d’ogni reale vero e di sognare20.
Con la citazione dell’Algeria, prendendo spunto dalla moschea che c’è a Parigi
e dalla sosta che fa il protagonista nel giardino della moschea, ho voluto dire della
distruzione della civiltà mediterranea, della cancellazione della nostra cultura, che
avviene in modo anche visibile e atroce, come appunto in Algeria o nella ex-
Jugoslavia47.
Sciascia si riferiva solo alla mafia, mentre io sento questo spasimo (in
progressione, da Palermo alla Sicilia, al mondo) come distruzione della civiltà,
come passaggio epocale, perché questa grande rivoluzione tecnologica che ci
schiaccia e ci annulla è il mondo della sottocultura, dello spettacolo, della
canzonetta, dove nessuno è se non appare52.
Non scrivo più nemmeno dediche61; sai bene che non sono più uno scrittore, se
mai lo sono stato62; ho assoluta ripugnanza, in questo stordimento, nell’angoscia
mia e generale63; sarebbe riuscito forse a scrivere d’una realtà storica… fuori da
ogni invenzione, finzione letteraria. Aborriva il romanzo, genere questo scaduto
corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti erano i suoi in una diversa lingua,
dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio64.
Nel nostro contesto le voci nuove possono essere quelle di quanti arrivano qui e
diventano, se non in questa generazione forse nella prossima, italianofoni,
portando fantasia e immaginazione, come è successo in Francia e in Inghilterra.
Speriamo che i figli dei nostri clandestini possano arrivare ad esprimersi e
diventare scrittori e poeti, arricchendo così la nostra letteratura. Nella quale vedo
un prosciugamento senza rimedio91.
l’intensità del suo amore per il mondo… Il progressivo incupirsi della sua visione
non deve indurci a sottovalutare un altro aspetto fondamentale delle sue scritture:
l’instancabile, attentissima, partecipe valorizzazione degli infiniti aspetti del mondo,
e più ancora dei soggetti che lo abitano, che giorno per giorno lo fabbricano95.
1 Il libro fu pubblicato nel 1990 in occasione della 42° sessione del “Premio
Italia” della RAI, che si tenne in Sicilia. Il saggio di Consolo si intitola Kore
risorgente. La Sicilia tra mito e storia, in Vincenzo Consolo, Cesare De Seta,
Sicilia teatro del mondo, fotografie di Giuseppe Leone, ERI, Torino 1990).
L’anno successivo l’opera fu pubblicata in edizione economica col titolo La
Sicilia passeggiata, ERI, Torino 1991.
2 Cfr. V. Consolo, Sicilia paseada, Ediciones Taspiés, Granada 2016, pp. 9-14.
3 V. Consolo, La grande vacanza orientale-occidentale, in «Alias», 7 agosto
1999, pp. 12-13; poi in un volumetto autonomo in trentaduesimo, Dante &
Descartes, Napoli 2001.
4 V. Consolo, Sicilia paseada, cit., p. 12.
5 Ivi, p. 13.
6 Giuseppe Traina, Vincenzo Consolo, Cadmo, Fiesole 2001, p. 32.
7 Salvatore Mazzarella, Dell’olivo e dell’olivastro, ossia d’un viaggiatore, in
«Nuove Effemeridi», a. VIII, n. 29, p. 58.
8 V. Consolo, La Sicilia passeggiata, cit., p. 5.
9 Cfr. Sebastiano Burgaretta, L’illusione di Consolo e la Sicilia paseada, in
«Notabilis». a. IX, n. 3, maggio-giugno 2018, pp. 26-28.
10 V. Consolo, Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1988, p. 179.
11 Ivi, pp. 154 ss.
12 V. Consolo, Aurelio Grimaldi (a cura di), ‘Nfernu veru. Uomini e immagini dei
paesi dello zolfo, Edizioni Lavoro, Roma 1985; poi in V. Consolo, Di qua dal
faro, Mondadori, Milano 1999.
13 V. Consolo, La pesca del tonno in Sicilia, Sellerio, Palermo 1986; poi in V.
Consolo, Di qua dal faro, cit.
14 V. Consolo, Vedute dello Stretto di Messina, Sellerio, Palermo 1986.
Sull’attenzione dello scrittore allo Stretto di Messina cfr. V. Consolo, Nuccio
Rubino (a cura di), Fra contemplazione e paradiso. Suggestioni dello Stretto,
Sicania, Messina 1988; poi in V. Consolo, Di qua dal faro, cit.
15 Era uscito sul «Messaggero» del 30 novembre 1993.
16 Cfr. V. Consolo, Così la Sicilia ingrata tradì il paladino Mimmo, in “Il
Messaggero”, 8 gennaio 1995; Id., Retablo siciliano, in Sebastiano
Burgaretta, Retablo siciliano. I colori dell’epos nella Casa-museo “Antonino
Uccello”, catalogo dell’omonima mostra tenutasi al Museo Teatrale alla Scala.
Museo Teatrale alla Scala, Milano 1997, pp. 17-20.
17 V. Consolo, La rinascita del Val di Noto, introduzione al volume fotografico di
Giuseppe Leone, Il barocco in Sicilia. La rinascita del Val di Noto, Bompiani,
Milano 1991; poi in V. Consolo, Di qua dal faro, cit.
18 Cfr. Miguel Ángel Cuevas, Introdución, in V. Consolo, A este lado del faro,
Editorial Parténope, Valencia 2008, p. 10.
19 V. Consolo, Di qua dal faro, Mondadori, Milano, p. 283.
20 V. Consolo, Nuccio Rubino (a cura di), Fra contemplazione e paradiso.
Suggestioni dello Stretto, cit., p. 7.
21 V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Mondadori, Milano 1994, p. 106.
22 Ivi, p. 113.
23 Ivi, p. 18.
24 V. Consolo, Di qua dal faro, cit., p. 39.
25 Cfr. Sebastiano Burgaretta, I saggi di Consolo, un commento ai suoi
romanzi; in «Stilos», 23 novembre 1999.
26 Cfr. Sebastiano Burgaretta, La parola che salva, in «Annali 12», a. XX, 2003,
Centro Studi Feliciano Rossitto, Ragusa 2004, pp. 298-299; Id., Il beato
Antonio Etiope, profeta dell’accoglienza, nel rinnovato culto degli avolesi, in
Id., Uomini e santi, Armando Siciliano Editore, Messina-Civitanova Marche in
corso di stampa, pp. 102 ss.
27 Mariza D’Anna, I “dialoghi mediterranei”, in «La Sicilia», 13 settembre 2018.
28 Gioacchino Amato, Attenti al rischio intolleranza; il virus sta sconvolgendo la
natura del popolo siciliano, in «la Repubblica», 21 agosto 2018.
29 V. Consolo, Luigi Manconi (a cura di), Perché non ha senso essere razzisti,
in «Sette» del «Corriere della Sera», 26 novembre 1992, p. 38.
30 Domenico Calcaterra, Vincenzo Consolo. Le parole, il tono, la cadenza,
Prova d’autore, Catania 2007, p.174.
31 Roberto Andò, Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura, in
«Nuove Effemeridi», cit., p. 12.
32 V. Consolo, Ai disperati non servono musei, in «la Repubblica», edizione di
Palermo, 22 agosto 2004.
33 Cfr. Antonino Cusumano, I migranti senza valigie nelle stanze della memoria,
in «Dialoghi Mediterranei», n. 35, gennaio 2019.
34 Giovanna Giordano, “Il libro? Deve ferire”, in «Giornale di Sicilia», 24
dicembre 1988.
35 V. Consolo, Di qua dal faro, cit., p.213.
36 Ivi, p. 215.
37 Ivi, p. 239.
38 Francesco Merlo, La nave della resistenza, in «la Repubblica», 23 agosto
2018.
