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Editori Laterza
© 2008, Gius. Laterza & Figli,
per la raccolta
Introduzione
di Claudio Zambianchi
Fonti
Fondamenti del formalismo
La forma e l’emozione estetica.
[Roger Fry, Un saggio di estetica, 1909]
Posizioni non formaliste
negli anni Trenta.
Una visione antiformalista dell’arte astratta.
[Meyer Schapiro, Natura dell’arte astratta, 1937]
Arte, cinema e fotografia: le masse e la «riproducibilità tecnica»
[da Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica, 1936]
Postilla
L’«aboutness».
[Arthur C. Danto, Arte e significato, 2000]
La crisi dell’ideologia dell’originalità.
[Rosalind E. Krauss, L’originalità dell’avanguardia, 1981]
Conclusione
Arte moderna e avanguardia.
[da Theodor W. Adorno, Teoria estetica, 1970]
Arte, società, estetica
L’ovvietà dell’arte è andata perduta
Contro la questione dell’origine
Contenuto di verità e vita delle opere
Sul rapporto di arte e società
Il bello artistico:
«apparition», spiritualizzazione, evidenza
Il «più» come apparenza
Trascendenza estetica e disincanto
Progresso della ragionevolezza e brivido
Ciò che non è
Carattere di immagine
«Esplosione»
I contenuti delle immagini sono fatti collettivi
L’arte come fatto spirituale
Immanenza delle opere ed eterogeneità
Dialettica della spiritualizzazione
Postfazione
di Giuseppe Di Giacomo
Introduzione
di Claudio Zambianchi
Entrato in crisi lo stretto rapporto tra arti visive e apparenze del mondo, sul
quale si erano basate nell’Ottocento l’arte realista e quella impressionista, la
teoria e la critica delle arti visive iniziano a porsi interrogativi nuovi su cosa
sia e a cosa serva l’opera d’arte nell’età contemporanea. Sin dagli inizi del
Novecento le risposte a tali domande sono molteplici e complesse.
Nella prima metà del secolo, benché in modo non esclusivo, prevale
un’interpretazione dell’opera come autosufficiente, fine a se stessa, basata
sull’uso sempre più «puro» dei mezzi espressivi specifici delle arti visive
(linea, colore, composizione). Poco dopo la metà del secolo, tuttavia, la
comparsa di un’arte che pone l’accento sul rapporto con la realtà del
quotidiano, nel contesto della civiltà di massa, e tende sempre più a sfumare
il confine tra arte e vita spinge la critica a porsi questioni nuove.
L’autosufficienza della forma viene messa in dubbio, si ampliano i
riferimenti; e la nozione di originalità dell’opera, che era parsa connaturata
all’arte moderna, entra in crisi.
Quest’antologia si propone di mettere a fuoco le questioni sopra indicate
attraverso una serie di saggi, molti dei quali costituiscono tappe essenziali
nella riflessione sull’arte del XX secolo; saggi che pongono domande,
spesso in diretta polemica l’uno con l’altro, cercano risposte e, così facendo,
definiscono aspetti e individuano momenti essenziali di cambiamento nella
storia dell’arte del Novecento: la concezione dell’opera come espressione di
una specifica qualità d’emozione per il tramite dei soli caratteri formali
(Roger Fry); la motivazione sociale dell’arte astratta (Meyer Schapiro); la
riproducibilità tecnica dell’opera d’arte intesa come la fine dell’arte di élite
(Walter Benjamin); e all’opposto l’avanguardia come unica possibilità di
sopravvivenza della cultura «alta» (Clement Greenberg); la definizione del
modernismo come ricerca e approfondimento dei mezzi specifici dell’arte
(Greenberg); la critica al modernismo; l’apparire del new dada e dell’arte
pop; il postmoderno (Leo Steinberg, Arthur C. Danto, Rosalind E. Krauss).
La scelta si chiude con alcune pagine della Teoria estetica di Theodor W.
Adorno, commentate in dettaglio nella Postfazione al volume1. Come si
vede, sono testi di critici d’arte e di filosofi; e se tra i primi si sono
privilegiati scritti di natura teorico-critica più che d’intervento militante,
essi tuttavia tradiscono l’urgenza di prendere parte attiva alle situazioni in
atto; allo stesso modo i saggi dei filosofi, volti a definire questioni di
carattere teorico, mostrano un’acuta consapevolezza della realtà artistica del
presente. La duplice natura dei testi spiega perché essi siano stati scelti da
due curatori di formazione diversa, filosofica l’uno, storico-artistica l’altro,
ma secondo un’intenzione condivisa: quella di offrire alle lettrici e ai lettori,
pur senza ambizioni di completezza, una raccolta di scritti privi nella gran
parte di gergo specialistico e fondamentali per capire alcuni nodi centrali
dell’arte contemporanea.
Tre saggi sono stati tradotti in italiano per questa occasione; il Saggio di
estetica di Fry è riproposto in una versione pubblicata nel 1947 e, a quanto
ci risulta, mai più ristampata; per gli altri si sono utilizzate traduzioni più
recenti. In certi casi, data la mole, si sono resi necessari alcuni tagli.
Il volume si apre con An Essay in Aesthetics (Un saggio di estetica) di
Roger Fry, pubblicato nel 1909 e poi ripreso nella prima raccolta di scritti
dell’autore – Vision and Design (Visione e disegno, 1920) – le cui origini
come storico e critico d’arte si radicano nella cultura dei conoscitori
dell’arte italiana di fine Ottocento2. Nei suoi primi anni di lavoro, Fry è
amico di Bernard Berenson e i suoi scritti sino alla fine del primo decennio
del Novecento riguardano l’arte italiana; come esperto dell’arte del passato,
inoltre, Fry si guadagna incarichi professionali importanti: dopo avere
rifiutato la direzione della National Gallery di Londra, diviene infatti prima
curatore dei dipinti al Metropolitan di New York, nel 1906, e negli anni
successivi consulente dello stesso museo per le acquisizioni di pittura
europea. Già in un saggio su Giotto del 1901, Fry inizia tuttavia a porsi
anche interrogativi importanti e originali su alcuni aspetti teorici relativi
all’opera d’arte3. La questione su cui Fry si interroga nel saggio su Giotto
potrebbe essere così formulata: in che modo un contenuto emotivo viene
veicolato da un’opera d’arte? Se le risposte date da Fry a questa domanda si
modificano e si precisano col tempo, per lui la validità dell’interrogativo
rimane intatta. L’idea che l’arte non debba tanto perseguire il bello quanto
esprimere un’emozione viene a Fry dalla lettura del saggio Che cosa è
l’arte? (1897-1898) di Lev Tolstoj; diversamente da Tolstoj, però, Fry non
pensa che il valore dell’arte dipenda dalla qualità morale dell’emozione
trasmessa. Nel Giotto Fry si dice convinto che il fattore espressivo sia
costituito dalla qualità delle emozioni drammatiche comunicate dai
personaggi, quasi fossero attori su una scena, idea poi superata proprio nel
Saggio di estetica; ma il ruolo dell’arte come veicolo d’emozione resta il
cuore del suo pensiero critico nei decenni a venire; e, benché l’oggetto
dell’interesse storico di Fry sia proiettato nel passato, la natura
dell’interrogativo che esso suscita è di carattere generale e ha forte
rilevanza sul presente (il carattere espressivo dell’opera d’arte era infatti in
quello stesso momento al cuore della riflessione del critico Julius Meier-
Graefe, il cui pensiero sull’arte contemporanea a quelle date è
probabilmente già noto a Fry4): è il motivo per cui sempre più, con il
progredire del tempo, la riflessione sull’arte del passato in Fry si fonde con
quella sull’arte del presente. L’emozione di cui Fry parla nel Giotto è ancora
di tipo «comune»: fa cioè appello, nell’osservatore, alle emozioni provate
nella vita reale, quotidiana. Fry riprende queste idee in alcune conferenze
dedicate alla pittura «drammatica, lirica, comica (comedic) ed epica»5,
tenute nel dicembre del 1907 a New York e in seguito a Londra. I testi sono
inediti, ma quello introduttivo è destinato a svilupparsi nel Saggio di
estetica6; in quest’ultimo cambia radicalmente la natura del contenuto
emotivo che le opere d’arte si suppone esprimano: dal piano delle emozioni
della vita reale Fry si sposta su quello della cosiddetta «vita immaginativa».
Se nel primo caso l’osservatore è spinto a reagire sul piano pratico e morale,
nel secondo si fa appello alle facoltà contemplative del riguardante, alla sua
immaginazione, e l’espressione delle emozioni è quindi «fine a se stessa».
Il corollario immediato di questa teoria è la destituzione in termini di
valore sia dell’arte di contenuto narrativo o moralistico, che per sua natura
spinge all’azione pratica, sia dell’arte d’ispirazione naturalistica (e questo
giustifica i dubbi profondi nutriti da Fry circa l’impressionismo). Nel suo
pensiero le emozioni della vita immaginativa vengono trasmesse dall’artista
all’osservatore attraverso alcuni specifici caratteri formali dell’opera d’arte
e, mediante essi, creano uno scambio diretto fra il creatore e il riguardante.
Due di queste modalità investono le qualità più generalmente compositive
dell’opera d’arte: l’unità e la varietà. Vengono poi considerati cinque aspetti
particolari: il ritmo della linea, la resa della massa, la dimensione relativa
degli oggetti, il chiaroscuro, il colore. Il testo elude il problema di definire
in modo coerente il valore relativo da attribuirsi ai singoli elementi
nell’ambito del sistema; solo al colore viene attribuito un ruolo in certa
misura subordinato, secondo il più classico dei pregiudizi accademici.
Appare comunque chiaro alla lettura che i cinque elementi, in varie
combinazioni, concorrono tutti all’espressione dell’emozione nell’opera. In
questo contesto l’idea di espressione non va intesa, almeno
necessariamente, come qualcosa che si manifesti in modo violento; è
piuttosto un elemento che, come Fry dirà su Cézanne parecchi anni dopo
(nel 1927), «essuda, come un profumo», dall’opera d’arte7.
Il saggio di Fry è di natura teorica, e non offre quindi esempi specifici; ma
l’estetica di Fry è, come dichiara l’autore, un’«estetica puramente pratica»8,
intesa a comprendere l’arte del passato e nel contempo quella
contemporanea. Fry pensa in particolare a quelle tendenze che, in reazione
alla semplice restituzione dell’apparenza luminosa del mondo, ritornano a
un’arte basata su valori architettonici e compositivi autonomi dalla realtà
fenomenica. È in questa chiave che Fry interpreta il «postimpressionismo»;
questo termine fu da lui stesso inventato allo scopo di definire l’arte
francese dalla seconda metà degli anni Ottanta dell’Ottocento al primo
decennio del Novecento: da Cézanne, Gauguin e Van Gogh a Matisse, ai
fauves e ai primi cubisti. Dopo un primo tentativo di definizione parziale
del fenomeno, condotto da Fry in una lettera sul «Burlington Magazine» del
19089, la prima messa a punto generale ha luogo nel 1910, con
l’organizzazione della mostra Manet and the Post-Impressionists alle
Grafton Galleries di Londra, cui segue, dopo due anni, una Second Post-
Impressionist Exhibition dove viene ribadito e raffinato il quadro proposto
nel 1910. Secondo Fry i pittori moderni francesi, da Cézanne in poi, sino a
Matisse, ai fauves e ai cubisti, rifiutano la concezione retinica dell’arte
propria dell’impressionismo e sostituiscono ad essa un’istanza espressiva.
L’emozione espressa fa appello alle facoltà immaginative dello spettatore, a
condizione che vengano impiegate certe modalità formali, veicolo
d’emozione estetica: linea, massa e colore. All’effetto di brillio e di
vibrazione cromatica indifferenziata della superficie pittorica impressionista
si sostituisce un’arte dal carattere più sintetico e selettivo, in cui gli aspetti
volumetrici (sia quelli impliciti, sia quelli francamente descritti) riassumono
valore. I caratteri formali che Fry considera alla base del
postimpressionismo, in opposizione all’impressionismo, sono in fondo
quelli che costituiscono il vocabolario tradizionale della pittura. Ad essi è
necessario tornare dopo che l’impressionismo, considerato in questo
contesto quasi un incidente di percorso nella storia dell’arte occidentale, ha
dimostrato che l’eccesso nel tentativo di copiare la natura porta a un vicolo
cieco sul piano del potenziale espressivo dell’opera d’arte10.
Anche in questa fase il dilemma tipico di Fry, quello tra forma ed
espressione delle emozioni11, non è del tutto risolto: rimane, anzi, al cuore
della sua riflessione negli anni a venire. E tuttavia alcuni aspetti del suo
pensiero sono a questo punto chiari: l’arte non è ricerca di bellezza o copia
del mondo esterno, ma serve a esprimere l’emozione dell’artefice e a
trasmetterla al riguardante mediante i suoi mezzi specifici (e storicamente
accertati): linea, composizione, colore; l’emozione estetica ha inoltre una
sua precisa qualità nell’essere «fine a se stessa», diversa, quindi, da ogni
altra provata nel mondo dell’esperienza comune.
Di qui a postulare l’esistenza di una «forma significante», di una forma
cioè che abbia la capacità, attraverso i suoi specifici caratteri compositivi, di
trasmettere l’emozione estetica – come fa Clive Bell nel suo celebre libro
Art del 191412 – il passo è breve. Nel saggio conclusivo di Vision and
Design, intitolato Retrospect (Retrospettiva), Fry loda il volume dell’amico,
ma esprime su di esso alcune riserve. Due le maggiori: da un lato ritiene
difficile che l’«emozione estetica» possa manifestarsi in uno stato di
purezza assoluta e, qualora accadesse, avrebbe qualità spiegabili solo in
termini di misticismo (confine, quest’ultimo, che Fry non intende varcare)13;
dall’altro pensa che l’insistenza di Bell sulla piattezza dell’immagine
pittorica, con la conseguente progressiva scomparsa dei caratteri
referenziali dell’immagine, chiuda, anziché aprire, nuove possibilità
espressive; l’allusione (anche velata) alla terza dimensione resta, per Fry, un
connotato essenziale della pittura14.
Il pensiero di Roger Fry e di Clive Bell offre strumenti per comprendere
l’arte moderna della fine del XIX e degli inizi del XX secolo, perché non si
basa su una teoria dell’imitazione, né su un’idea precostituita del bello; si
fonda piuttosto sull’idea che il carattere espressivo di un’opera si debba a
una struttura formale indipendente dal diretto riferimento al mondo reale. I
sintomi della diffusione di nozioni siffatte negli Stati Uniti si percepiscono
già prima della guerra, nella recezione critica dell’Armory Show (1913) e
nel nuovo interesse creato dalla mostra verso l’arte moderna. È nel
ventennio fra le due guerre, tuttavia, che il formalismo (e non solo nella
chiave dei due critici inglesi) si avvia a diventare negli Stati Uniti lo
strumento principale di analisi sull’arte contemporanea, come mostra il
pensiero di uno dei maggiori interpreti di essa, Alfred H. Barr Jr., direttore
del Museum of Modern Art di New York dalla sua fondazione, nel 1929,
sino al 1943. Come direttore Barr condusse una vivace attività di
divulgazione dell’arte moderna, sostenuta da una scrittura chiara ed
elegante, e organizzò alcune grandi mostre, intese a far conoscere negli Stati
Uniti gli aspetti maggiori dell’arte europea del XX secolo. Le due
esposizioni più importanti si concentrano fra il 1936 e il 1937 e sono
dedicate una al cubismo e all’arte astratta, l’altra all’arte fantastica, al
surrealismo e al dada. In entrambi i casi Barr redige il catalogo che contiene
una narrazione (sin troppo) lineare degli eventi oggetto delle mostre. Dal
nostro punto di vista è più rilevante il catalogo di Cubism and Abstract Art,
perché il saggio di Meyer Schapiro The Nature of Abstract Art (Natura
dell’arte astratta, 1937) nasce proprio in risposta al lungo testo di Barr che
accompagna la mostra.
La chiave secondo cui Barr esamina la questione dell’arte astratta è
nettamente formalista. L’assunto di partenza dell’artista astratto è che
un’opera d’arte meriti attenzione in quanto «composizione od
organizzazione di colore, linea e chiaroscuro»15. E benché sia vero che la
rappresentazione di apparenze naturali non è necessariamente in
contraddizione con la valorizzazione di questi aspetti formali, è altrettanto
vero che essa può distrarre dalla concentrazione esclusiva su elementi
siffatti. L’artista astratto decide quindi di fare a meno delle apparenze del
mondo; tanto che per Barr l’arte astratta è il momento culminante di un
processo di progressiva purificazione: «Il pittore di quadri astratti può, e
spesso lo fa, indicare un’analogia con la musica […]. Egli guarda all’arte
astratta come a una pittura indipendente, emancipata; come fine a se stessa
con un suo valore peculiare»16. Si fanno strada qui due nozioni strettamente
interconnesse e destinate a grande fortuna presso la critica formalista
statunitense immediatamente successiva, in particolare in Clement
Greenberg: quella cioè che l’arte astratta costituisca il telos cui l’arte tende
quando aspira consapevolmente alla purezza, e quella che, proprio perché
priva di elementi rappresentativi, l’arte astratta rinunci a tutti gli elementi
considerati accessori per concentrarsi soltanto su quelli essenziali.
Il saggio di Schapiro manifesta un totale disaccordo con le argomentazioni
di Barr e ne contesta i caratteri teleologico e metastorico: secondo Schapiro
lo scopo di Barr è solo apparentemente descrittivo; in realtà egli sembra
accettare una teoria dell’arte astratta che la vede «indipendente dalle
condizioni storiche, quasi realizzasse in sé una specie di ordine naturale,
quasi fosse un’arte della pura forma affatto priva di contenuto». La storia
dell’arte invece non è, secondo Schapiro, «un processo interno e immanente
al mondo artistico»; e per questo egli rifiuta una descrizione degli sviluppi
artistici come processi di azione e reazione limitati al mondo delle forme:
l’arte cambia in rapporto ai mutamenti sociali, alla realtà di cui l’artista fa
esperienza. L’astrazione non è quindi veicolo di puri valori estetici, né
d’altronde gli aspetti referenziali dell’arte rappresentativa vanno considerati
soltanto come «scorie inevitabili», ostacolo a un apprezzamento puramente
estetico. A parere di Schapiro invece «non esiste ‘arte pura’, non
condizionata dall’esperienza […]. Natura e forme astratte sono materiali
dell’arte, che vengono scelti per ragioni storicamente determinate». Se nella
sua negazione delle forme della realtà fenomenica «il pittore astratto
esprime un giudizio sul mondo esterno», è altrettanto vero che l’arte
rappresentativa non si limita alla presa d’atto del mondo delle apparenze
visibili, ma implica scelte di stile e di soggetto che comportano una presa di
posizione di fronte al reale. Schapiro offre in proposito vari esempi, tra cui
quelli relativi alle scelte degli impressionisti sembrano particolarmente
importanti, alla luce degli studi compiuti negli ultimi trent’anni sulla pittura
della «vita moderna» (che guardano a Schapiro come a uno dei maggiori
precursori). L’arte astratta non è una semplice reazione all’«imitazione della
natura», né solo ricerca di «purezza e assolutezza», ma ha uno sviluppo ben
più complesso17.
Il bisogno di porre l’interrogativo sul radicamento dell’arte nel contesto
storico e di classe deriva a Schapiro dalla sua appartenenza a quel gruppo di
intellettuali newyorkesi marxisti che, nella seconda metà degli anni Trenta,
avevano aderito al trotzkismo18. L’esigenza di definire la natura dei rapporti
tra l’arte e i gruppi attivi nella società si manifesta in lui, negli anni Trenta,
non solo negli scritti sull’arte dell’Ottocento e del Novecento, ma anche in
quelli dedicati all’altra sua area principale di studio, il Medioevo. Tali
interessi definiscono un mutamento decisivo rispetto all’approccio
pragmati-
camente formalista assunto da Schapiro negli anni della sua formazione19.
Nell’autunno del 1939, sulla maggiore, forse, delle riviste attorno a cui
ruotano gli intellettuali newyorkesi trotzkisti, la «Partisan Review»,
compare un articolo dal titolo Avanguardia e kitsch (Avant-Garde and
Kitsch), scritto da un giovane impiegato della dogana di New York,
Clement Greenberg, che proprio in quell’anno ha iniziato a collaborare alla
rivista ed è destinato a diventare, fra gli anni Quaranta e Sessanta, il più
influente critico d’arte americano20. Il testo parte da interrogativi circa il
radicamento sociale dell’arte moderna non dissimili da quelli posti da
Schapiro, ma le risposte sono diverse, e l’articolo fa di Greenberg
l’intellettuale statunitense che propone il quadro più chiaro e sintetico del
rapporto tra arte e società nell’età del capitalismo.
Il saggio prende avvio dalla verifica della crisi del capitalismo e del
declino della classe dominante. Greenberg si chiede se lo iato esistente tra
cultura alta e cultura bassa sia proprio dell’età che sta vivendo, e per
rispondere a tale quesito conduce un’analisi di carattere sociale e storico. A
differenza delle epoche passate, in cui la crisi di comunicazione tra
intellettuali e società aveva prodotto una cultura sostanzialmente immobile,
nelle condizioni createsi dopo la rivoluzione industriale «una parte della
cultura borghese occidentale ha prodotto qualcosa di mai visto prima d’ora:
la cultura dell’avanguardia». Se in tanti periodi precedenti la cultura alta era
rimasta immobile, l’avanguardia moderna ha, al contrario, la funzione di
mantenere la cultura «in movimento». Nel fare questo si allontana dalla
società: con una ristretta parte della borghesia l’avanguardia mantiene un
legame che, con un’espressione famosa, Greenberg definisce il «cordone
ombelicale dell’oro». L’avanguardia non esprime quindi i valori di quella
classe, ma si concentra sempre più sui suoi mezzi espressivi e dissolve i
contenuti nella forma. Greenberg fa proprio l’assunto trotzkista (sostenuto
nel Manifesto redatto da Breton, Diego Rivera e Trotzki in Messico qualche
tempo prima21) che l’unico modo che ha l’arte di porsi in alternativa al
capitalismo e alle dittature è essere fedele a se stessa e approfondire le
potenzialità dei propri mezzi specifici. L’avanguardia è costretta a questo
continuo rilancio (possibile anche in virtù del suo sradicamento sociale),
affinché il suo lavoro si sottragga a diventare merce, a entrare cioè nel
circuito dell’industria (pseudo)culturale, pronta ad appropriarsi dei frutti
della cultura (nel vero senso della parola) e a pervertirli in prodotti adatti al
consumo diffuso. In seguito alla rivoluzione industriale, parallelamente
all’avanguardia, compare infatti il kitsch, frutto dell’inurbamento di masse
che richiedono una cultura di consumo. Il kitsch usa «i simulacri degradati e
accademizzati della vera cultura» ed è quindi «la sintesi di quanto c’è di
spurio nella vita del nostro tempo». Qui si avverte un’eco dei toni
apocalittici con cui Hermann Broch pochi anni prima aveva parlato del
kitsch come «male» dell’arte22. Oltre a squalificare la cultura in merce,
infatti, il kitsch può essere facilmente usato per scopi propagandistici dalle
dittature, mentre l’avanguardia, con la sua «innocenza» da un lato e con la
sua impermeabilità di significato dall’altro, non si presta a scopi siffatti.
Qualche mese dopo, sul numero di luglio-agosto 1940 della «Partisan
Review», compare un secondo saggio di Greenberg di teoria
dell’avanguardia, intitolato Towards a Newer Laocoon (Verso un più nuovo
Laocoonte). Il saggio – come il primo Laocoonte (1766) scritto da Gotthold
Ephraim Lessing e The New Laokoon (1910) di Irving Babbitt, al quale
ultimo si riferisce il comparativo del titolo di Greenberg – muove dalla
necessità di definire i limiti entro i quali un’arte può considerarsi «pura», e
quindi di stabilire i confini e le specifiche aree di competenza tra le varie
arti. Se – a parere di Greenberg – il romanticismo sembra a tutta prima
offrire una via d’uscita alla confusione tra arte figurativa e letteratura, in
realtà la pittura romantica si rivela ben presto incline a farsi letteraria;
inoltre il romanticismo è anche l’ultimo movimento a emanare direttamente
dalla borghesia. L’avanguardia nasce invece in opposizione alla cultura
borghese e cerca di trovare forme adeguate a esprimere quella stessa società
senza soccombere alle ideologie, rivendicando il diritto delle arti a essere
autonome dalle idee, che le infettano trasformandole in veicoli di
comunicazione. L’arte deve invece aspirare alla purezza, una «purezza [che]
consiste nell’accettazione volontaria delle limitazioni del mezzo dell’arte
specifica»23. Bisogna quindi enfatizzare l’opacità dei mezzi espressivi; se il
motto degli artisti del Rinascimento era Ars est artem celare, l’avanguardia
sostiene che Ars est artem demonstrare24. Ancora, in questo suo secondo
grande saggio, il problema di Greenberg resta quello di definire volto e
scopi della cultura «alta» in contrapposizione ai prodotti della cultura di
massa, in una prospettiva che Timothy J. Clark definisce «eliotiana-
trotzkista»25: da saggi di Eliot, come Tradition and the Individual Talent
(Tradizione e talento individuale, 1919), Greenberg prende l’idea di una
cultura in via di continua trasformazione in virtù di passi progressivi
all’interno di codici specifici definiti da una solida tradizione: l’arte
moderna, in lui come in Fry, è risultato non di continue fratture, ma di una
continuità con un passato cui il «talento individuale» non può che
aggiungersi coerentemente, mantenendo in tal modo il movimento della
cultura. Detto per inciso, il tema della continuità della cultura, con l’Europa
in fiamme, già preda di Hitler o da lui gravemente minacciata, è al cuore
della riflessione di molte persone di cultura americane, che vedono nel loro
paese, ospite di tanti intellettuali europei in esilio, l’unico luogo dove sia
ancora possibile esprimersi liberamente e preservare, in tal modo, il
patrimonio intellettuale occidentale. Questo è il modo di sentire non
soltanto di Greenberg, ma di Alfred Barr o di Harold Rosenberg26, per citare
soltanto nomi di critici d’arte. Da Trotzki Greenberg prende l’idea dell’arte
moderna come arte d’opposizione, rivoluzionaria perché libera, in grado di
sottrarsi al potere.
È interessante paragonare la netta separazione istituita da Greenberg tra
arte «alta» e arte «bassa», commerciale, con quanto al riguardo aveva
pensato tre anni prima Walter Benjamin in uno dei suoi scritti più celebri,
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936). Se per
Greenberg l’arte vera deve mantenere una sua condizione auratica e perciò
stesso sottrarsi al consumo di massa, per Benjamin invece i mezzi di
riproduzione di massa offerti dalla nuova realtà industriale (come la
fotografia o il cinema), proprio perché demistificano l’«aura» e con essa la
nozione di originalità dell’opera, hanno in sé un potenziale di cambiamento
rivoluzionario, sia sul piano delle modalità di creazione dell’opera sia su
quello del rapporto con gli spettatori. Nel caso del cinema, afferma
Benjamin, «fintanto che a dettare la legge è il capitale cinematografico, non
si potrà in generale attribuire al cinema odierno un merito rivoluzionario
che non sia quello di promuovere una critica rivoluzionaria alla nozione
tradizionale di arte». Di «critica rivoluzionaria» tuttavia si tratta, insita nel
mezzo espressivo impiegato27, laddove per Greenberg esiste una
separazione netta fra cinema d’avanguardia e cinema hollywoodiano. È
quindi il cinema, come nuovo mezzo espressivo, a contenere in sé una
critica dei valori artistici comunemente accettati; tanto che Benjamin
riscontra nei processi creativi adottati dal dadaismo l’ispirazione diretta del
cinematografo. L’arte per l’arte, invocata da Greenberg come il punto
d’approdo della purezza dei mezzi espressivi tipica dell’avanguardia, viene
invece condannata da Benjamin che, in chiusura del saggio, vede in essa il
presupposto del fascismo e della guerra, dove l’annientamento del genere
umano diviene «un godimento estetico di prim’ordine».
Benché sia Greenberg sia Benjamin radicassero le loro riflessioni su una
specifica valutazione dell’arte presente e del suo rapporto con la società, i
loro testi appaiono, a leggerli oggi, quasi profetici, un po’ come il celebre
paragrafo finale del Salon del 1846 di Baudelaire, dedicato all’eroismo
della vita moderna, che prefigura le direzioni prese dalla pittura francese
nei decenni successivi; indicano cioè due direttrici diverse e antinomiche
perseguite dalle arti visive tra gli anni Quaranta e Sessanta e oltre, che si
succedono nel tempo: la prima tende verso un’arte radicalmente astratta,
che Greenberg può leggere come il risultato di una progressiva
concentrazione della pittura (e della scultura) sulla purificazione dei propri
mezzi espressivi; l’altra è incline all’implicazione nell’opera di immagini e
oggetti della vita comune, anche tratti dalla cultura di massa.
Se Benjamin scompare tragicamente nel 1940 (suicida per non cadere in
mano nazista), Greenberg ha invece modo di partecipare alla vicenda
successiva dell’arte americana: al tempo di Avanguardia e kitsch e di Verso
un più nuovo Laocoonte già esiste una pittura americana astratta, praticata
inoltre da alcuni degli artisti vicini per idee e per ambiente a Greenberg; ma
la grande stagione della pittura americana deve ancora venire, e il critico è
tra coloro che più contribuiscono a darle voce e inquadramento teorico
attendibile, benché il suo formalismo gli impedisca di vedere alcuni aspetti
importanti del lavoro della nuova arte statunitense: principalmente
l’attenzione nei confronti degli aspetti di contenuto mitico e inconscio, che
danno sostanza a una ricerca rivolta a esplorare le radici dell’espressione. Il
formalismo di Greenberg è insomma la modalità principale di
interpretazione della pittura dell’espressionismo astratto americano:
dell’arte cioè di Pollock, Rothko, Still, Newman e compagni, tanto che il
«trionfo della pittura americana» (per rubare il titolo a un famoso libro di
Irving Sandler) può essere vissuto da Greenberg, anche, come un successo
personale. Nel frattempo cambiano le sue inclinazioni politiche: da uomo di
sinistra, Greenberg, dopo la seconda guerra mondiale, si avvicina a un
liberalismo sempre più intransigente verso il comunismo. Il critico si trova
in prima fila nella difesa dei valori occidentali nel periodo della guerra
fredda: un destino che Greenberg, d’altronde, condivide con tanti altri
intellettuali newyorkesi appartenenti al suo stesso mondo28. Uno dei testi
prodotti da Greenberg in sostegno dei valori suddetti è Modernist Painting
(Pittura modernista), scritto nel 1960, ma pubblicato solo l’anno seguente,
in coincidenza con la sua messa in onda radiofonica nella trasmissione
Voice of America29. Il 1961 è importante nella carriera di Greenberg perché
in quello stesso anno egli pubblica un volume in cui raccoglie alcuni degli
scritti apparsi negli anni precedenti. Il libro, Art and Culture: Critical
Essays30, si apre proprio con Avanguardia e kitsch, senza revisioni rispetto
alla sua prima pubblicazione del 1939 (a differenza di altri scritti che erano
stati riveduti per l’occasione); non comprende Pittura modernista, mentre
include altri saggi fondamentali, ad esempio quello dedicato alla American-
Type Painting (La pittura «di tipo americano», 1955), la messa a punto
classica sull’espressionismo astratto. Pittura modernista è diverso: si tratta,
come Avanguardia e kitsch, di un saggio di ambizioni teoriche, più che
storiche, inteso a definire modalità e scopi dell’arte moderna, anzi dell’arte
«modernista», che Greenberg vede caratterizzata dall’intensificazione,
dall’esacerbarsi di una tendenza autocritica iniziata con Kant. Lo scopo di
questo atteggiamento consiste nell’eliminazione di tutti gli elementi spuri
dalla pittura per giungere infine alla purezza, intesa come «auto-
definizione», arte per l’arte: la pittura pone quindi l’accento sulla piattezza
della superficie a lei propria. Di qui l’eliminazione di ogni forma di
illusionismo spaziale e l’abbandono della rappresentazione. L’esperienza
offerta dalla pittura modernista ha una qualità puramente ottica, senza
riferimenti a qualità diverse, benché il modernismo non assuma la planarità
in un’accezione letterale: Greenberg ammette infatti che «il primo segno
tracciato su una tela distrugge la sua piattezza letterale e assoluta». Egli non
vede in questi caratteri una frattura con l’arte del passato, ma piuttosto uno
sviluppo organico, un’evoluzione basata su un continuo processo di
approfondimento della consapevolezza circa la qualità specifica dei mezzi
espressivi della pittura: «Nulla – afferma Greenberg nel paragrafo
conclusivo dello scritto – potrebbe essere più lontano dall’arte autentica del
nostro tempo dell’idea di una rottura della continuità. L’arte è – tra l’altro –
continuità ed è impensabile senza di essa».
In questo saggio c’è tutto il pensiero maturo di Greenberg: la continuità
intesa come teleologia, la petizione a favore dell’arte astratta, l’arte
moderna vista non tanto come un indizio della crisi tra intellettuali e società
(quale era presentata in Avanguardia e kitsch, in analogia a quanto avveniva
nella Disumanizzazione dell’arte di José Ortega y Gasset, del 1925), quanto
come l’unica via percorribile, per motivazioni tutte interne alle convenzioni
della pittura.