39 Fernand Braudel, Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, vol. I,
Einaudi, Torino 1976, pp. 921-922.
40 V. Consolo, Il Mediterraneo tra illusione e conflitto nella storia e in letteratura,
in Gaetano Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per
costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, in «Fogli
d’informazione», terza serie, nn. 13-14, gennaio-giugno 2010, p. 7.
41 V. Consolo, Di qua dal faro, cit., pp. 217-222; cfr, inoltre, Flaviano Pisanelli,
Alfonso Campisi (a cura di), Memorie e racconti del Mediterraneo:
l’emigrazione siciliana in Tunisia tra il XIX e il XX secolo, Mc éditions, Tunisi
2015, A. Campisi, Il pericolo è alle “nostre porte”. L’invasione siciliana in
Tunisia tra il XIX e il XX secolo, in «Dialoghi mediterranei»,
www.istitutoeuroarabo.it, n. 33, settembre 2018.
42 Cfr. I muri d’Europa, in www.nuovosoldo.it.
43 Cfr. V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Mondadori, Milano 1992,
pp.173-175; cfr. Giuseppe Traina, Vincenzo Consolo, cit., p. 33.
44 V. Consolo, Memoriale di Basilio Archita, in Id., Le pietre di Pantalica, cit., pp.
187-195. Il racconto, ispirato a un fatto di cronaca, era già uscito, quattro anni
prima, con il titolo E il capitano ordinò: buttateli agli squali! in «L’Espresso», 3
giugno 1984, pp. 55-64.
45 Flora Di Legami, Vincenzo Consolo, Pungitopo, Marina di Patti 1990, p. 43.
46 V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Mondadori, Milano 1998, pp. 40-41.
47 Gianni Bonina, In nome della nostra legge, in «La Sicilia», 27 settembre
1998.
48 Cfr. Sebastiano Burgaretta, L’illusione di Consolo, cit.
49 V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit., p. 125.
50 V. Consolo, Il boato di Santa Rosalia, in «L’Unità», 6 agosto 1998.
51 Leonardo Sciascia, La palma va a nord, Gammalibri, Milano 1982.
52 Gianni Bonina, art. cit.
53 Gianfranco Marrone, Consolo risveglia l’eco di parole dimenticate, in
«L’Ora», 14 aprile 1992.
54 Cesare Medail, C’era il diavolo a Cefalù. Ma poi arrivò Mussolini, in «Il
Corriere della Sera», 21 marzo 1992.
55 Oreste del Buono, Sicilia con furore, in “Panorama», 16 ottobre 1988, p. 137.
56 Andrea Rossi, Il “contastorie” del bel tempo che fu, in «Grazia», 30 ottobre
1988, p. 97.
57 Dante Alighieri, Purgatorio, VI, vv. 125-126.
58 Massimo Onofri, I miracoli della poesia, in «Diario della settimana», 7 ottobre
1998.
59 Luca Canali, Che schiaffo la furia civile di Consolo, in «L’Unità», 7 ottobre
1988.
60 Dalla registrazione del discorso che Consolo tenne ad Avola l’11 dicembre
1998, in occasione della presentazione, da me organizzata, dello Spasimo di
Palermo. Cfr. anche L. Faraci, Ho scritto il romanzo per narrare le nostre
perdite, in «La Sicilia», 13 dicembre 1998.
61 V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 37.
62 Ivi, p. 91.
63 Ivi, p. 88.
64 Ivi, p. 105.
65 Ivi, p. 91.
66 Ivi, pp. 127-128.
67 Ibidem.
68 Concetto Prestifilippo, Parole contro il potere. Vincenzo Consolo, ritratti e
lezioni civili, Navarra Editore, Marsala 2013, p. 69.
69 Ivi, pp. 129-130.
70 Ivi, p. 93.
71 Cfr. Sebastiano Burgaretta, Il Gran Lombardo schiavo dell’utile, in «La
Sicilia», 10 dicembre 1998.
72 V. Consolo, Tu non mi avrai, città dei leghisti, in «Il Messaggero», 20 giugno
1993.
73 V. Consolo, Fuga dall’Etna, Donzelli Editore, Roma 1993, p. 5.
74 Ivi, p. 4.
75 Ivi, pp. 68-69.
76 V. Consolo, Di qua dal faro, cit., p. 197; cfr. N. Messina, Consolo fra scrittura
letteraria e “di presenza”, in Irene Romera Pintor, España e Italia:el Siglo XX,
Fundación Updea Publicaciones, Madrid 2018, pp. 133 ss.
77 V. Consolo. Fuga dall’Etna, cit., p. 69.
78 Cfr. Sebastiano Burgaretta, La nota dissonante, in «Il Giornale di Scicli», 9
febbraio 2003.
79 Miguel de Unamuno, Ensayos, tomo I, Aguilar, Madrid 1966, p. 849.
80 Ivi, p. 855.
81 Miguel de Unamuno, Ensayos, tomo II, Aguilar, Madrid 1966, p. 373.
82 Concetto Prestifilippo, op. cit., p. 8.
83 Ivi, p. 12.
84 Ivi, p. 13.
85 V. Consolo, Fuga dall’Etna, cit., p. 70.
86 Cfr. la nota n. 59.
87 Cfr. l’epigrafe in esergo con la citazione dal Prometeo incatenato di Eschilo.
88 Massimo Onofri, Nel magma italiano: considerazioni su Consolo scrittore
politico e sperimentale, in A A. V V. Per Vincenzo Consolo, a cura di Enzo
Papa, Manni, San Cesario di Lecce 2004, p. 66.
89 Concetto Prestifilippo, op. cit, p. 27.
90 V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., p. 235.
91 Gianni Bonina, art. cit.
92 Piersandro Pallavicini, Jadelin Mabiala Gangbo (a cura di), L’Africa secondo
noi, Edizioni dell’Arco, Pavia 2002.
93 C’è da segnalare che da una ventina d’anni si va sviluppando in Italia una
letteratura che è opera di immigrati che scrivono adottando la lingua italiana.
Tra di essi sono Pap Khouma, Saidou Moussa Ba, Mohamed Bouchane,
Mbacke Gadji, Amara Lakhous, Igiaba Scego e altri.
94 Cfr. Sebastiano Burgaretta, I saggi di Consolo, un commento ai suoi
romanzi, in «Stilos», art. cit.
95 Gianni Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera
completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta, e con uno
scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. LXXIV.
96 V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 131.
97 Leonardo Sciascia, Il cavaliere e la morte, Adelphi, Milano 1988, pp. 90-91.
98 Cfr. Luigi Bolognini, Ghali:“Dovrei esser pieno di amici, invece ne ho persi la
metà, in «la Repubblica», 11 settembre 2018, p. 35; Idem, Ghali a San Vittore
“Voglio dare voce a chi non ce l’ha”, in «la Repubblica», 15 marzo 2019; Gino
Castaldo, Lasciatemi cantare, sono un italiano di nome Ghali, in « la
Repubblica», 29 dicembre 2018, p. 34.
99 Cfr. Carlo Moretti, Mahmood “Faccio Morocco pop nel segno di mio padre”,
in «la Repubblica», 6 febbraio 2019, p. 32.
100 Cfr., fra l’altro, Andrea Laffranchi, Mahmood: italiano al 100°/° cresciuto in
periferia tra i cantautori di mamma e la musica araba di papà, in «Corriere
della Sera», 11 febbraio 2019, p. 13; R. Franco, Sanremo, polemiche e veleni
sulla finale. E la politica “sale” sul palco dell’Ariston, Ivi, p. 12; Silvia
Fumarola, Sanremo, Mahmood l’italiano trionfo che spacca la politica, in «la
Repubblica», 12 febbraio 2019, p. 2; Luigi Bolognini, Nella periferia di
Mahmood “È il mio mondo, io resto qui”, in «la Repubblica», 18 febbraio
2019, p. 18; Giuseppe Videtti, Come va, come va, come va?, in «il Venerdì di
Repubblica», 5 aprile 2019, pp. 16-23; Luca Valtorta, Mahmood. Ecco il tour;
in «la Repubblica», 21 aprile 2019, pp. XXIV-XXV.