Inoltre, sebbene secondo Greenberg vi sia coerenza fra pittura modernista
e pittura del passato, una differenza esiste: se anche negli antichi maestri è
presente il bisogno di mantenere intatta l’«integrità del piano pittorico»,
quest’ultima sta sempre in tensione con la rappresentazione dello spazio
abitabile dagli oggetti. Una «contraddizione» siffatta non solo è alla base
del successo dei dipinti del passato, ma anche fa sì che lo spettatore abbia
coscienza del carattere specifico della superficie pittorica soltanto dopo
averne apprezzato le qualità rappresentative. Nel modernismo
quell’integrità è percepita nella sua immediatezza e nella sua purezza.
Nella prospettiva di Fry, i caratteri formali che trasmettono l’emozione
estetica (e per Clive Bell la «forma significante») hanno un carattere
metastorico, si possono riscontrare in ogni realtà e in ogni momento della
storia dell’arte; i cambiamenti vengono inoltre descritti come processi di
azione e reazione, per cui al naturalismo tardo-antico succede l’alta
formalizzazione bizantina, e all’impressionismo, analogamente, segue il
postimpressionismo. Per Greenberg, invece, la consapevolezza dei caratteri
specifici della pittura viene al termine di un processo storico di progressiva
purificazione e autoconsapevolezza; è piuttosto il telos a essere metastorico,
con una conseguenza importante: una volta acquisita la piattezza e
perseguite le qualità puramente ottiche della pittura, a quest’ultima cosa
resta da fare? Il carattere assoluto della descrizione greenberghiana dell’arte
modernista preoccupa, in particolare, il seguace forse più brillante di
Greenberg, Michael Fried, il quale, se accetta in linea generale la proposta
che l’arte debba approfondire la consapevolezza dei propri mezzi specifici,
ritiene tuttavia impossibile definire una volta per tutte l’essenza di un
dipinto. Essa, afferma Fried, «non è qualcosa di irriducibile. Piuttosto, lo
scopo del pittore modernista è di scoprire quelle convenzioni che, in un dato
momento, sono le sole in grado di stabilire l’identità dell’opera come
quadro»31.
Queste considerazioni di Fried compaiono in un testo famoso del 1967 –
Art and Objecthood (Arte e oggettualità) – in cui egli condanna il
minimalismo come un’arte «letterale», dove le forme hanno perso ogni
valenza metaforica e l’opera si attiva soltanto in presenza dello spettatore.
Così facendo Fried giudica in termini negativi un carattere rivendicato come
fondante dal nuovo movimento artistico americano e dimostra che, se la sua
declinazione di formalismo riesce ancora a interpretare efficacemente alcuni
aspetti di astrazione radicale apparsi tra la fine degli anni Cinquanta e
l’inizio dei Sessanta, non arriva a dare una spiegazione credibile di certe
forme di arte sperimentale comparse sulla scena nello stesso periodo: non
solo il minimalismo, ma anche il new dada e il pop.
Fornire un quadro attendibile di queste nuove tendenze significa
abbandonare il formalismo e adottare nuovi criteri: è ciò che fa –
dichiarandolo sin dal titolo – Leo Steinberg in uno dei suoi saggi più celebri
e belli, Other Criteria (Altri criteri). Pronunciato dall’importante storico
dell’arte come conferenza al MoMA nel marzo del 1968, poi pubblicato in
parte, con il titolo Reflections on the State of Criticism (Riflessioni sullo
stato della critica), nel 1972 sulla rivista «Artforum» e infine incluso nella
sua versione integrale, nello stesso anno, nella raccolta di saggi sull’arte del
XX secolo che da esso prende il titolo, Altri criteri non è solo un saggio
contra Greenberg; esso è anche un condensato di idee espresse con
straordinaria lucidità e limpidezza e che verranno abbondantemente riprese
dalla critica successiva. Di fronte alle novità, il critico – secondo Steinberg
– ha due alternative: o adattare ad esse idee maturate in rapporto all’arte del
passato, anche recente; ovvero assumere un atteggiamento simpatetico nei
riguardi del nuovo, provare cioè a «sentirsi in accordo con» qualcosa di
diverso e sconosciuto. Ciò non vuol dire necessariamente approvare, ma
consente di capire. Nell’adottare questa seconda modalità, Steinberg si
dichiara contro il formalismo, di cui rifiuta le certezze relative a quello che
un artista dovrebbe fare e uno spettatore dovrebbe vedere. Greenberg, in
Pittura modernista, riduce l’arte degli ultimi cento anni a una «carrellata
unidimensionale», come se l’arte da Manet in poi fosse consistita in un
unico grande sforzo verso l’acquisizione della piattezza della superficie, e
questo non soltanto rende impossibile al formalismo la comprensione delle
novità verificatesi nell’arte a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, ma
dà anche una visione riduttiva dell’arte del passato. È proprio esatto, si
chiede Steinberg, dire che l’arte moderna «attira per la prima volta
l’attenzione sui suoi stessi processi», mentre nell’arte dei Maestri del
passato un tale obiettivo è secondario rispetto all’illusione di realtà? E qui
Steinberg, da storico dell’arte, elenca una vasta serie di esempi che
mostrano come la pittura del passato dia prove continue di consapevolezza
delle limitazioni formali della pittura e dell’integrità del piano pittorico.
Greenberg, dice Steinberg, riduce la differenza tra arte antica e arte
moderna a un solo criterio, per di più meccanico: all’alternativa, cioè, fra
illusionismo e planarità; mentre le cose non sono così semplici, e più
appropriato sarebbe interrogarsi non già sulla presenza o sull’assenza di
aspetti di definizione dei propri limiti e aree di competenza, ma piuttosto
sulla direzione che questa definizione prende; a meno di non considerare,
come fa Greenberg, la «purezza» come l’obiettivo di una ricerca siffatta.
A questo punto Steinberg torna sulla planarità, e prova a misurare questo
concetto-feticcio della critica modernista sulla base di «altri criteri»; si
chiede cioè cosa succede se alla nozione greenberghiana della superficie del
quadro come spazio (verticale) dell’esperienza ottica pura se ne sostituisce
un’altra, relativa invece alla stazione eretta degli esseri umani: una piattezza
quindi come orizzontalità. Quest’ultima, detto per inciso, sarà una delle
invenzioni del saggio più gravide di conseguenze sui modi d’interpretazione
del-
l’arte negli anni a venire32. Se si pensa alla piattezza come qualità propria
del piano orizzontale, posta ad angolo retto rispetto alla posizione
dell’essere umano in piedi, alla dimensione, cioè, dove siamo ancorati (noi
e gli oggetti) per forza di gravità, ecco che molta arte nuova degli anni
Cinquanta e Sessanta comincia ad avere senso: si introduce un nuovo
paradigma, quello del piano pittorico inteso come «pianale» (flatbed)33,
simile cioè al piano della macchina da stampa dove il tipografo (una volta)
sistemava caratteri e cliché per tirare la pagina. Il piano pittorico, adottando
questo nuovo modello, non si riferisce più ai modi in cui siamo abituati a
esperire otticamente il mondo e la natura, ma assume come riferimento i
«processi operativi». Non si tratta neanche qui di una dimensione da
pensarsi letteralmente, sottolinea Steinberg, ma suggerisce il modo in cui
l’immagine fa appello all’immaginazione: pensare alla superficie secondo il
paradigma del «pianale» sposta il piano dalla natura alla cultura. Questo
porta come conseguenza un accento sulla materialità della superficie, il
disinteresse nei riguardi del verso del quadro (non vi sono più un sopra e un
sotto, una destra e una sinistra definiti a priori); si accentua cioè l’opacità
fisica del piano del quadro, come avviene in Dubuffet o in Rauschenberg. A
proposito di quest’ultimo (cui l’autore dedica tutta l’ultima parte del testo)
Steinberg nota: «È parso talvolta che la superficie di lavoro di
Rauschenberg rappresentasse la mente stessa: discarica, serbatoio,
centralino, piena di riferimenti concreti associati liberamente, come in un
monologo interiore, simbolo esteriore di una mente simile a un
trasformatore del mondo esterno in movimento, che ingerisce
continuamente dati non elaborati provenienti dall’esterno per poi sistemarli
in un campo sovraccarico». Con Rauschenberg, Johns, Warhol (come
vedremo fra un attimo) si delinea una pittura «post-modernista», dove la
nuova nozione della superficie è il sintomo di un cambiamento di rapporti
«fra l’artista e l’immagine» e tra «l’immagine e l’osservatore».
Nel saggio Steinberg mette a nudo il carattere ideologico del modernismo
di Greenberg, il suo rifiuto di farsi carico del contenuto della pittura, degli
«interessi umani» dell’artista; e sposta il piano del confronto da quello
rarefatto e intellettuale della visione smaterializzata a quello, più
quotidiano, con la realtà, con le cose, con i processi creativi più che con i
risultati. Per questo, a rileggerlo oggi, dopo che il lavoro di Greenberg è
stato oggetto di critiche continue e spesso feroci da parte di tutta la critica
postmoderna, Altri criteri nella limpidezza di pensiero, nel mantenere il
confronto sulla discussione serrata, punto per punto, delle idee di
Greenberg, nell’argomentare con fermezza (e qui e là qualche lampo di
ironia) che non esistono criteri fissi e precostituiti di analisi di fronte a
un’arte in continuo mutamento, appare un saggio ancora fresco, efficace,
ricchissimo di aperture verso il futuro. L’orizzontalità, il passaggio da
natura a cultura, il processo di contro al risultato e quindi il nuovo rapporto
tra arte e società, sono tutti temi destinati a essere perseguiti e approfonditi
negli anni successivi dalla storia e dalla critica dell’arte contemporanea. Tali
temi consentono letture e riletture significative di tanti episodi dell’arte del
Novecento, ivi compresa, secondo le nuove chiavi interpretative, molta arte
modernista.
Una delle riflessioni contenute nell’ultima parte dello scritto di Steinberg
riguarda il lavoro di Andy Warhol; l’autore riporta un lungo passaggio di
David Antin relativo alle opere di Warhol dedotte da fotografie, in cui
tuttavia i valori cromatici appaiono alterati, i registri fuori asse, come se
l’immagine fosse «deteriorata». Steinberg sottolinea al riguardo la
peculiarità di un «quadro concepito come l’immagine di un’immagine». E
proprio sulle opere di Warhol, in particolare su quelle concepite come la
copia letterale di un oggetto, riflette Arthur C. Danto. Questi è un critico e
teorico dell’arte e uno studioso di estetica molto attento al contemporaneo.
Il saggio che viene qui tradotto – Art and Meaning (Arte e significato)34 – fa
parte di un’antologia curata nel 2000 da Noël Carroll, dedicata alle teorie
recenti dell’arte, e si pone, aggiornandoli, interrogativi su cui Danto lavora
ormai da più di quarant’anni35. La domanda da cui parte l’autore è quella
relativa alla presenza nelle arti visive di oggetti indistinguibili da quelli
della vita comune, dai readymade di Duchamp alle famose Brillo Boxes di
Andy Warhol, appunto, che presentano, esattamente replicate, le scatole
delle pagliette detergenti Brillo. Perché, si chiede Danto, quelle di Warhol
sono opere d’arte e le scatole delle pagliette non lo sono (o – come Danto
sostiene di aver compreso di recente – lo sono in chiave diversa, come un
riuscito esempio di packaging commerciale)? Ricapitolando le conclusioni
cui è giunto in un suo libro del 1981 (The Transfiguration of the
Commonplace36), dedicato a questioni siffatte, Danto sostiene che – per
essere considerate tali – le opere d’arte debbano, in primo luogo, riguardare
qualcosa (e quindi avere un contenuto o un significato); in secondo luogo
bisogna che qualcosa in un’opera d’arte incarni questo contenuto.
Comprendere il rapporto tra le Brillo Boxes di Warhol e quelle della realtà
commerciale è problema assai diverso dal capire la relazione fra un’opera
d’arte autentica e una copia o un falso (come nei casi dei celebri falsi di
Vermeer eseguiti da Van Meegeren, e in generale delle opere d’arte
contraffatte). Nel caso delle Brillo Boxes la domanda riguarda infatti che
cosa, fra due oggetti di fatto indistinguibili, consenta di decidere quale
appartenga al mondo degli oggetti (o dell’arte commerciale) e quale al
dominio delle belle arti: ciò che distingue il lavoro di Warhol da quello di
Steve Harvey, il grafico inventore delle Brillo Boxes, è che Warhol riflette
su queste ultime: «Warhol considerava esteticamente bello il mondo
comune […]. Amava le superfici della vita quotidiana, la nutritività e
prevedibilità del cibo in scatola, la poetica del luogo comune». Di recente si
è aggiunta un’ulteriore complicazione, perché l’artista Mike Bidlo ha
replicato a sua volta, tra le altre cose, le Brillo Boxes di Warhol, come
appropriazione di (e riflessione riguardo a) esse: sono, manco a dirlo,
assolutamente identiche a quelle di Warhol, e perciò indistinguibili da
quelle di Harvey. Ciò che differenzia le Brillo Boxes di Warhol e Bidlo
rispetto a quelle di Harvey non è quindi la loro veste esteriore: «quel che
rende arte qualcosa non appare agli occhi», sostiene Danto; la differenza sta
piuttosto nella «filosofia». «La definizione dell’arte» non emerge dalla
descrizione (analisi, interpretazione) in chiave formale, ma «rimane un
problema filosofico». Se la risposta alla domanda iniziale (cosa rende tale
un’opera d’arte) è l’«a-proposito-di» (aboutness) dell’opera, il suo
riguardare qualcosa, allora Danto può dichiarare chiusa la storia dell’arte
«intesa come ricerca dell’autocoscienza»: il nome non è apertamente
pronunciato, ma il riferimento sembra essere a Greenberg.
Una prospettiva siffatta, tra le altre cose, mette in crisi l’idea
dell’originalità nei termini tradizionalmente accettati. Quest’ultimo è il
tema affrontato da Rosalind Krauss in un saggio famoso del 1981, The
Originality of the Avant-Garde (L’originalità dell’avanguardia), che dà il
titolo a una raccolta di scritti con la quale l’autrice critica, punto per punto,
l’ideologia del modernismo. La base teorica, in questo scritto, è post-
strutturalista e mette «in causa le nozioni di autore, di opera, di origine e di
originalità e lo statuto della presenza fisica dell’originale»37. L’attacco dello
scritto riguarda la fusione, nel 1978, della Porte de l’Enfer di Auguste
Rodin da parte dello Stato francese, che ne aveva ricevuto il gesso in lascito
dall’artista con il diritto di tradurlo in bronzo: la riproducibilità insita nella
tecnica della fusione in bronzo consente che l’opera di un artista cresciuto
nel mito, anche autocostruito, dell’originalità, possa essere compiutamente
realizzata a sessant’anni dalla morte dell’autore. Come si concilia infatti
una fusione tardiva con l’idea che l’opera rispecchi lo «stile di un’epoca»?
Qui Krauss sembra ripensare alla definizione benjaminiana di aura: «l’hic et
nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui
si trova». Analoghi ragionamenti si possono condurre circa altre tecniche
che consentono la riproduzione anche dopo molto tempo dalla realizzazione
della matrice: nella fotografia, ad esempio, una stampa d’epoca è
considerata come un originale, mentre per i motivi poc’anzi indicati una
stampa recente non è considerata tale. Originalità e ripetizione vengono
ritenute dalla Krauss come i due termini di una coppia oppositiva ed ella
suggerisce che «la pratica effettiva dell’arte d’avanguardia tende a rivelare
che questa originalità è un’ipotesi di lavoro che emerge su un fondo di
ripetizione e di ricorrenza». All’originalità il discorso modernista attribuisce
valore positivo, mentre svaluta la ripetizione. L’esempio offerto al riguardo
(a cui Krauss aveva già dedicato un saggio autonomo38) è quello della
«griglia»: una modalità siffatta di suddividere la superficie è stata
continuamente «scoperta» dall’avanguardia. Le scoperte reiterate, tuttavia,
altro non sono che ripetizioni di congegni già noti; la griglia, secondo
Krauss, riassume in sé tutti i testi visivi che hanno collettivamente
determinato il piano limitato come piano pittorico secondo modalità
antiche, le cui origini si perdono nel lontano passato: la quadrettatura, la
prospettiva, i dispositivi atti a spartire lo spazio secondo proporzioni
armoniche, l’incorniciatura. L’autrice è ben lontana, quindi, dal sottolineare
l’«opacità [nel senso greenberghiano del termine] della superficie
pittorica»: la tela che significa se stessa. La griglia non rivela un presunto
«statuto originario» dell’opera d’arte, non riporta al grado zero la tela, ma si
sovrappone ad essa, velandola. Inoltre conduce, negli artisti che l’adottano,
da Mondrian ad Agnes Martin, a meccanismi di ripetizione. Cosa succede,
invece, se dalla coppia originalità/ripetizione non si oblitera il secondo
termine? Krauss prende come esempio l’arte postmodernista di Sherrie
Levine: Levine rifotografa fotografie famose (ad esempio, quelle scattate da
Edward Weston al figlio Neal) e le propone come sue. Così facendo,
l’artista «fa risuonare dietro di esse tutta la sequenza di modelli che il
fotografo [Weston] aveva a sua volta plagiato, riprodotto»; nella fattispecie
«la lunga serie dei kouroi greci da cui sono derivati la codifica e la
moltiplicazione del busto maschile nella nostra cultura». Decostruisce, cioè,
«le nozioni sorelle di origine e originalità attuando uno scisma fra sé e
l’ambito concettuale dell’avanguardia».
L’idea di un’arte basata sul rapporto tra forma ed emozione, o la cui
funzione consista in una serrata critica dei propri mezzi, viene negli ultimi
tre saggi revocata in dubbio; e l’età del modernismo può dirsi, a questo
punto, conclusa.
1
La presente introduzione non ha altra ambizione se non di cucire assieme il complesso dei saggi
compresi nell’antologia (con l’eccezione della scelta dalla Teoria estetica di Adorno, per la quale
si rinvia alla Postfazione). Sarebbe del resto impossibile entrare in maggior dettaglio sul pensiero
di figure così importanti (e spesso controverse). Anche le note sono ridotte al minimo e (per non
appesantire la lettura) non si annotano i riferimenti ai saggi contenuti nel volume.
2
Su Fry, tra le pubblicazioni recenti, v. C. Reed (a cura di), A Roger Fry Reader, The University
of Chicago Press, Chicago-London 1996, e C. Green (a cura di), Art Made Modern. Roger Fry’s
Vision of Art, catalogo della mostra (Londra, The Courtauld Gallery), Courtauld Institute of Art,
Merrell Holberton, London 1999.
3
R. Fry, Giotto (1901), ora in Id., Vision and Design (1920), a cura di J.B. Bullen, Oxford
University Press, Oxford 1981, pp. 92-123 (in part. nota a p. 92 e pp. 116-118); trad. it. Visione e
disegno, Alessandro Minuziano Editore, Milano 1947, pp. 175-228 (in part. nota a p. 175, e pp.
217-220).
4
V. ad es. J.V. Falkenheim, Roger Fry and the Beginnings of Formalist Art Criticism, UMI
Research Press, Ann Arbor 1980, pp. 18-20.
5
V. F. Spalding, Roger Fry. Art and Life, Granada Publishing, London 1980, pp. 109-110.
6
F. Gennari Santori, European Masterpieces for America, in Green, Art Made Modern, cit., p.
110.
7
R. Fry, Cézanne, Hogarth Press, London 1927; cit. in M. Lavin, Roger Fry, Cézanne, and
Mysticism, in «Arts Magazine», 108/1, settembre 1983, p. 99.
8
R. Fry, Retrospect, in Id., Vision and Design, cit., p. 199; trad. it. Retrospettiva, in Visione e
disegno, cit., p. 351.
9
R. Fry, The Last Phase of Impressionism, in «Burlington Magazine», 12/60, marzo 1908, pp.
374-375.
10
Per un’idea generale del pensiero di Fry a queste date v. l’introduzione e i testi raccolti nella
sezione Forming Formalism, in Reed, A Roger Fry Reader, cit., pp. 48-116; e Fry, Retrospect,
cit., pp. 199-211 (trad. it. pp. 350-371).
11
V. B. Lang, Significance or Form: The Dilemma of Roger Fry’s Aesthetics, in «Journal of
Aesthetics and Art Criticism», 21/2, inverno 1962, pp. 167-176.
12
C. Bell, Art (1914), a cura di J.B. Bullen, Oxford University Press, Oxford 1987 (condotta
sull’edizione del 1949, sostanzialmente identica a quella del 1914).
13
Fry, Retrospect, cit., pp. 210-211; trad. it. pp. 370-371.
14
Ivi, p. 206; trad. it. p. 363.
15
A.H. Barr Jr. (a cura di), Cubism and Abstract Art, catalogo della mostra, Museum of Modern
Art, New York 1936, p. 13.
16
Ivi, pp. 13-14.
17
Sullo specifico delle posizioni di Schapiro sull’arte astratta v. i commenti in A. Hemingway,
Meyer Schapiro and Marxism in the 1930s, in «Oxford Art Journal», 17/1, 1994, pp. 20-22 e i
testi citati dall’autore nelle note.
18
Su questa generazione di intellettuali si veda A.M. Wald, The New York Intellectuals. The Rise
and Decline of the Anti-Stalinist Left from the 1930s to the 1980s, The University of North
Carolina Press, Chapel Hill-London 1987.
19
Sugli inizi «formalisti» di Schapiro v. J. Williams, Meyer Schapiro in Silos: Pursuing an
Iconography of Style, in «Art Bulletin», 85/3, settembre 2003, p. 443.
20
La principale raccolta degli scritti dell’autore è C. Greenberg, The Collected Essays and
Criticism, a cura di J. O’Brian, 4 voll., The University of Chicago Press, Chicago-London 1986-
1993; ad essa si sono aggiunte C. Greenberg, Homemade Esthetics, Oxford University Press,
Oxford-New York 1999 e Id., Late Writings, a cura di R.C. Morgan, University of Minnesota
Press, Minneapolis-London 2003.
21
A. Breton e D. Rivera, Manifesto: Towards a Free Revolutionary Art, trad. ingl. di D.
Macdonald, in «Partisan Review», 6/1, autunno 1938, pp. 49-53 (alla stesura del Manifesto,
com’è noto, collaborò massicciamente anche Trotzki, che tuttavia non lo firmò).
22
H. Broch, Das Böse im Wertsystem der Kunst, in «Die neue Rundschau», 44, 2 agosto 1933;
trad. it. di S. Vertone col titolo Il male nel sistema di valori nell’arte, in Id., Il Kitsch, Einaudi,
Torino 1990, p. 116; le affinità tra il pensiero di Broch e quello di Greenberg sul kitsch non
debbono far dimenticare tuttavia che il presupposto della condanna di Broch risiede nell’assenza
di valore etico nell’arte kitsch, equiparata, in questo senso, all’«arte per l’arte»; non così in
Greenberg, mentre un’analoga condanna dell’arte per l’arte si ritrova nel paragrafo conclusivo de
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Benjamin.
23
C. Greenberg, Towards a Newer Laocoon (1940), in Id., The Collected Essays, cit., vol. 1,
Perceptions and Judgements, 1939-1944, p. 32.
24
Ivi, p. 34.
25
T.J. Clark, Clement Greenberg’s Theory of Art (1982), ora raccolto in F. Frascina, Pollock and
After. The Critical Debate, 2ª ed., Routledge, London-New York 2000, p. 78.
26
Per questo aspetto in Barr v. G. Audinet, Préface pour l’édition française, in A.H. Barr Jr., La
Peinture moderne, qu’est-ce que c’est, Réunion des Musées Nationaux, Paris 1993, s.p.; trad.
franc. di C. Thiollert di What is Modern Painting? (1943 sgg.). Di H. Rosenberg v. The Fall of
Paris (1940), in Id., The Tradition of the New, Horizon Press, New York 1960, pp. 209-220.
27
L’enfasi sulle potenzialità del mezzo espressivo come tale e la nozione di un medium
intrinsecamente rivoluzionario che emergono in questo passaggio suggeriscono a Caroline Jones
un’affinità fra il pensiero di Greenberg e quello di Benjamin: v. C. Jones, La Politique de
Greenberg et le discours postmoderniste, in «Les Cahiers du Musée National d’art moderne», 45-
46, autunno-inverno 1993, p. 105.
28
Wald, The New York Intellectuals, cit., ad es. p. 8; il testo ormai classico (e controverso) sui
rapporti arte-politica negli anni dell’espressionismo astratto è S. Guilbaut, How New York Stole
the Idea of Modern Art. Abstract Expressionism, Freedom, and the Cold War, trad. ingl. di A.
Goldhammer, The University of Chicago Press, Chicago-London 1983. Il carattere ideologico del
formalismo di Greenberg è uno dei fuochi della revisione critica dell’espressionismo astratto
negli ultimi trent’anni; la bibliografia sul tema è quindi ricchissima ed è impossibile darne
un’idea, anche generica. Per qualche assaggio si rinvia, oltre che alle eccellenti introduzioni di
O’Brian, ai volumi dei Collected Essays and Criticism, a Frascina, Pollock and After, cit., e ai
saggi su Greenberg nel già citato fascicolo a lui interamente dedicato di «Les Cahiers du Musée
National d’art moderne», 45-46, autunno-inverno 1993.
29
Per la datazione esatta del saggio (poi rivisto nel 1965), datato al 1960 da O’Brian (Greenberg,
The Collected Essays, cit., vol. 4, Modernism with a Vengeance, 1957-1969, pp. 85 e 93) e per
una sua accurata analisi v. F. Frascina, Intitutions, Culture, and America’s «Cold War Years»: The
Making of Greenberg’s «Modernist Painting», in «Oxford Art Journal», 26/1, 2003, pp. 69-97.
30
Beacon Press, Boston; trad. it. Arte e cultura. Saggi critici, Umberto Allemandi & C., Torino
1991.
31
M. Fried, Art and Objecthood (1967); ora in Id., Art and Objecthood, The University of
Chicago Press, Chicago-London 1998, p. 169, nota 6. Su questa presa di distanza di Fried dal
pensiero di Greenberg v. M. Fried, An Introduction to My Art Criticism, ivi, pp. 37-40.
32
V. al riguardo il cap. Six in R. Krauss, The Optical Unconscious, The MIT Press, Cambridge,
MA-London 1993, pp. 243-329; e la sezione dedicata all’orizzontalità in Y.-A. Bois e R. Krauss
(a cura di), L’informe. Mode d’emploi, catalogo della mostra, Centre Georges Pompidou, Paris
1996, pp. 82-121; trad. it. L’informe. Istruzioni per l’uso, condotta da E. Grazioli sull’edizione
inglese, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 85-131.
33
Si è scelto di tradurre flatbed con «pianale» a indicare il piano orizzontale dove è collocata la
matrice (forma tipografica) nel torchio tipografico.
34
Grazie a Stefano Velotti per averci suggerito di includere questo saggio, a preferenza di altri
possibili.
35
V. A.C. Danto, The Artworld, in «The Journal of Philosophy», 61/19, 15 ottobre 1964, pp.
571-584. Il riferimento dello scritto di Danto a questioni già affrontate dall’autore negli anni
Sessanta ci ha spinto a farlo seguire (e non precedere, come cronologia avrebbe voluto) dal
saggio di Rosalind Krauss.
36
A.C. Danto, The Transfiguration of the Commonplace, Harvard University Press, Cambridge,
MA-London 1981.
37
R. Krauss, Introduction (1983), in Id., The Originality of the Avant-Garde and Other
Modernist Myths, Cambridge, MA-London 1985, p. 5; trad. it. di E. Grazioli, L’originalità
dell’avanguardia e altri miti modernisti, Fazi, Roma 2007, p. 10.
38
R. Krauss, Grids (1979), in Id., The Originality of the Avant-Garde, cit., pp. 9-22; trad. it. di E.
Grazioli, Griglie, in Id., L’originalità dell’avanguardia, cit., pp. 13-27.
Fonti
Un pittore che gode oggi d’una certa reputazione, scrisse, una volta,
sull’arte da lui praticata un breve libro, in cui dà una definizione così
concisa dell’arte, che io la prendo come punto di partenza per questo
saggio.
«L’arte della pittura (dice quel pittore illustre e autorevole) è l’arte di
imitare oggetti solidi su una superficie piana per mezzo di colori».
Se è così, quanto rumore inutile si è fatto intorno a quest’arte! Non si può
d’altronde negare che questo scrittore moderno abbia dietro di sé autorevoli
teorie di persone più che rispettabili.
Platone infatti diede una soluzione analoga della questione e pose egli
stesso la domanda se valesse la pena di coltivare l’arte. Data l’indole sua
decisamente logica, stabilì che non ne valeva la pena ed escluse gli artisti
dalla sua repubblica ideale. Malgrado ciò, il mondo ha continuato a credere
ostinatamente nel valore della pittura, e benché non sia ancora precisato
esattamente quale contributo abbiano dato le arti figurative, tuttavia esso ha
presistito nell’onorare e nell’ammirare i suoi pittori.
Potremo giungere ad una conclusione circa la natura delle arti figurative
che spieghi con chiarezza i nostri sentimenti verso di esse o che almeno le
ponga in una certa relazione con le altre arti e non ci lasci nell’estrema
perplessità generata da ogni teoria di pura imitazione? Ammessa
l’imitazione come unico scopo delle arti figurative, mi sorprende davvero il
fatto che i risultati di queste godano maggior considerazione di quella
destata da oggetti curiosi o da ingegnosi giocattoli, e siano prese sul serio
dalle persone adulte. Inoltre è strano che esse non abbiano alcuna affinità
evidente con le altre arti, come la musica e l’architettura, nelle quali
l’imitazione di oggetti reali è un elemento trascurabile. Arrivare a tali
conclusioni è il fine che mi sono prefisso in questo saggio, e anche se i
risultati non saranno decisivi, la ricerca può condurci a un giudizio sulle arti
figurative non del tutto infruttuoso.
È necessario che io premetta qualche nozione di psicologia elementare, e
precisamente una considerazione sulla natura degli istinti. Molti oggetti che
cadono sotto la nostra sensazione, mettono in moto in noi un complesso
meccanismo nervoso che determina corrispondenti reazioni da parte
dell’istinto. Se vediamo in un prato un toro inferocito, si forma, in noi,
senza alcun moto cosciente, un processo nervoso che ci induce a fuggire, a
meno che non si reagisca violentemente all’istinto di fuga.
Il processo nervoso che culmina nella fuga causa uno stato di
consapevolezza da noi chiamato «emozione della paura». L’intera vita
animale, e gran parte di quella umana, è improntata su queste reazioni
istintive agli oggetti sensibili e sulle emozioni che le accompagnano. Ma
l’uomo ha la facoltà particolare di rinnovare nella mente l’eco di tali
esperienze passate e di riviverle, come si suol dire, nell’immaginazione.
Egli ha perciò la possibilità di una doppia vita: quella reale e quella della
fantasia. Fra queste due vite v’è una notevole differenza: nella vita reale il
susseguirsi di selezioni naturali ha fatto della reazione istintiva (la fuga dal
pericolo, ad esempio) la parte vitale dell’intero processo ed ha rivolto verso
di essa tutto lo sforzo cosciente dell’uomo; mentre nella vita immaginativa
una simile azione non è necessaria, cosicché tutta la consapevolezza può
essere concentrata sugli aspetti percettivi ed emotivi dell’esperienza. In tal
modo nella vita dell’immaginazione si stabiliscono una diversa scala di
valori e un diverso tipo di percezioni.
Possiamo avere una singolare esperienza indiretta della natura di questa
vita immaginativa dal cinematografo, il quale partecipa della vita reale
quasi sotto ogni aspetto, ma non in quello definito dagli psicologi come il
lato volontario della nostra reazione alla sensazione: in esso viene eliminata
insomma la conseguente azione responsiva. Se al cinema, ad esempio,
vediamo un carro trascinato da un cavallo imbizzarrito, non pensiamo di
porci in salvo o di lanciarci coraggiosamente a fermarlo. Ne risulta anzitutto
che «vediamo» il fatto con maggior chiarezza ed osserviamo una quantità di
particolari davvero interessanti, se pur minimi, che nella vita reale non
potrebbero colpire la nostra coscienza, rivolta interamente al problema della
reazione conseguente alle impressioni.
Ricordo di aver visto al cinema l’arrivo di un treno in una stazione
straniera: la gente scendeva dalle vetture e non v’era marciapiede. Con
grande sorpresa notai che molti, scesi dal treno, si giravano, come per
orientarsi, in atteggiamento ridicolo, che non avevo mai osservato nella
realtà, benché tale scena fosse passata dinanzi ai miei occhi centinaia di
volte. Il fatto è che, alla stazione, un individuo non è mai spettatore, ma un
attore preoccupato del proprio bagaglio o della conquista di un posto, e
vede soltanto ciò che può essere utile a tale scopo. In secondo luogo, negli
spettacoli del cinema si nota che qualsiasi emozione si presenta in una
forma più chiara alla nostra coscienza, benché sia più debole di quelle della
vita reale. Se sullo schermo si verifica un incidente, il nostro senso di pietà
e di orrore, per quanto debole dal momento che nessuno si è fatto realmente
male, viene senz’altro avvertito, dato che non deve tradursi subito in un atto
di assistenza, come nella vita avviene normalmente. Si può ottenere un
effetto analogo a quello del cinematografo, guardando nello specchio di una
vetrina in cui sia riflessa una scena della strada. Se guardiamo nella via,
siamo quasi sicuri di conformarci in qualche modo al suo aspetto reale.
Possiamo riconoscere un amico e chiederci perché quella mattina sembri
così abbattuto, o interessarci ad una nuova moda di cappelli; e nel momento
in cui facciamo ciò, l’incanto è rotto e si reagisce alla vita stessa, sia pure in
minima parte, mentre osservando nella vetrina è più facile estraniarsi
completamente e osservare la mutevole scena nella sua interezza. Questo
fatto mette immediatamente in azione le qualità immaginative, e noi
diventiamo veri spettatori che non selezionano la loro visione, ma vedono
ogni cosa con uniforme intensità; perciò si arriva a notare una quantità di
apparenze e di rapporti di apparenze, che prima sarebbero sfuggiti alla
nostra attenzione, a causa di quella continua selezione di ogni impressione
assimilata, che nella vita è operata da processi inconsapevoli. Lo schermo
della vetrina allora fa sì che la scena riflessa, da appartenente alla vita reale,
passi, in un certo modo, alla vita immaginativa. Lo schermo della vetrina fa
della sua superficie una rudimentale opera d’arte, dal momento che ci
induce ad una visione artistica. È questa la conclusione, come avrete già
indovinato, cui volevo arrivare: cioè che l’opera d’arte è strettamente
connessa con la vita intima dell’immaginazione secondaria, cui tutti gli
uomini più o meno partecipano.
Che le arti figurative siano l’espressione della vita immaginativa, piuttosto
che una copia della vita reale, lo si può dedurre osservando i bambini.
Credo che i bambini, lasciati a se stessi, non riproducano mai ciò che
vedono: non disegnano, come si dice, «dal vero», ma con deliziosa libertà e
sincerità esprimono le immagini mentali prodotte dalla loro fantasia. L’arte,
dunque, è un’espressione e uno stimolo di questa vita dell’immaginazione,
che è distinta da quella reale per l’assenza di azione responsiva, elemento
che, nella vita reale, determina la responsabilità morale. In arte noi abbiamo
simile responsabilità: essa ci dà una vita libera dai necessari legami della
nostra reale esistenza.
Qual è allora la giustificazione di questa vita immaginativa che ogni essere
umano vive più o meno profondamente? Per il moralista puro, che accetta
soltanto i valori etici, questa giustificazione esiste qualora tale vita dimostri
non solo di non ostacolare le buone azioni, ma anche di incoraggiarle;
altrimenti essa è inutile, anzi è positivamente dannosa, dal momento che
assorbe le nostre energie.
Di qui sorgono due punti di vista: quello puritano, più rigido
nell’interpretazione, che considera una siffatta vita né più né meno che alla
stregua di una vita di piacere sensuale e perciò del tutto reprensibile; l’altro
punto di vista che concepisce la vita immaginativa sottomessa alla morale.
Ed è questa la via seguita inevitabilmente dai moralisti come Ruskin, per il
quale la vita dell’immaginazione è ancora una necessità assoluta. Si tratta di
una teoria che conduce ad estremi caratteristici molto severi, e perfino ad
ingannar se stessi, il che è moralmente indesiderabile.
Qui entra in campo la questione della religione, che è pure connessa con la
vita dell’immaginazione e che, a mio parere, sebbene miri ad operare un
effetto diretto sulla condotta, non può essere interamente giustificata da chi
è religioso e ragiona rettamente, con l’azione da essa operata sulla morale:
infatti, dal punto di vista storico, quest’azione non ha dato vantaggi costanti.
Si può forse dire che l’esperienza religiosa corrispose a certe facoltà
spirituali dell’umana natura, il cui uso è buono e positivo in sé,
prescindendo dal loro effetto sulla vita reale. Una simile affermazione,
penso, potrebbe fare l’artista, se scegliesse un’attitudine mistica; e potrebbe
anche dichiarare che la pienezza e la completezza della vita immaginativa
da lui seguita può corrispondere a un’esistenza più reale ed importante di
tutto ciò che si conosce nella vita mortale. Così dicendo, troverebbe un’eco
di simpatia nell’animo di molte persone, perché moltissimi, credo,
direbbero che i piaceri derivati dall’arte hanno un carattere affatto diverso e
più essenziale dei piaceri puramente sensuali, e che essi risentono della
facoltà appartenente a quanto vi è in noi di meno effimero e materiale.
Potrebbe anche darsi che, da questo punto di vista, noi dovessimo
giustificare la vita reale nelle sue relazioni con l’immaginazione, e la natura
nella sua somiglianza con l’arte. Intendo dire che poiché la vita
dell’immaginazione viene più o meno a rappresentare, col tempo, quello
che l’uomo sente come la più completa espressione della propria natura e
come l’uso più libero delle proprie facoltà innate, la vita reale può essere
spiegata e giustificata dal suo approssimarsi in questo o in quel punto, sia
pure parzialmente e inadeguatamente, a quell’altra vita più libera e più
intensa.
Prima di abbandonare questo problema della giustificazione dell’arte,
vorrei impostarlo in un’altra forma. La vita immaginativa di un popolo
raggiunge gradi diversi in tempi diversi e questi gradi non corrispondono
sempre al livello generale della moralità nella vita reale. Così nel XIII
secolo leggiamo di barbarie e di crudeltà che ci impressionano, e possiamo
ammettere che il nostro livello morale, la nostra umanità in genere siano
oggi decisamente più elevati, tuttavia il livello della nostra vita
immaginativa è incomparabilmente più basso; nell’arte noi siamo ora
soddisfatti da una grossolanità degna di una vera barbarie e da uno squallore
che avrebbero impressionato profondamente il XIII secolo. Ammettiamo
dunque con gioia il progresso morale; ma non sentiamo tuttavia un regresso,
non ci accorgiamo forse che ogni uomo d’affari di media levatura sarebbe,
in ogni senso, più ammirevole, più rispettabile se la sua immaginazione non
fosse così squallida e incoerente? Se dunque ammettiamo un regresso, vi è
qualche altra facoltà nella natura umana, oltre a quella puramente etica, che
merita di essere esercitata.
La vita immaginativa ha la sua storia sia nella razza che nell’individuo.
Nella vita individuale uno dei primi effetti dell’esperienza che ci affranca
dalle necessità di una conseguente azione responsiva, sta nell’indulgere
ciecamente all’emozione della grandezza del proprio io. Il sognare ad occhi
aperti di un fanciullo è sempre ricco di stravaganti avventure, in cui egli è
sempre l’eroe invincibile. La musica, che fra tutte le arti offre il più forte
stimolo alla vita immaginativa e, nello stesso tempo, ha la minor possibilità
di controllare la propria direzione, la musica, in certi stadi della vita di un
individuo, ha puramente l’effetto di portare a un grado quasi assurdo questa
esaltazione egoistica; e Tolstoj sembra credere che questo sia il suo solo
effetto possibile. Ma con l’insegnamento dell’esperienza e il formarsi del
carattere, la vita dell’immaginazione viene a rispondere ad altri istinti e a
soddisfare altre esigenze, finché riflette le più alte aspirazioni e le più
profonde avversioni di cui sia capace l’umana natura.
Nei sogni e sotto l’influsso delle droghe, la vita immaginativa esce dal
nostro controllo e in tali casi le sue esperienze possono essere
profondamente sgradevoli; ma qualora essa rimanga sotto il nostro
comando può essere una vita davvero desiderabile. Ciò non vuol dire che
sia sempre piacevole, poiché è noto che l’umanità spinge il proprio
desiderio molto al di là del piacere, e per molti grandi artisti, per i grandi
esponenti, cioè, dell’immaginazione, ciò che è puramente piacevole
rappresenta assai di rado una parte di ciò che è desiderabile. Al contrario, il
carattere di desiderabilità, che è tipico della vita immaginativa, la distingue
assai nettamente dalla vita reale ed è una conseguenza diretta della sua
essenziale natura, l’indipendenza dalla necessarietà delle condizioni esterne.
L’arte è quindi, se non erro, l’elemento principale della vita immaginativa; è
per mezzo dell’arte che la vita viene in noi stimolata e controllata e, come
abbiamo visto, è distinta da una maggior chiarezza di percezione e da una
maggior purezza e libertà di emozione.
Anzitutto, per quanto riguarda la maggior chiarezza di percezione, le
esigenze della nostra vita reale si impongono in modo tale che il senso della
vista si specializza particolarmente al loro servizio. Con ammirevole
economia impariamo a vedere solo quanto è necessario ai nostri scopi: e ciò
è in effetti molto poco, solo quanto basta per riconoscere ed identificare un
oggetto od una fisionomia; dopo di che essi vengono registrati nel nostro
archivio mentale e non sono più oggetto di reale visione. Nella vita
ordinaria una persona normale, per così dire, legge soltanto le etichette
degli oggetti che la circondano e non va oltre. Quasi tutte le cose utili
rivestono più o meno questo drappo che le rende invisibili. È soltanto
quando un oggetto ci si presenta col solo scopo di essere visto, che noi lo
guardiamo realmente, come osserviamo, ad esempio, un ornamento di
porcellana o una pietra preziosa; e verso di esso anche la persona più
normale adotta, in un certo senso, l’attitudine artistica di una visione pura,
astratta da ogni forma di necessità.
Questo specializzarsi della vista giunge a tal punto che, per lo più, la gente
comune non sa quale sia l’aspetto vero delle cose, e si verifica così un fatto
curioso: che il criterio usato dalla critica popolare nei riguardi della pittura,
quello cioè di una maggior o minore aderenza alla natura, non può dai più
essere applicato a proposito, a causa del tenore di vita da essi seguito. Infatti
le sole cose che essi hanno realmente «guardato» sono altri quadri, e
quando un artista, dopo aver osservato la natura, dà una chiara espressione
di qualcosa che egli ha visto in modo definitivo, ecco che questa gente si
indigna per la sua infedeltà rispetto alla natura.
Questo fatto si è riscontrato in una forma così costante ai nostri tempi che
non v’è necessità di provarlo. Basterà un esempio: Monet è un artista, il cui
maggior valore consiste nella sorprendente abilità di riprodurre fedelmente
certi aspetti della natura; eppure la sua innocenza davvero ingenua e la sua
sincerità furono interpretate dal pubblico come la più audace ciarlataneria; e
ci fu bisogno dell’insegnamento di uomini come Bastien Lepage, che
giunse a un compromesso fra la verità e una convenzione accettabile
sull’aspetto delle cose, per portare gradualmente il pubblico ad accettare
delle verità che avrebbero potuto essere stabilite, senza alcun dubbio, dopo
una passeggiata in campagna.
Benché questo senso di percezione più chiara, che è l’attributo
fondamentale della vita immaginativa, sia di notevole interesse ed abbia una
parte più grande nelle arti figurative che in ogni altra, potrebbe forse sorgere
il dubbio se quest’aspetto dell’immaginazione, pur così interessante, curioso
e attraente, sia per se stesso di grande importanza per l’umanità. Ma circa
l’aspetto emotivo, la questione è un’altra. Abbiamo ammesso che le
emozioni dell’immaginazione sono generalmente più deboli di quelle della
vita reale. Il quadro di un santo scorticato vivo, per quanto impressionante,
non produrrà le stesse sensazioni fisiche di rivoltante disgusto che
proverebbe un uomo moderno se assistesse in realtà a questo spettacolo; ma
le emozioni di cui sopra, in compenso, si presentano con maggior chiarezza
alla coscienza.
Le più intense emozioni della vita attuale hanno, credo, un effetto
paralizzante, simile all’impressione che il terrore produce in alcuni animali;
ma ammesso pure che questa esperienza non venga in generale ritenuta
valida, tutti sono però d’accordo sulla necessità di un’azione responsiva che
ci spinge innanzi e ci impedisce di determinare chiaramente di qual genere
sia l’emozione da noi provata e di coordinarla nel complesso di altre
condizioni. In breve, le emozioni che ci colpiscono nella realtà sono a noi
troppo vicine per consentirci di percepirle con totale chiarezza.
Sono, in un certo senso, inintelligibili. Nella vita immaginativa, al
contrario, noi possiamo sia provare l’emozione, che osservarla: quando, a
teatro, si è veramente commossi, si è contemporaneamente sul palcoscenico
e in platea.
Un’altra caratteristica delle emozioni della vita immaginativa consiste
nella possibilità di una nuova valutazione, dal momento che esse non
richiedono azione responsiva. Nella vita reale devono essere coltivate, in un
certo grado, quelle emozioni che ci conducono ad azioni utili, e si è indotti a
valorizzare le emozioni nei riguardi dell’azione che ne risulta. Così i
sentimenti di rivalità e di emulazione ottengono un successo e
un’approvazione probabilmente immeritate, laddove certi sentimenti che
sembrano avere un altro valore intrinseco, non son quasi considerati nella
vita attuale. Per esempio, quei sentimenti che furono non molto felicemente
definiti «emozioni cosmiche» non trovano quasi posto nella vita, ma dal
momento che appartengono alla profondità più intima della nostra natura,
diventano di grande importanza nel campo delle arti.
La morale quindi apprezza l’emozione secondo il criterio dell’azione che
ne deriva; l’arte apprezza l’emozione in se stessa e per se stessa. Questa
concezione dell’importanza essenziale che ha nell’arte l’espressione delle
emozioni rappresenta il nucleo fondamentale di quel libro assai originale,
sebbene ostinato e perfino esasperante, di Tolstoj, Che cos’è l’arte?, al
quale confesso sinceramente di dover moltissimo, benché disapprovi quasi
tutte le sue conclusioni.
Tolstoj dà un esempio di ciò che intende quando definisce l’arte come
mezzo per comunicare le emozioni. Supponiamo, dice, che un fanciullo sia
stato inseguito da un orso nella foresta. Se, ritornato al villaggio, racconta
semplicemente di essere stato inseguito da un orso e di essersi salvato, usa
un linguaggio comune che esprime fatti o idee; ma se egli descrive il suo
stato dapprima noncurante, poi il subitaneo allarme e il terrore all’apparire
dell’orso e infine il sollievo per la ricuperata salvezza, e descrive tutto ciò in
modo che gli uditori condividano le sue emozioni, allora la sua descrizione
è un’opera d’arte. Se invece vuole indurre i villici ad una spedizione per
uccidere la fiera, quand’anche si esprima in forma artistica, il suo racconto
non è una pura opera d’arte; ma se una sera d’inverno, il ragazzo narra la
sua vicenda per un godimento retrospettivo dell’avventura, o meglio se
inventa tutta la storia, per l’entusiasmo di immaginare emozioni, allora la
sua narrazione è pura opera d’arte.
Tuttavia Tolstoj appoggia l’altro punto di vista e valuta le emozioni
artistiche solamente per le reazioni che producono sulla vita reale, e
sostiene coraggiosamente questa concezione persino quando viene da essa
indotto a condannare come arte cattiva e falsa quella di Michelangelo,
Raffaello, Tiziano e in gran parte Beethoven, per citare solo alcuni nomi.
Tale concezione, penso, frenerebbe uno spirito meno eroico di Tolstoj, che
dovrebbe chiedersi se l’umanità abbia potuto sempre sbagliare così
radicalmente nei riguardi di una funzione, la quale, qualunque sia il suo
valore, è quasi universale. Si dovrebbe infatti trovare qualche altra parola
per esprimere ciò che noi chiamiamo arte.
La teoria di Tolstoj non regge saldamente per tutto il libro, poiché l’autore,
dando esempio di ciò che secondo lui è moralmente desiderabile, e quindi
buono in arte, deve ammettere di trovarlo soprattutto in opere di valore
inferiore. Ne deriva la tacita ammissione che bisogna applicare un criterio
diverso da quello morale. Si deve abbandonare il criterio di giudicare
l’opera d’arte dalle sue reazioni sulla vita e di considerarla come
un’espressione di emozioni che sono fini a se stesse. Il che ci riporta al
principio, cui già eravamo pervenuti, di considerare l’arte come espressione
della vita immaginativa.
Se un oggetto di qualsiasi specie è creato dall’uomo non per l’uso, né per
la sua utilità nella vita pratica, ma come oggetto d’arte, oggetto che
favorisce la vita dell’immaginazione, quali saranno le sue qualità? Esso
deve, in primo luogo, adattarsi a quella disinteressata intensità di
contemplazione, che, come si è detto, ha l’effetto di eliminare l’azione
responsiva; deve rientrare in quell’accresciuto potere di percezione che ne
consegue.
La prima qualità richiesta nelle sensazioni sarà l’ordine, senza il quale esse
risulteranno turbate e sconnesse; la seconda sarà la varietà, senza di cui esse
non saranno interamente eccitate.
Si potrebbe obiettare che molte cose in natura, come i fiori ad esempio,
posseggono in sommo grado queste due qualità, ordine e varietà, e che
questi oggetti eccitano e soddisfano quella chiara contemplazione
disinteressata che è caratteristica dell’attitudine estetica. Ma nella nostra
reazione a un’opera d’arte v’è qualcosa di più: v’è la coscienza dello scopo,
la coscienza di una peculiare relazione di simpatia con l’artista che creò
quest’opera, sì da determinare le sensazioni da noi sperimentate. Quando
siamo dinnanzi alle più insigni opere d’arte, in cui le sensazioni sono tali da
suscitare in noi profonde emozioni, questo legame tutto particolare con chi
le ha create diviene molto forte. Sentiamo che l’artista ha espresso qualcosa
che è stato sempre latente in noi, ma che non avevamo mai realizzato,
sentiamo che egli ha rivelato noi a noi stessi, rivelando il suo io. E questo
riconoscimento dell’intento è, a mio parere, parte essenziale di un esatto
giudizio estetico.
La percezione dell’ordine e della varietà intenzionali in un oggetto
produce in noi quella sensazione che esprimiamo, chiamando bello
l’oggetto stesso; ma quando le nostre emozioni vengono suscitate dalla
sensazione, chiediamo che anch’esse abbiano ordine e varietà intenzionali,
e se questo può essere ottenuto soltanto sacrificando la bellezza esteriore,
volentieri rinunciamo ad essa. Così se non v’è scusa per la bruttezza di un
vaso cinese, v’è ogni ragione nel fatto che i quadri di Rembrandt e di Degas
siano, dal semplice punto di vista sensibile, supremamente e
magnificamente brutti.
Credo che questo possa spiegare l’apparente contrasto fra i due distinti usi
della parola bellezza, uno per ciò che ha fascino sensibile ed uno per la
valutazione estetica delle opere dell’arte immaginativa, in cui gli oggetti
che ci vengono presentati sono spesso di una bruttezza estrema. Bellezza, in
un dato senso, appartiene alle opere d’arte in quanto si esercita soltanto
l’aspetto percettivo della vita immaginativa; bellezza, nell’altro senso,
diviene sovrasensibile ed è connessa con l’esattezza e l’intensità delle
emozioni suscitate. Quando queste vengono eccitate in modo da soddisfare
interamente le esigenze della vita immaginativa, noi approviamo e ci
compiaciamo delle sensazioni attraverso le quali godiamo di quella
esperienza intensificata; infatti esse possiedono ordine e varietà intenzionali
in rapporto alle suddette emozioni.
Un aspetto basilare dell’ordine in un’opera d’arte è l’unità; un’unità di
qualche sorta è necessaria perché noi contempliamo serenamente l’opera
come un tutto unico; giacché, se ne è priva, non si può contemplarla nella
sua interezza, ma dobbiamo uscire da essa per trovare altri elementi
necessari alla sua piena unità.
In un dipinto questa unità è dovuta all’equilibrarsi dei punti d’attrazione
visivi intorno alla linea centrale del quadro, e il risultato di questo equilibrio
d’attrazioni sta nel fatto che l’occhio si posa piacevolmente nei limiti del
quadro stesso. Denman Ross, dell’Università di Harvard, nel suo libro
Teoria del disegno puro, ha fatto un’analisi notevole delle considerazioni
elementari su cui si fonda questo equilibrio. Egli riassume il risultato delle
sue indagini nella formula che una composizione è valutabile in
proporzione al numero di ordinati rapporti in essa svolti. Il Ross si limita
saggiamente allo studio delle forme astratte e senza significato. Nel
momento in cui s’introduce la rappresentazione, le forme acquistano un
nuovo ordine di valori: così, una linea che rappresenta l’improvviso
inclinarsi di una testa avrebbe un valore di gran lunga superiore a quello che
ha come linea nella composizione, a causa dell’attrazione esercitata
sull’occhio da un gesto messo in particolare rilievo. In quasi tutti i dipinti ha
luogo questa perturbazione dei valori puramente decorativi da parte
dell’effetto rappresentativo, e il problema diventa troppo complesso per una
dimostrazione geometrica.
Questa unità puramente decorativa raggiunge, per di più, gradi di intensità
assai diversi, nei vari artisti e nelle varie epoche. La necessità di una
intricata disposizione compositiva è molto più sentita nel disegno eroico e
monumentale che nei pezzi di genere di piccole dimensioni.
Sembra pure probabile che il nostro apprezzamento dell’unità nei disegni
pittorici sia di due specie. Siamo talmente abituati a considerare soltanto
l’unità risultante dall’equilibrio delle attrazioni presentate simultaneamente
all’occhio nei limiti di un quadro, che dimentichiamo la possibilità di altre
forme pittoriche.
In certi dipinti cinesi la lunghezza è tale che è impossibile afferrare subito
l’intero quadro, né d’altronde questo è richiesto. Talora un paesaggio è
dipinto su un rotolo di tela così lungo che è possibile osservarlo solo in parti
successive. Svolgendo un’estremità e arrotolando l’altra, si passano in
rassegna larghe estensioni di paesaggio che rappresentano forse tutto il
percorso di un fiume dalla sorgente al mare; eppure quando l’opera sia ben
fatta, si riceve una viva impressione di unità pittorica.
Una simile unità successiva ci è naturalmente familiare nella letteratura e
nella musica, ha la sua parte nelle arti figurative, e dipende dalla
presentazione delle forme in una sequenza tale che ogni elemento venga
sentito in armoniosa e fondamentale relazione con il precedente. Credo che
nell’osservazione di disegni il senso dell’unità pittorica sia di tal natura; si
sente, se il disegno è buono, che ogni modulazione della linea dà ordine e
varietà alle nostre sensazioni, mentre l’occhio vi scorre sopra. Un tal
disegno potrebbe mancare quasi interamente di quell’equilibrio geometrico
che si richiede, di solito, ai dipinti, eppure potrebbe possedere un grado
notevole di unità.
Consideriamo ora come l’artista passi dal momento in cui accontenta
semplicemente un bisogno di ordine e di varietà sensibili, a quello in cui
suscita emozioni. Chiamerò elementi emotivi del disegno i vari metodi per
mezzo dei quali questo momento si realizza.
Il primo elemento è quello del ritmo della linea da cui sono delimitate le
forme: la linea disegnata è la registrazione di un movimento, e questo gesto
è modificato dal sentimento dell’artista, che in tal modo ci viene
direttamente comunicato.
Il secondo elemento è la massa: quando un oggetto è rappresentato in
modo tale che lo si riconosca come dotato di inerzia, noi avvertiamo il suo
potere di opporre resistenza al movimento, o di comunicare il suo proprio
movimento ad altri corpi, e la reazione dell’immaginazione a una tale
rappresentazione è guidata dalla nostra esperienza delle masse nella vita
reale.
Il terzo elemento è lo spazio: un quadrato di uguali proporzioni disegnato
su due pezzi di carta, col variare di mezzi molto semplici, può rappresentare
o un cubo di pochi centimetri o uno di centinaia di metri, cosicché la nostra
reazione varia in proporzione ad essi.
Il quarto elemento è quello della luce e dell’ombra: le nostre sensazioni
nei riguardi di uno stesso oggetto, cambiano totalmente, secondo che noi lo
vediamo fortemente illuminato su uno sfondo nero, o in ombra controluce.
Quinto elemento è il colore: il suo effetto emotivo diretto è evidente dagli
aggettivi che al colore vengono applicati: gaio, triste, malinconico.
Vorrei suggerire anche la possibilità di un altro elemento, benché forse non
sia che una composizione di massa e di spazio: l’inclinazione, rispetto
all’angolo visuale, di un piano sovrastante o sfuggente.
Si potrà ora notare che quasi tutti questi elementi e motivi del disegno
sono connessi con le condizioni essenziali della nostra esistenza fisica: il
ritmo con tutte le sensazioni che accompagnano l’attività muscolare, la
massa con tutti gli infiniti adattamenti alla forza di gravità cui siamo
costretti; il criterio spaziale ha uguale profondità ed universalità nella sua
applicazione alla vita reale; la sensazione circa i piani inclinati è connessa
col necessario criterio della conformazione della terra stessa, mentre la luce
è una condizione così necessaria all’esistenza che si diviene
straordinariamente sensibili al variare della sua intensità. Il colore è il solo
elemento che non sia di importanza critica o universale per la vita e il suo
effetto emotivo non è così profondo, né così chiaro come gli altri. È
evidente dunque che le arti figurative eccitano in noi delle emozioni,
giocando su quelle che possono essere chiamate le note principali di alcune
nostre esigenze fisiche fondamentali. Esse hanno, in vero, rispetto alla
poesia, il grande vantaggio di fare appello più diretto ed immediato alle
parti emotive della nostra pura esistenza fisica.
Se si rappresentassero questi vari elementi in semplici termini schematici,
si dovrebbe ammettere che l’effetto delle arti figurative sopra le emozioni è
molto scarso. Il ritmo della linea, ad esempio, ha un effetto
incomparabilmente più debole sul senso muscolare di quanto non abbia il
ritmo musicale rivolto all’udito: e i suddetti diagrammi potrebbero al più
ridestare delle eco deboli e fantastiche di emozioni di vario genere; tuttavia
quando questi elementi emotivi si combinano con la rappresentazione di
apparenze naturali, e soprattutto con l’apparenza del corpo umano, allora
questo effetto è smisuratamente approfondito. Quando si guarda, ad
esempio, il Geremia di Michelangelo e si comprende quale inestimabile
forza d’impulso contenga, si provano sentimenti di riverenza e di rispettoso
timore. Se osserviamo il «tondo» michelangiolesco degli Uffizi, e troviamo
un gruppo di figure composto in maniera tale che i piani hanno una
sequenza paragonabile, in larghezza e in dignità, alle modellazioni della
scena che si eleva con distinte gradazioni a una sommità dominante, allora
entrano in gioco innumerevoli reazioni istintive1.
A questo punto, un «avversario» (come lo chiama Leonardo da Vinci)
probabilmente ribatterebbe, dicendomi: «Hai separato dalle forme naturali
un numero di elementi cosiddetti emotivi, che tu stesso ammetti molto
deboli se venissero stabiliti secondo un diagramma; poi li riporti, con l’aiuto
di Michelangelo, a quelle forme naturali donde derivano, e subito essi
acquistano valore; cosicché, dopo tutto, sembra che le forme naturali
contengano questi elementi emotivi già pronti per noi e che l’arte quindi
non debba far altro che imitar la natura». Ma, ahimè! la natura è del tutto
insensibile alle necessità dell’immaginazione. Dio fa piovere sul giusto e
sull’ingiusto, e il sole trascura di provvedere ad un appropriato effetto di
luce perfino per un Napoleone trionfante o un Cesare morente2. Certo, non
possiamo essere sicuri che in natura gli elementi emotivi siano combinati in
modo appropriato alle richieste della vita immaginativa; e penso che sia
appunto il grande compito delle arti figurative quello di presentare anzitutto
ordine e varietà alla percezione sensibile, e, in secondo luogo, di sistemare
la presentazione sensibile degli oggetti in modo che gli elementi emotivi
siano attuati con un ordine ed una esattezza molto superiore a ciò che la
natura stessa ci offre.
Ricapitoliamo in breve ciò che si è detto sulle relazioni dell’arte con la
natura, che costituisce forse il più grande ostacolo per la comprensione delle
arti figurative.
Ho ammesso che vi è bellezza nella natura, cioè che certi oggetti (e forse
ogni oggetto ne ha la possibilità) costantemente ci obbligano a quell’intensa
contemplazione disinteressata che è propria dell’immaginazione e che è
impossibile provare nella vita reale piena di necessità e d’azione; ma ho
pure affermato che negli oggetti creati per suscitare il sentimento estetico si
viene ad aggiungere una coscienza del fine che si è proposto l’artista, che li
ha realizzati con lo scopo non di essere usati, bensì contemplati e goduti: e
che questa sensazione è caratteristica di un esatto giudizio estetico.
Quando l’artista passa dalle pure sensazioni alle emozioni suscitate da
queste sensazioni, si serve di forme naturali, con lo scopo di suscitare in noi
emozioni, e ce le presenta in modo tale che le forme stesse generano in noi
stati emotivi, basati sulle necessità fondamentali della nostra natura fisica e
psicologica. L’attitudine dell’artista verso le forme naturali è perciò
infinitamente varia, in relazione alle emozioni che egli desidera far sorgere.
Egli può aver bisogno, per il suo proposito, di rappresentare completamente
una figura, può essere profondamente realistico purché la sua
rappresentazione, sebbene aderente all’apparenza naturale, sviluppi in noi
appropriati elementi emotivi. Eppure può suggerirci semplicemente le
forme naturali ed affidarsi quasi interamente alla forza e all’intensità degli
elementi emotivi che si trovano nella sua rappresentazione.
Possiamo dunque rinnegare, una volta per sempre, l’idea della somiglianza
con la natura, dell’esattezza o inesattezza come pietra di paragone, e
considerare solamente se gli elementi emotivi nella forma naturale siano
adeguatamente messi in luce, a meno che l’idea emotiva dipenda
completamente dalla somiglianza o dalla completezza della
rappresentazione.
1
Si narra che Rodin abbia detto: «Una donna, una montagna, un cavallo sono la stessa cosa, sono
fatti secondo gli stessi principi». Il che significa che le loro forme, osservate con la visione
disinteressata della vita immaginativa, hanno elementi emotivi simili.
2
Non dimentico che alla morte di Tennyson un corrispondente del «Daily Telegraph» affermò
che «splendidi raggi della delirante luna si posavano a torrenti sul volto del bardo morente». Ma
allora, dopo tutto, anche il «Daily Telegraph» è, a modo suo, un’opera d’arte.
Posizioni non formaliste
negli anni Trenta.
Una visione antiformalista dell’arte astratta.
[Meyer Schapiro, Natura dell’arte astratta, 1937]
Più tardi, nel 1918, Malevič dipinse a Mosca una serie intitolata Bianco su
bianco, che proponeva un quadrato bianco su una superficie bianca. Nella
loro purezza, questi dipinti sembravano affiancarsi ai tentativi dei
matematici per ridurre la matematica ad aritmetica e l’aritmetica a logica.
Ma vi è una notevole carica emotiva in quest’arte «geometrica», come
mostrano i quadri intitolati Sensazione di suoni metallici, Sentimento del
volo, Sentimento dello spazio infinito. E anche nell’opera intitolata
Composizione si può vedere come il formalismo proprio dell’Astrattismo
miri a cogliere ed esprimere concretamente elementi soggettivi, anche
richiamandosi a tecniche della pittura precedente. Intento che deriva dai
conflitti e dall’insicurezza dell’artista e dalla sua concezione dell’arte come
dominio del privato. Barr analizza una composizione di due quadrati, come
«studio di equivalenza: il quadrato rosso, più piccolo ma di colore più
intenso e più attivo in quanto posto diagonalmente, tiene il campo contro il
quadrato nero, che è più grande ma di colore negativo e in posizione
statica». Barr definisce questo tipo di pittura come Astrattismo puro, per
distinguerlo dai disegni geometrici che, in ultima analisi, si richiamano a
una qualche rappresentazione figurativa; ma questa definizione non tiene
conto del rapporto fra questo quadro e un altro dello stesso Malevič per
altro riprodotto nel libro: Donna con secchi d’acqua, datato 1912. La
donna, una contadina, disegnata in stile cubista, bilancia tramite un’asta
posta sulle sue spalle due secchi d’acqua. Qui, la ricerca dell’equilibrio
come principio estetico fondamentale delle relazioni fra due unità poste in
corrispondenza, si concretizza in un «elementare» soggetto di genere, dove
però gli elementi in equilibrio non sono umani, ma forme inarticolate e
inorganiche in sospensione. Tuttavia, nonostante la dimensione umana sia
meramente allusiva e mascherata dal procedimento cubista, la scelta del
tema della contadina con i secchi d’acqua richiama un interesse sessuale e,
per il suo tramite, la dimensione emotiva che s’accompagna alla scelta da
parte dell’artista di questo suo particolare stile di astrazione.
L’importanza della condizione soggettiva dell’artista nell’elaborazione
degli stili astratti trova conferma nel rapporto tra arte cubista e pre-cubista.