101 Cfr. Sebastiano Burgaretta, Alle soglie del témenos, in Massimo Maugeri (a
cura di), Letteratitudine 3, LiberAria Editrice, Bari 2017, p. 350, poi in Id., Alle
soglie del témenos, le fate editore, Ragusa 2021; Id., L’illusione di Consolo e
la Sicilia paseada, cit., p. 28.
MIGUEL ÁNGEL CUEVAS*
DUE INEDITI E ALTRE QUESTIONI CONSOLIANE
A PROPOSITO DEL TEMPESTOSISISSIMO
STEFANO D’ARRIGO
Là, nella libreria D’Anna, incontrai, nell’estate del ’61, Stefano D’Arrigo. Un
uomo inquieto, in fuga, mi sembrò […]. «Devo andare al Faro, ad Acqualatroni, per
verificare alcune parole, alcuni modi di dire» comunicò a Giulio [D’Anna]. Ed io,
facendomi ardito, gli parlai del suo I giorni della fera, apparso nel «Menabò» 3 di
Vittorini e Calvino l’anno prima. E dissi del Glossario e della Notizia su di lui stilata
da Vittorini, in cui diceva che non aveva nessuna simpatia per i dialetti meridionali,
ché essi erano poco raccomandabili ai fini d’uno sviluppo moderno della lingua e
della letteratura… / «Ah, questo fiorentino, questo “rondista”! Non ha capito, non
ha capito! Vedrà, vedrà… I giorni della fera è diventato ora un’altra cosa, ora si
chiama Horcynus Orca, vi lavoro e vi lavoro da anni, come un dannato…» / E mi
disse poi […] di andarlo a trovare, se fossi capitato qualche volta a Roma. E così
feci, l’andai a trovare, in via Dell’Assietta […]. Mi fece accomodare nello studio,
dove, sulle pareti, erano appesi i fogli delle bozze del suo grande romanzo, fogli a
cui erano incollate lunghe strisce di carta che arrivavano fino a terra, dov’erano le
aggiunte, le varianti. Rimase in silenzio per più di mezz’ora. Poi, D’Arrigo,
cominciò a parlare, e fu un flusso inarrestabile di ricordi, di sentimenti e di
risentimenti. / «Ma tu – mi disse – perché non scrivi? In Sicilia, basta grattare con
le mani e si trovano storie straordinarie». Mi trattenni per pudore dal dirgli che
stavo lavorando a un romanzo, in cui, nonostante la diffidenza di Vittorini, mi aveva
guidato la sua lezione insieme a quella di Gadda, di Pasolini…11
Proprio sul quaderno che contiene la prima versione manoscritta
di questo romanzo, I padri putativi, titolo provvisorio de La ferita
dell’aprile, si legge l’abbozzo (anzi gli abbozzi) di una lettera a
D’Arrigo, titubante e spinta insieme:
Parlando di Gadda su «Vie Nuove» […] [vi] trovavo […] dei tipi diversi […] di
usare il dialetto […] [tra cui] «una serie di tipi d’uso dialettale di specie verghiana:
implicanti cioè una regressione dell’autore nell’ambiente descritto, fino ad
assumerne il più intimo spirito linguistico, mimetizzandolo incessantemente, fino a
fare di questa seconda natura linguistica una natura primaria, con la conseguente
contaminazione».
Questa la formula definitoria, che, mentre descrive solo in parte Gadda,
descrive me interamente.15
Il vento correva per lo Stretto inventando spume, spirali, colombelle, onde sui
chiari capelli scarmigliati, screziature negli occhi acquamarina delle donne. Dina e
Clarenza, fanciulle d’oro, tra il leone e il gallo, con tocchi di campana all’erta
richiamano gli Alaimi (…briga e travaglia / A chi Messina vuol guastare24). [/] Città
precaria, coloniale, di colonia dell’esistere. Tornavano i giorni fermi di luglio con
fondali stupefatti d’Antonello e castelli incantati sopra l’acqua, notti coi fuochi sui
colli di San Rizzo. [/] All’arena, don Venerando impreca, grida, piange per la morte
a tradimento degli eroi a Roncisvalle. Gorgoglia il riso in gola a donna Giovanna
tra il fumo dei piatti di pescestocco a’ ghiotta. [/] Da lontri e feluche, con fare greco
ammaliano il pescespada a fiore d’acqua, gridano: «Manosso, stringhela, manono,
mancato!»25 [/] Lu mari è vecchiu assai. Lu mari è amaru. A lu mari vôi truvari
funnu?26 [//] Nelle notti d’agosto, negli smalti bizantini di Ganzirri, si gonfiano le
cozze ai raggi della luna. Alle fontane di Giostra e di Zaera, furiosamente litigano
le donne. [/] Ad Acqualatroni… «Dopo la Grande Guerra le fere rispuntarono in
quei paraggi di mare nel ’35, sulla scia delle navi che navigando verso l’Abissinia
tagliavano per lo stretto»27. [/] E poi quella striscia di mare fu un inferno con fere e
bestine camicienere e l’Orca che tutto distrusse e tutto divorò. [/] E di nuovo nella
città di mare, nel cortile di sterro e palizzate vorticavano bambini appesi alle corde
della giostra. I pescatori di Pace, Paradiso e Contemplazione tiravano nelle
sciabiche gli ultimi cadaveri in divisa. [/] La lingua di mare tra Scill’e cariddi,
profondo, abissale, canale e oceano, ritorna teatro, di vita e morte, amore,
disperazione, speranza, storia e mito. Le reme correvano impassibili, dall’una
all’altra sponda, e i bastardelli. «Questi bastardelli – chi ci bazzica lo sa e quelle
abitué del passo di mare dovevano saperlo bene – sono spurghi e rifiuti della
corrente-madre, sia calante sia montante, correntelle di verso snaturato, che dalla
rema viva che le figlia, si girano all’indietro zigzagando fresche, fresche nella rema
morta; di là ritornano28 al punto di partenza, quindi ne ripartono, andando e
venendo, sempre sull’orlo, fuoriletto, diramandosi come canaletti navigabili per
velieruzzi, barcacce e caicchi, ma dove anche una lancia rispettabile come la
palamitara si porta comoda». [/] Stefano si muoveva incantato per la città, i giorni,
le lunghe notti, per le strade, il porto, le battigie. S’inventava i nomi delle vie,
piazza del Popolo la chiamava Stellaria, per la poca luce e lo sfavillio di stelle: [/]
Sirio in questa notte [/] e tu che pensi ai chiari [/] vapori d’ottobre [/] spiumi lieve [/]
come i volatili d’Africa [/] sulle vigne basse del litorale… [/] E s’accaniva all’enigma
del mare-madre: cercò nelle reliquie dissotterrate del parlare stratificato dei
pescatori pelli-squadra la chiave del mistero.
l’operazione linguistica non si può, è chiaro, staccare dalla realtà, dalla materia
trattata. Ora, credo che quella di D’Arrigo sia una realtà che appartiene
all’eventografia, mentre quella mia alla storiografia. Questo vuol dire che D’Arrigo
tratta di temi assoluti, eterni […] mentre io tratto di temi temporali […] che egli
quindi si serve di simboli, mentre io di metafore; che egli crede nel romanzo, nella
letteratura, nella scrittura, mentre io [ne] dubito […]. D’Arrigo, nel dilemma tra il
vivere e lo scrivere, ha scelto coraggiosamente, totalmente lo scrivere.40
D’un côte, certains écrivains […] ont choisi une langue rationnelle et
comunicative qui exprimait l’espoir de la naissance d’une société plus civilisée.