Picasso, poco prima di passare al cubismo, dipingeva malinconici acrobati
da circo, arlecchini, attori, musicisti e mendicanti che vivevano ai margini
della società. In Acrobati del circo (1905), due acrobati provano i loro
numeri: quello in primo piano è un uomo maturo e robusto, squadrato e
seduto saldamente su un macigno cubico che ne richiama la struttura
corporea; la giovane fanciulla è invece snella, appena tratteggiata, non
modellata, e sta in equilibrio instabile in punta di piedi su una pietra sferica.
Lo stato di equilibrio, fondamentale per l’acrobata, anzi in certo senso la
sua stessa vita, richiama qui l’esperienza soggettiva dell’artista, in quanto
esecutore altrettanto esperto e interessato alla disposizione equilibrata delle
linee e delle masse che costituisce l’essenza della sua arte: un genere di
«attività» che consiste nella creazione personale di forme, e che lo estrania
dalla società in quanto egli le dedica la vita. Fra questo periodo e quello
cubista, nel quale la figura scompare del tutto, per lasciare il posto a piccoli
elementi geometrici costituiti da strumenti musicali, vasellame, carte da
gioco e altri oggetti d’uso, vi è una fase intermedia caratterizzata da figure
negroidi nelle quali la fisionomia umana si schematizza in volti primitivi e
selvaggi, e il corpo si riduce a una nudità impersonale costituita da linee
spezzate e marcate. È un tipo di figura che non deriva dal mondo esterno,
nemmeno da quello degli emarginati; ma nasce per così dire dall’arte:
dall’arte, questa volta, di un popolo tribale, isolato, considerato inferiore e
degno di attenzione soltanto come divertente spettacolo esotico, ad
eccezione dei pittori, che considerano quest’arte opera di artisti puri,
incontaminati, che creano affidandosi all’istinto e alla loro ingenua
sensibilità.
Se questa analisi è corretta, si può difficilmente concordare con quanto
afferma Barr circa il passaggio di Malevič all’Astrattismo: «Malevič seppe
prontamente prevedere il logico e inevitabile punto d’approdo dell’arte
europea», sicché disegnò un quadrato nero su fondo bianco.
2. Nel volume Lo spirituale nell’arte, pubblicato nel 1912, Kandinskij,
uno dei primi autori di quadri rigorosamente astratti, parla a più riprese
della necessità interna come dell’unico criterio di scelta degli elementi del
quadro, esattamente come la libertà interiore, precisa, è l’unico criterio
etico. Inoltre, egli non afferma che la rappresentazione figurativa ha
esaurito le sue possibilità, ma che il mondo materiale è illusorio e estraneo
allo spirito. La sua arte vuol essere una rivolta contro il «materialismo»
della società moderna, nel quale ricomprende la scienza e il movimento
socialista. «Quando la religione, la scienza e la moralità (quest’ultima
attraverso la forte mano di Nietzsche) vengono scossi, e quando i sostegni
esterni minacciano di crollare, si distoglie lo sguardo dall’esterno e lo si
rivolge a se stessi». Nel panorama culturale a lui contemporaneo, egli
apprezza, in quanto ispirati da interessi e motivazioni affini ai suoi,
l’occultismo, la teosofia, il culto del primitivismo e gli esperimenti
sinestesici. L’associazione tra suono e colore che si verifica in questo tipo di
esperienza, è importante per Kandinskij perché il meccanismo percettivo
passa in secondo piano, e la percezione s’identifica per così dire col
soggetto che percepisce, più che rapportarsi allo stimolo esterno come
solitamente avviene. Le sue posizioni più squisitamente estetiche riflettono
questa assunzione: «L’albero verde, giallo, rosso nel prato è soltanto […]
una forma materializzata accidentale dell’albero che percepiamo in noi
stessi quando udiamo la parola albero». E, descrivendo uno dei suoi primi
quadri astratti, dice:
Questa descrizione è più che altro l’analisi di un quadro che ho dipinto piuttosto inconsciamente, in
uno stato di forte tensione interiore. Avverto tanto intensamente la necessità di alcune forme, che
ricordo di essermi impartito ad alta voce direttive del genere: «Ma gli angoli devono essere pesanti».
Il fruitore deve imparare a considerare il quadro una rappresentazione grafica di uno stato d’animo, e
non una rappresentazione di oggetti (Barr, p. 66).
Più recentemente egli ha scritto:
In un quadro contemporaneo, un punto può essere più significativo di una figura umana […]
L’uomo ha sviluppato una nuova facoltà che gli consente di infrangere la corteccia della natura e di
coglierne l’essenza, il contenuto […] Il pittore ha bisogno di oggetti discreti, silenziosi, quasi
insignificanti […] Quanto è silenziosa una mela in confronto al Laocoonte. Un cerchio è ancor più
silenzioso («Cahiers d’Art», vol. VI, 1931, p. 351).
1
A.H. Barr Jr., Cubism and Abstract Art, New York 1936. Pubblicato dal Museum of Modern
Art come guida e catalogo della mostra della primavera del 1936.
Arte, cinema e fotografia: le masse e la
«riproducibilità tecnica»
[da Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della
sua riproducibilità tecnica, 1936]
[…]
Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un
elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica è
irripetibile nel luogo in cui si trova. Ma proprio su questa esistenza, e in
null’altro, si è attuata la storia a cui essa è stata sottoposta nel corso del suo
durare. In quest’ambito rientrano sia le modificazioni che essa ha subito
nella sua struttura fisica nel corso del tempo, sia i mutevoli rapporti di
proprietà in cui può essersi venuta a trovare1. La traccia delle prime può
essere reperita soltanto attraverso analisi chimiche o fisiche che non
possono venir eseguite sulla riproduzione; quella dei secondi è oggetto di
una tradizione la cui ricostruzione deve procedere dalla sede dell’originale.
L’hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua autenticità.
Analisi di genere chimico della patina di un bronzo possono essere
necessarie per la constatazione della sua autenticità; corrispondentemente,
la dimostrazione del fatto che un certo codice medievale proviene da un
archivio del secolo XV può essere necessaria per stabilirne l’autenticità.
L’intiero ambito dell’autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica – e
naturalmente non di quella tecnica soltanto2. Ma mentre l’autentico
mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione manuale, che di
regola viene da esso bollata come un falso, ciò non accade nel caso della
riproduzione tecnica. Essa può, per esempio mediante la fotografia, rilevare
aspetti dell’originale che sono accessibili soltanto all’obiettivo, che è
spostabile e in grado di scegliere a piacimento il suo punto di vista, ma non
all’occhio umano, oppure, con l’aiuto di certi procedimenti, come
l’ingrandimento o la ripresa al rallentatore, può cogliere immagini che si
sottraggono interamente all’ottica naturale. È questo il primo punto. Essa
può inoltre introdurre la riproduzione dell’originale in situazioni che
all’originale stesso non sono accessibili. In particolare, gli permette di
andare incontro al fruitore, nella forma della fotografia oppure del disco. La
cattedrale abbandona la sua ubicazione per essere accolta nello studio di un
amatore d’arte; il coro che è stato eseguito in un auditorio oppure all’aria
aperta può venir ascoltato in una camera.
Le circostanze in mezzo alle quali il prodotto della riproduzione tecnica
può venirsi a trovare possono lasciare intatta la consistenza intrinseca
dell’opera d’arte – ma in ogni modo determinano la svalutazione del suo hic
et nunc. Benché ciò non valga soltanto per l’opera d’arte, ma anche, e allo
stesso titolo, ad esempio, per un paesaggio che in un film si dispiega di
fronte allo spettatore, questo processo investe, dell’oggetto artistico, un
ganglio che in nessun oggetto naturale è così vulnerabile. Cioè: la sua
autenticità. L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin
dall’origine di essa, può venir tramandato, dalla sua durata materiale alla
sua virtù di testimonianza storica. Poiché quest’ultima è fondata sulla
prima, nella riproduzione, in cui la prima è sottratta all’uomo, vacilla anche
la seconda, la virtù di testimonianza della cosa. Certo, soltanto questa; ma
ciò che così prende a vacillare è precisamente l’autorità della cosa3.
Ciò che vien meno è insomma quanto può essere riassunto con la nozione
di «aura»; e si può dire: ciò che vien meno nell’epoca della riproducibilità
tecnica è l’«aura» dell’opera d’arte. Il processo è sintomatico; il suo
significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della
riproduzione, così si potrebbe formulare la cosa, sottrae il riprodotto
all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al
posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi. E permettendo alla
riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare
situazione, attualizza il riprodotto. Entrambi i processi portano a un violento
rivolgimento che investe ciò che viene tramandato – a un rivolgimento della
tradizione, che è l’altra faccia della crisi attuale e dell’attuale rinnovamento
dell’umanità. Essi sono strettamente legati ai movimenti di massa dei nostri
giorni. Il loro agente più potente è il cinema. Il suo significato sociale,
anche nella sua forma più positiva, e anzi proprio in essa, non è pensabile
senza quella distruttiva, catartica: la liquidazione del valore tradizionale
dell’eredità culturale. Questo fenomeno è particolarmente vistoso nei grandi
film storici. Esso vi conquista sempre nuove posizioni, e quando, nel 1927,
Abel Gance esclama entusiasticamente: «Shakespeare, Rembrandt,
Beethoven faranno dei film… Tutte le leggende, tutte le mitologie e tutti i
miti, tutti i fondatori di religioni, anzi tutte le religioni… aspettano la loro
risurrezione nel film, e gli eroi si accalcano alle porte»4, senza rendersene
conto, invita a una liquidazione generale.
Nel giro di lunghi periodi storici, insieme coi modi complessivi di esistenza
delle collettività umane, si modificano anche i modi e i generi della loro
percezione sensoriale. Il modo secondo cui si organizza la percezione
sensoriale umana – il medium in cui essa ha luogo –, non è condizionato
soltanto in senso naturale, ma anche storico. L’epoca delle invasioni
barbariche, durante la quale sorge l’industria artistica tardo-romana e la
Genesi di Vienna5, possedeva non soltanto un’arte diversa da quella antica,
ma anche un’altra percezione. Gli studiosi della scuola viennese, Riegl e
Wickhoff, opponendosi al peso della tradizione classica che gravava sopra
quell’arte, sono stati i primi ad avere l’idea di trarre da essa conclusioni a
proposito della percezione nell’epoca in cui essa veniva riconosciuta. Per
quanto notevoli fossero i loro risultati, essi avevano un limite nel fatto che
questi studiosi si accontentavano di rilevare il contrassegno formale proprio
della percezione nell’epoca tardo-romana. Essi non hanno mai tentato – e
forse non potevano sperare di riuscirvi – di mostrare i rivolgimenti sociali
che in questi cambiamenti della percezione trovavano un’espressione. Per
quanto riguarda il presente, le condizioni per una corrispondente
comprensione sono più favorevoli. E se le modificazioni nel medium della
percezione di cui noi siamo contemporanei possono venir intese come una
decadenza dell’«aura», sarà anche possibile indicarne i presupposti sociali.
Cade qui opportuno illustrare il concetto, sopra proposto, di aura a
proposito degli oggetti storici mediante quello applicabile agli oggetti
naturali. Noi definiamo questi ultimi apparizioni uniche di una lontananza,
per quanto questa possa essere vicina. Seguire, in un pomeriggio d’estate,
una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra
sopra colui che si riposa – ciò significa respirare l’aura di quelle montagne,
di quel ramo. Sulla base di questa descrizione è facile comprendere il
condizionamento sociale dell’attuale decadenza dell’aura. Essa si fonda su
due circostanze, entrambe connesse con la sempre maggiore importanza
delle masse nella vita attuale. E cioè: rendere le cose, spazialmente e
umanamente, più vicine è per le masse attuali un’esigenza vivissima6,
quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante
la ricezione della sua riproduzione. Ogni giorno si fa valere in modo sempre
più incontestabile l’esigenza a impossessarsi dell’oggetto da una distanza il
più possibile ravvicinata nell’immagine, o meglio nell’effigie, nella
riproduzione. E inequivocabilmente la riproduzione, quale viene proposta
dai giornali illustrati o dai settimanali, si differenzia dall’immagine diretta,
dal quadro. L’unicità e la durata s’intrecciano strettissimamente in
quest’ultimo, quanto la labilità e la ripetibilità nella prima. La liberazione
dell’oggetto dalla sua guaina, la distruzione dell’aura sono il contrassegno
di una percezione la cui sensibilità per ciò che nel mondo è dello stesso
genere è cresciuta a un punto tale che essa, mediante la riproduzione,
attinge l’uguaglianza di genere anche in ciò che è unico. Così, nell’ambito
dell’intuizione si annuncia ciò che nell’ambito della teoria si manifesta
come un incremento dell’importanza della statistica. L’adeguazione della
realtà alle masse e delle masse alla realtà è un processo di portata illimitata
sia per il pensiero sia per l’intuizione.
L’unicità dell’opera d’arte si identifica con la sua integrazione nel contesto
della tradizione. È vero che questa tradizione è a sua volta qualcosa di
vivente, qualcosa di straordinariamente mutevole. Un’antica statua di
Venere, per esempio presso i greci, che la rendevano oggetto di culto, stava
in un contesto tradizionale completamente diverso da quello in cui la
ponevano i monaci medievali, che vedevano in essa un idolo maledetto. Ma
ciò che si faceva incontro sia ai primi sia ai secondi era la sua unicità, in
altre parole: la sua aura. Il modo originario di articolazione dell’opera d’arte
dentro il contesto della tradizione trovava la sua espressione nel culto. Le
opere d’arte più antiche sono nate, com’è noto, al servizio di un rituale,
dapprima magico, poi religioso. Ora, riveste un significato decisivo il fatto
che questo modo di esistenza, avvolto da un’aura particolare, non possa mai
staccarsi dalla sua funzione rituale7. In altre parole: il valore unico
dell’opera d’arte autentica trova una sua fondazione nel rituale, nell’ambito
del quale ha avuto il suo primo e originario valore d’uso. Questo fondarsi,
per mediato che sia, è riconoscibile, nella forma di un rituale secolarizzato,
anche nelle forme più profane del culto della bellezza8. Il culto profano
della bellezza, che si configura con il Rinascimento per poi restare valido
lungo tre secoli, dà a riconoscere chiaramente quei fondamenti, una volta
scaduto questo termine, al momento del primo serio scuotimento da cui sia
stato colpito. Vale a dire: quando, con la nascita del primo mezzo di
riproduzione veramente rivoluzionario, la fotografia (contemporaneamente
al delinearsi del socialismo), l’arte avvertì l’approssimarsi di quella crisi
che passati altri cento anni è diventata innegabile, essa reagì con la dottrina
dell’arte per l’arte, che costituisce una teologia dell’arte. Successivamente
da essa è proceduta addirittura una teologia negativa nella forma dell’idea
di un’arte «pura», la quale, non soltanto respinge qualsivoglia funzione
sociale, ma anche qualsiasi determinazione da parte di un elemento
oggettivo. (Nella poesia, Mallarmé è stato il primo a raggiungere questo
stadio).
Tenere conto di queste connessioni è indispensabile per un’analisi che
abbia a che fare con l’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica.
Perché esse prefigurano una scoperta decisiva per questo ambito: la
riproducibilità tecnica dell’opera d’arte emancipa per la prima volta nella
storia del mondo quest’ultima dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito
del rituale. L’opera d’arte riprodotta diventa in misura sempre maggiore la
riproduzione di un’opera d’arte predisposta alla riproducibilità9. Di una
pellicola fotografica per esempio è possibile tutta una serie di stampe; la
questione della stampa autentica non ha senso. Ma nell’istante in cui il
criterio dell’autenticità nella produzione dell’arte viene meno, si trasforma
anche l’intera funzione dell’arte. Al posto della sua fondazione nel rituale
s’instaura la fondazione su un’altra prassi: vale a dire il suo fondarsi sulla
politica.
La ricezione di opere d’arte avviene secondo accenti diversi, due dei quali,
tra loro opposti, assumono uno specifico rilievo. Il primo di questi accenti
cade sul valore cultuale, l’altro sul valore espositivo dell’opera d’arte10. La
produzione artistica comincia con figurazioni che sono al servizio del culto.
Di queste figurazioni si può ammettere che il fatto che esistano è più
importante del fatto che vengano viste. L’alce che l’uomo dell’età della
pietra raffigura sulle pareti della sua caverna è uno strumento magico. Egli
lo espone davanti ai suoi simili; ma prima di tutto è dedicato agli spiriti.
Oggi sembra addirittura che il valore cultuale come tale induca a mantenere
l’opera d’arte nascosta: certe statue degli dèi sono accessibili soltanto al
sacerdote nella sua cella. Certe immagini della Madonna rimangono
invisibili per quasi tutto l’anno, certe sculture dei duomi medievali non sono
visibili per il visitatore che stia in basso. Con l’emancipazione di
determinati esercizi artistici dall’ambito del rituale, le occasioni di
esposizione dei prodotti aumentano. L’esponibilità di un ritratto a mezzo
busto, che può essere inviato in qualunque luogo, è maggiore di quella della
statua di un dio che ha la sua sede permanente all’interno di un tempio.
L’esponibilità di una tavola è maggiore di quella del mosaico o dell’affresco
che l’hanno preceduta. E se l’esponibilità di una messa per natura non era
probabilmente più ridotta di quella di una sinfonia, tuttavia la sinfonia
nacque nel momento in cui la sua esponibilità prometteva di diventare
maggiore di quella di una messa.
Coi vari metodi di riproduzione tecnica dell’opera d’arte, la sua
esponibilità è cresciuta in una misura così poderosa, che la discrepanza
quantitativa tra i suoi due poli si è trasformata, analogamente a quanto è
avvenuto nelle età primitive, in un cambiamento qualitativo della sua
natura. E cioè: così come nelle età primitive, attraverso il peso assoluto del
suo valore cultuale, l’opera d’arte era diventata uno strumento della magia,
che in certo modo soltanto più tardi venne riconosciuto quale opera d’arte,
oggi, attraverso il peso assoluto assunto dal suo valore di esponibilità,
l’opera d’arte diventa una formazione con funzioni completamente nuove,
delle quali quella di cui siamo consapevoli, cioè quella artistica, si profila
come quella che in futuro potrà venir riconosciuta marginale11. Certo è che
attualmente la fotografia, e poi il cinema, forniscono gli spunti più fecondi
per il riconoscimento di questo dato di fatto.
Nella fotografia il valore di esponibilità comincia a sostituire su tutta la
linea il valore cultuale. Ma quest’ultimo non si ritira senza opporre
resistenza. Occupa un’ultima trincea, che è costituita dal volto dell’uomo.
Non a caso il ritratto è al centro delle prime fotografie. Nel culto del ricordo
dei cari lontani o defunti il valore cultuale del quadro trova il suo ultimo
rifugio. Nell’espressione fuggevole di un volto umano, dalle prime
fotografie, emana per l’ultima volta l’aura. È questo che ne costituisce la
malinconica e incomparabile bellezza. Ma quando l’uomo scompare dalla
fotografia, per la prima volta il valore espositivo propone la propria
superiorità sul valore cultuale. Il fatto di aver dato una propria sede a questo
processo costituisce l’importanza incomparabile di Atget, che verso il 1900
fissò gli aspetti delle vie parigine, vuote di uomini. Molto giustamente è
stato detto che egli fotografava le vie come si fotografa il luogo di un
delitto. Anche il luogo di un delitto è vuoto di uomini. Viene fotografato per
avere indizi. Con Atget, le riprese fotografiche cominciano a diventare
documenti di prova nel processo storico. È questo che ne costituisce il
nascosto carattere politico. Esse esigono già la ricezione in un senso
determinato. La fantasticheria contemplativa liberamente divagante non si
addice alla loro natura. Esse inquietano l’osservatore; egli sente che per
accedervi deve cercare una strada particolare. Contemporaneamente i
giornali illustrati cominciano a proporgli una segnaletica. Vera o falsa – è
indifferente. In essi è diventata per la prima volta obbligatoria la didascalia.
Ed è chiaro che essa ha un carattere completamente diverso dal titolo di un
dipinto. Le direttive che colui che osserva le immagini in un giornale
illustrato si vede impartite attraverso la didascalia, diventeranno ben presto
più precise e impellenti nel film, dove l’interpretazione di ogni singola
immagine appare prescritta dalla successione di tutte quelle che sono già
trascorse.
La disputa, che ebbe luogo nel corso del secolo XIX, tra la pittura e la
fotografia, intorno al valore artistico dei reciproci prodotti appare oggi fuori
luogo e confusa. Ciò non intacca tuttavia il suo significato e anzi potrebbe
anche sottolinearlo. Di fatto questa disputa era espressione di un
rivolgimento di portata storica mondiale, di cui nessuno dei due contendenti
era consapevole. Privando l’arte del suo fondamento cultuale, l’epoca della
sua riproducibilità tecnica estinse anche e per sempre l’apparenza della sua
autonomia. Ma la modificazione della funzione dell’arte, che così si
delineava, oltrepassava il campo di visuale del secolo. E del resto sfuggì a
lungo anche al secolo XX, che stava vivendo lo sviluppo del cinema.
Se già precedentemente era stato sprecato molto acume per decidere la
questione se la fotografia fosse un’arte – ma senza che ci si fosse posta la
domanda preliminare: e cioè, se attraverso la scoperta della fotografia non si
fosse modificato il carattere complessivo dell’arte –, i teorici del cinema
ripresero ben presto questa male impostata problematica. Ma le difficoltà
che la fotografia aveva procurato all’estetica tradizionale, erano un gioco
per bambini in confronto con quelle che il cinema avrebbe suscitato. Da qui
la cieca violenza che caratterizza gli inizi della teoria cinematografica. Così,
per esempio, Abel Gance paragona il film ai geroglifici: «E così, in seguito
a un ritorno, estremamente singolare, a ciò che è già stato, ci ritroviamo sul
piano espressivo degli egiziani… Il linguaggio delle immagini non è ancora
giunto alla sua maturità, perché il nostro occhio non è ancora alla sua
altezza. Non c’è ancora una sufficiente considerazione, non c’è ancora un
culto sufficiente per ciò che in esso si esprime»12. Oppure scrive Séverin-
Mars: «A quale arte era serbato un sogno, che… potesse essere più poetico
e più reale insieme! Considerato da questo punto di vista, il cinema
rappresenterebbe un mezzo d’espressione assolutamente incomparabile, e
nella sua atmosfera dovrebbero muoversi soltanto persone dalla mentalità
nobilissima e negli attimi più perfetti e più misteriosi della loro vita»13.
Alexandre Arnoux, dal canto suo, conclude una fantasia sopra il cinema
muto addirittura con questa domanda: «Tutte le audaci descrizioni, di cui
così ci siamo serviti, non tendono per caso a una definizione della
preghiera?»14. È molto istruttivo osservare come lo sforzo di far rientrare il
cinema nell’arte costringa tutti questi teorici ad attribuirgli, con una
pervicacia senza precedenti, quegli elementi cultuali che non ha. Eppure,
all’epoca in cui venivano pubblicate queste elucubrazioni, esistevano già
opere come Una donna di Parigi e La febbre dell’oro. Ciò non impedisce
ad Abel Gance di ricorrere alla comparazione con i geroglifici, e Séverin-
Mars parla del cinema come si potrebbe parlare delle pitture del Beato
Angelico. È caratteristico che, anche oggi, specialmente certi autori
reazionari cerchino il significato del film nella stessa direzione; se non
addirittura nel sacrale, perlomeno nel sovrannaturale. In occasione della
riduzione cinematografica, ad opera di Reinhardt, del Sogno di una notte
d’estate, Werfel afferma che indubbiamente, a bloccare l’accesso del film al
regno dell’arte, è la sterile copia del mondo esterno, con le sue strade, i suoi
interni, le sue stazioni, ristoranti, macchine, spiagge. «Il film non ha ancora
percepito il suo vero senso, le sue reali possibilità… Esse consistono nella
possibilità che gli è peculiare di portare all’espressione con mezzi naturali e
con una capacità di convincimento assolutamente incomparabile ciò che è
magico, meraviglioso, sovrannaturale»15.
[…]
Uno dei compiti principali dell’arte è stato da sempre quello di generare
esigenze che non è in grado di soddisfare attualmente16. La storia di ogni
forma d’arte conosce periodi critici in cui questa determinata forma mira a
certi risultati, i quali potranno per forza essere ottenuti soltanto a un livello
tecnico diverso, cioè attraverso una nuova forma d’arte. Le stravaganze e
prevaricazioni che da ciò conseguono, specie nelle cosiddette epoche di
decadenza, procedono in realtà dal loro centro di forza storicamente più
ricco. Di simili forme barbariche brulicava ancora, recentemente, il
Dadaismo. L’impulso che lo muoveva è riconoscibile soltanto oggi: il
Dadaismo cercava di ottenere con i mezzi della pittura (oppure della
letteratura) quegli effetti che oggi il pubblico cerca nel cinema.
Ogni formulazione nuova, rivoluzionaria, di determinate esigenze è
destinata a colpire al di là del suo bersaglio. Il Dadaismo lo fa nella misura
in cui sacrifica i valori di mercato, che ineriscono al film in così larga
misura, a favore di intenzioni di maggior rilievo – delle quali naturalmente
non è consapevole nella forma che qui viene descritta. I dadaisti davano
all’utilizzabilità mercantile delle loro opere un peso molto minore che non
alla loro inutilizzabilità nel senso di oggetti di un rapimento contemplativo.
Essi cercavano di attingere questa inutilizzabilità, non in ultima istanza
mediante una radicale degradazione del loro materiale. Le loro poesie sono
insalate di parole, contengono locuzioni oscene e tutti i possibili e
immaginabili cascami del linguaggio. Non altrimenti i loro dipinti, dentro i
quali essi montavano bottoni o biglietti ferroviari. Ciò che essi ottengono
con questi mezzi è uno spietato annientamento dell’aura dei loro prodotti, ai
quali, coi mezzi della produzione, imponevano il marchio della
riproduzione. Di fronte a un quadro di Arp o a una poesia di August
Stramm è impossibile concedersi, come di fronte a un quadro di Derain o a
una lirica di Rilke, il tempo per il raccoglimento e per un giudizio. Al
rapimento, che con la decadenza della borghesia è diventato una scuola di
comportamento asociale, si contrappone la diversione quale varietà di
comportamento sociale17. Effettivamente, le manifestazioni dadaiste
concedevano una diversione veramente violenta rendendo l’opera d’arte
centro di uno scandalo. L’opera d’arte era chiamata principalmente a
soddisfare un’esigenza: quella di suscitare la pubblica indignazione.
Coi dadaisti, dalla parvenza attraente o dalla formazione sonora capace di
convincere, l’opera d’arte diventò un proiettile. Venne proiettata contro
l’osservatore. Assunse una qualità tattile. In questo modo ha favorito
l’esigenza di cinema, il cui elemento diversivo è appunto in primo luogo di
ordine tattile, si fonda cioè sul mutamento dei luoghi dell’azione e delle
inquadrature, che investono gli spettatori a scatti. Si confronti la tela su cui
viene proiettato il film con la tela su cui si trova il dipinto. Quest’ultimo
invita l’osservatore alla contemplazione; di fronte ad esso lo spettatore può
abbandonarsi al flusso delle sue associazioni. Di fronte all’immagine
filmica non può farlo. Non appena la coglie visivamente, essa si è già
modificata. Non può venir fissata. Duhamel, che odia il cinema, che non ha
capito nulla del suo significato ma ha capito parecchie cose della sua
struttura, definisce questo fatto nella nota che segue: «Non sono già più in
grado di pensare quello che voglio pensare. Le immagini mobili si sono
sistemate al posto del mio pensiero»18. Effettivamente il flusso associativo
di colui che osserva queste immagini viene subito interrotto dal loro mutare.
Su ciò si basa l’effetto di shock del film, che, come ogni effetto di shock
esige di essere accolto con una maggiore presenza di spirito19. In virtù della
sua struttura tecnica, il film riesce a liberare l’effetto di shock fisico, che il
Dadaismo manteneva ancora impaccato, per così dire, nell’effetto di shock
morale, da questo imballaggio20.
La massa è una matrice dalla quale attualmente esce rinato ogni
comportamento abituale nei confronti delle opere d’arte. La quantità si è
ribaltata in qualità: le masse sempre più vaste dei partecipanti hanno
determinato un modo diverso di partecipazione. L’osservatore non deve
lasciarsi ingannare dal fatto che questa partecipazione si manifesta
dapprima in forme screditate. Eppure non sono mancati quelli che si sono
pervicacemente attenuti a questo aspetto superficiale della cosa. Tra costoro
Duhamel è colui che si è espresso nel modo più radicale. Egli riconosce al
film un peculiare modo di partecipazione da parte delle masse. Egli
definisce il film «un passatempo per iloti, una distrazione per creature
incolte, miserabili, esaurite dal lavoro, dilaniate dalle loro
preoccupazioni…, uno spettacolo che non esige alcuna concentrazione, che
non presuppone la facoltà di pensare…, che non accende nessuna luce nel
cuore e non suscita alcuna speranza se non quella, ridicola, di diventare un
giorno, a Los Angeles, una star»21. È evidente che si tratta in fondo della
vecchia accusa secondo cui le masse cercano soltanto distrazione, mentre
l’arte esige dall’osservatore il raccoglimento. Si tratta di un luogo comune.
Resta soltanto da vedere se esso costituisca un terreno utile per lo studio del
cinema. – È opportuno qui considerare le cose più da vicino. La distrazione
e il raccoglimento vengono contrapposti in un modo tale che consente
questa formulazione: colui che si raccoglie davanti all’opera d’arte vi si
sprofonda; penetra nell’opera, come racconta la leggenda di un pittore
cinese alla vista della sua opera compiuta. Inversamente, la massa distratta
fa sprofondare nel proprio grembo l’opera l’arte. Ciò avviene nel modo più
evidente per gli edifici.
L’architettura ha sempre fornito il prototipo di un’opera d’arte la cui
ricezione avviene nella distrazione e da parte della collettività. Le leggi
della sua ricezione sono le più istruttive.
Gli edifici accompagnano l’umanità fin dalla sua preistoria. Molte forme
d’arte si sono generate e poi sono morte. La tragedia nasce coi greci per
estinguersi con loro e per poi rinascere dopo secoli; ma ne rinascono
soltanto le regole. L’epopea, la cui origine risale alla giovinezza dei popoli,
si estingue in Europa, con l’inizio del Rinascimento. La pittura su tavola è
un frutto del Medioevo e nulla può garantirle una durata ininterrotta. Ma il
bisogno dell’uomo di una dimora è ininterrotto. L’architettura non ha mai
conosciuto pause. La sua storia è più lunga di quella di qualsiasi altra arte;
rendersi conto del suo influsso è importante per qualunque tentativo di
comprendere il rapporto tra le masse e l’opera d’arte. Delle costruzioni si
fruisce in un duplice modo: attraverso l’uso e attraverso la percezione. O, in
termini più precisi: in modo tattico e in modo ottico. Non è possibile
definire il concetto di una simile ricezione se essa viene immaginata sul tipo
di quelle raccolte per esempio dai viaggiatori di fronte a costruzioni famose.
Non c’è nulla, dal lato tattico che faccia da contropartita di ciò che, dal lato
ottico, è costituito dalla contemplazione. La fruizione tattica non avviene
tanto sul piano dell’attenzione quanto su quello dell’abitudine. Nei
confronti dell’architettura, anzi, quest’ultima determina ampiamente perfino
la ricezione ottica. Anch’essa, in sé, avviene molto meno attraverso
un’attenta osservazione che non attraverso sguardi occasionali. Questo
genere di ricezione, che si è generata nei confronti dell’architettura ha
tuttavia, in certe circostanze, un valore canonico. Poiché i compiti che in
epoche di trapasso storico vengono posti all’apparato percettivo umano, non
possono essere assolti per vie meramente ottiche, cioè contemplative. Se ne
viene a capo a poco a poco grazie all’intervento della ricezione tattica,
all’abitudine.
Anche colui che è distratto può abituarsi. Più ancora: il fatto di essere in
grado di assolvere certi compiti anche nella distrazione dimostra
innanzitutto che per l’individuo in questione è diventata un’abitudine
assolverli. Attraverso la distrazione, quale è offerta dall’arte, si può
controllare di sottomano in che misura l’appercezione è in grado di
assolvere compiti nuovi. Poiché del resto il singolo sarà sempre tentato di
sottrarsi a questi compiti, l’arte affronterà quello più difficile e più
importante quando riuscirà a mobilitare le masse. Attualmente essa fa
questo attraverso il cinema. La ricezione nella distrazione, che si fa sentire
in modo sempre più insistente in tutti i settori dell’arte e che costituisce il
sintomo di profonde modificazioni dell’appercezione, trova nel cinema lo
strumento più autentico su cui esercitarsi. Grazie al suo effetto di shock il
cinema favorisce questa forma di ricezione. Il cinema svaluta il valore
cultuale non soltanto inducendo il pubblico a un atteggiamento valutativo,
ma anche per il fatto che al cinema l’atteggiamento valutativo non implica
attenzione. Il pubblico è un esaminatore, ma un esaminatore distratto.