D’autres écrivains ont préféré s’exprimer dans une langue que j’appelle «du
désespoir», une langue très expressionniste. De Verga jusqu’à Gadda, en passant
par Pasolini, Meneghello ou D’Arrigo, les écrivains qui ont choisi cette option
forment une tradition à laquelle je suis heureux d’appartenir.52
* Universidad de Sevilla
1 Nella minuta della lettera, anziché «tempestosissimo» si legge
«insormontabile» (due cartelle dattiloscritte, apertura e chiusura manoscritte
a biro nera, datate «Milano, 23 luglio 2000», conservate presso l’Archivio
Vincenzo Consolo nella Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori di Milano
(d’ora in poi AVC). Questo contributo integra, assieme a nuovi sondaggi e
testimonianze, delle osservazioni presenti in Miguel Ángel Cuevas, Consolo e
la bufera linguistica di Stefano D’Arrigo, in Id., et al. (eds.), España e Italia: un
viaje de ida y vuelta. Studia in honorem Manuel Carrera Díaz, EUS, Sevilla
2020, pp. 113-122.
2 Cfr. Francesca Boarini, Da Camilleri a D’Arrigo: un colloquio con Moshe
Kahn, in «Quaderni camilleriani», 3, 2017, pp. 36-45, p. 44; cfr. anche
l’intervista di Davide Orecchio, Moshe Kahn: come ho tradotto «Horcynus
Orca», in «Nazione indiana», 29-9-2016. Mie versioni castigliane di diverse
pagine del romanzo di D’Arrigo nel film documentario Messina di Benjamin
Geissler, coproduzione italo-tedesca partecipata dalla Sicilia Film
Commission della Regione Siciliana, 2016.
3 V. Consolo, Lasciò il mare per la terra, l’esistenza per la storia, in «Il
Messaggero», 18-11-1981; ora in L’ora sospesa e altri scritti per artisti, a cura
di Miguel Ángel Cuevas, Le Farfalle, Catania 2018, pp. 104-109, p. 105.
4 Di fronte alle 71 occorrenze del sostantivo unico con cui si dà nome nel
romanzo all’incontro-scontro tra Tirreno e Ionio nello Stretto di Messina, il
sintagma descrittivo “due mari” ricorre solo 21 volte; l’edizione di riferimento
di Horcynus Orca (Mondadori, Milano1975) resta quella curata da Walter
Pedullà (Rizzoli, Milano 2003; ora Rizzoli [BUR], Milano 2017).
5 Invece, il nome alternativo ricorre sempre così, staccato e in minuscolo, ben
225 volte.
6 Cfr. V. Consolo, Quei libri «veri» in uno scrigno [in morte di Fausto
Flaccovio], in «L’Ora», 30-9-1989.
7 Cfr. l’introduzione di Walter Pedullà a Stefano D’Arrigo, I fatti della fera (a
cura di Andrea Cedola e Siriana Sgavicchia, Rizzoli, Milano 2000), la
versione del ’61, bozza del testo definitivo.
8 V. Consolo, I ritorni, in «Quaderni del Dipartimento di Scienze dell’Antichità
dell’Università di Padova», 2, 1997, pp. 7-29.; confluito in Di qua dal faro,
Mondadori, Milano 1999; ora in L’opera completa, a cura di Gianni Turchetta,
Mondadori, Milano 2015, pp. 1114-1121; la citazione a pp. 1119s.
9 M. De Martino, Incontro con Vincenzo Consolo, in «Malvagia. Trimestrale
della cultura sommersa», 31, 1989, pp. 3-8, p. 4.
10 Cfr. V. Consolo, Da Siracusa alle città del mondo, in AA. VV., Letture critiche.
Siracusa come un’infanzia, Istituto Superiore di Studi Umanistici, Siracusa
2006, pp. 35-41, p. 39. Dopo un’allusione di passaggio (nell’81) allo
«scontroso coltivatore di miti, malcelato amatore di canti di sirene […]
d’attivismo e industria per l’uomo […] [che] invece […] distruggeva per
sempre un mondo e lasciava […] i detriti d’una cultura ormai defunta» (La
casa di Icaro, confluito ne Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1988; ora
in L’opera completa, cit., pp. 582-589, p. 584), si direbbe che è proprio in
questo saggio del 2006 dove Consolo tira le somme rispetto al «mito» in
questione, ovvero con un Vittorini che «arriva fino alla bestemmia letteraria [:]
“il nostro schifosissimo Verga, il più reazionario tra gli scrittori moderni” scrive
in Le due tensioni» (ivi, p. 41). La posizione prospettivista vittoriniana è
schiettamente definita nella citazione, tratta sempre dal libro postumo, di
seguito riportata: «“ciò che interessa l’autore non è una mimesi della realtà
[…], ma una utilizzazione della realtà che possa rendere inmediatamente,
subito, e costituire subito, per le forze storiche, un’arma, uno strumento di
trasformazione, o insomma una chiamata a trasformare”», ibidem). Forse già
il Consolo dei primi ’60, ma certo lo scrittore maturo si trova senz’altro più
vicino allo sperimentalismo della poetica mimetica pasoliniana: «[…]
nell’immergermi nel mondo dialettale […] porto con me una coscienza che
giustifica la mia operazione […] coscientemente politica […] [che] in me,
scrittore, non può che farsi mimesis linguistica, testimonianza, denuncia,
organizzazione interna della struttura narrativa secondo un’ideologia
marxista, luce interna. Mai però letteratura di fiancheggiamento all’azione,
edificante, prospettivistica. L’ottimismo, la speranza aprioristica sono sempre
dati superficiali […]» (Pier Paolo Pasolini, La mia periferia [intervista], in
«Città aperta», 7-8, 1958, pp. 30-32; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte,
a cura di Walter Siti et al., Mondadori, Milano 1999, vol. II, pp. 2727-2733, p.
2733). Ancora nel 2004 (nel convegno di studi Per i 70+1 anni di V.C.,
all’Università di Siviglia), con intonazione affabile, sovveniva a Consolo delle
«[…] isole lombarde, isole linguistiche che Vittorini aveva mitizzato in
Conversazione in Sicilia. […] Vittorini mitizza questi luoghi lombardi, con la
sua idea della Lombardia siciliana in contrapposizione alla concezione
verghiana del fatalismo, della passività del mondo contadino siciliano. […] Mi
raccontava un collaboratore di Vittorini che […] quando sono arrivati in una di
queste isole lombarde, Sperlinga, dice: – Adesso incontriamo delle persone
alte, con gli occhi azzurri! – Appena entrano in paese incontra dei vecchietti
gobbi, piccolini. Questa è la mitizzazione vittoriniana della Lombardia siciliana
attiva e intraprendente, non più passiva e rassegnata come i personaggi di
Verga” (V. Consolo, Conversazione a Siviglia, a cura di Miguel Ángel Cuevas,
LetteredaQalat, Caltagirone 2016, pp. 65ss.). Tra le carte custodite nell’AVC,
un breve testo (due cartelle dattiloscritte datate «Milano, 22.6.2005») dal
titolo La «Conversazione» illustrata, sull’edizione del ’53 (Bompiani, Milano)
del romanzo vittoriniano; prendendo lo spunto dal bianco e nero delle
fotografie del libro, il discorso si tinge in chiusura di toni ben più cupi: «È il
contrasto, caro, nobile Vittorini, tra il bianco luminoso della nostra speranza,
della nostra utopia, e il nero catramoso della inaccettabile realtà […]. E oggi
più che mai, più che nel 1953.»
11 V. Consolo, Per Giulio D’Anna, in AA. VV., Giulio D’Anna aeropittore
mediterraneo, a cura di Anna Maria Ruta, Eidos, Palermo 2005, pp. 7s. Cfr.
Id., Alla libreria D’Anna conobbi Stefano D’Arrigo, in AA. VV., Giulio D’Anna.
Sessant’anni di editoria da Messina a Firenze, a cura di Sergio Palumbo,
Pungitopo, Marina di Patti 1991, p. 20. La frequentazione di casa D’Arrigo
rese possibile in effetti che Consolo fosse a conoscenza del work in progress
dell’ «amico», come lo chiama in un intervento del ‘69 su «L’Ora» che funge
appunto da indizio di questa privilegiata conoscenza; vi si legge che nel
«romanzo […] I giorni della fera, uscito in parte in una rivista, si accenna, in
una scena […]» – ed ecco che la scena di cui si riporta in seguito una
citazione letterale non corrisponde ai frammenti pubblicati sul «Menabò» (cfr.
Id., Appunti per un ritratto dell’uomo politico messinese, in «L’Ora», 31-3-
1969; ora in Id., Esercizi di cronaca, a cura di Salvatore Grassia, Sellerio,
Palermo 2013, pp. 213-216, p. 214).
12 La desinenza di «aggrada» è congetturale: non si riesce a capire
integralmente gli ultimi grafemi della sequenza, né a fornirvi di conseguenza
una lectio adeguata; ma il significato della congettura si addice alla stesura
alternativa del passo sul verso della cartella precedente: «Se le fa piacere
avere il giudizio di un comune lettore che si sforza di essere attento, nella
Sua risposta potrà rivolgermi delle precise domande. È inutile dirle che tutto
questo ↑una sua lettera↑ mi renderebbe oltre modo ↑farebbe↑ contento.»
13 Un’immagine del recto della cartella può ora vedersi in Gianni Turchetta, «E
questa storia che m’intestardo a scrivere». Vincenzo Consolo e il dovere
della scrittura, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 2019, p. 12.
Una descrizione del quaderno manoscritto in Gianni Turchetta, Note e notizie
sui testi, in V. Consolo, L’opera completa, cit., p. 1288. I padri putativi
costituisce l’abbozzo dei primi capitoli (I e II, metà di III, IV e una sequenza di
V) del romazo di esordio di Consolo. Il manoscritto è custodito presso l’AVC.
14 E[lio] V[ittorini], Notizia su Stefano D’Arrigo, in «Il menabò di letteratura», 3,
1960, pp. 111s.
15 Pier Paolo Pasolini, La mia periferia, cit., p. 2729.
16 Cfr. p. e. V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la
storia, Donzelli, Roma 1993, p. 15; Annagrazia D’Oria, La lingua della
scrittura. [Intervista] a Vincenzo Consolo, in «L’immaginazione», 191, 2002,
pp. 1-3, p. 3.
17 Maria Giulia Minetti, Conversazione in Sicilia [intervista con V. C.], in
«L’uomo Vogue», 213, 1-12-1990, pp. 117-119, pp.118s.
18 V. Consolo, Cerco parole non imposte dal potere, in «Giornale di Sicilia», 20-
5-1992; ora in AA. VV., Scrittore di impegno civile, «A Sud’Europa»
[monografico dedicato a V. C.], VI, 4, 30-1-2012, pp. 12s., p. 13.
19 Andrea Genovese, «…Uscire fuori dal romanzo, fuori dalla letteratura, fuori
dalla scrittura…», in «Uomini e libri», marzo-aprile 1977.
20 V. Consolo, Un moderno Ulisse tra Scilla e Cariddi, in «L’Ora», 22-2-1975;
ora in «L’illuminista», XI, 25-26, 2009, pp. 249-254, p. 249.
21 Id., Cara orca, non morire fra Scilla e Cariddi, in «Il Messaggero», 4-8-1994.
22 Dattiloscritto parzialmente inedito custodito presso l’AVC; 5 cartelle numerate
scritte solo sul recto, non datato (ma del ’73); dalla cartella 2, interventi
manoscritti a biro nera che correggono il testo in vista della pubblicazione sul
giornale, tra cui un «Nel ’73» a sostituire un cassato «Giorni fa»; i capoversi
qui trascritti in cartelle 1s. Una riproduzione anastatica del testo può ora
leggersi sul sito www.vincenzoconsolo.it; nella cartella 1, appunti di mano di
Caterina Pilenga Consolo contengono delle informazioni non del tutto esatte.
23 All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1957; nuova ed. a cura di Silvio Perrella,
Mesogea, Messina 2015. Consolo quasi mai si sofferma sulla silloge
darrighiana, pur dichiarando di aver «seguito il lavoro [di D’Arrigo] fin dalla
prima edizione scheiwilleriana di Codice siciliano» [2ª ed. Mondadori, Milano
1978] (cfr. Ma io D’Arrigo lo stimavo, in «La Stampa», 6-2-1993).
24 Due ultimi versi della «canzonetta» riportata da Giovanni Villani nella
trecentesca Nuova cronica (libro settimo, cap. LXVIII).
25 ‘Al largo, verso terra, a destra, a sinistra’. Con ogni probabilità, Consolo
riprende la citazione (tra l’altro, non letterale) da Giuseppe Pitrè (Usi e
costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Pedone Lauriel, Palermo
1889, vol. III, pp. 508s.), che riproduce un lungo brano di Giuseppe La Farina
(Messina e i suoi monumenti, Fiumara, Messina 1840, pp. 150s.) sulla pesca
del pesce spada. Sul «fare greco» di questi modi e parole cfr. Pitrè (ivi, pp.
506s.) che cita tra le altre le testimonianze di Mongitore e Fazello.
26 Questa breve sequela proverbiale passa nell’articolo per «L’Ora» del ’75, ma
con la svista fumo anziché funnu; «L’illuminista» non corregge il refuso.
27 Nell’originale, «Stretto» (cfr. S. D’Arrigo, I giorni della fera, in «Il menabò»,
cit., pp. 7-109, p. 7).
28 Nell’originale, «tornano» (cfr. ivi, p. 40).
29 «[…] questa non è che una semplicistica classificazione nella quale […] la
realtà scappa da tutte le parti. / Tuttavia […]» (V. Consolo, Un moderno
Ulisse, cit.; «L’illuminista», cit., p. 250). Questo «tuttavia» conosce particolari
sviluppi, per esempio nelle pagine di Lasciò il mare per la terra (cit., pp.
104s.) e nella Prefazione a Basilio Reale, Sirene siciliane. L’anima esiliata in
«Lighea» di Tomasi di Lampedusa (Sellerio, Palermo 1986, pp. 9-14;
confluito col titolo Sirene siciliane in Di qua dal Faro, cit.; ora in L’opera
completa, cit., pp. 1151-1157, pp. 1154s.).
30 «Sciascia, sintetizzando Castro dice […] descrivibile “una vita che si svolge
dentro un mero spazio vitale”. E ci soccorre anche Addamo scrivendo: “…
Nella prevalenza della natura c’è esattamente il limite della storia”» (Id., Un
moderno Ulisse, cit.; «L’illuminista», cit., p. 250).
31 Ibidem.
32 Ibidem. Cfr. Id., Prefazione, in Nuccio Rubino, Vedute dello Stretto di
Messina [fotografie], Sicania, Messina 1988; confluito in Di qua dal faro, cit.;
ora in L’opera completa, cit., pp. 1040-1065.
33 Glossario (a cura della redazione), in «Il menabò», cit., pp. 109-111, p. 110.
D’altronde, l’identificazione del Paese delle Femmine con Scilla viene
smentita già nelle prime pagine de I giorni della fera, laddove si presentano
come gruppi umani diversi, anzi contrapposti, «femminoti» e «scilloti» (cfr. I
giorni della fera, cit., pp. 16s.).