Postilla
La progressiva proletarizzazione degli uomini d’oggi e la formazione
sempre crescente di masse sono due aspetti di un unico e medesimo
processo. Il fascismo cerca di organizzare le recenti masse proletarizzate
senza però intaccare i rapporti di proprietà di cui esse perseguono
l’eliminazione. Il fascismo vede la propria salvezza nel consentire alle
masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri diritti)22. Le masse
hanno diritto a un cambiamento dei rapporti di proprietà; il fascismo cerca
di fornire loro una espressione nella conservazione delle stesse. Il fascismo
tende conseguentemente a un’estetizzazione della vita politica. Alla
violenza esercitata sulle masse, che vengono schiacciate nel culto di un
duce, corrisponde la violenza da parte di un’apparecchiatura, di cui esso si
serve per la produzione di valori cultuali.
Tutti gli sforzi in vista di un’estetizzazione della politica convergono verso
un punto. Questo punto è la guerra.
[…]
«Fiat ars – pereat mundus», dice il fascismo, e, come ammette Marinetti,
si aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione
sensoriale modificata dalla tecnica. È questo, evidentemente, il compimento
dell’arte per l’arte. L’umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli dèi
dell’Olimpo, ora lo è diventata per se stessa. La sua autoestraniazione ha
raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come
un godimento estetico di prim’ordine. Questo è il senso dell’estetizzazione
della politica che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la
politicizzazione dell’arte.
1
Naturalmente la storia dell’opera d’arte abbraccia anche altre cose; la storia della Gioconda, per
esempio, il genere e il numero delle copie che ne sono state fatte nel XVII, nel XVIII, e nel XIX
secolo.
2
Proprio perché l’autenticità non è riproducibile, l’intensa diffusione di certi procedimenti
riproduttivi – tecnici – ha offerto strumenti per una differenziazione e una graduazione
dell’autenticità. Una delle funzioni più importanti del mercato artistico era quella di elaborare
queste distinzioni. Con l’invenzione della silografia, si può dire che la qualità costituita dalla
autenticità veniva colpita alle radici, prima ancora di conoscere la sua tarda fioritura. Un’effigie
medievale della Madonna, al momento in cui veniva dipinta, non era ancora autentica; diventa
autentica nel corso dei secoli successivi e nel modo più pieno, forse, nel secolo scorso.
3
Anche la più scadente rappresentazione del Faust in una città di provincia presuppone, rispetto
a un film tratto dal Faust, il fatto di essere in un rapporto di ideale concorrenza con la prima di
Weimar. E tutto ciò che ci si può ricordare, quanto a contenuti tradizionali, di fronte al
palcoscenico, diventa inutilizzabile di fronte allo schermo cinematografico – per esempio, che
nel personaggio di Mefistofele si nasconde un amico di gioventù di Goethe, Johann Heinrich
Merck, e simili.
4
A. Gance, Le temps de l’image est venu [Il tempo dell’immagine è giunto] (L’art
cinématographique [L’arte cinematografica], II, Paris 1927, pp. 94 sgg.).
5
La Wiener Genesis è un famoso codice viennese del libro biblico della Genesi, probabilmente
del secolo VI, particolarmente rinomato per le sue miniature, su cui cfr. F. Wickhoff, Die Wiener
Genesis, Wien 1895 (N.d.T.).
6
Avvicinarsi umanamente alle masse può voler dire: eliminare dal campo visuale la funzione
sociale. Nulla garantisce che un ritrattista attuale che dipinga un chirurgo famoso nell’atto di fare
colazione in mezzo ai suoi congiunti, ne colga la funzione sociale in modo più preciso di un
pittore del secolo xvI che dipingeva i suoi medici nelle loro mansioni, come per esempio
Rembrandt nell’Anatomia.
7
Definire l’aura un’«apparizione unica di una distanza, per quanto questa possa essere vicina»
non significa altro che formulare, usando i termini delle categorie della percezione spazio-
temporale, il valore cultuale dell’opera d’arte. La distanza è il contrario della vicinanza. Ciò che
è sostanzialmente lontano è l’inavvicinabile. Di fatto l’inavvicinabilità è una delle qualità
principali dell’immagine cultuale. Essa rimane, per sua natura, «lontananza, per quanto vicina».
La vicinanza che si può strappare alla sua materia non elimina la lontananza che essa conserva
dopo il suo apparire.
8
Nella misura in cui il valore cultuale del quadro si secolarizza, le rappresentazioni del substrato
della sua unicità diventano più indeterminate. Nell’appercezione del fruitore l’irripetibilità delle
immagini, che appaiono nell’opera cultuale, viene sempre più sostituita dalla unicità empirica
dell’esecutore o della sua esecuzione. Certo, ciò non avviene mai senza residui; il concetto di
irripetibilità non cessa mai di tendere oltre quello dell’attribuzione autentica. (Ciò si rivela con
particolare evidenza nella persona del collezionista, il quale conserva sempre alcuni tratti
caratteristici del servo di un feticcio e che, attraverso il possesso dell’opera d’arte, partecipa alla
virtù cultuale di questa). Fermo restando tutto ciò, la funzione del concetto di autenticità nella
considerazione dell’arte rimane univoco; con la secolarizzazione dell’arte, l’autenticità si pone al
posto del valore cultuale.
9
Nel caso delle opere cinematografiche la riproducibilità tecnica del prodotto non è, come per
esempio nel caso delle opere letterarie o dei dipinti, una condizione di origine esterna della loro
diffusione tra le masse. La riproducibilità tecnica dei film si fonda immediatamente nella tecnica
della loro produzione. Questa non soltanto permette immediatamente la diffusione in massa delle
opere cinematografiche: piuttosto, addirittura la impone. La impone poiché la produzione di un
film è così cara che un singolo in grado di possedere un dipinto, non è in grado di possedere un
film. Nel 1927 si è calcolato che un film impegnativo, per diventare redditizio, doveva
raggiungere un pubblico di nove milioni di persone. Col film sonoro si è manifestata una
tendenza inversa; il suo pubblico venne a trovarsi limitato dai confini linguistici, e ciò avvenne
contemporaneamente all’accentuazione degli interessi nazionali da parte del fascismo. Più che
registrare questa recessione, che peraltro venne subito attenuata mediante la sincronizzazione, è
importante considerare il suo nesso col fascismo. La contemporaneità dei due fenomeni si basa
sulla crisi economica. Le stesse perturbazioni che, viste nel loro complesso, hanno portato al
tentativo di conservare con l’uso aperto della forza i rapporti di proprietà costituiti, hanno indotto
il capitale cinematografico ad accelerare i lavori preliminari per la produzione di film sonori.
L’avvento del film sonoro produsse un temporaneo sollievo. E ciò non soltanto perché il film
sonoro indusse di nuovo le masse ad andar al cinema, ma anche perché esso stabilì la solidarietà
di nuovi capitali, che venivano dall’industria elettrica, col capitale cinematografico.
Così, visto dall’esterno, il cinema sonoro ha promosso gli interessi nazionali, ma visto
dall’interno ha internazionalizzato ancora di più la produzione cinematografica.
10
Questa polarità non può venir riconosciuta dall’estetica dell’idealismo, il cui concetto di
bellezza in fondo la definisce come indistinta (e coerentemente la esclude in quanto distinta).
Tuttavia, in Hegel essa si annuncia con la chiarezza maggiore possibile nei limiti dell’idealismo.
Nelle Lezioni sulla filosofia della storia si legge: «I dipinti si avevano già da tempo: la religiosità
ne aveva bisogno per la devozione, ma non aveva bisogno di dipinti belli, anzi questi ultimi
erano perfino fastidiosi. Nel dipinto bello è presente anche un che di esterno, ma nella misura in
cui è bello, il suo spirito si rivolge all’uomo; ma in quella devozione, essenziale è il rapporto con
una cosa, poiché essa stessa non è altro che un oscurarsi, privo di spirito, dell’anima… L’arte
bella è… sorta nella chiesa stessa… benché… l’arte sia già così uscita dal principio dell’arte»
(G.F.W. Hegel, Werke, Berlin-Leipzig 1832 sgg., vol. IX, p. 414). Anche in un passo delle
Lezioni di estetica Hegel ha avvertito il problema. In questo passo si dice: «Noi abbiamo
oltrepassato lo stadio in cui si onorano e si rivolgono preghiere alle opere d’arte; l’impressione
che esse suscitano è di un genere più riflesso, e ciò che attraverso queste opere viene suscitato in
noi richiede ancora una pietra di paragone più alta» (ivi, vol. X, p. 14).
Il passaggio dal primo genere di ricezione artistica al secondo determina l’evoluzione storica
della ricezione artistica in generale. A prescindere da ciò, è possibile reperire in linea di principio
una certa oscillazione, per ogni opera d’arte, tra quei due modi polari di ricezione artistica. Così,
ad esempio, per la Madonna Sistina. A partire dalla ricerca di Hubert Grimme si sa che la
Madonna Sistina era stata originariamente dipinta per essere esposta. Grimme fu indotto alle sue
ricerche da questa domanda: che cosa significa l’asse in primo piano, su cui si appoggiano i due
putti? Come può essere venuta a Raffaello l’idea, si domandò inoltre Grimme, di munire il cielo
di due tendine? La ricerca dimostrò che la Madonna Sistina era stata commissionata in occasione
dell’esposizione in pubblico della salma di papa Sisto. L’esposizione della salma dei papi
avveniva in una certa cappella laterale della basilica di San Pietro. Il quadro di Raffaello era stato
esposto posato sulla bara in questa solenne occasione, sullo sfondo a nicchia della cappella.
Raffaello rappresenta nel quadro la Madonna che, uscendo dallo sfondo della nicchia delimitata
da due cortine verdi, si avvicina, in mezzo alle nubi, alla bara del papa. Quindi l’alto valore
espositivo del dipinto di Raffaello venne utilizzato in occasione della cerimonia funebre in onore
di Sisto V. Dopo qualche tempo esso venne sistemato sull’altar maggiore della cappella del
convento dei Frati Neri a Piacenza. La causa di questo esilio va reperita nel rituale romano. Il
rituale romano vieta che i dipinti esposti in occasione di una cerimonia funebre diventino oggetto
di culto su un altar maggiore. Così, in seguito a questa norma, entro certi limiti l’opera di
Raffaello subiva una svalutazione. Tuttavia, per ottenere un prezzo adeguato, la curia si decise a
vendere e a tollerare tacitamente il quadro su un altar maggiore. Per evitare commenti il quadro
venne ceduto al convento della lontana città di provincia.
11
Riflessioni analoghe, anche se su un altro piano, sono quelle di Brecht: «Se il concetto di opera
d’arte diventa inutilizzabile per definire la cosa che si ha quando l’opera d’arte si è trasformata in
merce, allora, con prudenza e cautela ma senza alcun timore, dobbiamo lasciar perdere questo
concetto, se insieme non vogliamo liquidare anche la funzione della cosa stessa, poiché
attraverso questa fase deve passare, e senza riserve; non si tratta di una deviazione irrilevante
dalla retta via; bensì: ciò che così avviene la modificherà radicalmente, estinguerà il suo passato,
a un punto tale che qualora il vecchio concetto dovesse venir ripreso – e lo sarà, perché no? – non
susciterà più alcun ricordo della cosa che un tempo designava» (B. Brecht, Der
Dreigroschenprozess [Il processo da tre soldi], ripreso in Versuche 1-4 [Saggi 1-4], Berlin-
Frankfurt a.M. 1959, p. 295).
12
A. Gance, Le temps de l’image est venu (L’art cinématographique, II, Paris 1927, pp. 100-
101).
13
Séverin-Mars, citato da Abel Gance (ivi, p. 100).
14
A. Arnoux, Cinéma, Paris 1929, p. 28.
15
F. Werfel, Ein Sommernachtstraum. Ein Film nach Shakespeare von Reinhardt [Sogno di una
notte di mezza estate. Un film di Reinhardt da Shakespeare], in «Neues Wiener Journal», citato in
LU 15 novembre 1935.
16
«L’opera d’arte – dice André Breton – ha valore soltanto in quanto sia traversata dai riflessi
del futuro». Effettivamente ogni forma d’arte evoluta si trova nel punto d’incidenza di tre linee di
sviluppo. E cioè, innanzitutto, la tecnica tende verso una determinata forma d’arte. Prima che il
cinema fosse inventato c’erano certi libricini di fotografie le cui immagini, scattando di fronte
all’osservatore sotto la spinta di un colpo di pollice, gli proponevano il corso di un incontro di
boxe o di una partita di tennis; nei bazar c’erano macchine automatiche in cui il flusso delle
immagini era ottenuto mediante il movimento di una manovella. In secondo luogo, giunte a certi
stadi del loro sviluppo, le forme d’arte tradizionali tendono ad ottenere effetti che più tardi
vengono ottenuti liberamente dalla nuova forma d’arte. Prima che il cinema s’imponesse, i
dadaisti cercarono nelle loro manifestazioni di suscitare nel pubblico una reazione che più tardi
un Chaplin ottenne del tutto naturalmente. In terzo luogo, spesso, impercettibili modificazioni
sociali tendono a modificare la ricezione in un modo che torna poi a vantaggio soltanto della
nuova forma d’arte. Prima che il cinema cominciasse a formarsi un suo pubblico, nel cosiddetto
Kaiserpanorama venivano consumate, da un pubblico riunito all’uopo, immagini (che avevano
già cessato di essere immobili). Questo pubblico si raccoglieva di fronte a un paravento dentro il
quale erano sistemati stereoscopi, uno per ogni visitatore. Davanti a questi stereoscopi
comparivano automaticamente immagini che indugiavano brevemente e che poi venivano
sostituite da altre. Con mezzi analoghi lavorava ancora Edison quando (prima che si fosse
inventato lo schermo e il procedimento della proiezione) mostrò la prima pellicola
cinematografica a un pubblico che guardava dentro un apparecchio in cui si susseguivano le
immagini. Del resto nel congegno del Kaiserpanorama si esprime con particolare chiarezza una
dialettica di questo sviluppo. Poco prima che il film renda collettiva la visione delle immagini,
davanti agli stereoscopi di questi stabilimenti, peraltro rapidamente tramontati, la visione delle
immagini da parte del singolo riacquista la stessa pregnanza che un tempo aveva la visione della
immagine del dio per il sacerdote nella cella.
17
Il prototipo teologico di questo rapimento è la coscienza di essere soli col proprio dio. Sulla
base di questa coscienza, nelle grandi epoche borghesi, si è rafforzata la capacità di liberarsi dalla
tutela della chiesa. Nelle epoche di decadenza della borghesia, la stessa coscienza era destinata ad
obbedire alla nascosta tendenza a sottrarre le forze che il singolo mette in opera nel suo rapporto
con dio agli interessi della collettività.
18
G. Duhamel, Scènes de la vie future [Scene della vita futura], Paris 1930, p. 52.
19
Il cinema è la forma d’arte che corrisponde al pericolo sempre maggiore di perdere la vita,
pericolo di cui i contemporanei sono costretti a tener conto. Il bisogno di esporsi ad effetti di
shock è un tentativo di adeguazione dell’uomo ai pericoli che lo minacciano. Il cinema risponde
a certe profonde modificazioni del complesso appercettivo – modificazioni che nell’ambito della
esistenza privata sono subite da ogni passante immerso nel traffico cittadino, e nell’ambito
storico da ogni cittadino.
20
Come dal Dadaismo, anche dal Cubismo e dal Futurismo si possono trarre importanti
conclusioni a proposito del cinema. Entrambi questi movimenti appaiono come tentativi
incompleti di tener conto della penetrazione nella realtà da parte della macchina. A differenza del
cinema, questi movimenti intrapresero il loro tentativo non mediante l’utilizzazione
dell’apparecchiatura per la rappresentazione artistica della realtà, bensì attraverso una sorta di
fusione tra una realtà rappresentata e un’apparecchiatura rappresentata. Dove il ruolo preminente,
nel Cubismo, è il presentimento della costruzione di questa apparecchiatura, che si basa
sull’ottica; nel Futurismo il presentimento degli effetti di questa apparecchiatura, effetti che poi si
manifesteranno nel rapido scorrere della pellicola cinematografica.
21
Duhamel, Scènes de la vie future, cit., p. 58.
22
Qui, e specialmente nelle attualità cinematografiche, di cui sarà ben difficile sopravvalutare
l’importanza propagandistica, è importante un fattore tecnico. Alla riproduzione in massa è
particolarmente favorevole la riproduzione di masse. Nei grandi cortei, nelle adunate oceaniche,
nelle manifestazioni di massa di genere sportivo e nella guerra, tutte cose che oggi vengono
registrate dagli apparecchi di ripresa, la massa vede in volto se stessa. Questo processo, la cui
portata non ha bisogno di essere sottolineata, è strettamente connesso con lo sviluppo della
tecnica di riproduzione e di ripresa. In generale, i movimenti di massa si presentano più
chiaramente di fronte a un’apparecchiatura che non per lo sguardo. Il punto di vista migliore per
cogliere schiere di migliaia di uomini è la prospettiva aerea. E anche se questa prospettiva è
accessibile all’occhio quanto all’apparecchiatura, tuttavia l’immagine che l’occhio ne ricava non
consente quell’ingrandimento a cui invece è sottoposta la ripresa. Ciò significa che i movimenti
di massa, e così anche la guerra, rappresentano una forma di comportamento umano
particolarmente favorevole all’apparecchiatura.
Lo zenith del modernismo
Greenberg prima dell’espressionismo
astratto.
[Clement Greenberg, Avanguardia e kitsch, 1939]
Una stessa civiltà produce contemporaneamente due cose del tutto diverse
come una poesia di T.S. Eliot e una canzoncina Tin Pan Alley, oppure un
dipinto di Braque e la copertina del «Saturday Evening Post». Si tratta in
tutti e quattro i casi di fenomeni culturali che fanno parte della medesima
cultura e sono prodotti dalla medesima società. Ogni legame tra di loro pare
tuttavia finire qui. Una poesia di Eliot e una poesia di Eddie Guest: quale
prospettiva culturale è ampia abbastanza da consentire di collocarle
entrambe in un chiaro rapporto reciproco? Il fatto che esistano simili
differenze entro la cornice di una stessa tradizione culturale, che è ed è stata
riconosciuta come tale, indica forse che le differenze fanno parte dell’ordine
naturale delle cose? Oppure che sono qualcosa di totalmente nuovo, e di
specifico della nostra epoca?
La risposta implica qualcosa di più che una ricerca nel campo dell’estetica.
Mi pare sia necessario esaminare più da vicino, e in maniera nuova, il
rapporto esistente fra l’esperienza estetica individuale specifica, e non
generalizzata, e il contesto storico e sociale in cui tale esperienza si compie.
Ciò che ne verrà fuori risponderà, assieme alla domanda posta in
precedenza, ad altre domande forse più importanti.
I.
Man mano che una società, nel corso del suo sviluppo, perde la capacità di
giustificare l’inevitabilità della sua forma peculiare, quelle nozioni
universalmente accettate, dalle quali artisti e scrittori devono in gran parte
dipendere per comunicare con il loro pubblico, vengono distrutte. Diventa
difficile accettare qualsiasi cosa. Tutte le verità che hanno a che vedere con
la religione, l’autorità, la tradizione e lo stile vengono messe in discussione,
e lo scrittore, o l’artista, non è più in grado di valutare la reazione del suo
pubblico ai simboli e alle allusioni sui quali egli lavora. In passato una
situazione del genere si è normalmente risolta in un alessandrinismo
immobile, in un accademismo in cui le questioni realmente importanti non
si toccano poiché implicano il dibattito, e l’attività si riduce a virtuosismo
esercitato sui piccoli dettagli formali, mentre tutte le questioni più rilevanti
si decidono in base al precedente dei grandi maestri. Gli stessi temi sono
meccanicamente sottoposti a variazioni in centinaia di opere diverse, eppure
non si produce nulla di nuovo: abbiamo così Stazio, la lirica mandarina, la
scultura romana, la pittura accademica, l’architettura neo-repubblicana.
Fra i segni di speranza che s’intravedono fra le brume della decadenza
della nostra società attuale c’è il fatto che noi – o alcuni di noi – ci siamo
rifiutati di accettare, per la nostra cultura, quest’ultima fase. Nel tentativo di
superare l’alessandrinismo, una parte della cultura borghese occidentale ha
prodotto qualcosa di mai visto prima d’ora: la cultura dell’avanguardia.
Essa è stata resa possibile da una superiore consapevolezza della storia, e
più precisamente dalla comparsa di un nuovo genere di critica della società,
la critica storica. Questa critica non ha messo a confronto la società attuale
con utopie fuori del tempo, ma ha ragionevolmente esaminato in termini di
storia e di causa ed effetto gli antecedenti, le giustificazioni e le funzioni
delle forme che stanno al centro di ogni società. Così si è visto che il nostro
attuale ordine sociale borghese non è una condizione perenne, «naturale»
della vita, ma è semplicemente l’ultimo termine di una successione di
società diversamente ordinate. Nuove prospettive di questo genere, divenute
parte della coscienza intellettuale più alta nel quinto e nel sesto decennio
dell’Ottocento, vennero presto assorbite dagli artisti e dai poeti, anche se,
per lo più, inconsciamente. Non fu dunque accidentale che il sorgere
dell’avanguardia coincidesse cronologicamente, e anche geograficamente,
con il primo sicuro sviluppo di un pensiero scientifico rivoluzionario in
Europa.
È vero che i pionieri della bohème, che allora s’identificava con
l’avanguardia, dimostrarono ben presto apertamente di non avere nessun
interesse per la politica. Cionondimeno, se attorno a loro non fossero
circolate delle idee rivoluzionarie, essi non sarebbero mai stati capaci di
isolare il loro concetto di «borghese» al fine di definire ciò che essi stessi
non erano. E neppure, senza il sostegno morale degli atteggiamenti politici
rivoluzionari, avrebbero avuto il coraggio di far valere con tanta
aggressività i loro diritti contro i modelli sociali prevalenti. E in realtà di
coraggio ne occorreva, poiché l’emigrazione dell’avanguardia dal seno
della società borghese alla bohème voleva anche dire l’abbandono dei
mercati del capitalismo, in balìa del quale erano rimasti artisti e scrittori
dopo la scomparsa del mecenatismo aristocratico. (Apparentemente,
almeno, volle dire ciò, volle dire morir di fame in una soffitta, anche se,
come si vedrà più tardi, l’avanguardia rimase attaccata alla società borghese
proprio perché aveva bisogno del suo denaro).
Eppure è vero che l’avanguardia, dopo essere riuscita a «distaccarsi» dalla
società, seguitò a girare in tondo ripudiando, oltre che la politica della
borghesia, anche quella rivoluzionaria. La rivoluzione fu confinata
all’interno della società, come parte della confusione di quella lotta
ideologica che arte e poesia trovano così poco propizia non appena inizi a
coinvolgere quei preziosi «credo» assiomatici sui quali la cultura aveva
dovuto fondarsi fino ad allora. Di qui emerse a poco a poco che l’autentica
e più importante funzione dell’avanguardia non era la «sperimentazione»
ma il trovare un percorso lungo il quale fosse possibile mantenere in
movimento la cultura fra le nebbie della confusione ideologica e della
violenza. Allontanandosi completamente dal pubblico, il poeta o l’artista
d’avanguardia cercava di mantenere alto il livello della propria arte vuoi
restringendola, vuoi elevandola all’espressione di un assoluto in cui si
risolvesse o cui fosse estraneo ogni relativismo e contraddizione.
Compaiono sulla scena «l’arte per l’arte» e la «poesia pura» e il soggetto, o
contenuto, diventa qualcosa da evitare come la peste.
È nella ricerca dell’assoluto che l’avanguardia è pervenuta all’arte, e
anche alla poesia, «astratta» o «non oggettiva». Il poeta o artista
d’avanguardia cerca in effetti di imitare Dio nel creare qualcosa di valido
unicamente entro i propri termini, nel modo in cui è valida la natura stessa,
nel modo in cui un paesaggio – e non la sua rappresentazione – è
esteticamente valido; qualcosa di dato, di increato, di sciolto da significati
di somiglianza o da significati originali. Il contenuto deve dissolversi a tal
punto nella forma che l’opera d’arte o di letteratura non può ridursi, nella
sua totalità o in una sua parte, ad altro che a se stessa.
Ma l’assoluto è assoluto, e il poeta, o l’artista, essendo ciò che egli è,
predilige alcuni valori relativi piuttosto che altri. Ma questi valori in nome
dei quali egli invoca l’assoluto sono valori relativi, sono valori estetici. E
così egli si ritrova a imitare non Dio, e qui uso il verbo «imitare» in senso
aristotelico, ma le discipline e i processi dell’arte e della letteratura stesse. È
questa la genesi dell’«astrattismo»1. Distogliendo la propria attenzione da
ciò che è oggetto dell’esperienza comune, il poeta o l’artista la dedica al
mezzo proprio del suo mestiere. Il non figurativo o «astratto», se deve avere
una propria validità estetica, non può essere arbitrario o accidentale, ma
deve scaturire dall’obbedienza a una limitazione o modello adeguato.
Questa limitazione, dopo la rinuncia al mondo dell’esperienza comune
esterna, si può rinvenire soltanto nei procedimenti e nelle discipline stesse
mediante i quali l’arte e la letteratura avevano imitato quell’esperienza.
Queste stesse limitazioni e discipline diventano la materia dell’arte e della
letteratura. Se, per continuare con Aristotele, tutta l’arte e la letteratura sono
delle imitazioni, allora ciò che abbiamo è l’imitazione dell’atto stesso di
imitare. Per citare Yeats:
Né v’è altra scuola di canto se non lo studio
dei monumenti della sua magnificenza2.
II.
Dove esiste un’avanguardia, generalmente troviamo anche una retroguardia.
È abbastanza vero: contemporaneamente alla comparsa in scena
dell’avanguardia, nell’Occidente industriale spuntò un altro fenomeno
culturale, quella cosa alla quale i tedeschi danno lo stupendo nome di
Kitsch: l’arte e la letteratura popolari e commerciali, con i loro rotocalchi, le
copertine delle riviste, le illustrazioni, gli annunci pubblicitari, i romanzi su
carta patinata oppure su carta scadente, i fumetti, la musica Tin Pan Alley, il
tip tap, i film di Hollywood ecc. Per qualche ragione questo gigantesco
fenomeno è sempre stato dato per scontato. Sarebbe ora di indagare sui suoi
come e i suoi perché.
Il kitsch è un prodotto della rivoluzione industriale, che nell’Europa
occidentale e in America ha urbanizzato le masse e ha instaurato quello che
si chiama l’alfabetismo universale.
Prima l’unico mercato della cultura ufficiale, distinta dalla cultura
popolare, avveniva entro la cerchia di coloro che, oltre a saper leggere e
scrivere, potevano disporre del tempo libero e degli agi che si
accompagnano sempre a ogni genere di raffinatezza culturale. Fino ad allora
tutto ciò era inestricabilmente collegato con il saper leggere e scrivere ma,
con l’introduzione dell’alfabetismo universale, il saper leggere e scrivere
divenne una specie di abilità di second’ordine, come guidare l’automobile, e
non servì più a mettere in evidenza le inclinazioni culturali di una persona,
visto che non corrispondeva più alla raffinatezza del gusto.
I contadini che si stabilivano in città sotto forma di proletariato e di
piccola borghesia imparavano a leggere e a scrivere per ragioni
utilitaristiche senza riuscire a procurarsi la disponibilità di tempo libero e
gli agi necessari per poter usufruire della cultura urbana tradizionale.
Perdendo tuttavia il gusto per la cultura popolare, il cui retroterra erano le
campagne, e scoprendo contemporaneamente una nuova dimensione, quella
della noia, le nuove masse urbane esercitarono una pressione sulla società
richiedendo un genere di cultura adatto al loro consumo. Per far fronte alla
domanda del nuovo mercato, venne inventato un nuovo prodotto, la cultura
ersatz, il kitsch, destinato a coloro che, insensibili ai valori della vera
cultura, sono tuttavia avidi di quelle distrazioni che soltanto la cultura, di
qualsiasi genere essa sia, è in grado di fornire.
Il kitsch, utilizzando come materia prima i simulacri degradati e
accademizzati della vera cultura, gradisce e coltiva questa insensibilità, che
è la fonte stessa del suo profitto. Il kitsch è meccanico e opera secondo
formule. Il kitsch è esperienza vicaria e false sensazioni. Il kitsch muta a
seconda dello stile, ma resta sempre lo stesso. Il kitsch è la sintesi di tutto
quanto c’è di spurio nella vita del nostro tempo. Il kitsch pretende di non
volere nulla dai suoi clienti, tranne il denaro, non chiede neppure il loro
tempo.
La condizione preliminare del kitsch, la condizione senza la quale il kitsch
non sarebbe possibile, è la completa disponibilità di una tradizione culturale
matura delle cui scoperte, acquisizioni e piene consapevolezze il kitsch
possa approfittare per i suoi propri scopi. Da essa il kitsch ricava dispositivi,
artifici, stratagemmi, pratiche, temi, li converte in sistema e scarta il resto.
Esso trae la propria linfa vitale, per così dire, da questa riserva di esperienze
accumulate. È questo che si vuol dire, in realtà, quando si afferma che l’arte
e la letteratura popolari di oggi sono state l’arte e la letteratura audaci ed
esoteriche di ieri. Naturalmente una cosa del genere non è vera. Ciò che si
vuol dire è che, quando è trascorso abbastanza tempo, il nuovo viene
saccheggiato per delle nuove bevande miste, dei «cocktails» che vengono
poi annacquati e serviti come kitsch. Evidentemente tutto il kitsch è
accademico e, per converso, tutto ciò che è accademico è kitsch. Infatti ciò
che viene chiamato accademia, in quanto tale non ha più esistenza
autonoma, ma è diventato il solino inamidato del kitsch. I metodi industriali
soppiantano l’artigianato.
Potendo venir prodotto meccanicamente, il kitsch è diventato parte
integrale del nostro sistema produttivo, mentre la vera cultura non potrebbe
mai esserlo, se non accidentalmente. Il kitsch è stato capitalizzato con
enormi investimenti che devono dare profitti adeguati; è costretto a
estendere, oltre che a mantenere, i propri mercati. Sebbene il kitsch sia
praticamente il piazzista di se stesso, cionondimeno è stato creato un vasto
apparato di vendita che esercita la sua pressione su ciascun membro della
società. Vengono montate trappole anche in quelle zone che, per così dire,
sono le riserve della cultura autentica. Oggi, in un paese come il nostro, non
basta avere l’inclinazione per la cultura, ma è necessario essere posseduti da
una vera passione per aver la forza di resistere agli articoli falsi che ci
circondano e ci incalzano da quando siamo grandi abbastanza da guardare i
giornalini. Il kitsch inganna. È di molti livelli diversi, e alcuni di questi sono
abbastanza alti per essere piuttosto pericolosi per l’ingenuo cercatore dei
veri lumi. Una rivista come il «New Yorker» che, fondamentalmente, è
kitsch d’alta classe per un mercato di lusso, trasforma e diluisce una gran
quantità di materiali dell’avanguardia a proprio uso e consumo. Né ogni
singolo elemento del kitsch è completamente privo di valore. Ogni tanto il
kitsch produce qualcosa di valido, qualcosa che ha un autentico sapore
popolare; e questi casi accidentali e isolati hanno ingannato la gente, che
peraltro dovrebbe avere più buon senso.
Gli enormi profitti procurati dal kitsch sono fonte di tentazione per la
stessa avanguardia, e i suoi membri non hanno sempre saputo resistervi. Va
a finire che alcuni scrittori e alcuni artisti ambiziosi modificano il loro
lavoro sotto la pressione del kitsch, sempre che non vi soccombano
completamente. E allora compaiono degli sconcertanti casi limite, dei
romanzieri di successo come Simenon in Francia e Steinbeck nel nostro
paese. Il risultato netto è sempre, in ogni caso, a scapito della cultura
autentica.
Il kitsch non è rimasto confinato nelle città in cui è nato, ma si è allargato
a tutto il paese, spazzando via il folclore. Né ha mostrato di rispettare i
confini geografici o quelli delle varie culture nazionali. Come gli altri
prodotti di massa dell’industria occidentale, ha fatto trionfalmente il giro
del mondo, ponendo in disparte e deturpando le culture locali in una colonia
dopo l’altra, cosicché ora sta per diventare una cultura universale, la prima
cultura universale mai vista. Oggi i cinesi come gli indios del Sud America,
gli indiani come i polinesiani sono giunti a preferire le copertine delle
riviste, le rubriche dei rotocalchi e le ragazze dei calendari ai prodotti della
propria arte indigena. Come si spiega questa virulenza del kitsch,
l’irresistibile attrattiva da esso esercitata? Naturalmente il kitsch fatto a
macchina costa di meno dell’articolo indigeno fatto a mano, e il prestigio
dell’Occidente ha un suo peso; ma perché il kitsch è un articolo
d’esportazione tanto più redditizio di Rembrandt? Dopo tutto l’uno può
venir riprodotto altrettanto a buon mercato che l’altro.
Nel suo ultimo articolo sul cinema sovietico comparso sulla «Partisan
Review», Dwight MacDonald rileva che il kitsch è diventato, negli ultimi
dieci anni, la forma di cultura predominante nella Russia sovietica. Egli dà
la colpa di ciò al regime politico, non solo perché il kitsch rappresenta la
cultura ufficiale, ma anche perché è effettivamente la cultura dominante, la
più popolare, e cita il seguente passo da The Seven Soviet Arts di Kurt
London: «… l’atteggiamento delle masse nei confronti dell’arte vecchio
stile, come quello nei confronti di quella nuovo stile, probabilmente dipende
essenzialmente dal genere d’istruzione offerta loro dalle rispettive
repubbliche». MacDonald prosegue affermando: «Perché, dopo tutto, dei
contadini ignoranti dovrebbero preferire Repin [un illustre esponente del
kitsch accademico russo in pittura] a Picasso, la cui tecnica astratta è
almeno altrettanto poco pertinente alla loro arte popolare primitiva quanto
lo stile realistico del primo? No, se le masse si affollano nel Tret’jakov [il
museo moscovita d’arte contemporanea russa: kitsch], ciò è dovuto in gran
parte al fatto che sono state condizionate a rifuggire dal ‘formalismo’ e ad
ammirare il ‘realismo socialista’».
In primo luogo non si tratta di una semplice questione di scelta fra il
vecchio e il nuovo, come London sembra pensare, ma di una scelta fra il
cattivo, il moderno vecchio e l’autenticamente nuovo. L’alternativa a
Picasso non è Michelangelo, ma il kitsch. In secondo luogo né nella Russia
arretrata né nell’Occidente avanzato le masse preferiscono il kitsch
semplicemente perché i loro governi le condizionino in quel senso. Dove i
sistemi scolastici si prendono il disturbo di dire qualcosa sull’arte, ci dicono
di rispettare gli antichi maestri, non il kitsch; eppure alle pareti di casa
nostra attacchiamo Maxfield Parrish o i suoi equivalenti anziché Rembrandt
e Michelangelo. E inoltre, come rileva lo stesso MacDonald, quando attorno
al 1925 il regime sovietico incoraggiava il cinema d’avanguardia, le masse
russe continuavano a preferire i film di Hollywood. No, il
«condizionamento» non spiega la potenza del kitsch.
Tutti i valori sono valori umani, e anche in campo artistico, come negli
altri campi, essi sono relativi. Eppure pare che sia sempre esistito, attraverso
i tempi, una specie di accordo generale entro la parte colta dell’umanità
circa ciò che è arte e ciò che è scadente. I gusti sono mutati, ma non oltre
certi limiti; gli esperti contemporanei concordano con quelli giapponesi del
diciottesimo secolo nell’affermare che Hokusai fu uno dei più grandi artisti
del suo tempo; conveniamo persino con gli antichi egizi sul fatto che l’arte
della terza e della quarta dinastia fosse quella più degna di essere presa a
modello dagli artisti successivi. Può darsi che siamo giunti a preferire
Giotto a Raffaello, eppure non neghiamo che Raffaello sia uno dei più
grandi pittori del suo tempo. È dunque sempre esistito un accordo generale,
e ritengo che questo accordo sussista tuttora, sulla distinzione esistente fra i
valori che si possono ritrovare soltanto nell’arte e quelli che si possono
trovare altrove. Il kitsch, grazie a una tecnica razionalmente organizzata che
ricorre alla scienza e all’industria, ha in pratica cancellato questa
distinzione.
Vediamo per esempio che cosa accade quando un contadino russo incolto
sta, con ipotetica libertà di scelta, di fronte a due dipinti, uno di Picasso e
l’altro di Repin. Nel primo egli vede, diciamo, un gioco di linee, di colori e
di spazi che rappresenta una donna. La tecnica astratta, per accettare
l’ipotesi di MacDonald, che peraltro mi lascia abbastanza perplesso, gli
ricorda un po’ le icone che ha lasciato nel suo villaggio, e si sente attratto da
qualcosa che gli è familiare. Possiamo persino supporre che egli intuisca
confusamente qualcuno dei grandi valori artistici che i raffinati colgono in
Picasso. Poi guarda il dipinto di Repin e vede una scena di battaglia. La
tecnica in sé non gli è familiare, ma ciò ha scarso peso per il contadino
poiché, nel quadro di Repin, egli scopre improvvisamente dei valori che gli
sembrano molto superiori a quelli che è abituato a vedere nell’arte
dell’icona; ed è in parte dalla novità stessa della cosa che scaturiscono
questi valori: che sono quelli dell’immediata riconoscibilità, del miracoloso
e del congeniale. Nel dipinto di Repin il contadino riconosce e vede le cose
nello stesso modo in cui le vede e le riconosce fuori della tela, non esiste
soluzione di continuità fra l’arte e la vita, nessun bisogno di accettare una
convenzione e dire a se stesso che l’icona rappresenta Gesù perché intende
rappresentare Gesù, anche se non ricorda poi molto una figura d’uomo. Che
Repin sappia dipingere in maniera talmente realistica che l’identificazione è
immediata, senza sforzo alcuno da parte dello spettatore, questo sì che ha
del miracoloso. Il contadino si compiace anche della ricchezza di significati
di per sé chiari che rinviene nel dipinto: il dipinto «racconta una storia». In
confronto, Picasso e le icone sono talmente austeri e privi d’interesse. Per di
più Repin innalza la realtà e la rende drammatica: il tramonto, lo scoppio
delle granate, uomini che corrono e uomini che cadono. Non è più questione
di Picasso o di icone. Repin è quello che il contadino vuole, e non vuole
nient’altro che Repin. È una fortuna, d’altronde, per Repin, che il contadino
russo sia protetto contro i prodotti del capitalismo americano, perché, in
caso contrario, avrebbe scarse possibilità di successo in confronto a una
copertina del «Saturday Evening Post» disegnata da Norman Rockwell.
Infine possiamo dire che lo spettatore colto colga in Picasso gli stessi
significati che il contadino coglie in Repin, dal momento che ciò che al
contadino piace di Repin è pur sempre, in un certo qual modo, arte, sia pure
di livello un po’ più basso, ed egli è spinto a guardare i quadri dal
medesimo istinto che spinge lo spettatore colto. Ma i valori fondamentali
che lo spettatore colto ricava da Picasso sono ricavati in seconda istanza,
come risultato della riflessione sull’impressione immediata lasciata dai
valori plastici.
È solo a questo punto che entrano in gioco elementi come il riconoscibile,
il miracoloso, il congeniale. Essi non sono immediatamente o esteriormente
presenti nel dipinto di Picasso, ma vi devono venir proiettati dallo
spettatore, abbastanza sensibile da saper reagire di fronte alle qualità
plastiche. Queste appartengono all’effetto «riflesso». In Repin, d’altra parte,
l’effetto «riflesso» è già stato incluso nel dipinto, pronto per il godimento
immediato da parte dello spettatore5. Mentre Picasso dipinge la causa,
Repin dipinge l’effetto. Repin opera una semplificazione dell’arte in favore
dello spettatore e gli risparmia la fatica, gli fornisce, per il godimento
dell’arte, una scorciatoia che evita ciò che è necessariamente difficile nella
vera arte: Repin, ovvero il kitsch, è arte sintetica.
Si può sostenere la stessa tesi per ciò che concerne la letteratura kitsch: a
chi è insensibile essa fornisce delle esperienze sostitutive con
un’immediatezza di gran lunga superiore a quanto non sappia fare la
letteratura seria. Eddie Guest e le Liriche d’amore indiane sono più poetici
di T.S. Eliot e di Shakespeare.
III.
Se l’avanguardia imita i procedimenti dell’arte, il kitsch, come abbiamo
visto, ne imita gli effetti. La nitidezza di questa antitesi corrisponde
all’enorme distanza (e nel contempo la definisce) che separa l’uno dall’altro
due fenomeni culturali contemporanei come l’avanguardia e il kitsch.
Questa distanza, troppo grande per essere colmata da tutte le infinite
gradazioni del «moderno» e del kitsch «moderno», corrisponde a sua volta a
una distanza sociale che nella cultura formale, come in altri campi della
società civile, è sempre esistita, e i cui due termini convergono e divergono
in rapporto fisso con la crescente o decrescente stabilità di una data società.
Sono sempre esistite da un lato la minoranza di quelli che detengono il
potere, e dunque dei colti, e dall’altro la grande massa degli sfruttati e dei
poveri, e dunque degli ignoranti. La cultura raffinata è sempre appartenuta
ai primi, mentre i secondi hanno sempre dovuto accontentarsi di una cultura
popolare o elementare oppure del kitsch.
In una società stabile che funzioni bene abbastanza da mantenere fluide le
contraddizioni fra le classi, questa dicotomia culturale diventa in qualche
modo più sfumata. Le verità assiomatiche dei pochi sono condivise dai
molti; questi hanno una fede superstiziosa in ciò in cui i primi credono con
un certo distacco. E in questi momenti della storia le masse riescono a
provare meraviglia e ammirazione per la cultura dei loro signori, non
importa quale alto livello essa tocchi. Ciò si applica, se non altro, alla
cultura plastica, che è accessibile a tutti.
Nel Medioevo le arti plastiche aderivano, per lo meno in maniera
puramente formale, al minimo comun denominatore dell’esperienza. Ciò
rimase in certo qual modo una costante fino al Seicento. Era disponibile, per
essere imitata, una realtà concettuale universalmente valida, con l’ordine
della quale l’artista non poteva interferire. Il contenuto dell’arte era stabilito
da coloro che commissionavano le opere d’arte, che non erano prodotte,
come nella società borghese, a scopo di speculazione economica. E grazie al
fatto stesso che i contenuti fossero predeterminati, l’artista era libero di
concentrarsi sul mezzo. Non era necessario che fosse un filosofo o un
visionario, bastava che fosse un abile artigiano. Fino a che esistette il
consenso generale su ciò che era il soggetto più degno nell’arte, l’artista fu
dispensato dalla necessità di essere originale e creativo circa l’«argomento»
da trattare, e poté dedicare tutte le proprie energie ai problemi formali. Per
lui il mezzo diventava, a livello privato e professionale, il contenuto stesso
della sua arte, esattamente come oggi il mezzo è il contenuto pubblico
dell’arte del pittore astrattista, con la differenza, però, che l’artista
medievale doveva nascondere al pubblico i suoi problemi professionali, era
sempre costretto a sopprimere l’elemento personale e professionale e a
subordinarlo alla riuscita dell’opera d’arte rifinita e ufficiale. Se, come
membro normale della comunità cristiana, egli provava delle emozioni
personali sul soggetto trattato, ciò contribuiva soltanto all’arricchimento dei
significati che l’opera d’arte assumeva agli occhi del pubblico. Soltanto con
il Rinascimento le inflessioni personali vennero accettate come legittime,
sempre che fossero mantenute, beninteso, entro i limiti di ciò che era
semplicemente e universalmente riconoscibile. E soltanto con Rembrandt
incominciò a comparire la figura dell’artista «solo», isolato cioè nella sua
arte.
Ma anche nel corso del Rinascimento, e fino a che l’arte occidentale
continuò a cercare di perfezionare le proprie tecniche, le vittorie dell’artista
in questo campo potevano soltanto essere segnate dalla riuscita
dell’imitazione realistica, poiché non c’era a disposizione alcun altro
criterio oggettivo. Così le masse riuscivano ancora a trovare nell’arte dei
loro signori oggetto d’ammirazione e di meraviglia. Persino l’uccellino che
becchettava il frutto nel dipinto di Zeusi era una forma di applauso.
È un luogo comune quello per cui l’arte diventa come il caviale, per il
grosso pubblico, quando la realtà da essa imitata non corrisponde più,
neanche grossolanamente, alla realtà che quello stesso pubblico riconosce.
Anche allora, però, il rancore che l’uomo comune potrebbe sentire è
soffocato dalla soggezione che egli prova nei confronti dei mecenati delle
arti. Soltanto quando diventa insoddisfatto dell’ordine sociale che questi
amministrano, egli incomincia a criticare la loro cultura. Allora, per la
prima volta, il plebeo trova il coraggio di dare apertamente voce alle proprie
opinioni. Tutti, dal consigliere anziano della Tammany Hall all’imbianchino
austriaco, si sentono autorizzati a dire la propria sull’arte. Il più delle volte
questo rancore nei confronti della cultura si rinviene dove l’insoddisfazione
sociale ha carattere reazionario e si esprime mediante i revival e il
puritanesimo, e infine con il fascismo. In questo caso s’incomincia a parlare
contemporaneamente sia di revolver e di fiaccole sia di cultura. In nome
della divinità o della sanità della razza, nel nome delle vite semplici e delle
solide virtù, s’incominciano a fare a pezzi le statue.
IV.
Ritorniamo per un momento al nostro contadino russo e supponiamo che,
dopo che egli ha scelto Repin preferendolo a Picasso, l’apparato educativo
statale venga a dirgli che ha sbagliato, che avrebbe dovuto scegliere
Picasso, e che gli spieghi il perché. È possibile, per lo Stato sovietico, farlo.
Ma stando le cose come stanno in Russia – come in qualsiasi altro paese –,
il contadino scopre ben presto che, essendo costretto a lavorare duramente
tutto il giorno per sopravvivere, e vivendo in un ambiente rozzo e privo di
agi, non può disporre del tempo libero, delle energie e degli agi necessari
per prepararsi a godere Picasso. Questo piacere implicherebbe, dopo tutto,
un notevole «condizionamento». La cultura alta è una delle creazioni umane
più artificiose, e il contadino non sente in sé nessuna sollecitazione
«spontanea» che lo spinga verso Picasso a costo di tutte le difficoltà che
incontrerebbe. Alla fine il contadino, quando ha voglia di guardare dei
dipinti, ritorna al kitsch, poiché il kitsch lo può apprezzare senza nessuna
fatica. L’apparato statale è impotente, in materia, e tale rimarrà fino a che i
problemi della produzione non siano stati pienamente risolti in senso
socialista. La stessa cosa vale, naturalmente, per i paesi capitalisti, e fa sì
che l’idea di arte per le masse venga considerata come pura demagogia6.
Oggi, quando un regime politico attua una politica culturale ufficiale, lo fa
a fini demagogici. Se oggi il kitsch è la tendenza ufficiale della cultura in
Germania, in Italia e in Russia, non è perché i rispettivi governi sono sotto il
controllo di forze reazionarie, ma perché il kitsch è la cultura delle masse di
quei paesi, come lo è ovunque. L’incoraggiamento del kitsch è soltanto uno
dei modi indolori mediante i quali i regimi totalitari cercano di ingraziarsi il
popolo asservito. Dal momento che questi regimi, anche se volessero farlo,
non potrebbero elevare il livello culturale delle masse se non mediante la
capitolazione al socialismo internazionale, essi lusingano le masse
abbassando la cultura al loro stesso livello. È questa la ragione per cui
l’avanguardia è stata messa fuori legge, e non tanto perché una cultura alta
sia di per sé una cultura critica. (Che l’avanguardia possa o non possa
eventualmente fiorire sotto un regime totalitario non riguarda questa tesi).
Nella realtà dei fatti, dal punto di vista dei fascisti e degli stalinisti la
maggior seccatura dell’arte e della letteratura d’avanguardia non sta nel
fatto che sono troppo critiche, ma che sono troppo «innocenti», che è troppo
difficile caricarle di efficaci significati propagandistici, e che il kitsch è
molto più duttile a questo scopo. Il kitsch tiene il dittatore in contatto più
stretto con l’«anima» del popolo. Se la cultura ufficiale fosse di livello più
alto di quello generale di massa, correrebbe il rischio di restare isolata.
Cionondimeno, se fosse concepibile che le masse richiedessero arte e
letteratura d’avanguardia, Hitler, Mussolini e Stalin non esiterebbero un
istante a cercare di soddisfarle. Hitler è il peggior nemico dell’avanguardia,
sia sul piano dottrinale sia su quello pratico, ma ciò non impedì a Goebbels,
fra il 1932 e il 1933, di corteggiare assiduamente scrittori e artisti
d’avanguardia. Quando il poeta espressionista Gottfried Benn aderì al
nazismo, fu accolto con grande plauso e ostentazione, sebbene proprio
allora Hitler denunciasse l’espressionismo come una forma di
Kulturbolschewismus. Ciò accadeva in un momento in cui i nazisti
pensavano di poter trarre vantaggio dal prestigio di cui godeva
l’avanguardia presso il pubblico colto tedesco, e considerazioni pratiche di
questo genere, grazie alla scaltrezza politica dei nazisti, hanno sempre avuto
il sopravvento sulle inclinazioni personali di Hitler. Successivamente i
nazisti compresero che in fatto di cultura era più pratico consentire ai
desideri delle masse che a quelli dei padroni; questi ultimi, quando fu
questione di conservare il potere, furono pronti a sacrificare la loro cultura,
così come erano stati pronti a sacrificare i loro principi morali, mentre le
masse, proprio in quanto veniva loro sottratto ogni potere, dovevano essere
lusingate in ogni altro modo possibile. Fu necessario incrementare, secondo
uno stile molto più grandioso che non nelle democrazie, l’illusione che in
realtà fossero le masse a governare. La letteratura e l’arte che piacevano alle
masse, e che erano da queste capite, erano destinate a venir proclamate le
uniche vera arte e vera letteratura, e ogni altro tipo d’arte e letteratura
doveva essere soppresso. In simili condizioni individui come Gottfried
Benn, non importa con quanto ardore sostenessero Hitler, diventavano un
ostacolo, e nella Germania nazista non se ne è più sentito parlare.
Possiamo allora vedere che, sebbene da un certo punto di vista
l’atteggiamento reazionario personale di Hitler e di Stalin non sia affatto un
elemento secondario nel ruolo politico da essi sostenuto, in un’altra ottica
esso rappresenta soltanto un fattore accidentale nella determinazione delle
politiche culturali dei loro regimi. Il loro conformismo personale aggiunge
semplicemente brutalità e tenebrosità a una politica culturale che sarebbero
comunque costretti a perseguire, costretti dalla pressione di tutte le loro
altre politiche, anche se personalmente fossero devoti alla cultura
d’avanguardia. Ciò che l’accettazione dell’isolamento della rivoluzione
russa costringe Stalin a fare, Hitler è costretto a farlo in seguito alla sua
accettazione delle contraddizioni del capitalismo e al suo tentativo di
bloccarle. Quanto a Mussolini, il suo caso è un esempio perfetto della piena
disponibilità in merito di un personaggio dotato di realismo. Per anni egli
ebbe un atteggiamento benevolo nei confronti dei futuristi e fece costruire
stazioni ferroviarie e condomini d’avanguardia. Nella periferia di Roma alla
fine degli anni Trenta si vedeva un numero di condomini d’avanguardia
maggiore che in ogni altra città del mondo. Forse il fascismo voleva esibire
la propria modernità per nascondere il fatto che rappresentava invece un
regresso; forse intendeva conformarsi ai gusti di quella élite del denaro ai
cui servizi si era posto. In ogni caso sembra che Mussolini abbia infine
compreso che sarebbe stato più utile per lui adeguarsi ai gusti culturali delle
masse italiane piuttosto che a quelli dei loro padroni. Alle masse si devono
offrire oggetti d’ammirazione e di stupore; i padroni possono farne a meno.
Vediamo così che Mussolini annuncia un «nuovo stile imperiale».
Marinetti, de Chirico e gli altri sono messi in ombra, e la nuova stazione
ferroviaria di Roma non sarà d’avanguardia. Il fatto che Mussolini sia
pervenuto a ciò in ritardo serve a meglio illustrare la relativa riluttanza con
cui il fascismo italiano ha tratto le necessarie conseguenze del proprio
ruolo.
Il capitalismo in declino ritiene che tutto ciò che di qualità riesce ancora a
produrre divenga quasi invariabilmente una minaccia alla sua stessa
esistenza. I progressi della cultura, non meno che i progressi della scienza e
della tecnica, corrodono la società stessa sotto la cui egida si sono resi
possibili. In questo caso, come in ogni altra questione d’oggi, diventa
necessario citare Marx alla lettera. Oggi non guardiamo più al socialismo
come al portatore di una nuova cultura, dal momento che questa apparirà
inevitabilmente unica una volta che il socialismo sia stato realizzato. Oggi
guardiamo al socialismo semplicemente per la conservazione di ogni cultura
viva esistente.
1939
P.S. Con costernazione ho appreso, anni dopo che questo mio scritto era
stato dato alle stampe, che Repin non ha mai dipinto una scena di battaglia;
non era un pittore di battaglie. Avevo dunque attribuito a lui i dipinti di
qualcun altro. Ciò dimostra soltanto quale fosse il mio provincialismo nei
confronti dell’arte russa del diciannovesimo secolo.
1972
1
È interessante l’esempio della musica, che è stata per moltissimo tempo un’arte astratta, e che
la poesia d’avanguardia ha tanto cercato di imitare. La musica, diceva abbastanza stranamente
Aristotele, è la più imitativa e la più viva di tutte le arti poiché riproduce con la massima
immediatezza l’originale da cui deriva, cioè lo stato d’animo. Oggi questa affermazione ci
colpisce poiché ci pare esattamente l’opposto del vero: ci pare infatti che nessuna forma d’arte
abbia minori riferimenti della musica a qualcosa di esterno a se stessa. Tuttavia, a parte il fatto
che può darsi che in un certo senso Aristotele abbia ancora ragione, occorre spiegare che la
musica greca antica era strettamente associata alla poesia, e che dipendeva dal suo carattere di
accessorio del verso il rendere evidente il proprio significato imitativo. Platone, parlando della
musica, dice: «i poeti… fanno suono e ritmo senza parole ed usano da sola la cetra e il flauto, e
qui è difficilissimo riconoscere in un ritmo ed in una armonia senza parola l’intenzione dell’opera
e a quale delle imitazioni degne di stima assomiglia». Per quanto ne sappiamo, ogni forma di
musica ebbe in origine questa funzione accessoria. Una volta però persa tale funzione, la musica
fu costretta a ritirarsi in se stessa per trovare una regola o il proprio modello. Questo si trova nei
vari modi della sua stessa composizione ed esecuzione.
2
Sailing to Byzantium, vv. 13-14, trad. it. di G. Melchiori, Verso Bisanzio, in Quaranta poesie,
Torino 1965 (N.d.T.).
3
Devo questa formulazione a un’osservazione fatta dal professor Hans Hofmann in una delle sue
conferenze. Secondo questa formulazione, il surrealismo, nell’arte plastica, rappresenta una
tendenza reazionaria che cerca di ripristinare il soggetto «esterno». Il principale interesse di un
pittore come Dalí è quello di rappresentare i processi e le idee della propria coscienza, non i
processi del suo mezzo.
4
Cfr. le osservazioni di Paul Valéry a proposito della propria poesia.
5
T.S. Eliot ha detto qualcosa di simile spiegando i difetti della poesia romantica inglese. In realtà
i romantici si possono considerare i primi peccatori, quelli che lasciarono in eredità al kitsch le
loro colpe. Furono essi che mostrarono al kitsch come si fa. Di che cosa parla soprattutto Keats,
se non dell’effetto che ha su di lui la poesia?
6
Si obietterà che l’arte per le masse, in quanto arte popolare, era sviluppata in società con modi
di produzione primitivi, e che molta arte popolare è di alto livello. Sì, è vero, ma l’arte popolare
non è Atene, e non è ad Atene che aspira: non alla cultura formale, nella sua multiformità di
aspetti, nel suo rigoglio e nella sua ampia portata. Oltre a tutto ora ci si dice che la maggior parte
di ciò che troviamo di buono nella cultura popolare altro non è che la statica sopravvivenza di
forme appartenute a culture aristocratiche scomparse. Le vecchie ballate inglesi, ad esempio, non
furono create dal «popolo» ma nacquero nell’ambiente dei signorotti di campagna
dell’Inghilterra postfeudale, e sopravvissero in bocca al popolo per molto tempo dopo che quelli
per i quali erano state composte erano passati ad altre forme di letteratura. Purtroppo, fino
all’epoca industriale, la cultura fu una prerogativa esclusiva di una società che viveva del lavoro
di servi o di schiavi. Erano essi i veri simboli della cultura. Che un individuo dedicasse il suo
tempo e le sue energie alla creazione o all’ascolto della poesia voleva dire che un altro doveva
lavorare tanto da produrre quanto bastava alla propria sopravvivenza materiale e al
mantenimento di quell’altro negli agi. Oggi troviamo che in Africa la cultura delle tribù in cui
vige la schiavitù è generalmente molto superiore a quella delle tribù che non possiedono schiavi.
Il trionfo del modernismo e della pittura
americana.
[Clement Greenberg, Pittura modernista, 1961]
Il modernismo comprende molto più che arte e letteratura. Ormai esso copre
la quasi totalità di ciò che è realmente vivo nella nostra cultura. E tuttavia
sul piano storico si tratta di una novità importante. La civiltà occidentale
non è la prima ad aver rovesciato e messo in questione i propri fondamenti,
ma è l’unica che sia andata così oltre nel farlo. Io identifico il modernismo
con l’intensificazione, quasi l’esasperazione, di questa tendenza autocritica
iniziata con il filosofo Kant. Poiché egli fu il primo a criticare i mezzi stessi
della critica, penso che Kant sia stato il primo vero modernista.
L’essenza del modernismo risiede, a mio vedere, nell’uso dei metodi
caratteristici di una disciplina ai fini della critica della disciplina stessa, non
allo scopo di sovvertirla, ma al fine di radicarla più saldamente nella sua
area di competenza. Kant usava la logica per fissare i limiti della logica, e
se da un lato ne riduceva sensibilmente l’antica area di competenza,
dall’altro nello spazio che le restava la logica poggiava su una base ben più
salda.
L’atteggiamento autocritico del modernismo ha la sua origine nel senso
critico proprio dell’Illuminismo anche se non va confuso con esso.
L’Illuminismo fa muovere la critica dall’esterno, nel modo in cui la critica
normalmente procede; il modernismo fa muovere la critica dall’interno,
attraverso gli stessi processi dell’oggetto della sua critica. Sembra ovvio che
questo nuovo modello di critica fosse apparso dapprima in filosofia, che è
disciplina critica per definizione, ma con il trascorrere del XIX secolo esso
penetrò in molti altri ambiti. Si iniziò ad esigere da tutte le attività sociali
che richiedessero un metodo una sempre maggiore giustificazione
razionale, e l’atteggiamento autocritico kantiano, nato in ambito filosofico
per rispondere in primo luogo a questa esigenza, si rivolse infine a
soddisfare e interpretare questa esigenza in ambiti lontani dalla filosofia.
Sappiamo cosa è successo a un’attività come la religione, che per
giustificare se stessa non poté avvalersi del criticismo (immanente)
kantiano. A prima vista le arti sembrerebbero essersi trovate nella stessa
situazione della religione. Non essendo stata loro attribuita da parte
dell’Illuminismo alcuna funzione che esse potessero prendere sul serio, è
sembrato che dovessero essere assimilate a un puro e semplice
intrattenimento; ed è sembrato che a sua volta l’intrattenimento dovesse
essere assimilato, come la religione, a una terapia. Le arti avrebbero potuto
salvarsi da questo livellamento verso il basso solo dimostrando che il tipo di
esperienza che esse procuravano era prezioso in sé e non si poteva ottenere
tramite un’altra qualsiasi attività.
Ogni arte, si comprese, doveva compiere questa dimostrazione per proprio
conto. Bisognava palesare non solo quanto di unico e irriducibile vi fosse
nell’arte in generale, ma anche quanto vi fosse di unico e irriducibile in ogni
singola arte. Attraverso le pratiche e le opere proprie a ogni arte, ciascuna
doveva determinare i suoi effetti specifici. Così facendo avrebbe certamente
ristretto la sua area di competenza, ma nello stesso tempo avrebbe preso
possesso più saldamente di quell’area.
Emerse rapidamente che l’area di competenza peculiare e specifica di
ciascuna arte coincideva con tutto ciò che era unico nella natura dei suoi
mezzi espressivi. Il compito dell’autocritica divenne quello di eliminare del
tutto dagli effetti specifici di ogni arte qualsiasi effetto che potesse essere
preso in prestito dai mezzi espressivi di qualsiasi altra arte (o dato loro in
prestito). In questo modo ogni arte sarebbe stata restituita alla sua
«purezza», e in tale «purezza» si sarebbe trovata la garanzia dei suoi
standard di qualità e della sua indipendenza. «Purezza» significava
autodefinizione e il progetto dell’autocritica nell’arte divenne tutt’uno con
l’autodefinizione a oltranza.
L’arte realistica e naturalistica aveva dissimulato i mezzi espressivi,
usando l’arte per celare l’arte; il modernismo usava l’arte per richiamare
l’attenzione sull’arte. Le limitazioni costitutive dei mezzi espressivi della
pittura – la superficie piatta, la forma del supporto, le proprietà del colore –
erano considerate dai Maestri del passato come fattori negativi e
riconosciute solo in modo implicito o indiretto. Nel modernismo si è
pervenuti a considerare queste stesse limitazioni come fattori positivi ed
esse sono state apertamente riconosciute. I quadri di Manet divennero il
primo esempio di pittura modernista in virtù della franchezza con cui essi
sottolineavano la piattezza della superficie su cui erano dipinti. Dopo Manet
gli impressionisti rifiutarono la preparazione della tela e la verniciatura,
perché l’occhio non avesse alcun dubbio sul fatto che i colori da loro usati
fossero quelli che provengono dai tubetti e dai barattoli. Cézanne sacrificò
la verosimiglianza, o l’esattezza, allo scopo di adattare con maggior
chiarezza disegno e composizione alla forma rettangolare della tela.
Fu la sottolineatura dell’ineluttabile piattezza della superficie che rimase,
tuttavia, più fondamentale di qualsiasi altra cosa nei processi attraverso i
quali la pittura criticava e definiva se stessa nel modernismo. Perché solo
per la pittura la piattezza della superficie era fattore unico ed esclusivo. La
forma chiusa del quadro era una condizione limitante, o una regola,
condivisa con l’arte del teatro; il colore era una condizione e un mezzo
espressivo condiviso non solo con il teatro, ma anche con la scultura.
Poiché la piattezza della superficie era l’unica condizione che la pittura non
condivideva con alcuna altra arte, la pittura modernista si rivolse verso la
piattezza più che verso qualsiasi altra cosa.
I Maestri del passato avevano intuito che era necessario conservare ciò che
si chiama integrità del piano pittorico: ovvero indicare la costante presenza
della superficie piatta al di qua e al di là della più vivida illusione dello
spazio tridimensionale. L’apparente contraddizione che veniva a
determinarsi era essenziale per la buona riuscita della loro arte, così come lo
è in realtà per la buona riuscita di tutta l’arte pittorica. I modernisti non
hanno evitato, né risolto, tale contraddizione; piuttosto, essi ne hanno
rovesciato i termini. Si è consapevoli della piattezza dei loro quadri prima
di rendersi conto di quel che il piano contiene, non dopo. Mentre si tende a
vedere in un quadro di un Maestro del passato che cosa rappresenta prima
di guardare al quadro in se stesso, si guarda a un quadro modernista
anzitutto in quanto quadro. Questo è, naturalmente, il modo migliore di
vedere qualsiasi tipo di quadro, che sia di un Maestro del passato o di un
pittore modernista, ma il modernismo impone questa modalità, indicandola
come unica e necessaria, e il successo del modernismo nel fare questo
costituisce un successo dell’atteggiamento autocritico.
Nella sua fase più recente la pittura modernista non ha abbandonato in
linea di principio la rappresentazione di oggetti riconoscibili. Ciò che essa
ha abbandonato in linea di principio è la rappresentazione di una spazialità
che possa accogliere oggetti riconoscibili. L’astrattezza (o non-figuratività)
non ha ancora dimostrato di essere in se stessa un momento affatto
necessario nel processo auto-critico dell’arte pittorica, anche se artisti
importanti come Kandinsky e Mondrian la pensavano così. La
rappresentazione o l’illustrazione, come tali, non toccano l’unicità dell’arte
pittorica; la toccano piuttosto le associazioni legate agli oggetti
rappresentati. Tutte le entità riconoscibili (compresi i quadri stessi) esistono
nello spazio tridimensionale, e anche il più lieve suggerimento di un’entità
riconoscibile è sufficiente a evocare associazioni legate a quel tipo di
spazio. La sagoma frammentaria di una figura umana, o di una tazza da tè,
sarà in grado di farlo e, così facendo, condurrà lo spazio pittorico lontano
dalla bidimensionalità letterale che è garanzia dell’indipendenza della
pittura in quanto arte. Perché, come si è già detto, la tridimensionalità è
l’area di competenza della scultura. Per ottenere l’autonomia la pittura ha
dovuto innanzitutto spogliarsi da tutto ciò che poteva condividere con la
scultura, ed è attraverso questo sforzo e non tanto, lo ripeto, nell’escludere
gli aspetti rappresentativi o letterari, che la pittura è divenuta astratta.