34 V. Consolo, Un moderno Ulisse, cit.; «L’illuminista», cit., p. 251.
35 Ibidem. Solo in questa occasione la versione su rivista rispetta l’originale del
’75, dove il titolo del romanzo è sempre Orcynus Orca.
36 Ibidem.
37 Id., Tra Scilla e Cariddi, in «Corriere della Sera», 18-4-90.
38 Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana [1957], testo
a cura di G. Pinotti, Garzanti, Milano 1987, p. 39. Si confronti l’estro
digressivo dell’ingegnere, con quanto Consolo ebbe a raccontare a proposito
della propria memoria ed esperienza linguistica: «[…] ho concepito, diciamo,
questa che in termini di agricoltura si chiama chimera, ho fatto questa sorta di
innesto arcano, d’innesto impossibile […]: cioè, una scrittura espressiva, non
più comunicativa, cercando di riportare alla luce la memoria linguistica della
mia terra, dove c’è un giacimento linguistico straordinario; perché da lì sono
passate tutte le dominazioni, lasciando i loro segni, […] dal greco al latino
all’arabo allo spagnolo. Io ho cercato veramente di scavare filologicamente in
questa profondità, in questi giacimenti per riportarli alla luce e allargare lo
strumento linguistico centrale; e non solo dal punto di vista dei significati,
anche nei significanti, cioè, nel suono della frase che organizzo in senso
ritmico-poetico, questi innesti danno più profondità che non la scrittura
comunicativa. […] Io mi ricordo che mia madre diceva calasìa, che voleva
dire “bellezza”, veniva dal greco kalós. Poi ho capito che era una parola
antichissima e, letteralmente, bella» (V. Consolo, Conversazione a Siviglia,
cit., pp. 33ss.).
39 Id., Un moderno Ulisse, cit.; «L’illuminista», cit., p. 252.
40 Andrea Genovese, «…Uscire fuori dal romanzo, fuori dalla letteratura, fuori
dalla scrittura…», cit.
41 V. Consolo, Lasciò il mare per la terra, cit., p. 105. Cfr. Maria Giulia Minetti,
Conversazione in Sicilia, cit., pp.118s.
42 V. Consolo, Cerco parole non imposte dal potere, cit., p. 13.
43 Id., I ritorni, cit., p. 1119.
44 Id., Fra Contemplazione e Paradiso, in Id., Nuccio Rubino, Fra
Contemplazione e Paradiso. Suggestioni dello Stretto [fotografie], Sicania,
Messina 1988, pp. 7-13; confluito col titolo Scilla e Cariddi in Neró metallicó,
Il melangolo, Genova 1994, pp. 7-22, pp. 11s.
45 Stefano D’Arrigo, I giorni della fera, cit., pp. 8, 10, 13).
46 Cfr. V. Consolo, Fra Contemplazione e Paradiso, cit., pp. 14s., 20s.; S.
D’Arrigo, Horcynus Orca, cit. [Rizzoli, 2003], p. e. pp. 35-41, 162-164, 408.
47 Ivi, pp. 828-993; sono proprio le pagine la cui stesura costituisce la parte più
cospicua della riscrittura del romanzo tra il ’61 e il ’75, del passaggio cioè da I
fatti della fera a Horcynus Orca.
48 V. Consolo, A Messina parla l’eterno terremoto, in «Corriere della Sera», 8-1-
1991.
49 Id., I ritorni, cit., p. 1120.
50 Id., Il poema che non c’è, in «L’Espresso», 7-2-1993.
51 Ibidem.
52 Fabio Gambaro, Vincenzo Consolo. La Sicile entre utopie et désillusion, in
«Magazine littéraire», 393, 2000, pp. 98-101, p. 100; poi in Id., L’Italie par ses
écrivains, Liana Levi, Paris 2002, pp. 35-54, p. 54.
53 V. Consolo, Fuga dall’Etna, cit., p. 8.
54 Id., I ritorni, cit., p. 1119.
55 Così sul dattiloscritto precedente quello redazionale di La ferita dell’aprile,
DS2, p. 137 (AVC).
56 Id., L’opera completa, cit., p. 121.
57 Cfr. M.Á. Cuevas, Introducción. Sobre el lugar y la naturaleza de la herida, in
V. Consolo, La herida de abril, Traspiés, Granada 2013, pp. 9-14, p. 11.
58 Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita [1955], Einaudi, Torino 1979, p. 201.
59 Cfr. Id., La fine dell’avanguardia [1966], in Empirismo eretico [1972]; ora in
Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., vol. I, pp. 1400-1428, p. 1425ss.
ROSALBA GALVAGNO*
IL «MONDO DELLE MERAVIGLIE E DEL
CONTRASTO»
Il Mediterraneo di Vincenzo Consolo
Le poche centinaia di figure proposte, nel corso dei secoli, dall’arte retorica,
costituiscono un lavoro classificatorio destinato a nominare, fondare, il mondo. Di
tutte queste figure una delle più stabili è l’Antitesi; essa ha la funzione evidente di
consacrare (e addomesticare) con un nome, con un oggetto metalinguistico, la
divisione dei contrari, e in questa divisione la sua stessa irriducibilità. L’Antitesi
separa da sempre; in tal modo essa fa appello a una natura dei contrari, e questa
natura è feroce. Lungi dal differire per la sola presenza o assenza di un semplice
tratto (come accade ordinariamente nell’opposizione paradigmatica), i due termini
di un’antitesi sono marcati l’uno e l’altro: la loro differenza non viene da un
movimento complementare, dialettico (vuoto contro pieno): l’antitesi è lo scontro di
due pienezze, messe ritualmente di fronte come due guerrieri tutti armati: l’Antitesi
è la figura dell’opposizione data, eterna, eternamente ricorrente: la figura
dell’inespiabile. Ogni associazione di due termini antitetici, ogni mescolanza, ogni
conciliazione, in una parola ogni passaggio del muro dell’Antitesi costituisce una
trasgressione; certo la retorica può inventare di nuovo una figura destinata a
nominare il trasgressorio; questa figura esiste: è il paradossismo (o accostamento
di parole): figura rara, è l’ultimo tentativo del codice per domare l’inespiabile11.
Vado in Sicilia e ne fuggo ogni volta, ritorno a Milano, la città dove da sempre,
fuggendo dal sud, si sono rifugiati poeti e scrittori, artisti, credendo trovarvi, via
dalla periferia, da una mediterranea deriva, vicino a un centro d’Europa, per
illuministici retaggi, per eredità di probo governo, decenza civile, rispetto di leggi e
diritti; […].13
Nella terra e nel mare che vapora, nel tempo fermo, nell’ora del torpore s’udì il
boato, si vide la colonna di denso fumo levarsi fino al cielo. Uscirono tutti dalle
case, corsero allo stabilimento. E furono al recinto, ai cancelli urla e clamori,
invocazioni per quelli che dentro lavoravano. Mancarono all’appello i morti
carbonizzati.
“Esplode la raffineria, inferno a Milazzo.”17
Subito dopo aver dedicato alla descrizione dei gelsomini e della
loro raccolta alcune righe all’interno della descrizione della città
antica, il testo prosegue col racconto dei gelsomini:
A Milazzo doveva aspettare tanto tempo il treno che l’avrebbe riportato a casa.