Nello stesso tempo, tuttavia, e proprio attraverso la resistenza agli aspetti
legati alla scultura, la pittura modernista mostra quanto fermamente resti
legata alla tradizione, malgrado tutte le apparenze contrarie. Perché la
resistenza agli aspetti legati alla scultura precede di molto l’avvento del
modernismo. La pittura occidentale, in quanto pittura naturalistica, ha molti
debiti nei confronti della scultura, che agli inizi le ha insegnato come creare
sfumature e modellare per dare l’illusione del rilievo, e anche come
sistemare l’illusione così ottenuta entro l’illusione complementare della
profondità dello spazio. Eppure alcune delle imprese più importanti della
pittura occidentale si devono allo sforzo che essa ha compiuto negli ultimi
quattro secoli per liberarsi degli aspetti legati alla scultura. Iniziato a
Venezia nel XVI secolo e proseguito nel XVII in Spagna, Belgio e Olanda,
tale sforzo fu attuato inizialmente nel nome del colore. Quando David, nel
XVIII secolo, tentò di far rinascere la pittura scultorea fu, in parte, per
salvare la pittura dall’appiattimento decorativo a cui l’enfasi del colore
sembrava condurre. Tuttavia la forza dei migliori quadri di David, che sono
prevalentemente i suoi non formali, risiede anche nel colore, come in ogni
altro elemento. E Ingres, il suo fedele allievo, sebbene mettesse in
sottordine il colore assai più di quanto avesse fatto David, eseguì ritratti che
erano tra i dipinti meno scultorei eseguiti in Occidente da un artista di
buona scuola a partire dal XIV secolo. In questo modo, dalla metà del XIX
secolo, ogni tendenza di qualche ambizione in pittura si volse, malgrado le
differenze, in una comune direzione anti-scultorea.
Il modernismo, continuando in questa direzione, l’ha posta in atto con
maggior consapevolezza. Con Manet e gli impressionisti la questione smise
di essere messa nei termini dell’opposizione tra colore e disegno, e fu
invece definita come un’opposizione tra l’esperienza puramente ottica da un
lato e l’esperienza ottica rivista o modificata in base alle associazioni tattili
dall’altro. Fu in nome delle qualità puramente e letteralmente ottiche, e non
in nome del colore, che gli impressionisti minarono l’idea del chiaroscuro e
del modellato e ogni altro carattere che sembrasse riferirsi alla scultura.
Ancora una volta, fu in nome delle qualità legate alla scultura (chiaroscuro
e modellato) che Cézanne, e i cubisti dopo di lui, reagirono contro
l’impressionismo, come David aveva reagito contro Fragonard. Ma di
nuovo, esattamente allo stesso modo in cui la reazione di David e Ingres era
culminata paradossalmente in una pittura dal carattere ancor meno scultoreo
che in passato, la contro-rivoluzione cubista ebbe come esito la pittura più
piatta prodotta nell’arte occidentale da prima di Giotto e Cimabue: talmente
piatta in realtà da non poter contenere immagini riconoscibili.
Nel frattempo, con l’inizio del modernismo, le altre norme cardinali della
pittura avevano iniziato a subire una revisione altrettanto completa, benché
non così spettacolare. Mi prenderebbe più tempo di quello a mia
disposizione mostrare come la norma che regola la forma chiusa della
pittura – la cornice – sia stata allentata, e poi stretta, e poi allentata di nuovo
e isolata, e poi stretta ancora una volta dalle successive generazioni di
pittori modernisti. Oppure come le norme relative alle nozioni del finito e
della stesura pittorica, o quelle relative al contrasto di toni e timbri
cromatici siano state continuamente riviste. Gli artisti si assunsero nuovi
rischi nell’uso di queste norme non solo nell’interesse dell’espressione, ma
anche allo scopo di dimostrarne il carattere normativo. Dimostrazioni
siffatte saggiavano l’indispensabilità delle norme. Questa verifica non si è
affatto conclusa, e il fatto che essa diventi sempre più profonda con il
procedere del tempo spiega le semplificazioni radicali evidenti anche nella
pittura astratta più recente, nonché le complicazioni radicali in essa
riscontrabili.
Né l’uno né l’altro estremo sono determinati dal capriccio o
dall’arbitrarietà. Al contrario quanto più rigorosamente si definiscono le
norme di una disciplina, tanto meno esse sono libere di muoversi in
direzioni diverse. Le norme o le convenzioni essenziali della pittura sono al
tempo stesso i limiti costitutivi cui un quadro deve adattarsi per essere
esperito come tale. Il modernismo ha constatato che è possibile spingere
questi limiti molto in là prima che un quadro smetta di essere un quadro e si
trasformi in un oggetto qualsiasi; ma ha anche constatato che quanto più i
limiti vengono spostati all’estremo, tanto più esplicitamente essi debbono
essere rilevati e indicati. L’incrocio di linee nere e i rettangoli colorati di un
quadro di Mondrian non sembrano sufficienti a farne un quadro, tuttavia
essi impongono la norma regolativa della struttura quadrangolare del
quadro con una forza e una compiutezza nuove, reiterando così da vicino
quella struttura. Lungi dall’incorrere nel pericolo dell’arbitrarietà, con il
passare del tempo l’arte di Mondrian dimostra di essere quasi troppo
disciplinata, quasi troppo legata alla tradizione e alle convenzioni; una volta
fatta l’abitudine alla sua astrazione assoluta, ci si rende conto di quanto
essa, se paragonata alla pittura tarda di Monet, sia più conservativa nel
colore, per esempio, e parimenti più subordinata alla struttura dettata dalla
cornice.
Spero si sia compreso che nel rilevare la logica della pittura modernista io
ho dovuto semplificare ed esagerare. La piattezza verso cui la pittura
modernista si orienta non può essere una piattezza assoluta. L’acuirsi della
sensibilità per il piano pittorico può anche non consentire più un’illusione di
carattere scultoreo, o il trompe-l’oeil, ma essa permette (e deve permettere)
l’illusione ottica. Il primo segno tracciato su una tela distrugge la sua
piattezza letterale e assoluta, e i segni eseguiti su di essa da un artista come
Mondrian hanno per risultato una forma di illusione che suggerisce una
qualche specie di tridimensionalità. Adesso si tratta però di una
tridimensionalità strettamente pittorica, strettamente ottica. Mentre i
Maestri del passato creavano un’illusione di profondità spaziale entro cui lo
spettatore poteva immaginarsi di camminare, l’illusione spaziale creata dal
pittore modernista può solo essere vista; può essere percorsa da parte a
parte, in senso letterale o figurato, soltanto con l’occhio.
La pittura astratta più recente cerca di obbedire all’insistenza
impressionista sulla vista come l’unico fra i sensi a cui possa appellarsi
l’arte pittorica, nel significato più completo e specifico del termine. Se si
capisce questo, si comincia anche a capire che gli impressionisti, o almeno i
neo-impressionisti, non erano affatto stravaganti quando flirtavano con la
scienza. L’atteggiamento autocritico kantiano, come oggi scopriamo, ha
trovato la sua più piena espressione nella scienza piuttosto che nella
filosofia e quando si è cominciato ad applicarlo all’arte, quest’ultima si è
trovata vicina al metodo scientifico assai più di quanto fosse successo in
passato – più di quanto abbiano fatto Alberti, Paolo Uccello, Piero della
Francesca o Leonardo nel Rinascimento. Che l’arte visiva debba limitarsi
esclusivamente a ciò che si dà nell’esperienza visiva, e non fare alcun
riferimento a quanto si dà in qualsiasi altro ordine d’esperienza, è una
nozione la cui unica giustificazione risiede nella coerenza scientifica.
Il metodo scientifico è il solo a esigere (o a poter esigere) che una
situazione sia risolta esattamente negli stessi termini in cui è presentata. Ma
questo genere di coerenza non dà alcuna garanzia in materia di qualità
estetica, e il fatto che l’arte migliore degli ultimi settanta od ottanta anni si
avvicini sempre più a tale coerenza non dimostra il contrario. Dal punto di
vista dell’arte in se stessa, la sua convergenza con la scienza sembra essere
un mero accidente e né l’arte né la scienza danno o assicurano davvero
l’una all’altra qualcosa in più di quanto abbiano mai fatto. Ciò che la loro
convergenza mostra, tuttavia, è la profondità con cui l’arte modernista si
radica nella stessa tendenza culturale della scienza moderna; e questo è un
fatto storico estremamente significativo.
Bisogna parimenti comprendere che l’atteggiamento autocritico nell’arte
modernista non è stato mai esercitato se non in maniera spontanea e in larga
misura subliminale. Come ho già detto è stata soltanto una questione
collegata, immanente, alla pratica artistica, e non argomento di riflessione
teorica. Si sono sentite dire molte cose circa i programmi dell’arte
modernista, ma di fatto vi sono stati assai meno programmi nell’arte
modernista di quanti ve ne siano stati nell’arte rinascimentale o nella pittura
accademica. Con alcune eccezioni, come quella di Mondrian, i maestri del
modernismo non hanno idee precostituite sull’arte più di quante ne avesse
Corot. Alcune inclinazioni, certe affermazioni e accentuazioni, e parimenti
certi rifiuti e omissioni, sembrano diventare necessari semplicemente
perché la strada per un’arte più forte e più espressiva passa attraverso di
loro. Gli scopi immediati dei modernisti erano, e restano, prima di tutto,
individuali, e la verità e la riuscita delle loro opere resta innanzitutto
individuale. E c’è voluto l’accumulo, durato decenni, di una gran quantità di
pittura individuale perché si rivelasse la tendenza autocritica generale della
pittura modernista. Nessun artista era, né è sin qui, consapevole di questo,
né alcun artista potrebbe mai lavorare liberamente in base a una siffatta
consapevolezza. Entro questa misura (ed è una misura assai larga), nell’età
del modernismo si continua a praticare l’arte più o meno allo stesso modo
di prima.
Inoltre non mi stancherò mai di dire che il modernismo non ha mai
significato, né lo significa adesso, una rottura con il passato. Esso può
significare un trasferimento e un dispiegamento della tradizione, ma nello
stesso tempo significa una sua ulteriore evoluzione. L’arte modernista si
pone in continuità con il passato senza interruzioni né rotture: quali che
siano i suoi esiti, non cesserà mai di essere comprensibile in rapporto al
passato. La produzione di quadri è stata controllata, fin dall’inizio,
attraverso le norme di cui ho parlato. Il pittore o l’autore di graffiti del
paleolitico poteva trascurare le norme imposte dalla cornice e trattare la
superficie in una maniera letteralmente scultorea solo perché egli realizzava
immagini piuttosto che quadri e lavorava su un supporto – una parete
rocciosa, un osso, un corno, o una pietra – i cui limiti e la cui superficie
erano dati arbitrariamente in natura. Ma la produzione di quadri significa,
tra l’altro, la creazione o la scelta consapevoli di una superficie piana e la
consapevole circoscrizione e delimitazione di essa. La consapevolezza è
esattamente ciò su cui insiste di continuo la pittura modernista: cioè il fatto
che le condizioni statutarie dell’arte siano condizioni pienamente umane.
Tuttavia, voglio ripetere che l’arte modernista non offre dimostrazioni
teoriche. Si può dire piuttosto che essa sembra trasformare le possibilità
teoriche in possibilità empiriche, e nel farlo esamina la validità di molte
teorie sull’arte per quanto attiene alla loro rilevanza sui piani
dell’esperienza e della pratica concreta. Solo in questo senso il modernismo
può essere considerato sovversivo. Alcuni fattori ritenuti essenziali alla
produzione e all’esperienza dell’arte non si dimostrano più tali per la
ragione che la pittura modernista è stata capace di farne a meno,
continuando nel contempo a proporre un’esperienza di un’arte in tutta la sua
pienezza. Il fatto ulteriore che una dimostrazione siffatta abbia lasciato
intatta la maggior parte dei nostri vecchi giudizi di valore la rende ancora
più decisiva. Il modernismo può avere avuto qualcosa a che fare con la
rivalutazione di Paolo Uccello, Piero della Francesca, El Greco, Georges de
la Tour, e anche di Vermeer; e il modernismo ha certamente confermato, se
non avviato, la rivalutazione di Giotto; ma non per questo ha ridotto
l’importanza di Leonardo, Raffaello, Tiziano, Rubens, Rembrandt o
Watteau. Ciò che il modernismo ha mostrato è che, sebbene il passato
attribuisse il giusto valore a questi maestri, dava spesso al riguardo
motivazioni sbagliate o irrilevanti.
In un certo senso oggi questa situazione non è cambiata. La critica d’arte e
la storia dell’arte restano indietro rispetto al modernismo allo stesso modo
in cui erano rimaste indietro rispetto all’arte pre-modernista. Molte delle
cose che si scrivono sull’arte modernista appartengono ancora al
giornalismo piuttosto che alla critica o alla storia dell’arte. Appartiene al
giornalismo – e al millenario complesso di cui soffrono oggigiorno molti
giornalisti e intellettuali della carta stampata – l’idea che ogni fase nuova
dell’arte modernista debba essere salutata come l’inizio di un’epoca
artistica completamente nuova, che compia una rottura decisiva con le
abitudini e le convenzioni del passato. Ogni volta, ci si aspetta un tipo di
arte così diverso rispetto ai precedenti, un’arte così libera dalle norme e
dalle pratiche del gusto che chiunque, a prescindere dal suo livello di
informazione, possa dire la sua su di essa. E ogni volta tale aspettativa è
andata delusa, perché quella fase specifica del modernismo in questione si
situa infine entro un’intellegibile continuità di gusto e di tradizione.
Nulla potrebbe essere più lontano dall’arte autentica del nostro tempo
dell’idea di una rottura della continuità. L’arte è – tra l’altro – continuità ed
è impensabile senza di essa. Priva del passato dell’arte, e del bisogno e della
spinta a conservare i suoi standard di eccellenza, l’arte modernista
mancherebbe sia di sostanza sia di giustificazione.
Dopo il modernismo
Neodada e pop: il paradigma del «pianale».
[Leo Steinberg, Altri criteri, 1972]
Tenere testa
Un modo per tenere testa alle provocazioni dell’arte nuova è quello di
restare fermi e mantenere solidi standard. Gli standard sono decisi dal gusto
che il critico ha esercitato nel tempo e dalla convinzione che le innovazioni
significative saranno soltanto quelle che promuovono le direttrici già
definite per l’arte avanzata. Tutto il resto è irrilevante. Giudicata per la
«qualità» e in base a un «progresso» misurabile attraverso criteri dati, ogni
opera è poi classificata secondo una scala comparativa.
Una seconda modalità è più produttiva. Il critico interessato all’apparire di
nuove manifestazioni artistiche sospende i suoi criteri e il suo gusto. Dal
momento che questi si sono formati in base all’esperienza artistica del
passato, egli non dà per scontato che siano adatti a quella di oggi. Mentre si
sforza di comprendere quali siano gli obiettivi che stanno dietro alla nuova
produzione artistica, niente è escluso o giudicato irrilevante a priori. Dato
che egli non sta dando voti, sospende il giudizio finché l’intenzione
dell’opera non sia stata messa a fuoco e la sua reazione ad essa non risulti –
nel senso letterale del termine – simpatetica; non nel senso che
necessariamente egli la approvi, ma nel senso che si riconosca in accordo
con l’opera nella sua unicità.
Mi rendo conto che questa seconda modalità tende ad essere lenta e lunga.
Essa non offre certezze né precisi termini di valutazione. Tuttavia io credo
che entrambe le modalità – la volontà di porsi in empatia e quella di
valutare – abbiano la loro utilità. Ci deve essere una combinazione ideale di
entrambe e a mio avviso molti critici si sforzano di realizzarla. Ma un tale
risultato sta oltre la sensibilità individuale. La capacità di fare esperienza di
tutte le opere in accordo con gli obiettivi interni di esse e, allo stesso tempo,
in opposizione agli standard esterni appartiene piuttosto al giudizio
collettivo di una generazione, un giudizio entro il quale molte specie di
intuizioni critiche sono state assorbite.
Poiché quella che condivido è la seconda opzione, mi trovo costantemente
in disaccordo con ciò che è chiamato formalismo; non perché io dubiti della
necessità di un’analisi formale, o del valore positivo del lavoro compiuto da
critici formalisti seri. Ma perché diffido delle loro certezze, del loro
apparato di quantificazione, della loro indifferenza (quasi si sentissero
superiori agli altri) verso quella parte dell’espressione artistica che i loro
strumenti non sono capaci di misurare. Quel che soprattutto non mi piace è
la loro posizione censoria: ovvero l’atteggiamento di chi dice a un artista
cosa non dovrebbe fare e allo spettatore cosa non dovrebbe vedere.
Estetica preventiva
Quando è stato che la critica d’arte formalista ha concepito se stessa
anzitutto in una funzione ammonitoria e interdittiva? A un certo punto ci
cominciano a dire che c’è solo una cosa, una soltanto, che va cercata
nell’arte. Così scrive Baudelaire nel suo saggio su Delacroix nel 1863:
Una figura ben disegnata vi colma di un piacere del tutto estraneo al tema. Sensuale o terribile,
questa figura deve il suo fascino unicamente all’arabesco che essa descrive nello spazio. Le membra
di un martire scorticato, il corpo di una languida ninfa, se sono sapientemente disegnati, comportano
un genere di piacere nei cui elementi il tema non gioca alcun ruolo; se credete diversamente, sarò
obbligato a pensare che siate un carnefice o un libertino15.
Mio scopo non è quello di discutere se nelle Tre danzatrici (Londra, Tate
Gallery) ci sia qualcosa che non va. Mi interessa piuttosto che il presunto
difetto relativo alla composizione instabile sia attribuito all’interferenza di
un’intenzione «teatrale», e quindi estranea alla pittura: «la volontà di
espressività». Questo è puro pregiudizio. Un altro critico, che riconosca nel
quadro lo stesso difetto, potrebbe pensare che la parte superiore del quadro
non funziona a causa di una preoccupazione eccessiva nei confronti della
disposizione formale. Se in un artista «c’è qualcosa che non va», chi decide
quale lobo del suo cervello manicheo ne è responsabile, se la metà luminosa
da cui si distilla la pura composizione, o quella oscura in cui si annida la
volontà di espressività?
Ridurre l’ambito di riferimento è sempre stato un impegno specifico del
pensiero formalista, ma nel fare questo si è esercitato molto pensiero
fondato e serio. Data la complessità e l’infinita risonanza delle opere d’arte,
sezionare il valore artistico fino a giungere ai singoli fattori determinanti
dell’organizzazione formale ha costituito uno dei compiti culturali più
rilevanti nel XIX secolo. Lo sforzo si rivolse a disciplinare la critica d’arte
nei modi dell’esperimento scientifico, isolando una singola variabile. Lo
«scopo essenziale» dell’arte – che sia l’unità astratta del disegno o qualsiasi
cosa in grado di evitare deformazioni o vacillamenti della forma – era
considerato il presupposto da individuare in ogni opera d’arte. L’intero
campo del significato era considerato eliminabile in quanto «contenuto»,
che nel migliore dei casi non recava danno alla forma, ma che la maggior
parte delle volte la appesantiva. Nell’etica formalista il critico ideale rimane
indifferente di fronte all’intento espressivo dell’artista, non viene
influenzato dalla sua cultura, resta sordo alla sua ironia e alla sua
iconografia; così facendo il formalismo va avanti senza distrazioni,
seguendo il suo programma come Orfeo quando cammina per uscire
dall’Ade.
Non mi sembra che la qualità estetica delle opere d’arte sia mai stata più
che una finzione speculativa, o che essa si possa esperire come variabile
indipendente, o che si possa concretamente isolare con il giudizio critico.
La nostra esperienza ci dice piuttosto che la qualità cavalca il crinale di uno
stile e che, quando ci si oppone a un movimento o a uno stile come tali, le
differenze qualitative all’interno di quello stile diventano indistinguibili.
Dieci anni fa tutti i critici formalisti americani respinsero in toto la Pop Art
e tale rifiuto integrale non consentì l’esame delle qualità o delle
differenziazioni individuali. Qualsiasi merito potesse avere un Claes
Oldenburg, esso è passato inosservato, mentre i nomi «Lichtenstein,
Rosenquist, Warhol» erano recitati come quelli di aziende quali Carson,
Pirie, Scott & Co. Ciò che mi interessa in questo caso non è fino a che
punto quelle prime denunce della Pop Art abbiano bisogno di una
riconsiderazione. Il punto è che i critici formalisti non sembravano in grado
neanche di affrontare la questione della qualità; o erano riluttanti a farlo per
paura che l’esercizio del giudizio estetico potesse accordare dignità indebita
a un’aberrazione. Non bisognava dare neanche un voto al partito avverso.
Il pittore Vlaminck diceva di voler fare quadri che fossero leggibili dal
guidatore di un’automobile in corsa. Ma l’espressionismo attardato di
Vlaminck non era capace di incorporare un ideale siffatto più di quanto i
ritratti impressionistici di Robert Henri incorporassero la sua ammirazione
per gli attrezzi meccanici. I paesaggi innevati di Vlaminck, dipinti con la
spatola, non davano alcun accesso allo scopo dichiarato dell’artista. Non
possedevano la scala, il formato, la vibrazione cromatica, e neppure il
soggetto adatto: i bravi guidatori guardano i segnali e i cartelli, non i
messaggi provenienti dal cavalletto di un pittore. Quel che dice Vlaminck
resta ingenuo perché è essenzialmente ozioso. Ma non c’è nulla di ingenuo
nella determinazione di Noland di produrre, come egli dice, «quadri ‘in un
colpo’, percepibili a una sola occhiata». Cito da un recente articolo di
Barbara Rose, che continua: «Per ottenere il massimo di immediatezza,
Noland era pronto a buttar via qualunque cosa interferisca con la
comunicazione più istantanea dell’immagine»36.
L’obiettivo dichiarato di Noland durante gli anni Sessanta conferma
quanto i suoi quadri rivelano: l’idealizzazione della velocità efficiente e,
implicitamente, la concezione dell’umanità a cui sono indirizzati i suoi
quadri «fatti in un colpo». L’istantaneità che i suoi quadri trasmettono
implica un diverso orientamento psichico, una revisione del rapporto con lo
spettatore. Come ogni arte che rifletta in modo evidente soltanto su se
stessa, essi producono il loro osservatore, e creano la loro concezione
peculiare di chi, che cosa e dove egli sia.
È un uomo che ha fretta? È fermo o è in moto? È uno che interpreta o che
reagisce? È un uomo solo o una folla? È davvero un essere umano o è una
funzione, una funzione specializzata o un mezzo, come quello a cui le Sedie
[Chairs] (1968) di Rauschenberg riducevano l’agente umano (uno schermo
trasparente grande quanto una stanza la cui illuminazione era attivata
elettronicamente dal suono; la visibilità delle sedie che costituivano
l’immagine dipendeva dai rumori prodotti dallo spettatore, dai suoi passi
quando entrava, dal suo tossire, dalle parole che diceva. Ci si sentiva ridotti
alla funzione di un interruttore). Mi viene il sospetto che tutti i cicli stilistici
e le opere d’arte siano definibili in base all’idea di spettatore che
incorporano. Perciò, per tornare di nuovo alla linea Pollock-Louis-Noland,
il più giovane, staccandosi dagli altri due sulla base del criterio dell’affinità
con l’apparato industriale, si separa da loro anche per il suo modo specifico
di considerare l’osservatore.
Le questioni riguardanti «l’interesse umano» appartengono alla critica
dell’arte modernista non perché siamo degli inguaribili sentimentali nei
confronti dell’umanità, ma perché stiamo parlando d’arte. Mi sembra che
persino tecnicismi professionali quali «l’orientamento verso la piattezza
della superficie» aprano alla possibilità di altri criteri, non appena il quadro
sia esaminato non tanto in relazione alla sua coerenza interna, quanto in
relazione al suo specifico orientamento rispetto alla stazione eretta
dell’uomo.
Con cosa ha a che fare la «piattezza del quadro»? Naturalmente essa non
si riferisce all’assenza di curvature del piano, fisicamente inteso: un gatto
che cammina su un quadro di Tiepolo o di Barnett Newman avrà lo stesso
sostegno dall’uno o dall’altro. Qui in realtà è in questione la piattezza come
idea, la sensazione della piattezza esperita attraverso l’immaginazione. Ma
se questo è il senso, allora cosa vi è di più piatto dell’Olympia (1950) di
Dubuffet (fig. 8)? Se la piattezza in pittura indica un’esperienza
dell’immaginazione, allora l’effetto simile a una foglia schiacciata, a un
graffito, al brecciolino o all’impronta di un fossile prodotto da un quadro di
Dubuffet mette in campo la sensazione della piattezza assai più fortemente
di quanto intenda o sia in grado di fare gran parte della pittura del campo di
colore. Di fatto queste diverse «piattezze» non sono neanche paragonabili.
E la parola «piatto» è troppo stantia e remota per descrivere le sensazioni
provocate rispettivamente dai visionari Veli [Veils] di colore di Morris Louis
(fig. 9) e dai pittogrammi rupestri di Dubuffet. Né vi è alcuna necessità che
il prodotto finale sia piatto, come ha dimostrato Jasper Johns a metà degli
anni Cinquanta con le Bandiere e i Bersagli, che hanno relegato a
«contenuto» l’intera questione del mantenimento della piattezza. Per quanto
la sua pennellata o il gioco delle tonalità potessero essere dotati di qualità
atmosferiche, il soggetto dipinto garantiva che l’immagine restasse piatta.
In questo modo si scopre che esistono entità riconoscibili – dalle bandiere ai
nudi di donna, persino – che possono suscitare la sensazione della piattezza.
Questa scoperta è ancora piuttosto recente e non è comprensibile
ricorrendo alla tecnologia compositiva. Essa richiede che vengano presi in
considerazione il soggetto e il contenuto e, soprattutto, i modi in cui la
superficie pittorica dell’artista si rovescia nello spazio dell’immaginazione
dell’osservatore.
Fig. 8. Jean Dubuffet, Olympia, 1950. Berlin, Stiftung Sammlung Dieter Scharf. © by Siae, 2008.
Fig. 10. Robert Rauschenberg, 22 The Lily White (White Painting with Numbers), 1950 ca.
Collezione Nancy Ganz Wright. © by Siae, 2008.
L’anno seguente Rauschenberg iniziò a compiere esperimenti con oggetti
posti su carta da cianografia ed esposti alla luce del sole. Già allora si
interessava alla materia fisica del piano e all’inizio degli anni Cinquanta
utilizzava la carta di giornale per preparare il fondo della tela – per attivare
lo sfondo, diceva – così che le prime pennellate apposte su di essa si
situavano entro una mappa grigia di parole.
Retrospettivamente, anche le birichinate giovanili più clownesche di
Rauschenberg assumono una certa coerenza stilistica. Sempre negli anni
Cinquanta egli fu invitato a partecipare a una mostra sul tema nostalgico
della «natura nell’arte»: gli organizzatori forse speravano di promuovere
un’alternativa alla nuova pittura astratta. Rauschenberg inviò una porzione
rettangolare di erba in crescita, tenuta assieme da una reticella metallica,
messa in una scatola incorniciabile e appesa al muro. L’artista andava
periodicamente a visitare la mostra per innaffiare l’opera, trasposizione
dalla natura alla cultura grazie a una rotazione di novanta gradi. Quando
cancellò un disegno di de Kooning esponendolo come «Disegno di Willem
de Kooning cancellato da Robert Rauschenberg», fece qualcosa di più di un
gesto dotato di sfaccettature psicologiche complesse: stava cambiando – per
il riguardante non meno che per se stesso – l’angolazione del confronto
immaginativo; stava rovesciando l’evocazione di de Kooning dello spazio
del mondo in una cosa prodotta tramite la pressione esercitata sulla
scrivania.
I quadri da lui realizzati verso la fine di quel decennio presentavano
l’intrusione di oggetti non artistici: un cuscino sospeso orizzontalmente al
bordo inferiore della cornice (Canyon, 1950); una scala che partiva da terra
inserita tra i pannelli dipinti che formavano il quadro (Winter Pool, 1959,
fig. 11); una sedia posta contro un muro, ma inglobata nel quadro
retrostante (Pilgrim, 1960). Benché queste opere fossero appese al muro,
esse facevano riferimento ai piani orizzontali sui quali camminiamo e
stiamo seduti, lavoriamo e dormiamo.
Fig. 11. Robert Rauschenberg, Winter Pool, 1959. Los Angeles, Collezione David Geffen. © by Siae,
2008.
Fig. 12. Robert Rauschenberg, Third Time Painting, 1961. Collezione Thomas H. Lee e Ann
Tenenbaum. © by Siae, 2008.
1
Fifty-seventh Street (non firmato), in «Fortune», settembre 1946, p. 145, e E. Hodgins, P.
Lesley, The Great International Art Market, in «Fortune», dicembre 1955, pp. 118 sgg.
2
Si omette un terzo aggettivo usato da Steinberg, arty, nell’impossibilità di renderlo in italiano
con una sola parola che conservi la radice di «arte»; il significato è: «dotato di pretese artistiche,
artisticamente pretenzioso» (N.d.T.).
3
V. F. Porter, Thomas Eakins, New York 1959, p. 26: «Eakins fu uno dei primi artisti americani
ad adottare […] quello che James Truslow Adams ha denominato ‘la posa del cafone’. Fu il
primo artista americano – artista e non artigiano o artista popolare – a fondare i suoi quadri su
quel che c’era attorno a lui, piuttosto che basarsi in larga misura sulla tradizione. Fu il primo
artista importante a studiare in Francia invece che in Inghilterra […]. La retorica che egli
disprezzava era inapplicabile al mondo che accettò e scelse. […] La verità gli precluse la
convenzionalità della ‘pittura’ così come la spontaneità della realizzazione […]. L’intelletto non
era un principio organizzatore, ma il protettore della purezza del fatto contro il vento
dell’affettazione […] non vi è quasi alcun carattere convenzionale nella sua pittura, ma
un’investigazione della forma […] che non preferisce alcun aspetto della natura a un altro».
4
Ivi, p. 28. Il commento di Sloan è citato da B. Rose, American Painting Since 1900, New York
1967, p. 214; trad. it. di A. Castellani Torta, L’arte americana del Novecento. Profilo storico
critico, ERI, Torino 1970, p. 220. Cfr. quanto segue, tratto da A.R. Churchill, Art for Pre-
Adolescents, New York 1970, p. 2: «In accordo con i nostri modi originari da pionieri, gli
educatori americani hanno avuto un pregiudizio contro le arti. In una cultura utilitaria, l’arte è
gioco, e il gioco è pericoloso e indebolisce. Ciò che Leonard chiama lo ‘spirito dionisiaco’ è stato
tenuto fuori dall’istruzione» (G.B. Leonard, Education and Ecstasy, New York 1968).
5
V. la poesia Lavoro di Kenyon Cox (1856-1919), il più loquace degli accademici americani
prima della prima guerra mondiale: «[…] Chi lavora per la gloria spesso fallisce la meta; / Chi
lavora per denaro mette il conio sulla sua stessa anima; / Il lavoro per il lavoro, allora, e può darsi
/ Che gloria e denaro possano venire assieme a questo».
6
Lettera al padre datata Madrid, 2 dicembre 1869, pubblicata in M. McHenry, Thomas Eakins,
Who Painted, Oreland (PA) 1946, p. 17.
7
J.T. Flexner, American Painters, New York 1950, p. 65.
8
In «New York Times», 12 settembre 1967, p. 12.
9
In «Life», 23 febbraio 1968, p. 27.
10
R. Henri, The Art Spirit (ed. paperback), New York-Philadelphia 1960, p. 56.
11
Vedi J. Maschek, The Panama Canal and Some Other Works of Work, in «Artforum», maggio
1971, pp. 38-39.
12
Da un’intervista dell’agosto 1970, citata in Oldenburg, catalogo della mostra, New York,
Sidney Janis Gallery, novembre 1970.
13
In «Art News», dicembre 1952 [questo famoso articolo fu poi pubblicato nel volume di H.
Rosenberg, The Tradition of the New, Horizon Press, New York 1960; del libro esiste una
traduzione italiana di G.P. Brega, La tradizione del nuovo, Feltrinelli, Milano 1964; qui la
traduzione è nostra (N.d.T.)].
14
J. Siegel, An Interview with Hans Haacke, in «Arts», maggio 1971, pp. 18 sgg.
15
«Une figure bien dessinée vous pénètre d’un plaisir tout à fait étranger au sujet. Voluptueuse
ou terrible, cette figure ne doit son charme qu’à l’arabesque qu’elle découpe dans l’espace. Les
membres d’un martyr qu’on écorche, le corps d’une nymphe pâmée, s’ils sont savamment
dessinés, comportent un genre de plaisir dans les éléments duquel le sujet n’entre pour rien; si
pour vous il en est autrement, je serai forcé de croire que vous êtes un bourreau ou un libertin»,
L’Œuvre et la vie d’Eugène Delacroix, Paris 1927, pp. 27-28 [la traduzione dal francese è nostra
(N.d.T.)].
16
Naturalmente la mente di Baudelaire era troppo sottile e generosa per esprimere opinioni
dogmatiche. Altrove (nel saggio intitolato Le Peintre de la vie moderne) egli invoca un’arte che
catturi il volto specifico della modernità, e senza alcun riferimento all’arabesco.
17
Pubblicato postumo, New York 1939, p. 150.
18
A.C. Barnes, The Art in Painting, New York 1925, p. 408.
19
C. Greenberg, Picasso at Seventy-Five, in Id., Art and Culture (1961), Boston 1965, p. 62;
trad. it. di E. Negri Monateri, Picasso a settantacinque anni, in C. Greenberg, Arte e cultura.
Saggi critici, Allemandi, Torino 1991, p. 63.
20
Nel presente articolo Steinberg cita dall’edizione del 1965 (v. nota successiva), lievemente
rivista rispetto alla prima edizione del 1961 (da noi tradotta in questa antologia; v. supra, p.
XXVIII); i passi riprodotti non si discostano tuttavia dalla prima edizione e quindi in questa e nelle
note successive si rinvia alle pagine della traduzione italiana nel presente volume (N.d.T.).