Girava allora per il paese, visitava il castello, le mura saracene, sveve e aragonesi,
i torrioni dai cui spalti pendevano in passato le gabbie con le teste mozze, la grotta
di Polifemo, visitava il porto, il Borgo, le chiese, i conventi. Vedeva dall’alto del
promontorio la vasta piana irrigata dal Mela ricca di agrumi, ulivi, viti, orti. Ricca di
gelsomini. Tra sènie e gèbbie, sotto palme e cipressi, era il basso verde di quel
fiore che all’apparire del sole schiudeva la corolla, liberava, spandeva il suo
profumo d’arancio e di nardo. Allora, nel crepuscolo mattutino, quando erba e
foglie eran pregne di rugiada, schiere di donne avanzavano tra le file dei cespugli,
piegate, il grembiule a sacca, a staccare i boccioli delicati. Seguivan le bambine,
come spigolatrici, a cogliere qua e là le residue gemme, assonnate, rosse le
mani.18
Nel regno dei morti, nell’Erebo, nella dimora di Ade e della fanciulla rapita
alla madre, l’ombra del tebano Tiresia, del cieco indovino, predice all’eroe, a
Ulisse infelice, i luoghi in cui sarebbe approdato, i pericoli che avrebbe
incontrato prima di giungere in patria, nella pietrosa Itaca22. Sarebbe giunto, il
reduce d’Ilio, insieme ai compagni, nella piana dove al pascolo stavano le
sacre vacche del Sole. E anche Circe possente, la maga regina dell’isola Eea,
indica all’amato straniero la rotta e gli approdi lungo il ritorno, e ne rivela le
insidie, i rischi mortali. Rivela l’insidia delle Sirene, il passaggio fatale tra lo
scoglio di Scilla e il gorgo di Cariddi e l’approdo, scansato l’agguato, nell’isola
detta Trinachía.
… là numerose
pascolano le vacche e le pingui greggi del Sole…
Se queste le lasci illese e pensi al ritorno,
potrete ancora arrivare ad Itaca, pur subendo sventure;
se però le molesti, allora prevedo rovina per te,
per la nave e i compagni…23
Sulla piana dove pascolavano gli armenti del Sole, dove si coltivava il
gelsomino, è sorta una vasta e fitta città di silos, di tralicci, di ciminiere che
perennemente vomitano fiamme e fumo, una metallica, infernale città di Dite che
tutto ha sconvolto e avvelenato: terra, cielo, mare, menti, cultura.
− Mi sono sentito come sfiorato da un alito di drago. Ero sopra una passerella di
ferro, un’impalcatura fra due cisterne, sono riuscito appena ad aggrapparmi e a
non cadere per il violento spostamento d’aria.
− Se l’esplosione fosse avvenuta mezz’ora prima o dopo, non all’ora della
mensa, ci sarebbe stata un’ecatombe.
Sperano ora i superstiti che le nere pelli dei compagni striscino, svolazzino nelle
notti di rimorsi e sudori dei petrolieri, urlino le membra di dolore e furore nei sogni
dei ministri.27
NICOLAO: C’è un ulivo anche alla base della nostra odissea odierna.
CONSOLO: Alla base della nostra odissea moderna credo che ci sia solo
l’olivastro, l’olivo selvatico: tempeste e naufragi, inganni e oblii, mutazioni,
regressioni, perdite. C’è il ritorno del barbarico e mostruoso mondo dei Ciclopi o
dei pirandelliani Giganti della montagna (anche lì, la soluzione del mito è nella
comparsa di un olivo saraceno). […].
L’ulivo e l’oleastro, o l’olivo e l’olivastro (nella dizione più esatta che suggerisce
Nencioni) che spuntano da uno stesso tronco. “In lui il ‘selvatico’ e il ‘coltivato’ non
si combattono: al contrario, si completano. Essi si uniscono in lui armoniosamente
come il ceppo materno e quello paterno: come l’olivo selvatico e quello coltivato
spuntano dallo stesso tronco per offrirgli riparo nella boscaglia feacia ed aiutarlo a
rinascere” scrive la Bonnafé [L’olivier dans l’Odissée]. Ecco, nell’odissea moderna
è avvenuta la separazione tra il selvatico e il coltivato. L’olivastro ha invaso il
campo. Ulisse non può più seppellirsi sotto le sue foglie, dormire, morire e
rinascere. Raggiunta Itaca, si accorge che l’isola è ormai distrutta, che lì ormai né
Penelope né Telemaco lo attendono. Ed è costretto a ripartire condannato
all’erranza. L’ambigua profezia di Tiresia, racchiusa nel doppio senso di ex alòs,
prende allora il solo significato che la morte per lui verrà dal mare, la sua sarà una
morte per acqua.37
L’Antitesi consoliana risulta così formata da due opposti corni, di
cui però uno è, a sua volta, duplice, più precisamente biforcuto,
rappresentando i due rami di questa biforcazione la natura e la
cultura; l’annientamento e la salvezza, secondo la definizione dello
scrittore sopra citata38.
L’altro corno dell’Antitesi è costituito invece da un elemento
esclusivamente negativo (disforico) e affatto separato dall’altro,
biforcuto, come se ci fosse appunto un invalicabile muro a dividerli.
Da un lato dunque abbiamo un’Antitesi a vasi comunicanti (olivo e
olivastro), dall’altro un polo solo negativo, l’olivastro, che in nessun
modo può più entrare in un rapporto, per quanto contradditorio, col
suo opposto (avremo dunque il seguente schema: olivo-vs-olivastro
║ olivastro).
Ora, Consolo vorrebbe scegliere, e di fatto sceglie, malgrado
l’apparente pessimismo, la tradizionale Antitesi, dove i due termini si
alternano e si confondono talvolta, ma è lucido abbastanza per
riconoscere che quella concordia discors, che pure faceva parte
ancora di un’armonia del mondo, compresa quella barocca, oggi non
è più possibile, perché nella modernità ha prevalso soltanto il
selvatico, il mostruoso (l’impossibile?):
Nella modernità, le colpe non sono più soggettive, ma oggettive, sono della
storia. I mostri non sorgono più dal mare, dalla profondità del subconscio, ma sono
mostri concreti, reali, che tutti noi abbiamo creato (tutti noi abbiamo scatenato le
guerre, creato i campi di sterminio, le pulizie etniche, lasciamo morire per fame la
stragrande maggioranza dell’umanità…). Nessun viaggio penitenziale e liberatorio
è ormai possibile. Itaca non è più raggiungibile. Questo, secondo me, lo scrittore
oggi ha il compito di dire, di narrare. Narrare oggettivamente, in terza persona, dei
mostri, delle mostruosità che abbiamo creato, con cui, privi ormai di memoria, di
rimorso, privi dell’assillo di raggiungere una meta, da alienati, felicemente
conviviamo. E veniamo alla mia Itaca, alla mia Sicilia. Durante la lontananza di
ognuno che se n’è da lì partito, come tu dici, quell’Isola è stata distrutta dal potere
politico-mafioso, su cui tanto ha indagato e dolorato Leonardo Sciascia.
Nell’Odissea mi sembra di aver colto un senso del mito di Scilla e Cariddi, della
“rovina immortale”, dei due mostri supremi acquattati alla porta dell’Isola. Mi
sembrano i due mostri, la zoomorfizzazione del cavallo di legno, il suo
contrappasso.39
E sempre intorno ai mostri della modernità, sui quali Consolo è
uno degli scrittori che più schiettamente hanno riflettuto nell’ultimo
scorcio del Novecento, con Calvino e Zanzotto, va ricordata una
variazione su tema, che parla dei mitologici, onirici, o inconsci mostri
che abitano i «regni dell’olivastro», opposti a quelli reali del nostro
presente, esibendo perfino un nutrito numero di precursori che oggi
bisognerebbe forse rileggere come antesignani della scrittura del
disastro:
Non riesco a lasciare questa città del disinganno, dell’utopia crollata, della
mediocrità più squallida, della nevrosi e dell’aggressività, del deserto d’ogni gioia,
d’ogni bellezza, perché non c’è più un’Itaca dove ridurmi e conciliarmi, in cui
ricomporre l’armonia perduta, non c’è più espiazione e liberazione dalle colpe
dopo il lungo racconto di mostri, di malìe e di tempeste; perché i mostri non
abitano più nel nostro subconscio, nei nostri sogni, non abitano più in ignote
dimore, abissi marini o caverne etnee, non sono dei mondi pre-civili, dei regni
dell’olivastro, ma sono della nostra storia, del nostro tempo, sono reali e ovunque
presenti, sono quelli che ci hanno predetto Kafka, Baudelaire, Eliot, Joyce, Camus,
Pirandello, tutti i poeti-profeti, sono quelli comparsi ieri ad Auschwitz, Hiroshima,
Siberia, quelli comparsi oggi a Sarajevo, in Ruanda, in tanti altri luoghi di morte e
di massacro; sono quelli che, dopo cinquant’anni, minacciano di ricomparire,
ahinoi, in Italia…40
Ma Noto ha perso la sua sfida con la natura, con il tempo. Il suo tufo dorato si è
corroso, sfaldato, le sue architetture di stupore si sono incrinate, i fregi son crollati
per vecchiezza, inquinamento, incuria, per le infinite, ricorrenti scosse del suolo.
Si aggirava il viaggiatore insieme a Jano fra chiese e palazzi e conventi
pericolanti, imbracati, puntellati da fitti tubi di ferro, da tavole e travi, invasi nelle
fenditure, nelle crepe, nei làstrici, nelle logge evacuate, da cespugli di rovi, da
edere, fichi selvatici.
Nella via Nicolaci, tra le quinte dei palazzi e il fondale della facciata concava
della chiesa di Montevergine, sotto le mensole di festoni, di grifi, leoni, cavalli,
chimere, grottesche dei balconi di palazzo Villadorata, ricordò che dentro, nel
vasto salone, aveva assistito anni prima alla rappresentazione di un’operetta
barocca, una favola in cui si narrava di un viceré malinconico e d’una luna che si
sfalda e che cade.
Così gli appariva Noto, una malata. Melanconica luna, una livida crosta che
crepa e che si sfalda, si sparpaglia in brandelli di garze, cartoni come una
dimenticata marcia scenografia teatrale,42
Entrarono nell’atrio del Collegio dei Gesuiti ch’era diventato la sede d’un liceo,
un vasto edificio sulla via principale puntellato da travi. Dentro era tutto disfatto,
corroso, divorato dal cancro, invaso dalle erbe, sepolto dalla polvere del tufo.
All’improvviso apparve sulla soglia un uomo, il viso deturpato dal cancro, che
guardò sorpreso gli intrusi. Era il preside della scuola. Il suo unico scopo, la sua
lotta era ormai quella di tornare in questa vecchia sede, di ottenerne l’agibilità. Era
risentito con le autorità comunali, regionali, statali. Condusse i visitatori in una buia
stanza e regalò loro la storia del liceo, scritta da lui, che trasse da una pila di libri
sepolti da calcinacci.43
Quali sono qui le tre punte dell’Antitesi? La città di Noto prima del
terremoto opposta a quella del dopo terremoto, entrambe opposte
allo sfaldamento attuale della città (Noto prima del terremoto vs Noto
dopo il terremoto ║ sfaldamento attuale di Noto). Sfaldamento
associato metaforicamente alla malattia della luna, cioè al suo
disfacimento per abbandono, incuria ecc., che reagisce però col
significativo dono della storia del liceo scritta dal preside.
Più difficile distinguere la struttura dell’Antitesi nel racconto di
Gela, la città ripetutamente citata dalla critica come una delle più
irredimibili della devastata Sicilia, simile a tante città del
Mediterraneo distrutte da inarrestabili guerre. Ricordo che in anni
non lontani era invalsa nel discorso quotidiano dei siciliani
l’espressione “sembra Beirut”, “siamo a Beirut”, per indicare
l’estremo degrado in cui precipitava l’isola a causa della mafia. Non
a caso, forse, Consolo si serve di un’immagine mediorientale per
descrivere la città del petrolchimico: una «vasta landa saudita» dove
sorgono i primi euforici insediamenti industriali che hanno distrutto,
come solo un terremoto può fare, la stratificazione archeologica della
città, trasformandola in un «inferno d’oggi», in una Metanopoli da cui
fuggire, come il «pittore di Gela emigrato a Monza che dipingeva fiori
e bimbe, e quindi stanco, chiusosi in se stesso, si mise a dipingere
teste senza volto, bimbi senz’occhi, donne con forbici alla gola»:
Più avanti, nella vasta landa saudita, sono le teste d’ariete, i lunghi colli delle
pompe che vanno su e giù come in un movimento vano e inarrestabile, gli astratti,
metafisici ingranaggi di cui nessuno sa l’origine e il fine. Qui è il teatro dell’abbaglio
e dell’inganno, del petrolio favoloso, la trovatura nelle tombe greche, nelle cisterne
saracene delle credenze popolari; qui il Gela 1, Gela 2, Gela 3… accesero Mattei
di forza e di speranza, lo spinsero alla sfida dell’ENI statuale al duro capitalismo
dei privati, al Gulf Italia Company, alla Montecatini, infusero volenterosa poesia,
retorica industriale, lombarda e progressiva allo scrittore Vittorini, posero sopra le
facce malariche dei contadini i bianchi caschi di plastica operaia.
Da quei pozzi, da quelle ciminiere sopra templi e necropoli, da quei sottosuoli
d’ammassi di madrepore e di ossa, di tufi scanalati, cocci dipinti, dall’acropoli sul
colle difesa da muraglie, dalla spiaggia aperta a ogni sbarco, dal secco paese
povero e obliato partì il terremoto, lo sconvolgimento, partì l’inferno d’oggi. Nacque
la Gela repentina e nuova della separazione tra i tecnici, i geologi e i contabili
giunti da Metanopoli, chiusi nei lindi recinti coloniali, palme, pitosfori e buganvillee
dietro le reti, guardie armate ai cancelli, e gli indigeni dell’edilizia selvaggia e
abusiva, delle case di mattoni e tondini lebbrosi in mezzo al fango e all’immondizia
di quartieri incatastati, di strade innominate, la Gela dal mare grasso d’oli, dai
frangiflutti di cemento, dal porto di navi incagliate nei fondali, inclinate sopra un
fianco, isole di ruggini, di plastiche e di ratti; nacque la Gela della perdita d’ogni
memoria e senso, del gelo della mente e dell’afasìa, del linguaggio turpe della
siringa e del coltello, della marmitta fragorosa e del tritolo.
Ricordò il naufrago, il reduce smarrito, l’amico, pittore di Gela emigrato a
Monza, sempre sopra i treni, che dipingeva fiori e bimbe, e quindi stanco, chiusosi
in se stesso, si mise a dipingere teste senza volto, bimbi senz’occhi, donne con
forbici alla gola. Lo curò il medico con la pittura, spingendolo a far affiorare sulla
tela tutta l’angoscia, la paura.44
[…] non posso, non posso far altro per te che lasciar fare, – le scrive – e darti
carta bianca… metto a tua disposizione quelli dei miei drammi, novelle e romanzi
che ti servono, e facciamoli pure cinematografare, ben inteso a tuo totale
beneficio, che io non voglio nulla ed è cosa tua…4
[…]
la potenza e la suggestione del romanzo verghiano appaiono tutte poggiate sul
suo intimo e musicale ritmo: e che la chiave di una realizzazione cinematografica
de I Malavoglia è forse tutta qui, cioè nel tentare di risentire e di cogliere la magia
di quel ritmo, un ritmo che dà il tono religioso e fatale dell’antica tragedia a questa
umile vicenda della vita quotidiana.
[…]
Non sono bastati […] gli anni passati in Germania, […] non sono bastati la
moglie tedesca e i tre figli […] a fargli capire che […] per ridare giustizia a
chiunque colpito da ingiustizia, nella società, c’è un organo istituito, che morte
contro morte, infine, non è giustizia, ma primordiale, barbarica vendetta.40