21
Vedi C. Greenberg, Modernist Painting, in The New Art, a cura di G. Battcock, New York
1966, pp. 101 sgg. Il saggio apparve per la prima volta in «Art and Literature», primavera 1965
[per i passi seguenti citati da Greenberg, v. supra pp. 84-87 (N.d.T.)].
22
C. Greenberg, Abstract, Representational, and so forth, in Id., Art and Culture, cit., p. 136;
trad. it. Astratto, figurativo e così via, in Greenberg, Arte e cultura, cit., p. 140.
23
B. Friedan, The Feminine Mystique, New York 1963, p. 37. Cfr. le sue analisi sulla donna
ideale americana presentate in «McCalls», luglio 1960, pp. 29-30: «ridotta alla femminilità pura,
non adulterata».
24
Greenberg, Modernist Painting, cit., p. 102; v. supra, p. 85.
25
C. Greenberg, Cézanne, in Id., Art and Culture, cit., p. 53; trad. it. in Greenberg, Arte e
cultura, cit., p. 56.
26
Greenberg, Modernist Painting, cit., pp. 103-104; v. supra, p. 86.
27
In «Art News», ottobre 1971, p. 60.
28
Greenberg, Modernist Painting, cit., p. 107; v. supra, p. 89.
29
La didascalia relativa a questa figura nell’edizione originale dell’articolo attribuisce
dubitativamente l’affresco a Niccolò di Pietro Gerini; oggi, tuttavia, prevale l’attribuzione a
Taddeo Gaddi, e così riportiamo nella nostra didascalia (N.d.T.).
30
C. Greenberg, Collage, in Id., Art and Culture, cit., p. 72; trad. it. in Greenberg, Arte e
Cultura, cit., p. 72.
31
Ivi, pp. 73-74; trad. it. p. 73.
32
La didascalia relativa a questa figura nell’edizione originale dell’articolo indica la pagina
miniata come prodotta a Firenze ai primi del XV secolo; nel 1974, su basi convincenti, è stata
attribuita al senese Sano di Pietro (1406-1481); v. M. Eisenberg, An Antiphoned Page of the
Sienese Quattrocento, in R. Enggass, M. Stokstad (a cura di), Hortus Imaginum. Essays in
Western Art, University of Kansas, Lawrence 1974, pp. 51-55. La nostra didascalia segue questa
attribuzione (N.d.T.).
33
L’intenzionale sfruttamento dell’oscillazione tra superficie e profondità caratterizza tutta la
grande pittura. È la risorsa inesauribile di quest’arte. Ma il grado in cui la dualità risultante viene
registrata dall’attenzione dell’osservatore dipende dalla cultura e dall’insieme di aspettative che
questi porta con sé quando giudica l’opera. Egli fraintende l’obiettivo dei Maestri del passato se
immagina che essi mirino alla dissoluzione quasi assoluta del piano pittorico che
contraddistingue la pittura accademica tardo-ottocentesca. Per prendere un esempio rilevante di
arte illusionistica dei Maestri del passato, il Menippo di Velázquez, lo spesso impasto che
modella i rotoli e i libri in primo piano vi dice esplicitamente dove sia la pittura. Ma la brocca e
la panca sullo «sfondo», dove la tela appare coperta appena da un sottile strato di pigmento dice:
«Qui è dove sta la tela». E il palpabile mistero del quadro è la presenza materiale del vecchio
filosofo cinico inserita nella pellicola impalpabile tra la tela e la pittura. Nessun quadro è più
vicino di questo all’autodefinizione.
34
Riguardo alla questione del contenuto, durante gli anni Sessanta molti scultori americani
realizzavano scatole, alcune di queste assai notevoli. Per qualche straordinaria coincidenza il
momento in cui queste scatole, cubi o dadi emersero per la prima volta assumendo lo statuto di
sculture fu anche il momento in cui la scatola nera del computer entrò nella coscienza generale,
talora con significato fatale. Si ricordi quando il senatore Morse della Commissione per le
Relazioni internazionali del Senato interrogò il Segretario di Stato Rusk nel marzo 1968 («New
York Times», 12 marzo 1968, p. 16). Il senatore stava facendo riferimento all’incidente nel Golfo
del Tonchino, quando i nord-vietnamiti attaccarono il cacciatorpediniere americano Maddox. La
versione ufficiale era che la nave stesse compiendo un normale pattugliamento in acque
internazionali; ma, secondo Morse, era impegnata in un atto provocatorio deliberato. «Perché
l’Amministrazione non ha riferito a questa Commissione il 6 agosto 1964, egli chiese, che il
Maddox […] era pienamente equipaggiato con attrezzature di spionaggio, ivi compresa la grande
scatola nera [… e] che quella grande scatola nera sul Maddox era stata captata dalle
apparecchiature elettroniche del Vietnam del Nord?».
Può essere che la scatola nera elettronica, il guscio senza volto di funzioni invisibili, sia per
l’immaginario moderno quello che era la forza muscolare per Cellini e l’energia meccanica per la
generazione dei futuristi. Come ha detto il vecchio Thomas Hart Benton in una recente intervista
(«New York Times», 5 giugno 1968, p. 38): «Guarda quel treno! Le macchine di quei tempi
possono dare qualcosa a un artista. Esse non avevano paura di mostrare la loro potenza. Le
macchine di oggi la rinchiudono, la nascondono». Cfr. D.J. de Solla Price, Gods in Black Boxes,
in Computers in Humanistic Research, a cura di E. Bowles, Englewood Cliffs 1967, p. 6:
«Benché il concetto di ‘scatola nera’ sia diventato oggi corrente in campi così diversi come i
computer, la cibernetica e la psicologia, l’origine storica del nome non è […] chiara […]. Per
quanto ne so io, la scatola nera fu usata per la prima volta come strumento pedagogico negli anni
Ottanta dell’Ottocento, quando entrò nei laboratori didattici di fisica, in particolare al Cavendish
Laboratory di Cambridge, ed era una scatola che conteneva un sistema di resistenze, induttori e
condensatori collegati a una serie di uscite montate su una scatola […]. Queste scatole erano
effettivamente utilizzate e alla fine degli anni Trenta alcune di queste erano state dipinte di nero,
presumibilmente per simboleggiare la natura misteriosa del loro contenuto […]. Io non so chi
abbia reso pubblico questo termine, […] e per come lo interpreto, la denominazione indica
un’apparecchiatura con proprietà visibili di entrata e uscita, ma il cui meccanismo interno è
sconosciuto».
35
A.C. Barnes, The Art in Painting, cit., p. 408. Riguardo all’insistenza dell’autore sulla sintesi
degli elementi compositivi v. pp. 55, 61, 67 sgg.
36
Quality in Louis, in «Artforum», ottobre 1971, p. 75.
37
Il fatto che alcuni quadri di Louis possano effettivamente essere appesi alla rovescia non è
importante. Il loro spazio sarà ancora esperito come gravitazionale, sia che l’immagine evochi
veli che calano o fiamme vivaci.
38
Cfr. anche il suggerimento di Duchamp di «utilizzare un quadro di Rembrandt come tavola da
stiro» (Salt Seller. The Writings of Marcel Duchamp, a cura di M. Sanouillet e E. Peterson, New
York 1973, p. 32). N.B.: non come un bersaglio per le freccette o una bacheca, ma come una
superficie orizzontale di lavoro.
39
Il quadro oggi è datato al 1950 ca. e reca il titolo 22 The Lily White (N.d.T.).
40
Frankenthaler as Pastoral, in «Art News», novembre 1971, p. 68.
41
Citato in Eila Kokkinen, recensione di Claes Oldenburg: Drawings and Prints, in «Arts»,
novembre 1969, p. 12.
42
Warhol: The Silver Tenement, in «Art News», estate 1966, p. 58.
L’«aboutness».
[Arthur C. Danto, Arte e significato, 2000]
1
A.C. Danto, The Transfiguration of the Commonplace, Harvard University Press, Cambridge
1981.
2
G. Dickie, A Tale of Two Artworlds, in M. Rollins (a cura di), Arthur Danto and His Critics,
Blackwell, Oxford 1993, pp. 73-78.
3
N. Carroll, Danto’s New Definition of Art and the Problem of Art Theories, in «British Journal
of Aesthetics», 37, 1997, pp. 386-392.
La crisi dell’ideologia dell’originalità.
[Rosalind E. Krauss, L’originalità dell’avanguardia,
1981]
Come va preso questo breve capitolo della comédie humaine? L’artista del
secolo scorso più incline a celebrare la propria originalità, il creatore più
attento a mettere in evidenza il carattere autobiografico della sua impronta
sulla materia, questo stesso artista avrebbe abbandonato la propria opera
alle avventure postume della riproduzione meccanica? Possiamo veramente
pensare, alla lettura di quest’ultima testimonianza, che Rodin seppe
misurare quanto la sua arte fosse un’arte della riproduzione, un’arte di
multipli senza originali?
Ma, riflettendo, come interpretare la nostra reticenza riguardo a questa
moltiplicazione postuma dell’opera di Rodin? Non ci stiamo aggrappando a
un culto dell’originale che non ha più un posto nei mezzi di riproduzione?
Questo culto dell’originale è riuscito a imporsi sul mercato della fotografia;
la stampa «autentica» vi è definita come «la più vicina al momento
estetico»: stampata non solo dal fotografo stesso ma anche immediatamente
dopo lo scatto. Visione evidentemente schematica della paternità artistica:
essa non rende conto del fatto che alcuni fotografi sono meno competenti
per la stampa dei loro assistenti; che molti fotografi ristampano e
riquadrano alcune loro fotografie molto tempo dopo averle scattate,
migliorandole talvolta considerevolmente; o ancora che non è possibile
rifabbricare i materiali delle stampe fotografiche del XIX secolo (carte
d’epoca e composti chimici) e dunque risuscitare l’aspetto di una vecchia
fotografia – cioè, in una parola, che l’autenticità è indipendente dalla storia
della tecnologia.
Ma la formula che definisce una stampa originale come «vicina al
momento estetico» è evidentemente una formula che si collega alla nozione
di «stile di un’epoca», presa dalla storia dell’arte, e che serve da criterio al
conoscitore. Lo «stile di un’epoca» indica un tipo particolare di coerenza a
cui non si dovrebbe sfuggire, neppure in modo fraudolento. L’autenticità
implicata in questo concetto di stile è direttamente indotta dal modo in cui
si concepisce la nascita di uno stile come produzione collettiva e
incosciente. Un individuo non potrebbe, per definizione, mirare
coscientemente a uno stile. Le copie ulteriori si tradiscono proprio perché
non sono state prodotte all’epoca dell’originale: un cambiamento della
sensibilità sopravvenuto da allora non potrà evitare che delle goffaggini si
insinuino nel chiaroscuro, che dei contorni siano troppo duri o troppo
morbidi, che insomma la coerenza strutturale dell’antico ordine venga
rovinata. Ed è precisamente a questo concetto stesso di «stile di un’epoca»
che la fusione recente della Porte de l’Enfer fa violenza. Poco importa che
la riproduzione del 1978 sia legittimata da un certificato; sono i diritti
estetici dello stile a essere in gioco, fondati sul culto degli originali. Così,
assistendo nel piccolo teatro all’ultima fusione della Porte, spettatori di
questa violazione, abbiamo voglia di gridare: «Falsari!».
Ma perché intavolare una discussione sull’arte d’avanguardia con queste
considerazioni su Rodin, le fusioni e i diritti di riproduzione? Tanto più che
Rodin sembra l’ultimo artista a potervisi introdurre, vista la sua popolarità
da vivo, la sua gloria e la sua rapidità nell’organizzare la trasformazione
della sua opera in prodotto di consumo, in kitsch.
L’artista d’avanguardia ha assunto molti volti durante il primo secolo della
sua esistenza: rivoluzionario, dandy, anarchico, esteta, tecnologico, mistico.
Ha intonato una quantità di credo molto diversi. Vi fu un’unica invariante,
sembra, nei discorsi dell’avanguardia: il tema dell’originalità. Per
originalità intendo più di quella sorta di rivolta contro la tradizione che
traspare dal «Make it new» di Ezra Pound o dalle esortazioni dei futuristi
italiani a distruggere i musei che coprono l’Italia come «cimiteri
innumerevoli». Più di un rigetto o una dissoluzione del passato, l’originalità
avanguardista è concepita come un’origine in senso proprio, un inizio a
partire da niente, una nascita. Una sera del 1909 Marinetti, scaraventato
dalla sua automobile nel fossato di un’officina, ne emerge come da un
liquido amniotico per nascere – senza genitori – futurista. Questa parabola
dell’autocreazione assoluta che figura all’inizio del Manifesto futurista
funziona come modello di ciò che l’avanguardia, all’inizio del XX secolo,
intende per originalità. Perché l’originalità diventa una metafora organicista
che si riferisce non tanto all’invenzione formale quanto alle sorgenti della
vita. L’io come origine è preservato dalla contaminazione della tradizione
grazie a una sorta di ingenuità originaria. Da qui la formula di Brancusi:
«Quando non siamo più bambini, siamo già morti». L’io come origine ha il
potere di rigenerarsi continuamente, di rinascere perpetuamente da se
stesso. Per Malevič: «È vivo solo colui che rigetta le sue convinzioni di
ieri». L’io come origine permette una distinzione assoluta tra un presente
sperimentato de novo e un passato appesantito dalla tradizione. Le
rivendicazioni dell’avanguardia ricoprono esattamente queste
rivendicazioni di originalità.
Ma se la nozione stessa di avanguardia può essere considerata come
dipendente dal discorso dell’originalità, la pratica effettiva dell’arte
d’avanguardia tende a rivelare che questa «originalità» è un’ipotesi di
lavoro che emerge su un fondo di ripetizione e di ricorrenza. Una figura
presa dalla pratica avanguardista nel campo delle arti visive ne fornirà un
esempio: questa figura è quella della griglia.
Oltre alla sua presenza ricorrente nell’opera degli artisti che si sono voluti
d’avanguardia – tra cui si trovano sia Malevič e Léger che Mondrian e
Picasso, sia Schwitters, Cornell, Reinhardt e Johns che Andre, LeWitt,
Hesse e Ryman –, la griglia possiede diverse proprietà strutturali che ne
permettono fondamentalmente l’appropriazione da parte dell’avanguardia.
Una di queste proprietà è l’impermeabilità della griglia al linguaggio.
«Silenzio, esilio e astuzia» erano le parole d’ordine di Stephen Dedalus:
ordine che, secondo il critico letterario Paul Goodman, esprime le regole
che l’artista d’avanguardia si impone. La griglia promuove il silenzio, lo
spinge fino al rifiuto della parola. L’assoluta stagnazione della griglia, la sua
assenza di gerarchia, di centro, di inflessioni, sottolineano non solo il suo
carattere autoreferenziale, ma ancor più la sua ostilità nei confronti della
narrazione. Questa struttura impermeabile tanto al tempo che all’accidente,
inibisce la proiezione del linguaggio nel campo del visivo. Risultato: il
silenzio.
Questo silenzio non è dovuto semplicemente all’estrema efficacia della
griglia come barricata contro il discorso, ma anche alla protezione che la
sua rete le assicura contro ogni intrusione. Nessuna eco di passi nelle stanze
vuote, nessun grido d’uccello in pieno cielo, nessun rumore d’acque
lontane, perché la griglia ha ridotto la spazialità della natura alla superficie
circoscritta di un oggetto puramente culturale. Da questa cancellazione della
natura, così come del discorso, nasce un silenzio sempre più profondo. E in
questa nuova calma instaurata era l’inizio, l’origine stessa dell’Arte che
diversi artisti credettero di poter sentire.
Per chi credeva che l’arte comincia in una sorta di purezza originaria, la
griglia era l’emblema del puro disinteresse dell’opera d’arte, della sua
mancanza totale di finalità, da cui deriva la promessa della sua autonomia.
È questo senso dell’essenza originaria dell’arte che cogliamo nelle parole di
Schwitters: «L’arte è una nozione fondamentale, sublime come il divino,
inspiegabile come la vita, indefinibile e senza fine». La griglia intensificava
questo sentimento di essere nati in uno spazio nuovo, ripulito di ogni scoria,
lo spazio della purezza e della libertà estetica.
Per gli artisti che non pongono l’origine dell’arte nell’idea di un puro
disinteresse ma in un’unità empiricamente fondata, il potere della griglia
risiede nella sua capacità di evidenziare il fondamento materiale
dell’oggetto pittorico. Inscrivendola e descrivendola simultaneamente, essa
autorizza a concepire l’immagine della superficie come nascente
dall’organizzazione della materia pittorica: per tali artisti la superficie
quadrettata è l’immagine di un inizio assoluto.
Forse è questo sentimento di un inizio, di una nuova partenza, di un grado
zero, che ha condotto tutti questi artisti a lavorare con e attraverso la griglia,
utilizzandola ogni volta come se l’avessero appena scoperta, come se
l’origine che avevano trovato – spogliando la rappresentazione, strato dopo
strato, fino a giungere a questa riduzione schematica, a questa quadrettatura
fondamentale – era la loro stessa origine, e il fatto di scoprirla un atto di
originalità. A ondate successive, gli artisti astrattisti hanno «scoperto» la
griglia. Si può dire che una delle caratteristiche della griglia – nella sua
funzione di rivelatore – è di essere sempre una scoperta, una scoperta unica.
E così come è uno stereotipo che paradossalmente non smette di essere
riscoperto, la griglia è anche, altro paradosso, una prigione in cui l’artista
rinchiuso si sente libero. Ciò che colpisce nella griglia infatti è che, per
quanto efficace sia come emblema di libertà, autorizza in realtà una libertà
molto limitata. Se la griglia è senza dubbio la più convenzionale delle
costruzioni possibili di una superficie piana, è allo stesso tempo
estremamente costrittiva. Così come nessuno potrebbe pretendere di averla
inventata, è altrettanto particolarmente difficile, dacché se ne esplorano le
possibilità, metterla al servizio dell’invenzione. Se si esaminano le carriere
degli artisti che si sono più interessati alla griglia, si può dire che, a partire
dal momento in cui si sono sottomessi a questa struttura, il loro lavoro ha
virtualmente smesso di evolvere per incamminarsi invece sulla via della
ripetizione. Esempi: Mondrian, Albers, Reinhardt, Agnes Martin.
Dicendo che la griglia condanna questi artisti alla ripetizione e non
all’originalità, non intendo affatto disprezzare il loro lavoro; cerco di
mettere avanti una coppia di concetti – originalità e ripetizione – e di
analizzare i loro rapporti senza idee preconcette. Perché questi due termini
sembrano qui dipendere da una medesima economia estetica (sono correlate
e interdipendenti), benché uno dei due – originalità – sia valorizzato e
l’altro – ripetizione, copia o replica – sia screditato.
Abbiamo appena visto che l’artista d’avanguardia rivendica al di sopra di
tutto la propria originalità come un diritto, per così dire un diritto di
primogenitura. Essendo il suo io all’origine della sua opera, quest’opera
sarà altrettanto unica di lui stesso; la sua condizione di singolarità garantirà
l’originalità della sua produzione. Questa garanzia che egli si dà gli
permette, nel nostro caso, di investire la propria originalità nella creazione
di griglie. Ora, l’abbiamo visto, non solo questo artista – chiunque egli sia –
non può dirsi l’inventore della griglia, ma nessuno può rivendicare questa
paternità. I diritti d’autore si perdono nella notte dei tempi e questa figura è,
da molti secoli, sepolta nella proprietà pubblica.
Da un punto di vista strutturale, logico e assiomatico, la griglia può essere
solo ripetuta. Questo atto di ripetizione o di riproduzione essendo per un
dato artista l’occasione «originale» di utilizzare la griglia, questo uso
perpetrato nello svolgimento del suo lavoro sarà sempre più ripetitivo,
cosicché l’artista stesso si impegna in un processo senza fine di
autoimitazione. Che tante generazioni di artisti del XX secolo abbiano
dovuto mettersi in una situazione così paradossale che li condannava a
ripetere, come in maniera compulsiva, un originale logicamente falso, ecco
ciò che lascia sbigottiti.
Ma c’è un’altra finzione – complementare – ancor più sorprendente:
l’illusione stavolta non dell’originalità dell’artista, ma dello statuto
originario della superficie pittorica. Questa origine è ciò che si ritiene il
genio della griglia debba rivelare, a noi spettatori: un insuperabile grado
zero dietro cui non ci sono più né modello né testo né referente. Se non
fosse che questa esperienza dell’originarietà, vissuta da generazioni di
artisti, di critici e di spettatori, è essa stessa una finzione. La superficie della
tela e la griglia che la squadra non si fondono in questa unità assoluta
necessaria alla nozione di origine. La griglia segue infatti la superficie della
tela, la doppia. Anche se è vero che è una rappresentazione della superficie
riportata su questa stessa superficie, resta comunque una figura, che
rappresenta diversi aspetti dell’oggetto «originario»: attraverso la propria
maglia crea un’immagine del tessuto infrastrutturale della tela; con la sua
rete di coordinate organizza una metafora della geometria piana del campo;
con la sua ripetizione configura l’estensione della continuità laterale. Così
la griglia non rivela la superficie mettendola a nudo, la vela, invece,
attraverso una ripetizione.
Come abbiamo visto, il processo ripetitivo della griglia deve seguire, o
venire dopo, la superficie empirica, reale, di un quadro. Si può anche dire
che il testo figurativo della griglia precede la superficie, viene prima,
andando fino a proibire a questa superficie concreta di essere qualcosa
come un’origine. Perché dietro di essa, logicamente anteriore a essa, ci sono
tutti quei testi visivi che hanno collettivamente determinato il piano limitato
come campo pittorico. La griglia riassume tutti questi testi: la quadrettatura
sui cartoni, ad esempio, necessaria alla trasposizione meccanica dal disegno
all’affresco; o il dispositivo lineare della prospettiva che serve a operare la
riduzione concettuale delle tre dimensioni dello spazio alle due della pittura;
o ancora il tracciato regolatore su cui riportare rapporti armonici come le
proporzioni; o infine le innumerevoli incorniciature con cui l’esistenza del
quadro come quadrilatero regolare è stata riaffermata senza sosta. Sono tutti
testi che la superficie piana «originale» di un Mondrian, per esempio, ripete
e, attraverso questa ripetizione, rappresenta. Così il campo stesso che si
pensa che la griglia riveli è già diviso all’interno da un processo di
ripetizione e di rappresentazione, è sempre già diviso e multiplo.
Quella che ho chiamato la finzione dello statuto originario della superficie
pittorica è ciò che la critica d’arte chiama con fierezza opacità del piano
pittorico modernista, ma per questa critica tale opacità non ha niente di
fittizio. Nello spazio discorsivo dell’arte modernista la presunta opacità del
campo pittorico deve essere mantenuta come concetto fondamentale, perché
è su questo fondamento che riposa tutto un complesso di termini
interdipendenti. Tutti questi termini – singolarità, autenticità, unicità,
originalità e originale – sono legati al momento originario di cui questa
superficie è l’istanza al tempo stesso empirica e semiologica. Se per il
modernismo l’ambito del piacere risiede nello spazio dell’autoreferenzialità,
questa cattedrale del piacere è eretta sulla possibilità semiologica di un
segno pittorico non figurativo e non trasparente, in modo che il significato
diventi la condizione ridondante di un significante reificato. Ma dal nostro
punto di vista quello da cui consideriamo che il significante non può essere
reificato, che la sua qualità di oggetto, la sua quiddità è solo una finzione e
che ogni significante è esso stesso il significato trasparente di un già lì, di
una decisione sempre già presa di farne il veicolo di un segno, allora non
c’è più opacità possibile: esiste solo una trasparenza che si apre su una
caduta vertiginosa in un sistema di duplicazione senza fine.
In questa prospettiva la griglia che significa, rappresentandola, la
superficie pittorica, giunge solo a isolare il significante di un altro anteriore
sistema di griglie, esso stesso preceduto da un altro sistema ancora. In
questa prospettiva la griglia modernista è, come le fusioni di Rodin,
logicamente multipla: un sistema di riproduzioni senza originale. In questa
prospettiva lo statuto reale di uno dei veicoli principali della pratica estetica
modernista deriva non dal termine valorizzato della coppia precedentemente
evocata – originalità e ripetizione – ma dal termine screditato, quello che
oppone il molteplice al singolare, la riproducibilità all’unico, il falso
all’autentico, la copia all’originale. È questo termine – la parte negativa
della coppia di concetti – che la critica modernista ha cercato di reprimere,
ha represso.
Da questo punto di vista constatiamo che modernismo e avanguardia sono
intimamente dipendenti da ciò che si potrebbe chiamare il discorso
dell’originalità e che questo discorso non serve soltanto gli interessi del
ristretto circolo degli artisti professionisti, ma anche quelli ben più vasti di
istituzioni tanto numerose quanto varie. Ricoprendo le nozioni di
autenticità, originale e origine, il discorso dell’originalità è una pratica
discorsiva condivisa tanto dai musei che dagli storici e dagli artisti. E per
tutto il XIX secolo queste istituzioni si sono coordinate per definire il
marchio, la garanzia, il certificato di autenticità dell’originale4.
Tuttavia l’idea che una copia alberghi già da sempre in seno all’originale
era molto più accettabile all’inizio dell’Ottocento. Così nelle discussioni
riguardanti il pittoresco: nell’Abbazia di Northanger, per esempio, Jane
Austen fa uscire a passeggio Catherine, la giovane eroina dolcemente
provinciale, accompagnata dai suoi due nuovi amici, più sofisticati di lei,
che ammirano subito il paesaggio «con lo sguardo di chi è abituato a
disegnare, e discutevano della probabilità dei luoghi di venir trasformati in
quadri con tutta la passione di un autentico buon gusto». Si chiarisce allora
nella mente di Catherine l’idea che la sua concezione provinciale della
natura – «cielo azzurro» uguale «giorno di sole» – è completamente falsa e
che la natura, cioè il paesaggio, deve essere costruito per lei dai suoi
compagni più colti:
[…] a questo seguì immediatamente una lezione sul pittoresco nella quale le istruzioni di lui erano
tanto chiare che presto Catherine si trovò a scoprire la bellezza in tutto quanto lui ammirava, e la sua
attenzione era tanto appassionata che lui si convinse immediatamente di aver scoperto in lei molto
istintivo buon gusto. Parlò di primi piani, secondi piani, sfondi – vedute di lato e prospettive – luci e
ombre; – e Catherine era una allieva tanto promettente che quando giunsero in cima alla Beechen
Cliff fu pronta a respingere l’intera città di Bath come indegna di un paesaggio5.
1
A proposito della ripetizione di una stessa figura in Rodin, vedi il mio Passaggi. Storia della
scultura da Rodin alla Land Art, a cura di E. Grazioli, Bruno Mondadori, Milano 1998, capitolo
I, così come il testo pubblicato da Leo Steinberg in Other Criteria, Oxford University Press,
London-Oxford-New York 1972, pp. 322-403.
2
R.M. Rilke, Rodin [1903], trad. it. di C. Groff, SE, Milano 1985, pp. 40-41.
3
Ivi, pp. 13-14.
4
Sul discorso dell’origine e degli originali, vedi M. Foucault, Le parole e le cose, trad. it. di P.
Pasquino, Rizzoli, Milano 1967: «Ma la tenue superficie dell’originario che affianca l’intera
nostra esistenza […] non è l’immediato d’una nascita; essa è interamente popolata dalle
mediazioni complesse formate e depositate nella loro storia dal lavoro, dalla vita e dal
linguaggio; di modo che […] l’uomo, senza saperlo, ravviva tutte le interposizioni di quel tempo
che lo domina quasi all’infinito» (p. 356).
5
J. Austen, Northanger Abbey [1818], trad. it. di A.L. Zazo, Mondadori, Milano 1982, p. 94
(capitolo XIV).
6
Citato da C.P. Barbier, William Gilpin, The Clarendon Press, Oxford 1963, p. 111.
7
Ivi, p. 98.
8
W. Gilpin, Observations on Cumberland and Westmorland, The Richmond Publishing Co,
Richmond 1973, p. VII. Scritto nel 1772, il libro è stato pubblicato per la prima volta nel 1786.
9
Per maggiori dettagli, v. A. Boime, Le Musée des Copies, in «Gazette des Beaux-Arts», vol.
LXIV, 1964, pp. 237-247.
10
Per quanto riguarda l’istituzionalizzazione della copia nell’insegnamento artistico nel XIX
secolo, v. A. Boime, The Academy and French Painting in the 19th Century, Phaidon, London
1971.
11
Citato da S.Z. Levine, The ‘Instant’ of Criticism and Monet’s Critical Instant, in «Arts
Magazine», vol. 55, n. 7, marzo 1981, p. 118.
12
V. R. Herbert, Method and Meaning in Monet, in «Art in America», vol. 67, n. 5, settembre
1979, pp. 90-108.
13
Citato da Levine, The ‘Instant’ of Criticism and Monet’s Critical Instant, cit., p. 118.
14
Cfr. D. Crimp, Introduzione al catalogo della mostra Pictures (Artist Space, New York 1977) e
Pictures, in «October», n. 8, primavera 1979, pp. 75-88.
15
Cfr. D. Crimp, The Photographic Activity of Postmodernism, in «October», n. 15, inverno
1980, pp. 98-99.
16
R. Barthes, Il modello della pittura, in S/Z, trad. it. di L. Lonzi, Einaudi, Torino 1973, pp. 54-
55.
Conclusione
Arte moderna e avanguardia.
[da Theodor W. Adorno, Teoria estetica, 1970]
1
Cfr. H. Kuhn, Schriften zur Ästhetik [Scritti di estetica], München 1966, pp. 236 sgg.
2
Cfr. l’excursus Teorie sull’origine dell’arte, in Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975, p. 458.
3
Th.W. Adorno, Ohne Leitbild. Parva Aesthetica [Senza modelli. Parva Aesthetica], Frankfurt
am Main 19682, pp. 168 sgg.
4
Cfr. W. Benjamin, Über einige Motive bei Baudelaire, in Schriften, cit., vol. I, pp. 459 sgg. [Di
alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. e intr. di R. Solmi,
Einaudi, Torino 1962, pp. 118 sgg.].
5
Cfr. B. Brecht, Gedichte II [Poesie II], Frankfurt am Main 1960, p. 210 (Die Liebenden).
6
Cfr. Hegel, Werke, cit., parte I, p. 41: «L’uomo fa questo [cioè cambia le cose del mondo
esterno, sulle quali imprime il sigillo della sua interiorità], per togliere, come libero soggetto, al
mondo esterno la sua riottosa estraneità e godere nella forma delle cose una realtà esterna di se
stesso» [trad. it., pp. 39-40].
7
Cfr. L. Perutz, Der Meister des jüngsten Tages. Roman [Il maestro del giorno del giudizio],
München 1924, p. 199.
8
F. Wedekind, Gesammelte Werke, vol. II, München-Leipzig 1912, p. 142.
9
Cfr. Benjamin, Über einige Motive bei Baudelaire, cit., pp. 465 sgg. [trad. it., pp. 124 sgg.].
10
La dottrina hegeliana dell’opera d’arte intesa quale fatto spirituale, dottrina da Hegel con
diritto pensata in prospettiva storica, è, come tutta quanta la filosofia hegeliana, un Kant riflettuto
fino in fondo. Il piacere senza interesse implica che si penetri speculativamente nell’estetico
come fatto spirituale attraverso la negazione del suo contrario.
Postfazione
di Giuseppe Di Giacomo
1
Th.W. Adorno, Ästhetische Theorie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1970; ed. it. a cura
di E. De Angelis, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975, p. 3.
2
Ivi, p. 261.
3
In R.E. Krauss, The Originality of the Avant-Garde and Other Modernist Myths, Cambridge,
MA-London 1985; trad. it. di E. Grazioli, L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti,
Fazi, Roma 2007, v. supra, p. 158.
4
A.C. Danto, The Artworld, apparso per la prima volta in «Journal of Philosophy», LXI, 1964,
pp. 571-584; trad. it. Il mondo dell’arte in «Studi di Estetica», 27, 1, 2003.
5
A.C. Danto, Beyond the Brillo Box. The Visual Arts in Post-historical Perspective, University
of California Press, Berkeley-Los Angeles 1992.
6
Th.W. Adorno, Versuch über Wagner-Mahler, Suhrkamp Verlag, Berlin-Frankfurt am Main
1952; trad. it. di M. Bortolotto e G. Manzoni, Wagner-Mahler. Due studi, Einaudi, Torino 1966,
p. 114.
7
Adorno, Teoria estetica, cit., p. 9.
8
W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, in Id., Das Kunstwerk im Zeitalter seiner
technischen Reproduzierbarkeit, in Id., Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1955;
trad. it. di E. Filippini, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi,
Torino 1966, p. 70.
9
Cfr. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 27.
10
Ivi, p. 28.
11
Ivi, p. 48.
12
Ibid.
13
Adorno, Wagner-Mahler, cit., p. 84.
14
F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie, Kritische Studien Ausgabe (KSA), Deutscher
Taschenbuch Verlag, München und W. De Gruyter, Berlin-New York 1980, I; ed. it. a cura di G.
Colli e M. Montinari, traduzione di S. Giametta, La nascita della tragedia, in Opere, vol. III,
tomo I, 1972 (2002), p. 61.